Altre opere: “Discorso sulla
difesa dalla inondazione”; “Pomponazzi”; “La psicologia come scienza positive”
– cf. Grice psicologia filosofica --; “La formazione naturale nel fatto del
sistema solare”; “La morale dei positivisti”; “Sociologia”; “Il fatto psicologico
della percezione”; “Il vero”; “La scienza della educazione”; “La ragione”;
“L'unità della coscienza”; “La nuova filosofia dei valori”; “Canti di Heine(1922),
traduzione dal tedesco Raccolta delle opere, “Filosofia” (Padova, Draghi). Citato
in: Alberto Bonetti, Massimo Mazzoni, L'Università degli studi di Firenze nel
centenario della nascita di Giuseppe Occhialini (1907-1993), Firenze University
Press, 2007, pag. 90, nota ^ Ardigò, Roberto ^ a b c d e f g h i j k Marco
Paolo Allegri, Il realismo positivo di Roberto Ardigò. L'apogeo teoretico del
positivismo Archiviato il 10 dicembre 2014 in Internet Archive. Guido Cimino e
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all'ateismo ^ Ardigò su Chi era costui? ^ Ardigò e il sistema positivistico,
dal sito della Congregazione per il Clero del Vaticano ^ Luccio Riccardo, Breve
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Mazzini, giugno 1905, Milano). ^ Discorso commemorativo pronunciato sul
Monumento dei Martiri il 5 giugno 1882 in piazza Sordello. Dal giornale Il
Mincio, 11 giugno 1882. ^ Egregio Sig. Genovesi. Rispondo subito alla di Lei
lettera, che convengo interamente con Lei che dice giustamente che La
Massoneria in uno stato libero è un non senso: e che a combattere
l'oscurantismo è più efficace l'opera indefessa ed aperta di educazione e di
elevazione civile che non l'opera tenebrosa e nascosta di una setta: e che
coll'esistenza di questa la gran massa popolare non può che perdere la fiducia
nella giustizia pubblica del proprio paese, nell'idea che la massoneria sia poi
in fine una associazione di interesse pei soci a danno di quelli che non vi
appartengono. E fortuna per me che alle scomuniche sono avvezzo, e nulla temo
perché nulla spero. ^ Lettera del 20 febbraio 1879 in Lettere edite ed inedite,
a cura di W. Büttemeyer, 1° vol., 1990, p. 191. ^ Ardigò, Roberto - Il
Contributo italiano alla storia del Pensiero – Filosofia (2012) di Alessandro
Savorelli, Treccani ^ a b c Roberto Ardigò 1828-1920 ( PDF ), su
lnx.societapalazzoducalemantova.it. URL consultato il 17 novembre 2014
(archiviato dall' url originale il 29 novembre 2014). ^ La cultura
filosofica italiana dal 1945 al 1980, Lampi di stampa, 2000, p. 159 ^ Wilhelm
Büttemeyer, Roberto Ardigò e la psicologia moderna, Firenze, La Nuova Italia,
1969 ^ Veniero Accreman, La morale della storia, Guaraldi, Giovanni Landucci,
Roberto Ardigò e la "seconda rivoluzione scientifica", ed Franco
Angeli, RIVISTA DI STORIA DELLA FILOSOFIA, 1991 ^ a b c d Marco Paolo Allegri,
Il realismo positivo di Roberto Ardigò. L'apogeo teoretico del positivismo
Archiviato il 10 dicembre 2014 in Internet Archive., pagg. 24-25 ^ a b A.
Groppali e G. Marchesini, Nel 70º anniversario di Roberto Ardigò, ed, Bocca,
Torino, 1898 ^ Roberto Ardigò, La psicologia come scienza positiva, Viviano
Guastalla editore, Mondovì 1870, 169; 177-8 ^ a b Froebel ^ a b c d Marco Paolo
Allegri, Il realismo positivo di Roberto Ardigò. L'apogeo teoretico del
positivismo Archiviato il 10 dicembre 2014 in Internet Archive., pagg. 34-40 ^
Mario Quaranta, Etica e politica nel pensiero di Roberto Ardigò, “Rivista di
storia della filosofia”, 1/1991, 127-44, 142. ^ Quaranta, op. cit. pag. 129 ^ a
b Anna Lisa Gentile, Il positivismo di Roberto Ardigò: un'ideologia italiana,
in “Rivista di storia della filosofia” 1/199 pag. 158 e segg. Bibliografia Modifica
Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del progetto Mille anni di
scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto Museo di Storia della
Scienza di Firenze (home page), pubblicata sotto licenza Creative Commons CC-BY-3.0
Davide Poggi, La coscienza e il meccanesimo interiore. Francesco Bonatelli,
Roberto Ardigò e Giuseppe Zamboni, Padova, Poligrafo. Dizionario di filosofia,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata Roberto Ardigò,
su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata Alessandro Bortone, ARDIGÒ,
Roberto, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 4, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana,Opere di Roberto Ardigò, su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere di Roberto Ardigò, su Open
Library, Internet Archive consultabili
nell'Archivio di Storia della Psicologia, su
archiviodistoria.psicologia1.uniroma1.it. URL consultato il 16 dicembre 2011
(archiviato dall' url originale l'11 luglio 2012). Alessandro Savorelli,
Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Altre opere: Pietro Pomponazzi. La psicologia come
scienza positiva. La formazione naturale del sistema solare. L’inconoscibile di
H. Spencer e il Positivismo. La religione di T. Mamiani. Lo studio della Storia
della filosofia. La Morale dei Positivisti. Relatività della Logica
umana. La coscienza vecchia e le idee nuove. Empirismo e scienza.
Sociologia. Il compito della filosofia e la sua perennità. II fatto psicologico
della Percezione. Il Vero. La Ragione. La scienza sperimentale del pensiero. Il
mio insegnamento della filosofia nel R. Liceo di Mantova. L’Unità della
coscienza. L’Inconoscibile di H. Spencer e il Noumeno di E. Kant. Il meccanismo
dell’intelligenza e l’ispirazione geniale. L’indistinto e il distinto nella
formazione naturale. Note eticosociologiche — Articoli pedagogici. Il Pensiero
e la Cosa. L’idealismo della vecchia speculazione e il Realismo della filosofia
positiva. La formazione naturale e la dinamica della psiche. Saggio di una
ricostruzione scientifica della psicologia. La perennità del Positivismo.
Monismo metafisico e monismo scientifico. La filosofia nel campo del
sapere. Atto riflesso e atto volontario. I tre momenti critici nella storia
della Gnostica della filosofia moderna. Il sogno della veglia. Tesi metafisica,
ipotesi scientifica e fatto accertato. Il quadruplice problema della Gnostica.
Guardando il rosso di una rosa. La nuova filosofia dei valori. Una pretesa
pregiudiziale contro il Positivismo. L’Inconscio — A. Comte, H. Spencer e un
positivista italiano. Infinito e indefinito. Fisico e psichico
contrapposti. Repetita juvant. I presupposti Massimi Problemi. Il Positivismo
nelle scienze esatte e nelle sperimentali. L’individuo. Estema, idea, logismo.
Le forme ascendenti della realtà come cosa e come azione e i diritti veri dello
spirito. Lo spirito aspetto specifico culminante della Energia in funzione
nell’organismo animale. La meteora mentale. Filosofia e positivismo. La ragione
scientifica del dovere. La filosofia vagabonda. L’intelligenza. Altre opere:
SCRITTI VARI RACCOLTI E ORDINATI DA GIOVANNI MARCHESINI Le Monnier
scuola - nuovo FIRENZE FELICE LE MONNIER. Prefazione; opere filosofiche;
Polemiche; La confessione; Sulla storia della confessione esposta nel n. 181
della Favilla dal sig. Eugenio Pettoello. Il prete professore Ardigò e la
confessione. Calunnie. Risposta del prete professore R. Ardigò alla lettera del
sig. Luigi De Sanctis inserita nel n. 217 della Favilla. Dichiarazione ai
lettori. Lettera dell'illustre De Sanctis. Articolo comunicato. La psicologia
positiva e i problemi della filosofia. Dialogo. Il filosofo e un ignorante. Il
liberalismo di R. Ardigò. Contro la massoneria. R. Ardigò e A. Fouillée. Discorsi.
Garibaldi. Discorso di commemorazione. Per il 70° anniversario. Le Ancelle
della carità al Civico Spedale. I programmi e l’ordine dell’insegnamento. Il
cultore vero della scienza. La gerarchia dei godimenti. La libertà del
sentimento religioso. L’unità internazionale. La filosofia col nuovo
regolamento universitario. La scuola classica e la filosofia. Divisi dalle
religioni, la scienza ci riunirà. Il dolore morale nella società. La
polarizzazione del lavoro mentale. La breccia di Porta Pia. Il significato
morale del XX Settembre. Le immagini rovesciate. Il metodo del lavoro
intellettuale di R. Ardigò. La formazione inconscia delle convinzioni. La
condizione fisica della coscienza. Lettere 100%.svg Lettera 1
100%.svg Lettera. Giudizi e pensieri. Giudizi. Pensieri. Versi. Uno
scherzo in un'ora allegra. Intecta fronde quies. Venti canti di H. Heine.
Schöne Wiege meiner Leiden. Warte, warte, wilder Schiffsmann. Berg und Burgen
schaun herunter. Der Traurige. Zwei Brüder. Die Grenadiere. Auf Flügeln des Gesanges.
Liebste, sollst mir heute sagen. Mein süsses Lieb, wenn du im Grab. Ich weiss
nicht was soll es bedeuten. Mein Herz, mein Herz ist traurig wie der Mond sich
leuchtend dränget auf dem Hardenberge. Der Hirtenknabe. Nachts in der Kajüte. SOCIOLOGIA.
Dedica. Avvertenza. Il potere civile; La reazione dell' individuo e
quella della società; il Diritto intemazionale; Machiavellismo politico;
l’ideale della società umana; le giustizie sociali; L'Idealità sociale
impulsiva del volere individuale è una giustizia; L'Idealità sociale è
una giustizia potenziale; diritto positivo e diritto naturale; triplice ufficio
del potere; giustizia e diritto nella convenienza; la giustizia; la Giustizia
legale (seconda forma dell' ufficio del Potere) è una gradazione
evolutiva superiore di un indistinto inferiore da cui emerge; dall'indistinto
della prepotenza (principio egoistico) nasce il distinto della
giustizia (principio anti-egoistico) che è la risultante dinamica di
quella; la formazione della giustizia nel senso proprio va colla
formazione del potere onde è l’espressione; la giustizia è la forza
specifica dell' organismo sociale; la gradazione della giustizia;
dovere giuridico e dovere morale; obbligatorietà e trascendenza
imperativa del dovere nella coscienza morale; atteggiamento vario della
giustizia e coefficienti relative; funzione della giustizia morale; l'autorità;
criterio positivo del diritto e del dovere; i diritti dell'uomo
sopra le altre cose della natura; i diritti dell'uomo sopra se
stesso; suicidio; il diritto d’autorità; l’autorità nel diritto naturale; la
dottrina positiva dell'autorità e del diritto è liberale; Gl’attti benefici
nell' etica tradizionale; gl’atti benefici nel positivismo; falsa apparenza di paralogismo;
la virtù, il merito, il premio; l’ordine morale; il bene sociale; il fatto del
diritto (diversità, specie, coordinazione) e il suo ideale; il diritto
è in virtù di se stesso; il diritto è la facoltà del bene sociale;
l'esercizio del diritto è la funzione del bene sociale; il diritto costa
una contribuzione; le unità minime, le unità medie e l’unità massima nel corpo
sociale; la selezione interorganica nella evoluzione formatrice
dello Stato Come risulti spiegata la prima forma dell' ufficio del
Potere, e anche la terza: e stabilito r assunto del libro
Conclusione. SOCIOLOGIA Atxyj^ 8vo|ia oòx dEv ^Seaav, el xaOxa fJ “Non ci
sarebbe l’idea della giustizia se non fossero i supplizi.” -- Eraclito di Efeso
presso Clem. Strom. IV, j. . ALL’ILLUSTRE PROFESSORE ENRICO FERRI IL QUALE
PRIMEGGIANDO FRA I MAESTRI DELLA SCIENZA NUOVA DEL DIRITTO PENALE SI COMPIACE
DI RICORDARE CHE ALL’INDIRIZZO POSITIVO DELLA SUA MENTE FECONDISSIMA NON FURONO
ESTRANEE LE LEZIONI DEL SUO ANTICO MAESTRO L'AUTORE DEDICA QUESTO SAGGIO IN
SEGNO DI FRATERNO AFFETTO. AVVERTENZA. Questa sociologia costitue una parte
della morale dei Positivisti. Fu in ogni parte o ritoccata o rifatta. Non vi si
trattano tutte le questioni introdotte e discusse generalmente nei saggi di sociologia;
ma solo la fondamentale: quella cioè della formazione naturale del fatto
speciale caratteristico dell' organismo sociale, ossia della giustizia. E,
relativamente a questo fatto, non dà una riproduzione pitc meno manipolata
delle idee messe in voga dai filosofi più celebrati di questa materia.
Qualunque ne sia il valore, chi scrive presenta qui il frutto della sua
riflessione solitaria; e non recente, ma di vecchia data, e già matura fin da
quando lo esponeva ai filosofi di Mantova, pei quali divenne germe e stimolo ad
elaborazioni ed applicazionidi merito nel campo della filosofia. Restringendosi
poi la trattazione, come qui è divisato, al fatto della giustizia, con ciò la
sociologia tiene a mantenersi nel campo, che le spetta in proprio, e pel quale
riesce una disciplina a sé e distinta da tute le altre. È un errore capitale quello
comunissimo di fare della sociologia un ammasso di tutte le dottrine
riguardanti i fenomeni svariatissimi, che suppongono l’ambiente della società
umana, A tale stregua la cosmologia dovrebbe constare di tutte le dottrine
riguardanti i fenomeni svariatissimi, che suppongono l’ambiente dell’universo
visibile. A questo modo si dà ragione a quelli che persistono a *negare* alla sociologia
filosofica la qualità di disciplina autonoma. Una sub-disciplina filosofica è
un tutto a sé, che si pone e si distingue da quello di tutte le altre, come la
specialità del fatto che essa considera. E, nel caso nostro, la sociologia filosofica,
o la psicologia filosofica dell’intersoggetivita, si pone e si distingue, come
la specialità del fatto della giustizia, nel quale è la ragione diretta
dell'organismo sociale; a quel modo che nel fatto della gravitazione è la
ragione diretta della mutua dipendenza delle masse astrali, considerata dalla
cosmologia filosofica. Così, essendoci il fatto Fisico si dà la Fisica;
essendoci il fatto chimico si dà la chimica; essendoci il fatto psichico, si dà
la psicologia filosofica, e via discorrendo per ogni sub-disciplina. Si
restring la presente trattazione allo studio della formazione naturale della
giustizia, e limitandosi a considerare il fatto di essa in generale, e non
estendendosi a considerarlo in particolare nelle molte e diverse forme
svariate, che si munifesiano, funzionando la giustizia nelle differenti
comàiìmzioni secondarie pnllulanti ed armonizza nèi nella totalità malto
complessa dell’organismo sociale. Ed è solo in qneslo senso, die fuesta
trattazione non aòòraccia tutto r amèito della So- etologia j. co7icernendo
solo la sua farle introduttiva e fondamentaie. Esaurita la prima edizione di
questo quarto Volume delie Opere filosofiche, e anche la seconda, nella quale
tra stata introd^itta qualche piccola correzione ed aggiunta, colia presente
terza questa Sociologia comparisce nella sua edizione quinta. Questa
trattazione deWdi Sociologia suppone e completa quella della morale dei
positivisti. La suppone, in quanto nella morale medesima è presentata l’analisi
della attitudine etico-civile umana, ed è esposta la teoria positiva della responsabilità
sotto tutti i suoi aspetti e rapporti. La completa, in quanto studia la
formaziofie della attitudine etico-civile suddetta. Specialmente sotto V di--
spetto e il rapporto della sua obbligatorietà si interna che esterna. Ma questa della sociologia è poi, come tale,
una trattazione distinta da quella della morale. La morale ha per oggetto suo
speciale e proprio la attitudine etica e quindi la virtu individuale. La sociologia
ha per suo oggetto la costituzione della società civile e quindi la gitistizia
che ne è la funzione caratteristica. Il punto di partenza del nostro
ragionamento è la questione proposta dalla morale dei posttivisti. Il concetto
della responsabilità (de- finito precedentemente come l'astratto delle
sanzioni, onde la società reagisce, rintuzzandola, contro l’azione propriamente
umana individuale) fosse manchevole, non estendendosi quanto la moralità, e
quindi fosse da ripudiarsi. E ciò per la considerazione che sembrerebbe così la
responsabilità riferirsi solamente agli atti intesi nel concetto stretto del
giusto, cioè ai pochi atti esterni, aventi importanza per l’ordine sociale,
commessi in misura e in circostanze determinate, discorso basta notare il
fatto, la cui spiegazione si lascia alla fisiologia. Come l’apparato nervoso
delF organismo biologico vi si forma a poco a poco per naturale svolgimento
e trasformazione di una parte degli elementi prima omogenei della sostanza
viva, cosi l'apparato del P<:7/^r^ nell’organismo dello stato vi si forma a
poco a poco per naturale selezione ed adattamento dì alcuni fra gli individui
del *consorzio* umano informe primitivo. Del pari, come la funzione speciale
dell' apparato nervoso si è in esso determinata per Io svolgimento e la
trasformazione della attività vitale generica della sostanza animale,
cosi la specialità della reazione del potere non è altro che una
distinzione, operatasi a poco a poco e di mano in mano che andava
formandosi, della reazione istintiva comune degli individui eslegi del *consorzio*
umano primitivo. E, come l’attività nuova speciale sovrapposta e dominante
dell' apparato nervoso dell'animale superiore sviluppato non vi sopprime
l’attività iniziale semplice e comune del materiale biologico, la quale vi
persiste allato e al disotto dell' attività nervosa, che la regola,
così la reazione del potere, svoltasi naturalmente collo svolgersi dell'
organismo sociale, non vi sopprime la reazione istintiva detta sopra, la
quale quindi persiste nello Stato civile allato e al disotto della
reazione del Potere, che la regola. E cosi nello Stato vengono a
riscontrarsi contempo- è assai opportuno studiare ulteriormente, e
sotto /r^r df~ versi aspeliì, l'analogia notata fra T organismo dell'
ani- male superiore e quello della Società civile. Nel corpo di un
animale, anche di organizzazione superiore (e quindi massimamente in
quello dell' uomo), ogni parte viva ha in sé la ragione della propria attivita
puramente vegetativa, che ha luogo quindi indipendentemente dal concorso diretto
della funzionalità nervosa centrale. Ma questa funzionalità nervosa
centrale può intervenire ad impedire tanto o quanto la detta attività puramente
vegetativa della parte subordinata, A far ciò l’uomo, nel caso che la
parte si ammali e quindi la sua attività vegetativa si renda anormale,
si sforza (valendosi dell' apparecchio nervoso sovrastante alle
parti) di limitare l’anormalità e di contrastame gli effetti perniciosi
sulle altre. Mettiamo, sostituendo la medicina al cibo, o tralasciando di mangiare
e di adoperare se possibile la parte malata, o operando su di essa, o
staccandola in caso estremo dal resto del corpo. Quindi, l’intervento della
funzionalità centrale qui sarebbe puramente negativa; cioè solo di
impedire tanto o quanto l’attività vegetativa; la quale, nella parte,
sorge in virtù della propria natura dì questa, e non potrebbe esservi
creata ed infusa dalla medesima funzionalità centrale. Un fatto analogo si
osserva nel corpo della società civile. In questo corpo sì riscontrano due
generi di reazione sociale, quello della convenienza, proprio di ciascun
individuo e nascente direttamente dall’urto degli individui fra di loro,
indipendentemente dalla sovrapposizione ad essi del potere al quale sono
subordinati; e quello della giusto, proprio di questo potere. La
reazione di convenienza tra individuo e individuo tende con forza ad
assumere, e spesso assume effettivamente forme irregolari nocive e atte a
turbare in misura più o meno grande il buon assetto della società. Ed è
qui che intervitìne la reazione del giusto per parte del potere
sovrapposto. Ma con effetto solo di impedire e limitare, per quanto
possibile, la irregolarità della rea
zione della convenienza. Si che questa, funzionando pure per forza e legge
propria, non ecceda però la forma e la misura compatibile coll’andamento
migliore del corpo sociale. Le parti singole dell'animale sono
coordinate insieme mediante una funzione, che sì aggiunge alle particolari di
esse e loro sovrasta, dominandole e subordinandole nel sistema complessivo deir
individuo. Questa funzione centralizzatrice ha una efficienza negativa,
na ne ha anche una positive, ed è quella di produrre il concerto delle
parti nell’attività dell’individuo totale. Coè, la vìta propriamente
detta, elevantesi sulla semplice vegetazione di ciascuna parte, adattata
e resa ubbidiente alle esigenze della vita medesima, e quindi, per cosi dire,
ingentilitane. Cosi anche nella societa. Nella quale la funzione assodante
del potere si sovrappone a quelle degli due *associate*, ed è puramente
negativa o di limitazione per rispetto a queste, ma è positiva per rispetto a
se stessa, in quanto cioè si pone e produce un effetto speciale suo
proprio, che si risolve soprattutto in quello della moralizzazione dell'
uomo nello Stato civile. Annunciamo qui solo il fatto, la cui
spiegazione det- tagliata risulterà dal corso della trattazione. L'
individuo eslege è pronto ad impiegare a proprio vantaggio, come T
istinto naturale lo sospinge, tutta la forza materiale onde dispone; e ad
elidere e a togliere di mezzo il più debole. Il che impedirebbe la
formazione della società e il concerto civile delle sue parti. Perchè
tale concerto sia possibile è necessario che sopravvenga neir umano
consorzio una forza superiore, la quale, in nome e colla mira
dell'interesse di tutti, rin- tuzzi e contenga la forza esuberante e
trasmodante dei singoli più forti o irregolarmente operanti, e renda
cosi attuabile lo sviluppo e l’esercizio pieno e non impedito, e
tranquillo, e benefico delle attitudini di ogni elemento, onde è
costituito il corpo sociale. L' istinto della reazione individuale, per
sé, rappre- senterebbe il princìpio egoistico antisociale. Invece il
Po- ^ tere subordinante rappresenta T Idealità sociale ossia il
principio morale antiegoistico. L' individuo nella Società diventa morale
in quanto, ridotto dalla coazione della Giustizia a riconoscere il
principio antiegoistico rappresentato dal Potere associante, vi si
uniforma, ingentilendosi, rinunciando alla tendenza di usare la violenza
rispetto agli altri, contenendosi nei limiti permessi dal Potere,
cooperando con esso al Bene comune. La costituzione quindi
della Società umana, fino al grado di un' alta Civiltà, è possibile, perchè
la psiche umana, a preferenza di quelle dei bruti, è atta alla for-
mazione caratteristica della Idealità sociale, come è di- mostrato nella
Morale dei Positivisti (i). Nella macchina fisiologica dell'
animale non si dà potenza centralizzatrice delle parti senza un organo
di- stinto da esse, che ne sia investito e la possegga. La forza
centralizzatrice poi, in un animale, è in ragione della massa di questo
organo; come la massa stessa è in ra- gione del bisogno (2) della forza
occorrente per dominare le parti. E inoltre neir animale la materia dell'
organo centralizzante è presa dalle parti stesse centralizzate per
via di un processo di selezione naturale, come dimostra la embriologia e
la zoologia comparata. E secondo il principio generale, da me tante volte
ricordato, del pas- saggio dall' indistinto al distinto (3).
(i) Vedi specialmente il Capo III della terza Parte del Libro primo
; e la Parte seconda del Libro secondo. Per questa espressione bisogno
vedi la nota alla pag. 17 del volume ILI di queste Op, fil. Per la
teoria dell' indistinto e del distinto vedi la Fortnazione naturale nel
fatto del sistema solare y nel Voi. II di queste Op, fil. Cosi
nella Società» La coordinazione delle partì com- ponenti e la relativa
reazione della Giustizia non vi può aver luogo senza che vi sia
costituito un ordine di per* sone investito del Potere occorrente
all'uopo, e fornito dei mezzi sufficienti all' effetto. Tale ordine
di persone si stabilisce nella Società per la legge suddetta della
selezione naturale, come già ac- cennammo sopra; e di ciò parleremo in
seguito più a lungo, E r ordine sovraiieggiante nella Società
deve essere in ragione della forza occorrente a produrre Teifetto
di contenere le parti nella associazione dello Stato. Più in queste
è la resistenza alla coordinazione so- ciale, come nella barbarie o nella
depravazione, quando ha ana grande prevalenza T egoismo (o perchè le
Idea- lità sociali non sono ancora progredite nella loro forma-
zione, o perchè abitudini prave sottentrate le paralizzano), e più il
Potere centrale è poderoso e A'iolento, e ha quindi il carattere di
Potere militare. E la Giustizia allora as- sume la forma del fato
inesorabile e crudele, che sforza ad agire colla violenza necessitante.
E, nel caso che manchi nel Potere la forza suffi- ciente, la
Società si trova in quello stato di organizza- zione imperfetta che si
osserva negli animali inferiori aggruppati in masse, che sono piuttosto
delle colonie che non degli individui propriamente detti. Se
invece poca o nuila è la renitenza alla coordina- zione sociale, come
nelle Società adulte, colte e virtuose. quando le Idealità sociali negli
individui sì sono già for- mate e si mantengono impulsive, allora il
Potere centrale assume il carattere di un semplice arbitro morale fra
gli individui associati. E la Giustizia qui perde il carattere
della violenza^ assumendo invece quello di una sentenza vera ed equa, che
ottiene il rispetto e T assentimento col solo essere enunciata. E si conferma
ciò che dicemmo al- trove del regno del fato e del regno della Giustizia
fra gli uomini (i), E discende anche dalle cose dette che,
siccome il dispotismo militare è proprio dello stato della
barbarie, così invece il governo repubblicano è proprio dello stato
della cultura più compita ; intendendo per questo governo (idealmente) un
governo formatosi per la selezione natu- rale più propria dell' uomo,
ossia razionale ; e di persone funzionanti quasi come semplici arbitri
morali ; e rap- presentanti U Idealità sociali ammesse dagli
individui associati, che sono disposti per ciò a rispettarle, senza
bisogno di coazione e di violenza. Le cose dette hanno una conferma da
ciò che si riferisce al Diritto internazionale, e servono a chia-
rirne ÌL fatto e la teoria. • 1 diversi Stati tra loro indipendenti
sono come degli (i) Nella Morale dei Positivisti, Per es. Gap. II
della Parte IV del Libro li, al numero i6 (pag. 399 del voi. Ili di
queste Op, fil, nella edijE. del tSSs^ e 432 dell' ediz. del 1893 e del
1901, e 432 Del- l' ediz, dei 1908). 3"«|P).individui
non co-ordinati l’uno con l’altro sopra i quali vige la ragione del più
forte, poiché l' idealità sociale co-ordinante non è realizzata in un potere
effettivo sovrastante, che si faccia valere; e quindi vi campeggiano sole
attività egoistiche dei singoli, staccati V uno dall' altro.
Ma, essendo il principio della socialità naturale al- l' uomo, come
per esso tendono a stare uniti gli individui nella Società più semplice della
famiglia, e questa e le altre unità sociali più o meno grandi tendono a
colle* garsi organicamente nelle unità dello Stato, cosi gli Stati
tendono poi a riunirsi fra di loro: e, parzialmente, in gruppi di Stati ;
e, totalmente, nella unità universale della umanità intera. E
da ciò si vede che il Diritto di uno Stato è rela- tivo al pari di quello
dell' individuo, che ne fa parte ; per la ragione che, come il Diritto di
questo viene a sof- frire una limitazione e una rettificazione col prevalere
su di esso del Diritto del Potere dello Stato particolare che se lo
subordina, così anche il Diritto di questo è limita- bile e rettificabile
nella sua subordinazione all'organismo più grande, del quale tende a far
parte. E cosi dicasi della Giustizia, che è la funzione del
Potere. Nella Giustizia del Potere si riassumono tanto o
quanto, diventando la Legge propriamente detta, o al- meno (se non ne
sono in tutto sostituiti) vi si appuntano come tollerati, o permessi, o
anche incoraggiati, certi atti di iniziativa degli individui ispirati
dalla Idealità so- ciale, tendenti a frenare o vendicare la reazione
istintiva irregolare: avverantisi già nel consorzio umano non ancora
sviluppatosi nell'organismo sociale civile, e per- duranti in questo, o
produeentisi nella condizione della Civiltà. Il padre che governa la
famiglia, il forte gene- roso che difende il debole, V associazione che
si prefigge scopi umanitari, e via dicendo, ne sono esempi. Qui ab-
biamo le virtualità della Giustizia, che ne preparano r avvenimento, o la
riforma miglioratrice, nella Giustizia di fatto dello Stato. E questa
Giustizia di fatto di uno Stato è soggetta a limitazioni e rettificazioni
ulteriori, per via di una Giustizia più ideale, in quanto uno Stato
può subordinarsi alle unità sociali maggiori, delle quali dicemmo, e
quindi alla Legge loro. Data la riunione effettiva di più Stati in
una unità sociale maggiore che li comprenda, e della quale essi
siano le parti componenti, in questa si avrà il Po- tere distinto o
specifico coordinante, del quale abbiamo parlato sopra, col carattere
della Giustizia, di fronte alle funzionalità particolari degli Stati
componenti; la reazione diretta dei quali per ciò fra di loro avrà il
carat- tere della Convenienza, mentre V uno non potrà valersi della
forza materiale contro T altro, sia in sostegno del proprio Diritto, sia
in offesa dell' altrui, ma dovrà la- sciarne r uso al Potere
internazionale sovrastante. Il Diritto internazionale quindi non è
effettivamente un Diritto, se non ha il detto carattere, della
Giustizia. E non ha questo carattere, se non esiste un organo
reale, colla forza sufficiente all'uopo, per esercitarla pratica-
mente. La storia ci presenta diverse forme di questo potere
intemazionale o egemmiico, che dir si voglia. Ma sempre più o meno
imperfette. Per esempio quello esercitato dalla madre patria sopra gli Stati
delle colonie, che ne furono fondate. O quello di uno Stato più
forte sopra altri più deboli soggiogati colle armi, o ridotti a
protettorato, o confederati, O quello di una autorità re- ligiosa sui
popoli che la riconoscono. O quello risultante da una lega, più o meno
precaria, per iscopi determinati. Le forme suddette, come già accennammo,
sono forme di egemonia imperfette, o per la loro ristrettezza e
precarietà, o perchè non abbastanza potenti per farsi valere, o perchè
una tirannia di im forte su molti deboli, E per ciò disfatte o da
disfarsi col progredire della Società. La quale invece tende ad una
consociazione più ideale degli Stati fra di loro. Ma a quale? Poiché, e
questa non deve essere per mezzo di uno Stato più forte che soggioghici
altri più deboli, e tuttavia la consociazione, colla Giustizia so-
vrastante relativa, non è una vera realtà organica se non esiste effettivamente
il potere che la eserciti. La risposta alla domanda si ha in ciò
che dicemmo costituire il governo più perfetto, ossia del vero
regno della Giustizia, cioè n^W Aròiiraio. L'Arbitrato o
l'Anfizionia internazionale. E come si va già disegnando sempre più
concretamente nel fatto dei trattati internazionali aventi forza
esecutiva, e del consenso moralmente giusto e fortemente efficace, che
si va stabilendo nel gruppo degli Stati più civili circa te
questioni sociali di interesse universale, e che influisce anche sopra la
legislazione interna dei singoli Stati, Solo — ac-
quando esista realmente, in forma ben determinata e colla forza
necessaria di farsi valere, questa Anfizionia, potrà esistere un Diritto
internazionale veramente tale. Dico, quando esista questa Anfizionia.
Fogniamo sul fare della autorità centrale elvetica o degli Stati
Uniti di America. E dico, quando questa Anfizionia sia un Potere veramente
efficace. Il che non può essere, se non pel pro- gresso sociale dei
singoli Stati dipendenti; come T Arbi- trato efficace fra gli individui
non è possibile che a misura che questi si perfezionano moralmente, come
dimo- strammo. E in effetto il progresso sociale degli Stati
ci- vili è già riuscito a stabilire delle legislazioni, o comuni, o
concordanti, colle rappresentanze e coi mezzi di esecuzione rispettivi, in
ordine ai rapporti di interesse non politico; come sarebbero il
Commercio, T Industria, la Navigazione» le Comunicazioni, i Diritti
privati, le Monete^ le Misure, la Scienza. E tende ad estendere sempre
più questo genere di Giustizia universale, sia colle Com- pagnie
internazionali riconosciute per imprese di interesse della Civiltà
generale, sia coi Congressi pure internazio- nali per altre sue esigenze,
come sarebbe p. e. l'Igiene. Lontana ancora è T epoca della unione
politica in discorso. Ma va facendosene sempre più forte V aspira-
zione, che è già T anima del partito politico dell' internazionalismo, e che
per la forza delle cose deve ormai essere confessata più o meno dagli
stessi governi. Queir epoca è lontana; ma arriverà una
qualche volta; e cioè quando nei singoli Stati saranno state rimosse le
cause che la ritardano: quelle cause precisa- mente che la Civiltà
attuale tende a rimuovere: e che saranno rimosse quando ogni Stato avrà
ottenuto il suo as- setto naturale giusto rispetto all' Estero nella sua
circo- scrizione etnografica, nella sua sicurezza, nel suo equili-
brio cogli altri Stati. Anche la questione del Machiavellismo
politico trova la sua risposta nei principj da noi indicati; riu-
scendo cosi in pari tempo a riconfermarne la verità. La reazione
dell'individuo nella rozzezza eslege del consorzio ancora selvaggio non è
una reazione morale. Non lo è, né di fatto, né di diritto.
Non di fatto, perché il suo movente é il puro istinto egoistico,
pronto senza ritegno al danno altrui, indiffe- rente all'uso di tutti i
mezzi di riuscire: fino alla violenza più spietata, fino all' inganno più vile
e sfacciato. Non di diritto, perché, mancando l'ordinamento so-
ciale e la Giustizia del Potere che ne é il prodotto, non si ha ancora la
ragione, onde le reazioni umane siano giudicate col criterio della
moralità. In una condizione analoga si trova il Potere nello Stato non
progredito nella Civiltà. In tale condizione si rivela nel Potere ciò che si
chiama il Machiavellismo. Il Machiavellismo del Potere può divenire, nel
fatto, una impossibilità e, nel diritto, una immoralità, solo in
forza di una Giustizia relativa che lo impedisca e lo ri- provi,
E come? Per rispondere bisogna distinguere la reazione del
Potere di uno Stato per rispetto al Potere di altri Stati, e quella del
medesimo per rispetto ai propri subordinati. Nel caso della reazione del
Potere di uno Stato per rispetto agli altri Stati è evidente che, se esso
non è tutelato nella sua esistenza da una forza internazionale equa
e^ nella sua tendenza a vantaggiarsi sugli altri e a soperchiarli, non è
frenato dalla medesima, non farà dif- ferenza tra mezzo e mezzo che giovi
al suo intento; e il danno altrui lo procurerà come bene suo
proprio. Il ricorrere ai mezzi opportuni all' intento, nel caso in
discorso, come non ne è impedito dalla Giustizia in- ternazionale, che
non esiste, cosi non è nemmeno ripro- vato, E per ciò il
^lachiavellismo del Potere nella sua rea- zione cogli altri Stati viene
ad essere una possibilità di fatto, senza essere ancora una immoralità di
diritto. Ciò è dimostrato storicamente nelle formazioni in-
ternazionali imperfette di epoche e regioni diverse. Valga r esempio dei
vari Stati della Grecia antica, collegati tanto o quanto fra loro, e
insieme isolati dalle genti non greche; alle quali, considerate per ciò
come barbare, ne- gavano i riguardi che pure si avevano fra loro. E
valga r altro esempio delle religioni abbraccianti diversi Stati, i
quali insieme per ciò di fronte agli altri, considerati siccome infedeli,
si credevano sciolti da ogni freno di procedimento. Nel caso della
reazione del Potere per rispetto ai propri sudditi è da considerare che
la sua condizione in uno Stato progredito nella Civiltà è ben diversa
da quella che la precede. Qui il Potere non è ancora divenuto la
semplice e- spressione del volere di tutti che lo pone, lo regola, lo
sancisce, come la Giustizia che lo rigfuarda. Ma è ancora solo la
conquista machiavellica di una casta, di una fa- miglia, di una persona,
lottanti per conservarlo con tutti i mezzi atti all' uopo di fronte alle
altre caste, ad altre famiglie, ad altre persone dello Stato medesimo,
con una reazione quindi come tra individuo e individuo prima della
costituzione definitiva di una Giustizia superiore al di sopra di
essi. Nel caso in discorso è notevole il fenomeno del concetto della
Giustizia divina, che si pensa sovra- stare alla stessa persona del
Principe (come spiegheremo in seguito) ; in modo che le sue azioni,
quantunque fuori d* ogni Legge, tuttavia vengono considerate dal punto
di vista della moralità: onde il suo Machiavellismo, persi- stendo
di fatto, viene a cessare in qualche modo di esi- stere di diritto.
Questo fenomeno non è un argomento contro il nostro principio, ma a
favore di esso. La Giustizia perfetta accompagnante lo stesso svi-
luppo iniziale dell'organismo sociale, informa natural- mente la
coscienza di quelli che ne fanno parte. E que- sti, ignorando come si è
formata veramente, la immaginano una entità assoluta preesistente alla Società
e pro- pria del nume divino. E cosi la si pensa valere, nella lotta
fra i competi- tori del Potere, al di sopra e delle imprese degli emuli
e di quelle del vincitore. In effetto però il Potere
conquistato dallo stesso vin- citore lo emancipa dalla Giustizia, che
esso esercita sopra gli altri, e (massimamente se la lotta è eccitata da
idee sociali nuove) si fa autore di una Giustizia nuova che deroga
quella anteriore creduta divina ; e questa per con- segfuenza non serve
più quale criterio di moralità delle azioni del Potere medesimo. Di che
luminosamente ci ammaestra la storia nei contrasti multiformi col
Potere sacerdotale sostituito da quello militare, e tra questo e il
civile che gli sottentra nella Civiltà più avanzata. Il conòetto
quindi della Giustizia divina né valse da sé a impedire nel fatto il
Machiavellismo del Potere, né a riprovarlo nel diritto. Parlando
però di impedimento del Machiavellismo non abbiamo inteso di un impedimento
assoluto, ma solo relativo. La forza della Giustizia, che si stabi-
lìsce nella Civiltà avanzata, anche al di sopra del Potere di uno Stato,
ne impedisce il Machiavellismo tanto o quanto; ma non mai affatto. La
cosa qui è precisamente come nelle reazioni ini- que tra cittadino e
cittadino, che la Legge dello Stato tende ad impedire : ed impedisce
realmente tanto o quanto ma non mai del tutto. Dalle cose dette
importa soprattutto che si raccolga V importanza suprema, in ordine alla
moralità, dello sviluppo dell' organismo sociale sopra indicato. Come
accennammo (e lo dimostreremo più largamente in seguito) lo sviluppo del
consorzio umano nello Stato ha per effetto la moralità privata. La
Civiltà che per- feziona r organismo dello Stato all' interno, e
promuove r associazione civile degli Stati ha per effetto la moralità
politica. La Giustizia (e quindi la Responsabilità, che è un suo
correlativo) non è perfettamente tale nell'organismo civile se in questo non si
ha la libertà ù.^\\^ parti coordinatevi, e la distinzione netta del
Potere e delle sue attribuzioni. Importa fissare in modo
preciso in che consista, teo- ricamente, la libertà. La
libertà consiste in ciò, che la parte coordinata neir organismo sociale
vi possa funzionare secondo la di^ sposizione naturale onde è atta a
funzionare. E, in base a tale disposizione, imprescrivibilmente. E, tanto
relativamente a se stessa, quanto nel reagire all' azione collaterale delle
altre parti. S' intende bene che la disposizione naturale onde
la parte è atta a funzionare, traente con sé il diritto impre-
scrivibile alla funzione relativa, deve essere quella del- l' uomo
socialmente perfezionato ; e quindi in tutto razionale in ordine alla
convivenza e alla collaborazione cogli altri nel consorzio civilmente
perfetto. Ma la reazione della parte verso le altre deve essere tale che
non le impedisca. Che altrimenti si avrebbe eli- sione di attività nelle
parti impedite, e quindi lesione in queste della loro libertà.
È questa una condizione essenzialissima perchè esista realmente
nell'organismo sociale la libertà vera e per- fetta delle sue
parti. Ora tale condizione importa che la reazione della
parte sulla parte si limiti a quella della pura Conve- nienza, che
esclude la violenza dell' uno suir altro. E cosi questa esclusione, .
ossia questo limite nega- tivo, viene ad essere essenziale al concetto
della libertà. Sicché questa è determinata positivamente dalla
attività intrinseca dell' operante che ne è fornito, e
negativamente dalla rimozione della violenza estrinseca che la
impedi- rebbe nella sua sfera di coordinazione. Il limite negativo
suddetto della libertà ne porta seco di necessità anche uno positivo, per
la ragione che la rimozione degli impedimenti estrinseci alle
libertà delle parti non si può ottenere se non mediante la costituzione
di una forza superiore a tutte, sufficiente all'uopo. La coazione,
colla quale questa forza deve reagire, per lo scopo detto, sopra le parti
subordinate, non eli- mina la libertà, come sarebbe la coazione tra parte
e parte. Come notammo sopra, la coazione della parte
come tale è egoistica, e quindi a vantaggio della parte che la
esercita e a danno della parte che la soffre; mentre la coazione del
Potere sovrastante alle parti è antiegoistica, vantaggiosa alla Società,
e quindi diretta a salvare nella integrità della sua attitudine e
funzione la disposizione naturale di ogni sua parte. La forza
superiore del Potere essendo richie- sta dalle esigenze delle stesse
libertà delle parti subor- dinate» queste devono concorrere a costituirla
con una parte della loro attivitàt sottoponendola quindi alla ne-
cessità della organizzazione sociale. Qui, come dicemmo, abbiamo un
limite positivo della libertà delle parti costitutive della società; ma,
siccome è posto da esse liberamente (mentre l'organizzazione so-
ciale è una spontaneità naturale del consorzio umano nel quale si
produce)» allo scopo di sussistere, torna poi sem- pre che la libertà
delle parti medesime rimane on primo ed un assoluto da cui tutto in
ultimo dipende nella società. Dal bisogno stesso della libertà
adunque di- pende anche il Potere subordinante. E con ciò è
legiitimaiù. E quindi anche determinato in ciò che deve essere.
Determinato nel corpo che ne è investito, il quale non deve essere
una delle stesse parti coordinate, perchè con ciò essa si troverebbe nel
caso sopra indicato ed e* sclusOf della parte che impedisce V
altra* Determinato nella azione che deve esercitare, che è
quella precisa richiesta dai due limiti «opra detti, cioè^ quello di
porsi, onde essere in caso dì funzionare, e non più; e quello di impedire
la violenza della parte sulla parte, e non più- Ciò posto r ideale
della Società umana richiede le ragioni che seguono. L' autonomia
perfetta delle parti, che cioè ognuno sia veramente un arbitrio, come
dicemmo nella Morale dei Positivisti (i). E precisamente quel tanto
che si trova di poter essere realmente. Secondo. Nessuna
esecutività diretta o violenta del volere dell' una sull' altra. Sicché
la reazione loro sia quella della Convenienza, scevra da costringimento
ma- teriale. Terzo. Costituzione distinta del Potere, al
quale solo competa la esecutività coattiva sopra le parti
subordinate. Quarto. U ordine del Potere derivante dal corpo
dello Stato per selezione naturale degli ottimi, in dipen- denza dal
volere stesso delle parti che vi si subordinano ; e in virtù delle
Idealità sociali proprie delle stesse, e quindi non altro che allo scopo
della tutela delle auto- nomie coordinate nella Società, e della stessa
loro coor- dinazione nella medesima. Quinto. Giusta e stabile
organizzazione e subordina- zioue delle parti corrispondente alla stabile
giusta orga- nizzazione ed efficacia d' azione del Potere. Ma il
fatto concreto delle Società storiche del- l' umanità si presenta assia
vario e complesso. E lo stesso (i) Libro I, Parte II, Capo IV, (Pag. 113
del voi. Ili dì queste Op, fU. nella ediz. del 1883, 118 della ed. del
1893 e del 1901, 122 della ediz. del 1908). Ideale generico di
queste Società non sì può rettamente comprendere senza lo studio diretto
del fatto medesimo. E noi qui lo tenteremo, prendendo le mosse
dalla stessa analogia, alla quale ricorremmo sopra, tra V orga-
nismo sociale e V organismo biologico. Nelle specie infime degli animali le
parti del corpo sono omogenee ed indistinte, o pressoché tali. E
somiglia a questo indistinto preorganico della zoologia r indistinto
preorganico sociale delle truppe o coacerva- zioni disordinate delle
popolazioni selvaggie. Nelle specie animali che seguono alle infime
nella scala zoologica si ha una prima distinzione di formazione :
cioè una moltitudine di parti distinte, congiunte insieme in colonie,
nelle quali non è ancora costituito un apparato speciale distinto unico
atto a subordinarle insieme nella unità più perfetta dell' individuo. E a
ciò somiglia il fatto dei primordi di una formazione sociale, nei
quali, sul suolo medesimo e coi soli rapporti della vicinanza, e
della parità maggiore o minore delle idee, dei costuiri e della
discendenza comune, si trovano a contatto, in un certo numero, le tribù o
i pìccoli Stati indipendenti gli uni degli altri. Nelle
specie animali superiori, per una distinzione ulteriore (onde si forma la
diversità dei tessuti e uno di questi, il nervoso, resta con una speciale
superiorità verso gli altri in quanto, formando un sistema solo di tutte
le sue diramazioni nate in ogni parte, associa cosi colla u- nità
del suo lavoro i lavori di tutte le unità singole su cui domina), si
arriva alla unità organica propriamente detta, che non è più quella della
massa informemente coacervata, né quella delle semplici colonie delle
unità distinte, ma quella dell' individuo complete, E somiglia a
questa distinzione progredita quella della Società ci- vile, formatasi in
seguito alla distinzione delle tribù in caste, e al predominio della più
forte e intelligente sulle altre, e alla trasformazione successiva della
sua tirannia nel Potere regolare, moderatore delle unità sociali
con- federate. Nel processo evolutivo di distinzione della
formazione biologica l’apparato, onde si unificano le parti neir
organismo assai complesso dell' animale, sorge dalle intimità della
sostanza viva. La quale però non risente l’effetto proprio dell' apparato
stesso, uscito dal proprio seno, se non a misura che si è formato
effettivamente. Lo stesso avviene nel processo evolutivo di
distinzione della formazione sociale. Il Potere subordinante, e
quindi ciò che si dice la Legge e la Giustizia, e la relativa Re-
sponsabilità dell' individuo verso di esse, nasce dalla stessa virtù
intima delle parti associate ; ossia in ultimo, degli individui umani. E
accennammo già come; e spie- gheremo più a lungo in segfuito. Nasce cioè
in virtù delle Idealità sociali (i), che sono un fenomeno psichico
pro- prio dell' individuo. Ma r individuo non ne ha coscienza
distinta se non dopo che, pel processo naturale indicato, e
inconscia- mente per lui, il Potere stesso si è costituito.
Ed ecco come l' individuo è il fattore della Legge, della
Giustizia, della Responsonilità ; e, nello stesso tempo, (i) Su ciò verte
in generale tutto il Libro I della Maiale dei po- sitivisti, e in
particolare il suo Capo III della Parte III. queste suppongono l’evoluzione
sociale già avvenuta, e vi sono risentite siccome la correlazione dell'
individuo subordinato col potere sovraneggiante. E con ciò
siamo ora in grado di rilevare ancora m.e- glio, e una volta di più, la
verità, già illustrata nella Morale dei Positivisti (i), del concetto
della morale degli antichi e di Aristotele in ispecie, che la
consideravano correlativa essenzialmente alla Società formata ; e la
fal- sità del concetto ascetico-scolastico, che la considera sic-
come indipendente dalla Società stessa, fondandosi sul fenomeno sopra
indicato (2) del concetto della Gitistizia divina. Ma la coordinazione e
subordinazione, nel corpo sociale come neir animale, e in qualunque altra
unità or- ganica naturale, non è cosi semplice quale, per chiarezza
e preparazione del discorso ulteriore, sopra abbiamo supposto. Non è cosi
semplice. Vale a dire non è puramente un certo numero di parti, proprio
eguali ed equipollenti, concertate per la dipendenza diretta unica e sola
di o- gnuna da un centro immediato di tutte unico e solo; come, per
esempio, i raggi di un cerchio dal punto di mezzo, dal quale si dipartono
uniformemente con ugua- glianza di lunghezza e di divergenza. E
invece immensamente più complessa. Gl’elementi fondamentali ed ultimi del
corpo so- ciale sono gli individui umani, i quali formano, in
gruppi di pochi, degli organismi sociali elementari distinti ;
que- (1) Capo V della Parte III del Libro I. (2) N. 6 del l III.
sti piccoli organismi elementari poi si coordinano come parti di
associazioni e di organismi superiori ; i quali alla loro volta di nuovo
si aggruppano in complessi maggiori. E la serie di tali ordini maggiori,
che ne abbracciano dei minori, è ben lunga. Come è anche il caso
dell' animale superiore, soprat- tutto dell'umano, nel quale ogni arto ed
ogni viscere è già un complesso ottenuto per una certa serie di combi-
nazioni di gruppi minori; e gli arti e i visceri sono insieme collegati dai
centri del midollo spinale, al quale poi sono sovrapposti gli altri
centri superiori del cervel- letto e dei lobi cerebrali, dipendenti alla
loro volta dal- E qui possiamo venire a una conseguenza im- portantissima
circa i diversi aspetti che assume nella So- cietà civile ciò che dicemmo in
genere, la Giustizia; e quindi anche la Responsabilità. Data la serie delle
subordinazioni dette sopra, solo degli estremi si potrà dire che siano
assolutamente, T in- fimo, la piura Convenienza, e il sommo, la piura
Giustizia. Non COSI dei medii. Qualunque dei quali non sarà asso- lutamente, né
la Giustizia, né la Convenienza; ma con- incoata, e si compia solo
in virtù del Tribunale dello Stato. E cosi il Potere dello Stato, per
rispetto all' eser- cizio della Giustizia subordinata della associazione
particolare, no permette solo quello che non danneggia l'assetto generale della
Società o il Diritto dei soggetti in quanto questi sono enti, oltreché
della essociazione par- ticolare, anche in pari tempo della totale.
Il che fa sì che la Giustizia propria dei Poteri su- bordinati, col
progredire della Società, va sempre più av- vicinandosi a ciò che
chiamammo sopra V arbitrato, E che rispteade massimamente in quello
paterno del buon padre di famiglia. Spieghiamoci meglio.
Nelle popolazioni selvaggie l’individuo è vindice di se stesso, o dei propri voleri,
al di sopra dei quali non è costituito ancora, per la imperfezione della
associazione in cui vive, nessun potere giudicatore. E vindice dei propri
voleri, anche se violatori della libertà dell’altro. La costituzione di.
un Potere superiore . nelle Società progredite, che si assume la vendetta
delle violazioni della libertà individuale, togliendo la esecutività co-attiva al
*volere dell' individuo sopra l’altro*, assicura la libertà di ambi. Tanto
la cosa è cosi che, se per poco vien meno questo Potere superiore, torna
subito all' individuo la ne- cessità e quindi il Diritto della propria
vendetta. Come nel caso che una persona appartenente ad una società civile
si trovasse fra una popolazione selvaggia, o sopra una nave in alto mare e
quindi fuori della portata del Potere vendicatore, o assalito senza
scampo immediato da malfattori, o in un momento di anarchia dello Stato
in cui vive. Nel primo embrione di Società, in quello mettiamo di
una famiglia isolg-ta dal resto degli uomini, le contese tra i fratelli
le giudica e le vendica il padre, che ne è il capo naturale. E la sua
vendetta è illimitata e senza responsabilità verso nessuno.
Nessuno per ciò gli impedisce o gli contende il Di- ritto anche
sulla vita dei figli e della moglie. Non così però, coordinate che
siano le famiglie sotto un Potere superiore nella città che le abbraccia
in una società sola. In questa città il Potere superiore tende a
limitare il Potere del padre al puro necessario per l'esi- stenza, il ben
essere, la prosperità della famiglia come tale; e veglia a che il padre
non eserciti verso i suoi dipendenti altro Potere che questo, che però in
pari tempo concorre ad assicurare: e vendica su di lui ogni eccesso
od abuso del potere. E da ciò consegue naturalmente, che se ne restringa
sempre più la esecutività, e che si converta in semplice arbitrato ; nel
quale può soprattutto, e da sé sola, per la propria impulsività morale,
la Idealità sociale, nella quale consiste la Legge, nel cui nome l'arbitrato
si esercita. Ed ecco quindi l’effetto naturale del progresso della
evoluzione sociale: salvare e garantire sempre più le autonomie
naturali. Stabilire sempre più distintamente il compito dei Po- teri
subordinanti; e impedirne gli eccessi e gli abusi. Rendere quindi
con ciò più evidenti le Idealità s(h ciali, e rafforzarne la impulsività,
e ridurle alla condi- zione di Poteri efficaci senza uso di violenza e
quali sem- plici arbitrati. Come più volte, e per varie g^ise,
dedu- cemmo sopra. Il quale eflFetto, che il Potere si converta
in semplice arbitrato, lo riscontrammo anche nello stesso Potere,
solo provvisoriamente supremo, di un singolo Stato. Solo
provvisoriamente supremo. Perchè notammo, che lo Stato tende a
coordinarsi naturalmente nei colle- gamenti intemazionali di più
Stati. E per la stessa legge; mentre dimostrammo, che il
Potere di uno Stato va sempre perdendo del violento, e avvicinandosi alla
natura puramente persuasiva della Idea- lità, che si impone da sé, in
conseguenza di una forza estema e superiore ad esso; cioè del potere
inter-nazionale, tendente ad impedire gli atti di lesa umanità nei
singoli Stati intemazionalmente collegati o altrimenti, e il loro
Machiavellismo. Come emerge poi luminosamente anche dalla
storia politico-sociale contemporanea. Un saggio storico
eloquentissimo di un Po- tere superiore convertitosi in semplice
arbitrato si ha nel fatto della Chiesa Romana, e in seguito all'
abolizione di ciò che in essa si chiamava il braccio secolare.
Si verificò in questa conversione, per questo lato, r Ideale della
Società umana, sopra da noi chiamato anche il regno (razionale) della Giustizia
sottentrante a quello irrazionale del fato; ossia il regno del concorso
libero o autonomico delle parti costituenti ; e non eteronomico(\)y
ossia p>er violenza materiale esercitata sopra di esse da una forza,
non morale, ma bruta. E questo arbitrato sociale non è poi altro in
fine se non lo stesso arbitrato della volontà dell' indi- viduo sopra se
stesso, onde emana, come più volte di- cemmo. Ne emana, e
quindi ne ha in sé le ragioni costitu- tive. Nel medesimo tempo però, per
le ragioni già ripe- tute, lo stesso arbitrio individuale non finisce di
diven- tare ciò che deve essere (vale a dire una forza che muove
per la impulsività pura delle Idealità sociali), se non a misura che,
idealizzandosi nel modo anzidetto, si perfe- Circa r Autonomia e la Eteronomia,
vedi la Morale dei Po- siiivisti, Lib. I, Parte II, Capo IV (Pag. 113 del
volume III di queste Opere filosofiche nella ediz. del 1885, 118 della ed.
del 1883 e del 1901, e 122 della previa edizione). seziona il
Potere sociale al quale V individuo è subordi- nato. Onde poi
lo studio dell' arbitrio sociale subordinante serve indirettamente a far
conoscere la natura dell'arbi- trio deir individuo umano. E
siccome lo studio da noi qui fatto dell' arbitrio sociale subordinante ci
ha condotto al concetto di una Legge© che si impone colla sola evidenza
della propria Giustizia, con ciò abbiamo una nuova prova della
nostra dottrina (esposta nella Morale dei Positivisti). L'idealità
sociale impulsiva del volere individuale è una Giustizia. Ed
ora poi dalle cose dette possiamo ricavare la conseguenza, alla quale
mirava tutto il lungo discorso fin qui fatto sopra la distinzione e la
genesi della Convenienza e della Giustizia. L' Idealità sociale è la
stessa Legge che si stabilisce nella Società. E la Legge è la Giustizia
in quanto im- porta una Responsabilità dei subordinati verso il
Potere. L' idealità sociale (impulsiva della volontà dell'
indi- viduo, com' è dimostrato nella Morale dei Positivisti) si
viene formando nella psiche dell' individuo convivente nella Società per
effetto di questa convivenza. Per ciò di- ciamo che r Idealità sociale è
infine nuli' altro che l'm- pronta, nella psiche singola di un dato uomo,
della Legge o del Volere sociale subordinante. Nello stesso luogo
indicato nella nota precedente. Da ciò consegne poi che l’Idealità
sociale nella psi- che o nella mente dell' uomo, in cui si è formata
nel modo ora detto, non si presenta come una semplice ve- rità
logica, dipendente da una propria speculazione teo- rica, ma si come
qualche cosa che si impone; cioè come una Legge che la domina da una
altezza superiore, e ac^ compagnata dalla minaccia di una Sanzione
vendicatrice ; ossia, non come una semplice idealità qualunque, ma
come una Giustizia. Ed ecco scoperto il nostro gran difficile.
La Giustizia non può essere che la legge del potere subordinante: e
tuttavia la Idealità sociale, impul- siva del volere dell' individuo e
nascente in lui per la evoluzione intima e propria della sua psiche, è
pure una Giustizia. I due asserti parevano contradditorj ; e
invece sono veri ambedue, accordandosi tra di loro e spiegandosi a
vicenda. Si spiegano a vicenda. Da una parte, non è possibile
il fatto della Legge del Potere subordinante senza il lavoro psichico dei
di- versi individui che compongono la Società. Dall' altra,
le stesse attitudini dell' individuo sono però massimamente gridate nel
loro funzionamento natu- rale dall' ordine delle cose della Società in
cui vive. E quindi le Idealità sociali dell' individuo devono
assumere nella sua mente la forma della Legge subordinante che
domina nella Società che lo involge : devono essere nella sua mente come
1' eco o la soggettivazione o il pensiero del fatto oggettivo reale
dell'ambiente che determina il suo lavoro intimo. Il valore
scientifico della detta soluzione della difficoltà propostaci è tanto
maggiore in quanto V indu- zione sociologica qui conferma pienamente V
induzione psicologica, che nella Morale dei Positivisti ci portò
alla medesima conclusione. Alla conclusione cioè, che la
morale individuale è es-- senzialmente dipendente dalla morale sociale ;
e che VE- tica è un ramo della Politica, come diceva Aristotile,
ossia della Sociologia, come si dice adesso. E che il principio dei
Metafisici, che sia l'Etica che crei la Sociologia (e non il contrario),
è falso. Falso, come, in ogni altro ramo della scienza, il
cre- dere che il fatto complesso della natura sia determinato
direttamente dalle azioni indipendenti dei singoli compo- nenti, e non
che V azione di ogni componente sia essa stessa determinata dal suo
rapporto col resto della na- tura ; come ho spiegato nel libro della
Formazione natila rale nel fatto del sistema solare (i), dove dimostrai
che la legge di una formazione naturale qualunque è questa : che un
fatto singolo è il punto nel quale si intersecano le due linee infinite
dello Spazio (o delle cose tutte quante esistenti) e del Tempo (o delle azioni
tutte quante succedutesi). E godo adesso di avere illustrato quella
legge gene- rale col rilevarne la verifica anche n^Wz. formazione
etica. La quale ha questo carattere, di apparire nella co-
scienza individua siccome una Giustizia. E la Giustizia implica un
ambiente esterno alla coscienza stessa, dal quale sia determinata. Del
quale principio poi (e gioverà notarlo qui ancora, quantunque, la cosa, V
abbiamo accennata altre volte precedentemente) è prova positiva diretta
il fatto storico (superiore a qualunque eccezione, e accertabile
nel modo più evidente) che nmt non fu possìòtle di ira- vare in una
coscienza individuale una Idealità elica, ossia un principio di
Giuslizia, di formazione inconsapevole, £he non corrispondesse al fatto
della Legge sociale real- mente riabilitasi neir amòiente nel quale la
coscienza stessa fu educata. Proprio come sopra nessuna bocca
d'uomo parlante fu mai possibile una parola inconsapevolmente appresa, che a
lui non abbia insegnato la So- cietà dei parlanti fra i quali
crebbe. E come in tutte le cose le diversità degli ambienti creano
le varietà e le specie delle individualità dipen* denti, cosi le Varietà
e le Specie eliche fra gli uomini sono create storicamente dagli ambienti
sociali vari e di- versi, ai quali essi appartengono; e per quella
stessa leg^ge dell’ordine e del Caso, che in ogni parte della na-
tura si verifica nella produzione delle Varietà e delle Specie delle
cose, come dimostrai nel libro testé citato. Che più? La stessa teoria dei
metafisicici for- nisce un argomento in appoggio della nostra.
Anche il Metafisico ha trovato nella coscienza umana Una serie di
Idealità, direttive del volere, con questo ca- rattere della Giustizia o
della Obbligatorietà; e ha argo- mentato che, per ciò stesso, ossia per
tale carattere della obbligatorietà, era giocoforza ricorrere a
qualchecosa di esterno alla coscienza medesima, onde quelle Idealità
le fossero dettate, e di fronte ad essa sancite. Se non che
il Metafisico non si è apposto nella de- terminazione giusta di questo
esterno. Ossia il suo esterno non è quello distinto e vero del
Positivista, che è quanto dire V ambiente sociale ; ma T indistinto, anzi
il confuso della speculazione volgare antiscientifica, ossia dio. Non
si è apposto qui il Metafisico, come non si è apposto neir assegnare T
esterno onde dipende la produ- zione della pianta e dell' animale, che il
Positivista ha trovato essere la stessa natura (i) e il Metafisico ha
cre- duto fosse il volere diretto della divinità. L' Idealità etica
è una Legjge obbligante, ossia una Giustizia. Dunque, ha detto il
Metafisico, tale Idealità è prima una realtà fuori dell' uomo, ossia è un
pensiero di dio. E da esso è dettata in modo misterioso all' uomo. Vale
a dire lo stesso pensiero divino di quella Idealità è riflettuto nella
mente umana, come in uno specchio il raggio di luce che lo illumini da un
corpo per sé luminoso. L' Idealità etica è una Legge obbligante. E non
lo sarebbe realmente se non importasse una Sanzione. Dun- que, ha
detto il Metafisico, lo stesso dio ha decretato quella sanzione e la
applica in un modo misterioso. Un castigo misterioso è preparato in una
vita misteriosa av- venire a quelli che trasgrediscono la Legge
stessa. Non sarà inutile qui di avvertire che, pel significato dì
questa parola natura, mi riferisco alla spiegazione che ne do negli
'altri miei libri, e specialmente in quello della Formazione naturale
nel fatto del Sistema solare : e per la quale intendo solamente le
proprietà inerenti alle stesse cose. Sicché è ridicola affatto V
osservazione di certi miei accusatori superficialissimi^ che io con
questa parola non faccia altro che sostituire al soprannaturale, chiamato
dio dai metafisici, un* altro soprannaturale chiamato natura. Dal che si
rileva, che la Metafisica ha notato giu- stamente la relatività della
Giustizia data nella coscienza verso una esteriorità che renda ragione
delle qualità ca- ratteristiche della Giustizia medesima quali la
osserva- zione le riscontra nel fatto della coscienza stessa. Solo
ha sbagliato nel projettare questo fatto. Ha sbagliato la Metafisica nel
projettare V individuo cosciente sul fondo della esteriorità immaginaria
e fallace della divinità^ an- ziché su quello della esteriorità positiva
e vera della Società, Ha sbagliato qui la Metafisica, come
negli altri campi dello scibile la scienza vecchia in genere. Per
esempio, V astronomia tolemmaica, che aveva ragione nel distinguere i
fatti dei movimenti dei corpi celesti, ma errò nella loro projezione.
Proiettandoli essa secondo la ragione del suo falso supposto che la Terra
fosse immo- bile, le osservazioni vere condussero ad un disegno
falso del movimento cosmico reale. Per render vero questo di- segno
r astronomia copernicana non ha avuto bisogno di altro che di projettare
le figure medesime del movimento sidereo, notate dai tolemmaici, secondo
una ragione pro- spettica diversa; cioè secondo la ragione della
immobi- lità del Sole, e della mobilità della Terra intorno ad
esso. E così qui possiamo riconfermare il nostro asserto per ciò che
dicemmo in un capitolo della Morale dei Positivisti (i), dove accennammo
alla genesi storica della (i) Capo VII della Parte I del Libro I, n. 8
(Pag. 70 del Voi. Ili di queste Opere filosofiche nella ediz. del 1885,
72 dell' ed. del 1893 e del 1901, e 75 dell'ediz. del 1908).
stessa Idea della Giustizia divina nel terzo stadio della evoluzione del
sentimento religioso. L’Idealità sociale è gia Giustizia potenziale. La
Giustizia adunque, secondo le cose dette, ha due lati essenziali
correlativi V uno air altro ; correla- tivi come r individuo e la Società. Due
lati: dalla parte della Società, ossia come un fatto verificatosi
persistentemente nel Potere che la eser- cita sugli individui dipendenti
: e per questo rispetto spe- cialmente si chiama Giustizia. E dalla parte
dell* indi- viduo nel quale è, non qualchecosa di statico, come nel
Potere, ma una potenzialità, ossia qualche cosa di dinamico: e per questo
rispetto specialmente si chiama Idea- lità sociale. Capitale
questo carattere della Giustizia o dell'Idea- lità sociale dell'
individuo. E positivamente certo : poiché corrisponde alla osservazione
del fatto. E che non si può spiegare se non per le vie onde qui lo
scoprimmo. E senza del quale poi è impossibile chiarire le diverse
forme delle reazioni sociali, e quindi delle responsabilità corrispondenti al
principj etici dominanti nella coscienza individuale. E in che consiste
questa ragione dinamica o questa Potenzialità? Ossia in che modo la
Giustizia nella co- scienza individuale è una Giustizia potenziale?
Nell’individuo non può esistere distintamente in un determinato modo il
concetto della Giustizia so- ciale obbligante, e correlativa ad una
Sanzione, se non per effetto sull'individuo stesso della vita sociale
com- plessiva, della quale esso faccia parte. Questo si: ma è pur
vero che, come la Società è V opera degli individui che r hanno
costituita, cosi la Giustizia che vi domina si deve in ultimo alle loro
disposizioni psicologico-morali, che ne sono la potenzialità inconsapevole.
Secondo. Una volta che la Giustizia sociale è dive- nuta, pel
processo naturale inconsapevole della forma- zione della Società, un
fatto statico atto ad informare di sé la coscienza dell' individuo
vivente sotto il suo re- gfime, questa coscienza concorre a mantenerla
nell'essere suo. E ciò più o meno consapevolmente. Così, per
esempio, il maestro di musica di una data epoca è in possesso della
sua arte perchè questa vi si era naturalmente maturata ; e cosi potè
essere da lui appresa nella forma che vi aveva. Egli poi serve in pari
tempo a mantenerne la tradizione. La applicazione della Sanzione sociale
in virtù della detta consapevolezza viene ad essere reclamata dallo
stesso pensiero della Giustizia vivente nella coscienza in- dividuale. E
quindi la detta applicazione è una soddis- fazione della stessa coscienza
individuale. E tanto, che la Sanzione medesima essendo applicata, mentre
soddisfa il reclamo della coscienza individuale, nello stesso tempo
la rafferma e la rende più viva e sentita, come osser- vammo nella Morale
dei Positivisti (Libro II, Parte IV, Capo II, n. 17 (pag. 400 e seg. del
Voi. Ili di queste Opere filosofiche nella ediz. del 1885, 423 dell'
ed. del 1893 e del 1901, e 433 delPediz. del 1908). La coscienza
individuale diventa per tal modo giudice in primo appello, o potenziale,
dei fatti e degli ordinamenti della Socteià complessiva. E giudice
delle parti coordinate nella Società^ Settimo, E giudice di se
stessa. Ed ecco, in questa ultima cerchia, la Giustizia sociale divenuta
Giustizia etica. La Giustizia sociale cosi nell'individuo lo
rende un giudice potenziale verso tre termini: la Società stessa,
le altre parti coordinate (ossia ciò che anche si dice, il prossimo), e
se stesso. Come giudice potenziale verso la Società coopera
nella produzione del Potere e nella riduzione di esso alla sua forma
giusta. Come giudice potenziale verso il prossimo si atteggia
nella reazione che dicemmo della Convenienza. Come giudice
potenziale verso se stesso si manifesta nel fatto intimo del rimorso per
la colpa e della compiacenza morale per la virtù, Resta che si
considerino un poco queste tre specie di giudizi del tribunale
individuale della coscienza di ciascun uomo, E, per ora, la
prima e la seconda. E cominciando dalla prima, ossia del giudizio
del- l' individuo verso il Potere sovrastante. Nello sviluppo
normale della vita sociale la ragione della Autorità subordinante e la
sua fissazione in un Potere effettivamente affidato ad un dato ordine
di persone va producendosi di continuo inconsciamente (quan- tunque
in modo inegualissimo dall' uno all' altro) nella psiche dei singoli
individui. E perciò fu da noi detta sopra, non statica, ma
dinamica. Vi si va producendo di continuo secondo che la com-
partecipazione precedente degli individui stessi li ha messi in grado di
procedere, dalla formazione psichica acquistata inconsciamente nella
matrice sociale educativa, ad una formazione ulteriore. E con
un lavoro, che si svolge si nei singoli indi- vidui, ma nello stesso
tempo, per la comunanza della vita morale, si aiuta nel formarsi del
lavoro simultaneo degli altri. Inegualissimamente, abbiamo
detto, nei singoli indi- vidui. Ma colla consapevolezza del consentimento
nella formazione stessa della massa sociale. In modo che la
formazione medesima, quantunque inegualissima nei singoli, determina una
tendenza com- plessiva, che ha la potenza unica e grande
corrispondente alla somma delle individuali. Potenza che si
attesta con un effetto proporzionato: cioè colla creazione del Potere
sociale, che rappresenta quella Idealità sociale onde è l’effetto (come
già di- cemmo), o col perfezionamento del Potere già esistente, in
corrispondenza col perfezionamento delle stesse Idea- lità sociali.
Per tal modo il Potere, come è una manifestazione spontanea della
vita sociale, nella quale concorrono i sin- goli individui
inconsciamente, e prorompe quindi da tale inconscio concorso
irresistibilmente, cioè pel processo in- vincibile della natura, e
diventa coscienza dell'individuo solo dopo che si è manifestato nella
realtà sociale pròdotta dal processo medesimo, così è potenzialmente
prima neir individuo. Ne viene, che V individuo stesso, una
volta che ha potuto cosi accorgersi dell' Idealità sociale produttrice
del Potere sociale (accorgersene cioè dopo la sua manifesta- zione
comune in esso operatasi), s' accorge insieme di due cose. Che cioè la
detta Idealità ha all' estemo per suo corrispondente il Potere stabilito
nella Società, ed è nata dentro di sé: e che vi è nata col carattere di
una Giu- stizia ; vale a dire con quel carattere col quale
apparisce all' individuo quando arriva ad averne la coscienza. E
tanto, che l' individuo sfesso per tale Idealità concepita come Giustizia
giudica lo stesso fatto esterno del Potere : ossia rileva come
corrisponde o meno al principio di Giustizia della propria coscienza, e
pone astrattamente una Responsabilità dello stesso Potere verso esso
principio. Ed è ciò precisamente che notammo sopra, parlando del
Machiavellismo polìtico nel suo riguardo all' in- terno, e del fenomeno
storico del concetto della Giustizia divina. Il che poi spiega un
altro fatto della evo- luzione sociale. Quello cioè che, a misura che una
Società progredisce nella cultura e nella umanità, diminuisce ciò
che si dice il Diritto del più forte, é cresce ciò che si dice il Diritto
dell' uomo, e l’ordinamento sociale va sempre più diventando
elettivo. Che è mai il Diritto dell' uomo, che si attesta di
fronte al Diritto del Potere subordinante, se non la sud- detta coscienza
individuale della Idealità sociale, onde il potere medesimo nasce e vige ?
Si: è proprio la suddetta coscienza individuale, che ne è il giudice
potenziale, po- nendolo, fissandone i confini, e creandone la
responsabi- lità in modo . astratto verso se stessa. Questo
Diritto, la coscienza lo trova in sé, in seguito al fenomeno sociale
corrispondente verificatosi; a quel modo che la coscienza dell'arbitrio
sopra le proprie gambe si ha solo dopo che si è fatto Tuso volontario
delle gambe medesime. E l’arbitrio la causa onde si muovono le gambe
; ma solo r effetto seguito del movimento rende avvertita la
coscienza di tal suo potere. E ciò è proprio di ogni genere di coscienza.
Per esempio, dell' arte. Che sa dell'arte l'uomo prima di avere prodotto
un' opera d' arte? U opera riuscita inconsciamente estetica gli rivela il suo
potere estetico. E dair opera medesima che 1' uomo ricava la coscienza e
la regola dell' arte in genere e la mossa a progredire nel
correggere e migliorare la precedente, e a giudicarne. E di mano in mano
che la coscienza della Idealità sociale va facendosi nella generalità
distinta e forte e impulsiva in proporzione dell* atto umano, anche la
creazione del potere si sottrae al caso della forza brutale e si fa
dipendente dalle deliberazioni dirette degli indi- vidui associati :
tanto più razionali e libere dalla violenza, quanto più la massa degli
individui stessi è umanizzata. Onde, se la selezione naturale è la legge
secondo la quale negli organismi in genere si crea il loro apparec-
chio centralizzatore, nell'organismo sociale, per la crea- zione del
Potere, che è il suo apparecchio centralizzatore. ■"TW^W^^PP^la
selezione naturale si specifica nella forma superiore della
ciezìofie, E anche in ciò toma il principio già ricordato del
procedimento progressivo della Società nel suo sviluppo: cioè del regno
della Giustizia razionale, che si va sempre più sostituendo a quello del
fato: analogo al procedi- mento generico della natura, che neir uomo
tanto più è diventata psiche quanto più ha cessato di essere cosa
meramente _^ica. Tutto ciò nel processo sociale di evoluzione normale. E
nell'anormale? Xeir anormale si genera un movimento periferico
contrastante la funzionalità centrale, che non armonizza colle Idealità
sociali già formate negli individui sotto- posti. Un movimento
contrastante che può andare fino alla distruzione della funzionalità
esistente, e quindi alla sostituzione di un'altra che armonizzi colle
dette Idealità, ossia colla Giustizia potenziale degli individui
medesimi. E questo il processo della rivoluzione. Succede in questa
un fatto analogo a quello fisiolo- gico della passione, nella quale una
eccitazione insolita invadente le parti subordinate dell' organismo
sopraffa i centri, sostituendo quindi il proprio impulso a quello
normale dell'apparato volitivo libero. E tale processo anormale della
rivoluzione, nel fondo, è quello stesso normale detto sopra della
evoluzione. Poi- ché anche in questo il Governo sociale è determinato
dal consenso delle parti subordinate. La differenza sta solo in
ciò, che nel processo normale della evoluzione il centro si presta,
cedendo, ad atteggiarsi secondo le esigenze della Giustizia potenziale; e
nell'anormale della rivohi- none no. In una parola, le forze che agiscono
sono le stesse, e gli eflFetti diversi dipendono dalla diversità
dei rapporti delle forze medesime. La rivoluzione sociale propriamente
detta dunque suppone una condizione avanzata di cultura mo- rale dei
membri della Società. Più è questa cultura morale e più è irresistibile
la forza rivoluzionaria. Ma più questa forza è irresistibile e più
la sua anione è moderata e procede per moto evolutivo anziché
sovversivo- In modo che, nel massimo della cultura, e quindi della
irresistibilità, e conseguentemente della modera- zione, il moto
rivoluzionario coincide con quello normale progressivamente riformante
detto sopra. Q, — Perchè non si incorra in un equivoco circa il
principio sopra stabilito, bisogna ricordare qui esatta- mente il
concetto da noi posto a fondamento di tutto il nostro discorso; ossia
quello della Giustizia potenziale, che infine è la stessa Idealfià sociale
an^iegoùHca; la quale nella umanità perfezionata è impulsiva
irresistibil- mente della volontà individuale. Onde r individuo
rivoluzionario per eccellenza è, non Tuomo di poca levatura, nel quale la
mente e il volere si acconciano a ciò che impera esternamente» trovando
tutto buono; ma il Sapiente, quale fu da noi definito nella Morale dei
positivisti (i). (D Libro I, Parte li. Capo IV, w. 17 (^ag^ lay del Voi.
Ili di queste Ofté re filosofiche nella ed, dei iS85, 132 dell* ed* del
J&93 e deJ 1901, e 136 dell" ed. del 1908). ^m - 64
- Il sapiente, come ivi dicemmo, è quello nella co- scienza del
quale le Idealità sociali antiegoistiche si sono espresse colla massima
evidenza, e acquistarono la mas- sima impulsività sul volere. Onde è ciò
che si dice un carattere. Esso è per questo nella impossibilità di
patteg- giare cogli ordinamenti riprovati dalla potenzialità della
Giustizia imperante nella sua coscienza : anche se il patteg- giare gli
porti soddisfazioni egoistiche. Ed è anche nella impossibilità di non
isforzarsi secondo la potenzialità me- desima ; anche se il farlo gli
porti danni personali. Questi egli li incontra senza impensierirsene e
tranquillamente come Cristo e Socrate, e tutti i cosi detti martiri delle
idee. Sublimemente questo fatto nel cristianesimo primi- tivo è
stato espresso nel principio, che òisogna ubbidire prima a dio poi agli
tcomini, E il principio, come è chiaro dopo le cose dette, è in tutto
vero, quando alla espressione dio, che indica indistintamente una
realtà giusta, si sostituisca quella di Giustizia potenziale, che
indica distintamente la realtà stessa. E discende poi da ultimo dalle cose
dette anche la conseguenza, essere la teoria della rivoluzione del
positivismo diametralmente opposta alla vecchia della Metafisica,
espressa soprattutto oella dottrina del contratto sociale di Spinoza e di
Rousseau. Il contratto sociale è falso per la storia naturale della
umanità. Per la storia naturale dell' umanità è vera invece un'
altra legge : la legge della naturalità della società umana, formantesi
spontaneamente, e inconsci gli indi- vidui subordinativi. Nella
dottrina di Spinoza e di Rousseau il moto rivoluzionario è determinato dall'
individuo che si pone come un assoluto ; e quindi è affatto egoistico ; e
quindi tende a disfare la Società. Nella dottrina positivistica invece il
moto rivoluzionario è determinato dall'individuo siccome ordinato naturalmente
alla Società; ossia è determinato dall’idealità che vi hanno relazione. E
quindi è essenzialmente ant-iegoistico o altruistico – l’amore
dell’altro, la benevolenza, la beneficenza : e conseguentemente tende, non a
disfare la diada sociale, rna a migliorarla. Consideriamo ora il
giudizio del tribunale indi- viduale della coscienza di ciascun uomo verso
le parti coordinate nella Società, ossia verso di ciò che si chiama il
prossimo. Nel che tocchiamo di un argomento di importanza principalissima tanto
dal lato sociologico quanto dal lato morale propriamente detto. E
la nostra considerazione, cominciando in questi due ultimi paragrafi del
primo Capo del libro, sarà prò- segpiita nel seguente. La Idealità
sociale è una formazione naturale della psiche individuale umana: e tale
Idealità è impulsiva del volere : e per esso gli atti liberi dell' uomo sono
antiegoi- stici e quindi morali. E (come indicammo anche qui nei
paragrafi precedenti) la Idealità sociale agisce sopra il volere
dell'uomo presentandosegli nella forma della Giustizia; vale adire
come qualchecosa che ha rapporto con una Sanzione: ossia è una legge che
importa la Responsabilità del volere verso di essa. La Giustizia
onde è dettata e autorizzata Téizione del volere ne costituisce il
Diritto, La Giustizia che importa verso di se la Responsabi- lità
del volere ne costituisce il Dovere a). Ed ecco in che modo la Idealità
sociale, che è una formazione naturale spontanea dell* individuo, è in
pari tempo, e un concetto mentale, e un motivo pratico (ossia una
forza che determina T atto volontario), e una Giusti- zia, e una Legge, e
un diritto, e un dovere. L' essere umano, unico o collettivo, in
quanto r azione ne è determinata dalla Giustizia, è una Persona, Il
genere poi della Personalità varia secondo il genere del rapporto creato
dalla Giustizia medesima. Considerando qui il rapporto di subordinare
nell'or- ganismo sociale, si ha la Personalità del Potere. Consi-
derando il rapporto di esservi subordinato, si ha la personalità della parte
sociale sottoposta che, in ultimo, è r individuo. Pel potere la
Giustizia è la stessa Legge dello Stato. Per r individuo è la stessa
Idealità sociale che in lui si forma e che chiamammo Giustizia
potenziale. In virtù della Legge il Potere costringe il subordi-
(i) Vedi la Morale dei Positivisti ; per es. Libro I, Parte II, Capo IV, n.
15 e 16 (Pag. 125 del Voi. Ili di queste Opere filosofiche nella ediz.
del 1885, 131, 132 dell* ediz. del 1893 e del 1901 e pag. 135» 136 nella
ediz. del 1908). - nato alla osservanza della Idealità sociale. E quindi
il Potere ha un Diritto sul subordinato, e il subordinato ha un
Dovere verso il Potere. E il Diritto del Potere qui è positivo. Ma
in virtù della Giustizia potenziale anche il subordinato ha una azione sopra lo
stesso potere. E per tale rispetto quindi il potere ha un *dovere* verso il
subordinato; e questo ha un *diritto* verso il Potere. E il *diritto* del
subordinato qui è *naturale*. Ed ecco il concetto vero del diritto
naturale, creatore e gfiudice del positivo e vendicatore sopra lo stesso potere
delle ragioni del subordinato. E cosi, per asserire lo stesso diritto
naturale, non occorre punto uscire dall’uomo, e riferirsi ad una divinità
e ad una Legge da essa emanata. Questo diritto naturale appartiene
all'essere umano, malgrado che in esso non possa formarsi al di
fuori della Società e senza che V Idealità sociale della psiche
singola siasi prima convertita nella Legge positiva del Potere. Essendo
poi il Diritto positivo lo stesso fatto del Potere che si è costituito
efifettivamente in una data Società, con ciò si spiega come possa essere
più o meno in contraddizione col Diritto naturale, preso siccome la
Giustizia potenziale astratta, desunta dallo studio compa- rativo dei
fatti sociali, e rappresentante quindi un ideale, che solo
imperfettamente si trovi realizzato nelle singole formazioni storiche
della Società umana. Ed essendo il Diritto positivo stesso una
formazione naturale della totalità sociale, che diventa qual' è col
pas- sare dall' indistinto al distinto (per la legge comune ad ogni
formazione naturale), cosi si spiega come, prima di essere un codice
scritto, è stato una consuetudine sorta per inconscia spontaneità; e come
la stessa consuetudine, che seguita a sorgere pure per inconscia spontaneità
an- che dopo la fissazione del codice, possa a poco a poco avere
prevalenza, come diritto, sopra la legge positiva. Il Diritto naturale,
oltre comprendere la ragione, imperante nel subordinato, di creatore, giudice
e vindice verso il Potere sovrastante, ne ha in sé anche un'
altra. Vale a dire ha in sé anche la ragione di ciò che de-
signammo sopra col nome di Convenienza, che riguarda i rapporti dei
subordinati tra di loro, e non ha esecuti- vità propriamente detta. Ora
é da dire di questa più chiaramente e precisela mente, se e come sia o no
una Giustizia, e quindi appar- tenga alla Moralità; poiché la Moralità
non si può con- cepirla se non con una Sanzione e con una Responsabilità;
e quindi in ordine ad una Legge sovrastante: cioè come una
Giustizia. Domanderemo e risponderemo di nuovo: Quale é l’ufficio
del Potere? L'ufficio del Potere è triplice. Dì stabìlii-si aella Società
a spese delle sue partì. Secondo. Di difendere l’autonomia di
ciascheduna dalla violenza delle altre. Dì dispensare nell'effetto
del mij^Uoramenta delle parti quella forza coniane dell* ambiente
sociale che opera per esso Potere. In tutte e tre le suddette forme del
suo ufficio il Potere esercita sulle parti un Diritto, come abbiamo
detto. E la ragione della azione del Potere è quindi una Giustizia, ossia
è col legata ad una Sanzione, E ciò perchè esiste una Responsabilità per
parte dei subordinati verso di essa azione, se mai violassero gli ordini
stabiliti. E il Diritto medesimo lo dicemmo un Diritto positivo. Ma
questo Diritto positivo dimostrammo sopra di- pendere in ultima analisi
dal Diritto potenziale o dalle Idealità mentali degli individui» Onde, in
ultima analisi, potenzialmente la Giustizia non è altro che le stesse
Idea- lità mentali. La Giustizia dunque si estende quanto la
potenzialità della Idealità sociale, formantesi nella psiche singola
dell’uomo per la sua partecipazione alla vita comune della Società; nella
quale si cova, per cosi dire, il germe in- dividuale, si che si maturi in
lui la disposkione naturale al civile coasorzio. Maturazione questa che
importa tutte tre le forme suddette dell' ufficio del Potere, se non che il
Potere stesso non è tutto l’effetto di tale maturazione; ma solo una parte*
Quella cioè, che si potrebbe chiamare V effetto più disHnéù. Oltre
sififatta parte ne resta un'altra; e più estesa ancora: ed è quella che
non si matura nel fatto di un Potere legale, ma rimane neW indistinto di
ciò che chia- miamo la Convenienza. E la Convenienza la diciamo un
indistinto appunto per- chè il Potere non è altro che un distinto che si
forma poste- riormente da essa per una elaborazione più compiuta.
Ne /iene che, se il Potere è il Diritto distinto, e quindi la sua
ragione una Giustizia distinta, (e cosi la Sanzione e la Responsabilità)
la Convenienza è invece un Diritto indistinto, e quindi anche una Giustizia
indistinta. Una Giustizia indistinta si, ma pur sempre una
Giustizia. Ed ecco come il concetto della Giustizia, e quindi della
Legge morale (col suo rapporto ad una San- zione e con una
Responsabilità) si allarga oltre la sfera delle prescrizioni del codice
pubblico e si estende a tutte le relazioni libere tra individuo e
individuo. E come questa Legge morale extralegale sia anch'essa
puramente una formazione naturale della psiche dell'uomo civile. E
quindi non occorra per ispiegarla ricorrere al sogno della Legge eterna
della divinità. E il farlo sia un errore ana- logo a quello della vecchia
astronomia che, il moto della Luna intorno alla Terra, lo spiegava col comando
dato alla Luna da dio di girare cosi intorno alla Terra, e non per
via della stessa naturale evoluzione cosmica; e, la virtù dell'a-
cido di intaccare il metallo, lo spiegava colla proprietà in- taccatrice
capricciosamente concessa da dio all'acido, e non per via della stessa
disposizione intima degli atomi compo- nenti la molecola dell'acido e del
metallo, onde dipende na- turalmente ossia necessariamente, il fatto
chimico suddetto. La Giustizia legale (seconda forma dell' ufficio del
Po- tere) è una gradazione evolutiva superiore di un in- distinto
inferiore da cui emerge. Ma la cosa ha bisogno di essere dilucidata
meglio e con esempj più concreti. K per ordine. Cioè secondo le tre
forme dette sopra deir ufficio del Potere. E comincieremo dalla
seconda, di difendere l’autonomia di ciascheduna parte della Società dalla violenza
delle altre. La difesa dell' individuo subordinato, assunta dal
Potere, importa che questo lo guardi dalle ofifese degli altri, e faccia
che V ofifensore risarcisca T ofifeso ; e che gli arbitrj singoli nella
loro attività si equilibrino vicendevolmente in modo che la limitazione
imposta a ciascheduno sia la minima necessaria, la minima indi- spa
usabile ad ottenere la coordinazione giusta nella So- cietà, richiedente
la collaborazione egualmente non im- pedita di tutte le sue parti.
Ma tale difesa, assunta dal Potere, della libertà e del Diritto
individuale non si pud estendere a tutti asso- iuiamente i fatti sociali
verificantisi attorno ad un indi" viduo. Non a tutti, di gran lunga.
Non a tutti, che sono infinitamente molti. Ma solo ad alcuni pochi. A
quei pochi solamente che è strettamente richiesto dalla esi- stenza
del corpo sociale. E la difesa in discorso, circa i detti pochi
fatti, è propria di quella che si chiama la Giustizia legale, o po-
sitiva, o distinta. Quanto poi agli altri infiniti fatti rimanenti ha
luogo il fenomeno sociale della Convenienza, che dicemmo es- sere
pure una Giustizia ; ma non legale, o positiva, o distinta: sibbene potenziale,
o indistinta, o morale. Quella della convenienza è anch' essa una
Giustizia, come la legale. Ma indistinta. E per la ragione che, nel
fondo, V una e r altra sono la cosa medesima, e si differenziano tra
loro solamente come il distinto dall' indistinto. E tanto che,
provenendo nelle formazioni naturali il distinto dall' in- distinto, qui
nella Società la reazione della Giustizia le- gale non è altro infine se
non una forma evolutiva supe- riore della stessa reazione della Convenienza. Anzi
di più. Come l'idealità sociale della psiche umana è sola- mente una
forma evolutiva superiore di un indistinto che si trova già nei bruti,
cosi la Giustizia legale si collega nelle sue gradazioni formative, non
solo con quella della Convenienza propria dell' uomo, ma anche con quella
del semplice talento egoistico osservabile nelle reazioni tra bruto
e bruto. E mettiamo in chiaro la cosa. La reazione tra bruto e
bruto è V effetto di un im- pulso istintivo quasi affatto egoistico. Ma
non del tutto, poiché (come osservai più volte nella Morale dei Positivisti
(i) in certi istinti socievoli dei bruti fa capolino qualche cosa di
antiegoistico. L' istinto egoistico del bruto si continua anche nell’uomo
; nel quale però va emergendo l'impulso antiegoi- stico a misura che si
sviluppano in Fui le formazioni psi- chiche superiori (2) ; in modo che
nell' individuo umano vivente nella Società apparisce la reazione della
convenienza, che è mista di talento egoistico e di ragione an-
tiegoistica. Quindi nella reazione della Convenienza si ha
una forma di passaggio dal talento egoistico del bruto alla ragione
dello schietto antiegoismo della Giustizia legale. E questa è il divenuto
della Convenienza, come la Con- venienza è il divenuto del talento
egoistico del bruto. E in effetto infinite sono le gradazioni della
reazione della Convenienza; da quella che rasenta la brutale del
(i) Per es. Libro I, Parte III. Capo III, n. 6 (Pag. 149 del
Voi. III di queste Op, fil. nella ediz. del 1885, 156 dell' ediz. del
1893 e del 1901 e 161 dell'ediz. del 1908. Ciò è dimostrato in tutto il corso
della Morale dei Positivisti, essendone V assunto fondamentale.
l^WU IP ■ I puro egoismo, a quella che tocca la
più nobile del puro antiegoismo. Infine, se si guarda una
medesima Società nel suo progresso storico dallo stato della barbarie a
quello della civiltà, e se si guardano le diverse condizioni degli
in- dividui di una medesima Società in un dato tempo. Per la legge,
più volte indicata, che nella formazione natu- rale i diversi del
coesistente sono T immagine dei diversi del successivo. E in oltre,
da una parte, nelle Società imperfette il talento egoistico si riscontra
nello stesso Potere, e dal- l' altra, la Convenienza, a misura che si spoglia
dell' e- goismo, si fa più antiegoistica e tende a diventare una
Giustizia legale. E la Giustizia legale da prima è stata sempre e da
per tutto una Convenienza radicatasi neir uso e final- mente stabilitasi
come legalità. §n. Dall'indistinto della Prepotenza
(principio egoistico) nasce il distinto della giustizia (principio anti-egoistico)
che è la risultante dinamica di quella, per rendere evidente la
verità dell'asserto, che la Giustizia emerge, come formazione superiore,
dal ta- lento egoistico precorso, giova vedere come succede il
fatto. Il più forte è prepotente verso il più debole. E la
Prepotenza è precisamente l'espressione del talento egoistico in opposizione colla
ragione antiegoistica, o della Idealità sociale, o della Giustizia. Ne
viene che l’adulto è prepotente col fanciullo, l’uomo colla donna, il
robusto col debole, il ricco col povero. Fra gli uomini sempre si verifica
tale prepotenza, ma in gradazioni infinitamente diverse: da un massimo ad
un minimo. Cioè in ragione inversa dell’idealità anti-egoistica contrastante,
ossia in ragione inversa della civiltà. E ciò, tanto considerando la
successione dei momenti del progresso di incivilimento, quanto
considerando gli elementi più o meno inciviliti di una medesima società. Considerando
gli elementi più o meno inciviliti di una medesima Società, la prepotenza
dell' adulto del ro- busto del maschio del ricco e via discorrendo è
sempre maggiore fra le persone rozze e minore fra le colte. E in
queste per la ragione del maggiore sviluppo delle Idealità sociali
contrastanti. Le Idealità sociali si impon- gono alle persone colte per
la semplice abitudine che ab- biano di concepirle. Ai rozzi possono
imporsi quando, neir atto che essi inveiscono con Prepotenza, esse bale-
nano neir atteggiamento disapprovante e minaccioso di vendetta degli
altri uomini. Cioè, alle persone rozze, nelle quali, le Idealità sociali
non sono ancora una coscienza ben forte e distinta, queste frenano il
talento egoistico nella forma di volere sociale con qualche maniera di
San- zione ; e alle persone colte non occorre la manifestazione
estema vendicatrice, perchè in esse V imperiosità della ragione della
Società è diventata una loro coscienza, che rinasce efficace senza la
espressione materiale esterna del volere sociale. Ed ecco come avviene il
passaggio Del- l' individuo dalla disposizione egoistica del bruto alla
an- tiegoistica dell' uomo civile. Considerando poi i momenti
successivi di formazione di una medesima Società, la Prepotenza degli
individui si vede a poco a poco eliminata dalla formazione contra-
stante del Potere ; il quale, per esempio, ha tolto, in tutto o in parte,
le Prepotenze dell' arbitrio assoluto del padre di famiglia sui figli e
sulla moglie, della schiavitù sotto le diverse sue forme, dei privilegi
dei nobili, della infe- riorità della donna, e via discorrendo.
Quando il Potere non era ancora riuscito a elimi- nare queste
Prepotenze anche la coscienza comune non sentiva distintamente la
ingiustizia loro. Mentre questa ingiustizia vi è divenuta evidentissima
in seguito al fatto della Legge che le ha inibite. Questo fatto ha reso
l'ingiustizia medesima evidente al segno, che nella coscienza di tutti
gli individui della società civile le Prepotenze suddette appariscono
delle vere impossibilità, non solo per gli altri, ma anche pel proprio
volere; cioè, nel vo- lere, formatasi pienamente l' Idealità sociale
antiegoistica corrispondente, questa riusci ad ottenervi una forza assoluta
di impulsività. E con ciò si ha la prova di fatto, e della dottrina
nostra generale circa la Moralità esposta nella Morale dei Positivisti, e
della dottrina qui toccata del divenire della Idealità impulsiva: e della
Giustizia legale distinta dalla Giustizia indistinta della
Convenienza. Ancora, le persone civili sono meno manesche delle
rozze. Onde, come fra queste è facilissima e pronta la vendetta dell'
offesa, così fra quelle- riesce invece e difficilissima e tarda. E
ciò nulla ostante la persona civile ha esigenze infinitamente maggiori e più
sottili verso le altre, e nello stesso tempo assai più raramente offende.
E la cosa parrebbe assurda. E lo è colla teoria vec- chia della ragione
degli atti morali. Ma si spiega chiaris- simamente colla positiva. Il
rozzo reagisce direttamente colle proprie mani, e punisce l’offesa
atrocemente : tuttavia è offeso ad ogni poco. E basta udire, per
convincersene, le ingiurie che due persone rozze si scagliano colla
massima facilità. Dunque T idea dell' utile non è quella che insegna il
contegno dell' uomo. Il rozzo è più religioso del civile; e tuttavia con
ciò non è più rispettoso del Diritto altrui. Dunque 1' idea
religiosa non è la ragione della Giustizia. Immensamente più che nel rozzo
è estesa l'idea del proprio diritto nell' uomo civile, il quale dell'
offesa recatagli si risente nel suo intimo assai più ohe il primo. Ciò
dipende dalla più progredita formazione psichica dell' uomo civile. E questa
dal beneficio più largamente produto della influenza formatrice dell' ambiente
sociale. Il risentirsi poi più forte dell' offesa porta seco una tendenza
più forte a reagire. Ma nell’uomo civile anche la reazione
(quantunque più fortemente disposta) ha il carattere della umanità
più progredita. Quella dell' uomo civile è una reazione non di
egoistica e brutale Prepotenza: cioè non è fatta di propria autorità e di
propria mano. E invece una reazione fatta in nome di qualche cosa che trascende
l'individuo ; vale a dire in nome di una Idealità sociale rico- nosciuta
come tale. In nome insomma di ciò che si chiama la pubblica
opinione. E questa pubblica opinione, diventata la coscienza della
persona civile, che la trae al risentimento; ed è a questa medesima
pubblica opinione che è lasciato l'in- carico della vendetta: in modo che
l’offensore è responsabile deir offesa verso la stessa pubblica opinione
ven- dicatrice, la quale per ciò viene ad essere una Giustizia. E
conseguentemente una Gitistizia viene ad essere pure la coscienza
individuale, che ne segue la morale impulsività. Una Giustizia indistinta, che
precorre e prepara alla distinta o legale. E come? La pubblica
opinione si forma nel cozzo delle parti della Società fra di loro, onde
nascono le diverse Idea- lità sociali relative. Questa pubblica
opinione si annuncia prima vaga- mente nelle parole e negli atti
accidentali degli individui. A poco a poco si stabilisce nei detti e nei
pro- verbi e nelle usanze e consuetudini comuni. Un pò' alla volta
poi crea i suoi rappresentanti di- retti. Da questi quelli del Potere. Ma
con ciò, che il Potere non può assorbirli in sé tutti. Onde, sotto
tale rapporto, il Potere deve considerarsi siccome il vertice di
una piramide, nel quale va a collimare una infinità di piani sempre più
allargantisi di sotto, cioè una serie di associazioni giudicatrici
subordinate. Costante e organica è questa legge della for- mazione
sociale. Da prima è V individuo che si fa giustizia da se
stesso. Nel che però non si ha la Giustizia vera, ma an- cora solo la
Prepotenza. Poi più persone aventi speciali interessi comuni si
associano in modo tacito e anche espresso in vista di essi; e nella
associazione si va costituendo naturalmente r arbitrio collettivo sopra
le contestazioni che la riguar- dano; nel quale è già quindi un principio
di vera Giu- stizia, quantunque ancora più o meno indeterminata o
in- distinta. Da ultimo il Potere supremo della Società si
arroga il giudizio nelle contese, fissandone precisamente i ter-
mini; ed ecco il meno della Prepotenza e il più dell' an- tiegoismo e
della Giustizia. E questa è la Giustizia di- stinta, derivata per
evoluzione dalla indistinta, come questa lo è dal talento più egoistico dell'
individuo. E nella nostra attuale Società la legge mede- sima
apparisce nella sua massima evidenza. Vediamo costituirvisi dei
giuri al di fuori del Po- tere legale; i quali, in nome di una pubblica
opinione (che è il loro codice) pronunciano dei verdetti, vendica-
tori almeno iniziali delle violazioni della opinione stessa, e che quindi
ne sono la Sanzione sociale diretta. Giusta, ossia antiegoistica, perchè
sociale e non individuale o di Prepotenza. Sanzione producente una
Responsabilità pei violatori delle Idealità sociali corrispondenti; e
quindi atta ad innalzare le Idealità stesse nelle coscienze di
tutti al grado di vera Giustizia ; tanto più distinte quanto più stabile
e ordinato e ripetuto e normale è l'esercizio del suo ufficio. E
anche quando non è eliminata ancora del tutto nella vendetta V azione
diretta della persona, che ne ha da essere soddisfatta, si può tuttavia
palesare l'in- tervento subordinante di una autorità superiore
all'indi- viduo. Come nel duello; nel quale la ragione di
intimarlo e di accettarlo deve essere sancita dal codice della opinione
corrente ad esso relativa, e giudicata 1' applicabi- lità al caso
particolare da padrini, e questi devono pre- senziare r esecuzione.
Nel duello si ha quindi una certa Giustizia, quan- tunque molto
imperfetta. Imperfetta, perchè vi si mantiene ancora troppo 1' eccessivo e il
brutale dell' atto di Prepotenza dell' individuo di vendicarsi colle sue
mani. Imperfetta ancora perchè 1' autorità che vi si intromette non
è riconosciuta come tale dalla Legge. Il fatto del duello qui ricordato
toma poi op- portuno per confermare, colle particolarità da esso
of- ferte, la verità delle cose suesposte. L* opinione, che
vige nei paesi civili di. oggi in re- lazione al duello, è una formazione
storica della nostra Società. Perchè, se, da una parte, esso ha la sua
causa generale in alcune ragioni costanti di ogni formazione
sociale, dall' altra però, le formalità che lo accompagnano accusano la
sua provenienza per trasformazione storica dalla consuetudine di un tempo
dei cosi detti giudizi di dio, E da ciò si vede, come sia vero che la
Giustizia (anche quella naturale o potenziale o etema che dir si voglia),
quanto alla forma precisa colla quale è effettiva- mente in una data
Società o coscienza, è una accidenta" lità storica. Come la
produzione di un dato frutto di una data pianta. L’opinione circa il
duello non è qualchecosa di fis- sato e sancito dal Potere legittimo, che
T infligga inde- clinabilmente anche a chi vi si rifiuti. Ma ciò non
toglie che r opinione stessa abbia una forza ; e tale da imporsi quantunque
gravosissima, alla volontà. E da ciò si vede che la Giustizia ha già una
effettività piena di efficacia anche nella forma indefinita della
spontaneità vaga della opinione pubblica. Ma r opinione circa il
duello, appunto perchè ancora in quello stadio della vaga spontaneità
sociale, non ma- turata e non maturabile in una Legge del Potere che
la stabilisca per tutta la Società, vi si restringe ad un certo
ordine di persone. E (cosa curiosissima) per questo or- dine di persone è
divenuta una idea di una impulsività potente, certa, indeclinabile, atta
a tenerlo sotto il proprio impero, mentre per gli altri, esenti dalle
influenze onde è insinuata, è come se non esistesse. E tanto che,
dove presso gli uni è moralmente spregevole e disonorato chi non si
attiene alle prescrizioni della opinione favorevole al duello, per gli
altri è cosa ridicola e stolta il tenerne conto. L' opinione
relativa al duello associa delle conse- guenze esecutive gravissime a
fatti riguardanti V onore. L' onore, che è un semplice rapporto mentale
dell' indi- viduo colla Società. E da ciò si vede che neir uomo,
per lo sviluppo speciale onde la sua psiche è capace, si Voi. IV.
6 creano delle entità di un ordine superiore, che sono impossibili
pel bruto e si trovano solo inizialmente e quindi poco avvertite nelle
Società rozze e nelle classi sociali meno colte. Delle entità aventi per
base, non il benes- sere materiale dell* individuo, che è l'espressione
del puro egoismo, ma il benessere degli spiriti associati, che è r
espressione della ragione antiegoistica. Qui insomma r individuo si trova
necessitato perfino al sacrificio vo- lontario della vita in omaggio di
un' idea che lo padro- neggia. L' opinione relativa al duello tende
(come tutte le altre opinioni, con tendenza positiva o negativa) a
diven- tare una Legge della Società. Questa tendenza in parte è
riuscita, in quanto esistono già delle disposizioni posi- tive di Legge
che riguardano il duello. Ma in parte non è riuscita. Ora T analisi accurata
della tendenza medesima e di ciò che n' è riuscito e non riuscito ci
raggua- glia circa il processo naturale, onde la Giustizia indi-
stinta, ossia la Convenienza, si fa la Giustizia distinta, ossia la Legge
positiva. Il Potere ha emanato delle disposizioni relative al
duello. Ciò ha potuto fare solo in seguito all'essersi que- sto fenomeno
sociale fissato a poco a poco nelle sue forme precise, che presentarono
1' occasione alla opinione pubblica di manifestarsi nel senso del partito
adottato nella Legge. Ma, delle disposizioni stesse prese una
volta dall'au- torità in relazione al duello, altre rimasero poi anche
in seguito perchè trovate rispondenti allo scopo sociale, di non
impedire in modo nocivo il corso inevitabile di certe reazioni di
Convenienza j altre invece dovettero essere smesse come inopportune e
quindi contrastate nella prova dalla coscienza dei cittadini, cioè dalla
Giustìzia poten- ziale che, come dicemmo tante volte, è Tarbitro
naturale di ogni Legge sociale. Il Potere però, nella
reazione anche esecutiva del duello, non ha potuto sosHiuirsi ialalmenie,
come è la sua tendenza in generale per rapporto a qualsiasi esecu-
tività forzata delle reazioni dirette tra individuo e indi- viduo. E
ciò ci istruisce praticamente di due cose, che già osservammo sopra. Vale
a dire: Primo. Che nel Potere non si può appuntare se non una
parte delle reazioni tra indivìduo e individuo; come nel cervello non
arrivano direttamente dei fili ner- vosi che governino immediatamente tutti
i punti della massa del corpo: ai quali invece in gran parte il
cer- vello fa sentire la sua influenza solo per J' azione che
esercita sopra centri secondari, aventi però anch' essi una propria
azione, che si compie in parte senza rintervento degli organi
cerebrali. Secondo. Che, se una tendenza reale dell'
individuo non può essere soddisfatta intéramente dalT intervento
del Potere, Tindividuo cerca la soddisfazione da se ; come in un assalto
improvviso dì un assassino, dove, non po- lendo la forza pubblica
difendere il cittadino, a questo è concesso il Diritto anche dell'
uccisione a propria di- fesa. Per cui si arguisce, che il
fatto ancora incivile ed anomalo del duello non sarà evitato nella
civiltà, se non quando in questa le questioni circa V onore potranno
es- sere risolte appieno giuridicamente, sia modificandosi l'o-
pinione pubblica relativa, sia trovata in base a questa una legislazione
atta all' effetto. Vedemmo fin qui come la Giustizia legale, af-
fatto antiegoistica, del Potere sorga dalla potenziale della coscienza
degli individui, che ha per base una Idealità sociale antiegoistica non
ancora divenuta una Legge, e nello stadio tuttavia solamente di opinione
più o.meno comune. Resta ora a chiarire come questa Giustizia
poten- ziale, avente per base una Idealità antiegoistica, si svolga
anch' essa alla sua volta da una forma ancora più im- perfetta di
tendenza dell' uomo, cioè dal talento brutale egoistico della
Prepotenza. La reazione del semplice talento brutale, o della
Prepotenza, per la concorrenza dei prepotenti di pari forza, diventa
Equipollenza: e quindi Giustizia, Non occorre per ciò che
intervenga un elemento nuovo. Il diverso, anzi 1' opposto, della
Giustizia si ot- tiene per la semplice reduplicazione dell' identico
della Prepotenza elementare dell' individuo. Per la legge universale
dell' emergere del diverso distinto dair identico indistinto per la
reduplicazione dei molti identici (prima distinzione dell* indistinto
uno), che ha luogo in tutte le formazioni naturali. Come ho dimostrato
nello scritto sulla Formazione naturale nel fatto del sistema solare
(Voi. II di queste Opere filosofiche)^ e come dimostrerò nei libri
relativi alla Formazione del pensiero (nei voi. V, VI e VII di queste
stesse Op, fil.) Così nella formazione chimica la materia identica
diventa gli opposti deir acido e della base dopo che, distintasi in atomi
diversi, questi poi si reduplicano e si aggruppano variamente. La
Prepotenza è la coscienza che l' individuo ha acquistato del fatto della
propria Attività che esso ha esperimentato ; e la Giustizia è la
coscienza che neir individuo stesso ha dovuto formarsi del fatto
della Equipollenza degli altri individui dato dalla espe- ricìiza delle Prepotenze
concorrenti nella Società. Sicché nel bruto la psiche non arriva alla
trasfor- mazione in discorso, perchè in esso, non essendo un es-
sere sociale, non si può formare la coscienza successiva a quella della
Prepotenza come nell* uomo, che è un essere sociale (Onde poi raccogliamo la
conferma di un altro dei grandi principi da noi già spiegati della
Formazione naturale : vale a dire che la Cosa è il molteplice preso nella
coesistenza dei singoli, e la Forza è lo stesso molteplice preso nella
loro successione. Sicché Cosa e Forza non sono che distinzioni di un
identico indistinto : il quale, preso nello schema della coesistenza, è
la Cosa, e, preso nello schema della successione, è la Forza. — La
Giustizia o T idealità sociale, come apparisce dalle cose dette nel
libro, suppone una successione di fatti ; ed è assurda senza questa
supposizione. Ma nello stesso tempo, potendo questi fatti succedentisi
essere presenti contempo- raneamente al pensiero, pel lavoro suo
descritto nella Morale dei Positivisti^ è una entità (Cosa) del pensiero,
ed è una virtù efficiente (Forza) nella dinamica morale (Impulsività
dell* idea). E qui dobbiamo notare una cosa curiosissima, spiegabile
solo colla nostra teoria della identità, nel fondo, della Cosa che è, e della
Forza onde essa agisce. L' Idealità sociale è impulsiva del volere umano
in quanto gli si presenta siccome una Giustizia, vale a dire in quanto
gli fa pro- spettare una Sanzione ; ossia lo avverte della sua
responsabilità. E tuttavia, a misura che V Idealità sociale si fa più viva
e abituale, diviene invece più vago il presentimento pauroso delle
relative conseguenze di punizione per parte della reazione sociale. Anzi
il massimo della impulsività dell' Idealità sociale (nel Sapiente e nel
Regno della Giustizia, come dicemmo nella Morale dei Positivisti) va col
minimo del presentimento pauroso della punizione sanzionatrice. Il concetto
umano della Giustizia si forma da quello della Prepotenza per V
equilibrio di molti prepo- tenti nella loro concorrenza sociale.
La filosofia tradizionale (o la filosofia sana, come la chiamano)
spiega la Giustizia ponendola siccome lo stesso comando di dio. La
spiega così: aggiungendo molto ingenuamente alla sua spiegazione V
avvertenza, che la Giustizia, ri- mane distrutta assolutamente tosto che
si rimova la di- vinità e il suo volere assoluto. E invece la
verità è precisamente il contrario. La Giustizia» in questo volere
divino, è V opposto, ossia la negazione, della Giustizia come tale. Come
ne è l'oppo- sto e la negazione la Prepotenza come tale. Il
volere di dio è la Prepotenza innalzata al grado dèlia Prepotenza
assoluta. E il bello si è che la stessa filosofia tradizionale
ha dovuto accorgersi de IT inconveniente, tanto o quanto, an- ch'
essa, senza intenderlo distintamente. Poiché ha dovuto maritare, nella
sua dottrina della ragione della Giustizia, il principio del volere
divino con quello della conoscenza che dio debba avere dell' essere
intimo delle cose, e della necessità onde il suo volere sìa costretto
assolu- Egli è come dire, che è V ordine dei fatti sociali, il
quale è diventalo un inrro ordine ideale, presente al pensiero in un suo
atto intuitivo momentaneo : qiTasi forza fissatavisi dal di fuori
come sommi» unica di efileni ng^i untisi a poco a poco l’uno all'
altro. Proprio come la proprietà attuale, onde una sostanza è atta
ad agire in un dato momento con una data intensità dì forza, sì è
for- mata in questa per la addizione successiva, mettiamo, dì un
certo numero di \:alorie, entratevi dal di fuori a poco a poco V una
dopo V altra. -tamente (se ha da essere giicsto) a
regolarsi nel suo comando secondo le esigenze della essenza da sé cono-
sciuta appieno della cosa, alla quale impartisce il co- mando.
In questo secondo principio maritato al primo è stata riconosciuta
implicitamente, in qtuilche maniera, tardi, imperfettamente, confusamente
e con una contraddizione col primo principio la verità di ciò che
dimostrammo ; ossia della derivazione della Giustizia dallo stesso
uomo per effetto della sua convivenza sociale.
Imperfettamente, dicemmo. E la dottrina teologica della
predestinazione n' è testimonio. E tardi : cioè a misura che lo studio dei
fatti guidò al presentimento confuso della verità contenuta nella dottrina
positiva. Tanto che la storia della idea di dio ce lo presenta prima coir
impero capriccioso, dispotico, appassionato, mutabile del tiranno
prepotente. E succes- sivamente con una mitigazione del capriccio e della
prepotenza, quale era suggerita dal fatto della legislazione sociale in
lui oggettivata, che venne diventando sempre più giusta per T equi librar
visi sempre maggiore degli elementi componenti. Come si è detto,
nell'individuo non coordi- nato nella Società si ha la sua autonomia che
si goverua colla Prepotenza. una risul- tante dinamica di
esse, per le considerazioni che seguono. Con uno straniero, e soprattutto con
un barbaro, o con un selvaggio, un uomo in generale non sente il dovere della
Giustizia come con un altro uomo della sua stessa Società. Perfino si dà che in
faccia ad un uomo di razza diversa si atteggi ne' suoi sentimenti come in
faccia ad un bruto o ad una fiera. E la cosa è naturalissima. La sua Società è
in lotta colla popolazione alla quale appartiene queir uomo. La sua Società
quindi si atteggia verso di essa e verso i suoi Componenti come un prepotente ;
ed egli pure. Anche se non è in lotta, dal momento che 1' offesa recata al(Il Nel che si verifica la legge generale di tutta
la natura, che r ambiente è necessario all' ottenimento di una
formazione, mettiamo la nebulosa solare alla formazione di un pianeta, o 1*
ambiente vege- tativo alla formazione di un seme ; ma una volta ottenuta la
forma- zione questa funziona come tale anche indipendentemente dalle con- dizioni
onde emerse. Mettiamo la forma e la solidità di un pianeta, e la virtù
vegetativa specifica del seme. ^'^''PfliW^^IF lontano selvaggio non è vendicata
dal tribunale del pro- prio paese, né di nessuno, queir offesa stessa non appa-
risce un attentato vero e proprio contro la Giustizia. Che se ci sono degli
uomini che sentono la Giustizia anche per gli estranei, fossero anche dei
selvaggi, questo succede solo per quelli nei quali il sentimento della
Giu- stizia, prodotto prima nel modo che spiegammo, è diven- tato
una forma perfetta e assolutamente dominante della psiche, e che agisce
da sé e senza il bisogno più del co- stringimento dell' ambiente
produttore, e con una sponta- neità esuberante. Ancora, nella stessa
Società un gentiluomo è molto cauto nelle sue relazioni coi stcoi pari.
Non lo è egualmente trattando con persone di condizione inferiore.E ciò
perchè co' suoi pari le conseguenze speciali del suo contegno (quelle
mettiamo di un duello) hanno indotto un ordine di Convenienza che non
occorre per gli altri, relativamente ai quale le conseguenze non hanno la
me- desima gravità. In una parola, chi sta sopra è prepotente
cogli infe- riori, e non co' suoi pari, coi quali è più giusto. La
formazione della Giustizia nel senso proprio va colla formazione del
Potere onde è l' espressione. L’idea della Giustizia non nasce se non
dietro i fatti determinati prodottisi effettivamente nelle reazioni
degli associati. Dico, dietro i fatti determinati. Non prima di
essi. contenuta. Per questo il Potere (nel senso da noi
qui inteso) è eminentemente la Giustizia, che i poeti
rappresentarono colla bilancia in mano (1* equipollenza giusta degli
arbi- trj) e colla spada nell' altra (la forza onde si determina r
equilibrio tra arbitrio e arbitrio). E lo è perfettamente esso
solo. Lo è eminentemente in quanto dispone di una forza che
costringe e determina i soggetti alla osservanza della Idealità sociale,
o giusta, che dir si voglia. Lo è perfettamente esso solo, in quanto a sé
solo ri- serba il costringimento violento alla osservanza della me-
desima Idealità giusta. Onde viene poi che la Giustizia
propriamente detta si restringe agli atti che possono cadere sotto la
direzione del Potere, e non comprende quelli che ne sono esenti: i
quali per ciò rimangono la sola Convenienza. E su tutto ciò non
cade dubbio. Il furto, per esem- pio, dove non e' é un Potere che lo
inibisca, non é un delitto. È solo un atto pericoloso e che esige del
corag- gio e della avvedutezza in chi lo commette. Dove e' é un
Potere, che proibisca sì il furto, ma sia impotente a impedirlo, il furto
stesso é un delitto vago e non grave. Dove il Potere lo
impedisce effettivamente e lo col- pisce con forti punizioni è un delitto
grave. E può essere un delitto di varie specie se la puni-
zione è varia. Per esempio, il furto del privato a danno del privato,
che importa la prigionia del ladro, è perciò un de- litto infamante. Il
furto invece di un privato che non paga un diritto della pubblica
finanza, onde incorra solamente in una multa pecuniaria, non è più
infamante, a motivo che la punizione non è la prigionia ma la
multa. La quale forza poi del Potere, onde è mante- nuta
violentemente V osservanza della Legge, in due ma- niere è dispensata.
' Direttamente cioè dal Potere, stesso per V otteni- mento
delle condizioni occorrenti alla vita sociale, e indi- rettamente quando
esso è domandato per interesse pro- prio delle parti individualmente
offese. E da ciò due forme di Giustizia. Questa seconda più
sentita dagli individui meno educati e quindi più egoisti ; la prima più
sentita dai più eletti e quindi meno egoisti. L' avaro si commuove per la
infrazione della Legge . della proprietà individuale, che è per esso la
Giustizia per ec- cellenza. Il virtuoso si commuove per una disposizione
po- litica antiliberale, preoccupandosi soprattutto della Giu-
stizia in se stessa. La circostanza di questa forza materiale occor-
rente al Potere ci conduce a scoprire una legge fonda- mentale della Sociologia,
ossia della formazione naturale deir organismo e della vita
sociale. Nel Potere, per costituire questa sua forza, sono
as- sorbite delle forze prese dal corpo sociale: e in ima certa
misura (i). Così la forza propria del cervello, onde sono
(i) Ci limitiamo qui a notare il fatto. Quale sia questa misura, e
come sia variabile fra estremi assai distanti secondo le condizioni e gli
stadj storici di una Società, deve essere lasciato a uno studio regolate
le funzioni del corpo di un uomo, è costituita dalle forze prestate dal
sangue del corpo medesimo in una misura, che non può essere oltre certi
limiti. Ora una quantità determinata di forza non può pro-
durre se non un effetto limitato, proporzionato ad essa. Ne viene che, se
la Società è mcipiente o selvaggia o rozza, tutta la forza rimanendo
impegnata nel costringere gli individui a osservare la Legge fondamentale
della esi- stenza sociale, il Potere rimane senza altra forza da
di- sporre per la produzione nella Società di miglioramenti
ulteriori (i). Ma quando in seguito si sono introdotte, colla ripetizione
degli atti violenti di coercizione sociale, le abitu- dini giuste, queste
producono poi V effetto della osser- vanza della Legge per parte dei
soggetti da sé; e la- sciano la forza del Potere disimpegnata e quindi
disponi- bile per altri usi, per altri lavori, per indurre altre
abitu- dini superiori ; insomma pel progresso ulteriore della vita
sociale. Cosi nel corpo dell' uomo. Nel bambino il cervello è tutto
impegnato nel produrre le abitudini dell' esercizio delle membra; e
pogniamo anche in quelle di leggere e scrivere. Prodotte queste abitudini
iniziali, resta disponi- particolare, che può da sé fornire
materia per una scienza spcciaU, E per noi basta notare, che la misura in
discorso va crescendo in ragione che progredisce V organizzazione sociale
; analogamente a quanto si osserva negli organismi biologici, nei quali
cresce la pro- porzione del cervello in ragione che si fa maggiore la
centralizzazione degli organi. (i) Ciò si ripete nel caso di
una guerra, che assorbisca le risorse del Governo ; e nel caso di
anarchia che le dissipi. bile per altri esercizi. Mettiamo per la
cultura propria- mente detta. E ottenute le abitudini di questa cultura,
ri- mane poi libero per V esercizio di una professione parti-
colare. E cosi via. E insomma la questione dell' immagazzinamento
delle forze. Un' abitudine in un individuo è la forza che, por-
tata sopra di lui una lunga serie di volte, vi si è imma- gazzinata in
questa forma. Come nella produzione delle proprietà delle sostanze
chimiche dalle più semplici alle più complicate. Come nella produzione
della pianta dal seme fino al frutto maturatone. Onde la
Giustizia, che va producendosi nelle coscienze dei singoli uomini
raccolti nella Società civile è )' imma- gazzinamento lento e progressivo
della forza dispensata dal Potere nei singoli atti infiniti del suo
esercizio, e im- pressa e ricevuta in quelle coscienze volta per volta.
An- che nel fatto del concetto della Giustizia, come in ogni fatto
distinto della natura, si ha una forza o un rifmo persistente, ottenuto
per la fissazione di una forza appli- cata dall' ambiente e divenuto 1'
essere costitutivo di ciò in cui si è formato (i), ossia dell' uomo
civile come tale. Il che poi dimostra che anche la Società, come
ogni altra formazione naturale, è una formazione che nasce, progredisce e
muore. Quando nasce, è la violenza che tende a produrre il
fatto e il sentimento della Giustizia. Quando progredisce, è la
forza del Potere che si di- ■I) Si allude alla Legge della Formazione
naturale \A\\\q\X.^ ^o^x?i accennata. spensa ad ottenere
ordini sempre più alti di azioni e di idee giuste. Quando
muore è V organismo vecchio, che non si presta più al mantenimento di
questa forza comune orga- nicamente subordinante del Potere. Come (per
una forma dì questa morte) nella famìglia vien meno il potere su-
bordinante del padre quando la personalità adulta dei figli non si presta
più alla coordinazione di essi sotto la tu- tela del capo della
famiglia. Se non che, riguardo alle Società che muoiono, vale del
pari ancora la relativa legge naturale di ogni altra formazione, per la
quale la morte «di un organismo non è mai totale, restando tuttavia i
ritmi singoli pro- dotti dallo stesso organismo mentre era vivo. Come
nel seme della pianta, che resta alla morte di questa. Come nelle
idee, che restano per gli uomini succedenti a quelli che le hanno
trovate. Sicché il mondo greco e il mondo romano, per es.,
sono morti come quelle date formazioni sociali, ma re- starono le idee
della Giustizia umana nate nel loro seno. Restarono come germi, o
magazzini di forza già elabo- rata. E dei quali si giovarono le Società
europee venute dopo, che non dovettero ricominciare da capo (ossia
dalla condizione infima dell' uomo preistorico) il lavoro della organizzazione
sociale. La giustizia è la forza specifica dell'organismo sociale. Siccome
poi V organismo e la vita sociale si spiegano per la Giustizia che vi si
produce, cosi la teoria «T- della formazione
naturale della vita sociale è anche nello stesso tempo la teorìa della
formazione naturale della Giustizia. La quale per ciò è una formazione
naturale, come il Sistema solare, come un Minerale, come un Ve-
getale, come un animale, come una Goccia di Rugiada, come un qualunque
Pensiero di un uomo. È cioè la Giustizia una formazione naturale
della Società ; come, ad esempio, si direbbe che la vegetazione è
una formazione naturale del nostro Pianeta. Ed è la Giustizia la
forza specifica della società medesima. Ne è la forza specifica, come si
direbbe che V affi- nità è la forza specifica delle sostanze chimiche, la
vita delle organiche, la psiche degli animali. Nessuna
affinità, o vita, o psiche, senza sostanza chi- mica, organismo vivo,
animale. Del pari nessuna Giusti- zia senza Società umana. L*
affinità, la vita, la psiche scaturiscono dalle stesse forze onde
esistono i loro soggetti ; e ne rappresentano la risultante, che, come
tale, si distingue specificamente dalle forze producenti medesime. E cosi
la Giustizia sca- turisce dalle stesse autonomie prepotenti degli
individui, ed è la specie distinta di essere risultante
naturalmente dal loro contemperarsi insieme. La società quindi, come
tale, è tanto più per- fetta quanto più è forte V idea della Giustizia
formatasi nei consociati ; ossia quanto più questi sono morali :
sic- ché meno sia uopo concorrere colla forza materiale al- l'
ottenimento dell* ordine sociale. D che equivale al dire che T
Idealità sociale sia più Voi. IV. 7 impulsiva da se stessa
nella psiche di ciascheduno, e quindi il regno della Gitcstizia
{adoperando la nostra so- lita espressione) si sostituisca a quello del
Fato o della Prepotenza. In modo analogo una sostanza chimica
è tanto più stabile e perfetta quanto più V Affinità degli atomi vi
è grande» e la rende atta a mantenersi nell' essere suo in-
dipendentemente dalle circostanze fisiche esterne della temperatura, delP
ambiente, della compressione e via di- cendo, che suppliscano colla loro
azione al difetto della forza di coesione intima dei componenti. La
costituzione dell'organismo sociale, e quindi la sostituzione della
Giustizia alla Prepotenza, produce la incolumità dei consociati. La
incolumità, che non è altro appunto se non la elisione della Prepotenza
oflFen- dente. Questa incolumità ha due fattori :
Primo. La forza materiale disposta nelle mani del Potere per far
valere violentemente la Legge contro la Prepotenza non domata delle parti
subordinate. Secondo. Il sentimento del Dovere formantesi
negli individui associati nel modo detto sopra. Ora, siccome questo
sentimento del Dovere (o questa Idealità sociale impulsiva, che torna lo
stesso) è una vera forza traente l' individuo a vincere la propria
tendenza egoistica della Prepotenza, e a segfuire la ragione an-
tiegoistica della Giustizia o della Legge, cosi le due forze suddette,
del Potere di fuori e del Dovere di dentro collimanti a produrre V
incolumità dei consociati e in^e- granfisi vicendevolmente nella
intensità sufficiente al- l' uopo, si troveranno concorrervi in ragione
inversa. Meno è il sentimento del Dovere sviluppatosi nei
singoli individui, e più dovrà essere la forza materiale usata dal
Potere. E viceversa, più il sentimento del Do- vere, e meno la forza
materiale. E ciò, sia normalmente, sia accidentalmente; e per
certi momenti critici sociali, e per certe Idealità. La incolumità poi del cittadino importa un complesso
di condizioni sue particolari molte e diverse, cominciando dalla
fondamentale della salvezza della vita materiale e andando fino alle più
delicate (proprie delle condizioni sociali più perfette) del rispetto
morale vicen- devole negli atti anche più comuni della vita.
Il Potere supremo della Società non può (come altre volte
avvertimmo) provvedere per tutte le dette condi- zioni della incolumità
del cittadino : ma deve necessaria- mente intervenire almeno per le
fondamentali. Da ciò consegue che l’azione materiale sulla persona del
cit- Chi consideri tutte le possibili reazioni tra uomo e
uomo in una Società di leggeri può rilevare due cose molto importanti pel
discorso che facciamo qui. Cioè: Primo. La varietà infinita delle azioni
di un uomo atte a destare in qualunque modo la attenzione di un
altro. Fogniamo, partendo da un assassinio e venendo fino ad uno
sbadiglio. Nella quale varietà, come è chiaro da sé, si hanno delle vere
diflFerenze di generi e di specie. Secondo. Il sentimento nascente in un
uomo, per reazione, in seguito all' azione da lui osservata in un
altro. E di tale sentimento abbiamo parlato nella Morale dei Positivisti
(i), mostrando quanto sia variato e come formi una serie di sentimenti
diversi, anzi una scala in ordine di nobiltà. Ora, per le cose
dette, ripetendosi e le azioni e i sentimenti accompagnanti le reazioni
che le susseguono, si producono un po' alia volta e si fissano nella
psiche, come sue potenzialità, delle Idealità sociali corisppndenti.
Le quali per ciò sono costituite dalla rappresentazione della azione e
dalla reazione effettiva conseguente: onde sono Idealità impulsive del
volere, ossia Giustizie. La mente si confonde pensando alle varietà
possibili ad emergere in ragione di tale processo. I pochi ele-
menti del chimico, si sa a quale infinita varietà di for- mazioni di
sostanze si prestano: le poche note musicali, a quale infinita varietà di
composizioni musicali ; le poche lettere dell' alfabeto, a quale infinita
varietà di suoni ar- (i) Libro I, Parte I, Capo III (Pag. 21
e segg. del Voi. Ili di queste Op, fil. nella ediz. del 1885, del 1893 e
1901, e pag. 22 nel- l'Ediz. del 1908). I20
ticolati. Or che sarà della varietà delle formazioni psichiche
della Giustizia, pensando anche solo alla varietà dei senti- menti
componibili colle rappresentazioni degli atti sociali? Per farcene una
qualche idea prendiamo un esempio. Neir uomo, fra i molti
sentimenti onde è capace, si ha anche quello caratteristico corrispondente
alla espres- sione del ridere. È questo si può connettere con un
nu- mero senza fine di rappresentazioni di atti, dando ori- gine
cosi al genere delle Idealità comiche ; le quali nes- suno ignora quanto
siano potenti neir indirizzo della vita e nell'impero della volontà;
mentre è pur vero che il timore del ridicolo ha talvolta più efficacia
che non il timore del carcere e della multa. Il fatto, pel
mondo morale, è analogo a quello di una sostanza che, potendosi combinare
con tutte le altre nel mondo materiale, è atta a determinarvi un
atteggia- mento particolare per tutto T essere suo. Il nostro
mondo, per esempio, sarebbe un mondo aflFatto diverso da quello che
è, se gli mancasse il ferro. E cosi dicasi degli orga- nismi in genere se
mancasse, mettiamo, il potassio che concorre a formarli, essendovi quindi
un ministro della vitcu Allo stesso modo V atteggiamento morale
dell'uomo, quale è al presente, verrebbe meno, se mancasse il coef-
ficiente del riso, che concorre a formarlo, essendovi quindi con ciò
anche esso un ministro del bene. Il quale ragionamento poi va
ripetuto per tutti i sentimenti umani ad uno ad uno, che sono
altrettanti coefficienti dell* Idealità sociale direttiva delle azioni u-
mane, attivandola sotto la forma di generi speciali dì Idealità o di
Giustizie. E della varietà inesauribile di queste, per tale via ottenute,
è un saggio V arte, che nella scultura, nella pit- tura, nella poesia, nella
prosa, riproduce dalla coscienza, in tante forme, gli atteggiamenti morali
dell' uomo. In tante forme li ha riprodotti, e in tante ancora, senza fine, è
atta a riprodurla 3. — E i sentimenti umani riescono cosi coefScienti della
Giustizia, perchè un sentimento, qualunque sia, essendo la reazione
corrispondente ad un atto, ne è anche la Sanzione ; e chi commette V azione
atta a susci- tare un sentimento incontra una Responsabilità in ordine ad
esso. Anche ciò è essenziale al concetto naturale vero e pieno
della Responsabilità umana. Anche ciò quindi appartiene all' ordine
naturale della Giustizia nella varietà delle sue formazioni. Il
restringere 1* ordine della Giustizia a quei pòchi atti ai quali si
rìduceva una volta, e che si abbraccia- vano nei dieci comandamenti del
decalogo, è eflFetto di nna grossolana e non scientifica idea della cosa.
Come il restringere che fa il volgo dell' idea dell' animale a
quelli che sono forniti di occhi e di gambe per camminare: e il restringere l'
idea del vegetale a quelli soltanto che hanno le foglie verdi.
La scienza ha trovato animali anche senz' occhi e fissi alle pietre
; e vegetali senza foglie e senza verde. E cosi trova delle Giustizie
senza la Sanzione del carcere e della multa. La restrizione suddetta
corrisponde insomma perfet- tamente a quella che fa il volgo e fecero gli
antichi delle specie degli animali, credute poche e sempre quelle e
mo- dellate a priori sugli esemplari fatti passare da dio in
rivista davanti ad Adamo nel paradiso terrestre. E dipende dalla
stessa ignoranza della legge della formazione naturale. Poche,
dicevano, e sempre quelle, le specie degli ani- mali ; e create
direttamente da dio, e mostrate ad Adamo al principio del mondo nel
paradiso terrestre. E cosi, poche e sempre quelle le specie della
Giustizia, impresse da dio direttamente neir anima di ogni uomo che
nasce e scritte sulle tavole di Mosè dalla cima del monte Sinai [cfr.
Grice, ’10 comandi’, decalogo] La scienza sbugiardò V idea meschìnissima
quanto alle specie degli animali. Sbugiarda col positivismo l'idea
meschinissima quanto alla Giustizia. Non dio, autore delle specie degli
animali; ma la natura: e le specie, un nu- mero stragrande; e non fisse,
ma variabili; e variabili accidentalissimamente. E cosi, non dio autore
delle specie della Giustizia, ma la natura : e queste specie, un
numero stragrande e immensamente differenziato ; e non fisse, ma
variabili; e variabili accidentalissimamente. L'idealità sociale, ossia
la giustizia morale, formata che sia nella coscienza dell' individuo, vi
fun- ziona come una forza speciale, nel senso antiegoistico
chiarito nella Morale dei Positivisti; e vi produce un doppio effetto,
secondo che si applica al giudizio e alla direzione delle azioni
individuali proprie, ovvero al giu- dìzio e alla direzione delle azioni
degli altri. Da questo secondo effetto dipende la vitalità
intrin- seci e vera della Società, considerata siccome un organismo
naturale nel senso proprio della parola. Perchè la Giustizia, parlando
nella coscienza dell' individuo, è la potenzialità indistinta onde
originano i distinti dei Po- teri sociali effettivi e delle Leggi da essi
emananti; e perchè la Giustizia potenziale degli individui
associati collabora a rendere efficace l’opera del potere e della
legge sociale. E come se si dicesse che un organismo, pogniamo
vegetante, si sviluppa nei suoi organi caratteristici mercè la vitalità
delle parti componenti: e che poi T attività di questi organi speciali è
operativa de' suoi effetti par- ticolari sopra le parti mercè il concorso
della vitalità che si mantiene nelle parti stesse. Sempre insomma la
legge generale della formazione naturale, che l' indistinto non
cessi mai di sottostare al distinto, e di offrire cosi la ra- gione
naturale e del suo essere e del suo operare. Cosi si osserva che
una legge in un paese rimane senza efficacia e come lettera morta se, a
farla valere, è solo il Potere, e non lo ajutano di conserva le
singole coscienze dei cittadini; le quali, accogliendo in sé la
forza viva già formata della Giustizia morale, ne ricevono un impulso
atto a muoverle alla disapprovsizione degli atti contrari alla Legge e a
concorrere per quanto possono a farla valere. E, quanto sia vero
ciò che affermiamo, lo di- mostrano i fatti sociali tutti quanti. Anche,
per esempio. r interesse vivissimo onde si tien dietro allo
svolgimento di un processo criminale, pur dei paesi lontani, pure
re- lativo a persone che non ci riguardano punto, né diret-
tamente, ne indirettamente. Che più? Tanto è viva e potente
nell'uomo T idea della Giustizia antiegoistica, che egli non può stare
che non ne provi V eflFetto più vivo anche pei fatti immagi- nari
delle fole, dei racconti, delle poesie, dei drammi. Data r immaginazione
di un fatto, al quale sia applica- cabile l'idea della Giustizia, questa
per legge psicologica indeclinabile si ridesta nella mente, e col suo
naturale atteggiamento: come in tutte le altre associazioni men-
tali. In ciò la spiegazione della vivezza della voluttà, onde si leggono
o si odono i suddetti racconti, e si as- siste ai drammi. E la vivezza di
tale voluttà è il termo- metro che prova la presenza nella coscienza
della idea efficace della Giustizia e ne ne misura l' intensità. La
punizione materiale, vendicatrice della Giu- stizia, sarà necessaria
quindi in ragione inversa della ef- fettuazione nella coscienza della
Idealità sociale giusta. Meno sarà questa, e più dovrà essere la severità
e la prontezza della pena materiale, che n' è la Sanzione. Il che,
come altrove dicemmo, si fa per due scopi: per quello di supplire, colla
impulsività dall' esterno della minaccia del castigo, al difetto della
impulsività dall* in- terno della Idealità sociale direttrice
dell'azione: e per quello di giovare a produrre questa impulsività nel!'
in- dividuo. Onde, più questa è già prodotta, e meno occorre di
coazione a supplirla. E al massimo assoluto della produzione della
detta impulsività corrisponderà V assenza del bisogno della coa-
zione materiale e la sufficienza per la Moralità del puro fatto psichico
della idea e della disposizione della Giu- stizia, e del giudizio mentale
dettatone di approvazione e disapprovazione dell' atto relativo.
Ciò nel rapporto dinamico tra chi detta la Legge e chi ne è
obbligato ad eseguirla. Ma e' è di più. La effettuazione della
Idealità della Giustizia, in ra- gione che più avviene, più paralizza il
suo contrario, onde deriva; cioè la Prepotenza. E quindi i
sentimenti nei quali questa si esprime: come è, tra gli altri,
quello della vendetta considerata quale sodisf azione egoistica.
E più invece ravviva i sentimenti antiegoistici, come quello della
benevolenza altrui. Ravviva cioè i sentimenti che, nella Morale dei
Positivisti (i), distinguemmo colla denominazione di pietosi, dopo avere
dimostrato che la Pietà è il carattere del sentire dell' uomo in
corrispon- denza della sua formazione caratteristica della Idealità
sociale. Per conseguenza, la stessa pena materiale, a misura
che una Società diventa civile, va perdendo del carattere di una vendetta
espiatoria ed appassionata, assumendo quello di un semplice rimedio; che
si applica a malin- cuore e con sentimento di compassione essendocene
il bisogno e per questo bisogno solamente. E in generale,
questa qualità della assenza del carat- (i) Libro I, Parte III, Capo
III, n. 7 (Pag. 150, 151 del Voi. Ili di queste Op, fil, nella ediz. del
1885, e pag. 158, 159 nella ediz. del 1893 e del 1901, e pag. 163, 164
nella ediz. del 1908) e altrove. tere appassionatamente
vendicativo e di pura espiazione si trova nella Società assai più nella
reazione del Potere, che rappresenta maggiormente V Idealità
antiegoistica, di quello che nella reazione della Convenienza, nella
quale assai più rimane dell' egoismo e della Prepotenza. E,
negli atti stessi della Convenienza, la vendetta appassionata, egoistica,
prepotente, è più o meno in ra- gione che è più o meno eflFettuata V idea
della Giustizia neir individuo reagente. Ossia, in una
parola, quantunque la Giustizia im- plichi la Responsabilità, e questa
una Sanzione o una vendetta punitrice, tuttavia, compiuta che sia come
for- mazione psichica individuale essa Giustizia, vi si dissi"
mula o vi si fa latente la vendetta relativa: a quello stesso modo che,
formata che siasi in una sostanza la sua affinità chimica per la
trasformazione in questa di un certo numero di calorie, il fenomeno
propriamente ter- mico vi si dissimula e non si manifesta più in una
tem- peratura misurabile col termometro. E torna cosi, anche nello
studio della Respon- sabilità e del carattere della Idealità sociale come
Giu- stizia, il principio più volte illustrato nella Morale dei
Positivisti per altre vie (i), del regno della Giustizia sot- tentrante
nella Società, di mano in mano che questa si perfeziona, al regno del
fato. E torna ad apparire del pari il carattere speciale deir
uomo formato sotto V influenza dell' ambiente o del- (i)
Libro II, Parte IV. Capo II, n. 16 (Pag. 399 del Voi. Ili di queste Op,
fil. nella ediz. del 1885, e pag. 422, 423 nella ediz. del 1893 e del
1901, e pag 432, 433, nella ediz. del 1908) e altrove.
PPipm>yi^"imtVi- k^i.J»^-» ■-pr^\»y-^r* t-^»t-«- ^vv --..
vt-w- l'organismo sociale: ossia dell' uomo virtuoso, o
sapiente, che dir si voglia. Per lui basta, ed è tutto, V
idea della Giustizia ; e il giudizio che fa egli stesso di se medesimo in
virtù di essa: e al di fuori e al di sopra di ogni punizione mate-
riale. Come dice Dante di Virgilio: El mi parea da sé stesso
rimorso, O dignitosa coscienza e netta, Come t' è picciol fallo
amaro morso! E, relativamente al malvagio che lo oflFende, in
ra- gione della offesa, anziché il sentimento della vendetta,
cresce in lui quello della pietà. Come in quel divino cro- cefisso, al
quale, negli spasimi di dolore cagionatigli dalla più atroce delle
ingiustizie col più atroce dei supplizi, l'offesa immensa non riusci che
a trargli dall'anima la preghiera sublime : Padre, perdgna a questi miei
crocifis- sori, perchè non sanno quello che si facciano. Abbiamo
parlato di quello che, sulla fine del primo, avevamo chiamato il
secondo degli uffici del Potere. Resta dunque a parlare del
primo di questi uffici, che dicemmo essere di stabilirsi nella Società a
spese delle sue parti; e del terzo che dicemmo essere di di-
spensare nell'effetto del miglioramento delle parti quella forza comune
dell' ambiente sociale che opera per esso Potere. E lo
faremo, cominciando la illustrazione divisata in questo Capo e nel
seguente, e compiendola nelF ultimo. 2. — La Giustizia propriamente
detta non è tutta la moralità. Questa Giustizia, cóme
vedemmo, riguarda la ifuo- lumità delle parti sociali. E quindi è il solo
lato nega- tivo della Moralità. Ma la Moralità ha anche i
suoi lati positivi: come quelli indicati dalle parole Diritto e Autorità;
e quello dei mezzi onde si costituisce e vive il Potere,
organo della Società; e quello del Premio della virtù. Anche
di questi lati positivi quindi (e sotto il punto di vista prefissoci (i)
della Responsabilità) si deve chia- rire la formazione naturale. Con ciò
potrà rimanere spie- gato appieno il fatto naturale della Moralità, e la
ragione della Responsabilità potrà apparire sotto tutti i suoi
aspetti reali. §11. Criterio positivo del Diritto e del
Dovere. Il Diritto (come dimostrammo nel luogo più volte citato della
Morale dei Positivisti) è la stessa potenza libera che si avvera rielT
essere umano. Considerato questo essere isolatamente, il Diritto,
come dicemmo sopra, coincide colla Prepotenza; e di- venta il Diritto
sociale antiegoistico e giusto (o il Diritto propriamente detto) in
quanto è ridotto in limiti deter- minati dal contrasto della potenza
opposta degli altri uo- mini consociati. Vale a dire: la
potenzialità astratta dell' individuo, nella condizione eflFettiva del
suo esercizio (cioè di fronte alle reazioni delle potenzialità degli
altri), diventa una potenzialità reale determinatamente limitata dalla
effi- cienza contrastante delle potenzialità degli altri uomini. 12)
Libro I, Parte II, Capo IV. n. 15 ecc. (pag. 125 del Voi. nidi queste Op,
ftl. nell' ediz. del 1885, e 131 dell' edìz. del JS93 e del 1901, e pag.
135 nelle ediz. del 1908). Voi. IV. 9
Tf^r»* Con che però resta sempre il principio, che il
Di- ritto di un uomo è ciò che esso può fare. Resta sempre ;
per la ragione xche, posto V uomo di fronte agli altri, e rimanendone
elisa per tale relazione una parte della potenzialità, la potenzialità
sua effettiva non è tutta V astratta, ma solamente quella che
residua dalla elisione sofferta. E, per togliere ogni dubbio
su ciò, basta V osserva- zione del fatto che, cambiandosi le condizioni e
i rap- porti dinamici, onde dipende la elisione di una parte della
potenzialità di un individuo, questa torna attiva, e con ciò torna
Diritto. Il potere di staccare un frutto ma- turo da un albero non è
Diritto dove il contrasto del possesso altrui impedisce di esercitarlo;
ma tolto questo contrasto (portandoci, mettiamo, in una regione
nella quale le piante sono proprietà comune) lo stesso potere di
staccare il frutto torna Diritto, per la sola ragione che non ha più T
impedimento al suo esercizio del possesso altrui. Il Diritto quindi,
come dicemmo pure nello stesso luogo della Morale dei Positivisti, se in
astratto è identico per ogni uomo, (essendo Tuomo in astratto
identico all' uomo) nella realtà per ogni uomo è diverso, per la ragione
che la potenzialità di un uomo differisce sempre nel caso pratico da
quella di un altro: quella del maschio, ad esempio, da quella della
femmina; quella dell' adulto, del sano, del civile, del colto, dell'
educato, dell' uomo di genio, da quella del bambino, del malato,
del selvaggio, dell' ineducato, dell' imbecille ; e via dicendo.
wyfmwii^i ' P Jl >»u- .ry -"^.-^v- ■f^.-.-v-.-f-— l’uomo
ha nella natura in forza del suo arbitrio in quanto è deter- minato dalla
Idealità lituana che è la Idealità sociale. Qui colla spiegazione della
formazione della Giustizia (o dell' Idealità sociale) spieghiamo anche la
formazione del Diritto, e quindi ne indichiamo le condizioni dettagliatamente,
che si possono riassumere nel quadro che segue : A) Arbitrio umano libero. Non
il potere generico della cosa sulla cosa. Non quello della persona in
condizione irresponsabile. B) Arbitrio libero di un uomo (sulla cosa o sull*
uomo) in con- fronto colla reazione delVarbitrio libero dell* altro uomo. Non
dove non si pone questa reazione : e in quanto è regolata dalP Idealità so-
ciale. E in ordine a ciò: Arbitrio libero di un uomo in confronto con una
reazione pos- sibile. E qui Diritto potenziale o naturale. Arbitrio
libero di un uomo in confronto con una reazione reale. E qui Diritto di
fatto o positivo^ nelle diverse forme di questo. il Diritto può essere
nello stesso tempo un Dovere, e non che deòòa. E perchè
questa differenza fra Diritto e Diritto? Rispondendo, apparirà
insieme come e quanto con- vengano fra loro le definizioni apparentemente
diverse da noi date del Diritto nella Morale dei Positivisti (nel
luogo sopra citato), dove dicemmo che è in se stesso la Giustizia, o la
Legge o la Idealità sociale, e qui, dove diciamo che è un potere libero
implicante una Respon- sabilità verso una Sanzione che ne salva V
esercizio. Nel caso di chi mangia la propria mela, M impulsi- vità
traente all' azione è data, non dalla Idealità sociale «
antiegoistica, ma dall' istinto egoistico, o da quella che dicemmo la
Prepotenza, precedente T Idealità morale propriamente detta. Trattandosi di
questa Prepotenza, la Re- sponsabilità r accompagna solo in quanto la
limita, e non in quanto la produca. E quindi la stessa Responsabilità ha
con essa un rapporto unico. E. per ciò non può aver che il nome di
Diritto, ossia si può pensare soltanto che r esercizio ne è reso incolume
dalla Responsabilità che lo salva. In vece, nel caso del padre che
educa il figlio, T im- pulsività traente all' azione è data dalla
Idealità sociale antiegoistica, ossia da qualche cosa che è già una
Giu- stizia, implicante quindi T elemento della Responsabilità. Da
ciò proviene che il potere del padre di educare il figlio sia fra due
rapporti: fra quello di eserizio incolume, in quanto è salvaguardato da
una Sanzione sociale relativa, onde è Diritto; e quello che il padre è alla
sua volta obbligato, pure per una Sanzione sociale relativa. ad
avere in sé la Idealità della sua disposizione o del suo potere di
educare il figlio, onde è Dovere. In una parola, il potere
egoistico, non derivando estrinsecamente dall' ordinamento sociale, ma
dalla stessa spontaneità dell' individuo, non può importare se non
la Responsabilità di chi volesse impedirlo. E quindi è solo un
Diritto. Mentre invece il potere antiegoistico, deri- vando come tale
dall' ordinamento sociale, che lo ingenera per mezzo della relativa Sanzione,
impòrta due Re- sponsabilità. Una per chi non lo rispettasse: onde
gli corrisponde il Dovere in un altro. Ed una seconda per chi non
lo avesse e non lo esercitasse : onde, sotto questo rispetto, è un Dovere
esso stesso. Dunque il Diritto è sempre una potenzialità che importa
una Responsabilità, secondo la definizione che qui ne abbiamo dato. Ma
questa potenzialità può es- sere determinata da una Legge, o Giustizia, o
Idealità sociale, secondo che importava la definizione data nella
Morale dei Positivisti, In questo secondo caso, come ivi dicemmo, il
Diritto è nello stesso tempo un Dovere. Non cosi quando la po-
tenzialità è di un ordine estramorale. 8. — E cosi siamo arrivati, per
mezzo della analisi positiva del fatto umano e sociale, a scoprire //
criterio positivo del Diritto e del Dovere. Con questo criterio (e
non altrimenti) si possono ri- solvere i problemi che li riguardano; e
specialmente i quattro fondamentali che seguono: circa i Diritti
dell' uomo sopra le altre cose della natura. Circa i Diritti dell' uomo
sopra se stesso. Circa i Diritti di Autorità. Circa il Diritto, non
di Giustizia, ma di Carità o Beneficenza, che dir si voglia. Nell'esempio
innanzi citato di uno che pigli dei pesci notammo, che il Diritto di chi
lo fa è solo per quanto il fatto riguardi altri uomini, e non per
quanto riguarda i pesci. Coi pesci, che prende, l'uomo ha il
semplice rapporto generale della cosa colla cosa, quale è quello,
pogniamo, della foglia verde oscillante al sole e rubante all'atmo-
sfera la molecola di acido carbonico che vi nuota dentro e si imbatte
alla portata delle boccuccie predatrici. In confronto col pesce 1' uomo
non ha né Diritto né Dovere. Esso, in forza del potere onde é fornito, ne
usa e ne abusa senza offesa della Moralità, che é estranea a tale
ordine di azioni. E nessuno dice reo di colpa e im- morale, né il
pescatore di professione che trae dall'acqua il pesce e ne contempla
impassibile gli spasimi dell'asfis- sia, onde muore dibattendosi
convulsivamente sulla secca arena, e lo piglia cosi per procacciarsi da
vivere; né il pescatore dilettante, che gli infligge quel martirio
per semplice spasso. Ma nella Civiltà progredita si può arrivare
fino al punto di estendere il carattere del Dovere anche alla detta
azione dell' uomo in rapporto col pesce. La Zoofilia - 138 - (che è
una tendenza della Civiltà progredita) cosi parle- rebbe in proposito air
uomo ; — Il pesce, prendilo pure : x:hè ti abbisogna per vivere. Ma nel
farlo non eccedere i limiti della stretta necessità. Prendilo per quanto
ti oc- corre, o per mangiarlo, o perchè ti è di danno o di pe-
ricolo il viver suo. Altrimenti rispetta in lui il godi- mento della
propria vita. E, dovendo prenderlo, fa ia modo che avvenga col minore suo
dolore possibile. E tutto ciò consideralo siccome un tuo Dovere verso il
pesce. E, un Dovere analogo, i moralisti più delicati oggi lo
stabilirebbero, non solo pei pesci, ma anche per tutti gli altri animali;
e non solo per gli animali, ma anche per le piante ; e non solo per le
piante, ma anche per le cose inanimate senza distinzione. Stabilirebbero
cioè quel- la ordine quarto di Doveri, che chiamano dei Doveri del-
l' uomo verso le cose della najtura: essendo V ordine primo, secondo
loro, quello dei doveri verso dio; il secondo, quello dei Doveri, verso
se stesso; il terzo, quello dei Doveri verso il prossimo. E come
ciò? E giusta tale estensione dell'idea del dovere? E, se giusta, non si
avrebbe con ciò una smentita alla nostra dottrina della formazione
naturale deir idea del dovere? Dicemmo che la effettuazione della
Idealità della Giustizia, in ragione che più avviene, più para-
lizza il suo contrario , . , e più invece ravviva i sentimenti
antiegoistici, che distinguemmo col nome di pietosi, caratteristici del sentire
dell' uomo in corrispondenza colla sua formazione della Idealità
sociale. In ordine a ciò, parlando in ispecie della Idealità sociale
della famiglia, nella Morale dei Positivisti (i) scri- vemmo quanto
segne: — Questa Idealità diversifica se- condo le varietà umane. Rozza
fra le rozze, gentile fra le gentili ; portante a illimitato uso di
potere nelle So- cietà embrionali, ristretta alla mera necessità dell*
alleva- mento, dell' educazione, e dei riguardi necessari, nelle
So- cietà più perfette ; e cosi via per altre diversità e grada-
zioni senza numero. Sicché si può dire, che, se dal bruto air uomo r
idealità in discorso si umanizza, questa uma- nizzazione è neir uomo
stesso maggiore o minore. E, dove è minore, vediamo T effetto, e nella
forma ancor fiera del sentimento relativo, e nella sua limitazione,
restringen- dosi, o alla nazione, o allo stato, o ^alla tribù, o ad
un semplice branco di uomini. Mentre, dove è maggiore, ve- diamo
Teffetto, e nella gentilezza del sentimento, e nella sua estensione, che
abbraccia tutti quanti gli uomini, per quanto diversi e immeritevoli: e
travalica anche il con-- fine dell'umanità, e si presta a che l'uomo sia
pietoso anche cogli animali inferiori, e perfino cogli esseri
inanimati, La pietà cosi estesa, o in genere Tappi icazione del
potere proprio verso le cose 7iei limiti del necessario e del
ragionevole, è una moralità indiretta, e non una mralità diretta. Che
questa è solo quella che dipende immediatamente dalla reazione tra uomo e
uomo; e che quindi ha per correlativo una Sanzione sociale e conseguentemente
ne implica la Respc^nsabilità. (i) Libro I, Parte III, Capo III, 11. 6
(|)a^. 149, 150 del voi. lU di queste Op. fiL nella ediz. del 1885, e
pag'. 156, 157 nel!' ediz. del 1893 e del 1901, e pag. 161, 162 nella
ediz. del 1908). Onde storicamente (nella successione dei periodi
della evoluzione della Moralità umana), e statisticamente (nei
gradi di evoluzione della Moralità propria dei diversi ordini costitutivi
di una stessa Società) da prima si ha solamente la Moralità diretta, o
che riguarda V uomo e non le cose. Le genti più rozze oggi e, fra
le genti più colte, le persone che lo sono meno, né sentono né
sospettano neanco che la Moralità possa riferirsi anche agli atti relativi
ai bruti e alle cose inanimate. Il decalogo mosaico, sintesi dei precetti
morali di uno stadio evolutivo antico e non ancora perfetto della
Moralità, non ne fa cenno nemmeno esso. Ma, sviluppatasi più fortemente
col progredire della civiltà nel sentimento pio la espressione della
Idealità antiegoistica, questa dovette risentirsi e muovere
ogniqual- volta nella rappresentatività umana si fossero avute
anche solo delle analogie coi fatti umani eccitatori dello stesso
sentimento pio. E ciò per la legge generale della attività
psichica, la quale importa che la rappresentazione somigliante (os-
sia il ritmo analogo dell' attività centripeta) determini affetti e
volizioni somiglianti (ossia ritmi analoghi dell’attività riflessa).
Mansuefatto l’uomo per l’effetto dell' ambiente sociale, e reso più umano, e cresciuta
in lui la potenza pietosa, questa dovette scuotersi al palpito, non solo
delle viscere del fratello immolato dalla ferocia dell' assassino, ma
(per somiglianza della cosa) anche di quelle dell’agnello semivivo sul lastrico
del pubblico macello. Do- ||Wli|ILP!iWWiJi,iS"iWii vette
scuotersi perfino alla dilaniazione dei ramoscelli vivi di una pianta,
onde il pensiero è tratto per analogia a rappresentarsela con un senso di
dolore. Come quando Goethe canta di una pianticella di rosa. Der wilde
Knabe brach* s Rdslein auf der Heiden ; Ròslein wehrte sich und
sùach, Hai/ ihm dock kein Weh und Ach ! Mussi* es eben leiden,
E siccome il senso della pietà è, come dicemmo, il sentimento riassuntivo
dell’idealità antiegoistica, ossia doverosa, cosi il concetto vago del
dovere, colla sua imperatività astratta e quindi misteriosamente
indefinita, dovette associarsi anche alla Pietà sentita in causa dell’analogia
per T agnello e per la rosa ; e conseguente- mente si dovette
indirettamente o per riflesso, la ragione del Dovere, estenderla anche al
rispetto di un animale e di una pianta. Ed è ciò che confusamente
presentirono quei vecchi sensisti che posero la facoltà immaginaria del
senso della Moralità, o queir altra misteriosa della *simpatia* o
compassione. Ma la cosa può andare anche più oltre. Il sentimento
pio medesimo, rimanendo offeso in chi è testimonio della azione spietata,
compiuta da una per- sona o sopra un bruto o sopra un' altra cosa, e
perciò in lui risentendosi, può far sì che egli si esprima ripro-
vando r azione offendente. Tale espressione riprovatrice sarebbe una vera
San- zione vendicatrice della resizione di Convenienza, e che — 142
— potrebbe essere assunta dal Potere, quando esso (come è
possibile, anzi probabile, an2i in gran parte si è già fatto (i)
progredendo la Civiltà) convertisse in Legge pubblica il giudizio privato
divenuto comune. Come è notissimo, in tutti si può dire i paesi civili si
sono formate delle società per la difesa degli animali, e si sono
fatte delle confederazioni di esse anche internazionali, e si tengono
di tratto in tratto dei congressi dei loro rappresentanti. E si sono
anche fatte delle leggi proibitive degli eccessi contro le povere bestie.
E credo opportuno riportare (jui tradotto un tratto a proposito del
Konversations Lexikon del Brockhaus (Lipsia, 1895 voi. 15, pag. 844) — La
legislazione più antica contro quelli che maltrattano gli animali ci è
presentata dall' Inghilterra dove essi erano puniti fino dal secolo
passato. Seguì una serie di leggi per la protezione degli animali
domestici, per la proibizione delle giostre delle fiere, per la
limitazione delle vivisezioni. Relativamente presto anche la Germania
dettò leggi nello stesso senso ; oltre le misure di polizia, il codice
penale sassone del 30 marzo 1838 indisse la prescrizione generale per la
quale si deferivano alle autorità di polizia le punizioni per gli eccessi
dell' uso anche legittimo degli animali. Seguirono tosto la Prussia, il
Wtirtemberg, ecc. con prescrizioni in parte più estese. Al presente vige
un paragrafo del codice penale dell' Impero, col quale è punito con una
multa che va fino ai 150 marchi, o col carcere, chi pubblicamente o in
modo da fare scandalo con malvagità d' animo tormenta o tratta male gli
animali. Oltre ciò sono in vigore nei diversi stati delle ordinanze
speciali delle autorità amministrative proibitive di particolari
maltrattamenti degli animali e in favore di un contegno ad essi
favorevole, e in specialità con prescrizioni circa il trasporto degli
animali, i cani da tiro, la macejleria, il sopraccarico dei carri ecc.
Nell'Austria, oltre certe ordinanze speciali delle autorità, ha valore di
legge 1* ordinanza ministeriale del 15 febbraio 1855, che dichiara
punibile il maltrattamento degli animali che desti pubblico scandalo ; in
Francia la cosidetta legge Grammont del 2 luglio 1850 per la protezione
degli animali domestici, ecc. I rappresentanti delle società per la
difesa degli animali tendono a che la punibilità si estenda maggiormente
e non si limiti a restrizioni fissate, come per esempio la pubblicità def
maltrattamento. Di tale tendenza pare ab- biano tenuto conto la Svizzera,
1' Italia (art. 491 del Codice penale del 1889), il Belgio (Codice penale
del 1867), l'America del Nord, ecc. ■^i^i Nel qual caso poi si
avrebbe una doverosità diretta formatasi da una indiretta. E con una
Sanzione e una Responsabilità, non misteriosa e indefinita e vaga,
ma determinata. E lo stesso avviene poi per molte altre dell’idealità
morali. E anche per un altro verso V esercizio del po- tere di un
uomo sulle cose può finire coir essere gover- nato da una doverosità.
Come dove uno, che possiede un podere e potrebbe farne lo strazio che
volesse, è tratte- nuto dair idea di non lasciare i figli senza pane.
Nel quale ordine di idee cade il fatto della legislazione sulla
interdizione dei prodighi. E per altri versi ancora; e per moltissimi.
Ogniqual- volta cioè r esercizio del potere, di un uomo sulle cose
offende, o affetta in qualsiasi maniera, il senso e l’appreziazione dell’altro e
ne provoca una reazione, incontrandone quindi una sanzione e la
responsabilità. E in tale ordine di casi è da notarsi che certi atti
fisiologici necessari ed inevitabili, ma incomodi o al senso esterno o al
sentimento estetico, importano una dovero- sità solo in quanto sono
compiuti da un uomo alla pre- senza di altri e non in quanto sono fatti
in disparte e in segreto. Fatta però V abitudine di considerare gli
atti mede- simi fatti alla presenza degli altri come illeciti, V
idea della loro sconvenienza si associa poi ad essi • tanto o
quanto. anche compiendoli nascostamente. E quindi l'uomo, a misura che diventa
civile e moralmente più perfetto, si studia o di evitarli più che è
possibile o, non poten- . I !ij.i«pj dolo assolutamente, di eseguirli nel
modo meno inde- coroso. Ciò conferma anche la dottrina positiva già
da noi accennata (i) della formazione naturale dei Doveri del- l'
uomo verso se stesso. E spiega in pari tempo il fatto curioso delle
an- tiche Moralità religiose, che consideravano alcuni fatti
fisiologicamente necessari dell'uomo, anche compiuti in- segreto, impuri
e tali da inquinarlo, e richiedenti quindi i riti della
purificazione, 7. — Secondo le idee religiose T arbitrio sulle cose
sarebbe una concessione di dio, creatore e quindi proprie- tario di esse: e in
forza di questa concessione l'arbitrio medesimo sarebbe intero ed assoluto ed
esente dalla restrizione doverosa sopra chiarita di un trattamento umano
e di un uso razionale, mancando il precetto divino rela- tivo, che solo,
secondo le idee stesse, può stabilire la ra- gione del Dovere. E da
ciò si vede che il positivismo, anziché distrug- gere la Moralità, è atto
invece ad allargarla più che non lo faccia la religione. La quale anzi,
nella sua gelosia pel monopolio arrogatosi della morale, si irrita e si
im- penna per questo eccesso (come essa lo chiama) di Mora- lità
positiva della Società moderna più colta, che vuol essere buona anche
colle bestie e coi fiori. La religione si sente in ciò moralmente
soverchiata, e se ne vendica chiamando questa bontà, che essa non
sente e non può insegnare, cosa diabolica e perversa. (i) Vedi sopra Capo
II, J VI, n. 14, e la nota (2) relativa. Si teme che, perduta la
religiosità, V uomo tor- nerà alla ferocia brutale della prepotenza
egoistica; e non si vede che invece il positivismo è ancora più
umano e morale che non la religione. Cosi si lamenta che la Civiltà
vada distruggendo la ingenuità santa dei tempi antichi ; e non si vede
che' i santi ingenui dei vecchi tempi, perfino le matrone pa-
trizie e venerabili, erano, verso le stesse persone umane degli schiavi,
più fieri e crudeli che il rozzo mulattiere colla sua bestia
ricalcitrante, e il ragazzo ineducato col- r insetto che strazia senza
pietà. L' uomo del positivismo non si umilia irragionevol-
mente col credere che V uso delle cose, sulle quali sente di avere un
potere, sia una concessione gratuita e capric- ciosa che gli sia stata
consentita dal talento o dalla mi- sericordia di qualcheduno. Ed è
orgoglioso di ritenere cosa sua ciò che egli è in gprado di appropriarsi:
anche i mari, le montagfne, il vapore, V elettricità, che non sono
enumerati nel rogito di consegna del paradiso terrestre. Ma ciò non
impedisce che egli agisca verso le cose con meno insolenza dell' uomo
religioso e con maggiore mitezza. Il proposito del positivista non è
quello avaramente egoistico del moralista della religione, che dice a
se stesso: — Queste cose dio me le ha date in proprietà: dunque perchè
non ne caverò per me tutto il pro- fitto possibile? Il suo proposito è
quello retto, onesto, morale della razionalità, di servirsi cioè delle
cose pel bene in genere, proprio od altrui ; fosse pur anco solo il
bene delle cose che non sono lo stesso uomo. Voi. IV. IO '■■■^
^ Pel moralista della religione le cose sono una pro- prietà, onde
dio, che le ha create e può quindi disporre a suo talento, lo ha
investito, col controsenso che abbia ancora a sudare per raccogliere i
frutti del campo, e lot- tare contro la rabbia, molte volte fatale, delle
bestie fe- roci. Il moralista del positivismo invece, fiero di se stesso,
audace, generoso come Giapeto, non riconosce donatori. Egli si sente-
padrone della natura come frutto della siia conquista faticosa ; e, come
un duellante cavalleresco, al- l' elemento immite della natura dice:
Eccoci alla prova; se varrai più di me soccomberò io; sarai tu a
soccom- bere, se sarò io il vincitore. Ma si dice dal moralista
religioso, che un Do- vere originato nel modo da noi detto sopra non è
pro- priamente un Dovere : e che, se V ha fatto V uomo, esso può
anche disfarlo. Secondo il moralista religioso il Dovere
propriamente detto è quello che non è abbandonato alla balia del
ta- lento mutabile e capriccioso dell'uomo: onde è neces- sario che
sia un comando di dio, al quale non è possi- bile sottrarsi. E in
tale credenza è secondato dalla falsa idea, pur generale ancora fra gli
stessi positivisti, che le buone azioni in genere, e in ispecie la pietà
verso i bruti e la ragionevolezza neir uso delle cose, siano naturalità
irre- sponsabili, al pari, mettiamo, degli effetti delle cause fi-
siche sui corpi: disconoscendosi cosi, per ispiegare i fatti in discorso,
la loro natura morale, che è pure una realtà attestata
sperimentalmente. Il positivismo (malgrado i positivisti che sbagliano) vita
futura, conchiudono generalmente che l'uomo da nulla è obbligato ad avere
rispetto alla propria vita, poiché, suicidatosi, rimane senza efficacia
qualunque minaccia che la Società ponesse a trattenerlo. E che quindi sia V
uomo anche moralmente padrone assoluto della propria vita, e possa disporne
come gli talenta. Queste sono due soluzioni opposte ed estreme. False
ambedue, perchè dedotte da una idea del Dovere scien- tificamente non
vera. Una doverosità diretta, relativamente al suici- dio, certo
che non si può trovarla, poiché, né ha nes- suna presa sul suicida una
minaccia di punizione per parte della Società sulla di lui persona, che
se ne sot- trae col suicidio stesso, né é ammissibile l' idea della
Legge divina e della immortalità dell' anima. E, assolutamente parlando,
quanto alla conservazione della propria esistenza, V uomo potrebbe considerarsi
nella condizione estramorale indicata sopra parlando degli atti deir uomo
sopra le cose della natura. E quindi, come non si ascrive a merito il
tendere, nelle condizioni nor- mali dell'animo, a conservarsi in vita, e
neanche a tirare il respiro (quantunque a ciò si possa concorrere
anche colla volontà), cosi il suicidio potrebbe essere riguardato
semplicemente quale effetto naturale di condizioni anor- mali dell' animo
di un uomo, come il tossire delle con- dizioni anormali degli organi
della respirazione. Ma, se non una doverosità diretta, si può bene
avere, circa il suicidio e la conservazione della propria vita, una
doverosità indiretta; per la ragione che molte e diverse Idealità morali
doverose, connesse col fatto della conservazione della vita, possono
essere presenti imperativamente (ossia con una impulsività morale o
do- verosa) nella coscienza disposta al suicidio; e rivestirne la
deliberazione del carattere della reità morale. Mettiamo un padre
disposto a suicidarsi, che pensi di creare, facendolo, la infelicità
materiale e morale der figli superstiti. O uno che pensi danneggiare
suicidan- dosi dei creditori onesti, che si sono fidati di lui e lo
hanno beneficato prestandogli del denaro, che avrebbe potuto pagare
almeno in parte continuando a vivere. E cosi via per moltissimi altri
casi consimili (i). (i) Molto istruttivo per questo è il noto
dramma di Paolo Ferrari, intitolato // Suicidio^ nel quale, come le
tirate spiritualistiche sono freddure senza fondamento scientifico, senza
sugo e ridicole, che è strano che egli creda che si possano prendere sul
serio, cosi invece è pieno di verità e di effetto il quadro delle
conseguenze nella fa- miglia superstite del suicida. Onde poi si
deduce che anche nei casi nei quali la doverosità affetta, per impedirla,
la deliberazione del sui- cidio, questa doverosità non è sempre la
stessa, ma varia secondo il numero, la importanza e la qualità delle
ra- gioni morali intervenienti. Cosi, se un corpo insipido per sé
acquista un sapore da sostanze che glielo danno, que- sto suo sapore
varia secondo la diversità delle sostanze dalle quali Io riceve. Tanto
è vero poi che la doverosità non è in- trinseca al suicidio per se
stesso, e gli è. conferita, quando si dà che Io accompagni, da ragioni
morali intervenienti diverse secondo i casi, che si può pensare Inter
venirvene anche di opposte; e tanto da produrre perfino la dove-
rosità contraria, ossia quella puranco di commetterlo. E invero tutti
quanti i ragionamenti ingegnosissimi architettati da certi moralisti non
poterono mai togliere r aureola di eroismo virtuoso onde risplende la
memoria di Lucrezia romana e di Catone uticense. Dicemmo, che la
doverosità può associarsi al fatto del suicidio, e contrastarlo quindi
nella coscienza morale in quanto si dà accidentalmente la
circostanza che, commettendosi da un uomo, restino inadempiuti dei
Doveri che gli incombono e sono da lui apprezzati. E per ciò affermammo
che la doverosità stessa viene così a riguardare il suicidio, non per sé,
ma indiretta- mente. Se non che è pur vero che anche una
doverosità diretta, atta a contrastare da sé la deliberazione di
com- metterlo, si accompagni al suicidio. E per ciò per una
Sanzione che minacci, non la persona viva (che non può I- "II* PF.I
'darsi come dicemmo), ma la sua fama dopo la morte. La paura di nuocere
alla propria fama col suicidio può trat- tenere tanto o quanto un uomo
dal commetterlo, e in tal caso esisterebbe per quest' uomo una doverosità
diretta impeditiva del suicidio. E sono due gli ordini dei motivi che
possono deter- minare questa Sanzione per la quale la Società può
ven- dicarsi del suicidio sopra la memoria del suicidato. Il primo
è quello delle doverosità indirette accen- nate sopra. E per esse viene ad
avverarsi così ciò che si disse al numero 5 del paragrafo precedente della
dove- rosità indiretta occasione della diretta. Il secondo è quello della
opinione sfavorevole che domini in una Società o in una classe di persone
ri- guardo all'atto der suicidio, fondata sopra la idea che sia una
irreligiosità abbominevole o una rivelazione di debolezza d' animo o di
alterazione delle facoltà mentali. La doverosità diretta dipendente da
una San- zione sociale, determinata da questo secondo ordine di
motivi, è una doverosità accidentale e temporanea, e non normale e
durevole, come si richiede pel Dovere assolu- tamente tale. E
in vero T opinione relativa al suicidio, non sem- pre, non dapertutto, si
trova ad esso sfavorevole. Quante volte, e presso quanti invece il
suicidio è solo ragione di compassione, come per una disgrazia non
colpevole, o è anche una ragione di lode! La disapprovazione
motivata dalle idee religiose vien meno con queste. Si danno circostanze
nelle quali il sui- cidio si riveste del carattere di atto eroicamente lodevole,
come nei citati di Lucrezia romana e di Catone uticense. Si danno
condizioni e periodi dello stato di una Società, che fanno considerare il
suicidio siccome una fatalità ir- responsabile. Che più? Se uno è
colto a commettere una azione criminosa, la gente si avventa sdegnata
contro il delin- quente e si presta in aiuto della pubblica autorità
ven- dicatrice. Si corre invece a salvare dalla morte chi è in
procinto di darsela, e con senso, non di sdegno, ma di pietà, Tutto
giorno si moralizza sul suicidio a fine di impedirlo, ritenendosi di
danno alla Società in gene- rale e a certe sue istituzioni in
particolare. Ma si mora- lizza inutilmente. Le ragioni che si fanno
campeggiare sono inefficaci per mancanza di solidità intrinseca. Il
fatto si ripete ugualmente, come la febbre curata coli* acqua
fresca. E il male, riguardo alla Società, non è tanto nella perdita dei
suicidi, che in generale non costituiscono la sua parte più attiva e
sana, ma nelle condizioni stesse della Società, che, se sono favorevoli
al suicidio, con ciò dimostrano di essere non buone e da
migliorarsi. Per le cose dette certo si scandolezzeranno molti. E
crederanno di avervi trovato un capo d' accusa ineccepibile contro T
etica del positivismo, per sostenere che essa è esiziale alla Moralità
dell' individuo e del corpo sociale. Ma noi rideremo dello scandalo;
ingenuo, se chi lo prova è un pusillo; e ipocrisia, se chi lo pre-
testa è un accorto. E diremo: Acquietatevi, che né la Moralità
individuale, né la Società avranno danno nes- suno. Anzi ne avranno
vantaggio. L' esperienza dimostra che anche tra i credenti in una
fede, che riprova assolutamente il suicìdio, si danno di quelli che lo
commettono. Sicché non si può soste- nere che la religiosità valga ad
impedirli. Quanto alla minaccia dell' eterno castigo il credente suicida,
o la af- fronta disperatamente, o trova modo di persuadersi di po-
terlo evitare. Tanto che si sa di suicidi cattolici che si confessano
prima di darsi la morte. E nei credenti, se si ha il ritegno della paura
della pena avvenire, non si ha poi queir altro, del non credente,
dell'orrore di metter fine per sempre alla esistenza, che per questo non
si pro- lunga oltre la vita attuale. E se si disse, che i credenti
un tempo si trattenevano molte volte dal suicidarsi per r idea di essere
sepolti fuori del cimitero consacrato, non è men vero che ora possa
altrettanto l'idea del biasimo che può restare alla loro memoria.
Abbastanza ha provveduto la natura coli' istinto strapotente della
vita alla conservazione dell' umanità, malgrado i mali gravissimi che ne
accompagnano la esi- stenza. La disperazione che porta al
suicidio non si mani- festa con frequenza allarmante se non in certe
condizioni morbose sociali ; e ne è il sintomo. Si manifesta per
ef- fetto delle condizioni medesime, regnino o non regnino le
religiose credenze. Ed avviene pel morbo, onde il sui- cidio è il
sintomo, come per tutti gli altri morbi; che, se non producono la morte,
le loro crisi stesse ajutano la guarigione, sia segnalandoli alla cura da
applicarsi, sia promovendo una reazione salutare. Quando in
una Società si verificano frequenti suicidi HW"*^
» è certo ch^ la pubblica opinione si scuote dalla sua indifferenza
per le cause dalle quali essi dipendono. E finisce per rendere giustizia
alla protesta contro di lei di quelli, ai quali fu fatale lo sdegno
contro la sua durezza. E i singoli individui sono avvertiti e
ammaestrati circa i pericoli fatali di certe posizioni e circa gli
effetti funesti di certi indirizzi della vita, perchè li evitino e
si ravvedano intanto che il male può essere ancora scon-
giurato. Il Diritto suppone l'Autorità; ossia è Diritto solo in
quanto è autorizzato ad esserlo. Ma la stessa Au- torità è tale solo in
quanto è un Diritto. E lo stesso Di- ritto, qualunque esso sia, è in se
stesso una Autorità. Questi asserti sono altrettanti principj
fondamentali positivamente veri; quantunque la loro enunciazione
ab- bia r apparenza di un circolo vizioso. Come dicemmo sopra
tante volte (i), il Diritto per essere veramente tale (e non
semplicemente la potenza di fare, comune ad ogni cosa che agisce), deve
corrispon- dere ad una Sanzione che ne assicuri V esercizio, con-
forme air Idealità sociale o giusta : e importare quindi una
Responsabilità morale. Ora la potenza che stabilisce questa Sanzione, e
verso la quale esiste questa Respon- (E si veda per tutte la nota
al n. 5 del § II di questo Capo III ) sabilità, è ciò che si chiama una
Autorità. Onde è chiaro essere il Diritto un correlativo della Autorità,
e quindi supporla necessariamente. Potrebbe sembrare a prima
giunta che questa dottrina fosse identica alla vecchia religiosa e
politica circa TAutorità e la dipendenza da essa del Diritto. Ma
tra quella e la nostra corre una differenza di opposizione
perfetta. La vecchia dottrina religiosa della Autorità
insegna, che ogni Diritto dell* uomo risulta da una concessione
gra- tuita di dio: che il Diritto, assolutamente parlando, non l'ha
se non dio: che T uomo di suo ha solo il Dovere: che quindi, quando si
dice di un uomo che ha un Di- ritto verso un altro, la cosa va intesa
cosi, che dio ha imposto a questo il Dovere di fare o rispettare o
lasciar fare una cosa che lo stesso dio vuole che sia pertinenza
del primo. Politicamente poi la stessa dottrina insegna che
il capo dello Stato è investito divinamente (e ciò significa la
consacrazione e la incoronazione con rito religioso per parte del
sacerdozio) di un potere sopra tutti i cittadini; che esso ne è il
sovrano per volere diretto di dio (onde il titolo Per la grazia di dio) e
indipendentemente dal volere loro e da qualunque ragione naturale di
Giustizia o di bene comune (onde il precetto religioso: Obedite
praepositis vestris etiam discolis)\ e che quindi i citta- dini, per lo
stesso arbitrario volere divino, non sono altro che sudditi. La
scienza ha fatto ragione del principio religioso; r evoluzione storica
sociale del politico. IP^II^KIIV idn,»»^ij5'tr«'isnfc#«^--xj'
Il principio religioso è il solito fenomeno psicolo- gico volgare, onde,
concepito V astratto di un ordine na- turale di fatti, il medesimo
astratto è pensato come una realtà fuori degli stessi fatti e come causa
di essi. Gli esseri viventi, ad esempio, danno V astratto dalla
vt^a, che non è se non la forma caratteristica speciale che li
distingue dai non viventi. Pel fenomeno psicologico sud- detto si fece di
questa vita una realtà atta ad introdursi in questi esseri che lo
possiedono e a renderli vivi con ciò. Cosi fu fatto per V Autorità. Per
una illusione ana- loga; separata mentalmente dalla funzionalità sociale,
onde è un aspetto, fu collocata in dio, e di là si è fatta valere a
cagionare la funzionalità medesima. E qui, come è ben noto, ci
troviamo col solito abbaglio, del metodo metafisico, che spiega la cosa e
il fatto colla stessa cosa e collo stesso fatto. Come nel de-
rivare gli effetti fisiologici dell'Oppio dalla sua Virtù dormitiva: per
citare lo stesso esempio addotto da Pa- squale Villari nel suo scritto
intitolato e La Filosofa po- sitiva e il Metodo storico » pubblicato fino
dal gennaio 1806 nel Politecnico di Milano, e che io qui ricordo
per- chè egli fu il primo che ponesse la questione del Posi-
tivismo (nel senso che ha oggi) in Italia, e perchè una grande influenza
anch' esso ebbe sopra V indirizzo delle riflessioni che finirono a
produrre l'ordine attuale delle mie idee filosofiche. Parlando poi della
applicazione politica dello stesso principio religioso basterà osservare
come per essa il Potere è concepito, non come Giustizia, ma come
Prepotenza ed Usurpazione ; onde si ha la Pre- potenza, ossia r
Ingiustizia, eretta alla dignità di principio inorale. Il che è bene scandaloso
in una dottrina che pretende di essere la salvaguardia unica
possibile della Moralità. E questa applicazione politica del
principio religioso si trova poi corrispondere precisamente ad uno
stadio arretrato della evoluzione. Il contrasto sociale (dal
quale, come dimostrammo, dipende la riduzione della Prepotenza e la sua
trasfor- mazione in Giustizia) si attestò da prima nell' impero
della religfiosità e della sua rappresentanza, cioè in quella del
sacerdozio. E allora si disse, il sovrano avere il po- tere da dio, ed
essere responsabile verso di lui dell'uso di esso; e il sacerdozio si
atteggiò a creatore e giudice del sovrano in nome di dio.
Poi, venuta meno per le ragioni storiche la forza ef- fettiva del
sacerdozio nella Società, e quindi il peso del suo contrasto, la
sovranità se ne emancipò, e il legitti- mismo di ortodosso divenne
eterodosso; cioè, riconoscendo ancora T esser suo dal cielo, autore e
giudice della so- vranità della terra, sottrasse però questa alla
elezione e al foro sacerdotale. Incontrastabile veramente è il
principio della filosofia etica tradizionale, che il Diritto suppone la
Autorità e che quindi questa si richiede pure per la Mo- ralità. Ma
si ragiona falsamente dicendo, che il Positivismo viene a distruggere la
Moralità, dal momento che toglie di mezzo l'Autorità; sicché per salvare
la Moralità si debba necessariamente tornare alla filosofia
tradizionale, che sola possa stabilire il principio della Autorità.
L'Autorità, il Positivismo, la pone anch' esso ; e con certezza, poiché
ne trova il fatto nella Società e nella psiche deir uomo civile, e ne dà
la spiegazione partendo dalla osservazione di ciò che succede realmente.
E cosi la fissa scientificamente ne' suoi termini veri e giusti, e
la garantisce dal dubbio (fatale sempre in materia di mo- rale), e da
ogni falsa, e dannosa, e immorale interpreta- zione e applicazione.
L'Autorità, che la filosofia tradizionale fa venire dal cielo, è un sogno
antiscientifico ed involgente una con- traddizione. Come
avvertimmo un' altra volta (i), il comando di- vino imponente il Dovere
all' uomo è un principio im- morale della Moralità, mentre in fondo è la
tirannia, o l'ingiustizia, in grado infinito. E mostrarono
d'essersene accorti gli stessi metafisici quando concedettero, che
il comando divino abbia da essere non ripugnante alla es- senza
stessa delle cose, per cui riesca giusto, e dio che ne usa debba chiamarsi
santo. La stessa condizione po- sero anche per la sua Autorità ; e cosi,
ammettendo una dipendenza di essa dalla essenza delle cose, fecero
di questa il primo e di dio il secondo, e quindi vennero a
disautorarlo. E r ammettere la condizione in discorso è poi
infine un riconoscere in modo indistinto la verità della nostra
dottrina, per la quale l'Autorità, non è un assoluto,. xm, un
relativo. Cioè l'Autorità è il relativo di qualche cosa che
si impone moralmente; vale a dire con una Responsabilità (i)
Sopra Capo II, § II, n. ii. ..LUI «IVI verso una
Sanzione, e quuidi verso una reausione libera od umana: insomma verso la
Sanzione sociale. Per cui l'Autorità non può nascere se non nella Società
degli uomini, e non può essere se non una formazione naturale della sua
attività organica. Ma questa dottrina del positivismo circa l'Au-
torità pare anch' essa contradditoria alla sua volta. Un Potere,
come si disse, è una Autorità in quanto conviene con una Idealità sociale
ed è giudicabile se- condo questa; e quindi il suo esercizio è passibile
di una Responsabilità verso un Tribunale che dispone di una
Sanzione per far valere i principj secondo i quali sentenzia.
Ora, siccome tale è precisamente anche il Diritto, cosi l'Autorità
viene ad essere anch' essa un Diritto. Ma se l'Autorità è un
Diritto, e il Diritto lion è tale se non per l'Autorità subordinante che
lo riconosca e lo sancisca, come potrà darsi l'Autorità, non potendo
essere che il subordinante sia nello stesso tempo il subordinato? Per
rispondere alla difficoltà basta richiamare quanto fu detto sopra (i)
della Giustizia effettiva o giu- ridica, o del corpo sociale ; e della
potenziale, o dell' in- dividuo. Ciò che sancisce l'Autorità
suprema dello Stato è in genere l' indistinto delle coscienze
individuali, che ve- demmo sopra come esista e come operi. E che, in
modo via via più distinto, si concreta nelle prerogative proprie
della gerarchia sociale (I) Capo I. i VII. E COSI è tolta la
contradd^ione obbiettata. Il Diritto del subordinato è sancito
dalla Autorità stabilita nella Società. Il Diritto di questa Autorità
è sancito anch' esso da qualche cosa. Ma non da un' altra Autorità
superiore a quella della Società, che non può darsi: sibbene dalla
potenzialità morale del corpo sociale collettivo (o delle coscienze
individuali) che si forma ed esiste e funziona ed è efficace in r^ione e
a misura che vige l'ordinamento effettivo della Società. E questo
vero è attestato dal fatto storico co- stante della Società umana, nella
quale sempre si è ma- nifestato questo processo; da una parte, della
Autorità stabilita che sancisce il Diritto del subordinato; e dal-
l'altra, della coscienza comune dei subordinati che san- cisce il Diritto
della Autorità stabilita. Questo fatto è evidentissimo nella
costituzione delle Società moderne più avanzate, nelle quali é già
ricono- sciuta anche legalmente la dipendenza del Governo, in tutte
le sue parti, dal beneplacito dei cittadini. In tutte le sue parti ;
mentre ormai la irresponsabilità, o si limita alla sola persona del capo
supremo, o è tolta affatto anche per questa. All' infuori del
potere tirannico della forza e della violenza di certe Società informi,
che non è ancora l'Au- torità giusta propriamente detta, ma la Prepotenza
in- giusta, nei governi teocratici la potenzialità morale del corpo
sociale collettivo si manifesta nella istituzione e dipendenza del Potere
dalla religione. E nei governi as- soluti laici la potenzialità stessa si
manifesta nella dipendenza del Potere sovrano, che pure ivi ha luogo, da qualche
cosa; come dalle consuetudini, dalle caste, dagli ottimati e via
discorrendo. 7. — Ed è poi confermato il vero medesimo dalla
distinzione, che sempre fu riconosciuta, fra il Diritto reale e il
potenziale ; ossia, che è lo stesso, fra il Diritto positivo e il
naturale. Poiché, scientificamente parlando, che è mai il Diritto
naturale, se non la potenzialità morale propria degli individui componenti la
So- cietà. Il nostro ragionamento ci ha condotto: Primo, a scoprire
la vera indole del Diritto naturale. Secondo, a spiegare con ciò V
origine e la natura vera della Autorità sociale. A darci il
criterio per istabilire i rapporti del Diritto naturale col positivo,
tanto storici quanto ideali. 2. — Il Diritto positivo è, come già
dicemmo più volte, il Potere quale è costituito e funziona nella
Società umana; il Potere dei subordinanti e quello dei subordinati,
in quanto è riconosciuto fissato e garantito dal primo. (i)
Vedi in proposito : Morale dei Positivisti Libro I, Parte li. Capo IV. n.
15 e segg. (pag. 125 e segg. del Voi. Ili di queste Op. fil, nella
edizione del 1885, e pag. 131 e segg. nella ediz. del 1893 e del 1901, e
pag. 135 e segg. nella ediz. del 1908), e Parte HI, Capo I (pag. 129 e
segg. del medesimo nella ediz. del 1885, e pag. 135 e segg. nella ediz.
del 1893 e del 1901, e pag. 139 e seg. nella ediz. del 1908). — E questa
Sociologia Capo I J VII (principalmente n. 6) e J Vili (principalmente n.
3 e 4), e Capo II. ? 11, nota al n. 5. Il Diritto naturale non è altro che il
potenziale. Ossia quello che corrisponde alle Idealità sociali, o
giu- ste, o morali. £ alle Idealità sociali universe: tanto a
quelle che si sono già avverate nella psiche e nella co- scienza umana,
quanto a quelle che non vi si sono an- cora avverate, ma vi si possono
avverare quandochesia. Dalle quali definizioni enaerge che il
Diritto positivo è determinato e giu- stificato dal naturale; che il
Diritto naturale è imprescrivibile, ed ha un valore trascenclente
assoluto, corrispondendo al va-- lore trascendente assoluto della natura
onde è il prodotto: come una forza o una specie naturale qualunque,
che l'uomo trova nella realtà e deve subirvi e riconoscervi; che il
Diritto naturale è universale, come la natura umana, allo svolgimento
proprio della quale cor- risponde. Quarto, che il Diritto
naturale è infinito. Il Diritto
naturale è infinito, nel senso posi- tivo della parola, spiegato nella
Morale dei Positivisti (i). Infinito cioè nel senso, che è una
potenzialità inter- minabile nelle serie e nelle forme de' suoi
svolgimenti. Una potenzialità indistinta atta a determinarsi nei
fatti dei Diritti distinti che si verificano via via senza fine,
come i fatti in genere nella natura per la sua forza ine- sauribile. E
non mica un pensiero, o un sistema di pen- sieri, già determinato e
fissato in tutto il suo contenuto (Libro II, Parte III, Capo I (pag. 255
e segg. del Voi. Ili di queste Op. fil,, neir ediz. del 1885 e pag. 268
nell'ediz. del 1893 e del 1901, e pag. 275 nella ediz. del 1908). e
in una forma unica, nella mente di dio, come dà la filosofìa
tradizionale. La quale immiserisce meschinissimamente il
concetto del Diritto. Come immiserisce meschinissimamente il con-
cetto delle specie naturali delle piante e degli animali, riducendole ad
un numero chiuso di archetipi fissi pre- stabiliti in una mente
creatrice. Come realtà attuale, già distinta nella sua forma
di Diritto, questo è un fatto accidentale; è il risultato del caso
dell'incontro fortuito delle reazioni particolari che ne determinarono la
effettuazione reale, analogamente a ciò che avviene per ogtii fenomeno
naturale, e come nella Formazione naturale nel fatto del sistema solare
dimo- strai importare la legge universale della Formazione na-
turale. Ma esso Diritto poteva realizzarsi in un infinito numero di altri
modi ; come era possibile un infinito altro numero di accidenti (i) nella
coincidenza produttrice della serie degli eventi e della serie delle
condizioni dell'uomo, in cui si avverò la coincidenza. E, del pari, resta
sempre infinito il numero dei momenti evolutivi ulteriori, per la
stessa ragione, e perchè V attività naturale resta sempre inesauribile, e
non si arresta al punto al quale è arrivata in un dato momento. Dalle
quali cose poi emerge che tra il Diritto positivo e il naturale vi deve
sempre essere lotta. Tanto è lungi che il positivo (come discenderebbe
dalle dot- trine dell' etica tradizionale) sia T acquietamento
defini- tivo del naturale; e che questo, eflFettuatolo, riposi in
(i) Vedi la Parte IV dello stesso libro. -
quello, e solo debba stare in guardia contro i principj contrari
(sia delle passioni ree dell' uomo, sia di potenze sovrannaturali
perverse) tendenti a disturbare V assetto etico definitivo del
mondo. Eterna è la lotta fra il «Diritto positivo e il
Diritto naturale. E non effetto della reità di nessuno, ma dello
stesso Processo del Bene. Il Diritto naturale lavora continuamente a
trasfor- mare il talento della Prepotenza egoistica, che rimane
nella Autorità vigente, in ijome della Idealità antiegoi- stica. E la
trasformazione, incominciata sopra il massimo della Prepotenza, e continuata
pei gradi insensibili infi- niti della sua diminuzione, non è mai
compiuta total- mente. Il Diritto positivo di un dato momento
è sempre in arretrato verso le Idealità sociali più progredite, già
al- beggianti nelle coscienze sociali. E la evoluzione di que- ste
Idealità, che, nate, si ribellano subito al Diritto po- sitivo
discordante per riformarlo ad immagine di se stesse, è una evoluzione che
mai non cessa. L’Autorità del subordinante e in pari tempo, un suo
Diritto. Soggiungiamo ora che anche il Diritto del subor- dinato è,
esso pure, una Autorità nel vero senso della parola. Il
Diritto del subordinato è si riconosciuto dalla Au- torità del
subordinante, mai non è da questa creato. Esso esiste per sé in virtù del
fatto del suo comparire nella coscienza individuale. Se questo fatto non
si avesse, l'Au- torità del subordinante non potrebbe fare che fosse il
Diritto relativo. Dato che sia il fatto, la stessa Autorità non può
esimersi dall' ammettere il Diritto. Il Diritto del subordinante
quindi si impone per que- sto verso all'Autorità del subordinante, e
perciò è esso stesso una Autorità. Oltreché poi ogni Diritto, anche
di un subordinato, è sempre tanto o quanto subordinante, cioè atto
a determinare dei Doveri e dei Diritti corre- lativi. E questa
dottrina della autorevolezza intrinseca del Diritto del subordinato
(santo pel subordinante, come l'Autorità di questo è santa pel
subordinato), era sentita nella coscienza etica degli antichi, malgrado
il falso loro riferimento della cosa, quando all' ordine iniquo del
prin- cipe tendente a violare il Diritto naturale del suddito,
questo rispondeva: Se il principe comanda ciò che dio proibisce, o
proibisce ciò che dio comanda, l' ordine e il divieto del principe non
hanno valore per la coscienza. La dottrina positiva dell'Autorità e del
Diritto è liberale. Questa
dottrina (che è quella del liberalismo positivo) contrasta a due estremi
opposti ; esiziali 1' uno e r altro alla Moralità vera. A quello del
Nichilismo del Diritto individuale della dottrina etico-religiosa dei me-
tafisici ; e a quello del dichilismo deldiritto del Potere di un certo socialismo
materialistico. Il Diritto naturale e l'Autorità del Potere, che lo
riconosce, sono fatti naturali della Società, correlativi ruoo all'altro.
Onde» sopprimendo T uno di essi, sì sop- prime anche V altro. Il
Nichilismo materialistico dunque, annullando l'Autorità del Potere viene
ad annullare lo «tesso Diritto individuale, che vorrebbe rimanesse col carattere
di Diritto unico ed assoluto* Il Diritto individuale è un effetto
dell' organismo so- ciale; e tanto che» tolto questo organismo, né
potrebbe formarsi, né perdurare, esistendo di già; come la fun-
zione e il prodotto speciale di un viscere particolare non è segregabile
dall* organismo deir animale e dai centri nervosi superiori, onde è
determinata e regolata V atti- vità di ogni sua parte. Si form<\ il
viscere a misura che si formarono i centri regolatori ; si mantiene
finché si mantengono i rapporti di dipendenza da essi. E analogo è
il caso del Diritto individuale nel suo rapporto coli' Au- torità
centrale. E dunque liberale la dottrina positiva che, mante*
nendo TAutorità subordinante, può mantenere anche il Diritto dell'
individuo. E, per conseguenza, illiberale è quella del Nichilismo
materialistico, poiché, distruggendo questa Autorità, finisce con ciò a
distruggere anche que* sto Diritto. Ma la stessa dottrina positiva
combatte, nel medesimo tempo, il principio illiberale del
Nichilismo teistico, dal quale non è riconosciuto nelT individuo un
Dìntto propriamente detto, o proveniente dal suo essere stesso; ed è
insegtiato essere il Diritto una concessione gratuita di dio, che egli
possa dare e togliere a suo pia- dmento, e lasciare anche alla balia
degli usurpatori della sovranità, nei quali si debba in ogni caso
riconoscere una Autorità che non emani dal corpo sociale e sia ir-
responsabile verso di esso. Il positivismo combatte questo
principio, stabilendo l'Autorità originariamente ed inalienaòilmente
risiedente neir individuo di esercitare il suo naturale imperio
sopra le cose, sopra di sé, sopra gli altri. E mostrando, come la
dipendenza dell' individuo dal Potere subordinante non è quella dello
schiavo, che è costretto colla violenza dal padrone, e ne eseguisce i
comandi suo malgrado, e col- r ira incitante alla vendetta ; ma è quella
liberale di chi fa con persuasione e con amore. E ciò perchè,
l'Autorità giusta subordinante, l'individuo la pone esso stesso pel
Bene di tutti; anche se importa un sacrificio per parte propria: la pone,
la coltiva, la difende come cosa, pro- pria, anzi come suo proprio
Diritto. Proponemmo quattro problemi fondamentali da risolvere
secondo il criterio positivo del Diritto e del Do- vere prima
indicato. Dei primi tre problemi abbiamo trattato nei
paragrafi successivi del Capo medesimo. Tratteremo in questo del
quarto, cioè circa il Diritto, non di Giustizia, ma di Carità Beneficenza, che
dir si voglia. Fin qui il nostro libro ha voluto soddisfare a due
dei tre suoi intendimenti; cioè di dimostrcure che la Moralità, come è
spiegata nella filosofia positiva, com- prende, non solo gli atti della
Gitistizia propriamente detta, ma anche: Primo. Gli atti
infiniti offensivi non contemplati e uon contemplabili dalla Legge. I
quali perciò, esclusi dal campo della Giustizia propriamente detta, vanno
at- tribuiti a queir altro della pura Convenienza. Gli atti sindacabili
soltanto dalla coscienza intima dell' individuo in cui si avverano, e
producenti la sola reazione del Rimorso intemo. Trattando ora del quarto
problema suddetto, vedremo di soddisfare al terzo degli intenti
propostici, vale a dire di mostrare, che la Moralità, come è spie-
gata nella filosofia positiva, comprende anche; Terzo. Gli atti
virtuosi, che V individuo potrebbe fare e sarebbe bene facesse, e non è
costretto a fare. Ossia quegli atti, che non si attribuiscono né alla
Giustizia né alla Convenienza, ma alla Carità, come dicevano i mo-
ralisti vecchi, o alla Filantropia o Beneficenza, come di- rebbero i
nuovi. Gli atti benefici nell* Etica tradizionale. E noto che nell' Etica tradizionale si stabiliscono
due ordini diversi di atti buoni: Quelli ai quali uno é tenuto per
poter essere senza colpa, che si dicono atti di Giustizia; e si
riassumono nel detto: Non fare agli altri ciò che non vuoi che sia
fatto a te. Che é quindi un vero Precetto, E quelli che uno può
tralasciare senza diventare con ciò colpevole, che si dicono atti di
Carità o di Beneficenza, e si riassumono nel detto: Fa agli altri ciò che
vorresti fosse fatto a te. Che è quindi propriamente, non un Precetto, ma
un Consiglio, Ed è noto che 1' osservanza dei primi si dice pro-
durre la semplice Onestà morale; e la semplice Esenzione dalla punizione. E che
la pratica dei secondi pro- duce anche una Perfezione morale ; e quindi
il Merito di un premio. Ed è noto ancora che, tra i pronunciati
morali ap- partenenti alla categoria dei Consigli miranti alla mag-
giore Perfezione morale, se ne pongono anche di quelli relativi, non al
bene da farsi agli altri, ma alla nobilita- zione interna della Persona
morale. Il principio del Bene morale non prescritto, e quindi
n&n obbligatorio o gratuito (che è un principio ve- rissimo, anzi è
il principio morale per eccellenza), l'Etica tradizionale, e non potè mai
riuscire a dedurlo rigorosa- mente, ed è, nel sistema di essa,
contradditorio. E regge solo nella dottrina dell'Etica positiva. E
ciò malgrado sembri a tutta prima che questa,, posta la dipendenza da
essa stabilita del fatto morale dalla Sanzione costringente, conduca ad
una conseguenza affatto opposta ; a quella cioè di togliere di mezzo
quello che ora chiamammo (ed è senza dubbio) il principio mo- rale
per eccellenza. L' Etica teologico-metafisica tradizionale si è
accorta dell' imbroglio che sta nella sua dottrina ; e ha cercato di
cavarsene colla sua solita gherminella (rilevata stupendamente dal
Mefistofele del Faust di Goethe) di un vocabolo equivoco. Cioè col
vocabolo Consiglio contrap- posto a quello di Precetto. Il
Bene morale obbligatorio (ha detto V Etica teolo- gico-metafisica tradizionale)
è il Precetto di dio, che non si può non seguire : il Bene morale
gratuito invece è il suo Consiglio, che l'uomo può anche non
seguire. Ma ciò non è altro, come dicemmo, che una
gherminella. La mentalità divina del Bene morale, onde partono i
metafisici in discorso, derivandone tanto il Precetto quanto il
Consiglio, sta, secondo loro, colla ragione di- vina dell' Ordine morale.
Ora si può domandare: L' Ordine morale metafisico, ragione del Bene,
è esso esigenza assoluta dell' essere proprio delle cose che ri-
guarda? E allora è necessario che sia Precetto tutto il Bene. O sta
invece che l'Ordine morale sia il puro bene- placito di dio, il quale
possa stabilirlo arbitrariamente in un dato modo, e di due sorta, cioè
uno da esigersi inesorabilmente, e un altro da consigliarsi soltanto
e quindi da permettere che sia anche violato da chi voglia? E allora il
Bene morale, anche quello prescritto, non ha un valore assoluto ; e si
può supporre che dio po- tesse non averlo voluto, come si suppone dagli
stessi me- tafisici, che egli potesse non aver voluto creare il
mondo. Si può supporre insomma, che il male sia male solo perchè dio r ha
decretato, e che egli avesse potuto decre- tare che non lo fosse. Il che
sarebbe la distruzione pili radicale immaginabile della Moralità. E da
questo dilemma non si scappa. Cosa ben curiosa e ridicola il sistema
etico della filosofia sana, anche da questo punto di vistai
Secondo questa filosofia sana un uomo sa che dio io consiglia ad un
Bene che egli potrebbe fare benissimo; e sa che con ciò darebbe
soddisfazione a lui che deve amare sopra ogni cosa : ma quest' uomo non si
cura, né del Bene per sé, né dell'autorità di dio che lo invita a
farlo, né del dispiacere che gli reca trascurandolo ; e ciò per la
preferenza data a un proprio interesse egoistico contrario : e tuttavia
il medesimo uomo rimane dopo tutto questo esente da colpa, e nella grazia
dello stesso dio cosi postergato. L' imbroglio e V assurdo della
distinzione tra il Precetto e il Consiglio dipende dalla distinzione
falsa, posta dai moralisti in discorso nella stessa ragione di-
vina del Bene morale, del Bene doveroso e di quello non doveroso,
corrispondente all' altra distinzione falsa, di un Ordine morale che dio
voglia necessariamente e di uri Ordine morale che egli voglia
arbitrariamente; e che è la conseguenza di un principio ontologico
fondamentale erroneo circa le leggi dell' essere e della causalità in
ge- nerale e della provvidenza in particolare. Nel principio
ontologico al quale alludiamo si accoz- zano, in modo confuso e
contradditorio, il necessario e r arbitrario, come nell' Etica
corrispondente la Moralità determinata dalla ragione assoluta dell'
essere e quella determinata dalla ragione di un comando arbitrario. E
per un processo logico analogo. Il concetto del necessario e
dell'assoluto deriva dalla osservazione della costanza delle leggi
naturali dove que- ste appariscono a tutti. Il concetto dell' accidentale
e del- l'arbitrario deriva dalla osservazione dei fatti, che nella
apparenza non si connettono necessariamente a cause na- turali, onde si
attribuiscono all' intervento diretto volta per volta dell' arbitrio
divino ; come, pel volgo, la piog- colare della povertà
(che anzi questa sublimità per sé la povertà non V ha niente affatto, se
non ha invece la qua- lità opposta) ; ma bensì se mai fosse V effetto
inevitabile di una azione o giusta o caritatevole, sì che uno non
a- vesse potuto rimaner giusto se non si fosse rassegnato ad
incontrare la povertà, o avesse sofferto perfino di subirla per un
maggior bene altrui.E così la povertà volontaria può essere anche pel po-
sitivista una cosa sublime ed eroica. Mentre in caso di- verso egli la direbbe
una stoltezza ridicola e riprovevole. Che se pel religioso la elezione della
povertà non è una stoltezza, ciò dipende unicamente dalla circostanza che egli
la riferisce ad uno scopo; cioè a quello di gua- dagnare con essa il
paradiso. Ma, se cessa così di essf re una stoltezza, riesce però un atto al
tutto egoistico e quindi ancora tutt' altro che eroicamente morale. E merita una speciale considerazione a questo
proposito la dottrina relativa alla elemosina e al dare a prestito. Ho un
ricco, fatto proprio secondo lo spirito dell'E- tica sana teologico-metafisica.
Egli crede fermamente che r esser lui nato ricco e destinato, senza
lavorare, a go- di ogni genere, mentre il povero non ha da coprirsi
a- vendo freddo; se il ricco ha a sua disposizione palazzi e ville, quando il
povero manca di un tetto qualsiasi; se il ricco imbandisce la propria mensa di
cibi e vini costo- sissimi con profusione, dove il povero manca della
stessa polenta; se il ricco ha cavalli e cocchi e servi che lo
ajutano a fare niente, mentre il povero si stima fortunato che altri gli
offra per carità un lavoro che lo esaurisce senza compensarlo ; se al ricco si
offrono tutti i pia- ceri da vicino e da lontano (poiché non gli bastano
quelli che può dargli il suo paese e gli occorrono anche quelli che solo
si trovano altrove), e questi gli sono sempre perdonati quand' anche
affatto eccessivi e corrompenti e illeciti e scandalosi, quando il povero ne è
privo al tutto ed è barbaramente rimproverato pur dei pochissimi e grami che
gli sia dato di procurarsi; se fa tutto questo il ricco, non solo crede, secondo
la sua sana morale (che sempre ha cura di contrapporre ad un' altra diversa,
detta da lui empia e sovversiva) di far uso di un Diritto concessogli da dio
per un gusto particolare di predilezione, ma crede poi anche di adempiere ad nn
Dovere: a quel Dovere che si chiama il Dovere di vivere secondo il proprio
stalo. Or bene questo ricco, fatto secondo lo spirito dell’Etica
sana teologico-metafisica, riconosce fra i Doveri del proprio stato anche
quello della elemosina, ritenendo che coir adempirlo diventi, non solo buono
(che lo è già senza la elemosina), ma ottimo, ed in modo perfetto ed
eroico. Ed è assai bello vedere come il nostro ricco intenda la
detta elemosina. C è da rilevarne proprio la sublimila della morale onde
ha lo spirito. Prima di tutto, se egli si trova padrone di una so-
stanza vistosissima ereditata nascendo (quanta fatica, quanto studio, e
quanto merito!), la sua proprietà è cosa sacra, qualunque ne sia la
origine antica: anche se in questa origine fu accumulata colla frode e
colla rapina. È cosa sacra, che gli viene da dio stesso. E, se deve contribuire
una parte piccola e superflua per lui dell' aver suo, per concorrere alle
spese dello Stato che glielo di- fende, o per dare un pane insufficiente
a chi si logora la- vorando penosamente per lui, che nulla fa e solò
consuma godendo e corrompendo, egli intende, nella goffaggine su-
perlativa del suo pensiero, che T operaio, che suda per la scarsissima
paga, e il funzionario pubblico, che si sacri- fica pel meschino stipendio,
della paga e dello stipendio debbano arrossire come di suoi
compassionevoli e gratuiti donativi, e debbano riconoscere che, se
faticando assai hanno poco da mangiare, anche questo poco è tutta
gene- rosità sua, per la quale si compiaccia di largirlo, privandosi di
una piccola parte di ciò che gli sovrabbonda. Ma va più in là l’eroismo
della sua generosità di dare del superfluo a chi non ha di proprio se non
il dovere di lavorare (quando. gliene danno) e di soffrire. Va più in là;
poiché, oltre pagare le imposte che non può frodare, oltre angariare V
operajo coir avarissimo com- penso dei servigi avutine, esercita anche la
viriti dell’eielosina. Non già impoverirsi per ciò. E nemmeno
restringere di nulla gli scialacqui demoralizzanti. Oibò! Sarebbe questo
un venir meno ai Doveri del proprio stato. E nem- meno impiegarvi una,
anche piccola, parte delle super- fluità più riprovevoli. Tanto non
occorre; e di gran lunga. Se, per cavarsi un capriccio
stimato come un nulla, il nostro ricco non bada a spendere un migliaio di
lire, una lira sola è anche troppo gettarla, come si farebbe di un
osso ad un cane, ad un vecchio cadente per la fame. Un pugno di monete di
rame, ecco quanto basta per a- dempiere al Dovere di perfezione della
elemosina, per es- sere morale in grado superlativo ed eroico, per
acquistare il merito -di un posto riservato in paradiso. Poiché
anche quelle miserabili monete di rame della elemosina non si intende mica
s'abbiano a gettare gratis. Né anche per sogno! Anche da esse, quantunque
non abbiano un valore apprezzabile per chi le getta, deve ve- nire
un vantaggio : e un vantaggio assai grande ; devono fruttare nientemeno
che una felicità eterna in un'altra vita. E la cosa va di suo piede. Il
povero, la cui vita fu uno strazio continuo, é ben giusto e naturale che
vada poi air inferno, essendo infine, un povero, un malvagio
mascalzone ; mentre il ricco, che ha sempre goduto senza nessun merito,
deve essere premiato colla beatitudine del cielo, essen'do infine, un
ricco, una persona buona. Un pugno di piccole monete di rame; ecco
dunque la limosina del ricco, secondo l'Etica sana. Un pugno di
piccole monete di rame date all' impazzata ad una turba degradata di
accattoni che le implorino, facendo ressa e alzando le mani
supplichevoli, intorno al castello minac- cioso e al cocchio superbo, di
chi le getta loro col piglio del disprezzo. E questa turba di
accattoni degradati é poi neces- sario, secondo la stessa Eti.ca sana,
che ci sia anch'essa. Altrimenti come sarebbe possibile al ricco di avere
il vantaggio di procacciarsi il paradiso a si buon mercato, e di
far risplendere, al di sopra dei languenti per inopia, r orgoglio stupido
della ricchezza in tutta la forza della sua brutalità? Onde, nel
pensiero del nostro ricco (fatto secondo ìct spirito dell'Etica sana), è
cosa immoralissima e sovver- siva del Bene, che altri, come il
positivista, cerchi di to- gliere dalla Società T ignominia
dell'accattonaggio: che consigli la Società a provvedere, non in apparenza
ma in realtà, V impotente, 1' ammalato, il disgraziato : e senza
degradarlo, e con un soccorso che apparisca un Diritto riconosciuto in
chi lo riceve, e non una elemosina che lo avvilisca ; che faccia opera
affinchè il povero sia educato in modo da sentire il danno e la vergogna
di accattare il pane poltrendo neir ozio ; e il vantaggio e la
soddisfa- zione confortevole di guadagnarselo nobilmente col pro-
prio lavoro. E, il sommo della immoralità della condotta del po-
sitivista, il nostro ricco la riscontra poi in questo; che, se si dà il
caso dell' incontro di un infelice bisognoso di soccorso, egli, il
positivista, glielo porga per puro sen- timento antiegoistico di umanità,
senza pensare punto allo interesse, né del paradiso né di nient' altro,
da ricavarne ; e lo faccia senza avvilire chi riceve, comportandosi
con esso come il fratello col fratello ; e nell' intento, non di
perpetuarne lo stato miserabile, che faccia risaltare meglio- il proprio
più decoroso, ma di agevolargli la via per u- scirne al più presto,
diventando un suo pari. Dopo tutto però bisogna confessare che il
no- stro ricco, fatto secondo lo spirito dell' Etica sana, è
logico. Ma le conseguenze pratiche di tale sua logica ser- vono
assai bene per farne apprezzare i principj. Come, al contrario, la verità
dei principj positivi apparisce nelle conseguenze opposte or ora
accennate, eminentemente (ed esse sole) buone e morali. Certo si
deve ammettere, che nella Società (pur pre- valendo nelle dottrine dei maestri
di morale il concetto teologico-metafisico sopra descritto) si fece
strada a poco a poco, e per, la condotta individuale e per la
direzione delle cose pubbliche, V idea della beneficenza propugnata
dal positivismo, fondata sulla benevolenza effettiva che r uomo,
diventato buono, ha pe' suoi simili, stimati tutti avere gli stessi
Diritti ai beneficj della vita e della So- cietà; alla quale perciò
incomba il debito di provvedere normalmente, più che sia possibile utile
e morale, per gli infelici. Ma giò è V effetto della stessa natura,
che opera se- condo le sue leggi invincibilmente, senza e malgrado
le teorie dei filosofi. E qui pure, come in tutto il resto dei
fatti etici, essa natura ha dimostrato, che la Moralità non si
attacca materialmente ad un atto determinato circa . il quale dio abbia
detto : Questo atto voglio che sia un atto buono. E ha dimostrato che la
Moralità consiste invece nella stessa disposizione antiegoistica dell'
animo, creata dal vivere sociale ; e per la quale V atto materiale
(che per sé non è moralmente né buono né cattivo) diventa buono, se
la disposizione relativa dell' animo è buona, e cattivo, se cattiva, E ha
dimostrato che non occorre, che un atto buono sia stato prescritto positivamente
da nes- suno, perchè si introduca nella pratica morale degli uo-
mini, e che questi lo eseguiscono anche senza e prima che sia stato
prescritto. Che anzi la prescrizione positiva medesima è pur essa non altro che
V effetto della disposi- zione potenziale degli individui precedentemente
forma- tasi neir animo moralizzato, nel modo sopra descritto. Un
discorso analogo si può fare circa il dare a prestito. L' Etica
religiosa, computandolo fra gli atti di beneficenza e volendo quindi che,
se altri lo eseguisce, abbia da, poterlo fare solamente sotto questo
riguardo, e conseguentemente senza interesse, ne sopprime la
funzione vitalissima per la prosperità commerciale ed industriale
nel meccanismo economico sociale; lasciando più libero il campo alle
imprese esiziali degli usurai ; sottraendo il capitale all'ingegno e
all'operosità dei volonterosi; re- stringendo le fonti del benessere
pubblico e quindi della Moralità comune. E allora non sarà colpa
l'approfittarne per contravvenirla: e Vufficio del galantuomo sarà tulio
nello studio di elu^ dere la Legge, E vi riuscirà, più o meno sempre,
es- sendo verissimo V adagio : Fatta la Legge, trovato V in- ganno.
Ed ecco il galantuomo inappuntabile dell'Etica sana. Quanto diverso, e più
veramente galantuomo, quello del positivismo, che l'Etica sana dice
sovversione, distruzione, negazione della Moralità. Lo scopo dell'
attività umana congegnata insieme nell’organismo sociale è di produrre nella
coscienza degli individui la Idealità morale antiegoistica, atta a muoverne
la volontà a fare il Bene. Fino a che l'individuo, questa Idealità, non
ha potuto formarsela, è un infelice da com- passionarsi, come il
selvaggio che non ha appreso da una Società colta a procurarsi ciò che
forma il benessere e il decoro di un uomo. Si faccia dunque ogni sforzo
per isvolgerne le facoltà etiche onde egli goda del bene di avere
il carattere dell' essere morale. — • 2og — Una volta che Tuomo sia tale, egli
fa il Bene in virtù della Idealità, che è viva in lui e impulsiva per sé del
suo volere. Impulsiva per sé: tanto pel Bene della Giustizia propriamente detta
quanto per quello della beneficenza. Impulsiva sempre ; ogni volta che si
presenti V occa- sione di ravvivarsi nella coscienza. Operatrice del Bene
nella stessa misura della sua im- palsività, ossia del suo esserci.
Impulsiva finalmente pel solo fatto di esserci ; e senza la scappatoja
immorale del difettò, o nella promulgazione della Legge, o nella sua
redazione negli articoli del co" dice. Poiché, come dimostrammo già
più volte, l'Idealità morale, essendo essa la Giustizia potenziale, non
segue (come vaneggia la filosofia da noi riprovata), ma precede la
Legge propriamente detta ; e quindi esiste nella coscienza (ancor prima della
redazione scritta di una Legge e della sua promulgazione) un suo dettato
e una sua an- nunciazione, che integra qualunque difetto della
redazione e della promulgazione positiva; e conseguentemente im-
pedisce che la Legge e il suo spirito siano ipocritamente dissimulati e
dolosamente elusi. Il Bene di perfezione non obbligatoria, la vecchia
Etica teologico-filosofica, lo ravvisò anche negli stessi atti della
Giustizia propriamente detta. E in vero essa insegna, come notammi^
altrove, che, se la volontà si decide a questi atti unicamente
perchè premuta dalla minaccia del castigo sancito per essi, si ha
solo la Giustizia e non la perfezione; e la perfezione si raggiunge,
eseguendo gli atti della Giustizia indipendentemente dalla minaccia del castigo
e per la pura soddis- fazione di fare le cose giuste. Ed è
giustissima questa distinzione fra il primo e il secondo genere della
deliberazione volontaria rispetto ad un medesimo atto obbligatorio. E l'etica
positiva la ri- pete e la mantiene anche per conto suo. E ne approfitta per
argomentarne ad hominem contro TEtica vecchia. Poi- ché questa colla
distinzione in discorso (che è una prova della verità dei principj della nostra
Etica sperimentale) mette a nudo il proprio difetto per gli artificj, ai quali
deve ricorrere affine di conciliarla colle sue teoriche; e per le incongfruenze
che, malgrado gli artificj stessi, vi risultano. Notiamo, per esempio, l’incongruenza
relativa alla distinzione tra T atto di rigorosa Giustizia e V atto gra- tuito,
al quale essa annette il carattere di perfezione mo- rale. Qui non si tratta
più di un Bene supererogatorio, e tuttavia vi trova il carattere della stessa
perfezione. La quale incongruenza svanisce subito partendo dai principj da noi
esposti dell'Etica positiva. L' essenza dell' atto morale propriamente tale,
ossia di perfezione, di un'atto che ecceda l' efifetto diretto della minaccia
del castigo, consiste, come dicemmo, nella atti- tudine del volere a esegfuire
V atto indipendentemente dalla eccitazione esterna della Sanzione del castigo
minacciato. E questa attitudine si ha quando, per effetto appunto della
applicazione della eccitazione esterna mede- sima, a poco a poco si ingenerò e
si rinforzò la dispo- sizione psichica impulsiva per sé; e tanto, che, divenuta
questa una autonomia morale, ha da sé quanto basta per agire, senza bisogno di
esservi ajutata dalla eccitazione della minaccia esteriore. Il che in qualche
maniera é ammesso anche dall' E- tica vecchia, che pur riconosce la detta
spontaneità mo- rale, ricorrendo però per ispiegarla al sogno della grazia di
dio, che sostituisca il timore del castigo all' uopo di muovere la volontà al
Bene. Coi principj dell'Etica positiva é dunque spiegata nel modo più ovvio e
conseguente 1' analogia che corre tra r atto della stretta Giustizia eseguito per
pura bontà d' animo, e l' atto della beneficenza in pari modo prodotto ; e come
ambedue possano avere cosi egualmente il carat- tere della Moralità perfetta. Molto
più che è precisamente la spontaneità di operare la Giustizia (ossia lo
Giustizia potenziale) che, precedendola, promuove la legislazione positiva
colla rela- tiva Sanzione costringente (come dimostrammo). Ed é la stessa
spontaneità che ne mantiene il vigore. Chi ha in sé l'amore alla Giustizia si
fa autore diretto o indiretto della Legge, la difende, e concorre a renderla
efficace e a vendicarla, se violata. E non impegna persé la forza del Potere,
lasciandola disponibile interamente all' utile comune della Società. Dalle
quali cose si trae un nuovo argomento in favore del principio etico positivo in
confronto col me- tafisico tradizionale. Nella formazione della Moralità umana,
secondo le cose dette, va considerato il momento disponente alla for- mazione
stessa, e il momento della Moralità già attuata neir animo. Il momento
disponente si ha nel cedere che fa il volere alla eccitazione che le viene
esternamente dalla Sanzione della Legge. Il momento della Moralità già attuata
si ha nella spontaneità acquistata dallo stesso volere air azione giusta e
buona senza il bisogno della suddetta eccitazione. Or bene: il principio etico
metafisico, onde la ragione deir atto morale è riferita al motivo della pena e
del premio, contempla la Moralità nel Momento dispo- nente, vale a dire quando
essa non è ancora la Moralità già fatta: dove il principio etico positivo, pel
quale la ragione dell' atto è nell' Idealità sociale impulsiva per sé,
contempla la Moralità proprio nel momento nel quale essa esiste veramente nella
disposizione effettiva del volere. § VII. La virtic, il merito e il premio. Ora
poi, esposte le quattro considerazioni pro- posteci, e confermata cosi e
chiarita pienamente la dot- trina positiva riguardante gli atti cosidetti di
carità o beneficenza, possiamo anche iritendere più compiutamente e
precisamente, che sia ciò che si chiama la viriti e il me-' rito, nel loro
senso distinto e proprio. Pl'lt .■l .J * — Tr"»T' ^r- Il merito è la proprietà
della virtù, come tale; e non del semplice atto morale. E la virtù è una
disposizione esistente realmente nel- l'uomo virtuoso. Il che, come sia, è
chiaro dalle cose dette sopra. Cosi la scienza è V attitudine particolare dello
scien; ziato. Ed essendo la virtù una disposizione reale dell'uomo virtuoso,
questo per ciò è un essere diverso dall'uomo non virtuoso; poiché in questo
secondo non esiste la potenza etica, che esiste nel primo. E questo vero è
stato riconosciuto (quantunque con- fusamente e in contraddizione col loro
principio (i)) dai moralisti della chiesa, in quanto per essi il merito e la
virtù richiedono la presenza nell'anima di una attività spe- ciale, vale a dire
di ciò che da loro è chiamato, la grazia. Se qualcheduno osservasse che noi,
col ricor- rere alle dottrine dei teologi cattolici per trarne una con- ferma
dei dettati del positivismo, tiriamo in campo inse- gnamenti già abbandonati
dalla stessa filosofia etico-me- tafisica che combattiamo, e che quindi
facciamo opera inutile (come anche oppugnando il dogma della grazia, che è
voler sfondare una porta aperta, non credendo ad esso oramai più nessuno dei
moralisti metafisici non teo- logi), soggiungeremo che la teoria dei metafisici
non teo- logi non è che un riflesso sparuto della dottrina teolo- (r) Vedi
Morale dei Positivisti Libro li, Parte I, Capo II, n. 26, 27 e 28 (pag. 224 e
segg. del Voi. Ili di queste _Op, fil, nella ediz. del 1885, e pag. 234 e segg.
nella edìz. del 1893 e del 1901, e pag. 241 e segg. nella ediz. del 1908). •
^'••^'^'^gica patristico-scolastica precedente; e che ne ha eredi- tato i
difetti perdendone i pregi ; rimanendo cosi una su- perficialità destituita
anche di quel valore scientifico, che bisogna pure riconoscere, anzi ammirare,
nellametafisica ecclesiastica. Gli autori della quale furono grandi pensatori
che, se non poterono arrivare alla soluzione positiva del pro- blema morale (ed
era impossibile al loro tempo e nelle loro circostanze), ne ebbero però dei
presentimenti. E il principale fra questi pensatori fu S. Agostino vescovo di
Ippona, il cui genio potè a ragione essere messo allato a quello del divino
Platone. La dottrina della grazia, relativamente al fatto morale, è analoga
alla dottrina della forza creativa, rela- tivamente al fatto fisico. Il corpo
agisce fisicamente perchè ha in sé la pro- prietà di farlo. Del pari T uomo
agisce moralmente per- chè ha in sé la proprietà di agire cosi. Per ispiegare V
azione fisica gli antichi supponevano la produzione della proprietà relativa
nel corpo per parte della onnipotenza divina. E così davano una ragione della
azione fisica stessa quantunque falsa. Il positivismo (come dimostrai nel libro
della Formazione naturale nel fatto del sistema solare) trova che la proprietà
del corpo di agire fisicamente è la stessa sua costituzione naturale. E così
spiega Y azione fisica in modo analogo a quello degli antichi : ma colla
differenza che, dove questi considerano la proprietà introdotta nel corpo
arbitrariamente da dio nel crearlo (che è contro l' insegnamento del fatto), il
positivista considera la proprietà connaturale al corpo medesimo. Nella
evoluzione scientifica, onde si passò dalla spie- gazione antica della azione
fisica alla positiva attuale, tra quella e questa si formò una spiegazione
ibrida e con- tradditoria ; la quale, da una parte, riconosceva V appar-
tenenza della proprietà al corpo, proclamandola quindi una naturalità; e,
dall'altra, riconosceva ancora dio quale primo autore di ogni naturalità; il
che è una incon- gruenza scientifica, ed è il vizio capitale della dottrina
teistica, come si trova ad esempio nel sistema del padre Secchi.Tale e quale la
storia della evoluzione della dottrina etica. La virtù, o la proprietà psichica
specifica dell'uomo morale, i teologi cattolici la supponevano un dono santo e
sovrannaturale di dio. Il positivismo invece trova che tale proprietà santa è
la stessa costituzione che potè acqui- stare la psiche umana per 1* azione
esercitata sovr' essa dalla Società; ed è quindi una naturalità nel senso asso-
luto della parola. La dottrina ibrida intermedia dei me- tafisici non teologi
rende confuso econtraddittorio il con- cetto, pur semplice e chiaro, escogitato
dai teologi, della proprietà etica infusa come grazia diviua. Rende, dico,
confuso e contradditorio questo concetto in quanto, da una parte, negano V
intervento diretto dell' azione divina sulla volontà, e, dall'altra, ne
mantengono la indiretta. Il merito è l' indice della virtù. Esso è quindi per
ogni atto virtuoso in ragione inversa dell'intervento del motivo estemo nella
spinta alla deliberazione volon- taria. Appunto come la virtù, la quale,
essendo la pro- pensione ad astenersi dal Male e a fare il Bene ingene- ratasi
neir animo per le vie già indicate, tanto più ha in W-Vfl«-JJJ «.P., —sé di
intensità quanto meno ha bisogno di essere mossa dal costringimento della
minaccia del castigo e dall'ade» scamento della prospettiva di un vantaggio.
Per conseguenza, minimo è il merito nelle azioni buone dipendenti al tutto
dalla diretta efficacia della loro Sanzione esteriore: come in quelle che si
fanno perchè imposte dalle Leggi positive. Ed è massimo nelle azioni buone per
nulla determinate da motivo di fuori : come in quelle del Bene gratuito o
supererogatorio, o di carità e beneficenza, per le quali, o non esiste Sanzione
positiva determinata, o, esistendo, non si considera da chi le fa. Ma la stessa
osservanza della Legge avente 4a sua Sanzione può in un uomo, indipendentemente
dal ri- gfuardo della Sanzione stessa, essere determinatadallavirtùformatasi in
lui di eseguirla solo perchè giusta, come vedemmo sopra nella osservazione
quarta, E così anche per questa osservanza può aversi un grado di me- rito: e
per questo distinguersi nella Società il semplice galantuomo (o quello che non
può essere messo in pri-» gione perchè non fu còlto a delinquere) dall' uomo
virtuoso, che è stimato non disposto a mancare agli obblighi del cittadino
anche aboliti il Tribunale e il carcere. L' uomo, per la formazione che in lui
si veri* fichi della energia morale o della virtù, diventa un essere fornito di
una eccellenzaparticolare; cioè della eccellenza dignità o prerogativa d’essere
morale. E il fatto è analogo a quello, per esempio, della for- mazione della
energia vitale nel corpo materiale, per la quale questo si distingue fra le
cose come ESSERE VIVENTE. Il premio, in relazione alla Moralità, o è una sua
causa, o è un suo effetto. Come causa è la Sanzione allettatrice della quale par-
lammo nel paragrafo quarto al numero sette. E con ciò si comprende percliè alla
osservanza della Legge imposta colla minaccia di una Sanzione punitrice, ed
eseguita per evitarla, non si addica la ragione di un premio, ma solo la
esenzione dal castigo. Con questo la Società si difende dalla offesa dell'
individuo ; dal quale si procura invece l'opera utile della beneficenza colla
offerta di un van- taggio. Dove è da considerare che la offerta stessa, fa-
cendosi più per r utile dell' azione che per la sua Mora- lità, non si
differenzia da quella che si fa in generale per la prestazione dell' opera
volontaria da chi la desidera, cominciando dai premj dei concorsi riguardanti o
un libro, una cosa d' arte, o una invenzione scientifica, meccanica, industriale,
o un' impresa, e venendo fino allo stipendio dell'impiegato e alla mercede
giornaliera dell' operajo. Come semplice effetto il premio è la conseguenza
spontanea del merito ; ed è l’espressione onde altri lo riconosce. Sotto questo
riguardo anche la semplice osserva- vanza della Legge punitrice può avere una
ragione di premio, se V osservanza avviene nel senso detto sopra al numero sei,
parlando dell'' uomo virtuoso. E il premio consiate in questo caso, oltreché
nella stima comune, anche in ciò, che questo uomo virtuoso è considerato
siccome il rappresentante nato della Legge e del Diritto, come spiegheremo
meglio in seguito. Il premio conseguente al merito della virtù è una naturalità
non determinata positivamente. In generale si restringe alla stima e alla
venerazione degli uomini pel virtuoso; la quale non è altro che la reazione
spontanea sociale di fronte al Bene morale, e quindi si produce negli uomini in
ragione che sono buoni, ossia bene di- sposti moralmente. Ma alla detta stim^ e
venerazione si possono accompagnare anche vantaggi di posizione so- ciale e di
benessere materiale. La mancanza del premio o della espressione del
riconoscimento del merito, quando si verifica, è una ingiustizia, ma non
distoglie dalla virtù chi ha la pro- prietà di averla ; essendoché la virtù è
per sé, e basta a se stessa. E non si addice il nome di virtù a quella disposi-
zione a fare il Bene che sia determinata proprio dalla sola idea di averne la
rimunerazione ; secondo V osserva- zione sublime del Vangelo su quelli che
fanno il Bene per essere veduti e rimeritati dagli altri.Esso dice di loro
giustissimamente, che rimangono così senza il merito della virtù, essendo già
pagati per quello che hanno fatto egoisticamente in vista della ricompensa. Il
che però non vuol dire che il virtuoso non ap- prezzi la lode e T ammirazione
altrui e non se ne soddisfi. Nobilissimo sentimento é questo di fare stima e di
sod- disfarsi del giudizio morale degli uomini che apprezzano e ammirano la
virtù; e più che di vantaggi materiali anche grandi. E di ciò parlai nel mio
Discorso su Pietro Pomponazzi, dicendo del pensatore, che esso « ama la so-
litudine. Ma non perchè sia privo di sentimenti benevoli, che anzi in lui si
trovano più generosi; mentre nulla tanto disavvezza dall' egoismo, quanto la
scuola delle idee. ^^P". E nemmeno
perchè non apprezzi la stima e la lode degli uomini; che, invece, in nessuno la
passione della gloria è più viva, che in lui. E, nobilmente altero della sua
oscurità, solo egli rinuncia sdegnosamente all' onore, che si acquista colle
umili arti. Sciolto cosi il problema
propostoci, riguardante r azione benefattrice e la virtù che porta ad essa,
gioverà fermarci a considerare il fatto dell' Ordine morale, e la naturalità della
sua formazione. Circa la FORMAZIONE NATURALE NEL FATTO DELL' ORDINE MORALE, in
quanto questo fatto è un Ordine, alle cose dette alla fine del Capo prece-
dente (2) e a quelle più generali esposte nel libro della FORMAZIONE NATURALE
NEL FATTO DEL SISTEMA SOLARE {3) e nel lavoro s\x\Y Inconosciòile di H, Spen-
cer (4), qui ci proponiamo di aggiungerne una nuova. 3. — L' insufficienza e
quindi la falsità del principio assoluto, che un Ordine qualunque naturale
presupponga (i) Vedi pag. 51 del Voi. I di queste Op, fil, nella ediz. del
1S82, ^ P3&- 54 nell'edìz. del 1908). (2) \ VII. Vedi sopratutto V
Appendice sul Caso (pag^. 271 e s%%%. del Voi. II di queste Op, flL nell'ediz.
del 1884, pag. 287 e segg. nel- l'ediz. del 1899, e pag. 295 e segg. nell'ediz.
del 1908). (4) Specialmente al J VII (pag. 353 e segg. dello stesso vo- lume
neir ediz. del 1884, pag. 375 e segg. nella ediz. del 1899, e pag. 383 e segg
nell'ediz. del 1908J. una Mente, che lo abbia concepito anteriormente e pre-
disposto, emerge: Primo. Dalla considerazione che ciò che si chiama, la mente,
è il fatto stesso della formazione psichica umana svolgentesi da ciò che non è
ancor tale: onde la stessa Mente è per tal verso, essa pure, un effetto, come
tutti gli altri avvenimenti naturali. Secondo. Dalla considerazione che, se la
Mente (sorta per graduale isvolgimento da ciò che non era tale), è an- ch' essa
la causa dell' Ordine che è subordinato alla sua efficienzaspecifica, sono del
pari cause di Ordini subor- dinati propri anche tutte le altre formazioni
naturali: anche quelle puramente meccaniche e fisiche. Sicché la il- lazione
che 5i fa per la Mente, come ragione dell'Ordine, vale tanto quanto la
illazione identica che si faccia per l'agente puramente fisico e meccanico. E
in effetto, se r analisi del fatto mentale vi discopre gli elementi e le
ragioni della sua efficienza ordinatrice, anche l'analisi del fatto puramente
fisico e meccanico vi rintraccia pure gli elementi e le ragioni della sua
analoga efficienza ordina- trice. Né più, né meno. Terzo. Dalla considerazione
che I' efficienza ordina- trice della Mente, da una parte, si estende solo alla
sfera dell' ambiente da essa abbracciato, e quindi è impotente al di fuori di
questa; e, dall'altra, essa stessa suppone un ambiente maggiore nel quale si
forma e che la fa es- sere : un ambiente che é, non una Mente, ma qualchecosa
di puramente meccanico e fisico. Sicché, paragonando in- sieme le due
formazioni ordinatrici (cioè la formazione meccanico-fisica, e quella della
Mente), la prima è più ampia della seconda e quindi superiore ed anteriore ad
essa. Quarto. Dalla considerazione che l'Ordine, che realmente si trova
esistere in un dato punto della natura e in un dato momento del tempo, non è V
effettuazione di un disegno, nel quale fosse stabilita la serie degli atti
occorrenti alla effettuazione stessa, fino all'ultimo, cioè a quello del
compimento dell' Ordine contemplato. No. Nella linea del tempo questo ordine ha
la sua ragione in un primo che è fuori della Mente : cioè nelle stesse possibi-
lità di svolgimento verso un Ordine proprie dell' essere naturale attivo. Nella
linea dello spazio poi 1' Ordine in discorso ha tante ragioni quanti sono gli
incontri fortuiti subiti dall' essere naturale attivo nel corso del suo svol-
gimento; in modo che ad ogni incontro lo svolgimento stesso devia
accidentalmente dalla sua direzione prece- dente, e quindi V ordine ultimo non
corrisponde più alla virtualità Iniziale dell' essere che si svolge, ma solo a
quella diversissima e puramente casuale portata dall' in- contro ultimamente
subito. In una parola, la Mente, né pone il disegno dell' Ordine, che è già
nell' essere natu- rale stesso, né lo eseguisce come l' aveva disegnato, poi-
ché la esecuzione sempre ne differisce per opera degli agenti naturali
casualmente concorrenti. Fra i quali può benissimo essere anche la mente stessa
(che è pure una attività naturale), ma 'solo con analoga accidentale effi-
cienza. Ciò fu già chiarito a lungo e dimostrato con argomenti positivi nelle
trattazioni sopra citate. Ora faremo un ragionamento che suppone i suddetti. ne
discende e li completa : ed è poi senz' altro la semplice constatazione logica
del fatto dato dalla osservazione. La teoria metafisica, onde si pone in una
Mente la ragione dell' Ordine delle cose, è basata sopra i due falsi supposti,
che il disegno finale della Mente preceda al tutto la esecuzione estema, e che
l'adattamento delle parti nel tutto reale effettuato sia stato determinato dal
concetto medesimo di esso tutto; sicché questo sia asso- lutamente un fine e le
parti siano assolutamente mezzi; e non il contrario. Il secondo falso supposto
deriva dalla osservazione superficiale ed illudente della specie già formata,
che ap- parisce come un ultimo, ossia come un fine. Anche perchè la specie è di
una stabilità relativamente grandissima per rispetto alla esperienza dell'
uomo. Egli, trovandone già r esistenza anteriormente alle mutazioni conosciute,
la im- magina realizzata nella sua interezza attuale fino dal suo principio :
e, non essendogli dato di essere testimonio del suo trapasso in una specie
nuova, ritiene che sia desti- nata a durare inalterata fin che dura il mondo. E
cosi si forma il proprio concetto della specie, che, o sia come è, o non sia
punto. E, siccome la esistenza di una specie im- plica quella delle parti onde
risulta, cosi l'uomo pensa che queste non siano altro che i mezzi necessari al
fine di essa, e quindi siano il trovato ingegnoso di una Mente ; la quale,
formatasi da prima il disegno della specie, sia passata poi a divisare le parti
occorrenti alla sua realiz- zazione. Il primo falso supposto poi deriva dalla
esperienza del fatto della Idealità dell' arte, che è qualchecosa di re-
lativamente compiuto e fisso, e che si comunica qual' è da uomo a uomo : e in
un modo che uno avendone la co- gnizione e segtiendone la rappresentazione
mentale, è atto ad eseguire addirittura, senza tentennamenti e prove im-
perfette, un' opera definitiva, predisponendo e coordinando all'uopo tutto ciò
che si esige. perchè riesca nella realtà quale si concepisce. I metafisici
fanno i due detti falsi supposti, commettendo T errore di considerare il tempo
della osser- vazione siccome una eternità, nella quale non sia diffe- renza tra
un momento e V altro della esistenza ; mentre invece nella durata reale i
momenti sono effettivamente diversi l'uno dall'altro, ed essa nei precedenti va
diven- tando ciò che risulta poi nei successivi, cessando in que- sti quello
che era nei primi. L'essere naturale esiste trasformandosi (i); e, nella linea
infinita del tempo, solo per un tratto di questo si trova in una forma che
svanisce col venire del successivo. La specie è questa forma, instabile come il
tempo del quale è figlia. Si muta insensibilmente nel mentre che pare persista
la medesima, come il posto del Sole in cielo che sembra fermo a chi lo guarda.
E ciò vale tanto per la specie, quale complesso di parti, quanto per la parte
coordinata nella specie. L' una e l' altra soggiace del pari al fato del
mutamento. E cosi n) Vedi per ciò 1* Osservazione III del libro della
Formazione naiuraie nel fatto del Sistema solare e sopratutto il J X (p-ig. 193
del Voi. II di queste Op, fil. nella ediz. del 1884, pag. 204 nella ediz. del
1899, e pag. 209 nella ediz. del 1908). la parte viene ad essere, non solo un
mezzo, ma anche un fine, come la specie; e questa, non solo un fine, ma anche
un mezzo, come la parte. Molto più che nella na- tura nessuna cosa è tanto una
specie, che non sia nello stesso tempo semplice parte in una specie più grande
; e nessuna cosa tanto è una parte che non sia nello stesso tempo una specie
per sé. E nella natura medesima non è la esigenza a priori di una specie,
destinata ad esistere, che abbia determi- nato il farsi delle parti occorrenti
alla sua esistenza, se- condo il divisamento precorso di una mente ragionatrice
: ma è la esistenza avveratasi delle stesse parti costitutrici che ha
determinato la formazione della specie, quale si trova in effetto nella realtà.
Se le cause naturali relative (indipendentemente af- fatto da un concetto della
specie che non era prima della esistenza reale di essa) non avessero prodotto
le parti costitutive della specie, questa non si sarebbe realizzata. E se le
cause naturali avessero prodotto le parti in modo diverso, la specie si sarebbe
realizzata diversamente. La coordinazione quindi delle parti alla specie, come
del mezzo al fine, è una coordinazione a posteriori. Non può esistere la specie
qual' è senza le parti occorrenti ; e se esiste la specie è solo pel caso
avvenuto della formazione delle parti richiestevi. Per ciò, se la parte è il
mezzo a cui consegue il fine della specie, questo mezzo non è un effetto (come
è sup- posto nella teoria metafisica della Mente che è determi- nata a
ricorrervi dalla necessità del fine della specie) ; ma è la stessa causa della
specie. E quindi, se si vuol chiamare la specie un fine, ciò va inteso come
dell' effetto che segue la sua causa, e non viceversa, come nella teoria che
ripudiamo. Così, se si avverasse che il tronco di un albero per un accidente
qualunque cadesse sopra un altro tronco in modo da stare sovr' esso in bilico,
e questo fatto dello stare in bilico lo si prendesse come un fine, apparireb-
bero mezzi per ottenerlo la esistenza sotto il caduto di queir altro tronco
colla sua sufficiente resistenza a non piegarsi e rompersi, e T esservi dato
sopra il tronco in bilico col centro della sua gravità. Ma qui il detto fine,
nessuno lo direbbe la causa precedente del fatto ; nessuno direbbe i detti
mezzi degli effettivenuti dopo, ossia di- visati e predisposti da una Mente
consecutivamente al pensiero di avere un tronco in bilico sopra un altro. Non
altrimenti è la cosa nel fatto della Idea- lità e dell'Arte umana, e in genere
di tutto ciò che si chiama il disegno ordinatore della Mente. La Mente e il suo
disegno sono fatti della natura, analoghi a tutti gli altri in essa
verificantisi nella sfera biologica e nella inorganica ; e quindi soggetti alle
stesse leggi : sono casualità, come la produzione di una specie o la caduta or
ora accennata di un albero sopra un altro. Quando un dato disegno è già un
fatto compiuto, al- lora certo può rimanere un certo tempo come è riuscito ; ed
essere trasmesso da uomo ad uomo ; e servire per pro- durre addirittura l’opera
corrispondente, e per predisporre e coordinarvi le parti come mezzi al fine
dell'opera stessa ; e in modo che questo fine venga ad essere proprio la causa
di dovere divisare i mezzi relativi, e il divisamento di questi mezzi venga ad
essere l’effetto di aver voluto r opera. Ma ciò non succede soltanto per la mente
e pel suo disegno : che succede lo stesso anche per la specie fisica, una volta
che sìa g^ià un fatto compiuto. Una volta che esista g^à la gallina, essa potrà
pro- durre un' altra gallina. Cosi un bruco nato da un altro potrà fare un
bozzolo simile a quello che faceva il suoprocreatore. Un uomo, arrivato a
comporre nella sua Mente il di- segno di una locomotiva a vapore, ha potuto
costruirne una reale: i meccanici in seguito poterono imparare quel disegno e
costruirne delle altre. Non potè succedere che la gallina procreasse altre
galline prima che se ne formasse la specie. E lo stesso del bruco. E lo stesso
dell' uomo. Non potè succedere che questo costruisse la locomotiva a vapore
prima che se ne fosse formato il disegno nella sua Mente. E come la specie
della gallina e quella del bruco non proruppero tali e quali dal nulla, secondo
la cre- denza di un tempo, ma furono la riuscita ultima di una serie
lunghissima di gradazioni di svolgimento dell'essere, che prima non era né
gallina né bruco, cosi il disegno della locomotiva a vapore della Mente umana, fu
la riu- scita ultima di un lavoro del suo pensiero, che prima non era quel
disegno. Né divèrsa nel fondo è la legge della formazione nelle specie
biologiche della gallina e del bruco e nel di- segno della mente umana. E
analoga nei due casi è la ra- gione della potenza di produrre la cosa a propria
immagine e somiglianza, e di fare che nella cosa stessa corri- spondano allo
scopo dell' essere suo i mezzi impiegativi. £ quindi un libro che narri la
storia della invenzione di una macchina è analogo a quello che esponga la
evolu- zione formativa di una specie naturale. E, se, come di- cono i teisti,
dio è 1' autore della natura, questa non se- rebbe altro che il libro nel quale
si può leggere ciò che esso è arrivato a inventarvi, una cosa dopo l'altra, a poco
a poco. Ma dobbiamo dimostrare e chiarire meglio la cosa. Un uomo ha fatto
bollire dell'acqua in un vaso. Ne ha visto sortire del vapore. Per caso copre
il vaso mente ritenta l' esperimento, e il vapore solleva il co- perchio. E
l'uomo pensa allora: — Dunque il vapore è una forza: e non si potrebbe
adoperarla a produrre un qualche lavoro? Sì certo. E si prova ad applicare al
coperchio del vaso un' asta, la quale, alzandosi il coper- chio, trasmette il
suo movimento ad un corpo che essa urta. Ma il movimento così è in un solo
senso ; e l' uomo immagina che si potrebbe averlo nei due contrarj di va e
vieni. E che perciò sarebbe necessario che il vapore spingesse il coperchio una
volta al disotto e un' altra al disopra. E quindi studia e trova il modo di far
passare il vapore dal vaso dell' acqua bollente, per un foro in un cilindro,
nel quale sforzi il coperchio medesimo ora al di- sopra e ora al disotto. E
allora gli soccorre V idea di ap- plicare r asta, moventesi avanti e indietro,
ad una ruota per farla girare. E vi riesce praticando un foro all'estre- mità
libera dell' asta e applicandolo ad una caviglia fissata vicino al centro della
ruota. Ed ecco inventata la locomotiva a vapore. Ecco tutto. Il disegno della
locomotiva a vapore, la Mente non lo creò con un suo fiat. Quel disegno in essa
è r esito faticoso e lento di una serie di operazioni succedutevi r una dopo T
altra ; e determinatevi da una serie di accidentalità che la trassero fino al
compimento della sua invenzione, che riusci una sorpresa per la mente stessa
che si trovò di esservi arrivata. Analogo è il processo di tutte le formazioni
mentali. La Psicologia positiva lo dimostra nel suo studio della FORMAZIONE
NATURALE NEL FATTO DEL PENSIERO in genere, e logico in ispecie; su di che spero
di pubblicare presto un mio lavoro g^à pressoché ulti- mato (i). L'Estetica
positiva lo dimostra nel suo studio della FORMAZIONE NATURALE NEL FATTO DEL-
L'ARTE, che mi duole assai non avere potuto ancora pre- sentare in un libro pel
quale ho già preparato tutti i materiali. L'Etica sociologica positiva lo
dimostra nel suo studio (i) Cosi ho scritto e ripetuto nelle edizioni
precedenti, quando aveva ancora la fiducia di poter ultimare il lavoro. La
speranza ora è quasi svanita. La circostanza di essere impegnato otto mesi del-
l' anno per le lezioni mi lasciò sempre poco tempo per ciò che avrei voluto
fare fuori di esse. Gran parte del materiale preparato per la Formazione
naturale nel fatto del Pensiero mi ha servito pei tre libri del Vero^ della
Ragione e della Unità della Coscienza, E questi quindi possono supplire tanto o
quanto invece del libro promesso ; che poi non ha cessato di preoccuparmi, come
apparisce dai lavori sull'argo- mento pubblicati nei Volumi IX e X di queste
Op, fU, Ptll — della FORMAZIONE NATURALE
NEL FATTO DELL’ORDINE MORALE, che è l' oggetto della presente trattazione. 10.
— Ora è noto come la scienza oggi, illuminata e messa sulla strada dal genio di
Darwin, dimostri av- venire allo stesso modo la FORMAZIONE NATURALE NEL FATTO
DELLA SPECIE organica: e per ciò mi devo rimettere ai libri che uq trattano.
Anche qui si rileva lo stesso processo di formazione, indicato per V invenzione
del disegno della locomotiva a vapore nella Mente umana, pei lenti e
accidentali ingran- dimenti e tramutamenti di struttura e conseguentemente di
funzione : la stessa ragione, onde la formazione già ot- tenuta è riprodotta
nella forma raggiunta. E per la stessa legge, da me formulata nel libro della
Formazione naturale più volte citato, del ritmo che lentamente si trasforma per
gli urti esterni non concor- danti, e indefinitamente si conserva in quanto non
è di- sturbato, e si trapianta fuori di sé, applicato come forza ad un altro
essere atto a riceverla. Ciò posto, riepiloghiamo il nostro ragiona- mento. Il
piano mentale è un meccanismo o apparato psico- logico riuscito per aggiunte e
modificazioni cernali suc- cessive, indipendenti da un proposito consapevole
del sog- getto pensante, e occasionato dalle azioni e reazioni ac-
cidentalmente verificatesi tra esso soggetto e le cose ate. Vedi Formazione
naturale nel fatto del Sistema Solare ^ Os- servaz. Ili, J XIV.a
impressionarlo,come la specie della gallina è un mec-- canisfno o apparato
fisiologico riuscito per aggiunte e mo- dificazioni casuali occasionate dalle
azioni e reazioni dell' ambiente in cui si è formata. L' apparato psicologico
del piano mentale serve alla produzione di un' opera a sua immagine e
somiglianza : come l'apparato fisiologico della specie della gallina serve alla
produzione di un individuo nuovo della specie mede- sima. Il fatto è come di
uno stromento che 1' arte della natura (cioè del complesso delle cause che
esistono in essa) ha preparato, nel primo caso entro la psiche deU r uomo, nel
secondo caso entro la vita della gallina, per produrre 1' opera relativa (i).
Dunque nel disegno della mente ciò che si chiama il fitte di esso (poniamo per
la locomotiva a vapore di muoversi della macchina sulla ferrovia colla forza di
tra- scinarsi dietro il treno attaccatovi) non è un primo, che la Mente si sia
proposta e che abbia motivato per essa il divisamento, al quale sia quindi
venuta solo dopo, delle sue parti, come deimezzi necessari al conseguimento del
fine medesimo : nel che si fa consistere la ragione di dover (i) Nel Capo I
della Parte II del Libro I della Morale dei Positivisti, numero 3 ho mostrato
potersi definire la Psiche : Un mondo possibile^ che si presenta coyne il piano
dell* opera a chi ha da pro- durne uno reale. E precedentemente vi è dimostrata
la casualità della formazione del stessa psiche. Una cosa affatto analoga è V
energia specifica di un agente naturale fisico qualunque. Tale energia è un
ordine di proprietà costituite nella cosa per la stessa ragione della casualità
della sua formazione, le quali vengono ad essere la possi- bilità degli effetti
che la cosa è atta a produrre, e precisamente di un ordine di eff*etti
corrispondente all' ordine delle proprietà dalle quali dipendono. Fra la psiche
e V agente puramente fisico nel ri- ricorrere alla Mentalità per ispiegare il
fatto dell’ordine, inteso quale divisamento dei mezzi necessari al conseguimento
di un fine. Nel disegno della mente, ciò che si chiama il fine non è un primo,
ma un ultimo, che vi si verifica posteriormente, perchè prima vi si è
verificata la cogni- zione dei mezzi. Nel fatto particolare della concezione
del disegno della locomotiva a vapore allo scopo di trascinare il treno
ferroviario, la Mente che vi è arrivata possedeva già la cognizione della forza
del vapore; e del modo di farlo agire sopra uno stantuffo si che ne risultasse
un movi- mento di va e vieni sopra un'asta; e del modo di con- vertire il
movimento rettilineo dell' asta in quello circo- lare di una ruota; e la
cognizione, che un peso, gravi- tando sopra ruote che lo portino è girino su
guide di ferro, si trasloca con esse. Solo dopo ciò, solo dopo che la Mente era
già pervenuta alla cognizione di questi mezzi, ad esso potè sovvenire V
applicabilità loro al fine di avere un motore di un treno ferroviario. L'Ordine
adunque anche nella Mente è un risultato accidentale di concorrenze casuali nel
quale i mezzi non spetto in discorso si ha la sola differenza, che nella prima
l'ordine mentale, causa dell'ordine delle opere, mettiamo dell* uomo, è accom-
pagnato dalla coscienza di sé, mentre nel secondo 1' ordine delle proprietà
attive, causa dell' ordine de' suoi effetti, non è fornito di tale coscienza.
Ma ciò non influisce punto ad alterare la natura del processo della
estrinsecazione, per così esprimermi, della attività. Cosciente o non
cosciente, V attività funziona in un agente sempre e necessariamente nel modo
onde è atta a funzionare, ossiasecondo lacostituzione propria dell'attività
stessa nella intimità dell'agente che la esercita. L sono determinati dal fine, ma è questo
determinato dai mezzi. E tanto, che supporre il contrario è supporre ima
impossibilità o un assurdo della dinamica della natura. E cesi la tantovantata
scoperta di Anassagora, che V Or- dine dell'universo importi una Mente
ordinatrice, vale quella del suo predecessore Talete, che si argomentò di
ritenere doversi V attrazione della calamita pel ferro ad un' anima che vivesse
in essa, e ne determinasse questo effetto curioso. Se qualcheduno qui credesse
di sfuggire alla nostra conclusione, osservando che il pensiero che si at-
tribuisce a dio non è come il pensiero dell' uomo, sul quale noi facemmo la
nostra argomentazione, risponde- remmo due cose: Primo. O il pensiero
attribuito a dio è qualche cosa di analogo al pensiero dell'uomo, e allora
l'argomenta- zione fatta su questo vale anche per quello : o non è una cosa
analoga, e allora non si può dire che sia un pen- siero. Perchè a noi, quando
diciamo, pensiero, è impossi- bile concepire altro che non sia lo stesso nostro
pensiero. E poi non si può ancora in nessuna maniera fondarvi sopra r
argomentazione relativa all' Ordine, dal momento che questa è suggerita
precisamente (quantunque per sem- plice illusione) dal fatto dello stesso
pensiero umano. Secondo. Lo stesso fatto della natura poi smentisce
direttamente la supposizione della obiezione. E in che modo? Si disse: Concepì
dio il disegno del mondo e poi lo esegui creandolo: e tale subitoqualedoveva
es- sere poi sempre a gloria sua ; e quindi coli' uomo, dotato per ciò da lui,
non solo del senso come il bruto, ma anche della ragione e del libero volere,
che lo rendes- sero atto a conoscerlo e a rendergli omaggio e culto spontaneo.
E il sistema era logico. Non aveva che il piccolo di- fetto di essere basato
sul falso supposto che il mondo at- tuale sia una formazione che persista immutabilmente:
tale al suo primo principio, tale ancora fin che ne dura la esistenza. Ma la
scienza s'è avveduta che la formazione quale ora si presenta, l'uomo compreso,
è una fasetransitoria della esistenza. E con ciò ha distrutto il sogno che
fosse r opera definitiva, nella quale si fosse realizzato appuntino il disegno
di una Mente divina. La scienza s' è avveduta, che lo stato attuale delle cose
è dovuto ad un processo continuo di formazione ana- logo a quello delle idee e
dell' arte dell' uomo, e che que- sto processo è determinato dalla
attività intrinseca delle stesse coseche si formano, e dal caso
delle reazioni delle cose fra di loro. E con ciò ha distrutto il sogno che
siano r Ordine preveduto come fine in una divina idea. I teisti, smentiti così
nel campo degli Ordini della natura fisica, si restrinsero a sostenere il loro
prin- cipio della preordinazione della Mente divina, nel campo dell' ORDINE
MORALE; e credettero che quivi sareb- bero rim£isti eternamente inoppugnabili.
Ma ahi! che anche qui la scienza li ha seguiti e ha messo in evidenza la
insostenibilità della loro tesi.La scienza positiva dell' Etica sociologfica ha
sco- perto, come vedemmo, 1' analogia perfetta che corre tra la formazione
naturale in genere e quella della Giustizia e del Bene morale in tutte le sue
forme. Ha scoperto quindi che tutto ciò che si riferisce all' Ordine morale, e
r Ordine morale medesimo, sono il prodottolento e pro- gressivo {e vario
secondo le dccidentalitàaccompagnanti) della attività intrinseca dell' essere umano
e delle reazioni degli individui nella convivenza della Società. Il fatto del Diritto (diversità, specie,
coordinazione) e il suo Ideale. Circa la diversità del Diritto tra individuo e
individuo, in ragione della potenzialità non ugnale dal- l' uno air altro, alle
cose dette nel libro della Morale dei Positivisti {\) e superiormente in questo
{2), un'altra im* portantissima qui ora torna la opportunità di aggfiungerne. La
diversità in discorso dipende in parte dalla stessa costituzione
fisico^psichica colla quale uno nasce ; e per questo riguardo si potrebbe
chiamarla diversità ini- zicUe; e in parte (grandissima) è il prodotto della
convi- venza sociale: e per questo altro riguardo si potrebbe (i) Libro I,
Parte II, Capo IV, n. 15 ecc. (pag. 125 del Voi. ITI di queste Op, fil. nella
ediz. del 1885, e pag. 131 nella ediz. del 1893 e del 1901 e pag. 135 nella
ediz. del 1908). (2) Capo III, J II, n. 3. pi L I «IP^« chiamarla diversità
riuscita. La quale poi alla sua volta influisce pur anche indirettamente sulla
disposizione ini- ziale della nascita. L' argomento della diversità del diritto,
considerata sotto il secondo degli aspetti ora indicati, è vastissimo: ma noi
qui lo toccheremo solo per ciò che occorre allo scopo della nostra trattazione.
Le specialità di condizione di un uomo, dipen- denti dalla sua relazione e
convivenza cogli altri uomini uniti in Società, sono moltissime; come ognuno
sa. Per esempio, la ricchezza, la parentela, la clientela, gli ade- renti, gli
amici, i conoscenti, T ufficio, il grado, la cultura, il merito, le idee, e via
discorrendo. Queste specialità di condizione sono nello stesso tempo
altrettante specialità di attitudini e di potenza del- l' uomo. E quindi anche,
secondo le cose stabilite sopra, altrettante specialità di Diritti di esso. Si
verifica perciò nell'organismo sociale la legge di tutti gli organismi, per la
quale V elemento, che, con- siderato in astratto e fuori dell' orgfanismo, è
uniforme, una volta entrato a farne parte, si diversifica per opera
dell'organismo medesimo; poiché questo, fra le moltis- sime funzioni delle
quali un elemento ha primitivamente la potenzialità indistinta, lo dispone e lo
destina ad una data funzione distinta. Che è ciò che si chiama anche il
fenomeno della divisione del lavoro, ed è nello stesso tempo ciò che altrove
(i) dicemmo corrispondere alla (i) Per esempio, nella Formazione naturale nel
fatto del sistema solarCy Osservazione III, § V (nel Voi. II di queste Op,
fil,). wf^'^vmmmifm^gg^ della varietà, onde si spiega T attitudine alla esi-
stenza e alla virtù formativa nella natura in generale e negli organismi in
particolare. Così vediamo che gli atomi polivalenti del carbonio si
costituiscono, negli organismi degli animali e delle piante, in una serie di
forme diverse di radicali: in una serie tanto più notevole per numero e
varietà, quanto più complicato e perfetto è V organismo costruitone.
Nell'organismo sociale poi i suoi radicali (per ado- perare questa espressione)
o le sue varietà elementari co- stitutive, o attitudini distinte di funzione,
onde emerge r essere suo complessivo quale organismo sociale, sono precisamente
le specialità di condizione dell' uomo sopra accennate: ossia quelle specialità
di potenza, che l'uomo vi assume: ossia le specialità dei Diritti, I quali
Diritti, nell' organismo sociale, in pari tempo, e lo costituiscono, e ne sono
determinati. In modo che la Società si può chiamare la procreatrice dei
Diritti, Come la pianta è la. procreatrice delle sostanze speciali necessarie
alla sua vita particolare ; le quali, nello stesso tempo, e la costituiscono e
ne sono determinate. I diritti individuali, per tal modo nascenti e vigenti in
una Società, sono in numero immensamente gratide: e perchè i fatti determinati
sono moltissimi, e perchè questi si connettono insieme in maniere differen-
tissime, e perchè le attitudini emergenti si diversificano all' infinito
secondo le condizioni infinitamente diverse nelle quali si verificano. Tuttavia
si deve avere nella Società umana, in quanto è un organismo speciale dato, una
certa costanza nel nu- - 238 - mero e nella qualità dei generi secondo i quali
si pos- sono classificare i Diritti. Allo stesso modo che nell'or- ganismo
vegetale, per esempio, si ha una certa costanza nel numero e nella qualità dei
generi delle sostante com- ponenti. La quale costanza però non sarà mai quella
delle Idee^ eternamente immutabili, di Platone ; né quella delle specie, sempre
le medesime dopo la creazione, dei vecchi naturalisti ; né quella dei Diritti
ab eterno ed immutabil- mente stabiliti dal verbo divino, dell'etica
metafisica: ma sarà solo, come dicemmo, una certa costanza; e si che, da una
parte, ammetta una lenta trasformazione secondo i tempi le circostanze e i casi
e, dall'altra, nella realtà si verifichi sempre con qualche diversità, come il
tipo di un uomo o di una foglia, che non si effettua mai lo stesso in ogni
uomo, in ogni foglia. Il Diritto, che si forma nel modo suddetto, è il Fatto
del Diritto ; ma non il suo Ideale, Un uomo esercita la propria potenza in
quanto l'ha e in quanto glaltriglielo permettono, o gli detta la Idealità
sociale : che torna lo stesso, dal momento che la Idealità sociale non è che 1'
astratto della reazione altrui e quindi del permesso dato dagli altri di agire.
£ la forma della reazione altrui e quindi della Idealità sociale, nella loro
tendenza a ridurre e trasformare la prepotenza egoistica originaria dell'
arbitrio individuale nella Giu- stizia antiegoistica del suo concc«:so nel
lavoro social- mente utile, sono continuamente in via di progressivo mu- tamento;
come spiegammo sopra, e come esige, secondo che pure avvertimmo più volte, la
legge universale della ^'«ifannipiiij I ^^Formazione naturale applicata al caso
particolare della Formazione etico-sociale.6. — Un uomo esercita la propria
potenza in quanto r ha e gli altri glielo permettono, o gli detta V Idealità
sociale regolante il suo operare. Ecco il Fatto del Diritto. La reazione
sociale, e quindi V Idealità mentale con- seguente diretttiva dell' azione
umana, va sempre trasfor- mando r arbitrio individuale dalla sua originaria
prepo- tenzaegoistica nella Giustizia antiegoistica. £ questa Giustizia
antiegoistica, alla quale tende la detta forza trasformatrice, è T Ideale del
Diritto. Ma questo Ideale è un termine al quale si può andare avvicinandosi sempre
più, senza che si effettui però mai perfettamente. E da ciò consegue: Primo.
Che V Ideale assoluto del Diritto non esiste realmente. Sicché è una assurdità
il concetto di un ordi- namento morale definitivo, come porta la dottrina meta-
fisica della istituzione morale per parte di un legislatore divino, che la
fissasse una volta per sempre, e nei ter- mini di una sognata Giustizia
assoluta e quindi irrefor-mabile. Secondo. Che il fatto del Diritto è sempre
una Giti^ stizia relativa: e cioè relativa al lavoro di riduzione so- ciale
precedente e alla potenza attuale dell' organismo so- ciale derivatone. Ma tale
Giustizia, quantunquesolamente relativa quando sia rapportata ad un concetto
astratto più perfetto dell' organismo sociale, nella Società in cui vige ha
valore come se fosse assoluta, perchè essa giù- ■Jf W4» l dica, non in base all' Ideale o di un' altra
Società o di una Società possibile più perfetta, ma in base al Fatto che si è
già verificato in essa. Terzo. Che ogni Diritto di fatto è nello stesso tempo
in parte una prepotenza ingiusta, che si tende ad elimi- nare, e si va sempre
più eliminando. E ciò, sia regolando meglio il fatto medesimo, sia, quando
occorra, togliendolo del tutto. 8. — Senza questi criteri è affattoinspiegabile
la storia del Diritto, e il processo legislativo delle Società. Tale processo,
senza questi criteri, apparirebbe, non la Giustizia in azione (come è
realmente, e non può non es- sere), ma la ingiustizia incaricata di creare la
Giustizia. E con questi criteri poi si spiega il fatto storico della evoluzione
sociale procreatrice del Diritto più utile e più giusto. La quale evoluzione
quindi, secondo i cri- teri medesimi, si può dire consistere in ciò, che il
Diritto dell' avvenire, ossia il Diritto ideale, combatte e vince il Diritto
delpassato, ossia il Diritto di fatto. L' Ideale assoluto del Diritto dicemmo
che non esiste realmente. E che nella realtà non si ha, dell'Ideale del
Diritto, se non una effettuazione incompleta. E da ciò potrebbe altri dedurre,
che il Diritto di fatto sia un relativo il quale supponga un assoluto: e che
questo assoluto sia l'Ideale o il tipo eternamente deter- minato del Diritto,
che la mente o possieda gfià o abbia la possibilità di possedere quandochesia.
Ma anche ciò è un errore. L'Ideale del Diritto non è un tipo assoluto o eter-
namente determinato, nemmeno come semplice mentalità. L' Idealità del Diritto
è, anch' essa, un fatto, come quello del Diritto effettuatosi realmente. U
Idealità del Diritto presiede si, come mentalità direttiva, nella pro- duzione
del Diritto di fatto, ma è pur sempre un fatto anch' essa. Solo che questa
Idealità è un fatto della mente, dove il Diritto effettuatosi realmente è un
fatto della co- stituzione già vigente esteriormente in una Società. Ed essendo
un fatto ha le proprietà di tutti gli altri fatti jn quanto tali: cioè di
essere casuale e quindi relativo. Il tipo ideale del Diritto è come tutti gli
altri tipi ideali. Per esempio, come quello del disegno della crea-- zione
supposto nella mentedi dio, del quale abbastanza ho discorso nel libro della
Formazione naturale, E come, quello dell' arte ; mettiamo dell'Architettura:
che (per una serie di casualità) è riuscito diverso nell'India, in Egitto, in
Roma,in Germania, e via dicendo ; e pur nello stesso paese non fu mai identico
affatto nemmeno nella stessa epoca, e nemmeno in due soli architetti, anzi
nemmeno nello stesso architetto in tutta la sua vita. Il tipo ideale del
Diritto, come tutti quanti i tipi ideali, è una formazione mentale, che
apparisce un dato momento per una accidentalità che la suggerisce; vi si
perfeziona poi in una data maniera per altre accidentalità che guidano la mente
a farlo ; e un dato momento poi si oblia e si sostituisce con altri diversi e
opposti, ancora per delle accidentalità che ve la inducono. E tanto, che il
tipo ideale stesso non è quindi deter- minabile a priori, come un vero
preesistente inmodofisso e inalterabile nella mente di ognuno: ma solo a poste-
riori, cioè come 1' astratto di tutti i tipi conosciuti veri- Vol. IV. 16 ficatisi
effettivamente nelle Società umane d* ogni tempo. A quella maniera che il tipo
del vegetale non si può avere se non pel confronto mentale fra le forme reali
che effettivamente s* è dato che se ne producessero. IO. — Che se altri dicesse
che il tipo ideale del Di- ritto è assoluto in quanto è il corrispettivo
necessario etico-sociale di una entità reale, cioè dell' uomo e della sua
convivenza nella Società (i), risponderemmo: Primo. Che la reale entità stessa,
dell' uomo e della sua convivenza nella Società, determinante necessaria- mente
il tipo ideale del Diritto, è ancora una somma di accidentalità, che si rileva
a posteriori, e non si prefigge a priori. Secondo. Che il tipo ideale del
Diritto sipresta al concetto di essere il correspettivo necessario del fatto
so- ciale, non come il disegno preesistente di ciò che non è ancora succeduto;
ma solo come V astratto rilevato dopo (i) Su ciò ho scritto nella Psicologia
come scienza positiva (Voi. I di queste Opev e filosofiche pag. 219, 220) un tratto
che stimo op- portono di ripetere anche qui : « Anche nel dire, idealità, il
filosofo positivo esprime un concetto armonizzante i veri imperfetti di diverse
scuole. La scuola psicologica dà l'idea, come una mera forma del tutto
soggettiva, accidentale e variabile del pensiero. La scuola onto- logica le
assegna un valore oggettivo, immutabile ed assoluto. La scuola storica ricorre
per ispiegarla alle relazioni dell'uomo colle con- dizioni esterne in cui vive
, per cui le attribuisce una semioggettività, e la considera, da una parte
contro i psicologi, non una creazione fa- cile ed efimera dell' individuo, ma
una produzione faticosa,lenta, du- revole della Società, e dall' altra contro
gli ontologi, non una intui- zione che la riveli d' un tratto nella sua
interezza ed in una forma unica sempre e per tutti, ma una formazione
progressiva e varia, che incomincia dall' abbozzo per venire al lavoro sempre
più finito; e che riesce con aspetti diversi, secondo le circostanze differenti
dalle quali •*-^..r9,rr-fr- ^.-^ — 243 di ciò che è già succeduto. Onde il
ricorrervi che fanno i nostri avversari è un circolo vizioso. §n. // Diritto è
in virtù di se stesso, gioverà qui ripetere, in forma appropriata a questo
punto del nostro discorso, ciò che pursopra sotto vari aspetti dimostrammo. Quello
che può un uomo, che fa parte di una So- cietà, è una forza, che vi si pone da
sé col solo fatto che r uomo medesimo ne faccia parte ; e che vi emerge in
quanto non vi è elisa dal contrasto dei consociati. Come già dicemmo più volte.
Emergendo la forza di un uomo nella Società, vi è dipende. Or bene anche nel
filosofo positivo l' idea è una formazione lenta, progressiva, durevole, non
dell' individuo, ma della società, e dipendente dalie esteme condizioni di
essa, ma solo in quanto queste condizioni esterne e l'opera sociale giovano a
dare eccitamento e rin- forzo al pensiero individuale, il quale è il vero
fattore dell' idea, se- condo chedicono giustamente i psicologisti. Ma l'
individuo e la so- cietà, producendo l' idea, non fanno opera capricciosa, ed
avente solo valore momentaneo e soggettivo. No : tale lavoro ha la sua ragione
nella stessa natura per la quale agiscono, come la forma che assume il seme
germogliando. E come la forma assunta dal seme per la ger- mogliazione, più che
se stessa, rappresenta queir ordine di cose, che ha determinato la formazione
della specie vegetale a cui appartiene, cosi r idea di un uomo, più che 1'
operazione accidentale, soggettiva, variabilissima di esso, rappresenta,
secondo che dicono giustamente gliontologisti, queir ordine assoluto e
immutabile, almeno quantola natura, nel quale è la ragione oggettiva del fatto
particolare, che consideriamo. Vedi per esempio nel Capo I, dove parlammo della
Giustizia potenziale y e nel Capo II, dove parlammo della derivazione della
Giustizia dalla prepotenza. ■«T- riconosciuta: o estrale galmente nel tacito
consenso degli altri uomini, e nell' uso, e nella esplicita manifestazione
dell'opinione pubblica in qualunque modo approvante: o legalmente nelle forme
stabilite dal Potere sociale rico- nosciuto come tale. E pel detto
riconoscimento la forza in discorso acqui- sta il carattere di Diritto, per la
ragione che importa la Responsabilità di chi la lede verso la Società, la
quale, col suo riconoscimento, se ne è costituita tutrice e vin- dice. E quindi
è falsa V idea che il Diritto emani assolu- tamente dall'Autorità superiore,
che lo doni o lo conceda air inferiore. Non emana da essa: esiste
potenzialmente prima e indipendentemente e malgrado di essa : si impone da sé :
e sforza la stessa Autorità ad ammetterlo col riconoscerlo e sancirlo. E anche
questo dicemmo già più volte. Ma ci occorre ora di far notare un fatto essen-
ziale alla dottrina della sociologia positiva, non ancor ri- levato: il fatto
cioè che il Potere sociale crea pur esso direttamente dei Diritti individuali.
E, dato questo, si domanda : come si accorda questo fatto col suddetto
principio della emanazione del Diritto dall'individuo e non dalla Società?
Facile è la risposta. Il fatto della creazione di un Diritto individuale per
parte del Potere sociale si ac- corda col principio in discorso per la ragione
che questo Potere, nel caso qui contemplato, può porre il Diritto neir
individuo in quanto può fornirlo di una forza ; e in quanto questa forza, che
l' individuo ha ritratto dal potere che gliel' ha fornita, sia riconoscibile
quale Diritto come le altre forze possedute comecchessia dall'individuo
medesimo, e dalla società rispettate o difese. In ogni caso il fatto del
Diritto di un uomo neir organismo sociale è analogo a quello delle proprietà
acquistate dall' elemento materiale quando é entrato a far parte di un
organismo ; e, per un esempio, dalla molecola combinata nel tutto di una
sostanza, che acquista la forza specificamente funzionante della sostanza
medesima solo perchè è divenuta V elemento di essa. Nell’organismo chimico di
una sostanza V elemento è la molecola, come neir organismo sociale l’elemento è
la persona di un uomo. L' organismo intero, neir un caso e neir altro, e' è
solo pel rapporto della forza di un ele- mento con quelle degli altri; ossia
per orientarla se- condo la coordinazione acconcia di tutte. Il che però non
esclude: Primo. Che, coordinandosi nella complessa azione dell' organismo le
forze proprie degli elementi, ognuno di questi non ne ceda un tanto a formare
delle somme comuni, che poi siano distribuite di nuovo nelle parti in ordine
alle esigenze generali dell' organismo. Secondo. Che l' individuo stesso non
dipenda (e in quanto giunge all' acquisto di tutte le forze onde riesce
rivestito, e in quanto le conserva e ne usa liberamente) dall' ambiente
sociale, nel quale trova il mezzo dell'acquisto e della sua gsiranzia. Sicché
per questo lato (ma per questo solamente) è vero il principio della derivazione
del Diritto neir individuo dalla Società e dal suo Potere direttivo : e come,
per esempio, nella sostanza del chimico, nella quale, in virtù della sua
costituzione, le forze sono condotte ad assommarsi in certi punti determinati,
e in certa maniera ; e poi anche V acquisto e la costanza della forza specifica
operante negli atomi dipendono dall' es- servi coordinati. Il diritto è la
facoltà del bene sociale. L’esercizio del diritto è la funzione del bene
sociale. Dalle cose dette apparisce, che il Diritto è la facoltà del Bene
sociale; e che l'esercizio del Diritto è la funzione del Bene sociale. E ciò, o
solo indirettamente, o anche direttamente. Solo indirettamente, in quanto la
facoltà indi- viduale sia puramente V egoismo contenuto nei limiti inof-
fensivi per gli altri e producente il Bene dell' individuo investitone; che
torna il bene della Società, e perchè è il Bene del suo elemento, e perchè se
ne possono giovare e se ne giovano anche gli altri. Come nel fatto di una
industria, che arricchisce l'in- dustriale, e quindi anche il paese, e offre
nello stesso tempo un utile e un comodo ai consumatori de' suoi pro- dotti. E
anche direttamente, in quanto la facoltà in- dividuale sia quella che
corrisponde alla Idealità antiegoi- stica; la quale, come si estenda in urla
Società adulta e colta e bene ordinata e fiorente, vedemmo sopra; dove anzi
dimostrammo che, se si tien conto di tutte le gra- dazioni della Idealità e
delle disposizioni antiegoistiche (da una minima che lavori insieme con un
massimo di egoismo, ad una massima che lavori insieme ad un mi- nimo
diegoismo), si trova in tutto ciò che può fare e fa r individuo sociale. Il Diritto
costa una contribuzione, I. — Ma, se, da una parte, l'individuo è investito di
una potenza o di un Diritto (del quale usa poi facendo, o indirettamente, o
direttamente, il vantaggio altrui) dal- l' altra, la stessa potenza o Diritto
costa una contribuzione per parte degli altri. E questa una legge naturale
correlativa alla sopra accennata e necessariamente ad essa collegata. Si piglia
; ma si deve dare. Si dà; ma si piglia per poter dare. Questa legge dell'
organismo sociale non è altro cioè che r applicazione al caso particolare di
esso organismo della legge che domina in tutti gli organismi, anzi in tutta la
natura, dove una forza, posseduta da un agente che funziona in virtù di essa,
è, non una forza creata dal nulla neir agente medesimo, ma comunicata ad esso
da altri agenti, che gliela cedono in ragione dei rapporti correnti fra quello
che cede e quello che acquista ; come ho dimostrato nel libro della Formazione
naturale, par- lando del ritmo (i). Il vegetale si appropria l' acido carbonico
che lo at- (i) Vedi Formazione naturale nel fatto del sistema solare^ Os-
servazione terza. § XIV (nel Voi. II di queste Op. Jil.J. tornia, e con esso
mantiene la vita. Gli animali maggiori vivono cibandosi dei minori. Neir
organismo di un mam- mifero alcune parti lavorano a preparare il sangue, e le
masse nervose ne fanno consumo. Impossibile V attività specifica nervosa,
necessaria al funzionamento generale deir organismo e anche a quello
particolare delle parti preparanti il sangue, senza la contribuzione di queste
alla nutrizione dei nervi mediante la somministrazione del sangue acconciamente
preparato e distribuito. 2. — Parlando in particolare deir organismo sociale,
la partecipazione al contributo di ciascuna parte è in ra-gione della
importanza del Diritto, e quindi della facoltà di produrre il Bene sociale. Più
è r importanza del Diritto, e più è la facoltà di produrre il Bene sociale. Più
è questa facoltà e più è la partecipazione al contributo delle parti. Come nel
resto della natura, dove si trova che le funzioni più elevate de* suoi agenti
costano un immagaz- zinamento di forza tanto più grande quanto più distinta è
la forma e ìa sfera della efficienza. Risultando cosi una proporzione di
equivalenza tra la natura che dà e quella che riceve. E in questo modo, che al
più della contri- zione apportata corrisponda il più della importanza della
attività emergente. Per la stessa ragione il Diritto di un ordine supe- riore,
quello ad esempio di un Giudice, costa una contri- buzione per parte di quelli
sui quali ha giurisdizione. Sicché il Giudice mangia dei frutti della terra che
essi hanno lavorato, come il sistema nervoso consuma del sangue che fu
preparato da altre parti dell'organisme animale. PPP^P"?!'^. Come molto
movimento equivale a poco di calore, e molto calore a poco di attività chimica,
e molta attività chimica a poco di attività vitale, e molta attività vitale a
poco di pensiero; cosi, nell'ordine etico della natura, a molta materialità
(intendendo con questa espressione le forme inferiori della esistenza)
corrisponde poco di attitudine morale: poiché, nella gradazione delle
formazioni naturali e quindi delle equivalenze delle forze, i suoi poli opposti
possiamo rappresentarceli, o andando dal movimento meccanico al pensiero, che
ne è l'ultima trasformazione (i), o andando dalla materialità alla mora- lità,
che è r ultima e più sublime sfera della evoluzione ascendente della natura
insensibile e bruta. Naturale è questo fatto della contribuzione delle parti
nell'organismo sociale. E quindi, non effetto solo di arbitrio o prepotenza di
alcuno, ma necessario; a quel modo che è necessario l'assorbimento del carbonio
per parte del vegetale, e il consumo del sangue per parte dei nervi. E naturale
il fatto stesso ; ed anche giusto, in quanto è, direttamente o indirettamente,
consentito ed approvato da quelli che contribuiscono. Ed è consentito ed
approvato da questi per la legge, rilevata dagli economisti, della domanda; la
quale, come tutti sanno, consiste in ciò, che più una cosa importa a molti e
più è domandata; e tanto più si paga quanto più (i) Intendendo questo nel senso
della filosofia positiva e non in quello della metafìsica materialistica. Come
spiego da per tutto nei miei libri, e più a lungo in quello col titolo V Unità
della Coscienza nel VII voi. dì queste Op. fil. iiu^.i'i>nn^ si domanda; ma si paga quanto occorre per
averla e non più. Questa legge poi, che determina nei suoi limiti ne- cessari
la contribuzione assentita e giusta nell'organismo sociale, è analoga alla
fisiologica, onde un tessuto vivo si impadronisce delle sostanze che lo nutrono
nei limiti deter- minati dallo stesso bisogno della funzione domandatagli. 4. —
E quindi il fatto in discorso deve essere con- siderato come un caso speciale
di selezione naturale; che si potrebbe chiamare la selezione etico-sociale. E
dalle cose dette si conferma e si chiarisce viemmeglio la dottrina sopra
esposta, che il Diritto indi- viduale è pur esso una autorità (i). Poiché, come
ve- demmo, il Diritto individuale si impone a tutti quelli che contribuiscono
all' essere suo ; e agli eguali, che lo rico- noscono e lo rispettano; e agli
inferiori, ossia a quelli che, in ragione dei rapporti nascenti dalla sua
speciale natura, ne subiscono una dipendenza e una direzione; e al Potere
sociale subordinante, in quanto questo non lo crea ma lo riconosce, ed è
determinato a riconoscerlo dal fatto stesso di porsi da sé; onde, una volta che
si sia posto, viene ad essere realmente Diritto in virtù di se stesso. Le unità
minime, le unità medie, e V unità ^ massima nel corpo sociale. L’individuo è V
unità minima del composto so- ciale, come r atomo del composto chimico. E, come
in (i) Vedi Capo III, specialmente \ V. tutti gli altriorganismi naturali, cosi
nel sociale, oltre le unità minime degli individui sociali, e Munita massima
dell' intero organismo, si trovano delle unità di mezzo di terzo grado,
risultanti di più individui associati parti- colarmente fra loro, o di più di
queste associazioni di individui collegate particolarmente in federazioni più
grandi. In unaSocietà adulta, fiorente e grande, la vita del tutto si manifesta
nelle più svariate e spiccanti differen- ziazionidelle attitudini e
conseguentemente dei Diritti individuali, come accennammo or ora. Anzi la
grandezza della Società è, alla sua volta, il risultato di tali varietà o
specificazioni di attitudini ; ovvero di tale divisione di lavoro,
verificatavisi : come in ogni altro organismo; per esempio, in quello
fisiologico dell' uomo, nel quale la ec- cellenza zoologica sopra gli altri
animali dipende da una suddivisione di specificazioni in massimo gradodegli or-
gani componenti. In un animale del grado infimo della scala zoologica la
sostanza componente (come avvertimmo nel principio del libro) non è né muscolo
ne nervo : come in una Società umana primitivissima tutti gli individui sono,
mettiamo, dei guardiani d' armenti : e non vi si trova una distinzione di
occupazioni, per salire, po- gniamo, da uno che attende a far pascolare le oche
ad uno che attende a costruire stromenti di ottica o di astro- nomia. La
differenziazione in discorso nella Società più pro-gredita va, si può dire,
all' infinito. E non solo nelle u- nità minime degli individui, ma anche nelle
combinazioni medie già dette delle associazioni degli individui e delle confederazioni
di queste associazioni. Le quali pure, nelle Società adulte fiorenti e grandi,
si producono, per cosi dire, anch' esse all' infinito : dalle più comuni,
normali, e costanti, come quella della/amiglia, alle più insolite, ac-
cidentali ed efimere, come quella ad esempio per dare una volta una festa o uno
spettacolo: dalle più piccole, come di due persone in una impresa commerciale,
alle più grandi, come di due provincie di uno Stato tra loro consorziate per
interessi speciali. Or bene, anche queste unità medie sono (al modo che una
data somma, come tale, si distingue dalle sin- gole quantità sommate,
considerate ad una ad una) sog- getti distinti in possesso di una facoltà
speciale, analoga alla individuale, a somiglianza di ciò che pur si verifica
neglialtri organismi naturali : nei quali, per esempio, la cellula nervosa
singola ha le sue proprietà particolari, e una data massa distinta di cellule
nervose ha un dato uf- ficio distinto fisiologico, che essa esercita in quanto
esiste e si conserva nella peculiarità del suo insieme. E siccome poi il
possesso di una potenza di fare im- porta il possesso di un Diritto, come
dimostrammosopra,cosinellaSocietà si danno i Diritti degli individui e i
Diritti delle stssociazioni loro. E questi Diritti delle As- sociazioni hanno
le proprietà già notate dei Diritti indi- viduali più quelle dipendenti dalla
specialità proporzio- nale della associazione. Delle quali ultime proprietà una
massimamente occorre che sia qui messa in rilievo. L' individuo, in astratto,
si può considerare siccome un plasma generico, il quale, nell' ambiente sociale
e nel circolo della sua vita, secondo le disposizioni già pos- sedute nascendo,
e le circostanze accidentali nelle quali viene a cadere, riceve una
particolarità di impronta di- stinta e tutta sua. Nel che ha luogo un fatto di
selezione naturale: cioè la selezione naturale onde una unità so- ciale si
sceme quale individualità distinta fra altre unità. Anche le agglomerazioni di
più individui in associa- zioni o totalità distinte sono determinate e
foggiate, con grandezze, tendenze e attività particolari, neir ambiente
sociale, secondo i bisogni ed i fatti, e costanti e acciden- tali, onde
emergono, per una analoga selezione naturale distinguente un composto singolo
fra altri composti. Ma in questo composto (o unità media, come sopra lo
chiamammo) ha luogo un' altra forma della selezione naturale : cioè quella che,
neir interno stesso del com- posto, diflFerenzia edistingue fra loro le parti
compo- nenti: e si che esso composto riesca un organismo e non rimanga una
semplice agglomerazione inorganica di ele- menti tutti identici fra loro. E
questa forma di selezione si potrebbe chiamare selezione interorganica. La
unità sociale da noi detta media non è puramente un certo numero di parti
addizionate le une alle altre, ma è una collaborazione organica degli individui
o dei soda- lizi aggregati insieme; e quindi con diversità di attinenze e di
facoltà distribuite fra loro. Altri fanno numero, con- tribuiscono e concorrono
a mantenere T associazione : altri invece la rappresentano, la dirigono, ne
applicano le forze accumulatevi. E, occorrendovi specialità di lavoro e di
ufficio, queste vi sono divise quali negli uni e quali negli altri. E, come è
naturale la creazione di queste differenze interorganiche delle parti
costitutive delle unità medie, cosi è naturale la selezione interorganica dalla
quale di- cemmo che proviene. Questa selezione interorganica, come insegna la
os- servazione del fatto, avviene in diverse maniere secondo i casi; ma
soprattutto secondo la legge, che riesce a una data facoltà ufficio chi piti vi
ha attitudine, o ne ha il merito, e colla condizione del consentimento degli
as- sociati. Il fatto del merito, onde uno acquista una preroga- tiva o una
particolarità d'ufficio a preferenza di altri, è analogo a quello notato da
Darwin della specie preva- lente nella lotta per la esistenza. Il fatto del
consentimento degli associati è analogco air altro, pure da Darwin segnalato,
dell* efficacia del- l' ambiente nel secondare la trasformazione progressiva
dell' essere naturale. L' individuo investito di nna facoltà o di un ufficio in
un corpo di individui o di sodalizi viene con ciò ad avere due sorta di facoltà
o di Diritti : cioè il Di- ritto fondamentale spettante a lui come parte
elementare della Società intera, e il Diritto avventizio, onde è in- vestito
come organo speciale della associazione partico- lare a cui appartiene. Il
Diritto fondamentale ha il suo rapporto immediato colla costituzione generale
delle Società che lo garantisce direttamente a tutti senza distinzione : T
avventizio V ha con quella della associazione particolare per la quale e-
merge; ed è garantito dal Potere sociale supremo in quanto esso riconosce il
Diritto della medesima associa- zione particolare. Se privato si dice ciò che è
proprio della unità sociale minima, come tale, e pubblico ciò che è proprio
della unità massima, parlando delle unità medie si dirà che hanno un carattere
di mezzo tra i due, e gradata- mente; in ragione cioè della importanza loro,
intensiva- mente o estensivamente, nella vita sociale complessiva. Il pubblico
poi si differenzia in genere dal privato in quanto ha un rapporto diretto col
Bene, non indivi- duale, ma sociale ; ossia è, non egoistico, ma antiegoistico.
La proprietà quindi di ente morale antiegoistico com- peterà massimamente alla
unità più glande o allo Stato. E se, come sopra dicemmo, il Diritto in genere è
\2l fa- coltà del Bene sociale e il suo esercizio è la funzione del Bene
sociale, ciò si avvererà meno pel Diritto privato, più pel Diritto delle
associazioni sociali intermedie, e in grado più alto pel Diritto dello Stato.
Ma non diremo che per questo Diritto dello Stato il principio si avveri proprio
nel grado massimo, per la ragione che, come sopra dicemmo n), uno Stato singolo,
o già in effetto, o almeno in potenza, si coordina internazionalmente con altri
Stati, anzi con tutte le Società umane esistenti sulla terra. La selezione
interorganica nella evoluzione formatrice dello Stato. La legge della selezione
interorganica, che si avvera nella costituzione degli organismi delle unità
com- (i) Dove parlammo del Diritto internazionale (Capo [, \ II). plesse medie,
si avvera poi per le ragioni medesime nella costituzione dell' organismo della
unità massima dello Stato. Ed è per essa legge che ha luogo in questo la
formazione del Potere onde si esercitano le sue fimzioni subordinanti, che sono
poi funzioni del Bene sociale. Questa selezione assume storicamente forme svari
atis- sime. Ma anche la varietà è determinata da una ragione costante, che si
rivela chiarissimamente nella storia poli- tica degli Stati, e che non è altro
che una applicazione del principio nostro fondamentale della formazione etico-
sociale, che cioè la prepotenza è V indistinto onde si forma il distinto della Giicstizia,
E in vero nello stadio iniziale, o della prepotenza, la selezione formatrice
del Potere sociale è dipendente dalla violenza, che a poco a poco si mitiga
nella eredità, finché da ultimo è sostituita, prima in parte e poi del tutto,
dalla elezione (per parte dei subordinati, e in modo legale e pacifico) dei più
degni, in ragione del merito morale e della Giustizia» e non del soprastare
materiale della ricchezza o della forza dei muscoli : e si che riesca investito
dell' ufficio chi si trova piti atto ad esercitarlo, e che il Potere nella
direzione del corpo sociale sia quel premio del virtuoso del quale un' altra
volta parlammo nel Capo precedente (i). 2. — Il costante e vivissimo lavoro
evolutivo del- l' organismo dello Stato, onde si ha la sua formazione na-
turale e il suo sviluppo e isuo progresso, è T applica- zione nel grado massimo
del principio della formazione (I) \ VII, numero 8. morale, cioè, dall'
indistinto (morale solo virtualmente) della prepotenza e dell' egoismo, al
distinto (morale in atto) della Giustizia antiegoistica. Più procede la
formazione organica dello Stato e più si estende e arriva in tutte le parti e
nel!' intimo di esse la virtù direttiva e moralmente perfezionatrice della So-
vranità politica. In modo che, dove prima le parti erano agglomerate e
coacervate e tenute in fascio violentemente, a poco a poco vanno organizzandosi
vitalmente insieme e finiscono coli' aderire 1' una con V altra, e tutte nel
tutto, volontariamente e per liberoconsentimento. Come, per esempio, le molecole
di certe sostanze, che fanno sentire la loro affinità e aderiscono insieme a
formare un cri- stallo solo in seguito ad una compressione che le sforzò a
ravvicinarsi meccanicamente. Il quale processo però va di pari passo con quel-
r altro; che le parti stesse subordinate, di mano in mano che si orientano
nella armonia politica dello Stato, di- ventando partecipi e collaboratrici
della sua vita, reagi- scono sul Potere sovraincombente, rintuzzando la prepo-
tenza, che vi fosse, e riducendolo ad una forza giusta e mo- rale ; ad una
forza, in una parola, diretta al Bene di tutti. 3. — Non è nostro compito (non
richiedendolo lo scopo del presente libro) di studiare i modi precisi onde, per
la elezione interorganica, e pel processo di distin- zione, si va formando
nell' organismo dello Stato bordine del Potere, che riesce un sistema complesso
di funzioni speciali esercitate da individui e corpi particolari; e come nasca
il fatto, mettiamo, della divisione del Governo in diversi ministeri, e di
ciascuno di questi in parecchie Voi. IV. 17 dipendenze, alle quali, variamente e per mez£o
di centri subordinati, si rannodano le ultime propag^ni della
am-ministrazionepubblica sparse in ogni parte dello Stato. Pel nostro scopo, in
riguardo alle specializzazioni ac- cennate degli organi del Potere, basterà
fare T osserva- zione (pure importantissima) che, come si distinguono tra loro
le amministrazioni pubbliche, e quindi gli c^getti di ciascheduna, e
conseguentemente il modo di funzionare (che deve atteggiarsi in conformità
dell' intento da otte- nere), cosi si distinguono tra di loro le Sanzioni pub-
bliche e legali degli atti sociali relativi; e quindi (si noti bene) le specie
di Responsabilità, che neemergono. E da ciò proviene che le forme della
Giustizia e quindi della Moralità si specializzano insieme collo spe-
cializzarsi della pubblica amministrazione; onde, moral- mente, non sono, per
esempio, identiche le azioni degli individui giudicate da un tribunale civile e
quellegiudi- cate da una una intendenza di finanza, o da una commis- sione
igienica o di belle arti; e per un reato controla proprietà individuale o per
uno contro le restrizioni della libertà della stampa, in materia scientifica; e
cosi via. Il che non vuol dire però che non si possano tutte le dette azioni
ridurre al genere comune delle obbliga- torie nel foro intimo della coscienza,
in ragione che Del- l' individuo si è formata, come sopra abbiamo dimostrato, r
abitudine virtuosa e propria del saggio ; l'abitudine cioè di attribuire
universalmente alle Idealità antiegoistiche sociali un valore obbligativo per
se, assoluto e indipen- dente dalle specialità di procedura e di Sanzione, che
loro corrispondono nella amministrazione governativa. m — Come risuiii spiegata
la prima /orina de li* ufficio del Intere, e anche la terza : e stabilito l'
assunto del liérù. Ora, facendo, colla proporzione dovuta, al fatto del Diritto
del Potere, Tapplicazione del priacipio stabi- lito sopra, che ogni Diritto
importa una conirièuzionc, possiamo trovare la verità di quella che sopra, alla
fine del Capo I, dicemmo la pritna forma dell' ufficio del Po- tere, cioè : di
stabilii*^! nella Società a spese delle sue parti. Et facendo allo stesso
fatto» pure colla pro- porzione dovuta, r applicazione dell' altro principio,
che il Diritto è la facoltà del Bene^ constatiamo la verità di quella, che ivi
stesso chiamammo la terza forma dell' uf- ficio del Potere, cioè: di
flÌH|ìensHri^ la forza propriadeir ambiente sociale (cioè le contribuzioni
suddette) al migli orauiento delle sue parti. In questo ultimo enunciato poi
abbiamo il com- pendio, per cosi dire, di tutta la trattaEione di questo libro,
E> in relazione allo stesso enunciato, si verificano, in ragione cho lo
Stato si perfeziona in ogni sua parte, i principj che seguono: Primo* Che le
contribuzioni di ogni genere, prestate da tutti gli elementi costitutivi dello
Stato, diventano li-èeramente consentile. Secondo. Che le contribuzioni
medesime si vanno av- vicinando al massimo di ciò che pi4Ò dare ciascuno ^
senza suo esiziale detrimento* ^ i '«.iFI-i-^..' TChe nulla, di ciò che è
contribuito, va consur- malo prepotentemente ed egoisticamente da chi è
investito del Potere di disporne. Quarto. Che la erogazione medesima è fatta
secondo il volere di quelli stessi che contribuiscono. Quinto. E alla tutela
dei Diritti di tutti; e dXVotte- nimento della prosperità, e al miglioramento
morale. Sesto. E a questo soprattutto. E nella ragione che il miglioramento
morale ottenuto, supplendo da sé, come dimostrammo sopra (i), alla tutela dei
Diritti e all' otte- nimento della prosperità materiale, lascia per sé disponi-
bili mezzi sempre maggiori. E cosi nello Stato siverifica T idea della prov-
videnza, che il teista colloca in dio, come in esso colloca il tipo della
specie di una pianta, per la solita illusione tante volte notata. E si verifica
anche V idea della grazia, immaginata per una simile illusione dalla teologia
cattolica siccome emanazione divina, atta a rendere V uomo morale, a far che
segua le leggi della Giustizia ed eserciti la beneficenza. La possibilità per
1* individuo di essere morale, di conoscere e seguire la Giustizia, e di essere
benefico verso gli altri, si ha, come dimostrammo nel corso del libro, dalla
sua convivenza nella Società e dalla proprietà di questo di svolgere e
perfezionare le facoltà dell'uomo, e di moralizzarlo. 5. — Onde lo Stato, cosi
concepito, viene ad essere l'attuazione pura e compiuta della Idealità sociale,
ossia (i) In molti luoghi: per es. Numero 2 del J VI del Capo IV. 201 del
principio del Bene an ti egoistico, del Bene morale, in una parola del Bene pel
Bene, E quindi lo Stato medesimo riesce la prova concreta ' sperimentale della
verità del principio della Morale dei positivisti da noi affermato, chiarito,
dimostrato: e una prova evidente, in quanto nel fatto dello Stato il fenomeno
individuale si trovaingrandito, E mi spiego. Se, ad esempio, si può dubitare
che un atomo materiale preso da sé sia pesante, perchè il peso deir atomo è
tanto piccolo che non si può rilevare iso- latamente, il dubbio cessa affatto
prendendo una grande congerie di atomi, nella quale i pesi minimi non valu-
tabili di ognuno sisommano in un peso valutabile, dal quale si arguisce quello
troppo piccolo dei componenti. E, se si può dubitare che una molecola di ferro,
consi- derata isolatamente, sia calamitata, il dubbio cessa quando se ne prenda
una grande massa. E cosi nel caso nostro. Se si può dubitare che T uomo singolo
sia mosso nelle sue azioni da una Idealità sociale antiegoistica, perchè la
ragione di questa, nella singola azioneumana di un individuo, si sottrae
facilmente alla osservazione, stante il concorso e il contrasto colle ragioni
egoistiche, le quali ve la accompagnano, il dubbio è tolto interamente arguendo
dal fatto che, appuntandosi i voleri individuali nella totalità dello Stato, ne
risulta la incontrastabile sovranità del volere morale, e antiegoistico, che vi
os- servammo. Le cose dette nel corso del libro dimostrarono che la
Responsabilità, intesa nel senso che sia Vastraito delle Sanzioni,onde la Società
reagisce, rintuzzandola, contro V azione propriamente umana individuale, si
rife- risce, non solo agli atti della Giustizia propriamente detta, ma anche a
tutti gli altri atti etico-civili dell'uomo ; cioè : Primo. Agli atti
offensivi non contemplati e non con- templabili dalla Legge. I quali perciò,
esclusi dal campo della Giustizia propriamente detta, vanno attribuiti a quel-
la altro della puraConvenienza. Secondo. Agli atti sindacabili soltanto dalla
coscienza intima dell* individuo in cui si avverano, e producenti la sola
reazione del rimorso intemo. Terzo. Agli atti virtuosi, che V individuo
potrebbe fare e sarebbe bene facesse, e non fa. Ossia a quegli atti che non si
attribuiscono, ne alla Giustizia, né alla Con- venienza, ma alla Carità, come
dicevano i moralisti vecchi, o alla Filantropia o Beneficenza, come direbbero
inuovi. E cosi è sciolta la questione, propostaci nella Introduzione, come
compito di questa nostra Sociologia. Rodrigo Ardigò. Keywords: sociologia. Grice ed Ardigò: implicatura cooperativa — positivismo
filosofico — biologia filosofica —
psicologia filosofica naturalista — il sociale — l’intersoggetivo ——, la morale
positivista, il positivism filosofico. La morale e il diritto all’altro – la
convivenza sociale – la giustizia, il bene sociale – la benevolenza e la
beneficenza – il calcolo ragionale nella convivenza sociale – l’evoluzione
sociale – l’organismo sociale – il positivismo filosofico – communicazione e
convenienza sociale – l’onesta morale – spettazione di onesta reciproca –
Fondazione naturalistica della morale – Fondazione – il fatto sociale – il devere,
la regola d’oro, fare all’altro cioe che vorreste fatto a te – consiglio di
prudenza – kant – costume – fatto sociale presupposizione del linguaggio -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Ardigò” – The Swimming-Pool Library.
Arena (Ripatransone).
Filosofo. Grice: “I like Arena; my favourite of his tracts are one on what he
calls, ambiguously, ‘guerriero dello spirito,’ which is pretty naif – wasn’t
Aeneas killing for something too, not necessarily ‘spiritus’? – His focus is
two orders: the templari and the teutonic order – my other of his favourite
trats is his ‘nudi’ – or ‘gnudi,’ if you
mustn’t – when Romolo converses with Romo, they are ‘nudi’ – what they say is
what they mean and what they mean is what they say – ‘nakedness’ becomes a
philosophical category, as when Strawson says, ‘the naked true.’” “There is no
reason why it shouldn’t be a philosophical category, since the etymology is
fascinating – vide Clarke, “The naked and the nude,” -- Leonardo Vittorio Arena (Ripatransone),
filosofo. Arena insegna "Storia della filosofia contemporanea" presso
Urbino. Filosofo e orientalista,ha dedicato in particolare al Buddhismo Zen, al
Taoismo e al Sufismo una vasta produzione saggistica; è anche autore di romanzi
e traduzioni sui medesimi temi. Insegna tecniche di meditazione tratte da
pratiche buddhiste e sufi. Ha collaborato ai programmi religiosi della Radio
Svizzera. Pensiero La sua visione filosofica è esposta principalmente
nelle tre opere Nonsense o il senso della vita ,Note ai margini del nulla e Sul
nudo, dove si propone una sintesi delle grandi correnti filosofiche orientali e
occidentali, con particolare riguardo a Nietzsche, Wittgenstein, Zhuāngzǐ e il
Buddhismo Chán/Zen. Il nonsense, come dall'opera Nonsense o il senso
della vita, è da intendere come la meta di ogni autentica indagine filosofica,
realizzando la "distruzione delle opinioni" sulla scorta del
Buddhismo. La filosofia del nonsense non è teoria, bensì non teoria: come la
zattera del Buddhismo o la scala di Wittgenstein, serve ad arrivare a una sorta
di consapevolezza speciale, per poi essere tranquillamente accantonata. Punto
di partenza: non è possibile formulare una filosofia esente da contraddizioni.
Nelle pagine di ogni filosofo si cela il tarlo dell'incoerenza. Traendo tutte
le conseguenze logiche di ogni filosofia se ne attesta la
contraddittorietà. L'idealismo, base di ogni filosofia, dovrà sfociare
nel vuoto e nel nonsense, laddove se ne sviluppi il suo principio-base, che è
esistenziale prima ancora che teoretico, secondo cui il mondo è la
rappresentazione del soggetto o di una mente cosmica. La posizione del nonsense
spinge a riconoscere che le cose stanno proprio così (Tathātā), cioè sono
caratterizzate da una nudità che non può essere interpretata o espressa
attraverso alcuna dottrina od opinione. Non c'è senso nascosto, e tutto è
già qui, direttamente accessibile nella vita quotidiana all'uomo comune e al
Risvegliato, mai così tanto accomunati. Lo strumento del nonsense è l'arte,
specialmente la musica e si procede verso la dimensione del non suono, già cara
a John Cage, nella sua composizione 4'33", cui Arena dedica una lunga
disamina, nella sua opera La durata infinita del non suono. La stessa tematica
viene ripresa e ampliata in Il tao del non suono, nonché nell'analisi di alcuni
solisti o gruppi di musica contemporanea, come John Lennon, David Sylvian,
Brian Eno, Robert Wyatt, Giacinto Scelsi e Ryuichi Sakamoto. Musica e filosofia
si intersecano, entrambe sono mezzi di conoscenza, addirittura intercambiabili.
Arena è influenzato dalla beat generation, e riconduce parte del suo interesse
di lunga data per l'Oriente ai Beatles e ai grandi gruppi rock dei '60 e
'70. Nella poesia, l'haiku esprime lo yugen, un senso di "profondità
misteriosa" che convive con la semplicità del "qui e ora".
Nonsense implica il superamento degli opposti, quindi permette di giungere alla
non dualità, al di là della logica formale di Aristotele, perseguita
dall'esorcista del nudo, il quale pretende di cogliere e congelare in una
articolazione sistematica il caotico divenire della vita; operazione votata
all'insuccesso, e alla contraddittorietà. Come per Nāgārjuna e Wittgenstein,
anche per Arena la logica può servire a invalidare sé stessa, ma nella
dimensione radicale del kōan, come è concepita nel Chán/Zen. L'insegnamento si
trasmette grazie a una sorta di empatia o comunicazione energetica tra maestro
e allievo -, di baraka nel senso che il termine acquista nel Sufismo -,
veicolata dal silenzio e dal non suono. Nella sua opera Note ai margini
del nulla, Arena riprende la posizione di Bodhidharma, relativa al "non
sapere, non distinzione" (fushiki), in direzione epistemologica ed ermeneutica,
sottolineando la complessità della diffusione del nonsense nell'ambito del
sociale. Egli analizza le concezioni di vari esponenti del pensiero orientale e
occidentale, tra cui Max Stirner, Fernando Pessoa e i maestri del Taoismo,
specie Zhuāngzi. Il nonsense propone un nichilismo costruttivo, dove le
"ragioni" del nulla non vengano concepite attraverso la modalità
unilaterale del nihil privativum, negativum od oggettivizzato. Arena rovescia
la conclusione del Tractatus Logico-Philosophicus: di tutto ciò su cui si dovrebbe
tacere occorre proprio parlare. Arena propone di sondare il nonsense
attraverso il nudo, una comprensione che sfoci nella non comprensione e nel non
pensiero, ben più fecondi di quanto la riflessione logico-formale non abbia
dato da vedere all'Occidente. Nietzsche, Bob Dylan e i maestri Zen si rivelano,
al momento, i suoi principali ispiratori nei toni di una filosofia non
accademica, nemica del dogmatismo e della necrofilia della teoresi. La musica
elettronica contemporanea sembra particolarmente adatta a sondare la nudità,
nei modi della improvvisazione radicale, cui Arena dedica anche un'attività
concertistica solista con lo pseudonimo Mu Machine. Arena ha pubblicato
una serie di ebook sull'analisi di maestri e filosofi alla luce delle categorie
del nonsense e del nudo, sondandone tratti indipendenti dai "punti
nodali", riscontrabili nei compendi od opere manualistiche, e considerando
queste figure nella loro alterità: Samuel Beckett, Jacques Derrida, Nietzsche e
Wittgenstein rientrano nel novero, ma anche Jacques Lacan (cfr. la voce Opere).
Parallelamente, sta sondando le illusioni e i condizionamenti dell'animo, che
non lasciano percepire il nudo/nonsense. La produzione romanzesca è
iniziata con La lanterna e la spada, dove Arena analizza la figura di Qinshi
Huangdi, il primo imperatore della Cina, famoso per l'unificazione della
lingua, del Paese, e il forte impulso dato alla costruzione della Grande
Muraglia, ma anche per il rogo dei libri, che ha ispirato Ray Bradbury in
Farenheit 451, e varie efferatezze. La produzione letteraria è proseguita con
un altro romanzo, L'imperatrice e il dragone (ripubblicato come Il Tao del
sesso), in cui si rievoca un'altra figura molto discussa, stavolta nella Cina
medioevale, quella di Wu Zhao, la quale regnò per virtù propria, fondatrice di
una sua dinastia, e non come semplice imperatrice vedova, altresì famosa per
gli eccessi e le passioni sessuali. Anche di questa figura Arena dà un ritratto
senza giudizi moralistici ed esaminandone i multiformi aspetti, come per il
primo imperatore. In L'Ordine nero, ripubblicato come La svastica sul Tibet, si
tratta della spedizione Schaefer, alla ricerca delle origini della razza umana
e di ineffabili segreti magici. Nel gruppo di nazisti si trova anche il
filosofo Leonard Mayer (personaggio inventato), alla ricerca del segreto della
mente. In Il coraggio del samurai, si parla dell'arcano connubio tra samurai e
ninja, e dei segreti di questi ultimi, descritti attraverso un gruppo di donne
guerriere, la cui sovrana è la misteriosa Padrona, di cui si dice che abbia
quattro secoli; si parla anche di Yoshitsune, un samurai del clan dei Minamoto,
sfortunato quanto valoroso, ostile al fratello Yoritomo. Nell'ultimo
romanzo pubblicato, La corda e il serpente, Arena si discosta dal romanzo
storico e scrive un'opera sperimentale, dove la trama è un pretesto, e si nota
l'influsso di William Burroughsanche di H.Lovecraft, per certi aspetti:
nell'opera si parla di Atlantide, un mondo sommerso, distrutto da una
catastrofe; il protagonista L., darà vita a una nuova specie umana. Arena
propone una personale versione della meditazione nella sua opera La Via del
risveglio, Manuale di meditazione. Egli prende spunto dal buddhismo, vipassana
e Zen, dal sufismo e da Georges Gurdjieff, dalla psicologia analitica di Carl
Gustav Jung (il Libro rosso)[25] e dal lavoro sull'ipnosi di Milton Erickson.
Una meditazione che conduce talvolta agli stati alterati di coscienza e
permette di sviscerare il nudo nonsense, caposaldo della visione filosofica di
Arena. Una meditazione che ha il suo supporto nella musica, la quale non ne
costituisce solo il sottofondo, ma anche la base per approfondire le intuizioni
che ne emergono. "Difficile separare la musica dalla meditazione",
scrive Arena, "l'una porta all'altra".[26] Scopo della meditazione è
anche attingere il non suono, categoria che Arena aveva sviscerato nei
succitati studi su John Cage e Brian Eno. Una meditazione che attinge
all'Oriente, ma fa tesoro delle conquiste psicologiche e spirituali dell'Occidente.
Per indicare la modalità filosofica della pratica Arena propone una metafora:
"La meditazione è premere il pulsante della
consapevolezza".[27] Dopo anni, e non sulla base di un ripensamento
quanto di un ampliamento, Arena torna sul nonsense con una nuova riflessione,
imperniata sul non sapere alla luce del buddhismo Chan/Zen nel suo complesso
(non solo in riferimento a Bodhidharma), e soprattutto da non intendere come
non sapere socratico. Il non sapere invita a diminuire la quantità di nozioni,
a spogliare la mente dei preconcetti, principio che potrebbe essere il pilastro
della scoperta scientifica. Lo anima il non pensiero, attività più affine alla
intuizione, che usa la logica ponendola contro se stessa. Anche questa
posizione, come quella relativa al nonsense nelle opere precedenti, mira
all'acquisizione di un equilibrio psicofisico, all'autorealizzazione, al riparo
da dogmatismi ed eurocentrismi. L'incontro con la nudità permetterà, nella
solitudine esistenziale, di svelare nuove risorse nel soggetto, un incontro con
se stessi fecondo e produttivo, senza entrare in polemica con alcuna visione
filosofica, anzi ospitando visioni del mondo contrastanti. La contraddizione,
implicita nel nonsense, è foriera di nuovi sviluppi teoretici, e consente di
recuperare istanze che, nel pensiero occidentale, erano state sepolte dopo la
demonizzazione dei sofisti.[28] Altre
opere: “Nietzsche-Wagner-Schopenhauer” (Fermo); “Il Vaisheshika Sutra di Kanada
(Quattroventi) La filosofia di Novalis (Franco Angeli) Comprensione e
creatività. La filosofia di Whitehead (Franco Angeli) Novalis, Polline (Studio
Editoriale) Antologia della filosofia cinese (Arnoldo Mondadori Editore) Storia
del buddhismo Ch'an (Mondadori) Il canto del derviscio [povero mendicanti sufi]
(Mondadori) Il Nyaya Sutra di Gautama (Asram Vidya Edizioni) Antologia del Buddhismo
Ch'an (Mondadori) Diario Zen (Rizzoli) I maestri (Mondadori) Haiku (Rizzoli); “Al
profumo dei pruni. L'armonia e l'incanto degli haiku giapponesi, Rizzoli ).
Realtà e linguaggio dell'inconscio (Borla) Novalis, Enrico di Ofterdingen
(Mondadori) Vivere il Taoismo (Mondadori) Il Sufismo (Mondadori) Il bimbo e lo
scorpione (Mondadori) La grande dottrina e Il Giusto mezzo (opere confuciane)
(Rizzoli) La filosofia indiana (Newton) Buddha (Newton) La via buddhista dell'illuminazione
(Mondadori) Del nonsense (Quattroventi) Sun-tzu, L'arte della guerra (Rizzoli)
Iniziazione all'autorealizzazione. Un percorso verso la consapevolezza
(Edizioni Mediterranee) Chuang-tzu, Il vero libro di Nan-hua (Mondadori);
Zhuangzi (Rizzoli). Poesia cinese dell'epoca T'ang (Rizzoli) La barriera senza
porta (Mondadori) La filosofia cinese (Rizzoli) La storia di Rama (Mondadori)
Nei-ching, canone di medicina cinese (Mondadori) I-ching. Il libro delle
trasformazioni (Rizzoli) Samurai. Ascesa e declino di una nobile casta di
guerrieri (Mondadori) Musashi, Il libro dei cinque anelli (Rizzoli) Kamikaze.
L'epopea dei guerrieri suicidi giapponesi (Mondadori); “Hagakure, Il codice dei
samurai (Rizzoli) La mente allo specchio (Mondadori) Il sogno della farfalla
(Pendragon) Il libro della tranquillità. 100 koan del buddhismo Zen (Mondadori)
Sun Pin, La strategia militare (Rizzoli) Dogen, Shobogenzo (Mondadori) Tecniche
della meditazione taoista (Rizzoli); “Il tao della meditazione, Rizzoli); I 36
stratagemmi (Rizzoli); I guerrieri dello spirito (Mondadori); La lanterna e la
spada (Piemme) Lo spirito del Giappone (Rizzoli) L'imperatrice e il dragone
(Piemme) La pagoda magica e altri racconti per trovare la felicità dentro di sé
(Piemme); “Il libro nella felicità”; “II pensiero indiano (Mondadori) Orient
Pop. La musica dello spirito (Castelvecchi) L'arte della guerra e della
strategia (Rizzoli) Il lago incantato. Racconti sull'amore (Piemme) L'ordine
nero (Piemme) L'innocenza del Tao (Mondadori); Il maestro e lo sciamano
(Piemme, ) Incontri di filosofia. La biblioteca di Babele, I (Città di Ripatransone). Xunzi, L'arte confuciana
della guerra (Rizzoli) Confucio (Mondadori) Il coraggio del samurai (Piemme)
Nietzsche in Cina nel XX secolo”; Incontri di filosofia. La filosofia come
conoscenza di sé, II (Città di
Ripatransone). Memorie di un funambolo; Note ai margini del nulla; Nonsense o
il senso della vita; La durata infinita del non suono (Mimesis) Il pennello e
la spada. La Via del samurai (Mondadori, ) Introduzione al Sufismo (ebook, ).
Un'ora con Heidegger (Mimesis, ). Introduzione alla storia del Buddhismo Ch'an
(ebook, ). Il libro della tranquillità (Congronglu) 100 koan del Buddhismo
Zen”; L'arte del governo (Huainanzi) (Rizzoli); “Heidegger, il Tao e lo Zen
(ebook, ). Il Tao del sesso: La storia di Wu Zhao; La lanterna e la spade”; “La
svastica sul Tibet”; Il libro dei segreti d'amore”; All'ombra del maestro”; Il
Tao del non suono”; “La filosofia di David Sylvian. Incursioni nel rock
postmoderno (Mimesis); “Ikkyu poeta zen; “La filosofia di Brian Eno. Filosofia
per non musicisti (Mimesis); “Novalis come alchimista”; “La filosofia di Robert
Wyatt. Dadaismo e voceunlimited (Mimesis). Yogasutra (di Patanjali) (Rizzoli ).
Sun-tzu: l'arte della guerra per conoscersi; La barriera senza porta (Wu-men
kuan) 100 koan del buddhismo Zen”; “La comprensione negata”; “Buddha: La via
del risveglio”; “Nagarjuna: la dottrina della via di mezzo (Zhonglun)”; “Il
libro rosso di Jung (ebook, ). La storia di Rama (Ramayana)”; “Sul nudo. Introduzione
al Nonsense (Mimesis). Storia del pensiero indiano”; Lacan Zen, L'altra
psicoanalisi (Mimesis). Storia del pensiero indiano”; “Oltre il nirvana”;
L'altro Derrida”; “Watt, la cosa e il nulla. L'altro Beckett; L'altro
Wittgenstein”; “Nietzsche, lo Zen, Bob Dylan. Un'autobiografia”; “ L'altro
Nietzsche”; “Una introduzione alla filosofia di John Lennon”; “Scelsi: Oltre
l'Occidente, Crac Edizioni . La corda e il serpente, Illusioni, La filosofia di
Sakamoto, Il Wabi/Sabi dei colori proibiti, Mimesis . La Via del risveglio,
Manuale di meditazione, Milano, Rizzoli . Wenzi, Il vero libro del mistero
universale. Un classico della filosofia taoista, Milano, Jouvence . La
filosofia di John Lennon. Rock e rivoluzione dello spirito, Milano-Udine,
Mimesis . Togliersi le idee. L'ombra del nonsense, Il Tao della pedagogia
(selezioni da: Annali Primavere-Autunni di Lu Buwei); Il libro segreto dei
ninja: Shoninki; Ikkyu: l'Antibuddha, (poesie in traduzione dal giapponese); Confucio
come counselor, Miyamoto Musashi: Dokkodo; Quanti orientali. Oltre il Tao della
fisica; Daodejing: Laozi come counselor; Zhuangzi: i capitoli interni; Bhagavad
Gita; Qohelet, l'interpretazione "orientale"; Il pensiero giapponese.
L'età moderna e contemporanea, Jouvence . La filosofia di Bob Dylan, Mu Machine
Collection; Zhuangzi: i capitoli esterni, Mu Machine Collection; Zhuangzi:
miscellanea, Mu Machine Collection; La raccolta della roccia blu (i cento koan
del Biyanlu), Mu Machine Collection; Basho:Haiku, Mu Machine Collection; Vivere
il taoismo, Mu Machine Collection; Il libro rosso di Jung: Liber Primus, Mu
Machine Collection, ebook . Storia del pensiero indiano, II, Mu Machine Collection, Storia del
pensiero indiano, III, Mu Machine
Collection, Storia del pensiero indiano,
IV, Mu Machine Collection, ebook . Il libro rosso di Jung: Liber
Secundus, Mu Machine Collection, L'antistoria della filosofia, Mu Machine
Collection, Zen contro Zen, Mu Machine Collection, I greci in Oriente, Mu Machine Collection, Liezi
il libro taoista della verità, Mu Machine Collection, Lo spirito del samurai:
Budoshoshinshu, Mu Machine Collection, Il giardino nascosto (sul tempo), Mu
Machine Collection, Neijing il canone di medicina cinese, Mu Machine Collection,
Dogen Shobogenzo, Mu Machine Collection, Guida al cinese classico, Mu Machine
Collection; Nascita di un samurai, Mu Machine Collection; Il Canone di Mozi. La
logica cinese, Mu Machine Collection, ebook . Jung Zen, Mu Machine Collection. In Inglese Nonsense as the Meaning, ebook, .
Nietzsche in China in the 20th Century, ebook, . The Shadows of the Masters,
ebook, . An Introduction to Sufism, ebook, . The Dervish, ebook, . Cage
Nagarjuna Wittgenstein, ebook, . Nosound, ebook, . The Red Book of Jung, ebook,
. Illusions, ebook, . The Book On Happiness, ebook . On Nudity. An Introduction
to Nonsense, Mimesis International . David Sylvian As A Philosopher, Mimesis
International . In Spagnolo El canto del derviche. Parabolas de la sabiduria Sufi,
Grijalbo, Barcelona 1997. In Francese Sur le nu. Introduction à la philosophie
du Nonsense, Editions Mimésis, . Note L.
V. Arena, Nonsense o il senso della vita, ebook , cap. 1 Nonsense o il senso della vita, cap. 6 L. V. Arena, La durata infinita del non
suono, Mimesis L. V. Arena, Il tao del
non suono, ebook L. V. Arena, Una
introduzione alla filosofia di John Lennon, Kindle Edition L. V. Arena, La filosofia di David Sylvian.
Incursioni nel rock postmoderno, Milano, Mimesis L. V. Arena, La filosofia di Brian Eno,
Milano, Mimesis, . L. V. Arena, La
filosofia di Robert Wyatt, Milano, Mimesis, .
L. V. Arena, Scelsi: Oltre l'Occidente, Falconara Marittima, Crac Edizioni,
. L. V. Arena, La filosofia di Sakamoto,
Il Wabi/Sabi dei colori proibiti, Milano-Udine, Mimesis, .. L. V. Arena, Orient pop. La musica dello
spirito, Roma, Castelvecchi, 2007.
Nagarjuna, The Philosophy of the Middle Way, D. Kalupahana, Albany, 1986 L. Wittgenstein, Tractatus
Logico-philosophicus, Torino, Einaudi 1984
L. V. Arena, Note ai margini del nulla, ebook , passim L. V. Arena, Note ai margini del nulla, ebook
, cap. 1 Biyanlu, 1 Leonardo Vittorio Arena, Zhuangzi: I capitoli
interni, ebook ; Idem, Zhuangzi: i capitoli esterni, ebook , idem, Zhuangzi:
Miscellanea. ebook .. Contra Kant,
Critica della ragion pura, Roma-Bari, Laterza 1979, p.281 Nonsense o il senso della vita,
Appendice L. V. Arena, La comprensione
negata, ebook, . Leonardo V. Arena, La
filosofia di Bob Dylan, Collezione Mu Machine, ebook .. Leonardo V. Arena, Nietzsche, lo Zen, Bob
Dylan, Autobiografia, I, ebook . L. V. Arena, Illusioni, Kindle Edition,
. L. V. Arena, La Via del risveglio,
Manuale di meditazione, Milano, Rizzoli ..
Leonardo Vittorio Arena, Il libro rosso di Jung, ebook . Ibidem13.
Ibidem15. L. V. Arena, Togliersi
le idee, L'ombra del nonsense, .. Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio
su Leonardo Vittorio Arena Nonsense o il
senso della vita, su amazon. Note ai
margini del nulla, su amazon. L'attività accademica di Leonardo Vittorio Arena
[collegamento interrotto], su uniurb. Il blog filosofico di Leonardo Vittorio
Arena, su leonardovittorioarena.wordpress.com. L'autobiografia, su amazon. Filosofia
Letteratura Letteratura Religioni Religioni Storia Storia Filosofo del XXI secoloOrientalisti
italianiStorici delle religioni italiani 1953 Ripatransone. Leonardo Vittorio
Arena. Keywords: Novalis, Schopenhauer, Nietzsche, Wagner, Puccini, Butterfly,
Turandot, Mascagni, Iris, Leoni, L’Oracolo, Confucio, la guerra, stratagema,
strategia, antistoria della filosofia, Heidegger, Wittgenstein, l’unconscio,
Whitehead, Grice on east and west, Staal, ‘those in a position to know’ –
metafisica, greco-latina, Heidegger citato par Arena, Leonardo Arena, Leonardo
Vittorio Arena. Cinese, linguaggio, la filosofia del linguaggio di Novalis,
Gozzi, libretti di Butterfy, Turandot, Isis, L’Oracolo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Arena” – The
Swimming-Pool Library.
Armetta (Palermo). Filosofo. Grice: “I like Armetta; he is into ‘dialogue,’
I am into conversation. I once suggested to Strawson that he should write a
dissertation on the distinction betweehn dia-logos and cum-versatio, but he
said that ‘converse’ is used to mean ‘make out’ in the Bible, while ‘dialogue’
ain’t!” Principale allievo di Santino Caramella, di cui cura il lascito. Si è laureato in Filosofia presso l’Palermo
con Santino Caramella, di cui è diventato subito assistente universitario. Con
lui e gli altri allievi e collaboratori ha fondato la rivista di filosofia
«Dialogo» (1964-1974); dal 1960 al 1992 ha insegnato nei licei di stato (per un
lungo periodo di tempo presso il Liceo Ginnasio Vittorio Emanuele II); dal 1981
insegna presso la Pontificia Facoltà Teologia di Sicilia «San Giovanni
Evangelista», prima come docente incaricato di Dottrine filosofiche e fino al
2004 anche di Logica; ha fatto parte della segreteria della Rivista della
Facoltà per un decennio fino al 1998 e sin dall’anno accademico 1985 è
Segretario Generale della medesima Facoltà.
Il pensiero di Armetta è una rilettura del neoidealismo crociano e
gentiliano sulla base dello spiritualismo cristiano. I suoi studi sono rivolti
soprattutto alla storia del pensiero filosofico e teologico in Sicilia, e sono
culmila curatela del monumentale Dizionario Enciclopedico dei pensatori e dei
teologi di Sicilia. Altre opere: "La
filosofia del volere da Omero a Platone”; “Storia e idealità in S.
Kierkegaard”; “L’uomo come natura”; “Guida agli scritti di Santino Caramella”;
“Teoria e pratica in Santino Caramella”; “Caramella e Gobetti. Un rapporto
oscurato”; “Il Carteggio Caramella-Croce”; “Il carteggio tra Caramella e
Radice”; “Per una società in dialogo”; “Il pensiero filosofico in Sicilia”; “Elementi
di ideologia”; “Istituzioni ideologiche”; “Rosario La Duca. Guida agli
scritti”; “La toponomastica di TerrasiniFavarotta”; Dizionario enciclopedico
dei pensatori e dei teologi di Sicilia. Secc. XIX e XX, Sciascia Editore,
Caltanissetta-Roma); “Dizionario enciclopedico dei pensatori e dei teologi di
Sicilia. Dalle origini al sec XVII (Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma). Riconoscimenti
Papa Benedetto XVI lo ha insignito del titolo di Cavaliere Commendatore
dell'Ordine di S. Silvestro (13 febbraio ).
Note Caltanissetta, Sciascia
Editore, . Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani Professore1928
Palermo. Francesco Armetta. Keywords: fascimo filosofico, filosofi del fascism,
croce e caramella – il carteggio curato da Armetta, presenza di Caramella nel
primo convegno a Milano, dialogo, implicatura dialettica, Caramella e Giobetti,
storia della filosofia italiana, filosofia politica nella Italia del primo
novecento, la metafisica del dialogo in Vico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Armetta” –
The Swimming-Pool Library.
Arrighetti (Firenze). Filosofo. Grice: “I like Arrighetti: his forte
was Aristotle’s rhetoric, and he was very popular with the Accademia degli
Ardenti, and later with a subgroup of this, The Accademia degli Svelati (which
later merged with the Accademia dei Lunatici); his other forte was the
distinction between ‘oratio’ and ‘oratio vvocalis’ – “Os” is of course Romann
for ‘mouth’ – but figuratively for ‘linguaggio’ – (after all, the tongue is IN
the mouth). I happen to prefer ‘mouth,’ because Roman ‘os’ is related to
‘essere’: you are who you are, i.e. you exist, because you can breathe through
your mouth. Appartenente a una nobile famiglia fiorentina, studiò la lingua
Greca e le filosofie Aristotelica e Platonica nelle Pisa e di Padova.
Dedicatosi agli studi teologici, venne ascritto al Corpo dei Teologi
dell'Università Fiorentina il 20 novembre del 1631. Il Pontefice Urbano VIII,
che aveva molta stima per il giovane, lo creò Canonico Penitenziere della
Cattedrale di Firenze e esaminatore sinodale, posizione che mantenne fino alla
morte. Arrighetti morì il 27 novembre del 1662 all'età di 80 anni. Fu uno dei
membri più illustri dell’Accademia Fiorentina e di quella degli Alterati fra i
quali si chiamò Fiorito. Altre opere:
“La rettorica d’Aristotele e Cicerone spiegata” (Firenze); “La Poetica d'Aristotele, spiegata” (I
Svogliati, Pisa), “Il Piacere” (Firenze); “Il riso” (Firenze); “L’ingegno”
(Firenze), “L’onore” (Firenze); “Vita di S. Francesco Saverio estratta dalle
relazioni, fatte in Concistoro da Francesco Maria Cardinale del Monte”,
“Sermoni sacri, volgari e latini fatti in varie chiese e compagnie di Firenze”;
“Opere spirituali”; “L'Orazione vocale e mentale”; “Tractatus de iis quae
necesitate medii et precepti credenda sunt”. Note Arrighetti (Philippe), in: Louis Gabriel Michaud
: Biographie universelle ancienne et moderne, 2ª edizione 1843, 2291.
Arrighetti, Filippo. In: The Biographical Dictionary of the Society for
the Diffusion of Useful Knowledge, 3, 2
(1844)641 sg. Arrighetti (Philippe), in:
Nouvelle biographie générale, 1852–66,
3358 Arrighetti, Filippo. In: The Biographical Dictionary of the Society
for the Diffusion of Useful Knowledge,
3, 2 (1844)641 sg. Biografie
Biografie Cattolicesimo
Cattolicesimo Filosofia Categorie: Religiosi italianiFilosofi italiani
del XVI secoloFilosofi italiani del XVII secoloGrecisti italiani 1582 1662 27
novembre Firenze PadovaTraduttori dal greco all'italiano. RETTORICA
E POETICA D'ARISTOTILE TRADOTTE E SPIEGATE DA FILIPPO ARRIGHETTI CANONICO
FIORENTINO. PROLOQVII NELLA RETTORICA D'ARISTOTELE RECITATI NELL'ACCADEMIA
DELLI SVEGLIATI IN PISA. RAGIONAMENTO I. De principii vniversali dell'arte.
Prooemium. E' lodevol'usanza di tutti i buoni espositori et massime di quelli
d'Aristotele proporr'alcuni capitoli dal principio di qualunque trattato
ch'eglin si metton ad esporre, i quali da lor son detti prolegomeni, o ver
proloquii, molt'utili reputati non senza legittima cagione, per chiarezza et
intelligenza delle cose che si deven trattare, et molti son questi de quali si
fa maggior o minor copia secondo la qualità de trattati parte nascenti dalla
natura delle cose da insegnarsi, parte da varii accidenti onde si vede che
questa, per non dir come tropp'alta et forse troppo oscura ma al men come
lontana dalla prattica, è stata involta 'n un tenebroso silenzio. Pregoti
dunque benigno uditore, poich'io solco mar non troppo cognito, che tu aiuti
questo mio corso con l'aura benigna della tua attentione. Quel ch'inducesse li
huomini et quando a ritrovar l'arti. E' cosa manifesta a ciascheduno che
l'huomo è composto di due parti principali, d'anima et di corpo. L'anima divina
et immortale et per se stessa aspirante a cose alte et elevate: ma per esser
racchiusa nel profondo del corpo nostro, tale che non può senza l'aiuto suo
sostenersi, il ch'è la vita nostra. Hebben acconcia la terra, onde potessen
nutricarsi et altresì provedut'onde commodamente vivesseno, si dieden alla
contemplazione. Et tanto basti haver detto dell'occasion del ritrovar l'arti,
et del tempo in che elle si ritrovarono. Del fine dell'arti et della via
loro in acquistarlo. Delle differenze dell'arti prese dal modo dell'acquistar
il lor fine. Dell'origin et principio dell'arti. Dell'unità et distintion
dell'arti. Del modo del discorrer dell'arti. Delle differenze tra l'arte com'habito
et come metodo. De principii proprii della Retorica come arte. Quel che sia il
persuadibile che è suggetto dell'oratore. A che specie d'arte si riduca la
Rettorica. Dell'origine et autori della Rettorica. Della dispositione del corpo
d'un ragionamento in universale. Delle parti della Rettorica com'arte.
Considerasi la Rettorica come metodo. Delle parti materiali della Rettorica
come metodo et ordine loro. COME LA RETTORICA SIA COLLEGATA CON LA DIALETTICA.
De' luoghi della persuasione in universale. Schema ad albero dei luoghi
rettorici. In che maniera succede il far fede. Delli affetti e'n che maniera et
con che stromenti o ver metodi si muovino. Che via si deve tenere per far il
DIRE DILETTEVOLE. Del modo del definire comun al poeta et all'oratore. Trattano
i logici e metafisici della diffinizione ma con esquisitezza singulare
mostrando che la diffinitione è una oratione, la quale dichiara la essenza et
natura della cosa, et questa da loro si compone di genere et differenze. Ma
havendoci noi proposto di ragionar di quelli che son più oscuri et manco
trattati da professori della Rettorica, che son chiaramente quelli di cui già
habbiam discorso. Poscia che havuto fine il nostro proposito, porrem anchor noi
fine al nostro ragionamento. DELLA POESIA. RAGIONAMENTO. Qual sia il
primo fine del poema. Camminando su l'orme de discorsi fatti sin a qui sì in
generale, sì in particolare sopr'il negozio rettorico acciocché si proceda
secondo l'ordine della natura, che è cominciando prima delle cose prime, andrem
ritrovando il fine a cui s'indirizza questa professione, o ver arte che dir la
vogliamo. Però essend'egli parte della felicità, vien ad esser ancho parte del
fine humano. Insin a qui habbiam vedut'in quanti modi si piglia il diletto, et
non ha dubbio alcuno ch'un di questi si convien alla poesia; hora è da veder
quale et come, et scior le dubitazioni ch'intorn'a ciò accadesseno.
Determinazione del DILETTO come fine della poesia. Qual sia il giovamento che
si trae delle poesia. Dell'imitazione. Delli stromenti et maniere d'imitar del
poeta. Quali sien le cose da esser imitate. Risposta d'Aristotele alle
opposizioni del Castelvetro contro l'imitazione. Disse Aristotele l'imitazione
esser una delle principali cagioni della poesia et noi poco fa l'habbiam posta come
fine. Adunque terremo per fermo che l'imitazione co'l metro habbin dat'origine
alla poesia et che le sien la vera essenza di quella. Del suggetto della
poetica. S'egli è vero quel che noi habbiam determinato ne discorsi rettorici
essend'il suggetto quel ch'è capace della forma che intende d'introdur
l'artefice et ove s'impiega l'opera del poeta, tutta rigirandos'intorno a
questo che s'imiti alcuna attione è necessario dir ch'ella sia il suo suggetto.
Et vedesi che s'è ben dato qualche condimento all'arti et alla filosofia
mediante il verso come fecen molti scrittori innanzi a Platone Anassagora
Empedocle ET APPRESS'I LATINI LUCREZIO et di medicina da Q. Sereno et
altri la qual'usanza non è stata approvata né seguita da maestri delle scienze
et pur le cose da loro eran trattate co' principii proprii, cosa molt'alieno
dal sentimento et processo poetico. Che sorte d'arte sia la poetica.
Dell'unità dell'arte poetica. Dell'origine della poesia. Del furor poetico.
Quel che nel poeta possa più l'arte o la natura. Due son le parti del ben
poetare come di esercitar ben tutte l'arti et professioni, l'una è l'ingegno,
l'altra il giudicio, perché ogni buon opera debbe esser regolata da buon
giudicio. Ma si com'il giudicio non ha luogo ove non è l'invenzione, sì anchor
l'invenzione senza giudicio è cosa poc'artifiziosa et casuale. Della
Rettorica d'Aristotele libro primo. La Rettorica ha convenienza con la
dialettica trattando l'una e l'altra di quelle cose le quali communemente da
tutti in un certo modo si conoscono, né si riferiscono ad alcuna determinata
scienzia. Di qui è che tutti gli huomini in qualche modo dell'una o dell'altra
partecipano, conciosiache tutti infino a un certo termine sappino arguire e
rispondere, e difendere e accusare. Noi dunque (disse colui) domanderemo che
voi giudici stiate a le cose che con il giuramento havete sententiato, et noi
ci staremo? Anchora le altre cose simili che appartengono all'amplificatione.
Et questo basti haver detto quanto alla fede senza artificio. Sommario del
primo libro della Rettorica d'Aristotele. La Rettorica è distinta da Aristotile
in tre libri. Nel primo narra le cose communi a i tre generi dell'oratione, i
quali distinguendosi in deliberativo, dimostrativo e giudiziale, dichiara le
propositioni et il fine di ciascheduno. Intorno a quai modi allega Aristotile i
precetti di trattare de giuramenti. E così pon fine alle fedi et al primo libro
della Rettorica. Sommario delle cose più notabili del 2° libro della
Rettorica d'Aristotile. Seguendo di ridurre in breve le cose principali del 2°
libro della Rettorica d'Aristotile diremo avanti come in questo libro
Aristotile tratta de gli affetti dello animo, de costumi. Termina poi questo
libro annoverando le cose egli ha trattato nell'ultima parte et proponendo la
materia del 3° libro che resta a perfettionare questa arte, cioè la locutione
et dispositione. Sommario del terzo libro della Rettorica. Nel terzo
libro della Rettorica si contengono come dicemmo da principio due cose
principali che sono gli ornamenti della oratione con le parti di essa.
Comprende dunque l'epilogo la benevolenza dell'uditore, la amplificatione, la
commotione degli animi et l'essamenatione delle cose dette. Lettione.
Proemio nella Rettorica d'Aristotele. Se dalle operationi si conosce la nobiltà
della cosa niuna è più propria a manifestare l'eccellenza dell'animo nostro che
quell'istessa la quale da gl'animali irragionevoli ci fa differenti. E' l'huomo
mercé della divina bontà di molti doni dotato; onde secondo il Filosofo
mediante la parte intellettiva vive sempre desideroso di conoscere la verità.
Et Quintiliano seguitando Cicerone afferma che quest'opera è come un germoglio
della civile filosofia. Et questo basti haver detto circa i preloquii della
Rettorica. Qui fa fine Aristotile al trattato delle fedi senz'artificio et al
primo libro della sua Rettorica. Intorno all'espositione della quale mi sono
affaticato, per dar maggior luce et agevolezza a voi più giovani accademici
nell'apprender da questo famoso filosofo i precetti dell'arte poetica. Il fine
della dichiaratione del primo libro della Rettorica. Proloquii nella Rettorica
d'Aristotele. Proemio. E' lodevol cosa di tutti i buoni espositori et massime
di quelli d'Aristotele proporr'alcuni capitoli dal principio di qualunque
trattato che eglin si metton ad esporre, i quali da lor son detti prolegomeni,
o ver proloquii, molt'utili reputati non senza legittima cagione, per chiarezza
et intelligenza delle cose che si devon trattare, et molti son questi de quali
si fa maggior o minor copia secondo la qualità de trattati. Onde si vede che
questa, per non dir come tropp'alta et forse troppo oscura ma al men come
lontana dalla prattica, è stata involta 'n un tenebroso silenzio. Pregoti
dunque benigno lettore, poich'io solco mar non troppo cognito, che tu aiuti
questo mio corso con l'aura benigna della tua attentione.
Proloquii. Discorsi poetici. Qual sia il primo fine del poema. Quel che nel
poeta possa più l'arte o la natura. Delle parti del poema. Della poetica come
metodo. Delle parti della poesia come metodo. Ne metodi ben ordinati il
principio e comincia dalle cose che per ordine di natura procedono et questo
ordine è di più maniere perché o egli è di perfettione, o di origine. Resta
solo per dar fine a questo trattato che noi aggiunghiamo le considerazioni
della musica delle quali col tempo piaccendo a dio da cui ogni mia attione
riconosco, un'altra volta ne scriveremo. Magl. Cl. Rettorica e Poetica
d'Aristotile tradotte e spiegate da Filippo Arrighetti canonico
fiorentino. Il testo del vol. I.com . con questo titolo, "Proloquii nella
Rettorica d'Aristotele recitati nell'Accademia delli Svegliati in
Pisa". Cart., autogr., in fol. Leg.in mezza membr. Già della Bibl.
Mediceo. Palatina. Precede il vol. I la tavola delle materie (lezioni, proloqui
e versioni). II,I,22.(Magl.CI). Il titolo è di a Lezioni, relazioni e ricordi
varii. Ma il vol.contiene "Lettione del Piacere recitata nell'Accademia
degl'Alterati da Filippo Arrighetti accademico detto il Fiorito" (fol.
1-6). Lezione «DelRiso» delmedesimo (fol.7-10). Lezione sull'In gegno, del
medesimo (fol.13-27). «Notitiaetincontridelviaggiodel R. card. di Firenze
Legato in Francia l'anno 1596 » (fol. 29-31). Propositi tenuti da S. M. tả
(Enrico iv] alli signori del suo Parlamento in presenza del suo Consiglio et de
Duchi et Padri di Francia » (fol. 33 34). « Lettera in materia delle cose di
Francia e de Ghisi » (fol. 35 45). « Lettera del Re di Navarra [Enrico iv) ai
tre Stati del Reame di Francia » (fol. 50-58): in fine è la data 4 marzo 1589.
Cart., infol., sec.XVII, autogr.dafol.1-6,f.79. Leg. inmezza membr.Proviene
dalla Bibl. Mediceo-Palat. II,I,23. (Magl.CI.VI, num.15). G. MAZZATINTI
Manoscrilli delle biblioleche d'Italia, viii. (Carlo di Tommaso Strozzi, num.581. at
:interlocutori SaccenteeFrinfri(fol.60-71).— «Ricordian l'Alchimia u
tichi.Autore Iac. Petribonifiorentino» (titolo del sec.XVII). Precede na nota
dei Gonfalonieri di Filippo Arrighetti. Keywords: il
piacere, lista di figure rhetoriche -- A Accumulazione
Adynaton Agnizione Allegoria Allusione Anacoluto Anadiplosi Anagramma Analogia
(retorica) Anastrofe Anfibologia Annominazione Antanaclasi Anticlimax Antifrasi
Antilogia Apagoge Apallage Aprosdoketon Arcaismo B Baritonesi C Cacofemismo Cacofonia
Captatio benevolentiae Catacresi Catafora (figura retorica) Chiasmo (figura
retorica) Clavis aurea Climax (retorica) Concinnitas Correctio D Deissi Diafora
Dialefe Dialisi (figura retorica) Diallage Diastole (retorica) Dieresi
Difrasismo Dilogia Disfemismo Distribuzione (figura retorica) Dittologia E
Ekphrasis Ellissi (figura retorica) Ellissi temporale Enallage Endiadi Endiatri
Enfasi Engo Enjambement Entimema Enumerazione Epanadiplosi Epanalessi Epanodo
Epanortosi Epicherema Epifora (figura retorica) Epifrasi Epitesi F Fallacia
patetica Figura di stile Figura etimologica Figure di suono H Hysteron proteron
I Iato Invettiva Ipallage Iperbato Ipocoristico Ipofora Ipotassi Ipotiposi
Ironia Isocolon K Kakekotoba Kakemphaton Kenning L Latinismo Leixaprén M
Merismo Metalessi Metalogismo Metanoia Metasemema Metatassi N Nemesi storica
Neologismo Noema O Occupatio Olofrase Omeoarco Omeottoto Omoteleuto Onomatopea
P Palindromo Palinodia Panegirico Paradosso Parafrasi Paragone Paraipotassi
Parallelismo Paraprosdokian Paratassi Parequema Paretimologia Parodia Paromeosi
Paronimia Paronomasia Patronimico Pleonasmo Polisemia Polittoto Premunizione
(figura retorica) Priamel Prolessi R Reduplicazione S Sarcasmo Scarto semantico
Senhal Sillessi Similitudine (figura retorica) Simploche Sinafia Sinalefe
Sinchisi Sincope (linguistica) Sineddoche Sineresi Sinestesia Sinonimia Sistole
Tautologia Tmesi Truismo Umorismo Understatement Variatio Zeugma tipi di discorsi, discorso dimonstrativo, discorso
deliberative, discorso di giudizio, imitazione, ornamentation, parte
dell’orazione, giovinetti, rettorica per giovinetti, dialettica a la sua
convenienza colla rettorica, rettorica come arte, dialettica come arte, l’arte
di conversare, filosofia civie, rispondere, argomentare, il fine della
retorica, le la rettorica distinta in tre parti, demostrazione, giudizio, buon
giudizio, deliberazione, albero della retorica, luoghi retorici, il fine della
poesia e il diletto, animale ragionabile, animale non-ragionabile, lucrezio,
cicerone, quintiliano, il dire dilettevole, la benevolenza dell’oratore, la
benevolenza del conversante, la benevolenza dell’auditore, la benevolenza
dell’audienza, principi di rettorica, cicerone sulla rettorica di Aristotele –
l’aristotele toscano, aristotele per i platonici di fiorenze, del piacere,
della lussuria, dell’onore, dell’ingegno, del riso – Bergson – la felicita come
fine – arte e natura – poetica come arte, il poeta e la natura – l’imitazione
come fine della poetica, la filosofia e la rettorica. Rettorica e dialettica,
universalita fra i uomini, la villa di Giulio di Filippo Arrighetti – Filippo
Arrighetti, canonico, detto il Fiorito – pseudonimo, figura retorica, Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Arrighetti” – The Swimming-Pool Library.
Assunto (Caltanissetta). Filosofo. Grice: “I like
Assunto; of course in Italy they take aesthetics seriously; my wife would say
that they ONLY take aesthetics seriously! And I would correct her, ‘You mean
that they take only aesthetics seriously,’ and she would re-correct me,
‘Whatever, dear.’” – “Anyhow, Assunto is best known in Italy as a historian,
but he fails to see that when at Clifton we speak of the classics we mean the
timeless – my timeless meaning was meant as a Cliftonianism! So Assunto is
lacking background when he equates classicism, or worse, neo-classicism of the
Canova type popular in London, as dealing with ‘l’antichita’ – that would have
offend Canova: his statues were meant to represent Platonic timeless ideas or
ideals!” Grice: “Gilbert and Leighton are very explicit about this in ‘The
Artist’s Model’!” “Then Assunto thinks he can play with a fictiotious dichotomy
between ‘l’antico’ and ‘il non-antico.’” Grice: “I treasure Millais’s slogan
that at the Royal Academy, he had to do only TWO things: draw naked men ‘from
nature’ – or draw naked men ‘dall’antico’!” – Grice: “As Millais suddently
realised: ‘We found out that there were no English types that would represent
the ‘antico’, or timeless ideal, so we had to deal with Italian models!” -- L'uomo
che contempla il giardino vivendo il giardino [...] solleva se stesso al di
sopra della propria caducità di mero vivente.» -- Ontologia e teleologia
del giardino). Ha compiuto i suoi studi secondari presso il Liceo Classico di
Caltanissetta nella sua città natale. Laureato in Giurisprudenza è stato
avviato alla filosofia da Pantaleo Carabellese professore di filosofia
teoretica presso l'Roma. È stato docente di Estetica a Urbino dal 1956 e
titolare dal 1981 della cattedra di Storia della filosofia italiana presso la
Facoltà di Magistero a Roma. «Il suo insegnamento è anticonformista,
fortemente intriso di contraddittorio. Ma forse proprio per questo motivo,
quando arriva il Sessantotto, il filosofo sceglie la via della controrivolta:
quella che passa attraverso l'élite. Rifiuta di adeguarsi al voto politico, si
oppone ai collettivi e agli insegnamenti assembleari. I suoi allievi non si
oppongono al suo rifiuto, anzi con questo comportamento Assunto riesce ad
attirarsi la stima di molti esponenti del Movimento studentesco. Talmente
rivoluzionario da divenire reazionario, Rosario Assunto dagli anni Settanta in
poi avrà un atteggiamento sempre più schivo...» Un isolamento, il suo,
iniziato col Sessantotto, ma poi sempre più accentuato; infine, si chiuse nei suoi
studi e nelle sue speculazioni dopo la morte della moglie, la storica dell'arte
Wanda Gaeta, molto amata («Sono la fotocopia di lei, che è stata uccisa dal mio
stesso male») . A Roma fu molto amico di Giulio Carlo Argan pur
contrastando le sue idee politiche. Pensiero Rosario Assunto, interessato
ai temi estetici della filosofia da un punto di vista storico e teoretico li ha
trattati non solo come tipici della filosofia dell'arte e del bello ma
considerandoli coincidenti con la filosofia stessa giudicata come pura
estetica. Egli si rifà a Baumgarten, Cartesio, Leibniz, Kant esaminati
soprattutto per la loro concezione dell'uomo e del suo rapporto con la natura.
Una visione tradizionalista della filosofia, proprio nel momento in cui
l'estetica si rivolgeva alla semiotica, che isolò Assunto soprattutto in
Italia, mentre in Germania veniva tradotto e apprezzato. Assunto ha
rappresentato una delle voci più significative all'interno del dibattito
filosofico estetico del Novecento. Vivamente interessato all'estetica dei
giardini anticipa largamente nelle sue opere alcuni rilevanti concetti per la
riflessione più recente, come per esempio quello di "estetica del
paesaggio", che hanno ispirato i temi ambientalisti sulla tutela e
conservazione del paesaggio, naturale o elaborato dall'uomo, che egli definisce
«Spazio limitato, ma aperto; presenza, e non rappresentazione, dell'infinito
nel finito». Altre opere: "Civiltà fascista"; “Il teatro
nell'estetica di Platone, in "Rivista italiana del teatro"; Curatela
di Heinrich von Kleist, Michele Kohlhaas, Torino, Einaudi); “Essere e valore
nella filosofia di C. A. Sacheli, in "Rivista di storia della filosofia";
“L'educazione estetica, Milano, Viola); “Educazione pubblica e privata, Milano,
Viola); “La pedagogia greca, Milano, Viola); “Forma e destino, Milano, Edizioni
di comunità); “L'integrazione estetica. Studi e ricerche, Milano, Edizioni di
comunità); “Teoremi e problemi di estetica contemporanea. Con una premessa
kantiana, Milano, Feltrinelli); “La critica d'arte nel pensiero medioevale,
Milano, Il saggiatore); “Estetica dell'identità. Lettura della Filosofia
dell'arte di Schelling, Urbino, STEU); “Giudizio estetico, critica e censura.
Meditazioni e indagini, Firenze, La nuova Italia); “Stagioni e ragioni
nell'estetica del Settecento, Milano, Mursia); “L'automobile di Mallarmé e
altri ragionamenti intorno alla vocazione odierna delle arti, Roma, Ateneo); “L'estetica
di Immanuel Kant, una antologia dagli scritti a cura di, Torino, Loescher); “Hegel
nostro contemporaneo” (Roma, Unione italiana per il progresso della cultura); “Il
paesaggio e l'estetica I, Natura e storia, Napoli, Giannini); Arte, critica e
filosofia, Napoli, Giannini); “L'antichità come futuro. Studio sull'estetica
del neoclassicismo europeo, Milano, Mursia); “Ipotesi e postille sull'estetica
medioevale. Con alcuni rilievi su Alighieri teorizzatore della poesia, Milano,
Marzorati); “Libertà e fondazione estetica. Quattro studi filosofici, Roma,
Bulzoni); “Intervengono i personaggi (col permesso degli autori), Napoli,
Società editrice napoletana); “Specchio vivente del mondo. Artisti in Roma”
(Roma, De Luca); “Hohenegger. Esploratore del possibile” (Roma, De Luca); “Infinita
contemplazione. Gusto e filosofia dell'Europa barocca, Napoli, Società editrice
napoletana); “Filosofia del giardino e filosofia nel giardino. Saggi di teoria
e storia dell'estetica, Roma, Bulzoni); “La città di Anfione e la città di
Prometeo. Idea e poetiche della città, Milano, Jaca); “La parola anteriore come
parola ulteriore, Bologna, il Mulino); “1. Il parterre e i ghiacciai. Tre saggi
di estetica sul paesaggio del Settecento, Palermo, Novecento); “Verità e
bellezza nelle estetiche e nelle poetiche dell'Italia neoclassica e
primoromantica, Roma, Quasar); “Ontologia e teleologia del giardino, Milano,
Guerini); “Leopardi e la nuova Atlantide, Napoli, Istituto Suor Orsola
Benincasa-Edizioni scientifiche italiane); La natura, le arti, la storia.
Esercizi di estetica, Milano, Guerini studio); “Giardini e rimpatrio. Un
itinerario ricco di fascino attraverso le ville di Roma, in compagnia di
Winckelmann, di Stendhal, dei Nazareni, di D'Annunzio, Roma, Newton Compton); “La
bellezza come assoluto, l'assoluto come bellezza. Tre conversazioni a due o più
voci, Palermo, Novecento); Il sentimento e il tempo, antologia Giuseppe
Brescia, Andria, Grafiche Guglielmi, 1997. Note
Rosario Assunto, Ontologia e teleologia del giardino, Guerini e
Associati, 1994, 978-88-7802-513-4. Enciclopedia multimediale delle scienze
filosofiche, su emsf.rai. 24 agosto 26
agosto ). Paola Nicita, Assunto
scandaloso esteta, La Repubblica, 13 maggio 2006 Cutinelli-Rendina, Emanuele, Il Sessantotto
di Rosario Assunto, Ventunesimo secolo : rivista di studi sulle transizioni :
22, 2, , Soveria Mannelli : Rubbettino, .
Op. cit. ibidem Assunto scrisse
contro il progetto politico della realizzazione del ponte di Messina Antonio Debenedetti, Rosario Assunto,
filosofo delle forme, Corriere della Sera, 25 gennaio 1994, p.27 Claude Raffestin, Dalla nostalgia del territorio
al desiderio di paesaggio. Elementi per una teoria del paesaggio, Alinea
Editrice, 2005 p.90 Marisa Sedita
Migliore, Il giardino: mito estetico di Rosario Assunto, Società Dante
Alighieri, 2000. Teresa Calvano, Viaggio nel pittoresco: il giardino inglese
tra arte e natura, Donzelli Editore, 1º gennaio 1996, 139–,
978-88-7989-218-6. Claudia Cassatella, Enrica Dall'Ara e Maristella
Storti, L'opportunità dell'innovazione, Firenze University Press, 2007, 191–,
978-88-8453-564-1. Francesca Marzotto Caotorta, All'ombra delle
farfalle. Il giardino e le sue storie, Edizioni Mondadori, , 207–,
978-88-04-61114-1. Domenico Luciani, Luoghi, forma e vita di giardini e
di paesaggi: Premio internazionale Carlo Scarpa per il giardino, 1990-1999,
Fondazione Benetton Studi Ricerche, 2001. Pier Fausto Bagatti Valsecchi e
Andreas Kipar, Il giardino paesaggistico tra Settecento e Ottocento in Italia e
in Germania: Villa Vigoni e l'opera di Giuseppe Balzaretto, Guerini, 1º gennaio
1996, 978-88-7802-665-0. Emanuele
Cutinelli-Rendina, Il Sessantotto di Rosario Assunto (con un carteggio
inedito), in «Ventunesimo secolo», VI (2009),
45-57. Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Rosario
Assunto Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o
altri file su Rosario Assunto Opere di Rosario Assunto, . Rosario Assunto, su
Goodreads. Filosofia Filosofo Professore1915 1994 28 marzo 24 gennaio
Caltanissetta Roma. Rosario Assunto. Keywords:
civilta, civilta fascista, theorie des schoenen; D’Annunzio, i Nazareni, I
nazareni, pittori germani a Roma, Casino del marchese Carlo Massimo, Aligheri,
Tasso, Ariosto. D’Annunzio, la preservazione dei Giardini antichi, villa,
giardino di villa, giardino di palazzo, estetica del giardino, il giardino e il
uomo, giardineria, filosofia del giardino, il giardino di Epicuro a Roma. Horto
di Epicuro – il giardino d’Epicuro (non di Epicuro). Hortus, orto romano, i
Scipione e la filosofia a Roma dopo Carneade – filosofia al giardino –
filosofia nell’orto – orto italiano, giardino italiano, orto romano, simmetria,
“teatro, cinematografo, radio” “sono tre simboli ideali” – “Civilta” –
“estetica del teatro in Platone” assunto — annunzio — i nazareni a roma —
il giardino d’epicuro — “teatro, cinematografo, radio” — teatro nell’estetica
platonica — schelling — il bello — intro alla fondazione della metafisica dei
costumi — natura ed arte — roma città — giovanni gentile — -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Assunto” –
The Swimming-Pool Library.
Astorini (Albidona). Filosofo. Grice: “I like
Astorini, but more so does Sir Peter, vide his section on ‘Space’ in
“Individuals: an essay in descriptive metaphysics”: ‘Surely we wouldn’t have
space as we know it if it were not for Astorini.” La vivacità del suo ingegno,
e il desiderio di apprendere cose nuove, lo induce a spogliarsi de' pregiudizi
del secolo, e a studiare attentamente i filosofi, conosciuta la forza delle
loro ragioni, ardì dichiararsi nemico del Peripato; al che avendo congiunto lo
studio delle lingue ebraica e siriaca, ei cadde presso alcuni in sospetto di
novatore, e per poco non si attribuì ad arte magica ciò che era frutto del raro
suo ingegno e del suo instancabile studio.” Alcuni considerano i paesi di Cirò
o di Cerenzia la sua patria. Si ritieneno deboli gli argomenti esposti da un
ingegnoso filosofo di Cirò il quale volle
onorare la sua patria della sua nascita. Molti filosofi presero a difendere
l'autorità del romano pontefice e a sostenere la chiesa romana contro i nimici
della medesima. Uno solo, Astorini, ne accennerò per amore di brevità, con
tanto maggior vigore si accinse a difenderla, quanto più avea per sua sventura
potuto comprendere la debolezza dell'armi con cui essa era oppugnata. Vari
luoghi della Calabria Citeriore han preteso all'onore di aver dato i natali a
questo insigne filosofo, ma noi crediamo rimuovere ogni dubbio intorno al luogo
di lui natìo, seguendo in questo punto l'opinione di Zavarrone, il quale
afferma esser egli nato nella Città di Cirò, detta anticamente Cremissa, luogo
non ignobile del Paese de' Bruzi, dove questa famiglia vive ancor oggi
onorevolmente. «Molti scrittori di materie ecclesiastiche rilussero in questo
secolo, e fra i più celebri si annoverano: primo, Astorini. Studia con il padre
Diego, medico in loco, la grammatica, la retorica e la lingua greca. Si
trasferì a Cosenza per completare gli studi e poi a Napoli per apprendere gli
studi di filosofia, e di teologia a Roma, dove fu insignito dalla corte papale
del compito di scrivere alcuni annali. In questo periodo pubblica “De vitali aeconomia
foetus in utero”. Pubblicò alcuni saggi di matematica e geometria, come gli “Elementa
Euclidis ad usum...nova methodo et compendiare olim demonstrate” e un “Decamerone
pitagorico”. Dopo alcuni anni lascia l'Italia per raggiungere la Svizzera e la
Germania, ma in quei territori, come la città di Groninga, riscontra una
notevole influenza religiosa protestante e poiché il conversar co' i filosofi
protestanti gli fece conoscere chiaramente che fuor dalla chiesa di Roma non
v'e unità di fede, decise di tornare in patria -- Terranova, feudo del paese di
Tarsia. Note Giacinto Gimma, Elogi
Accademici Della Società Degli Spensierati Di Rossano, Troise, 1703. 7 dicembre
. Si tratta di Francesco Zavarrone
(Montalto Uffugo, 1672Roma, 1740), religioso dell'ordine dei Minimi e teologo
al servizio di illustri politici, come Augusto III re di Polonia e pontefici.
Fu lettore del collegio urbano Propaganda Fide e consultore del Tribunale
dell'Inquisizione. Girolamo Tiraboschi,
Storia della letteratura italiana, Tomo VIII, Parte I, Libro III, par. V
("Notizie e opere delElia Astorini"), Firenze: Molini, Landi e
C.o, 110-11, 1812 (Google libri) Pietro
Napoli-Signorelli, Vicende della Coltura nelle Due Sicilie o sia storia
ragionata, 1784 9781145973954 Niccolò
Morelli di Gregorio, Pasquale Panvini (Domenico Martuscelli), Biografia degli
uomini illustri del Regno di Napoli, ornata de loro rispettivi ritratti, N.
Gervasi, 1826 9781145650077 Niccola
Falcone, Biblioteca storica topografica delle Calabrie (seconda edizione),
1846 9781104076337 Elia Astorini, in Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Opere di Elia Astorini, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Filosofi italiani del XVII secoloMatematici
italiani Professore1651 1702 5 gennaio 4 apriled Albidona Terranova da
SibariCarmelitani. Altre opere: "De Vitali Oeconomia foetus in utero"
(Groninch); "Elementa Euclidis ad usum novæ Academiæ Nobilium Senensum,
nova methodo, & compendiariè demonstrata" (Stampat. in Sienna e di
nuovo Neap., apud Felicem Mosca in 8); "Prodromus Apologeticus";
"De Potestate Sanctæ Sedis Apoftolicæ"; "De Vera Ecclesia Jesu
Christi, contrà Lutheranos,& Calvinianos, libri tres" (Neap.
apud de Bonis, in 4); "Apollonij Pergæi Conica, integritati suæ, ordini,
atque nitoripri stino restituta" (Neap. in 4); "De Recto Regimine
Catholicæ Hierarchiæ"; "Ars Magna Pythagorica";
"Philosophia Symbolica"; "Archimedes restitutus";
"Decameron Pitagorico"; "Il consenso, e dissenso delle tre Gramatiche
Ebraica, Arabica, e Siriaca; e'l modo facilissimo per apprenderle ciascheduno
da se stesso in breve tempo"; "Commentaria ad Scientiam Galilæi de
Triplici Motu". La movimentata vicenda biografica di Astorini aonda
le radici in una formazione cosmopolita e interdisciplinare, iniziata in
Calabria sotto la guida del padre e proseguita accanto allo zio Tommaso
Cornelio, esponente del fronte de inovatores nella Napoli di metà secolo. Fu
per lui naturale ripudiare la filosofia scolastica e aderire alle teorie dei
moderni, da Galilei a Cartesio, Hobbes e Gassendi, teorie che diuse a Cosenza e
tra i filosofi nobili in varie località del viceregno e che gli recarono grande
notorietà. Al termine di un lungo viaggio in Svizzera, Germania e Paesi
Bassi durante il quale si fece apprezzare per le non comuni capacità
didattiche,visse alcuni anni tra Firenze e Siena, dove frequenta i principali
esponenti della cultura umanistica e scientifica toscana, da Magliabechi a Redi
e Viviani. Ritornato nel viceregno per dedicarsi alla pubblicazione di numerose
opere, si pone sotto la protezione di D. Carlo Francesco Spinelli Principe di
Tarsia, ed anche d'Orsini, avvezzi amendue a favoreggiar letterati. Per
l’ampiezza dei temi arontati, sua "Philosophia Symbolica puo giovarsi del
ricco patrimonio librario custodito nella biblioteca di Spinelli. Il testo e
diviso in dialoghi nei quali sono illustrati tutti gli antichi sistemi
filosofici, colle dimostrazioni matematiche e colle osservazioni fatte in varie
accademie, ed erudizioni prese da' filosofi latini." Sebbene varii luoghi
della Calabria‘si contendano la patria dello Astorino, pure l’opinione più
comune de’ suoi biografie, che egli sia nato a Cirò e fu nel battesimo nomato
Tommaso Antonio. Fu gli padre un Diego Astorino professore di medicina
reputatissimo in Albidona, ove da questi il figliuolo apprese la grammatica, la
lingua greca e la rettorica. Studia quindi in Napoli e Roma la filosofia
aristotelica, in che acquista tale riputazione, che gli venne permesso di scrivere
a fronte delle sue conclusioni il motto: de/‘elndet ipse solus. Morto il
genitore ripatrio per assestare i suoi dome stici affari, e iotè frai libri e
fra le conversazioni dei suoi concittadini, dopo non lievi meditazioni, darsi
tutto alle dottrine filosofiche del Telesio, ed alla libera maniera di
ragionare. Era cosi istrutto nelle lingue greca, latina, ebraica, siriaca ed
araba, che ne compose le relative grammatiche. E si disse,secondo l’andazzo
de’tempi, e fu accusato lotto per magia; ma ei pote discolparsi dalla bassa
calunnia, e percorrere per ben tre volte l’ltalia, ovunque acquistandosi e fama
ed amicizia. Nominato a reggente di filosofia a Cosenza, fu da qui il
propagatore della moderna filosofia per le calabrie; come lo fu altresi della
città di Penne per gli Abruzzi. Invitato in Roma, vero o supposto che vi
sfinfermasse, egli invece dimoro per qualche tempo in Albano. Ritenuto a Bari
da alcuni nobili filosofi, che lo vollero a maestro, ebbe a cominciare in
quella Chiesa di S. Nicolo il suo annuale di prediche; ma le convinzioni libere
che egli spacciava, gli mossero fiera persecuzione. Sicclie passò in Zurigo, ed
indi in Basilea, ove non dimore che un solo aniie. Pescia recessi nel
Palatinato, donde si trasferì nell’Assia, dove fu costituito Maggiore ossia
Vice Prefetto dell'Universita di Marburgo con la facoltà d’ insegnar filosofia,
dacche non essendo dottorato non avrebbe potuto insegnarla. In stabile sempre
si condusse dappoi in Groninga, e da quella Repubblica ebbe l'incarico di
insegnar filosofia e quivi a spese del Senato fu dottorato, nel quale anno
pubblico il suo saggio, "De vitali oeeonomia foetus in utero", in cui
sostenne la opinione, non per ance in quell’era divulgate, della generazione
dell'uome. Scorgendo intanto, che iteo legi della Chiesa riformata. fra le
mille contese religiose si laceravano, penso ritornarsene fra’cattolici in
ltalia; e d’Amburgo chieseil condono d’ogni apostasia; il che ottenuto dal S.
Uffizio, recatosi presso il Vescovo di lilunster‘ fece solenne abiura, e si
porto in Roma, onorevolmente accolto, ed inviato in Pisa come predicatore
generale. Dopo un anno da Pisa si tradusse in Firenze, ove si acquista il
favore del Granduca, e si concilio l’amistà fraternevele del Redi, del Viviani,
del Marchetti e d’altri molti filosofi. In Siena, dove recessi come professore
di filosofia, coopera efficacemente alla istituzione dei Fisio-Eritici, e ne fu
eletto Principe e Censore perpetuo. Qui pubblica nel medesimo anno: Eiementft
Euclidis nova methodo demostraiei. Ritornato in Roma fu inviato a Cosenza col
grado di maestro in filosofia, e di prefetto degli studii. Ma
riaccesigliodiisempre a cagien de’ suoi meriti, si ritira in Cervinara nel
Principato Ulteriore; e da la spesso recandosi in Napoli ebbe a cenciliarsi la
stima di Carlo Spinelli principe di Tarsia, il quale per Paifetto che portava
all'Astorino (e per rimuoverlo dalla tristezza in che era caduto per la morte
di Francesco Mainerio Astorino) lo indusse a recarsi in Terranova, deputandolo
custode della sua scelta biblioteca. Fu questa l'ultima residenza, perocchè vi
mori. Sono del pari sue opere stampate: Apollonii Pergei conica integritati
suae ac nitori restituta" (Nap.); "De potestate S. Sedis
apos-tolicae, Siena); "De‘nera Ecclesia Christi disciplina, libri tre Nap.).
Fra i molti altri saggi che lascia si commendano: "Philosophia symbolica
iuxta propria principia, in dialoghi"; "Ars magna Pythagorica,"
una specie di enciclopedia scientifico-universale; "Decamerone
Pitagorico", in verso, diviso in dieci giornate, e contenente tutta
la filosofia naturale pitagorica in forma di satire in verso sciolto bernesco;
"Commentario, ad scientiam Galilaei de tripliei motu";
"Archimedes restitutus"; "De reato reyimine Catholi caelticr
archiae; "De vita Christi"; Apologiapro fitte catltolica, che
divisava di dedicare a Filippo di Spagna. Parlano con somma lode di questo
dotto filosofo il Cimma, il Zavarroni, l’Amato, l'Aceti, il Mazzucchelli,
l’(lriglia, il liraboschi, il d’ Alllitto, il Signo relli, i Dizionarii
storici, e per tacer‘ di tanti altri, . il Cantù. ASTORINI, Elia. - Nacque il 3
genn. 1651; è incerto se a Cirò, feudo degli Spinelli principi di Tarsia che lo
protessero nelle ultime fortunose vicende della sua vita (Zavarroni), o ad
Umbriatico oppure ad Albidona (Gimma), dove il padre Diego esercitò la
professione di medico e dove sicuramente egli trascorse gli anni
dell'adolescenza. Sedicenne, nel 1667, entrò fra i carmelitani dell'antica
osservanza, mutando il nome di Tommaso Antonio in quello di Elia. Completò gli
studi di filosofia aristotelica a Napoli nel convento dei Carmine Maggiore
(dove appartenne all'Accademia degli Incauti) e a Roma quelli di teologia. La
morte del padre lo richiamò in Calabria, nell'ambiente familiare. Stando
ai suoi biografi, in questi anni (1670-75) si colloca la sua prima crisi
spirituale che investe il campo delle dottrine filosofiche acquisite: un
radicale atteggiamento antiperipatetico lo avrebbe indotto a formarsi un
sistema eclettico platonico-pitagorico e meccanicistico-materialistico,
quest'ultimo ispirato dalla lettura delle opere di Galilei, Gassendi, Cartesio,
Mersenne, Hobbes. Più prechaniente. possiamo dire, sulla base degli elementi
desumibili da taluni suoi scritti, che egli riprese il pensiero dei suoi
conterranei, del famoso "notomista" Marco Aurelio Severino, erede
delle speculazioni campanelliane e delle teorie fisiognomiche del Della Porta;
di Carlo Musitano, che aveva accolto le posizioni dei "moderni" come
elaborate dalla napoletana Accademia degli Investiganti; e soprattutto di
Tommaso Comelio, del quale l'A. amò più tardi dichiararsi nipote (cfr. Giornale
de, Letterati del 1692..., p. 119). La crisi non gli impedì tuttavia di
raggiungere il sacerdozio nel 1675 e di divenire, nel 1680, reggente degli
studi e lettore di filosofia e teologia nel convento dei suo Ordine a Cosenza.
Ma i confratelli, nella congregazìone della provincia di Calabria, il 26 aprile
dell'anno successivo, gli si ribellarono apertamente chiedendo al generale la
sua sostituzione. Rivalità locali, come il contrasto tra l'A. e il provinciale
P. T. Puglisi, adombrano l'inquietudine intellettuale del giovane religioso e
le resistenze di metodi tradizionali di studio. Sospeso dall'insegnamento,
penitenziato nel carcere della curia arcivescovile di Cosenza durante il 1682,
l'A. è infine inviato a Roma per un giudìzio definitivo da parte deì superiori
dell'Ordine. Dopo un breve ciclo di predicazìone si ritira ad Albano: non si sa
se per punizione inflittagli o per motivi di salute. Ha comunque ìnizio adesso il
momento più ambiguo e per taluni aspetti più oscuro della sua vita. Nel
1683 passa a Bari, dove stringe amicizia con G. Tremigliozzi, seguace del
gassendista Sebastiano Bartoli e del Cornelio e fondatore in quello stesso anno
dell'Accademia dei Coraggiosi, bandìtrice delle nuove dottrine antigaleniche
nel settore delle scienze mediche. Partecipò alle polemiche del Tremigliozzi in
difesa del Musitano e compose un "epitafio" sulla "materia
prima" per quella Nuova Staffetta del Parnaso circa gli affari della
medicina...dirizzata all'illustrissima Accademia degli Spensierati di Rossano,
Francoforte 1700, che ad opera del Tremigliozzi costituì una convinta difesa
del metodo sperimentale degli Investiganti contro la metodologia cartesiana. A
Bari conobbe il Gimna, che sarà il suo più diffuso biografo, al quale avrebbe
mostrato vari suoi lavori manoscritti (tra essi un'Ars magna trigonometrica di
cui si dirà più avanti). Predicò a S. Nicola e visse nel convento carmelitano
barese dal quale poco tempo prima era fuggito, apostata in Svizzera, il priore
Angelo Rocco. Se dietro esempio del Rocco o per raggiunta maturazione della sua
crisi, è certo comunque che di lì a poco l'A., rotto ogni indugio, depose
l'abito religioso e riparò anch'egli oltr'Alpe. Da Zurigo raggiunge
Basilea, dove nell'ottobre del 1684 presenzia a esperimenti. di medicina di J.
J. Harder (Apiarium observationibus medicis ... refertum,Basileae 1687, pp. 28,
47, 110) e dove rimane circa un anno seguendo anche i corsi di teologia di J.
R. Wettstein (non si sa se il padre, morto nel 1684, o il figlio succedutogli
nello stesso anno sulla cattedra). Sostò nel Palatinato presso il principe
elettore Carlo fino alla morte di lui (26 maggio 1685), per trasferirsì poi,
nel suo peregrinare da università ad università, a quella di Marburgo dove
divìene viceprefetto con facoltà di insegnare filosofia pur non essendo
addottorato (stando al Gimma, ma la notizia non trova conferma nel Catalogus
professorum Academiae Marburgensis 1527-1910, a cura di F. Gundlach, Marburg
1927). A Marburgo prosegue con fervore gli intrapresi studi di medicina
ascoltando le lezioni del rettore J. J. Waldschmiedt. Nel 1686, dopo un breve
soggiorno a Brema, è a Groninga: insegna matematica nel collegio dei nobili
cadetti francesi e si laurea in medicina, il 1° novembre, con la dissertazione
De vitali oeconomia foetus in utero,Groningae 1686 (pubblicata sotto il nome di
Tommaso Antonio), che pare sottendere nello studio del problema della
fecondazione, oggetto allora di discussione tra "ovisti" e
"animalculisti", le preoccupazioni speculative dell'autore, volte
sulla scia del Severino e più del Bartoli alla ricerca del
"principio" vitale e formativo dell'embrione. Durante il
soggiorno in Olanda, tra il 1686-88, si ha notizia vaga di una sua
partecipazione alle polemiche religiose nell'ambito del calvinismo: la difesa
che egli assume del cattolicesimo preannunzia un suo più meditato ritorno
all'antica fede. Attaccato pubblicamente dai ministri calvinisti, si rifugia ad
Amburgo. Qui una sua lettera al S. Uffizio, con la richiesta di poter ritornare
in Italia, gli procura una benigna risposta da parte del cardinale Lorenzo
Brancati di Lauria e un salvacondotto. Assolto dal vescovo di Münster il 13
dic. 1688, è a Roma il 13 marzo dell'anno successivo. Riammesso
nell'Ordine, predicò a Pìsa e, nel 1690, la quaresima a Firenze. Conobbe allora
A. Marchetti, cui dovette unirlo l'interesse per la filosofia
"corpuscolare" e che lo presentò al Magliabechi, il Redi, cui lo legò
la comune curiosità per il problema della generazione, e il Viviani. là questo,
tra il 1691-94, il periodo culturamente più felice dell'Astorii. Nel
1691, per interessamento del principe Gian Gastone de, Medici, ottiene la
cattedra di matematica nella Nuova Accademia dei nobili senesi: per
l'insegnamento prepara un'edizione degli Elementa Euclidis ad usum Novae
Academiae Nobilium Senensium nova methodo et succincta demonstrata..., Senis
1691,dedicata al principe protettore. Ma la prefazione è indirizzata al Redi, e
in essa l'A. chiarisce il proprio metodo ("... etiam proportiones ipsas,
quarum nimis longa est series, redigerem. ad acquationes, more
Analystarum", p. X) ed esalta la matematica in funzione dello sviluppo
delle scienze naturali, concludendo con un elogio della scuola scientifica
toscana, dal Galilei al Redi al Torricelli al Viviani al Marchetti al Bellini
al Malpighi. Il Redi lo ringraziò (v. lettera del 18 sett. 1691, edita in
Gimma, p. 413), promettendo di intervenire nuovamente presso Gian Gastone: il
che dovette procurare all'A. la cattedra straordinaria di filosofia naturale
nell'università di Siena, che resse dal 5 nov. 1692 al 3 apr. 1694.
Intanto, nel 1691, l'A., con Pirro Maria Gabrielli e Teofilo Grifoni, è tra i
fondatori dell'Accademia dei Fisiocritici e ne diviene "principe
perpetuo" (v. lettera del Redi al Gabrielli del 6 ott. 1691, in Redi,
Opere,VIII, p. 56).Dalle lettere che l'A. indirizzò m questo tomo di tempo al
Maghabechi desumiamo molte preziose notizie circa i rapporti tra cultura
filosofica e scientifica meridionale e tradizione sperimentale toscana,
rinnovando l'A. quell'incontro che per la generazione -precedente era stato
compiuto a Pisa dalla scuola iatromeccanica,di G. A. Borelli. Il rapporto
ideale tra le due culture è anzi tanto stretto che l'A. teme per quella
toscana, le ripercussioni della lotta scoppiata a Napoli contro la filosofia
"moderna" (processo degli ateisti): "In Napoli vi sono di gran
rumori: mi scrivono che sia stata origine la dottrina di Tomaso Comelio e che
già la modernità va sossopra. Mi dispiace per diversi capi, benché io non
dubiti esservi framischiate delle calunnie degli emoli aristotelici e
galienisti, e molto più mi dispiace per essersi già qui in Siena eretta
un'Accademia fisicomedica tutta moderna e per esserne io stato eletto principe
perpetuo. L'abbiamo celebrata due volte con l'intervento di tutta la più dotta
nobiltà, ma adesso ci siamo raffredati non sapendo dove vadano a terminare le
faccende" (al Magliabechi, Siena, novembre 1691). Sotto la guida dell'A.
l'Accademia poté tuttavia continuare con tranquillità le riunioni "colla
metodo de' Progimnasmi [i Progymnasmata Physica] di Tomaso Comelio" (al
Magliabechi, Siena, 15 nov. 1691). L'A. sperò contemporaneamente di
raggiungere una sistemazione migliore: ambì (1691) al titolo di maestro di
teologia e sollecitò, tramite il Magliabechi, un intervento del Malpighi, per
il momento senza successo (divenne maestro il 13 marzo 1693);compose, mettendo
a frutto la sua diretta esperienza del mondo protestante, un Prodromus apologeticus
de Potestate sanctae Sedis Apostolicae, Senis 1693,dedicato al cardinale
Francesco Maria de' Medici (ristampato in J. T. Roccaberti, Bibliotheca maxima
pontificia, XI, Romae 1698),introduzione a una progettata serie di
dissertazioni controversistiche, che però non si distacca dalla consueta
letteratura dei tempo; dedica tuttavia il meglio della propria attività ancora
al settore scientifico, apprestando, tra l'altro, l'edizione delle Coniche di
Apollonio, con la quale per suggerimento del Redi e del Viviani intese
completare e sistemare l'edizione già apprestata dal Borelli con l'aiuto di
Abramo Echellense (Firenze 1661), e stendendo uno scritto di meccanica
(Commentaria ad scientiam Galilaei de triplici motu), rimasto inedito. Ma
ai primi del 1694 l'A. lascia quasi improvvisamente Siena per le non buone
condizioni economiche, dati gli scarsi proventi che gli venivano
dall'insegnamento, e per le sue precarie condizioni di salute. Il 29 maggio
1694 è a Roma; poi a Cosenza, quale prefetto degli studi e successivamente
commissario generale nel suo convento di un tempo. Si riaccendono le
persecuzioni a suo danno; le vicende sono ancora più oscure che per gli anni
1680-81, ma gli procurano la protezione del principe di Tarsia, F. Spinelli,
presso il quale, a Terranova, dimorò nel 1697, e quella del cardinale Vincenzo
Maria Orsini (poi Benedetto XIII), allora arcivescovo di Benevento. Il 12 genn.
1697 chiese il trasferimento dalla provincia di Calabria a quella di Terra di
Lavoro nel convento di Cervinara e, in un secondo momento, in quello di
Mongrassano. Nel giugno 1698 è però di nuovo prefetto degli studi a Cosenza; il
10 settembre priore del convento di Scala e come tale partecipa al capitolo
provinciale del maggio 1699. Eletto priore di Mongrassano, non partecipa al
capitolo dell'aprile 1701 per le peggiorate condizioni di salute e rinunzia
anche alla carica. Cura nel frattempo a Napoli la stampa dei De vera
Ecclesia Iesu Christi contra Lutheranos et Calvinianos libri tres (1700), degli
Apollonii Pergaei Conica (1698?, 1702?) e la ristampa degli Elementa Euclidis,
Neapoli 1701. Il nucleo ispiratore dei De vera Ecclesia... libri
tres,abbozzati in parte a Siena e dedicati al principe di Tarsia, ha un reale
interesse. L'A., come aveva accennato in una lettera al Magliabechi, appare
preoccupato di confutare la tesi protestante circa i fondamenti aristotelici
della dottrina cattolica e sostenere invece "la identificazione della
nuova linea culturale incentrata sull'umanesimo e sul neoplatonismo con il cattolicesimo"
(Badaloni). Sulla linea umanistica viene rivendicata anche la continuità del
movimento scientifico del '600italiano. Ma tali motivi accennati nella
prefazione sono sommersi, nell'opera, da un denso argomentare tradizionale, in
cui tuttavia èmessa a frutto dall'A. la conoscenza dell'ebraico e delle lingue
orientali. Nel chiuso ambiente conventuale, dopo l'esperienza in terra
tedesca e in Toscana (durante la quale però sembra che l'A. sia stato spinto
più dall'esigenza di contatti e di fresche osmosi scientifiche che non da un
meditato approfondimento culturale), accanto a un crescente disagio che lo
rende insofferente della disciplina dell'Ordine e lo induce a frequenti viaggi
a Napoli per sorvegliare la stampa delle sue opere, riaffiorano nell'A. le
preoccupazioni proprie di una formazione e di una tradizione meno aperta e
duttile: il pesante enciclopedismo e il gusto mnemotecnico della giovinezza
prendono nuovamente il sopravvento sull'inteligenza sperimentale della natura,
e l'A. dedica gli ultimi anni della sua vita a studi linguistici, condotti con
criteri analogico-combinatori, Il consenso e dissenso delle tre Grammatiche
ebraica, arabica e siriaca, e 'l modo facilissimo per apprenderle ciascheduno
da se stesso in breve tempo (inedito), e ad elaborare o completare una
Philosophia symbolica,sorta di enciclopedia pitagorica di cui probabilmente
facevano parte opere che dai biografi ci sono indicate con titoli particolari:
un'Ars magna pythagorica, un Decamerone pitagorico (esposizione in rime bernesche
della filosofia naturale), una Logica pythagorica seu de natura et essentia
rerum (lo stesso che l'Ars magna?). Degli inediti è conosciuta soltanto
l'Ars magna in duas divisa Dissertationes Altera De origine rerum altera De
ortu et progressu Scientiarum (ms. 336;copia sec. XVIII, pp. 31 con 4 tavv.,
della Biblioteca Alessandrina di Roma). La copia fu effettuata dall'erudito
calabrese Zavarroni per la Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici diretta
da Angelo Calogerà (cfr. acclusa allo stesso ms. una lettera dello Zavarroni al
Calogerà del 21 luglio 1739).Probabilmente il carattere in apparenza bizzarro
dello scritto dovette dissuadere gli editori dal darlo alle stampe. Esso,
almeno nella copia dello Zavarroni, pare l'introduzione a una serie di Dissertationes
e non va tout court identificato con l'Ars magna di cui fa menzione il Gimma.
Se il De origine rerum,cioè la prima parte del manoscritto, può in qualche modo
connettersi ai primi studi dell'A., a escludere che il De ortu et progressu
Scientiarum sia uno scritto giovanile contribuiscono il cenno all'edizione
postuma dei Progymnasmata del Comelio (1688),il ricordo del Redi e del Viviani,
la notizia degli studi compiuti dall'A. sulla scienza galileiana del triplice
moto, la notevole conoscenza che l'A. dimostra degli studi di anatonúa,
elementi tutti che presuppongono appunto la sua esperienza culturale in
Germania e in Toscana. La prima parte dell'opera, che vuole essere una
guida "ad metam naturalis sapientiae", contiene una critica agli
schemi mnemotecnici del Lullo e del Kircher e si svolge nell'elencazione di
triadi platonico-pitagoriche, alla cui base v'è il presupposto gnoseologico
della possibilità di conseguire verità assolute attraverso l'ordine naturale
delle idee (poiché nella natura creata v'è una "triplex virtus",
"intellectiva, volitiva et effectrix", ad essa corrisponde una
"triplex operatio", "interectio, volitio et impetus"'
ecc.). Tale schema conduce ovviamente alla critica decisa della definitio
logica aristotelico-scolastica che non attingerebbe alla "quidditas
rei" come la definitio methaphysica,vagheggiata dall'autore. La
seconda parte è in sostanza una ripartizione delle scienze ancora su base
platonico-pitagorica. Da "Sophia" è esclusa la logica, di cui sì
ribadisce il carattere meramente discorsivo; ma a "Sophia"
appartengono la metafisica (notevoli i cenni platonizzanti circa il rapporto
microcosmo-macrocosmo); la fisica, per la quale l'A. si dilunga nella critica
all'aristotelismo e al cartesianesimo e nell'esaltazione della filosofia
atomistico-gassendiana e dello sperimentalismo galileiano, pur richiamandosi
insieme nettamente alla tradizione filosofica meridionale da Bernardino Telesio
a Tommaso Cornelio; la politica, per la quale egli esalta l'insegnamento di
Platone; l'etica, per cui continuo è il richiamo al pensiero di Hobbes,
ecc. A questo impasto di vecchio e di nuovo, che contrappunta un momento
della cultura meridionale e riflette il travaglio di un pensiero l'A. dedicò
dunque lo scorcio estremo dei suoi anni, divisi tra la meditazione filosofica e
la occupazione di biblìotecario presso il principe Spinelli, a Terranova di
Sibari, dove morì il 4 apr. 1702. Fonti e Bibl.: Firenze, Bibl.
Naz. Centrale, Magl. CI. VIII,171, Elia Astorini lettere ad Ant.Magliabechi da
25 sett. 1691 a 29 maggio 1694 ... ; Giornale de' Letterati del 1692 e primo di
Modena, pp. 118-119; Giornale...dell'anno 1693, pp. 244-246; F. Redi,
Opere,VIII,Milano 1811, p. 56; G. Gimma, Elogi accademici della società degli
Spensierati di Rossano,I,Napoli 1703, pp. 387-413; A. Zavarroni, Bibliotheca
calabra, Neapoli 1753, pp. 172-174; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori
d'Italia,I,2, Brescia 1753, pp. 1194-1196 (riprende dal Gimma); N. Di
Cagno-Politi, E. A. filosofo e matematico del sec. XVII,Appunti, 2 ediz., Roma
1890; G. Maugain, Etude sur l'évolution intellectuelle de l'Italie de 1657 à
1750 environ,Paris 1909, pp. 133 s.; A. Grammatico, E. A., O. Carm., insignis
disceptator saec. XVII, in Analecta Ord.Carm.,VI(1927-29), pp. 493-515; N.
Badaloni Introduzione a G.B. Vico, Milano 1961, p. 225.
Elia Astorino. Elia Astorini. Tommaso
Antonio Astorini. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Astorini” – The
Swimming-Pool Library.
Azeglio (Torino). Filosofo. Grice: “I like Azieglo; first he
was a marchese, unlike me – second he looked for the fundamental law (or
‘fundamental question,’ as I call it) for the principle of cooperativeness – he
finds it’s a natural thing, not a Rousseaunian contractualist thing – so he is
a Griceian at heart – on top, he relies on Bentham, to minimise the Kantian
rationalism and make it digestibale to those who care about what Azieglo calls
‘amore proprio’ – i. e. conversational self-love as still operating under a
wider principle of conversational benevolence.” Coniò
il termine giustizia sociale, successivamente ripreso e sviluppato da Antonio
Rosmini (1848) nel saggio La Costituzione secondo la giustizia sociale e da
John Stuart Mill nel saggio Utilitarianism.
Taparelli d'Azeglio è stato anche uno dei primi teorici del principio di
sussidiarietà. Era il quarto degli otto figli di Cesare, conte di Lagnasco e
marchese di Montanera, diplomatico della corte di Vittorio Emanuele I, e della
contessa Cristina Morozzo di Bianzè. Alla nascita gli fu imposto il nome di
Prospero che, divenuto gesuita, cambiò in Luigi. I fratelli Massimo e Roberto
furono politici e senatori del Regno.
Maturò la propria vocazione religiosa a seguito di un corso di esercizi
spirituali dettati dal venerabile Pio Brunone Lanteri (1759-1830), fondatore
della congregazione degli Oblati di Maria Vergine. Studiò nel Collegio Tolomei
di Siena e poi nell'Ateneo di Torino fino al 1809. Entrato nel seminario di
Torino, quando il padre fu inviato come diplomatico alla corte di Pio VII si
trasferì con lui a Roma e fu ammesso nel noviziato dei gesuiti di Sant'Andrea
al Quirinale. Fu ordinato sacerdote nel
1820. Iniziò a studiare negli anni 1824-29 la filosofia di San Tommaso d'Aquino,
studio che continuò a Napoli negli anni 1829-32. Nel 1833 fu destinato al
Collegio Massimo di Palermo dove insegnò lingua francese per poi assumere la
cattedra di diritto naturale. Nel
1840-1843 pubblicò con i tipi della Stamperia d'Antonio Muratori di Palermo il
suo testo più importante, il Saggio teoretico di dritto naturale appoggiato sul
fatto, considerato a quel tempo una vera enciclopedia di morale, diritto e
scienza politica. Nel 1850 ricevette da
papa Pio IX il permesso di cofondare con il padre Carlo Maria Curci La Civiltà
Cattolica, rivista della Compagnia di Gesù, ove scrisse per venti anni per poi
assumerne la direzione nell'ultimo periodo della vita. I suoi oltre duecento
articoli pubblicati sulla rivista furono tutti caratterizzati da un contenuto
tale da meritargli il titolo di «martello delle concezioni liberali»(Antonio
Messineo). Morì a Roma il 21 settembre
1862. Pensiero Era preoccupato
soprattutto dai problemi che nascevano dalla rivoluzione industriale. Il suo
insegnamento sociale influenzò papa Leone XIII nella stesura dell'enciclica
Rerum novarum sulla condizione dei lavoratori.
Proponeva di riprendere gli insegnamenti della scuola filosofica
tomista. A partire dal 1825 portò avanti questa convinzione, ritenendo che la
filosofia soggettiva di Cartesio portasse a errori drammatici nella moralità e
nella politica. Argomentava che mentre la differenza di opinioni sulle scienze
naturali non ha nessun effetto sulla natura, al contrario idee metafisicamente
poco chiare sull'umanità possono portare al caos nella società. A quel tempo la Chiesa cattolica non aveva
una visione sistematica chiara sui grandi cambiamenti sociali apparsi
all'inizio del secolo XIX in Europa, la qual cosa portava molta confusione tra
la gerarchia ecclesiastica e il laicato. In risposta a tale problema, Taparelli
applicò, in maniera coerente, i metodi del tomismo alle scienze sociali. Dalle
pagine de La Civiltà Cattolica attaccò la tendenza a separare la legge positiva
dalla morale e lo "spirito eterodosso" della libertà di coscienza
che, a suo avviso, distruggeva l'unità della società. Termini chiave della sua opera sono socialità
e sussidiarietà. Vedeva la società non come un gruppo monolitico di individui,
ma come un insieme di varie sub-società disposte in diversi livelli, ciascuna
formata da individui. Ogni livello di società ha sia diritti che doveri, ognuno
dei quali deve essere riconosciuto e valorizzato. Ogni livello di società deve
cooperare razionalmente e non fomentare competizione e conflitti. Dopo l'istituzione della Società delle
Nazioni, Taparelli d'Azeglio ne vanne considerato un precursore. Sua fu l'idea
di un'autorità universaleda lui chiamata "etnarchia"con il ruolo di
tribunale e di arbitrio, che potesse proteggere ogni nazione dalle minacce
esterne. Taparelli d'Azeglio continuò a fungere da autorevole guida al pensiero
cattolico in materia di pace e guerra ancora nel Novecento. Altre opere: “Saggio
teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto” (Palermo); “Nazione e
nazionalità” (Genova, Ponthenier); “La Legge fondamentale d'organizzazione
nella società” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “La libertà tirannia”
“Saggi sul liberalesimo risorgimentale” (Piacenza, Edizioni di Restaurazione
Spirituale); “La Civiltà Cattolica). Diritto soggettivo, proprietà e autorità
in Luigi Taparelli d'Azeglio, di Alessanfro Biasini, sito della Università Ca
Foscari Venezia. Scuola Dottorale d'Ateneo.
The Origins of Social Justice: Taparelli d’Azeglio, su
home.isi.org. Education and Social
Justice, J. Zajda, S. Majhanovich, V. Rust, E. Martín Sabina, Springer Science
& Business Media, 20061 Vittoria
Armando, Il Welfare oltre lo Stato. Profili di storia dello Stato sociale in
Italia, tra istituzioni e democrazia Seconda edizione, G. Giappichelli Editore,
Georges Minois, La Chiesa e la guerra. Dalla Bibbia all'èra atomica, Bari,
Dedalo, 2003493. L. Pereña, La autoridad
internacional en Taparelli, Libreria editrice dell'Università Gregoriana,
1964, 405-432. Studi Pierre Thibault,
Savoir et pouvoir. Philosophie thomiste et politique cléricale au XIXe siècle,
Québec, Maria Rosa Di Simone, Stato e ordini rappresentativi nel pensiero di
Luigi Taparelli d'Azeglio, «Rassegna storica del Risorgimento», Giovanni
Miccoli, Chiesa e società in Italia fra Ottocento e Novecento: il mito della
cristianità, in Id., Fra mito della cristianità e secolarizzazione, Casale
Monferrato, Francesco Traniello, La polemica Gioberti-Taparelli sull'idea di
nazione, in Id., Da Gioberti a Moro. Percorsi di una cultura politica, Milano, Francesco
Traniello, Religione, Nazione e sovranità nel Risorgimento italiano, «Rivista
di storia e letteratura religiosa», Emma Abbate, Luigi Taparelli D'Azeglio e
l’istruzione nei collegi gesuitici del XIX secolo, «Archivio storico per le
province napoletane», Saggio teoretico di dritto naturale appoggiato sul fatto,
5 voll., Palermo, Stamperia d'Antonio Muratori, 1840-1843. S. T., Per il
centenario della nascita delLuigi Taparelli D'azeglio, in Rivista
Internazionale di Scienze Sociali e Discipline Ausiliarie, Luigi Di Rosa, Luigi
Taparelli. L'altro d'Azeglio, Milano, Cisalpino, Gabriele De Rosa, I Gesuiti in
Sicilia e la rivoluzione del '48, con documenti sulla condotta della Compagnia
di Gesù e scritti inediti di Luigi Taparelli d'Azeglio, Roma, Edizioni di
Storia e Letteratura, 1963. A. Perego, La «Miscellanea Taparelli», in Divus
Thomas, Gianfranco Legitimo, Sociologi
cattolici italiani. De MaistreTaparelliToniolo, Roma, Volpe, 1963, 30–51. Antonino Messineo S.J., IlLuigi
Taparelli d'Azeglio e il Risorgimento italiano, in La Civiltà Cattolica, Carlo
Maria Curci Compagnia di Gesù La Civiltà Cattolica Rerum novarum Luigi Taparelli d'Azeglio, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Angiolo Gambaro, Luigi Taparelli d'Azeglio,
in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Luigi Taparelli
d'Azeglio, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Opere di Luigi Taparelli d'Azeglio, su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Luigi Taparelli d'Azeglio, . Francesco Pappalardo, Luigi Taparelli
d'Azeglio, in Giovanni Cantoni , Dizionario del pensiero forte, Piacenza,
Cristianità, 1997. Giovanni Vian, Luigi Taparelli d'Azeglio, in Il contributo
italiano alla storia del Pensiero: Storia e Politica, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, .Aloysius Taparelli, in Catholic Encyclopedia, Compagnia
di Gesù Filosofia Sociologia Sociologia
Categorie: Gesuiti italianiFilosofi italiani del XIX secoloSociologi italiani Torino
Roma. Non si danno doveri reciprochi senza società. Egli è costume di chi spiega
diritto naturalo -- il ius naturale -- il considerare certe classi di doveri
dell'un uomo verso l'altro anteriori ad ogni idea di società. E un tal modo di
speculare è coerente con tutto il resto della dottrina allorchè la società si
riguarda come una pura convenzione umana. Ma siccome il fatto di questa
convenzione, per confessione di parecchi fra i suoi difensori, non è se non una
finzione di diritto, fictio juris, ed io non amo fondar sopra una finzione
quanto vi ha di più sacro ed importante nel commercio fra gli uomini, mi vidi
astretto a cercare nel *fatto reale* (italici d'Azeglio) altro miglior
appoggio. E sì mi parve averlo trovato con nulla più che analizzare la idea che
ognuno si forma allorché pronunzia il vocabolo *Società*, o paragonar questa
idea collo stato *naturale* in cui ogni uomo trovasi sulla terra. Ecco per qual
motivo non credei poter trattare dei *doveri reciprochi* fra gli uomini se
prima non li considerava formanti una qualche società. E in verità, come
potrebbero esservi *doveri* reciprochi senza relazioni reciproche? Come
relazioni senza qualche congiunzione? Come congiuzione senza qualche legge?
Come legge senza legislatore e senza autorità? Data poi la congiunzione di
molti esseri intelligenti sotto una autorità comune che altro ci manca per
costituire una società? Parventi dunque ripugnante la voce di *relazioni
extrasociali*, usata dal ch. C. di Haller -- di cui per altro ammiro in molti
punti la dottrina --, nù seppi come introdurmi a considerare i doveri
reciprochi se prima non no stabiliva *sul fatto* le fondamenta con una attenta
osservazione dell’essere sociale. La legge fondamentale del *civico* operar
sociale potrebbe dunque ridursi a questa — la socielà (e per essa la autorità)
dee far sì che ciascuno *cooperi* a *difendere* e crescere il bene altrui senza
sua perdita, anzi con vantaggio proporzionato alla sua cooperazione. Della
società in generale. Società suol dirsi una concorde comunicazione di bene fra
esseri intelligenti. Società di questi esseri *in istato di tendenza* sarà
dunque la *tendenza concorde a fine comune*. E siccome la tendenza intelligente
fra uomini dee produrre azione esterna, cosi la società umana potrà definirsi
*cooperazione concorde di uomini ad un bene comune*. Prop. I.: Gli uomini tutti
hanno nella lor *natura* un elemento di società universale. Prova: Gli uomini
tutti sono obbligati a secondare l’ intento del Crea- tore. Or il Creatore
vuole da essi *cooperazione concorde a ben comune*. Dunque ec. La minore
si prova. Uno è per natura il bene da tutti conosciuto, ed a cui tendono tutti,
giacche una è la loro *natura* ossia impulso primitivo. Questo impulso
manifesta l'ntento del Creatore. Dunque ec. Diremo questo elemento *dovere di
socialità*. Coroll. 1.: Ogni dovere sociale deriva da questo principio *fa il
bene altrui*. Giacché la causa che mi obbliga a far ad altri *un* qualche bene
è che debbo far loro il bene. Coroll. 2.: Questo è il primo principio *sociale*
applicazione del primo principio morale. Coroll. 3: Il precipuo bene di ogni
società è la *onestà*, giacché a questa tende precipuamente la *natura umana*.
Coroll. 4.: Poiché *ottener il bene* è negli *enti ragionevoli* un *divenir
felice*, il fine di universal società è rendere gli *associati* *onestamente
felici*. E poiché la felicità dell’uomo consiste *secondo natura* nei beni di
*mente* e di *corpo*, *assicurarci* e *crescerci* queste due specie di beni è
il fine naturale della società universale. Una società determinata può o
abbracciare tutto il fine naturale con mezzo particolare cioè col convivere
stabilmente, o abbracciarlo parzialmente. Il *fine* particolare della prima
sarà il *convivere* onestamente felice. Della seconda il conseguire quel
particolare oggetto per cui ella si associa. Diremo società *completa* quella
che abbraccia tutto l'obbietto naturale della umana società, cioè il bene di
mente, quello di corpo, o la difesa di entrambi. Incompleta quella che ne
abbraccia sol qualche parte. Coroll. 5.: La società è *mezzo*, non fine dell’
individuo. Luigi Tapparelli d’Azeglio, marchese d’Azeglio. Luigi Prospero
Tapparelli d’Azeglio, marchese d’Azeglio. Prospero Tapperelli d’Azeglio,
marchese d’Azeglio. D’Azeglio. Azeglio. Keywords: ius naturale, “non si danno
doveri reciprochi senza società”, cooperazione, cooperare, fa il bene altrui –
onesta, fine, principio della socialita, applicazione del principio della
moralita, natura umana, fatto, socieeta totale, societa parziale, definizione
di societa in termine di cooperazione, ‘de more geometrico’ – tendenzia impulso
naturale all’onesta – societa – azione esterna, esseri ragionabile, esseri
intelligente, convivir stabilmente, felice, -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Azeglio” – The Swimming-Pool Library.
Bacchin (Belluno).
Filosofo. Grice: “I like Bacchin; as an Italian he is allows to speak pompously
as we at Oxford cannot! But he is basically saying the commonplace that
‘intersoggetivita’ has a ‘dialectical dimension’ (interoggetivita come
dimensione dialettica) in the sense that the ego (or ‘l’io’) presupposes the
‘altro’ (as he puts it: ‘a cui’) – therefore; it is a presupposition of the
schema, as Collingwood would have it, alla Cook Wilson – and thus only
transcendentally justified. Bacchin has noted that the operator ~ is basic in
that ‘inter-rogo’ invites a ‘risposta’ whose ‘motivation’ may be ‘implicita’ –
the ad-firmatum is motivated by the domanda – which can be another dimanda: why
do you think so? “Why do you ask why I think so?” -- Bacchin is alla Heidegger and other
phenomenologists, with the ‘essere’ versus appare on which my impicata in
‘Causal Theory of Perception’ depend (‘if A seems B, A is not B. Note that
there is no way to express this implicata without a ~. It might be argued that
it can express with some of the strokes or with some expression that would flout
‘be brief, rather than the simplest” – and which would involve, as Parmenide
has it, the idea of, precisely –altro’ (other than). Note that Bacchin
equivocates on the ‘altro’ – in the dialectical dimension of intersubjectivity
he obviously means ‘tu,’ not ‘altro.’ In the negation or contradiction (in
dialectical terms) of an affirmation – which is involved in every ‘dialogue’
that Bacchin calls ‘socratico’ or euristico rather than sofistico (based on
equivocation) – the ‘altro’ is the other, A is not B, impying A is other than B
(cf. my ‘Negation and Privation’). This does not need have us multiply the
sense of ‘ne,’ in old Roman!” -- Giovanni Romano Bacchin (Belluno), filosofo. Dopo
aver conseguito la laurea nel 1961, nel 1965 ottenne la libera docenza in
filosofia della storia. Dal 1966 al 1980 insegnò filosofia della storia e
filosofia della scienza presso l'Perugia. Occupò anche la cattedra di filosofia
della scienza presso l'Lecce. Fu docente presso la facoltà di lettere e
filosofia dell'Padova, tenendo la cattedra di filosofia teoretica. Fu membro della "Società Filosofica
Italiana". Morì il 10 gennaio 1995, sulla spiaggia di Rimini. Pensiero Cresciuto filosoficamente nella
scuola metafisica padovana di Marino Gentile, intorno agli anni sessanta, Bacchin
presto sviluppò una propria originalità di approccio e di ricerca filosofica,
che lo rendono difficilmente assimilabile ad una qualche corrente o
"famiglia" filosofica se non quella della libera e inesausta teoresi. A testimonianza della specificità del suo
approccio metafisico si può citare questa sua affermazione. «V'è un senso metafisico che può andare
perduto. Né basta parlare di metafisica e considerarsi metafisici per
possederlo. La perdita del senso metafisico è anche trionfo del condizionale e
quindi dell'ipocrisia: "direi", "avanzerei la proposta",
"mi si passi l'espressione", "vorrei che il lettore ricavasse
l'impressione..'", "anche se siamo, il lettore ed io,certo
ioimmensamente piccoli", "a mio sommesso avviso" e così via in
un continuo spostare l'attenzione su di sé e in un continuo, inutile, domandare
scusa al lettore della propriascontatapochezza, rivelando che non è poi così
scontata da non parlarne. Nudo e indifeso alla presenza della verità, il
metafisico non lo può essere di meno di fronte agli uomini, i qualidi certo-
non sono la verità. » Riferimento
costante dell'incessante dialogo filosofico di Bacchin fu senz'altro
l'attualismo gentiliano. Altre opere: “Su
le implicazioni teoretiche della struttura formale” (Roma, Jandi Sapi); “Originarietà
e mediazione del discorso metafisico” (Roma, Jandi Sapi); Sull'autentico nel
filosofare” (Roma, Jandi Sapi); “L'originario come implesso
esperienza-discorso” (Roma, Jandi Sapi); “Il concetto di meditazione e la
teoremi del fondamento” (Roma, Jandi Sapi); “I fondamenti della filosofia del
linguaggio” (Assisi); “L'immediato e la sua negazione, Perugia, Grafica);
“Anypotheton” Saggio di filosofia teoretica” (Roma, Bulzoni); “Teoresi
metafisica” (Padova, Nuova Vita); “Haploustaton” (Firenze, Arnaud); “La
struttura teorematica del problema metafisico”; “Classicità e originarietà della metafisica,
scritti scelti” (Milano, Franco Angeli); “La metafisica agevola o impedisce
l'unità culturale europea?”in ‘Il contributo della cultura all'unità europea',
Danilo Castellano, Edizioni scientifiche italiane, Napoli); “L'attualismo nel
pensiero di Marino Gentile, in Annali, Roma, Fondazione Ugo Spirito 1992.
Note Informazioni biografiche reperibili
anche in G.R. Bacchin, Haploustaton, Arnaud, Firenze 1995 Giovanni Romano Bacchin in Teoresi
metafisica, 1984 Berti, Enrico Ricordo
di Giovanni Romano Bacchin, "Bollettino della Società Filosofica
Italiana", n. s. 154, gennaio-aprile 1995,
126-128 Scilironi, Carlo Tra opposte ragioni: nota in ricordo di Giovanni
Romano Bacchin a dieci anni dalla morte. in Studia patavina: Rivista di scienze
religiose. Filosofia Filosofo Professore1929 1995 27 dicembre 10 gennaio
Belluno Rimini. Metafisica del principio. Si comincia
dopo avere cominciato. L’innegabile è innegabilmente. Negare è escludere
un’inclusione indebita. Non v’è limite del sapere. Il luogo del filosofare è la
domanda del luogo per filosofare. Ciò che v’è di originario nell’esperienza. La
filosofia non ha oggetto e nessun oggetto si sottrae alla filosofia. La
riappropriazione metafisica. L’esperienza praticabile è conversione fattuale in
fatto. Funzione della parantesi nell’asserzione e l’aporia del dogmatico.
L’autorità del dogmatico si presenta come critica di ogni autorità. L’ideale
dell’autorità è di essere indiscutibile. Autorità e intelletto si fronteggiano.
Ciò che l’intelletto impone all’autorità è di essere ciò che pretende di
essere. Il luogo della domanda è l’insufficienza di ciò che si presenta a ciò
che, presentan- dosi, non è interamente. L’identità tra inevitabile e
necessario è solo co- struita. Il senso in cui non si può domandare tutto. Ciò
da cui dipendono le valutazioni del domandare. Il senso in cui non si può non
domandare tutto. Domandare tutto è negare di poter asserire. Paradigma del
dottrinario in filosofia. Una richiesta che preceda la domanda di verità non
può essere vera. Il prefilosofico oltrepassa il sapere di non sapere credendo
di superarlo. L’impossibilità di oltrepassare quel ‘limite’ che è la stessa
impossibilità di oltrepassarlo. La costante esistenziale dell’esperienza e gli
equivoci della sua valorazione. La domanda universale investe il linguaggio
come luogo della possibilità dell’errore. Digressione. La base del filologismo
in filosofia. Dell’ingenuità storiografica in filosofia. Le due direzioni
dell’ingenuità storiografica. L’equivoco storico in filosofia. Equivoco di
coscienza storica e conoscenza storica. Le storie della filosofia rendono la
filosofia accessibile al senso comune prefilosofico. L’ideale sistematico del
prefilosofico si prolunga nella storiografia. Filosofare nonostante la storia
della filosofia. Inattualità teoretica dello storicismo. La nozione dogmatica
di storia. Il carattere fideistico della tradizione e il circolo del
riconoscimento. Due figure dell’accoglimento della tradizione: integralismo e
progressismo. La ragione formale come unica ragione delle due figure. L’ideale
immanente del credere è coincidere con il vivere. La ragione. Indice. Indice
formale presiede nel suo uso ciò che la determina nei suoi contenuti. Se ogni
fede è cosmica, ogni cosmo è creduto. La valenza sperimentale è già nella
protomatematica, come si esemplifica in Galilei. Il carattere ipotetico di ogni
riferimento assertorio all’esperienza. Il rischio erme- neutico è considerare
effettivo ciò che è interpretazione, come si esemplifica in Galilei. Il senso
in cui la scienza è alienazione. Ingenuità del ten- tativo di fondare scienza e
filosofia sull’esperienza immediata. Il campo in cui si discute è ciò che
intanto permane indiscusso. Credere di conoscere è non sapere di credere. Il
rapporto tra intendere e pretendere è struttura del conoscere. Il rapporto
strutturale di compreso e comprendente tra universi. Il rapporto di compreso e
comprendente è struttura del contenuto di osservazione. Costanti del progetto
d’esperienza e il vettore di interesse. Il progetto fondamentale e Kant. Il
progetto di filosofare è il modo filosofico di progettare: miraggio del ritorno
all’immediato, Controllabilità e statuto dell’individuale. Ambiguità del
sapersi orientare nel mondo. L’intenzione conoscitiva del fenomeno individuale.
Progetto del conoscere come adeguazione progressiva. Il co- noscere
rappresentato come rappresentazione. Il presupporre è limite presupposto
all’operare. La scienza ignora di essere una fede. La scienza non può sapere
ciò che essa implica, dovendo postulare ciò di cui abbisogna. La considerazione
pensante. La conoscenza scientifica ipotizza la realtà che le consente di
ipotizzare. Tentativo della distinzione tra ‘visione naturale’ e ‘visione
scientifica’ del mondo. Esame della struttura del ‘punto di vista’ nella
configurazione dei sistemi di riferimento. Dopo l’intermezzo ludico, che cosa
si intende per ‘considerazione logica’. La logica formale è il modo formale di
considerare la logica. Il formalismo della logica è il nihilismo della verità.
La conciliazione tra storia mondana e filosofare non può avvenire nella storia
mondana. Ciò che si presenta con la divisione pone la richiesta della
connessione. Il pensiero si affida al linguaggio per essere riconosciuto come
indipendente dal linguaggio. Si esemplifica con l’espressione hegeliana
“movimento dell’essenza”. Si insiste con l’esemplificazione hegeliana. Ancora
esemplificazione hegeliana: la “cosa stessa” non può venire utilizzata. Il
senso della cura–custodia. Il senso in cui il pensare penetra. Il pragmatico è
fittiziamente teoretico. La verità mette in questione ogni discorso intorno
alla verità. Il nesso tra tecnica logica e configurazione funzionale del
concetto. La conoscenza scientifica considera astratto ciò che essa non può
considerare. Rischio dell’equivoco tra mera domanda e domanda pura. L’imporsi
della verità è l’asse delle pseudofilosofie. Volontà di coerenza e volontà di
dominio. Coerenza è fedeltà alla logica di un sistema. Sistema ed esistenza.
Esistenza e chiarificazione. Esistenza e coscienza. Coscienza e punto di vista.
Il punto di vista fondamentale non è un punto di vista. La nozione comune di
esistenza e l’istituzione. Ciò che esiste non è assoluto. Differenza tra
teoresi e teoria e l’impossibilità di scegliere la teoresi. La teoresi, che non
è teoria, appare in una qualche teoria. Poiché l’intero non può essere oggetto,
nessun og- getto è intero. La scienza che escluda la filosofia diventa
“filosofia della natura”. Il mondo della vita impone l’astrazione. La
filosofia non vincola a se stessa le scienze. Ricorso alla formula. La
“formula” e l’aporia del metodo ideale. Il metodo di filosofare è filosofare,
ossia domandare. Inevitabilità dell’astratto. Necessità e cogenza. Il carattere
divino della matematica è l’essenza matematica di Dio anche se Galilei non lo
vuole. L’ordine astratto si esemplifica in Wolff, ma esso è la logica interna
della formulazione del principio di non contraddizione. La “proposizione” è la
figura minima del sistema, la forma del quale è l’equazione. L’ideale del
conoscere esclude dal conoscere l’operare. Le condizioni del conoscere sono
riconosciute nella loro indipendenza dal conoscere, nel conoscere di cui sono
condizioni. La relazione, che è esperienza, non può essere relazione
dell’esperienza con altro da essa. La conoscenza dell’incono- scibilità dello
in sé è conoscenza in sé. L’astratto è inevitabile, ma non necessario. Per dire
con che cosa si comincia, si comincia con la domanda intorno a come si
comincia. Affermare la totalità è dimostrare che es- sa non può venire negata
e, dunque, non abbisogna di venire affermata. La condizione apriori è trovata
analiticamente, perché è contraddittorio che, nel no- stro conoscere, tutto
derivi dall’esperienza. L’uso è unicamente empirico ed è riconosciuto
trascendentalmente. L’analisi è la presenza operante del “principio di non
contraddizione”. La struttura sintetica del giudizio è l’infinitezza
dell’analisi. Il giudizio è domanda infinita di venire fondato. Tra esperienza
e giudizio non sussiste rapporto, perché l’esperienza non può essere un
giudicato. La prima forma di mediazione è l’immediatezza fenomenologica, o
medialità. Il contessere infinito del dato non è dato. Ogni ordinamento di
oggetti è teorico. L’oggetto è pluralità di oggetti. Se è astratto l’oggetto, è
astratto il suo contesto. L’intuizione astrae dal contessere infinito. Ciò che
è dato per primo è risultato di un processo astrattivo: l’intuizione non è
originaria. Differenza tra teorica dei giudizi e teoresi del giudizio.
Impostazione. L’interpretazione empirica dell’oggetto “come tale” quale
“oggetto in generale”: trascrizione generalizzata degli oggetti. La sintesi
precede ogni analisi e la condiziona. Il conoscere presenta un duplice livello:
quello del suo fungere che costituisce l’oggetto, quello della consapevolezza
di tale fungere. Il conoscere muove dalla fiducia nello essere in sé del
conosciuto, con base esclusiva- mente pratica. Può venire formulata anche la contraddizione,
dunque la forma proposizionale non è struttura del giudicare. L’analisi come
pre- senza dell’incontraddittorietà formulata come “principio di non
contraddizione”. Un giudizio media la posizione di altro giudizio: medialità
posizionale o fe- nomenologica. Di volta in volta un giudizio può valere come
analitico o come sintetico. Si intende di sapere con necessità. Se v’è un modo
empirico di conoscere, v’è un modo non empirico di riconoscerlo. Kant conosce
analiticamente che la conoscenza umana è sintetica. Nessun giudizio matematico
è conoscitivo. La ragione dell’aritmetica è un fatto, perché le risulta
possibile ciò che le risulta fattibile. Le categorie. Indice. Indice trovate
dall’analitica sono usate dalla stessa analitica. L’esperienza è condizione del
darsi delle sue condizioni. “Cosa” ha significato operativo. Il tempo è
essenzialmente prassi. Spazio e tempo provengono dalla sintesi dell’intelletto,
ma operano nella sensibilità. L’oggettivazione dell’esperienza è
matematizzazione, di cui il trascendente è negazione. Il trascendentale è, ma
non appare. La sintesi è negazione di se stessa come negarsi reciproco dei suoi
termini. Tempo e durata. La presenza fungente dell’apriori è analiticamente
reperibile nel dato e non lo eccede. La differenza tra conoscere e sapere è
conosciuta e saputa. Conoscere non è sapere e l’oggetto è matematico perché è
oggetto. Esemplificazione con Kant di ambiguità fra matematica e conoscenza. Il
conoscere della matematica, essendo matematico come conoscere, non è conoscere.
La volontà di potenza è l’impotenza dell’io nei confronti delle sue
rappresentazioni. L’io si riferisce a se stesso come dato all’io. Non vi può
essere una ragione pura. Teoresi e finitezza della ragione. Il senso teoretico
dell’inconoscibilità dello “in sé” è quello dell’inoggettivabilità del vero. La
ragione è strumentale per se stessa. Il carattere filosofico della
pricerca. Il carattere dialettico, o negatorio della
filosofia. La dialettica dell identico livello. La dia-letticità
della filosofia e il momento analitico della filosofia del linguaggio. I
limiti di validità dell analisi nella filosofia del linguaggio. Limiti di
validità e valore. Come è possibile una filosofia del linguaggio.
Concetto di "teoria" e sua riduzione. La riduzione del concetto
di teoria e la radice pragmatica dell intellettualismo. La nozione
ateoretica dello "in generale" come base della teoria.
Riduzione del procedimento analitico all inde terminato, cioè al
contraddittorio. Differenza ontologica tra il contraddittorio ed il
negato. La dialetticità come impossibilità di un procedimento analitico
sulla totalità. La domanda totale e la totalità domandata. L intero della
domanda totale e della totalità domandata. La conversione dialettica della
totalità domandata nella esclusività del domandare. La domanda come
riferirsi in atto alla risposta. La problematicità della
"definizione" concettuale. L intersoggettività come
dimensione dialettica. La struttura dialettica dell'implicazione.
L'insignificanza teoretica del disaccordo. La preoccupazione di
raggiungere un accordo effettivo è empirica e filosoficamente ingenua.
Fittizietà del rapporto tra filosofia e senso comune. La superfluità del
problema del "solipsismo". Presenza e coscienza. La
realtà come pensiero si risolve nel pensiero come atto. La realizzazione.
L'attualismo come attualismo puro. La realizzazione come negazione e come
posizione. L'attualismo monistico come naturalismo. La presenza pura. La
coscienza della presenza pura. Il rapporto tra atto ed oggettivazione tra
presenza e pre-sentificazione. Importo teoretico dell'espressione
"Verum et esse convertuntur". La metaforicità intrinseca delia
parola. La "cosa stessa" come l'intero di se stessa. L identità pensare-essere.
Il riproporsi del pensiero su se stesso come origine della parola
"cosa". La duplice funzione della parola "cosa". Le
condizioni ad un indagine critica. L atto critico o negatorio come atto di
pensiero nella coscienza. La ricerca del mezzo logico adeguato e l
interrogazione. I limiti teoretici delle asserzioni condizionate da interessi.
La riduzione pretesa del "sapere" al "potere" e
il concetto ateoretico di "teoria". L'interpretazione
matematicistica nei suoi limiti. La teoria come formulazione
generale. La radice dell'interpretazione matematicistica. Le
condizioni imposte dal concetto d interpretazione. Il carattere teoretico
del controllo sull esperienza. Lo spostamento del limite come essenziale
alle determinazioni. La determinazione come ritorno dell atto: totalità
di definizione e totalità di esaustione. La totalità di definizione come
"essenza". L' atteggiamento fondamentale umano operante nella
definizione concettuale. Il modo indiretto dì dire l'essenza. Originarietà
e mediazione nel discorso metafisico (Il "Tema"; Svolgimento delle
indicazioni teoretiche del "Tema". L'originario come implesso
esperienza-discorso. L'"Esperito" e l'"Esperienza
integrale". Il significato dell'"Implesso"; Il senso
dell'"Originarietà" dell'"Implesso". Il concetto di
meditazione e la teoresi del fondamento (L'impostazione; La
"sospensione" degli enti dall'essere). Giovanni Romano
Bacchin. Keywords: il discorso metafisico – a new discourse on metaphysics,
from genesis to revelations, etymologia di ‘autentico’, l’esperienza e il disscorso,
implesso esperienza-discorso;
anypotheton, haploustaton, anypotheton hypotheton, supponibile,
insupponibile, haplloustaton, superlative di haplous, simplex, simplicior,
simplicissum, simplicissmo, complesso, simplice/complesso, simpliccismo, simplicissimo,
complessissimo, complesso proposizionale, semplice sub-proposizionale –
implesso, analisi del concetto d’impicazione – senso e significato – senso e
segno – proposizione – funzione proposizionale – Whitehead. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Bacchin” – The Swimming-Pool Library.
Bacci (Sant’Elpidio al
Mare). Filosofo. Grice: “You’ve got to love Bacci; he was born in the Italian
equivalent of Weston-super-Mare, and therefore, he dedicated his philosophy to
swimming!” – Studia a Matelica, Siena, e Roma. Scrive “Del Tevere, della
natura...”. Pubblica il “De Thermis”, un saggio sulle acque, la loro storia e
le qualità terapeutiche che venne accolto con entusiasmo. Dopo aver ottenuto la
cattedra alla Sapienza e l'iscrizione all'albo dei cittadini romani, e nominato
Archiatra pontificio. I saggi “Delle acque albule di Tivoli”, “Delle acque
acetose presso Roma e delle acque d'Anticoli”, “Delle acque della terra
bergamasca”, “Tabula semplicim medicamentorum”, “De venenis et antidotis”, “Della
gran bestia detta alce e delle sue proprietà e virtù”; “Delle dodici pietre preziose
della loro forza ed uso”, “L'Alicorno”. Il monumentale trattato “De naturali
vinorum historia”, un compendio in sette libri su tutti i vini conosciuti.
Tratta temi relativi alla vinificazione e conservazione dei vini; Consumo dei
vini in rapporto alle condizioni di salute; Caratteristiche peculiari dei vini;
Uso dei vini nell'antichità classica, Vini delle varie parti d'Italia, Vini
importati a Roma, Vini stranieri. Note
DBI. Andrea Bacci la figura le
opere, Atti della giornata di studi tenutasi il 25 novembre 2000 a Sant'Elpidio
a Mare. Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina
dedicata a Andrea Bacci Collabora a Wikiquote Citazionio su Andrea Bacci Mario Crespi, Andrea Bacci, in Dizionario
biografico degli italiani, 5, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. De Naturali Vinorum Historia De Vinis
ItalEae et de Conuiuijs Antiquorum Libri Septem Andreae BacciI Traduzione del
libro Quinto nella parte dedicata ai vini delle Marche, Gianni Brandozzi,
Associazione culturale Giovane Europa, Filosofi italiani del XVI secoloMedici
italianiScrittori italiani Professore1524 1600 24 ottobre Sant'Elpidio a Mare
Roma Enologi italiani. In quo agitur de balneis artificialibus,
penes instituta recæperit, hoc tempus non esta deo compertum, nisi quantum
legitur fuisse antiquissimum. Nam ex omnibus monumentis quæad notitiam hominum
peruenerunt, vetustissima huncritum lavationum, perinde necessarium ad communem
vitam commemorant. Balnearum enim mentionem invenio non modo ante ROMANORUM
IMPERIUM. Sed ante asiaticos etiam et chaldæos extitisse. Imòsiiactatis,
antequam ulla extitissetliterarumin ventio, dicterija credamus; extat apud
Pisandrum id circo Calida balnea fuif fe natura bal. cognominata Herculea, quòd
Minerva olim fesso Herculi calida parasset. Vel veterum et Galeni in
Thermis primus la tascoengerit quodammodo ad lauacra homines. Quippe ean ecessitas,
quæ uationumv a primordio rerum monstrauerat mortalibus ex agresti vita victum
quærere, sus. Tecta construere,abæstu& frigoresetueri:eadem &
fordesabluere,mun ditiæquecultum monftrauit.primo quidem quantum
vitæsatisfaceret,donec paulatima liqua industriaadhibita, laffata corpora mollia
quarum foturecrea reedocuit. Verum quando id inftitutum locum aliquem in REPUBLICA
HABE ROMANORUM, VANTA fuerit naturæ solertiaincumulandis gratijsaquarum
spontemanantium et quæ differentiæsinttùm simplicis Elementi, tùm consequentes ex
misturi. Et quisvsusearumin balneis. Hactenus proeoac potuimus explicauimus.
Quis enim pro dignitate naturæ, speciales proprietatescunctarum aquarum sermonem
consequi audeat? In hisautem quæ ad thermarum vsum dicendarestant, sirectèquis
thermarum ARTIFICIALIUM magisteriaconsi dignitas. deret, summum artis cum
natura certamen videri poterit. Ut tnesciam anadeo sciuerit natura elargiri mortalibus
tota diumentorum materiam, torqueadeo diuinæ dispositionis ostentare miracula
inaquis. Quanto maiora funt, quæ arsaddiditornamentain Thermissuis. Præsertimfubila
ROMANI IMPERII maiestate. Inquarum monumentis,quæ exeispartimvidentur et
partimle gunturapud varios authores, nons atisconstatapudme vtra fuerit maior, an
magnificentia operis ad illorum temporum instituta, an commoditas popu.
larisadvtilitatemlauationum .Principiononeftdubium fiprima quasiin cunabula
cæterarum rerum coniectemus , quin ipsa vitæ , ac naturæ necessi quia
quia eidem (vtAthenæus est author)vulcanusmuneris vice feruida suppo
fuisset. Etlivera credimusre tulisse Platonem tamspectatæfapientiæautho rem,superatomnium
seculorummemoriam, quamipsetraditexantiquissi mis monumentis, de Atlantica maxim
a olim insula n u n c Oceano ipso occupant aextram Columnas; quam Neptunimunere
cùmomni delitiarum genere Thermar r o n clarssima, hab u i f f c ( r e f e r t
i pse) etiam balneas quæ omni cultu ornatæ partim usus, quidem subdiuopaterent,partim
veròsubtectocalentiahaberentlauacrahy Είμαζα, τ'έξιμοιρα,λοιπάτε θερμα,καιανα
CUS Sexcenti sautem post Homerum annis,Hippocratesprimusmedicinæau 4.derat.
thor, Thermarumvsum curandarumægritudinumcaussa, tanquamreiiam in Græciacommunitervsitate
commemorat, ac damnauit aliqua. Floruitau tem (ut ratio temporum habeatur) natusprimooctogesimæ
Olympiadis (ut Hippocrates Soranustradidit)circàPeloponnesiacum bellum
:quod(teftePlinio)gestu estàtricentesimovrbisRoniæannoexactisanteàRegibusannos
circitersexa ginta,& ArtaxersePersarumRegemagnam Græciæ partem, &
Hellespontú occupante. Poftquæ temporadum Græciaindies Sapientiffimorum virorú
scriptis venirent illustrior, perpetua habemus de Balneis testimonia, Socratis,
Platonis, Aristotelis, cæterorum quesuccessu temporum authorum,qui& Aliam, &
PersiamnonfolùmGręciambalnearumvsumhabuissefamiliarem LaconesTber testantur. Laconesinter
Græcos antiquiores, primamlaudem Thermarum marimiznitanquam suuminuentumsibivendicare
videntur, Dioneauthore: ac abeis tores . pofteà huncmorem reliquas nations didicisse.
Quod confirmatpartiumno 36 mina in Thermis Romanis ,quæ omnes græcæ suntvoces,laconicum,Hypo
cauftum,Miliarium ,& Thermæ ipfæ, nedicam cætera. Ex quibusconstat
vsumThermarumapudRomanos fuiseposteriorem,aceasinæmulationem Græcorum
constructastestanturMarcus Varroin librode antiquis nomini bus,&
itemVitruuius.VeruntamensubilaRomaniimperijmaiestate, sicut omnes artes floruere,
ac inuenta prius ab alijs meliora cuasére, vnde meri to Roma QUASI ALTER A
MVNDI PARENS dictaest: itaomnium maxi mè Thermarumi nftituta incredibiles, &
supraquàm exprimivnquam pof sit,habuêreprogressus,eatamen obliterataferèad
hancætatem ,necliteris mandata, multisforsanèdoctishæcmeliusscientibus.Quamobrem
nos, volentes ad noftrarum lauationum regulam, antiquum Thermarum vsum rcuocarein
lucem; operæ precium eftRomanarum institutaprosequi:inqui bus quæ prima ipsarum
introducendarum ratio fuerit, quisordopartium,& quisvsus,& quæ tandem
ineis medicinæ pars extiterit,percurremus. In Critia, berno tempore, atque
feorsumaliaregibuspriuata,alia viris,aliamulieri bus,aliaitem equis, cæterişúeiumentis.Posterisveròseculispater
Home rus, cuiusscriptisnullumconstatapud Græcos testimonium antiquius,mul
toties calidaruin lauationum mentionem fecit. Præcipuè verò in Odysseæ lib. 8.vbi
Poëtaomnium fermèrituum memoriadignorum obseruátissimus, Thermas
indeliciiscommemorat illisversibus. vic. Homeri lo Aid δωμϊνδαίς τεφίλη, κιθαρίςτε,
χοροίτε, De affiduis primùm venatibus deditos ,necminusagrestibus operibusedu
catos, nonaliaferè industriatùm amplificandæ Reipublicę, tùmdefen dendæquùm
opusfuit, præualuiffe, quàmquoddurataiampacislaboribus
corpora,facilèquodcunquemilitiæonussustineredidicerant.Inquo perce
lebremhabemus Quintium Cincinnatum , abaratroaddictaturamvocatum. Itemque C.
Fabritium et Curium Dentatum, qui rure ac militiæ laudatissimi, omni Spicula contorquent,
cursuque, ictuquelacescunt, Abhisergoexercitijs, vterant frequentes, harena, puluereque
conspersi, ac fudoreprofusiatqueoleo,vtseminudi
acexertisbrachijs,cruribusque,vel liberosaltemhabitu, quo degebant, vt effent admunia
propriores, necessario lauationes pofcebant. Qua dere, dum adhuc nouitiavrbs
inhis studijs Patres campum Martium vicinum Tyberi, in quo iuventus post
exercitium Lib.1. c.10 armorum, ludorem, pulueremque dilueret, aclassitudinem,cursusquela
borem natandodeponeret. Qui mos vt paulatim èreipsa, & quasi nemine
Lauationes instituentese in ciuitatem ingessit (quem ve plurimum soletese nouo rūrituum
inTyberi, introductio)itatandem crescente indiesiuuentute,armorumquefimulac
exercitiorumaffiduostudio,viamtamfrugiinstitutiaperuit. Sanèin ciuile videri nobilem
ciuitatem in luculentis Auminis aquis quotidielauari;aclaua craid circo Asiaticorum,
& Græcorum moreparandaesse,quæpostexercitia non ad munditiam facerentsolùm,
verumetiam recrearent, maiusque robur laffatis membrisadiungerent.Quod
tamenpropositumlongissimèdistulêre:
nonquideminscitia,autvecordiatamgenerosæciuitatis, sed propter
Antevrbempueri, & priinęuofore iuventus. Exercenturequis, domitant que in puluerecurrus.
Aut acres tendunt arcus, aut lenta lacertis 7. Aeneid. Lauationum Deprimis Thermarum
institutis in vrbe Roma. Aris quidem constar Romanos illos Quirites,antiquosque
Sabinos, satissuntexemplonobis,hæcfuisseilliusseculiftudia. Non pecuniapræua
lere, non forma, nõ ambitiofo hominum comitatu , non stemmatis dignitate
certare: fed totamvimin proprijanimiexcellentia,viribuscorporis,acexa etacura Rei
pub. collocare. Feruebant honestælaudisemulatione ingenia,vt quosarma,&
propria virtus ad prim s ciuitatis honores euexerant, studio, ac laboreæ quarent.
Quare vbi militiæ in externosceffasset occasio, ROMANORUM quasi natiuo instinctu
dediti ad labores, autrurese agrestibus exercebantope-studia. ribus, autaddisciplinamac
roburcorporis, ciuilibus,ijsquevarijs exercita mentis vtebantur: cursu,disco,faltu,
lucta,& pugilatu,natatione, atque armis. Quem more man t è urbem conditam
fuiffe quoue. APUD LATINO antiquissimum, planèilis versibusrepresentauitVergilius.
necessitas. 36 strenuè adolesceret, præclarum habemus Vegetij testimonium
,constituisse gruentem ,au&taque fpatio temporis,spectatævrbisinfinitimasterrasautho
Aquaríper ducen.decre ritate; deaquistandem èvicinis montibus, Auuijsquein
vrbem perducen- tum. 1 (vtegoreor) potissimascauffas:Tùm quiaprimiili Patresnontamfrugifu
turumolimhuncritum existimauêre, quàm luxui, ac mollicieiforelenoci nium; id quod
accidisse, posteà declarabitur. Deinde ob aquarum incom moditatem ,quarum
incolles,vbitunchabitabantdifficiliserat,& nonsine maximaimpensa,perductio.
Verùmhoc laucitiædesideriovniuersimin dis, duas dis, decreto S. P. Q.
R. publico ftatutum est: quæ & potuum fimul,& laua tionumritui suppeterent.Quod
factum est primùm M. Valerio Max. P. De cio Mure Coss. (authore Plinio) circa 444.
Ab vrbe condita annum, aqua Tyberinarī Appia ex Tusculano per ducta, Censore Appio
Claudio curante. Aquibusté. porusdimif. poribus, Tyberinarum aquarum vsus ,adeam
vsque ætatem tàm potu, quá sus. lauacrofrequentiffimus,exolescerepaulatimincepit:aclauationum
simul, atque exercitationis gratia (ut tradit Festus Pompeius) Piscina publica
ad cli Piscina Pub.uium Capitolinum iuxtàTyberimestconstituta.Pofteà
Thermæconstructę. stitut& uationumduntaxat,conftitutæfuerant,haudmagnum
habuêre progressum. Visicùm auctaciuitate, simul
atquecrescenteindiesineisiuuentutisapplau. fu; semper maiorisearum capacitates ratiofuit
habenda.& præsertim vbime dicorum consensu incurationem quoque ægritudinum
suscipicæperunt.Ve rumtamenpostinitiadiuadmodum consuetum
fuitangustasfieri,actenebri cosas;nonenimcalidævidebanturnisiobscuræ;quem
admodum fcribitSe necaadLucillum,fuissebalneum Scipionis Aphricani ad Linternum.
Causa verò amplificationis Thermarum præcipua, fuit Palæstrarum adiunctio.
Quippe cùm apud Romanos veteres, ferèvfquead Augustum,nonadeo multa extiterit architecturæ
dignitas, nec adeo fuerit consuetudinis Italicæ.20 (vt desuotemporescripsitVitruuius,&
multoetiampost)cumPalęstrisLa uationes habere coniunctas;contentus quisque
ruralibus exercitationibus, ThermeadvelCampo ipfoMartio,&
harenaPlatearum;solasinThermisobibantla exercitia có uationes. Quo ritu ad
imperium vsque Principum perseuerante (vnde planè stitute.
constarepoteritThermas exercitiorum cauffa fuiffeinstructas)vbicunqueali qua
fierent publica edificia, ac populi celebritas ,iuxtà constituebantur &
Thermæ .Exemplo primùm Agrippæ clarissimo ;qui ob celebritatem admira
bilistempli Pantheon,atqueCampi Martij;iuxtà,Thermas suas extruxit.
SicNeroposteàNeronianassuasiuxtà Agonalem circum, ob Ludos,quiibi
fiebantcelebres,constituit. Necfecus(authoreSuetonio)TitusVespasianus
dedicatoAmphitheatro,Thermas celeriterextruiiussit:nimirùm ad Amphi Palestrari
theatri,& exercitiorum,quæineofiebantcommoditatem.Donectandem cum
Ther.illustratacuniImperijmaiestateArchitecturæperitia,moreGræcorum Palæ mis
coniun-ftræcum Thermis fuêre coniunctæ ,vbinimirùm generosa iuuentus,relictis
iamruribus,atqueharenis,simul& exercitationesobirentomnisgeneris,ac
lauarentur.AtquehincnonsolumoperaThermarum fueruntelegantiùsdi. sposita,atque
admodum amplificata, sedtantam etiam promeruerunt o m
niumgratiam,vttotaciuitaspaulatim hancsusceperitconsuetudinem,fre quentare
singulis diebus Thermas, & tàm Senes,quàm consulares,atque
amplissimiordinisviri,necnonartifices,& matronæ.Proveteriinstituto,
acftudiovirium,promunditia,& prosanitate,atqueomnicuracorporum. Romanarum
Thermarum cenfura, atque Magnificentia, Quæ quoniamfrugiinprimis,obeam, quam
dixi causam et ad ritum la.10 Etæ 40 čtio. Cap. 111. A e c ergo initia , atque
hæc incrementa fuerunt thermaru m Romanorum . Primò quidem institutæob ritum
laudabilem ,quem exer citium ,& vitæratioillorum temporum inuexerat . Deinde
au 30 Therme con Therma auCtæobcommunemvtilitatem,&
magnificatæcumpalestris. Eradfum mam tandem amplitudinem, acmagnificentiamperductęobdelicias.quem
ad modum à nobis ex earum aliqua descriptionem on f trabitur. Quan quam id
quidem, prorei, atq;vrbis magnitudine, haudnostroindigeret testimonio,descriptio
quiMedicinęduntaxatineisinstitutaprofiteremur:nisiminusplenèomnes,curnecela
quide Architecturaconscripserunt, earummaiestatemexpreffiffent. Nam ria.
quiddeVitruuijlibriseliciemus,nisinudaquædam lineamenta,atqueeaqui Invitruvio
dem nonadmodum explicata,paucaquelocabalnearumsuitemporis,quan-censura.
doperangusta,& blactariafiebantbalnea(vtpauloantèexSenecætestimo 10
niodiximus)quæeiusætate,& poftcà maximè, locuminter primasædificio rum
vrbismagnificentiashabuêre?Minusàiuniorum scriptis,quimutatis
rebusposttotsecula,acminus concordibus, quifparfimdeeismeminerunt
authoribus;fatissibi,atquelegentibus fecisseratisunt,sivastamduntaxat Thermarum
dixerintmolem ,acDedaleioperisinstaradmirarentur,cùm ta men Romanarum rerum
magnitudo cunctarum nationum miracula supera- Medicorum. uerit , n o n in
Thermis folum. Minimè o m n i u m à medicis. Quos turpe h o dieadrectam lauandiægros
institutionem videri deberet hæcignorasse; indi gnissimumveròproea,quam
profitenturGaleniimitationem,quæ vixvlla essepotestsinehorumrituum notitia, inquibus
ferètotaeius doĉtrina versa 20tur. Quam obremoperæ preciumest, advniuersam instituti
nostril rationé, Therme an aliquam ThermarumVrbanarum,partiumq;ipfarúcensuramfacere.Princi-publicę,an
pioThermas fuissedecreto publico constitutas, (vt eftdictü)non eft dubitan
priuata. dum .Nam idmultæ declarantauthoritatesscriptorum,acmarmoreæ tabu
læ,inquibusvelSenatusconsultaleguntur,vellegespositæinThermis,ve! munera. Quę
exmultispofteàritibusdeclarandavenient,vtpotè,inaliquo
publicogaudiosinemercedepræstarisolitas;veloleum gratuitodari.incom muni
veròluctupublicèThermarum vsum interdicisolitum . Imò in priua
tispęnisexéplumlegimusapud Valerium Max.lib.2.Titio pręfectoobigno miniofam deditionem
Calpurnium Cor. Conuictum hominum , & balnearu 30vsuminterdixisse. Verùm
quinegantThermasoperafuiffepublica,memi sedinThermis:quarumhodieamplitudinem
,accelebritatem,hac sancta religioneintroducta , templanostra, ac pia
xenodochia immittantur. Quare & Thermæ Xeniædicte,quæitaapudgræco scognominarifolebant,
quasi hospitales,& gratuitæ, quo cognomina Thermarum publicarum vtitur
manı Thermarum nissedebent magnificos in eis Imperatorum titulos , qui æternitate
nomi- Thermarum nissui, tantioperismagnitudine affectassevidenturacRomanis
suis,velPo- magnitudi Oo pulo gratuito constitutasindicant.Quo planum
fitetiam,easfierioportuis secapacissimas. Non enim in templistuncconsueuit
populus congregari, quæidcircoangustafiebant,acsuisquisqueindigetisacpenatibuseratcon
tentus, Tuniorum, nis ratio. Therma xea 40.Vnde perperam inhistorijsretulit Volaterranus,
quiblice. M.Tulliuspro Cælio legitproSenensibus,cùm nus Francisci Patritij
imitatus, Senias primas verò scripta subSenarummenioria.Inter quam
balneainantiquislegantur, quarummeminititem palatine.,credo fuiffe Palatinas, atquehas
xenias per acpublicas ,ademissaria Aque Claudiæ adeaspofteå
Cicero,vbiSex.Rosciusoccisus ,authoreeodemSene ,earum cura erat publici muneris
Max. ductæ. Necminus ætatem, quails & Cato, & Fabius ca , nobilissimos Aediles
antesuam, acsuaetiam & alij, populum inthermis exigend imunditias gratia receptare
niæ dop H. 2 manutemperare folitos. Balneatorestamenin Plautolegimus,
& pofteain Balneatores M. Tulliopro Celio,quieiministerioaderant.EtIureconsulcus.Instru
et Balneato me nto inquit balneatorio legato, balneatores continentur, quoniam
sinerium lega ti. his balneæ vsum suum præber e non possunt. Producto autem seu
t i s annis instituto ipso ad luxuriam Principum, non solùm capacitatitantæ vrbis
con sultum eft, fed citrà vllam mensuram aut modum ,& (vtAmmianus aflimi
Thermarunlat)potiusprouinciaruminftar,quàmvlliusædificijforma Thermascæpe
numerus Ther.Impe runtextruere.Extatinterprimamonumenta,M.Agrippam
,inAedilitatis munere;quodpostconsulatum
gessit,gratuitapræbuiffebalnea170.quæ'po steasub Nerone ,vt testator Plinius,
ad infinitum auxêre numerum. Sextus autem Aurelius victorin censu partium
vrbis, Thermas , amplissima opera Imperatori axii. nominauit. Priuatarum verò balnearú,
quasad priuatosvsus Ther. Priua qui lautè viuerētsibiinproprijs domibus compararunt,
numerum exeodem ta. fubducimusferèdcccLx.quassuccinctèperregioneshicrecensebimus.Pri
m a s ergo h a r u m duo deci m n o n eft dubitandum, fuisse Agrippę Thermas, qui Ther. Agripeo dé authore Plinio, imperáte
Augusto eiussocero, multa & egregiainvrbe perfecitopera, ac Thermas
fuaslytostrato,acencaustopinxit,& pauimétaex Neroniana . vitropofuit.
ErantautemvltràCampum Martium adfiniftram templiPan
theon,vbinunclocusvulgòCiambelladicitur,vtquæinCampo & inAgo naliCircoexercitareturiuuentus,hincTyberisnaturalem
aquam,hincverò calentiuminThermisaquarumhaberetcommoditatem ,vbilauaretur.Ineis
verocùm neque capacitati, nequeadeodelicijs consultumfuisset, eodem au. thore, successitquadragesimocirciterpofteàanno
Nero profusiffimusImpe. rator, quiad Agonalem ipsum
CircumsecundasThermassuonomineextru.
xit.Inquibus,vtscribitLampridius,syluasdeputauit;& nonfolùmdulces,
Alexandri.sedvelmarinasaquasinterdum ,velalbulasperAquæductusAnienisadduci
Hadriani Traiana. eum fecissememinitSuetonius.PonitidēLampridiusAlexandrinas,abAle
xandro Seuero extructas in C a m p o Martio ,quas quidam easdem esse N e r o
nianas putant , quam tanto imperio fastuo- 30 sam ,par
erathacquoquenoncareresuperbia.InIli& SerapideMoneta Regione, c ù m Titus
Amphitheatrum dedicasser, Thermas iuxtà celerite rex truxit, Suetonio;quæ
tertiæfueruntImperatoriæ,nimirùm inAmphitheatri celebritatem& commode (vti diximus)
& id circo breues. Quartæiuxtàhas Traianę, quas Traianusobhonorem Suræ, cuiusstudioad
imperium perue nerat,erexit,acTitiThermismaiores,vbiquæextantmiraAquarum rece
ptaculaseptemSalasvulgoappellant.PriuatæveròintotahacRegione Bal cömodianæneę
xxx .In Regione ad Portam Capenam, quintæinordinefuerunt Com &
Seueria-modianę,quarum &AlexandrumSeuerumaffectassenomenvidetur:etiamsi nę.
Antoniana. interpriores,acnoftrosantiquarios,aliquafitdelocis,&
temporibus,&
cognominumassignationevarietas.Inquapræterhas,extantalicuiusnomi nisapud
authoresciuium balnea,Torquati,VettijBolani,Mamertini,Aba s c antiani, Antiochiani
, & priuatæ aliæ Balneæ Lxxxv. Sextæ in Circo Maximo Antonianæ, quasmaximas
verè dixeris, Spartianoauthore,quieasm e
minitadradicesAuentinicollisAntoninumImperatoremcognomento Ca
racallaminchoasse,perfeciffeveròeundemSeuerum:mirahodie architectu ra, ratoria. pa. na . Agrippina. Titi.
instauratas. Adhæc P.Victor Hadriani Thermas. Et ex priuatis
BalneisintotahacRegioneLxu11.Eodemtemporeerexitquoq;suasTher- : mas
iuxtàExquilias Agrippina Neronismater ra,necimitabili,cumPalęstrisconiuncto.Inhac&
Varianæ,& Decianępo
sterioresnumeranturaP.Victore,necnonSyriacæaliæcognominatę,& Pri
uatæaliæLXIIII. Seueriquoque nominef uêrein TranītyberinaRegione Scueriane.
Thermæ, eode in Spartiano teste. Necnon Aurelianz,Vopisco. Balneuitem
Aureliane. Ampelidis, Balneum Priscilianæ, & Priuatæ aliæ 1xxxvi. Inter Esquilias
&Montem Celium, apud Titi & Traiani Thermas, PhilippiImp.Thermas
Gordiani. amplifl. ac pofitum
estadperpetuamreimemoriaminipsabasylicadistichuin,deAngelis. 20
quodlicànobisestrestitutum. QuæfuerantThermæ,nunctemplum estVirginis,auctor El
Pivs ipsePater,cediteDeliciz. ruptèdicuntur,&PriuatæintotahacRegione
1xxv.Porròrecenseturinli. 30 EsquilijsRegioneOlimpiadisLauacrum ,vbisummo
colliculoSanctiLau Vltimæ Cæsarum nomine, Constantinæleguntur ThermæinCliuoMontis
Quirinalis. Quas non reparatas , non d e integro ex tructas à Constantin o e x
i ftimo, cùmvetuftofatis appareant opére. Necnonmarmoreæ tabulætestimo
nio,quodlegitur:HAS CIVILI BELLO DEVAST ATAS QVANT VM PVBLICÆ PATIEBANTUR
ANGVSTIÆ PETRONIVS PERPENNA RE STITVIT. Propèhas L.quoq; PauliBalnea,quæ
vulgòBalncaNapolicor- BalneaPau rentijinPanisperna,monialium
ecclesiahodiecelebratur.AdcliuumcollisàOlympiadis. SuburraAgrippinæNeronis,quod
diximusBalneum, & infràNouati ciuis alix balneæ, vbi S. Pudentianæ est ecclesia.
Et Priuatæ aliæ in totum lxxv . Subinde vede Priuatisreliquisbreuiteragam
:erantinquartaRegione,vbi& Templum Pacis, Priuatæ BalnexLxxv.cum Daphnidisbalneo.
InCeli montio xx. InviaLataLXXV. InForoRomano iXVI.InPiscinaPubli. caxlinn . InP
alatioxxvi.PluresinMartialesparsimlegunturThermæ, Tuccæ,Hetrusci,Grilli,Lupi, Fortunati,
Pontij, Seueri, Fausti, Peti,Ti ti, Tigillini, quarum locanon assignantur. PorròextraVrbem
nonminor Thermarum cultusessedebuit,vtexquarundam preclariscolligimusm onu,
Constantina. mentis. Erantad Hostiam P. Tacij Thermæ,centum Numidicis columnis
Thermeer Ooij adscribit Pomponius Lçtus. Necprocul Gordianorum Domus, quam
descri psitIul.Capitolinusadmirandam ,ducentascolumnasvnostilohabentem ,&
cum Therinisadeolautis,vtprætervrbanas,vixaliæfimileshaberenturin toto orbe
terraru m . In a lta Semita Regione, Viminali colle , Diocletianæ ex -
Diocleti.1 1. . tant Thermæ, quasincçperatquidem Diocletianus Imp. cuni ordine
exactif simo, atque amplissimoPalestrarú omnium generum ,inquarum opus quadra
gintamilliaChristianorumeum addixisseaccepimus. Ob magnitudinem tamen (v tin Marmorea
tabula legitur)CONSTANTIVS ET MAXIMIANVS OMNICVLTV PERFECTASROMANIS SVIS
DEDICAR.Hę,cùm in fermè ædificio admirandæ permanerent, hodieCartusiensium Mona
tegro sterioSacræ, Pio Iu11.Pont. Max.subtitulo Sanctæ Mariæ de Angelis
magnificèrestaurantur: Curante M. ANTONIO AMV110.S.R.E.CARD. S. Maria exornatæ.
Arpini suas instituitThermas Cicero ,scribens ex Asia ad Q . Fra trem.ErantinLucullano,quænuncFrascativulgòdicitur,LuculliThermæ,
vbi nos integra vidimus Hypocausti vestigia . Ad Baias autem Thermæ Baians.
erantprætervrbanas,supraquàm quisoptarepotuissetvoluptuofiffimæ,na
turaipsaibiaquasvberriinèfuppeditante,gelidas,calidas,& plurifariâfalu
bres,quasfatisinsuishistorijscelebrauimus.Quid verò hìc cęteras Italię pro
sequar Philippi. Trarbem L. haberet? Quinetiam Rusticanas, inquibusfamilia
(vt inquit Columella,& Rusticana. exeoPalladius) ferijssaltemdiebuslauaretur:
nequeenimfrequenteniearū vsum robori corporis operariorum conuenire. Similiterhunc
morem acce Aquarum maris, & portuumcommoditate, aquarumduntaxatsustineretpe-':
nuriam;hacinpartevenisseincertamenquodam modo cum naturavisaest, vtaquarum
quoque essetabundantissima. Itaquecumhocdesiderio,crescen
teindiesinstitutoThermarum,& modò aliaatquealiaadducta multo spatio temporis
in tantam aquæ venêre copiam, vt Augustiætate, Strabone teste,pervrbem
,atquecloacasomnesinundareviderentur,& vni uersæpropemodum ędessubterraneos
meatus, syphones,acfistulasvndo sashaberent.Quo
temporeM.AgrippaAugustiipliusgener,quem complura
invrbefecisseconstatopera,cultu,atqueedificiomagnifica;aquarum Cu
ratorperpetuus,authorePlinio,alijscorriuatisatqueemendatis,& alijs nouiter
adductis,septingentos lacus fecit.Pręterea fontes c v,Castella cXXX. 40
Lacusintelligoex Frontino, alueosbreuimuro,inquibusaquæ reciperen tur,&
aliaexalia,vtfiuntapudnos Fontane,Lauacra,Fullonum stagna,
jumentorumaquagia,& huiusmodipublicacommoda. Fontes, quiprimas a c f y n c
e r a s e x Castello funderent aquas, pauciores id circo quàm lacus. C a
stella,certaAquæductuum receptacula, ad MęniaVitruuio,&inviarumdi uortijs,
vbi aquarum facienda esset distributio.Quale etiam num visitur in E r quilijs
Castellum aquæ Claudiæ, indiuortio ad portam Maiorein nunc dictá et adpisse
reliquas Provincias, quibus Romani imperassent, in transcursu diversarum
lectionum obseruauimus. Prætermultas, quaslegimus Romanis anti Lacus in
vr sequarThermas,cùmeatempestatevulgòvilaquælibetdiuitumfuasbalneas
quiores,vtquasprimasinGreciadiximus,inAsia,inSicilia,& apudPersas Hebræorum
DarijThermas,quasPlutarchusdescribitditiffimas, & lautiffimas. EtIose
Hifpanorum phus Hebrçorum Thermas ad Ascalonem , ad Tripolim , ad Damascum , ad
Ptolemaidam. Hispaniaqua calidalauari poftfecundum bellum Punicum à 10
Romanisdidicêre,anteànon consueueruntnisiinfrigidalauari,authorIu
stinusHistoricus.Multæ occurrunt apud authores Thermarum memoriæ ,in
Germania,inGallia,inBritannia,aclongè pluraipfarumvestigiavisuntur in Italia, in
quibus vidi sępius per inscitiam etiam doctos virosobstupescere, alij
Theatra,alij Labirinthos, alijmemorandas moles alicuius sepulchri ia
ctantes.Quarum tamenritumlegimusvenisseadeocommunem ,vtnonco lonias, &
municipia solum ,sednemo dignè tùm Romanam militiam profi terivisusesset,quinon
haberetsuabalnea,& gymnasia, inquibuscommi litonessuiexercerentur. Quod de
CleandroTribuno equitum Commodi
Cęs.meminitHerodianus.Indomesticisveròvsibusbalneum eratviainci-20 bum
,vtnotauitArthemidorus .Cuiusreipassimhabentur exempla,quùm ex
itinere,labore,acexercitio quopiam balneum primò ingredi consueue rint,&
pofteamolliaquarumfotu recreatiaccumberent. De aquis vrbanisad vsum Thermarumadductis.
Externe. aqua ;haud copiaivrbe bequid. Fontes V Ros
autemRoma,cùmprætercæterasgratias,quibuseamaltissi
musdecorauit,salubritateaëris,situagriadimperium opportuno,zo adportamSanctiLaurentij,quod
pofteàC.Marijtrophæisinsignitum , adhuc illius retinet n o m e n . Porrò fingulis
castellis aquaruin erant propositi Trophça suiCastellarij,vtpræclaroquod Romæ
legitur epitaphiocostat. D. M. Clemen Aquarum propria commoda. Mirariveròlicet inprimis
ipsarum ductuum fabricam, duétuumma dignam planècùm magnitudine operis, tùm
certè publicaipsavtilitate, quęgnitudo. Pluribus mundispectaculisproponendaessevideatur.Molesingens,àdimi
dioferèItaliæquædam perducta,partimexcisisac perforatismontibus, par
30timascendens, partim abimis vallibus perimmensosarcussublata, quibus
Aufeia,& 20 fue xit. Etanteà lib. 31. cap. 3. Clarissima inquit Aqua ruinomniumintotoorbefri
goris, falubritatisquepalmapræconio vrbis Martiaest, inter reliquadeûn
damlociscentum& nouempedesaltitudinismensurantur.Vniuersamverò omnium censuramitahabuitFrontinus.AltissimusAnioestnouus,Proxima
Claudia,Tertiumlocum tenetIulia,quartum Tepula,dehinc Martia,quæ capiteetiam Claudiælibramæquat,deindeAppia,omnibus
humiliorAllie tina. Primaverò,vtpropinquior,& maximècommoda,Appiaadducta co
ftarexTusculano:Cenfore(vtfupradiximus)Appio Claudio,annovrbisAppiaaqua quæ
perportam Capenam ,nuncSanctiSebastiani,inocto vr munera
vrbitributa.Vocabaturhæc quondam Aufeia.Fons autem ipfePico nia. OriturinvltimismontibusPelignorum.TransitMarsos,&
Fucinum La piconia tempus addu tiCæsarum N.SeruoCASTELLARIO Aquæ Claudiæ fecit Claudia
Saba tis& fibi& fuis.Extat Senatus consultum apud Iul. Frontinum
,quoaquam non eratpermissum nisiexcastelloadducere,ne autriui, autfiftulæ
publicæ lacerarentur. PublicisidcircoThermis,propriacastellavidenturfuissecon
ftituta: qualiavidemusintegraadDiocletianasThermas,& adTraianas,mul
tipliciopereconcameratas .In Priuatisautemprima Censorum,aut Aedi
liumeratauthoritas,quorum arbitratupermodulos,digiti,velvncięnomi
necertoannuosolutovectigaliconcedebatur. Legequecautum codem te fte,ne
quispriuatus aliam duceret,quàm quæ exlacuredundaret,quam ca ducam vocabant :
& hancipsam non in alium vsum quàm balnearum , aut
fullonicarumdariessesolitam. Omnem aquaminpublicosvsuserogari debere.Cæterùmquotnumeroessenthæaquæ,quæ,quonomine,&
quo tempore,& vnde adducerentur,breuiterpercurrendumest.ScribitPro
copiusIustinianiCæs.fcriba,Romæ quatuordecim fuisse aquarum ductus, excocto
latere,ealatitudine,acprofunditate, vtferèequesteripsocúequo pereosposseteuadere.
Nos Frontinum imitati, qui Nerva imperante pręfuit hisceoperibus curator perpetuus,&
fcriptis cuncta sid elitermandauit, octo aut nouem suo emissario per ductas
dicimus. Quę fuerunt ex ordine, Appia, Anienisvetus, Martia,Tepula,Claudia,Anienisnouus,Iulia,Allietina,&
virgo:etiamsipofteàduplici,acplurinomine,vtvsueuenit,fuerintcogno minatæ. Nam
poft Frontiniætatem, non aliamlegitur, prętereasfuiss ead ductam, nisieasdem àdiuersis
Imperatoribusautinstauratas, autseductasad bi sRegiones exviginti caftellis distribuebatur.
Quadraginta veròannispo- tus. fteà, exmanubijs PyrrhiRegisEpiri,SpurioGarbilio,L.PapirioCoff.prima
Anienisadductafuit,vtetiamcommodavrbi,& altæoriginissupraTybur.Martiaquę.
Tertia fuit adducta Martia, dicente Plinio lib. 36.c.15.Q.Martius iussusà Se
natu Aquarum Appiæ, & Anienistegulaductusreficere,nouamànomine suo
appellatam , cuniculispermontes actis intràpræturæ cum, Marü. Anienis ve Oo i
1 Triana . cum, Romam non du biè p e t e n s . M o x specum e r s a in
Tiburtina s e a p e r i t n o .
uemmillibuspassuumfornicibusftructisperducta.Primuseam invrbem per
ducereauspicatusestAncusMartius,vnus exregibus.Poftea Q.MartiusRex inprętura, rursus
querestituit M. Agrippa. Hæc Plinius. Hancdemum& Traia namnuncupatam
aseritFrontinus,àTraianoinAuentinumvsq;protracta.
QuartafuitTepula,quaabagroLuculli,quéinTusculanoexvarrone legimus Tepula,. Gn. Seruilius
Cepio,L.CasiusLonginusCollin Capitolium perduxêre, via , quæ PortaMaiorhodie appellatur,claristitulis
Cæsarum, Claudij, Claudiaque VespasianiT, iti,& M.Aurelij. EamquidemdestinaueratpriusCaligula,per
& Curiadaduxitveró Claudiusabvsquexxxvi.lapide, viaTiburtina, èfontibus Cæ
Cerulean ruleo,Curtio,atque Albudinocollectam,quibusfæpènominibusscribitur.
Adduxithiç & alteramAnienem,cuiductuiaddifferentiamveteris,Nouus
Aniocognomentumfuitinditum,Frontinoauthore,qui& ipfumpofteàre Fons Albu
ftituit.Concipiturautemperagrum Tyburtinumxx,milliario,operealtili-.
moadPortamEsquilinamadducto.AquamveròIuliamadmiscuitcum Tepu laM.Agrippa,viaLatina,quæabAurelianoiterurmeftituta,eiuscognomen
Juliaquęegassumplit.Ållietinam,quam& Augustam, miratur Frontinus Augustumpro
Aureliana, uidentiffimum Principem per ducere curasse nullius gratiæ,imò &
parum sa Alietina, lubrem ,nisi fortecùm opusNaumachiæ
aggredereturtransTyberim. Qui dam ob hoc eam intervrbanas aquas non numerant.
DE AQVA VIRGIN E,QVAM duxitAgrippa,vtPlin,meminitlib.31.c.3.& deinde Claud.Cęs.Pri
mum veròauthorêCaium Cęs. fuisseindicantmarmoreæinscriptiones,quarú 30
vnaineiusaquæductuitalegitur. Tit.CLAVDIVS DrusifiliusCesarAug.
Nominisra-ductusaquæ Virginis destinatosper Cæs.àfundamétisrefecit, acrestituit.Vir
ginis porrò nomen (vt Frontinus scribitnobilis author de aquis vrbanis ) ad
cafum fuithuicaquæ inditum:nam quærentibusa quammilitibus, puellam vir g u n c
u l a m quasdam venas præmonstrasse, ac il as sequu t o s in gentem a q u ç
moduminueniffe.AediculaidcircoVirginisfontiapposita.Quod nomen
posteavidenturadsciuiffe Dianæ, ac Triuiænuncupaffe, quasi Dianæfonsdi Fons
Diane triplex habere dicebatur numen , celebrarisolita, necnon à
triplicifonte,qui- 40 bushæcaquaconcipitur. Vel (vtquibusdamplacetantiquarijs) virginisno
futurna menindicasseIuturnam,quam Nymphamsic dictam (testeVarrone) quòd Nympha.
iuuaret,invotisfuisehabitaminfirmis,quiexeaaquabiberent,facramque in via .
simulat que puteum, qui extat, dive Mariæ
Virgini fuisse consecratum, vt r a n In Triuia.
libetquiseiusnominisinterpretationem accipiat,verumtamen eofitmagis
verisimilisnoftrafententiahuncfontemfuissevirginéàDiana,& Triuianun Meuiæ
,quæ dinus, Anio nouns 20 vocant Şaloniam , tio. Vel Triuię. & aqua Diançsacra,quęveteribusvirgohabitaest,&
in Triuijs, vt AQVA autem Virgincquoniamsolahæcadnostramhancætatem Romam
perducitur, altioraliquantosermohabendusest. Eam per cupa Primus aute D thor,
ceretur, 10 Latina dextrorsus ,longex1, milliapaff. subterraprius, deinde arcuato
opere. Quinta, ac fausti nominis fuit aqua Claudia,vtinfrontispiciolegiturPortæ
id circo hanc ædemei fuisse constitutamasseruntiuxtaipsum fontem ,quam
Sinct.Mar.posteàReligioneintroducta,insuperstitionempræteritiseculiabolendam,
JO est Herculaneus riuus, quem refugiens, virginis n o m e n obtinuit .
Hactenus Ductus lon Plinius. HabetautemductuslongitudinesàcapiteadipsumTriuijfontem,girudo.
spatio a bestàvia Prænestina,dicente Plinio.Marcus Agripa & virginéaddu ”
xitaquamaboctauilapidisdiuerticuloduomilliapafsuú Prænestinavia:iuxtà (vt
Frontinus dimensus est) milliariorum XIIII.n a m vbi fpecus subit montių ,
vbicircuitcolles,velvallesæquatarcuatoopere,multoshabetflexus. Pro greditur Anienemfuuium,acintersectaTyburtinavia,
& exinde Nomenta na, & proximè Salariavia; tandeminter Collatinam Portamque
estsalaria, & Puteus Po. Pincianam sub colle Hortulorú , qui est hodie
Sanctæ Trinitatis, ad Trivium litianus vicum exilit fonte. Subitautemeum
collempro fundiffimnospecu,cuiusho die puteus altissimus repertus estin medio
viridario, quod magnifico, ac con spicuointotāvrbem ædificio ibi constituit Cardinalisamplish.
POLITIA. 20NVS,& vtrinqueduæ eiusaquæ marmoreæ inscriptiones.Tı.CLAVDII
nomine. Etquo digno tum fuit magnisilis Romanorum Architectis, erita; omni
futuro seculo memorabile Camilli Agripæ Architecti inventum, salientemsuaptes ponte
facit aqua (impulsam tamen in æreum tubum rotis ræ, primam fanèlaudem
promerentur Sanctiffimi D.nostriPivs IIII.& qui - statim ei successit Pivs
V. Pont. Max . quivirginem ipsam aquam ad Virginisper
pristinamantiquorumformamperducerecurauêre.Quippe lapsu temporum hæcaqua varias
subijt mutationes,& quodmirum eft, vsqueà Plinijtem lutem. Pofte àc raffantibus
in Italiam,& invrbemipsamtotbellis,acvaria rumgentium incursionibus: plana in
historijs monumenta habentur, quæ ductio. Refert Platina, Adrianum patria Romanum
Pont. Max.d omitisiamaf. Adrianiin fi&isque Longobardis, anno falutisnoftræcirciter
MCCLXXVI. Virginis Stauratio. Aquæductum dirutum, cumalijsvrbisaquæ ductibus restituisse.
Donecite rumnonmulto poftdirutus, protantarerum ,quæsuccessitcalamitate, nuf
quam prætdr e a videtur fuisse restitutus. Nam quod i n i p s o Trivii fonte
legi Nicolai. tur, Nicholaumv. annoabhinccxII. Virginem fontem restituiffe, planevi
detur is Pontifex haud vllam antiqui ductus huius aquæ partem instauraffe;
sedconfluentesduntaxatèviciniavenascitràpontem Salarium prorefugio vrbis collegiffe,
quæeftminimapars; virgoigitur aqua octauo (vt diximus) est Salonia. Milliario concipitur,vbi
nunc locusà Salone dicitur: Quæcunque fuerithu ius nominis significatio apud
vulgus, quod,vt consueuit huiusinodi aqua run conceptaculafalasdicere,forsan
& hoc obamplitudinem areę Salonem nunc uparit, dicente præsertimFrontino,hunclocumvnde
virgo aqua con- Riuusnúad iicitur, palustrem fuiffe, & vt scaturigines contineret,
lignin operecom-mititur. 40 cupatum, quod nomen ipsum ædis Sancta Maria
invia , vulgari (vt videtur) vocem utila dicitur, pro Sancta Maria in Trivia, vbi multa cum devotione
Beatæ Mariæ Virginis etiam num ea aqua ab infirmis bibitur. De Fonte ergo ipso
quia d huc in Triviæ vico celebris est, non est dubitandum. De origin e a u -
Origo. tem , Pliniusa pertèdicit concipivia Prenestina. FrontinusautemCollatina
ad milliariumoctauum, quæ vtquidam putant,duorumcircitermilliariorü
pore(vtipsememinit )cæpithuius aquæ fimulatque Martiæpenuria: Ambitione (inquit)
ac auaritia in vilas,acsuburbanadetorquentibus publicamsa Artificium per Usurpatio.
Herculews ipsam aquam volubilibus, &
machinis) quæ eximo puteoads ummam planiciem. paffusexilitfonte, actantavbertate,
vt non hortosfolùm,fed & totam quoque subiectam vrbis partem reddat irriguam.
Cuiustam frugiope Agrippe. mu 4 OO 111) munitum, quod nunc quoque visitur
aliqua parte. Iuxtà estriuus Herculaneus. quemtamen non admittit, tùm quia locus
palustris humilisque est, ac v l i g i n e totus obsitus; nec aquæ est satis
vtilis: tùm qui a satis fupe r q ; adeam
formam aquæductus Salonia est. Neceum riuum admisisse antiquos,satis apertè de clarantea
Plinij verbaiam allegata. Iuxtàest Herculaneus riuusqué A Salinis refugiens Virginis
nomen obtinuit. Nec secusdimittendaeorum sententia aqua . est,qui ad Salinas
vocatas à Frontino aquas pro Salonia acceperint: cùm hæ longiusinfluantà Salone,
sinistrorsusàvia Præneftina, vcidem Frontinus inquit,passuum
septingentorumoctogintaquævelAppiaaqua,velAppix Appi&origo carestudeat, piètamen
& public vtilitati consulens, opus tàm frugiprofequu Vltimaper tusest, aquamqueVirginem,adeototseculisdesideratam,
hocanno,acmen se MDLxx. decimoseptimo Calen.Septembris, cummaximo totiusvrbis
applausu, ac gaudio perduxit in totum. Consultistamen prius (vt Sapientissimum decet
Principem) Medicis, àquibus & bonitatem aquæ, et vtilitatem, quam præbere posset
huic almæ vrbì re latam comprobauit. Qua dere Naturaem hæc mea eft sententia: Sanè
magnum argumentum bonitatis huius aquæ hoc Qualitates esseexistimo, quòd hæcaquafueritinvsu,
vt nunc quoqueeft, longiffimis seculis. Quippe hæc primas sempermeruit laudes
simulcum aqua Martiain tercæteras vrbisaquas. Authore Pliniolib.eodem
31.cap.3.d.Quantum vir gotactu(hocestfrigore)tantumpræstatMartia
haustu:alternantehocbo tactusintfrigidæ, easnonperinde(laudabiles) &
haustuesse. Hæcs uccinctè Plin. Hác aquam Martialis cognominatcrudam, ilisuerlibus.
Ritussi placeanttibi Laconum, Contentus potesaridovapore 30 te influentium, &
tepidarum, & frigidarum aquarum; hanc specialiter vsu Ab experi- balnei comprobat
frigore, & profrigida, metri causa dixitcrudam. Velcru mentis. Dam intelligas
eum dixisse in comparatione aquæ Martiæ, quæ (vt dictúest) vtilior haultuerat, virgo
tactu. In experimentis, tardius hæccoquit legu mina, accibariareliquaque Tyberisaquęlimpidę,&
Cisternalesaliquę.nimi rum quia fluuialeseiusmodi, inrespectu fontium, omni
exutæsuntcrudita te,ac pluuiales magis aëreæ . Cæterùm hęcaquanullis fontium
aquis vide- 40 turmeritò postponenda. Cætera veròquælegunturaquarumvrbisnomina,
autvariæduntaxatipso nomin e sunt, sicut iam plura ali c u i a quę adduximus
nomina :a u t externę sunt Crabra. Sabatina Lacus Saba saporem, inter vrbanas non
adnumerant. Nec Crabram,quæ erataliaaqua, aquæ,nonvrbanæ. Quomodo quidam
Alfietinam, itavocatamobingratū tis.Amnis
Tusculanis,vndeaduehebatur,relicta.NecSabatinam ,quamàLacuSa Larus . batis, qui
hodie est amnis Larus, nouissima momnium aquarum breuimo. Io ductio. Martialis.
pars per Capenam portam , nunc Sancti
Sebastiani ducebatur in vrbem. Tota ergo virgo aqua Saloniaeft, multisvenarum, &
riuulorum acquisitionibus (vt Frontini verbisvtar) obitervsqueinviam Salariamaucta'.
Quam Pivs IIII. Pont. Max. vt delectabatur vrbem suam æternis monumentis, publi
cisq; idgenus operibus adornare,destinauerat.Pivs verò V. Pont. Max.cũ
fanèprimùm orthodoxamfidemnoftramàtotseculihuiuserroribusvendi no , vtquæ
CrudaVirgineMartiaquemergi. Quo nomine haud quidem cruditatisvitioeāhic Poëta damnare
voluit. Sed mirisex tollens laudibus Hetrusci balneum, blandicie præsertim, &
varieta dulo 20 qua q u a n ı diversæ à prædictis aquæ. Quod vsu c
u e n i t in eternis id gen us operibus, perpetuams ibiquisque memoriamcomparare
.ItaqueprimaTherma structuræ exemplo, nulloque integrèscriptoremandataliteris, nisi
obiteràmultis,& controuersè. Etquæobfitaadeovetustissimisiacetruinis, vt
quanquàm peritissimi multi hacętate antiquarij conquisitiffimè studuerint
easinali quamlucem reuocare:nonminortamenadhucrelictafit, magnis
etiamingenijsconfusio, vtquęsparsim dehislegunturauthoritatesscripto rum,cum
paucisquæipsarumapparentreliquijs concordentur. Inprimis
describendaessetixvoypapíce,basisquetantiedificij,quam noftriadverbúPlan
tamrectè appellant: at hæc diuersissima habeturabe aquam tradit Vitruuius,
neceadem dispositioin omnibus Thermis.Porrò, præterfpatiaplatearum, m i n a
esse tantum aut instauratorum, aut insigniu m e o r u n d e m constat, h a u d
ac additos lucos, hortosque immensos, ac Lacus, distinguenda effentloca
exercitationum àbalneis.Acloca propriacuique exercitijgeneriassignanda,
vbicominus, acbreuicirco, vbieminusfierent, sub Diuo, subtecto, in Xi stis. Et quæratio
fuisset exercitiorum in Palestris, & quali aexercitia.Quis vsus præter e a
totali a r ú partiu m: & quæ dispositio, Corycęi E, p h e b ç i, E l ç o
thefij, Conisterij, Exhedrarum, Spheristerij, Xistorum. Etdebalneis, fi singulæ
Thermæ plura habebant balnea, at dubiumnonest,quæ naniratio 30 distinctionis, ancommoditati,
an loco, an ordini, vtcunctis legitur fuisse consultum. An omnibus vnum essetcommune
hypocaustum :& feu vnum comm u n e o m n i b u s , se u c o m m u n e v n i
p a r t i t i o n i , vt verisimile fit , q u o l o c o maximècommodo.Anbinæ&
ternæ, quælegunturlauationes,eodem fie rentbalneo,andiuerso.Etsidiuerso,aneadem
pluribusferuiebat,ansin gulisnouaaqua.Velquæ ratiotàmmiriartificijcalefaciendivna
hora tantam aquæ quantitatem, quæ innumerabili populo sufficeret? Vnde &
quo certo ductutantæ aquæ copia? Quæ ratio erat Pensilium Balnearum, quastantocú
applause Vrbis, & totius Italiæ quosdamintroduxisselegitur? Quibusadid
valibus, aut balneis, aut alueisvtebantur? Etsilabrislapideis(vt quidam pu 4 0
t a n t) quæ videmus per Vrbem maximis : q u æ e o r u m e r a n t i n balneis
dispositiones, & quo situ ad aquas accipiendas? Etdebalnearijsrebus,quæ
fanis expedirent,& quæęgris. Quiddicamdelauandirituperordines;perætates,
perleges,peranni tempora,peripsaexercitia;acde innumerisdenique id genuscircunstantijs,quasvelnon
scriptasabantiquarijs,velper coniectu ramduntax attentatasà iunioribus, merispotiùserroribus
obscuratas, quàm explicatas invenimus? Quar e n o s d u m h e c aliqua ex parte
revocare in lucem intendimus, & quævsuimaximè medico opportunasunt, exponere,nullam
Fos Veneris 1 rum instituta, atquemomenta Aquarum ductuum habemus . is
fchnographia Thermarum, &dehisquetractandafunt. Cap.v. Hermas verò per partesliterisinstaurare,
haudquaquàm presentis muneris est. Nec facile esset, pro tantæ molis magnitudine,
n õ v n i u s dulorestituit Hadrianus I. Pont. Max.quam & Ciminam interim
appellariin uenio,àCiminoipsomonteinFaliscis, fonteVenerisdeducta.Drusaauté,
Ciminaaqui Annia,Traiana,Antoniana,Seueriana,Alexandrina,& idgenusaliæ,no.
ferè Dubia in Ther. 2 Oov ferèiuniorum positionemfequemur:sedquátum
exrationeillorumrituum, Spacia Thersimulatque
locorum ipsorum diligenti consideratione colligerepotuimus, percurremus. Spatia
in primis Thermarum videmus amplissima: atque ad eo vt quasdam vndeciesmilliespedumtotaarea
continere constet,authore Baptista Alberto in libris de Architectura. In Diocletianis,
quæ inipsaareaappa rentvestigia,præterspatiavndiqueplatearum,&
prætermembra,quæinfe riusacsuperiusvarijsThermarum ministerijsferuiebant,centum
continent partitiones, vario ac nobiliffim oordine. Nec mirum, siconsidereturpublici
çdificijmagnitudo,inquocommunis fueritratiomaximæciuitatisadexer 10 Magnitudo .
c i t i a corporis, ad balneas, ad disciplinas. In i s enim communia er nt studia , tamanimi quàm corporis, necaliaerantartium
gymnasia, vndefæpè apud authores Gymnasia legimus pro balneis. Necminus
addelicias: Nam ratio Gymnasia acresipsaostendit, nonfolùmvsuiinpartibus Thermarumfuiffe
consultum, verumetiamvtiuuentus faciliùsadea studiatraheretur, &
delicijsmaximè, & ornamento cunctarum rerum. Propterea Thermæ neque
digniores occupa
bantvrbislocos,nequeintervilioresfiebantvicos,sedvbilocicapacitas,at Forma Ther
marum,ac partitið. queoperismaiestasrequireret.Vitruuijtamenętatenon videturfuissecon
suetudinis Italicæ (vtipsescribit)magnificareadeo palæstrasac Gymnasia in
Thermis: vtquibus satisad exercitiafacerenttùm Campus ipfeMartius,tùm
Agonalis,totCirci,totplatex,totaliaexercitationumlocapublica, & priuata.
Sed per angustas fieri, & paruas quales Agrippæ Thermas m e m i n i t P l i
nius.Pofteàveroperductoimperiovrbisad luxuriam Principum ,non m o dò Græcorum
more constitutæ,sed dilatatæfuêreamplius,distinctaquem e liuslocaexercitationum
,acGynınaliaàbalneis.QualesAntonianæ,acDio cletianædemaioribusextant,acmeliusdispositis:quarum
sinunc præsumná describeremagnitudinem ,non tam describere, quàm maiorem partem
di gnitatis earum mihi videbor minuere :sedharum m a x i m è,ad notitiam tanti
ritus, fequarvestigia. In his edificationis eratvaria forma, ac varia
dispositio partium : sed a r e a amplissima, q u æ i n q u a d r u m c l a u s
a , tribu s v e l u t i perpetuis circuitionibusdiuisaesset. In
primovndiq;ambitu,quæ męnioruminftar lib.s. 6. 11. totum edificium claudebant,
errant gymnasia exercitationum, varioordine, quædicemus. In secundo, longèlat eque
spatia platearum ,Xista, acPlatano nes, ad exercitiasub diuo. In
medio,totaipfamoles Thermarum,quæ sunt membra balnearum ,Atria,simul atq; Xifti,
& Palęstrarum amplissimæ porti cus,vbi (authoreVitruuio) Athletæ perhyberna
tempora intectisstadijsexer cerentur, actranfirentstatim ad balneas, vtdelineataprimùmipfarumbasi,
distinctèmagissingulaexplanabimus, 4marum . Thermæ. Ther.Diocl. 1 Oo
vj Hexedra Lalitudopal. 200 choricen Calidaria FO х NAT MC) V
R a THERMARVM DIOCLE Longitudo Platego Atriolum Die Scola riú BВ Spheriferti H
Tostring 71 Apod TOD Schola Longitudo Ρ
Ι Α ΤΑ Laconica Hexedra Basilica Fngida Topida n uนี"
Agaagiâetlume ORIINS Hexedma Hephebri ATRIVM nPoarttaitciuosnis la карэхэн Spheristerium
200 Hacera Lpatlitudo. 2 Hemicyclus
Condste platego Porucus Tres Stadiate Theatric SET VN M M HT NONES
Hexedra A triolum sperifleriâ Laconicü Coniste Hephebell Hexedra pal . Kesedara
LongituPdloa . odyterium Hypocau Dico Engda Hexedra 'Jių rium Porticus Staduatę
Aquagiấetlume pal. OCCIDENS OS Tres salo ирэхэн ATIOTES TIANARVM ICON. ATRIVM n
Paotrattiicounsis Spenfterum I O O O. Basilica Tepida Frigidai Calidariú
Tõstrina A 5oC Hemicjclus sefala ridium PTENTRIO Scola 1
Departibus Thermarum, acexercitationumlocis. Cap.vi. N PRIMA ergo facie, quæestadmeridiem,tertiamferèpartemmediamoc
cupabat Theatridium. Quæparseratprincipalis,& tanğcaputtotiushuius
ædificij:vndeduplicem (vt quibusdam videtur) habebatvsum;alterum extrinsecus,
alterum intrinsecus. Ambitum enim exterioré ponunt fuisse a r c u a t o opere
distinctum ,& apertum ,quo exéplo patet, circūcolumnium poftbafilicam
Posticã. ecclesiæ Lateranen.Vnde. f.ingrederenturquafiper Posticum, fiuedextrâverte
rentur, fiuefiniftrâ per porticus, apertèvenirentinampliffimam plateam,ac
exindè quò vellent, fiue in palæstras, fiue in balneas. In conspectu verò
interiori ergaplateas,eratTheatrispeciedistinctumcũsedibus,vbi.f.populus,&
maximè nobilessubvmbrameridieisederetadludorūspectacula, quiinplateisexercitij
causa f i e r e n t. Partes verò quæ v t r i n q u e à Theatri d i o p l u r e
s s u n t , a l i q u i b a l n e a putant.Ná
quodrotundaformaestvtrinqueinversurisvnum ,pinguntessecali darium,&
consequenterponunt vnú Tepidarium,vnum Frigidarium,& vnum lib.5.c.1 Apodyterium.
Nec equidem nega uerim debuisse quæ d ã balnea s e o r f u m , & q u a l i extra
palestras constitui:partimmulieribus,partim artificibus,&hisquivenien
tesàciuitate,statimintrarent,& quasiextràconspectumpopularemlauarétur,
& abirent.Verütamenhæcnonfuiflebalnea,hauddubièvidetur:nam iuxtàeá ria
Sacella. appictionem ,nullus hicvidetur Hypocaufti locus:quoddebuiteffeinmedio,
& communevtriqueordinibalnearum ,tefteVitruuio,atinmediohiceftThea
tridiummaximum.Nec eratconsentaneum,vtmébraspectaculieffentStuphæ. Deest &
laconicum ,nisifortasse hæc opinio confundat laconicum cũ calidario.
Saterat& vnum Apodyterium comune,vtpotevnum vestibulum balnearum : hicduo
ponuntur. EtprætereaTepidariaduo,cùm tamenidemfitTepidarium, quodApodyterium.Meliusergomihivideturdicendū,hæc
fuiffepartimipfius Theatridij membra, &
partimlocaadvsumAthletarum.i.eorum,quiexercendi essentcoram Theatridio, vtpoteConisteria,Elçotesia,&
quædam apertè in pla team, forsanequorumcarceres. Duo pofthæc Peristiliaquadracaoblonga,hinc
(vt scribit Plin. Lunior de villa sua) exercitationú generibus.Vel Sacella,vtnota
turperædiculasæquisvndiquespatiisstaruarum.hæceratprimæfacieipartitio.
Porròinalterafacie,quæabaquiloneeodemcomensuhuic refpondet, videntur Gymna fuiffe
maiori ex parte Gymnasia, philofophis dicata, ac Rhetoribus, reliquisq; q
studiis literarum de dissent operam.Vtpot epars magis remota àftrepituAthle
tarum,& litucômodiffimo,tùm propteramenitatévnibrarum(erant.n.inhac
plareaPlatanones,vtdicemus)tùm proptergratafontium murmuria, inNataa
tionéipsamcadentiū. Quaproptervisum estpluribusantiquariis, inmediohoc
Vestibulu. Spatioå Septétrione fuifleprincipale vestibule totius huiusæ dificij.
Exquoper40 Hexedre medios Platanones patebat aditus ad Natationem, & hinc, &
hinc in porticus, in & Hemi-basilicas, Diętas, & atria, quæ pofteà dicemus.
Primùm verò àd extra vestibuli, cycli. & àsinistraerant Ex hedræ pluresclausæ
ante plateam, &cusedibus Hemicycli forma, vt disputantes, & tam loquentes,
quàm audientes sese omnes afpicerent: & aliquæpatentes, cellscholænoftræad leuiora
studia. Maioremverò citer 10 Peristilia fia. atq; hincvnum
àTheatridiq,quasipalestræbreues,veldeābulationes.Acinver Spheriste
surisvtrinque,vnum Sphærifterium ,quod diximus rotunda forma,cum plurib. 30
Schola. exercitationum. Gymnasticarum continebant partem duæ vtrinque facies
laterales, hinc,atquehinchabebantpartitiones.Ac fuisseeasadexerci quæ conformes
tiadicatasvidetur:tùmquiaplatexhælateraleserantliberæ,& amplæmillecir, citer pedum spatio. T ù m quia membr a ipsa
partim erant Hemicycli aperti cũ sedibus,acvarioornamento,quod apparet,lignorum
,acpicturarum :& partimconisteria,Elæothesia,aliaquemembra advsumAthletarum
oppor tuna . Totam hanc autem primam circunferentiam circundabant continua
porticus,ducentiscolumnisvnostylo. Subinde erantPlatex,amplæ ,& .Nam
siædificiorumperfectioproportionibushumani
corporisresponderedebet,vtVitruuiustradit,perfectisfimèresponder in Thermis
Diocletianis, ac melius quàm constituat ex Græcis Vitruvius. Ex Lib. 3. 20
eniminhis Theatridium ,vbieratvestibulum ,tanquàmcaput: Apodyteriū, pectus:
Hyppocaustum, Stomachus: vmbilicus, maxima, acregalisbasili-Diocletiana
cainmedio: venter, Natatio. Membrorum veròvtrinque, quæfuntbalnea, rummirifica
a t r i a , palæstræ, porticus , Diętæ, basilicæ; æ q u a r a t i o , a c m e n
s u r a e f t, v t b r a a r s et de chiorum, acfæmorum. itavtquæ
exvnatradeturparte,cadem ex alterapa basilicaameniffima,vbiconuenirentomnes, quivelinpalæstrasventuriBasilica.
essent,velinbalneas. Idcircosatisampla,ornatuplastices,acpicturis adhucnitetantiquiflimis.
Hinc rectâ in Diętam, quæerateadem capacitate, fed latiortamen basilica, duplici
columnarum stylotripartita: nam media par
teceuatriolum,erataditusinatriummaximum,& inpalestras: capitaverò
hincatquehincdeunebantinhemicyclis,vbifortasseAthletarum ferrentur iudicia
Circuncolí - liberæ, vt dixi , t à m q u æ a n t è Theatr i d i u m Stadium ,
nia . ,erant xistum, Platanones, & autem,quæeratanteNatationem enim Xista (authoreVi
maximè estiuas idonea . Fiebant adexercitationes Platani, virentesqueidgenusXista,&Syl
)interduasporticusSylux,quæerant caperentre-ua. truuio situantèNatationem
,vndeaquarum arboresconfitæ,aptissimo autemStadium,itafiguratum,inquit Vitruuius,vtpof
frigeria. PoftXiftum, Athletarum cursus, variaque alia sent h o m i n u m copiæ
fine impedimento hæ omneserantpartitionesquoquo latere,& gym : spectarecertamina.Atque
veròoperismaiestas,erattotamolesinme Stadium nasiorum,& platearum. Summa
,acmultimodisearúmē dio,quæ communes habebatpalæstrascum balneis
bris,acmiriartificij ,quàm vtræquelaterales. Inea Porticus
riterintelligendafit. Incipiemusautem àNatatione,quæpatentiffimapars
aspiciebatAquilonem:& exeaàlatereperbasilicas,acdiệtasveniemusin
atria,exindeinpalæstrasinteriores,acmaximam bafilicam,& demum ad balnearum
membra. Erat i n q u a m Natatio in re c e s s u m e d i o a b a q u i l o n e,
l o n Natatio. Gitudinedu centorum pedum, latitudinedimidiominus, ponte ,acarcubus
bipartitaadinterioresaditus, vbinunc factaestmaiorisaltaris basilica. Habe
batautemàcastelloproximo Aquæ Martiæ emiffarium, quod per occultos tubos ferebatadNatationemipfamaquas.Habebat&
supernèadlongitudi-Emissarium nem fontesvariaspecie,acMusxa,quæ
teftePlinio,expumicibus, acero-aqua Mar fisvetustatefaxisextructa (vt hodie quoque
Romæ sunt in vsu) specusima-tię. g i n e m referebant, ac fiftulis modò apertis,
m o d ò clausis , vario , blandisli moque salientium
aquarumlusu,recentessemperaquasinnatationéipfam Fontes,ac fundebant.
Miriscircùmadhibitisornamentis,quorum etiamnumapparetMufaa
ædiculæfignorum,& statuarum,fontiumquevestigia, & columnarum bases. A
Natatione plura, ac nobilissimamembra: primùmabvtroquecapiteerantPorticusna
amplissimæ porticus conformes, nimirùm & adspectaculaNatationum,&
tationis. adrefrigeriaconstitutæ.Etaliæadaltiorem prospectumporticuspensiles,mi
noristylo.Exeuntibusveròàporticu,tamdextrâ,quam sinistra,eratprimùm fcriptio.
30 Platanones. Dięta. iudicia . I n Atriis era nt Peristilia, hoc est circü
c o l u m n i a , quæ facie b a n t a t r i u m oblongum trecentis pedibus, latitudine
dimidiominus. vbiin Porticu , orie simacum sedibus, quæ tertiaitem parte longior
quàm lata, eratad exercitia Corticum. iuuenumdicata. Sub dextra Ephebei erat Corticeum,seu
Coryceum à Co. Coryceum. ryco, quod videtur pilæ genus in Galeno 11. de San. tuenda.
Seu Choriceum Choriceum dictum, Choreisnimirùm, ac saltationibus locus proprius.
Proximè Frigidarium, locus ventis per flatus, feneftris amplis. Ab eoqueiterin Spheristeriú
ro oblongum, & fimplex, ad pilæ ludum aptissimum. Adsinistram Elçothesium,
Spherifleritquæeratad vnctiones faciendascellaolearia. SubhocConisterium, vbificcó
Elçothelium.puluere, velharenaluctaturiseseconspergerent. Ab eoqueiterinPropni.
Conisteriú . geum, vbi erat in ver u r a
porticus Laconicum, quod referemus suo loco p o Propnigeú. iteà. A
Peristilioautem, atrioqueintrantibus ad interiores Palæstras, erant Talastre in
Porticus tres stadiatæ ,quas hodie occupat longitudo ecclesiæ.Ex quibus m e
teriores . diaparsamplissima, centumpedumlatitudine, superingentescolumnas,al
Porticusftatissima prominettestudine, cæterùmitafactasecundum Vitruuium , vtilate
Frigidariit. diate. Xistus. ra, quæ
suntvtrinqueadcolumnasmargineshaberent,& qualeshabethodie
viaabHadrianimoleadVaticanumsemitas,nonminuspedum denûm,re
liquaqueplaniciesoctogintapedúm.Itaquivestitiambularentcircùminmar 20
ginibus,non impediebanturàcunctisfeexercentibus.Hæc autemPorticus ziso'sapud
Gręcos vocitatur,in quo Athletæ in tectis stadijs exercerentur.Quę
quoniamexacteeratinmedio,& velutiincordetotiusedificij,vbimaximè
conueniresolebatnobilitasadexercitiahyberna,adambulationes,& adspe
ctacula;cæterasmeritòexceditpartes,tùm magnitudine, tùmregalimaie stateoperis, altiffimisfuperbiffimisqueprominenscolumnis,&
patentissima vndiqueinperistilia, inbalneas ,in Hypocaustum,inNatationein,acfuper
nè feneftris illustrator latissimis. 30 præualereassuesceret: deinde ad sanitatemtuendam,quiduofuerant
fines præcipui:& demumaddelicias.InquibusomnibusmutuaBalnearum,atq; Exercitationum
errant beneficia. Nam quantum conferebant balnea lassatis rumque similiter coniunctaeratvtilitas,
acmutuaerantinuicembe Thermarumneficia. Nempe Thermarum
ratioduos,imòtreshabebatfines:primumad instituta,acdisciplinamiuuentutis,quæficviribuscorporis,honestisquevitæconatibus
fines et Exercita exercitatione, aclaborecorporibusadroburviriumreparandum,&
admun tionum muditiam. Tantundem rependebant vtilitatisexercitia,fine quibus
balnea non tuo beneficia possuntessevtilia,maximèsanis.ItaqueGalenusinlibrisdetuendaSan.mo
Non p i l a , non sollis, non t e p a g a n i c a Thermis Prz . tali parte, eranthæcmembra,situaliquantifperdiuerfoabeo,quem
assignat €phębeum Vitruuius .PrimòEphæbeum , in medio, hoc autem erat Hexædraamplif
Balnearum 1 Bal. Recurel Atria . De exercitatio num generibus, ac preparationibus
ad balnea. Cap. vir. CONSTAT ergo hactenus,balnearum locainThermis,atqueExer
citationumfuisseconiuncta.Idqueoptimaratione,quoniam vtro dobalneaRecuratoriaviriumessedixit;modò
Exercitia Præparatoriaadbal toria. Exerci nea.Quod frequenter inalijs authoribuslegimus,&
succinctèeoEpigram tatio,Prapa ratoria. mate colligiturMartialis vnde dieta
existimat D. Augustinusinconfessionibus,quòd Bénestaisdivíes,idestquòdan
xietatestollat. Ergo vtpro veteriinstitutogenerosæ Ciuitatis,quam diximus
inlaboribusnatam& educatam,magnaeratomniuminThermiscelebritas; itapro
tempore, & proconditionibuspersonarum ,Exercitationeserantva- Exercitatio
riæ,& invarijslocis.QuippealiæinPalestrisfiebant,aliæinXistis,aliæinnumloca.
Hexedris ,subdioalię,instadio,& platearumliberofpatio;alięinpluribus
fiebantlocis.Necsecusquædamerantcommunes exercitationes,pueris, senibus,&
iuuenibus, vteo carminenotaturà Martiale. tereolusuum genera,quorum (vt cætera rumrerum
viciffitudincs sunt) vix nomi. Iuuenum
1. De fatu. Præparat, aut nudis tipitisictushebes. Vara nec iniecto
ceromate brachia tendis, Folle decet pueros ludere, follesenes. Quædam
propriæ.Iunioresautlucta,autcursu,autfaltu,autpilaludicriss;Personarum 20
idgenusexercitijscepissentafsuescereinEphebęis.Quemplanèmoremre exercitatio- presentauit
Plautusin Bacchidibus, vbi in personam seuerisenisindicatpue-nes. Rosprimis vigintianniscum
Pedagogo in Palestramantè Solem exorientem veniffefolitos, d. Βαλανέα Romanorum
Puerorum Non harpaftamanu puluerulentarapis. Vidiffesigiturtum frequentem civitatem
,nonfecusatq; hodienossolemus Vite ratio facrasEcclefiasfestissolennibus, frequentare
Thermas. Alios quidem adho nestos, quos primo instituto proposuimus vitæ
conatus .Alios ad sanitatem Ther. tuendam . Et alios ad oblectamenta tam animi
,quàm corporis capienda, pro celebritate illa populi, pro variarum rerum, ac
ludorum spectaculis. Et d e n i que pro amænitate loci deliciosissimi: vnde barevéesidcirco
dictas græca voce Ibi cursu, luctando, hasta, disco, pugilatu, pila, Saliendo
se exercebant , magis q uam scorto, aut f a u i j s. Fortiori autemiuuentaiis dem
quidemexercebantur, velacrioribusetiáple runqueludis,halteribus,harpafto,& aliquandocęstu.Velarmorum
varijs g e n e ribus in Palestris. Vel in Hippodromis cursu equì, vel agitatu.
Athle - Caftus. t æ v e l s t a d i u m spectante populo de cusrrissent, vela c
r i pugilatu dimicassent, Halteres . cum
cęstibusplumbeis,acbaltheis implicatismanibus,quo grauiùs percu terent.
Alijsaltusimul et halteribus, item plumbeis globulis. Alijinsphę
risterijslusifsent pila, vel foliinplateis, vel Harpasto, pilamaxima.
Senio-Harpastum. resquidam, quorum erat ad sanitatem præcipuastudia,vtrecensuitGalenus,
ambulationeduntaxatantèbalneumcontentierant. Alijclaralectione, vel Senumexer
disputatione in Hemicyclis, velde clamatione oratoria, vel cantumusico. Alijcitationes.
modòvnovtebantur, modòalioperoccasionem, exercitij genere. Id circos. Defa. tu.
nec mirum septies quosdam aliquadielauari solitos, quod apud Plinium le gitur. Alexander
Seuerus, vt meminit
Lampridiuspostlectionemoperam Palęftræ, aut Sphæristerio, aut cursui,aut
luctaminibus mollioribus dabat, m o x venieba t in balneum. Aliis supplebant
diurni operris labores, quia d r e Operari j. creandum lassatum viriumr
oburvsuriessent balneo. Cæterùm lenis exercitationis modus erat ambulatio,quam Senes,
& Virigraues,& imbecilles potiffimùmobibant. Dignioradlaudem ,acdisciplinam,eratexercitatioin
Palestris & armiseorum, quirobustisess entviribus. Etquam oriquazíar, hoc
2. Desa.cu. est vmbra t i l e m pugnam, vt interpretatur Gellius, Græci
appellant, divodepce T e u Tirl , ob salubritatem a gymnasticis dictam,Galeno
teste. Innumera præ Рp nomina adposterasætatestransiêre.Necnostræprofessionisestexercitatio
Nostrisecunum singulosmodos,aut genera:quibusiliveteresvterentur, recensê.
livita dif ferensaban tiquis. re, quam partemà Hieronymo Mercuriali, Medico atque
Philosopho scientissimo elucubratam, propediem in luce meditam videbimus.Verùm
exco rum exercitiorum censu, quem fecimus, hanc præcipuam habebimus vtili
tatem, considerantes quàm longè differathic præsens nostri seculi viuendi
modus,& maximèPrincipum,necopportuno pofteros destituemusconfi lio. Sanèvbiillorumtemporum
vitaaffiduisdeditaeratexercitijs,vtpote 10 quæ & fanitatem
conseruarent,& promptiores redderentviresad singula, tàm animi, quam
corporis munera o b e unda; è contra hodie in continuo ocio degitur. Età
Principibus maximè, quiob decorum, ac ampliffimi ordinis maiestatem , semotam à
communi consuetudine degentes vitam ;aut curis animi grauibus iugiter tenentur.
Aut siad ludicra aliqui tranfire foleant, ea Exercitianoinertiasunt, tabellæ, alex,
vel Trochinouus modus hàc illuc supermensam stritemporisagitati: inquovitægeneretandemobdefidiain,&
anxietatem,totam breui inertia, cursu vitædeficiant. Quapropter generalisfimum
hoc ac saluberrimum sibi 20 Exercitijnequisqueproponeredebet
institutum,exercitiumnecessariumessead susten cesitas ad vitationem vitæ:
inquire omnes sapientes, variorum quenationum ritussum moconsensu conueniunt. Verùin
quoniam hoc tempore non solùm pluri maveterum exercitiorum generanon funtinvsu,
imòvelipsorum nomina (ut diximus) sunt obscura; necadeoilisvtiessetpoffibile,quinec
Palestras habemus,necThermas,proptereàingratiamnoftrorunPrincipum,aliquot
particularium exercitationumgeneraproponemusexGaleno, atq;alijsan
tiquisauthoribus, quarum multas si non in campis et plateisobirepoterit;
licebitfaltem et incameris et inatrijs,acviridarijsfuis,seruataetiainperso
nægrauitate,percommodèexerceri.Exercitationum (inquitGalenus)com
Exercitatio-pluresdifferentiæinueniuntur. Aliærobustæsunt, & violentę, fiuevehemen
num dife-tes; aliæmediocres,&lenes. Aliæ singulares, aliæcumalio fiunt. Etaliæ
rētiæex Gavni uersas simul corporis exercent partes, aliæ vnam magis,&
aliæalteram . le.2.desan.Vehemens exercitatiodicitur,quę& robusta,&
celerissit:atquehæcmul tergrauequoduistelum iaculari,&
continuatisia&tibusoneremaximo subla tame, pervertere temperaturam
coguntur. Vnde non m i r u m est, q u i p r æ p r o p e r a m
accelerentsenectam , incurrantque facileautinmorbosrenales,autinpoda
gram,autinHemicraniam,aliosqueidgenus affectus,medioquevelutiin fum tuen to,
tash abet differentias. Quædam enim fiuntocylimèagitatis, quædamrobore, acnixu,
quædamfinehis, quædam cum roborepariter & celeritate ,& quæ
Exercitatio-damlente.Fodererobustaest,& singularis exercitatio,remigare,discum
nugenera. mittere,mouericeleriter,saltare;idquefineintermissionemaximè. Simili
et ac clivis ambulare.Grauiarmaturatectumceleriteragitari.Continua
tusdiucursus.Et iterfacere.Perfunem manibus apprehensum scandere, modo in
Palestris quo solitum erat puerosexerceri.Velèfune,velperticama nuapprehensa sublimenpendere,acdiutenere.Manibusinpugnum
redu: &tis, iisdemqueprolatis, velinaltumsublatis. Halteribus,feuglobisplus
minusgrauibusleorsumpositis,vtraqueseinflectensmanu attollere.Quæ robustior
erit exercitatio, si qui ad sinistram manum fuerit dextrâ coneturat tollere, &
sinistrà qui ad dexteram. Diuq;,acsępiusidentidem facere.Potest &
foliscruribuserectusacvnolococõsistensceleriterexerceri, modò retrora suminsiliens,
modóinanterioravicifsim crurumvtrunquereferens.Solus fimiliterexerceriest,summispedibusingredi,tensasqueinsublimemanus,
hancantrorsum, illamretrorsumcelerrimèmouere.Sehumi celeritercir cumuoluere, velsolum,velcumalijs.Cum
alijsverò& citràrobur, & violen tiammultæexercitationesperaguntur.
Vtcursusadmetam constitutam.Vel vibratilisar morum meditatio. Summisinuicem
manibusconcertare.Co nes cú alijs. ryco,& paruapilaludere. Stare, nec
finereseloco dimoueri;quo exercitij genereMilo
Crotoniatescelebratur.Velseerectum ,& circumactum
10astantemmutare.Complecti quempiam manibus,digitisquepectinatimiun ctis,isque
diuellere seadnitens. Medium appræhendere ,ac sublatum ceù
magnumonusprotendere,&reducere. Luctaytriusqueluctatorisrobur
maximèvtipoteruntSeniores,& quiadmotumsuntimbecilles. Ambula .Vltimò Fri
&tiones suppleant. His omnibus ex ercitationum generibus ,imòinfinitis
alijs (vtGalenusinquit)docebant Pædotribæexercendumesse:& velinPa læstris, velextrà,
velinaltopuluere, velconculcato, & firmosolo, & omni noantèbalneum. Quibus
& nosiuxtàpræsentemviuendimodum,siuepro præparatione, fiquis velit ad balneum,feusinebalneo,vtpleriquehodiefa
tecdicere,quæ situborealifrigidas,acpurasstatimàfontibusadmittebat
aquas.EratenimNatatio (vtidiximus) separataà partibus balnearum: citationes, le
cimus , percommodè vtipoterimus. Sed de exercitationum emolumentis 40 alio loco
occurretdicere: nunc ad describendas balnearum partesin Thermis redibimụs, acaliaineisrequisitaexplicabimus.
De Natatione. Ne i principes autemThermarum partes, primùm de Natatione opor
Cap. vii . Рp ij nimi. Exercitatio. prope rium mem brorum .exercet. Luctaricum
roboreest, ambobus cruribus alter alteriu scrus com plecti, minibus intersesecollatis,
& collo. Manua lteratanquamfunecol
loalteriusiniecta,ipsumqueretrorsumtrahere, acreuellere.Pectoribusex aduers o i
n n i x i, magn o se co n a t u i n uicem retrudere. Ad singulares po r r ò
universalis, attinet electionem , qua parte corporis quis vtivelit, aut
indigeat exerci- particula tatione . Aliæ enim vniuersas simul exercent
corporis partes;quo nomine ludusparuæpilæàGalenoprætercæteracommendatur. Aliæ
vnam magis, aliæalteram exercentpartem, lumbos, crura,brachia,
spinam,pulmonē, Deparuepi thoracem . Itatio, cursusquecrurum exercitationes sunt.
Acrocorisini, hoclxludo. Est festiuæs altationes & Sciamachiæ, crurum, brachiorum
,& manuum pro pria. Lumborum autem, affiduèse inclinare,autpondusaliquod
àterra tollere,autassiduèmanibus sustinere, Spinam transuersim exercet, atollere
(vt dictum est) alternatimhalteres. Thoracis vero et pulmonis suntpro priæ, maximæ
Respirationes. Cor. Celsus inter exercitationes imbecillisto lib.2. c.8. macho conferentes,claramcommendatlectionem
.Maximaveròvoxvocis quoque instrumentaomniapermouet, dilatatque:naturalemexcitatcalo-Clarale&tio.
rem, & quomagisfitafsidua, eomagisvniuersis corporis partibus communicatur,
vtinnostris concionatoribus experimur et in libro de voceà Gale noestproditum. Hoc
genere exercitationum per vocem, quælenessunt, Lenesexer Lufta. Etio,& amo
tioneetiam quimagis validi. Velequitationessufficiantur, gestationesquebulatio.
seucurru, seuproægrotantibusin Scimpodio,& Sellaportatili Cap. 18.
Nimirùmquia singularis eiuserat, acpropriusvsus, non tàm quidemadlaua
Varzac efttionem ,quàm ad exercitium. Eftenim Natare laboriosum, quòd itaiacta
quoddam e rerectèAristotelesinProbleumatibus,Natationem ,oblaborem,cursuico
parat , aquarum periculaexercerentur. Et Galenus testator de suo tempore, pue
1, Defa.tu,rosin aquis qumasina's Feudasfacere consueuiffe,idest, quòd prima
fiebantin of Pifcina, Piscina P u aquis pueritiæ rudimenta. Itaque præter Tyberis
commoditatem,propria adhuncritumlocaconstituta fuisseinvrbediximus,quæ
diuersisexplicata nominibusinuenimus, Natationes, Piscinas, Stagna, atque etiam
naumachias, Piscinædi&tæ, quòd & pisces hauddubiècontinerent,
nontamenad vsum piscium, nam ad hoc propriaerantviuaria,sed ad munditiam
seruanda aquarum ,& amoenitatem . Videturautem exercitatio numhuiusmodi
causa, primùm constituta fuiffe Piscina publica dieta sub cliuo Capitolino, ad
veniebat populus. Exca& piscinæaliquandofuntdictæparticularesNata
tiones,& labra lapidea, qualia Romæ videmus maxima, nec non portatilia, ac lignea
advsum etiam calidarum aquarum. Quod authoritate constatM. 08 Tullijad Q.Fratrem
desuisbalneis,Latiorem (inquit)piscinamvoluissem, vbiiactatabrachianonoffenderentur.
Hasà Galeno,acalijsGræcisautho x a n u p u s o ' n ga ribus, modò x o d u a k r
í z s a s, mod ò Bari i su p o e edicta s legimus. Parva autem Solia ,
Capesupulco peluesquequercus; quam differentiam planamfaciuot Galeni verba lib.7.
Mé πυελοι. Stagna. thodi, vbi ad ventriculis iccitatem curandam, quæ
Hecticamminetur, nata tioneminbalneo factam consulitivteīsnonumerisus, id eft in
piscinis natandocó stitutis, quàmivtotspixpsīsavenoīs. Memorantur porrò &
Neronis Stagna,vbi Amphitheatrumà Martiale poniturinprimis Epigrammatis d.
Hic,vbiconspicuivenerabilisAmphitheatri Erigitur moles Stagna Neronis erant .
Quod tamen stagnumnon plane constatanad natationis usum, anpro Nau stagno circumpofuit,
conseuiffe. Stagnihuiusin Vaticano Naumachiæno Navale Sta minememinit Egelippus
Græcus author, in D. Petri & Pauli martyrologijs. Cæterùm NaumachiapostNatationes&
balneas,altiorisfuitinstitutiquàm Naumachia adnatationem
,nec,nifipoftimperiaprincipuminuenta. Nempe inqua nautici certaminis fieret
spectaculum, vel ad disciplinam militarem , q u ò faci of Finis duplex liùsmilites
pericula Aluminum, vel naualis belli, cùın opus fuisset, possent Naumachię
euadere. Sic Polybius refert Romanos primo bello Punico, quod aduersus
Chartaginienses gesturierant, militessuosinnaualidisciplina exercuisse. Et
SuetoniusAugustumcúm effetcótrà Pompeiumiturus, inportuIulioapud Baias milites
in nauali exercitatione tota vna hieme detinuiffe. Vel erat N a u jucundunfpe
Etaculum. machiævsusaddelectationempopuli,vtcæteraspectacula.Pluraenimerãt q u
æ præberent animo delectationem :primò aluei magnitudo, ac Cyrci c u 1 vivarium . blica. Quam (ut Festus Pompeius est
author) & natatum et exercitationis caussas duo . rat, gnum . xercitium,
tismanibus, accruribusaffiduè, vniuerfæcorporis exercentur partes.Qua Et Oribasiuseaminteraliaexercitationum
generaadnumerat. Imò Natationis in vrbe fuitprimus ,acantiquissimus vsus ante
balnea :quando scilicet conftitutæ fuerunt exercitationes in Campo Martio,vbiiuuenes
(te ste Vegetio) puluerem, sudoremque
detergerent, simulatque a d o b e n n d a machiafuerità Nerone constitutum.Vsumtamen
vtrunquepræftarepote Neronis no- sicut& de altero eius nominis meminit
Tacitus,claufifle Neronem in m i n e stagna valle Vaticani spatium, in quo
equos regeret, apud q u e n e m u s , quod navali iusdam OZ
jusdamamplissimiforma,editaadcommoditatem tantiludi,inconspectu maximæciuitatis.
Deinde classisineam, etiammagnarumnauiumintrodu Etio, &
ludusipsecertaminis. Etdemum populicelebritas, & velipsaaqua r u m copia,
atque amænitas, m a r i s i n f t a r tranquillissimi. Et quæ apertis e u
ripistantamvimaquarun vnohaustureciperet,laxaretquefinitospectaculo.Martialis
inquo mouet admirationem aduenæ Martialis,dum sicadulatur Domitiano.locus. Cui lux
primas acrimunerisipsafuit. Ne tedecipiatratibus naualis Enyo (Paruamora est) dices,
hicmodò Pontuserat. Ex quo plane authoritate colligitur, in Cyrcotammarisquàm
terræcelebra In Cyrco rispectaculadebuisse: vbimodòterra (inquit) modòPontuserat.
Quod Naumachia. Cyrci MaximisitusconfirmatinterAuentinnm montem ,&
Palatinum de pressus,inquemGabiusæaquæriuus,quemMarianam
posteridixerunt,perGabiusaa petuòinfluit na. na aqua,vtFrontinuseftauthor, quæ
fapore,& crafficiemarinamaquam AugustiNa 2 0 æmulabatur, in q u a faciliùs
natat r, t e f t e q u o q u e Aristotele in Problemati - u m achia: sub colle
Hortulorum, ademiffarium aquæ Virginis. Authore Sueto Domitiani.
nio,quiasseritDomitianum circunstructoiuxtà Tyberinilacu (inter Cain pum Martium
scilicet& ipsum collem Hortulorum, vbi nunc iuxtà Sanctito pluresessentqui
exercerentur et quifrequentarent Thermas adca,quă Bal spectaculaquàm
quilauarentur.Eteodemtemporemagnahominum co-nearum.
piaexercebatur,&quivno,&quialioexercitiigenere. Atadbalneasin
trantiumcontinuaficbatsuccessio, nam cùm priores occupassentloca, reli qui (vt scribit
Vitruuius) circunstabant,dum lauarentur. Pleriquesani,ac robusti, poftquàm in
exercitijs incaluissent, nullisferè alijsvtebantur bal
neis(vtinfràmonftrabitur)nisinatatione.Quæ parsidcircoeratamplissi ma,&
exercitationibustamsubdialibus;quàm interniscommodissima. Ve lBalnearum
transiffentdunt axat ad balneas calidas, atqueillicoegrelliinsiliebantinfrigisitus.
dam. Summa ergo artificijin balneishæc fuissevidetur, vt in locoessentquả
commodo omnibus seseexercentibus;acmirandiplanè artificijministerijs totaquarum
,calidarum simul,& tepidarum ,quæcontinụèexsefunderen turin balneas. Pro
commoditate, ac ratione lauationum, erant omnes ad Рpij meri Et parvndafreti,
hic modò terrafuit. Non credis ?spectes dum laxent æquora Martem. ropriè verò ad
vsum naualis certaminis, duæ fuerunt certiffi-qua Maria
inæNaumachiæ.PriinaAugustitransTyberim,adductâobidineamAlfieti
Sylueftriædesapparentvestigia) naualespugnasineo, penè iustarum Claf fiume didisse.
Luxuosissimus Heliogabalus, euripis vino plenis, naumachia Heliogabali. exhibuisse.
Tradit Lampridius. Sed nuncad partes balnearum proprias accedamus . De partibus
balnearum, esde Milliariis vafisin Hyppocausto. BÀLNEARVM veròinThermisnoneamvidemuscopiam,
quamde BВ exercitationum locis iam diximus. Ex quo planè videtur, quod m u l n
u m pluralo Exercitatio Siquisades longis serus spectatoraboris, bus. Alteraverò
et magis celebris, fuit naumachia, quam Domitianidixi . mus Apodyteriú seu
Tepidarium . meridiem,vndefolissemperillustrarentur,acfouerenturaspectu. Nam
tó: taeafaciesanteriorerat distincta in duos ordines balnearum, vnusàdextris
Hypocausti,&alteràfiniftris. Etvterqueordo distinguebaturinquatuor Cameras,
conformes vtrinque, ac ita collocatas, vt ex una in aliam Etuplatearum
àsitumeridionaliproposuimus,progressuferèad media pla
eratceùvestibulumregaleApodyterium ,seu Tepidarium .Quem lo mirabilem, meritò alterum
noftræ ætatis Trimegistum dixerim. Hinc fini Hypocaustús tror sumn modicus introitus
in Hypocaustum. Sive (vt meliusdicam) super Hypocaustilocum
,quirotundaforma,cumopportunishincatquehincmē Cryptoportibris, nuncprimisNouæEcclesiæfacelisdicatuseft.Totaeniminfràmoles
res. Aftuaria. darum, aliæ frigidarum aquarum ductus, alię calorum æstuaria, aliægrandes
tores (vt vocabulo vtar Iure consulti) curam succédendi ignem habebant in
Thermis. Eratautem vnicum, teste etiam Vitruuio: collocatum tamenin
medio,vtcommuniseiusessetvsusvtrisquecaldarijs,exvnapartevirilibus, 30 exalteramuliebribus.Idqueperopportunaæstuaria,quierantmeatus
ab Hypocausto perpetui, vndecalores occulti in cameras caldariorumipsorum
penetrabant. Quod tetigit in primo Syluarum Papinius Statiusd.
Vbilanguidusignisinerrat dioplacet)æneatamenpatinasubiecta. Quorumidemeratnomencum
ca meris prædictis,vnum caldarium, alterum tepidarium, tertium frigidarių.
Legitur item Milliaria, a magna fortasse capacitate, quali plus millelibrarú
aquæ caperent.Quippeidgenusvasa, teste Vitruuio,maximi aheni inftar,
actestudinataadcircinum ,itaerantcollocata, utex tepidarioin caldarium quantum quæ
calidæ exisset, infueret, de frigidario in tepidarium adeundem modum. Atque
hinc planum artificium est, in quot a n t opere laborauimus, quomodo ad communeinvsumtantaaquarum
copia exvafisfuppedi tareturinbalneas. Quod restituoinlucem ex Seneca, quidum
adLucillum miradeliciaruminuentasuitemporisdetrectat,hocafferitobiter. Construiteam
, huiusædificij, concameratainuenitur,acdistinctaaddiuerfosvsus. Aliæ Fornacato.
Criptoporticus erant patentes ad refrigeria in magnis caloribus. Aliä сali 40
IO CUS . 20 cum laxum, & hilaremdescribit PliniusadApollinarem, hocest,amænum,
acmollisteporis, tùmsolaribusradijsàmeridie illustratum;tùm proximi Hypocausti
vapore laxum :vbi nimirùm ingressuri ad balneas exuebát vestes. Qux
quoniamprimaerat, acnobiliffima Thermarum pars,nobilissimietiá
numapparetartificij. Figura inquadrumoblonga,achemicyclisquaquefa
ciedistinctum,cum aditisvndiqueintercolumniorum ,columnisquesuper nætestudinisaltissimis,quætàmauthoris,quàmoperissummam
maiestate ostendunt. Vnde sapienter hæc pars , proposita est pro prima porticu
Ecclesiæà Michaele Angelo Bonaroto, quem pictura, sculptura et rchitectura
cloacæ vnde lauationes exonerarentur, & aliadenique Hypocaustum ,atq;
Lib.s.c.10 Hypocaustimembra.EratergoHypocaustum fornaxinferior,vbifornaca
Aedibus,& tenuemvoluunthypocaustavaporem. Vasariatria SuperHypocaustotriaerant
compositavasariaænea, velplumbea (ut Palla Mincepice Græcis hæc Mirsapíe, Latinis
(vt apud Catonem, Senecam, atque Palladium folitum aditus .Inmedio quidemerat Hypocaustum,
vtrinqueveròinversuris La conicum, deinde consequenter Calidarium,Frigidarium,&
tepidarium,vt planèsingula explicabimus. Principio contram Theatridium, quodinprospe
pateret solitumin ipsis milliarijs dracones, quæerant fistulatavasatubæ
instarære tenui, perdecliuemilliariocircundata,vtaquadum ados draconis con lis
canales occultos, q u o r u m aliquæ visæ sunt reliquię in eruendis ad nouam 2
0 ecclesiam m a c e r i j s: atque ex hinc aquas de duci s o l i t a s in N
atationes , i n F o n sicis organis n o n absimiles . Q u i a d firmitatem
quidem , ac robur faciebant Tubi etepi ipsis v a l ibus: simulatque artificio
ferès i m i l i q u o n o s hodie Romæ nymph e i s s t o m i a.
acviridarijsdamus velarcemusaquas,habebantfiftulasinfra parietes occul tas, q u
æ in cameras balnearum ,vbi opportunis locis essent epistomia, infun d e b a n
t aquas . Quod ex eodem Seneca non est dubium, d u m n i m i æ l a u t i t i æ
adscribit, quod continue aqua calida ex sefunderetur in balneas ,acrecens
semper, veluti ex calido fonte per cameras transcurreret. Et ex Galeno, vë iam
decamerarum dispositionibus dicemus. De Laconico, esde Solis Balnearum . RDINES
quidembalnearumin Thermisduosdiximus,vtrinque scilicetabhypocausto vnum
testeVitruuio,alterumvirilium,alte Balnea viri. rum muliebrium. Nam vtscribit Gelliuslib.io.cap.3.authoritateVar
ronis2.deAnalogia,Pudornon patiebaturvtrunquesexum simullauari,sed do liadoMu
aquarкт epis t o m i j s, fundebantur. Vbi nota h a r u m ductuum in Balneas
alterum arti 30fícium. Eranttubięne ierecti, tresàdextera et tresàsinistra milliarijs,
m u 40 glomerati specie plurieseundem ignemambiret, pertantumfueretspatij,vasis.
quantum acquirendocalorisatisesset. Quare triplex semper aqua invalis,
acinfinitæcopiæ, calida, tepida,frigida, nam successiuas vasexvase Caldarium
piebataquas.primum quidem,quod caldarium dicebatur,superprimavas.
hypocaustistraturacollocatum, tanquam omnium vasorumvalis, calfa tes, Dracones
i 10 са. Etasperdraconisinuo lucra fundebat aquas. Secundumsuperhoc erat
tepidarium, quod a primi vasis vaporibus modicè incalescebat. Tertium Fri-
Frigidariú. gidarium: vtpotequod frigidass tatimab emissario aquas capiebat et quan
tum subiecta vasa vacuabantur, tantum hoc nouarum aquarum infunde- batfinefine.
Emissarij verò huius obscura quoque ratio est. Nam vide-Emisariaa mus quidemad
Thermas ipsas propria aquarum Castella constituta: qualequarum· extatin Diocletianis
poft palestras orientali parte. Etin Antonianisàt ergo Theatridij admeridiein. Horum
tamen altitude nullibi excedit planiciem bal nearum. Nec vllus est modus, neque
artificij vllius vestigium, insummis Thermarum testudinibus, vndetam altè deduci
potuissent aquæ.Videturita que mihià proximisiliscaftelliscóstructosfuiffeinfràpauimentatotiusm
o Tepidarium lib.io.administris balnearijs veletiam iumento alligato, subleuatæ
aquæinsu ipsihypocausto piscinam infundebantur, quæs ponteposteàinsubie pernamn
rursusin Tepidarium ,& conse ĉtumFrigidariumcaderent,& exFrigidario ,
quenterinCaldarium ,velutidiximus. Vnde plenas emper vasa suis aquis
imumcalida, medium temperata, supremum frigida, quæ per fistulasencas hinc atque
hinc in quolibet vase compactas, versis ad vnum quenque actum Tympana Fistulę
aqua ac alias piscinas. Hinc, tanquam a communi fonte, per rotas ac tymparo t e
a c na, ac id genus alias machinas aquæ hau storias, quas describit Vitruuius
commoditas coniungi desiderabat. Quanquam in hisque post Varronis et post
Vitruvi j ętátem f a &t æ sunt , hæc distinctio non sit mihi ve risimili. Q
a n rum . liebria. do auctoritu exercitationum,ac lautitia
inThermis ,vix publicas potuisse virorum frequentiæ sufficere
videtur.Itaquepromiscuas potius ex eo tempo refuissereor,achonestismulieribussatisfecissepriuatas,velquasprincipes
Matronas constituisse iam scripsimus, Agrippinæ Neronis matris balneas, terke
inbal Olympiadis,atquealias. Cameræ in quoque ordine quaternæ, Laconicum,
Calidarium, Frigidarium et Tepidarium. Velternæ adminus :hoc enim non
videturdubitandum ,non fuisseThermas vno stylo vbique ,nequevno ordinepartium
et tam in publicis quam in priuatis. Et hinc in authoribus Celsus. Tanta earum inuenitur
varietas. Quaternas point Celsus lib. 1. cap. 4. dum scribit, Sub veste primùm
paululumin Tepidario sudare folitos: tùmtranfi- Galenus. re ad Calidarium, vbi sudabatur
largiùs, quod ponitpro Laconico: tumque aut in calidamd efcendere,autinTepidam
;deinde in Frigidam. Easdem C.i72ero qua λουτρόν Pyriateriit. Hypocaustü point Galenus
lib.10. .Methodi, a Laconico incipiens: Primùm enim inquit ingredientis inaë reversantur
calido:hinc secundò in aquam Calidam defcé dunt,quod propriè aoutcovait appellari.
Ab hac mox in tertiam Frigida ibár: & tandem in quarta sudoren detergebant
, quod erat tepidarium, seu Apo dyterium græce dictum. Inquo&
Celsusdicit,fenouissimèquiselauissent abstergere,& vngereconsueuisse. Quem
planèordinem& inhis Thermis, quarum videmus vestigia, seruatum inuenimus. Extat
Laconicum adsuda tiones inquoqueprimæfacieiangulo vnum , idquenonadeomagnum
,hu- 200 iusenim partis noneratvsus communis, nequeadeo necessariusomnibus,
vtquibus fatis ad sudandum exercitiafeciffent. Sed imbecillis proprius et
quiminus validiadexercitia,sudoreshocloco excitabant:subindeintrabát
adcæterasbalneas. Nomen autemdeduxità Laconibus: quos huncritum rium, Laconicum
veròc ommuniter omnibus, & Ciceroni quodam loco ad Sphærifte- Atticum. Suetoniusin
Vespasiani Cæs. Vita Sphærifterium hanc partemap- 30 rium . pellat à figuræ
rotunditate. Locus quippe concameratus ac rotunda fpecie,
Lib.5.c.10.habens,authore Vitruuio, inhemisphæriolumen,exeoqueclypeumæneú
cathenispendens,percuiusreductiones,acdemissiones perficeretur Suda Clypeus Lationum
temperatura, vaporibusnimirùm ficretentis,veldifflatis. Erat autem huius institutiratio,
vtfcribit Dion in Annalibus, vtfus è intrantesinhac par vfus: t e sudaret et
sub i n d e unctione ad hibita, statim descenderent in frigida. Quod planè
clarius ex Galeno fiet pofteà, ac à Martiali obiter tangitur in Hetrusci
Thermis, ad Oppianuin tribus versibus. tepidum tamen aquarum vaporem potuisse suscipere.
Proinde Celsusineo, affus dixit sudationes lib.z. cap.27. alibi exiccari dixit corpora:
Seneca exani tos .primò instituise,
Plutarchusin Alcybiadis Lacedemonijvitaeftteftis. Græ Calidarium. cialiquando
Ilupice Supo's,& nonnullisuTorw50sdictum,ob igneum ineova Sudatorium.porem
:Latinis modo Calidarium ,inodò Cella calidaria,Senecæ Sudato Laconici coni,
ncis. mari, ritus si placeant tibi Laconum Contentus potes arido vapore
CrudaVirgine, Martiaquemergi. Vaporíqua Virginem dixit, &
MartiaminhisbalneisRomanasaquas,blandissimifrigo litas in Laco ris. Videtur
autem Laconici aërem ,siccum quidem fuisse, atque igneum, Bico. Galenus &
alijmediciinterdum elixari, Oribafius planè aëreferuidu dixit , ac præhumidum i
n Laconico . Quod rationi consonum sit. Nam ex æstuarijs, partim quidem siccis,
ex quibusiaindiximusabhypocaustooccul 10 su tenui calore, diceba t Galenus x . Methodi,
reservatis vniquem eatibus, liquatisque per totum corpus superfluis ,sudores, vtilesquemadores
clicere, quæ inęqualias untęquare, cutimlaxare et multa quæsubhac detenta
erant, vacuare. Ex Laconico patet aditus i n Calidarium, quod proprie Calidum So
aoutpór, hocestlauacruindicitur, eodemteste,& calidum Solium. Patetau-lium.
tem hæc pars,duplex magnitudine ad cęteras cameras :vt cuius in balreis maior erat
necessitas, longior in e o f i ebat mora, ac usus frequentior, præsertim
minusvalidis ac imbecillis. Vbi meminisse oportetex Celli verbis, quæ pau Halat
& immodicosextaNeronecalet. Mox tertiolocoeratFrigidarium
,seuFrigidumSoliuminquo aquaexquisi. acviresdensatacutifirmarentur. Qui enim, subdit,hoc
modo àcalidislaua- Vlus. tionibus, sudationibus que laconicis ftatim in frigidam
non descendissent, Paulo post transpirato immoderatius calido innato,totum corpus
frigidius euafiffesentiebant.Quodfanèfrigidælauatiofieriprohibebat,totum semel
corpusconftringendo,&constipando,nonsecusatqueaccideresoletcalen tiferro,quod
quùm infrigidammittitur, & refrigeratur,& induratur. Atque huius rei
causa potissimum constatinuenta fuisse balna, pro imbecilliu vm i
delicetcorporumrobore: hoceftvtimbecilla corporapræcalfacerent, itaque ad frigidum
Soliumpræpararent. Adeoquepræualuitsemperfrigidarũvsus,Frigidarum 40vtvixquidam
alijsbalneis vterentur. Carmis Maffiliensis Medicus, etate Neronis prerogativa,
scribit Plinius lib. 29. cap. 1. damnatis prioribus Medicis, ac balneis,
frigidalauarihybernis etiam algoribuspersuasit. Merficęgrosin Lacus.Vide
bamussenes consularesin ostentationem vsquerigentes. Ex frigido tandem Solio erat
exitus in Tepidarium, tepidiscilicetaëris,q uod diximus apodyterium, sive spoliatorium.
Etcratfinisinbalnco.Ancè Tepidarium tamen Cella olearia in Diocletianis commodè
est ut videtur Cella Olearia, eademque Tonstrinæ na. tôs penetrare ignes
in cameras, partim aqueis per suostubos ac spiracula, v a pores misti ad hemisperium
Laconicipetentes,sub curuatura magni clypei intenuiffimasconuertebanturaspergines,quæimbrium
modò super capita Facultates. corum ,qui morabantur in Laconico depluebant.
Potest autem hæc prima pars lo ante retulimus ,vel in calidam fieridescensum ,
vel in tepidam , & quali ad uno, tenore vtentis arbitrium potuisse
temperari. Et Galenus in 3. de an, t u e
n d a idem videtur asserere, nimirùmquòd in Calido Solioaqua, exvafisquæ
diximus Miliariorum calidis, tepidis ,ac frigidis, poteratadvsum trifariam
tèfrigida, ad hunc videlicet vsu minquit Galenusx.Methodi;vtquæ fuerantFrigidum.So
fòexcalfacta fiue'in lium., anterioribus Solijs, fiucin exercitijs, hicrefrigerarentur,
An balnea calida . fieri, tepidam, aciusto calidiorem. Quam tamenva ri, nempè
temperatam lauationibus, sed in priuatis,vel non videopotuissefieriinpublicis
rietatem , parabatur à Balneatore aqua advsum pu adpriuatosvsus. Nam in Thermis
compara LO Aeftiuo serues vbi piscem tempore quæris. fortas selocus,vbinimirùmoleaseruarentur,atquevnguenta
do Tonstri ,aliique odo blicum,vnotenorecalidaomnibus. Quod declarant authoritates
scripto-frigidæ, alia rum, quialias Thermas appellant frigidas, alias blandas, alias
fervidas. Vei frigidas significauit Martialisinprimo Epigrammatum. In Thermisferua
Cecilianetuis. Idem inx. Neronianas indicat fuisse calidiffimas, eo epigrammate.
Temperat hæc Termas nimios priorhoravapores res cal d a Therme alię
resad opportunosvsus,& quivellentbarbæ,& capillorum
cultuivacarent. Unetiones in Eratautem hæc pars vn ade necessarijs,
acessentialibus (ut ita loquuntur) in Thermis, toto ritu Thermarum, quandohiçmoseratcommunissimus,vtquisque
lo tus,simplicis faltem oleivnctionevteretur,tùmvtsudoresinhiberet,tùm
vtfeabextrinsecùsambientisiniuriavendicarepofset. Hunc enim tenorem in omnibus
ferè,quę hùc sparsim adductæ sunt,authoritatibus obseruabis :
primùmlegiturexercitium,deindebalneum,vbifrictiofiebat,& detersio,
inoxstatim frigidæ lauatio, pofteavnctio,posteacibus& potus,vltimòso mnus.
Proinderecolome legissepluriesinvitisPrincipum, ficuti ntermu..10 Oleimunus
nerapublica erat Congiarium,erat Recta, erat Sportula,itaoleum aliquan
publicum. do publicè donatum , quoin communi velutigaudio,quisque frueretur in
balneis.Nimirùm vel Thermiscùmprimùmdicatis,velfaftualiquoPrinci pis.vnctionum
verò,quasquisquesibipriuatimdeferebatadbalneum,luxus legiturinestimabilis.Quidelicatèviuerent,velimbecilles,odoratisvnguen
Balnea con - t i s r e f o u e bant spiritus. Quosdam legimus iu f f i s s e s
p a r g i p a r i e t e s unguento. spersa vn-Vtfimul (equidem puto) &
lauarentur, proiectisinalueositaimbutosaquis ipfis, & vngerentur, fic penetrante
exactiùs vnguento, & odorem, virtu temquesuam diutiusseruante in corpore. Atqueita
Caium Principemsoli tum lauari, testisest Suetonius. Scribit Lampridius
Heliogabalum nunquá inPiscinislauarisolitum,nisiillæcroco, aliisúepreciosisvnguentisperfusæ
fuissent. Velplanè conspersiseo modoadluxum parietibus vtebantur,vedu quis se
parieti confricaret ( quod aliqui facere folebant, vt apud Spartianum in Hadrianoleginus)sineministris,acetiam
proprijsmanibusperungilice Balneton ret. Neroautem profusissimus non folùm calidis
balneass pargebatodorib. guentipre-sed& frigidis quoque vnguentislauabatur,
fcribitPlinius.'Recensenturau ciosi. tem hoc in generepræciolamulta,quæ (Galeno
teste) Romanorum lauritia Olea, etvn- inueniffevidetur: vt Mendelium, Cyprinum,
Narcissinum, Susinum, M e guenta pre- galium factum ex balsamo, Regale apud
Reges Parthos primò comparatum . ciofa. Nardinumquoque,quod&
Foliatumdicebatur,Plinio:& alterum Spicatú,
QuodidemNardipisticæpræciosivnguentum legiturinEuangelio.Etitem30 Iasminum
oleum ,quododoriscaufla(vtteftiseftDioscorides)non inbal
neissolùm,verumetiaminterepulandum apud Persas,vsurpari consueue. Unguenta in r
a t . Dono , e q u i d e m o p i n o r, et in Xenijs. Quem morem d i u Spartanos
, at conuiuijs. Quelonasretin uiffe narrat Valerius quę, Plinio teste, Diapasmata,quasi
conspersoria dixeris, Cyprini pulueris
instar,quohodievtimurodoratissimi;dequoebriam,putidamq;Felceniam illuditMartialis
in primo Epigrammatum , eo carmine. Quid?quod oletgrauiusmiftumdiapasmatevirus?
Apodyterií Vt redeamus ergo ad cameras, Apodyteriumerat principium, &
finisinbal gues. 40 M a x.lib.2. vnguenti, coronarumq uein conuiuio dandarum,
secundismensis.Erat& Oenanthinuminter præciosa. Quorum similia aliqua apud Paul.
Aeginetam legimusvnguenta,atqueolea. Multaquei d genu salia apud Plinium
lib.13.inalabastrisferuarisolita:nunc omnia rarissima, aut que d a m sub dititi
a, vel adulterata, tantæ verò e a tempestate copiæ, vevsuscorum ad vulgares quoquede
fuxerit, quodserioarguit Iuuenalis . Moechis Foliataparantur. Diapasmara Ad
sudores autem propri c o hibendos, quæda
m ficcis constab n t odoribu , neo; eôdem nimirùm reuertentes, vbiantèbalnearum
vestimentacõsignal sent.Idemqueex Galeniverbisplanèintelligiturx.Methodi:hicenim
dum cunctarentur,actergerentur,corpusadhucpersudorem ,innoxiè,accitrà
refrigerationem vacuabatur,acinnaturalem redibatmediocritatem. Porrò vana
quorundam controuersia est, ponereAuicen.trescasas(itaenim interpretantur) in
balneo, easque long è aliter dispositas, quam diximus. C u i b i l. cnim dubium
non fuisse balneas vnost ylovbiquenequevno ordine? Defijf setamen pariterapud Arabes
hunc ritum, testator Auerroes in Canticis, acBalnearum nonmirùmimperfectastùmeoshabuiffebalneas,
Nequeinantiquiffimisanidemsły 10exempliseadistinctioquærendaeft: quando Hippocratisætatenon
adeori tè balneaparabantur, quod & ipseinnuit 3. De ratione victus in morbis
acutis. Neque in priuatis multo minus, quas Galenus aliquando perinde damnat, acincommodas,
Depensilibus balneis, ac balneariis rebus. Uenire potuirationem .Nam si Pensiles
balncas intellexeris sublime salueos, Pensile quid & quæ fu per solario locatæessent,
idmagnuninoneft: ficut & Hortospensi lesvidemus, atquehorrea, acmaiusopus, Thębas
Aegyptias pensiles fcribit Plinius. Audiuiqui id artificiumattribuant Laconico,
ècuiussuspensura lusvbique. ENSILIVM
veròbalnearum,celebreduntaxatnomenperuenitad nos , fuis se eas inter maiora
illius seculi blandimenta : cæterùm Cap. xi. n a m e a r u m fuerit ratio, non
facilè ex aut ho r i b u s colligitur. Ponit Valerius Max ,interluxuriæexemplalib.9.
CaiumSergium OratamPensiliabal quæ Auicenna neaprimum facereinstituiffe. Idquet
radit Plinius lib.9.cap: Pensilibal 54.L. Crafsi Ora- neurum inui
torisetate,parum anterempub.occupatam.Queminteraliasvoluptates,& torSergius
Ostrearum afferitinueniffe viuaria, nec tamgulæ causaa, quàm auaritiæ, vt Orata.
Quiitamangonizatas vendebat villas. Eadem testator Macrobius3. Saturna lium
cap.15. Porrò venisse eas in gratiam popularem planè oftendit Plinius
lib.26.cap.3.Asclepiadis NeronisMediciçtate:vrbe,inquit,imòveròtota
Italiaimperatrice,tum primùm vsu balnearum pensiliadinfinitumblandien te. Extat
& Annei Senecę censura ad Lucillum,dePensilibusbalneis:qua
vaporesconuersosintenuesaspergines,imbriummodo Aqua pensi supercapitacorum, lis.
q u i lauabantur, depluere diximu s. Vel quem ad modum Aqua Pensilis dicitur z
Fluvius p e n & Auuius Pensilis, ita id balneum Pensile fortasse intelligendum,
exquodi-filis. ximus (authore Seneca, atque Galeno) calidas perpetuò aquas, vel
quales quisquevellet & tepidas & frigidas, velut ex calido fonte depluere,
actran {currerepercameras. Verùm nihililliusblandimentivideoinhis,quam ob rem
populus eascum tanto applausu receperit, & quæ ad authorem adscri: bantur voluptuosiffimum.
Pensiles ergo balneę haud publici videntur fuisse vera balnea instituti, sed in
priuatis extitiffe. Vtquæ priuatum habuêre authorem , & pri-rum Pensi
uatamc aussam ,nempèinuentæaddelicias. Necvllumvestigium,nulladeliurnrutio. Hisin
Thermispublicismentiohabetur, Earumveròrationem, inquatanto.
perehesitaui,elicioexeodem Plinio, cuidererumantiquarummemoriapri ma
laussupercæterosscriptores,meritòtribuendaest.Pensileenim dicitur rum inqnit
suspensura inuentaest,vtnequid deesset adlautitiam. Hæc ha 3 benturde inuentione,
atquedelicijs Pensilium , quarum tamen non facilèin 40 P suspen
suspenfum,& mobile: qualesipfememinit lib. 19. cap. 5. Tyberij Cesaris
hortos Pensilesmiræ voluptatis,quoshaudquaquam ponitsupersolariolocatos,
sedsuspensos,& mobiles, quos(inquit)singulisdiebuspromouerentadso
lemrotisolitores. Quod idemclarainbalneis authoritate exposuit lib.26.
сар.3.dum Cleophantum Medicum commemorat, authore M. Varrone, alia quoque blandimenta ex cogitaffe,
iam (inquit )suspendendo lectulos, quo rum
iactatuautmorbosextenuaret,autsomnosalliceret. Iambalneasaui
disfimahominumcupiditateinstituendo:easdemscilicet,&suspensas,vtdi
xitlectulos.Quam fententiam confirmantquæmoxpaulòsubiunxitverba, quæ
allegauimus; Anxiam nimis fuisseAsclepiadis, & quorundam eum se."
quentium curan ,tum primùm Pensili balnearum vsu ad infinitum blandien te.
Easdem & balnearum suspensurasdixitSeneca. Et ValeriusMax.impen
faleuibusinitijscępta,suspensis calidæaquæ balneis. Vnde fiiam mente co
cipiasvidere hominem inbalneo Pensili,velęgritudine debilem,vel volu
ptuofævitæ,çuiusdulcitepore,acleniiactaræ,& nęnijs,& dulciconcentu
tibiarum,somno& quietiindulgeretur,iamnihilpoterisexcogitaresuauius.
Leftuli non Ex quibus intelligitur, neque lectulorum ritum in
publicisextitisse:sed ho erấtin Therrumquoq;, vtPensiliumbalnearum,priuataratioeffedebuit,maximèegris.
mis. Vtensilia in Neque particulariumquorundam vtensilium ,quorum in
balneisaliquando xandrinusPedagogij
lib.3.cap.5.consueuiffenobilesanteferreadbalneasva sainnumerabilia, aurea,atqueargentea,quorum
hęcquidem adlauandum, illa ad vescendum, alia ad propinandum. Quin etiam
carbonum craticulas, Syndones.
&cathedras.Syndonestergendosudoripræparatas,maximèægris,memi-.
nusfitpedesdenos,vtgradusinferiorindeauferat,& puluinusduospedes.
Labrainvr-Hactenus Vitruuius. Quare, vtarbitror, labraistalapidea,quæmultavide
bemarmo-muspervrbemmaxima, vicenos& ampliuspedeslongitudine, erantfortaf-40
s e i n priuatis balne s. Vel aliqua fort af f e in Thermis ad magnificentiam
potius operis, ac ornamentum, quàm advsum. Alioquia d publicum vsum nó
videolocum ,nequeadeofuiffevidenturcapaciapopulo. Pofteàvitroquæ dam extructafuiffeconftat.
Pauimentorumautem, ac Lythoftrotorum, quibus alveos, atque ipsas cameras a d o
r n a bant, luxus erat inæstimabilis. Quod certe inuentum Agrippæ tefte Plinio
lib. 36. cap. 25. In Thermis, inquit, quas Romæ fecit Agrippa, figlinum opus encaustopinxit,
in reliquis albarioador Sufpenfabal nea, Thermis . mentio fit, quæ pueris
voquisque domino ad balneum ante ferebant. Ut de strigili, quo sudore in detergebant;meminit
Persius eocarmineIronico. Strigiles Ipuer,& Strigiles Crispiniadbalneadefer.
Inęgristamen prostrigilibus,quierantvelofsei,velferrei,velargentei,spon
giavtebantur,Galeno testex.Metho. Idgenuserat& Guttus,quodLe
cythumquoquelegitur,inquoferuabanturoleuni,velaliavnguenta præ 20 30 rea, ciosa
ad balneum. Hydriæ, pelues, alabastri, aliaqueid genusvasa, exau
Vasaaurea.ro,argento, ferro, velinterdum lapidibusquibusdam. Refert Clemens Ale
Labra , nit Galenusx. Methodi. Labraautem ex Vitruuio,& vestigijsipsorumal
ueorum videntur fuiffe extructa in cameris signino opere , atque albario : sic
enimlegiturlib.5.cap.1o. Labrumsubluminefaciendum videtur, nestan tes circumsuisvmbriso
bscurentlucem. Scholasautem labrorumitafieri oportetspaciosas, vtcùm
prioresoccupauerintloca, circumspectantes reli quirectèftare poffint. Aluei autem
latitude inter parieten & pluteumnemi nauit. O nauit. Non dubi èvitreas
facturus cameras, fipriusi dinuentum fuisset. Libro
autem3.cap.12.visasolimscribitBalineasgemmis,acargentostraras,vtnevitres ca
vestigio quidem locus esset. Argento fæminas lauari solitas, argenteis folijs,
meræge m Afiaticori sum missem perin delicijs fuisse apud omnes nationes oftenditur,
hanc par mirans, hydrias, pelues, vnguentorum odores, & alabastros, cunctaauromaditißimg
20 lita, ac miro ornamento instructa; ad socios conuersus , & quasi nimiunı
il DeritibusantiquisinThermisvrbis. Primis ergoThermarum ,ac Palæstrarum
institutis,jam partium earum principalium distinctiones,necnon requisitaad
earum vsum magis necessaria tetigimus. De Ritibus verò in eis, atque ordine
publicaemolumentum, quoniam per hæc oblectamenta, assiduafiebatin gymnasijs frequentia,acvarijs,quasdiximuscorporisexercitationibus
af suefiebat iuuentusad armorum industriam ,vnde faciliùs posset militiæ labo
res,quando hæc erantprimailliusfeculiftudia, sustinere. Hûc accesserat&
alia causa, quoniam qui tepidescere quodammodo ab honeftis conatibus
cepiffent,perhas delicias retrahebaturà vitijsanimi, sicqueocium, quod
eftomnium malorum fomes, tollebantur, feditionesarcebantur, & omnes
populares corruptelæ. Ex quibus triainter communes ritus videnturesse
manifesta. Primùm si vetustam illam verecundiam, ac Romanum decusrespicias, summam
inThermishonestatemfuisseferuatam. Simaiestatempopu li,omnia ineis fuisse magnifica
& splendida, velutidiximus, & quæ nolentes allicerent, atque etiam
traherent. Sid enique communem causam. Communem, ac liberum earum vnicuique fuiffe
usum. Erat autem hæc balnea- Thermecó. Rum condition communissima, vt singuli balneum
ingressuri Quadrantem solmunes. Uerent balneatori. Quodplanèaliquæpræclarædeclarantauthoritates:
pri Quadrantis mùm M. Tullii pro Cælio, vbi quadrantariam vocat permutationem balnea
em concludam. Asiaticos durante suo imperio luxuofiflimos fuisse, acexeis
Thermalu A Fines, etvti &, probrisseruisse. Pauper fibiquisquevide
eandeinque materiam & cibis seexercentium,aclauationum,haudmirum
esthæcinstitutasempermaioré mis,acar litatesprin habuisseprogressum
;siconsideremus non folùm hincvitæ cip.ilesTher 30 seruare consueuiffe ,
fanitatem elegantiam eos , & roburcorporis;sedquod maius eftinre ز
gëtostratę. Baturacsordidus (scribit Seneca ad Lucillum) nisiparietes balnearūmagnis,
a c preciocis orbibus refulsissent. Alexandrina marmor a Numidicis crustis distincta,
operose vndique, & picturæmodo variataçircunlitio, Vitroconditæ cameræ. Aquainper
argenteaeffundebantepistomia, & adhuc (inquit) ple beiasfiftulasloquor. Relinquocum
hisstatuasillicęternitatidestinatas, operatectoria,picturas, speculariorumlapidumluxus,
quiantècameras præbe bantlumina, & columnarn mingentium numerum, alia quetantioperisor
namentasinefine. Atque hocvnotantùmPlutarchiexemplo,quobalneas primùm ad Gręcos,
& exindeadRomanos huncmorem balnearumema nafse,apud veterum
historiarummonumenta clarum est. Cùm ergo Alexa der Magnusdeuicto Dariorerumtandem
Persię, ac imperijeius potitusesset, balneumque, vt sudorem pugnæ leuaret, ingrederetur;
aquarum ductusad-Darij Ther ludens luxum, Hoccine (inquit) imperare erat. Torifieri
solitam . Indicat & cocarmine Horatius, folutio. 1. Saty.3. Qq dum
xuofiffima. Nuditas in Redde pilam ,sonatæs Thermarum ,luderepergis? Verecundi
ase nudum quisque in balneas exhibere ,& etiamin exercitationes. Cuiusreiinteraliafidem
faciuntstatuæ, præsertimvirotum,inqui bus videtur minuere potuisse corporis
gratiam, ac venustatem, si non pudenda etiam fimpliciterenudataessent.
Nonnullitameninterexercitationes,
autfuccinctafibulaprodiresolebant,autsubligaculis,quæ & subligariavo nihil
foluiffe videntur :teste Iuuenali Satir.2.d. Nec pueri credunt, nisiquinondum
ærelauantur. Quorum tamen priuatafieret lauatio, hora extraordinariaquæeratpoftde
cimā, ij pluri precio lauabant, quod indicate o carmine Martialis lib. 10.
Balneapostdecimanılafo, centumq; petuntur Quadrantes, &c. incommunitamen gaudio,
erataliquandohocmunus interalia Principum, ut gratis lavaretur. Antonini Pij exemplo,
quem balneum sinemercede prestitisse, meminitIul. Capitolinus. Sive ergo proveter
iinstituto, fiueproso Sub ligaculo cabant. AuthoreM.Tullio1.offi.Scenicorum
mostantamhabetveterisdi rumvfus. Sciplinæ verecundiam,vtinScenasinesubligaculoprodeatnemo.
40 Tecta tamen non hac ,qua debes partelauaris. .promi-Cæterùm cum
haclicentiabalnei,videturdiuadmodum perdurassemulie. Eal. Mulierum verecundiam,quænon
promiscuècumvirisintrarentinbalneas,nisi perabusum
.Hinctotpriuatarumbalnearumnumerus.Etquædam viden uerecunda. Subligar. E..
dum tuquadrante lauatum 14 .annum, Lauari. Cædere Syluano porcum, &
quadrantelauari. Pueri tamen antè Fibula . Bal Rexibis,&c. Vituperanseum Principem,quivtvnusdemultisqua
drāte lauaretur. Idem Iuuen.authoritate confirmatur in 6.ybi mulieres quas d a
m a r g u i t i m pudentiæ, q u æ c o m m uniter cum viris auderent, inquit ips
e, lutamercede,hocmanifestumest,commune,acperpetuum fuissein Ther Locai Thermis
indultum ,vtlocus inbalneo, cuicunque tam primati,quàm plebeio co mis commu
munis esset , atque indifferens . Ex quo intelligitur Tertulliani similitudo
nia. aduersusMarchionem, QUASI LOCVS IN BALNEIS: quiavidelicetnul li e x merito
datur, necto l l i t u r locus in balneis, iam gratuito constitutis, & T
intinnabu - ad usum publicum. Erant autem tintinnabula in Thermis summo quo p i
a m fasti g i o p o s i t a , fære factitio conflata, quorum s o n i t u populum,
sicut i h o d i e adfacra; conuocari lauandihoraeratsolitum.Tintinnabuluminter Xenias
exhibuit Martialis, eo disticho. Virgine visfolalotusabire domum? Facitadeandem
licentiam Suetonijauthoritas, D. Titum Cæs. admissaple Secum plebebenonnunquamin
Thermissuis lavisse. Et Aelij Spartianialia, Hadrianum
Cæs.tamprobatævitæ,publicèfrequenterselauiconsueuiffecum multis, verecundia
etiam priuatis . Inuafiffe enim consuetudo videtur,ex affiduis il
lisexercitijs, inbalneis.
vndefolutohabitu,acseminudiplerunquehominesdegebant,vtnonesset Idem affirmatquodamloco
Clemens Alexandrinus de athletis et martialis si pudor est, transfer subl igar in
faciem . 10 la. Reges lauif. invil. bres . uaret .d. Dum ludit media populospectantepalæstra
Delapsa est misero fibula verpus erat. Et lib.3. Chionemnotat verecundiæ, quæmuliebriainbalneis
contectala tur publicæ fuisse muliebres, ut Agrippinæ Augustæ Neronis
matris. Olym piadisitem balneæ in Suburra. EtquastransTyberim, quasiextràconspe
čtum hominum habuisse Ampelidem,& Priscilianam ex P.Victorerecensui mus. Conqueritur
hac de caussa insuis Amatorijs Propertiusnon eam esse tum Romanis virginibusin balneis
libertatem, quibuscum more Spartano publice liceretcertare, & lauari, hisversibus.
Sed magè virgine itot bona gymnasij. Quòd noninfamesexercetcorporelaudes
cepsbeneinstitutę Reip.lapsus) totossingulisdiebuslauaricepisse.Invniuer 20sum
, qui cunquein exercitijsfuis, autlaboribusdefatigatieffent,vixfanam vitam
putassent, nisibalneasstatimintrarent, vbisudoré,fordespulueremq; detergerent,acintotum
semolliaquarumfoturecrearent. Quoplanèfit,veSeptiesquos dam lauari.
mirumessenondebeat,nequeluxuiadscribendum,quodquidamsepties eadem dietum lauari
consueu erint, quod Plinius in primis refert. Ac posteri scriprores Commodum
Cęf. et Gordianum idasseruntfactitasse. Sicenim intelle
xêrequotienscunqueexercerentur,laffitudinisacrefrictionisvitarepericula,
obstructionestollere,cutis afperitateinlenire,faciei,manuum ,ac vniuersi
corporis decorem conciliare. Erant tamen lauandi horæ constitutæ . Scribit
Lauandiho I ul. Capitolinus antem Alexandri Severi tempora numquam Theri n a s
an t è a u 30 roram apertas fuisse, & semper antè solis occasum claudi
consueuiffe. Communiterv erò lauandihora erat a meridie ad vesperum, quando (inquit
Vitruvius lib. 5. cap. 10) maxime calidæ
auræ a spirare incipiunt. Cu i o m n e s a l i æ authoritates consentiunt . Hadrianus
Cęs. (inquit Aelius Spartianus) ante horam octauam inpublico neminem, nisiçgrum,
lauaripassus est: quod erat duashoras poftmeridiem .Vbi operæ præciumest Horarum
apudantiquosHorologiri rationemhabere,quidiemartificialem
quolibetannitemporedistinguebanttusapudan horisduodecim
,&no&tenipervigilias. Horæergoerantinęquales,maiorestiquos.
estate,quialongiorestuncdies;minoreshieme,& proportionecæteristem
poribus.Haud tamen intelligendumest cosà prandiovsosbalneis fuise: Prădijetcę
Nam communiter vir Romanus impransus, autientaculo tantùm primoma-navfus.
nerefectus,bonam dieipartemimpendissetnegocijs:mox àmeridie,àsexta nimirùm ad
decimam horam ,exercitijs & balneo ;à balneo autem ,circa vi
gesimamscilicet& secundamhoram ,cenabatopiparè.Quam dieiatqueho rarum
partitionemconquisitèin eo Martialis epigrammate comprehensam habemus.
Primasalutantes, atquealteracontinethora, Exercet raucos tertiacausidicos.
Martialis ma 10 CO, Multa tuæ Spartemiramur iura Palæstræ, Inter
luctantes n u d a puella viros . Refert Plutarc husinterlaudabiles
Catonisillius Cenforij mores,hocsum- verecundiă ma:laudiilicefliffe,
quodcùmfilionunquàmlauisset. Imò Val. Max. fcribitinterafines.
deinstitutisantiquis, necpatercum filiopubere, necsočercum generis lauabatur.
Quia interista fancta Vincula, non magis quàm in aliquo sacra tolo
nudaresenefasessecredebatur. Sedtranseamusiamadeosritus, qui com
inunivsuretinebanturin Thermis. Perinitiainstitutihuius,narratSenecaad
Lucillumconsueuifseveteresquotidiebrachia,& cruralauare, totosnundi
nisfolùm. Cæterùm poft Magni Pompei ętatē (cuiusmemoria notatur præ ra. Qa ij
Ad quintam variosextendit Roma labores, Sexta quieslafis,septimafiniserit.
Sufficitinnonam nitidisoctaua palæstris, Imperat extructos frangerenonatoros.
Hora libellorum decimaest Euphememeorum, Temperatambrosias cùm tuacuradapes.
Octavam verò dieihoram fuisselauationibus propriam ,tùm publica,tùm pri M.
Tullius, uata t e s t a n t u r exempla . M. Tullius scrib i t a d Atticum d e
Cesare: Ambulavit inquitinlittore,pofthoram octauamin balneum, vnctusest,
accubuit,edit, bibitq;opiparè. Horam & distinctionem temporum
aliquamadnotamusex Galenus, Galeno v.deSa.tuen.d. Antoninus Imp. cognomento
Pius, ad curam corporis promptifsimus, subbrumabreuibus, f.diebus, sole
Occidente in palestram ingressus, sub indeole operun & tus lauarierat solitus:
in Solstitio autemhora Thermehie-nona, autfummumdecima. Porrò quod legitur apud
aliquos authores,Ther males, eteftimasaliquasfuiseHiemales,
aliquasAestiuas;hæcnoneratcommunisom niumdistinctio,sedquarundam
àcertocoelisitu dispositio. QualesHiema lesfecissetraditVopiscusAurelianum Cæs .in
Transtyberina regione; nimi rum ad meridiem expositæ ,apertè solis fouebantur
aspectu, itaq; ad hie males exercitationes aptissimæ. A e quaratione A estivas
in Gordiano Iunior e meminitIul. Capitolinus, quæ in opaco fit uinter montem
Celium & Esqui Bal.vfuspe-lias,gratas estate exercitationibus præftabant
vmbras . Alioquî penes anni nesannitemtempora,vixvllaeratlauandidistinctio,sedbenèpersonarum.
Nam qui cun que lavaban t u r a d exercitium, in different e r t a m h i e m e,
quam estate lauissent, quandocunquescilicetexercerentur.Sanitatisverò&
mundicieicauf sa:quandocunque opusfuisset,velad priuatamcuique consuetudinem,
vt de Telep o Grammaticom e m i n i t Galen. v. de San . t u . qui lauari
consueverat hieme bis mense, estate quater,medijs verò temporibus ter. Et de
Primigene quodam philosopho, quiquadienonlauisset, febricitabatomnino. Adde
liciasautemacvoluptates,velme tacente, priuataquoqueratio essedebuit, 30
&citràvllamaut regulam, autmensuram. Vnde Meridianælauaționes le
Lychniinguntur, atqueetiam antemeridianę,& vespertinæ. Necnon Medicine introductio.
xi,trimixi,polymixi, idestangulorum &luminum ,vnius,duorum,trium, plurium,
Devrilitatibus Balnearum esquandoprimum Dalnceinvfum Medicinavenêre .
seruatur;nonaliam legimusfuiffeRome Medicinamsexcentisannis, quàm balnea. Quod
teftatur Pliniuslib. 29.cap.1.Receptos primùm èGræcia Medicos L.Aemilio,
M.Licinio Coff.vxxxv.VrbisRomæ anno. Quádoqui dempetrarierant, nisiquiob
cæliinclementiam crassarenturmorbi.Nam quæ exmalovitæregimine, acextermis
causiseuenirep.
Andrea Baccius. Andrea Bacci. Keywords: De thermis – thermal baths – philosophy
of thermal baths – implicatura ginnastica – le xii pietro pretiose – storia
naturale del vino, bacco – terme romane – il vino e la filosofia, bacco ed
Apollo, le xii pietre pretiose per ordine di dio I sardio II topatio III smeraldo
IV barconchio IV saphhiro VI diaspro VII lingurio VIII agata IX amethisto X
berillo XI chrisolito XII onice – tevere, le tibre au louvre, i vini.
Thermopolium romanum – illustrazione – incisione terme romanae – natatio –
piscina – ginnasio, mercurial, arte ginnastica. -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Bacci” – The Swimming-Pool Library.
Badaloni (Livorno). Filosofo. Grice: “I like Badaloni;
he never took the ROMAN story of philosophy – I say story since history, as
every Italian knows, is too pretentious! – seriously until he had to teach it!
“Storia del pensiero filosofico – l’antichita’ is my favourite – because he
does his best to understand Plato’s pragmatics of dialogue as misunderstood by
Cicero!” -- Nicola Badaloni, Sindaco di
Livorno Durata mandato19541966 PredecessoreFurio Diaz SuccessoreDino Raugi
Nicola Badaloni (detto Marco) (Livorno). filosofo. Di spiccate convinzioni
marxiste, è stato uno studioso di Giordano Bruno, Tommaso Campanella,
Giambattista Vico, Karl Marx, Antonio Gramsci.
All'attività di ricerca e di docenza presso l'Pisa, dove è stato Preside
della Facoltà di Lettere e Filosofia e ha occupato dal 1966 e per molti lustri
la cattedra di Storia della filosofia, Badaloni ha affiancato un'imponente
attività politica nelle file del movimento operaio, ricoprendo per molti anni
la carica di sindaco di Livorno (dal 1954 al 1966), di presidente dell'Istituto
Gramsci, nonché di membro del Comitato centrale del PCI. I suoi contributi
storiografici, salutati fin dall'esordio dall'apprezzamento di Benedetto Croce
hanno messo in luce autori considerati minori e pensatori inattuali (Niccolò
Franco, Gerolamo Fracastoro, Giovanni Battista Della Porta, Herbert di
Cherbury, Antonio Conti) rinnovando radicalmente, attraverso una collocazione nel
contesto storico, grandi figure viste dalla storiografia idealistica precedente
come immerse in una «solitudine metastorica».
Storicismo e filosofia Nella presentazione dell'ultima pubblicazione di
Badaloni nel 2005, Remo Bodei ha sostenuto che il marxismo, lontano da ogni
vulgata, conserva, per lo storico della filosofia toscano, la sua capacità di
strumento di comprensione del mondo, di erogatore di energie di cambiamento, di
guida per lo sviluppo di una prassi razionale, ancora validi dopo le esperienze
del cosiddetto "socialismo realizzato". Badaloni ha incessantemente
ricercato un legame, nella storia, tra pensiero e azione sociale e sviluppato
uno storicismo di impronta marxista che raccordasse autori lontani nel tempo
(come Giordano Bruno, Gian Battista Vico, Antonio Labriola), ma accomunati
dalla tensione al rinnovamento e alla trasformazione progressiva degli assetti
sociali in una data situazione storica determinata. Così come c'è alterità
profonda, ma non rottura senza legame, tra Hegel e Marx e similmente tra Croce
e Gramsci. Altre opere: “Retorica e
storicità in Vico” -- “Inquietudini e fermenti di libertà nel Rinascimento
italiano” (ETS, Pisa); “Appunti intorno alla fama del Bruno”; “Introduzione a
Giambattista Vico, Feltrinelli); “Marxismo come storicismo, Feltrinelli); “Tommaso
Campanella” (Feltrinelli, 'Istituto Poligrafico dello Stato); “Conti. Un abate
libero pensatore tra Newton e Voltaire” (Feltrinelli); “Il marxismo italiano
degli anni Sessanta” (Editori Riuniti); “Labriola politico e filosofo, sta in
Critica marxista, Roma); “Per il comunismo. Questioni di teoria, Einaudi); “Fermenti
di vita intellettuale a Napoli dal 1500 alla metà del 600, sta in Storia di Napoli, Società Editrice Storia di
Napoli); “Cultura e vita civile tra Riforma e Controriforma” (Laterza); “La
storia della cultura, sta in Storia d'Italia, III -(Dal primo Settecento
all'Unità), Einaudi); “Il marxismo di Gramsci. Dal mito alla ricomposizione
politica, Einaudi); “Libertà individuale e uomo collettivo in Gramsci, in
Politica e storia in Gramsci, F. Ferri,
1, Roma, Editori Riuniti-Istituto Gramsci); “Labriola, Croce e Gentile”
(Laterza); “Dialettica del capitale, Editori Riuniti); “Gramsci: la filosofia
della prassi, sta in Antonio Gramsci. La filosofia della prassi come
previsione, in Hobsbawm, E. H. , Storia del marxismo” (Torino, Einaudi); “Teoria
della società e dell'economia in A. Labriola, I e II, in Dimensioni”; Forme
della politica e teorie del cambiamento. Scritti e polemiche” (ETS); Movimento
operaio e lotta politica a Livorno”; “Democratici e socialisti in Livorno”
(Nuova Fortezza); “Filosofia della praxis, sta in Gramsci. Le sue idee nel nostro tempo,
Editrice l'Unità, 1987); “Labriola nella cultura europea dell'Ottocento,
Lacaita); “Il problema dell'immanenza nella filosofia politica di Antonio
Gramsci, Quaderni della Fondazione Istituto Gramsci Veneto, Venezia, Arsenale);
“Giordano Bruno. Tra cosmologia ed etica, De Donato); “Laici credenti all'alba
del moderno. La linea Herbert-Vico, Le Monnier-Mondadori); “Inquietudini e
fermenti di libertà nel Rinascimento italiano, Edizioni ETS, Pisa, 2005 Nicola
Badaloni è inoltre coautore di due importanti manuali: Storia della pedagogia, (Laterza); “Il
pensiero filosofico. Storia. Testi. Per le Scuole superiori” (Signorelli
Editore). Notizia della morte sul settimanale Macchianera, su macchianera. Giuliano Campioni, Addio a Nicola Badaloni,
uomo politico e maestro di filosofia, Athenet, n. 12, anno 2005. 16 agosto (archiviato dall'url originale l'11 settembre
)., nel sito del Sistema bibliotecario di ateneo, Pisa. La lezione di Nicola
Badaloni di Giuliano Campioni, professore del Dipartimento di Filosofia
dell'Pisa, 20 gennaio, , in Pisanotizie. Nicola Badaloni, in
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. PredecessoreSindaco di LivornoSuccessoreLivorno-Stemma.svg
Furio Diazdal 1954 al 1966Dino Raugi90637957 Filosofia Politica Politica Categorie: Politici italiani del XX
secoloPolitici italiani del XXI secoloFilosofi italiani del XX secoloFilosofi.
Nicola Badaloni. Keywords: la retorica di Vico. La storia di Vico, storia e
storicita, campanella, lingua utopica. Bruno, Campanella, Gentile, Croce,
Labriola, Gramsci. badaloni — implicatura vichiana —
libero — biologia filosofica telesio —
vallisneri — lingua utopica di campanella — “retorica e storicità” — laico —
bruno — comune — comunismo — marchetti — vignoli —Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Badaloni” – The Swimming-Pool Library.
Baglietto (Varazze). Filosofo. Grice: “I like Baglietto; unlike me, he
was a consceinious objector, but then we were fighting on different camps! I
love the fact that his first tract is on ‘il problema del linguaggio’ in
Mazzoni – but then he turned from ‘la bella lingua’ to Dutch! And specialized
in Kant, but most notably Heidegger – ‘mitsein und sprache.’ But he also wrote
on ‘eros’ and ‘love,’ – which is very Platonic of him! And of me, since the
ground for my theory of conversation is on the balance between what I call a
principle of conversational self-LOVE (or egoism, if you mustn’t) and a
corresponding principle of conversational OTHER-love (or altruism, if you must,
since I prefer tu-ism – ‘thou-ism’).” Claudio Baglietto (Varazze), filosofo. Di origini modeste, dopo gli studi liceali
presso il Liceo "Chiabrera"di Savona, studiò Filosofia all'Pisa e si
perfezionò presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, allora diretta da
Giovanni Gentile. Baglietto fu assistente del filosofo Armando Carlini. Negli
anni pisani sviluppò idee di riforma religiosa e morale, in contrapposizione al
Cattolicesimo e al Fascismo. Insieme ad Aldo Capitini, Baglietto organizzava
riunioni serali in una camera della Normale, cui partecipavano giovani
studenti, divenuti in seguito affermati intellettuali, come Walter Binni,
Giuseppe Dessì, Carlo Ragghianti, Claudio Varese. Così Capitini ricordava l'amico nel suo
saggio Antifascismo tra i giovani (Trapani, 1966): "era una mente limpida
e forte, un carattere disciplinato, uno studioso di prima qualità, una
coscienza sobria, pronta ad impegnarsi, con una forza razionale rara, con
un'evidentissima sanità spirituale. Cominciai a scambiare con lui idee di
riforma religiosa, egli era già staccato dal cattolicesimo, né era fascista. Su
due punti convenivamo facilmente perché ci eravamo diretti ad essi già in un
lavoro personale da anni: un teismo razionale di tipo spiccatamente etico e
kantiano; il metodo Gandhiano della noncollaborazione col male. Si aggiungeva,
strettamente conseguente, la posizione di antifascismo, che Baglietto venne
concretando meglio. Non tenemmo per noi queste idee, le scrivemmo facendo
circolare i dattiloscritti, cominciando quell'uso di diffondere pagine
dattilografate con idee di etica di politica, che continuò per tutto il periodo
clandestino, spesso unendo elenchi di libri da leggere, che fossero accessibili
e implicitamente antifascisti. Invitammo gli amici più vicini a conversazioni
periodiche in una camera della stessa Normale [...]". Ottenuta nel 1932 una borsa per perfezionarsi
presso l'Friburgo in Germania, dove allora insegnava Heidegger, in coerenza con
i suoi ideali di nonviolenza incompatibili col Fascismo, Baglietto decise di
non rientrare più in Italia e rinunciò alla borsa, cosa che scandalizza Gentile
(che aveva garantito per lui presso le autorità per il visto). Anche Delio
Cantimori criticò animatamente la scelta di Baglietto, in particolare nel suo
carteggio con Aldo Capitini e con Claudio Varese, accusando i colleghi
normalisti dissidenti dal Fascismo di mancanza di senso di realismo politico,
nonché di senso dello Stato (fu poi lo stesso Cantimori ad avvisare Gentile della
morte di Baglietto). Lasciata Friburgo,
Baglietto si trasfere quindi a Basilea, dove visse da esule, proseguendo gli studi
e dando lezioni private. Morì nel 1940:
è sepolto nel cimitero di Basilea. Il
cammino della filosofia tedesca dell'Ottocento, “Annali della Scuola Normale di
Pisa”, Scritti religiosi. Antifascismo tra i giovani, Celebres, Trapani); "Kant
e l'antifascismo" , in Claudio Fontanari e Maria Chiara Pievatolo ,
Bollettino italiano di filosofia politica, Pisa37, 1591-4305 (WC ACNP), 7181065539 (archiviato il 5 settembre ).
Ospitato su archiviomarini.sp.unipi. (Saggio inedito di Baglietto, composto a
Basilea e da anni depositato nell'Archivio Marini dell'Pisa) Note. A. Capitini,
L'antifascismo tra i giovani, Celebres, Trapani); Chiantera Stutte, Delio
Cantimori. Un intellettuale del Novecento, Carocci, Roma, che rinvia
soprattutto a Simoncelli, La Normale di Pisa. Tensioni e consenso; Franco
Angeli, Milano); Scritto pubblicato postumo Aldo Capitini. Aldo Capitini Mahatma Gandhi Nonviolenza Claudio Baglietto e la questione morale -- "Phenomology Lab", 2 giugno, .
Claudio Baglietto, Kant e l'antifascismo di Claudio Fontanari, nel sito "Archivio
Marini". Filosofia Università
Università Filosofo Professore1908 1940 Varazze Basilea Nonviolenza Antifascisti
italiani Studenti dell'Pisa. Claudio Baglietto. Keywords. baglietto
— il kantismo di heidegger — manzoni — filosofia dell’amore — dialettica — Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baglietto” – The
Swimming-Pool Library.
Baldini (Greve).
Filosofo. Grice: “I like Baldini, but more so does Austin! In his collection of
‘lessons’ (lezioni) on ‘filosofia del linguaggio’ (not just ‘sematnica’ or
‘semiotica’) for the distinguished Firenze-based publisher Nardini, he deals
with Austin, but not me!” Grice: “Baldini fails to realise that I refuted
Austdin – when Baldini opposes ‘filosofese,’ I am reminded of my non-conventional
non-conversational implicata – and Austin’s less happy idea of a felicity
condition for a perlocutionary effect!” Grice: “But what I like about Baldini
is that being Italian, he refers to ‘amore’ in his ‘natural’ history of
AMicizia – which is all that my conversational pragmatics is about: Achilles
and Ayax must share a lot of common ground to be able to play the game of
conversation, and they do!” -- Massimo Baldini (Greve in Chianti), filosofo. Si
è dedicato in particolare alla filosofia della scienza e alla filosofia del
linguaggio. Figlio dello storico Carlo Baldini, laureato in Pedagogia presso
l'Università degli Studi di Firenze nel 1969, nel 1970 è stato nominato
assistente incaricato di Filosofia; l'insegnamento era tenuto da Dario Antiseri)
presso la Facoltà di Magistero dell'Università degli Studi di Siena. Nel 1975 è
diventato professore incaricato di “Storia del pensiero scientifico” presso la
Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Perugia. Nel 1980
ha vinto il concorso di professore di prima fascia di “Filosofia del
linguaggio” ed è stato chiamato dall'Bari alla Facoltà di Lettere e Filosofia.
Ha insegnato anche presso l'Università degli Studi di Roma “La Sapienza” nella
Facoltà di Medicina. È stato direttore del Dipartimento di Filosofia e
dell'Istituto di Filosofia presso la Facoltà di Scienze della formazione
all'Università degli Studi di Perugia e direttore della sezione di Storia della
medicina del Dipartimento di Patologia presso l'Università degli Studi di Roma
“La Sapienza”. Nel 1999 è stato chiamato dalla Libera università
internazionale degli studi sociali Guido Carli di Roma per coprire la cattedra
di "Semiotica". Qui ha insegnato anche “Teoria e tecniche del
linguaggio giornalistico e radiotelevisivo” (dal 2004), “Semiotica dei
linguaggi specialistici” (che avrebbe dovuto iniziare nel 2009). Presso la
LUISS ha inoltre rivestito numerosi incarichi accademici: preside della Facoltà
di Scienze Politiche (da giugno 2007); coordinatore del corso di laurea
magistrale in “Comunicazione politica, economica e istituzionale” (dal 2004),
direttore della Scuola superiore di giornalismo (dal 2007) e direttore del
Master di primo livello in “Economia, gestione e marketing dei turismi e dei
beni culturali” (dal 2004). In precedenza, è stato vice preside della Facoltà
di Scienze Politiche (2000-2006), direttore del Dipartimento di Scienze
storiche e socio-politiche (2006-2007), direttore del Centro di ricerche sulla
comunicazione (2003-2007). Tre sono stati gli ambiti di ricerca che più
di altri Massimo Baldini ha coltivato: la filosofia della scienza (con una
particolare attenzione al pensiero dell'epistemologo Karl R. Popper, di cui ha
curato anche alcune opere in edizione italiana), la filosofia del linguaggio, la
semiotica della moda. A partire dagli anni Settanta, Massimo Baldini ha
dedicato numerosi lavori all'epistemologia contemporanea, cogliendone le
possibili applicazioni alla medicina, alla storia della scienza, alla pedagogia
e, infine, alla filosofia politica. Parallelamente, ha rivolto i suoi interessi
anche alla storia della scienza e, in particolare, alla storia della medicina.
Un'attenzione particolare è stata dedicata ai nessi che intercorrono tra
l'epistemologia e la filosofia della politica: sulla scorta delle riflessioni
popperiane, ha riletto il pensiero utopico sia nella sua dimensione storica che
in quella teorica. L'altro grande interesse filosofico di Massimo Baldini
è stata la filosofia del linguaggio. In particolare ha studiato le tesi dei semanticisti
generali, un movimento nato negli Stati Uniti tra le due guerre mondiali e di
cui si era occupato per primo in Italia negli anni Cinquanta Francesco Barone.
L'interesse per la filosofia del linguaggio si è declinato anche in chiave
storica: e alla storia della comunicazione Massimo Baldini ha dedicato numerose
opere. Inoltre, gli studi sulla filosofia del linguaggio si sono incentrati
sull'analisi di alcuni linguaggi specialistici: quello della pubblicità, quello
dei mistici, quello della pubblica amministrazione, quello dei giornalisti,
nonché il tema correlato del silenzio. Tutti questi linguaggi, sono stati
studiati nelle prospettive dell'oscurità e della chiarezza, e dell'oggettività
(soprattutto con riferimento al contesto dell'informazione). La
biblioteca comunale "Carlo e Massimo Baldini" di Greve in Chianti A
partire dalla fine degli anni Novanta, infine, gli interessi di Massimo Baldini
si sono incentrati sul tema della moda, che egli ha studiato dal punto di vista
storico e semiotico, e nelle diverse componenti della moda vestimentaria e
della moda capelli. Tutta l'attività di ricerca di Massimo Baldini è confluita
in numerose opere individuali e collettive, curatele, introduzioni e prefazioni
a testi italiani e stranieri, traduzioni, nonché nella collaborazione stabile
con alcune case editrici e riviste scientifiche. In particolare, presso
l'editore Armando (Roma) ha diretto le collane Temi del nostro tempo, I maestri
del liberalismo, Moda e mode, I linguaggi della comunicazione; presso l'editore
Rubbettino (Soveria Mannelli) la collana Biblioteca austriaca (con Dario
Antiseri, Lorenzo Infantino e Sergio Ricossa). Menzione a parte merita
poi il ricordare che Baldini è stato ed è rimasto nel corso dei decenni un
grande estimatore e diffusore dell'opera del concittadino grevigiano Domenico
Giuliotti, il "poeta-mistico" o "profeta" Giuliotti,
del quale il nostro ha riedito alcune delle sue maggiori opere per lo più per
conto delle edizioni Logos di Roma, oltre a dedicare al medesimo alcune raccolte
di saggi come "Il più santo dei ribelli. Scritti su Domenico
Giuliotti" (1981) oppure "Giuliotti. Cristiano controcorrente"
(ed. EMP, 1996), senza contare i volumetti preparati per conto della preziosa
casa editrice La Locusta di Vicenza, a partire dal 1977, in consonanza agli
interessi espressisi e sviluppatisi soprattutto a partire dagli anni ottanta,
quelli che afferivano ai connotati e alle 'modalità' del linguaggio dei
mistici, o alle relazioni intercorrenti fra le dimensioni del silenzio-parola-Parola
di Dio-ascolto. È stato altresì membro del Comitato Nazionale per la
Bioetica; membro del comitato scientifico delle riviste L'Arco di Giano, 'Nuova
civiltà delle macchine, Desk. Morì a causa di un infarto mentre si
trovava a cena con alcuni colleghi universitari. Nel per la casa editrice Rubbettino è uscito il
libro La responsabilità del filosofo. Studi in onore di Massimo Baldini Dario
Antiseri con saggi di amici, colleghi, collaboratori e studenti per ricordare
la figura intellettuale e morale di Massimo Baldini a quattro anni dalla
scomparsa. Partecipano all'antologia Tullio De Mauro e Derrick de Kerckhove. Il
primo maggio è stata inaugurata a Greve
in Chianti la Biblioteca comunale "Carlo e Massimo Baldini".
Sulla filosofia del linguaggio «È chiaro che devo preoccuparmi di essere inteso
da tutti perché penso che la chiarezza sia la cortesia del filosofo»
(José Ortega y Gasset, Cos'è la filosofia?) Secondo Baldini scopo del filosofo
e della sua filosofia è essere chiari: scrisse infatti «l'accusa che più
frequentemente viene rivolta alle opere dei filosofi è quella
dell'illegibilità». I filosofi come dimostra nel suo Contro il filosofese e nel
Elogio dell'oscurità e della chiarezza non seguono sempre questa missione ed in
alcuni casi sembra usino volutamente un linguaggio oscuro ed incomprensibile.
Tre dei filosofi più oscuri secondo Baldini, che ricalca in questo anche il
giudizio di Schopenhauer, sono stati Fichte, Hegel e Schelling. Parlando di
Hegel, Baldini riporta il giudizio di uno scritto di Alexandre Koyré che
definisce la lingua di Hegel "incomprensibile e intraducibile".
Citando inoltre il giudizio di Popper scrive: «Troppo spesso, secondo Popper, i
filosofi vengono meno alla virtù della chiarezza. Con l'oscurità sovente
mascherano le tautologie e le banalità che infiorettano i loro discorsi». Henri
Bergson cita l'esempio di Cartesio, di Nicolas Malebranche e di molti altri
filosofi francesi mostrando che idee molto raffinate e profonde possono essere
espresse nel linguaggio ordinario anziché con circonlocuzioni e ridondanze e
termini che sono causa di equivoci. Baldini afferma che «l'oscurità in
filosofia è, dunque, il modo migliore per fingere di spacciare pensieri, mentre
si sta solo spacciando parole, è una maschera che cela spesso il vuoto di
pensiero o la banalità dei pensieri». Nonostante tutto secondo Baldini, non
bisogna giudicare frettolosamente un filosofo, definendolo "oscuro",
a volte può essere una carenza della nostra conoscenza che ci porta a
respingere come vuoto suono, parole che invece, hanno il loro preciso
significato. Scrivere la filosofia in maniera chiara può avere le sue
difficoltà, Nietzsche infatti afferma che «ci vuole meno tempo ad imparare a
scrivere nobilmente che chiaramente» e Ludwig Wittgenstein che celebra a più
riprese la chiarezza, fa autocritica ammettendo in una sua lettera a Russell
che il suo Tractatus logico-philosophicus «è tremendamente oscuro». Quanti
celebrano la chiarezza in filosofia, sanno bene che ogni lettore di testi
filosofici deve fare proprio il consiglio che Wittgenstein dava a Bertrand
Russell, quando questi si lamentava con lui dell'oscurità del trattato, gli
scrisse: «Non credere che tutto ciò in cui tu sei capace di capire consista di
stupidaggini». Invece, un personaggio che volutamente, secondo Baldini, tendeva
a non farsi capire e a sopraffare linguisticamente («fra gli applausi di
ammirazione») i suoi ascoltatori, è stato Armando Verdiglione. Chi si
avventurava nelle sue opere, fa rilevare il filosofo, si imbatteva in frasi
tipo questa: «Sono tratto da un demone a dire, a fare, a scrivere sempre fra
oriente e occidente e fra nord e sud. Senza luogo della parola. Questo demone è
il colore del punto, dello specchio, dello sguardo, della voce: la moneta
stessa. Punto, sembiante, oggetto scientifico, è indotto dalla pulsione,
dall'instaurazione della domanda, dove l'offerta è il pleonasmo», ed ancora:
«Ecco questo primo rinascimento. Primo in quanto procede dal secondo, ovvero
dall'originario. Secondo dunque non in senso ordinale, non in nome del nome.
Non è neppure nuovo, perché non parte dalla corruzione per arrivare
all'utopia». "Oscuro superlinguaggio" e "gargarismi linguistici
e semantici" sono secondo Baldini il risultato della
"verdiglionite" ovvero di chi si muove "sui sentieri del
filosofese". Secondo Baldini quindi la difficoltà di esprimere alcuni
profondi pensieri filosofici non dovrebbe essere amplificata, è vero che ci
sono pensieri filosofici difficili da esprimere in modo semplice, ma è pur vero
che il filosofo che desidera trasmettere la propria filosofia, dovrebbe fare un
onesto sforzo affinché essa sia quanto più possibile comprensibile al proprio
uditorio. Note Sociologi: è morto
Massimo Baldini, semiologo e filosofo, Adnkronos, 11 dicembre 2008 Contro il filosofeseI filosofi e l'abuso
delle parolepag. 43-49 Contro il
filosofeseFichte, Schelling, ed Hegel: i professionisti dell'oscuritàpag.
50-56 Alexandre Koyré, Note sulla lingua
e la terminologia hegeliana, Interpretazioni hegeliane, La Nuova Italia, Firenze
1980, pag.43 Bertrand Russel.
L'autobiografia 1914-1944, Longanesi, Milano 1969, II, pag. 208 (la lettera è
datata 12 giugno 1919) Armando
Verdiglione, Manifesto del secondo rinascimento, Rizzoli, Milano 198323. Altre
opere: “Epistemologia e storia della scienza” (Ed. Città di vita, Firenze);
“Campanella ed il linguaggio dell’utopia” – “Utopia e ideologia: una rilettura
epistemologica” Ed. Studium, Roma); “Epistemologia contemporanea e clinica
medica” (Ed. Città di vita, Firenze); “Teoria e storia della scienza” (Armando
Editore, Roma); “I fondamenti epistemologici dell'educazione scientifica”
(Armando Editore, Roma); “La semantica generale” (Ed. Città nuova, Roma); “Gli
scienziati ipocriti sinceri: metodologia e storia della scienza” (Armando
Editore, Roma); “La tirannia e il potere delle parole: saggi sulla semantica
generale” (Armando Editore, Roma); “Congetture sull'epistemologia e sulla
storia della scienza” (Armando Editore, Roma); “Epistemologia e pedagogia
dell'errore” (Ed. La Scuola, Brescia); “Il linguaggio dei mistici” (Ed.Queriniana,
Brescia); “Il linguaggio della pubblicità” “La fantaparola” (Armando Editore,
Roma); “Educare all'ascolto, Ed. La Scuola, Brescia); “Parlar chiaro, parlar
oscuro” (Ed. Laterza, Roma Bari); “Lezioni di filosofia del linguaggio” (Ed.
Nardini, Firenze); “Antologia filosofica, Ed. La Scuola, Brescia); “Contro il
filosofese” (Ed. Laterza, Roma-Bari); “Storia della comunicazione, Newton &
Compton, Roma); “La storia delle utopie, Armando Editore, Roma); “Il proverbi
italiano” (Newton & Compton editori s.r.l., Milano); “Karl Popper e
Sherlock Holmes: l'epistemologo, il detective, il medico, lo storico e lo
scienziato” (Armando Editore, Roma); “La medicina: gli uomini e le teorie, Ed.
CLUEB, Bologna); “Il liberalismo, Dio e il mercato” (Armando Editore, Roma);
“L’amicizia” (Armando Editore, Roma); “Introduzione a Karl R. Popper, Armando
Editore, Roma); “Capelli: moda, seduzione, simbologia” (Ed. Peliti, Roma); “Popper
e Benetton: epistemologia per gli imprenditori e gli economisti” (Armando
Editore, Roma); “Elogio dell'oscurità e della chiarezza, LUISS University Press
e Armando Editore, Roma); “Elogio del silenzio e della parola: i filosofi, i
mistici, i poeti, Rubettino Editore, Soveria Mannelli); “I filosofi, le bionde
e le rosse, Armando Editore, Roma); “L'invenzione della moda: le teorie, gli
stilisti, la storia. Armando Editore, Roma); “L'arte della coiffure: i
parrucchieri, la moda e i pittori, Armando Editore, Roma); Popper, Ottone,
Scalfari, LUISS University Press, Roma 2009. Altri progetti Collabora a
Wikiquote Citazionio su Massimo Baldini
Scheda dell'Università LUISS, su docenti.luiss. Filosofia Filosofo del
XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloAccademici italiani del XX
secoloAccademici italiani Professore1947 2008 18 giugno 10 dicembre Greve in
Chianti RomaProfessori della Libera università internazionale degli studi
sociali Guido CarliProfessori della SapienzaRomaProfessori dell'Università
degli Studi di PerugiaProfessori dell'Università degli Studi di SienaProfessori
dell'BariStudenti dell'Università degli Studi di Firenze. In questo
contributo intendo concentrarmi su alcuni aspetti della teoria aristotelica
dell’amicizia: il metodo di indagine attraverso cui è articolata e acquisita, e
il suo significato dialettico e teorico. Il processo conoscitivo, per
Aristotele, è una transizione da ciò che è “primo per noi” a ciò che è “primo
per sé”[1], e l’indagine sull’amicizia non fa eccezione. Il “primo per noi” contempla
la nostra esperienza della cosa intesa in senso ampio, tale da includere: le
prassi linguistiche e ascrittive diffuse[2], le opinioni notevoli (ἔνδοξα)
condivise da tutti o dai più o dai sapienti o da alcuni di essi[3], i topoi o
luoghi comuni consegnati dalla tradizione, i fenomeni intesi come “fatti della
vita”, ovverosia le ordinarie prassi umane, i comportamenti concreti implicati
nelle relazioni di amicizia[4]. Si tratta di un materiale eterogeneo,
variegato, opaco, bisognoso di sintesi e di articolazione concettuale: il suo
trattamento dialettico preliminare sarà orientato anzitutto a evidenziare le
contraddizioni che tale materiale ospita, per poi cercare di superarle entro
una sintesi superiore la quale, attraverso una teorizzazione positiva ˗
materiata di distinzioni semantiche e concettuali, argomenti, definizioni ˗ ne
salvi gli elementi genuini nella misura del possibile, mostri l’apparenza delle
contraddizioni, e produca così una sorta di “equilibrio riflettuto” fra il
“primo per noi”, da cui pure si sono prese le mosse, e il “primo per sé”, punto
d’arrivo dell’indagine. Una buona teoria dovrà fare giustizia dei caratteri
manifesti dell’oggetto, renderli cioè intellegibili e inferibili[5]; invece una
teoria che negasse questi caratteri, sarebbe ipso facto una teoria deficitaria,
insoddisfacente: non ci riconcilierebbe coi φαινόμενα, che pure sono il suo
originario explanandum. Questa cifra metodologica va tenuta presente, se
si vuole apprezzare in modo non superficiale la trattazione aristotelica
dell’amicizia nelle due Etiche. Perciò è opportuno partire non da Aristotele,
bensì dall’orizzonte teorico-culturale cui egli si rapporta dialetticamente,
nonché dai suoi obbiettivi polemici. Il significato ordinario di «φιλία» ha
un’estensione ben più ampia della nostra nozione di «amicizia»: oltre
all’amicizia propriamente intesa, può denotare anche l’alleanza politica[6], la
vasta gamma dei rapporti sociali, dalle relazioni parentali e matrimoniali a
quelle commerciali, quelle cameratistiche, quelle amorose ed erotiche; insomma,
qualunque interazione umana positiva e non ostile, fra individui o fra gruppi –
ma anche fra uomini e dei[7] – è denotabile come φιλία. Nella caratterizzazione
preliminare che ne offre, Aristotele attinge ai grandi modelli omerico ed
esiodeo, così come ai Sette Savi, ai tragici, nonché al sapere filosofico dei
predecessori (Empedocle, Eraclito, etc.); ma il punto di riferimento dialettico
che, sottotraccia, orienta l’intera trattazione, è il Liside platonico, la
prima indagine filosofica sistematica dedicata alla φιλία[8], nelle cui note
aporie sono peraltro condensate e portate a tematizzazione le contraddizioni
insite nelle istanze della tradizione pre-filosofica globalmente intesa. Il
Liside dunque, fra gli ἔνδοξα e i λεγόμενα, riveste un ruolo
dialettico-polemico primario, anche se non se ne fa alcun riferimento
esplicito. È impossibile in questa sede tentarne anche solo una cursoria
sintesi, ma è necessario individuare perlomeno quelle aporie di fondo intorno
alla φιλία che Aristotele riprende in maniera puntuale[9]. Una importante
aporia (210e-213c), radicata nella dicotomia attivo/passivo, è articolata
intorno alla questione: chi dei due, in una relazione amicale, è l’amico? Chi
ama o chi è amato[10]? Si sonda tutto lo spazio logico delle possibilità,
producendo esiti paradossali (di qui, appunto, lo status di aporia): se 1) è
chi ama, ad essere amico di chi è amato, allora nel caso che chi è amato
odiasse chi lo ama, uno sarebbe amico di chi lo odia! 2) se è chi è amato, ad
essere amico, sarà anche il caso che chi è odiato è nemico, dunque se qualcuno
ama qualcuno che lo odia, allora sarà nemico di un suo amico! 3) se sono amici
o chi ama o chi è amato, indifferentemente, resta fermo che uno potrebbe essere
amico di chi lo odia 4) se sono amici necessariamente entrambi, allora non
potremmo essere “amici” di entità che non ci amano, come la scienza, o il vino,
o i cavalli. L’aporia presuppone l’ampia estensione semantica di φιλία e di
φίλος, che da un lato può avere significato passivo (esser caro a qualcuno),
attivo (essere amico di) o reciproco[11], dall’altro come prefisso (φίλο-) può
comporre termini denotanti amore, passione o apprezzamento per entità
impersonali, che non reciprocano. Ma l’aporia è filosofica, non meramente
linguistica[12]. Una seconda aporia (213d-223b) muove dalla questione se
l’amicizia si dia fra simili o fra dissimili. Se 1) si dà fra simili, allora
anche i malvagi sarebbero amici, ma fra malvagi non si dà vera amicizia
(assunzione qui data per vera)[13]; 2) se si dà non fra simili simpliciter ma
fra simili nell’esser buoni, sorge il problema di come il buono – il quale
basta a se stesso[14] – possa trarre utilità da un altro buono, e viceversa,
quando si era precedentemente stabilito che nessun amico è inutile all’amico
(210c6-8); 3) se si dà fra dissimili contrari, come povero/ricco,
sapiente/ignorante etc., allora, daccapo, l’amico sarà amico del nemico, il
malvagio del buono etc.: amico/nemico e malvagio/buono sono contrari; 4) forse
si dà fra certi dissimili non contrari: chi è intermedio fra buono e cattivo
può amare il buono in virtù della presenza in sé di un “male”, cioè della
privazione di bene di cui è conscio e che lo rende intermedio[15]; così
l’amicizia diventa un caso particolare del desiderio[16], volto strutturalmente
a ciò di cui si è privi. Ma anche qui si ricadrebbe nel caso 1 della Prima
aporia: pare che l’amare unidirezionale e non ricambiato non sia sufficiente
all’amicizia, inoltre il buono sarebbe amato senza amare a sua volta (infatti
l’altro gli è inutile giacché egli ha già il bene presso di sé). A questo
punto viene introdotta l’idea che, se noi cerchiamo nell’amico il bene ma
nessun amico può avere il bene pienamente presso di sé, allora ciò che
cerchiamo negli amici è il «Primo Amico», qualcosa che trascende sia noi che
gli amici stessi, di cui questi ultimi sono apparenze (εἰδώλα)[17]. Le
relazioni amicali sono da ultimo orientate verso qualcosa che trascende
entrambi i relati, secondo una dinamica “ascensionale” segnatamente platonica:
ma così l’amico in carne e ossa parrebbe ridotto a mero luogo di transito di
una tensione desiderante che ascende in direzione di un assoluto ideale.
Riesaminando poi la relazione “orizzontale”, si introduce la nozione di
«affine» (οἰκεῖος): forse la φιλία è rapporto col simile in quanto affine, o
familiare; ma l’affinità pare essere reciproca (se A è affine a B, B è affine
ad A), dunque il buono risulta inservibile a chi è già affine al buono;
inoltre, sono affini anche i malvagi. Anche se la trattazione appare un
poco schematica e talora verbalistica, essa tocca problemi speculativi genuini.
Come ci si aspetta da un dialogo “socratico” di Platone, le aporie non trovano
uno scioglimento, se non la paradossale acquisizione che né amanti né amati, né
simili né dissimili né contrari, né affini, né buoni, possono essere amici[18]!
Teniamo dunque a mente questi nodi problematici. 2. La
tassonomia delle amicizie e il suo significato L’amicizia è
studiata nel libro VII dell’Etica Eudemia, e nei libri VIII-IX dell’Etica
Nicomachea[19]. Mentre la trattazione dell’Etica Eudemia risulta più logica e
astratta, quella dell’Etica Nicomachea è più orientata a salvare i fenomeni, è
più empirica e inclusiva: per cogliere i nuclei teorici di fondo, è sensato
muovere dalla prima, e valutare criticamente quando e perché la seconda propone
integrazioni o discostamenti teorici da quella. Sia la Eudemia precedente alla
Nicomachea o meno[20], in essa appare più nitidamente come la trattazione
aristotelica costituisca una sorta di virtuale controcanto filosofico del
Liside platonico[21]. Etica Eudemia VII introduce il soggetto come
specialmente degno di essere indagato: gli ἔνδοξα universalmente diffusi
pongono la φιλία come il fine stesso della politica, come antidoto
all’ingiustizia, come habitus caratteriale rivolto ai buoni, pongono l’amico
come il più grande dei beni esterni (anche in quanto volontariamente scelto) e
l’assenza di amici come il male più terribile[22]. La φιλία è aspetto centrale
dell’etica – soprattutto entro un’etica eudemonistica imperniata sul bene e
sulla felicità – dunque non sorprende che la sua trattazione occupi quasi un
quinto degli scritti etici aristotelici. Ma altre opinioni notevoli non
sono universalmente condivise: per alcuni il simile è amico del simile (Omero,
Empedocle), per altri lo è il contrario del contrario (Esiodo, Euripide,
Eraclito)[23]: sono le opzioni 1 e 3 della Seconda Aporia del Liside, che pure
non viene citato. Si ricordano poi altre opinioni, topoi tradizionali già
ripresi dal Liside: per alcuni non c’è amicizia fra malvagi ma solo fra buoni
(cfr. opzione 1 della Prima Aporia), per altri solo chi è utile può essere
amico (cfr. opzione 2 della Seconda Aporia). Prima di passare alla pars
construens, Aristotele enuncia candidamente il criterio metodologico e lo scopo
dell’indagine: Occorre trovare un’argomentazione che insieme renda
conto (ἀποδώσει) al massimo grado delle opinioni (τά δοκοῦντα) intorno a queste
cose, e anche che sciolga le aporie e le contraddizioni. Ciò avverrà qualora
appaia che le opinioni contrarie sono sostenute con buone ragioni: una tale
argomentazione sarà nel massimo accordo coi fenomeni. E le tesi in
contraddizione risultano mantenersi, se quel che affermano è vero in un senso,
ma in un altro no. (Et. Eud. VII 2, 1235b13-18).[24] Le opinioni diffuse e
notevoli non vanno accolte in modo supino e acritico, ma comprese nelle loro
buone ragioni e, nella misura del possibile, salvate entro una sintesi teorica
che superi le aporie e mostri che le affermazioni apparentemente incompatibili
possano essere vere entrambe, in sensi diversi; così vi sarà anche il massimo
accordo coi φαινόμενα. Questi, i desiderata da soddisfare. Se l’amicizia
è desiderio (altra acquisizione del Liside[25]), il desiderio può essere del
piacevole (appetito) o del buono (volontà)[26], dunque ciascuno di essi ci è
«amico» o caro (φίλον); comunque il piacere si presenta come un bene (o appare
tale o è creduto tale[27]): la prima distinzione da fare è perciò fra bene e
bene apparente (φαινόμενον ἀγαθόν), oggetti del desiderio[28]. La seconda è
quella fra bene incondizionato (ἁπλῶς) e bene per qualcuno[29]: ciò che è buono
simpliciter lo è per l’essere umano in generale, ciò che è tale «per qualcuno»
lo è per certi individui particolari in certe circostanze (per esempio,
un’operazione per un malato); parimenti, vi è un piacevole incondizionato e un
piacevole «per qualcuno» (per esempio, in condizioni fisiche o morali
alterate); Aristotele sostiene che il piacevole incondizionato coincida col
buono incondizionato[30]: ciò che è buono per l’uomo in generale, è anche
piacevole per l’uomo in generale, invece un individuo malato o corrotto troverà
piacevoli cose non oggettivamente buone; né coincideranno il piacevole «per lui»
e il buono «per lui». Un uomo saggio e virtuoso troverà piacevole ciò che è
buono, dunque nel suo caso si identificano bene apparente e bene reale (è buono
ciò che gli appare tale), bene «per lui» e bene incondizionato (ciò che è bene
per lui è buono in generale per l’uomo), nonché bene e piacere: egli è norma
rispetto a ciò che per l’uomo in generale è e deve essere buono e piacevole, in
quanto esprime l’eccellenza della stessa natura umana. A ogni modo, ciò che
motiva un soggetto S deve apparire un bene a S (che lo sia o meno), e apparire
a S un bene per lui (che sia o meno anche un bene in senso
incondizionato)[31]. Ci sono cose per noi buone in quanto le riteniamo
dotate di valore intrinseco, cose per noi buone in quanto le riteniamo utili, e
cose per noi buone in quanto le troviamo piacevoli. Poiché l’amico è un bene
scelto e desiderato ˗ il φιλεῖν è un caso particolare di desiderio ˗ potrà
esserlo per questi tre motivi: come bene in sé, e cioè in quanto è ciò che è e
«per la virtù», o in quanto è ci è utile, o in quanto sia piacevole, «per il
piacere»[32]. Chiariremo successivamente perché il buono in quanto buono,
quando il bene sia l’amico stesso, si identifichi con la sua virtù. Colui
che è amato in base a uno dei tre aspetti suddetti (bene-virtù, utilità,
piacevolezza) diventa un amico ˗ si aggiunge ˗ quando contraccambia l’affetto:
dunque la reciprocità diviene un tratto essenziale dell’amicizia, una sua
condizione necessaria; Aristotele sceglie l’opzione 4 della Prima Aporia del
Liside, ma replica all’obiezione ivi contenuta, secondo cui cose amate come il
vino, i cavalli e la scienza non possono ricambiare, mediante la distinzione
fra φιλία e φίλησις[33]: la seconda è un affetto/desiderio per le cose
inanimate, la prima implica un simile affetto come componente, ma include
necessariamente la reciprocità. Talvolta, una nozione vaga può essere
disambiguata mediante una distinzione semantica, in modo da sciogliere
apparenti contraddizioni e insieme “salvare i fenomeni”. Tuttavia, l’affetto
reciproco sulla base di uno dei tre amabili non è ancora sufficiente perché ci
sia φιλία; tale reciprocità deve essere esplicita, non celata, nota ai due
amici: se amo qualcuno che non lo sa, non siamo amici, nemmeno nel caso lui ami
me e io lo sappia; entrambi devono amarsi l’un l’altro, ed entrambi lo devono
fare in modo manifesto, tale che sia noto all’uno e all’altro. La coscienza di
essere amici è essenziale all’essere amici: qualcuno può credere di essere
amico senza esserlo[34], però nessuno può essere amico di qualcuno senza
credere di esserlo. Se manca la reciprocità, non si ha amicizia ma
«benevolenza» (εὔνοια), cioè desiderio del bene dell’altro; quando quest’ultima
è reciproca e non è celata, allora può divenire amicizia[35]. Le tre
forme di amicizia, rispettivamente basate su virtù, utilità, piacere, secondo
l’Eudemia intrattengono la relazione asimmetrica che Aristotele chiama πρὸς ἓν,
in cui vi è un significato primario o focal meaning cui gli altri, secondari e
derivati, rimandano[36]: l’amicizia a causa della virtù e fondata sul bene è
posta come πρώτη φιλία, «prima amicizia», da cui le altre dipendono dal punto
di vista definitorio. Quindi «φιλία» non denota tre specie di un unico genere,
né è un termine equivoco che denota realtà completamente diverse; è termine
“multivoco”, giacché l’amicizia si dice in molti modi ma in riferimento a un
senso che illumina tutti gli altri, e a cui gli altri si rapportano
necessariamente. Molti critici ritengono che, siccome l’amicizia
“utilitaristica” e quella “edonistica” possono darsi indipendentemente da
quella “virtuosa”, l’idea che esse rimandino necessariamente a quella
“virtuosa” non sarebbe convincente, e proprio per questo sarebbe poi
abbandonata nella Nicomachea[37]. Ma la gerarchizzazione πρὸς ἓν è anzitutto definitoria:
il piacere è un bene apparente (dunque, una declinazione del bene), l’utile è
tale in quanto foriero di bene[38] o di piacere (che, daccapo, è un bene
apparente); dunque i tre amabili sono un bene, un modo di apparire del bene,
una via che porta al bene. Al modo in cui il piacere e l’utilità si definiscono
in rapporto al bene[39] (ma, per Aristotele, non viceversa), così le amicizie
basate sul piacere e l’utile si definiscono in rapporto a quella basata sul
bene come tale: e infatti, come vedremo, ne sono forme imperfette e
difettive. Si noti la pur generica assonanza fra la πρώτη φιλία e il πρῶτον
φίλον, il Primo Amico del Liside: se Platone radica il senso delle relazioni
amicali in un anelito a qualcosa che trascende le amicizie e gli amici stessi
illuminandole, per così dire, dall’alto, Aristotele immanentizza il bene entro
gli amici stessi e le loro relazioni; c’è una amicizia prima, ma non un Amico
primo che si distingua dagli amici empirici e concreti. Il bene che è in gioco
nell’amicizia è ubicato negli amici stessi, è immanente. Qual è la
ragione profonda di questa tripartizione? Si può mostrare in modo puntuale che
si tratta di una risposta alle aporie platoniche: se i platonici pongono come
amicizia solo quella virtuosa, «non riescono a dare conto dei fenomeni»[40],
ove per fenomeni si devono intendere non solo le prassi umane, ma anche gli ἔνδοξα
e i λεγόμενα. Se vi sono tre forme di amicizia, può darsi che alcune opinioni
notevoli e intuizioni siano vere dell’una ma false dell’altra, altre siano vere
dell’altra ma false dell’una, come afferma il passo metodologico succitato. Se
poi a partire da ciascuna delle tre caratterizzazioni si potessero inferire o
congetturare dei rispettivi propria, che coincidano coi rispettivi tratti manifesti
dell’amicizia che parevano aporetici in quanto incompatibili, allora grazie a
questa tassonomia tricotomica le aporie potrebbero essere sciolte, poiché
alcuni di questi tratti caratterizzeranno un tipo di amicizia, alcuni altri un
altro tipo di amicizia. L’amicizia virtuosa, fondata sul bene, è fra
simili in quanto buoni[41]: essa cattura l’opzione 2 della Seconda Aporia del
Liside, nonché l’ideale arcaico, omerico ma anche teognideo e in generale
aristocratico, della φιλία come sodalizio elettivo fra ἀγαθοί; a questo topos
tradizionale, il Socrate del Liside replica che esso è incompatibile con
un’altra idea ben radicata (basata su altri due topoi tradizionali): il buono è
autosufficiente, e un amico gli sarebbe inutile, ma l’amicizia è fondata proprio
sull’utilità reciproca; quest’ultima idea, di matrice esiodea[42] ma anche un
luogo comune confermato dalle prassi umane, non può essere negata, per
Aristotele: sono gli stessi φαινόμενα a mostrare che coloro che intrattengono
relazioni continuative di utilità e soccorso reciproco, si chiamano amici
e si ritengono tali, e così sono dagli altri chiamati e ritenuti. La
contraddizione è apparente, se si postula che l’utilità reciproca è un
prerequisito di una forma di amicizia (quella basata sull’utile) e non
dell’altra (quella basata sul bene). Le relazioni utilitaristiche sono
amicizia, sebbene di un certo tipo; sia queste che quelle fondate sul piacere,
possono sussistere anche fra individui non buoni, persino fra malvagi, sebbene
in forma estremamente labile e instabile: l’opzione 1 della Seconda Aporia del
Liside è anch’essa percorribile, in quanto due individui non “buoni” possono
essere amici sulla base del piacere, e sono simili nella misura in cui
condividono certi tipi di piacere; inoltre, l’intuizione per cui l’amicizia si
dà fra contrari come povero/ricco, sapiente/ignorante etc. ˗ opzione 3 della
Seconda Aporia del Liside ˗ è anch’essa fatta salva, in quanto viene posta come
peculiare all’amicizia utilitaristica, che tipicamente è intrattenuta da individui
in qualche senso contrari (l’uno ha qualcosa che l’altro non ha). Aristotele
riesce a salvare i fenomeni attraverso una distinzione tassonomica
fondamentale, che deve conciliare certe apparenti incompatibilità ma al tempo
stesso preservare una certa unitarietà dell’oggetto: quella di amicizia è una
nozione originariamente ospitale, plurale e polivoca, tanto internamente
differenziata da implicare una demarcazione netta fra l’amicizia virtuosa e le
altre, ma non tanto monolitica da implicare che si escludano dal novero delle
amicizie quelle forme di relazione (utilitaria, edonistica) ordinariamente
denominate così: altrimenti si farebbe violenza al linguaggio e alle “cose
stesse”[43]: a quel “primo per noi” che è lo stesso explanandum originario.
Una delle ragioni per cui l’amicizia virtuosa è detta «prima» nella Eudemia e
poi «perfetta» (τέλεια) nella Nicomachea[44], è che essa è costitutivamente
piacevole, benché non sia fondata sul piacere, e implica la disposizione alla
mutua utilità quando serva, benché non sia fondata sull’utile: dunque contiene
in sé, in certo modo, le altre due. Tuttavia, il piacere che consegue al bene
ed è persino costitutivo di esso, non è lo stesso piacere che fonda le amicizie
edonistiche; il primo è inseparabile dal bene cui consegue[45], quindi
l’integrazione di piacere e utilità nell’amicizia virtuosa non è da concepirsi
come una somma estrinseca o giustapposizione di aspetti positivi (bene +
utilità + piacere). La perfezione di questa amicizia non è una somma di amicizie
imperfette, è originaria completezza. Nella Nicomachea non vi è traccia
della relazione πρὸς ἓν, e la πρώτη φιλία diventa τέλεια φιλία[46]. Le altre
amicizie qui sono dette tali «secondo somiglianza» a quella perfetta[47]: a mio
avviso, al netto della differenza di linguaggio, la posizione di Aristotele non
muta in modo sensibile fra le due opere; la somiglianza delle amicizie
edonistica e utilitaristica a quella perfetta consiste anche qui nel fatto che
quest’ultima è, per entrambi gli amici, utile e piacevole, dunque contiene
quegli aspetti che fondano le amicizie imperfette, ma non ne è simmetricamente
contenuta. Infatti, ciò che è buono è anche utile e piacevole, mentre ciò che è
utile può non essere piacevole e può non essere buono (né simpliciter, né per
l’individuo) – per esempio, se l’individuo è corrotto e trova per sé utile
qualcosa che lo approssima a ciò che non è il suo bene (anche se egli magari
crede che sia il suo bene[48]) – e ciò che è piacevole può essere inutile o
persino dannoso. Questo vale in generale, e a fortiori vale per gli amici
buoni, utili, piacevoli. In realtà, lo stesso “compito” etico implicitamente
affidato all’uomo, gli è affidato anche in rapporto all’amicizia: l’ideale
umano, incarnato dal saggio che ne è norma ed esempio, è quello di far
coincidere ciò che è bene per sé con ciò che è bene in generale, e ciò che è
piacevole per sé con ciò che lo è in generale; si realizza così anche la
coincidenza di bene e piacere, visto che il buono in generale e il piacevole in
generale si identificano per natura[49]. Ciò importa che occorra anzitutto
essere buoni (saggi e virtuosi) e, essendolo, prediligere le amicizie virtuose
(che sono appannaggio dei buoni): esse non ospitano conflitti strutturali,
soprattutto il bene e il piacere – il confliggere dei quali sopraffà l’acratico
– sono adeguati ab origine, nell’amicizia perfetta, giacché essa è piacevole
proprio in quanto buona. Ma ciò non esclude che i buoni possano intrattenere
anche amicizie fondate sul piacere, o sull’utile[50]: esse però, nell’economia
della loro vita, risulteranno marginali, sia nella quantità che nella
qualità. Può sorprenderci il fatto che alla forma di amicizia più rara e
più “inarrivabile” delle tre (i buoni sono pochi, gli amici a causa del bene
ancora meno) venga ascritta una priorità definitoria, sia essa del tipo πρὸς ἓν
o «per somiglianza». Ma per Aristotele qualunque capacità umana – l’amicizia è
una virtù, le virtù sono capacità acquisite – viene individuata e definita
sulla base della sua eccellenza: è il caso eccellente, in cui un tratto umano è
più pienamente realizzato, che funge da essenza normativa rispetto ai casi
difettivi, deficitari, degradati, imperfetti; per definire, occorre guardare ai
casi migliori, alla modalità in cui una potenzialità è dispiegata ed espressa
più compiutamente, e che misura gli altri casi quasi costituendone un virtuale
dover-essere rispetto a cui essi mostrano la loro manchevolezza. Perciò la
teoria aristotelica presenta al contempo una dimensione descrittiva e una normativa,
fra le quali sussiste una sorta di tensione dialettica. E in effetti le
amicizie fondate sul piacere e sull’utile sono incomplete: vengono
caratterizzate addirittura come amicizie per accidens[51], il che sembra sulle
prime vanificare l’atteggiamento inclusivo adottato da Aristotele come cifra
metodologica, non solo praticata ma persino esplicitata in modo
programmatico[52]. È come se in sede di definizione generale Aristotele fosse
interessato a preservare l’unità della nozione di amicizia nonostante le
differenze, ma in sede di caratterizzazione sinottico-comparativa dei diversi
tipi, ponesse invece l’enfasi sullo iato che separa l’amicizia prima o perfetta
dalle altre, fino a trattare le altre come solo accidentalmente tali. Perché
esse sono caratterizzate come «accidentali»? Chi si ama per l’utile o per
il piacere lo fa «non perché l’individuo amato sia quello che è, ma in quanto è
utile o in quanto è piacevole»[53]: l’utilità e la piacevolezza sono proprietà
relazionali esterne all’essenza dell’amico amato, determinate dagli effetti che
esso ha su chi lo ama, «perché gli uni ne traggono un qualche bene, gli altri
un piacere»[54]; invece l’amicizia basata sulla virtù e la bontà dell’amico
amato, è basata su proprietà intrinseche all’amato, su ciò che da ultimo
l’amato è[55]. Noi siamo il nostro carattere, il nostro carattere è l’insieme
unificato delle nostre virtù, una seconda natura che è frutto prima
dell’educazione e poi delle nostre scelte: noi siamo un sé che sceglie, e i
nostri pensieri, discorsi e azioni manifestano il nostro “sé”. Pertanto,
nell’amicizia perfetta il bene che è in gioco è l’amico stesso che è amato, per
ciò che egli essenzialmente è, mentre il bene che è in gioco nelle altre
amicizie è il bene – nella forma dell’utile o del piacevole – dell’amico che
ama. Anche se l’amicizia è sempre reciproca, resta fermo che nell’amicizia
perfetta il fondamento è, per ciascuno degli amici, l’altro come buono, nelle
altre è invece il proprio bene in quanto utilità o piacere[56]. Nelle amicizie
imperfette la ragione per cui si vuole e persegue il bene dell’altro, resta
radicata nell’interesse proprio come diverso dal bene elargito all’altro e
diverso dall’altro stesso come dotato di valore intrinseco. È questa differenza
radicale a rendere le amicizie imperfette amicizie per accidens: ciò non
implica, si badi, che non siano amicizie[57], bensì che lo sono solo in virtù
del loro somigliare all’amicizia perfetta, seppure in modo difettivo. Ma
l’amicizia fondata sul bene dell’amico non rischia così di risultare
“disinteressata” in un modo psicologicamente implausibile? Solo in apparenza,
in quanto il bene di chi ama è in gioco, ma lo è in quanto coincide col bene
dell’amico: se siamo amici perfetti, siamo entrambi buoni e virtuosi, e il
nostro bene individuale coincide col bene simpliciter: noi, come amici
perfetti, cooperiamo per realizzare il bene in generale[58]; il bene mio e
dell’amico sono voluti – rispettivamente, dall’amico e da me – in conseguenza
del fatto che anzitutto io e l’amico siamo dei beni: se lo siamo l’uno per
l’altro, è perché siamo buoni, siamo dotati di valore intrinseco, e lo
riconosciamo reciprocamente. Non si tratta di una implausibile relazione
puramente altruistica e disinteressata, perché non si fonda – ribadiamolo – solo
sul volere il bene dell’altro, ma anzitutto sull’altro come bene in sé: voglio
e perseguo il bene dell’altro non per altruismo astratto, ma perché l’altro è
un bene. Una nozione comune con cui forse potremmo rendere più chiaro questo
aspetto, è quella di stima. L’amicizia perfetta è fondata sulla stima
reciproca: un amico che stimo per ciò che è e per come è, esemplifica in sé ciò
che è buono, a prescindere da ciò che io posso trarre da lei/lui: «se uno non
gioisce perché l’altro è buono, non c’è la prima amicizia» (1237b4-5). La stima
reciproca presuppone una consonanza di valori, un’intesa su ciò che vale e ciò
che è degno: e visto che i due amici sono virtuosi e buoni, essi valgono e
sanno di valere, per questo valgono anche l’uno per l’altro. Si tratta di una
amicizia in cui coltivare il proprio bene coincide col coltivare l’altro e il
suo bene, e questo coincidere non è accidentale – come accade nelle altre
amicizie – bensì è costitutivo. Invece posso trarre vantaggio da un amico utile
senza stimarlo affatto, così come posso trarre piacere – per esempio,
divertendomici insieme – da qualcuno che non stimo, che non ritengo una persona
buona, degna, valida. L’accidentalità delle amicizie non perfette si
rende perspicua nella loro strutturale instabilità: un rapporto fondato
sull’utilità non avrà più ragion d’essere, qualora uno dei due amici smetta di
essere utile all’altro; i bisogni umani sono cangianti, e tali sono le risorse
altrui per farvi fronte, cosicché anche le relazioni utilitarie sono essenzialmente
mutevoli; lo stesso accade per gli amici secondo il piacere: cambiano, nel
tempo, le fonti del piacere, i “gusti”, e cambiano anche le capacità altrui di
procurarci piacere; l’amicizia piacevole, poi, è precaria anche perché riguarda
tipicamente i giovani, i quali sono di per sé in continuo
cambiamento[59]. Invece la virtù del carattere è cosa stabile: le
amicizie complete sono stabili perché sono fondate sul bene come virtù, che è
costante e non facile a mutare[60]. Il tempo può rendere inutile un amico che
prima era utile, o non più piacevole un amico che lo era, ma difficilmente può
sottrarre a un carattere le virtù, far diventare malvagi i buoni, stolti i
saggi, e dunque minare le basi su cui le relazioni virtuose fra buoni sono
costruite. Per questo l’amicizia completa è specialmente solida, quasi
incrollabile[61], e l’amico virtuoso è un amico «al massimo grado»[62], un
amico «vero»[63]. Un tale amico si renderà utile se può e quando sia
necessario, ma sarà utile perché è un amico, piuttosto che essere amico perché
è utile; e sarà piacevole all’amico, giacché ci risulta tendenzialmente
piacevole frequentare chi stimiamo[64]. Così Aristotele, forte della sua
tassonomia tripartita, deriva dei propria (dei caratteri distintivi) di
ciascuna amicizia, spiegando i fenomeni e riconciliandoci con le comuni
pratiche ascrittive: alcune intuizioni, luoghi comuni e opinioni notevoli sono
vere di un’amicizia, alcune dell’altra. Parlando coi giovani Liside e
Menesseno, Socrate nel Liside si dice desideroso di amicizia più di ogni cosa
al mondo – con una Priamel che restituisce in modo icastico l’idea
dell’amicizia come il più grande dei beni esterni, fatta anch’essa propria da
Aristotele – e invidia ironicamente la loro felicità, visto che sono giovani e
sono diventati amici «in modo facile e rapido»[65]. Si tratta di caustica
ironia, visto che la φιλία che ha a cuore Socrate non è né facile né rapida:
ciò che è dissimulato, è che quella non è verace amicizia, ma altro. Qui c’è
un’aporia in nuce, visto che i giovani che si frequentano, pur con una certa
leggerezza e una conoscenza reciproca non profonda, paiono amici e sono detti
tali, eppure non soddisfano i requisiti della “vera” amicizia non solo secondo
l’idea socratica, ma anche secondo l’opinione diffusa per cui la vera amicizia
è durevole, lenta e difficile a darsi. Aristotele distingue i soggetti delle
attribuzioni incompatibili, salvando la verità di entrambe: l’amicizia
giovanile (per esempio, quella di Liside e Menesseno) è fondata sul piacere, e
ha certi tratti distintivi quali la facilità a prodursi e a decadere,
l’intensità emotiva, e così via; l’amicizia perfetta, tipica degli uomini
maturi (è quella per cui Socrate dice di ardere di desiderio), necessita di una
lunga consuetudine e di una conoscenza reciproca profonda[66], è rara e
appannaggio di pochi, è difficilissima a nascere ma altrettanto difficile a
morire, fondandosi su ciò che in noi vi è di più stabile. Invece, quella utile
caratterizza tipicamente gli anziani, particolarmente bisognosi d’aiuto e
sensibili, per debolezza, al beneficio che può arrecare il mutuo soccorso[67];
inoltre, essa si riscontra nei più, nelle masse, le quali sono più preoccupate
dei benefici personali che del bene e del bello. Fra le amicizie incomplete,
Aristotele ascrive una superiore nobiltà a quella fondata sul piacere, mentre
quella fondata sull’utile è «da bottegai»[68]. In effetti, la condivisione del
piacere è qualcosa di meno strumentale rispetto al trarre vantaggi da qualcuno:
perlomeno il piacere è un fine, non un mezzo; inoltre, il piacere appartiene
alla frequentazione stessa dell’amico, mentre l’utile è a questa completamente
estrinseco: dunque il fondamento dell’amicizia utile è più esteriore e più
contingente di quello dell’amicizia piacevole. Un altro aspetto
problematico del Liside emerge in particolare nella Prima Aporia rispetto alla
polarità attivo/passivo (amante/amato), ma soggiace implicitamente anche ad
altre aporie: l’amicizia sembra implicare uguaglianza e comunanza da un lato, e
differenza e asimmetria dall’altro; si mescolano aspetti tipici del rapporto
pederastico-erotico (amante e amato non sono intercambiabili), aspetti del
rapporto genitoriale, anch’essi per definizione asimmetrici, e relazioni “fra
buoni” simili, potenzialmente simmetriche. Aristotele cerca di articolare
queste istanze entro un quadro più sistematico: la tassonomia delle tre
amicizie si arricchisce di una distinzione trasversale, fra amicizie
simmetriche e amicizie asimmetriche in cui uno è superiore e l’altro
inferiore[69]; la φιλία deve essere reciproca, ma tale reciprocità può essere
simmetrica o asimmetrica (fra superiore e inferiore). I tipi di amicizia sono
dunque sei, giacché si può essere superiori quanto a virtù, a utilità, e a
piacevolezza. La ulteriore distinzione fra amicizie simmetriche e
asimmetriche consente ad Aristotele una esplorazione straordinariamente ricca
dei legami sociali più eterogenei, che assimila alla φιλία e alle sue
declinazioni i rapporti familiari (padre-figlio, marito-moglie, figlio-figlio),
i rapporti politici fra città (in vista dell’utile)[70], gli stessi rapporti
fra i cittadini in rapporto alla loro comunità, i rapporti fra governanti e
governati, le relazioni commerciali, e così via, e indaga le relazioni profonde
fra amicizia, giustizia, concordia, comunità. Non è possibile restituire
nemmeno sommariamente la ricchezza di tali analisi in questo contributo, il
quale si focalizza piuttosto sul significato filosofico e dialettico della
tripartizione in generale: ma fa d’uopo rilevare che le applicazioni di questa
teoria generale sono molteplici e fecondissime. 3. Amicizia
e autosufficienza La tripartizione (con ulteriore dicotomia
trasversale) non scioglie di per sé un nodo aporetico concernente la stessa amicizia
perfetta fra buoni: è l’idea espressa entro il punto 2 della Seconda Aporia del
Liside, per cui chi ha il bene presso di sé è autosufficiente e non ha bisogno
di nulla, dunque l’amicizia di chicchessia gli sarebbe inutile. È vero che
Aristotele ha distinto l’amicizia perfetta da quella utile, ma resta il
problema di comprendere come mai colui che è saggio, virtuoso e buono, bastando
a sé stesso, abbia una qualche motivazione a coltivare un amico, foss’anche un
amico perfetto: «se è felice chi ha la virtù, che bisogno avrà di un
amico?»[71]. L’idea dell’autosufficienza di chi è saggio, virtuoso, felice e
beato, ripresa dal Liside, è un topos tradizionale, quindi ha lo status di ἔνδοξον
ben radicato, di cui va dato conto e di cui va mostrata la compatibilità con la
teoria positiva proposta nonché con altri ἔνδοξα altrettanto ben
attestati. Il problema è affrontato in Etica Eudemia VII 12 e in Etica
Nicomachea IX 9, in maniere parzialmente differenti. L’Eudemia muove
dall’analogia con la condizione divina, paradigma dell’autosufficienza. Ma la
condizione umana può assurgere all’autosufficienza solo nella misura in cui lo
consente la natura dell’uomo, che è animale sociale-politico[72] e può/deve
realizzare questa natura, non quella divina[73]: il bene umano contempla sempre
il rapporto a un’alterità – è καθ’ ἕτερον[74] ˗ quello divino è assoluto
rapporto a sé[75]. L’autosufficienza divina funge da “idea regolativa”, da
norma ideale: l’uomo felice minimizzerà il numero degli amici e si limiterà a
quelli virtuosi, degni di accompagnarsi a lui; proprio il caso di chi non è
obnubilato da bisogni e mancanze, evidenzia il valore intrinseco dell’amicizia
perfetta, perseguita non già per ricevere benefici bensì per fare, dare e
condividere il bene che si possiede. Ma l’argomento successivo – che è molto
complesso e possiamo solo sintetizzare[76] – chiarisce che non si tratta di un
altruismo generico e astratto, in quanto l’amicizia è ingrediente essenziale,
non accessorio, della felicità individuale. Vivere, per l’uomo, è
percepire e conoscere[77], e – prosegue Aristotele ˗ l’aspirazione massima di
ciascuno di noi è, da ultimo, quella di conoscere noi stessi (tesi che rivisita
il celebre monito delfico-socratico); la felicità è costituita dalla conoscenza
di sé in quanto attivi come buoni e virtuosi[78], e la conoscenza di sé passa
per la conoscenza reciproca fra amici: l’amico è «un altro sé»[79], «percepire
l’amico necessariamente è percepire in certo modo sé stesso e conoscere in
certo modo sé stesso»[80]. Condividendo con l’amico i beni, i piaceri e le
attività della vita felice, incrementiamo dunque la conoscenza di noi stessi e
della nostra stessa felicità. La Nicomachea chiarisce la relazione fra il
riconoscimento reciproco degli amici virtuosi e la loro felicità, soprattutto
in un passo speculativamente densissimo: Se l’essere felici
consiste nel vivere e nell’agire, e l’attività dell’uomo dabbene ed eccellente
è per sé virtuosa [..], se poi anche ciò che è familiare/affine (οἰκεῖον) a
qualcuno è tra le cose che lui trova piacevoli, se noi possiamo osservare il
nostro prossimo meglio di noi stessi, e le sue azioni più che le nostre, se le
azioni degli uomini superiori, che siano anche amici, sono fonte di piacere per
i buoni, dato che hanno tutte e due le caratteristiche piacevoli per natura,
allora l’uomo beato avrà bisogno di amici simili a lui, posto che davvero
preferisca osservare azioni buone, e che gli sono proprie, come lo sono le
azioni dell’amico, quando è buono. (Et. Nic. IX 9 1169b31-1170a4)[81] Le
attività di un’esistenza virtuosa e felice sono obbiettivamente piacevoli agli
occhi di un uomo buono, virtuoso e felice a sua volta: vi si rispecchia,
sentendocisi “a casa propria”, e la familiarità determinata da affinità e
prossimità, gli è in sé piacevole. Come si evincerà, la nozione platonica di οἰκεῖον,
introdotta sul finire del Liside come cifra stessa della φιλία, trova una
ripresa puntuale e una valorizzazione speculativa nella teoria aristotelica. Il
prossimo si offre alla nostra conoscenza in modo più trasparente che noi stessi,
giacché la sua distanza da noi lo rende meglio oggettivabile. I due tratti
umani piacevoli per natura sono da un lato la felicità di cui la virtù è
costitutiva, dall’altro la familiarità, che chi è felice è virtuoso riscontra
ed esperisce nel contemplare e cooperare con un’altra esistenza felice e
virtuosa. Le azioni di un nostro amico “perfetto” sono buone e nel contempo ci
sono proprie, cosicché contemplarle è come trovare in esse lo stesso bene che
noi siamo. Potrebbe stupire il riferimento reiterato al tema del piacevole,
quasi che si trattasse di una delle due amicizie non perfette: ma occorre
tenere a mente che il piacevole per natura o ἁπλῶς coincide col bene ἁπλῶς, e
che si tratta di un piacere costitutivo del bene e inseparabile da esso, piuttosto
che di un piacere addizionale ed esteriore rispetto al bene cui consegue. Se
l’altro è sufficientemente prossimo a me, posso de-situarmi e oggettivarmi
riconoscendomi nelle sue azioni, secondo una dialettica complessa e chiastica
di riconoscimento reciproco. «Se l’uomo eccellente si comporta verso l’amico
come si comporta verso di sé, dato che l’amico è un altro se stesso, allora,
così come è desiderabile per ciascuno il suo proprio esserci, così è
desiderabile l’esserci dell’amico, o quasi» (EN IX 9, 1170b5-8). In questo
gioco speculare di identificazioni reciproche, il mio rapporto con l’altro è
mediato del mio rapporto con me stesso[82], l’altro è un «altro me» e perseguo
il suo bene in maniera pressoché equivalente a come perseguo il mio (quel «quasi»
è una concessione al realismo empirico, da cui questa idealizzazione non vuole
disancorarsi); ma è altrettanto vero che il mio rapporto con me stesso è a sua
volta mediato dal mio rapporto con l’altro, giacché conosco genuinamente me
stesso non già con un qualche misterioso atto introspettivo[83], bensì
conoscendo persone simili a me che a loro volta mi riconoscono simili a sé:
questa è la ragione perché v’è bisogno di amici buoni e virtuosi entro
relazioni di amicizia “perfetta”; se la felicità implica autosufficienza, si
tratta di un’autosufficienza umana e non divina, che passa per l’inclusione del
prossimo nella nostra esistenza, e per la cooperazione con chi scegliamo come
degno incarnare il bene e la virtù[84]. Come l’essere amici non si dà senza il
sapere di esserlo anche se si può credere di essere amici senza esserlo, così
l’essere felici (in quanto buoni e virtuosi in attività) non si dà senza la
coscienza di essere felici (in quanto buoni e virtuosi), anche se è possibile
credere di essere felici senza esserlo davvero. E per sapere chi sono, devo
rispecchiarmi in amici simili a me[85]. Ciò importa che l’uomo beato non avrà
bisogno di amici “meramente utili” e “meramente piacevoli”, invece dovrà avere
amici buoni e virtuosi: il topos tradizionale è riscattato nella sua verità
profonda, ma anche oltrepassato in virtù della tripartizione; in un senso è
vero, in un altro no. Essere felici insieme è diverso dal semplice divertirsi
insieme, anche se lo include, ed è diverso dal semplice aiutarsi l’un l’altro,
anche se può includerlo. L’amico perfetto ˗ come ogni altro autentico
bene ˗ è oggetto di scelta razionale[86]. Anche per questo la teoria
aristotelica si distanzia da quella platonica[87]: la φιλία erotica, già ben
presente nel Liside sin dalla sua ambientazione scenica – una palestra, ove
Liside è il «bello del momento» di cui Ippotale è innamorato – viene relegata
da Aristotele a una delle tante forme di φιλία, degna di pochi accenni
espliciti, mentre nel Simposio e nel Fedro, dialoghi ben più elaborati e
costruttivi del Liside, l’eros è la forma di φιλία che viene eletta a oggetto
di indagine paradigmatico. Ma le componenti mistico-estatiche della φιλία
erotica come «follia divina» e frutto di invasamento[88], risultano
completamente marginalizzate entro la teoria aristotelica. L’amicizia più degna
e verace è attività derivante da scelta come desiderio razionale; se la
felicità è attività e i beni che la materiano sono oggetto di scelta, allora
anche l’amicizia, ingrediente costitutivo della vita felice, sarà espressione
di attività, piuttosto che passivo invasamento consistente nell’esser
“posseduti” da uomini o dèi. Il primato etico, fisico e metafisico dell’azione
sulla passione, è anche il primato di un certo tipo d’amore su un cert’altro. L’amicizia
è riportata fra gli amici, e la sua declinazione più eccellente, normante
rispetto alle altre, è caratterizzata secondo la dimensione eticamente più
elevata dell’umano: la ragione che sceglie e governa il desiderio, piuttosto
che esserne governata. L’eros platonico, così bellamente ed enfaticamente
rappresentato nel Simposio e nel Fedro, diventa per Aristotele solo una delle
tante declinazioni possibili di un tipo di amicizia – quella fondata sul
piacere – che è già di per sé incompleta e deficitaria[89]. Secondo
l’aporetico excipit del Liside, né amanti né amati, né simili né dissimili, né
contrari né affini, né buoni, possono essere amici[90]; le Etiche aristoteliche
presentano una teoria la quale non solo consente ma anche prevede che amanti,
amati, simili, dissimili, contrari, affini, buoni, e perfino malvagi possano
essere amici; inoltre tale teoria offre le risorse concettuali per chiarire
quali coppie di amici possano e/o debbano avere questo o quel carattere
distintivo, e perché. Spero di avere almeno approssimato il duplice
obbiettivo prefissatomi: mostrare in modo dettagliato e sistematico la
dipendenza polemico-dialettica della teoria aristotelica dal Liside platonico,
e mettere in luce il significato filosofico generale della tripartizione della
φιλία in Aristotele. Bibliografia Adkins,
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«Classical Quarterly», 13: 30-45. Annas, J. (1986), Plato and Aristotle on
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Milano-Brescia: Morcelliana. Note al testo [1]
Cfr. Phys. I 1: la conoscenza procede da ciò che è più prossimo e più
conoscibile per noi, a ciò che è primo per se o per natura; se tale “risalita”
verso i principi a partire da ciò che ci è immediatamente più vicino è il
metodo della fisica, a fortiori esso si applica all’ambito etico, che è ambito
segnatamente umano: cfr. Et. Nic. I 2, 1095a31-b4, ma anche De An. II 2,
413a11-17 e Met. VII 3, 1029a35-b12. Sul valore epistemologico di questa
differenza, resta decisivo Ruggiu (1965). [2] Per esempio: quando diciamo,
tipicamente, qualcuno «amico» di qualcun altro? Sul rapporto costitutivo fra il
primo-per-noi e il linguaggio, cfr. Wieland (1993). [3] Cfr. Top. I 1, 100 b
21-23; intendo questa definizione di ἔνδοξον come una disgiunzione inclusiva:
se un’opinione è condivisa almeno da uno degli insiemi indicati (tutti, i più,
i sapienti, qualcuno di essi), è un ἔνδοξον, e ciò che lo rende tale può essere
quantitativo, o qualitativo, o entrambi: per esempio, se è condiviso da tutti,
lo sarà anche dai sapienti. [4] Sulla intima connessione fra δοκοῦντα, λεγόμενα
e φαινόμενα, cfr. Owen (1967), Nussbaum (1986b). [5] Cfr. De An. I 1, 402b
16-403a8. [6] Cfr. Herod. III 82, 35 e Tucid. I 137, 4, in cui si trova
l’endiadi «συμμαχίᾳ καὶ φιλία». [7] Nei poemi omerici non vi è il termine φιλία
– le prime occorrenze si trovano in Teognide (Teog. I, 31-38, 53-60, 323-28) –
ma termini analoghi come φιλότης, φίλος sono utilizzati sia a proposito del
rapporto fra uomini che di quello fra uomini e dèi. Sulla φιλία nel mondo
antico, cfr. Pizzolato (1993), Fraisse (1974). [8] Nel Fedro platonico
(228a-e), Socrate confuta un discorso di Lisia sulla φιλία, che Fedro custodiva
sotto il mantello: quindi è verosimile che anche prima della data di
composizione del Liside la φιλία fosse importante oggetto di dibattito e di
riflessione critica. Del resto Giamblico (De Pythagorica Vita, 229-30) e
Diogene Laerzio (Vitae Philosophorum, VIII, 10) attribuiscono già a Pitagora la
prima trattazione filosofica della φιλία. [9] Anche il Fedro e il Simposio si
occupano lungamente della φιλία – l’eros è una forma della φιλία, per Platone
quella più significativa – ma, come cercherò di mostrare, l’indagine
aristotelica dipende sistematicamente dal Liside: per così dire, essa articola
una differente risposta a quelle aporie, rispetto a quella che propone Platone
nel Simposio e nel Fedro. [10] Meglio: se qualcuno sia amico di qualcun altro
in quanto ami o, piuttosto, in quanto sia amato. [11] φίλος + dativo significa
“caro a qualcuno”, φίλος + genitivo indica colui a cui qualcuno è caro, due
individui sono φίλοι, quando sono l’uno “caro” all’altro. [12] Alcuni
interpreti leggono il Liside come un esercizio dialettico, filosoficamente
debole [Versenyi (1975)] o più retorico-sofistico che filosofico [Bordt (1988)],
o dal significato prolettico-introduttivo rispetto ai maturi Simposio e Fedro
[Kahn (1996), ma già Gomperz (2013), Auslage 5, e Willamovitz (1959)]; benché
questi due dialoghi successivi ne possano a buon diritto adombrare il valore
intrinseco, tuttavia i temi sollevati dal Liside sono nodi aporetici
sostanziali, e non deve fuorviare il fatto che Socrate mutui il linguaggio e lo
stile argomentativo dal tipo di interlocutore che affronta (per esempio,
“facendo” il sofista col sofista Menesseno, e così via). Per una
interpretazione non riduttiva del Liside e del suo valore speculativo, è
illuminante Trabattoni (2004). [13] Un altro topos tradizionale – per cui la
vera amicizia è fra ἀγαθοί – ricorrente in Platone: per restare all’esempio più
noto, in Resp. I, 351a-e Socrate replica a Trasimaco che fra malvagi e ingiusti
non può esserci alcuna cooperazione né amicizia; era comunque un tema
essenziale per Socrate (cfr. Senofonte, Mem., 2.6 1-7). [14] Sull’ascendenza
omerica di questo topos tradizionale, e sulla sua importanza per Aristotele
(cfr. infra: Par. III), cfr. Adkins (1963). [15] La coscienza del male come
tale è sintomo del fatto che il male è relativo e non assoluto. [16] Qui nel
Liside si tratta di ἐπιθυμία (cfr. 217c). [17] Tralascio qui la questione della
possibile identificazione del Primo Amico col Bene: ciò che rileva, qui, è il
fatto che esso trascenda gli amici concreti, i quali sono tali solo «a parole»
e stanno al Primo amico – che è tale «in realtà» (τῷ ὄντι) – come i mezzi al
fine (cfr. Lys. 220b1-4). [18] Lys 222e1-7. [19] La letteratura sull’amicizia
in Aristotele è sterminata: in luogo di proporre una lunga lista di studi che
comunque sarebbe tutt’altro che esaustiva, nel seguito mi limiterò a citare
alcuni contributi che sono particolarmente pertinenti agli aspetti che
tratterò. Un commento sintetico e preciso a Et. Nic. VIII e IX è Pakaluk
(1998). [20] È il giudizio nettamente prevalente, anche se non unanime. [21]
Sul rapporto fra il Liside e le Etiche aristoteliche riguardo l’amicizia, buoni
spunti si trovano in Annas (1986). [22] Et. Eud. VII 1, 1234b18-1235a4; cfr.
anche Et. Nic. VIII 1. [23] Et. Eud. VII 1, 1155a33-b7. [24] Trad. it.
modificata. [25] Cfr. supra: nota 16. [26] Et. Eud. VII 2, 1235b22-23. [27] C’è
chi crede che il piacere sia un bene, ma c’è anche chi crede che non lo sia
eppure gli appare – porto dalla φαντασία – come se lo fosse. Nell’acratico la
forza della φαντασία sopravanza, nelle scelte pratiche, quella della δόξα. [28]
Il «bene apparente» è qualcosa che appare come bene; ma può anche non esserlo:
tuttavia, anche il bene reale motiva il desiderio solo apparendo come bene.
Dunque «apparente» qui non va affatto interpretato come falsa apparenza. [29]
Et. Eud. VII 2, 1235b30-1236a1. [30] Il piacevole non è l’immediato, ma anche
ciò che non procura dispiacere futuro; Aristotele sa bene che molte cose
dannose possono procurare del piacere immediato. Ma chi non è acratico, conscio
delle conseguenze negative, accorderà il suo desiderio con la sua ragione, e la
motivazione data dall’ipotetico piacere immediato sarà soverchiata dalla
motivazione a evitare danni futuri. [31] Questo punto è più chiaro per come è
presentato in Et. Nic. VIII 2, 1155b23-27. [32] Nelle espressioni δι’ ἀρετὴν,
διὰ τὸ χρήσιμον, δι’ ἡδονήν, la preposizione significa a un tempo «in base a»,
«a causa di», «al fine di»: il rispettivo amabile è ciò che causa
quell’amicizia, ciò che ne costituisce il fondamento o ragion d’essere, ciò che
ne rappresenta il fine [su un’idea analoga, cfr. Nussbaum (1986a)]; nei termini
della nota teoria delle quattro cause (dei quattro sensi del διὰ τί, cfr. Phys.
II 3), potremmo plausibilmente intendere il tipo di amabile come causa
efficiente, formale e finale della rispettiva relazione amicale. [33] Cfr. Et.
Nic. VIII 2, 1155b26-31. Mentre la φίλησις è una passione o affezione (πάθος),
la φιλία è uno stato abituale (ἕξις, 1557b28-29). [34] Cfr. Et. Eud. VII 2,
1237b17-23; Et. Nic. VIII 4, 1156b30-33. [35] Vi è discussione sul fatto che
questa caratterizzazione definitoria offra condizioni sufficienti perché
qualcosa sia amicizia, oppure solo condizioni necessarie; propenderei per la
seconda opzione: per esempio, Aristotele ritiene che per diventare amici deve
passare del tempo, e molti scambiano il desiderio di essere amici con
l’amicizia stessa (Et. Eud. VII 2, 1237b12-22); ma se il desiderio è reciproco,
sussiste già benevolenza reciproca non celata, che non è ancora amicizia. [36]
Sul focal meaning cfr. Owen (1963), Ferejohn (1980). L’exemplum princeps è
quello della Metafisica: la sostanza è il focal meaning dell’essere, tutto ciò
che è o è sostanza o rimanda a una sostanza, al modo in cui tutto ciò che è
«sano» rimanda alla salute e tutto ciò che è «medico» alla medicina (cfr. Met.
IV 2, 1003a32-1003b11). [37] Cfr. Fortenbaugh (1975). [38] Può esserlo in modo
mediato, come foriero di un altro utile, al modo in cui qualcosa è mezzo di un
altro mezzo, ma in ultima istanza l’utile è tale perché porta al bene e i mezzi
sono tali perché portano al fine. [39] Per esempio, in De An. III 7, 431a10-13
il piacere è definito come l’essere percettivamente attivi nei confronti del
bene in quanto bene; l’utilità è indefinibile se non come capacità di
avvicinarci a un qualche bene; l’utile sta al bene come il mezzo al fine, e non
vi è modo di definire cosa sia un mezzo, senza chiamare in causa la nozione di
fine. [40] Et. Eud. VII 2, 1236a25-26. [41] Et. Eud. VII 2, 1236b1-2; Et. Nic.
VIII 4, 1156b7-8. [42] Cfr. Esiodo, Opera et dies, 342-360; 707-723. [43]
Chiamare amicizia solo quella prima, equivarrebbe a «violentare i fenomeni»
(βιάζεσθαι τὰ φαινόμενα, Et. Eud. VII 2, 1236b 22). [44] Et. Nic. VIII 4,
1156b7. [45] La prima amicizia, infatti è quella «secondo virtù e a causa del
piacere della virtù» (EE VII 1238a31-32). [46] Secondo Aspasio (164.3-11), Owen
(1960) e Dirlmeier (1967) vi sarebbe comunque focal meaning e relazione πρὸς ἓν,
ancorché non esplicitata. [47] Et. Nic. VIII 5, 1157a32. [48] Se poi
l’individuo è acratico, potrebbe anche non credere che qualcosa sia il suo
bene, ma perseguirlo perché gli “appare” bene e frequentare individui utili a
qualcosa che egli cerca di procurarsi pur sapendo che non è il suo bene: come
uno che frequentasse un pusher in modo costante per procurarsi della droga,
sapendo di farsi del male ma perseverando nel suo comportamento autodistruttivo
(e nelle frequentazioni relative) per debolezza. [49] Sulla rilevanza della
distinzione fra «bene per qualcuno» e «bene incondizionato» in rapporto alla
teoria delle tre amicizie, insiste doverosamente O’Connor (1990). [50] Et. Nic.
IX 10,1170b20-29. [51] Così, nella Nicomachea (Et. Nic. VIII 2, 1156a17), non
nella Eudemia. [52] Cfr. supra: Par. II, 3. [53] EN VIII 3, 1156 a 16-17. [54]
EN VIII 3, 1156a18-19 [55] Cooper (1977) sostiene che le amicizie accidentali
siano tali perché dipendano da tratti accidentali del carattere dell’amico
amato; Payne (2000) replica che anche i tratti in virtù di cui qualcuno risulta
piacevole o utile possono essere altrettanto essenziali di quelli che lo
rendono virtuoso: gli amici perfetti sarebbero scelti «per sé stessi» in quanto
i loro caratteri virtuosi sono scelti come fine e non come mezzo (per altro).
Ma le letture sono forse componibili: l’esser utile o piacevole, anche se
sopravviene a tratti essenziali del carattere altrui, restano esterni
all’altro, in quanto relazionali in un senso diverso dalla virtù; l’esser buono
è sia essenziale e intrinseco all’amico, che scelto per sé stesso e non per
altro, e rende anche l’amico stesso, che ha quel carattere virtuoso, scelto per
sé stesso e non per altro. Cfr. supra: nota 31. [56] In Et. Eud. VII 7,
1241a5-7 si afferma che «se uno vuole per un altro i beni perché costui gli è
utile, li vorrebbe allora non per quello ma per sé stesso; mentre invece la
benevolenza, proprio come l’amicizia, si ritiene che sia rivolta non a quello
che la prova, ma a colui per il quale la si prova. Pertanto, è chiaro che la
benevolenza è in relazione con l’amicizia etica». Qui pare che solo l’amicizia
etica (=virtuosa) implichi la benevolenza, che però è un costituente della
definizione generale di amicizia. Da passi di questo tenore pare che le
amicizie incomplete non siano amicizie in senso proprio, visto che non
soddisfano la definizione; Aristotele è oscillante, è innegabile che vi sia una
tensione irrisolta fra la sua vocazione inclusiva e lo sforzo di enucleazione
della “vera” amicizia come tipologia normante e assiologicamente sovraordinata,
che non è semplicemente una delle tre amicizie ma quella par excellence, di cui
le altre sono approssimazioni manchevoli. Si può accogliere la lettura di
Walker (1979), per cui l’amicizia perfetta soddisfa criteri più severi, le
altre criteri più laschi. [57] Si pensi alla percezione per accidente (De An.
II 6, III 1): essa è comunque studiata come una modalità genuina di percezione:
le ragioni per cui essa è percezione per accidente non inficiano il fatto di
essere genuinamente un tipo di percezione. [58] I due amici perfetti, in quanto
buoni e virtuosi, realizzano l’eccellenza della natura umana, sono esempi del
bene incondizionato e del piacere incondizionato. [59] Et. Nic. VIII 3,
1156a31-1156b1. [60] Et. Eud. VII 2, 1238a11-30; Et. Nic. VIII 3, 1156b17-32.
[61] Può succedere che l’altro cambi, peggiori, o impazzisca, ma non accade per
lo più. Cfr. Et. Nic. IX 3. [62] Et. Nic. VIII 4, 1156b10. [63] Et. Eud. VII 2,
1236b31. [64] La sventura, poi, può rivelare che un’amicizia che pareva
perfetta era in realtà in vista dell’utile (Et. Eud. VII 2, 1238a19-21). [65]
Lys. 211e-212a. [66] Et. Eud. VII 2, 1237b13-27. [67] Et. Nic. VIII 3,
1156a24-31. [68] Et. Nic. VIII 7, 1158a21. [69] Et. Eud. VII 4; Et. Nic. VIII
8. [70] Et. Eud. VII 9-11, Et. Nic. VIII 12-14. [71] Et. Eud. VII 12, 1244b4-5.
[72] Cfr. Pol. I 1, 1253a10-12; Et. Nic. IX 12, 1169b18-19. [73] Et. Eud. VII
12, 1245b15-16. [74] Et. Nic. 1245b18. [75] Et. Eud. VII 12, 1245b18-19. [76]
Si tratta di una complessità anche filologica, dovuta a corruzioni del testo.
Su ciò, cfr. Kosman (2004). [77] Delle tre anime – nutritivo-riproduttiva,
percettiva, razionale – la percettiva e la razionale sono quelle che
discriminano la realtà (cfr. De An. III 3, 427a17-23); la percettiva, poi, è
intimamente connessa col desiderio e, quindi, con l’azione (cfr. De An. III
9-11). Vivere significa realizzare le proprie capacità naturali e acquisite, il
che per l’uomo implica anzitutto l’esercizio di percezione e pensiero (ove
entrambe vanno concepite come connesse all’azione, in quanto coinvolgono anche
desiderio e intelletto pratico). Su ciò, mi permetto di rimandare a Zucca (2015),
Capp. II e VI. [78] La felicità è «una certa attività dell’anima secondo virtù
completa» (Et. Nic. II 13, 1102a5-6). [79] Et. Eud. VII 12, 1245a30; Et. Nic.
IX 9, 1166 a 32, 1170 b 6. [80] Et. Eud. VII 12, 1245a35-7. [81] Trad. it.
modificata. [82] In Et. Eud. VII 6 e in Et. Nic. IX 4 si argomenta che i tipi
di relazione che si hanno con gli altri dipendono dal rapporto che si ha con sé
stessi: chi è buono e virtuoso sarà anche amico di sé stesso in modo armonico e
costante – sebbene si possa parlare di amicizia solo κατὰ ἀναλογίαν (1240a13),
nel caso dell’auto-rapporto – chi è malvagio sarà incostante e in conflitto con
sé stesso, e in senso analogico sarà nemico di sé stesso. Questa idea non
contraddice l’idea per cui la conoscenza di sé passa per la conoscenza
dell’altro (Et. Nic. IX 9), ma anzi la completa: il buono e virtuoso è felice
anzitutto in quanto ha un “sano” rapporto con sé, ma si conosce e realizza come
felice solo in quanto ha un rapporto di riconoscimento reciproco con amici che
hanno, a loro volta, un altrettanto “sano” rapporto con sé stessi. [83] L’idea
di un accesso introspettivo infallibile ed essenzialmente privato ai nostri
propri atti mentali, così tipicamente moderna, è affatto estranea ad
Aristotele. [84] Come è naturale porre l’enfasi sul valore speculativo
intrinseco della teoria, così è altrettanto opportuno ricordare che l’amicizia
perfetta aristotelica resta prerogativa di un sottoinsieme dei maschi adulti
liberi; tuttavia, questa tara storica affetta la teoria dell’amicizia, per così
dire, mediatamente: in quanto restringe a quel sottoinsieme la capacità di
realizzare l’eccellenza morale, precondizione della relazione d’amicizia
perfetta. [85] Non uso la locuzione «sapere chi sono», anacronisticamente, come
il coglimento di me stesso in quanto individualità irriducibile, magari
ineffabile e inaccessibile ad altri – non è certo questa sorta di soggettività
“novecentesca”, che secondo Aristotele giungerebbe alla coscienza di sé
nell’amicizia – bensì come il venire a conoscenza di che tipo di persona sono.
[86] Come bene intrinseco che trascende il livello del piacevole, è un amabile
oggetto di volontà piuttosto che di appetito (Et. Eud. VII 2, 1235b22-23), e la
volontà è desiderio razionale di beni scelti. [87] Un’analisi sistematica e
comparativa delle nozioni di amicizia e amore in Platone e Aristotele, è Price
(1989). Cfr. anche Kahn (1981). [88] Cfr. Phaedr. 265b-c. [89] La relazione
erotica amante/amato, peraltro, è anche meno significativa e più instabile di
altre relazioni fondate sul piacere – dunque, già di per sé instabili – in
quanto in questo caso il piacere «non deriva dalla stessa fonte» (l’uno gode
nell’esser corteggiato, l’altro nel contemplare l’altro, Et. Nic. VIII 5,
1157a2-10). [90] Lys. 222a3-7. Proverbi, impicatura proverbiale. A Errare
humanum est.jpg Ab amico reconciliato cave. Guardati da un amico
riconciliato.[1] Absit reverentia vero. Bando ai pudori di fronte alla verità.
(Ovidio) Abusus non tollit usum. L'abuso non esclude l'uso.[2] Accidere ex una
scintilla incendia passim. A volte da una sola scintilla scoppia un
incendio.[3] Ad impossibilia nemo tenetur. Nessuno è obbligato a fare
l'impossibile.[4] Adulator propriis commodis tantum suadet L'adulatore tiene di
mira solo i suoi interessi.[5] (Giulio Cesare) Amantis ius iurandum poenam non
habet. Il giuramento dell'innamorato non si può punire.[6] Amicus certus in re
incerta cernitur. Il vero amico si rivela nelle situazioni difficili.[7]
(Quinto Ennio) Amicus omnibus, amicus nemini. Amico di tutti, amico di
nessuno.[8] Amicus Plato, sed magis amica veritas. Amo Platone, ma amo di più
la verità.[9] (Aristotele) Amor arma ministrat. L'amore procura le armi [agli
amanti perché possano essere grati alla persona amata].[10] (proverbio
medievale) Amor caecus. L'amore è cieco.[11] Amor gignit amorem.[10] Amore
genera amore. Amor tussisque non celatur. L'amore e la tosse non si possono
nascondere.[12] Amoris vulnus sanat idem qui facit. La ferita d'amore la risana
chi la fa.[12] Anceps fortuna belli. Le sorti della guerra sono incerte.[9]
(Cicerone) Aquila non captat muscas. L'aquila non prende mosche.[13] Athenas
noctuas mittere.[14] Mandare nottole ad Atene. Fare cosa inutile e superflua.
Ars est celare artem.[15] La perfezione dell'arte sta nel celarla. Audi, vide,
tace, si vis vivere in pace.[16] Ascolta, guarda e taci, se vuoi vivere in
pace. B Barba virile decus, et sine barba pecus.[17] La barba è decoro
dell'uomo e chi è senza barba è pecoro. Bene qui latuit, bene vixit. Ben visse
chi seppe vivere nell'oscurità.[18] (Ovidio) Beati monoculi in terra caecorum.
Beati i monòcoli nel paese dei ciechi. Bis dat qui cito dat. Dà due volte chi
dà presto.[19] Bis peccat qui crimen negat.[20] È due volte colpevole chi nega
la propria colpa. Bis pueris senes.[21] Il vecchio è due volte fanciullo. Bonis
nocet qui malis parcet. Chi risparmia i malvagi danneggia i buoni.[22] Bonum
nomen, bonum omen.[23] Buon nome, buon augurio. C Caecus non judicat de
colore.[24] Il cieco non giudica i colori. Non si può giudicare ciò che si sottrae
alle nostre attitudini. Caesar non supra grammaticos.[25] Cesare non (ha
autorità) sopra i grammatici. Le persone più altolocate non possono avere
autorità se non su quelle cose di cui s'intendono. Canis caninam non est.[26]
Cane non mangia cane. Carpe diem. Cogli il giorno. (Quinto Orazio Flacco)
Caseus est sanus, quem dat avara manus. Fa bene quel formaggio servito da una
mano avara.[27] Causa patrocinio non bona peior erit. La causa cattiva diventa
peggiore col volerla difendere.[28] (Ovidio) Causa perit iusta, si dextera non
sit onusta.[29] La giusta causa soccombe se la destra non è piena [di denaro].
Cave a signatis. Guàrdati dai segnati.[28] Antico adagio in odio a coloro che
sono affetti da qualche imperfezione fisica: guerci, zoppi, ecc. Cave tibi ab
acquis silentibus. Guàrdati dalle acque chete.[28] Cavendo tutus.[30] Se sarai
cauto, sarai sicuro. Cogito ergo sum. Penso dunque sono. (Cartesio)
Commendatoria verba non obligant.[31] Le parole di raccomandazione non
obbligano. Commune periculum concordiam paret.[32] Il comune pericolo prepari
la concordia. Consuetudo est altera natura. L'abitudine è una seconda
natura.[33] D De gustibus non est disputandum. Sui gusti non si discute.[34]
Difficilis in otio quies. È difficile esser tranquilli nell'ozio.[35] Dulce
bellum inexpertis, expertus metuit. La guerra è dolce per chi non ne ha
esperienza, l'esperto la teme.[36] (proverbio medievale) Dum caput dolet,
caetera membra languent. Quando duole il capo, tutte le membra languono.[37]
Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur. Mentre a Roma si delibera, Sagunto è
espugnata.[38] Dum vinum intrat exit sapientia.[39] Mentre il vino entra, esce
la sapienza. Duo cum faciunt idem, non est idem.[35] Quando due fanno la stessa
cosa, non è più la stessa cosa. E Errare humanum est, perseverare autem
diabolicum.[40] L'errare è cosa umana, il perseverare nella colpa invece è
diabolico. Error hesternus sit tibi doctor hodiernus.[41] L'errore di ieri ti
sia maestro oggi. Est in canitie ridicula Venus. È ridicolo l'amore di un
vecchio.[42] (Proverbio medievale) Est modus in rebus, sunt certi denique fines
| quos ultra citraque nequit consistere rectum. C'è una giusta misura nelle
cose, ci sono giusti confini | al di qua e al di là dei quali non può
sussistere la cosa giusta. (Quinto Orazio Flacco) Ex ungue leonem.[43]
Dall'unghia si conosce il leone. Da un atto compiuto si rivela la forza
dell'autore, morale o materiale. Excusatio non petita fit accusatio manifesta
(proverbio medievale)[44] Chi si scusa senza esserne richiesto s'accusa. F
Fabas indulcat fames.[45] La fame addolcisce le fave. Facile est inventis
addere.[46] È facile aggiungere a ciò che è stato inventato. Facile perit
amicitia coacta.[47] Facilmente muore un'amicizia forzata. Facit experientia
cautos.[48] L'esperienza rende cauti. Fac sapias et liber eris.[49] Fa' di
sapere e sarai libero. Felicium omnes sunt cognati. Tutti sono parenti dei
fortunati.[8] Fiat iustitia et pereat mundus. Sia fatta giustizia e perisca
pure il mondo. Frangitur ira gravis cum sit responsio suavis.[50] Una dolce
risposta infrange l'ira. Frustra sapiens qui sibi non sapet.[51] Inutilmente sa
chi non sa per sé. G Gutta cavat lapidem. La goccia scava la pietra. H Homo
longus raro sapiens; sed si sapiens, sapientissimus. Un uomo lungo (ossia alto)
di rado è sapiente; ma se è sapiente, è sapientissimo.[52] Homo sine pecunia,
imago mortis. L'uomo senza danaro è l'immagine della morte.[53] I Ianuensis
ergo mercator. Genovese quindi mercante.[54] Imperare sibi maximum imperium
est. Comandare a sé stessi è la forma più grande di comando. (Seneca, Lettere a
Lucilio, CXIII.30) In magno mari capiuntur flumine pisces.[55] Nei grandi fiumi
si pescano i grandi pesci. Nei grandi affari si fanno i grossi guadagni. In
medio stat virtus. La virtù sta nel mezzo. (Orazio) In vino veritas. Nel vino
c'è la verità. L M Magnum vectigal parsimonia.[56] La parsimonia è un gran
capitale. (Cicerone) Major e longiquo reverentia.[56] La riverenza è maggiore
da lontano. (Tacito) Mala gallina, malum ovum.[57] Gallina cattiva, uovo
cattivo. Mea mihi conscientia pluris est quam omnium sermo.[58] Per me val più
la mia coscienza che il discorso di tutti. (Cicerone) Medicus curat, natura
sanat. Il medico cura ma è la natura che guarisce.[59] Melius est abundare quam
deficere. Meglio abbondare che trovarsi in scarsezza.[60] Mors tua vita
mea.[56] La tua morte è la mia vita. Mortui non mordent. I morti non
mordono[61] [truismo] Mortuo leoni et lepores insultant. Anche le lepri
insultano un leone morto.[62] Multi multa, nemo omnia novit. Molti sanno molto,
nessuno sa tutto.[63] N Natura non facit saltus. La natura non procede per
salti.[64] Naturalia non sunt turpia.[65] Le cose naturali non sono turpi. Nemo
non formosus filius matri. Nessun figlio non è bello per sua madre.[66] Ne
pulsato portam alterius, nisi velis pulsetur et tua.[67] Non bussare alla porta
altrui se non vuoi che bussino alla tua. Nihil est in intellectu quod non
fuerit in sensu. Nulla è nell'intelligenza che prima non fosse nel senso[68]
Non omne quod licet honestum est.[69] Non tutto ciò che è lecito è onesto. Non
omnibus dormio. Non dormo per tutti.[70] Nomen omen Il nome è un presagio (v.
anche nomina sunt consequentia rerum e conveniunt rebus nomina saepe suis)
(Plauto, Persa, 625) Nomina sunt consequentia rerum. I nomi sono corrispondenti
alle cose. (Giustiniano, Institutiones, 2, 7, 3) O Omne animal post coitum
triste. Tutti gli animali sono mesti dopo il coito.[71] Omne ignotum pro
terribili.[72] Tutto ciò che è ignoto incute paura. Omnia munda mundis. Per chi
è puro tutto è puro. (Paolo di Tarso) Omnia vincit amor. L'amore vince ogni
cosa. (Virgilio, Bucoliche X, 69) Omnia fert aetas. Il tempo porta via tutte le
cose. (Virgilio) Omnis festinatio ex parte diaboli est.[73] Ogni fretta viene
dal diavolo. P Panem et circenses. Pane e giochi [per distrarre il popolo].
(Giovenale, X 81) Patere quam ipse fecisti legem.[74] Subisci la legge che tu
stesso hai fatta. Pectus est enim quod disertos facit È infatti il cuore che
rende eloquenti (Quintiliano, 10,7,15) Pecunia non olet Il denaro non puzza
(Vespasiano) Per aspera ad astra. Alle stelle [si giunge] attraverso aspri
sentieri.[75] Periculum in mora. Vi è pericolo nel ritardo. (Tito Livio, Ab
urbe condita; XXXVIII, 25) Philosophum non facit barbam.[76] La barba non fa il
filosofo. Primum vivere deinde philosophari (Thomas Hobbes) Prima vivere, poi
fare della filosofia. Q Quando Sol est in Leone, bibe vinum cum pistone. Quando
il sole è in Leone [segno zodiacale], bevi il vino col pistone [a
garganella].[77] Qui aquam Nili bibit rursus bibet.[78] Chi beve l'acqua del
Nilo la berrà di nuovo. È destinato a ritornarvi. Qui asinum non potest,
stratum caedit.[79] Chi non può bastonare l'asino bastona la bardatura. Qui
gladio ferit gladio perit. Chi di spada ferisce di spada perisce.[80] Qui in
pergula natus est, aedes non somniatur. Chi è nato in una capanna, i palazzi
non li vede neanche in sogno. (Petronio, 74,14) Qui jacet in terra non habet
unde cadat. Per chi giace in terra non c'è pericolo di cadere.[81] [truismo]
Qui medice vivit, misere vivit. Chi vive sotto la guida del medico, vive
miseramente.[81] Qui scribit, bis legit. Chi scrive, legge due volte.[82]
Quisque faber fortunae suae. Ognuno è artefice del proprio destino. (Appio
Claudio Cieco) Quod differtur non aufertur Ciò che si dilaziona non lo si
perde[83] Quod non potest diabolus mulier evincit. Ciò che non può il diavolo,
l'ottiene la donna.[84] (proverbio medievale) Quot homines tot sententiae.
Tanti uomini, altrettante opinioni.[85] Quot servi tot hostes. Tanti servi,
tanti nemici.[85] R Re opitulandum, non verbis.[86] L'aiuto va dato con i
fatti, non con le parole. Rem tene, verba sequentur Possiedi l'argomento e le
parole seguiranno. (Marco Porcio Catone) Res satis est nota, plus foetent
stercora mota.[87] È cosa nota: lo sterco più è stuzzicato e più puzza. S Salus
extra Ecclesiam non est[88] Al di fuori della Chiesa non v'è salvezza (Tascio
Cecilio Cipriano, Lettera, 73, 21) Sapiens nihil affirmat quod non probet.[89]
Il saggio nulla afferma che non possa provare. Satis quod sufficit.[90] Ciò che
è sufficiente al bisogno, basta. Semel abas, semper abas.[91] Una volta abate,
sempre abate. Proverbio medioevale, affermante che chi ha vestito una volta
l'abito sacerdotale non può spogliarsi più delle idee e delle abitudini
ecclesiastiche. Significa anche, per estensione, che si conservano sempre le
idee una volta acquistate. Semel in anno licet insanire. Una volta all'anno è
lecito fare follie. (Seneca) Senatores boni viri: senatus autem mala
bestia.[92] I senatori sono brava gente; ma il senato è una cattiva bestia.
Sero venientibus ossa.[93] Per chi viene troppo tardi restano le ossa. Si vis
pacem, para bellum. Se vuoi la pace prepara la guerra. (Vegezio) Sicut mater,
ita et filia eius. Quale la madre, tale anche la figlia.[94] Simia simia est,
etiamsi aurea gestet insignia.[95] La scimmia resta sempre scimmia, anche se
indossa ornamenti d'oro. Sol lucet omnibus.[96] Il sole splende per tutti. Vi
sono delle cose di cui tutti gli uomini possono godere. Sorex suo perit
indicio.[97] Il topo perisce per essersi rivelato da sé. Sublata causa,
tollitur effectum.[98] Soppressa la causa, scompare l'effetto. T Timeo Danaos
et dona ferentes. Io temo comunque i Greci, anche se recano doni. (Publio
Virgilio Marone) U Ubi maior, minor cessat. Dinanzi al più forte, il debole
scompare.[8] Ubi opes, ibi amici. Dove sono le ricchezze, lì sono anche gli
amici.[8] Ubi uber, ibi tuber.[99] Dove è la mammella, ivi è il tumore. Dove
c'è abbondanza, ivi si forma il marciume, la corruzione. V Verba movent,
exempla trahunt.[100] Le parole commuovono, ma gli esempi trascinano. Verba
volant, scripta manent.[101] Le parole volano, gli scritti restano.
Vigilantibus, non dormientibus, jura succurunt.[102] Le leggi forniscono aiuto
ai vigilanti, non ai dormienti. Vinum lac senum.[103] Il vino è il latte dei
vecchi. Vulgus vult decipi, ergo decipiatur. Il popolo (il mondo) vuole essere
ingannato, e allora sia ingannato.[104] Note
Citato in Mastellaro, p. 21.
Citato in Tosi 2017, n. 1408. Citato
in Tosi 2017, n. 1010. Citato in 2005,
p. 6. Citato in Mastellaro, p. 11. Citato in Mastellaro, p. 25. Citato in Mastellaro, p. 18. Citato in Mastellaro, p. 20. Citato e tradotto in 2005, p. 15. Citato in De Mauri, p. 27. Citato in Mastellaro, p. 24. Citato in Mastellaro, p. 23. Citato in Tosi 2017, n. 2265. Citato, con spiegazione, in Umberto Bosco,
Lessico universale italiano, vol. XV, Istituto della Enciclopedia italiana,
Roma, 1968, p. 59. Citato e tradotto in
2005, § 169. Citato e tradotto in 2005,
§ 188. Citato e tradotto in 2005, §
215. Citato con traduzione in 2005, p.
28. Citato in 1921, p. 43, § 161. Citato e tradotto in 2005, § 243. Citato e tradotto in Lo Forte, § 148. Citato con traduzione in 2005, p. 30. Citato e tradotto in 2005, § 256. Citato e tradotto in Lo Forte, § 154. Citato e tradotto in Lo Forte, § 155. Citato e tradotto in 2005, § 280. Citato in Andrea Perin e Francesca Tasso (a
cura di), Il sapore dell'arte, Skira, Milano, 2010, p. 41. Citato e tradotto in 2005, p. 37. Citato e tradotto in 2005, § 305. Citato e tradotto in 2005, § 312. Citato e tradotto in 2005, § 343. Citato e tradotto in 2005, § 344. Citato in Mastellaro, p. 9. Citato in 2005, p. 57. Citato in Arthur Schopenhauer, Aforismi sulla
saggezza nella vita, traduzione di Oscar Chilesotti, Dumolard, Milano,
1885. Citato in Marco Costa, Psicologia
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2005, § 732. Citato e tradotto in 2005,
§ 739. Citato e tradotto in 2005, § 741. Citato e tradotto in 2005, § 744. Citato e tradotto in 2005, § 747. Citato e tradotto in 2005, § 829. Citato e tradotto in 2005, § 835. Citato in 2005, p. 108. Citato in 2005, p. 109, § 941. Citato in Filippo Ruschi, Questioni di
spazio: la terra, il mare, il diritto secondo Carl Schmitt, G. Giappichelli
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2005, p. 168. Citato in 1921, p. 88, §
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Medicina legale e Polizia medica, vol. 4, a cura di Giuseppe Chiappari, Pirotta,
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Mädchen suchen ihr Glück: Caleidoscopio berlinese, Edizioni Mediterranee, Roma,
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§ 1970. Citato in 2005, p. 248. (DE) Citato in Friedrich Otto Bittrich,
Ägypten und Libyen, Safari-Verlag, Berlino, 1953, p. 7. Citato e tradotto in 2005, § 2167. Dal Vangelo: ... tutti quelli che mettono
mano alla spada periranno di spada (Mt 26:52).
Citato in 2005, p. 256. Citato in
2005, p. 258. Citato in Tosi 2017, n.
1174. Citato in De Mauri, p. 171. Citato in 2005, p. 266. Citato e tradotto in 2005, § 2342. Citato e tradotto in 2005, § 2363. Spesso la frase viene attribuita a Cipriano
in una forma diversa: Extra Ecclesiam nulla salus. Citato e tradotto in 2005, § 2415. Citato e tradotto in 2005, § 2421. Citato e tradotto in Lo Forte, § 1034. Citato e tradotto in 2005, § 2457. Citato e tradotto in 2005, § 2472. Citato in 1921, p. 138, § 465. Citato e tradotto in 2005, § 2528. Citato e tradotto in Lo Forte, § 1079. Citato e tradotto in 2005, § 2606. Citato e tradotto in Lo Forte, § 1097. Citato e tradotto in Lo Forte, § 1169. Citato e tradotto in Lo Forte, § 1203. Citato e tradotto in Lo Forte, § 1204. Citato e tradotto in Lo Forte, § 1216. Citato in Proverbi siciliani raccolti e
confrontati con quelli degli altri dialetti d'Italia da Giuseppe Pitrè, Luigi
Pedone Lauriel, Palermo, 1880, vol. IV, p. 140.
Traduzione in voce su Wikipedia. Bibliografia L. De Mauri, 5000 proverbi
e motti latini, seconda edizione, Hoepli, Milano, 2006. ISBN 978-88-203-0992-0
Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, Milano, 1921. Giuseppe Fumagalli,
L'ape latina, Hoepli, Milano, 2005. ISBN 88-203-0033-8 Giacomo Lo Forte, Ad
hoc, Sandron, 1921. Paola Mastellaro, Il libro delle citazioni latine e greche,
Mondadori, Milano, 2012. ISBN 978-88-04-47133-2. Gustavo Benelli, Raccolta di
proverbi, massime morali, aneddoti, ed altro, Carnesecchi, Firenze, 1876. Renzo
Tosi, Dizionario delle sentenze latine e greche, Rizzoli, 2017. Voci correlate
Modi di dire latini Lingua latina Palindromi latini Categorie: Lingua
latinaProverbi per nazione. Proverbi
Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi: Proverbi toscani. A A brigante
brigante e mezzo.[fonte 1] A buon cavalier non manca lancia.[fonte 2] A buon
cavallo non manca sella.[fonte 2] A buon cavallo non occorre dir trotta.[fonte
3] A buon intenditor poche parole.[1][fonte 2] A caldo autunno segue lungo
inverno.[fonte 4] A cane scottato l'acqua fredda par calda.[fonte 5] A cane
vecchio non dargli cuccia.[fonte 2] A carnevale ogni scherzo vale, ma che sia
uno scherzo che sa di sale.[fonte 6] A caval che corre, non abbisognano speroni.[fonte
3] A caval donato non si guarda in bocca.[2][fonte 2] A cavalier novizio,
cavallo senza vizio.[fonte 3] A cavallo d'altri non si dice zoppo.[fonte 3] A
cavallo di fuoco, uomo di paglia, a uomo di paglia, cavallo di fuoco.[fonte 3]
A cavallo giovane, cavalier vecchio.[fonte 3] A caval nuovo cavaliere
vecchio.[fonte 2] A chi batte forte, si apron le porte.[fonte 7] A chi Dio
vuole aiutare, niente gli può nuocere.[fonte 4] A chi fortuna zufola, ha un bel
ballare.[fonte 4] A chi ha abbastanza, non manca nulla.[fonte 4] A chi mangia
sempre polli vien voglia di polenta.[fonte 8] A chi non piace il vino, il
Signore faccia mancar l'acqua.[fonte 8] A chi non può imparare l'abbicì, non si
può dare in mano la Bibbia.[fonte 4] A chi non vuol credere, poco valgono mille
testimoni.[fonte 8] A chi non vuol credere sono inutili tutte le prove.[fonte
8] A chi non vuol far fatiche, il terreno produce ortiche.[fonte 9] A chi
prende moglie ci vogliono due cervelli.[fonte 4] A chi tanto e a chi
niente.[fonte 2] A chi troppo e a chi niente.[fonte 10] A chi ti dà il cappone,
dagli la coscia e l'alone.[fonte 8] A chi ti porge un dito non prendere la
mano.[fonte 2] A chi vuole fare del male non manca l'occasione.[fonte 4] A
ciascun giorno basta la sua pena.[3][fonte 2] A ciascuno sta bene il proprio
abito.[fonte 4] A donna di gran bellezza, dalla poca larghezza.[fonte 4] A duro
ceppo, dura accetta.[fonte 4] A goccia a goccia si scava la pietra.[4][fonte
11] A goccia a goccia s'incava la pietra.[fonte 2] A gran salita, gran
discesa.[fonte 4] A granello a granello si riempie lo staio e si fa il
monte.[fonte 4] A grassa cucina povertà vicina.[fonte 4] A lavar la testa
all'asino si perde il ranno e il sapone.[fonte 12] A lume spento è pari ogni
bellezza.[fonte 4] A mali estremi estremi rimedi.[fonte 1] A muro basso ognuno
ci si appoggia.[fonte 1] A nemico che fugge ponti d'oro.[fonte 1] A ogni
uccello suo nido è bello.[fonte 1] A padre avaro figliuol prodigo.[fonte 13] A
pancia piena si ragiona meglio.[fonte 8] A pagare e a morire c'è sempre
tempo.[fonte 14] A paragone del molto che ignoriamo, è meno di niente quanto
noi sappiamo.[fonte 4] A pazzo relatore, savio ascoltatore.[fonte 8] A pensar
male, s'indovina sempre.[fonte 15] A pensar male ci s'indovina.[fonte 2] A
pentola che bolle, gatta non s'accosta.[fonte 8] A rubar poco si va in galera,
a rubar tanto si fa carriera.[fonte 1] A san Lorenzo il dente la noce già
sente.[fonte 2] A san Martino [11 novembre], apri la botte e assaggia il
vino.[fonte 8] A San Martino ogni mosto è vino.[fonte 16] A san Mattia la neve
va via.[fonte 4] A scherzar con la fiamma, ci si scotta.[fonte 17] A tal
fortezza, tal trincea.[fonte 4] A torto si lagna del mare chi due volte ci
vuole tornare.[fonte 4] A tutto c'è rimedio fuorché alla morte.[fonte 1] A
usanza nuova non correre.[fonte 2] Abbattuto l'albero scompare l'ombra.[fonte
8] Accasa il figlio quando vuoi, e la figlia quando puoi.[fonte 18] Acquista
buona fama e mettiti a dormire.[fonte 4] Ai bugiardi e agli spacconi non è
creduto.[fonte 8] Ai voli troppo alti e repentini sogliono i precipizi esser
vicini.[fonte 19] A voli troppo alti e repentini sogliono i precipizi esser
vicini.[fonte 2] Abate cupido, per un'offerta ne perde cento.[fonte 4] Abate
rigoroso rende i frati penitenti.[fonte 4] Abbi piuttosto il piccolo per amico,
che il grande per nemico.[fonte 8] Abiti stranieri, costumi stranieri; costumi
stranieri, gente straniera; la gente straniera sloggia gli antichi
abitanti.[fonte 4] Abito troppo portato e donna troppo vista vengono presto a
noia.[fonte 4] Abbondanza genera baldanza.[fonte 4] Accade in un'ora quel che
non avviene in mill'anni.[fonte 2] Accade in un'ora quel che non avviene in
cent'anni.[fonte 2] Accendere una candela ai Santi e una al diavolo.[fonte 4]
Accendere una fiaccola per far lume al sole.[fonte 4] Acqua che corre non porta
veleno.[fonte 4] Acqua cheta rompe i ponti.[fonte 16] Acqua di san Lorenzo [10
agosto] venuta per tempo; se alla Madonna viene va ancora bene; tardiva sempre
buona quando arriva.[fonte 2] Acqua e chiacchiere non fanno frittelle.[fonte
20] Acqua lontana non spegne il fuoco.[fonte 21] Acqua passata, non macina
più.[fonte 22] Ad albero vecchio ed a muro cadente, non manca mai edera.[fonte
4] Ad ogni primavera segue un autunno.[fonte 4] Ad ognuno la sua croce.[fonte
23] Ad ognuno pare bello il suo.[fonte 4] Ad un grasso mezzogiorno spesso tien
dietro una cena magra.[fonte 4] Agosto ci matura il grano e il mosto[fonte 16].
Agosto: moglie mia non ti conosco.[5][6][fonte 1] Ai macelli van più bovi che
vitelli.[fonte 2] Ai pazzi ed ai fanciulli, non si deve prometter nulla.[fonte
8] Ai pazzi si dà sempre ragione.[fonte 8] Aiutati che Dio t'aiuta.[fonte 24]
Aiutati che il ciel t'aiuta.[fonte 25] Aiutati che io ti aiuto.[fonte 16] Al
baciarsi presto tien dietro il coricarsi.[fonte 4] Al bisogno si conosce
l'amico.[fonte 1] Al buio la villana è bella quanto la dama.[fonte 2] Al buio,
le donne sono tutte uguali.[fonte 8] Al buio tutti i gatti sono bigi.[fonte 16]
Al confessor, medico e avvocato, non tenere il ver celato.[fonte 26] Al
confessore, al medico e all'avvocato non si tiene il ver celato.[fonte 2] Al
contadin non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere.[fonte 1] Al
cuore non si comanda.[fonte 1] Al cuor non si comanda.[fonte 27] Al cazzo non
si comanda.[fonte 2] Al culo non si comanda.[fonte 28] Al destino non si
comanda.[fonte 2] Al tempo non si comanda.[fonte 2] Al tempo e al culo non si
comanda.[fonte 2] Al debole il forte sovente fa torto.[fonte 8] Al fratello
piace più veder la sorella ricca, che farla tale.[fonte 8] Al levar le tende si
conosce il guadagno.[fonte 4] Al gatto che lecca lo spiedo non affidar
arrosto.[fonte 8] Al genio non si danno le ali, ma le si tagliano.[fonte 4] Al
medico, al confessore e all'avvocato, bisogna dire ogni peccato.[fonte 8] Al
povero manca il pane, al ricco l'appetito.[fonte 8] Al primo colpo non cade
l'albero.[fonte 2] Al primo colpo non cade un albero.[fonte 2] Al suono si
riconosce la pignata.[fonte 29] Al villano, se gli porgi il dito, si prende la
mano.[fonte 30] All'A tien dietro il B nel nostro abbicì.[fonte 4] All'eco
spetta l'ultima parola.[fonte 4] All'orsa paion belli i suoi
orsacchiotti.[fonte 8] All'uccello ingordo crepa il gozzo.[fonte 2] All'ultimo
si contano le pecore.[fonte 1] All'umiltà felicità, all'orgoglio
calamità.[fonte 8] Alla fame è presto ridotto chi s'imbarca senza
biscotto.[fonte 4] Alla fine anche le pernici allo spiedo vengono a noia.[fonte
8] Alla fine loda la vita e alla sera loda il giorno.[7][fonte 4] Alla fine
loda la vita e alla sera il giorno.[fonte 2] Alla guerra si va pieno di denari
e si torna pieni di vizi e di pidocchi.[fonte 4] Alle barbe dei pazzi, il
barbiere impara a radere.[fonte 8] Alle volte si crede di trovare il sole
d'agosto e si trova la luna di marzo.[fonte 8] Altri tempi, altri
costumi.[fonte 2] Alzati presto al mattino se vuoi gabbare il tuo vicino.[fonte
8] Ambasciator non porta pena.[fonte 2] Amare e non essere amato è tempo
perso.[fonte 4] Ambasciatore che tarda notizia buona che porta.[fonte 2]
Amicizia che cessa, non fu mai vera.[fonte 4] Amico beneficato, nemico
dichiarato.[fonte 4] Amico di buon tempo mutasi col vento.[fonte 4] Amico di
ventura, molto briga e poco dura.[fonte 31] Ammogliarsi è un piacere che costa
caro.[fonte 4] Amor che nasce di malattia, quando si guarisce passa via.[fonte
8] Amor di nostra vita ultimo inganno.[8][fonte 32] Amor, dispetto, rabbia e
gelosia, sul cuore della donna han signoria.[fonte 8] Amor nuovo va e viene,
amor vecchio si mantiene.[fonte 8] Amor regge il suo regno senza spada.[fonte
32] Amore con amor si paga.[fonte 2] Amore di parentato, amore
interessato.[fonte 4] Amore di villeggiatura poco vale e poco dura.[fonte 2]
Amore di fratello, amore di coltello.[fonte 8] Amore è il vero prezzo con che
si compra amore.[fonte 33] Amore non si compra né si vende.[fonte 33] Amore
onorato, né vergogna né peccato.[fonte 8] Amore scaccia amore.[fonte 4] Anche
fra le spine nascono le rose.[fonte 34] Anche i fanciulli diventano
uomini.[fonte 4] Anche il più verde diventa fieno.[fonte 4] Anche il sole ha le
sue macchie.[fonte 4] Anche l'abate fu prima frate.[fonte 4] Anche l'ambizione
è una fame.[fonte 4] Anche la legna storta dà il fuoco diritto.[fonte 4] Anche
la regina Margherita mangia il pollo con le dita.[fonte 35] Anche le bestie le
ha fatte il Signore.[fonte 8] Anche le colombe hanno il fiele.[fonte 4] Anche
le pulci hanno la tosse.[fonte 2] Anche le uova della gallina nera sono
bianche; ma staremo a vedere se anche i suoi pulcini sono bianchi.[fonte 4]
Anche un giogo dorato pesa.[fonte 8] Andar presto a dormire e alzarsi presto
chiude la porta a molte malattie.[fonte 8] Andar bestia, e tornar bestia, dice
il moro.[fonte 36] Anno nevoso anno fruttuoso.[fonte 16] Anno nuovo vita
nuova.[fonte 1] Approfitta degli errori degli altri, piuttosto che
censurarli.[fonte 4] Aprile dolce dormire.[9][fonte 2] Aprile e maggio sono la
chiave di tutto l'anno.[fonte 4] Aprile ogni goccia un barile.[10][fonte 2]
Aprile piovoso, maggio ventoso, anno fruttuoso.[fonte 4] Ara nel mare e nella
rena semina, chi crede alle parole della femmina.[fonte 8] Arcobaleno porta il
sereno.[fonte 2] Aria rossa o piscia o soffia.[fonte 2] Asino che ha fame
mangia d'ogni strame.[fonte 2] Assai bene balla a chi fortuna suona.[fonte 4]
Assai digiuna chi mal mangia.[fonte 8] Assai domanda chi ben serve e
tace.[fonte 37] Assai domanda chi si lamenta.[fonte 8] Assalto francese e
ritirata spagnola.[fonte 2] Attacca l'asino dove vuole il padrone e, se si
rompe il collo, suo danno.[fonte 1] Avuta la grazia, gabbato lo santo.[fonte 8]
B Bacco, tabacco e Venere riducon l'uomo in cenere.[fonte 2] Ballaremo secondo
che voi suonerete.[fonte 4] Bandiera rotta onor di capitano. Bandiera vecchia
onor di capitano.[fonte 2] Basta un matto per casa.[fonte 8] Batti il ferro
finché è caldo. Batti il ferro quando è caldo.[fonte 1] Bei gatti e grossi
letamai mostrano il buon agricoltore.[fonte 38] Bella cosa presto è
rapita.[fonte 4] Bella in vista, dentro è trista.[fonte 4] Bella ostessa, conti
traditori.[fonte 2] Bella ostessa, brutti conti.[fonte 39] Bell'ostessa, conto
caro.[fonte 40] Bella vigna poca uva.[fonte 2] Bellezza di corpo non è
eredità.[fonte 4] Bellezza e follia vanno spesso in compagnia.[fonte 41] Bello
in fasce brutto in piazza.[fonte 1] Ben sa la botte di qual vino è piena.[fonte
4] Ben si caccia il diavolo, ma Satana ritorna.[fonte 4] Bene per male è
carità, male per bene è crudeltà.[fonte 8] Bene educato, non mentì mai.[fonte
4] Bene perduto è conosciuto.[fonte 4] Beni di fortuna passano come la
luna.[fonte 2] Bevi il vino e lascia andar l'acqua al mulino.[fonte 8] Bisogna
dire pane al pane e vino al vino.[fonte 2] Bisogna far buon viso a cattivo
gioco.[fonte 1] Bisogna fare di necessità virtù.[fonte 2] Bisogna fare il pane
con la farina che si ha.[fonte 4] Bisogna fare la festa quando cade, e prendere
il tempo come viene.[fonte 4] Bisogna fare la festa quando è il santo.[fonte 4]
Bisogna mangiare per vivere e non vivere per mangiare.[fonte 2] Bisogna
prendere gli avvenimenti quando Dio li manda.[fonte 4] Bocca che tace nessuno
l'aiuta.[fonte 2] Bocca che tace mal si può aiutare.[fonte 42] Bocca chiusa ed
occhio aperto non fecero mai male a nessuno.[fonte 4] Botte buona fa buon
vino.[fonte 2] Brutta cosa è il povero superbo e il ricco avaro.[fonte 8]
Brutta di viso ha sotto il paradiso.[fonte 2] Brutto in fasce bello in
piazza.[fonte 1] Buca il marmo fin d'acqua una goccia.[fonte 8] Bue sciolto
lecca per tutto.[fonte 8] Bue fiacco stampa più forte il piede in terra.[fonte
4] Bue vecchio, solco diritto.[fonte 4] Buon fuoco e buon vino, scaldano il mio
camino.[fonte 8] Buon sangue non mente.[fonte 2] Buon tempo e mal tempo non
dura tutto il tempo.[fonte 1] Buon vino e bravura, poco dura.[fonte 8] Buon
vino fa buon sangue.[fonte 1][fonte 8] Buon vino, favola lunga.[fonte 8] Buona fama
presto è perduta.[fonte 4] Buona greppia, buona bestia.[fonte 8] Buona guardia
giova a molte cose.[fonte 4] Buona la forza, migliore l'ingegno.[fonte 4] Buone
parole e pere marce non rompono la testa a nessuno.[fonte 31] Burlando si dice
il vero.[fonte 4] C Cader non può, chi ha la virtù per guida.[fonte 4] Cambiano
i suonatori ma la musica è sempre quella.[fonte 1] Cambiare e migliorare sono
due cose; molto si cambia nel mondo, ma poco si migliora.[fonte 4] Campa
cavallo che l'erba cresce.[fonte 2] Campa, cavallo mio, che l'erba
cresce.[fonte 1] Can che abbaia non morde.[fonte 1] Cane affamato non teme
bastone.[11][fonte 2] Cane e gatta tre ne porta e tre ne allatta.[fonte 8] Cane
non mangia cane.[fonte 43] Cane ringhioso e non forzoso, guai alla sua pelle![fonte
4] Capelli lunghi, cervello corto.[fonte 4] Carta canta e villan dorme.[fonte
1] Casa fatta e vigna posta, non si sa quello che costa.[fonte 44] Casa mia,
casa mia, per piccina che tu sia, tu mi sembri una badia.[fonte 45] Casa mia,
casa mia, benché piccola tu sia, tu mi sembri una badia.[fonte 2] Casa mia,
casa mia, pur piccina che tu sia mi sembri una badia.[fonte 9] Castiga il buono
e si emenderà; castiga il cattivo e peggiorerà.[fonte 4] Cattivo cominciamento,
fine peggiore.[fonte 8] Cavallo da vettura, poco costa e poco dura.[fonte 46]
Cavallo vecchio, tardi muta ambiatura.[fonte 47] Cavolo riscaldato non fu mai
buono.[fonte 2] Cavolo riscaldato, frate sfratato e serva ritornata non furon
mai buoni.[fonte 2] Cento teste, cento cappelli.[fonte 48] Certe macchie ben si
possono grattare ma non togliere.[fonte 4] Cessato il guadagno, cessata
l'amicizia.[fonte 49] Chi a tutti facilmente crede, ingannato si vede.[fonte 4]
Chi accarezza la mula rimedia calci.[fonte 2] Chi accarezza la mula buscherà calci.[fonte
2] Chi accetta l'eredità accetti anche i debiti.[fonte 4] Chi ad altri inganni
tesse, poco bene per sé ordisce.[fonte 4] Chi alza il piede per ogni paglia, si
può rompere facilmente una gamba.[fonte 8] Chi ama me, ama il mio cane.[fonte
50] Chi ara terra bagnata, per tre anni l'ha dissipata.[fonte 51] Chi asino
nasce, asino muore.[fonte 4] Chi balla senza suono, come asino si
ritrova.[fonte 52] Chi ben coltiva il moro, coltiva nel suo campo un gran
tesoro.[fonte 47] Chi ben comincia è a metà dell'opera.[fonte 53] Chi ben
comincia è alla metà dell'opera.[fonte 2] Chi ben comincia è alla metà
dell'opra.[fonte 1] Chi bene semina, bene raccoglie.[fonte 4] Chi beve vin,
campa cent'anni.[fonte 54] Chi beve birra campa cent'anni.[12][fonte 2] Chi
biasima il suo prossimo che è morto, dica il vero, dica il falso, ha sempre
torto.[fonte 4] Chi caccia volentieri trova presto la lepre.[fonte 4] Chi cade
in povertà, perde ogni amico.[fonte 4] Chi cava e non mette, le possessioni si
disfanno.[fonte 55] Chi cavalca o trotta alla china, o non è sua la bestia, o
non la stima.[fonte 8] Chi cento ne fa una ne aspetta.[fonte 1] Chi cerca di
sapere ciò che bolle nella pentola d'altri, ha leccate le sue.[fonte 8] Chi
cerca lealtà e fedeltà nel mondo, non trova che ipocrisia.[fonte 4] Chi cerca,
trova.[13][fonte 2] Chi cerca trova e chi domanda intende.[fonte 2] Chi coglie
acerbo il senno, maturo ha sempre d'ignoranza il frutto.[fonte 8] Chi comincia
in alto, finisce in basso.[fonte 8] Chi compra il superfluo, si prepara a
vendere il necessario.[fonte 56] Chi compra sprezza e chi ha comprato
apprezza.[fonte 2] Chi conserva per l'indomani, conserva per il cane.[fonte 8]
Chi contro Dio getta la pietra, in capo gli torna.[fonte 8] Chi d'estate secca
serpi, nell'inverno mangia anguille.[fonte 4] Chi d'estate vuole stare al
fresco, ci starà anche d'inverno.[fonte 4] Chi da gallina nasce, convien che
razzoli.[fonte 8] Chi da savio operare vuole, pensi al fine.[fonte 4] Chi dà
ghiande non può riavere confetti.[fonte 4] Chi di gallina nasce convien che
razzoli.[fonte 2] Chi dal lotto spera soccorso, mette il pelo come un
orso.[fonte 8] Chi dà per ricevere, non dà nulla.[fonte 8] Chi del vino è
amico, di se stesso è nemico.[fonte 8] Chi di spada ferisce di spada
perisce.[14][fonte 1] Chi di speranza vive disperato muore.[fonte 1] Chi di una
donna brutta s'innamora, lieto con essa invecchia e l'ama ancora.[fonte 8] Chi
di coltel ferisce, di coltel perisce.[fonte 4] Chi di spirito e di talenti è
pieno domina su quelli che ne hanno meno.[fonte 4] Chi dice A arrivi fino alla
Z.[fonte 4] Chi dice A deve dire anche B.[fonte 4] Chi dice donna dice
danno.[fonte 1] Chi dice donna dice guai, chi dice uomo peggio che mai.[fonte
8] Chi dice male, l'indovina quasi sempre.[fonte 4] Chi dice quel che vuole
sente quel che non vorrebbe.[fonte 1] Chi disprezza compra.[fonte 1] Chi
disprezza vuol comprare e chi loda vuol lasciare.[fonte 2] Chi domanda ciò che
non dovrebbe, ode quel che non vorrebbe.[fonte 2] Chi domanda non erra.[fonte
2] Chi domanda non fa errore.[fonte 57] Chi dopo la polenta beve acqua, alza la
gamba e la polenta scappa.[fonte 8] Chi dorme d'agosto dorme a suo costo.[fonte
2] Chi dorme non piglia pesci.[15][fonte 1] Chi è causa del suo mal pianga se
stesso.[16][fonte 1] Chi è bugiardo è ladro.[fonte 4] Chi è destinato alla
forca non annega.[fonte 58] Chi è generoso con la bocca, è avaro col
sacco.[fonte 4] Chi è in difetto è in sospetto.[fonte 1] Chi è mandato dai
farisei è ingannato dai farisei.[fonte 4] Chi è morso dalla serpe, teme la lucertola.[fonte
8] Chi non è savio, paziente e forte si lamenti di sé, non della sorte.[fonte
8] Chi è schiavo delle ambizioni ha mille padroni.[fonte 4] Chi è stato trovato
una volta in frode, si presume vi sia sempre.[fonte 4] Chi è svelto a mangiare è
svelto a lavorare.[fonte 1] Chi è tosato da un usuraio, non mette più
pelo.[fonte 8] Chi è uso all'impiccare, non teme la forca.[fonte 4] Chi fa da
sé fa per tre.[17][fonte 1] Chi fa come il prete dice, va in Paradiso: ma chi
fa come il prete fa, a casa del diavolo se ne va.[18] Chi fa del bene agli
ingrati, Dio lo considera per male.[fonte 4] Chi fa il male odia la luce.[fonte
4] Chi fa l'altrui mestiere, fa la zuppa nel paniere.[fonte 59] Chi fa la
legge, deve conservarla.[fonte 4] Chi fa una legge, deve anche preoccuparsi che
sia eseguita.[fonte 4] Chi fa le fave senza concime le raccoglie senza
baccelli.[fonte 2] Chi fa falla e chi non fa sfarfalla.[fonte 1] Chi fa
un'ingiustizia, la dimentica; chi la riceve, se ne ricorda.[fonte 4] Chi fosse
indovino, sarebbe ricco.[fonte 4] Chi fugge il giudizio, si condanna.[fonte 4]
Chi fugge un matto, ha fatto buona giornata.[fonte 8] Chi getta un seme lo deve
coltivare, se vuol vederlo con il tempo germogliare.[fonte 60] Chi gioca al
lotto, è un gran merlotto.[fonte 8] Chi gioca al lotto, in rovina va di
botto.[fonte 8] Chi gioca al lotto, in rovina va di trotto.[fonte 8] Chi ha
avuto ha avuto e chi ha dato ha dato.[fonte 16]. Chi ha avuto il beneficio, se
lo dimentica.[fonte 4] Chi ha da far con un incostante, tien l'anguilla per la
coda.[fonte 4] Chi ha denti non ha pane e chi ha pane non ha denti.[fonte 1]
Chi ha farina non ha la sacca.[fonte 1] Chi ha fatto ingiuria ad altri, da
altri convien che la sopporti.[fonte 4] Chi ha il capo di cera, non vada al
sole.[fonte 61] Chi ha imbarcato il diavolo, deve stare in sua compagnia.[fonte
4] Chi ha ingegno, lo mostri.[fonte 62] Chi ha per letto la terra, deve
coprirsi col cielo.[fonte 8] Chi ha polvere spara.[fonte 1] Chi ha portato la
tonaca puzza sempre di frate.[fonte 2] Chi ha prete, o parente in corte,
fontana gli risorge.[fonte 63] Chi ha tempo, ha vita.[fonte 64] Chi ha tempo
non aspetti tempo.[fonte 1] Chi ha terra, ha guerra.[fonte 56] Chi ha tutto il
suo in un loco l'ha nel fuoco.[fonte 2] Chi ha un mestiere in mano, dappertutto
trova pane.[fonte 4] Chi il vasto mare intrepido ha solcato, talvolta in piccol
rio muore annegato.[fonte 65] Chi la dura la vince.[fonte 1] Chi la fa
l'aspetti.[fonte 1] Chi lascia la via vecchia per la nuova sa quel che lascia
ma non sa quel che trova.[fonte 1] Chi lascia la via vecchia per la nuova
peggio si trova.[fonte 16] Chi lavora con diligenza, prega due volte.[fonte 4]
Chi lavora, Dio gli dona.[fonte 4] Chi mal semina mal raccoglie.[fonte 1] Chi
male una volta si marita, ne risente tutta la vita.[fonte 4] Chi male vive,
male muore.[fonte 2] Chi maltratta le bestie, non la fa mai bene.[fonte 8] Chi
mangia sempre pan bianco, spesso desidera il nero.[fonte 8] Chi mangia sempre
torta se ne sazia.[fonte 8] Chi mena per primo mena due volte.[fonte 1] Chi
molto parla, spesso falla.[fonte 66] Chi mordere non può non mostri i
denti.[fonte 40] Chi muore giace e chi vive si dà pace.[fonte 1] Chi nasce
afflitto muore sconsolato.[fonte 1] Chi nasce è bello, chi si sposa è buono e
chi muore è santo.[fonte 1] Chi nasce matto non guarisce mai.[fonte 8] Chi
nasce tondo non può morir quadrato.[fonte 57] Chi non ama le bestie, non ama i
cristiani.[fonte 8] Chi non apre la bocca, non le piove dentro.[fonte 4] Chi
non beve in compagnia o è un ladro o è una spia.[fonte 1] Chi non caccia non
prende.[fonte 4] Chi non comincia non finisce.[fonte 1] Chi non crede di esser
matto, è matto davvero.[fonte 8] Chi non crede in Dio, non crede nel
diavolo.[fonte 67] Chi non dà a Cristo, dà al fisco.[fonte 8] Chi non è con me
è contro di me.[fonte 2] Chi non è volpe, dal lupo si guardi, perché ne sarà
preda presto o tardi.[fonte 4] Chi non fu buon soldato, non sarà buon
capitano.[fonte 68] Chi non ha fede, non ne può dare.[fonte 8] Chi non ha il
gatto mantiene i topi e chi ce l'ha li mantiene tutti e due.[fonte 8] Chi non
ha imparato a ubbidire, non saprà mai comandare.[fonte 8] Chi non ha testa
abbia gambe.[fonte 57] Chi non lavora non mangia.[fonte 2] Chi non mangia ha
già mangiato.[fonte 2] Chi non muore si rivede.[fonte 2] Chi non naufragò in
mare, può naufragare in porto.[fonte 8] Chi non può bastonare il cavallo,
bastona la sella.[fonte 4] Chi non risica, non rosica.[fonte 1] Chi non sa
adulare non sa regnare.[fonte 4] Chi non sa fare non sa comandare.[fonte 68] Chi
non sa leggere la sua scrittura è asino di natura.[fonte 69] Chi non sa niente
non è buono a niente.[fonte 4] Chi non sa tacere non sa parlare.[fonte 2] Chi
non sa ubbidire, non sa comandare.[fonte 68] Chi non segue il consiglio dei
genitori, tardi se ne pente.[fonte 4] Chi non semina non raccoglie.[fonte 2]
Chi non si innamora da giovane, si innamora da vecchio.[fonte 8] Chi non trovò
ombra nell'estate, la troverà nell'inverno.[fonte 4] Chi non vuol essere
consigliato, non può essere aiutato.[fonte 4] Chi parla due lingue è doppio
uomo.[fonte 70] Chi pecca in segreto fa la penitenza pubblica.[fonte 8] Chi
pecora si fa, il lupo se la mangia.[fonte 1] Chi per grazia prega, non ha mai
bene.[fonte 4] Chi perde ha sempre torto.[fonte 1] Chi perdona senza dimenticare,
non perdona che metà.[fonte 4] Chi pesca con l'amo d'oro, qualcosa piglia
sempr e.[fonte 8] Chi piglia leone in assenza, teme la talpa in
presenza.[fonte 8] Chi più ha più vuole.[fonte 1] Chi più ha più ne
vorrebbe.[fonte 2] Chi più lavora, meno mangia.[fonte 4] Chi più ne fa è fatto
papa.[fonte 4] Chi più ne ha più ne metta.[fonte 2] Chi più sa meno
crede.[fonte 1] Chi più spende meno spende.[fonte 2] Chi poco sa presto
parla.[fonte 2] Chi porta fiori, porta amore.[fonte 8] Chi predica al deserto,
perde il sermone.[fonte 71] Chi prende l'anguilla per la coda, può dire di non
tenere nulla.[fonte 4] Chi prima arriva meglio alloggia.[fonte 2] Chi prima
nasce prima pasce.[fonte 1] Chi prima non pensa dopo sospira.[fonte 2] Chi
rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.[fonte 8]
Chi ricorda un beneficio, lo rinfaccia.[fonte 4] Chi ride il venerdì piange la
domenica.[fonte 1] Chi rimane in umile stato, non ha da temer caduta.[fonte 8]
Chi ringrazia non vuol obblighi.[fonte 8] Chi ringrazia per una spiga, riceve
una manna.[fonte 8] Chi Roma non vede, nulla crede.[fonte 8] Chi ruba poco,
ruba assai.[fonte 72] Chi rompe paga e i cocci sono suoi.[fonte 1] Chi ruba un
regno è un ladro glorificato, e chi un fazzoletto, un ladro castigato.[fonte 4]
Chi ruba una volta è sempre ladro.[fonte 4] Chi s'accapiglia si piglia.[19] Chi
s'aiuta Iddio l'aiuta.[fonte 1] Chi sa fa e chi non sa insegna.[fonte 1] Chi sa
fare fa e chi non sa fare insegna.[20] Chi sa il gioco non l'insegni.[fonte 1]
Chi sa il trucco non l'insegni.[fonte 1] Chi sa senza Cristo non sa
nulla.[fonte 8] Chi scopre il segreto perde la fede.[fonte 1] Chi semina buon
grano avrà buon pane; chi semina lupino non avrà né pan né vino.[fonte 2] Chi
semina con l'acqua raccoglie col paniere.[fonte 2] Chi semina raccoglie.[fonte
2] Chi semina vento raccoglie tempesta.[21][22][fonte 1] Chi serba serba al
gatto.[fonte 1] Chi si contenta gode.[fonte 1] Chi si diletta di frodare gli
altri, non si deve lamentare se gli altri lo ingannano.[fonte 4] Chi si fa i
fatti suoi campa cent'anni.[fonte 57] Chi si fa un idolo del suo interesse, si
fa un martire della sua integrità.[fonte 73] Chi si fida nel lotto, non mangia
di cotto.[fonte 8] Chi si fida di greco, non ha il cervel seco.[fonte 74] Chi
si guarda dal calcio della mosca, gli tocca quello del cavallo.[fonte 4] Chi si
immagina di essere più di quello che è, si guardi nello specchio.[fonte 4] Chi
si loda si sbroda.[fonte 4] Chi si prende d'amore, si lascia di rabbia.[fonte
8] Chi si scusa si accusa.[fonte 1] Chi si somiglia si piglia.[fonte 2] Chi si
sposa in fretta, stenta adagio.[fonte 75] Chi si umilia sarà esaltato, chi si
esalta sarà umiliato.[fonte 8] Chi si vanta da solo non vale un fagiolo.[fonte
2] Chi si vanta del delitto è due volte delinquente.[fonte 4] Chi siede in
basso, siede bene.[fonte 8] Chi sta tra due selle si trova col culo in
terra.[fonte 2] Chi tace acconsente.[fonte 1][23] Chi tace davanti alla forza,
perde il suo diritto.[fonte 4] Chi tanto e chi niente.[fonte 1] Chi troppo e chi
niente.[fonte 1] Chi tardi arriva male alloggia.[fonte 1] Chi ti dà un osso non
ti vorrebbe morto.[fonte 4] Chi ti vuol male, ti liscia il pelo.[fonte 8] Chi
tiene il letame nel suo letamaio, fa triste il suo pagliaio.[fonte 8] Chi tiene
la scala non è meno reo del ladro.[fonte 76] Chi troppo comincia, poco
finisce.[fonte 77] Chi troppo vuole nulla stringe.[24][fonte 1] Chi trova un
amico trova un tesoro.[fonte 1] Chi uccide i gatti fa male i suoi fatti.[fonte
38] Chi va a caccia non deve lasciare a casa il fucile.[fonte 4] Chi va a Roma
perde la poltrona.[fonte 2] Chi va all'acqua d'agosto, non beve o non vuol bere
il mosto.[fonte 8] Chi va all'osto, perde il posto.[fonte 78] Chi va al mulino
s'infarina.[fonte 1] Chi va con lo zoppo, impara a zoppicare.[fonte 79] Chi va
piano va sano e va lontano. Chi va forte va alla morte.[25][fonte 80] Chi ha
più fretta, più tardi finisce.[fonte 4] Chi fa in fretta fa due volte.[fonte 4]
Chi pesca e ha fretta, spesse volte prende dei granchi.[fonte 4] Chi va via perde
il posto all'osteria.[fonte 81] Chi vanta se stesso e abbassa gli altri, gli
altri abbasseranno lui.[fonte 4] Chi vende a credenza spaccia assai: perde gli
amici e i quattrin non ha mai.[26][fonte 2] Chi dà a credito spaccia assai
perde gli amici e danar non ha mai.[fonte 2] Chi va alla festa e non è
invitato, ben gli sta se ne è scacciato.[fonte 4] Chi vien di raro, gli si fa
festa.[fonte 8] Chi vince ha sempre ragione.[fonte 82] Chi vive in libertà non
tenti il fato.[fonte 4] Chi vive sei giorni nell'oasi, il settimo anela il
deserto.[fonte 8] Chi vivrà vedrà.[fonte 2] Chi vuol d'avena un granaio la
semini di febbraio.[fonte 2] Chi vuol dell'acqua chiara vada alla fonte.[fonte
4] Chi vuol udir novelle, dal barbier si dicon belle.[fonte 8] Chi vuol esser libero,
non metta il collo sotto il giogo.[fonte 8] Chi vuol essere pagato, non
dev'essere ringraziato.[fonte 8] Chi vuol guarire deve soffrire.[fonte 4] Chi
vuol impetrare, la vergogna ha da levare.[fonte 83] Chi vuol lavoro degno assai
ferro e poco legno.[fonte 2] Chi vuol pane, meni letame.[fonte 84] Chi vuol
presto impoverire, chieda prestito all'usuraio.[fonte 8] Chi vuol provar le
pene dell'inferno, la stia in Puglia e all'Aquila d'inverno.[fonte 8] Chi vuol
saper cos'è l'inferno faccia il cuoco d'estate e il carrettiere
d'inverno.[fonte 8] Chi vuol un bel pagliaio lo pianti di febbraio.[fonte 8]
Chi vuol vedere Pisa vada a Genova.[fonte 85] Chi vuole arricchire in un anno,
è impiccato in sei mesi.[fonte 4] Chi vuole assai, non domandi poco.[fonte 86]
Chi vuole essere amato, divenga amabile.[fonte 9] Chi vuole essere sicuro della
sua farina, deve portare egli stesso il sacco al mulino.[fonte 4] Chi vuole i
santi se li preghi.[fonte 1] Chi vuole la figlia accarezzi la madre.[fonte 4]
Chi vuole vada e chi non vuole mandi.[fonte 1] Chiara notte di capodanno, dà
slancio a un buon anno.[fonte 8] Chiodo scaccia chiodo.[fonte 2] Chiodo
schiaccia chiodo.[fonte 9] Chitarra e schioppo fanno andare la casa a
galoppo.[fonte 8] Ci vuole altro che un'accozzaglia di gente per fare un
esercito.[fonte 4] Ci vuole ingegno per governare i pazzi.[fonte 4] Ciascuno è
artefice della sua fortuna.[fonte 2][27] Ciascuno è artefice della propria
fortuna.[fonte 2] Ciascuno porta il suo ingegno al mercato.[fonte 4] Cielo a
pecorelle acqua a catinelle.[fonte 1] Ciò che è male per uno, è bene per un
altro.[fonte 4] Ciò che lo stolto fa in fine, il savio fa in principio.[fonte
87] Ciò che non si può cambiare bisogna saperlo sopportare.[fonte 4] Col fuoco
non si scherza.[fonte 1] Col latino, con un ronzino e con un fiorino si gira il
mondo.[fonte 4] Col nulla non si fa nulla.[fonte 1] Col pane tutti i guai sono
dolci.[fonte 1] Col tempo e con la paglia maturano le nespole.[28][fonte 2] Col
tempo e con la paglia maturano le sorbe e la canaglia.[fonte 2] Colla sola
lealtà, non si pagano i merletti della cuffia.[fonte 4] Come farai, così
avrai.[fonte 4] Come i piedi portano il corpo, così la benevolenza porta
l'anima.[fonte 4] Comincia, che Dio provvede al resto.[fonte 4] Compar di
Puglia, l'un tiene e l'altro spoglia.[fonte 8] Comun servizio ingratitudine
rende.[fonte 8] Con arte e con ingegno, si acquista mezzo regno; e con ingegno
ed arte, si acquista l'altra parte.[fonte 4] Con gli anni crescono gli
affanni.[fonte 8] Con i matti non ci son patti.[fonte 8] Con l'inchiostro, una
mano può innalzare un furfante ed abbassare un galantuomo.[fonte 8] Con la
pazienza la foglia di gelso diventa seta.[fonte 88] Con la pietra si prova
l'oro, con l'oro la donna e con la donna l'uomo.[fonte 8] Con la più alta
libertà, abita la più bassa servitù.[fonte 4] Con le buone maniere si ottiene
tutto.[fonte 89] Con un bicchier di vino si fa un amico.[fonte 8] Con un occhio
si frigge il pesce e con l'altro si guarda il gatto.[fonte 8] Conchiuder lega è
facile, difficile il mantenerla.[fonte 4] Confidenza toglie riverenza.[fonte 4]
Conserva le monete bianche per le giornate nere.[fonte 8] Contadini, scarpe
grosse e cervelli fini.[fonte 1] Contano più i fatti che le parole.[fonte 90]
Contro due donne neanche il diavolo può metterci il becco.[fonte 8] Contro due
non la potrebbe Orlando.[fonte 91] Contro la forza la ragion non vale.[fonte 1]
Contro la nebbia forza no vale.[fonte 4] Coricarsi presto, alzarsi presto,
danno salute, ricchezza e sapienza.[fonte 8] Corpo satollo anima
consolata.[fonte 1] Corpo sazio non crede a digiuno.[fonte 1] Cortesia
schietta, domanda non aspetta.[fonte 92] Corre un pezzo la lepre, un pezzo il
cane; così s'alternano le vicende umane.[fonte 8] Cosa fatta capo ha.[29][fonte
2] Cosa di rado veduta, più cara è tenuta.[fonte 8] Cosa rara, cosa cara.[fonte
8] Cucina grassa, magra eredità.[fonte 4] Cuor contento gran talento.[fonte 93]
Cuor contento il ciel l'aiuta.[fonte 94] Cuor contento il ciel lo guarda.[fonte
2] Cuor contento non sente stento.[fonte 2] D D'aprile ogni goccia val mille
lire.[fonte 2] D'aquila non nasce colomba.[fonte 4] Da colpa nasce colpa.[fonte
4] Da cosa nasce cosa.[fonte 95] Da falsa lingua, cattiva arringa.[fonte 8] Da
Lodi, tutti passan volentieri.[fonte 8] Da un disordine nasce un ordine.[fonte
8] Dagli amici mi guardi Iddio che dai nemici mi guardo io.[fonte 2] Dàgli,
dàgli, le cipolle diventano agli.[fonte 96] Riferito alle insidie che l'amore
riserva alle virtù delle fanciulle. Dai giudici siciliani, vacci coi polli nelle
mani.[fonte 8] Dall'asino non cercar lana.[fonte 4] Dall'opera si conosce il
maestro.[fonte 4] Dall'immagine si conosce il pittore.[fonte 4] Dalla mano si
riconosce l'artista.[fonte 4] Dal canto si conosce l'uccello.[fonte 4] Dal
passato è facile predire il futuro.[fonte 4] Dalla casa si conosce il
padrone.[fonte 4] Danaro e santità, metà della metà.[fonte 8] Denari e santità
metà della metà.[fonte 97] Date a Cesare quel che è di Cesare.[30][fonte 2]
Davanti al cameriere non vi è Eccellenza.[fonte 4] Davanti l'abisso e dietro i
denti di un lupo.[fonte 4] Debole catena muover può gran peso.[fonte 8] Dei
vizi è regina l'avarizia.[fonte 98] Del senno di poi son piene le fosse.[fonte
1] Delle calende non me ne curo purché a san Paolo non faccia scuro.[31][fonte
2] Detto senza fatto, ad ognuno pare un misfatto.[fonte 4] Di buone intenzioni
è lastricato l'inferno.[fonte 99] Di chi è l'asino, lo pigli per la coda.[fonte
4] Di dolore non si muore, ma d'allegrezza sì.[fonte 8] Di maggio si dorme per
assaggio.[32][fonte 2] Di malerba non si fa buon fieno.[fonte 4] Di notte si
ritirano i galantuomini ed escono i birbanti.[fonte 8] Di quello che non ti
interessa, non dire né bene né male.[fonte 4] Di tutte le arti maestro è
l'amore.[fonte 8] Dice la serpe: non mi toccar che non ti tocco.[fonte 8]
Dicembre favaio.[fonte 16] Dicono che è mercante anche chi perde, ma questo
presto ridurrassi al verde.[fonte 100] Dieci ne pensa il topo e cento il
gatto.[fonte 101] Dietro il monte c'è la china.[fonte 2] Dietro il riso viene
il pianto.[fonte 8] Dimmi con chi vai, e ti dirò che fai.[fonte 73] Dimmi con
chi vai, e ti dirò chi sei.[fonte 102] Dio aiuti il povero, perché il ricco può
aiutar se stesso.[fonte 8] Dio dà la piaga e dà anche la medicina.[fonte 4] Dio
guarisce e il medico è ringraziato.[fonte 4] Dio li fa e poi li accoppia.[fonte
1] Dio manda il freddo secondo i panni.[fonte 1] Dio mi guardi da chi studia un
libro solo.[fonte 4] Dio misura il vento all'agnello tosato.[fonte 4] Dio vede
e provvede.[fonte 2] Disse la volpe ai figli: "Quando a tordi, quando a
grilli".[fonte 4] Dolore comunicato è subito scemato.[fonte 4] Domandando
si va a Roma.[fonte 2] Domandare è lecito, rispondere è cortesia.[fonte 2]
Donna al volante, pericolo costante.[fonte 103] Donna adorna, tardi esce e
tardi torna.[fonte 8] Donna baffuta sempre piaciuta.[fonte 2] Donna barbuta,
sempre piaciuta.[fonte 103] Donna barbuta coi sassi si saluta.[fonte 2] Donna
bianca, poco gli manca.[fonte 8] Donna rossa coscia grossa.[fonte 8] Donna che
canti dolcemente in scena, pei giovani inesperti è una sirena.[fonte 8] Donna
che dona, di rado è buona.[fonte 8] Donna che piange, ovver che dolce canti,
son due diversi, ambo possenti incanti.[fonte 8] Donna che sa il latino è rara
cosa, ma guardati dal prenderla in isposa.[fonte 8] Donna e fuoco, toccali
poco.[fonte 8] Donne e motori gioie e dolori.[fonte 104] Donna e vino ubriaca
il grande e il piccolino.[fonte 8] Donna giovane e uomo anziano possono
riempire la casa di figli.[fonte 8] Donna io conosco, ch'è una santa a messa e
che in casa è un'orribil diavolessa.[fonte 8] Donna nana tutta tana.[fonte 2]
Donna nobil per natura è un tesor cheonna savia e bella è preziosa ancsempre
dura.[fonte 8] Donna pelosa, donna virtuosa.[fonte 2] Donna pregata nega,
trascurata prega.[fonte 8] Donna prudente, gioia eccellente.[fonte 8] Dhe in
gonnella.[fonte 8] Donna si lagna, donna si duole, donna s'ammala quando lo
vuole.[fonte 8] Donne e sardine, son buone piccoline.[fonte 8] Donne, danno,
fanno gli uomini e li disfanno.[fonte 8] Dopo desinare non camminare; dopo
cena, con dolce lena.[fonte 4] Dopo e poi son parenti del mai.[fonte 2] Dopo il
dolce vien l'amaro.[fonte 8] Dopo il fatto il consiglio non vale.[fonte 4] Dopo
il fatto viene troppo tardi il pentimento.[fonte 4] Dopo il giorno vien la
notte.[fonte 8] Dopo la grazia di Dio, la miglior cosa è la libertà.[fonte 8]
Dopo la tempesta, il sole.[fonte 8] Dopo le fosche nuvole il sol splende più
fulgido.[fonte 8] Dopo vendemmia, imbuto.[fonte 105] Non bisogna lasciarsi
sfuggire le occasioni favorevoli, chi ha tempo non aspetti tempo. Dove c'è
l'amore, la gamba trascina il piede.[fonte 8] Dove è castigo è disciplina, dove
è pace è gioia.[fonte 4] Dove entra la fortuna, esce l'umiltà.[fonte 8] Dove
l'accidia attecchisce ogni cosa deperisce.[fonte 4] Dove la fedeltà mette le
radici, Dio fa crescere un albero.[fonte 4] Dove non c'è amore, non c'è
umanità.[fonte 8] Dove non c'è fieno, i cavalli mangiano paglia.[fonte 8] Dove
non c'è ordine, c'è disordine.[fonte 8] Dove non si crede né all'inferno né al
paradiso, il diavolo intasca tutte le entrate.[fonte 8] Dove non vi è
educazione, non vi è onore.[fonte 4] Dove non vi sono capelli, male si
pettina.[fonte 4] Dove può il vino non può il silenzio.[fonte 8] Dove regna
Bacco e Amore, Minerva non si lascia vedere.[fonte 4] Dove regna il vino, non
regna il silenzio.[fonte 8] Dove son carogne son corvi.[fonte 8] Dove sono i
pulcini, ivi è l'occhio della chioccia.[fonte 8] Dove vola il cuore, striscia
la ragione.[fonte 8] Due cani che un solo osso hanno, difficilmente in pace
stanno.[fonte 4] Due noci in un sacco e due donne in casa fanno un bel
fracasso.[fonte 8] Due polente insieme non furon mai viste.[fonte 8] Dura più
un carro rotto che uno nuovo.[fonte 4] Duro con duro non fa buon muro.[fonte 106]
E È cattivo sparviero quel che non torna al richiamo.[fonte 8] È difficile far
diventare bianco un moro.[fonte 4] È difficile guardarsi dai ladri di
casa.[fonte 4] È difficile piegare un albero vecchio.[fonte 4] È difficile
zoppicare bene davanti allo sciancato.[fonte 8] È facile lamentarsi quando c'è
chi ascolta.[fonte 8] È impossibile come cavalcare un raggio di sole.[fonte 4]
È impossibile volare senza ali.[fonte 4] È inutile piangere sul latte
versato.[fonte 98] [truismo] È l'acqua che fa l'orto.[fonte 98] L'acqua fa
l'orto.[fonte 98] È la donna che fa l'uomo.[fonte 57] È lieve astuzia ingannar
gelosia, che tutto crede quando è in frenesia.[fonte 4] È meglio avere la cura
di un sacco di pulci che una donna.[fonte 4] È meglio contentarsi che
lamentarsi.[fonte 8] È meglio correggere i propri difetti, che riprendere
quelli degli altri.[fonte 4] È meglio esser digiuno fuori, che satollo in
prigione.[fonte 8] È meglio essere testa d'anguilla che coda di storione.[fonte
8] È meglio essere uccel di bosco, che uccel di gabbia.[fonte 8] È meglio
essere umile a cavallo, che orgoglioso a piedi.[fonte 8] È meglio gelare nella
nuda cameretta della verità, che crogiolarsi nella pelliccia della
menzogna.[fonte 4] È meglio mangiarsi l'eredità, che conservarla per il convento.[fonte
4] È meglio meritar la lode che ottenerla.[fonte 4] È meglio sentir cantare
l'usignolo, che rodere il topo.[fonte 8] È meglio testa di lucertola che coda
di drago.[fonte 8] È meglio un esercito di cervi sotto il comando di un leone,
che un esercito di leoni sotto il comando di un cervo.[fonte 4] È meglio un
leone che mille mosche.[fonte 8] È più facile biasimare, che migliorare.[fonte
4] È più facile lagnarsi, che rimuovere gl'impedimenti.[fonte 8] È più facile
prevenire una malattia che guarirla.[fonte 8] È più facile trovar dolce
l'assenzio, che in mezzo a poche donne il silenzio.[fonte 8] È un bel predicare
il digiuno a corpo pieno.[fonte 4] È una bella risposta quella che si attaglia
ad ogni domanda.[fonte 8] Ebrei e rigattieri, spendono poco e gabbano
volentieri.[fonte 4] Ecco il rimedio per l'ipocondria: mangiare e bere in buona
compagnia.[fonte 8] Errare è umano, perseverare è diabolico.[fonte 107] Errare
è umano, perseverare diabolico.[fonte 2] Sbagliare è umano, perseverare è
diabolico.[fonte 108] Errore non è inganno.[fonte 4] Errore non paga
debito.[fonte 4] Errore riconosciuto conduce alla verità.[fonte 4] Esser dotto
poco vale, quando gli altri non lo sanno.[fonte 8] Èssere più torbo che non è
l'acqua dei maccheroni.[fonte 8] F Fa quel che il prete dice, non quel che il
prete fa.[fonte 1] Fa quello che fanno gli altri, e nessuno si farà beffe di
te.[fonte 4] Faccia bella, anima bella.[fonte 4] Facile è criticare, difficile
è l'arte.[33][fonte 109] Fare debiti non è vergogna, ma pagarli è questione
d'onore.[fonte 4] Fare e disfare, è tutto un lavorare.[fonte 110] Fare l'amore
fa bene all'amore.[fonte 111] Fate del bene al villano, dirà che gli fate del
male.[fonte 8] Fatta la legge trovato l'inganno.[34][fonte 1] Fatti asino e
tutti ti metteranno la soma.[fonte 4] Fatti di miele e ti mangieranno le
mosche.[fonte 4] Fatti le ali e poi vola.[fonte 4] Febbraio, febbraietto mese
corto e maledetto.[35][fonte 2] Felice non è, chi d'esserlo non sa.[fonte 64]
Femmine e galline, se giran troppo si perdono.[fonte 8] Ferita d'amore non
uccide.[fonte 8] Finché c'è vita c'è speranza.[fonte 1] Fino alla morte non si
sa qual è la sorte.[fonte 8] Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio.[fonte 1]
Fidati dell'arte, ma non dell'artigiano.[fonte 4] Fino alla bara sempre
s'impara.[fonte 112] Fortezza che parlamenta, è prossima ad arrendersi.[fonte
4] Fortuna cieca, i suoi acceca.[fonte 4] Fortuna instupidisce colui ch'ella
favorisce.[fonte 4] Fortunato al gioco, sfortunato in amore.[fonte 4] Fra
Modesto non fu mai priore.[fonte 8] Fra sepolto tesoro e occulta scienza, non
vi conosco alcuna differenza.[fonte 8] Fra un usuraio e un assassino poco ci
corre.[fonte 8] Frutto precoce facilmente si guasta.[fonte 8] Fuggire l'acqua
sotto la grondaia.[fonte 4] Funghi e poeti: per uno buono dieci cattivi.[fonte
8] G Gallina che non razzola ha già razzolato.[fonte 113] Gallina vecchia fa
buon brodo.[fonte 114] Gallo senza cresta è un cappone, uomo senza barba è un
minchione.[fonte 4] Gatta inguantata non prese mai topo.[fonte 8] Gattini
sventati, fanno gatti posati.[fonte 115] Gatto e donna in casa, cane e uomo
fuori.[fonte 38] Gatto rinchiuso diventa leone.[fonte 8] Gatto scottato
dall'acqua calda, ha paura della fredda.[fonte 4] Gelosia non mette ruga.[fonte
4] Gioco di mano gioco di villano.[fonte 1] Gioia e sciagura sempre non
dura.[fonte 8] Giovani di buon cuore, indoli buone, crescono cattivi per poca
educazione.[fonte 4] Giugno la falce in pugno.[36][fonte 2] Gli abiti e gli
uomini presto invecchiano.[fonte 4] Gli abiti e i costumi sono mutabili.[fonte
4] Gli abiti sono freddi, ma ricevono il calore da chi li porta.[fonte 4] Gli
amori nuovi fanno dimenticare i vecchi.[fonte 4] Gli eredi dell'avaro sono
onnipotenti, perché possono risuscitare i morti.[fonte 4] Gli eretici rubano la
parola di Dio.[fonte 4] Gli errori degli altri sono i nostri migliori
maestri.[fonte 4] Gli errori non si conoscono finché non siano commessi.[fonte
4] Gli errori si pagano.[fonte 8] Gli estremi si toccano.[fonte 4] Gli idoli
separano papa e imperatore.[fonte 4] Gli occhi s'hanno a toccare con le
gomita.[fonte 91] Gli stolti fanno le feste e gli accorti se le godono.[fonte
116] Gli uccelli dalle stesse piume devono stare nello stesso nido.[fonte 8]
Gli uomini onesti non temono né la luce, né il buio.[fonte 8] Gobba a ponente
luna crescente, gobba a levante luna calante.[fonte 2] Gola degli adulatori,
sepolcro aperto.[fonte 117] Gotta inossota, mai fi sanata.[fonte 118] Gran
giustizia, grande offesa.[fonte 4] Grande amore, gran dolore.[fonte 8] Greco in
mare, Greco in tavola, Greco non aver a far seco.[fonte 74] Gru e donne fan
volentieri il nido in alto.[fonte 8] Guardalo, figlia, guardalo tutto, l'uomo
senza denari com'è brutto.[fonte 4] Guardare e non toccare è una cosa da
imparare.[fonte 2] Guardati da chi accende il fuoco e grida poi contro le
fiamme.[fonte 4] Guardati da cane rabbioso e da uomo sospettoso.[fonte 8]
Guardati da chi giura in coscienza.[fonte 8] Guardati da chi non ha cura della
sua reputazione.[fonte 8] Guardati da chi ride e guarda da un'altra
parte.[fonte 8] Guardati da tre cose: da cavallo focoso, da uomo infido e da
donna svergognata.[fonte 8] Guardati da tutte quelle cose che possono nuocere
all'anima e al corpo.[fonte 8] Guardati dai fanciulli che ascoltano: anche i
piccoli vasi hanno orecchie.[fonte 8] Guardati dai matti, dagli ubriachi, dagli
ipocriti e dai minchioni.[fonte 8] Guardati dai tumulti, e non sarai né
testimonio né parte.[fonte 8] Guardati dal diffamare, perché le prove sono
difficili.[fonte 8] Guardati dal vecchio turco e dal giovane serbo.[fonte 119]
Guardati dall'ipocrisia, perché è una cattiva malattia.[fonte 8] Guardati dalla
primavera di gennaio.[fonte 8] Guardati in tua vita di non dare a niun
smentita.[fonte 8] Guerra, peste e carestia, vanno sempre in compagnia.[fonte
120] H Ha cento volte un uomo flemma e giudizio, alla centuna corre al
precipizio.[fonte 65] Ha bel mentir chi vien da lontano.[fonte 76] Ha la
giustizia in mano bilancia e spada, perché il giusto s'innalza e l'empio
cada.[fonte 4] Ha più il ricco in un angolo, che il povero in tutta la
casa.[fonte 8] Ha un buon sapore l'odore del guadagno.[fonte 4] Ha un coraggio
da leone, quello che non fa violenza ai deboli.[fonte 8] Ho veduto assai volte
un piccol male non rispettato, divenir mortale.[fonte 65] I I baci sono come le
ciliegie: uno tira l'altro.[fonte 2] I cani abbaiano come sono nutriti.[fonte
4] I capponi sono buoni in tutte le stagioni.[fonte 8] I cattivi esempi si
imitano facilmente, meno i buoni.[fonte 4] I debiti sono gli eredi più prossimi.[fonte
4] I denari del lotto se ne van di galoppo.[fonte 8] I denari servono al povero
di beneficio, ed all'avaro di gran supplizio.[fonte 4] I desideri non riempiono
il sacco.[fonte 4] I docili non hanno bisogno della verga.[fonte 8] I doni dei
nemici sono pericolosi.[fonte 4] I fanciulli diventano uomini e le ragazze
spose.[fonte 4] I fanciulli e gli ubriachi cadono nelle mani di Dio.[fonte 4] I
figli dei gatti mangiano i topi.[fonte 8] I figli sono la ricchezza dei
poveri.[fonte 18] I figli sono pezzi di cuore.[fonte 2] I fiori tanto profumano
per i poveri come per i ricchi.[fonte 8] I frati non s'inchinano all'abate, ma
al mazzo delle sue chiavi.[fonte 4] I gamberi son buoni nei mesi della
erre.[fonte 8] I gatti e i veri uomini cadono sempre in piedi.[fonte 121] I
genii si incontrano.[fonte 4] I genitori amano i figli, più che i figli i
genitori.[fonte 4] I genovesi risparmiano anche sui numeri: li usano due
volte.[37][fonte 122] I giovani vogliono essere più accorti dei vecchi.[fonte
4] I giuramenti degli innamorati sono come quelli dei marinai.[fonte 4] I
granchi son pieni quando la luna è tonda.[fonte 8] I guai della pentola li sa
il mestolo che li rimescola.[fonte 8] I ladri grandi fanno impiccare i
piccoli.[fonte 4] I loquaci e i vantatori son mal veduti da tutti.[fonte 8] I
matti ed i fanciulli hanno un angelo dalla loro.[fonte 8] I matti fanno le
feste ed i savi le godono.[fonte 4] I medici vogliono essere vecchi, i
farmacisti ricchi ed i barbieri giovani.[fonte 4] "I miei datteri sono più
dolci", dice il vischio che cresce sulla palma.[fonte 8] [wellerismo] I
panni sporchi si lavano in casa.[fonte 123] I paperi vogliono portare a bere le
oche.[fonte 4] I parenti sono come le scarpe: più sono stretti, più fanno
male.[fonte 2] I pazzi crescono senza innaffiarli.[fonte 8] I pazzi e i
fanciulli possono dire quello che vogliono.[fonte 8] I pazzi per lettera sono i
maggiori pazzi.[fonte 124] I pazzi si conoscono dai gesti.[fonte 8] I peccati
di gioventù si piangono in vecchiaia.[fonte 8] I poeti nascono, e gli oratori
si formano.[fonte 8] I poveri cercano il mangiare per lo stomaco; e i ricchi lo
stomaco per mangiare.[fonte 8] I poveri hanno la salute e i ricchi le
medicine.[fonte 8] I pulci di vendemmia li tiene l'uomo e non le femmine.[fonte
125] I ricchi devono consolare i poveri.[fonte 8] I rimproveri del padre fanno
più che le legnate della madre.[fonte 8] I soldi non fanno la felicità.[fonte
2] I veri amici sono come le mosche bianche.[fonte 4] Il bel tempo non viene
mai a noia.[fonte 9] Il ben di un anno se ne va in una bestemmia.[fonte 4] Il
ben fare non è mai tardo.[fonte 4] Il bisognino fa trottar la vecchia.[fonte 2]
Il bue dice cornuto all'asino.[fonte 126] Il bue mangia il fieno perché si
ricorda che è stato erba.[fonte 2] Il buon ordine è figlio del disordine.[fonte
8] Il buon nocchiero muta vela, ma non tramontana.[fonte 8] Il caffè deve
essere caldo come l'inferno, nero come il diavolo, puro come un angelo e dolce
come l'amore.[38][fonte 127] Il caldo delle lenzuola non fa bollire la pentola.[fonte
128] Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.[fonte 8] Il cane è il miglior
amico dell'uomo.[fonte 2] Il cane pauroso abbaia più forte.[fonte 4] Il cane
rode l'osso perché non può inghiottirlo.[fonte 4] Il coccodrillo mangia l'uomo
e poi lo piange.[fonte 8] Il colombo che rimane in colombaia è al sicuro dal
falco.[fonte 8] Il colore più caro agli ebrei è il giallo.[fonte 4] Il coraggio
copre l'eroe meglio che lo scudo il codardo.[fonte 8] Il corpo e l'anima ridono
a chi si alza di buon mattino.[fonte 8] Il corvo piange la pecora e poi la
mangia.[fonte 117] Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.[fonte 8]
Il cuor magnanimo si piglia con poco amore, e il cuore dello stolto con poca
adulazione.[fonte 8] Il cuore ha le sue ragioni e non intende
ragione.[39][fonte 129] Il dare è onore, il chiedere è dolore.[fonte 8] Il
delitto non si deve tollerare, ma anche meno si deve approvare.[fonte 4] Il
denaro è il nervo della guerra.[fonte 4] Il denaro può molto, ma l'amore può
tutto.[fonte 4] Il diavolo ben si lascia pigliare per la coda, ma non se la
lascia strappare.[fonte 4] Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.[fonte 1]
Il diavolo non è così brutto come lo si dipinge.[fonte 130] Il diavolo vuol
farsi cappuccino.[fonte 2] Il diavolo vuol farsi santo.[fonte 2] Il domandare è
senno, il rispondere è obbligo.[fonte 8] Il dono del cattivo è simile al suo
padrone.[fonte 56] Il dubbio è padre del sapere.[fonte 4] Il fare insegna a
fare.[fonte 4] Il fatto non si può disfare.[fonte 4] Il ferro di cavallo che
risuona, ha bisogno di un chiodo.[fonte 8] Il ferro è duro, ma il fuoco lo
rende morbido.[fonte 4] Il figlio al padre s'assomiglia, alla madre la
figlia.[fonte 4] Il filo sottile facilmente si strappa.[fonte 4] Il fuoco che
non mi scalda, non voglio che mi scotti.[fonte 4] Il fuoco che non mi brucia,
non lo spengo.[fonte 4] Il gatto ama i pesci, ma non vuole bagnarsi le
zampe.[fonte 131] Il gatto brontola sempre, anche quando gode.[fonte 8] Il
gatto che si è bruciato, ha paura anche dell'acqua fredda.[fonte 121] Il gatto
è una tigre domestica.[fonte 8] Il gatto lecca oggi, domani graffia.[fonte 132]
Il gatto non è gatto se non è ladro.[fonte 133] Il gatto non ti accarezza, si
accarezza vicino a te.[fonte 134] Il generoso non ha mai abbastanza denaro.[fonte
4] Il gentiluomo chiede solo il miele, ma la gentildonna vuol anche la
cera.[fonte 8] Il gioco è bello quando dura poco.[fonte 2] Il gioco, il lotto,
la donna e il fuoco non si contentan mai di poco.[fonte 8] Il giudizio è opera
di Dio.[fonte 4] Il grano rado non fa vergogna all'aia.[fonte 135] Il Greco
dice la verità solo una volta all'anno.[fonte 4] Il lamentarsi non riempie
camera vuota.[fonte 8] Il lavorare senza pregare, è una botte senza vino, e oro
senza splendore.[fonte 4] Il lavoro nobilita l'uomo.[fonte 136] Il letto si
chiama rosa, se non si dorme si riposa.[fonte 137] Il lotto è la tassa degli
imbecilli.[fonte 8] Il lotto è un inganno continuo.[fonte 8] Il lupo non caca
agnelli.[fonte 2] Il lupo perde il pelo ma non il vizio.[40][fonte 1] Il lupo
quando acciuffa una pecora, ne guarda già un'altra.[fonte 4] Il magnanimo è
superiore all'ingiuria, all'ingiustizia, al dolore.[fonte 8] Il magnanimo non
ricorre all'astuzia.[fonte 8] Il male che non ha riparo è bene tenerlo
nascosto.[fonte 4] Il male peggiore dei mali è il timore.[fonte 8] Il male
viene in grandi quantità, e se ne va via a poco a poco.[fonte 4] Il matrimonio
è la tomba dell'amore.[fonte 2] Il mattino ha l'oro in bocca.[fonte 138] Le ore
del mattino hanno l'oro in bocca.[fonte 139] Il medico pietoso fa la piaga
puzzolente.[fonte 140] Il medico pietoso fa la piaga verminosa.[fonte 140] Il
meglio è nemico del bene.[fonte 1] Il merlo ingrassa in gabbia, il leone muore
di rabbia.[fonte 8] Il miele non è fatto per gli asini.[fonte 4] Il miglior
tiro ai dadi è non giocarli.[fonte 4] Il molto ringraziare significa chieder
dell'altro.[fonte 8] Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo
padrone.[fonte 8] Il mulino di Dio macina piano ma sottile.[fonte 141] Il nano
è piccolo anche se è sul campanile.[fonte 8] Il passato deve essere maestro
dell'oggi.[fonte 4] Il passato non deve prendere a prestito dall'oggi.[fonte 4]
Il peggior passo è quello dell'uscio.[fonte 2] Il pesce puzza dalla
testa.[fonte 1] Il Piemonte è la sepoltura dei francesi.[fonte 8] Il poeta ben
trova le palme, ma non i datteri.[fonte 8] Il politico bacia con la bocca, e
tira calci con i piedi.[fonte 8] Il Portogallo[41] è piccolo, ma è un pezzo di
zucchero.[fonte 8] Il povero non può e il ricco non vuole.[fonte 8] Il prete,
dove mangia, vi canta.[fonte 142] Il prete vien cantando e va via
zufolando.[fonte 143] Il prete vive ancor un anno dopo morte.[fonte 142] I suoi
familiari continuano ad incassar per un anno i suoi redditi.[42] Il primo amore
non si arrugginisce.[fonte 8] Il primo amore non si scorda mai.[fonte 8] Il
primo anno ci si abbraccia, il secondo si fascia, il terzo anno si ha la
malattia e la cattiva Pasqua.[fonte 4] Il puledro non va all'ambio, se la
cavalla trotta.[fonte 144] Il ramo assomiglia al tronco.[fonte 4] Il ricco ha
tanto bisogno del povero, quanto il povero del ricco.[fonte 8] Il ricco vive,
il povero vivacchia.[fonte 8] Il ringraziare non fa male alla bocca.[fonte 8]
Il ringraziare non paga debito.[fonte 8] Il riso abbonda sulla bocca degli stolti.[fonte
2] Il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi.[fonte 145] Il riso nasce
nell'acqua ma deve morire nel vino.[fonte 8] Il sapere è di tutti.[fonte 2] Il
«se» e il «ma» sono due corbellerie da Adamo in qua.[fonte 4] Il silenzio è
d'oro e la parola d'argento.[fonte 1] Il sospirar non vale.[fonte 8] Il
superfluo del ricco è il necessario del povero.[fonte 8] Il tatto è
tattica.[fonte 8] Il tatto è tutto.[fonte 8] Il tempo è denaro.[fonte 146] Il
tempo è un gran medico.[fonte 147] Il tempo scopre tutto, perché è
galantuomo.[fonte 147] Il tempo vola.[fonte 147] Il termine della notte è
l'inizio del giorno.[fonte 8] Il timore fa trottare anche lo zoppo.[fonte 8] Il
troppo gestire è da pazzi.[fonte 8] Il troppo tirare, l'arco fa spezzare.[fonte
4] Il turco ben può divenir un dotto, ma un uomo giammai.[fonte 119] Il ventre
non ha orecchie.[fonte 2] Il vero infermo è quello che non vuol esser
guarito.[fonte 8] Il vino al sapore, il pane al colore.[fonte 8] Il vino è
buono per chi lo sa bere.[fonte 8] Il vino è forte ma il sonno lo vince, ma più
forte d'ogni cosa è la donna.[fonte 8] Il vino è il latte dei vecchi.[fonte 8]
Il vino è mezzo vitto.[fonte 8] Il vino fa ballare i vecchi.[fonte 8] Il vino
la mattina è piombo, a mezzodì argento, la sera oro.[fonte 8] Impara a vivere
lo sciocco a sue spese, il savio a quelle altrui.[fonte 4] Impara l'arte e
mettila da parte.[fonte 1] In amore e in guerra niente regole.[fonte 8] In
bocca chiusa non entran mosche.[fonte 2] In Campania si inganna persino il
diavolo.[fonte 8] In casa del calzolaio non si hanno scarpe.[fonte 4] In cento
libbre di legge, non v'è un'oncia di amore.[fonte 148] In chiesa coi santi e in
taverna coi ghiottoni.[fonte 1] In compagnia prese moglie un frate.[fonte 1] In
febbraio la beccaccia fa il nido.[fonte 8] In Lazio si nasce coi sassi in
mano.[fonte 8] In lunghi viaggi anche la paglia pesa.[fonte 8] In paradiso non
ci si va in carrozza.[fonte 141] In Sardegna non vi son serpenti, né in
Piemonte bestemmie.[fonte 8] In tanta incostanza e quantità delle cose umane,
nulla, se non quello che è passato, è sicuro.[fonte 4] In terra di ciechi,
beato chi ha un occhio.[fonte 36] In terra di ladri, la valigia dinanzi.[fonte
8] In vaso mal lavato, il vino è tosto guastato.[fonte 8] Ingegno e capelli,
crescono soltanto con gli anni.[fonte 4] Insieme non vanno la pudicizia e la
beltà.[fonte 4] Inventare è poco, diffondere l'invenzione è tutto.[fonte 4] L
L'abbaiare dei cani non arriva in cielo.[fonte 4] L'abbondanza non lascia
dormire il ricco.[fonte 4] L'abete che fa ombra crede di fare frutti.[fonte 4]
L'abete cresce in altezza, ma la felce cresce in larghezza.[fonte 4] L'abito
non fa il monaco.[43][fonte 2] L'abuso insegna il vero uso.[fonte 4] L'acqua
cheta rovina i ponti.[fonte 2] L'acqua corre al mare.[fonte 149] L'acqua e il
fuoco sono buoni servitori, ma cattivi padroni.[fonte 4] L'acqua fa male e il
vino fa cantare.[fonte 8] L'acqua fa marcire i pali.[fonte 5] L'acqua fa venire
i ranocchi in corpo.[fonte 150] L'acqua di maggio inganna il villano: par che non
piova e si bagna il gabbano[44].[fonte 2] L'acqua non è fatta per
sposarsi.[fonte 9] L'allegria dei cattivi dura poco.[fonte 8] L'allegria è di
ogni male il rimedio universale.[fonte 4] L'allegria è il balsamo della
vita.[fonte 8] L'allegria fa campare, la passione fa crepare.[fonte 8]
L'allegria piace anche a Dio.[fonte 8] L'allegria scaccia ogni male.[fonte 8]
L'allodola vola in alto, ma fa il suo nido in terra.[fonte 8] L'altezza è mezza
bellezza.[45][fonte 2] L'ambizione e la vendetta muoiono sempre di fame.[fonte
4] L'ambizione è nemica della ragione.[fonte 4] L'amore di carnevale muore in
quaresima.[fonte 8] L'amore è cieco.[fonte 2] L'amore è cieco, ma vede
lontano.[fonte 8] L'amore fa passare il tempo e il tempo fa passare
l'amore.[fonte 8] L'amore non è bello se non è litigarello.[fonte 103] L'amore
non si misura a metri.[fonte 8] L'amore passa dentro la cruna di un ago.[fonte
8] L'amore quanto più è bestia, tanto più sublime.[fonte 32] L'amore scalda il
cuore e l'ira fa il poeta.[fonte 8] L'amore senza baci è pane senza sale.[fonte
8] L'animo fa il nobile e non il sangue.[fonte 8] L'anno produce il raccolto,
non il campo.[fonte 4] L'apparenza inganna.[fonte 1] L'appetito non vuol
salsa.[fonte 151] L'appetito vien mangiando.[fonte 1] L'arancia la mattina è
oro, il giorno argento, la sera è piombo.[fonte 2] Con riferimento a chi fa
fatica a digerire le arance. L'arcobaleno la mattina bagna il becco della
gallina; l'arcobaleno la sera buon tempo mena.[fonte 1] L'arte non ha maggior
nemico dell'ignorante.[fonte 4] L'asino e il mulattiere non hanno lo stesso
pensiero.[fonte 4] L'asino non conosce la coda, se non quando non l'ha
più.[fonte 4] L'assai basta e il troppo guasta.[fonte 1] L'avaro in punto di
morte rimpiange i soldi spesi per la bara.[fonte 8] L'avaro lascia eredi
ridenti.[fonte 4] L'avaro non dorme.[fonte 4] L'avaro non vive, vegeta.[fonte
4] L'avversità che fiacca i cuori deboli, ingagliardisce le anime forti.[fonte
8] L'eccesso degli obblighi può fare perdere un amico.[fonte 4] L'eccesso della
gioia divien tristezza, e l'eccesso del vino ubriachezza.[fonte 8] L'eccezione
conferma la regola.[46][fonte 1] L'eclissi di sole avviene di giorno e non di
notte.[fonte 4] L'edera taciturna si arrampica in cima alla quercia.[fonte 4]
L'elefante non cura il morso delle pulci.[fonte 8] L'elemosina non fa
impoverire.[fonte 4] L'eloquenza del cattivo è falso acume.[fonte 8] L'Epifania
tutte le feste porta via.[47][fonte 1] L'erba del vicino è sempre più
verde.[48][fonte 152] L'erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del
re.[fonte 2] L'erba che non voglio, cresce nell'orto.[fonte 4] L'erba non
cresce sulla strada maestra.[fonte 4] L'eredità paterna ai paterni, la materna
ai materni.[fonte 4] L'errore che si confessa è mezzo rimediato.[fonte 4]
L'errore è un cocchiere che conduce sopra una falsa strada.[fonte 4] L'errore è
umano, il perdono divino.[fonte 153] L'esercizio è buon maestro.[fonte 4]
L'esperienza nel mondo conduce alla diffidenza, la diffidenza conduce al
sospetto, il sospetto all'astuzia, l'astuzia alla malvagità e la malvagità a
tutto.[fonte 4] L'esperienza senza il sapere è meglio che il sapere senza
sapienza.[fonte 70] L'estate ce la porta sant'Urbano e l'autunno san
Bartolomeo.[fonte 4] L'estate davanti e l'inverno dietro.[fonte 4] L'estate di
San Martino dura tre giorni e un pochinino.[49][fonte 2] L'estate per chi
lavora, l'inverno per chi dorme.[fonte 4] L'estate è una schiava, l'inverno un
padrone.[fonte 4] L'estate per il povero è migliore dell'inverno.[fonte 4]
L'eternità è una compera lunga.[fonte 4] L'eternità non ha capelli grigi.[fonte
4] L'eterno parlatore né ode né impara.[fonte 4] L'idolo si adora finché non è
infranto.[fonte 4] L'ignorante ha le ali di un'aquila e gli occhi di un
gufo.[fonte 4] L'inchiostro è il mio campo, su cui posso scrivere
valorosamente; la penna, il mio aratro; le parole, la mia semente.[fonte 8]
L'inchiostro è nero, e tinge le dita e la reputazione.[fonte 8] L'inferno e i
tribunali son sempre aperti.[fonte 4] L'ingegno viene con gli anni, e se ne va
con gli anni.[fonte 4] L'ingratitudine converte in ghiaccio il caldo
sangue.[fonte 8] L'ingratitudine è la mano sinistra dell'egoismo.[fonte 8]
L'ingratitudine è un'amara radice da cui crescono amari frutti.[fonte 8]
L'ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.[fonte 8] L'ingratitudine taglia i
nervi al beneficio.[fonte 8] L'intelletto è nella testa e non negli anni.[fonte
4] L'intelletto non viene mai prima degli anni.[fonte 4] L'interesse acceca
anche i galantuomini.[fonte 8] L'inverno al fuoco e l'estate all'ombra.[fonte
4] L'invidia è annessa alla felicità.[fonte 4] L'invidia è un gufo che non può
sopportare la luce della prosperità degli altri.[fonte 4] L'invidia è una
bestia che rode le proprie gambe, quando non ha altro da rodere.[fonte 4]
L'invidia somiglia alla gramigna, che mai non muore, e da per tutto
alligna.[fonte 4] L'ipocrisia intasca il denaro, e la verità va mendica.[fonte
4] L'ira senza forza, non vale una scorza.[fonte 4] L'ira turba la mente e
acceca la ragione.[fonte 4] L'Italia è il paese dove corre latte e miele.[fonte
4] L'Italia è un paradiso abitato da demoni.[fonte 4] L'Italia per nascervi, la
Francia per viverci e la Spagna per morirvi.[fonte 4] L'occasione fa l'uomo
ladro.[fonte 1] L'occhio del padrone ingrassa il cavallo.[fonte 1] L'oggi non
deve calunniare il passato.[fonte 4] L'olivo benedetto vuol trovar pulito e
netto.[50][fonte 2] L'ombra di un principe dev'essere la liberalità.[fonte 4]
L'ordine caccia il disordine.[fonte 8] L'ordine è pane, il disordine è
fame.[fonte 8] L'orgoglio crede che il suo uovo abbia due tuorli.[fonte 8]
L'orgoglio è stoltezza, l'umiltà è saviezza.[fonte 8] L'orgoglio fa colazione
con l'abbondanza, pranza con la povertà e cena con la vergogna.[fonte 154]
L'orologio dell'amore ritarda sempre.[fonte 8] L'ospite è come il pesce: dopo
tre giorni puzza.[fonte 2] L'ospite e il pesce dopo tre dì rincresce.[fonte 1]
L'ozio è il padre di tutti i vizi.[fonte 1] L'ozio in gioventù non è la via
della virtù.[fonte 4] L'uguaglianza e misurar tutti con la stessa spanna, è la
legge della morte.[fonte 8] L'umiliarsi è da saggio, l'avvilirsi è da
bestia.[fonte 8] L'umiliazione va dietro al superbo.[fonte 8] L'umiltà è il
miglior modo di evitare l'umiliazione.[fonte 8] L'umiltà è la corona di tutte
le virtù.[fonte 8] L'umiltà è la madre dell'onore.[fonte 8] L'umiltà è una
virtù che adorna tanto la vecchiaia, quanto la gioventù.[fonte 8] L'umiltà
ottiene spesso più dell'alterigia.[fonte 8] L'umiltà sta bene a tutti.[fonte 8]
L'umiltà sta bene con la castità.[fonte 8] L'unione fa la forza.[fonte 1]
L'uomo avaro e l'occhio sono insaziabili.[fonte 4] L'uomo deve tenere aperta la
bocca a lungo prima che c'entri un colombo arrostito.[fonte 4] L'uomo fu creato
per lavorare, come l'uccello per volare.[fonte 4] L'uomo ordisce e la fortuna
tesse.[fonte 1] L'uomo politico accende una candela a Dio e un'altra al
diavolo.[fonte 8] L'uomo per la parola e il bue per le corna.[fonte 1] L'uomo
propone e Dio dispone.[fonte 1] L'uomo propone e la donna dispone.[fonte 2]
L'uomo si conosce al bicchiere.[fonte 4] L'uomo si giudica male
dall'aspetto.[fonte 4] L'usura arricchisce, ma non dura.[fonte 8] L'usura è il
miglior apostolo del diavolo.[fonte 8] L'usura è la figlia primogenita
dell'avarizia.[fonte 8] L'usura è un assassinio.[fonte 8] L'usura è vietata da
Dio.[fonte 8] L'usura veglia quando l'uomo dorme.[fonte 8] L'usuraio
arricchisce col sudor dei poveri.[fonte 8] L'usuraio ha un torchio a
sangue.[fonte 8] L'usuraio ingrassa andando a spasso.[fonte 8] La bestemmia
gira gira torna addosso a chi la tira.[fonte 4] La buona cantina fa il buon
vino.[fonte 8] La buona mamma fa la buona figlia.[fonte 4] La buona sorte ogni
vile cuore fa forte.[fonte 8] La calma è la virtù dei forti.[fonte 2] La
capacità si vede nelle difficoltà.[fonte 4] La carestia è il pane
dell'usuraio.[fonte 4] La carne migliore è quella intorno all'osso.[fonte 4] La
carne senz'osso non fa brodo.[fonte 4] La carrucola non frulla, se non è
unta.[fonte 4] La cattiva sorte porta spesso buona sorte.[fonte 8] La cicala
prima canta e poi muore.[fonte 8] La coda è la più lunga da scorticare.[fonte
1] La comodità fa l'uomo cattivo.[fonte 8] La compassione è la figlia
dell'amore.[fonte 4] La concordia rende forti i deboli.[fonte 8] La contentezza
viene dalle budella.[fonte 1] La corda troppo tesa si spezza.[fonte 1] La
cupidigia rompe il sacco.[fonte 4] La dieta ogni mal quieta.[fonte 155] La
difficoltà sta nell'iniziare.[fonte 4] La diffidenza aguzza gli occhi.[fonte 4]
La diffidenza è la morte dell'amore.[fonte 4] La diffidenza porta più avanti
della fiducia.[fonte 4] La donna a 15 anni scherza, a 20 brilla, a 25 ama, a 30
brama, a 35 sente, a 40 vuole e a 50 paga.[fonte 8] La donna bisogna praticarla
un giorno, un mese e un'estate per sapere che odore sa.[fonte 8] La donna buona
vale una corona.[fonte 8] La donna deve avere tre m: matrona in strada, modesta
in chiesa, massaia in casa.[fonte 8] La donna e l'orto vogliono un sol
padrone.[fonte 8] La donna ha più capricci che ricci.[fonte 8] La donna oziosa
non può essere virtuosa.[fonte 8] La donna per piccola che sia, vince il
diavolo in furberia.[fonte 8] La donna più sciocca vale due uomini.[fonte 8] La
donna troppo in vista, è di facile conquista.[fonte 8] La fame caccia il lupo
dal bosco.[fonte 1] La fame caccia il lupo dalla tana.[fonte 4] La fame spinge
il lupo nel villaggio.[fonte 4] La fame condisce tutte le vivande.[fonte 4] La
fame non vede la muffa nel pane.[fonte 4] La fame è cattiva consigliera.[fonte
1] La fame, gran maestra, anche le bestie addestra.[fonte 4] La fame muta le
fave in mandorle.[fonte 4] La farina del diavolo va tutta in crusca.[fonte 1]
La fedeltà non è mai rimeritata abbastanza, e l'infedeltà mai abbastanza.[fonte
4] La femmina è cosa mobile per natura.[fonte 4] La fine della passione è il
principio del pentimento.[fonte 129] La fortuna aiuta gli audaci.[fonte 2] La
fortuna del savio ha per figliola la modestia.[fonte 8] La fortuna è
cieca.[fonte 2] La fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo.[fonte 108]
La fretta fa rompere la pentola.[fonte 8] La fretta è una cattiva
consigliera.[fonte 108] La furia non fu mai buona.[fonte 4] La gallina del
vicino sembra un fagiano.[fonte 152] La gatta frettolosa fece i gattini
ciechi.[fonte 1] La gatta grassa fa onore alla casa.[fonte 121] La gatta, mette
il piede davanti alla vacca.[fonte 156] La gatta non s'accosta alla pentola che
bolle.[fonte 38] La gatta vorrebbe mangiar pesci, ma non pescare.[fonte 157] La
gelosia della moglie è la via al suo divorzio.[fonte 4] La gelosia è il
peggiore di tutti i mali.[fonte 4] La gelosia è una passione che cerca
avidamente quel che tormenta.[fonte 4] La generosità è un muro che non si può
alzare più alto di quello che arrivano i materiali.[fonte 4] La gente ricca
alleva male i suoi cani, e la gente povera i suoi figlioli.[fonte 8] La gente savia
non si cura di quel che non può avere.[fonte 87] La gioventù fugge, e la
bellezza sfiorisce.[fonte 4] La gioventù vuol fare il suo corso.[fonte 4] La
lealtà se ne è andata dal mondo e la dirittura si è messa a dormire.[fonte 4]
La lega fa forte i deboli.[fonte 4] La liberalità è un muro che non si deve
rizzare più alto di quello che comportino i materiali.[fonte 4] La liberalità
non sta nel dare molto, ma saggiamente.[fonte 4] La libertà del povero è di
lasciarlo mendicare.[fonte 4] La libertà è da Dio; le libertà, dal
diavolo.[fonte 4] La libertà è più cara degli occhi e della vita.[fonte 4] La
libertà fila con le sue mani il filo della sua tenda.[fonte 4] La lingua batte
dove il dente duole.[fonte 1] La lingua non ha osso e sa rompere il dosso.[fonte
4] La lingua spagnola è la più amabile; quando il diavolo tentò Eva, le parlo
in spagnolo.[fonte 8] La lode propria puzza, quella degli amici zoppica.[fonte
4] La luna di gennaio è la luna del vino.[fonte 2] La luna è bugiarda: quando
fa la C diminuisce, e quando fa la D cresce[fonte 158] La luna non cura
l'abbaiar dei cani.[fonte 2] La luna regge il lume ai ladri.[fonte 158] La
luna, se non riscalda, illumina.[fonte 158] La Lombardia è il giardino del
mondo.[fonte 8] La madre del peggio è sempre incinta.[fonte 159] La madre degli
imbecilli è sempre incinta.[fonte 160] La madre dei fessi è sempre
incinta.[fonte 160] La magnificenza spesso copre la povertà.[fonte 4] La mala
erba non muore mai.[fonte 1] La mala nuova la porta il vento.[fonte 1] La
malerba cresce presto.[fonte 2] La malinconia e le cure fanno invecchiare
anzitempo.[fonte 4] La mercanzia rara è meglio che buona.[fonte 8] La miglior
difesa è l'attacco.[fonte 1] La minestra lunga sa di fumo.[fonte 8] La modestia
è il dattero che matura raramente sull'albero della ricchezza.[fonte 8] La
modestia è madre d'ogni creanza.[fonte 8] La moglie è la chiave di casa.[fonte
8] La morte ci rende uguali nella sepoltura, disuguali nell'eternità.[fonte 8]
La necessità aguzza l'ingegno.[fonte 2] La necessità fa più ladri che
galantuomini.[fonte 8] La notte è fatta per gli allocchi.[fonte 8] La notte
porta consiglio.[fonte 1] La novella non è bella, se non c'è la
giuntarella.[fonte 8] La pancia del buongustaio è il cimitero dei cibi
buoni.[fonte 8] La parola del ricco è simile al sole, e quella del povero è
simile al vapore.[fonte 8] La pazienza è la virtù dei forti.[fonte 9] La
pazienza è una buon'erba, ma non nasce in tutti gli orti.[fonte 88] La pecora
che se ne va sola, il lupo la mangia.[fonte 91] La peggio ruota è quella che
stride.[fonte 8] La peggior carne da conoscere è quella dell'uomo.[fonte 4] La
penitenza corre dietro al peccato.[fonte 8] La pentola vuota è quella che
suona.[fonte 8] La pianta si conosce dal frutto.[fonte 1] La pigrizia e
l'impudicizia sono sorelle.[fonte 8] La pittura è una poesia tacita, e la
poesia una pittura loquace.[fonte 8] La più bell'ora per il mangiare è quella
in cui si ha fame.[fonte 8] La polenta è utile per quattro cose: serve da
minestra, serve da pane, sazia e scalda le mani.[fonte 8] La povertà è priva di
molte cose, l'avarizia è priva di tutto.[fonte 56] La prima acqua è quella che
bagna.[fonte 1] La prima gallina che canta ha fatto l'uovo.[fonte 108] La prima
eredità al primo figlio, l'ultima eredità all'ultimo figlio.[fonte 4] La
provvidenza quel che toglie rende.[fonte 4] La pulce che esce di dietro
l'orecchio con il diavolo si consiglia.[fonte 8] La puttana e la lattuga una
stagione dura.[fonte 8] La rana è usa ai pantani, se non ci va oggi ci andrà
domani.[fonte 8] La rana non morde, perché non ha denti.[fonte 8] La rana, o
salta o piscia, ma mai non sbrana.[fonte 8] La razza comincia dalla
bocca.[fonte 8] La roba dei pazzi è la prima ad andarsene.[fonte 8] La ruota
della fortuna gira.[fonte 4] La ruota della fortuna non è sempre una.[fonte 4]
La scorza fa bella la castagna.[fonte 4] La scimmia è sempre scimmia, anche
vestita di seta.[fonte 8] La semplicità senza accortezza è pura pazzia.[fonte
8] La sera leoni e la mattina coglioni.[fonte 2] La sorte è come ognuno se la
fa.[fonte 8] La speranza è cattivo denaro.[fonte 161] La speranza è il pane dei
poveri.[fonte 2] La speranza è il patrimonio dei poveri.[fonte 2] La speranza è
il sogno dell'uomo desto.[fonte 2] La speranza è l'ultima a morire.[fonte 2] La
speranza è la miglior consolazione nella miseria.[fonte 161] La speranza è la
miglior musica del dolore.[fonte 161] La speranza è la ricchezza dei
poveri.[fonte 2] La speranza è sempre verde.[fonte 2] La speranza è un balsamo
per i cuor piagati.[fonte 161] La speranza è un sogno nella veglia.[fonte 2] La
speranza infonde coraggio anche al codardo.[fonte 161] La speranza ingrandisce,
l'esperienza rimpicciolisce.[fonte 57] La superbia è figlia
dell'ignoranza.[fonte 1] La superbia mostra l'ignoranza.[fonte 162] La superbia
va a cavallo e torna a piedi.[fonte 1] La terra è madre di tutti gli uomini ed
anche sepoltura.[fonte 8] La troppa umiltà vien dalla superbia.[fonte 8] La
vanagloria è un fiore che mai non porta frutta.[fonte 163] La vera libertà è
non servire al vizio.[fonte 4] La verità è nel vino.[fonte 8] La verità viene
sempre a galla.[fonte 2] La veste copre gran difetti.[fonte 55] La via
dell'inferno è lastricata di buone intenzioni.[fonte 1] La vipera morta non
morde seno, ma pure fa male coll'odor del veleno.[fonte 8] La virtù sta nel
mezzo.[51][fonte 164] La vita è breve e l'arte è lunga.[52][fonte 55] La vita è
già mezzo trascorsa anziché si sappia che cosa sia.[fonte 165] La volpe si
conosce dalla coda.[fonte 4] Lamentarsi, supplicare e bere acqua è lecito a tutti.[fonte
8] Latte e vino, tossico fino.[fonte 8] Lavora come se avessi a campare ognora,
adora come avessi a morire allora.[fonte 4] Lavoro non ingrassò mai bue.[fonte
4] Le allegrezze non durano.[fonte 8] Le belle penne rendono bello
l'uccello.[fonte 4] Le bellezze durano fino alle porte, la bontà fino alla
morte.[fonte 4] Le braccia e le mani del povero appartengono al ricco.[fonte 8]
Le bugie hanno le gambe corte.[fonte 1] Le bugie sono lo scudo degli uomini
dappoco.[fonte 4] Le chiacchiere non fanno farina.[fonte 1] Le colombe che
rimangono in colombaia, sono sicure dal nibbio.[fonte 8] Le cose lunghe
diventano serpi.[fonte 1] Le cose lunghe prendono vizio.[fonte 1] Le dita della
mano sono disuguali.[fonte 8] Le donne hanno lunghi i capelli e corti i cervelli.[fonte
4] Le donne hanno quattro malattie all'anno, e tre mesi dura ogni
malanno.[fonte 8] Le bestie vanno trattate da bestie.[fonte 8] Le cattive nuove
sono le prime ad arrivare.[fonte 8] Le cattive nuove volano.[fonte 1] Le chiavi
ed i lucchetti non si fanno per le dita fidate.[fonte 8] Le disgrazie non
vengono mai sole.[fonte 1] Le disgrazie sono come le ciliegie: una tira
l'altra.[53] Le donne hanno lunghi i capelli e corti i cervelli.[fonte 166] Le
donne hanno sette anime... e mezza.[fonte 8] Le donne ne sanno una più del
diavolo.[fonte 2] Le donne piglian bene le pulci.[fonte 8] Le lacrime sono le
armi delle donne.[fonte 4] Le leghe e le corde fradice non durano a
lungo.[fonte 4] Le malattie ci dicono quel che siamo.[fonte 88] Le montagne
stanno ferme, gli uomini s'incontrano.[fonte 167] Le ore del mattino hanno
l'oro in bocca.[fonte 1] Le parole sono femmine e i fatti sono maschi.[fonte 1]
Le piante che fruttano troppo presto, si seccano.[fonte 8] Le querce non fanno
limoni.[fonte 2] Le ragazze sono d'oro, le sposate d'argento, le vedove di rame
e le vecchie di latta.[fonte 8] Le rane han perso la coda perché non seppero
chiedere aiuto.[fonte 8] Le rose cascano, le spine restano.[fonte 168] Le teste
di legno fan sempre del chiasso.[fonte 55] Le Trentine vengono giù pollastre e
se ne vanno sù galline.[fonte 8] Le vie della provvidenza sono infinite.[fonte
1] Le vie del Signore sono infinite.[fonte 1] Leggi, rileggi e pondera.[fonte
8] Lingua cheta e fatti parlanti.[fonte 4] Lo sbadiglio non vuol mentire: o che
ha sonno o che vorrebbe dormire, o che ha qualche cosa che non può dire.[fonte
8] Lo scarafaggio corre sempre allo sterco.[fonte 8] Lo scimunito parla col
dito.[fonte 8] Lo scorpione dorme sotto ogni lastra.[fonte 8] Lo smargiasso
ciancia in guerra, il valente combatte muto.[fonte 8] Loda il gran campo e il
piccolo coltiva.[fonte 169] Loda il monte e tieniti al piano.[fonte 2] Loda il
pazzo e fallo saltare, se non è pazzo lo farai diventare.[fonte 8] Lontano
dagli occhi, lontano dal cuore.[fonte 170] Lontan dagli occhi, lontan dal
cuore.[fonte 2] Luna di grappoli a gennaio luna di racimoli a
febbraio.[54][fonte 2] Lunga lingua, corta mano.[fonte 8] Lungo come la
quaresima.[55][fonte 2] Luglio dal gran caldo, bevi bene e batti saldo.[fonte
16] Lungo digiuno caccia la fame.[fonte 4] Lupo non mangia lupo.[fonte 2] M Ma
in premio d'amore amor si rende.[fonte 33] Maggio ortolano, molta paglia e poco
grano.[fonte 16] Maggiore il santo, maggiore la sua umiltà.[fonte 8] Mai gli
uomini sanno essere abbastanza riconoscenti verso gli inventori.[fonte 4] Mal
comune mezzo gaudio.[fonte 2] Mal può rendere ragion del proprio fatto chi
lardo o pesce lascia in guardia al gatto.[fonte 65] Mal si giudica il cavallo
dalla sella.[fonte 3] Male che si vuole non duole.[fonte 9] Male ignoto si teme
doppiamente.[fonte 8] Male non fare, paura non avere.[fonte 2] Male voluto non
fu mai troppo.[fonte 57] Maledetto il ventre che del pan che mangia non si
ricorda niente.[fonte 8] Manca tanto la pazienza ai poveri, quanto la compassione
ai ricchi.[fonte 8] Mangiar molto e far buona digestione, è un privilegio che
han poche persone.[fonte 8] Mano dritta e bocca monda possono andare per tutto
il mondo.[fonte 4] Marinaio genovese, mercante fiorentino.[fonte 8] Martello
d'oro non rompe le porte del cielo.[fonte 47] Marzo è pazzo.[fonte 16] Marzo
pazzerello guarda il sole e prendi l'ombrello.[fonte 2] Marzo molle, gran per
le zolle.[fonte 16] Mazza e pane fanno i figli belli; pane senza mazza fa i
figli pazzi.[fonte 171] Medico vecchio e chirurgo giovane.[fonte 172] Medico
vecchio e medicina nuova.[fonte 2] Chirurgo giovane e medico anziano.[56]
Mediocre bestiame ben pasciuto è di maggior vantaggio che molto bestiame mal
mantenuto.[fonte 173] Meglio andare a letto senza cena, che alzarsi con
debiti.[fonte 4] Meglio aperto rimprovero, che odio segreto.[fonte 8] Meglio
dietro agli uccelli, che dietro ai signori.[fonte 8] Meglio essere ben educato,
che nascere nobile.[fonte 4] Meglio essere invidiati che compatiti.[fonte 174]
Meglio fare la serva in casa propria, che la padrona in casa altrui.[fonte 4]
Meglio fave in libertà, che capponi in schiavitù.[fonte 8] Meglio fringuello in
man che tordo in frasca.[fonte 2] Meglio fringuello in tasca che tordo in
frasca.[fonte 2] Meglio il marito senz'amore, che con gelosia.[fonte 75] Meglio
l'uovo oggi che la gallina domani.[fonte 1] Meglio mangiar carote in pace che
molte pietanze in disunione.[fonte 8] Meglio mendicante che ignorante.[fonte
124] Meglio pane con amore, che gallina con dolore.[fonte 4] Meglio poco che
niente.[fonte 1] Meglio soli che male accompagnati.[fonte 1] Meglio tardi che
mai.[fonte 1] Meglio un asino vivo che un dottore morto.[fonte 1] Meglio un
fiorino guadagnato, che cento ereditati.[fonte 4] Meglio un magro accordo che
una grassa sentenza.[fonte 2] Meglio un morto in casa che un pisano
all'uscio.[fonte 2] Meglio una festa che cento festicciole.[fonte 1] Meglio una
volta arrossire che mille impallidire.[fonte 8] Meglio vivere ben che vivere a
lungo.[fonte 64] Meno siamo meglio stiamo.[fonte 57] Mente lieta, vita quieta e
moderata dieta.[fonte 2] Merito non conosciuto poco vale.[fonte 8] Milan può
far, Milan può dir, ma non può far dell'acqua vin.[fonte 8] Mille errori sono
più facilmente pronunciati che una verità.[fonte 4] Moglie e buoi dei paesi
tuoi.[fonte 1] Donne e buoi dei paesi tuoi.[fonte 2] Mogli che non
contraddicono e galline che facciano le uova d'oro, sono uccelli rari.[fonte 8]
Moglie maglio.[fonte 1] Molte cose si giudicano impossibili a farsi prima che
siano fatte.[fonte 4] Molte mani fanno l'opera leggera.[fonte 4] Molte paglie
unite possono legare un elefante.[fonte 8] Molte volte la belleza più adorabile
si unisce alla stupidaggine più insopportabile.[fonte 4] Molte volte si perde
per negligenza quello che si è guadagnato con giustizia.[fonte 4] Molti hanno
buone carte in mano, ma non le sanno giocare.[fonte 4] Molti inventano oro con
la bocca ed hanno piombo alle mani e ai piedi.[fonte 4] Molti parlano d'Orlando
anche se non videro mai il suo brando.[fonte 8] Molti sfuggono alla pena, ma
non ai rimorsi della coscienza.[fonte 8] Molti si immaginano di avere il
pulcino, che non hanno ancora l'uovo.[fonte 4] Molti si lamentano del buon
tempo.[fonte 8] Molti sono i verseggiatori, pochi i poeti.[fonte 8] Molti
squartano un gatto e giurano che era un leone.[fonte 8] Molti voti fanno
l'abate.[fonte 4] Molto denaro, molti amici.[fonte 4] Molto fumo e poco
arrosto.[fonte 1] Molto può nuocere una piccola negligenza.[fonte 8] Morire di
fame in una madia di pane.[fonte 4] Morta la serpe, spento il veleno.[fonte 8]
Morto un papa se ne fa un altro.[fonte 1] Mulo buon mulo, ma cattiva
bestia.[fonte 8] Muore il ricco, gli fanno il funerale; muore il povero,
nessuno gli dice: vale.[fonte 8] Muove la coda il cane non per te, ma per il
pane.[fonte 4] N Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi.[fonte 2] Né col
capretto né con l'agnello, si adopera il coltello.[fonte 8] Né di venere, né di
marte non si sposa né si parte, né si dà principio all'arte.[fonte 2] Né donna
né tela al lume di candela.[fonte 8] Ne uccide più la lingua che la
spada.[fonte 2] Ne uccide più la gola che la spada.[fonte 2] Necessità fa legge
e tribunale.[fonte 2] Negli ordini pari, i pareri sono dispari.[fonte 8] Nel
bere e nel camminare si conoscono le donne.[fonte 8] Nel bosco tagliato non ci
stanno assassini.[fonte 8] Nel dubbio astieniti.[fonte 2] Nel monte di Brianza,
senza vin non si danza.[fonte 8] Nel paese degli zoppi, zoppicar non è
vergogna.[fonte 8] Nel regno dei ciechi anche un orbo è re.[fonte 175] Nel regno
dei ciechi anche un guercio è re.[fonte 175] Nel regno di Dio, poveri e ricchi
sono uguali.[fonte 8] Nell'autunno non bisogna più sognare di rose e
tulipani.[fonte 4] Nell'estate si deve pensare all'inverno, e nella gioventù
alla vecchiaia.[fonte 4] Nell'eternità si arriva sempre in tempo.[fonte 4]
Nell'inverno il pazzo sogna rose, e nell'estate il savio le raccoglie.[fonte 4]
Nella botte piccola c'è il buon vino.[fonte 8] Nella felicità ragione,
nell'infelicità pazienza.[fonte 8] Nella gotta, il medico non vede gotta.[fonte
176] Nelle sventure si conosce l'amico.[fonte 1] Nessuna corona è più bella di
quella dell'umiltà.[fonte 8] Nessuna fortezza è così salda che non si lasci
conquistare dall'oro.[fonte 4] Nessuna ingiustizia rimane impunita.[fonte 4] Nessuna
mela è così bella che non abbia qualche difetto.[fonte 4] Nessuna nuova, buona
nuova.[fonte 1] Nessuno è profeta in patria.[57][fonte 177] Nessuno può dare
quello che non ha.[fonte 4] Nessuno può difendersi dalla beffa.[fonte 4] Ne
uccide più Bacco che Marte.[fonte 4] Neve di Dicembre dura fin che dura la
brina.[fonte 8] Niente è più bello di una faccia allegra.[fonte 8] Niuna
guardia è migliore di quella che una donna fa a se stessa.[fonte 4] Non
accettare i rimproveri o consigli da chi educare non seppe i propri
figli.[fonte 4] Non aspettar che l'abete porti pomi.[fonte 4] Non basta esser
galantuomo, bisogna anche esser conosciuto per tale.[fonte 8] Non bisogna fare
il diavolo più nero di quello che è.[fonte 8] Non bisogna fasciarsi il capo
prima di romperselo.[fonte 8] Non bisogna mai usare due pesi e due
misure.[fonte 8] Non bisogna scuotere l'orzo dal sacco prima di avere il
frumento.[fonte 8] Non c'è alcuno così povero che non possa aiutare, né alcuno
così ricco che non abbia bisogno d'aiuto.[fonte 8] Non c'è cosa più triste
sulla terra dell'uomo ingrato.[fonte 8] Non si muove foglia che Dio non
voglia.[fonte 1] Non c'è affanno senza danno.[fonte 4] Non c'è Carnevale senza
luna di febbraio.[fonte 2] Non c'è due senza tre.[fonte 1] Non c'è due senza tre
e il quarto vien da sé.[fonte 2] Non c'è cosa così cattiva che non sia buona a
qualche cosa.[fonte 4] Non c'è eretico che non abbia la sua credenza.[fonte 4]
Non c'è fumo senza arrosto.[fonte 1] Non c'è gallina né gallinaccia che di
gennaio l'uova non faccia.[fonte 2] Non c'è intoppo per avere, più che chiedere
e temere.[fonte 178] Non c'è male senza bene.[fonte 4] Non c'è miglior cieco di
quello che non vuole vedere.[fonte 4] Non c'è pane senza pena.[fonte 1] Non c'è
peggior sordo di chi non vuol sentire.[fonte 2] Non c'è regola senza
eccezioni.[fonte 1] Non c'è rosa senza spine.[fonte 2] Non cade foglia che Dio
non voglia.[fonte 1] Non ci fu mai frettoloso che non fosse pazzo.[fonte 8] Non
ci rimane nessuna vigna da vendemmiare, e né meno nessuna donna da
maritare.[fonte 179] Non credere a donna, quand'anche sia morta.[fonte 4] Non
destare il can che dorme.[fonte 1] Non dire quattro se non l'hai nel
sacco.[fonte 2] Non dire gatto se non ce l'hai nel sacco.[fonte 180] Non è arte
il giocare, ma lo smettere.[fonte 4] Non è bello ciò che è bello, ma è bello
ciò che piace.[fonte 181] Non è bene esser poeta nel villaggio.[fonte 8] Non è
bene riporre denaro in una cassa di cui non si ha la chiave.[fonte 4] Non è col
dire "miel, miel," che la dolcezza viene in bocca.[fonte 117] Non è
contento quel che si lamenta.[fonte 8] Non è in nessun luogo chi è in ogni
luogo.[fonte 4] Non è mai gran gagliardia, senza un ramo di pazzia.[fonte 8]
Non è povero, se non chi si crede tale.[fonte 8] Non è sempre savio chi non sa
esser qualche volta pazzo.[fonte 8] Non è sì tristo cane, che non meni la
coda.[fonte 182] Non è tutto oro quel che luccica.[fonte 183] Non è tutto oro
quel che riluce.[fonte 183] Non esiste amore senza gelosia.[fonte 8] Non fa la
stessa viva sensazione il solletico a tutte le persone.[fonte 8] Non facendo
niente, più pena si sente.[fonte 4] Non far mai bene, non avrai mai male.[fonte
8] Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te.[58][fonte 2]
Non fare il male ch'è peccato, non fare il bene ch'è sprecato.[fonte 1] Non
fare il passo più lungo della gamba.[fonte 2] Non gira il corvo che non sia
vicina la carogna.[fonte 8] Non lodare il bel giorno prima di sera.[fonte 4]
Non mettere il carro davanti ai buoi.[fonte 184] Non mettere il rasoio in mano
a un pazzo.[fonte 8] Non mettere un rasoio in mano a un pazzo.[fonte 185] Non
mi morse mai scorpione, ch'io non mi medicassi col suo olio.[fonte 8] Non
nominar la corda in casa dell'impiccato.[fonte 1] Non ogni abisso ha un
parapetto.[fonte 4] Non ogni lettera va alla posta, non ogni domanda vuole
risposta.[fonte 8] Non pensa il cuore quel che dice la bocca.[fonte 4] Non
perde il cervello se non chi l'ha.[fonte 8] Non rimandare a domani quello che
puoi fare oggi.[fonte 1] Non sempre va d'accordo la campana dell'orologio con
la meridiana.[fonte 8] Non serve dire «Di tal acqua non berrò».[fonte 4] Non si
campa d'aria.[fonte 4] Non si comincia bene se non dal cielo.[fonte 4] Non si
dà fumo senza fuoco.[fonte 4] Non si entra in Paradiso a dispetto dei Santi.[fonte
1] Non si fa niente per niente.[fonte 1] Non si fan nozze coi fichi
secchi.[fonte 186] Non si finisce mai di imparare.[fonte 4] Non si insegna a
nuotare ai pesci.[fonte 4] Non si legge mai libro senza imparare
qualcosa.[fonte 4] Non si possono cavar le castagne dal fuoco colla zampa del
gatto.[fonte 187] Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca.[fonte 1]
Non si può bere e fischiare.[fonte 77] Non si sa mai per chi si lavora.[fonte
4] Non si sta mai tanto bene che non si possa star meglio, né tanto male che
non si possa star meglio.[fonte 8] Non sono cacciatori tutti quelli che portano
il fucile.[fonte 4] Non sono uguali tutti i giorni.[fonte 4] Non ti far povero
a chi non ha da farti ricco.[fonte 8] Non ti fidar d'un tratto, di grazia o di
bontà.[fonte 8] Non ti vantar farfalla, tuo padre era un bruco.[fonte 8] Non
tutte le ciambelle riescono col buco.[fonte 1] Non tutte le lacrime vengono dal
cuor.[fonte 4] Non tutti i matti rompono i piatti.[fonte 8] Non tutti i pazzi
stanno al manicomio.[fonte 8] Non tutti possiamo abitare in piazza.[fonte 8]
Non tutti sono ammalati quelli che sono in letto.[fonte 8] Non tutti sono
infelici come credono.[fonte 8] Non tutti sono infermi quelli che gridano
ahi![fonte 8] Non tutti vedono la serpe che sta nascosta sotto l'erba.[fonte 4]
Non tutto il male vien per nuocere.[fonte 2] Non v'è mai tanta pace in
convento, come quando i frati portano tonache uguali.[fonte 8] Non vi è donna
senza amore.[fonte 8] Non vi è inganno che non si vinca con l'inganno.[fonte 4]
Non vi è lino senza resca, né donna senza pecca.[fonte 4] Non vi è nulla che
ricercando non si possa penetrare.[fonte 4] Non vi è peggior burla che la
vera.[fonte 4] Non vi fu mai gatta che non corresse ai topi.[fonte 8] Non
vendere la pelle dell'orso prima di averlo ucciso.[fonte 1] Non vo' dormire né
fare la guardia.[fonte 4] Notte, amore e vino fanno spesso l'uomo
meschino.[fonte 8] Novembre vinaio.[fonte 16] Nulla è così buono che a lungo
andare non venga a noia.[fonte 8] Nuovo padrone, nuova legge.[fonte 58] Nutri
il corvo e ti caverà gli occhi.[fonte 8] Nutri la serpe in seno, ti renderà
veleno.[fonte 8] O O taci, o di' cosa migliore del silenzio.[59][fonte 8]
Occhio che piange cuore che duole.[fonte 2] Occhio che piange cuore che
sente.[fonte 2] Occhio non vede, cuore non duole.[fonte 2] Occhio per occhio,
dente per dente.[60][fonte 2] Olio di lucerna ogni mal governa.[fonte 2] Oggi a
me domani a te.[fonte 2] Oggi allegria, domani malinconia.[fonte 8] Oggi
creditore, domani debitore.[fonte 8] Oggi fresco e forte, domani nella
morte.[fonte 8] Oggi in figura, domani in sepoltura.[fonte 8] Oggi in pace,
domani in guerra.[fonte 8] Oggi mercante, domani mendicante.[fonte 8] Oggi
pioggia e doman vento, tutto cambia in un momento.[fonte 8] Ogni Abele ha il suo
Caino.[fonte 4] Ogni animale per non morir s'aiuta.[fonte 188] Ogni bel gioco
dura poco.[fonte 1] Ogni bella scarpa diventa ciabatta, ogni bella donna
diventa nonna.[fonte 8] Ogni bene infine svanisce, ma la fama non
perisce.[fonte 4] Ogni cosa ch'è rara, suol essere più cara.[fonte 8] Ogni
disuguaglianza, l'amore uguaglia.[fonte 4] Ogni erba si conosce dal seme.[fonte
4] Ogni fatica merita ricompensa.[fonte 4] Ogni gatta ha il suo febbraio.[fonte
8] Ogni giorno non è festa.[fonte 4] Ogni giorno non si fanno nozze.[fonte 4]
Ogni grillo si crede cavallo.[fonte 8] Ogni lasciata è persa.[fonte 1] Ogni
legno ha il suo tarlo.[fonte 1] Ogni lucciola non è un fuoco.[fonte 8] Ogni
lumaca vede le corna delle altre.[fonte 189] Ogni matto fa il suo atto.[fonte
8] Ogni medaglia ha il suo rovescio.[fonte 1] Ogni pazzo vuol dar
consiglio.[fonte 8] Ogni pelo ha la sua ombra.[fonte 4] Ogni popolo ha il
governo che si merita.[fonte 190] Ogni promessa è debito.[fonte 1] Ogni rana si
crede gran dama.[fonte 8] Ogni rana si crede una Diana.[fonte 8] Ogni scimmia
trova belli i suoi scimmiotti.[fonte 8] Ogni serpe ha il suo veleno.[fonte 8]
Ogni simile ama il suo simile.[fonte 1] Ogni uccello fa il suo verso.[fonte 8]
Ogni uccello canta il suo verso.[fonte 191] Ognun patisce del suo
mestiere.[fonte 192] Ognuno trascura per sé i godimenti dell'arte sua, quasi
venutigli a noia perché ci ha guardato dentro: il cuoco non è mai ghiotto, il
calzolaio va colle scarpe rotte. Ognun per sé e Dio per tutti.[fonte 1] Ognun
vede le proprie oche come cigni.[fonte 8] Ognuno all'arte sua e il lupo alle
pecore.[fonte 2] Ognuno ama sentirsi lodare.[fonte 4] Ognuno che ha un gran
coltello, non è un boia.[fonte 4] Ognuno fa degli errori.[fonte 4] Ognuno
faccia il suo mestiere.[fonte 2] Ognuno ha i suoi gusti.[fonte 193] Ognuno ha
il suo affanno.[fonte 8] Ognuno ha la sua croce.[fonte 1] Ognuno tira l'acqua
al suo mulino.[fonte 2] Orto, uomo morto.[fonte 169] Orzo e paglia fanno il
caval da battaglia.[fonte 8] Ospite raro ospite caro.[fonte 1] Ottobre mostaio.[fonte
16] P Paese che vai usanza che trovi.[fonte 1] Paga il giusto per il
peccatore.[fonte 1] Pancia affamata, vita disperata.[fonte 4] Pancia piena non
crede a digiuno.[fonte 1] Pancia vuota non sente ragioni.[fonte 1] Parla
all'amico come se ti avesse a diventar nemico.[fonte 8] Pane finché dura, vino
con misura.[fonte 194] Parenti, amici, pioggia, dopo tre giorni vengono a
noia.[fonte 8] Parenti serpenti.[fonte 1] Parenti serpenti, cugini assassini,
fratelli coltelli.[fonte 2] Parere e non essere è come filare e non
tessere.[fonte 2] Parlare francese come una vacca spagnola.[fonte 4] Passata la
festa gabbato lo santo.[fonte 1] Passato il fiume scordato il santo.[fonte 4]
Patti chiari, amici cari.[fonte 2] Patti chiari amicizia lunga.[fonte 2] Pazzi
e buffoni hanno pari libertà.[fonte 8] Pazzo è colui che bada ai fatti
altrui.[fonte 8] Pazzo è quel prete che biasima le sue reliquie.[fonte 195]
Pazzo per natura, savio per scrittura.[fonte 8] Peccati vecchi, penitenza
nuova.[fonte 8] Peccato celato è mezzo perdonato.[61][fonte 196] Peccato
confessato è mezzo perdonato.[fonte 8] Per amore anche una donna onesta, può
perdere la testa.[fonte 8] Per chi vuol esser libero, non c'è catena che
tenga.[fonte 8] Per essere amabili, bisogna amare.[fonte 9] Per fare
l'elemosina non manca mai la borsa.[fonte 4] Per il galantuomo non ci sono
leggi.[fonte 8] Per il saggio le lacrime delle donne sono come gocce
salate.[fonte 4] Per imparare qualche cosa, non è mai troppo tardi.[fonte 4]
Per l'abbondanza del cuore la bocca parla.[fonte 4] Per l'oro, l'abate vende il
convento.[fonte 4] Per la santa Candelora[62] dell'inverno siamo fora, ma se
piove o tira vento, dell'inverno siamo dentro.[fonte 2] Per la santa Candelora
se tempesta o se gragnola dell'inverno siamo fora; ma se è sole o solicello
siamo solo a mezzo inverno.[fonte 2] Per natura tutti gli uomini sono simili;
per l'educazione diventano interamente diversi.[fonte 4] Per ogni civetta che
si sente cantare sul tetto, non bisogna metter lutto.[fonte 8] Per quanto alletti
la bellezza di un fiore, nessuno lo coglie se ha cattivo odore.[fonte 4] Per
san Lorenzo la noce è fatta.[fonte 2] Per San Lorenzo la noce si spacca nel
mezzo.[fonte 197] Per san Lorenzo piove dal cielo carbone ardente.[fonte 2] Per
Santa Caterina [25 novembre], le bestie fuori dalla cascina.[fonte 198] Per
trovare ingiustizie non occorrono lanterne.[fonte 4] Per un chiodo si perde un
ferro, e per un ferro un cavallo.[fonte 8] Per un punto Martin perse la
cappa.[63][fonte 2] Per una scopa formano un mercato tre donne e assordan tutto
il vicinato.[fonte 8] Perde le lacrime chi piange davanti al giudice.[fonte 4]
Perdona a tutti, ma non a te.[fonte 199] Perdonare è da uomini, scordare è da
bestie.[fonte 199] Pesce che va all'amo, cerca d'esser gramo.[fonte 8] Pianta a
cui spesso si muta luogo, non prende vigore.[fonte 4] Piccola fiamma non fa
gran luce.[fonte 8] Piccola pietra rovesciar può il carro.[fonte 8] Piccola
scintilla può bruciar la villa.[fonte 8] Piccole ruote portano gran pesi.[fonte
8] Piccolo ago scioglie stretto nodo.[fonte 8] Piglia il bene quando viene, ed
il male quando conviene.[fonte 8] Piove sempre sul bagnato.[fonte 2] Pisa, pesa
per chi posa.[fonte 8] Più alta la condizione, più si deve essere umili.[fonte
8] Più briccone, più fortunato.[fonte 4] Più il fiume è profondo, più scorre il
silenzio.[fonte 4] Più si chiacchiera, meno si ama.[fonte 8] Piuttosto un asino
che porti, che un cavallo che butti in terra.[fonte 87] Poca brigata vita
beata.[fonte 1] Poeta si nasce, oratori si diventa.[fonte 200] Poeti e Santi
campano tutti quanti.[fonte 201] Poeti, pittori e pellegrini a fare e a dire
sono indovini.[fonte 8] Polenta e latte bollito, in quattro salti è
digerito.[fonte 8] Portare frasconi a Vallombrosa.[fonte 4] Prendi la bruna per
amante e la bionda per moglie.[fonte 8] Preghiera di gatto e brontolio di pulce
non arrivano in cielo.[fonte 131] Preghiera umile entra in cielo.[fonte 8]
Presto e bene, raro avviene.[fonte 8] Prete spretato e cavolo riscaldato, non
fu mai buono.[64] Prevedere per provvedere e prevenire.[fonte 202] Prima della
morte non chiamare nessuno felice.[fonte 4] Prima di ammogliarsi bisogna fare
il nido.[fonte 4] Prima di andare alla pesca esamina ben bene la tua
rete.[fonte 8] Prima di domandare, pensa alla risposta.[fonte 203] Prima
lusingare e poi graffiare, è arte dei gatti.[fonte 8] Prodigo e bevitor di
vino, non fa né forno né mulino.[fonte 8] Pugliesi, cento per forca e un per
paese.[fonte 8] Puoi ben drizzare il tenero virgulto, non l'albero già fatto
adulto.[fonte 4] Putto in vino e donna in latino non fecero mai buon
fine.[fonte 4] Q Qual proposta tal risposta.[fonte 1] Qualche intervallo il
pazzo ha di saviezza, qualche intervallo il savio ha di stoltezza.[fonte 8]
Qualche volta anche Omero sonnecchia.[fonte 204] Quale uccello, tale il
nido.[fonte 205] Quand'anche si trapiantassero in paradiso, i cardi non
porterebbero mai rose.[fonte 8] Quando arriva la gloria svanisce la
memoria.[fonte 2] Quando c'è l'esercito, si trova anche il generale.[fonte 4]
Quando c'è la salute c'è tutto.[fonte 57] Quando canta la rana, la pioggia non
è lontana.[fonte 8] Quando ci sono molti galli a cantare non si fa mai
giorno.[fonte 16] Quando è alta la passione, è bassa la ragione.[fonte 206]
Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla
palma.[fonte 8] Quando fischia l'orecchio dritto, il cuore è afflitto;
quando il manco, il cuore è franco.[fonte 8] Quando gli eretici si
accapigliano, la chiesa ha pace.[fonte 4] Quando il colombo ha il gozzo pieno,
le vecce gli sembrano amare.[fonte 8] Quando il culo è avvezzo al peto non si
può tenerlo cheto.[fonte 2] Quando il fanciullo è satollo anche il miele non ha
più gusto.[fonte 4] Quando il fanciullo ha sette anni, la ragione spunta in
lui.[fonte 207] Quando il gatto lecca il pelo viene acqua giù dal cielo.[fonte
38] Quando il gatto non c'è i topi ballano.[fonte 1] Quando il gatto non può
arrivare al lardo dice che è rancido.[fonte 8] Quando il gatto si lecca e si
sfrega le orecchie con la zampina, pioverà prima che sia mattina.[fonte 8]
Quando il gozzo è pieno, le ciliegie sono acerbe.[fonte 8] Quando il grano
ricasca, il contadino si rizza.[fonte 57] Quando il grano va a male, bisogna
ringraziare Dio per la paglia.[fonte 8] Quando il lardo è divorato, poco val
cacciare il gatto.[fonte 8] Quando il mandorlo non frutta, la semente ci va
tutta.[fonte 8] Quando il padrone zoppica, il servo non va diritto.[fonte 8]
Quando il sole splende, non ti curar della luna.[fonte 8] Quando il tempo è
chiaro in autunno, vento nell'inverno.[fonte 4] Quando in autunno sono grassi i
tassi e le lepri, l'inverno è rigoroso.[fonte 4] Quando l'amore è a pezzi non
c'è alcuna colla che lo riappiccichi.[fonte 8] Quando l'angelo diventa diavolo,
non c'è peggior diavolo.[fonte 4] Quando l'avaro muore, il danaro
respira.[fonte 4] Quando l'Italia suona la chitarra, la Spagna le nacchere, la
Francia il liuto, l'Irlanda l'arpa, la Germania la tromba, l'Inghilterra il
violino, l'Olanda il tamburo, nulla è uguale ad esse.[fonte 8] Quando la barba
fa bianchino, lascia la donna e tienti al vino.[fonte 208] Quando la cicala
canta in settembre, non comprare gran da vendere.[fonte 8] Quando la fame entra
dalla porta, l'amore esce dalla finestra.[fonte 8] Quando la grazia di Dio è
nel cuore, gli occhi nuotano nell'allegria.[fonte 4] Quando la guerra comincia
s'apre l'inferno.[fonte 4] Quando la neve si scioglie si scopre la
mondezza.[fonte 1] Quando la pera è matura casca da sé.[fonte 1] Quando la pera
è matura bisogna che caschi.[fonte 16] Quando la radice è tagliata, le foglie
se ne vanno.[fonte 8] Quando la ragione dorme, il cuore scappuccia.[fonte 8]
Quando la luna è bianca il tempo è bello; se è rossa, vuole dire vento; se
pallida, pioggia.[fonte 4] Quando la rana canta il tempo cambia.[fonte 8]
Quando non dice niente, non è dal savio il pazzo differente.[fonte 8] Quando
non sai, frequenta in domandare.[fonte 209] Quando piove col sole le vecchie
fanno l'amore.[fonte 1] Quando piove col sole il diavolo fa l'amore.[fonte 1]
Quando piove col sole le streghe fanno l'amore.[fonte 2] Quando piove col sole
si marita la volpe.[65][fonte 2] Quando piove d'agosto, piove miele e
mosto.[fonte 8] Quando si è in ballo bisogna ballare.[fonte 1] Quando si è
patito si è inclini a compatire.[fonte 4] Quando si mangia non si parla.[fonte
57] Quando sono fidanzate hanno sette mani e una lingua, quando sono sposate
hanno sette lingue e una mano.[fonte 8] Quando un amico chiede, non v'è
domani.[fonte 210] Quando un povero dà al ricco, Dio ride in cielo.[fonte 8]
Quando una cosa è accaduta, poco vale lamentarsi.[fonte 8] Quando viene la
forza, il diritto è morto.[fonte 4] Quanto più è alto il monte, tanto più
profonda la valle.[fonte 4] Quanto più la rana si gonfia, più presto
crepa.[fonte 8] Quanto più se n'ha, tanto più se ne vorrebbe.[fonte 4] Quattro
lumi non s'accendono.[fonte 2] Quattro nuove invenzioni vanta il mondo:
scorticare senza coltello, arrostire senza fuoco, lavare senza sapone, e invece
degli occhiali vedere attraverso le dita.[fonte 4] Quel ch'è innato per natura,
si porta alla sepoltura.[fonte 8] Quel ch'è raro, è stimato.[fonte 8] Quel che
con l'acqua mischia e guasta il vino, merita di bere il mare a capo
chino.[fonte 8] Quel che è disposto in cielo, conviene che sia.[fonte 4] Quel,
che è fatto, è fatto, e non si può fare, che fatto non sia.[fonte 211] Quel che
è fatto è reso.[fonte 2] Quel che non può l'ìngegno, può spesso la
fortuna.[fonte 4] Quel che non puoi pagare col denaro, pagalo almeno col
ringraziamento.[fonte 8] Quel che è gioco per il forte per il debole è
morte.[fonte 8] Quel che si dà al ricco, si ruba al povero.[fonte 8] Quel che
si fa a fin di bene, non dispiace mai a Dio.[fonte 4] Quel che si fa
all'oscuro, appare al sole.[fonte 4] Quel che supera il mio intelletto, lo
lascio stare.[fonte 4] Quella bellezza l'uomo saggio apprezza che dura sempre,
fino alla vecchiaia.[fonte 4] Quelli che hanno meno ingegno, ne hanno da
vendere più degli altri.[fonte 4] Quello che abbaia è il cane sdentato.[fonte
4] Quello che deve durare per l'eternità non si deve scrivere con
l'acqua.[fonte 4] Quello che è accaduto ieri, può accadere oggi.[fonte 4]
Quello che è passato, è scordato.[fonte 4] Quello che ha da essere, sarà.[fonte
4] Quello che non avviene oggi, può avvenire domani.[fonte 4] Quello che non è
stato può essere.[fonte 4] Quello che non può l'intelletto, può spesso il
caso.[fonte 4] Quello che puoi fare oggi, non rimandarlo a domani.[fonte 4]
Quello che si dice all'eco nel bosco, il bosco lo ripete.[fonte 4] Quello che
si impara in gioventù, non si dimentica mai più.[fonte 4] Quello che si usa non
si scusa.[fonte 212] Quello è mio zio, che vuole il bene mio.[fonte 4] Quello è
un fanciullo accorto che conosce suo padre.[fonte 4] Questo devi sapere che la
gelosia di un Arabo è la stessa gelosia.[fonte 4] Quieta non muovere.[fonte 16]
R Raglio d'asino non giunse mai al cielo.[fonte 2] Rana di palude sempre si
salva.[fonte 8] Rane, malsane.[fonte 8] Render nuovi benefici all'ingratitudine
è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.[fonte 8] Ricchezza mal disposta a povertà
s'accosta.[fonte 8] Ricchezze nell'India, sapere in Europa, e pompa fra gli
ottomani.[fonte 8] Ricchi e poveri non portano che un lenzuolo all'altro
mondo.[fonte 8] Ricco e grande fortuna potrà farti, ma mai il comune senso
potrà darti.[fonte 4] Ricorda che il nemico può diventarti amico.[fonte 8] Ride
ben chi ride ultimo.[fonte 2] Ride ben chi ride l'ultimo.[fonte 2] Roba calda
il corpo non salda.[fonte 213] Roba d'altri, tutti scaltri.[fonte 4] Roma, a
chi nulla in cent'anni, a chi molto in tre dì.[fonte 8] Roma non fu fatta in un
giorno.[fonte 2] Roma santa, Aquila bella, Napoli galante.[fonte 214] Rosso di
mattina, pioggia vicina.[fonte 215] Rosso di sera bel tempo si spera; rosso di
mattina acqua vicina.[fonte 2] Rosso di sera, buon tempo si spera; rosso di
mattina mal tempo si avvicina.[fonte 1] Rosso e giallaccio pare bello ad ogni
faccia, verde e turchino si deve essere più che bellino.[fonte 216] Rovo, in
buona terra covo.[fonte 169] S Salta chi può.[fonte 1] San Benedetto[66] la
rondine sotto il tetto.[fonte 2] San Lorenzo dalla gran calura.[fonte 2] San
Pietro abbracciato, Cristo negato.[fonte 4] San Silvestro [31 dicembre] l'oliva
nel canestro.[fonte 2] Sangue giovane sempre spavaldo.[fonte 8] Sasso che
rotola non fa muschio.[fonte 47] Pietra che rotola non fa muschio.[fonte 2]
Sbagliando s'impara.[fonte 1] Scalda più l'amore che mille fuochi.[fonte 8]
Scherza coi fanti e lascia stare i Santi.[fonte 1] Scherzando intorno al lume
che t'invita, farfalla perderai l'ali e la vita.[fonte 65] Scherzo di mano,
scherzo di villano.[fonte 1] Gioco di mano, gioco di villano.[fonte 1] Schiena
di mulo, corso di barca, buon per chi n'accatta.[fonte 8] Scusa non richiesta,
accusa manifesta.[67][fonte 217] Se ari male, peggio mieterai.[fonte 47] Se
fossero buoni i nipoti non si leverebbero dalla vigna.[fonte 218] Se gioventù
sapesse, se vecchiaia potesse.[fonte 167] Se i gatti sapessero volare, le
beccacce sarebbero rare.[fonte 131] Se il coltivatore non è più forte della su'
terra questa finisce per divorarlo.[fonte 47] Se il ladro lasciasse il suo
rubare, non ci sarebbero più forche.[fonte 4] Se il giovane sapesse di quanto
ha bisogno la vecchiaia, chiuderebbe spesso la borsa.[fonte 4] Se il padre di
famiglia è miope, i servi sono ciechi.[fonte 8] Se il piede destro è zoppo, Dio
rafforza il sinistro.[fonte 8] Se il poeta s'erige a oratore predicherà agli
orecchi e non al cuore.[fonte 8] Se il primo bottone hai fatto essere secondo,
tutti sbagliati saranno da cima a fondo.[fonte 4] Se il re sputa sopra un abete
si chiama subito abete reale.[fonte 4] Se il ricco conoscesse la fame del
povero, gli darebbe del suo pane.[fonte 8] Se il ringraziare costasse denaro,
molti se lo terrebbero in tasca.[fonte 8] Se il tuo gatto è ladro non
scacciarlo di casa.[fonte 8] Se il virtuoso è povero, il lodarlo non basta; il
dovere primo è d'aiutarlo.[fonte 8] Se la pazzia fosse dolore, in ogni casa si
sentirebbe stridere.[fonte 8] Se le lattughe lasci in guardia alle oche, al
ritorno ne troverai ben poche.[fonte 219] Se ne vanno gli amori e restano i
dolori.[fonte 4] Se nessuno sa quel che sai, a nulla serve il tuo sapere.[fonte
8] Se non è zuppa è pan bagnato.[fonte 1] Se non hai mai rubato, la parola
ladro non è per te un'ingiuria.[fonte 4] Se occhio non mira, cuor non sospira.[fonte
8] Se ognun spazzasse da casa sua, tutta la città sarebbe netta.[fonte 220] Se
piovesse oro, la gente si stancherebbe a raccoglierlo.[fonte 8] Se son rose
fioriranno.[fonte 1] Se ti vuoi nutrire bene, fai ballare i trentadue.[fonte 8]
Se un fratello compie un omicidio, gli altri non sono responsabili.[fonte 4] Se
vuoi che t'ami, fa' che ti brami.[fonte 8] Se vuoi portare l'uomo a
incretinire, fallo ingelosire.[fonte 4] Segui il filo e troverai il
gomitolo.[fonte 4] Senza denari non canta un cieco.[fonte 1] Senza denari non
si canta messa.[fonte 1] Senza umiltà tutte le virtù sono vizi.[fonte 8] Sempre
ti graffierà chi nacque gatto.[fonte 8] Senza umanità non vi è né virtù, né
vero coraggio, né gloria durevole.[fonte 8] Seren d'inverno e nuvolo d'estate, non
ti fidare.[fonte 4] Sette in un colpo! disse quel sarto che aveva ammazzato
sette mosche.[fonte 8] [wellerismo] Settembre, l'uva è fatta e il fico
pende.[fonte 16] Si bacia il fanciullo a causa della madre, e la madre a causa
del fanciullo.[fonte 4] Si deve alzare di buon'ora chi vuol contentare i suoi
vicini.[fonte 8] Si dice il peccato, ma non il peccatore.[fonte 2] Si mantiene
un esercito per mille giorni, e non se ne fa uso che per un momento.[fonte 4]
Si parla del diavolo e spuntano le corna.[fonte 130] Si può conoscere la tua
opinione dal tuo sbadigliare.[fonte 8] Si può vivere senza fratelli ma non
senza amici.[68] Si stava meglio quando si stava peggio.[69][fonte 2] Sia
l'astrologo che l'indovina ti portano alla rovina.[fonte 4] Sicuro come il pane.[fonte
4] Sin che si vive, s'impara sempre.[fonte 4] Sol gente di mal'affare, bestie e
botte, van fuori di notte.[fonte 221] Son padrone del mondo oggi le donne e
cedon toghe e spade a cuffie e gonne.[fonte 8] Sono meglio cento beffe che un
danno.[fonte 4] Sono sempre gli stracci che vanno all'aria.[fonte 1] Sopra
l'albero caduto ognuno corre a fare legna.[fonte 4] Sopra ogni vino, il greco è
divino.[fonte 8] Sotto la neve pane, sotto l'acqua fame.[fonte 1] Spesso a
chiaro mattino, v'è torbida sera.[fonte 222] Spesso chi commette
un'ingiustizia, ne subisce una peggiore.[fonte 4] Spesso vince più l'umiltà che
il ferro.[fonte 8] Sposa bagnata sposa fortunata.[fonte 223] Stretta la foglia,
larga la via dite la vostra che ho detto la mia.[fonte 2] Larga la foglia,
stretta la via dite la vostra che ho detto la mia.[fonte 2] Stringe più la
camicia che la gonnella.[fonte 4] Studia non per sapere di più, ma per sapere
meglio degli altri.[fonte 224] Studio in gioventù, onore alla vecchiaia.[fonte
4] Sulla pelle della serpe nessuno guarda alle macchie.[fonte 8] Superbia
povera spiace anche al diavolo; umiltà ricca piace anche a Dio.[fonte 8] T
T'annoia il tuo vicino? Prestagli uno zecchino.[fonte 4] Tagliare i capelli con
la pentola.[fonte 225] Tagliarli male. Tal lascia l'arrosto che poi brama il
fumo.[fonte 4] Tale padre, tale figlio.[70][fonte 2] Tanti galli a cantar non
fa mai giorno.[fonte 1] Tanti idoli, tanti templi.[fonte 4] Tanti pochi fanno
un assai.[fonte 226] Tanto fumo e poco arrosto.[fonte 2] Tanto l'amore quanto
il fuoco devono essere attizzati.[fonte 8] Tanto l'amore quanto la minestra di
fagioli vogliono uno sfogo.[fonte 8] Tanto va la gatta al lardo che ci lascia
lo zampino.[fonte 1] Tempo chiaro e dolce a capodanno, assicura bel tempo tutto
l'anno.[fonte 8] Tenga bene a mente un bugiardo quando mente.[fonte 4] Tentar
non nuoce.[fonte 1] Terra assai, terra poca.[fonte 169] Terra bianca, tosto
stanca.[fonte 227] Terra coltivata raccolta sperata.[fonte 2] Terra nera buon
grano mena.[fonte 2] Testa di lucertola, collo di gru, gambe di ragno, pancia
di vacca, groppa di baldracca.[fonte 8] Testa di pazzo non incanutisce
mai.[fonte 8] Tinca di maggio e luccio di settembre.[fonte 8] Tinca in camicia,
luccio in pelliccia.[fonte 8] Tira più un pelo di fica che cento paia di
buoi.[fonte 2] Tira più un capello di donna che cento paia di buoi.[fonte 8]
Tolta la causa, cessato l'effetto.[fonte 8] Tondi l'agnello e lascia il
porcello.[fonte 8] Torinesi e Monferrini, pane, vino e tamburini.[fonte 8] Tra
cani non si mordono.[fonte 1] Tra i due litiganti il terzo gode.[fonte 1] Tra
il dire e il fare c'è di mezzo il mare.[fonte 1] Tra l'incudine e il martello,
mano non metta chi ha cervello.[fonte 4] Tra moglie e marito non mettere il
dito.[fonte 1] Tradimento piace assai, traditor non piace mai.[fonte 148]
Trattar male il povero è il disonor del ricco.[fonte 8] Tre cose cacciano
l'uomo di casa: fumo, goccia e femmina arrabbiata.[fonte 4] Tre cose fanno
l'uomo ammalato: amore, vino e bagno.[fonte 8] Tre cose simili: prete, avvocato
e morte. Il prete toglie dal vivo e dal morto; l'avvocato vuol del diritto e
del torto; e la morte vuole il debole e il forte.[fonte 142] Tre cose sono
rare: un buon melone, un buon amico e una buona moglie.[fonte 8] Tre sono le
meraviglie, Napoli, Roma e la faccia tua.[fonte 228] Trenta monaci e un abate
non farebbero bere un asino per forza.[fonte 4] Triste e guai, chi crede troppo
e chi non crede mai.[fonte 8] Triste quel cane che si lascia prendere la coda
in mano.[fonte 8] Triste quell'estate, che ha saggina e rape.[fonte 8] Tromba
di culo, sanità di corpo.[fonte 213] Troppa manna, nausea.[fonte 8] Troppa
modestia è orgoglio mascherato.[fonte 8] Troppe soddisfazioni tolgono ogni
voglia.[fonte 8] Troppi cuochi guastano la cucina.[fonte 1] Troppo povero e
troppo ricco fa ugual disgrazia.[fonte 8] Tu scherzi col tuo gatto e
l'accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi.[fonte 8] Turchi e
Tartari, flagelli dei popoli.[fonte 229] Tutta la strada non fallisce il saggio
che, accortosi a metà, corregge il viaggio.[fonte 4] Tutte le cose sono
difficili prima di diventar facili.[fonte 70] Tutte le strade portano a
Roma.[fonte 1] Tutte le volpi si ritrovano in pellicceria.[fonte 2] Tutte le
volpi si rivedono in pellicceria.[fonte 2] Tutte le volte che si ride si toglie
un chiodo dalla cassa.[fonte 230] Tutti del pazzo tronco abbiamo un ramo.[fonte
8] Tutti i fiumi vanno al mare.[fonte 1] Tutti i giorni sono buoni per andare a
caccia. ma non per prendere uccelli.[fonte 4] Tutti i guai son guai, ma il guaio
senza pane è il più grosso.[fonte 1] Tutti i gusti son gusti.[fonte 1] Tutti i
mestieri danno il pane.[fonte 231] Tutti i nodi vengono al pettine.[fonte 1]
Tutti i peccati mortali sono femmine.[fonte 8] Tutti i salmi finiscono in
gloria.[fonte 1] Tutti siamo figli di Adamo ed Eva.[fonte 190] Tutto ciò che
dura a lungo annoia.[fonte 8] Tutto è bene quel che finisce bene.[71][fonte 1]
Tutto il cervello non è in una testa.[fonte 4] Tutto il mondo è
paese.[72][fonte 1] Tutto quello che è bianco non è farina.[fonte 4] Tutto
s'accomoda fuorché l'osso del collo.[fonte 31] U Uccellin che mette coda vuol
mangiare a tutte l'ore.[fonte 2] Uccello raro ha nido raro.[fonte 8] Ucci ucci,
sento odor di cristianucci.[fonte 2] Umiltà e cortesia adornano più di una veste
tessuta d'oro.[fonte 8] Un bel tacer non fu mai scritto.[73][fonte 2] Un'anima
magnanima consulta le altre; un'anima volgare disprezza i consigli.[fonte 8]
Un'oncia di allegria vale più di una libbra di tristezza.[fonte 232] Un'ora di
contento sconta cent'anni di tormento.[fonte 233] Un abete non fa
foresta.[fonte 4] Un bell'abito è una lettera di raccomandazione.[fonte 4] Un
buon abate loda sempre il suo convento.[fonte 4] Un buon principio va sempre a
buon fine.[fonte 4] Un cattivo libro ha spesso un buon titolo, ed una fronte
onesta, un cervello ribaldo.[fonte 4] Un cuor magnanimo vuol sempre il bene,
anche se il premio mai non ottiene.[fonte 8] Un esercito senza generale è come
un corpo senz'anima.[fonte 4] Un fido amico, e ricchezze ben acquistate son due
cose rare.[fonte 8] Un fratello aiuta l'altro.[fonte 4] Un granello fa
traboccare la bilancia.[fonte 4] Un granello di polvere fa scoppiare tutta la
bomba.[fonte 4] Un ladro non ruba sempre, ma bisogna guardarsi da lui.[fonte 4]
Un lume è più presto spento che acceso.[fonte 4] Un male tira l'altro.[fonte 4]
Un padre campa cento figli e cento figli non campano un padre.[fonte 2] Un
pazzo ne fa cento.[fonte 8] Un piccolo buco fa affondare un gran
bastimento.[fonte 8] Un povero virtuoso val più di un ricco vizioso.[fonte 8]
Una bella barba e un cuor valente adornano l'uomo.[fonte 4] Una bella giornata
non fa estate.[fonte 4] Una bella lacrima trova facilmente un fazzoletto che la
asciughi.[fonte 4] Una bugia ha bisogno di sette bugie.[fonte 4] Una buona risata
si trasforma tutta in buon sangue.[fonte 232] Una ciliegia tira l'altra.[fonte
2] Una cosa tira l'altra.[fonte 16] Una estate vale più di dieci inverni.[fonte
4] Una parola tira l'altra.[fonte 2] Una e buona.[fonte 16] Una ma buona.[fonte
16] Una fa, due stentano, ma a tre ci vuol la serva.[fonte 8] Una Fenice fra le
donne è quella, che altra donna confessa essere bella.[fonte 8] Una mano lava
l'altra e tutte e due lavano il viso.[fonte 1] Una mela al giorno leva il
medico di torno.[fonte 2] Una ne paga cento.[fonte 1] Una ne paga tutte.[fonte
1] Una rondine non fa primavera.[fonte 1] Un fiore non fa giardino.[fonte 4] Un
fiore non fa primavera.[fonte 4] Una volta corre il cane e una volta la
lepre.[fonte 1] Una volta per uno non fa male a nessuno.[fonte 1] Uno semina,
l'altro raccoglie.[fonte 72] Uno si fa la sorte da sé, l'altro la riceve bell'e
fatta.[fonte 8] Uomo a cavallo, sepoltura aperta.[fonte 2] Uomo avvisato mezzo
salvato.[fonte 1] Uomo da nessuno invidiato, è uomo non fortunato.[fonte 4] Uomo
di vino, non vale un quattrino.[fonte 8] Uomo morto non fa più guerra.[fonte
234] Uomo senza quattrini è un morto che cammina.[fonte 2] Uomo solitario, o
angelo o demone.[fonte 235] Uomo zelante, uomo amante.[fonte 4] L'uomo misero è
un morto che cammina.[fonte 2] Uovo di un'ora, pane di un giorno, vino di un
anno, donna di quindici e amici di trent'anni.[fonte 8] V Va' in piazza vedi e
odi, torna a casa bevi e godi.[fonte 236] Va più di un asino al mercato.[fonte
4] Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.[fonte 8] Val più una
messa in vita che cento in morte.[fonte 4] Vale più la pratica che la
grammatica.[fonte 1] Vale più un fatto che cento parole.[fonte 237] Vale più un
gusto che un casale.[fonte 1] Vale più un testimone di vista che cento
d'udito.[fonte 2] Vale più uno a fare.[fonte 16] Vanga e zappa non vuol
digiuno.[fonte 47] Vanga piatta poco attacca, vanga ritta terra ricca, vanga
sotto ricca il doppio.[fonte 2] Vecchi doni vogliono nuovi
ringraziamenti.[fonte 8] Vecchiaia d'aquila, giovinezza d'allodola.[fonte 4]
Vedere e non toccare è una cosa da crepare.[fonte 2] Vedere per credere.[fonte
238] Vento fresco mare crespo.[fonte 239] Ventre pieno non crede a
digiuno.[fonte 16] Ventre vuoto non sente ragioni.[fonte 16] Vesti un legno, pare
un regno.[fonte 41] Vi sono dei matti savi, e dei savi matti.[fonte 8] Vicino
alla chiesa lontano da Dio.[fonte 2] Vicino alla serpe c'è il biacco.[fonte 8]
Vigna nel sasso e orto in terren grasso.[fonte 240] Vincere un ambo al lotto è
un malefizio, che più accresce la speranza al vizio.[fonte 8] Vino amaro,
tienilo caro.[fonte 8] Vino battezzato non vale un fiato.[fonte 8] Vino
battezzato, non va al palato.[fonte 8] Vino dentro, senno fuori.[fonte 8] Vino
di fiasco la sera buono e la mattina guasto.[fonte 8] Vino e sdegno fan palese
ogni disegno.[fonte 8] Vino non è buono che non rallegra l'uomo.[fonte 8]
Violenza non dura a lungo.[fonte 241] Vivi e lascia vivere.[fonte 1] Vizio di
natura fino alla fossa dura.[fonte 2] Vizio di natura, fino alla morte dura.[fonte
242] Voglia di lavorar saltami addosso, lavora tu per me che io non
posso.[fonte 243] Voglio piuttosto un asino che mi porti, che un cavallo che mi
getti in terra.[fonte 4] Volpe che dorme, ebreo che giura, donna che piange,
malizie sopraffine colle frange.[fonte 4] Note Cfr. voce dedicata su
Wikipedia. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. Matteo, 6,
34. La locuzione latina gutta cavat lapidem (letteralmente "la
goccia perfora la pietra") venne utilizzata da Tito Lucrezio Caro, Publio
Ovidio Nasone e Albio Tibullo. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce
dedicata su Wikipedia. Titolo di un'opera di Achille Campanile del 1930,
passato a proverbio e modo di dire comune. Cfr. Petrarca: «La vita el
fin, e 'l dí loda la sera». Cfr. Giacomo Leopardi: «Amore, | amor, di
nostra vita ultimo inganno, | t'abbandonava». Cfr. voce dedicata su
Wikipedia. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. Giovanni Verga, I
Malavoglia. Slogan pubblicitario degli anni Ottanta. Cfr. Gesù,
Discorso della Montagna: «Cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché
chiunque chiede riceve, e chi cerca trova». Cfr. Gesù, Vangelo secondo
Matteo: «Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla
spada periranno di spada». Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr.
voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Citato
in Giovanni Battista Rossi, Conferenze popolari per gli uomini nel tempo degli
esercizi spirituali, Tappi, Torino, 1896, p. 164. Citato nel film Riso
amaro. Citato in Dizionario Italiano Olivetti,
dizionario-italiano.it. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. Libro
di Osea: «E poiché hanno seminato vento | raccoglieranno tempesta». Cfr.
attribuite a Papa Bonifacio VIII: «Qui tacet, consentire videtur». Cfr.
voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr.
Cristoforo Poggiali, Proverbj, motti e sentenze ad uso ed istruzione del
popolo, 1821: «Chi dà a credenza, molte merci spaccia; | Ma un presto
fallimento si procaccia». Cfr. Appio Claudio Cieco, Sententiae: «Quisque
faber fortunae suae.» Cfr. voce dedicata su Wikipedia. La frase è
attribuita (Niccolò Machiavelli, Istorie fiorentine, II, 3; Giovanni Villani,
Nuova Cronica, VI, 38) a Mosca dei Lamberti che, nel 1215, a Firenze, convinse
così gli Amidei a uccidere Buondelmonte de' Buondelmonti; dal delitto nacquero
le fazioni dei guelfi e dei ghibellini. Citato anche nella Divina Commedia di
Dante Alighieri (Inferno, 28, 106-108): Gridò: "Ricordera' ti anche del
Mosca, | che disse, lasso!, 'Capo ha cosa fatta', | che fu mal seme per la
gente tosca". È possibile che Mosca dei Lamberti adattò al momento un
proverbio già noto ai suoi tempi (Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli,
1921); secondo l'Accademia della Crusca (Dizionario della lingua italiana,
1827) corrisponderebbe al latino «Factum infectum fieri nequit». Cfr.
Gesù, Vangelo secondo Matteo: «Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare e a
Dio quel che è di Dio». Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce
dedicata su Wikipedia. Cfr. Philippe Néricault Destouches, Le Glorieux,
atto II, scena V: «La critique est aisée, et l'art est difficile.». Cfr.
«Facta lex inventa fraus.» Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr.
voce dedicata su Wikipedia. Riferito all'uso di numeri civici di colore
nero per le abitazioni e rosso per gli esercizi commerciali. Cfr. Michail
Aleksandrovič Bakunin: «Il caffè, per esser buono, deve essere nero come la
notte, dolce come l'amore e caldo come l'inferno». Cfr. Blaise Pascal:
«Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce». Cfr. voce
dedicata su Wikipedia. Nei dialetti siciliani e nel napoletano l'arancia
viene chiamata portogallo. La spiegazione è in Strafforello, vol. III, p.
329. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Veste da lavoro usata,
specialmente in Toscana, da contadini e operai. Cfr. voce dedicata su
Wikipedia. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce dedicata su
Wikipedia. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce dedicata su
Wikipedia. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce dedicata su
Wikipedia. Cfr. Ippocrate: «La vita è breve, l'arte è lunga, l'occasione
è fugace, l'esperienza è fallace, il giudizio è difficile». Citato in
Dizionario Italiano, dizionario-italiano.it. Cfr. voce dedicata su
Wikipedia. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. itato in Dizionario
Italiano Olivetti. Cfr. Gesù, Vangelo secondo Luca: «Nessun profeta è ben
accetto in patria». Cfr. Etica della reciprocità. Cfr. anche
Salvator Rosa, iscrizione riportato su un autoritratto: «Aut tace | aut loquere
meliora | silentio.». Questo detto, ripreso dal Libro dell'Esodo («occhio
per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per
bruciatura, ferita per ferita, livido per livido»), è chiamato Legge del
taglione. Il proverbio compare in una novella del Decameron di Giovanni
Boccaccio (la quarta della prima giornata). Cfr. Focus storia n. 49, novembre
2010, p. 74. 2 febbraio: in tale giorno la Chiesa cattolica celebra la
presentazione al Tempio di Gesù (Luca 2,22-39), popolarmente chiamata festa
della Candelora, perché in questo giorno si benedicono le candele, simbolo di
Cristo. La festa è anche detta della Purificazione di Maria, perché, secondo
l'usanza ebraica, una donna era considerata impura del sangue mestruale per un
periodo di 40 giorni dopo il parto di un maschio e doveva andare al Tempio per
purificarsi: il 2 febbraio cade appunto 40 giorni dopo il 25 dicembre.
Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Citato in Vocabolario degli accademici
della Crusca, vol II, parte 2 , Tipografia Galileiana di M. Cellini e c.,
Firenze, 1863, p. 726. Una leggenda simile esiste anche in Giappone: i
demoni-volpe (le kitsune) preferirebbero celebrare i loro matrimoni sotto la
pioggia mentre splende il sole; il regista Akira Kurosawa ne prese spunto per
il primo episodio (Raggi di sole nella pioggia) del film Sogni (1990). 21
marzo, prima della riforma del calendario liturgico del 1969. Cfr.
Proverbio latino medievale: Excusatio non petita, accusatio manifesta.
Citato in Macfarlane, p. 256. Attribuita a Francesco Domenico
Guerrazzi. Cfr. Libro di Ezechiele: «Ecco, ogni esperto di proverbi dovrà
dire questo proverbio a tuo riguardo: Quale la madre, tale la figlia».
Titolo di una commedia di William Shakespeare, scritta fra il 1602 e il 1603.
Cfr. Petronio Arbitro, Satyricon, 45, 4. Cfr. Iacopo Badoer: «Un bel
tacer | mai scritto fu». Fonti Citato ne Il nuovo Zingarelli.
Citato in Lapucci. Citato in Carlo Volpini, 516 proverbi sul cavallo,
Cisalpino-Goliardica, 1984. Citato in Donato. Citato in Max
Pfister, Lessico etimologico italiano, vol. 3, Reichert, 1987. Citato in
Schwamenthal, § 14. Citato in Schwamenthal, § 29. Citato in
Selene. Citato in Marino Ferrini, I proverbi dei nonni, Il Leccio,
2002³. Citato in Schwamenthal, § 52. Citato in Schwamenthal, §
78. Citato in Schwamenthal, § 85. Citato in Schwamenthal, §
122. Citato in Schwamenthal, § 123. Citato in Schwamenthal, §
131. Citato in Vocabolario della lingua italiana. Citato in
Schwamenthal, § 170. Citato in Macfarlane, p. 118. Citato in
Schwamenthal, § 278. Citato in Schwamenthal, § 235. Citato in
Schwamenthal, § 242. Citato in Schwamenthal, § 243. Citato in
Schwamenthal, § 255. Citato in Schwamenthal, § 281. Citato in
Schwamenthal, § 281. Citato in Schwamenthal, § 288. Citato in
Schwamenthal, § 290. Citato in Schwamenthal, § 290. Citato in
Castagna 1866, p. 137. Citato in Schwamenthal, § 317. Citato in
Vezio Melegari, Manuale della barzelletta, Mondadori, Milano, 1976, p.
35. Citato in Macfarlane, p. 352. Citato in Francesco Protonotari,
Nuova antologia di scienze, lettere ed arti, volume settimo, Direzione della
nuova antologia, Firenze, 1868, p. 454. Citato in Grisi, p. 34.
Citato in Daniela Schembri Volpe, 101 perché sulla storia di Torino che non puoi
non sapere, Newton Compton Editori, 2018, p. 121. ISBN 978-88-227-2521-9
Citato in Pescetti, p. 123. Citato in Grisi, p. 254. Citato in
Paronuzzi, p. 68. Citato in Schwamenthal, § 585. Citato in Giulio
Franceschi, Proverbi e modi proverbiali italiani, Hoepli, 1908. Citato in
Macfarlane, p. 83. Citato in Grisi, p. 24. Citato in Schwamenthal,
§ 768. Citato in Schwamenthal, § 804. Citato in Schwamenthal, §
805. Citato in Volpini, p. 137. Citato in Francesco Picchianti, Proverbi
italiani, A. Salani, 1886. Citato in Schwamenthal, § 848. Citato in
Schwamenthal, § 854. Citato in Schwamenthal, § 878. Citato in
Schwamenthal, § 886. Citato in Castagna 1866, p. 172. Citato in
Grisi, p. 113. Citato in Schwamenthal, § 906. Citato in Augusto
Arthaber, Dizionario comparato di proverbi e modi proverbiali, Hoepli,
1972. Citato in Macfarlane, p. 276. Citato in Temistocle
Franceschi, Atlante paremiologico italiano, Edizioni dell'Orso, 2000.
Citato in Macfarlane, p. 214. Citato in Schwamenthal, § 1066.
Citato in Grisi, p. 11. Citato in Macfarlane, p. 171. Citato in
Amadeus Voldben, Il giardino della saggezza, Amedeo Rotondi, 1967. Citato
in Niccolò Tommaseo e Bernardo Bellini, Dizionario della lingua italiana, 1872,
Unione Tipografico-Editrice Torinese, vol. IV, p. 369. Citato in
Macfarlane, p. 281. Citato in Grisi, p. 106. Citato in
Schwamenthal, § 1324. Citato in Schwamenthal, § 1365. Citato in
Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, p. 583. Citato in
Grisi, p. 247. Citato in Macfarlane, p. 194. Citato in
Schwamenthal, § 1541. Citato in Emanuel Strauss, Concise Dictionary of
European Proverbs, Routledge, 2013. Citato in Macfarlane, p. 112.
Citato in Giuseppe Giusti, Dizionario dei proverbi italiani. Citato in Macfarlane,
p. 364. Citato in Macfarlane, p. 299. Citato in Macfarlane, p.
122. Citato in Schwamenthal, § 1742. Citato in Schwamenthal, §
1744. Citato in Schwamenthal, § 1753. Citato in Schwamenthal, §
1754. Citato in Schwamenthal, § 1762. Citato in Schwamenthal, §
1788. Citato in Schwamenthal, § 1796. Citato in Filippo Moisè,
Storia della Toscana dalla fondazione di Firenze fino ai nostri giorni, V.
Batelli e compagni, 1848, p. 73 Citato in Schwamenthal, § 1821.
Citato in Macfarlane, p. 476. Citato in Macfarlane, p. 399. Citato
in Schwamenthal, § 1933. Citato in Alfani, p. 75. Citato in
Macfarlane, p. 103. Citato in Schwamenthal, § 1994. Citato in
Schwamenthal, § 2034. Citato in Schwamenthal, § 2035. Citato in
Schwamenthal, § 2047. Citato in Castagna 1866, p. 56. Citato in
Schwamenthal, § 2142. Citato in Paola Guazzotti e Maria Federica Oddera,
Il Grande dizionario dei proverbi italiani, Zanichelli, 2006. Citato in
Schwamenthal, § 2168. Citato in Grisi, p. 145. Citato in
Schwamenthal, § 2245. Citato in Schwamenthal, § 2253. Citato in
Valter Boggione, Chi dice donna, UTET, 2005. Citato in Schwamenthal, §
2357. Citato in Salvatore Battaglia, Grande Dizionario della Lingua
Italiana, VII Grav - Ing, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1972,
p. 331. Citato in Macfarlane, p. 144. Citato in Grisi, p. 62.
Citato in Donalda Feroldi, Elena Dal Pra, Dizionario analogico della lingua
italiana, Zanichelli, Bologna, 2011. ISBN 9788808090898 Citato in
Giuseppe Pittàno, Frase fatta capo ha. Dizionario dei modi di dire, proverbi e
locuzioni, Zanichelli, 1992. Citato in Schwamenthal, § 2610. Citato
in Piero Angela, Ti amerò per sempre: La scienza dell'amore, Mondadori, Milano,
2005, p. 68. ISBN 88-04-51490-6 Citato in Schwamenthal, § 2697.
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Guazzotti, Maria Federica Oddera, Il grande dizionario dei proverbi italiani,
in riga edizioni, Bologna, 2020. ISBN 9788893642057 Citato in
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per le scienze sociali, Meltemi Editore, 2000, p. 38. ISBN 8883530527
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Schwamenthal, § 3674. Citato in Pescetti, p. 105. Anche in Arthur
Schopenhauer, Aforismi sulla saggezza della vita, Parenesi e massime, 29.
Citato in Schwamenthal, § 3691. Citato in Schwamenthal, § 3723.
Citato in Grisi, p. 191. Citato in Schwamenthal, § 3761. Citato in
Schwamenthal, § 3770. Citato in Grisi, p. 270. Citato in
Schwamenthal, § 3952. Citato in Macfarlane, p. 310. Citato in
Schwamenthal, § 3992. Citato in Alfani, p. 102. Citato in
Schwamenthal, § 4019. Citato in Schwamenthal, § 4130. Citato in La
scienza pratica: dizionario di proverbi e sentenze che a utile sociale raccolse
il padre Lorenzo da Volturino, Quaracchi: Tipografia del Collegio di
S.Bonaventura, Firenze, 1894, p. 457. Citato in Focus storia n. 49,
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Piero Angela, A cosa serve la politica?, Mondadori, Milano, 2011, p. 145. ISBN 978-88-04-60776-2
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Le parole del corpo. Modi di dire, frasi proverbiali, proverbi antichi e
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Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana, XII Orad - Pere, Unione
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2001. ISBN 0-08069-7489-3 Alessandro Paronuzzi, José e Renzo Kollmann, Non dire
gatto..., Àncora Editrice, Milano, 2004. ISBN 88-514-0219-1 Orlando Pescetti,
Proverbi italiani. Raccolti, e ridotti sotto a certi capi, e luoghi comuni per
ordine d'alfabeto, Compagnia degli Aspiranti, Verona, 1603. Riccardo
Schwamenthal e Michele L. Straniero, Dizionario dei proverbi italiani e dialettali,
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libri, 2004. ISBN 8872171903 Carlo Volpini, 516 proverbi sul cavallo, Ulrico
Hoepli, Milano, 1896. Aa. Vv., Il nuovo Zingarelli, Zanichelli, 1983. Nicola
Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, Zanichelli Editore, Bologna,
1973. Gustavo Strafforello, La sapienza del mondo: ovvero, Dizionario
universale dei proverbi di tutti i popoli,, vol. III, Augusto Federico Negro,
Torino, stampa 1883. Voci correlate Modi di dire italiani Scioglilingua
italiani Categoria: Proverbi dell'Italia. Massimo Baldini. Keywords: Campanellese, lingua utopica,
fantaparola – phanta-parabola, il proverbio italiano, amici, implicatura
proverbiale, proverbi romani, proverbi italiani, lezioni di filosofia del
linguaggio, con D. Antiseri, indice, grice – filosofia analica, parte I:
filosofia analitica Austin e Grice, parte II tipi di linguaggio. baldini — implicatura proverbiale — i amici —
das mystisch — filosofia italiana della moda maschile italiana — haircuts —
journalese — journal of the Royal Association of Philosophy — lingua utopica —
Campanellese — Empedocle filosofo poeta — Lucrezio filosofo poeta — Parmenide
filosofo poeta — Eraclito l’oscuro — vallisneri — fantaparola — gargarismo — trabocchetta
— rumore — ingorgo — aforismo — Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baldini” – The
Swimming-Pool Library.
Baldinotti (Palermo). Filosofo. Grice: “I like Baldinotti; Speranza
thinks he is a Griceian, just to oppose to the Italian received view that he is
Lockeian! But I say, he is MORE than either! Baldinotti can quote from Rousseau, and the French authors that Locke
never cared about! And most importantly, he can SIMPLIFY and need not appeal to
Anglo-Saxonisms as Locke does (what does it mean that a ‘word’ STANDS for ‘an
idea’?” --.” Grice: “In fact, as Speranza showed at Oxford, one can organize a
tutorial on the philosophy of language (he won’t though – he hardly organises!)
just using Balidonotti’s rough Latin of
first chapter of ‘De vocibus’!” “All the
material I rely on in my Oxford 1948 talk on ‘meaning’ for the Philosophical
Society can be found there: ‘vox’ significat affectus animae artificialiter,
lachrymal significat affectum animae naturaliter --.” Grice: “Unless she is a
crocodile, as Speranza remarks!” -- Tutore di metafisica nel ginnasio di Mantova,
pavia, padova. -- Altre opere: “De recta humanae mentis institutione”; Historiae philosphica prima,
et expeditissima adumbratio -- Operationum mentis analysis -- De
elementis humanarum cognitionum -- de perceptione et ideas, earumque adnexis --
de idearum affectionibus, et in primis de realitate, abstractione, universalitate
earumdem -- de simplicitate, compositione, relatione idearum -- de idearum
clartitate, et distinctione, veritate, et perfectione -- DE VOCIBUS -- DE
SYNONIMIS, ET INVERSIONIBUS -- DE VARIETATE LINGUARUM, ET DE MUTUO VOCUM, ET
IDEARUM IFLUXU -- DE USU, ET ABUSU VERBORUM -- DE VERBORUM INTERPRETATIONE --
DE MULTIPLICITI SCRIBENDI RATIONE. -- De humana cognitione -- Humana
cognitionis analysis -- de PROPOSITIONIBUS -- de gradibus humana cognitionis
-- De cognitione probabili -- De cognitionum realitate -- De extensione
humanarum cognitionum -- De impedimentis humanarum cognitionum -- de
humanarum cognitionum instrumentis -- De mentis magnitudine, et
perspicacitate augenda -- De analysi, et definitione -- de ratiocinio et
demonstratione -- De nonnullis argumentorum generibus -- De
inductione et analogia -- De methodo generatim -- De methodo
analytica -- De methodo synthetica -- De principiis -- De
hypothesibus -- De ratione coniectandi probabilia -- De fontibus
humanarum cognitionum -- de conscientia -- de ratione -- De concursu
rationis, et revelationis -- De sensibus, deque recto eorum usu
-- De cognitionibus, et erroribus sensuum -- De observatione, et
experientia -- de auctoritate -- De testibus oculatis, et auritis --
De traditione et monumentis -- De historia -- De librorum
authenticitate,sinceritate, suppositione, interpolatione, corruptione, et de
interpretationibus -- de arte hermeneutica -- “Tentamen”;
“De metaphysca generali liber unicum” De existente et possibili, et
deiis, quae qua tenus tale est, ad utrumque pertinent -- De identitate,
similitudine, distinctione -- De composito, simplici, uno -- De infinito -- De
spatio -- De tempore -- De causa -- De non nullis impropriis causarum generibus
-- APPENDIX: De Kantii philosophandi ratione et placitis, ut ad metaphysicam
generalem referuntur. S. Gori Savellini, Cesare
Baldinotti in "Dizionario Biografico degli Italiani", Istituto
dell'Enciclpopedia Italiana, Roma. E. Troilo, Un maestro di Rosmini a Padova,
Cesare Baldinotti in: "Memorie e documenti per la storia della
Padova", Padova, 1922, v. 1,
427–441. Cesare Baldinotti, in
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. DE
VOCIBUS. Voces nostrum studium ,et operam expostulare,fuit iam suo loco
(V. Introd.) observatum.Quae cum sint idearum nostrarum signa, horum tradenda
prima divisio est', qua in naturalia, et artifi cialia distinguuntur. Signum
naturale cum re significata habet nexum ex eius natura derivatum ; artificiale
vero ex hominum institutione, et arbitrio aliquam rem significat: lacrymae sunt
doloris signum naturale, voces signum idearum artificiale. Non erit porro
alienum de naturalibus signis advertere, homines non raro ad errorem trahi, dum
ex illisrem significatam inferunt: sunt enim haec signa, vel effectus, qui caussas,
vel caussae quae effectus indicant,ut in signis rerum futurarum. Iidem autem
effectus nunc ab una,nunc ab alia caussa oriun tur;neceadem caussa eosdem
semper effectusgignit; sed multa sunt, quae causarum actionem determinant,
suspendunt, et etiam omnino mutant. Non igitur necessario, et semper SIGNUM
NATURALE rem certam innuit; sed a multi spendet, quod eo una potius,quam alia
ostendatur. SIGNA AFFECTUUM ANIMI SUNT NATURALIA. Eos tamen non semper
denotant,et ille in perpetuo errore versaretur, qui de affectibus ex eorum
signis statueret. Sed ad voces revertamur, quarum origo, indoles, vis, in ideas
et mentis operationes, influxus, usus, abusus, interpretatio leviter
attingenda. Quin imo Reid Rech. sur. l'Entend. tom. I. p.147. arbitratur, eas,
quas dicimus causas, esse tantum RERUM SIGNA.Videmus dumtaxat, quae dam hunc
inter se nexum habere, ut si unum praecedat, aliud illico subsequatur. Id
tantum statuere possumus; non vero in eo, quod prae cedit respectu illius, quod
subsequitur, causalitatem, ut aiunt, inesse, cum haec nullaratione
ostendatur. Inter eas quae non prorsus inutiliter attinguntur, commemorari
possunt potissimum nominum divisiones, ad quarum normam nomen in enunciatione,
vel est subiectum de quo aliquid effertur, vel est praedicatum quod effertur,
vel est concretum , remque significat cum sua forma, vel est ab. Voces
INSTITUTIONIS esse signa nempe ARTIFICIALIA, nec necessarium habere NEXUM
CUM REBUS, ad evidentiam probantmuti, et linguarum varietas. Nam si haberent,
organo tantum vocis impedito, sermonis nullus esset usus, et quae apud omnes
eadem sunt, iis demetiam nominibus appellarentum. Mira autem est non rerum, sed
verborum diversitas; et muti sunt ii, qui surditat elaborant. Nunc vero
videamus, an facultates humanae vocibus AD RES SIGNIFICANDAS INSTITUENDIS sint
pares. An videlicet possint homines linguam aliquam condere. Animi affectus,
sensusque vividi doloris et voluptatis naturalibus quibusdam signis
coniunguntur, iisdemque manifestantur: homines haec facile possunt artificialia
reddere, sinempe observent affectus, quos indicant, nec ea tantum edant
impellente natura, sed consulto, ut quae experiuntur, ceteris manifestent. Quae
signa clamoribus non articulatis, habitu vultus, et gestibus continentur, atque
actionis, quam vocant, linguam conficiunt. Usu autem constat facilem, expeditam
secretam idearum COMMUNICATIONEM hac lingua non obtineri, distantia, et
interposito corpore impediri. Sensim igitur ab ea recedere coguntur homines, ad
eamque feruntur, quae vocis distinctionibus pititur. Hanc ut instituant
clamores naturales in primis pro stractum solamque formam exprimit, vel est
categorematicum quod solum et per se aliquid notat, vel est syncatagorematicum
quod ab alio avulsum nihil certi repraesentat, vel categoricum quod rem categoria
comprehensam obiicit. Sed de his satis, sapiens est non qui multa, sed qui
utilia novit. Negat P. Lamy in Trat. de Ar. log.; et Rousseau disc. sur.
l’ineg. parmi les Hom. parum abesse censet, quin demonstratum sit, fieri
numquam posse, ut lingua ulla suam ab hominibus originem habeat. Ita etiam A.
Encycl. A. lang. His e diametro se se oppouunt Epicurei, quorum hac super re
doctrinam Lucretius l.5. de Nat. rerum exposuit. Diodorus Siculus lib. I. Bibl.
quod nobis possibile, et hypotheticum est, factum habet, omnesque linguas
humanum fuisse inventum putat. Nuperrime in Diss. de ling. orig. ab A. Berol.
an. praemio donata Herder contendit linguas in universum non divinae, sed
humanae prorsus esse institutionis. De hac lingua V. Condil. Gram. part. 1. lib.
1. Sinensium lingua hanc videtur originem habuisse, ea constat ex monosyllabis
328., quae pronunciationo variata otficiunt SIGNA, (V. Condil. 100
-- trahunt, et simul iungunt, rerum etiam externarum sonos referunt, et
imitantur (1), unde voces oriuntur, quae elevatione et depressione multum
distantes aliquo modo gestuum et clamorum vim exprimunt (2). Atque ita verborum
dstinctioni consultum, quantum patitur vocis et auditus organum rude adhuc et
inexercitatum. Subtilius, qui haec disputant, quorum etiam aures delicatiores,
similitudinem quamdam inveniunt inter impressionem a rebus, et a verbis
excitatam. Eamque prolatis ex. gr. vocibus "crux",
"mel", "vepres", "furens",
"turbidus", "languidus" distincte sentiunt. Hinc multae
voces (3). Multae etiam facultate, qua pollemus, per metaphoras sive
transferentiam omnia explicandi, et associandi insensibiles ideas sensibilibus.
Revera verba, quae res insensibiles referunt, metaphorica sive transrelata
omnino sunt. Perpetuo autem usu nomina propria evasere, et vetustate multorum
etymologia sensibilis ita evanuit, ut res pror sus in sua SPIRITUALITATE
relinquant (4). Quin immo eadem verba solum confugiendo ad metaphoras sive
transferentiam poterant fabricari. Externa namque forma carent, etsono res
insensibiles, unde earum no mina desumantur. Ac certe per imagines solum et
similitudines id, quod experimur, aliis, qui illud ipsum non experiuntur,
possumus explicare. Traité des connois. hum. t. II.) Alii monosyllaba Sinensium
numerant 330. Freret sur la lang, des Chin. 214., et signa inde componunt
54509. et 80000. Haec loquendi ratio supponit iudicium aurium subtilissimum .V.
Soave Compendio di Lock. l. III. Ap. al c.I. Hoc facile sibi suadeat quisquis
rerum , quae sonorae sunt, nomina advertat ex gr. "ululare",
"hinnire", "sibilus", "tonitrus",
"stridor", "murmur". Observat Warburthon Ess. sus les
Hierogl. actionis lingua, inventis iam vocibus, homines usos fuisse, Orientales
praesertim, quorum alacritas, et imaginatio vehemens hunc exitum etiam
requirit. Atque exempla permulta ex historia tum sacra, tum profana hanc in rem
profert. Ut recte nomina rebus IMPOSITA sint, quamdam esse debere rerum, et
nominum convenientiam ex ipsa earumdem rerum natura ortam in Cratylo contendit
Plato. Sunt enim, ait ipse, nomina IMITAMENTUM, quemadmodum etiam pictura, et
qui rei speciem in litieras, ac syllabas referre nonnovit, is ineptus nominum
opifexest. Erecentioribus Ioannes Baptista Vico, principii d'una scienza ec.,
de similitudine verborum cum forma rerum multis disseruit. Horum nominum
exempla sint cogitatio, voluntas, desiderium, aliaque huiusmodi. V. Traité de
la Formation mechan. etc. Ch.XII. Quod vero homines, ut boc aliisque
modis ad sermonem formandum aptisutantur, fortius incitat, indigentia est,
maxima rerum omnium magistra. Sermonis etiam utilitas, atque necessitas vix
paucis inventis vocibus sub oculos posita. Hinc multi conatus, ut verborum
numerus augeatur, quos felices reddit cognitionum, et idearum COMMERCIUM
homines inter initum. Haec enim se mutuo fovent, et,ut verba commercium illud
amplificant, ita ex commercio novae vires additae, et nova suppeditata
istrumenta, quibus ars faciendorum et deligendorum verborum perficiatur. Nec
vero sunt verba hominum opus , in quo ipsi nihil aliud, quam arbitrium recte
sequantur. Est enim illa analogia im pressionis, et soni imitatio, quam
pulcherrime in fingendis vocibus sequimur. Est forma, et affectio orgaai vo
eis, a qua earumdem elementa, literae praesertim vocales determinantnr. Sunt
denique derivata, et voces artium, et technicae in hominum libertate haud
repositae, cum illae derivationis naturam imitentur. Hac vero vim, et EFFECTUS
RERUM SIGNIFICENT significent. Duo sunt, quae videntur iam asserta impugnare.
Primum scilicet sermonis institutionem requirere, ut de significatu verborum
conveniatur. Conveniri autem inter eos non posse, qui omni sermone destituti
sunt. Quasi vero nulla alia praeter voces ratio suppetat. Qua explicetur quid
ipsae SIGNIFICENT Percipi enim id. Modum transferendi verba necessitas genuit
inopia coactaet augustiis, post autem delectatio iucunditasque celebravit. Cic.
de Orat. III. 38. Notat et illuminat marime orationem tamquem stellis qui.
busdam verbum translatum Idem ib. 48. Huc faciunt quae de linguarum analogia
subtiliter disserunt Valcke naerius in observatt. academicis, Lennep
inpraelett. academicis et Scheidius in orat. de linguarum analogia ex
analogicis mentis actionibus probata. Sed est etiam unde moveantur homines ad
res alias per multas metaphorice appellandas, eas scilicet quas primum obscure,
et confuse percipiunt. Et enim has meditando earum quamdam similitudinem cum
aliis distincte perceptis intelligunt, quorum proinde nomina ad illa
transferunt. Atque in hoc mirifice dele ctantur luce, quae ex rebus claris, et
distinctis in alias obscuras, et confusas diffunditur. potest ex
circumstantiis, in quibus adhibentur, et ex gestibus, qui pronunciatis
nominibus res indicarent. In eamdem etiam rem conferet illa imitatio, atque
similitudo. Aliud vero erat huiusmodi. Summis viris difficultas maxima se
semper obiecit in linguis ornandis, et perficiendis. Qui ergo fieri potuit, ut
homines plane rudes, atque ferini, communione scilicet cum aliis non exculti ex
integro sermonem con dant? Fieri istud quidem non posset, si de perfecto
sermone contenderetur, in quo non tantum apte expressa, quae ad necessitatem
pertinent, sed etiam, quae ad cultum vitae, et oblectationem. In quo multae
orationis partes, multae leges syntaxis, et inflexionum, multa denique, ut
numerus , et varietas obtineatur. Haec sermoni non absolute necessaria sunt, et
vix nomina, utaiunt, substantiva, et signum aliquod numquam variatum ad verbum
auxiliare sum exprimendum. Quae quidem hominis licet sylvestris facultates non
superant. DE SYNONIMIS, ET INVERSIONIBUS. Multa in qualibet lingua videntur
esse synonima, voces scilicet, quae unam , eamdemque ideam referunt. Dubitari
autem iure potest, an revera sint. Quin potius statuerem ea, quae di cuntur
synonima, eamdem ideam principalem reddere, accessoria vero differre plerumque.
Atque hoc modo inter se differunt "amo", et "diligo";
"peto", et "postulo", "timeo", et
"vereor" V. Condill. Gram. P. I. Ch. XIV. V. Traité de la form.
mechan. du langage V. II. Ch. IX. et suiv. Condillac Traité des connois. hum.
T. II. Grammaire P. I. Ch. I. II., Maupertuis Diss.sur les moyens etc. pour
exprimer leurs idées; Sulzer de l'influence recipr. de la raison, etc. extat in
Ac. Ber. et Vol. IV. opusc. Select. Mediol. Soave Comp. etc. L. III. Ap. al
C.I. Receptum apud logicos novimus, ut nomina tribuant in synonima, quae
secundum unam eamdem que rationem de pluribus usurpantur, et in homonyma quae
rationem naturamque diversam in iis SIGNIFICANT, de quibus adhibentur, Iam vero
homonyma alia dicuntur casu et citra rationem ac temere im. Synonima stricto
sensu accepta, quae nulla idea accessoria differrent, linguae vitium
indicarent. D'Alemb. Elem. de Phil. XIII. Hac de re notandum est, vocibus
duplicem illam ideam subesse. Et, ut praeteream exempla, quis est, qui
non noverit, vocabula quaeque loco, et tempori, et generi s u scepto orationis
non convenire? Quod profecto maxime oritur ex idea accessoria , quae non solum
verba eamdem principalem exprimentia distinguit, sed eorum etiam opportunitatem
deter minat. Quae ergo synonima habentur, ea profecto non iure; namque
discrepant accessoriis illis ideis, quae rerum diversos aspectus, gradus, et
relationes, et adiuncta exprimunt. Imperiti haec apprime synonima reputant,
quorum levia discrimina lin guarum cultores notant. In eo frequenter peccant ex
lexicis pene omnia , quae adolescentes, misere decipiunt. Duplex distinguitur
ordo verborum, et conformatio, naturalis, et artificialis; seu inversa. Porro
quem ordinem habent ideae, idem etiam verborum est: ordo autem idearum , fertur
ad modum, quo in mente sibi succedunt, vel ad earum dependentiam mutuam ,ex qua
fit, utaliaealias regant, et explicent, aliae explicentur, atque regantur. Si
primum, ordo, quo exprimuntur ideae, naturalis erit, quando idem, ac ille, qui
in earum successione servatur. Qui quidem in singulis diversus est. Si
secundum, ut ordo sit naturalis , quae alias regunt, vel ab aliis explicantur
praemittendae sunt. Quae reguntur, et alias explicant postponendae. Secus erit
artificialis, seu inversus. Sed unde oritur, quod ordo inversus orationi vim
addat,et siteius quasi lumen quoddam nosque voluptate perfundat? Scilicet
posita , et alia dicuntur ratione , quod rebus tribuantur aliqua inter se
similitudine cohaerentibus. Posteriora haec aptius vocantur analoga , sive
attributionis, quum uni quidem rei primario conveniunt, reliquis secun
dario,sive proportionis,quae pluribus rebus propter proportionem aliquam
accommodantur. Ex hoc fonte methaphorae pleraeque omnesdimanant.
Nonnullarum rerum, atque actionum voces quaedam ex ideis hisce accessoriis
inhonestae, et turpes evadunt; quae ideae si in aliis vocibus omittantur, vel
mutentur,nulla amplius est turpitudo. Unde fit, quod eae. dem res, etverecunde,
etobscoene dicifpossint,etquod ea,quae turpia re non sunt, nominibus, ac verbis
flagitiosa ducamus. vel re. D'Alembert loc. cit. Traité de la form. mech. du
lang. ch. IX n.161. quia eum, quem Rethores MODUM appellant, et numerum
parit; quia imaginationem exercet;quia ideas nimis disiunctas coniungit. Revera
voces ordine inverso positas ad se mutuo referi m u s , ut postulat idearum
ratio. Atque si in periodo multae sint ideae, quae a quadam principalipendeant,
et exiis aliquaehuic praeponantur, postponantur vero aliae, arctius omnes cum
ea coniunguntur. In quo nexu illud praesertim admirabile,quod uno verbo ad integram
sententiam animus revocetur. ET IDEARUM INFLUXU. Varietatem linguarum,et nos ad
confusionem Babylonicam referimus: simul autem liceat statuere,ex diverso
hominum ingenio, et indole,eorumque externis circumstantiis oriri potuisse, et
magna ex parte ortum esse,ut singulae suum -co lorem habeant. Ac ex confusione
illa vocum origines potius , quam ipsaelinguae;quae perfici sensim
debuerunt,etaugeri verborum copia, atque syntaxi, et inflexionibus moderari.
Non una autem in hoc fuit omnium gentium ratio, quod multis causis tum
physicis, cum moralibus tribuendum est. Atque inter eas recenserem caeli
temperiem, non eamdem ubique faciem naturae, rerum aspectus multiplices,
diversas opiniones sive ad civitatem sive ad religionem pertinentes , regiminis
formam, educationem, mores denique et studia. Revera sermonis vis, copia,et
harmonia , et inflexio nationum exprimit characterem ,ingenium,atque culturam
;ac eadem linguarum , et gentium fuere semper fata, et vicissitu dines. QUOD IN
ROMANI IMPERII, ET LINGUAE LATINAE ORTU, progressu, et occasu velut sub oculos
positum est. Iunctam, cohaerentem, levem, et aequabiliter fluentem orationem
facit verborum collocatio. de Orat. II. 43. V. D'Alembert Eclair cis. S. X.
Condill. Gram. P. II. ch. XXIV. Art.d'Ecrire L. I. Ch. I. II. V. Traité de la
form. mechan. etc. Ch. IX. INSTITUTIONE DE VARIETATE LINGUARUM, ET
DE MUTUO VOCUM. Sed ex iisdem quoque caussis fit, ut nationes singulae suas
habeant idearum compositiones, et vocibus, quibus aliae carent, utantur. Inde in
interpretando necessitas verborum circuitum saepius adhibendi, cum non semper
verbum e verbo exprimi possit. Indeadeo difficile, libros ex una in aliam
linguam convertere. Atque in hoc lice tomnis cura, et studium ponatur, adeo
singulis linguis suum quoddam inest ingenium, ut nullae fere sint
interpretationes, quae authographi vim, et elegantiam, et nativum splendorem
nequaquam desiderent. Quae quidem eo nos adducunt, ut intelligamus, quem dam
esse posse sermonem , edisci, et percipi omnino facilem. Quem si universalem
veluti linguam cunctae gentes amplecterentur, eo possent mutuum idearum, et
cognitionum commercium inire. Ac difficultas, qua ab hoc impediuntur, ex lin
guarum varietate, et multitudine orta, alia etiam ratione vinci posset,
characteristicam nempe aliquam linguam adhibendo, quae res ipsas, non rerum
voces exprimeret. De bac sermo erit inferius. Interim cum nullus ex hisce modis
adhuc suppetat. Nec ulla spes sit, ut in unum, V. Clericum Art. Crit. tom. I.
part. II. cap. II JII.IV. Linguarum varietas non leve incommodum affert
societati, et progressui scientiarum. Nec enim consultum, ut facile edisci
possent, sed casu magna ex parte conditae, et procurata copia, et ornatus.
Sublatis declinationibus, coniugationibus, et generibus, si substantiva unam
immutabilem terminationem haberent, suam adiectiva, et verba pariter, quae
adverbiorum ope temporibus, et modis distinguerentur. Pullae superessent
regulae grammaticorum, et solius lexici auxilio linguam quam libet
perciperemus. Cumque insuper esset prima illa lingua absurda, et egestate,
atque uniformitatis squalore sordesceret. Maxime erit optandum, ut LATINI
SERMONIS USU conservetur. Locupletissimus namque est hic sermo, electissimis,
et praeclaris verbis abundat, communis hactenus fere fuit omnium eruditorum ;
qui eo abiecto, si suam singuli linguam in scribendo usurparent, iam, vel
aliena omnia nescirent, vel in omnium gentium, quae doctrinae laude vel alium
conveniant omnes. Splendescunt, perdiscendis linguis curam, et operam
compellerentur insumere, quam ad rerum cognitionem adipiscendam con tulissent.
Quae hactenus de vocibus dicta sunt, satis ostendunt , easabideis, et cogitandi
modo non parum pendere. Sed magnus etiam est verborum in ideas, et mentis
operationes influxus. Atque in psychologia, si fortasse ad veritatem plane non
sua detur, nullas fere absque verborum usu nos exequi posse. Illud profecto
demonstratur, eo foveri multum, et perfici. Quod probari nunc potest exemplo
mutorum. Earum etiam gentium, quibus signa numerica pro maioribus quantitatibus
deficiant, cetera sint nimis composita. Illi quidem multis omnino ideis
destituuntur, mentisque facultates obtusas habent, nec ad operandum faciles et
expeditas. Hae vero gentes in rebus ARITHMETICIS ne vix quidem progressae sunt.
Tantum signa valent ad humanas cognitiones promovendas vel impediendas. Equidem
arbitror, a veritate abesse longius , qui crederet verba communicationi cum
aliis tantum inservire. Ea menti sistunt obiecta. Nimis composita dividunt. Si
magnifica sint et nobilia, res amplificant, et extollunt. Si humilia ,
imminuunt , et deprimunt. V. Laur. Mosheim DISSERT. DE LINGUAE LATINAE CULTURA
ET NECESSITATE V. etiam quae nuperrime Ferrius, et Tiraboschius, Alexander
Gorius, et Clementinus Vannetti in eam habent Alamberti sententiam (Melang. tom.
V.) statuentem bene LATINE scribi non posse, et LATINITATE abiecta studium omne
ad patriam linguam transferentem. Refert Condaminius, quosdam Americae populos,
cum ocesnume rorum supra ternarium non habeant, in hoc arithmeticam eorum
consistere: certevix paucis huiusmodi signis utuntur, iisque ad modum
compositis, ex quofit, ut maiores numeros mente haud comprehendant, et quem
libet ultra vicesimu in indefinite concipiant, atque capillorum numero
comparent.V. De la Condamine Voy. Paw Rech. sur les Americ. tom. II. ch. 27.
Cogitatio, ait Plato in Theaeteto, est sermo,quem mens apud se volvit circa
illa, quae considerat. Cum enim cogitat, secum ipsa disserit adeo, ut cogitatio
sit sine strepitu vocis oratio, aut interior collocutio. Verba sunt veluti signa
algebrica idearum. Brevitati proinde consulunt, multarum idearum comparationem
faciliorem reddunt, mentenique sublevant in consideratione multarum rerum ,
atque compositarum : quae verborum utilitates maxime elucentin modorum mixtorum
ideis, quas in nullo exemplari iunctas videmus, sed verbis exhibentur et
comprehenduntur. Verba denique nexus inter ideas augent, eas facilius, et
promptius exsuscitant, distinguunt, quae vix confuse percipe rentur. Sic
technicae in arte pingendi voces omnia alicuius tabulae vitia, omnemque
praestantiam indicant. Quae eos prorsus fugerent, qui illas voces nequaquam
callerent. Quare scientiae, omnesque artes multum debent verborum inventoribus,
ut Linnaeo Botanica; et Ontologia, licet nomenclatione tantum contineretur, non
esset penitus contemnenda. DE USU, ET ABUSU VERBORUM. De verborum usu , et
abusu haec fere a Lokio, aliisque melioris notae Logicis accepimus. In primis
duplicem esse usum verborum. Vel enim eo cogitationes nobiscum cooferimus, vel
aliis exprimimus. Illum jam attigimus capite superiore, in quo osten debam,
maximas utilitates ex hoc interno sermone profluere. Cum aliis autem utimur
verbis,aut in vitae civilis consuetudine,vel in studio Scientiarum. Inquo
praesertim distinctioni, et perspicuitati. Ideae in primis connexae inter se
sunt ex analogia rerum , et ex circumstantiis, in quibus acquiruntur. Sed
insuper verbis etiam unae cum aliis colligantur. Quot ideas unum verbum saepius
excitat? Atque ex verbis haec alia utilitas provenit, ut in ideiş revocandis,
et disponendis ordini, quo a nobis comparatae fuere,non adstringamur, sed illum
qui magis placeat, magisque conveniat iisdem tribuimus. V. Bonnet Ess. Analyt.
ch. XV. V. Sulzer loc. iam citato, Micheaelis de l'influ. des opin. sur le
lang. etc. Condil. Art. de penser. part. 1. ch. II. STELLINI OSSERVAZIONE SULLE
LINGUE tom.V. Soave Comp. di Locke I. III. ap. al cap. XI. Scilicet, si
circa ideas maxime compositas, sertim versemus, iisdem nomina, quibus
appellantur, substituimus. Nimis enimesset operosum, eetiam impossibile, omnes
ideas simplices illas componentes mente revolvere. Quod etiam confusionem
afferret, et, ne idearum relationes viderentur, obstaret. Haec habitualis, non
actualis distincta perceptio est idea coeca, et symbolica Leibnitii. circa
notiones prae 1 litandum est, ne per se difficilia reddantur difficiliora. Et
ne rerum INVESTIGATIONES in aeternas quaestiones de nomine abeant. Locutionis
perspicuitas, atque distinctio maxime optanda idearum claritatem , et
distinctionem desiderat: quomodo enim , quae confuse percipimus, aliis
distincte explicarentur? ad eam confert brevitas, in qua tamen habendus modus
;nam ut nimia verborum copia res obruit, ita eorum egestas tenebras rebus
offundit. Denique cum iis, qui loquuntur confuse, vitanda fa miliaritas est,qua
nihil fortius ad idem vitium contrahendum. Ita autem verbis utamur,ut unicuique
idea determinata re spondeat;dequo,sinobiscum tantum colloquimur, nos ipsos
debemus interrogare; si vero cum aliis,et dubium sit, an verba ideas
claras,etdistinctas in aliorum mentem immittant, tunc ea dilucide explicanda
sunt. Id quidem de nominibus idea rum simplicium praestari potest (vix autem
erit necesse), si observanda proponantur obiecta,quae significant,etmodus,et
circumstantiae indicentur, in quibus eorum ideae acquiruntur. Nomina vero
idearum , quae sint compositae, decla rantur earum obiectis exhibitis, et
addita ipsorum definitione; nec enim omnia attributa patent sensibus , et multa
indolem potentiae habent. Quod si haec obiecta non existant.Verborum universalium
magnus est usus , et maxima utilitas; innumera enim individua una tantum voce
comprehendi mus , quae esset impossibile omnia suis nominibus distinguere.
Esset etiam inutile, quia necii , quibus cum loquimur , multoque minus illi,
quibus aliquid scriptum relinquimus, eadem indivi dua agnoscunt. ergo.
Sed quae circa rectum verborum usum ,et eorum inter pretationem , de qua
inferius, praecipienda sunt , separari vix possunt ab idearum doctrina iam
tradita; utrisque enim idem finis, avocationempe ab erroribus. Inter eaetiam
intimus nexus, quantus inter voces , et ideas. Nunc lum , quae propius ad verba
pertinent, quaeque eo loci explicata non sunt. ne actum agam , so meratio
idearum , quas simul reflexione, aut pro arbitrio con iunximus . fiat enu Vocibus
demum abutimur, si quae incertam significa tionem habent , non definiantur ; si
definitus sensus mutetur. Si in rebus scientiarum artes consectemur oratorias.
Namque delectant, et movent , mentemque avertunt a philosophico rerum
examine,quas non accurate,sed ad similitudinem exprimunt. In verborum sensu
commutando peccarunt vehementer scholastici. V. Gassendum in Exerc. Arist.
Exerc. I. Y2. Hic cum Logicis fere omnibus non praecipio, abstinendum esse a
tropis atque figuris:rebus enim permultis vocabula metaphorica necessario
imposita sunt, aliis utiliter, cum ex iis orationi splen dor accedere
videatur.V. Condil. Art. d' écrire lib. II. ch.VI.VIII. Translationes propter
similitudinem transferunt animos,etre. Neque vero minor utilitas ex verbis
notionum ;.harum nullum archetypum extra nos invenitur iunctas exhibens ideas,
ex quibus componuntur. Id vero praestant nomina , quae illas comprehendunt.
Sunt denique voces , quas particulas appellant Grammatici ; his utimur , ut
ideas , et periodi membra , et periodos ipsas interse coniungamus. Quisaneusus
mirificus est, et ex eo maxime vis tota orationis derivat. Rectus erit,si m u
tuam rerumdependentiam , et relationes diligenter consideremus.
Haecdeusu. Nunc de abusu,quirestat,dicendumest. Iam vero abutimur verbis, si
iis, nullam ideam , aut obscuram associemus, adeo ut inania sint, et ambigua :
in quo non rarum estlabi;etmaxime verba notionum virtutis,honoris,et simi lium
multo pluribus sunt meri soni; obiectum namque non referunt, quod sensus
moveat, nec illud quod referunt in in fantia, percipimus. Hinc ea absque ulla
significatione usurpandi longam consuetudinem iam contraximus, a qua ut
recedamus, reflexione vehementer nitendum est. Sed abusus verborum etiam ex
ignorantia, et malitia. Scilicet, qui partium studio, vel anticipata opinione
moventur. Qui vulgo avent imponere. Qui difficultatum pondere haerent et
idearum defectu impediuntur. Tunc enim vero ii obscuritatem affectant, verbis
inanibus se se involvunt, nova etiam fundunt, atque sesquipedalia. Optimum ergo
erit, mentem parumper a verbis abstrabere, eamque in ideas intendere, ne
verborum so nitu hallucinemur. DE VERBORUM INTERPRETATIONE. Ut verba recte
interpretemur, advertendum in primis , notiones eius, a quo
adhibentur,'significare. Non igitur suppo natur, omnes iisdem verbis adnectere
easdem ideas, et ipsis rerum realitatem apprime respondere. Quae qui supponunt,
de rebus perperam ex verbis iudicant, et ex propriis aliorum ideas non bene
copiiciunt. Hisce per summa capita indicatis, advertam in primis , duplicem
distingui sensum verborum ,proprium scilicet,et tran slatum ;namque verba,aut
illam rem exprimunt,cui primum fuere assignata. Vel ex quadam similitudine cum
re ipsis propria eadem verba ad aliam significandam transferimus. Quod si fiat,
sensum habent translatum, secus autem proprium. Nisi quis sensum proprium
alicuius vocabuli accurate perceperit, numquam fieri poterit, ut translatum
assequatur ; hic siquidem ad illum refertur. Rerum praeterea conditionem
inspiciet,ex qua oritur, ut quaedam voces potius, quam aliae, ad res sensu
translato exprimendas , electae fuerint. Inde clarius is sensus patebit ferunt,
ac movent huc , et illuc, qui motus cogitationis celeriter agi tatus per se
ipse delectat. de Orat.III.39. Translatio est, cum verbum in quamdam rem
transfertur ex alia; quod propter similitudinem recte videturposse transferri.
Cic. ad Heren. IV. 34. V. D’Alembert Eclaircis., sur les Elém. de
phil.S.IX. Quam vero quisque vocibus notionem subiicit, arguere tuto
possumus, si multa nobis nota sint , eaque invicem conferamus ; loquentis
scilicet ingenium ,et characterem ; affectus, oris habitum; linguae, quautitur,
vim, etindolem; rem,quam tractat; circumstantias, in quibus versatur ;
opiniones , religionem , quam sequitur;demum popularium eiusmores, ritus,
consuetudines. Haac enim omnia efficiunt, ut licet verba sint eadem , non tamen
eumdem significatum , eamdemque vim habeant. Nunc vero singula verborum genera
persequar, deque Difficilius assequimur sensum verborum , quae notionibus
respondent; siquidem praeter caussas nominibus rerum existentium communes,
peculiares etiam concurrunt, ex quibus efficitur, ut singuli fere has ideas
diverso modo componant. Nec eadem semper significatio est vocibus orationis par
ticulas exprimentibus; loquentium igitur, vel scribentium affe ctus, et
praecipue contextus consulatur,cum ex iis sit dedu cenda. De nominibus
relativis, quid advertendum in praesen tiarum,ut recte explicentur? Porro id
muneris iam explevi dum agebam de eiusdem generis ideis. Quid de nominibus uni
versalibus,quod paritereoloci, traditum non sit? Illud subiungam,voces
particulares,aliquis,quidem etc. obscuras esse et indeterminatas , nec denotare
, quae , et quanta subiecta sint; universales vero aliquando particulariter
esse sumendas , aliquando non omnia individua generum,sed individuorum
omnia siores esse , iisnonnulla admoneam ,ad quae semper in eorum
interpretatione spectemus. Qualitatum sensibilium nomina, colorum nempe,
saporum, aliarumque huiuscemodi, sensationum etiam doloris, et voluptatis, non
ita accipienda sunt, quasi explicent id, quod est in rebus extranos positis.
Nostras affectiones, sensationesque upice indicant, nec vero vim ,et
quantitatem earumdem. Hanc experimur, non autem accurate possumus efferre. Fit
autem sae pius,ut in singulis maior,vel minor multiplici gradu sit. Dubitari
quidem potest,quin ipsae sensationes apud aliquos prorsus differant, licet
omnes iisdem verbis utantur. Omnes arborum folia viridia appellant; sed adhuc
videndum, utrum haec vox eamdem omnibus ideam excitet. Quam dubitationem
ingerit di versa corporis temperies, et habitus, nec eadem omnino fabrica
sensuum;unde certo oritur,affectiones easdem aliquibus inten aliis
languidiores. Nomina idearum compositarum non idem apud omnes. Maxime si
veteres cum recentioribus confe rantur.Ne eas igitur ex nostris notionibus
interpretemur,sed ex illis quae ampliores fortasse, vel angustiores. Nominibus
substantiarum easdem qualitates non omnes complectimur. Nulli essentiam
primariam ,a qua eae nascuntur,et quam nemo novit. genera
significare. Quae quidem ex circumstantiis, linguarum indole , ingenio ,
loquendi consuetudine patent dilucide. His fere,quae adhuc de vocibus
disserebam,continentur potiora,ex quibus Grammatica philosophica conficitur:
linguarum singulae suam habent, eaque particularis Grammatica dicitur. Est vero
etiam Grammatica universalis,quae principia constituit omnibus linguis
communia.Notandum superest,syntaxim totam legibus concordantiae, et regiminis
moderari. Illae principio identitatis, hae principio diversitatis innituntur.
DE MULTIPLICI SCRIBENDI RATIONE. Verborum disputatio manca videretur, si de
scribendi rationibus haudquaquam dissererem . Non igitur una fuit haec ratio
apud omnes,nec omnibus temporibus;tamen in eo con veniebant, quod signis non
ore,sed manu expressis,quae mente revolvimus , manifestarent. Ac , quae fuere
adhibitae , pictura , symbolis allegoricis , denique signis arbitrariis
continentur. Pictura , aut unam figuram , aut plures exhibet , signa arbitraria
, aut ideas,aut syllabas,aut litteras verborum significant. Scripturae, licet
ab ea, qua nunc omnes fere gentes utuntur, longe dissimilis,specimen aliquod
hominibus innotuit per imagines, quae sui res exhibent, et quas conamur
exprimere gestibus, et clamoribus, ut iis longinqua designemus. Ad has imagines
adumbrandas urgebat necessitas communicandi cum absentibus, et praesentibus
explicandi id, quod verbis efferri non poterat. Inde scripturae origo potius,
quam ex cura committendi nostras cognitiones posteritati. Ac homines ex rerumimaginibusidconsiliicepisse,ut
illas ad suos cogitationes enuntiandas delinearent, omnium pene De usu, abusu,
interpretatione verborum videantur Locke Ess, etc. lib.III. Leibnitz
Nouv.Ess,etc. lib.III. Ioannes Clericus art.crit. tom.I. pari.II. V., silubet,
Du Marsais princip. de gram. Condillac gram. D'Alembert Elem .de Phil. XIII. et
Eclaircis. sur les Elem. etc. S.X. Hinc sensim crescere CONVENTIONIS
SIGNA, etomniatan. dem huiusmodi evadere. Quae sola notiones reflexione
perceptas possunt exprimere;quae ob multos rerum aspectus sunt neces saria.
Namque notiones illae nullam imaginem praeseferunt, nec ulla imago diversas
relationes comprehendit, sub quibus res, ut lubet, consideramus. Signa autem,
quae ex CONVENTIONES sunt, optime quidem ab eo constituta fuissent, qui singula
singulis ideis simplicibus destinasset, suaideis universalibus, aliademum
determinationibus individua constituentibus. Enim vero simul iungendo, et apte
componendo haec signa, res omnes possent distincte explicari. Hoc scribendi modo
philosophus tantum uti potest, nempe ille solus, qui probe noverit, quaenam
ideae simplices illas substantiarum , et notionum componant. Quique etiam adeo
individua observaverit, ut ea possit plane describere. Illum Si V. Paw
Recher. sur les Americ. tom. I. part.V. sect.I. Quemadmodum artis typographicae
occasio fuit ars caelatoria et sculptoria, ita occasio scripturae non inepte ex
pictura derivatur. Praesertim quum non aliter pictura sit obiectorum in oculos
incurrentium scriptura, quam scriptură sit obiectorum quae aures feriunt
pictura. Videsis Augustum Heumannum in conspectu reipublicae literariae cap.
III. Signa huiusmodi spectant ad linguae universalis institutionem. Alia ratio,
qua ad eamdem possumus pervenire, indicata, vix est N. LXXII., LXXXII. V. Soave
Comp. di Locke lib. III. cap. XI. append. II., qui etiam celebriores scriptores
recenset, a quibus ea institutio suscepta fuit. V. Leibnitii historiam , et
commend . characteristicae linguae univers. V. Traité de la Form.etc. ch. XII.
XIII. Mémoires de l'Acad.de Berl., ibi Thiebault videtur succensere Michaelis,
et non ita difficilem , nec vero inutilem, et multo minus perniciosam ,
quemadmodum ille, censet linguae universalis institutionem, quae primo illo
modo conti. neretur. Sepositis iis,quae de universali lingua instituenda
excogitari subti. vetustarum nationum monumenta , et gentium sylvestrium
usus confirmant. Quae scribendi ratio picturae affinis, cum auctis cogni
tionibus , relationibus, et indigentiis ad omnia exprimenda non non satis esset
apta , paulatim a signis discessum est rerum i m a ginem referentibus, et huius
pars tantum depicta, et plures ideae uno signo manifestatae. nenses adhibent;
proindeque mirum non est, si tanti apud illos sit literas scire. Quae
difficultas effecit, ut nationes pene omnes eum scribendi m o d u m
probaverint, quo non obiecta , non ideas , sed sonos verborum reddunt; ad quem
duplici via perveniri posse declarabam liter possent, splendideque proponi;
multo fuerit satius consilio adquie scere Ludovici Vivis, cuius haec sunt (De
tradendis disciplinis lib.III. verba. Sacrarium est eruditionis lingua,et sive
quid recondendum est,sive promendum velut proma quaedam conda.Et quando
aerarium est eruditionis, ac instrumentum societatis hominum ,e re esset
generis humani unam esse linguam , qua omnes nationes communiter ute rentur: si
perfici hoc non posset, saltem qua gentes ac nationes plurimae, certe qua nos
christiani initiati eisdem sacris, et ad commercia et ad peritiam
rerumpropagandam. Peccati enim poenaesttot esse linguas. Eam vero ipsam linguam
oporteret esse cum suavem , tum etiam doctam et facundam. Suavitas est in sono
sivé simplicium verborum ac separatorum , sive coniunctorum . Doctrina est in
apta proprietate appellandarum rerum . Facundia in verborum et formularum
varietate ac copia. Quae omnia effi cerent, ut libenter ea loquerentur
homines,et aptissime possent explicare quae sentirent, multumque per eam
accresceret iudicii. Talis videtur mihi latina lingua ex iis certe quas homines
usurpant, quaeque nobis sunt cognitae. Quod continuo diligenter, ostendit ,
eaque tradit quae merito cum disputatione componantur ab Aloisio Lanzio libris
inscriptionum et carminum praefixa. Sinensium alphabetum Typographicum ex
50000. signis constat. V. Mémoir, concernant l'histoire etc. des Chinois parles
mission. tom.X1., Mopertuis ius auget ad 80000. Iaponenses, licetomnino diversa
linguautan tur, quae tamen Sinenses literis consignant,probe intelligunt; adeo
verum est haec signa non rerum voces, sed earum conceptus delineare. V.
Marpertuis loc. Iam. cit. Cesare Baldinotti. Keywords:
signum, genere, segno, genere, segno naturale, lacrima, segno artificiale,
‘homo’, conventione, imposizione, idea, ideazionismo, ‘Locki’ – enciclopedismo,
illuminismo, ‘discorso sulle lingue’, propositione, articulazione, logica,
grammatica, forma logica, modus significandi, imitatmento, il Cratilo di
Platone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baldinotti” – The Swimming-Pool
Library.
Balduino (Montesardo). Filosofo. Grice: “It is amusing that when we
were lecturing with Sir Peter at Oxford on ‘Categoriae’ and ‘De
Interpretatione,’ Girolamo Balduino had done precisely that – AGES before, in a
beautiful beach town of Italy! ‘vir Montesardis,’ –“ Grice: “Strawson and I, following
an advice by Paulello, drew a lot from Balduino’s commentary – especially of
the Peri Hermeneias, the section on the ‘oratio,’ since we were looking for
ordinary-language ways to render all the modal distinctions (indicative,
imperative, optative, interrogative, vocative, …) that Balduino finds so easy
to digest – but our Oxonian tutees didn’t!” -- Girolamo Balduino (Montesardo), filosofo. Studiò all'Padova sotto Marco Antonio Passeri
(detto il Genua) e Sperone Speroni, formandosi nell'eclettismo aristotelico
proprio di quella scuola. Nell'anno 1528 insegnò sofistica in quello Studio;
passò poi all'Salerno e all'Napoli.
Nella seconda metà del Cinquecento le sue opere furono occasione di
vivaci dibattiti. Alle sue dottrine si oppose, in particolare, il filosofo
padovano Jacopo Zabarella. Altre opere: “Perì hermeneias”, “De interpretation,
“Dell’interpretazione”; “Quaesita tum naturalia, tum logicalia”. Studi Giovanni Papuli, Girolamo Balduino:
ricerche sulla logica della Scuola di Padova nel Rinascimento, Manduria,
Lacaita, 1967. Giovanni Papuli, Girolamo Balduino e la logica scotistica, in «
Acta Quarti Congressus Scotistici Internationalis », II, Roma, 1978. 257-264. Giovanni Papuli, Dal Balduino allo
Zabarella e al giovane Galilei: scienza e dimostrazioni, in « Bollettino di
storia e filosofia », 10, 1990-1992,
333-65. Raffaele Colapietra,
recensione di Ricerche sulla logica della scuola di Padova nel Rinascimento,
Emeroteca della Provincia di Brindisi. Girolamo Balduino. “De
signis” – It. segnare, notare, segnificare, notificare. Primum oportet ponere
quid sit nomen et quiddam in proæmio, ut propositum suæ considerationis ante
quid verbum cognovit et infra cap. 4. aborationibus rethoricis et poeticis,
atque his quæ affe&us explicant, illam se legit. Item tes cum iste liber
cum tota logicae undem modum cong ordine lint considerandæ quo, ex processu
resolvente com, siderandi participet, qui ut ante monstrani est instrumen
monstrat cum inquit primum b u m etc. vers tum seu organum notificandi. Quid
inter hunc librum quid nomen quid alios differt? Respondetur. Id interesse et,
inter diversos primum, non intentione, cum libros eandem rem eodem. Sed quod primo
exequi instituimus dicit opor versa prædicata propria, de illa cognoscantur. Q
dis eaq. præs cipia quæ ut deus, et prima in omni tempore, loco, et subiecto
dicata ex fine libri facile inveniri possunt demostrationis prin sunt nes mus,
extremum nam ut posuis cellaria. Sed suppositione in hoc libro et finis, rum
conceptarum res et secundum quid. nam tuimus dicata quinq vocem SIGNIficativam
stag are, ut toto, necessario tra verlrum etc. Hæc verbi, orationis, enunciationis
nominis, nis.quibus eædem libro poeticorum est præceptionem tradere finiendo considerant
alterum ut aspernetur et um metrum formandum , bi etc. ponere ergo sumetur non
tanquam res dubia inquirendum sum, verum et constans ponendum primo mento magno
exemplo explicatur artificum idem ligna ut lignum, sit sed ut per seno post.14.
incos unus artifex statua malter, referet tæ, cum suo proprio monius inquiens
est, ad metria positi oest. Ita que non nisi ut enunciativa. Sed de subiecto do
post 27 secund infine. Regulem logicem ponuntur ut notæ 7 .orator & poeta
enunciativa orationis codem modo ista des :ante & significativas intendit
idenim definitionem nomini suer, sitione significantes tionis tantum urilitatem
declarat apo demonstra, ad impossibile .primo prior.30. de tione simplici et
hæc porest. Sed demonstratio viriali cuius, extranea autemquod licer hæc omnia
demonstrationis Postremo scientiarum . ne viam atrium et iuxtaponitur uerbo.
Quinto. Magentinus positionis modos modo considerantes est interpretario posis
ab instituto, nomen, aim. Ponere seu constituere. Ammonius has tres particulas legit
cum ergo sunt prædicata propria, affirmationis et negatio m u m ponendum constituat,
alterum appetendum explicaretur oportet definire et fugiat. Poeta ad cocinnum Orator
vero adornatum. Id, quasi istorum quid nominis ad efficiendam. Huic (quam
retuli) rei confidera Averrois, definitio enim inquit Aristotele ingeo navem, alteradarcham
considerandi modo, assentit, Amonius definitiones positiones in arte dicuntur.
Sexto meta.primo .in hoc libro confiderari de oratione, 46.inmagnocóm.
cuiusratio eft. primopoft.17 , quam per voces clariores m o prior. primo, syllogismus
est pofitis et concessis et concesso, pri oratio in quaquibusdam attingit.
Magentinus syllogism ducente hac tenus. Paul e re niam fiunt. Quos cis nunc. De
utilitate dicimus ab anima, quæ facile opus suum inquitex proposito patet: ad
de et ex inscriptione cepit ergo tertium modorum quos Ammonius attulit. Su fubic&ti
interpretationem refertur. Quam mitur enim gratia quæri retulimus. nam
enunciatio ad ins ponere, primo prosupposito tendatur tet non simpliciter sic enunciatio
in to, propositum quas per voces clariores NOTIFICARE nostrum esse, de oratione
enunciatiua. Hic autem finis haberinó potest, nisi per hæc præ tertioait igitur
de partibus tractandum est, quid nomen et quid verbum inquiens et Aristotele
verba conne fit.ita res tractatæ alibi differunt. Requires et ens quia propositum
Aristotele quam, necessario. Quona igitur modo feiungi simplicium essential cognoscenda
differentia locus, tamen hic nomen quid ferme omnis explicatur ex proprio fine:
quoniam et uerbum. Juult ergo cum cæteris ista considerat utg; syllogism parte
sefficiantur logicus bus ponere sumendum fore pro definire et definit, ut verum
ftrationi deseruiant ,Grammaticus vero voces tis compositas incongruum sermonem
ex elemen, ut congruum, siue oportet ponere, id est definire et falsum
declarant. Et novissime ut demons dissentio latina ac sensum accedens ab
Ariftotele sidiceret. Sed ab his ad Aristotele verba græca et . nam
committereturnugatio possunt? ideo dixit (primum est. Erfide hoc infra fit proprius
considerandi oportet ponere id est
definire, magis ut iudico. Hæc ut bene Ammonius cognoscit. Ac .p fine propositis
nullo modo tamen, ut omnia moveri commune commodum est .id muniter posito .
primotop.nono.Tertio et concello quomodo sumitur procom de mente Ammonii
attulimus gratia explicentur omnibus Aristotele. Quarto pro ea fine ratiocina,
pro proprium est. Locis quos adverbio quod nibuscarentibus pro definitio
positione fieri ex Heracliti sententia via relinquenda non est docentes, fine uia
eius contemplationem medio. secundopofter.46. incommens damus, tenebrisan;
circumfufi more feramur, est igitur enumerat: tray in incertum imperitorum via,
illa quam toti logicæ Aristotele to magno est. coniung nomine et verbo. Pris
.primo poft.2. secundo poft. & ratiocinatione ex hypothesi. Secundo supra retulimus.
& hic accepit sed quem modum Aristotele hic fert. Ex hisitaque patet; Arit,
resconsiderandas acceperit, verbum nullum proj (3 ea considerantur. Quod si
orationem ante etiam posuit et tractavit, non nisi ut genus commune
enunciationis, ad uerbum. O D iii 11 rum ordinem pofuisse) tanquam subie&ta
& tertio prædi num triplex poteftelle consideratio: primo ut absolute Cara,
quideorum, scilicet ponere sive constituere. Sed (ci G gnificant simplices
conceptus. Ita in prædicamentis cons [citorcum primo post.42.in parva commentatione:scieny
fiderantur. aliomodo secundum orationem, ut partes tiasitunius generis fubieéti,
quçcúq; exprimis componitur, sunt enunciationis: f icadhuc librum spectabunt, propter
& partes et PASSIONES horú sunt pse.igitur duo sunt per reaenim (inquit) traduntur
sub rationem nominis: u et er se predicata, substantia sive essentia quæ per definitione,
& biut significant cum tempore aut sine tempore, intulit accidens proprium,
quod per demonlirarionem concluditur. etiam. & tradunturaliahuiuf modi, quæ
ad dictionum secundo post.12. & 20. Inmagno commento.curtantum
pertinentrationem, ut enunciationem conftituunt. sed quid iftorum proposuit? Ad
hoc dicendum mihi uiden quam vistant iuiri ingenium & iudicium semper cum sum
tur:ex primo poft.32.9 res quarüeifecf timperfe&um, & quafiinmente, non
habentuere definitiones. Secundo ponendum quod supra documus, res logicas ut
intrumen ta& organaartium &fcientiarum, ad proprios fines & quod satis
probatum est supra cum a nobis Ammonius notitiam explicandam referri. His datis
patet ad petitios eftr eprehensus. Præter eaut diximus nome et verbum nem
responsio: namdum Aristotele quid prædi & orumponen simplicior asunt decem
vocum conceptibus. Amplius dumpropofuit, &
propriosfinesquiipsorumpropriafer rationoininis & ucrbi, & fi ut
materia adorationemenun rendicuntur accidentia,anteposuilledicetur.sicenimora,
ciatiuampertineant:tamencorumrationesfuntcommu cionem definiens (enunciatilia
(inquiet) nonomnis: sedin nes,nonadorationem tantum contra &æ.ut prædicari
de qua verum et falsum explicatur et nomen quod uoxfitfi vocibus simplicibus
prædicamentorum non possint, licet significatrix. Requirit secundo Ammonius a
quo Sancto Thommas cum divo Thomas in ultimo suo dicto contra Ammonii opis mas accepit.
Side simpliciumuocum essentia in prædica; nionemconsentiam: nomina et uerba in hoc
libro tracta mentistra & auit: cur hic iterum repetits respondet Ammonius.
ri,ut cum tempore aut sine tempore significant, & non solu unum quod supra
tanquam falsum reiecimus. Nam et fi hæc significare dicuntur, sed& alia huius
modi quæperlig verum dicat. Ut robique easdem res subicto, rationetas nent ad
rationem di&tionum. Licet ipse subinferat, utes mendifferentes finiri: nihilo
minus differentia quamaddu nunciationem constituunt. Non solum affirmatigam
enun cit est falsa. Dum inquitin prædicamentis voces (implis ciationem, ut
Ammonius afferebat. Si autemista verba, ces considerariut indicativæ sunt rerum
simplicium. quæ Sancto Thomas referret addi &
tasuperius.utdiceret.qiftainhoc quandocumtemporismensurasignificant,uerba:quando
libro traduntur sub ratione nominis et uerbi & aliahuius, finetemporecum
articulisexplicant, nomina sunt dicen modi, scilicet
tradunturquęadrationempertinent diction da. quandopars affirmationisuel
negationis, dictio: cum num, tuncinternomen, & verbum et di&ionem
distingue autempars syllogismi, terminus. Sed primum inassignay ret. Sed primum
de mente sua verius credo. nam alii tadifferentiadubito: quarationeun quamfiet:
ut subftan teridemdi& umforet contrasequodin, Ammoniumdie siaperleexistens
significari possit cum motu ?maxime ximus. Postular Ammonius et Sancto Thomas
curaliisoras cum prædicamentares sint completæina&tu.namquinto tionis partibus
missis, solum nominis et verbi considen metaph.14. septimom et. septimo. primophysic.13.ens
rationem præposuit? addituretiam. quialibropoetico, quod est, aut existeredicitur,
indecemprimasres, seuuo cespartitur: quo ergo significari possunt cum tempore!
nifi diceres ut sunt imperfe et cres, & in motu cum actione, et passione et
generatione lubstantiæ alteratione qualitatis augumento quantitates et ex
accidente mutatione eorum quem ut uo referuntur. Scundo nec dubium solue revidetur
quod dicit. Sed falsum etiam est in prædicamentis rum orationis partes
enumerans, inquit septem elle. Elementum, syllabam,coniun &ionem, nomen,
uerbum, articulum, orationem. Ad hoc breviter respondent alig qui Aristotele omifisse
quediximus, tanquam inutilia et ad rectum poetarum metrum spectancia hic solum
mentioq nem fecisse nominis et verbi: pista sunt necessariæ pars tes
enunciativæ orationis, inquo, Ammonio non aduery voces
considerari,utadfimpliciúrerumcognitionédedu saturnecdiuo Thomas & fi
oratio enunciativa quando que cunt. Sedinftantaliqui. In prædicamentis,
Aristotele finiensin conftetexaliis, nonnecessario,simpliciter,omnitempore,
quit. subftátiadicitur.sedquamuanèrefpondeantexAril. quintometa.14.&
Alexandro Aphrodiseo exponente cognoscant, secundum se inquit vero dicuntur quæcunq;
predicamenti figuras significant aut secundum Boethium quæcunque figuras
predicationis significant. Itaq. Per Aphrodiseus quod a nomine, vel uerbo
deducitur:lig verbum hoc dici et significare res simplices, prædicamen ca ad metaph.
Non logicum pertinent: sed ut decemu04 ces, resmediis CONCEPTIBUS A POSITIONE
SIGNIFICANT logie corum considerationi convenient.Tertio dubito& tan cuti
et legendum, et navigandum alegere et navigareuer bo originem ducunt. Similia
dici possunt de explicatione Alexandri. Quautitur Ammonius dum deuerboconsin
dcrans Aristotele inquit. Verba autem secundum se dicta nomina sunt id est simplex
habent significatum nominis86 eius simplicibus partibus simile, ex quibus constatoratio.
itapro Alexandro dicendum. Aduerbia plurima ex parte quam vanam explicationem
existimo, dictionem, fcili, cet affirmationis partem vocari. Nam quid interest
dicere nomen et verbum vocem esse SIGNIFICATRICEM A PLACITO et afferere nomen
et verbum dictionem esse ihuiusmay deduciauero nomine aut a parte orationis
simpliciquæ nifestum indicium ex Aristotele sumitur. Qui ipsam orationem
definiésait oratio est vox significatrix, cuius ex partibus aliqua separata
significat ut di&tio, verum non ut affirma, tio) ergo idem est dictio, quod
nomen. Ut habet translatio Magentini. Et uerbum. Ergo dictio, orationis communis
pars erit, non affirmatione stantum. Nisi per appropriationem dicatillud. sed
Sancto Thomas vidensuocesalo, gico consideratas non poffe decem simplicissimas resnis
fime diis conceptibus explicare (itaenim secundo intely uim habeat nominis. Et
ita si quando goriatura uerbo, nihil Alexandri et Aristotele sententiæ officit.
Sed cur particis pium, quoquam se pissime in demonstratiuis scientiarum
sermonibus utitur, tam hicquam poeticorum libro relis quit? Ammonius dicit, quia
ad nomen et verbum reduciy tur. Aliiuero (quod idem sft) dicunt.quia pars
comporis ta non simplex orationis dicitur. Quæ responsio magis perspicua et
euidens iudicio meo est. Nam primo pos ter, secundo, præposuit dupliciter præ
cognoscere oportere, leda siue secundæ intentiones dicentur, nonu tres linere
alia någquiasuntprius opinari necesseest. alia vero quid lationibusdenotant. ad
philosophiam naturalem spe&an eft quod dicitur intelligere oportet. sed cum
duas propos tes& metaph.) aliteralseric, fimplicium(inquit)di&tion
nerettresenumerauit. &adhocrespondet Auer,optertia ma ueneratione
sanctitatis probarim :in hactamenre' sponsione dissentio: cum decemuocesnon
solum limy plicesconceptus:sedresmediisconceptibusexplicent: loco,&
subiecto :& non nifirefpe&uhorum .ut pronos men loco proprii nominis.
Adverbium tam hic, quam in libro poeticorum relinquitur, uelquiautAmmonius ait,
modum dicitquo prædicatum incit subiecto . aut ut Грее
species compofitaeftexhis.dicasetiáoduaspræposuit necceffarias signum est
q Aristotele dixit (dupliciter præcognoscere oportet :& quia lunt,opinari
neceffe eft:& quid in telligereoportet.) ad tertiam vero præcognitionemder
scendens,fineullonecessitatisuerboadditoait.(quædam autemutrag:) namcompofitaquæeffe&am
tertiamnas turamnondicuntdistinctama componentibus,explicatis
neceffariispartibus, coniunctimexhisexplicariintelligun tur:uerum
quicquidsitdeArist. textu&rationequamdi xi: sufficiensrefponfiofit: qhicdefimplicibus
partibus Aristotele loquitur,qualenonestparticipium. Coniuns
&ionemomisit,nonquia inutilis,quoniam .infra(quod ipseconfirmat hic, &
fupra contra Boethii opinionem adduxit) Arist. diuidet orationem enunciatiuam
in unam simpliciter & coniunctione unam: quæ neceffarioconiun &tionemexpoftulat.
Necexomisitut Ammonius et Sancto.Thomas quiapars orationis non est
sedparsconne&ensatque coniungens. quoniam Aristotele coniunctionem poeticælos
cutioniannumerauit,tanquam orationiselementum.Item incap.quarto Auerdicet,q
Syllogismuscöditionaliseft unusperunam copulatiuam .Gifoloriturergodieseft.
ficut predicatiuus est unus per medium terminum. sedhic medius terminus neceffaria
est pars prædicatiui sive CATHEGORICI cay thegoricifyllogismi. ergoconiunétiosyllogismiexpofis
tionefiuehypothetici.Hinc etiam contra eos fequetur inutilemconiun
&ionemnonesse: sed hypotethicofyllor gisino necessariam: ut medium
terminumprædicatiuo lyllogismo.Aliisentiunt proptereaconiun&ionemomiy
filfe:9 de enuntiatione una simpliciter demonftrationi seruienti, nonconiun
& ioneuna considerat. fed hanc reo sponsionem suprareiecimus: earationeq
hicliberetiam ad librum priorum dirigitur,proximam syllogismo hypothetico
positionem seu præmislamelargiens. Itemin
hoclibro,capit.quarto,propofitamenunciationemab aliis oratoriisac poeticis seligens,
in has duas partitur. itidemq; definitaoratione in libro poeticorum eam in
hasdistribuit feudi uisit species. Dicendum igiturnobis uidetur, proptereahic
relictamconiunctionemesse,quia facilis, &Arift. sufficienserateaparua
cognitioquam tradidit in libropoeticorum. Aut secundodicasquor demonstrativa
(cientia. Etsecundo poft.1oo. iuxta ordi niamhic propofitú est deuocibus
neceffario SIGNIFICATRICI nemquem compositiuum aut componentem appellant, pri
bus agere ad interpretationem per voces clariores efficie endam:
quęoémorationemefficiant.namhiclibercom muniaprincipiaexplicat. Dic secundoq in
libro poeticorum cap.septimo, coniunctio fignificationis est expers: quade
causa definitioni, quæ perfectaoratio eft,nondeses Post eaquid eft negatio, o
affirmatio:& Enunciatio, u Oratio, Deinde quidsitnegatio,a affirmatio,o
enunciatio, oratio . mo genus,quid syllogismus,indespeciem, .demonstras
tionemcollegit. Pręponens igitur hic ista duo tangfinem unum integrūperse ex
genere & specie constitutum, primo ait enunciationem, deindeoratione, non
ita per se intenta: nobis innato aminus communi ad communiora. Sed hæc
responsio improbatur quia. Si ordinen obis innato, seu aminus communi &
imperfe &oincipiendum est, cur latus ordo ex accidente euenit, ut quando gabimperfer
&o furnatinitium . quia in libro de animal secundo, tex. tura Magentino cum
universęres (quas universalia dicunt) singulis pr æferantur, cur hic non
primum de oratione & genere, deindede enunciatione affirmatione &
negatione exorsus fit Aris.sed primum a nomine & uerbo:namauta nobilior
iinchoandumerat, aut aremagiscõi, utordone ceffariusseruaretur, non
anobiliori,cum negationem affirmationi prætulerit. nonacommuniori,
quiaoratiofuif setanteponenda. Responderipse. solerequandoq; Arist.
hocfacere,&arecommunioriquæadfingulasresfpes
&antincipere:quomodohicdicitanominefignificante
substantiamfiueeflentiam&auerbofignificanteaction nem,seupassionem,
Ariftot.inchoare:sedquareiftum fecundumneceffariumordinem internegationem&
affir mationem,enunciationem & orationem nonferuauerit,ut
Gbioccultumomifit. Præter ca enunciatio utfinishorum materialium principiorum
prenstantior eft, ergo antepor nendafuisset. Amplius nomen et uerbum,
nonideocom munioraeffedicimus,qfubftantiamautaccidensfignis
ficaredicuntur,sedquoces fignificatiueapositionelunt, non substantiæ aut
accidentis,ut naturæ terminatæ ,sed communiter omnium.ratio ergo eftfumpta a
processu re foluente finem in causas & principia prima intra rem.itas
quecum orationem nonomnem, sed inqua est verum et falsum, ideft enunciatiuam, ut
finems peculetur, & hæcex nomine et uerbo, u tmateriis, constituatur necessario
ers go primum dehis ponendum quidf snt: deindecóplebit reliquas partesprocessusresolutiui.sedlubieêtum,utto,
tumpotentiaprimasspeciescontinens,cognofcinonpo teftfinesuis speciebus, ficuttotumconftarenonpotnifiex
suis constituentibus principiismaterialibus:ergodeindede his quæ ad finem
propriú diriguntur, dicendú, quid oratio et enunciatio, ut completes finisele&us
habeatur:quiahęc in affirmationem & negationemdiuiditurincap.4.utpris
mophy.intelligere&scire,ideftintelligerescientificum: quodAuer. finemrerumnaturaliūpofuit.Itemgenuscú
principalisuaspecieunumfinéconstituit,aceaunoproce mio proponuntur&
epilogocolliguntur:utprimoprio rumdesyllogismotradaturus, resoluentemprocessumef
ficiensaprincipalifineinchoauit:dedemonftratione & Propositis
communibus, ut materia, principiis ,quæ per se significantiaomnem orationem
conftituunt: nunc de coniun&tis ex hisprincipiis& conftitutis proponit.pri
mumq; ait (Deinde, ut diximusex Ammonio, ordinem
&urumproponitderebusomnibus:deindedeelemétis,
denotatprincipiorumconftituentiumadresconstitutas. &deomnianimapriusquamhacautillaanimaratio
( Po f t e a (inquit) quid n e a t i o affirmati o &c Hic quæris
igitur & causa ordinisa dnoscelatiestanotioribus nobis Diiii gationé
affirmationi prætulerit. Ammonius ait
priusnomenperfe&tiusposuit?Iteminsitus,& adnosre
66.asenfuuisusincepit.ut Auer.aitineodem libro.co. 77.& tertio, de anima
de intelle&tu priusquamdesecuny. dum locúmotiuapotentia. fimilitersecundúaccidenseft
ut a comunioribus fiue minus cómunibus procedamus. N a m de generatione
confiderans de eageneratim sedin ruit: & fi per se non significat (utait
Aristotele licet significa, demonftratio intéditurquamfyllogifmus.Etprimophy.
tionemnonimpediat perfeadhunclibrumnon(per primofinemproponensrerum naturalium primum,dixit.
&at,quietiampersesignificantiaprincipiautmateriasspe
(quoniãintelligere&scirecótingit,)ideftrationemellen culari conftituit.quarenoninutilisquidemcõiun&tioerit:
tiamacnaturamipfarum,indescientiamperdemonstras
sednecneceffariaparsfignificans,orationiperse,ideft, tionemacquisitam
ratione& eflentiapofita,& explicata omni
conueniens.oratioautemdiuisainspeciesduas, perdefinitionem,infineexplicando,nobiliusexplicauit,
quas monftrauimus, conjunétionem a poetica,uteiusparti
acmagisintentum.Sedadhucdubiumremanetcurnes utilem ,mutuo accipit. fed ad
enunciationem relatam .ut primo priorum ,prius TEX.BOETHII. ordine ad nos
relato ,ab imperfecto ad perfectum procedit :&
tum.negatioenimdiuisionemcontinet,affirmatioautem in compofitione
consistit.negationé igitur affirmationi præposuit, & magis ad
partesaccedir,compositioautem ad totum .Sed(ueniatantiuirifitdi&um
)negatiomagis composita dicitur quam affirmatio, cum additione negan
cisparticulæ,affirmatio efficiatur negatio .Ad rationem orationem quatenus ex
luis materialibus principiis cons harum alterutrapræferatur. Sedcontra
dicimus,pris mo hic liberad demonstrationem dirigitur, utipsefal dem , fic nece
æ de m voces . Quarum autem hæ primum notæ sunt, eædem omnibuspaßionesanimæfunt:&
quas rum hæ fimilitudines, res etiam eædem . Sunt quidem ergo hæc in uoce,earum
in anima paßios admodumnecliter&omnibuscædem,ficneceædemuoces. sentienscum
Magentino) reprehenditura Sueffa. adiu mentum seu commodumin proæmio, nointra&tatupræ
do) secondo phy.tertio.(natura est principium motus et quietis, per se et non
secundum accidens) ita que ex his
positissequiturnegationeminftrumentumexplicanscon fitioneformam
eflentiamq;cognoscimus)hoceft.agen rium& dirigentiumadipsas.) oportetigiturantecogno!
scereeaexquibusestdefinitio:proptereaq iftapræcogni tetur, quææternorumeftnonautemadeaquæpossunt
ponitur. diceretenimilleutilitatemtotiuslibri&fubiecti esse et noneffe.Amplius&fiinuno,quoddepotens
anteponenda, nonutilitatem cognitionis,perquampro tiaadactumeducitur, non effe prius
fit eo, quodeft: pofitad eclarari, ac definiri possunt. meæ etiam rationi
nontamen simpliciter inomni natura: cumea,quępoten responderet. In sequentitextu
commodumqualefitex tia continentur, nonnisiaba&tu, aceoquoduereeftin
plicari: sed quaminordinateacfinearteidfaciat,uides
actumedantur.prætereacap.quartoenunciationemin rintalii, retamenidemcumAmmoniosentit.quiait
Ari. hasduasspeciesdiuidensinquit.(Prima autem oratio docereuellenomen&
uerbumquorumfinitionespromi enunciatiuaeftaffirmatio,deindenegatio)crgoanaloga,
fit, voces significativas esse, quod ifferata uocibus nonli aut per rationem ad
aliud nonç quediuifaparticipaturab gnificantibus, ut scindapfus:docetớ; quæ
inprimis,ac utrii : feddehocfuolocodicemus. ficut Ammoniusdi
proximeabipfisuocibusindicentur. conceptus, fcilicet durumpromittit: Mihiquodueriusprobaturiftudeft,
primo: quorum interuenturesexplicantur.quæomnia, hic affirmationem et
negationem numerariut plures species enunciationis, id est oppositionem
contradictoriam erficientes. Quæinfinefectionis fecundæ,inhoccons
fiftit.utaliquasedeiiciant,deftruant,abiiciant,atque ne gent; inhocautemefficiendopotissimam&inprimis
uimhabetnegatio. Quade causaibiprimumabArift.nu meratur, utsecundodeanima.27.cum
speciesfubie &ti fintplures,exenumerationeipsarumpręcognoscituresse, id
uerum in demoftratione, itidemindefinitionemons quodanteponendumeft,priusquátra&atuscognitioaut
definitiohabeatur . Secundo sciendum primo topic. ofta 10i2. Oppofita secundum contradi&ionemprotenfaals
terumoppofitumexplicare.Et primopoft.o&auo.inan tiquacommentatione,(de omni
eftquod non inquodam quidem fic,in quodam autem non. nec aliquando quis d e m
sic, aliquando quidé non. Jitidem & tex. quinto (scire autem simpliciter opinamur:
fednonfophifticomos nitionis: quafimplici conceptu fine assertioneseucompo
iun&a & diuisa, notioremessequamaffirmationem.nam ta,adeamhabendamnosdiriguntatqzillamexpræno/
attenderefolemus diligentius ad contraria, ut nobisads
uerlancia,quameaquæfuntnobisinnata. hæcautemafs firmatio, illa negatio explicat
perexterna, explicantia tisefficiunt. Arif. igiturquoniamdixit(oportetnoscon
ftituere, fiue ponerequidnomen, & uerbum &c.)&com
muniterhæceruntuoces significatiuæpofitionealięfine quodammodoalterum.sedcumiplespeciesexpropriis
very explicatione, alięcum vero.iccircoiftatriaantemani
principiisinternisdefiniuntur,I uxtaipfarumnaturam, feftat: nesuedefinitionesfineratione&fineeaquamipse
proprietatem, &utadcommunegenusproportionale tradiditarteponantur,at
constituantur.Inhoctextu (euanalogumreferuntur,finiendasuntprimo,modohic
inproæmio negatio præposita numeratur, ut inftrumeng uoces essesignificatiuas:quod
Ammonilis exponens cum tumefthabensellenorius:secundoautemmodoinfrain
Magentinoaitquattuoradhocutilia effe:rem,conceptú, tra&tatu& propria
definition subsequitur.itainfra,intely uocem, &literas. Amm.autemait Aril.inchoare,nona
le&usquandoplineueroeft& falso: circa compositio/
rebus,quæperse,necfimplicessuntneccompofitr:(id
nemenimeftfalfum&uerum.Queruntnouissimecuruo
enimhabentconceptus)sedauocibus,tr"finequibusdis cem
omiserit.sedAris.infriadhocrespondebit:utsupra sciplina&
præceptiofierinonpoteft aitą;nullamfacere etiãanobisfatiseftdi&ú.Proptereaadaliacótendamus.
Aristotele de literis mentionem.gnulliusuifuntadproporto & fiuerafint, diminutetamen
ponunturcum aliammay gis intentam differentiam (significare scilicet a
positione, non natura) relinquat,quamtamenAlex.&Pfelliuspro sequuntur et in
expositione tex. Ammonius A uer.ato
aliinonomittunt.unumergo&idemcumhissentiens, eorumueritatem confirmo. Cumnominisdo&rina&dis
sciplinaexantepositafiuepræexistentifiatcognicicne, ftretur,&
testimonioAuer.confirmetur.primopost.ses cundo.& Arift.primoMetaph.48.&
apudAlex.83.pri motop.quarto.(oportetenimaitArift.exquibuseftde
finitiopræscire,fiueantecognoscere.)& Alex.inquit definitioperomnia nota
& precognita procedit & Averroes primopost. secundo.fic.(etiamuerisimileefteffedispofi
tionem fpecierum prænotionum conceptionis (ideftdefi
unumeorumquædiximusexplicatur,nomen& uerbum primo phy.fecundo.hec
autem quandog imperfe&tiora, TEX. BOETHIL. Suntergoea,quæ
funtinuoceearum,quesuntinanie quandoyperfectiora,minus communia autcõiora.Ma
ma,paßionumnot&,o eaquæ fcribuntur,corum,que gentinusaitq cum
euidentiadixerit,abhistanquáabdi tis&occultisabftinuit.S.Thomas dicit gquiaAril.cępitapar
suntinuoce.Etquemadmodumnecliteræomnibuse&s tibusenumerare:ideo nunc
procedit a partibusad tol adducam dicitur. aliudeffe dicere num note: O quæ
fcribuntur eorum in voce . Et queme
procedere,quiamagissensatasunt.3.deanima30.39. , inftrumentum ,seu Atat, essemagisminusuecompositam:aliudfinemhabes
paßionesanimesunt,o quarumbæfimilitudines,res quoquecedem .
reutalterumconiungicum altero,autfeiungiabaltero enunciet. secundum concedimus:
sed exillo affirmatio nis naturam magis compositam esse, sequi negamus sed
Magétinus dicitq enumeratis nomine,& uerbo,& aliis eorum
definitionestradendæ erant,quas ponereconstis
tuerat.SedhocAril.nonfacit:sedcaputproponit.quod
nobisadiumentoerit:sedquodfitadiumentumnonexi plicat,necincrepandusame
eritutHerminius(idem negationis potius. Secundorefpódetp in hisquę poffunt
efleXnonefle,priuseftnoneffequodfignificatnegatio,
quamefle,quodexplicataffirmatio:sedutspeciessunt
æquegenusdiuidentes,suntfimulnatura,nihilgrefert Quorum tamenhæc primum notæfunt,eædemomnibus
i ta con lacontemplanda.Quod fiitaest. Curergo iftorum quat
passiones seu conceptions esse omnibus.easdem :idest tuormeminic? Etsiinfralongioribus,nunctamenquod
ellea natura: Expolitoresnonexplicant.quadecausa, ad rem pertinent dicamus,&
brcuiter: finem huius libriin terpretationemesseut fuprapofuimus .hæc autem
utlov gicum inftrumentum & organum cognoscendi,ad expli
cationemrerumdirigitur,actanquamultimum & perfe netemere&
fineullarationeiddrift.pofuiffedicamus. notandum
,sextotopi.14.inexplicandispartibus defini tionisoppofitorum
,nontantumopuseffeoppoftiscum negationepræpofita,fedetiamrebushuiufmodi,quiz
intentumfinemrefertur.interpretatiouerorerumnon
busdefinitiofeudefinitionisparstanquamhabituiconue fit nisi per uoces clariores
significantes a positione , aut perl iteras (cum uoces defuerint) propter eanecresomi
lit, sed tanquam fine multimum&inprimisintentumpor
fuit.tertioenimmera.6.7.meta.23.nemodefineconsuls nit:nam
persehabitusperpriuationesnoscuntur:licet quodammodo (ideftut Commentator primo
pofter, 133.1nmagna commentauone & primorheto.cap.quin toinepitomatibus logicalibus)
explicet alicuigeneriha minum priuatio, atqueoppofitum cum negationepræs
posita,alterummanifeftet.quamobrem topicaloca con
ftituunt.Qomnibus,autpluribusitauidentur.Cum igis
turfupraexplicaffet,liocesfignaeffeapofitione,exappo
fat:fedftatuitatq;ponit:sedquomodo& perquæisfinis eueniatde liberat.nam
primo ethico septimo, fifinem tanquam exemplarhabuerimus,magisintelligemusquæ
nobissuntbona.& feptimopoli.13.inprincipio:Duo
funtinquibusomniscommendatiobeneagendiconsiy
fitocumnegationepræmiffa,nunceademexplicatpary ftit.unumutpropofitum
acfinisrecteagendisubiaceat: alterumuteasquæinillum sinemferantactionesinuenia
mus, resigiturhic non relinquuntur sed tanquamfines explicandiponuntur. Nec
literæ fruftraab Arift.nume ranturcumuocumfunganturofficio:hisq;principibus
explicatis,& quæ scribunturapeririintelligimus.huius
enimcaulaquæsuntinuoceconscribimus,utabsentis
busuocibus,resconceptascertius,uberius,&firmius teneremus.quæ enim
uox,totphilosophorum,anobis abfentium,sententiasunquáaperuitadquaseorumlibri
nostam facilcdeduxerunt,utpossemusaliquandoquid
ticulamexoppositopositiuo.passionesenim& respros prereaq
eædemsuntomnibus,naturasunt,nonexarn bitrio,&pofitione.exoppositouoces,acscripiuræquia
non sunteædem,apositione, no natura significant. Hinc etiam differentia vocum a
positione et passionum siue conceptionum & rerum colligitur. &
approbationem intelligat, ex græca particular aperitur. quædicitiwvwww
quorumquidem. Quæparticulacausampropofiti expliscat, non controuerfiam .
Quioaduerba, Ammonius pris mumobseruat.qcumdeuocibus&literisdiceret Arist.
ait. quorumexsignasunt. sed passions similitudinesre senserinteorum scripta fæpiusrepetentesagnoscere:
No rumuocauit. Quia simulacra rerum naturas,quoadlicet igiturut Ammonius dico
nihilo pusesse scriptis.seddico, representant.utinpi&uristidetur.inquibusmutarefor
magis fuisseconueniens Arift. nomen& uerbum &c.des mas præsentatas non licet.litin
Socratepitto calvo, fi finireperuocesquæin disciplinis quasaliocertoduce
mo,oculisprominentibus.signauero¾totumha. perdiscimusfacile)primas
tulerunt:quam perscripta: bentabimpofitione,& cogitationenoftra,utinmilitum
quibus peritiocculta cognoscunt,& percepta declarant , signis,& notis diuerfisa;
inftitutis conspicitur.Sedcong Nunc adliteramueniamus ea quæ in uocesunt,cons
traquiasecundopriorum.27.deenthimematetractans. fi stunt,autcontinentur,suntfignaseunorę.ounebonorenim
duo hæc fignificat.(earumpassionum ).i.eorum conces ptuum
:quospatitur,ideft,utformisperficiturphantafia, mens, seuanima,ut Prelliusait.&
quem scribuntur SIGNA ac NOTAE funt eorum quæ in uoce consistunt.Etquemadmo
gnificans.quiaidemuerbum,lignum,¬auocatur. dum necliteræomnibusexdem
ficneceædem uoces.} Explicata prima definitionis particula,núc ad fecundam
accedit quoces a positione significant. Idqueapprobat Arifto.ratione fumptaex oppositocum
negation prol tensa. Quodquodammodo notius, alterum palam facit. primo topic.o
&auo, hinc facileconfirmatutexperimen 10 Arist. quodsupradenegationeantepositaaffirmationi
docuimus ratione,fedoppofitumeiquod eftapositione elle,estelleanatura:quæ eadem
omnibusineft.exops positoigiturratioinhuncmodum formetur. ad conclus fionem exfimilinotioriinlitterisinnuendam
, idnatura effediceturquod eftomnibus idem ;naturaenim princiy
piumeftperse& deomni:quæigiturnonsuntomnibus eadem ,nonnaturasuntautsignificant.anegatione
proy Prætereasihæcdifferentiaueraesset,acillamAristot.ex his uerbis
intenderet,his tantum nominibus pofitis fuffin cienterexplicasset,dum diceret. Propterea
quòd uoces & literæ SIGNA ac NOTAE sunt, a positione significant: passiones
uero & resquiafimilitudinessunt, a natura. Itain finiendo nomine& uerbo
sufficeretsiduntaxatdixisset, nomen&uerbumestnota.nonigituraddendumquog
cesfintapositionefignificantes.& hicomittendumfuils set,quòd uoces&
literæsuntnotæfuesignanoneadem, neidem calu, actemere refricaret. Mihi ita sentiendum
uidetur. Ovuboloy superior NOTAM (NOTARE, NOTIFICARE), SIGNUM (SIGNARE,
SIGNIFICARE), VESTIGIUM dices re. quæ ita dicuntur. quiaut notiora exterius
NOTIFICANT, ac ut VESTIGIA pedum significant. Hoera autem ,ideft passiones, sive
conceptiones, non ita: quanuis interius
priæ definitionis ad negationem definiti.hęc propositio, similitudines rerum vocentur:
rem tamen& fiinterius, quia perspicua, approbanda non eft:sed lumiper fenoi
exterius non aperiunt.proptereaigitur uoces et literas fi, tam oportet, alibiquodammodo
declarandam:Allumy gna& notasuocauit,& passionesfimilitudines:quiaille
prio ,ideftminorpropositiointextuexoppofitocumne exterius, hæcinteriusmanifestant.
Secundoexdictisfaz gatione præpofitanotioriinliteris.(&quemadmo!
cilereprehenditursyllogismusquemSuellaformauitex
dumnequeliteræomnibuseædem:ficneceædemuol litera.dum afferit Arifto.uelle probare
uoces & literas ces) conclufioconsequetur. Igitur nec voces a natura sig
quumeuarient,apositionehaberi,conceptionesuero& gnificant & nonomnibuseç
demerunt. Quorumaux res, cumnoneuarient,naturaeffe. hoctotumuultelle
tem.;Approbataminoripropofitioneexsimilinotiori præceptum& complexionem
fiueconclufionemadqua inliteris,inquibusidemprædicatuminuenitur.nunc
inferendamait Aristotele intexturatiocinari. Quæcung sunt aliaduo, conceptusfcilicet,
seu passions & resmanis aliorum signa vel notæ, positione fehabent. uultdeinde
festata naturaeffe:& ita ead emomnibus, inquit(ledpal, quòdassumptionem
,ideft minorem Arift.ponatibi.{funt Gones animæ) quarumhædi&æuoces.(primum)nuly
quidemigiturquæsuntinuoce&c.}ideftfed nomina & lointeruentu,noræfunt(hæanimæpassionessuntcæs
uerba. Et scripta suntf sgna et notæ. aliarum, voces, Ccili demomnibus:&
resquarumhæpassionessuntfimilitus c et conceptionum ,& (criptauocum:sequiturcóclufiout
dines,etiameædem funt.) Sed cuiusgratiamanifestat putatibi. (qaemadmodumnecliteræeædemficnecuos
Aristot.ipfumdefiniensait,syllogismuseftimperfe&tus: exfignis.ubieodem uerboutituradexplicandum69
gnum naturale,& fignum apositionc.uana itidemerit, assignata differentia
Magentini . non fita positione ceseædemerunt.} ubi(fic)ingræcononhaberiaffirmat:
tur. Sed primær esponsionispartitio, feudiftinétio, quo quodmanifeftefalsumeftToosenim
(sic) latine significat nammodo fituerainprimosuomembro,supralongios
{&quemadmodum&c.}ait(&)uimhabereinferendifæ ribus disseruimus.cęteratáquamueraprobanus.Seddu
pe consueuisse.Sed obiurgandus est Ammonius :qui lis gnum,& notam
aitapprobationem,ideftprobationem bitabis Vox significatrix est per se genus
nominis & uery bi: igitur vox erit gencris pars communis, per seunum constituens:duoigiturconsequuntur.primúnaturale,unā
perseconftituerecum artificiali,&ensrealecúenteratio, nis:secundopartem efle
intotoniinuscommuni:signifi care,scilicetapositione,effeinuoce,quæeftmagiscomo
munis. Qui modus improprius dicitur eius, quod est in esse.q nomina,& uerb auoces,
& scripta a positionef sgnificent:cum secondo priorum27. In Epiromatibus logica,
libus,derhetoricaperfuafiua,& fyllogismo.cótradičoria
fignaenthimematis& demonstrationis, & topica etiam, non a positione significent. lignum ergo, et
NOTA, commune est ad signum, quod EX ARBITRIO ET inftituto signifiy alioelle. quartophy.Adprimum&finihilhicneceffario
cat,& signumnaturaconsistens.Secundopropriaeiusra
tiocinatioconfutatur:nonenimunusestsyllogismus in textuquen suo arbitratu diuisit,
sedduo. Vnusquonos minaAristot.&uerbauoceseffefignificatiuasdeclarat:
quodamedi&um est Paulo antedum primum in textum hoc modo (quæ suntin voce
sunt notæ et signa) scili, cet significantia exterius (earum quæ sunt in anima
passionum.) minor siue assumptio, utpofitiopersenota,ap
Aris.dubitarem.reslogicasuthabentesesseimperfectum & quafiin cogitatione ut
fubiecto:inuoceutfigno,aliam naturamullam sortitas non effe, quam eamquam anima
probationis nonindigensponetur. Cum nomen & uers exarbitriofinxit: ut ad aliud
fignificandumexteriusrefe bumdefiniet,fednomen&uerbum funtfignaseuuoces: ratur.ficutea,quæartificummanuseffingunt
præterna itaq; maior, ergo &c.propofitioallumptaest,utperseno
turæopis,lignum,scilicetæs,aurumue,nilreliquumha ta. Signum est illa græca particula
(quidem igitur) quæ bent, nisi quodarsuerapersua inftrumenta hocuelillo uel executionisfitnota,
uel fineulla approbationeexpro positis inferens,m e a m sententiam confirmabit
id effe fine approbatione aliqua pofitum . ut communiter affertum
abomnibus:Secundusfyllogismuseritibi.(Etquems admodum &c.) ut secunda pars definitionis
ponatur, significare, scilicet a positione. Quod tanquam perfe notum, nondemonftrat,
sed quia non omnino,cinealiy qua controuerfia eft confeffum.proptereaquodam
modo ex opposito cum negatione præposita manifestat. Quod inscriptis eft manifestius,
apofitionefint;& eui dentiuscóftantiusq;manifestent.Syllogismusigiturerit.
quæ non omnibuseadem suntillanon a natura (quæ in omnibusuno
modoinuenitur:perseidem inomnibus fimiliter operans ) sed a positione sunt
,& fignificant : minorintextu.(Etquemadmodum necliteræomnibus eædem , ficnecuoceseædem
.}Itaquemaiorpropofitio fyllogismiSuessenonestadhanc inferendamconclufios nem
,quam nostra secundaratiocinatiointulit.& quæa
Sueffaratiocinationisconclufio& complexiodicitur, no
bisminorsecundisyllogismicumeiusapprobationeex simili literarum uiderur .nam
fine ulla controuerfia ( ut bene animaduertitAmmonius)fcripturæ&literæapos
fitione fignificant.licetquodammodo uertaturindus biumannomina&
uerba,nátura,utPlatouideturassere re, anaconfilio, ut Arift.sentit,significaredicantur.
hinc. perseunum conftituit cumuoce,naturaliopereanimaut fequetureum non aduerbaArift.nequefenfum
dicere. dum infecundasuaexpofitione afferit, quam Alexandri & Afpafiieffe
confirmat, hic Aristotele velle colligere similitudi singulare opus naturæ eft,
fedutindiuiduumabartefor matum. Itaquenecprimum sequetur, naturalecumarti
ficialiunum per se constituere: quianonutnaturale,sed néinterscripta et uoces.
Sedqexhocpredicato,fignifica utarteeffectum, formatumcumsuacausaformaliperle reutnonidem,ideftapofitione:quodnorius,&firmiusin
unum efficeredicitur: fimiliterres logicas et placitum f19 scriptis uidetur. Infertidemdeuocibussignificatiuis,tan
uementisarbitriuminuocecontineri affirmamus:non quamgenereproximonominis&
uerbi et omnium alio tamenutopusnaturæeft, per seunum genus conftituit, rum. Quæritsecundo
Ammonius:cur Arift.nondixer fed tantumutapositione,&confilio, et cogitationefal
cit. uoces sunt signac onceptionum. Sed eaquæ funtin &umeft ,utuoxadhocuelilludexplicandumponatur.
Voce irespondet primum: cum triplexfitoratio,concel & ex communiimponentiumconfilioreferatur.Sica
pra, inuoce; inscripto:desecundahicloquiturfecuny mentisrelatione,queinuocead fignificandum
relinquis do respondet, voces naturae dimusficutuidere, audire: aliudeftergouocesesse,utopusnaturæ,aliudnomis
na& uerbaapofitione& noftracogitatione,quæuoce utuntur,nam .quemadmodum
ianua diciturlignum ,& nummusæsuelaurum ex arte, quæ imponitfiguras&
tur,uocemnaturæopus ,artislogicæinftrumentum , & opusartificialeperleunum,&
adalterumsignang dum relatum conftituitur. Ex hisadidquodsecuns do
consequebaturpatet refponfio. non enim inconuer
nienseftminuscommune,quodformam& a&umdig
characteres:eodemmodo&uocesdicunturnomina,
cit,contineriinaliomagiscommuniquodinpotentia cum alocutoria imagination fingunturacformantur,
fie exiftensperficiacformariabaliopossitminuscommu; gna eorum ,quæ
inanimouoluntantur,& talem sunt formamadeptæ:utex
positionefignificent.signum est uoxmutorum
articulata,quæquianonexcompofito& institutionealiorum eft,ideonomen&
uerbumnondicis ni.utdeintelle&tu & cogitatiua Auer.opinaturdeanima
altrice,sentiente& rationali.& ex Aristotele confirmaturses
cundodeanima. 30. De forma artis in materia. Poftremo
inuoce,perfe&ioplaciti,seuarbitrii,confilii,&pofitionis, effetdicendum.sedmetaphyfico&
naturalihæcquæftio difficilisrelinquédaellerbonitatis,tamengratia,quambre
uissime poterorefpódebo. Fed animaduertendumprimo
modoeffigiantiaprogenuerit.Hoc,alterumcomitatur, easdem res logicas,utsecundo
intellecta,ad logicam non ut scientiamsedartem spectare.namearuni,mentisare
bitrium,utexternacausaefficiensassignatur.aquoeffig
ciunturea,quæartium&sciétiarumexplicationiconuer niunt .& inuocibus,acaliisnotioribusregulis
apponun tur.primopost.17. secundopofter.27. Tertioponens dum
octauometaph.16.noneodemmodo,omnium unitatis per se causam requiri. Alia nanque,
quæ matel riæconditionibusuacant,utintelligentiæ fiuementes,fta timens,&
unum perse sunt:Aliaquæ ex materiis cons ftant,unum
persefiunt:qhocidem,quodenspotentia erat;idem fita&u:efficientetantumeducentedepotens
tiaina&um artificialiaperseunum conftituunt,secundo phy.13. secundode
animao&tauo,non cum subie&tout naturæ indiuiduum eft,fed ut arte
formatum , viue effigia tum est : artis,ac formæ artificialis esse recipiens . causa
enimpropriacumsitars,& effe usartificialequiderit. Ficutcauf apropriaindiuidui&
effe& in aturaliseftforma
&fubftátia,effetumigitursubftantiaerit,itaproportione &
fimilitudinequadam,quædeunitate& definitioneres
rumartificialiumdictasunt:fereeademderebuslogicis, &
uocesignificatriceapofitionedicendafunt.non enim quod inuoceexconfilio,&
mentisarbitriopofitumest, quibus quibusuoxipsa, qualiformatur:&
denominationeexo trin.ecussignificareapolitionedicitur,atque,utaiunt, per
attributionem placiti ,ut formæ fpecialis, uoci , ut cantibus omnibus,nondefinitecontractisad110men,&
uerbum :nam uoxfignificatiuapartem communitsimam generis nominis & uerbi
& orationis conitituit non pros materiæ sive generi magis communi adsunt. Necincon
prienomen&uerbumtantum: Differentiam aut eniliter ueniens modusellendiinalioeft,minuscommunisinma
rarum abelcmentis quam Ammonius accepitaDionys
giscommunifiueformæinmateria,utSuetreuidetur,quo fio,lumasabArist.inlibrocnim
poeticorumait. Eles niamquartophy.23.Primus modusnumeraturpartisin
mentumuocéeffeindiuuduam:ergoproprieinuoce.sed
toto,tecundustotiusinpartibustertiusspecieiingenere, ad sensumpatetliterasparteseorumeflequæscribuntur.
quartusgenerisinspecie,quintusspeciei,leuformęinmai
Quæriturcurpassionesuocauit,&fimilitudinesuelfimu feria &c.NecualetfuaobiectiocontraPorphyrium:
lacra. Ut Ammonius dicit. Sueffarespondet proptereafie fequeretur Arist. Intampaucis
uerbis ambigue dicere. militudinesappellari,qarederiuaniur:passionesuero,
utanimum ipfum perficiunt:conceptus,utprincipilim, &
ratiointelligendi.Sedcontra,quiarecteAmmoniusin
terpretatur,fimulacrarerumdicuntur,nonquiacausa, taarebusutphantafmatibus fiue sensu
perceptis.sed quoniamrerumnaturas,quoadlicet,representant.utin
picturisdemonftrat.in quibus mutare,ac transformare
naturasreprefentatasnonlicet.Prætereaconceptus,nifi
constituanturnouarumrerumuocabula,remiamconcer ptam& cognitam supponunt. Non
igitur proprieprincis piumseuratiocognofcendidicentur:nisiutspecies&
phantasma, ut obiectum alumina intellectusagéus,eftdes puratum, utaiunt,
formatum et illustratum . Item non explicatquem animum
passionesperficiant.quianon mentemperseimpatibilein,utAuer.opinatur.Sedani mam
seumentem phantafticam,ideftexiftentem inphan tasia,utoprimePselliusexplicauit.attributiueenimmens
quiadudicit.{eaquesuntinuoce. sumiturutparsminus
communisintoto,ideftinmagiscommuni.cum uero
fequitur,{funtfignaearumpassionumquæfuntinanima} nuncfumiturutaccidens&
formainsubiecto.Sedcons traquiaæque ipfumin conueniens hoc fequetur: cumpla
citum ,fiue confilium ,uoci non hæreat denominatione interna, ideftintrinfecus.sedaconfilioimponentiumaty
tributú,utfigno:Placitumergofiuearbitrium,pactio,& mentiscogitatioeftinuoce
utsigno.non cuiextraanis mæoperationeminhæreat:sedpassionesanimærationa
liconueniuntutactueamformantesacperficientesetiam dum dormimus. Item proprius
modus elrendi in alio maxime dicitur ultimus,utinlocoueluale.aliitrans
lumptiue,ideftpertranslationem,utArift.& Commentator afirmant. Tertio
queritur(quod primo loco quæren dun fuerat) anperuoce,ergoaliquidexpropofitisinfe
rat, anexecutionisfitnota.S.Tho.aitexpræmissiscons cludere,hoc modo.quia
Arift.dixit{oportetponere quidnomen8uerbum&c.}Shęcsuntuocessigniíicatii
caduca&infirmapatibilis,&poftremoinhominesola mortalis.SedhicprimumquærocurfolumArift.passion
num & fimilitudinum seusimulacrorum meminit:Respo
deturcuprincipiointelletusfiuemensphantasticarerum qualiadumbratas
intelligentias & fimilitudinesrecipit, his ut patiens i l lu f tratur u t patibilis
intellectus. Hinc requistur, easfimilitudines,utanimam perficiuntphantafticam,
passionesuocari,perficientes, acillustranteseamnuilo contrarioantecorrupro. hęmecfimilitudinesdicütur
(ut oítendimusexAmmoniojurrerumnaturasquoadlicet representant.&
conceptus,utabintelle&tupatibiliseu possibiliconcipiuntur,autiam
suntconceptæ.Secundo ponendum intelle&tum patibilem ,idestpossibilem ad passiones
& fimilitudines (cum easprimumcócipit) conferri, ut poteftateeftomniailla, tertiodeanima.14.17.
quemadmodum tabulainquanihileftafcriptumfiuefir &um .Indeetiam
sequiturtertio.intellectumsemperesse uerum.tertio de anima 21. ideft non errare
.sed intelles Etussecundoprogressusultracomponitillaspassiones,
utsimpliciaintelle&a:&họcquandoßuerequandog falsecompræhendit (ut
infrasectionequintadatur opis nio falfa) ac
apositione,confilio,fiuearbitrioopinatur. Buntur sunt notæ eorum quæ sunt in voce,
nonautemdi dequibusAlexanderforteait.deeisdemrebusfæpe
uæ:ergooportetuocumsignificationemexponere,seu
rectiusponere.ContraplacetSueffecum græcisomnibus notam
elleexecutionis:Sednecipsequicontradicitdiffi cilerefellitur,nóenimdiuusTho.afirmat(ergo
aliquid supra tra & tatum, seu, ut
ipsia i u n t , colligere supra execustum, sed ex prædi&tisacpræceptisinferre,infraconfidei
randaspræcognitiones.utnosetiam diximus.&itaes xecutionisest nota. proptereanonuniuersatimeftuer
rum(quidemigitur)notam efleexecutionis,quæexan te positis no ntr a haturnam nomen
definiens, nomen (in quitquidemigitureftuox&c.)definitioautem nominis
exantecognitispartibusfequitur.fimilitersecundoprio
rumdeenthimematetractans,declarato,& pofitoquidfis
gnumdicatur,intulit(Enthimemaqudemigitureftfyllor gismusimperfe&us.) sedaliiarbitrantur,ornatuscaufaa
græcisponi.ficanoftrislatinis(quidem enim ) adexory nandam orationem ponuntur :
Mihi Arift.uerba & pro cellumconsideranci,quandoqueepilogi,quandoqexer
cutionis, siue ornatus ellenota uidetur: quodfacileex fuperiore& inferior scriptura,ne
ambigua çftimentur, perspicuum fiet. Quærit Ammonius cur dixerit.quçscri
nosdiuersossensushabere.inquoMagentinusfruftraco natur,Alexandrum
arguere.itaphisensusuarii(quos exuerisfimplicibuscognitis,&
eifdem,acanaturacon dinonsuntliterę &elementasedhorumpartesisecundo
fiftentibusintelle&usconiungit)nonomnibusiidem
Xerit.literæ&elementasuntfignaeorum,quæinuoce:
duobusmodisrespondet,primohicArif.denomine&
uerbo,acaliispropositisinproæmiospeculari,cuiusmo aitq
si'uerbumArisadomnemdi&ionemextenditur.lij teræ propric sub his continentur
quem scribuntur ,elemens taueroquæ proprie in prolatione consistunt, subhisquę in
uoce . Sed Arift. generatim loquitur de uocibus signifi catiuis ut pars definitioniseftomnium,
quæinproæmio definireproposuit.Sed in libro poeticorum elementum definitur, quoxfitindiuidua:nonomnis,scilicetperse
fignificans:sedexquaintelligibilisuoxfieripoteft.hic uero dixit(eaquæsuntinuoce).i.arbitrium,confilium,
anpassionessimplicesquasdeipsishabemus,easdemres
cognitio,intelligentiasuntfignafignificantia,& intelli fignificare dicantur:
cum semperfintdistinguendeutdie gentiam conceptuun explicantia,nonigiturhiceftfers
uerfasrescontinentes Respondeasaliudeiledicerepaso
mopropriedeelementissxliteris,quæeademsuntre,li fiones primaseffefimilitudineseasdem,idefta
natura cetratione quamdiximusdifferant,leddeuocibusfignifi
constantes,aliudpassionesessenaturalesfimilitudines rempatibilem
affirmamus.primodeanima65.66.tery tiodeanima 20.ratione
phantasiæ,fiuecogitatiue.quæ
funt,licetapositione&opinantiumconfiliopendeant. hispositis,patethorum
duntaxat Arist.meminiffe,quia hæc sola sintuereomnibuseadem, adquæ animacons
paraturutpotestaterecipiens:quamobrem passiones
Arift.appellauit.aliiautemconceptus,autnon iidemdi
cuntur,autadillas,quasdiximuspassiones& fimilitudi,
nes,reducuntur.hæcdehisha&enusquætuncdocenda
eruntcumdeanimadicemus.Deæquiuocisambigunt. idestnaturaconsistenteshabebunt:quibuspluracognos
scunt,& representant, acreferunt.licetuoces (quarum
proprieambiguitasdicitur,nonnaturasinteædem feda positionesignificent:æquoca
enim rem unam cominus nemnon habent: fedtantumuocem.&hçcresponsio,diz
uiThomæ dictis,eftfuita.Sedobiicies utSuella contra
Porphyriumubiuocesfunteædemaconfilio,pofitæ,
easdemprimasconceptionesfineerroreautfalsosignifi,
cant;nonergoambigueloquicontingeret,nequedifting
bis.ubinaminAri.patet,similitudinesinprimisesseres rum simulacra& naturaliaficutresnatura
eædem omnis bus sunt?Respondeasextertiodeanima.38.animam, quodammodo
efficiomnia,cum omnium formas,aut
sensu,autmentesuscipiat:&quiafingulorumformæper animam
cognoscuntur,lapisautem noneftinanima ,sed species&formaeiusprimumlapidemrepresentans.Pri
mumergosimilitudines,&speciesrem&lapidemrepre reautillicArist.dicit.Ad
phantasmata intelle&usconfers tur,ut sensus ad fenfibilia:a quibus natura
mouemur : atqueimpossibiledicitur,quinuisistangamur.Itemne
celleArilair,intelligentcm phantasmara,idefteorumfis militudines,fpeculari
tex.39.res autem o narura constent, tanquam omnibus perspicuum omittatur .
Amnionius di de anima }ad poftremo relatum dixit .cæterum prodig tum de
hiseflein'librisdeanima,fcilicettertio de anir TEX. BOETHIT. De hisueròdictumestinijs,quisuntdeanima,alte
riusenimeftnegocij. eiufdemreiueldiuerfarum.namanaloga,utprimum
offensioadarteriam,fidecófulto&compofitofiat,illac
concipiuntur,diuersacontinent,ordine,comparatione
quacommeatspiritusuoxeft:tussisuero,nonefteauox: seuproportioneadunum
collata.tamen eorum primęin telligentiæfcuconceptioneseædemdicuntur,ideftnatur
ranonarbitriouariæficutuoces:quxcomparatione,reu proportione dicta a positione
significant.simili ratione ambigua, ideftæquiuoca,primasconceptioneseasdem,
nus,quicumsignificationealiquaemittitur.)Sedpoftula quamuis per eadem
loca,machinamenta proueniat.quia,
scilicetnonexpropositoaccidit(namaitfinecogitatio
neautconfiliouoxmissa,nonestuox.nam;hocomnino
indefinitioneuociscollocandumeft.quoniamuox eftso in guere differentes,qui
satis ex notis locibus ,atque errore, conceptionibus conftituere poffent, quod
fitads sentant, nam intellectus omnium ,de rebus fenfibilibus primum uenit,ex
quibus uisa quædam & fimilitudines procreat.ad
quasintelligensfeconuertit.& cum intelli uersariorum consilium ,aut quid
ueline Dicas his disting dioneutiopusnoneffe,quibusitahæcnomina suntper
{picua& communia,utquasidomi ab ipsorum pofitione nascantur. Sed his qui
quasi modo nascentes de notissimis rebus atque nominibus hæsitant ,nihilq;ab aliisexplicar
tum nouerunt:qua de causa,diftin&tio in bis nominibus fiet,quæ habentur
dubia : quorum res abditæ & arbis trium confilium plurimarum rerum &
conceptum non gie necesse estfimulphantasma aliquod speculari.phang ialmata
enim,sicut sensibiliasunt:præterquam tertiode aninia 39.0 sunt sine materia. fecido
natura constant fimi litudines:non exarbitriopendent:quiaadsimilitudines
comparatur patibilis intellectus ,ut natura pure potentia
autpoteftaterecipienstertiodeanima.17.14.innatura enimanimęeftunum
naturaagens,alterúnaturapatiens ficutin omnialianaturamonftratur.17. tertii. Prætes
perspicuuin dicitur . A d textum nunc redeamus . Ex uerbishiscollige.quod
supradocuimus(uenforqui dem igitur)quandog ad exornandam orationem ab Ari.
poni,uthic:nilenimexfupracognitisinfert,nequealia quid exequendum. seutractandumproponit.Queresab
Arift.cur istorum naturam dillerere diligentius & proy prietates omittis
?quibusg ab animantibus instrumentis uocalibusproueniant:pulmone&
asperaarteria,aquos ma.39.at conceptus dicit mentis primi,quid intererit quo
minus fint phantasmata : Respordet an neque alii phantasmata sunt,uerum non
finephantasmate tum in rum primo ,uocis materia aer præstatur.ab altero, voces
graves et acutæeffigiemfumunt.& q articulatędicantur a lingua,palato
labiis,ac dentibus ut animæ rationalis
motionideseruiunt.curhçcitidemapositionc,alteraa
naturaconfiftant.atquefimilitudinesrerumsintprimum fimulacra,uoces uero
passionum ligna,ac notæ dicans tur:AdhæcomniaputoAristot.respondere.propterea
abeo essereliâa o alteriusestpertra&ationis,ideftad
aliumpertinentmodumconsiderandinaturalemdeani,
ma:nampertra&arequanamrationeistaabaninia,acin
ftrumentiseiusproueniant,anauoluntatependeant,ut
operationes,adanimam,suumpropriumprincipiumres rumuocesprimoresgeneratimsignificare,fedlogicos
feruntur,de quibus ut supra diximus,fecundo de anima .
87.88.89.90.differit.ubiuocem fignificatiuamex ima ginationeanimæ
uoluntaria,Conum appellat:hinc ergo patetuocesessesignificatiuas.sicenimad
interpretatio rum primo conceptus .quod ex definitione Platos
nis(aquoGranımaticiacceperunt)confirmant.nomen
nemdicunturconferretex.88.10.& apositionesignifica re. quia ab imaginatione
significant et voluntate.ut Com
mentator&Arist.asserunt.Arist.enimait(oportetanis matumeffeucrberans)&
90.(& cumimaginationeali qua,)ideituoluntaria.cuiusrationemadducens,inquit
suntinaninia:& quarum pafsionum equoces primum 114
gnasunt&c.)sedcótra.quiaeodemmodonomendefini, tura logico, poeta, atque grammatico.id
autem(utue rum fit) in definition nominis declarabimus .secundo fin nisharumuo cum
eft idem eiadquemoratioenunciatiua
refertur.hicautemeftinterpretatiorerumconceptarum, quæ idemsuntquod
conceptus:Scotus uero quæstione secunda respondet.conceptus fignificarerem
,utfimilitu do & speciesrei,nonutaccidensanimædicitur,Sednon
quæriturhoc,sed duntaxat,an uoces principaliter,seu uox enim eft quidam sonus
fignificatiuus ,non naturali ter,ut significatiuus est fonus refpirati acris
.sicuttussis: fed ab alio libero mouente hunc aerem ad arteriam.) Ing quit
etiam Themiftius acute hunc locum perspiciens hus iusergoaeris(quem spirando reddimus)
percussion & quibusimaginationem pafsiuiintellc tusnomine appels
landamcensuit.tertiodeanima.20.primodeanima.6s. 66. ex quibus tam obscuris
verbis non poteft concludi aliud,nifiquod poftremo deduximus.non enim uideo
quid suadi&a sequatur,fiprimi& aliiaprimis concepti bus non sunt
phantasmata,non tamen sine phantasmate, line quo nihil intelligit animam , nisi
conceptus primo phantasmata representare & necesario : ut intulimus.
Mihiautemuifumeft,fermonemArift.adomniasupra di& a potuisse referri,cuius
uerifimile argumentum poteft esse. dixit{di&um eft,quidem ergo inhisquæ de
ani ma,}ideftlibrisduobus secundo& tertio:utretulimus; non tertio solum ut Ammoniusopinatur.Etutfinemtan
demquærendi faciamus.paucisadhæcadditis,poftres
moquæramusnominafiueuocesanprimofignificent
res,anconceptus?Quidamrespondent,grammaticos finientes quod subftantiam uel
qualitatem significet. & hicArift.quæ inuoce,lignasuntearumpassionumquæ De his
quidem igitur dicemus in hisquedeanimaalte. riusenim estnegocij: &um
hocArift.{Dehisquidem di&um eftinhis,quæ in primis res aut
conceptiones significent. Propterea ues riusadrem,& fenfum
accedés,refpódeo:& nobiscum,8C sinominibus non concinnat suella,re tamé
idem affirmat cumAlexádro. primumpono,uoces,tanquamultimoin? Tentumfiné &
principalius, mediatetamen, fignificareres. & extremum, uoces,an res ipsas
significent {'in cótrariam partemArift.& Comment. (&
quæfcribunturfigna& no iæsunteorumquæinuoce)&liuocesprimosignificant
conceptus,&conceptusprimumres,scripturæergopris mum uocesdeclarant. sedcótrarium,leniuumteltimonio
& experimentomonfiratur. quiascripturahominis& cei
terarumrerumdequibusphilosophidifferunt,utimur,rey c u m ipfarum explicádarum
caufa .præterea epiftola inuen fecundo autem minus principaliter,fed
immediate,con ceptus.quæduoaffertaexemploasciemanifestanturnam ascia
(utinftrumentum) efficitimmediatum .sed principay
leseuprincepsefficiensestartificismanus.quoddeclar
taaffirmatur,utcertioresfaciamusabsentes,siquidesset
ransprimodeanimaoctauo.Themift.ait,qprincipaleac ultimo intentum cognosci &
definiri, indiuiduum dicis tur:fedaliointermediocognito.formauerouniuersalis
finealiomedio: ut tamen ad indiuiduum cognoscens dum refertur. Hæc di&ahisrationibusapprobantur.Id
quodeosscireautnoftraautipsoruminteresset:igiturres poftremo, ut ultimü &
finis,explicari intenduntur. Item fi
quæscribunturfignasuntuocum,autearumquæextraani
mam,quodimpossibileeft,autinanima:uocesautemin
animaconceptusdicuntur,quosadrerumexplicationem inprimisuoces significant, adquodsignificandumnouos
referriut sinem supraretulimus. Nunc ade aquæ adduce rumnominum inuentorim posuit.hic
autem ad remexpli candamuoces consticuit.id.n. deuerboconsiderans Aril. & manifeftansuerbumfignificare,approbat,quiacóftituit
intellectu. seduoxprolatahoministunc conftituit,&quie
(cerefacitintelle&tum.noncumadcóceptum:sedadna
turamhumanamdeducit.ergouoces,& nominatanguls timum
fineminprimisintentumresexplicabunt.licetins termediisconceptibus:prætereaprimoelenchorumpris
banturexArift.respondebo.nonfolumquerendumquid philofophusdicat. Sedquidcouenienterrationi&
sententiæ suæ uere opinetur audiendum. Hunc enim in modum. Aristoteles Intelligimus
(quæscribuntur, suntnotæeorumquç inuoce).i.confilii&arbitriiinuoce.quæsecundointelle
&a& conceptusresexplicantesdicuntur.Sicinterpreteris quæ
exArift.adducuntur.(quefcribuntursuntlignaeorü, quæinuoce).i.explicant(cum voces
defuerint) ea, quçex plicantur per voces, quarumuice fungitur.immediateer go uoces,sednontanquamultimum
&extremum,quod mo,uocum finemdeclaransArist.ait:quoniamresaddil
serendumafferrenonpoffumus,utimurnominibusloco rerum :ad explicationem ergo
rerum ,cófideratiouocum referturnonconceptuum,utfinemulcimum.Amplius.4. idemopusexercetcumeo,
cuiusuicemgerit, utdeconsu metaph.28. ratioilliusrei,cuiusnomeneftfignum,defini
tioeftuoxigiturreiperdefinitionemexplicatæ,fignum dicetur.Itemteftimoniofenfuum
confirmatur:quorum clara& certaiudiciasunt, eorumquærationeetiamiudis
cantur.Ad quidenimtam diu expectamus, flagitamusuo le, rege et pro-consule, siue
proregein vollendiscontro uersiis perspicuum est. Scripta autem uocum uicem
exercent. Idem ergoextremum significatum habebunt.expli cationem, scilicet,
conceptarum rerum. Amplius literarum inuentor, ad rerum explicationem direxit, &
Auer.ait(cri cum interpretationem: nisiueriinueniédigratiainrebus,
pturassignificareuerba,ideftfinemedio&fignificatauer
quascognoscere3[cireftatuimus:I denimuolumus& borum,cumforte uocesdefuerint,hæcdequestionibus
ardemusdefideriotangextremum. Adhæc.ficonceptus
suntinftrumentaipsarumuocum.utadrerumnotitiáme diisconceptibusducant.nó igitur
ultimum & extremum que verum ad b u c est. Signum autem huius est, hır c o
c e e ruus enim aliquid significat, fed non dumuerum aliquid, -uel falfum, finonuelese,uelnonesseaddatur,uclfine
pliciter,uelfecundum tempus. Estautemquemadmodum inanimaaliquandoquidem o
falfum . Nomina quidem igituripsa Q uerba consimi liafunteiintelligentiæque
estsinecompositioneo diuie suimus,&rationibusacsensibus,rationemconfirmatibus
fone,uthomouelalbum,quandononaliquidadditur:nes
approbauimus.Pugnabispoftremo,fiuoces,mediiscon
queenimfalfum,nequeuerumadhucest. signumautem ceptibusexplicationem rerum
efficiunt:cum immediate bus ueritas& falfitas inuenitur, hæc autem cnceptus
sunt, non res ipsę. respondeasuerum & falsum inconceptibus, ut in rerum
fimilitudine inueniri :quæadipfarumuerará
rerumcognitionemrefertur.ueruminrebuseft,utincau
fa.inpoftprædicamentiscap.depriori& infinehuiuspri m i libri.itap
attributiue.i.per attributioné & collationem
adres,ueritasinconceptibuserit:uereautem,utincausa, inrebus. Dicespropterquodunúquodątale&
illudma césrefertur,ueasciaadmanusartificum:quodsuprapor fignificatumnon ab
organo sumi oportere:sedultimo explicare conftituunt.nam quod uicem alterius
perficit, dum uerumaliquiduelfalfum;sinonuelesseuel noneffe fatis , ac principale
fignificatumuocum dicétur. Etfiobiicietati quidem
intellectusfincuero,uelfalso,aliquandoautemcuiiam
quisArift.textum,quemretulimus. uocesprimumsignis
ficareconceptus:intelligasfinemedio alio.non tamen,ut
necesseesthorumalterumineffe,ficetiaminuoce.Circa
compofitionem.n.odiuifionem,eftuerum ,o falfum.No ultimum & extremum
significatun. Nam uoces dicuntur significare conceptus, ut rerii sunt
similitudines.utab ipsis rebus conceptus uenisse ad intelletum dicamus, quas
nouissime, ut finem et ultimum intermedia sconceptibus per voces clariores
NOSCAMUS. Nec secundum eorum argumentum concludet. Voces ea in primis ut finem
significare in quis mina igitur ipsa et verba consimilia sunt ei, qui fine come
gis. Si ergo voces, mediis conceptibus, explicantres, igitur uoces magis et
inprimis conceptus, qresipsasaperient. Dic Aristoteles locum ualere in causa principe.i.principali
non iuuante tanquam instrumento, quomodo conceptus aduo intellecus et cogitation
fine ucrouel falso, aliquando autem cuiiam necesse estalterumhorum inesef, ic,etiam
inuos ce.Circa compositionem enim et divisionem estuerum conceptus, ut accidentia
denotent, nunquam substantiam explicabunt. Paucis, ut supra, respondeas,tocum
propria addatur, uel simpliciter uel secundum tempus et extremo fine intent. Quod
quandoq substantia quando g accidens appellatur. Huic veritati Alexander et
Themistius ascribunt, etc. Ammonius non dissentit. Secundo quæs ritur, an scripturæ
fiue quæ scribuntur, tanquamultimum Magentinus hunc in modum Aristotelis.textum
cum præce denticonne&tit.cum duo sintinueftigata. Primiiquonam modo nominis
& uerbi signification intelligenda ellerutrum TEX. BOETHII. Est autem, quem
ad modum in anima, aliquando positione, divisione est, intellectui. Ut homo , uelale
bum, quando non aliquid additur, neque enim falsum. Ne huius est, quia
“hircocervus” aliquid significat sed none E hæc duofineab
Aristotele, pofita, caulam & finem curitapo ratiocinatur. Quem ad modum in anima
intelle usquando fuerit, non declarant :ut.l. quid nominis partium definir
tionis nominis,& uerbiorationis, enunciatiuæ tang præs cognitionesponag
ntur. Alterum etiam secundodicúrey fello. Non et enim videoubiinueftigauerit
Aristotele inquibus verum et falsum inveniretur. Quod nucquoginueftigare
constituat. Itempugnantiacum Ammon. dicit. aitenim
inanimaeftquandoquerumautfalfum.&itaprobatio Ammonius .per hæc
utilitateinad inftitutæ commentatio , effet minorisibi. Circacain positionem. n.intellectus&
di nis propositum tradi.cum. C. verum et falsum sit in mentis
uifionemeftuerumautfalfum.}conclufioutclaratuncre
concepribus&uocibusutsignificantibus,&quodnúcdo linqueretur.ergoitaeritinuoce.seduerearguitexhypo
cetphilosophusnoninhisfimplicibus:sedcompofitisue theli, nonpotentiacathegoricosyllogismo.nam
cumpos rum&falsumspectari.nonnominibus,nisiutperoratio
fitionemquodammodoignotammanifestet,nonfyllogir n e m enunciatiuam a firmativam
coniunctis, vel per negativ uam diuisis, ita gnó in quit hæc quæ diximus
Aristotele docuif m o arguit. Ex quo aliud ignotum natura concluditur, sed ex hypothesi,
ut diximus.& infradicemus. Prætereaut Commen & Ammonius asserunt.ibi{circacompofitionem
enim & diuisionem}non minorem .sedapprobationem
uniuspartisantecedentisapponit. aliquádointellectus
cumuero&falsofit.signumestparticula{enim}quæcau sam
propositidenotat,fcilicet quia uerum & falfum sunt circacompositionem, id
est affirmatione,quaaliquid cum falsum in compofitione et divisione sequuntur
intétiones se:sednuncdocere&inconceptibus&uocibusutsigni?
ficatiuis,falsum & uerum fpe& ari,dum coniunguntur aut
diuidunturnonpersesumptis.Addeex Amm.hæc Aris. nuncdocereutalteramorationispartemantecognoscat.
DicesproMagentinoillaquædixit,ab Amm.ferèaduer bum
fuperioritextusumpfife.cuminquit(cumhæcitaq percaquæ
nuncdicunturtradentur.Iuocesessesignificati was rerum mediis conceptibus:tum
uel maxime quibus in rebus quocunq; fuerit m o d o ueritatem ac falfitatem
scruz tariconuenict)C.inhoctex. Addés ueroquçintextusupe intellectus.i. sunt in
anima,sextometaph.8.ergoeruntin riori confideret ait.(de quibus in præsentia
nobis perpen uocibus seu uerbis significantibus ipsas conceptiones ,ut fioest. Utrumin
rebus anmentis conceptibus, an uocibus, Comen. animaduertit. Exhis declaratis etiam
patet,q in aninquibufdam. harumduabus: anetiaminomnibus.
telle&usfitaliquandofincueroautfalso,idq;tangexsuo fiinuocibusqualibushisscilicetcompofitis.nonnomine
& uerbo& prædicamentis,itaincompositisconceptibus qui caufa funtlocum, noperleinsimplicibusneccompo!
fitisrebus) Sed animaduerte quod dixerit(nobisperpésio
uisionez.i.lineueroautfalso.hæcexemplomanifeftatsubs inprçsentiaeft)quod tamen
inferius considerabit.neg dicitab Arifthæcquæ ipse
perpendit,inueftigata.nec'ait InueftigasseAristan significationominis&
uerbisolī,pen deatexuocetantum,anexintelligentiauelrebus:sedquo
cunq;fueritmodo,inhisueritas& falfitaseft,utexplicátis
businftrumétis.hacenimrationeresipfasabiecit.adquas
famenutextremum&finemultimumexplicandas,uoces
tere&nonadmittunt:ergonecdequominus:nistuery & conceptiones animæ referuntur,
q siquispiamhęcquæ bum effeaffirmatum, aut non effe negatum addatur. fim eft fine
uero aut falso, quando cuihorum alteruminesse necesse eft, ita& in uoce: hoctotumeftpropofitiomaior,
affumptio&minoribi.circacompofitionemenim&diui rionemestuerum&
falsum ,&noncircasimplicia,itaergo eritinuoce.Sedcótra:quiaminorhæceffedebuiflet:fed
aliocomponisignificatur,autdiuifioné,idestnegationé,
quaexplicaturprçdicatumasubie&todisiúgi.& uerum &
oppositoperspicuúutcorolarium& cófequensposuitcū
ait.{nominaquidemigituripsa& uerbaconsimiliasuntei intelligentięfiueintellectuiquiestfinecompositione&
di ftantię& accidétis:hominis.C.&albi.utexhisomniaalia prædicamenta
intelligatur. quando.n.his non aliquid ads ditur, fcilicetuerbumprædicatumalbumcumhomine
suz biectoconiungens,nequefalfumnequeuerumadhuceft. Hoc denominehyrcoceruimanifeftat,nanquehuiusinor
di compofita nomina uidentur uerum aut falsum admity
exvocetanti:m,autsolaintelligentin,anexresolumuos ex Anmonio dicimus non probarit,
inutrunqzfitdi&tum. Cesitemper animi sensus rerum elleinterpretes.Secundo inquibusuerum
&falum inuenireiur.quòdnunequoß
idoftendendtiArist.proponit.fedutrunchiltorum reiicio. non
eniinfuprainuestigauit.Sedpofuit,utpersenorum, S.Tho. dicitq postquam
tradiditordinem significationis uocum, hicagitde diuersauocumfignificatione:quarum
quædam uerum & falfumfignificant:quædam non.Sedli
cetuerumdicatur,utdeAmmonioreiulinius:tamenfine
nomina&uerbafignificatiuaefle,cxhocpeaquæsuntin
cuiusgratiaistaponantur,fubricuit:Licédumigiturcum uocefuntfigna&
notæsignificantespassionesnullomes diointerie&o,hisautem mediis, tanquam
ultimui ,res explicare.prçterea non uideo ubi inuestigarit,an nominis &
uerbifignificatiointelligendaessetexuocetantum,aut
intelligentiatantum,autexresolum:fedhocposuit(funt
uæ,quibusetiamdifferebantabaliis:nuncuelleconstitue quidem ergoquęfuntinuoce
&c.utsignificatiofumatur non exuocetantum,nonintelligentia,fedarbitrio,cogni
tione, et CONSILIO et imponentium
consensu, quem in uoce refeuantecognosceredifferétiam, quaoratiodiffertano
mine&uerbo:&quaoratioenunciatiuaaboraroriis8C
poeticisoptantibus&c.separatur.& quoniamquępones reoportet,&
antecognoscere,utpersenota,nõnisialiquo facili instrument innuidebét.nullomodo
demonstrari. proptereaexfimiliseuhypothefi,&cóceflo,acpofitotery
expaétione& confilioreliquerunt.acuociperattributio
nédederunt,atnullamentioeftfaétaderebus,anabeasu
mendaefletsignificationominis,& uerbi,quoniammaxiy m u m esset
ignorationis,ac inscitiæ in Arift.argumentum , firem tam perspicuam ,nec
dubiain pro occulta quæliffet tiam definitionis partem & differentiam
manifeftat.cũ inz quit.(esid..)ubi, ',proenim Magentinusuertit.utcaus sam hicassignareuelit.utAmmonius
&.S.Thomas dixerút, acdubia.cuieniniuelrudi dubium uideretur,nomen &
uerbum (quod ut organum & instrumentum significat)a-
rebus,inftrumentisignificatiui&Organicognoscendialte rum ,significationem
habere,cum tantü significentur,& nul lomodo significentine ignificare&
explicare,utorgas num logicum uideantur?Item ea significatioerat nomio nis&
uerbiponenda,quæutpræcognitiopartium defini tionisadeacognoscendadirigeret.hæcautem
eftuoxa de quo nuncdifferemus.aitergo deantecedentesyllogiss
miexposito.{ficutuelquemadmodumenimeftinanima intellectus
cogitatio,intelligentia.(vóruceenim ifta signifie
cat.)aliquandoquidemsineuerouelfallo:aliquandouer rocuinecesseesthorum
alteruminesse.}Exhocposito & notioriantecedenteinfertquodammodoignotumin
choantibusconsequens.(ficetiam& inuoce)utsignis& notis conceptuum
erit,aliquando sine uero uel fallout in nominibus&
uerbis,aliquandocuinecesseestiamhorum alterumineffe:utinorationeenunciatiua,Suellaueroita
pofitione fignificans,non res tantum significata:a uoce er go&
intelligentiainvocerelicta,8Ctributafiueattributa
lignificationominis&uerbipident,noarebus.Amplius: Suela (nam licet fupra
male textum Arist.declararit Sucr sa,nuncueritatecoaausidem
dicitquodnosinexplicans do philofophodicebamus)pofitisduabus partibusdefini
tioniscómunibusnomini& uerbo& orationienunciatis pliciter, efle,quamartemutexemplar,adopuseffin
latenus (incaliquiduocum: neceorumquæ in uoce,nout gendumexteriusafpicit,qopusexartenotioriinmates
finis:cumconceptuspriorfituoce& ueritatequęinuoce
confiftit:nonutagens.quiaresagensest,aquaoratioues
taautfalsauocatur.sednondifficileestAmm.&.S.Tho. sententiam& opinionem
,aSuessæargumentisdefendere. primum, absurdumaffirmat. Conceptus non tangformam
ficant: quiinvocetangartificialimateriarelinquütur:quo
esseueriautfalliinuoce,cumnecaliquidfintvocum,nec
cumuiuocessuntnotæ:Exhisrespondemus:rationem eorum
quæsuntinuoce:Peroenimabeocumsupradixe ritArift.eaquæfuntinuoce&c.nonnifiarbitrium,&pla
citum, cogitatiointelligitur: ut ipse metcum locum interpretans, opinatur: ergo
conceptus est aliquid existens in voce, non utopus naturaleest,sed arte.i. uoluntate:
confi&um . Itemipfeconfiteturuocemsignificatiuam,communeges nusnominisuerbi&orationisenunciatiuęuocari:nõuo
lessuntsimilitudinesrerum.Seddicessecundomenunc cé,utnaturaleopus. ergoutacognitione,
imaginatione pugnantiadicerecumhis,quæanteacontraAnimo.Boe
uoluntariaeffi&taeft:utsignumfitadaliudextraexplican thium,& Scotum diximus:
orationen dariinméte& no dum relatum:Etfecundodeanima90.Averroes et Themist.
tioremesseea,quæinuoceconfiftit.Diximusadhçcartis fumentes ab Arift.asserunt:essentiamuocisinterpretatis
inuentoribusueliaminuentamdocentibus,ineodem no efle percussionem aeris anhelati,
ad membrum quod cana tioremesseartem, acconceptionescūuero& falsoinani
dicitur,abexpulfioneanimæimaginatiuæuoluntariæ:&
ma,quamexteriusopuseffictum:ficinpropofito,excong
infraqinessendouocemnecesseestutpercutienshabeat ceptibus rationem coposuit, notioribusapositionesignifi
animamimaginatiuam,8tuoluntatem:effentiaergouol
catis:quiquodammodonotiores:utindu&ionesensata cispendet
abipsoconceptu& placitoreliétoapositione patet.infraenim
se&ionequintaexoppositionemaioriin inuoce,tangforma:&uox (uropusnaturæinterpretans
mente, explicatitae! Tein uoce: Item placitum eft caufa, a placito) abanimaetiá
,tangagente, depédet:nam 87.& 90.secundo de anima.percussiorespiratiaerisad
uocala arteriam ab anima (quæinhispartibus) uoxeftutefficien tecausa.hincCómen.inprincipiocómentiait.(oportet
igiturutpercussioaerisanhelatiabanima,queestisismé
præcognitionempartistertiędefinitionisratiocinatur:no brisadcannam, fitilludquodfacituoc@)&inmediocom
igiturdemonftrationemeffecit.quæadnaturaliterignos menti:(primum enim
mouensinuoce,estanima,imagina tiua& concupiscibilis:& ideouox
eftsonusilliusprimi uolentis& mouentis.)Etq etiamdicipofsitquodammo
dofinisuocum, perspicuum est ex his,quæ fupradocuio mus: fine muocum effè eriam
res conceptas: namorgal na ad eorum opera ,tang finem &
ultima,diriguntur.pris mo topic.9.cumnonpropterse,sedpropteralterum exo
petantur:seduocesfignafunt& notæ conceptuú,adquos
explicandosreferimus:finesergomedii,licetnon ultimi tumdir igitur. Secundo post.primo.necillam(utperitus
ad rem per se nota efficere potuit. ne ipse suampręcogni tionum artem
confirmaturusexperimentocontrarioinfir maret.Itidemminimeconsecurionem
ualeredicimus:ra tioexcaufiseftnotioribus,ergodemóftrationempropter quid aut
simpliciter constituereaffirmabitur.quoniam alte rum& pręcipuum demonftratiodi&arequirit.utadigno
tum naturaliter dirigatur, non ad pręcognitionem ponendam, utpersenotam :nam
primopofte.2.veręetiàdefis uocabuntur:Exhisfacileeiusrationibusrespondemus.
nitiones,quidtantumnominisnonuerædefinitionisuim haberedicunturabAuer.utpræcognitionessunt:ita&fi
hæc præcognitio ex caufamonftretur,nonutdemonstras tiua, fedutexfimiliaccepta,&uisa,
&alibideclarata;pros ptereatopica potius,quàmdemonftransuocanda:noto pica,o
fitdubia,autfalfa,immouera,sedhicacceptaalig biuisaphilosopho,&
hicpofita,utcredita:dequo latius ressecundum
feeffedicantur,nótamenapudeosquicon ceprus& res conceptas ignorant:adquarumexplication
nem,utultimum,referuntur. Adtertiamdeagentedico: inquit)exAmmonioait. Primo quiahæcconfi&anomina
rem , agensremotumuocari: aquo intelle&us phantasticus falsum significare uidentur:
ut.S.Tho.ait.Sedcótra.quia fimilitudinéabftrahit:sedanima,utnaturaagens,uocem
ab Aristotele dicitur (fed non dum uerum aut falsum signifi interpretantem (tang
operationem propria mefficit, &lo cant. Nifi effe aut non effe addatur): ergoutrunquefignis
gicotradit:cuilogicuspropriumconsiderandimodum
ficareuidentur.Itemcausaassignandafuiffet,curexem
attribuens,utinftrumentumsignificandi& explicandicon pliscöpositis (que uerum
fignificare potius etiá uidentur) Ad primam ,utpatet,
intelligentia,inuoceartecong fi&tareli&ta,eft,utaliquiduocis.i.forma.Ad
secundam Q non fitfinis,nonualet,idpriuseft,ergonon finis:Deus
enimeftpriormotu&creatura,quæadDeicognitionem deducunt,utsigna& effe&taadsuumfinemcognoscenda
directa:fimiliterdicaturdeuocibus, & ficóceptusprio riaexternareli&um
:manifeftumeftargumentumqdixit Arist.nonuoces:sedeaquæsuntinuoce,suntsignapass
fionum&conceptuum,utnaturaliumsimulacrorú&res rum fimilitudinum.i.cóceptusapositione,(utratio)signi
exfimilinotiori,& fuperiusabArif.pofito,exlibrisdeani maprocessisle:
ficutinanima eftaliquandointelle us fineueroautfalso,aliquandocum horum
altero:ita& in uoce:&deuero& falsoloquitur(utAlex.& Ammo.ac
cæteriboniexpositoresaffirmant)orationisenunciatiuæ, &
denominibusfignificantibusaplacito,nonutnaturas
quamobremuocessignificantcúfiuntnotæ.Necproptes reao
conceptusutcaufedicuntur.quosnomina& uoces tanquamfigna&
effetusimitantur,afferendúeftArif.des monftrantem rationem efficere:namhich ypotheticèad
Deoda nieprimotopic.dicemus. QuæruntcurArift.fis
&aprotulitexemplapotiusquàmuera.Sueflasumens(ut pliciter,quod
præsentis efttemporis .aut secundum tome pus.i.præteritum&
futurumutCom.explicauit. De Am moniiexpositionedicemustunc,cumaddubiaresponden
bimus. QuæritprimúSuessa.qualisnam ratiocinatioAris. fuerit(quéadmodum
inanimaquandoqintelligétiafine ueroautfallo,quandoquehorumalterumnecetleeft in
esse.)respondet.S.Tho.& Ammo. intex.præcedenti,nes liderat,accognoscit: Respondendum
ergoest(uteftdig &um )Arift.exhypothefileu positione,& ex fimili notion
riprocedere: quod (quemadmodum) particuladenotat. dum asimili: sedacausaquamimitatureffe&us,proceder
re.namAmmo.ait:circaenunciatiuamorationemquæ quæsupraetiam Aril.poluit:namproptereauoxfignum
exillorumcomplexuefficitur, uerum et falsum spectari.
¬aexteriusexplicansdicitur,qapositione&intellig ante voces quoq; hæccircaconceptuscósiderari.utqui
causæ uocuinlunt,aquibusconceptusfimplicesfineueris tate, & compofiticum
uero & falsodefignantur & declas tantur: Responsionem improbat Suelta: quia
conceptus non causaueriautfalliinuocetangformasunt:cumnuls duftioncperspicuum
eft(utAmnioniusanimaduertit)no tioremartem Seddices ratione inaliniilieffe&tamexignotisconcludes
re,nanieaexquibushicratiocinatur,extertiodeanima 21. infrasumuntur:hæcautemtanquam
ardua,& inchos antibus difficilia,utphilofophus,& relinquendasupra
nosmonuit:Satishuicrationifaciendumarbitrorexhis, gentiaatqzarbitriopendet:ineo
presertimartific equivoces impofuit: uel ab impositis et Gibi notis nominibus,
regulas logicæ docet:in mente enim artificis& docétis ing E ii
quærimus, ad que causa hæc nondirigitur. Tertio dicit: ut
quçinintelle&usuntfolo.sednefcioquçueritasdicipót,
cuinihilextraresponderinre:cum infra& inpoftpredi camentisdicatur.abeoq
resest,uelnoneftoratiodicitur uerauelf alla remota aūt causa et prima radice, ceterade
ftruinec effe eft. Item Aristotele de vocibus loquitur. Propterea mihi hoc libet
dicere. Hac de causa fiais exemplissuasen tentianicomproballe,o fi&aamer a
positione significant: & ideo magisobuia&
perspicuaacconsuetafuntadexpli candum: utquodámodonotiora,utmagisuulgata,exars
omnemueritatem haberiin compofitione& diuisione.ne excludatur ueritas apud
Platonem in intelligibilibus,& in telligentiisfiuemenubus,& apudArift.desimpliciuming
telligentia et abstractis: fedeam que in pronunciatiuissubs est motibus, scilicet
cum discursu: seu ratiocinatione: quæ perenunciatiuam
fitorationem.&inniotibuspronuna ciatiuis,non invoce solum (intelligas) exiftentibus:fices
nimtextuiArift.& eiusdillisaduersantiadiceret.sedetia ne&diuifionefalsum
& uerumremouerineceffeeft:pro ptereaergodixit,(circacompositionem at causam
noia ret:sed ad nomina in uoce descendens ait:(non significare uerum, aut
falsum): significare enim proprium eftnomi num, quæinuoceacompositionesignificanteconfiftunt.
PetitAmmonius quomodo uerum fit,circacomposicios innueretueritatem non in rebusreperiri:fedinhisetiam,
nem et divisionenelle uerum et falsum. Responder non nonutitur: ficut utiturhis,
quæ falsum significare maxime affirmantur. fecundam causam adducit: utinnueret,
non solum nomina simplicia ad ueritatem explicanda indiges reuerbo sed etiam
ipsa composite. Sed idem est dicendum de nominibus compositis ueris, nosautem de
fictis proprie non bitrio plurimorum: exhistamenfi&lisnominibus, aliaue
ca intelligendasunt. exempla autem innotescendi gratia inuenta, exuulgatis&
consuetistr ad endafunt et lificadi cantur: quibustaméuerum facilius inueniamus,
autinuen tum facilius doceamus: Petit Suella cur Aristotele.dixerit conpositionem
significare cum uero et falso, non autem significare uerum aut falsum i
respondet, hoc differreinter significare uerum et significare cum uero:quias
ignificare ueru potest uere in nomine simplici inueniri:u.g.hoc nomen uerum aut
fallum, simplex verum significat.i. se ipsum: sed significare cum uero,eftfignificare
cum uerbi complexu ut de uerbo dicetur, significare cum tempore, notempus: ut dies
et annus sedlicethęc dubitatione relinquenda foret, cum id quærat,quodinArift.textunoneft:tamenneaus
inmotibus pronunciatiuis, ideftquicaufafuntutper enung ciatiuam orationem pronuncientur,ueritasergoquacon
ditorum ingenia, obuiriau&oritatem fallantur,ponere& cipitur,aut
enunciatur aliquid ineffc alicui,folum circa con pofitionem &
diuifionemeft,utspeciesorationisenuncia tiuæ.dixieam ueritatem
circacompofitionem elle,quæ concipiturinmente ,uelexplicaturinuoce,&
quaprædiy catuminesse subiectoaffirmatur:quoniam primotopic.4, loca accidentis
propriè dicuntur,quibus potentes fumus concludere hæc alteriineile:& ideo locaeducentia
uerum enunciative propofitionis dicuntur loca accidentis et veritatis qua aliquid
alicui in esse concipitur vel explicatur:Sci scitatursecüdoAmmonius cur
Aristotele dicens (nomina igitur et uerba consimiliaíunteiqui sine compositione
et divisione est intelleclui exempla protulittantum nommun, non uerborum
dicens, ut “homo” vel “album”. Respondet per hominem nomen: per “album” verbum fumpfiffe:
non eata meninquitratione, qua verbum proprie inferius definitur. Sed quia
Aristotele statuit, omnemvuocem quæt erminum prædicatum facit, verbum appellanda.
Sed responsio hęc improbandauidetur:primum q Arift.nondieetinfraprę
refellereconstitui:non.n.Aristotele dicit compositionem cum uero aut falso significare:
sed ait circa.n. compositionem et divisionem elle veritatem et falsitatem. Item
de “hircoscervi” nomine afferuit. “Chircocervus” aliquid significat, sed non dum
uerum aut falsum) denominibusergoopposiy dicatumu erbum appellandum fore: quod fictiam
dices tum dicit eiquod Suellafingebat: nomina non significare ret, exemplum
albiquod posueratantea, adexplicandum uerum aut falsum, sed significare sine vero
aut salso:Eiusery uere uerbum, inutile videretur:Aliter igitur responden, gore
sponfioin textu Aristotele.infirmatur, cum denominibus dum. His exemplis dicta inchoantibus
comprobandaque compositis neget significare verum aut fallum: differentia etiam
abeo assignatauerbis Aristotele, adversatur Ampliu snec potuisset Aristotele dicere,
compositionem et diuisionem verum significare, na in compositio.i.affirmatio et
divisio.i.negay cumuerbonominibus:tamenutnotaprædicatumcuin ciosumerenturinuoce.quoinfradeorationeenunciatiua
dubieto connectens, dubiumfaciunt, anuerum&failum dicetur. Litoratio significans
verum vel falsum, &inqua fignificent, signum est. Ammoniusetiam tanquam duy
eftuerum& falfumutinfignoexternosignificante:nam oratio in mente, non significate
positione, ut hic intelli, bium quærit de uerbis primæ et secundæ personæ
“ambulO”, “ambulaAS” et in quibus tertia persona et certas statuitur. Git
signum est opde nominibus fimplicibu s& compofitis, line uerbo, intulit
dicens nomina igitur ipsa auteur bacó similia sunt fine compositione et divisione
intellecus. lt homo et album hircocervus quæ et si aliquid simplex significent,
non dum tamen uerum aut falsum hæc autem nomini in voce sunt, noninmente:
quiafiutinmēte essent, ut ningit. quæ veritatis et falsitatis videntur capacia.
Licet nonperfe,fedcomplexuhorumuerborum cũcertispery fonis.nonitadubium eft de nominibus,
dequibusinse acceptishæstat nemo, an veritatem significant aut falsitatem: Quærit
nouissime Ammonius quid intellexerit Aristotele. Per simpliciter, uel secundum tempus
cum ait. (hircocery considerentur, non dicerenturno significare uerum aut
falsum et q effent fimilia intellectui fine compositione& diy uifione: quiaessentipseintelle&us,seuintelligentiafineue
roautfallo:Dicédumigiturinquestionempotiusuerten dumcurdixerit.(circac
compositionem.et divisionem, ut inmentesunt, est verum et falsumj denominibus autem
in uocecorolarieinferens,ait:(fineuerbonondum uerum uusenim
aliquidsignificat:fednondum uerumaliquid
autfalsum,finon,ueleffeuelnonesseaddatur,uelfimpli citeruelfecúdumtempus.) respondet
sermonem Arif.ad eadem referens verba, inquiens: nifi effe addatur fimplicis
ter,ideftnisi effe addaturindefinite& indeterminate significans: ut “Fuit
hircocervus” est, auterit. Non definiens, ac determinansan hodie, sero, anmane,
perendie etc. vel aut falsum significare. Ad quod respondendum, quod fecundum tempus,
ideftnifiaddatur cum aliqua determis propterea vox quando
eftfineuero&fallo, quandoque natione tempori addita præsenti, præterito, uel
futuro, cum his, quia circa compofitionem & divifionem intelle, sciliceterat,eft,erit,herianno
superiori,hodie uel cras, & us eftuerum & falfum :ex quo intulit de
nominibus in autsuccessiuotempore.quam tamenexplicationemaci uoce,gfintfine uero,
X fallo ex eadem causa, pfimiliasing intellectui fine compofitione et divisione:
circa quæuerum cipiens Magentinus uel in latinum vertens non intellexit:
cumpereffef smpliciter et omnino, in,finitoacdetermi & falsum uersatur, ut caulam,
quaposita, uerum aut falsum i ponitur. & hac remota (ut in nominibusfineaddito
uery natotemporeintelligat. Ad tempus uero et in tempore infinito.
tragelaphuserat, uel erit, hęc.n.infinitafunt: fed bouidetur, quæ fimiliasuntintelligentięfinecompositio
eft presentist emporis, aitdefinitumelle:l iceteft,utdeDeo facilius conftitutamfententiamapprobant:uerbaautein
(utdicetur)quandam compositionemsignificant,quam licetexsenonhabeant, sed exalio,ex
compofitis,fcilicet dicitur infinitum significet: Idem.n.Deus,erat, &eft,
sed in aliis rebus, tempore non definite utimurita. Hinc liquet, igitur erunt: quæ&
fiacu& explicite uerbii, prædicatum et subiectum ut nomina non contineant, illatameneximigit,
ergo& hic per tempusdimpliciter, tempus præsens, 8C per secundum tempus præteritum
uel futurum: quæ pros ptereanuncupantur & lunt, quere tempus prælensciry
cunstant, iuxtas; ipsum ponuntur: propterea dixit,(secun significat, quemadmodum
in oratione quaestequus ferus. Ofitis & precognitis partibus definitionis nominis
ac nunc ad definitione sponendas integrasactotas accedit: sed Ammonius quęrit cur
primo de nomine äde verbo definis dumtempus) quodnonfimpliciter& ina&ueft.
Sedquod .tionem assignet? respondet, proptere a nomen uerbo esse præteriit uel
futurumest: solum præsens simpliciter & in actuest.utre&te. S.'Tho. exposuit:
Nec Sueffe confutatio ualet,& quęliberdifferentiatemporisefttempussecundu
quid:quoniamperaliquidabaliisdifferétiisdiffert:quod autemperpartemeft, fecundumquid,
nonsimplicitertas antepositum , qnomen subftantiả.i. naturam et vim rerum
significat: uerbum uero a&ionematqzaffetioné, quænel Cellario naturam
acuimmouentem supponit. contraarguit
Sueffa.substantianonnisiperaccidentiacognofcitur,prius
ergouerbumdefiniendumqnomen:Ad instantiam,Am Icessedicetur: primoclenchorum.4. Sedĝfalla
hæc fit monius facile diceret substantiam cognoscifinedescribir improbatio patet,
quiaens, cuminsubftantiamens simplisciter diuidatur& accidens, inaĉtumfimpliciter,&
potens tiam secundum quid, nequaquam uere diuideretur: quia per aliquid differ substantia
ab accidente et potentia ab aétu, &fipropriedifferentiamnonhabeant.Itemratiofal
lit.lihęcspeciesperaliquamdifferentiam (acuprecipue) differt, rrgo per partem.igitursecundum
quid. accidentiautpofteriora.accidentiavero per substantias definiri, ut priores:
fic.n.Aristotele primonaturam .2.phy.quá
motumfiniuit,aquamotus,utperseprincipio,prouenit: & materiam primo phy.81.g
formam .2.phy.2. quæ a materia cuiu nitur& datellelustentatur, Aliteripse respndet,
proptere a nomen uerbo prætulisle, onotiuscft. Et iterbi
feconuenireArift.affirmauit,fedenunciationitantu:erunt igitur enunciationes,
cum enunciationispropriumopusef
fignum.sedcópofitionemacueritatemcófignificatquan ficiant: Suellanouariis
Sorticularumdi&tis& improbatis sententiis,hocuisumeft:literas&
nominaquoadprima eorumimpo fitionem, non significarenifiincomplexum , neccum
uero et falso: sedquòd quoadnouăimpositio, nem, fignificare poffunt cum vero et
falso: proptereaqapo incópofitione explicarefineadditouer bonó possunt. Dis
fitione sunt. Nung tamenerunt propositiones autenuncia cas Querbumetsi
compositionem extremorum aétunon tiones: proptereanóualereait, a, significat cum
uero aut dicat, a&tionemtamen, et affectionem significat, quæ causa fallo, ergoenunciatioerit.quoniáinquitoportetinantes
eft, qpredicatumseuappositúsubie&ofiuesuppositocon cedenteaddere.
fignificetexprimaimpofitione,nonau
iungatur,uerbumergolempereftuniocóiungens(apritu temex noua institutione. Sed contrahancaddităconditio
dinesaltem cum inpropofitionenóeft:fedcũsecundum nemexproprioarbitrio. Enúciatio
primaimpofitionefis se, acpurúaccipitur: nominauerosunt composita, seu quæ significat
propriecum vero et falso. Ego ubi est proprium apta sunt pera & tumuerbi
coniungi, proptere a nominapen opus, necessario propriumerit inftrumentum:
neq;enima dentauerbo, quasi formauniéte, & uerbiianoíequasimai nova aliqua
institutione propriú opus a proprio inftrosen teria, qunici habetp uerbum. Ut
materiaaŭt, tempore pre iungipoteft: proptereafi. a.b.c, etc. novis aut
antiquis concedit forma, & prius,utfacilius& ordinenecessitatisnos Giliis&pofitioneimpositasunt,
ad verum et falsum,seu (ut menanteafiniendu. Verbú vero, quniédafunt, prçsuppo
ipfi volunt) cum uero & falso significandú. enunciationes nés, pofterius ut
ignotius & the posterius explicandú: quas quando secundū se, acpurumdicetur.
Ipsum.n.sic purumi nullüueritatis et compositionis, aqua verum explicatur, est
dam, nonperse, sed quam sine compofitis nominibus non est intelligere. Gi ergo
hac de causa nomé præponit uerbo, q notitia verbi in compositione verū
explicantis, non pont, intelligi sine nominibus compositis. Ita et nomina,
uerum illud, quod Ammonius, tempus simpliciter & omnino, ponentium
CONSILIO coplcctuntur. Exemplo similiAmm sus ideftindetinite et indeterminate
significans, appellabat, Ma, gentinus dicit esse tempus finitum et determinatum.
Et parsticula, quam Ammo. adom né temporis differentiam rer pra, cum dicimus
"curro", "curris", nin git, pluit, complexuhorūuer borum
cúcertis intelle&is personis, cú vero et fallof sgnificant. ferebar,
Magentinus ad solum præsens direxit. falsum igir.
Keywords: logicalia, interpretatio, interpretazione, logica, signum, segno,
nota, notare, notante, segnante, notificare, segnante, vestigio, il segno
del’angelo, campidoglio, san michele, vestigo, etym. dub. ves-stigium, foot-print.
– segno naturale – segno, genere e specie – genere: segno. Specie: segno
naturale, vestigio, marca, nota.. segno artifiziae, segnar per posizione,
arbitrio, a piacere, consilio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Balduino” – The
Swimming-Pool Library.
Banfi (Vimercati).
Filosofo. Grice: “What I like about Banfi is that he is more ‘important’ than
it seems, at least to Italians! He has written bunches, but my favourite are
two: his ‘l’interpretazione’ (Banfi makes a distinction between ‘esegesi,’ ‘interpretazione’
and ‘TEORIA dell’interpretazione,’ in a slightly non-Griceian use of ‘teoria’ –
and his essays on ‘eros e prassi,’ for indeed the second strand (eros e prassi)
is the base for the former (interpretazione): unless you CARE, why interpret –
which is indeed, a performance?!” -- Antonio Banfi seenatore della Repubblica
Italiana LegislatureI, II Gruppo parlamentareComunista CircoscrizioneLombardia
Dati generali Partito politicoPartito Comunista Italiano Titolo di studioLaurea
in Lettere UniversitàUniversità Humboldt di Berlino ProfessioneDocente. torico
della filosofia, traduttore, accademico e politico italiano. Fu sostenitore di
un razionalismo aperto e antidogmatico in grado di attraversare i vari settori
dell'animo umano. A lui è intitolato il Liceo Scientifico con Sezione
Classica Aggregata del suo comune natale, Vimercate. Antonio Banfi
nacque a Vimercate, in provincia di Milano, in un ambiente familiare formatosi
su principi cattolici e liberali della borghesia colta lombarda, nella quale da
generazioni combaciavano una moderna e positiva idea del cattolicesimo e un
razionale illuminismo tecnico-scientifico. La ricca e vasta biblioteca in
possesso della famiglia diventò per il giovane grande stimolo di conoscenza nei
suoi studi, quando da Mantova, dove frequentava il Liceo Virgilio, ritornava a
Vimercate, dove assieme alla famiglia trascorreva le vacanze estive. Nel
1904 incominciò a frequentare i corsi universitari alla facoltà di lettere
della Regia Accademia scientifico-letteraria di Milano e ottenne, dopo quattro
anni, la laurea con lode, discutendo (con il relatore Francesco Novati) una
monografia su Francesco da Barberino. Incominciò a insegnare all'Istituto
Cavalli-Conti di Milano e contemporaneamente proseguì con grande determinazione
gli studi di filosofia (con Giuseppe Zuccante per la storia della filosofia e
Piero Martinetti per la teoretica); il 29 gennaio 1910 prese la seconda laurea
in filosofia, discutendo con Martinetti una tesi intitolata "Saggi critici
della filosofia della contingenza", contenente tre monografie sul pensiero
di Boutroux, Renouvier e Bergson. Con la borsa di studio attribuita
dall'Istituto Franchetti di Mantova ai laureati meritevoli, Banfi decise di
andare in Germania e iscriversi, con il suo amico Confucio Cotti, alla facoltà
di filosofia della Friedrich Wilhelms Universität di Berlino, dove strinse
amicizia con il socialista Andrea Caffi. Nella primavera del 1911 ritornò in
Italia e partecipò a vari concorsi, ottenendo una supplenza di Filosofia prima
a Lanciano, in seguito a Urbino; per molti anni assunse diversi incarichi in
varie sedi scolastiche. Banfi conobbe una ragazza, la contessa Daria
Malaguzzi Valeri, con la quale dopo poco tempo, il 4 marzo 1916, si unì in
matrimonio civile nel municipio di Bologna. Durante la guerra, già riformato al
servizio di leva, si dedicò con senso di servizio e scrupolosa diligenza
all'insegnamento e, per la penuria di insegnanti richiamati al fronte, oltre
alla sua cattedra fu costretto a ricoprire altri incarichi; solo agli inizi
dell'ultimo anno venne aggregato come soldato semplice all'ufficio annonario
della Prefettura di Alessandria. Nei primi anni del dopoguerra Banfi, pur
non militando nel movimento socialista, assunse in modo molto deciso posizioni
di sinistra e partecipò, come iscritto alla Camera del Lavoro,
all'organizzazione della cultura popolare, diventando in poco tempo una delle
personalità più in vista del mondo culturale democratico alessandrino; venne
nominato anche direttore della biblioteca di Alessandria, da cui fu in seguito
allontanato dal nascente squadrismo fascista. Nel 1925 fu tra i firmatari del
Manifesto degli intellettuali antifascisti, redatto da Benedetto Croce. Nel
1931 Piero Martinetti, che era stato collocato a riposo d'autorità per aver
rifiutato di giurare fedeltà al fascismo, lo propose come suo successore per
l'insegnamento della Storia della Filosofia all'Università degli Studi di
Milano, dove, a partire dal 1941, fu maestro di Rossana Rossanda. Diresse
la rivista Studi filosofici, pubblicata dal 1940 al 1949. Nel secondo
dopoguerra, con le elezioni politiche del 1948, fu eletto per le liste del
Partito comunista,nel Senato della Repubblica. Il mandato fu confermato alle
successive elezioni del 1953. Il razionalismo critico Magnifying glass
icon mgx2.svg Problematicismo. Antonio Banfi può essere considerato il maestro
della corrente filosofica che in Italia si è denominata Razionalismo critico e
che ha avuto anche derivazioni significative nel campo della pedagogia teoretica
con il Problematicismo. In sostanza, usando il concetto kantiano di ragione,
Banfi la considera come la facoltà di un discernimento critico, analitico,
presupposto trascendentale che sistematizza l'esperienza, i dati empirici, non
pervenendo a dogmi o a sistemi di sapere chiusi e assoluti. Il principio
razionale permette di cogliere e comprendere la realtà nelle sue complesse
determinazioni: senza questo principio, che va assunto appunto come
trascendentale, la realtà sarebbe caotica e solo contingente ed esperienziale
oppure interpretata secondo la Metafisica o sistemi di pensiero chiusi e non
problematici come richiesto dalla scienza e in generale dalla complessa
dinamica del mondo umano e naturale. L'apertura della ragione è talmente ampia
che anche le filosofie assolutizzanti vengono poste come possibilità di verità,
seppur parziali ("È bene tener presente che il pensiero non pensa mai il
falso in modo assoluto"). La filosofia è lo strumento indispensabile per
l'analisi critica del reale, non deve tendere a un sapere assoluto, ma porsi il
tema privilegiato della coscienza, purché questa coscienza sia "coscienza
della relatività, della problematicità, della viva dialettica del reale".
Si sfugge al relativismo possibile seguendo le orme di Socrate: l'eticità
prevale quando, non potendo esistere se non come tendenza verità assoluta, le
verità relative sono assunte come problema, cioè come ricerca interrogante e
incessante fondante l'intero processo conoscitivo. Le conclusioni sono, come
nell'ambito scientifico (la scienza è lo strumento pragmatico della ragione, la
filosofia lo strumento teoretico) non false ma possibili, non solo provvisorie,
ma reali. Le categorie che Banfi propone per sintetizzare la sua proposta
filosofica, sono quelle di "sistematica" del sapere, fondata su un
significato antidogmatico della ragione, una "sistematica" aperta per
il rinnovamento critico di tutte le strutture razionali e di un umanesimo
nuovo, radicale, che ponga l'uomo al centro dell'indagine razionale e nella sua
realtà storico-effettuale, che forma la sua coscienza concreta nel mondo reale:
dunque critica alla metafisica ma necessità della filosofia, il sapere
costruttivo garanzia di libertà e concretezza. Il confronto che Banfi predilige
è con gli indirizzi filosofici della prima metà del Novecento, in particolare
la Fenomenologia, il neokantismo di Marburgo, il neopositivismo,
l'Esistenzialismo, ma negli ultimi anni orienta sempre più il suo interesse al
Marxismo, di cui condivide gli assunti fondamentali leggendoli alla luce del
suo razionalismo critico, come si evince dalla raccolta postuma Saggi sul
marxismo editi nel 1960. Archivio Si segnalano tre fondi archivistici del
pensatore: "Fondo Antonio Banfi" presso la Biblioteca Panizzi
di Reggio Emilia. L'archivio, insieme con la biblioteca personale di Banfi,
dopo la morte del pensatore venne donato alla provincia di Reggio Emilia
insieme con la costituzione del "Centro studi Antonio Banfi”. In seguito,
il Centro si trasformerà in "Istituto Banfi", con sede a Reggio Emilia.
Nel , l’archivio e la biblioteca personale del filosofo sono stati depositati
alla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, a seguito di un accordo tra
Soprintendenza Archivistica per l’Emilia-Romagna, Comune e Provincia di Reggio
Emilia. La biblioteca conserva anche l'archivio di Daria Malaguzzi Valeri e
l’archivio delle carte di Clelia Abate, segretaria del Fronte della Cultura e
allieva di Banfi. Archivio "Antonio Banfi e Daria Malaguzzi Valeri"
presso la Biblioteca di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano. Il
fondo archivistico contiene diverse centinaia di documenti conservati da Daria
Malaguzzi Valeri, moglie del filosofo, e da lei usati nella stesura del libro
Umanità, pubblicato nel 1967 per le Edizioni Franco di Reggio Emilia. I documenti
del fondo coprono l'intero arco di vita di Antonio Banfi ma risultano
particolarmente ben rappresentati gli anni giovanili; da segnalare soprattutto
il ricco epistolario con la futura moglie, riferito agli anni compresi tra il
1911 e il 1916, e la corrispondenza con Piero Martinetti, durante la sua
docenza presso la Regia Accademia Filosofico Letteraria di Milano e poi dal suo
ritiro di Spineto. "Archivio privato familiare Antonio Banfi"
conservato presso l'Università degli studi dell'Insubria. Centro Internazionale
Insubrico Carlo Cattaneo e Giulio Preti, riunisce migliaia di lettere,
biglietti, cartoline postali, plichi e buste, conservati in 33 raccoglitori a
loro volta inseriti in 15 buste, per una consistenza di circa 1,5 mi. Gran
parte dell'archivio è costituito dal carteggio tra Antonio Banfi e Daria
Malaguzzi Valeri, sposatisi il 4 luglio 1916. Il rapporto epistolare con la
moglie, infatti, non si limitò alla sfera affettiva e familiare, ma affronta
spesso tematiche filosofiche (ad esempio, la frequentazione di G. Simmel
durante il giovanile soggiorno a Berlino, nel 1909-1911, o la ricezione
dell'opera e la personale conoscenza di E. Husserl) e di attualità, nella
concretezza dei riferimenti a eventi e circostanze del presente e ai rapporti
sociali coltivati da Banfi come pensatore, studioso, organizzatore culturale e
uomo politico. Altre opere: “La filosofia e la vita spirituale” – lo spirito,
l’animo, vita, animo vitale – (Milano, Isis); “Principi di una teoria della
ragione” (Firenze, la Nuova Italia); “Pestalozzi, Firenze, Vallecchi); “Vita di
Galileo Galilei” (Lanciano, R. Carabba); “Sommario di storia della pedagogia”
(Milano, A. Mondadori); “I classici della pedagogia: Rousseau, Pestalozzi,
Capponi, Gabelli, Gentile” (Milano, Mondadori); “Studi filosofici : rivista
trimestrale di filosofia contemporanea” (Milano); “Saggio sul diritto e sullo
Stato, Roma, Rivista internazionale di filosofia del diritto); “Per un
razionalismo critico, Como, Marzorati); “Lezioni di estetica raccolte Maria
Antonietta Fraschini e Ida Vergani, Milano, Istit. Edit. Cisalpino); “Vita dell'arte,
Milano, Minuziano); “Galileo Galilei” (Milano, Ambrosiana); “L'uomo copernicano,
Milano, A. Mondadori); “La crisi dell'uso dogmatico della ragione, Milano,
Bocca); :La filosofia del settecento, Milano, La Goliardica); “La filosofia
critica di Kant” (Milano, La Goliardica); “La filosofia degli ultimi
cinquant'anni, Milano, La Goliardica); “La ricerca della realtà” (Firenze,
Sansoni); “Saggi sul marxismo, Roma, Editori Riuniti); “Filosofia dell'arte”
(Roma, Editori Riuniti). Note
"Perciò appunto non ho dimenticato i tuoi interessi e sarei lieto
che fossi tu a succedermi, In questo senso ho scritto, richiesto da Castiglioni
stesso, che ora è preside, a Castiglioni. Ho consigliato lui e con lui la
facoltà ad accaparrarsi te per la F.[ilosofia] e Banfi per la St.[oria]
d.[ella] F.[ilosofia]"; Lettera n. 108 Piero Martinetti a Adelchi
Baratono, 21 dicembre 1931, in Piero Martinetti Lettere (1919-1942), Firenze, , 107-108.
Rossanda, Rossana, La ragazza del secolo scorso, Torino, Einaudi,
2005, 52 ss., 9788806143756. Vedi scheda del Senato della RepubblicaI
Legislatura. Vedi scheda del Senato
della RepubblicaII Legislatura. Cit. in
"Il marxismo e la libertà di pensiero", (1954), pubblicato in
"Saggi sul marxismo", Editori Riuniti, 1960, pag.152 A.Banfi, La mia prospettiva filosofica, in La
ricerca della realtà (1959), pag.713
Fondo Banfi Antonio, su SIUSA Sistema Informativo Unificato per le
Soprintendenze Archivistiche. 3 dicembre .
Centro Internazionale Insubrico Carlo Cattaneo e Giulio Preti per la
filosofia, l'epistemologia, le scienze cognitive e la scienza delle scienze
tecniche, su dicom.uninsubria. 3 dicembre .
G. M. Bertin, Banfi, Padova, CEDAM, 1943 E. Garin, Cronache di filosofia
italiana (1900-1943), Bari, Laterza,1955 G. M. Bertin, L'idea di ragione e il
pensiero etico-pedagogico di Antonio Banfi, Roma, Armando, 1961. Fulvio Papi,
Il pensiero di Antonio Banfi, Parenti, Firenze 1961. F. Papi, Banfi Antonio, in
Dizionario Biografico degli Italiani, 5
(1963), Treccani. A. Erbetta, L'umanesimo critico di Antonio Banfi, Milano,
Marzorati, 1978. Antonio Banfi tre generazioni dopo. Atti del convegno della
Fondazione Corrente, Milano, maggio 1978 , Il Saggiatore, Milano 1980. Roselina
Salemi, banfiana, Parma, Pratiche, 1982.
G. Scaramuzza, Antonio Banfi. La ragione e l'estetico, Padova, Cleup, 1984
Luciano Eletti, Il problema della persona in Antonio Banfi, La Nuova Italia,
Firenze 1985. 1986. Centenario della nascita di Antonio Banfi, Reggio Emilia,
Istituto Banfi, 1986. Livio Sichirollo, Attualità di Banfi, Urbino,
QuattroVenti, 1986. Francesco Luciani, Incontro con Banfi, Cosenza, Presenze
Editrice, 987. G. D. Neri, Crisi e costruzione della storia. Sviluppi del
pensiero di Antonio Banfi, Napoli, Bibliopolis, 1988 F. Papi, Vita e filosofia.
La scuola di Milano: Banfi, Cantoni, Paci, Preti, Milano, Guerrini, 1990 Paolo
Valore, Trascendentale e idea di ragione. Studi sulla fenomenologia banfiana,
Firenze, La Nuova Italia, 1999. G. Scaramuzza, Crisi come rinnovamento. Scritti
sull'estetica della scuola di Milano, Milano, Unicopli, 2000. Francesco
Luciani, Polemiche della ragione. Gramsci, Banfi, Della Volpe, Cosenza, Arti
Grafiche Barbieri, 2002. Giovambattista Trebisacce, Antonio Banfi e la
pedagogia, Cosenza, Jonia editrice, 2005. F. Papi, Antonio Banfi e la
pedagogia, Cosenza, Jonia editrice, 2005. S. ChiodoG. Scaramuzza (a cura), Ad
Antonio Banfi cinquant'anni dopo, Milano, Unicopli, 2007. A. Vigorelli, La
nostra inquetudine. Martinetti, Banfi, Rebora, Cantoni, Paci, De Martino,
Rensi, Untersteiner, Dal Pra, Segre, Capitini, Milano, B. Mondadori, 2007
Giovambattista Trebisacce, La pedagogia tra razionalismo critico e marxismo,
Roma, Anicia, 2008. D. Assael, Alle origini della scuola di Milano. Martinetti,
Barié, Banfi, Milano, Guerrini, 2009. G. Sacaramuzza, Estetica come filosofia
della musica nella scuola di Milano, Milano, CUEM, 2009. A. Di Miele, Antonio
Banfi Enzo Paci. Crisi, eros, prassi, Milano, Mimesis, . M. Gisondi, Una fede
filosofica. Antonio Banfi negli anni della sua formazione, Roma, Edizioni di
Storia e Letteratura, . A. Crisanti , Banfi a Milano. L'università, l'editoria,
il partito, Milano, Unicopli, . Maria
Corti Antonia Pozzi Luciano Anceschi Rossana Rossanda Pietro Bucalossi Piero
Martinetti Scuola di Milano Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons
Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Antonio Banfi Antonio Banfi, in Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Antonio Banfi, su siusa.archivi.beniculturali,
Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Antonio Banfi, su BeWeb, Conferenza
Episcopale Italiana. Opere di Antonio
Banfi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Antonio Banfi. Antonio
Banfi / Antonio Banfi (altra versione), su senato, Senato della
Repubblica. La morte a Milano del sen.
Antonio Banfi articolo del quotidiano La Stampa, 23 luglio 19577, Archivio
storico. Massimo Ferrari, Piero Martinetti e Antonio Banfi, in Il contributo
italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Marcello Gisondi, La formazione intellettuale e politica di Antonio
Banfi. Tesi di dottorato discussa presso l’Università Federico II di Napoli
(a.a. /) "Antonio Banfi a Milano", sito della mostra allestita dal 22
maggio al 13 giugno presso la Biblioteca
di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano Filosofia Università Università Filosofo del XX secoloStorici
della filosofia italianiTraduttori italiani 1886 1957 30 settembre 22 luglio
Vimercate MilanoAccademici italiani del XX secoloDirettori di periodici
italianiPolitici italiani del XX secoloProfessori dell'Università degli Studi
di MilanoAntifascisti italianiSenatori della I legislatura della Repubblica ItalianaSenatori
della II legislatura della Repubblica ItalianaStudenti dell'Università Humboldt
di BerlinoTraduttori all'italianoTraduttori dal franceseTraduttori dal greco
all'italianoTraduttori dall'inglese all'italianoTraduttori dal latinoTraduttori
dal tedesco all'italiano. Antonio Banfi. Keywords. banfi — spirito vitale —
storiografia filosofica — istituto di storia della filosofia — ragione e
conversazione — criticismo — conversazione con hegel — personalismo —
l’interpersonale — sovranità — lo stato italiano — lo stoicismo romano — enea e
marc’aurelio — acerrima indago — diritto criminale — kantismo —Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Banfi” – The Swimming-Pool Library.
Baratono: (Firenze). Filosofo. Grice: “I like Baratono – especially
his ‘stilistica italiana’ – if I were to offer an English stylistics I would
not count as a philosopher – but that’s because ‘English’ is spoken by more
than Englishmen, while Italian ain’t!” Grice: “Baratono thinks he is a sensist
alla ‘Giovanni Locke,’ which he possibly is.” Grice: “In the typical Italian
way, instead of focusing on the classics – Roman philosophy – he read sociology
and psychology and came up, in a typically Italian way, with a ‘sintessi,’ ‘la
psicologia del popolo’ alla Wundt.” Grice: “If Austin punned on sense and
sensibility – Baratono takes ‘sensibilia’ VERY sensibly – as the basis for
‘aesthetics,’ seeing that ‘aesthetikos’ IS Ciceronian for ‘sensibile’.” – Grice:
“Baratono is Griceian in his search for what he calls the ‘elementary’ – he
applies ‘elementary’ to ‘fatto psichico’: judicativo e volitivo – both based on
the ‘sensibile’ – or rather on probability and desirability – credibility and
desirability --. His use of ‘sense’ does not quite fit the Oxonian ‘sense
datum,’ since the will is involved in the sensibile – or, in his wording, it is
the anima (or psyche) that searches for the corpus -- -- The compound is
something like the hylemorphism – the form is sensible – and the volitive
(prattica) and judicative (teoretica) components of the soul operate on this.”
-- Fra i maggiori esponenti del Partito
Socialista Italiano nel periodo fra le due guerre. Vive sin dalla giovinezza a Genova, dove
compie i suoi studi. Si laurea in filosofia. Insegna a Genova, Savona,
Cagliari, Milano. Baratono si iscrive al
PSI subito dopo la fondazione e viene eletto consigliere comunale a Savona,
aderendo all'ala intransigente in forte polemica con i riformisti. Entra nella
Direzione nazionale del partito. Alcune battaglie politiche lo vedono emergere
come figura di primo piano del socialismo italiano, come quella che Baratono
porta avanti capeggiando la frazione comunista unitaria al Congresso di
Livorno. L'accettazione con riserva dei 21 punti dell'Internazionale comunista
di Mosca determina la clamorosa scissione e l'uscita dei comunisti dal Partito Socialista.
Presenta al congresso la mozione massimalista. Diviene deputato. Confermato per
la terza volta membro della Direzione socialista, mentre la maggioranza massimalista
si orienta per la scissione dei riformisti, al Congresso di Roma sostiene
fortemente l'unità, anche per il timore dell'affermarsi delle forze fasciste.
Dopo il Congresso di Roma, aderisce al Partito Socialista Unitario e diviene un
assiduo collaboratore di Critica Sociale. Collabora al “Quarto Stato”. Con il
consolidamento del regime fascista, si dedica esclusivamente ai suoi studi
filosofici. Torna all'attività politica
all'indomani della Liberazione, con collaborazioni sull'Avanti! riprendendo i
suoi studi di critica marxista.
Note «Perciò appunto non ho
dimenticato i tuoi interessi e sarei lieto che fossi tu a succedermi, In questo
senso ho scritto, richiesto da Castiglioni stesso, che ora è preside, a
Castiglioni. Ho consigliato lui e con lui la facoltà ad accaparrarsi te per la
F.[ilosofia] e Banfi per la St.[oria] d.[ella] F.[ilosofia]». Lettera n. 108,
Piero Martinetti a Adelchi Baratono, 21 dicembre 1931, in Piero Martinetti
Lettere (1919-1942), Firenze, , 107-108.
Fonti Vittorio Mathieu, «BARATONO,
Adelchi» in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 5, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1963. Altri progetti Collabora a Wikisource
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degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Adelchi Baratono, su Liber Liber. Opere di Adelchi Baratono, su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Adelchi Baratono, . Adelchi Baratono, su storia.camera, Camera
dei deputati. Filosofi italiani del XX secoloPolitici italiani del XX
secoloAccademici italiani Professore1875 1947Nati l'8 aprile 28 settembre
Firenze GenovaPolitici del Partito Socialista ItalianoDeputati della XXVI
legislatura del Regno d'ItaliaStudenti dell'Università degli Studi di
GenovaProfessori dell'Università degli Studi di GenovaProfessori
dell'Università degli Studi di CagliariProfessori dell'Università degli Studi
di Milano. Critica dei valori ed estetica metafisica. Psicologia critica dei
valori e metafisica estetica. Carissimo Groppali » Nella
tuapubblicazionedaltitoloPsicologia socialeepsic.collettira, trovo rammentato
un mio articolo (comparso nel quarto fascicolo del l'Archivio di
Psic.coll.).con queste parole (pag.29): RASSEGNA DI SOCIOLOGIA E
SCIENZE AFFINI citato;non posso fare comequel buon figliuolo di Renzo
Tramaglino, che, a sentir dire che la sua Lucia era una « bella baggiana »,per
amor dell'epiteto lasciava passare il sostantivo. » Lasciami invece un
po'brontolare contro la seconda parte del tuo giu dizio.E,quantunquein fatto di
scoperte scientifichenessuno sipossa dire assolutamente il primo scopritore,
permettimi di dare al Sighele quelch'èdiSighele,ea me quelchesembramio. »
Perilnostrocaso,lascopertapiùimportante,acuisonogiunti questi autori, è la
semplice constatazione del fatto, che gli atti estrin secanti la emozione d'un
individuo riproducono in altri individui ana loghe emozioni ed atti volontari.
» Ebbene:primaepiùcompletamentediquegliscienziati,loSpencer era pervenuto alla
medesima legge con la sua teorica della simpatia ; e per di più aveva spiegato
il fatto diquella suggestione con la ragione sociale, osservando che un atto
emotivo non potrebbe suscitare nei pre senti un sentimento corrispondente se
non vi fosse stata l'esperienza propria o atavica che avesse associato
quell'atto all'emozione reale uni. tamente sofferta; trovandone perciò la
genesi nella convivenza sociale, per essere gl'individui associati sottoposti
alle medesime cause di pia cere e dolore. » Adunque io nel mio studio potevo
passarmi di citare altre teorie, oltre quella spenceriana, quando ridussi il
fenomeno collettivo a feno meno simpatetico. E fin quinon ho fatto,nè ho detto
di fare,nessuna scoperta:ma soltantohoapplicatolaleggespencerianaaunnuovogruppo
di fatti,da Ini non considerati specialmente.Ripeto: ionon ho sostenuto come
mia scoperta, ma ho soltanto accettato e meglio dimostrato, che il fatto
psichico del delirio collettivo ha per sostrato il giuoco delle emo zioni e
rappresentazioni, cioè il fatto simpatetico. » A questa domanda non poteva
rispondere nè il Sighele, che non è mai entrato nel campo della psicologia
generale,nè,come si sa, lo Spen cer e gli associazionisti,che si contentavano
di descrivere il fatto, ridu cendolo a uno schema associativo,ciòche,come
spiegazione,ha ilvalore di una tautologia, senza svelarne il meccanismo, cioè
il rapporto fra gli elementi;né imaterialisti,che nedavanouna
ipoteticaspiegazioneana tomo-fisiologica, senza entrare nella pura psicologia.
>Dall'altraparte,rispondereaquelledomande significatrovarele ragioni ultime
e più generali del fenomeno collettivo ; vale a dire, ridurlo completamente . »
Questo ho tentato io di fare; di qui comincia il mio studio genuino. Me ne sono
vantato? ho soltanto asserito che tentavo di muovere un » Il Sighele
intui, che i fatti caratteristici della emozione di una folla si possono ridurre
a qualcosa di più generale,ov'entri quella facoltà dell'imitazione, quella
suggestione, con le quali altri avevano spiegato il contagio morale; perciò
egli, se malnon ricordo,senza nulla aggiun gere diproprio, si riferì alle
teorie di Bordère, Ebrard,Jolly,Tarde, Sergi, Espinas ecc. ecc. » Ho dunque
accettata una legge,o,meglio,ladescrizione di un fatto generale,chesi potrebbe
enunciare cosi: Negli individui associati,la percezione degli
atticorrispondenti alle emozioni di alcuno destando in altri la rappresentazione
di piaceri o dolori analoghi, suscita piaceri o dolori analoghi e gliatti
corrispondenti. > In questo enunciato c'èqualcosa di mio.Ma non mi curo di
metterlo in luce. Piuttosto ti rivolgo la domanda : osservato il fatto, lo
Spencer ne ha trovato la ragione sociologica ; ma vi è qualcuno che ne abbia
tro vato la ragione psicologica? Come una rappresentazione emotiva può
diventare un'emozione attuale, condizione e stimolo di atti volontari ? RASSEGNA
DI SOCIOLOGIA E SCIENZE AFFINI passo nel cammino dellapsicologia collettiva:tu
puoi scusarmene,perché conosci il tripudio di chi lavora per la scienza,che
oggi è ancor l'unica nostra ricompensa.
»Adunqueilrimanentestudio,larispostaaquelladomandaèmio: » 1.°Mio nelle
premesse,che si riferiscono al libro Ifatti psichiri elementari, dove
dimostravo che : « La legge più generale della psiche è data dalla serie dei
fatti emotivo -conoscitivo -volitivo, quando si con sideri questa come
l'espressione di un rapporto,per cui ilprimo termine rappresenta l'energia determinante
degli altri »; » 3.° Mio nell'applicazione alfenomeno collettivo, dove le
multiple rappresentazioni emotive devono agire sopra ognuno degli individui
come altrettante emozioni reali attenuate, ma accumulate sulla prima; onde
l'esaltazione propria della folla. » Tutte queste tesi sono diverse da quelle
sostenute e dall'intellet tualismo e dal volontarismo. » Riepilogando: il
Sighele giunse a ridurre il fenomeno collettivo a un fatto generale enunciato
come legge ; e lo Spencer aveva dato la spie gazione sociologica di questo
fatto : m a , perchè vi fosse una spiegazione psicologica, bisognava aver
trovato non solo l'associazione,ma anche il rapporto tra gli elementi associati
;il quale rapporto di dipendenza, cioè di condizioneestimolo,doveva,perridurrecompletamentequel
fenomeno, coincidere col rapporto o legge più generale della psiche. Questo ho
cer cato difare: e, poi che in modo particolare avevo stabilita la serie dei
fatti psichici veramente elementari e illoro rapporto,cioèla legge psi cologica
generale, anche particolare doveva riuscire l'inferenza al fenomeno collettivo.
» Non posso,egregio e carissimo amico, riassumere in poche pagine
quelloche,agiudiziomio edaltrui.ègiàtroppostrettamenteriassunto ne'mieilavori.A
te,che liconosci, eche possiedi un forteingegno intuitivo, basterà questo
richiamo; e spero che ti persuaderai, che il Sighele restaugualmente uno
de'nostri migliori scienziati,anche senza regalare a lui,che non ne ha
bisegno,quelle due o tre pagine con le quali si termina il mio studio. » Spero
ancora più fervidamente, che tu non mi dia del noioso e del l'immodesto per
questa mia lettera,e che sempre mi creda il tuo. BARATONO, Adelchi. -
Nacque l'8 apr. 1875 a Firenze dove il padre, Alessandro, originario di Ivrea,
si era stabilito dopo il trasferimento della capitale del regno da Torino. La
madre, Ermelinda Rossi, era fiorentina. La famiglia si fissò definitivamente a
Genova, e il B., compiuti gli studi classici, frequentò l'università,
addottorandosi in lettere e in filosofia. Suo principale maestro fu A.
Asturaro, del cui indirizzo sociologico il B. risentì nei suoi primi lavori
(Sociologia estetica,Civitanova Marche 1899; Sul problema religioso,in Riv.
ital. di sociol.,IV [1900], 4), così come, successivamente, subì l'influsso di
E. Morselli e delle sue lezioni di psichiatria. Gli interessi psic0logici del
B. sono documentati in questo periodo da numerose pubblicazioni (I fatti
psichici elementari, Torino 1900; Sulla classificazione dei fatti
psichici,Bologna 1900; Energia e psiche, in Riv. di filos. e scienze affini,
IV[1902], pp. 27-47, 162-180). Psicologia e sociologia venivano, poi,
naturalmente a fondersi in una wundtiana "psicologia dei popoli"
(Sulla psicologia dei popoli, Genova 1901), permeata di una filosofia scientificamente
concepita. Questo movimento culmina nei Fondamenti di psicologia sperimentale
(Torino 1906), che risentono ancora dell'influsso positivistico, nella ricerca
di una filosofia scientifica, ma cominciano, al tempo stesso, a rivelare
l'originalità filosofica del Baratono. Contemporaneamente il B. coltivava
il proprio gusto estetico frequentando i circoli letterari, le mostre di
pittura, i caffè degli artisti; a venticinque anni pubblicò un volumetto di
versi (Sparvieri,Genova 1900, con acqueforti di Edoardo De Albertis), che sarà
seguito da altre poesie (Lettera - Notturno - Congedo, 1908), articoli
letterari e frammentarie commedie, comparsi generalmente in Riviera
ligure. Questo duplice interesse, psicologico, ed estetico, accompagnò il
B. per tutta la vita, ma non senza trasformarsi radicalmente, dall'originario
positivismo, in una personale forma di "sensismo", dove tornavano a
incontrarsi il significato etimologico e il significato moderno della parola
"estetica". Nel 1911 - l'anno del congresso internazionale di
filosofia di Bologna, a cui il B. partecipò - egli, che l'anno prima aveva
celebrato I funerali del positivismo italiano (in Lavoro nuovo,5 apr. 1910),
pubblicò la Psicologia sintetica,in cui l'aspetto filosofico e quello
scientifico-sperimentale della ricerca erano nettamente divisi, e la psicologia
veniva assegnata al secondo. Conseguita la libera docenza, il B. tenne
corsi e conferenze all'università di Genova - oltre che all'università popolare
- prendendo a interessarsi del problema pedagogico, strettamente congiunto con
quello politico. QuattroDiscorsi sull'educazione furono da lui riuniti in un
volumetto, e alcuni anni dopo uscì la sua opera fondamentale in materia:
Critica e pedagogia dei valori (Palermo 1918). Dalla politica il B. si era
sentito attratto fin dalla prima giovinezza. Le sue convinzioni etiche lo
indussero a militare nelle file del socialismo; tuttavia, anche nell'attività
politica, egli conservò quell'atteggiamento aristocratico e leggermente
distaccato che lo caratterizzava sul piano culturale, ciò che tolse mordente
alla sua azione. Nell'aprile 1919, per le elezioni amministrative, redasse in
collaborazione con E. Gennari un ordine del giorno, votato poi all'unanimità
dal Consiglio nazionale del partito, dove si dichiarava che dei comuni ci si
doveva impadronire per "parálizzare tutti i poteri e tutti i congegni
dello Stato borghese, allo scopo... di accelerare la rivoluzione
proletaria". Rispetto alla rivoluzione russa, il B. si pronunciò contro
l'accettazione senza riserve delle ventuno condizioni poste da Mosca per
l'adesione alla Terza Internazionale, ma fu messo in minoranza nella riunione
della direzione del 28 sett. - 1° ott. 1920. Cercò inoltre di evitare ogni
scissione a sinistra, anche a costo dell'espulsione dei riformisti, che
rappresentavano l'ala destra del partito: questo suo punto di vista, sostenuto
prima e durante il congresso di Livorno (gennaio 1921), trovò tuttavia la via
sbarrata dal successo degli "unitari". Dalla sua dirittura morale il B.
era portato all'intransigenza; era antimassone, respingeva l'anticlericalismo
di maniera, auspicava la libertà dell'insegnamento. Turati ebbe a definirlo
"il filosofo della direzione del partito". Eletto deputato nella XXVI
legislatura, sedette al parlamento nel 1921-22, ma l'avvento deli fascismo lo
costrinse ad abbandonare l'attività politica (nella quale rientrano anche
scritti come Le due facce del marxismo taliano,Milano 1922, e Fatica senza
fatica,Torino 1923). Più fortunata divenne, a, questo punto, la carriera
universitaria. Titolare a Cagliari dal 1924, il B. si occupò, tra l'altro, di
Problemi universitari (Mediterranea,I[1927], 8) e vagheggiò un progetto Per la
riforma della facoltà filos. (Atti della Società ital. per il progresso delle
scienze,XX[1931]), che fu combattuto dal Gentile (Giorn. crit. d. filos.
ital.,XI[1931], pp. 239 s.). Nel '32 il B. passò a Milano, sulla cattedra di P.
Martinetti (che si era ritirato per non prestare giuramento) e nel ' 38 tornò
all'amata Genova, stabilendosi sulla riviera di Sant'Ilario. Qui riceveva
volentieri i suoi studenti e colti visitatori, attratti da una fama, che,
specialmente dopo la pubblicazione di Arte e poesia (Milano 1945), si estese
oltre la cerchia dei filosofi di professione. Riprese l'attività politica negli
ultimi anni, soprattutto in forma di collaborazione a giornali e di
rielaborazione di vecchi scritti di critica marxista. L'ultimo articolo,
L'etica dell'economia marxista, uscì sull'Avanti! alla vigilia della morte, che
avvenne il 28 sett. 1947. Al nome del B. è intitolato l'istituto universitario
di magistero di Genova. La prima formulazione pienamente matura della
filosofia del B. può essere considerata il volume Il mondo sensibile,
introduzione all'estetica (Messina 1934), preparato da alcuni degli scritti
raccolti in Filosofia in margine (Roma 1930); in esso si vuol raggiungere la
"prova esistenziale" della spiritualità del contenuto sensibile.
Contro l'impostazione gnoseologica che soggettivizza il mondo, il B. propugna
un'impostazione estetica che vede nel mondo sensibile, preso per se stesso,
"la forma dell'esistenza". Tale dottrina fu chiamata dal B.
"occasionalismo sensista", in una comunicazione alla sezione
piemontese dell'Istituto di studi filosofici nella primavera del 1940 (Per un
occasionalismo sensista, in Concetto e programma della filosofia d'oggi, Milano
1941, pp. 227-251). La denominazione esprime l'intento di "riflettere
sulla pura forma invece di prenderla quale rappresentazione di altro (soggetto
od oggetto) posto come un contenuto irreducibile a quella forma".
L'esperienza estetica ci mostra che un'ide a pura esiste come forma pura,
sensibilmente, e che questa forma sensibile vale per sé, in un rapporto
formalmente sentito con certezza, che diciamo "verità". Ciò
costituisce un valore sensibile direttamente, diverso sia dal valore del
sensibile (che rappresenta il valore specificamente teoretico) sia dal valore
del sentimento (che rappresenta il valore pratico). L'esserci sensibile
interessa il pensatore o l'uomo pratico solo come ostacolo da superare, ma
"riempe di meraviglia chi guarda il mondo con gli occhi spalancati sol per
la gioia di vedere, e così ne può apprezzare la bellezza". Queste
idee sono esposte dal B. in Arte e poesia,e messe alla prova non solo a
contatto con estetiche come quelle del Burke e del Focillon, a cui il B.
scrisse introduzioni (Milano 1945), ma con la stessa opera poetica, per es. di
un Verlaine, di cui il B. ripubblicò in Italia una raccolta di Poesie,
conintroduzione (Milano 1946). Arte e poesia si conclude con una "apologia
della forma", la quale sembra a torto imprigionare lo spirito e limitare
il valore solo perché, in realtà, lo determina e lo realizza. Rovesciando
l'istanza idealistica, secondo cui il valore sta in un'unità spirituale che si
riduce a "un'esigenza puro-pratica, a una rappresentazione di ciò che non
è", il B. dichiara che l'anima cerca il corpo, non viceversa, che lo
spirito cerca la forma, la filosofia la poesia. Sicché il valore non appare più
la premessa indimostrabile di ogni esistenza, ma il risultato intuitivo della
stessa forma sensibile. Bibl.: F. Della Corte, A. B., in Genova,
XXVI (sett. 1949), pp. 26-29. Sul B. Ipolitico: F. Meda. Il Partito Socialista
Italiano dalla Prima alla Terza Internazionale, Milano 1921, pp. 90-102; I
deputati al Parlamento per la XXVI legislatura, Milano 1922; M. Carrea, Per una
filosofia del socialismo, in Osservatorio, Genova 1946, n. 3; P. Nenni, Storia
di quattro anni (1919-1922), Roma 1946, passim; A. Tasca, Nascita e avvento del
fascismo. L'Italia dal 1918 al 1922, Firenze 1950, pp. 196 s., 361; F.
Turati-A. Kuliscioff, Carteggio. V: Dopoguerra e fascismo (1919-22), a cura di
A. Schiavi, Torino 1953, vedi Indice. Inoltre per alcuni scritti del B., in
Critica Sociale, degli anni 1923-24, vedi Critica Sociale, a cura di M.
Spinella, A. Caracciolo, R. Amaduzzi, G. Petronio, III, Milano 1959, Indici, a
cura di M. T. Lanza. Sul B. filosofo, oltre l'esposizione del proprio pensiero
fatta da lui stesso in Il mio paradosso, in Filosofi ital. contemporanei, Como
1944 (2 ediz. Milano 1946), cfr. U. Spirito, L'idealismo ital. e i suoi
critici, Firenze 1930, pp. 130-141; G. Della Volpe, Crisi dell'estetica
romantica, Messina 1941, pp. 26-31; M. F. Sciacca, Il secolo XX, Milano 1942,
pp. 218-223; G. Faggin, Il formalismo sensista di A. B.,in Riv. crit. di storia
d. filos., I (1946), pp. 189-96; R. Assunto, B. e l'estetica moderna, in
L'Italia che scrive, XXIX (1946), 3, pp. 50-52; G. M. Bertin, L'estetica di
B.,in Studi filosofici,VIII(1947), pp. 136-38; G. Bontadini, Dall'attualismo al
problematicismo, Brescia 1947, pp. 170-187, 254-56; C. Talenti, A. B., Torino
1957 (con bibl.). Adelchi Baratono. Keywords:
breviario di stilistica italiana, fatto psichico elementare, i fatti psichici
eleentare, psicologia filosofica, illuminismo, implicatura luminaria,
implicatura escataologica, politica ed etica, la filosofia al margine: gentile,
croce, natura umana, esperienza, il mondo sensibile, estetica, il bello, il
sublime, criticismo, assiologia, hume a Cremona e torino, spirito, animo, forma
logica, l’eneide, riviera ligure, “Rivera Ligure”. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Baratono” – The Swimming-Pool Library.
Barba (Gallipoli). Filosofo. Grice: “I like Barba, but then I like
Gallipoli – and he was born and died there, at Villa Barba. His main interest
was Roman philosophy, which he studied at Naples! – The Roman occupation in
Southern Italy brought ‘a breath of fresh air,’ as Barba has it, to the old
“Grecia Magna” tradition --.” Grice: “Barba is very clear: ‘Epigrafia
filosofica latina,’ o ‘epigrafia filosofica romana’ surely ain’t Grecian!”
-- Figlio di Ernesto, conduce gli studi
a Gallipoli, per poi trasferirsi a Napoli presso il zio, Tommaso Barba. Tommaso
Barba e presidente della Gran Corte. Studia grammatica e materie letterarie
nella scuola di Puoti. Si laurea in Filosofia. Studiare nel R. Collegio Cerusico
e divenne professore di anatomia umana comparata. Insegna scienze e lettere al
ginnasio di Gallipoli e fu sovrintendente scolastico ed Assessore delegato alla
Pubblica Istruzione. Fu arrestato ed
esiliato a causa delle resistenze al governo. I membri dell'Associazione
Democratica posero una scritta: "Nato dal popolo, Per il popolo si
adoperò". A lui fu intitolato il Museo civico di Gallipoli. Note
AnxaEmanuele Barba, su anxa. 21 aprile
13 ottobre ). Scheda sul sito del
Museo Emanuele Barba. Filosofi. Emanuele Barba. Keywords. epigrafia latina,
iscrizione latina, iscrizione greco-romana, la iscrizione di Platone sulla
porta dell’academia, ageometretos medeis eisito, Delville pittore belga
(Libert), a Italia crea ‘L’ecole de Platon,’ per la Sorbonna. I vasi di Barba – gemelli, fratelli siamesi,
ecc. Monete romana, Gallipoli, colonia romana, ‘Proverbi e motti del popolo
gallipolino” – poesie di Barba sulla morte del re d’Italia, risorgimento –
esilato, carcere – la filosofia di Barba, barba filosofo. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Barba” – The Swimming-Pool Library.
Barbaro (Venezia). Filosofo. Grice: “This can be confusing to
Oxonians, althou we are familiar with the Hanover dynasty! Daniele Barbaro, a
faitehful nephew, commented on his uncle’s, Ermolao Barbaro’s, ‘translation’ of
Aristotle’s rhetoric – I shouldn’t even be saying this since it’s implicated in
the title where Ermolao features as ‘interprete,’ and the ‘commentarium’ is due
to Daniele.” Grice: “On top, Daniele wrote about ‘eloquenza,’ but his comments
on his uncle’s vulgarization into latin of Aristotle’s vulgar-greek (koine)
rhetorica – is perhaps more Griceian – since there is little conversational
about Daniele Barbaro’s ‘eloquenza,’ while the rhetoric (or ‘rettorica,’ as he
prefers) is ALL about ‘dialettica’ and dialogue!” -- Daniele Barbaro patriarca della Chiesa
cattolica Portret van Daniele Barbaro Rijksmuseum SK-A-4011.jpeg Ritratto di
Daniele Barbaro, attorno al 1561-1565, opera di Paolo Veronese, presso il
Rijksmuseum di Amsterdam Template-Patriarch (Latin Rite) Interwoven with
gold.svg Incarichi ricopertiPatriarca
di Aquileia. Nato 8 a Venezia Nominato patriarca 17 dicembre 1550 da papa
Giulio III Deceduto13 aprile 1570 (56 anni) a Venezia. Ritratto da Paolo
Veronese, 1562-1570 (Firenze, Palazzo Pitti)
Villa Barbaro a Maser Pratica
della perspettiva, 1569 È noto soprattutto come traduttore e commentatore del
trattato De architectura di Marco Vitruvio Pollione e per il trattato La
pratica della perspettiva. Importanti
furono i suoi studi sulla prospettiva e sulle applicazioni della camera oscura,
dove utilizzò un diaframma per migliorare la resa dell'immagine. Uomo colto e
di ampi interessi, fu amico di Andrea Palladio, Torquato Tasso e Pietro Bembo.
Commissionò a Palladio Villa Barbaro a Maser e a Paolo Veronese numerose opere,
tra cui due suoi ritratti. Daniele
Matteo Alvise Barbaro o Barbarus fu figlio di Francesco di Daniele Barbaro ed
Elena Pisani, figlia del banchiere Alvise Pisani e Cecilia Giustinian. Suo
fratello minore fu l'ambasciatore Marcantonio Barbaro. Barbaro studiò
filosofia, matematica e ottica all'Padova.
Fu ambasciatore della Serenissima presso la corte di Edoardo VI a
Londra, dall'agosto 1549 al febbraio 1551, e come rappresentante di Venezia al
Concilio di Trento. Nipote del patriarca
di Aquileia Giovanni Grimani, fu suo coauditore nella sede patriarcale di Aquileia.
Venne promosso in concistoro a patriarca "eletto" di Aquileia
(coadiutore), con diritto di futura successione, ma non assunse mai la guida
del patriarcato perché morì prima dello zio. All'epoca tale carica era quasi
una questione di famiglia per i Barbaro, infatti furono patriarchi di Aquileia
ben 4 Barbaro fra il 1491 e il 1622:
Ermolao Barbaro il Giovane, patriarca di Aquileia dal 1491 al 1493,
Daniele Barbaro, patriarca di Aquileia, Francesco Barbaro, patriarca di
Aquileia dal 1593 al 1616, Ermolao II Barbaro († 1622), patriarca di Aquileia
dal 1616. Fu forse nominato cardinale in pectore da papa Pio IV nel concistoro
del 26 febbraio 1561 e mai pubblicato.
Solo i Grimani, con cui erano imparentati, occuparono più volte il
patriarcato (ben sei). Partecipò a varie
sedute del Concilio di Trento a partire dal 14 gennaio 1562 fino alla sua
chiusura nel 1563. Atre opere: commentarii
di Aristotele Retorica del suo pro-zio Ermolao Barbaro il Giovane (Venezia); Compendium
scientiae naturalis di Ermolao Barbaro il Giovane (Venezia); Commento sull’archittetura
d Vitruvio, pubblicato col titolo “Dieci libri dell'architettura di M. Vitruvio”
(Venezia). Di essa pubblica anche una versione in latino intitolata M. Vitruvii
de architectura, (Venezia). Le illustrazioni sono realizzate da Palladio --; un
trattato sulla geometria, prospettiva e scienza della pittura, La pratica della
perspettiva (Venezia); un trattato sulla costruzione delle meridiani, “De Horologiis
describendis libellus” (Venice, Biblioteca Marciana, Cod. Lat. VIII, 42). Più
tardi si scopre che il testo del Barbaro affronta la tecnica di strumenti come
l'astrolabio, il planisfero, il bacolo, il triquetrum, e olometro di Abel
Foullon. Cronache, probabilmente riprese da Giovanni Bembo nella Cronaca Bemba.
Aurea in quinquaginta Davidicos Psalmos doctorum graecorum catena interpretante
Daniele Barbaro electo patriarcha Aquileiensi, Venetiis, apud Georgium de
Caballis. Note La pratica della perspettiva, 1569,
consultabile online (testo italiano + tavole originali) Giuseppe Trebbi, Barbaro Daniele, in Nuovo
Liruti: dizionario biografico dei friulani. 2: l'età veneta. A-C, Forum
editrice universitaria, Udine 2009374
Eubel, Hierarchia Catholica Medii et Recentoris Aevi, III39, che cita
gli Acta camerarii 9, f. 37 e gli Acta vicecancellarii 8, f 7 Louis Cellauro, Daniele Barbaro and
Vitruvius: the architectural theory of a Renaissance humanist and patron,
Papers of the British School at Rome, 72 (2004), 293–329 Pio Paschini, Daniele Barbaro
letterato e prelato veneziano del Cinquecento, Rivista di storia della chiesa
in Italia, 6 73–107. Władysław Tatarkiewicz, History of Aesthetics, III: Modern Aesthetics, edited by D. Petsch,
translated from the Polish by Chester A. Kisiel and John F. Besemeres, The
Hague, Mouton, 1974. Daniele Barbaro, Pratica della perspettiva, In Venetia,
appresso Camillo, & Rutilio Borgominieri fratelli, al Segno di S. Giorgio,
1569. 30 maggio . Robert Devreesse, La chaine sur les psaumes de Daniele Barbaro,
in Revue Biblique, Giovanni Mercati, Il
Niceforo della Catena di Daniele Barbaro e il suo commento del Salterio, in
Biblica, 26, 1945, 153-81.
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line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Giovanni Vacca, Daniele Barbaro, in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Daniele Barbaro, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Giuseppe
Alberigo, Daniele Barbaro, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere di
Daniele Barbaro, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Daniele Barbaro,
. David M. Cheney, Daniele Barbaro, in Catholic Hierarchy. Daniele Barbaro, su museogalileoMuseo
Galileo, Firenze. 21 ottobre . Daniele Barbaro (15141570), su
mathematica.snsEdizione Nazionale Mathematica Italiana, Pisa, Centro di Ricerca
Matematica Ennio De Giorgi. 21 ottobre .Salvador Miranda, Barbaro, Daniele
Matteo Alvise, su fiu.eduThe Cardinals of the Holy Roman Church, Florida
International University. 21 ottobre . PredecessorePatriarca di
AquileiaSuccessorePatriarchNonCardinal PioM.svg Giovanni Grimani17 dicembre
155013 aprile 1570Aloisio Giustiniani4959495 Umanisti italiani 1514 1570. Nati
l'8 febbraio 13 aprile Venezia VeneziaBarbaroPatriarchi di AquileiaAmbasciatori
italiani. DELLA ELOQUENTIA, DIALOGO. INTERLOCVTORI: L'ARTE, LA NATVRA , ET L'ANIMA . R.IO VORREI
VOLENTIERI Natura , che noi disputaßimo insieme , fe però l'ufficio del
disputare alla tua conditio nesi conueniſſe . NAT. Il diſputare é cosa da te ò
Arte, figliuola mia. Ma fe à me stesse l'ammaeſtrarti, di presente direi, che
tra il tuo intendimento, o il mio, alcuna differenza non fuſje, da che dentro
ti venija se il contender meco. AR . Al almeno desidero tale occasione . NAT.
Vano, o dannoso desiderio é il tuo, si perche io non sono mai ociosa ,
come perche tu sempre dei non mes no abbracciare il bene che cercare la verità
delle cose. AR. Niena te più migioua, che il bene, ne che il vero più mi
diletta. NA. In questo almeno tu m'assomigli, che ouunque sia , ch'io mi ritrdovi,
il vero sono, o il bene di ciascuna cosa . AR. si, ma tu alla cieca ne vai, e io di tanto amo ogn'uno,
che con deliberato consiglio , o anati veduto fine faccio, lo difar bene . NAT.
Emmipur manifesto che la tua grandezza è di nascondere te stessa quantopuoi, o
di accoſtarti à me . AR. Queſto é,maciò auiene,perche tu prima di me al mondo
ueniſti, o gli huominia'tuoi piaceri aduſaſti , innanzi ch'io ci naſceßi; o
queſta mia imitatione non ti accreſce dignitade alcuna . Percioche,nëla formica
uile animaluzzo e più degna , ne l'huomo meno onorato, ancor che questo quella
imitando , l'eſtate per lo uerno ſiproueda.La mia induſtria, Ò Natura , fa
maggiore il tuo pouero patrimonio . NAT. Che accreſcimento farebbe ella,ſe io
non ti laſciaßi che accreſcere ? Tupure,ſe uuoi,ben ſai, che ogni operă
preſuppone il ſoggetto,ſenza il quale nulla ſi può fare. Que fto da me , non da
te procede; oltra che appreſſo giuſto giudice il ſecondo DELL A ſecondo luogo,
non che il primo, ti faria denegato. AR. Giusto à tua ſcelta intendi colui, che
te à me anteponga;ma nonſai che per la età molto ti concedo . NAT. E'mipiace di
ragionare an poco tea coſopra queſta materia , poi che tant'oltra procedutaſei,
che di te con buona equità midolga . Dicoti adunque, che in ordine di onoran za
ne prima ſei, né ſeconda . Ar . Chi adunque à noi ſopraſta ? NAT. Chi ne fece
ambedue é il primo.10 ſenza mezo dalui nace qui. Tu doppo me sei . NAT. Adunque
mentono coloro che affer mano , te effer madre uniuerſale , poi chetu ſteſſa
non nieghi eſſere d'altruifattura ? NAT. Ad un modo io ſono madre,ad un'altro
figlia. A R. Adunque di te coſa picprestante ſi truoua ? NAT. Chi ne dubita ?
Ma io per eſſere å gliumaniſentimenti uicina, tutta fiata ſon preferita . AR.
Hai tu conoſcimento di fine alcuno ? NAT. Certo no ;ma nelgouerno del tutto io
ſon drizzata,e quafi addeſtrata dalpadre mio . AR. In che dunque é ripoſta
queſta tud gloria ? NAT. Tanto potente,ſaggio, w buono é ilmio fattore , che la
ſua gloria in me mirabilmente ſoprabonda . AR. Sommi più voltemarauigliata di
coteſta tua occulta uirtù ,dalla quale tu ſei cosi gentilmente
guidata.jpelefiate mi è uenuto in animo di cre dere che ella forſe habbia
potere di trar mead imitarti diforza; ergo però diſcorrendo,etpiù dentro
penetrando, bo giudicato eſſere gran famiglianza tra quelprincipio , che ti
muoue, &me,ondeper la ſea creta uirtu ,non tua,io mi muouo ad operar come
tu fai. Ma poi mi pare,che,ſe il diſcorrere l'ordinare,e il ridurre àfine le
coſeantiue dute, è ufficio mio,io ſia inanzi di teſtata nel Cielo appreſſo il
padre tuo, che egli habbia l'opera mia uſata in generarti ò produrti NAT. In
altra guiſa io faccio le coſe mie tule tue, di quella del fattor noſtro,
chenehafatte, & create.Però guardati dinon giudi care troppo animoſamente
le coſe , figurando le inuiſibili, & occulte per le uiſibilio manifeſte .
Ma perchecosi agramente mi condane ni? ſe in qualunque modo tu uuoi per le coſe
già dette chiamar mi, ò madre, è figlia, o ſorella, ó amica ſeisforzatadi
nominarmi ? no mi tutti di congiuntione, amicitia, oſtrettezza. Egli non ſi uuol
có. si correre a furia . AR. Non ti adirare ó Natura, che io non ho contra te
mal uolere, né il finemio é ſtato cattiuo , anzi per lo tuo ef faltamento ho
uoluto raffrenare la mia credenza, che era di ſapere con qual calamita io
tirata fußi ad operare come tu fai,e mi uenu to ben fatto per lo ragionamento
,che éftato fra noi, perche hauen do noi do noi ritrouata l'origine del noſtro
naſcimento,ſiamoſicuré della no ftra nobiltà, come quella checon la eternità
ſipareggi,o dal primo fattore d'ogni coſa proceda . Ma ben mi duole , & per
queſto ti ho chiamata,cheà molte ſciagure ſia la grandezza mia ſottopoſta .Et
quanto maggiore è lo stato mio, tanto àpiù pericoli mi ueggio eſſer ſoggetta .
NAT. Quai ſciagure , oquai pericoliſono queſti ? AR. Saper dei Natura, madre
mia , che in tutte le parti delmondo mi truouo hauer molti miniſtri,de quali
neſono alcuni,chemifanno una gran uergogna, a oltre à ciò miſono di danno
infinito , o per lor cagione io ne ſento male . Perche non indrizzando me al
debito fine, anzifieramente in abuſo ponendomi, come buona, utile, oono reuole
cheio ſono,rea,dannofa , & uituperabilemifanno . Ondegli huomini per mezo
mio ingannati da loro, certi de' loro danni, main certi di chi la colpaſiſia,
s'accendono d'ira contra dime, à guiſa di co loro,che le ſpade,o non
glihomicidi punir uoleſſero. NAT. Tu non ſei ſola nelmale di si fattioltraggi,
tutto'l dime ne uengono afe ſai . Percioche producendo io ogni coſaà beneficio
della vita di chi ci naſce, moltiſciagurati epieni dimal talento, maleufando
l'arti ficio loro,empiono iltutto diconfuſione, auelenando, uccidendo,in,
gannando, eoffendendoſenza riguardo alcuno; e chi ode o xede taliſceleraggini,
maledice ogni mia fattura . A R. Duraper certo ėlaforte noſtra,però che il
uolgo cieco, &ignorante non ſa,chereo non è quello , che in bene uſar
ſipuote.Maper uer direzio poco mi marauiglio, ſe il ueleno auelena,ò il
ferrouccide, ma ben grandeam miratione miporge,quädo il cibo, di cuiſiuiue,cosi
ſpeſſo in cattiuo umore ſi conuerte,che alla morte conduce. Et ciò dico à
fine,chetu Sappia quantoiogiuſtamente mi dolga,che lapiù pretiofa parte,che
tupergratia del tuo fattoreall'huomo cõcedi conla quale egli poſ fan debbia
altrui eſſere d'infinito giouamento , cosi ad offeſa Sia, ex à danno preparata
, che niente più . NAT. Chié quelmaluagio Oingrato,che tal coſa ardiſca di fare
? AR. L'Anima, o la più diuina parte di lei. NAT. Perseguitiamola dunque, o
facciamo la citare dinanzi al Tribunal diuino , Voglio , che ella dica la cauſa
ſua. AR. Ma prima uoglio,che infingendo noi con eſſo lei,tanto la prendiamo che
ella dica à noi ogni ſuaeſcufatione . NAT . Né la giuſtitia del Giudice, né la
uerità del fatto , nela tua dignità ricerca tale inganno,eſſendo quello ſincerißimo,la
coſa uerißima, otu quel la,che del medeſimo errorej, del quale ſei per
riprender lei, puoi eſ A 2 Ser accufatd. A R. Ben di..Ma io altrimenti non
ſonouſata difure. Ma eccoti queſta ingrata ,che di molte parti, et eccellenti
doni da noi dotata d'alcuna gratia,che futta le habbiamo,non ſi ricorda ,contre
mecon me fteſa ,o contra te per li beni, che dato le hai , altiera ſi lieua .
Aſcoltiamola alquanto. ANIMA. Iddio vi ſalui ſorelle amantißime, delle qualiund
mi rende atta l'altra mi fa gagliarda als l'operare . AR. Et te ancora ſecondo
il tuo buon uolere, ma dins ne, che usi tu cercando ? AN. Te ſopra tutte le
coſe . AR. In parte difficile ti ſei riuolta, perciò che biſogna, che tu
oſſeruicon di ligenzatutte le operationi, a modi di coteſta noſtra commune amis
ca. A N. Hoio ad impiegare tanta fatica, innanzich'io t'imprens da ? AR. Et
poſponere a queſta ogni altra cura,ben che dolcißima cura ti fia , per la
ſperanza dello acquiſto, che ne farai. Ma che parte di me conoſcer deſideri ?
AN. Indifferentemente,ſe poßibil fuſſe, tutte le uorrei , tutte le abbraccerei
tutte le poſſederei . Ma ora grado mifia tant'oltre procedere, ch'ioſappia
altrui paleſare i cons cetti miei . AR. Più chiaramente midi quel che
uuoi,perche in molte maniere giouar ti poſſo d'intorno à cosi fatto
dimoſtramento di penſieri . Vuoi tu ſapere conqual nodo di ragione ſi ſtringa
ung parola con l'altra quale ſia la concordanza de' numeridelle per fone, ode'
uocaboli delle coſe, et con quai regole dirittamente fifcri Me ? AN. Queſta parte
io la preſuppongo. AR. Forſe tu uai cer cando d'intendere con quale unione una
coſa con l'altra conuengd, per poter'à tua uoglia diſcorrere,argomentare,o
foſtenere le cons teſe AN. Né ciò
intendo per ora , ma di più diletteuol parte ho curd . AR. Tu uuoi tutta fiata
porgere diletto col parlar ſoauiſ fimamente,à guiſa di delicata uiuanda
acconciandoi numeri,il ſuono, per l'armonia delle uoci eſprimenti coſe
piaceuoli, & grate à i fenfi umani ? A R. 10 uorrei più adentro penetrare,
né tanto effer folles cita di piacere alle orecchie ,quanto di giouare
all'animo , operò dimmiſe hai più parti, quaſi figliuole,cui ſi conuenga la
cura del ras gionare. AR. Honne , o hauer ne poſſo ancora molte altre , che
nonſono in luce ; ma tra le altre una ue n'ba, che non è leggitima; un'altra la
quale bēche leggitima ſid, pure e di tāto riſpetto, che rare Holte ſilaſcia al
mondo compiutamente uedere. La prima in tanto da me é hauuta per buona , in
quanto ella inſegna di conoſcere gli ingan ni del parlare , e à fuggire i ciurmatori
. Laſeconda e da me coſto dita, &guardatamolto,percheio temo , che gli huomini
di malaf fare non la ſuijno. Et eſſendo ella di bellezza,o di forma ſopra ogni
altra eccellente gran pericolo miſoprafta Jlquale tolga lddio , ma doue non
paſſa la maluagità umana : doue non penetra l'audacia ? ego di queſto, poco fa
, la Natura, a io ci doleuumo, et penſauamo,che tu fußi quella tu , che d'ogni
male Q uergogna noſtra fußi l'apporta trice . A N. Perunared eu perfida, che ſi
truoua , non crediate di gratia, che oggi di tutte ſieno tali,perche da me ui
prometto,che als tro che onore non hauerete , AR. Bene, o cosine cape nell’anis
mo. Che uuoi tu adunque da me ſapere ? AN.
10 cerco molto , Ò Arte, à modo mio di posſedere coteſta tua cosi bella, o
riguardata figliuola,à benefitio deipopoli, o delle genti, o à gloria tua, di
me,dicui altro cibo più ſoaue non truouo . AR. Prega tu prima la Natura, che à
te conceda corpo ben diſpoſto, oformato , aſpetto graue, o gentile, uoce
chiara, á eſpedita fianco,modo, o mouimen ti conformialla virtù , che
deſideri". Appreſſo poi à me prometterai congiuramento di non ufare già
mai la figliuola mia,uezzofa , inſos lente, « che tanto uagaſia delle bellezze
ſue, che per farſi uaghegs giare in ogni luogo , in ogni tempo , in ogni propoſito
ſenza riſpetto alcuno compariſca . Et con luſinghe eadulatione dal ben fare le
genti , o i popoli aſcoltanti rimuoua . AN. Se ottimo uolere , fe oneſtédimanda
ritruoua luogo appreſſo di te, o Natura, con ogni af fetto ti priego, chetu mi
dia quello chel'arte mi perſuade, che ti dis mandi, corpo
gratiofo,formato,odotato di quelle parti, che conue nientiſono alualore della
figliuola fua . Etſe bene in alcun tempo io non ti poteßi di tanto
donorimeritare,pure non ceſſerò di eſſertiſem pre obligatißima. NAT . Siati la
gratia , che dimandi, conceſſa . A N. Io tigiuro ó Arte,perquella diuinità, che
ſi truoua maggiore, di accoſtumare la tua figliuola à giouare ouà ben
far’altrui , né per modo alcuno permettere, che ella ſeguagli apperiti
diſordinati, ma circoſpetta ſempre , oſempre riguardeuole compariſca . AR. CO
si habbi la chiarezza del ſangue, la libertà , eccellenza della pas tria ,
ibeni da gli huomini defiderati, come ciò facendo,alcolmo della gloria à pochi
conceſſa ,peruenirai. NA . Felice patria ,che di tale, e tant'huomoſaràfornita.
Maqual patria le dareſti tu ,ó Ar te ? AR. A'mia uogliale darei quella ,in cui
le leggi poteſſero piit, che gli huomini , doue la maggior parte alla commune
utilità s'ina drizzaſſe; antica,nobile,illuſtre,e di quelgouerno, nel quale il
bes ne di tutti glialtri gouerniſiconteneffe, qualeforſe non più che unds'e s'è ritrouata ,oſi ritruoua al mondo, oforſe
tu , o Natura,conſentia ſti di prepararle ilpiùſicuro & comodo luogo , oil
piie forte fito , cheueder ſi poſſa,nonmeno al mare che alla terra uicino ,cui
di gra tiaſpeciale ancora il Cielo concede priuilegio di eſſer nimica d'ogni
tumulto, o ſeditione,parca,pia,oreligioſa , con inſtitutiottimi temperata : NA.
Troppo di cuore commendi, o lodi queſta tua Città, eforſe à ciò fare queſto
t’induce ,che tu in eſſa puoi il tuo ud lore, o la tuaforza chiaramente
dimoſtrare . Ma tu, ó Anima, già ricca di tanti doni, chefatti t'habbiamo, che
dici ? A N. Le gratie non ſonopari al uolere,io attendo quello, che attender
dei , &sò lo ſtudio ,che tu ſei ſolita di porre nelle coſe tue;mi&
rendo certa, che tuſai ancora, che ritrouando io unatemperatißima compleßione
di corpo ,à quella dò la umanaperfettione, o come quella temperanza
cade,cosiſopra di eſſa declina ilmio ualore. Làondeſono alcune co ſe, allequali
io non degno la uita concedere. Ad altre ueramente dos no la uita,ma le
operationi di quella cosi ſono occulte, che in forſe fi ftà di credere ſe in
eſſe la uita ſi truoui . Altre uita ,ſenſo, omouis mento da me hanno comealcune
intelligēze, et amore, coſa nobile et ueramente diuina . NAT.
Queſtomipare,checosi ſia map ure als cuna fiata io ueggo, che le anime uan
ſeguitando le compleßioni de' corpi. Onde poiſono alcuni ſdegnoſi, alcuni
manſueti, altriuanno dietro alle apparenze,altrialle fauole più che alla uerità
fi danno , emolti in ogni pruoua, ſoda ex inquiſita ragione uan ricercando. A
N. Et queſto èquello da me tantodeſiderato dono , che e di ſapes re in tal
guiſaſpiegare i concetti miei,ch'io ſatisfaccia à tanta diuer. ſità di nature,
o d'ingegni. NAT. Quando tu ſarai giunta à quel paßo,chetu ſappia per mezo
dell'arte cosi ben gouernarti con ogni maniera di perſone,dotte,roze,ciuili,
barbare, umane, e inumane , allora potrai à tua uoglia mitigar’anco gli
adirati, fpingere i pigri, raffrenare i feroci, ingagliardire i deboli; et di
uno in altro cótrario à uiua forza ogni anima tramutare . A N. Coteſta é und
magica eccellentiſsima. Ma tu Arte,cui è dato di ritrouare alcune uie ragio
neuoli di peruenire alla cognitione di coſe non conoſciute, incomincia da
quelle che facili, en eſpedite ad inuiarmi al deſiderato fine riputes rai . Ar.
Cosi uoglio, o à te farò capo , ó Natura, dinuouo addis mandandoti,di che beni
uuoi tu adornare queſta noſtra nouella ſpoſa ? NAT. Hollo già detto, a più
aperto ti diſtinguo ,dar le uoglio , ol tre al corpo ben formato unauoce grata
, chiara, eguale, che ogniſuonoageuclmente ſi pieghi, e che ſe ſteſſa inſino
all'eſtremo ſoſtenti. AR. Et io le dimoſtreró parole atte ad eſprimere leggia
dramente ogni concetto,pure,ampie, illuftri, eleganti ſeuere,giocona de,
accoſtumate,ſemplici,uere, tarde, ueloci, ofinalmente tali , che abbracceranno
la uera idea di me in queſtoeſſercitio . Et di più io l'inſegnerò di collocarle
si fattamente inſieme, che diletteranno ſema pre , o non falliranno già mai ;
or iu Anima farai ociofa ? AN. Hauendo io per gratia di te Natura le coſe
conuenienti , oper tud corteſia ò Arte le parole conformi, farò si, che niuno
in mepotrà de fiderare ne penſamento neſtudio alcuno . NAT. 10 a' ſenſi tuoiſot
toporrò tutte le coſe, dalle quaifacilmēte ti uerrà fatto di prendere argomento
di ragionare. Tu fin tanto non mancherai di diligenza. AR. Paterno, oſaggio
ricordo. Però che con la diligenza ogni giorno teſteſſa auanzerai, ella ti farà
poßibile ogni impoßibilità ,ela la é la perfettione, lalode di tutte le opere
de mortalijà cui cons giunte ſono tutte queſte coſe, cura, induftria,
penſamento,fatica,eſſer citio , imitatione de migliori, «il tempo padre d'ogni
coſa . Credi adunque à me quelloche la lunga eſperienza mi haidimoſtrato, cioé,
che niente giouano imieiprecetti,niente le regole,niente gli ammae
ſtramenti,ſenza la diligenza,con la quale oltre alla inuentione , all'ordine
delle coſe,otterrai di accommodar la uoce alle parole, eſpri mendo le umili con
baſſo, o rimeſſo ſuono, le pure coniſchiettezza, le afpre con
durezza,abbaſſando, & inalzando queſto beato inſtrué mento à que' tuoni,
che ſaranno conuenienti . An. Coteſte fono leggi da eſſere oſſeruate allora che
io ſarò col corpo congiunta. Pers cheben ſai chenė lingua, nė uoce habbiamo, nė
però egliſi uuoldire cosi ad ogn'uno,in che maniera tra noi fauelliamo . NAT.
10 ſo be ne, chegli huomini andrannofauoleggiando di noi , come altre fiate
hanno detto chele cannucce parlarono , ilche é maggior miracolo , che ſe gli
Indiani uccelli eſprimono le uoci umane. A R. Se già col mio aiuto uolarono gli
huomini, molte coſe inſenſate hebbero mo uimento , che marauiglia potranno oggi
maiprendere del parlar nos ſtro ? AN. Che debbo dir’io ? partita ora dalluogo,oue
il parlaa re é uiſibile , l'intendimento ſenza fauella ſi ſcuopre, muoueſi
ſenza luogo,e s'impara ſenza discorso. AR. Coteſti miracoli , che tu ci
narri,ſono ſegno, che tu non habbia biſogno dell'opera noſtra . AN. Tu di vero,
ſeio nella mia primiera ſimplicità mi rimaneßi. Ma diſcendendo dalpuro o
purgato eſſere, o venendo quaſi ad un'aria infettata e corrotta,molto mi ſento
dal mio primo ſtato ria moſſa . NAT. Peggio ti auerrà meſcolandoticon la masſa
matea riile del corpo . A N. Ad ogni modo mi biſogna ſtar ſottopoſta. AR. Non
uſciamo di ſtrada,macome buoni mercatanti accontiamo inſieme . Haßi
dunquefin'ora promeſſa di uoce eſpedita , di copia di parole , di modo
conueniente di accomodar la uoce alle parole ;oraci reſta di affettare le
parole alle coſe. Cheditu Natura ? NAT. Die co, ch'egli è più che neceſſario
queſto affettamento,ſenzail quale le parole ſarebbon uane et ſenza frutto, però
accreſcendo le doti, che io intendo dare à coſtei , promettole di dimoſtrarle
nelle coſe mie us na certa uerità , alla quale accoſtandoſi, potrà ſeco tirare
ogniforte di gente , o di tale ueritàſenza dubbioti affermo eſſerne ogn'uno
capace. A'R . Già tre corde di queſto liuto ſono accordate , uoci, parole , a
coſe. Reſta, che nelle coſeſi ueda una certa conuenienza con eſſo teco,ò Anima,
e con le parti tue; che ne riſulti la perfetta e compiutafoauità della
deſiderata armonia. Però aiutamia ritros uare le tue più ſecrete parti, epiù
occulte uirtù, acciò cheſi ſappia qual parte di te, con quai coſe, « con che parole,
et con che attione ſi debba muovere . A n. Piacemi queſta diſpoſitione
mirabilmene te ofappi ,che auenga;ch'io nonſia ſtata col corpo già mai, nientes
dimeno come nouella ſpoſa nella caſa del padre molte coſe hoſapute, che mi
aueranno quando ciſarò legata. A R. Ora incomincia à dir mene alcune. AN. Hogià
inteſo,che quando io ſarò con eſſo il cor po, molte mie forze emoltemie uirtù
ſi ſcoprirāno,le qualiora non ſi conoſcono. Et prima ne gli occhi io ſarò il
uedere,nell'orecchie l’u dire, nel palato il guſto , per ogni luogo oparti del
corpo faró ſentimento, nel cuore principio diuita,di ſenſo,etdi mouimento .Ben
che ad altra intentione altri riguardando,la origine di tai coſe ad al tre
parti aſſegnerano. In un luogo ſarò fantaſia,in altro memoriain altro ingegno,et
per tutto ſarò anima.Et ſe il corpo fuſſe di tal tem pra, chegli fuſſe diffoſto
à riceuere ogni mis uirtù, farei nelle orecs chie la uiſte , o ne gli occhi
l'udito, quantunque per molti accia denti , che uengono à i corpi ,
l'animepouerelle uſar non poſſano le forzeloro, da che nacque l'opinione di
coloro, che dicono "credos no che noi moriamo inſieme col corpo.Ma io ti
giuro per quell'onnis potente maeſtro, che mi fece che noiſiamoimmortali , oſe
ora io fo noſenza il corpo,perche non ſi dee credere che io reſtar poſlı dapoi,
che'l corpoſarà disfatto ? AR. Tutto chemolte ragioni aſſai pro Babiliper l'und
ei per l'altra parte mi muouano,pureal modo,che io Sonoſolita di cercare la
uerità delle coſe ,io non ſono puntoſicura del la voſtra immortalità, però
rimettendomi à qualche maggior ſapien za, che la mia non é, mi gioua di credere
che noi uiuiate eternaměte. A N. Più oltraiſe fenza il corpo conoſco ,fo ueggio
, econoſco di conoſcere,miapropria operatione, che dirai tu poſcia dello eſſer
mio ? AR, Ritorniamo al cominciato ragionamento . An. Ben ti dico ora delle
forze mie, perche io conoſco di dentro , e di fuori, dentro con la fantaſia,
col diſcorſo , o con l'intelletto , o ciò si dia mandavolontà, come quello del
ſenſo appetito , il quale hauirtù di porſiinanzialle coſe diletteuoli, o di
fuggire le diſpiaceuoli.La no lontà è Regind. AR . A'me pare , che tu mi
hábbiposto inanzia gli occhi la forma di una ben'ordinata Republica, nella
quale ui ſia il Principe, iCoſiglieri,i Guardiani, et gli Artefici.
Mainfinitamentemi doglio d'alcuni , che per molti ſecreti auenimenti, de' quali
non fan renderealtramente ragione, corrono à fabricar nomi, che nonſono, et con
quegli impauriſcono le genti,aguiſa delle nutrici,che ſpauenta, no ifanciulli
con le fauole, quindi è nato il nome della Fortuna,cui ca pital nimica io
ſempreſonoſtata, nõ percheio creda,che à quel nome alcuna coſariſponda ,
maperche mimoleſtalafalſa opinione di colo ro, che non ſolamente uogliono , che
ella ſia una coſa come le altre, che ſono, ma le attribuiſcono la diuinità.
NAT. 10fo bene, che la for tuna non è fattura mia . ART. Né di me'ancora. An.
Molto mea no dimeauezza à coſe stabili e impermutabili. ART. Laſcida mola
dunque andare, o ueggiamo ſe io ti bo ben’inteſa, due ſono i conſiglieri,per
quanto io comprendo,ragione, &appetito, daiquali commoſſo e
perſuaſo,s’induce à fare, eoperare il tutto , perche ora nė difortuna,nédi
uiolenza alcuna ragiono. A N. Senza dub bio ,ſe riguardi al nome, maſaper dei,
che ſotto queſto nome di appea tito ſi comprendono due conſiglieri,l'uno , nel
quale è poſto l'iracons dia,che è come difenſore dell'altro,nelquale è posta
lacõcupiſcenza. AR . O diquantimali, e di quante conteſe l'uno e l'altro de gli
appetiti ſuoleſſer ſemenza . An. Queſto non già auiene pur il dritto gouerno in
tirannia non ſi tramuti. Diritto gouer è quel lo,nel quale ,chi deue ubidire,
ubidiſce , ochi dee comandare, cos manda". La ragione adunque di queſta
piccola città preceder deue allo appetito, e non permettere, che egli ad abandonate
redini cors sendo, ſeco dietro la tiri. AR . Moltomipidce quello che tu di,eso
B per che 1 jo per ricompenſa di tal piacere voglioti ſcopriremoltiſecreti, che
io bo d'intorno alle predette coſe.Ma dimmi tu prima queſta una parte, nella
quale é riposta la ragione,diche hai tu inteſo cheella eſſer deb bia adornata ?
NAT. Diſcienza o di buona opinione ART, Vero é , per che la ſcienza é ilpiù
bello adornamento , che s'habs bia, al qualeſe s’auicina la buona opinione,ò
che gentileabito é que ſto ,diche l'animaſiueſte apparando le ſcienze . Alora
ella acquiſta laſua perfettione,allora ella é pronta à conſeguire il deſiderato
fine, & quaſi ſeſopraſeinnalzando auanza ogni coſa mortale, o ſi cons
giungecon la diuinità .Ma come di coſa precioſa,orara, difficile,or non da noi
ora cercata,non ne ragioniamo, ma ritorniamo alla buong opinione , la quale si
come la ſcienza è una certa cognitione delle cofe occulte, nata da uere og
manifeſte cagioni, cosi eſſa opinione è una incerta notitia,nata da alcune
dubbioſe cagioni, alle quali l'anis ma con timore difallire, odi errare,
s'inchina . Per uoler'adunque ottenere l'intento fuo ,é biſognoconoſcere il
modo,col quale dapia gliareſi hanno ,o , comeſidice , farſi beneuoli i detti
conſiglieri,ac cio che acquiſtata lagratia loro , l'animaſi muoua àfareleuoglie
di chi parla.Muoueſiadunque la ragioneuol parte,che è nell'anima, că lepruoue,
ocon le ragioni; & tal mouimento s'addimanda inſegna re. Etperche la
ragione è uno de' conſiglieri,prudente,etſuegliato , perd nell'ufficio deŪ'inſegnare
é di mestiere diacuto epronto inten : dimento,mal'appetito in altro
modoſimuoue.Il primo , che è detto Concupiſcibile,richiede una certa
piaceuolezzaet cõciliatione. Pero ciòche cosi di dentro i petti umaniſono da
quello tirati . Ilſecondo gli fpigneàforza, operò cõ eſo egliſiuuole uſare uno
impeto, a cui più propriamente queſto nomedimouimento ſi conuiene, che à gli al
tri ; e comedebito è lo inſegnare,cioè il dimoſtrare con ueriſimil pruoua le
propoſte coſe, cosi è onoreuole il conciliare, o neceſſario il muouere. Ma da
ogni afficio di queſti tre peruiene lapropria dileto tatione. An. Io ſo almeno
,che altro diletto non ho che lo apparda re . AR. Et tu prouerai appreſo quanto
piacere naſca negliapa petiti. An. 10 pure ſono auifata cheeſſendo in eßi ripoſte
le umaa ne affettioni, nonpuò eſſere che ſenza riſentimento di dolore ſimuou
wano. ART. In ogni affetto, & mouimento d'animo,dolore, o piso cere ſono
compagni.Oruedi quáto sfrenataſia l'iracondia, oquana to doloroſo ſia
l'adirato,et pure conoſcerai, che lo appetito,et la ime ginatione della
vendettaglie piùfoane che il mele. Ho duucrtito ,che nc ELOQVEN Z A. ii negli
eſtremi dolori gli huomini hauuto hanno piacere di dolerſi , ayo il non poter
ciò fare , èſtato loro di doppia doglia cagione , non cbe à loro
elettionehaueſſero uoluto l'occaſione di dolerſi,ma poſti neldo lore; dolce
coſa il poter'à lor uoglia ramaricarſi hāno riputato. Dilet ta ueramente la
ſperanza,ma il deſiderio la tormenta. Peßima coſa è la diſperatione tra
tuttigli affetti umani , maſola è ſicura contra la morte. Mauannetu diſcorrendo
nelle altre perturbationi,che trouca rai nella allegrezza ſteſſa un mancamento
diſpiriti , ounatenerez xa, che al pianto ti condurrà fpele fiate.Però io
tiſcuopriròintorno à tai coſe bellißimiſecreti. A N. sidigratia; percioche
queſte mi paiono leuere, epotentifuni, con le quai ſi tirano l'altrui ate nos
ſtre uoglie. A R. 10 ho inſegnato a' mieifedeli,che non fieno fema pre
folleciti d'intorno ad unoaffetto , per fuggire la noia con la uda rietà dellecoſe,
imitando la Natura, la qualeamaſopra modo il udm riare,o il mutare le coſe ſue.
NAT. Vero è, perche chiaramente dei vedere la diuerſità delle ſtagioniedei
tempi, la grandezza co l'ornamento de i cieli, la moltitudine delle coſe e
delle apparenze, ch'io ſonouſata di dare alle coſe mie. AR. O'quanto io leggo
fo pra il tuo libro è Natura ;ma non abandoniamo l'impreſa. Deiaduna que
fapereè Animàun'altroſecreto, non meno delſopra detto bello, degno da eſſere
apprezzato . Jo ti dico che tu auuertiſca bene di nõ ſollecitare con tutte le
forze ad unoſteſſo tempo i detti conſiglieri, perche l'anima trauiata in molti
mouimenti , non attende comeſi dee ad un ſolo .L'eſperienza ti moſtrerà, che ad
un'bora né gliocchi, di belißime pitture,né l'orecchie di ſoauißime confonanze
potrai pies: namenteſatiarejma compartendole opere , meglio aſſai per guſtare i
diletti,e i piaceri delſenſo ,uederai quanto può queſtaſeparata pers ſuaſione.
Inſegna adunque. Inſegnato che hauerai,muoui ,apporta le facelle, et eccita con
gli ſtimolide gli affetti l'animo de gliaſcoltanti. AN. O' Arte tu ſarai ſempre
arte. A n. Et tu anima ſaraiſempre anima. A N. Eſſendo io anima, o da te
ammueſtrata,diuentero Ar te , o tu eſſendo in me Arte , Anima diventerai. A R.
Nuouo miracolo,didue coſe farne una ; ma digratia non ci laſciamo ſuiare dalle
occaſioni,che in uero alcuna uolta épiùdifficile la ſcelta, che la inuentione.
Ora foniamo a raccolta, o quaſi ſotto uno ſtendardo ria duciamo le tue;uirtù,
dalle quali fin’ora habbiamo iregali aßiſtenti ragione, concupiſcenza,oira.
Reſta, che andiamo alle altre parti . ; AN. Cosi faremo, o da eſſa memoria
ſidarà principio. AR..O B quanto tiſon tenuta in nomeſuo,che mi giouerebbe
duuertiré un'afa fetto di Natura, ſe altra fiata in quello abbattendomi , la memoris
preſta nõ mi diceſse, Eccoti,ò Arte,quello che ancora uedeſti. Che es ſperienza
ſitruouain meſenza di eſſa ?chis'accorgerebbe , che in al . cuna di uoi, ó
Anine , io miritrouaßi , ſe non fuſe la memoria come guardiana, teſoriera
ditutte le parti dello ingegno ? onde con ues rità ſidice, Che tanto fa
l'huomo, quäto ſiricordaNaſce la memoria dal bene ordinare , l'ordine dello
intendere, odal penſamento , però poſſo io con le imagini in alcuni luoghi
riposte artificioſaméte indura rela memoriadelle coſe. NAT. A lungo andare tu
le ſeipiù toſto di danno , che di prò alcuno ,però non mipiace altro che uno
eſſercitio, di eſſa memoria,cheſi fa mandando motte coſe à mente . A R. Che fai
tu di eſſercitio • Natura, l'ordine della quale è ſempre conforme ? il tuo fuoco
ſempre tiraall'insù , la tua terra per lo dritto all'ingiù di fcende, o cot ſuo
giuſto peſo al centro rouinando à modo alcuno non fi può uſare alla
ſalita.volgeſiilcielo tutta fiata raggirandoſi in ſe medeſimo, ogni tua legge e
impermutabile, o tutto che i tuoi mona ftri, le tue ſconciature alcuna volta ci
diano da marauigliare, pus ge ſono tue fatture,néſono alla tua generale
intentione repugnanti, mal'Anime da uno in altro cõtrario trapaſſando, buone di
ree,et ree di buonediuengono. NAT. Io conoſco il biſogno in quel modo che gli
occhi comprendono la notte , che é priuatione di luce, ma ben ti dico,chela
memoria da me con molta cura é guardata nella compoſiz tione dell'huomo. A R.
Io l'ho auuertito nel tagliare di eſſo, egomi fono marauigliata con quanta cura
difeſo hai quella parte,nella quale éla memoria collocata ,hauendole dato nella
parte di dietro della tes ſta un'oſſo fermo, e rileuato ,che da
ogniſtranieraforza nella difens da.Tui in temperata umidità e la impreſione, e
in ſecco proportios nato la ritentione delle coſe. Ma tu Arima,la cui nobiltà
fi fa manife ſta per tante & tali operationi , di ciò il tuo fattore ne
ringratierai, regolando con la ragione i tuoi appetiti, penſa,ordina, ocon lo
eſa fercitio conſerua la memoria quanto puoi,percheciò facendo,tale di
senterai,quale deſideri, e conoſcendo te ſteſſa, conoſcerai l'altre tue forelle
, & come della più onorata di eſſe la tua ragione ſopraſta alla loro, il
tuo dritto deſiderio ſarà lor freno , onde infinita riputatione acquiſterai,perche
di leggieriſicrede à colui,in chiſifida, et facilmen te ſi fida in chi ſi
truoua autorità , w credito, il qual naſce dalla inte grità ,o bontà de'
coſtumi, o queſto é ,ch'io deſideroſa , fe altra ſi trkowa E LO QVEN Z A. 13
truoua del bene,temo aſſai non abbattermiin perſonemalungie.AN : In che
potranno ufare la loro malu agità , non eſſendo lor data ſede ? ART . Come io
non ti niego,che il uiuer bene,es accoſtumatamente non ſia di gran giouamento à
farſi luogo nel coſpetto degli huomini, e acquiſtarlagratia de gli
aſcoltanti,cosi non ti conſento che l'has uergli dalla ſua,per uirtù, oforza di
parole non ſi poſſa fare. A N. Perche inſegni tu coteſti incanteſimi? A R. Il
mio ualore e tale , che io poſſi in parti contrarie e repugnanti , ſenza che io
deſidero ſcoprire in altruiſimili inganni,e però biſogna conoſcergli, cosila
uerità ſtadi ſopra, ola bugia cade'uinta in terra,cosiſiponfine alle conteſe,
cosi ſi terminano le liti , cosi ſi ammolliſce le durezze degli adirati,
s'attura le rabbie de’ ſeditioſi, ſi ſollieua l'autorità delle leggi caduta
contra il uolere di quegli, che ſtimando l'oro , l'argento, più cheil douere,
& à prezzoſeruendo , poſpongono la ſalute coma mune alla utilità priuata.o
quanto nei publici mali,e nei tempi pe ricoloſi compenſo pigliarſi ſuole dal
parlare digraue et onorato cit . tadino,le cui parole condite diſenno,ſeco
hanno l'alleggiamento d'o gnimalinconia,che gliafflige. An. E dunquegran
difetto d'huos mini da bene? AR. Senza dubbio , o ciò auiene perche la uia dis
ritta è una,male torteſono infinite, però di raro ſi vede tra mortali, chi per
la ſola camini. Ma tuſcordata ti ſei d’un'altrauirtù, la quale per mettere le
coſe dinanzi a gli occhi ( il che éſommamente richies ſto)non ha pari.Di queſta
uirtù , perche ella ha grande amicitia co i ſenſi corporali,o é molto
confuſa,come quella , che é lo ſpecchio ges nerale di tuttii ſentimenti umani ,
o perciò è detta imaginatione;di queſta uirtù dico, non hauendola tu ancora
eſſercitata, non ne haifin ora alcuna parola mosſa . Io odo dire che nella
imaginationeſirifere bano le imagini, e le apparenze da ſenſi riceuute,et
beneppeſſo in lei cosi ſtranamente tramutarſi che i ſogni non ſono cosi
turbati, et con fuſi, là onde molti ſono detti, o riputati fantaſtici, altri ſi
fanno Re O signori,o talmente par loro eſſere que'tali , che ſi credono di eſ
ſere,che riſo eg compaßione mouono a chigli vede . Alcuni uanno , come ſi
dice,in aria fábricando, et tanto ſi ſtannonel lor penſiero fißi, che
forſennati,e pazzi da tutti creduti ſono. A R. Quanto piùe uanamente ſpender ſi
ſuole tal uirtù , tanto à maggior prò li deue ue farla,& adoperarla. Per
queſta l'huomo prima taleſi fa, qual uuole che altri ſieno . Perche egli prima
dentro diſe ſi propone la coſa, che egli cerca dare ad intendere altrui, con quel
migliore e più eccelslente modo cheſi può, auolendo egli metter’altri a pianto,
non tera rà mai gli occhi aſciutti . Simile forza nella pittura ſi dimoſtra,lo
ar tefice della quale, ogni forma, che egli cerca di far uederenelle ſue tele,
primanella imaginatione fermamente ſi dipinze, o quanto più belli,o gagliarda è
la ſua imaginatione, tantopiù illuſtre, o loda . ta e la ſua pittura.Molte
forme, oſembianze ſono de gli adirati,ma una più eſprimela forza dell'iracondia
; queſta una deue inanzi alle altre eſſer poſta nella fantaſia, o à quela il
pennello e la linguafi deue indrizzare ; en cosi tutta fiata il più efficace
modo o di moues re, o di dilettare, ò d'inſegnare por ſi dee
chiragiona,inanzi,accioche egli ſi habbia l'aſcoltatore come deſidera.Et queſta
è la utilità grans de di coteſta tuapericoloſa potenza,pericoloſa
dico,perchemolti no ſanno ufarla à feruigidello intelletto , ocredono , che lo
imaginarſi ſia intendere odiſcorrere . Ma laſciamo queſto da parte;o racco :
gliamo le tue uirtù. Che mi hai tu dato fin'ora ? An. Mente,uolons
tà,appetito,memoria,imaginatione. A RT. Molto mi piace.Nella mente, che
uiporremo altro, ſenon buona opinione, con l'ufficio dello inſegnare? Làonde la
uolontà ſi muoua ad abbracciar le coſe . Et nel lo appetito,che ui ſtarà
ſenongli affetti ,eccitaticol muouere, &col dilettare, Là onde l'animo ſia
uiolentato à bene eſſequire ? Della me. moria non dico altro, né della
imaginatione , percheſono ambedue di ſopra aſſai bene ſtate de noi diſtinte .
Ora bella coſa udirai, oda non eſſer à dietro laſciata. A N. Che mi dirai tu ?
ART. Dicoti,che doppo la eſpedita dimoſtratione di tutte le tue parti, fa di
meſtiere di ſapere in qual maniera elleſieno dipoſte à riceuere la impreſione
dei loro oggetti. Perche uana, ofriuolafatica quella ſarebbe, di chi af
fettaſſe in parte al pianto diſpoſta ſenza alcun mezo porre il piacere. Credi
tu che eguale prontezza hauerai allo imparare,et allo adirars ti ? Indrizza
adunque i tuoi penſieri à gli ammaeſtramenti , che io ti uoglio dare, oſaperai
comedeueeſſer'apparecchiato l'animo dico . lui che ricerca la pruoua, edi colui
che è pronto all'affettione, imis tando i buoni medici, i quali prima
uannoinueſtigado quai partiſieno guaſte, o quaiſane,eappreſſo , le guaſte uanno
disponendo à rices uere i rimedij conuenienti; e primaleniſcono, e ammolliſcono
, poi apportano la medicina . L'anima adunque , nella quale la ragione fi dee
porre, acciò che dia luogo alle pruoue, et accettar poſſa la buona opinione, e
iſcacciare la contraria,deue eſſere ripoſata, e quieta,et non in modo niuno
affettionata, et trauagliata. Perche eſſendo il pian cere, E LO QVEN Z A. 15
cere,cheha l'anima, quandoimpara, foauißima coſa , biſognofache ellaſia lontana
da ogniturbatione , operò molto male è conſigliato colui chenel conſigliar'altrui
uſa la forza, o la violenza degli aps petiti, °li affetti,laſciando il
ripoſo della verità daparte ; qual contento può riportar colui, che partito dal
Senato dica, per qual ragione ho io aſſentito?perche ho io cosi
deliberato?Buona coſa è l'hauer’alla uerità conſentito,mamiglior'e , ciò
hauerfatto ragion neuolmente più toſto che à forza,perche in tal caſo non pure
ſifabe ne,maſiſa di far bene; di che non è coſa più diletteuole w gioconda.
Habbiaſi dunque l'animo ripoſato di colui cheattende la ragione; queſto
ageuolmenteſi può fare , ponendoſiprima di mezo trail si o il no,come chiſta in
dubbio.Però che più prontamëte ſi prende para tito,et ſi ammette il uero
dubitando,che portando ſeco alcuna opinio ne . Macome diſpoſto ſia lo
appetitoalle coſeſueattendi,che loſaprai con una bella diuiſione degli affetti.
Perciò che in eſſo appetito gliaf fetti ripoſti ſtanno,comet'ho detto. Ogni
affetto e d'intorno al male, ò d'intornoal bene, truouiſi pure lo affetto in
qualunque parteſi uos glia. Ecco nel tuo generoſoſoldato,cui é conceſſo
l'adirarſi, opren. der l’armi quando biſogna dico dello appetito iraſcibile
,d'intorno al bene uiſta la ſperanza, e la diſperatione. Laſperanza é uno
aſpetta re il bene, la diſperatione è un cadimento da quello aſpettare . D'in =
torno al maleuiſta l'ira, la manſuetudine , il timore , ol'audacia. Ira é
appetito diuendetta euidente per riceuuto oltraggio Mania ſuetudine
èraffrenamento dell'ira , oambedue queſti affettiſono in torno
almale,difficile,etpreſente.Il timore é un aſpettatione di noia, ouero un
ſoſpetto di eſſere diſonorato.Et queſta ſichiamauergogna. Il primo,ouero é
temperato,ouero eccede la miſura. Dal temperato neuieneil conſiglio,dall'altro
la inconſideratione,il tremore, & altri ſtrani accidenti.Laconfidenza ,
«audacia, é contrario affetto . Et queſte perturbationi tutte ſono d'intorno
almale che dee uenire.Nel L'altro appetito, in cui è poſta la concupiſcenza ,
d'intorno al bene ui ſta l’amore,il deſiderio, a l'allegrezza. D'intorno al
male l'odio, o l'abominatione, di cui ſegno infelice e la triſtezza, dalla
quale naſce l'inuidia, la emulatione, lo ſdegno, o la compaßione,quando auiene
che la triſtezza detta ſia de i maliouero de i beni altrui. Ma nelle co fe
proprie affligendoſi l'huomo tre alleggiamenti ritruoua. Il primo ė ripoſto nel
proprio ualore, perche niuno ſcelerato é compiutamente aüegro.L'altro è meſſo
nel conſiderare il dritto della ragione, werita 16 D ' Ε ι ι Α fuerità delle
coſe, da che naſce la ſofferenza figliuoladella fortezza. L'ultimo é la
conuerſatione di alcuno amico , perche ne gli amici e ripoſta la ſoauità della
uita . Ritornando adunque allo amore, ti dico, che Amore è uoglia del bene
altrui,eu ſe é mouimento d'animo a far bene, li dimanda gratis . Senonſopporta
concorrenza , geloſia , lela ſopporta ad onefto fine , amicitia . L'inuidia non
uorrebbe, che altri haueſſe bene,ſe benuifuſſe il merito . Lo ſdegno non lo
uorreb be , non ui eſſendo il merito La emulatione il uorrebbe anche per ſe .
La compaßione ſi duole del male altrui , temendo il ſimilenon da uengu á lei .
Etciò ti puòbaſtare in quanto ad una brieue dichiaraz tiore di tutti gli umani
affetti . Ora econueniente, che tu ſappia in che modo à ciaſcuno d'eſſi tu ſia
diſpoſta , acciò che tu ſappia poi als truiſimigliantemente diſporre . Eſſendo
adunque l'appetito uarias mente affettionato, quandoſi ſdegna,quandoinuidia,
quando aborris ſcequando ama, quando teme, quandofpera, equando in altro mo .
do é trauagliato,acommoſſo , aſcolta un bellißimo ſecreto, ilquale non
ſolamente à diſporre gli animi à qualunque affetto è buono, ma in ogni
operatione é neceſſario, & benche oggi mai per uero ammies ſtramento della
uita da ogn'uno ſi dica , RIGVARDA AL F 13 NE, non é però d'ogn’uno l'applicare
alle attioni o opere de' mor tali, cosi belle ſentenza . Laſcerò da canto le
coſe, che non ſpettano alla noſtra intentione,ſolo dirotti quanto io deſidero,
che ſia negli af fetti oſſeruato. Deiſapere che egli ſi truoua una maniera
diparlare, la quale in molte, manifeſte parole effrime la forzı, ey la natura
delle coſe ; e quelle molte, omanifeſte parole altro non ſono , che le parti
della coſa eſpreſſa. Queſtamanieradi parlare é detta Diffie nitione . Ora
dunque io ti ammoniſco, che nel muouere gli effetti pri ma tu habbia à
riguardare alla diffinitione di ciaſcuno,come al deſide rato fine. Però cheſe
la diffinitione rinchiude in certi termini la nas turi della coſa propoſta ,
ſenza dubbio querrà, che il conoſcitoredel la natura , o delle parti deltutto
diffinito , oeſpreſſo , indrizzerà tutte le forze dello ingegno ſuo, à ciò
fare,et tale aiuto preſterà abon dantißima copia di ragionare , o diſciogliere
ogni occorrente diffi cultà, e durezzé . Eccotiſe ſai, che l'ira é deſiderio di
uendetta per riceuuto oltraggio , o ſe mirerai in queſto fine , non anderai tu
dia ſcorrendo, in qual modo eſſer debbia diſpoſto all'ira colui, che tu uora
rai hauere ſcorucciato ? o conchi, oper qualicagione, & quanti modiſieno di
oltraggiare altrui ? Et ciòin ogni affetto facendo,non ti farai ſignore , &
poſſeditore dello animo di ciaſcheduno ? Et rans to più dimoſtrerai con la uoce
, & co i mouimenti del corpo , te tale . effere, quale uorrai,che altri
ſia,certamente si . La diffinitione adun queé il ſegno,al quale ſi deue
attentamente guardare . Ora inbrieue ti dico dell'ira, che eſſendo ella uoglia
di uendetta,è neceſſario,che lo adirato ſi dolga, o dolendoſi appetiſca alcuna
coſa, dalche naſce,che repugnando altri à gli umani deſiderij , ouero à quelli
alcuno impedi mento ponendo , ouero in qualunquemodo ritardande le uoglie al
trui, porga cigione di adirarſi, cioé di deſiderare uendetta,ilperche nella
ſtanchezza nell'amore, nella pouertà , e ne i biſogni ſonodiſpoſti i petti
umani agramente al dolore cagionato dall'ira, epiù cheſono ideſiderijmaggiori,
più apparecchiati , oprontiſono all'ira , o al furore. Lo hauer male di chi
s'attende ilbene,lo eſſere in poco pre gio tenuto , ò diſubidito, o prezzato ,
o per ingratitudine , ò per ingiuria ſenza prò dello ingiuriatore, ſono tutte
diſpoſitioni al predet to mouimento .Giouamolto , oin queſto , & in altri
affetti ſaper. la natura,ilpaeſe, la fortuna, ela conſuetudine di ciaſcheduno .
Se adunque ſi accende nell'ira in tal modo, chië diſonorato , o iſcordas
to,ſenza dubbio acqueterai colui cheſarà onorato, riuerito ,ubidito, ammeſſo,
et riputato;ouero, chiſiſarà uendicato ,a cuiſarà dimandato perdono con la
confeßione del fallo , incolpando la violenza , enon la uolontà. Deueſi dare
molto al tempo, oalla occaſionein ognicoſa, operò ne' conuiti, ne i diletti,
one igiuochigli umani appetitifoa no più alla manfuetudine inchinati
Dell'amorealtro non tidico , le non che eſſendo eſo soglia del bene altrui,
l'eſſere cagione , mezano, interceſſore, aiutore al bene altrui,diſpone
ageuolmente à tale affets to ciaſcuno . Et perche Amore appreſſo, é una
ſimiglianza, w unios ne di uolere , però coluiſarà più amato , ocon l'animo più
abbrace ciato, il quale dimoſtrerà d'eſſere d'un'animo, o d'una uoglia steſſa
con noi . Ilche nelle allegrezze, one i dolori ſi conoſce, o neį biſoa gni
ancora ; non ſolo nelle perſone amate, ma ancora negli amici de gli amici .
Allo Amore riferiſco la Benuoglienza, e l'Amicitia, las quale , ben che affetto
non ſia , pure è nata da eſſo amore , che è uno de gli umani affetti. Qui non é
luogo di più diſtintamente ragionare dell'amicitia; de gli oggetti, delle
parti, e delſine ſuo . Perciò che altroue nei graui ragionamenti di filoſofia
ciò ſi conuiene . Baftiti d'hauere per ora la ſuperficie , el'apparenza .
Ritorno adunque e ti dico,che ipiaceuoli,coloro, cheſidimenticano dell'ingiurie
i с faceti, imanſueti, gli officiofi uerſo i lontani, atti ſono ad eſſer'amati.
Peril cótrario ſapersi chedire intorno all'odio,il quale è ira inſatia: bile,
da uendetta, da tempo,daruina alcuna non mitigato; occulto ine ſidiatore, ymortale,
nato da in giurie o ſoſpetti. Al quale diſpoſte ſono altre nature più, altre
meno, o à megliodiſporle,biſogna ams plificare le ingiurie, « iſospetti,acciò
che nonſoloſi brami una ſema plice uendetta, ma la diſtruttione della perſona
odista . Del timore , odella confidenza, che ne attendi più , ſe di queſta ,
ed'ogni altra perturbatione ne i uolumi degliſcrittori, et nelle pratiche
umane'ne Jei per uedere aſſai ? Timore e turbation d'animo, nata da ſoſpetto di
futura noia . Et però chi temeſa ó penſa dipotere ageuolmente eſſer’offeſo, eda
chiſpecialmente, ſopraſtando il tempo,es la occas : fione. Etchiciò non
ſoſpetta,non é al timore diſpoſto comeé chi ſem pre éſtato fortunato, chi
ſempre miſero, chi è copioſo d'amici, di ros 64,09di potere,chi é fuggitoſpeſo
dalle ſciag ure, ode pericoli,ego altriſimiglianti ;o que'taliſono confidenti,
&audaci . Euui altra maniera di timore, non didanno,madi biaſimo; alla
quale diſpoſtiſos no i giouanetti,i riſpettoſi, oriuerenti, quelli
cheuoglionoeſſer' ha uutiper buoni da ' più uecchi , o da ſimili , opari . Et
però aûa loro preſenzaſonopronti ad arroſire. Non cosi ſono i vecchi,perche non
credono,che di loro altri ſoſpettino quelle coſe , che ſono ne' giouani, come
laſciuie,amori, euanità. Etperche il diſonore è coſa, cheuies n'altronde, però
gli ſpiritidalſangue à quellaparte, che più lo ricer inuiati ſono .Ladoueil
uiſo ſi tignediquel roſſore , cheſi vede . il contrario nei timidi, nel cuore
dei quali il ſangue ſi riſtringe, per ſoccorſo di quella parte , che teme la
offenſione .Nella uergogna ſi abbaſſano gli occhi , come che tolerar nonſi
posſa la preſenza dicos lui, che è giudice de i difetti umani . Queſto è ne'
giouani aſſai buon ſegno di gentil natura . Però che pare , cheuergognandoſi
conoſcas no idifetti, ey habbiano cura di quelli . Non uogliopire diſcorrer’ina
torno all'audacia, allo ſdegno, alla compaßione, alla emulatione, « al la
inuidia . Però che molto ne uedraiſcritto , eragionato da altri. Ben non ti
poſſo tacere del male acerbo , mortale, ch'io uoglio à quella fiera indomita,
eabomineuole dell'inuidia, che all'udir ſolo il nomeſuo, ſtranamentemi muouo .
Lafigura ,i modi, ai coſtumi di eſſa ſono da gran poetadeſcritti. Di queſta mi
dolgo , per eſſer quels la, che più regnaneimiei ſeguaci. Là doue il fabro al
fabro, il mes dico al medico ,l'uno artefice all'altro , inuidia portano ſempremai
. M4 ca ,Md tacciamoora di queſto, e poicheragionatohabbiamo di te, delo le
parti tue,delle quali taci, che in eſſeſi ſtanno,e delle loro difpofia tioni ,
addimandiamo la Natura quaicoſe a’quai parti di te conuena gono , acciò che
accordando la foauißima armonia della umana elo quenza con piacere, og
utiledegli aſcoltanti uditi ſiamo apieno por polo raccontare i miracoli della
Natura. ' AN. lo ueggio ben oggia mai' ' Arte, che tuſei quella chefai l'acume
, ò la ſottilezzadell’oca chio mortale nel ſecreto della diuinamentetrapaſſare.
AN. Anzi per te, ó Anima,coteſto mirabile ufficio s'acquiſta, la cui cognitione
tanto apporta di lume, e chiarezzaad ogniprofeßione, o ſcienza, che ucramenteſi
può dire chetuſia ilprincipio d'ogni conoſcimento Etperò chiunqueſtima; ola
uſanza di uno leggierieſſercitio, o il ca fo tanto potere quanto tu, o
io.uagliamo , grandamente s'allontana dal uero. Tu t'abbatterai in un ſecolo
impazzito, d'huomini, i quali s'accoſteranno ad imitare più uno , che l'altro ,
olo imitar loro non faràſenon manifeſto rubamento, ſciocchi,oferui imitatori,
che non Sapendo , perche altri s'habbiano acquiſtato il nome , tutta via in ciò
s'affaticano. Altri perche hanno unaſcelta di belle , &ornate pde role
uogliono ad uno ſteſſo tempo fcoprirle accomodando à quelle i concetti loro ;
ma che poi ſono cosi rozi, a inetti,cheſenza ordine , Ofuor di tempo le
metteranno, e diranno, Io cosi dißi,perche cosi ha detto alcuno de' più
preſtanti. Queſtiſono gli incomodi delfecom lo. Nat. O`quanto m’increſce perciò
eſſere ſtimatapouera «biſo gnoſa, come che à me manchi alcunafiata,che donare,
o che nel cer care l'altrui teſoro l'huomo perda,ò non conoſca il ſuo . AR. Chi
ſempre ſegue, ſempre ſta di dietro , chi nonua dipari,nõ puòauan zare . Male
hauerebbonofatto i primi inuentori delle coſe , fehae veſſero aſpettato
,chiloro douea farla ſtrada . Et troppo pigro écoe lui, cheſi contenta del
ritrouato. Ionon porgo già mai la mano a chi laſcia , oabandona la naturale
inclinatione , come bene ho ueduto que' ali non conſeguire il deſiderato fine .
NAT. Mi turbano apa preſſo quelli, ò Arte, che tanto di me ſi fidano , che te
laſciano à dies tro". A R. Non ti dißi da principio, chenoi erauamo unite
, e che ciò che appare di uarietà, e diſomiglianza tra noi,e in un principio
ricongiunto ? NAT. Che miditu ? A R. Chiunque opera alcuna coſa da me drizzato
, uſa una regola commune, & uniuerſale, che à molte, diuerſe nature
feruendo,quelle uniſce, o lega in uno artifi cio medeſimo , perche io ſono la
conformità,o la ſimiglianza ;altri acuti 20 DELLA ! acutifono , eſuegliati,
altriſeueri,& graui,altri piaceuoli,&eles ganti per natura . Vnaperò e
l'arte,una éla uia, che ciaſcuno al ſuo ſegno conduce . Quando adunque l'arte
precede,facile e lo imitare ; lodeuole il rubare , & aperta la ſtrada
alſuperare altrui . Et in tal guiſa bene ſilpendeſenza lo auantarſi di eſſer
ricco, a fenza dar ſos: spittione di uergognoſo furto . Accompagnifi dunque
nelle ciuili con teſe il core, ola ſcrima,cioè la natura, el'arte, ogſi
uederanno poi que’miracoli, ch'io ſo fare . Ma laſciamo tai coſe, e incomincia
o Natura , o dimmi , in che modo le coſe tue fiſtanno , che di eſſe cosi
dileggieri gli huominiſiuanno ingannando NAT. Sappi ò Arte, che ogn'uno che ci
naſce, ſeco porta dal naſcimento ſuo unacerta ins clinatione alla uerità ,
donde auiene, che inſieme con glianni creſcens do ella in parteſuole il uero
congetturare, laqual congetturi opis nione più toſtocheſcienza uferai di
chiamare . Laſcio la uſanza mia imitatrice,chefino da primiannirecarſuole molte
opinioni, che poi dipenacon l'altra certezzaſileuano, parlerò di quella
ſembianza più toſto, che ſembiante di uero ,cheé atta nata à muouere l'umane
mentia far giudicio delle coſe . Dico adunque, alcune coſeeſſer da ſe ſteſſe
manifeſte , chiare , altre , niente da ſe hanno di lume, edi
fplendore,mailluminate da quelleche ſeco hanno la luce , ſi fannoa? fenſi
umanipaleſi ; nel primo gradoé il Sole , o tutti que' corpi, che ſon chiamati
luminoſi . Nel ſecondo ſono i corpi coloriti, i quali non hannoin ſe ſcintilla
di chiarezza, ma d'altronde ſono illuminati . Il fimigliante ſi ritruoua nello
intelletto . Iljaale riceuendo alcune coſe diſubito quelle apprende, og ritiene
. Però che quelle ſeco hannoil lume loro, ſe à me ſteſſe il fabricare de' nomi,
io le chiamerei Noti tie, ouero Intendimentiprimi. Ma poi altre ſono , che non
hannoda ſe lume, ó uiuezza alcuna,&però di quelle ſifa giudicio con
ſoſpetto di errare, fe da altro luogo la loro intelligenza non uiene ; quinci ė
nata la opinione, la quale come opinione, che ella é, né uera ſitruoua, ne
falfa. Il difetto naſce daquelli uirtù,chepoco dianzi diceſte.Pero che le coſe
mie fono, come ſono,mariceuute nell'anima, e da' ſenſi al la fantaſia per
alcune debili ſembianze traportate , ſtranamente meſcolate,fannodiuerſe
opinioni. Ben’é uero, ch'io non faccio una co ſa tanto diuerſa da un'altra, che
l'huomo dueduto non poſſa alcuna Somiglianza tra eſſe ritrouare . A R. Molto mi
piace che l'animadi ciò nonſia fatta capace, perche accadendoleſpeſo mutare le
opinioni umine, e da uno in altro contrario traportarle, molto deſtramente biſogna
adoperarſi,et diſimiglianza, in ſimiglianzaà poco a poco pas fando,perchelo
errore in eſe ſimiglianze ſinaſconde, tirar le menti, che no s'aueggono di una
in altra ſentenza. An . Et chi può queſto ageuolmente fare ? A R. Chi con
diligenza inueftiga la natura dela le coſe ſottilmente, uedrà in che l'una con
l'altra ſi conuenga, ma non chiamiamo però la opinione incerta,cognitione à
queſto ſenſo,checo lui, che ha opinione ſappiaſempre quella eſſer’incerta, o
dubbioſt conoſcenza, ma bene che in ſe conſiderata, come opinione da chiuna que
hauerà il uero ſapere,ſarà riputataincerta . NAT. O quans to mi nuoce in questo
caſo,la uſanza inſieme con la età creſciuta , lds quale à guiſadimeſtesſa,
ferma talmente le coſe nelle menti umane , che bene ſpeſſo la bugia , più che
la uerità in eſi ritruoua luogo. Et peròcredono molte coſe che nonſono, ouerofe
ſono, ad altro modo di quello, che ſono, uengono giudicate . Etfe pure
dirittamente appreſe ſono, altre cagioni lor danno,che le uere, e quelle ch'io
so eſſere in mediati o continuate à gli effetti . Et queſto auiene quando la
ragio ne inchina più al ſenſo che all'intelletto, « più all'apparenza, che al
l'eſſenza. AR. Tu hai più dell'Arte,o Natura,che di te ſteſſa,cos si bene uai
diſtinguendo i tuoi ragionamenti . NAT. Non te ne ma rauigliare, ò Arte,perche
io qual ſono,tale mi dimoſtro, oſe di me medeſima parlo, cometu uedi io lo
faccio in quel modo, chetu altre uolté hai confeſſato , che io ragionereiſe io
fußite. AR. Quello che io dico, lo dico per amınaeſtramento di coſtei,
laqualanche non ſi dee marduegliare di queſta apparenza del uero. Perciò che è
aſſai als l'huomo ſaggio, che le buoneragioni gliſieno ſemprequelle ſtelle, da
quelle ne prenda la ſimiglianza del uero , che per lo più muoue le umane menti,
oin eſſe ageuolmente ſi pone, al che fare, opportuna , ocomoda coſa é
ricordarſi, in che maniera per lo pulſato l'huomo ſe ſteſſo habbia ingannato, o
in qual modo ancora, e per qual cagione altri ingannatiſi fieno da loro
medeſimi, in uero te ne riderui, uedens do alcuni che penſano, ogni coſa, che
precede un'altra, cffer di quella cigione, ò che lo eſſer fimile ſia il
medeſimo. Ne per ciò direi che l'os pinione fuſe ignoranza,comenon dico, eſſa
eſſere ſcienza , perche la ſcienza e stabilità,o fermata da uero, e infallibile
argomento, en la ignoranza non è di coſe uere . Onde naſce,chela opinione è un
abi to mezano tra il uero intendimento , o l'ignoranza, differente dal dia
bitare in queſto che la opinione piega più in una, che in un'altra par te , il
dubitare tiene in egual bilancia la mente tra l'affermare, o il negare, eye
però biſogna riuocare in dubbio le coſegià ammeſſe,e di mojtrare quäto pericolo
ſia il giudicare . Da queſtone naſcerà la que ſtione, e la dimanda, la quale
diſponendo le menti alle ragioni; quan to leuerà della prima opinione,tanto
porrà di quella , che tu uorrai, o à ciò fare uia non é appreſſo quella che ua
per le ſimiglianze delle coſe.Partipoco,ò Anima,cotesti uirtu ? penſi tu ,che
ſia cosi facile il perſuadere ? ó credi tù chegià biſogni con dritto giudicio,
o con ſal do intendimento penetrare dalla ſuperficie alla profondità delle coſe?
A N. Da che occulta radice l'apparente bellezza dicoteſta tua figli uola,nel
cuiadornameiito la Natura ſola non baſta . NAT, Ora ogniſentimento mi ſi
ſcuopre, ó Anima, da costei, emanifeſta uedo eſſermifatta la cagione,per la
quale molti miei amiciſono diſonorati. ART. Quai ſono coteſti amicituoi ? NAT.
Quei, che inueftis gando uanno iſecretimiei, le ripoſte cagioni delle coſe,i
movimenti, le alterationi, &i naſcimenti d'ogni coſa , o che non
ſicontentano di ſtare par pari de gli altri huomini,manobilitando la ſpecie
loro con le dottrine traſcendono i cieli. AR. Che ſtrano accidente può ueni re
à perſone cosi pregiate, come ſono iſeguaci tuoi, ogli amatori della Sapienza,i
quali comerettori delmondo, felicißimi,er beatißis mi eſſer deono riputati?
NAT. Queſti fedeli miei à punto ſonoquel li, che più de gli altri ſono diſonorati.
An . In che coſa ? ART. Aſcolta digratia; mentre che gli ſtudioſidi meſi
ſtannoſoli, ein par te ripoſta comeſchiui dell'umano confortio,non é loda •
grido onora to , che con ammiratione delle gentinon gli eſſalti o inalzi infino
al cielo. Mapoi che compareno, et uěgono alla luce,ſono prima da ogn'u no
guardati, si per la eſpettatione già conceputa della virtù loro, si an cora per
la nouità dell'abito, o dell'aſpetto ,et del portamento,ogn's no lor tiene gli
occhi addoſſo, a attentamente ſi dimoſtra di uolergli udire. Io non ti potrei
eſprimere con che grauità poi aprono la boca ca, e con che tardezza poimandano
fuori le parole , etquanta ſia la dimora de i loro ragionamenti, i quali poi
che da principio nonſono in teſi dalle genti,comecoſe lontane dalla umana
conuerſatione, non cosi toto uiene lor tolta la credenza, per che purſiattende
coſa miglios respire conforme alla opinionede’uolgari,iquali dalla prima eſpets
tatione inuiati danno i ſeſteßi la colpa del non capire la profondità de'
concetti loro. Mapoi che nel ſeguete ragionare s'accorgono pur in tutto di non
poter’alcuna coſa da que'beati ritrarre, et che ogn'os ra più le coſe
intricate, ar le parole aſcoſe ogni lume d'intelligenza Hanno lor togliendo,
quanto ſcherno, Dio buono , jego quanto riſo ſe ne fanno . AR . Jo grauemente
miſdegno, ó Natura, & mi dolgo di ſimili auenimenti, poi chegli infelici
non fanno drittamente ſtimar le coſe,benchefino al fondodi eſſe paſarſi credono,maforſe
è, cheſtan do eßiſemprein altro, quando poi allo in giù riguardando ueggono
l'altezza loro, a la profondità delle coſe terrene, uanno uaccillando con gli
occhi; ocomparando il cielo alla terra , ſtimano ld terra un minimo punto , o
una bella città un niente che nobiltà, che chiaa rezza diſangue può eſſere
appreſſo coloro , che ſeſteßicon la eterni tà miſurando, tutti da uno ſteſſo
principio uenuti affermano ?Che rica chezzaſarà grande appreſocoloro, che ſi
ſtimano poſſeditori del cie. lo ? qual prouiſione daſoſtentare i popoli farà
colui il quale quaſipa ſciuto del cibo de i Dei,altro non guſta, altronon
ſente,altronon din fia ,cheſempre ſtare alla ſteſſa menſa ? ne credono , che
altriſieno in bi sogno ? Queſte coſe io direi in loro efcuſatione. Ma che
midiraitu di quelli cheſonoſtudioſi della vita ciuile,ochefanno le cagioni
de’mu. tamenti de i Regni, e delle Rep.le conditioni de principi, gli ufficij
di ciaſcuno,le uirti, gli abiti uirtuoſi? Non credi tu, che queſti ſie no più
auenturati de gli altri ? NAT . Peggio , percioche il ſapere ciaſcuna delle
dette coſe ,hauer le diffinitionid'ogni uirti, ocoa noſcere diſtintamente ogni
buona qualità,non é aſſai, ma egli biſogna uſar tanto teſoro al governoaltrui
per ſalute, ocomodo uniuerſaa le, e oltre all'uſo hauer parole al preſente
maneggio oalla ciuile uſanza accomodate . ART. Dondeprocede coteſta loro cosi
ſot tile ignoranza: forſe cosi eleggono penſando di eſſer' hauutiper dot
tiæintelligentiparlando in cotalguiſa ?Ma questa é una groſſezza infinita,perche
non é piacere, che s'agguagli àquelloche prende ľa ſcoltatore quando impara
&intende ciò che uien detto.Sai tu duns que la cagione di cosi fatto errore
? NAT. Forſe è,perche non ha uendo eſsi alcuna eſperienza della conuerfatione
cittadineſca, fanno quelguidicio dimolti cheſonoſoliti di far d'alcuni pochi,
loro come pagni,co i quali tutto’l giorno con uarie diſputationi argomentando
trapaſſano,ne mai ſono riſoluti. ART. Et io ancora cosi credo, pe rò guardati ó
Anima, di non entrare nel loro no conoſciuto collegio , ò ſe pure ui uorrai
entrare tanto iui dimora,quanto alcun giouamen to ne puoi ritrarreper la ciuile
amminiſtratione. Nel resto pronta, et ſuegliata nel coſpetto degli huomininon
meno alla ſcuola eall'acas demia,che alla piazza,alla corte, o alſenato
intentafarai, o uſans do . D E L L A. doistiche le gi,con mozeme uoci
raptorersi, percbe riund coſa é få mots, creudire ripublicico:lizále uanie dig
esioni, o le Haitat parole di moint, i quali razlo" 2r.do le ébloro per la
Città frendere unsguerra,realize, ne : i mezi di efl: u21 riguardando,
riaprindo le ſcuole de presa deguono, di 7 : oro, oargos :ht ::opia ficcrente
del mondo , o cercano chifu il primo ins kantore deli'arxi chifrino in Roma
trionfale, cbisitrouo le naui , chui brizla i czasu, et ilere ciance si fatte
,cbenc irfegn2":0,ne dis last250,14.1widojiore della prostione de' daruri,
delle genti, o del *010 , col quale s bubbis a fartal guerra . Il percbelo. To
poi auies fie, cbei nero perini,çia deguamente di loro parlando, ſono con grue
de 11ratione acoltati. NAT. Cotto e mio dono,percbe ditus to potere affreuz!
cusi mi truono,che wina forzaglimetto irrar ci i tuoi ſegussi . AR. Et forſe
corne sfrenati causlii, gli fai tel mezo del coro pericolare; pero sili
eccellente natura,che ta lorda , sorrei che mi falje l'aiuto rio.percbe meglio
, o çik ficuri aadribs 6290 per lefiziglianze dre coſe. An. Biſogna dunque pik
skatie rigliz- guardare, cbe al wero ? A R. Cosi biſcgna ; o quedo porriaz
slitacels il facesi, sı il donerci tu fare , o ciaſcuno , che * pis airtai
perjuadere , accio cbe fiso aſcoltato , o inteſo dude geri , lezasli barefeito
-Is bagis nga 14.0 , får cbe in ejja las casicae spetto dd zero . Queto per fo
cjjere, cbei şià f- 931 babe bis 10 c50 surorit : b4xx.: predoi popoli cbei
nácti inges gs . An. Dizni gratis, çusio é cbegli buozi idaro fede : cazzo ,
cbe apps uto , nos lo faze0 percbeloro piace il nero ? Ar. . As. Paepiuere già
saco : 507 co :cf-:: ta ? A R. Nius . AX. Forzz aidake,che il sero lis és
glicucuitico ? AR. F: 17 . Ax Pacte danese giàceil serezos bruszni P -T271? AR
Perikliois tragises filer cxz . AX. Aja -- 22 :04 ks :0 600leri: del bero . Às.
SostraTrao Adira.secte lazaratsie sesi tid: acts
indiscrezi!4.cezecklacteaefepie 8222475l4regiaze, o lomatto; c ( 72.0: 1 , o
Resmitironine.cedriersdieedia 2.3 " To RossiradizioroBoricitis 32 2 ciasto
nigirisececeáciless Aires22:22: carte.ro 2:46, 13 :3050: 22 : 15 : 4 :15 ,cheſe
la opinione con la ragioneſarà legata , per modo niuno potrà fuggire,anzifuori
dell’eſſerſuo leggiadramente uſcita nõ più opinio ne,maſcienza ſi potrà
nominare . A N. Dimmi, ſe'l uerifimile e tale ad ogn'unoegualmente. AR. Nó. An.
Che differenza ci fai tu ? A R. Grande . Ben'è uero,che quando io dico
ueriſimile , io intendo ciò che pare alla più parte . Ma diſtinguendo dico, la
più parte però effere ode gli huomini ſenza dottrina,o degli huomini letterati
. Et altro ſarà il ueriſimile,che parerà à gli Idioti, altro à iperiti. A M.
Inſegnami à conoſcere queſto uerifimile . AR. Il ſegno della ſimia glianza
alcuna fiata ſi ritruoua in eſſaſuperficie delle coſe, cheſenza diſcorſo di
ragione ſono riceuute,o appreſe daiſenſi umani ; da ciò naſce il veriſimile,
che pare egualmente a tutti, come auienedimolte miſture, che's'aſſomigliano à
l'oro, cheſe il giudicio filaſciaſſe al ſenſo ſolo,per oro da ogn’uno ſarebbono
hauute. Alcune uolte il detto fe gno emeſcolato con alcuna ragione,accompagnata
col ſenſo , oque sto é quello , che pare àmo!ti . Speſſo più di ragione, che di
ſenſo ſi mette, e ciò è quello,che pare à i piùſaggi; o quarto più dalſenſo
s'allontana,o s'accoſta la ragione all'intelletto, tanto de' più saggi, edi
pochi ſarà l'apparenza del uero . Ma laſciando coteſte più ina
terneſomiglianzedel uero , bauendo tu àfare. con la moltitudine , quelle attendi,che
a tutti,ò alla partemaggiore appariranno ; &co: si ogniforza di
proponimento nelle altrui menti rompendo, farai la uoglia tud . AN.
Queſtomipiace . Ma uorrei, che tu m'inſegnaſi à congetturar quello chepuò
eſſere . Dimmi, ſe n'hai ammaeſtramen to alcuno . A R. Dimandane pur la Natura
. AN. Non n'hai tu ancora poter’alcuno? A r . sibene ; ma la Natura operando ,
Sa meglio dime,quello che èpoßibile . An. Dimmi tu dunqueò Naz tura,quai
coſeeſſer poſſono ? NAT. Tutte quelle il principio delle quali ſi ritruoua. An.
Adunque ui ſarà l'arte deldire, poi che'l prin cipio di lei ſi truoua? ilquale
nõ é altro, che l'ojferuatione,che fu l'Ar te di te ó Nitura. Ar. Che uai tu
mettendo in dubbio quello che fie qui habbiamo fermato ? ſegui. NAT. Se quello
chepiù importa, ò che piie uale, ò che ha più difficultà , fiuede , ſenza
dubbio il meno importante, il più debile, il più facile ejer potri. A n .
Adunque ſe l'arte puòridurre gli huomini rozialla uita ciuile , meglio potrà
gli ammaeſtrati inalzare algouerno della Città ? A R. T4 pur uti argomentando .
AN. Mercé tua, che giàmiſei fatta familiare . A R. Queſto ſo io , che poſſeduta
che io ſono dalle anime,dimoſtro il. D ualore, 26 , D Ε ιι. Α ualore , il
piacere , o la facilità dell'operare . NAT. se può eſſer la cagione, chivieta
che lo effetto non posſa eſſere ? et ſe queſtoé, quel la di neceßità ſi haue.
Quello che ſegue dimoſtra,che può eſſere quel lo che antecede. In ſomma ogni
coſa può offere, di cui naturale appeti toſi uegga, o dalla poſibilità delle
parti naſce quella del tutto. Dals l’uniuerſale il particolare, o dal meno
quello che più comprendeſi congettura . Vna metà, il ſimile , il pare ricerca
l'altra metà , l'altro Simile, o l'altro pare . Etſeſenza arteſi puòfar’una
coſa molto me glio ſi farà con artificio , ſe chi meno può opra, chi più può
non opes rera egli ancora ? Chene attendi più ,ſe queſto ti può eſſere à baſtan
za à farti aprire gli occhi è ritrouare il fonte della eloquenza ? AR . Et io
già mitruouoſatisfatta in queſta parte,che alle coſe appar tenenti
all'intelletto ſi conuiene ; però aquelle io uorrei,che paſſaßi, lequaliſono da
eſſere ne gli appetiti collocate.Et attendo,che tu quel le brieuemente mi
dimoſtri,etdiffiniſca, acciò che l'anima oggimaicõ. tenta dellaſeconda
promeſſa,alla terza,et ultima ſi riuolga. A N. Per qual cagione, ò
Arte,dimanditu le diffinitioni della Natura ? ejendo ſuo carico il diffinire. A
R. Perche ora io non attendo le eſquiſite , Oregolate diffinitioni,maquelle che
dalla più parte delle gentiſono ammeſſe, delle quaiquaſiſenz'artificio ſe ne
può formare un numero infinito . An. Tu ſei molto circoſpetta . AR. Seguiò
Natura , féle coſe àgli umaniappetitidi lor natura piacere, o dispiacere posſo
no apportare,òpur l'Anima ne li fa tali. NAT. Senza dubbio non folo elaAnimaha
uirtidi apprendere, ofuggire le coſe, ma in effe ancora e nonſo cheda eſſer
fuggito,ouero abbracciato. Quädo adun que tra la coſa, o l'animaſi truouaalcuna
conformità, allora lo appe tito ſi muoue ad abbracciarla, o queſto mouimento,ſi
può dire, no minar defiderio ,ilquale è appetito di coſa che nõ ſi
poßiede,cõforme però à quella uirtù ò parte dell'anima,che l'appetiſce; ma
quando no ui é queſta conformità,tra gli oggetti, o l'anima,ella gli aborre, o
fugge, né ſolamente oue o anima,oſentimento ſi truoua cotefti ab bracciamenti,e
fugheſiueggono,ma doue occultamente io ſonoſoli ta di operare, doue non éſenſo,
ociò faccio con un ſemplice inſtinto, ilquale al mio poteree tale, quale al tuo
é la conoſcenza. Coteſto in ſtinto ogni coſa conduce alla conſeruatione, o
albene; & dalmale & dalla morte il tutto ritragge quanto può . Maper
dirti de gli huo mini, ſappi, che eſſendo tra le coſe oppoſte, ole parti de gli
animi lo ro ,conuenienza,quando auiene,che quelli ſíenopreſenti,oche laſcia no
impreſſa la loro qualità,in quellapartechegli appetiſie , allora ſi genera
ildiletto , e l'allegrezzanata dalla morte delprimo deſides rio , perche
poſſedendo la coſa deſiderata , il diſio è già conuertito in piacere.
Ilqualpiacere altro non é,cheadempimento di uoglie. Tu conoſcerai, cheil guſto
tuo bauerà conformità con le coſe dolci; da queſta nenafcerà
l'appetito,auenendo poi,chele coſe dolci uicine fica no à quella parte,doue il
detto ſenſo dimora , eche in eſſa laſcino la lor qualitàimpreſſa,che é la
dolcezza,nonha dubbio ,che quella par te nonſia per bauer diletto , egiocondità
. Il ſimigliante uedrai in ogni tua parte, Et per lo contrario ſi ſente noia, e
diſpiacereo nella priuatione delle coſe deſiderate, o nell'hauere le difformi,
oaborrite, ecome il principio di ottenere il bene era il deſiderio dalla
ſperanza accompagnato ,cosi il principio di hauere la noia, era la fuga dal
timore commoffa . Etcome nella prima impreſione la ſperanza in gio is fi
conuertiua , cosi nella ſeconda la paura ſi tramutaua in dolore . Eccoti
adunque i quattro principali affetti diuoianime. AN. Vor reiſaperè,o Natura, in
cheſia poſta la conueneuolezza , che é trale coſe, ole parti mie . NAT.
Percheioſono tale in ciaſcuna coſa , quale io mi truouo , però nelle coſe
eſaéripoſta per me; maperche poi auenga,che io tale mi truoui in ciaſcuna
coſa,dimandane chi cos si ab eterno prouid. AR. Or l'anima tiparetroppo curioſa
? ma dimmi quai coſe,à qual parte dell'anima ſono conformi. NÁT. In fomma il
uero é il bene, &per tal cagione, quello che è uero,uien giu dicato bene.
Ar. Che intendi tù bene ? NAT. Ciò che daogn'u no,e da ogni coſa uien
deſiderato , &uoluto . A R. Qual bene Ć cercato daữ’intelletto ? NA T.
Dimandane coſtei AN. il ſapee re , la
dritta opinione. NAT. Dalla uolontà ? AR. Ogniabis to di uirti . NAT. Da gli
appetiti . AR. Ogniutilità ® dilets to AR. Che naſcerà poi , ò Natura , dal
deſiderio ditai coſe ? NAT. Lo sforzo, o lo ſtudio de'mortali per conſeguirle .
An . Buui alcuno inganno de gli appetiti intorno al bene, come ui é l'ingan no
dell'intelletto intorno al uero ? NAT. Grandissimo. AN. Et come ſe il bene e
cosi conforme all'anima ? NAT. Non hai tu udito poco di ſopra, come l'anima era
d'intorno al uero, opure anco il ue to le era molto conueneuole , et
proportionato ? AN. Ben'inteſi, che la cognitione del uero era molto confuſa,
riſpetto alla fantaſia . A'R . Cosi é . Et di nuouo ti dico, afferino,che
ogn'uno confufae mente apprende un bene,nelquale par che l'animo s’acqueti,et
quels D 2 lo 28 lo deſideri,mapoi da gli
appetiti traportato (come prima era l'intele letto dalla fantaſia ) e aquegli
rivolto ſmarriſce la uera strada di quel bene, al quale ciaſcuno digiugner
contende , moſſo dalla interna forza della Natura . Et in quella ſtrada,orapiù
lentamente , ora più. velocemente camina , troppo è meno amando, et deſiderando
quello , che con miſura dourebbe amare,ò defiderare . Indië nata la ingorda
uoglia delle ricchezze, lo sfrenato appetito dei piaceri, vtalbora la pigritia,
om negligenza dell'ocio ; &deſiderando altrilapropria con ſeruatione,
s'inganna, credendo,che il bene altrui,ſia la ruina ſua ,oue ro temendo di
perder’i ſuoibeni, fauori,gratie ,amiſtà,onori,o lodi, ſi muoue alla
ingiuria,alla inuidis,alla uendetta. Et di qui naſce quello di che tutto di ſi
contende fra' mortali, il giuſto, lo ingiufto,ildouere, l'equità, l'utile,
oaltre coſe, che ſono cagioni di liti, o di conteſe Per il diletto adunque,
& per il comodo, ciaſcuno ſi muoue à fare. Et benefarà quello, alquale ogni
coſaſi riferiſce , ouero ſiriferirebbe , • perragione, o per appetito, o per
natura .Et ciò cheopera, difende, conſerua,accreſce,accompagna, ſegue,ordina,et
ſignifica il bene,bene ſi chiama, operò la felicità, o tutte le parti
ſueſarannobuone, a le uirtie ſopra tutto ſono benidiſua natura degni,bencheàmoltinon
ſono cosi apparenti. Ilpró ,l’utile , il piacere ebene , perche l'utile ė mezo
di conſeguire il deſiderio, oil piacereè moltoalla natura cona forme. A N.
Fermati un poco , & dimmi,come non eſſendo beni cosi apparenti le uirtù de
coſtumi,gli huominiſieno uenuti in cognis tione di quelle: AR. Credi, ó
Anima,che ogni maniera di bene, che appare à gli huomini , éſimiglianza di quel
bene, che non appare,e chi uuole drittamente giudicare da coteſti apparenti
beni , potrà ris trouare la uia di peruenire alla cognitione di quegli, cheſono
in ſebe ni, o che fanno la uera , es ſola felicità,più deſiderata ,che conoſciu
taima non ſta bene ora difiloſofare intorno a tal coſa . Baſtiti, ch'io ti
ritruoui la uia, per la quale gli huomini ſono andati a ritrovare i beni
dell'animo, o le uirti interiori . Dicoti adunque, che uedendo i mortali nel
corpo umano molte buone conditioni, hanno congetturas to, ancora nell'animo
ritrouarſi alcune ottime qualità, à quelle del cor po in qualche parte
conuenienti . Dimandane la Natura, quali ſieno le doti del corpo ,che tu ſaprai
da me poſcia quali ſienogli ornamenti tuoi. AN. Dimmi ò Natura , fe egli ti
piace, diche beni adorni tu i corpi umani ? NAT. Prima diſanità, o di
forza,poidi bellezza, O d'integrità diſenſi . An. In checonſiſte la ſanità ?
Nat. Nels la . la proportionata meſcolanza degliumori principali, enell'uſo di
ej 14,6 queſta proportionata meſcolanza , ueramente ſipuò chiamare una egualità
ragioneuole. ART. Credi tu , o Anima,di eſſer’al corpo inferiore ? AN. Non già
. ART. Credi adunque , che in te eſſer deue una certa egualità. Il cui ualore
conſiſte nell'uſo. A N. Quale uuoi tu che ella ſia ? AR. Quella che Giuſtitia
ſi chiamna,fers ma, o coſtante volontà di render a ciaſcuno ilſuo . Ma che dici
tu delle forze ? NÅT. Dico, la gagliardezzaeſſer’una uirtù del cor po,poſta nel
potere à ſua uoglia abbattere,atterrare,et uolgere ogni alieno impeto con
leggiadria. AR . Bella, aneceſſaris uirtù neli aa nimo. Perqueſto giudicarono
ifaggi,eſſer la fortezza, laquale reſis ſtendo à gli impetidella fortuna,ſola
nė"ſuperbanel bene,ne uile nelle auuerſità ſi dimoſtra, &fola guida
nella militia della uita mortale uin cendo,glorioſamente trionfa . NAT. Che
dirai tu della bellezza del corpo, laquale è una proportione di membra, o di parti
tra ſe ſteſ fe, o col tutto conuenienti dauiuacità di colori, et gentil gratia
acs compagnata ? AR. Tumi dipingila temperanza dell'animo,laqua le in ſe ſteſſa
raccolta, ecompoſta,inuera, o proportionata miſura conſiſte, tanto può di
dentro,che di fuorinel corpo il ripoſato , o quieto penſiero uedi, dolce,
ogratioſa maniera ſi conoſce, & quafie una conſonanza di tutte le
conſonanze . NAT. Che coſa trouerai tu nell'anima,conformealla integrità dei
ſenſi, come alla bontà della uiſta, alla perfettione dell'udito, « al
uigored'ogni ſentimento ? ART. La prudenza, la quale consiste in saldo, o sincero
conoſcia mento delle attioni umane : A N. Egli mi pare, che io ſia da Dio
creata à fine , che le coſe mie fieno ſcala all'altezza di quello . AR. Che
penſitu altro , ò Natura ? NAT. Nulla , ſenon che conchiudo frame, che gli
huominiſi ſieno aueduti delle uirtú interiori per le qua lità eſteriori. AR.
Senza dubbio, a molti anche ſi ſono ingannas ti, oper una ſimiglianza, che
hanno le uirtù con alcuni uitij, se lo Cangiando il nome hanno detto chela
tardezza ſia moderata pruten za,la liberalità ſia la larghezzaſenzamiſura; e
cosi all'incontro il prodigo ſia liberale . Et non hanno conſiderato ,
eſſergran differenza tra il ſaper dare, er il non ſaper conſeruare.Et queſto è
quel ueriſimi le nei beni, che muoue ſpeſſo lementi, ogli appetiti umani .
Orain brieue l'ordine,l'ornamento,e la coſtanza delle coſe handimoſtra to le
uirtù , ou appreſſo la concordanza di tutte le operationi , o la grandezza, che
le ſopra feſteſſa inalzają si come in ogni arte, com in ogni 30 DELLA ogni
ſcienza biſogna hauer’alcuna coſa manifesta , e chiara, dalla quale da prima
ella naſca, o s'augumenti,cosinella felicità, bed ta uitaſi richiede,
euidentefondamento,preſo dui benimanifeſti à i ſen ſi umani,dalquale
s'argomenti il uero , ottimo fine , operò dalle predette coſe ſiſtima,quella
eſſer felicità , che con proſpero corſo tracorre,tutta diſeſteſsa, tutta di ſua
uoglia, tutta piena,tutta d'ogni parte abondeuole, ocopioſa, eyd'intorno à tai coſe
ricordati ſeme pre della diffinitione, da unaparte conſiderando, che coſa é
bene,di! l'altra diſtinguendo quello che é del corpo , da quello , che é
del’ani mo, e come ciaſcuno in molte parti ſi diuide.perciò che cosi ne trar :
rai quella abondanza di coſe che tuuorrai,doue meritamente la pres detta
parteſi può dar tutta alla inuentione, laquale e il fondamento della noſtra
fábrica. Partidoadunque tutto quello cheſotto il nome di bene, ò uero, ò
apparente ſi conciene, trouerai la felicità con tutte le ſue parti,o trouerai,
che'l fuggire dal maggior male,ſia bene , et l'acquiſto delmaggior bene, « il
contrario delmale; & queſto, pera che molti s'affaticano, e che i nimici
lodano alcuna fiata.Et che ſifa ſenza incomodo, feſa, fatica, ò tempo, ſe é diſiderato;
ofinalmente tutto è bene,uero, apparente, v dubbio, quello che uiene
deſiderato. A N. Che dirai tu del piacere ? AR. Grande ueramente è la fore za
del piacere, & del dipiacere , percheſin da fanciulli ſi uede , che il
tuttoſi fa per tai contrarietà. Et s'io uoleßi pienamente ragionarti, io non
finirei cosi toſto, però di eſſo alcune brieui ſentenze io ti pros pongo,dalle
quaiſe ne ritrarrà quella ſimigliäza di uero, che in tai be niſi può trarre.
Dicotiadunque,che quelle coſe grate ſono, dipid= cere,che ſono alla natura
conformi,come hai diſopra ſentito ; pero à ciaſcheduno grato ſarà quello ,à che
eglidi natura ſua ſaràinchinas toje per la medeſima ragione,foaue,et gioconda
coſa é la conſuetudi ne, come quella chemolto alla natura ſi confaccia . Perche
quello, che speſſo ,et per lo più ſifa, è molto uicino a quello che ſempre ſi
ſuolfa re . Caro e quello ,che non ſi trde per forza,perche la forza é contra
natura, onde i trauagli,lecure , e ogni maniera diſtudio, odi pens ſiero,che
turbi la quiete dell'animo , perche é uiolēto,arrecca moleſtia o diſpiacere.
Seforſe la conſuetudine non l'ammolliſce. Cosi per con trario il diletto, il
giuoco, il ripoſo ,la ſicurezza ilſuono, et la rimeßio ne, come coſe di ogni
neceßitá lotane. Néſolo col ſenſo uicino ſiprende piacere delle coſepreſenti,
ma con la memoria,con la ſperanza,del lequali una riguarda le paſſate, l'altra
le future.Lepaſſate apportano nella ricordatione aſſai diletto,perche la
imaginatione le fa quaſi pres ſeriti, e ſe erano graui, o noioſe, con lieto, o
piaceuol fine fatte ſos no dolci, eſoauile coſe buoneche hanno à uenire nello
ſferare con fortano, comele preſenti nel goderle,ouero nel imaginarle, ilche
ſuos le à gliamantiuenire, iquali non hanno ripoſo ſenon quanto penſano alle
coſe diſiderate . Lauittoria ė foauißima coſa, ó lo auanzare il compagno , or
però ogni maniera digiuoco ſuol dilettare la caccia , l'uccelare, la
peſcagione, et appreſſo l'onore,ogni gratitudine, ogniri uerenza,inſin
l'adulatione piace infinitamente . Lo imparare ancora é coſa piaceuole , onde
la imitatione delle coſe è giocondiſſima , tutto che le coſe imitate non
dilettino, perche nõ la coſa eſpreſſa ,malo sfor zo, e il contraſto dell'arte
ſuol dilettare. Indi è nato, che la pittura, le statue,o l'opre finte aggradano
chi li mira . Ne più ti uoglio af faticare,o Anima,in dimoſtrarti,quello cheda
te, et in te prouerai ef ſendo con eſſo il corpo .o quanto ti fia dipiacere il
dominar’ultrui il comandare il ridurre à compimento le coſe incominciate, il veder
riu ſcire ogni tua deliberatione , e finalmente tutto quello, che al bene
t’indrizzerà,ò dal male ti ritrarrà. AN. Se queste coſe ſono buo ne, come tu di
, per qual cagione ſipuò errare nel deſiderarle , nel cercarle ? A R. Due
mouimenti,ò Anima in te conoſcerai, l'uno de' quali da eſſa Natura riceuerai, e
l'altro riporterai teco. Nel primo niuno errore puoi commettere,perche non è
colpa tua, che alcuna co ſa ſi truoui,che ti diletti; ma nelſecondo ageuolmente
puoi cadere , eſſendo in tua mano il freno di non conſentire cosi à pieno à
quella prima voglia&, non riguardare alla ragione, che con certo conſiglio
al gouerno de'primi appetiti guidar tidee. Maperche per lo primo, O
naturalemouimento gli huominifanno il più delle loro operatio ni però
debbonoeſſer ueriſimilmente guidati,o é creduto per lo più, che ciaſcuno faccia
con deliberatione quello cheegli fa, ſeguendo il primo inſtinto; néſi conſidera
che in teſi truoua uirtá libera, o po tente,dalla quale ognilode, o ogni
biaſimo procede . Etacciò che el la ſiapiù drittamentegouernata, eccoti
l'autorità delle ſacre leggi , nella quale è poſta la ſalute, e la correttione
d'ogniumano errore. Contra le quaichiunquepreſume di opporſi, dal proprio
conſiglio abandonato, è dato in preda alle ſue proprie uoglie,e ſottoposto ale
la pend, come quello cheiniquo, o ingiuſto ſia. Ora in brieue ti dico, che
eſſendo eſſe leggi nelle rep. àgli animi quaſi medicine delle loro infirmità, o
rimedijà i loro errori, biſogna ſapere ogni maniera di gouerno , gouerno, in che eglipiù fermo fia,da che uegna
il cadimento di quels lo, et quanti ſienoi contrarij ſuoi,per poteralla cõmune
utilità con le Sante inſtitutioniliberamente prouedere. NAT. Matu non dimo
ſtri, ò Arte, che alcune leggi ſono eterne, er immutabili, non da gli huomini
ſecondo gli ſtati loro ordinate, ma dallo editto diuino , o da me inuiolabili
ſtatuite, communi,& uniuerſali à tutte le genti, lequai non più allo
Indiano,cheallo Ethiope,eguali, in ogniſecolo , in ogni luogo ſi Sogliono
ritrouare, non ne igrandiuolumiſpiunati da' morta li,manel libro della eternità
impreſſe,et ſigillate in ciaſcuno che ci na ſce. AR. Coteſte leggi,ó Natura,non
ſono ritrouamenti umani, né ſecondo le occaſioniformate, ma eterne, econtinuate
ad un modo in permutabile , del quale non tocca à me il ragionare, «pint é
quella ch'io non dico di eſſe, o forſe quella equità,dichefpeſoſi ragiona, al
tro nonė, che la leggeſcritta nel cuore d'ogn'uno per correttione di quella
cheè poſta per commune uolere di ciaſcun popolo . An. Dun que nelle umane
leggiſi truoua errore? AR. Nongià , ma ben può eſſereche ilfondatoredi eſſe al
tutto non proueda,et chenon conſide ri molte coſe,lequaiperalcuno accidente ,
come , che molti ne ſieno fanno uariare i giudicij, e in queſto caſo la equità
, & l'oneſtà può aſſai, operò molto prudente, oqueduto biſogna cheſia ,
chiunque forma le fante leggi, « che il più che può tolga il potere à gli huos
mini di giudicare da ſe ſteßi . Però cheben ſai, quantopericoloſopra ſtà nel
giudicio, riſpetto allo amore, all'odio, e ognialtra perturbae tione umana .
Matempo è, cheſi dia fine à queſta parte , perche aſſai sé detto d'intorno alle
uirtù dell'anima,e d'intorno alle coſe appars tenenti ad eſſa , si di quelle
che allo intelletto, come di quelle, che ape partengono allo appetito . In
quanto che elle hanno ſimiglianza del uero , delbene, dj appartengono alla
inuentione. A N. Tutto che ó Arte, inanzi à gli occhimiſieno le coſe, che tu
m'hai dimoſtras te , hauendole tu ſopra la Natura delle coſe ſtabilite ,pur
uorrei ſapes re alcunſecreto , come diſopra molti me n'hai ſcoperti, quando tra
noi ſi ragionaua delle parti mie. AR. Io non per naſconderti alcu na coſa miſon
taciuta, maperche eglimipare, cheda te ſteſſa potrai ogni ripoſte bellezza
conſiderare, uedere, che da que' beni che di ſopra habbiamo diſtinti,naſcono
treparti principali dello artificio no ſtro . Però che ſe il bene é utile
,nenaſce quella parte, che é posta nel conſigliare, laquale ſi uſa neiſenati.
Se'l fine è giuſto, quell'altrapare te, che delle ingiurie ciuili,ò
criminalitra i popoli fa mentione, felfie ne 1 1 ne é honeſto , allora ampia, o
magnifica materia ſipreſta di lodare nelle pompe, et ne i trionfi le opere
glorioſe , ma il ualore delgraue, o riputato Cittadino,primanel ben fare,poi
nel ben conſigliareſi di moſtra. AN. Diche coſa più ſi conſiglia ? AR. Di
quello , che : più abbraccia l'utile uniuerſale . Etprima d'intorno al corpo
delle uettouaglie, odel uiuere per ſoſtenimento di ogn'uno, odella difen fione
per ſicurtà de i popoli, delle ricchezze perſoſtenere la difes Ja. Dapoi delle
ſacre leggi, e della religione per ottenere l'ultis mo , o deſiderato fine .
ANI. Che ſi ricerca nel conſigliare ? ART. Prudenza, beneuolenza , animo ,
ſecretezza , e celeris , tà nello eſſequire . A N. Gli ineſperti
adunque,imaligni, i timis di , i uani, i pigri huomini , non ſono atti al
conſigliare : ART. Non già . Necoloro , che non ſanno conſigliare ſe ſteßi. Ma
odi: alcuni ſecretidi queſta parte, forſe non uditi fin'ora. Vuoi tu ſapere un
modo mirabile di conoſcere glianimi de' mortali ? AN. Queſto eil tutto . A R.
Sappi,checiò, che ſecreto nell’hkomo ſi truoua , forza cheſia in alcun
ſentimento di eſſo,ò di dentro, o difuori.Sentis, mento chiamo ora ogniparte di
te ó Anima . Et però uolendo tu ri trouar coteſto ſecreto , tenterai ogni
ſentimento , perche quando es toccherai quella parte,nella qualee ripoſto il
ſecreto di alcuno, o pia ceuole, ò noioſo,che egli fi fia ,ſenza dubbiomanderà
fuorialcuniſea gni,comemeſſaggieridelle uoglie ſue,ocon alcuneſimiglianze dimo
ſtrerà quello,che egli ſipenſa di haueredétro diſe naſcoſo; aguiſa di una corda
chealſegno tirata di un'altra ; quandoritruoua la conſon: nanza,ſimuque, a
ſuona di pari armoniacon quella.Da queſta reues, latione dipende la uittoria,
eu l'onore di chi parla nel coſpetto degli huomini.Etqueſto è un ſecreto
ripoſto aſſai, wodegno di penſamento .. L'altro è , che a conoſcereil giuſto, e
lo ingiuſto,biſogna riguardas re al fire,alquale ciaſcuna coſa deueeſſer
meritamente riferita , pera , che quando ſia, che dal debito fine alcuna coſa
ſi rimuoua, allora ne ng ſce la ingiuria,la quale éuna eſpreſſa maniera di
ingiuſtitia. Aqueſta ingiuria altri ſono più diſpoſti a farla, che à patirla
,altri per lo cons , trario . Et questo biſogna conſiderare per potere in
quella parte uas lere , ii cuifinalgiudicio rizuarda il giuſto , o l'ingiuſto.
Altri ſes creti ui ſono , ma io mi riſeruo là doue della applicatione ragiones
remo, cioè quandoſi dirà il mododi porre le coſe nell'anima . Ma che marauiglia
è queſta ? doue é gita l'Anima , ò Natura ? Perche te ne ridi tu ? come ſono
ingannata ? come tolto mi viene il poter ſeguire E l'incominciato ragionamento
? NAT. Aſpetta ó Arte,non titurs bare, toſto merrà, con chi tu habbi à
ragionare . Ora uoglio che noi ci tramutiamo, o che cifacciamopalpabili, o
viſibili. AR. Che mutationimiusi predicando? NAT. Taci, attendi . Eccomi qui di
corpo ,e di formaumana . AR, Guardami ancora tu, ch'io ſo no trafigurata ,à
chimiſomigli tu o Natura ? NAT. Io non ſaprei à coſa alcuna ſimigliartijmubene
io uedo, che tu hai molto del graue nell'aſpetto, e nello andare, onel
uestire,et à pena io ardiſcofiſarti . gliocchi à doſſo . Et mi viene una certa
tenerezza di lagrimare. A R. Coteſto é ſegno ,che tu mi ami et riueriſci ;et
tanto più ch'io ti ſcorgo un certo roſſore nel uolto , e ti odo ſopirare. Ma
che ti pare de gli occhi miei ? NAT. Tu haideldiuinoin eßi,come cheſieno di
coloa re celeſte, o di luce penetrante . A R. Et de capelli,chedi tu ? delle
ciglia ? NAT. Quelli ſono neri, a queſte rare , e di oneſta grandezza. ART.
Saitu di cheſieno ſegni le predette coſe ? NAT. Non già,ma bene ſtimo, che tu
t'habbifigurata in quel mo do difuori,che tuſei di dentro, cioè piena
d'intelletto, edi capacità ftudiofa delbene,folerte ,er ſuegliata comeſei. A R.
Tudi il ues ro, e dipiù il naſo aquilino, le orecchie egualiil collo brieue, il
pete tolargo , le ſpalle große, le braccia, le palme, ø i diti lunghi, tuttiſou
no ſogni euidenti dello eſſer mio . NAT. Ma tunonſei peròtroppo
grande,bencheiltuo mouimento ſia tardo, elo ſtarediritto, chedie moſtrino te
manſueta , umana , a piaceuole . Ar. Se non fuſſe il mio continuo penſamento,
mi uedreſti ancora più allegra. Ma guarda quantiſtrumentiadoperar mi conuiene
perporre in opra quello che io nella mente diſegno . NAT. 10 ſono dite più
ſemplice , o piis ſchietta comeuedi. AR. Tu mifai ridere con tante mammelle .
NAT. A punto io fo ridere ogni coſa per tante mie mammelle, pero che credi tu ,
chelefemine , noni maſchi habbiano tai parti ? AR : Perche le femine ſono
quelle chepartoriſcono, però biſo gna, che come eſſe danno la uita, cosi diano
il notrimento ,etperò han no le dette parti come iſtrumenti della nodritione .
NAT. Quans te adunque nedebbo hauer’io, eſſendo madre dituttele coſe ? AR. Tu
hairagione,ma chi é quel giouane cosi bello , che incontro ne uie ne ? NAT.
L'anima,che poco dianzi era ſola,ora è accompagnata col corpo. AR. Chemiracoli
fai tu ò Natura? NAT . Credi tu Arte ſapere ogni coſa ? AR. 10 fo bene quello,
che credo, ſo che le genti non crederanno queſte mutationi, che tu o io
facciamo. NAT. E LO QVENZA. NAT. Pochi ſono i ueri Sauij., però non diamo
orecchie al uolgo . Eccoti il deſiderato aſpetto, conſidera o miſura le parti
fue , che ria trouerai bella ,o proportionata compoſitione. Ar. Che carne gen
tile, odelicata , non però troppo molle, guarda chedignità,che maa niera
chefronte allegra, « ſignorile ,chipotrà dire che egli nonhab bia ad eſſere
pieno di coſtumi, o d'ingegno ? NAT. Ben ſai,che io gli ho la promeſſa ſeruata
in tutto . ART. Rallegromi ueramen . te, o mi pare , che tu ſeimolto miglior
maeſtra di me, ma che nome gli daremo ?.NAT. Quello che conuengaà chi lo fece.
ART. Io ne ho poco che fare. NAT. Anzi tugli hai dato , & darai il
miglior'eſſere;ben’è uero ,ch'io ne ho la parte mia, o il mie fattore la ſua.
ART. Chiamiamolo dunque DINARDO. NAT. Perche ? AR. Perche Dio , Natura , &
Arte il donarono. NAT. Tu mi allegri con tal fabrica di nomi . A R. In molte
lingue io ho queſto potere, il quale e poco da gli huomini conoſciuto. NAT.
Mipiace, ma perche non l'hai tu dacapo a piedi minutamente miſurato ? AR.
Micuſui lo hauerglidimoſtrato , che la oratione eſſer dee.comeil corpo umano, o
hauere principio,mezo , & fine.Etche le partiſue deono corriſpondere à
ſejteſe, al tutto con dignità ,e decoro ? Et si comenel capo ſono tutti i ſentimenti
del corpo , cosi nel principio eller deono ripoſti i ſentimentidella oratione.
A lui pofciaſtarà di ore dinar la predetta materiafecondo il biſogno,facédolo
auuertito, che i teftimonij delle opere de’ mortaliſono le coſe che ſtanno
d'intorno à quelli . Et però mi gioua di nominarle circostanze, percioche fa
cendo,o operando l'huomo alcuna coſa, ha ſempre inanzi,ò apprefe ſo il tempo,il
luogo,le perſone, il modo, ilfine, le quaicoſe fanno fede ſe l'operaſua è
buona, orea . Da coteſta conſideratione, ſi ſtima chi ragiond, e con chi,ſe è
la occaſione di dire ſe in questo, o in quel luo, goſtarà bene di parlareſe
ilfine è buono,et altre coſe,alle opere ap pertenēti. Ma tu gratioſißimo
Giouane, che con tăto fauore delcielo ſeinato,ti ricorderai tu quelle coſe che
dette habbiamo fin'ora ? Non titurbure,cheio ſono l'Arte, e queſta è la
Natura,con la quale tu , eſſendo Anima ragionaſti. Din . In che maniera ſono le
coſe ſchiette, oignude , oin che forma ſono le compoſte,che cosi uiſiete
mutate, piacemi di hauerui riconoſciute , o cosi uiaffermo di ricordarmi di
quanto s'è detto . ART. 1o non mipoſſo ſatiare di guardarti. NAT. Che
giouanezze ſono queſte ? ART. Non ti dolere , o Natura , che la bellezza delle
opere tue ſia da me riguardata con E 2 marauiglia . NAT. Poi che io à tale fon
uenuta , che pienas mente ho ſatisfatto al deſiderio tuo , e chef Anima pronta
s'è die moſtrata, comincia tu ancora ò Arte ad inſegnarci ilmodo , col quale
applichiamo le coſe all'Anima. Et perché non più aſtratte ſiamo ,ma compoſte,però
voglio,che con le eſperienze degli ingegni altrui, eo con glieſempi,cheſono
oſtaggi della verità, e con l'uſo quotidiano, tu ti rivolga à darci ad
intendere la forza dell'eloquenza umana. AR. Cosifarò .Ma tu ò Dinardo,
preſteraimi udienza , enon las ſciare à dietro coſa, ch'io ti dica .
Marauiglioſae ueramente la förs za ola uirti della fauella umana. Perciò
cheoltre alla intentione de i concetti e delle uoglie di uoi mortali , che per
eſſa ſi fuole con bes neficio univerſale, &euidente diletto appaleſare ,
non é in uoi ſentis mento alcuno ,l'appettito del quale non ſia da
quellafieramente eccia tato, e commoſſo ; a chi uoleſſe di ciò prender debito
argomento . ogn'hora,che ueniſſe bene, riguardando à i modi,cheſiuſano tra uoi,
ritrouerebbe le coſe à i ſenſi ſottopoſte alcuna uolta effere di minor uirtù in
muovere ciaſcuna il ſenſoſuo ,che il parlare , qualhora egli fia con
bello,efficace, es maeſtreuole modoformato, ofabricato, o appreſo doppo alcuna
più profonda cõſideratione, conoſcerebbeese fere quaſi infinito il valore di
eſſo parlare,come che ſolo allo intellets to dimoſtri la ſoſtanza , ela ragione
delle coſe, it che à niuno altro . ſentimento, quantunque la Naturaſempre
atutti liberaliſima ſtata fia ,né é,në fu ,nefarà conceſſo già mai. Quante cofe
del cielo , quante delle intelligenze, quante di Dio per mezo della lingua,
ſenza l'aiuto de gliocchiò d'altro ſentimento ſi fanno ? Il parlare èſolo
dimoſtras tore della ſoſtanza, ilparlare e ſolo per uniuerfale miniſtro
dell'aniæ ma, ilparlare é ſolo ſtrumento della ragione , ma onde é o Dinardo,
che ne gliquenimenti,et ne gli atti degli huomini tanta forza diſcens da nelle
parole ? DIN. Credo ueramente, cheeſſendocidato da eſſa Natura ilparlare (come
tu dici )affine,che le noſtre biſogne , ino. ftri penſieri altrui manifestiamo,
granpotere in quella fauella debe ba eſſere,la quale da uero , &ſaldo
intendimento , e da sforzes uole diſiderio procedendo,tale difuori apparirà,
quale di dentro nele l'animo dimorando ſtaraſi. AR T. Ben di . Eſſendo adunque
le pas role come oſtaggi delle uoglie, o de concetti, bifogna , come tra ' sis
gnori auiene,dare gli oſtaggi alle perſone conuenienti, e però prens dendo noi
dintorno al parlare quelmiglior partito , che ſi conviene, soglio ,che picde
inanzipie mettendo or, gentilmente più oltre pafé fando ritrouiamo le maniere ,
egli aſpetti della oratione, oconfia deriamo quale parlamento à qual coſa,età
qualperſonaficonuenga. DIN. Di, ch'io t'aſcolto. A R. Non è dubbio , che
riportando il parlare per gli orrecchi alle anime de gli aſcoltanti, la forza
dello intendere, o del uolere, biſogna in queſto viaggio dar mouimento,et modo
ad eſſo parlare . Perciòche lo intendimento ó la uoglia nell'anis ma ſi
ripoſano, o iui come nel ſuo caro nido dimorano , ne ſi potreba bono da quello
ſenza ragione, et artificio, dipartire. Al che fare accõa ciamente uoglioin
prima che in ciaſcuna forma, o maniera dell'orda tioneſi truoui il
concettodelle coſe inteſe,ca deſiderate , ilquale par oraſia detto , ey
nominato SENTENZA. Appreſſo uoglio, che ci ſia lo artificio dileuare la
sentenza dalluogoſuo, & là doue farà biſoa gno, leggiadramente portarla ,
perche ſimigliando la ſentenza al ris poſo, e all'anima, diremo , che
l'artificio sia la machina , il modo conueniente di leuare il peſo della
ſentenza dalla menteumana Ma perche ſiuede, che l'anima uſa le forzeſue ,
oadopra il corpo come ſtrumento,peròà ciaſcunaforma dell'oratione appreſſo
l'artificio, Ry la sentenza, le ſidarà parole, e uoci,per mezo delle qualipotrà
l’q . nima delle fentenze la ſuauirtù , leforzeſue gentilmente adopea rare . Ma
perche aſpetto alcuno non ſipotrà vedere, oueſieno le pare ti, la compoſitione
di eſſe, il colore,icontorni, oifinimentideltutta, deſidero condonar alle
parole iſuoi colori, il ſito , o le partiquaſi membra, o iſuoitermini, accioche
altri allo aſpetto, o alla forma conoſca quali oſtaggiſienodati dall'anima dei
i ſuoi ripofti, & fecreti intendimenti. Chiameremo dunque i colori figure ,
le parti membra, il ſito compoſitione , il finimento chiuſa o termine della oratione
. Et perche uanafatica ſarebbe la noſtra, le haueßimo folamente formas to si
bella creaturaaffine che ella ſifteſle, népunto ſimoueffe , pexo come uiuo
s'intendequel corpo ,cui mouimēto e conceſſo ,cosidaremo al noſtro parlare il
ſuo paſſo,ò uero ilſuo corſo, il qualeſifarà col ri pofo dialcune parti, ecol
mouiméto di alcune altre,come farſi uede ne gli animali, o perche con altro
mouimentoſi muoue uno adirata, con altro un manſueto, o altro é il paſſo
d'huomograue , & atteme pato, altro d'un leggiero , & ancorafreſco di
età ,perònello ſpatio, per lo quale hauerà da correre, o caminare la oratione ,
uoglio che ſi conoſcaogniinterna qualità delle coſe perlo mouimento, e per lo
ris poſo delle parti delfermone, ewe perchediſopra habbiamo dato à cias fcunaparte
il nome che à formar una manieradiparlaméto ſi richies de däremo ancora à
queſta ultima il nomeſuo,si ueramente che il ripos fo, yo il mouimento delle
parti ſotto unoſteſſo uocabolo ſi rinchiuda, poi chiamato fia ó Numero,
onumeroſo componimento. Din , Qual Dedato potrebbecosi belle figure,afare,
adornare,comefai tu ò Arte ! Raccolgofin tanto quelloche io ho da te ſentito
fin’ora,odi * co,che tu uuoi, che la oratione habbia una qualità,checonuenga
alle *coſe,o alle perfoneſoggette, o queſta iſteſſa qualità, formaá maa
inierazò guiſa dimandi. Ari Cosić, Din . Tuuuoi appreſſo, che ciaſcunaforma
primieramente habbia la ſuaſentenza, che altro non è che il concetto della
coſa,dapoi l'artificio , che é il modo di les * uarla dalluogo ſuo,ne queſto ti
baſta , a però uuoi ire grandamente fi conſideri con quai parole ſi posſa pixi
acconciamente ragionare , a eſprimere la occulta uirtù delle
fentenze,diſponendo quelle parole,e dando loro iſuoicolori , o finalmente
rinchiudendole in alcuni ter "mini acciocheſieno alla ſentenza eguali
,come l'Anina à tutto il cor . Spo, oaciaſcuna parte dare il fuonumeroſo, e
miſuratomouimeto, checol ripoſo, o con la uelocità del tempo preſente ſi
miſuri.A RT. Cosi u'ho detto D'IN: Ognicoſamipare d'intendereragioneuol
mente,ſolo che tu uoglia dichiararmi alquanto d'intorno a questo numero ſo
componimento, che NvMERo hai nominato. ART. Et io fon diſpoſta àfarlo ,
sueramente ,ch'io uoglio prima partitamente ragionare, ego diſtinguerele
maniere,e le forme predette., decioche tu fappia ilnumero diciaſcuna
determinatione. Dico adunque,lapris smaguila,esla prima formadouer eſſere la
chiarezza,la qualeſotto dife contiene la purità , ola eleganzadel dire , anzi
più preſto da queſtemaniere ne riſultala cagione ,che nel primo luogoſi riponga
queſta forma perche niuna coſa più ſi ricerca , ò ſi diſideradachi jagiond,
cheil laſciarſi intendere , ilche altramente non ſi può fare fenzá la purita
del dire, la mondezza , la quale oggi uoglio , che ELEGANZA fi chiamidanoi.Ma
percheſpeſſo auiene, chesforzans doſi alcuni di eſfer’inteſi,cadono in forma
umile, ego dimeſſa molto les cuando , otogliendo della dignità , della
grandezza del parlare, però appreſſo la predetta forma,fi'dirà della grandezza,
o grauità della oratione, la quale damoltealtre forineprocede , che ſono ques
ste, Mueftd, Comprenſione, Afprezza; Veemenzt,splendore,viuacie tài boppo la
chiarezza, e la grandezza del dire a mepare che ſi conuenga conoſcer’un'altra
forma; ta quate tutto il corpo della os rationecon la conuenienza delle parti,ornamento,osgratia
recando, bella ELOVENZA. 39 bella, en miſurata ſimoſtra, v però mi gioua di
nominarldBellezzi, alla quale un'altra formaſidarà, uolubile, preſta,perche
tèggiaa dramente ſi muoua, leggiadramente dico å fine, chene troppo sciolta, né
troppo legtta ſiueggia.Et ſe la chiard, a la grande , ela bella, o la ueloce
forma ſono tanto richieſte, quanto previ dá te ſteſſo cona ſiderare chediremo
noi di quella, nella qual ſi dimoſtrano imodi, i coſtumi delle perſone? Et
diquell'altra,chefa credere ogni coſa, che fi dice esser uerißima? Certo non
meno queste, che quelle eſſerticare deuriano,quando in queſte ſta ripoſta ogni
riputatione di chi parla ; et ogni credenza delle coſe,cosi uoglio nominar
quella forma,la quae le ſecondo le nature , & gli abiti delle genti ua
ragionando ſotto della quale è la ſimplicità , la giocondità , o l'acutezza; e
quels l'altra ancora, che uerità ſi dimanda , ſono forme, ſenza le quali morta
, e ſpenta ſarebbe la oratione . Et in queſto numero ſono chiuſe le maniere , o
le guiſe , delle quali alcune haueranno le loro ſentenze , &i loro
artificij, e l'altre parti diſtinte, es ſes parate dalle altre; alcune
comunicando inſieme, ſi confarànno, o nelle ſentenze ,ò nello artificio, ò
nelle parole, ò nelle figure;o nel reſto, cos me chiaramente uedrai . Queſte
uoglio , chetu da feſteſe , come ſemplici forme riguardi diſtinte l'una
dall'altra . Perciò che non quel lo cheſitruoua,maquelloche può eſſere,uoglio
che tra te medeſimo rivolgendo conſideri, e ciaſcuna forma, come tale, ew tale
conoſchi. DIN. Io t'intendo, Tu vuoi, ch'io sappia considerare ogni guisa di
oratione in se stessa, onde poi a scelta mia io possa questa con quella,et
quella con altra meſcolando, di più ſempliciformarne una bella.coinin
poſitione. AR. Che credi tu,che uaglia poicoteſta meſcolanza,che nella purità
ritenga grandezza ,a peſo, nella ſemplicità ,forzkiego fplendore, et
habbianella grandezza delbello, e diletteuole,mache afþramente piaceuole,e
piaceuolmente aſpra ſi dimoſtri, pungendo; gungendo, comeſi dice,ad
un'horafteli, &facendo, chequello,che è nelle ſentenze ampio, o ripieno,ſia
nello artificio ampio, ad leggida dro ? Et in tal modo accompagnando le figure
d'unaforma con le pas role d'un'altra,dipiù contrarij ( coſa alla natura
medeſima riputatd . impoßibile)farne una amoreuolefratellanza , onde poiqueſto
genes roſo accozzamento di coſe repugnanti empia ogn’unodimarauiglia . DIN: Non
mi accender pir di gratia ,diquello che io ſono, cos minciami oggimai à formare
ciaſcheduna delle dette maniere , accion che io ueda il fine della deſiderata
catena dell'anima delle coſe, e del parlare. DE Ï Ï Á parlare. A R. Bendi. Dei
dunque ſapere che comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la
ragione,alfra quella , che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o
nellaNatura altre ſono le coſe allo inſegnare altreal muouere appartenenti,
cosi alcune formedels la orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello
intelletto ,als cune alle coſe della uoglia , odello appetito , o quando queſto
non fuſſe, né uia, nė ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re
opinione è affettione con la forza della fuuella . Però auuertiſci, che nel
trattamento delle forme da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi
confaccia. DIN. Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi
obligo di leggerli ſecondola occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu
uorrai. Ma prima deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero , o numeroſo
componimento . ART. Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il
biſogno. Sappi adunque, è Dinardo , chequalhora alcuno ſi rivolga à conſi=
derare il modo, es la ragione del medicare , che ritrouando alcus na bella coſa
nella medicina, uoglia giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è
dubbio, che egli non ſia per uedere tra la medicina, o l'arte di che
ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza . Ecco la medicina cerca di indurre ſanità,
oue ella non ė, ò di conſeruarla doue ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte
,d'intorno alla buonaopinione , perche conogni ſtudio s'affitica di metterla ,ò
di mantenerla oue ſia biſogno. La medicina conoſce qual parte del corpo con
qualrimedio eſſer debs bia riſanata, o preferuata,cosi queſt'arte opracon
l'anima, e con le partiſue con le formedel parlare.La medicina quantopiù può fugge
la noia chepotrebbe alcuno medicamento recar'atl'infermo,con mele ò con
zucchero, ò con altra coperta mitigando il peßimoſapore , ego l'odore delle
medicine , ne da queſta gentilezza ſi parte la mia figlis uola, cercandodinon
offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris medij ,il qualſentimento é negli
orrecchi ripoſto ,per le qualiſotto la ſoauità delſuono fa trapaſſar’inſino
all'anima la opinione , quantun que ſia di coſa dalla Natura aborrita .
Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe ui mette , non
tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte apportatrici delle uirtù
dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi conuenga all'artificiofa
fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare , perche troppo grande é la forza
delſuo nus meroſo componimento ; il quale portando ſeco ageuolißimamente il
ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra per ogni parte dell'anima,deſ
leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi del uolgo neſentano aſſai, non è
però da dimandare alcuno Idiota,onde ella proceda, ò come ſi faccia, perche
queſto giudicio è più proprio dell'intelletto , che delſentimento umano.
Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente huomo quale ſia la cagione,
che le parole più ad un modo , che ad un'altro diſposte fieno diletteuolio
numeroſe, ritrüoua iltutto eſſere alla Natura, quanto alſuo principio ,
conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi ; però che io ne ho grandißima
parte.Et perche tuſappia quello che la Nde tura, a quello che io ti poßiamo
prestare,dico ,che la Natura ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo piacere
& diletto, uuole chequelle affaticate fi folleuino con la ſoauità , a
dolcezza del dire ; al che fare niuna coſa è più potente nel uostro ragionare ,
che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual numero biſogna, che di ſua
uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la
fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole inganno pare, che
uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione,
o fede . Ma quando con ine certo , & non conoſciuto numero,dolce però , e
foaue,ſi compone il parld . -mento, oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza,
& del'intendimento,fena za dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi
riceue . Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola continouata del uerſo ;
continouata dico , peroche lo ſteſſo numero più volte replicato facilmente
ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato, « conſueto ritorno ,
più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il
numero de' quali ufae to ,e conoſciuto,più dall'arte ,che dalla Natura
procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del tutto non dee
restare l'oratione , che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però numeroſa o compoſta
ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per qual cagione
diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me s'appartiene dirò
bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo come ponimento.
DIN. Queſto ordine à meſommamente diletta,però di cuore ti prie go,che più
diſtintamente che puoi,me lo dimostri. A R. La neceßità uuole, che le parole
ſieno pari alla ſentenza ,perche à queſto fine ſi ragiona,comeſi è
detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di fuori,doue mancando o
accreſcendo parole, o il concetto interno non ſarebbeeſpreſſo, come nella mente
dimora , ò il parlar ſarebbe ociofo ,ò mancheuole.Maperche la ſentenza
nell'anima è finita Otermina ta ,però debbon’eſſerfinite,os terminate in
quantità le parole, che laſenten F DEELLA za dimostrano. Laqual quantità
inſieme ragunata, Giro , o circuito nos mineremo ilquale altro non
ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza. Questo abbracciamento
di pari accompagnando la uirtù di ef la ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o
maggiori, o minori , ſecondo le parti della ſentenza;@ ciaſcuna parte é
composta di parole, oſi chiama Membro, ó Nodo; osi come ogni parte del corpo ha
il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo mezo, o il corpomedeſimo e terminato, &
finitocosi , le parti dello abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito,
otermina to . In tutto queſto ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di
ciaſcu na parte, e tra il cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto
chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo
il biſoa gno,oſi muoua più ueloce ,ò piu tarda ſecondo laqualità del concetto .
Et questo ripoſo , oqueſto mouimento ,miſurato col tempo del proferire, para
toriſce ilnumero , del qual ragioniamo,uero figliuolo della compoſitione, o de
i termini del parlare, omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente
ne gli eſtremi chenel mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio
in quanto al ſentimento del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à
ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca
la cagione però , hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello
cheall'intelletto s'appartiene,in parte dico,perciò che l'intelletto in questo
caſo molto alle orecchie deferiſce , odiuerſe maniere hanno dia uerfo
numero.Però cominciando a trattare delle forme del dire daremo a ciaſcheduno il
ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroue remo quello che con
ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di farmicapace di questa
magnifica oillus ſtre compoſitione ; però ſegui,che con maggior deſiderio,
cheprima ,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare ,che ora tu facci di
me pruoua marauiglioſa. AR: La primaformae nominata Chiarezza,laqual naſce da
purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un tutto , acciò
che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della mondezza opile
rità ,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità del dire quelle
ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno biſogno di piu
conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi delle co fe
,come qui. Leggi. DIN. Tancredi , Principe di Salerno , fu Signore affai umano
, di benigno aſpetto. AR. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di diſcorſo ogni mediocre
in . gigno gegropuò capire ilſentimento
della ſentenzagià letta, come ancora in questi uerfi.Leggi. DIN. Io ſon
Manfredi , Nipote di Coſtanza Imperatrice. ART. Et molti eſſempi ſono della
purità nelle nouelle , la ſentenza delle quali per la maggior parte è molto
alla uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna inſe
conſiderata , percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi
riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in
questa guifa ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai
umano , per che queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo
attendere a quel io, che ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda
enetta . Non aſpetti adunque altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella
ſentenza , las quale stando nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che
ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il concetto ,cosi di fuori fa fatto
paleſe,ſen. za alcun accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però
daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo
. do,ò d'altro auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella ſentenza :
DIN. La quale percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in
tornoapoco con lei dimoraua, s'inamoród’uno giovane chiamato Roberto. AR. Non
lascia eſſer pura cotesta sentenza, quel trammezamento, che dice, percioche
egli,si come i mercatanti fanno,andaua molto intorno , o questo adiuiene,perche
ſospeſoſi tiene l'animo, di chi ode . Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi
eſſere nel tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se partitamente come
ſtanno,ma de i raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole
ueramente con le quali ſi dee uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi daràperche
, tutte le parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi ſonoall'anima della
purità molto proportionate , onde le trae portate,le ſtraniere,le lunghe, &
quelle, che la lingua pena à proferire , o l'intelletto a capirefono dalla
purità lontane ,però purisſime ſono queste. DIN. Cheà me pareuaeßer’in una
bella , « diletteuole ſelua ,& in quella andar cacciando ehauer preſo una
cauriola , parcami, che ella fuſſepiu che la neue bianca,or in brieueſpatio
diucniſſe si mia domeſtica , che punto da me nonſi partiua,tutta uia à meparcua
hauerla, si cara , cbe accio che da me non partiſſe,le mi pareua nella gola
hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una catena d'oro tener con le mani. ARTE
Non è poco hauer giudicio di ritrouar le parole adognima niera conformii,mamolto
più ſi deue auuertir' nel diſporle, o colorirle,on de ne naſce il deſiderato
aſpetto.Et però ſappi che la figura delle parole,al la puritàſottopoſte,é il
dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini fu nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et
quiancora DIN. Aſolo adunqueuago , « piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi
gioghi delle nostre Alpiſopra il Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe
della reina di Cipri. ARTE Non cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe
comine ciato, Dicendo,Di Aſolo ,uago & piaceuole caſtello poſſe ditrice fu
la Reie na di Cipri . Ma puro e per la figura del dritto, auegna che ſecondo
quella : parola puro non ſia ,doue ſi dice Arneſe,uoce ſtraniera, ancora nello
are. tificio non é puro per quello tramezamento, che dice ( si come ogn’uno dee
ſapere) o per quelle circoſtanze del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda
il ſentimentode gli aſcoltanti , oui mette le circonſtanze del luogo. DI N.
Dunque erra chi uolendo cßer puro uſa parole non pure , artificio,ò figura
d'altra maniera,della oratione ? ÁR: Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe
d'eſſere in ogni parte puro , &netto, & non uſaſſe quello che ſi
conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del dire porgere «grandezza o
dignità.Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe ſteſſa conſiderata , e però
lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os ſeparate dalle altre;nė
ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o maniera,ma anche ogni altro
colore, che ſia contrario als la comprenſione della quale ſi dirà poi,ora
trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole , Dico nella purità ,cs
mondezza del dire douerſi met : tere le parole inſieme con quel modo,che piu
uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta cura,caffettatione ſemplicemente
quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna parola di queſta forma biſognaua
leuar'ogni durczza , Cogni difficultà di lettere,o di ſillabe,accioche la uoce
di ſuono e quale , temperato , « non impedito ufciſſe fuori,cosi nella
compoſitione biſos gna guardare di acconciare talmente , che pine tosto nate ,
che fabricate appariſcano,come nello eſempio già letto del ſogno ſi conoſceud.
Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna
fillaba , come la natura in tutte ha posto la ſuapiaceuolezza, durezza, &
tifa rai queſto giudice del ſuono delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che
la A ſi forma nella più profonda parte del petto ,o eſce poifuori con alta восс,
uoce,riſonante ,onde lo ſpirito di eſſa grande,oſonoroffente,odi laſe guente ,
ch'é ,B. LA B é puraſnella,deſpedita ,come è afpra'la C.quando è fine della
fillaba,ISA C, órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo contrario e
di dolce,ſpeſſo , o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto
mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é
ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo . Conſidera poi da te
ſteſſo il restante delle lettere , in che maniera eſſa natura diſua propria
qualità ha ciaſcuna dotata , & uederai onde nde ſce più questa,chequella
compoſitione.Le parti, &le membra , della purie. rità effer deono
breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con
lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo ,come qui,
D. Suol’eſſere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti
errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la
trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il
potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue
più la loro ſaluezza ueggiono , indirizzare. Bifox gna parimente in
minoreſpatio raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer
puro, ofare in questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN.
Chino di Tacco piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi
il laſcia,L'abbate ritorna , in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio
Papa,o fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta
norma oſſeruata,come, qui . Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra ,
E temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio . Ilche non quiene in queſta
altra parte. DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono . Perciò che ilſenſo
è troppo ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità
quello chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla
figura, alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del
numero, & del finimento ,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o
delle parti ſue.Dico adunque , che nello andare , ego nello ſpatio di queſta
forma non ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi
,one i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal
fine,peròſapendo quale eßer dee la compoſitione dele parole, quale il
fineztutto quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender
quellocheſi è detto, perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito
reſta che ſidica del finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in
alcunaparola tronca,oin parola piena,ſienoque ſte parole ,ò di due,ò di tre,ò
di piu ſilabe,o ancora di una. Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe,
& uolubili,o ſalde ,oferme, opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema
parola di tutta la chiuſa, ma anco la uicina, o proſima,però partitamente ſi
dirà di ciaſcun finimento al luo go ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare
le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire
cotidiano,fuggirà il fine del le parole tronche, comeſono quelle andò,corfuftarà,o
C.perche le mede. fime dee nella diſpoſitione fuggire,come ramarico, o render
florido. Et A contenterà di quelfine,cheper lo più la Natura a’uolgari
dimostra,ma io non uoglio, che con tanta religioneſifiniſca in parole piene ,
&perfete te ,fuggendo le tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta
nonſimetta fie nealtrimenti alſuo parlare,perche quello cheſi dice, ſi dice per
la mage gior parte de ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque
odalla diſpoſitione riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo
adunque lachiuſa ſimile alla dispoſitione , «la diſpoſitione non
isforzeuole,matemperata,& naturale,fcguita che il numero dell'uno, o,
dell'altro figliuoloſarà , à quelle fomigliante.Ben'è uero ,che laforza di cia
fcuna manierà,e ripoſta piu toſto nelle altre parti,che nel numero, eccetto,
che nella bellezza,douc l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto
piùè ne i uerfi, « nella poeſia ,che altroue, o questo dico , acciò che fu non
metta piu ſtudio ,doue nonbiſogna riportandoti a gli orecchi, il giudicio delle
quali da eſſa natura é ſommamente aiutato . Ecco adunque, è Dinardo,quanto
giouala mondezza , opurità del dire alla chiarezza; ma perche questa
ſempliceforma non può daſefola si chiaramente parlae re che non uiſiaqualche
impedimento,però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri ,con la eleganza
aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro, piu questo ordineche
quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del
dire ,ilqual'aiuto èpiù presto nell'ar . tificio, che nelle ſentenze ripoſto.
Però che ella ſi sforzafar ogni ſentenza chiara &aperta,non che le pure già
dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della cleganza,o prima dello artificio,
colquale ella lcuar fuole ogni sentenza nella mente riposta. AR. La ceeganza e
maniera, che porta chiarezza à tutte le maniere della oratione, operò non tanto
alla purità, dove ella manca soccorre, quanto à ciascaduna forma opra
intelligenza, o facilità, daqueſto nasce, che la eleganza dalla purità del dire
in alcuna coſa é differente. Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta
,ma la eleganza nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun sole, che ogni
oſcurità , che per quella poteſſe uenire, leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza
ella può molto, si con l'artificio fuo , si co i colori,«le figure.L'artificio
adunque di les uare ogniſentenza dallo intelletto,acciò che ella ſia inteſa ,
cogni auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare. Leggi.
DIN. Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno
s'hebbe Poiſeguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante
R fa nella proſa ,comequi. DI N. Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini,
de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei costumi
contrarie,l'una fia alqua to me comendare, &l'altra il biaſimare alquanto
altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo partirmi
ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello aſcoltare
con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio , s'intende quela
to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le quali non ſi in
tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Ma per trattar del ben, ch'io vi
trovai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. AR. Se il poeta qui non
doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che ſono in
diſgratia di Dio, non haur ebbe potuto dare ad intendere facilmente il beneche
ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima neceßità
costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta nella egregia
Città di Firenze ,auuertendo pri ma chi legge ,in queſto modo. DIN. Mapercioche
qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo Rileggeranno,aueniſſeno,non
ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare ,quafi dineceßità coſtretto à
ſcriuerla miconduco. A R. Ecco qui ancora un'altra bella preparatione di
coſe,fatta per le uare ogni impedimento,chepoteſſe offendereilrimanente. DIN .
Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare ,che di que' tempi, che tu te n'andaſti
alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti,alcune ci uenisti, onon fosti cosi
lietamente veduto,comefoleui,& oltre à questo di ciòche io al termine
promeſſo,non ti rendei gli tuoi danari, AR. In fine ogni precedente auifo,
& ogni ordine di coſe, e ſecondo , che elte ſon fatte,narrandole,ė
artificio ſcelto , & elegante ,però tutte le propofitoni de' poeti ſono
elegantißime. Leggi. DIN. Veramente quant’io del regno fanto Ne la mia mente
poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR. E qui ancora DIN. Et
canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’alCiel
diuenta degno. ART. il fimigliante modo è oſſeruato ne i principij di ogni
nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole ancora la Eleganza porre
artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui. Leggi.
DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi , che diranno,ch'io habbia nello
ſcriuere queste nouelle troppo licenza usata. ART. Eccola dimanda ſeguita la
ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna coſa esi difoneſta, che
con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo
alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſiemepostohabbia ogni accuſa
di ſefatta, opoi s'habbiafcufato , ma quelmodo non ha dello
elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando
diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni , che queſte
nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo , eche oneſta coſa nonė,
che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to
peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando di uoler
dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte coſe,
cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della
miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le Mufe in
Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli ancora,che più
difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to ,cl’io farei più
diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste
fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state
le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento
della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello
autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante
,comeilprimoartife cio ,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer
chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue
dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde ,
ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à
far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella
intera ,ma parte di una. AR. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio
lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon
uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura ?
A R.Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia
riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti
dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle. Secondo la ſententia di Platone. AR.
Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza
cleganza quella parte,per quello cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel
tuo uelle Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle.
ART. In queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo
auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di
riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio
della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi
dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati . DIN. Ma
hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro
riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio
quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò . AR. Aſaiſi èdetto
fin qui,con che arte la eleganza leua dalla mente ogni ſenienza,oraſi dirà con
quai parole più acconciamente ella ragioni , oquesto brieuemente ſi farà.Vſa la
eleganza le medeſime parole, che la purità,chiare,piane,natie,o tali,che niuna
durezza in eſe ſi truoui . Et perònonſono eleganti,né con eleganza diſposte le
parole che dicono, Amen due ſopra gli mal trattiſtracci caddero à terra
,&quelle, Non curandofar gli falſ , o quelle che nellapurità dicemmo,Ghino
di Tacco piglia l'Abba te di Clugni.Da quelloche ſi è detto delle parole , tu
puoi uedere chedalla difpofitione di eſſe,le parti,i finimenti, &il
numerononſono dalla purità lontani, DELLA lontani,anziſonole coſe steſſe.
Leggerai,come gentilměteſi sbriga dalle co fe,come brieuemente rinchiuda il
ſentimento, come puramente elegga , o temperatamenteſi muoua questa nouella di
Ricciardo de' Manardi,otro uerai parole parti, chiuſe,numerio fiti diparole
purißime, oelegantisſa me. Ma le figure di queſtaforma fono diuerſe molte, tra
lequali ottiene il primo luogo la ordinatione, laquale è unafigura,che da
quello cheſi dia ce,dimostra altro ſeguirne, come qui. DÍN. Et accioche quello
chemi par difare,conoſciate,oper conſes guente aggiugnere, o menomare poßiate à
uoſtro piacere,con pocheparo le we lo intendo di dimostrare. AR. Et ancora qui
della fortunaparlando . DIN. Le quai noiſcioccamente nostre chiamiamo,ſeno
nelle ſue ma ni, oper conſeguente da lei ſecondo ilſuo occulto giuditio ſenza
alcuna po ſa, d'uno in altro,o d'altro in uno fucceßiuamente ſenza alcun
conoſciuto ordine da noi,eſſer da lei permutate. AR. Egli ſf ordina, come ſi è
detto anco nel proporre di quante coſe fha da dire,con lo auuertimento di dire
prima una coſa,o poi un'altra.Il che inquanto abbraccia più coſe,ė
Comprenſionedella qualeſi dirà. Main quanto diſpone, acconcia allo
intendimento,epuro,eleganteo chiaro.Al trafiguraèſcelta,eelegante,oltra la
predetta nominata Partitione , lde quale Afa,quando noi,due coſe è piùſepariamo
parlando, come qui. DIN. Et il tacere,oil parlareoggimai mi ſonoegualmente
diſcari, perciò che nè quello debbo,ne questo poſſo. AR. In molti
modipuòpartitamente ragionare,come qui con mola ti efſempi ſi dimostra . DIN.
Tra per la forza della peftifera mortalità, per lo eſſeremol ti
infermimalſeruiti,& abbandonati. AR: Etqui ancora. DIN. Et tra che egli
s'accorſe, si come huomo, che molto aueduto erd, Otrache da alcuno fu
informato,trouò dal maggiore al minore Co. ART. Etaltroue. DIN. Carißime
dore,siper le parolede fauijhuomini udite , o si per le cofe da me molte uedute
or lette. AR. Appresso le dette figureit ripigliamento è bellißimo colore della
eleganza, come quelloche alla obliuione,alla oſcuritafoccorra, in quca ſto
modo, DIN: E perche mifogliate immantenente Del ben ,che adkor’adhor l’anima
fente ? Dico che ad hord ad bora , Vostra mercede, iofento in mezo l'alma Vna
dolcezza inufitata e noua AR. Et nella proſa, come qui. - DIN.
Ilchemanifestamente potrà apparire nella nouella , laquale dl raccontare
intendo,manifeſtamente dico,non il giuditio di Dio , maquello de gli
huominiſeguitando. · AR. Queſto ripigliamento appreſſo la chiarezza e di non
poco peſo alla oratione, come figura molto uicina al raddoppiamento, ilquale è
di for za marauiglioſanell'arte deldire,o ,òinterpretado,ò interrogado,ò riſpon
dendodi ſubito alla eleganzaconuerrà grandemente.Etper contrarioRfan ra nella
oſcurità ,la quale naſce da confuſione,& diſordine, nel’animofia tà, o ne
gli affetti grandementeſi ricerca,perche in eſil'animo dallo ema pito
traportato ogni coſa difordina,o la mente confonde. E adunque la confufione
alla ſcelta ,& elegante oratione contraria,come la meſcolanza, alla purità,
da ambedue, cioè confufione , meſcolanza, naſce la oſcurità , come da
quell'altre due la chiarezza del dire . Della quale pora uoglio che à baſtazaſa
detto ,o dimoſtrato.Resta chefi ragioni del la grădezzadel dire,acciò che il
pericolo della baſſezza,odell'umilità,che Hella chiarezza ciſopraſta,con
l'autorità della orationeſ leui in tuttó. DELLA GRANDEZZA DEL DIRE, prima della
Maeſtà . ESSEND'O la grandezza del dire unamaniera, che oltra l'uſato modo di
ragionare inalza , ø follicuala oratione , è di neceßità di molte parti
compoſta delle quali altre faranno daſe ſteße altreinſieme alcune co fe
raccommunandofaranno un tutto magnifico, generoſo. E adunque la grandezzafatta
dalla maestà,dalla comprenſionedalla ucemenza, dalla ui uacità,dallo
ſplendore,o dall'apprezza.La maeſtà, ola comprenſione da ſeſtanno,ohanno le
parti loro dall'altre ſeparate.Etperò di clje prima di rò, poi dell'altre
partitamente. La maestà del dire é maniera conueniente alle coſe grandi,o Rfa
quan do di eſſe con dignità,o ornamento ſi ragiona.Leſentenze ueramentedela la
maeſtàſono prima quelleche appartengono à Dio , o alle diuine coſe,co uerità e
decoro efpreffe,come queſte.Leggi, DIN. Conueneuole coſa è carißimeDonne,che in
ciaſcuna coſa , che l'huomo fa,dallo ammirabile ,oſanto nome di colui,ilquale
di tuttofufate tore, le diaprincipio. AR. AR. Dapoi,le coſe appartenenti alla natura umana,
come qui. Leggi. DIN. Natural ragione è di ciaſcuno che ci naſce, la ſua uita
quantū que può,aiutare,e conferuare, & difendere. ART. Et appreſſo
quelle,oue le ſecrete cagioni delle coſe inuestigane do, & dimoſtrando ſt
uanno,lequai poco appartengono alla uita ciuile, po co dico, perche alcuna
uolta ſi diconoperfare alcuna fede à quellochedicia mo,come qui. DI N. Andiamo
adunque,& bene duenturoſamente aſſagliamo la nde ue, che Iddio alla noſtra
impreſa fauorcuole ſenza uento prestarle,la citien ferma . AR: La maeſtà è
uſata per lo più ne i proemij delle nouelle . Perció che in eßi fi contiene il
fine,perlo qualeſi racconta il tutto ,& percheil fi ne, per utile,a
giouamento de gli huomini ſi ricerca,però di coſe al uiucre appartenenti con
grandezza maeſtaſiragiona.Leggi queſto principio, come è pieno di alta,o degna
ſentenza. DIN. Credefi permolti filoſofanti,che ciò che s'adopra de mortali ,
Rade gli Dij immortali diſpoſitione,& prouedimento. AR. Degne adunque di
riuerenzaſono le coſe di Dio, però chiunque di quelle altramente ragiona,ė
dalla maeſtà del dire lontano, perche chida ramente da te comprenderai,che
niuna maeſtàſi truoua là,doue il mutamē to in Angelo, d’un frate ſi narra ,
&doue in alcuni altri luoghi non ſi dicon no coſe alla religione conformi,con
quella uerità e decoro, che ſi conuica ne, &però aliena dalla maeſtà équcũa
comparatione,chedice, DIN. Si come eterna uita é ueder Dio, Ne più ſ brama,né
bramarpiulice, Cosi me, Donna , il uoi ueder, felice Fa in queſtobreue, efrale
uiuer mio : AR. Lo affetto di chi ragiona ſcuſa chiunque parla in tal modo,
pere che lo acceſo deſiderio acciecal'intelletto,ela lingua come di ebbri uacil
la,ofa dire che gli Angeli aſpettano di uedere il bel uiſo delle amate los rou
che la preſenza di quelle adorna il Paradiſo, altre coſe,le quai pe rò ſotto
altra form !,che questa ſi riduranno.Sarà dunque ſeuera,o degna, epiena di
maeſtà la ſeguente ſentenza. DIN. La gloria di colui che tutto mouc Per
l'uniuerjo penetra, e riſplende In una parte più, e meno altroue. ART. Et per
la più parte degno e il preſente poema,dalquale aj na turali, co umane,o diuine
ſentenze,ſecondo la macià delle coſe leggendo ne ritrarrai, come qui , DIN. Le coſe tutte
quante Hann'ordine tra loro ,e queſto è forma Che l'uniuerfo à Diofaſomigliante.
Qui ueggion l'altre creature l'orma De l'eterno ualore, ilqualefine, Al
qual'èfatta la toccata forma. A R. Et finalmente pieniſono i uolumi de i
buoniſcrittori. Leggi. DI . ciaſcuno , che bene , o onestamente unol uiuere,
dee in quan topuò , fuggire ogni cagione, laquale ad altrimenti fare il potere
cons durre AR. Et qui, D I N.Manifesta coſa è cheogni giuſto Re,primo
oſſeruatore dee eſſe re delle leggifatte da lui. AR. Baſtiti queſto d'intorno
alle ſentenze della formapredetta . Ord, con che artificio dal lor ſoggiorno
leuareſi debbano,intenderai.Percheadū que piene di maestà ſono
quelleſentenze,che di Dio, & delle diuine coſe, delle umane,& naturali
, peròfanno con fiducia O certezza è afferman do,ò negando,ſarà l'artificio
della maestà. Negando,come qui. DIN. Ne creator,necreatura mai Cominciòci,
figliuolfu ſenzaamore O ' natural, o d'animo, e tu'l ſai. AR. Affermando,come
qui , DIN. Lo natural fu ſempre ſenza errore Ma l'altro puote errar, per
mal'oggetto oper poco, ò per troppo di vigore. A R. Leggi pure,chenon mancano
effempi. DIN. Le coſe, che alferuigio di Dio N fanno, deono far tutte nete
tamente . AR. Et qui, DIN. Chiunque fouente fa male ,egli certamente non é
Iddio ,& chii que Iddio e,egliſenza dubbio non puòfar male. AR.
Laeſpreßione ha gran forza nell'artificio di quella forma com me qui. DIN.
Veramente fiam noi poluere eombra , Veramente la uoglia cieca,e ingorda,
Veramente fallaceè la ſperanza , AR. Et qui ancora DIN. 57 DE LL A DIN . Nel
ciel, che più de la ſua luce prende, Fu'io , euidi coſe, che ridire Nésà , ne
può, chi di la sù diſcende. A R. Hanno in queſta forma le allegorie peſo, or
forzagrandißima, eperò le ſacre lettere di allegorie ſono ripiene,etutto il
preſente poema è quaſi una continuata allegoria ,coſa molto alla ſuamaeſtà diprofitto,co
d'ornamento, &però la leonza,il leone,la lupa, e tutto quello chein tute ta
l'opera gli appariſce,èuna raunanza di allegorie , degna « grande for pra
modo.Conſidera come queſt'altro poeta uolendo innalzar le coſe baſe, Qumili
grandemente ſi dà alle allegorie,facendo con quelle i cotidiani aue nimenti si
grandi apparire che ifatti d'arme, ole coſe marauiglioſe di na tura si grandi
nonſono.Ecco , DIN. Quando dal proprio ſito ſi rimoue L'arbor, che amogià Febo
in corpo umano , Soſpira e fudaà l'opera Vulcano , Per rinfreſcar l'afpre
ſaette à Gioue. AR. Questa grandezza di coſa, altro non uuol dire,ſenon ,che
nel partiredi un luogo ad un'altro della donnafua, fieramente era il Cielo tura
bato da uenti, « da tempefta.Et cosi il reſtante di questo fonetto, omolti de
gli altri,che ſeguono per l'artificio delle allegorie,ode gli enigmi, mis
rabili appariſcono,à chi gli legge.ENIGM Iſono modi oſcuri di dire , come qui,
Fortuna, chi t'intende, non t'intende, Efa chiſei ,chi non ſa chi tufa. Tale
adunque é l'artificio della maestà. Reſta óra à dirſi delle altre par tijeg
prima delle parole.Sono alcune lettere, lequali fanno leparole ampie, e di
ſpirito sforzeuole ,come la A la 0,però quelle parole, che ſono di tai
lettere,odiRllabe di eſſe fatte,ſaranno alla maestà del dire conucnicne
tißime,tanto più diforza haueranno,quanto auanzeranno le duefillas be,odi
maggiorſignificatione faranne.come qui. DIN. Quel, che infinita prouidenza, o
arte, Moſtrò nel ſuo mirabil magistero, Che creò questo, e quell'altro emiſpero
, E manſueto più Givue, che Marte. ART. Et ancora in un'altro luogo.
Perſeguendomi Amor’al loco uſato Ristretto, in guiſa d'huom , ch'aſpetta guirra
, Che prouede,e ipaßi intorno ferra , Di mici antichi penſier mi saua armato .
AR. Sono ancora le parole traportate ,di grandezza, e maestà mdo rauiglioſa,
«perche molti credono il loro dritto pagare,ſe degni, ogran di riputando ,poi
gonfi fono o freddiper la troppa licenza,cbe piglia no nel trasferire,però
alcuna coſa ti ſcoprirò d'intorno alle traslationi, bel lage degna,o di
profitto non mediocre. Voglio,che dalla bruttezza del uitio ſpauentatoda quello
alla uirtù ti riuolga,o però di quelli dirò, i qua li cosi gonfiamente,o cosi
freddamente parlando, come fanno,ſono da ogni ſaldo giuditio abborriti. Alcuni
di queſti hanno ardire di fingere,odi co por nomi,oparoleſenza alcuno
raffrenamento di conſideratione,chiamar do il Cielo oculoſo,il mare ueligante,
la terra granifera, o di queſte s'eme piono ifogli.Altri danno à nomi
ſtranieri,dalla antichità rifiutati,nuoui, oſcuri,o di niunſentimento,coſa
fpenta,o agghiacciata,comeeßiſono, che uuoi tu più freddo,che'l continuare in
fimili inuentioni? Tuſei l'ombra del l'angustia ,il diadema della
mestitia,un'atto fatale,o si fatti.Peccano mola ti dando ad ognicoſa i loro
aggiunti, ilche quando nonſifa per diletto, o con circonfpettione,come per
condimento del dire,affettato,inſipido,o rin creſceuoleſ truoua, comeſe in
luogo diſudoreſi diceſſe,il liquoredelle car niperlo caldo ſtillato,o non le
feſte,ma la celebrità delle feſte,ne i triona fi,ma la grandezza de i
trionfi,&alere gonfiezze, ilqual uitio in alcuni ė ucnuto al fommo,o però
parlandoeßi più che pocticamente & fuor di të po,fannocoſe degne di riſo, o
di compaßione,fono oſcuri &ociofiſatiano, Orincreſcono fieramente.Leggi.
DIN. Potrei,poſcia che il vento della licentia datami di ragionare ba tanto
inantifpinta la naue del mio parlamentoper l'ampio pelago di si fat ta
materia,conducerui distintamente à uedere checoſa è difpofitione. AR. 1o mene
rido di tai coſe,guarda quanto meglio ſi èdetto qui nel uerfo , o con più
modestia. DIN. O'uoi, che ſete in piccioletta barca , Defideroft d'aſcoltar
ſeguiti Retro almio legno,che cantando uarca , Tornate à riveder inoſtri liti
Non ui mettete in pelago, cheforſe Perdendo me rimarreſteſmarriti. AR.
Ecco,chedi più ampia materia ragionaua il Poeta, & non diffe la naue del
ſuo parlamento,o altroue diſſe, Per correr miglior’acqua alza le uele Ormai la
nauicella delmio ingegno Che laſcia retro à ſe mar si crudele , Etquandopurepiù
arditamenteegli baueſſe alcuna traslatione uſata , dico ,che egli era Poeta , o
hauea ſotto la penna materia,ſe altra ne è,gră dißima, o d'ogni parte degna; o
poteua ben laſciarſi portare(dirò cosi) dal uento della licenza,ma uedi ancora
nella proſa in miglior modo ridotta laſopradetta traslatione. DIN.
Madonna,aſſai m'aggrada,poi che ui piace, per questo campo aperto Wlibero, nel
quale la uoštra Magnificenza ci ha meßi,del nouella . re,d'eſſer colci, che
corra il primo arringo. AR. Ma riuolgiti à queste fredde,çocioſe maniere,&
leggi, DIN. La real conditione del quale ſaria stata di più felice uita,odi più
beata memoria,che uerun'altra mai,ſe il generoſo della bontà di lui,hax uelle
men creduto al maligno della fraudealtrui. AR. E' ancora più ſpento qui. DIN.
Nel finedelle parole cadendogli giù per le gote alcune lagrie me non men
groſſe,che calde, le compaßioni delle ſuepietadi transformaro. no l'ira in
manſuetudine. 1. AR. Di che giudicio dotati,di che eſperienza ammaestrati,e di
quan ta gratia eſſer deono adornati coloro, i quali uogliono traportare le
paro. le nate à ſignificar’una coſa, alla di chiaratione d'un'altra , nonſi può
cosi brieuemente eſporre.Baſtiti per tuo ammaeſtramento ,che tu fugga le ridic
cole,perche ſono de' comici,le gonfie, percheſonode' tragici, le austere
dure,perchenon ſono euidenti, & infine quelleche dallalunga ſi uanno tra
endo,comeſe alcuno chiamaſſe la ſapienza lo ſteccato della anima, l'acqua
loſpecchiodi Narciſo , ò che diceſſe le faccende qui uerdeggiano,o altre coſe
sifatte . Biſogna adunque deriuare le parole da coſe facili,& di pres fta
intelligenza, con queste i due pocti le loro fittioni mirabilmente innale
zarono, delle quali piene ormai ne ſono tutte le carte.Alte parole appreſſo ſi
odono quelle del nome,or del uerbo partecipi comeAmante, Ardente,co quelle
ancora Andando, Vergognando,percheſono di ampio o largo fpiris to.Et nel loro
andare ſonoadagiate graui . Et di queſta ſia detto aſſai. Ora con quai colori,
ofigure adornar ſi debba la maeſtà delle parole,ſi di rà,o prima,che alle coſe
clgne unafalda confirmatione del proprio gilidi tio, come un fermo tratto di
pennello ,rileua mirabilmente la oratione.Pere che non è uera grandezza quella,
della qualeſi tiene alcuna dubitanza,cu però grande è quella parte. Leggi .
DIN. Chi il commendò mai tanto, quanto tu il commendaui in tutte quelle coſe
laudeuoli,di che ualoroſo huomodee eſſer commendato ? certo . certo non a torto.
AR. Ma quel giuditio,cheſeguc,ė fatto con timore na dubbioſamente te proferito
,però non ha del grande,benche al modeſto dire , grandemente fi conuegna. DIN.
Che ſe i miei occhi non mi ingannarono,niuna laude da te data glifu, ch'io lui
operarla,o più mirabilmente chele tue parole non poteca no eſprimere,non
uedeßi. ART. Conſidera quanto togliedella maeſtà di quel ſonetto ,che con
mincia, Perſeguendomi Amoral loco uſato, quel timido o ſoſpetto giudicio che
dice, quella che ſe'l giudicio mio non erra,Era più degna d'immortaa le
ſtato,Et tanto più quanto quest'ultimo uerfo non ha quelſuono,che gli al tri
hanno.Douea ſenza temenza giudicare ancora questo autore . Leggi, DIN. Et
perciò che la gratitudine,ſecondo ch'io credo,fra l'altre uir tùėfommamente da
commandare. AR. Perche la ſentenza è degna, a ricercaua un colore,che terminaf
se il ſentimento.Nequesta figura ſolamentealla maeſtàſ conuiene , ma tut te
quelle che alla purità ſirichieggono,delle quai di ſopra ſe ne è detto afa
ſai.Et ciò ſifa ,perche la maestànon entri in tumidezza, o cada ( diroco. si )in
quella infermità che idropiſia é nominata . Le parti, le membra eſſer deono
bricui ſenza alcuna lunghezza di giriyil che ſi uede ne'ſauij huomini, iquali
breuißimamente uanno raccom gliendo le coſe loro in fentenza, & detti,come
oracoli.Leggi, DI N. Giuſtitia moſſe il mio alto fattore. Fecemi la diuina
potestade , Laſommaſapientia ,e'l primo amore. A R. Et qui ancora. DIN. Iſon
Beatrice, che tifaccio andare , Vegno dal loco oue tornar diſo, Amor mi moſſe,
che mifa parlare. ART. Etqui . DIN. Gli animi noſtri ſono eterni,perche
difuggeuole uaghezza gli inebriate.Mirate uoi come belle creature ci ſiamo,o
penſate quanto dee of ſer bello colui, di cui noi ſiamo miniſtre. AR.
Inſomma,degno è ilſeguenteparlare in ogni ſua parte . Leggi, DIN. Et queſto
altrimenti non ſi fa ,che à quello Iddio gli noſiri ani mi riuolgendo,che ce
gli ha dati. Ilchefarai tufigliuolo ,ſe me udirai , o penſerai,che eſſo tutto
queſtoſacro tempio,chenoi mondo chiamiamo,di ſe empiendolo hafabricato. ART. AR.
Et qui ancora dicoſeumane. DIN. La uirti primieramente noi,che tuttinaſcemmo, o
naſciamo equali,ne distire,o quegli, che di lei maggior parte haucuano, o
adopee rauano, nobili furon detti, e il rimanente rimafe non nobile. A R. La
diſpoſitione o il ſito delle parole nella maestà del dire dee tal mente
ordinarji,che non ui ſia concorſo di uocaboli , onde la bocca ſi apra
ſconciamente. Voglio poi,che le paroleſdruccioloſe, con più libertà uilica no
,che nella parità, o tal ſuono eſſe legate inſieme diano, quale ft deſides
raua,che da ſe steſſo diſciolte faceſſero.Il ſimileſi dice nella chiuſa, o nel
finimento,operò il fine in parole manche non deeper alcun modo hde uer loco in
questa forma, deſidero la uarietà de' finimenti,o de i princia pi, ma fieno di
parole cheauanzino le dueſilabe, oquello cheper la più ſarà tale in tutto il
giro ,farà il numero , che in queſtaforma ft ricere ca. Leggi tutto il ſopra
detto effempio, che ciò chen'ho detto, chiaramena' te wedrai. Et ciò della
maeſtà ti può bastare. Eſſendo la comprenſione alla grane dezza del dire comela
eleganza alla chiarezza , e eſſendoſi della male stà detto , come di forma ,
che da ſemedeſima di tutte le ſueparti era cone tenta, nè ad altra maniera,
Òſentenze,ò numeri,ò parole, ò artificio, o ale": tra qualità concedeuia
,nėda altri alcuna coſa pigliaua , non è fuori dira. gione che ſi dica ora
della comprenſione, uera, ounicaforma da folleuare ogui baiſao umile maniera
della oratione. Et pero delleſueſentenze fi dirà prima, poi delle altre parti.
Le ſentenze di queſta forma,ſono quel le, che chiamano altro ſentimento, o che
raccolgono,operò in queſtapar te la comprenſione è oppoſta alla purità del
dire,nella quale dicemmo,non eſſer’alcuno raccoglimento. Raccoglimento intendo
,quando quello che piis i riſtringe nel meno ,come una coſa commune in generale
, alla ſpecialità ė ristretto. Leggi , Certißima coſa é adunque,ò Donne, che di
tutte le perturbationi dell’d nimo,niuna coſa é cosi noceuole, cosi graue,
niuna cosiforzeuole o nio . lenta ,niuna che cosi ci commoud,ogiri,comequellafa,che
noi amore chia mia mo. Eccoti che la perturbatione è un genere commune ſotto il
quale ſi rac coglie l'amore, che è una ſpecie di perturbatione. Raccoglieſi
ancora lo in determinato v oſcuro ,allo aperto & terminato ,comequi. Molte
nouelle,dilettoſe Denne à douer dar principio à cosi lieta gior . nata ,come
questa ſarà,per douere eſſere da me raccontate miſi parano das uanti,delle
quali una più nell'animo me ne piace. Et qui ancora molto più lines. $ 9 fi
uede per due raccoglimenti. Et come che à ciaſcuna perſona stia bene , à coloro
maßimamente éria chieſto,li quali già hanno di conforto hauuto mestieri, &
hannolo trouato in altrui.Fra quali ſe alcuno mai ne hebbe,ò gli fu caro,ò già
ne riceuette piacere io ſono uno di quegli. Riduceſt tutto il tutto alla parte
ſia quel tutto è del tempo, ò del luogo, ò d'altra coſa. Del tempo,come qui, ·
10 amaiſempre,ey amo forte ancora . Del luogo ancora, come qui , In
Frioli,paeſe quantunque freddo ,lieto di belle montagnedipiù fiumi e di
chiarefontane,è una terra chiamata Vdine. Suole ogniſentenza, che chiama o
ricerca ſentimento alcuno, eſſere di quella forma,o appreſſo tutte quelle che
alla purità ſono repugnanti nelle quali ogni circostanza di luogo,di tempo
dimodo, oogni accidente, che preceda,accompagni,ófegua ,alle coſe
ſiſuoleaggiugnere.Come fe egli R diceſſe in queſta guiſa, in sù la meza notte
con molti'armati al luogo del le guardieſoprauenne,fdegnato per la ingiuria
fattagli il precedente gior no.Ecco checon molte circostanze ſi narra il
fatto,oR amplifica mirabil mente la coſa.Come in queluerſo ancora , Giouane
incauto ,diſarmató, e ſolo. Chiamano altroſentimento alcuni in questo modo, Ma
si come àlui piacque,il quale eſſendo egli infinito, diede per legge
incommutabile à tutte le coſe mondane bauer fine , il mio amore oltre ad
ogn'altro feruente ,o il quale. AR. Non legger piùche da teſteſſo poi nel
predetto luogo potraiper comprenſione eabbracciamento uedere tantagrandezza di
oratione che niente più. Abbracciano alcuneſentenze mirabilmente,o ſono quelle,
che la ragio nedella coſa in ſe ſteſſe ritengono,come s’io diceßi,L'ira
de'mortali immor tale eſſer non dee,e queſta, Aſai dimanda chi feruendo tace.
Et quell'altra. Un bel morir tutta la uita onord. Etſimiglianti. Senza timor
uiue chi le leggi teme. : Che il perder tempo, à chi più sàpiù piace. Queste
fonole ſentenze,che abbracciano a comprendono, ma l'arte H 2 difolleuareè prima
in ogni tramezamento . Leggi, Alla qual coſa fare(come'chein ciaſcuna età stia
bene il leggere « l'u dire le giouenili coſe, & c. Etſopra l'altre questa.
Percioche non amare ,come che ſia,in uoſtra stagione nonſi può , quane doſi
uede, che da Natura inſieme col uiuere a tutti gli huomini è dato, cbe ciaſcuno
alcuna coſa ſempre ami, oſempre diſii,pure io, che giouane fono , gligiouani
buomini,« le giouani donne conforto oinuito . Maggiormente queſti tramezamenti
inalzano la oratione comeuedi, i quali uanno meſcolando le ragioni con le coſe,
o fanno la oratione ampia ecircondotia, o uſanſiſpeſſo da queſto Autore nelle
fentenze baſſe, co me qui, Le quai coſe ,quantunque molto affettuoſamente le
diceſſe, conuertite in uentocome le piu delleſue impreſefaceano,tornarono in
uano. AR. Lo andare per gli gradi raccogliendo ,ė artificio di quella fora md,
come qui, Figliuola miaio credo,che gran noiaſa ad una bella edelicata donna
come uoi ſiete,bauere per marito un mentecatto ,ma molto maggiore la cre do
eſſere d'hauere un geloſo. Et queſta ancora. Leggi, Drmare ciaſcheduna delle
dette maniere , accion che io ueda il fine della deſiderata catena dell'anima
delle coſe, e del parlare. 40 DE Ï Ï Á parlare. A R. Bendi. Dei dunque ſapere
che comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la ragione,alfra quella
, che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe
allo inſegnare altreal muouere appartenenti, cosi alcune formedels la
orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello intelletto ,als cune alle
coſe della uoglia , odello appetito , o quando queſto non fuſſe, né uia, nė
ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re opinione è affettione
con la forza della fuuella . Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme
da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi confaccia. DIN.
Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli
ſecondola occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima
deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero , o numeroſo componimento. ART.
Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno. Sappi adunque, è
Dinardo , chequalhora alcuno ſi rivolga à conſi= derare il modo, es la ragione
del medicare , che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina, uoglia
giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli non ſia
per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza .
Ecco la medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di conſeruarla doue
ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte ,d'intorno alla buonaopinione , perche
conogni ſtudio s'affitica di metterla ,ò di mantenerla oue ſia biſogno. La
medicina conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer debs bia riſanata,
o preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le partiſue con le formedel
parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento recar'atl'infermo,con
mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il peßimoſapore , ego
l'odore delle medicine , ne da queſta gentilezza ſi parte la mia figlis uola,
cercandodinon offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris medij ,il
qualſentimento é negli orrecchi ripoſto ,per le qualiſotto la ſoauità delſuono
fa trapaſſar’inſino all'anima la opinione , quantun que ſia di coſa dalla
Natura aborrita . Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe
ui mette , non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte apportatrici
delle uirtù dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi conuenga
all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare , perche troppo
grande é la forza delſuo nus meroſo componimento ; il quale portando ſeco
ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra per
ogni parte dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi del
uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno Idiota,onde ella proceda,
ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più proprio dell'intelletto , che
delſentimento umano. Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente huomo
quale ſia la cagione, che le parole più ad un modo , che ad un'altro diſposte
fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto eſſere alla Natura, quanto alſuo
principio , conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi ; però che io ne
ho grandißima parte.Et perche tuſappia quello che la Nde tura, a quello che io
ti poßiamo prestare,dico ,che la Natura ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo
piacere & diletto, uuole chequelle affaticate fi folleuino con la ſoauità ,
a dolcezza del dire ; al che fare niuna coſa è più potente nel uostro ragionare
, che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual numero biſogna, che di ſua
uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la
fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole inganno pare, che
uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione,
o fede . Ma quando con ine certo , & non conoſciuto numero,dolce però , e
foaue,ſi compone il parld . -mento, oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza,
& del'intendimento,fena za dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi
riceue . Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola continouata del uerſo ;
continouata dico , peroche lo ſteſſo numero più volte replicato facilmente
ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato, « conſueto ritorno ,
più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il
numero de' quali ufae to ,e conoſciuto,più dall'arte ,che dalla Natura
procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del tutto non dee
restare l'oratione , che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però numeroſa o
compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per qual cagione
diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me s'appartiene dirò
bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo come ponimento.
DIN. Queſto ordine à meſommamente diletta,però di cuore ti prie go,che più
diſtintamente che puoi,me lo dimostri. A R. La neceßità uuole, che le parole
ſieno pari alla ſentenza ,perche à queſto fine ſi ragiona,comeſi è
detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di fuori,doue mancando o
accreſcendo parole, o il concetto interno non ſarebbeeſpreſſo, come nella mente
dimora , ò il parlar ſarebbe ociofo ,ò mancheuole.Maperche la ſentenza
nell'anima è finita Otermina ta ,però debbon’eſſerfinite,os terminate in
quantità le parole, che la sentenza dimostrano. Laqual quantità inſieme
ragunata, Giro , o circuito nos mineremo ilquale altro non ſarà,chepieno
operfetto abbracciamento del la ſentenza. Questo abbracciamento di pari
accompagnando la uirtù di ef la ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori,
o minori , ſecondo le parti della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di
parole, oſi chiama Membro, ó Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo
principio, il ſuofine, e il ſuo mezo, o il corpomedeſimo e terminato, &
finitocosi , le parti dello abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito,
otermina to . In tutto queſto ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di
ciaſcu na parte, e tra il cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto
chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il
biſoa gno,oſi muoua più ueloce ,ò piu tarda ſecondo laqualità del concetto . Et
questo ripoſo , oqueſto mouimento ,miſurato col tempo del proferire, para
toriſce ilnumero , del qual ragioniamo,uero figliuolo della compoſitione, o de
i termini del parlare, omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente
ne gli eſtremi chenel mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio
in quanto al ſentimento del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à
ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca
la cagione però , hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello
cheall'intelletto s'appartiene,in parte dico,perciò che l'intelletto in questo
caſo molto alle orecchie deferiſce , odiuerſe maniere hanno dia uerfo numero.Però
cominciando a trattare delle forme del dire daremo a ciaſcheduno il ſuo
numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroue remo quello che con
ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di farmicapace di questa
magnifica oillus ſtre compoſitione ; però ſegui,che con maggior deſiderio,
cheprima ,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare ,che ora tu facci di
me pruoua marauiglioſa . AR: La primaformae nominata Chiarezza,laqual naſce da
purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un tutto , acciò
che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della mondezza opile
rità ,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità del dire quelle
ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno biſogno di piu conſideratione,come
per lo pia fono,o effer deono le narrationi delle co fe ,come qui. Leggi. DIN.
Tancredi , Principe di Salerno , fu Signore affai umano , di benigno aſpetto. A
R. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di diſcorſo ogni mediocre in . gigno gegropuò
capire ilſentimento della ſentenzagià letta, come ancora in questi uerfi.Leggi.
DIN. Io ſon Manfredi , Nipote di Coſtanza Imperatrice. ART. Et molti essempi
ſono della purità nelle nouelle , la ſentenza delle quali per la maggior parte
è molto alla uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna
inſe conſiderata , percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi
riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in
questa guifa ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai
umano , per che queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo
attendere a quel io, che ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda
enetta . Non aſpetti adunque altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella
ſentenza , las quale stando nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che
ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il concetto ,cosi di fuori fa fatto
paleſe,ſen. za alcun accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però
daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo
. do,ò d'altro auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella ſentenza :
DIN. La quale percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in
tornoapoco con lei dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non
laſcia eſſer pura cotestaſentenza,quel trammezamento ,che dice,percioche
egli,si come i mercatanti fanno,andaua molto intorno , o questo adiuiene,perche
ſospeſoſi tiene l'animo, di chi ode . Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi
eſſere nel tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se partitamente come
ſtanno,ma de i raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole
ueramente con le quali ſi dee uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi
daràperche , tutte le parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi
ſonoall'anima della purità molto proportionate , onde le trae portate,le
ſtraniere,le lunghe, & quelle, che la lingua pena à proferire , o
l'intelletto a capirefono dalla purità lontane ,però purisſime ſono queste.
DIN. Cheà me pareuaeßer’in una bella , « diletteuole ſelua ,& in quella
andar cacciando ehauer preſo una cauriola , parcami, che ella fuſſepiu che la
neue bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica , che punto da me
nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara , cbe accio che da me non
partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una
catena d'oro tener con le mani. F 2 ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar
le parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle, o
colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura
delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini
fu nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. Aſolo adunqueuago , «
piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre Alpiſopra il
Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non
cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo,DiAſolo
,uago &piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di Cipri . Ma puro e
per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella : parola puro non ſia ,doue
ſi dice Arneſe,uoce ſtraniera, ancora nello are. tificio non é puro per quello
tramezamento, che dice ( si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circoſtanze
del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il ſentimentode gli aſcoltanti ,
oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque erra chi uolendo cßer puro
uſa parole non pure , artificio,ò figura d'altra maniera,della oratione ? ÁR:
Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in ogni parte puro , &netto,
& non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del
dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe
ſteſſa conſiderata , e però lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os
ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o
maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprenſione della
quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole ,
Dico nella purità ,cs mondezza del dire douerſi met : tere le parole inſieme
con quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta
cura,caffettatione ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna
parola di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza , Cogni difficultà di
lettere,o di ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale , temperato , « non
impedito ufciſſe fuori,cosi nella compoſitione biſos gna guardare di acconciare
talmente , che pine tosto nate , che fabricate appariſcano,come nello eſempio
già letto del ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito
di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba , come la natura in tutte ha posto
la ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono delleparole,
della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma nella più profonda parte del
petto ,o eſce poifuori con alta uoce,riſonante ,onde lo ſpirito di eſſa
grande,oſonoroffente,odi laſe guente , ch'é ,B. LA B é puraſnella,deſpedita
,come è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C, órauca quando è posta
inanzi la A à la V come per lo contrario e di dolce,ſpeſſo , o pieno
ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto mio dolce iomi ti
raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é ciò che ciė, o cio
che per me ſi può fare al comando tuo . Conſidera poi da te ſteſſo il restante
delle lettere , in che maniera eſſa natura diſua propria qualità ha ciaſcuna
dotata , & uederai onde nde ſce più questa,chequella compoſitione.Le parti,
&le membra , della purie. rità effer deono breui,& ciaſcuna dee
terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con lunghezza de' giri, o di
raccoglimenti la intelligenza del poe polo ,come qui, D. Suol’eſſere a'
nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti errano,otrauagliano
la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la trammontana, in modo che
qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il potere, & uela,ogouerno,là
doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue più la loro ſaluezza ueggiono ,
indirizzare. Bifox gna parimente in minoreſpatio raccogliere il ſentimento di
ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer puro, ofare in questo modo,benche le
parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN. Chino di Tacco piglia l'Abbatedi
Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi il laſcia,L'abbate ritorna , in
corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio Papa,o fallofriere dell'oſpedale. A
R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta norma oſſeruata,come, qui . Leggi.
DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra , E temo, eſpero, & ardo, e
for’un ghiaccio . Ilche non quiene in queſta altra parte. DIN. Voi,
ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono . Perciò che ilſenſo è troppo ritardato,o
con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità quello chebiſogna
d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla figura, alla
compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del numero, &
del finimento ,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o delle parti
ſue.Dico adunque , che nello andare , ego nello ſpatio di queſta forma non ſi
dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi ,one i
mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal fine,peròſapendo
quale eßer dee la compoſitione delelc le parole, quale il fineztutto
quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender quellocheſi è detto,
perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito reſta che ſidica del
finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in alcunaparola tronca,oin parola
piena,ſienoque ſte parole ,ò di due,ò di tre,ò di piu ſilabe,o ancora di una.
Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe, & uolubili,o ſalde ,oferme,
opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco
la uicina, o proſima,però partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luo go
ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer
dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire cotidiano,fuggirà il fine del le
parole tronche, comeſono quelle andò,corfuftarà,o C.perche le mede. fime dee
nella diſpoſitione fuggire,come ramarico, o render florido. Et A contenterà di
quelfine,cheper lo più la Natura a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con
tanta religioneſifiniſca in parole piene , &perfete te ,fuggendo le
tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo
parlare,perche quello cheſi dice , ſi dice per la mage gior parte de
ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque odalla diſpoſitione
riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo adunque lachiuſa
ſimile alla diſpoſitione , «la diſpoſitione non isforzeuole,matemperata,&
naturale,fcguita che il numero dell'uno, o, dell'altro figliuoloſarà , à quelle
fomigliante.Ben'è uero ,che laforza di cia fcuna manierà,e ripoſta piu toſto
nelle altre parti,che nel numero, eccetto, che nella bellezza,douc
l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto piùè ne i uerfi, « nella
poeſia ,che altroue, o questo dico, acciò che fu non metta piu ſtudio ,doue
nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giudicio delle quali da eſſa natura é
ſommamente aiutato . Ecco adunque, è Dinardo,quanto giouala mondezza , opurità
del dire alla chiarezza ; ma perche questa ſempliceforma non può daſefola si
chiaramente parlae re che non uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le
ſia di aiua. to mestieri ,con la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un
modo, che un'altro,piu questo ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando
eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del dire ,ilqual'aiuto èpiù presto
nell'ar . tificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni
ſentenza chiara &aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo
adune que della cleganza,o prima dello artificio,colquale ella lcuar fuole ogni
ſentenza nella mente riposta. AR. La cleganza e maniera,cheportachiarezza à
tutte le maniere della oratione , operò non tanto alla purità, douc ella manca
foccorre , quanto à ciaſcaduna forma opra intelligenza, o facilità,daqueſto
nafce , che la eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é
differente.Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta ,ma la eleganza
nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun ſole , che ogni oſcurità , che
per quella poteſſe uenire, leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può
molto, si con l'artificio fuo , si co i colori,«le figure.L'artificio adunque
di les uare ogniſentenza dallo intelletto,acciò che ella ſia inteſa , cogni
auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN.
Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe
Poiſeguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa
nella proſa ,comequi. DI N. Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de'
quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una
fia alqua to me comendare, &l'altra il biaſimare alquanto altrui, maprioche
dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi
quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello aſcoltare con tali
auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio , s'intende quela to,che
per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le quali non ſi in tenderebbe
ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper trattar del ben, ch'io ui trouai,
Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. A R. Se il poeta qui non doueſſe dimostrare
le pene de dannati e i tormenti di quegli,che ſono in diſgratia di Dio , non
haurebbepotuto dare ad intendere facilmente il beneche ne riuſci poi,per hauer
lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima neceßità costretto quest'altro
deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta nella egregia Città di Firenze, avvertendo
pri ma chi legge ,in queſto modo. DIN. Mapercioche qualefuße la cagione,perche
le coſe che appref fo Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta
rammemoratione dimoſtrare ,quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. A
R. Ecco qui ancora un'altra bella preparatione di coſe,fatta per le uare ogni
impedimento,chepoteſſe offendereilrimanente. DIN . Ma io mi ti uoglio unpoco
ſcuſare ,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire,
e non poteſti,alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente
veduto,comefoleui,& oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo,non ti
rendei gli tuoi danari, AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine di
coſe, e ſecondo , che elte ſon fatte,narrandole,ė artificio ſcelto , &
elegante ,però tutte le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente
quant’io del regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del
mio canto, AR. E qui ancora DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que
l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il simigliante
modo è oſſeruato ne i principij di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole
ancora la Eleganza porre artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte
partitamentecome qui. Leggi. DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi , che
diranno,ch'io habbia nello ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART.
Eccola dimanda ſeguita la ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna
coſa esi difoneſta, che con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART.
Et cosi di paripaſſo alle obiettioni riſponde, benche altre fide te
inſiemepostohabbia ogni accuſa di ſefatta, opoi s'habbiafcufato , ma quelmodo
non ha dello elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme
allora quando diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni ,
che queſte nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo , eche oneſta
coſa nonė, che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni
han dete to peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando
di uoler dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro
queſte coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te
neri della miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le
Mufe in Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli
ancora,che più difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to ,cl’io
farei più diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro
a queste fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa
eſſere state le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in
detrimento della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra
dello autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi
elegante ,comeilprimoartife cio ,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di
eſſer chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue
dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde ,
ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à
far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella
intera ,ma parte di una. A R. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio
lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon
uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura?
AR.Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia
riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti
dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo la ſententia di Platone. AR.
Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza
quella parte,per quello cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel tuo uelle
Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In
queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo
auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di
riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio
della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi
dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati . DIN. Ma
hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro
riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio
quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto
fin qui,con che arte la eleganza leuarmare ciaſcheduna delle dette maniere ,
accion che io ueda il fine della deſiderata catena dell'anima delle coſe, e del
parlare. DE Ï Ï Á parlare. AR. Bendi. Dei dunque ſapere che
comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la ragione,alfra quella ,
che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe
allo inſegnare altreal muouere appartenenti, cosi alcune formedels la
orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello intelletto ,als cune alle
coſe della uoglia , odello appetito , o quando queſto non fuſſe, né uia, nė
ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re opinione è affettione
con la forza della fuuella . Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme
da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi confaccia. DIN.
Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli
ſecondola occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima
deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero , o numeroſo componimento . ART.
Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno. Sappi adunque, è
Dinardo , chequalhora alcuno ſi rivolga à conſi= derare il modo, es la ragione
del medicare , che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina, uoglia
giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli non ſia
per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza .
Ecco la medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di conſeruarla doue
ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte ,d'intorno alla buonaopinione , perche
conogni ſtudio s'affitica di metterla ,ò di mantenerla oue ſia biſogno. La
medicina conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer debs bia riſanata,
o preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le partiſue con le formedel
parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento
recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il
peßimoſapore , ego l'odore delle medicine , ne da queſta gentilezza ſi parte la
mia figlis uola, cercandodinon offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris
medij ,il qualſentimento é negli orrecchi ripoſto ,per le qualiſotto la ſoauità
delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la opinione , quantun que ſia di coſa dalla
Natura aborrita . Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe
ui mette , non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte apportatrici
delle uirtù dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi conuenga
all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare , perche troppo
grande é la forza delſuo nus meroſo componimento ; il quale portando ſeco
ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra per
ogni parte dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi del
uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno Idiota,onde ella proceda,
ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più proprio dell'intelletto , che
delſentimento umano. Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente huomo quale
ſia la cagione, che le parole più ad un modo , che ad un'altro diſposte fieno
diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto eſſere alla Natura, quanto alſuo
principio , conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi ; però che io ne
ho grandißima parte.Et perche tuſappia quello che la Nde tura, a quello che io
ti poßiamo prestare,dico ,che la Natura ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo
piacere & diletto, uuole chequelle affaticate fi folleuino con la ſoauità ,
a dolcezza del dire ; al che fare niuna coſa è più potente nel uostro ragionare
, che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual numero biſogna, che di ſua
uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la
fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole inganno pare, che
uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione,
o fede . Ma quando con ine certo , & non conoſciuto numero,dolce però , e
foaue,ſi compone il parlamento, oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza,
& del'intendimento,fena za dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi
riceue . Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola continouata del uerſo ;
continouata dico , peroche lo ſteſſo numero più volte replicato facilmente
ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato, « conſueto ritorno ,
più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il
numero de' quali ufae to ,e conoſciuto,più dall'arte ,che dalla Natura
procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del tutto non dee
restare l'oratione , che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però numeroſa o
compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per qual cagione
diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me s'appartiene dirò
bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo come ponimento.
DIN. Queſto ordine à meſommamente diletta,però di cuore ti prie go,che più
diſtintamente che puoi,me lo dimostri. A R. La neceßità uuole, che le parole
ſieno pari alla ſentenza ,perche à queſto fine ſi ragiona,comeſi è
detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di fuori,doue mancando o
accreſcendo parole, o il concetto interno non ſarebbeeſpreſſo, come nella mente
dimora , ò il parlar ſarebbe ociofo ,ò mancheuole.Maperche la ſentenza
nell'anima è finita Otermina ta ,però debbon’eſſerfinite,os terminate in
quantità le parole, che laſenten F DEELLA za dimostrano. Laqual quantità
inſieme ragunata, Giro , o circuito nos mineremo ilquale altro non
ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza. Questo abbracciamento
di pari accompagnando la uirtù di ef la ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o
maggiori, o minori , ſecondo le parti della ſentenza;@ ciaſcuna parte é
composta di parole, oſi chiama Membro, ó Nodo; osi come ogni parte del corpo ha
il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo mezo, o il corpomedeſimo e terminato,
& finitocosi , le parti dello abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà
finito, otermina to . In tutto queſto ſpatio adunque,che è tra il principio,il
fine di ciaſcu na parte, e tra il cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto
chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo
il biſoa gno,oſi muoua più ueloce ,ò piu tarda ſecondo laqualità del concetto .
Et questo ripoſo , oqueſto mouimento ,miſurato col tempo del proferire, para
toriſce ilnumero , del qual ragioniamo,uero figliuolo della compoſitione, o de
i termini del parlare, omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente
ne gli eſtremi chenel mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio
in quanto al ſentimento del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à
ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca
la cagione però , hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello
cheall'intelletto s'appartiene,in parte dico,perciò che l'intelletto in questo
caſo molto alle orecchie deferiſce , odiuerſe maniere hanno dia uerfo
numero.Però cominciando a trattare delle forme del dire daremo a ciaſcheduno il
ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroue remo quello che con
ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di farmicapace di questa
magnifica oillus ſtre compoſitione ; però ſegui,che con maggior deſiderio,
cheprima ,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare ,che ora tu facci di
me pruoua marauiglioſa . AR: La primaformae nominata Chiarezza,laqual naſce da
purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un tutto , acciò
che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della mondezza opile
rità ,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità del dire quelle
ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno biſogno di piu
conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi delle co fe
,come qui. Leggi. DIN. Tancredi , Principe di Salerno , fu Signore affai umano
, di benigno aſpetto. AR. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di diſcorſo ogni
mediocre in . gigno. gegropuò capire ilſentimento della ſentenzagià letta, come
ancora in questi uerfi. Leggi. DIN. Io son Manfredi, Nipote di Costanza
Imperatrice. ART. Et molti eſſempi ſono della purità nelle nouelle , la
ſentenza delle quali per la maggior parte è molto alla
uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna inſe
conſiderata , percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi
riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in
questa guifa ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai
umano , per che queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo
attendere a quel io, che ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda
enetta . Non aſpetti adunque altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella
ſentenza , las quale stando nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che
ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il concetto ,cosi di fuori fa fatto
paleſe,ſen. za alcun accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però
daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo
. do,ò d'altro auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella sentenza: DIN.
La quale percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in tornoapoco
con lei dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non laſcia eſſer
pura cotestaſentenza,quel trammezamento ,che dice,percioche egli,si come i
mercatanti fanno,andaua molto intorno , o questo adiuiene,perche ſospeſoſi
tiene l'animo, di chi ode . Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi eſſere nel
tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se partitamente come ſtanno,ma de i
raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole ueramente con le quali
ſi dee uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi daràperche , tutte le
parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi ſonoall'anima della purità molto
proportionate , onde le trae portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che
la lingua pena à proferire , o l'intelletto a capirefono dalla purità lontane
,però purisſime ſono queste. DIN. Cheà me pareuaeßer’in una bella, diletteuole
ſelua ,& in quella andar cacciando ehauer preſo una cauriola , parcami, che
ella fuſſepiu che la neue bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica
, che punto da me nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara , cbe
accio che da me non partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no
d'oro,e quella con una catena d'oro tener con le mani. F 2 AR DEL LOA: ARTE Non
è poco hauer giudicio di ritrouar le parole adognima niera conformii,mamolto
più ſi deue auuertir' nel diſporle, o colorirle,on de ne naſce il deſiderato
aſpetto.Et però ſappi che la figura delle parole,al la puritàſottopoſte,é il
dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini fu nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et
quiancora DIN. Aſolo adunqueuago , « piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi
gioghi delle nostre Alpiſopra il Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe
della reina di Cipri. ARTE Non cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe
comine ciato, Dicendo, DiAſolo ,uago &piaceuole caſtello poſſeditrice fu la
Reie na di Cipri . Ma puro e per la figura del dritto, auegna che ſecondo
quella : parola puro non ſia ,doue ſi dice Arneſe,uoce ſtraniera, ancora nello
are. tificio non é puro per quello tramezamento, che dice ( si come ogn’uno dee
ſapere) o per quelle circoſtanze del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda
il ſentimentode gli aſcoltanti , oui mette le circonſtanze del luogo. DI N.
Dunque erra chi uolendo cßer puro uſa parole non pure , artificio,ò figura
d'altra maniera,della oratione ? ÁR: Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe
d'eſſere in ogni parte puro , &netto, & non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma
non erra uolendo alla pu rità del dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora
uoglio che ogni maniera ſia in ſe ſteſſa conſiderata , e però lapurità del dire
haurà le. parti ſue distinte,os ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è
figura, di questaforma, o maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario
als la comprenſione della quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom
poſitione delle parole , Dico nella purità ,cs mondezza del dire douerſi met :
tere le parole inſieme con quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae
coſenza molta cura,caffettatione ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in
ciaſcheduna parola di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza , Cogni
difficultà di lettere,o di ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale ,
temperato , « non impedito ufciſſe fuori,cosi nella compoſitione biſos gna
guardare di acconciare talmente , che pine tosto nate , che fabricate
appariſcano,come nello eſempio già letto del ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu
poi la forza, & lofpirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba , come
la natura in tutte ha posto la ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto
giudice del ſuono delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma
nella più profonda parte del petto ,o eſce poifuori con alta восс, uoce,riſonante
,onde lo ſpirito di eſſa grande,oſonoroffente,odi laſe guente , ch'é ,B. LA B é
puraſnella,deſpedita ,come è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C,
órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo contrario e di dolce,ſpeſſo
, o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto mio dolce iomi
ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é ciò che ciė, o
cio che per me ſi può fare al comando tuo. Conſidera poi da te ſteſſo il
restante delle lettere , in che maniera eſſa natura diſua propria qualità ha
ciaſcuna dotata , & uederai onde nde ſce più questa,chequella
compoſitione.Le parti, &le membra , della purie. rità effer deono
breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con lunghezza
de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo ,come qui, D.
Suol’essere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti
errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la
trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il
potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue
più la loro ſaluezza ueggiono , indirizzare. Bifox gna parimente in
minoreſpatio raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer
puro, ofare in questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN.
Chino di Tacco piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi
il laſcia,L'abbate ritorna , in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio
Papa,o fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta
norma oſſeruata,come, qui . Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra ,
E temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio . Ilche non quiene in queſta
altra parte. DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono . Perciò che ilſenſo
è troppo ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità
quello chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla
figura, alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del
numero, & del finimento ,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o
delle parti ſue.Dico adunque , che nello andare , ego nello ſpatio di queſta
forma non ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi
,one i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal
fine,peròſapendo quale eßer dee la compoſitione delelc le parole, quale
il fineztutto quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender
quellocheſi è detto, perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito
reſta che ſidica del finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in
alcunaparola tronca,oin parola piena,ſienoque ſte parole ,ò di due,ò di tre,ò
di piu ſilabe,o ancora di una. Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe,
& uolubili,o ſalde ,oferme, opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema
parola di tutta la chiuſa, ma anco la uicina, o proſima,però partitamente ſi
dirà di ciaſcun finimento al luo go ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare
le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire
cotidiano,fuggirà il fine del le parole tronche, comeſono quelle
andò,corfuftarà,o C.perche le mede. fime dee nella diſpoſitione fuggire,come
ramarico, o render florido. Et A contenterà di quelfine,cheper lo più la Natura
a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con tanta religioneſifiniſca in parole
piene , &perfete te ,fuggendo le tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta
nonſimetta fie nealtrimenti alſuo parlare,perche quello cheſi dice , ſi dice
per la mage gior parte de ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi
adunque odalla diſpoſitione riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo.
Eſſendo adunque lachiuſa ſimile alla diſpoſitione , «la diſpoſitione non
isforzeuole,matemperata,& naturale,fcguita che il numero dell'uno, o,
dell'altro figliuoloſarà , à quelle fomigliante.Ben'è uero ,che laforza di cia
fcuna manierà,e ripoſta piu toſto nelle altre parti,che nel numero, eccetto,
che nella bellezza,douc l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto
piùè ne i uerfi, « nella poeſia ,che altroue, o questo dico , acciò che fu non
metta piu ſtudio ,doue nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giu . dicio
delle quali da eſſa natura é ſommamente aiutato . Ecco adunque, è
Dinardo,quanto giouala mondezza , opurità del dire alla chiarezza ; ma perche
questa ſempliceforma non può daſefola si chiaramente parlae re che non
uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri ,con
la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro,piu questo
ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla
ſemplicepurità del dire ,ilqual'aiuto èpiù presto nell'ar . tificio, che nelle
ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni ſentenza chiara
&aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della
cleganza,o prima dello artificio,colquale ella lcuar fuole ogni ſentenza nella
mente riposta. AR. La cleganza e maniera,cheportachiarezza à tutte le maniere
della oratione , operò non tanto alla purità, douc ella manca foccorre, quanto
à ciaſcaduna forma opra intelligenza, o facilità,daqueſto nafce , che la
eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é differente.Perciò che la purità
da ſe ſteſſa è chiara,oaperta ,ma la eleganza nella grandezza, e magnificenza
del dire ecomeun ſole , che ogni oſcurità , che per quella poteſſe uenire,
leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio fuo
, si co i colori,«le figure.L'artificio adunque di les uare ogniſentenza dallo
intelletto,acciò che ella ſia inteſa , cogni auuerti. mento innanzi fatto di
quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi in libertade
Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poiſeguirò si come à luim'increbbe
Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa ,comequi. DI N. Mipiace à
condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe
molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare, &l'altra
il biaſimare alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non
intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto
dello aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio ,
s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le
quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper trattar
del ben ,ch'io ui trouai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. A R. Se il
poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che
ſono in diſgratia di Dio , non haurebbepotuto dare ad intendere facilmente il
beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima
neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta
nella egregia Città di Firenze ,auuertendo pri ma chi legge ,in queſto modo.
DIN. Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo
Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare
,quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. A R. Ecco qui ancora
un'altra bella preparatione di coſe,fatta per le uare ogni
impedimento,chepoteſſe offendereilrimanente. DIN . Ma io mi ti uoglio unpoco
ſcuſare ,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire,
e non poteſti,alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto,comefoleui,&
oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo,non ti rendei gli tuoi danari, AR.
In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo , che elte
ſon fatte,narrandole,ė artificio ſcelto , & elegante ,però tutte le
propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN . Veramente quant’io del
regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR.
E qui ancora DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga
E di ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il fimigliante modo è oſſeruato ne i
principij di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole ancora la Eleganza
porre artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui.
Leggi. DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi , che diranno,ch'io habbia nello
ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART. Eccola dimanda ſeguita la
ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna coſa esi difoneſta, che
con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo
alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſiemepostohabbia ogni accuſa
di ſefatta, opoi s'habbiafcufato , ma quelmodo non ha dello
elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando
diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni , che queſte
nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo , eche oneſta coſa nonė,
che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to
peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando di uoler dire,hannodetto,
che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte coſe, cice à ragionare
di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della miafamamoſirandoſi
dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le Mufe in Parnaſo,che con queſte
ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli ancora,che più difpettoſamente,che
ſauiamente parlando,hannodete to ,cl’io farei più diſcrettamente à
penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste fraſche andarmi
paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state le coſe da me
raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento della mia fatica
di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello autoreſi mettono,
pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante ,comeilprimoartife
cio ,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso
auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle
predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde , ilche ancora é dalia
cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad
alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella intera ,ma parte di
una. A R. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare
cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza
altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura ? A R.Queſta éuna
propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi
è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti dà cagione
Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo la ſententia di Platone. AR. Ben che
tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza
quella parte,per quello cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano
egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In queſto
luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto
di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di riſpondere prima ad una
domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè
quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da
dire,come in queſti luoghiſegnati . DIN. Ma hauereinſino à qui detto della
preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la
nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio quelloche è
detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò . AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con
che arte la eleganza leuarmare ciaſcheduna delle dette maniere , accion che io
ueda il fine della deſiderata catena dell'anima delle coſe, e del parlare. A R.
Bendi. Dei dunque ſapere che comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende
la ragione,alfra quella , che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o
nellaNatura altre ſono le coſe allo inſegnare altreal muouere appartenenti,
cosi alcune formedels la orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello
intelletto ,als cune alle coſe della uoglia , odello appetito , o quando queſto
non fuſſe, né uia, nė ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re
opinione è affettione con la forza della fuuella . Però auuertiſci, che nel
trattamento delle forme da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi
confaccia. DIN. Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi
obligo di leggerli ſecondola occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu
uorrai. Ma prima deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero , o numeroſo
componimento . ART. Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il
biſogno. Sappi adunque, è Dinardo , chequalhora alcuno ſi rivolga à conſi=
derare il modo, es la ragione del medicare , che ritrouando alcus na bella coſa
nella medicina, uoglia giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è
dubbio, che egli non ſia per uedere tra la medicina, o l'arte di che
ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza . Ecco la medicina cerca di indurre ſanità,
oue ella non ė, ò di conſeruarla doue ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte
,d'intorno alla buonaopinione , perche conogni ſtudio s'affitica di metterla ,ò
di mantenerla oue ſia biſogno. La medicina conoſce qual parte del corpo con
qualrimedio eſſer debs bia riſanata, o preferuata,cosi queſt'arte opracon
l'anima, e con le partiſue con le formedel parlare.La medicina quantopiù può
fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento recar'atl'infermo,con mele ò con
zucchero, ò con altra coperta mitigando il peßimoſapore , ego l'odore delle
medicine , ne da queſta gentilezza ſi parte la mia figlis uola, cercandodinon
offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris medij ,il qualſentimento é negli
orrecchi ripoſto ,per le qualiſotto la ſoauità delſuono fa trapaſſar’inſino
all'anima la opinione , quantun que ſia di coſa dalla Natura aborrita .
Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe ui mette , non
tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte apportatrici delle uirtù
dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi conuenga all'artificiofa
fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare , perche troppo grande é la forza
delſuo nus meroſo componimento ; il quale portando ſeco ageuolißimamente il
ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra per ogni parte dell'anima
Ειοο ν Ε Ν Ζ Α. dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi
del uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno Idiota,onde ella
proceda, ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più proprio dell'intelletto
, che delſentimento umano. Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente
huomo quale ſia la cagione, che le parole più ad un modo , che ad un'altro
diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto eſſere alla Natura,
quanto alſuo principio , conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi ;
però che io ne ho grandißima parte.Et perche tuſappia quello che la Nde tura, a
quello che io ti poßiamo prestare,dico ,che la Natura ha posto alls cor nelle
orecchie ilſuo piacere & diletto, uuole chequelle affaticate fi folleuino
con la ſoauità , a dolcezza del dire ; al che fare niuna coſa è più potente nel
uostro ragionare , che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual numero
biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e non
muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole
inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, operò leua loro
ogni perſuaſione, o fede . Ma quando con ine certo , & non conoſciuto
numero,dolce però , e foaue,ſi compone il parld . -mento, oſi lega inſieme il
faſcio della ſentenza, & del'intendimento,fena za dubbio il tutto con
credenza, o diletto ſi riceue . Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola
continouata del uerſo ; continouata dico , peroche lo ſteſſo numero più volte
replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato,
« conſueto ritorno , più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara,
oatteſa ne i uerſi,il numero de' quali ufae to ,e conoſciuto,più dall'arte ,che
dalla Natura procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del
tutto non dee restare l'oratione , che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però
numeroſa o compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per
qual cagione diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me
s'appartiene dirò bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò
numeroſo come ponimento. DIN. Queſto ordine à meſommamente diletta,però di
cuore ti prie go,che più diſtintamente che puoi,me lo dimostri. AR. La neceßità
uuole, che le parole ſieno pari alla ſentenza ,perche à queſto fine ſi
ragiona,comeſi è detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di fuori,doue
mancando o accreſcendo parole, o il concetto interno non ſarebbeeſpreſſo, come
nella mente dimora, ò il parlar sarebbe ocioso, ò mancheuole. Maperche la
ſentenza nell'anima è finita Otermina ta ,però debbon’eſſerfinite,os terminate
in quantità le parole, che laſentenza dimostrano. Laqual quantità inſieme
ragunata, Giro , o circuito nos mineremo ilquale altro non ſarà,chepieno
operfetto abbracciamento del la ſentenza. Questo abbracciamento di pari
accompagnando la uirtù di ef la ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori,
o minori , ſecondo le parti della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di
parole, oſi chiama Membro, ó Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo
principio, il ſuofine, e il ſuo mezo, o il corpomedeſimo e terminato, & finitocosi
, le parti dello abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to
. In tutto queſto ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na
parte, e tra il cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė
forza,che la lingua alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno,oſi
muoua più ueloce ,ò piu tarda ſecondo laqualità del concetto . Et questo ripoſo
, oqueſto mouimento ,miſurato col tempo del proferire, para toriſce ilnumero ,
del qual ragioniamo,uero figliuolo della compoſitione, o de i termini del
parlare, omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi
chenel mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al
ſentimento del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la
dilettatione de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione
però , hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello cheall'intelletto
s'appartiene,in parte dico,perciò che l'intelletto in questo caſo molto alle
orecchie deferiſce , odiuerſe maniere hanno dia uerfo numero.Però cominciando a
trattare delle forme del dire daremo a ciaſcheduno il ſuo numeroſo
componimento,o con effempi ancora ritroue remo quello che con ragioneſfarà
dimostrato. DIN. Molto bene auif di farmicapace di questa magnifica oillus ſtre
compoſitione ; però ſegui,che con maggior deſiderio, cheprima ,fono
apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare ,che ora tu facci di me pruoua
marauiglioſa . AR: La primaformae nominata Chiarezza,laqual naſce da purità, og
da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un tutto , acciò che meglio
ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della mondezza opile rità
,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità del dire quelle
ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno biſogno di piu
conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi delle co fe
,come qui. Leggi. DIN. Tancredi , Principe di Salerno, fu Signore affai umano ,
di benigno aſpetto. AR. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di diſcorſo ogni mediocre
in . gigno gegropuò capire ilſentimento della ſentenzagià letta, come ancora in
questi uerfi.Leggi. DIN. Io ſon Manfredi , Nipote di Coſtanza Imperatrice. ART.
Et molti eſſempi ſono della purità nelle nouelle , la ſentenza delle quali per
la maggior parte è molto alla uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che
partitamenteſa ciaſcheduna inſe conſiderata , percio che pua re nonſarebbono,
quando adalcun fineſi riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il
ſentimento loro, comeſe in questa guifa ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe
di Salerno Signore aſſai umano , per che queſta ſentenza non ſarebbe
terminata,o finita,douendo attendere a quel io, che ſegue, o però più preſto
oſcura ſarebbe chemonda enetta . Non aſpetti adunque altro intendimento,chi
uuoleſſer puro nella ſentenza , las quale stando nell'anima,dee cljer con
tal'artificio leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il
concetto ,cosi di fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun accidente che quella
accompagni,o conſegua. Et però daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di
tempo diluogo, di perſona,o di mo . do,ò d'altro auenimento.Vedi questa parte
quanto, é pura nella ſentenza : DIN. La quale percioche egli,sicomei mercatanti
fanno, andava molto in tornoapoco con lei dimoraua,s'inamoród’uno giouane
chiama to Roberto. AR. Non laſcia eſſer pura cotestaſentenza,quel trammezamento
,che dice,percioche egli,si come i mercatanti fanno,andaua molto intorno , o
questo adiuiene,perche ſospeſoſi tiene l'animo, di chi ode . Fuggi adunque ogni
raccoglimento ſe uuoi eſſere nel tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se
partitamente come ſtanno,ma de i raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà
poi.Delle parole ueramente con le quali ſi dee uestire 'la purità breue
ammaeſtramento ſi daràperche , tutte le parole,piane,facili,ufitate, bricui, O
communi ſonoall'anima della purità molto proportionate , onde le trae
portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che la lingua pena à proferire ,
o l'intelletto a capirefono dalla purità lontane ,però purisſime ſono queste.
DIN. Cheà me pareva eßer’in una bella, diletteuole ſelua ,& in quella andar
cacciando ehauer preſo una cauriola , parcami, che ella fuſſepiu che la neue
bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica , che punto da me nonſi
partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara , cbe accio che da me non
partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una
catena d'oro tener con le mani. F 2 ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar
le parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle,
o colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura
delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini
fu nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. A solo adunqueuago ,
« piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre Alpiſopra il
Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non
cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo,DiAſolo
,uago &piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di Cipri. Ma puro e
per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella : parola puro non ſia ,doue
ſi dice Arneſe,uoce ſtraniera, ancora nello are. tificio non é puro per quello
tramezamento, che dice ( si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circoſtanze
del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il ſentimentode gli aſcoltanti ,
oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque erra chi uolendo cßer puro
uſa parole non pure , artificio,ò figura d'altra maniera,della oratione ? ÁR:
Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in ogni parte puro , &netto,
& non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del
dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe
ſteſſa conſiderata , e però lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os
ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o
maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprenſione della
quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole ,
Dico nella purità ,cs mondezza del dire douerſi met : tere le parole inſieme
con quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta
cura,caffettatione ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna
parola di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza , Cogni difficultà di
lettere,o di ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale , temperato , « non
impedito ufciſſe fuori,cosi nella compoſitione biſos gna guardare di acconciare
talmente , che pine tosto nate , che fabricate appariſcano,come nello eſempio
già letto del ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito
di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba , come la natura in tutte ha posto
la ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono
delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma nella più profonda
parte del petto ,o eſce poifuori con alta восс, uoce,riſonante ,onde lo
ſpirito di eſſa grande,oſonoroffente,odi laſe guente , ch'é ,B. LA B é puraſnella,deſpedita
,come è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C, órauca quando è posta
inanzi la A à la V come per lo contrario e di dolce,ſpeſſo , o pieno
ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto mio dolce iomi ti
raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é ciò che ciė, o cio
che per me ſi può fare al comando tuo . Conſidera poi da te ſteſſo il restante
delle lettere , in che maniera eſſa natura diſua propria qualità ha ciaſcuna
dotata , & uederai onde nde ſce più questa,chequella compoſitione.Le parti,
&le membra , della purie. rità effer deono breui,& ciaſcuna dee
terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con lunghezza de' giri, o di
raccoglimenti la intelligenza del poe polo ,come qui, D. Suol’eſſere a'
nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti
errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la
trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il
potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue
più la loro ſaluezza ueggiono , indirizzare. Bifox gna parimente in
minoreſpatio raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer
puro, ofare in questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN.
Chino di Tacco piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi
il laſcia,L'abbate ritorna , in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio
Papa,o fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta
norma oſſeruata,come, qui . Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra ,
E temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio . Ilche non quiene in queſta
altra parte. DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono . Perciò che ilſenſo
è troppo ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità
quello chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla
figura, alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del
numero, & del finimento ,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o
delle parti ſue.Dico adunque , che nello andare , ego nello ſpatio di queſta
forma non ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi
,one i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal
fine,peròſapendo quale eßer dee la compoſitione delelc le parole, quale
il fineztutto quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender
quellocheſi è detto, perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito
reſta che ſidica del finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in
alcunaparola tronca,oin parola piena,ſienoque ſte parole ,ò di due,ò di tre,ò
di piu ſilabe,o ancora di una. Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe,
& uolubili,o ſalde ,oferme, opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema
parola di tutta la chiuſa, ma anco la uicina, o proſima,però partitamente ſi
dirà di ciaſcun finimento al luo go ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare
le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire
cotidiano,fuggirà il fine del le parole tronche, comeſono quelle
andò,corfuftarà, o C.perche le mede. fime dee nella diſpoſitione fuggire,come
ramarico, o render florido. Et A contenterà di quelfine,cheper lo più la Natura
a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con tanta religioneſifiniſca in parole
piene , &perfete te ,fuggendo le tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta
nonſimetta fie nealtrimenti alſuo parlare,perche quello cheſi dice , ſi dice
per la mage gior parte de ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi
adunque odalla diſpoſitione riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo.
Eſſendo adunque lachiuſa ſimile alla diſpoſitione , «la diſpoſitione non
isforzeuole,matemperata,& naturale,fcguita che il numero dell'uno, o,
dell'altro figliuoloſarà , à quelle fomigliante.Ben'è uero ,che laforza di cia
fcuna manierà,e ripoſta piu toſto nelle altre parti,che nel numero, eccetto,
che nella bellezza,douc l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto
piùè ne i uerfi, « nella poeſia ,che altroue, o questo dico , acciò che fu non
metta piu ſtudio ,doue nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giu . dicio
delle quali da eſſa natura é ſommamente aiutato . Ecco adunque, è
Dinardo,quanto giouala mondezza , opurità del dire alla chiarezza ; ma perche
questa ſempliceforma non può daſefola si chiaramente parlae re che non uiſiaqualche
impedimento,però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri ,con la eleganza
aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro,piu questo ordineche
quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del
dire ,ilqual'aiuto èpiù presto nell'ar . tificio, che nelle ſentenze ripoſto.
Però che ella ſi sforzafar ogni ſentenza chiara &aperta,non che le pure già
dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della cleganza,o prima dello
artificio,colquale ella lcuar fuole ogni ſentenza nella mente riposta. AR. La
cleganza e maniera,cheportachiarezza à tutte le maniere della oratione , operò
non tanto alla purità, douc ella manca foccorre, quanto à ciaſcaduna forma opra
intelligenza, o facilità,daqueſto nafce , che la eleganza dalla purità del dire
in alcuna coſa é differente.Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta
,ma la eleganza nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun ſole , che
ogni oſcurità , che per quella poteſſe uenire, leua,o diſgombra,o però in
ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio fuo , si co i colori,«le
figure.L'artificio adunque di les uare ogniſentenza dallo intelletto,acciò che
ella ſia inteſa , cogni auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da
ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio
albergo à ſdegno s'hebbe Poiſeguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente:
AR. ilſimigliante R fa nella proſa ,comequi. DIN. Mipiace à condiſcendere à
conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei
costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare, &l'altra il biaſimare
alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo
partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello
aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio ,
s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le
quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper trattar
del ben ,ch'io ui trouai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. A R. Se il
poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che
ſono in diſgratia di Dio , non haurebbepotuto dare ad intendere facilmente il
beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima
neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta
nella egregia Città di Firenze ,auuertendo pri ma chi legge ,in queſto modo.
DIN. Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo
Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare
,quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. AR. Ecco qui ancora un'altra
bella preparatione di coſe,fatta per le uare ogni impedimento,chepoteſſe
offendereilrimanente. DIN . Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare ,che di que'
tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti,alcune
ci uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto,comefoleui,& oltre à questo
di ciòche io al termine promeſſo,non ti rendei gli tuoi danari. AR. In fine
ogni precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo , che elte ſon
fatte,narrandole,ė artificio ſcelto , & elegante ,però tutte le propofitoni
de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente quant’io del regno fanto Ne
la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR. E qui ancora
DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di
ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il fimigliante modo è oſſeruato ne i principij
di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole ancora la Eleganza porre
artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui. Leggi.
DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi , che diranno,ch'io habbia nello
ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART. Eccola dimanda ſeguita la
ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna coſa esi difoneſta, che
con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo
alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſiemepostohabbia ogni accuſa
di ſefatta, opoi s'habbiafcufato , ma quelmodo non ha dello
elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando
diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni , che queſte
nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo , eche oneſta coſa nonė,
che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to
peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando di uoler
dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte coſe,
cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della
miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le Mufe in
Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli ancora,che più
difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to ,cl’io farei più
diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste
fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state
le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento
della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello
autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante
,comeilprimoartife cio ,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer
chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue
dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde ,
ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à
far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella
intera ,ma parte di una. A R. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio
lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon
uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura ?
A R.Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia
riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti
dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo la ſententia di Platone. A
R. Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza
cleganza quella parte,per quello cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel
tuo uelle Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle.
ART. In queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo
auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di
riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio
della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi dimostra,di
che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati . DIN. Ma hauereinſino à qui
detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro riuolgermi,a'
quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio quelloche è
detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò . AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con
che arte la eleganza leuarmare ciaſcheduna delle dette maniere , accion che io
ueda il fine della deſiderata catena dell'anima delle coſe, e del parlare. 40
DE Ï Ï Á parlare. A R. Bendi. Dei dunque ſapere che comenell'Anima,al. tra
parte è quella che apprende la ragione,alfra quella , che é da gli effetti
commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe allo inſegnare altreal
muouere appartenenti, cosi alcune formedels la orationeſaranno, le quali
conuerranno alle coſe dello intelletto ,als cune alle coſe della uoglia ,
odello appetito , o quando queſto non fuſſe, né uia, nė ragione alcunaſarebbe
di poter acconciamente indurs re opinione è affettione con la forza della
fuuella . Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme da te ſtesſo potrai
intendere qual forma à qual coſaſi confaccia. DIN. Ricorditi difarmi ogni coſa
chiara con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli ſecondola occaſio ne,in
qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima deſidero ſa per alcuna coſa
d'intornoal Numero , o numeroſo componimento. ART. Laſciati à me guidare cheil
tutto ſaperai ſecondo il biſogno. Sappi adunque, è Dinardo , chequalhora alcuno
ſi rivolga à conſi= derare il modo, es la ragione del medicare , che ritrouando
alcus na bella coſa nella medicina, uoglia giudicioſamente applicarla all’are
te del dire, non è dubbio, che egli non ſia per uedere tra la medicina, o
l'arte di che ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza . Ecco la medicina cerca di
indurre ſanità, oue ella non ė, ò di conſeruarla doue ella fi truoua.Ilſimile
fa queſt'arte ,d'intorno alla buonaopinione , perche conogni ſtudio s'affitica
di metterla ,ò di mantenerla oue ſia biſogno. La medicina conoſce qual parte
del corpo con qualrimedio eſſer debs bia riſanata, o preferuata,cosi queſt'arte
opracon l'anima, e con le partiſue con le formedel parlare.La medicina
quantopiù può fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento
recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il
peßimoſapore , ego l'odore delle medicine , ne da queſta gentilezza ſi parte la
mia figlis uola, cercandodinon offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris
medij ,il qualſentimento é negli orrecchi ripoſto ,per le qualiſotto la ſoauità
delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la opinione , quantun que ſia di coſa
dalla Natura aborrita . Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune
coſe ui mette , non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte
apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi
conuenga all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare , perche
troppo grande é la forza delſuo nus meroſo componimento ; il quale portando
ſeco ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra
per ogni parte dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi
del uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno Idiota,onde ella
proceda, ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più proprio dell'intelletto
, che delſentimento umano. Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente
huomo quale ſia la cagione, che le parole più ad un modo , che ad un'altro
diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto eſſere alla Natura,
quanto alſuo principio , conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi ;
però che io ne ho grandißima parte.Et perche tuſappia quello che la Nde tura, a
quello che io ti poßiamo prestare,dico ,che la Natura ha posto alls cor nelle
orecchie ilſuo piacere & diletto, vuole chequelle affaticate fi folleuino
con la ſoauità , a dolcezza del dire ; al che fare niuna coſa è più potente nel
uostro ragionare , che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual numero
biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e non
muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole
inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, operò leua loro
ogni perſuaſione, o fede . Ma quando con ine certo , & non conoſciuto
numero,dolce però , e foaue,ſi compone il parld . -mento, oſi lega inſieme il
faſcio della ſentenza, & dell’intendimento, fena za dubbio il tutto con
credenza, o diletto ſi riceue . Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola
continouata del uerſo ; continouata dico , peroche lo ſteſſo numero più volte
replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato,
« conſueto ritorno , più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara,
oatteſa ne i uerſi,il numero de' quali ufae to ,e conoſciuto,più dall'arte ,che
dalla Natura procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del
tutto non dee restare l'oratione , che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però
numeroſa o compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per
qual cagione diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me
s'appartiene dirò bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò
numeroſo come ponimento. DIN. Queſto ordine à meſommamente diletta,però di
cuore ti prie go,che più diſtintamente che puoi,me lo dimostri. A R. La
neceßità uuole, che le parole ſieno pari alla ſentenza ,perche à queſto fine ſi
ragiona,comeſi è detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di
fuori,doue mancando o accreſcendo parole, o il concetto interno non
ſarebbeeſpreſſo, come nella mente dimora , ò il parlar ſarebbe ociofo ,ò
mancheuole.Maperche la ſentenza nell'anima è finita Otermina ta ,però
debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le parole, che la sentenza
dimostrano. Laqual quantità inſieme ragunata, Giro , o circuito nos mineremo
ilquale altro non ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza.
Questo abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef la
ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori , ſecondo le parti
della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di parole, oſi chiama Membro, ó
Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo
mezo, o il corpomedeſimo e terminato, & finitocosi , le parti dello
abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to . In tutto queſto
ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na parte, e tra il
cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua
alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno,oſi muoua più ueloce ,ò
piu tarda ſecondo laqualità del concetto . Et questo ripoſo , oqueſto mouimento
,miſurato col tempo del proferire, para toriſce ilnumero , del qual
ragioniamo,uero figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare,
omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel
mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento
del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione
de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però ,
hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in
parte dico,perciò che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce
, odiuerſe maniere hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle
forme del dire daremo a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi
ancora ritroue remo quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene
auif di farmicapace di questa magnifica oillus ſtre compoſitione ; però
ſegui,che con maggior deſiderio, cheprima ,fono apparecchiato di
aſcoltarti,perche mi pare ,che ora tu facci di me pruoua marauiglioſa . AR: La
primaformae nominata Chiarezza,laqual naſce da purità, og da eleganza,come s'è
detto. Pero eſſendo ella quaſi un tutto , acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà
delle parti fue,&prima della mondezza opile rità ,poidella ſcelta, o
eleganza. Deefl dunque dare allapurità del dire quelle ſentenze, le qualiſono
di piana intelligenza, & non hanno biſogno di piu conſideratione,come per
lo pia fono,o effer deono le narrationi delle co fe ,come qui. Leggi. DIN.
Tancredi , Principe di Salerno , fu Signore affai umano , di benigno aſpetto. A
R. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di diſcorſo ogni mediocre in . gigno gegropuò
capire ilſentimento della ſentenzagià letta, come ancora in questi uerfi.Leggi.
DIN. Io ſon Manfredi , Nipote di Coſtanza Imperatrice. ART. Et molti eſſempi
ſono della purità nelle nouelle , la ſentenza delle quali per la maggior parte
è molto alla uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna
inſe conſiderata , percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi
riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in
questa guifa ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai
umano , per che queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo
attendere a quel io, che ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda
enetta . Non aſpetti adunque altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella
ſentenza , las quale stando nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che
ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il concetto ,cosi di fuori fa fatto
paleſe,ſen. za alcun accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però
daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo
. do,ò d'altro auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella ſentenza :
DIN. La quale percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in
tornoapoco con lei dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non
laſcia eſſer pura cotestaſentenza,quel trammezamento ,che dice,percioche egli,si
come i mercatanti fanno,andaua molto intorno , o questo adiuiene,perche
ſospeſoſi tiene l'animo, di chi ode . Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi
eſſere nel tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se partitamente come
ſtanno,ma de i raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole
ueramente con le quali ſi dee uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi
daràperche , tutte le parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi
ſonoall'anima della purità molto proportionate , onde le trae portate,le ſtraniere,le
lunghe, & quelle, che la lingua pena à proferire , o l'intelletto a
capirefono dalla purità lontane ,però purisſime ſono queste. DIN. Cheà me
pareuaeßer’in una bella, diletteuole ſelua ,& in quella andar cacciando
ehauer preſo una cauriola , parcami, che ella fuſſepiu che la neue bianca,or in
brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica , che punto da me nonſi partiua,tutta
uia à meparcua hauerla, si cara , cbe accio che da me non partiſſe,le mi pareua
nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una catena d'oro tener con
le mani. F 2 AR ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar le parole adognima
niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle, o colorirle,on de
ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura delle parole,al la
puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini fu nostro
cittadino,o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. Aſolo adunqueuago , « piaceuole
caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre Alpiſopra il Triuigiano ecfi
come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non cosipuro ſarebbe
ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo,DiAſolo ,uago
&piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di Cipri . Ma puro e per la
figura del dritto, auegna che ſecondo quella : parola puro non ſia, doue ſi
dice Arneſe,uoce straniera, ancora nello are. tificio non é puro per quello
tramezamento, che dice ( si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circoſtanze
del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il ſentimentode gli aſcoltanti ,
oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque erra chi uolendo cßer puro
uſa parole non pure , artificio,ò figura d'altra maniera,della oratione ? ÁR:
Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in ogni parte puro , &netto,
& non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del
dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe
ſteſſa conſiderata , e però lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os
ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o
maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprenſione della
quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole ,
Dico nella purità ,cs mondezza del dire douerſi met : tere le parole inſieme con
quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta
cura,caffettatione ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna
parola di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza , Cogni difficultà di
lettere,o di ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale , temperato , « non
impedito ufciſſe fuori,cosi nella compoſitione biſos gna guardare di acconciare
talmente , che pine tosto nate , che fabricate appariſcano,come nello eſempio
già letto del ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito
di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba , come la natura in tutte ha posto
la ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono
delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma nella più profonda
parte del petto ,o eſce poifuori con alta voce,riſonante ,onde lo ſpirito di
essa grande,oſonoroffente,odi laſe guente , ch'é ,B. LA B é
puraſnella,deſpedita ,come è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C,
órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo contrario e di dolce,ſpeſſo
, o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto mio dolce iomi
ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é ciò che ciė, o
cio che per me ſi può fare al comando tuo . Conſidera poi da te ſteſſo il
restante delle lettere , in che maniera eſſa natura diſua propria qualità ha
ciaſcuna dotata , & uederai onde nde ſce più questa,chequella
compoſitione.Le parti, &le membra , della purie. rità effer deono
breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con
lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo ,come qui,
D. Suol’eſſere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti
errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la
trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il
potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue
più la loro ſaluezza ueggiono , indirizzare. Bifox gna parimente in
minoreſpatio raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer
puro, ofare in questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN.
Chino di Tacco piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi
il laſcia,L'abbate ritorna , in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio Papa,o
fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta norma
oſſeruata,come, qui . Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra , E
temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio . Ilche non quiene in queſta altra
parte. DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono . Perciò che ilſenſo è
troppo ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità
quello chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla
figura, alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del
numero, & del finimento ,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o
delle parti ſue.Dico adunque , che nello andare , ego nello ſpatio di queſta
forma non ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi ,one
i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal fine,peròſapendo
quale eßer dee la compoſitione delelc le parole, quale il fineztutto
quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender quellocheſi è detto,
perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito reſta che ſidica del
finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in alcunaparola tronca,oin parola
piena,ſienoque ſte parole ,ò di due,ò di tre,ò di piu ſilabe,o ancora di una.
Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe, & uolubili,o ſalde ,oferme,
opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco
la uicina, o proſima,però partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luo go
ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer dee.Perciò
cheaßimigliandoſi elle al dire cotidiano,fuggirà il fine del le parole tronche,
comeſono quelle andò,corfuftarà,o C.perche le mede. fime dee nella diſpoſitione
fuggire,come ramarico, o render florido. Et A contenterà di quelfine,cheper lo
più la Natura a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con tanta
religioneſifiniſca in parole piene , &perfete te ,fuggendo le tronche,ole
fdruccioloſe,che alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo parlare,perche
quello cheſi dice , ſi dice per la mage gior parte de ifinimenti,e delle chiuſe
della purità. Da questi adunque odalla diſpoſitione riſorge quella miſura,che
noi numero addimandiamo. Eſſendo adunque lachiuſa ſimile alla diſpoſitione ,
«la diſpoſitione non isforzeuole,matemperata,& naturale,fcguita che il
numero dell'uno, o, dell'altro figliuoloſarà , à quelle fomigliante. Ben'è vero
,che laforza di cia fcuna manierà,e ripoſta piu toſto nelle altre parti,che nel
numero, eccetto, che nella bellezza,douc l'ornamento,e il numero grandementeſ
cerca, as molto piùè ne i uerfi, nella poeſia ,che altroue, o questo dico ,
acciò che fu non metta piu ſtudio ,doue nonbiſogna riportandoti a gli
orecchi,il giu . dicio delle quali da eſſa natura é ſommamente aiutato . Ecco
adunque, è Dinardo,quanto giouala mondezza , opurità del dire alla chiarezza ;
ma perche questa ſempliceforma non può daſefola si chiaramente parlae re che
non uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri
,con la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro,piu
questo ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla
ſemplicepurità del dire ,ilqual'aiuto èpiù presto nell'ar . tificio, che nelle
ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni ſentenza chiara
&aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della
cleganza,o prima dello artificio,colquale ella lcuar fuole ogni ſentenza nella
mente riposta. AR. La cleganza e maniera,cheportachiarezza à tutte le maniere
della oratione , operò non tanto alla purità, douc ella manca foccorre, quanto
à ciaſcaduna forma opra intelligenza, o facilità,daqueſto nafce , che la
eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é differente.Perciò che la purità
da ſe ſteſſa è chiara,oaperta ,ma la eleganza nella grandezza, e magnificenza
del dire ecomeun ſole , che ogni oſcurità , che per quella poteſſe uenire,
leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio fuo
, si co i colori,«le figure.L'artificio adunque di les uare ogniſentenza dallo
intelletto,acciò che ella ſia inteſa , cogni auuerti. mento innanzi fatto di
quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi in libertade
Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poi seguirò si come à
luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa ,comequi. DIN.
Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar
due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare,
&l'altra il biaſimare alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra
non intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo
intelletto dello aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello
artificio , s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra
fenza le quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper
trattar del ben ,ch'io ui trouai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. AR.
Se il poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di
quegli,che ſono in diſgratia di Dio , non haurebbepotuto dare ad intendere
facilmente il beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui
dalla medeſima neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità
peruenuta nella egregia Città di Firenze ,auuertendo pri ma chi legge ,in
queſto modo. DIN. Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo
Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare
,quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. A R. Ecco qui ancora
un'altra bella preparatione di coſe,fatta per le uare ogni
impedimento,chepoteſſe offendereilrimanente. DIN . Ma io mi ti uoglio unpoco
ſcuſare ,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire,
e non poteſti,alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto,comefoleui,&
oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo,non ti rendei gli tuoi danari,
AR. AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo ,
che elte ſon fatte,narrandole,ė artificio ſcelto , & elegante ,però tutte
le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente quant’io del
regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR.
E qui ancora DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga
E di ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il fimigliante modo è oſſeruato ne i
principij di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole ancora la Eleganza
porre artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui.
Leggi. DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi , che diranno,ch'io habbia nello
ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART. Eccola dimanda ſeguita la
ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna coſa esi difoneſta, che
con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo alle
obiettioni riſponde, benche altre fide te inſiemepostohabbia ogni accuſa di
ſefatta, opoi s'habbiafcufato , ma quelmodo non ha dello
elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando
diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni , che queſte
nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo , eche oneſta coſa nonė,
che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to
peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando di uoler
dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte coſe,
cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della
miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le Mufe in
Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli ancora,che più
difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to ,cl’io farei più
diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste
fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state
le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento
della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello
autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante
,comeilprimoartife cio ,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer
chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue
dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde ,
ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à
far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella
intera ,ma parte di una. A R. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio
lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon
uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura ?
AR. Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia
riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti
dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo la ſententia di Platone. A
R. Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza
cleganza quella parte,per quello cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel tuo
uelle Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. ART.
In queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo
auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di
riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio
della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi
dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati . DIN. Ma
hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro
riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio
quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò . AR. Aſaiſi èdetto
fin qui,con che arte la eleganza leuadato per ſostegno la grandezza o
magnificenza del dire,cosi nella grandezza è pericolo di uſcire in forma che
non habbis ornamento, proportione,o peròſe le darà per miſura, o bellezzafua
unaforma diligente,accurata,o ben composta, laquale in termini conuc. nienti
richiudendo l'ampiezza della oratione,o ſangue, o colore amabi le en gratioſo
le donerà,ondeil tutto miſurato, & temperato marauigliofan mente ſipotrà
uedere.Questa forma nėſentenze, ne artificio ſeparato dal l'altreforme ritiene
,ma ogniſuaforza nelle parole ,nelſito di oſſe, ne i luo mi,onelle altre parti
e ripoſta.Seperò dare non le uogliamo quellefenten ze, che acuti fono,o
diſottile intendimentodelle qualiſi dirà poi . Le paro le adunque di
queſtaforma ſono le foaui,leggiadre,bricui , difacile intelli .
genza,iſchiette,o con gran circoſpettione traportate. Perciò che le trasla
tioni in queſtaforma eſſer deono rarißime, o lefigure di questa miſurata Oben
compoſta manieraſono le repetitioni. Leggi, Per meſ ua ne la Città dolente, Per
me ſi ua ne l'eterno dolore , Per mefi ua tra la perduta gente. AR. E molto
bella eornata queſta figura, os tanto più ha di ornde mento,quantoquello che ſi
replica,augumenta,o creſce. Come qui. Amor, che à cor gentil ratto s'apprende,
Preſe costui de la bella perſona Che mifu tolta,e'l modo ancor m'offende. Amor che
a nullo amato amarperdona , Mipreſe del coſtui piacer si forte Che, come uedi
ancornon m'abbandona. amor conduſſe noi ad una morte . A R. Se alla repetitione
aggiugnerai la interrogatione, ſenza dubbio tu entrerai nella maniera forte
ucemente comequi. Qual'amore,qual ricchezza,qualparentado baurebbe le lagrime,
o i K sospiri pospiri di Tito con tanta efficaciafatti à Gilppo nelcuorfentire
, che egli perciò la bellaſpoſa ,gentile,&amata da lui haueße fatta diuenir
di Tito, fe non coſtei ? Quai leggi.Quaimi nacce ?oc. AR. Tu da te stesſo poi
quanto ornata ſa ducemente queſta parte conſiderando uedrai; tanto più
ſeappreſo le dettefigure ancora ui porrai la conuerſione della quale di ſopra
s'è detto.Nėti marauigliarefe( una me defimafiguraſia da altrefigure ornata
willustrata.Pero che la lingua di queſtiornamenti é capacißima. Laſcia che à
fuo modo altri ragioni, tu neſarai giudice,ola coſa iſteſſa te lo dimostra. La
conversione adunque è figura di queſta idea , a Rſuol fare quando in quella
ſteſſa parola pià membri ſ laſciano terminare,come nello eſempio ora letto.
Bella è ancora la ritornatacheſi fa quando la parola cheſegue, comincia da
quella in che la precedente finiſce,come qui. Leggi, Di me medeſmo meco
miuergogno. Et qui , Et confoauepaſſo a campi difcefa,per l'ampia pianura sùper
le rua giadoſe erbe in fine à tanto che, & c. AR. O uero in questo modo.
Infiammò contramegli animi tutti , Egli infiammati infiammar si Auguſto , che
lieti onor tornaro in tristi lutti. AR. Et ancora il Bifquizzo come nell'uno
Poeta ſi dicra Ch'io fuiper ritornar più uolte uolto, Et l'altro. Il fiorir
queſte innanzi tempo tempio. Da poi la predetta ui ſono anco altre
ornatisſimefigure , come è illoro aſcendimento,ala tradottione o altre. Lo ascendimento
R fa quando le parti che ſeguono,cominciano dalle parole medeſime,nelle quali
uan tere minando le parti precedenti,con questa conditione che ſi mutino, le
cadenze di esse parole. Come qui, Nel dir l'andar ,ne l'andar lui più lento.
AR. Ouero in queſt'altromodo. Luſca, io non poſſo credereche queſte parole
uengano dalla mia donnd, eperciò guarda quello che tu di.Et ſe pure da lei
ueniſfono,non credo che con l'animo fermo dire le tifaccia.Etſe pure con
l'animo le diceſſe, il mio Rignore mi fa più onorecheio non merito: A R. La tradottione
ė figura,che replicando la steſſa parola,nonfolde mente dimoſtra la intentione
di chi parla ,ma mirabil'ornamento accreſce oue ella ſtruoud.come qui, Laurd, che'l
uerde lauro,e l'aureo crine. AR. Molto diligente as accurata figura e quella
cheſifa quädo due, • più partifraſecongiunteſi ſogliono proferire.Leggi, Et
utile conſiglio potrannopigliare, & conoſcere quello che fa dáfug gire,o
che ſia fimilmente da ſeguitare. AR. Et qui, A cui grandi ey rade ,o à cui
minute pelje. AR. Forza ė,che onunque in una bella,& adornata figura
s'abbatta un bel giuditio, egli conoſca es ſenta dentro difealcuna dolcezza;
com meſe uno udirà in questo modo ragionare. Riſpoſemi non huomo,huomo giàfui,
E li parentimiei furon Lombardi, Mantovani per patriambedui, Nacqui ſub Iulio
ancor che foſſe tardi, E uißi à Romaſotto il buon ’Auguſto, Al tempo de gli dei
falſie bugiardi Poetafui,e cantaidi quel giusto Figliuol d'Anchife,che uenne da
Troia, Poi che'lſuperbo Ilion fu combuſto . AR. Non ſentirai tu per queſta
diſgiuntione,per la quale ogni parte ſotto ilſuo uerbo è rinchiuſa ,una
diligenza gentile del Pocta :si comelà ,do we dice , Io ſon Beatrice,che ti
faccio andare , Vegno dal loco, oue tornar diſſo, Amor mi molle,che mifa
parlare. Et molto piùſe nella proſa detto ritrouaſi A que' tempi che i noſtri
maggiorihaueano l'occhio al gouerno di que ſta Republica,eta riconoſciuta la
uirtù de'buoni , dauanſ i compenſi dei danni riceuuti per la patria,chi robaua
il publico,era castigato; fioriua dia na giouentù dedita alla mercantia , oucro
alle lettere , laſciauaſi il facerdos : tio, la militia da' noſtri queſta,per
che i cittadini non pigliaſſero l'arme contrafe ſtoßi,quello,acciochefuſſero
più finceri i parenti afar giudicio delle coſe importanti. ART. Vedi,che
narrando partitamente, oſenza congiugnimene to alcuno , il parlareè ſpedito ,
la figura ornata , odiletteuole ſopramo do il ſuono di eßa oratione. Al cui
ornamento il traportar delle parti di oßa gioua mirabilmente , come quando ſi
dice , Al costei foco ,alcolei grido. K 2 Giouin Giouinettopoß'io nel coſtui
regno. Et qui. Vſate le colei bellezze. In queſto caſo nonf dee di tanto leuar
dall'ordine loro le parole, che la ſentenza oſcura deuenti,come diſſe, Che i
belli,onde miſtruggo,occhi mi co la , di che èquaſ piena quella canzone. Verdi
panni,ſanguigni,oſcuri,operſ . Bello alquanto èquel tranſportamento chedice. Or
non odio per lei, per mepietade Cerco, che quel non uo,questo non poſſo.
Concedeſ però a ' Poetimaggior licenza per riſpetto della neceßità del
uerfo,nel quale ancora più ampio luogo fanno gli ornamenti che nella profa.pure
non èche del bello nonhabbiano aſſai quelle figure, che per le negationi
affermano,come s'egliſi diceffe, io nol niego, cioè io il confefe fo.Et quella
,non è alcuno,che nol creda,cioè ogn’uno il crede.Poi non taca que,cioè parlò,
e diſſe. Suole ancora chi fcriue amaggior bellezza circoſcriuendo le coſe, con
più parole,quello che conuna può eſprimere come qui, Era giàl'hora,che uolge il
deſio, A'nauiganti,e inteneriſceil core, Il di,che han detto à i dolci amici,A
Dio, AR. Et cosiA chiama il Sole Pianeta,che distingué l'hore, e diceft.
laprudenza di Mario,la fapienzadi Catonein luogo di dire Mario prila dente , o
Catone faggio ,&éappreßo bella figurala innouatione i com me qui , Parte
preſ in battaglia,e parte ucciſt. Et quia Taciti ſolieſenza compagnia,
N'andauan l'un dinanzi e l'altro dopo. AR. Ecco come la bellezza ogni
formaabbelifce ,ne per tanto auenga che ella moltefigure, molti lumidimoſtre,di
quelle ſolamenteſt contene ta,ma ſtudioſa del diletto sforza di ragionare
uariamente. Là onde per fuggir la fatietà con mirabile artificio è uſata di
uariare la oratione . Et questo ſuolfare primieramente doppo molte uoci di
piene «ſonore lettere ponendonealcune dibaſſe U rimeſſe.Dapoifuggendo la continuatagiacia
tura de gli accentiſopra una medeſimafillaba ,ora nelle ultime,ora in quet
le,che uanno innanzi adeffe gliſopramette,o di più in mezo delle lunghe le
corte parole framettendo gratia &adornamento le giunge . Bella coſa ė si
come tra cittadini vedere gli ſtranieri, cosi tra le nostre parole alcuna
adirai che alicna fa,o meſcolare le ifquifite con alcuna detle popolari, le
BMOWE huone con le uſate, finalmente la elettiöne in queſta parte può aſai, la
quale ritrouandofi in ſaldo w ſottilgiudicio , dimoſtra in un'eſſere tutto
quello che col conſiglio di molti eletto a ricolto effer potrebbe però non
degnale uili,ſcaccia le brutte,fugge le aſpre, abbracciale eleganti ſceglie
leſignificanti, o con copia marauigliofa uaria la difpofitione, i të pi,ilnumeroje
i finimenti;nė di pari lunghezza formeràle parti delparlaa re,nėripiglierà
una'steßa figura,un tempo medeſimo,un modo Amile, una perfona pari,ma quaſi
un'adorno pratola oratione di molta varietà fora mando, diletto , o
gioia,recherà ſempremai.Leggiprima qui, comeil Poce ta i medeſimi nomi non
ridice in uno steßo luogo. Io credo checi credette,ch'io credeßi, Che tante
uoci uſciße da quei bronchi, Da genti cheper noiſi naſcondeffc., Però diſſe il
maeſtro,ſe tu tronchi Qualchefrafchetta d'una deste piante, Penſter c'hai
ffaran tutti monchi. Allor porfi la mano un poco duante , E colfi un ramufcel
da un gran pruno, E'l tronco fuo gridò perche miſchiante. Da chefattofupoi
diſanguebruno, Rincominciò à gridar,per che mi ſterpiš Non hai tu ſpirto di
pietade alcuno ? Huominifummo, oorfemfatti sterpi, Ben douerebbe la tua man più
pia , seſtatefoßim'anime di ferpi ? Comed'un ſtizzo uerde,che arfo Ria, Dal'un
de lati cheda l'altro geme, Bi cigolaper uento che ua uia. Cosi di quella
ſcheggia ufciua inſteme, Parole,e ſangue,ond'io laſciai la cima Cadere,e dette
come l'huom che teme. A R. Tu puoiuederein quanti modiilPoeta ha uoluto variar
leparon ko con quanta felicità egli lo habbia ottenuto . Il che in molti luoghi
può in elo uedere.si come là,doue parlando del lago gelato , lo chiamaora
ghiaccio,era uetro, ora gelozora groſſo,o duro uello ,ora ghiaccio, ora geld ti
guazzi, ora eterno uzzo,oragelata,ora cristallo orafaſcia gelata, ora fredda
crostázora lagrime inuetriate, &fimili altre parole ufa variando il poema.
Il fimigliante hannofatto ,fono perfare tutti gliſcrittori di non D B 1 L me.
Leggerai mirabili eſſempi della narietà in tanti principij di giornar Odi
nouelle cheſono in quell'autore, o leggerai anco l'ultima parte del ſecondo
libro di quest'altro che comincia. Che andiamo noipure tutta uia di molti
amanti et diletti ragionando. Maė tempo di ritornar’omai alle altre parti della
formapredetta ,ope ró d'intorno alle membra dei ſapere chela lunghezza di eſſe
in queſtafor. ma èpix deſiderata ,chela breuità ocortezza,non però uoglio, che
si lo ftremo ti fermi,macon più disteſe parti che nella eleganza uorrei ,che
leſue ſentenze liportaſjero ,che le parole di effe in tal guiſa ſi
collocaſſero,et ſ terminajſe queüa oratione,che uariate alſopradetto modoil
faſtidio o la satietà ſi fuggiſſe, oin grado ogni sprezzata coſa ci ueniſſe. Il
numero al uerfo uicino in questaforma ci uuole,il qual numero primaſarà di quel
la maniera,che di ſopra ti ho detto, cioè ripoſo o mouimento, ouero tempo di
proferire,ò da poi di un'altra ,che ora io ti dimoſtrerò. Perciò chemolto bene
all'oratione può dar formanumeroſa et bella, la qualeſia nata da ue na certa
neceßità delle coſe ben composte, o conſiderate, come il contra . porre i
contrarij, o le coſe diſcordi l'una all'altra con miſura corriſpone
denti,ritrouare i ſimiliipari, o altre coſe ſomiglianti à queste,delle quali
partitamente e con eßempio ne dirò, Sono alcune membra,ò nodi della
oratione,iquali hanno le lor ſentenze oppofte,ma con una corriſpondenza tra
loro mirabile temperate. Ilprimo cfſempioſarà di quello che ſi chiama Pare,il
qualeſi fa quando le parti che Äihanno à corriſpondere ſono quaſi di pare
numero di ſilabe, odi tempi , quafi dico,però che queſta parità di ſillabe, o
di tempi con ſaldo intendie mento o giuditiodeue eſſereſtimata, et nõ del tutto
pari.L'eßempio di que ſta forma e questo . Dou’elladifonestamente amica ti fu ,
ch'ella oneſtamente tua moglie diuenga. ART. Nel predetto effempio in duemodi
ſiuede effer fatta numero, ſa la oratione primaper la parità delle ſillabe ,la
quale nelle parti ſi uede poi per la contrarietà corriſpɔndenteperche amica
omoglie,ſono contra rij, oneftamente o difonestamente fo:10 contrarij ,
oppoſti,ſolodi pari ud queſto. Leggi, Quiui à niunoſi cerca inganno ,a
niunoſifa ingiuria. ART. I contrarij adunque fanno la orationeoffer
numeroſa,come an cora qui , Et di gran lunga é da eleggerpiù toſto il poco
oſaporito, che il mola to o infipido. ART. tornare. 2 ! TAR. Ne i ſimili ancora
cade il numeroſo concento in modochequando in fimil ſuono la chiuſa finiſce,ne
rinſulta il numero. Quel roſſore , che in altri ha creduto gittare,ſopra di ſe
l'ha ſentito A R. Speſſo auiene,che per fuggire il ſoſpetto di cotesto
artificio , la fimiglianza de ifinimenti delle parole in mezo delle parti ſi
ponga, com me qui, Poi ueggendo,che questoſuo , conſumamento,più tosto che
emendamento della cattiuità del marito potrebbe eſſere. Et qui. Che più
dispettosamente ,che fauiamente,parlando. Molti eſempi ritrouerai da teſteſſo
di queste numeroſe maniere, nate dalla corriſpondenza delle parti.Ora vorrei,
che bene aucrtißi di non re. plicare piùuolte cotesti adornamenti ,di non
affettar tanto la conſonana za delle parti,che cadeßi in fastidio,ouero
infospetto de gli aſcoltanti . Et per queſta reggerai medeſimamente il uerfo,nel
quale caduto in più luoghi Ruede l'autore delle nouelle,il quale à mepare che
di ciò molto curato nõ habbia.Beneuero ,che con mirabile perfettione riempie le
parti ele měs bra della ſua fauella quando diuide i nodi de' ſuoi giri in tre
parti , come qui Percioche niun'altro diletto ,niun'altro diporto , niun'altra
confolatione laſciata ti ha la tua eſtremafortuna.Etqui, Et ſe qualunque di
quelle fuſſe in Salomone ,ò in Aristotile ,ò in Seneca, 'haurebbe forzadi
guastar'ogni lorſenno,ogni lor uirtů , ogni lor ſantità. Et qui.
Maquantoſenfante, quanto poderoſe,di quantoben cagion le fore ze d'Amore,&
c. Conſidera la distintione de' membri in quella nouella, doue introduce to
ſcolare ,la uedoua,perche cosirichiedeua la dotta perſona dello ſcolare. AR. E
degno di conſideratione il numero delle fillabe, chenelle parti, che hanno à
riſpondere l'una all'altra,ſ mette. Perciò che quando una pare te di troppo
l'altra auanzaſſe,non ne ſeguiterebbe alcuna numeroſa compo Rtione ,però buone
onumeroſe appaiono eſſer queſte . Accioche come per nobiltà d'animo dall'altre
diuiſe fiete , cosi ancora per eccelentia di coſtumiſpartite dall'altre ui
dimostriate. ART. Maqui appare alquanto lunghetta la riſpondenza, &la die
fagguaglianza demembri.Leggi. Quanto piùſ parla de' fattidellafortuna,tantopiù
à chi uuole lefue co fe ben riguardare,ne reſta da poter dire, ÄR. ART. Può
eſfer’ancora,che non ſi gusti il numeroper la lunghezza delleſueparti,benche
fieno quaſi paricomequi, Egli auieneſpeſſo , che sicomela fortunafotto uili
artialcuna uolta grandi teſori di uirtù naſconde,cosi ancoraſotto turpißime
forme d'huo . miniſtruowa marauiglioſ ingegni dalla natura eſſere stati
ripoſti. AR. S'io ti uoleßi ogni coſa moſtrare d'intorno alla bellezza del
dire, troppo ritarderei gli ſtudij che hai afare,o pocoti laſcerei da eſercia
tarti d'intorno allaeloquéza umana.Peròp trapaſſare alle altre forme,par lerò
della ueloce e pronta maniera della oratione; la forza della quale è nello
artificio,più tosto,onelleſeguenti parti,che nelle ſentenze riposta.
L'artificio adunque della prestezza eà brieui dimande brieuementeria
fpondere.Leggi. S'amor non èche èdunque quel ch'ioſento? :: Ma s'egliè amor,per
Dio che coſa è quale ? Se buona,ond'ċ l'effetto afpro e mortale ? Se ria,ondési
dolce ogni tormento ? ART. Ouero il fare molte dimande , con forze di ſpirito
obrer uits : Non era egli nobile giouane ? Non era egli tra gli altri ſuoi
cittadini bello ? Non eraegli valorofo in quelle coſe che d' giouani
s'appartengono? Non amato? Non bauuto caro?Non uolentieri ueduto da ogni huomo
? AR. Le membra,quaſ parole eſſerdeono bricui «uolubili, oche pa ia che in eſſe
fail monimento del parlar noſtro, oltre alla ſignificatione delle parole nelle
quali ėripoſta la forza dela efpreßione di ogni forma . Leggi. Soli bastano ,
accompagnati creſcono , und mille nefå, odelle mille in brieue tempo mille ne
naſcono,per ciaſcuna ſono aſpettate giocondißime,no aſpettate uenturoſe, ſono
cari ageuoli,ma diſageuolivia più care inquanto le uittoric acquiſtate con
alcuna fatica fanno il trionfo maggiore, donare,
rubbare,guadagnare,guiderdonare,ragionare,ſoſpirare, lagrimare , rotte,
reintegrate ,prime ſeconde,falje,o uere,lunghe bricui, tutte fonodiletteuo li
tutte ſono gratiofe. AR. Vedi che mouimento apporti ſeco questo parlamento , il
quale quando l'huomo è riſcaldato s'aſcolta con marauiglia delle genti . Confia
Ate anco nellaforzadelleparole, o nelſuono , onella compoſitione . com mequi .
E già uenia sì per le torbid onde, Vn fracaſſo d'un ſuon pien difpauento, Per
cui tremauan' amendue le ſponde, Non altramente fatti,che d'un uento :
Impetuofo per gli auuerſardori, Chefier la ſeluaſenza alcun rattento Gli
ramiſchianta ,abbatte, e porta i fiori Dinanzipolucroſo uaſuperbo Etfafuggir
lefiere e gli pastori. ART. Tanto uoglio che tu ſappia della preſtezza del
dire. Perciò che date medeſimopuoi comprendere quanto « ilconcorſo delle
uocali,ore forezza delle fillabe pa lontana da questa forma,esfapere che ogni
ina dugio di proferire, ogni raccoglimento,ogni giro, impediſce il mouimento
fuo. Reſta adunque a dire della formaaccostumata,o delle fueparti, la . quale e
, cheſi conuiene alle cocoalle perſone in tal modo chequello che ſi chiama
Decoro, molJa chiaramente ſi uedaEt però la detta forma ſota to di ſe quattro
maniere principaliſ uede contenere. La primaė la unilta ubaſſezza. L'altra é la
piaceuolezza o il diletto. La terza e l'acutezza Uprontezza. Et l'ultima la moderatezza
della oration. Delle quai fore menecessariamente in queſta forma si ragiona,
perche cosi porta la natua rade gli huomini,i quali sono ó uili, o riputati, è piaceuoli,
o moderati. La bajezze dangue e forma infima, e dimessa del dire, alle roze, o idiote
persone convenicnte, à femine, fanciulli non diſdiceuole: da Comici, rie
chieſta ouſata pia toſto che da Oratori,o eloquenti buomini,o piu tom Ho nelle
cauſe de priuati, che ne i communiconſigli ricercata ,quando uor rai attribuire
il parlar a quella perſona, cui non ſidifdice la baffizza. Cá dono in queſta
ſimplicita di dire i paſtori, aquelli che le coſe.boſcarecce Man deſcriuendo,o
però le ſentenze di queſtaformaſonopiu baſſe Qumi li, opiùfacili che quelle
della purità oſcioltezza del dire. Là onde ala cuni giuramenti ſciocchi à
qneſtamaniera ſi confanno. O Calandrino mio dolce, culor del corpo mio, quanto
tempo t'ho defide Tatob’dauerti edi poterti tenere a mio fenno.Tu m'hai con le
piaccuoa lezza tuațratto il filo delacamicia, tu m'hai aggrattigliato il cuore
con la tua ribecca. Può egli eſſer che io titenga ? ART. Leggeraila tutta,
otutto che in questa formauiſabaſſezza, non è però ela ſenza artificio,
percioche per dimoſlrarla pulefe ,fi fuole alcuna fista minutamente ogni coſa
deſcriuere,u ogni particolarità chia rire, introdurre alcune ſcioccheriſpoſte,
ò ſemplici contentioni di coſe, che non rileuano con detti, le ſentenze de
quali ſono grandi , ma le parole ſciocche, at rozze. Leggi. L Cominciò à dire
ch'egli era gentilhuomo per procuratore , roy. Begli bauea diſcudi più di
milantanouefenza quellich'egli hauea àdarealtri che erano anzi piùche meno e
che egliſapeus tale coſe fare ; ct dire che domine pure unquanche. ART.. A tuo
agio nie leggerai ilrestante,mauedi la contentione: Guatatala un poco in
cagneſco per amoreuolezza la riniorchiaua '; ege ella cotale ſaluatichetta,
facédo uiſtadi non auederſene andaua pure oltra in contengo. Seguita che tutta
ëbaſſa per li giuramenti, per le beffe, con per alcuni rabbuffi, come qui. Vedi
bestial buomo che ardiſce , là doue io Pid , parlar prima di me, laſcia dir à
me, Et alla reina riuolta diſſe,Madonna, costui mi uuol far. conoſcer la moglie
di Sicofanta ,ne più ne meno come scio con lei ufata nor , fußi, che mi uuol
dar' à uedere chela notte prima che Sicofanta giacque con lei meſſer Mazza
entraffe in monte nero per forza ,e con ſpargie mento di fangue oio vi dicoche non
é ucro,anzi u’entró pacificamente: 1 ART. La deſcrittione del fante di
fracipolld;& della fante,ėbaſſa,er propria di queſta formaa alcuni lameti
cô parole ufitate & popolari. Leggi. Dime,oimė Giãnel mio io fon morta,ecco
ilmarito mio,chetri fto il faccia Dio ,che ſi tornò, « non ſo che queſto ſi
uoglia dire. ART. Et alcuni prouerbiemodiſono dimeßi. Leggi. : Et cosi al
mododeluillan matto doppo il danno fece il patto, muoia. foldo, oniua amore, e
tutta la brigata. ART. Dalle fentenze di queſta forma ſipuò far congettura quai
parole, ochenumero, oquaichiuſe ad effali conuengonc, Però cheari
tificioſamente da ogni artificio lontana offer deue ogni ſua parte , & imie
tare la ſemplicità, ogroſſezza delle perſone. Io non uorrci queſtaforma in
unpocma grande, o genoroſo; o dubito che per questa ragione da ale cuni ripreſo
noſia uno de i piùcarifigliuoli ch'io habbia ,ilqualefpeſo per dire
ognicoſaminutamente cade in parole baßißime,come quando dife. Vn’amme non faria
potuto dirſt, Quero. Etmentre che la giù con l'occhio cerco , o quello che
ſegue Trale gambe pendeuan le minuggia La corata parea, e il tristo ſacco. Et
il reſto. E non uidi già mai menare ſtregghia A ragazzo aſpettato daſignorfo,
Et la doue diſſe che Tencuan bor done alle ſue rime. Md ora al diletto
paſſando, dirò, che per diletto de gli aſcoltanti ale cuna uolta l'oratione ad
una forma s'inchina la quale tutta e riposta nellä , bautentione delpoeta ,però
gioconda diletteuolemanieras'addimanda ĝrellache la ſemplice edimeſſa alquanto
più rileua ealla fauola, ó fala uoloſa narratione ſi uolge. Là onde leſentenze
di questa formafaranno contrarie alla forma della dignità del dire ; &però
diletteuoli o gior conde ſono quelle , doue ragionano inſieme la Diſcordia,
oGioue, o in quel dialogo d'Amore , oue R dimostra in che guiſa difcendeſſe fra
more tali Amore.Sonoanco grate,ga dolci quelle ſentenze chehanno quelle coſe
ntinutamente deſcritte, lequali per natura loro hanno onde piacere difense
timenti umani, es però la deſcrittione dell'amenißima valle delle Donne a molto
grata ad udire. Conſidererai di quanta dolcezzaſia ſtato amaeſtro Simone il
ragionaméto di Bruno, quando egli deſcriſſe la brigata, che giudi in corſo,og
de i loro follazzi, opiaceri,e delle altre coſe diletteuoli che egli uedeus in
udiua. Ma è bene che tu ſappia , come di quelle coſe, che a ſenſi ſono
ſottoposte, alcune fono oneste, alcune diſoneste. Le diſor Heiste ſe
paleſamentesi ſcuoprono co iloroproprij uocaboli, offender for gliono le caſte
orecchie ;benche non offendano quelliche nė di dirle , ne di farle R logliono
tergognare,maſe con diſcretomodoleggiadramente cura prono la bruttezza loro,non
pure non perdono il diletto quando ſono inteſe, ma molto più di ſoauird ſeco
recano à gli aſcoltanti: Narra lo amore di due cognatiilpoetaDante,o uolendo il
finedieſſo quantopiù poteua onestan mente ſcoprir diffe. Quel giorno pia non ui
legemmo auante, cioé attena demmo ad altro che à legger quello , che fu cagione
del nostro amore, o cosi quá lo l'altro poeta diſſe, Con lei fuß'io da cheparte
il ſole. E non ci Medeß'altri che le ſtelle.Ocosi in mille modi ó per le coſe
antecedenti, • per quelle cheſeguono,eſſendo meno diſoneste,le
difoneſtißimèappalefar ft poſſono ne è pocalode dichi ſcriuezin tale occaſione
abbattědofi,ſenza offen fione anzi con diletto delle oneſte perſone deſcriuer
le coſe meno che oneſte. Intělaſi adunque la coſa, ofuggaſi la bruttezza delle
parole,o in queſto modo ſarà foaue, &diletteuole il parlar uoſtro. Alquale
gli amori,le bele lezze de i luoghi,igiardinizi prati,i fiori le fontane,la
prima uera, le pite ture, o altre coſe piaceuoli aggiungendoſi,ſenzadubbio ſi
dimoſtrerà la predetta forma,della quale anco di ſopras é detto aſſai, quando
del diletto, della gioia tiragionxi ,che naturalinēte inuouc ogni coſa creata.
Et cosi ſecondo l'affettione di ciaſcuno ſi porge ſolazzo opiacere col
ragionare. L'artificio ,et le parole della giocõdità tolteſono dalla
primaformadel dire chiamata purità, onettezza. Voglio bene in queſto paſſo ,che
co più licen zoufigliaggiunti,ſegno e che i pocti loſtudio de' quali è proprio
il dilet ? tare , allora più dilettano quando più belli ;eacconiodatiaggiunti-
fono ? wfati di porre ne' verſi loro, ecco Leggi. L & Giace nella fommità
di Partenio,non'umile monte della pastorale Arct. dia,un diletteuolepiano di
ampiezza non molto patioſo,peròche'l ſito del luogo nol conſente ma,di minuta,
o uerdisſima, crbetta si ripieno , cbe fe: le lafciue pecorelle congli auidi
morſi non uipafceffero,ui ſi potrebbe dom gni tempo ritrouar merdura. ART.
Tutti i principii delle giornateſono à proua fatti per dileta tarc, eperò inshi
13 ziunti uiſono meſcolati come tu potrai uedere. Egli lliſuole anchora
interporre de i ucrſi per. dilettare , ma con destro modo, Perciò che non
mipareche bence ſtia , che la compoſitionc babbia del uer fo come qui. Cofi
detto, et riſposto,e contentato, doppo, un brieue.filentio di ciaſcuno. ART.
Ecco che nella proſa ui è il uerlo ,ſenza quel propoſito che: io ti diceua
,però, biſogna rompere i ucrſi con alcuna parola,eccoti uer : foc, Postbaueafine
alſuo ragionamento, madicendo. Pofthauca fine Lau, retta.al ſuo.ragionamento
non è più verſo , benche queſto.autore altrowe: non foſſeſchifatodal uerfo,come
quando diſſe. Poſcia che molto commendata l'hebbe, Disleale, o spregiuro, e
traditore, Etpoi con un ſospir aſſai penſoſo, Luogo moltoſolingo, ofuor.
dimano.. Et questi uerſi quanto ſono migliori,tanto più ſono da.cſfer fuggiti
nel fic lo della oratione,fenon quando,o per eſſempio, o per autoritade, o per
di: letto ſono tolti da poeti. Ora delle figure di questa faperai ,che alla
giocondaforma, oltra le fi gure che alla purità,Q umiltà. conuengono quelle
ancora non disd.cono, che alla bellezza ſi danno,o peròle membra pari di ſimili
cadimenti le rime, i biſguizzi, itramutamenti; i circoli, le uoci.ſimiglianti,
il fingeri: de i nomi ſonofigure di questaforma. Leggi i ſimili cadimenti.
Tranquilla lite de'giudicanti ristora.le fettche gucrreggianti, in quel le con
le ſeuereleggi de gli huomini, la pisceuolezza della natura,meſcoa. lando a
queſti nel mezo de gli nocentisſimi guerreggiantipure, ø inno.. centisfime paci
recando.. ART . Nellefſempio letto ui troucrai anco la bellezza di contrari, la
parità de'membri, perche niente ci uicta ,che una ſtela figura da molti lumi
ancora illuminata, fi poffa fare illuſtre e luminoſa. Laura, che il ucrde
lauro,c l'aurco crine.. Eſcherzo di upci ſimiglianti. Il mormorar
dett'onde,bisbiglio , ſpruzza.. reribombo,gracidare, fonoparolefinte,cha con
diletto cfprimeno il fatto, ecco quando
colui diffe,Filli , Filli ,fonando tutti i calami, parue ueram mente che i
calami fuſſono tocchi col fiato di dettopaftore, o quello ſem zafar motto
alcuno. Rimafu quella di coſtui che diſſe. Tanto d'intorno à quel più bello,
quanto pià de Thumido fenting di quello , Et perpiù adornamento et diletto,
diſſe anco . L'acqua laquale alla ſua capacità ſoprabondaua. Et comei falli
meritano punitione, Cosi i beneficii meritano guidero: done. Nella rima è
pofta. la dolcezza de' Poeti di questa lingua, dallaqual.rima chi ardiſſe ò
tentaſje per alcun mododidipartirf, toſto ſi pentirebbe . Le rimepiùuicine fono
più dolci: Qucta licenzadel rimaremoderatamente Bplglia de proſatori , purche
di affettata dilettatione: disoneſto ſegno non porga. Voglio bene la
compoſitione di questa forma,numeroſa epiù al uerſo uicina che l'altre, ma il
uerfo per ogni modo le tolgo. Guarda con chefacilità ſipotrebbe coteſta proſa
alla dolcezza deluerfo ridurre.Leg. Vna fede medeſimatraloro per le menti
unafermezza , unoamore in agni faſo, in :ogni tronco,inognirina,,uede l'amante
la faccia dolce delld. fua.belladonna,o ella quella del ſuoſignore. Ma.ora non:
voglio che tantoti piaccia la forma predetta che tralaſcian do la dignità,o
grandezzadeldire, procuri.con ogni ſtudio il diletto piacere cheda quella fola
procede , Perciò che io non uorrei che alcuna . parte del tuo ragionamento
ſenza piacer s udiſſe, di.che l'aſcolta,ilqual pia cere naſce ancora. dalla
Idea dell'altreforme, o dalle orecchie allo animo, trapaſſando ogni parte di
eſſo fparge di diletto marauiglioſo, perche moe. uendo diletta, o dilettando li
mouc, inſegnando ſimilmente fi.moue,, odiletta.in quanto che lo inſegnare il
mouere,o il dilettare, ſono opera . tioni non distinte l'una dall'altra. Mi.
laſciamo queſta quiſtione. ad altro , tempo, o ancora nonstiamo troppo
in.questa forma tutta.di altra confla deratione, come quella.cbe al
Posta.grandemente conuenga, alquale pocta. i giuochi, po le coſe ridicole ſi
confanno , operò di. cße ora non te ne dia 60, e tanto piu adietro di buon
cuore ti laſcerà queſta matcria ', quanto di: ſacopioſamente damoltine è ſtato
ſcritto,etragionato. Larifponfione: ad ogni parte è anco figura di diletto.
Leggi. Laquale ciiba fattinc i corpi.delicate ,o morbide , negli animi. timide
opaurofe,ne le menti benignc, opietoſe, obacci dute le corporalifora ze
leggieri, le uoci piacsuoli, o imouimenti de imembrifoaui .. Ms or a pasfiamo
all'acutezza del.dire , forma inucro egregia. &. piùalto penfamentoche
altra meriteuple. Peroche ella contiene le ſentenza fic,deltuttocontrarioalla
umiltà, «baffezza della oratione, ej in uero altro dicendo,altro
intende.Percioche è dicoſeche hanno in ſeforza,et uds Forela onde lo artificiaė
proferire le alteodifficili intentioni pianaměte, o con facilità, e le umili
&abictte che paianoalte ,o degne : onde i primo modo é,quandofi piglia una
parola in altra ſignificatione che nella ufata confueta maniera,ne pcro e meno
conuencuole et propriafe gli wiguardaalla forza della uoce,che la uſala, «
conſucta, come qui. Non creda donna Berta oſer Martino * -Prueden un furar
altro offerine. 9. Wedergli dentro al conſiglio diuino. Che quel puo furger,oquel
può cadere . C : il secondo modo e
quello cheſi fa non mettendo la parola, doueela berie Starebbe, ilche abufione
s'addimanda; come ė à dire allegrezza inſanabile, in luogo di dire allegrezza
grandißima. Seguita il terzo modo di porre. una þarola pia uolte'., ma che
ſempre ſia ad un modo istefjo pigliata , come dicendo,ſecglimuore, morirà
tutto, perche uiuendo non uiue.Vſaſi ancora biquestaforma un altro artificio aljai
degno di conſideratione ilquale ft fa quando il parlare ſi fa pieno
ditraslationi,o per la moltitudine di quelle lifa ogn'horpiùmanifesto. Leggi.
Eeleggi fon,ma chiponmanoad eſſe Nullo, percheil paſtor , che precede i Ruminar
può,manon ha l'ugne. foffe, Perche la gente che ſua guida uede ** Pur à quel
bel ferir on fella é ghiotta Di quelfi paſce, opiù oltre non chiede. ART. Et in
queſto altro loco ancora Nel mezo del camin di noſtra uita Mi ritrouai in
unaſelua oſcura Che la diritta uia craſinarita. ART. Acuti ſono ancora quei
rimedij,che uanno quafi medicando le dile rezte delle Tralationi con alcune
altre piu chiare , ecco dire il fiato della morte é duratralatione. Ma dire
della morte , e ſpigne col ſuo fiato il noe ſtro lume,e acutamente raddolcita la
aſprezza fua . O qui.Con altezza di: animo propoſe di calcar la miſeria della
fori una.Voglio ancora ,che acuto fa ilporre inanzi yliocchi le coſe con bella
colligatione di ſignificantißia me parole,Vuoi tu ucdere la celerità del tempo.
Leggi. a Delaurco albergo con l'aurora istanzi E to 1vs K $ *** siratto ufciua
it ſol cinto di raggi, Che detto baureſt',.' Apur corcò dianzi. Jo uidi il
ghiaccio, e li preſſo la rofa, Quaſi in un tempo il granfreddo, e ilgran caldo.
Che pure udendo par mirabil cofa Veggo la fuga del miouiuerpresta. Anzi di
tutti , et nel fuggir delſole , La ruina del mondo manifesta Voi tu uedere
dipinta la oſcurità. Leggi. Buio d'inferno, o di notte priuata D'ogni pianeta
ſotto pouer ciclo Quant'eſſer puo di nuuol tenebrata : ART.No ſolaměte
leparolefanno l'effetto,ma te fllabe, et le lettere steffe Vedi quáte fiate uie
replicata la quinta lettera come lēte baſſa,co oſcura. Sotto queſtaforma i
beidetti ſi coprendono, et quei mottiurbani,che co dimeſe parole dicono
altißime coſe.Là onde alcune ſentēze, la ragione delle quali in effe ſi
conticnejacute ſono, o di ſuegliato ingegno ſegnimanifesti. come à dire, le
minacce fon arme del minacciato. sēdotu huomo penſa alle coſe humane o offendo
mortale nõ hauerl'odio immortale, o quello.Rade volte è ſenza effetto quello
che uuole ciaſcuna delle parti. Queſte ſono le parti principali dellaforma
ſublime; & acuta,nellealtre haida ſeguitare la purità o eleganza del dire.
Ma della Modestia,o Circonfpettione del parlarenelquale conſiſte quanta gratia
tuti puoi con gli aſcoltanti acqui Atare,dirò,pregandoti caraméte,che tu uoglia
questaſopra tutte l'altre ele gere,abbracciare,et fauorire in ogni tuo
ragionamēto. Modesta è adunque quella forma del dire che le proprie coſe
abbaſſando innalza le altrui, o quaſi cede e toglierſi laſcia del ſuo, il che
opinione acquista di grābone tade appreſſo chi ode.Le ſentezedi quellafono
quelle che dimostrano l'ani mo di chi parla alieno dalle contētioni, il
deſiderio di fuggire, o terminar le coteſe,ildiſpiacere d'accufar altrui, il
poter dimoſtrar maggiorpeccati dell'auuerfario,«nõfarlo,et quello che ſi
fafarlo sforzatamēté ,ė astretto dalla uerità,o p no laſciar opprimere
gl'innocēti,uerfo de'quali,chi dice, A deue dimostrare cõ queſta
formaofficiofo,et benigne,comefece coſtui . Leggi. Mi piace condiſcendere a'
conſigli de gli huomini,de quai die cendo mi conuerrà far due coſe molto a'
miei coſtumi contrarie;luna fia al quanto me commendare o l'altra il biaſmar
alquanto altrui,o auilire. ART. Molti huomini eccellenti nelle lodi, che date
hanno a i loro cittadini uſati ſono di dire, uoi faceſte, uoi uinceste ,mánel
dimoſtrare alcana coſa meno che oneſta de' fatti loro ,hanno detto per
modeftia.Noi perdesſimo, noi malefi portasſimo,noialquantoimprudentemente to
gließimo la guerra. A questeſentenzeſi aggiugne l'artificio, ilquale con Rate
nel dire di fero delle proprie coſe modeſtamente, con dubitatione
facendolegrditamente minoridiquellocheſono;eſcuſando per lo contras rio gli
auuerfarii,oucro con ragione,conalquanto di timore accufando li,permettendoli
alcuna coſa a fuomodoin loro diffeſa pronuntiare,acció sonſi dia ſoſpetto al
giudice dioffer contentiofo,& amicodelle liti, in que ſto caſo voglio ,che
tu uſ parole baſſe, et pure, oquelle che hanno manco forza nelle tue lodijonel
biaſimo de gli auuerfari, però quelle figure a questaformaſono accomodate
,nellequali con deliberato conſiglio alcuna coſaſ pretermette,quiſando però
l'aſcoltante di tale deliberationc.Inbrie ue ti dico, cbe la disſimulatione ,
che ironia s'addimanda, quenga, che ale cuna volta morda cu pungasėperò
artificio,o figura di queſta materia,nel laqual alcuni Greci riuſcirono
mirabilmente. Lacorrettione, oil giudi cio con timore ſonocolori di questa idea.
Come quando ſi dice , S'io nca sn'inganno ,s’io non erro , cosi
mipare,ofimiglianti modi, i quali quanto più banno del leggiadro, tanto più
dilettano,o fanno l'effetto, che ſi ricer 14. La correttione e in quel luogo.
Si come prima cagione di queſto peccato , fe peccato é , perciò che io
t'accerto. ART. Et la disſimulatione iui. Godi Fiorenza , poi che ſei si
grande. ART. Belmodo e modešto é quando o il biaſimo, o la lote ſi fa dar da
una terza perſona, perche meno ha d'innidia il teſtimonio altrui , che'l
noftro, operò in queſto Poeta nel dire la origine fua, uedrai modestia ma
rauiglioft, Leggi ancora qui. Nobilisfime giouuni, à confolatione delle quai io
mi ſono meſſo à cosi lunga fatica io mi creda aiutandomi la diuina gratis ſi
come io auiſo, per gli uostri pictofi preghi non gia per i mei mcriti quello
compiutamente ha Herfornito, che io nel principio della preſente opera promiſi
di douer far. ART. Etil principio della quarta giornata i ripieno di queſti
modi. Ma tempo è di ucnire all'ultima forma di queſto ordine , ma prima in die
gnità o perfettione,comequella, ſenza laquale niuna delle altre può nel l'animo
entrare de gli aſcoltanti,dico della uerità, a laquale benche la moc desta e
dimeſſaforma piu che l'altre s'auicinano ,nientedimeno non è da di Te,che ella
debbia dall'altre offer abbandonata, imperoche non è opinione, òaffetto ,che
ſenza eſſa indurre ſi poſſa, queſta fa credere che cofiſia ,come Adice,questa
moſtra l'animo di chiragions, queſta èfrutto diquella uir ta che tùche noi
chiamiamo imaginatione,cosi potente nel porre le coſe dinanzid gli occhi,et
cosi efficace ad ottenere ogni nostra intenţione.Dimoftrafl adia que l'aniino
di chi parla in questo modo,cioèſenzamezo alcuno rompendo in uno effetto
,perche la natura in queſta guiſa ui diſpone chequandoſiete iņuno affetto ſenza
altra ragione in quello entrando le dimoſtrate, cosi l'a ra ,lo ſdegno, il
diſo, il dolore,o ogniaccidente ſi fa paleſe. In ſommaſe je fidate,o diffidate,
c teneteſperanza d'alcuna coſa ſe allegrezza uimuoue 'ò noia alcuna,ueracißimi
pareranno gli affetti uoftri,ſe da quello che defe derateſenza porui tempo di
mezo cominciante. Leggi. Fiamma del ciel si le tue trecce pioua Equi doue il
Poeta dimanda aiuto Quando uidi costui nel gran diferto. Miferere di me cridai
à lui. A R. Come qui è uitiofo, doue un nụncio corre al palazzo à dan nog ua
alla Regina della preſa della città, es ardere etſaccheggiare ogni coſa, o
incomincia con lunga narratione,dicendo, id ui dirò diffuſamente il tutto. Ma
ritorniamo, hauendo il Porta di mandato aiuto à Virgiliopiù bricue che può gli
da notitia diſco perche l'affetto lo pronaua à chiedergli pohc cagione egli ſi
trouaſje in quel luo. soſeluaggio ,dice. Ma tu perche ritorni à tanta noia ?
Etfa maggiore il ſuo affetto replia çando, perche non fali il dilettoſo monte.
Là onde poiil Poeta pien di mara uiglia di ueder Virgilio, non gli riſponde, ma
dà loco allo affetto,et dicca Leggi. orſe tu quel Virgilio, equella fonte, Che
parge di parlar si largo fiume, Ripoſi lui con uergognofa fronte , Et piu
ritornando all'effetto di primajo de gli altri Poeti onor',e tume. AR. Vedi
comele Diſcordia con Gioue'adirata in tal modo comincia. Parti Gioue,che io, la
qualeprodußi,et conſeruo il mondo,degna fia di doc uer’eßer biaſmata da
ciaſcaduno. AR. Serbati in questo caſo à dimostrare che inte più uaglia la
natur ra ,che l'arte, o otterrai la credenza del uero che tu uuoi. Dire con
uolubi li parolc é ſegno di uerità, l'infigner d'hauerſi ſcordato, il
dimostrare die ſere dall'artificio lontario, o lo ejer dulla ucrità commoſſo,il
correggerſ daſeſteſſo,lo cſclamare in alcune parti quafi rapito dal uero, o
finalmene, te una diligente traſcuragine, & una traſcurata diligentia può
far’apparenza diuero.Ecco quanto bene appare,ola modeftia, ola verità ufar la
Discordia ,doue dice, Etſel mio eſſere pien di miſeria mi ci rende in diſpetto
l'effer Dea (coa me tuſei ) onata al gentilißimo modo delfangue two pieghi il
tuo anis mo ad aſcoltarmi benignamente. oRati' stato ilmio minacciare più tos
fto fegno di diſperatione , che cagion d'odio è di ſdegno che tu mi debbi
portare. AR. Et poco dipoi. Io parlerò Gioueaffine di farti pietoſo alla mia
miſeria ,non con animo d'effer lodatacome eloquente;muoue il dolor la mia
lingua,parte,et diſpone a fuo modo le mie parole, o quale id'l ſento nel core
tale,à te uegnia allos recchie,cheſenza offer altramente artificioſa
,Oornata,affai ti perſuaderà l'oration mia à dolerti di me,la qualedi tanto
nonſon conformeallo affan nocleoue quello continuamente m’afflige,queſta toſto
fi finirà, o ad ogni richiesta tua s'interromperà,però che qualunque uolta cofa
dirò, che mena zogna ti paia ſon contenta di dichiararla ,accioche picciolo
error nel prin cipio nonſi faccia grande alla fine: AR. Vedi quanto efficaci
ſtenote eſclamationi. O‘Amor quanti, o quali ſono le tue forze: AR. Et là doue
dice, o felici anime,alle quali in unmedeſimo di auer re il feruente amore o la
mortal uita terminare,o piú felicife inſieme ad uno medeſimoluogo n'antaſte, o
felicissimi fe nell'altra uitaſi ama.com toi vi amate; come di qua faceste.
Questa eſclamationefa parere la cofa uera, ilfalimento bella, la ſentent za
degna,o grande,le parole aſpra, o acerba, oil numero fplendida,o generoſa.Al
predetto artificio s'aggiungono le parole conuenienti alle cos feale appre
nell'ira, le pure, o le fimplici nella comuniſeratione. Leggi. Ahi dolcißimo
albergo di tutti imiei piaceri,maledetta fia la crudeltà di colui checon gli
occhi della fronte or mi tifa uedcre . Affai m'ora con quelli dellu
mēteriguardarti à ciaſcun’hora.Tu hai il tuo corſo finito, et di tale ,come la
fortuna tel concedette tiſe ſpacciato.Venuto ſe alla fine ,alla quale ciaſcun
corre,laſciate hai le miſerie del mondo, o le fatiche. AR. Conſidera le
parti,le parole , o le figure di questa forma nella effempio ora letto, ote
ſimili uſorai nelle occaſioni che ti ucrranno, et uce derai uſcirne opora
maraniglioſa. Vodi che cömiferatione ſi truoua in que fe parole. Caro mio
signore , fe la tua anima oralcmiclagrimc uede, oniuno i conoſcimentoóſentimento
doppo la partita di quella rimane a corpi,rice. dei benignemoute l'ultimo dono
di colei, laquale tu uiuendo cotato amasti. Vedi ancora qui la ſomiglianzadel
ucro grandemente adopraſi in rio fpondere alle coſe,che potriano eſſer
dimandate. Andreuccio,io ſuno molto certa, che tu ti marauigli, & delle
carezze,le qualiiori.fo.a delle mie lagrime;si come colui chenon miconoſci
,oper quentura mai ricordar nonm'udisti,matu udirai toſto coſa, la quale più
tifarà forſe marauigliare, si come è ch'io ſia tua ſorella. AR. Eccoti,che con
una coſa più incredibile fa parere il falſo eſer aero. Vſafi questo modo nel
raccontare ,nello amplificar le lodi, ouero i uituperii delle genti ,ouero in
narrare le coſe fuori dell'ordine naturali,e rare.Con una antiucduta
eſcuſatio::e,come qui, Carißime Donne à me ſipara dinanzi a doucrmifi far
raccontare una uerità,che ba troppopiù di quello che ella
fu,dimenzognaſembianza. AR. Vera in ſoiamaè quella formadel dire , nella quale
confiderata la natura delle coſe la uarietà de gli affetri,la uſanza del uiucre
, con prue denza,riguardo dimostra le coſe fuggendo il coſpetto dello
artificio, & però molto leggiadramente fidce procedere nell'accurata,
obella forme del dire nella quale più vale il numero etl'artificio , che
nell'altre.Sicno dun que gli ſpirtidi questa forma partiper tutto il
corpo,accompagnati dal Sanguedella bellezza,odal mouimento della celerità del
dire ,che facila menteſi otterrà il deſiderato fine.Ne gl'affetti grandi,bricui
ficno le mem bra,uiusci le parole ,nel resto il giudi.io di chi parla habbia
luogo.Et qui Na ilfine delleformc o maniere del direin quanto che di ciaſcuna
partie samente ſi può dirc. Ma non sarà il finedi eſſe in quanto
biſognaſapereil modo di uſarle,et Accomodarle nella ciuilc oratione. Perciò che
colui ne oratore,ne erudito parcrebbe ilquale come nouel cfſercitaßcle predette
maniere daſe steſſe ignude, o inconipote,onde l'artefuafi manifestaffs, oegli
di abomincus defatietà, ct fastidio ricmpicſſe le orecchie, o gli animi de gli
aſcoltanti , Bella coſa é adunque il meſcolare inſieme le predette forme, o
farne una ortima miſtura,dalla quale n'uſcirà l'ottima,o uniuerſale idea della
oratio nc;appreſſo la qualeſarà quellà, che mancherà alquanto da quella ottima
meſcolanza,cosi di grado in gradofcemundo ilterzo,il quarto, o l'ul timo luogo
occuperà l'oratore. Della prima operfetta compofitione dela leformeio non ti
trouerei per ls uerità chi in questa lingua potefje , pere che gli ſcrittori di
efla hanno hauutaaltra intētione,cheformarela città M dincica dineſca
minicra,ben che per quello ch'io ſtimo,non anderà molto,che alcu noci naſcerà
atto a questa grandezza,alla quale più tosto manca la fatie ča,che il modo.Ora
in quale forma debbia abondarc la eloquenzafaperaiz per che la chiarezza,la
ucrità, quella cheaccoſtumata ſi chiama , fono le formeprincipali di tutta la
manicra ciuile.Dapoi appreſſo io amerei la celerità del dire con quelle forme
poi,che alla grandezzafi danno, tra le quali io eleggerei la comprenſione.Le
altre ueramenteſecondo il tempo ; er la occafione reggendomi abbraccerei con
quella ſcelta, con quella di fcretione che uolentieri,ut non isforzate
păreſſero ucnire riel parlar mio Ben'è uero, che molte ſono le intentioni de
gli huomini , equelle con dilia genza offer dcono confiderate.Chi uuole de i
ſecretidi natura parlare, bo delle coſe morali dee abondar'in grandezza senza
alcuno volubile movimeto. Chi ueramente cerca narrare ifatti de mortali,comeſi
fa nella iſtoria , elleggerà la ſchiettezza,ocleganza,nella quale è ripoſto
l'ordine delle co fe,cu dei tempi,a riguarderà primai conſigli,ale
deliberationi, poi le attioni, o ifatti,o finalmente gli auenimentio
fucceßi.Neiconſigli di moſtrerà quelloche deue cffer lodato ,o quello che
merita biaſimo nelle at tioni,i fatti ,ole parole,ilmodo, il fine. Et ne
ifucceßi dimostrerà ció the alla uirtù ,o ciò che alla fortunafi deve attribuire.Chi
ne ifenati uud l'esprimere la forza dell’eloquenza,perche il peſo delle coſe
ſară poſto fore. pra lepalle di chiragiona,biſognaabondare in grandezza,o
dignità, di mostrar cura openſamento,il che non uale ne i giudicij, ſe non ſono
di coi . Le graui,aimportanti,perche in eſſe più fimplicità,baſſezzaſi ricerca,
eſſendo quegli per lo più di coſe edi buominipriuati . Nel difendere, ale fai
uale la forma accoſtumata,obalfa,ſe non quando arditamente il fatto Rinega.
Poco ancora ui ſi vedrà di uolubile,o presto mouimento . Ma non . cosi nello
accuſare,douc oajpro, uecmente,o uiuo cſer dee l'accuſato re. Chi lola. fi dee dare
alla bellezza,o al diletto, o apprezzare lo fplene dore fenza ucсmenza, o
celerità. Et in brieuc,biſogna aprir gli occhi; eje nello imitare i dotti,o
eccclenti huomini.ſi richiede conſiderare; di che for ma eßt ſieno più
abondanti,o di che meno;accioche ſapendoper qual caz glorie eß istatilicno
tali,ancora non ſia tolto il potere à gli studioſi di ace coſtarſi loro, o
aguagliarli,o le poßibilc é ,che pureé paßibile al modo già detto di
ſuperargli. Et chi.pure non uoleſſe la fatica,poteße almeno giudicare i loro
fecreti. Molti, o minuti ſono i precetti d'intorno a questo offercitio,maio non
uoglio più affaticarmi,effendo quegli in molti,o gran di uolumi ordinatamente
ripoſti,oltra che ilnostro diſcorſo à niunopuò på rere terc imperfitto ,quando
egli uoglia la noſtra intentione riguardare ,laqua le è stata di fare i
fondamenti della eloquenza, auuertire di quanta co gnitione elſer debbia chi à
quella ſi dona; sopra i quali fondamenti ſono for date l'articelle de' maeſtri,
o gli esercitij de' giovanetti. Baſtiti, ô Dinare do,che tu ſia giunto là, doue
di giugnere deſideraui,o che tu habbi ueduto un circolo della tanto deſiderata
cognitione. Però che dalle parti dell'anie ma incominciaſti ,o in eſſe ſei
ritornato ,hauendo il corſo tuo ſopra di natů ra, ci sopradi me fornito, come sopra
due rote di quel carro,cheper lo apet to cielo ti condurrà uittorioſo, o
trionfante. Daniele Matteo Alvise Barbaro. Daniele Barbaro. Keywords:
archittetura, palladio, prospettiva, retorica, ordine cronologico: Ermolao
Barbaro il vecchio – Ermolao Barbaro il giovane – Daniele Barbaro – Temisto,
index nominorum, interpretazione e commentario di Barbaro sul commentario di
Tesmisto sull’analitica posteriora – manoscritto, Bologna. Manoscritto delle
‘Adnotationes ad analyticos priores’ – commentario diretto su Aristoele e no
via Temisto – Villa Barbaro – lezione privati di Barbaro sull’organon di
Aristotele – analytica priora e analytica posteriora, non al studio GENERALE,
ma alla sua propria villa! . Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barbaro” – The
Swimming-Pool Library.
Barbaro (Venezia). Filosofo. Umanista --. Grice: “As much as Speranza LOVES
Daniele Barbaro, I prefer Ermolao Barbaro; after all, he was his uncle – I
mean, Ermolao was Daniele’s uncle – and therefore HE taught HIM; I mean,
Ermolao, as a good philosophical uncle, taught the ‘minor’ (literally, since he
was his junior) Barbaro.” "Some like Barbaro, but Barbaro's MY man." Ermolao Barbaro detto il
Vecchio. Umanista e vescovo cattolico italiano. Sendo stato uomo
degnissimo, m'è paruto farne alcuna menzione nel numero di tanti singulari
uomini, acciocché la fama di sì degno uomo non perisca (Vespasiano da Bisticci,
Vite di uomini illustri del secolo XV). Ancora bambino comincia a studiare
lettere conVeronese, e il successo di quest'accoppiata allievo-maestro fu tale
che tradusse in latino le favole d’Esopo. Fece poi i suoi studi universitari a
Padova dove si laurea. Successivamente si trasfee a Roma dove entrò al servizio
della cancelleria papale. La sua carriera nella curia romana fu così fulminea
che Eugenio IV lo nomina protonotario apostolico e gli concesse la diocesi di
Treviso. Il rapporto con il pontefice, però, si interruppe bruscamente quando,
dopo che gli era stata promessa la nomina a vescovo di Bergamo, il papa assegna
il posto a Foscari. Lascia Roma e viaggiò per l'Italia ma, dopo una serie
di peregrinazioni, tornò a lavorare in curia. Si trasfere poi a Verona dove
Niccolò V lo designa vescovo e dove si sistemò in pianta stabile, tranne una
breve parentesi a Perugia come governatore. Messer Ermolao Barbaro, gentiluomo
viniziano, fu fatto vescovo di Verona da papa Eugenio, per le sue virtù. Ebbe
notizia di ragione canonica e civile, ed ebbe universale perizia di teologia, e
di questi istudi d'umanità; ed ebbe nello scrivere ottimo stile. Fu di
buonissimi costumi, e nel tempo di papa Eugenio si ritornò a Verona al suo
vescovado, e attese con ogni diligenza alla cura, e vi accrebbe assai e onorò e
multiplicò il culto divino. Era umanissimo con ognuno. Ridusse nel suo tempo il
vescovado in buonissimo ordine, così nello spirituale come nel temporale. Aveva
in casa sua alcuni dotti uomini, in modo che sempre vi si disputava o ragionava
di lettere; ed era la sua casa governata, come si richiede una casa d'uno degno
prelato. S'egli compose (che credo di sì) non ho notizia alcuna. Compose. Nulla
se ne ha alle stampe trattane qualche lettera, ma più opuscoli manoscritti se
ne hanno in alcune biblioteche, e fra essi la traduzione della Vita di S.
Anastasio scritta da Eusebio di Cesarea. Note
Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV, ed.
Barbera-Bianchi, Firenze. Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura
italiana, ed. Firenze, Vol. VI, pag. 808
Società storica lombarda, Archivio storico lombardo, ser.4:v.7, L'Umanesimo
umbro: Atti del IX Convegno di studi umbri. Gubbio, 22-23 settembre, 1974,
Perugia, 1977, pag. 199 Vespasiano da Bisticci,
cit. pag. 195 Girolamo Tiraboschi, cit.
pag. 808 Opere (alcune moderne edizioni italiane) Ermolao Barbaro il
Vecchio. Orationes contra poetas. Epistolae. Edizione critica a cura di Giorgio
Ronconi. 16x24 cm, pp VIII+186. Firenze: Sansoni, 1972. Pubblicazioni della
Facolta di Magistero dell'Universita di Padova Ermolao Barbaro il Vecchio.
Aesopi Fabulae. A cura di Cristina Cocco. 22 cm, pp 186. Genova:
D.AR.FI.CL.ET., Trad. italiana a fronte Hermolao Barbaro seniore interprete.
Aesopi fabulae. A cura di Cristina Cocco, 25 cm, pp 155, Firenze:
Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2007. Il ritorno dei classici nell'umanesimo.
Edizione nazionale delle traduzioni dei testi greci in eta umanistica e
rinascimentale.9788884502506 Bibliografia Girolamo Tiraboschi, Storia della
letteratura italiana, Vol. VI, ed. Firenze, 1819. Vespasiano da Bisticci, Vite
di uomini illustri del secolo XV, ed. Barbera-Bianchi, Firenze, 1859. Pio
Paschini, Tre illustri prelati del Rinascimento: Ermolao Barbaro, Adriano
Castellesi, Giovanni Grimani, Roma, Facultas Theologica Pontificii Athenaei
Lateranensis, 1957. Emilio Bigi, Ermolao Barbaro, in Dizionario biografico
degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 6
luglio 2018. Voci correlate Ermolao Barbaro il Giovane Collegamenti
esterniDavid M. Cheney, Ermolao Barbaro il Vecchio, in Catholic Hierarchy.
Predecessore Vescovo di TrevisoSuccessoreBishopCoA PioM.svg Lodovico
Barbo1443-1453Marino ContariniPredecessoreVescovo di VeronaSuccessoreBishopCoA
PioM.svg Francesco Condulmer1453-1471Giovanni Michiel · SBN IT\ICCU\MILV\110912
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Portale Biografie Cattolicesimo Portale Cattolicesimo Treviso Portale Treviso
Venezia Portale Venezia Categorie: Umanisti italianiVescovi cattolici italiani
del XV secoloNati nel 1410Morti nel 1471Nati a VeneziaMorti a
VeneziaBarbaroVescovi di TrevisoVescovi di VeronaTraduttori dal greco al latino.
Ermolao Barbaro, il vecchio. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barbaro”
– The Swimming-Pool Library.
Barbaro (Venezia). Filosofo. Grice; “Very good.” , ermolao – the
younger – il giovane, non il vecchio -- "Speranza likes
Ermolao Barbaro the Younger, but Ermolao Barbaro The Elder is MY man." --
H.G. Ermolao Barbaro il
Giovane. Avea profondamente meditato sopra i doveri che impone il carattere di
legato a chi lo sostiene e sopra le avvertenze che devono servirgli di norma
nella pratica degli affari, ónde servir con vantaggio il proprio governo e
riportare onore anche da quello presso di cui risiede. Ei ne ha indicate le
tracce in un pregevolissimo opuscolo in
cui la prudenza apparisce compagna della onestà del candore, ed è venuto a
delineare in certa guisa il suo ritratto. Ma lo stesso suo merito fu a lui
cagione di grave calamità. Cardinale di Santa Romana Chiesa Hermolaus Barbarus Ritratto
di Ermolao Barbaro, opera di Theodor de Bry. Patriarca di Aquileia. Ordinato
presbitero. Nominato patriarca da papa Alessandro VI. Consacrato patriarca. Creato
cardinal da papa Innocenzo VIII. Ermolao Barbaro detto "Il giovane"
-- è stato un umanista, patriarca cattolico e diplomatico italiano, al servizio
della Repubblica di Venezia. Comincia l'educazione elementare con il padre
Zaccaria Barbaro, politico e diplomatico veneziano, poi in tenerissima età e
mandato a Verona dal pro-zio Ermolao Barbaro, vescovo della città e umanista di
fama, per studiare lettere latine con Bosso. Per perfezionarsi passa a Roma
dove ha come insegnanti prima Leto e poi Gaza. Un cursus studiorum concluso con
successo. E laureato poeta, a Verona, da Federico III. Segue a Napoli il padre,
titolare dell'ambasciata veneziana, e proprio nella città partenopea scrive la
sua prima opera ovvero il “De Caelibatu”. Traduce tutto Temistio, pubblicato poi, in
parafrasi. Tornato in Veneto consegue a Padova il dottorato in arti e quello in
diritto civile e canonico. Subito dopo fu nominato titolare della cattedra di
etica. Come professore insegna soprattutto sulla Nicomachea di Aristotele,
mettendo in guardia i suoi studenti dalle traduzioni in latino di Aristotele e
predicando il ritorno alla traduzione diretta dal greco, proprio come face lui.
Sono infatti di quegli anni i commentari all'Etica e alla Politica e la traduzione
della Retorica. Abbandonato l'insegnamento
accompagna nuovamente il padre in missione diplomatica a Roma. E promosso
senatore della Repubblica di Venezia e ma stavolta in veste ufficiale, si reca
a Milano con il padre per una nuova ambasceria. Il primo incarico
diplomatico arriva quando, insieme a Trevisano, rappresenta a Bruges la
Serenissima in occasione dei festeggiamenti per l'incoronazione a ‘re dei romani’
di Massimiliano d'Asburgo e nell'occasione fu investito cavaliere. Dopo
un'esperienza come savio di terraferma, e finalmente nominato ambasciatore residente
a Milano dove si accredita e rimane in carica. Venne creato cardinale in
pectore d’Innocenzo VIII nel concistoro, ma non venne mai pubblicato. L'ottima
gestione della legazione veneziana a Milano, in tempi davvero turbolenti come
quelli della reggenza di Ludovico il Moro, gli vale un anno dopo la nomina ad
ambasciatore a Roma alla corte d’Innocenzo VIII. Ed e qui che avvenne la
catastrofe. Il giorno dopo la morte del patriarca di Aquileia Marco
Barbo, Ermolao erasi recato all'udienza del papa, per fare istanza acciocché
fosse differita la nomina del patriarca successore, finché il senato non gli e
ne avesse presentato, secondo il consueto, la nomina. Ma il papa, senza punto badare
a cotesta istanza, nomina lui appunto in patriarca di Aquileja; aggiungendogli,
essere questa grazia una giusta ricompensa al suo sapere ed alla sua virtù. Il
Barbaro in sulle prime si rifiutò dall'accettare la dignità, che il pontefice
conferivagli; ma quando Innocenzo gli e lo comandò in virtù di santa
ubbidienza, si vide costretto a sottomettervisi ed obbedire. Allora il papa
sull'istante lo vestì del rocchetto, di cui, per darglielo, si spogliò uno dei
cardinali colà presenti; e poscia in pieno concistoro fu preconizzato patriarca
di questa Chiesa. La procedura era rigorosamente contraria alle leggi della
repubblica che vietavano ai propri ambasciatori, senza la previa autorizzazione
del senato, di ricevere incarichi o nomine dai principi presso i quali erano
accreditati. Allora, per giustificare la violazione procedurale, il Papa
scrisse una lettera al Doge chiedendogli di confermare la nomina, ma il
Consiglio dei Dieci, competente in materia, delibera comunque che Barbaro deve
rinunciare al patriarcato. Cosa che, dopo un po' di tira e molla, prontamente fa.
Scelse, per farla più solenne, la circostanza del giovedì santo alla presenza
del papa e di tutto il sacro collegio. Ma il papa non la volle accettare. Né
l'obbedienza sua agli ordini del senato basta per anco a giustificarlo. Poco
avveduto, non pensa di spedirne a Venezia la stessa sua dimissione al senato,
ad onta dell'opposizione del pontefice; mostrandosi dal canto suo per tal guisa
fedele ed obbediente alle leggi del suo governo. Più avrebbe inoltre dovuto
lasciar Roma e ritornare a Venezia. Ov'egli si fosse regolato così, l'affare
avrebbe cangiato di aspetto, e sarebbesi ridotta ad una semplice controversia
di giurisdizione tra la corte di Roma e la Repubblica di Venezia. Ma essendo
rimasto in quella capitale, ad onta della fatta rinunzia, né avendone dato
avviso al senato, egli fu riputato veramente colpevole in faccia alla legge, e
perciò costrinse il senato ad usare verso di lui ogni misura di rigore. Come
risultato di questo pasticcio fu bandito perennemente dalla repubblica e
interdetto da qualsiasi ufficio pubblico e privato. Quanto al patriarcato di
Aquileia, tecnicamente, ne rimase titolare ma il senato oltre ad avergli
impedito, con l'esilio, di recarvisi fisicamente, ne congelò le rendite
patriarcali e nomina Donato in suo vece, anche se la nomina non fu ratificata
dal papa. Ne deriva una situazione di stallo, durante la quale la diocesi
patriarcale fu amministrata da Valaresso (anche Valleresso), vescovo di
Capodistria, con il titolo di Governatore generale. Barbaro rimase a Roma
dove decise di dedicarsi a tempo pieno ai suoi studi. Pparticolarmente
importanti, oltre alla composizione di Orationes et Carmina in latino e alla
pubblicazione delle “Castigationes Plinianae,” disputazioni scientifiche sulle
imprecisioni e sulle invenzioni della Naturalis historia di Plinio, sono l’epistolario filosofico che si scambiò
con Poliziano e Pico, che, insieme, costituirono un vero e proprio
«triumvirato, a que' giorni potente e celebratissimo nelle scienze e nelle
lettere. E sventuratamente colto dalla pestilenza che serpeggia nell'agro
romano. Giunta a Firenze la nuova del suo pericolo trafisse altamente il cuore
dei due suoi celebri amici Poliziano e Pico. Si lagnavano essi che la sua
perdita seco involge il destino delle buone lettere, sembrando loro che in un
sol uomo pericolasse l'onere delle cose romane. Pico anzi volle tentar di
soccorrerlo, inviandogli col mezzo di suo corriere un antidoto ch'ei medesimo
componeva e che credeva atto a domare il morbo pestilenziale. Ma quando arriva
a Roma l'espresso, era di già passato tra gli estinti. Note De Legato, recuperato dal cardinal Quirini da
un codice della Vaticana e stampato per la prima volta nelle annotazioni alla
Deca II della sua Thiara et purpura veneta
Giovanni Battista Corniani, Camillo Ugoni, Stefano Ticozzi, I secoli
della letteratura italiana dopo il suo risorgimento, Torino, 1855, Vol.
II,132 Contemporaries of Erasmus, op. cit.91 Bruno Figliuolo, Il Diplomatico E Il
Trattatista: Ermolao Barbaro Ambasciatore Della Serenissima, Napoli, Guida
Editori, 1999,19 Saverio Bettinelli,
Risorgimento d'Italia negli studj, nelle arti, e ne' costumi dopo il mille,
Bassano, 1786, parte I,219 S.
Bettinelli, cit.219 Antonino Poppi,
Ricerche sulla teologia e la scienza nella scuola padovana del Cinque e
Seicento, Rubbertino, 2001,54 Vittore
Branca, La sapienza civile: Studi Sull'umanesimo a Venezia, Firenze, 1988,67 Eugenio Albèri, Relazioni degli ambasciatori
veneti al Senato, Firenze, 1846, Vol. VII,26
Giuseppe Cappelletti, Le chiese d'Italia della loro origine sino ai
nostri giorni, Venezia, 1851, Vol. VIII,512-513 Giuseppe Cappelletti, op.
cit.516 Jacopo Bernardi, Ermolao Barbaro
o la scienza del pensiero dal secolo decimoquinto a noi, Venezia, 1851,12 I secoli della letteratura italiana, op.
cit.134-135 Bibliografia Saverio Bettinelli, Risorgimento d'Italia negli studj,
nelle arti, e ne' costumi dopo il mille, Bassano, 1786 Eugenio Albèri,
Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, Firenze, 1846 Giuseppe
Cappelletti, Le chiese d'Italia della loro origine sino ai nostri giorni, Vol.
VIII, Venezia, 1851 Jacopo Bernardi, Ermolao Barbaro o la scienza del pensiero
dal secolo decimoquinto a noi, Venezia, 1851 Giovanni Battista Corniani,
Camillo Ugoni, Stefano Ticozzi, I secoli della letteratura italiana dopo il suo
risorgimento, Torino, 1855 Vittore Branca, La sapienza civile: Studi
Sull'umanesimo a Venezia, Firenze, 1988 Bruno Figliuolo, Il Diplomatico E Il
Trattatista: Ermolao Barbaro Ambasciatore Della Serenissima, Napoli, Guida
Editori, 1999 Antonino Poppi, Ricerche sulla teologia e la scienza nella scuola
padovana del Cinque e Seicento, Rubbertino, 2001Thomas Brian Deutscher,
Contemporaries of Erasmus: A Biographical Register of the Renaissance and
Reformation, University of Toronto Press, 2003 Altri progetti Collabora a
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Hierarchy.Salvador Miranda, BARBARO, iuniore, Ermolao, su fiu.edu – The
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Barbaro, in Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Emilio Bigi, BARBARO, Ermolao, in Dizionario biografico degli
italiani, vol. 6, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1964.PredecessorePatriarca
di AquileiaSuccessorePatriarchNonCardinal PioM.svg Marco Barbo7 marzo 1491 - 2
maggio 1493Nicolò Donà Controllo di autoritàVIAF54942062 · ISNI0000 0001
2133 7866 · SBN IT\ICCU\MILV\088873 · LCCNn80137686 · GND (DE) 118657119 · BNF
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italianiNati nel 1454Morti nel 1493Nati il 21 maggioMorti il 14 giugnoNati a
VeneziaMorti a RomaBarbaroAmbasciatori italianiPatriarchi di AquileiaTraduttori
dal greco al latino[altre] Ermolao Barbaro. Keywords: il celibato, lettera a
Pico, lettera a Poliziano, traduzione della retorica, commentario all’etica
nicomachea, comentario alla politica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barbaro”
– The Swimming-Pool Library.
Barcellona (Catania). Filosofo. Grice: “Perhaps my favourite by
Barcellona is “I soggetti e le norme” – vide my conversational norms – and
‘soggeto’ of course relates to ‘intersoggetivita,’ a pet concept of Italian
phenomenology!” Grice: “Of course, for us British subjects (to the Queen), the
idea of ‘soggeti’ cannot quite make sense! But Barcellona’s point is
fascinating: the Romans did have the concept of a sub-iectum and an ob-iectum:
they like a symmetrical expression formation, too! Barcellona shows that we
have to speak of ‘soggetti’ to get intersoggetivita – and then the norma – a
very Roman concept, which as J. L. Austin said (following John Austin), does
not quite translate as ‘norm’ – “We don’t use ‘norm’ in ordinary language.”” Barcellona shows that it is ‘I soggetti’ i.
e. at least a dyad that makes ‘the noi trascendentale’ adding up ‘l’io
trascendentale’ with ‘il tu trascendentale’ and ‘l’altro trascendentale’ that
we get the norm. Barcellona got to the idea after seeing the French film, ‘l’un
et l’autre’!” -- Pietro Barcellona, deputato
della Repubblica Italiana LegislatureVIII Gruppo parlamentarePCI Dati generali
Partito politicoPartito Comunista Italiano Titolo di studioLaurea in
giurisprudenza ProfessioneDocente universitario Pietro Barcellona (Catania ), filosofo. È stato docente di diritto privato
e di filosofia del diritto presso la facoltà di giurisprudenza dell'Catania. È
stato membro del Consiglio superiore della magistratura. Si laurea in Giurisprudenza nel 1959. Nel 1963
consegue la libera docenza in Diritto Civile e insegna a Messina. Dal 1976 al
1979 è componente del Consiglio Superiore della Magistratura. Ha diretto il
Centro per la Riforma dello Stato, fondato con Pietro Ingrao. Nel 1979 è stato eletto deputato nelle file
del Partito Comunista Italiano ed è stato membro della commissione giustizia
della Camera fino al 1983 . A causa
della sua formazione teorica materialista, ha suscitato nel molto scalpore la sua conversione raccontata
nel libro Incontro con Gesù. Docente
emerito di filosofia del diritto all'Catania. Altre opere: “Diritto privato e
processo economico” (Jovene Editore); “L'uso alternativo del diritto, Laterza);
“Stato e giuristi tra crisi e riforma, De Donato, Bari); “Stato e mercato tra
monopolio e democrazia, De Donato); “La Repubblica in trasformazione. Problemi
istituzionali del caso italiano, De Donato); “Oltre lo Stato sociale: economia
e politica nella crisi dello Stato keynesiano, De Donato); “I soggetti e
l’intersoggetivo della norma” (Giuffrè); “L'individualismo proprietario,
Bollati Boringhieri); “L'egoismo maturo e la follia del capitale, Bollati
Boringhieri); “Il Capitale come puro spirito: un fantasma si aggira per il
mondo, Editori Riuniti); “Il ritorno del legame sociale, Bollati Boringhieri);
“Lo spazio della politica. Tecnica e democrazia, Editori Riuniti); “Dallo Stato
sociale allo Stato immaginario. Critica della ragione funzionalista (Bollati
Boringhieri); “Laicità. Una sfida per il terzo millennio, Argo); “Diritto privato
società moderna, Jovene); L'individuo sociale, Costa & Nolan); “Politica e
passioni. Proposte per un dibattito, Bollati Boringhieri); “Il declino dello
Stato. Riflessioni di fine secolo sulla crisi del progetto moderno, Ed. Dedalo);
“Quale politica per il Terzo millennio?, Ed. Dedalo); “L'individuo e la
comunità” (Edizioni Lavoro); “Le passioni negate. Globalismo e diritti umani,
Città Aperta); “Le istituzioni del diritto privato contemporaneo, Jovene); “Tensioni
metropolitane, Città Aperta); “I diritti umani tra politica, filosofia e storia,
A. Guida); “La strategia dell'anima, Città Aperta); “Diritto senza società. Dal
disincanto all'indifferenza, Ed. Dedalo); “Fine della storia e mondo come
sistema. Tesi sulla post-modernità, Ed. Dedalo, “Il suicidio dell'Europa. Dalla
coscienza infelice all'edonismo cognitivo, Ed. Dedalo); “Critica della ragion
laica, Città Aperta); “Diagnosi del presente, Bonanno); “La parola perduta. Tra
polis greca e cyberspazio, Ed. Dedalo); “L'epoca del postumano, Città Aperta);
“La lotta tra diritto e giustizia, Marietti); “Il furto dell'anima. La
narrazione post-umana, Ed. Dedalo); “L'ineludibile questione di Dio, Marietti);
“L'oracolo di Delfi e L'isola delle capre, Marietti, Elogio del discorso inutile. La parola
gratuita, Ed. Dedalo); “Viaggio nel Bel Paese. Tra nostalgia e speranza, Città
Aperta); “Incontro con Gesù, Marietti); “Declinazioni futuro/passato. Poesie,
Prova d'autore, Il sapere affettivo, Diabasis); “Il desiderio impossibile,
Prova d'autore”; “Passaggio d'epoca. L'Italia al tempo della crisi, Marietti); La
speranza contro la paura, Marietti); “L'occidente tra libertà e tecnica,
Saletta dell'Uva); “Parole potere, Castelvecchi, . Sottopelle. La storia, gli
affetti, Castelvecchi); La sfida della
modernità, La Scuola, .
978-88-350-3599-2 Pietro Barcellona e la pittura Una delle più grandi
passioni di Pietro Barcellona, è stata senza ombra di dubbio la pittura.
Comincia a dipingere all'età di 20 anni. Due sue opere si trovano in
esposizione permanente presso il "Museo dei Castelli Romani". Un suo
quadro fa parte della collezione permanente della Salerniana, Galleria Civica
d'Arte Contemporanea "Giuseppe Perricone". Vanta diverse
personali: 1959"Mostra Città di
Catania"; 1997"Galleria Arte Club" di Catania, con testi critici
di Manlio Sgalambro e Salvo Di Stefano; 2001"Galleria Arte Club" di
Catania. Espone un nucleo di ventiquattro opere sul tema "La città della
donna" con testo critico di Giuseppe Frazzetto; 2002"Tensioni
metropolitane" presso "Fondazione Luigi Di Sarro" di Roma;
2002"Galleria Quadrifoglio" di Siracusa; 2002"Fondazione
Filiberto Menna" di Salerno; 2003"Mitologia del quotidiano"
presso "Galleria La Borgognona" di Roma, con testi in catalogo di
Simonetta Lux e Domenico Guzzi; 2003"Contrasti" presso "Galleria
Tornabuoni" di Firenze, con testo in catalogo di Fabio Fornaciai e dello
stesso Barcellona; 2004"Museo dell'Infiorata" di Genzano;
2006"L'impossibile completezza" presso il "Museo Laboratorio di
Arte Contemporanea" di Roma, Patrizia Ferri e Mario de Candia; "Il
desiderio impossibile" presso "Le Ciminiere", Sala C2, di
Catania, con testo critico di Mario Grasso. Saggi sull'opera di Pietro
Barcellona Su Pietro Barcellona, ovvero,
riverberi del meno, Atti del Convegno di Studi su alcune opere di Pietro
Barcellona, Mario Grasso. Prova d'Autore, .
978-88-6282-154-4 W. Magnoni, Persona e società: linee di etica sociale
a partire da alcune provocazioni di Norberto Bobbio, Glossa Edizioni,
Milano, M. De CandiaFerri, Pietro
Barcellona raccontato dai suoi amici, Gangemi, 2006. 978-88-492-0933-4 T. Greco, Modernità,
diritto e legame sociale, in «Materiali per una storia della cultura
giuridica», XXXI (2001), n. 2, 517–541.
S. Pegorin, Emergenza Antropologica. Pietro Barcellona e la lotta in difesa
dell’umano Riconoscimenti Il 29 marzo , il Comune di Misterbianco (CT) gli
intitola una piazza. Note Pietro Barcellona, su CameraVIII legislatura,
Parlamento italiano. "Pietro Barcellona:
Mi converto, dal Partito Comunista a Gesù Archiviato il 18 maggio in .", Ragusa News. l'Unità, 11 maggio 2003: "Pietro
Barcellona, Il Piacere di
Dipingere"//archiviostorico.unita/cgi-bin/highlightPdf.cgi?t=ebook& file=/golpdf/uni_2003_05.pdf/
11CUL31A.PDF&query=Andrea%20 carugati Archiviato il 4 marzo in .
Corriere della Sera, 1º febbraio 2006. Omaggio a Pietro Barcellona
pittore, giurista e filosofo.//archivio storico.corriere/2006/febbraio/01/ Omaggio_Pietro_Barcellona_pittore_giurista_co_10_06017.shtml Inaugurata la piazza intitolata al prof.
Pietro Barcellona | Misterbianco.COM Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio
su Pietro Barcellona Napolitano: Pietro
Barcellona fu un protagonista in Italia. Messaggio del Colle ai funerali del
giurista, ex parlamentare Pci e membro laico del Csm[collegamento interrotto]
articolo pubblicato da La Sicilia, 9 settembre , sito lasicilia. Filosofi
italiani del XX secoloFilosofi. Pietro Barcellona. Keywords, Barcellona, comune
di Messina. Conte di Barcellona, lo stato imaginario, i soggeti,
l’intersoggetivo della norma, communita intersoggetiva, discorso futilitario, societas,
communitas, socius, seguire, ‘follow’, Toennies, communitario, stato
keynesiano, stato imaginario, anima smartita, conflitto e cooperazione sociale,
anima smarrita, communitas, immunitas, sociale, societas, discorso inutile,
Grice, end of conversation, goal of conversation, deutero-esperanto, linguaggio
privato, i soggeti, l’intersoggetivo. --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Barcellona” – The Swimming-Pool Library.
Barié (Milano). Filosofo. Grice: “”My favourite of Barié’s is his
parody of Apel: “il noi trascendentale”!” -- I like Barié; he commited suicide,
which is not that rare among philosophers – same percentage than the general
population – cf. Durkheim, “Le suicide: a sociological enquiry,””. Grice:
“Barié tried to play with the idea of the transcendental, and he did – he
applied it first to “I” (‘l’io trascendentale’). When I wrote my thing on
personal identity, I preferred the pronoun ‘someone,’ to stand for ‘I’, ‘thou,’
and the allegedy THIRD ‘person,’ ‘he.’ – Barié has also edited Vico’’scienza
nuova,’ and provided a ‘compendium’ of the SYSTEMATIC kind, favoured by some,
of the history of philosophy, with sections on ‘roman’ philosophy
(“l’epicureanismo romano,” “lo stoicism romano,”) --.” Grice: “Perhaps the closes Barié comes to me is in his ‘The concept of the
‘transcendental,’ since I struggled with that in “Prejudices and
predilections,” where I feign to think that perhaps ‘transcendental’ is too
transcendental an expression and should be replaced by ‘metaphysical,’ but my
tutee, Sir Peter, being more of a Bariéian, disagreed wholeheartedly!” – Grice:
“I cherish Apel’s comment on Barié: “Surely, if we are going to have ‘l’io
trascendentale,’ we need at least ‘l’altro trascendentale,’ or as I prefer ‘il
tu trascendentale.’” Partendo da posizioni kantiane pervenne a una posizione da
lui stesso definita neotrascendentalismo, scuola di pensiero di cui fu il fondatore.
Nato il 19 ottobre 1894, si avviò agli studi di diritto che concluse solo a
seguito del primo conflitto mondiale, che lo vide impegnato inizialmente come
ufficiale di cavalleria e poi come aviatore. Nel 1924 ottenne la laurea in
filosofia. Inizialmente attestato su
posizioni kantiane (La dottrina matematica di Kant nell'interpretazione dei
matematici moderni, 1924, e La posizione gnoseologica della matematica, 1925),
nel corso del suo progredire intellettuale Barié perviene a una posizione
filosofica critica nei confronti della dottrina kantiana. Di questo passaggio è
emblematica l'opera Oltre la Critica, del 1929, che mette in luce le difficoltà
della dottrina precedentemente sostenuta.
Il periodo metafisico Oltre la critica segna il punto di svolta
dell'attività filosofico-intellettuale di Barié, che comincia a sviluppare un interesse
metafisico, forse dovuto all'influenza di Piero Martinetti, del quale era stato
allievo. In questo senso il filosofo, nel suo primo approccio alla metafisica,
si pone su un binario che era già stato di Spinoza, salvo poi rendersi conto
del fatto che anche la posizione spinoziana è in realtà insufficiente per
tentare di risolvere il dilemma della relazione essere-pensiero. Si ha quindi
l'approdo di Barié al pensiero leibniziano, testimoniato dell'opera del 1933 La
spiritualità dell'essere e Leibniz.
L'approdo al neotrascendentalismo e Il Pensiero Libero docente dal 1929,
ottiene la cattedra universitaria nel 1933 spostandosi di conseguenza a Genova,
Roma e infine Milano, nella cui università succede al suo maestro Martinetti
nella cattedra di filosofia teoretica. Consapevole del fatto che, per quanto
superata, la lezione antidogmatica di Kant non poteva essere completamente
ignorata, Barié inizia una profonda revisione del proprio sistema teoretico che
lo porta a diminuire drasticamente le sue pubblicazioni (di questo periodo sono
il Compendio sistematico di storia della filosofia, 1937, e Descartes, 1947) e
che culmina con la pubblicazione de L'io trascendentale (1948). Nel 1950 fonda
l'istituto di filosofia dell'Milano con lo scopo di renderlo centro propulsivo
di una discussione filosofico-culturale con le realtà filosofiche del tempo che
si sarebbero confrontate con la nuova visione di Barié, adesso orientato verso
una concezione di filosofia come metafisica, ossia di metafisica quale causa
della realtà sensibile e del pensiero. Con lo stesso scopo nacque nel 1956 la
rivista Il Pensiero. Altre opere: “La posizione gnoseologica della matematica –
e dell’arimmetica in particolare” 7 + 5 = 12” (Torino, Bocca); “Oltre la
critica della ragione e del giudizio, il criticismo (Milano, Libreria editrice
lombarda); “Spirito e anima: La spiritualità dell'essere e Leibniz” (Padova,
CEDAM); “Compendio sistematico di storia della filosofia con particolare
attenzione alla filosofia romana sino Cicerone” (Torino, Paravia); “L'io
trascendentale non-psicologico” (Milano-Messina, G. Principato); “Il concetto
trascendentale” “Il trascendentale” (Milano, Veronelli. Note
Atti del V Congresso Internazionale di Filosofia, Napoli, 1924 riproduzione fotografica (p.1-109) da
OpalLibri antichi riproduzione
fotografica (p.110-202) Davide Assael ,
Giovanni Emanuele Bariè, Milano, CUEM, 2008. Davide Assael, "Il
neotrascendentalismo di Giovanni Emanuele Barié", in Rivista di Storia
della Filosofia, 2009; (4), 731–759.
Davide Assael, Alle origini della scuola di Milano: Martinetti, Barié, Banfi,
Guerini e associati, Milano, 2009.
Milano Accademia scientifico-letteraria di Milano Università degli Studi
di Milano Scuola di Milano Giovanni
Emanuele Barié, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Giovanni Emanuele Barié, su
sapere, De Agostini. Giovanni Emanuele
Barié, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Opere di Giovanni Emanuele
Barié, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Filosofia Università Università. Giovanni Emanuele Barié.
Keywords: lo stoicism romano, Enea, eroe romano, eroe stoico, Catone, il noi
trascendentale, vico, storia vichiana, arimmetica. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Barié” – The Swimming-Pool Library.
Baricelli (San Marco dei Cavoti). Filosofo. rice: “Italian
philosophers can be eccentric; Baricelli started commenting Plato but his
masterpiece is a philosophical tract on sweat, as experienced by the athletes
Plato was familiar with!”Medico, chimico e filosofo di fama italiana ed
europea, Giulio Cesare Barricelli- nacque a San Marco dei Cavoti nel 1574 (o
1575) e fu da molti, pure erroneamente, ritenuto originario di Benevento o di
San Marco Argentano in Calabria. Erudito
e studioso di poliedriche attitudini e capacità, studiò medicina e si interessò
di filosofia, tanto che ancora giovanissimo fu autore di commenti alle opere di
Platone, mentre nel pubblicò l'opera in quattro libri De hydronosa natura sive
de sudore umani corporis, sulla natura e la terapia della sudorazione umana,
nelscrisse l’Hortulus genialis, edito a Colonia e Ginevra ove raccolse antidoti
e sudi sulle intossicazioni, e successivamente diede alle stampe il Thesaurus
secretorum, opera in cui sono elencate le cure ed i rimedi per svariate
malattie e problematiche quotidiane. Nel
1623 pubblicò poi un trattato sull'uso del siero del latte e del burro come
medicamento, intitolato De lactis, seri, butyri facultatibus et usu, e nello
stesso anno gli fu conferita la cittadinanza beneventana. Cultore di studi
umanistici Barricelli scrisse anche alcuni epigrammi latini e morì in Benevento
tra il 1638 ed il 1640. A San Marco dei
Cavoti, nel corso degli anni, gli vennero intitolati un antico circolo
ricreativo (sec.XIX-XX), la scuola elementare (1942) ed infine la strada ove si
trovava l'abitazione in cui visse, già denominata Via Pastocchia, che ospita
anche un monumento in suo onore, opera dello scultore Giulio Calandro
(1989). A proposito dell'intitolazione
della scuola, su espressa richiesta dell'allora commissario prefettizio Mario
Jelardi, l'insigne storico Alfredo Zazo propose la seguente epigrafe che ne
riassume le doti i meriti: A GIULIO
CESARE BARRICELLI CHE DEL RINASCIMENTO EBBE LO SPRITO INFORMATORE E LA VASTA
ATTIVITA' PROFUSE NEL CAMPO DELLA SCIENZA MEDICA DELLE LETTERE E DELLE
SPECULAZIONI FILOSOFICHE IL COMUNE DI SAN MARCO DEI CAVOTI A RICORDO ED
INCITAMENTO PER LE GENERAZIONI CHE IN QUESTA SCUOLA SI EDUCANO NEL FERVORE E
NELLA FEDE DEI NUOVI GRANDI, AUSPICATI DESTINI DELLA PATRIA XXVIII OTTOBRE
1942XX E.F. Opere. “De hydronosa natura
sive de sudore umani corporis”; “Hortulus genialis”; “Thesaurus secretorum De
lactis, seri, butyri facultatibus et usu. Alfredo Zazo, Dizionario bio-bibliografico
del Sannio, Napoli, Angelo Fuschetto, Giulio Cesare Baricelli, 1989 Andrea
Jelardi, Dizionario biografico dei Sammarchesi, Benevento. nis
Hortuli Genialise RERVM MEMORABILI VM , QVAE IN HORTVLO Geniali continentur
elenchus . A Beſton accenfus,perpetuòarder. A cos. 12. poribus effe &tus
procreari. Admirandumauxiliuin advefica calculum , qwo abſque inciſione
diffoluitur de expurgatur. 211. • Alapides renum vefica frangendos mirabile
remedium . 204 Ammantium lac ab alimentis recipere qualita tem . 174 Agricola
nonſemel tempeftates e Serenitates pre dicunt. Abſyntbiumroborat ventry
Abfynthij Romani mira i 170 Abſalonformararus. Acorescapitis bufonefanartit Achatis
lapidismirabilis Acetum ad i &tus venenosov Acetiſcyllitici miraoperato
371. Adam eratſapiennriſsimus Aegyptiſ in annimenfura 233 Aegyptiorum opinio de
elementis. Isbe Aepyptij in morborum -Chrafacileadiguem recara 178 Aemorrhagia(
electumprefidiuna : 176 . ( Aegypti hierogliphicis vacabant, 2085 Aegyptiorumarcana
ait quartanam Aegyptijregesopera magnifica do admiranda an . Liquitus
conftruxiffe.zi. Aegye MONACENSIS. REGLA BIBLIOTHECA Tunt. Aegyptiorum in
condiendiscorporibus obferuatio. Levis ſalubritatem ad vite produktionem maxå
moperè videmusconducere. 34 Aegyptiorum Auditim ir lapidis á vefsica extra
Sione Aegyptij quomodoignea prefidia component Aerisnatura quomodo nofcatur Afflictionem
tribuere intellettum . Agricolafilicibus in horreis cur vtantur. 200 Agricola
cwufdam interitus. Alexandri mors.quo veneno fuexit caufata Alexandri ſudoredolens.
197 Alexandri uder.fanguineus. Alexandrimagnanimitas in ftudiofos Amazones
mammas dextras ſecabant. Amoris originis controuerfia Amantes surfacile
irafcantur, Ambarum vi ebrietatemfaciat. 307 Animalia quadam Arni tempora
pradicero. 224 An transformatio realis detur. An animal in igne viuere poſsie.
18 Anni computum diuerfimode fa &tum Animalia ex putri materia non ſemper
extitiffe. Anicularum quarundam facinona. Antimony in vitrum redu & io.
Anuli Bubali ad gramphum vtiles: 98 Anularis digitus cordi amicus. 100 Antora
napello inimiciſsima. 175 Anginaprafocatina vt compefcatur. 197 Animalia a
vteerikus Dis dicata, 226 58 Anguil 214 290 306 343 120 Anguillarum cum
Aquilone affe &tus Animantiumcobur à cominé oritur. Anni climacterici
quales. Annibalisſtratagema in boftes. Anniprefagia à quercus galiis:
Ancitodorum aliquor obferuationes. 171 A priteftium virtus mirabilis. 162 Apri
ægrotantes hederam quarunt. Api efum infauftum veteribus, 165 Apri dentes adanginan
dompleuritidem vtiles Apes imminente pluuia adalucaria redeunt Apiumri
usherbafcelerata; Apum mirabilisſagacitasdan officium Aqua mirabilis ad
viſusdefectum Aquilinumlapidem partum accelerare , 126 Aquafrigidaqualiter
apparetur. 314 Arcades qualiter annum computabant. 39 Archelai Regis in populos
immanitasi go Arboris ficusmirabilisnatura: Arietislingualantium ostendit.
Araneorum reła in medicina vfurpata Arbores quandoquein lapides mutati. 90
Artemiſia quando in radicibus carbonem producati Articulares dolores quomodo
curentur. Archelaus Rexaſtronomie ignarus Ariſtotelis opinio demularum ortu .
Ariftotelis rerum indagator , Ariſtolochia piſces ftupidosfacit. Archelaus
turrim incombuſtibilem fecit: Aſphaltirisla 'usmirabilis natura, Apronomia
medicis neceſaria Ararum vomitu humores expurgat. Aparagor um 2u corporis
nitorem producit. 245 Afphespropè halico ibum fiupidi. 272 Aſparagi vi
mirabiliter erefcant. 279 Ap.dum natura qualis. Athenien esfacerdotes cicutam
comedebant Atrila canis instarlatrabat Athenienfium ura erga fiicos Aues vfu
Taxi nigra fiunt. Auri vfus in medicina Aufonij locus de mecha uxore Afilici
odor vermesgignis Bafilijanhabitat pelicudinibm Aphrice Ibid . Bafilifcum
haudàgallo excludi. Bardana mira vis in affe& u uteri. Bituminis vis in
hiſterica paſs. Braſsica, dorura fimul fatahereunt. Bruta aliquot lafciuiffe in
fominas, Bryonia mira virtus in affe&tu-matricis. Braſsica fuccus contra
ibrietatem . Britânnurum præfidium in furiofos. Bubuloftercore colicam ,anari.
Bufonis lapis cóntra vinena . Bufonis.mira propriet as in Aſcite. Arnes dura
utfiant teneriores. Canes.obmutefcunt vmbra Hyena. Capramaximèepilepſia
tentatur, Capillorum defluussm laudano curare Cani Canicula exortum à veteribus
previſum , Carnes cocta ,quomodo crude videantur. 161 Canes fabrorum exiguos
habent lienes Cancri vini quomodo co &tifimulentur Capre in luftinis
montibuseuomunt Capilli noftri plantis affimilantur Caftratilienem , dan
vitella ouorum deglutire ne. queunt. Cauſtica remedia ,qualia adftrumas Caryophillgte
vis adcorporismacular. 287 Caftorei teftespropèrenes adeffe Caminus quo fumum
non emittet, Calphurnius beftia uxores dormientes necabat.33% Catelli membrorum
dolores confopiunt, Cacodamonem mali nnncijpraſagiumattuliffe.32 Calendula
folis amica. 341 Capiuacceiopinio de menftruofanguine Cantharidum mira vis
nocendi Carthaginienfium prefidium ad deftillationes in . fantium .
Cati.cerebrum hominesdementat. Cornilacrymaſworesſuſcitat, Corui renouantnr
eſos ferpenris Cervi carnes ad vita produftionen . 107 Cepamab Hyppocrate
deteftari. (109 Ceruorum vita longiſsima 281 Cerius Alatus Francorum inſignie Cerninum
penem.conceptum facere. Ceraforum aqua epilecticis vtiliſsima 348 Chamedrij
mira vis ad lienofos Chalcanti vfus quidoperetur Chymici forebantapud veteres: Cibm
ܫܐ 306
Chuslapidusquomodo apparetur. Cicutam uterinum furorem domare Cicuta virginum
mammas detumat. 344 Cynorrhodi radix ad hydrophobiam Cyminum hominibupallorem
inducere. Cyprinorum vfuspodlagricis infeftus. 135 Cyprini officulü caluarisad
spilefiä mirabile Clarorum virorumexitus. Lorui morientiúm fæditatem fentiunt,
1j2 Colicu dolor quomodofanetur. 88 Collegium veterum pro tuendaſanitate. ) 2OS
Cotoneorumfeminaadcombufta. 208 Confedtio fenibuspraftantiſſima Corpusutglabrum
reddipofit Corpora venenatá vtnofcantur. 24% Coralline vis adlumbricos Corniplanta
hydrophobiam ſuſcitat Consensus de disensus animantium Corneliu Celji
valetudinis precepta . Creationis mundi opiniones. 10 Croci
metallorum.compofitio. : 29% Crinesmulierum qua via denfiores fiant Cupreff
folia Strumas auferre. Cur fit vtquis clauos vomere videatur. Cucumeres oleum
abborrent. Cur quiti impronisè moriantur. D. Ature flores Defunium capillorum
ab hydrargiro, Demoris afturia apud indos. IS Democrittfedulitas in olei
caritare . Demofthenes quomodocuraffet lingue impedimen 14.290. Denti. 306 174
Dentium dolores bufonis tibia janari: 10% Dentium ftupor àportulacaremouetur Dentium
dolores paſtinaca marina radio conquieſterr Defipientia mulieribus familiaris,
Digiti annularis ſympathia . 160 E. EBura quoartificiocolorentur. Ebriy variafufcipiunt
deliria , 312 Echini ſagacitas in ventorum mutationibus. 41 Elephant's in
fæminam mirusamor. 81 Empiricorumremedi4periculofa Epistola quomodo in ouo
celetur Equam grauidam marem admittere. Equagrauida fomas occiditur,abortit Equorum
teftes ad ſecundas depellendas praftan . tiſsimi. 317 Equusphaleris accinctus
acrior.fot. 363 71 Asies rugata quomodo emendentur. Faciem hominis diuerfimode
alterari, 42 Familia in Creta mire faſcinatrices Faces ardentes ex Betula
corticibus. * 339 Fætor extin &ta lucerna grauidisperniciofu , 48
Febricitantium fitis qualiter compefcatur Febrem à quodum pifceillico exitari.
194 Fæmina aliquot inrares mutate, , 160 Fæmina pruritu corripiuntur in
pudendis in prima menftriornm eruptione. -Fæcula Brionie in affecte vteri Feniculorum
femina aliquando exitialia Filij Filij â parentibus figna recipiunt. Ficorum
efumfudoremparerefætidum Filices ab
agris qualiter exterminentur. Flores in Aegypto fine odore. 145 Flamma quomodo
in aqua excitetur. 176 Fluuij aliquot mirabilis natura. Fructum vinearum , iumentorumg
interitus pre ſagium Ferarum natura in hominibus mirum in modum deft. 8a Fons mirabilis
apud Garamantes. 299 Frigida post pharmacü exhihita, felici fucceffu Fraxinum
ferpentibus inimicum : Furiofi in pleniluno,magis infaniunt. Futi vulnera
quomodo curentur. Fungi ubi in lapides mutentur. 90 fumus hydrargiri quid
efficiat Galenu,Medicorum princeps Aline appenfo milui capite furisunt. 188
Galega, defcordij vis contra peftem . Gallinarum.stercus adfungorum viru . 276
Gallinarum adeps quomodo diu ſeruetw .. 28% Gallina quomodofæcunda fiant.
Gentium.don populorum ingenia. 17€ Germanorum mos circa coitum . 72 Gigantes
quando in orbe fuerint, Gymnofophifta apud Indos mirabiles. Grauidationis
muliersus affertio. 7 % Grauida mulieres marein admittunt. 73 Grauida conceptü
quomodo valeant occisltare. 22 Grauidaaliquando fætupariuntfine vnguibus. Gra
200 Greuide mulieres curpallida. 139 Greci de Iudeorum monumentis nihiladduxe
189 H. Auftulus aqua matutinus falubris . Heclaignis aqua nutritur Hemicrania
Gagate fubmouetur. 133 Homicrania à carduo benedi&to fanythr. 216 Herfetes
ceroro tabacci coufanari. Hellebori nigti ele&tio in Anticris. Hederam cumvino
habere diſcordiam Hemorrboidailisherbe mira virtus, 340 Hellebori nigriextra
& nm . 160 Hybernie miraaerisſalubritas, Hidropsà viridi lacerto confanata Hydrophobosè
poto catuli congulo aquam illico ap petere. Hippocratis opinio de
balbisdefe&tiua, 74 Hydrargiri minera quomodo reperiatur. Hyppiatriquo
studioftellas albas in equorum fu cis confingant Hydrophobia rara dicuffion 54
Hydrargiri mira natura. .183 Hydrargirum remedium eft advermes. Hydrargirum
utilead celidolorem Hydrargirumremedium in pofte. Hydrargirum defluuium
capillorum facere. Hominis vite longitudinis breuitatis figna, Homo repertus
mira vaftitatis. 170 Hominumcur aliquotfubtilioris, vel graffiorisin .
genijfiant. 187 Homines Principis vitam imitantur. 17 320 326 Horai. 61 Homines
inuenti miragracilitatis. 245 Hominis compofitionismirabilia Hominesquomodo
fiant abfemy. 327 Hominum corpora olim vafta Ibis in degyptofolum moratur,
Ignispraſidra admorbos fele &ta . 303 Infantes à quibusnutricibm ladandi.
23 Infantis inumbilicum animaduerfio. Indi ante Hiſpanorum tranfitum variolas
baud paffi funt. 88 Infania ex folano fyluatico quomodo emondetur.85 Indus
quidam longiffime vite. Infantes eiulareautoladein mammillu , Infantium ruptura
ut curentur. 100 Infantes vipreferuentur ab epilepfie. Infantes ànutricibus
mores recipere 270 Infantis umbilicum conceptum facere. 334 Inser Lupum eAgnum
diſcordia . Inter brafficam , de vitesfympathis. 338 Iumenta clitellaria fibilo
, cantu á laboribus fubleuari Aminas aris& vitrileo extrahi Lapidis ignem
redensis compofitio. Lapathiam camas duras,teneruofacit, Lacerta apudIndosmira
magnitudinis, Lu ,fanguisaliquandopluers viſs. Lepusannis decemviueredicitur .
Letargicos à Satureia vigiles fieri. Leonardi vatri de partu opinio. 102 237
Leones Leonesaftatttertianam patiuntur. 348 Leporumnonomnes hermaphrodui, 294
Leo timet Gallung. ISO Linteaapud Indos igne depurari, Littera aurei coloris
quomodofiant: Lignum èviſco Latum diſcutita Lienem adcorporis turpitudinem valere
191 Lolium praun inducit ſyptomata . 86 Lolij nocumenta Aceto fanari. Ibid .
Lups afpe&tu homines obmuteſcunt. Irupi pauci reperiuntur,ones autem multa Zapi
quomodo ouibus nacere nequeant. , 106. Lumaca lapispartum ,accelerat Ludi in
conuinijsfeftiuiquales, 19 Lupi,canes, doFeles ut curentur, 175 Lupi in fenio
ſerpentesin renibus.generant. 234 Luna confinusad inferiora, mirabilis. 236 Lue
gallica canis infeftus 243 Lumbricosquandoquegenerari virulentos MAmirimum
vitulum àfulmine non ladi, izg Aris yubri admiranda : Maleficas artesir
Septentr. exerceri 176 Mascitius, quàm fæmina animatur , 182 Maritimarumtempestatumprafagia
Maculanigre in morbisquid portendant. Mădragoravitibus infundit vim ſoporiferam
:214 Mares in mammillisſapè Lachabent.. 323 Marina pallinace radiusad
dentiumdelores yti lis. Mommarum sum vtero ſympathis Medicinepraktamsia quanta
fit .. Menftrualisfanguinis immanita , 92 Medea an fuerit venefica. 138
Memoriaquo prafidio augeatur. 138 Mercury pojisura in hominūnatiuitatibus, quan
tum valeat. Mergorum i anferum proprietas contraHydropho biam .. 49 Mellis vfu
vita vtiliffimus. 285 Medicina multa abanimalibus capta . Meſpulilignum ab ab
ortu preferuat. Menftrua plerifqs fæminis in fenio. Mirabiles in
hominibusproprietates dari. Mithridates inculpatè venena bibebat. Mithridatis
antidotum ad venena . Mirafontis inEpgroproprietas , 285 Mille pedum preparatio
adcalculos. 223 Mille folium aduulnera conſolidanda . Morborumprauorum natura ,
69 Morus planta prudentiffima . Morfusquidam à cane rabido latrauit. 1893 Mors
inArthritide quandofuccedat. 190 Mures futurorum praſcj. Muftela cur rutam
comedat. Multa prafidia ab animalibus homines accepije. 316 Mulierum capilli
quomodo in vermes mutentur.zo Monftruofa Dæmonis apparitio. Mulieres pregnantes
vt nofcantur. Muftella fanguisadepilepfiam . 197 Mundi creatio .ornatus. Mullus
sterilisatem producit. 167 Mulierum pinguedoſuamis. 22 67 Mutin 140
Mulieresrarò inebriantur. Mulorumgenuspropagare nequit. Mulieresin. Ponto
animalibus.nocentes . 247 N : 64 392 Natura presidentia in brutis ..
Natsuitates.hominum quando ob'eruende 230 Natura arcanaprovira producenda.
Neronis crudelitas quoque pads a nutrice wiginem fumpfit . 26 . Nero Tapfiam
magnificauit. Nereides, Sirene lepe vifa fust : Nili proprietu admiranda 10
Niues rubentes in Armenie. Nodi in vmbilico infantis quid sotentas Nuxairiftica
quomodofiat vigore for 1 1 20 % 139 O Learum fterilitatis preſagium : olei,
vini,fegetumquefterilitatis prefagium. olei balneumproconkulfis laudatum .
aleun amigdalarum dulcinm advariolarum veftigia probibendu. olea Minerka a
yeteribu dicata: 114 slei cinemani raracampofis. 194 elina olinarum oleum
adunguium pannas. tur. Par 200 Oleum latris colicum affe& um domato 108
Oleum lixiuio miftum albeſcit. 332. Opthalmia aliquando.folo afpe & u
communicar 203 @ris ulceraquomodofanemtur: Oryalus viſu auriginoſos.sanat..
203: Orestis cadauer odto cubitorum . fa de corde Cersui.corina uznena.. Oxes
capite mouentpluuialmininente. Quesalba ubi nigrefiant. 352 P Arimdi
difficultasquandoqueà curto umbi lco prouenit. Paracelfafalſaopinio
dehomunculipartu. 108 Panaritiumqualiter illico fanetur . Parthi, Scytheque quo
venenofagittas linjrent.318 Pestilentitemporeinter precipua præfidia.neris 18
Aifcatio fummum iudicatur. Papauer agreſte contra pleuritidem , Papauer
ſolisfpheraminfequitur, Perfa.aliis coquinas replebant: Pediculicorpora
morientium relinquunt 79 Beftem ex occulta antipashia oriti. 147 Penna Ibidis
ſerpentes-terret, 339 Perniones:quomodo fanentur: Phalangii'ueneni opera. Phrensuci
cur fortiſsimifint, Phrenetidem exnigro-corallio quiefcere 146
Bhreneticialiquando mirabilia loqui. Pharmacum dare, quando periculofum . 242
Philomenaà vipera deuoratut. 288 jot 3.1 $ 276 1:59 Pifa 102 Piſces
marinifalubres, japidi, Pifiesfrixi quomodo in venenum tranfeunt. 72 Pici
mirandulani ingenium ; 183 Picem cum oleo habere colligantiam Pici opinio de
fcientiarum varietate. 16 Portulæca foment contra lumbricosa Plurimamèterra
furfum rapi iterumque deorfumi cumpluuiis precipitarz. 333 Polypodijmira viscontra
cancrosa 239 Porri caputquomodo augeri pofsit: 25+ Potentia imaginatiua in
conceptu mirabilis . 295. Planta fimileseffe&tu fimiles , vinute... 77 %
Pluvia imminentisprofagia. Plumburglans in coli dolorepraffans. Prognoftica
tempestatis pluusoſa. Prafodiam mirabile ad calculos 337 Preſedia admiranda
inangina. Pfli, do Marfi ferpentibus amici. Pulchritudo, deformitas afpeétuo
quid portono. dat . 175 Pulchritudo corporis quo termino confitna . $ . Euella
à teneris veneno odusara . 36 Pulſus deficientes anfemper mali, 140 Queen
Vanium profit neris puritasin peffe. 103 Wartanarii improuifo rimore fananiky.
Mr. Qua via volucrumpennacolorentur. 199 Quartana quomododebellerur. *****
Quibuscorpusflorsfcit,his lien decrefcit. 219 Quo artificio es aduratur. 153
QuorumdamiAnimalium vitalongitado 117 Quorumdam animalium naturl . Quorumdam
homină virtutes, & ornamenta. 196 quo artificio mares ab. uxoribus.
[tyfcipere vales 235 Quo Artificio duriſsimafaxa frangerevaleamus.30 Quomodo in
urdieriſomasexcitari valeamus.341 mks. R Aneterreftris oleum aditrumas !
Rexbarbarumcidoniatum gravidisfummum medicamentum . 263 Rerum Sympathiam in
aliquot brutis Admirabi. lem effe; . 113 Rută inter alexiteria medicaméta
cõnumerari, 49 Rores marini virtus miranda , 123 Ruta mira. vis contra venenum
. S jabbarici junijmiraproprietas, Sanguis menftruus quandoque ex oculis
velgingi uis excluditur, 77 Salis prunelle virtus,de compofitio. 149 Sartyriam
carnofum venerems excitat ,flaccidum vero extinguat. 706 Sanguis
menstrualisexucis, ſcarabais venenū . 218 Sanguis caninus hydrophobis vtilis.
Saliua bominisfcorpionesnecat . 317 Scarabei miraproprietas. 280 Scarabai
cornuti vis in febre ciendo . 223 Sciffure laborum.usmanuum remed . 262 Scythe
quomodo diuabfque cibo vivant: 3:32 Berpentesquibus fufficibusarceantur.
Sene&tutisincommodah Sepermusinter mafculos meră retinet virtutã.226 14 128
Serpeniums ona, velgenitura in pornfumptaSerpenting gignunt. 319 Singulis
quopatto cohibeatar, Socij Diomedis in volucres conneri . Solis confuxm ad
inferiora maximus. Solatri potencia contra parafitos. 40 fomniorsuspreſagia à
Deoconcedi. 238 Sodami -Gomorrbi fruétus vari. 342 Solis defe & us quomodo
comprehendatur. 343 Spurij robuftiores legitimis fuus . 95 Spe& acula
veterum vbi celebratamagis. Spuweis epilepticis non femper filo Spatiuwvil e
fecundum Acryptias. Stygis Arcadiemortifera natura . Sirumarum mirum remediusa.
100 Strumaper vrisano quandoquepurgalai 257 Sterilituin bomine ytdiriwratur SAMIremedium
temporepeffu. 210 Succinum parium mulieris accelerare , Syrupus fpinæ
infeftorie ad temelusume. SS SwimeisterSidera calidißima . T. sbacci vw apud
Iudos. 15 Talpeoleum ad Aruma. 257 Taurifanguis inter VEREBANwerari. 29
Taurilapillu veſice contracalcules. Taum Philoſopbw famen cabiberet . Ferro
lenonia contra ventna . Tbagfia mira vis in facillasi . SO Thappa 319 274 T 93
138 213 105 - Thapſia veſsicas, do ademata excitat. 9 Torpedinismira vis in
capitis dolores. Trauli,cobalbi,do femilingues unde finns . Tuberum
efufrequenti hominescadunt. 13? Aleriane vis contra epilepfiam , V Variola
,morbilli affe&tmnoni, 74 Verruce quomodo extirpentur. Verbena vis in
capitis doloresi Verbena virtus contra frumas . 89 Vermium in corporibus
hominum varia figura 18 periuntur. 93 Vermes rubei in cerebro adnati. 134 Verbafci
florss Sole aecedente decidunt, 137 Veterum fepulchra mitèconftrudia . 158
Veterum ruditasdo, in foribendovarietas. 197 Vena ſarustella ſpleneticis
auxiliatrix Veterum in nuptiisconfuetudo. 275 Veteres equoram lacrymas
admirabantur. 192 Venenumà diſsimili extinguigecontra , 309 Vermes in
cordis.capſula exorti, 322 Ventorum mutationes ab Echmo previderi. 41
Vifusacies,in quibus fueritadmiranda. Víres collapſa odoribus reſarciri
poffunt. 47 Vitrioli, com fulphurisoleumad vermes. Vipera catellosfuosparit,utnutrit.
60 Vipera inter ſerpentes fola parit animal vinã.ibe Viperamorſus Hellebori
nigri radicibus fanan. Vinum pro Afthmate ſele&tum Vito longena quomodo
apparemme. 361 zur . Vina Vina alba quomodo rubra fant , Virginitatismulierum
figna . Vitrum quo modo diuidarur. Vinum venenatumquibus profuerit. 29L Vinum à
veteribusfeminis interdi & um . 304 Vifcum quercinum epilepticis falutare.
318 Vitri puluerem calculus comminuere. 344 Vimivſus elephanticisfalutaris. 325
Vlcera formicantia quomodo breui fanentur. 59 Vricornu proprietas, bet
cognitio. Volatilium ,piſciumque fecunditatispreſagia. Vrtica folia ſalutem ,
vel mortem informi in lotio prefagiunf. DeMedicinepraftantia. Edicina
decçio demiſla eft: ita Mercurius Trifmegiftus apud Aegyptiosſapientiſsi. profectoad
fluxilis natura goltre remedium Deus altiſsimus ho minibus conceſſit; vt
fanitatem conſer . uare, &perditam recuperare commodè valeamus. lofa autemà
vitæ conftituto termino, & à morte nequaquam viuen . sia omninoliberare;
ſedcorpora à cor suptione, & feftinadiſſolutione præfer uarepotius
iudicatur. Amazonescur mammasdextras refecauerint. Mazones illæ, tantum à
ſcriptori bus celebratæ ,propterea fibi má. mas dextras refecari curabant, vt
magis A armis HORTYLYS GERIAITS. armis gerendis aptæ fierent; vel potius
Demannum , & brachiorum impedire • tur motus. Mihi zutem Galeni opinio 7.
Aphor. 43.ex fententia Hippoc. admo dum placet; qui has mulieres id feciffe
aferuit, vt manus dextra robuftior cua detet.Hocautem à ratione alienum mi.
nimèeft, quippe nutrimentum ,quod in mammam dextram à natura diſtribui
debebat,totum in manum , & brachium immittebatur. Strab . lib . 11. Olearum
fterilitatis prefagium . Ergiliarum occultatio , & emerso Sucularum
tempeftuofi fideris, fi pluuiofam tempeftatémouerit , & vitis, &olei
germinationé fuffocabit.Ex hac cauſa Democritus olei præuifa caricate, magna
vilitate oliuas in toto co tractu coemit, mirantibus , quipaupertatem , do
& rinam , & quietem homini oble & a . mento cffeſciebant : at vt
apparuit cau . fa , & ingens dinitiarum acceffio ,reftituis mercedem ,
contentusleita probaffe, 0 . pes fibi in promptu eflc cum vellet. Ex Fran,
luncino in Sphæra. V IVLII CÆSARIS BARL. CELLI & SANCTO MARCO, Do&oris
Medici, & Philofophi, Hortulus Genialis. DeMedicinepraffantia. Edicina decçio
demifla eft: ita Mercurius Triſmegiſtus apud Aegyptios ſapientiſsi musfcriptum
reliquit. Hát profecto ad fluxilis natura noltre remèdium Deus altiſsimus ho
minibus conceffit; vt fanitatem confere uare, & perditam recuperare commodè
valeamus. lofa autem à vitæ conftituto termino, & à morte nequaquam viuen.
sia omnino liberare; fed corpora à cor ruptionc, &feftina
diſſolutionepræfer uarepotius iudicatur. Amazones cur mammasdextras
refecauerint. AMiszonesilla, tantum àfcriptori .. mas dextras reſccaricurabant,vt
magis armis HORTVLVS GERIATS. armis gerendis aptæ fierent; vel potius De
manuum, & brachiorum impedire tur motus.Mihi autem Galeni opinio 7 . Aphor.
43.exfententia Hippoc. admo. dum placet; qui has mulieres id feciffe aferuit,
vt manus dextra robuftior cua deret.Hocautem à ratione alienum mi. nimé eft,
quippe nutrimentum , quod in mammam dextram à natura diſtribui debebat,totum in
manum, & brachium immittebatur. Strab . lib.11. Olearum fterilitatis
præfagius . Ergiliarum occultatio , & emerGo Sucularum tempeftuofi fideris
, fi pluuiofam tempeſtatemouerit, & vitis, & olei germinationé
fuffocabit. Ex bas cauſa Democritusolei præuifa caritate, magna vilitate oliuas
in toto co tracta coemit, mirantibus , quipaupertatem , do & rinam , &
quietem homini oble & a mento effe ſciebant : at vt apparuit cau . $ a ,
& ingens dinitiarum acceffio ,reftituit mercedem , contentusleita probaffe
, o pes Sbi in promptu effe cumi vellet. Ex Frap, lundino in Sphæra. V BA
KICELLI O aqua Nili, Nilifluminisproprietas uædam aquæ reperiuntur, quæ fæ .
cunditatem proprietate quadam inducere celebrantur: ita eſt quæ ſua vi nitroſa,
vt voluit Seneca 3 . Natur. quæſt. natura. fæpè vteros per petua fterilitate
occluſos aperuit , & conceptumfecit: Vnde mulieres in AE gypto,vtfcripfit
Ariſtot.quinos, & qua ternos frequenrer fætus edunt ; ratio non alteri
tribuitur, quàm Nili aquæ , quæ illis in potu familiariſlima eſt. De
Mundicreatione. N qua Anni parte Müdus à Deo crea tusfuiflet,diſcordes interſe
ſcriptores funt, vt Hebræi , Iſmaelitæ , Chaldæi, Arabes,Aegyptij,Græci, &
Latini.Mula ti enim in Aeftate, nonnulli in vere,alij verò in Autumno conditum
fuifle con tendunt. Moyles fuiſſe in Autumno affe . rere videtur, cum in Geneli
dicat, Ger minet terra berbam virentem , &facientem emen, Glignum pomifera
faciens fru &tung iuxta YO & TVLVS GENIALIS. iuxtágenusfuum.Ex
Aegyptijs nonnulli A eſtate creatum afferunt. Inter Latinos Cardinalis
Aliacenfis vere nouo condi tum voluit.Inſuper variant,quia Plane tas aliquot
afferunt in mundi principio fuiſſe creatos in fuis domibus: Solem ſci licet in
Leone, Lunam in Cancro, Martē in Scorpione, Saturnum in Capricorno, Venerem in
Libra,Mercurium in Virgi ne, Iouem in Sagittario. Alij , Planetas volunt, in
fuis altitudinibus, præter Mercuriú ,omnes fuiffe collocatos. Que autem opinio
fit verior , D.Thomas 4 fons dif. 2. artic. 8. videnduseft. Murium fagacias.
Vres ex ônibus animalbusquo dám do cognofcuntur. Cum enim domus aliqua
conſenuit, &ruinamaliquam iamcom minatur, primi ſentiunt; & reli &
is fuis cauernis, priſtiniſque fiabitationibus, domum relinquunt, properè
fugientes, aliudque domiciliú quærunt. Aelianus de var, hift.lib.z.&
Leuisius Lempius do fest. nat. Pluuja Mamodofuturorum præcij effe SARICELLI
Pluuioſa tempeftatis Prognoſtics. ' Ergiliarum occafus matutinus , lo nubile
Coelo accidat, hyené plu . uiofam denunciat,fi fermo Cælo ,alpe ram.Sic
Veneris,aut Martis per Pleiades tranfitus aliquot dicbus pluuioſam ciet
tempeftarem.Saturnus inſuper cum cor pore , aut radijs ad a &turum accedit,
i dem minatur.Ex Plinio,óobferuat.Stadi. Agricola non femel tempeftates, &
f renitates predicant. Vltos profe & o cognoui pafto res, plerofquc
agricolas , quiin prædicédislerenitatibus , & tépeftatib. magnæ mihi erant
admirationi,quare tanquamcnriofus fciſcitabar , qua via, &ordinc
hęcſcirent?ratus forfan fimpli ces , &idiotas non poflc tanta certitudi .
ne futura prænoſcerc ;nifi vel Dei mu. nere, vel Demonisa & uid fieret .
Exre latu diuerfas ftellarum conftellationes abijs experientia cognitas , no
& u , ani . maduerti:quarüobferuatione vera pre M dicunt HORT TITS
GENIALIS. dicunt . Experti enim ſupt Pleiades in Autumno , quæ in principio
no&is ori. untur cum Marte , velVenere mouere tempeftatem . Aréturum non
fine gran dine emergere. Hadorum ortum & oc . cafum tempeftatem pluvioſam
in regio . nibus noftris prænunciare; & alia , quæ in promptu tales habent,
licet alijs no minibus hæc fidera nominent . Quare mirum non eft, priores
ftellarum per fcrutatores circa carum prædi& iones multa nobis reliquiffe,cum
id ſapientia , & obferuatione perfecerint, quod iam idiotæ fine magiftro
facere valent. Valeriana miraviscótra epilephan . leriana ſylueftris,
quęlpontènal. citur,præter innumeras, quæ ab au & oribus ei tribuuntur
virtutes, hancia diù, in multis , atque in fe ipfo Fabius Columna in bifter,
plant . expertam ape suit ,vt ſemel,velbis radicis puluerisco chlearij dimidium
cumvino,aqualadte, aut alio quouis decétifucco & proggro sicómcditate,
& ætate fumptü,epilep Valeri Ga correptos liberet. Extirpatur ante quam
caulem edat , & puerisexhibetur, & preſertim infantibus, qui morbo hoc
facilè laborant. Retulit auctor ſe multis puerulis lac propinafle ; multiſ“;
amicis donodediffe : qui deinde diuino prius numine glorificato ,
puluerehuiusplan tæ illis reftitutá fanitatem affirmarunt. Transformationes
hominumin beſtia as noneffe reales. Vædá monſtruoſæ hominü tranſ formationes in
beſtias à multis au Storibus fcribuntur; & inter alias, de il la Maga
famoſiffima Circe, quæ ſocios Vlysis in deftiasfertur mutaffe : de Ar codibus ,
qui forte ducti tranſnatabant quoddam ftagnum atq; ibi conuerteba tur in Lupos:
de Diomedis ſocijs, qui in voluitres conuerſi ſunt , plurima'addu cunt. Hoc non
fabuloſo mendacio ,fed hiftorica affirmatione multi confirmat, vt in fpec.
natut.Gib. Vincentius Beluacenſis retulit. Aflerunt enim (vt ajtSolinus
)velmagiciscantibus, vel her barum veneficio in feras corpora tranſ formari.
Dicunt in experimento Neuros populos Aeftatis tempore in lupos mu tari, deinde
fpatio, quod his attributun eft exacto, inpriſtinam faciem reuerti, Anautem
huiuſmodi trasformatiorea . lis ſit vel illufivè facta àDemone,D.Au guft.lib.
18. de ciuit. Dei ita nodum enu. cleauit: Quod transformationes homi numinbruta
animalia,quæ dicuntur ar te Dæmonum faétę ,non fuerint fecun dum veritatem ;
fed folum fecundum apparentiam . Quippe opus hoc tantum Deieft ; vt in Concil,
lacro A Acyrano fancitum eft. • Demonis aftutia apud Indos. Erba, quam
Tabacchum appella mus , apud Occidentales Iodos in magno cratpretio .Cum
eniminter hos dere graui agebatur ,ad Sacerdotemil. lico
accedebat,quitotuoegotiúexpone bát. Sacerdos auté corá illis fronde , vel
furculum Tabacchiſumebat, qua carbo . nibus inic & ta, fumum peros, &
nares ex . cipiebat , & inftar mortuiin terrá cade bat. Paulo poſt
conſumptis fumivirto bus in cerebro, reſponsa, ſed ambigua, prout Dæmones
perilluſiones, & fimu Jachra fuggefferant , populo dabat ;qua tanquam
religioſa, & veriſsima cunati recipiebant. Ita profi eto hominum ini. micus
Gentiles decipere confueuerat. Monardes de rebus Indicis. Quid
Picusdefcientiarum varietate fentiret. CH *Vm quodam die Ioannes Picus Mi
Urandula de fcientiarum varierate diſſereret,in Hebrçorú ,inquii ,Philofo phia,
omnia funtveluti quodam numi ne facra, & in maieftate veritatisabdita Ceu
prodigia quædam , & arcana myfte sia . In Græcorum veròdifciplinis, in
genium , acumen , & omnigena eruditio apparet , vt nulla vnquam gens
fuerit, quæ dicendi copia , & ingenij elegancia cam illis poffitconferri
.InRomanaved sò Academia, ca ferè omnia, quæad ci. witaté, & vitæ
morespertinent, &graui. * , & copiosè funt explicata,ac magni fica
NORTÝ Ers GENIALIS. P. ficè diđa. Sic ve grauitas maximè Roo manis, &
imperijmaieftas,Grçcisinge nium, &acumen; Hebræis do & rina fe .
cretior , & quaſi diuinitasaſiribi poſsit, Crinitus da honeft. diſcipl.
lib.g. Subditos , Principis vitam vtpluri. mumimitari Rincipis vitam fubditi
maximopere imitantur. Hinc fa & um eft,vt ex Philofophica vita Marci
Imperatoris, magnum virorum doctorum prouentu ærasilla tulerit. Solent enim
plerumque homines vitam Principis æmulari iux . ta illud Platonis à Tullio in
epift.ad Lé tulum reperitü : Quales fum in Republica Principes,sales folers
effe cines.Quapropter ex bonitate Principis Marci, plurimila philoſophari
finxerunr,vt abeo ditarë . tur. Ex Herodiano, & Xiphilino. Rutam allium
ferpentibuset werfari. Vtä odor,allija; ferpentibus max ex teftimonio Ariſtotelis
9.de.biſtor. animal.c. 6. habemus muſtelam , cum dimicatura eft cum ſerpentibus
, rutam comedere. Hac etiam ratione ducti Perfæ( auctore Simone Sethi )
coquinas allijs replebāt, vt ipfasà ferpentiú contagio tuerentur.
Animaliaoriri, & viuere poſſe in ig ne compertum eft. Agna admiratione
dignum eſt illud, quod ab Ariſt. s.de hiftor. animal.6.19.adducitur; animalia
ſcilicet oriri, & viuere in igne,cum elementum hoc omnia comburat: &
nullatenus pu treſcat. In Cypro, inquit, infulaærarijs fornacibusvbi , Calcites
lapis ingeftus compluribus diebus crematur,beſtiola in medio igne naſcuntur
pennatæ ,paulo mufcisgrandibus maiores, quæ per igne Saliant, & ambulent.
Equidem fià tanto viro hocnon aperiretur ; vix credere homincs auderent , cum
totum rationi aduerſetur; fed hæc, & alia maiora à po fentiſlimanatura
fieri poſſunt, 10 Lacus HORTVLvs GENIALIS . C Lachs Affhaltitis mirabilis
natura. Yommemoratione dignum puto Alphaltitis lacus naturam expo nere.Salfus
ille quidem,ac ſterilis eft,fed tanta leuitate , vt etiam, quæ grauiſſima
ſunt,in eum iacta fluitent:nec quiſquam demergi in profundum ne de induſtria
quidemfacilè poſſit.Denique Veſpaſia mus , qui eius viſendica uſa illucaccelle
sat, iuſfit quoſdam natandi infcios, vin &is poſt terga manibus, in altum
deijci, & euenit omnibus, vt tanquam vi fpiri. tus farſum repulfi , deluper
Auitarent. Joſepbas lib. 5.de bello Iudaicri.9. Piſces marinos falubriores,
& fapidi. ores efe fluminum piſcibus. lices, tum pidiores, tum falubriores
ſunt ijs, qui in fuminibus, ftagnis , lacubus, auc riuulis viuunt.Salfedo enim
duriorem facit carnem , & fubtilioris fubftantiæ . Contra in piſcibus, qui
ſunt in fiumini bus, &perinde eorú caro excrementitia eſt muccoſa, &
infuauis. Vndeapud Co. lumellam extat lepidum didū. Philip pus cum ad Numidam
hofpitem deue niſlet, & fibi è vicino fluminelupi for moſum
appofitúdeguftaffet,ex puiſſet guc dixit: Peream ni piſcem putauerim ! vſque
adco à Tyberino,velmarino dif. ferre putauit, vt illum piſcis nomine in. dignum
iudicauerit. Mulieris cinni fogant ſerpentes, da in vermesmutantMr. ulierum
capilli, quibustantopere gaudent, & pro quorum ſtructu ra in exornandis
multum conſumunt te . poris ,cremáei, ferpentes abigere vifi sūt: fin autem in
aquam inijciantur, in ver mes non diù retenti commutantur. Plurimos homines
aqui per tenebras, de per lucem vidiffe. Erum natura opulentiſsima admi ſus
aciem ,oculoſgue ſplendentes pręſti tit; vt multi felium more noctu vagari
liberè potuerint. Legitur de Alexandro per tenebras æquè,ac per lucem vidiſſe;
viſum adco acerrimum habuit Galenus, quod in lomnis, patefactis repentè pal
pebris, magnamante oculos lucer via debat, vtiplede ſe fidem facit lib. 7.Hip
port. Go Platon , plac.6.4. At mirabilior erat TiberijCeſaris proprietas; qui
in tenebris exactè videbat;de qua re adeo admiratur Tranquillus, vt id pro mira
culo ſcribat. Cibusfapidiſsimus quomodo apparetur. Viſapidissimum cibum habere
de liderat, Gallinaceos pullos, qui la &te & panis micis laginati lipt,
in menſa procuret, ij profe &to præſtantiſsimum ſaporem exhibent, mireque
cum palate ineunt gratiam . Andereriam carycis nu tritus, tum ad medicinam, tum
ad gula faporem eſt optimus, & piçlertim iccur. Vnde non mirum L in Inſula
Hiſpa niola apud Indos, porci harundinibus zacchari faginatitantæ , ſapiditatis
, & bonitatis ſint, vt febricitantibus etiam exhibeantur, Gigan eft
muccofa, & infuauis.Vndeapud Co. lumellam extat lepidum di& ú. Philip
puis cum ad Numidam hofpitem deuc niſlet, & fibi è vicino flumine lupi for
mo ſum appofitú deguftafſet,exfpuillet guc dixit: Peream ni piſcem putauerim !
vſque,adco à Tyberino,velmarino dif. ferre putauit, vt illum piſcis nomine in .
dignum iudicauerit. Mulieris cinni fogant ferpentes, do in vermes mutantur.
ulierum capilli,quibustantopere gaudent, & pro quorum ſtructu rain
exornandis multum confumunt té poris,cremári,ſerpentesabigere vifi sūt: fin
autem in aquaminijciantur, in ver . mes non diù retenti commutantur. Plurimos
homines aqui per tenebras, acper lucem vidiffe. REErum natura opulentilsima
admi randam fæpiſsimè hominibus vi. ſus aciem ,oculoſque ſplendentes pręſti
tit; vt multi felium more noctu vagari liberè potuerint. Legitur de Alexandro
per tenebras æquè, ac per lucem vidiſſe; viſum adco acerrimum habuit Galenus,
quod in fomnis, patefactis repentè pal pebris, magnamante oculos lucern vi.
debat, vtipfe de ſe fidem facit lib. 7.Hip porr. Platon . plac.6. 4. At
mirabilior erat Tiberij Ceſaris proprietas; qui in tenebris exactè videbat ;
dequa re adeo admiratur Tranquillus, void pro mira culo fcribat.
Cibusſapidiſsimus quomodo apparetur. QlideraGallinaceos , pullos,quila &e
& panismicis laginatiſipt, in menſa procuret, ij profe &to
præſtantiſsimum ſaporem exhibent, mireque cum palato ineunt gratiam. Anderetiam
carycis nu tritus, tum ad medicinam, tumad gulæ faporem eſt optimus, &
pięlertim iecur. Vnde non mirum G in Inſula Hiſpa niola apud Indos, porci harundinibus
zacchari faginatitantæ , ſapiditatis, & bonitatis ſint, vt febricitantibus
etiam exhibeantur, Gigantes in orbequando fuerint ? G. Igantum foboles paulo
ante Dilu ( uium apparuit, patet hoc in Geneſi c.6.quando ingreſſi ſunt blijDei
ad fili as hominum : poſt autem Diluuium aliqui fueruntgigantes , qui tamen non
multo tempore durauerunt. Bonitas e nim naturæ ( vt inquit Abulenfis c. 3 :
Deuteronomij) in cibis, & afpectu cæli ad terran habitatam remen humanum in
tanta virtute continebat, vt tanti robo ris, & ftaturæ homines ætas illa
produ. ceret; Poftea paulatim deficiente natu, ra,tanquam ad fenium múdus ifte
decli . nauit, & humana corpora cum viribus minorata funt. Adfacies mulierü
rugatas ſelectum præfidium . ( N gratiam rugatarum mulierum , & quæ maculas
in viſu fortitæ fuerint, quo ſenium , turpitudinemque faciei abfcondere
valcant, optimum adduca mus præſidium . Alumen tritum, & cum recentis oui
albumine agitatum ,ſi dein de I HORTVLVS GENIALIS. 1 de ferbuerit in olla,&
{ patula ligno coti nuo mouebitur,in vnguenti ſpiſfitudi nem tranſit. Hoc f
biduo , vel triduo facies mane & vefperi collinitur , non modò emaculari
& erugari, verum ſum mepulchram &gratam eam reddi ani maduertent.
Maxima eft folis excellentia , do in hec inferiorainfluxus. Am maximè Homerus
Solis natura, & excellentiam admirabatur , vt illú Deorú patré,hominūá;
vocauerit. Ipfe enimomniú aftrorú Rex eft, & tempora cuncta moderatur:
annos,menfes, & di os diſtinguit, & efficit; nos fua luce læti ficamur,
& eiuscalore ſanamur. Ipfe vi. rentes herbas, & terræ nafcentia germi.
narefacit, & flores redolere. Ipſefruges, producit, fructusmaturat, aerem
puri ficat, lucem affert, tenebraſque repellit, elementa tranſmutat,animalia
gignit, gemmaſque pretiofas cum admirandis viribus ex terræ viſceribus mira
virtute spitøre facit, Hominųm ipſe, cum ho mine BARACRILI Gigantes in
orbequandofuerint? Glucos Igantum foboles paulo ante Dilu ( uium apparuit,
patet hoc in Genefi c.6.quando ingreſſi funt alijDeiad fili as hominum : poſt
autem Diluvium aliqui fueruntgigantes, qui tamen non multo tempore durauerunt.
Bonitas e nim naturæ ( vt inquit Abulenfis 6. 3 . Deuteronomy )in cibis, &
aſpectu cæliad terran habitatam femen humanum in tanta virtute continebat, vt
tanti robo ris, & ftaturæ homines ætas illa produ ceret; Poftea paulatim
deficiente natu , ra ,tanquam ad fenium müdus iſte decli. nauit, & humana
corpora cum viribus minorata ſunt. Adfacies mulierürugat asſeleétum præfidium .
Ngratiam rugatarum mulierum , & quæ maculas in viſu fortitæ fuerint, quo ſenium
, turpitudinemque faciei abſcondere valcant, optimum adduca mus præſidium.
Alumen tritum, & cum recentis oui albumine agitatum , fi dein de I HORTVLVS
GENIALIS, de ferbuerit in olla, & ſpacula ligno coti nuo mouebitur,in
vnguenti fpiffitudi nem tranfit. Hoc ſi biduo , vel triduo facies mane &
vefperi collinitur , non modò emaculæri & erugari, verum ſum mepulchram
&gratam eam reddi ani. maduertent. Maxima eft folis excellentia , din hec
inferior ainfluxus** TO Am maximè Homerus Solis natura, & excellentiam
admirabatur, vtillu Deorú patré ,hominúý; vocauerit. Ipſe enim omniú aftrorú
Rex eft, & tempora cunctamoderatur: annos,menſes, & di es diftinguit,
& efficit; nos fua luce læti. ficamur, & eius calore ſanamur. Ipfe vi.
rentes herbas, & terræ nafcentia germi. nare facit, & flores redolere.
Ipſe fruges producit, fructus maturat, aerem puri ficat, lucem affert,
tenebraſque repellit, elementa tranſmutat,animalia gignit, gemmaſque pretiofas
cum admirandis viribus ex terræ vifceribus mira virtute qpicere facit, Hominum
ipſe , çum ho mine BARICELLI minegenerat,& tandem quicquid in ter ra oritur
, & occidit , corrumpitur &ge neratur, in eius poteftate eft :fic ait
Ari ſtot.z.degener.d corrupt. quod propter acceſsú , &receffum Solis in
circulo ob liquo ,fiuntgenerationes, &corruptio pes. Hæc, & alia tali
lideri Creator om. pium largituseft. Falfißimum eft Salamandramin igne viuere
pole . B Ariftotelc, & Aeliano,Salaman dram non modò in igne viuere, verum
etiam illum extinguere proditú eſt. His ſuffragatur Plinius lib.io.c. 67. qui
tantum alleruit Salamandræ rigore elle,vt igné glaciei ad inſtar extinguat, Hi
autem famigeratiſſimi viri dormi. tare videntur, cum omnia & comburi, &
conſumi ab igne poſle iudicentur, Falſum ergo axioma eſt;breuique fpatio animalillud,
antequã comburatur, licet rigidiffimú foret, in igne viuere verifia mile
eft.Totú hocexperientia innotuit. Narrat enim Matthiolusin lib.2.6.56 .Dia
foridisin agro Tridentino ,Veris,& Au. Tumpi tempore,maximam Salamandra rum
copiam reperiri,fe autem ,vtexpe rimentum caperet eius , quodde Sala mandra
vulgo fertur , plurimas in igne conieciſſe, fed eas prorſus exarſifle ,bre
uique penitus eſſeconſumptas. Sabbaticifluuj admirada proprietas. I Nter Arcas
, & Raphandas ciuitates (teſtimonio Iofephi.7.de bel. Iudaico ) regni
Agrippę, Sabbaticus fluuius repe ritur, ita à leptimo die, quem ludzire ligiosè
colunt, appellatus. Hic copiofus fluit, nec meatu ſegniseſt , mirabilemg;
naturam obtinuit, liquidem interpofitis lex diebusà fonte luo deficit,audumq;
& ficcum alueum relinquit. Quod auté mirabilius eft , nulla mutatione facta
ſeptimo die fimilis exoritur, talemque continuo ordinem obferuare pro certo ab
omnibus cognitum eft. Quam fitexitiofumpro lattandisine Fantibus vitioſas
eligerenutrices. Vtrices pro lactádis puerulis ma lis moribus imbutas, vitiofas
, in . B eptas, crudeles vel ſuperbas reijciendas exiſtimo: mites autem , benè
moratas, fine vitio, & prudentes cligendas. Pueri enim ex ijs educati ob
acceptum nutri mentum à parentum natura recedunt, & 1 ad nutricisvitia ,
vel prudentiam aliquá inclinationem habent. Indelegitur Ne Pi ronem
crudeliffimum à fuis progenito ribus longè degeneraffe( quamuis pravá
inclinationem vincerepotuiſſer) ijenim benigniffimi fuerant: ipſe autem à crue
delillima nutrice lactatus, & connutri tus, propriam matrem interfecit.
Menſtrualisfanguinis mulierum immanitas. Aximum contagium in mulieris i ei F
credidit.Refert enim nouellas vites eius pernecari contactu ,rutam , &
hederam illico mori, apesta & is aluearijs fugere, lina nigrefcere, aciem
in cultris tonſor rum hebetari, æs graue virus & ærugi nem contrahere:
equas , li lint grauidæ, ta &tas abortire,multaque alia pernicio famala ex
illius contactw fieri tradidit. Sed longe à veritate diftar hic auctor:
cuiuslibet enimmulierisfanguinēmen i ftruum virulentum effe falfamum eſt,
quippe in ſana muliere, non differt & Yanguis à fanguine vitiumque illius
in i quantitate tantum perliftit,vtbenè Ca piuacceusin fua Praxi recenſuit,
fecus eft in morboſa muliere, ex menftruali enim iſtius fanguine
nõmodopericula, quæà Plinio adducuntur, eueniunt, ve - rum etiam alia. Equidem
canes epoto · menſtruo in rabiem vertuntur. Homi nes in he & icā , &
phthiſim , fià veneficis, eis in potu tribuitur , deueniunt: Oleze contacte
ſterili fcunt . Alia ctiam ex il lius virulentia contingunt, quæ reticere
melius eſt. Frigidumpotumpoſt pharmacum af fumptum magnæ vtilitatis afue tis
fuiſſe. Egrotabat oliin in Sicilia Prorex Ioannes à Vega: ſumptoque Phar maco
ſegniter purgationem habebat. Medicusfamiliaris , vtaluum irritaret , juris
pulli ſine ſale pararú cyathum co B 2 A ram Principe habebat ; illumque nau .
ſeantem , & tale brodium abhor. rentem , vtebiberet exorabat. Super ueniens
autem Philippus Ingraſsia , iua ris vice , libram aquæ frigidæ cum vn cia
zuccarimediocris albedinis propi. mauit. Erat enim ille frigidæ potioni af
fuetus,atqueiecore percalidus. At frigi. da cpota, deſtructa eft confeſtim
naufea fedatilque nonnullis in ore ventriculi morſibus , talem è veftigio
purgationé feliciter perfecit, vt gratias referre In graffiæ pro tali frigidæ
potione,cupiens, argenteum illud vas,in quo repofita fri gida fuerat, pretij
aureorum nummo. rum quinquaginta , gratiſsimo animo donauerit. Ingraff.
de.frig.por.poft medic. Verrucas cuiufdam animalculi liquo reperfanari. Eferam
quod mihi in Apuliæ quo dam loco, circa verrucas fucceflit. Expetebat à me
quidá nobilis , qui ma. nusà verrucis nimis deturbatas habebat aliquod pro
illis abigendis præſidium . Ego coram nonnullis multa ,quæ aliàs RII veriſſimaefle
comprobaueram ,illicon it'o fulebam.Inter hosrufticusquidam ino to pináter,fe
ele &tiffimum habere remedia pro ijs penitus dirimendis non rogatus I.
faſſus eſt . Sciſcitor quale fit, animalcu Di lum eſſe dixit: ad experimentum
veni Before mus, ægro confentiente. Ruſticus ani. i malculum inuenit. Hoc'in
floribns 1. Eringij, & Cichorez æftiuo tempore uk moratur,eft coloris
calaſsini, cum ma of culis rubeis, & quodammodo aſsimila tur
proportionecorporiscantharidiyli y cet paruulum ſit. Acceperat aliquot 12 i- fticus,
& ſingula in ſingulis verrucis d ... * gitis exprexit: exibat liquor quidam
, o manus intumuit, & doluit,fed cum mo. derantia: intra tres dies
detumuit, & fana facta eſt, nec verrucę ampliusviſę ſunt. Tauriſanguinem
inter lethalia vene na connumerari. Nter atrociſsima, & fuffocantia ve nena
Tauriſanguinem recenter epo tum connumeramus ; congelatur enim 2. in
ventriculo, reſpirationemqueimpe s diens, hominem fuffocat. Themiſtocles B 3
Athe Inesta Athenienfis tanti veneni tentauit expen rimentum . Hic enim ciuium
inuidia à Patria relegatus,ad Artaxerxem confu git, à quo diues factus eſt.Dum
autem in patriam ingratiam Artaxerxis pugnare cogeretur,in Dianæ téplo ,hauſto
Tauri fanguine, vitam cum morte commuta uit.Ex Plutarcbe . Quo artificio
duriſsim afaxafrangen re valeamus. Aris ſaxa non alia re frangendag quam larido
accenfo retulit Ola us.Hoc equidem rationi conſentaneum efle ducimus, cum
pinguehumidum ,fax lique commiftum illud fit, ob id enim flamma potens &
acris eſt diùque ma net. Annibal verò dum Alpium rupes, ingreſſurus Italiam ,
comminuereopta ret, faxa potentiſsimo igne concalefacta;
acerrimoacetohumectabat;:ita enim ea molliebãtur,& in fruſta cædebátur, fra
ctioniq; facilior erat locus.ex Tiro Liuip. De lapidis Asbeſti mirabilivirtutes
LAsbeſtos lapis,qué Arabia, & Arcadia producit, fi verus & probus
fuerit,femel accenſus perpetuam flammam retinere videtur.ExhocGentilestemplorú
cane delabra conficere folebant, clarè ani maduertentes fortiſsimam flammam
& i * inextinguibilem elucere, quęnecabima bribus,nec tempeſtatibus
extingueba tur. D. Auguſtinus lib.21.deCiuit.Deiz. Athenis Veneris Phanum
fuiſſe referty in quo de di&to lapide lucernæ conſtru Etæfuerant,quæ aliqua
intemperie ex tingui minimè poterant. Aegypti Reges opera magnifica,
&admirane da Antiquitus conftruxiſle. Pera ab Aegypti Regibus conſtria
& a omni admiratione digna ſem per exiſtimaui. Hi porrò Labyrinthoi rum
,Pyramidümqueprimifuerunt au & tores, & Mauſolea fepulchra , & Obe.
Hifcos erexerunt, Ferunt admiffo faci : nore, Pheronem Regem è veftigio vi- ,
Cum amififfe,decennioquecæcum -fúiſle. Vndecimo autem anno ab vrbe Buci,
accepto Oraculo , quod viſum reci peret, fi oculos mulieris, quæ tantum B 4 lui
ſui viri amplexibus contenta fuiſſet, cum terorumque virorum expers , lotio ab
luiſet. Hic ante omnia vxoris lotiura tentauit , cum autem nihil cerneret in.
finitarum mulierum vrinam experiri voluit; viſuque recuperato , præter eam
(vxorem enim eandem duxit )cuius lo tio vilum accepit, omnes concremauit .
'Abea autem calamitate liberatus, cup alia in alijs templis donaria pofuit, om
nia egregia ad memorię diuturnitatem , tum maximè memorabilia,ac fpe &tacu
lo dignain templo Solis gemina faxa, quosobelos vocant à figuraverucēzenam
cubitorum longitudinis ,octonum lati tudinis. Pelõdor. Virg.ex Herod.
lib.z. Cacodamonem malinuncijpræfagium aliquando attuliffe. Arcus Brutus
cumexercitu ex A Gia nocte media & profunda dum fplendidum erat lumen,
& filentium vndique caftra tenebat , multa fecum memoria recolebat. Cum
autem ad fe venire aliquem præſentiret, intentus MarcusBrutuscumexercituexA intentus ad introitum afpiciens,horren dam ,
& monſtruolam corporis feri & terribilis ſibi aſliſtere imaginem reſpex
it.Quis ( inquit)interrogans erutus,ho minum, aut Deorum es,quid tibi vis?
quidad nos veniſti ?Murmurans ille,tu . us Ô Brute( dixit)malus genius ſum , in
Philippis me videbis. Tum brufus nihil perterritus, Videbo, reſpondit,cogita .
bundusqueaccubuit. Verum Caſsiana cognita clade deinde , cogitationeſque fuas
videns, & fpes fallaces ſublapſas re tro referrifin Philippis fibiipfi
mortem coniciuit.Ex Plutarcbo. olei, vini ,ſegetumgſterilitatis prafagia. Irij
vefpertinus occaſus, fi biduoana teuertat, vel fequatur Plenilunium , fegeti
rubiginem,&foreftentibus vre . dinem pronunciat. Procionis occafus veſpertinus,fi
interlunio eueniat, flores ti yiti, & oleu germinanti iniuriam ex vredine
adfert.Aquilæ verfpertinus ex. ortus, & Arduri occalus, in Pleniluniú B S
incidit, & olei& vivi ſterilitatem , vtros quetum florente denunciat Ex
Iunitino - deris falubritatem advitæproduction anem maximopere videmuscon :
ducere.. N Hybernia quaſdam Infulas, ir quia bus homines longiſsimæ vitæ funt,
re periri compertum eſt,tanta eft enim ibi: aeris ſalubritas,vtvita
humanalongiſsi me producatur , Cum autem ad maxia . mam ſenectutem homines
deueniunt, deficiente pauliſper humido radicali , caloris naturalis opera, quia
anima pro-. pter complexionis bonitatem recedere: nequit , in corpore magni
ſuſcitantur dolores : Idcirco illius regionis homie nes poft diuturnos labores,
vitam aber forrétes , longèà propria regione fede portari
procurant;præſertimque ad lo . cum minus falubrem , vbifaciliter mon n'antur.
Abulenfis in Genef.c.2.6 . Anania: in Vnis .Fabrica . Linica.magna proprietatisapud!
indos fiering 1 Maximi valoris lintea ex Asbeſti. no lino ,& Amiancho
lapide con texere Indiani fo !ent. Hæc in ignem ; proie & a flammam quidem
concipiunt, detrimentumautem nullum recipiunto Cum autem vſu commaculata Indi
hæc lintea depurare coguntur, ( ſpreto more noſtro )non aqua,non cinere, vel
ſmege mate vtuntur; fed in ignem proijciunt:: certiſsimoexperimento perdocti ab
eo non cóluni modò; ſed potius-exempta. fplendeſcere,nihilqueillis deperire.
Ta.. le Carolum V..Imperatorem nonnulli habuiffe ferunt. Mizaldus. Hominibus
àgraui valetudine opa preffis varias hominum figuras appa: rnilleſepißime ,
expertum oft . Ignum ſpeculatione illud fempers primuntur valetudine ex affe
&to cere. bro, an actu Demonis figare diuerſçapa pareant? Quippèno ſemel
audiui, non . mullos. Dæmanes ,alios verò fæminas. B 6 vidiſſe, vt inter
cæteros Alexander ab Alexandro de ſe teſtatur. Cum (inquit) Romæ
ægravaletudineoppreffus eſſem iaceremque in lectulo,fpeciem mulieris eleganti
formamibiplanè vigilanti ap paruiſſe confiteor, quam cum infpicerem diù
cogitabundus,&tacitus fui, repu tans nunquid ego falfà imagine captus,
aliter,atque res eſſetafpicerem ,cumque meos ſenſus. vigere, & figuram
illam pufquam à me dilabi viderem , quæ nam illa effet interrogaui, quæ tum
fubridens & ea quæ acceperat verba reſpondens, quaſi me planè derideret,
cum diù me fuiſſet intuita diſceſlit. Quomodo au hæcfiani in lib. 1. de pita
hominis difa fusè enucleamus. Hydropes lethales multoties ab occul.
tis,abditiſq præfidiisdifparuiſſe. Vltiequidem morbinon à me dicorum remedijs,
fed à caufis abditis curati funt.Refert Schenkius l.be 3.obferuat. Medicinal,
Chriſtophorum quendamin deſperata hyeme, ab hs drope lethali hac via fanatum
fuifle. Illi dormienti in Sole aprico lacertus viri. dis occurrit in laxatumque
eius finum irrepfit, & toto cotempore, quo dormi. it,per tumentem
,nudatumqueventrem oberrauit. Poft horam expergefa & us lacertum in ſinu
ſubfultare animaduer tit, quem veluci homini amicum & in noxium dimilit .
Huic ab eo tempore hydropicus tumoromnis,citra alia re media intra paucosdies
ſubſedit , & diſ paruit. Quicafus mirabilis eft: & non minori
admiratione dignus, Bufonis fylueftris, quam fit proprietas. Hoc e nim animal
fi per ventrem fcinditur, & fuper renes hidropici ligatur, aquofita tem per
vias vrina, quæ in Aſcitelupet abundat,mirabiliter educit.Hoc VVie rus
expertuseft,Napaulli ſecreto rema dio hydropicorum aquas Colubri a quatici
lapide ventriapplicato ſenfim abfumunt. Infuper vituli marini pelle aquam
corpori fuffulam Hermolaus Barbarustolli prodidit. Cæca igitur,& abdita via
multos hoc morbo ſanari comperimus. B7 Mediana 38 BARICEL II Medeamà
veneficiorum calumnia a Diogene fuilevindicatam . , moriæ
ſcriptoresmandarunt,Meo . deam illam concelebratam magicis arti bus, maximam
dediffe operam , ijſque latiſsime fúille inſtructam.Hic.n.apud Srobæum
dicebat,Medeam fapientem , non veneficam fuifle, que acceptis mole libus, &
effæminatishominum corpo , ribus confirmabat ipfa gymnaſijs,acex
ercitationibus, & robulta vigentiaque reddebat.Hinc, vt veriſimile
eft,faina emanauit, quod illa coquendo carnes hominibus ivuentutem reftitueret
, Si . enim ad ea, quæ de ipfa dicuntur , quod nocturnis horis coram Luna
proftrata maleficia fuo nudato corpore pararet , refpicimus, vt patet per
Seneca in Tras gæd.7.Quod vero alia attinet de quie bus ipſam accuſent, neſcio
quomodo. ab infamia eam liberare valeamus. ImPlenilunio vtplurimum furioſos:
vehementius infanire Luna dum Soli opponitur , vehementius furiofos infanire
obſerua-: mus: tunc enim ex. fuperabundantium humortin copia-cerebrum ad
cranium vique intumeſcit ,eofque ad furiam du.. cit.Hac (vt reor) caufa,
furioſos Britan . ni luna quarta decimaverberibus affli .,
gunt,conſiderantesſailicet ſanguinem , & fpiritum tunc temporis
efferuefcere.. Verbera.autem non fine ratione ad talie um ſalutem conferre
videntur; vt enim larga proſperitas ad inſaniam homines, ducere potenseft:ſic
dolor, & calamitas, prudentiam inducere conſueuit : quod ,
fapientiæPrinceps perbellè fignificauit: dum dixit, affli &tionem tribuere
intele lectum.Bodinus in tbeat.net, Annicomputumdimēſuramàquin
bufdamnationibusrudiordine fuiffeconstructiuni Noi.certus modusapud felos Ar
gyptiosfemper fuit, eorum enim Sacerdotes ab Abrahamoedocti,& verá
anni-menſura, & Solis curſumcogno., frese fcere valuerunt. Apud alias
nationes di ípari numero, parique errore annus no tatus eft :fiquidem Arcades
trium men. fium annum faciebát. Lauinij tredecim. Acananes fex.Gręci reliqui
314.diebus. Romulus annum decem menſibus, qui 304.dicbus conficiebatur
ordinauit.Hic å Martio incipiebat,eo quod Marti fuo genitori credito, menſem
hunc dicaue rat.Numa poft Romulum quinquagin. ta dies computo huic addidit,
annum . que conſtituit 354.diebus. At. C.Cæſar Aegyptios imitatus , ad curſum
Solis, quidiebus365.& quadrante conſtituie tur,annum dirigereftuduit. Céſorinus,
& Suetonius. Solatri maioris, e Serpent arie mio
norispotentiacontraparafitos mirabilis eft . Irabilis profecto Solatri maio.
ris, fiue herbæ Bella donna radicis potentia eft: fi enim contrita, &
exiccata vnius ſcrupuli pondere per horas ſex vino infunditur,illudque
facacolatura uno homini potui datur,vt illecibum guftare nequeat,efficiet. Hoc
paraſitis idoneum eft remedium ,hi'enim aperto ore,tanquãomnia deuoraturi,in
menſa cófident;fed hac via pænas luent, quip pè alios vidcbunt comedentes, ipſi
ta men inſtar Tantaliin menſa fameſcent. Vnde apud conuiuas ridiculi, &
confuſi apparebunt.Sanantur hiconfeftim ace to bibito.Idem facit radix Aron ,
fiuc -minoris Serpentariæ in acetarijs recens contrita ;qui enim guſtauerit,
apparebit Suffocari cibumque relinquet. Sanatur hie allio comefto . Ventorum
ortum ,occafumque terre AremEchinuinmirafagacitatehomi nibuspraſagire.
*ErreftrisEchini, quiautumnalitě. pore in vineis , dumoſilque fpinis verfari
præcipuè conſueuit, in ortu oc cafuque ventorum præfagiendo mira l'eft
fagacitas.Horum porrò latibula du obusconftru &ta foraminibus, quorum
alterum Boream , alterum verò Auftrú reſpiciat,conſtructa reperiuntur. Pre fentientes
autem Boream Auſtrum ,ali umve ventum fufHaturum , longè abe orum ortu , vnum
vel alterum cauernæ meatum obturant; ventorum enim cog nitio-ijs innata eft,
vtab ipſisſe tueri va Jeant.Hoc ordine Venatores Echinorú Jatibula , eorumque
fagacitatem cond derantes, nulla ſtellarum obferuatione habita, fed folum ex
cauernarum mea. tibus clauſis,velapertisVentorú indagia nem cófequentur. Ex
Plutarcho in Dialog. Animi pudorem , timoremque hu . manorumcorporum
diuerfimoda faciem alterare. agna inter animi pudorem , & ti morem cum
vtrumque fit triſti . riæ foboles, videturdiſparitas:quippe in pudorehomines
facie rubefcunt,timen tes verò pallefcunt. Natura( vt inquit Macrobius 7.
Saturn. ), cum quid ei oc currit honeſto pudore dignum , imum petendo penetrat
ſanguinem ,quo conto moto diffuſoque cutis tingitur,rubora; saluitur, Thelelius
auté (vt ex Taſſone citatur M HORIVLVS GENIALIS. 43 citatur) faciem in
pudore,voluit affe &iū recipere , & proinde erubeſcere. Hocà ratione
alienum haud eft, fiquidem vo lunt Philoſophi naturam pudoretacta, fanguinem
,inftar velamenti ante fe ten dere.Experientia infuperhoc docet, e rubeſcentes
enim manum fibi ante faci. em frequenter opponunt. At timentes palleſcunt,quia
natura cũ quid extrinſe. teoccurrens metuit, in profundum de. mergitur: ita
&noscum timemus,late bras quærimus, & loca occulta, Natura itaque defcendens
,vt lateat,fanguinem fecum trahit , quo demerſo dilutior cuti. humor
remanet,pallorqueſuccedit. Animaliaex putrigenita materit inmundiprimordio
minimè fuiffe. Væ ex putri materia generantur, ſex animalium genera communi ter
exiſtunt . Quædam enim , vt bibio nes, quæ ſunt minutifsima animalia,ex vini
exhalationibusfiunt,vt papiliones ex aqua.Quædã ex humorú corruptio pibus
proueniunt : vt vermes in fter core,velciſternis. Quædam ex cadaue ribus, vt
apes ex iumentis:crabrones ,fi ue muſcægrandes,quæ volando ſonant. Scarabæi
liue mufcæ virides ex equis, vel canibus mortuis: fcorpius de caucti mortui
carnibus:ſerpens de medulla ſpi næ humanæ. Quædam ex lignorum pu tredine, vt
teredines , qui lunt vermek intra ligna , quando non abſcinduntur tempore
debito , exorti. Quædam ex fructuum corruptione, vt girguliones ex fabis.
Quædam ex herbarum corrup tela, vttinex.Hçc autem in mundiprin cipio immediatè
à Deo creata fuiſſe, nulla ratio confiteri cogit,cum ipſa na turaliter ex
corruptione procedant;poſt autem mundi exordium huiuſmodi ex corruptelis
generationes eueniſſe verili mile eft;Deus tamen feminarias cauſas horum
materijs indidit, fine quibusori. ri non potuiſſent.Abulenfis in Genefi 6.2.
Defygis Arcadia mortifera natura, Alexandrimorte. Circa HORTVLVS Gerialis. ferunt,
ille, CircaNonacrinin Arcadia ,fons quidá teperitur è petraexoriés, quęStyx ab
in colis appellatur, tantæ mortiferæ natu rę, vt ſumma celeritate corrúpat
corpo ra . Equidemprotinus hauſta ( Seneca teſtimonio 3
quaft.natur.)induratur,in Itarque gypſi ſub humore conftringitur, & ligat
viſcera.Quia autem , nec odore, nec fapore notabilis eft ,fæpè fallit, nec ea
epota,amplius remedio locus eft.Fe runt nonære,non ferro, non teſta aquí
huiuſmodi continere,necaliter quam in equi vngula ferri poſſe. Huius vemeni
potu ,magnumAlexandrum in Babylo . nia fuiſſeextin & um multi ſcriptoresre
medico ,ob aquę feritatem in media po tione repentè veluti telo confixusinge
muit; elatuſque (vt ait Iuſtinus) è conui yio ſemianimis, tanto dolore
cruciatus eft ,vt ferrum in remedia poſceret, & è tałtu hominum velut
vulnere indole . fceret. Achores tineafque capitis,ex bufonis oleofeliciter
fanari. Dum 46 BARICELLI prope Luceriam Apuliæ ſemel me dicinam faceren , ibi
quendam achori bus,tineiſque per multos annos turpi. ter affe & um ,cui
varia fuerant applicata temedia,omnia tamen inutiliter , prop termorbi
reſiſtentiam repperi. Tande noſtro conſilio hicele &tè ex pharmaco
purgatus, folum linimento ex oleo in quo ad exactam co &tionem Bufo fue
Rana terreſtris ebullierat, optime cura tus eft , quippe fimplici hoc remedio
per paucosdies in capitevtens, fanus, & capillatus fa & us eſt; durante
autem lini mento piliersortui,vulſellis à chirurgo extirpabantur. De Cerui
lachryma, eiuſque in ciendo fudore potentia. Antæ creditur elle efficaciæ Cerui
lachryma in Tudoreciendo , vt' li grana quinque vel ſex potui dětur, totü
corpus fere folui iudicemus.De hac lo quens.Abinzoar lib. I.tra & . 13.6.6.
le tria grana Azir filio Regij magiſtri equitum in lacte , vel aqua cucurbitæ,
vel.roſatæ exhibuiſle:retulit,illumque à virulento ictero liberaffe.Hæcautem in
Ceruis ante ceptelmum annum ( teſti monio Scaligeri)nulla eft,temporis au tem
proceſſu generatur, & in iuglandis molemaccreſcit.Dicitur magnam habe read
venenum efficaciam , vt in Afia fe Hiciſsimo fucceflu fæpè experiuntur. Vires
infirmorum collapſas, odoribus refarciripoffe. Nfirmorum deperditas vires non
potionibus modò,verum atqueodo , ribus reftaurari pofſe obſesuatum eft. Aiunt
enim Democritú in dies aliquot, amicorumgratia pomi odore vitam fic bi
prorogalle. Hinc multi panem cali dum vino odorifero immerfum nari
busadmouentægrorum , quem a tem . poribus, & coſtis cataplafmatis more
imponimus,vtique vires egrigie reſti tuimus.ConciliatorApponenſis mori. búdá
vitá, ex croco , & caſtoreo cótuſis, vinoq; cómiſtis producere fecófueuifle
tefta . 48 BARICELLI teftatur,ſenibuſque eam compofitioné exhibuiſſe ,
nullatenus olfa & u magis quam potu profuiſſe.Ferreriuslib.2.Me thod. De
olei Balnei mirifica in morbis præftantia. O Lei Balneum , vt Herodotus anti
quiſsimusmedicusprodidit, quià diuturnis affliguntur febribus, à laſsitu dine,
vel neruoſarum partium dolori bus oppreſsis,conuulfis , & vrinæ , fup
preſsis laudatiſsimum ,ac ſalutare efic remedium experimur. Vidit huius pre
ſidij experientiam Heurnius in quoda extenuato, ac ferè exhauſto , dumeflet
Patauij:illum enim validiſsima occupa uerat conuulfio,at tepidi olei pleno vafe
immerſus,ac fotus fanuseuafit.In lib.no ftro de Hydron.nat. Adam & fuos
contemporaneos, perfc. etiſsimamrerumnaturalium ha buiffe cognitionem . Nter
aliasrationes, quas Abulenſis in Genef.in c.f.de longiſsima vitæ pri. morum
parentum,quiannum ferè mila Jeſimum ateingebant,retulit,hácaddux
it;quod'Adam'rerum naturalium perfe Etamà Deo cognitionem habuit.Intele lexit
enimfru & uum , herbarum ,lapidú, lignorum , animalium , mineraliumque
virtutes, & do&rinam , quibus vita hv mana diutius conſeruari poterat;
quæ omnia contemporaneos,(vt ipfi etiam vitam producerent longiſsimèJedocuit.
Hæc autem cognitio , & ex diluuio, & gérium diuifione perdita
eft.Reperiun turtamenin præfentiarum multa mira bilia,naturęque ſecretiſsima
apud ſapi entes, à temporuminiuria foslitan vin dicata; quæ aliquando
hominesvidentes aut audientes, tanquam lupernaturalia opera admirantur
Rutaminter alexiteria medicamenta connumerari: Nteralexipharmaca præſidia,
Rutam minimęconditionis haud efſc perhia bent,fiquidem ieiuno ftomacho come fta
multos à veneņiviçulentia liberaſſe C. degi BARICE ILI legitur. Dehac Athenæus
in 3.Deipn.la . quens, Archelaum Ponti Regem fuos populos veneno interimete
confue uifie fcribit, illos autem à quibufdam edo &tos, ob id antequam è
domibus ea grederentur,quotidieRutam cdere fo litos à
Tyrannicrudelitate.le.defendiffe. Solaſuſpenſione, capitiscruciatus verbenam
mitigare. Trabilis eft Verbenæ proprietas M.in dolore capitis mitigando ; 'fi
quidem à Petro Foreſto traditur hoc folo præſidio quendam fuifle perſana
tum.Ille netlis remedijs, quamuis opti mis curari potuerat,non venæ ſectione,
non ſcrupis digerentibus, neque steco &tis pilulis,cucurbitulis, nec alijs
topic cis auxilijs. Cum autem nulla iuuarent semedia,ad collum
Verbenaviridisafe penſa eſt, & fanus fa & us eft,lib.9.ebſer.3.
Detkapſie virtute in fugillatis faci nandis,Neronisquecalle. ditate. Nero
Imperator in ſui Imperij ex 36 ordio Thapfiam ,eiuſque excellé to tiam
magnificauit; Ille quidem dumno . & u incederet incognitus , & in
multos impetus faceret,nå ſemel facies fugitla Do ta ,cutifq;livida,piftula ;
ab illis fuerat. L. Confeftim hic,ex Thapfia,thure , & cem ra commiſta,linimento
ljuentem vifum collinibat ,quopræſidio antelucem à fe da
ſugillationeliberabatur; dum autem die in populiconſpectu , faciem fanam
oftenderet,facinoris ſui famam , & igno . miniam occultabat. Ex Durante in
Her . 25 g. barie . I je obſtétricibus animaduerfio. præcidendo diligentia
adhibenda eft;quippefi ni mium curtè vmbilicus religatur,ætatis progreſſu
pariédi conatumreftringere, imminenti vitę periculo ,poteſt. Ex M46
mbiaCornace. De arboris ficusmirabili natura . I coctu faciles habere deſideramus,
in arbore ficus eas ſuſpendemus, ita votum noftrum procul dubio aſſeque mur:
credo forſitan ob acutum , & incil : uú odorem , quem arbor Ipirat id cauſa
ri;velforſitan occulta cæcaque proprie tate.At quod mirabiliusin huius arbo .
ris natura eft , Taurum indomitum , fe rumque in eodem alligatum manfuef cere
tradunt. Neſcio autem annaturali via propter-odorem ,an aliqua antipa thia, quæ
inter talia exiftat hoc eueniat. Audiui tamenà multis vtrumqueexpe rientia
fuille confirmatum . Quomodoà vitriolo arislaminas.ex . trahere valeamus. Lui
momenti illa cognitio , quomodo à vitrioloæris lamellę extrahantur,ape riam
modum , qua facilitate id affequi valeamus.Bulliatur Romanumvitrio . lum in
olla cú aquafontis: in eaque cha lybis lamina per horæ quaternionem demergatur
: extrahito demum chaly bem , ipſumenim lamellis æris inftar suginis colligatum
habebis, quęculcro radende fút, vt alias chalybem immera. gere
pofsisznouaſquelamellas extrahe.. re. fiquidem tamdiù corradi poterunt, quouſq;
Vätrioli portio in aqua fuerit. Arrigat aures ingeniofus; quia ex hoc : minimo
principio multa, precipuèinre: medica, yrilia aſſequetur. oléum vitrioli
,&fulphuris rostris : lumbricos plurimumvalere. NITlfi magnis experimentis
præſtana tiſsimum remedium ad puerors i lumbricoscomprobalſem ,haud audia . rem
hic inter arcana ſele &tà fóre repezia nendum confiteri: quippe tanta eft
eiuss virtus,& potentia, vt mortuos ferè pur erosè vermibus ad vitam trahat
. Hic : induſtria paratur,In libris ſingulis aque fontis oleifulphuris, vel
vitrioli chimi.. cè extractorum , aliquotguttulaadden dæ funt,ita vt aqua
acidula frat, quæ pu eris,natuque maioribus danda eft diù noctuque ad placitum
,.e & enim præſtaa tiſsimæ virtutis 0 T! 10 Da DeCaraba mirabili virtute
invuula cafum ,Amygdalaruamque tu . mores ArtinusRulandusvirin chimicis M
celeberrimus in Amygdalarum inflāmatiene, & tumore, vuulæquecaſu ex
humoribus à capite fluentibus exci tatis ſola Carabâmirabiliaparauit-Prie mo
fuffimétum cófuebat,hoc modo ex . ceptü.Accipiebat Carabæ albiff . drach .
7.qua redacta in puluerem craſsiorem , & carbonibus impofita,fumus per infa
dibulum ,ore excipiebatur ab ægro mar. ne,meridie, & veſperi, multa
vtilitate, Accipiebatetiam fermenti veteris vnc .. & quam moreemplaftri linteolo
indu cebat, afperfoque Carabæ albæ pul uere vertici imponebat per diem ,per
noctem vero fequétem recens applica bat. Quibus paucis remedijs, &ex fola:
quaſi Carabayquam plurimos à fauci um tumoribus, vuulæque cafu ,Amyg dalarumque
inflámationibus oppreſlos perſanauit. Ex eiusCurationibus. Spina HorTvivs
GENIALIS Spine infeftoriæ Baccas" ad. Tenaf mumexfalfapituita
expertiſsimum verumque ad illum exiftere remedium . St mihi remedium pro
Tenafmodo quadam fortafle mille kominum, qui endemiali fere morbo hic ſugebant per
fanafle quam citiſsime . Syrupum ex Baccis fpinæ ceruinæ, fiue infectorice:
Aromatario parariiufferam . Hæinfine: O & obris, cum bene maturuerint,
collie guntur, exprefloque fucco cum melle vel Zuccaro ad formamfyrupi ducitur:
additurque in fine maſticis, velzinzibes sis , anih, vel cinamomiad
drach.j.vet? in maiori dofi, fi libuerit.Datur hic fy rup.ab vnce vſque ad duas
cumpauco vino dilutus,abitemijs datur cum aqua cinamomi:epoto, cibatur
eger,parceta men , & ieiuno ftomacho, præcipiturque ne dormiat.Equidem vna
die fanaturę ger, foluitur enim aluus,abfque mole tia , & excretis féroſis
.viſcidilg; humorib. Tolo hoc preſidio integrè liberatur C Ariet mo Arietis linguam futurum in ouibus
milanitium ,commonftrare.. M Irantur multi Virgilium in 3.. nere , vt linguam
paftores conſpicere debeant, deſinant autem admirari , cau ſam enim adducimus
ex Plinio, quipro pterea Arietum ora introſpici à pafto ribus voluit , quia
cuius coloris ijlin guam habuerint, tále in fætibus gene randis forelanitium .
Audiui à multis , hocyeriſsimum reperiri. Ouis enim e . tam cum vterum gerit
,fi linguam habueritnigram nigrum pariet agnum , fi albam album , & fic de
aliis coloribus. Ridiculüm eft quod fertur; Bafilifcum àGalliouoexclwdi.. On
modo à plebeiis verum atq;: à nonnullis ftudiofis , Bafilifcum : abouo galli
veteris connaſci perhibe tur. Fingunthi ex aliquorum fcriptorú teſtimonio ,
quos eriam ego perlegia : Gallo decrepito , quiſeptimum , aut no.. olm , vel ad
fummum decimum quar .. Na tum annum agat, ex putrefacto ſemine, aut humorum
illuuie altiuo tempore, ouum conflári , ex quo ab eodemfoto ( vt à Gallinis
alia fouentur oua ) Bafi... liſcusoriatur.Sed hoc animal nemo vio dit,habitat
enim ( auctóre Plinio ) in Aphricæ folitudinibus: proinde hæc creo dere
difficile eſt. Inſuper ſi hanc fpecie em mafculinam poſſe fætare conceſſum .
eflet , contingeret etiam inalijs , quod minimèobſeruamus. Mihi aliquotoua: in
experimentum à mulierculis allata fünt, dicentibusGallum peperiſſe : erát
oblonga ,& in caudam ſerpentis quibuſ dá nodulis terminabátur:at hæc à
Gallie nisex plurium ouorum minutorů col ligatura (cu kuperfætatione,non autem
a Gallis fieri dixi. Homines ex impromiſo Lupi afpects : veluti mutosdo;
attonitos fieri. Vlgatiſsimum illud eft, hominesex improuiſo Lupi aſpectuadeo
mutos& attonitos fieri,vt nec fari , nec vociferari valeant. A Lupiquadá prietate
id fieri aſlerunt , contenderse tes Lupum ,fiprior obuium quempiam
conſpexeritillico vocem adimere, can demque illum luere pænarn ,ſiab homis ne
prius videatur. Ad hænugæ ſuot.Si quidem ex terribilişimprouiloqueLu.. pi aſpe
&tu ,homines terreri, timoteque concutiqveriſimile eft: ex timore autem:
valido mébra frigefieri ex raptu ad in teriora fpirituum ,inde corporis, &
ar.. tuum fieri impedimentu , vociſque pri uationem mirum non eft.Alijalia fin
gunt, mihi autem hęc omnia ad folum timorem ,tanquamad caufam proporti Onatam
reducere viſum eſt.. Multa facinoraàMagisanicalis perpetrari pole. Etulit
Leonardus Vairus lib.1.de: Faſcino multas hac noftra tempe fate exiſtere aniculas,
quarum impurie tate,nonpaucos effaſcinari pueros illofa quenonmodoin
grauiſsimum incidere diſcrimen ,verum etiam acerbam fæpiſe fimè ſubire mortem .
Pecudes inſuper: partuqalacte priuari,equospacreſcene R Falcin Cquote &
emorislegetes abſque fructu colligi, arbores arefcere;ac denique omnia per ſum
ire quandoque videri, AFucovulnera illata,Muſcis contri tisbreuifpatio
perſanari.. " Vm quadam die apud amicos alie , quot cómorarer ,& læti
in měla de more varia confabularemur; ecce vous ex ijs in ſuperiori labro à
Fuco animali vulneratur,quo morſu ſtatim intumuit vulnus,cum maximo patientis
dolore, Amici in riſum ſoli, patientismedelam minimeprocurabant.Ego quidem
alias morfus hos curafle recordabar ; quare confeftim , vt nonnullas muſcas
feruus meus caperet, iulli, quas contritas, dum fupermorfū
impofuiſset,breuidolorie datuseſt ;.tumorq, cúmaximapatientis lætitia;aliorúg,
admiratione detumuit, Quafacilitate vlcera formicantia dan cacoëthica
fanarivaleant. Vidam amicus meus , cumir Hya pochondrijs,vicera formicátia,pra
maque, quæ à nonnullis vermes dicun Q tur,paffus eſſet, ſauitatcm ,poftmultat do
& ifsimis medicis tētạta remedia , ac. quirere non potuit:ylcera enim licet
fac pari viderentur ;renouationem tamen continuo recipiebanta,Vltimò poftan..
nos,& menfes in empiricum chirurgum incidit:quipaucorum dierum ſpatioita
hominem perſänauit. Abluebat primo vlcera albo vino,tum ex - patellis -mari-.
nis puluerem , fiue cinerem Ex Corici bus(exemptis interioribus) couſperge-.
bat,vltimoherba marina vlcera coope riebat; faſciaque premebat, femel in die
hoc vſus remedio vigintidierum fpatio , ægerconualuit. Procurauit arcanum a..
micus, & mihi fideliter communicauit, Fallſsimumeft, quod fertur Viperă o
coitu mafculumoccidere,ipfamque asfuis.catultsinpartunecarie LAG Grauiſsimis au
& oribusaffirma , mine) maſculi caput'abſcindere (ille.n.. infæminæ os
caput inferit ) & fic củoca. sidere, ſed poenam täti facti illam luere.
ſiquia fiquidem Viperinicaruliconcepti, gra-. Jiores facti vifceramatris
cofrodunt,e am que occidunt. Sic voluit Plinius lib . 10.&Nicander in
Thoriacis, quare Vipe. ram aiunt diciab co , quod vi pereat,aut
vipariat.vtrumque autem falfifsimum effe , & experientia, &
grauiſsimorum e . tiam ſcriptorum auctoritate cognitum eſt.Apollonius apud
Philoftratum Vi... peram aliquando viſam fuiffe catulos ſuos; quos peperiſſet
lambere , & expolire aſſeruit. Bodinus in nat.theatr.lib. 33 in Gallia,ad
Clapum Pictauorú flumen , vbi Viperæfrequentiores ſunt, vtriuſq . fexus viperas
lagenis vitreis inclufas fu iffe reculit;illafque peperife, & conce piſle
vtroq; parente fuperſtite, Matthi olurs ex . Obferuatione FerdinandiIm perati
Neapol.Pharmacopolæ Viperam parere catulos ſuos , & non occidiafts-,
ruit;catuloſque-non viſcera matris,led membranas quibns incladuntur diſrúa
pere. Quarerectiusſentimus,fi Vipera non à vi parere,vel perire dicimus,fed
quafit quaſ Viuiparam , quod non oua, vtcæ .. teri ſerpentes, ſed viuum animal
pariat. Iraulos , balbos, & femilingues fieri ob nimiam cerebri bumiditatem
, VA communiseft fententia ab expe rientiaalienumreperitur. Rauli, & Balbi
non ob cerebri hus midam intemperiem fiunt, vt ferè omnes autumant ;
inueniuntur enim hi' modo calidi,modo frigidi,modo humi di,vel ficci, vt &
reliqui, qui nec Traus li,nec Balbi funt;imò & hi modo ( putis "
abundant ; modo ijs carent:quare non ob bumiditatem nimiam cerebri buiure modi
Traulos-& Balbos fieri , fed obt varietatem mearuum , in intrimentis;
pertinentibusad locutionem exiftenti um , docuit experientia.Porrò Trauli, qui
literam R.exprimere nequcunt , in media palatiregione , vbi quartum eſt
osfuperiorismaxilta , duo inueniuntur foramina, quæ nullo modo adeo aperta
& obuia sút, vt ijs , qui optime loquútur, Balbis veròiuxta dentes
maioraobſer . samus foramina,per quæ ſtillans pitui ta,linguamque irrigans in
parte illa an . teriori,bleſam locutionem facit ;; vnde bleſi , &
ſemilingues fiunt: quod fi hæc non eflent haud balbutarent, licet à ca pite
copiofa defcéderet pituita, vtmul tis contingit, quiex hac tamné balbi non
fiunt.Quare fententiaHippocratis2.A phor.32.malè verificatur, cum afferit,
balbos ob frigidam , humidamque ca pitis intemperiem fluxu tentari: Auxio. enim
talis & Balbis, & non Balbis fuc cedit : concurrit tamen hæc fluxio ,
vt caufa remota , qua aliquando cum pro zima,dicitur affe &tum facere
poffe, fi. iunctatuerit :: fola autem facere nequit . vemale Hippocrates,&
alijopinati ſunt ExSanctorio Sander.de pit.en.lib.3. Morbosperniciofos;
velmortem ,veb affectus longitudineminducere. Jana ciuitate, & in circum
vicinis propè Neapolim perniciofifsimi orto funtmorbi,vbiſectis aliquibus corpo
, tibus, eorum Ventriculus bilis copiaz, vitellinæ plenus inuentuseft , eiuſque
: tunicæ , & inteſtina eodem colore per tincta viſa ſunt. Meatusqui ad
fellis; chiftim protendit , ab humoribuscraf fis, viſcoſis, & tenacibus
obftru & us ea . rat. Fellis veſica diſſecta , bilis flaua haud inuenta
eſt; fed eius vice atra , & inſtar atramenti nigerrima.Hepar quo ad
externam partem album erat , in in terna autem nigrum , &atrum , veluti
carbo accenſus, & extindus. Langueno tes,in febrium initio ,vomitu ,
&nauſea, moleftabantur. Eorum lotia craſla icte . rica , & fubrubra
ſemper erant. Omnes. ferè erant icterici, & longo tempore,ſi : qui
euadebant,indigebant, vt fanitatem acquirerent, Ex -Io. Bapt:Cauallario deMore
bo Nolano, ſeu demorbo epidemiali Lupicur paucireperiantur, ouess autem multa
Tidetur quafi abftrufum illud quxar , aucs autem multæ ?'profecto in partu plures
lupaedit catulos,quamouis,quæ vnicum , vt plurimum parit; Inſuper o. ues, &
agni in hominú alimoniam con tinuo occiduntur; luporum autem caro eſui apta non
probatur; nihilominus Q. ues-agni, & arietes ſemper in maioriny mero
reperiuntur, quă lupi.Huius cau fa, prima eftDei bonitas, qui tam imma ne
animal in eius ſpecie excrefcere non permittit, in facra enim Gen. c. 7.Noe, vt
ex omnibus animantibusnūdis fepa, tena, & feptenamaſculum , & foeminam
in arcam tolleret monituseft:ex immu dis vero duo , & duomaſculum , &
foe minam. Secunda cauſa luporum eft faga citas, & in propriam ſpeciemimmanitas.
Hi enim ;cum rationesviuedi deficiunt, ob cibi inopiam in multo numero con
ueniunt:atque in circulo vnus poft aliú currit;vt apud vulgum á villicisparatur
ludus,diciturque Řotalupo;primusau tem,qui viribus deſtirutus, currere ne .
quit &in terram cadit,fit aliorum cibus, renouaturque ludus ad omnium
faturi taté.Hæceſt poitísimaratio huius ſpeci Vhelin ei decremen i , alius enim
comedit alii um . Ex Aeliano vt reor, Antimonij in vitrum reductio, eiuſ
quevires in medicina. 7ltri ſtibium ,quod in longis, & dif ficilibus morbis
propinatur, in e . pilepfia fcilicet ,melarcholia ,podagra, elephanticis ,
reſolutione, in febribus quotidianis,tertianis, & quartanis,peſti fentia
correptis, venenatis, hydropicis, tæphaleis, ictericis, & fimilibus; robu
ſtis tamen corporibus , ita præparatur. Stibiū, quod ex auri fodinis
colligitur, in puluerem tenuiflimum contunditur, teriturq; & fupra ignem in
fi &tilio, rude ferrea,aut cochleari continuo agitando vritur, vſquedum
omnis humor,ac fu mus euaneſcat, quod in ſex ,aut octo ho rarum fpatio
expeditur:deinde calx có teritur, carilloque impoſita,in fornacē inter
candentes carbones collocatur, & igne luculentiſsimo vrgetur,dū liqueſ. cat
picisiftar,poftea ſuper marnorfun ditur,atq; fic ex Stibij vncirs duodecim,
vitri ipfius hyacinthi modo pellucidi, wacja M vncias quinque coliges.
Andernacus Co ment-z.Dialog.7.de nou . vet.med. Solo Metronchita auxilio
mulieres offepragnantes ( omiſsis ceterisindio cys)experimur. Vlta apud
fcriptores , quibusin primis menfibus mulieré præge nantem comprehendere
valeamus, inu. dicia reperiuntur.Dienntmulti,lorij tab. fpe &tione grauidas
nofci;fillud album , clarumque fuerit,in eoque atomi afcen dentes, &
defcendentesapparuerint. Alt ex ſuppreſsis menſibus,deie &to appeti. tu ,vomitu
, & nauſea ante prandiumid conſequuntur.Nonnulliex la & te in.ma
millis,ex arterijs gulæ fi plus iuſto pul fant,ex lentiginibus,fi in mulieris
facie oriútur,ex tumefa & is mámillis , & a ful co earú capitú colore
pregnátes venatur. Cæteri tú ex his , tú ex pódese circa pe dé,ex: vmbilici
egreſſu , ſiin dies fit ma ior, ex tumefa &tis venis , quæ vidétur in nariú
angulis iuxta lachrimalia. Obfte trices.digitisexperiútur an vteriorificiáfue-fat
claufum , vel apertum , ex claufo te nim grauidationem patefaciunt. Non défunt
alij , qui Hippocratis Aphorifs mis confiſi hydromel, & fuffumigia e x
periuntur,epoto enim hydromelle poſt cenam , fi tormina fequentur arguunt
prægnantem eſſe mulierem .-Siilia fuf fumigio acuta per pudenda vfa fuerit ,
fiadnaresodores non perueniunt ', in dicant vtero eſſe gerentem.Hæc autem
figna, quia pathognomica non funt ve lúti futilia reijcimus,& tanquam
abſurdaad meros Empiricos committimus. Nonenim ex lótij afpe & u vere mulie
rem efle prægnantem diuinare poſlumus,nam meatus vrinarius cum vtero :
nihilcommunehabet,lotijque claritasy; albedo,& bulloſa granula in eo
,poflunt morbosetiam ſignificare , vtin cachochimo corpore ſæpius obſeruamus;
hoc itaque indicium prægnantium verum non eſt :Nonexmenſibus ſuppreſsis ,nó ex
vomita, &nauſea, ſiue appetitus de iectione hoc conſequimur: quia affc
& i oneshęc ex multiscaufis, in m ulieribus, quæ pregnantes non funt, affe
&tiones e uenirepoffunt. Non ex lacte in mam millis ; quia id etiá virgines
habere pof Lunt,vt voluit Hippocr.Inſuper inult mulieresin primis
menfibuslacinon ha bent: lacergo non eſt grauidationis ved irum indicium
Pulſatio arteriarum gule, ſolito crebrior conceptum peculiariter haud
arguit,quia ex retentismenfibus, {plenis & ventris tumore & ex pituita
in -pe &tore colle &ta etiam fieri poteft.Len tigenes non in folo
conceptuapparent, :: quippeſignumihoc,neque omnibus,nes queſemper competit,
& in nonprægnā . tibusetiamifta fiunt.Mammillæ tumes fa &tæ ,earumque
capitum fuſcus color, communiafignafunt &retentis menfi bus,&
prægnantibus.Pondus circa pe & en ,non in grauidismodò fed , in rete tis
menfibus, in mola, & veficæ calculo obſeruatur, Ymbilici egreffusex mul 6
tis caufis præter naturam fieripoteſt,nó ergo peculiare grauidarú indicium eft,
Yenæ tumefadęin nariú angulis iuxta lachrimalia , non in grauidis.modo ap 7 parent
, fed in quolibet abdomin's &fplenis tumore,& in occlulis menfi bus.
Obſtetrices anatomiæ ignaræ de queunt intimumVteri orificium tange
sc,licetmanibuscontractent,illud enim valdeà labijs matricis diftás eft,ipfe au
té externá Vteri tantummodo orifici um tractare poffunt , quod femper, &
grauidis , & non grauidis apertum ma net, experimentum Hippocratisde hy
dromelle, & acuto luftumigio non æter næveritatis eft, vtGalenus &
Auicenna comprobarunt. His itaque indicijs vere conceptum explorari non pofle
expla natumeft.cognoſcimus tamen ſigno e uidenti & infallibili indicio
prægnan tes mulieresin primismenfibusMitren chitæ fue Specilli, quo liquores in
Vte rum inijciuntur,auxilio.hoc apud vete. resin magno vſu erat. Profecto ;li
illius in foramen Vteriexternum apicemin . mittimus, quod fumma cum dexterita
te finiftræ manusdigito indice inuenie . mus non enim quilibet inexpertus in
yenirefciet, eft ſiquidem externum V. çeri foramé in vuluæ apice particula obe
longa, & duriuſcula , quæ exigui penis puerorum exprimit imaginem)ſi ex
pice ſpecilli liquor aliquis fuauiſsimus ficut efle vini tenuiſsimi
pauxillumine forte exiſtente coneep'u fequatur:abt ortus) exprimitur, breui
tractu votum I affequemur, Sienim obturatum eſt in timum vteri foramen , quod
fit concep tu pera & o liquor Vterum non ingredi gur,& mulier faftidij
njhil perfentiet. Sin autem ex intromiſlo liquore velli , cationem paruam
pertulerit mulier: quod facile fiet ex maximo ſenſu parti um
vteri,vưiquegrauida non erit; & V teri intimum foramenapertum reperiea tür,
vt experientia liquoris oftendet. Sand.Sanctor.lib.1.de vitand error .
Periculofum eft pifces frixesin humido locarefor matos fomedere; Nter magna
venena piſciú frixorú , quireſeruantur inhumido, vel qui Aeterint cooperti
calido vaſculo , eſus eft;bi enim in lethiferú cómutantur ver nenú ,
&fymptomata pernicioforú fun gorum corporibus inferút, quæ quan doq; non
ftatim ,ſed poft diem , vel bi duum eueniunt : oportet igitur frixos pifces in
loco aperto ,vtfrigeant, demita tere , fi venenimalitiam cupimus euita re.Ex
ArnoldoVittan .lib.de venenis, 10 . Lałtis balneum procorporis decoratie
onemultum præftare. Pud veteres lactis Balneum max A idve vu, illiusfiquidem
lotione,corpora , & candore, & venuſta te vigebant. Hinc memoriæ
proditum eſt Poppeiam Neronis vxorem quin gentas ſecum aſellas ducere
conſueuifle, quarü lacte,vt candefieret , totü corpus balneabatur. Mercurialis
de Decoratione. Germantantiquitùs corporis firmi tadinimaximèvacabant. M Agna
profe &to faude Germano rum conſuetudo,digna iudicatur in corporum hominum
vigore confir mando :ijenim legem habuerunt,neant te ætatis vigelimum annum ,
quiſpianti Venereis amplexibus commiſceretur, recte exiftimantes corporum
viresà nim mis tempeſtivo coitu eneruari.Cefar 6. de belloGalico. Fæminas vtero
gerentes , libenter : marem admittere :bruta autem grauida nequaquam . ! Olie
Vam diſsideatmulier à brutis gra uidationis tempore, bene nouit A rift.7.de
biſt. animal. cap. 4. Hæc enim ſigrauida clt, marem admittit,brutoru vero
omniumſola equa coitum patitur à conceptų , reliqua autemminime. Ma
nifeftifsimum eſthoc in ſpeciehumana mulierem grauidam coitum pati, & ap
petere. Cicutam ,vterinum furoremex " : tinguere. Icet cicuta inter
frigida connume. retur venena , præcipuè quæ in quis, &lacubus
inuenitur,furoris tamen vterini, fiue Satyriaſis remedium it. Hic affectus
Veneris eſt immoderatus appetitus , cum vteriardore , & delirio, Narrat
Diuus Baſilius quaſdam vidifle fæminas, quæ Cicutæ potione rabioſas capiditates
extinxerunt.Hoc legiturs. Liebe Homil.fup.Hexaemeron ,cuiusverbanotr nulli
intelligunt de ciborum appetitu, ego tamen potiusadfurorem vterinum , &ad
renereos incentiuosappetitus de ducerem , cuius auxilio compefcuntur: quippe
Athenienſes facerdotes cicutæ vfu ,libidinisincendia extinguere con
ſueuiſſeproditum eſt. Variolas &morbillosmorbos effe no yos, &
hereditaria, &paterna prom prietate vagari. Agna eft difcordia inter
feripto , origine. Aflerunt multi , hos fub nomi neexanthematum , veteres intellexiſſe,
cauſaſque illorum reliquias efle excre mentifanguinis menftrui, quo nutriun fur
fætusin vtero , & naturam , fiue calo . remnaturalem, ita exprimunt
materiá, & efficientem . Alij minimeà veteribus fuille cognitos volunt ,
digladiantur que:num vitio .coli,vel ab internis cor. poris principijs
apparuerint: quippe Arabes, quorú tempore cæpiffe hic mor buscreditur, eos
peftem efle , fierique in pefte , & à corrupto cælo contendunt. de Equidem
ante Arabum tempora nul lus-reperitur au & or, à quo morbos hos LT aut generatos,
aut clare explicatos ha beamus.Proptereamulti latini, &non nulli inter
ipſos Arabes, propter labem menſtrualem , lactis corruptionem , vi &tus
rationem , & alias cauſas fieri fcrip ferunt.In tanta rerú difficultate ,
& ob > fcuritate.Hieronymus Mercurialis vir d octiſsimus, hosefle
morbos hæridita o rios,ortúqueà cæli vitio temporeſcrip e torum Arabum , &
proinde à veteribus haud fuifle cognitos enucleauit. Adhu ius viri opinionem
libenter deuenie , quippęſi à menftruivitio, homines in ficerentur , quia hocab
Euæ peccato à mundiorigine fempiternum fuit ,debu iffent homines hac
menftruorum labe conta&i ſemper Variolas, & Morbillos pari,tamcn vec
inprimaætate, nec poſt Noe,nec ante ſcriptores Arabes quem piam hos habuiſle ,
apertè legitur. Aperiunt iſtorú fundamentum efleiro walidú bruta fanguinea,hæc
enim ( teſti monio Arift.6.de hiſtor.animal. 18. ) mé ſtruas purgationes
habent, & inter cæte. ra Equus,Canis, & Alinus,tamen hæc à Variolis,
& Morbillis non tentantur. At quodhuius reimagis negotium conua
lidat,eft,Indosante Hifpanorútranſitú nequaquã Variolas paſſos, dirco non à
reliquiis nutrimentià menſtruo fangui ne,velab iſtius excremento ortú ducunt
Morbilli; quia ſià tali fuifsét variolarú, morbillorúq; origines,vtiq;ij hos
mor bos experti fuiſſent. Legitur apud Ra mufiúIndiæ incolas,vitioCęliplurimos
Variolis fuiffe extinctos, eoq;tempore, quo noftriáb illis gallicam luem accepe
runt, cordemmet viciſsim à noftris Va riolas, & Morbillos
recepiſſe.Suntergo hi morbi noui à Cælo productiprimò, cuius vitio adco homines
fædati funt, vtin pofterosper hæreditatem maliſée minarias cauſas tranſmittant,
proinde morbi hæreditarij dici merentur , quia paterna proprietate vagantur. Ex
Mer. caridi. A1 th Dearaneorum telis,earumque ufuo inmedicina. Iro artificio Araneus
telas ordi M tur , quibusmufcaspro vi&u ta . piat , hasad Tertianę febris
circuitusde pellendos,multi præftantes, & celébres tempeftatis
noſtremedici,non fine feli ci fucceflu in vfum præſtitere:fiquidem exiis ,
& populeo vnguento pilulas pam rant,corporiſque locis,horisaliquot an , -
te acceſsionem ,in quibus arteriariume uidens deprehenditur pulfátio,
colligātas &relinquunt; indė votum conſequun . tur. Ioannes Moibanus. -
Natur& cautela inmenftrualimulier rum fanguine purgandomaxi-, ma eft ,
MalenAgna eſt, in depurandis femina rum corporibus à menſtruali luc, naturæ
fagacitas ; quippe fi oculos habuerit meatus, quibus lingulis men fibus illam
deponere conſueuerit,nouas adi illius expulfionem vias molitur. Proptera.multæ
, ex oculis cruentas, laie. chrymas,aliæ ex narium venis farguinis profluuium
emisêre,nonnullæ ſputa ru bentia pafſæ ſuntin menftruorum cefla tione.Ipfein
quadam ancilla noſtra, cui menſtrua occlufa erant, ex gingiuisſan guinem
profundere obferuati.Atquod magnam infert admirationem , multæ per minimum
manusdigitum ,& per an nularem fingulis menfibusfanguinis fu . fionem
habuerunt,vt in religiofa qua dama foeminanon menſtruante ter in fin niſtra
manu Ludouicus Mercatus fami. geratus medicus obferuauit. Inter rutam do
braſsicam nullam imao effe antipathiam . Xſèriptoribus in re ruſtica malti, fi
. fecus rutam feratur, braſsicam illico arefcere tradunt. Aliam von adducant
cauſam , & rationem , quam antipathiam, & diſparitatem quandam inter
talium naturam.F utile autem eſt hotum argua. mentum , nulla enim inter rutam ,
& braſsicam.contrarietas eft, quia tamen alte . Elec NO altera prope alteram areſcit, id in cauſam
eſle poteft ,quiavtraque calida, & ficca - eft , inde facile euenire poteft
, vt ob humiditátis inopiam altera, vel amba i ariditate perdantur. Pediculos
morientium corpora miris Jagacitate relinquere. on leue à Medicis præfagium à
pediculis in grauibus hominum valetudinibusſumitur . Hi profe &to in
moritüris; quandờadeo intenfà eft huis morum corruptela, ve calor innaus re
foluatur, vel putreſcat , circaventricule regionem , vel fub-mento, vbi maior
eft " ealiditas congregantur,parteſque extrbó mas, tanquam calore proprio
orbatasderelinquunt. Quodcalorem proprium penitus exſolui cognouerint, ab
infirmi corpore mira celeritate longius abeſle: confpiciuntur. Lemnius. De
Achatis lapidismirabili. natura A Chates lapis, qui ex India fertur, tum
coloribus diuerſis , tum ve D4 piss TA m nis variari confpicitur , ex quorum in ..
terſectione diuerlæ imagines multoties, fabricamtur .Quod autem mirabilius eft,
nuncferarum genera , flores, aut nemo ra,nuncvolucres, autRegum naturales, hic
lapis portendir effigies : quippe fer tur in Achate Pyrrhi Regis, & capuri
, & feptem arbores in quadam planitie ap parentes extitiſſe , Ex Camillo
Leonardo de. lapidib. Ferarum natura in hominibus mie rum in modum deteftanda..
On eſt à ratione alienum , quod de Attila circumfertur , quod Canis more
latraſſet : quippe Ioannes; Langius clari nominis medicus ab equi-.
tibusComitis Palatini feaudiuifle retu lit, quod in Auftria homine, qui latra .
tu ,ac curlus pernicitatecumcanibus co tenderet, & cũillisin ſyluis illæfus
ve naretur,vidiffent. Hæcauténaturaabfq; dubio deteſtanda eft , quippe tales .
im manes ſunt, & in hominum occiſiones procliues, vtAttila crudeliſsimus
fuit, NRege in es Ees & in viuentium cædes pronus , à quo tot Vrbes, &
populi vaſtati ſunt.. Non modòinfæminaslaſcinire homi : nesverum , etiam
brutacernuntur . Omines laſciuire in fæminas, nec nouum ,nec inauditum eft cum
anebo fub humana fpecie contineantur. Quod autem bruta in eafdem laſciuiant,
mirabile eft,Plutarchus in Dialog. Ele phantem in Alexandria fæminam qua- - dam
,quæ coronas ſutiles componebat, fuiffeque Ariſtophano Grammatico rio ualem ,
adamaſſe retulit: A micę,per pla team tranſiens Elephas,&poma, & frum
& us donabat, multiſque indicijs , & a morem , & ad fervitutem
promptitudi nem declarabat,læpeque à latereafside bat, & laſciuè mammarum
loca tange bat,Serpens etiam quidam (teſtimonio eiuſdem )puellam ardentiſsimè
adama uit,no & u ad illam accedebat, placide. - que amplectebatur, &à
latere dormie bat, luce autem aduentante nulla illata kelione
diſcedebat.Parentes,ne à ſerpé tele . t n itas te læderetur, aliò puellam
afportarunt: Ille autem ad amicam vltimo peruenit, quá nonmorefolito'amplexa,ſed
qui dam amantium ira in illam irruit , ma nuſquepuellæ nodis vinciens,caudæ exe
tremitate amicæ tibias verberebat, profecto præreritę fügæ ,atqueablentiæ:
iniuriam vlcifci videbatur: Quomodofamine vterogerentes:
conceptumvaleantoccultare. Aximam Sabini cuiuſdam Roe mani vxoris in occultando
conceptu referam ſagacitatem , quo præfi dioaliæ confimiliter,fi optabuntfæmiö.
næ à conceptionis.indicijs faciliter oe cultabuntur.Illa quidé dû aliæ
mulieres; fecum lauabantur ventris tumorem ce .. Jare cupiens, vnguento , quo
ruffas, & aureascomas.reddebat,ab vtero corpus vniuerſumlinire folebat.
Illius erat vis pinguitudinem , ſiue carnis inffationem , aut laxitatem
efficere , propterea com . Go: lange in corporis particulis vtebatur, Hlud
tumeftumrepletumque redde MA bat, ventriſque tumorem ' occultabat. Parabatur(
vt' puto )'vnguentum ex res bus rubificairtibus,& puftulas inducend
tibus,calcefcilicet,auripigmento , tiap s. fia , & lulphure, hæc enim alijs
rebus co --- mifta veteres ad capillorum cultum cad 1 piebát,ſin a.in aliqua
corporisparticula applicantur ex magna caloris vijaut hu mores ex alto ad
fummum :trahuntur; aut ipfis fuſis.gignuntur:flatus cutis, & extima
corporisſuperficies attollitur, & in maiorem molem ducitur.Ex Plutarc... inlib
- epwTikā . Fructuum , vinearum ,iumentorumga interitus praſagium . Agnun à
mori germinatione ca Lpiturpræſagium , mörus enim . ideo à Theophraſto
prudentiſsima vocatur , quia omnium nouiſsima gera minat , & pruinis non
tangitur : Idcirco fructus, & Vineæ à mori germia minationeà pruinis liberi
fünt. Ea tam menquando à pruina lædi contingit( fia: D G quidemosi M Ty & fiquidem
læſam in Aegypto, vt in pſala mo77 legimusMoyfis , tempore prodia tur fuiſſe
)Colimaximamarguitintema periem ,& proinde fructuum , vinearum . que
interitum declarat.Atmaius ab vl. mo &perſicopræfagium capimus, quip
pèvlmi, & perfici, folia , præter tempus decidentia ,peftem inomniiumentorű
,. &pecuino genere præfagiűt. Ex Cardano., Fætoremextinéta, lucerna vteroge
Trentibus,infeftumeffe ,& ini. micuin ... Dor extinctæ lucernægrauis,adeo
tur , vt in abortum faciliter conducat. Id : alleruit Ariſtot.8.de hiſt.
animal.c.24 . vbi non modo mulierés grauidas,,verú . didit.Profecto malus odor
fi odor. fi prægnana. tjú corpora ingreditur, quia fætus im becilliseft , &
à quolibet alteråtur,facili negotio inficitur, eius caro tenerrima, &
ſpiritus inde abortusſequitur.. At no Kemelextinctalucernæ fætor perniciē.
quoque Ila He 4 i quoquc hominibus attulit, vt carbones in cameris teſtudinatis
facere accenficó . fueuerunt. Duos monachos retulit Pe. trus Foreftus in
obferunt . medicin..cum nodu cellam ceruiliariamintrașent , vt fæcem
cbullientem exportarent,( fortè candela extincta )cum exitum non inue
nirent,ſuffocatosfuiffe ,ac mancmortu . os effe inuentos. Infania ,&furori
àfolanofluatico contrattis vinum potentiſsimnmfora gulare eſe prafidium .
Olamur . fyluaticum , quodà multis Belladonna dicitur,tantæ eft immani
tatis,vtinlaniam , &furorem hominibus eiusacinos.comedentibusinducat, AC
cidit cuidam ( referente. Hieron. Trago dib.i.hiftor. ftirp.) quiin fylua
plantam vi. derat talis calus: hicmultos decerpfit acinos, & deuorauit :
altera verò die in tantam inſaniam ,& furorem deuenit, vt plerique illum à
Dæmone obſeſlú cre derent.Intellecto tamenmorbo, vinum fortiſsimumà. Trago illi
propinatum Spelaria D ? esto) eft, quo
facto conſopitus,paulòpoft con ualuit, & abfquelslione vixit, Lolium
tritico ", alýſque cerealibus : commiftum varia hominibusfymptom mata
attulille. Anis,in quo- lolium fuerit, ſtuporem quendam ,ac veluti temulentiam
efi tantibusparit cum fòmno inexpugna . bili.Id Gatenus afferuit lib.1.de
Aliment: facult.Etenim ( inquit )cum anni confti tutio praua afiquando fuiffet,
lolium tritico affatim ispaſci contigit , quo haud feparato, quod paucus effet
tritici prouentus ftatim quidem multis caput dolere cæpit ineunte æſtate in
cutemula torum,qui comederant vlcera ; & alia fymptomatafunt fubfequuta,
quæ fuc corum.prauitatem indicabant, Lolijta . mennocumento acetum efle
præſenta Deum remedium iudicatur. Quare tum Htritico ,tum abalijs feminibus
cerealio busdiligenterloliumfeparandum eſt. Scorpio Scorpioidem herbam
Scorpionum : iltus feliciter fanara. Irabilis eft herbæ Scorpioidis in : M
Scorpiones potentia,illi quidem huius tactu ,exocculta diſcordia exani. mantur,
&intermoriuntur , tantam in ter eosanthiphatiam natura indidit.As'
quodmirabilius eſt exanimati Scorpi. ones,fi Hellebori albi radice tanguntur;
ad vitamreuocantur. Propterea.Scorpi oides,Scorpionum ictibus impoſita fe
liciter & citilsimè illorum virus mor , - tificat,viculque perſanat ex,
cuius prz . tentancain illos virtute à Scorpione now. men fumpfit, &
Scorpioidesdi&ta eft. Mirabilesin biomiwibus proprietatesquase doger
adfuiffe. Dmiranda profe &to in homini bus quandoque vifa funt. Regem
Pyrrhum aiuntpollicemindextro pede natura habuifle , cuius , taču lies nelis
medebatur : bunc cremari eum religae A réliquo corpore haud potuifle perhibet
.. De Samplone legitur infacrisLitteris, quod in capillitio mirabilem
contineret virtutem , qua aduerfis quibuslibet re fiftere audebat.
Veſpaſianūtactu .& fali ua, & fine his quandoquenon paucis af
feátibusmedicatumeffe tradunt.Ego e. quidem idiotam cognoui hominē, qui
Ipuitione ſola in osinfirmi ranulas per fanabat, &licet primoafpe & u
a&u De Monisid perfeciffe dubitauerim , quieui tamen ,cum fimpliciter
curamagere illú : cognouerim . Dolorem colicum Bubulo ftercore per Sanari.
Agnam Bubulo ſtercori" dolorem colicum fanandi indidit efficaciamquippè
apud fcriptores legi, & à fide dignis audiuiffe viris afferit Geſnerus,
illius potu complures ruſti.. cos fuiſſe liberatos,qui enim ftercus ari dú in
iuſculo bibit, ftatim fanatur. Hinc apud multos mosortus eft ,vt nonnulli
nonmodo ipſum excremét aridum ,ve rum. 1
E1 uum recens, & expreflum iufculis ebi bant, & melius habeant. Ego
quidéru fticis tantummodo remedium præbe rem , nobilibus vero, ne nausean indu
cerem ,non auderem ,cum nobiliora pro ijs habeamus præfidia , ſufficerent
tali.. bus ex eodem ftercore cataplafmata, vt enim reor,ex proprietate tale auxilium
colico dolore vexatis,ſubire confueuit. Epilepſiamfrumafqueverbena ako xilio
evaneſcere. Aturalis Magiæ profeſſoresverbes: nam ( Sole Arietemi ) colle &
am graniſque pæoniæ fociatam , contritam , & ex vino albo hauftam per
colato , epilepticosinftar miraculi fana . re prodidere.Hoc exHermetetraditur.
Nop.minoreft ejuſdem radicis efficacia, quippe collo eius appenfa, qui ſtrumas,
patitur,mirū,ac infperatum adfert pra fidiumReferunt Aſtrologi hanc Vene ri
effe dicatú , ffrumaſque delere ,quod Veneri ancilletur , quæ collo præeft,
propter Taurum eius domicilium .. Ex. Durante inHerb. N 1 1 1 1 i Arbores
quandoque in lapides commutantur: N Danico mari , iuxta Lubecenfem vrbem
Alberti Magni'ætate, arboris ramus inkientus eft cum Nido, & pullis, qui
cum in lapidem omnes, cum arboré & nido eflent conuerfi ,purpureum ta = men
,( vtipfe retulit Jadhuc colorem fa um retinebant. Georgius Agricola eti am
memoriæ tradidit,in Elpogano tra étu, iuxta oppidum à Falconibus cog nominatum
, Abietes integras cum cor tice in lapides verſås elle ,atque , quod maius eft,
in rimisetiam porphyritidem Japidem continuifle , quod maximè foc Tertiſsimæ
naturæ operibus tribuen dum eſt. Bardanamaiorcum mulieris piero magnam baber
ſympathiami quæ MPerfomatia diciturinmulieris yra rum , magnaque eft cum illo
eius fym. pathia , quippe illius foliun lämmo ca. pite geftatum matricem furſum
tollit, fub planta pedis deorſum . Propterea huiufmodipræfidium aduerſus matri
cis ſuffocationes,præcipitationes, ac tiſo locationes præſtantiſsimum à multis
iudicatur. Ex Mizaldo, Quomodo literas axrei colorispinger . valeanks. VI T
literas aurei coloris habere pole fimus,auri ſolia quot libuerit, eli gemus
quibns mellis tres vel quatuor guttas miſcebimus, hæc infimul conte renda funt.
ad vnguenti fpiſsitudinem , in ofleoque vaſculo conferuanda, Cum autem ad
ſcribendum .huiuſmodi mir ftura vti volumus,aquæ gemmaræ ali quid addendum eſt;
vt operi liquorap tior exiftat:ita profe & ò litteras habebi.
musincomparabiles. Ex Alex. Pedemono Lano. Qyomodoveftigia; & défórmitates
vario lis,&morbillis bomines poſsint. euitari. Ne 92 E morbillos. in facie , corporeque hominum
remaneant , expertifsimum apud me, quod in publicam vtilitatem placuit
aperire,eftpreſidium ,quo vten tes pueri puella quedeformidate , quæ ab ijs
relinquitur , carebunt. Cum va riolæ, fiuemorbillimartruerint, & in medio
oculi quafi albicantes enricu erint , quod eft fignum bonæ matura tionis,omni
die bis oleo amygdalarum dulcium recers . expreffo plura leuiter oblinire
oportet, donecexſiccentur , ita profe & ò, vt fæpius experiri libuit , ve
Itigia non remanebunt; & quod melius eft,oleum hoc'excoriatas variolasmira
. bilíter ad fanitatem perducit. Quantum in hominibus: vfus vene norum valeat.
Ithridates fæpè veneno epoto , adeo venenorum tis auxilijs corpus
diſpoſuit,vtcitra of fenfam venena ebiberet. Cum autem à Pompeio profiigatus
eſſet,atque in ex trema:I trema fortunæ miſeria conſtitutus, è vi e taillæſus
diſcedere feſtinabat, quaprop ter venenum hauſit , & pluſquam fatis
eſſet,nectamen emori potuit,cum con tinuus venenorum vſus in hominum naturam
pertranſeat.Ex Plinio . Inhominibus vermes figura maximè differunt. V 23 5
admodum funt differentes, quippe in quodam Antoniano CanonicoMon tanus
obſeruauit.Hiccolico dolore tor quebatur , cuius moleftia Hierameram
deuorauit,vermemque deiecit.Erat ille viridis, figura lacerti, ſed craſsior,
hirfu . tusq ;, & pedibus quatuor innexus.Breui tempore à fera propulſa,
canonicus obia ic:contra illa in vitrea phiala aql a plena, per menſes aliquot
viua ſuperſtitit. Ex codemMontano lib.4.6.19 . Calculusrenum , veficæque in
homi mibus, quopacto confumi valeat. Lapil t Apillus, qui in Tauri veſica ,men {e Maio
reperitur , magnam habet in conſumendo calculo efficacia. Hic fi vino imponitur
, mutato paululum ſa pore, colorem croceum contrahit. De hocvino quotidierecens
effufo , donec lapis vino impofitusomnino conſum peus lit, à calculo infirmos
bibere opor. tet. Hac enim ratione, nó modo calculú comminui, verum etiam
conſumi mul. tos experientia edocuit. Ex Quercetane. Filiosà parentibusfignum
aliquod recipere , vulgatifsimumet. " Ilii omnes patrium aliquid, aut aui
tum ad vnguema retinere folent,ver Tucam ſcilicet , vel cicatricem , vel effi
giem ,velmores , autmanuum lineas.In domo noftra omnes à parentibus verru cam
in brachio habuimus, & Marcellus filius meus ex me confimiliter. Proue
niunt hæc à feminum miſcela , ſpiritu umquevtriuſq; parentis ſeminaliú,auo
rumq; effuſione. Proptera etiá ſuccedit, File ( fire fi feminain filiorum
generatione benc mifcentur,atque in minimas partesiun guntur) vt fætus robuſti
euadant. Hac enim rationefpurij robuftiores exiſtunt quoniam ob amoris
vehementiam , ve triuſque ſemina multum , beneque.co . ráiſcentur:Ex Cardano de
subtit. go D: Marerubrùm in plantisproducendis terre vigorem obtinuiffe
videtur, to Adel D mare rubrum afbos nulla in terra prouenit ,præter fpinam ,
quç dipras vocatur. hęc autem propter fer uores, &aquę penuriam rara etiam
eſt, quippe non nifi quarto , quintoue anno pluit, & tuncquidem impetuoſe,
breai quam te?mpore. At- in mariexeunt plantz , cat quelaurum & oleam
appellant.Läu rus arię fimilis in toto eft, olea folio ta tum fru & um oleę
proximuin his noftris oliuis parit , & lachrymam -emittit ,ex qua medici,
Irftendo fanguini medica Hentủ compopunt: Cú auteaquỵ plures inceflerit,fúgi
iuxta mare quodãin loco crum HM erumpunt,qui Sole tacti, in lapidem co
mutantur. Ex Tbeophr.in 4. de hift.plan. Incapillorum defluuio ex Hydrargynı
lac epotum peculiare iudicatur auxilium . . rifabris capillorum defluuium in ducere
conſueuit, aliaque ſymptomata; quæ tales in mortis pericula conducunt. Pro
huius immanitate, vtiin potu capri no lacte, illudque cum pane commede
re,fingulare & expertum eft remedium ; quippe ſedata illius vi,atque
potentia,à veneni morte liberanturægri, & piliite rum nafcuntur. Ex Foreſto
in obſeruat.med . Inter Lupum , Agnum maximam effe antipathiam . Tantralis
difcordia,vt ipfisemor. , tuis in eorum chordis id etiä eluceſcat. Si enim ex
Lupi, Agnique inteſtinis, chordæ conficiuntur, in inftrumentis muſicis
applicatas minime concentum vocefque lonoras reddere,fed continuo tadas Bo ta
&tas dillonare obſeruatum eft :at quod mirabilius eſt , agninas chordas à
Lupi funiculis corrodi , & confumi, fi fimul n repofitæ fuerint,comprobatum
eſt. I demde Aquilæ , &anſerum plumis fer tur, Aquilæ enim pluma naturali
antia pathia anſerinas poſitæ interplamas , vt docuit experientia eas conlumunt
& corrodunt, Quadam pro Epilepſia admiranda reperiun. RiaabHoratio Augenio
ioluiscá . (ult.pro epilepfia curanda magne efficacię proponuntur remedia.
Primo lococarbo eftille odoratus, qui fub Ar timiſiç radicibusęſtiuo folftitio
colligi tur, quiper dies40.infirmis,aliquocon ucnienti liquore exhibendus eft
mane ieiuno ſtomacho.confircor ego cuidam , epileptico huiuſmodi remedium ada
modumprofuiſſeSecundo loco ,Mufte lę fanguis adducitur , hic pręſtantiſsi. mus
proepilepfia ſananda cenſetur,au. joris experimento, vidit enim fanatum E
epilep probauit , fanari confueuit . Colligitur epilepticum fupra 25.annum
,ſolo huius fanguinis vfu potati ſcilicet ftatim at queè venis exiſtadvoc.ij.
cum vnaacer. ti :Vltimo loco tefticuli Apri,aut faltem Verris fiueSuis
domeſtici-Venere vtéris; &tefticuliGalliexiccati in furno mira biles
cenfentur;hi in puluerem tenuiſsi. mèredađi, cum zuccaro mifcentur, & decem
continuis diebus epilepticis ad drach.tres,cum aqualettonicæfelici cũ
fuccefsu.exhibent. Flatuofam inmembrisconuulfionem lignoce peſcoperfanari,
Onoulſio illa, quęà flatu in mufcus lis , & membrisoritur cum dolore, Chanc
noftrirampham ,ſiue gramphum.yo cát)nodis ligneis à viſco , quod in quer.
cubus'adnafcitur, vt experientia com С. viſcuin aftiuo tempore,Sole in Lepois
fickere commorante,tunc enim perfectia onis complementumadeptum eft, Dc. bent
nodi ligneiillius, loco patienti fu perponi, vtitarimfiatus: diffugiat ,pio gui
ficco, renuiq; prædirum eftlignum , * aut occulta ratione, vtvoluirCardanus
Confiteor,multis taleprælidium ad pre feruationem meconfuluiſie ,votumque $
fuiſſe aſſequutosſola iſtius ligni tuſpen y fone. Annult ex bubalorum cornibus
| huiufmodi etiam dolores prohibere multa experientia, ex eodem Cardano i
obferuati ſunt. Quomodo nonnullorum animalium vent num corpora vostra
ingrediatur. Pedido Halangium cum aliquem momor . dit , quamuisparuum fit
animal,ex . - iftimare tamen debemus, venenum ex ipſius ore , primo quidem in
ſuperfici em ,deinde vero in totum corpus defer ri, Præterea marina turturis ,
ficuti , & terreni Scorpionis aculeus , quamuis ir extremam illam
acutiſsimamque par temfiniatur , vbi nullum foramen eft , per quod venenum
deijci pofsit,neceffe en eft vt excogitemus ſúbftantiá quianda ineſſe illi,aut
fpirituale,autAgidam ,qnz E vt mole minima , ita facultate eft quam
maxima.Siquidécú nuper fuiſſet quida ict Scorpione, videormihi eſle(inquit)
percuſſus grandine:eratque omninofri gidus,frigidoq;fudore perfufus.Quip pe vbi
exicta parte,pertotam iplamce leriter diſtributa fuerit venenivis,con tingiteam
, endemrurſus.contactu ,in fingulas ſubiectarumei partium recipi: mox ex illis
inalias continuas, done: in aliquam peruenerit principe :quo tem forémortis
periculum inftar. Ad hanc remin primis conferunt vincula parti bus fupernis
inie & a, abſciſsioque pare tium venenatarum . Noui equidem ru fticum
,quiepoto è viperis medicamen to , reſciſlo priusdigito euafit, ficut , &
alium quendamqui ſola ſectione circa medicamen eſt liberatus. Hac Galat. 3.
deloc. aff. Mirabile ad Strumas gurturis, ramicem , Adem44 Yemedium . Dmirandum
remedium ad ſtru . A mas. Cupreſsi foljaneque teneri. ora ,neque duriora in
puluerem com di minties, tortiuo vino confperges, atque ita volutabis , dum in
fæcis corpus coe TH ant, inde fruma, velramex indecitur, pe tertio primum die
foluitur medicamen tum , contractum locum inuenies, quidie o gitis-exprimidebec
rurfus ad tres dies idem pharmacum applicabis,eodemque modofolues
,&exprimes;feptimodie, vel ad fummum pono , ſtrumæ velut miraculo
abolebuntur. Valet etiam ada ramicégutturis, parotidas,omnemdur se ritiem ,
& ædemata. Hie tollerininhere fit.Chirurg.6... Peftilenti tempore in :er
pracipua-prafidia: aeris re&tificatio fummum iudicatur. Mnilaudedignus,
omniq; decore admirandus Hippocratesiudican dus eft ,qui peſtem illam ex
AEthiopia ad Græciam venientem , non aliorepu lit auxilio, quá aeris
purificatione.Præ cepit enim ,vt per totam ciuitatem ignes accenderétur ; qui
non è fimplici folum materia ,fed etiã beneolenti conftarent. Qua propter ,
& coronas odoriferas , florefquearomata ,vnguenta pinguiſsi magrati odoris,
& alia iucundosodores fpirantia, ciues igniſpargebant, quo paa Eto aer
purusfa & useft ,& ijà peſte tuti fuerunt. Ea fuit magni Hippocratis
dia ligentia. Ex Galeno. Portaldara fenuinis contra lumbricas: magna
estefficacia. Nlumbricis necandis nonmodòPon tulacz aqua ftillatitia aptiſsima
iudi.. catur ,verum etiam illius femen.Narrat enin : Arnaldus Villanoua ,
quendam puerum , dum effet in mortis periculo Conſtitutuspropter lumbricorum
mula titudinem drach.jem . feminis Portula cæ cum lacte fumpfiffe,atque
lumbricas multos emiſiſke,fuiffequeliberatum . Quorundam animalium vita
terminus con. ftitutus,quis fit. epusannis decem viuere fertur, & Catus
totidem . Capra o & o . Afinus triginta.Quisdecem : fed vir gregisfæpè quindecim
. Canis quatuordecim , & quandoque vigintiTaurus . quindecim . Bos,quia
caftratus,viginţi. Sus, & Pauo viginti quinque.Equus-vigioti,&non
punquam triginta , inuenti funt, quiad quinquageſimum peruenerint.Colum biodo ,
vti etiam Turtures. Perdix vi. ginti quinque , vt &Palumbus, qui non
nunquam ad quadrageſimumperuenit . Ex Alberto Låddoloresarticulares electuariano
mirabile. Periam electuarium illud mirabia le , quo ego in doloribusiun
&tura rum, & in arthritide cum felici fucceffua nor femel vfus fum .
Huius auctor Pem trus Bayrus eft,licetipfe Galenicompofitionem efle dicat in
-lib.18 : fuæ Praski. Confiteor fubito ſoluere finemoleſtia , ignitum caloré
extinguere, & membra patientis adeo contemperare, vtmultas viderim ,
endédie, qua pharmacum acce. perant, à ſella ad locú propriúſine alte rius
auxilio languētes redire. Capiútur Hermos Qua propter , & coronas odoriferas
į floreſquearomata, vnguenta pinguiſsi magrati odoris, & alia
iucundosodores fpirantia, ciues igni ſpargebant,quo paa cro aer purus fa &
useft , &ijà peftetuti fuerunt. Ea fuit magni Hippocratis dia ligentia. Ex
Galeno.. Portulara feminis contra lumbricos. magna est efficacia. Nlumbricis
necandis nonmoddPon tulacæ aqua ftillatitia aptiſsima iudim . catur ,verum
etiam illius femen . Narrat enin : Arnaldus Villanoua , quendam puerum , dum
eſſet in mortis periculo! Conſtitutuspropter lumbricorum mula titudinem
drach.jem . feminis Portula cæ cum lacte ſumpfiffe,atque lumbricas multos
emifiſke,fuifíeque liberatum . * Quorundam animalium vita terminus.com
ftitutus,quis fit. epusannis decem viuere fertur, & Catus totidem .
Capraodo. Alinus triginta.Quisdecem : fed virgregis læpè. quin io rabia quindecim
. Canis quatuordecim , & quandoqueviginti.Taurus quindecim . Bos,quia
caſtratus,viginti. Sus, & Pauo viginti quinque.Equus-viginti, & non
punquam triginta , inuentiſuật, qui ad quinquagefimum peruenerint.Colum biodo ,
veietiam Turtures, Perdix vi. ginti quinque, vt &Palumbus, qui nons nunquam
ad quadrageſimum peruenit . Ex Alberto Laddolores articulares electisarianos
mirabile . le,quo ego in doloribus iun & tura rum , & in arthritide cum
felici fucceffu non femel vfus fum . Huius auctor Pew trus Bayrus eft,
licetipſe Galenicompo fitionem efle dicat in lib.18. fuæ Brasti. Confiteor
ſubito ſoluere ſinemoleſtia, ignitum caloré extinguere, & membra patientis
adeo contemperare,vtmultos viderim ,eadédie,quapharmacum acce perant, àſella ad
locú propriú fine alte rius auxilio languētes redire. Capiútur Hermodactylorum
alborum à cordis fuperiorimundatorum , & Diagridii an ..
drach.ij.cofti,cymini,zinziberis,cario phyllorum an.dracij.trita , &
cribellata conficianturcum fyrupo fa & o exmelle , & vinoalbo inuicem
coctis,donec ſyru. pi bene codi formam recipiant. Dofis eſtà drach. ij.ad drac.
iiij.fecundum in firmi tolerantiam . Auctorconfitetur ter ab huiuſmodi
doloribus fuiffe correp tum ,& femperinaurora huiusele & uarij ( quod
Diacoftum vocat )vnc.ſem , acces piſſe, & in vna die conualuiffe. Ego dia-.
gridium in minoridofi,exhibuifemper & beneſucceſsit. Periculofumeft
Bafilicum continues adorari. Vantį ſit periculi, herbæ Baſilica frequens
odoratus plenus,ex Hol Jerij exacta obferuationeperfpicitur. Quidam enim Italus
ex continuo eius odoratuin vehementes, &longos inci-. dit dolores capitis
ex Scorpionein cere bro epato ,cuius caufa morsconfequuta eft ck Ratio apud
aliquot huius euentus,ea potiſsima eft, quod Bafilici folia ſub te. ftafi &
ili putrefaéta in Scorpiones mu tentur, ex quo arguunt, frequentem o . doratum
animalcula quædam Scorpio onuminftàr, in cerebro geocrare . Vte cumque tamen
fit, Bafilici odoratus ad Syncopim , & animi hominum deliquia, mirumin
modum prodelle compertum cfts Piſcem Torpedinem, dolores capitis àcaufa calida
feliciter fanare. Nter fele & a , & quae dolores capitis à caula calida
auferunt remedia ,Tor. pedo piſcis eft. Aitenim Celfus, quem ſequutus eft
Seribonius Largus, huius Puciscapiti affricatu ,adeo tales dolores remoueri
vtin pofteru redire nequeant. Cauſa torpedinis qualitas eft,ipfa enim viua in
mari, & procul , & à longin $ quo velfi haftá; virgaveattingatur,tor
porem piſcatoris mébrisinduceredici. tur, vt Plinius lib.23.prodidit. Idcirco etMatthiolus
dixit) mirum non eft huiuſmodi affe& us, quodam ftupore : feliciter ſola
confricatione fanare . Queex occulta natura proprietate fiunt, mirabilia
videri. Aturæ arcana femper hominibus , admirationem præſticere:ratio eſt,,
quia caufas ignoramusproprias, & pro .. pterea in ſpeculandis his ce
pitamus, necaliud nobisreftat, quam føla admi. ratio. Quis enim non admiratur ,
cur: Hyænæ vmbræ conta & u , canesobmya. teſcant ?Cur Eryngium ore Capræſum
. ptum totum gregem fiftat? CurGallina, appenfo miluicapite nunquam quiefcea.
re valeant? Curappenſo allij flueſtris capite in ouis collo, quz in grege omnes
antecedat, Lupi ouibus nocere neque.. ant? Profe &to hæc mirabilia funt ,
& in refum fympathias, & antipathias, & na- . turæ arcana reducuntur.
Nonnulla animaliareiuuenefcere: proditur. Agnum natura quibuſdam anie. inalibus
pro fene&tute euitandai , COA conceſsit releuamer , Ceruus enim elu ,
ſerpentum renouari dicitur , quippès dum fentit fene&tute fe grauari,
ſpiritu, per nares è cauernis ſerpentes extrahit, fuperataque veneni pernicie
,illorum : pabuloreparatur.Colubri quoque alijq; ferpentes quoniamper hybernas
latebras. vifum obſcurari ſentiunt, primo vere, maratro , feu feniculo feſe
affricát,illud , que comedunt, ita vifum recuperant, &, exacuunt, &
vetuſta tunica depoſitag pelleque priori reiuuenelcere dicuntur.. Qgorandam
animalium carnes ad vitæ lorem . gitudinem palere. Longifsima vita aliquorum
ami.. malium vel eorum proprietate, multi fapientés vitæ longitudinem in
hominibusinuenire conati funt,volunt enim carnium efu longæ vitæ animali um
,vită poffe produci , re& ecenſulen. tes ſolidá nutrimentă,multú,diùq nutri
R, & à morbis defendere. Hac ratione Ceruicarnesprecipuè iuuenisadlógitu L6
dinem vitæ valere autumant, Reculit Plinius quafdam nouifle principes fæ
minas,omnibus diebus Cerui carnes de paſtas, & longo ævo febribus, caruiffe
.. Dioſcorides lib.z.longam ſençđuter cos agere dixit , qui Viperę carnibus,
veſcuntur.Propterea Pliniuslib.13»An tonium Muſam Cæſaris Augufti medi cum
dicebat, Viperas in cibis ijs dediffen qui ab vlceribus incurabilibus affligea
bantur,ratus hoc auxilium , vitam illis, producere,atque omnesſanafle.Exlib.3;
Conuiuij noftilitterarij. Abfürdan, ridiculain effe Paracelli opic. nionem ,de
homunculi inpbialia vitrea g ! .. meratione, de partu . NPara Onmodo
ridicula,ledinfanda eft: Paracelfi, damnatæ memoriæ opi-. niode
homymauliconceptione, & partu .. Scripſitenimex feminehumano in ama pulla
vitrea. conie & o :;: & aliquandiù : fub cquino, fuma, Itabulato ,
homun-. Cului culum gencrari . Vt autem hanc hypo .. thefimfaliam ille
impiusdoceret, exo uo fumpfit conie &turam ,quod cum op ſeruaret in loco
calido concludipofle, & ex eo tandem pulliim excludi, perſuaſit hoc idem in
humano ſemine in vitreo vaſculo reclufo poffe contingere. Sed vana, &
fabulofa ſunt eius figmenta, fi- . quidem ex putrefa& o femine, in an.
pulla fub fimo recondita talis homun .. culi partus fieri nequit, qualis enim
eft cauſa,çaliseffe & us conſequitur,proinde ex putrefacto nihil ,piſi corruptum
ori .. tur. Infuper in fetusconceptu ,vt ex fa . ais:diuiniverbidecretis
capitur,ſemen virumque viri: &mulieris concurrere opuseft
,præterhęęconceptio haud ori turniſi. fuerit vterus benetemperatus, tanquam
hortulus à Deo deftinatus ad hanc prolem , cui fanguis maternns fi mulaffluar:
quippè fi.materni- fanguinis deficeretappulfus,necfemenaugeri,nec ali planıę
inftar, necpartes conformari pollenr,, vt omnium philofophorum E. 7 conſenlus
eft. Ad hæc inter fætum, & vtero gerentem fympathia quædami requiritur , vr
calorem , & nutrimená. tum à matre recipiat, & à fætu viuena te inatsis
calor augeatur : & abia' ad cona coctionem , & produ &tionem
feliciter fuccedant. Quæ omnia fallain effe Pas tacelfi coniecturam atgtrunt:
ille enim non perfpexit in ouofemen , exquo puls dus fit , fimulcum alimento
vernaculo conferri, & in teſta per fe porracea tans quam
invteroquidemconcludi; ex qua pullus ali , & refpirare pofsit Semen vero
humanum caloris, & fpiritus Cu iuſdam viuifici particeps , &conforss
quorum vi , & beneficio fir generatio , antequam in vitream ampullam per
funderetur , eodem temporis veſtigio exhalaret , & conceptio euanefceret:
Hue aceedit, quod deeſt fanguis, quo femen nutritur, & augetur. Adde quod
per ampullam vitream , fub fimo recon ditam tetas fpirare nequiret confuta ..
maergofunt Paracelfiftarum fomnia ,& fabula fabulofa eorum magiftri conie
& ura; & vana de homunculi partu affertio. Ex. Georgio Bertino Campano.
In Armenia nines rúbentes fieri. Iues omnes(fublata philofophand tium
ratione)albæ funt, & ita ius d cat fenſus, vtnon immcrito Plinius lib . 17.
capite z : niuem vocaverit cæle ftiumaquarum ſpumam. Nihilominus Euftachius
Homeri interpres , in Ara menia niues rubentes confpici retulit. Harumcolorçm
multi fapientes rummi Aantes, non natura niues rubentes fieri, fed
accidentaliter illic voluere. Illa enim loca minio luxuriant, cuius colo re ex
halātiones , è quibus in Armenia ninesgenerantur , pallutæ , rubedincm .
acquirunti. Pro quartana febrejſalitaremedia . A Rnaldus Villanoua pra fecreto
ha. buit in febrequarrapaexhibere taxi barbaſsi radicem ex vino per dúashoras.
mote acceſsioné, & Dominus osdecorde: Ceruiad drach . Itidemex vino
alterator di& amocretico,ſaluta ,chamedrio ,chamæpithio, &myrrha ex
fucco abfynthit ad ſcrup.ij.caftorei eriam , & bituminis anſcrup. ij. ex
vino: Alij,vt quartanam excutiant , infirmis dum in acceſsione affliguntur,
timorem ex improuifo incu tiunt. Proptera Titus Liuius fcripfit, Quin &
umFabiuin Maximum in con fictu febre quartana fuille liberatum ... Terra Lemonia
contra venena miram : babet efficaciam . Nterpræſtantiſsima auxilia contra
venena,terra Lemniaconnumeratur , quæ ad Cantharides,& adLeporem ma rinú
adeò pręſtat , vt quadam proprie. tate, deuorata , omnevenenum per vomitum
expellat, quemadmodum mul tis experimentis hæc omnia didicifle.
Galenusconfitetur, Lumacalapidem ,partümulierum facilitati. Icitur Lumaca,
lapidem nobiliſsi.. me virtutis in capitcretinere, qué fi trio I tritum
ftranguriofis liquore aliquo conuenienti dederis , vrinam foluere , i breuiterq;
fanare comprobatum eft. AL mirabilem baberingrauidamulierecó. Senfum :quippe
appenfam fi ſecum por tauerit,in abortum minimè incidet , fin autem tempore
partus tritam ,cum vino capiet,multa facilitate pariet : fiquidem lapides
himeatusmuèaperiunt, è qui-. bus fætui facilior datur tranfitus. Ex : Ifidoro..
Kamum fympathian in aliquet bruto mirabilem . elle Izaldus lib . 1. arcan :
&Podinus: lib.3 ,theat.nat.obſeruatű ,exper tumque audiuiſſe aiunt,Vaccam
,Quem Equam , Afellam , Canem Suem , Felem ; fimiliaq, foeminei generis
animalia do meſtica , & manfueta, dum vtero gerunt , autinterire ,
autabortum parere, fi mas ex quo conceperunt,ma&tetur autocci.. datur,tam
valida eft,ac vehemens-illo rum inter fe fympathia. Hoc autem an verum fit
,confiteor, menondum fuiffe expertum .. oletno Oleam -arborem puritatis
virginitate of amantifsimam . Liva fimanuvirginea plantatur , & educatur
,,vberiores fructus præbe redicitur:, vſque adeo puritatis eſtamā tiſsima,
& labis nefcia. Hacde cauſa , ve Teor,abantiquis ſapientibus olea, Mi neruæ
dicata, & confecrata füit. Audiui equidem àmultis , alearum à laſciuis
mulieribus non femel fuifle collectas fructus,calq; fequenti amo parum fru
& ificaſſe,ExCarolo Stephanointideraruftia Aftronomiam Medicis effe
neceffariam . PRudens Phyſicus Aftronomiam in telligere debet, aliter
perfe& usMe dicus effe nequit.Cum autem ægros -Cųe rare intendet, Lunam
afpicereoporte bit, fi enim plena cſt,crefcitfanguis, & humiditas in homine,
& beftiis, & me dulla in plantis , ita voluit Hippocr.inl. dediſciplina
Mahemas: qui apud Galore peritur.Cum ergo quis in morbum in ciderit,fi Luna è
combuſtione exit,tunc iei creſcit infirmitas vfque ad oppofitio bis gradum ,
quo tempore per a &to cceli themateaſpicienda Luna eſt ,an cum alia quo
planetarum ſocietur fortunato , vel & infortunato ;numin malovelbonofue .
titalpe & u ; & an dominúdomus mortis. afpexerit; ita enim de morte,
& vita; de morbi longitudine , & breuitate infire morum accuratiusconie
&turarepoterit.. Ex Hippers . 10ak . Ganjucto. Saturni,Martiſque coniun
tionem inTauro , Bobuspeftilentiam pradicere futuram . A. Strologorum ex
multaobſeruan tia decretum eft, cum Saturnus. Hupiter ,& Mars, vel iftorum
duo fimul iun &ti fuerint ſub humano figno, cona. currenti ad eam ftellarum
fixarun vea Denoforum animalium afpe & u ,morbos peftilentes hominibus effc
futuros . Ex diuerſitate autem Zodiaci brutis quan doque contagium appariturum
, faluis hominibus . Vnde notat Auguftinus Sueſſanus in comment.Apotelaſmatum
Pro. Lomai ,non multis ante annis,obferualle, cum SaturniMartiſque coniun &
io in Tauro horrendiſsima frigora'excitallet, magnam Bobus calamitatem eueniffe
. Ques autem licet imbecilliores , füper tites tamen fuiffe . In Boues tamen pe
ffis illa defçuit propter cceleſte fignum , ad quod terreftris Bos refertur.
Quæfi fuiffet in Ariete , forfitam in Oues graf fata effet. Anno 1479. in figno
humano Martis, & Saturni fuit coniunctio (tefti monio Ficini ) & peftis
crudeliſsima ho mines inuafit ,,vt& prius anno1408. & omnium
peſsimaanno 1345. ex trium Planetarium infimul conjun & ione. suffiiu
bituminismulieres ab byfterice '. 3 Vltis experimentis comproba audio , ,
lieres ab vtero ſuffocatas lubitòad ſanie. tatem reuocari, & quod
mirabiliuseft, Hyſterică extemplobituméacceſsionen corrigere, fiue crudum ,
fiue vſtum mu. licrum naribus admoueatur. Propterea mulieres,quętali pafsioni
obnoxięfunt lans paſsione liberari. CA lana exceptum , fiue goſsipiocolloap
penſum ,Medicorum conflio (Mizaldo · auctore ) in romullis locis habent , vt e,
crebo olfactu paroxyſmum arceant. Cantharides quandoque ſolo olfa & u
fangui. nens, veltactuècorpore euacuajſe. Antharidumvis , & venenú in fane
guine purgando per vrinam, apud paucos incognita eft, quippe in potui ex ceptas
non modò veſicam exulcerare , verumatque fuffocationes, & horrenda
ſymtomatainducerecomprobatum eft . Imò tantæ feritatis funt, vt quandoqué &
tactu ,vel olfactu hec efficiant,vt cui damchirurgo Mediolani ſucceſsit, qui
bis fanguinisprofluuio correptus fuit per vrinam ,folum portando cauterium ex
cantharidibus in Byrfa. Ex Micbarle Rafraljo. Podeortum fit adagium , Naniga
Anticres. } MXneotericisMedicis,nigrum Vlta obſertatione &à prioribus,
& neotericis , helleborum ad infanos, & mente captos peculiare auxilium
eſſe, probatum eſt. Huiuspotio licet periculoſa fit , cú cau telatamen fumpta,
mirabiliter ijs pro deffevidetur. Hellebori virtutem De. moſthenes innuere
volebat , dum acti. onem mouens Aeſchini , vt ſeſe pur. garet helleboro dicebat
.Hoc in Anti. cyris duabus ele&tiſsimum , & magniva. loris naſcitur,
quo nauigare oportere a dagium , quiab intania Canari cupit vt Strabo lib.9
.Geograph,loquitur. Hinc Stephanus deHelleboro loquens addit, Anticorenſem
quempiã fuiſſe , quiHer çulem dato Helleboro infania libera uerit, Grauidas
simio fale prentes, parerifetus fine vnguibus. Noneftàratione aliepum , quodab
Ariſtot.dicitur 7 de biftor.animal.c.4 mulieresgrauidas, fi nimio ſale in cibis
vſæ fuerint,fætusparere finc vnguibus vngues enim ,vt dixit Hipporc.in lib.de
care FOS . 1 Carnibusex glutinoſa, & viſcida materia
geperátør,hincaecedenteGalitorum v. Tu,materia illa viſcida adeo attenuatur ,
&adimitur , vtfacilè illorum ortusde . ficiat.Comprobatur hocetiam in ladá,
tibus, quibusex aſsiduo , & nimio ſali torum vſu ,lacomne, paulatim
deficere conſueuit. Oui badiin conuiuijsiucundi,feftiuiquelas beantur. N
conuiuijs profecto,vt hilariter'iu : Du { 11 X G 3 epulétur,tron femel ludi
aliquotper io cum apparantur qui omnes in iftanti um riſus, &cathihnos mutantur.
Inter multoshi erunt Feftiui:Si lintea;& map pæ calchanti puluere
confricantur, qui foti fe deterſerint ea parte nigrifient;li ceti lintea prius
candidiſsima apparue. sint.Si cultri fuccocolocynthidis, vela fòe ta &
ifuerit,amara oíaex ijs incita le tiétur :ex afla fætida autem cuncta fæti da
audientur:Si fuperpaſtillos nuper e fixos inſtrumétorü chordas minutim in
difasproieceris inftar vermium à calore V contracte apparebunt, naufeamque rei
inſcijs mouebunt. quibus vinum potui dabitur,cui caftancarum cruftæſubtili ter
tritæ fuerint inie & xà ventris «crepi tibusſollicitabuntur. De
amorisorigine aliquet controuerfia. OlentesPhyfici amoris originem , velpotius
furoris amatorijreperi te indaginem ,ex correſpondenti homi num complexione,
leu verius ex con formi ipfius fanguinis qualitate ,nempe calida
proficiſcivolunt, hancenim como plexionem valde amorem gignere af firmarunt,
Aſtrologi inter eos amorem exiſtere aiunt, qui in codem aftrorum gradu
conſiſtunt,vel qui in aliqua con Itellatione ex æquo participant, & con
formes ſunt,tunc enim fe redamare có . fingunt. Alij Philoſophi amorem naſci
afferuerút, quoties noftra luminainde. fideratumobic&um conijcimus,voluat
cnim quoſdam fpiritus ex ſubtiliſsimo, puriſsimoque fanguine cordis noftri in
rem concupitam exhalare, acque ocyſsi * IN me ad mè ad oculos noſtros
recurrere, ibique a in vapores'& 'humores refolui,quifen . fim ad
correlapſi , diffuſiq;per corpus, in oculis, rei dilectæ quandam idem, inſtar
fimulachri, & imaginis,non aliter , quam in fpeculo macula permanet ve
nenofi oculi, vel menſtruatæ ,auriginoſi, aut fimili aliquo morbo infecti,
impri munt.Hacde caufa miſerum amafium , hiſce nouisille &tum
fpiritibus,qui natu ralem fuam fedem repetunt, & ad cor permeant , perditam
libertatem fuam dolere , lamentarique cogi affirma. Nonnulli autem naturalis
fcientiæ ad. 'modum ftudiofi ,cum multa de amoris fcaturigine eſſent
imaginati;nec veram tam furiofi morbi originem inuenif. fent: in
hæcproruperunt:Amorem effe neſcio quid ,natum neſcio vnde, qui vee wit neſcio
quomodo, &accendit nefcio quo pa&to,certam aliquam rem , &per ſonam
. Hominem apud Indos longiſsimam pitam babuiſſe. F Apud Lufitanicæhiſtoricæ
fecènti ores ſcriptores(interquos eft Fer din . Caſtanneda:)fidei probatiſsimę,
longa narratione, & certa, cuidam nobia li,apud Indosannorū, quibus vixit
tre. to centorum , & quadraginta fpatio,iuuenis tæ florem ter exaruiffe,
& ter refloruiffe : inuenimus:atque ex cuiuſdam Epifcopi relatu
nouiterpercurrimus.(Hocprofe to mirabile eft , & paucifsimis à Deo conceſſum
. At non minori admiratione illud dignum eft,quod à Langio de Or benouoproditur
,inſulam quádam fu . ifle repertam , Bonicam nomine,in qua fontis reperiatur
ſcaturigo cuius aqua vino preciofior fenium epota in iuuen tutem cómutet. Ex
lib. 1.debominis vita , vbi de Priorifla anu facta, & reiuueneſs eente
fcribitur. Hydrargyriminer aquomodo inueniatur . Ńter metallica ônia
,hydrargyro ex cellétius vix inueniri aliud cryditur, cum ad infinita tale
accómodetur.Soler tiinduftria opus eſt, vt vbi eius mineræ fit ſcaturigo
coniectores deprehendant; propterea menſbus Aprilis, & Maiiſub aurora,
ſereno autem cælo afcendétes , vapores in montibus fpe & ant; ſi enim
inftar nebulæ fuerint, non altius feat tollentis,fed humillimæ, ac quaſi terrae
ad hærentis , argenti viuiibi ſedem eſſe allequuntur. Ex Cardanode Subtil. Aqua
mirabilis pro viſus obfuritate. Periam aquam , quam ſcribuntre ſtituiſſe viſum
cęco nouem anno . rum.R.ſucci apij,feniculi, verbenæ ,cha medryos, pimpinellæ ,
Garyophilatæ, Caluię,chelidonię,rutę,centinodię,mor { usgallinæ,garyophyllorum,
farinæ vo. latilisan.vnc.j. piperis craſsiuſculètrití, nucis muſchatę,ligni
aloes an.drach . iij. Omnia imergătur in vrina pueri, & lex : ta partevini
maluatici. Bulliátbreuite pore, tú exprime,& percola.Repone va le vitreo
benè obturato.Hora sóni fingu . las guttas ſingulis oculis inftilla. Holler.
Roris marinipraftantiſstma'virtutes, Lanta illa , quam Romani , & Itali
Roſmarinum dicunt , inter plantas : nobiliſsima eft , magiſque quam ex F 2 iſtimetur
excellens, quamuis mulcitu . dine, & frequétia vilefcat.Eftenim fem per
virens,nulli nocens, & multis infir mitatibus inimica maximè comitiali
morbo, quiferè dæmoniacuseſt. Radix eius cum melle purgatvlcera , tormini. bus
medetur , & medendis ferpentum i & ibus cum vino bibitur.Prodeſt etiam
contra morbum Regium in vino cum pipere. Et tanto contra maiora mala præualet,
quanto maiori gaudet tutela, & fauore cæleſti, à quo omnis virtus
confouetur. Naturefagacitas in difficillimis morbus fac mandis magna ift. Agna
eft naturæ fagacitas in ali quot morbis ſanandis,qui medi. corum auxilijs
perdifficilc eft,vt ad fa nitatem perducantur. Ketulit Alexan. der Veronenſis
lib.2. Anatem.c.9.tr ulie rem Venetam ,acum crinalem , qua cirri capillorum
intorquentur , quatuor die gitorum longitudine ore detinuiſle, dú
obdormiſceret, fomnoque ſopitam de M glutif Etv ghuiuifle : decimo autem menſe,
quod m mirabile eſt , per vrinam eminxiffe.Lan . Er gius etiá in alia
iuuencula,quæ aciculam deuorauerat, id etiam eueniffe fcribit, e Naturæigitur
induſtria maxima eſt. * Lapidis compofitio ignē fricationereddernisi. Ricatione
cuiuſdam lapidis facilli meignem excutere poterimus. Hæc eius eft compoſitio.
Capimus ſkyracis, calamitæ , ſulphuris, calcis viue, picise an.drach. iij.
Camphorædrach.j,Alpalit . dre iij critahæc pobanturinvalesce
Teoroptimèconcoctecca Hapidécouertátur.Hic panno fricatusu ceditur,fputo
veròemoritur.ExRole! Naturam beftis,ad corporis t ütelammulta remedia
indicaffe. PlurimaşürNaturæ beneficiaquebê ftiis fuiffe conceffa legimus.Hæcpro
fectoruminans Plutarchus, præadmi. rationeinextaſin raptus,Maturan mulo.. to
plura in pecudes, quam in hominem contuliffe dixit. Quippefibeſtijs Fors bus
accidit.Naturamoxantidotum in F dicauit. Hinc Palumbes , monedula ,
merulę,perdices, Lauri folijs deguftatis humores fuperfluos expurgant. Lupi,
Canes,Feles ſięgrotant,vel li excreme torum colluuie ftomachum , vel viſcera
oppleta fentiunt, gramina comedunt ra , re perfufa,herbam frumenti,
&rapiſtru decerpunt:quibus ſtomachum , aluumg; exonerant.Columbæ
,turtures,pullique gallinacei in morbis heliofelinum degu far. Teſtudincs
morſus ſibi in flictos ci cuta perfạnant.Cerui volnerati dictami paſtufagittas
, excutiunt.Ivuiteladůmu res venatur, ruta ſe munire confueuit,. vc
validiuseosoppugnet. Vrlimandra-. * goram quærunt in mala valetudine. A.
priauté egrotanteshedera ſe colligunt., Ceteraverò animalia pro virę tutela di
uerfa alia retinent auxilia.Ex Arifter.pl njo,Nipho,&aliis . Lapidem
Aetitem mulierum partus. accelerare. Maison Agnam intulitnatura Aetitilapi.
diin partu prægnantium accele rando efficaciam : quippefiearum coxis argento cóuolutus
partu inſtante fuerit ligatus, miram ytero generabit láxitam tem ,ex qua
prægnantesfacilius parient. Ab Aquilis pręlidium hoc'captum reorg illa enim dum
arctiores ſe ſentiunt & oua cum difficultate pariunt , Ae titem quærunt, ex
quo laxiori matricis orificio facto ,leniusoua excernūt.Hinc Aeritis S-apis,
Aquilinus di & us eft, quiaz Aquilă hos in nidum portant,ibiq;verii
reperiuntur. Intellexi ex feminis, pria marias aliquot hos lapides in vſu
,& pre cio habere,beneratas partuslaboresfu Bleuare. Hellebori nigriradićem
, Viperemorfus in bon Aysſanare. (N magna æſtimatione apud multosis
Helleborinigri radix habetur, ipſa enim inter carnem, & pellem iumentià
Vipera demorfiinſerta proculdubio faa - mat.Confiteor profe &to fubulcum
qué dam porcorú numerüigne perfico, fiue cryſipelate peftilenti pollutum ( hunc
morbum vulgares, eo quod porcorum caput in excreſcentiamagná deuenit,apo pellap
(męobſeruante adfanitatéducti funt.. pellant Capoatto.) fola huius radice om ..
nes incolumes feruaffe .In porcorum au. ribus cultello circulum ad viuum fane
guinem formabat,deindecentro,ex ſtye. lo ferro perforato,radicisfruſtulum éfo.
fingebat, ad paftumý;porcosmittebat, ita equidemſolo học auxilio , omnes
Hippiatros in equorum faciepitorum euul, maculas albasfacere. N hominum canitie
frequentescapil . larum euulfiones, vt nonnulliin viu habent,vituperantur, eo
quod illorum cuulſa niaior generaturcmitics:Hippia atri enim cum maculas albas
in equo-... tum facie fingere intendunt, frequeno tiſsime pilosextirpant, qua
continuata euulſione,pilos excreſcere albos exper tum eft. Queapud Veteresmagis
erantcelebrata: pectaculam Nterorbis terręcelebrata {pe& aculag, Mauſolæum
, hoceft: 9.Maufoli ſepul chrum ES Noun
ehrum ;Coloſſus folis apudRhodiosios uisOlympici fimulachturm,quodPhidias
-fecitex ebore:MuriBabylonis,quos ex . citauit Regina Semiramis; Pyramides in
Aegypto ; Obeliſcus in via nobiliſsima Babylone à Regina ſupradicta erectus,
Rodigingso Marinum Vitulum à Cåeli fulmine non mo leftari. O pauci ſunt
ſcriptores,quiMaria num Vitulum , (multa obferuatiu. one peracta) à fulmine
incolumem effe perhibent.Propterea Seuerum Imperaitorem Lecticam fuam
Vitulimarinico riocontégi voluiſſe legimus,hoc enim animal ex marinis, à Cæli
fulminemio nimè percuti audiuerat. Inde fa &tum elte vt veteres ,
pauidi,pefulmine ferirena tur , tabernacula ex iftiuspellibus con- .. tecta
retinerent,ita profecto àCæli fula . mine præſeruari poflcputabant. ExPline. Captaminter
bruta maxima Epilepsia tentari: Ippocratesin lib. de facro -morbou : H Fs (si
liber ille genuinus eius est) vt ab ' Èpilepſia homines præferuari valeant
monet , neque in caprina pelle decum . bendum effe,neq; eandemgeſtare opor
tere,beneratus tale animal; maximè ab Epilepſia tentari. Hocetiam Plutarchus
rerum naturalium perfcrutator indefef ſusaſleruit:propterea veteresSacerdotes
ab eius carne,ve morbida,abftinuiffe fe runtur , neguitantibus aut tangențibus
. modo, aliquid eiusmorbi induceretur. . Dinum in Asthmatisçura ſele
&tiſsimim .". V TInum pro fanando Aſthmate ab , mo, quo pater eius cum
fælici ſemper : fucceflu vſus eſt ,adducitur . Habet yie . ni dulcis , quaie
potiſsimùm Verpacia eft ,non craſsi,ſedtepuis,mellicraticoctii an, lib .decem :puluer.
Foliorum Tabe. bacciexicc.in vmbra vnc.j radicum polypodii quercini
recentis,acminutiſ.. fimeconcili ync.iij.radicum hellenij re..
motomcditullio,& inciſarum unc. iij .. : ? macerentur horis 48.poftea
verocolentur per manicam Hippocratis vocatam , conſeruetur vinum inloco
frigido. Dá - tur vnc. vj. pro vice; ſingulis diebus , ; horis ante prandium
quinque. Homines a phrenttide correptos sania fortiores fierii On pauci
admirantur , cur homi. nesphreneticiflicet in ſanitate debiles fuerint prius ) ipfis
fanis fortiores : euadant?Equidem à morbi naturato- · tum procedere verendum
non eft : cum autem in phrenitide magis, ob exficca- - tionem lædantur nerui
fenſitui, quam motiui, nulli dubium eft, tales quo ad motum ipſis ſanis
fortiores, & debilio . res, quo ad virtutem fenfitiuam fieri; : ratio
omnium eft,quia operationes,ner uorum fenfitiuorum humiditate magis
perficiuntur: fecusmotiui. Huicadiun gitur, quod phrenetici ( mente læſa ).
doloremnon fentiunt,idcirco fortiores.com Ek Arculano . Tuberum efufrequenti,
bomines in epile Pliam incidere . 2 M2Aximopere ( ve valuit Simeon Zethus)
ſuberum continuattis v fus vituperatur : adeo enim hornines crebro eorú eſu
afticiuntur, vtepilepti ci;vel apoplectici fiant. Apud veteres autem in pretio
habebantur,illifq; cum Colo quandam affinitatem ,nec niſi to . nante loue
nafai, credidit antiquitas.. Vnde Iuuenalis: Facient optat atonitrus CHAS -
Offri de corde Cerui à morfibus venenofas;hos minespreferu476. Irabilis eſt
profecto oſsiculorum , proprietas , quæ in Ceruorum ; corde reperiuntur;geſtata
enim ad præ feruandiim à beftiarum venenofarum morſibus, & i &
ibusmaximeproſunt. In officinis tanquam præſtantiſsimum an .. ridotum contra
venenum , & febres pe tulentes,hxc eſſa conſeruatur, &cum feelicifucceffu
mediciindiesad hæc valere experiuntur : : multi tamen pre . ofic.cordis
ceruipi, os.bubulum tradunt in magnam languentium perniciem , & ped.com M
propi HORTVLVSGENIALIS 133 eterمه 27 that medicorum afamiam.Ex Alexan.fro Be
Pedido. Hemicranian lapide Gegatisſummoueri. MW Vleo experimento Democritus:
Hemicranian , lapidis Gagatis ſo'a ad collum appenfione tolli com .. probauis
fcribit enim huiufmodi lapi. dem geftatum ſeinperniagis ponderare, quam
antequam appendatur : quafi in eo quædam attrahendi in fe fe humo . rem ,à quo
dolor in parte cranij fufcitam. tar proprietasreperiatur.Mercurialis .
Epilepritof non perpetuoconcidere nee quefpumam facere. Vicomitiali morbo
laborátnánili in magoa ventrico !orum cerebriz cralo s humoribus obftru &
ione conci dere, & fpumam ferre confueuerunt: ſe cus vero in alijs cauſis,
vtin quadapu.. ella Aretina Beniuenius obferuauit. In cidit illa in Epilepfiam
, tamen neque concidebat,pequeexorefpumam emito. tebat. Sedſtanscaput hinc
indecücere wice uice , ac fi quid
infpicere vellet mous bat; nihil interim loquens , nihil fenti ens.Cum auté ad
fe reuerteretur, inter rogata quid egiflet, penitus ignorabat. Cauſam
Beniuenius exiſtimauit , quod non caderet quod contra & io , & tenfio
ad cerebrum non ferretur,cumfolus va por ſurſum aſcenderet : ex quonullor gore
cerebrum ipfum intentum , abot dinatis motibus-reliqua membra pre feruare
potuit. Vermes rubros in hominum cerebro , in qua dam epidemia natos effe. y
Beneuenti,cum multi ignoto morbo decederent è vita , medici tandem , hoc morbo
quedam mortuum incidere voluerunt, & in huius cerebro vermem cubeum breuem
inuenerunt, quem cum mulrismedicamentis vermesoccidendi vim habétibus
interficere nequiuiſſent, fruſta raphani inciſa in vino-maluatico vltimo
decoxerunt,quo vermis occilus eft,atque hoc eodem remedio deinde - mili morbo ,
quali epidemico affe & i omness. Omnes curabantur. Foreftusex lib.Corne tỷ
Roterodam. Capillorum defluuium ex Laudano curari. TOn femel morboacuto
egrotantia bus (-ſiad fanitatem reducuntur è capite capillos decidere expertumelt.
His facilliinè fuccurritur huiufmodilia nimento , quo 'capillorum defluuium non
folum amouetur verú etiam amiſsi irerum renouantur. Laudanum cum vi. ño , &
oleo rofato ad decentem vnguen ti fpiſsitudinem coquitur, quo caput v niuerfum
linitur ; breuique capillatum redditur, Ex Bayro .. An empiricis
tradararemedia,mortem ! non paucis:attulije.. ftrum baudelt, remedia, quæ ab
Kempricis adhibentur, morté aliquádo hominibus attulife, ij a . nulla ra.
tione, nullaq; methodofuffulti, fed fola experiméti indagine,nec caufasmorbo
Tum verè cognoſcere,nec ordine auxilia applicare poſiúnt.Proptereamilesquida
inmorboinueteratoluinepotis ,quicapi. Member Aximopere (ve valuit Simeon
MZethus) ſuberum.continuattis V.. fus vituperatur: adeo enim, hornines crebro eorú
cſuafticiuntur,vtepilepti ci;vel apoplectici fiatt. Apud veteres autem in
pretio habebantur, illiſq; cum Colo quandam affinicatem , necniſi toe. nante
loue nafai , credidit antiquitas.. Vinde Iuuenalis : Facient opfataronitrua ,
Cen45 -offi de corde Ceuiàmorfibus venenofisshos minespreferuatge -Irabilis eſt
protecto oſsiculorum , proprietas , quæin Ceruorum corde reperiuntur;geſtata
enimadpræ • Tóruandum à beſtiárum venenofarum I morſibus, & i&
ibusmaximeproſunt.In officinis tanquam præſtantiſsimum an- . ridotum contra
venenum , & febres pe.. bilentes, hæcoſſa conſeruatur , & cum . foelici
fucceffumcdiciindiesad hæc va lere experiuntur : : (multi tamen pro .
ofic.cordis ceruidi, osbubulumtradunt in magnam languentium perniciem , & M
pedice medicorum afamiam.Ex Alz xan.fro Bem nedido. Hemicranian laide Gagatia
ummoueri. Viro experimento Democritus Hemicraniam , lapidisGagatis fola ad
collum appenfione tolli com .. probauis fcribit enim huiufmodi lapi. dem
geſtatum ſempernagisponderare, quam antequam appendatur : quafi in eo quædam
attrahendi in fe fe humo rem ,à quodolor in parte cranij ſuſcita.. tar
proprietasreperiatur.Mercurialis . -Epileptites nonperpetuo concidere nee que
fpumam facere, Vicomitiali morbo laborát nánili in magoa ventricolorum cerebria
crais humoribus obftruatione eonci dere, & fpumam ferre confueuerunt: ſe
cus vero in alijs caufis, vt in quadá pu ella Aretina Beniuenius obferuauit. In
cidit illa in Epilepfiam , tamen neque concidebat,pequeexore fpumam emit tebat.
Sed ftans caput hinc inde cucere vice, ac fi quid inſpicere vellet mout
bat;nihil interim loquens , nihil fenti ens.Cum auté ad fe reuerteretur,inter
rogata quid egiflet , penitus ignorabat. Caufam Beniucnius exiſtimauit , quod
non caderet quod contra & io , & tenfio ad cerebrum non ferretur, cum
folusva por ſurſum aſcenderet : ex quo nullori gorecerebrum ipfum intentum , ab
of dinatis motibussreliqua membra præ feruare potuit, Vermes rubros in hominum
cerebro , in quae dam epidemia natos effe. , Beneuenti, cum multi ignoto morbo
; decederent è vita , medici tandem , hoc morbo quedam mortuum incidere
voluerunt, & in huius cerebro vermem rubeum breuem inuenerunt, quem cum
multismedicamentis vermesoccidendi vim habétibus interficere nequiuiſſent,
fruſta raphani inciſa in vino maluatico vltimo decoxerunt, quo vermis occiſus
eft,atque hoc eodem remedio deinde se smili.morbo , quali epidemico affe &
ij , omnes Nous ) omnes curabantur. Foreftusex lib.Corne- , i Roterodam .
Capillorum defluuium ex Laudano curari. "Onfemel morboacuto egrotantia bus
(-ſiad fanitatem reducuntur ) è capite capillos decidere expertumelt. His
facillimèfuccurritur huiufmodilia nimento , quo capillorum defluuium non ſolum
amouetur verű etiam amiſsi irerum renouantur. Laudanum cum vi . ño , & oleo
rofato ad decentem vnguen ti fpiſsitudinem coquitur, quo caput y niuerfum
linitur, breuique capillatum redditur, Ex Bayro .. An empiricis
tradararemedia,mortem ! non paucis:attulife : ftrum baudelt, remedia, quæ ab
tempricis adhibentur, mortéali quádo hominibusattulife,ijn. nulla ra . tione,
nullaq; methodo fuffulti, fed fola experiméti-indagine,neccaulas morbo . Tum
verè cognoſcere,nec ordine auxilia applicarepoflunt.Propterea miles quidā.
igjorbo inueteratoluinepotis,quicapi N + 136 tis achoribus erat fædatus ,
finecautio . os,more empiricorum ,nec ætate obfer uata, vnguentum ex arſenico ,
ſulphure viridiæris , femine ſinapis confe&tum capiti appofuit;ita enim ex
quodam lio bro remedium collegerat , & mane ſee quenti puer ille, qui erat
duodecim an norum , in lecto mortuus inuentus eſt. Hi profe& o fru & us
empiricorum ſunt. ExValefio.. Triplici auxilio homines longauam vitam Af
quirerepofle. Ifi hominum frequens luxus exo NA vita
songior,ſaniorquevideretur,hi ay tem in luxum ,epulas, & otia effuli, vix
trigefimum exceduntannum , abſque. fene & utis aliquo veftigio ,vita enim
los. gæua,non luxu ,& profufione nimia, fed triplici tantum
remediocomparatur;fie quidem pareitas cibi , & potus , bonus cibus,&
moderatum exercitiummorta - lium vitam, ex Philoſophorum decre to,producere
valebunt.Bartholom .Males ** Dino Gagorio. Nmin Quo paéto fingultum cohibere valeamus.
Onleui angaſtia angultum ho• mines cruciare quandoque vide mus adeò quod
multiin longiſsimā via. giliam huiuſmodi affe & u ducti funt, Multi funt,
quieximprouifo timorem ſingultientibus incuitientes,votum alle quumtur : alij
verò auricularidigito ito bentintus aures diu confricari;Lyfimam chus tamen
apud Platonem , fternuta . mento afperfione aquæ frigidæ , & re {pirationis
coñibitionefingultum cxčke ti propalauit. Quopado plebrios, tincios en
admiration nem -dustus. Plebeiprofe &to qui populi parsfino plicior eft,ex
leuifsima occaſione fa . cilè in admirationé ducuntur . Si optas autem vt
adftantes credantvel magico Çarmine, vel quodammiraculo te open. rari, manècum
Verbaſcum flores aperit æſtiuo tempore, iispræſentibus leniter moueto plantam :
flores enim paulatim decidunt, & exiccatur, cum magno ile . lorum ftupore,
fiquidem illius plantæ hæceſt proprietas, vt ( Sole accedente ) flores
decidant. Quod fi magis irridere velis inutiliter aliquid murmurabis , vt
admiratio excrefcat , vltimòtandemor mpia in rifum finiantur. Ex Porta .
Memoriam è thure epoto maximè Augeri. Maximo hominibusadiumento eſt firma
memoria , triftitiæ verò, & Jabori , imbecillitas, iis præſertim , qui
bonarum litterarum ftudio incúberec ptant. Ita autem cófirmatur.Thus albife
Gmuin in pollinem attritum ,& cú vino , li hyemsfuerit,velaqua deco &
ionis paſ fularü, fięſtas;epotum ,inLunęaugmen . to ,oriente Sole,
necnonmeridie, & oC- t caſu , mirum in modum memoriam aya gere fertur. Ex
Rafi. Quo pačtofamis importunitascohibeatur: Vis Taurum Philoſophum , eiufq;
mendo famisimpetu? profe& o dumfa . maemaximèmoleſtabatur, eius importurnitatem
, compreſsis hypochondriis & ventris ſtri & ione compefcebat. Apud.
Aulum Gellium . Mulierem grauidationis tempore pallefcere., debilioremque effe.
TOnlinerationemulieres , quoté pore vterum gerunt, virore pallia dæ fiunt,
purus enim illarú fanguiscono tinuò ex corpore deftillat, & in vterum à
natura demittitur, vtfætú tú nutriat; tú eius procuret augmentü.Cum autem ipfis
paucior in corpore-refideat fanguis neceſſe eſt fieri pallidas , atq; alienos
ci Bos appetere.In ſuper exco ,quia fanguis folitusipfis minuitur,debiliores
fieri ne celle eſt. ExHippocr. lib . 1. de morb.mulier .. Myrifticam nucem à
vira geftat am , vigo rofiorem fieri. MIrabilis eft nucismyriſtice, quava cant
muſcatam , cum homine fym pathia : ſi enim à viro.geftatur, nomodò vigore
proprium cóferuare, verù etiam turgere,magifq;fucculentam , & ſpecio ſam
ficrialkunāt, pręfertim fiiuuenilis adultæque ætatis homines circumferát Ex
Liuinio Lem . Hepaticos, Gtienoſos decodochamading fanari. INter præſtantiſsima
remedia, quæ I hepaticis, & lienofis adhibentur pri mum Chaniædrium locum
retinet: fie nim ex aceto deco & a,per pluresdies ex .
hibetur,hepaticos,atquelienoſos pro . culdubio fanat: multisequidem experi
mentis comprobatum eft tale decoctí viſceraab infar &tu liberare:propterea
ini febribus chronicis, eo quod obitruction tres mire abigat, fdelici fùcceffo
à multis: pro fingulari ſecreto audio vſurpari. Pulfus
deficientes,&intermittentes in ix . uenibus mortem prædicere, O Vanti
timoris in languentibus,pul sus deficientes, vermiculantes, & formicantes
exiſtant,apud Medicos notiſsimum eſt : ij enim ex proſtrata natura
exorti,exitiú efle in foribus aftédūt. In . termittentes autem duorúpulfuum ſpa
tie tio,non modò in omnibus fufpe & i ha bentur, verum etiam omnibus maxime
iuuenibus exitiofifunt; diſséticGalenus, qui in pueris, &fenibus non ita
fore ti mendos afleruit.Huius rei habuitexse. rimentum Proſper Alpinus in
Iacobo Antonio Cortulo octuagenario,pleuri. tiro , & febreardente vexato ,
cui pulfus fuerunt cùm intermittentcs, tum defi cientes; tamen ille citò
conualuit.lib.s. de med. method . Mitbridatis Regis , ad venena maximum
Antidotum . D Euico Mithridato Rege maximo, in eiusArcanis Pompeius inuenifle
in peculiari commentario ipfius manu exarato compofitionem antidoti dici
Inr.Cóftabat ex duabus nucibus ficcis ite ficis totidem , & ruræ folijs viginti
fimul tritis, addito falisgrano.Si aliquis hoc iciunus allumeret , rullum ei
venenum nociturum illa die affirmabat, Ex Plinio. ONO Slidera Quo artificio
offa , velebora colorari valeant. I offa,vel ebora coloratahabere de
lideramus,ca in primis oportet abim munditiis purgare; deinde in aluminis
aquadecoquere,tum demumin vrină , vel calcis aquam in qua diffolutum fit
verzioum , rubrica, aut cæruleus color, fiue alius quem volumus immittere ,
& vna iterum coquere.Cum autem perfri gerata in eodem etiam liquore
fuerint, extrahenda ſunt; & pulchra, & bellè tin eta habebimus .
Alexius Pedemont. BRICA Bryonieradicio è vinoalbo decoctum , hyfte. ricam
paſsiorem reprimere. Ryonia in fedandamulierum hyſte rica paſsione,egregiam
habere vir tutem multis experimentis dicitur.Ex multis obſeruationibus in
quadam mu liere, quæ quotidie ferè per multos an nos hocaffectu laborauerat, à
Matthio lo experta eft. Hæccum ſemelper heb. domadam , cius confilio , ſub
fccti ingressum , vinum album , in quo ip fius radicis vncia efferbuerat,
hauſſet ex illa paſsione optimè conualuit. Ne tamen amplius in fuffocationes
deueni ret vteri,perannum integrum hoc me dicamento vía eſt, nec morbus iterum
recidiuauit. Quo fuffitu Serpentes venenati à domibus, velpradiis arceantur.
Vlta equidem reperiuntur, quo rum ſuffitus adco o diolus eſt, vtà loco, vbi is.
fiat ,penitus arçeantur. Scribit Florentinus in Geo pon. Venenatam feram
numquam accef luram , vbi adepsceruinus, aut radix Centaurij maioris ,
autLapisGagates aurDictamus creticus,aut Aquilæ , vel Milui fimus cú ftyrace
miftus fuffatur. Ex Gal. autem habemus in lib.de med. fac. parab.ad
Solonem.Pyretrum , ful phur,cornu ceruinum , pinguedinem ,& pulmonem Afini
accenfum ,ac fuffitum , cuncta animalia venenoſa efficaciter fu - gare compertum
elle . Herpetes exedentesTabucoicereto felicitors Sanuri. Terorymus Aquapenders
inl.:.de Tumoy prenat.6.20.5xedcotes her petes teſtatur curaſſe quoad totum cor
pus, ex ſero Caprino expurgatione con fecta,fæpèautem cum fa !fæ parille de co
& ione:partes affectas aquis therma lbus D.Petri lauabat,vltimoiis , felici
cum fucceſfu ſequens admouitCeratú . R.Succi Tabacci, ſeu herbæ Reginæ vnc.
iij.Ceræ citrinæ nouiſsime.vnc. ij.Refie næpinivnc.j. Rofinz Tyerebintinæ
vnc.j.Oleimyrtini quantum fuffic. pro formando Ceroto. Vina alba, qua induſtrie
inrubramu tentur. A Lba vina abſque vllo detrimento in rubra( auctore Mizaldo )
tatim Conuertuntur,lipuluerem mellisad du rilsimă conliltentiam deco&i ,
& ficcati in vinum albuin proiecerimus, & tran Suaſandomiſcuerimus,Idautem
minori faſtidio efficier lapathorum radix , fi re cens, vel ficca in vinum
mittitur. Flores in Aegyptoprope Nilum inode tar os exiftere. O Dorin ficco
fundatur , eidemq; in nititur;hinceuenit(auctore Theop . 6.de cauf.plantar .)
vt fru & us agreſtesvro - banis ſui generis odoratiores,eo quod - ficciores
exiſtant vrbanis,habeátur.Heç quoq; caufa eft,quod in Aegypto mini mèodorati
flores naſcantur;vt n . Plini - us prodidit, Aegypti aer à Aumine Nile tum
nebulofus, tum roſciduseſt : cuius cauſa odor in foribusadimitur. Abfynthium
ventriculum roborare ſo lum adftri& ione. Vantam Abſynthium in roboran do
ventriculo vim retineat,in mul. tis locis à Galeno exprimitur :bancau tem
virtutem non ab amaritudinem fed propter adftri & tionem abfynthio inefle verfimilc
eſt. Conſtat hoc totum ab eius fucci natura , qui corroborandi facultate
deſtituitur , ex eo , quod ter rez partes, in quibus adſtringendi vis poſita
eſt, ab ipſo feparantur. Succus itaque folum amarulentiamhabet, quz tantum
abeft, vt ventriculum roboret, fed vt potius illum infeſter. Ex epote
Chalcantho, albos pilos è capi te decidere . Icet Chalcanthi, fiuc vitrioli
vſus, e reſumpti, apudGalenum ſuſpeatus habeatur: à multis tamen audio maximè
commendari. Inter graues fcriptores , Rbaſes eft,qui 29. Continentis, 6.24. ſe
habuifle amicum quendam ſcribit; qui potata vitrioli drachma, propènoctem pilos
omnes , quos in capite habebatal bos, abiecit.Res profe &to mira eft,
pbrenitidem ex nigro Coralio felicitar Sanari. Oralium nigrum , quod
Antipallas, fiue Antipatkes dicitur,inPhrenitide morbo corrigendo , &
fanando perquá Airam habere facultatem exiſtimatur. Hoc nigerrimi.coloris eft ,
& ob varie. tatem in magno precio tenetur, & cótra huiuſ HORTvĆvs G
& NI ALIS. 14h ** Merete huiuſmodi affectum tanquam præftan tiſsimům
remedium vſurpatur. Ex Ense lio de Gemmis lib . 3 : Lethargicosà Satureia
capiti admota excitari. Vltis experimentis obſeruatum reperio,Satureiam
cumfloribus vino incoctam , & calentem occipitiad . #motam ,
Lethargicosdifficili ac pertina E ci sono oppreſlos, ac veluti raptos exci
tare, & reuocare.Vt autem curæ folici $, or fit exitushuius decoctiguttæ
aliquot fe infirmiauribus inftillandæ funt. Hana diſchius. I peftilentias
quasdam occulta anispat hia ho minum corpora depafcere. M Vlta reperiuntur,quæ
occulta qua dam antipathia , cun &tis hominis bus aduerfantur. Huiuſmodi
fuit aura illa peſtilens, quæ ex arcula aurea in quá miles forte quidam
inciderát ( referente Iulio Capitolino ) in Babylonia orta eft, Ex hac nata
fertur peſtilentia , quæ in - de Parthos orbemý; compleuit. Huic haud abfimilis
, vel prauior vtique fuit G peſtisilla, quæ anno 1348.ab oriente in cipiens (
teſte Guidone Cauliacenſi ) vniucrlum fere orbem peruagata eſt , tảntaq;
lauitie peragrabat, vt vix quar ta hominum pars ſuperſtes euaferit. Bra M .
Infantes eiulare quoties lar, nutricum mammas papillas pangit. Slidua
experientia comperimus f A mammasnutricum , & papillas lancinat, &
pungit,quippead infanculos tunc nu trices redire videntur ftatim ; cum pa
pillarum mordicationem , ſiue vellica. tionem ſentiunt. Duplici autem id fieri
caufa credendum eft; vel quia quo tem porecoctionem infantulus perfecit, eo dem
momento nutricis vbera complen . tur , vel quia tutela Angeli Cuftodisin fantis
nutricem ad officium , leuiſsima vellicatione follicitat.Hoc verius vide. tur
eo ,quod modo citiusmodo tardin fanteseiulant: & vtriuſq; ſtatus non lem
per idem eft. Ex Bodino lib.3.Theanatu. Sales Han 7 Salis Prunella virtus,
&compofitio. al prunella ,ob fingularem vim do lores mitigandià quauiscaufacalida
&inflammatione excitatos, quam reti- , net, a nodynum minerale à chymicis
apo pellatur. Eius compoſitio talis eſt:Para tur ex,nitro optimo ; quod in
cruſibulo. funditur, paulatim ſuperinijciendo flom res
ſulphuris,quieiuspingaedinem tole Junt, idqueadeo pellucidum , purum que
reddunt; vt fi luper lapidemmar moreum effundas; omninò clarum, &
dlaphanuin appareat vitri inſtar: quod ? đšinde Sal ſjuelapis
prunelle.dicitur,Sa lutare eit remediú ad ardentiſsimills febrem Hungaris
familiaré extinguento - dam , & edomandam :cuius ferocia tana' ta eſt, vt
ægrotantium linguas prorſus nigras, & prunis ardentibusfimiles ef ficiat.
Cum autem tanti ſymptomatislę . vitia extinguatarhuius vlu ,leniatur , &
opprimatur: Sal prunellæ apellatus eft . Eft præterea idem remedium magnum
diureticum ,& diaphoreticum . Querceta mus in Pharmacopes. 63 Hy ilico appetere.
1 adduxeram : qui Leonem, Gallum ve.. Hydrophobos è poto Catuli coagulo aquami
Iris laudibusCatuli coagulum in Aetio, ex tollitur : Illud enim fi femel tantum
ex aceto Hydrophobici guftauerint;ſta rim eos,aquæ pofus cupiditatem capere: ob
id medicamentum hoc præftantiſsi muth iudicamus, in huiuſmodi enim afa fe &
u , nulla falus ſalubrior iudicatur , quam aquæ potus : quo deficiente,mors in
foribus ſemper eſte Cur Leo Gallum timeat abfolutaz " izquifitio.
CVVmquodam die Cercelliani gra tia apud Carolum Cifellum luriſ conſult.
clariſsimum , meique amiciſsi. mum effem , forteinter nosde Gallina tura orta
fuir diſputatio ; illa preſertim , cur Leo illum timeret ? Pro dubii folu .
tione Ficinú inlib . z . de vit a celit. compar: reri ſcripfit, eo quod in
ordine Phoebeo, Gallus eſt Leone ſuperior. Hoc etiá ex Proclo confirmare volui,
qui, Apollinca Dæmonem ;qui alias fub Leonis figura apparuerat, ftatim obiecoGallo
diſpa ruiffe prodidit. Ifle-autem quia bonarú Jiteraum citra legalem fcientiam
admo dumftudiofus et contraria rationeLeo i . nis timorem euenire contendebat.
Ada ducebat Leonardum Vairum in lib . 1. de Fafcino , quiex Gallorum oculis
ſemina i quædam , ac fpiritus exire profitetur gr I quibus Leonib'dolor,acmeror
incredia bilis inčuciatur, inde veluti effafciñatas ritere.Ego quidem licera
Lucretio hac etiam opinionem fuftentari viditlemi tamen poft ,pleraque vltro ,
cirroque inter nios de re hac ventilata ;confeſſus füi apud me neutram
opinionem vide ti validam . Vbienim naturales rationes præualēt,nec ad
Aftrologicas,nec adoc cultascófugiendium eft.Leonesquoniá bile faya, &
copiacaloris abundant,faci le fit,vt ex fonoraGalli voce comoucka tur:ita profecto
Canesex leui etiam al 2 , G4 terius 30 D 3 BARICEL II terius latratu faciunt.
Infuperrubicun da Galli criſta ,flammæinftar rutilantis , primo afpectu
,colorisratione,bilem in Leonibus celeri motu excitat, vt panni rubri armenta
quædam fugare, & mo uerefolent,inde fit , vt quodammodo Leones
&afpe&tum , & Gallivocem ti meant. Haud tamen credendum eft in iis
( ledato primo impetu ) perpetuotimo. rem ex hac beftiola durare, & induci
poffe. Corues , morientium feditatem ſentire , ob id fuperte&um infirmorum crocitare.
Orui, quia hominibus meliorem habent odoratum , vt voluitÀrift , corporis
morituri fætidum odorem de longe fentiunt: fecus eft in hominibus, licet prope
maneant. Propterea ſuper te & um infirmiCorui volitant, &cro . citant,
quando eius corruptio , &fædi tas magna eft, vt ea paſcantur: huiufmo
dienim animalium genusrerum foeti darummaximeauidum eſt; quibus pa fcitur:
Charlie [ citur : idcirco in bellis , &in peftilenti tempore , cum corpora
mortuorum vel hominum velarimaliū humi ia&a funt; Coruorucopiaprcualet.Homines
vulga tes, & quiparú prudétes funt;dů Coruos crocitantes fuper te &tum
infirmiaſpici unt, illum moridebere afferunt:hoc au . tem falfum eft: ii enim
tantum fæditaté inſequuntur. Sæpè tamen Déus permit tit Dæmonesin Coruorum ,
& aliorum animalium forma ſuper domos : vel in domibusmorientiúapparere,
quando be ftialiter vixerút. Et Bernardino de Buftis. Quo artificio es
aduratur, ut cinnaba. ricolorem acquiraté Iæsvífum colore cinnabari, & ad
ru bedinem verlum habere volueris , o quemadmodum vult Diofcorides ; AC i cipe
æristaminascuttricoftę profundas: non ſint autemęris alias fufi, quia in hoc
ſemper ſtannum commiſtum eſt, Has e ſuper ignitos carbones apta, cum autem i
illæ rubeſcere incipient,ſulphurispul. . uerem tenuiſsimum leniter deſuper có
iicito , Sleepin ijáto', videbisenim (cellante fulphuris Máma) Pris ( quamu'as
euidenter extra hi,& euelli.Tumodol.perfe & e nó pol. Te cuelli
cognoueris , addito ſulphur . remtoties, quouſque lamulæ eradicari videantur
:caue tamen nevrantur , & ad nigredinem vergant. Extinéta tandem Sulphuris
flamma, & refrigeratis lami . nis;æris rubei ſquamulas habebis magni
valoris ,quasloco Hydrargyri præcipi- . tati in medicamentis recipies alias aut
tem huius vires apudGalen . & Dioſco videto . Theodorus Ga4,
quedinfelicitertex Arist,', deHydrophobia conuerterit, à crimine abfoluitur.
Heodorus Gaza vir do & iffimus, dumArift.tex.8.de hiftor,animal.c. 22
traduceret ,omnia animantia voluit à Cane rabidodemorfa , ip - rabiem ági ,. ac
mori , excepto homine. Hoc autem qqantum ſit falfum ,quotidianademon Strát
obferuantia. Homines n. demor fi; in rabiem aguntur, & pereunt; niſi Tectè
curentur, vtcuidam (pauci sunt menses) hic iuueni accidit, quià Canc rabido in
manu demorfus, nullo adhibi, to to medico, fed folum circulatoribus com fiſus,
in 40.die in furorem deuenit; quo temporelicetme parentes vocaffent,fas s
&o tamen preſagio,quodbreuimorere I retur , tanquam deploratū reliqui. Hęc
igiturTheodoritradu & io pleroſq; in vi rioslabyrinthos deduxit:multin .,tum
i vtGazá defenderent,tum iavtArifto telem ab erroris ſuſpicione vindicarent,
textum ita acceperunt animantia omnia à cane rabido correpta interire, hominē 3
verò folum abſque periculo non ferua. rizita expoſuitIulius Pollux. Alii verès
inter quos eft Leonicenus, textum malè fuifle conuerfum , veleſle depra suatum
contendunt , & fic loco a pocos i legendum mpirs afferunt , quafi ho
mocorreptus, &in rabiem , & mortem deueniret , fed non ita citiùs, vt
ceteris animalibuscontingit.Hic fenfus quoad - negotij veritaté ver
eſt,quiahômo pro i pter oprimú téperamétum , tardius, qua: cætera
violatur:tamen Ariſtotelisinten . 2 tionen 856 BA'R ICELLI tio neutiquam
eſt ipfe enim ex profeſſo hominem à rabie, & morte ſeruari fcri pſit ,cuius
textů Gaza fideliter traduxit, neque deprauatum , neque commutan dum exiſtimo ,
quia mens Philoſophi peruerteretur. Vtauté Ariftopinjoom nibus innoceľçat;
hydrophobiamin ho minemorbum elle nouum , illiuſq;tem peftateincognitum
proponimus,ex quo iure expofuit animantia omnia é: Canis rabie emori, homine
excepto,quia hæc lues in homine nondú innotuerat. Con-. firmat opinionem
noftram Plutarchus 8. Sympoſiacorum , in probl.9. dum exfen tentia
AthenodoriMedici ſcripfit, hy drophobiam eſſe morbum nouum, atq; apparuiſſe
tempore Aſclepiadis, qui Sub Pompeio Romæ claruit. Confir mant etiam hoc
Scriptores ante Aſcle piadem , quideHydrophobia mentio . nem aliquam haud
faciunt:e od lima. nifeſtum fuiffet, non video cur lub fie lentio tantum morbum
occultaſſent, E go quidem Hydrophobiam antiquitus haud extitiſſe,perſuaderemihi
nonpof fum :innotuiſſe autem veriſimile eft, nó ob aliud , niſi quia morbushic
non ſtaa tim à vulnereaperitur : Siquidem multi in 40.die rabiunt, aliqui poft
fextum , autoctauum menfem ,vel etiam poſtane num , vt fcribit Gal. Auicenna
adnota - uitpoftfeptimum ; Albertus poft duo decim.Propterea
antiquitus,&precipue Ariſtotelis tempeftate,huius morbi cau fa
nóaduertebatur à Medicis innoteſce bat quidem aquę timor taméàcanisvul nere
& tabiem , & illa praua ſymptoma ta oriri imaginabantur: idcirco Ariſto
teles etiam , interillos , hominem com morſum à canerabido ,necrabidum fi
eri,nec emori ſcripfit. Alai radicem pro expurg andis vomitu te
nacibushumoribus à ventriculo,effico cißimum eleremedium . Vanta Git Affari
radicis non modo in ciendo yon: itu ,verum etiam in expurgandis àventriculo.
& ab eius par tibus, humoribus craſsis & tenacibus ef ficacia
,fapientum aliquot edocuit obler : uatio : fiquidem multinon folum in vis tiis
ventriculi, ſed etiam in quartanafea bre , aliisque longis affectibushac eua
cuationefeliciſsimo cũfucceflu va funt.. Præparatur è fcrup.ij.aut
Drach.j.radio cis Affari, quæ in hydromelite, aut para fularum decocto fit
diſſoluta , cuitan - tillum cinamomi, &firupi violar. ade iicitur. Ex
Fernelio. In conftruendis ſepulebris veteresfuiffeadu! modum diligentes... Xáca
Veteres in conftruendis fer Epulchris, webantur diligentia:id circo admiratione
maxima dignum eft illud , quodà Ludouico Vluenarratur memoria patrum fuorum
fepulhrim fuifleerutum , in quo ardens lucerna inuenta eft.Hæcibidem ( vt
infcriptio ata * teftabatur Jante Ann.M.D.condita'erat, - & poſita:
manibusautēcontreccata , ex templo in puluerécóuerſa eſt.Ex Langit. Ganicula
exortum à veteribus maxime fuiße obferuatum . Canis cAničulæ exortus antiquitus
à prifcis ex eius colore, deami ſtatu côtecturam capiebant. Illan, fiobfcurior,
& veluti : caliginofa oriebatur, graui, & peftilenté foreannu;ficlara
& pellucida ſalubre ac proſperu predicebant.Heraclides Põticubi .
Aegyptiorum de'quatuor elementis opinio. Vatuor elementa feceruntAegy , &
fæmiam conftituunt. Aerem marem iudicant,quà ventus eft, feminā, quà ne bulofus
, &iners . A quam virilevocant mare,mulieréómnem aliam.Ignévocát maſculum
;qya arder fáma; & fæminami quà luct;& innoxius eft tactu. Terram
fortioré marem vocent;faxiscautibusq; fæminçnomen aſsignant , tractabili ad
culturam . L: Senecakb.z.Natur. Quaft. Pbreneticos aliquandomirabilia loqui.
Mirabile eft, quod aliquádoin Phre« neticisobfcruamus,isturum enim ,
aliquot(benè inflammato cerebro )}in guaLatinaloqui vel carmina cóponere cum .
BARICIILI cum prius fuerint eorum igna viſ funt, fed quod mirabilius eſt,
Nicolaus Flo rentinus refert, fe fratrem phrenericum habuiffe , qui futura
pradixit, quæ euer nerunt, ita vt eius prædictiones magna ex parte poftea veræ
inuentæ fuerint:de quibus tamen fanusexiftens,nullam ha: bebat cognitionem .
Infantium rupturn ; qua via Sanare: valeamus. Vltis obferuationibus , nullum
remedium ; Salubrius infantium rnpturis inueniri expertum eſt, quam extritis
cochleis, thure, &oui albumine emplaftrum confectum . Hoc enim fi pare in
affi &tæ apponitur,& infantes eo temporinlecto detinétur miram in fa
nando' affectu retinet efficaciam . Ex Matthiolo . Digitum anularem , maximam
cum cords retinere ſympathiam . Valem anularis digituscum corde habeat
confenfum , in animi defe & ibus, & in fyncope experimur. Qui e. nim à
talibus paſsionibus vexantur,vel. licato articulo anularis digiti,feu medi. ci
, vel attritu auri ad eundem cum croci momento eriguntur. Per hunc prefecto vis
quædamrefocillatrix ad cor perue nit ,ex qua ab animidefe & u collapſi vi
gorantur, & in priftinam valetudinem redeunt. Ex Lennio. Carnes code
quomodo cruda vje deantur. N lautis conuitiis,nevoraces gulofi que carnes
coctas comedant, ticarti ficium parabimus.Excipitur:leporis,aut agni ſanguis ,
quem congelatum , & fico. catum in puluerem comminuemus,hic : fi fuper
carnes coetas fpargitur ftatim foluitur, illæq; colorem proprium mu tantes
ſanguinofæ videbuntur, venau feabundus, reijcias. In comeffationi.. bus contra
paraſitoshoc eſt ele &tumra medium . Ex Vuerckero ... Adoris plcera ,
labiorumque fciffuras exper HomasThomaiusin Idea fuivirida rij , Nicolaum
Zannonem Chirur. gum THI 16.2 BARTICE L L 1" , guim Rauennæ retulit ,
mirabili fucceffu : & artificio,oris, gingiuarum linguæ ,& : palari,
nulla alia re, quam radicis penta phyon, fiue quinque foliorum decocto vlcera
fanare,atque labiorum fciffuras linimento ,ex oleoamygdalarum dulci-, um ,
cera, &maſtice , quam breuiſsimè adianitatem perducere. Exapri tefticulis,fterilitatem
in bomi nibus remoueri. MA Agnaeft vxoratis inquietudo , & Gerileſque
exiſtere : propterea.vt à xan to infortunio liberentur, prolemq; ha
beant,peraliquot dies ieiuno ſtamacho vir, & vxor cum iure galli
veteristeſti culorumapri,que verrisin vmbra exico catorum puluerem capiant:ita
profectò. breui tempore optatumadipiſcentur , vt in multisfterilibus ex
quacunq; cau « fa non ſemel expertum eft.Ex Democrito. Bufonistibiisdentium
doloreseuanefcere.'. Nter maximos cruciatus à quibus ; dolo. HORTVLVS GENIA IJS
, 163 doloresperniciofiſsimiexiſtimătur,ad? cò quod multi & in
animideliquia ,& in manias deuenerint , multi etiam in vitę
deſperationem.Huius doloris remedio. um in odioſo & abominabili animali
natura repoſuit. Aperiam hoc arcanum maximum. Tibiæ Bufonis , fiue' ranz
terreſtris à carnibus mundatæ , fi fuper dentes condolences fricabuntur,imme
diatè dolorem remonent; adeoque cru ciatus ceffabit, vt quafi in dentium ſum
perficie dolor collocatusvideatur. Ex. perire modo , & fruere tanti arcani
theo fauro. Ex Florauanté. Cepam ab Hippocratemaximèdeteftario ' £pam
Hippocrates afpeétu inagis, quam efú coinmendauit, viſu bonā, elu malam elle
dicens. Idcirco lucubram tionibus, & litterarum ftuţiis addi& is
fùmmècauenda eft : oculos enim vitiati &viſum obtenebrat,bilemque exacuit..
Villicis, & folloribus, qui literis non ind . cumbunt huius eſús maximè
collauda tur: eius enim calore vires ad opera exercitanda magnopere
excitantur.Ex Plinio. . C Anima 164 B1 : 1 c : L L / , Animalibus naturam non
modo terra , perum etiam fi um pra termino conftituiffe. Agna fuit
conftituendis terrarum terminis, & fitu quibufdam animalibus: ne simul
vbique viuentia , & hominibus & fibi ipfis perpetuo effent nocumento.
Pro pterea animalium pleraque in diuersű à proprio addu &ta fitum
vtplurimum ægrotant, & moriuntur. Hinccolligi musin Meda , Sylva Italia ,
non niſiin : parte repeririglires. In OlympoMaceo doniæ monte Lupi minimè
habitant, nec in Creta Infüla . In Africa nec Vrfig. nec Apri , nec Cerui,
necCapreæ viden tur : In Illyria , Thracia , & Epiro Afini paruigenerantur
: In Scythica terraa .. tem , &Celtica neclunti Alini, nec vio . uunt
Leones in Europa, Pantheræ in Aſia, Ibisin Aegypto lolum commora tur. In Creta:
nec Vulpes, nec Vrfifunt, necaliud animal maleficum pręter Pha langium . In
Ebulo Cuniculi non funt, [catent HORTVLVS GENIALIS 165 1 FO 11 [ catent in
Hiſpania, & Balearibus, In Seripho inſula Ranæ ſuntmutæ ,illæ au tem fialiò
transferuntur , vocales fiunt. In Italia mures aranei venenati ſunt hos tamé regio
vltcrior Apenninohaud generat. Ceruiin Hellesponto ad alie nos fines non
commeant. In Ithaca illati lepores no viuunt. Sunt & alia animalia quæ in
determinatis locis , &non vbiqi viuunt, & generantur. Apjefum in menfis
apud Veteres infauftum extitiffe. X veteribus maiores nullum A pij genus in
cibis admittere folebant defun &torum enim epulis feralibus ab ipſis erat
dicatum , vtex Chryfippo Pli nius retulit. Multiautem non folum ex hoc, quia
ſepulchra coronabantur,Api umà veteribus fuiſle damnatum à men ſis , fed etiam
quia eius eſu viſus dimis nuitur, & Epilepſia generatur autumát: vnde à
Mcdicis nutrices moneri conſue lo, ( frequenti enim huius vſu , lactum
decrementum , tum malam recipit qua titatem ECO 9 . i > 166 BARICELLI Samen
litatem )vt ab Apio abſtineant,ne lacté tes in morbum comitialem proni fiant.
Dicunt in eorum caulibus nonnulli cru diti ſcriptores vermiculos naſci, eoſque
fterilefcere, qui comederint in vtroque fexu : Satyri teſticulum carnofiorem
Veneris in . cendia excitæreflaccidum vero extinguere. Atyrium ; quod Canis
teſticulos vo cant,magnæ apud fapientes eſt conſi derationis:in hoc enim,tum
Venerem excitandi,tum reprimendi à natura vi. detur eſſe remedium collocatum .
Quip pè maior planta bubulus, quiplenior, & mollior eft ,ex ſuperflua &ventola
eius humiditate, in potu aſſumptus Veneris incendia excitate cóſueuit: minor
verò, qui flaccidior, & aridior eft illa reprime re,Veneremque
extinguerevidetur. Ob id( vt aiunt) in Theſſalia mulieres molle teſticulum in
la &te caprino ad ſtimulan . doscoitus,& bibere,& hominibus inpo tu
;præparare ſolent.Quod autem in Sa tyrio mirabilius eft,aiunt, alterú alterius
in poo HORTVLVSGENIALIS. 167 Sier o in potu ſumptų potentiam & efficaciam
refoluerezlı vterque teſticulusvpà exhi betur. Sterilitatem hominibus,à
fterilibus animali " bespoffe prouenire. I verum eſt , quod ab Athenæo pro
dicur,Malluin ter in vita parere,relis quoque tempore fterilem efle, quod in
eius vtero naſcantur vermiculi, à quibus femendeuoratur non abfque rationeex
iftius naturahomines pofle fterileſcere . Terpſicles apud eundem dicebat.Mul
lus enim fi viuusin vino fuerit fuffoca . arus,atque id vir biberitçrei venerea
-o peram darenon poffe creditur , quod ex 3 Plinio etiam confirmatur , qui
veneris incendia extinguere fcripſit. " 5. Cynorhodiradicem ad
Hydropbobiam pluri mum valere. Dmorſum canis rabidi vnicum " A
Pemedii,quodá oraculoroperti proponit Pliniuslib.8.cap.41. Hæc radix Hlueftris
roſæ eft , quæ Cynorhoda apl pellatur.NarratB.Fulgofius de quadam s fæmina quæ
per ſomniú admonita eft, vt 12 Hvide vtradicem Cynorhodi filio à cane ra. bido
demorſo , & aquas iam metuenti præberet, quæ ftatim ex Hifpania affer ri
curauit radice qua Hydrophobicus ce , lerrimè fanitati fuit reftitutus. Ex Gem
. m4Cofmacrit. lib.1. ap 6 . Hominis vitam quibusfignis long am ,velbres nem
metiamur. Ominis vita pomo perfimilis effe videtur; quod aut maturum ,deci. dit
Spóte,aut ante iniuria tempeſtatum , ventorumue impetu deijcitur. Vitae breuis
figna colligimus , raros dentes, prelongos digitos,ac plumbeum habere colorem .
Contra longæ , incuruos hu meros, nares amplas, & tria ſigna primis
contraria, multos ſcilicet dentes, breues digitos , craſfosque atque clarum
reti. nere colorein Forcius. Extra£tum Hellebori nigri ad morbos inue ter
atosmagnaeffe praftantia. N thrities atqueaffectibus inueteratis, iiſque
potiſsimum , qui ex atro , & meo lancho HORTVLVS GENIALIS. 169 T! ta ļ
lancholico humore excitantur, extra Ecü migriHellebori,remedium praſtancil
efimum femper clle inueni.Capianturnie gr Hellebori radices à fordibus purga tæ
, & in pila terantur groſſo modo: in fundantur vino albo,& in vafe
terreo e bulliantur quousquc radices benè emol liantur, quo facto prælo
exprimantur,& iterum in vaſe terreo leniter ebulliat (deic & is tamen
radicibs) quod fucrit expreſsum . Acquiret fuccus ( piſsitudi nem inftar picis,
quicum modico cinna. somo ,& pulucre aniſorum miſcendus eft. Dofis in
grandioribuseft fcrup.ſem . in minoribusà granis quatuor vſque ad ſex. Datur
cum zuccaro in forma pilalar . Confiteor in obſtructionibus, in c pilepticis ,
retentione menftruorum ex cralforum humorum infarctu , & in alijs
inueteratis affectibus, mirabiles huius remedij fucceflus vid.Conficitur eti ,
am extra & um fine expreſsionc, & cffi . - Cacifsimum cſt. AdLejenem induratum
ejufqueobfrationen efficacifsimaprafidia TE 3 Inte 170 BARICELLI Nter ea
remedia, quelienem , &fple. neticos ab obſtru &tionibus liberare
reperta sút,mihi femper ex voto fuccef GtAbſinthijRomanideco &tum ,ieiuno
ftomacho epocú ,quod à Cornelio Cel fo fummècoromendatur:Vt autem eura felicior
ſuccedat poft cibum ,aqua Fabri ferrarij; in qua pluries ignitum ferrum
extindum fit , Lienoſis præbenda eft. Experientia id totum manifeftauit, ani
Talia enim apud huiulmodi fabrose nutrita, ob eiuspotum , exiguos habere lienes
obferuatur. Beniuenius , ciuem Florentinum per feptennium ſplenis fcirro malè
affe & um curaffe gloriatur, atque ſolo eſucapparorum , & aqua per
lanalle .Debenttamé hæc remedia mul to tempore vfurpari ,vtfcopú attingat.
Hominem quendam fuiffe repertum , mira vaftitatis,&ingluuiei.
NdixeratMaximilianusCæſar Ann, MDX I.apud Auguſtú comitia: quã. do illi vir
quidam , prodigiofæ vaftita tis, & craſsitudinis oblatus eft ;at in illo
incredibilis, & inſatiabilis erat ingluuies itavt integrű virtulü crudun
,vel ouem IMDEE HORTVLVS GENIALIS. 171 UN It incođá vna vice deuoraret, nec
taméfa . mem expleta diceret. Ferunt( vt Surius) hominēBorealibus regionibus
ortú fuiſ fe , vbiob locorú frigora folent homines elleedaciores.Hoc taménon
folú in Scp tentrionalibus partibus,verú etiam alibi bi repertú cft :Voraces n
.fupramodú fuifle referunt Aeliano auctore lib.3.de var. hift.) Pityreú Phrygem
, Cambeten Ly dium ,Charidamcleonymu,Pifandrum , Charippum ,Mithridatem ,
Ponticum.Et e Anaxilas comicus dicit, Cefiam quendā infinitæ voracitatis
extitifle . Antidot erum aliquet contra penenum ab ſeruationes. Rcareca
Viperamorfus, per impofi tioné tormentille à campo penſili colle etę,illico
liberatus eſt,Altercum ingen ti dolore, & ardore premeretur fuper | dextra
spatula, & ita angeretur, vt vix ſe s pedibuscontinere , oculis videre ,
& lo . qui poſſet , veritus neà fcorpione eller comorſus,oleum bibit,multú
vomuit,& à dolore leuatus eft, & quod mirabilius, Ha in ſpatula nihil erat ſigni,vbi prius fue rat
dolor.Quidametiamà fimili dolore, & tremore correptus ex aflumpto Bolo
armeno cum aceto ſubito cuafit.Puellus etiam putredinem timens, & vermes al
fumpfit Scordeum , &liber fa & us eft. Ex Franci.Thomaſio depeste.
Quoartificio Cancri pixiextemplo sodi vi deantur. Inum ſublimatum , fiue aqua
vita magnam habet efficaciam ia rubi ficandis cancris viuis : propterea fi vis
homines in admirationem dicere,accipe viuos Cancros atque in vino fubliaato
fubmergas, ita enim confeftim ruber cent,acli perco &ti eflent cantaeft
illius aquæ caliditas, & energia,vt inſtar ignis exardeſcat: admiratio
tamen indenaſci cur, quod rubefa & i,& viui ab aqua e . cmpti ambulent.
Quorradoflamme excit etw inagha. I calcem non extin & am accipias,Sul &
lalnitrum in partes æquales , ac bene omnia fimul ailccas, puluis perabitur,
qui forqui in aqua proiectus inflammabitur, ac ducem reddet: quod parui mométi
haud Berit,prçcipuè ſinodu luce indigebis.Po e terit id fieri in valčulo aqua
pleno, vt™ quidá amicusmeus dū no & u in itinere lefſerexpertus eft,qui
totum mihi fideliter comunicauit. 9 vbivigent morbi, ibi maximè remedia oriri.
M.Agna eft Naturę prouidentia ia ado iuuandis hominibus,quippè obſeros suatú
eft ,vbi aliquimorbi copiosè vaga . ctur, ibi remedia accomodataad illlorum
exterminiūnaſci voluiffe .Hincinaphri bea, quę ferpentú eft feracißima,aromata?
tanquã eorű veneno antidota,oriuntura In Argo Scorpiones plurimi videntur;
propterea ibi Locuſta adverſus Scorpio . nesinſurgensnafcitur : ApudIndos Os
cidentales Gallica lucs viget,ibi lignum SanaaGuaiacum di& á exoritur ,
& il . lincad nosdefertur.Catharides veneno ierodunt:ex illis remediú caput
, alias & e pedes earum exiftere obferuamus.Quia Stellionibus mordentur,
iiſdem in potu Ghana fumptis,fanantur Crocodili adeps, fi in ipfius vicera
inftillatur,ſuo veneno me deri videtur. Scorpiones,Draco mari. nus, &
Paſtinaca contriti , & eorum pla gis impofiti,procul dubio fanánt. Na.
pellusmortiferum venenum eft, vbita men nafcitur,ibi Antorareperitur.cuius
radices cốntra Napelliperniciem ,fingu Jare ſuntpræfidium . Animantium lac ab
alimentis recipere gut litatem . Lacomnein animantium corporibus alimeati
recipere qualitatem adeo verum et vt demonftratione nonegeat: liquidem nutrices
ex prauo in vidure giminenon ſemel infecifle infantesvifa funt,hac etiá caufa
lacin ijs modò.craf fum ,modò liquidum ,aut ferofum cer nitur,eo quod cibusaut
craffus, aut in eiſsius fuerit,modò infantium cóftrin git aluum ,modò ſoluit
,quod vel con ſtringentia vel foluentia nutrices come derint,Hocin pecoribus
etiam manife ftum eft:in locis enim vbi hæc fcamoniú Helleborum ,aut
mercurialem comedit, vtiq; lacomne ventré,& ftomachūſub vertit: quemadmodú
Dioſcorides in Iul ftinis moribus contingere prodidit: vbi ficapre albúveratrū
pro pabulo habue i fint, primo foliorúpaftueunmere, & ea rá lacnauſea n
epotứcreare atq; ftoma chúvomitionibus offendere ait: Cum a .. adftringétibus
pabulis,robore,lentiſcogs frondibus oleagincis, & terebintho pe cus
hocveſcitur, lac ſtomacho accómoe datiſsimügenerare veriſimile eft. Ex
pulcbritudine, da deformitate aſpoetuse' mures viuentibus coniectusari. MAgmá
nobis afpe&tus pulchritudo veldeformitasnon folurn in homin I nib ,fed etiã
animalibus,& plátis preſtaci cóiectură,qua benignos vel prauosmon res &
naturas veoarifolemus ; intuitu nó pulchri corporiszfpeciofiq; afpe
&tusmité naturam , benignofq ;moresin homine illo perfiſtere conieéturamus:
contrain I deformicorpore,turpiafpe & u timemus. enim neſcio quid
calliditatis, & malitie i In animalibus laudamus catellos, canes Venaticos
, & ſagaces , venamur in eis benignam naturam , & mites mores: ( 6 ..
tra in Maloſsis,inLupis,Pantheris, & fi milibus, timemus crudelitatem ,
maliti am , & voracitatem . In plantisex pul chritudine venamur falutares
naturas , ex deformitate autem noxias, Rola,Li lium, & Iris nobis præftát
argumentum , quamplurimis pollere virtutibus: con tra Cicutam , Aconitum ,
Napellum.ex deformitate enim plantarumhuiuſmo di,mortem nobis poſſeinducere
arbitra arur . Ex Poria in pbyſiognom . 1 : partibus Septemrionalibu
sdeficitate tes exaceri. Laus Magnus de gentibus Septena. rrionalibus loquens:
Sunt (inquit ) Biariniidololatrę, & hamaxobii,Scytha. rum more,atquein
falcinandis homini.. bus inftru & iſsimi ; quippè oculorum , aut verborum ,
aut alicuius alterius rei maleficio , homines fæpe ad extremam maciem deducút
& tabefcêdo perdunt.. In hamorrhagia fele&tißimum praſidium . Nfluxu
fanguinis narium copioſople.. 5i9; & in animi deliquia, & fyncopim
deur. . perati intercant. A periam quod mihi deueniunt , multoties etiam tanti
peri cali bicmorbus eft,vtægrià ſalute deb u ,fem * per adhibere profuit.Burſa
paftoris co I trita, ficum ouialbugine, & aceto ,com i mifta fuerit, &
frontiapplicatur , confe * ftim fanguis conftringitur;ve mihinon £ femel in
infirmorumcuracontigit. Vi in febricitantibus fitis, lingua ardor compefcatur.
Nfebricitantiú querimonijs ex ſiti, & linguæ ardoribus, Criſtalli vfus
inter præcipua iudicatur remedium . It lad enim fi diù in aqua frigida
agitatur, &ore deindedetinetur , fitim & calore corrigit, atque linguam
humectat : ma ioris tamen virtutis eft lapis albus, qui in lysacis capite
reperitur. hic porrò ſub lingua agitatus non modo fitim ca loremquerefrenat;
verum etiam faliva in ore excitat: vnde febricitátibus,& ma kimè,
fiticuloſis prælentaneum iudicae tur effe præadium . Ex Lemnio. Skolen Al ignis
prefidia fuiſsimè in morbis CW AX : dis Aegypties TerueTATE. Var Aegyptij
admodum proclives in languentium cura,adignea prælia dia eligeada,propterea
vftione vtuntur afthmatelaborantibus,in ſtomacho frie gido,humidoque ab humorumque
dea Auxu, &facibus repleto,Hepar,& Lic nem obduratum ,
&refrigeratum ,multa cum vtilitate inucunt; Hydropicos ſub vmbilico,
&fub hypochondrio finiftro linea petia ignita adurunt. In doloribus
dorfi,lumborum ,colli , & orenium arti culorum ,in ſpina dorli
,lumbis,collo , & alijs partibusdolore cruciatis,hocpræſi-. dium
frequentant, In tumoribus à crue. dis, pituitofisquc humoribus generatis ad
ignem confugiunt, tanquam auxiliú quod citò multosmorbos curet, inopia
queproprium efle autumant. Ex Alpines de Medic. Aeg opri.. Centium , &
populorum ingenia bifuris , prouerbäs: excogitari.. Vlius Scaligeri vir
acutiſsimi inge nij,Gentium ,& populorum naturas tum ex hiſtorijs, tum ex
prouerbijs, at que ex ore vulgi ita excepir. Alanoruto luxus:Africanorum perfidia:
Europeorü acritas.Mótani afperi. Campeſtres mol liores,deſides.Maritimi
prædones, mi ftis tamen moribus: eadem ratione In fulani
quoqueſunt.Indimobiles, inge nioſ, magiæ ſtudioſi,numcro fidenteso Affyrij,Syri
ſuperſtitioſi. Perſæ , Medi Baštriani,Pyrrhi,Scythæ ,Sibi,Phryges ,
Cares,Cappadoces,Armeni,Pamphilij, mercenarij, atquealijsbellicoſi, Aegyp tiz
ignaui,molles, ſtolidi, pauidi. Afria cres infidi ,inquieti.Aethiopesanimofi,
pertinaces , vitæ mortifque iuxta con temptores. Thraces,Myfi,Arabes,Mo. ſchouitæ,
Pæones, Hungari,prædones. Illyrij, Liburni,Dalmatrz , iactabundi, Germani
fortes , limplices, animarum prodigi, veri amici, verique hoſtes,Sue.
tij.Noruegij.Grunlandi, Gorri, beluæ , Scoti non ininus. Angliperfidi, inflati,
feri,contemptorës,ftolidi,amentes, in ertes, in hoſpitales ,immanes. Itali con
Atatores irrifores ,fa &tioſi , alieni fibiip kis bellicofi,coacti,ferui
vine ( cruiant, E H Dci 318 ! CEL: 1 : 1 : Dei contéptores. Galli ad rem
attenti, mobiles,leues,humapi,hoſpitales ,'pro-. digi,lauri,bellicoli,hoftium
contempto ges,atque idcirco ſui negligentes, impa rati, audaces , cedentes
labori, equites, omnium longè optimi.Hifpanis vi& us, afper domi,alienis
menfis largi, alacres, bibaces,loquacesyia & abjadi lor 3.Poc-, tices. SCMabaum
,Solis Lunaque coniunčtionen piuentibus oftendere. Irabile eft, quod à natura
Scara-. bæus animal notifsimúedidicit, omnibus enim Solis, L'unaque coitum
apertè demonftrat.Hicex bibulo fter core pilulam ab ortu, ad occaſum totá .
döverlans, in orbis imaginem effingit, quam xxviii.diebus peracta humiicro
beobruit ibique candiu abfcondit , dum ZodiacuniLunaambiens fiat interme..
itiis,& fileat:tum foueamaperit, & fide- . THM coniunctionem
denuncians,nouam pralem cdit : hæc enim eft iftius beſtio la necalia nafcendi
origo Ex Mizeldo.i. exo # Bobilin 2x
Quorundam aimalistu natur & .. Oseft conftans , afinus piger,equus:
libidineincenditur, petitąue impe.. tnosè femellam ;lupusmiteſcerenequit;
Vulpes inſidiola, aſtuta callida: Ceruus timidus;Formicalaborioſa:Apis parca:
Canis gratioſus, ad amicitiam propēlus, Leoſolitarius,expers focietatis,nunqua
pabulum externum admittens, tanta vocis magnitudine, aut fonitu , vt ſolo
Tugitu celerrimaanimantia profternat; Visſa pigerrima,ſolitaria ,corporegraui,
compacto, indiftin & o: Panthera vehea menis,& ad impetus
faciendospropenfa, pernixoyedi& a quaſitota fera.Anguis fæniculi paſtu
oculorum lippitudinem carat: Formica temporishyberni pabu lum æfiate
condit:Item - fides in canibus, in elephante manſuetudo,ftudium ore of natus in
Pauone, çura vocis amanæ ſuam, uiſque in Lufcinia.Forciuss. Cervorum vitam ,eße
lengisimam . Piabat Magnus Alexander poſteria -jari, Ceruorum vitæ loogicudinem
oftenders,propterea multoscapi iuſsit, quibus aureos torques in collo in neđi
voluit : in ijs temporis curri culum erat expreffum , &Alexandri deo
creturn ; illorum aliquot poft centum annosab Alexádri morte capti fuerunt, qui
adhuc ætatis ſenium minimè pręfe ferebant.Ex Plinio. Mafculinum fuum citius in
ptero , gianfo mining animeri.. X omnium ferè Scriptorum opi nionemaremfætum
citiùs in vtero , quam fæminam animari capitur , aiunt enim marem io dextra
parte matricis ex feminecalidiori concipifæminam : verò ex ſemine frigido, ſiue
minus calido in finiftra partematricis, quæcomparatiuè ad alteram frigida eft
.Hincmasdie40. foemina verò 80.vel90..vt plurimuma nimaridicitur:quod frigidum
tardum fit ,&pigrum in ſua operatione: calidum . autem velox: idcircò
virtutem forma tricem invno femine velocius, & citius mébra organizare,
& formare, quam in alio obferuamus. Ex DominicoTbolofano fuper Leuit.cap. 1
o. Pici HORTVLVS GENIALIS 183 PictMirandulaniingenium , quam maximè collaudatum
. A ,& , + PiciMirandulani,& ingenium , & & multiplicem do
& rinam collaudabant, & miro ordine extollebant:Quando(in quit Picus)
ron eft,vthac in re mihi,aut meo ingenio velitisbiandiri: quin refpi.. cite
potius afsiduis vigilijs, atq; lucu brationibus,quàm noftro ingenio plau 9
dendum : & fimul aſpicite fupelle & ilem noftram ,atque librorum
thefauros:oité I debat porro Picus bibliothecam egre . gio ornatuconſtructam
,atque omnigem nis libris ex varia eruditione refertam . Ex Crimite
InHydrargyro onnis metallica Supernatare. Akreexcepto . Ercij,vel fi mauis,
Argenti viui; proprietas mirabilis cit, quòd , omnia mineralia ferè,vtplumbum ,
fer Tum, æs, & alia ponderotiſsima( excepto . auro )in eo fuperpatent:
aurum ditem , * fundum petir , & eius recipit, cola rem , quiignis tantùm
opeabfumitut & in fumú mali odoris refoluitur. Hu. jus nidor , &
virulentia nauſeam , nocu mentumque adftantibus inducit : inde membra ſtuporem
recipiunt, & nerui relaxantur; vt fæpifsimèip inauratorio bus obferuatur .
Ex Lem . oleicinnamomai rara o pretiofa como pofitio,plerisque incognita .
Icinnamomiolcum ad diuerfas infira : mitates parare optabimus caperec portet ,
cinnamomicontriti lib.j.quam adinftar liquid : pultis cum oleo amyg- : dalarum
dulcium commiſcere ftude bimus, tum demum duodecim dierum ſpatio in loco tepido
clauſo vaſculo fituabimus , poftmodum ex torculari totam id exprimatur fortiter
: hac ett nim methodo oleum , odoris, .coloris, &
faporiscinnamomihabebimusad vo tum . Hocadvires reparandas, & Vio letudinem
conferuandam rarum eft ro medium, prodeft parturientibus, & in ftomacho
debilitatotam interius,quàna exterius vfurpatur; ngritudines frigi 18g A E das
arcet , & in partibus corporis ro u borandis eft tantæ efficaciæ , vt vix
ale v toruin conſimile inueniatur remedium .. e Marimum Herinaechin
tempeftates:mariti w pracognofcere . Dmiranda profecto: eft' Marini Herinacei
proprietas : hic paruus pifciculus eſt, nullatenus tranquillita tis tempore
naturali propenſione futu ram præcognoſcit tempeftatem . Ea im. minente ita fe
præparat : faburram fa cit , lapidem ore percipiens , ne maris flu &
us,vndaqueimpetuofæ facile eum diocodimouere , atque huc illuc in pellere
valeant. Nautæ id afpicientes : fucuram tempeftatem à piſciculo hoce . do &
ti percipiunt, ob id anchoras & fue . des, & fe ipfos parant,
tempeſtatibus maris reſiſtere poſsint.Ex D.Ambrofia, Miracuimdam fontis in Epiro
Proprietasi A naturz proprietas illius fontis , qui in Epiro ( vbi Dodonæi
louis tema . plum olim inftru &tú erat , quacaufa hic faces facer di
&tus eft ) inuenitur. Ille fri. gidus eft, & immerſas faces , ſicut cx
teri extinguitcum : autemfine igne pro culadmouentur,mirabiliter accedit , A
bulenfis fuperGeref.cap. 13. de hoc menti onem facit , afferitque huiuſmodi pro
prietatis cognitionem Adam , & conté poraneis fuiffe apertam , diluviogue
& gentiumdifperfione effle perditam .vide Pomponium Melam . mHecla ignem
emiffum ,ficcis.extingui, to que verò nutriri. Dmirationem , &fidem omnem
ſuperaret, ignem ab aqua nutriri, & non extinguiintelligere,nifiGeorgi us
Agricola,vif noftræ tempeftatis me moria dignus,oculatus adfuiffet in He cla
.Narrat hic in Inſula Irlandia mon tem nomine Heclam exiftere ,, ex quo ignis
emittitur,vt hodie in Vulcanopro. pe Siciliam ,Sicaniam dicam , & Puteo lis
in loco vocato le Fumarole , obſer uamus. Ille autem à cæteris diſsimilis
ficcis extinguitur, aqua verò alitur. Ex lib:noftro de Hydrom :Naty. Hominum
aliquot fubtilioris , plerofque au tem groſsioris ingenij adeffe. Ropterea
Aftrologi, & præcipuè Al. bumas,hominum aliquos fubtilioris i
ingenij,aliquosverò groſsioris inueniri volunt: quia in eorum natiuitate Mer .
curius, vel bonam ,vel malam habet pòa' fituram.In quorú enim natiuitate Mer.
curius in domo,velexaltatione Solis fue sit, ij ſunt ingenio prædici; fi verò
fuerit + in domo Lunæ , nafcuntur groſsioresor Ptolemæus, Bropoſ. 70. in quorum
ortu | Luna reſpicit Mercuriú , fapientes fieri voluit;contra autem
amentes:quiaLuna virtutes naturales infundit,Mercurius verò rationales:vnde eum
virtutes naa turales,quibus corpusguberdatur , rati onem reſpiciunt, ille
nafcitur sapiens; cùm autem non refpiciunt, amens. Hac etiam de cauſa efficitur
mentis hebes, & obliuiofus, qui in natiuitate Mercurium babuerit
retrogradum : fi enim dire &tus fuerit,ingenijceleris fiet. HancAſtrolo .
gi ducunt rationem , quòd ftellæ nóim. peditæ ,luas faciant naturales operatio nes
; oppoſitum autem ,fiimpediuntur. Hisdecaufis frequenter Aſtrologosve sa
pronoſticare de moribus hominiume" accidit ; non quòd ita neceſſariò eue.
niant, fi homo per voluntatem , ratico pis legem magis, quam ſenſusſequi vo
luerit:fed quia pronuseſt ad ſequendum appetitum fenfitiuum , in quo Aſtra
influunt. Raxael. Matr. in Addit. Bartol.. Bibyl. Galenum omniumporiamcorporis
, folum perfe& ifsimè inter veteres, morbos Caraffe. Ratapud
Aegyptiosinuiolabile de cretum, vt fingulis morbis , finguli adhiberentur
medici. Hinc illorum 0 . cularii, auricularij, & alterius ,morbo rum
nomenclaturæ aliquot vocabantur: arbitrabantur enim fieri non pofle, vt v nus
omnium curarum difciplinam re&tè teneret; quamuis in vnadoctus habere tur ,
vt BaptiftaFulgofuslib. 2. adnota uit . Galenus tamen illic temporis inter
veteres , naturæ miraculum , omnium corporis humani partium , tanquamfa. E pientiſsimus,morbusperfe&
ifsimè fo lus curare nouit. In lib.de Pet . Art.Med.c.2. Grecos feriptores de
Iudeorum monumenti rutibi pertractafle Riſteas , cuiushodielibellus extat de
Translatione In terpretum ,refert; Ptolomeum Philadel phum , fecundum Aegypti
Regem poft Alexandrum , quæluille ex Demetrio Phalereo, quem ille inſtruendæ
biblio thecæ præfecerat, curGræci ſcriptores, .nullá dehiftoriis,
&monumétis ludæo rummentionem feciſſent reſpondiffe autem Demetrium ,
tentafle quidem id facere Theopompu,& Theode&tem ,no biles in primis
fcriptores, & quedá ex lu .. dæorum monumentis ioleruiſle fcriptis fuis:
fed mox taméluifſe temeritatis pe nas:illum enim amentia : hunc cæcitate
diuinituspercuflum ; ſed poftea mali fui caufam agnofccntes, & ex animo
dolen tes, placato Deo ,ſanitari elle reſtitutos. Eufebius lib.8 De Prapar.
Euang. A Cane qido demo- fum , inftarCanis la traffe proditumeft. Ex corrupta
imaginatiua non femel à cane rapido commorh latrare vifi funt:cognouit enim
NicolausFlorenti nus quendam , quià cane rapido morſus, curationem vulneris
minimè quæfiuit; exercuit hic per dies 35.negotia ſua abſ. que læſjone,
maneautéfequentis diei è lecto ſurgens retrò vxorem ſuam inftar canis ſtetic,
cæpico;pofteam latrare : dú autemab illa reprehenderetur,lubridés ſurrexit,
idque pluries eadé die reperi uit. Serò corrupta ex eius ratio, & die
40.mortuusà morſu illato repertus eft. In Arthritidey Chiragra , quando mors
fuccedas. Arò mortem in Athritide, & Chi R corporis ignobilibus humor
refideat; hinc (nouo haud fuperueniente morbo) tales àmortis periculo ,
vexatidoloribus vindicantur. Has tamen mori com pertum eft , quando circa
finiftrum pectoris finum , cui cordis turbinatus mucro ſubeſt humorum colluuies
den cumbat,atque Gniſtræ manus digitus an Bulan Di mularis nodum acquirat, ac valde intu i
meſcat.ex Lemnis. Lienen ad -corporis tarpitudimem maximè Talere,
Vantacoloristurpitudine,qui ab in dicuntur,exiſtant, in dies obſervamus, non
modò in illius obftru &tionibus, verùm atqueScirrhis, alijſque tumori -
ribus. Hioc iure dicebat Galenus z.de Natur. Facult. Quibus corpus florefcit,
his lienem decreſcere,ac vice verla,qui bus lien creſcic, illis corpus
tabeſcere, & o vitiofis repleri humoribus. Caufa om nium eft, quòd lien ab
infar &tu fa & us imbecillis,nequit( fa &ta humorum ſeparatione in
Hepate) melancholicum fuc cumad ſe attrahere : hinc demiflus ille cum fanguine
corporisatro colore ani . bitum maculat. Iumenta clitellaria in itinare fibilo
, da Cana In à laboribus fubleuni. Vlicęconcencusſongriſ numeri maximè homines
delectant, ob id multi & cymbala , & alia muſica inftrumenta
frequentant, vt animus à mæftitiis fubleuetur. Hac coniectura obferuatum eft
:iumenta clitellaria in la boribus , & itinere , cantu , & libilo al
leuari:propterea mulones, vt muli, ce seraqueiumenta dicellaria,& tarcinam
, & alia onera minus laboriosè fentiant, tincionabulorum torques in illorú
col. lisfufpendunt, quorum fonitu , huiuſ modi valdedele &tari cognouerunt
, & perinde refici, & à laſsitudinc fubleyari. Ex Vairo kb.z.da
Fafcine, Mafalas nigras in acutis morbis apparentes, exitium prefagics. Neer
ligna , mortem languentiuni , quæ præſagiunt in febris acutis , illud maxime
obſeruatu iudicaui dignū , quod à Sauonarola multa experientia com probatum
eft. Sienim infacie, ſeu genis ægrerum ,maculæ nigræ obortæ contpi
cientur,prcculdubio languentis exitium minantur ,quippè venenofæ , &
peftiferę materiæ in corpore predominiú redun dere arguunt, ex quo mors
ſubſequitur. Has IS HORTVLVS GENIALIS 193 2 Has cum obſeruaſiet Sauonarola, ex
tali ľ prognognoſtico ,magnumhonorem fua ifle confequutum refert. Acetum
adictus venenofos epotumplurimum valere . X Cornelij Celli obferuatione ace tum
pertum eſt:quippecùm puer quidam ab j. afpide ictus eſſet , & partim ob
ipſum vulaus,partim ob immodicos æftus, fiti premeretur,cum in locis ficcis
aliumhu morem nó reperiret,acetum , quod fortè ſecum habebat, ebibit , &
liberatus eſt: coniecturandum eft acetum , quamuis refrigerandi vim habeat ,
habere etiam difsipandi,quo fit, vt terra reſperſa co spumet. Propterea eadem
vi veriſimia le eft, fpifleſcentem quoq; intus humo. rem hominis , ab eo
diſcuti , & fic dari fanitatem , lib.s.de ictu afpidis. A quodam
piſtisgenere febrem illico ex citari. N Arota flumine Inſulæ Zeilã quod . dam
piſais genus reperiri referunt, quod manuapprehéfum febrem accen , 1 dat.Equidem
piſcesillic neutiquam el culenti ſunt , liceat flumen fitpiſcofiſsi mum , qui
tamen piſcem febrium appel fatum retigerit,confeftini à febre corri pitur;ſed
quod mirabilius eſt , demiſſo piſce, ftatim liberauit.Cardanus, & 566
lig.in Exercit. Fæminas in maresfuiße commutatas fabulo fum non est .
Pudmultosauctores ex pluribus obferuationibus notatum reperio , foeminas in mares
quandoque commu taras fuifle:referam folum, quod tempo reFerdinandi
I.RegisNeapolisfueceſsit. Erat Salerni quidarn Ludouicus Guara rea , à quo
quinque filiæ fufceptæ funt, quarum natu maioribus duabus, alteri Francifcæ ,
& alteri Carolæ erat nomen. Hæ ambæ cùm perueniffent addecimu quintum annum
,in mares mutatę funt: ijs enim genitalia membrainſtar marių
eruperunt,mutatoquehabitu pro mari bushabiciſunt: Franciſcus, &Carolus
nuncupati.Ex Fulgoro. Sene & utis incommodatam corporis quàm Animai NKINGT
ANTUT : Quanta fint in fenibus, & corporis, & animi incommoda , non
modò à Scriptoribus, verùm arquecontinua,ob feruatione experimar ,vt iure
afferere libeat,hanc hominis poftremam ætatis $ partem miferrimam iudicari.
Mortales enim cùm ad fene &tutem perueniunt * cor eorum affcum eſt,caput
tremulú , (piritus languidus, anhelitus færidus, frons caperata, corpus
recuruum , nares mucores deftillant , vifus debilitatur, i capilli decidunt,
dentesputreſcunt. In fuper ſenes ſunt iracundi, inexorabiles, moroſi,nimis
creduli, rarò obliuiſcun . tur iniuriarum ,laudantveteres, prælen tia
damnant,triſtes ſunt, languidi, iniu cundi, & alperi:ſuntauari,ſuſpiciofi ,
o. neroli,difficiles.Exquibus fene &tutem fentina, & cloacam efleomnium
ford ú, & immunditiarum ætatis noftræ confia tendum eft.Ex Lauren . Cupero.
+ Magnum Alexandrum , corporis ſudorem ha buiffe redoleni em . Rat Magnus
Alexander tam re & a humorúarmo I 2 nia, E 196 BARICELLI nia , &
temperamento conftitutus, vee iusanhelitus odorem balſamiexpiraret; imò fudor,
quem è corpore emittebat, tanta ſuauitate, & fragrantia redolebat, vt
quoties eiuspori recluderentur , gra tiſsimis odoribus perfufus crederetur.
Quod autem mirabile , & difficile credi tu eft ,cadauer eius tam
fuauiterſpira bat , vt aromaticis ſpeciebus repletum efle iudicauerint.. Ex
Quinto Curtio,& lib. noftro de Hydron .Natur. Diuerfe quorundam hominum
virtutes , ornamentA. P tibus,tumanimi magnificentia col. laudantur,omnes in
paucis earum per. fe &tionem , confirmant. Porrò Ablalo nisformam , &
pulchritudinem extol lunt:robur, &fortitudinem Sampfonis: fapientiam
Salomonis : agilitatem , & celeritaté Afaelis:diuitias, & opes Creo G :
liberalitatem Alexandri:vigorem , & dexteritatem Hectoris : eloquentiam
Homeri: fortuuam Augufti: Iuftitiam Traiani: zelum Ciceronis. Veteran Baderoase
no canna, & in papyro penna fcribebate Veterim ruditas, &infcribendo
vari Arbara equidem ,& mifera erat ve teruminfcribendo ruditas:ij enim
primò in cinere, deindein corticibus, & folijsarborum ,pofterin
lapidibus,mox in lauri folijs, exinde in laminis plum beis,conſequenter in
pergameno, & tan dem in papyro fcribere politiſant.Erat præterea illis in
modo fcribendi , ins Itrumentorum diuerfitas: in petrisenim: . ftylo ferreo, in
folijs penicillo , in cinere digito,incorticibus cultro in pergame. Eorum etiam
atramentum varium erat, primum fuit liquor pifcis illius, quem nos ſepiam
appellamus;deinde mororú fuccus;ad hæcex fuligine caminorum ; mox eft fynopica
rubrica ,aut minio; vl. timò tandem ex galla ,gummi,, & vitrio o lo fieri
cófueuit. Bx Strabonede situOrbis. $ InAngira prauosatiuspilulami rabiles
Periamnunc pilulas meas maxi mæ efficacia , quibus in angina 3 prafo А pręfocatiua
à cratsis frigidiſý; humori bus exorta, ſéper cu felicifucceeflu vfus
fum.Interalias obſeruationes, in quibus tale medicamétum libuit experiri, luc
cefsit calus in R. Petro de Stephano Archipresbytero Cercelli, qui ferè fufa
focatuserat , quare vocatus anno 16156 vt eius ſaluti confulerem ; cognito mora
bo, quòd ex craſla & viſcida à capite de ftillatione fieret, pilulas meas
in aurora exhibui,non fine loſephi de Simoncin medicinaDo&oris, mei collegæ
admis. ratione, qui rennebat quodammodo. medicamentum . Eratpilularum come
pofitio ex trochis , alandahal, & Aloes an.Scrup.Sem.j.Diagrid.Scrup.Sem.cú
ſyrup.de líquiritia conficitur maſſa. Ex hac plurimępilulæ ,vtfacilius æger de
glutiret , confe&tæ fupe:Hisdeglutitis, iuriscicerum fubitò cya mbum
propine . re foleo ,quemadmodum in hoc feci, qui fine moleſtia euacuauit, &
breui delituit dolor & gulętumor,benè reſpirauit,be nècomedit, & vna
die fanus factus eft, cummaxima multorum admiration & lgtigia. His pilulis
vfus eftGalenus ad linguam tumefactam , vi lib . 14. Method s med. ſcriptum
reliquit: Capitis noftri capillos, plant arumnatura mo ximè aRimilari. M
Agnácapitisnoftris capillicumplá tis retinent fimilitudine: quemaddum n.plantę
nónullæ humoris defe& u . inarefcétes contabeſcút,aliç verò alienis naturæ
ipfarum humoribus occurſantes: o pereunt; fic &capitis noftricapillisaccia:
-1 dit :vel n.ex humiditatisdefe & u ,quanu. triútur ; vel ex eiuſdé
prauitate corrum- 3 puntut , & decidunt.inc defluuiú & alir
eapillorūdefe& us in cap'oriútur.Ex Gal. Qya dia volucrum pennits varite
coloribus tirgere valeamus: I volucrú pennas variisco !oribus tin-- , gere 1
ter abluereoportet; mox in aqua alumi.. nis decoquere,atq; du calent,in aquá
cro co colorarā , ſi flauas eas cupimus, conii. * ciemus:lina.cæruleas, in
fuccú, aut vinü acinorú ſambuci vel ebuli.In diluto fio . ris æris virides
fiunt: codémodo colore minij,atraméti, alteriusue coloristin &tas habebimus.
Agric Poftulanie,à meluannesBerardinus
Agricolas, Filicibus pro frumentoconfervant do in borreis pri. Oftulauit
Mazzocca à Vitulano,magna expe cationis adoleſcens, ob flagrantem in ſtudia
amorem , cuius familjaritas apud me gratiſsima eft:CurAgricolę pto fru mento
conſeruando, filicibus pro ftra gulis in horreis vtantur ; Equidem hu ius
ingenium , & animi indolem fepè de miratus fum : proptera in recurioſiſsima
complacere volui.Vtuntur Agricolæ fie 1 cibus in horreis, vt cerealia à
corrupte la præferuent: quippè filix à proprietate generationi obeft, hinc
agrifilice pleni reputantur fteriles. Hinc filix epota ne cat vermes, &ex
aluo deiicit: in grauie dis necar fætum , mulieresque reddit ſteriles: quapropter
multa ratione agria cula ( 1.cet tanti arcaniline ignari) filio cibus pro
frumentorum ſtragulis vtun ter : quia illorum corruptioni maxime refiftuor.
Terrestres Lumbrices digitorum panaricium : fanats. Panae sol PAnaricium in latere vnguium accidit,
&interapoftemata numeratur,quod tantum inducitdoloris, vt patiens , ne .
que diu , nequenoctu dormire valeat. Prohuiuscuratione, & dolorislenitione
multimultafcribunt : egoprofe & dcer. tiſsimo experiméto multoties compro
baui, lumbricos terreſtres viuos ſuper pánaricium alligatos,præfertim in prin .
cipio ,mirabilitet apoftemacompefcere, & fanare , vt vix diei fpatium affe
&tus pertranſeat. € Galega, atqueScordimir am ,contra lüemo peffifentemefe
efficaciam . M Trabile obſeruamus Galege , & Scordii efle virtutem cótra
febres malignas , & peſtilentes ; fi quis enim Galegęfoliainacetariis,
autcarniú iure femetindiefumplerit,afebre hactutus, & incolumis
præferuabitur. Idem (Gam leni teſtimonio ) Scordium efficere pro batum
eft:fiquidem ex.veterum quorú , dammonumentis aduerfus putredinem Scordium
fingulare effe. remedium tra đitur, vt j.de Antid.capaz. legimus:nam Is cum nteremptorumcadauerain
pręliog multosdies infepulta máſillent; quęcund que ſuper ſcordium.fortè
fortuna cocia derant, multò minùs aliis computrue . runt; ea præfertim
particula,qua(cerdi um attigerant:ob quáremomnibus per ſuaſum eft,tam reptilium
venenisquàm noxiis medicamétis quæ corpusputred ſcere faciunt, fcordum
aduerfari. Anni bal. Camil En. Nodos . in infantis ombilico filiorumrume-, rum
haud oftendere. * - 103 Pleriqueexnodis inkantis primènato bliorum numerum ex
eadem matre: naſciturumcognoſcere profirenturthoc autem caretratione;fæpèenim
fit , vt illa moriarur , aut cafta viuat:vel plutesge neret filios, &
pariat , quàm nodorum numerus exiſtat;fiue plures viros habeat: è quibuscum
alio plures, cum alio paung ciores filios fuſcipiat. Proptereà certio .
kiratione afferendum ,in nodorum vm bilici primi infantis coniectura , exiſtin
, mosfæcundosvteros plerumque plures ! nodosininfátis parerevmbilicofteriles;
miebe autem paucos, eofque non ad vnguem diſtincos, vt frequens obſtetricum obą
feruatio demonftrat, & vt euentui hæc talia, vtplurimum concordare.viden i
tur. Ex Carda. 8.de Oryalum quem ſolo afpeétu auriginoſosbom . mines ſanare.
Irabile eſt, quod de Oryalo aue ecircumfertur. Hæc potrò talem dicitur fuiſle
naturam ſortita, vt icteria cum affectum , à quo homines plerum que
moleſtantur, ad ſe valeat ſolo oculorum afpectu attrahere; proinde vocao tur I
&teribus,fiue Galgulus à multis, ab ' Ariſt. autéin biftor.animal.Goryon.
Sed 1 quod mirabilius eft, auriginofus homo ab alite viſus fanatur,ales verò
moritur. Homines, quandoque ſolo intuitu Ophtbaho miam contrahere. Vita
obieruatione animaduerti Ophthalmiam fiue lippitudinis morbũ quádoq; contagiosú
elle, & folo perinde afpe & uab hominibuscontrahi:: oculi enim tunc
adeò perniciofam vim . $ retineat , xt in alios propriumaffectum , 6
ciacus ejaculari valeant. Pulchra
ratione hoc Vairuslib.j.de Fafci, quomodofieri por fit, differuit:Siquidem animus
malèaffe & us fuum quoque corpusmalè habet; ob id fianimusaliquomcrore, aut
vi. tio afficitur,colores.corporisetiam im mutar:ſi enimab
inuidiacentatur,pallo re, &croceoscolore corpus. inficit . Inde fitetiam
,winuidia tabefcentes ,ftocle. Jos.inaliquem . liuentes.defigunt, animi fimul
venenum vibrent, & quafivirule .. tis iaculis confodiant.Proptereamirumi
non-ef , hominesaliquando ſolo.aſpe & uindippitudinemincideres,vt Hieron
nymus, Thomafiusmedicusinſignis, (dú ipfe Neapoli ftudijs.vacarem ) defeipfo.
teftatus eft. Adlapidessenum,din neficefrangendos mine rabile remedium .. Vidam
-medicus ecuditus, ad lapin desfrangendostanquam admiran dium.parauit cibum
,cuiusefficaciam a . dedimirabilem eſle cognouit,včad.lapi.. desexpellendos non
folumà renibus,& retisa ;ſed etiamab anulo comedentis, efficacius remedium
haud confedus fu . erit.Paraturex hepate , pulmone, reni. bus,tefticulis cum
priapo hirci , quæ cú & croco , cinnamomo , & mellemifcentur , ac ijs
hirci inteſtina implentur.Doſis fint duæ, aut tres.buccella Res porrò mon
ftruofa ,faveraeft.Ex.Micbaele Pafebl. lib. 1.Metbed.Meck . Veterum medicornmpro
conferuanda Sanin tate collegium lans Rifx potentiſsimus Afiæ , & Syrie,
quialter Alexanderdi &tus fum, it ( vt ex Ariftiin libisecret.fiuede Regin
. Principa.habetur)medicos præftantiores exregionibus Indiæ , GregiæMediæ , ,
ac aliarum mundi parcium congregauit, quibus impofuit ,vttalem inuenirent
medicinam , qua fi homo vteretur , nec. medicis ,nec adia: mediciņa indigeret,
pollicitufque fuitRex dirüsimus maxi mumpræmiumefle daturum.Illi autem pro
maturèconfülendo e rrium dierum fpatio postulato collegiú iniuére. Mox ad Regem
cùmomnes cffent requiſiti Sanages Grocus Medicinæ peritiſsimus, qui pręter
ceterosdo & trina & fciētiarua tilabat omniú conſenſu Regiindicauit,
quòd fumere quoủibet manè aquábisplez noore,efficiat,vt homo fanusperfiftat,
&alia haud indigeatmedicina.blocpro feccò à rationealienu non eft:vtenim in
Arabum , Græcorumque antiquifsimis voluminibus inuenitur,aqua ponderofitatis
ratione ad ftomachi fundum ten dit,auget calorem , & citiùs comprimit,
& digerit cibos, digeftionig; maximè au : xiliarur,ceteriſk; mébris
corporispluri múconducit. Fabrorú exemploid torú inquiritur, quiin
accenſoscarbones mo dicum aquæ conijciunt,vt ignis vi'maioriaccendatur.Idcirco
binos aquæclear ræ hauftus manè potare , menfe Iunio præſertim , propter
choleram reprimen dam , multum confert ad fanitatem cone feruandam .
EfBurtbolam . Moles in lib. de; ſanit.tuer.. Alexandrum Magnum fudorem
fanguineum in pugna habuiſſe. * Vdare fanguinem puruminteradri Skadar randa,
quæ rard luccedunt,puimera . SUT 1 tur
:vbenim in aliquot fudorex láguinis i iclore cruentus corpore malè affecto, :
vifuseft; & is nequaquam fineadmiratie one, & iftuporezita di
illeexputo danguis : nexortusfuerit,atquein corpore fano; ) vtique maiorem
præſtat-negotijcaufam inueftigandi cupiditatem ; vt futiſsimè nobisinlib.de
Hydraniofazatura.olimedia to pertraétatuet Referam nunc quod , Magno: Alexandro
euenit; dum eſſet in extremevitae pcriculo conftitutus.Is cũ, in pugna
quadamedererum fumma cum Indis.decertaters lub @ diarioque milisere
deititueretoMilqucadedcholera:luccés, [useftzvékotocorpore purú languinédes
fudauerit; Barbariſgulecotus igneis filáns misardere vifus fit.Hocautemtantum
ijs terroris-ingcfsit, vt fe Alexandra.com mittere coactant, Lüpathium rantie
darworetaſtas,tenetrier mas, efung aprusreddere. Rat apud veteres Lapathiorum
vfus , pecu liare,eft,vt carnes; &vedulia cú hiselixata vel link dugaa
yesulta, & coriacea ,terit titatem, & mollitiemacquirant.Propte . rea
,quòdcibos concoctu faciles przſta , bant,& aluumemolliebant à vecerum à
mélis raròhujuſmodi abfuifle legimus. Catoncorum feminum :muccaginem combusa
fionibus maximèopitulai Nter præftantifsimaauxilia, quæ có buftionibus: adhibentur'
, feminun cotoneorum muccagipesretinent prin cipatum . Referam:Petri Foreſti in
pro prio filio experimentum , Ille matri obo. fequioſus,,cümtefta carbone
ignito re pletamkappostaret,cecidit & igneoculos. combuftitit : Putem cum
temen cotone . orum in quâ raſaceam coniecifset,atq;
muccagineoculosiçpiusabluiffet;mira culi-infarpuer-comualuitabfq; combus
ftionis veſtigio. Hoc etiãauxilio in f. milibus cafibus feliciſsimè ſemper vsű
fuiffe ,idemconfirmat, In lib.6 . Obf. Medo Aegyptiospermotas figuras,fenfus,or.
rummemoriameffingereconfueuiffe. A Egyptiorum fcientia,quia inter
cæterasprecelleroreratapud ve teres , ( illa enim ab Abrahan originem habuit)
dcirco ,& rudimento , &Hiero glyphicis ferè occulra indicabatur. Si à
qui illorum primi per figuras animaliú ( CornelijTaciti teftimonio)léfusmétis
elfingebant, & antiquifsimamonumera humanæ memoriælaxis impreſla cer.
auntur, & literarum inuentores perhi. bentur. Hinc in quibufdam Obeliſcis:
- látcerę reperiuntur,quæRegum illorum diuitias, acpotentiamdeclarant. Per a -
pis enim fpeciemmella conficientis Re. gem oftendebant. Siquem memorem s
fignificare volebant; leporem aut vul. pemauritis auribus, quod fummieſlent
auditus,& inlignismemoriæ ,effingebát: fi veròmalum crocodilum :fi velocem
, vel rem citò factam ,accipitrem ; quonis hæc aliarum fermè auium fit
velociſsie ma. Si inuidum , anguillam , quòd cum piſcibus fit intociabilis.Si
iuſtum ,oculü: Gliberalem , dextram manum , digitis paſsis:fiauarunn ,ijfdem
compreſsis.Per inſtrumenta quædam , & membra hu . mana pleraque fcribe
Jant. De bis vide Pie arium , Diodorum , Srabonem . lum ritatem , &mollitiem acquirant.Propte .
rea, quddcibos concoctu faciles præſta , bant,& aluumemolliebant à veterum
à mėlis raròhujuſmodi abfuifle legimus. Cotoncorsimfeminum -muccaginemcombuso
fionibus maximè opitulari. Nter præftantiſsimaauxilia, quæ có . buftionibus
adhibentur' ,, feminum , cotoneorum muccagines retinent prin cipatum .Referam
:PetriForeſti in pro prio filio experimentum . Illematri obo... fequiofus,cum
teſtá carbone ignito re pletamkappúrtaret cecidit& igncoculos, combuft
Pitemaeumtemen cotone . orum iniquárafáceam conieciſset,atq ;
muccagineocalosiçpiusabluiffet;mira. culiinffarpuce -Conualuitabſq; combus
ftionis veftigio. Hoc etiãauxilio in fi milibus cafibus feliciſsimè femper vsű
fuiffe ,idem confirmat, In lib.6.obf. Medo Aegyptiospermotasid pguras , fenfus,
re rum memoriam effingere confueuiffe. Aegyptiorum fcientia,quia inter teres ,
( illa enim ab Abraham originem habuit) dcirco,& rudimenen,& Hiero
glyphicis ferè occulta indicabatur. Si qui illorum primi per figuras animaliú 5
(CornelijTaciti teftimonio )jēlusmétis - elfingebant, &
antiquifsimamonuméta humanæ memoriæfaxis impreſia cer . auntur, & literarum
inuentoresperhi. bentur. Hinc in quibufdam Obeliſcis látceręreperiuntur,quæ
Regum illorum diuitias, ac potentiam declarant. Per a pis enim fpeciem mella
conficientis Re. gem oftendebant. Si quem memorem ſignificare volebant; leporem
aut vul pem auritisauribus, quod fummieſſent auditus, & inlignis memoriæ ,effingebát
: fi veròmalum crocodilum : lì velocem , vel rem citò factam ,accipitrem
;quonis bec aliarum fermè auium fit velociſsi ma.Si inuidum , anguillam ,quòd
cum piſcibus fitinfociabilis.Si iuftum , oculu : G liberalem , dextram manum ,
digitis paſsis:fi auaruin ijfdem compreſsis. Per inſtrumenta quædam , &
membra hu . mana pleraque fcribe vant. De bis vide Pie. crium ,Diadorum
,cSrabonem . Quamethodo peftilenti tempore àluenos tueri yalcancus .
Retiofa,acbreuis theriaca reperitur, qua homines ab aere peſtilenti , ad jun
& o vitę regimine,præferuari poſsúr: Sumuntur caricæ ,nuces iuglandæ, folia
rutæ , &iuni peri baccæ pondereæquali, confundanturfimul, atq cum aceto ro
faceo , vel communi diffoluantur; mox per pannum colentur, fuauiterg; expri mantur;ſuccus
verò, qui percolabit,fero uetur : vnúenim iftius cochleare, mane ieiuno
ftomacho ſumptum ,non finit illa die hominemà peſtilentia corripi. Ex Alpbane
de Pefter Olivarum oleum unguium pun &tura mira biliter fanare. IN fedando
dolore vnguium expun , Aurisacu,vel ferro ,atq; iisperſanan dis,nullam remedium
oleo oliuarum fa lubrius inuenitur; confiteor multa oba feruatione,multisa;
experimentis id toa tum comprobaffe. Honefta mulier ; ac vnicè dilecta , Laura
de Otaro, mea vxor cariſsima, no femel, dum varia-ad femi liæornamentum ,acu
contexerer, in vn guibus digitorum pun&a eft; limplicita menoleo oliuarumio
puncturiscollini to ;&dolor confeftim euanuit , & falus introducta
eſt.Ego profe & ò ſemel pun . aus ferri cufpide ſubter pollicisvngue com
ſanguinis effufione, fubitò ad lini mentum ex oliuarum oleo, antequam
aquamtetigiſſem ,deueni;quo adhibita dolor delituit ,atque vulnus vnà breui ter
, & conſolidationé, & fanitatéhabuito Admirandüauxiliü ad vefica
calculã ,quoabt que inciſione diffoluitur,& expurgtur. Nter admiranda
auxilia, quæ ad cal INTE culoſos adhibentur, connumerandum iudico remedium , à
do &tiſsimo Hora tio A ugenio experimento confirmatú in epiftolis addu&
um ,quo abfque inci fione in vefica multorum Japides com minuit,& expurgauit.Réferam
qua via id, innotuita Aegrotabat calculo veſicæ cuiuſdam Typographi filius Romæ
poft varia aſſumpta remedia ,cùm nulla lub fequutá noſlet ytilitatem
,fecaricupidus; de pretio cû Nurfino artificecóuenerate propterea Sacerdotem
iufsit accerf ri, vt ſumptis Ecclefiæ facramentis , fex le &tione moreretur
, animæ fuiffet confultum.Religiofus ex focietate Iefu , audita confeſsione,
proponit illi phare macum ,de quo in leipfo , & in alijs peri culum
fecerat: expeririæger voluit, & magna aſsiſtentium admiratione fana
s:Pharmacum ita erat concinnatum . Puluerris Millepedum præparar,drach, i.ad
fummum Scrup.iiij.aquæ vitæ vnc. Sem.iuris cicerum rub.vnc. ix.velx.ca piatæger
calidum ,horis quinque ante prandium . Efectus medicamenti talis fuit. Horarin
duarum fpatio totum corpus incalefcebat, anguſtiabatur z grotus fitiebat , ac
ferè loco ſtare non poterat,aliquandocirca pubem dolores vrgebant.Vrina hora
quinta cceperunt cralsiores:feddi,fed non multæ.Secunda die à pharmaco
contingebant eadem , fedvrinæcopioſiores, & craſsiores.Ter tia
labulumapparuit multum . Septima tandem adeò plena fabulo vifæ funt , ve
rectequis diceret,easnihil efte quamfabulum aqua diflolutum : omnia in me
liorem ftatum redigebantur, ita vt, qui proximèincididebebat, liber abomni malo
nona fuerit die. Miliepedum ad calculosRenum VP fuca preparatio. PRæparantur
Millepedes ad Renum Velicæque calculos talimodo r.Az fellorumquam volueris
quantitatem , vinoquealbogeneroſo abluito diligen ter , mox in ollam copiicito
nouam , vi tro obductam , lutoque aliquopiam ile lam incruſtato , demú in furno
exiccen tur ,ita vt poſsit in tenuem puluerem rc . digi; tumverò affunde vini
ciufdem gee neroli quantum poterunt imbibere , & rurfus exiccato , ac
tertiò imbibito & exiccato vt ſupra,quartò veròpuluerem irrorato aqua
fragarum deſtillationis &olei exCalchanto Scrup.j. permifce to inuicem ,
& exiccato rurſus : vbi verò fic fuerit exiccatum in tenuiſsimumque
puluerem redactum ,feruetur in vale vi. treo ,aureo ,yelargento . Es codem . Frequentem
ficoram efum fudorem parere abominabilem . Licetficorumvfus multa hominibus
commoda părturiat; ran & ij citifsi mè nutriunt, & impinguant corpora,
aluum emolliunt, & per vrinas, & per ambitum corporis non pauca
excernunt excrementa : tamen eorum continuus, & frequens vfus fudorem generat
abomi. nabilem, & corporis fæditatem ; indici um huius rei eft , quòd
illorum eſu pe diculorum copia innaſcitur. Hinc apud Rhodiginum lib.6
.Antiquar. teet. Anchie molum , & Moſchuni Sophiſtas,legitur tota vita
fuiſſe hydropotas,acficis modò folitos veſci, & tamen robuſtos extitiflc,
ſed adeò fætentes,vt propter abomina bilem fudorem certatim in balneis aba.
liis excluderentur. Mulieres eximiam , &fuauemrerinete pinguedinem . Orpora
mulierum fuauiori, & ma: ori fulciuntur pinguedine, quàm hominium ipſa,quæ
profe& ò ob ſiccitaa tis, dominium ,minùshumidi, & oleofia C ttatis
retinere videntur. Propterea apud Plutarchú 3.Sympol -4.habemus, vbi mul sta
cadauera promifcuè erất cóburenda, veterú tempeftate, temper decévirorú vnú
mulier brcímiſceri ſolitú : qualiil lud vnú tantú ſuppeditaret pīguedin is, vt
cętera faciliùs cócremari valuiſsent, Aſtu demonum , mirabiles in hominum.cor
poribus effectus procreari. : ribus Dæmonis aftu cffectus con ců , ſpiciuntur,
vt quando quis euomat am icus, clauos , pilos,oflamagna: vel quòd plumæ in
lecto fint ingeniofifsimè con ferta :multæ enim de iis obferuationes apud
Hieronymum Mengum in Malleo Maleficar. Paul:Grillandum , & Delrium
reperiuntur. Quomodo autem hæc fieri pofsint, talis eft ratio : aut enim ifta
funt Diaboli illufiones,ita quòd ea videátur, quz vera non funt, fiue per
a&iua natu ralia hoc efficiétia, ſiueper acrifiam ,fiue per
aeriscondenfationem ;aut funt vera; quippe Diabolusinuifibiliter huiuſmodi in
hominis ftomacho intulit, & exinde viſbi. Emin viſibiliter educit,licet ram magna vide
antur ; nam &ea diuidere , & integrare poteft faltem apparenter,eò quòd
loca ſiter huiuſmodi corpora, & partes eorú, ad nutum moueantur, & ad
inuicem con glutinéter,Deo non impediente. Summa Sylueftrina de Malefic. Carduum
Benedi& um ab Hemicrania homi. nes preferuare . X India Carduum Benedi&
um pri mùmomniumad Imperatorem Fri dericum honoris gratia fuiſle miſſum multi
hiſtorici autumant , quod miris laudibus, ob peculiares eius virtutes, planta
hæccelebrabatur,&obidà mula tis Carduus Sanctus dicitur. Hæcenim venena
lupcrai, &confert cùm vlceri bus , tùm vulneribus, eft præfentaneum
remediumad peftem , necat vermes, & vtero prcdeft, & in cibo , &
potu viit pata , ab immenfoillo præferuat capitis dolore, quemHemicraniam vocant.
Ex Trago. Infantes preferuari Apoplexia .Epilepfia fumpto prime fyropo de
Cichor.cum Rhabar. vei Corallio, aut ſucco Rute . tibus morbus epilepticus,apud
au * Etores noftros paſsim legitur , ob id af. feetus hic vocanturà nonnullis
iLorbus * puerilis , liue mater puerorum : Vtau iem cùm ab Epileplia , cùm
apoplexia ghi præferuari valeant, multa obſerua tioneexpertum eft,iis,antequam
lacgu ftent, in primo ortu prebendo fyropum in cichorea cum Rhabarbaro drach.
ii.ab $ hacluepræſeruari ,vt Nicolaus Florer - tinus fatetur. Arnaldus
Villanoua Co mit rallium laudat:nam fi diligenter triti të y Scrup .Sem ,
infans hauſerit cum lacte , antequam aliquid guſtat, nunquam in Epilepſiam
incurrere obſeruauit. Ego quidem Marcello ,Hieronymo, &Mare i co Antonio filiolis
meis ſuccũ ruiæ cum modico auro ad ſcrup. ii. cuilibet dedi, antcquam lac
guſtarent, &gratia Deiab Epileplia immunes exiſtunt.Helionora, K. quæ nunc
ablactatur , feremortua nata eft fumptoque & ieiunato paruo cochle airo
ſyropi de Cihor. cum Rhabar.re uixit , epilepfiam nunquam adhuc palla eft.
Menſtrualem mulieris fanguinema Tontta # nimaliaefe venenum . Nter naturæ
arcana reponendum eſſe iudicaui,quodàMetrodoro Sceptio traditur
demulierismenftrualifangui ne.Mulieres fiquidem fimenſtruationis ſpatio nudatæ
ſegetes ambiunt, erucas, vermiculos,fcarabços,ac alia noxia ani malcula
decidere faciunt. Tale enim à natura ijs virus inuentum eft.Non folú autem
huiuſmodi animalculis menftru alis mulierum fanguis nocere creditur, verùm
atque grandioribus; quippè cao pes, ex Plinij teftimonio menftruofan guine
guſtato, in rabiemutari vifi funt, quorú morſus inter difficillimos mora ſus
fanatu reputatur. At de re hac fupe riùsaliàs tractauimus. Thapfiam veficas,do
ademata corporifuper poftam excitare. Magna profectò eft Thapſiæ effi cacia in
veficis , & ædematibus ge nerandis ,idcirco à nonnullis in peftife Eris
febribus vbi veficantia neceffaria súc cum felici ſucceſſu vſurpari audio.Cùm
autem corporis locum aliquem inflare quis deſiderat, veloſtentationis, vel cu o
riofitatis gracia, ponatur Thapfia in low i co conftituta:ibi enim breui
veſicas , & ædemata excitabit; vt tandem citra læ fionem id ſuccedat &
breui etiam fol jů uantur, cheriacam linire, vel curninum , i aut acerü
fuperponere oportet. Ex Car dano lib.8.devaret. | Antivfum inmedicinapro
conferuanda va letudine mirabilem obtinera proprie Mlimbi Irabilis efficaciæ
aurum in medi Lcina eſt :quippe innumeras illud pro corporis tuenda fanitate
retinet vir. ? tutes.Eiusvſusin vino maximèexcellit capiunturpropterea aurilamellæ
, quæ ignitętoties in vino extinguútur,donec ferueat iſtud,mox colatur, &
vſuiſerua tur. Vigum bocpotatum ventriculo imbecillo fuccurrit , concoctionem
ad iuuat,foedum colorem emédat, & prin . cipalia membra coroborat , &
rcſarcia. Proinde obferuatum reperio,cor ab illo roborari prauos humores calore
fuo abi fumi,vitales ſpiritusclarificari, hepatia que plurimum prodeffe fua
virtute ile lius vſum . Multi certiſsimo experimen , to huiufmodi vinum vitam
prolongare cognouerunt,fpiritufque fynceros face re,atque virestotius corporis
renouare Nonnulli leproſis multum conducere Scribunt,ve ex Mizaldo , &
Zacharia à Puteo capitur. Quercetanus Auri falia in aliqua betonicæ
,autabfinthij confer lacommiſta, ac deglutita ſua fpecifica facultate vétriculú
corroborare fcripfit, Aliquot animalia ex nature eorumfimili tudine à
veteribusfais Dầsfuiffe dicat . veterum infania in rum falſa religione:
quippe,& i nimalibus cultum reddidiffe,infinitis ae lijs federibus, &
naturalibusrebuscircú . fórtur. Inter alia , quædago apud eos PO animalia
erant, quæ ex naturæ illorum proprietate, & fimilitudine, vtreor, ali
quibus Dijs reperiuntur fuisſe dicata. Hinc Canis Diana { ace: eft, Aquila lo 1
ui, Tigris Baccho,Pawo luponi,LeoCy beli,EquusNeptuno,Cygnus Apollini, Anguis Aeſculapio
, CoruusPhoebo A finus Libero ,GallusMarti,Colúba Vara neri ,No& ua Mineruæ
, Lupus Marti, Anſer Iunoni,Soli Phenix.Ex Fonio. Veri V nicornu proprietas,
eiusque cognisio, Erum Vnicornu, quod in febribus peftiferis propinatur
languentibus veilitate maxima,in fyncopemaximo. Pere prodeffe videtur.Illud
auté non ex eo cognofcitur, quòd bullas excitet , vt plerique hominum ignari
perſuaſi ſunt: hocenim quodlibet cornu etiam facit: fed alia , diuerfaque
methodo. Hoc eſt præcipuum experimentum . Si ſcobem eius củ
arſenicogallina,turturi,aut co lumbædeuorandum dabimus, fi fuper Itesmanſerit,
vel vnicornuftatim poft arſenicum fumptum datum fuerit)verí K 3 & legitimum
Vnicornu pronuntiabi mus. Alii in aurificis fornacem demit. tunt, fiodorem
cornu à ſe emittet,ve rumefle prędicapt.Nonnulli experime toʻreferunt, quòd in
vftionepon omni no comburaturſed , augeatur potius minimeque in vſtione fætorem
cornu *habeat, tt in cornu ceruinioexperirilor elet. Ex Føreſto. Oxo artificio
mulierum cinni crocei euadant. CApillorum cullui mulieresmaximè vacát , illud
autem iisoprabilìus eft, vt Aauitiem acquirant. Referam mo dum , quo votum
aflequi poſsint. Su mito Rhabarbarifabæ magnitudinem , fæniGræci, croci
fylueftris , liquiri tiæ tabacci, corticum aranciorum quan .. titatem adtui
libitum , paleæ triticæ ft . militer, his quernum cinerem addito,, &
incoquito , vt tribusdigitisdefcen dat aqua , inde lauentur capilli : tanta
enim fauitie“ redundabunt , vt illos aurcos eſledicas., . Ex Porta in Phitogn .
tipios A4 itib...Adexcitandum in fenibus nauralem caló lorem , eorum ; vires
deperdit assenquandika confectio præftantiſsima. "Heſauris profecta
comparanda eſt , Marſilio Fici 4. no , in lib.z.devita producenda , Medicina
Magorum appellatur, quippe ſpiritus , naturalem , vitalem , & animalem
fouet, confirmat,& Toborat; & proptereaſenie bus præſtantiſsima eſt.
Conſtat hæcex thurisvnc.ij . myrrhæ vnc,j. auri in fo lia ducti drach. fem .
contundere fimul į tria oportet, atque aureo quodam mero confundere, & in pilulas
ducere. Sumi kä tur huius-mifturæ portiuncula inaurora ieiuno ſtomacho ; in
æftarecum aqua: roſacea ; in hyeme verò cum exiguo Quomodo febris in aliquo
confeftim induci palent.. VI febrem in aliquo velad oftentatio .. nem , vel ad
remedium , curioſi tatemque inducereoptabimus,(fiquidem in conuulfionibus ,
parakyſi , aliisque frigidis affe & ibus,non parumaliquádo K4 febrew meri
potu . 14 Sheh febrem excitare profuit ,
) Scarabe cor buti in oleo decoquantur, illogue arte ria brachialis iniungatur:
tanta enim eſt corum potentia , vt confeftim febris, & accenſiones corporis
criantur. Ex Car Nuno. Amultis animalibus anni tempora precognoſci. Tdcntur
profe & ò plerac; animalia anni temporaprecognoſcere:fiqui dem ex corum
inſtinctu , illa homines commentiuntur. Grues enim autumni tempore ad loca
calida peruolant, hye mis frigora fugientes. Hirundines ver nali tempeftate ad
regiones noftras re meant. Ficedulæ , coturnices . aliaque multa volucria , in
anni temporibus,pa bula commutare,aliaque loca adire con ſpiciuntur. Hæc autem
non Ver , Autu mnum,vel Hyemem dire & è præſentiút, quemadmodum nonnulli
falsò ſibi per fuafi funt ; fed verius ex facta alteratio neà calido , vel
frigido in eorum corpo ribus ,fiue occulta qualitate ,has viciſsi sudines
facere cognouerunt. Am ago Amantis ex leuiſsima quidemoccafione sie furcenfere
folent. : Viperditè amant ,leui alioqui mo mento iraici videntur : ratiohuius
rei eft , quiainiurias, licet leues , graues iudicant. Grauefiquidem
exiftimatur, vtilleiniuriam in te committat, cui ma ximeplacere ftudeas.
Cæterùm quem admodum fubitò dolet», qui contra fui habitus propenfionem facere
quippiam conátur ; ita &amantem facere conſpi cimas ;moxtamen rixarum
,& odisper nätde , rurfusque fupplex iugumſubacta ceruice repofcit.Ex Leona
dojachine, IN Plenilunio , Nouilunio Pharmaci ex bibitionem àMedicis maximè
deteftai. Vlra rationc à Medicis in. Pleni junio , & Nouilunio Pharmacam
ehitatur: fiquidem Luna ,cùm interme Hriseftzomhiijo caret lumine,atqueſub
radijs lotaribus ia &ta , & proinde ſolica caret humiditate, quo fit vt
corpora ne ftra magis licca maneant, & virtusteten trix robuftior exiſtat.
Idcirco fin No puilunio ipharmacum ægris exhibetur;a K 5 abfquedubio humores
noxiosagitabit, atqueob retentricis facultatis inobedie. entiam parum
euacuabit.InPlenitapig ob Lunç porentiam corpora noftu yali de
calefcunt,humoresque augetur,Hing In pleniluniis no &tesicalidioreselle ex
perimur,cuius caufa , cailorem à centro ad circumferentiam attrahi, verilmile :
eſt's quas propter fihumores, corporis: noftriad ambitum tendunt, procul dus
bio pharmacum improbatur:illudenim à circumferencia ad centrum trahitmg .
tumque natureperuertit , quo facilefut cedit ;vt virtus kadetur,&humorumsys
tiacuatio ,velmale,veldeprauana.coring gat: Ex loann,de Pitch 19continuatamaſculorum
generatione Jep, LR timanm mirabilembakere virtutem . : TIG apud multos
fcriptores repe rifles, feptimun mafculum com tinuatæ generationis mirabilem
habere virtutem interhæc noftra embammata minimehoc adieciſlem . Volunt enim
quando aliquis ſeptem filios maſculos Continuatim & inter eos fæminam
nul, Quod autem in Hydrargiro mirabile
pullam ſuſcipiat, ſeptimum mirabilem virtutem & ftrumas , & alios
plerofque effe & us retinere ſanandi, An autem ve rum fit , ncſcio ,cupio
tamen à fapienti bus experiri. Forum Hydrargiri , fuperpofito yclamine, 1: in
molem Mercuriimatari, Yrifices dum valamineralla inau . rare cupiunt ,
Hydrargiro pro bo peremoliendo vtuntur ; illud autem in igneimpofitumin fætores
grauem , & fætidas exhalationesreſoluitur,pernici--- ofas quidem , niſi abijscautè'euitantur.
iudicatur, eft iftud, ſiſuper illius fumá linteolum extendimus, in quo colligi.
poſsit , vtique in argentum viuum fu moſitas illa icerum conuertitur , &
Hya, drargiram renouatur. Experimur hoc . etiam in carbonum fumofitatibus in
traffas fuligines reuertuntur , licet die uerfimodè ab Hydrargiro,Ex Lemnie.
Eæculas Bryonia viera mundificando mirane babere pirtutem . 5 K Singularis
profe & ò fæcularum Bryo. niæ ,tum pro matrice muodificanda, tum ad
hiſtoricas ipſius paſsionesſanan das eſt efficacia :quippe ex multis expe.
rimentis comprobatum eft,in huiuſmo di affiEtibus curadis inter remedia,prin
cipatum habere. Referam ipfarum con ſtructionem , Exprimatur pręło ex Bry onix
conciſis radicibus, & contufis fuca cus.crit primò turbulétus,idcirco in va
ſe aliquo afferuādus eft , vefæcalisma . teria ſubſideat: detineatur in
locofrigi doper paucosdies; in hoc enim fpatio finclinato vaſculo,viturbulenta
aguia) Separetur, & proijciatur) fæces albiſsi mas inſtar amyli in fundo inueniemus
quas iterum in pluribusvafculis vitreis, aut terreis diuiſasin vmbra vt,
exiccen tur feruabimus;ita protectòintra paucas horaşexiccabitur, &
formáanjyli acqui rarexpreſlum , quã Bryonize foculá no minamus.Hac
fingipoſſunt pilulex.aut xij. granorum pondere, & cú palico ca ſtorci,
& alfęferidę ſummü; ac precipuú. aratur remediú cótra affcctusnarratos. Fæculæ
huiufmodi etiamfi diffoluütur, inaqua florum faþarú pro fuco ad orna tum
mulierum ,paneaſque defendas ef ficacifsimæ funt.Ex Quercerano, Miſaldo,
&Zubariaà Puted. Millefolium ad conſolidande vulnera misam babere
potentiam. Lurimis experimentis comprobatú audioMillefólij virtutem ad vulne
rum coitionem , indielğue nouis obſer : uationibus confirmari.Referam folum
quod ab Hellerioin Chirurg.adnotatur. Cuidam deciſus naſus erat,qua osin car
tilaginem definit: Ruſticus propenden tem partem alteridigitis coniunxit,her
bam tuſam ,& èvino nigro tritam ,quod Millefolium appellant,impegit ,
rudius omnia colligauit, vede celerrimè reſti . tit fanguis profuens, &
vulnus pulchra e cicatrice brcui coijt. Chymicam aztem, reterum tem ; eftate
floruiſe. Pud Veteres i maximo prctio ars p !eriſq ;illiusftudio
vacabátur:inginte s A K7 enim diuitiarum copias illa methodo homines
componebant,quibus ditiores facti cum Regibus bellum adibant.Pro . pterca
DiocletianumCæſarem legitur poftquam Achillem Aegyptiorum Du cem o &
omenſcsin Alexandria obſeſsú : profligaflet, omneschymicæ artis libros ,
diligenti ſtudio conquiſitos, deflagral. fe: pereparatis opibus , Romanisfacilè
. repugnarent. Ex Suidt, oOrolio. Quoartificio corpus glabrum reddi : poßit L
Itet varüs modis corpus depilatum ; &glabrum reddipoſsit,nulla tamen via
præftantior eft ,Varronis teftimo nio , quàm loca lauare aqua; vbi Bufo nes
decocti fint,donecad tertiam redcat: - quippè- fi tali decocto corpus Jauetur,
proculdubio glabrum ,&fine pilis had bebitur. . Natiuitatis hominum tempora
à multis : obferuari On leuis profectò eſt.multorem : ſcriptorum obſeruatio in
homia . EN lp mum natiuitatis tempore: à multis enim occafiopibus temperamenta
corú. variant, &plerique àrnaturæ terminis, roaximédiftrahantur.
Porròquiinipfor terremotus i momento nafcuntur femper patent in tonitru ſemper
lan guidifumo qardenet Cometa coex ar ... dendi complexjoneargentesfuntainter's
Lühiikempordebiles cuadunt, vel fals, temi Ariſtotelis teftimonio ) melan-;
eholici , & atrabile laborantes. Hydárrgýrum non effe vendnum in paura :
fumptums quam itme', fed adver : mes nes andas exiftere remedium ydrargyrum ,
vel fimauisargenti vionm , quodà multis venenum exiftimatur, feliciſsimo
fucceflu contra vermes exbibeturjzáptægue certitudi- . nis illud in Hiſpania
reputatur , vtmu lienes, tenellis pueris , quila ĉçis vomi.. ty laborant, ad
quantitatern granorum trium in propria fubftantia propinare audgár:bacn, via
morbuscellare videtur: frequen A Hedmare frequentatisexperimentis. Ego quidem
viduam mulierem curani, quæ nouem dierum fpatio vomitibus continuis ex
vermibuslaborauerat, & ferè triduono comederatznec cibum retinere valuerat.
Haiccùm fcrup.ij. bydrargyri mortifica tii , cum tantillo adoniipropinaffem
abfque vlla moleſtia peraluum centum , & pluresemifitvermes, &eademdie
lis berata eft , & folita exercuit domi, & foris negotia,magna profe
& ò parentum ſemper eventu , domique continuò a quamhabeo , in
quaHydrargyrum , in . furum retineo , illaa que puerulis pro vermibus
libentiſsimèconcedo , nec ad hucquempiam ex illo noxiam recepifle expertus ſum
. Vfuseft hoc remedioad vermesmecandos,MatthiolusHoratius, Augenius, &
plerique alii celebres viri, qui omnes huiusauxilii maximè extol. lunt
beneficium . Datur pueris in lub: ftantia Scrup. ji grandioribus Scrup.ij. vel
drach.j. Corrigitur illud , & nrore ficatur in mortario vitreo cum zuccaro
rubeo : ibi enim tam diù conteritur , vt in partes inuiſibiles diffoluatur; ne
au tem in priſtinam formam iterum redeat, * olei amigdal,dulc.gurtulas binas
adde re oportet, & cum zuccaro rof. violato , vel cidoniato ieiuno ftomacho
languen mtibus propinatur.Sciant igitur curioſiin hac dofi nullum præbere periculum
,in # maiori tamen non dedi,neque concede tem :licet apud Aufonium Epigram.10.
o legatur hydrargyrum contra medicinas venenofas valere. * Datura flores , com
ſemper, hominem in ri(was; concitane. M ! Tra eſt Daturæ potentia in faſcinan
.. dis , vt ita dicam , hominum men tibus , adeò quòd , qui illiusflores, vel
Temen ſumpſerit , à riſu , cachinnisque non defiftat,donec més alienata ex plan
tæ viribus in priſtinem redeat tempera mentum, Apud Indos à furibus Datura
vfurpatur;fores enim , vel femen in ci bos eorum , quosdepredari volunt, exhi.
bent, & in mentis alienationé, & in riſum 2. conci . MA it concitant: ita profecto furádi parantin
duftriam.Durat illorum riſus, & mentis error, viginti quatuor horarumtermipc..
Ex Gozdab Horto . Lupesſenio confectos in renibus venenoſosgeo net
areſerpentes. Agnum profectò in præſentiarü arcanum aperio , multis hucuſ. que
incognitum de luporum natura. Il lud eft,cur à Lupis animalia commorfa
modòfanentur,modòautemmoriantur.. Anquòdluporum aliqui venenoſi, ali qui verò ſine
veneno exiftant?Equidem CarolusStephanus lib7 Jus Agricult.cap.i. ſe obſerualle
fatetur, ib Luporum fenum renibus,primò ferpentes vno pede.Jona giores , &
breuiores, qui temporisſpa tio venenauſsimi effecti,Lupum enecás. Hac via
facilius nobis tribuiturconie &tura deLuporum morfibus.Si enimle piiuuenes
fuerint , animahaa, momor derint , ex benigniori eorum natura, mortem baud
inferunt,vtmultoties ob feruamus, niſifortè.vulnera in principi buscorporis
fuerint locis, vel tá grádia, vimori neceflc fit.Sin auté ſenio fuerint confe
& i,proculdubio leuiſsimo morſu animalianecabút,propter peculiare ve nenum
inLupo delitefcens,quod víu ve nit,vtpieraq; præmorla animalium , vel
moriantur, velmembrum morſum pu treſcat, vtfaltem difficillimè curetur. Ex.
Gaſp Benkino. Qualiartificio ab vxoribus homines mafcu losfilios fufcipere pale
ant. Vita à Scriptoribus ad marium M reperimus:hæcautem præcipua , & ve
riora effe exiftimaui.Primovthomo ex exceatur,folidiorig;vtatur cibo ,atq; ra
rius cócubat: ita n . & calidius & fpiflius fe . méeuadit,fita;
prolificum , & aptiſsimum ad marium conceptum . Secundo mater, &
incongreffu fuper latusdextrum recubat & à coitu confeftim fuper illud
conqui elcat: Siquidem Hippocratesmaſculosin dextris,fæminas verò in finiſtris
genera- . ri ſcripſit.In dextris enim ab Hepate fo . uetur ſemen ,quod eſt
calidum : in ſini. ftris autem à liene frigido quoquo pa.; do refrigeratur ,
& ad fæminarunt 3 conceptum'præparatur.Tertiò ſpiranti tibus Aquilonibus
concubant, Auſtris vero defiftát:Aquilo enim admares fuf. cipiendos
accommodatiſsimum eft ,Au fter verò ad fæmellas. Capimus huius rei ab ouibus
experimentum , quæ fiflá. te Aquilone concipiunt, marem ferunt; Auſtro autem
foeminam . Multi , inter quos Cardanus eft,ad marium concep tum Mercurialis maſculæ
elum extol lunt,hæc duos quafi coleos pro feminie bus habet, & ab vtroq;
coniuge depaſta, marem inducere occulte vi exiftimatur. Magnumele in hac
inferiora Lune con fluxum . Trabilis profectò eft Lunæ vis in hæc inferiora:
ipfa enim noctes illuminat, & fuper humida poteſtatem haber,marisfluxus,
& refluxus per quae draturasfuas intētiùs, & remifliùs facit; quippèdum
oritur,maria intumeſcunt, & in æftuariafluunt, quoufque ad circu. lum
meridianum illa perueniat; cùm autem ad occafum inclinat , Oceanus ab
æftuarijsrefluit ingurgites; quando ſub M Orizonte , percurrit,mare ad confueca
æftuaria conuertitur, quoad nocte me dia meridiei circulum Luna atringat;
poſtremdcùm ad Orienté tendit,Ocea Rusquoque ad folitos alueos regurgitat. Ipſa
in Agricultura rebus dicitur do , mina;propterea antiqui gentiles, qui in
terræcultura proficere optabant, Lund libamina ſpecialiter obtuliſſe dicuntur;
y ocabatur Diana, ſiue Latonia virgo, aut Plutonia coniux velProſerpin.
Leonardi asri deOdtimeftri pariu ſenten tiamdebilem effe. Peculatur Vairus in
lib. 2.de Faſcino, Cur partus odimeſtris vitalis mini mè lit,innuit hic, vir
alioquin doctus, talem partum non viuere, ob femen im perfectum :quia non datur
ſemen (vtar guit )quod ad illud tempus fætu procre. are valeat: ſicutin genere
triticiquod dam eft ,quod tribus menſibusgignitur; quoddam verò, quod nouem
menſibus: fed debile eft huius fundamentum , quá do in Hifpania, & Aegypto
o & imeltres partusões vitales efle perhibcãt:Potior ergo concluſionis
ratio requiritur,quam nos alibi tábgemus. somniarumprofagizà Deo diuinare,
aliqus bus bominibus concedi. On omnibusfomniorum diuina N
doconcellavidetur,fed quibusà Deo ex ſpeciali gratia permittitur. Qui anim
fomnia proprio ingenio diuirare intendunt ( dempta fomniorum intere pretatione,
quæ & caulis naturalibus in naſcitur , quorum præfagium ad media cos
pertinet) aut cæcutiunt , & delirant; aut dæmonum fallacijs inuoluuntur.
Iofeph apud Pharaonem , & Daniela pud Regem Chaldæorum ( vt infacris
habemus) quia diuina afflati erant ſapi entia, fomnia diuinabant.Propterea mi
niftris fuis Pharaonem audita fui fom . nijinterpretatione,dixifle legitur: Num
inueirepoterimustalem virum , quifpiriru Deiplenusfit ? & Rex Babylonis ad
Da. nielem :Audiui de te,queviäm fpiritum De orum habeas, ce ſcientia,inselligentiaq,
as Sapientia amplioresinuentafunsin tq.ExTa úello . Inter Polypodium , &
Cancrosmagxam in. eſſe antipathiam . Axima videtur inter polybodie M , i quòd
fi polypodiumſuper cancirú abie ceris viuum , breuiſpatio tum pedum
cortices,cum vngues ille eijcier:tanca eft i iſtius plantæ in illum
particularis viru 3 lentia,& efficacia.Ex Mashioto, Ć Dengan Ibidis ,
ferpentesattonitos reddere. Irabilis eſt ibidis pennarumvis M contra ſerpentes
, quippe fi illius penna ad illorum quempiam inijcitur , Confeſtim in
veſtigiogreffus hæret: ad mirabiliustamé eft, quòd ſerpens quer pis
frondibuscontacta moriatur , quare circulatores aftantibus mirabilia fæpè
protrahere à racione inconucniens elle a non debet:multa enim iis funt, quæ ad
i mirandaiudicantur:quemadmodum eft Viperam viſo Fago perterri:experimé. "
to enim probatum eſt , illiusramo ante hocanimal iniecto , veluti attonitú fie
si, nec ampliusmoueri Hoc etiá cuenic Gha . ti ſi barundine feuilsime
percutitur : fin verò iterum eadem vipera incutitur confirmari videtur , &
fugam repentè adire. Mulieres rard inebriari, acbrd autem ſenes, Ontrariam
naturam ſenile corpus, Contd & muliebre fortita funt:ob id mulie. res rarò
ab ebrietate corripi afpicimus, crebò tamen'ſencs. Mulier quidem hu mida eft, vtà
cutis cenitate ,& fplendo re.comperimus , fenex contra ſiccus , cucis
afperitas&ſqualor confirmat. M11, lier ex aſsiduis purgationibus fuperfluú
exonerat; ſenex autem ex corporis duri . tie,luperfluanonexcernit.Mulieriscor.
pus, quia variis purgationibus crat de putatum , pluribus foraminibus fuit có
fertum ; non ſic ſenis corpus ,propterea naturales meatus à corporis ſiccitate,
& duricie potiùs obſerantur. Hæc funt în caula , vt ebrii fenes facilè
fiant , muº lieres verò perquàm rard . Nam fià mu. liere largè vinumfuerit
hauſtum , illud magnam mulieris humiditatem incidens,vtiq;vimluam perdit;
dilutiulý; fit , & cerebriſedem non petit: nam per. varia foramina mulieris
illius vapor re Currit , & celeriter eius fortitudo euanel cit.In ſenibus
vinum contrarietatem no recipit: quia corpusillorum ficcum eſt; ob id vinum
firmiter adhæret, cerebría que petit , quia in durioribus membris; &
aridis(vt ita dică ) exhalatio nulla fit: hincab ebrietate facilècapiücur. Ex
MA crobio 7.Saturn. Qua induſtria in vrgenti fomno, quis vac leat excitari.
Agnus Alexander,vt ingerendo imperio, occupatior eſſet,magnú contra ſomnum
excogitauit remedium , quoſi quis vtetur,facilèin ſomni graui tate excitari
valebit. Ille Vas æneu pro pè lectum conſtituebat, & pilamæneam fiue argenteam
manu compreſſam ha bebat,brachiumque ſuper vas illud ap tè componebat,vt pila
in ſomno elapſa in æneum procideret, & à fonitu excita retur, &
furgeret.Mira equidé fuit hu. ias ingenij dexteritas , licet hæc Alexandri
dormitatio potius quàm fomnus dici poſsit.Ex Ammiano Marcellino. Quibusfignü
corpora venenata cognoſci yaleant. L Icet venenorum genera multa fint, ex quo
difficile fit omnia figna repe rire,quibus cognofci valeant,afferam ta men qua
mcthodo corpora, quæ venenü fumpferint,intelligere poſsimus. Porrò magna fit in
corpore commotio , dum quis venenum hauferit;præcipuè fiillud calidæ fuerit
naturę:doloribus enim va lidis ,atqueacutis in ſtomacho , & inte kinis
torbonibus languens cruciabitur, præcordiorum fentiet anguſtiam , fati gabitur
vomitu,& fuxu ventris , ſudor fuſcirabitur in fronte cum vultu frigi do :
colorægri erit pallidus , pulſus de bilis, inzqualis, & inordinatus ,fynco
pi , &animi deliquiis affligetur. Hæchi omania, vel in maiori parte
fuccedunt, o porter celerrimèinggris.vomitum pro uocare, vt aflumptum vencnum
eiicia ur. Ex pal.Vilan. Luem Gallicam non modò homines,fed canes etiam
inuidere. Tanta eft morbi Gallici quandoque immanitas, vt non modò ex vno lan
guente,vel reſpiratione,tactu, autcom merci oplures homines ea lue polluan tur;
verùm atque canes , ſi vicera , vel vnguenta infirini lingere potuerint.Ex I
perientia hoc edocuit ; viſus eft enim & quidam canis Gallica lue captus,
quihe I riſui emplaſtra linxerat. Ex obformatore if Iulii Scaligeri. 6. Poet.
Quotermi nocorporis hominispulchritudo conftitui debeat. Arii equidem funt
Scriptores in conſtituendo termino longitudi nis , & latitudiniscorporis
pulchri:ihter quos, ſententia loannis Goropii, in fua Gigantomachia , magis
acceptanda vide tur à fapientibus:colligit exHomeride Creto longitudinem
hominis pulchri de bere eſſe quatuor cubitorum , latitudi nem verò vnius
cubiti. Cymrinum bominibus palliditatem corporis inducere. More Multa profectd
ſunt , quæ vultus colorem hominum deflorare ob ſeruantur: fiquidem panis
hordeacęi v fus facit homines pallidos.Ex Ariftot. A quælutulentæ potus, vſus
ſalitorum , & immoderata Venus valde colorem de . turbant: inter ea tamen ,
quæ ex proprie. tate decolerare putantur, Cyminivſus, &olfactus eſt. Duo
enim de hoc exem pla habentur apud Plin.lib.20.C.24.V. num fe &tatorum
Portij latronis, qui, ve illius imitarenturpallorem ,cymino fre quenter
vtebátur:alterum eſt Iulij Vine dicis ,qui, vt Neronen falleret ,palloré
Sibicymino conciliabat. Ex Mercurialide Decorat . Regem Archelaum maximè Aſtronomie
fi iffe imperitum . T minibusneceffariaiudicatur,vt malè ciuitates,
refpublicas;hominumo; cætus fine illorumobſeruatione ij con leruare
valeant.Vtique horum ope té pora,annos, menſes , & horas metimur, &ſine
his in, varia labyrintha inuolui mus mur.Hoc apertè ille imperitus Aſtrono miæ
Rex Archelaus oftendit,qui (vt vi ri ſummæ fidei fcriptú reliquerunt) ob Solis
Eclipfim ,cuius caulam ignorabat, * tantotimore correptus eft ,vt regiam is
clauferit,filium totonderit, iudicia è fo ro fuftulerit , & iuriſdi&
ionem penitts en intermiſerit: vltimum enim orbis diem . eſſe arbitrabatur.Ex
Magino. Mira grecilitatis quofdam bomines fuilfe repertos. X Aeliano,&
Athençoquofdam ho mines extremæ gracilitatis fuiſſe * colligimus:legitur enim
quendá Arche ftratum vatem fuiſſe, qui captus ab ho ftibus tantæ gracilitatis
repertus eſt, vt cùmlanci apponeretur , pondus vnius obolihabuiſſet,quod
incredibile,& ferè ridiculum exiftimatur.Philetas Couse . tiaminuentuseft ,
quem ex gracilitate E vſque adeò inualidum fuiffe fcribunt, vt ne à vento
deijceretur , pondera ferrea pedibus, & foleis geftare coge { retur,
Anguit. Emine Anguillas cumAquilone mirambabere fyme putbiam . Trabilis profe
& ò conſenſus eſt, quem Anguillæ cum Aquiloni.. bus habent : ipfis enim
ſpirantibus fex. dies fine cibo, & aqua has viuere fertur; cum Auftrisautem
diſſentiunt, quippe his flátibus diu ſine cibo, & aqua illæ vi.. uere non
poflunt. Ex Bodino in Theat. Aſparagorum vſum corporis facere pitorem . Nter ea
,quæ nitorem ; &pulchritudia nem tur, Aſparagorum vfusconnumeratur, cuius
efficacia à multis in corpore colo.. rando ferè mirabilis iudicatur. Aſpara ..
gi fætentem reddunt arinam , & perilla pratos corporis expurganthumores:eb:
id mirum non eft ,fi,ijs euacuatis,corpus reliquum non modò odoratum redda tur,
ſed etiam nitidum , & coloratum : quippeex humorum prauorum conge. rie,
& palliditas , & defloreſcentia nobis jonaſcitur, quibus ceflantibus,
ceſat de . formitas, & colornitidus exoritur. Ex Auicenna. Picem cum oleo;
maximam babere colli gantiam . E X congeneri ferènatura Picem , Rea ſinam ,
& hujuſmodi, magnam cum oleo affinitatem retinereobferuamus:fi manus enim
pice , vel refina fædantur vtique eas oleum extergit,idque ob col" :
Tigantiam oritur. Oleum furfur tollit, furfur aqua eluit; aquam demumlintco:
ficcamus.Ex Cardino Mularumgenuse propriapecieminime propag ari: MVlasequidem
,& monftraconfimis lia,nec parere,nechium genus prou pagare obferuamus:id
fieri aiuntmulti;. ab improportionato generandi tempe ramento : veriùs tamen
cum Bodino in Theau.Natur: hot contingere exiftimo, une fpecierú fit infinitas
: natura enim in finitatem abhorret. Ariſtoteles in Syria fupra Phænicesmulas
parere ſcriplīt ; & Theophraſtus in Cappadocia illas genus 3 , propagare
voluit:tamen hoc veriſimile haud eſt. Propterea magis credendum reor , in illis
locis Aſinarum quoddams: genus oriri mulabus conſimile , potiùs, quàm mulas ,
quarum partus à noftris. prodigiofus, & funeftus effe dicitur , vt Iulius
Obſeq.inlib de prodig: adnotauit. Leones, Sole in Leone'peragrante,a'febribus,
moleftari: Irabileeſt, quod in Leonumfpecie contingit,dum Sol Leonis cælefte
fignum ingreditur:ijenim à febre tertia.. na in toto fyderis fpatio
excruciantur:a deà quòd fateri oportet , talium genus cum hoc fydere
antipathiam habere & tertianam recipere'; proinde Leoninaà multis
hæcfeprisapperiatur,bene iudi. cantibus, Leonemeſſe peculiarem . Leo. nes hoc
temporetertio quoque die paſo cuntur,neciemel etiam accidit, vt bidu um
,veltriduum inediam ſufferāt, Ster custunc ficciſsimum , & vrinam fatente
excernunt,vt Ariſtotelesadnotatum re liquit.Aiuntmulti, hocà natura forſitan
eſſe factum ,vt ferociſsimæ beſtiæ quo quo pacto cohiberetur impetus, & à
fre quentiori rapina coerceretur. Quo HORIVLVS GENLADIS. 149 Quo artificio in
fenibus barbas, albofque cam pillosdenigrare pale amus. Eferam notabilem
miſturam qua , ' R Jeant.Sumito lixiuij communis quantú volueris, decoque in eo
faluiæ , & lauri folia cum corticibusiuglandium viri. dium ; mox laua , aut
ablue madefa &ta fpongia :ita enimnigredinem compara bis, quæ diu durabit,
&lætaberis effectu . Ex Porta : Mergum ,& Anferem aquaticum in Hydrsa
phobiam plurimum valere Ntercuncta animalia adnotauit Arie ftoteles Anſerem
aquaticum folùm non rabire , ob id à multis huius efum in Hydrophobia maximè
celebrarur: mirifico autem experimento contra ram . bidi canis morlus valere
dicitur Mergus qui in aquis & maridegit, quippe ab Ace. tio ,eius eſu
Hydrophobosillicoaquam efflagitare narratur. Lacertasmira magnitudinisapud
Indos iz... Meniria NInfula Sancti Thomę, quçdam La IN Ls certæ ſpécies miræ
reperitur magnitu dinis,quæ admodum illius gentibus fa miliaris, eft .In Ioſula
etiam Capraria,, quæ vna èFortunatis eft , ingentis ma gnitudinis hæc animalia
cerpūrur;habis tatores autépro ijs interficiendis , bom . bardis,fiue
ſolopetis,alijfque bellicis in . ftrumentis vtuntur. Ex Amate Luſsin Dia.
ofcer. In educandis iuuenibus , miran fulle aibe: niexfium induftriam . Moser
Oserat Athenientum in iuvenum educatione, vtij cothurnicibus, fio uc qualeis,
aut gallis pugnantibus ftudi. an impendcrent:Solent enim hiermo. di
volucres,vfquead extremam virium defeâionem certare . Qulo exemplo ad
ſubeundapericula ; & vulnera contem merida, ifamınabant iuuencs increpan
tès au :bus minus ingenioſos effe homi. nes, non debere.Exsotino apud Lucianum
Serpentum eumapudl kudosfrequentari.. NCuba Inſula penes Indos ,ferpentes loua
totius corporis ipecie, ac forma prediti inueniuntur,quippe ſelquipedis IM I
plerumque longitudine exiftunt,& ex terra, & aqua viuunt:Quod autem
apud illas rationes mirabilius videtur inlay tioribusmenfis, horum animalium e
fum ,tanquam ibum ſapidiſsimum free quentari.Fx Petro Bembo. Quomifico,Po
ticaput; inmiram intumeſcentiam redderevaleamus. NterAgriculturæ arcana, non
infimi momenti methodus eſt, quaporri cam put in tumorem magnum reddere poro
Gimus.Aperiam abftrufum artificium :Si enim porri caput ,arundine, vel ligneo
ſtylo pupugeris,atq; raporum ,vel cucu- merum fomen vti foramine occultaueris
proculdubio propria capeo in tan tamtumorem deuenire, vtid prodigio- fum
iudicetur, Ex Mizaldo. Iwer Fraxinum , &Serpentes miram adeffe Antipathiami
Raxini fuccus ad ferpentum morfuss mirabili fuccelu à medicis vſurpa nec fine
ratione : hanc enim plans tam Serpentes, ex occulta antipathia ji miro odio
infequuntur : fiquidem illius L6 yobras OX tur , 252 BARICELLI vmbras tùm
matutinas,tùm veſpertinas euitant,& lógiusaufugiunt. Retulit Pli nius lib.
16.cap. 13.ex fraxino experi. mentum quòd figyrum frondibus fra xini,& igne
apparatur, in cuius medio ſerpens lit proiectus,procul dubio ferá in
ignempotius, quàm in fraxinu aufu gere:tantusefthorum diffenfus , &co.
culta ſerpentum inimicitia. , Virginitatem in mulieribus, qua viaexperizi:
paleamus. L Apathiū maius in aperienda mulica rum virginitate aftantibus magnam
retinet efficaciam : ſi enim ex huius folijs faraturfuffumigium ,fiue hęc fuper
ig . nitos carbones inijciuntur,vteffument, vbi mulierum fit corona , cum odor
ad pudenda mulieris perueniet, illius bon. nitatem,vel malitiam oftendet:
quippe fi viro copulata fuerit,abfque dubio v rinabit, fim verò fuerit virgo
,vrina po tiùs conftringitur, quam emictatur.Ide etiam faccre autumant,lignum
Agallo chum , fiue Xiloaloem , vel femen portu-, acæ fi fuper
carbonesiniecta,adeò effu ment HORTVLVS GENIALIS. 253 L ment, vt ad pudenda
mulieris odor va leat penetrare: mouetur enim in deflo ratis vrina quantò
citiùs , fecùs verò in virginibus.Ex.Perta . Quomodo ex duabus aquis claris,
lac effings re illud valeamus.quod Virginale Pocatur. Ac illud,quodà pleriſque
ob colo Cris ſimilitudinem ,liue ex nouo ori gine, Virginale appellatur, ex
duabus , aquis artificiosè corifedis exoritur ad multa equidem corporis mala
yti. Lifsimum .. Eius modus talis eft . Su mito lithargyrij in puluerem redacti
Vnc.ija acetialbivnc.si.commiſta infi- , mul per filtram lineum deſtillato,
& a quam clară habebis.Vtautem alteram componas , fumito Salis gemmæ Vnc.),
Aquæ cómunis, fiuepluuialis claræ Vnc. Mimiketo fimul, & fic bimas habebisa
quas magni valoris. Cùm verò vel ad oftentationem , vel curioſitaré fiue ne.
celsitatem lac Virginale conficere opta bis,aquas vtrafque coniungesfimul mil
cendogita profectò confeftim laquor la L7 Ereus BA RICE E L'T M deus
ſuſcitabitur , qui Virgineusvoca . tur.Verrucæ in manibus fi hoc lacte per dies
aliquot beneconfricantur , euanef cunt. Impetigines,omneſq; faciei macu . læ
,rubores, & ex foleardores , hoclini. mento facillimè curantur. Caftrates
lienem ,velonorum vitellós durios ? res deglutire non poffe. Irabilc elt i :
lud,quod in caftratis, circa cibum obferuatur : hi enim nec lienem ,nec
duriores ouorum vitels losdeglutirepoffunt, vt frequentiſsima apud
multosinoleuirexperientia.Retulit Bodinus in ſuoTbea.tales priùs fame fe necari
pati, quàin lienem vorare por fe.Huius reialia non creditur effe ratio, quã
xſophagiiſtorú ex nimia adipecoão | guftatio, & cóftri& io; cũ auté
lienis fub-. Itātia spõgiofa &flatuoſa fit,atq; in mã. ducationemagis
infletur;facile fit , vtiji i ex ælophagi anguftia talem cibum deo to glutire
nequeant. Eadem ratio eftino uerum vitellisdurioribus', qui ex ſuba Itantia
glutinoſa,per anguftum non facie la tranſeunt. Spatium humanæ vita , centum
annorum fom cundum degyptios compenſariin . teruallo . in . * " Vriofa
magis, quàm veritari confo näns mihi videtur Aegyptiorum
aliquotopinio,dehominum vitęmenfu, ra :quippe illorú multi , qui medcata
cadauera feruart conſueuerant , ex quada conic & ura à cordis humani
ponderede fumpta in eam deuenerefententiam , ho. minisviram centum annorum
fpatio de Gniri.Sumebant experimentum in cora poribus, quæ fine labemoriebantur;
ho rumenim anniculi duarum drachmarú. pondtrisgcorretinere videbantur , bini
quatuor;& fic in iingulis annis, quo in anno quinquagelimo bomines centum .
drachmiscor in pondere retinere affiras mabant:à quinquagefimo binas : dracha
mas fingulisannis decreſcere , atque à cordis pondere detrahi , minuijè dicea.
bant, &fic in anno centefimo ad primum , fui ponderis: fecundum iftorum
conie ... awan ,corredibat.Ex Teicntio / arrone.. 256 BARICELLI Claro
Pblibotomiam ex vena ſaluatella , pleneticis: plurimumprodeffe.
"VrabatGalenus ſpleneticum qué dam ;& cumdiù (vtipfe narrat)de illius
cura eſſet ſollicitus,atque diligen . ter remedia quæreret quadam nođeſó
niauit,fe in infirmo de vena faluatella, quæ eft interminimú,& annularem ma
nus digitos ſäguinétrahere; quod fecit, & fanatus illeeſt. Hoc diuinæ
bonitati tribuendúexiſtimo, quæ multoties, ho mines per bonosfpiritus dirigit ,
vt ca perficiant, quæ in corpornm valetudine concernuntur.Ex Bartbol.Sibylla.
Gymnoſophiftas apud indosmire,viſus, &in genij dexteritatis inueniri.
MIIrabile profectò illud eft; quod de -Gymnoſophiſtis quibusdam apud Indos
narratur. Hienim ab exortu , vf quead Solis occaſū ; oculis contentiscan .
didiſsimi fyderis orbē intuentur,inglo bo igneo rimantes fecreta quædam ,a
renilgue feruentibus perpetem diem al ternis pedibusinfiftunt.Ex Solino. Qui
HORTVLVS GENIALIS, ' Quibus auxilysforumarum materia ,per pri nis
paleasensachari. Bseruatum eft huiufmodi præfi O sibus euaneſcere.Adhibentur
primò in firmis aliquot clyfteria, ex fucco bryo niæ, & mercurialis,oleo ,
& fale concin nata, quibus patiens tum gelu, tum ma. terias.viſcidas
copiosè purgari videbi . tur:mox cum oleo amygdalaru dulciū, vel mali aurantij
coleis , manè dilucu .. lo , cantharidum præparatarum grana quinque,velſex iuxta
corporis naturama. capiet.Cantharides autem per horas 24 .. in aceto
infundantur,deindeexiccentur, &in puluerem reddantur.Hic enim ea.
rumpræparationis modus eſt. Huiul modiauxilijsftrumarummaterias, vri pas
euacuari compertum eft., Obferua uit hocDo & orPhyficusJoannes Domi. nicus
Donnus,cuitis familiaritas,animi queindoleseſt mihiſemper gratiſsima, mihique
tale remedium communicauit; robuſtis tamen corporibus folú adhibe ducéleo: ex
illius enim experiméto do lors BARCE- 1 II! lores ad inftar parturientis circa
pe &tine tale præſidium commouereaudiui. Alijs etiam modis , & auxilijs
(trupęcurătur, quippe fioleo ,in quo rana terreſtris,tal pa vellacerto, ( vulgò
dicitur racano )fi ue lacerta magna vocata ebullierit , diú ftrumæ,purgato
corpore, liniantur,abf que dubioexiccátur, & euaneſcunt.Het animalia viua
prius in oleo fuffocantur, cùm ad carnium ab oſsibus ſeparationé ebulliunt,
& oleum mirabile ad ftrumas componitur. Nonpulliad earum extir . pationem
caufticis vtunturmedicamen tis, quorú potentia caro aperitur , & ftru
mæetiacuantur.Componuntur hęc talia ex arſenici fublimati drach.j. lithargyrij
aur. & aluminis roccean.drach.ij.fabari vftulatur:numero quinq; hæc in
pulue. rem reda & a cum frumenti farina,aceto que acerrimo mifcentur , &
fit malfa , è qua orbiculi, vel plancentulæ formantur & exiccantur in Sole,
vel furno,admoué tur fuper ſtrumas , &fpatio horarum24. opus perficiunt,
Alexandri Magni magnanimitas in pofteros: ftudiofas. MVlta ratione Alexander
Macedo Magnusdi& us eft',cùm eius excel lentia non modò in litteris
apparuerit.. Ille quidem , vt Ariftoteles de animali bus
hiftoriasfcriberet,multa liberalitate in pofterum vtilitatem , octingenti auri
talenta , cum tribus hominum millibus dedit, vt fyluas,aularia , & viuaria,
omnis . generis diſquirerét, & opusab ipio per.. ficeretur.Illi autem per
Europain ,Afriw . - Cam , & Afiam peragrantes,multa anima : tium gencra ad
Ariſtotelem attulerunt, quarum difle & ionibus , de vniuerfa fen? rè horum
natura accuratiſsimè Philofon phus fcribere potuit.Ex loanne Bodeno. I WA
Mulieres quafdam in oculis, equi effigiem , pel: geminaspupilas babere
compertum eft. NO On rarò quædam mulicres magæ reperiuntur, quæ vt plurimum a-
. niculæ funt , hominibus , animalibusý; vilu ,nocentės. Solent hæ in fingulia,
acut 160 BARICELLI oculis, velgeminam habere pupillam , ( vt HieronymusMengus
de Arte Exe orciſt. adnotauit ) vel equi effigiem , quemadmodùm nonnullas
Pontumin colentes habuiſſe legitur. Referuntex iftarum oculis quofdam
emittiradios, qui non ſecus iacula & ſagitrę pro homi num cordibus
faſcinandis exiftunt , ità profe & ò totü pernicioſa quadam qua litate
corpus inficiūt,breuique velnullo temporis conſumpto interuallo,homie
nes,bruta,ſegetes,arbores polluunt , & ad interitum tæpè deducunt.
sanguinem caninum HydrophobosCupareba PotumAutumant Galenus N Serapio,&
pleriq;fapiêtes,fangui nis canini potu, canisrabidimorſum ca. rari teftantur :
quæautem fit ratio,apud hos non legitur. Referam tamen , quæ àMarſilio Ficino
in lib. z. de Vit.produc. adducitur. Ego opinor ( inquit) ſali ziam canis
rabidi venenoſam , impreſ fam hominis pedilæſo,per venas paula tim ad
corafcendere more veneni, nifi quid HORTVLVS GENIALIS : 261 quid in
tereadiſtrahat.Si igitur interim canis alterius fanguinem ille biberit,fan guis
illecrudus ad multashoras natat in ftomacho , eum denique velutperegrie - num
deie & uro per alium . Interea cani. pus languis ifte,faliuam caniná
fuperio ra membra prenſantem , priufquam ad præcordia veniat, deriuat ad
ftomachű : ná &in canino ſanguine virtus eft ad faa liuamcanis attrahendam
, & in ſaliuavia ciſsim viftus ad fimilem fanguinem proſequendum . Venenum
igitur à cor defemotum , fanguiniqueimbibitum , in aluo natanti, vnà cum
ſanguine per inferiora deducitur , hominemque ita relinquit incolumen . Corallinam
, ad puerorum vermes necandos maximè laudari. COMOrallinæ , quam plerique
muſcum marinum appellant , in puerorum ť vermibusnccandis,miraeft virtus, &
cf. ficacia .Hanccirculatores in plateis vene dere folent,talegue remedium ad
lum bricorum internecionem , fummis lau . dibus extollunt. Profectò à veritate
in hoc 262 BARICELLI hoc negotio haud abſuot:hoc enim cão teris medicamentis,
in rehacaccommo datis,excellétius eft:experimento fiqui. dem comprobatum eft
non modòlum . bricos interficeretale præfidium ; verùm atque eadem die , cùin
aſtantium admi ratione, oxpellere, vtiure dixit Mat thiolus, quòd quandoque
viſus fit puer, quiex aſſumpra huiuspulueris drachma, a centum vermes
excreuerit. Qua induſtria , labioram ,meruum , capia tamgmamilarum citifsimèfifuras
fanate vale anus. Periam ele &tiſsimum præfidium , A tumque mamillarum
fiffuris feliciſsimo fucceflu fere millies vfus fum . Sumiro lithargyrii
argent, myrrhæ , zinziberis an ,vncj.redigantur omnia in puluerem fubtilif .
& ex cera recenti, melle,& oleo oliuarum ad fuffic. fiat vnguentú. Vfus
talis eft : primò liniantur fifluræ ex hu mana ſaliua , mox defuper in tela
exten fum applicetur vnguentum ,ita cquidem paucis diebus fanantur, Rhabarbarum
cidoniatan , y terogerensabs que periculoalue exonerare. IN graudis mulier bus,
cùm grandi inorbo affliguntur, magna cautela ſo lent medici medicamenta
cuacuantiae ligere: vel enimhaud porrigunt,ne con Ceptum diſperdant, &
matrem occidant; velmitiſsima, & benigniſsima excogi tant, & propinant.
Multi Rhabarbarum ob eius caliditatem , & amarulentiă recu fát: ſed perperá
quidé, quádo illud cido nio Correptú, inter ele& ifsima &benig piſsima
connumerari debeat, Rcferam i qua induftria à Ludouico Mercato ,viro
celeberrimo,prçparetur.Sumanturcoto nea, ab interraneis repurgata , tes diuifa,
( ſed fuperftite pellicula , quæ valde eft odorata) in aquadonec tabuc rint
ebulliant: mox per linteum colata, & exprefla , optimolaccaro coquantur,
& dumid fit,adiicies ad lib.j. huius con diturz,vnc.j.Rhabarbari. Doſis
cuius fit vnc.j.vel Aliud cidoniatum compo nitur, quod eftgratius, & abfq;
moleftia efficacius euacuat. Diuidatur cidopium &fub God &in par 1 (264
& fublatis feminibuscủfolliculis, parti um ciuitates puluere optimi Rhabar,
negligenter triti,ac Drach.j.velj.- aut ij.imp cátur, vel, ſi affectus
poftulaueri agarici tantundem , vel foliorum ſene; mox vniantur cidonij partes
, papyro que inuoluantur, & ligata in clibano ,vel furnello coquantur ad
perfe &tam co & i onem ;poftremò abie &tis medicamentis internis,
pulpa manducetur. Hoc pro fe & ò medicinæ genus fecurè cuacuat, &
viſcera omnia corroborat. Animantium robur animi, à femine inge terari. Vanta
fit feminis efficacia, in aoda. cia hominibus comparanda , nullo aliomedio
ſecuriùs cognoſcitur, quàm caſtratorum natură compéfare.Hipro fextò ſtatim
atque teftibus priuantur, animi robur amittunt, atque máſueſcár: fiquidem &
à fpirituumcopia, & calore potiſsimùm naſcitur audacia , quæ in teſtium
natura valde { pongiola ge . merantur , & ab ijs in corpus deferuntur.Ob id
Galenus,in lib.1.de femine ,le méSolicóparauit, quod ſuo fulgoreorbe
illuſtrat;iuxta cuius fulgorcs ſemē,& ipi rituú ,& caloris potentia,
ferè corpusil luſtrare admonemur.Hinc Aegyptijſa pientiſsimi,cum Regem fractum
, hebe temq; repreſentare volebant,meritò Ti. phonem caſtratum pictabant benè
ani maduertentes,nil poſle verius hominem infirmum oftendere,quàin hominem fie
nc ſemine. Aegyptiorum aliquot ad Quartanam febrens ſecreta experimenta . х
bris quartanas Aegyptis familiaria ſunt , hoc pro ſele &tiſsimo remedio ha
bent,ægrotisdeco &tum ex menta para. tum ad femilibram ,calidum cum (polio
ſerpentis puluerizatibinisdrachmisan te accefsionem per horam propinare.A , lij
cum decocto affati temporeacceſsio nisvomitum procurant cum felici fuo .
ceffu.Sunt & nonnulli,quiante acceſsio nem pilularum drachmam exhibent. M He
exagarici,gentianę,caftorei,mytrhe, rutæ an , drach.ij.piperis longi,calamia
romatici,crocian . fcrup.iv.theriacæ an tiquæ drach. iij.conftant, & cum
ſyrupo de granat. dulcib.conficiuntur. Aliis ve ſitatiùs eft ,exhibere drach.
agarici,cum myrrhæ ſcrupulo, diſſoluram in pulegi deco & o, Ex Alpino de
Medic. Aegyp. Auesbacciarum taxi eſu nigro colore fieri. Axus inter plontas
virulentiam ha bere maximam videtur: quienim fub iftius vmbra dormire audebit,
in grauem affe & ionem incidet. In baccis autem venenum potiſsimum
viget.nam à viris comeftæ ,ventris profluuia, atque funefta pericula mouent :
boues illarum vfu moriútur, quemadmodum &peco ra ,ffortè has comederint,
Aues verò iftarum eſu minimè moriuntur , penna rum autem color in nigrediné
mutatus, Chelidonium Lapidem MIT APN epilepfiam baberepirtutcm . VIItrus
Chelidonii lapidis à pleriſque maximè extollitur: prelentaneum enim Epilepticis
réputatur remedium , adeò quòd non pauci iſtius vſu à tanta morbi forociate
liberati funt. Feruntin . Autumni principio ,Luna creſcente, hũc lapidem à
ventre hirundinis extrahi, & contricum aliquo liquore epilepticis in potum
propinari:quippe facultatem re tinere dicitur, tenacem , & vifcidum hu
morem, qui caufa caducimorbi eſt exica candi. Multi,chelidonium non folùm elu ,
fed etiam ſola ſuſpenſione, Epilep ticos à proprietate ſanare contendunt, Ex
Lomnio. Miram interafpides, & halic acabum inejſe Antipathiam . Irabilem
natura inter alpides, & halicacabum , quemaiorem veſi cariam inuenit
diſlenſum , & antipathi am :ijenim , fi iuxtà huiuſmodi plantæ radices
quoquo pacto corpora admoue rint,tanta ſtupiditate, & fomnolétia cor
Tipiontur, vt amplius nequeant excitari. Ariftotelem rerumcaufis maximum
noſcena dis adhibuiffe ftudium M M 2 Erat Aristoteles adeò cauſarum re , Erum
cognitionis ftudiofus,vedie cilè quiefceret , nifiad quæfitum exas ctum
ſcrutinium deueniret : ob id cumà. graui valetudineopprimeretur,atq; me dicus
citra morbicausa,pleraq; vetaret, fertur(teſtimonio Polybij ) sc.medico
dixiſſe:Nemecures,vt bubulcú , & for forem ; fed prius caufas ediſſere,
& ita pre ceptistuis facilè memorigeratum habe bis.Cum autem in Chalcide
exularet;ati que Euripi , qui inter Aulidem Bcotia portum,& Eubeam infulam
ſuntaugu iti freti,feptiesinterdiu noctuq;alternis fluctibus ſtato tempore
refluerent , ille maris recurſus excogitans,atque caulam reddere non valens,
tanto mærore affe & us eft ,vtmorti occumberet. Ex Iufting Martyr. Infates
a nutricib mores,& téperiē recipere, nfantes profe & ò à nutričibus non
foi lùm circa temperiem, fed etiam mo res multum recipere videntur.Ob id fat
pienterà veteribus,Romulum à lupafu. idela &tatum , proditum eſt ,
velhocfinx I ering HORTVLVS GENIALIS 26 erint, vel vera narrauerint; fuit enimRo
mulus ferinis moribus , callidus, fortif limus, &
incommodipatientifsimus.At præter hunc,multosà feris enutriros, & educatos
legimus; num autem hoc ijs, ex animi feritate fuerit tributum peſcio .
Scribitur Cyrum à cane fuiſſe nutritum , TelephumHerculis,filiumà cerua,Pelia
Neptuni filium abequa , Alexandrum Priamià vulpe,A egiſthum à capra,quo rum
inores,apudScriptoresnoti ſunt,vt apertènofcamus , quid nutrices infanti bus
afferant.Equidem quià capra lactá tur,ftulti fiunt, & fälaces;& ita
hircuselt;. quare ex hac conie & ura tales euadere in .. fantes , quales
fuerint& nutrices com perimus;fed mores virtute animi mode fari poffunt.
Qdo artificio vitrum diuidere valeamus. Icet vitrú folum ab adamante , cùm
plicabile haud fit, diuidiinueniatur, tamen alia induſtria etiam compertú eft
illud poſle diuidi,vt Cardanusrecenſuit Hic eft modus: Filum fulphure, &
oleo 테 ' irabue, L M3 370 imbue,locum circunda,accende, repete, donec
locus optimècalefcat;mox confe ftim alio filo , aqua frigida madefa&to
circundato , & vitro in eo loco fractum , &diuiſum habebis.Ego
quidéalio artie ficio , & fecuriori vitrum , diuido ,caſug; hoc mihi
notuit. Habebat quadam die cyathum vitri vino ſublimato,fiue aqua
vitæfemiplenum , ad curiofitatem non nullorum amicorum ,a quamin flammá,
accenfa candela ,reddidi, vt vinum fub. limatum accendi folet , confuiripta all
tem flamma , cyathusin medio diuifus eſt ,atque co potiſsimùm loco , quema qua
fupernatans attingebat.Ita ex curio . loexperimento , vitruin diuidere apud
alios amicosnon lemel valuir Gallinaceum ftercusà fungorum virulentia bomines
tueri . ' Vngorummalitia,ex multorum ex .. perimento , pleroſquevita priuauit
quia autem homines ab illorum elu ob luxus abſtinere nequeunt,referam quid
àGaleno,tanquam arcanum ,pro iſtorú. Fe virulentia extirpanda,leu ſuperanda ada
notetur.Erat in Myſia medicus quiho mines penè ſuffocatos ab elu fungorum ad
vitam ducebat, remedioa; tanquam arcano quodam vtebatur: huncprecibus exorauit
, vt tantum auxilium aperireta Stercus gallinaceum ille adduxit , quo contrito
ad- læuorem vtebatur , & cum : oxycrato ,autoxymelite propinabat in firmis,
qui celeriter omnesadiutiſunt. Hoc vſus fuitmox in quibuſdam Vr- r banis
Galenus, & verum inuenit : nain: qui præfocabantur , paulò poftvome bant
pituitofum humoré omninò cral hiſsimum , & exindeplanè liberati funt.
Infuper Myſius ille vtebatur huiuſmodi præſidio in diutinoColi dolorecú oxyo
melite,propinato vino , velaqua , cum felicifsimo fucceffu lob id Galenus ex
Bolilongo dolore fpafmo correptos,ta li remedio quoſdam perſanauit: nam &
hoc colicum doloremaufert, qui caufa ſpaſmi eſt.Ex Gal.16.simplic.cap.io .
Varia deliramenta di vini potentißimipotua.r exoriri. M 41 Multa Vlta equidem
deliria in ijs,quia vino potentiſsimo inebriantur, fecundùm humorum in corpore
prædo-. minium ſuſcitari ſolent:quippe iltorum nonnulliin riſum maximum
mouentur, aliqui plorant,pleriq; vociferantur , alij . profund ſsimo lomno
quiefcunt.Refert Alphinus,in lib .de medic, degypt. muliere quandam à vini potu
largiori ebriam , primònimis euafifle hilarem ,atq; in ho.. mines la ciuiffe,
quoscomplectebatur, & ofculis tenebat;moxèrifu , & cantu , ad ram ,
& furias deueniffe ex quibus fami.. liares eam pertimentes, præcauebant;de.
inumin mæftitiam ,vtdefun &tos lamě. tabili voce deploraret;poftremò à fom
. no oppreflam ,omnem ebrietatem digef fiffe.Caufa omnium eft , quia vinum pri
mòcalefacit,fecundò adurit,tertiò refri gerat; ſi potésfuerit , & immodeſte
poti. Ego profe & ò quendam cognoui, qui a pud Marchionem primum Sancti
Marci dominum meum erat in culina,vt lances vaſaque culinaria in dies-collueret
; vo cabant Iulium Colauentre. Hic epoto vino grandi, quodBeneuento pro domi 13
ni menſa forebatur in tam immanemde uenit ebrietaté, vt Dæmoniacus appare ret
,os,manufq; extorquebat,in fe ipfum fæuicbat, ia &tabatq; membra, &
infinita agebat deliramenta. Aulæ Sacerdos fa cris libris accingebatur ad
exorcizandú hominem : quando vocatus , ebrium illi effe faffus fum ,meoqueiuſſu
ferula,mo Te puerorum , circa nates,flagelliſá; con tačius, breui ebrietatem
dereliquit. Syrium inter fydera.calidißime exiſtere matuth. , Riente Syrio
tantum aëris concipi.. præ ardore langueſcant ;canes in rabiem
trahuntur;furiunt viperx , & ferpétes ; ftuant mariajaer occultam nocendi
qua . fitatem recipit;ſemina, ia era ſub tali ſy dere,minimènafcuntur : talis
profectò eft Syrij natura. Exlib.2.de Hydr.natur. Viterum in nuptis mulieribus
varios fuiffe mores, o confuetudines. . 3 MS Non 274 BARICELL ) : N.DE dumprima
On vna equidem apud Veteresin . nuptis fæminis erat confuetudo: quippe
conſueuerát homines in finuPer. fico, littoreg;Orientali , Virgines nobi. les
nubiles haud deflorare , nifi brachijs , margaritarıım ļineis ornatæ
incederent:: ab id illæ in magņo.erantprecio.Deſije. a nuncmosille, &
margaritæ vilius illice. muntur.E « Garzi4 ab Horto . Catullus, in nuptijs
Pelei, Tetbidw , aliam natat con ſuetudinem , Virgo nupta , noctecun marito
erat concubituva , ita tra & abatur:ante coitum eiuscollinen .. fura filo
circumdato meníurabatur,mae nèhocrepetebant,quòd fi latius , quam vt filo
comprehenderent, collum inueni ebant, defloratam ça nocte cenfebant:ſin : Vitò
dibilomaius,integram , aut antea. fuille deuịrginatam habebant. Aļijalias.
habuere confuetudines . Pupauetagrefte mirabiliter Pleuriticum mere bum fanare,
Efeet Galenuspapaueradolores miti gare , atq; interanodyna reponiina multis
locis referat;tamen agrelte,pleu , ritiden HORTVLVS GENIALIS 275 ritidem ,in
lib deremed paras.facil.confel, - fus eſt perſanare. Aperiam quodà mo nacho
empirico mirabili fucceflu in hoc morbo fa & um vidi.Hic folia & ſemina
agreſtis papaueris,in vmbra exiccata,ſe cum continuo deferebat:cum autê quis
laterali morbo infeftabatur , eius confr lio ſanguinem à brachio ſecundum ca 1
nones extrahi curabat,mox deco&ú fo liorum in brodio pulli collatum , cum
drach.j.velj- iplius papaueris ſeminis capillamentorum , quæ poft colaturam
addebãtur,capiebat tepidè , & ieiunio * ſtomacho. In loco doloris hæc
Epithe. cata adhibebantur.Parabantur ex pul yere roris marini, &
ſalis,farina , & aqua" tres placentulæ ,quæ ſuper calido latere in
firmam ſubſtantiam ducebantur : hiss locus,epithematis inſtar,fouebatur , &
breui tim dolor euanefcebat , tum etiá : apoftema rupebatur , & infirmus ad
fa. lutem magna admiratione priftinam rew . dibát, Corni plantam , Singuinarie,vel
SörbiHydrom phobiam curatam fufcitare. 1.1 ter 276 BARICE ILI INE Je Nterrerum
admiranda, connumera tur aliquot plantarum energia , quæ ſopitam , atque
curatam in hominibus Hydrophobiam ſuſcitare, & renouare couſueuere. Pluries
etenim obferuatum reperio à Canerabidocommorfos, fi plă tam corni, yel
fanguinariæ tetigerintan . te annum exa & um , velfub forbo dor mierint,
ineuitabiliter in rabiem incide. Tę. Salius in lib.de affe& . part, virus
hoc potius à toto ſubſtantia , quàmàtempe ramenti ratione ſufçitari prodidit;
nec enim à taląu , necab vmbra intemperi es introducipoteſt. Itaquemirabileelt,
ab iis lopitam rabiem renouari, quod. fieri non poſſet, niſicum rabidalue , ha
plantæ aliquam haberent antipathiamy cuius alia potior haud adduci poterit ratio,
quam tetigimus, quod huiufmodi a proprietate hocperficiant. Qua induſtria
penenum illumptum deſcen.. diffe ad gibbum Hepatis pèlinteftina . rognoſcere
valeamus. .. iquopropinato,nullamajor me dicis, difficultas exoritur , quam
veneni refidentiam reperire , vtritè ca adhibe antur pręfidia , quæ talia
oppugnare re perta ſunt. Si enim venenum fuerit in ſtomacho,vomitum proderit
excitare; fecus autem ,li tranſiuerit hepatis regio nes,Hiceft modus.
Ponaturoui vitellus cumalbugine , cum infirmi lotioin ma tula ;fiinfra
paucashorasnigrefcit, & fee tet, venenum adiecoris gibbú peruenit ; Tip
verò rugetur,çitrinefcat, & non fæte at, inteſtina haudtranfiuit. Hinc
indica tionem corradimus, veneno ad inteſtina Traiecto ,non conferre vomitum
prouo care, ExBAYTO . Plantas peduconfimiles ;congeneres retine YENİKHI€s .
MVltis experimentiscomprobatum Teperio ,plátas,fruticelý; ligna, quę quadã
aſpectus ſimilitudine cóueniunt, congeneres retinere vires.Sic multi mea
dicorum peritiſsimi locolingniGuaiaci, Buxo vtuntur;loco falſę parillæ,ſmilace
it aſpera, loco ſaſſafras, žylucftrifoeniculo; pro polypodio , filicecligunt;
protipfa M 7 na nyhor leum pro
myrto,liguitrů ; pro ea buio,fambucum ;pro china radicem no ftræ arundinis;pro
Rhabarbaro , hippo lapathú.Hçcn.facie corporeg; aſsimilá . túr,proindecöſimiles
vires habere exia ftimatur. Exlib.noftro de Hydran. Natur. Inter Arundinem .
Fräcem ,may nam inefſe extipathiam. Aturali quodam odio inter ſe Fi lix ,
&Afando diſsidere videntur : moritur enim filix, quæ ab arundinem : plantis
circundatur; & arundo quæ à fio licum virgultis: quo dudi experimen to
agricolæ , arundinis folia in colendis agris, vomeribus alligant , perſuaſi ab
iſtorūdiſſenlu, ſilices ab agris extrudere, &,vt audio votum in dies
conſequütur. Apri dentem ad Cynanchen , Pleuritiden mirabiliter valere. Agna
eft efficacia dentis Apriin NA ! uis eius oleo linino excipitur , ac locus affe
&tus tangatur cum pennę' extremitaa: tę,cx Arnaldo, & Auicenna habetur
,bảo morbum præfeptiſsimè curari.In curan da pleuritidenon minor eft virtus
eius. propterea folent practicantes admiſcere tum fyrupis,tum electuarijs
huiufinodi dentis puluerem ,benèpoſcentes ab oc ! culta,&aperta proprietate
talem pulue rem prodeſſe: quippè extenuādi, & exic , candi vim habet. De
hocdente mirum . feribitur;occiſo enim Apro recentar,ip fius détes adeo feruere
referüt, yt capil losadmotos nonnunquam comburant. Id accidit., quia Apricalór
magous eſt; dumý; occiditur, ira & exercitatione fer uefcit ; proinde
dentespropter denſam ſubſtantiam , magnamrecipiunrcalidita tem ,cuius indicium
ipmaeſt. Aparagos ju arundineros fatosmirabiliter ex . crefcere. FAximuseft
inter arundines, & af par gos naturalis cófenſus;idcir... Iragos, &
pulchriores, & core pore ?s atq; ſapidiores habere op tabit,ue, arundinetis
leminare procu rabitquippe ex naturali ſympathia mi rum in modum excreſcere,
& germinare , animaduertet. Meani co qui MVltis profe& ò notiſsima eft,
an Viero gerentes eſu cotoneorum induftrios; acuri ingenij parere filios..
Mirab Trabile eft illud , quodà multis de cotoncorum proprietate affirmari
audio : ſi enim.grauidæ mulieres ,quàm læpius cotones-comedere folitæ fuerint,
filios & induſtrios , & maximaingenij pårere dicuntur:fiquidem cotoneis
mia ram hanc facultatem ineffe credunt . A. liud autem mirum in ijsreperiri
apud Mizaldum legi,grauidas mulieres háud parere, velfalte difficulter fætum
ede re,ſi in cubiculo , quotempore partus fuerint,cotosca feruauerint : credo
ex eorum conftringentiodore, velocculta . rationeid euenire. Heder am cum
vinomiram habere diſcordiam . tipathia , quæ inter hederam , &
vinuinànatura infita eft; fi enim ex hc deræ trunco cratera componitur, in qua
vinum dilutumfuerit impofitum ,pro cul dubio vinum confeftim effluesfun detur
aqua verò intus retinebitur,adeò vini impatiens hedera exiſtimatur.Hoc ducti
experimento nonnulli in vinise mendis hederæ poculis vtuntur : ita e quidem num
purum , vel dilutum vi num exiftat;examinani, & cognoſcunt, Volatilium
piſciumg;fecunditatis,Ginteria. Tuprafagia . Oletin quibuſdam annis animanti bus
quædam peculiaris peſtis graſſa ri;hinc fit,ve ( liannus valde pluuioſus
extiterit(auium , volatilium , bombycú ſericeorum ,araneorum ,erucarum ,inte ..
ritum videamus;piſcium verò ftirpiúq;: fertilitatem , & valetudinem .Annus
ay . tem ficcusvolatilibus (apibus excepris) falutaris iudicatur;piſcibus verò
perni... ciofius:ficut enim in angulto aere, obim . pediram reſpirationein
,fuffocamur, vi. uereque nequimus;ita piſces in anguſtis aquis concluſi diu
vicam agere mini mè poſſunt. Gallinarum adipem( accharo obuolutam ,vor modò a
corruptela preferuari;verùm atque oleum redderepretiofis fimun . Mira BARICELLI
Mina Ira equidem eft facchari virtus, in conferuandis àcorruptela adi pibus.
Cum quadam hyemePrudenria filiamea gallinarum adipes collegiſſeter acfaccharo
albo benè conuolutasin va ſculorepofuiflet,æftate ſubſequenti, il lud oleo
femiplenum reperit, adeòpel lucido, vtcumad medeferret excellen tius haud
inueniri poffe iudicaui. Hoc licet illa pro exornandis capillisvtere tur, tamen
pro mitigandis corporis do loribus,pro carnis ( cabritie tollenda, ae liifque
infirmitatibus vtiliſsimum effe į cenfeo :Quod autem mirabiliusiudicaui: adipes
illas:poft multos annos conſerua.. tas, eodem colore,atqueodore , quo re- :
centesin vafculo fuerunt claufæ anim aducrti. A quodam Chirurgo amicoet ia
nintellexi,humanam adipem faccha. ro conuolutam ;per longifsima tempo ra à
carie, & rancido præferuari: quodiſi. ita eſt, credo in
omnibusanimantiumde. dipibus id euenire.Qrare Magpatú cor pora condienda melius
faccharo imple. ta, quàm aromatibus pofle conſeruari crederem ;eò magis, quia
hoc præſidio , corpora in propriocolore, vi deadipe dixi perfifterent.
Cucameres naturali odżo oleumabborreres - aquam verò appetere. INteſtina
iudicatur diſcordia, quæ in, ter cucumeres, & oleum ineft: nam , &
ijaquam ,appetere.à lege naturæ viden . tur.Proinde virentes , atque è propriis
. plancis pendentes, vafcula ff aqua plena ſübterhabuerint,adeò longius
extrahús , tur, vtaquam inſequiex certitudine ex. iſtimentur; fin autem oleum
fub his fue. rit eie & tum procul dubio in feipfos, ve Juti vncus,
retrahuntur;fiquidem ij olei impatientes ex naturali antipathia co
gnofcuntur.ExMatthiolo, Mandragoram pitibusapplántatam ,vim il tis infundere
ſoporiferam . T Antam habét Mandragora inducena, di ſoporem efficaciam , vteius
pom vel comeſta, vel odorata,quandoque ca taphoram exuſçirent. Illud autem mi
rabilc eft, vitibus Mandragoram com plantatam, propriam iis naturam infun-.
dere, adeò quòd vinum ex huiuſmodi: confectum ſophrem bibentibusinduce reconſueuerit,
vt Rhodiginus adnota-, uit. De Mandragora Iulius Frontinus hiſtoriam feripſit
Strathagemwoz.Arn balà Carthaginenfibus cõrra Afrosmit. ſus fuerat, qui cùn
ſciret gentem illam vini auidam eſſe,in quibuldam vini do liis, quæ in caſtris
habebat, Mandragore copiam coniecit,indeleui comiſſo bello, ex induſtria
celsit, fugamque ſimulauit. Barbari,occupatis caltris ,auidèmedica. tum merũ
cùmhaufiffent, in captapho ram lapſi ſunt, & ab Annibale trucidatia:
Quando, Aegypti mortuorum corpora come dire foleant: E condiendis mortuorum
corporibus, Aegyptiorum ex monumena tis multa , tum ab Hérodoto , tum à Cæ .
Jio Rhodigino exempla afferuntur. Ae gyptii enimmortuoscondiunt, atq; do mi
feruant: Ageſilai cadauer cera condi. tum fuit , yt & Perfæ facere folent;
Alex andri corpus melle colitum eſt. Apud Iudæos exmyrrha, & aloe cadauera
con diebantar,vé apud Ioanné Euangeliſtam cap. Iceportabile
equindependenciaenels C. 19. legimus: quippeNicodemus myr rhæ, & alocs ad
libras fermè centum mi. furam fecit pro corpore Ieſu Saluatoris noftri
condiendo. Magorum eratmos, non humare fuorum corpora, nifià fer - ris ante
laniata forent : Affyriorum Re gure fepulchra in paludibus condita fu ile
tradunt. Mellis vſum , vita hominibus inducere diuturnitatem . Nenarrabili equidem
potentia mel , corruptione cuſtodire valeret, à natura productúeft:propterea
Plinius l.20.maximè huius virtutem ad miratur, ClaudioqueCæſari Hippocen taurum
, exAegyptoin melleallatum , vt citra cariem eſlet, commendauit: nam & hoc
corpora computraſcere non ſinit ; fiquidem multi fenium longum mulſi tantum
intinctu tolerauêre.Celebre eft mellis exemplum in Pollione, qui cen tefimum
annů excefsit: hicenim ab Au . gufto interrogatus, qua ratione, &ani mi,
& corporis vigorem , maximè cuſto difíet ,hocreſpódiſſe fertur :Melle intus,
foris oleo . Proditur etiam Corficæ in fulæ populos, ex aſsiduo mellis vfu ,
vi. tæ acquirere diuturnitatem , cuius rei li cet Diodorus non comprobet
exemplu eò quòd mel Corficú peſsimum cente at, tamen non per hoc vſum mellis ad
vi tæ produ & ionem improbauit. Gulinas ouaparere quolibet anni temporefi
femina urtica, velcanabisin cibis habuerint. Scripſit Ariftoteles6.de
Hiftor.animal. cap. 1 , Gallinas toto anno oua parere, exceptis duobus menlibus
brumalibus. Hoctamen tempore , quo à fætura deti ftunt, ferninis vrtica, &
canabis auxilio faciliter gallinæ fæcundantur :fienim in cibis iſtorum ſemina
Ticca comederit, procul dubio tota hyemis tempeſtate , non modò calidis
temporibus oua pari ent. Hæc profectò earum corpora cale . faciunt, & ad
fæcunditatem diſponunt. Curyepbylatam infantium maculas è corpo Olent tenella
infantium corpora , dű vtero exiftunt materno , maculis 0 pore extricare.
Solenereexiftuntmaterno, quibusdam , næuis, lituris , veruciſque , quæ à matris
imaginatione fiunt, com maculari: hæcporrò quali ſigilla impri muntur,
&difficulter poft ortum elui poſluņi. Pro iis delendis principatum
habetCaryophyllata , cuius vis ,& po tétia in huiuſmodi maculis
extricandis, mirabilis iudicatur.Sumitur enim plan ta hæc cum ſuis radicibus in
fine menfis Maij, quo tempore virtus vigorofror eſt atque à terreitate emundata
, in alem bicco deftillatur , mox ex aqua ſtil lata infantium lituræ maculæque
Tæpius lauantur , abſque dubio, eua . Deſcunt. Vrrica folia in lotio infirmi
cuftodita , vitam , vel interitumpreſagire. Ira equidem , ex abdito naturæ
eſcrutinio , in vica,morteq; infirmi praſagienda, vrticæ virtus ,&potentia
eft . Si enim recensplanta extirpatur, ac -24.horarum ſpatio ia ægri lotio
aderua tur, vtiquefiviridis colore permanebit ex multorum experimentis,falutem
, & vitam infirmiſignificare dicitur:fin auté haud A cantu haud viridis
cuſtoditur,colorema; mura bit,mortem , velgrauepericulum deno tare, Ex Caftore
Durante. Philomelam axem miro conſenſu à viperade. pafci. Vis Philomela cx
cantu dulciſsi mo omnibus cognita eft; incogni tus autemeiusconfenſus eſt, quoà
Vipe rà depaſci permittit:dum enim ſub ar bore,in quacantans auis fuerit,
viperam viderit paulatim ex illa defcendit ,&ad viperam accedit, vt illi
fiteſca. Ex Thoma Tomai. Caftorem fià canibus inuaditur, minimè te fticulos
fibi amputare. Linius,Solinus, & grauiſsimorú Scri ptorum multi,caftorem
fibi teſticu . los amputare referunt, quoties venato tes ipfum canibus
aggrediuntur quafi confcius exiſtat,quod(ijs reciſis ) à mof tis periculo ſit
ereptus; fiquidem vena tores hæc infequuntur animalia , vt ex his
accipiant,quodad medicinam vſur patur.' Rci autem veritate hi om . nes grauiter
errant ; quippe caftor, Ppioru testiculi iuxta ſpinam inclufi funt, vt multis
ex anatome obferuatum . eſtiſte rum error ex velicis quibuſdam ortus eft, quæ
in vtroque, maſculo & fæmina, loco teſticulorum pendent, flauo plenæ
liquore ad medicinam vſurpatæ . Has vocant caſtereum aromatarii, teſticuii
autem minimè lunt. Quo atsficio miliciæ Duces , vt hoftes offen danti
gnemmiſsilem perniciofum -con ponere valeant. APeriam potentiſsimiigpis
miſsilis, fiue artificiari compoſitionem ,cuius potentia tanta eft , vt
eiusminimaItilla non modò hominem viuum , verùmat que ferrum comburere valeat.
Sumun turſandaracæ factitiæ lib. 1o. ſulphuris viui lib.4.oleiè rafa, fiue ex
adipealbur ni ftillari lib . 2. ſalinitrifib.j. thuris lib.j.camphoræ
vnc.6.vini ſublimati, fi ue aquævitæ optiinę vnc.14 .Omniahọc lento igne bene
mifceátur; deinde fupa obuoluta , atque accenſa in ollis , in ho ſtes
inijciuntur. Ignishic , infernalis di citur,tum ex eo ,quòd mirabilia agat; tū
N atque ex Paracelfi impij ceſtimonio, qui retulit fc à quodam Dæmone fuille
hunc ignem edocum . Demoſthmen lingua duritiem , quibuſdama Lapillis
confregiffe. DEmetrius Phalereusalloquutus.com, quomodo fibi curaſſet linguæ
impedi menta ſciſcitatus eft.Habebat enim ille linguam duram , & ſcabram ,
&proinde adoratoriam exercitationem impoten. tiſsimam ). Sanatam refpondit
atque la . xatam fuiffe linguam raſpondit ex non nullis lapillisoreretentis,
quibus loqui conabatur.Cuius Demofthenis præfidi í um difficilem habentibus
loquutionem faluberrimum iudico , vtexpeditius fer mo citari valeat.Ex
Plutarcho. Vinum quoddam àferpentibus venenatum , pleroſque àdifficillimis
morbisconfanaffe. Trabilise{t hiltoria,quęáProlpe Milocro Alpino ,lib.4.de
Medic.Method . de vino à ſerpentibus venenato affertur In cella vinaria quidem
ciuis Ferrariz inter alia,vinidolium habebat, quod (i ne operculo diù apertum
extiterat : - & proinde compluresſerpentes,quos vul gus angues, &
anzasappellant,ingreſsi in vinum ſuffocati, & putrefa& i fuerát.
Multiægroti ex febribuschronicis; atq; difficillimis vexati morbis ignari,quod
ſerpétes in eomortuielent, vinum à ci ue emebant illud , quod guſtui gratum
iudicabant, & breui fanati ſunt. Alij ab huius viniſama ſuaui, cum paucos
dies bibillent,itidem lanati funt , & poft hos alijitidem eodem modo fere
innumeri. Quare vinidominus tantæ vini faculta tis admiratusvinum e dolio torum
edu xit, & ferpétes complures ſemi putridos inuenit,qui ré manifeſtá planè
fecerunt. Veteres equorum lacrymas inter auguria recepiſſe. Agnifaciebant
veteres equorum Llachrymas, atq; ex ijs auguriun
vaniſsimumrecipiebant.Propterea ante Cæfaris mortem ad Rubiconemcqui dedicati
ab eo flebant,idquemagno au gurio excerptum eſt. Illorum autem N 2 inanitas,ſiue
ruditas vt ita loquar, mani feftiffima nobiseft :fiquidétépeftate no ftra
fæpius equos collachrymātes afpici mus , necperinde ex ijs alicui ſiniſtri quid
accidereobſeruamus. Vt ipſe non Semelexpertusfum , æftate potiſsimum equos
lachrymari conſpexi, idcirco vel illorum naturá efle,velmorbú iudicaui.
Crocimerallorum compofitio. Fferam Quercetani, Croci metal. Jorumcompoſitionem
, qui potens medicamentum tam vomitiuum , quàm purgatiuum fimul eſt, variisque
affecti bus accommodatum . Præparatur cum zquis partibus MagnefiæSaturninæ,
& Nitri inuicem mixtis, & inflammatis in quodã crucibulo vt vtar artis
vocabulis, & remanebit quædam materia calcina ta in colore Hepatis, quz
puluerizata, rubicunda apparet inſtarcroci Martis, quæque dulcoranda eft: Doris
-grana x. vel xij.cum vino ,aut ațio liquore. Hominis compoſitionis mirabilia .
Ntet mirabilia, quæin hominis com I pofitionecontingunt,illud quidem mirum
HORTVLVS GENIALIS. 293 mirum eft,quòd tali corporis fit colla tusproportione,vt
partes omnes pera . que toti cópofito correſpondeat. Licet auto in eius ftatuia
nec certa nec deter , minatareperiatur mēſura;ex hominibo enim
aliquibreues,aliquilongi ſunt;la pienus nihilominus perfectioré homi. nis
ſtaturam è ſex pedibus cóftareiudi cauerunt , vel quod ſaltem feptem non
trárcédar.Interproportiones voluit Vi truuius cubitum quartam partem totius
corporis exiftere; eandemſ;penſurat . eſſed capitis vertice , ad pectorisinitisko
Manus longitudo à cõiun &tione ad mee dijdigiti extremūcorporisdecimapars :
eft.Facies à capillorum radicibus ad ex® tremum barbę,eade eſt menſura.Maior
pollicis coiú & io,oris eftaltitudo.Tota manustotius faciei menfura eft,
Maior iudicisconiun &tio ,frontiset altitudo, cilijs fcilicet ad capillorum
radices ; cæ teræ autem iftius coniun & iones , nafi longitudinem
oftendunt:Hominisproe funditas, ſi ſub brachiis, pe& ore , & hu
merismeluratur,ftaturæ illiusmedietas : 3 reperi 292 BARICE I 1.1 inanitas,ſiue
ruditas vt ita loquar,mani. feftiffimanobiseft :fiquide tépeftate no ftrafæpius
equos collachrymātes afpici mus , necperindeex ijsalicui finiftri quidaccidere
obſeruamus. Vt ipfe non femelexpertus fum , æftatepotiſsimum equos lachrymari
conſpexi, idcirco vel illorum natura efle, velmorbú iudicaui. Crocimet
allorumscompofitio. Fferam Quercetani, Crocí metal. A medicamentum tam
vomitiuum ,quàm -purgatiuum fimul eſt, variisque affecti busaccommodatum .
Præparatur cuin zquis partibus Magneſiæ Saturninz, & Nitri inuicem mixtis,
& inflammatis in quodá crucibulo vt vtar artis vocabulis, & remanebit
quædam materia calcina ta in colore Hepatis,quz puluerizata,
rubicundaapparetinftar croci Martis, quæque dulcoranda eſt: Dofis -grana x . .
vel xij.cum vino,aut alio liquore. Hominis compofitionis mirabilia . I'
poſitione contingunt, illud quidem mirum mirtim eft,quod tali corporis fit
colla tus proportione,vt partes omnes pera quetoti copofito correfpondeat.
Licet autē in eius ſtatura nec certa ,nec deter , minata reperiatur mēſura ;ex
hominibe enim aliquibreues,aliquilongi ſunt; la pienas nihilominus perfectiorë
homi nisſtaturam è ſex pedibus cóftareiudi cauerunt , vel quod faltem feptem
non trárcédat.Inter proportiones voluitVi truuius cubitum quartam partem totius
corporis exiftere;eandemg;menfurami eſea capitisvertice, ad gedorisinitiúko
Manuslongitudo à cõiun & ionead mes dijdigiti extrema corporis decimapars :
eft.Facies à capillorum radicibus ad ex tremum Barbę,eadé eſt menſura.Maior
polliciscóiú & io,oris eftaltitudo.Tota manustotius facieimenfura eft,
Maior Indicisconiun & io,frontisettaltitudo,a cilijs fcilicet ad capillorum
radices; cæ teræ autem iftius coniunctiones , naf longitudinem
oftendunt:Hominisprop funditas, fifub brachiis,pe & ore, & hu merisméluratur,
ftaturæ illiusmedietas. 3 rreperitur. Cæteræ partes cum aliistra. bentrationem
,vtſuperius tetigimus. Apedumnaturam mirabilem effe. IN Neer terreftria
animalia,Aſpidum ne , tura mirabilis iudicatur. Ex his enim mas & fæmina
infimul vitam agunt, ta . tula; amoris affectus inter ambdsinge ritur, vtfi
cafu illorum alter occiditur viuens occiforem infequi , quouſque fo dj,necem
vlciſcatur,hauddeſinat.Quod autem mirabilius eft,ex Plinij, & Ifidori
Teſtimonio , occulta proprietate occiío on noicit,( talem ifs natura indidit )
igi quemIrruit, licet in quantovis hominu agmine reperiatur. Præceptum ergoo .
mnibus eflc velim ,vtocciſo iſtorum ani malium quopiã,celeri fugaiter occiſor
arripiat,ne à compare animali veneno fiſsimoinfeftetur, Leporesomneshaudeffe
bermaphroditos ,con traVeterum opinionem . Mneslepores vtriufq; lcxusexiſte re
voluerunt Veteres, quod & M. Varro ctiam tradidit. Error tamen eſt, vt
diuturna docuit experientia, quama feulos fculos à fæminis lexu eſſe diſcreros
cognitum cft. Porrò tantorum inſcitia, abhoc, vt reor,ortaeft, quia in leporum
genere lępius, quàm in aliis animantibus hermaphroditos reperimus : inde Hee
brei naturæ arcana intimiùsſubodors tes, leporéfæminino vocabulo léper ex
planarunt,ARNEBETH , eò quòd in iis foemineusſexuspræualet magis.Rej ve ritate
noomncs hermaphroditiſunt ,vt ex peritiſsimis venatoribus audiui; exic &
ione multorum cognoui,ficut.com iam Bodinus edoctus fuit ,vtivrhluth
confitetur. Equidem Hermaphrodig plurimi funt,fedfæcunditatem fervita .
rumminimè recinéignecmares vnquam vtero gerunt, necminus fuperfætant. Mirabilen
eße Imaginationis po tentiam n vtero gerentibus imaginationis po tentia apertè
cognoſcitur.Si enim illæ inter virorum amplexus, & fuauia,ali quid intensè
cogitauerint, facilè in in .. fántium corporisexternis partibus imax ginata
imprimunt. Hinc variæ rerum formar Ire N forme ,næui,lituræ , verrucæ , & alia figa
na in infantibus impreſſa conlpicimus, Lingmultæ ex leporum obeutu fætuse- ,
dunt ſciſſolabello,aliæ fimis naribus,ore diftorto , vultumonftruofo ,labris
turpè prominentibus,corporedifformi,ocu- , liſq; horrendis infantes genérant :
quia conceptus , vel grauidationis tempore, turpia,monſtruoſa,& horribilia
fixa co gitatione excogitarunt-Fæminisidcirce, præſertim
nuptis,pulchrasimaginesda mihaberecófulerem ,atq;à turpibus av effe ,ne pręuia
imaginatione fætus mó. Atruoſos, turpefá; concipiant. Veteres, Climaftericos
annos admodum ti muiffe . 1 A mationis apud Aſtronomos exi ſtunt &re vera
videtur in quolibet anni feptenario quædam hominis mutation deò quod , ficuti
in morbis dies criticos timemus,ita in vita hominum annosClin mactericos,qui à
multis ſcalares dicun tui, quòd gradatim eueniant.Sunthi an ni,
7.14.21.28.35.42.49.56.63.70.77.81 91.Inte hos annos 49.63. magis periculosos
credunt; quiaconſtant è feptenario , duplici, &nouenario complicato,obfero
uatumq; àgrauibus auctoribusreperio , maioremhominum partem io anno 63.
moricontingere.Idcirco hos veteres ada modumpertinebant,& , vt capiturin
Gellio lib . Auguftus itaſcripfit ad Ça ium nepotem :Spero te lætum , &bene
uolum celebraffe , quartum & fexagefi mumannum natalem meum :nam ,vt vi
des,Elimactericum communem fenio rum omnium , tertium & 'fexageſimum annum
euafimus. Dehis tractatum edi dit Iofephus de Roſsi à Sulmona vtilem &jucundum
. fMundiprimordiisinter homines, es ferpema tes antiparhiaminfurrexiffe.
IRRreconciliabile odium eft, quod inter homines,& ferpérescadit,adeò, quòd
expauefcit homo fi ferpentem inuenit, antvidet;magis autem fæmina : fiquidé
obſeruatum audio gravidam mulierem ( vifo ferpéte )præ timore abortire.Hu . ius
difcordia illa ratio potiſsima eft quodàmundiprimordijs ínterkanc, & QUnca Semuan
-illum Gt ſtatuta inimicitia, & irreparaa bile odium , quo altera-, alteram
fpecia em inſequatur. Carolum V I. Francorum Regem , Ceruum 4 latumpro
infigniprimò habuiße. Iluanettum Rex Carolus venandi cauſa fe contulerat ,
canum latratibus excitatusin fugam Ceruus, æneam tore. quem collogerere
viſuseſt, quem vena bulis,aut ferro appeti Rex prohibens,in calles, & retia
compellit.Erarin torque latinis litteris infcriptum :HocmeCçſar donauit.
Exeotempore Caroluserua alatum pro inſigni habuit ; &alii,regibus inſignijs
( quęlilijsaurcis tribus conftát) circa latera, Ceruos duos apponere con
fueuerunt. Gaguilis in vita Carol . V I. HANC. Reg . Insaanimantia confenfum ,
&difcas diane ineffe. Vllidubium inter animantia fym pathiam , &
antipathiam efle inter trpiantes ſubditur: fiquidem muſtelam miro eiulatu in
bufonis os deuorandam inueherelegimus; & bufonern in ferpen Npathi Lisa I
tis,botræ vocati, os ingredi.Inſuperci cutam , fturno eſle cibum ; homini vero
venenum in dies obſeruamus: atqueveo Fatrum cotumices nutrire , hominem autem
lædere non eft ambiguum . Senaterem quendam , exconiuge liberos ſur dos,
&mutosfufcepiffe omnes. nature . omnesex , &mutos ſuſcipi,itaequidem à
Fernelio obferuatum eft in quodā Senatore.Cre didit Ambianus huius reiobfcuram
, & cæcam eſſe rationem , mihi autem altera fubeft, quæa Phyficis minimè
differt: fi quidem auditio grauis , atque ſurditas quæ à natalibus viſa fit à
conformatio nis vitio exoriens , hæreditarios mor bosgenerare creditur, &
perinde libe ros, exhuiuſmodivitioſis,ſurdos, &muin tos excitari:fæpè autem
non in filiis,ſed ! in nepotibus hæclues oriri videtur. Apud Garamantes.
mirabilem fonterros obferuari, Dmiranda profe& ò, eft fontis il.com
ARJiusproprietas, quiin oppido Der 1 bris apud Garamantes reperitur. Hices nim
die friget, no&c verò æftuat; adeò quòd memoratu incredibile videtur,
quomodoin tambreui temporis fpatio tantam natura ſui faciat varietatem .
Equidem , quinoéte fontem afpicit , ibi flammasignefqueæternos exiſtere cres
dit :quiautem die hyemales ſpectat: fca. tebras, vtique fontem perpetuò rigere
exiſtimat. Propterea Debris apud mudi nationes inclyta eſt : eius enim aqua
qualitatem excæleſti vertigine,mutare confpiciuntur.Ex Solino. Quo artificio
Caminus per ſuperiorem "api cem ſolum fumum emittere valeat. N Caminorum
fru & ura ,.non modi aim tufferimus laboris , ne ignis fi molimtesin nos
ipfos erumpant: fiqu. dem in ventorum mutationc facile fit, vt fumi quandoque
potius defcendant; quàmadapicem aſcendant : ventorum enimvisillos deprimit ,
deſcenderequc percaminum cogit. Egotale ad fumi ferlum impulfionem excogitaui
artif . simm .Struktur Caminus, cuiusfuperius fafti . zor faftigiu rotundú fit
,ibique foramen la pidibus fi &tilibus conſtructum fit : mox ahenum inſtar
tympani ex-ære, in cuius latere feneſtella extracta ſit, fuper lapi des
affigito: ftylifớ ferreisfubcingito; ita tamen ,ve intus vagari, mouerique
commodèpoſsitapta demum fuper fer reos ftylos , & lebeten?' ex ære infuper
vexillum,quod feneftellam fubiec dia recto habeat,taliq ;induſtria ,vtin quo
libet vexilli motu, moueatur , & calda riumin gyrum ,ita profe & ò è
feneſtella , ventis oppofita,fumuserumpet, & non deſcendet.Pleriq;, vt
fpero, huit noftro fcruinio ,ineliorem addent Atructuram . meamque opinionem
noníſpernent. Adconftruendum celerrime Horologium muncrabile in paritte.
Ncoritruendis, pingendiſque ſolari , bus Horvlogiis, non modo lintā me ridianam
,opuseft imienire, vthorarum tempus fidele reperiamus, rerum atque Ortum ,
& Occalum , Borcam , &All ftrum cum Aquinoctia, & Solftitia: in
is.n. Solarismotusquarnaxime variat. N 7 Ego quidem , vt labores fugiamus, tale
excogitaui artificium .Globum planum . extabula lignea formato in cuius medio
ftylus ferreus ſitus fit;diuidito mox glo. bum lineis,ex centro ad extremum du
cendo illius in 24,portiones, demumin globiapice horas ſignato , &vltimo in
patiete contra Solis radios affigito. Vt auté ex Solaribus vmbris diei , horas
ve nari poſsis,Horologium portatile afpici. conglobumý; ad horam illam accommo.
dato :ita profectò ,abfq;alio auxilio , ce ferrimèHorologiumvmbratile in pari
cre habebis.In Aequinoctijs, & Solftitijs 1 eodem portatilis
Horologijauxilio ,fa. cillimè ad horarum æqualitatem globů reducere poterimus.
Infancium pir uitam , è capitefluerem , quo artificio Chartaginenſes fiftere
procurandTing, Xinfantium pituita , in capiteredú . dante,plerique fuecedunt
morbi in . ter alios , morbus comitialis exoritur, qui à multis puerilis
vocatur, quòd ijs,ve plurinum ,eueniat .. Vt autem infantes ab huiuſmodi
pręſèruarent Pæni, illorú vedas capitis lana ſuecida inurere ,pitu. itainý;
fuentem hoc præfidio compefa cere conſueuerunt. Athiopes infantes te ditos,ab
ipſo quoq; natali die ,in fronte adurút,ita profe & ò tumcapitis, tumo
culorü humorfiftitur. Apud Inſubress. ex teſtimonio Mercurialis, &
pleroſque populos,veícribit Scipio Mercurius ,l ditos infantes fetonein collo
muniunt, quod falutáre experti funt aduerſus mor . bos,qui à capite Huunt,
Inmise rasis pluuie,quapotiora ixdiceniny præfagia. pluuiam imminentem ,tum ex
Gallo rum cantu intempeſtiuo,tum ex fre quenti cornicis crocitarione multi præ
dicunt.Hisautem addendum puto muf cas( ca imminente)pulice's , pleraqzani malcula
à furore vexari, intentula;mer il dere :hæc enini à vaporum inaerem ctc .
rationc à radijs falar bus perturbantur. Infuper ( pluuia imminente )odoris fra
. grátia in floribus sétitur;apes ad alueária - sedcut;bufones,
vermeſi;èterraakédut 304 BARICELLI Brina vifa eft per dies præcedentes; catti
manibus caput, quafi linientes , compri munt; ouescapitacommotient:afini hu
miles habent aures; ftercora fumát, ma legue olent.Horum omniumratio , va
poresàSole exhumidisfublatifunt:pro. inde animalia,cerebra humida habentia,
nonnulla magis extorquentur. Vinum à Verrribus fuiffe mulieribus inter di&
um . Agna fuitVeterum à vinivfuab . Itinentia :illudautem adeò muli. eribus
erat interdi & um ,vtcapitale iudi. cium inirct,quæ vinum biberet. Porrò
inoleuit confuetudo,vtcognati, & affi. mes, mulieres ofcularentur, ore
explo rantes , an ex vinum bibiffent. Idem ve fusMafsilienfibus, Mileliis ,
pluribus ; Græcorum , &Barbarorum gentibusin ,. valuit, apud quos
muliereshydropota , & viri erant abftemiz: Intermemoran da illor um
temporum ,EgnatiusMetel fus, vxorem , quod vinum biberet,fufte necafe dicitur.
Quo artifii io è plumbo Antimonii flores ex Habere paleamase Ape nij, fiue
Stibinon femel extrahere Periam artem,qua flores Antimo à plumbo valui, quo
præſidioin multis corporis affe & ionibus feliciſsimo euétu voor.Capito
Plumbicampanam , è qua aromatarij rofarum aquam ftillatitiam extrahunt; hæc
habet æris fundum : tu verò txargilla eligito ,quodacerrimoa etto fupra
medietatem implendum con fuilo ,eaq; induſtria ,qua rofæ ftillantur, in aceti
deftillatione carbonibus bene ignitisagendum cít:caue tamen , ne totus fillet
acetum , ne aqua extracta vftioné fentiat.Hæcaqua auri colore eft, fapore xerò
facchari, & mellis; mirabilis tamen tum in potu , tum extrinfecè vfurpata ,
ob ftib j flores ex plumbo extre & os. vomitu , & aluo purgat, ob id
frigidis affectionibus ,obſtructionibusý; vtiliſ. fima' : In vlceribus putridis
, fætidis acoribus, ſcabie, herpere exedente , & aliis huiuſmodi,maximi eſt
valoris.Doe ſis in potu ſît vnc.ij. Deforisad placitū. Clarorum virorum exitum
aliquot inte felicem fuiffe Aniene fluuio Aeneas poft tot vi. & orias,
torque clara facinora periiffe dicitur: nec diſsimilisRomulo , Cæfari,
Alexandro,Annibali ,Scipioni, Iugur thæ ,Mithridati , atque alijs innumeris
mors ſucceſsit :per quàm n. pauci viriex iis, qui clari,atque illuſtres tum
virturi bus, tum fortuna habiti funt, quos non infælix exitus,tanq : á pro
exemolo ,fós offentäuérit porterial text caligero. Defipientiam , mulierum
natuefamiliarem indicati. MVlieres vtero gerèntes,fiàphrenia tide
capiuntur,Galeni teftimonio , rarò confanefcere legimus , vt fcribit tamen
Cælius Aur.femper minus graui ter,minuſquc periculosè, quam viri,mu lieres
ægrotant.Hoc autem , vt Merci. sialis opinatur,ab alia ratione continge re non
poteft, quam ab ipfarum natura, cuius familiarius eft defipere,quam viri.
Mirabile Annibalis, contra Romanos nauala fratagemia. Nfolita ,& mirabilis
Annibalis milita Eisafutia contra Romanos iudicarur: hic enim bello naturali
cum iis dimica . curus, cum impares vires habere anim aduerteret,rale
ſtratagema inuenit. Ser pentibus, quorumvenenumconfeftim enecat,pleraſq;ollas
impleuit,opertasq ; repente in hoftes iaculatus cít, quorum ictibus plurimi
cecidere.Hifceftratage matibus vir hic tanquam alter ſerperis, multoties
hoftium manus effugere con fucuit.Ex Gdenoin lib.de tbet.Akrijon Ambarum cum
vino alicui exbibitum , cena feftiminducere ebrietaisn . Mbarum , quod à vulgo
Ambrageye ſea vocatur,fomiſsisatiopam falfos opinionib & bituminofis
fontibus,qui in maris profunditate exiftunt, oritur, Hocautem primòliquidum eft
,cùm ve rò aquarum impetu ſurfum rapitur , ex aerisfrigiditatecondenſatur ,
& Amban rum fir:Siquidem in maris concauo, ple raq; mollia,teneraque
obfèruantur, & interalia Coralliú , quod ex aqua exea ptum , citiſsimè
lapideſeit. In Ambaro illud mirabileiudicatur, quod ab alique antequam vinum
hauriat,odoratum , ina sttar ebrii eladat : cum vinoa, propina tū ,confeſtim
notabiléinducere ebrieta tem multis experimentis eft comproba. tum. Ex Simeone
Sethi Greco auctore. oleam Lathyris Tympaniam , Colicas , affe& iones
mirabiliter ſanare. Irabile quidem ,quod è Cataputię -ſeminibus extrahitur,
oleum eft , quippein expellendismorbis,qui à filao tu luccile;frigidis oriuntur,
principem habet locum.Contundantur huius ſemi na, atq; in aquatam
diùebulliant,vt ex cocta videantur;mox oleum in aqua fu pernatans cochleari
colligendúeft. Mos eft apudIndos tale oleum cómodius per decoctionem, quàm
expreſsionem cola ligere.Vfurpaturhocfeliciſsimofuccef. fuin Tympania ,colicis,
iliaciſq;dolori . bus,ftomachiaffe & ione,aurium furdita te,atq, in iis
morbis,qui à ſuccis frigidis, fatua;fiunt. Huius gutta aliquo lique re in potu
ſumpta aquam citrinam euan euat,in articulorumq; doloribus pitui tam ,
humoreſque frigidos. Extrinfecè vfurpatur in omni Hydropis ſpecie : vbi
HORTVLVS GENIALIS 309 vbi tamen flatuofitas viget , maximam in expellenda
proprietatem habere vi detur. Ex Don Garzia ab Horto. Verenum à diſsimili
extingui; à fimili vero angeri. Hocpropriumelle veneni,àfapien Lrioribus
proditur, à diſsimili ex. tingui, & a ſimili augeri, & robuſtius fi
erizea propter non femel à perfidisho minibus exhibita venena nullius valo
risfuifleobſeruatum eft,cùmeadiſsimi libusfuerint fociata. Aconitú , & Napel
lus miram retinent vim necandi, com pefcitur accamen corum potentia à ve neno
diſsimili, ex quorum diſsimilitu dine,vtriuſq;vis hebetatur.Mira eftAu. fonii
hiſtoria de vxore mæcha, quzma rito venenum propinauerat, vt a. illud robuftius
effet, Hydrargyrum miſcuit ex quo toxici virtusdempta eft , & vir immunis
euafit. Hoc epigrammate ille monftrat; Texica Zelotypadedit vxor mecha marito,
Necfatis ad mortem , credidit effe datum : Miſcuit HA Mifcuit agente lethaliapandera viui,
Cogeret vt celerem visgemindanecem . Digid at ber fiquis faciunt difiseta
venenü; Ansideram fumet,quiſociala bibet. Ergo inter fefe dum noxia pocula
cortant, Cele lethalisnoxafalurifora Protinus,Go Vacuos duipetiêre receffiua,
Lubrica deie& is,quaria nota cibis. Quanpia cura Deumprodeft crudelier
vxor, Elçüm fata voluns,bina venena juuans. Cornelij Celfy de valetudine
fanorum bomsi num conferuandatutißimapræcepta . Nter grauiſsimosmedicos,&
fcripto res,nemo eft,qui in conſeruáda fano rum hominú fanitate oculatior
exiſtat. Afferă ciusverba ', ytfaluberrima iſtius præcepta rectius
intelligantur.Sanus ho mo,qui,&bene valet, & ſuæ (pontis eft, nullis
obligare fe legibusdebet , ac neq; medico,ncq; dcalipta egere.Húcoportet varium
habere vitæ genus , modo ruri eſſe,modòin vrbe,fæpiuſý; in agro : na uigare,
venari,quiefcere interdum : fed frequentius fe exercere.Siquidé ignauia corpus
hebetat labor firmat; illa matură lepc ſenectute,hic longăadoleſcentiá reddir.
Prodefteciâincerdúbalnco interdú ,aquis frigidisyti;modòvngi,modòipsú negli
gere:nullú cibigenus fugere,quopopu. lus-vtatur:interdú in cóuiuio eſie, inter.
dum ab eo ſe retrahere:modò plus iufto, modò no ampliusaffumere:bis die poti us
quàm femel cibú capere , & fèper quá plurimum ,dummodo hunc concoquat. Secl
vt huiusgenerisexercitationes cibi queneceſſarij ſunt;ficathletici, ſuperua.
cui. Nam , & intermiſſus propter ciui. les aliquas neceſsitates ordo
exercitati. onis,corpusaffligit, & ea corpora , quæ more eorum repleta
funt,celerrimè , & fenelcunt, & ægrotant. Hæc firmis ſer : uapda fune
,cauendumquene inſecunda valecudine , aduerfæ præſidia cenſum mantur.Ex lib.i.
Socrati à familiariDeironcde Plasonis indole Somnium fuiffe immiſſum. Solene
quandoq;malifpiritus homi nibus fomnia ingerere futurarum re rú , vel Dei
permiflione, vel vt nos ipfos dedecipiant. Hinc Socratem legimus, vidiffe per
ſomnium ,oloris pullum ſibi in gremio plumefcere , qui continuò exorcispennis
& expanfisalis, in altum aduolans , fua tiſsimos cantus edebat. Poftridie
Pla tone adducto, hic eft ( inquit ) Cygnus, quem ego præterita nocte cam
fuauiter canentem fomno videram . Hocfomnium , ve fcribit Henricus de Aſsia , à
fpirira fa. I miliari , ſub forma Cygni, quem Athe nienſesVeneri dicarunt ,
fuit immiſsum Socrati, vt Platonem in diſciplinam re ceperit ' , à quo , quum
ipſe uilil ſcrie ptum reliquerit , dulciſsimi ipfius & Caluberrimai
fermones proderentur, Magia ſeu inc antatianis ris . Onmeras eſſe præftigias,
quæ magica ? arte efficiuntur ; multis exemplis notum eft , fed vno in primis ,
quod deſcribere vifum eft. Rufticus quidam magnis doloribus ventriculi vexaba
tur :: quos etfi variis, medicameutis depellere cogar zur illi tamen non 1 ceffarunt
, fed potius in dies recrudeſcere vifi funt. Quare agricola doloruin impati ens
, cultello ſibi guttur abfcidit. Dum au tem tertio die mortuus ad fepulchrum ef
ferretur, à duobus chirurgisin magna ho. minum frequentia, illius ventriculus
iraci. fus eſt. In ee ( res mira , & prodigiofa ) lignum teres, &
oblongum ,quatuor excha. lybe cultri , partim acuti , partim ferræ in . ftar
dentari, ac duo ferramenta aſpera re . perta fuerunt:quorum fingulaſpithamęlos
gitudinem excedebant. Aderat, &capillo. rum inuolucrum globi inftar.
Credibileen fanè, hęcin ventriculi cauitate congeſta fu iffe, non alia arte,
quàm Dæmonis aftu ,& dolo. Quo artificio epiftolam , in ouo celatam alicui
afcribere valeamus Nter ſcripturarum furtiuarum arcana non infinum locum tenere
exiftimo , in ouo epiftolam celare , atq; amico ſcribere, Videbis enim oui
putamen illæſum , mun . dung; illo tamen exempto, difruptos; cha paeteres
apparebunt. Aperiam ſecretum . S ? Atramento, ex gallis, alumine &aceto
con. fecto , in ouicortice literas ſignabis, votum pffequeris. Has oportet in
Sole calente ex ccare , mox ouum in muria concoquere ita enim à cortice
characteres euaneſcune, & ad interna gradiuntur:ſiquidem putami. ne
exempto, notæ oui durato albumine in ueniunturEx.Carolo Stephano. In
aquafrigida captanda maximum veterum fuiffeftudium . Aximam antiqui curam
adhibebát, vt aquam frigidam pro ætatis in. cendio temperando conferuarent:
quareex niuibus eam parabant , vt Athenæusretulit . Dequa re perbellè
loquebacur Seneca , & panas montium in voluptates transferunt, Alexandrini
aquam Soletepentem , in fene ftris ad ventorum incurfus exponebant , vt poctu
frigeſceret;manè autem inte Solis or ruin hani ponebant , folijſque lactucæ ,
ac que pampinis iniectis frigidam tuebantur. HocGalen.parrat.6 . Epidemior.
Plasarchu: 6.Sympus cotibus & filicibus aquæ inietti hoc fieri fcripfit.
Neronis autem in re har ftudium nobiliſsimum fuiffe proditur: ise genim ,
vtninis voluptate, ablque njuisia iniuria fruererur , feruentem aquam vitro
immifiam in niues refrige jarimandabat:Ex Heur nie. Ecua Fæminas in prima
menftruorum eruptione in Venerem maximè incitari. e Erunpune,fceminis bera
exurgunt:Pana guis ille,inftar occifi animalis videtur, atq ; in maiori copia
erumpit , cùm vbera ad du os digitos prominent, que tempore puella rum vocem in
grauiorem mutari confpici. mus, Illud autem maximè adnotandum eft , in prima
menſtruorum eruptione puellas in pudendis,valida tentigine, prurituque core
ripi,ex quo ad Venerem incitantur : quare per tempus illud cautè cuſtodiri
exiſtimo. Ex Arift.7.de Hift.anim . Qua induſtria Aegypti lapides à
vefica,abfiga incifione extrahant. Irabile quidem eſt Aegyptiorum ftudium in
extrahendo lapide à ve fica abſque inciſione, quando noftrates me dici,
lapidarij ſine illa facerenequeant , idque cum magno languentium vicę periculo.
Hiligneam cannulam accipiunt , octo di . gitorum longitudine, & digiti pollicis
latia tudine in opere abfoluendo. Hanc colisca nali admouent, fortiterque
infufflant;neau . tem flatus ad interioraperueniat , extre . mū pudendimánu
altera perftringunt , fo . samen deinde cannulæ claudunt , vt virga 0 % cabang
M N eagalisiotumeſcat, latiorq ; fiar. Quo facto miniſter digitoin ano pofito,
lapidem pau Jatim ad canalem virgæ, atq; in eius vasex tremun deducit.
Quivbipræputio lapidem appropinquare ſentit,cannulam à virgæ ca nali fortiter,
impetug; amouet, & lapis ex . trahitur. Ex Alpino. Mult a praſidia ab
animalibus, bomines accepiffe. On pauca equidem præſidia funt, quæ ad hominum
tutelam ab animalibus accepta ſunt. Chelidoniæenim virtutein ad oculorum morbos
ab Hirundine accepi . mus, quæ hanc conquirit herbam ,vt furorú filiorum
oculos, vel vitiatos, vel.cæcos cu rer, Fæoiculi virtutem ad eandep tutelam
ab'anguibus didicimus, Ab Ibide, quæ in ftar Ciconię auis eft, clyftris vſum
habui mus: nam & illa roftre marinamaquam al lumere folet, illoſ; pro
clyfteri vtitur, vt ventrem nimis onuftum exonerare valeat. Inſuper marinus
equus, Hyppopot mus di etus, venarum fectionein nos docuit: illef . quidem mala
oppreffus -valetudine, ad re center fuccifas arundines graditur , acutio . riſ
;cuſpidefanguinem è cryrjuin venis adi mit. Quod autem in hocmirabile eft, vela
guinem cohibeat, in fimo, vel cono volutatur , & ica vitam tuetur, &
fanguinem fim ftit. Ex Plinio, alis. Equorum teft :cilos ad ſecundas
depellendas miram babere pirt utern . Ingularis profecto Equi teſticulorum ad
nulierum fecundasdepellendas eft pro prietas, adeò, quod teftatur Genſerus in e
pift. Rufticum quendam , quinquaginta in puerperis feliciter hoc vſum fuiſſe
reme dio . Vfus eit & Horatius Augerius in plu. ribus mirabili euentu:
præſtantiſsimuin id circo à grauibus auctoribus indicatur re ne diun),nam ,
& pluribusiam deploratis pro fuit.Capiunturteſticuli equ: caftrati ,&
tria ftillatim conciſi in forno exiccantur, quorü puluis quantum capitur
tribusdigitis è jure bibendas datur in neceſsitate; idé; fi opus eit, bis, auc ter
reperitur. Humanam faliuam Scorpiones interimere. Ominum faliua Scorpionibus
infe ttiſsimum venenum eít, adeò quòd ca tacti confeftim intereanc . Porrò ijs,
ſaliua fora ſubſtancia aduerfaelt, ve Galenus lib.io fimp, medic. experimento
confeffus eft; ist . nim à fola faliua morientem vidit Scorpio. nem, id ;
celeriter patientem à faliua elue riencium , aut fit jentium ; tard autem ab 3 illis,qui
cibo, potuque fuerant impleti,ina. liis autem proportione, Apium
riſus,bominesridendo interfi. cere. Scelerata eft herba quæ Apiamrifusdicia
cur, quod ridendo homines interficiar: fi quis enim gnftauerit ieiunus vtique
ridendo exanimabitur, vt Apuleiusteftatus eft : Ex hacillud adagium ortum
habuit :Sardonius siſus; nam & Sardonia eriam vocatur.Porrò on ex rifu ,
qui hác guftauerint, moriuntur fed potius ,vt placet Saluſtio neruos labio rum
, & orismuſculosillius, qui eam come dit, contrahere facit,adeò , vtridendo
mori videatur. Qua induſtria Partbi, Scytheque Sagittarum aciem venenajunt:
AR'thorum , Scytarumque toxicum , quo fagicrarum acies inungi folebant , humano
fanguine, & viperinaſanie confta bat , tantæquc feritatis erat hoc venenum
, ve leui tactu animal interimerer , Equidem Scythæ viperas recenter enixas
venantur , eaſque diesal.quoccontabelcere finunt, do necip fapien putre.cane,
mox com visus hominis fanguine in ollam effuſo , eam ex quifite coopertam ;
fimoque obrutam com putrefcere finunt , cuius demum .1 . ick or fan . PAT
fanguini ſupernatans, fiue ferum cuni vipe rarum faniecommixtum lethale
Scytharum toxicum eft. Ex Arift. Plinio, & Langio. Succinumpterogerentibus
exbibitum , mire partum accelerare. Mvicis experimentis comprobariaudio
ſuccinum parturientibus drach. ſemis pondere ex vipo albo potui dátum, mirè par
tuin accelerare. Hoc eriam facit eius oleum , fi gutta tantum ex aqua verbenæ
parturienti propinatur.Quidātamen medicusHetrufcus (Fallopii teftimonio
)exhibebatfcrup.i.bora• cis in decoctomatricariæ , velfabinæ diffolu tæ
difficulter parientib.mirag; faciebat: bre ui enim temporis fpatio feetus,vel viuus,vel
mortuns egrediebatur. Habebat ille medi euis pro arcano præftantiſsimum hoc
auxili um tamen neſcio quomodo postea fuerit de fetum . Ex Andernaco Serpentum
oua genituramí per imprudētiam in petu haufta,ſerpentesin corpe ribus
procreare: Dmiranda fuccedunt quandoq; fym dem imprudenter cum ea femina , vel
ova ſerpentú hauriuntur, è quibus moxſerpentes generantur. Genſerus in lib 2.
hift animal cap, de Ranis Rubetis, bufones in ventriculis in reftinifq; hominum
haufta eorum genitura, fieri, &nutriri probauit. Iacobus Manlius, in
lib.experim.in cuiuſdam equitis, exhau * Ita cuiufdam lacunæ aqua, vbi
erantſemina Serpentum , in ventriculo plures angues fu . iflegenicos prodidit:
quibus per internalla extractis, medicorum auxiliis, fanus factus eft. Leuinus
Lemnius Vermiculos cauda tos , atg; infolita forma beſtiolas vomitu ciectas
nouit. In nonnullis lacertas à phar . maco fuifle eductas obferuatum eft, vt
Gé. maCoſmocrit vidit. Quare maxima in a quæ potu hominibus opus eſt
animaduerfi . one huiufinodi exhanftis, pernicies corpo . Tis conſequatur. In
deſperato coli dolore Hydrargyruin, v4. glandem plumbeamexbibitam , multos
confanaffe. Irabile videtur, Hydrargyrum ,quod à mulis venenum reputatur, in
der. peraro coli'dolore exhibitum , plurimun prodell:. Equidem Marianus Sanctus
, ex multorum confilio , qui ab hoc lethali mor bo fanati fint, fuadet, fi
obstructio perfeue rauerit, & fæces per os extrudantur , hau fire cum aqua
fola argenti viui libras tres, Probat hic exratione vinetuin feu duplicatű
inteltinum Hydrargyri pondere explicari, fæces detrudi,vermelý; fi ibi fuerint
interi . mi , &ægrum liberari . Haud ab hoc difsi mili auxilio quidam
nobilis , poft alia ten tata ad morbi huiuſinodi acerbita tem ma . chinamenta,
liberatus eft. Hic hauftis olei amygdalarum dulcium fine igne extraćti vnc.
iij.cum vino albo, &aqua parietariæ mixcis, mox deuorata glande pluoibea ar
gento viuo illita , planè à colico cruciatit euafit, illamque exano
abſquelaborerede didjt. Ex Pareo lib. 16. Infæniculorumfeminibus, vim quando
que exitialem deliteſcere. Grauibus ſcriptoribus comprobatur, ſerpentes
fæniculorum elu , &fene ctam exuere,&oculorum aciem rnonare. Hinc iis
affricantur oculi anguium, vt vo . tum affequantur, Ex attritu foeniculorum
feminibus, praya quædam imprimitur qua litas, è qua venenati producuntur vermi.
culi,quorum eſu multi in peſsima deuene . runt ſymptomata, &ab alexiteriis
rarò ad iusj funt, tanta huius veneni potentia eft. Quare foeniculorum
ymbelli,antequam co. medantur, aperiantur, & diligenter concu, tjantur, vtå
vermibus emundentur. Præ, OS Habis A A ſtabit al quantifper in frigida
macerare. Ex Balthajaro Pifanello, Noua admirandag; prafidia, ad Ang i nam ,
gutturules apoflemata. Fferanı fingularia auxilia, è quibus ex grauiſsimis
fcriptoribus, ad anginam & gutturis apoſtemata mirabilia contigiffe
proditur.Lignum hederæ ad gutturis apoſte . mata à proprietate valere fcribit
Ioannes Marquardus: quippe obſeruatum eft , come dentem excochlearihederæ
ligneo, fiue bi. bencem in aliquo ipfius vafe ligneo, num quam, vel raro in
gutturis , vel vuulæ apo . temaińcurrere, Rubeta cocta , &pro em
plaftroSynachicis impoſita,cófefim liberat. Vermes.quandog, in cordis capſula
pro creari , è quibus mors ſubitanea pleriſqueexoritur. Abulofum haud eft,
vermes in cordege : nerari. Hoc enim Melues docet , Holle rius, Marth . Cornax
, Alexius Pedemonta . nus, & alij loan , Hebenftrit, in lib . de Pette,
Principem quendam ex morbi fæuitia peri iffe narrar, cuius cadauere diffecto ,
vermis albus præacito roſtello , eoq; corneo præ. ditus, cordi adhęreſcere
deprehenfus eft . Exmedicis, ſucco alii feram hanc, tanquain ex indubitato
remedio, interimi probatü eft . Petrus Sphererius ( vt ScheukinsBarratti lem fiorentinum morte fubitanea correpti, atq;
diſſecatum obferuauit, in cuius cordis caplula vermis viuus repertus fuit.
Aiunt multi certiſsimo experimenco-ficco allii,ra phani , & nafturtii hos
vermes pecari, qui, ex teſtimonio Pedemontani, in corde deli teſcentes,ſyncopim
, Epilepfian , & mortem inferre folent. Mares pleroſque in mamillis,
mulierum instar, lac producere. Icet marium mamillæ fpiffa carne in fuiffe
productum obferuatum eft. Nouit hoc Arift. vtlib . 1. dehiſt. animal. docuit.
Veſali us non femel id confpexiffe in 1: 4. 15. Anat. commemorat, &
Hieronymus Eugubius in libell, de lacte: fic & Cardanus,lib. 1. de Sub til.
qui ianuæ vidit Antonium Denzium , è cuius mamillis lactis tantum profluebat ,
vt infantem fernè lactàre potuiffet. At hifto ria, quæ affertur ab Alex.
Benedicto mira. bilis eft : aitenim , Syrum quendam ,mortua coniuge, è qua
infans ſupererar, ybera filio admouiffe, ècuius ſuctu tanta lactiscopia i
pupillam manauit, vt exinde loco matris nn trire valuerit. Ego quidem in duobus
filiis meis, in primis diebus à partu obferuaui, ab obftetrice.mamillas cofrectatas,
lacimpulſo (magno multorum ftupore) emififfe: idậ; in aliis etiam infantibus
contpexi, Lumbricosquandoque tantaprocreari pi Tulentia , vt interior a
corporis perfurare valeant. Nfanda equidé fymptomata à vermibus aliquando
proueniunt: refert enim Om bibonus, lib. 4. de morb. infant. Lumbricos ex
vmbilico cuiuſdam erupiffe. Tralliani teſtimonio habemus, hæc animalia ob ali
menti inopiam inteftina laceraffe , fuiffe ob ſeruatum . Id etiam ab Aegineta
confirma tur : jofuper Hollerius confpexit , vermes per inguina, &
vmbilicum prorupifle. Ma . gna igitur cura opus eſt in horum redua dantia, ne
interioracorporis valeant lace fare , A Infamis vmbilicam , & Ceruinumpenem
mirabiliter conceptumfacere. Lexander Benedictus, 1.30. de curand. morbis,vmbilicü
infantis, qui fponte caditquoquo , modo in ciboſumprú, fiigno rauerit
mulier,adconceptum facere , pro . didit;illumg; in brachialibus à muliere ge
ftacuin conceptum inhibere eredir. Cerui. aum inſuper penena aridum , & in
fari . namredactum , oboli pondere, à coitu forminis datum ; procul dubio ad
concipien . dum prodeffe experimento probat, Baueri. us tamen conf: 50.vterum
ceruinum fingu lari dote ad conceptum valere prædicat, Vlmi vſum , recentem
Elephantiafim curare fuiffe obferuatum . Inquam certum remedium, Vimi vfus in
curanda recenti Elephantiaſi à laco. bo Douinero , lib.Tic.7 . prædicatur.
Vidit enim adoleſcentem tali affetu laboranté, & decoctionis Vimi vſu (
factis faciendis ) conualuiffe . Ea equidem pro omni potu vte barur in quolibet
paſtu , cum pauco vino al. bo, &cantiſudores mouebantur graueolen tes, vt
vix illos cuftodes ferre poffent. Ita viſcera purgabantur, &magaa yrinæ
copia excernebatur, quibus excretionibus fanus factus eft . Cyprinorum efum
podagricis elle infeflum . Vamuis inter piſces, Cyprinusnobi. lifsimus
exiftimetur , cum optimum præbeat nutrimentum , exquiſitiſsimigsexi Atat
faporis; tamen podagricis infeftuin ef. fe obferuatum eft. Nouit enim
podagroſum Iulius Alexandrinus ( vt retulit lib . 15.6. 6.. de salubr. ) cui
Cyprinorum efu pinguium, parata érat femper podagra, ve in manu illi th effet,
eo pacto accerfere, cùm vellet . G Puluere pellis leporine, perniones à Sep
tentrionalibusfanari. Laus, lib . 2. Rerum Septentrionalium , , tilsimè
perniones experiri fcripfit, qui mor bus, non aliis ab iis fanatur remediis,
quàm puluere pellis leporinæ. Plinius verò Rapú domeſticum feruen's calcaneis
impofitúla . nareretulit. Ego ex Carolo Séephano, inlib. de Ragraria, in quodam
expertus ſum reme dium , & bene fucceflit. Accipit ille , ficos crematos, è
quorum puluere, & cera yngné tum parat;hoc pernionibus impofitum bre
uiliberat patientes. Hydrargyrum loco amuletigeftatum à pefte faſcinog corpora
defendere. Arfilius Ficinus, & P. Droerus, in lib . M , fienim auellana
perforatur , &extracto in . teriori nucleocum acicula, argento viuote
pletur, & collo fuspenditur; mirum in mo dum à peſte corpora tuta reddit:
ira profe etò à peftifera lue fæniente fe defenderuut multi. Hoc eriam præfidio
mulieres lactan . tes, à faſcivatricibus, ne lac fic ademptum, quo infantes
alendi funt, præferuari poffe, i Thomas Iordanus, in libe dePefte, prodidit. -
Q " ppe multis experimentis obferuatum re , tulit (hoc fecum geſtao -
ullas prorſus laga. ruin , lamiarú aut ftriguin infidias lacrátibus nocere.
CNICO Meſpili lignum ,collo appenfum grauidas ab abo orth preferuare. Wm quadam
æſtate apud D. Ioannem Nicolaumn Cucillum Brancacium , mei amantifsimun,
ytpuerum curarem interef ſem , fortè inter me , & Doininam D. Man. já
Cotoneam e Toleris, eius vxorē, de abor tus præſeruatione, tunc vtero gerentem
, có : uentum est. Retulit domina hæc Meſpili li gnum collo appenfum mirè ab
abortu gra uidasdefendere;idq; millies à fuis maiori bus foiffe expertum .
Confiteor in plerifq ;, tale lignum fuifle à me expertum , atq ;certú , &
rarum remedium ſemper inueniffe fe: fi quidein multæ aborrientes, & dolore
, & fã . guinis fluxu ( appeofo ligno reſtrictæ ſunt, &ab abortuſeruatæ
, adeò quòdined parti cularem virtutem abortú prohibendiinefile seor, Qua
induftriabomines abſtemios reddere valeamus. Vleis experimentis comprobatum re
perio Anguillas, vel Mullos in vino M fuffo peri sfuffocatos vini faftidium
inducere : & enim ex eo bibant homines, procul dubio abfte mii fiunt.
Infuper philoſtratus in vita Apol loni , ona noćtuæ elxaca, & infantibus
pro cibo allata, hydropotos in tota vita illos reddere ſcripſit. Mizaldus,
Ragam viridem , ex iis, quæ in fontibus ſaliunt, viuam in vi. no fuffocatam ,
idem efficere , fi tale vinum potetur, prodidit. Rotundam Ariſtolochiam mirè
piſces ftu pidos reddere. Ira eſt Ariſtolochiæ virtis in piſces: ipfa enim
illos odore ad fe al licit,moxftupidos reddit. Proprerea fi eius radicem
contritam , calciq; commiſtam , fiue eius decoctionem cum calce pacato flumine
aut maris littore piſcatores confpergent, piſces agminatim confluere videbunt.
Ili autem puluere deguftata, veluti examina ti ſupernatantes capientur. Puellam
veneno ab infantia nutritam , Alexandro ab Indorum Rege fuiße miffam . Ndorum
Rex Alexandri fortunæ inuidés, vt illum interimeret , miræ pulchritudi nis
mifit puellam, ratus forfitan Alexandru confeftim cum ea concubiturum. Illa au
tem Nappelli veneno ferè à cunabulis erat educata , propterea more Serpentum
ſcin tillances habebat oculos. Hos Ariftotelesar piciens, caue tibi ab hac (
dixit ) 6 Alexan der; nam virus peftilentiſsimum alit , vode tibi exitium
paratur. Poft paucos dies pleri q; proci huius commercio venenari periere ex
quo Ariſtotelis praſagium mirabile fuit iudicatum . Ex Auerroe. Quale fitigneum
prafidium , quodin morbis ab Aegyptis, & * Arab.bus vfurpatur. N lib .
deMedicina Aegyptiorum prodi. dit Alpinus, quo pacto illiin morbis cor . pora
adurant. Accipiunteniin lineam peti . am cubiti longitudine, latitudine verò
tri um digitorum , quam ad formam pyramydis aptant goſsipioque implent; ipfius
latior pars, parti adurendæ applicatur, alterumg; capuc accendunt, comburió;
cam dia per miteant, ye faſciculus crematur. Continuò ramen dum cutis vritur,
ferro circumcirca accingunt carné,ne caloris incendio aliqua oriatur
inflammatio .Hocinfuperinuolucro parando obſeruant, vein medio meatus ex iftar
fafciculi: ita enim euentatio fue refa piratio aliqua paratur, In vftione autem
per aćta offium medulla in carneaduſta, quoad eſchara cadat yantur.Hic vrendi
modusAe. gyptiis & , Arabibus familiaris eft. Olim in Creta familiasquaſdam
mirè faſes: natricesadfuiffe A quoſdam , tum fæminas in hiſce parti bus
animalibus, pueriſque laudando faſci num attuliffe: adeo quodij;fiad ouile, por
cileque quodpiam adiuiffent,confeftim in teritum pleriſque produxiffe: Quare
mirum haud eft, quod legitur in Creta quaſdam fa. milias adfuiffe, quæ laudando
faſcinum is . ferebant. His profectonatura quædam ferè venenofa efficitur,
& ex oculis inde fpiritus efflant venenatos,quibusanimalia ,pueri, &
grandiores faſcino maculantur . Laudando autem venenum promptiusoperatur :
fiqui dem laus propria, gaudium affert, quo cordis fpirituumque dilaratio
oritur, & veneno . a ditus præparatur.Ex Fracaſtorio - de fymp. sta
Antypat.rer. Cyprint verticis oſsiculum mirabiliter Epilep. ticisfubuenire. N
Cyprini caluarix vertice quoddam re peritur ofsiculum triangulare lapidisin
ftar, quod in curanda Epilepſia ; principeng loců obtinereaiunt. Táta enim
efficacia epi lepticicis fubuenit, vt morbusis numquam reuertatur,Hoc,
vbifuturæ in vertice calua six Cyprinicômitrútur intus fubfiftit,prop I cerea terea
ſi illa capello penetratur, ſtacim fora profilit ,Andernacushoc ofsiculum nummi
Germanici cruciferi appellati,magnitudine exiſtere prodidit ,atque ſalutare
eſſe Epilep fiæ remedium , Calphurnius Bestia Romanus qua pia vxores dormientes
interemerit. Nonnulliex veteribus in venenisnofçé & dili gentiam inter alia
Aconitum venenorus omnium elle ocyfsimam comprobarlot : fi quidem tactis
huiufinoti veneno genitali bus lexus faninini animaliuin , eodem die mortem
inferre viſiun eft.Hacvia Calphur nius beitia , veditaretur forſiçan , vxores
dor mientes interemit , de quo à M.Cæcilio ac cufatus eft.Hincilla -atiox
peroratio eius in digito mertuas. Confimili induftria Ladica laus Neapolis Rex
, cum cuiuſdam medici Prochytami filiam adamaret , cum eaque concumberet ,
Florentinorum confilio ex cinctus eſt , AcetoStitillitieo Bythagoram vitam
longiſsi meproduxiße. Afecit:feripfit enim eius viulongāhonia nes vitá
conſequi, & vfquead eius extremum : finem permanere integrè, & dextra
valetu dine.lole cu quinquagefimum ageret awaum hoc remedio vfus eft &eius vfu ad centefi.
muum , & decimum ſeptimum productus et integer & nulla vnquam aduerfa
valetudine tentatus : cuius optimam facultatem admira. tus, confanguineis co
umuuicauit, vt illings vfum haberent. Oleiom lixiuio mixtum in lattis fpeciem
tran fire. ' rmè experimen : o oleum lixiuio mixtú, fi diuag retur,in lactis
ſpeciem tranfire, comprobatum eſt: eft enim lixiuium tenue, atque calidum
,oleum autem cum aêreum fit à lixiuio attenuatur, & proinde aerem con
cipit,ex qua albedoiunaſcitur. In aquis etis am, quæ diu agitantur,lactis
ſpecies quædam exoritur ex confimili induſtria. huius indi. In cium ſpuma eft,
quæ cun fic tenuis , aérem concipit , & dealbatur, Ex Cardano. Quainduftria
Scythe abſque cibo , potu per plures diesexiftant. Miraett herba Scythicæ
operatio, qua scythæ per plures diesfiue cibo , po - tuque viliere dicuntur.
Hanc ij circa Boeri. am inueniuntcreſcentem , & ad famem ficou timque tolerandam
vtuntur: fi quidem guftu dulcis, vt liquiritia eft , & in ore detenta fa
mis, fitifq; fenfum habetar, Idem apud cales C : Hippice præſtat, eò quòd hæc
planta equis confini HORTVLVSGENIALIS 333 confimilem generet effectum .
Aiuntmulci, Scythas his herbis duodesos eriam dies, fac mem, &ſicim non
ſentire.Ex Martbiolo. Catellos calorem natiuum augere , membros rumque dolores
conſopire. P Ro excitando nativo calore , membro . rumque cruciatibus
demulcendis, Carelo li præſtantiſsimi( Galeni teſtimonio ,7. Me thod
med.)exiſtimantur:illorun autem hu . ius naturæ haud omnes habentur, fed ijpræ
cipuè ,quibus pilus concolor eft . Propterea in Chiragra , podagra, & in
omni Arthri. tis fpecie cruciatus , quamlibet efferatos, parti affectæ
adhibitos s præſtantiſsime confopire àmalcis comprobatuni repe ris . plurima è
terra furſumtapi, iterumque deorfum cum pluuis pracips tari, Aximam
yellera,rang,vermiculi,lapil li,ligna,vabijgeneris frumentacealac, fanguis,
& id genus alia terræ permixta, quæ cum pluuijs quandoque præcipitari
afpici. mus, , nobis præftant admiracionem , adeo quod à cafu infolito plerique
perterriti, Cæli mipas metuunt; Celiat aixen admira. tio ,fi eorúcauſas
penfitamus:hæc enim pri mo 334 BARICELLI mò ventorum effluuijs, ventorumque
inipe tu terræ permixta furfum feruntur,mox cum pluuijs iterum deſcendunt.
Propterea nec ſemper mirum ,autinſolens à ſapientibusiu dicatur:
CorneliusGemma, inCoſmitriticaca 6.hæc caufas legitimas à coeleftibus Syzygi.
is habere prodidit: fed tamen eo vſque pro gredi ſoiere,cum fpecie fua, tum
magnitu dine,vt etiam in portentis principem inue niant locum, Cum Pſylis,
&Marfis, Serpentes haudbabere inimicitiam . M Irabile eft, Serpentes, quià
mundi pri uerfam ,inimicitiainque iniuere,cum - Pſyl lis, & Marfis nec
odium nec difconuenienti am retinere, Neceſſe ctenim elt, ve ijs aliqua miftio
non omnino contraria oriatur,auto dor , autaliud , è quo fpecies minus ingraca
videatur ; ita profecto inter homines ipſos. criam contingit: quandoque enim
fine cauſa nonnullos odimus,alios amamus,prout re sum.fpecies ad animam noſtram
perue. niunte, quibus conuenientiam , & diſconnenientiain capta mus. Ex
Fracastor rian - ) Oling HORTVLVSGENIALIS. 339 Olim vasta, ego robuſtafuifle
bominuincor pora . Vamuis Plinius,cæteriq ;ſcriptores, ho ninum corpora ,
robur, vitam ſemper imminui conquerantur;tamen olim Gigan ces extitiffe,
&vaſta hominum fuillecorpo . ra negandum non eft.D.Auguftinus lib.15.de
Ciuit.Dei.dentem gigantis in quodam flu mine inuentum fuiffe
prodidit,quiminutim diuiſus,centum ex noftris dentes ſuperabas. De Pailante
ſcribitur admirandum.Hic Ae neam contra Turnum Regem Rutilorum adiuuit ,
mortuustandem , & fepultus , vbi nunc Roma eft, ( reference Solino)Anno O.
atingefimo poft Chriftum Dominum dam quiædam ædificia Romefierentcafu in ſepul
chro quo arte mirabili cum lucerna ardenti códitus erat, inuétus eft, &
integer erectus altitudinem nuricapite excellebat.Quid de Aiace, & quid de
Turno ; & de ingenti ,faxo , quodvterque in hoftem conjecir , referatur
nouúhaud eſt.Quid tandem de Oreſte, filio Agamemnonis,cuiuscadauer oéto cub
tirá longitudinem excedebat, atque de alijs in numerisdicatur,apud fcriptores
reperitur. Idcirco præter ftirpem giganteam ,quæ poft diluuiumimminuca eft,
alia corpora vastitatem & robur maximum retinuiffe conce. dendum eft ; in
præfentiarum verò homi. num corpora huiuſmodi comparata , tam pufilla funt, vt
præ illis inania effe videan tur. Ex Helinando Chronographo. Equum Phaleris
accin&tum pulcbris, acri oremfieri. , chris ornantur phaleris, tum
acriores, tum pulchriores iudicentur. Eſt de his cla. rum exemplum de Bucephalo
Alexandri, qui phaleris accioétus Regijs neminem præter Alexandrum ( teftimonio
Aeliani) ad fe aſcendere paciebatur , & quoderat 18 illo mirabilius,
veaſcenſus facilior effet , demittebatur cum dominus equitare vole bat.Phaleris
autem remotis ,quilibet medi. aftinus aſcendere, &tractare poterat. Ego
quidem domimulam habeo ,cuius tanta eft ſagacitas,vt fi feruus meus ephipium
parat, habenafque illa humilis ,demiffa , & quafi gaudens perfiſtic,viAernatur,
hilariſque in . cedit, & acrior : fin autem clitellas, calcitro fa,
indomita, feraque confeftim fit , necta lem ſarcinam , niſi vinctis pedibus
ferre ſu Atinet , adeò quòd feruus ab opere defiftere cogitur. Exitiofißimum
effe homini,ſub Lunaradijs ſomnum facere. Vnæproprium eft,in hæc inferiora hu
miditatem immittere: quare exitioſum elt,lub eius radijs diu dormire; quippè
dor mientes obleruatum eft ægrè excitari , atque proximos infanis fieri, Lunæ
vires in lignis, quæ ad ædificia colliguntur,potiſsimum ex perimur:conciſa enim
Luna creſcente , funt ferè emollira per humoris conceptionem , idcirco tanquam
inepta à fabricis reijciun rur. Agricola 'experimento cognouerunt, fruméta de
agris in Lunæ diminutione colo lecta diutius ficca permanere. Hæc à veterie bus
Lucina vocabatur , & à parturientibus inuocabatur : Lunæ enim diftendere
rimas corporis,meatibuſgue viam dare munus eft: propterea, tale ſydus partui
ſalutare, illum. queaccelerare putabant. Archelaum ,Mithridatispræfe&tum ,
ligneam turrim incombuſtibilem confeiffe. Dmiranduin profectò iudicatum eft
AArchelai,Mithridatispræfe&ti,cótra Syllam commentum :hic enim turrim
ligue. ain iocombuſtibilem condidit,quam fruftra ille incendere conabatur. Erat
currista. bulata alumine collinita , in ijs autem cruſta durior erat obducta,
& alumen , plumbique albi 238 BARICELLI E albicineres pigmentis copioſè
commifti: quia induſtria ab igne feruata ſunt. Confio mili artificio ,Ceſar ex
larigna materia cir . ca Padum ,Caftellum etiarn conftruxit, Ex Lemnio. Viſcum
quercinum fola fufpenfioneEpilepti. cis fubuenire. X
grauibusfcriptoribusmultiorbicua losè viſco querciofola ſuſpenſione vulgari
filo transfixos idem præftare in 2 molienda,& præcauendaepilepfia tradunt,
quod peonię maſculæ radix ,aut ſmaragdus è collopendens efficere creditur,
Reculit Iacchinus in Epilepticerum curatione, fe mel ea ratione,qua ligno
guaiaco vtimur, Viſcum quercinum per dies 40. propinafre, & profuiffe
quidem , non tamen Worbum abituliffe,nequelicuilleiterum id temedij iofaciliori
morbo experiri. Isterbraſsicam o vites maxisnum ineſe dif fenfum . Focabilis
equidem difcordia inter braſsicam , & vites reperitur, propte reade
Reruftica fapientes fcriptores, VICCE à braſsica offendi, deterioreſque &
fucco , &odore, fi ſecusplancatur, fieri prodidere. Experimento hoc
comperitur:nam gerinen ijspropius cu accellerit, auerſü ab inimico Notabilis compulſum
odore retrograditur. Infuper G inollam , vbi braſsica elixatur, vini vel mi
nimum conijcitur, quippe nec braſsica cona coqui vnquam poterit , & quod
mirabilius eft, colorem proprium amitter. Hacmotira tione ſapiéres,ebriis
braſsicæ ſucçú propinát, quo ebrietas ſubitò foluitur. Conuiuates pa riter, ne
à vini copia potenciaģ; offendantur ( Germanorum inftar ) braſsicam crudam
primò comedere debent : ita enim viruna ad ſatietatem , abfq; ebrietaris
periculo haua rire valebunt. Cati nigerrimiefum cerebrum , homines dementare,
Ericulofum eft , verſicoloris, &maximè nigerrimicati cerebrum alicui efirm
prz bere: ad iufaniam enim homines ducit, & quod peius, cerebri meatus
obftruit , ſpiri. Etuſý; impedit animales, Inter fcriptores Per trusApoinenfis,
huius efuadeò io ſanirehow' mines dixit,vt præftigiis quafiobnoxii videa antur.
Ponzertus pariter cati pilos venenoſos eſſe prodidit, citly; anhelitumfebrem heoti
cam induccre. Exbetulacorticibus, ardentesfaces comparari Etulæ cortices non
modò ignem confe. tim recipiunt, verùm atque flammam pariung Mha pariunt ardentem ; quo fit, vepleriq;
faces, pro noctis obſcuritate fuganda , ex iis com. ponaot, bene rati lucidiorem
has flammam , quãpini fædam parere: ex liquore autem picis inſtar, qui dum
vtuntur deftillat, oriri hociu dicatur , cuius natura cùm facile accendatur,
mirum haud eft: talem effectum producere. Hæmorrhoidalemn berbam contactu Hamer
rboides fünare. Ira eft Hæmorrhoidalis vis, & poté. tia in perfanandis
Hæmorrhoides: fi enimhuius radicibus, Hæmorrhoidales do lentes tanguntur, atq;
illæ per diem circa fe. mur ferantur , & mox in camino fumanti (
afpendantur, procul dubio effectusfanatur: fiquidé Hæmorrhoides que atq ;
radices ex iccărur, fiaccelcıyor: qua caufa herba ab effe ctu nomen deduxir,
nec immeritò: namin iftarum infiammatione, &doloribus , fi hu us radices
contufæ applicantur, confeftim , & dolor, & inflammatio mulcentur. Ex
Ex Tante. Marine Paltinuca radium ,identium do loresmitigare. entium dolores
multis experimentis ex Marinæ pattinacæ radio mitigari vifi func; huius eniin
radio, qui in piſcis cauda cpa, situr , dentes tanguntur, & gingina ſcari.
! x herbis non paucæ Ecale ſcar ficantur , quo præſidio quan cítiſsime dolor
euanefcit. Prodidit Dioſcorides , lib . 2,64p. 9. radiuin hunc dentes frangere,
& e urcare.quomodo autem hoc perficiat docu it Plinius lib. 3. cap 4.
Conteritur enim is, & cum Helleboro albo miſcetur, quorin miſtura fi dentes
illiti fuerint, fine vexatio ne extrahuntur, Plerasg, berbas, Solisexortum ,
& occafuma ostendere, Solis ortum , & OC cafum noffe videntur
tantaq;huius lyde. ris ſectandi,talibus auiditas nafcitur, vt Gr. miter inter
kas, & folem magnam in ſe lym pathiam credamus. Profe&to fos calendula
in Solis ortu aperitur, &in occafii clauditur; ex quo villicorum horologium
à nuleis di citur. Sequuntur Solis fphæram non modo papauer , &
illudtithymalli genus, quod vo. cant helioſcopon ; ſed etiam malua , lupini
& cichorea; intenſius autem Lotus herba re ctatur, &exortum quotidianum
, &occafum noſcit. Hæc ( Theophrafti teitimonio ) cau lem, &florem
veſpere mergit, & circa me. diam noctem tota in lacum irruit , & adeo
occulcatur , vt nec manu admiffa quis valeat inuenire , verciturmox panlatimg;
erigitur , &in Solis exortu extra aquas confirrgit; for P 3 reing Temą; aperit, & patefacit , caliterá;
etiam num confulit , vc alièab aqua abeffe videa quarum Sodo Qualssin Sodomi,
& Gomorriveſtigiso riantur fru & us. LtiſsimiDei decreto quinq; vrbes
211a ciquicus incentæ ſunt wuum , & Gomorrhum præftantifsimæ fiudj
erbantur.Harum in fauillis quædam noſcú . tur veſtigia; Giquidem cæleftis ignis
reliquiæ adhuc perfiftunt. Quod autem illic admira bile perfpicitur .viridancia
fpectantur poma, formaci vuarum racemi, nec quis elt, qui e dendi haud
cupiditatem habeat: illa. autem manibus capta faciſcunt, & in cinerem
refol. uuntur, fumuggsexcitant, quafiadhucarde ant. Ex Egeſippalib . 4 . Magnam
inter vterun , ammasinef Seſympathiam . On exiguus inter mulierum vterum ,
& mammas contéplatur confenfus: quip pe alterum alterius pathema oftendere
on laruamus, A venis inter has partes coniunctis maximè ratio ošteditoriri
ſympathiá:ex iis e nim materias ab vtrifq; contentis transferring &exonerari
experimur.In menftruorum re dundantia Cucurbitula fub mammisappofita , fluxum
cohiberi ab Hippocrate docemur, Lactis
copia in puerperis dum magna grauit q; fuerit, die feptimo puerperii octauo, 10
nog; in vterum à naturaefunditur. Suppreisi menfes in virginibus , & viduis
caftis , non femel io mammasrefiliunt, & la & tis copiam fuſcitant. In
mulierum pubertate accedente menftruo vtramq; parteni creſcere vidernus. Quo
artificio Solis defectumfirmiter com prehendere paleamus. Aria induſtria
pleriq; conantur folis defectam deprehendere;hocautem có pertum eft, artificio
illius defectionem fir miter apprehendi, Pelues hora inſtanti capi. antur , quæ
non aqua , fed aut oleo, aút pice implendæ ſunt; ratio enim fuadet, humorem
pinguem non facile curbari , atq; imagines perinde, quas recipit conſernare.
Equidem in magines in liquido & immoto tantum appa rereconfueuerunt,
propterea in olen, & pi. ce , commodius, & firmius, quomodo Luna Solilc
opponat, & illum abſcondat accipere poterimus. Ex Seneca in Natur. Quaft.
Virginummammillarum tumorem acis cuta impediria Ac inter alias, cicuta pollet
efficacia, vt contufa cum vmbeila, atq; virginü B H mammillis impofita ,
tumorem , & excref centiam valeat prohibere; fortaffe nutrimé cum impedit,
quo minus augeantur, vt in pu crorun tefticulis fuccedit, fi hæc adhibetur:
ijenim reatibus alimenti obtufis facilè ex iccantur. Aperiani in hoc loco quod
à Bon doletio nultis experimentis comprobatum Teperio de piſce Squarina:
hicenim mulie. rum mammis fuperpofitus, illas adeò con. ftringit , ve virginum
mammillæ appareant; credunt multi in genitalibus eundem fimili ter effectum
producere. Quercusgallis, anniprafagia comparari. Napoleon Onmodò à Plinio ,
verùm atq; à plea riſq; rei rufticæ ſcriptoribus obſerua tum fuiffe comperio, à
gallis quercus maio sibus præfagium aliud anni, quodapud vece res in magno
fuiſſe pretio,&opinione legi. tur. Aperiuntur gallæ, quando integræ funt,
ibig; muſca, aranea , aut vermiculus repe . ritur : fiquidem planta hæc in
gallis huiuſmo di aninialium gignere confueuit. Si mufca volar, angi
fertilitatem & bellum futurum præſagiunt ; ſin vermiculus repit , annonæ
carentiam arguunt; fi autem aranea profiliet fummam caritatem , &
peftilentes affectus prædicunt. His ego adderem , præfagia hu . iufmodi , fi
Deo placuerit, confimiles ſecta . tur elientus. Vitri puluerem , calculos
comminuere. ron folum Galenus, fed Anicenna, & mouendos vitri puluerem
excollunt quomo do autem hæc fieret , plurimum infudiui; tandem quæ ab
Abecizoare componitur,mihi ex voto ſucceſsit, & vitrum adurere didici.
Capitur vieri albi , & perſpicui fruftulum , quod terebinthina coll nire
oporter totum , nyox tandiù in prunis detinere, veexcandel. cat; hoc demum in
aqua exſtinguicur, ſepti. eſg; iteratur, primò tamen linitur, fecundò cxcoquitur,
vltimò extinguitur; quo peracto , vitrum conteritur, & in puluerem
lubciliſsi mum mutacur. Propinamus languentibus au rei pondus vel drach.j. cum
vino albo, & ef ficaciter calculos comminui experimur. Quo artificio aëris
naturimexplorare valeamus. Eris qualitatem , & naturam cum ex plorare
libuerit , fpongia bene ficca, atq; munda ſèreno cælo per noctem fub diuo
exponenda eft; illa eniin fiſicca mane fuerit, ficcu's P5 АБЫ liceus & aër erit ; fi humecta,nimbolus;
fi anoll cervda,humidus,acroridus Inſuper ft recente pané eadem induftria
expofueris , di corrupto,ficuin contrahere videbitur ;à fic co , fiec ficcus;ab
Humido aucem, à ftacu pro prionon mutabitur.Siaër fuerit peftilens,
carnesexpofitæ corrumpuntur,atque colo rem mutant;fic eciam & adipes.Siaércraf
fus erit,patebit in marmore, & filicibus, qnę in cali natura admodum madere
folent; cós tra verò in aere'tenui, liges humidus eſſet , hę enim in tali con
ica humeſcunt. Ex CATO dano. Quali fratagemate homines, mortui Š videantur.
Vltis experimétis confirmatum repe rio fublimatum , ffue aqua vitæ cum fale
miſce tur, ac in patina ( ſublata qualibet alia lua ce ) accenditur in
cabiculo, nocturno tem pore, vbi homines reperiantur; fiquidem ipfi immobiles
fuerint, fpeciem mortuorús repræſentabunt. Pleriq; vt Aethiopes fin gant ,
lucernam accendunt oleo plenam, cum quo ſepia atramentum fit dilucum , fi we
calchantuni, aut ærugo, nec fine ratio ne:oftédit enim ,lux eorû colores, quæ
in iis sát quæaccédācur: oportet tamen iu cubi culorcliquas luces adimere, Nerein
VA No Nereidesfaciehumana dy venufta, prezi que fuifferepertas Ereides, quas
vulgus Birenas appela lat, plurimæ in locis maritimisinué tę funt;quodauté
cátusdulcedine nauigātes hein foporem perliciant, & capiant,nos. in lib .
1. de Hominis vita, abundedifferui mus, vbi de Tritonibus, Nereidibus, ho.
minibuſqs in maridegēribas, quos marinos vocant tractatur ; Poetarumq; fabulæ
eno . dantur, Vidithas Theodorus Gaza & Gee orgius Trapezont ius, homines
nagnæ e ruditionis : Gaza in Pelepomeno exorta maris tempeftate, Nereidem
proiectain in lidcore reperije viuentem , & fpirantem , ynleu hrniano,
facie decora , corpore fqua mis hirto ad pubem vſq , cætera autem ia
locuftæcaudam definebant: ad hanc viſen dam magnus fuit concurſus, illa tamen e
vac maefta , crebrog, ſuſpirio fatigata & frequentia hominum circumdata
gemitus dedit & lacrymas emiſit,quibusmacus mi. fericordia,ad mare deduxit,
vbimagno im petu fluctus fecauit , & ex oculis omnium cuanuit. Quid
Trapezontius, pleriqs. alii viderint, in loco cita. to narrauimus De Apunx
natura, earumque mirabiliſa gacitate . Tu quidem anceps fui in fcrutanda A
pummellificatione,foetu , & cera:nam & apud auctores magna reperitur
controuer. fia , num illæ ge nerent , & aliundeprolem habeant.Poft auem
exactum fcrutinium cu iufdam amici va lido experimento Ariftoter lis opinionem
veram eflecomprobaui;fiqui dem Apese floribus fauos conftruunt, exar borum
lacryma ceram fingunt, & mella ex aëris'rore captant.Hæ primum fauos confi
. ciunt,mox fotin collocant , ore calidum ſpirantes,vt vitain
recipiat.Mellificanræfta . te, & autūno cibi caufa ;mel autem autinale
cleatius eft.Foetus in vere ferotino debilis fit : nã & naiori ex parte
emoritur. Multi aiunt oliuas, & examinum copiam cógenerem ha . bere nataram
: nam fi altera augetur, alcera abundans fit: fi vna deficit ,altera deprimitur
ratio eft:nam mella ficcitates augent;lobo . lem verò imbres; quofit, vt
ſimuloliuæ , & sopia examinam fit. Vinorum aliquot existere genera natura
mirabilis. R aliquot vinorum genera mirabilis naturæ quod ? co A quod vua &
guftu , & fenfuà cæteris minime diſcrepanr, nec vinum á ymis; tamen quod
Heracliam Arcadiæ fit, viros reddicinfancs epotum , & mulieres fteriles:
& apudcabyni. am Achaiæ abortum facic: & in Thiffo vi num quoddam
lomaum producit; quoddam verò, vigiliam Ex Tbeophraſto lib.9. Plant.
Quoartificio ignem manibus abſque læfione tractare valeamus. Pud plerofque
fcriptores inueni, ig nem fine læſione poffe tractari , fi tri . tomaluauiſco
cum ouorum albumine , ma.. nus liniuntur,ac defuper alumen inducitur.. Hoc
autem experimentuin à Magno Alber to captum eſt, apud quem aliud legitur hu.
ius negotijartificium :fi enim Ichthyocolle, & aluminis æquales partes
capiuntur , & ad inuicem commiſcentur, fiacetum his ſuper funditur; quicquidtali
miſcellanea illitum in ignem proijcitur , vtique non comburie tür. Menftrua in
ſenio ferèquibufdam fæminés 46 cidere. Vàm fallax fit tum Ariſtotelis, tum ali
orum iudicium ,quodin mulieribuscir ca quadragefimum annum ,fiue quinquagefi
mum menftrua deficiant, quotidiana demone strat experiencia. Mulierem hic cognoui,
Qyour P7 Victoriam nomine , eamque honeftam & bene morigeratamshuic in anno
45.méftrua ceffarunt, & faufta valetudine vixit,cum au tem fexagefimum ferè
annum attingeret, ce teilli menfes rubei,bonique coloris redie. De vberague ,
quæ priusflaccida erant,more: virginum turgidula facta ſunt lactifque tan ta
copia impleta ,vt impulſu ferretur: quarez, vt puerulú filiæ fuæ lactaret
àmeadmonita eft. Alteram cognoui, quæ vfque ad annum 65.femper menftrua paffa,
& hodie viuit , & menftrua fingulis menfibus fuentia habet Hæcautem
raròcontingunt.. Bufonislapidem contra venena mirabileinha bere virtutem .
Pleriſque lcriptoribus excollitur lapiss ille terreſtrisinuenitur: ſiquidem
contra venena folo contactu valere expertü eft ; propterea inflationes abeftijs
venenatis illatas diſcute re, venenúq; elicere aiut.Scribit Lemnius, tu mores,
& dolores ex forieibus,araneis, vel pis,fcarabeis,gliribus,
aliifuevenenofis 2 . nimalibus caufatos fclo lapidis blaul do attritu.euanef
cere HORTVLVS GENIALIST 1 Aquarum Fluuios natur& mirabilis repe $ rire. N
multis locis aquarum exortas, mira cfficaciæ inuenirilegimus Scribit Arift. in
terra Aſsirithidæ aquas naſci , quas cum oues biberint,moxgs inierint, nigros
agnos generare. In Arandria dnos ineffe fluuios ad .. notauit, quorum alter
candorem , alter nio gritiem facit pecoribas:at Scamander am gis, quem Homerus
Xanthuniappellauit , fia uas reddere oues creditur . Mirabilers in concepta
imaginationis effe per rentiam Maginationis potentiam tam miram effe Phyfici
confitentur ve viſa per cóceptum in partu fæpiſsimè eluceſcant. Referam hi
ftoriain admirandam ex Ludouico Vives 12 ; de Ciuit.Dei de huius negotio
conſcriptam In Brabantia Buſco ducis quædam vrbs eft, in qua more eiufdem
Prouinciæ quodam die rempli vrbis feſtum celebratur, quo tempore varii ludi
apparantur.Sunt aliquot, qui ſtato die diuorum perſonas induunt:nönulli vera
Dæmonů.Ex his vnus cū viſa puella exarfif. fet, & demúfaltado ſe ſe
recepiſſet , & apreprā Vt er at perfonatus vxore fua in le &tum con .
ieciſiet,ſe exeaDanonem gignere velle di.. cells D cens , concubuit , & concepit inulier:
clim autem in partuinfantem peperiffet,'s fimul ac primum editus eft, Calcitare
cæpit forma, quali Dæ nones pinguntur. Dentium .stupores à portulaca confeftim
amoueri : Entium ftupores,qui ab acidis.edulijs Connarci confueuere,ex aqua aut
luc co , vel frondibus portulacæ commanfis , quam citifsimèdiffoluuntur.Ipfe
cum qua- . damæftate cùm fiti maxima , tùm dentium : ftupore affligeretur,cömanfis
ipfius frondi bus , &à fit , &à ftupore fubito liberatussú, Ab amico
quodam audiui parculacæ fuccúi collinitum ,abfque dubio verrucas exter
minare,mihiautem experiundi locus haudi adhuc datus eft. Ex Aphrodiſeo ,
Ceraferum aquam ftillatitiam in Epilepfia ! fummumeſſeremedium . Ninitis
experimentis Ceraſorum aquam 10 laccurrendis Epilepticis conprebari reperio
propierea à loanneAgricola in lib .. Herbar.maximèetiam extollitur . Qua pro
vita producenda inter arcana natu 12 connumerentur. APudreru naturalium
(crucatores acer rimos inueni, idque in arcanis conſer wari Hellebori nigri
fólia Saccharo cómilta degluci INTHE HORT:VL VSGEN I AL-deglutientem ad
iuglandis magnitudinenia in offenſam valetudinem, ad ſenectutem vſ. que
conſeruari.InfuperSilicem ignitum lin . teiſque parum madidis inuolutum ,&
pedi. bus applicitum ,pernicioſos valetudinis vaki pores extrahere.
Quoartificio in mulieribuscrinesdenfiores, copiofiores comparare paluamus. Nter
ſelectiſsima prælidia, quæ ad capil lorum copiam generaodam ineffe cre duntur
,Maluæ radix connumerari poteft :: fi enim caput mulierum livinio lauatur in
quo elixa fit maluæ radix, & deinde fucco maluæ crines, inungantur,
profecto ya bercim prouenient, & cicila fimé. Giulio Cesare Baricelli (n.
San Marco dei Cavoti) è un filosofo. De hydronosa natura sive de sudore
umani corporis Hortulus genialis Thesaurus secretorum De lactis, seri, butyri
facultatibus et usu Indice baricelli — implicatura sudorosa —
de hydronosa natura — de medicinae praestantiae — amazones cur mammas dextras
resecaverint — olearum sterilitatis praesagium — nili flumines proprietas — de
mundi creatione — murium sagacitas — pluviosa tempestatis prognostica —
agricolas non semper tempestates et serenitates praedictunt — valeriana miravis
contra epilepsiam — transformationes hominum in bestias non esse reales —
daemonis astutia apud indos — quid picus de scientiarum varietatis
sentiret — subditos principis vitam ut plurium imitari — rutam et allium
serpentibus adversari — animalis oriri et vivere posse in igne compertum est —
lacus asphaltritis mirabilis naturae — pisces marinos salubriores et rapidiores
fulminibis esse — mulieris — hominos — cibus — gigantes in orbem —
mulieres — excellentia — falsissimum est salamandran in igne vivere posse —
sabbatici — lactandis infantibus — menstrualis — pharmacum — animal — tauri —
faxa — aegypti reges — sterilitatis praesagia — aeris salubritatem — lintea —
hominibus — hydropes — plenilunio — nationibus — romulus — serpentaria —
echinum — animi pudorem — animalia — alexandri morti — sanari — cervi sudori —
vires — balnei — adam — rutam — verbenam — anima — aeris — sulphuris —
caraba — baccas — linguam — galli — homines — magis — fuco — cacoethica —
vipera — traulos — morbos — lupi — vitrum — pregnantes — periculo — pro
corporis — corporum hominum — utero — paterna — araneus telas — menstruali —
rutam — corpora — achatis — hominibus — hominem — utero — praesagium —
utero — tritico — scorpionum — hominibus — bubulo — epilepsiam — arbores
lapides — bardana — literas — homines — hominibus — hominibus — filios
parentibus signum — mare rebrum — hydrargyri — lupum — epilepsia — flatu —
corpora — pestilenti — efficacia — animalium — seminis — basilicum — torpedinem
— animalia — armenia — febre — lumaca — amantissimam — astronomiam — martisque
— passione — cantharides — adagium — parere fetus — iucundi —de amoris origine
— aqua — virtutes — sagacitas — lapidis — naturam — partus — amorfus — equorum
— spectacula — marinum vitulum — epilepsia — vinum — homines — homines — cervi
— gagatis — epilepticos — hominum — laudano — mortem — pacto — a viro —
hepaticos — mortem — mithridatis — ossa — bryonia — herpetes — vina alba —
flores — absynthium — chalcantho — coralio — lethargicos — infantes — prunellae
— catuli — gallum — corios — artificio — theodorus — radicem — dilligentes —
canicula — quatuor elementis — phreneticos — digitum — carnes — vicera —
testiculis — dentium — hippocrate — animalibus — apii — satyrii
testiculum — hominibus — radicem — hominis — extractum — praesidia — hominem —
antidotorum — cancri — quomodo — morbi — animantium — pulchritudine —
septentrionalibum — hemorraghia — lingua ardor — aegyptios — gentium —
solis — animalium — cervorum — masculinum fetum — mirandulani — hydrargyro — incognita
— tempestates — epiro — hecla — hominum — galenum — graecos — cane — athritide
— lionem — iumenta — acutis — acetum — piscis — foeminas — corporis —
alexandrum — hominum — ruditas — angina — capillos — volucrum — agricolas
— galege — infantis — oryalum — homines — lapides — collegium — alexandrum —
laparhiorum — feminum — aegyptios — methodo — olivarum — admirandu — millepedum
— frequentem — mulieres — daemonum — carduum — infantes — menstrualem —
corpori — medicina — animalia — unicornu — mulierum — naturalem — febris —
precognosci — medicis — masculorum — hydrargiri — bryonia — consolidanda —
chymicam — corpus — hominum — venenum — semen — lupos — homines — luna —
leonardi — hominibus — polypidium — ibidis — mulieres — industria — corpora —
gallicam — hominis — hominibus — regem — homines — aquilone — usum — usum —
oleo — genus — leones — artificio — mergum — lacertas — educandis — artificio —
serpentes — virginitatem — virginale — vitellos — humana vita — vena — materia
— alexandri — mulieres — hydrophobos — puerorum — labiorum — utero —
semine — aegyptorum — taxi — epilepsiam — aspides — infantes — vitrum — homines
— vini — syrium — nuptis — agreste — hydrophobiam — hepatis — viventes —
arundinem — cynanchem — parere filios — vino — praesagia — gallinarum — aquam
— mandragoram — corpora — vita hominibus — semina — infantium — vitam —
philomelam — castorem — duces — lingua — vinum — equorum — croci — hominis —
aspidum — hermaphroditos — imaginationis potentian — climactericos — inter
homines — carolum — animantia — liberos — garamantes — caminus — horologium —
infantium — praesagia — vinum — virorum — familiarem — romanos — ambarum —
tympaniam — venenum — toxica — socrati — magia — epistolam — aqua frigida
— menstruorum — lapides — homines — testiculos — humanam salivam — homines
ridendo — parthi — partum accelerare — serpentum — hydrargyrum — vim —
anginam — vermes — mamillis — lumbricos — infantis — elephantiasim — cyprinorum
— leporine — hydrargyrum — gravidas — homines abstemios — aristolochiam — alexandro
— morbis — creta — cyprini — calphurnius bestia romanus — aceto — oleum —
scythae — catellos — plurima — martis — robusta hominum corpora — equum —
homini lunae — mithridiatu — viscum — vites — betulae — haemorrhoidalem —
dentium dolores — sodomi — uterum — solis — virginum — praesagia — vitri —
aeris — homines — facie humana — apum natura — vinorum — ignem — menstrua —
virtutem — aquarum — in conceptu imaginationis esse potentiam — dentium
stupores — epilepsia — pro vita producenda — mulieribus — Giulio Cesare Baricelli. Keywords: sweat, il sudore umano,
sudore e la regola, stirgilo, amore, Socrate, Aristotele, controversia
sull’origine del sentiment dell’amore, Socrate, l’idea di causa in
Aristotele. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baricelli” – The
Swimming-Pool Library.
Baroncelli (Savona). Filosofo. Grice: “I like Baroncelli – he can be
hyperbolic – “Mi manda Platone,” surely he only requested! My favourite is his
‘compassione,’ which is ‘calco’ of ‘sumpatheia’ and therefore at the core of my
balance between conversational egoism and conversational altruism.” Flavio
Baroncelli (Savona) filosofo Nato e
cresciuto a Savona, si laurea in filosofia all'Genova nel 1969 con relatore
Romeo Crippa, di cui diventa assistente.
Insegna Storia dell'età dell'Illuminismo all'Trieste. Dal 1977 al 1981 è di nuovo a Genova, dove
tiene la cattedra di Storia della filosofia moderna. Nel 1981 diventa ordinario all'Università
della Calabria. L'anno successivo ritorna a Genova dove prende la cattedra di
Filosofia morale. Nel 1988 un grave
incidente motociclistico durante una vacanza in Turchia lo allontana per
qualche periodo dall'insegnamento e dalla ricerca, attività che riprende
all'inizio degli anni novanta come visiting scholar all'Madison, nel
Wisconsin. Nel frattempo collabora con
molti quotidiani e periodici, come La Voce di Indro Montanelli, Village, Il
diario della settimana, il Secolo XIX.
Tornato a Genova, diviene molto amico del filosofo Franco Manti,
segretario generale dell’Istituto Italiano di Bioetica. Riprende la vita
accademica per allontanarsene a causa della malattia che lo porterà alla morte
sopraggiunta nel 2007. Il pensiero di
Baroncelli ripropose un'etica planetaria alla luce del mondo globalizzato,
invitando a riconsiderare i valori e le identità storiche dei gruppi umani
occidentali riorientandoli a favore di un sistema di valori e di identità
individuali e culturali di tipo mobile e pluralistico. Ha qualificato le varie
culture come sistemi aperti in grado comunicare e di essere traslati o
esportati ovunque nel mondo, nella convinzione che gli esseri umani
appartengano tutti alla stessa specie e siano tutti abitanti dello stesso
pianeta. Pensiero e la ricerca
Profondamente influenzato da David Hume e dallo scetticismo inglese, si è
occupato in prevalenza di temi etico-politici come il razzismo, la tolleranza,
il liberalismo e il politically correct.
Altre opere: “Un inquietante filosofo perbene: saggio su Davide Home” (La
Nuova Italia, Firenze); “Sulla povertà, idee leggi e progetti nell'Europa
moderna, Herodote, Genova-Ivrea); “Il razzismo è una gaffe” “Eccessi e virtù
del "politically correct", Donzelli, Roma); “Viaggio al termine degli
Stati Uniti Perché gli americani votano Bush e se ne vantano” Donzelli, Roma); “Mi manda Platone, Il Nuovo
Melangolo, Genova Saggi "Giustizialismo" in Ragion Pratica, "Post-fazione"
a Lysander Spooner, No treason, "Etica e razionalità. Un finto
divorzio?" in Materiali per una storia della cultura giuridica, Il
riconoscimento e i suoi sofismi" in Quaderni di Bioetica, "Come scrivere sulla tolleranza" in
Materiali per una storia della cultura giuridica. Note
Franco Manti per la fondazione Pubblicità progresso, su
pubblicitaprogresso.org. 7 maggio
(archiviato il 7 maggio ). Franco Manti, Diversity, Otherness and the
Politics of Recognition , in Nordicum-Mediterraneum, 14, n. 2, Akureyri, , Ospitato su archive.is.
Citazione: To Flavio Baroncelli, a friend I met only too late, / whose lively
intellect, critical sense, friendliness / and clever irony I just had time to
appreciate. Info dalla pagina del
Dottorato in filosofia dell'Genova. Registrazione audio[collegamento
interrotto] dell'intervento a una trasmissione di Radio 3 dall'archivio RAI
Trascrizione di un dibattito con gli studenti sulla tolleranza dal Enciclopedia
Multimediale delle Scienze Filosofiche di Rai Educational Necrologi Archiviato
il 16 marzo 2007 in . di Giorgio Bertone, Vittorio Coletti, Salvatore Veca e
Pietro Cheli. Altri dello scrittore Bruno Morchio e dell'amico Daniele Miggino.
Sezione speciale della rivista Nordicum-Mediterraneum dedicata a Flavio
Baroncelli. Pagina di Wordpress su Flavio Baroncellicon alcuni testi inediti. Flavio
Baroncelli. Keywords: Home, etica, ragione, giustizia. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Baroncelli” – The Swimming-Pool Library.
Barone (Torino). Filosofo. Grice: “I like Barone, but I’m not sure
he likes me! You see, in Italy, there’s ‘scienze filosofiche,’ and ‘scienza’
was indeed a way to describe philosophy! But at Oxford, you have to take the
great go! Lit. Hum., and I doubt Barone did! – ginnasio e liceo, as the
Italians have it! Therefore, his views on ‘filosofia e linguaggio,’ never mind
his rather pretentiously titled ‘logica formale,’ ‘logica trascendentale,’
‘algebra dela logica,’ etc. have little to do with, well, Italian!” Laureato in
Filosofia a Torino nel 1946 come allievo di Augusto Guzzo e Nicola Abbagnano,
visse a Viareggio. Professore di Filosofia teoretica all'Pisa (1957), dove fu
preside della facoltà di Lettere e filosofia dal 1967 al 1968, fu poi docente
di Filosofia della scienza (1987) nonché direttore dell'Istituto di Filosofia
nella stessa università (1960-80). Insegnò anche Filosofia morale alla Scuola
Normale Superiore di Pisa dal 1958 al 1974.
Si dedicò soprattutto a studi di storia e filosofia della scienza,
pubblicando numerosi libri. Nel 1979 curò l'edizione italiana delle opere di
Niccolò Copernico. Socio nazionale dell'Accademia delle scienze di Torino (dal
12 febbraio 1985), della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in
Napoli, e dell'Accademia Nazionale dei Lincei, a Milano fu presidente del
Centro del C.N.R. di studi del pensiero filosofico del Cinquecento e del
Seicento in relazione ai problemi della scienza. Pensiero Particolarmente interessato alla
filosofia di Nicolai Hartmann, Barone ne trasse spunto per un confronto tra la
dottrina realistica e quella neoidealista. La sua riflessione filosofica si
sarebbe poi focalizzata sui problemi epistemologici e della filosofia della
scienza. Come pubblicista affrontò temi
etico-politici sul rapporto tra individuo e società dal punto di vista della
ideologia liberale e liberista. Il tema
principale delle opere di Barone riguarda la filosofia della scienza e la
storia della scienza e della tecnica. Si deve a lui la prima pubblicazione in
Italia di una monografia sulla filosofia neopositivistica. Il suo pensiero si contraddistingue per lo
stretto rapporto tra epistemologia e storiografia della scienza, settore,
questo, in cui Barone ha preso in particolare considerazione il tema della
nascita dell'astronomia moderna, da Niccolò Copernico a Keplero e Galilei. Intorno agli anni sessanta, inoltre, Barone
si è dedicato con particolare attenzione agli sviluppi culturali,
epistemologici e filosofici della nascente informatica. Altre opere: “L'ontologia di Nicolai
Hartmann” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Rudolf Carnap, Edizioni di
Filosofia, Torino); “Wittgenstein inedito, Edizioni di Filosofia, Torino); “Il
neopositivismo logico, Edizioni di Filosofia, Torino); “Assiologia e ontologia:
etica ed estetica nel pensiero di N. Hartmann, Torino); “Leibniz e la logica
formale, Edizioni di Filosofia, Torino); “Nicolai Hartmann nella filosofia del
Novecento, Edizioni di Filosofia, Torino); “Logica formale e logica
trascendentale, I, Da Leibniz a Kant,
Edizioni di Filosofia, Torino); L'algebra della logica, Edizioni di Filosofia,
Torino) Metafisica della mente e analisi del pensiero, Edizioni di Filosofia,
Torino) 1748: viaggio di Hume a Torino, Edizioni di Filosofia, Torino); “Mondo
e linguaggi” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Determinismo e indeterminismo
nella metodologia scientifica” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Concetti e
teorie nella scienza empirica, Edizioni di Filosofia, Torino); “Nicola Copernico,
Opere (F. Barone), UTET, Torino); “Immagini filosofiche della scienza, Laterza,
Roma-Bari); “Pensieri contro, Società Editrice Napoletana, Napoli); Teoria ed
osservazione nella metodologia scientifica, Guida, Napoli); Verso un nuovo
rapporto tra scienza e filosofia, Centro Pannunzio, Torino); La fondazione
dell'ontologia di Nicolai Hartmann (F. Barone), Fabbri, Milano); Leibniz ,
Scritti di logica (F. Barone), Zanichelli, Bologna). Note Francesco Barone, Neopositivismo, in
Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani,
1979 Barone, Francesco, in
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Sito ufficiale, su francescobarone. Francesco Barone, su TreccaniEnciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Francesco Barone, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Francesco Barone, su BeWeb,
Conferenza Episcopale Italiana. Opere di
Francesco Barone, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Francesco
Barone, . David Hume, il filosofo della
non certezza di Francesco Barone, La Stampa, 26 agosto 19763. Addio a Barone il
filosofo che diffidava dei paradisi in terra di Dario Antiseri, Corriere della
Sera, 28 dicembre 200131, Archivio storico. Francesco Barone. Keywords:
assiologia, la semantica di Leibniz, la sintassi di Leibniz, logica matematica,
logica formale, logica trascendentale, logica aritmetica, Hume a Torino,
simbolo, logica simbolica, Leibnitii opera philosophica, assiologia ed
ontologia, mondo e linguaggio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barone” – The
Swimming-Pool Library.
Barone (Alcamo). Filosofo. Grice: “I like Barone; at last a priest
that takes Italian humanism SERIOUSLY!” --
Dopo avere finito gli studi teologici nel Seminario Vescovile di Mazara
del Vallo, fu ordinato sacerdote il 13 marzo del 1937. Frequentò, quindi, la
Pontificia Università Gregoriana di Roma dove conseguì la laurea in Filosofia
il 19 giugno 1946, trattando la tesi dal titolo: L'Umanesimo filosofico di
Giovanni Pico della Mirandola. Ebbe
subito la nomina di Canonico della Collegiata di Alcamo, poi dal 1949 al 1956
quella di Vicario foraneo e Visitatore dei Monasteri; dal maggio 1951 fu
nominato anche Canonico Onorario della cattedrale di Trapani. Nel mese di novembre 1956 fu pure nominato
Cameriere Segreto Soprannumerario di Sua Santità; fu quindi professore di
lettere e filosofia del Seminario di Mazara del Vallo e, per 16 anni, delegato
Vescovile alla dirigenza dell'Istituto Magistrale legalmente riconosciuto
"Maria Santissima Immacolata" di Alcamo. Per diversi anni, è stato anche Rettore della
Chiesa della Sacra Famiglia e della Badia Nuova; inoltre è stato membro del
Consiglio Presbiteriale diocesano e docente di Filosofia presso il Seminario
Vescovile di Trapani. Altre opere: “Il Santuario; Alcamo); “La Nuova parrocchia
di S.Oliva; ed. Bagolino, Alcamo); “Giovanni Pico della Mirandola profilo
biografico del celebre umanista; ed.Gastaldi, Milano-Roma); “L'Umanesimo
Filosofico di Giovanni Pico della Mirandola Studio del Pensiero Pichiano;
ed.Gastaldi, Milano-Roma); “Quattro saggi; ed. Accademia degli Studi
"Ciullo", Alcamo); “Donna IdealeIdeale di donna; ed. Accademia degli
Studi "Ciullo", Alcamo); “Didactica Magna di Comenius (traduzione
italiana); ed. Principato, Milano); “Scuola Libera, ed. Bagolino, Alcamo); “Il
Vero Maestro -Lineamenti di educazione; ed. Bagolino, Alcamo); “Verità e Vita;
ed. Cartografica, Alcamo, De hominis dignitate, di Giovanni Pico della
Mirandola, Firenze); “La Congregazione di Gesù Maria e Giuseppe nella chiesa
della Sacra Famiglia di Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo); “La più
bella preghiera, Alcamo); “Antologia pichiana: letture filosofico-pedagogiche;
ed. Virgilio, Milano); “La docta pietas, di Sebastiano Bagolino erudito
alcamese del sec.XVI; tip. Bosco, Alcamo); “Maria fonte di Misericordia e Madre
dei Miracoli Patrona di Alcamo; tip. Sarograf, Alcamo); “Dialogo con gli invisibili;
tip. Bosco, Alcamo). Note trapaninostra,//trapaninostra/libri/salvatoremugno/Poesia_narrativa_saggistica/Poesia_narrativa_e_saggistica_in_provincia_di_Trapani_02.pdf Tommaso Papa, Memorie storiche del clero di
Alcamo, Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo, 1968. Tommaso Papa, Memorie storiche del clero di
Alcamo, Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo, 1968.
trapaninostra,//trapaninostra/libri/salvatoremugno/Poesia_narrativa_saggistica/Poesia_narrativa_e_saggistica_in_provincia_di_Trapani_02.pdf.
14 giugno . Vincenzo Regina Tommaso Papa
305357714 Identities-305357714
Biografie Biografie Cattolicesimo Cattolicesimo Letteratura Letteratura Categorie: Presbiteri
italianiInsegnanti italiani del XX secoloFilosofi italiani Professore1914 2004
29 aprile 22 novembred Alcamod Alcamo. Giuseppe Barone. Keywords: umanesimo
toscano, pico, pichiano, pichismo, uomo, degno, la degnita dell’uomo. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Barone” – The Swimming-Pool Library.
Barsio (Mantova). Filosofo. Grice: “I like Barsio – he reminds me
of G.Baker – there he is, Baker, succeeding me – and an American! – as tutorial
fellow in philosophy at St. John’s, and dedicating his life to Witters – So
when reminiscing, in my “Predilections and prejudices” about them years, I
said, “God forbid that you dedicate your life to the oeuvre of a minor
philosopher like Witters – it’s good to introject into a philosopher’s shoes as
you attain to grasp the longitudinal unity of philosophy, but look for a
non-minor pair of shoes!” – “Barsio is a radically minor philosopher – in that,
he never had to grade – I always hated grading and seldom did it! – since he
lived under the Gonzagas at Mantova – and he just phiosophised to the sake of
the pleasure he derived from it! My favourite is his elegy to his enemy,
Pomponazzi – but his satirical curriculum vitae is fantastical, but possibly
true!” -- Noto anche come Vincenzo Mantovano, frequentò le corti del marchese
Federico II Gonzaga e di sua moglie Isabella d'Este, alla quale pare avesse
dedicato il poemetto Silvia e la corte del marchese di Castel Goffredo Aloisio
Gonzaga, al quale dedicò il poema latino Alba. Studia filosofia a Bologna.
Altre opere: “Silvia, poemetto in tre libri, Pamphilus; Alba, dedicato al
marchese Aloisio Gonzaga, signore di Castel Goffredo; Labyrintus, dedicato a
Federico II Gonzaga. Ireneo Affò, Vita di Luigi Gonzaga detto Rodomonte, 1780,
Parma., su books.google. 18 luglio .
Gaetano Melzi, Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori
italiani, Milano, 1859., su books.google. Giuseppe Coniglio, I Gonzaga, Varese,
1973., su books.google. Vincenzo Barsio,
in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. ICCU. Vincenzo Barsio., su
edit16.iccu. Marsio. Vincenzo Barsio. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Barsio” – The Swimming-Pool Library.
BARTOLI search.gianpaolo --
Barzaghi (Monza).
Filosofo. Grice: “Barzaghi is a genius; the Italians hate him! In his
“Compendio di storia della filosofia,” there’s no mention of Cicero!” – Grice:
“Barzaghi is the Italian Copleston – what is it with religious minds – cf.
Kenny – that have this inclination towards the longitudinal unity of
philosophy?!” – Grice: “Barzaghi just ignores the most prosperous period in
Roman philosophy; not so much Romolo, but whatever happened in Rome after that
infamous ‘embassy’ of Carneade, an Academian, Critolao, a peripatetic, and Diogoene
di Celesia, a stoic!” -- Direttore della
Scuola di anagogia, fondata dal cardinale Giacomo Biffi. Discepolo del filosofo
Gustavo Bontadini e frate domenicano, è stato l'interlocutore privilegiato di
Emanuele Severino sulla questione di Dio e del cristianesimo. Nella
sua opera Oltre Dio, Barzaghi si interroga dapprima sull’essenza del
cristianesimo per giungere ad affermare la necessità, per il credente, di
assumere alcune fondamentali posizioni filosofiche riguardo la vera
comprensione della realtà: «Se il Cristianesimo è essenzialmente la
partecipazione della vita di Dio, cioè della vita eterna, per comprenderlo
occorrerà porsi dal punto di vista di Dio, cioè dell’eterno» (p. 13). Secondo
Barzaghi, l’Essere assoluto «non può essere inteso come qualcosa accanto ad
altre cose, e conseguentemente diviene il punto di vista rigoroso per
l’ispezione del tutto» (p. 17). In questo senso, la filosofia di Emanuele
Severino, che si presenta come alternativa al teismo, offre in realtà per
Barzaghi il fianco a un nuovo percorso argomentativo in favore dell’esistenza
di Dio (un Dio però non inteso come oggetto: da qui il titolo dell’opera, che
evoca esplicitamente un’espressione di Dionigi): se ogni cosa è eterna, e tale
dunque è anche il suo apparire, esso deve continuare ad apparire, eternamente,
anche quando “non appare”. «Dunqueafferma il filosofo –, se tale apparire non
permane nell’orizzonte dell’apparire che è la mia coscienza, perché consta
l’apparire-scomparire dell’ente, deve comunque continuare ad apparire […] in
modo determinatissimo, dunque alla sola scienza di Dio cui eternamente appaiono
gli eterni. Non ammettere questa scienza di Dio, cioè Dio, significa ammettere
che l’apparire, che è pur un non-niente, sia un niente nel momento in cui non
appare più determinatamente, individualmente» (p. 24). Questa scienzachiamata
nel linguaggio tomista scientia Dei visionis«ha la fisionomia dell’apparire
infinito di cui parla Severino nei suoi scritti» (p. 17). Nel pensiero
barzaghiano, il punto di vista sub specie aeternitatis (dal punto di vista
dell’eternità) diventa la condizione imprescindibile di tutta la riflessione
teologica e filosofica. In teologia, solo questa prospettiva riesce a rendere
metafisicamente plausibile l’affermazione rivelata dell’«Agnello immolato nella
stessa fondazione del cosmo» di cui parla il libro dell’Apocalisse, così da
poter parlare di una «inseità redentiva dell’atto creatore». Nella riflessione
filosofica, poi, la prospettiva sub specie aeternitatis consente di avere uno
sguardo «dialetticamente onninclusivo», per cui ogni ente rispecchia in sé
l’eternità del tutto e di ogni altro ente secondo la nozione di exemplar.
Ne Il fondamento teoretico della sintesi tomista, Barzaghi propone appunto
l’idea di exemplar come cardine speculativo, approfondendo e oltrepassando la
proposta di S. M. Ramírez, neotomista spagnolo (1891-1967) di individuare nella
“dottrina dell’ordine” la struttura più sintetica di tutto il pensiero di
Tommaso d'Aquino. L’exemplar rappresenta «il minimo di complessità per muoversi
nel massimo della complessità» (p. 31). Ma per compiere questa operazione di
analisi, occorre esprimersi attraverso l’analogia, «riflesso logico
gnoseologico dell’ordine ontologico [e] mezzo inventivo ed espressivo del
conoscere» (p. 47), che acquisisce conseguentemente una notevole importanza nel
pensiero di Barzaghi. Nell’esemplare (exemplar) si trova il centro della
spiegazione causale, dal momento che in esso si presenta in modo simultaneo
tutto l’ordine che lega le cause aristoteliche: il fine, l’agente che intende
il fine, la forma implicata, e la materia che la deve accogliere. E l’esemplare
trascende la mera dimensione funzionalistica: in quanto contiene tutto
(compreso l’esemplante nel suo riferirsi all’esemplato), è una totalità, e
possiede quindi caratteristiche di liberalità e assolutezza: è «sottratto alla
dipendenza e al dominio» (p. 90). In una frase, che sintetizza bene il punto di
vista anagogico della filosofia e della teologia di Barzaghi: «Dio, conoscendo
se stesso, conosce tutte le possibili realizzazioni similitudinarie della
propria essenza, cioè tutte le essenze create e creabili» (p.
96). Seguendo infine l’esempio specifico di Bontadini, suo maestro, egli
fa risiedere nell’atto creatore intemporale la consistenza della totalità delle
cose, cioè delle creature, giacché queste sono «nulla come aggiunta a Dio» (p.
98). Secondo tale prospettica dell’exemplar, si può così realizzare, senza
aporie dogmatiche, la visione del Deus omnia in omnibus (Dio tutto in tutto).
Il dibattito con Severino Il primo dibattito fra Giuseppe Barzaghi ed Emanuele
Severino avvenne nel 1995 nella forma di disputa tra le posizioni della
teologia cattolica tomista e quelle della filosofia severiniana. Il dibattito
trovò, al di là delle aspettative degli organizzatori, alcuni punti di
possibile convergenza, che portarono il filosofo-teologo alla pubblicazione di
Soliloqui sul divino (1997), in cui l’autore cerca per la prima volta di
rileggere le intuizioni di Severino in un modo che egli definirà più tardi
voler essere quello con cui Tommaso d'Aquino, filosofo e teologo cristiano,
leggeva e faceva tesoro dell’insegnamento filosofico di Aristotele, filosofo
pagano. Ciò rese il rapporto fra i due pensatori un dialogo di reciproca
conoscenza e stima. Il 2 novembre 1999 Severino dedicò a Barzaghi un articolo
sul Corriere della sera, in cui indicava il sacerdote monzese come il fautore
del più interessante tentativo di riportare la sua filosofia al contesto
cristiano da cui si era volontariamente staccato. In tale articolo, il filosofo
ateo definiva “aperto” il dilemma sulla possibilità o meno per il cristianesimo
di porsi come casa abitabile per l’uomo contemporaneo, a patto però di
diradare, sull’esempio di Barzaghi, la nebbia che circonda il discorso religioso
attraverso una ripulitura dei concetti a partire dal punto di vista
dell’eterno. Seguirono poi altri dibattiti pubblici, come quello del 29
novembre 2001 a Milano e quello del 12 giugno
a Bologna. Altre opere: “Metafisica della cultura” (Bologna, ESD);
“L’essere, la ragione, la persuasione, Bologna, ESD); “Diario di metafisica.
Concetti e digressioni sul senso dell’essere, Bologna, ESD); “Soliloqui sul
divino. Meditazioni sul segreto cristiano, Bologna, ESD); “Philosophia. Il
piacere di pensare, Padova, Il Poligrafo); “Oltre Dio, ovvero omnia in omnibus.
Pensieri su Dio, il divino, la Deità, Bologna, Barghigiani); “Maestro Eckart,
Cinisello Balsamo, Ed. San Paolo); “Anagogia. Il Cristianesimo sub specie aeternitatis,
Modena, ETC); “Lo sguardo di Dio. Saggi di teologia anagogica, Siena,
Cantagalli); “Compendio di storia della filosofia, Bologna, ESD); “Compendio di
filosofia sistematica, Bologna, ESD); “La Fuga. Esercizi di filosofia, Bologna,
ESD); “L’originario. La culla del mondo, Bologna, ESD); “Il fondamento
teoretico della sintesi tomista. L’Exemplar, Bologna, ESD); “La maestria
contagiosa. Il segreto di Tommaso d’Aquino, Bologna, ESD); “Il Riflesso,
Bologna, ESD); “Lezioni di dialettica, Bologna, ESD); “Il bene comune secondo
S.Tommaso d’Aquino, in “Communio” L’alterità tra mondo e Dio: la verità
dell’essere e il divenire, in “Divus Thomas”, Ambientazione teologica del concetto
di “gioia”,in I. Valent , Cura e la salvezza. Saggi dedicati a Emanuele
Severino, Bergamo, Moretti & Vitali); “I fondamenti metafisici della
mistica, in M. Vannini, Mistica d’oriente e occidente oggi, Milano, Paoline, La potenza obbedienziale dell’intelletto
agente come chiave di volta del rapporto fede-ragione, in “Angelicum”, Articolazione
teoretica della teologia trinitaria in chiave tomistica, in A. Petterlini, G.
Brianese, G. Goggi , Le parole dell’Essere. Milano, Bruno Mondadori, Desiderio
e abbandono. Maestro Eckhart e Tommaso d’Aquino: le due facce di un'unica
metafisica, in C. Ciancio , Metafisica del desiderio, Milano, Vita e Pensiero);
Anagogia epistemica, in R. Serpa , Antropologia, metafisica, teologia. Studi in
onore di Battista Mondin, filosofo, teologo, ciclista, Bologna, ESD); L’unum
argumentum di Anselmo d’Aosta e il fulcro anagogico della metafisica. Essere
logici nel Logos, in T. Rossi , Figurae fidei. Strategie di ricerca nel
Medioevo, Studi, Roma, Angelicum University Press, Anagogia: voce in
“Enciclopedia Filosofica”, Milano, Ed. Bompiani, L’epistemologia teologica di
Tommaso d’Aquino. Analisi e approfondimento, in G. GrandiL. Grion , Rivelazione
e conoscenza, Soveria Mannelli, Rubbettino,L’intero antropologico. Con Gentile
oltre Gentile verso una rifondazione metafisica dell’antropologia tomista.
Ovvero le virtualità tomistiche del discorso filosofico sull’autocoscienza e la
corporeità umana, in “Divus Thomas”. Il luogo poetico e contemplativo del
sapere filosofico-teologico. L’anima del giudizio scientifico, in “Divus
Thomas” Mistica cristiana come estetica assoluta, in Mistica forum, Bologna, Lombar Key, Fenomenologia,
metafisica e anagogia, in “Divus Thomas”, Il bisbiglio del “Logos” e il suo
riflesso nella ragione, in “Divus Thomas”, Il destino sempiterno dell’Occaso.
L’inseità mistica della ragione, in A. Olmi , L’eredità dell’occidente. Cristianesimo,
Europa, nuovi mondi, Firenze, Nerbini, La commozione come filosofia del valore.
Saper nuotare negli affetti. L’ambiente invisibile della vita cristiana: il
Fondamento, in V. Lagioia , Storie di invisibili, marginali ed esclusi, Bononia
University Press, Bologna, Abitare teologicamente la natura. Lo sguardo
metaforico di Tommaso d’Aquino. Teoresi e struttura. Riflessioni e
approfondimenti sulla rigorizzazione bontadiniana, in “Divus Thomas” Creazione
dal nulla o relazione fondativa, in S. PinnaD. Riserbato Fenomeno & Fondamento. Ricerca
dell’Assoluto. Studi in onore di Antonio Margaritti, Città del Vaticano, Ed.
vaticana, Anagogia e teoria del fondamento, in “Divus Thomas” Metafora. La
trasparenza nella trasposizione, in M. RaveriL. V. Tarca, “I linguaggi
dell’Assoluto, Milano, Mimesis, , L’eternità dell’essente in teologia, in G.
GoggiI. TestoniAll’alba dell’eternità”. I primi 60 anni de ‘La Struttura
Originaria’, Padova, Padova University Press, Dibattito con E. Severino, in
“Divus Thomas” . Il quadro anagogico e i segreti della musica di J. S. Bach. La
Ciaccona e il Contrappunto XIV de L’Arte della Fuga, in “Divus Thomas” 2
(), 13-27. Note A. Postorino, La scienza di Dio. Il tomismo
anagogico di Giuseppe Barzaghi... Data
l'importanza dell'anagogia nel pensiero di Barzaghi, gli è stata commissionata
la stesura dell'omonima voce sull'Enciclopedia filosofica (Bompiani 2006),
nonché, sul versante teologico, la voce «mistica anagogica» sul Nuovo
dizionario di mistica dell’Editrice vaticana.
RaiCultura: Dio e il concetto filosofico di eternità del Tutto Dialogo tra Emanuele Severino e Giuseppe
Barzaghiparte 1 e parte 2 E. Severino,
Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa, Articolo pubblicato sul
Corriere della Sera del 2 novembre 1999
Dionigi, I nomi divini (testo critico di M. Moranicommento di G.
Barzaghi), Bologna, ESD, , II, 3.
All'alba dell'eternità. I primi 60 anni de 'La struttura originaria'
(UniPa) Apocalisse 13, 8 Cfr. G. Barzaghi, Lo sguardo di Dio. Nuovi
saggi di teologia anagogica, Bologna, ESD, ,
157-270 Santiago María Ramírez
op, De ordine placita quaedam thomistica, Salamanca, San Esteban, 1963. G. Barzaghi, Lo sguardo di Dio. Saggi di
teologia anagogica, Siena, Cantagalli, 200333. UniPdL’eternità
dell’essente RaiScuola: Giuseppe
Barzaghi. Dio e il concetto filosofico…
Si veda ad esempio: E. SeverinoG. Barzaghi, L’alterità tra mondo e Dio:
la verità dell’essere e il divenire, in: “Divus Thomas” 3 (1998), 57-81.
E. Severino, Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa Dialogo Severino-Barzaghi a Milano Giornata di studio dello Studio filosofico
domenicano di Bologna RaiCultura.
Giuseppe Barzaghi, Dio e il concetto filosofico di eternità del Tutto su
raicultura. Interviste ai filosofi: Giuseppe Barzaghi su youtube.com. Giuseppe
Barzaghi. Keywords: ana-gogia, il quadro anagogico, anagogia, greco ‘anagogia’.
Implicatura storica, la porta di velia, girgentu, l’implicatura di milesso, il
segno di boezio, filosofia italiana. Scuola di anagogia, Bologna, fidanza,
Aquino, filosofia romana, carneade, l’ambassiata greca a Roma, filosofia, la
scuola di Crotone, l’impicatura di Gorgia di Leonzio. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Barzaghi” – The Swimming-Pool Library.
Barzellotti (Firenze). Filosofo. Grice: “The good thing about
Barzellotti’s treatment of Cicerone’s dialettica is that he pours in all his
expterise on two fields: Italian mentality, Roman mentality – so he can
understand, in a way an Englishman cannot, the way Cicerone dealt with the
‘dialectic,’ Athenian dialectic, if you wish, and turned it into a ‘Roman’
dialectic --. He of course never considers English interpreters, only German!
And refutes them!” -- “You’ve got to love Barzellotti – he is critical of the
idea of ‘Italian philosophy,’ but not of what he calls ‘The Oxcford school of
philosophy,’ – Philosophy has no country-tag; she belongs to humanity; a
DOCTRINE, or a school, may have a ‘national’ identification – And part of the
problem with Italian philosophy is that there was Italian philosophy before
there was Italy!” Grice: “My favourite is his tract on Cicero, who he sees as
an Italian!” -- Senatore del Regno d'Italia nella XXII legislatura. Allievo di
Terenzio Mamiani e di Augusto Conti, entrambi filosofi spiritualisti, si
professò poi seguace del Neokantismo. Si interessò soprattutto alla storia
della filosofia con particolare riguardo ai problemi di psicologia artistica e
religiosa. Ebbe la cattedra di Filosofia morale alle Pavia nel 1881 e di
Napoli, nel 1887. Nel 1896 divenne professore di Storia della filosofia
all'Roma. Fu ammesso all'Accademia nazionale dei Lincei nel 1899. Nel 1908 fu
nominato senatore del Regno d'Italia. Fu
iniziato in Massoneria nella Loggia Concordia di Firenze, appartenente al Grande
Oriente d'Italia. Altre opere: “La morale
nella filosofia positive” (Firenze: M. Cellini); “La rivoluzione italiana” (Firenze:
Successori Le Monnier); “La nuova scuola del Kant e la filosofia scientifica”
(Roma: Tip. Barbera); “David Lazzaretti di Arcidosso (detto il santo), Bologna:
Zanichelli); “Monte Amiata e il suo
profeta, Milano: Fratelli Treves); “ “Santi, solitari, filosofi: saggi
psicologici” (Bologna: Nicola Zanichelli); “Studi e ritratti, Bologna:
Zanichelli); “Taine, Roma : Loescher); “L'opera storica della filosofia, Palermo:
R. Sandron). Note Vittorio Gnocchini, L'Italia
dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma, 200526.
Virginia Cappelletti, Giacomo Barzellotti, in Dizionario biografico
degli italiani, 7, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1970. 20 novembre . Giacomo Barzellotti, in
Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1930,
giacomo-barzellotti. 20 novembre . Altri progetti Collabora a Wikisource
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Horizons Unlimited srl. Opere di Giacomo Barzellotti, . Giacomo Barzellotti, su Senatori d'Italia,
Senato della Repubblica. Filosofia Filosofo
del XIX secoloFilosofi italiani Professore1844 1917 7 luglio 19 settembre
Firenze PiancastagnaioAccademici dei Lincei. Se questa
ricostruzione, che vengo tentando, del movimento filosofico nella seconda metà
del secolo XIX in Italia,dovesse rigida mente obbedire alle leggi di una storia
della filosofia,alcuni scrit tori,che rientrano nel nostro quadro,ne andrebbero
certamente esclusi. Lo notammo a proposito di T. Mamiani;e torna opportuno
dichiararlo per Giacomo Barzellotti. La prima legge della storia della filosofia
è, che il suo oggetto è costituito dal pensiero filosofico, ossia dalla
metafisica, o concezione della realtà, che voglia dirsi.E però non potranno far
parte di essa gli spiriti che a questa conce zione non abbiano comunque
lavorato,o che non ne abbiano sentito il bisogno o che non ne abbiano avuto le
forze. Il Mamiani non ne ebbe le forze, benchè vivamente desiderasse di
pervenire a una filosofia, e ben presto creasse a se medesimo l'illusione di
esservi pervenuto. Il Barzellotti pare invece che non abbia sentito il biso gno
; e, ingegno letterario anche lui, abbia cercato nell'attività este tica
piuttosto che nella speculativa il vanto di scrittore : più accorto in ciò e
sia detto a sua lode del Mamiani, che per voler essere quel che non era, non fu
nè anche quel che fino a un certo segno,avrebbe potuto essere. Il
Barzellotti, invece, è stato uno degli scrittori italiani più noti e più letti
dell'ultimo trentennio del secolo: il suo nome può dirsi a buon dritto che sia
divenuto popolare : il solo forse tra quelli di scrittori di cose filosofiche.
Chi non ha letto i due volumi di saggi pubblicati dallo Zanichelli : Santi,
solitari e filosofi (1) e Studi e (1)Santi, sol.efil., saggi psicologici,
Bologna, Zanichelli,2.a ediz.,1886. ritratti?(1).A questa popolaritàegliappuntoaspirava,consciodelle
attitudini del suo ingegno; e ha messo da parte i problemi, a cui non era
nato. Li ha messi da parte come fanno tutti quelli che limettonodaparte,--negandon
e il valore. Ma nell'averlimessi intanto da parte per
suo conto è il suo merito e il segreto della sua fortuna
letteraria. Rileggiamo una confessione, che è nella prefazione ai Santi,
solitari efilosofi: « Più d'una volta al sentirmi chiedere quasi come tessera
d'ingresso ai posti distinti dell'insegnamento o al favore di certi
cenacoli letterari o filosofici una di quelle professioni di fede assoluta nei
dommi di qualche sistema,ho pensato involontariamente a quelle domande che le
signore fanno spesso nei giuochi di sala o nei loro albums profumati, mettendo
vi in mano illapis per la risposta:-- Guardi, mi faccia ilpiacere di dirmi o di
scrivermi qui, subito,che cos'è l'amore,e poi che cosa ella pensa dello
Shakespeare epoianche,secrede, del Goethe;ma chelarispostasiabreve,la prego,non
più che dieci righe,perchè,quaggiù,vede,ha da seri vere anche la mia
nipotina ». Vale a dire:il Barzellotti ha bensì aspirato ai posti
distinti dell'insegnamento filosofico.C'era avviato,era quella la sua car
riera:e l'ha percorsa ormai tutta con onore,fino alla cattedra di storia della
filosofia nell'università di Roma ; ma egli non ha potuto mai persuadersi
che per occuparsi di filosofia bisognasse aver fede assoluta in un sistema:che
per mangiar frutta,direbbe Hegel, bi sogna contentarsi di mangiare
ciliege,pere,uva ecc.Non che pro prio abbia ricusato la filosofia, in generale.
La sua filosofia l'ha avutaanche lui; ma «diametralmente opposta»
aquelladichigli venne sempre chiedendo a qualesistemaegliaderisse;opposta
«appunto in questo: che il suo resultato più sicuro, e ormai consentito da
quanti oggi vivono la vita intellettuale dei nostri tempi, si è la
dimostrazione critica dell'impossibilità di chiuder la mente umana inunaforma
sistematica d'interpretazione dell'universo da potersi dire definitiva per la
scienza».Un'opposizione,come puòvedere chiunque abbia studiato con mente
filosofica la storia della filosofia, affatto illusoria:fondata sopra quella
confusione dell'universale e del particolare (per rispetto al concetto della
filosofia) messa in canzonatura da Hegel nel luogo citato dell'Enciclopedia. In
realtà, nessuna forma sistematica ha voluto mai essere definitiva; ma
s'è (1) St. e ritr., ivi, 1893. sforzata di organizzarsi a sistema,
per essere qualche cosa di filoso fico, per vivere nel pensiero, che non può
esser pensiero senz'esser uno. E lo stesso Barzellotti nota una volta che
perfino il Kant,il grande avversario dei sistemi,costrui anche lui la sua
Critica in forma complicata ma strettamente organata di sistema. E che
questo orrore dei sistemi significhi, pel Barzellotti,non negazione critica
della metafisica (com'egli, si vedrà,avrebbe voluto significasse), ma, a
dirittura, liquidazione,anzi evaporazione della filosofia, negata nella sua
universalità perchè negata in tutte le sue forme particolari;loattesta,non
foss'altro,ladichiarazioneseguente: che il valore intimo di cotesta sua
superstite filosofia « sta tutto nel penetrar ch'essa fa oggi del suo spirito
critico i metodi e la parte più alta delle scienze naturali e matematiche non
meno che delle morali».Sit diva, dum nonsitviva.L'ideale delfilosofo,Helm holtz
(tante volte citato dal Barzellotti): un fisico. Voltando,quindi,in
effetti le spalle alla filosofia,ilBarzellotti sentiva bene di non dover
riuscire ostico ai nemici della filosofia, ossia agl'ignoranti di filosofia. Le
sue idee intorno a questo punto della secolarizzazione delle menti,
riescono molto interessanti e istruttive, perchè aiutano a intendere tutta la
psicologia dello scrit tore:« Tra noi in Italia,oggi,lo so da lunga
esperienza,solo a far balenare un momento sul frontespizio d'un
librolatestadifilosofia c'è da vedersi impietrar davanti dallo spavento o dalla
noia quante facce di lettori s'eran chinate a guardarlo ». Di chi la colpa ?
Della filosofia o dei lettori? Il Barzellotti avrebbe una gran voglia di
gettarla tutta addosso alla prima ; m a poichè una certa filosofia deve credere
di coltivarla anche lui,una filosofia invisibile perchè cela tasi nelle scienze
speciali o nell'arte, un pochino di colpa l'ha pur da dare ai lettori,
lamentando « quell'abito come lo chiamerò d'antipatia o di pigrizia mentale? –
che nella scienza e nell'arte ci fa rifuggire dalle forme più alte e più
complicate del pensiero, che ci sanno di aspro o di esotico ». Ma , s'intende,
il maggior torto è della filosofia: È l'effetto del discredito
meritatissimo, in cui la filosofia cadde tra noi parlando per tanto tempo il
gergo barbaro del pensare e dello scri vere di troppi ormai che ne hanno fatto
una casistica da medio evo in ritardo,e che,o predicassero dal pulpito delle
nostre scuole ortodosse,o negassero Dio e l'anima mettendo in cattivo italiano
i loro imparaticci francesi, inglesi o tedeschi, hanno nella filosofia impedito
tra noi quasi sino ad oggi quella definitiva secolarizzazione delle menti che
per tutto fuori di qui segna da un pezzo l'avvenimento della cultura moderna.
In Italia,un
lettore che abbia familiare l'abito di mente inseparabile dalla cultura e dalla
scienza contemporanea,è raro che,aprendo per distra zione o in mancanza d'ogni
altra lettura,un libro di filosofia,non lo faccia con quello stesso viso con
cui un giornalista della capitale si la scia,in viaggio,dare le ultime notizie
di una crisi ministeriale da un suo corrispondente di Cuneo o di Brindisi.E
avrà anche torto;ma che dire,quando il fatto stesso del mancare tra noi un
pubblico di lettori per la filosofia mostra chiaro che in Italia la filosofia
non sa,meno rare eccezioni,farsi leggere,cioè non sa pensare e scrivere,non
voglio dire coipiùepeipiù,ma almeno coipiùcolti,con coloro che pensano;il che
poi significa ch'essa non vive ancora tra noi la vita della mente contemporanea? La
filosofia, per vivere la vita di questa mente contemporanea, deve abbandonare
il suo barbaro gergo. Si potrebbe pensare dataluno che l'unico movimento di
qualche vigore che si sia avuto in Italia negli ultimi tempi,è quello hegeliano
di Napoli.
Ma quello, secondo il Barzellotti,
riuscìpiùascuoter elementi,chea fecon darle di germi durevoli,a cagione appunto
della sacra tenebra delle formule, nella quale i più di quegli scrittori
s'avvolgevano, del gergo tra barbaro e bizantino che facevano parlare al loro
pensiero oracoleggiante (1). Ma, che cosa è questo gergo e quest'oracoleggiare
se non la forma specifica della filosofia,inaccessibile,naturalmente, non solo
ai più, ma anche ai più culti, quando la loro cultura non abbracci anche la
filosofia; e la filosofia non liquida o vaporante
nellasuaastrattauniversalità,ma solidaeconcretanellasuccessione progressiva
delle sue forme storiche, fino a quella, alla quale una determinata
ricostruzione della storia mette capo? E la secolariz zazione dello spirito, e
il farsi leggere della filosofia che altro p o s sono significare se non
distruggere quella differenza specifica che costituisce il valore del grado
spirituale proprio della filosofia ? Intendiamoci: non già che il filosofo
debba scriver male. Il Barzellotti dice della Vita del Vico che « ha dal lato
letterario il difetto di tutti i libri delgranfilosofo: èmalescritta»(2).
E non è vero,com'è vero invece che è « mal composta,oscura,involuta ). Oscuro e
involuto rimase appunto gran parte del pensiero delVico; e quindi l'oscurità e
l'involuzione della forma. Ma il Vico scriveva benissimo,esprimendo con
efficacia potente d'immagini i (1) Vedi lo scritto Il pessimismo
filosofico in Germania e ilproblema m o . rale dei nostri tempi, nella N.
Antologia del 1.0 maggio 1889, p. 56. (2) D a l r i n a s c i m e n t o a
l r i s o r g i m e n t o , P a l e r m o , S a n d r o n , 1 9 0 4 , p . 2 0 1
. suoi concetti; ma,s'intende,quando avevadeiconcetti:laddoveè certo, come
lo stesso Barzellotti dice, che a lui mancò « la co scienza chiara, luminosa
del proprio pensiero, che è la parte prima ed essenziale dello scrittore ». In
altri termini, egli non pervenne alpossessocompletode'suoiconcetti,parecchideiquali,enon
i secondarii, rimasero in uno sfondo di penombra in quella gran mente che
così largo giro ne volle stringere nella sua speculazione, sbozzata con
persistente lavorìo intorno a una materia non veramente omogenea,tradistoriaedifilosofia.IlVico
scrive male dove e in quanto pensa male ; e questo è il Vico che non conta
nella storia. Ma ilVico che conta, il filosofo vero e proprio è uno
scrittore sommo.E non potrebbe essere altrimenti,perchè l'arteelafilosofia non
sono due muse sorelle,ma l'unico Apollo,lo spirito,che non sale alla filosofia
se non attraverso l'arte, e non supera mai se stesso, come avvertì per primo
Aristotile, se non conservando se stesso, crescendo sempre sopra disè.–
Chiscrivemale,perciò,appunto perchè scrive male non è filosofo. Ma lo
scriver bene del filosofo non è lo scriver bene del poeta;altrimenti verrebbe
meno la differenza, tra l'uno e l'altro, che nessuno vuol negare. E comeil
poeta scrive sempre bene se vien poetando, così il filosofo scrive bene anche
lui se, anzi che pensare a scriver bene, pensa piuttosto e riesce a filosofare,
anche a costo di finire per ravvolgersi in un gergo. Non c'è pure il gergo
della poesia? O non era poeta chi diede l'espressione classica della
impopolarità essenziale delle forme alte dello spirito nell'odi profanum
vulgus? Pel Barzellotti,invece,il filosofo può farsi leggere,se si
contenta di metter da parte la filosofia. Nella menzionata confessione,
premessa ai Santi, solitari e filosofi (1), lo dice chiaro : « lo
vorrei, senz'aver l'aria di presumer troppo,poter dire press'a poco
quello che un amico mio diceva ai lettori d'un
giornale,annunziandovi la prima edizione del Lazzaretti: perdonate a
questo libro quel po' di filosofia che l'Autore ci ha voluto,a ogni
costo,mettere (giacchè patisce, poveretto!,diqueste
malinconie);perdonateglielaingrazia di quel tanto dipiùedimeglioche illibro
visaprà farpensare oviracconteràovidescriverà come opera d'arte».Vedremo
fra pocoinche consiste quel po' di filosofiadacuiilBarzellottinon
s'èvoluto mai distaccare;ma non bisogna dimenticare,che quel che di più e
di meglio egli ha inteso di mettere ne'proprii scritti (1) Santi, p. 52
n. Perchè dunque parliamo qui del Barzellotti, e in questa
parte dedicata ai platonici Ecco: queste note, senza voler essere
propriamente una storia,mirano piuttosto a rivedere criticamente i
giudizii correnti intorno agli ultimi scrittori italiani di filosofia. Ora
il Barzellotti, per giudizio comune, avrebbe partecipato al movimento dei
nostri studii filosofici, e avrebbe agito nella cultura nazionale appunto
come filosofo. Domandate ai suoi molti lettori se egli sia uno scrittore
di filosofia o un prosatore, un artista; novantanove su cento vi
risponderanno che è sì un artista,ma un artista-filosofo, o meglio un
filosofo-artista; uno dei pochi, o il solo dei nostri filosofi, che abbia
saputo liberare la scienza della forma pedantesca della scuola e del
barbarico gergo abituale, per esporla in saggi eleganti, ossia in maniera
accessibile a tutte le persone colte e di gusto. Ripeterebbero, insomma, quel
che il Barzellotti stesso ha sempre pensato e detto di sé. Perchè, bisogna
pur dirlo, niente riesce più a render perplessi e a sviare igiudizii,di
questa specie di sofisticazioni della scienza,operate dai secolarizzatori
o popolarizzatori della medesima. Il po ' di filosofia viene apprezzato non
in ragione del suo valore,che può esser nullo,ma in ragione dell'arte, in
cui si diceepuò parere che si siamesso; l'operad'arte,egual mente, non è
giudicata con tutta la severità che si userebbe verso le opere di arte
pura, che non avessero quella difficoltà di una materia ribelle
all'elaborazione artistica; e i critici letterarii, inetti a giudicare
quel po'di filosofia, indulgono a quell'arte gravida o s a z i a d i s a p e r
e. Perchè , s e h o d e t t o c h e il B a r z e l l o t t i è u n a r t i s t
a p i ù che un filosofo,non credo poi (se mi è lecito proprio questa volta
una digressione letteraria (1)) che possa dirsi un artista finito, e che il suo
capolavoro (ilLazzaretti) siaun capolavororiuscito. È ilmeglio riu scito di
questi suoi tentativi artistici, pel senso vivo del paesaggio e dell'anima
popolare di quell'angolo della Toscana, in cui il B a r è al di qua della
filosofia: è qualche cosa che può far pensare,una riflessione morale e
psicologica;è soprattutto opera d'arte.Dello scritto su David Lazzaretti, che
può forse considerarsi come il ca p o l a v o r o d e l B a r z e l l o t t i ,
il q u a l e i n e s s o si p r o p o s e b e n s ì d i f a r e u n o studio di
psicologia religiosa,lo stesso autore dice che « vorrebbe essere,se pure non
pretende troppo,un'opera d'arte,ma senzadar nel romanzo ».(1) Vedi in questo
fasc. l’art. del Croce, pp. 337-8. zel lot ti era vissuto fanciullo, e
tornato spesso a rinnovare le sensa zioni dei primi anni.Ma anche
lì quel po'di filosofia come stuona in quell'ambiente
pastoraleenell'ingenua psicologiadel misticismo lazzarettiano! E come
appiccicato è lo studio sull'origineelosvol gimento e i caratteri di quel moto
religioso sulla cornice dell'im mediata azione, in cui l'autore l'ha voluto
inquadrare, per aver agioa descrivere meglio iluoghi,che furono scena dei fatti
del Lazzaretti,e individuare itipi de'suoi seguaci!L'azione, troppo povera,è
una gita di caccia,a cui l'autore per altro non partecipa, restando sempre in
disparte ad almanaccare sull'anima del barocciaio di Arcidosso.Dopo la caccia
c'è una colazione,sull'erba;e alacolazione questa volta pare pigli parte anche
il Barzellotti
Ma quale parte? Egli titrova nel cerchiounuomo
del paese, Filippo, il,bigonciaio, un discepolo del Lazzaretti ; e subito ne
profitta, dicen dogli che avrebbe avuto caro di sapere « molti particolari
intorno aDavid e alla vita che i suoi seguaci avevano fatto con lui in
quelluogo »,lisulla torre di Monte Labbro.Il lettore,nemico
della filosofia, a cui il Barzellotti s'indirizza, s'aspetterebbe la conversa
zione dell'autore con Filippo,il quale dovrebbe farci entrare a poco a poco con
i suoi ricordi in tutto quel mondo morale che l'autore
civuolrappresentare.Difficileimpresa,certo;ma soloachi,come ilBarzellotti,non
avesse davvero il suo Filippo rivelatore vivo e parlante nella fantasia;
sibbene gli scritti del Lazzaretti,gli appunti delle relazioni fornitegli da amici
del luogo,le deposizioni dei lazza r e t t i s t i, e p o i i v o l u m i
d e l R e n a n , e l e o p e r e d e l l ' H a r t m a n n e q u a l che
fascicolo del Nineteenth Century sul tavolino.
Il Barzellotti,che pure ha scritto un bel
saggio sulla sincerità nell'arte,in quel punto della sua opera non si
ricorda di quelle sue giustissime idee : e dopo aver detto come inducesse
Filippo a parlare,continua : « Mi rispose con un leggero atto della testa che
acconsentiva,e ci mettemmo tutti amangiare ».Ma alla conversazione non ci fa
assistere.«E ora mi pare da vero tempo che anche i lettori conoscano per :filo
e per segno i fatti cui ho accennato tante volte, e li conoscano, quello che
più importa,in ordine alle loro cause e alle condizioni sociali e morali
de'luoghi, o, come oggisidice, dell'ambiente nelquale ebbero origine ».E segue
infatti il corpo,per dir così,dello studio sul Lazzaretti: centoquaranta pagine
(1), in cui Filippo e la colazione sondimenticati.Poi
l'autoreripiglia:«Questecosemi andavano per la mente cinque anni dopo la morte
di David mentre co'miei (1) Santi, pp. 121-262. amici stavo nel
piazzale davanti all'eremo di Monte Labbro.Passato quel silenzio profondo
dei primi bocconi. »;– e torna a saltar su finalmente Filippo,che però il B.
non ci fa mai udire.Sicchè nel l'immaginazione dell'artista durante quella
colazione,oltre che per tutte le considerazioni seguenti sul carattere della
fede di Filippo, ci sarebbe stato il tempo per andar pensando a tutte quelle
140 paginediroba! L'elementodescrittivoedrammaticorestaaffatto estraneo e
sovrapposto allo studio storico-psicologico. E questa so vrapposizione,questa
mancanza di fusione,che accuserebbe per sè, quando non vi fossero le
dichiarazioni esplicite dello scrittore,le sue preoccupazioni artistiche,
mentre egli realmente non si mette mai
inunasituazionesinceramenteartistica,sonoilmaggiordifetto che io vedo in questi
suoi tentativi d'arte.- E un altro mi sia lecito anche notarne,che è in fondo
una conseguenza del primo,e mi fa tornare al mio soggetto speciale: la
lungaggine, la prolissità dello scrittore:difetto da lui stesso additato come
uno degli effetti più gravi della rettorica, della vuotaggine di gran parte
della lette ratura italiana. « Solo chi ha poco o nulla da dire dice sempre di
più di quello che dovrebbe dire »(1).Appunto,la esiguità del con tenuto
spirituale del Barzellotti gli ha fatto scrivere molte e molte pagine a cui
s'attagliano parecchie delle osservazioni da lui fatte intorno a cotesto
difetto della letteratura italiana, dominata dallo ideale umanistico.Non c'è
scritto di lui in cui sia detto breve e chiaro quello che l'autore s'è proposto
di dire;e spesso si stenta ad afferrare il suo concetto, tra le molte parole
non abbastanza precise e determinate,in cui egli si sforza d'esprimerlo,cioè di
concretarlo,quasi per una serie di approssimazioni al pensiero, che non si
riesce afermare inuna formavivente.Tipica,per questo riguardo,mi sembra la
prolusione letta a Napoli nel 1887:La morale come scienza e come fatto e il suo
progresso nella storia (2). E valga per esempio questo squarcio,che ne tolgo a
caso: Perchè è bene che io lo dica fin da ora,o signori,anche a titolo
di quella schietta professione di fede scientifica che mi pare d'esser
tenuto a farvi qui.Il modo
in cui io concepisco la legge intima dell'organismo e della vita delle scienze
morali o,meglio,delle scienze che io chiamo più propriamente umane,e quindi
dell'etica,che se ne può dire quasi il centro, non è quello stesso che pare
presupposto da quanti oggi ponendo, (1)Dal rinascimento al risorgimento,
p.206. (2)Rivista ital.difilos.del FERRI, a.I, vol.II(1887),
pp.3-33. con ragione, l'esperienza a fondamento di tutto il sapere
umano,non di stinguono con qual divario profondo il processo di costruzione
ideale del pensiero scientifico sui dati sperimentali si faccia nelle dottrine
naturali e in quelle morali e storiche. Là l'ufficio, l'opera della scienza sta
nel ritrarre, nel rilevare a uno a uno, sino a i piùintimi, i tratti della
fisonomia eternamente immota e impassibile della natura, che anche nel
l'inesausta ricchezza delle sue produzioni, ripete eternamente se stessa;
stanel far penetrare,se posso dir cosi,la parola,più e più criticamente
riveduta delle teorie e delle ipotesi,quasi scandaglio che tenti un fondo
impossibile però a toccare mai tutto,sempre più verso l'ultima espres sione
approssimativa di un vero che, inesauribile in sé,sappiamo però essere e durare
ab eterno eguale a sè stesso. Ed ecco perchè, una volta messe queste scienze
sulla via maestra del metodo sperimentale, e fu, o «signori, merito
imperituro dellafilosofiadelsec.XVI, latradizione del l'acquisto lento,
faticoso, ma sicuro del vero,vi si stabili con una fermezza che non ha pur
troppo riscontro alcuno nella storia delle scienze del l'uomo e della
società. In questa l'opera ideale costruttiva,la funzione che vi ha il
pensiero scientifico di assimilare a sè il vero dei fatti sperimentati e
osservati e di trarlo quasi in sostanza sua, è, mi pare, tutt'altro. È un
farsi, uno svol gersi della vita e dell'organismo riflesso della scienza
insieme con quello spontaneo del vero umano e sociale che si spiega,che fluisce
inesauribilmente ricco, fecondo e vario ne'secoli.E l'occhio delle scienze
morali, intento a scrutarne le leggi,è simile a quello di un osservatore
che da punti di prospettiva via via sempre nuovi studiasse, camminando, le
forme,le proporzioni e la direzione di un'immensa folla di oggetti che gli
simostrano dinanzi. Sbaglierò; ma a me pare che, tolti i fronzoli e i
particolari inutili, il pensiero adombrato in tutta questa pagina sarebbe stato
espresso forse più chiaramente, se si fosse detto press'a poco così:
lescienzemoralisifondano,alparidellescienzenaturali,sul l'esperienza;ma siccome
la natura è sempre quella, el'uomohauna storia, le verità scoperte dalle
scienze naturali hanno una stabilità e fermezza incompatibile con quelle via
via determinate dalle scienze morali, alle quali spetta di seguire il processo
storico del loro o g getto. Egli è che al Barzellotti, mente coltissima, è
mancata proprio quella qualità ch'egli è andato sempre cercando:l'intimità,il
con tatto dell'anima con le cose. Quindi l'artifizio e lo stento,la forma
levigata, elegante,ma alquanto vuota e sonora. Le sue professioni
difedefilosofica,percuilodovremmo aggregareaineokantiani, sono semplici
adesioni formali, spesso ripetute con la premura di chi tiene ad apparire
spirito moderno, del proprio tempo (come (1)Nella N. Antologia del 15
febbraio 1880,pp.591-630. (2)Fil.sc.ital.,
1878,XVIII,42-3.(3)Pag.38n. egli ha detto
di sè tante volte); ma non corrispondono a una par tecipazione effettiva della
sua mente ai problemi critici e morali, ridestati dal ritorno a Kant.Lo
scritto,che secondo lo stesso Bar zellotti, dovrebbe essere più significativo
per questa sua adesione al criticismo (La nuova scuola del Kant e la filosofia
scientifica contemporanea in Germania ) (1); e al quale egli infatti s'è
riferito ogni volta che ha voluto documentare l'affermazione sul suo in dirizzo
di pensiero,è un'esposizione informativa,condotta innanzi senza un indizio di
vero consenso, che le considerazioni dei neo kantiani trovassero nell'anima
dell'autore. E quando verso la con chiusione questi dice che « la natura
relativa d'ogni nostra cogni zione sensata è inconciliabile colla pretesa che
ha il dommatismo di determinare positivamente l'essere delle cose in se stesse,
di poter penetrare sino alle sostanze e alle forze ch'egli suppone al di là
de'fenomeni » non puoi dire sicuramente se questo sia il pensiero di chi scrive,o
il pensiero di quegli scrittori di cui que sticihaparlato. Meno che meno
potresti cogliere ilpensierodel Barzellotti nel suo precedente scritto La
critica della conoscenza e la metafisica dopo ilKant (1878-79), lavoro
prevalentemente storico, per cui l'autore si attiene più alle storie del
Fischer e dello Zeller, che alle fonti originali.In una
storia dell'idealismo postkantiano,di cui questo scritto voleva essere un
saggio (ma si arrestò allo Schelling), un n e o k a n t i a n o v e r o n o n p
u ò n o n f a r apparire i s u o i c r i t e r i i filosofici; e non c'è
sforzo d'oggettività storica che possa fargli dire che l'interpetrazione
realistica (a cui tenne sempre più fermamente lo stesso Kant) della critica
risponde alla lettera del kantismo,e l'interpetrazione idealistica del
Maimon,del Beck,del Fichte, ri sponde piuttosto allo spirito. Un neokantiano
non avrebbe scritto che il concetto realistico del noumeno (come qualche cosa
che è in sè,indipendentemente dalle forme del conoscere,ed opera sui sensi)è in
Kant un residuo del dommatismo antico che la Critica non era mai riuscita a
spogliarsi interamente, e che stuonava coi risultati negativi e idealistici
della dottrina della conoscenza;e che era una contradizione (2): un pensiero
non pienamente consentaneo a se stesso in ogni sua parte (3).Al Barzellotti il
partito di superare idealisticamentelaCritica,come
feceilFichte,dopol'Enesidemo, pare «ogni giorno più,non che consigliato,
imposto inesorabilmente dalla necessità logica che trascinava le dottrine
del Kant alle loro ultime conseguenze» (1).– Ma tutto questo è
detto,anziripetuto, non con l'accento energico di una convinzione maturata per
proprio conto;sibbene con quella stessa indifferenza che è propria di chi
osserva da spettatore assolutamente disinteressato. Che cosa pre cisamente
debba pensarsi di quel benedetto noumeno,che è lo spettro pauroso
dell'idealismo moderno,non sembra che sia affare che tocchi l'animo del
Barzellotti: il quale potrà dirsi a sua voglia neokantiano(2);ma nonfarà mai
ilneo-kantiano,perchè non sen tirà mai veramente il problema filosofico. E
non ha fatto quindi nè anche ilplatonico,benchè all'indi rizzo dei platoneggianti
italiani egli si accostasse ne'suoi scritti gio vanili,il principale dei quali
è la tesi Delle dottrine filosofiche nei libridi Cicerone (1867),in cui si vede
ancora lo scolaro di A. Conti edi T. Mamiani.Egli doveva pensare anche a sè
quando,discor rendo della Filosofia delle scuole italiane,— della quale fu
sempre uno dei compilatori ordinarii,e se ne poteva dire la sentinella
avan zata verso le letterature filosofiche straniere,di cui scriveva una
cronaca;– disse: «I collaboratori di quellaRivistahannopienali bertà di
pensiero e di discussione ; anzi varii tra di essi professano dottrine molte
diverse da quelle del Mamiani ; ma si raccolgono intorno a lui come al
rappresentante più autorevole di quel moto speculativo,che aiutò il nostro
risorgimento e ci riscosse da una inerzia intellettuale di più che due secoli »
(3). Anche al Barzellotti, insomma,piaceva di essere un filosofo delle scuole
italiane,insieme col Mamianielasuaonrevolgente.Anche aluipareva,p.e.,che
il«merito innegabile della scuola hegeliana(diNapoli)apparirebbe maggiore allo
storico imparziale,se essa avesse tenuto più conto delle disposizioni naturali
e tradizionali dello spirito italiano » (4). Egli dunque si mise nella schiera
del Mamiani ; e io non potevo staccarnelo, non avendo potuto trovare
ne'suoi scritti la dottrina filosofica sua, che ne lo separasse. (1) Pag.
45 (2)Vedi specialmente le proteste nella pref, ai Santi,p.xxm n. (3)
La filosofia in Italia, nella N. Antologia del 15 febbraio 1879, p.
630 (4) Ivi,p.639. (1) Nella Rivista difilos,scientifica,
1882,vol.I,pp.496-525. (2 ) P a g . 4 9 8 . (3) Cosi nel libro sul
Taine qui appresso cit.,p. 168 dirà sempre : « La dot trina idealistica chefa
del mondo sensibile esterno un mero ordine di fenomeni e di segni datici dalle
sensazioni, debba dirsi, per ora almeno, l'ultima parola della scienza, venuta
a confermare la parte indubbiamente vera delle teorie del Berkeley e del Kant
».Vedi poi l'articolo su L'idealismo di A. Schopenh. e la sua dottrina della
percezione, nella Fil. dellesc.ital.,1882, XXVI, 137-65; la cui conclusione
favorevole ai filosofi che « tempo e spazio accolgono in se elementi , a u n t
e m p o , ideali ed empirici, subbiettivi e obiettiv i , h a n n o il l o
r o e s s e r e e la loro legge così nel pensiero come nelle cose,così in
noicome fuori di noi – non vedocomepossaacc
larsiconl'idealismoberkeleiano!Masipuòpar lare di contraddizione ? (4)
Credaro nel Grundriss di UEBERWEG-HEINZE,I,1,364. ( 5 ) C f r . L a m o r
a l e c o m e s c i e n z a e c o m e f a t t o , n e l l a R i v . i t a l . d
i f i l o s ., 1887,II,15-16elapref.aiSanti,p.xxi n. Nella prolusione con
cui iniziò a Pavia il suo insegnamento ufficiale universitario, nel 1881, Le
condizioni presenti della filosofia e il problema della morale (t), puoi ravvisare
tutto lo scrittore. Ivi più schietta la professione di fede neo-critica:
l'idealismo da Fichte a Hegel accusato non solo di aver voluto costruire luni
verso da un sol punto, con un solo principio assoluto,ma di avere altresì
dimenticato « quello che le aveva lasciato detto il maestro, che cioè,se i
fatti senza le idee sono ciechi,queste alla lor volta, non cimentate
coll'esperienza, riescon vuote e ingannevoli » (tra vestimento del genuino
pensiero kantiano e disconoscimento del genuino pensiero hegeliano); la
riflessione filosofica definita per artifizio(2); approvato- comegià nella
Morale della filosofia positiva (1871)– l'indirizzo psicologico-sperimentale
dato dagl'inglesi alla filosofia dello spirito; fatto buon viso alla loro
teoria della re latività del conoscere (dove l'autore vede un kantismo
ricondotto addietro fino a Berkeley (3); dato corpo in certo modo a quella
specie di eccletismo, che gli è stato talvolta attribuito (4), e a
cui egli stesso in alcuni scrittisi può dire che abbia accennato parlando
di una mediazione tra il criticismo e l'evoluzionismo (5); rifatta un'altra
volta la storia del ritorno a Kant, nonchè della scuola spe rimentale
inglese,per conchiudere che oggi il filosofo « non prova più in sè quello
che pure era,ed è tuttora,così proprio de'meta fisici, il sentimento superbo di
un preteso primato sui cultori dell altre scienze, la vana persuasione di
potersi segregare da loro nella solitudine di un infecondo sapere assoluto,
superiore alle indagini pazienti de fatti e all'esperienza, e ambizioso di
tutto darle, senza nulla riceverne ». Qui si abbandona,come ognun vede,
esplicitamente l'eterno proposito della filosofia. Niente di superiore ai fatti
e all'esperienza. Il filosofo non deve aspirare se non,come tutti gli altri
scienziati,a fornire col proprio lavoro alcuni pochi tra gl'infiniti dati, tra
le infinite verità d'esperienza e di ragionamento a c cessibili alla mente
umana nel suo sublime tentativo d'interpretare l ' unità delle cose e
delle loro leggi. Nien t ' a l t r o c h e d a t i ! Non c e r t o
«un'assolutadisperazionedelvero»,ma «una fede assai condizionata nel valore di
quelle forme del vero che la mente umana accoglie in sè successivamente »;
un « abito di mente critica inquisitiva per eccellenza, che non riposa mai o
quasi mai in una conchiusione, che rifà di continuo i proprii
convincimenti ». Abito di mente, insomma,da spettatore,non da artefice
della verità. E chi lo afferma si vede bene che,accortosi della vanità di
questo affaticarsi perenne nel tentativo sublime,quanto a sè,intende
mettersi da un canto,e stare a vedere.Qui, nella ricerca della verità, non
c'è l'anima del Barzellotti.Di questa ricerca egli non vede se non una
vita vana,dicui nessuno spirito può vivere.Onde vidirà: l'uomo è nato non tanto
a pensare quanto ad operare.E per operare ci vogliono quei saldi
convincimenti,che la scienza non può dare. Perciò è che la filosofia non può
prendere il luogo delle credenze religiose. Il Barzellotti non dice
propriamente perchè, e gira attorno a questo problema,che è dei più delicati
circa il valore della filosofia. Ma fa alcune osservazioni,che ritraggono lo
spirito dello scrittore. Non tutti possono vivere su principii, che siano
il risultato del ragionamento; infiniti sempre attingeranno la norma delle
azioni « dal cuore,dall'immaginativa, dalla fede, dalla per suasione affettuosa
immediata,da un che in somma non ragionato, m a sentito e i n t u i t o »
. C o n t r o c h i c r e d e , c o m e il R e n a n , che p o s s a la
scienza un giorno trasformare e governare tutta la vita,bisogna notare che «
delle due forme di conoscenza ond'è capace la nostra mente,la concreta e
diretta,o vuoi intuitiva, ha sull'astratta e sulla riflessa infiniti vantaggi
nella pratica della vita. Se non che,tale appunto quale è,ottimo istrumento e
guida all'azione,la conoscenza intuitiva ha in sè questo di più specialmente
proprio e suo e d'op posto all'indole del sapere scientifico.; appunto perchè
concreta, particolare e attinta dalla viva esperienza e quasi dal contatto
delle cose e degli uomini, essa è tutta individuale, e per ciò
incomunicabile:più che vera e propria cognizione, potrebbe dirsi un certo tatto
finissimo. La scienza stessa., in ciò ch'essa ha in sè di più intimo e
d'organico, presa come un tutto che si muove e vive d'una vita inseparabile da
quella d'ogni mente che l'ha in sè e l'ha fatta sua propria, riesce non meno
individuale e incomunicabile di quello che sia l'intuito, l'arte, l'esperienza
immediata,la convinzione istintiva ». Qui n d i l ' i n e f f i c a c i a della
scienza ; q u i n d i il segreto della forza delle religioni,che s'impossessano
di tutto l'uomo. Perchè la religione abbia quest'afflato, che manca alla
scienza, il Barzellotti non dice.E la verità dell'osservazione consiste,a
parer mio ,nell'esperienza personale dell'autore, di cui essa deve ritenersi un
indizio. È la scienza sua,da cui egli si sente ingombra la mente,non
riformata l'anima,che non può cacciar di nido la religione.Se la
metafisica, l'alta veduta speculativa investe tutto l'uomo nei grandi
pensatori, egli è che il pensatore in fondo è un artista.Onde ilBarzellotti
plau dirà al pensiero del Taine (in Idéal dans l'art): « che tra i diversi
modi,in cui l'uomo coglie la verità delle cose,il più potente e il più vero è
l'Arte.Essa infatti penetra,per dir così,giù sino al cuore del grande organismo
della natura,e non si limita a darcene,come
falascienza,soloilprofiloesterno,leleggigenerali quantitative,ma ce n'esprime
l'intimo senso,ce ne fa sentire nel loro lavorìo se greto le forze vitali, le
potenze originarie e germinali » (1). E al Taine tributa la gran lode di aver
avuto « anima e mente da ca pire come la scienza,che ci dà solo gli elementi
generali e comuni dei fatti e delle cose,non riesca nello studio dello spirito
umano a rendercene tutto il vero, se non è compenetrata con l'Arte, che
intuisce il particolare, l'individuale, ciò che sfugge all'analisi e al
l'astrazione » (2), E l'autore continua : « Qui sta con buona pace
dellapedanteriatogataditanticheoggisichiamanodotti– la superiorità
dell'Arte,se siagrande e vera, sulla scienza pura, quanto al comprendere l
a vita, il c a r a t t e r e e i sentiment i u m a n i . Si può esser certi
infatti che nessuno specialista, nessuno scienziato nello stretto senso della
parola,arriverà mai a scuotere una di quelle grandi verità della coscienza e
dell'ordine morale,che finora sono state trovate tutte dai fondatori di
religioni, dai metafisici sommi – artisti del pensieroessipure—
daipoeti,dagliscrittori,da co loro che il volgo degl'indotti e dei dotti chiama
uomini non p o sitivi » (3). (1)Ippolito Taine, Roma, Loescher, 1895,pp.
191-2. (2) Ivi, p. 149. (3) Pag. 150. E così ci accostiamo al po'di
filosofia del Barzellotti: a quel po'almeno, che è la nota metafisica vera e
sincera, che risuona nel l'anima sua. E questa nota suona spesso negli
scritti del Barzellotti, benchè non sia che una nota.La religione,dice
in uno scritto su L'idea religiosa negli uomini di stato del risorgimento
(1887), è «qualcosa di analogo all'artee d'irriducibile,per una legge del
nostro spirito,ad altre forme della sua vita interiore »: « la cer tezza delle
verità religiose venirci dal sentimento e dall'intuito, e appartenere a un
ordine affatto diverso da quello della certezza che cipossonodare le
dimostrazioni della ragione» (1).– Enellostudio La giovinezza e la prima
educazione di A. Schopenhauer e di G. Leopardi (1881): « L'uomo, egli (lo Sch.)
soleva dire con parole che esprimono forse l'aspetto più nuovo e più vero della
sua filo sofia, ha le sue radici nel cuore, non nella testa » (2). Quindi quel
sentimento,che in uno scritto,anche precedente,sullo stesso Schopenhauer, è
detto « ormai cessato da un pezzo in Germania; ma dura tuttavia, e cresce nei
lettori colti d'ogni paese.: quello del bisogno che tutti abbiamo,ma che in
specie gli studiosi hanno di stringersi in più intima armonia colla natura e
colla realtà » (3). Questo estetismo o misticismo estetizzante venne al B.
dai ro mantici tedeschi,dallo Schopenhauer,oggetto di suoi studi insistenti?
Certo non ha che vedere col suo preteso criticismo, che è uno scetticismo
ingenuo, appenalarvato.
Ma visiriconnettenelsensoche, dimostrandoci il
temperamento spirituale dell'uomo, ci fa inten dere la sua naturale avversione
alla vera e propria filosofia.Questo estetismo a me pare appunto la tendenza
naturale del suo spirito; e non prende infatti la forma dimostrativa e
sistematica,che in altri scrittori si atteggia almeno a una critica
gnoseologica del natura lismo, dal Barzellotti non mai fatta; ma resta sempre
una ten denza, che determina l'indirizzo degli studii del Barzellotti, quando
egli trova la sua strada.Più che un concetto pensato e ragionato dalla sua
mente,è un carattere reale della sua mentalità:per cui egli si può dire che
abbia trovato la sua strada quando ha comin
ciatoascrivereisuostudiieritrattiesaggipsicologici,intorno a
scrittori,indirizzi di cultura,epoche o popoli:dove non ha certo teorizzato
sulla tendenza, che ho detto, ma ha obbedito ad essa, cercando il concreto,
l'individuum ineffabile, con l'intuizione del (1) D a l r i n a s c . a l
r i s o r g ., p . 163 . (2 ) S a n t i , p . 4 1 5 . (3) Op . cit ., p .
4 0 5 - l'artista, vedendo, come egli disse, « nello studio
dell'uomo oltrechè un'arte d'intuito e di
divinazione felice,la lenta opera d'una scienza che ormai ha saputo prendere la
sua via in disparte dai sistemi »: rimettendo,insomma,in armonia sè con se
stesso, riducendo tutta lafilosofiaall'arte, cui natura più lo traeva. Se
nonsivogliadire arte,dicasi storia; ma illavoro mentale del Barzellotti non
mira al di là della rappresentazione individuale del concreto.E questa è la sua
filosofia; la quale ha inteso a «unireilpiùpossibile- egli dice l'arte alla
scienza » e « provarsi a ritrovare sui modelli vivi, che danno la storia,
le biografie intime e l'osservazione delle cose sociali,quanti più poteva dei
tratti veri,parlanti di quell'anima umana, che la scienza delle scuole e delle
accademie ci ha per troppo tempo fatta conoscere solo in copie
vaghe,generiche,lavorate di fantasia e di maniera »(1). Da S. Agostino al
Lazzaretti, dalla psicologia delle tentazioni a quella del pessimismo
filosofico, dal Taine al Nietzsche, dallo spi rito paganeggiante del
rinascimento alla tempra morale della deca denza, alla religiosità dei nostri
uomini del risorgimento, al river bero della nostra anima nazionale nella
letteratura, il Barzellotti dall'8o in circa ad oggi si può dire che abbia
raccolto tutte le forze della sua mente intorno a particolari problemi storici
di psicologia, cercando così attraverso i procedimenti intuitivi dell'arte
quella ve rità alla cui visione non s'era potuto elevare col metodo razionale
del pensiero speculativo:spargendo, in verità,gran copia di osser vazioni fini
ed acute principalmente sulla storia dellaforma mentis, com'egli ama dire, del
popolo italiano.Se incotestaarte, peraltro, egli sia riuscito di solito a
toccare il segno,non è il luogo questo di ricercare: se dovessi esprimere il
mio giudizio,direi che per sif fatte indagini di storia psicologica al Barzellotti
manca,per otte nere la rappresentazione piena e viva dell'anima umana,ciò che
forma davvero lo storico e l'artista: lo sguardo diretto all'intimo della
individualità; la quale non si potrà mai ricostruire,se non s'affisa prima di
tutto il centro vitale del suo organismo; laddove il Barzellotti gira troppo
con considerazioni e divagazioni generali intorno ai personaggi e agli stati
morali presi a studiare.E gli manca altresì, per lo più, quella piena e diretta
conoscenza dei particolari, in mezzo ai quali soltanto è dato d'imbattersi
negl'individui vivi, in quelle anime vere, che il Barzellotti è andato
cercando. (1) Santi, pp. XII-XIII. Di questa sua veduta estetizzante
dello spirito umano bisogna ricordarsi per intendere nel loro genuino
significato i motivi della comunicazione fatta dal Barzellotti intorno al
metodo storico nella trattazione della storia della filosofia al congresso
romano di scienze storiche nel 1903 (1): contro la quale insorse il vecchio
Lasson in nome della universalità della ragione e della scienza (2). Pel
Barzel lotti la filosofia dev'essere rappresentata dallo storico come la filo
sofia di una nazione o di un'altra,quale in una certa epoca essa si costituisce
in stretta attinenza con tutte le condizioni della cultura circostante, e sulla
base degli abiti e delle forme di mente individuali del filosofoo prevalenti
nel tempo dilui.E certo una storia per ogni parte compiuta della filosofia non
può non tener conto ditutta cotesta condizionalità dei sistemi filosofici; ma
ad un patto: che si rammenti non essere la condizionalità, nè qui nè altrove,
la realtà condizionata;e quando tutta la cultura contemporanea che agi sullo
spirito di Kant sia nota,e tutta spiegata la psicologia per sonale di questo
pensatore e del suo secolo,restare tuttavia da in tendere tutta la sua
filosofia, in quel che ha di veramente filosofico, ossia di valore universale
ed eterno. Qui la verità affermata dal Lasson,edal Barzellotti disconosciuta,
per quel suo occhio, fatto per vedere il particolare,cieco all'universale. E
poichè l'universale è l'intimità vera delle menti speculative,anche qui ei
conferma ilsuo difetto di attitudine vera a penetrare nell'intimo degli
spiriti. Egli vede i p e n s a t o r i, e n o n v e d e il pensiero; e però non
vede n è a n c h e veramente i pensatori.Ne son
prova isuoi molteplici saggi sullo Schopenhauer e sul Kant. Ma il
Barzellotti è stato forse letto invano per la cultura intellettuale e morale
italiana? Io non credo:non èstato un filosofo, e neanche un artista riuscito;
ma è pure stato un nobile scrittore, che ha agitato molte menti e molti cuori
intorno a questioni morali e religiose troppo trascuratetra noi; è statoun
lucidospecchio di molta parte della cultura filosofica straniera
contemporanea;ed è stato un forbito scrittore, imitabile esempio ai
pedanteschi filoso fanti italiani degli ultimi tempi. (1) Di alcuni
criteri direttivi dell'odierno concetto della storia, che re stano tuttora da
applicare pienamente e rigorosamente alla storia della fi losofia, massime di
quel periodo che va dal Rinascimento a Kant, negli Atti d e l C o n g r . i n t
e r n . d i s c . s t o r . ( R o m a ). Fra i più malagevoli
ufficj della Critica istorica è per certo il determinare come e quanto
contribuisca l'inge gno di ciascun popolo alla sua grandezza intellettuale e
civile, di quanto egli sia debitore alle tradizioni dei suoi maggiori,o alla
civiltà delle nazioni contemporanee; que stione ardua , e più che alla storia
appartenente alla F i losofia, perchè risguarda una legge intima ed arcana
della natura,onde nell'armonia delle facoltà umane s'avvicenda l'operare e
ilpatire,ilconservareeilprodurre,la reve renza alle tradizioni e la libertà dell'ingegno
inventivo. Alla difficoltà d'un tale esame,la quale cresce a misura che ci
avanziamo verso i tempi più antichi,in cui fanno difetto i documenti e le
notizie necessarie ad illustrarne la storia, sono dovuti i giudizj severi di
molti critici in torno alle lettere e alla filosofia de'Romani; giudizj che
introdotti da un pezzo nelle scuole,e avvalorati dal quasi comune
consentimento,negano del tutto o quasi del tutto indole nuova ed originale alle
manifestazioni dell'ingegno latino. Gli argomenti che si allegano per sostenere
tali sentenze io mi dispenserò dal recarli, e perchè assai noti nella storia
delle lettere e della filosofia, e perchè tutti 1 Questa ultima
affermazione tanto più è conforme alla storia,in quanto,sebbene la maggior parte
dei critici odierni ricusi da un pezzo nome autorità di filosofo al senatore
romano , è per altro consentito da tutti che i suoi scritti filosofici si
conservarono chiari per benefica efficacia lungo tutta la decadenza delle
lettere e delle scienze latine, e per avere mantenuto e trasmesso nei principj
dell'Era cristiana, e giù pel Medio Evo le dot trine della filosofia greca alle
scuole de'Padri e de'Dottori, 2- concordi nel sostenere che ai Romani ,
poco atti sin da principio per naturale tempra d'ingegno, e distolti per lunga
età dalle intestine discordie, dalla brama del d o minare e dall'esercizio
delle armi, e finalmente abba gliati dallo splendore della civiltà greca,mancò
una libera disposizione a ritrarre e a creare il vero ed il bello negli
esercizj della scienza e dell'arte.(Degerando, Brucker,
Tennemann,Ritter,Kuehner ed altri).Ai quali argomenti quando per sè non
rispondesse abbastanza la ragione istorica,la quale vieta potersi sempre
dedurre da ciò,che un popolo fece in certe condizioni di tempi e di civiltà,
quello che in altre condizioni avrebbe potuto e saputo fare; se non mostrasse
il contrario la scuola dei Giure consulti,che dalla coscienza del genere umano
e dalle forme logiche greche compose con tradizione costante quella scienza del
gius costitutrice delle nazioni europee, se l'Eneide emula all'Iliade, Lucrezio
maggiore d'Esio do,la Commedia di Plauto,le storie di Livio,di Sallustio, di
Tacito, la Satira togata di Giovenale e di Persio, l'Elegie di Catullo non
indicassero assai che il genio latino,libero nella imitazione,seppe aggiungere
all'ideale del vero e del bello greco un che d'universale e di so lenne, un
certo senso pratico e positivo, e un'intima ri velazione degli umani affetti,
ignota fin allora ai Gentili e resa più perfetta dal Cristianesimo,io mi
restringerei alle sole opere filosofiche di Cicerone,che sono, parmi, una fra
le prove maggiori del come la scienza deinostri padri, modestamente operosa,
recasse la sua parte alla civiltà universale. e all'età
delRinnovamento.(Ritter,Hist.dela Phil.an cienne,tom.IV, p. 136,e nota 2,Paris,
1858,Ladrange. Kuehner,M. T.Cic.inphil.ejusq.partesmerita.Ham burgi, 1825, P.
V. C. IV. Epil.) La storia della Fi losofia ci mostra di fatto che Cicerone fu
a’Padri latini molto in pregio,e segnatamente a Lattanzio che lo chiama
eccellente, e lo cita nel de Opificio hominis, e nelle In stitutiones divinæ
più volte; poi a sant'Agostino che ri conosce dall'Ortensio la preparazione al
cristianesimo, e in più luoghi della Città di Dio,e altrove lo cita o ne tira
le dottrine; altresì a san Girolamo che tanto l'amò da riferire in una sua
epistola il sì famoso castigo avu tone divinamente, poichè, meglio di
cristiano, meritava chiamarsi Ciceroniano.Fra iDottori più principali è noto
come Boezio togliesse da Tullio il pensiero sulle consola zioni perenni della
filosofia, e apparisce lo studio che di questo egli fece sì da'pensieri e sì
dallo stile; come san Tommaso ne arrechi l'autorità in più luoghi della sua
Somma,comeDante lomeditasse;piùtardinelsecolo decimosesto Erasmo lo esaltava
con lodi famose, e nel decimosettimo l'Autore della Scienza nuova attingeva in
parte dal libro de Legibus il pensiero d’un gius ideale eterno celebrato nella
città dell'universo col disegno della Provvidenza. Ad una fama sì lunga e sì
costante, e che per certo doveva avere una causa non soltanto, come si afferma
generalmente, in quella forma popolare e spontanea, onde le dottrine del
filosofo latino si porgevano all'educazione morale e civile, m a
nell'intrinseco loro valore speculativo, non disconosciuto nè anche oggi da
uomini egregj (Forsyth, Life ofCicero,London,1864,vol.II,XXV,p.282),con
trastano singolarmente i giudizj di alcuni critici piùre c e n t i . L a o p i
n i o n e e s p r e s s a d a t a l i g i u d i z j, a v o l e r l a r i a s
sumere in breve,è la seguente:M. T. Cicerone,ingegno universale, acutissimo e
disposto ai combattimenti dell'elo quenza, più che alle severe indagini
speculative, pensò e compì negli anni del suo ritiro dalla pubblica vita un
compendio largo, chiaro, eloquente della filosofia greca 3
in servigio dei suoi connazionali digiuni sino a quel tempo di tali
studj, o costretti ad attingerli da fonti greche. Da questa pretesa
insufficienza dell'ingegno speculativo di Tullio,dal fine pratico e letterario
ch'e'sipropose,e dal difetto di studjpreparatorj la Criticamodernadeduce la
natura delle sue dottrine; le quali,benchè guidate sempre da criterio sano, e
da una retta applicazione del senso comune,non vanno troppo addentro nei
fondamenti della scienza, affermano per lo più senza esame maturo, nè
costituiscono,come le dottrine dei migliori filosofi greci, un largo e ben
architettato disegno di scienza.(Brucker, H i s t . C r i t . P h i l ., V . I
I , p a r . 2 , p . 1 . C . 1 . T e n n e m a n n , G. Bernhardy, Grundriss der
Römischen Litteratur. Braunsweig, 1862, pag. 769, $ 119.) 2. Facendoci a
cercare l'origine di tali giudizj abba stanza severi,parmi se ne potrebbe
addurre innanzi tutto unacausaassairemota,ma inparterelativaalmodoben
differente, con cui gli antichi e i moderni giudicano il valore di certi uomini
e di certi principj. Tale è la ri forma cominciata in Italia col Bruno, col
Cartesio in Francia, e in Inghilterra con Francesco Bacone,che spez zando ogni
autorità del passato,e quanto sino allora un'eccessiva venerazione avea recato
a fastidio,proclamò l'assoluta libertà della riflessione filosofica, l'assoluta
novità dei sistemi. C o m e s'intendessero quella libertà, e quella novità ; e
quali resultati ne seguitassero alle let tere, alle scienze, alle arti,al
vivere privato e civile,come se ne avvantaggiasse o ne patisse la Morale e la
Reli gione,la Scuola,la Famiglia e lo Stato,non è qui luogo a mostrarlo,e le
son cose oggimai troppo note. Nè io voglio negare i benefizj innegabili della
riforma,e soprat tutto di quella introdotta nelle scienze sperimentali dal
Galilei,eda FrancescoBacone;chè,selariflessioneli bera ed esercitata desunse
mirabili frutti di dottrina da ogni campo dell'umano sapere, e se ne
avvantaggiò la scienza dell'uomo, ne crebbero l'erudizione, la filosofia, le
discipline morali e civili; perfezionò i suoi metodi la Medicina, si levò
gigante la Chimica ,la Geologia sfogliando -4
illibrodellanaturavilesseleetàdelmondo;se tanti incrementi ne provennero
alle industrie e alle manifat ture, onde il viaggiatore trascorre paesi e
province con v e l o c i t à p i ù c h e u m a n a , e i n m e n d ’ u n b a l
e n o il s a l u t o r i congiunge gli amici,benchè separati dalla immensità
del l'oceano, di tutto ciò alla riforma della filosofia è debi trice l'Europa.
M a le è pur debitrice di quella inquieta brama del sapere speculativo, onde si
successero sistemi a sistemi del tutto nuovi sui più impenetrabili misteri
della conoscenza umana,e quel nuovo si cercò da molti nell'inusitato e nello
strano più che nel vero ; così co minciata in Italia ed in Francia la licenza
della rifles sione esaminatrice sui fondamenti della filosofia, ecco il
panteismo superbo del Bruno, del Campanella e dello Spinosa;poi,scontenti del
panteismo,ci diedero dottrine dualistiche il Malebranche e il Guelinx ,
l'idealismo e il sensismo ci vennero dal Berckeley e dal Locke,lo scet ticismo
dal Bayle e dall’ H u m e ; più tardi le sconfinate immaginazioni degli
Alemanni,e un ridurre Dio e l'uni versoall'uomo,dall'uomoalpensiero,dalpensieroall'idea,
dall'idea novamente alla materia, ed ultima conseguenza di tutto uno
scetticismo più sconsolato, un correre con tinuo a una felicità e a una
beatitudine ignota senza rag giungerla mai ;ecco i resultati dell'aver voluto
tutto inno vare !Posta in tal guisa la filosofia su questo cammino delle
restaurazioni assolute, e detto una volta che la scienza dee rifar la natura
(non,come è chiaro,dovere anzila scienza presuppor la natura tal quale essa è,
con tutti i suoi dati, con tutte le sue relazioni, dover verificarla, non
annientarla ), l'indirizzo introdotto nell'esercizio del pensiero filosofico da
quella folla di sistemi eccessiva mente inquisitivi, doveva esser tale,che
quando poi,sof fermata un istante la foga delle invenzioni, il pensiero istesso
si sarebbe rivolto sopra i suoi passi, e ne sarebbe nata compiuta e perfetta la
storia della filosofia, quella storia ritenesse come presupposto del suo
metodo, che unico,o quasi unico criterio per giudicare della eccellenza di un
filosofo e della sua filosofia, fosse l'assoluta indi 5- 6
pendenza del pensiero esaminatore dallo stato della n a turale certezza, fosse
in una parola la compiuta novità del sistema. A questo criterio, desunto dallo
scetticismo e padre di parziali opinioni, furono conformati più o meno quei
metodi falsi e incompiuti che si seguirono da oltre mezzo secolo in qua nello
scrivere storie della filosofia, onde ne derivò in Francia e nella Germania una
folla di libri, come ad esempio la storia comparata dei sistemi del Degerando,e
la storia del Tennemann,dove si giudi cano le varie filosofie alla stregua del
problema sull'ori gine dell'umane conoscenze, e dall'avvicinarsi che esse
faccian più o meno alle dottrine del criticismo di Kant; e un tal criterio ci
spiega come più tardi negli storici più temperati e meno
imparziali,segnatamente Alemanni, e nei filosofi delle altre nazioni, immuni
dal criticismo, continuasse ereditato dalla riforma questo soverchio studio dei
sistemi inventati, esclusivi, che ricusano dalla natura qualunque presupposto
sull'efficacia delle potenze conosci tive, e se ne avvalorasse l'opinione
levata a cielo ne’diarj e ne’libri di filosofia, sulla così detta individualità
d'ogni sistema,e incomunicabilità delle dottrine speculative. C o n siderate le
quali cose,non dovrebbe far maraviglia se quel tempo che corse tra lo scorcio
del secolo decimosesto e i principj del decimosettimo,quando Italia e
Francia,stanche dell'autorità abusata dagli scolastici, volevano innovare tutta
quanta la scienza (e fu allora appunto,come nota il Brucker, che si tentarono i
primi lavori speciali sulle dottrine dei Romani e di Cicerone),se quel tempo,
dico, non era troppo opportuno a giudicare imparzialmente una filosofia
studiosa delle più antiche e venerate tradi zioni.E nel vero anche piùtardi
intuttoilsecoloXVII, se n'eccettui coloro che rifiutarono i dubbj del Cartesio,
m a tennero il suo metodo d'esaminare la coscienza, quali il Bossuet, il
Fénelon e i più segnalati di Porto Reale, agli altri che s'appresero ai dubbj,
e venner giù giù n e gando i pregj dell'antichità,nemici d'ogni tradizione,non
poteva andare a genio davvero quella riflessione modesta e tranquillamente
efficace che il grande oratore avea 1 recato sulle verità eterne
della coscienza, desumendone le armonie universali delle dottrine greche
temperate dal senno e dalla moderazione latina. (Vedi l'opinione che ebbero
diTullioilPomponaccio eilCampanella,citatidal Brucker,pag.49,tomo II,notaa.) M
a d'altra parte, se per ispiegare questa opinione si nistra invalsa in Europa
contro la letteratura e la filosofia d'un popolo,che fu per eccellenza il
popolo delle tradi zioni,giova riportarci alle sorgenti diquella Critica, ec
cessivamente nemica al passato, questi giudizj poco reve renti che oggi si
ripetono dai più, apparvero solo nella Storia della Filosofia nata ne'principj
del secolo passato in Germania ed in Francia.Tra ifrancesi,per tacere dei p i ù
a n t i c h i , il D e g e r a n d o v i s p e n d e il c a p . X V I I I d e l
l a s u a Storia comparata dei Sistemi,dove enumerati prima gli ostacoli che
impedirono ai Romani un proprio esercizio dell'indagine speculativa,nota
opportunamente non essere stata abbastanza osservata dał comune degli storici
la grande efficacia che ebbe l'ingegno latino sulla Filosofia trapiantata di
Grecia, ond'essa assunse colore ed indole più positiva, e dalle soverchie
astrazioni si ricondusse al reale. Passa poi ad esaminare gli scritti di
Cicerone nel quale rinviene le note distintive d'ogni altro filosofo ro
mano,cioè una scienza desunta dalle greche tradizioni e composta con metodo
ecclettico dalle scuole differenti, una scienza accessibile ad ogni
intelligenza educata, e confa cente a spirar vita nell'eloquenza, ne'costumi,
nell'arte politica; scienza supremamente pratica e applicabile agli individui e
agli stati. (Histoire comparée des systèmes de philosophie considérés
relativement aux principes des connaissances humaines, par M. Degerando, tom.
III, parte I, 1823.) Giudizj assai meno temperati comparvero inAlemagna, dove
fiorendo mirabilmente le discipline filosofiche e isto riche, e pubblicandosi
tuttodì lavori speciali che illustrano con somma accuratezza ogni parte delle
lettere antiche, prevalse però più che altrove la severità della Critica, che
negava ogni nota originale alle lettere e alle scienze C Tra
i critici alemanni va innanzi agli altri in ordine di tempo e di autorità
Giacomo Brucker vero fondatore della Storia della Filosofia.Ma considerando
però il ca pitolo dove egli parla della filosofia de'romani e di Cice rone,ti
accorgi tosto che quell'uomo dottissimo moveva egli pure dal presupposto non
esservi stata in Roma che una semplice continuazione delle scuole greche ;e
secondo le varie specie di queste scuole divide lo storico il suo trattato
intorno alle dottrine romane annoverando Cicerone tra iseguaci della Nuova
Accademia ;quantunque confessi poco appresso ch'ei non seguì alcuna forma
particolare di setta,ma inclinò a quel Sincretismo istituitoda Antioco.
Veramente ilBrucker nel proporsi ilquesito,perchè mai i Romani e Cicerone non
crearono una filosofia propria,non ne accusa, come oggi il Forsyth, la infelice
disposizione dell'ingegno latino (the unmetaphysical character of the Roman
intellect.Life of Cicero,vol.II,p.282);ma quanto ai Romani in generale ei ne
trova la causa nelle occupa zioni della vita civile, e nella setta Accademica,
che cri ticando e sindacando tutti isistemi,svogliava gl'intelletti da nuove
speculazioni ; e quanto a Cicerone, nella natura del suo ingegno, più
immaginoso assai che penetrativo, ond'egli (dice lo storico) preferiva il
probabile all'esame profondo del certo, e delle greche dottrine rappresen tava
nelle sue opere la parte viva e oratoria più che il severo ordine dei giudicj e
delle deduzioni,e la generale armonia del sistema.(Brucker,Hist.Crit.Phil.,tom.II.)
Al giudizio dato dal Brucker si avvicina in gran parte quello del Tennemann ,e
nelle loro opinioni v'ha molto di vero e di certo, oltre la solita accuratezza
nella esposi 8 latine, appoggiandosi ben di frequente a così deboli prove
da far credere quasi che la movesse un'infelice gelosia di nazione. Ora da
qualche anno in Inghilterra e nella stessa Germania si torna con più studio al
passato, e molte parzialità si correggono ; ed io sono certo che ri composta in
pace l'Europa,ilprimo debito di giustizia alle memorie latine lo pagheranno gli
scrittori di quelle grandi e generose nazioni. 1 zione dei fatti;ma
per quanta possa essere la reverenza dovuta ai due storici insigni della
Filosofia, come non accorgersi che il loro esame,informato da un criterio an
ticipato e parziale, riesce insufficiente a cogliere il vero significato d'una
dottrina, come quella di Cicerone, la cui nota essenziale consiste nel rifiuto
d'ogni opinione di setta, e in un principio universale, che supera ogni si
stema ? M a se tanto può dirsi a buon dritto del Brucker e del Tennemann,
merita più speciale considerazione l'esame assai temperato,e per certo
ingegnoso,che fece degli scritti filosofici di Tullio, Enrico Ritter nella sua
storia della Filosofia antica. 3. Le indagini dotte e meditate del Ritter
movendo dai tempi antistorici della Filosofia,e procedendo lungo i tempi della
civiltà indiana, ionica e delle colonie italo greche fino all'origine delle
scuole socratiche, da queste al loro declinare e disperdersi in una confusione
di sistemi sparpagliati e sofistici, giungono a quello ch'ei chiama terzo
periodo dell'antica filosofia, all'età che intercede tra ilcadere delle
repubbliche greche sotto la romana, la rovina di quest'ultima, e il sorgere del
Cristianesimo. Due cause potenti egli allega del nuovo indirizzo preso in
quella età dalla filosofia greco-romana,e le ritrova nella storia delle due
nazioni, che allora si ricambiavano una vicendevole efficacia nelle lettere, e
nelle scienze, e nel vivere privato e civile. Nei Greci, perchè la costoro
scienza impoverita oramai dall'uso eccessivo della facoltà creatrice nei tempi
anteriori, dallo scadimento della li bertà e dei costumi, e costretta, per
accomodarsi all'in gegno e all'educazione dei nuovi dominatori,a vestire le
forme ed il metodo d'una disciplina scolastica, non d e sunse più le sue
dottrine immediatamente dalla riflessione, ma ritornò agli antichi sistemi,li
paragonò,li esaminò, li accordò, desumendo da essi stessi e incompiutamente, non
dalla natura intima del pensiero, il principio del l'esame e dell'accordo. Nei
Romani, perchè essi non of frirono ai Greci alcuna guarentigia di riforme
scientifiche, -9 ma vissuti sino a quel tempo in mezzo ai
tumulti della vita civile,e fra lo strepito delle armi,tranne una certa
tendenza, che li moveva agli ordinamenti giuridici, nè la natura, nè la
educazione loro si porgeva punto alle indagini della scienza. Quindi (osserva
ildotto Alemanno) era ben naturale che, date quelle condizioni morali,civili e
scientifiche, dall'accoppiamento dell'ingegno greco e latino derivasse un
Ecclettismo erudito; derivò infatti; e di questa filosofia, l'indole della
quale è sostituire la li bertà della scelta alla libertà dell'ingegno
inventivo, accomodarsi alla natura degli scrittori,abbandonato l'or dinamento
scienziale non fidarsi all'esame, e se occorre, attenersi principalmente
all'autorità del consentimento comune,eitrovò la più importante
manifestazione,oltrechè nel pendio generale dei tempi,nella vita,nell'animo e
nelle opere di Cicerone. Ei ne considerò con raro accor gimento la vita,e
vedendo come la parte ch'ei tiene nella storia della Filosofia, è perfettamente
d'accordo con quella che occupò nella storia civile dei tempi ; come furono le
medesime qualità e gli stessi difetti che, se lo levarono alto nella vita
pubblica e nella filosofia, non gli consen tirono per altro di giungere al
sommo e nell'una e nel l'altra, ricercò queste qualità e questi difetti
nell'indole di lui, e non gli parve rinvenirvi accoppiata alla vivezza
dell'ingegno oratorio, al sentimento squisito del diritto, all'amore per gli
altri,e particolarmente pe'suoi,all'ope rosità indefessa,a una rara previdenza
dell'avvenire,quella sicurtà in sè stesso e quella fermezza di volere che costi
tuisce il grande scrittore e l'uomo di stato. Condotto, egli
dice,dall'efficacia di condizioni esteriori a filosofare, come nella sua
gioventù, mentre applicava la filosofia all'esercizio dell'eloquenza,egli avea
frequentato le prin cipali scuole di Grecia, così nel suo ritiro dalla pubblica
vita non seguì una dottrina particolare, ma trascelse il meglio di tutte; la
quale incertezza di studj, che non a p profondivano la scienza, ma la
assaggiavano appena, ri sentiva della incertezza della sua condizione politica,
perchè ei scrisse le sue opere principali durante gli scon 10
volgimenti del primo triumvirato,la dittatura di Cesare e il consolato di
Antonio,tempi calamitosi per la libertà, nei quali escluso da ogni ingerimento
civile, e fuggendo il cospetto degli scellerati, andava consolando la sua soli
tudine colle meditazioni della scienza.Era quindi ben naturale che il grande
oratore, vissuto da lunghi anni in tanto splendore delle pubbliche faccende,
non si ripo sasse volentieri negli ozj solitarj delle sue ville ; la d e
bolezza innata dell'animo suo, come gli avea impedito di rimaner fermo al
governo delle cose civili, di valersi della sua autorità per contrastare ai
principj della ti rannide cesarea, ora gl'impediva di darsi a tutt'uomo agli
studj della filosofia; ed ei ne scriveva ad Attico, e all'amico dipingeva con
vivi colori questo penoso on deggiar ch' ei faceva tra l'amore onde era tratto
agli studj, e il desiderio di prender parte ai pubblici affari, tra la sfiducia
sua nelle consolazioni della scienza,e una sublime speranza che lo levava al
disopra delle umane cose. Da queste intime qualità dell'indole di Cicerone
deduce l'istorico Alemanno la natura della sua filosofia, ch'è,secondo lui,un
moderato scetticismo,espressione fe dele di animo titubante;scetticismo
moderato,perchè seb bene talvolta, oppresso dal peso delle sventure proprie e
della patria, ei mostri dubitare del vero eterno e della virtù, nondimeno
conserva sempre intemerata la nobiltà d e l l a v i t a , e il d e s i d e r i
o d i u n a m o r t e g l o r i o s a ; m a t u t t a v i a scetticismo, perchè
riconoscendo la natura assoluta del vero, ammette solo come verosimili le
dottrine che ne d e rivano, e dubitando interroga tutte le scuole, prende ad
esame tutte le opinioni greche,e accordandole insieme più con intendimento
politico, che con vero criterio di scienza, ne vuole arricchire il patrimonio
della romana letteratura. Sennonchè tra le varie dottrine in cui si di videvano
le scuole greche, una ve n'era che s'accordava mirabilmente agli intendimenti,
e all'ecclettismo scettico abbracciato da Cicerone; e questa era la dottrina
della Nuova Accademia.Se Tullio infatti poneva ilfondamento della filosofia in
un dubbio moderato sui principj delle - 11 - umane conoscenze,
la Nuova Accademia , guidata allora da Filone, che gli era stato maestro nella
sua giovi nezza, riconosceva come legittimo questo dubbio, e lo temperava con
la verosimiglianza ; se l'oratore romano voleva che le dottrine della filosofia
conferissero ad a d destrare il pensiero e la parola negli esercizj della elo
quenza, nessuna scuola si porgeva meglio a questa di sciplina della scuola dei
Nuovi Accademici, che oltre all'essere stata sempre frequentata da uomini
eloquentis simi, si riduceva in sostanza a un metodo disputativo ; infine se
egli raccoglieva le principali dottrine della filo sofia greca,per comporne una
scienza accomodata all'in gegno eall'educazionefilosoficadeisuoilettori,laNuova
Accademia,che disputava contro tutti e di tutto, che la sciava al filosofo la
maggiore libertà dei proprj giudizj, gli si porgeva opportuna a disegnare in
brevi tratti ai Romani lo stato della filosofia passata e contempo ranea, ad
innamorarne i lettori, senza perderli in vane e astruse dottrine, o incatenarli
a un sistema. Cice rone dunque (secondo l'opinione del Ritter) come ecclet tico
dubitante,come oratore e come espositore della filo sofia greca ai Romani,
abbracciò le dottrine della Nuova Accademia ;e va notato particolarmente, sì
perchè questa è l'opinione più universalmente accettata intorno alla vita
filosofica di Tullio, e alla parte che tengono le sue dottrine nella storia
della filosofia, e perchè il comune degli storici ricollega quasi
sostanzialmente a quel si stema le sue opinioni sulle parti principali in cui
si divide la scienza. Così opina anche il Ritter, e prendendo ad esame le opere
tulliane, secondo la tripartizione plato nica della filosofia più comune agli
antichi (egli avverte però che,stante l'incertezza dello scrittore e delle
dottrine e la loro qualità, tutta pratica e positiva, la distinzione delle tre
parti non è abbastanza spiccata), rinviene in tutte più o meno chiaro,più o
meno deciso il dubbio della Nuova Accademia. V'ha dubbio deciso nella parte
fisica, perchè ivi abbondavano più che altrove le dispute e le contradizioni
dei filosofanti; dispute sulla natura delle 12 cose, dispute
sull'esistenza e sulla natura di Dio e sua provvidenza, sulla natura dell'anima
e sua immortalità ; e di tutti questi veri Cicerone o dubita compiutamente,o
ammette solo una leggera verosimiglianza. V'ha dubbio anche maggiore nella
parte logica, anzi è questa la più povera e la meno determinata di tutte le sue
dottrine,e perchè ei la collegava meno d'ogni altra agl' interessi pratici
della vita,e perchè il sensismo degli Stoici e degli Epicurei, che aveva a
combattere, non potea tener fronte agli argomenti della Nuova Accademia ;
finalmente v'ha dubbio manifesto anche nella morale, perchè s'ei con traddice
ricisamente alla ignobiltà delle dottrine epi curee, la controversia tra gli
Stoici e i Peripatetici l o lascia indeciso da un lato tra un'idea trascendente
della virtù, a cui lo muove la grandezza dell'animo romano, dall'altro la
fragilità di natura ; incertezza che pure lo segue nella politica, e nelle
attinenze della politica colla morale. Talchè il Ritter movendo dal presupposto
che la filosofia di Tullio non fosse che eloquente dell'indole
particolare dello scrittore e dei tempi, negò ogni certezza e ogni legame di
scienza in ciascunasuaparte;ogniconcatenamentologicaledelle tre parti tra loro
(perchè quella logica e quella fisica non sono per lui che un'appendice della
morale, considerata da Tullio com'arte pratica della vita); negò ogni unità di
disegno scientifico, perchè mancava allo scrittore l'unità del principio
fondamentale, posto dalla riflessione, e a cui rispondesse l'universale armonia
del sistema.Onde a rias sumere in breve ciò che rappresentino alla mente del
l'istorico tedesco le dottrine tulliane,direi ch'e'le con siderava qualcosa più
e qualcosa meno d'un ecclettismo; ma una scelta a cui manca e libertà di
riflessione e cri t e r i o d i s c i e n z a . ( H i s t . d e l a P h i l . a
n c ., l i b r o X I I , c a p . I I , vol.IV,ed.cit.) una manifestazione 13 Se
noi ci siamo alquanto trattenuti nell'esporre le opinioni del Degerando, del
Brucker e del Ritter,è stato segnatamente per due ragioni ; la prima perchè
poteva recare non piccola luce intorno ad una questione che abbiam
preso ad esaminare,e su cui sono infinite le dispute dei critici e de'filosofi,
il giudizio degli storici migliori che vanti la nostra scienza ; e in secondo
luogo affinchè i pochi cenni, che ne abbiamo dato,muovano gli studiosi a
ricercare con maggior diligenza le variazioni e iprogressi, che ha fatti sino a
noi la critica sulle dottrine filosofiche di Cicerone. Questa critica non pare
immeritevole di qualche considerazione, perchè rappresenta quasi in sè stessa
quel moto graduale dell'esame, e quel lento c h i a r i r s i d e ' p r i n c i
p j s u p r e m i , c h e g o v e r n a n o i f a t t i, o n d e si generava in
Europa la storia della filosofia. I primi tra questi storici,come Stanley e De
Burigny, che nuovi del cammino, e spaventati dalla grandezza dell'impresa,
fecero lavori imperfetti e meglio tentativi di storie, che storie vere, o
tacquero affatto, o poco parlarono di Cice rone che nella modestia delle
proprie opinioni (magnus opinator) non aveva dato un sistema. Negli storici se
guenti, che abbiamo citato, e segnatamente nel Brucker quella critica comincia
a chiarirsi;vi si medita con più ampio concetto la parte che ebbero i Romani
nell'adu nare le greche dottrine, nel farle proprie, e trasmetterle a
noi;Cicerone v'è considerato,non già come un filoso fastro qualelochiamò
ilPomponaccio,ma comeunvasto e ben disciplinato intelletto,che,scorrendo
ilcampo della filosofia greca, ne chiamava a rassegna ad uno ad uno i sistemi.
E contuttociò quella critica era ancora ben lon tana da un esame profondo e
spassionato delle dottrine tulliane; dovevansi emendare molte inesattezze, tor
via molte preoccupazioni (qual era,per esempio,quella che faceva di Cicerone un
perfetto seguace della Nuova Ac c a d e m i a , e u n e c c l e t t i c o d u b
i t a n t e ), e , q u e l c h e s o p r a t t u t t o importava,trattandosi di
M. Tullio,che tanto ritrasse da Socrate e nel metodo e ne'principj,conveniva
cercare per entro alle sue dottrine l'immagine della vita e del carat tere
dello scrittore. Tale intendimento apparisce in alcune memorie del sig.Gautier
de Sibertche hanno per titolo,Examen de la philosophie de Cicéron, lette
all'Accademia francese 14 15 delle Iscrizioni e Belle
Lettere, nella seconda metà del secolo scorso ; dove si esamina accuratamente
la parte oggettiva delle dottrine tulliane, si dimostra il vincolo di sistema
che le congiunge , e si difende dalle accuse di scetticismo la fama del grande
Oratore. Lavoro merite vole di molta considerazione per sanità e profondità di
giudizj, se a questa non nocesse talvolta l'aver guardato più alla materia
delle dottrine che alla loro forma scien tifica, e considerato Cicerone come
filosofo compiuto e dommatico in ogni parte,anzichè avvolto di continuo nelle
dispute degli opposti sistemi.(Mémoir. de l'Acad. des I n s c r i p t . e t B e
l l . L e t t ., v o l . X L I , X L I I , X L V I .) A questi difetti sembra
(come vedemmo) riparare in gran parte l'esame del Ritter, che sebbene ritenga
molto delle sue opinioni private e di quelle della filosofia che lungo tempo ha
dominato in Germania, nondimeno rias sume in breve quanto di meno inverosimile
può dirsi sul preteso ecclettismo ciceroniano. E dirò anche di più, che l'esame
del Ritter, fondato com'è in una conoscenza profonda delle opere di Cicerone,
contiene innegabili verità, qual è quella,per es.,che nello svolgimento delle
dottrine del grande Oratore esercitasse una singolare efficacia i suoi tempi,
la sua nazione, la sua indole propria; che speciale qualità di questa indole
fosse sovente un ondeggiare fra la fiducia e la dispera zione del vero e del
bene eterno,e che a queste dubbiezze contrastasse efficacemente il senno
pratico della natura romana .M a d'altra parte noi siamo ben lungi dal credere
che il dotto Tedesco,e quanti innanzi e dopo ne tennero le opinioni, abbiano
considerato nel suo vero aspetto l'indole delle dottrine tulliane; chè, se non
può negarsi da un lato esservi in esse un che di necessariamente re lativo alle
condizioni dei tempi e alla natura dello scrit tore, e quindi mutabile, non
necessario e contraddicente alla natura assoluta e apodittica della scienza,non
è men vero dall'altro ch'ei pur rinvenne nell'intimo delle dot trine
contemporanee, e nello studio profondo dei veri eterni specchiati in sè stesso
e negli altriuomini,un cri 16 terio certo, universale, infallibile
da costituirvi la scienza. V’ha dunque nella filosofia di Cicerone questo che
di oggettivo e di soggettivo, di relativo e di assoluto, di mutabile e di
necessario ; m a l'una e l'altra qualità si ricollegano insieme per nodi di
universale armonia ; armonia di relazioni tra l'uomo di un tempo e l'uomo di
tutti i tempi,tra il romano e l'abitatore di tutta la terra, tra Cicerone
oratore e politico e Cicerone filosofo; armonia esterna e oggettiva a cui
risponde quell'altra interiore, attestataci dalla coscienza, tra il pensiero e
l'affetto, tra la volontà e la ragione,tra l'intelletto e le verità immortali.
E certo a queste considerazioni, disco nosciute dal Ritter e dagli altri
critici Alemanni, badò Raffaele Kuehner,autore sin qui del più compiuto esame
delle dottrine di Cicerone ch'io mi conosca,edito in A m burgo l'anno
1825,quando rispondendo al quesito pro posto da uomini dottissimi ; se Cicerone
meritasse o no il nome e l'autorità di filosofo,pensava che algrande Ora tore
s'appartiene giustamente quel titolo per l'ampiezza dell'ingegno,la vasta cognizione
delle dottrine contem poranee, l'uso ch'egli ne fece volgendole in latino a cul
tura e ammaestramento dei suoi concittadini, e infine per la facoltà unica in
lui, ond'egli seppe abbracciare tanta mole di scienza, fissare l'indagine della
riflessione sulle verità principali, e comparando tra loro le varie dottrine,
ricomporle coll'efficacia del proprio giudizio in unità di sistema.(M.T. Cic.in
phil.ejusq:partes merita, Auc.R. Kuehner.Hambur.1825. Pars altera.Cap.VI; Utrum
Cic.philosophus judicandus sit,nec ne,anquiritur, pag.130.) E questi pajono
anche a m e i meriti veri e innegabili del senatore romano ; e nondimeno ogni
qual volta io rileggo quelle sue opere, nelle quali spira tanta univer salità
di pensieri e d'affetti, universalità veramente latina, incui ilvero è
sìprofondamente immedesimato col buono, e tutta s'accoglie la sapienza delle
scuole socratiche, mi pare che la critica delle sue dottrine possa ricevere a n
cora notevoli perfezionamenti, sempre che col chiarirsi Posto ciò,
non sarà difficile, parmi, determinare con sufficiente chiarezza in quali
confini si contenesse l'effi cacia che l'ingegno di Cicerone ebbe nella riforma
della filosofia quand'essa fu trasferita di Grecia in Roma, e in quali
vicendevoli attinenze stiano tra loro quanto di già meditato e discusso gli
venne dalle scuole d'oltremare, e quanto vi seppe recare egli stesso rivolgendo
il pensiero sui fondamenti della scienza , questione che (conforme a quanto è
detto più sopra) noi ci siam proposti di chia rire nel presente discorso,
fermandoci a tre punti segna tamente :cioè,qual era la condizione della
filosofia greco romana ai tempi di Cicerone, e con qual metodo egli esaminasse
e combattesse le dottrine delle principali scuole tentando di conciliarle ;
finalmente qual filosofia derivasse dalla deliberata opposizione e dal metodo
compositivo del l'Oratore latino. successivo di quella legge,che regola
la filosofia nel tempo, se ne va perfezionando la storia. Ora quella legge può
solo spiegare, a mio avviso,l'ufficio della filosofia de’Giu reconsulti e di
Cicerone, e dall'ufficio desumerne la na tura e i principj. Può spiegarne
l'ufficio, già manifesto e considerato da molti rispetto alla Giurisprudenza e
agli ordini militari e politici, alla Religione e all'Architettura, che è di
comprendere in sè il buono degli altri popoli, tentando ridurlo a nuovi
ordinamenti di scienza; può spiegarne la natura, che è appunto quella
comprensione universale, tanto diversa dall'ecclettismo, che procede per
accozzamento disordinato dei sistemi,anzichè ricomporre le intime relazioni
delle verità naturali sul disegno della
coscienza;finalmentepuòspiegarneilprincipio,cheèl'esa me
dell'uomointeriore,contrappostosull'esempiodiSocrate al dubbio , o all'esame
arbitrario e imperfetto dei sistemi contemporanei; tre punti importantissimi, a
mio parere, e che, ben meditati, danno luogo a chiarire i principali problemi
esaminati sin qui dalla critica sulle dottrinedel sommo Oratore. 17 2
18 1, Gli storici più reputati della filosofia si accordano tutti in
mostrarci un manifesto scadimento delle dottrine greche,il quale apparve dopo
il fiorire dell'antica Acca demia e del Peripato, e crebbe fino ai tempi di
Tullio, accompagnandosi,come suole avvenire il più delle volte, colle vicende
degli ordini privati e politici. I quali sin dalla prima metà del secolo V
avanti l'èra volgare venuti a mirabile altezza d'incivilimento, e generatori in
pochi anni di tanti miracoli di virtù e di dottrina, quanti presso altre
nazioni può appena rammentarne la storia di molti secoli,mancata la virtù che
liaveva nutriti,prima ancora d'invecchiare, si corruppero e precipitarono,
rappresen tando in sè stessi un'immagine stupenda, abbenchè fug gitiva, della
vita dell'uomo. E invero la gioventù della Grecia fu tutta in quei memorabili
anni ne'quali i suoi figli per ben due volte ricacciarono in Asia gl'invasori
Persiani, in quei combattimenti ne'quali la sua m a rina doventò signora del
Mediterraneo, ne crebbero i suoi commerci e le sue industrie, ne trassero
argomento a sublimi ispirazioni i poeti e gli artisti; così da quel primo
incitamento si propagò in tutte le repubbliche greche,e segnatamente in Atene,
un moto fecondo d'opere, d'istituti,di dottrine,d'eleganti costumi,che nutriva
in sè nella crescente corruzione del Gentilesimo germi di
rinnovamento,fecondati più tardi dalla riforma di Socrate e dalla filosofia di
Platone, nelle dottrine de'quali tu vedi scolpita quella vita operosa del
pensiero e de'co stumi popolareschi, quel conversare continuo, quelle di spute
in piazza e per via, quella reverenza delle tradizioni sacre,quel sentimento
profondo del divino e dell'immor tale che accompagnava la giovinezza del popolo
greco. Ma passata appena una generazione dal fondatore del l'antica Accademia,
le conseguenze della malaugurata guerra del Peloponneso si facevano
sentire,l'abuso scon II. umana 19 sigliato delle libertà
cittadine recava frutti di servitù, e la Macedonia invadeva.Chè se quella può
dirsi con qual che ragione l'età virile del popolo greco,nella quale raf
forzatosi di potenti ordini militari e principeschi sotto il regno di Filippo,
portò guerra con Alessandro nel cuore dell'Asia,vendicandoiTrecento
delleTermopili,èquesta una virilità che giàdeclina a vecchiezza;e n'è indiziola
filosofia d'Aristotele,superiore a Platone nel severo or dinamento scienziale,
e nell'indirizzo fecondo dato alla riflessione sul reale e alle scienze
d’esperimento,ma su perato da lui nella sublimità della dialettica, nella vi
vezza delle tradizioni sacre, e nella idealità del sistema. M a ormai la
discesa dei tempi non si poteva più tratte nere ; e la Grecia passata dal
dominio degli Spartani a quello de Macedoni, dai Macedoni, morto Alessandro e
diviso il regno nei successori, sotto un tritume di piccole tirannidi, non ebbe
nè anche, come più tardi avrebbe avuto l'Italia del secolo XVI,un legame di
alleanza poli. tica fra i suoi stati tanto da conservare un'effigie qua lunque
d'unità nazionale,e mancò,come l'Italia del se colo XVI,di quella efficacia di
salde istituzioni che una monarchia prudente suole introdurre nei popoli guasti
da libertà licenziosa. N o n è quindi a maravigliare se quella stessa Atene,
che avea veduto un Pericle non attentarsi a spogliare delle apparenze civili
l'autorità quasi regia consentitagli dai cittadini, pativa più tardi la
signoria d’un Demetrio di Falera,e quel popolo istesso,che avea punito di morte
Socrate accusato d'irreligione, salutava col nome d’iddio un Demetrio
Poliorcete, e lui pro fanatore d'ogni cosa e divina accoglieva nei sacri
penetrali del Partenone. Sono questi i segni più indubitati della vecchiaia
d'un popolo, e quel lento e continuo scadere dell'ingegno e della vita del
popolo greco, oltrechè negli ordini politici,appariva in ogni altra parte della
sua civiltà. Scadevano sempre più gli ordini materiali, perchè a quel primo
moto di commercj e d’in dustrie,nutrito dalle libere istituzioni,era succeduto
quel solito languore, quel ristagno d'operosità, che è conse guenza
necessaria (e noi lo sappiamo) delle arti dei go verni assoluti;e la signoria
de'mari, ristretta per l'in nanzi agli stati del continente e dell'Arcipelago
greco,si allargava ora ai Fenicj, agli Asiatici, agl’Italioti.Si cor rompevano
i costumi, e la corruzione tanto più rapida procedeva, quanto più nel crescente
oscurarsi delle anti che tradizioni si sentivano funesti gli effetti delle cre
denze gentili; e quella vita di raffinata eleganza non più temperata dal moto e
dalla severità dell'educazione re pubblicana, si affogava ne'diletti del senso;
e al senso, non più al pensiero, servivano le arti del bello divenute
adulazione di tiranni e di meretrici; infine di tutto ciò come causa ed effetto
risentivasi la filosofia, di rado a v versando, più spesso secondando il pendio
della corrut tela universale. E noi, lasciato da parte lo scetticismo, che fece
un breve e inopportuno tentativo in Pirrone,di remo più specialmente dei
principali sistemi fioriti in questa età, e che spiegarono maggiore e più
diretta effi cacia sulla filosofia latina. 2. Onde mossero dunque questi
sistemi? Ritenendo essi qual più qual meno , sebbene con notevoli alterazioni,
il metodo e il fondamento delle dottrine socratiche, co minciarono da un
ritorno ai sistemi che avean posto fine all'età antecedente della filosofia
italogreca, ritorno evi dentissimo negli Stoici, e che ci spiega com’essi,
mentre derivarono da Socrate la loro morale,e ne ritennero in parte il
dualismo, retrocedettero in fisica al panteismo degl'Ionj, e come contrastando
alle lusinghe dei tempi coll'idea sublime del bene, li secondarono poi brutta
mente desumendo la causa e la ragione suprema dalla materia e dal senso. E
anche questa volta la confusione del panteismo nacque da un modo fantastico e
altutto ar bitrario di conciliare ciò che si presenta alla ragione ed al
senso,la immobilità dell'essenza e la mobilità del fenomeno, il mutabile e
l'immutabile, l'ente e il non -ente, il neces s a r i o e il c o n t i n g e n
t e , il r e l a t i v o e l ' a s s o l u t o ; e p i ù , d a u n
pervertimento del concetto di causa prima.Per pensare, 0,meglio,immaginare
quella conciliazione, bisognava porre 20 un unico principio,
in cui esistessero ab eterno identifi cati in stato di quiete una potenza ed un
atto indeter minati ambedue, e che si determinassero poi al momento in cui
l'universo dall'indeterminatezza primordiale dovea passare alla forma e agli
atti successivi.Gli Stoici y'an darono alterando il concetto di causa prima.
Causa, essi dissero, è ciò per cui una cosa s'effettua; ora niente pro duce un
effetto, che non sia corpo ; dunque l'essenza uni versale di tutte le cose è un
che di corporeo; e quindi essi partivano dal punto direttamente opposto a
quello dacuierano mossiPlatoneeAristotele;chè,sel’Ateniese e lo Stagirita
concepivano la materia come negazione di essere (to un ow), e il primo segnatamente
poneva l' es senza assoluta nell'incorporeo e nell'intelligibile,gli Stoici
invece concepirono la materia corporea come il primo principio e l'intima
realtà delle cose tutte. M a che cosa era questa materia ? Questa materia
primitiva ch'è in Platone e in Aristotele, e che più tardi troviamo negli
Scolastici, senza qualità e senza forma, sostanza oscura,
infinitamentepassivaesuscettibilediforme,infinitamente divisibile,è una
finzione immaginativa,è una vTÓGeols (nel doppio significato antico e moderno)
collocata a capo delle cose tutte per ispiegarne in un modo qualunque la possi
bilità,ed eludere l'antico assioma ex nihilo nihil;ma non avvertivano que'
pensatori che, se v'è un caso in cui l'as sioma abbia un vero valore, è appunto
questo,poichè la materia pura potenza è un che vuoto,nudo ed inefficace, è il
nulla vestito dalla fantasia delle qualità del reale. Cercata la causa nel seno
medesimo dell'effetto, anzi iden tificata coll'effetto, il germe del panteismo
doveva svol gersi necessariamente,e sisvolse.Come?Si tornò al di namismo di una
parte degli Ionj, e poichè fondamento del dinamismo è l'ammettere che il moto
fenomenale delle cose si faccia per isvolgimenti di forze intrinseche ad esse,
si concepì nella essenza intima dell'universo,che a somiglianza d'Eraclito
dicevasi dagli Stoici essere il fuoco artificioso, rūp témuczor,un'energia
primitiva,un che infinitamente attivo,cagione unica di tutti i fenomeni
21 22 delle cose,e della loro forma determinata,perchè traendo ad
atto le forze intime della materia, ne va foggiando questo univers0
sensibile,(τον θεόν σπερματικός λόγον όντα ToŬ zoopov.Diog.L.,VII,136,e Cic.,De
N. D.,libroII, cap. XXII,e pass.). La falsa induzione che per vizio
d'antromorfismo finge le potenze e gli atti universali della natura ad esempio
delle facoltà umane,non si arresta qui, ma informa da cima a fondo la fisica
degli Stoici. Essi considerando che in noi principio primo di moto e d'at
tività è l'anima, chiamavano anima quella virtù infor matrice delle cose tutte,
e l'universo rassomigliavano a u n g r a n d e a n i m a l e ; p e r c h è, d i
c e v a n o (u s a n d o u n a r g o m e n t o di panteismo rigoroso adoperato
più tardi dal Campanella ), se le parti del mondo sono animate,sarà animato
anche il tutto, e se le varie parti del corpo sono mosse dall’anima, e l'anima
è governata dalla ragione, anche i moti del mondo proverranno dall'anima
universale, il cui princi pato risiede nella ragione. Quest'atto, anima e
ragione dell'universo per gli Stoici era Dio ; e quindi si capisce com'essi
trasportando sempre nel divino le facoltà del
l'umano,concepisseroDiodaunlatocomeprincipio prov vidente e ordinatore, e
dall'altro come energia primitiva, come causa e unità di tutti imoti
fenomenali,e perchè,m e n tre lo simboleggiavano sotto la cieca e inevitabile
neces sità del destino (dep.zpuéva), che contenendo la materia l'agitava di
causa in causa con movimento perpetuo, attribuissero a questo spirito divino
abitatore della m a teria la divinazione delle cose future.(Cic.,De N. D.,De
Divin .,De Fato,pass.)Concependo in tal modo la materia come contenuta e
vivificata intimamente dall'unità della forza divina (unità che per il
principio della filosofia s o cratica distinguevano in forze secondarie ed
opposte),non è maraviglia che gli Stoici, tornando anche in questa parte agli
Ionj,attribuissero qualità divine alle grandi potenze della natura, come agli
astri,agli elementi,ai vizj, alle virtù,e segnatamente all'anima umana,e ne
deri vasse la loro interpretazione fisica delle mitologie. Quindi dai principj
della loro scienza naturale uscivano la logica e la psicologia.Che
cosa è l'anima?Essa per gli Stoici,come tuttele altre cose,come Dio
stesso,ècorporea;ma come forza primitiva e principio di moto partecipante
all'atti vità universale, intimamente è divina ; e la sua unione col corpo la
immaginavano come una compenetrazione, sì per il loro principio della
compenetrazione delle so stanze, e sì per la somiglianza, che l'anima dell'uomo
ritiene coll'anima universale compenetrante e vivificante l'universo delle
cose;e come quest'anima universale, seb bene distinta in altre forze seconde,è
in sè stessa prin cipio unico de'moti e de'fenomeni delle cose, così in noi
tutti i fatti dell'anima riducevano all'unità del principio dominatore (nepovezov
) che è fonte e causa motrice delle facoltà seconde. E qui è notevole assai,che
mentre l'in dirizzo dato all'osservazione dell'uomo interiore dalla riforma di
Socrate salvava gran parte della psicologia stoica dalle conseguenze
materialistiche del principio che la informava, quella loro inclinazione a
studiare i soli fenomeni della materia ricomparve nella dialet tica, e ne
proveniva il sensismo. Movevano anche que sta volta da un cattivo concetto di
potenza e di causa. E valga il vero. A quel modo stesso che in fisica aveano
pensato la prima potenza e la comune possibi lità delle cose come un che vuoto
e privo naturalmente d'entità e d'efficacia, così immaginarono nell'anima la
possibilità del conoscimento come una potenza nuda, inefficace e priva di contenuto,simile,
dicevano, ad una pergamena senza caratteri (ώσπερ χαρτίoν άνεργον εις
c.Troypapiv ), dove , svegliatosi l'atto dell'anima (come l'atto primitivo di
Giove nella materia) all'occasione delle sensazioni, imprime le rappresentanze
o le pav Tuoive delle cose. Che cosa poi fossero queste fantasie è facile a
immaginarlo, e ce lo dice anche il nome. Nel quale comprendevano gli Stoici la
totalità dei fatti interiori presenti alla coscienza ed originati tutti dai
sensi, nè potevano dare al conoscimento altra qualità in fuori dalla sensibile,
e perchè l'anima umana,come parte delDio animantelecose tutte,ritiene ilsuo
modo 23 - 24 di conoscere,che conforme alla sua natură è un
cono scere sensitivo, e perchè essa stessa l'anima è corpo, e perchè, l'essenza
universale di tutte le cose essendo cor porea, non si può dar conoscenza se non
di corpo. Or che ne veniva da ciò? Ne veniva che ammettendo essi da un lato
ogni conoscenza derivare dai sensi, dall'altro non potendo negare la natura
dell'intelligibile necessaria, assoluta e profondamente opposta alla natura del
sensibile, ponevano le idee come una trasformazione della sensa zione operata
dall'anima, precedendo in tal modo i sen sisti francesi. M a , di grazia, sì
gli uni che gli altri sfug givanoforseallanecessitàdellacontradizione?Ne
rimaneva una intrinseca al loro sistema e maggiore di tutte,quella cioè di
negare all'anima un primo principio, una capa cità naturale al conoscere e
immaginare ch'essa poi ve nutale la materia di fuori, doventi all'improvviso o
p e rante e di operazioni tutte sue proprie. M a in tal m o d o il sensista
tira più là la questione, e non la risolve; per chè,quando eisarà pervenuto a
un dato termine dellasua dimostrazione, io gli mostrerò com'ei si trovi in
opposi zione diretta ai principj su cui l'ha fondata. Dice:Nego nell'anima
qualunque notizia primitiva e fontale delle idee;e aggiunge:ecco però come
nell'anima stessa si generano quelle idee.L'oggetto esterno fa impressione sui
sensi; i sensi per mezzo dei nervi comunicano le i m pressioni al cervello,e
l'uomo acquista l'idea dell'obbietto s e n t i t o . M a è q u i a p p u n t o
d o v ’ i o p r e g o il s e n s i s t a a d a r restarsi. Poichè,
manifestatasi in noi la notizia, che al certo provenne dall'occasione de'sensi,
se la mente si volge a considerarla nella sua natura,vi riconosce bensì da un
lato un referimento esterno all'obbietto onde spe rimentammo l'efficacia
causale,ma d'altro lato vi scuo pre anche una più intima e segreta relazione
cogli atti dello spirito, e coi sommi principj del vero, obbietto i m mediato
della potenza conoscitiva.Tale contradizione che deriva dal confondere insieme
la natura del sentimento e delle cose e la natura ideale, non potranno mai fug
gire i sensisti, se pure essi non vorranno ammettere la
conseguenza più legittima del loro sistema,vo'dire il m a terialismo; al qual
proposito bene osserva il Leibniz nei Nuovi Saggi (lib. II), che coloro i quali
s'immaginano l'anima informa di una tavoletta,o di un pezzo di cera,in cui nulla
sia scritto prima della sensazione, trasferiscono in lei le condizioni passive
e inefficaci della materia. Se consideriamo adunque attentamente il sistema de
gli Stoici,esso ci si presenterà da un lato come un pan teismo, dall'altro come
un dualismo. È un panteismo se guardiamo a ciò che, secondo il Ritter, ne
formava il d o m m a fondamentale, all'unità primigenia e finale delle cose
tutte e al concatenamento o consenso delle parti della natura informata
dall'anima universale e divina, ond'era costituita per gli Stoici la legge del
Fato ; ma è invece un dualismo,se vi meditiamo la opposizione tra Dio anima del
mondo e il corpo del mondo, tra la m a t e r i a e l a f o r m a , il p a s s i
v o e l ' a t t i v o , il p i ù e m e n p e r fetto nelle esistenze, l'unità
assoluta di Dio e la diversità delle cose,diversità che pur dee terminare una
volta rientrando nella indifferenza primitiva di Dio. La quale opposizione, che
ha reso non ben definito il giudizio di parecchi istorici sulla qualità di
questo sistema, io credo derivasse non tanto da quella medesima incertezza tra
la confusione dell'età orientale ed italo-greca e il nuovo bisogno delle
distinzioni dialettiche, che è pur manifesta nelle dottrine di Platone e
d'Aristotile,quanto dall'avere gli Stoici, più assai de'loro
predecessori,esagerata l'in duzione che dalla notizia dell'uomo litrasportava a
quella dell'universo e di Dio. E fu qui dove peggiorarono assai dai sistemi
anteriori. Peggiorarono in fisica, perchè seb bene Platone nel Timeo
dimostrasse che l'universo tutto quanto era animato,e Aristotile,adombrando per
via con trariaildivenirehegeliano,trasformasselamateriaintutte lecose,ambedue
silevaronpiùalto,eoltrequell'universo animato e al di là di quella
materia,l'uno contemplò l'Ar tefice divino, da cui s'irraggiava nelle cose e
nelle anime la luce degli esemplari eterni , e l'altro intravide il fine
supremo desiderato dalla universale natura ; peggiora 25 3. E
d ecco circa in quei medesimi anni, nei quali fioriva Zenone Cizico,e spiegava
le sue dottrine infette di panteismo e di dualismo (verso l'a. 300 prima di
Gesù Cristo), apparire la negazione particolare dei sensisti e degli idealisti
con Epicuro e con Arcesilao. E quanto al primo, chi ben consideri la sua
filosofia, vi troverà un nuovo e sempre crescente pervertimento delle dottrine
o anteriori o contemporanee ; chè se già era cattivo indi zio in Zenone e in
Crisippo l'imitazione degli Ionj e d'Eraclito, fu pessimo in Epicuro il ritorno
ai sofisti della stessa età italo-greca,e segnatamente a Democrito. Notammo
anche come nonostante la rigidità e l'altezza della morale stoica,vi si
scorgeva chiaro un esame s e m pre più imperfetto e parziale dellaumana
coscienza;ora questo è anche più manifesto negli Epicurei, i quali non si
contentarono come gli Stoici, lasciate da un lato le naturali tendenze,di porre
la virtù e la beatitudine in un sublime disprezzo dei beni della vita ;m a
scesero più basso restringendo l'una e l'altra al godimento dei piaceri del
corpo; e riducendo i piaceri dell'animo alla speranza e al ricordo dei piaceri
del senso.Nel che essi secondavano bruttamente l'abbandono sensuale dei tempi ;
nè già mi reca maraviglia,in quella età in cui,rotto il freno ad ogni licenza,
si maturava negli ozj voluttuosi la servitù della 26 rono in logica,stante
che se Platone,giunto alla nozione suprema dell'essere,se ne faceva scala per
salire agli universali divini, e Aristotile distinguendo dal senso l'in
telletto, poneva in quest'ultimo l'apprensione dell'uni versale, gli Stoici non
ammettevano che il senso, e dal senso desumevano la necessità della scienza ;
peggiora rono finalmente in morale all'osservazione compiuta e perfetta delle
tendenze naturali, qual era nell'Accademia e nel Peripato, sostituendo un esame
sempre più povero e sminuzzato della coscienza morale,onde il concetto del bene
diventò più che umano , e quell'idea solitaria e i m passibile della virtù
parve quasi uno scherno in mezzo alle infinite sventure deitempi.(Cic.,De
Fin.,IV,V. Ritter,XI,L. 1,2,3,4.) - 27 Grecia,quando laNuova Commedia
svelavaagliocchi delle moltitudini affollate le più seducenti sembianze del
vizio,e ne'ginnasj d’Atene convenivano le meretrici a disputare
co'filosofi,immaginarmi Epicuro che siede dettando nei suoi giardini in mezzo
alle gioje del convito i precetti della morale.Eppure più secoli dopo in una
etànon meno ar rendevole al senso di quella d'Epicuro,e che precedè di poco
quel tuono di uno dei più grandi rivolgimenti eu ropei, v'ebbe chi nelle scuole
de'filosofi difese Epicuro mostrando velato nei suoi precetti morali sotto
l'appa rente arrendersi al senso un rigore più che da stoico ; m a q u e l r i
g o r e , n o t a b e n e C i c e r o n e ( D e F i n ., L . I I ) , e r a un
finto stoicismo e una maschera da saggio,che mal si addiceva sul volto del filosofo
gozzovigliante,era una sod disfazione
ch'e’dava,malgradosuo,all'autoritàdelsenso morale e della pubblica opinione. E
poi,se quel sistema mancava d'ogni fondamento scientifico,come poteva cer care
nella necessità dei principj ilpernio della morale ?E che tutto per Epicuro
fosse relativo,contingente,fuggitivo, nulla universale,necessario e assoluto,
lo mostra il con cetto ch'e’s'era fatto del giusto,stabilito da lui come una
norma destinata a tutelare la vita del saggio,e che quindi mutava sostanzialmente
a seconda degli interessi civili.Posto così a capo dei precetti morali il puro
sen timento animale,non poteva non derivarne una logica (o,come Epicuro la
chiamava,una Canonica) che peggio r a s s e il s e n s i s m o d e g l i S t o
i c i e n o n m o v e s s e u n p a s s o o l t r e la sensazione. Infatti,
mentre gli Stoici andavano almeno fino all'idea che proveniva dalla percezione,
e passavano dal soggetto all'oggetto per l'attinenza di causalità (Vedi
Cicerone nel secondo degli Accademici),Epicuro,lasciata da parte
l'idea,riconosceva il criterio del vero nella sola realtà della sensazione, e
negando che dal senziente si desse certo passaggio all'entità del sentito,
lastricava la via all'idealismo degli accademici e alle dottrine scet tiche
d'Enesidemo e di Sesto Empirico. Infine; negata ogni interiore attività dello
spirito, riconosciuta nella sola opposizione dei resultati sensibili la verità
e la falsità della sensazione,ristretti i fondamenti delle inda
gini scientifiche alla pretta significazione delle parole, a m o 'dei
Nominalisti; ecco in due parole la logica degli E p i c u r e i ( C i c ., D e
N a t . D e o r ., L . I. C . X X V , 1 0 . ) N è a d i verso cammino si
volgeva la fisica fondata da Epicuro sull'atomismo meccanico di Democrito.Ora,se
ben con sideriamo, questa dottrina naturale del filosofo di Samo paragonata al
dinamismo stoico è un nuovo perverti mento della ragione scientifica,e più che
con la filosofia del senso si accorda con quella della materia. E di fatto,
laddove gli Stoici che avean molto de'materialisti, pur trascendevano il
fenomeno sensibile,e vi rinvenivano l'intima energia, l'intimo atto che dava
vita e movimento alle cose, gli Epicurei lasciando da un lato la potenza
nascosta, se ne stavano contenti agli effetti, cioè alle trasformazioni
esteriori delle molecole materiali. Quindi la dottrina d'Epicuro intorno agli
atomi, mentre,come nota il Ritter, ha l'apparenza d'essere la confutazione
della sua logica materiale fondando tutta la scienza del mondo su quelle nature
elementari, non accessibili al conoscimento, n'è invece (dico io) la riprova
maggio re, perchè io non veggo in quelli atomi se non un abbaglio di fantasia
che pretende spiegare in modo ar cano i fenomeni più ovvj dell'aggregazione e
della dis gregazione molecolare.(De Fin.,L.I.)Che manchi,come io diceva più
sopra,nelle dottrine del filosofo di Samo qualunque criterio di scienza, si
vede quindi da ciò che in quelle intimamente repugna fra i principj e le con
seguenze. Egli non ammetteva nell'ordine dell' essere niente che non cadesse
sotto l'apprendimento dei sensi; ma
poseaprincipiodituttelecoseilvuotoimmensoegli atomi nè sensibili in modo alcuno
nè intelligibili. (De Fin .,L. 1. 6.) Credè immaginando la spontanea diversione
degli atomi dalla perpendicolare, sottrarsi alla inesora bile legge del Fato ;
m a s'imbattè in un'altra potenza non meno cieca e inconcepibile, nella potenza
del caso. (De N. D.,L. I;De Fato, C. X.) Finalmente un ultimo indizio di quanto
poco conto ei facesse dei veri i m m o r 28 tali presenti
alla coscienza dell'uomo, è che voleva spe gnere per mezzo delle sue indagini
fisiche quel concetto arcano dell'infinito per cui la nostra mente dalle cause
seconde si leva fino alla Causa prima, quell'intimo senso di stupore e
d'ammirazione che destano in noi,le tempeste, ifulmini,le meteore,icieli
sereni,lenottistellate,le so litudini de'mari, voce della natura a cui risponde
dal profondo dell'anima un'altra voce che ci parla di Dio. (Lucr.,De
rer.nat.,Ritter,L.X,C.II.Vedianche gli op. di Plutarco tradotti dall'Adriani:
1. Che non si può vivere lietamente secondo la dottrina di Epicuro ;2. Della
superstizione.) 4. Contemporaneo d'Epicuro, e un poco posteriore a
Zenone,poneva Arcesilao i fondamenti dell'idealismo ac cademico . L'incertezza
delle notizie intorno alla sua vita e ai suoi scritti ha dato occasione a
purgarlo dall'accusa di filosofo dubitante,dicendosi ch'e'non negava ilpositivo
delledottrinesocratiche,ma soloopponevailsuodubbio temperato al dommatismo
stoico di Crisippo (Vedi Gautier de Sibert, Mem . de l'Ac. des Inscrip. et
Bell. Lett., tom.XLIII),e Sant'Agostino nel libro Contra Academicos, L. III, p.
111), ci rappresenta questa dottrina come un domma filosofale, svelato prima
nell'insegnamento del l'antica Accademia , e ristretto poi nel mistero all'appa
rire del sensismo stoico, e adombrante l'intimo significato della filosofia di
Platone : due essere i mondi , uno intel ligibile, l'altro sensibile; quello
vero, verosimile questo, perchè fatto a somiglianza degli archetipi eterni; del
primo per via delle idee generarsi nel saggio la scienza, del secondo una
semplice opinione di verosimiglianza.M a quando io penso che il vescovo
d'Ippona dettava quel libro poco innanzi la sua conversione, scampato appena
dal dubbio della nuova Accademia, e che per guarire lo scetticismo inveterato
del tempo cercava le più riposte armonie della sapienza antica colle dottrine
cristiane, attingendo principalmente a fonti neoplatoniche; quando ritraggo
dalla testimonianza concorde dei più deglistorici che Arcesilao andò più là di
Socrate, dicendo non po 29 30 tersi nè anche sapere di saper
niente, che aprì scuola d'insegnamento pro e contro ogni opinione, negando in
tal modo il vero assoluto e ammettendo soltanto quello relativo ai principj
d'ogni sistema ; e che finalmente quel suo idealismo operò direttamente sul
dubbio univer sale degli Empirici ; allora son tratto ad attribuire a un
pervertimento delle dottrine Socratiche, e alla efficacia de’tempi quello che
Agostino riferiva al semplice accor gimento d'Arcesilao.(Cic.,De
Oratore,III,18.)Socrate opponendo all'orgoglio del sofista la modesta
affermazione del saggio,negava potersi trarre da una cavillosa dialettica
l'onnipotenza della ragione, e dalle dottrine meccaniche degli lonj il
conoscimento intimo delle cose.Platone tenne fermo quel dubbio, temperandolo
col conosci te stesso, e sceso a considerare i più riposti veri dell'umana
coscienza, vi riconobbe il combattimento della ragione coll'appetito,
dell'intelletto colla carne, quel non so che d'immortale e di terreno ch'è in
noi, e che lampeggia nelle serene aspi razioni del vero,del bello e del buono,e
s'abbuja nelle tempeste de’sensi;quindi trasportando quell'intimo co noscimento
all'esteriore forma delle cose,e al giudizio della loro perfezione, ne derivò
la dottrina dell'ente e del non ente, della üln e del c o s . E qui (si noti)
consisteva essenzialmente il positivo e il negativo delle dottrine platoniche.
Poneva egli, è vero, da un lato il concetto della scienza nel salire dai
particolari agli universali,da ciò che muta a ciò che non muta, dalla
sensazione al l'idea che rappresenta l'essenza, e il fondamento della sua
dialettica stabiliva nel cogliere fra i molteplici ele menti de'fatti
particolari il concetto supremo che tutti li contiene.Ma d'altra parte mosso
dall'idea trascendente della scienza,e dalle tradizioni delle dottrine
panteistiche orientali ed eleatiche, onde germinava il dualismo, egli faceva
del particolare, del mutabile, del sensibile un che intimamente oscuro,e non
soggetto al conoscimento,perchè partecipante della materia che è l'opposto
dell'ente,e alle MatematicheeallaFisicaindagatricede'fattinegònome di
scienza.Si dirà forse ch'e'rimediava a questa dualità ri
conoscendo necessaria attinenza tra gliArchetipi divini e le cose, e nella
mente dell'Artefice eterno che le informava della perfezione di quelli, e nella
mente dell'uomo per via della reminiscenza, onde per lui si dava reale pas
saggio dalla opinione al sapere; m a la illazione del d u b bio, che scendeva
dalle premesse del suo sistema,non si arrestava, perchè, se a Dio è coeterna la
materia,e l'una è negazione dell'altro, chi mi assicura che fra termini sì
disparati possa darsi attinenza di conoscimento ?nè,derivato da Dio
l'intelletto, basta la sola ipotesi ch'egli fingeva della preesistenza degli
animi nostri in una vita anterio re,e un debole legame di verosimiglianza tra
iparadigmi e le cose,'per verificare la certezza di quelle notizie che
civengonodaicontingenti.E perfermo,indebolitacosìdal principio della filosofia
platonica la relazione tra il cono scente e ilconosciuto,non v'era che un passo
a negare o l'uno o l'altro di questi due termini; e il termine intelli gibile
negarono gli Stoici, alle cui innovazioni aveva aperto la via il semi-panteismo
materiale del Peripato, e quella negazione sensistica esagerarono gli Epicurei
col restrin gersi nello studio della materia ; restava a trarre l'altra
conseguenza del sistema platonico negando il sensibile, e ciò fece Arcesilao
colla sua dottrina ideale-scettica, scetticismo però non al tutto compiuto,
perchè non n e gava l'entità del vero nelle cose, m a poneva soltanto in dubbio
la loro corrispondenza reale coll'apprensione del l'intelletto. È dunque vero
in parte quel che affermava Agostino che la dottrina della nuova Accademia (o
media che voglia chiamarsi) ebbe la sua ragione d'origine nel fondo del sistema
di Platone,e la sua ragione di svolgi mento nel sensismo contemporaneo di
Crisippo, m a è anche vera l'osservazione del Ritter che quel metodo di dubbio
fu corruzione del metodo socratico, e resultò dall'idea della scienza qual era
nell'antica Accademia,idea troppo trascendente la certezza naturale,e che
togliendo l'atti nenza tra il soggetto e l'oggetto imprigionava il pensiero
nella coscienza solitaria, e al dualismo innestava la Cri tica della
conoscenza.(Ritter,tom.XI,C. VI.Conclus.) 31 La quale non
ancora matura e compiuta in Arcesilao si svolse nei successori,perchè,laddove
il filosofo Pitano sostenendo la sua tesi contro i sensisti moveva special
mente dalla fallacia de'sensi e dall'oscurità della materia; Carneade,che gli
successe,introdusse in quella tesi maggior rigore scientifico,quando esaminò ex
professo l'entità della relazione inclusa nel conoscimento, e distinguendo
nella percezione sensitiva o rappresentazione due lati,uno ri
feribileall'oggetto,l'altro al soggetto,mostrò XIX secoli prima del Kant non
darsi vera certezza del sapere, per chè il conoscente trae in propria forma la
materia del conosciuto. V'ha egli dunque un nuovo peggioramento in Carneade ?
Sì ; perchè e'negò fede espressamente alla validità della ragione, dicendo non
potersi dare un crite rio certo pel ritrovamento del vero, e dovere contentarsi
il sapiente della semplice verosimiglianza; onde per lui l'idealismo accademico
si accostò sempre più alla nega zione universale, che compiendo le dottrine
anteriori di Pirrone, ricomparve più tardi;e n'è prova evidente il pas saggio
ch'e'fece dal dubbio sui fatti esteriori al dubbio sull'entità oggettiva delle
idee universali che si specchiano nella coscienza, manifestato da lui
ambasciatore per gli Ateniesi in Roma nel discorso sulla giustizia,dove to
gliendo nota d'universalità e d'assolutezza al concetto del
bene,abbattevaifondamenti dellamorale(Cic.,De Rep., L. 1. Ritter,L. XI,Cap.VI.)
5.E ildiscorsodiCarneadeudivanoaffollatiiRomani, nella cui patria splendeva
quella gran scuola paesana dei Giureconsulti dove l'idea della personalità
umana ,e la n o zione del dovere e del diritto si desumevano da principj
d'immortale necessità, e dove la natura della legge dovea definirsi più tardi
congenita alla natura di Dio.(V. Cantù, St.
Un.Brucker,Degerando,Ritter,Kuehner.Cic.,Tusc.IV, 1,2,3.) È noto infatti come
fino dal secolo XVII G. Batt. Vico nel suo libro De antiquissima Italorum
sapientia indagando nella storia de’fatti umani iprincipj universali che
reggono il sapere, trovasse vestigj di antichissime e profonde speculazioni
ne'linguaggi primitivj d’Italia ; il 32 che,se non prova che
presso quei popoli, come ad esem pio i latini (intesi per lungo tempo e
unicamente ai ne gozj civili),fiorisse un vero e proprio esercizio d'indagini
scienziali, mostra però che v'era nel loro ingegno un'in tima disposizione a
filosofare. E questa disposizione d o veva attuarsi quando ilpensiero latino
libero dalle stret tezze presenti, e sollevato a un ideale più ampio,dal sen
timento di nazione si sarebbe volto a considerare l'umana natura specchiata in
sè stesso, e nell'universalità della storia. Queste erano le preparazioni e le
cause del fatto ; l'occasione esterna venne dalla celebre ambasceria di Cri
tolao, Carneade e Diogene babilonese. (A. di R. 585. V. gli autori soprac.)
Volgeva intanto a metà ilsecondo se colo innanzi l'Era volgare,e Roma,vinto
Antioco in Asia, distrutta Cartagine,e sottomessa definitivamente la Grecia
colle guerre Macedoniche, e colla memoranda presa di Corinto,riceveva dai vinti
la tradizione delle arti e delle discipline civili per parteciparle novamente e
sott'altra forma all'Europa ed al mondo. Ma quelle arti e quelle discipline che
giungevano d'oltremare non più informate dalla libera spontaneità dell'ingegno
dei padri, educato alla scuola del sentimento civile e del magistero divino, ma
guaste dal dubbio della nuova Accademia,e infette da signorie corruttrici e da
profonda sensualità di costu mi,trovarono nei Romani dismesso l'abito della
severità antica, e omai volgente a rovina quella repubblica inde bolita dalle
mollezze d'Affrica e d’Oriente .(Sallustio, C a til.,C.X.c.f.XI.XIV.)Non
èquindiamaravigliarechenon ostante i tentativi di molti ingegni valorosi,
dall'unione di due civiltà semispente non nascesse un grande rinno vamento ;
chè ogni rinnovamento è possibile quando nelle rovine dei popoli s'accoglie una
favilla immortale di vita, e un impulso efficace li risospinge ai principj; non
possibile allora,in quelli anni ultimi dell'Era pagana, in cui, ecclissato ogni
lume d'antiche tradizioni, spenta la famiglia e ridotto in pochi lo stato,
Europa, Affrica ed Asia precipitavano nella barbarie. Nè c'inganni quel moto
apparentemente efficace di letteratura e di scienza m a 33 era 3
nifestatosi nelle città greche, e nelle corti di Pergamo e
deiTolomei.Tranne inRoma,dovefinoallamorted'Au gusto durarono potente
incitamento alla libertà degl'in gegni le sembianze,e la memoria degli ordini
repubblicani, nel resto d'Europa nell’Asia e nell'Affrica le lettere e le
scienze doventarono trastullo di principi e di cortigiane, o sollievo di popoli
in gioconda schiavitù sonnecchianti, o (come apparisce da Filone Ebreo,dalla
Kabbala,da Apol lonio Tianeo,Moderato, Nicomaco,Plutarco,Apuleio ed altri)
doventarono contemplazione solitaria di pochi stu diosi, onde alla spontaneità
dell'arte che crea sottentrò l'erudizione ragunatrice dei commentatori e degli
illustra tori, e il panteismo greco -asiatico da cui poi derivarono gli
Alessandrini; e un vero e fecondo avanzamento ebbero soltanto le scienze
matematiche e d'esperienza sostenute dai principi e dalle città mercantili e
dalla agiatezza dei tempi.Ma d'altra parte (ed è un esempio che s’è rin novato più
volte) indietreggiavano ogni giorno più le di scipline speculative;nè solo
(come vedemmo)quanto alla materia,ma altresì quanto alla forma scientifica dei
si stemi ;perchè, se è legge connaturata all'umano intelletto che in quella
dirittura necessaria di relazioni, che passa tra il soggetto esaminato e la
riflessione esaminatrice, consista intimamente il metodo d'una scienza,una
volta guasta o distrutta la notizia dei veri principali, se ne scom piglia
l'indirizzo della riflessione, non si ravvisa più chiara l'integrità della
coscienza su cui cade l'esame,e n'è dis fatta la scienza. Richiamando ora in
breve le cose discorse, che mai ci mostra la storia della filosofia da Socrate
a Cicerone ? N o n altro che un continuo scadere della riflessione scientifica da
sistemi più ideali e che al sentimento del divino e del l'immortale
accoppiavano il rispetto delle più antiche e v e nerate tradizioni, ad altri
infetti di materialità e dispregia tori d'ogni magistero divino ed umano
;quindi da dottrine che offrono più ampio disegno di riflessione,e più perfetto
ordinamento scienziale,si sdrucciola ad altre che alla c o m prensione totale
della coscienza e delle sue relazioni fanno 34 seguire un
esame monco,spicciolato,minuzioso,eaimetodi positivi e dogmatici (benchè misti
di legittimo esame) im e todi semplicemente negativi e gl'inquisitivi.Questo è
il pen dío naturale del pensiero filosofico in quell'età,che dalle altezze del
disputare platonico ci conduce nelle ruvide a n gustie di alcuni trattati
aristotelici,dagli archetipi eterni, all'anima informatrice della materia
corporea, poi al Dio animante di Zenone e agli aridi sillogismi di Crisippo per
terminare nel materialismo d'Epicuro, e nella negazione della nuova Accademia ;
che infine dalla interpretazione sublime della Mitologia,qual era in Platone,ci
guida all'in terpretazione fisica e storica degli Stoici e d ' E v e m e r o .
M a la nuova Accademia di contro alle dottrine d'Epicuro,se non forse quanto
alla materia, era un nuovo peggiora mento quanto alla forma scientifica, perchè
Epicuro rico nosceva almeno molti veri, e offriva un disegno di pro prie
dottrine sulle principali teoriche della scienza ; gli Accademici negavano
soltanto, e, tranne poche e sparpa g l i a t e a f f e r m a z i o n i i n f i
s i c a e d i n m o r a l e , r e s t r i n g e v a n o il soggetto della
filosofia al problema del conoscimento ; ora da questo idealismo che solo
ammetteva pochi veri par ticolari, e scioglieva ogni attinenza del conoscimento
coi proprj obbietti, non v'era che un passo alla negazione scientifica d'ogni
verità della scienza, e da questa al d u b bio popolare e grossolano e ai
sistemi empirici e positivi che non sono più scienza. E anche allora fu detto o
sot tinteso da uomini dottissimi che unico criterio del vero era il mancare
d'ogni criterio,che la scienza era ilm e todo,e che unica e naturale forma del
pensiero filosofico era la storia ;e da questi abbagli di critica stemperata
che sirinnovano anche oggiinFrancia,inAlemagna einItalia, nacque l'ecclettismo
erudito degli Stoici e de'Peripatetici, e le dottrine empiriche d'Enesidemo e
di Sesto,come oggi dagli eccessi della critica Kanziana pullularono gli E m p i
rici Alemanni , l'Ecclettismo del Cousin e la Filosofia P o sitiva di Augusto
Comte.In quelle condizioni della filosofia
era,com'oggi,indispensabileunariforma,elariforma,come moto contrario alle
cagioni del male, dovea consistere 35 segnatamente nel
tornare ai princip j della coscienza n a turale, abbracciando la
universalità dei suoi veri, e affer mando
interoeindivisibileciòchelesetteaffermavano spar pagliato e diviso.Fu questa
l'opera immortale di Cicerone, e a tentarla egli ebbe occasione e conforto
dalle q u a lità dell'ingegno latino, mosso da antiche tradizioni e da indole
propria allacomprensione delle attinenze scienti fiche, dallo stato politico e
civile di R o m a , e dal contrasto ai dubbj che laceravano la scienza. Di
fatto, se era pos sibile una riforma in tanto scadimento di civiltà e di dot
trine, più che altrove ella dovea tentarsi in Italia ed in R o m a , dove le
sacre tradizioni primitive s'erano conser vate più schiette per opera degli
affetti di famiglia e d e gli ordinamenti civili ; durava ancora potente
l'efficacia della civiltà etrusca ed italica, ed ora dilatato il dominio romano
all'Europa, all’Affrica e a gran parte dell'Asia, vi correvano,come a centro
comune delle genti conosciute, la scienza, la letteratura, le arti, le
industrie, compagne della grandezza, e vi s'accoglieva,quasi a compire la m a e
stà della gran repubblica dominatrice,lacoscienza del ge nere umano.Quindi in
Roma era più che altrove potente ilsentimento
dell'universale,condizionenecessariaal na scere della Filosofia.D'altra
parte,se volgiamo gli occhi alla Grecia,ci si presenta un turbinìo d'opinioni e
di sette a cui non tien dietro la storia ; la filosofia era lacerata in sistemi
che ponevano la scienza nel paralogisma, e sempre più tralignanti dagli
istitutori scendevano il pen dío della negazione universale ; gli Epicurei e i
Cirenaici, facili secondatori della corruttela dei tempi, ogni giorno più
sprofondavano nell'ateismo e nel senso ;i Platonici e iPeripatetici,come
Cratippo,Stasea,AndronicodiRodi, Alessandro Afrodiseo si diedero
all'erudizione, e poichè non sapevano creare nulla di nuovo,rimestarono con cri
tica infeconda le dottrine anteriori; lo stoicismo con P a nezio e con
Possidonio, allontanatosi dall'aridità delle dottrine di Zenone, favorì
l'eloquenza trattando la filoso fia in modo più popolare,e ravvicinandosi alle
altre scuole socratiche; ravvicinamento anche più manifesto in Filone 36
- e in Antioco,contemporanei ambedue e maestri di Cice rone,
l'ultimo dei quali segnatamente intese a conciliare il Portico colla nuova
Accademia,e riconobbe la validità del conoscimento. Infine secondavano da un
lato quell'in dirizzo le dottrine romane qual più qual meno imitatrici delle
greche, e perciò prive di u n metodo proprio e di proprie speculazioni; mentre
dall'altro lato (sebbene al quanto più tardi) si apparecchiava nelle dottrine
de'N e o platonici e Neopitagorici greci un congiungimento tra la sapienza
orientale e le scuole socratiche. Sembrerà forse a qualche lettore che dettando
questi cenni sui principali sistemi antecedenti a M. Tullio,ci siamo
allontanati di troppo dai confini di una semplice introduzione ; m a il
rimanente di questo discorso farà m a nifesto che a ben chiarire la natura del
filosofo nostro,i suoi intendimenti,lefontidellesueopereeilconcettoche egli
ebbe di riformare e riordinare la scienza, era neces sario distendersi alquanto
intorno alle scuole precedenti e contemporanee e all'efficacia loro sulle parti
della filo sofia. Per fermo allorchè l'oratore latino, fuggendo nella
solitudine di Tuscolo e di Cuma il cospetto degli scelle rati,poneva mano
all'Ortensio(A. di Roma 709 in circa), appariva,come ben notailRitter,una
straordinariapo vertà di speculazioni scientifiche in tutta Europa ; poche e
sparpagliate verità rimanevano intatte nei fondamenti del sapere; l'umana
coscienza illuminata una volta dai principj morali, allora in quella rovina
d'ogni umano prin cipio taceva, e al mancare della materia desunta dalla
considerazione dell'animo umano ,la forma scienziale, seb bene apparentemente
raffinata, impoveriva ogni giorno. Impoveriva di fatti la logica, venuto meno
colle dottrine di Zenone il vero concetto del principio e dell'atto del
conoscimento, e ridotta da Arcesilao e da Carneade a cogliere solo, sfuggendo
gli universali, le contradizioni particolari dei varj sistemi;il semipanteismo
stoico e dei Platonici posteriori, confondendo sempre più l'ente col non-ente,
il finito coll'infinito, il relativo coll'assoluto, uccideva la fisica e
s'attraversava al buon uso dei m e 37 todi sperimentali; la
morale per ultimo risentiva d'ogni setta,massime della epicurea, le cui ultime
dottrine ve nute in luce nel secolo scorso dai papirj Ercolanesi colle opere di
Filodemo Gadarense, contemporaneo e famigliare di Cicerone, testimoniarono
anche una volta la vacuità e i vaneggiamenti di una scienza decrepita.(Vedi
Hercu lanensium Voluminum quue supersunt.Nap.,1793.) Pertanto in quelle
condizioni di civiltà e di dottrine due sole vie rimanevano aperte
all'indirizzo del pensiero speculativo; o un ecclettismo erudito, o un ritorno
all'uni versalità e all'unità della scienza coll'indagine dell'uomo
interiore,del senso comune,e delletradizioniscientifiche e religiose ; impresa
che, sebbene difficilissima e degna di sublimi intelletti, non poteva esser
sorgente a specula zioni copiose, mirando più che altro a sceverare il certo
dall'incerto,il teorematico dal problematico, il necessario dal mutabile, il
consentito dal disputato. La qual cosa, mentre è una conferma dei meriti di
Cicerone come filo sofo,e della modesta grandezza della sua dottrina, ci spiega
il divario notevole che lo distingue dai filosofi contem poranei, e la brevità
delle speculazioni latine; e di fatti, se è vero che la storia della filosofia
ci offre a quegli anni in Grecia ed in Roma un ecclettismo erudito, testimo
nianza imperfetta dell'universale disposizione degl' inge gni a ritornare sul
passato, e a ricostituire la scienza sull'armonia delle attinenze universali, è
anche vero che Cicerone, solo tra i suoi contemporanei, tentò ridurre l'ec
clettismo romano a vera e propria forma di scienza, imi tatore e seguace di
quella scuola dei Giureconsulti, che desumendo dalle consuetudini e dal gius
naturale la santità delle leggi, aveva aperta la via ad un ritorno della rifles
sione filosofica sulla coscienza morale. 38 1. Quella
sentenza del Segretario fiorentino, che af ferma,doversi ogni umana istituzione
ritirare verso i principj,fa manifesta a chi consideri il cammino del pensiero
e delle opere umane nelle età della storia,una legge di scadimento e di
progresso, di barbarie e di ci viltà, di rovine e di restaurazioni, che si
verificò in ogni tempo, così negli ordini civili,come in quelli della filo
sofia. La ragione di questo fatto m i sembra chiara e nel l'un caso e
nell'altro;è chiara negli ordini civili,iquali, se hanno per principio e per
fine l'adempimento delle necessità umane e la conservazione del viver
sociale,una volta allontanati da quello riescono a contraddire la loro natura ;
è chiarissima poi nella scienza, e massime nella filosofia, che costituita nel
proprio essere di scienza pri ma da un ripiegarsi della riflessione sul
pensiero come pensiero,e sulle verità universali,ricereimmediatamente dalla
natura ilproprio soggetto,ipostulatiedilmetodo. La filosofia dunque,come
scienza sovrana che ha imme diatamente innanzi a sè la ragion di sè stessa, è
ripen samento del pensiero naturale e delle sue leggi,è,in una parola,
ripensamento della natura ; la qual cosa concessa , PARTE SECONDA. ESAME
DELLE DOTTRINE FILOSOFICHE DI CICERONE. I. sembra doversi dedurre
ch'ella abbia altresì nella natura la possibilità di un indefinito svolgimento,
e la possibilità delle proprie riforme, se pure non vuol pensarsi che l'ef
fetto sia inadeguato alla causa, e la vita dell'animale e della pianta alla
virtù generativa del proprio germe.A chi affermando diversamente volesse
mostrarmi, o che il pensiero non vale a trar fuori dalle prime notizie, con
progresso indefinito di dimostrazione,la scienza, o che la riflessione del
filosofo può introdurvi alcunchè non sup posto antecedentemente dalla natura,
io addurrei per ragione la coscienza, spettacolo sublime dei fatti interni e
dei più ardui problemi sulle verità principali,evidente e misterioso ad un
tempo,dove si acchiude come in ger me la possibilità del sapere che si svolge
ne'secoli, ad durrei per ragione la storia,che ci mostra d'età in età i più
grandi intelletti muovere alla ricerca del vero ignoto dall'affermazione
compiuta della coscienza, deftinirne le più alte questioni concordemente alle
tradizioni più a n tiche, e alla parola del genere umano e di Dio, e fra i
delirj e i vaneggiamenti delle sette conservare e tra mandarsi l'un l'altro la
Filosofia perenne. La testimonianza più lampeggiante di questa verità ne’secoli
pagani sono per certo le due riformedi Socrate e di Cicerone ; entrambi
trovarono la filosofia perduta in dubbiezze infinite; entrambi la rilevarono
con uno sforzo supremo tornandola alla coscienza ; l'Ateniese divino in gegno,
e iniziatore fecondo di un moto speculativo che non è ancora cessato;più
modesto intelletto ilRomano, ma non meno benemerito della buona filosofia,per avere
tentato, solo, in un popolo nuovo fino allora a ogni eser cizio di speculazione
e nell'universale scadimento della civiltà e della scienza, ciò che il Maestro
avea potuto compireincondizionimeno avversedelsapereedeipub blici costumi. Per
convincerci di ciò,basta paragonare la Grecia dei tempi di Socrate con Roma dei
tempi di Ci cerone.E nel vero quel principio di corruzione e di sfi nimento che
il paganesimo già da lungo tempo recava in sè stesso, s'era mostrato
segnatamente in Grecia sin dal 40 - 41 D'altra parte i tempi
in cui Cicerone, nato in Arpino di famiglia provinciale (il terzo giorno di
gennajo l'anno A. C. 106, coss. C. Atilio Serrano, e Q. Servilio Cepione),
venne a R o m a per apprendervi l'esercizio dell'eloquenza, che gli fosse via alle
cause del fôro e al pubblico arringo, eran tempi di più profondi rivolgimenti
civili, conse guenza delle due grandi questioni che da lunghi anni empivano la
storia romana,la prevalenza degli Ottimati sopra la plebe, la prevalenza di
Roma sopra il resto di Italia e del mondo. (Cantù, St. Univ .) Già sin da
quando tonò la prima volta nel fôro la potente parola de'Grac chi, un moto
profondo in favore delle franchigie popolari e dei diritti di cittadinanza
romana s'era venuto propa gando in Roma e nel rimanente d'Italia, e quel moto
crebbe cogli anni, e coll'ampliarsi della potenza repub blicana, e ruppe
finalmente nelle dissensioni civili di Mario e di Silla, e nella guerra
sociale. Cominciarono allora que'tempi pieni di sedizioni, di esilj e di
sangue, ne'quali la libertà, mantenutasi per tanti anni incorrotta , fu solo
istrumento dell'ambizione di pochi, e la gloria militare, guarentigia
d'indipendenza, venne adoperata a sovvertire le leggi; non più libera nel fôro
la parola degli oratori,non più inviolata la persona e le sostanze d'un
cittadino romano , dispersa la pubblica ricchezza, venduti a chi più li pagava
i consolati e le amministra l'entrare della guerra del Peloponneso;
poichè pessimo segno del decadimento di un popolo è sempre il succedere delle interne
gare alle lotte d'independenza ; m a il vivo agitarsi della gente greca, calda
ancora di gioventù vi gorosa,ne'commerci,nelle riforme civili,ne'viaggi,nel
l'agricoltura, nelle arti, manteneva allora negli ordini materiali e politici
qualche seme di bene,e negli ordini in tellettuali volgeva le menti allo studio
amoroso del vero l'efficacia della filosofia italo-greca, che avea recato dal
l'Oriente gran parte delle tradizioni primitive, la fantasia greca, intesa a
rendere l'animo interno nelle manifesta zioni dell'arte plastica, e infine una
gagliarda educazione del pensiero nella dialettica de sofisti.
zioni delle province , interrotti i giudizj, annullati i d e creti del
senato e del popolo ; così passarono i settanta anni precedenti al regno d'Augusto,
finchè l'abuso della libertà messe capo ad un governo assoluto.Causa di tanta
rovina fu per fermo la crescente corruzione d'ogni principio morale, chè una
libertà partorita dal sangue di tanti uo mini grandi, e da secoli di virtù, non
si perde senza crollare i fondamenti dell'edifizio civile ; e qual fosse a quel
tempo la pubblica moralità in Roma ,ce lo dice Sal lustio complice e accusatore
dei delitti narrati. (Sall.,
Catil.,cap.X,XI,XIV.)Quellacorruzione,profondanegli ordini civili, non appariva
minore negli ordini dell'intel ligenza ; innanzi tutto perchè, il progresso
intellettivo di un popolo non andando mai scompagnato dal suo pro gresso
morale,e la scienza essendo un che vivo, affet tuoso, e supremamente civile,
l'armonia del sapere col l'armonia della vita è legge innegabile nella storia
delle nazioni; e secondariamente perchè la scienza era stata sino a quel tempo
più spesso istrumento di dominio in mano degli Ottimati che manifestazione
della coscienza e dell'indole latina. Scendono da questi fatti due
considerazioni impor tanti sul nostro filosofo. Prima che, mentre (come nota
più d'uno storico) la letteratura e la filosofia fu colti vata in Roma dai
principali uomini di stato come arte di governo, Cicerone mostrò co’suoi
scritti ch'e'fece della scienza e della cultura, non già un istrumento per domi
narelarepubblicaesalireaglionori,ma,uomo dipace qual era,e conservatore degli
ordini civili che avean for mata la gloria degli avi, studiò la scienza del
vero l'arte del bello per contrapporla alla corruttela de tempi, e
all'oscurarsi d'ogni principio morale. La seconda con siderazione è che Tullio
s'oppose segnatamente, e con maggior vigore che a qualunque altra,alla dottrina
degli Epicurei.Ora,se consideriamo che l'epicurea era quella fra le scuole
contemporanee che avea posto più profonde radici in Roma,e che mentre ciò era
al certo l'effetto della civile corruzione, ne doventava poi alla sua
volta 42 e 2. M a qui c'imbattiamo subito in una questione i
m portante. - Cicerone fu egli soltanto condotto a filoso fare da cause
straordinarie ed esteriori? quando si pose a scrivere aveva egli profondamente
meditato sui più ardui problemi della vita e dell'animo umano ? possedeva
quell'ampiezza e universalità di studj speculativi necessaria per indirizzarlo
nella via della scienza? — Parecchi cri tici tra i quali il Ritter,ilDegerando,
e il Bernhardy lo hanno negato, e affermarono non potersi chiamare filosofo
vero esso che nella sua gioventù avea studiato la filosofia come semplice
istrumento dell'arte di persuadere. Sembra altresì che una simile domanda gli
fosse stata fatta da talunifraicontemporanei,quandoudiamo luistesso,il
testimone più autorevole nella storia della sua vita, re plicare espressamente
dicendo : io nè cominciai tutto a un tratto a filosofare, nè da’primi anni
della mia vita consumai in questo studio mediocre opera e cura,e allora, quando
meno parera, io era maggiormente intento a filosofare (De
Nat.Deor.,I,III,6);parole che potreb bero forse sembrare dettate da soverchio
amore di sè stesso,seiprimiindizj che ci rimangono de'suoi studj, e le opere
antecedenti alle filosofiche non mostrassero assai che ilsuo
ingegno,giovanissimoancora,sivolse'sui principj, sui metodi e sui più ardui
problemi della Scienza prima. Della qual cosa uno fra gl'indizj più certi si è
l'ain piezza e la comprensione ch'e'diede a'primi suoi studj, indizio notevole
per chi ricordi il disprezzo che i più fra i Romani contemporanei affettavano
verso la filosofia e le lettere greche.Ma inCicerone,appena ventenne,appa risce
un sentimento vivo,e quasi direi religioso,dell'unità della scienza; poeta
elegante e vigoroso ne'primi anni, poi traduttore di cose greche,udiva i più
eccellenti m a e stri d'ogni filosofia, studiava con Q. Mucio Scerola il giure,
coi più autoreroli cittadini la scienza delle cose 43 una causa, vedreino
essere immenso il beneficio che il grande uomo recò alla sua patria, più ancora
che come riformatore filosofo, come riformatore civile. civili, la
declamazione con Esopo e con Roscio, ed ebbe a maestri di rettorica Molone
Rodio, e Demetrio di Siria (Cic.Brutodal91allafine;Forsyth,ThelifeofM. T:
Cicero,chap.I,II,III.London,1864).Nutrito l'ingegno con tanta larghezza di
cognizioni, appena si fece avanti nel foro,si accorse,com'egli stesso ci dice
(Brut.93,e pro A r c h i a , V I ) , c h e a c o s t i t u i r e il p e r f e t
t o o r a t o r e n o n e r a s u f ficienteladestrezzaelacopiadellaparola,ma
bisognava che la materia scientifica desse pienezza e fondamento alla forma
dell'arte; quindi ei considerò sin d'allora la filosofiainunmodo
involutoecomprensivocomeunascienza che abbracciava le regole della
vita,dell'arte oratoria,del diritto, d'ogni disciplina umana e divina,
philosophiam matrem omnium benefactorum benequedictorum(Brut.93); omnis rerum optimarum
cognitio,atque in iis exercitatio philosophia nominatur (De Orat.,
III);concetto univer sale, che apparisce in uno fra i primi suoi- scritti, nel
-de Inventione, dove parla delle virtù secondo le dottrine platoniche, e
introduce l'eloquenza fondatrice delle città e del consorzio civile. Un tal
concetto che certo doveva poi chiarirsi cogli anni, e uscirne un disegno più
specifi cato di dottrine morali e speculative, mostra che il suo amore per la
filosofia si accrebbe col suo progresso nel l'eloquenza, talchè in lui (come
osserva ilRitter) l'ora tore preparò lo scrittore in filosofia, ed anzi
leggendo attentamente il De oratore, il Brutus e l'Orator vi senti spirare da
cima a fondo un alito di speculazione di scienza.Il dialogo De oratore è finto
a imitazione del Fedro, e la tesi sostenuta dei disputanti appartiene
intimamente alla filosofia, poichè trattasi ivi di sta bilire se l'eloquenza
sia una dottrina universale od un'arte, s' ella debba restringersi al puro
esercizio del la parola, o allargarsi alla scienza delle cose divine ed umane.
E qui v'è contrapposto deliberatamente nelle stesse persone dei disputanti il
concetto più ampio e più universale,e per conseguenza più filosofico,che Ci
cerone avea del sapere, al concetto parziale e negativo de'suoi contemporanei;
Crasso infatti, che rappresenta 44 l'opinione dell'Autore,
movendo dal principio che una sola è la sintesi delle materie scientifiche,e
che su tutte può e deve cadere l'esercizio dell'eloquenza,reputa ne cessario al
perfetto oratore quasi tutto lo scibile u m a n o , e conferma questa sentenza
coll'autorità degli antichi presso i quali l'arte del pensare e del dire erano
state sino ai tempi di Socrate indivisibilmente congiunte (III, 14, 19.). Lo
stesso argomento è trattato nell'altra opera Orator, dov'egli cercò pure
l'ideale dell'oratore perfetto assumendo a principio le idee archetipe di
Platone ; talchè l'armonia della scienza colla vita, dell'una e dell'altra
colla letteratura e coll'arte,l'accordo della materia scien tifica colla forma
oratoria, e della ragione col gusto, costituisce nei libri rettorici di
Cicerone una vera e pro pria unità di concetto . Considerando questo principio
universale,a cui il filo sofo latino rannodava le discipline letterarie,e
l'alto sen timento ch'egli ebbe dell'arte, io sempre meglio mi per suado che la
vita d'oratore e di politico fu per lui un apparecchio necessario agli scritti
speculativi. Più tardi, allorchèlalibertàvenneinmano degliscellerati,eilgran
cittadino si astenne volontariamente dall'esercizio della pubblica vita,tornò
agli studj non mai interrotti dalla giovanezza, cercandovi la pace che gli
negava l'animo addolorato per le sventure civili,una nuova occasione ad
esercitarvi l'eloquenza muta nel senato e nel fôro, un mezzo per confortare a
virtù le fiacche generazioni, e arricchire la letteratura della sua patria di
questa nuova gloria, sino a quel tempo non partecipata coi Greci
(Tusc.,II,5,6,7,8,9,10;I,1,2,3;III,3;De divin., I , 1 3 ; D e o f f ., I I , 1
, 2 ; A d f a m ., V , 1 5 ) . C h i c o n s i d e r a s s e partitamente un
solo di questi fini, senza comprenderli tutti nell'unità della mente e
dell'animo dello scrittore, mostrerebbe di non averlo compreso ; a lui
l'inclinazione oratoria e l'amor nazionale porgevano il pensiero di un nuovo
accordo della scienza coll'arte nelle opere di filo sofia, onde si aprisse
questo nuovo campo intentato agli ingegni latini; i mali e le necessità del suo
tempo gli 45 consigliavano le dottrine morali e civili come
riforma dei costumi corrotti, e dall'intendimento letterario,nazionale e morale
insieme congiunti e contemperati uscì per l'ef ficacia dell'ingegno,degli studj
anteriori, e della riflessione psicologica, la riforma speculativa. La quale
armonia di cause determinanti e di fini fra l'animo dello scrittore ed i tempi,
è notevole in Cicerone ; perchè vi si fonda quella unione socratica tra il vero
ed il buono, onde la filosofia di lui, come quella d'ogni socratico, tanto più
è affermativa e solenne,quanto più gli argomenti metafisici hanno attinenza
colle ragioni morali, nè ciò per quello che oggi si chiama senso pratico , e
che si crede diviso dalla ragione speculativa, m a perchè appunto la ragione
prima del conoscimento si riconosce identica colla legge dell'operare . Se tali
erano i fini, con cui si accinse a filosofare, tra l'indole positiva e morale
delle sue dottrine, e il loro cri terio speculativo non v'ha per fermo alcuna
contradizione, chè anzi quella contradizione apparente,che il Ritter e il
Bernhardy han creduto di rinvenirvi, si dilegua tosto quando raccogliamo dalla
piena lettura delle opere filo sofiche un'idea complessiva del concetto della
filosofia, e seguendo le varie definizioni ch'egli ne diede,perveniamo fino al
punto in cui concepisce chiaro l'ordine scien ziale. 46 Il primo e più
notevole concetto ch'egli ebbe della filosofia, considerata come vera dottrina,
si è di una scienza moderatrice delle azioni e istitutrice della vita: vitæ
philosophia dux, virtutis indagatrix, expultrixque vitiorum ; animi medicina
philosophia ; a questo propo sito il conosci te stesso di Socrate ei lo
prendeva in un senso puramente morale, senso che apparisce più volte nella
Repubblica,e nelle Leggi, e nelle Tusculane, dove si agitano questioni relative
alla vita e ai costumi,e per quanto abbiamo da chiari indizj appariva pure
nell’Orten sio,opera perduta,dov'ei tesseva l'elogio della filosofia rac
comandandola allo studio dei concittadini come dottrina su premamente morale e
civile.(V.Hort.,fram.,e specialmente 47 il fram . 21, L. I. ed. di
Lipsia pag. 284, vol.III,p.IV.) Ora siffatto concetto involgeva di necessità un
criterio scientifico; innanzi tutto perchè chi medita l'ordinarsi d'una
dottrina scienziale, qualunque ella sia,ad un eser cizio d'operazioni, si
suppone averne penetrato l'intima essenza in cui quel principio regolatore
risiede; e poi perchèilverorelativoallavita,sebbene manifestoin noi pel
sentimento morale, s'attiene alle parti più vive e più affettuose dell'essere
umano,ond’è mossa la rifles sione a ripensare da sè stessa e con proprj
principj l'ordine speculativo delle conoscenze. Pervenuto a tal punto il
filosofo, non ha da fare che un passo per racco gliersi nella coscienza morale,
e quindi trar fuori con metodo ascensivo e discensivo d'induzione e di
deduzione tutto quanto il disegno dell'edifizio scientifico ; la qual cosa
apparisce a chi prenda ad esaminare in Cicerone l'ordinamento logico degli
scritti morali. Dove si scorge (e lo mostreremo a suo tempo) com'egli
procedendo di passo in passo nell'induzione, dall'idea morale di legge e di
diritto, che lampeggiava nella coscienza d'ogni cit tadino di Roma,si levò a
concepire un ordinamento di relazioni e di gradi dagli esseri inferiori
a'supremi; re lazioni che intercedevano tra Dio e l'uomo per l'eccel lenza
della ragione, tra uomo ed uomo per somiglianza di natura intellettuale e
socievole ; e quindi usciva una specie d'equazione ideale tra Dio e le
creature, tra gli enti ragionevoli, e i non dotati di ragione, per la reci
procanza dei doveri e dei dritti;e vi s'acchiudevano in germe Teologia
naturale, e Antropologia, Cosmologia e Filosofia del buono. Questo largo
disegno di veri morali fu il principio da cui Tullio moveva nella via della
scienza, e lo mostrano i libri politici e civili antecedenti in ordine di tempo
alle altre opere speculative. 3. Ora soffermiamoci un poco.Mostrato così per
suc cinto quale idea egli avesse della Scienza prima e dei suoi principj,
domandiamo che cosa debba pensarsi sul dubbio accademico quasi universalmente a
lui attribuito. La questione su tal soggetto,disputata a lungo dai
critici e storici della Filosofia, durante il secolo scorso,mentre
gl'ingegni si dividevano incerti tra l'amore dell'antico e la curiosità del
nuovo,e l'Enciclopedia affermava dogma ticamente le sue negazioni, mosse ne'più
de'casi dal pre supposto che Cicerone,come seguace della Nuova Acca
demia,ponesseildubbiouniversaleafondamentodiscienza. Così opinò il
Bayle,e,sebbene alquanto meno risoluti,lo affermarono il Brucker,ilDegerando e
ilBernhardy.Per combattere una siffatta obbiezione non rimanevano alla critica
che due sole vie ; o negare di pianta lo scettici smo della Seconda Accademia,
o rifacendosi da un nuovo e più accurato esame delle dottrine di Tullio,
cercare quale e quanta efficacia vi esercitasse quel dubbio, o come metodo
semplicemente,o come principio fondamen tale ed interno. La prima di queste vie
fu seguita dal sig.Gautier de Sibert in una memoria scritta da lui sui Nuovi
Accademici,la seconda da Raffaele Kuehner.Ma il critico francese,sebbene
dottissimo,quando volle mostrare che la Nuova Accademia non negava la
possibilità della scienza, contraddisse alla storia, nè rispose al quesito del
come conciliare la certezza dei libri morali di Tullio col dubbio quasi
assoluto d'Arcesilao e di Carneade ;l'Ale manno mostrava invece con maggior
verità come il filo sofo nostro, seguace della Nuova Accademia quanto al metodo
inquisitivo dei veri particolari,ne temperasse per altro il dubbio
ravvicinandolo alle fonti socratiche. Ma ilKuehner,cheraccolseconstudioletestimonianze
fatte da Tullio ne'più de'proemj sulla bontà e la modera zione del suo
metodo,non ha considerato abbastanza nei libri morali come a quel precetto
apparentemente negativo dinoncercarecheilprobabile,edirattenerel'assenso,con
trappongasempre,ad esempiodiSocrate,l'altrosuprema mente affermativo del
conosci te stesso.Nè il tornare che egli fa tante volte a raccomandare ilfamoso
placito del savio ateniese, si prenda come artifizio rettorico,o come vano e
miserabile ossequio alle tradizioni. L'esame più diligente e spregiudicato
delle sue opere (io lo affermo sin d'ora) mostra che il dubbio universale e
sistematico, il dubbio 48 di Carneade,del Cartesio e del
Kant,non antecedeva nella mente dell'oratore-filosofo allo stato di scienza.Egli,prima
d'esserefilosofo,come uomo,come romanogiàsisentiva e si riconosceva nel vero;e
quel vero,a cui l'animo spon taneamente piegava sin da'primi anni per
inconsapevole virtù di natura,l'intelletto glielo mostrava più tardi adu nato,
e come raccolto nell'evidenza interiore; evidenza non solitaria,non priva
d'oggettività,non fenomeno puro, quasi paesaggi riflessi sulla tela da magico
apparecchio dilenti,ma uno spettacolo interno,a cuirispondevano. tre grandi
attinenze dell'uomo con sè stesso,coll'universo e con Dio ; un'armonia d'enti
che la scienza dovea tras formare in armonia di principj. » Nam quum animus
cognitis perceptisque virtutibus, a corporis obsequio indulgentiaque
discesserit, volupta sedDelphico deo tribueretur.Nam
quiseipsenorit,primum 49 A questo proposito ci giova riferire le sue parole
tolte da un luogo eloquente del dialogo delle Leggi,dove egli stesso in propria
persona descrive il concetto ed il metodo della scienza prima. « Ita fit (così
il testo latino, che io trascrivo per maggiore esattezza secondo l'ediz. di
Lipsia riveduta dal Klotz) ut mater omnium bonarum rerum sit sapientia, a cujus
amore Græco verbo philosophia nomen invenit, qua nihil a dîs immortalibus
uberius, nihil florentius, nihil præstabilius hominum vitæ datum est. Hæc enim
una nos quum ceteras res omnes tum quod est difficil limum docuitutnosmet
ipsosnosceremus:cujuspræcepti tanta vis et tanta sententia est,ut ea non homini
cuipiam , aliquid se habere sentiet divinum ingeniumque in se suum sicut
simulacrum aliquod dedicatum putabit , tantoque munere deorum semper dignum
aliquid et faciet et sentiet, et,quum se ipse perspexerit totumque
temptârit,intelliget quem ad modum a natura subornatus in vitam venerit
quantaque instrumenta habeat ad obtinendam adipiscen damquesapientiam,quoniamprincipiorerumomniumquasi
adumbratas intelligentias animo ac mente conceperit, quibus illustratis
sapientia duce bonum virum et ob eam ipsam causam cernat se beatum fore.
4 temque sicut labem aliquam dedecoris oppresserit, o m n e m que
mortis dolorisque timorem effugerit, societatemque caritatis coierit cum suis ,
omnesque natura coniunctos suos duxerit,cultumque deorum et puram religionem su
sceperit,et exacuerit illam,ut oculorum ,sic ingenii aciem ad bona eligenda et
reiicienda contraria, quæ virtus ex providendo est appellata prudentia, quid eo
dici aut co gitaripoteritbeatius?Idemque quum cælum,terras,maria rerumque
omnium naturam perspexerit eaque unde ge nerata,quo recurrant,quando,quo modo
obitura,quid in his mortale et caducum,quid divinum æternumque sit viderit,
ipsumque ea moderantem et regentem paene prehenderit seseque non unius
circumdatum mænibus loci, sed civem totius mundi quasi unius urbis agnoverit,in
hac ille magnificentia rerum atque in hoc conspectu et cogni
tionenaturæ,diimmortales,quam seipsenoscet!quod Apollo præcepit Pythius, quam
contemnet, quam despi ciet, quam pro nihilo putabit ea,quæ vulgo ducuntur
amplissima! » Atque hæc omnia quasi sæpimento aliquo vallabit disserendi
ratione, veri et falsi iudicandi scientia et arte quadam intelligendi quid
quamque rem sequatur et quid sit cuique contrarium . Quumque se ad civilem
societatem natum senserit, non solum illa subtili disputatione sibi utendum
putabit, sed etiam fusa latius perpetua oratione, qua regat populos, qua
stabiliat leges, qua castiget i m probos, qua tueatur bonos, qua laudet claros
viros, qua præcepta salutis et laudis apte ad persuadendum edat suis
civibus,qua hortari ad decus,revocare a flagitio, con solari possit adflictos
factaque et consulta fortium et sa pientium cum improborum ignominia
sempiternis monu mentis prodere. Quae cum tot res tantæque sint, quæ inesse in
homine perspiciantur ab iis, qui se ipsi velint nosse, earum parens est
educatrixque sapientia. » (De Leg.,I,XXII,XXIII.) 50 Qui s'espone a
dettatura del nostro filosofo il suo metodo dell'osservazione interiore
induttivo e deduttivo, quale uscì dalle dottrine di Socrate e di Platone, e
si 51 continuò, accolto dal Cristianesimo , lungo le scuole m i
gliori dell'universale Filosofia. Vi si distinguono tre cose : lo ciò che
antecede ; 2o ciò che accompagna ; 3o ciò che sussegue alla scienza. 1° Lo
stato che antecede la scienza non è il dubbio, m a un riconoscimento pratico e
speculativo dell'ordine universale.L'uomo ha innanzi tutto un sentimento ar
cano della sua somiglianza con l'Essere infinitamente perfetto; e quel
sentimento della dignità umana, e quel l'aspirazione all'immutabile e
all'assoluto in cui vero e buono sono congiunti, e la ragione procede da uno
stesso fonte identica colla legge morale, risveglia in lui l'evidenza intima de
principj speculativi, ond’e’si leva alla cognizione di sè stesso e di Dio,
capisce pei mezzi l'eccellenza del fine a cui nacque, e costituendo in ar monia
pensiero e volere,premette la riforma morale di sè stesso alla riforma
speculativa.Due condizioni del sog. getto rendono possibile in lui la contempla
zione dell'og getto che è scienza:prima la retta disposizione dell'animo
purificato spiritualmente dalla morale, l'istinto sociale educato dalla vita
civile, l'istinto religioso santificato e nutrito dal culto; in secondo luogo
rende possibile la scienza la capacità delle potenze conoscitive, che non sa
rebbero potenze ordinate alla notizia del vero,se un che di determinato e
d'efficace, se una verità prima non le costituisse tali nell'essere loro;ma è
prima necessaria la retta disposizione dell'animo,perchè ilpensiero avvalorato
dalcuore (animo acmente)ravvisinell'intellezioneprima (adumbrata
intelligentia),un po'confusa e indeterminata, le notizie riflesse. 2o Ciò
posto, si procede allo stato di scienza,e il filo sofo movendo dall'esperienza
interiore, col soccorso della Dialettica dottrina delle conseguenze e
conciliatrice dei contrarj, levasi alle ragioni supreme dell'essere, del co
noscere e del fare,si forma i concetti d'origine e di fine, di contingente e di
necessario, di temporaneo e di eterno, che gli sono via a discendere di nuovo
alla notizia di sè stesso e del mondo , notizia comprensiva ed univer
52 sale che lo palesa inferiore soltanto a Dio , eguale ai suoi simili,
e cittadino dell'universo. 3. Dall'ordine universale della Scienza prima discen
dono due dottrine applicate, e strette in vincoli di co munanza fra di loro :
la eloquenza civile e l'arte dello stato . Tali erano per Cicerone i
fondamenti, ed il metodo della scienza. Ora ecco, secondo che riassume un
istorico recente della Filosofia, quali erano isuoi criterj: « Nella coscienza
di noi stessi Cicerone, come Socrate,più di So crate forse perchè romano
,sentiva l'universalità del vero, distinta dalle opinioni particolari,e l'amore
che tende al vero, e l'essere nostro sociale e religioso, relazioni uni versali
anch'esse ; e però egli inculcava sempre di fermar l'occhio in ciò ch'è proprio
dell'uomo,ossia nella retta ragione (De off, I e II passim ); e contro gli
Epicurei fa valere gli affetti più generosi dell'animo (ivi, e negli Acc.e
ne'Tuscul.e quasipertutto);echiama insoste gno il senso comune e le tradizioni
umane e divine.Così ne' libri Tuscolani (I, 12) adopera l'autorità del senso
comune a dimostrare l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima umana,e dice
ne'Paradossi contro gli Stoici: « Noi più adoperiamo quella filosofia che
partorisce copia di dire, e dove si dicono cose non molto discordi dal pen
sardellagente.»(Proem.)E nelleseguentiparolede'Tu scolani si vede com’ei
raccogliesse,di mezzo alle opinioni varie,le tradizioni universali de'filosofi
e le divine;« Inol tre,d'ottime autorità intorno a tal sentenza (cioè l'im
mortalità dell'anima) possiamo far uso; il che in tutte le questioni e dee e
suole valere moltissimo (in omnibus, caussis et debet et solet valere plurimum
); e prima, di tutta l'antichità (omni antiquitate); la quale quanto più era
presso all'origine divina (ab ortu et divina progenie ) tanto più forse
discerneva la verità.» (Tusc.,I,12).E tra'filosofi, ch'egli cita,preferisce
appunto Ferecide,come antico,antiquus sane;e indine conferma l'autorità con
quella di Pitagora e de'Pitagorici;il nome de quali, egli dice, ebbe per tanti
secoli tanta virtù che niun altro paresse dotto (S 16). E dice più
oltre che, secondo Pla tone,la filosofia fu un dono,ma quanto a sè,una inven
zione degli dèi : « Philosophia vero omnium mater artium , quid est aliud,nisi,
ut Plato ait,donum , ut ego, inventio deorum ? » ($ 26.) Nel che s'accenna il principio
divino della Sapienza e della tradizione.(Conti,St. della Filo sofia,
part.I,Lez.XVIII.) 4. Se per ciò che risguarda i principj e i fondamenti della
filosofia egli mosse direttamente da Socrate affer mando la chiarezza naturale
del soggetto scientifico,e l'efficacia della conoscenza, quanto poi al metodo
più propriamente detto, indagatore dei veri particolari, fu se guace, o come ci
dice egli stesso,restauratore della Nuova Accademia (deserte discipline et iam
pridem relicte ), restaurazione che, a mio parere, può e debbe chiamarsi una
vera riforma; perchè l'idealismo d'Arcesilao e di Carneade tralignava nel
dubbio, e, piuttosto che all'An tica Accademia , si ricongiunse agli scettici
dell'età italo greca e a Pirrone; m a Tullio attingendo alle fonti socra tiche
si riscontrò nelle tradizioni genuine della sua scuola. Questo fatto s'è
rinnovato in Italia nel secolo XVII, quando Galileo Galilei tornando al vero
metodo aristote lico dell'induzione, restaurava la filosofia naturale ; più
peripatetico in ciò, come egli stesso scriveva al Liceti,di tutti i
peripatetici de'tempi suoi. 53 Riassumendo il tutto in poche parole,
Cicerone attri buiva alla filosofia universalità di fini, di principj e di
metodo, e tutto ciò comprendeva,come Socrate,nel senso generalissimo della voce
sapienza, talchè dopo averla descritta ne'libri oratorj come un semplice
esercizio di raziocinio, e in alcune opere morali come una dottrina puramente
pratica e positiva,ne'Tuscolani e nel secondo libro degli Officj la chiamò con
significato più largo : scienza delle cose divine ed umane e delle loro
cagioni. Suolsi affermare comunemente dai critici e dai filosofi che Cicerone
diè prova di scarso ingegno speculativo non componendo le sparse verità in un
sistema ordinato. La quale accusa vuol bene determinarsi; perchè,se con
essa si nega che Cicerone aggiungesse copiose speculazioni alla
materia delle dottrine contemporanee, e che componesse le verità
antecedentemente trattate dalle scuole socrati che in un compiuto e perfetto
sistema, ha ragione la cri tica, m a la critica ha torto,se vuol negare che a
Cicerone mancasse qualunque disegno di scienza, o un proprio cri terio per
l'ordinamento formale delle dottrine. L'affermar ciò, rispetto a Cicerone,
importerebbe nel vero affermarlo pure di Socrate,e d'ogni altro riformatore;
chè il sistema della filosofia di Tullio (se così vuolsi chiamarlo), come
quello di Socrate, non è ordinato secondo un disegno po sitivo corrispondente
all'ordine del soggetto ripensato dalla coscienza, m a si svolge nella stessa
opposizione alle sette, e in quella opposizione egli scuopre il concetto della
scienza,e il metodo,e i criterj che gli son guida,indizio manifesto che,mentre
da un lato egli demoliva le dot trine sofistiche dei contemporanei, edificava
dall'altro sui fondamenti incrollabili della coscienza umana. Ora si avverta
come il considerare in tal modo questa temperata efficacia della speculazione
di Tullio, che ri pensa e rifà le dottrine degli altri con un proprio criterio
positivo di paragone e di scelta,in contrapposto alla pas sività negativa
dell'eclettico erudito che ricopia quelle dottrine e le raguna nella memoria
,anzichè comporle nella riflessione; è metodo forse non seguito fin qui dai
prin cipali critici di Cicerone,e tale che potrebbe condurre a meglio
comprenderlo e giudicarlo col chiarire molte que stioni, tra le quali non
ultima quella sull'uso ch'egli fece dell'autorità quanto ai fonti delle sue
dottrine,trattata a lungo in Germania, e sì bene dal Kuehner nel capitolo
quinto, parte seconda della Dissertazione citata. 54 E tale è il metodo
che noi abbiam preso a seguire, ond'escono alcune conseguenze e regole pel
nostro esame. I n p r i m o l u o g o , p o i c h è s o l o p e r n o s t r o a
v v i s o , il c o n t r a p porre Tullio a'suoi contemporanei può dimostrare
quanta altezza d'ingegno e potenza d'analisi gli abbisognasse per isceverare
dalla confusione de'sistemi le verità principali, chiarirle e ordinarle in
forma di scienza, terremo l'uso d'esporre ogni volta le principali
opposizioni de' sistemi, e poi qual giudizio ne recasse il filosofo latino.In
secondo luogo avremo questo a principio di critica, notato da altri, che,
poichè le opere di Cicerone sono per la m a s sima parte dispute scritte, e,
come tali, ritraggono nei varj personaggj il conflitto delle opinioni, e le
nature differenti degl'interlocutori, convien distinguere con ogni diligenza
quando egli riferisce la propria, e quando l'opi nione degli altri, quando egli
stesso prende parte al dia logo, o si tien fuori, quando tratta ex professo una
m a teria,oquandosoltantol'accenna(V.Degerando,Brucker, Kuehner, Middleton .)
Finalmente si consideri bene che l'ordine di questo ragionamento mostrerà come
una pro gressiva verificazione dei principj supremi nella mente di Tullio, a
misura ch'egli passa dalla filosofia fisica alla logica, e poi alla morale ; ed
è perciò che qualche argo mento interrotto in una parte delle dottrine, verrà
ab bandonato e poi ripreso in un'altra, quand'egli,conside randolo sotto un
aspetto diverso, sempre più lo verifica, e sempre più lo chiarisce. Le fonti da
cui trarre le dottrine di Cicerone, sono principalmente i suoi libri di
filosofia, che ci pervennero la maggior parte, se n'eccettui le traduzioni
Oeconomica Xenophontis (scritta forse l'anno p. u. c.670, o il se
guente),Protagoras ex Platone (lavoro giovanile secondo Quintiliano.) Timæus de
Universo (trad., come app. dal p r o e m ., d o p o g l i A c c a d e m i c i ,
c i o è d o p o i l 7 1 0 d i R o m a ) ; i libri vriginali, Hortensius de philosophia
(2 libri del l'anno forse p.u.c.709),Consolatio de luctu minuendo (scritta dopo
la morte della figlia avvenuta nel 709, poco prima dei Tuscolani), D e Gloria
(2 libri, compiti circa alla metà del 710), Commentarius de virtutibus
(incertadata),Cato,sivelausM. Catonis(709),Deiure civili in urtem redigendo;
de'più fra'quali rimangono frammenti. Gli altri, non interi tutti, e che in
ordine di tempo si distribuiscono cosi: De republica (6 libri scritti dal 700
al 703 di Roma),De legibus(6 libri,composti dopo il De republica), Paradoxa
(avanti il Giugno 55 e del 708),Academicorum (ne fece due
edizioni dette Acad. priorum in 2 libri, e posteriorum ,in 4 libri;della prima
c'è rimasto il secondo libro, della seconda il primo ; anno 709),De finibus
bonorum et malorum (5 libri del 709 di R.); Tusculanarum disputationum (5
libri, cominciati l ' a n n o d i R o m a 7 0 9 , c o m p i t i il 7 1 0 a v a
n t i l a m o r t e d i Cesare),De natura Deorum (3libri,compostitral'estate
del709egl'idjdiMarzodel710),De Divinatione(2libri, cominciati il 710), De fato
(un libro scritto a corredo dei due precedenti), De officiis (tre libri
cominciati nella seconda metà del 710), Cato major de senectute (un li bro,
scritto e pubblicato il 710), Lelius de amicitia (id.scritto dopo il Catone
maggiore av.gliOfficj);furono variamente distinti dai critici secondo la loro
materia e la forma. Il Ritter li distinse in riposti ed in popolari,
clistinzione che più esattamente potrebbe ridursi all'altra de'dialoghi
speculativi, come i libri Accademici, de'Fini, delle Leggi,della Natura degli
Dei ;dagli scritti che hanno È noto quanto siasi discusso tra i critici sulle
dale dei libri di Ci cerone.Cilusa principale del dissenso è il non trovarsi
d'accordo quauto al determinare l'anno della nascita dell'Autore. 1 Forsyth lo
dice nato il 3 d i g e n n a i o , 1 0 6 a v . C r i s t o ( 6 4 8 d i R o m a
), m a a g g i u n g e i n n o t a a p . 2 , che, secondo il calendario
Giuliano, egli sarebbe nato l'ottobre del 107 (647 di Roma). In questo anno
pongono la sua nascita il Middleton, il Kuehner ed altri autori meno
recenti;onde seguita che,mentre, a cagione ll'esempio,essi fanno il De
consolatione,l'Orlensio,gli Accademici, il De finibus e le Tuscolane, del 708
di Roma, (av. Cristo 46 e 62 della vita di Cicerone),eleopere De Natura
deorum,DeDivinatione,DeFato,De Offi riis, Cato Vajor e Lælius, del 709 di Roma
(45 av.Cristo c 63'della vita di Cicerone); il Forsyth e l'edizione di Lipsia
del 1854 (riveduta dal Clolz so quelle dell'Orelli e dell'Ernesti), riferiscono
i primi cinque trattati al 7 0 9 d i R o m a ( 4 5 a v . C r i s t o , 6 2 d i
C i c e r o n e ), e g l i a l t r i a l 7 1 0 . N o i s t i a m o col critico
di Lipsia, e col Forsyth,perchè mollo recenti,e temperati assai nei giudizj.Del
resto di parecchie opere si conosce la data.Intorno a quella del De Republica e
De Legibus rimane qualche incertezza. Il dott.P. Richarz. in una dissert., De
politicorum Ciceronis librorum tempore natali (Wir ceb., 1822), stabilisce
avervi speso Cicerone oltre a dieci anni, e averli pubblicati nel principio
circa del 703 di Roma.Questa ed altre molte dis sertazioni di critici tedeschi
e francesi,citate da noi,ricevemmo dalla cor. tesia dell'illustre A. Vannucci,
a cui rendiamo pubblica testimonianza di gratitudine. 56 un
fine pratico,ad esempio gli Officj,dell'Amicizia,iPara dossi, le Tusculane e
qualche altro. Noi abbiam seguito l'altra distinzione più principale, ammessa
da tutti icri tici, e che fino a un certo punto concilia l'ordine logico dei
libri coll'ordine di tempo, tra le opere fisiche (De matura Deorum ,De
divinatione, De fato, e il Somnium Scipionis parte della Rep.), le logiche
(Academicorum , Topica, De inventione,etc.),lemorali(Definibus,Tuscu
lanarum,Paradoxa,Delegibus,Deofficiis,De republica, De senectute,De amicitia)
;avvertendo che la distinzione non siprenda troppo assoluta,ma che si guardi
alla qua litàche prevale.Fonti secondarj,ma dausarsiconmolto
riserbo,sono,secondo nota opportunamente il Middleton nella vita di Cicerone,le
Orazioni e l’Epistolario; e noi vi aggiungiamoleopererettoriche,segnatamente
ilDe Ora tore e l'Orator. La distinzione accennata delle opere fisiche,logiche
e morali risponde al concetto della scienza, e al metodo della antica Accademia
seguito da Tullio nell'ordina mento generale delle dottrine, e ne partisce la
filosofia nelle tre grandi teoriche dell'essere, del conoscere e del l'operare.
Premessi questi principj generali, si passi ora al l'esame più specificato
delle dottrine. II. 1. Il prendere ad esame con quella larghezza e dili
genza,che è necessaria allacriticaistorica,levarieparti delle dottrine
tulliane, è cosa invero che ricerca un abito non ordinario di osservazione, e
un sentimento vivo delle attinenze scientifiche; perchè, sebbene, come fu
notato nel capitolo antecedente, non si trovi nell'Arpinate un pieno disegno di
filosofia ordinata a sistema, basta leg gere alcuno dei suoi libri speculativi
per accorgersi tosto ch'ei ritraeva da Socrate,non soltanto ilmetodo esterno
del disputare e la sobrietà dell'esame, m a altresì quella 57
58 riflessione larga e compiuta, onde l'Ateniese coglieva nel l'universo
delle idee la unità della scienza. E di fatto socratici veri sono, come ben
nota il Ritter,tutti coloro che videro chiaramente la necessità di collegare la
scienza de'fatti interni con quella dell'universo, l'osservazione morale
coll'esperienza e la fisica colla psicologia. Nes suno dunque fu più vero e
perfetto socratico del nostro Autore. Anch'egli si accorse, come già il suo
Maestro , che se un sentimento naturale, abbenchè indeterminato, dell'attinenza
tra il pensiero nostro e gli oggetti, mosse la riflessione ne'primi passi della
scienza a riconoscersi per illusione identica col mondo esteriore,illusione da
cui poi i Pittagorici, gli Eleati e gli Ionj traevano il pantei smo,e uscì la
dialettica de'sofisti, un secondo passo a ristorare la scienza caduta nella
materia e nelle astra zioni eccessive, doveva essere l'affermazione dell'uomo
interiore, e di quella sintesi intellettiva e morale, sola realtà oggettiva, in
cui mirando il pensiero potesse rav visaresèstessoinattinenzacollecose
conDio.Suquesti fondamenti Socrate restaurava la vera dottrina dell'es
sere,dottrina che tratta di Dio,dell'universo e dell'uomo, considerati nella
loro esistenza, natura e relazioni su preme, e abbraccia in sè le scienze
fisiche e matemati che, la teologia naturale, la psicologia e la cosmologia.
Tutto ciò veniva compreso dagli antichi sotto il nome universale di Fisica
(usato in più luoghi da Cicerone ), e la Fisica includevano nella Filosofia,
perchè questa trat tando degli enti nel loro ordine universale contemplato
interiormente dalla coscienza,porge alle dottrine d'osser vazione esteriore il
soggetto e i principj. Or qui bisogna avvertire che questa unione intima delle
parti scienziali, sentita vivamente dalle scuole antiche italiane, e confer
mata da Socrate (il quale, nemico della fisica sofistica degli Ionj,favorì
invece coll'osservazione interiore la fisica buona), dava occasione, come
sempre, ad un bene e ad un male ; il bene era l'altezza della riflessione
scientifica, che comprendendo nell'unità de'principj l'intelligibile e il
sovrintelligibile, la natura e il divino, scorgeva sempre 59 più
addentro i legami che stringono la teologia naturale, la psicologia e la
cosmologia ; il male era che le scienze sperimentali così intimamente collegate
alla filosofia spe culativa,mentre se ne avvantaggiavano da un lato rispetto
all'universalità, traendo dall'accordo colle altre parti del l'umano sapere
occasione a più vera e perfetta compren sione della propria materia, dall'altra
ne scapitavano quanto ai metodi, allorchè all'osservazione esteriore o
induttiva, che sola ci può condurre alla notizia dei corpi, si volle sostituire
la deduzione, che da pochi generalissimi, posati a priori, scendeva di salto,
come nota Bacone , al particolarede'fatti.Due fontiperennid'errorenellescienze
sperimentali furono pertanto il panteismo e il dualismo ; ilprimo,perchè,data
l'unità di sostanza,ne consegue la medesimezza dell'ordine ideale col
reale,onde deduce il filosofo darsi vero passaggio dalle idee alle cose,senza
necessità di sensata esperienza ; il secondo, perchè, fatta coeterna a Dio la
materia,ne viene alterato il concetto di finitudine, e il mondo si pensa non
più finito e tem poraneo, m a infinito ed eterno, e animata la materia e
incorruttibiliicieli;pertalmodo panteismo edualismo ci diedero la fisica
fabbricata a priori, quale fu nelle scuole dell'India,nelle Pittagoriche, nelle
Eleatiche,in Platone, negli Stoici e nei Peripatetici del medio -evo. Le quali
considerazioni son necessarie,parmi,a chiunque voglia esaminare la metafisica
di Cicerone, e chiarire come mai,mentre lafisicasuperioreeledottrinesuDio,
sull'uomo e sull'universo sono fondate da lui sopra prin cipj sì alti, vi
prendono pochissima parte e indiretta le indagini sperimentali. Ai tempi
dell'Arpinate in cui, venuta all'ultima cor ruzione laGentilità,si rinnovarono
esiesageraronotutti gli errori delle età anteriori, quello strano accozzo delle
scienze fisiche colle metafisiche era venuto al suo colmo, e potente occasione
di scetticismo era il contrasto delle opinioni. Ora v è un luogo sulla fine
degli Accademici primi,dove Tullio descrivendo in persona propria la di scordia
delle sette contemporanee nelle tre parti della scienza,e volendo
mostrare come quella discordia giusti ficasseildubbiodellaNuova
Accademia,sitrattienepiùspe cialmente sulle dottrine de'Fisici (Acad., 37, 38,
39). D a quel luogo apparisce che il panteismo e il dualismo italo-greco spingendo
all'eccesso l'induzione astrattiva, per stabilire l'identità della sostanza
prima, avean con cepito a priori un'essenza nascosta e universale delle cose
distinta dalle loro qualità manifeste pel senso,e che si convertiva in tutti
gli elementi ; m a sulla natura di quest' intima essenza si disputava
segnatamente tra le scuole pittagorica, eleatica ed ionica. D'altra parte sor
geva questione tra le differenti scuole socratiche sull'or dine e sui destini
dell'universo;gli Stoici ammettendo una continua successione di mondi,
affermavano temporaneo il presente ordine delle cose ; Aristotele lo diceva
eterno ; i primi trasportando l'immagine dell'uomo nel principio supremo,
concepivano Dio provvidente nei particolari e negli universali ; m a Stratone
da Lampsaco e Democrito gli rifiutavano ogni ingerimento nelle cose del mondo,
inentre Aristotile,accordandogli la provvidenza dei generi e delle specie, gli
negava quella dei particolari. Tal m e todo di ragionare a priori sull'essenza
delle cose,occulta intimamente all'umano intelletto,non piaceva a Tullio,
ond'e'consigliavaun piùmodestosapere;mostravacome la notizia, che noi
acquistiamo de'corpi, movendo dagli effetti, non comprende l'intima essenza e
l'efficacia delle cause, e se all'occhio stesso dell'anatomico, che pur p e
metra ne'corpi, non si manifesta l'attività che li avviva, molto meno ella si
manifesterà al Fisico, che non può tagliare e dividere la natura delle cose per
indagare i fondamenti su cui posa laterra.(39.)Procedendo di questo passo
l'Autore faceva vedere negli Accademici, nei T u sculani e nel libro della
Natura degli Dei,come i dubbj opposti alle eccessive affermazioni de'Fisici
intorno alla essenza delle cose si trasportavano dalla Nuova Accade mia
sull'esistenza,natura e destini dell'anima,sull'esi stenza e natura di Dio e
sue relazioni coll'universo, e sulle altre principali verità della
scienza. 60 61 Nei luoghi citatiadunque e in qualche
altro ancora,in cui l'oratore latino dipinge il dissidio delle scuole sulle
verità naturali, non può negarsi ch'egli si faccia seguace della Nuova
Accademia ; e non pertanto s'ingannerebbe col Ritter chi, attingendo di
preferenza a quei libri che han fine principalmente metodico, e dove le
dottrine della Fisica superiore si toccano per incidente, ne inferisse il
dubbio universale di Cicerone sui fondamenti di tutta la scienza. Nella fisica
ciceroniana si vuol distinguere infatti le verità problematiche dalle
teorematiche ; le prime ri feribili all'intima essenza e natura de'corpi, alle
leggi de’loro moti,alla costituzione fisica dell'universo ;l'altre risguardanti
l'esistenza e natura di Dio , dell'uomo e del mondo, considerati nell'ordine
loro e relazioni supreme. Quanto ai problemi naturali,egli non impugnava la pro
babilità che la scienza pervenisse a risolverli, e, come primo presupposto
somministrato dalla filosofia alle dot trinesperimentali,ammetteva
lapercezionede'corpi;ma di contro all'orgoglioso dommatismo degli Stoici, degli
Ionj e degli Eleati gli pareva assai più degna del saggio la modesta verosimiglianza
della Nuova Accademia,e fu per certo impresa vantaggiosa alla Fisica, in una
età come quella quando gli errori del panteismo,e il difetto dei metodi e degli
istrumenti toglievano fede alle verità di sensata esperienza, professare una
modesta ignoranza del vero per arrestare in tal guisa i rapidi progressi dello
scetticismo universale. E lo scetticismo, diceva Cicerone, si sarebbe aperta la
via quando que'filosofi dommatici non avessero considerato, come sentenziando
con assoluta certezza di cose occulte e dubbiose, si toglievano poi l'autorità
d'affermarne altre d'evidenza maggiore; os servazione importante e che mostra
come anche rispetto alla scienza sperimentale Tullio non professasse un dub bio
assoluto, m a riconoscesse un ordinamento di gradi dal verosimile al
certo.(Acad.prior.,41,e De repub.,I,10.) M a la prova maggiore si è che, mentre
le intermi nabili e vane questioni ond'era ingombra la fisica, lo la sciavano
sconfortato e dubbioso,un desiderio,quasi direi 62 giovanile,nutrito
dall'ingegno potente e dall'animo roma no,loinvogliava delle indagini
naturali,di quelle indagini onde ci leviamo sopra noi stessi, e dispregiando la
picco lezza delle umane cose,proviamo un vivo sentimento del divino e
dell'immortale. « Nè anche io penso (così scrive Cicerone)che sidebbano tor via
tali questioni dei fisici; poichè viè un certo naturale alimento degli animi
nel considerare e contemplare la natura ;ce ne sentiamo inal zati,e fatti
più grandi, e nel pensiero delle cose supe riori e celesti dispregiamo queste
nostre del mondo come leggiere e di nessuna importanza ; anche l'indagine
stessa di cose grandissime e occultissime diletta oltremodo ; se poi
c'imbattiamo in qualcosa che sembri verosimile,l'ani mo nostro è compreso da
quel piacere che supremamente è degno dell'uomo.»(Acad.prior., De
fin.,IV,5).Innamo rato quindi della fisica, come fonte di più alte specula
zioni, egli rigettava le fantasie grossolane di Democrito e d'Epicuro (De
fin.,I,6);lodava Zenone perchè imitatore dell'antica accademia diligente
indagatrice della natura ( D e f i n ., I V ) ; e i q u e s i t i d e l l a f i
s i c a c h e l o m o s s e r o g i à vecchio a tradurre il Timeo di Platone,
gli avevan det tato qualche anno avanti le pagine più eloquenti del trattato
sulla Repubblica; il ragionamento di Filo e lo stupendo sogno di Scipione.(De
rep.,I,17,VI,9 e De fin.,IV,5;Tuscul.,V,23,25). Due conseguenze,per
quanto ci sembra,discendono dal contesto generale dei passi sopraccitati,e da
una lettura complessiva dei libri fisici di Cicerone : 1o che il filosofo
latino, a misura che dalla ricerca delle cose sensibili, e dell'essenza loro
occulta all'intelletto dell'uomo,argo mento de problemi, si levava col discorso
induttivo ai teoremi della scienza, scopriva illuminate da una luce interiore
le verità più alte, sebbene in mezzo alle tene
bredelgentilesimononardissedeterminarle;2ache,ofosse la dottrina stoica a cui
pendeva,o l'indole viva e meri dionale del suo ingegno, nella natura egli
sentiva e rico nosceva il divino; e tale attinenza sentimentale e logica della
sua mente tra ilfinito e l'infinito,tra il contingente e
l'assoluto, tra il temporaneo e l'eterno gli era scala a pensare la relazione
ontologica;e questa poi per abito alsemipanteismo-dualistico di Platone e
degliStoici lo conduceva probabilmente a immaginarsi l'intelletto umano emanato
da Dio,e Dio e le creature supreme disgiunte dall'universo de'corpi. In questo
metodo che sale per gradi di verosimiglianza dalla natura al divino, metodo
improntato sulle meditazioni socratiche,sta l'essenza della fisica di
Cicerone,e n’escono chiarite e per ordine le sue dottrine sull'esistenza e
natura di Dio, dell'universo e dell'uomo, sulla provvidenza e sulla libertà
dell'arbitrio. 2. La dottrina sull'esistenza e natura di Dio tiene il primo
luogo nella fisica di Cicerone.La causa di questo primato apparisce evidente
innanzi tutto per la sovranità incontestata dell'idea di Dio nella scienza.
Dio, oggetto necessario e reale assoluto ed eterno che si manifesta come prima
causa al di fuori di sè stesso nell'universo degli e n t i , e li g o v e r n a
v o l g e n d o l i a d u n f i n e i m m o r t a l e , c h e n e è prima
legge,in quanto si rivela all'intelletto dell'uomo nel mondo
degl'intelligibili,come ragione prima,signoreggia per fermo tutto l'ordine
scienziale ;e infatti,sebbene l'inda gine della coscienza interiore sia
principio e fondamento al sapere nell'ordine della riflessione, è pur certo che
i veri, i quali si dicono da’filosofi più noti rispetto a sè stessi, e son
centro d'infinite relazioni, come quello di Dio,partecipano all'uomo
quell'ampia veduta ideale,che sola lo conduce alle armonie della scienza. Nè il
primato del concetto di Dio si menoma punto se la mente sale da ciò che muta a
ciò che non muta,e dalla natura al di vino, una volta ch'ella v’ascende guidata
da un concetto necessario d'attinenza causale, attinenza di termini cor
relativi, l'uno dei quali è Dio stesso presente con arcana e invisibile
efficacia nel soggetto pensante. Anche senza l'unitàassolutadeipanteisti,lafilosofiasicompone
dunque in forma di scienza,e la psicologia e la cosmologia si congiungono
insieme nel massimo problema della teologia naturale.La qual cosa è assai
provata dal metodo di S o crate, che movendo dalla coscienza produsse in
Platone 63 64 u n a c o m p i u t a a r m o n i a d i s i s t
e m a , e a i u t o il f i l o s o f o l a t i n o , venuto in tempi di povere
e scucite speculazioni, a ser bare un vincolo di dottrine nei suoi libri di
fisica, che scritti in ordine successivo di materie e di tempo,debbono quindi
esser presi ad esame da noi come un solo trattato. Premesse queste cose, viene
spontanea la domanda : quale fosseilpensierodell'oratorelatinointornoaDio.Se
dopo una attenta lettura dei passi delle sue opere, dove tal pensiero s'accenna,e
un diligente ragguaglio di questi passi tra loro,ci facciamo tal quesito, verrà
spontanea pure larispostach'eglidell'esistenzadiDio,diquelladell'anima e sua
immortalità, della provvidenza e del libero arbitrio non dubitava,e soltanto
accoglieva una più o meno decisa incertezza quanto al determinarne la natura ;
e il suo criterio in sì ardua questione della filosofia era un vivo intuito e
un sentimento più vivo dell'eccellenza e della armonia delle cose palesata
internamente dalla coscienza morale, esternamente dai principj supremi di
universale consenso.(Kuehner,Pars.IV,c.11,p.VIII.B. P. van Wesele
Scholten,Dissertatiophilosophico-criticadephi losophiæ ciceronianæ loco qui est
de Divina Natura . Amstelaed,1783,c.I,V,p.35).Inquestocriterioioravvisoil riformatore
e il filosofo vero ; il riformatore, perchè m o veva da ciò che v’ha di più
vivo e di più efficace nel l'uomo, dall'autorità delle tendenze morali, il
filosofo, perchè non se ne stava già al testimonio privato e indi viduale,ma
con deliberata indagine scientificacercavale note del vero nella ragionevole
natura dell'uomo, e nel suo carattere d’universalità. Tale osservazione è degna
d'es sere avvertita sin d'ora,perchè parecchi istorici della filo sofia,tra
iquali anche ilRitter,considerando ilmodo ora
dubitativo,oradommaticoconcuiCiceronesiesprimeinsif fatta dottrina,ilsuo
riserbo nell'accettare le opinioni degli altri, nell'esaminarle, nel
ventilarle, han voluto dedurre che egli in questa parte,filosofo di non troppo
sottili spe culazioni, più che a una severa riflessione, se ne stasse al
sentimento individuale destituito da criterj scientifici.
(Ritter,Hist.,L.XII,c.II,p.112. Brucker,Degerando.) M a questi
storici non hanno considerato a quali tempi si abbattè Cicerone ; tempi di sfrenate
passioni, di orribili scelleratezze, di guerre sterminatrici, ne'quali ogni fon
damento dell'edifizio civile crollava, e la scienza,abban donato il sublime
ministero di propagatrice del vero, si prostituiva
alguadagno.Alloralavocedelsenso comune e degli affetti naturali, alterata dalla
Gentilità, non so nava nelle plebi,quale una volta,testimone dei veriuni
versali e delle tradizioni primitive; la voce del popolo non era più quella di
Dio. Allora la tradizione scienti fica, che ravviata da Socrate s'era andata continuando,
benchè con notevoli alterazioni,lungo le scuole socrati che, pervertita dagli
ultimi sofisti avea perduto ogni sen timento del vero;talchèalfilosofo,chenon
avesse voluto o bestemmiar colle plebi o delirar coi sapienti, non ri maneva
che cercare iprincipj della scienza nella propria natura non corrotta e
nell'antichità veneranda. Ecco il fondamento che cercò Cicerone alle principali
dottrine della teologia,ed ecco icriterj che lo guidarono in mezzo ai
ravvolgimenti delle scuole sofistiche. Qui per altro è necessario notare
che,quando diciamo che in tempi di sì corrotta filosofia Cicerone ebbe e
metodo, e indagini pro prie,e guide non fallaci del vero,noi non lo rappresen
tiamo immune del tutto dalla funesta efficacia delle dot trinecontemporanee,nèintendiamoch'e'fossesìfortunato
da ravvisare scevre d'errore nel santuario della coscienza le verità
principali.- Ebbe egli compiuta e perfetta n o tizia della natura di Dio e
delle sue perfezioni ? conobbe senza mischianza d’errori i d o m m i della spiritualità
e i m mortalità dell'anima umana ?ravvisò semplici e schiette, senza infezione
di panteismo e di dualismo,le attinenze dell'Ente supremo coll'intelletto
dell'uomo e col mondo ? - I o so che tali quesiti furono proposti più volte
dagli storici della filosofia, e poichè parve che Tullio non s e m pre
rispondesse chiaro e deciso all'esame dei postulanti, gli fu negato nome e
autorità di filosofo, e valore d'in gegno speculativo. (Brucker lo difese
dall'ateismo ; redi Bayle,Diz.Art.Spinoza).E veramente la conclusione 65
5 Il metodo ch'e'si propose apparisce manifesto dai tre libri D e
natura Deorum ; e tal metodo discende dal fine di tutto iltrattato.Or qual
eraquelfine? Chiamare 66 scenderebbe di necessità dai principj, quando si
potesse provare che la riflessione scientifica s'è trovata in ogni tempo nel
medesimo stato di certezza di contro al sapere naturale e al soggetto della
scienza,o che lo spirito umano nonsegueun cammino
diprogressivosvolgimentonellaetà dellastoria;e sela criticamoderna immune da
preoccupa zioni, adoperasse sempre una stessa severità imparziale nell'esame
d'ogni filosofo. M a la cosa procede ben altri menti ; perchè da un lato il
razionalismo alemanno coi suoi seguaci d'ogni paese, che ammette ogni
perfeziona mento scientifico come un prodotto spontaneo e succes sivo della
ragione nel tempo,non potrebbe,senza rischio di contraddire ai principj del
proprio sistema, negare che la forma logicale e il fondamento delle dottrine
dei filo sofi antichi sia rispetto a quel de'moderni notevolmente imperfetto ;
d'altra parte il filosofo del Cristianesimo, che afferma oscurate e corrotte
prima della venuta di Cristo le tradizioni e le verità primitive, e restituite
dalla parola rivelatrice del Verbo quelle tradizioni e quelle verità all'intelletto
dell'uomo redento, non può non ravvisare nelle dottrine cristiane un
perfezionamento notevole delle dottrine gentili; infine, ed è conseguenza del
già detto, nessuno rimprovera ai filosofi Indiani, Italo-Greci, a So crate, a
Platone, ad Aristotele l'ignoranza, l'errore e le manifeste dubbiezze intorno a
parti sostanzialissime della scienza. Le quali cose premesse, è inutile,parmi,
far conside rare al lettore di Cicerone ch' e' non vi troverà deter minato
senza ondeggiamenti d'idee e d'espressioni il con cetto di Dio ; anzi dirò di
più che tal concetto in parecchi luoghi delle sue opere (come nel De natura
Deorum ) apparisce più assai negativo che positivo. Resta ora che cerchiamo in
breve per quale indagine lenta e progressiva giungesse il filosofo nostro a una
verificazione sempre m a g giore di quel concetto divino. ad esame
le principali opinioni de'filosofi intorno a Dio, discuterle,confutarle, e
mostrare come le loro controversie sovra una parte sì nobile della scienza
siano ben sovente occasione e pericolo di scetticismo. (I. C. I,1;C. VI, 13,
14.) Con questo intendimento venuto egli ad esporre l'occasione del dialogo,
racconta come essendo stato invi tato nel tempo delle Ferie latine in casa
dell'accademico C. Aurelio Cotta pontefice e suo familiare (fra il 676 e il 679
di R o m a ), e trovatolo insieme con C. Vellejo, che
alloraavevavoced'essereinRoma ilprimotragliEpi curei,e Q. Lucilio Balbo,stoico
da paragonarsi ai più prestanti fra iGreci, cominciarono questi a disputare,
lui presente, della natura degli Dei, spartendo tutta la m a teria in tre punti
principali ; vale a dire : se vi fossero Dei,quale fosse la natura loro,e quale
intervento aves sero nelle cose del mondo e degliuomini.La qual spar tizione è
conservata in appresso sì nell'esposizione delle dottrine di Vellejo e di
Balbo, come nelle risposte di Cotta, che replicando ogni volta a ciascuno di
loro, li confuta entrambi. Il dialogo sulla natura degli Dei,che è dei più im
portanti fra i libri speculativi del nostro autore, si riduce in sostanza a una
esposizione viva ed eloquentissima delle incompiutezze dei sistemi sofistici,
contraddicenti alla c o scienza e al suo naturale riconoscimento, e si vede
quivi come gli errori più perniciosi sul concetto di causalità prima che è
fonte a noi del concetto di Dio,accumulati da secoli, corrompevano allora le
speculazioni gentili. Il panteista, immedesimando Dio colle creature,
pervertiva l'idea della sua natura infinita e assoluta, introducendo nell'ente
senza difetti il maggior de'difetti,la negazione dell'infinito e dell'assoluto
; il dualista che svolge l'unità primordiale del panteismo, segregando il
Creatore dalle cose create e indiando la natura, si perdeva nella contra
dizione immortale di due infiniti coeterni, onde moltipli c a n d o D i o , l '
a n n i e n t a v a ; il m a t e r i a l i s t a e l ' i d e a l i s t a l ’ u
n o affogato nel senso, l'altro confinato nella fredda solitu dine dell'idea, o
si vedevano dileguare il concetto di Dio 67 68 tra i fenomeni
della materia, o lo perdevano di vista nelle indefinite astrazioni; m a l'uno e
l'altro riuscivano a n e garlo,perchè sempre si nega per necessità di sofisma
l'evi denza non affermata per difetto di logica. Ora egli è a p punto questa
legge inesorabile dell'errore che Cicerone volle rappresentare mettendo alle
prese l'Epicureo con lo stoico, e sottoponendoli entrambi al sindacato della
Nuova Accademia. E invero quell'ardita e sconsigliata filosofia d'Epicuro che
riesce sì lusinghiera vestita dello splendore di Lucrezio, si mostra in tutta
la sua nudità nel discorso di Vellejo (Lib.I,dal C. VIII al XXI).Po neva egli
come certo che gli Dei sono,perchè la natura avea impressa negli animi di tutti
la loro anticipata no tizia (apódnbev),e ne accennava vagamente l'essere e la
figura, facendoli eterni e perfettissimi e conformati a si militudine umana,ma
non da materia corporea e sensi bile,bensì da un fortuito accozzo d'immagini
simili rin novantisi all'infinito (imaginibus similitudine et transi tione
perceptis); gli Dei così costituiti dipingeva beati, e non curanti nè di sè
stessi, nè delle cose pertinenti agli umani. Ora è chiaro che le conseguenze
d'una siffatta dottrina eran ridurre la natura di Dio ad un puro con cetto
della mente,ad un'immagine d'inerzia non conci liabile coll'ordine e col moto
d'ogni cosa creata. Ma a più alto concetto di Dio si levava lo stoico Lucilio.
Gli Stoici che,come vedemmo nella prima parte,ammettevano contenuta
nell'indeterminatezza primordiale della materia passiva, oscura, divisibile,
capace all'infinito di forme un'intima energia che traendola all'atto ne
costituiva la vita dell'universo, concepivano Dio in questa vita,e m o vevano
per affermarlo esistente dall'universale consenso, dai prodigj,dall'armonia
delle cose,e dalla eccellenza dello spirito umano. Sostenuta da questi
argomenti la prova fisica della provvidenza di Dio che va dal C. XXXIII al
LXVII del libro secondo, è uno dei più mirabili tratti dell'eloquenza romana .
Giunti a questo punto,se esaminiamo la polemica della Nuova Accademia contro le
dottrine d'Epicuro e di Cri sippo (I, dal cap. 21 al 43, e tutto
il libro terzo), ci si presenta la questione, a lungo agitata nelle scuole,
qual sia in questo libro il vero pensiero di Tullio su Dio,e se il dubbio
accademico si manifesti in lui sotto la per sona di Aurelio Cotta. I critici
più antichi lo affermarono risolutamente, alcuni più recenti come lo Scholten,
il Kuehner e il Ritter, con qualche riserbo. M a sì gli uni che gli altri si
avvicinarono al vero senza comprenderlo a pieno ; perchè essi ponevansi ad
esaminare quel libro preoccupati dal concetto che Cicerone conforme a ciò che
dice in varj de'suoi proemj,e nel proemio del De natura Deorum
(11),partecipassequivideltuttoildubbio fon damentale e sistematico, il dubbio
di Carneade sulle verità principali; laddove bisognava invece considerare come
il quesito proposto risguardasse intimamente il complesso delle dottrine, nè
quindi potesse essere risolto badando a qualche frase staccata, m a solo
serbando nell'esame la rigorosa armonia delle parti col tutto. Alla qual cosa,
se non m'inganno, noi ci aprimmo la strada sin da prin cipio,quando
distinguemmo nell'oratore latino due parti, e quasi due forme dell'indagine
scienziale; per l'una, che chiamerei intrinseca e dommatica, egli si ravvicinava
ai principj socratici, e ammetteva i fondamenti del vero nei fatti della
coscienza ; per l'altra estrinseca e negativa, che eraildubbio
dellaNuovaAccademia,moderatamente partecipato da lui, egli confutava i sistemi
contemporanei con dedurre da più negazioni particolari una compiuta
affermazione del vero. Assumendo egli in tal guisa le dot trine d'Arcesilao,
più come istrumento metodico e inqui sitivo,che come sostanza delleproprie
opinioni,ed anzi, quel che è maggiormente notevole, rifiutando il dubbio fondamentale
sulla validità della scienza,stabilito da A r cesilao e da Carneade,doveva
avvenire (siconsideri bene) che il fondamento delle teoriche tulliane contraddi
più volte a quella sua apparenza di dubbio,talchè vi fos sero in lui quasi due
persone distinte, l'una delle quali negava,l'altra implicitamente edecisamente
affermava. Ora si avverta un poco come questa contradizione, non 69
1 però sostanziale,apparisca, più che altrove,evidente nel l'opera
che noi esaminiamo; e come,introducendosi ivi da un lato Cicerone che assiste
al dialogo senza prendervi parte, e dall'altro Cotta che vi sostiene la parte
di con futatorecolmetododellaNuovaAccademia,èdato occa sione alla critica di
verificare con bastante certezza le sue opinioni, raffrontando insieme la
persona del ponte fice con quella dello scrittore. A persuadersi di ciò ba
sterebbe considerare qualmente, se Cicerone intendeva celarsi sotto la persona
di Cotta,era inutile allora che introducesse sè stesso;ma egli si dipinse là in
mezzo a que'disputanti, chiuso in un silenzio veramente sublime, per
rappresentare in sè l'immagine viva del sapiente, che, sebbene certo per natura
di veri infiniti, tuttavia procede cauto e riguardoso all'acquisto della
certezza scienziale. Noi affermiamo sin d'ora che Cicerone possedeva da n a
tura la certezza del teorema che prendeva a chiarire, perchè egli
stesso,alludendo a ciò nel proemio dove dis corre in persona propria, ci dice
che le discordie dei dotti intorno a materie importanti sono occasione potente
di scetticismo anche a coloro che han fiducia in qualche cosa di certo (I. 14);
e perchè i due primi capitoli del libro primo sono un testimonio irrepugnabile
del come il filosofo latino ponesse l'esistenza di Dio e la sua prov videnza
sui fondamenti della certezza morale (I. Cap.II, 1, 2,3,4,5).Il dubbio di
Cicerone nel libro De natura Deorum era dunque semplicemente verificativo delle
ra gioni già possedute, e avea per fine sostituire alla cer tezza naturale la
certezza scientifica. M a d'altra parte chi guardi le dottrine della Nuova
Accademia, quali ci sono rappresentate nella persona di Cotta,che le conduce
alle ultime conseguenze,siaccorge tosto che la loro indole negativa non era già
apparente e metodica, m a procedeva dall'intima essenza dell'idea lismo d'Arcesilao,
il quale dubitando d'una reale corri spondenza tra l'essere delle cose e le
potenze conosci tive, dovea dubitare pur anco della certezza naturale e del
senso comune, testimone per lui d'un'ingannatrice 70 71
evidenza. Questa è la ragione per cui Cotta nelle sue ri sposte moveva dal
negare agli Epicurei ed agli Stoici la nozione preconcetta di Dio, attestata
dal senso co mune.(I,21,23.III,3,7.)Ora siavvertacome la Nuova Accademia non
affermando un proprio e fermo fondamento di vero negli umani giudizj, e solo
una tal quale verosimiglianza eguale per tutti, mancava di prin cipj certi e
positivi da costituirvi la scienza,e conseguen temente anche di un criterio
sicuro a cui ragguagliare la critica de'sistemi contrarj. Questi sistemi,
conforme alle opinioni della Nuova Accademia,non erano quindi alcun chè di vero
o di falso secondochè si avvicinavano o si dilungavano dai principj
irrepugnabili della scienza ; con tenevano tutti, sebbene in gradi differenti,
la verosimi glianza concessa all'umano intelletto, e solo quando il legame
logico, che intercede di necessità tra le conse guenze e i principj, non era
strettamente serbato, allora soltanto si dava in essi l'errore. U n tal
criterio, sostan zialmente negativo e relativo,abbisognava (sidirà)diun criterio
positivo e assoluto desunto dall'evidenza de'prin cipj supremi,su cui posa
incardinata la necessità logica d'ogni sistema;ma laNuova Accademia non
vibadava, e ragguagliando ciascuna filosofia colle premesse del pro prio
sistema, tentava coglierla in evidente contradizione. (Nelle opere di Cicerone
passim.) U n si manifesto contrasto tra il dubbio verificativo e
scientifico del nostro Autore, e il dubbio scettico della Nuova Accademia
apparisce in ogni passo de'suoi libri, in cui egli introduce la persona di
qualche Accademico che confuta gli opposti sistemi; apparisce poi più evi dente
che mai nella conclusione del De Natura Deorum , dove Tullio, uditi i filosofi
disputanti, termina dicendo : la disputazione di Cotta (Accademico) sembrò a
Vellejo (Epicureo)più vera;a me l'altra diBalbo (Stoico)più verisimile; il che
è quanto dire che la Nuova Accademia dubitando di Dio si avvicinava agli
Epicurei, mentr'egli, certo di questo vero,si allontanava dagli uni e dagli
altri accettando in parte le dottrine del Portico.E che dim e 72
gliopotevaeglifareinmezzoalturbiníode’sistemi?Estinte quasi del tutto le sacre
tradizioni, il consentimento p o polare offuscato dai vizj, da un lato,
imbestiati nella materia negavano gli Epicurei la spiritualità del concetto di
Dio, e la sua provvidenza, dall'altro negavano gli Accademici la efficacia del
senso comune nell'affermare Dio,e sottili argomentatori lo contrapponevano al
male; ai primi Tullio opponeva nel proemio citato la dignità dell'umana
mente,ilbisogno innegabile della religione consentito da tutti;ai
secondi,l'efficacia del testimonio universale,gli affetti dell'animo,isupremi
principj della r a g i o n e e l a l i b e r t à d e l v o l e r e ( T u s c .,
d e N a t . D e o r ., D e Leg.,passim);del resto egli pendeva verso gli
Stoici,e perchè consentivano il consentito da lui, e perchè lo in namorava quel
loro sublime concetto della umana eccel lenza e dell'armonia delle cose.Come
poi egli movesse dalla coscienza morale, osservata al lume d'un criterio
scientifico, sarà dimostrato in altra parte di questo dis corso col libro delle
Leggi, dove l'efficacia esercitata nell'animo nostro dall'idea d'una suprema
sanzione gli faceva porre a proemio di tutte le istituzioni civili Dio
provvidente,e allegarne per prova la natura dell'uomo, solo fra gli animali, in
cui sia innata la notizia di Dio, e alberghi un animo immortale originato dal
cielo. (D e Leg.,I,7,II,7.) Premesse queste considerazioni, se ne possono
dedurre tre cose : 1° Il vero intendimento di C i cerone nello scrivere ilDe
Natura Deorum fu,esporre e confutare i principali sistemi contemporanei, e a
tal fine egli assunse come istrumento metodico e inquisitivo il dubbio della
Nuova Accademia,senza accettarne lo scet ticismo; 2o Cicerone non rappresentò
sè stesso nella per sona di Cotta, m a soltanto la forma estrinseca del m e
todo proprio ; 3o Il filosofo latino volle significare nelle parole del
proemio, e della conclusione,e nel silenzio ser bato in tutto il dialogo
ch'egli aveva di Dio un alto concetto, che quel concetto nella sua mente era
certo di certezza naturale, m a che in mezzo alle tenebre del G e n tilesimo e
alla discordia dei dotti,non ardiva determi . 73 narlo in
ogni sua parte, e sostituirvi una assoluta cer tezza di scienza. Ora si
domanda, perchè non riuscisse a Cicerone definire a sè stesso questo concetto.
3. Dimostra l'Ontologia come l'intelletto dell'uomo investigando le proprietà
metafisiche dell'ente in ordine ai concetti universali, distingue l'essenza
dall'essere di una cosa;quella come idea generale rappresentante una
possibilità di cose indefinita, questo un che d'attuale, di esistente e di
determinato in sè stesso. Ora si badi che ciascuna cosa esistente, sebbene
offerta all'intendimento dell'uomo dall'intelligibilità universale della sua
essenza, in quanto è esistente,vale a dire in quanto è un atto reale
dell'essere, cade per via de'sensi sotto l'apprensione delle potenze
conoscitive,e come tale è appresa particolare e finita; dall'apprensione poi di
molti finiti nella serie degli atti intellettuali la mente dell'uomo,soccorsa
dalla rifles s i o n e , l e v a s i a l c o n c e p i m e n t o d e l l e c o
s e i n f i n i t e . M a il c o n cetto dell'infinito, che è cima della
piramide ideale,può es sere inteso in diversi significati; l'un significato che
ci offre l'entità assoluta, necessaria e in ogni sua parte perfetta; l'altro
che ci rappresenta una semplice entità indetermi nata,e un mero portato
dell'astrazione mentale.Però seb bene un intervallo notevole disgiunga
nell'intelletto del filo
sofoedell'uomovolgareitreconcettidelfinito,dell'infinito e del non definito,
merita di essere considerata quella ragione qualunque di rapporto e di
similitudine per cui essi possono scambiarsi talvolta. La riflessione naturale
aiutata dal lume della scienza e dalla pienezza delle tra dizioni divine, avea
concepito ab antico, indi al termine dell'Era pagana ravvisò con evidenza
maggiore nelle dot trine cristiane l'idea dell'infinito assoluto, dell'ente per
essenza correlativa necessariamente all'idea del finito, vide in quest'ultimo,
naturalmente determinato e imper fetto,come non darsi possibilità
d'attoinfinito,così nean che necessità d'eterna esistenza,onde dedusse ilfinito
procedere per atto creativo dall'infinito, il temporaneo dall'eterno,il contingente
dal necessario.Tale è la teorica cristiana della creazione, fondata sopra una
serie logica - 74 di concetti, la cui necessità è confermata a noi
tutti fino dai primi anni in una voce interiore che ci parlò sublimi cose di
Dio,in un continuo desiderio,che ci travaglia inconsapevoli per tutta la vita
in cerca d'una perfezione immortale. Nel procedere che fa la mente a questo
apice dei concetti v’ha per altro un pericolo d'arrestarsi per via;chè sebbene
ilsentimento e l'intuito dell'infinito non possa verificarsi nell'uomo senza
una segreta unione del l'intelletto con Dio (qualunque poi sia questa unione,e
in qualunque modo s'effettui), e sebbene per l'attinenza di creazione l'atto
infinito ed eternale del Creatore costi tuisca nelle cose finite alcunchè di
somigliante a sè stesso, cioè un'indefinita potenzialità d'atti,di forme, di m
o menti,è però assurdo scambiare quell'attinenza coll'iden tità, e quella
potenzialità indefinita coll'infinito che la pone.Tale assurdo è l'origine del
concetto d'indefinito applicato alla causa creatrice.Fingasi ch'io pensi
iltempo, lo spazio, o l'indefinita potenza del mio pensiero ; allora (e può
facilmente avvenire ciò che tutti provammo alla vista di pianure interminate e
di mari, o in un facile abbandono della mente a sè stessa), se in quell'arcana
presenza di Dio la fantasia prende il di sopra sulla r a gione, io mi
rappresento quell'ordine d'atti, di durate, di coesistenze come infinitamente
continuato, continuato per una perpetua remozione di limiti che,a dir così,sono
e non sono ad un tempo ; e quell'abbaglio di fantasia si muta in un concetto
reale,ed io penso l'infinito,l'eterno, l'immenso di Dio sotto l'immagine
d'indefinito.Così nacque ilpanteismo in Asia,in Italia ed in Grecia;e così pen
sano l'assoluto i panteisti Alemanni, e l'Hegel segnata mente. Veduta la
differenza d'origine dei tre concetti di finito, d'infinito e d'indefinito,si
domanda ora quanto all'essere loro quale d'essi sia negativo. Per fermo
l'infinito,se ne togli il materiale significato della parola, evidentemente nel
suo concetto non ha nulla di negativo, desso che non ha limiti ond'è costituita
negli enti la negazione dell'es sere; non limiti di contingenza,perchè
necessario,non 75 limiti di tempo, perchè eterno, non limiti di modi
e di mutazioni,perchè assoluta sostanza;anzi èinfinitamente positivo come causa
infinita, e perchè dotato d'efficienza assoluta pone dal nulla l'effetto, e
perchè ne rappresenta in sè in modo sopraeminente e immensurabile le perfezioni
finite.Il finito poi da un lato è negativo nella sua essenza ideale, come
rappresentante all'intelletto un che fornito di limiti, dall'altro lato è
positivo nel suo essere come atto sussistente e determinato ; l'indefinito che
è propria mente l ' i p o y dei greci, è negativo nell'essenza e nel l'essere
;nell'essenza c o m e astratta potenzialità del finito, nell'essere come un
qualcosa che perennemente diviene, e non è mai ; e dico che è negativo in ogni
sua parte, per che se il positivo del finito consiste nell'essere determinato come
atto individuo e concreto,l'indefinito che nega quella i n d e t e r m i n a t
e z z a , si r i d u c e a d u n a p r e t t a a s t r a z i o n e m e n talee
per ultimaconseguenzarisolvesiinnulla.A chipoisi maravigliasse che ilconcetto
d'indefinito,cima delle astra zioni, si fosse pôrto per tanto tempo e a tante
nobili menti in luogo del concetto più naturale assai d'infinito a spiegare la
divina entità, io addurrei per ragione lo strano giuoco della fantasia che
nelle nature vivamente passionate si mesce alle operazioni delle potenze cono
scitive, addurrei l'oscurarsi delle sacre tradizioni onde avviene che
nell'animo abbandonato a sè stesso la divina luce dell'intelletto soggiaccia
agli adombramenti del senso, e infine, ultima conseguenza di ciò,la superbia
dell'uomo che Dio e l'universo volle rassomigliati a sè stesso. Io parlo cose
ben chiare a chi abbia sufficiente notizia della Storia della Filosofia, quando
dico che la Paganità tutta avanti l'Era volgare,e nell'Era volgare tutti i
filosofi più o meno infetti di paganesimo ignorarono ilvero con cetto
dell'infinito applicabile alla natura di Dio;dico il vero concetto,e non
escludo che anche tra'pagani alcuni, e segnatamente Platone,vi si accostassero
in parte; tale è l'evidenza suprema di quella idea all'umano intelletto, e tale
il sentimento non repugnabile che la creatura rav vicina al Creatore.
- 76 Ma tornando alnostro filosofo,egli,come tuttipiùo meno gli antichi,
come tutti i pagani, rimase molto al di qua dal concetto genuino e legittimo
dell'infinito. C o n tuttociò,sebbene nel De Natura Deorum rappresenti del
concetto di Dio la parte più negativa,tra perchè quivi egli procedeva per
metodo d'eliminazione confutando i sofisti, e perchè mostrò avvicinarsi
all'idea indefinita che ne avevan gli Stoici,è noto alla Storia della Filosofia
che nelle sue dottrine s'incontra sovente l'altro concetto più positivo degli
attributi dell'anima considerati come corre lativi, o analogici agli attributi
di Dio. Questa teorica, accennata in fine del De Natura Deorum , ritorna negli
ultimi capitoli della Repubblica,e nel primo libro dei Tusculani. Argomento di
quei capitoli della Repubblica è il sogno di Scipione Affricano imitato dalla
Repubblica di Platone, ed è necessario fermarvisi un poco, perchè, sebbene ivi
si tratti dell'immortalità come premio delle virtù domestiche e civili, e
perciò la materia contenga un intendimento morale,l'essenza di quelle dottrine
si ri connette intimamente alla fisica.La ragione poi è chiaris sima. Nel fondo
di tutti isistemi gentili, per quanto con
nessiconsottilissimeprove,eanimatidaunintimoprincipio diidealità,siannidava pur
sempre una ragione dimateria lismo, procedente dall'idea indefinita ch'essi
qual più qual meno s'eran formati dell'infinito,e che originandosi da un ristagno
dell'immaginativa nei fenomeni della m a teria e del senso,ivi la riconduceva
pur sempre giù dalle altezze più metafisiche della scienza. I Gentili, e segna
tamente gl'Ionj, considerando in tal guisa l'operare delle cause naturali,per
quindi dedurne la prima causa del l'universo,tra i fenomeni esterni posero
particolare atten zione al moto, e perchè al moto si riducono sostanzial mente
tutte le trasformazioni della natura, e perchè al moto s'attribuisce in
generale la causa de'fecondamenti terrestri; il moto poi richiede un'intima
forza motrice delle sostanze, altrimenti non si spiegherebbe come , data
l'inerzia della materia,dall'una sostanza e'si comunichi all'altra;ecco perchè
negli antichi panteisti e semipan 77 teisti, e nei loro imitatori
moderni primeggia il concetto di forza (Büchner, Forza e Materia ); applicate
poi questo concetto delle forze particolari all'universalità delle cose, e
immaginate un'unica sostanza a cui segua necessaria mente un'unica forza, e
avrete il panteismo dinamico di Capila, degl'Ionj, del Timeo e degli
Stoici.Questo sistema dinamico ritiene nel suo fondo l'impronta del pensiero
che lo concepisce. Di fatto, poichè in esso la riflessione procede astraendo
per ragionamento induttivo lungo una serie di cause modali dalla più manifesta
e determinata ad una occulta e generalissima cui sidà ilnome di causa prima, e
tra le cause modali,fornite di più intima e m a nifesta efficacia,l’anima,che
ha coscienza viva del proprio essere,è tratta a concepire sè stessa per prima,
ne viene che l'ultima causa si pensi ad immagine dell'anima come un alcunché
diuno,origine difattimolteplici,presente col l'unica attività a ogni parte
della materia informata,fonte di vita, di movimento,di senso. Stabilita questa
dottrina panteistica,apparisce chiaro quali conseguenze ne prover ranno alla
dottrina dell'anima. Il filosofo gentile che dal concetto dell'anima è tratto a
pensare la causa prima dell'universo, e la natura di Dio che lo informa, discen
dendo novamente da Dio e dall'universo in sè stesso, immaginerà l'anima
d'origine e d'attributi divini (h u m a nus animus decerptus ex mente divina.
Tusc.), ne spie gherà l'intima efficacia e il modo d'operare delle sue facoltà
a somiglianza della natura divina, e finalmente confondendo l'eternità, attributo
dell'ente infinito, col l'immortalità che appartiene agli spiriti finiti, farà
eterna e immortale l'anima,dicendo con Platone che essa è una causa,origine di
moto ad altre,senzaorigine essa stessa e p e r c i ò s e n z a f i n e ( D e R
e p ., l i b . V I , c a p . X X V ; e T u s c ., lib.I,XXIII.). Questa è la
sostanza del sistema panteistico (o semi panteistico) esposto dal filosofo
nostro negli ultimi capi della Repubblica. Ivi descrivendosi in modo stupendo
la costituzione dell'universo, si rappresenta la terra circon data dalle nove
orbite dei pianeti animati da divine menti, dei quali l'ultimo che
contiene tutti gli altri,è sommo e principe Iddio. D a questi fuochi sempiterni
disceso l'animo dell' Da queste considerazioni apparisce quanto sia intima
mente collegata alla teologia naturale la psicologia del filosofo latino.Se noi
volessimo recare per esteso la ra gione più generale di questo legame , e
spiegare coi filo sofi recenti quel modo d'induzione correlativa, onde la mente
negando al finito le sue limitazioni, si leva a cono scere l'infinito di
Dio,trascenderemmo di troppo itermini della presente questione. Invero la
notizia che all'uomo è concessa dell'assoluto divino,procedendo per analogie e
rap presentanze il cui contenuto ci è pôrto da elementi speri mentali, dee
riuscire di necessità inadeguata all'oggetto; 78 u o m o , è D i o e s s
o p u r e c h e g o v e r n a e m u o v e il c o r p o come il Dio
principe,l'universo;sempiterno,immortale, rinchiuso nel corpo come in un
carcere,e desideroso della sua dimora celeste,dove restituito dopo la morte in
premio delle virtù cittadine godrà eternamente la compagnia degli spiriti
immortali.In questo luogo son chiare le remi niscenze di Platone e degli
Stoici;ma degli Stoici v'è poco ; laonde io non vi riconosco col Ritter un
prevalere del concetto stoico di materialità sul concetto della spi r i t u a l
i t à d i v i n a ( H i s t . d e l a p h i l . a n c ., t o m o I V , p a g .
1 1 6 ) ; perchè, sebbene Cicerone volendo abbellire della fantasia le sue
dottrine fisiche ai lettori romani,riproducesse ivi la parte più immaginosa e
più sensibile del sistema pla tonico del Timeo,è noto come quelle immagini
nascon dono nell’Ateniese una idealità di concetti sublimi,e più m'è argomento
che Cicerone in questo luogo si scostò dagli Stoici, il vedere com’ei faccia
immortale non sol tanto l'anima universale, m a anche le anime particolari,
mentre per confessione del dotto Alemanno, « era con forme alle dottrine degli
Stoici il ricusare all'anima indi viduale, come parte dell'anima universale,
l'immortalità insensoproprio.»(Ritter, XII,cap.II,pag.116,Physique des
Stoïciens. Vedi però nelle Confessioni del Mamiani , Ontologia, lib.IV,cap. VI,
150, acutamente accennata l'opinione contraria.) inadeguata,io dico,perchè
l'animo che giunge al concetto di Dio trascendendo infinitamente sè stesso,non
può far sì che nelle conseguenze di quella induzione non soprabbondi tuttavia
il sensibile e il contingente che si conteneva nelle premesse ; e perchè in
quella via che dalla natura ci mena al divino,noi siamo ancora molto di qua dal
ter mine che dovremmo varcare,sebbene pur di qua piova su noi la luce
incommutabile dell'infinito riflessa dal l'universo a quel modo istesso che il
sole, non ancora spuntato sull'orizzonte, si rifrange scintillando nel mare. È
questa la vera causa per cui Cicerone, comecchè s'avanzasse d'assai soccorso
dall'indole sublime,e l'universalità dell'ingegno latino, non giunse però (e lo
vedemmo) al concetto ben determinato dell'infinito; ma è vero altresì che uno
fra gli studj più belli della Storia della Filosofia si è il cercare nei suoi
libri popolari e s p e culativi come il concetto di Dio,correlativo a quello
del l'anima, si va grado a grado perfezionando nelle opere fisiche, finchè
perviene alla sua pienezza nelle dottrine morali. U n primo passo di questa
ardita speculazione noi lo vedemmo nel De Natura Deorum ,libro essenzialmente
istorico e disputativo, in cui Cicerone, avvolto nella di scordia delle sètte,e
inteso a paragonarle tra loro e a c o m batterle con ogni argomento,non sa
affermar che ben poco, e si restringe all'esame delle altrui opinioni; tien
dietro a questo nell'ordine de'suoi pensieri il Sogno di Scipione, dove il
concetto di Dio si determina meglio, e apparisce anche più chiara la tendenza
alle dottrine platoniche ; m a quelle dottrine sono trattate ampiamente nel
primo libro delle Tusculane,testimonio del suo metodo che de sume i principj
dell'osservazione intima della coscienza, e si sforza, trascendendo il creato,
di profondarsi nel l'essenza di Dio. In quei capitoli si tratta dell'immorta
lità, secondo il metodo della Nuova Accademia ;cioè vuol provarsi (giusta
l'intendimento metodico del libro) come ammessa o non ammessa la
indistruttibilità dell'anima umana,segua in ogni modo che la morte non è da te
mersi; l'immortalità poi si dimostra movendo dalla tra dal 79
80 dizione degli antichi, tradizione efficace quod propius aberant ab
ortu et divina progenie, dal consenso univer sale che è legge di natura,
manifesto nelle consuetudini, nelle leggi, nelle cerimonie, negl'istituti, e
dal senti mento naturale, onde alberga nelle menti degli uomini, e segnatamente
dei grandi,il desiderio della gloria che Cicerone chiama con bella immagine un
augurio de'se coli futuri. Sostenuto da tali prove la cui efficacia de riva dal
fondo del pensiero platonico, egli per ispiegare la condizione dell'anima dopo
la morte, ricorreva a de terminarne la natura, e contro gli Stoici che le
aveano concesso un'immortalità temporanea,affermava con ra gione essere più
difficile assai pensare l'anima rac chiusa nel corpo, che immaginarla libera da
ogni m a teria, e tornata ad abitare nel cielo ond'ella è discesa. (I.XXII.)In
queste parole si accenna la spiritualità che prevale tra gli attributi dell'anima
; sennonchè il nostro filosofo,che avea penetrato nel Cap.XXII ilvero senso
scientifico della parola, dicendo: ciò che è spiri tuale, sebbene non
percepibile al senso, andar soggetto per altro all'apprensione del
conoscimento, venuto poi a determinarlo, rimase un po'titubante;onde,sebbenetra
cinque elementi, che secondo Aristotele costituivano la sostanza terrestre,
scegliesse il quinto non nominato, più che non inteso a costituirne l'essenza,
e rifiutasse le gros solane fantasie d’Aristoxeno,di Democrito e d'Epicuro,
quando se la immaginò separata dal corpo, necompose una dottrina non al tutto
spirituale. (XVII,XVIII,XIX, X X , X X I .) C o n c e d a n s i q u e s t e i n
c e r t e z z e , d a c u i n o n a n d ò assoluto neanche Platone, al bujo
sempre crescente delle speculazioni gentili.Ma da modesti principj si leva il
filosofo latino alla sublimità della scienza. Egli è tanto inclinato con
Platone ad affermare l'anima come una natura perfetta e immune da ogni contagio
colla materia, che la vuol rinchiusa nel corpo come in un carcere (X X ,
XXII);colle dottrine della filosofia moderna ne inferisce la semplicità dal
sentimento unico ch'ella ha del molte plice;riproduce,come nella Repubblica, il
noto argo mento platonico tolto dall'eternità de'principj motori
(XXIII),e chiama plebei quei filosofi (gli Epicurei)che non ne consentivano
l'efficacia; espone anche l'altro che all'anima attribuisce l'immortalità per
l'intuizione degli eterni esemplari (XXIV.).Che dunque inferiva da queste prove
? Egli stante la incertezza de'filosofi contemporanei , non si perdeva a
determinare in che proprio consistesse l'essenza dell'anima, o dove la sua sede
nel corpo ; atte nendosi al concetto di causa,rivendicava al ragionamento
induttivo sui fatti interiori la sua validità di contro al l'induzione delle
scienze sperimentali; e si volgeva agli empirici materialisti,maravigliandosi
come negassero poter concepire l'essenzadell'animaseparatadalcorpo,essiche pur
tanto poco conoscevano dell'initimo operare della materia ; argomento valevole
anch'oggi a smascherare i pretesi nemici della Metafisica,se la reverenza alla
ne cessità logica de principj fosse mantenuta nel fatto, come è predicata a
parole,da quanti amano chiamarsi seguaci d e l l e d i s c i p l i n e s p e c
u l a t i v e . ( T u s c ., I . X X I I , X X V , X V I I I , X I X ; C. f.
Cato M . 21 , 23, de A m . 4. c. p .) Meditando i capitoli della Repubblica e
delle Tuscu lane, alcuni del Catone Maggiore e del Lelio, e qualche
squarciodelleOrazioni(Miloniana,cap.30,31),sivede in tutta la psicologia del
nostro filosofo, anzi in ogni parte della sua fisica questo ritorno costante
dell'induzione correlativa;nè sfugga all'osservazione del critico una nota
importante di questa dottrina, e cioè che, sebbene parrebbe a primo aspetto
avere Cicerone desunto la cer tezza scientifica della esistenza e delle
perfezioni di Dio dalla contemplazione dell'universo e dell'animo umano,
apparisce invece in più luoghi che un sentimento vivo del l'eccellenza di
Dio,nutrito dall'indole religiosa, e dalle tradizioni latine, dà lume e
certezza al concetto positivo dell'anima. E invero, se egli mostra talvolta di
dubitare della semplicità e immortalità dell'anima u m a n a , dell'esi stenza
di Dio e delle sue perfezioni infinite non dubita mai.«L'origine dell'anima
umana,egli diceva nel De consolatione, non può in alcun modo trovarsi su
questa 81 6 82 terra. Non v'ha in essa niente di misto, nè di
concreto o di terrestre; niente d'aria, d'acqua o di fuoco. I m perocchè tali
sostanze non sono suscettibili di m e m o ria, d'intelligenza o di pensiero,
nulla hanno in loro che ritener possa il passato, prevedere il futuro, c o m
prendere il presente ; le quali facoltà sono unicamente divine, e non possono
in guisa alcuna essere venute nel l'uomo,se non discendon da Dio. La natura
dell'anima è perciò d'una specie singolarissima, e da queste comuni e cognite
nature distinta;talchè,qualunque esso sia,ciò che in noi sente e gusta,vive e
si muove,deve essere per necessità celeste e divino, e però eterno. Infatti Dio
stesso,che èinteso da noi,non può intendersi in altro modo che come una mente
liberissima e pura,sgombra da ogni concrezione mortale, che vede e move ogni
cosa, e sè stessa con sempiterno moto ; di questa sorta e di questa stessa
natura è l'anima umana.» (XXVII, 66.) Con queste parole conchiude Cicerone nel
primo dei Tu sculani la dimostrazione dell'anima e di Dio, dimostra zione
mirabile per lucentezza speculativa, e per schietta e dignitosa eleganza; qui
lo vedi abbandonato al nobile istinto del genio, e a un'immortale devozione pel
bello, levarsi nel mondo degli universali, nella dimora degli spiriti eterni, e
indovinare quasi sui vestigj di Platone i fondamenti ove posa la teologia del
teismo; salvochè, se il lettore tien dietro al procedere delle prove, e al le
game segreto che le connette,s'accorge tosto come per l'abito d'indurre dalle
cause modali manchi alla sua d e finizione di Dio la vera trascendenza logica
del concetto , sebbene (come vedremo) ve lo ravvicinasse d'assai nel primo delle
Leggi la viva coscienza dell'ingegno latino. La maggior parte di coloro che ci
hanno preceduto nella critica di Cicerone, hanno esaminato diligentemente
l'indole delle prove a cui s'appoggiava la dottrina del l'immortalità, e alcuni
andarono tant'oltre, nonostante le sue continue e ripetute affermazioni,che da
certe epi stole consolatorie agli amici (la sedicesima e l'ultima del libro V,e
la ventunesima del libro VI,ad Diversos)de Principio etherio
flammatus Iuppiter igni Vertitur et totum collustrat lumine mundum , Menteque
divina cælum terrasque petissit: Quæ penitus sensus hominum vitasque retentat,
Ætheris æterni sæpta atque inclusa cavernis. » (De suo Consul.1.II,v.De
Divin.,1.I,c.11,§ 17.) - 83 dussero ch'egli ne dubitava ; m a a queste accuse
rispose vittoriosamente il Gautier de Sibert nell'Accademia di
Francia,eilKuehner piùtardiloconfermava.Delresto per ciò che risguarda gli
attributi divini, e se Cicerone ammettesse uno o più dèi,e se quest'unico Dio
facesse veramente eterno,onnipotente,necessario,immutabile,e qual fosse
conforme alla sua dottrina la condizione degli animi separati dal corpo,
questione trattata da parecchi critici, io son d'avviso che tutto ciò non possa
stabilirsi con assoluta certezza, varie opere del nostro filosofo es essendo
andate perdute, nè trattando egli espressamente tali materie nelle altre che ci
sono rimaste.E nondimeno per chi mediti senza preoccupazione i suoi libri v'è
tanto ancora quanto basti a mostrare,come in mezzo a una re pubblica
corrottissima e ad uomini scelleratissimi l'ora tore latino cercasse nel
concetto genuino di Dio e del l'immortalità un degno conforto alle sventure
civili, e un magnanimo entusiasmo alla sua parola propugna trice ultima delle
libere istituzioni; egli che in uno dei suoi poemi,composto nel bel mezzo della
vita politica, avea definito Dio con quella immagine sublime di vera poesia :
4.Oratornandoalladottrinateologica,questosegregare la mente dell'uomo da ogni
natura corporea,e sublimarla a una parentela soprannaturale con Dio, il che è
già accennato nel sogno di Scipione,dove nel senso platonico la natura
materiale del corpo è opposta a quella del l'anima, e la vita nostra è chiamata
una morte ci dà oc casione a stabilire un punto importante della fisica di M.
Tullio, cioè il suo dualismo, o semipanteismo. Di tal dualismo mi pare
sipossano arrecare due cause;l'una co 84 mune
allaleggeconcuisisvolgonoisistemifilosoficinella storia,l'altra ristretta
particolarmente all'ingegno di Cice rone.Quanto alla prima causa,se ricordiamo
ilgià detto in torno al modo con cui l'uomo partendo da sè stesso conce pisce
nell'indefinito del suo pensiero l'indefinito di Dio,e l'anima lungo la serie
delle cause modali da sè,prima causa più manifesta e più vicina a sè
stessa,immagina la divina causalità, intenderemo come fra le contradizioni del
pan teismo quella che subito si porgeva più chiara alla riflessione
esaminatrice,fosse la medesimezza dell'anima e di Dio infi
niticollamateriafinita,passibile,imperfettaedalrifiutodi questa contradizione
uscisse il dualismo di Dio e della m a teria,dell'anima e del
corpo,dell'intelletto e del senso.Tal dualismo desunto da Platone, benchè in
fondo contradit torio esso pure,indica un vivo sentimento dell'eccellenza di
Dio e dell'essere umano , e mi piace riconoscerlo come proprio degli uomini
sommi ; laonde è ben naturale vi dovesse aderire Cicerone, non tanto perchè
innamorato degli esempj delle scuole socratiche la cui efficacia infor mava
vivamente le dottrine romane, quanto perchè poco amante della incertezza delle
scienze sperimentali, e testi mone egli a sè stesso dell'altezza dell'umano
ingegno,la cui onnipotenza tante volte gli apparve ne'combattimenti immortali
della tribuna. (Vedi più luoghi negli Ufficj e segnat. L. III, c. XLIV , ed
opere pass.) E poi se quel dualismo soddisfaceva da un lato le aspirazioni dei
più grandi intelletti, e metteva la notizia diDio al sicuro da ogni condizione
del finito, d'altro lato il concetto astratto che dava di quello la scuola
socratica faceva nascere il dubbio sul come spiegarne le relazioni, pur
necessarie, coll'universo dei corpi. Tal dubbio implicava il solito quesito sul
come conciliare l'ente col non -ente, il finito coll'infinito, il relativo
coll'assoluto, la perenne mutabi lità de'moti fenomenali colla quiete immutabile
dell'es senza prima, quesito continuamente proposto dalla G e n tilità,nè mai
risoluto,perchè mancava a sciogliereilnodo il vero concetto d'attinenza
creatrice.(Vedi Platone,Sofi sta.) Quindi la mente desaggj ondeggiava di
continuo da un termine all'altro di quella contradizione
immortale. Enrico Ritter, più volte citato, esaminando il sentire del filosofo
latino intorno a siffatto quesito, e rappresentando con vivi colori
quell'opposizione ch'ei pose tra la natura e il divino, non ne conobbe forse la
causa più vera ; la quale gli sarebbe apparsa evidente se in luogo di vol gersi
soltanto all'indole dello scrittore, l'avesse cercata in questa contradizione
che affaticava da più secoli la filosofia pagana. Ma il Ritter s'appose anche
in parte, poichè quel vivo intuito delle perfezioni divine ed umane, e della
differenza tra la materia e lo spirito che prima avea salvato Cicerone dalla
dottrina d’un'unica sostanza, ora lo teneva sospeso nelle contradizioni del
dualismo, massima delle quali era il contrasto tra la libertà divina ed umana e
le leggi fatali della natura che spegneva ogni fede nella provvidenza, nel
libero arbitrio e nella religione degli avi. Come il nostro filosofo mantenendo
il dualismo inten desse di conciliare l'efficacia della prima cagione nelle
cagioni seconde col moto necessario dell'universo, come spiegasse quell'atto
misterioso di causalità con cui l'in finito si congiunge al finito, e lo
comprende e lo sostiene senza identificarsi con esso, e, mentre faceva con
Platone emanato da Dio l'intelletto,rivendicasse all'altra parte del
l'uomo,identica colla natura sensibile,l'autonomia de'pro prj atti,e
l'imputazione morale,è quesito di non poca dif ficoltà, sì perchè la sua
dottrina fisica del dualismo non è abbastanza accertata,e perchè d'altra parte
ne’libri che esaminiamo al presente, ma più ne'morali, s'incontrano
affermazioni decise e ben ragionate sulla provvidenza di Dio e l a l i b e r t
à d e l l ' e s s e r e u m a n o . ( D e L e g ., 1 1 , 7 ; 1 , 8 , F i n ., I
V , 5;V,11;Tusc.,I,49,25;N. D.,I,2;Catil.,I,5;pro M a r c e l l o , I I I ; a d
A t t ., I , 1 6 ; a d D i v ., V , 1 6 . ) C e r t o s ' e g l i non fosse
nato nell'ultima età dell'era pagana, e avesse accolta quella teorica della
creazione ex nihilo, chiamata giustamente da Terenzio Mamiani una delle
maggiori conquiste ottenute dalla speculativa dei nuovi tempi sulle e t à t r a
p a s s a t e , ( C o n f ., l i b . I V , 1 0 8 ) a v r e b b e t r a t t o d
a l l a S5 notizia di Dio creatore un concetto chiaro delle sue
re lazioni col mondo, e i due ordini naturale e soprannatu rale gli sarebbero
apparsi intrecciati fra loro per quel legame di causa che congiunge la teologia
colla scienza del mondo.Ma Cicerone,come tutti igentili,rifiutavala dottrina
della creazione, sebbene proposta alla mente dei filosofi e delle plebi forse
dalla memoria d'antiche tradi zioni, il che mostra un frammento del libro terzo
De Natura Deorum,conservatocidaLattanzionellibro secon do,c.8 delle Istituzioni
divine. Esclusa la teorica del congiungimento
tral'infinitoeilfinitoperattinenzacrea tiva,non rimanevano,come vedemmo, che
due sole vie;o l'unità consustanziale di Dio e dell'universo,o l'assoluta
separazione di questo da quello, del molteplice dall’uno, dell'assoluto dal
relativo. M a la dottrina de'panteisti menata alle sue ultime conseguenze,oltre
all'incorrere in quella lunga serie di paradossi e di antinomie che in parte
accennammo, e la cui dimostrazione ha esercitato per tanto tempo l'ingegno
de'filosofi d'ogni parte d'Eu ropa, repugnava secondo Cicerone all'indole
pratica e positiva del politico e del cittadino ; laonde egli la c o m battè
acutamente colle armi della Nuova Accademia nel quesito proposto dagli Stoici
sulla divinazione o previ sione del futuro. Secondo questa dottrina che usciva
dalle premesse della fisica di Zenone,l'uomo poteva prevedere ilfuturo
daisegnidellecoseanimateodinanimate,essen dochè l'universo fosse collegato ab
eterno da un ordine necessario di cause efficienti;ordine necessario nell'uomo,
che era una particella o determinazione dell'anima uni versale;necessario nella
natura,dove ogni fatto è gover nato da leggi, e racchiude in sè la ragione
de'fatti con secutivi; necessario in Dio stesso che, immutabile per sè, si
trasforma ne'fenomeni della natura come in uno svol gimento fatale della
propria esistenza. Questa dottrina che si finge esposta dal fratello di
Cicerone nel primo De divinatione,è poi confutata dal l'autore nel libro
secondo; e quel dialogo è di somma importanza nellastoriadellecredenzeumane,perchè
trat 86 tando la gran questione del soprannaturale agitata ai
tempi di Tullio,riproduce nel calore della controversia quello stato penoso
degli animi,sospesi nell'incertezza dei più nobili veri, e in un'età in cui la
rovina del politeismo già preparava il rinnovamento cristiano. La conciliazione
tra l'ordine necessario del mondo e l'autonomia dell'essere umano è accennata
nell'operetta de Fato.Questo libro,o meglio questoframmento,dove si espone un
dialogo avuto dall'Autore presso Pozzuoli con Aulo Irzio,console designato,nel
710 di Roma,fu scritto, insieme coi due libri della Divinazione,a supple mento
dell'altra opera de Natura Deorum per sostenere la libertà dell'arbitrio contro
il concatenamento fatale delle cause, e temperare le ultime illazioni de'panteisti
e de'dualisti contemporanei. Il metodo dell'osservazione, applicato nei soli
termini della natura sensibile,menava al lora(come
oggi)alcunifilosofisperimentali ad accettarela dottrina del Fato (detto dagli
Stoici eiuzpuévn),inteso come un ordine e una serie di forze,manifestanti la
natura di cause , e che s'intrecciano fra loro d'effetto in effetto per leggi
costanti d'antecedenza e di conseguenza.Ora è chiaro che da questa dottrina
condotta alle ultime conseguenze, uscivaalteratol'ordineuniversale,eilconcettodinecessità
che lo sovraneggia. Era alterato dal panteismo,dove ve rificandosi l'identità
de'due ordini soprannaturale e natu rale,ogni atto fisico ed umano si riduceva
a un deter minarsi necessario della causa divina ; era alterato dal dualismo
che opponendo Dio allanatura,e immaginando quest'ultima come sospinta da un
ordine fatale di cause intrinseche ad essa,non poteva spiegare in eterno come
in quest'ordine naturale si dessero fatti liberamente o p e rati. Ma Cicerone
si schermiva da questi errori ricor rendo alla osservazione interna, e al
concetto di causa . Che cos'è la libera volontà? 87 salità poi non dee
intendersi costituita dalla pura e s e m plice successione de'fatti,ma
dallasuccessione lorounita coll'efficienza degli uni sugli altri.Or dunque
(riprendeva ilfilosoforomano controCrisippo),argomentano benegli Una libera
causa;lacail Stoici dicendo che nell'ordine prestabilito della
natura tutto si opera per cause antecedenti ed esterne, m a non hanno ragione
se vogliono turbata questa legge della n a tura dall'operare dell'arbitrio ; «
poichè quando diciamo di volere o non volere qualche cosa senza una causa, fac
ciamo uso non buono di una consuetudine del linguaggio comune, intendendo dire,
senza causa esterna ed antece dente, ma non senza una causa qualunque;di
fattiil moto volontario degli animi ha tale natura che è in
nostropotereeciubbidisce,non peròsenzacausa;chè la causa di tutto ciò è la sua
stessa natura (XI).» Non ci è permesso riferire qual fosse in ogni parte la
dottrina diTuiliosullalibertàdelvolere,perchè illibroDe Fato racchiude
importanti lacune; m a apparisce però da più luoghi ch'egli la fondava sulla
certezza dell'imputabilità degli atti umani,e per tal via si apriva il
passaggio dalle opere fisiche alle morali,nel modo che appositamente e con
ordine verrà dimostrato nel capitolo quarto. Concludendo, alle dottrine sin qui
esaminate si re stringe le serie delle opere fisiche di Cicerone.Nelle quali
vuolsi considerare com'egli avviluppato in una moltitu dine di sistemi
contradittorj e negativi,e costretto ad esercitare l'esame della riflessione
sopra una materia scientifica ingombra nelle parti più sostanziali dalle te
nebre del sofisma, distinse le verità disputabili dai teoremi della
scienza,sceverò con critica coscienziosa ilbuono ed il certo delle filosofie
contemporanee ponendo l'una a ri scontro dell'altra, e temperandole ne'loro
eccessi. Per tal modo le principali verità mantenendosi intatte, soc correvano
il pensiero a ricostituire l'Ontologia nei prin cipj della scienza cristiana; e
questo è davvero un m e rito insigne e innegabile della fisica ciceroniana,
come altri notati da noi sono la sua temperanza verso le affer mazioni
eccessive degli sperimentali, il concetto di Dio, ravvicinato alla dottrina di
Socrate,e sciolto,per quanto
erapossibileallora,dallecondizionielimitazionidell'uomo, la natura spirituale
dell'anima,la sua libertà dimostrate in tempi di abbattimento morale e di
costumi nefandi.Su 88 89 questi principj fondava l'oratore latino
la sua fede religio sa ;chè se (come nota bene il Vannucci) « nella Divinazione
ed altrove,allontanandosi dalle forme timide della Nuova Accademia ........ con
argomentazione più forte che in ogni altro scritto combattè da arditissimo
novatore le credenze usate già come istrumenti oratorj e politici,e mostrò il
vano e il ridicolo dell'arte divinatoria, e dei prodigj, e delle imposture
sacerdotali ; » Senatore e console di R o m a , egli voleva una fede ritemprata
alle sorgenti incorruttibili della morale , e che diventasse vero fondamento
alla rico stituzione civile della sua patria. 1. Se la scienza, come affermammo
più volte, è un portato delle naturali notizie; se, ritenendo essa nel suo
svolgimento la natura del principio che la informava, la unità dell'oggetto scientifico,
riconosciuta dalla riflessione, si fonda in un primitivo ordine di veri
presenti tutti al l'armonia della coscienza,che costituisce il soggetto scien
tifico; nessuno può dubitare che i principj della teorica del conoscere, o
della Logica non si colleghino intima mente con quelli della teorica
dell'essere, coi principi dell'Ontologia. Il fondamento di questo legame che, a
n teriore al fatto della scienza, si riproduce tal quale nella scienza stessa,
ha la sua ragione nell'idea della persona lità umana, da cui, come da unico
fonte, rampolla la triplice attività dell'esistere,del conoscere,dell'operare;
l'ha nella stessa natura del vero che unico in sè, se lo esamini sotto duplice
aspetto, è prima essere nelle cose, e poi si fa vero contemplato nell'intelletto.
La medesi mezza delle due parti suddette della filosofia apparisce per modo
indiretto nella continua attinenza che strin fra loro le questioni più
importanti della logica e del l'ontologia dai più remoti principj della nostra
scienza fino ai tempi a noi più vicini.È un fatto omai noto nella storia della
filosofia come il quesito fondamentale della 90 logica : qual sia
la relazione che corre tra l'ideale e il reale, quale la corrispondenza tra le
leggi del pensiero e quelle della natura, e se dandosi passaggio dall'intelli
gente all'inteso,se ne costituisca la possibilità della scienza, quesito
contenuto ab antico nella materia delle specula zioni pagane, ricevesse la sua
vera espressione scientifica dalle dottrine critiche della Riforma. È altresì
noto ai di nostri come dalla posizione deliberata di tal quesito si diramarono
due scuole;ilCriticismofranceseealemanno, e ilCriticismo cristiano,che
cominciato dai Dottori e dalla buona Scolastica ne'tempi di mezzo,segue a
fiorire segna tamente in Italia ai dì nostri. Ambedue queste scuole, di verse
sostanzialmenteneiprincipjontologicidelsistema,dis sentono pure nella logica.La
prima desumendo le sue dot trine dal panteismo e dualismo antico, resuscitato
più tardi da un ritorno della civiltà cristiana ai dommi del Genti
lesimo,disconobbe l'attinenza manifestatrice che per legge di natura intercede
tra il pensiero e le cose, tra il sog getto e l'oggetto,e quell'attinenza
odenaturò in identità colle dottrine d'un'unica sostanza,o ridusse a
separazione ammettendo col Cartesio un'intima differenza tra le qua
litàdell'esteso elequalitàdelpensiero,d'ondeilsistema delle cause occasionali
del Malebranche, quello dell'ar monia prestabilita del Leibnitz e lo
scetticismo del Bayle e del Kant. La seconda scuola movendo dal principio che
la libertà del pensiero scientifico soggiace per legge di natura alla
condizione di non potere alterare l'ordine necessario degli enti fra loro,
trovava con sublime e trascendente concetto il legame dell'idealità col reale e
nell'intima essenza dell'atto creativo di Dio, che pose primitivamente una
coordinazione d'atti fra l'essere delle cose e gl'intelletti creati ; e in Dio
stesso nella cui n a tura infinita e impartibile s'immedesima l'idealità colla
realtà, la realtà dell'essenza coll'eterne idee rappresen tative e causative
degli enti creati. Or che si deduce da c i ò ? C h e s e il p r i n c i p i o d
e l C r i t i c i s m o, o n d ' è r i d o t t o a problema il teorema della
conoscenza, ha un intimo ri scontro nei fondamenti della dottrina dell'essere,
e i si M a qui cade per altro una considerazione importante. Il
panteismo e ildualismo,sebbene alterassero dai fonda menti la dottrina della
conoscenza o distruggendo la re lazione ond' è manifestativo il pensiero, o affermando
un'incomunicabilità primordiale tra ilsenso e la materia, principio di
corruzione e d'ignoranza, e lo spirito eterno emanato da Dio, non negavano per
anco esplicitamente nè l'un termine nè l'altro dell'attinenza conoscitiva;e
quando in un sistema, sia pur guasta e corrotta,sia pure implicitamente
negata,siconserva nell'intimo significato delle dottrine la piena comprensione
del soggetto su cui cadelascienza,qualunquedisputaintornoaiprincipalipro blemi
si offre sempre con probabilità di scioglimento alla riflessione esaminatrice.
Quella probabilità cessa quando sensismo, materialismo e idealismo, negando due
parti sostanziali del soggetto, l'intelletto e l'idea manifestante, causa e
mezzo del conoscimento, e la cosa manifestata, termine della cognizione, si chiudono
la via ad affermare i n t e r a l a n o t i z i a d e l l ' e s s e r e u m a n
o , d e n a t u r a n o il l e g a m e che intercede tra l'ideale e il reale, e
rendono impossi bilelapsicologia,ingannatricelalogica.Un breveaccenno di questa
legge necessaria che si riscontra nella storia delle controversie filosofiche,
l'abbiamo già fatto nella prima parte toccando dei sistemi principali che
apparvero in Grecia dal primo scadere della scuola socratica fino ai tempi
dell'Arpinate ; allora fu osservato da noi come a n dasse di pari passo
coll'oscurarsi sempre maggiore dei veri principali e delle antichissime
tradizioni l'impoverire della forma logicale dei sistemi,e come l'ultimo grado
di questo scadimento fosse segnato dal sistema d'Epicuro, e dalle dottrine
logiche della Nuova Accademia.Ora poi 91 stemi che alterarono questa
dottrina sono contemporanei ai primordj della filosofia, antichissimo deve
essere il fon damento del Criticismo; e ne sono testimonj le più strane
teoriche sul modo del conoscimento procedenti dalla fisica de'sistemid'India,
d'Italia,diGrecia,come,ad esempio, gli atomi di Capila,gl'idoletti
diDemocrito,leimmagini fluenti d'Epicuro e di Lucrezio. ci sia
permesso venire su questo proposito a maggior particolari, perchè, giunti a
questa parte delle opere di Tullio dove conviene esaminare la controversia tra
gli Stoici e la Nuova Accademia sulle dottrine del conosci
mento,rappresentatada luineilibriAccademici,importa massimamente il notare
perchè e come ai tempi del filo sofo latino,o poco avanti,ilproblema
fondamentale della logica si fosseristretto alla percezione sensitiva; e come
dal punto diverso e dai confini onde le due parti dispu tanti consideravano il
quesito intorno al conoscere, di penda il valore delle prove allegate, e il principio
su premo che governa la controversia. 2. Venendo dunque al proposito, il
sistema d'Epicuro e le dottrine della Nuova Accademia, non che lo scetti cismo
e l'empirismo finale ci palesano quasi una spos satezza del pensiero greco,che
non val più ad abbracciare la totalità del soggetto scientifico con
quell'ampiezza di principj e di leggi con cui Platone e Aristotele l'avevano
abbracciata;ma un peggioramentoimportantenellaforma scienziale già si notava
nel sistema degli Stoici. Consi derate un poco la sostanza di quelle dottrine,e
vi troverete due principj che danno a tutto il sistema due qualità e due
aspettiben differenti.Il cardine del sistema di Ze none è infatti l'unità
primordiale e finale delle cose tutte, la unità della sostanza prima indistinta
e indeterminata, che poi si determina e si partisce per l'efficacia del prin
cipio attivo e divino svolgendo da un unico germe la dualitàde'principj.La
sostanzaprima,distintaallorain un'anima e in un corpo universali, causa delle
anime e dei corpi particolari, costituisce l'essere del mondo che rappresenta
la vita di Dio ; quella vita diffusa in tutte le cose animate ed inanimate le
fa partecipare per un in timo principio di compenetrazione alla natura e
all'effi cacia di Dio,e l'anima umana,ch'è più vicina a quella sorgente
universale, ne ritrae maggiormente, informando e compenetrando il corpo, a
somiglianza dell'anima uni versale, e come quella riducendo a un solo principio
m o tore le facoltà seconde; talchè per gli Stoici dall'unità 92 dell'essenza
prima esce identificato l'intelligibile col reale, il p e n s i e r o c o g l i
o g g e t t i , l ' i n t e n d i m e n t o c o l s e n s o . C o n s i derato
inquestegeneralitàilsistemadiZenoneabbraccia tutto intero il complesso dei veri
palesati dalla coscienza, alterandone la natura col Panteismo.Ma se vieni ad
esa minarlo più particolarmente, allora i molti principj con tenuti nel seno
fecondo della materia prima,e in lei de terminati più tardi,Dio e materia,anima
e corpo,intelletto e senso,pensiero ed oggetti,scompajono tutti,e siriducono ad
un solo ; alla natura informe e indeterminata della materia. Allora ti apparirà
vizio capitale di quel sistema la riflessione esaminatrice che, sebbene
apparentemente voglia svincolarsi dal senso e dalla materia, concependo a m o
'degli Ionj dinamici nel seno dei fenomeni naturali un'intima energia
infinitamente diversa dalla materia , e cagione di que'moti,non sa dominare la
fantasia, e ab bandonata al pendío voluttuoso dei tempi,trasporta in quella
forza primitiva e in Dio stesso,che la pone in atto, le qualità corporee. Così
la dottrina degli Stoici sin dalle sue radici s'infettava di materialismo. Ora
è tale il ri scontro dei veri principali nella legge necessaria del co
noscimento , che, oscurato il concetto di Dio e delle cose, se ne oscura alla
mente dell'uomo la nozione di sè stesso Non è dunque a maravigliare se per gli
Stoici al mate rialismo in fisica tenesse dietro il sensismo in psicologia ;
quindi,giàloaccennammo,alterato ilvero concettodi potenza conoscitiva,scambiarono
inostril'occasionedel l'atto apprensivo, che ci viene dai sensi,colla causa
intima di quello,veramente causatrice, che è l'attività dello spi
rito;quindi,non bene distinto l'operare dei sensi e del l'immaginativa
dall'operare dell' intelletto, diedero al complesso dei fantasmi le qualità del
pensiero. In questo esame parziale e negativo delle facoltà del soggetto, quale
ci offre la psicologia degli Stoici,si nascondeva per fermo una potente causa
di scetticismo;chè movendo dal lato indiretto da cui la Stoa considerava il
fatto dell'umano conoscimento , e negli angusti confini in cui restringeva la
coscienza delle interne operazioni dell'animo,era facile 93 a
sottili ragionatori trovare appiglio per dubitare di qual che cosa o di
tutto.Vi si prestava la natura dell'idea, che avendo il proprio essere in
un'attinenza manifestatrice, se la consideri identica ai fatti animali, ti
doventa un mistero; vi si prestava la natura del senso, inesplicabile, oscuro e
sostanzialmente erroneo, se non lo risguardi illu minato dalla luce
dell'intelletto ; vi si prestava infine la fantasia perenne creatrice del
falso, facile a denaturare coi più vivi colori del senso gli ultimi resultati
della p o tenza astrattiva. Così dal sofisma degli Stoici (e sofisma vuol dire
sempre difetto) germinava quello della Nuova Accademia . Chè , se fu cattivo
abito della riflessione esa minatrice nelle dottrine di Zenone il fare ombra
dei fe nomeni materiali allo splendore delle idee,e ridurre quasi ciò che v'ha
di più vivo nell'umana personalità allo sviluppo meccanico delle funzioni
apprensive,fu pessimo nella Nuova Accademia,non già l'opporre ilvero all’er
rore,il compiuto all'imperfetto esame della coscienza,lo che essa non fece; m a
profondarsi nelle sole astrazioni, m a restringersi nel pensiero
vuoto,fenomenale, apparente, o al più negl'inganni d'un fallace conoscimento.
Quindi a una negazione di negazione si riduceva ai tempi di Tullio, o poco
innanzi, la polemica tra gli Stoici e la Nuova A c cademia.Ed ecco (ciò che cieravamo
proposti a mostrare) perchè dopo i notevoli perfezionamenti che la dialettica
avea ricevuto dalle scuole italica ed eleatica, da Platone e dall'Organo
aristotelico, la teorica sulle fonti del cono scimento, complessiva di tanti
veri, s'era allora ristretta alla disputa sulla percezione sensitiva. 94
Tal disputa , dipinta con tanta verità di colori da Tullio nei due libri degli
Accademici Primi, e massime nel se condo (chè il breve frammento rimastoci del
primo degli Accademici Posteriori, dedicato a Varrone, si riduce ad una
semplice esposizione istorica delle principali scuole socratiche), rappresenta
in fondo la lotta di tutti i tempi tra ildommatismo inconseguente e lo
scetticismo presun tuoso. Quel venire ai cozzi di opinioni eccessivamente af fermative
con altre assolutamente inquisitive era, come dei nostri, un
portato naturale dei tempi di Tullio,tempi di contradizioni profonde, nei
quali, come oggi, da una parte tutto si disfaceva con rabbia sterminatrice,
dall'altra con puntigliosa rigidità si sosteneva qualunque lato anche debole e
imperfetto del vero,imperfettamente considerato. La superbia e ildisprezzo
erano le armi con cui si scon travano i combattenti, e l'una e l'altro stavano
bene a quelliuomini,eloquenti,come noi,nell'esaltareiprincipj, e non logici
quanto conveniva nel dedurre da quelli le gittime conseguenze ; altrettanto
facili ai propositi gene rosi,quanto
difficilinell'eseguirli;filosofidaaccademia,e da piazza ; politici predicanti
la severità antica nelle m o l lezze moderne ; uomini a cui mancava la lena di
levarsi sulle ali del pensiero alle universali armonie della scienza nel
vero,nel bello e nel buono,capaci soltanto d'impri gionarsi nelle angustie
d'una dialettica ingannatrice o p ponendo sofisma a sofisma,contradizione a contradizione.
Quindi massimo argomento in questo, come in simili casi, del difetto delle due
parti che disputavano, era che, se tu esamini l'una e l'altra con animo non
preoccupato, e poi non imiti il Cousin, che dall'accozzo fortuito degli errori
volle ricomporre il corpo formoso della filosofia, quasi statua da brani
dispersi sopra antiche ruine , m a cerchi di compirle ambedue colla pienezza
dei veri atte stati dalla coscienza naturale, soltanto allora elle t'appa
riranno perfette, e risoluta la tesi, ti vedrai brillare al pensiero la luce
d'un irrepugnabile convincimento. La disputa è finta da Cicerone come avvenuta
presso Baule in una villa d'Ortensio, presenti lo stesso Ortensio, Ca tulo e
Lucullo. Gl'interlocutori principali sono Lucullo e Cicerone. Lucullo sostiene
le parti d'Antioco (stoico) contro Filone (Accademico ); Tullio quelle di
Filone con tro Antioco. Or qual era il principio da cui moveva, e quali i punti
più segnalati in cui si spartiva il ragiona mento ? Qui occorre ridurci a
memoria un'importante osser vazione del Ritter. Il quale nella sua Storia della
filosofia antica, tenendo dietro all'indirizzo che la dottrina sulle
95 96 fonti del conoscimento avea preso da Aristotele in poi,
quando nota la differenza segnalata che correva tra gli Stoici e il filosofo di
Stagira, mentre questi moveva sì dalla sensazione, ma senza negare il
resultamento del l'attività intellettuale dell'anima, laddove gli Stoici, più
vicini in ciò agli Epicurei,cercarono di ravvicinare di più in più il pensiero
razionale alla sensazione concependolo solo come una sua conseguenza e
trasformazione, aggiunge inoltre che nell'evitare le grandi difficoltà, le
quali si o p p o nevano alla dimostrazione di quel loro sensismo, si rias sume
intera la dottrina degli Stoici intorno al criterio del vero (Ritter, L. XI ,
3.). L'osservazione del Ritter è giusta. Di fatti per quella solita opposizione
che trovi in ogni filosofo di setta tra le tendenze vive dell'animo e
l'indirizzo artefatto della riflessione, si vedevano negli Stoici due
disposizioni opposte che imprimevano qualità contradittorie al loro sistema; da
un lato il pendio del l'età e il decadimento della forma e della materia
scienti fica li inchinava al sensismo e alla meditazione incompiuta del
soggetto su cui cade la scienza ; dall'altro la tradi zione socratica e la voce
non muta del senso comune li chiamava ad abbracciare il complesso dei veri di
natura, le facoltà dell'animo e i termini loro, e a rendere p o s sibilmente
perfetta la forma scienziale ; antitesi d'opposte tendenze che pur si specchia
in quell'ondeggiare continuo del loro sistema tra il panteismo ionio e il
dualismo so cratico. Ora che ne veniva da ciò ? Dal lato imperfetto da cui gli
Stoici consideravano l'umana coscienza quanto alla dottrina del conoscimento,
resultava ch'essi sbaglia vano il concetto di potenza,di causa,di relazione,
fonda menti primi di tal dottrina;quindi la loro logica si re stringeva alla
dimostrazione del conoscimento acquistato per via de'sensi,di cui ponevano
l'essenza nella rappresenta .zione vera o comprensiva (parrugia
2270)atlyn),ch'è un patire dell'anima,a cui risponde da un lato l'operare del
l'oggetto sentito, dall'altro l'operare dell'anima stessa che conseguentemente
alla sensazione ricevuta assente,giudica e ragiona.Ma
qui,giovailripeterlo,stavalafallaciadell'ar
gomento;gliStoicimovevano dalnulla,edaquelnullaface vano uscire la pienezza del
soggetto e dei principj costituenti la scienza.E veramente io non negherò mai
alla buona filosofia che ilfatto della percezione sensibile,intesa come
attinenza reale tra il sentito e il senziente, mi riporti al l'esistenza di due
termini de'quali l'uno è causa esterna e occasionale della sensazione, l' altro
è causa intima e veramente efficace; non negherò mai che l'illazione di causalità
mi mova ad affermare la reale natura dell'ente che opera sugli organi
de'sensi,e che il concetto di po tenza m'induca a concepire nelle facoltà
conoscitive un qualcosa che le costituisca operanti,un che di positivo e
d'efficace che risponde alla passività negativa del sentimento ; m a io nego
agli Stoici quel loro metodo di facili illazioni, onde identificata la potenza
intellettiva col senso volevano dedurre in virtù di universali prin cipj da una
condizione passiva delle facoltà del sog getto l'efficacia dell'intendimento, e
dalla sensazione mutabile e fenomenale l'incommutabile necessità della
scienza.Ma ilfatodellalogicanon's'arrestava;egliStoici ristretti in tal modo
nelle angustie dei fenomeni sensibili, tanto più quanto levavano lo sguardo alla
cima del sa pere,rammentando le tradizioni del Sofo ateniese, vede vano
l'importanza di ribattere le prove degli avversarj che paragonavano la
mutabilità e l'incertezza de'fatti animali colla natura assoluta del vero
contenuta negli universali concetti,onde germoglia e si sviluppa la scienza.
Quindi proveniva il bisogno vivamente sentito da loro di movere da un fatto e
da principj indubitabili ed evidenti (Acad.,II,VI,17);quindi la necessità di
mostrare,primo, come si possa distinguere la rappresentazione falsa dalla vera
;secondo, come movendo dal reale della rappresenta zione apparisca che la mente
stessa che è fonte dei sensi, e che essa medesima è senso,abbia una naturale
energia per cui tende a ciò che la move al di fuori; mens ipsa que sensuum fons
est,atque etiam ipsa sensus est,naturalem vim
habeatquamintenditadeaquibusmovetur.(X,30.) Da questo concetto,fondamentale
nella logica degli Stoici, 97 La prima parte cadeva sulla
domanda : se la perce zione sensibile avesse impressi in sè certi segni della v
e rità dell'oggetto rappresentato ; il che negava la Nuova Accademia,affermando
che in una percezione,fosse pur vera, non era alcuna certa nota per
distinguerla da una falsa; dubitavano dunque che per mezzo dei sensi l'entità
della cosa sentita passasse tal quale ella era nell'appren sione del soggetto
conoscitore. Posta in tal modo la que s t i o n e , è c h i a r o c h e p o i c
h è il m e z z o d i p a s s a g g i o d e l v e r o
conosciutodallacosa,occasionedelsentimento,allepotenze conoscitive, è il senso
ed isuoi organi, conveniva innanzi tutto,a provare la realtà della cognizione,
argomentarla dalla veracità naturale dei sensi.Dai quali movendo Lucullo ne
afferma chiaro e indubitato il giudizio,nulla valendo, ei dice,gli artificiosi
argomenti degli avversarj intorno alle false apparenze delle percezioni ;
poichè : 1°,dato che i sensi siano sani,col buono uso ch'io ne faccio posso ret
tificarne i giudizj,posso coll'esercizio e coll'arte aumen tarnemirabilmente
laforza;2°,ilsensoèdimostratovero ne'suoi giudizj dal successivo lavorìo della
mente sulla materia da esso somministrata formandosene i concetti delle qualità
e delle specie che son via ai principj più universali, ai quali naturalmente
l'intelletto dà fede, e tolti i quali ogni arte,ogni scienza,ogni regola della
vita cadrebbe. Tutta la teorica si regge manifestamente sul principio di causa
e di relazione. Se io, diceva Antioco, ho sperimentato in me l'effetto della
percezione sensibile, questa mi riporta ad una causa per via d'una necessaria
attinenza. M a Filone invece (e in ciò è imitato dagli scet tici odierni)
ammettendo la possibilità del fenomeno come di un che vuoto,di una mera
apparenza senza alcun con tenuto, poneva come probabile che la sensazione non
ci scoprisse l'entità di veruna cosa. M a, riprendeva A n tioco, primieramente
oltre i naturali giudizi e i giudizj scientifici, che nascono e si fanno
manifesti in noi per l'occasione de'sensi, dal germe del conoscimento
spunta 98 il ragionamento d’Antioco si dirama in due capi : della
percezione e dell'assenso. 3. Il ragionamento di Lucullo, compreso
dal quinto al ventesimo cap.del secondo librodegliAccademici,edove l'umano
intelletto fa prova di quella forza irresistibile che in mezzo alle
contradizioni del sofisma pur lo sospinge ai principj universali del vero, è
uno dei più mirabili tratti della filosofia e della eloquenza latina, e chi
n'ha seguito con gioja confidente il cammino,se poi si volge ad aspettare la
risposta di Cicerone, gli par di vederlo quale si dipinge con vivezza egli
stesso « non minus c o m motum quam solebat in caussis majoribus. » Egli per
aprirsi la via a dimostrare la sua tesi, non move da una professione di
scetticismo assoluto, m a bensì da una cri tica temperata ; e si fonda in
special modo sull'argomento con cui Arcesilao avea combattuto Zenone, cioè
sull'in discernibilità delle percezioni vere dalle false,onde avve niva che al
sapiente non rimanesse alcun assenso deciso, m a una semplice opinione di
verosimiglianza. Comunque sia, s'è domandato da molti : Cicerone non sostiene
egli in questo libro le parti dello scetticismo accademico contro le dottrine
stoiche della percezione ? non si professa più volte ne'proemj delle sue opere
seguace della riforma 99 il fiore dell'appetito istintivo, il quale se
voi mi negate avere persuoproprio enaturaltermineilvero,inquanto è conosciuto
appetibile, io sono condotto ad affermare nell'uomo l'assurdo di più facoltà
naturali che natural mente s'ingannano. Poi il falso non può mai essere ter
mine dell'apprensione intellettuale,perchè ilconoscimento coglie di sua natura
l'essere delle cose, ma il falso è appunto,rispetto al conoscimento,lanegazione
dell'essere; dunque il falsonon può mai cadere sotto ilconoscimento.
Finalmente, se nulla è vero, sarà almen vero questo che nulla è vero, perchè
una scienza,una dottrina qualunque, per essere costituita nella sua natura,
ch'è ordine di veri conosciuti,ha bisogno,come di un metodo e di un fine a cui
vada e a cui giunga,così di un principio da cui mova indubitabile e certo. Lo stesso
ordine di concetti desunto dal principio di potenza e di relazione regge a un
di presso la teorica dell'assenso (Guyaute 985e»). introdotta da
Arcesilao ? non scrisse egli i due libri,che voi esaminate, per mostrare ai
Romani l'ottimo metodo del filosofare sull'esempio della Nuova Accademia ? non
han ripetuto e non ripetono ancora a una voce quasi tutti gli storici della
filosofia che Tullio, seguace nella sua gio ventù dell'Antica Accademia,
s'accostò già maturo alla Nuova, a cui lo traeva il suo istinto oratorio, lo
scetti cismo de'tempi, l'animo incerto in tanta folla didottrine
contradittorie, e la forma ecclettica di filosofia ch'e'si era proposta ?
Dunque Cicerone nelle tre parti della scienza,emassime
inlogica,seguitòildubbiodellaNuova Accademia.(Brucker,Degerando,Bernhardy,Ritter).Tal
conclusione,di cui demmo qualche accenno nel cap.Idi questa parte,sebbene
apparentemente provata da parecchj testi divisi del filosofo nostro, da varie
sue esplicite affer mazioni,e segnatamente da tutto il tenore di questi due
libri, dove e'prende con lungo ragionamento in persona di Filone a confutare la
certezza delle notizie che ci ven gon dai sensi,e dove in ultimo contrappone ex
professo la sua dottrina del dubbio sistematico e della probabilità alle contradizioni
in cui si lacerava la logica contempo ranea, tal conclusione, dico, non regge
avanti al tutto delle dottrine esaminate spassionatamente, e avanti a quella
norma di critica, che ponemmo sin da principio,di badar bene alle opinioni che
Tullio combatte,e ai metodi che rappresenta in sè stesso senza per altro
interamente accettarli. Le affermazioni eccessive della critica odierna, bene
merita per tanti rispetti della civiltà e della scienza,hanno la loro sorgente
esse pure nel falso principio del Criti cismo speculativo, che togliendo il
pensiero scientifico fuori delle sue naturali armonie con sè stesso, colle
cose, col Creatore e col genere umano , non riconosce più nello scienziato e
nel filosofo l'uomo,e fa della più socievole fra le dottrine un gergo incomprensibile
e solitario.Bisogna invece nell'esame dei sistemi non uscir mai dalla n a tura
di que'tempi, di quegli uomini, di quelle passioni, di que'pregiudizj, di
quelle consuetudini; bisogna im 100 maginarsi i filosofi
quali furono in realtà, disputanti e pensanti, uomini di tribuna e di tavolino,
soggetti essi, come noi, alle contradizioni frequenti di qualche dottrina anche
erronea concessa nel calore della disputa alle prove degli avversarj, colla
interna coscienza, testimonio irrepugnabile al vero. Tale è più volte ilcaso di
Cicerone, e tal metodo noi tenemmo nella parte fisica delle sue dot trine, e
terremo nella logica e nella morale. Il Ritter scrittore accuratissimo nella
critica'de'filo sofi,e alemanno davvero nella coscienziosa ricerca dei passi e
dei documenti, talvolta, ci duole a confessarlo, compo nendo con disegno
ingegnoso brani staccati di varie opere, ne fa resultare in conferma delle
proprie opinioni un si gnificato che forse non germoglia dalla totalità del
sistema. Così nell'esame della dialettica di Tullio, sebbene non n e ghi che il
filosofo latino si leva al concetto dei principj e delle idee universali,
cardine dell'intelligenza, pure af ferma che in logica ei riferì una singolare
importanza al sentimento, pigliando questa parola nel significato in cui
laintendono iRazionalisti,come di un che sostanzialmente opposto alla scienza,
e soggetto alla cieca fatalità de
gl’istinti.(Hist.,lib.XII,cap.II,pag.105,106).Ma inprimo luogo, oltrechè
Cicerone (e lo vedremo meglio in morale) non fece mai del sentimento un
qualcosa di opposto alla scienza, e anzi lo allegò sempre in un significato
essen zialmente scientifico, quale una necessaria attinenza del l'affetto
spirituale col vero (De Fin ., lib.II,passim ), è poi esattaabbastanzal'asserzionedelRitter,checioèiprincipj
fondamentali della sua filosofia naturale lo conducessero
alledottrinelogicheperviadellasensibilità?Sefosselecito affermare risoluto
contro l'autorità dello storico insigne, direi invece che due cause,intrinseca
l'una,l'altra estrin seca alle dottrine di Tullio,lo guidarono in logica a con
clusioni direttamente opposte, e lo ravvicinarono (pro
gressorarointantacorruzioneditempi)aidommi sublimi dell'Antica Accademia . In
tal questione egli si trovò in mezzo al proprio semipanteismo e dualismo e alle
dottrine materiali e sensistiche di Zenone. Non è egli vero che il
101 dualismo semipanteistico da un lato rifuggendo alle con
tradizioni del panteismo che più repugnano agl'ingegni sovrani, e gratificando
dall' altro agli affetti spirituali, segregò la materia da Dio, lo spirito dal
senso,e pose la ragione del conoscere nella medesimezza fondamentale
dell'intelletto divino e degl'intelletti secondarj ? Ora tal sistema,
partecipato da quasi tutte le scuole socratiche e da Tullio,rompeva
l'attinenzatrailpensieroeipensati, tra l'ideale e il reale, e restringeva
l'intendimento alla semplice e inefficace visione degli universali. Se così è,
pare che il filosofo latino dovesse essere ben lungi dal porre nei resultati
delle potenze sensitive la certezza del conoscimento;e lo prova la sua fisica
dove sull'esem pio di Platone si rigettano i metodi delle scienze speri mentali
come incapaci di somministrare una sicura notizia de'corpi, e l'indagine
naturale si ammette solo come via di levarsi in virtù di principj superiori ai
veri della scienza soprannaturale ; lo prova la sua psicologia che tante volte
contrappone il fenomenale della materia e del corpo al l'essenza dello spirito,
che afferma il commercio dell'anima col corpo risiedere in una semplice
comunicazione di moto , isensiesseresoloun emissariodell'anima,un'intelligenza
ammezzata, e la personalità umana un gastigo. (Tuscul., De Leg.,De Rep.nel
sogno di Scipione). L'altra causa estrinseca che allontanò Cicerone dalla fede
che altri poneva nel conoscimento prodotto dai sensi, è l'opposizione ch'ei
dovette fare al dommatismo degli Stoici, nella quale opposizione si vede che,
mentre da un lato egli temperava colla moderazione dell'ingegno latino il
dubbio eccessivo a cui l'avrebbero forse condotto le dottrine della Nuova
Accademia, dall'altro sapeva con raro acume di logica smascherare e combattere
le intime contradizioni degli avversarj. Qual era la fonte di tutte queste
contradizioni ? Noi già la conosciamo ;era l'eterna differenza che corre tra il
sentimento mutabile e fenome nale e l'incommutabile necessità della scienza.
Questa necessità sembrerebbe a primo aspetto bastantemente di mostrata nel
sistema degli Stoici dal porre ch'essi face 102 vano il
conoscimento scientifico nel possesso delle idee pure, e nel rappresentarcelo
quasi l'ultimo grado di ferma convinzione,a cui lo spirito umano perviene col
passare pei gradi intermedj della ouzoté0:015 (adsentio) e della 2.zténnyes
(comprehensio), movendo come da suo prin cipio dalla suurusis,o
rappresentazione sensibile (visum ).
(Ritter;Cic.,Acad.II,47).Ma,seconsideriamomeglio,gli Stoici con quella loro
immagine della mano stesa e del pugno chiuso ed aperto determinavano in qualche
modo l'idea di una differenza tra il sentimento e ilsapere,ma non uscivano dai
fenomeni animali,non sapevano accen nare quella nuova parte essenziale
intrinseca al soggetto, che congiunta colla oggettività della percezione
costituisce il conoscimento; laonde la Nuova Accademia avrebbe po tutodirloro:è
vero che ilsaperedifferiscedalsenso,che il possesso sicuro delle
rappresentazioni resulta dalla c o n trazione e dall'energia dello
spirito(TÓvos);ma sepervoi l'intelletto non è che il travestimento del
senso,mostra teci orsù come la potenza derivi dall'impotenza, l'asso luto dal
relativo, il necessario dal contingente. Ora la Nuova Accademia senza levarsi a
questi principj universali ch'essa non ammetteva,ma, giusta il suo costume, no.
tando piuttosto quelle contradizioni che sidesumevano dal sistema stoico paragonato
a sè stesso, pure implicitamente li confessava. Fallita infatti agli Stoici la
definizione del concetto della scienza dato per via dell'attività spontanea
dell'anima,non rimaneva loro altro scampo che ridurre la ragione del
conoscimento alla indubitabilità della p e r cezione vera.Ma come mai
dimostrare tale indubitabilità? Questo mutamento notevole che doveva introdursi
nel l'indirizzo della questione sul problema della conoscenza per la legge a
cui è soggetta necessariamente la vita d'ogni sistema,è attestato dalla
storia;perchè,come os serva il Ritter, i primi Stoici dimostravano la necessità
del sapere per quella forza interna dell'animo che si mani festa nell'atto
d'apprendere la sensazione,e pel bisogno d'ammettere qual termine della
facoltàintellettivaeap petitiva il vero ed il bene ; laddove gli Stoici
susseguenti, 103 al numero de'quali appartiene Crisippo,
vedendo che ciò contraddiceva ai principj del sensismo,trassero alle ultime
illazioni il sistema ponendo il criterio del conoscere nella rappresentazione
vera che si manifesta da sè stessa come prodotta da un obbietto reale
analogamente alla sua natura . Nonpertanto una grave difficoltà rimaneva sempre
a risolvere anche dopo la modificazione introdotta da Cri sippo. Chè se il
vizio fondamentale di tutta la loro dot trina stava nel disconoscere
quell'intreccio d'attinenze interne ed esterne ond'è manifestativo
ilpensiero;iprimi Stoici guardarono troppo al lato interno e soggettivo di
quelle attinenze, mentre Crisippo, eccedendo per l'altra parte, si fermò
unicamente all'esterno; e quindi rima neva sempre intatto il quesito, se la
rappresentazione percetta offrisse piena e indubitata qual era la realità
dell'obbietto rappresentato. E invero si ponga mente. Fingasi che un oggetto
qualunque a cui noi riferiamo date proprietà di freddo, di caldo, di liscio, di
ruvido, d'ottuso, di tagliente etc., faccia impressione sui miei organi s e n
sorj,e che l'impressione, trasmessa per la treccia de'nervi al centro del
senso, sia occasione a farmi concepire l'idea d'entità; se io esamino allora lo
stato interno della mia coscienza, il fatto del conoscimento, unico in sè, mi
si paleserà resultante da una mirabile armonia di fatti se condi, successivi
bensì nell'esame della riflessione, con temporanei tutti nell'atto delle
potenze spirituali.Ciascuno di questi fatti sarà l'operare d'una special
facoltà, e cia scuna di quelle operazioni avrà il proprio termine ; io poi che
mi faccio ad esaminare quel nodo d'attinenze tra il soggetto e gli oggetti,
vedo che la qualità dell'atto conoscitivo resulta bensì dalla qualità di
ciascuno di quelli atti secondi, ma la sua certezza proviene da una legge di
natura che li costituisce contemporanei e correlativi. Fa'che io tolga via col
pensiero o l'uno o l'altro di quegli atti e i termini loro, quella stupenda
armonia di natura mi si spezza davanti agli occhi, e io cado di n e cessità
nello scetticismo ; tolgo via l'impressione sensibile 104 Il
sistema cristiano, che movendo dalla formula di creazione riproduce in uno
stupendo ordinamento di veri palesati dall'intimo della coscienza l'universale
armonia del creato, può soltanto offrire un'adeguata risposta ai quesiti dello
scetticismo sulla questione del conoscimento ; perchè solo in quel sistema le
attinenze dell'umano p e n siero con sè e cogli obbietti sono rigorosamente
serbate, nè può lo scettico separando o negando creare vane a p parenze quasi
dell'intelletto segregato in sè stesso,o della fantasia o del senso producenti
fenomeni vani non retti ficati poi dal paragone dei giudizj mentali. L'ingegno
di Agostino che meglio d'ogni altro comprese in sè stesso le armonie del
Cristianesimo e della scienza de'Padri, dava un esempio del confutare
cristianamente gli scettici nell'opera Contra Academicos, dove chiaro apparisce
lo studio profondo degli scritti di Cicerone, e come quei e 105 e il
termine materiale ? e la conoscenza mi si presenta come un fenomeno soggettivo
;non vedo più l'azione dello spirito e il termine ideale in cui cade ? e il
conoscimento doventa un qualche cosa d'estraneo a me stesso, un in ganno
misterioso del senso e della materia.Quest'ultimo segnatamente fu il vizio
fondamentale della dottrina degli Stoici nuovi, e in ciò,nota bene Cicerone,
essi furono assai meno conseguenti degli Epicurei. Costoro movendo dal
principio, che data unapercezione fallace mancava ogni criterio per verificare
la certezza delle umane notizie, ponevano quel criterio nella realtà stessa del
fenomeno sensibile, più conseguenti, dico, degli Stoici, i quali non ammettendo
come veretuttelepercezioni,ma soloquelle che presentavano in sè l'evidenza
della cosa percetta , nè riconoscendo d'altronde, come sensisti,la natura pro
pria dell'intelletto a cui solo spetta il giudizio sui r e sultamenti del
senso, si chiudevano la via per discernere la conoscenza vera dagl'inganni
dell'immaginazione; e quindi a buon dritto la Nuova Accademia allegava contro
gli Stoici i soliti argomenti della fallacia del senso degl'inganni dei
ragionamenti sofistici. (Acad., I e II dal cap.28 in giù). germi
immortali di vero che il filosofo romano seppe raccorre con rara indagine
scientifica nel suo tentativo di conciliare le scuole greche,producessero una
vitaope rosa di scienza fecondati dal calore di una dottrina rin novatrice. Nel
libro Contra Academicos Sant'Agostino serba a un di presso lo stesso ordine
della disputa seguito da Lucullo e da Cicerone, move dagli stessi principj,
ribatte le medesime contradizioni;ma un non so che di insolito, d'efficace,
d'affettuoso che annunzia una civiltà e una religione nuova tu lo senti là
dentro,e non tanto nello stile che, non paragonabile mai all'eleganza tulliana,
ritrae pur qualche volta la vivezza e il brio del parlare improvviso, quanto
nell'energia insolita dell'argomentare che sfuggendo iparticolari, dove
facilmente sipuò intro durre il sofisma, si rifugia nell'evidenza de'principj s
u premi. Ma ilmodo d'argomentare usato da Sant'Agostino non calzava agli
Stoici; chè essi non ammettendo un'in tima e reale attività dello spirito
distinta dal senso e capace di rettificarne gl'inganni, non potevano rinvenire
nell'essere stesso della percezione segni indubitati ch'ella fosse verace; e il
loro concettualismo non li lasciava af fermare contro il dubbio aceennato dalla
Nuova Accade mia sulla validità del pensiero. Gli storici della filosofia ci
han serbato in fatti memoria di una strana dottrina degli Stoici procedente del
resto dall'intimo del loro sistema e da quella tendenza dualistica che vi si
mesco lava ai principj del panteismo.Qual era questa dottrina? Gli Stoici ponendo
in fisica per un lato la realtà delle cose nella sostanza corporea ,nè per
l'altro costretti dalla logica riuscendo a negare del tutto l'essere delle idee
universali, distinsero queste dal reale corporeo,e ne fecero alcunchè di non
reale, ma capace d'essere concepito dall'intelletto ed espresso in proposizioni
(Asztóv).Distin guevano quindi due specie di vero ; il sensibile contenuto
nelle percezioni de'corpi, e il pensabile ristretto alle in tellezioni della
mente,questo procedente da quello e a quello correlativo ; volevano con tale
dottrina porre su stabili fondamenti la necessità de'principj in cui cade
la 106 .. scienza, nè gli acuti pensatori s'avvidero che, se
l'idea può rappresentarmi il reale, ciò accade appunto in con seguenza ch'ella
stessa è reale, non s'avvidero che n e gando qualunque conformità tra il
concetto universale e l'essenza del concepito, si cade nel concettualismo rinno
vato poi da Abelardo nei tempi di mezzo.La Nuova Accademia recava alle ultime
loro illazioni questi falsi prin cipj della scuola stoica ; dal principio del
sensismo traeva occasione a dubitare della veracità della percezione sen
sitiva; moveva dalle conclusioni del concettualismo per negare la realtà del
pensiero imprigionato in sè stesso, e diceva (argomento assai notevole infatti)
la dialettica non potere giudicare delle leggi della geometria,perchè aliene
dal proprio ordine di veri,non giudicare delle pro prie, perchè non può il
pensiero rivolgersi sopra sè stesso per giudicarsi. L'argomento è di
recentissima data,come ognun vede,e lo ripetono anch'oggi iseguaci del Comte,
iPositivisti francesi. E recenti pure sono le conseguenze che ne deduceva la
Nuova Accademia; poichè racchiuso una volta il pensiero in sè stesso, e negata
la sua atti nenza colle cose reali,manca ogni criterio a risolvere il problema
dei giudizj contradittorj,nè v’ha che un passo a dedurne che dunque la
contradizione è una legge ne cessaria dell'intelletto. Questa ultima
conclusione, che accenna per altro un notevole perfezionamento della rifles
sione nelle teoriche del criticismo, è dovuta al filosofo di Conisberga,m a già
è racchiusa implicitamente nei sofismi disgiuntivi della Nuova
Accademia.(Ac.,1.II,15,16,29, 30, 31.) Costituita dunque in questi termini, la
controversia sulle fonti del conoscimento conduceva la Nuova Acca demia a uno
scetticismo assoluto,e noi già ne vedemmo non dubbj segni in Carneade ; m a era
qui appunto dove Cicerone si arrestava temperando col suo vivo sentimento dei
veri naturali e colla moderazione latina gli eccessi del metodo da lui fino
allora seguito. Quindi usciva la sua teorica sulla verosimiglianza delle
percezioni sensibili che riporterò così riassunta dal Ritter. « Les
Stoïciens,en 107 108 admettant la possibilité de saisir
quelque chose avec tant de précision qu'il ne puisse y avoir
erreur,n'accordaient ce savoir qu'au sage. Ils ne faisaient donc en cela que de
refuser cette espèce de savoir aux hommes ordinaires, car eux-mêmes ne
pouvaient dire quel est l'homme qui est ou qui a été sage ; ils regardaient, au
contraire, tout le monde comme insensé, et refusaient en conséquence le savoir
véritable à tout le monde.Cicéron n'aspire pas à un pareil degré de savoir;
mais il veut que le non -sage aussi sache quelque chose,c'est-à-dire, qu'il ait
une per suasion de la vérité des phénomènes sensibles,sans cepen dant pouvoir y
croir avec une parfaite certitude.Son opinion est, qu'il y a des impressions
sensibles auxquelles nous pouvons nous fier, parce qu'elles ébranlent fortement
notre sens ou notre esprit;mais sans pouvoir cependant les adop ter comme
parfaitement vraies.Telle est sa théorie de la vraisemblance. Il ne veut pas
faire disparaître la différence entre le vrai et le faux ; nous avons raison de
tenir quelque chose pour vrai et de rejeter autre chose come faux; mais nous
n'avons aucun signe certain de la vérité et de la fausseté.Il croit pouvoir
prévenir l'objection,qu'il y a ce pendant ceci de certain,qu'il n'y a rien de
certain en te nant aussi pour vraisemblable seulement qu'il n'y a rien de
certain. C'est ainsi qu'il se purge du reproche que la théorie qui donne tout
pour incertain est impossible dans la vie pratique, car cette vie se conforme à
la vraisem blance, et la plus part des arts qui s'y rapportent avouent même
qu'ils ont plutôt pour but la conjecture que la science. Il ne voit d'autre
différence entre son opinion et celle des dogmatiques, si ce n'est que ceux-ci
ne dou tent pas de tout ce qu'ils soutiennent;mais qu'il est vrai qu'il
considère au contraire beaucoup des choses comme vraisemblables, qu'il peut
suivre, sans pouvoir cependant les affirmer avec una parfaite certitude..... On
voit bien que cette théorie de la vraisemblance s'éloigne un peu de la doctrine
de la nouvelle académie, du moins telle que Carnéade l'avait exposée; car elle
n'aspire pas à un art de tout rendre également vraisemblable et
invraisemblable, mais elle tient quelque chose pour vraisemblable,
autre chose pour invraisemblable. Cicéron remarque même qu'en ce point il
s'écartait de ses maîtres, particulière ment pour ce qui est des préceptes de
la morale.Il avoue à la vérité qu'il n'est pas assez hardi pour réfuter le
doute de nouveaux académiciens,par rapport à la morale, mais il désire les
atténuer. » (Stor., vol. IV, pag. 108, 109, 110 tradotta dal Tissot.) 4. Il fondamento
della teoria tulliana sulla verosi miglianza è dunque nella questione del
criterio del vero; e qui, segnatamente nel giudizio sulle percezioni sensibili,
apparisce il moderato scetticismo dell'oratore latino;m o derato, dico, e parmi
sia chiaro dopo le cose predette che egli avvolto, come Socrate, in mezzo ai
combattimenti del dommatismo e dello scetticismo eccessivo, serbò una norma
scientifica nell'affermare e nel dubitare, temperò gli Stoici non accordando
una fede illimitata al solo te stimonio de'sensi ; temperò gli Accademici
sostituendo al loro dubbio,uguale per qualunque opinione,una graduata v e r o s
i m i g l i a n z a n e ' c a s i p a r t i c o l a r i, c o m b a t t è g l i
u n i e g l i altri rigettando il dubbio assoluto sui principj fondamen
taliesulleveritàteorematiche.(Vediiproemj particol. De Off,De Div.,De
Nat.Deor.,Acad.) La sua psicologia in quelle parti che si collega alla logica,
sebbene qua e là i n f e t t a d e l d u a l i s m o s o c r a t i c o, f a f e
d e c o m ' e g l i e m e n d a s s e il vizio della scienza contemporanea
opponendo all' i m perfetta riflessione de'sofisti un esame comprensivo del
umano soggetto. Con metodo induttivo egli moveva dalla coscienza, ed
ivi,riconosciuti inaturali concetti dell'oltre naturale e dell'intelligibile,
s'innalzava con essi alla c o gnizione dell'animo
(Tuscul.,lib.I,cap.XXII);nell'animo distingueva la ragione dal senso;la
ragione,sovrana delle facoltà umane,ha un immortale e quasi divino istintodel
vero,legame primigenio tra il Creatore e icreati;isensi, satelliti e nuncj
dell'anima,le danno di molte cose certa notiziaconfusaeammezzata,cheèun qualche
fondamento alla scienza, e la scienza ne sorge per la libera efficacia
dell'animo, che comprendendo in sè il particolare e ilm u 109
tabile dei sentimenti, si leva alle idee e alle nozioni uni versali;
quindi i sensi ben guidati da natura,nè torti da mala educazione, hanno una
naturale rettitudine al vero, nell'animo dove cade il libero giudizio della
riflessione, ivi soltanto può introdursi l'errore.(De Leg., 1,23,26,
17,47;Tusc.,1,20;Ac.,1,8, 11,7.) Così col metodo induttivo di Platone egli sale
fino ai principj più universali, d'onde col deduttivo d'Aristotele ridiscende
ai particolari; e ne son prova i libri rettorici. Tra i quali merita speciale
considerazione la Topica, o logica inventrice, intitolata a Trebazio giovane
giurecon sulto e discepolo dell'autore,e dove ogni precetto è ac compagnato da
esempj di giurisprudenza. In questo libro che ha per soggetto tutte quelle
distinzioni e scomposizioni dialettiche che si ricercano per l'invenzione degli
argo menti, e si operano sui concetti che ne sono signifi cativi, Cicerone
divide la logica in inventiva e giudica trice, la prima delle quali parti porge
gli argomenti per disputare,la seconda li dispone,li analizza e lim a neggia
per persuadere.La logica Ciceroniana,osservata altresì ne'dialoghi,ed esposta
nel De Inventione, e nel De 'Oratore, è in fondo la istessa logica d'Aristotele
qualepiùtardisimodificònegliStoicienellaNuova Ac cademia, e l'accettarono in
gran parte i giureconsulti romani e gli oratori ; la qual cosa, perciò che
risguarda i Topici, si disputava lungamente, non sono molti anni, in alcune
università tedesche, come apparisce da un'ac curata dissertazione,De fontibus Topicorum
Ciceronis,di Giovanni Giuseppe Klein. (Bonnae 1844.) Ivi l'autore prendendo ad
esame la questione proposta dai critici a n teriori,se e quanto e con qual
metodo Cicerone seguisse in questo libro la Topica d'Aristotele che ci
pervenne, ovvero se attingesse ad un'altra di presente perduta, come qualche
critico mostrò sospettare; conclude dopo un dili gente ragguaglio dei due
scrittori,che le opere loro quanto aiprincipj,e in molte
partisecondarie,differiscono note volmente ; che Cicerone nella sua Topica non
si propose (il che apparirebbe a prima giunta dal proemio) di fare
110 111 un semplice compendio dei libri Aristotelici;ma resulta da
tutto il contesto avere l'oratore latino attinto la m a teria del libro dai
Rettorici dello Stagirita e da alcuni precetti degli Stoici e della media
Accademia,e poi averla composta col proprio giudizio in una forma di vera e par
ticolare disciplina. Sui Topici di Cicerone scrisse con fine più filosofico un
ampio e bel commento Severino Boezio,in cui la storia della filosofia ravvisa
il primo passaggio tra le dottrine dei Padri e quelle de'Dottori,tra l'ultimo
spirare della civiltà latina sotto le conquiste de barbari e ilprimo rinnovarsi
delle lettere e delle scienze nella nostra Italia.Or quel c o m mento , che all'indole
del trattato, già di per sè stesso analitico, accoppia il rigore della
dialettica della Scuola, e congiunge i nomi di Aristotele, di Tullio, di
Trebazio Testa e di Severino Boezio, mi rappresenta al pensiero l'armonia delle
scienze giuridiche colla filosofia, dell'ana lisi colla sintesi,della
dialettica colla storia, della pratica colla speculazione, dell'amore operoso e
civile colla sa pienza cristiana. 1. Entrando ora a parlare dei libri morali,
apparte nenti alla teorica sulle azioni, l'ordine della materia sembra
invitarci, come facemmo nei capitoli precedenti, a dire qualche cosa in
generale del disegno scientifico che li collega, e delle attinenze loro più
immediate e più rigorose colle altre parti della filosofia di Cicerone. In vero
la scienza morale nata sui rudimenti del senso co mune,quale Socrate la menava
a conversare famigliar niente fra gli uomini ,e più tardi venne accolta e
trasmessa sino a noi dalle scuole migliori, si può assomigliarla ad uno
stupendo poema, se guardiamo la sublimità de'suoi veri,illegame che unisce i
principj alle conseguenze,e l'armonia delle speculazioni colla parte più
affettuosa dell'uomo e colla vita civile. Il principio n'è dato dalla
IV. 112 natura,presupposto indispensabile della scienza; chè la
riflessione posta una volta su quel cammino ov'essa pro cedendo incontra e
ravvisa ad una ad una leveritàpiù prin cipali della Filosofia, move dai
primordj della vita vege tativa e animale ,manifestati nella puerizia dai
sentimenti indefiniti e dagli istinti,passa su su agli inizj della vita
razionale, allorchè quei sentimenti illuminati dallo splen dore della
conoscenza si palesano come tendenze amorose al vero, al bello ed al bene; in
quei termini riconosce la ragione di fine,ed il fine,considerato come qualcosa
onde nasce armonia nelle operazioni d'un ente,guida la rifles sione al concetto
di legge, d'un archetipo assoluto ed eterno che per mezzo dell'intelletto
indirizza il volere a un'immortale destinazione. Principj naturali, bene, fine,
legge ; ecco i concetti che, intrecciati mirabilmente fra loro nell'armonia
della coscienza, costituiscono l'ordito
dell'Etica,allaquale,considerataperquestorispettocome scienza direttrice della
più nobile parte dell'umana n a tura, fan capo le altre scienze costitutrici della
filosofia. L a F i s i c a , c o m e l a i n t e n d e v a n o g l i a n t i c
h i, l a q u a l e m e ditando il principio primo dell'essere nell'universo e
nel l'uomo,ne ravvisa facile il fine che nell'universo è un termine
oltrenaturale di naturali armonie, desiderato dagli enti tutti, e nell'uomo è
un'idea di perfezione immortale, appresa confusamente, nè mai raggiunta
nell'ordine delle creature. La Logica, perchè trattando dell'ente sotto la
ragione di vero,ne scorge facileilpassaggio alla ragione di bene pel concetto
d'amabilità, testimonj i sentimenti più schietti della natura che antecedono
ilvero e ne ger minano come tendenze ed affetti. Vi conduce la Scienza dei
doveri e dei diritti;chè dovere e diritto sono concetti eminentemente morali in
quanto da un lato discendono dall'idea della legge,le cui divine esigenze
s'impongono alla coscienza degli enti creati,capaci di cognizione,pur ri
spettando quelli enti nell'ordine della loro natura ; dal l'altro lato vengono
su dall'idea dell'uomo,ente dotato d'intelletto e d'amore,che riconosce in sè e
nel suo libero arbitrio la sanzione di quella legge,la quale osservando
113 si sente capace d’immortali destini. Così l'ontologia, la logica, la
scienza delle obbligazioni e il gius di natura si appuntano, come in unico
centro, nella morale, da cui pur si dirama il gius civile, la politica, la
legislazione, la storia e ogni altra scienza meditatrice dell'uomo. Il
Cristianesimo, dottrina e religione moralmente inci vilitrice, che nata in
tempi di costumi nefandi operò un mirabile rivolgimento nella vita dell'uomo,
ponendo a capo dei suoi precetti l'amore santificato da tanto sangue di
martiri, e ad esempio dei nuovi costumi, l'immagine più che umana del figlio di
Maria,il cristianesimo solo poteva dare un perfezionamento vero alle teoriche
della morale. E quel perfezionamento lo diede allorchè dichia rando senz'ombra
di dubbio l'infinita natura di Dio,la finita natura dell'uomo, si valse
dell'idea intermedia di creazione per assorgere al concetto più puro delle loro
attinenze, potè meglio chiarire l'idea di fine, di bene e di legge,ricostituire
l'ordine dei fini nella natura in telligibile e sovrintelligibile, vedere
l'uomo e l'universo ordinati a un disegno della provvidenza;e quindi,posto a
capo di tutta la Filosofia il concetto di Dio, se ne sparse nuova luce sulle
dottrine del soprannaturale e del naturale, sulla psicologia e la logica, sulla
teorica dei doveri e dei diritti; le scienze politiche e civili e la storia ne
apparvero nobilitate. Il che è tanto vero, che quel tendere continuo dalle
miserie di nostra natura all'i m mortale, all'assoluto, all'eterno,può solo
spiegarci le sca turigini arcane onde move un'aura d'ineffabile bellezza, chela
scienza cristiana respira,sono ormai più che quat tordici secoli, dai dialoghi
di sant'Agostino, e dalle let tere di san Girolamo in poi,sino alla Divina
Commedia, alla Somma dell'Aquinate,e alle sublimi fantasie di Vin cenzo
Gioberti. Considerate le quali cose, se alcuno mi domandasse onde accadde che
la Paganità, in tanto e continuo sca dere di costumi e di scienza, riconobbe
più volte, senza pur cadere in errori sostanzialissimi,le principali verità
della morale,di che abbiamo esempj segnalati nelle Indie, 8
114 in Magna Grecia e soprattutto nelle scuole socratiche e in Cicerone
nostro, addurrei per risposta la vivezza delle umane tendenze e l'efficacia
de'sentimenti,che ger minando da naturaciportano inconsapevolialvero ignoto,
l'istinto della socievolezza e l'amore per gli enti della medesima specie, che
essendo un vivo bisogno dell'uomo, gli mantiene fresca nell'animo la voce degli
affetti do mestici e civili, e infine la notevole differenza che corre fra
l'apprensione astratta del vero e il sentimento che n'hai nella vita, onde
spesso il filosofo discorda dal l'uomo, e il popolano e la povera vecchierella
fanno a m mutolire coll'evidenza della rozza parola il superbo sa piente.In
Grecia,e segnatamente inAtene,dove nacque Socrate, e dove si conservava
nell'amore del bello e nei gentili attici costumi un germe di rinnovamento,
rimase aperta la via a tornare sulle antiche tradizioni, attestate dalla
coscienza e dal linguaggio, e a derivarne, come scintilla da selce,i principj
della morale che fanno sì bella parte delle scuole socratiche. M a quei
principj (già lo sappiamo) erano forse più facili a ravvisarsi l’età sus
seguenteallasocratica,inRoma;e perchèinRoma s'era insanguinata e commista la
civiltà dei popoli italici, in cui si manifestò ab antico una notevole
inclinazione alla scienza avvivata dal sentimento e da fini di pratica a p
plicazione,eperchè in Roma erafioritaefiorivalascuola dei Giureconsulti, il cui
pernio era l'idea morale della legge e del dritto,e infine perchè, se una
riforma era da farsi in tanta corruzione di civiltà e di costumi,in tanto
scadimento delle relazioni domestiche e civili, e nella notevole prevalenza che
da circa due secoli avean preso le dottrine epicuree, certo quella riforma
dovea comin ciare dai principj della morale.L'Etica ciceroniana, che è uno dei
più nobili tentativi fatti dall'umano ingegno per opporsi, senz'altro ajuto che
l'evidenza del vero de sunta dalla natura viva, alla rovina d'un'intera
nazione, era dunque preceduta da un grande preparamento; chè giammai si compie
un gran fatto senza che nei tempi e nella società,da cui nasce,se ne acchiudano
igermi.Ei 115 germi della riforma morale iniziata da Tullio
furono, oltre le condizioni civili e politiche di tutta l'Italia e di R o m a ,
i Giureconsulti e le sètte, alle quali s'oppose il riforma tore; le splendide tradizioni
delle scuole socratiche, e segnatamente idommi platonici,aristotelici e
stoici;ivi egli mirando componeva il disegno scientifico della sua morale ;-m a
quel nobile magistero l'avrebbe ajutato ad accozzare brani di verità,non a
comporre una vera dot trina, a ragunare nella memoria, non ad unire nella ri
flessione esaminatrice, s'e'non avesse avuto l'occhio in un principio più alto,
superiore ad ogni opinione e ad ogni setta, nell'esemplare della natura
considerata nel suo popolo, in Italia, in Grecia, in Europa , nelle genti tutte
conosciute, e più viva in sè stesso, cittadino gene roso,scrittore
sommo,oratore che tante volte dall'alto della tribuna avea signoreggiato gli
umani affetti colla parola onnipotente. Questa meditazione profonda dell'uomo
interiore, il cui fine era dedurre le ragioni del giusto dalle attinenze
dell'anima e dell'universo con Dio,valse a Cicerone le accuse di quell'acuto
intelletto che fu Michele Montai gne. M a il Montaigne, osserva opportunamente
un altro scrittore francese, cercava forse troppo sovente materia al sorriso
nell'invilire l'uomo e nel rassegnarlo tra i bruti;.Cicerone lo stimava creato
a qualcosa di più alto e di più solenne (ad majora et magnificentiora quædam ),
e riconosceva da Dio la nobiltà dell'umana natura,e l'ef ficacia della ragione
e del libero arbitrio, per costituire la morale e con essa la vita civile su
fondamenti non peri turi. Premesse queste considerazioni, l'Etica di Tullio, in
cui Francesco Forti osservava rappresentarsi la maturità della ragion naturale presso
gli antichi , si distingua i n nanzi tutto in due parti determinate intimamente
dal l'indirizzo del suo pensiero speculativo nell'esame dei veri morali,
estrinsecamente dalla forma filosofica de'trat tati. U n a parte è teoretica e
principalmente speculativa ; e in essa Cicerone esaminò la ragione delle
tendenze n a turali nell'umano soggetto per ispiegare il problema
sulla natura dei beni, e si levò coll'induzione da questo esame ai concetti
universali di legge, di dovere, di diritto (De finibus, De legibus); l'altra
parte, in cui prevale un fine pratico o di applicazione, movendo essa pure dai
principj fondamentali, innanzi chiariti, scende a determi narli nella vita
dell'uomo individuo e sociale e nelle dot trine sulle forme di governo (Tusculanarum
, Paradoxa, De officiis,De republica,De amicitia eDe senectute).Se poi si
considera bene,nella prima parte di tal distinzione, avvertita pure dal
Kuehner, è compresa manifestamente un'indagine soggettiva e oggettiva ;
soggettiva e ogget tiva ad un tempo,perchè nel problema, posto da Tullio
intorno alla natura dei beni, la riflessione scientifica si volge da un lato
sulle tendenze e sugli affetti spirituali, mentre dall'altro vi riconosce un
riferimento necessario a qualcosa d'assoluto, d'immutabile,d'infinito, di essen
zialmente oggettivo, all'esemplare di legge, da cui si ge nera in noi
l'obbligazione morale; e quindi è che la teorica de'Fini si distingue nel
filosofo nostro da quella del D o vere,e sorge fra l'una e l'altra, come centro
unitivo delle armonie morali, la teorica della legge. 2. Ponendo mano
impertanto all'esame della parte speculativa,cominceremo dalla
dottrinadeiFini,trattata ex professo, e con intendimento al tutto scientifico,
nel libro D e finibus, a cui fanno corredo con secondaria i m portanza, e con
oggetto non immediatamente speculativo, le Questioni Tusculane, e l'operetta
dei Paradossi. G i o vanni Rodolfo Thorbecke in una sua dotta dissertazione
universitaria sul principio della Filosofia e degli Officj desunto dalle opere
di Cicerone, osserva che il quesito dei Fini,o del sommo bene,occupa un luogo
principalis simo nella sua morale. Il critico tedesco allega a questo proposito
l'autorità stessa del nostro oratore,che più volte nelle sue opere , e
segnatamente nel primo libro degli Officj (I,3),riferisce ilfondamento delle
dottrine morali alla disputa sul fine dei beni,e nel De finibus nota oppor
tunamente contro gli Stoici non potersi separare, come 116
Due metodi si presentavano alla riflessione esamina trice per risolvere il
problema sulla natura dei beni. L'uno,che èmetodo comprensivo edessenzialmente
scien tifico, necessario in qualunque parte della filosofia,e so prattutto
indispensabile in questa, stava nel riprodurre esattamente coll'ordine del
pensiero speculativo l'ordine del soggetto, nell'abbracciare quella stupenda
armonia di tendenze e di fini, che ci manifesta l'uomo interiore senza nulla
tralasciare,nullanegare,nullaesaminare im perfettamente. L'altro metodo invece,
che s'informava dalle qualità negative e parziali del sofisma, consisteva nel
dimezzare colla scienza ciò che la natura avea unito, nel considerare l'essere
umano soltanto in certe sue dis posizioni e facoltà, tralasciando le altre,
nell'offrire c o m e opera compiuta del vero e di Dio un informe viluppo di
contradizioni e d'errori. Questa seconda fu la via torta e fallace seguita
dalle sette grecoromane; quello il m e todo di Socrate e della coscienza
tracciato da Tullio, come n'è testimone l'intero trattato de'Fini. La quale
avvertenza occorre fare fin d'ora ;perchè parecchj storici della Filosofia
trovarono anche in questa parte della m o 117 termini identici d'una
stessa relazione morale, il principio dell'operare e il fine dei beni. Tale
suprema importanza scientifica del trattato dei Fini si desume ancora dal con
siderare che la materia di quel problema si estende per un larghissimo campo di
relazioni intercedenti fra la psicologia e le dottrine morali.Invero il
filosofo,che pone mano a risolverlo,bisogna che mova dai rudimenti di natura,
comprenda con diligente esame tutto l'essere umano,e rifacendosi dalle prime
tendenze,dove appena appena si manifesta l'affetto, e da quelle che palesano
nel sentimento, nell'associazione dei fantasmi e nella m e moria lo svolgimento
della vita animale, e il germe del raziocinio, si apra la strada ad esaminare
tutto l'uomo nella conoscenza che più tardi acquista dell'essere pro prio,dei
proprj doveri,delle prime notiziescientifiche,e a considerarlo come parte della
famiglia, come individuo e come membro della civil società. rale di
Cicerone un appicco alle accuse;dissero non avere egli compreso il vero aspetto
scientifico della questione dei Fini, e poichè, sprovveduto di un saldo
criterio di scienza, tentava comporre le più disparate dottrine, quali erano
quelle degli Stoici e degli Accademici e Peripatetici antichi, la tentata
conciliazione provare anche una volta la povertà del suo ingegno speculativo
(Ritter,Brucker ). A una simile accusa, benchè apparentemente sostenuta da
validiargomenti,rispondemmo altravolta,eciparve che la prova più solenne e
palpabile contro le afferma zioni dei critici avversi forse il prendere in m a
n o le opere del filosofo latino, svolgerle con diligenza, ed esponendo
que'suoi dialoghi pieni di tanta vita d'eloquenza e di speculazione,
rappresentarlo,se fosse possibile,alla fan tasia dei lettori quale io me lo
immagino là nelle cam pagne di Tuscolo e di Cuma seduto all'ombra della quer
cia di Mario, e inteso a conciliare le negazioni de'sofisti nell'affermazione
compiuta dell'umana coscienza. Il dialogo de'Fini è diviso in tre giornate,e
ciascuna comprende una disputa,nella quale Tullio assume sem pre la parte di
giudice e di confutatore, argomentando in favore d'Epicuro, degli Stoici e
dell’Antica Accademia il consolare L. M. Torquato,M. Catone e L. Pupio Pisone.
Il dialogo è introdotto ora nella villa di Cicerone in quel di
Cuma,oranellabibliotecadiLucullopresso Tuscolo,e in
fineall'ombrasilenziosadeplataninell'Accademiad'Atene. Per cominciare dalla
disputa contro Epicuro,occorre qui rammentarci come nella prima parte di questa
tesi esami nando le principali scuole che fiorivano in Grecia avanti i tempi di
Cicerone, e tra queste la scuola epicurea, vi trovammo un nuovo e sempre
crescente pervertimento delle dottrine anteriori o contemporanee,e come tal per
vertimento consistesse,a nostro avviso, in un esame sem pre più povero e
parziale del soggetto su cui cade la scienza, manifestato, segnatamente in
fisica, col fermare l'osservazione al nudo meccanismo degli atomi,in logica con
ridurre ogni facoltà dello spirito al senso, e nella morale restringendo la
virtù e la beatitudine ai piaceri 118 del corpo e i piaceri
dell'animo alla speranza o al ricordo dei piaceri del senso.Una siffatta
dottrina,che spegnendo ogni più nobile tendenza dell'uomo, riduceva il sapiente
alla condizione del bruto, subito la riconosci come il por tato d'un ingegno
profondamente sofistico, solo il sofisma togliendo all'uomo l'intuito vivo
delle armonie di natura ; chè, posto a capo dell'Etica il puro sentimento animale,
se ne oscura la notizia dell'uomo, ente capace non solo disentimento,ma
d'intellettoed'amore,noncapiscipiù la possibilità del dovere che dee cercarsi
per sè,non già per diletto,e s'offende la dignità dell'umana natura e delle
virtù ponendo fra esse la voluttà come una meretrice in u n ' a s s e m b l e a
d i m a t r o n e . ( D e f i n ., L . I , I I , 2 2 , 4 , D e o f f ., I , C.
II.) Tali sono gli argomenti, tolti altresì dalle in time contradizioni di quel
sistema, che Cicerone vibra di rimando contro Epicuro colle armi d'una
concitata elo quenza,e davvero la sua risposta a Torquato è un con tinuo
contrapporre a un cattivo e sofistico esame del l'umana natura, un esame più
alto e più vero delle sue leggi, de'suoi destini, del suo aspirare all'immutabile
e all'assoluto;chèilnobile animo dell'accusatorediVerre, e del persecutore di
Catilina e d'Antonio poneva da parte ogni dubbio combattendo nelle dottrine
epicuree una tra le cause maggiori dell'affrettata rovina di R o m a. M a v'è
un luogo,noterole su tutti gli altri,in cui l'Ora tore latino, volendo mostrare
come l'affetto abbia efficacia viva e spontanea per ricondurci nel
vero,rappresenta quella contradizione tra il pensiero e l'operare, tra le
dottrine e la vita,non rara neppure ai dì nostri in uomini spon taneamente
inclinati al bene per virtù di natura, e che han guasta la mente da malvage
filosofie. In quel luogo egli si volge a Torquato, e invoca la sua coscienza di
cittadino, il suo desiderio di gloria, le tradizioni de'suoi avi famosi e il suo
magnanimo affetto alla patria in te stimonio delle dottrine da lui professate ;
e gli chiede p e r chè mai non oserebbe sostenerle nei comizj, alla presenza
del popolo, o in pieno senato. Crede egli con intimo coif vincimento unico fine
della vita ilpiacere? E allora perchè 119 mai v'è tanta
contradizione tra quello che fa e dice come cittadino e quello che sostiene
come filosofo? Teme egli forse l'odio del popolo ? M a badi, risponde Cicerone,
che in questo caso l'errore dell'intelletto non venga raddiriz zato dal cuore ;
badi che il sentimento universale, onde ogni popolo della terra si leva come un
sol uomo a con dannare Epicuro,non sia iltestimonio interiore e inappel labile
della natura, repugnante alla teorica del piacere! 120 Questo intimo disaccordo
tra la ragione ed il cuore, tra le dottrine della scienza e la vita civile,
rappresen tato in Torquato, oltre al mostrarci un alto principio della
filosofia di Socrate e di Tullio, che vuole il cono scimento del vero
costituito da un'interiore armonia del l'affetto coll'evidenza, serve poi in
questo caso a ritrarre mirabilmente i tempi dello scrittore, e a partecipare al
dialogolavitaeilmovimento deldramma.I tempi di Cicerone in molte parti
somigliavano ai nostri. Dismessa a poco a poco nelle mollezze la severità del
costume, s'era affievolito negli animi umani, per l'abito fatto a dottrine
sensuali, quel profondo discernimento del retto che non patteggia mai colla
coscienza,e sdegna chiamare con altri nomi da quello che sono il bene ed il
male. Quindi, come sempre avviene, l'errore nelle opinioni d o
ventavapoicausanon lievedidecadimento neicostumipri vati e civili,e non
pertanto alla corruzione profonda degli intelletti e delle volontà contrastava
potentemente nei più, e in special modo nel volgo,l'efficacia ingenita dell'af
fetto del bene. Ora questo che ad altri poteva sembrare niente più che un
argomento di fatto della differenza tra le opinioni volgari e le dottrine dei
filosofi, avea per C i cerone il valore di una prova scientifica, come testimo
nianza resa dalla natura ai supremi principj morali, e questa testimonianza ei
la vedeva,da un lato nell'efficacia degli affetti osservati in ogni individuo,
e dall'altro nel riscontrarsi la veracità di questi affetti coi pronunciati
solenni e infallibili del senso comune. • Sennonchè, mentre nel secondo libro
de'Fini era i m presa di non grande difficoltà pel filosofo latino il con
futare Epicuro la cui dottrina mancava d'ogni severo prin cipio di
scienza, la sua parte di giudice e di contradittore doventa non lieve quando
nel terzo e nel quarto libro egli prende ad esame la morale del Portico difesa
dall'autorità edalleparolediCatoneUticense.E invero,qualunquevolta a mostrare
la solidità e l'ampiezza dei principj etici e speculativi su cui Zenone fondava
la teorica de costumi, non bastasse il suo esame diligente dell'animo umano e
degli affetti spirituali osservati in ogni età della vita, varrebbe soltanto
ilrichiamare ch'ei faceva la morale, nelle sue parti più generali, ai sommi
principj della scienza della natura . Il filosofo di Cittio avea fondato la sua
dottrina sul riconoscimento pratico e speculativo del l'ordine naturale,
espresso in quella sentenza :vivi confor me alla natura. Πρώτος ο Ζήνων ...
τέλος είπε το ομολογ ouuevos rõ qurat Eno, così Diogene Laerzio ; e in quella
sentenza, chi ben la consideri, si riconosce l'efficacia del l'insegnamento
socratico, continuato in Zenone , onde a v veniva, e lo notammo più addietro,
che, mentre la sua logica e la fisica erano infette da un esame parziale e
meschinamente sofistico dell'universo e dell'uomo, la m o rale offriva un assai
più largo disegno di veri speculativi. Il principio fondamentale dell'Etica
degli Stoici era fuor d'ogni dubbio il concetto puro e assoluto del bene in
attinenza cogli affetti spirituali;tuttavia se fu merito insi gne di quella
dottrina che essi pervenissero a tale concetto dopo un largo esame psicologico
delle umane tendenze,il vizio era che partiti dalla comprensione totale
dell'essere nostro e giunti all'idea di virtù, restringevano ogni cosa a
quest'ultima,non abbracciando più tutto l'uomo nello spirito e nel senso ,
nell'intelletto e nel cuore , in sè stesso e nelle condizioni esteriori. Le
cose, diceva Zenone, si conoscono dall'uomo o per esperienza,o per giudizio di
causa,o per analogia, o per raciocinio comparativo, e in quest'ultimo cade la
notizia del bene , alla quale l'animo ascende universaleggiando da quelle cose
che sono secondo natura (L. III, C. X. 33). Laonde dal concetto del bene come
d'un che ideale, assoluto e simile soltanto a sè 121 122 s t
e s s o , v e n i v a p o i il c o n c e t t o d e l l a v i r t ù , a l q u a
l e l o s t o i c o saliva per la nozione intermedia d'onesto. Che cos'era
l'onesto ? L'onesto per gli Stoici altro non era che la convenienza dell'atto
umano colla natura, riconosciuta dalla ragione ; e quindi essi dicevano,
avvolgendosi in un paralogisma, che poichè quel riconoscimento pratico e
razionale avveniva nella pienezza delle facoltà intellet tuali dopo
l'infanzia,che è quella età in cui le prime cose conformi a natura ( prima
nature) (tá apota xato qusiv) si appetiscono inconsapevolmente,da queste prime
inclina zionidellanaturamovevailprincipiodell'operare,ma non però quelle
cose,che n'erano il termine, si annoveravano tra i beni. Questo principio era
vero in parte, m a nel l ' e s a g e r a r l o s t a v a il v i z i o f o n d a
m e n t a l e d e l l a m o r a l e s t o i c a ; l'esagerazione poi consisteva
in considerare l'atto m o rale come avente a fine sè stesso, niente altro che
sè stesso, nell'astrarre da ogni condizione esterna della vita privata o
civile, e da quell'armonia che intercede tra la ragione e gli affetti, onde il
libero volere o è condotto o conduce ; nel porre in petto al sapiente quella
virtù fredda, impassibile, solitaria, divisa dell'universo e da Dio, come
immobile quercia radicata nei macigni delle Alpi. Se poi si considera più
addentro nelle ragioni isto riche del sistema, il concetto eccessivo della
virtù ci p a lesa un vivo contrasto della morale stoica coi tempi. Qual fosse
il secolo di Zenone facemmo vedere più in nanzi. Ora se immaginiamo in quel
secolo un uomo di gagliardo volere e di generosi propositi, che ponga mano alla
filosofia coll’intendimento di fortificare il co stume,e di avviarlo ad un fine
più alto,subito si capi sce come a quell'uomo, profondamente ristucco dalla
ignavia dei tempi, la vita del saggio dovesse sembrare una lotta continua della
ragione innamorata del bene cogli affetti interiori, col rigoglio dei sensi,
colle ree c o stumanze civili, e l'onesto una perfezione quasi supe riore
all'umana, e conseguibile solo da pochi sapienti. (De finibus, tutto il libro
terzo ; Kuehner e Thorbecke passim .) Esponendo e confutando i
principj più generali della morale stoica,abbiamo esposto in gran parte intorno
a questa materia le opinioni del filosofo nostro. Solo ci ri mane da cercare in
qual modo egli svolgesse le proprie dottrine morali in contrapposto alle
dottrine del Portico, e come l'erroneo concetto del bene supremo da lui
combattuto nel quarto libro, movesse la sua riflessione a pensare un più vero e
men difettivo scioglimento del gran problema morale.Non v'ha forse
luogonelleopere da noi esaminate,in cui questa facoltà potente dell'inge gno
speculativo di Cicerone si faccia meglio manifesta, e con essa il suo metodo
delle attinenze che concilia gli opposti sistemi nell'unità non divisibile
dell'uomo. I principj su cui è fondata la confutazione, movendo dalle idee più
comuni e più popolari intorno alla poca conve nienza delle dottrine del Portico
colle necessità e cogli usi della vita civile (Capitoli VII, VIII, IX),
procedono poco appresso a cercare le cause più remote del paralo gisma nei
fondamenti del sistema avversario.I giudizi del filosofo latino, informati da
un metodo rigoroso d'esame , cadono sempre sul concatenamento scientifico delle
dot trine, e sulla loro armonia coll'indole del soggetto ; nè
sembreranno,iocredo,eccessivamente severi,come parvero
alKuehner,qualorasipensiche Cicerone,traisistemi maggiormente seguiti a'suoi tempi,
preferiva ad ogni altro lo stoico, e che inoltre la storia moderna della
filosofia riassumendo l'esame di lui sulle dottrine m o rali del Portico,
solennemente lo confermava. In prova di ciò Enrico Ritter, più volte citato,
considerando l'idea che del saggio s'erano formati gli Stoici, e su cui fonda v
a n o l a m o r a l e , v i s c o p r e il p r i n c i p i o d ' o g n i l o r
p a r a d o s s o , e di parecchie false opinioni sulla vita dell'uomo ;
poichè, se da un lato, egli nota,si nascondeva in quella idea un alto
intendimento civile, ne veniva poi necessariamente alterato il concetto della
vita e dei doveri affermandosi quivi l'apatia del saggio, ovvero (come suona in
greco quella parola) il suo affrancamento assoluto da ogni pas sione e da ogni
causa esterna che turbasse la tranquillità 123 - . del suo
spirito. (Ritter, Morale des Stoïciens, T. III,
pag.540.)Questaeraun'ambiziosaostentazionedelsommo bene,così la chiama ilnostro
Oratore,ostentazione degna d'una filosofia da ottimati che faceva privilegio
della s a pienza, e l'appartava lungi dalla modesta sublimità del senso comune.
Laonde gli Stoici (prosegue Tullio), per non essere da quanto il volgo,
mutavano i principj della natura,dicevano che l'uomo è anima e corpo,che visono
nel corpo alcune cose desiderate da noi come beni ; m a poi,avendo fatto
nell'uomo eccellente l'animo sopra ogni altra sua facoltà, designarono per modo
la natura del bene sommo come se l'anima non sovrastasse soltanto,ma fosse
unica parte della umana persona.(C.XII.) E qui è notevole davvero come
ricercando il nostro filosofo le cause ultime dell'errore nel principio stoico
del bene supremo,si va gradatamente avvicinando al con cetto positivo e
scientifico della morale.Io dico che dalla confutazione degli Stoici esce un
concetto positivo e scien tifico della morale, perchè quivi egli non segue le
forme irresolute della Nuova Accademia, nè desume gli argo menti più validi
dalle contradizioni relative e parziali del sistemaavverso,ma
procedepiùinnanzi,indagasottilmente l'intervallo che separa il conoscimento
diretto dal cono scimento riflesso, e pone la vera indole della scienza nel suo
differire dalla natura,a quel modo che il compiuto differisce dall'incompiuto,
l'attuale dal virtuale e il per fezionamento dal perfettibile. La scienza, dice
Cicerone, move dai principjdi natura, e come tale ha nella stessa natura la
possibilità d'ogni suo sviluppo ulteriore; la scienza non crea l'uomo,ma ne è
un perfezionamento, non genera le notizie dirette,m a le chiarisce,le distingue,
le corregge,le riduce a principj; non disegna ella stessa l'immagine dell'umana
virtù, nè dispone l'uomo a desi derarla, m a trae in atto quelle essenziali e
ingenite dis posizioni; talchè l'opera sua è un continuo avvicinarsi al
concetto del bene,seguendo un archetipo eterno di perfezione, e somiglia
all'opera dello scultore che riceve da altri già disegnata e delineata la
statua per ridurla 124 125 poi a compimento colla virtù del
proprio scalpello. « Ut Phidias potest a primo instituere signum idque
perficere, potest ab alio inchoatum accipere et absolvere,huic similis est
sapientia : non enim ipsa genuit hominem ,sed accepit a natura inchoatum. Hanc
ergo intuens debet institutum illud quasi signum absolvere.Qualem igitur natura
homi nem inchoavit? et quod est munus,quod opus sapientiæ? quid est quod ab ea
absolvi et perfici debeat? Si nihil in quo perficiendum est præter motum
ingenii quemdam , id est,rationem,necesse est huic ultimum esse ex virtute
agere : rationis enim perfectio est virtus : si nihil nisi corpus, summa erunt
illa, valetudo, vacuitas doloris, pulcritudo,cætera.Nunc de hominis summo bono
quæ ritur. Quid ergo dubitamus in tota ejus natura quærere quid sit effectum?
Quum enim constet inter omnes,omne officium munusque sapientiæ in hominis cultu
esse occu patum , alii ne me existimes contra Stoicos solum di cere, eas
sententias adferunt, ut summum bonum in eo genere ponant,quod sitextra nostram
potestatem,tam quam de inanimo aliquo loquantur, alii contra, quasi corpus
nullum sit hominis, ita præter animum nihil cu rant, quum præsertim ipse quoque
animus non inane nescio quid sit -- neque enim id possum intelligere -- , sed
in quodam genere corporis, ut ne is quidem virtute una contentus sit,sed
appetat vacuitatem doloris.Quam ob rem utrique idem faciunt, ut si lævam partem
negli gerent, dexteram tuerentur, aut ipsius animi, ut fecit Herillus,
cognitionem amplexarentur, actionem relinque rent. Eorum enim omnium , multa
prætermittentium , dum eligant aliquid,quod sequantur,quasi curta senten
tia.Atveroillaperfectaatqueplena eorum,quiquum de hominis summo bono
quærerent,nullam in eo neque animi neque corporis partem vacuam tutela
reliquerunt.» Questa bella dimostrazione, che il Kuehner annovera tra le
dottrine interamente proprie di Tullio (Part. V , cap. 2), e che trascorre con
tanta signoria di sè stessa dalle nature inferiori alle superiori, ponendo la
legge che governa il sapere a riscontro colla legge dell'uni 126
verso, mostra quanto alto fosse pel filosofo romano il concetto della Scienza
Prima,ed è uno splendido testi monio della sua potenza speculativa e
dell'universalità dell'ingegno latino.Concepiva ilRomano lascienzacome un
ripensamento della natura, e la natura, considerata nell'ordine che la informa,
era per lui un'arcana ar monia d'attinenze ; talchè la scienza ei la immaginava
come un ripensamento delle naturali relazioni, che in tercedono tra i varj
gradi della vita nell'universo, tra le varie parti della natura fisica,
intellettiva e morale nell'uomo, e poi tra la natura e la speculazione, e tra
la speculazione e la vita civile. Filosofo vero è per lui chi ripete
veracemente,tal quale gliela diè la coscienza, quell'armonia di natura;filosofo
falso o sofista chi con fondendo o separando riesce a negarla. Quindi era
sofista l'epicureo, che meditando l'uomo solo nella parte più bassa di sua
natura, e chiudendo gli occhj davanti alla luce non estinguibile
dell'intelletto, poneva nel piacere il supremo dei beni ; era sofista Erillo
che disconoscendo la libera attività del volere, confinava la virtù nell'in
tuizione inefficace e disamorata del vero scientifico; ma non errava meno lo
stoico, che pervenuto al concetto di virtù movendo dalle naturali tendenze,a un
tratto le a b bandonava per rifugiarsi in un ideale di sapienza che alla natura
dell'uomo contraddiceva.(Cap.XIII,XIV,e glialtri sinoallafinedellibroIV;c.f.De
legibus,I,C.XVI.) Considerata sotto questo rispetto,l'idea altamente c o m
prensiva,che Tullio s'era formata della scienza morale, lo ravvicinava ai
principj delle scuole socratiche.La ra gione parmi assai chiara;poichè,posto
una volta,com'è di fatto, la scienza non essere altro che un fedele ripen
samento dell'umano soggetto, e dall'ordine dei principj intrinseci ad esso
venire l'ordine esterno costitutivo del metodo dilei;ammesso inoltre
infilosofiailrinnovamento essenziale d'ogni riforma essere,come nelle
istituzioni ci vili, un ritorno verso i naturali principj dell'animo ; da ciò
consegue che la misura per determinare la bontà del m e t o d o d ' u n a s c u
o l a , e il s u o a v a n z a r e o a l l o n t a n a r s i d a l
l'istituto riformatore,sarà ilparagone tra la pienezza della forma scienziale e
l'integrità della materia esaminata; talchè, dato un degeneramento delle scuole
successive dal principale istitutore, chi prendesse a confutarle richia mandole
ad un esame più pieno dell'umana coscienza, s'incontrerebbe per via diretta
negl'intendimenti del ri formatore. Tale è il caso da noi esaminato rispetto al
filosofo latino. Il principio della morale delle scuole so cratiche è il
conosci te stesso. Ora è noto quale fosse la pienezza e la comprensione del
significato, che il filosofo ateniese dava a quel precetto in ogni parte della
filosofia, e come il sentimento della perfezione ideale, connaturato
all'ingegno greco, e reso più vivo dalle armonie pitta goriche,traesse lui,uomo
di smisurato intelletto, a im maginare la virtù costituita da un armonico
concorso delle facoltà umane fra loro e coi termini esterni, e a conce pire il
cittadino nell'ideale dell'uomo perfetto. Tale indirizzo dell'ingegno greco nei
principj costi tutivi della morale seguitarono Platone e Aristotele; ma l'uno,
giovane della fantasia e dell'affetto,e nato in una civiltà, giovane ancora, e
che serbava nell'evento delle istituzioni civili tutte le speranze d'un
avvenire glorioso, sebbene affermasse l'effettuamento del bene assoluto non p o
t e r s i d a r e q u a g g i ù , p e r c h è il b e n e a s s o l u t o è l '
e n t e i n finito, in sè e per sè sussistente,e partecipato solo im
perfettamente dalle cose finite, pure faceva consistere la virtù in un continuo
avvicinarsi dell'uomo a quell'esem plare immortale di perfezione, e riconosceva
nei beni ter reni un'effigie lontana e appena un'analogia della beati t u d i n
e e t e r n a ( Q u o i w s i s S e w . D e r e p . e T h e a e t . ). A r i s
t o t e l e , ingegno più virile e più temperato e ritraente dai tempi, in
cui,perduto il fatto delle libere istituzioni, se ne ve niva creando con
affetto maggiore la scienza, se rinvenne il perfetto della vita nell'intuizione
del vero specula tivo, si volgeva di preferenza alla pratica, e faceva del
pensiero un semplice avviamento all'azione,della politica la parte
principalissima della sua morale. 127 Il concetto del bene , rimasto
assai indeterminato nelle dottrine del figlio di Sofronisco, si
bipartisce dunque nel l'Accademia e nel Peripato ; Platone lo congiungeva alla
psicologia e alla dialettica ; Aristotele lo ravvicinava alla politica; con
che, si avverta bene, noi vogliamo solo far notare certa speciale prevalenza
nella forma scientifica delle due scuole, non già determinare una essenziale
diver sitàneifondamentidellamorale.Chèlapienezzadell'osser vazione interiore,
tanto raccomandata da Socrate, durava lungo tempo ancora nei successori d'Aristotele
e di Pla tone, e fu tra le cause principali ond'essi, concordi con Zenone nel
sostanziale del sistema, ne combatterono il metodo e il concetto del bene
supremo come un trali gnamento dalle dottrine dei loro istitutori. Da queste
considerazioni s'inferisce più cose.Primie ramente si comprende come il
pensiero dell'oratore latino s u l l a t e o r i c a d e l b e n e m o r a l e
, c o n s i d e r a t o s o t t o il r i s p e t t o semplicemente speculativo,
sia universale, comprensivo e di un importante valore scientifico, sia un
testimonio di più del suo risalire mediante un principio più alto e più
generale,non certamente partecipato dalle scuole negative e
sofistiche,aiverisupremicostituentilascienza.Da que ste considerazioni esce
anche nuova luce sull’intendimento a c u i m i r a il l i b r o D e f i n i b u
s . Q u e s t ' o p e r a è d i u n a s i n golare importanza per la storia
della scienza morale, e, a considerarla bene, si vede che Tullio a fin di
mostrare e chiarire la perfetta dottrina sulla natura del bene su premo , si
valse del metodo più famigliare a Socrate e a Platone, metodo che potrebbe
dirsi ab absurdis, assai usato nelle dimostrazioni dei problemi di Geometria
;pose cioè più concetti particolari e negativi del bene perfetto, e su via di
contradizione in contradizione si levò elimi nando, e integrando insieme, al
concetto più universale e più comprensivo. Per talmodo egli,imitando ilSocrate
del Convito, del Fedro e della Repubblica,addestrava il giovane ingegno latino
a scoprire nel particolare e nel mutabile delle opinioni l'idea universale che
signoreggia la scienza. Conforme a tal metodo, se egli nel primo e nel secondo
libro confutava Epicuro mostrando quant 128 fosse difettivo
il suo principio che ponera il bene ed il fine nel puro sentimento animale,e se
nel terzo e nel quarto esponendo e correggendo le dottrine del Portico
richiamava i filosofi a meditarne la parte imperfetta, cioè il prevalere
soverchio del principio spirituale e sog . gettivo nel concetto del bene;nel
quinto libro intro dusse a coronamento della morale ilsistema dell'Antica
Accademia e del Peripato. Questo libro è una sintesi di tutta quanta la scienza
; vi si studia l'uomo dai primi rudimenti della vita vegetativa e animale su su
fino agli albori della vita intellettiva e morale ; vi si mostra come l'istinto
primitivo della conservazione esca in sentimento, il sentimento germini in
affetto,e quell'affetto,incerto e inconsaputo da prima, a poco a poco
coll'apprensione più viva di noi stessi e della differenza che ci distingue
dagli altrianimali,simuta inconoscimento;vis'insegna come debba la filosofia
tener conto nelle sue meditazioni di questa piega üei sentimenti animali e
spirituali, perchè le sono scala all'evidenza del vero che più tardi la ri
flessione esaminatrice coglie nei penetrali della coscienza . Invero quando io
leggo il trattato dei Fini non mi posso capacitare come vi siano stati alcuni
critici che han vo luto scoprire nel quinto e nel quarto libro, e nella con
ciliazione ivi proposta tra gli Stoici e l'Antica Accademia , non altro che un
misero tentativo dell'eclettismo latino; poichè (giova ripeterlo)mentre
investigava ilfine scientifi camente,Cicerone conciliava le scuole,ma
integrando col metodo dell'osservazione interiore; procedeva sì ravvici nandoisistemide'filosofi,ma
ilprincipiodellaloroarmo nia desumeva dall'esemplare della natura, ch'è sistema
immortale di Dio.(Vedi riassunto e citato diligentemente ilDe finibus nella
dissertazione già allegata di G. R. Thorbecke,e inquelladelKuehner,Part.V,4,5,6,7,
8,9,18,19,20. Vedi pure per ciò che risguarda ilconcetto di tutto il trattato
l'importante dissertazione di G. Carlo Hinkel :D e variis formis doctrine
moralis Peripatetico rum usque ad Ciceronem ,earumque cum cæterarum scho larum
placitis comparatione.Marburgi Cattorum, 1839). 129 9 130 Il
concetto scientifico della morale di Cicerone, quale noi l'abbiamo meditato sin
qui,comprendendo nella sua pienezza tutti i principj costitutivi di quella
dottrina, e unificando in un termine superiore,che era l'integrità del soggetto
u m a n o , le contradizioni parziali delle scuole, dà luogo a risolvere una
delle più importanti questioni mosse dagli storici sulla morale dell'oratore
latino. I m perocchè ci spiega in qual modo, concorde coll'antica Accademia e
col Peripato nei principj supremi e nel l'idea del bene e della virtù, quanto
poi alle parti a c cessorie,che avevan per fine determinare il contegno del
saggio rispetto a sè stesso,e nelle relazioni civili,egli se condasse talvolta
gli Stoici la cui severità, civilmente con siderata,glipareva un argine
saldocontrolastraboccata corruttela dei tempi. Procedendo con tal criterio, i
libri attinenti a questa parte soggettiva della morale appajono informati da un
solo ed unico disegno di scienza,e ven gono distribuiti per classi in ordine al
metodo e agli in tendimenti. Infatti dall'opera dei Fini, la quale tiene la
parte suprema dell'Etica, ch'io chiamai soggettiva, e discorre del bene e della
vita con fine immediatamente scientifico, scendono conforme a questo principio
le Q u e stioni Tusculane, e il libro dei Paradossi.Manifestano un fine
positivo o d'applicazione e un esercizio di metodo le dispute Tusculane,dove in
mezzo ai precetti stoici,esposti nella maggior parte dell'opera, traluce
l'intendimento di offrire, in tanta corruttela delle pubbliche istituzioni e
dei costumi romani,un alto esemplare del saggio,capace di volgere le menti a
studj più generosi ; e divisa la filosofia in più questioni (loca),si prende in
ciascuna a ribattere le istanze proposte col metodo della Nuova Accademia . Poi
un semplice esercizio di metodo forense rivelano i Paradossi, nei quali Tullio
poco dopo la morte di Catone Uticense prese a lodare secondo i principj stoici
le virtù dell'amico, e mostrò agli studiosi dell'eloquenza come qualunque
soggetto di filosofia, il più remoto dalle opi nioni volgari,si porgesse ad un
utile esperimento dell'in gegno oratorio. « Ego vero (così egli dice nel
Proemio) 131 illa ipsa quæ vix in gymnasiis et in otio Stoici
probant, ludens conieci in communes locos.» 3. Insino a questo punto, esponendo
fedelmente l'in dirizzo delle indagini speculative di Cicerone nella con
troversia intorno al bene supremo,noi paragonammo volta per volta le sue
opinioni coi principali sistemi contem poranei. Da quindi innanzi procederemo
con metodo di verso e più spedito, giunti a parlare di quella parte della sua
filosofia, dove egli si avvenne a minori opposizioni,e dove la sua riflessione
era soccorsa più largamente dalle idee nazionali e dai principj del Diritto
romano. mente la parte soggettiva della morale,che,come vedem il fine
dell'operare affetti e nel più intimo della coscienza mo sinqui,indaga umani ,
e col riscontro di Tullio non lieve di veri incer avvalorata indubitabili tezza
alla riflessione più che altrove cadendo l'indagine affettuosa dell'essere mai
dalla scienza, potea far velo al giudizio; separabile o perchè la discordia
senza metodo più ragione i problemi e le controversie .Ma con si governa sicuro
, e con più evidenti da sottili argomenti , offriva ai tempi esaminatrice
.Forse perchè in quella oggettiva della nella quale egli,esaminate
tendenze,el'istinto filosofale sulla umano,ilfomite delle sette vi avea
moltiplicati principj morale di Cicerone la parte , ossia quella parte le
naturali felicità, e ciò che per rispetto del della l'adempimento bene e alla
suprema universale della legge e del dovere. E proprio feconda speculazione va
dal soggetto all'oggetto dall'esame e conoscitive eterni, tanto più , come chi
senta del fine, si leva al concetto idealità anche in , che quanto più il
nostro questo è im fatto notevole ,trascende minuto delle potenze affettive
alla contemplazione per la via della scienza degli intelligibili animoso
procede della valle a una alleggerirsi vista interminata il respiro uscendo dal
basso teorica della della filosofia di pianure e di mari. La e del dovere è
dunque il fondamento legge civile di M. Tullio ; e certo a questa chiarezza dei
sommi parte più delle passioni,non E vera degli ,perquanto nella piega a noi
costituisce tempi di pensiero il sensibile,e passa 132 principj
morali da cui ella è desunta,e dove il pensiero del filosofo latino si ferma
per rinvenire le armonie più remote della scienza morale colle dottrine dello
stato e della vita politica, conviene attribuire quella pienezza di
speculazioni largamente intrecciate all'esame del mondo e dell'animo umano,onde
il libro delle Leggi riassumendo le teoriche civili,si rannoda da un lato col
dialogo dei Fini e coll’Etica soggettiva,e dall'altro cogli Officj e col libro
della Repubblica. Talchè, a voler direpienamente il pen siero del filosofo
romano, tutta la scienza morale sì del l'individuo come dell'umana famiglia, e
la filosofia civile nelle sue più remote congiunzioni colle altre dottrine,
muovono, come due maestose riviere di fiumi perenni, da quel fonte immutabile,
che è il concetto della eterna legge . Le dottrine della filosofia civile di
Cicerone furono da molti anni soggetto di lunghe e diligenti ricerche in
Germania, in Inghilterra ed in Francia, tanto che su questa più che sopra
qualunque altra parte delle sue opere forniscono le biblioteche copiosa materia
di lavori storici, critici e dottrinali agli studj dei commentatori e dei filo
sofi.La quale abbondanza di ricerche sulle dottrine posi tivedelfilosofolatinoprovennealcerto,cosìdaunatalquale
novità e armonia di disegno scientifico che egli dava ai suoi studj sulla
filosofia civile, applicandovi l'esempio di R o m a e i larghi principj della
Giurisprudenza e del d i ritto latino;come da quell'opinione invalsa
universalmente tra i dotti ch'egli avesse un ingegno più fecondo nel
l'applicare che nel trovare,più acconcio ad esporre i pre cetti della scienza
che a fondarne i principj per via di rigorose indagini speculative. M a niente
è più contrario a questa opinione quanto un severo esame del libro De legibus.
Meditando con attenzione questo dialogo,uno dei più eloquenti che mai uscissero
dalla fantasia largamente inventiva del nostro filosofo, ti accorgi tosto
essersi in gannati a partito coloro i quali sull'autorità di alcune poche
parole di lui nel cap. VI : « quoniam in populari ratione omnis nostra versatur
oratio,populariter interduin loqui necesse erit », vollero indurre
doversi annoverare questo trattato fra i libri mancanti di vera speculazione scientifica,
e volti ad un fine semplicemente pratico popolare.Ora per risolvere una
siffatta questione, non certo di poca importanza nella critica della morale di
Cicerone, e risguardante quei principj che ne collegano le varie parti in u n
disegno ordinato di scienza , io distinguo nel libro De legibus due rispetti
parimente importanti in cui può essere considerato:un rispetto istorico, o giu
ridico, e un rispetto semplicemente speculativo. E a par lare innanzi tutto del
primo, non debbo lasciare indietro come dal 490,età della prima guerra
cartaginese, al 628, anno della distruzione di Numanzia, mentre gran parte
all'oriente e all'occidente d'Europa, e l'Africa stessa venivano in potere dei
Romani, la repubblica (come dice il Forti) rapidamente si corrompesse.S'indeboliva
a poco a poco l'ordine delle famiglie, si mutava la moderazione in crudeltà e
capriccio, l'ossequio e l'ubbidienza in vile condiscendenza ai vizj con animo
rivolto a sciogliersi dai legami della famiglia, perdera forza la religione del
giu ramento ; nel VI secolo frequenti i privilegj, caduta in discredito
l'autorità sacerdotale, frequenti le prorogazioni degl'imperj; indi a grado a
grado cessava Roma dal l'avere una costituzione fissa e un prudente consiglio
che la dirigesse, e s'avviava all'anarchia popolare. Di queste condizioni
civili,che rendevano sempre più facile il vivere sciolto da ogni legge morale,
dovea risentirsi la disci plina del dritto. La quale nata da una viva
disposizione dell'ingegno latino a ricercare la suprema legge del vero nella
moralità delle azioni, e guidata dalla sublime idea del giure che G. B. Vico
riconobbe nel linguaggio dei primitivi italiani , si perfezionava tra il sesto
secolo e il settimo a causa del bisogno vivamente sentito di ridurre le
consuetudini a leggi scritte, per l'uso delle lettere greche, per lo studio
dell'antichità necessario alla notizia delle leggi,e per l'efficacia della
morale stoica.Va frat tanto la sparsa materia del diritto romano non si ordi
nava in forma di scienza ; non già che molte massime 133 134
generali delle XII tavole e dei pretori non fossero d e sunte dall'intimo della
filosofia, e che l'applicazione e lo svolgimento delle dottrine non desse
impulso efficace al l'ingegno speculativo de'Giureconsulti.Vi s'opponeva un
difetto,antico nella costituzione romana,percuicadendo in dissuetudine le
leggi, spesso occorreva di rinnovarle, l'autorità troppo larga dei legislatori,
onde, al dire di Cicerone, si studiavano piuttosto gli editti del Pretore e le
opere dei Giureconsulti, che il testo delle XII tavole, e poi il moltiplicare
delle massime e delle questioni per cui avveniva che la scienza, anzichè
ordinarsi a sistema con universalità di disegno, si veniva soltanto applicando
gradatamente ai bisogni civili. M a verso la metà del settimo secolo,quello
stesso in cui Cicerone scriveva la Topica,eaRoma
epertuttoildominiodellarepubblica s'era da un pezzo largamente propagato lo
studio della filosofia e delle lettere greche,l'ingegno romano già esperto
nell'esercizio della logica, e maturo all'abito della rifles sione interiore,
cominciò a dare forma più rigorosa di scienza alle discipline del giure. Uno di
coloro che più vi si volse, e che, per testimonianza di Cicerone,vi recò un
vero abito del raziocinio nutrito da studj profondi di filosofia, fu il
giureconsulto Servio Sulpicio,di cui si parla con molte lodi nel libro De
claris oratoribus (XLI); e dopo lui il nostro filosofo, al quale chi legga il
libro delle Leggi non può negare il merito insigne di avere meditato una
riforma del giure, desumendone l'origine,come dice egli stesso, dall'intimo
della filosofia, e tentato un codice del diritto pubblico per sopperire al
bisogno,allora viva mente sentito,di ridurre a principj universali e a dise gno
ordinato le sparse discipline del Diritto romano. (Libro I, e sey.) Ma questo
stesso proporsi una riforma del giure e meditarne l'ordinamento scienziale, chi
non vede ch'era già nella mente del nostro filosofo un naturale appa recchio
all'indagine speculativa dei principj morali ? L'oratore latino a cercare che
cosa è legge, mosse,come i giureconsulti odierni, dalla considerazione di due
rispetti nei quali la legge può meditarsi, cioè in quanto ella
esiste nel fatto come regola coattiva delle azioni, ovvero in quanto ha una
ragione d'esistere,o vogliam dire una origine razionale (Forti). Ei risguardò
di preferenza il secondo rispetto, e cercando nella sua definizione l'ottimo
ideale, « si rifece da un gius naturale anteriore alle leggi, variabili secondo
il volere dei legislatori,norma razionale al paragone della quale si potesse
distinguere la legge buona dalla cattiva, che in sostanza è una violazione del
giusto sostenuta dalle forze della società. Questo termine di confronto delle
leggi civili lo ravvisava nella legge di natura,ossia nella somma ragione
dell'economia che gli dèi, signori dell'universo, avean posta nel governo delle
coseumane.Da questofontederivavalagiustiziaassoluta ed eterna, che definisce il
bene ed il male indipendente mente dagli stabilimenti sociali e dalle opinioni
degli u o mini.Idea di assoluta giustizia,che,come Cicerone avverte
egregiamente, non può star separata dalla credenza reli giosa in un supremo
legislatore cui sia a cuore il bene e l'avanzamento dell'umanità. I comandi e
le proibizioni di questa legge suprema sono noti agli uomini, secondo
Cicerone,per natural lume di ragione, solchè essi vogliano esaminare se stessi
e consultare la coscienza. Laonde è da considerare sapientissimo il detto
dell'antico savio, c h e p o n e v a a f o n d a m e n t o d i s a p i e n z a
il c o n o s c e r s è s t e s s o . Conoscendo sè stesso, l'uomo vede di
essere naturalmente socievole,e va persuaso che la società è uno stato neces
sario al genere umano.Vede eziandio che gli uomini tutti fanno una sola
famiglia, che ha un padre e regolatore comune,che tutti ama ugualmente e
gliobbliga a vicen devoli uffizj. » Francesco Forti, nome caro alle lettere e
alla giurisprudenza toscana,così riassumeva nel I libro delle sue Istituzioni
civili le dottrine del dialogo sulle Leggi ; ed io lo citai augurando che per
suo esempio il trattato insigne del filosofo latino porgesse materia di larghe
e fruttifere meditazioni agli studiosi del Diritto. Tra le cause adunque che
dettarono a Cicerone il dialogo delle Leggi, sono in primo luogo da annoverarsi
135 136 l'incertezza del vero senso del giure per la moltiplicità
delle massime,deglieditti,delle leggi,degl'interpretanti, onde spesso si
perdeva il significato filosofico e morale nella aridità delle formule, ed era
opera di scienza vera e fruttuosa il ricondurvi le umane menti ;poi una ragione
politica che voleva richiamate ai principj morali le libere istituzioni;ed
infine un contrasto alle scuole greche, e specialmente alla Nuova Accademia,la
cui dottrina po teva riuscir fatale all'Etica e alla Giurisprudenza, fon data
com'era,non già sull'osservazione interiore o sopra un vero criterio
scientifico, m a sui deboli artifizj della dialettica e del sofisma (Lib. I, c.
IV, e XIII). Ora si consideri bene come ilnotare diligentemente questo con trasto
del filosofo latino colle scuole negative degli asso luti principj morali,ci
mena a poco a poco a scoprire la parte altamente speculativa delle sue indagini
intorno alle leggi,la quale dobbiam confessare avere sin qui assai poco
considerata i critici e i commentatori. Eppure ogni età della storia (e lo
notammo più innanzi) ci porge ampie e innegabili testimonianze di questo
tornare della riflessione all'esame della legge morale e della genesi dei sommi
principj che ne derivano, e si manifestano all'intelletto fecondi
d'innumerevoli attinenze con qua lunque parte dello scibile umano,ogni volta
che le dot trine dei sofisti pullulate dalla profonda corruzione civile e
dall'intepidire del senso morale , ponevano il bene ed il giusto
nell'attraimento degli istinti animali, e nel l'esca dell'interesse. In quei
tempi di grandi sventure private e pubbliche, massima delle quali è per certo
il dilungarsi degli ordini civili dalla notizia dei sommi prin
cipj,gl'intelletti più alti,nutriti nella meditazione e negli studj
dell'antichità, mossero la riforma morale da quella relazione chiarissima e
primitiva che intercede tra l'in telletto e l'assoluto, e si manifesta
nell'energia dell'im perativo morale.Questo intendimento di opporsi allo scet
ticismo coll'esame della realità oggettiva del supremo concetto di legge,è
manifesto nelle teoriche del Vico,è m a nifestissimo in quelle degli Scozzesi,e
dettò le pagine più 137 eloquenti di quel famoso libro che
s'intitola dalla Ragione pratica,sebbene l'affermare,come essofa,chelamia ra
gione è un che d'imperativo, che la mia volontà vi si sente soggetta, e che
quindi m'accorgo che quell'impero è universale e viene da Dio
legislatore,creatore e prov vidente, sia pronunciato assolutamente contrario al
si stema della scuola critica e alle dottrine del filosofo di Conisberga. M a
poichè in questo luogo facemmo espressa menzione del libro della Ragione
pratica,vogliamo invitare inostri lettori a seguirci in un paragone per certo
singolare e inaspettato delle dottrine di due differentissimi ingegni. Il
filosofo di Conisberga, abbeverato alle dottrine del C a r tesio, e seguace,
benchè inconsapevole, dello scetticismo d i D a v i d H u m e , il K a n t c h
e n a c q u e il 1 7 2 4 , e v i d e n e l l a seconda metà del secolo XVIII i
primi baleni di quella filosofia, onde più tardi sfolgorava la rivoluzione fran
cese, ammise a fondamento del suo sistema l'assoluta impossibilità di
trapassare dal soggetto all'oggetto, rap presentando il pensiero racchiuso in
sè stesso e pensante le cose con proprie forme o categorie. La qual dottrina,
oltre al contraddire, come fa, alla natura del pensiero e all'evidenza
immediata della percezione,e porre il filo sofo nell'assoluta impossibilità di
edificare la scienza nel tempo stesso ch'egli sipropone ilproblema,se lascienza
è possibile, distrugge ogni certezza morale, e vieta alla mente di aggiungere
mai colla riflessione scientifica l'ori gine vera della legislazione assoluta.
« Pel Kant (osserva giustamente il Mamiani) l'anima è onninamente legisla trice
di sè medesima e crea l'assoluto dovere,crea,dico, non meno di un assoluto; e
quella forza invincibile di approvare o di biasimare è pur fattura dell'anima,
onde ella identicamente e simultaneamente è comando e obbe dienza, è autorità
ed obbligazione, è diritto e dovere, è attiva e passiva, è finita e infinita
(perchè ogni assoluto vero è infinito), e rimordesi talvolta amarissimamente
delle azioni contrarie all'imperativo di cui ella stessa è autrice spontanea
..... Cotal dovere e cotale legislazione as soluta che emerge
tutta ed unicamente dall'umano sub bietto,appare nel Kant (se è lecito
dirlo)più contradit toria assai che negli Stoici antichi e nei moderni
panteisti germanici.Imperocchè appo entrambe le scuole la volontà e libertà
umana si sustanzia in ultimo con la divina e assoluta. Quindi nelle loro
dottrine morali ricomparisce la contradizione perpetua d'identificare azione e
passione, finito e infinito e così proseguì;ma non vi si dee ravvi sare cotesta
forma particolare di ripugnanza tanto più deplorevole quanto la scienza morale
à un carattere sacro e interessa il genere umano e la vita civile più che altra
disciplina quale che sia. » (Confessioni, V. I, Lib. II, pag.294,95.) Tale è
pertanto la differenza notevole che corre tra le contradizioni morali del Kant
e quelle del nostro filo sofo. Già vedemmo parlando delle dottrine sulla natura
come da parecchj luoghi dei suoi trattati apparisca assai chiaro ch'egli,
seguace del semipanteismo platonico e stoico,faceva consustanziali l'intelletto
umano eildivino; la qual dottrina applicata nel dialogo delle Leggi avrebbe
dovuto condurlo per legittima illazione a identificare la natura infinita del
precetto morale colla ragione finita dell'uomo.Ora una volta ammessa questa
dottrina,come mai poteva dedurne il filosofo l'azione trascendente e as soluta
dell'imperativo morale sull'anima nostra? Come concluderne che la ragione
perfetta, in quanto risplende dell'assoluto concetto del bene, s'impone alla
mente e prende natura di legge? E d'altra parte è chiaro a chi sia
mediocremente versato nella storia della nostra scienza c h e l ' o r a t o r e
r o m a n o , il q u a l e r i f i u t a n e l l i b r o D e f i n i b u s la
parte soggettiva della morale del Portico,come il su perbo concetto del
perfezionamento umano ,l'indifferenza ai beni esteriori e l'eguaglianza delle
imputazioni, qui nel dialogo delle Leggi ne accettò pienamente la parte
oggettiva, vo'dire l'idea della legge eterna e i concetti dell'obbligazione e
della città universale. Tale repu gnanza del semipanteismo platonico e stoico
accoltoda Cicerone coll’autonomia dell'umano arbitrio, e coll'effi
138 Veramente non è ben chiaro se Cicerone si facesse mai tal
domanda; ma , a dirla breve e come io la penso, il sentimento più naturale e
spontaneo ch'io ritrassi dalla prima lettera del libro D e legibus, fu una
ferma opinione che il filosofo latino movendo dalla indagine sul concetto di
legge,soccorso dalle tradizioni del diritto romano, d o vesse riuscire a
rappresentarsi quell'azione trascendente della legge morale sull'animo nostro
siccome derivata dall'intima natura di un assoluto,distinto dalla ragione
dell'uomo e a lei superiore. Argomento valevole assai per confermarmi in tale
giudizio,è l'altezza a cui poggia l'indagine speculativa di Tullio,che
allontanatosi dal l'esame particolare e sottile delle scuole antecedenti e
contemporanee, e dalla parte soggettiva della stessa d o t trina
stoica,riordinava la scienza tutta al lume dei sommi principj,più tardi usciti
a fondamento della sapienza cristiana. 139 cacia trascendente di quella
virtù onde si genera in noi l'obbligazione morale, involge un importante
quesito di storia della filosofia. Nel quale si domanda, se il filosofo latino
propose giammai nettamente innanzi all'esame della sua riflessione questa
controversia da cui dipende il principio costitutivo dell'obbligazione e del
bene m o rale; e se chiese a sè stesso come potessero mai conci liarsi
l'identità di natura tra l'intelletto divino e l'intel letto dell'uomo con quel
sentimento di soggezione assoluta che in noi s'accompagna all'impero della
legge morale. Un'altra prova di non lieve importanza è altresì la dif ferenza
notevole che corre tra i libri fisici e morali del filo sofonostro.In
quellieglidubitailpiùdellevolte,e,meno che nei principj fondamentali,segue
irresoluto leforme della Nuova Accademia;neilibrimorali partuttoun altr'uomo, e
le sue conclusioni rivelano sempre una maravigliosa armonia del sentimento
colla riflessione speculativa. A l tresì non v'è dubbio alcuno che i concetti correlativi
di Dio e dell'anima umana e del libero arbitrio,assai inde terminati nel De
natura deorum,nelle Tuscolane, nel Sogno di Scipione e negli Accademici
primi,qui nel libro 140 delle Leggi profilano più nettamente le
loro fattezze,e ne discende ordinata e architettata nelle sue verità uni
versali tutta quanta la scienza.Il concetto di Dio sopra ogni altro giunge in
questo libro ad un'altezza scono sciuta alla maggior parte dei filosofi
antichi.Egli è rap presentato al lume delle tradizioni romane come inente
eterna ed eccelsa che tuttoprovvede,che a tutto impera,e veste idue caratteri
dell'arbitrio e dellam o ralità, che, al dir del Gioberti, ne costituiscono le
origi nalifattezze.L'indaginetullianadellaleggesuprema pa lesa poi,per mio
avviso,un vigore non ordinario d'ingegno speculativo.Posta a capo di tutto
ilragionamento lano zione di legge universale come un riscontro delle leggi
particolari e una misura intelligibile a cui ricorrendo si potesse apprezzare
l'essenza delle cose giuste od ingiuste, tal nozione presentava in sè due
rispetti intimi ambedue eambeduenecessarj.Lapoteviconsiderarecome idealità
suprema,come infinitagiustiziaonde ilgiusto sipartecipa, benchè
imperfettamente, alle cose finite, e come primo assoluto ed universale, che
volgendo le menti alla comune dispensazione del bene porgesse quasi l'unità
morale del l'umana famiglia. Considerata nel primo rispetto, la n o zione di
legge si offriva alla mente del filosofo latino come idealità suprema e
assoluta,e come un intelligibile primo che rappresentando ilperfetto
nell'ordine della ra gione le si imponeva come regola dell'operare.Egli dunque
concepiva quella nozione come un vivo riverbero dell'as soluto, e poichè
l'assoluto è divino, e la sua idea si palesa partecipata come luce dall'alto
nella perfetta ragione dell'uomo, unico di tutti gli animali che abbia innata
nell'animo la notizia di Dio, quell'idea gli parve una partecipazione segreta
ed arcana dell'assoluto nell'umano intelletto. Udiamo le sue parole: « Est
quidem vera lex recta ratio,naturæ congruens,diffusa in omnes,constans,
sempiterna, quæ vocet ad officium jubendo, vetando a fraude deterreat, quæ
tamen neque probos frustra jubet aut vetat nec improbos jubendo aut vetando
movet.Huic legi nec abrogari fas est neque derogare ex hac aliquid
una licet neque tota abrogari potest,nec vero aut per senatum aut
per populum solvihaclegepossumus,neque estquæ rendus explanator aut interpres
ejus alius,nec erit alia lex Romæ , alia Athenis, alia nunc, alia posthac, sed
et omnes gentes et omni tempore una lex et sempiterna et immutabilis continebit
unusque erit communis quasi m a gisteretimperatoromnium
deus:illelegishujusinventor, disceptator, lator, cui qui non parebit, ipse se
fugiet ac naturam hominis aspernatus hoc ipso luet maximas p æ nas,etiam si
cætera supplicia, quæ putantur, effugerit.» (Cic.,lib.III,De
Repub.,XXII,33,riportatoda Lattanzio
Instit.div.,1.VI,cap.8.)Stupendadefinizioneèquestadel principio regolatore
degli atti umani,e tale da mostrare una volta per sempre che qualcosa più di
una semplice continuazione delle scuole greche s'acchiudeva nei prin cipj
dell'Etica romana . Vi s'acchiudeva la speranza e la promessa immortale del
Cristianesimo! Considerato al lume di questi principj, il dialogo delle Leggi
ci si offre come una sintesi vasta di tutta la scienza. Una volta posto con
tanta chiarezza ilconcetto di legge nella cima dell'umana ragione,e l'umana
ragione stretta da un legame arcano d'attinenza coll'assoluto, se ne chiariva
alla mente del nostro filosofo la nozione di Dio e quella dell'uomo e
dell'universo, e il fondamento primo dei doveri civili. La causa di tutto ciò
era per fermo nel l'intima natura del metodo di lui,ilquale movendo dalla
coscienza morale e dal vivo sentimento dell'obbligazione, coglieva nel suo stesso
principio la più ampia e la più feconda di tutte le armonie scientifiche ;
siccome quella in cui soggetto e oggetto si trovano unificati in un ter mine
superiore e trascendente,onde poi si diparte,come da unico centro, l'ordine
universale delle idee e quello dei fatti.La qual cosa non accade per certo
nella ragione informatrice del sistema di Emanuele Kant, e degli altri critici
e razionalisti moderni. In tali sistemi il pensiero (per valerci delle loro
stesse parole) non esce mai da se stesso,non coglie la realità viva e concreta
che è pre sente all'intuito, nè anche, dico, in questa parte della 141
- filosofia de'costumi, dove la mente afferma ogni volta per
ingenita necessità di natura l'indipendenza del pre cetto morale assoluto dall'atto
informatore del nostro spirito. Non ha dunque la filosofia soggettiva un punto
stabile e fermo in cui getti le prime fondamenta dell’edi
fiziomorale,eillegameintimodeipensierichene con nette le parti, non avendo
corrispondenza nella realità obbiettiva dei sommi principj,dee riuscire per
necessità fenomenico, relativo e contingente. Eppure, come ben nota il
Gioberti,vano è il voler riformare la dottrina del Buono senza risalire ai
principj, che è quanto dire, senza considerarla come una scienza
seconda,fondata sui canoni della scienza prima. (Del Buono,cap.III.) Questa
nobile impresa, degna di un condiscepolo dei Giureconsulti romani, fu tentata
dall'Autore del dialogo delle Leggi. L'esame della sua dottrina,solo che
illettore se lo riduca per poco al pensiero, ci ha mostrato assai largamente
che il metodo Socratico dell'osservazione in teriore lo condusse nei libri
fisici e logici ad accettare il conoscimento come un dato legittimo della
scienza,e nella disputa contro gli Stoici intorno al fine quel metodo istesso lo
avvertiva doversi trovare la ragione constitutrice del bene per rispetto
all'uomo nell'indagine piena dell'umano soggetto. Da questa cognizione
dell'animo si levava il Romano per l'evidenza dei comandi morali alla notizia
più perfetta di Dio,e lo concepiva come mente e ragione infinita in cui posa
l'idea della legge eterna, di questa legge obbiettiva,immutabile,
necessaria,anteriore a tutte le leggi civili, più antica d'ogni città e d'ogni
gente, e coevaa quel Dio che governa laterraedilcielo.Da Dio è disceso l'uomo;
egli uscito nel mondo ultimo degli ani mali, allorchè la natura fu disposta ad
accoglierlo,benchè mortale nelle altre parti dell'esser suo,nell'animo è ge
nerato da Dio.Egli solo quindi tra tutti gli animali ha notizia del Creatore,
solo è capace di virtù, e può valersi in suo servigio dei frutti della terra, e
inventò per a m maestramento della natura innumerevoli arti che imitate poi
dalla ragione gli procacciarono le cose necessarie alla 142
vita. L'uomo dunque è primitivamente simile a Dio ;simi litudine che può
vedersi dal fine a che la natura stessa lo destinava, e dai mezzi che gli diede
a conseguire quel fine; conciossiachè prima ordinò la intera costituzione del
mondo in suo beneficio, e all'uomo stesso diede conosci mento veloce, e del
conoscimento ministri e satelliti i sensi,e gl'impresse nell'intelletto certe
oscure nozioni di cose innumerevoli che furono in qualche modo fonda mento
allascienza:Diede anche all'uomo forma dimembra acconce a significarne la
natura intellettuale;poichè,mentre gli altri animali fece inchini alla terra
per l'uso del pasto, il solo uomo rivolse al cielo quasi alla contemplazione
del l'antica sua patria, e ne atteggiò il volto per modo che vi si leggesse
profondamente scolpita l'effigie dell'animo. 143 Sarebbe lungo il seguire
M. Tullio in questa larga deduzione dei veri morali e psicologici ch'egli
trasse dal concetto di legge. Basti per noi l'osservare che son belle e vere
dottrine, più tardi ripetute dai Padri e dai Dottori e dalle recenti scuole
italiane,l'autorità assoluta dell'im perativo morale,la sua attinenza con Dio
provvidente, l'idea dell'imputazione e dell'atto umano, e finalmente quella
grande città in cui l'ordine mondano e sopram mondano si congiungono insieme
nella universale comu nione degli spiriti eterni. (De leg., lib. I.) Esaminata
la legge nel suo primo rispetto,vale a dire in quanto essa è
obbiettiva,necessaria,immutabile, eterna, il filosofo latino passa a
considerarla come un principio universale, che si dispiega al di fuori di sè stesso
in un ordine di relazioni,ed è norma comune dell'operare agli umani intelletti.
E qui egli veniva cercando la comunità del concetto di legge nella somiglianza
di natura intel lettuale, onde avviene che a significare tutta quanta la umana
specie vale una sola definizione,e principio del consorzio civile è la comune e
vicendevole partecipazione del giure. « Non est enim (egli diceva) singulare
nec solivagum genus humanum .» Quindi esce altresì nel primo della Repubblica
la bella definizione della città, fonda mento alle sue dottrine politiche: «
est igitur respublica 144 Il cardine della morale di Cicerone posa
dunque m a n i festamente in questa dottrina delle Leggi, il cui merito insigne
si è di avere volto le sparse discipline del diritto romano contemporaneo ad un
ordinamento più razionale, e fondata la metafisica e la filosofia civile sopra
principj assoluti di scienza. Questo intendimento del nostro ora tore è tanto
più manifesto,in quanto che egli,dopo spie gata per ordine la dottrina della
legge suprema, assume nel primo libro la questione più tardi agitata nel De
finibus, e contro le dottrine di coloro che il buono misu ravano dall'utile, si
distende a provare la virtù sola d e siderabile per sè stessa, e l'efficacia
del buono venire dalla natura anzichè dalle mutabili opinioni. (XVII, X V I I I
, X I X .) L a q u a l c o s a , m e n t r e è u n a p r o v a d i p i ù per
mostrare come l’oratore-filosofo dai punti capitalis simi della morale,
scendesse con unità di concetto alle più remote applicazioni, prende in fallo
quei critici che supposero di fresco avere Cicerone abbandonato improv
visamente la dottrina dell'Antica Accademia sulla legge naturale per accettare
il metodo peripatetico nel suo più recente trattato dei Beni. M a innanzi tutto
noi d o m a n diamo a quei critici come mai,se Tullio si ribellò più tardi alla
ragione informatrice delle dottrine platoniche, qui nel libro delle Leggi
espone con fronte sicura la stessa teorica trattata nei Fini ? In secondo
luogo, fra le due opere v'è certo diversità nella ragione del metodo esterno
(procedendosi deduttivamente nel libro delle Leggi, e induttivamente nel libro
dei Fini), ma la diversità non involge alcuna contradizione; poichè nel
trattato dei Beni, quando esaminava quella controversia da parte
dell'umano res populi; populus autem non omnis hominum quoquo modo
congregatus, sed cætus multitudinis juris consensu et utilitatis communione
sociatus,» dove egli af ferma ilnesso primitivo tra il diritto naturale e
ildiritto delle genti, e contro Platone che attribuiva l'origine del consorzio
umano alla debolezza degl'individui,riconosce invece quell'origine nella
comunità di una legge assoluta e soprammondana. cætus 1 ! soggetto,
affermò nella vita presente non pervenire l'uomo al compiuto adempimento del
fine se non svolgendo e perfezionando ogni parte integrale di sua
natura,laddove qui nelle Leggi salito ad un concetto più universale, m e ditò
oggettivamente l'idea del buono e dell'obbligazione, riconoscendovi un'assoluta
efficacia indipendente dall'atto dello spirito umano.Così da questi due
larghissimi aspetti in cui può essere meditata la materia della scienza m o
rale, e dove all'intelletto del filosofo appajono congiunti l'assoluto e il
relativo, il contingente e il necessario, l'anima e Dio,deriva secondo la mente
di Cicerone, il vero e più ampio concetto della dottrina sul buono. 4. La
diligente esposizione impresa da noi degli scritti del filosofo latino ci ha
condotti,come avranno osservato i lettori, a trattenerci alquanto intorno alla
parte specu lativa delle sue dottrine morali, e segnatamente intorno ai due
trattati De finibus e De legibus. La qual cosa abbiamo fatta coll'intendimento
di porre innanzi agli occhi degli studiosi i principj fondamentali e il disegno
scien tifico dell'Etica latina,esposta da Cicerone,sembrandoci che questo esame
fosse stato assai leggermente condotto sin qui dai critici precedenti, i quali
o tenerano Cicerone in luogo di un eclettico e di un moralista positivo e spe
rimentale, o non facendo professione di filosofi, conside ravano nei suoi
trattati meglio la parte istorica e lette raria che l'intimo nesso e il metodo
speculativo delle dottrine.Eppure convien confessarlo) questa critica preoc
cupata e parziale è sommamente contraria alla giusta estimazione dei libri
speculativi di Tullio.Per essa avviene che i principj e la unità delle sue
dottrine morali ci ri mane ignota per sempre ; ci sfuggono le più alte indu
zioni che il grande oratore e i Giureconsulti adoperarono intorno ai
pronunciati del senso comune,e riesce un fatto senza ragione alcuna quell'ampia
utilità applicativa del l'Etica romana,da tutti riconosciuta,se il filosofo
morale non ne rintraccia i principj nelle speculazioni più remote intorno al
vero ed al buono. 145 10 Premesse queste osservazioni, veniamo ora alla
parte positiva dell’Etica tulliana, nella quale ci terremo più
brevi secondo è richiesto dalla natura principalmente fi losofica di questo
scritto. L'indagine che si contiene nel primo libro delle Leggi, porge
naturalmente il passaggio dai supremi principj speculativi alle dottrine
pratiche della morale, pel con cetto d'obbligazione e di vicendevole comunanza
del giure, onde il libero arbitrio sperimentando in sè l'efficacia trascendente
del precetto morale, e riconoscendovi un impero incondizionato che si dilata
nell'universalità del l'umana famiglia, si sente stretto all'osservanza degli
officj religiosi, individuali e civili. Officio dunque (così lo domandavano le
scuole socratiche) è illibero conformarsi della virtù all'impero della legge
morale. E importa assai determinare il significato scientifico della parola,
perchè si capisca come la teorica dell'officio che ha tanta parte nel sistema
del Portico,mentre discende immediatamente da quella del dovere (considerato
nella sua genesi razio nale),ha poi certi suoi peculiari rapporti che la connet
tono colla parte più positiva della scienza morale. Due specie d'officio
distinguevano gli Stoici.L'officio retto o perfetto (29Tóptospa, zadrzov
téheLov) che cade uni camente nel saggio,o in colui che abbia ottenuto l'ultimo
grado del perfezionamento morale ;e l'officio comune,o m e dio (2997zov
uésov),che era un ordinario conformarsi della virtù agli obblighi della vita
privata e civile,o,come direbbesi oggi popolarmente,un fare da persona dab
bene. Ora insorse controversia tra i critici, se Cicerone nel suo trattato, da
tanti anni notissimo nelle scuole, de finisse scientificamente
l'officio.IlManuzio eilFacciolati difesero Cicerone ; il Lilie con altri più
antichi, citati dal Kuehner, giudicò veramente omessa quella definizione;
mentre il Binkes,il Kuehner e ilGrysar avvisavano avere Cicerone definito
soltanto l'officio medio, di cui prese a trattare espressamente nel suo
libro,in quelle parole del capitoloIII,1.I:«medium officiumidesse,quodcur
factum sit ratio probabilis reddi possit. » (Vedi Lilie, Comment.de
Stoic.doctrin.mor.ad Cic.libr.De off.,1, 146 147
p.30;Kuehner,p.237;Fran.Binkes,Responsio ad quæst. juridicam etc., Franeq.,
1818, pag. 11; Prolegomena ad Cic.libr.De Off.scripsit,C.I.Grysar,Köln,1844,
pag.33.) Questa opinione dei commentatori tedeschi tanto più è conforme alla
natura del libro D e officiis e al metodo espositivo che quivi si propose
l'autore, in quanto che egli stesso ci dice nel capitolo III: due questioni
potersi fare intorno all'officio; l'una che si riferisce al fine dei
beni,l'altra che cade nei precetti ai quali in ogni parte si può conformare
l'uso della vita ; parole meritevoli di speciale considerazione, conciossiachè
mentre spiegano quell'intimo nesso scientifico che annoda le dottrine p o
sitive colla teorica del bene morale, stabiliscono poi il vero oggetto del
presente trattato,il quale non è altro, come giustamente osserva un critico
moderno, che la determinazione dei nostri doveri particolari. Coloro d u n que
che dal libro degli Officj prendevano argomento a ravvisare nel filosofo latino
un mediocre valore scientifico, perchè egli trattando dell'officio non si
solleva ai supremi principj della morale, non osservarono quale attinenza corra
tra i libri speculativi e pratici della sua morale, onde egli investigato prima
che cosa è il bene nell'umano soggetto (D e finibus), si leva alla nozione
oggettiva di legge (D e legibus), e scende per ultimo alle applicazioni più
remote dell'Etica nella vita privata e civile. (De of ficiis,De republica,De
amicitia,De senectute.) Migliore giudizio invece recarono quei critici, segna
tamente francesi, i quali considerando di preferenza questo speciale rispetto
tutto positivo e civile, in cui possono meditarsi gli Officj, quindi desumevano
i pregj e i difetti del libro. Infatti il trattato degli Officj non è un'opera
semplicemente speculativa,o un'opera di psicologia. Ivi si richiamano, è
vero,le altre parti delle dottrine m o rali, vi si accenna la distinzione
stoica tra l'officio per fetto e l'officio comune,e il pensiero dello scrittore
si leva talvolta a indagare la qualità morale degli atti nel l'intima natura
dell'uomo,ma l'intendimento primo a La gentilezza degli Attici
educata nell'ordine m a t e riale della civiltà da fina eleganza di costumi , e
dallo spettacolo d'una natura ridente, li traeva ad una viva e, quasi
direi,religiosa ammirazione del bello,onde il pen siero dalla convenienza e
armonia delle parti reali che genera il perfetto nei corpi,passava all'invisibile
bellezza degli animi. M a in R o m a dove ogni istituzione fu vôlta sin da
principio a rafforzare i legami che vincolavano il cittadino allo stato, e il
rispetto delle relazioni civili superava a gran pezza gl'interessi domestici e
il culto delle arti, regnava dominatrice siffatta la pubblica opi nione che in
lei risedeva il solo e inappellabile arbitrio di giudicare le azioni. E per
fermo i Greci considerando nella virtù la corrispondenza ideale che corre tra
l'ar monia interiore dell'animo nostro e le forme più elette della natura
sensibile,la nominarono bellezza, pei Romani la virtù sono quasi convenienza
delle azioni colle leggi sociali. Laonde Cicerone che qui negli Officj la
conside 148 cui mira quel libro, è un intendimento civile, e Tullio che
lo compose dopo la morte di Cesare, quando to *nava per l'ultima volta nel fôro
in difesa delle libere istituzioni, volle lasciare a suo figlio in luogo di
testa mento il codice più compiuto della morale politica. A questo proposito
nel libro degli Officj merita spe ciale considerazione una dottrina che pel
modo in cui fu trattata da Tullio palesa un rispetto istorico,e un'atti nenza
immediata colle istituzioni e coi costumi di R o m a . Tale è la dottrina del
decoro (Tpétrov), esposta nel capi tolo XXVII del libro primo. Cicerone,osserva
acutamente il Ritter, traduceva nei Paradossi la sentenza degli Stoici :
crcpovovaysoró 2.016;ilsolobuonoèbello,collepa role: quod honestum sit,id solum
bonum esse;onorabile è solamente ciò che è buono. Ora questo diverso concetto
che i Greci e i Latini s'erano fatto della virtù, e che più volte ritorna nel
De officiis, come in quel libro in cui Cicerone conformò forse maggiormente le
sue dottrine morali al pensare e al sentire romano , si spiega assai facilmente
ricorrendo alla Storia. rava in un rispetto quasi esclusivamente
civile, l'accom pagnava al decoro, o vogliam dire a quella luce esterna di
onoratezza , onde la stessa virtù si porgeva all'ammi razione della pubblica
coscienza. Considerato per questo rispetto, il libro D e officiis, mentre si
attiene alle altre opere speculative, presenta nelle sue parti più sostanziale
un vero ordinamento di scienza. Il filosofo latino seguì liberamente Panezio, e
perchè autore di un ottimo libro intorno agli Officj, adesso perduto, e perchè
assai temperato nelle dottrine dello stoicismo,come portava l'età.Da
Panezio,eforseda Pos sidonio, continuatore di lui, trasse in gran parte le dot
trine intorno all'onesto ed all'utile, che offrono soggetto ai due primi libri,
e v’aggiunse del proprio la materia del terzo, ovvero il combattimento
dell’utile coll'onesto, omessa dallo scrittore greco. La parte più bella e più
filosofica di tutto il trat tato, e dove splende più pura la nobiltà dell'animo
di Cicerone, è quella dov'egli toccando le relazioni della politica colla
morale, biasima altamente quei fatti, nei quali l'interesse dell'utile pubblico
avanzò le norme della giustizia e della onestà, e propone al figlio i più sui
blimi esempj dell'antica virtù ne'quali l'animo ritem prando possa uscire
incontaminato dalle scelleratezze dei tempi. E i tempi dovevano esser tristi
davvero, se con sideriamo parecchj esempjd'ingiustizia contemporanea che Tullio
ricorda al suo Marco, e ch'egli sebbene commessi da uomini potentissimi nella
repubblica e amici suoi, ge nerosamente condanna.Nè dee far maraviglia che
fosse cosìa chiconsidericomeildisgiungersidellamoraledalla scienza di stato è
uno dei maggiori indizj della corru zione civile, e che tutto allora in R o m a
precipitava a ro vina, religione, costumi, esercito , cittadinanza, popolo,
senato, magistrati, privati ; e in quel rovescio d'ogni cosa e divina poneva i
fondamenti sanguinosi la ti rannide degli imperatori. Nel terzo libro, discorse
le attinenze della politica colla morale, passa il filosofo latino alle
attinenze della 149 umana morale colle altre scienze sociali,
la Giurisprudenza e l'Economia. In queste pagine di Tullio, a sempre più
smentire l'opinione di quelli che non trovano nei giure consulti romani le
tracce d'una profonda speculazione,si vede chiaramente come la giurisprudenza
latina, benchè costituisse da sè stessa un vero e proprio corpo di scienza con
norme immutabili e fisse, con ordine scienziale di dottrine, desumeva
da'principj della filosofia i suoi fon damenti ; il che mostra Cicerone citando
parecchie que stioni esaminate dagli antichi giureconsulti, e definite con
formule certe che più tardi assunsero la forza di legge.La qual cosa apparisce
vie più manifesta quando ne' seguenti capitoli Tullio, dopo definite alcune questioni
di morale, appellandosene al testimonio della coscienza e della retta
ragione,quasi a riprova di quei principj ne cerca il riscontro nella più antica
e venerata delle legislazioni romane, nella legge delle XII Tavole. Questo
ricorrere ai più vetusti testimonj, oltrechè era proprio al metodo di
Cicerone,che cercava nell'antichità più presso all'origine divina,le verità
naturali più schiet te,e le prime tradizioni,ha qui un'importanza d'oppor
tunità, perchè egli di fronte alla corruzione della morale civile voleva
additare lo scadimento della repubblica. Lo che è chiaro in tutto il libro;
chiarissimo poi dove avendo citato gli esempj di Fabbrizio e di Cammillo e
dell'antico senato romano,soggiunge l'infamia di L. Silla che coll'autorità del
senato raggravava i dazj antichi so pra alcuni popoli che se n'erano sciolti
pagando, nè r e s t i t u i v a il d a n a r o ; e p r o r o m p e c o n m o b
i l e s d e g n o : p i r a tarum enim melior fides quam senatus ! Il De
officiis accolto nelle scuole d'Europa sino dal primo risorgimento delle
lettere antiche, e stampato per la prima volta a Magonza il 1465, levò di sè
tanta fama da affaticare per ogni tempo l'acume degli eru diti e dei
commentatori. Un esame critico di questo trattato, che Paolo Janet chiama « il
più belmonumento filosofico della letteratura latina, » fu recentemente pro
posto dall'Accademia delle scienze morali e politiche 150 151
di Francia,e ne usciva nel 1865 il libro del signor Arthur Desjardins col
titolo : Les devoirs, essai sur la morale de Cicéron . In quest'opera ricca
d'ingegno, di filosofia e di larga dottrina in ogni parte della giuris prudenza
e delle lettere antiche,l'autore con utile esem pio, che vorremmo rinnovato in
Italia, prende a esami nare largamente il libro D e officiis, ne mostra le
varie attinenze coi principj supremi della morale tulliana, e lo confronta coi
migliori filosofi antichi, e coi giurecon sulti moderni. È un lavoro di critica
larga e profonda, in cui la gravità del soggetto è abbellita dallo stile ele gantemente
sereno. E accresce lode al critico francese la schietta imparzialità dei
giudizj, onde egli intento solo a conoscere la verità, difese da ingiuste
accuse la fama del grande oratore, ne osservò opportunamente le omissioni o la
brevità soverchia per quel che risguarda i doveri verso Dio,la famiglia e noi
stessi, e rappresentò il De officiis come un codice compiuto di Etica civile,
in cui si ragiona dei doveri del cittadino verso lo Stato,e il concetto della
umana famiglia e della carità universale perviene a tale altezza da annunciarci
vicino il grande rinnovamento dell'Evangelo. 5. Dai principj della
filosofia civile e dai precetti par ticolari intorno ai costumi si varca alla
teorica dello Stato . Questafuesposta da Ciceronenel De republica,giudicato
universalmente dai critici come una delle opere le più ori ginali del nostro
autore.Gran parte ne andò sventu ratamente perduta,ma le reliquie del primo e
del se condo libro fanno assai splendida testimonianza che l'ora tore latino vi
avea diffuse largamente le memorie della antichità
greca,legrazieseveredell'eloquenza,eigrandi insegnamenti della vita politica.
Quando prese a trattare dello Stato,egli avea innanzi a sè due scuole
egualmente illustri, egualmente seguite dagli scrittori: la scuola di Platone e
la scuola d'Aristotele. Ma ei dovette certo considerare che l'ingegno
dell’Ateniese, poderoso d'in venzione e di veduta speculativa, non intese forse
nei termini del vero le attinenze della filosofia colla politica.
Il merito insigne di aver sostituito alle dottrine ideali l'autorità
degli esempj, è pur quello della Repubblica di Cicerone. In quest'opera,
spartita in sei libri, e condotta conlargaunitàdidisegno,ilgrandeoratoreimitò
Pla tone nella forma letteraria e nel tono dello stile, del resto si attenne al
metodo aristotelico ; e volendo fare opera nonsoloutileallelettere,ma
vantaggiosaallapatriae alle più
lontanegenerazioni,incarnòisuoiprecettinelgrande esempio di R o m a . L a
dottrina sui reggimenti civili si r i duce alla disputa delle tre forme
monarchica, aristocra tica e popolare, alle quali egli preferiva la mista, invo
cando le ragioni d'Aristotele e di Polibio e tutta quanta la storia di Roma. 6.
Da queste premesse esce a compimento delle dot trine morali la disputa
sull'immortalità.E qui Cicerone lasciando al tutto le orme dei Greci, seguì
l'indole pro pria e della sua nazione, e fece di quel problema una vera e
compiuta dottrina. Forse l'incertezza in cui aveano la sciata la controversia
sui destini dell'anima i panteisti 152 La quale, mentre ha bisogno per
disegnare e applicare le civili istituzioni di ricorrere talvolta ai principj
uni versali della natura,non può trascurare per altro nel l'ordine dei fatti le
imperfezioni dell'essere umano, e quella lunga serie d'esperienze infelici per
cui soltanto nella storia dei popoli si perviene ad applicare le istitu zioni
alle necessità dei tempi. A questo metodo, chiamato da'Cesare Balbo un metodo
razionale, si opponeva l'altro sperimentale d'Aristotele. Il filosofo di
Stagira, disposto per natura d'ingegno a un accordo più perfetto della spe
culazione col senno civile,e cresciuto alla scuola di Fi lippo e d'Alessandro,
intravide con occhio più fermo le armonie delle dottrine scientifiche
coll'esperienza, applicó alla scienza dello Stato quell'analisi sicura e
paziente che negli ordini del pensiero e della natura lo avea condotto a creare
la logica e la fisica; raccolse da ogni parte gli esempj dei governi migliori,
li ordinò, li paragon ), li ridusse a principi, e ne trasse la sua Politica fonda
mento della scienza civile. Ma
ataliprovediragioneedifattoaltreseneag giungevano per lui desunte dall'affetto
individuale e civile. L'indole del suo ingegno, inclinato a quanto v'ha di più
grande e di più sublime nelle opere della natura e di Dio, gli svegliava
nell'animo un vivo desiderio dei sommi estinti, e massimamente di quelli la cui
vita consacrata alla patria nelle scienze,nelle lettere,nelle arti,nei p u b b
l i c i n e g o z j , li r a c c o m a n d a v a a l l a r i c o n o s c e n z
a d i R o m a . Gran parte,e la più bella forse della sua vita,s'era pas sata
nella società di quei grandi ; chè molti n'avea co nosciuti da giovinetto, e
seguiti nello studio delle leggi e nella pratica del fôro; di molti avea udito
favellare al padre e agli zii paterni, m a di tutti gli restava impressa
nell'anima una memoria viva e costante, siccome di per sone domestiche e
care.La vita lungamente agitata nei pubblici affari in tempi di grandi
rivolgimenti, non gli tolse quest'abito di ritornare sul passato, e perchè vi
pendeva l'animo naturalmente mite, e disposto a racco gliersi in sè stesso, e
perchè la sua parte di conservatore lo menava in politica a desiderare il
ritorno della virtù e d e g l i a n t i c h i c o s t u m i. P i ù t a r d i l
e s v e n t u r e d e l l a p a t r i a lo strinsero a ritirarsi dalla vita
pubblica, e allora la fantasia nutrita negli studj speculativi gli consolava
spesso colle grandi memorie i dolori civili e le meditazioni della scienza. E
quindi si spiega perchè quelle meditazioni,in cambio di riuscire una fredda
copia delle opere greche, gli si convertivano spesso in dialoghi vivi e
passionati,e l'abito di conversare coi s o m m i estinti gliene porgesse gli
interlocutori, e si spiega altresì come la dottrina del l'immortalità occupi
tanta parte nel Sogno dell’Affricano 153 e dualisti italici e greci,
contribuì non poco a svogliarlo d'immaginarie astrazioni, e volgerlo a una via
più sicura. Fatto è che nelle Tusculane,ma più nel De republica e negli
opuscoli popolari della Vecchiezza e dell'Amicizia, egli chiese di preferenza
le prove dell'immortalità alla coscienza morale, alle antiche tradizioni, ai
riti delle tombe, al desiderio, connaturato nell'uomo, del divino e
dell'assoluto. 154 e nel Catone Maggiore, dov'egli imitando il
Socrate di Platone, paragonava sè stesso ai sommi che l'avean preceduto, e si
consolava di speranze immortali. Un'altra occasione, opportuna a
indirizzare le medita zioni del nostro filosofo sulla controversia dell'immorta
lità, e a dettargli intorno al soggetto affettuosi e mesti pensieri, fu per
certo la morte della sua Tullia, avvenuta il mese di Febbraio dell'anno 709.
Nelle solitudini della sua villa presso Astura, là dove avea in animo d'inal
zare un tempio alla figlia perduta, egli scrisse un libretto che poco appresso
indirizzò ad Attico, e che intitolava Consolazione. Su questo libro,adesso
perduto,gli eruditi studiarono a lungo,e dai pochi frammenti che Cicerone
stesso ci conservava ,e da quel che ne dissero parecchj scrit tori antichi,in
special modo Lattanzio nelle Istituzioni di vine,tentarono restituire per sommi
capi il disegno gene rale e lo spartimento delle materie. Francesco Schneider
ne ragionava in una sua dissertazione dottorale del l'anno 1835 ,dove suppose
Cicerone avere trattato a lungo dell'immortalità degli spiriti nell'opera della
Consolazione, come apparisce in gran parte dal primo libro delle Tusco lane.La
quale supposizione, che riteniamo a buon dritto per certa,ci fa grandemente
deplorare la perdita di questo monumento della letteratura latina,una forse
delle opere più originali di Cicerone,e da mostrare come il desiderio della
figlia perduta gli volgesse a più gravi e più solenni ispirazioni l'ingegno
naturalmente fecondo. CICERONE;LORO PARTE NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA.
CONCLUSIONE . 1. Può sembrare opportuno ai lettori (se pure ne avemmo in questo
esame della filosofia di M. Tullio) che noi dopo aver discorso delle scuole
precedenti o contem poranee all'oratore latino,del suo metodo e concetto della
scienza e finalmente dei libri fisici, logici e morali, con sideriamo adesso
sotto un rispetto più universale il valore speculativoel'indoledellesue
dottrine.La qual cosa,ol tre all'essere richiesta dalle leggi severe delle
discipline scientifiche, in cui l'uso della sintesi non deve mai scom pagnarsi
da quello dell'analisi,si porge opportuna a con futare l'accusa, che da alcuno
potrebbe esserci mossa ,di attribuire al più grande degli oratori latini una
potenza d'ingegno speculativo che mai per avventura non ebbe. La critica intorno
alle opere dottrinali di Cicerone, ne gletta dagli eruditi e dagli storici più
antichi, e infor mata a una severità eccessiva da quelli del secolo scorso e
del presente, è tempo ormai che ritorni a più maturo
esameeapiùimparzialigiudizj.Ma ciòammesso,non resta men fermo quell'altro
supremo pronunziato che Tacito invocava eloquentemente in un'età scellerata
come PARTE TERZA. INDOLE, VALORE SPECULATIVO E FONTI DELLE DOTTRINE DI
I. 156 norma dell'ottima condotta civile, e che comanda allo
spirito umano di seguire una via lontana del pari dalla venerazione cieca, e
dal disprezzo non ragionevole del l'autorità. A questa via ci siamo attenuti
nell'esame delle opere di Cicerone.E non pertanto al critico che prende in mano
quei suoi scritti così varj, così fecondi, dove si mesce tanta parte della vita
e delle memorie latine, soprag giungono di tratto in tratto infinite
difficoltà; non ultima per certo quella, avvertita altra volta da noi, di accom
pagnarlo nell'indagine di tanti sistemi discordi, di racco glierne le sparse
dottrine,e quindi ricomporle nell'armonia dei principj e delle conseguenze. La
imparzialità delle opinioni, e il largo apprezzamento di quel tanto di vero e
di buono, che si trova sempre in ogni sistema,mentre costituisce un pregio
capitale della filosofia di Cicerone, fa sì che ella non si porga sempre
favorevolmente al giudizio della critica odierna,la quale troppo più spesso
vien cercando nelle materie speculative lo stupore delle invenzioni, anzichè la
legittima novità dell'esame e delle attinenze scientifiche. Ma per contrario
nulla v'è d'in ventato, nulla di strano nella filosofia di Marco Tullio. Ella è
la filosofia del senso comune e delle grandi tra dizioni, la quale, per
definirla con uno dei nostri filosofi, « non presume in alcuna cosa di saperne
più là della stessa natura:ma di questa,invece, si dichiara attenta disce pola,
e ne accetta i pronunziati siccome oracoli;.... filo sofia tanto riguardosa e
modesta, quanto serena e sicura nei suoi giudicj,e della quale fu detto averla Socrate
pri mamente levata dal cielo,e condotta a conversare fami g l i a r m e n t e i
n m e z z o a g l i u o m i n i . » ( M a m i a n i , C o n f ., p . 2 4 , vol.
I.) Tale è l'indole vera della filosofia di Marco Tullio; e contuttociò
crediamo avere abbastanza mostrato in que sto nostro lavoro, come alla
semplicità de'principj e dei metodi si congiunga,segnatamente nella parte
morale,il procedimento rigoroso e l'unità di scienza. Coloro poi che
misurano il valore degli ingegni spe culativi dall'ardimento delle innovazioni,
e giudicano Marco Tullio una povera mente perchè dice egli stesso
di professare dottrine non arroganti, e non molto disco ste dalle opinioni
popolari, non hanno considerato a b bastanza in quanti modi si possa esercitare
la spontaneità del pensiero nelle materie scientifiche. V'hanno infatti di
quelle filosofie che esaminando e sindacando combattono gli errori de'tempi
loro;ve ne hanno altre che esponendo un nuovo ordine di pensieri,
ricostituiscono sopra diversi fondamenti l'edifizio scientifico;e nell'un caso
e nell'al tro l'intelletto del filosofo è attivo nelle materie esami nate od
esposte, e in quella efficacia speculativa v'ha pure sempre del nuovo. La
critica e l'esposizione delle dottrine speculative, sebbene quanto alla forma
estrin seca de pensieri sia opera d'arte, quanto alla materia è un esercizio
rigoroso di ragionamento e di filosofia; im perocchè al critico, se non vuol
fermarsi nella superficie, m a penetrare nel fondo e nell'anima delle
cose,convenga rifare,a dir così,il concetto dell'autore e trasformarsi in lui
stesso,convenga svelare illegame intimo che annoda le idee principali,
concepirne una moltitudine di acces sorie, da cui soltanto rampollano quelle,
vedere i trapassi e le attinenze più remote tra concetto e concetto,e scom
posta la totalità del sistema, ricomporla poi novamente colla viva efficacia
del suo pensiero. Apparisce da queste considerazioni che la novità e il valore
speculativo delle dottrine di Tullio si potrebbe soltanto dedurre dalla critica
assennata, e spesso profonda, ch'e'fece delle dottrine a n tecedenti e
contemporanee, raccogliendo con rara lar ghezza di principj e d'esame quanto di
meglio gli por gevano le scuole greche, per suggellarlo dell'impronta latina,e
svogliare iconnazionali della imitazionede'fo restieri. Questa parte espositiva
e confutativa delle greche dottrine, che tanto prevale nei libri tulliani, noi
la m o strammo contrapponendo ai pensieri proprj del sommo oratore l'analisi
de'sistemi da lui combattuti ed esposti; e tanto più perchè sappiamo essersi
affermato piùvolte da critici insigni che mancò a Cicerone una notizia pro
fonda della filosofia greca, mentre è cosa omai notissima 157
Cicerone adunque può innanzi tutto considerarsi come un istorico insigne della
filosofia, degno d'essere raggua gliato con Aristotele e con Platone per
l'ampio studio delle dottrine antecedenti e contemporanee. Chè se dai critici
più recenti è tenuto a ragione come fonte non principale di storia, perchè
spesso allega testi divisi, e perchè l'indole della sua riflessione scientifica
lo menava non di rado,come Platone,a suggellare del proprio pen siero le
dottrine d'altri sistemi, ogni età debbe essergli riconoscente d'aver campato
tanta e sì nobile parte delle greche meditazioni dalla ingiuria de'tempi e
dalla b a r barie degli uomini. M a d'altro canto, dopo una lettura ben
considerata degli scritti tulliani, può egli negarsi che vi si rinvenga una
parte dommatica, e un esercizio suo proprio della riflessione speculativa ? A
una simile domanda ci sembra avere bastantemente soddisfatto nella parte
antecedente di questo discorso coll'esporre ilmetodo di Cicerone nelle
principali teoriche della scienza; e qui facemmo manife sto come un tal metodo
di fina osservazione consistesse per lui nel ridurre ai semplici elementi delle
verità prin cipali i sistemi, e, sceverati gli errori, comporre un'altra volta
quelle verità nell'ordine del sapere. Difficile i m presa,che in tempi funesti
alla scienza ricercava un in gegno universale, e un potente esercizio della
riflessione. La quale,adoperata da Tullio al lume dell'evidenza in teriore, lo
condusse a salvare dal naufragio dello scetti cismo le più nobili parti delle
dottrine speculative.In Fisica mantenne la distinzione, quantunque non piena,
tra il finito e l'infinito, il contingente e il necessario, la n a t u r a e il
d i v i n o , l ' e s i s t e n z a d i D i o , d e l l ' u n i v e r s o e d e
l l'uomo, la natura delle cose corporee inferiori alle spi rituali e
all'eterne, l'ordine universale, la eccellenza della - '158 nelle storie
che la critica degli antichi scrittori, segna tamente per opera degli
Alessandrini,fioriva ai tempi di lui, eruditissimo nella lingua de'Greci, da
cui tradusse più libri di letteratura e di scienza, e che indirizzava i suoi scritti
ai più culti ingegni di R o m a . 159 r a g i o n e , il l i b e r
o a r b i t r i o e l ' i m m o r t a l i t à . I n L o g i c a t e n n e salda
la capacità del conoscimento a cogliere il vero, il concetto di potenza, i
sommi principj della ragione, la evidenza interiore, la distinzione tra senso e
intelletto e il metodo inventivo delle conoscenze. Nella Morale al lume dei
sentimenti interiori e del senso comune ricom
poseilsistemaperfettodiquellascienza,e salendocon metodo induttivo dalle tendenze
e dai fini della natura all'oggetto universale di legge e di dovere, ne seppe d
e durre tutto l'ordine dei veri relativi alla famiglia, all'in dividuo e allo
stato.Veramente se ad un uomo,apparso in quella età quando tutta la
scienza,divenuta un pro blema, si lacerava fra i delirj di una moltitudine di
so fisti, nasca il pensiero di ricomporla a sistema, e riassu mendo l'impresa
di Socrate,raccolga le verità principali in una sintesi vasta; e se vissuto in
mezzo ai pregiudizj di un patriziato superbo, e in tempi d'ateismo e di co
stumi nefandi, egli invochi a soccorso della riflessione speculativa l'esame
delle antiche tradizioni e delle verità fontali, contenute nella coscienza del
genere u m a n o e nei piùnobiliaffetti,aquest'uomo,parmi,non sipossane g a r e
il n o m e d i f i l o s o f o g r a n d e . L ' i n d a g i n e d e i d o m m
i p r i mitivi e dei sentimenti nella natura e nel linguaggio dei popoli voleva
in Cicerone un ingegno forte e addestrato a meditare, e un uso continuo
dell'osservazione interiore. Del che sono splendido testimonio le Orazioni,
l’Epistole, il primo libro delle Tusculane , il secondo e il quinto dei Fini e
il proemio delle Leggi ; che esposti senza preoc cupazione rettificherebbero
d'assai il giudizio sul valore speculativo dei suoi libri, e mostrerebbero
com'egli esa minasse con vero criterio di scienza l'umana natura nelle varie
età,nelle diseguaglianze de'sessi,degl'ingegni e de gli ordini civili, e sino
dall'alto della tribuna, o seduto agli spettacoli del circo cogliesse le verità
eterne della coscienza nelle manifestazioni spontanee del sentimento popolare .
Parecchj critici di Cicerone,e segnatamente quelli che gli negano ogni facoltà
d'ingegno speculativo,non hanno 160 inoltre considerato qual uso
ei facesse della tradizione scientifica,e come, movendo dalla coscienza,
contrappo nesse all'esame imperfetto e negativo de sistemi un esame comprensivo
di tutto il sapere. Dissi più volte ch'egli moveva dalla coscienza ; e questo
fatto dell'osservazione interiore, manifestissimo nelnostro filosofo,ogni volta
che egli prende a trattare importanti materie morali, non può mai andare
disgiunto nell'esame compiuto dei suoi scritti dallo studio ch'e'fece
de'sistemi antecedenti e contem poranei, perchè ci porge la più intima ragione
del suo metodo esterno, chiamato da molti impropriamente un eclettismo;e ci
spiega come nella viva armonia dell'animo umano egli cercasse quell'unità
informatrice delle sue dottrine,che il metodo sincretico d'Antioco e d'altri
eru diti avrebbe indarno aspettato dall'accozzamento inge gnoso di cento
scuole. Certo Cicerone non ebbe quella potenza inventrice d'ingegno
speculativo, e quella rara f e l i c i t à d e g l i a r d i m e n t i m e t a
f i s i c i, c h e e b b e r o S o c r a t e , P l a tone,Aristotele tra gli
antichi,e tra imoderni Renato Cartesio, Emanuele Kant e G. Batt.Vico. Il suo
ingegno non altrettanto acuto, rapido e penetrativo, quanto uni
versale,comprensivo e solenne,più che in escogitare nuove dottrine, e in
architettare sistemi mirabili per ipotesi a u daci e tirati a filo rigoroso di
logica, piacevasi nel sot toporre ad esame le antiche dottrine,sceverarne gli
errori, ribatterne le istanze,scoprire nuove armonie della ra
gionescientificacolsensocomune,e iltuttopoi ricom porre in un vasto disegno di
scienza concorde colle arti, coi costumi e colla vita civile. Nel che
mirabilmente lo secondavano itempi.Allora,come era avvenuto nel secolo di
Socrate,e come per molte parti accade ora nel nostro, si manifestava nella
condizione delle discipline morali un'imperiosa necessità di riforma. L'eccesso
delle specu lazioni avea spossati gl'ingegni, e la scienza e l'arte tor navano
al vero della natura,unica fonte delle opere grandi. Era dunque suprema
necessità deporre la vana superbia delle innovazioni assolute, farsi discepoli
della natura, tornare agli adagj della sapienza popolare, e chiedere
alla tradizione de savj, non già il supremo criterio del vero,m a il
sindacato delle opinioni attinto nella coscienza più eletta del genere umano.
Tale è la parte modesta, e a un tempo solenne, che Marco Tullio rappresenta
nella storia della filosofia. Se ne'suoi scritti prevale il criterio della
tradizione scien tifica, perchè poco o nulla rimaneva da aggiungere alle
speculazioni dei filosofi greci ; e se, parlando ai concitta dini innamorati
della letteratura e delle dottrine stra niere, si mostra studioso al sommo
dell'altrui autorità, confessa però nel 1° degli Offici, ch'e'non seguiva gli a
n tichi come interprete, m a per proprio arbitrio e con li bero esame attingeva
ai loro fonti. È scritto nel primo dei Fini che egli sosteneva quelle dottrine
soltanto che erano approvate da lui,e vi aggiungeva un ordine pro prio di
scrivere. Come poi quest'ordine di scrivere (si gnificante non altro che un
ordine di pensieri) si esten desse per lui al collegamento necessario di tutta
la scienza, te lo dice in quelle parole dei Tuscolani (II, 1): « D i f ficile
est in philosophia pauca esse einota,cui non sint aut pleraque aut
omnia.» 161 Noi dunque invitiamo gli studiosi delle lettere e della
filosofia antica a prendere in più seria considerazione quella sentenza,
divenuta pur troppo comune , che fa del filosofo latino non più che un seguace
d'Antioco, e un modesto raccoglitore delle dottrine greche. Di quanto in tervallo
egli si lasciasse discosti i migliori filosofi greci contemporanei può apparire
assai manifesto a chi ricordi quanto è detto nella prima parte di questo
discorso. Fra i latini poi non sapremmo chi contrapporgli,se non forse il
dottissimo M. Terenzio Varrone suo familiare, rammen tato nel primo degli
Accademici,e della cui filosofia per altro o poco o nulla sappiamo. Veramente,
ammesso che l'oratore romano fosse un eclettico, nella schietta e ger mana
significazionedellaparola,eglinon solo(siconsideri bene ) avrebbe dovuto
accettare le principali dottrine della scienza tal quali gliele porgeva la
Grecia, senza nulla mutare o innovare,ma l'autorità della tradizione scien
11 tifica sarebbe stata per lui unico e assoluto criterio per
venire dall'opinione al sapere.Ma per contrario, esami nando nella loro
pienezza le dottrine di Tullio, si vede ch'egli, anzichè inchinarsi a servile
imitazione, intese l'uso dell'autorità come un legittimo ossequio della ra
gione al vero riconosciuto per altrui testimonianza, e propose a sè stesso il
gran problema (chiarito poi dai moderni) del passaggio dalla certezza naturale
o volgare alla certezza scientifica. Pensatore e scrittore di cose fi losofiche
in una età in cui la scienza si divideva tra un dommatismo eccessivo e uno
scetticismo quasi assoluto, stimò che avrebbe ben meritato dell'umana ragione e
della patria,seguendo una filosofia modesta in mezzo agli estremi del tutto
credere e del tutto negare ; e scelse a suo metodo la verosimiglianza della
Nuova Accademia senza parteciparne lo scetticismo. Condotto da questo metodo in
mezzo alla confusione dei sistemi e alle rovine dell'edifizio scientifico, ne
sottopose ad esame le princi pali dottrine, e nelle parti incerte e dubbiose
ammise più gradi di verosimiglianza; le verità d'evidenza interiore affermò
risoluto. Nella fisica sperimentale non ebbe che verosimiglianze; in teologia
naturale, in cosmologia,in psicologia ed in logica ondeggiò tra il verosimile e
il certo; nella morale soggettiva e oggettiva, nelle teoriche del Diritto e
dello Stato si volse alla luce innegabile della coscienza e affermò con
certezza assoluta. Talchè in cia scuna parte delle sue dottrine, e nella
successione delle tre parti fra loro si nota quest'ordine di gradi che vanno
dal verosimile al certo. Tale procedimento, che si attiene all'intimo del suo
pensiero speculativo,l'osservi anche talvolta nella forma estrinseca e
nell'ordine logi cale delle dottrine.Imperciocchè,mentre isuoi scrittisono per
la maggior parte inquisitivi e disputativi,e la disputa ferve specialmente
nelle teoriche dell'essere e del cono scere e nei principj della teorica
dell'operare, quanto più procediamo nell'esame di questa, e dai giudizj dei
sistemi particolari e dalle pure opinioni ci leviamo al concetto di Dio, che pose
nell'umana ragione,a testimonianza di sè 162 163
stesso,laleggemorale,lacontroversia gradopergrado diminuisce,e questa
parte,cominciata col De finibus,dia logo contenzioso, segue col D e legibus e
col D e officiis, opere espositive, terminando colle dottrine della Repub
blica, e co'dialoghi popolari dell'Amicizia e della V e c chiezza. Esaminando
nella successione dei libri fisici, dialettici e morali questo procedimento del
pensiero di Tullio, le sue dottrine ci rappresentano quasi un tentativo di ricom
porre la filosofia nell'ordine perfetto delle conoscenze. Fu provato assai
largamente nel Capitolo primo della seconda parte, e in più luoghi delle
dottrine morali, come il nostro filosofo concepisse chiara la relazione che
inter cede tra la pienezza del soggetto scientifico, su cui si volge il
pensiero, e la unità oggettiva de'principj che danno legamento e connessione
rigorosa alla scienzaprima. Certo,checchè ne dicano il Brucker e il Bernhardy
(il secondo de'quali afferma che gli ultimi fondamenti del sapere rimasero
dubbiosi per Cicerone),apparisce evidente dai libri morali che il nostro
oratore seguendo la ragione informatrice del sistema platonico e dell'Etica di
Zenone, intese la sovranità dell'idea del Buono nell'ordine delle cognizioni, e
cercò in quel principio la più vasta di tutte le sintesi, che gli porgesse
unificata e spiegata nelle più remote sue applicazioni tutta la scienza. La
qual cosa crediamo avere posta sufficientemente in chiaro, esami nando il
dialogo delle Leggi. Ma il por mente a questa unità informatrice delle
dottrine tulliane, ci spiana la via per vedere come il suo metodo conciliativo
delle scuole particolari si risolvesse inun
criteriointrinsecodiragione.Quistaildivario es senziale tra la filosofia di
Cicerone e la filosofia degli eclettici. L'eclettico infatti raccogliendo le
sue dottrine da sistemi contradittorj e infetti sostanzialmente d'errore, come
non può sperare di levarsi mai colla riflessione a principj assoluti di
scienza, così è costretto a scambiare la vera filosofia,che è semplice ed
una,con un viluppo di multiformi dottrine senz'armonia e senz'accordo. La
verità,cheèingenita,assoluta,immortale,nonpuò uscire in eterno
dall'accozzo fortuito del falso; e la scelta a b bandonata a sè stessa e senza
un criterio intrinseco ed uno, mancherà sempre di principj saldi, universali,
apodittici. La qual cosa non conobbe abbastanza quella scuola fran cese,fiorita
nella prima metà di questo secolo, e a cui giu stamente si attribuisce la lode
di avere spento il sensismo, e restaurati gli studj istorici della filosofia
nella nostra Europa, quando sentenziava che i sistemi più avversi si compiono
tra loro, e che lo spirito umano procede d'er rore in errore per cammino non
interrotto alle armonie della Scienza prima. Ma Cicerone intese ben altrimenti
il principio costi tutivo delle sue dottrine. Per lui la tradizione scientifica
trovava un riscontro nell'esame immediato dei fatti in terni, e quindi egli
desunse il criterio con cui variamente conciliava i sistemi. Ora a questo criterio
che è la parte propria ed originale di sua dottrina, e che rappresenta un vero
esercizio dell'indagine filosofale nel sindacato delle scuole particolari,fa
d'uopo aver l'occhio per ve dere come e quanto egli attingesse ai fonti delle
opere greche. Sennonchè in tal questione, come osserva il Kuehner, che ne
disputava a lungo, e con rara diligenza, si affacciano naturalmente non lievi
difficoltà. In primo luogo, perchè M. Tullio, fornito di varia e multiforme
erudizione, volse in proprio uso tutte le migliori dottrine dell'antichità
italica e greca; secondariamente, perchè parlando di un dato soggetto, non se
ne stava contento all'autorità di un solo autore, m a interrogava la m a g gior
parte di quelli che ne avevano trattato, moltissimi tra’ quali andarono per noi
sventuratamente perduti ; e infine perchè il nostro filosofo o tace non di
rado, o accenna di passaggio i fonti a cui attinse, o soltanto rammenta gli
autori quando gli accade di confutarli. Passando poi a determinare il metodo
con cui Cicerone attinse ai greci filosofi, osserva giustamente il critico te
desco che questo metodo si esercitava in tre maniere. Traduceva egli dal greco,
trasportando liberamente in 164 165 latino, tanto (come egli
stesso ci avverte nell'operetta De optimo genere oratorum ) da serbare il
colorito e la forza nativa del testo. Nelle altre opere filosofiche segui
principalmente un solo autore, adoperandovi sopra con libera efficacia di
riflessione ilsuo giudizio,e componendo le materie con proprio ordine di
pensieri;ricorse ad altri scrittori ove quello che seguiva fosse riuscito
mancante, e v'aggiunse del proprio.Era altresì suo costume inter rogare varj
libri che avean preso a trattare un m e d e simo soggetto, e ove fosse stato
possibile il conciliarli, trar fuori dalle loro dottrine un tutto perfettamente
connesso ed armonizzato.Quindi,prosegue ilKuehner,è necessario al critico di
Cicerone avvertire con diligenza gli scrittori da lui citati e accennati,
raffrontare spesso i suoi libri coi grandi monumenti dell'antica filosofia, che
ci pervennero intatti, osservare quello ch'egli trasse dai suoi maestri,e non
piccola luce daranno le congetture assennate e prudenti. Esposte queste
norme più generali di critica, noi non seguiremo più oltre l'erudito tedesco
nell'indagine minuta intorno alle fonti delle dottrine tulliane. Tale indagine
infatti, oltrechè si allontanerebbe di troppo dal l'indole speculativa e dai
confini di questo scritto,e riu scirebbe inutile al tutto per noi che non
neghiamo avere il filosofo latino attinto le sue dottrine migliori dall'an
tichità greca, è piena altresì d'incertezza e di congetture là dove i fonti
originali andarono perduti, e dove riesce difficile lo sceverare quanto
appartiene all'ingegno del nostro filosofo, e quanto debba invece attribuirsi
all'au torità stessa dei Greci. Del resto, concludendo coll'au tore della
dissertazione, M. Tullio ne'libri fisici, e in special modo nella disputa
sull'immortalità,seguì princi palmente Platone ; nei libri logici e nella
questione sul criterio della verosimiglianza e sulla percezione sensitiva ,
attinse dal Portico e dalla Nuova Accademia ; nei libri morali poi, discepolo
degli Stoici e dell'Antica Accade mia e del Peripato per ciò che risguarda le
dottrine speculative del bene e della legge, nelle materie politi
che e civili seguì a preferenza Aristotele,Teofrasto e P o libio. L a
qual cosa per altro vuole essere intesa discre tamente ; poichè, a considerare
bene il metodo con cui egli c o m p o s e i v a r j s i s t e m i, s i v e d e
c h e , s e b b e n e i n p i ù l u o ghi attinse separatamente dagli Stoici e
da Platone,tut tavia la natura dell'ingegno latino lo menava a tempe rare
l'austerità degli Stoici colle massime dell'Ateniese ; il che fece in più
luoghi, e segnatamente nel secondo libro della Natura degli Dei, e nel primo
della Divina zione. Come poi usando le opere dei greci scrittori, è attingendo
ai loro fonti la materia di sue dottrine, ei conservasse non pertanto la
libertà dell'ingegno, con queste parole lo attesta il Kuehner : « Negari quidem
non potest Ciceronem disputationes suas philosophicas e Graecorum fontibus
hausisse ; sed græca non interpretis modo ad verbum in linguam latinam
convertit,sed suum ipse iis adjunxit judicium,suum scribendi ordinem,viam
rationemque atque orationis lumen.Reputemus nobiscum , quantum ingenii
judiciique dexteritatis Cicero probaverit in hauriendis sapientiæ præceptis e
græcorum philoso phorum monumentis. Nam ex omnibus omnium æta tum græcorum
philosophorum disciplinis, ex hac ingenti materiæ quasi silva,ea delibavit,quæ
ad fingendos mores sapientiæ præceptis,et ad omnem vitam conformandam vim
omnino habebant saluberrimam. » (Epilogus). 2. Cicerone dunque , a riassumere
il tutto in poche parole,non fu nè Stoico,nè Accademico, nè Peripate tico, m a
fu vero Socratico con libertà di riflessione e di esame. Come Socrate, egli non
compose un sistema per fetto di cognizioni, m a tentò una riforma; non pervenne
agli estremi resultamenti delle indagini iniziate da lui, ma ne accennò la via
più sicura;non chiuse tutta la scienza nell'ambito angusto d'un'ipotesi,
d'un'inven zione o d'un fatto; m a assorgendo colla mente alla più feconda
delle armonie scientifiche, che è la ragione m o rale, vedeva in un'occhiata
spiegarsi da quella sintesi l'ordinamento necessario della scienza prima. Per
certo l'ingegno onnipotente dell’Ateniese, la cui efficacia dura
166 da ventiquattro secoli nell'indirizzo delle dottrine specu
lative, è unico esempio, e non mai superabile, nella storia della filosofia.Ma consideri
un poco il lettore, come al filosofo romano,ingegno senza dubbio men vasto e
meno inventivo, mentre si attraversavano per via le stesse dif ficoltà, e forse
maggiori,non arrisero altrettanto propizie, quanto al greco, le condizioni dei
tempi e dei pubblici costumi. Tullio non s'abbattè,come Socrate, ad un po
polo,qual era quello d'Atene, poderoso della fantasia, supremamente inclinato
da natura agli studj speculativi, e innamorato d’un amore infinito del bello e
del per fetto.La gente romana,sebbene felicemente disposta a sentire ciò che è
certo e applicabile fra i resultamenti dell'umano ingegno, sebbene disciplinata
nelle deduzioni morali dal magistero dei Giureconsulti, ritenne per se coli
quei costumi severi e quell'abito politico e militare, non facilmente conciliabile
colla vita meditativa della scienza e dell'arte. Più tardi allorchè l'impero
esteso a d u e t e r z i d e l m o n d o , e il v i v e r e a g i a t o , e l a
n e c e s s i t à d i allontanare il pensiero dallo spettacolo della tirannia
nascente, volgeva i migliori tra i Romani agli studj della filosofia, la
Grecia, maestra ai vincitori d'ogni arte e di ogni disciplina civile, li trasse
a sè, sviando la sponta neità degl'ingegni col facile diletto
dell'imitazione.Chè, se ciò non può dirsi assolutamente delle lettere e delle
scienze latine da chi consideri quel tanto d'originale che pur v'è nelle
imitazioni di Lucrezio, di Catullo e di Virgi lio,e che sappiamo esservistato
nei libridiVarrone,ora perduti,non resta men vero che tanta era laservitùdel pensiero
ai tempi di Tullio da costringerlo a scusarsi pubblicamente per avere usata la
propria lingua nelle materie speculative. Opera altamente civile, altamente
romana fu adun que quella che imprese il nostro filosofo, procacciando di
volgere il linguaggio latino alla significazione dei veri scientifici. Nel che,
tanto più egli si mostrò gran maestro , quanto minori e maggiormente imperfetti
erano gli esempi di coloro che l'avean preceduto. Amafinio e Rabirio
167 168 epicurei, rammentati da lui nel libro terzo delle Tusco
lane (C. II),e ch'egli dice non averlettoneppure,scris sero primi di cose
filosofiche in modo informe ed incolto. Più tardi Tito Lucrezio Caro esponeva
splendidamente nelpoema De rerumnaturalafilosofiad'Epicuro;ma tutti questi
scrittori, dei quali il secondo non era uscito dalle pastoje della poesia
didascalica, non aveano potuto al certo esercitare un'alta efficacia sul
linguaggio filo sofico di Roma,ristretti com'erano nelle cerchia d'un sistema
povero e meschinamente sofistico.Noi dunque con corriamo ben volentieri nella
sentenza del Ritter, assicu rando che soltanto ai tempi di Cicerone la
filosofia volse in proprio uso l'idioma latino ; la qual cosa,per quanto è
lecito pensarne ai moderni, può unicamente affermarsi dei libri di lui dove la
lingua filosofica è già formata, e dove la parola si porge per modo mirabile ad
ogni m o venza e inflessione del pensiero. L'impresa che Cicerone tentava, era
dunque novissima, e l'istrumento ch'egli a v e v a f r a m a n o , il m e n o a
c c o n c i o a c o m p i r l a . P e r c h è n o n si trattava già d'esporre
le dottrine d'un solo filosofo, come avean fatto Amafinio, Rabirio e
Lucrezio,ma con veniva volgersi a tutte le scuole, e addestrare il giovane
linguaggio latino nell'intero ámbito della scienza.Talvolta, è vero, gli mancò
la parola più appropriata al concetto, e ristretto entro i termini d'una lingua
non disciplinata ancora nelle indagini troppo sottili, procedè incerto sulla
significazione di qualche frase scientifica appresa dai Greci; m a nella
maggior parte dei suoi scritti egli ebbe in grado supremo la facoltà di
lumeggiare e colorire l'idea, e di far sì che il pensiero rispondesse nella p a
rola, come figura bella in limpido specchio. Sentenziando ch'è vana impresa e
da fanciulli voler dire con favella ornata le cose sottili, plane autem it
perspicue posse, docti et intelligentis viri (D e fin ., III,5), seguì uno
stile che fosse egualmente lontano dalla forma splendida degli oratori, e dalla
aridità faticosa di parec chj contemporanei. Quinci egli trasse quel genere
d'ora zione che negli Officj chiamò æquabile et temperatum . 8
L'ingegno universale e comprensivo di Cicerone a p parisce in ogni parte
delle sue dottrine. Venuto , tuttora giovanissimo,inRoma,dove facevano capo le
faccende d'Italia e del mondo,tollerante per natura delle altrui opinioni, e
disposto a tolleranza maggiore dallo studio 1 Intorno allo stile filosofico di
Cicerone scrisse con molta dottrina il prof. Michele Ferrucci, in un suo
discorso De singolari merili di Cice g'one nella lingua ed cloquenza latina,
edito recentemente in Pisa coi tipi del Nistri. 169 La severità della
meditazione scientifica è in lui sempre solenne, m a variamente temperata
dall'indole del sog getto;èsobriol'usodellemetafore;ilperiodo procede ora
maestoso, ora interrotto, ora veloce, ora lento, a se conda della materia,e
talvolta (come negli Accademici) imita il linguaggio familiare, talaltra (come
nelle Tusco lane) sembra avvicinarsi piuttosto alla forma oratoria. Chi poi
considerasse a parte a parte la varietà degli stili nelle opere differenti,
osserverebbe potersi queste distin guere in più classi (modernamente in più
maniere) cor rispondenti ai varj tempi in cui l'autore le scrisse. Il D e
republica e il D e legibus, appartenenti al primo tempo, in cui egli era ancora
indefessamente occupato nei negozj pubblici e del fôro, hanno più del carattere
ora torio.Gli Accademici,ilDe finibus,ilDe natura deo rum,scritti nel 709 e 710
di Roma,poco prima e poco dopo la morte di Cesare, palesano uno studio delibe
rato,continuo della severa forma speculativa; laddove nel De officiis, nel Cato
Major e nel De amicitia t’av vedi come l'abito della meditazione e la lettura
degli ottimi esemplari greci lo avessero condotto al miglior temperamento dello
stile didattico colla forma oratoria. Imitatore delle melodie d'Iocrate, e
innamorato dello splendore di Platone, ch'egli chiama il dio dei filosofi, lo
seguì non soltanto nella forma estrinseca de' suoi trat tati, e nel metodo del
dialogizzare, m a improntò sul Fedro, sulla Repubblica, sul Fedone, sulle Leggi
i tratti più belli delle opere sue, rimasti fino a noi come uno dei monumenti
più solenni delle lettere antiche. 170 imparziale che fece delle
dottrine contemporanee, con trasse per tempo quell'abito universale
d'osservazione, e quel sentimento delle armonie scientifiche, così vivo in ogni
tempo nelle menti romane,in lui straordinario.Cre sciuto intempi funesti alla
libertà,e testimone di quanti esilj e di quanto sangue contaminasse l'Italia la
rabbia scellerata di Mario e di Silla, egli in mezzo allo strepito delle armi e
all'imperversare delle civili discordie appli cava dì e notte con ardore
inestimabile ad ogni genera zione di studj. Più tardi per restaurare la salute,
inde bolita dalla pratica del fôro, si recò in Grecia, dove udì le scuole
migliori, peragrò tutta l'Asia, si trattenne a Rodi,e tornava inpatria
ammaestrato da una larga no tizia d’uomini e di cose,e dalla
famigliaritàcoipiùpre stanti oratori. La sua eloquenza, nutrita negli spazj del
l'Accademia, ebbe ampiezza misurata e solenne, tanto diversa dalla nervosa
concisione di Demostene, e quale s'addiceva alla pienezza e solennità de'suoi
pensieri.Ne la ragione intima dell'arte sua cirimane occulta,qualora si
consideri nel De oratore, nel Bruto e nell'Orator il significato vastissimo
ch'egli riferisce alla parola elo quenza. Quindi il largo concetto dell'unità
del sapere, espresso in varj luoghi del D e oratore, e meglio in quella
sentenza: « omnem doctrinam ingenuarum et humana rum artium uno quodam
societatis vinculo contineri,» ci fa manifesto com'egli intendeva l'officio
dello scrittore,e come nella sua vita di cittadino, d'oratore e di filosofo si
mostrasse uno degli uomini più universali che mai siano apparsi nel mondo. Come
uomo di stato, egli vagheggiò la carità univer sale del genere umano, e ne
scrisse mirabili parole negli Offici e nelle Leggi.Giovane ancora,patrocinando
lacausa di una donna Aretina, giustificò le pretensioni delle città italiane
alla cittadinanza romana.Nel suo consolato sven tando la congiura di
Catilina,salvava da pericolo certo e imminente la libertà di Roma,e tentava
comporre l'or dine senatorio e l’equestre in un saldo partito contro il
prevalere della fazione plebea.Come avvocato e come oratore politico
(così scrive di lui il Vannucci),«creò un nuovo genere d'eloquenza composto di
tutto ciò che v'era di più bello a Roma e fra iGreci.Per giungere a questo con
l'amore e con l'entusiasmo,che è padre di tutte le egregie cose, coltivò gli
studj trascurati da altri, e con siderando che il poeta e l'oratore dal lato
degli orna menti hanno, com'egli scrisse, molte cose comuni, con esercizj
poetici ingentili e perfezionò lo stile latino. R i cercò i modelli più famosi
dell'eloquenza romana,svolse i Greci,ne tradusse per suo uso le orazioni più
belle.Sti mava che per esser grande oratore si vuol sapere ogni cosa,e avere
tutte le dottrine come compagne e ministre. Quindi afforzò la sua ragione colle
dottrine dei grandi filosofi, si arricchì della scienza del diritto, non lasciò
niuno studio da banda ; e così apparecchiato rappresentò nel fôro la grandezza
romana ingentilita dall'arte greca, e apparve come splendido esempio
dell'oratore perfetto, di cui mandò a noi il ritratto ne'suoi scritti
didattici.» (Studi storici e morali sulla letteratura latina, Firenze, F. Le
Monnier, 1862.) Non è dunque maraviglia se, dis posto per abito di mente e per
disciplina a sentire l’uni versalità in ogni cosa, espose più tardi ne'suoi
scritti speculativi ilmeglio delle scuole greche,e tornando ai fon damenti e ai
principj di tutto il sapere, vi cercò quel legame unitivo che desse vita e
armonia alle sparse membra della tradizione scientifica.
Seinluidopol'oratoreeilpoliticoconsideratel'uomo, dovrete riconoscere negli
scritti speculativi profondamente scolpite le tracce del sentimento e
dell'animo suo. In essi,quanto alla manifestazione degli affetti, ritrovi
quella sua schiettezza d'indole generosa, quegli amori potenti di gloria, di
famiglia e di patria, quell'abbandono di t e nerezza,ond'era caro finchè visse
ad ogni anima gen tile, e l'incertezza dei propositi, che talvolta lo rese in
feriore all'impeto degli avvenimenti, e un desiderio di lodi un po' troppo
sincero lo sentì qua e là nell'irreso lutezza delle espressioni e nello stile
maestoso non senza, pompa . L'esempio di Roma antica ch'egli seguì e
studio 171 con amore,quale un perfetto monumento di sapienza
ci vile,non gli tolse però di vederne e di biasimarne i difetti, come
l'eccessivo potere del popolo che spesso trascorreva in licenza,l'abuso
dell'autorità ne'patrizj,le guerre volte a istrumento di grandezza privata,la
prolungazione degli imperj, idisordini quotidiani nel fôro, e quelle leggi
agrarie e sui contratti, la cui promulgazione sciogliendo i diritti di
proprietà e l'osservanza della fede,era un vero attentato alle basi della
società civile.Dalla critica meno benigna si allegano alcuni passi dei suoi
scritti politici in cui parve dimenticare i principj della giustizia e della
moralità l o d a n d o il t i r a n n i c i d i o , t e n t a n d o g i u s t i
f i c a r e c o l t i t o l o d e l l a c i v i l t à il p r i m a t o o p p r
e s s i v o d e i R o m a n i s u l l e a l t r e n a z i o n i , ammettendo
come teorica di condotta civile il cangiar partito a seconda delle
circostanze.Nè io lo difendo da queste accuse;ma rammento solo per debito
imparziale d'istoria, che le stesse ragioni recate da lui a' suoi tempi per
giustificare le conquiste romane, sono state addotte in pieno secolo XIX da una
delle nazioni più civili del mondo per iscusare non meno odiose conquiste;e
che,se la storia non giustificò Tullio nel diritto,l'ha in parte giustificato
nel fatto, mostrando di quanto lume di civiltà la moderna Europa sia debitrice
alle conquiste romane. I giudizj intorno alla sua condotta morale e politica,
già di troppo benigni nelle opere del Middleton , e del Niebuhr,troppo severi
in quelle di Melmoth, Drumann e Mommsen,furono non ha guari saviamente
temperati in un bel libro del signor William Forsyth, venuto alla luce in Londra
il 1864, e di cui abbiam veduta quest'anno una nuova edizione. Tullio, così
osserva sapientemente il biografo inglese, fu qualche volta debole, timido,
irreso luto,m a a tali difetti rispose in altre condizioni di tempi con una
nobile condotta civile. Ei si diportò da uomo e da cittadino nella congiura di
Catilina, e nel finale c o m battimento contro il triunviro Antonio.Chè se non
sem pre fu pari agli avvenimenti che lo incalzavano, se non sostenne
coraggiosamente l'esilio, e restituito in patria, ondeggiò a lungo tra la parte
di Cesare e quella di 172 173 Pompeo,bisogna considerare
quanto difficili tempi fossero quelli a chi, come lui, non avea mai patteggiato
colla coscienza, e riconosceva nella religione del giuramento, e nella santità
dei costumi civili il principio tutelare delle libere istituzioni. Questo alto
sentimento del buono,po tentissimo nel nostro oratore, è la ragione che diede
sublimità vera alle sue dottrine morali ; e ci spiega c o m e nei libri degli
Officj, della Repubblica e delleLeggi egli desunse i principj fondamentali
della filosofia civile dal concetto più puro dell'onesto e della legge ; e
vissuto in tempi nefandi intese a conciliare l'interesse dell'utile pubblico
colla giustizia assoluta, nell'idea della famiglia, nell'idea dello stato,nel
possesso, nella legislazione e nei diritti di guerra e di pace. · Tale pure è
l'opinione esposta dal signor Gaston Boissier ne'suoi dotti articoli sulla
politica di Cicerone, stampati nella Rivista de'Duc Mondi. Corre adesso
in Europa un tempo assai propizio alla critica degli scrittori latini.Invero
gli studj che accompa gnarono fra noi ilprimo risorgimento delle lettere anti
che, mossi da curiosità e da desiderio di un passato a cui la notte tempestosa
dei tempi di mezzo sembrava aver cresciuto splendore, non mantennero sempre una
giusta eguaglianza fra il libero esame e l'ossequio dovuto alle tradizioni. M a
tal difetto venne largamente emendato in età più vicina, allorchè da molti si
esaminò solo per negare,e le passioni politiche e religiose fecero impaccio più
volte alla schietta manifestazione del vero. Oggi la quiete dei tempi,e questo
nuovo ricomporsi d'Europa a monarchie nazionali,avvicinando i popoli tra loro e
ren dendo sempre più facile il sindacato delle opinioni, per suade le menti a
giudizj più severi e imparziali. Ne mancano esempj di queste nuove condizioni
della critica odierna, segnatamente per ciò che risguarda gli studj del
l'antichità latina; non ignorano infatti i nostri lettori che,mentre in
Germania il Bernhardy e il Mommsen giudicarono con molta severità Cicerone, in
Francia e in Inghilterra hanno parlato con bella temperanza delle sue
dottrine morali e della sua vita politica il Desjardins e il Forsyth. Fra
noi gli studj istorici della filosofia o non furono sin qui troppo
favorevolmente accolti, o rimasero oscuri nella solitudine dei gabinetti,
mentre le lettere esercitavano un ufficio civile, e all'unità e all'indipen
denza dava opera l'intera nazione. È tempo oggimai che torniamo a così nobili
studj ;e la critica istorica e filoso fica faccia prova di richiamare nella
memoria ricono scente degli Italiani la storia di quel popolo da cui
venne il Desjardins e il Forsyth. Fra noi gli studj istorici della
filosofia o non furono sin qui troppo favorevolmente accolti, o rimasero oscuri
nella solitudine dei gabinetti, mentre le lettere esercitavano un ufficio
civile, e all'unità e all'indipen denza dava opera l'intera nazione. È tempo
oggimai che torniamo a così nobili studj ;e la critica istorica e filoso fica
faccia prova di richiamare nella memoria ricono scente degli Italiani la storia
di quel popolo da cui venne la prima luce delle nostre istituzioni. Allora
soltanto le dottrine di Cicerone saranno meglio studiate e apprezzate, e la
natura comprensiva dell'ingegno romano,dicuiegli fu esempio solenne, ci
apparirà come una sintesi vasta e feconda in cui s'accoglieva la coscienza dei
popoli antichi.Giacomo Barzellotti. Keywords.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barzellotti” – The Swimming-Pool Library.
Battaglia (Palmi). Filosofo. Grice: “You gotta like Battaglia; he
plays with the Italian language in ways I cannot play in the English language;
e. g. consider his philosophising ‘between being and value,’ ‘tra l’essere e il
valore.’ Surely the thing is the copula: A is B, A is worth B.’ -- “A e B,” “A vale.” “A vale B.” – “We
cannot say that a dollar is worth a dollar --. Stricctly, we CAN, it’s true –
but the implicaturum is ‘I’m an idiot or a philosopher.” Grice: “And I can say,
“Socrate e,’ i. e. Socrates is. And ‘Socrates vale,’ i.e. Socrates has value.’”
Grice: “When I did my linguistic
botanising on ‘value,’ I followed Austin’s misadvice: never contrast with
Anglo-Saxon, but actually ‘worth’ in Anglo-Saxon WAS a verb, and cognate with
Battaglia, ‘valere.’!” In seguito al terremoto di Messina lasciò la Calabria,
trasferendosi con tutta la famiglia a Roma, dove intraprese il suo percorso di
studi. Si laurea con una tesi su Marsilio
da Padova. Ottenuta la libera docenza di filosofia e un contratto
d'insegnamento dall'ateneo capitolino, si trasferì a Siena, dove vinse la
cattedra nella medesima disciplina. Si
sposta da Siena a Bologna, dove già teneva delle lezioni. Nell'ateneo bolognese
insegna, contemporaneamente, filosofia morale e filosofia del diritto nella Facoltà
di Filosofia, di cui e preside. Rettore dell'ateneo di Bologna. Il Comune di
Bologna gli ha dedicato una strada, e Bologna intitola a suo nome la Biblioteca
del ‘Dipartimento’ di filosofia. È stato autore di numerosi saggi in diverse
branche del diritto e della filosofia e, in loro connessione, sulla storia del
pensiero, sia antico che modern. Tale interesse declina anche in chiave
pedagogica, a testimonianza dell'intensa attenzione rivolta alla storia quale
concreta fonte dell'organizzazione sociale umana e del complesso e diffidente
approdo allo spiritualismo. Con i
sostenitori attualisti dell'autonomia della categoria filosofica della
politica, pensa che occorresse lasciare alla storia tout court quanto non fosse
pensiero sistematico, preservando così la storia delle dottrine da ogni
contaminazione con le dialettica sociale e istituzionale". Altre opere:“Cuoco e la formazione dello
spirito nazionale in Italia” (Bemporad, Firenze); “Marsilio da Padova e la filosofia
politica del Medioevo” (Felice Le Monnier, Firenze); “La crisi del diritto
naturale: saggio su alcune tendenze contemporanee della filosofia del diritto”
(La Nuova Italia, Firenze); “Diritto e filosofia della pratica: saggio su
alcuni problemi dell'idealismo contemporaneo” (La Nuova Italia, Firenze); “Thomasio
filosofo e giurista” (Circolo giuridico di Siena);“Scritti di teoria dello
stato” (Giuffré, Milano); “Orientamenti metodologici nella storia delle
dottrine politiche” (Tip. Nuova, Siena); “Problemi metodologici nella storia
delle dottrine politiche ed economiche” (Foro Italiano, Roma); “Corso di filosofia
del diritto” (Soc. editrice "Foro italiano", Roma); “Il domma della
personalità giuridica dello Stato” (Zanichelli, Bologna); “Impero Chiesa e
stati particolari nel pensiero di Alighieri” (Zanichelli, Bologna); “Libertà ed
uguaglianza nelle dichiarazioni francesi dei diritti dal 1789 al 1795: testi,
lavori preparatorii, progetti parlamentari” (Zanichelli, Bologna); “Il valore
nella storia” (Upeb, Bologna); “Il problema morale nell'esistenzialismo”
(Zuffi, Bologna); “Saggi sull'Utopia di Tommaso Moro” (Zuffi, Bologna); “Cenni
storici intorno al concetto di lavoro” (Zuffi, Bologna); “Filosofia del lavoro”
(Zuffi, Bologna); “Lineamenti di storia delle dottrine politiche” (Giuffré, Milano);
“Morale e storia nella prospettiva spiritualistica” (Zuffi, Bologna); “Nuovi
scritti di teoria dello stato” (Giuffré, Milano); “I valori fra la metafisica e
la storia” (Zanichelli, Bologna); “Linee sommarie di dottrina morale” (Patron,
Bologna); “I valori della pratica e l'esperienza storica” (Patron, Bologna);
“Il valore estetico” (Morcelliana, Brescia); “Cinque saggi intorno alla
sociologia” (Istituto Luigi Sturzo, Roma); “ Parva Desanctisiana” (Patron,
Bologna); “Economia, diritto, morale” (Coop. libraria universitaria editoriale
bolognese, Bologna); “Croce e i fratelli Mario e Luigi Sturzo” (Longo,
Ravenna); “Rosmini tra l'essere e i valori, Guida, Napoli); “Mondo storico ed
escatologia” (Clueb, Bologna); “Le carte dei diritti: dalla Magna Charta alla
carta del lavoro” (Sansoni, Firenze); “Le carte dei diritti: dalla Magna Charta
alla Carta di San Francisco” (Sansoni, Firenze); “Meis, I problemi dello stato
moderno” (Zanichelli, Bologna); “Sanctis, Lettere a Villari” (Einaudi, Torino);
“Lettere di Meis a Spaventa” (Azzoguidi, Bologna); “Il pensiero pedagogico del
Rinascimento” (Sansoni, Firenze); “Locke, Antologia degli scritti politici” (Il
Mulino, Bologna). Il pensiero di Felice Battaglia, Atti del Seminario promosso
dal Dipartimento di Filosofia di Bologna (29-30 ottobre 1987), Nicola Matteucci
e Alberto Pasquinelli, Bologna, CLUEB, 1989,
. A cent'anni dalla nascita,
Bologna, Baiesi, 2002, . Dal filosofo all'uomo, Atti del convegno di
studi su Felice Battaglia (Palmi 12-13 maggio 1990), Giuseppe Chiofalo, Palmi,
Arti Grafiche Edizioni, 1991, . M.
Ferrari, La filosofia italiana, in «Storia della Filosofia», XI (La filosofia contemporanea. Seconda metà
del Novecento), t. I, M. Paganini, Vallardi, Milano 199830. G. Marchello ,
Felice Battaglia, Edizioni di Filosofia, Torino 1953. Nicola Matteucci, Felice
Battaglia, filosofo della pratica, in Atti della Accademia delle Scienze
dell'Istituto di Bologna, Classe di Scienze Morali, Rendiconti, LXVI, 1977-78 (LXXII), 297–305 (ora rifuso in Id., Filosofi politici
contemporanei, Il Mulino, Bologna 2001,
55–66, 88-15-07604-2). F. Polato,
«BATTAGLIA, Felice» in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 34, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1988. A. Scerbo, Felice Battaglia: la
centralità del valore giuridico, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1990.
A. Anzalone, Lo abstracto y lo concreto en la Teoría del Derecho de Battaglia.
Felice Battaglia y el dilema entre Croce y Gentile, Atelier, Barcelona, (185 ). A. Anzalone, Felice Battaglia. Per
una teoria giuridica tra idealismo crociano e gentiliano, Euno edizioni,
Leonforte, (290 ). A. Anzalone, Las
aparentes contradicciones de la filosofía jurídica y política de Felice
Battaglia, in «Studi in onore di Augusto Sinagra», VMiscellanea, Aracne, Roma, , 101–121. A. Anzalone, El Estado, sus fines y
su relación con el derecho. La perspectiva de Felice Battaglia, in “Lex Social
(Revista jurídica de los Derechos Sociales)”, Siviglia, enero-junio , 3 n. 1,
59–74. A. Anzalone, La integración europea como modelo para
Latinoamérica según Felice Battaglia, in «Temas de Filosofía Jurídica y
Política», Número 5, SFD, Córdoba, ,
11–41. Girolamo Cotroneo, Felice Battaglia e la "filosofia dei
valori", in Benedetto Croce e altri ancora, Soveria Mannelli, Rubbettino,
2005, 173-194, 88-498-1264-7. Onorificenze Dottore honoris
causanastrino per uniforme ordinariaDottore honoris causa — Universidade de São
Paulo. Ufficiale dell'Ordine di Leopoldo IInastrino per uniforme ordinariaUfficiale
dell'Ordine di Leopoldo II Cavaliere dell'Ordine di San Gregorio Magno (classe
civile)nastrino per uniforme ordinariaCavaliere dell'Ordine di San Gregorio
Magno (classe civile) Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica
Italiananastrino per uniforme ordinariaGrande Ufficiale Ordine al Merito della
Repubblica Italiana — 2 giugno 1953 Cavaliere di gran croce dell'Ordine al
merito della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinariaCavaliere di
gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana — 2 giugno 1959
Note Vittor Ivo Comparato, Vent'anni di
storia del pensiero politico in Italia, Il pensiero politico, 1987, anno XX, n.
13. Università degli Studi di Bologna,
fondata nel sec. XI. Annuario degli Anni Accademici 1950-511951-52 (JPG),
Bologna, Tipografia Compositori, 195419.
Dettaglio decorato, Presidenza della Repubblica. 27 giugno . Sito web del Quirinale: dettaglio decorato.
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. ULTURA MODERNA - Quaderni di Storia, Filosofia e Politica
a cura di GIOVANNI MARCHI FELICE BATTAGLIA L'opera di Vincenzo Cuoco e la
formazione dello spirito nazionale in Italia R. BEMPORAD & FIGLIO - Editori
- FIRENZE Rappresentanti per il Piemonte : S. LATTES & C. Torino. PROPRIETÀ
LETTERARIA ED ARTISTICA RISERVATA COPYRIGHT BY R. BEMPORAD & F.' , 1925
1925. – Firenze, Stab. Pisa & Lampronti. DG 848 137 C8B3З CAPITOLO I. La
tradizione italica. Il Settecento e la sua importanza. L’Italia ritrova sè
stessa nella sua storia. Il processo unitario . – L'eru dizione: Muratori. La
filosofia : Vico. Antitesi al cartesianismo. -- Esperienza filologica . -
Italianismo di Vico: De antiquissima italorum sapientia. – Vico impersona la
nuova tradizione: a lui si ricollega Vin cenzo Cuoco. La fortuna di Vico
nell'alta Italia e le origini del nuovo pensiero. – Vincenzo Cuoco e i suoi
studiosi. La rivoluzione napoletana del '99.- La cultura rivo luzionaria e
prerivoluzionaria. - Razionalismo, astrat tismo. – La classe colta di Napoli. –
Riformismo go vernativo. Rottura tra Stato e borghesia. Carattere passivo della
rivoluzione. « Le origini sacre della nuova Italia » . Gli storici della
letteratura e della vita del popolo ita liano, che vogliano trattare del
Risorgimento nostro con piena e sicura conoscenza di cause e di effetti,
debbono necessariamente rifarsi al secolo XVIII. Nel secolo XVIII sono le
scaturigini di quel vasto e nobile movimento, denso più di idee che di fatti ,
poi che i pochi e modesti avveni menti ricevono luce ed acquistano nobiltà solo
nel riflesso delle idee, di quel vasto e nobile movimento, ripeto, che condurrà
all'unificazione e all'indipendenza italiana . Mi rabile la continuità della
vita di questo popolo antico M519630 6 d'Italia : i secoli, che ad una critica
occhialuta sembrano i più torbidi, si presentano, poi, a chi sappia
investigarli con amore e con coscienza, gravi di preparazione, pon derosi
d'esperienza : è tutta una vita che si prepara , si svolge, sente il bisogno di
concretizzarsi, finchè scoppierà in foga d'eroismo e di volontà . È una preparazione
lenta diuturna faticosa, la quale fa emergere figure grandi di filosofi e di
poeti, di giuristi e di uomini di governo o di chiesa. La critica ha il dovere
di rivendicare questi secoli e di valutarli al paragone di concetti superiori
di filosofia . È ridicolo condannare alcune età nel corso d'un popolo, alcuni
secoli in blocco per altri secoli, chiamare questa età di decadenza, quella età
di fioritura . I periodi storici, le ere, i secoli sono quello che sono con le
loro istituzioni, col loro pensiero, con la loro arte, con i loro uomini,
soprattutto coi loro uomini. È ridicolo condannare i se coli XVII e XVIII per
il XIX, come si usava sino a venti anni fa, critico spietato, Minosse che
giudica e manda senza appello, il nostro maggiore poeta, Giosue Carducci. I
secoli XVII e XVIII hanno invece diritto alla nostra ammirazione come i secoli,
in cui i destini della patria si sono venuti maturando, attraverso un rinnovato
fervore di pensiero, di critica, di storiografia , preludio modesto mafaticoso di
opere civili, attraverso un rifoggiarsi, insomma, della coscienza nazionale,
che da universalmente umana tende a divenire più veramente, se pure più
ristrettivamente, italica . È forse, se l'affer mazione non trovasse nella sua
rigidità una smentita nell'oceanica figura di Giambattista Vico, un chiudersi
in noi stessi, un rinnegare gli ideali cosmopolitici, per ritro vare il
particolare più veramente nostro, l'essenza della stirpe. La storia è
l'esperienza del nuovo spirito, che gradual mente viene formandosi. Il popolo
della penisola s'astrae, si ritira, si allontana dalle grandi competizioni
politiche e culturali europee. Il centro del mondo si è spostato : non più
Roma, ma Parigi, Lisbona, Madrid, Londra , Vienna. Mentre le altre genti si
gettano tumultuose nel 7 fervore della conquista, nella lotta per il
predominio, e noi siamo le vittime, la nostra razza si chiude nel guscio della
propria coscienza , nel culto della propria essenza . Perchè ? Per essere più
italiani, per essere noi stessi , per riacquistare a noi tutto noi stessi, per
sapere il nostro passato, per foggiare nello spirito l'avvenire. Così
quell'Italia, che ai miopi occhialuti corifei dello storicismo positivo sembra
assente tra la seconda metà del Seicento e la prima metà del Settecento, per
riacqui stare vita nuova proprio con la critica razionalista pre
rivoluzionaria, e poi con « gli immortali princípi » del l '89 , è invece viva
e desta, sempre, in ogni tempo, per ritrovarsi, essa stessa , di fronte
all'irrompere delle giovani schiere galliche con un patrimonio nobilissimo di
schietto pensiero italico , di sapienza civile antica, di esperienza politica
nuova. Lo storico deve valutare tutto. La storia della cultura, ben altra cosa,
notiamo, dalla storia dell'arte, particola ristica, d'un subiettivismo che
rinnega ogni sviluppo che non sia nello spirito individuale e creatore, ha una
sua mirabile continuità , una sua ininterrotta evoluzione: l'oggi sorge dal
passato, nel passato si prepara il pre sente, il presente è la fucina in cui si
foggia il futuro. La storia deve valutare tutto e trovare i nessi ideali tra
gli avvenimenti, se vuol essere storia, cioè studio critico e superiore delle
idee, che muovono gli uomini gli uo mini sono sopra tutto idee, spirito —, e
non cronaca astratta di ciò che gli uomini fanno e potevano anche non fare. Lo
storico deve dunque, se vuol rinvenire l'origine vera del nostro Risorgimento,
salire assai più indietro che di solito non si faccia ed osservare più le idee
che i fatti, poi che i fatti a volte sono puri e semplici fenomeni senza
conseguenze, che si spengono come stelle cadenti nel cielo dopo un breve ciclo,
mentre le idee vivono, germinano nell'oscurità , generano altre idee, seguendo
la trama fatale del corso delle stirpi. Le idee rivelano quel mondo dello
spirito, ove si foggiano gli eventi, rivelano il segreto della génesi de'
popoli, il loro assurgere all'im 8 pero, le cause della grandezza politica .
Dietro il fatto sto rico c'è l'idea, la cui vita, vita storica cioè dinamica,
lo studioso deve analizzare nella sua complessa formazione e non rinnegare per
i preconcetti del proprio cervello. La rinascita dell'elemento italiano ,
particolaristico e nazionalista , è un fatto estrinsecamente assai prossimo a
noi, intimamente preparato da lunga meditazione, da lunga speculazione, da
lunghe ricerche. Una storia vera della cultura , specie della cultura politica,
non può non ricollegarsi al secolo XVIII, anzi al secolo XVII, per ri trovarvi
le origini vere dell'Italia di oggi. Dove si foggia questa nuova coscienza,
questa nuova italianità ? Nell'angolo della penisola , che per il mo mento
(siamo nel secolo XVIII) , guardando in modo sommario la distesa temporale
della storia , è il più li bero dall'influsso culturale straniero . Non
Venezia, non Milano, non Torino, non Firenze .... Napoli. Venezia è decaduta
non già, come la retorica vuole, per la corruzione d'una nobiltà festaiola e
carnevalesca, ma per un fatto storico ed economico incontrovertibile, perchè la
vita commerciale d'Europa ha disertato le antiche vie dell’oriente, per
spaziare negli oceani , ove le navi venete non possono andare, troppo lontane
dall'infelice scalo della città di San Marco ( 1 ) . Torino è più francese che
italiana, più sabauda che nazionale . Firenze è il centro d’uno Stato troppo
piccolo, per imporre un'idea politica alle città vicine, ed è estenuata per il
rigoglio anteriore. Milano sola può essere il centro delle nuove fortune
nostre, e vedremo poi come essa col di sastro della Partenopea riprenda tutto
il tesoro ideale del popolo italiano per rendersene degna depositaria . Ma
Milano oggi è troppo aperta all'influenza straniera , risente troppo gli
effetti d'una vita non propriamente italiana, è troppo cosmopolita, troppo
mondana. Biso gna che il rinnovamento si inizi altrove. Milano poi com pirà
l'unità spirituale dell'italianismo, sui primi anni ( 1 ) M. Rosi, L'Italia
Odierna, Torino , 1922, vol. I , p. 13 e sgg 9 dell'Ottocento, fondendo i due
elementi propri della no stra natura : il suo positivismo, più o meno
razionalistico secondo i tempi, con l'idealismo.concretamente storico e critico
del mezzogiorno, per foggiare quel carattere mentale del rinato popolo
italiano, che rifugge così dalla metafisica nubilosa di certe filosofie
straniere come dal materialismo volgare, ritrovando la sua sana vita in tima
nel ponderato storicismo d'una filosofia dello spirito. Napoli, posta dalla
natura nel più incantevole luogo della penisola, arrisa dal cielo e dal mare,
beatificata dal sole, Napoli mite e pensierosa impersona la nuova vita
nazionale ; essa, chiusa nella sua remotezza dalle grandi vie commerciali
dell'alta Italia tra Francia ed Austria, sola può custodire il patrimonio
culturale della nazione. L'Italia era senza dubbio indietro di fronte alle
grandi speculazioni, di fronte alla grande cultura straniera. Car tesio,
Grozio, Spinoza, Locke, Hobbes erano nomi re centi per la gloria della
filosofia delle altre stirpi, nomi grandi illustri, pietre miliari nello
sviluppo del pensiero moderno. Che avevano gli italiani da contrapporre ?
Nulla, fuor che la loro povertà nuda ed altera. Lo spirito ita liano era chiuso
in sè stesso, ho detto, quasi disdegnoso della merce straniera, che gli si
voleva donare. E pure questa cultura, questa filosofia straniera pas sava da
noi ed acquistava diritto alla cittadinanza, spe cie a Torino e a Milano, in
quelle città più aperte ai nuovi rapporti civili. Il cartesianismo ovunque si
imponeva e con esso il classicismo francese lineare geometrico arido . L'Italia
però non filosofava . Il Muratori nella sua solitu dine di Modena cercava,
ricercava, spogliava, compilava con foga di ricostruttore, traeva dagli archivi
polverosi i resti della storia nostra , e il lavoro di paleografia e di
trascrizione diveniva poi lavoro di sceveramento, d’ana lisi, di critica . Il
nuovo italianismo rinasce con un rin novato fervore di studi storici. « Il
serio movimento scientifico » scrive Francesco De Sanctis « usciva di là dove
si era arrestato, dal seno stesso dell'erudizione . Lo studio del passato era
come una ginnastica intellet tuale, dove lo spirito ripigliava le sue forze.
Alle raccolte 10 successero le illustrazioni. E vi si sviluppò uno spirito d'in
vestigazione, di osservazione, di comparazione, dal quale usciva naturalmente
il dubbio e la discussione. Lo spi rito nuovo inseguiva gli eruditi tra quegli
antichi monu menti. Già non erano più semplici eruditi : erano cri tici » ( 1 )
. A Modena, intanto, studiava il Tiraboschi, a Roma il Crescimbeni, a Napoli il
Gravina ; altrove Raf faele Fabretti, Francesco Bianchini, Scipione Maffei e
con essi una vera pleiade di dotti « segnano già questo periodo, dove la
scienza è ancora erudizione e nella eru dizione si sviluppa la critica » . A
Napoli e poi in un remoto paese del Cilento si for mava intanto il Vico. E a
Giambattista Vico bisogna rial lacciare tutto il complesso movimento filosofico
politico meridionale, tutta la fortuna dell'italianismo, di cui lo scrittore
del quale imprendiamo lo studio, Vincenzo Cuoco, è il rappresentante maggiore.
La filosofia del Vico nasce da una parte in antitesi al cartesianismo aritme
tico e razionalista, dall'altra sopra una perfetta consape volezza, sopra un
vero fondamento di ricerca storica, nell’un caso e nell'altro come reazione al
pensiero stra niero e ritorno alle fonti nostrane. Solo l'antitesi al
cartesianismo, cioè alla filosofia im perante, avrebbe potuto portare il Vico
ad affermare l'im possibilità d'una scienza della natura, e in questa scienza
era la gran cieca fede del razionalismo , e la sicurezza d'una scienza perfetta
nel mondo umano, morale e sto rico . La conversione del vero col fatto ( verum
ipsum factum) , impossibile nel mondo naturale agli uomini, di vien possibile
nel mondo morale. Per conoscere una cosa occorre farla, o rifare il processo
creativo : ciò è impossi bile nell'ordine naturale a tutti, fuor che a Dio,
divien possibile nell'ordine umano, spirituale e storico , fatto dall'uomo, nel
quale l'uomo opera come Iddio . Le scienze morali, la politica, la poesia
perdono il mero carattere di probabilità e brillano di pura luce nello spi ( 1
) F. DE SANCTIS , Storia della letteratura italiana, Milano, Treves ed. , 1917
, v. II , p. 240. 11 rito. È un nuovo principio gnoseologico, il vero è riposto
nel fatto : a questo principio si rifà tutto il nuovo sistema storico. Ma
domandiamoci : questo nuovo principio , che è il nucleo d'ogni futura filosofia
dello spirito, quest ' in versione, che è la nuova gnoseologia, era possibile
come semplice reazione ad un cartesianismo, che al Vico era pervenuto, sia
pure, come scrive il De Sanctis ( 1 ) , in una forma antipatica e menomatrice
dei suoi studi, ma certo non in maniera del tutto opprimente e scettica ? Io
credo di no o almeno credo che la rivoluzione non sa rebbe stata possibile
senza considerare un nuovo ele mento, le pure ricerche storiche, che portarono
in fine il Vico a conclusioni inattese . Il Vico, scritto il De ratione
studiorum , il De antiquis sima italorum sapientia, s ' ingolfò negli studi
eruditi di storia antica, di diritto romano, negli studi di diritto naturale,
di pura linguistica, di filologia . Dice bene quindi Benedetto Croce che, se
pure il grande napoletano non fu condotto alla filosofia , al nuovo
orientamento della sua gnoseologia, in virtù di un processo puramente filolo
gico, certo lo stimolo e la materia gli furono offerti da gli studi sopra
detti, « attraverso i quali egli ebbe a fare un'esperienza solenne ; e cioè che
quella materia di studio ( 1) Ecco quel che scrive F. DE SANCTIS , Storia , v.
II , p. 246. « La materia della sua cultura è sempre quella : dritto ro mano,
storia romana, antichità. La sua fisica è pitagorica, la sua metafisica è
platonica, conciliata con la sua fede. Base della sua filosofia è l'Ente,
l’Uno, Dio. Tutto viene da Dio, tutto torna a Dio, l'unum simplicissimum di Ficino
. L'uomo e la natura sono le sue ombre, i suoi fenomeni, ecc. ecc.... » .
Dentro a questa coltura e contro a queste credenze venne ad urtare Cartesio. La
coltura non ha valore : del passato bisogna far tavola . Datemi materia e moto,
ed io farò il mondo. Il vero te lo dà la scienza ed il senso. Cosa dive niva
l'erudizione di Vico, la fisica di Vico, la metafisica di Vico ? cosa
divenivano le idee divine di Platone ? e il simplicis simum di Ficino cosa
diveniva ? e il dritto romano, la storia, la tradizione, la filologia, la
poesia, la rettorica non era più buona a nulla ? Nella violenta contraddizione
Vico sviluppo le sue forze, ecc. ». 12 non poteva essere e non era elaborata
dal suo pensiero senza l'aiuto di certi princípi necessarî, che gli si ripre sentavano
in ogni parte della storia da lui presa a medi tare. Un tempo gli era sembrato
che le scienze morali, ragguagliate al metodo matematico, occupassero, quanto a
sicurezza, l'infimo posto. Ora, nella quotidiana fami liarità con quelle
scienze, gli veniva apparendo il con trario : niente di più sicuro del
fondamento delle scienze morali » ( 1 ) . Verum ipsum factum : « ove avvenga
che chi fa le cose, esso stesso le narri, ivi non può essere più certa
l'istoria » ( 2 ) . Il nuovo pensiero italiano s'afferma schiettamente
storicista : il carattere della tradizione se guente serba questo carattere :
Cuoco, il discepolo di Vico in un'età caratterizzata da una profonda negazione
della storia, riaffermando l'italianismo, riafferma la storia ( 3 ) . Tutta la filosofia
dell'autore della Scienza nova nasce da questa scoperta , e questa scoperta
nasce da un'affan nosa ricerca storica . La resistenza a Cartesio, a Malebran
che, al razionalismo francese sarebbe rimasta resistenza, cioè in parte
incomprensione, se il Vico non avesse potuto superare Cartesio stesso in una
nuova visione della realtà. Solo la gran vita della storia, l'eterno farsi de'
po poli, gli imperi che sorgono si mutano si sviluppano muoiono, solo l'analisi
delle istituzioni politiche, del di ritto, delle religioni, delle lingue, delle
arti ne' loro par ticolari potevano dargli la superba certezza : ... il pen
siero si fa, il pensiero è in quanto diviene, in quanto ha una sua propria
dinamica. Il vero è in quanto noi lo facciamo, in quanto lo rifacciamo
pensandolo. Le scienze morali s'aprono a nuova vita. Solo in esse v'è perfetta
scienza, vera conoscenza. « Il pensiero è moto che va da un termine all'altro,
è idea che si fa , si realizza come ( 1 ) B. CROCE, La filosofia di
Giambattista Vico, Bari, G. La terza, 1911 , p. 22. (2 ) G. Vico, La scienza
nuova giusta l'edizione del 1744, a cura di F. Nicolini, Bari, Laterza ed .,
1911, v. I , p. 187 . ( 3 ) G. GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, Napoli,
Edizione della Critica , 1903, p . 34 e sgg. 13 natura, e ritorna idea, si
ripensa, si riconosce nel fatto. Perciò verum et factum , vero e fatto, sono
convertibili; nel fatto vive il vero ; il fatto è pensiero, è scienza ; la
storia è una scienza, e, come ci è una logica per il moto delle idee, ci è
anche una logica per il moto dei fatti, una storia ideale eterna, sulla quale
corrono le storie di tutte le nazioni » (1 ) . Ora ritorniamo al nostro
argomento. Non interessava me tanto ridire quel che sul Vico fino ad oggi si è
detto e che coglie assai bene la génesi e il valore della spe culazione del
grande napoletano, se non per dimostrare come la nuova filosofia d'Italia, il
nuovo italianismo nasca da una vera e propria esperienza critica ed erudita. Il
Vico stesso nel De antiquissima italorum sapientia es lignuae latinae
originibus eruenda aveva compiuto uno sforzo mirabile di ricerca etimologica,
che lo aveva por tato ad affermazioni di grande audacia e nobiltà, se pure non
accettabili, quale l'esistenza di una setta filosofica italica preromana,
l'esistenza d’un'antica filosofia etrusca, generatrice d’un linguaggio
filosofico , che poi trascorse in altre lingue nostre, quali il latino, in cui
si trovano singolari tracce altrimenti inspiegabili, filosofia autoctona
nostrana, antichissima, di cui Pitagora stesso sarebbe un fievole epigono.
Nella sua seconda gnoseologia il Vico rinnegherà il principio informatore
dell'opera : il linguag gio cessa d'essere in rapporto alla logica, trova la
sua spiegazione « nei principi della poesia , cessa d'avere la sua origine nella
volontà per acquistare maggiore sponta neità e naturalezza ( 2) . Ma intanto
resta acquisito lo sforzo vichiano della conquista d'un vero italianismo pre
latino e preellenico, sforzo in parte rinnegato dallo stesso autore, che trova
al suo pensiero nuove vie, ma sforzo non perciò meno degno, dal punto di vista
culturale nazionalista. È una riconquista dell'italianità nella tra ( 1 ) F. DE
SANCTIS, Storia , v. II, p. 248. ( 2) Vedi B. CROCE , La filosofia di G. B.
Vico, pag. 50 e sgg .; B. SPAVENTA, Prolusione e introduzione alle lezioni di
filosofia , Napoli, Vitale, 1862, pag. 38 A sgg. 14 dizione, nella storia. La
storia è fatta dall' uomo : la storia d'Italia dagli italiani: trovare lo
sviluppo della storia italiana significa trovare lo sviluppo di quella volontà,
di quello spirito, di quelle idee, che formano il popolo nostro. Dai « rottami
dell'antichità » nasce la storia italiana. Nel Nord della penisola la cultura
era razionaliştica e cosmopolita. I dotti parlavano francese, non potevano
sottrarsi all'influsso di Cartesio o di Locke. A Napoli invece la cultura è
storica e filosofica e particolaristica mente italiana, sebbene pur comprensiva
ed universale . Il Vico ( 1 ) si sottrae al pensiero europeo, ritorna a Pita (
1 ) Intendere il Vico e staccarlo in un certo senso dallo sfondo comune delsuo
secolo è necessario per colui, che voglia studiare il secolo XVIII, in cui
senza dubbio sono le origini della nuova Italia e del nuovo pensiero. Ciò non
ha saputo fare, per esempio, Gabriele Maugain , autore di un dotto Étude sur
l'évolution intel. lectuelle de l'Italie de 1657 à 1750 environ ( Paris,
Hachette, 1909), in cui ritorna ed insiste l'antica tesi (carducciana tra
l'altro ) d'una decadenza e di una stasi dello spirito nazionale durante un
periodo più o meno lungo. Ma, se non accettiamo questa visione parziale del
fenomeno, come poi spiegarci tutta la fio ritura del secolo XIX ? Dobbiamo
crederla davvero, mancando una tradizione italica , una fioritura estrinseca,
mero riflesso della cultura rivoluzionaria francese prima e romantico -germa
nica poi ? O invece il periodo anzi detto è periodo di prepara zione metodica,
e in esso sono i germi della nuova Italia ? Questo viene al pensiero di chi
legge il libro accennato, in conclusione assai dotto ed interessante . Questo
venne al pen siero di Giovanni Gentile, che nella Critica recensì nel 1910
l'opera del Maugain ( recensione riveduta e ristampata in Studi vichiani ,
Messina, Principato, 1915 ), e che, pur riconoscendo che nel complesso, se si
eccettui la figura titanica del Vico , questa storia è una storia di cui non
abbiamo molto a com piacerci , nota come il Maugain la renda più malinconica di
quanto non sia. A prescindere dal fatto che proprio nell'età di cui si tratta (
1657-1750) fiorisce Vico, e Vico per noi è il genio dell'Italia nuova, la
tradizione insomma a cui il succes sivo italianismo si ricollega , occorre
pensare che, « dopo la metà del secolo XVIII, dalla morte rinascerà la vita , e
si preparerà l'Italia che accoglierà la Rivoluzione, e si scuoterà tutta, e ri
prenderà la sua via in tutte le manifestazioni della vita spiri tuale, e si
aprirà un varco nella politica de grandi Stati, e ri . sorgerà come nazione » .
Ora ciò sfugge all'autore del libro . 15 gora , a Platone, ai filosofi cristiani
da un lato, dall'altro, come vedemmo, procede da sè, per una via del tutto
nuova. La Scienza nova è, come scolpì il De Sanctis, « la Divina Commedia della
scienza, la vasta sintesi, che riassume il passato e apre l'avvenire, tutta
ancora in gombra di vecchi frantumi, dominati da uno spirito nuo vo » ( 1 ) .
Essa non è intesa per il momento, non importa ! Lo stesso Vico non si rende
conto dei formidabili svi luppi che si trarranno dai suoi studi. Ma il seme,
get tato in glebe feconde, germoglierà. Il pensiero meridio L'Italia rinasce e
si rinnova, dal cosmopolitismo antinazio nalistico nel culto d'un universale
umano l'Italia diviene na zionalistica nel culto d'un tradizionalismo più
nostro, pur non dimenticando d'esaurire il mondo morale nella filosofia del
Vico , proprio nel periodo che al Maugain sembra morte e stasi. Ben nota il
Gentile a proposito ( Studi vichiani, p . 13 ) : « .... Non bisogna dimenticare
che quella stessa che diciamo morte, è una morte relativa ; ed è anch'essa
vita, perchè condizione e momento di quella che dicesi vita : e senza intendere
l'una, non è possibile giungere all' intendimento dell'altra. Tutto sta a non
cercare la vita nella morte : e non volere una cosa nell'altra. Lastasi del
periodo studiato dal Maugain non è il progresso della creazione, ma è pure
progresso , se è la pre parazione del progresso ulteriore. Noi infatti non
potremmo intendere l'Italia nuova, nutrita dalla cultura europea compene trata
con la tradizione nostra, quale la troviamo p . e. nella poe sia del Foscolo e
nell'Italia tutta del tramonto del secolo XVIII e degli albori del seguente, [
quale la troviamo , mi permetta l ' illustre Maestro la chiosa, nel nostro
Vincenzo Cuoco] se la innestassimo immediatamente all'Italia tutta italiana ,
crea trice in filosofia come in arte, maestra ancora all'Europa tutta , e
vivente di una vita spirituale sua, del 500 e del primo 600. L'Italia dal 1657
al 1750 è l'Italia che accoglie il riflusso della cultura europea, su cui ha
esercitato ella prima l'azione sto rica rinnovatrice: e in questo lavoro di
riassorbimento, che dev'essere ed è anche reazione ( esempio solenne Vico), è
la vita sua nuova rispetto al passato. Il senso di questa vita nuova , se non
m'inganno, non c'è nel libro del Maugain .... » . Precisamente così: può darsi
che chi rilegga i fogli dei vari Giornali de' letterati vi ritrovi morte, ma
chi trascorra le su date carte del Muratori e le induzioni geniali del Vico non
può che rinvenirvi la vita, e le origini grandi della nuova patria, la fonte
onde trassero la linfa vitale Cuoco e Foscolo . ( 1 ) F. DE SANCTIS , Storia,
v. II , p. 253. 16 nale si ricollega tutto al Vico e col Vico medita i nuovi
concetti e i nuovi concreti problemi della storia e della vita ; col Vico si
presenta, dopo la caduta d'una repub blica, ad incontrare il pensiero
settentrionale per ani marlo, per storicizzarlo nella realtà dello spirito,
donde nascerà la nuova cultura veramente nazionale, e non più lombarda toscana
napoletana. Così solo si possono spiegare molti atteggiamenti della cultura di
Monti e di Cesarotti, di Manzoni e di Foscolo. La tradizione vichiana è in fine
la tradizione del più puro italianismo. Da Napoli passerà a Milano, intanto
notiamo come a Napoli stessa, nel suo centro ideale, là dove il genio di
Giambattista s'era formato nell'umiltà borghese della vita d'ogni giorno, fra
amarezze familiari, fra disavventure accademiche, fra l'incomprensione di
quella che la retorica chiama alta cultura e poi non è che la più presuntuosa
saccenteria, come a Napoli stessa questa tradizione non fu sempre dominante, nè
sempre uguale, battuta in breccia dal francesismo, prima carte siano, poi
illuminista, volterriano, ecc. Comprensione vera e propria, infine, il Vico non
ebbe neppure in vita ( 1 ) : immaginiamo, dunque, se dopo la morte del grande
au tore della Scienza nova la patria potesse intendere affatto l'oceanico
spirito del suo figliolo . « Certamente a Napoli, nel secolo decimottavo, ci fu
in molti una confusa coscienza della grandezza dell'opera vichiana; ma in che
propriamente questa grandezza con sistesse non si poteva determinare, perchè
facevano an cora difetto l'esperienza e la preparazione adeguate » ( 2 ) . Lo
stesso discepolo ideale del Vico, colui che a, detta di Vincenzo Cuoco, solo
può condurci al maestro, solo può servirci di guida per raggiungere i suoi
voli, non fu immune da contaminazioni estrinseche : il vichismo in Mario Pagano
è mescolato al nuovo sensismo francese ( 3 ) . ( 1 ) B. CROCE, La filosofia di
G. B. Vico , pp. 270 e sgg. ( 2 ) B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico , p.
286. ( 3 ) B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, p. 289. Cfr. VINCENZO Cuoco,
Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, Bari, Laterza 1913, L, p. 208 : «
Nella carriera sublime della 37 potè volgersi alla compilazione d'una legge -
base per la repubblica, e architetto un progetto. Il lavoro porta nell'edizione
che ho sott'occhio il seguente titolo : Pro getto di costituzione della
repubblica napoletana del 1799 per Mario Pagano, Giuseppe Logoteta e Giuseppe
Cestari (1 ) , ed è diviso in un Rapporto del Comitato di Legislazione al
Governo provvisorio, opera del Pagano, chè lo stile e tutto lo appalesa, e in
una Dichiarazione dei diritti e doveri dell'uomo, del cittadino, del popolo e
de' suoi rap presentanti, a stendere la quale fu certo maxima pars il celebre
autore dei Saggi politici. Per mezzo di Vincenzo Russo il Pagano dovette farne
pervenire una copia al Cuoco. Questi rispose coi Frammenti ( 2 ) . di uno
scrittore. Potremmo a questo punto intraprendere una confutazione delle operazioni
del Tria , ma non lo facciamo, per chè la confutazione scaturisce da tutto il
nostro lavoro, e perchè già fatta da N. RUGGIERI, op. cit. , p. 34 e sgg. e da
M. ROMANO, op. cit. , p. 51 e sgg. , i quali non hanno nulla tralasciato per lu
meggiare storicamente la complessa figura del molisano. Noi per conto nostro
abbiamo insistito su questo punto per mettere in guardia il lettore su certi
atteggiamenti del Cuoco, che , certo in antitesi con l'atteggiamento del tempo
suo, occorre valutare da un punto di vista molto elevato, quasi metastorico,
come quello che spesso trascende l'èra sua per incontrare nel passato e
nell'avvenire la più vera essenza del popolo nostro. ( 1) Seguo per la
Costituzione del Pagano l'edizione nap. del 1861, Rapporto al cittadino Carnot
sulla catastrofe napoletana del 1799 per FRANCESCO LOMONACO , con @enni sulla
vita del l'autore, note e aggiunte di MARIANO D'AYALA ed infine il Pro getto di
costituzione della repubblica napoletana del 1799 per MARIO PAGANO, GIUSEPPE
LOGOTETA E GIUSEPPE CESTARI, con note di ANGELO LANZELLOTTI , Napoli, Tip. di
M. Lombardi. (2) I Frammenti si credono quasi certamente anteriori al Saggio,
scritti quindi proprio durante la rivoluzione, a meno che non si riesca a
provare, il che non mi sembra facile , che siano stati scritti col Saggio o del
tutto dopo. Del resto ideal mente vanno innanzi. N. RUGGIERI, op. cit., p. 17 ,
li crede an ch'egli, scritti durante il tempo della Partenopea: a pag. 132
della sua monografia conferma il suo giudizio cronologico, e in nota dà notizie
sulla bibliografia del Progetto del Pagano, inedito fino al giorno, in cui il
Cuoco stampa il Saggio con l'ap . pendice dei Frammenti, pubblicato la prima
volta a Napoli nel 1820 da Angelo Lancellotti, seguito da 30 note, 10 sue, 20 38
La critica al progetto ci mostra intero l'animo di Vin cenzo Cuoco e la sua
lucida netta precisa opposizione agli immortali ed astratti princípi . Ma prima
due parole su Vincenzo Russo. Potrebbe sembrare un puro caso che le lettere
siano a lui indirizzate. Si dirà : una grande ami cizia univa il Russo al
Cuoco, amicizia d'antica data, in trinsichezza fraterna ; si dirà : il Russo ha
fatto pervenire all'amico studioso il Progetto di costituzione, ond' egli ne
prenda visione per le sue ricerche, quindi è naturale che a lui sia diretta la
critica ideale della legge. Sì, tutto ciò va bene, ma non bisogna dimenticare
che proprio Vin cenzio Russo è il rappresentante tipico dell'astratto rivo
luzionarismo, di cui il nostro fa la requisitoria, proprio il Russo il corifeo
dell'estremismo che il Cuoco detesta ( 1 ) , proprio il Russo, il socialista
che crede furto la proprietà che l'amico invece pone base della nuova società e
del nuovo ordinamento civile , come diremo. Teniamo pre sente ciò e le lettere
assumeranno un duplice valore, di critica scientifica e giuridica,
d'opposizione ad un si stema politico culturale . Sono, ripeto, l'una contro
l'altra due filosofie , due sistemi, il sistema rivoluzionario, esu berante e
fiducioso nel momentaneo trionfo dell'idea, il sistema liberale moderato, più
realistico, che solo nel tempo lentamente spera di vedere sanzionata dalla
storia la sua forza. Chi era Vincenzio Russo ? ( 2 ) . Basta leggere i suoi Pen
del Cuoco, ripubblicato con le sedicenti note del Lancellotti nella cit .
edizione napoletana del '61 . II ROMANO, op. cit., p . 22 e p. 62 e sgg. crede
i Frammenti anteriori al Saggio. Lo stesso il CROCE, La rivoluzione napoletana,
p. 108 . ( 1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108 e sgg. , scrive a
proposito del Russo e del suo estremismo: « Certo , anche gli amici che gli
volevano bene e l'avevano in grande stima per la sincerità e nobiltà dei suoi
convincimenti, come il suo compagno della prima giovinezza Vincenzo Cuoco, non
potevano appro vare la via senza uscita per la quale egli si era messo » . ( 2
) Su V. Russo vedi B. CROCE, La rivoluzione napoletana, pp. 85-112 ; nonchè G.
DE RUGGIERO, Il pensiero politico meri dionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza
ed ., Bari, 1922, p. 120 e sgg. , che ci offre una buona analisi del pensiero
del 39 sieri politici , sui quali lo stesso Cuoco esprime nel Saggio un
giudizio ( 1 ) un po' incolore, sebbene ne tra peli una critica, per intendere
il suo astrattismo . Rileg giamo, a proposito, le parole di Benedetto Croce. Il
suo sistema si fondava « sull'idea di una repubblica popo lare, in cui ciascuno
possederebbe un pezzo di terra da coltivare direttamente e da trarne i mezzi di
sussistenza . Non testamenti e non atti tra vivi, e neanche succes E sioni
legittime; alla morte del possessore la quota di lui sarebbe tornata alla
repubblica per una nuova di stribuzione. Gli uffici esercitati dagli stessi
cittadini agricoltori, epperò senza stipendio, altro che i mezzi di sussistenza
a coloro cui fosse tolto il tempo di lavorare personalmente la terra ; al qual
uopo si sarebbero fatti leggieri prelevamenti sulle quote dei coltivatori. L'in
dustria, domestica e ridotta al puro necessario ; e il com mercio ridotto , del
pari, a permuta di cose necessarie. Nessun lusso di nessuna sorta ;
l'istruzione si sarebbe ristretta principalmente alla morale repubblicana e ai
princípi dell'agricoltura . Nessuna religione, tranne forse « un tal quale
vincolo di fratellanza nel centro di una idea sublimamente tenebrosa » ; e
quindi, non classe sa cerdotale. Non grandi città : una serie di piccoli
villaggi costituirebbero le nazioni. E, tra le nazioni, non più guerre, tranne
quelle per liberare le nazioni oppresse o per respingere tentativi di
oppressione. Le nazioni, in unione tra loro, avrebbero poi formato, come
termine ultimo, la « Società universale » ( 2 ) . Era nel Russo, come in molti
rivoluzionari, special 다.
l'insigne martire del '99, specie nelle sue derivazioni dal Leib nitz e dal
Rousseau . Un sunto delle dottrine del Russo ci of frono V. FIORINI e F. LEMMI.
Il periodo napoleonico dal 1799 1 al 1815, Milano, Vallardi, 8. d. , p. 167 e
sgg. ( 1 ) Il giudizio (Saggio , L, p. 209) è il seguente: « La sua opera de
Pensieri politici è una delle più forti che si possano leggere. Egli ne
preparava una seconda edizione, e l'avrebbe resa anche migliore, rendendola più
moderata » . In quel miglio ramento nella moderazione sta tutto Cuoco ! ( 2 )
B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. 40 mente meridionali, un
misto curiosissimo di anticlerica lismo e di romanità, di filosofia ellenica e
di razionalismo moderno, di evangelicità e di naturalismo, che univa insieme
Leibniz e Mably, Condorcet e Bruno, Campa nella e Tacito, Platone e Saint-
Just, un misto di fierezza spartana e di retorica petroliera, di rigidità
catoniana e di montatura civica. Ma se guardiamo il Russo e la sua opera ( 1 )
, non vi troveremo certo il gonfio anticlé ricalismo e le diatribe di Francesco
Lomonaco, che potè col suo scilinguagnolo incantare il giovinetto Manzoni, ma
non potè incantare la posterità ; troveremo, invece, contrasti, contraddizioni,
astrattismi, ma in fondo un sistema, una volontà, un regime di vita e una
aspira zione, sia pure non realizzata, al concreto ( 2 ) . Nella pre fazione ai
suoi Pensieri politici scrive : « Io non ho volta la mente nè alle antiche
repubbliche nè alle moderne, non alle nuove nè alle vetuste legislazioni : ho
consul tato nelle cose stesse la verità » . Quindi un desiderio di analizzare
l'uomo ne'suoi bisogni specifici, e sovra di essi fondare la sua repubblica,
mentre i bisogni stessi individualmente indeterminabili, concetti economici in
sommo grado subiettivi, gli sfuggono. In fondo anche il Russo è un astratto e
non si distingue dai repubblicani, se non per ingegno, non certo per diversità
di metodo e di pratica politica. Basta rileggere i Pensieri e lo studio del
Croce per convincersi che i suoi concetti, democra tizzazione sistematica,
educazione repubblicana e sta tale, fraternità tra i popoli, sono quelli della
generalità, ( 1) La prima edizione dei Pensieri politici è dell'anno 1798 ,
allorquando il Russo, esule da Napoli, trovavasi a Roma, e fu stampata per
sottoscrizione:Pensieri politici diVINCENZIO Russo, napolitano, Roma, presso il
cittadino V. Poggioli, anno I della ri stabilita repubblica Romana. L'opera fu
ristampata in Milano tra il 1800 e il 1801 (Milano, anno IX , Tip. Milanese in
Strada nuova , n. 561 ) ; e poi ancora a Napoli nel 1861 ( ed . a cura del
D'Ayala ) e nel 1894 ( ed. a cura di B. Peluso con pref. di E. De Marinis).
Vedi a proposito B. CROCE, La rivoluzione napole tana , p. 98 , p. 112. ( 2) B.
CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 92 e sg. 33 civile. Aggiungiamo a ciò
quella sua ritrosia , quella specie di natural pigrizia, di cui abbiamo detto,
e comprende remo un altro elemento della solitudine di Vincenzo della sua
critica . Ma la causa principale del suo atteg giamento negativo è sopra tutto,
innanzi tutto spirituale culturale. Che cosa è la rivoluzione per lui, nutrito
di studi con creti d'economia e di storia ? La documentazione della risposta
sta in tutto il Saggio storico, ma io credo che egli, sin dagli inizi del movimento
sovversivo, dovesse pensarla come si espresse in seguito , altrimenti non si
spiega in qual maniera egli abbia potuto in piena repub blica scrivere i suoi
Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo, in risposta al Progetto di
costituzione di Mario Pa gano. Nella dedicatoria del suo Saggio, nella Lettera
del l'autore a N.Q. scrive : « Come va il mondo ! Il re di Na poli dichiara la
guerra ai francesi ed è vinto ; i francesi conquistano il di lui regno e poi
l'abbandonano ; il re ritorna e dichiara delitto capitale l'aver amata la
patria mentre non apparteneva più a lui . Tutto ciò è avvenuto senza che io vi
avessi avuto la minima parte, senza che neanche lo avessi potuto prevedere: ma
tutto ciò ha fatto sì che io sia stato esiliato, che sia venuto in Milano,
dove, per certo, seguendo il corso ordinario della mia vita, non era destinato
a venire, e che quivi , per non aver altro che fare, sia diventato autore.
Tutto è concatenato nel mondo, diceva Panglos : possa tutto esserlo per lo
meglio ! » ( 1 ) . Egli dichiara che nella rivoluzione tutto si i è svolto
senza che egli vi abbia avuto nessuna parte, senza che egli vi sia intervenuto
. L'affermazione è vera solo in quanto si sappia intenderla . Il Cuoco ha preso
parte agli avvenimenti politici del tempo , egli primo lo sa , e i nuovi studi
lo confermano, anche quando per prudenza tace con il fine di non compromettere
persone, che non vuol compromettere. Nel capo I del suo Saggio, esplicando la
natura del suo lavoro, studio di idee e non di fatti, con cui quasi intende
prevenire il giudizio della ( 1 ) V. Cuoco , Saggio storico, p. 11 . 3 - F.
BATTAGLIA , 34 posterità sugli avvenimenti, di cui è stato spettatore e di cui
imprende la narrazione, s'esprime diversamente. « Dichiaro che non sono addetto
» scrive « ad alcun par tito, a meno che la ragione e l'umanità non ne ab biano
uno. Narro le vicende della mia patria ; racconto avvenimenti che io stesso ho
veduto e de quali sono stato io stesso un giorno non ultima parte ; scrivo pei
miei con cittadini, che non debbo, che non posso, che non voglio ingannare » (
1 ). Dunque di fatto l'autore stesso accetta la partecipa zione. Che vuol dire
? Cuoco sin dall'inizio della rivo luzione ha la coscienza della passività di
questa, in quanto è opera d'una classe colta, che ha suoi bisogni speciali ,
più intellettuali che materiali, e non opera del popolo, il vero agente delle
grandi rivoluzioni ; ha la coscienza della fatalità del movimento repubblicano,
in quanto non spontaneo , scaturito invece da contraccolpi internazionali, che
nessuno può evitare e dirigere ; ma nello stesso tempo egli non può sottrarsi
al terribile vortice che lo attrae, perchè la sua educazione e in parte la sua
cultura sono quelle della classe dirigente, perchè conosce la nobiltà dei propositi
di questa, perchè sa, e questo sovra ogni altra cosa è decisivo, l'ignominia
che da dieci anni in qua ha guidato i Borboni e i loro fa voriti , incapacità ,
cupidigia , sfrenatezza . La rivoluzione per Vincenzo è davvero un fatale
vortice. La parola « vortice » per caratterizzare la rivoluzione ricorre spesso
ne'suoi scritti. Egli non ne condivide le idee, ne critica la genesi, ne
prevede la triste fine, ciò non per tanto non può sottrarsene perchè i suoi
bisogni, la sua classe, la sua posizione sociale infallibilmente lo traggono ad
una par tecipazione, che noi possiamo, come la rivoluzione stessa, chiamare
passiva ( 2 ) . Nè basta ! Egli vede che la rivo luzione di Napoli è più
francese che italiana ; che gli uomini, che sono alla testa della cosa pubblica,
sono più ( 1 ) V. Cuoco , Saggio storico , I , p. 16. ( 2 ) Oltre i brani
citati cfr. Saggio storico, VIII , p. 47 ; XV, p. 84 ; XVI, p. 90. 35
illuministi che non i pensatori francesi, che s ' astrag gono dalla realtà e
costruiscono sull'acqua, alla ricerca d'un bene che dovrebbe provenire dalla
pura ragione, senza nessi con i bisogni concreti delle masse, senza legami con
l'immanente vita pubblica, che vuole essere soddisfatta con provvedimenti
specifici e non con le pa role . Questo il Cuoco nota, e doveva aver già notato
da un pezzo : fin dai primi processi del '94 il giovine Vin cenzo ha dovuto
notare l'astrattismo repubblicano, con sacrato del resto dal sangue de'
martiri, e meditarlo aspramente, molto aspramente, se poi darà nel Saggio
giudizi rudi contro i fanciulli e gli studenti infrancio sati ( 1 ) . Queste
poche osservazioni bastano a spiegarci il contegno di Vincenzo Cuoco nei grandi
eventi del 1799, contegno di critica, dunque, dovuto ad un diverso tem
peramento culturale, ad una vera antitesi o incompati bilità d'educazione e di
metodo tra il nostro e i suoi compatrioti, non già, come qualche storico vuole
( 2) , ad un vero e proprio antifrancesismo, antifrancesismo, che, se potè
essere difesa de costumi e del pensiero italiano contro la moda straniera, non
fu mai astio contro la nobile nazione gallica , nella quale anzi l'autore degli
articoli del Giornale italiano, di cui parleremo a lungo, ebbe grande fiducia
per l'avvenire d'Italia . Questo può spiegarci la natura dei Frammenti di lettere
a Vincenzio Russo, che ci appaiono non l'appendice, come giusta mente nota il
Romano, ma i precedenti solidi e sobri del Saggio storico ( 3 ) . ( 1 ) M.
Rosi, op. cit. , v. I , p. 206 e sgg.; B. CROCE, La rivo luzione napoletana,
pp. 194-230, ove troverai abbondanti notizie sui primi movimenti sovvertitori a
Napoli, sui primi processi , sulla morte eroica di De Deo, Vitaliani e Galiani.
( 2 ) P. HAZARD, op. cit. , 219 e sgg . ( 3 ) Prima di andare innanzi bisogna
pur dire poche parole intorno ad una questione cuochiana. Si tratta d'un
argomento già dibattuto e risolto , ma su cui mette conto indugiarsi, poi che
la figura del nostro dal contrasto s'avvantaggia e non è menomata. U. Tria in
una sua nota , Vincenzo Cuoco a propo sito di due sue lettere inedite,
pubblicata in Rassegna critica della 36 Dopo che il Governo provvisorio di
Napoli fu diviso in due commissioni, la legislativa e l'esecutiva, la prima
letteratura italiana, v. VI, ( 1901 ) , p. 193 e sgg. , getta gravi ac cuse
sulla figura morale del molisano. Le lettere, sulle quali il Tria basa la sua
requisitoria contro il nostro autore, sono state alui date dal signor
L.A.Trotta di Toro ( Molise) . « In tutte e due le lettere » , scrive il Tria «
il Cuoco di scorre liberamente con il fratello (Michele Antonio] di sè stesso ,
dei suoi interessi, dei progetti, delle speranze sue. Evidente mente egli non
si angustiava del suo avvenire, non perchè le difficoltà incontrate aMilano
fossero moltissime, ma, anelando egli a raggiungere una condizione migliore e
più comoda degli indugi si infastidiva , e per sè stesso e per il vantaggio dei
suoi, che sempre aveva nel cuore. Nè gli studi sulla storia degli an tichi
italiani, che proprio in quegli anni andava facendo, nè le vicende non liete
della patria sua oppressa, nè il rumore degli inauditi successi di Napoleone lo
distoglievano dal suo particu lare, siccome avrebbe detto molto esattamente il
Guicciardini ! », Cosi il Tria : e tutto ciò , perchè il povero Cuoco, pur tra
le angu stie economiche dell'esilio, rivolge il pensiero ai suoi cari ! Ma fin
qui poco male, se il Tria , basandosi su alcune frasi dello scri vente , non
avesse voluto gravar la mano anche sull'uomo poli tico . Vediamo prima di tutto
le frasi incriminate. In quel tempo, siamo tra il 1871 e il 1802, il governo
borbonico era disposto a concedere al Cuoco il perdono, ma egli lo rifiutò . «
A che ritor nerei io in patria scrive l'esule al fratello . —- Se io fussi reo
, accetterei un perdono : ma un uomo che non ha avuto la viltà di far un
delitto , un uomo che ha potuto esser condannato solo perchè si trovò
strascinato in un vortice che egli odiava, ma a cui era im possibile resistere
; un uomo in cui l' amor della patria, della pace, della virtù non sono parole,
un tale uomo non deve cer tamente esser contento di un perdono che gli lascia
sempre l'apparenza di reo » . Alte sublimi parole, che non possiamo non
raffrontare con quelle non meno alte e sublimi, con cui l'Ali ghieri rispondeva
all'amico fiorentino, che gli annunciava l'umi liante grazia del sospirato
ritorno in patria. Ebbene in esse il Tria vede un indice di disdegno verso la
rivoluzione, dal Cuoco designata col nome di vortice. « Le parole sue»
commenta, « hanno un certo sapore di pentimento e di ritrattazione, che non gli
fanno onore: ora egli sconfessa gli atti e gli scatti del cittadino Cuoco, che
pure, durante la Repubblica, s'era reso benemerito della patria ; si dice un
fuorviato, dimentica i compagni di lotta, di patimenti, li rinnega » , Abbiamo
citato abbondevolmente dal Tria, tanto più per di mostrare come ci si discosti
dal vero, quando, sedotti dalle ap parenze ci si abbandona ad esse, senza
penetrare nello spirito 45 senso che le costituzioni siano una formazione
assoluta mente irriflessa e popolaresca, che il giurista osserva senza
intervenire, passivo, ma nel senso che non possano prescindere, sia pure quando
sono opera di studio perso nale e di ricerca dotta, dalla concreta realtà della
nazione. La faccenda si chiarifica. La Volkseele dello Schelling, la coscienza
giuridica popolare del Savigny diventano, sono nel Cuoco, più concreto e
positivo, i bisogni del po polo, bisogni economici e materiali, religiosi e
morali, qualcosa di più tangibile. « I nostri filosofi , » scrive « sono spesso
illusi dall'idea di nu ottimo, che è il peggior nemico del bene. Se si volesse
seguire i loro consigli, il mondo, per far sempre meglio, finirebbe col non far
nulla » . « L'ottimo non è fatto per l'uomo .... » ( 1 ) . Costoro, ai quali
accenna il critico, sono i rivoluzionari astratti, che credono ad un
universale, che non è, e vanno tanto alto da perdere ogni contatto col mondo.
Una costituzione non può scaturire dal cervello di un uomo, come Pallade dal
cervello di Giove, armata e folgorante ; deve sorgere dopo mature riflessioni,
sulla natura della nazione deve avere una base. « Questa base deve poggiare sul
carattere della nazione, deve precedere la costituzione ; e mentre con questa
si determina il modo in cui una nazione debba esercitare la sua sovra nità, vi
debbono esser molte cose più sacre della costi tuzione istessa , che il
sovrano, qualunque sia, non deve poter alterare » ( 2 ) . Nessuno può « törre
al popolo tutti i suoi costumi, tutte le sue opinioni, tutti gli usi suoi, che
io chiamerei base di una costituzione » ( 3 ) . Il Cuoco, se osserviamo bene la
questione, distingue due momenti : una elaborazione incosciente del popolo che
crea istituti giuridici, per consuetudine, desumendoli dalla sua stessa essenza
; una elaborazione cosciente e riflessa, che sistematizza e regola ciò che nel
popolo era mera pratica senza norma. Questi due momenti si compene ( 1 ) Framm
. I , p. 219. ( 2 ) Framm . III, p. 245. ( 3 ) Framm . III , p . 245. 46 trano
e sono indispensabili. La consuetudine, senza la legge, può divenire anarchia ,
dominio della volontà parti colare. La legge, che astragga dalla volontà dei
singoli, è mera parola, generalità senza significato. Siamo lon tani dallo
storicismo tedesco dell'Hugo e del Savigny. La base, alla quale accenniamo, è
d'una grande com plessità. Il costituzionalista, in particolare il legislatore,
deve avere riguardo non solo ai costumi, agli usi, alla religione, ai bisogni
economici, ma anche ai pregiudizi, ai difetti, ai mali del popolo. La vita non
è ottima, nè buona : è male e dolore . Gli uomini sono buoni e cattivi,
generosi ed egoisti, eroi e birbanti. Il più grave pericolo è che il
legislatore, più filosofo che uomo politico, alla ricerca dell'eterno
dimentichi il transeunte, alla ricerca dell'ottimo dimentichi il buono, creda
non esservi il male. Le costituzioni debbono parlare alla fantasia e ai sensi
dei popoli, avere una certa solennità, quasi un ele mento sacro, perchè « dopo
le sue opinioni ed i suoi costumi, il popolo nulla ha di più caro che le
apparenze della regolarità e dell'ordine » ( 1 ) . È un consiglio di este
riorità. Poco importa ! Le plebi amano l'esteriorità . « Quelle leggi sono più
rispettate dal popolo, che con mag giori solennità esterne colpiscono i sensi »
( 2 ) . Dunque, ammesso che un legislatore possa dare una costituzione, interpretando
più che sia possibile le esi genze di una nazione, come potrà e dovrà egli
compor tarsi ? .Un popolo ha dei costumi. « Non vi è nazione quanto si voglia
corrotta e misera, la quale non abbia de costumi , che convien conservare ; non
vi è governo quanto si voglia dispotico, il quale non abbia molte parti
convenienti ad un governo libero. Ogni popolo che oggi è schiavo fu libero una
volta.... Quanto più pesante sarà la schiavitù di un popolo, tanto più questi
avanzi degli altri tempi gli saran cari ; perchè non mai tanto, quanto tra le
avversità , ci son care le memorie dei tempi felici . Quanto più il governo che
voi distruggete è stato ( 1 ) Framm . III , p. 246. ( 2) Framm. III , p. 246.
47 barbaro, tanto più numerosi avanzi voi rinvenite di an tichi costumi; perchè
il governo, urtando troppo violen temente contro il popolo, l'ha quasi
costretto a trince rarsi tra le sue antiche istituzioni, nè ha rinvenuto nei
nuovi avvenimenti ragione di seguirli e di abbandonare ed obbliare gli antichi
» ( 1 ). Nello sviluppo storico nulla si perde completamente : l'evoluzione
vitale degli uomini e delle istituzioni loro è trasformazione e non
distruzione, onde sotto la scorza della modernità si possono ritrovare i nuclei
ancor verdi dell'antico. La tradizione non è un culto senza dèi, pro prio de'
letterati e de ’ filosofi, è la vita della nazione, è quel che di più sacro
essa ha, poi che rappresenta la sua continuità. Ciò non deve dimenticare il
legislatore, come colui che è più vicino al palpito dei popoli, dovendo re
golare le manifestazioni più svariate della loro attività privata e pubblica. «
Questi avanzi di costumi e governo di altri tempi, che in ogni nazione s '
incontrano, sono preziosi per un legislatore saggio, e debbono formar la base
dei suoi ordini nuovi. Il popolo conserva sempre molto rispetto per tutto ciò
che gli viene dai suoi mag giori ; rispetto che produce talora qualche male, e
spesso grandissimi beni. Ma coloro , che vorrebbero distruggerlo , non si
avvedono che distruggerebbero in tal modo ogni fondamento di giustizia ed ogni
principio d'ordine so ciale ? Noi non possiamo più far parlare gli dèi come i
legislatori antichi facevano : facciamo almeno parlare gli eroi, che agli occhi
dei popoli son sempre i loro antichi. Un popolo , il quale cangiasse la sua
costituzione per solo amor di novità, non potrebbe far altro di meglio, che
darsi una costituzione all'anno . Ma, per buona sorte, un tal popolo non esiste
che nella fantasia di qualche filo sofo » ( 2 ) . Un legislatore quindi può realmente
fare del bene alla nazione, ma deve seguire la natura, cioè la na zione stessa
nel suo spirito, e trarre da essa il sistema costituzionale, non il sistema
costituzionale da princípi ( 1 ) Framm . I , p . 220 e sg. ( 2 ) Framm . I , p
. 221 . 48 che non sono nella natura, ma nella testa dei filosofi. « Tutto è
perduto quando un legislatore misura la infi nita estensione della natura colle
piccole dimensioni della sua testa, e che, non conoscendo se non le sue idee,
gira per la terra come un empirico col suo segreto, col quale pretende medicar
tutt'i mali » ( 1 ) . Vincenzo Cuoco ci si presenta come un tradizionalista e
un moderato. Non bisogna distruggere per distruggere, perchè si può perdere il
buono per un problematicissimo ottimo ; non bisogna atterrare, perchè non
sempre si può ricostruire; non bisogna aprire un novus ordo, perchè i novi
ordines dei filosofi sono in cielo e non in terra. Bi sogna costruire su quel
che già è, edificare sulle fonda menta della storia, che non soffre soluzioni
di continuità, riformare e non distruggere. « Io non credo la costitu zione
consistere in una dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino » ( 2 ) .
Essa è qualcosa di più profondo : è il popolo, il quale da sè stesso trae le
norme regolatrici della sua esistenza, della sua attività, della felicità . « E
chi non sa i suoi diritti ? Ma gran parte degli uomini li cede per timore;
grandissima li vende per interesse : la costituzione è il modo di far sì che
l'uomo sia sempre in uno stato da non esser nè indotto a venderli, nè costretto
a cederli, nè spinto ad abusarne » ( 3) . Ciò è possibile solo in quanto la
costituzione assicuri un medio benessere, attinga quella umana felicità , alla
quale abbiamo ac cennato. Le rivoluzioni nascono da un malessere economico generalizzato.
Le costituzioni post-rivoluzionarie debbono ristabilire l'equilibrio, il
benessere, l'armonia, la vita pa cifica ed operosa. Per fare ciò bisogna
intendere le esi genze e i bisogni della nazione, i suoi costumi, il suo
carattere . Ecco perchè Cuoco ci dice che, se egli fosse invitato a dar leggi
ad un popolo, vorrebbe prima stu diarlo e conoscerlo ; ecco perchè Cuoco ci
dice che egli ( 1 ) Framm . I , p . 221 . ( 2 ) Framm. II, p. 233. ( 3 ) Framm
. II , p. 233. 41 forse più accentuati da una dinamica naturale d'ora tore, da
un estremismo fervente, che voleva, credo, far dimenticare in una vita
intemeratamente vissuta un istante di antica debolezza ( 1) . Queste
esagerazioni non sono proprie del tempera mento meridionale, ed in genere
italiano. Ma, come bene osserva il Romano, calcando un giudizio di G. Zito ( 2
) , « mentre all'inizio del movimento, i nostri alle teorie nuove davano di
proprio la misura e la calma, in seguito invece l'intrepidezza deduttiva
propria del tempera mento francese, non trovò più freni neppur da noi, e
sovente le dottrine non furono sottoposte a tentativi di analisi e di giudizio
» ( 3 ) . Ed è proprio così ! Anche Mario Pagano, mente geniale e solida, è
travolto dalla corrente e segue l'andazzo . Il suo vichismo non è coerente a sè
stesso , e risente gli influssi esterni, e , se pure gli studi suoi non sono
pura speculazione metafisica, « giovevole se mai nella scuola e presso che
inutile, se non pure dan nosa, nell'attrito reale del governo di uno Stato » (
+) , è certo però che il grande autore del Processo criminale si mostrò
insufficiente all'ardua opera della ricostru zione . Dare la costituzione ad un
popolo è l'opera più grande che un uomo possa a sè stesso assegnare, opera da
far tremare le vene e i polsi non solo ai legislatori di oggi, ma a menti
divine, come quelle di Platone e di Aristo tele. La costituzione non può essere
una sovrastruttura , che i dirigenti impongano ad un popolo, perchè le costi
tuzioni non si dànno ab externo, ma si formano nelle coscienze prima che sulla
carta, e, se pure si impongono, non si reggono sulle armi e sui fucili. Il
popolo è una realtà concreta viva palpitante, ne' suoi molteplici bi sogni, ne
' suoi desiderî , ne' suoi costumi , ne' suoi pre ( 1 ) B. CROCE, La
rivoluzione napoletana , p. 87. ( 2 ) G. Zito, Vita cd opere di Mario Pagano,
Potenza, Tip. Garramone, 1901 , passim . ( 3 ) M. ROMANO, op. cit. , p. 61. ( 4
) ROMANO, op. cit . , p. 63. Il giudizio sull'opera del Pa gano è eccessivo e
non può essere senz'altro condiviso da noi. 42 giudizi. Egli non sopporterà mai
una legge, che non intende la sua intima vita e il suo benessere, che tra
scenda la sua natura. « Le costituzioni sono simili alle vesti : è necessario
che ogni individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria, la
quale, se tu vorrai dare ad altri, starà male. Non vi è veste, per quanto sia
mancante di proporzioni nelle sue parti, la quale non possa trovare un uomo
difforme cui sieda bene ; ma, se vuoi fare una sola veste per tutti gli uomini,
ancorchè essa sia misurata sulla statua modellaria di Poli clete, troverai
sempre che il maggior numero è più alto, più basso, più secco , più grasso, e
non potrà far uso della tua veste » ( 1 ) . Non esiste un ottimo
costituzionale, esi ste un buono relativo alla vita delle singole genti . « Le
costituzioni si debbono fare per gli uomini quali sono e quali eternamente
saranno, pieni di vizi , pieni di er rori ; imperocchè tanto è credibile che
essi voglian de porre que' loro costumi, che io reputo una seconda natura, per
seguire le nostre istituzioni, che io credo arbitrarie e variabili, quanto
sarebbe ragionevole un calzolaio che pretendesse accorciare il piede di colui
cui avesse fatta corta una scarpa » ( 2 ) . I due raffronti con la veste e la
scarpa, tratti dal mondo fisico, sono d'una evidenza mirabile. Il legislatore
deve intendere il popolo, e costruire sulla base dei bisogni del popolo. Il
popolo non parla. Ma per lui parla tutto, costumi, usanze, religione,
pregiudizi, vizi. Le costituzioni non si fanno nei gabinetti e negli studî,
nelle scuole e nelle accademie, nascono da sè, sotto l'impulso di concrete
esigenze dell'anima collettiva, o più vichianamente della collettività , e il
legislatore non può essere che un interprete di essa collettività, della ( 1 )
Seguo il già citato testo del NICOLINI , edito dal Laterza di Bari, che come
tutte le altre ed . cuochiane, porta i Fram menti di lettere a V. Russo in
appendice al Saggio. Per le ci tazioni basterà quindi la sigla Framm. seguita
dal numero d’or dine I o II ecc., e dalla pagina dell'edizione barese, Framm .
I , p. 218. ( 2 ) Framm. I , p. 219. 43 sono sua coscienza, non già il saggio
che dal suo cielo di sa pienza impone norme e nomi. L'obietto delle
costituzioni sono gli uomini, e gli uomini sono pieni di vizi, pieni di errori.
Ora, chi si propone di legiferare deve prendere gli uomini, come sono, e non
andare alla ricerca di un ottimo, che in na tura non è, contentarsi di rendere
felici gli uomini, e ren dere felici gli uomini si può solo, soddisfacendo alla
loro natura, che è un misto di buono e di cattivo, d'eticità e di pregiudizi,
di religione e di ferocia . Siamo, come ognun vede, penetrati nel pieno della
critica cuochiana, ma la mia mente, riflettendo su queste acutissime
osservazioni, non può non instaurare un pa ragone tra il relativismo giuridico
del nostro e lo stori cismo germanico di Gustavo Hugo e di Federico Carlo
Savigny. È curioso ! Negli stessi anni, nell' infierire della rivoluzione
francese, o quando ancor fresche ne le conseguenze, con basi, cultura
diametralmente diverse, con intendimenti presso che uguali, scrivono in Italia
il Cuoco, in Inghilterra il Burke, le di cui Riflessioni sulla rivoluzione
francese sono del 1790, in Germania l'Hugo che nello stesso anno 1790 formula in
un suo libro quei prin cípi , che poi il Savigny, nel 1814, nella polemica col
Thibaut, svilupperà nell'operetta : Della vocazione del nostro tempo per la
legislazione e la giurisprudenza . Ma tra il Savigny e l'illuminismo
rivoluzionario c'è uno sviluppo continuo di pensiero germanico, tra il Cuoco e
la rivoluzione non c'è transizione, poi che egli scrive i Frammenti nella
rivoluzione stessa, quando già i san fedisti di Ruffo sono alle porte della
città. Notiamo però come un certo parallelo c'è : il nostro si ricollega al
Vico, tradizione perenne d'italianità ; il Savigny parla di una coscienza
giuridica popolare, che non può non tro vare la sua origine nella filosofia
idealista tedesca, Schel ling e Hegel, ai quali il grande giurista si
ricollegano. Guardiamo brevemente la questione. Col Cuoco siamo da un punto di
vista filosofico giuridico più innanzi, ma il parallelismo non manca . Che cosa
è il diritto per il Sa vigny che combatte l'unificazione legislativa e la codi
44 ficazione proposta dal Thibaut ? Non certo un quid astratto, vivo nel solo
pensiero del legislatore. Il diritto ha úna vita sua propria nella vita d'ogni
giorno, che non è che consuetudine irriflessa e pratica comune. Ricor diamo lo
Schelling : il principio dello spirito collettivo, principio animatore in
perpetuo divenire, si sviluppa dalla sua filosofia, dall'evoluzione stessa
della natura nell'infinita sua produttività , concepita non più come mero
oggetto, ma come soggetto, nucleo di sviluppo di tutto il pensiero germanico,
che dal dualismo di Kant risolve il problema, attraverso Schelling, in Hegel,
ul tima conseguenza della posizione kantiana. Il concetto evolutivo della
natura trascorre nel diritto. Il diritto è la manifestazione d'una coscienza
giuridica che è nel popolo, il quale popolo ha una sua anima ( la Volkseele
dello Schelling ), che determina la morale, l'arte, il lin guaggio, e così pure
il diritto e la costituzione politica. Quel che nello Schelling è generalmente
accennato all'ori gine della costituzione e degli ordini civili, nel Savigny è
applicato ad una questione concreta : se convenga im mobilizzare il diritto,
elaborazione istintiva e irriflessa , viva nella consuetudine, in un sistema di
codici. Donde una illazione : la costituzione, legge fondamentale, non può che essere
la risultante d’un'elaborazione incosciente del popolo, che il legislatore può
cogliere ed inquadrare per princípi, ma non ex novo, così come il grammatico
studia la lingua già formata e non crea la lingua. Il Cuoco più concretamente
non arriva alle conclusioni un po' anarchiche del Savigny, il quale in reazione
ad una filosofia che pretendeva di sistematizzare e creare tutto a fil di
logica, si appalesa ostile ad ogni costituzione scritta , come ad ogni
codificazione; il Cuoco ammette in vece che un legislatore possa compilare un
progetto di costituzione. Ma come ? Il legislatore deve interpretare i bisogni
del popolo, alla felicità del quale vuol provve dere. Il principio base è uno.
« Le costituzioni durevoli sono quelle che il popolo si forma da sè » ( 1 ) .
Ciò non nel ( 1 ) Framm . I , p. 218 , 33 civile. Aggiungiamo a ciò quella sua
ritrosia, quella specie di natural pigrizia, di cui abbiamo detto, e comprende
remo un altro elemento della solitudine di Vincenzo e della sua critica . Ma la
causà principale del suo atteg giamento negativo è sopra tutto, innanzi tutto
spirituale culturale . Che cosa è la rivoluzione per lui , nutrito di studi con
creti d'economia e di storia ? La documentazione della risposta sta in tutto il
Saggio storico, ma io credo che egli, sin dagli inizi del movimento sovversivo
, dovesse pensarla come si espresse in seguito, altrimenti non si spiega in
qual maniera egli abbia potuto in piena repub blica scrivere i suoi Frammenti
di lettere dirette a Vincenzio Russo, in risposta al Progetto di costituzione
di Mario Pa gano. Nella dedicatoria del suo Saggio, nella Lettera del l'autore
a N.Q. scrive : « Come va il mondo ! Il re di Na poli dichiara la guerra ai
francesi ed è vinto ; i francesi conquistano il di lui regno e poi l'abbandonano
; il re ritorna e dichiara delitto capitale l’aver amata la patria mentre non
apparteneva più a lui . Tutto ciò è avvenuto senza che io vi avessi avuto la
minima parte, senza che neanche lo avessi potuto prevedere: ma tutto ciò ha
fatto sì che io sia stato esiliato, che sia venuto in Milano, dove, per certo,
seguendo il corso ordinario della mia vita, non era destinato a venire, e che
quivi , per non aver altro che fare, sia diventato autore . Tutto è concatenato
nel mondo, diceva Panglos : possa tutto esserlo per lo meglio ! » ( 1 ). Egli
dichiara che nella rivoluzione tutto si è svolto senza che egli vi abbia avuto
nessuna parte, senza che egli vi sia intervenuto . L'affermazione è vera solo
in quanto si sappia intenderla. Il Cuoco ha preso parte agli avvenimenti
politici del tempo, egli primo lo sa, e i nuovi studi lo confermano, anche
quando per prudenza tace con il fine di non compromettere persone, che non vuol
compromettere. Nel capo I del suo Saggio, esplicando la natura del suo lavoro,
studio di idee e non di fatti, con cui quasi intende prevenire il giudizio
della ( 1 ) V. Cuoco , Saggio storico , p. 11 . 3 E. BATTAGLIA . 34 posterità
sugli avvenimenti , di cui è stato spettatore e di cui imprende la narrazione,
s'esprime diversamente. « Dichiaro che non sono addetto » scrive « ad alcun par
tito , a meno che la ragione e l'umanità non ne ab biano uno. Narro le vicende
della mia patria ; racconto avvenimenti che io stesso ho veduto e de'quali sono
stato io stesso un giorno non ultima parte ; scrivo pei miei con cittadini, che
non debbo, che non posso, che non voglio ingannare » ( 1 ) . Dunque di fatto
l'autore stesso accetta la partecipa zione. Che vuol dire ? Cuoco sin
dall'inizio della rivo luzione ha la coscienza della passività di questa, in
quanto è opera d'una classe colta, che ha suoi bisogni speciali, più
intellettuali che materiali, e non opera del popolo, il vero agente delle
grandi rivoluzioni; ha la coscienza della fatalità del movimento repubblicano,
in quanto non spontaneo, scaturito invece da contraccolpi internazionali, che
nessuno può evitare e dirigere; ma nello stesso tempo egli non può sottrarsi al
terribile vortice che lo attrae, perchè la sua educazione e in parte la sua
cultura sono quelle della classe dirigente, perchè conosce la nobiltà dei
propositi di questa, perchè sa, e questo sovra ogni altra cosa è decisivo,
l'ignominia che da dieci anni in qua ha guidato i Borboni e i loro fa voriti ,
incapacità, cupidigia, sfrenatezza. La rivoluzione per Vincenzo è davvero un fatale
vortice. La parola « vortice » per caratterizzare la rivoluzione ricorre spesso
ne' suoi scritti . Egli non ne condivide le idee, ne critica la genesi, ne
prevede la triste fine, ciò non per tanto non può sottrarsene perchè i suoi
bisogni, la sua classe, la sua posizione sociale infallibilmente lo traggono ad
una par tecipazione, che noi possiamo, come la rivoluzione stessa , chiamare
passiva ( 2 ) . Nè basta ! Egli vede che la rivo luzione di Napoli è più
francese che italiana ; che gli uomini, che sono alla testa della cosa
pubblica, sono più ( 1 ) V. Cuoco , Saggio storico , I , p. 16 . ( 2 ) Oltre i
brani citati cfr. Saggio storico , VIII , p. 47 ; XV, p. 84 ; XVI, p. 90. 35
illuministi che non i pensatori francesi, che s ’ astrag gono dalla realtà e
costruiscono sull’acqua, alla ricerca d'un bene che dovrebbe provenire dalla
pura ragione, senza nessi con i bisogni concreti delle masse, senza legami con
l'immanente vita pubblica, che vuole essere soddisfatta con provvedimenti
specifici e non con le pa role. Questo il Cuoco nota, e doveva aver già notato
da un pezzo : fin dai primi processi del '94 il giovine Vin cenzo ha dovuto
notare l'astrattismo repubblicano, con sacrato del resto dal sangue de'
martiri, e meditarlo aspramente, molto aspramente, se poi darà nel Saggio
giudizi rudi contro i fanciulli e gli studenti infrancio sati ( 1 ). Queste
poche osservazioni bastano a spiegarci il contegno di Vincenzo Cuoco nei grandi
eventi del 1799, contegno di critica, dunque, dovuto ad un diverso tem peramento
culturale, ad una vera antitesi o incompati bilità d'educazione e di metodo tra
il nostro e i suoi compatrioti, non già, come qualche storico vuole ( 2) , ad
un vero e proprio antifrancesismo , antifrancesismo, che, se potè essere difesa
de costumi e del pensiero italiano contro la moda straniera, non fu mai astio
contro la nobile nazione gallica, nella quale anzi l'autore degli articoli del
Giornale italiano, di cui parleremo a lungo, ebbe grande fiducia per l'avvenire
d'Italia. Questo può spiegarci la natura dei Frammenti di lettere a Vincenzio
Russo, che ci appaiono non l'appendice, come giusta mente nota il Romano, ma i
precedenti solidi e sobri del Saggio storico ( 3 ) . ( 1 ) M. Rosi, op. cit. ,
v. I, p. 206 e sgg.; B. CROCE, La rivo luzione napoletana, pp. 194-230, ove
troverai abbondanti notizie sui primi movimenti sovvertitori a Napoli, sui
primi processi , sulla morte eroica di De Deo, Vitaliani e Galiani. ( 2 ) P.
HAZARD, op. cit. , 219 e sgg. ( 3) Prima di andare innanzi bisogna pur dire
poche parole intorno ad una questione cuochiana. Si tratta d'un argomento già
dibattuto e risolto , ma su cui mette conto indugiarsi , poi che la figura del
nostro dal contrasto s’avvantaggia e non è menomata. U. Tria in una sua nota,
Vincenzo Cuoco a propo sito di due sue lettere inedite , pubblicata in Rassegna
critica della 36 Dopo che il Governo provvisorio di Napoli fu diviso in due
commissioni, la legislativa e l'esecutiva, la prima letteratura italiana , v.
VI, ( 1901), p. 193 e sgg. , getta gravi ac cuse sulla figura morale del
molisano. Le lettere , sulle quali il Tria basala sua requisitoria contro il
nostro autore, sono state alui date dal signor L. A. Trotta di Toro ( Molise) .
« In tutte e due le lettere » , scrive il Tria « il Cuoco di scorre liberamente
con il fratello [Michele Antonio] di sè stesso, dei suoi interessi , dei
progetti , delle speranze sue. Evidente mente egli non si angustiava del suo
avvenire, non perchè le difficoltà incontrate aMilano fossero moltissime, ma,
anelando egli a raggiungere una condizione migliore e più comoda degli indugi
si infastidiva ,e per sè stesso e per il vantaggio dei suoi, che sempre aveva
nel cuore. Nè gli studi sulla storia degli an tichi italiani, che proprio in
quegli anni andava facendo, nè le vicende non liete della patria sua oppressa,
nè il rumore degli inauditi successi di Napoleone lo distoglievano dal suo
particu , lare, siccome avrebbe detto molto esattamente il Guicciardini ! » .
Cosi il Tria : e tutto ciò , perchè il povero Cuoco, pur tra le angu stie
economiche dell'esilio, rivolge il pensiero ai suoi cari ! Ma fin qui poco
male, se il Tria, basandosi su alcune frasi dello scri. vente, non avesse
voluto gravar la mano anche sull’uomo poli tico . Vediamo prima di tutto le
frasi incriminate . In quel tempo, siamo tra il 1871 e il 1802, il governo
borbonico era disposto a concedere al Cuoco il perdono , ma egli lo rifiutò . «
A che ritor nerei io in patria — scrive l’esule al fratello . - Se io fussi
reo, accetterei un perdono : ma un uomo che non ha avuto la viltà di far un
delitto, un uomo che ha potuto esser condannato solo perchè si trovò
strascinato in un vortice che egli odiava, ma a cui era im possibile resistere
; un uomo in cui l ' amor della patria, della pace, della virtù non sono
parole, un tale uomo non deve cer tamente esser contento di un perdono che gli
lascia sempre l'apparenza di reo » . Alte sublimi parole, che non possiamo non
raffrontare con quelle non meno alte e sublimi, con cui l'Ali ghieri rispondeva
all'amico fiorentino, che gli annunciava l'umi liante grazia del sospirato
ritorno in patria. Ebbene in esse il Tria vede un indice di disdegno verso la
rivoluzione, dal Cuoco designata col nome di vortice . « Le parole sue»
commenta, « hanno un certo sapore di pentimento e di ritrattazione, che non gli
fanno onore: ora egli sconfessa gli atti e gli scatti del cittadino Cuoco, che
pure, durante la Repubblica, s'era reso benemerito della patria ; si dice un
fuorviato, dimentica i compagni di lotta, di patimenti, li rinnega » . Abbiamo
citato abbondevolmente dal Tria , tanto più per di mostrare come ci si discosti
dal vero, quando, sedotti dalle ap parenze ci si abbandona ad esse , senza
penetrare nello spirito 37 potè volgersi alla compilazione d’una legge- base
per la repubblica, e architetto un progetto . Il lavoro porta nell'edizione che
ho sott'occhio il seguente titolo : Pro getto di costituzione della repubblica
napoletana del 1799 per Mario Pagano, Giuseppe Logoteta e Giuseppe Cestari ( 1
) , ed è diviso in un Rapporto del Comitato di Legislazione al Governo
provvisorio, opera del Pagano, chè lo stile e tutto lo appalesa, e in una
Dichiarazione dei diritti e doveri dell'uomo, del cittadino, del popolo e de'
suoi rap presentanti, a stendere la quale fu certo maxima pars il celebre autore
dei Saggi politici . Per mezzo di Vincenzo Russo il Pagano dovette farne
pervenire una copia al Cuoco. Questi rispose coi Frammenti ( 2 ) . di uno
scrittore. Potremmo a questo punto intraprendere una confutazione delle
operazioni del Tria, ma non lo facciamo, per chè la confutazione scaturisce da
tutto il nostro lavoro ,e perchè già fatta da N. RUGGIERI, op. cit. , p. 34 e
sgg . e da M. ROMANO, op. cit. , p. 51 e sgg. , i quali non hanno nulla
tralasciato per lu meggiare storicamente la complessa figura del molisano. Noi
perconto nostro abbiamo insistito su questo punto per mettere in guardia il
lettore su certi atteggiamenti del Cuoco , che , certo in antitesi con
l'atteggiamento del tempo suo, occorre valutare da un punto di vista molto
elevato, quasi metastorico, come quello che spesso trascende l'èra sua per
incontrare nel passato e nell'avvenire la più vera essenza del popolo nostro. (
1 ) Seguo per la Costituzione del Pagano l'edizione nap. del 1861, Rapporto al
cittadino Carnot sulla catastrofe napoletana del 1799 per FRANCESCO LOMONACO,
con cenni sulla vita del l'autore, note e aggiunte di MARIANO D'AYALA ed infine
il Pro getto di costituzione della repubblica napoletana del 1799 per MARIO
PAGANO, GIUSEPPE LOGOTETA e GIUSEPPE CESTARI, con note di ANGELO LANZELLOTTI,
Napoli, Tip. di M. Lombardi. ( 2 ) I Frammenti si credono quasi certamente
anteriori al Saggio, scritti quindi proprio durante la rivoluzione, a meno che
non si riesca a provare, il che non mi sembra facile , che siano stati scritti
col Saggio o del tutto dopo. Del resto ideal mente vanno innanzi. N. RUGGIERI,
op . cit ., p . 17 , li crede an ch'egli , scritti durante il tempo della
Partenopea: a pag. 132 della sua monografia conferma il suo giudizio
cronologico, in nota dà notizie sulla bibliografia del Progetto del Pagano,
inedito fino al giorno, in cui il Cuoco stampa il Saggio con l'ap . pendice dei
Frammenti, pubblicato la prima volta a Napoli nel 1820 da Angelo Lancellotti,
seguito da 30 note, 10 sue, 20 38 La critica al progetto ci mostra intero
l'animo di Vin cenzo Cuoco e la sua lucida netta precisa opposizione agli
immortali ed astratti princípi. Ma prima due parole su Vincenzio Russo.
Potrebbe sembrare un puro caso che le lettere siano a lui indirizzate. Si dirà
: una grande ami cizia univa il Russo al Cuoco, amicizia d'antica data, in
trinsichezza fraterna; si dirà : il Russo ha fatto pervenire all'amico studioso
il Progetto di costituzione, ond' egli ne prenda visione per le sue ricerche,
quindi è naturale che a lui sia diretta la critica ideale della legge. Sì,
tutto ciò va bene, ma non bisogna dimenticare che proprio Vin cenzio Russo è il
rappresentante tipico dell'astratto rivo luzionarismo, di cui il nostro fa la
requisitoria, proprio il Russo il corifeo dell'estremismo che il Cuoco detesta
( 1 ) , proprio il Russo, il socialista che crede furto la proprietà che
l'amico invece pone base della nuova società e del nuovo ordinamento civile ,
come diremo. Teniamo pre sente ciò e le lettere assumeranno un duplice valore,
di critica scientifica e giuridica, d'opposizione ad un si stema politico
culturale . Sono, ripeto, l'una contro l'altra due filosofie, due sistemi, il
sistema rivoluzionario, esu berante e fiducioso nel momentaneo trionfo
dell'idea, il sistema liberale moderato, più realistico, che solo nel tempo
lentamente spera di vedere sanzionata dalla storia la sua forza . Chi era
Vincenzio Russo ? ( 2 ) . Basta leggere i suoi Pen del Cuoco, ripubblicato
conle sedicenti note del Lancellotti nella cit. edizione napoletana del '61 .
Il ROMANO, op. cit ., p. 22 e p. 62 e sgg. crede i Frammenti anteriori al
Saggio. Lo stesso il CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108. ( 1 ) B. CROCE,
La rivoluzione napoletana, p. 108 e sgg. , scrive a proposito del Russo e del
suo estremismo : « Certo , anche gli amici che gli volevano bene e l'avevano in
grande stima per la sincerità e nobiltà dei suoi convincimenti, come il suo
compagno della prima giovinezza Vincenzo Cuoco non potevano appro. vare la via
senza uscita per la quale egli si era messo » . ( 2 ) Su V. Russo vedi B.
CROCE, La rivoluzione napoletana, pp. 85-112 ; nonchè G. DE RUGGIERO, Il
pensiero politico meri dionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza ed ., Bari,
1922, p. 120 e sgg. , che ci offre una buona analisi del pensiero del, 39 sieri
politici , sui quali lo stesso Cuoco esprime nel Saggio un giudizio ( 1 ) un po
' incolore, sebbene ne tra peli una critica, per intendere il suo astrattismo .
Rileg giamo, a proposito, le parole di Benedetto Croce. Il suo sistema si
fondava « sull'idea di una repubblica popo lare , in cui ciascuno possederebbe
un pezzo di terra da coltivare direttamente e da trarne i mezzi di sussistenza.
Non testamenti e non atti tra vivi, e neanche succes sioni legittime ; alla
morte del possessore la quota di lui sarebbe tornata alla repubblica per una
nuova di stribuzione. Gli uffici esercitati dagli stessi cittadini agricoltori,
epperò senza stipendio, altro che i mezzi di sussistenza a coloro cui fosse
tolto il tempo di lavorare personalmente la terra ; al qual uopo si sarebbero
fatti leggieri prelevamenti sulle quote dei coltivatori. L'in dustria,
domestica e ridotta al puro necessario ; e il com mercio ridotto , del pari, a
permuta di cose necessarie. Nessun lusso di nessuna sorta ; l'istruzione si
sarebbe ristretta principalmente alla morale repubblicana e ai princípi
dell'agricoltura. Nessuna religione, tranne forse « un tal quale vincolo di
fratellanza nel centro di una idea sublimamente tenebrosa » ; e quindi, non
classe sa cerdotale. Non grandi città : una serie di piccoli villaggi
costituirebbero le nazioni. E, tra le nazioni, non più guerre, tranne quelle
per liberare le nazioni oppresse o per respingere tentativi di oppressione. Le
nazioni, in unione tra loro, avrebbero poi formato, come termine ultimo, la «
Società universale » ( 2 ). Era nel Russo, come in molti rivoluzionari, special
l ' insigne martire del '99, specie nelle sue derivazioni dal Leib nitz e dal
Rousseau . Un sunto delle dottrine del Russo ci of. frono V. FIORINI e F.
LEMMI. Il periodo napoleonico dal 1799 al 1815, Milano, Vallardi, s . d. , p.
167 e sgg . ( 1 ) Il giudizio ( Saggio, L , p. 209) è il seguente: « La sua
opera de Pensieri politici è una delle più forti che si possano leggere. Egli
ne preparava una seconda edizione, e t'avrebbe resa anchemigliore, rendendola
più moderata » . In quel miglio ramento nella moderazione sta tutto Cuoco ! (
2) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. 40 mente meridionali, un
misto curiosissimo di anticlerica lismo e di romanità, di filosofia ellenica e
di razionalismo moderno, di evangelicità e di naturalismo, che univa insieme
Leibniz e Mably, Condorcet e Bruno, Campa nella e Tacito, Platone e Saint-
Just, un misto di fierezza spartana e di retorica petroliera, di rigidità
catoniana e di montatura civica. Ma se guardiamo il Russo e la sua opera ( 1 )
, non vi troveremo certo il gonfio anticle ricalismo e le diatribe di Francesco
Lomonaco, che potè col suo scilinguagnolo incantare il giovinetto Manzoni, ma
non potè incantare la posterità ; troveremo, invece, contrasti, contraddizioni,
astrattismi, ma in fondo un sistema, una volontà, un regime di vita e una
aspira zione, sia pure non realizzata, al concreto ( 2 ) . Nella pre fazione ai
suoi Pensieri politici scrive : « Io non ho volta la mente nè alle antiche
repubbliche nè alle moderne, non alle nuove nè alle vetuste legislazioni : ho
consul tato nelle cose stesse la verità » . Quindi un desiderio di analizzare
l'uomo ne'suoi bisogni specifici, e sovra essi fondare la sua repubblica,
mentre i bisogni stessi individualmente indeterminabili, concetti economici in
sommo grado subiettivi, gli sfuggono. In fondo anche il Russo è un astratto e
non si distingue dai repubblicani, se non per ingegno, non certo per diversità
di metodo e di pratica politica. Basta rileggere i Pensieri e lo studio del
Croce per convincersi che i suoi concetti, democra tizzazione sistematica ,
educazione repubblicana e sta tale, fraternità tra i popoli, sono quelli della
generalità, ( 1) La prima edizione dei Pensieri politici è dell'anno 1798 ,
allorquando il Russo, esule da Napoli, trovavasi a Roma, e fu stampata per
sottoscrizione:Pensieri politici diVINCENZIO Russo, napolitano, Roma, presso il
cittadino V. Poggioli, anno I della ri stabilita repubblica Romana. L'opera fu
ristampata in Milano tra il 1800 e il 1801 ( Milano, anno IX , Tip. Milanese in
Strada nuova , n. 561) ; e poi ancora a Napoli nel 1861 ( ed. a cura del
D’Ayala) e nel 1894 ( ed. a cura di B. Peluso con pref. di E. De Marinis ) .
Vedi a proposito B. CROCE, La rivoluzione napole tana , p. 98, p. 112. ( 2) B.
CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 92 e sg. 41 forse più accentuati da una
dinamica naturale d'ora tore, da un estremismo fervente, che voleva, credo, far
dimenticare in una vita intemeratamente vissuta un istante di antica debolezza
( 1 ) . Queste esagerazioni non sono proprie del tempera mento meridionale, ed
in genere italiano . Ma, come bene osserva il Romano, calcando un giudizio di
G. Zito ( 2) , « mentre all'inizio del movimento, i nostri alle teorie nuove
davano di proprio la misura e la calma, in seguito invece l ' intrepidezza
deduttiva propria del tempera mento francese, non trovò più freni neppur da
noi, e sovente le dottrine non furono sottoposte a tentativi di analisi e di
giudizio » ( 3) . Ed è proprio così ! Anche Mario Pagano, mente geniale e
solida, è travolto dalla corrente e segue l'andazzo . Il suo vichismo non è
coerente a sè stesso , e risente gli influssi esterni, e , se pure gli studi
suoi non sono pura speculazione metafisica, « giovevole se mai nella scuola e
presso che inutile, se non pure dan nosa, nell'attrito reale del governo di uno
Stato » ( 1 ) , è certo però che il grande autore del Processo criminale si
mostrò insufficiente all'ardua opera della ricostru zione. Dare la costituzione
ad un popolo è l'opera più grande che un uomo possa a sè stesso assegnare,
opera da far tremare le vene e i polsi non solo ai legislatori di oggi, ma a
menti divine, come quelle di Platone e di Aristo tele . La costituzione non può
essere una sovrastruttura , che i dirigenti impongano ad un popolo , perchè le
costi tuzioni non si dànno ab externo, ma si formano nelle coscienze prima che
sulla carta, e, se pure si impongono, non si reggono sulle armi e sui fucili .
Il popolo è una realtà concreta viva palpitante, ne' suoi molteplici bi sogni,
ne' suoi desiderî, ne' suoi costumi, ne' suoi pre ( 1 ) B. CROCE , La
rivoluzione napoletana, p. 87 . ( 2 ) G. ZITO, Vita ed opere di Mario Pagano,
Potenza, Tip. Garramone, 1901 , passim . ( 3 ) M. ROMANO, op. cit . , p. 61. (
4) ROMANO, op. cit. , p. 63. Il giudizio sull'opera del Pa gano è eccessivo e
non può essere senz'altro condiviso da noi. 42 e giudizi. Egli non sopporterà
mai una legge, che non intende la sua intima vita e il suo benessere, che tra
scenda la sua natura. « Le costituzioni sono simili alle vesti : è necessario
che ogni individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria , la
quale , se tu vorrai dare ad altri, starà male. Non vi è veste, per quanto sia
mancante di proporzioni nelle sue parti, la quale non possa trovare un uomo
difforme cui sieda bene ; ma, se vuoi fare una sola veste per tutti gli uomini,
ancorchè essa sia misurata sulla statua modellaria di Poli clete, troverai
sempre che il maggior numero è più alto, più basso, più secco, più grasso, e
non potrà far uso della tua veste » ( 1 ) . Non esiste un ottimo
costituzionale, esi ste un buono relativo alla vita delle singole genti. « Le
costituzioni si debbono fare per gli uomini quali sono quali eternamente
saranno, pieni di vizi, pieni di er rori ; imperocchè tanto è credibile che
essi voglian de porre que' loro costumi, che io reputo una seconda natura, per
seguire le nostre istituzioni, che io credo arbitrarie e variabili, quanto
sarebbe ragionevole un calzolaio che pretendesse accorciare il piede di colui
cui avésse fatta corta una scarpa » ( 2 ) . I due raffronti con la veste e la
scarpa, tratti dal mondo fisico , sono d'una evidenza mirabile. Il legislatore
deve intendere il popolo, e costruire sulla base dei bisogni del popolo. Il
popolo non parla. Ma per lui parla tutto, costumi, usanze, religione,
pregiudizi, vizi . Le costituzioni non si fanno nei gabinetti e negli studî,
nelle scuole e nelle accademie, nascono da sè, sotto l ' impulso di concrete
esigenze dell'anima collettiva , o più vichianamente della collettività, e il
legislatore non può essere che un interprete di essa collettività , della ( 1 )
Seguo il già citato testo del NICOLINI , edito dal Laterza di Bari,che come
tutte le altre ed. cuochiane, porta i Fram menti di lettere a V. Russo in
appendice al Saggio. Per le ci tazioni basterà quindi la sigla Framm . seguita
dal numero d'or dine I o II ecc., e dalla pagina dell'edizione barese. Framm. I
, p. 218 . ( 2 ) Framm. I , p. 219, 43 1 sono sua coscienza, non già il saggio
che dal suo cielo di sa pienza impone norme e nomi. L'obietto delle
costituzioni sono gli uomini, e gli uomini sono pieni di vizi, pieni di errori.
Ora, chi si propone di legiferare deve prendere gli uomini, come sono, e non
andare alla ricerca di un ottimo, che in na tura non è, contentarsi di rendere
felici gli uomini, e ren dere felici gli uomini si può solo, soddisfacendo alla
loro natura, che è un misto di buono e di cattivo, d'eticità e di pregiudizi,
di religione e di ferocia . Siamo, come ognun vede, penetrati nel pieno della
critica cuochiana, ma la mia mente, riflettendo su queste acutissime
osservazioni, non può non instaurare un pa ragone tra il relativismo giuridico
del nostro e lo stori cismo germanico di Gustavo Hugo e di Federico Carlo
Savigny. È curioso ! Negli stessi anni, nell' infierire della rivoluzione
francese, o quando ancor fresche ne le conseguenze, con basi, cultura
diametralmente diverse, con intendimenti presso che uguali, scrivono in Italia
il Cuoco, in Inghilterrà il Burke, le di cui Riflessioni sulla rivoluzione
francese sono del 1790, in Germania l'Hugo che nello stesso anno 1790 formula
in un suo libro quei prin cípi, che poi il Savigny, nel 1814, nella polemica
col Thibaut, svilupperà nell'operetta : Della vocazione del nostro tempo per la
legislazione e la giurisprudenza. Ma tra il Savigny e l'illuminismo
rivoluzionario c'è uno sviluppo continuo di pensiero germanico, tra il Cuoco e
la rivoluzione non c'è transizione, poi che egli scrive i Frammenti nella rivoluzione
stessa, quando già i san fedisti di Ruffo sono alle porte della città. Notiamo
però come un certo parallelo c'è : il nostro si ricollega al Vico, tradizione
perenne d'italianità ; il Savigny parla di una coscienza giuridica popolare,
che non può non tro vare la sua origine nella filosofia idealista tedesca,
Schel ling e Hegel, ai quali il grande giurista si ricollegano. Guardiamo
brevemente la questione . Col Cuoco siamo da un punto di vista filosofico
giuridico più innanzi, ma il parallelismo non manca. Che cosa è il diritto per
il Sa vigny che combatte l'unificazione legislativa e la codi 44 ficazione
proposta dal Thibaut ? Non certo un quid astratto , vivo nel solo pensiero del
legislatore. Il diritto ha una vita sua propria nella vita d'ogni giorno, che
non è che consuetudine irriflessa e pratica comune. Ricor diamo lo Schelling :
il principio dello spirito collettivo, principio animatore in perpetuo
divenire, si sviluppa dalla sua filosofia, dall'evoluzione stessa della natura
nell'infinita sua produttività, concepita non più come mero oggetto , ma come
soggetto, nucleo di sviluppo di tutto il pensiero germanico, che dal dualismo
di Kant risolve il problema, attraverso Schelling, in Hegel, ul tima
conseguenza della posizione kantiana. Il concetto evolutivo della natura
trascorre nel diritto . Il diritto è la manifestazione d'una coscienza
giuridica che è nel popolo, il quale popolo ha una sua anima ( la Volkseele
dello Schelling) , che determina la morale, l'arte, il lin guaggio, e così pure
il diritto e la costituzione politica . Quel che nello Schelling è generalmente
accennato all’ori gine della costituzione e degli ordini civili , nel Savigny è
applicato ad una questione concreta : se convenga im mobilizzare il diritto ,
elaborazione istintiva e irriflessa, viva nella consuetudine, in un sistema di
codici. Donde una illazione: la costituzione , legge fondamentale, non può che
essere la risultante d’un'elaborazione incosciente del popolo, che il
legislatore può cogliere ed inquadrare per princípi, ma non ex novo, così come
il grammatico studia la lingua già formata e non crea la lingua. Il Cuoco più
concretamente non arriva alle conclusioni un po' anarchiche del Savigny, il
quale in reazione ad una filosofia che pretendeva di sistematizzare e creare
tutto a fil di logica, si appalesa ostile ad ogni costituzione scritta, come ad
ogni codificazione; il Cuoco ammette in vece che un legislatore possa compilare
un progetto di costituzione. Ma come ? Il legislatore deve interpretare i
bisogni del popolo, alla felicità del quale vuol provve dere. Il principio base
è uno . « Le costituzioni durevoli sono quelle che il popolo si forma da sé » (
1 ) . Ciò non nel ( 1 ) Framm . I, p . 218 . 45 senso che le costituzioni siano
una formazione assoluta mente irriflessa e popolaresca, che il giurista osserva
senza intervenire, passivo, ma nel senso che non possano prescindere, sia pure
quando sono opera di studio perso nale e di ricerca dotta, dalla concreta
realtà della nazione. La faccenda si chiarifica. La Volkseele dello Schelling,
la coscienza giuridica popolare del Savigny diventano, sono nel Cuoco , più
concreto e positivo , i bisogni del po polo, bisogni economici e materiali,
religiosi e morali, qualcosa di più tangibile . « I nostri filosofi, » scrive «
sono spesso illusi dall'idea di nu ottimo, che è il peggior nemico del bene. Se
si volesse seguire i loro consigli, il mondo, per far sempre meglio, finirebbe
col non far nulla » . « L'ottimo non è fatto per l'uomo.... » ( 1 ) . Costoro,
ai quali accenna il critico, sono i rivoluzionari astratti, che credono ad un
universale, che non è, e vanno tanto alto da perdere ogni contatto col mondo.
Una costituzione non può scaturire dal cervello di un uomo, come Pallade dal
cervello di Giove, armata e folgorante ; deve sorgere dopo mature riflessioni ,
sulla natura della nazione deve avere una base. « Questa base deve poggiare sul
carattere della nazione, deve precedere la costituzione ; e mentre con questa
si determina il modo in cui una nazione debba esercitare la sua sovra nità, vi
debbono esser molte cose più sacre della costi tuzione istessa, che il sovrano,
qualunque sia, non deve poter alterare » ( 2 ) . Nessuno può « tôrre al popolo
tutti i suoi costumi, tutte le sue opinioni, tutti gli usi suoi, che io chiamerei
base di una costituzione » ( 3 ). Il Cuoco , se osserviamo bene la questione,
distingue due momenti: una elaborazione incosciente del popolo che crea
istituti giuridici, per consuetudine, desumendoli dalla sua stessa essenza ;
una elaborazione cosciente e riflessa, che sistematizza e regola ciò che nel
popolo era mera pratica senza norma. Questi due momenti si compene ( 1 ) Framm.
I , p. 219 . ( 2 ) Framm. III , p. 245 . ( 3 ) Framm . III , p. 245. 46 trano e
sono indispensabili. La consuetudine, senza la legge, può divenire anarchia ,
dominio della volontà parti colare . La legge, che astragga dalla volontà dei
singoli, è mera parola, generalità senza significato . Siamo lon tani dallo
storicismo tedesco dell'Hugo e del Savigny. La base, alla quale accenniamo, è
d'una grande com plessità. Il costituzionalista, in particolare il legislatore,
deve avere riguardo' non solo ai costumi, agli usi, alla religione, ai bisogni
economici, ma anche ai pregiudizi, ai difetti, ai mali del popolo . La vita non
è ottima, nè buona : è male e dolore. Gli uomini sono buoni e cattivi, generosi
ed egoisti, eroi e birbanti. Il più grave pericolo è che il legislatore, più
filosofo che uomo politico, alla ricerca dell'eterno dimentichi il transeunte,
alla ricerca dell'ottimo dimentichi il buono, creda non esservi il male. Le
costituzioni debbono parlare alla fantasia e ai sensi dei popoli, avere una
certa solennità, quasi un ele mento sacro, perchè « dopo le sue opinioni ed i
suoi costumi, il popolo nulla ha di più caro che le apparenze della regolarità
e dell'ordine » ( 1 ) . È un consiglio di este riorità . Poco importa ! Le
plebi amano l'esteriorità . « Quelle leggi sono più rispettate dal popolo, che
con mag giori solennità esterne colpiscono i sensi » ( 2) . Dunque, ammesso che
un legislatore possa dare una costituzione, interpretando più che sia possibile
le esi genze di una nazione, come potrà e dovrà egli compor tarsi ? Un popolo
ha dei costumi. « Non vi è nazione quanto si voglia corrotta e misera, la quale
non abbia de' costumi, che convien conservare ; non vi è governo quanto si
voglia dispotico, il quale non abbia molte parti convenienti ad un governo
libero . Ogni popolo che oggi è schiavo fu libero una volta ... Quanto più
pesante sarà la schiavitù di un popolo, tanto più questi avanzi degli altri
tempi gli saran cari ; perchè non mai tanto, quanto tra le avversità, ci son
care le memorie dei tempi felici . Quanto più il governo che voi distruggete è
stato ( 1 ) Framm . III , p . 246. ( 2) Framm. III , p. 246. 47 barbaro, tanto
più numerosi avanzi voi rinvenite di an tichi costumi; perchè il governo,
urtando troppo violen temente contro il popolo, l'ha quasi costretto a trince
rarsi tra le sue antiche istituzioni, nè ha rinvenuto nei nuovi avvenimenti
ragione di seguirli e di abbandonare ed obbliare gli antichi (1 ). Nello
sviluppo storico nulla si perde completamente : l'evoluzione vitale degli
uomini e delle istituzioni loro è trasformazione e non distruzione, onde sotto
la scorza della modernità si possono ritrovare i nuclei ancor verdi dell'antico
. La tradizione non è un culto senza dèi, pro prio de letterati e de '
filosofi, è la vita della nazione, è quel che di più sacro essa ha, poi che
rappresenta la sua continuità. Ciò non deve dimenticare il legislatore, come colui
che è più vicino al palpito dei popoli, dovendo re golare le manifestazioni più
svariate della loro attività privata e pubblica. « Questi avanzi di costumi e
governo di altri tempi, che in ogni nazione s ' incontrano , sono preziosi per
un legislatore saggio , e debbono formar la base dei suoi ordini nuovi. Il
popolo conserva sempre molto rispetto per tutto ciò che gli viene dai suoi mag
giori; rispetto che produce talora qualche male, e spesso grandissimi beni. Ma
coloro, che vorrebbero distruggerlo, non si avvedono che distruggerebbero in
tal modo ogni fondamento di giustizia ed ogni principio d'ordine so ciale ? Noi
non possiamo più far parlare gli dèi come i legislatori antichi facevano :
facciamo almeno parlare gli eroi, che agli occhi dei popoli son sempre i loro
antichi. Un popolo , il quale cangiasse la sua costituzione per solo amor di
novità, non potrebbe far altro di meglio, che darsi una costituzione all'anno .
Ma, per buona sorte , un tal popolo non esiste che nella fantasia di qualche
filo sofo » ( 2 ) . Un legislatore quindi può realmente fare del bene alla
nazione, ma deve seguire la natura, cioè la na zione stessa nel suo spirito, e
trarre da essa il sistema costituzionale, non il sistema costituzionale da
princípi ( 1 ) Framm . I , p. 220 e sg. ( 2) Framm. I , p . 221 . 48 che non
sono nella natura, ma nella testa dei filosofi. « Tutto è perduto quando un
legislatore misura la infi nita estensione della natura colle piccole
dimensioni della sua testa, e che, non conoscendo se non le sue idee, gira per
la terra come un empirico col suo segreto, col quale pretende medicar tutt'i
mali ( 1 ) . Vincenzo Cuoco ci si presenta come un tradizionalista e un
moderato. Non bisogna distruggere per distruggere, perchè si può perdere il
buono per un problematicissimo ottimo; non bisogna atterrare, perchè non sempre
si può ricostruire ; non bisogna aprire un novus ordo, perchè i novi ordines
dei filosofi sono in cielo e non in terra. Bi sogna costruire su quel che già
è, edificare sulle fonda menta della storia, che non soffre soluzioni di
continuità , riformare e non distruggere. « Io non credo la costitu zione
consistere in una dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino » ( 2 ) .
Essa è qualcosa di più profondo : è il popolo, il quale da sè stesso trae le
norme regolatrici della sua esistenza, della sua attività, della felicità. « E
chi non sa i suoi diritti ? Ma gran parte degli uomini li cede per timore ;
grandissima li vende per interesse: la costituzione è il modo di far sì che
l'uomo sia sempre in uno stato da non esser nè indotto a venderli , nè
costretto a cederli, nè spinto ad abusarne » ( 3 ). Ciò è possibile solo in
quanto la costituzione assicuri un medio benessere, attinga quella umana
felicità, alla quale abbiamo ac cennato . Le rivoluzioni nascono da un
malessere economico generalizzato . Le costituzioni post - rivoluzionarie
debbono ristabilire l'equilibrio , il benessere, l'armonia , la vita pa cifica
ed operosa . Per fare ciò bisogna intendere le esi genze e i bisogni della
nazione, i suoi costumi, il suo carattere . Ecco perchè Cuoco ci dice che, se
egli fosse invitato a dar leggi ad un popolo, vorrebbe prima stu diarlo e
conoscerlo ; ecco perchè Cuoco ci dice che egli ( 1 ) Framm . I , p . 221 . ( 2
) Framm . II, p . 233. ( 3 ) Framm . II , p . 233. 49 vuol ritornare
all'antico, e all'antico ricollegare il pre sente, perchè il popolo ama le
antiche istituzioni, che in passato gli han pure dato felicità ; ecco perchè il
Cuoco vuol riformare solo ove è male ed ove le istituzioni antiche non
rispondono più ai nuovi bisogni, ed è tra dizionalista all'eccesso, laddove la
mania novatrice cerca distruggere istituti e norme consacrate da secoli. Questi
i convincimenti del critico . Ma che cosa in vece era avvenuto a Napoli,
qual'era, com'era la costi tuzione che Mario Pagano aveva elaborato ? Ogni po
polo ha una individualità ineffabile. Il popolo napole tano, quindi, ha pur
esso una sua natura specifica, che risulta da un complesso di cose. Parliamo
perciò , dice il Cuoco all'amico Russo, « della costituzione da darsi agli
oziosi lazzaroni di Napoli, ai feroci calabresi, ai leggieri leccesi, ai spurei
sanniti ed a tale altra simile genìa, che forma nove milioni novecento
novantanove mila nove cento novantanove decimilionesimi di quella razza umana
che tu vuoi tra poco rigenerare » ( 1 ) . Cioè discendiamo ai fatti, al
concreto , vediamo se il progetto costituzionale del Pagano risponde alla
natura delle cose. Il Cuoco ri sponde risolutamente : « Per questa razza di
uomini par mi che il progetto donatoci da Pagano non sia il migliore. Esso è
migliore al certo delle costituzioni ligure, romana, cisalpina ; ma al pari di
queste è troppo francese e troppo poco napolitano. L'edificio di Pagano è
costrutto colle materie che la costituzione francese gli dava : l'architetto è
grande, ma la materia del suo edifizio non è che creta » ( 2 ). Il Pagano,
nonostante il suo vichismo, è caduto nell'er rore tipico di tutti i
rivoluzionari alla francese, ha cre duto in un ottimo che non è ; ha creduto
negli immortali princípi che le masse non intendono, poi che gli uomini sentono
solo i bisogni e non i princípi che parlano al l'intelletto di pochi ; ha fatto
quella, che il critico mo lisano chiama una costituzione da tavolino ; « e
quindi ne è avvenuto, che siesi perduta la vera cognizione delle ( 1 ) Framm. I
, ( 2) Framm . I , p. p. 220. 220. 4 - F. BATTAGLIA . 50 cose e della loro
importanza » ( 1 ) . E nel dispiacere del fallimento, che al nostro appare
evidente, c'è una punta d'ironia , che al lettore è facile avvertire pur
nell'amiche volezza dell'espressione : « Oh ! perdona. Non mi ricor dava » dice
il Cuoco al Russo « di scrivere a colui, che, sull'orme della buona memoria di
Condorcet, crede possi bile in un essere finito, quale è l'uomo, una
perfettibilità infinita. Scusa un ignorante avvilito tra gli antichi errori:
travaglia a renderci angioli, ed allora fonderemo la re pubblica di Saint-
Just. Per ora contentiamoci di darcene una provvisoria, la quale ci possa
rendere meno infelici per tre o quattro altri secoli, quanti almeno, a creder
mio, dovranno ancora scorrere prima di giugnere all'esecu zione del tuo disegno
» ( 2 ) . Anche l'amico fedele Vincenzo Russo, come il grande maestro Pagano, è
un illuso, un astratto ! Ma osserviamo bene. Quest'astrattismo, che il Cuoco
rimprovera al suo Pagano , non è solo del Pagano, è di tutto un sistema, che il
nostro vivamente deplora. Primi i francesi, coloro per cui la rivoluzione
nacque spontanea esplosione di lungamente compressi bisogni, per cui il moto
repubblicano fu attivo e non passivo com'è a Na poli, caddero negli stessi
errori. « I francesi aveano fondata la loro costituzione sopra princípi troppo
astrusi, dai quali il popolo non può discendere alle cose sensibili se non per
mezzo di un sillogismo ; e quando siamo a sillogismo, allora non vi è più
uniformità di opinioni e non si potrà sperare regolarità di operazioni » ( 3 )
. Di ciò il molisano dà un esempio concreto . In Francia si volle stabilire
come norma costituzionale il diritto all'insur rezione . Ma senza quelle
circostanze, che l'accompagna vano e la dirigevano in qualche paese
dell'antichità , ove simile norma era stata applicata , essa non poteva pro
durre che sedizioni e turbolenze, seguite da una reazione violenta del governo
attaccato, in barba ad ogni princi F ( 1 ) Framm. III , p . 241 . ( 2 ) Framm .
I , p. 220. ( 3 ) Framm. III, p. 247 . 51 pio legale. « Per buona sorte della
Francia » commenta iro nico il nostro « questa massima fu guillottinata con
Robe spierre » ( 1 ) . Vedete, dice, « la costituzione romana era sensibile,
viva, parlante. Un romano si avvedeva di ogni infrazione dei suoi diritti, come
un inglese si avvede delle infrazioni della Gran carta . In vece di questa,
immagina per poco che gli inglesi avessero avuto la Dichiarazione dei diritti
dell'uomo e del cittadino : essi allora non avreb bero avuto la bussola che
loro ha servito di guida in tutte le loro rivoluzioni . I romani eccedettero
nella smania di voler particolarizzar tutto, per cui negli ultimi tempi
formarono dei loro diritti un peso di molti cameli. Ma, mentre conosciamo i
loro errori, evitiamo, anche gli ec cessi contrari, e teniamoci quanto meno
possiamo lon tani dai sensi. Se la molteplicità dei dettagli forma un bosco
troppo folto nel quale si smarrisce il sentiero, i princípi troppo sublimi e
troppo universali rassomigliano le cime altissime, dei monti, donde più non si
riconoscono gli oggetti sottoposti » ( 2 ) . Questi sono gli errori dei
francesi. L'esasperazione dei princípi dovea portare necessariamente agli
errori fatali. Questa è l'idea che il Cuoco ha della costituzione francese del
1795. Una « costituzione è buona per tutti gli uo mini ? Ebbene : ciò vuol dire
che non è buona per nes suno.... » ( 3 ) . Il Pagano, ritorniamo a lui, s'è
ingolfato negli stessi errori. Seguiamo il nostro autore nel suo excursus e
nella sua critica minuta del progetto ; ma per intendere come egli colpisca nel
segno, e come i Frammenti siano una meditazione veramente profonda, una critica
sincera e non sistematica, rileggiamo le prime righe del Rapporto al governo
provvisorio, che precede la Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell'uomo, e
che è certo opera di Mario Pagano. « Una costituzione, che assicuri la pubblica
libertà, e ( 1 ) Framm . III , p. 247 . ( 2) Framm. III , ( 3) Framm . I , p .
219. p. 247. 52 che slanciando lo sguardo nella incertezza de ' secoli av
venire , guardi a soffocare i germi della corruzione e del dispotismo, è
l'opera la più difficile, a cui possa aspirare l’arditezza dell'umano ingegno.
I filosofi dell'antichità, che tanto elevarono l'umana ragione, ne presentarono
i principii soltanto, e le antiche repubbliche le più celebri e sagge ne
supplirono in più cose la mancanza con la · purità de' costumi, e colla energia
dell'anime, che ispirò loro una sublime educazione. Gran passi avea già dati
l'America in questa , diremo, nuova scienza, formando le costituzioni de' suoi
liberi Stati. Novellamente la Fran cia, che ha contestato straordinario amore
di libertà con prodigi di valore, ha data fuori altresì una delle migliori
costituzioni che siansi prodotte finora » . Fin dalle prime battute si sente
l'uomo geniale, ma insieme lo scolastico, che ha bisogno di rifarsi ai prece
denti generici ( 1 ) . Il Comitato di legislazione « ha.... adottata la costitu
zione della madre repubblica francese. Egli è ben giusto, che da quella mano
istessa, da cui ha ricevuto la libertà, ricevesse eziandio la legge, custode e
conservatrice di quella . Ma riflettendo che la diversità del carattere mo
rale, le politiche circostanze, e ben anche la fisica situa zione delle nazioni
richiedono necessariamente de' cam giamenti nelle costituzioni, propone alcune
modificazioni, che ha fatte in quella della repubblica madre, e vi rende conto
altresì delle ragioni che a ciò l'hanno determinato » . La derivazione è
confessata , e con essa l'astrattismo. Senonchè il Pagano afferma una esigenza,
che in lui na poletano e vichiano, deve essere sincera, ma che resta poi in
pratica insoddisfatta : tenere conto dei bisogni pe ( 1 ) L. PALMA, I tentativi
di nuove costituzioni in Italia dal 1796 al 1815, in Nuova Antologia , a .
XXVI, v. XXXVI, 16 no vembre, 1-6 dicembre 1891, p . 441. Il Palma ci offre una
buona analisi della costituzione di M. Pagano in rapporto alle altre
costituzioni francesi ed italiane del tempo, nonchè un'acuta critica di essa ,
critica che fondamentalmente coincide con quella cuochiana. Sulla costituzione
del Pagano vedi pure V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit. , Milano, Vallardi, s. d.
, p. 170 e sgg. 53 ) ) culiari della nazione alla quale si provvede; e nel
resto dell'opera legislativa si rivela per quello che è, cioè un mero teorico.
Vediamo. « La più egregia cosa che ritrovasi nelle moderne co stituzioni, è la
dichiarazione de' dritti dell'uomo. L'uguaglianza non è un diritto, ma la base
di tutti i diritti, che da essa scaturiscono. « L'uguaglianza è un rapporto, e
i dritti sono facoltà. Sono le facoltà di oprare, che la legge di natura , cioè
l ' invariabile ragione e cono scenza de ' naturali rapporti, ovvero la
positiva legge sociale, accorda a ciascuno » . Sembra di leggere un trat tato
di filosofia giuridica e non un rapporto di un comi tato legislativo, che
presenta un progetto di legge . « Da tal rapporto d'uguaglianza di natura , che
avvi tra gli uomini, deriva l'esistenza, e l'uguaglianza de' dritti: es sendo
gli uomini simili , e però uguali tra loro, hanno le medesime facoltà fisiche e
morali : e l'uno ha tanta ragione di valersi delle sue naturali forze, quanto
l'altro suo simile . Donde segue, che le naturali facoltà indefi nite per
natura , debbano essere prefinite per ragione, dovendosi ciascuno di quelle
valere per modo, che gli altri possano benanche adoprar le loro. E da ciò segue
eziandio, che i dritti sono uguali ; poichè negli esseri uguali, uguali debbono
essere le facoltà di oprare. Ecco adunque come dalla somiglianza ed eguaglianza
della na tura scaturiscano i dritti tutti dell'uomo, e l'uguaglianza di tai
dritti » . Io qui non istò a riferire come Mario Pagano « dall'unico e
fondamentale dritto della propria conservazione » derivi « la libertà, la
facoltà di opinare, di servirsi delle sue forze fisiche, di estrinsecare i suoi
pensieri, la resistenza all'oppressione » , modificazioni tutte del primitivo
innato diritto, che l'uomo ha di na tura, il conservarsi. Tutto il sistema si
sviluppa con una logica impeccabile filosofica e giuridica, e noi non sap piamo
che ammirare la grandezza di uno spirito geniale e deplorare la sua morte
immatura e tragica. Le defini zioni paganiane sono stupende di sintesi. Ecco la
li bertà ! « La libertà è la facoltà dell'uomo di valersi di tutte le sue forze
morali e fisiche come gli piace, colla !! 54 sola limitazione di non impedire
agli altri di far lo stesso » . Tutto s ' impernia su un principio - postulato
e scaturisce di lì . Dal primo fonte di tutto il diritto deriva la pro prietà,
poi che « la proprietà reale è una emanazione e continuazione della personale »
. Gli stessi diritti ci dànno i doveri ; i diritti e i doveri dei cittadini, i
diritti e i doveri dei magistrati e dei pubblici funzionari, e così di seguito
. Nè mancano sani princípi costituzionali, che occorre an che oggi meditare.
V'è un vigile e vichiano senso della dinamicità delle costituzioni , che,
sebbene carte sacre di un popolo, non per questo sono inviolabili, cioè non mo
dificabili, poi che la vita stessa e le rinnovate esigenze delle nazioni dànno
origini a riforme naturali nel loro stesso seno . « La società vien formata
dalla unione delle volontà degli uomini, che voglion vivere insieme per la
vicende vole garanzia de proprii dritti. L'unione delle forze fa la pubblica
autorità , e l'unione de' consigli forma la pubblica ragione, la quale,
avvalorata dalla pubblica autorità, diviene legge. Quindi l ' imprescrittibile
dritto del popolo di mutar l'antica costituzione, e stabilirne una nuova, più
conforme agli attuali suoi interessi, ma demo cratica sempre ; quindi il dritto
di ogni cittadino di es sere garantito dalla pubblica forza, e il dovere di con
tribuire alla difesa della Patria ; quindi finalmente i dritti e i doveri
de'pubblici funzionarii, che per delega zione esercitano i poteri del popolo
sovrano, e per do vere sono vittime consacrate al pubblico bene » . E dire che
ancor oggi questo principio della vita giu ridica, che è dinamicità come ogni altra
manifestazione dello spirito, non è inteso, e la riforma dello Statuto ita
liano è temuta come un terribile evento sovvertitore, mentre le leggi
fondamentali sono una vuota forma senza contenuto materiale , vuota forma
premuta da esigenze nuove, e , purtroppo, dal più sfacciato illegalismo dei
partiti ! Ma, se dal Rapporto passiamo al Progetto costituzio nale, quanto
astrattismo ! Quanta artificiosità ne' sin goli istituti, in quell'eforato, che
ricorda Sparta, ma che 55 non è che il direttorio o potere esecutivo francese ;
in quella distinzione tra assemblee primarie ed assemblee elettorali espresse
dal seno delle prime ; in quell'istituto censorio, che arieggia la censura di
Roma, ma che in uno Stato moderno e vasto è inconcepibile e vano ! Se guardate il
Progetto di costituzione nel suo complesso la critica del giovane Cuoco vi
appare pienamente giusti ficata e altamente vera . Essa non si limita ad
appunti d'ordine pratico, ma risale pure ai princípi, e traccia, direi,
l'abbozzo d'una nuova scienza costituzionale, che nel nome di Vico e di
Machiavelli da un lato, di Monte squieu dall'altro, vuol essere positiva senza
cadere nel l'empirismo . La sovranità del popolo si manifesta in due maniere:
la legislazione e l'elezione. Negli Stati antichi, nelle città primitive, a
base democratica, il popolo stesso era legi slatore : negli Stati moderni, che
trascendono la greca Tól.is , la romana urbs, numerosi di popolazione, vasti di
territorio , il popolo sovrano può legiferare solo per mezzo della rappresentanza.
La costituzione del Pagano adotta il sistema rappresentativo, ma lo travisa,
per mezzo di un'assurda divisione delle assemblee popolari in primarie, alle
quali spetta il compito di eleggere un certo numero di cittadini, ai quali è
deferito il compito supe riore della scelta del deputato, e in elettive, alle
quali è assegnata la vera sovranità, la nomina del rappre sentante in seno al
Consiglio. Così il prescelto è allonta nato, divenuto rappresentante della
nazione napolitana e non del dipartimento che lo nomina, dal popolo, di cui
dovrebbe sentire i bisogni e rendersene esponente. Il Pagano, in sostanza, non
accetta l'elezione con man dato. Il Cuoco vuole invece che il deputato riceva
dalle popolazioni memoriali veri e propri, utili avvertimenti, e che, durante
l'esercizio della sua carica, viva a contatto con le sue masse elettorali, e
non si perda ne' meandri d'una politica, che, per volere essere nazionale e
generale, finisce per essere astratta e generica . Tutte le deficienze del
sistema parlamentaristico, specie nelle degenerazioni de' nostri paesi, saltano
al pensiero, nelle lungimiranti 56 notazioni del nostro autore. E dire che non
era necessario che guardarsi attorno per rinvenire il sistema più adatto ai
fini, che la Commissione legislativa o il Pagano per lei si proponeva ! « La
nazione napolitana offre un me todo più semplice. Essa ha i suoi comizi, e son
quei par lamenti che hanno tutte le nostre popolazioni ; avanzi di antica
sovranità, che la nostra nazione ha sempre difesi contro le usurpazioni dei
baroni e del fisco. È per me un diletto ( e qui il Cuoco pensatore diviene un
pochino lirico ) ritrovarmi in taluni di questi parlamenti, e ve dervi un
popolo intero riunito discutervi i suoi interessi , difendervi i suoi diritti,
sceglier le persone cui debba affi dar le sue cose : così i pacifici abitanti
delle montagne dell'Elvezia esercitano la loro sovranità ; così il più grande,
il popolo romano, sceglieva i suoi consoli e deci deva della sorte
dell'universo » ( 1 ) . Il sistema nostro na zionale è il più spontaneo, il più
naturale, consacrato dalle glorie dei nostri comuni, enti che hanno avuto un
giorno in una storia grande indipendenza e forza, ed hanno subìto un'evoluzione
millenaria. La costituzione francese del 1795 ha distrutto tutto ciò . « I
municipi non sono eletti dal popolo, e rendono conto delle loro operazioni al
governo, cioè a colui che più facilmente può e che spesso vuole esser ingannato
» ( 2 ) . Ma il Cuoco si spiega tutto . La storia insegna molte cose. L'ac
centramento in Francia è naturale : questa nazione non ha avuto mai
l'esperimento dei comuni, una vera e propria municipalità, poi che questo paese
ha trovato l'unità assai presto. In Italia la faccenda è assai diversa . In
Italia il comune è stato un istituto spontaneo, espres sione della rinascente
romanità contro il feudalismo fer rato, istituto che non è morto mai, e s'è
sviluppato, perpetuato, anche allorquando da ente sovrano è dive nuto ente
subordinato entro gruppi politici più vasti , come il principato o signoria e
lo stato monarchico. Il Cuoco non dice tutto ciò, ma si intravede chiaramente (
1 ) Framm. II , p. 223. ( 2 ) Framm . II , p. 224. 57 che questo è il suo
pensiero. « Io perdono » scrive « ai fran cesi il loro sistema di municipalità
: essi non ne aveano giammai avuto, nè ne conoscevano altro migliore: forse non
era nè sicuro nè lodevole passar di un salto e senza veruna preparazione al
sistema nostro . Ma quella stessa natura, che non soffre salti, non permette
neanche che si retroceda ; e, quando i nostri legislatori voglion dare a noi lo
stesso sistema della Francia, non credi tu che la nostra nazione abbia diritto
a dolersi di un'istituzione che la priva dei più antichi e più interessanti
suoi di ritti ! » ( 1 ) . Il sistema costituzionale, dunque, che ha alla sua
base il comune, è il più naturale per noi, poi che l’ente comu nale è
l'espressione prima di quei bisogni complessi che abbiamo detto essere la base
imprescindibile di ordini durevoli. In poche parole, ecco tracciate le funzioni
del comune, funzioni varie e molteplici, dirette ad assicu rare la più
immediata soddisfazione de' bisogni elemen tari primordiali di una gente ! «
Ciascuna popolazione dunque, convocata in parlamento ( questo nome mi piace più
di quello di assemblea : esso è antico, è nazionale, è nobile; il popolo
l'intende e l'usa : quante ragioni per conservarlo !), eleggerà i suoi
municipi. Essi avranno il potere esecutivo delle popolazioni, saranno i
principali agenti del governo, e dovranno render conto della loro condotta al
governo ed alla popolazione. La loro carica durerà un anno. Tu vedi bene che
fino a questo punto altro non farei che rinnovare al popolo le antiche sue
leggi » ( 2 ) . Tutto trova la sua consacrazione nella storia italiana.
Affermare il comune è il primo passo. Ad esso occorre attribuire tanto potere
da assicurargli la possibi lità di vivere e di prosperare, vale a dire occorre
dargli una vera e propria autonomia amministrativa . « La mia prima legge
costituzionale sarebbe, che qualunque popo lazione della repubblica riunita in
solenne parlamento possa prendere sui suoi bisogni particolari quelle determi (
1 ) Framm . II , p. 224. ( 2 ) Framm . II , p. 225 . 58 nazioni che crederà le
migliori ; e le sue determinazioni avran vigore di legge nel suo territorio, purché
non siano contrarie alle leggi generali ed agl ' interessi delle altre
popolazioni » ( 1 ) . La legge è la volontà generale. Ogni individuo ha d'al
tra parte una volontà particolare, che costituisce la sua legge e la sua
libertà . Il sorgere dello Stato afferma la legge generale, ma il suo
ingrandirsi moltiplica le vo lontà particolari, onde sempre cresce e s'acuisce
un fa tale dissidio tra le due volontà , la generale e la partico lare, tra lo
Stato e l'individuo, tra l'autorità e la libertà, tra la sovranità e
l'autonomia, dissidio che in certe cir costanze anomali può portare al
disfacimento dello Stato, tendendo l'uomo per natura ad affermare la sua indi
pendenza, lo Stato la sua universalità autarchica . La legge, quindi, nella sua
stessa génesi è destinata a cozzare contro l'individualismo umano, onde quanto
più generalizza e si astrae tanto più divien tirannica. C'è il pericolo insomma
che si venga a creare una discrepanza tra volontà pubblica e volontà privata.
Il rimedio è solo nel decentramento. « Quanto più dunque le nazioni s '
ingrandiscono, quanto più si coltivano, tanto più gli oggetti della volontà ge
nerale debbono esser ristretti, e più estesi quelli della volontà individuale.
Ma, affinchè tante volontà partico lari non diventino del tutto singolari, e lo
Stato non cada per questa via nella dissoluzione, facciamo che gli og getti
siano presi in considerazione da coloro cui maggior mente e più da vicino
interessano . Vi è maggior diffe renza tra una terra ed un'altra che tra un
uomo ed un altro uomo nella stessa terra. Se la base della libertà è che ad
ogni uomo non sia permesso di far ciò che nuoce ad un altro, perchè mai ciò non
deve esser permesso ad una popolazione ? Perchè mai, se una popolazione abbia
bisogno di un ponte, di una strada, di un medico, e se tutto ciò richiegga una
nuova contribuzione da' suoi ( 1 ) Framm. II , p. 227 . 59 cittadini, ci sarà
bisogno che ricorra all'assemblea legi 4 slativa , come prima ricorrer dovea
alla Camera ? Come si può sperare che quelle popolazioni, le quali erano im
pazienti del giogo camerale, soffrano oggi il giogo di altri , i quali sotto
nuovi nomi riuniscono l'antica ignoranza de' luoghi e delle cose, l'antica
oscitanza ? ... » ( 1 ) . È as sicurata così la forza dello Stato e la libertà
dell'indi viduo. L'individuo si sente più libero, se per lui opera il comune,
la sua espressione diretta , poi che il comune è a lui più vicino , è la
immediata manifestazione della sua sovranità di cittadino . Si dirà al Cuoco :
ma anche la legge, la volontà generale è tale in quanto è la risultante d'una
convergenza di consensi e di volontà particolari ; che anche lo Stato opera sul
fondamento del diritto , e in questo senso è Stato di diritto, e nella forma
del di ritto, in quanto ogni suo atto è manifestazione giuridica, cioè libero
volere della collettività ; ma tutto ciò non esclude e menoma la grande verità
affermata dal mo lisano . La volontà generale che s ' esprime nello Stato è
lontana dai sensi del cittadino, in quanto la sua realtà concreta è una formazione
etica di volontà mediata, ond' essa è lontana dalla possibilità d'esaurire
tutta la complessa natura della nazione; mentre la volontà che si estrinseca
negli atti del comune, alla quale il Cuoco vuol dare carattere di legge, surge
spontanea dalle più intime fibre dell'anima popolare, realizza bisogni vera
mente profondi, parla infine ai sensi e alla fantasia, di quegli elementi de'
popoli, che vichianamente possiamo considerare eterni fanciulli ed eterni
primitivi. I risultati pratici di questo sistema sono incalcolabili . « Quante
buone opere pubbliche noi avremmo, se più li bero si fosse lasciato l'esercizio
delle loro volontà alle popolazioni » ( 2 ) . Vi sono paesi per i quali,
esemplifica l'autore, un porto, una rada è indispensabile, e che, in pochi
anni, sotto la pressione di esigenze inderogabili, avendo sufficienti libertà,
lo costruirebbero : ebbene, que ( 1 ) Framm. II , p. 229. ( 2 ) Framm . II , p.
230. 60 ste stesse popolazioni oggi, posto un freno all'iniziativa individuale,
attendono dal governo quel che non viene . Si potrebbe obiettare : ma queste
affermazioni sono le affermazioni d'un federalista ! No.... Il Cuoco stesso ha
prevenuto la domanda, ed ha distinto tra autonomia e separazione, tra Stato su
base decentrata e Stato fede rativo. L'autonomia non rinnega l'unità, anzi la
conso lida, mentre la federazione per popoli schiettamente par ticolaristi e
campanilisti, com'è l'italiano, è un primo passo verso la disgregazione. Tra il
sistema accentratore alla francese, in cui gli organi periferici ricevono tutto
dalla capitale, e il sistema federativo di Stati alla sviz zera, ove ogni
gruppo gode di leggi sue proprie, ha un parlamento suo proprio , c'è lo Stato
unitario su largo decentramento amministrativo, e a quest'ultimo sistema il nostro
molisano si volge. « So gl’inconvenienti che seco porta la federazione ; ma,
siccome dall'altra parte essa ci dà infiniti vantaggi, così amerei trovar il
modo di evitar quelli senza perdere questi. Vorrei conservare al più che fosse
possibile l'attività individuale . Allora la repub blica sarà, quale esser
deve, lo sviluppo di tutta l'attività nazionale verso il massimo bene della
nazione, il quale altro non è che la somma dei beni dei privati. L'atti vità
nazionale si sviluppa sopra tutt'i punti della terra. Se tu restringi tutto al
governo, farai sì che un occhio solo, un sol braccio, da un sol punto debba
fare ciò , che vedrebbero e farebbero mille occhi e mille braccia in mille
punti diversi . Quest'occhio unico non vedrà bene, lento sarà il suo braccio ;
dovrà fidarsi di altri occhi e di altre braccia, che spesso non sapranno, che
spesso non vorranno nè vedere nè agire : tutto sarà malversazione nel governo,
tutto sarà languore nella nazione . Il go verno deve tutto vedere , tutto
dirigere » ( 1 ) . Nel sistema cuochiano l'attività privata è garantita. Il
necessario conflitto tra la volontà generale e la volontà particolare si
risolve con lo stabilimento d’una naturale delimita ( 1 ) Framm. II , p. 230 e
sg. 61 zione di competenza. L'individuo e gli enti a lui più vicini agiscono in
pieną indipendenza : allo Stato resta la funzione, che a lui è più propria ed è
manifestazione vera della sua sovranità, la guida e il controllo supremo.
Vincenzo Cuoco, come ognun vede, nelle sue ricerche di natura costituzionale è
fisso ad una realtà storica che non può fallire, e cerca di stabilire un
edifizio incrollabile. La natura opera in questo mondo umano e crea diversità,
onde tutto ci si appalesa nella sua ineffabile particola rità, nel mondo fisico
e nel mondo morale. I governi operano su questo mondo degli uomini, e la loro
volontà è sempre generale. Le norme giuridiche attraverso cui s'esprime questa
volontà dello Stato sono quindi fatal mente generali, hanno origine da un
processo d'astrazione, riferendosi non al singolo, ma ai singoli in quanto
formano una classe, una media, un tipo. Ai subietti per natura diversi di
bisogni, di aspirazioni, di carattere sovrasta una norma unica uguale
indistinta, e però entro certi limiti tirannica. È fatale, non può essere
diversamente. Ciò non toglie che questo hiatus, che può divenire con trasto ,
tra la libertà dei singoli e l'autarchia sovrana dello Stato, cioè tra la
volontà particolare e l'autorità suprema, debba, ed è doveroso, colmarsi. Ecco
: lo Stato impone dei tributi, esprime la sua volontà in forma giu ridica, che
non può non essere quindi generale ; ma in tanto i prodotti di una nazione, dai
quali debbono i tributi raccogliersi, sono diversi : una popolazione ha solo
derrate, un'altra manifatture, una terza produce olio e deve realizzare la sua
ricchezza in novembre, un'altra è dedita alla pastorizia e la ha realizzata in
luglio, laddove un industriale ogni giorno produce, e così via.... « Ben duro
esattore sarebbe colui che obbligasse tutti a pa gar nello stesso tempo, e
nello stesso modo; e questa sua durezza che altro sarebbe se non ingiustizia ?
Al l'incontro tu non potresti giammai immaginare una legge, la quale abbia
tante eccezioni, tante modificazioni, quanti sono gli abitatori della tua
repubblica : non ti resta a far altro se non che imporre la somma dei tributi e
farne la ripartizione sopra ciascuna popolazione, la 62 sciando in loro balìa
la scelta del modo di soddisfarla ; così la volontà generale della nazione
determinerà l'im posizione, la particolare determinerà il modo : questa non
potrebbe far bene il primo, quella non potrebbe far bene il secondo » ( 1 ) .
Tutto ciò è la necessaria conseguenza di un sistema mentale potentemente fuso e
senza una con traddizione. È naturale che l'astrattismo alla francese si faccia
sostenitore d’una unitarietà soffocatrice del par ticolare umano, poi che vede
i princípi, che sono schema tici ed astratti, e non le cose, che rinserrano in
loro l'ineffabilità dell'opera della natura, la quale non crea una foglia simile
ad un'altra foglia. È naturale all'in contro che lo storicismo vichiano di
Vincenzo Cuoco vo glia discendere alla realtà, e nella realtà dedurre e sag
giare i princípi, così come l'oro si saggia dall'orefice esperto sulla pietra,
e su questa realtà edificare il sistema . Per finire questo argomento, sul
quale mi sono assai diffuso, perchè lo ritengo interessante, noto che il Cuoco
va ancora più in là, concedendo una certa autonomia ai cantoni, un quid come i
nostri circondari, ai dipar timenti o provincie . « La costituzione francese
confonde municipalità con cantone : cosicchè ogni cantone potrà avere più
popolazioni, ma non avrà mai più di una mu nicipalità . Io distinguo due
parlamenti : uno municipale per ogni popolazione di un cantone ; l'altro cantonale
per tutte le diverse popolazioni che compongono un can tone medesimo » ( 2 ) .
Ma anzichè fermarci e analizzare la critica che il nostro fa alla divisione
cantonale, qual'è p. 231 . p. 236. ( 1 ) Framm. II , ( 2 ) Framm. II, La
Costituzione del Pagano organizzava il territorio in di. ciassette
dipartimenti, che sono enumerati al tit. I , art. 3 del Progetto. L'articolo 5
al quale si riferisce il Cuoco dice : « Ciascun dipartimento è diviso in
cantoni , e ciascun cantone in comuni : i limiti de'cantoni possono ancora
esser rettificati o cambiati dal Corpo legislativo, ma in guisa che la distanza
di ogni co mune dal capoluogo del cantone non sia più di sei miglia » . Il
titolo VII, art. 173, dice : « In ogni dipartimento vi ha una amministrazione
centrale, e in ogni cantone almeno un'am ministrazione municipale » . 63 in
Francia, vediamo com'egli crede debba essere orga nizzata l'amministrazione. «
Sei tu ormai » scrive al Russo « persuaso della ragionevolezza dell'articolo ,
che io vorrei fondamentale nella costituzione nostra ? Tu mi conce derai anche
questo secondo : se due o tre popolazioni diverse avranno interessi comuni,
potranno provvedervi allo stesso modo ; ed, ogni qual volta le loro risoluzioni
saranno uniformi, avranno forza di legge obbligatoria per tutte le popolazioni
interessate » ( 1 ) . Ecco quindi una comunità d'interesși, che genera co
munità d'opera. Sono i bisogni che muovono gli uomini, la loro attività
legislativa, la loro vita pubblica. Occorre salire dal basso in alto, cioè dal
senso all ' intelletto , dal cittadino al governo, e non viceversa. Adopero una
simi litudine, che al Cuoco certo piacerebbe. L'individuo è il senso , il
governo l'intelletto dell'organismo sociale . L'intelletto che agisce senza l'
esperimento del senso è l'astrazione. Lasciamo, dunque, all'intelletto la
direzione, ma lasciamo al senso la avvertenza dei bisogni, che solo
l'esperienza immediata può dare. Una delimitazione di competenze è la salute
dello Stato. La visione netta e precisa del problema costituzionale , che ebbe
Vincenzo Cuoco e che trascende ogni limite di tempo, poi che certe questioni
anche oggi hanno il loro peso, ci si appalesa nella posizione che assegna al
can tone. Vi sono bisogni, che pur non essendo generali, non sono più
particolari, ma riflettono esigenze comuni a due o tre comuni : occorre che i
comuni che formano il can tone li risolvano insieme . « Imperocchè, avendo ogni
po polazione alcuni interessi particolari ad alcuni altri co muni, è giusto che
talvolta prenda delle risoluzioni comuni e tal altra delle particolari » ( 2 )
. Tuttavia il Cuoco non mi sembra che voglia attribuire al diparti mento quella
larga autonomia che assegna al comune. Perchè ? L’autore dei Frammenti non lo
dice , ma chi ha penetrato il suo pensiero intende facilmente. Il comune ( 1 )
Framm . II , p . 235. ( 2 ) Framm . II , p. 236. 64 è una formazione naturale,
consacrata dal tempo, ri spondente a bisogni concreti vigili e immediatamente
primi della società. Il dipartimento è una figura ammini strativa, che può avere
importanza entro i limiti d'una competenza ben precisa. Se al dipartimento si
dà una forza che di natura non ha, si crea un piccolo Stato nello Stato, si
perde la sua qualità di nesso d'unione tra il comune e il potere centrale ( 1 )
. Come ognun vede si agitano qui questioni ancor oggi vive nella coscienza
politica della nazione nostra, que stioni , che, dopo un sessantennio di
convivenza unitaria, non hanno ancora avuto una loro pratica risoluzione e un
impostamento concreto. È tipico ed interessante notare come tutti i progetti di
riforma costituzionale ed amministrativa siano partiti dall'Italia meridionale,
la quale è forse la più danneggiata dal rigido sistema cen tralizzatore, che
noi attraverso il Piemonte abbiamo ereditato dalla Francia . Nel '60 ,
occupando Garibaldi la Sicilia , alcuni patrioti, Crispi, Mordini, agitarono il
pro blema, fra l'incomprensione delle masse e peggio del governo, che li
tacciarono di separatismo ( 2 ) . Il Cavour stesso, mente lucida e serena, non
intese il problema, e non condivideva i vari progetti di governi regionali, che
si presentavano da altri a lui vicini ; ed era natura lissimo: egli conosceva
più l'Inghilterra e la Francia che non l'Italia meridionale e centrale. Ma la
natura si vendica degli uomini, e le crisi politiche hanno origine dalla
questione sovra detta. Vincenzo Cuoco l'ha intuito ( 1) Questa è la
ragione per cui l'autore ( Framm . II, p. 236) scrive: « Ma le unionicantonali
non debbono occuparsi di altro che delle elezioni che la legge loro commette :
inutile , inco modo, pericoloso sarebbe incaricarle di oggetti che richiedes
sero una riunione troppo frequente. I cantoni, seguendo questi principi,
potrebbero essere un poco più grandi di quelli di Francia » . ( 2 ) M. Rosi,
L'Italia Odierna, v. I , t . II , p. 988 e sgg .; M. Rosi, Il risorgimento
italiano e l'azione di un patriotta co spiratore e soldato, Roma- Torino, Casa
ed . nazionale, 1906 , p . 228 e sgg. 65 troppo bene, per non comprenderne il
valore. Ma, pur troppo, tra l'Italia settentrionale e l'Italia meridio nale c'è
ancora un hiatus troppo vasto , perchè le stesse idee possano germinare nel
cervello positivo de gli uomini del nord e nel cervello storicista degli uo
mini del mezzogiorno. Notiamo : l'esperienza politica delle due parti d'Italia
è troppo diversa, perchè la com prensione sia facile. Il comune nell'Italia
settentrionale fu piuttosto sinonimo di particolarismo e di fazione, mentre
nell'Italia meridionale seppe chiudersi in limiti più naturali
d'amministrazione. E ciò era necessario per un'altra considerazione. Laddove
nell'Italia alta si eb bero infiniti domíni, monarchie e repubbliche, varie suc
cessive preponderanze straniere, l'Italia centrale e meri dionale, superato il
dominio bizantino e il longobardico, che non s'estese del resto oltre Benevento
che per un tempo brevissimo — s'assettò sotto i papi e sotto i Nor manni, e chi
ricevette il dominio in eredità lo ricevette nella sua complessità, senza
infrangerlo. Quindi, mentre nell'Italia del sud non si teme l'autonomia, perchè
questa non può infrangere vincoli millenarî, nel nord si teme l'autonomia,
perchè si teme la sua degenerazione, il fe deralismo, e con il federalismo,
quella che si vuol chia mare la questione meridionale, che ai miopi della poli
tica appare questione separatista, mentre è puramente amministrativa. Errore,
che non esito a chiamare defi cienza d'educazione politica e di comprensione
storica ! L'Italia ha raggiunto l'unità non per un caso furtuito, per l'opera
di tre o quattro genî più o meno ispirati, ma per un processo graduale
spontaneo secolare di compene trazione di pensiero e di interessi. La storia
segue una trama eterna , e questa trama non s'infrange. Scombusso latela ,
violatela, provatevi a romperla, essa si rifà con i tro di voi, e si ricostituisce.
L'Italia è fatta e non può disfarsi, poi che la sua unità è opera delle cose e
non dei singoli individui. Nel suo seno vi sono i vincoli d'una unità ancor
maggiore e non i germi della dissoluzione. E , se pure vi sono germi
dissolvitori, saranno altri, ma non il comunalismo, nome, che se vuol
significare fazione e 5 - .F. BATTAGLIA . 66 campanile, è superato da un pezzo.
Crisi vi furono, vi sono e vi saranno, ma furono sono e saranno crisi ammi
nistrative politiche economiche, ma non mai nazionali. La storia, e non il
genio di alcuni ispirati, ha fatto l'Ita lia , la storia la guida nel suo
travaglio e la guida sicura, anche fra le crisi , di cui ho detto la natura,
senza il bi sogno di uomini, fatali patres patriae, che ogni cinque minuti si
arrogano il diritto di rafforzarla, d’epurarla, e, modestamente, di salvarla !
La critica , come ognun vede, alla costituzione del Pa. gano è addirittura
radicale : troppo francese e troppo poco napoletana ; per essere ottima men che
buona , mediocre; come quella francese del '95 per sancire gli immortali
princípi non discende alla vita positiva. I particolari dimostrano a
sufficienza l'astrattismo della concezione. Il paese elegge 170 rappresentanti,
i quali il Pagano di vide in due gruppi : 50 membri formano il Senato, 120 il
Consiglio . Il Senato più austero e savio approva o re spinge ciò che il
Consiglio ha proposto. Il critico però sempre fisso ad una realtà che non
sfugge, l'elemento economico nella vita dei popoli, si domanda : a qual
divisione d'interessi corrisponda questa divisione di Ca mere : « In
Inghilterra ha una ragione, perchè gli uo mini non sono eguali ; ha una ragione
anche in Ame rica, poichè, sebbene gli americani avessero dichiarati tutti gli
uomini eguali per diritto, pure – ed in ciò han pensato come gli antichi ( 1 )
non si sono lasciati illudere dalle loro dichiarazioni, ed han . veduto che ri
mane tra gli uomini una perpetua disuguaglianza di fatto, la quale, se non deve
influir nell'esecuzione della legge, influisce però irreparabilmente nella
formazione della medesima. Gli americani han ricercata nelle ric chezze quella
differenza che gl'inglesi ricercan nel grado. (1 ) E noi possiamoaggiungere
come.... Cuoco stesso . Il Cuoco non è davvero per il suffragio universale, nè
per una limita. zione plutocratica, come gli americani, o per una limitazione
di classe come gli inglesi, ma per una limitazione di educa. zione politica , e
lo proveremo appresso . 67 La costituzione francese ha adottato inutilmente lo
sta bilimento americano » ( 1 ) . In sostanza, non essendovi nes suna diversità
di bisogni tra le due Camere, che rappre sentano la stessa borghesia che le
esprime, essendo uguale nell'una e nell'altra la possibilità della corruzione,
la distinzione non ha una ragione pratica. È un altro esempio della concretezza
del pensiero politico del no stro scrittore . La nazione napoletana, mentre per
il potere legisla tivo , offre, come abbiam detto una sua tradizione pae sana,
alla quale il giurista può rifarsi , non offre pari menti una forma indigena di
potere esecutivo potere è pure il più indocile e il più difficile ad organiz
zare. Difficoltà questa più grave oggi , in cui le costitu zioni si creano a
tavolino nel pieno oblìo degli uomini . « Forse non siamo stati mai tanto
lontani dalla vera scienza della legislazione quanto lo siamo adesso, che
crediamo di averne conosciuti i princípi più sublimi » ( 2 ) . Non esiste una
costituzione giusta, una costituzione ottima, esistono costituzioni che più o
meno rispondono ai bisogni di un popolo . Un popolo rozzo avrà una costi
tuzione rudimentale, la quale gli sarà più utile della costituzione del Pagano.
Un popolo culto avrà una costi tuzione sublime, e sol questa potrà essergli
utile . Perchè parlare quindi in via assoluta ? È questo un vero e pro prio
bisogno di ciò che tocca i sensi, il trionfo dello sto ricismo . La
costituzione è di per sè una mera forma, che è vuota, se tu non le dài un
contenuto di sensibilità umana, un contenuto essenzialmente storico, cioè dina
mico. Portate il diritto a contatto con la vita, e la vita vi darà la
direttiva, il metodo, i princípi ( 3 ) . Voi andate ( 1 ) Framm . II , p. 237 .
( 2 ) Framm. III, p. 241 . (3) Nel Platone in Italia ( a cura di F. Nicolini ,
Laterza, ed. , 1916, v. I , p. 45) il Cuoco scrive : « .... In Taranto si
disputa tutt' i giorni sulla miglior forma di governo; e taluno difende gli
ordini popolari , altri si lagna che quelli, che si hanno, non sieno abbastanza
oligarchici.... Tornate ai vostri affari -- ho detto io a molti di questi tali;
68 ricercando una norma, che delimiti il potere esecutivo dal potere
legislativo, che ponga un freno all'arbitrio e tenga il governo entro la legge
: è come cercare l'astratto ! Sono elementi questi di una costituzione che solo
una pratica civile può darvi. Stabilite un principio desumen dolo dalla
costituzione inglese, non è detto che possiate farlo valere da noi.
L'Inghilterra ha fissato per prima questa divisione dei poteri, ed è stata in
ciò scrupolosa; così la Francia, la Svizzera. « Ma questa divisione di forze
dipende dalle circostanze politiche di una nazione ; e bene spesso lo stato
delle cose ed il corso degli avveni menti vincono la prudenza dell'uomo :
cosicchè, volendo troppo dividere la forza armata, si corre rischio d’in
debolirla soverchio, e sacrificare così alla libertà della co stituzione
l'indipendenza della nazione » ( 1 ) . È facile ve dere ciò in concreto . Ogni
nazione ha bisogno della forza per la sua difesa , e questo bisogno è vario ,
secondo molte circostanze etnologiche, storiche, geografiche, ecc. In
Inghilterra, per esempio, la Carta costituzionale è animata da un sentimento
d’estrema diffidenza verso l'elemento militare, nel timore che questo si faccia
stru mento del governo per opprimere le libertà, onde il so vrano stesso non
può disporre della forza armata, ed è necessario un atto parlamentare ogni anno
per mante nere un esercito . Questi princípi hanno origine nelle lotte tra
monarchia e popolo, e trovarono la loro risolu zione pratica nella
Dichiarazione dei diritti ( anno 1689 ) , nel definitivo abbattimento degli
Stuart e nell'ascesa al fate in modo di star meglio nelle vostre famiglie , e
starete anche meglio nelle città. Se voi vi volete occupar sempre degli affari
pubblici, senza curar i vostri interessi privati, rassomi. glierete quei
viaggiatori, i quali, per la curiosità di osservar gli edifizi pubblici nella
città in cui arrivano , trascurano di tro varsi un albergo, e poi si dolgono
che in quella città si alberga male. Se volete esser cittadini felici ,
diventate prima uomini virtuosi. « I vostri maggiori eran liberi perchè forti e
virtuosi. » ( 1 ) Framm . III , p. 243. 69 trono degli Orange. Ma il problema
così com'è stato risoluto in Inghilterra, non può essere risoluto altrove : il
bisogno che Albione ha d'un esercito è minimo, poi che la natura stessa, il
mare difende le sue coste dalle aggressioni straniere. Il potere esecutivo può
perciò benissimo essere menomato nelle sue manifestazioni mi litaresche, mentre
non potrebbe essere menomato, senza che la nazione venga indebolita, qualora
dovesse ab bandonare la sua autorità sull'armata, sulla flotta , unico e grande
presidio dell'isola. È possibile tutto ciò in Francia ? Evidentemente no. A
Napoli ? Neppure. Da noi diminuire il potere esecutivo, togliendogli l'alta di
rezione dell'esercito, significherebbe porre il paese in braccio allo straniero
. D'altra parte quello stesso po tere esecutivo , che non ha energia
sufficiente per difen dere le frontiere, ne avrà sempre tanta da opprimere un
collegio elettorale, per fargli subire la sua volontà estrinseca. Gli antichi,
nota il Cuoco, « invece d'indebolire i po teri, ... li rendevano più energici,
e così, essendo tutti egualmente energici, venivano a bilanciarsi a vicenda » (
1 ) . Oggi i legislatori invece mirano più alle apparenze, per seguono una
delimitazione di forze e di competenze, che non ha ragione di essere, ed
ignorano il vero equilibrio delle cose. La ripartizione delle forze consiste in
un'ar monia di opinioni, è la risultante d’un lungo processo storico di educazione
politica. « I costumi de' maggiori, il. rispetto per la religione, i pregiudizi
istessi dei popoli servon talora a frenare i capricci dei più terribili
despoti, anche quando al potere esecutivo sia riunito il legisla tivo .... » (2
). È la natura che mette un limite all'arbi trio nella stessa educazione, nello
stesso senso civile del popolo . Una nazione ha, in sostanza, il regime che si
merita . A volte gli stessi tiranni sono fatali. Quando per soverchio amore di
ordine, di regolarità una repub blica, poniamo, vuol togliere alle popolazioni
usi , co ( 1 ) Framm . III , p. 244. ( 2 ) Framm . III , p. 244. 70 stumi,
religione, per uniformarle ad una prassi desunta da princípi, il déspota può
darsi che sia accolto come un liberatore. Il concretismo storico del Cuoco qui
raggiunge le sue vette più alte . L'autore stesso dei Frammenti, dopo pochi
anni, dovette a lungo meditare su queste stesse analisi, veggendo come i fatti
avessero confermato le sue induzioni con l'avvento di Napoleone al duplice
trono di Francia e d'Italia, tra il plauso delle popola zioni stanche di
regolarismo repubblicano. « È pericoloso estendere soverchio l'impero delle
stesse leggi , perchè allora esse rimangono senza difesa . Le leggi da per loro
stesse son mute : la difesa la dovrebbe fare il popolo ; ma il popolo non
intende le leggi, e solo di fende le sue opinioni ed i costumi suoi. Questo è
il peri colo che io temo, quando veggo costituzioni troppo filo sofiche, e
perciò senza base, perchè troppo lontane dai sensi e dai costumi del popolo » (
1 ) . Il popolo ha sue esigenze d'ordine e di regolarità, in dipendentemente
dall'ordine e dalla regolarità che gli si vuole imporre estrinsecamente , e da
queste esigenze na scono spontanei contrappesi costituzionali, limiti al
l'esercizio de' poteri . Vuoi che egli resti attaccato alla legge, e se ne
faccia quasi il tutore ? Devi sfruttare la sua natura, pure i pregiudizi .
Vuole solennità ? Dà alle leggi solennità quasi jeratica. La costituzione gli
sem brerà cosa sacra, la rispetterà e la farà rispettare. L'uomo, però, è sopra
tutto interessi, plasmato com'è da bisogni materiali. Su una base economica e
materiale riposa in parte la sua natura. Dividete i poteri esterior mente, non
avrete fatto nulla : il più forte invaderà il campo del più debole, ne
nasceranno crisi , conflitti, pre dominii . Per frenare la forza non vi può
essere che un solo mezzo : dividere gli interessi. Da una disarmonia
d'interessi nasce l'armonia degli ordini civili, poi che ciascuno difenderà il
proprio interesse e sarà impedito a ( 1 ) Framm . III , p. 246. 71 sua volta di
violare l'interesse altrui. « Fate che il potere di uno non si possa estendere
senza offendere il potere di un altro ; non fate che tutt'i poteri si
ottenghino e si conservino nello stesso modo ; talune magistrature perpe tue,
talune elezioni a sorte, talune promozioni fatte dalla legge, cosicchè un uomo,
che siasi ben condotto in una carica, sia sicuro di ottenerne una migliore
senza aver bisogno del favor di nessuno ; tutte queste varietà , lungi dal
distruggere la libertà, ne sono anzi il più fermo so stegno, perchè così tutti
i possidenti, e coloro che sperano , temono un rovescio di costituzione, che
sarebbe contrario ai loro interessi » ( 1 ) . Questa la vera sapienza costitu
zionale : il resto è pregiudizio ed empirismo. Si è pensato a diminuire la
forza del governo, aumentando il numero delle persone a cui è affidato. Il
numero impedisce, sì , l'usurpazione, ma porta seco la debolezza. I romani
avevano il Senato, ma operavano per mezzo de' due consoli, o meglio per mezzo
del dittatore. « L'unità im pedisce la debolezza, che porta seco la
dissoluzione e la morte politica della nazione » ( 2 ) . Quest'affermazione
unitaria del Cuoco avrà, come dimostremo, grande im portanza per la successiva
evoluzione del suo pensiero, e sarà la base della legittimazione politica
dell'impero napoleonico . Un altro punto interessantissimo è questo. Le costitu
zioni sono istituti sociali, umani, e però vivi di vita pro pria. Il giudizio
sul loro valore è lento, graduale, si può avere solo dopo lungo tempo, sulla
base degli effetti pro dotti e non in base a princípi di ragione. Occorre cono
scere i popoli, e vedere se esse costituzioni rispondono alla loro vita, alla
loro natura : solo il tempo può darci un giudizio definitivo . Quindi nessuno
può dirci se la monar chia o la repubblica sia buona o cattiva . « Un re
eredita rio» , dice Mably , parlando della costituzione della Svezia , « quando
non ad altro, serve a togliere agli altri l'ambizione ( 1 ) Framm. III , p.
247. ( 2) Framm. III , p. 249. 72 di esserlo ; ed io credo la monarchia
temperata meno di quel che si pensa nemica degli ordini liberi » ( 1 ) . In
piena rivoluzione il Cuoco afferma che non è detto che la repub blica
estremista e radicale sia la panacea di tutti i mali, e che vi possano essere
sistemi più rispondenti alla realtà nazionale, che garantiscono meglio l'unità
del reggimento politico e la libertà stessa, senza cadere nella debolezza, che
di solito interviene allorquando il potere supremo per essere nelle mani d'un
direttorio di più persone nelle mani di nessuno. Già spuntano nell'autore dei
Frammenti idee, che germineranno e che renderanno sempre più coerenti i suoi
princípi, espressioni profonde di convincimenti sinceri e di meditazioni severe,
non opportunismi servili , come ha voluto dimostrare qual che critico che del
pensiero del grande molisano ha ca pito ben poco. Il popolo è quello che è, con
le sue virtù e con i suoi vizi. Il legislatore non deve che osservare, e dar
leggi conformi alle condizioni reali dei subietti , sfruttando vizi e virtù,
tutto disimpegnando, tutto cercando d'ar monizzare positivamente. Nel Progetto
del Pagano c'è un primo istituto, la censura, che rivive ed arieggia la censura
latina ; c' è un secondo ufficio, l'eforato, che ri corda un nome spartano
anche nella sostanza, avendo il fine di tenere i poteri pubblici nel proprio
cerchio, non partecipando ad alcuno di essi. Il Cuoco loda quest'ultima
magistratura, ma non nasconde la grave verità : non vi può essere forza estrinseca,
fuor dalle cose stesse, che mantenga l'equilibrio ! In quanto alla censura
siamo sem pre allo stesso punto : molta nobiltà di sentimenti, poca
concretezza. Come provare che un cittadino viva ari stocraticamente, agisca con
alterigia, « sia prodigo, avaro, intemperante, imprudente... ? » . Se la
nazione è corrotta, se gli strati sociali sono corrosi, la censura non potrà
fare nulla di nulla . « Libertà ! virtù ! ecco quale deve esser la meta di ogni
legislatore ; ecco ciò che forma tutta ( 1 ) Framm . III , p. 250. 73 la
felicità dei popoli. Ma, come per giugnere alla libertà, così la natura ha
segnata, per giugnere alla virtù , una via inalterabile : quella che noi
vogliam seguire non è la via della natura » ( 1 ) . La virtù, anch'essa, non è
un assoluto, quindi non esiste un termine a cui ricondurre le norme della vita.
Lo stesso entusiasmo per la virtù può produrre in un paese disgregamenti, e per
essere troppo spartani o romani si può cessare d'essere napoletani o milanesi.
La notazione è sottile e vera, in un tempo in cui ogni buon repubblicano era un
Bruto, uno Scevola o che so io in quarantottesimo, pronto a recitare la sua
parte tragica d'eroe e di tirannicida . « La virtù è una di quelle idee, »
scrive il Cuoco, « non mai ben definite, che si presentano al nostro intelletto
sotto vari aspetti ; è un nome capace di infiniti significati. Vi è la virtù
dell'uomo, quella delle nazioni, quella del cittadino : si può considerar la
virtù per i suoi princípi, si può considerare per i suoi effetti » ( 2 ) . Può
darsi che esi sta un'assoluta virtù, ma questo concetto non può che riflettere
la filosofia morale. Il legislatore deve mirare a ben altro fine che ad una
virtù superumana sublime, deve mirare a stabilizzare un costume « che non renda
infelice il cittadino » , deve cioè trovare quell'armonica delimitazione tra
libertà e libertà , tra volontà partico lare e volontà particolare, che sola
può rendere pacifica l'umana convivenza. « Il fine della virtù è la felicità, e
la felicità è la soddi sfazione dei bisogni, ossia l'equilibrio tra i desideri
e le forze » ( 3 ) . Il nostro autore è un politico. A lui non in teressa
l'universale etico, che riconosce e legittima nella sua sfera ideale ed eterna
; a lui interessa la morale po sitiva, che altro non è che la conformità del
costume del ( 1 ) Framm . VI , p. 261. La critica cuochiana coincide affatto
con quella che un valente costituzionalista moderno ha fatto dei due istituti
del Pagano, l'eforato e la censura : vedi L. PALMA, op. cit. , p . 442 e sgg . (
2 ) Framm. VI, p . 261 . ( 3 ) Framm. VI, p . 262. 74 singolo cittadino col
costume della nazione ( 1 ) . Il diritto ci appare, quindi, come un minimo
etico, che assicura una certa non esagerata regolarità ed uniformità di vivere
civile . D'altra parte il Cuoco riconosce che, se il diritto deve limitarsi ad
osservare dati di fatto e a porre norme alla convivenza, stabilendo una pura e
semplice hominis ( 1) Il concetto che una costituzione politica può assicurare
la felicità umana solo in quanto ha un fondamento sulla virtù politica; e,
questa alla sua volta rafferma, appare assai fre quente nel Platone in Italia.
Arehita (v: I, p . 87) dice : « Ciò , che veramente è necessario in una città ;
è che ciascuno stia al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine.
Ad ottener l'uno e l'altro , sono necessari egualmente la scienza e la
subordinazione... -- Non perdete la stima del popolo, diceva Pittagora, se
volete istruirlo. Il popolo non ode coloro che disprezza. Di rado egli può
conoscer le dottrine, ma giudica se. verissimamente i maestri, e li giudica da
quelle cose che sem . brano spesso frivole , ma che son quelle sole che il
popolo vede. Che vale il dire che il popolo è ingiusto ? Quando si · tratta
d'istruirlo , tutt' i diritti sono suoi : tutt' i doveri son nostri, e nostre
tutte le colpe.... Tutte quelle dottrine destinate a pro durre riforme popolari
hanno bisogno di collegi, d'iniziazione, di segreto. Tutt' i popoli hanno avuto
di simili collegi. Sono i primi passi che ogni popolo fa verso migliori ordini
civili. I vo. stri misteri di Eleusi e quelli di Samotracia hanno la stessa
origine: ma nè sul principio sonosi occupati de' nostri oggetti, perchè nati in
età più barbara ; nè oggi possono esser più utili, perchè resi troppo comuni.
Come pretendete che gl'iniziati emen dino il costume di Atene, se voi ateniesi
siete tutti iniziati ? ... ) . « Non son questi, o Archita ) , disse allora
Platone, « i soli mali che jo temo per tali collegi. Essi talora possono
separarsi dal resto degli uomini, e perdersi o dietro astruse inutili
contemplazioni, o dietro l'ozio e gli agi che il rispetto del popolo loro dona.
Questo male io temo ogni volta che si separano le instituzioni morali dalle
civili. Del resto la morale di Pittagora è nell'in trinseca natura dell'uomo.
Essa rinascerà , non ne dubito, sotto altri nomi ed in altre terre. Rinascerà,
quando la corruzione dei costumi e degli ordini civili e la miseria generale
avrà ridotti gli animi all'estremo de' mali. L'estrema corruzione nei costumi
de' popoli produrrà l ' estrema austerità ne' precetti de' pochi saggi che
allora vi saranno ; l'estremo de' mali produrrà l'estre. mo del coraggio, della
temperanza, della virtù , e risorgeranno sotto altri nomi la sapienza ed i
collegi di Pittagora. Possan non separarsi mai dalle leggi e dalla società !
Possano non riunirsi mai con - vincoli troppo tenaci ! ... » . 75 ad hominem
proportio, la politica deve andare più in là, assicurare una felicità presente,
dalla quale sola può scaturire la virtù, ed inoltre aiutare lo sviluppo della
felicità, creare la felicità futura e di conseguenza la virtù futura . La sferà
del politico , pur non attingendo il sü blime vertice dell'indagine etica che
non può vigere che nel mondo teoretico, la sfera del politico, sfera del tutto
pratica, anzi economica, trascende, com'ognun vede, la pura determinazione
giuridica: La vita umana è una ë complessa nello stesso tempo, perchè uno e
complesso è lo spirito: La felicità politica , e quindi la virtù pub blica, ci
appaiono come una formazione vastissima, ri: sultando da elementi molteplici,
d'indole spirituale, reli giosa, materiale. Un elemento però è sovra gli altri
im portante , l'economico, pur che lo si sappia intendere in sepso lato. « Il
fine della virtù è la felicità » ( 1 ) . Per un politico l'affermazione non
suona male, specie dopo the egli stesso ha ammesso la possibilità d'un'altra
ricerca superiore, i cui termini sono di natura teoretica, che po trà influire
sulla ricerca positiva, essendovi innegabili vincoli di reciprocanza, ma che
non si connatura con questå . « La felicità è la soddisfazione dei bisogni
ossia l'equilibrio tra i desideri e le forze » . Sottentra l'elemento
economico. « Ma, siccome queste due quantità sono sem pre variabili, così si
può andare alla felicità, cioè si può ottener l'equilibrio oscemando i desideri
o accrescendo le forze » (2 ). Il selvaggio cura poco il suo simile: la sua
economia è, entro certi limiti, economia individuale iso lata, L'uomo civile
non può prescindere dal resto del mondo : la sua economia è solo per astrazione
individuale, concretamente è economia collettiva sociale . I bisogni di
quest'uomo sono bisogni dinamici e progressivi. Il con cetto della società ha
implicito il concetto della progres sività, poi che è impossibile pensare una
società umana statica, senza condannarla ad una prossima morte. I bi sogni
umani sono in continuo sviluppo : il lusso, quel che ( 1 ) Framm . VI , p .
262. ( 2 ) Framm . VI , p. 262, 76 chiamiamo lusso, è la manifestazione di
bisogni nuovi , null’affatto superflui, poi che sono la cagione d'ogni umano
progresso . Sorgono nuovi bisogni, ma con essi nasce spesso un disquilibrio,
l'infelicità, poi che non sempre le forze bastano a produrre i beni necessari
per soddisfare i nuovi bisogni. Che vale predicare gli antichi precetti di
moderatezza, fulminare le nuove esigenze so ciali , la ricchezza ? La storia
corre incessantemente il suo corso ideale . Nuove età : nuovi bisogni:
disquilibrio di forze produttive: poi, di nuovo , equilibrio per una
reintegrata armonia tra forze economiche e bisogni: infine ancora un secondo
disquilibrio per esigenze sottentrate nell'ambiente, e così in eterno. La
dinamica economica è un avvicendarsi continuo d'equilibri successivi, d'equi
libri turbati che si compongono in un nuovo punto. L'intuizione cuochiana è
lucida ed anticipa di molto alcune vedute economiche moderne. Il fine della
politica è assicurare quest'equilibrio tra forze e bisogni, tra forze e
desideri, come dice il Cuoco. « Se tu ci insegnerai» , scrive « la maniera di
soddisfare i nostri bisogni, se farai crescer le nostre forze, c' ispirerai
l'amore del lavoro, schiuderai i tesori che un suolo fertile chiude nel suo
seno, ci esenterai dai vettigali che oggi paghiamo per le inutili bagattelle
dello straniero, ci renderai grandi e felici: e, senza esser nè spartani nè
romani, potremo pure esser virtuosi al pari di loro, perchè al pari di loro
avremo le forze eguali ai desidèri nostri » ( 1 ) . Le ricerche del Cuoco sono
le ricerche dell'uomo politico . Il molisano è troppo superiore per credere che
la sua analisi esaurisca ogni altro problema : egli stesso dice al Russo : « Ti
dirò un'altra volta le mie idee sullo studio della morale, sulle cagioni per le
quali è stato tanto trascurato presso di noi, sulle cagioni delle contraddizioni
che ancora vi sono tra precetti e precetti, tra i libri e gli uomini ; e forse
allora converrai meco che di questa scienza, che tanto interessa l'umanità, non
ancora si conoscono quei prin ( 1 ) Framm . VI, p. 262 77 cípi che potrebbero
renderla utile e vera » ( 1 ) . A me sembra di vedere una netta distinzione tra
filosofia e politica, tra etica e pedagogia generale : quel che in una sfera ha
un suo profondo valore è insufficiente nell'altra. « L'amor del lavoro mi pare
che debba essere l'unico fondamento di quella virtù, che sola può avere il
secol nostro. La cura del governo deve esser quella di distrug gere le
professioni che nulla producono, e quelle ancora le quali consumano più di ciò
che producono ;,e ne verrà à capo, se stabilirà tale ordine, che per mezzo di
esse non si possa mai sperare tanto di ricchezza quanto colle arti utili se ne
ottiene » ( 2) . Il governo deve dare un vero e proprio impulso alla produzione
: le forze giovani anzi che dirigersi agli impieghi pubblici debbono svilup
parsi altrove, alle industrie, ai commerci, e sovra tutto alla campagna. « Il
lavoro ci darà le arti che ci mancano, ci renderà indipendenti da quelle
nazioni dalle quali oggi dipendiamo; e così, accrescendo l'uso delle cose
nostre, ne accrescerà anche la stima, e colla stima delle cose nostre si
risveglierà l'amor della nostra patria » ( 3 ) . È una vera pedagogia politica
in cui i princípi vivono al contatto con la realtà, in un sano relativismo,
che, non scendendo alla bassezza dell’empirismo, respinge da se ogni
astruseria. Oggi specialmente, in cui la filosofia po litica è di moda e si
riconduce pure la pratica più volgare agli eterni princípi; questo nobile
realismo ideale, sia permessa la parola , dovrebbe insegnarci più d'una cosa.
La rivoluzione pretende di rinnegare la storia, s'af ferma come antistorica ;
ma di fronte ad essa, per un processo, che non è solo di reazione, ma di
sviluppo - da Vico a Cuoco è lo stesso genio italico lo storicismo rinasce,
critica della stessa rivoluzione e entro certi limiti sua rivalutazione. Il
Cuoco non rinnega la rivoluzione, anzi mostra di conoscerne i benefíci, che poi
enumererà con lucida visione nel Saggio e soprattutto ne' suoi articoli ( 1 )
Framm . VI, p. 261 . ( 2 ) Framm. VI, p. 263. ( 3 ) Framm . VI , p. 263. 78
milanesi . Ma l'astrattismo in materia legislativa è dele terio, ed occorre
superarlo, riconducendo il diritto alla vita. Sentimento profondo, che il
nostro non tradirà mai, e sarà sempre alla cima del suo pensiero nel lungo
corso, che noi ci sforzeremo di seguire . La critica del progetto di Pagano ci
appare, quindi, come la manifesta zione d'un sistema, che nel molisano è
organico ed in tero, non l'opposizione piccina d'un antirepubblicano. Nè
Vincenzo Cuoco si smentì mai. Le notazioni che egli volge alla costituzione
partenopea, rivolgerà più tardi nel Saggio alla costituzione francese, che a
lui sembra troppo poco adeguata ai bisogni del popolo. « Chi para gona la
Dichiarazione de ' diritti dell ' uomo fatta in America a quella fatta in Francia,
troverà che la prima parla ai sensi, la seconda vuol parlare alla ragione : la
francese è la formula algebraica dell'americana » ( 1 ) . Ma quanto queste idee
fossero in lui radicate e profonde, possiamo ancora meglio dimostrare . Nel
Giornale italiano, ricevuto l'annunzio che la patria di Alcinoo e di Ulisse ha
riacqui stato l'indipendenza , costituendo la così detta Repub blica
settinsulare, scrive alcune sue opinioni che è op portuno rivedere. « È
difficilissimo giudicar di una costi tuzione . La migliore non è sempre quella
che per astratti argomenti si dimostra ottima, ma bensì quella che è più
uniforme al costume de' popoli : a quel costume che esi ste sempre prima della
costituzione ; e, se è simile, la rende vicina e durevole ; se diverso, la indebolisce
e la distrugge .... » . Qual'è dunque il principio che solo può sanzionare la
bontà d'una costituzione ? Noi lo sappiamo : il tempo, il quale ci confermerà
se essa risponde a bisogni concreti ; la storia, la quale ci dirà se essa si
riconnette allo sviluppo della nazione, sviluppo o corso , al quale occorre
necessariamente rifarsi, come ad incrollabile base, poi che il processo della
vita non soffre soluzioni di con ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII , p. 39 .
79 tinuità. « La storia de' tempi passati », ci ammonisce il Cuoco, è la norma
di quelli che ancora debbono ve nire » ( 1 ) . ( 1 ) L'articolo è intitolato La
costituzione della repubblica set tinsulare ; Giornale italiano, 1804 , 15
febbraio, n . 20, pp. 78-79. Nelle pagine seguenti del mio lavoro avrò
frequente bisogno di rifarmi al Giorn . ital. , in cui c'è il meglio
dell'ingegno po litico del Cuoco, e citerò largamente disul testo. Siccome,
peraltro , molti dei più significativi articoli del foglio milanese sono stati
ristampati in appendice alle opere critiche del Ro MANO e del Cogo, se è del
caso, darò tra parentesi, dopo le indicazioni dirette del Giorn . ital., le
indicazioni delle ristampe. Altri cinque articoli cuochiani sono stati
ripubblicati da G. Gen tile insieme col Rapporto al re Murat e Progetto di
decreto per l'ordinamento della Pubbl. Istruzione nel Regno di Napoli col
titolo di Scritti pedagogici inediti o rari (Roma-Milano, Albrighi e Se gati
ed. , 1909) . Allorquando poi il mio lavoro era già compiuto sono usciti alla
luce due altri volumi contenenti quanto di V. Cuoco rimaneva disperso : Scritti
vari a cura di N. CORTESE E di F. NICOLINI, Bari, Laterza ed. , 1924. Forse
sarebbe stata op portuna una ristampa di tutti gli scritti del Giorn. ital. ,
ma gli egregi editori non hanno creduto di farla, limitandosi a ripro durre per
intero ben ventisette articoli, e sono i maggiori, e a dare, a mo' di
appendice, un catalogo ragionato degli altri ri . masti fuori. S'intende che io
ho rivisto le mie citazioni sull'edi. zione laterziana, che, dal punto di vista
della correttezza , offre i maggiori affidamenti. CAPITOLO III . Il « Saggio
storico sulla rivoluzione napoletana » . Il Saggio storico mostra in atto il
sistema negativo ab bozzato nei Frammenti. – Lo storico e l'artista . – La .
Rivoluzione francese è attiva, quella napoletana pas siva . L'astrattismo . -
La corte e il governo. – I re pubblicani e il popolo. - L'arte del Saggio . I
Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo ideal mente vanno innanzi al
Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, sebbene tipograficamente in tutte
le edizioni cuochiane seguano, quasi a mo' d'appendice, questo. Essi sono una
vera e propria formulazione di princípi filosofici giuridici economici, che
Vincenzo Cuoco desume da un'esperienza storica e politica insieme, antica e mo
derna nello stesso tempo. Larghi sono i raffronti tra le costituzioni classiche
e le odierne, tra costituzione odierna e costituzione odierna, e la critica si
svolge tra compara zioni ed appunti acutissimi. È l'opera di una eccellente
testa politica, che ha legittime pretese di teorizzatore e di sistematico. V'è
un ordine logico ferreo, una disciplina storica, una consequenzialità
impressionante. Avremmo desiderato che questo sistema in abbozzo il Cuoco
stesso avesse sviluppato, ma noi posteri, ammirando la sua eletta figura , non
possiamo domandargli più di quanto ci ha dato, se non nel dolore di vedere
quanta parte del suo genio sia andata dispersa nell'esilio, nella po vertà e
infine nelle malattie . È il libro d’un pensatore 81 che ad una astratta
ideologia oppone il suo paesano realismo storico . Vincenzo Cuoco assiste allo
svolgersi degli avvenimenti, giudice imparziale, ma non per que sto inattivo e
mutolo , e vede la storia rinnegare i suoi ideali, l'errore trionfare e
fatalmente sommergere l'edi fizio repubblicano. La vita segue una via che è
fatale che segua. L'errore trae l'errore, l'estremismo l'estremi smo.
L'astruseria rivoluzionaria forza le cose , e la storia sembra calpestare lo
storicismo, i princípi, che la specu lazione ha desunto e desume
dall'osservazione del suo eterno corso . La storia sembra seguire uno
spiegamento, che non è quello che il passato legittima. Vedremo, invece, come,
superato il vortice, sia la storia stessa che illumina le verità cuochiane :
sarà il periodo del Giornale italiano , il periodo napoleonico dell'impero . «
L'uomo è di tale natura, che tutte le sue idee si cangiano, tutt'i suoi
affetti, giunti all'estremo, s'indeboliscono e si estin guono : a forza di
voler troppo esser libero , l'uomo si stanca dello stesso sentimento di
libertà. Nec totam liber tatem, nec totam servitutem pati possumus, disse
Tacito del popolo romano : a me pare, che si possa dire di tutti i popoli della
terra . Or che altro aveva fatto Robespierre spingendo all'estremo il senso
della libertà, se non che accelerarne il cambiamento ? » ( 1 ) . « Questo è il
corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il po polo si agita
senza saper ove fermarsi : corre sempre agli estremi e non sa che la felicità è
nel mezzo » ( 2 ) . Tale è la vita : dalla sua stessa negazione scaturisce
un'afferma zione. La rivoluzione rinnega la storia, e la storia prende la sua
rivincita sulla rivoluzione. La rivoluzione afferma il diritto alla sommossa :
Robespierre, figlio della rivolu zione, lo nega ghigliottinando ; il popolo
stanco lo afferma sul capo di Robespierre. La cos za storica stess sem bra
distrutta da tutta una tragica serie di fatti, ispi rati alla più astrusa
ideologia : la realtà annichilisce i repubblicani e li conduce alla perdizione;
l'equilibrio si ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , XVIII, p .- 99. ( 2 ) V.
Cuoco, Saggio storico , XVIII, p. 102. 6 F. BATTAGLIA . 82 ristabilisce, si
riconferma ciò ch'era stato negato. Onde ben scrive, a mio avviso, il De Ruggiero,
affermando che l'esperienza rivoluzionaria dà un nuovo significato alla
negazione, in quanto questa è la crisi feconda di un rin novamento della vita
storica. La crisi, in sostanza, non può non apparire che come una critica degli
avveni menti passati e delle istituzioni da essi nate, che non giudica
arbitrariamente, sovrapponendo una verità a priori, ma svolge dagli errori
stessi un latente spirito di verità ( 1 ) . Questa, infine, la ragione
dell'ottimismo rela tivo del Cuoco. L'esperienza politica del Machiavelli do
veva necessariamente finire, data la sua natura , le sue premesse, i suoi fini,
nel pessimismo o nell'amarezza. L'esperienza del nostro, certo più tragica, più
dolorosa, più densa di dolore, che non quella del segretario fioren tino, sfocia,
ed è naturale, in un equilibrio, che è quanto dire in un bene relativo , in
Napoleone. Tra l'astrattismo e Napoleone c'è la rivoluzione, la prassi
sanguinosa, il rinnegamento del passato, la critica assoluta delle isti tuzioni
millenarie, l'apriorismo giuridico, la democratiz zazione, universale,
l'esaltazione dei princípi. La storia procede con continuità mirabile, ma nella
sua stessa continuità c'è un processo di tesi antitesi ed un supera mento
implicito, c'è infine la vera dinamica dello spi rito , dell'idea, che muove
gli uomini e le nazioni. La rivoluzione e Bonaparte sono due aspetti della
stessa realtà : « il passato, negato violentemente, si riaffaccia alla vita
nell'atto stesso della negazione » ( 2 ) . La critica dell’astrattismo
razionalistico, che ne' Frammenti abbia mo osservato e colta nella teoria, nel
Saggio è mostrata e, direi, vista in atto, nello stesso spiegarsi della storia
. È la storia stessa, che, nell'indicare la fatalità del pro cesso storico
determinato dai princípi e dalla prassi re pubblicana, giudica d’un metodo e
d’una mentalità. La storia sembra dire : queste norme hanno portato a tale
orribile scioglimento, giudica tu , lettore, della loro bontà ! ( 1 ) G. DE
RUGGIERO, op. cit . , p. 167. ( 2 ) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 168. 83 In ciò
è riposto quel carattere di sana sapienza, quel l'obiettività del Saggio, per
cui Luigi Settembrini ben potea paragonarlo ad una tragedia greca ( 1) . Ed il
raf fronto non è davvero stiracchiato . La Provvidenza vi chiana vi tiene il
posto dell'antico Fato nell'urto degli eventi, e gli uomini stessi, che hanno
determinato la ! catastrofe con i loro errori, con le loro incongruenze, sog
giacciono ad un destino, che sembra irrevocabile . Sono essi, gli uomini, che
determinano lo scioglimento, o sono poveri burattini nelle mani d'un ignoto
motore ? Ma la storia è reciprocanza e v'è perfetta conversione tra causa ed
effetto : gli uomini, che fanno la storia , soggiacciono ad essa. Il Cuoco
parla spesso di un vortice ( 2 ) , in cui egli stesso fu tratto, e da cui potè
districarsi a mala pena, dopo aver perduto i beni e la patria, vortice che egli
non ammirava, se pure non odiava, come vuole il Tria, ma che distrusse sul
palco ferale tante nobili esistenze, parla insomma di un vortice, che non è
altro che la rivoluzione. Che cosa è mai ? È superiore alla volontà degli
uomini ? : No, esso è fatto dagli uomini nel loro delirio , nel loro ! errore,
e gli uomini possono averne sicura conoscenza , poi che essi ne sono i fattori,
ma averne conoscenza, si gnifica in un certo senso superamento e distacco da
esso . Nei Frammenti era la teoria, la metodologia. Il Saggio storico è la vita
in atto, la tragedia greca in isviluppo, le passioni colte nel loro urto .
Questa è la ragione per cui esso è un'opera d'arte, una grande opera d'arte. Lo
spi rito dello scrittore rifà il processo della storia, segue il corso delle
idee, e lo fa con tale intensa visione da ri crearcelo in un miracolo di luci,
di chiaroscuri, di sfu I mature. V'è l'anima insomma, laddove prima era il
pensiero ; la fantasia , laddove prima era l'intelletto , la fantasia che
s'esprime per immagini e tutto risolve nella immagine. L'opera d'arte è attinta
in un processo d'obiet ( 1 ) L. SETTEMBRINI, Lezioni di letteratura italiana,
Napoli, Morano ed. , 1882, v. III , p. 282. ( 2 ) V. Cuoco ," Saggio
storico, Lettera dell'autore a N. Q. , p. 11: I , p. 16 ; VIII, p. 47 ; XV, p.
84, 84 tivazione, che non esito a dire perfetto, onde non v'è affatto, o assai
raramente, quel contrasto ibrido tra l'ar tista che intuisce e lo storico che
analizza quale può rin venirsi in molte opere di simile genere, poi che tutto è
compenetrato e fuso, attraverso una lunga maturazione, che dovette certo essere
prima consapevolezza di pen siero, meditazione di cause e di effetti, e poi
immedia tezza nervosa e rapida d'espressione (1 ). Invano tu cercherai nel
Saggio un elemento estrinseco all'artista e allo storico. Lo storico si fonde
con l'artista , ma lo stesso storico è perfetto. L'uomo pratico non con turba
l'artista, che supera nella visione l'enunciato fine utilitario della sua
narrazione; il partigiano non con turba lo storico. Leggete invece il Rapporto
al cittadino Carnot del vesuviano Francesco Lomonaco. Quante escla mazioni,
quanti interrogativi , quante tirate oratorie, quanti pistolotti repubblicani,
quanto anticlericalume, quanta montatura ! V? è l'uomo delle nobili passioni,
ma v'è pure l'uomo pratico, che per raggiungere un suo fine, non esita di
caricar di tinte fosche la storia , non esita un momento per indossare la toga
dell'avvocato . Infatti chi può negare la presenza d'una passionalità che di
strugge la storia, d'una coscienza turbata ed oscura, che è la negazione d'ogni
vera espressione artistica ? ( 2 ). Nel Cuoco nulla di tutto ciò . ( 1 ) La
questione della cronologia del Saggio a me sembra oramai risoluta . Fausto
Nicolini, in una sua nota all’ed . barese del Saggio, p. 357 e sgg. , la
riassume e ne trae le migliori conseguenze. Perciò non ho che da rinviare il
lettore a quanto il Nicolini ha egregiamente scritto . Del Saggio poi
possediamo numerose edizioni, di cui alcune buone, molte mediocri scorrette
ristampe, nonchè traduzioni straniere: vedi N. RUGGIERI, op. cit., p. 173 ; e
la nota del Nicolini all’ed . laterziana. ( 2 ) Ogni possibile raffronto tra il
Cuoco e il Lomonaco è assolutamente impari. Già lo osservò il Gentile ne' suoi
Studi vichiani, p . 361 , nota, là dove critica un giudizio di G. Na. tali, che
nella sua monografia La vita e il pensiero di Francesco Lomonaco, Napoli,
Sangiovanni, non esita a chiamare il suo scrittore predecessore in molte idee
di Vincenzo . Scrive il Gen tile : « Tra le superficialità del Lomonaco e le
vedute profonde 85 Chi si accinge a studiare il pensiero cuochiano, i mo menti
ideali dello spirito del grande molisano, non può non rifarsi ad un
avvenimento, che per lui , come per noi, è la fonte, donde scaturirono tutti i
successivi avveni menti, la rivoluzione francese, di cui la rivoluzione parte
nopea non è che un tardo episodio . Il Cuoco, che studia più le idee che i
fatti, le idee che sono degli uomini, le idee che muovono gli uomini, lega la
storia napoletana alla francese, e di questa ci dà un quadro ricco e vasto. «
Le grandi rivoluzioni politiche occupano nella storia dell'uomo: quel luogo
istesso che tengono i fenomeni straordinari nella storia della natura » ( 1 ) .
Le rivolu zioni-sono come le malattie nel corpo umano, i periodi sismici nel
mondo geologico. Le generazioni si succedono incolori uguali, finchè « un
avvenimento straordinario sembra dar loro una nuova vita » . Le rivoluzioni
sono un'misto di bene e di male, gravi di effetti buoni o cat tivi, come le
crisi di crescenza nel corpo d’un fanciullo . « In mezzo a quel disordine
generale, che sembra voler distruggere una nazione, si scoprono il suo carattere,
i suoi costumi e le leggi di quell'ordine, del quale prima si vedevano
solamente gli effetti » ( 2 ) . Le rivoluzioni sono esperienze politiche, dalle
quali non si può prescindere, perchè sono nell'ordine stesso della natura. Esse
rinnegano a parole il passato, di fatto poi lo riconfermano, e nella negazione
della storia il filosofo ritrova lo sviluppo fatale della storia . Guardiamo la
rivoluzione di Francia, a la più gran rivoluzione dicui ci parli la storia » (
3 ) . Essa scoppia improvvisamente, rinnegatrice di tutto un passato : una
analisi immediata ci dirà che lo stesso passato l'ha pre parata, e allo stesso
passato essa si ricongiunge, onde è stato possibile a molti il prevederla. Gli
uomini sono cie del Cuoco c'è tale abisso , che non è lecito raccostare i due
nomi, se non per illustrare l'ambiente in cui si muoveva lo spi rito del Cuoco,
o per far meglio vedere la sua superiorità » . ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico,
I. p. 15. ( 2 ) V. Cuoco, Saggio storico, I , p. 15. ( 3 ) V. Cuoco, Saggio storico
, II , p . 17, 86 chi, ma la storia, fatta dagli uomini, non è cieca, ed ha una
sua logica, nella cui grandezza noi siamo come dispersi. Gli uomini sono ciechi
e sono inclini a scambiare il processo della loro mente con il processo della
storia, e, peggio , a credere i suoi sviluppi mero sviluppo d'un pen siero loro
individuale. Il filosofismo francese ha preceduto la rivoluzione : ciò non
significa che esso abbia generato la rivoluzione . La storia non s'esaurisce
nella filosofia, come non s'esaurisce nell'economia : la storia è d'una
complessità mirabile . « I francesi illusero loro stessi sulla natura della
loro rivoluzione, e credettero effetto della filosofia quello che era effetto
delle circostanze politiche nelle quali trovavasi la loro nazione » ( 1 ) . Ma
la filosofia non compie simili miracoli, non sovverte un mondo, tutt'al più
aiuta gli uomini ad insistere ne' loro errori di metodo. Così accadde in
Francia. Il Cuoco con ciò non nega l'alta importanza umana della filosofia,
vuol semplicemente delimitare la sfera di ogni attività e ad ognuna assegnare
il posto che le com pete ; anzi egli stesso ritiene che in ogni operazione
umana debba richiedersi la forza e l'idea, e nelle rivoluzioni, come è
necessario il popolo, sono necessari i filosofi, i conduttori, « i quali
presentino al popolo quelle idee , che egli talora travede quasi per istinto,
che molte volte segue con entusiasmo, ma che di rado sa da sè stesso formarsi »
( 2 ) . Il compito dei filosofi è chiarificato : essi debbono trarre i princípi
della storia e della politica, non dal loro cervello ed assumerli come
postulati inderoga bili , ma dalla vita del popolo, dalla natura eterna del
l'uomo, che non è solo intelletto, ma vichiamente anche senso e fantasia.
Credere un avvenimento gigantesco, come la rivoluzione francese, frutto
soltanto del pensiero filosofico è uno sminuirlo in una visione ristretta e par
ticolaristica. La vita non è solo attività teoretica , è me diatamente anche
attività pratica, politica ed economica. Pur tenendo di vista il sorgere e
l'imporsi delle idee, ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , VII , p. 37. ( 2 ) V.
Cuoco, Saggio storico, XV, p. 82. 87 occorre investigare i bisogni e lo stato
dei popoli per ve dere quanto essi siano stati i propulsori d’un moto, che è
determinato, ma non cieco, anche nelle sue più crudeli manifestazioni. La
rivoluzione francese non si può in tendere, se non s'intende tutta la storia
che la precede. La Francia monarchica, la gloriosa potente monarchia
accentratrice era un paese di abusi : « la rivoluzione non aspettava che una
causa occasionale per iscoppiare » ( 1) . Il Cuoco analizza tutto ciò, e
l'analisi breve serrata ner vosa, che egli fa, è, senza dubbio la cosa
migliore, che si possa scrivere sul turbolento periodo : gli stessi storici francesi
non ebbero mai nessuna di quelle lucide intui zioni che fanno grande il
molisano . « Tra tanti » si doman da « che hanno scritta la storia della
rivoluzione francese, è credibile che niuno ci abbia esposte le cagioni di tale
avvenimento, ricercandole, non già ne'fatti degli uomini, i quali possono
.modificare solo le apparenze, ma nel corso eterno delle cose istesse, in quel
corso che solo ne determina la natura ? » ( 2 ) . Nessuno, rispondiamo, perchè
è fatale negli uomini vedere solo alcuni individui di genio e trascurare le
masse e le cose ; credere un moto preparato dai secoli un fenomeno sporadico
senza stretti legami con l'antico ; una rivoluzione, opera d'un intero popolo,
com presso a lungo dall'ineguaglianza, la manifestazione di pochi genî o d'un
partito. Il Cuoco, ho detto, ci dà una disamina dei precedenti della grande
rivoluzione, che sfida i tempi nella sua tacitiana concisione. Val la pena di
riferirla : non si può estrarre il succo da ciò, che di per sè è tanto
concentrato, che togliere una parola val quanto distruggere una meditazione. «
La leggenda delle mosse popolari, degli eccidi, delle ruine, delle varie
opinioni, de' vari partiti, forma la storia di tutte le rivoluzioni, e non già
di quella di Fran cia, perchè nulla ci dice di quello per cui la rivoluzione di
Francia differisce da tutte le altre . Nessuno ci ha de scritto , una monarchia
assoluta, creata da Richelieu e ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII , p. 37. (
2 ) V. Cuoco, Saggio storico , VII , p. 38, 88 riforzata da Luigi XIV in un
momento ; una monarchia surta , al pari di tutte le altre d'Europa,
dall'anarchia feudale, senza però averla distrutta, talchè, mentre tutti gli
altri sovrani si erano elevati proteggendo i popoli contro i baroni, quello di
Francia avea nel tempo stesso nemici ed i feudatari , ivi più potenti che
altrove, ed il popolo ancora oppresso ; le tante diverse costituzioni che ogni
provincia avea ; la guerra sorda ma continua tra i diversi ceti del regno ; una
nobiltà singolare, la quale, senza esser meno oppressiva di quella delle altre
nazioni, era più numerosa, ed a cui apparteneva chiunque vo leva, talchè ogni
uomo, appena che fosse ricco, diven tava nobile, ed il popolo perdea così
financo la ricchezza ; un clero, che si credeva essere indipendente dal papa e
che non credeva dipendere dal re, onde era in continua lotta e col re e col
papa ; i gradi militari di privativa de' nobili ; i civili venali ed ereditari,
in modo che al l'uomo non nobile e non ricco nulla rimaneva a sperare ; le
dispute che tutti questi contrasti facevano nascere ; la smania di scrivere,
che indi nasceva e che era divenuta in Francia un mezzo di sussistenza per
coloro i quali non ne avevano altro, e che erano moltissimi ; la discus sione
delle opinioni a cui le dispute davan luogo ed il pericolo che dalle stesse
opinioni nasceva, perchè su di esse eran fondati gl'interessi reali de' ceti ;
quindi la massima persecuzione e la massima intolleranza per parte del clero e
della corte, nell'atto che si predicava la mas sima tolleranza dai filosofi;
quindi la massima contrad dizione tra il governo e le leggi, tra le leggi e le
idee, tra le idee e li costumi, tra una parte della nazione ed un'altra ;
contraddizione che dovea produrre l'urto vicen devole di tutte le parti, uno
stato di violenza nella na zione intera, ed in seguito o il languore della
distruzione o lo scoppio d'una rivoluzione . Questa sarebbe stata la storia
degna di Polibio » ( 1 ). La Francia ha mille cause per muoversi. La
rivoluzione ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , VII , p . 38. 89 s'esprime dal
seno d'un popolo in travaglio secolare, sca turisce da desideri compressi, da
bisogni materiali, da un malessere durevole. Che ci hanno a che fare i filosofi
? I filosofi servono, se mai, a conturbare quel che è chiaro , a far credere
opera loro quel che è già nella storia, a far scambiare come esigenza
intellettuale quel che è esigenza economica nel suo più vasto significato.
Enormi sono gli abusi, terribili i contrasti; più astratti, quasi per
necessità, i princípi riformistici, come quelli che voglion compren dere un
numero più grande di fatti umani. Ecco l'errore ! I francesi deducono i loro
princípi dalla metafisica , e cadono nell'errore « di confonder le proprie idee
colle leggi della natura » (1). È una ' falsa visione del reale questa in cui
possono cadere tutti gli uomini che seguono idee soverchiamente astratte .
Commentando le incon gruenze dei repubblicani della Partenopea il Cuoco escla
ma : « Io credeva di far delle riflessioni sulla rivoluzione di Napoli, e
scriveva intanto la storia della rivoluzione di tutt ' i popoli della terra,
especialmente della rivolu zione francese . Le false idee che i nostri aveano
conce pite di questa non han poco contribuito ai nostri mali » ( 2 ) . Siamo
sempre ad un punto : gli uomini credono troppo ne' loro princípi e non
s'accorgono che i principi sono spesso astrazioni, credono in essi e ' non
osservano che intanto la storia si muove oltre i princípi. La rivolu zione è
opéra dei filosofi ? Altro che filosofi ! « Il grande, il solo agente delle
rivoluzioni e delle controrivoluzioni >> è il popolo (3 ) . Guardate
questo popolo : si muove mai esso dietro i filosofemi ? No. « Il popolo non
intenderà, non seguirà mai' i filosofi » ( ) . Perché ? La ragione è una sola,
vichiana. Il popolo è senso e fantasia : i filosofi in telletto . Date al
popolo princípi : non li intenderà. Com primete il popolo, esacerbatelo : il
suo senso s'esaspererà, la sua fantasia s'accenderà violenta , vremo una crisi
vasta ' e potente, la rivoluzione. ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , VII, p .
39. ( 2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 96. ( 3) V. Cuoco, Saggio storico
, Prefazione alla sec. ed. , p . 5 , ( 4) V. Cuoco, Saggio storico , VI, p. 30,
90 La rivoluzione nasce da bisogni positivi, cioè dal senso e dalla fantasia
popolaresca. Ciò non toglie che il suo pervertirsi, il suo incrudelire provenga
invece dalla falsa filosofia . L'origine è naturale, lo sviluppo abnorme: lo
spunto è popolare ed economico, le conseguenze degene razioni di princípi,
intellettualistiche. Sono le astruserie dell'ultima ora che portano seco loro
gli inconvenienti propri delle grandi rivoluzioni, i capricci de' potenti, le
fazioni, le turbolenze, il sangue. « Chi guarda il corso della rivoluzione
francese ne sarà convinto » ( 1 ) . I saggi sono inutili a produrre una
rivoluzione ( 2 ) , ma i pseudo saggi possono condurre un moto già evoluto sur
una falsa via. Ecco perchè la rivoluzione francese ha un vizio d'origine, che
dovrà riuscire fatale alle rivoluzioni, che qua e là scoppiarono, riflessi
incolori e pur gravi della grande rivoluzione: essa parla troppo alla ragione,
poco al senso e alla fantasia, e i popoli, si sa, sono tutto senso, tutta
fantasia . Quanto più i pensatori navigano in sfere superne, tanto meno i
popoli li intendono, anzi, a volte, sono i popoli che accendono le
controrivoluzioni, se i princípi di ragione urtano le avite tradizioni, i sacri
costumi, i millenari bisogni. La critica è profonda, e, come ognuno intende,
coin volge tutta la rivoluzione francese, ma è una critica , che nel Saggio
storico appare per incidenza, e che tocca allo studioso di rilevare . La storia
è tutta una catena, in cui un avvenimento non si può astrarre dagli altri. La
vita delle nazioni oggi è così complessa, che, trattando della stessa Napoli e
della sua politica, non si può prescindere dalla politica generale
dell'Inghilterra, della Francia, della Spagna. Nel passato una rivoluzione
potea apparire un evento isolato , poteva chiudersi quasi in una barriera
sanitaria ; oggi, in tempi nuovi, deve fatalmente trovare addentellati un po'
ovunque. La rivoluzione francese suscita un incendio repubblicano in Italia , a
Milano, a Roma, a Napoli. Ma in questa stessa considerazione ( 1 ) V. Cuoco,
Saggio storico, VII, p. 40. ( 2 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione alla
sec. ed. , p. 6, 91 sta il primo e capitale appunto alla rivoluzione parte
nopea, di cui il Cuoco esclusivamente si occupa. Lo storico critica lo
svolgimento della grande rivoluzione francese, ma non nega l'origine pienamente
legittima di essa, la riconosce nata da un secolare stato anomalo di cose, per
cui il popolo, attivo e industrioso, ma ciò non pertanto trascurato ed isolato
politicamente, reagisce e d'un balzo acquista di diritto ciò che di fatto aveva
già acquistato . Nulla di tutto ciò a Napoli. Quivi la rivolu zione è un mero
riflesso di quella gallica, è nella sua na scita e nel suo affermarsi passiva.
L'aggettivo passivo ha fatto epoca , e val quanto dire impopolare. Le idee
passano di paese in paese, perchè trovano ovunque in gegni culti atti a
riceverle e a meditarle ; i bisogni sono invece ovunque diversi, da nazione a
nazione, da po polo a popolo, anzi da regione a regione, da provincia a
provincia. Quel che a Parigi è spiegabile, a Napoli ' non lo è : quel che a
Napoli è naturale, in Calabria cessa di esserlo, diviene artefatto . Mentre
tutto il pensiero europeo, dalla Germania all'Italia, dall'Inghilterra alla
Russia, dalla Spagna alla Svizzera, è infranciosato, ra zionalista,
illuminista, i bisogni dei popoli sono sostan zialmente e profondamente diversi
in ogni angolo del vecchio continente europeo. Come poter condurre realtà di
lor natura ineffabili e particolari ad. aderire a prin cipi uniformi, se non
sforzando lo stesso ordine delle cose ? Così.a Napoli. Invece di fare una
rivoluzione na poletana, si fece una rivoluzione francese in piccolo . « Le
idee della rivoluzione di Napoli » scrive il Cuoco « avrebbero potuto esser
popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione. Tratte
da una co stituzione straniera , erano lontanissime dalla nostra ; fondate
sopra massime troppo astratte, erano lontanis sime da’sensi, e, quel ch'è più,
si aggiungevano ad esse, come leggi, tutti gli usi, tutt'i capricci e talora
tutt'i difetti di un altro popolo, lontanissimi dai nostri difetti, da' nostri
capricci, dagli usi nostri » ( 1 ) . La rivoluzione ( 1 ) V. Cuoco, Saggio
storico , XV, p. 83, 92 francese, in sostanza , e qui è il nucleo di tutte le
consi derazioni successive, è attiva, cioè risultante di molte plici elementi
economici e politici ; la rivoluzione napo letana passiva, cioè frutto di
opinioni labili. Ma guardate gli uomini ! I monarchi europei credono la
rivoluzione francese questione d'opinioni e la perseguitano, mentre, se era in
realtà questione d'opinione, sarebbe caduta di per sè stessa ; il re di Napoli
crede cosa grave e profonda, invece, ciò che nel suo nascimento era ' un ' po '
moda e opinione, la tormenta ed incrudelisce, finendo per creare col suo
contegno un generico malcontento . Lo stesso atteggiamento politico estremo in
due circostanze diverse finisce per produrre i più gravi effetti. Le
conseguenze di non mirare entro la natura delle cose ! È un astratti smo, che
Vincenzo Cuoco non vede solo nella rivoluzione, ma ne' governi, nei patrioti e
nei codini , nella filosofia e nella scienza militare. La reazione, al primo
manifestarsi della rivoluzione francese, è tutta ispirata a questa visuale
errata. Le potenze europee si coalizzano contro la Francia : effetto : la
Francia, di fronte al pericolo straniero, è un sol uomo, si arma, si oppone,
vince. « Una guerra esterna, mossa con .... ingiustizia ed imprudenza, assodò
una rivoluzione, che, senza di essa, sarebbe degenerata in guerra civile » ( 1
) . È l'astrattismo, il solito astrattismo del tempo, che crede forzare
l'ordine delle cose. La Francia deve ras sodare la sua insurrezione; ha contro
di sè tutta l'Europa : la guerra le diviene indispensabile per vivere. È l'oppo
sizione stessa che costringe il paese alla lotta. Quindi si sviluppa un sistema
di democratizzazione universale, di cui i politici interessati si servono, a
cui i filosofi applau dono in buona fede ; « sistema che alla forza delle armi
riunisce quella dell' opinione, che suol produrre, e ta lora ha prodotti,
quegl'imperi che tanto somigliano ad una monarchia universale » ( 2 ) . ( 1 )
V. Cuoco, Saggio storico , II , p. 18 . ( 2 ) V. Cuoco, Saggio storico, II , p.
20. 93 A Napoli lo stesso errore dei governanti è aggravato da circostanze
peculiari. Il principio della rivoluzione francese trova una nazione florida ed
esuberante di pen siero e di studi economici, giuridici, filosofici, un paese
che trae dalla Francia molte cose, ma tutte le concre tizza in una tradizione
paesana, che si ricollega al Vico. La rivoluzione, se pure in questo ambiente è
possibile una rivoluzione, è affare d'opinione. Ma a Napoli mancano i
repubblicani. Pochi giovinetti, presa la testa - dalle novità straniere, si
proclamano sovversivi, vestono alla francese, parlano francese, seguono insomma
la moda . Convien disprezzarli. No, il governo muta rotta, incru delisce. È
proprio quella politica, che più conveniva evi tare, volendo rimanere saldi
nella grave crisi, che agi tava tutto il mondo civile ( 1 ) . « I nostri
affetti, preso che abbiano un corso, più non si arrestano. L'odio segue il
disprezzo, e dietro l'odio vengono il sospetto ed il timore » ( 2 ). Gli uomini
s'oppongono violentemente, gli a ffetti s ' inacerbano : laddove con un metodo
diverso la situazione potea dominarsi, è lo scompiglio . « I mali d'opinione si
guariscono col disprezzo e coll'obblio : il popolo non intenderà, non seguirà
mai i filosofi » ( 3 ) . A Napoli il popolo non partecipa a nessun movimento :
la rivoluzione, quindi, è lecito presumere, non c'è , non ci 16 li la ti ( 1 )
È lo stesso concetto che V. Cuoco esprime nel Platone in Italia, v . I , p. 43
: « Nel portico di Falanto si ragunan tutti i giorni , molti, la cura
principale de quali è di ragionar della guerra e della pace di tutti popoli
della terra ... Forse un giorno taluno imporrà fine al loro cicaleccio. Archita
non lo cura, ad onta che il più delle volte si parli di lui , e non sempre con
giustizia. E qual giustizia sperare da coloro che siedono tutt' i giorni in un
portico per ragionar di regni ? 0. presto o tardi si credono di esser re . Ma
Archita, a taluno che gli ha con sigliato di vietar taliadunanze, ha risposto :
—Tu vuoi dunque che il popolo creda alle parole di costoro ? Nessun uomo mostra
la sua stoltezza , nè il popolo se ne accorge mai al primo mo mento. Se vuoi
smascherar lo stolto , lascia che parli lungamente. Gli chiudi tu la bocca al
primo istante ? Corri il rischio di farlo riputar savio ( 2) V. Cuoco, Saggio
storico, VI, p. 29. ( 3) V. Cuoco , Saggio storico , VI, p . 30. 94 sarà. Ma,
ecco, la polizia perseguita quei giovinetti, che hanno per moda il fare le
corse a cavallo per Chiaia e Bagnuoli, imitando gli antichi greci, che leggono
ne' pe riodici le cose della rivoluzione francese e ne parlano ai loro barbieri
e alle innamorate, ecco, le opinioni diven tano sentimenti, il sentimento
genera l'entusiasmo, l'en tusiasmo si comunica : « vi inimicate chi soffre la
perse cuzione, vi inimicate chi la teme, vi inimicate anche l'uomo indifferente
che la condanna ; e finalmente l'opi nione perseguitata diventa generale e
trionfa » ( 1 ) . Una politica sbagliata insomma ingenera errori nuovi. Si
perde il senso della moderazione e si cade nell'estre mismo. Si vuol sangue, si
condanna ( 2 ) . Pochi a Napoli intendono la rivoluzione francese, pochissimi
l'approvano, nessuno la desidera : eppure si crea un ambiente insurre zionale,
laddove non era. « Il mezzo per opporsi al con tagio delle idee lo dirò io ?
non è che un solo : lasciarle conoscere e discutere quanto più sia possibile.
La di scussione farà nascere le idee contrarie » ( 3 ) . Il governo di Napoli
invece è pavido, e il timore rende deboli e inetti , ci offre sprovvisti
all'assalto inimico. « Vince una rivoluzione colui che meno la teme » ( + ) .
Questa incomprensione della realtà sociale, che il Cuoco trova nella prassi
politica preventiva della corte di Na poli, deriva dallo stesso astrattismo che
domina i go verni europei coalizzati, è lo stesso astrattismo che guida i
giacobini di Francia e i patrioti di Napoli . Non per nulla tutti gli attori
del fòsco dramma, gli uni e gli altri hanno bevuto alle acque della filosofia
illuminista, che per la ragione rinnega il senso, e ripone tutta la sua fiducia
nell'umano intelletto e nella sua ideologia. Eccone le conseguenze. Vedremo in
seguito il comportamento dei ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30 . ( 2 )
Il tratto saliente di questa pre -reazione è la condanna a morte di tre
giovani, De Deo, Vitaliani e Galvani : la morte del De Deo fu sublime. Vedi
quel che ne scrive B. CROCE, La rivoluzione napoletana , p. 204 e sgg: ( 3 ) V.
Cuoco, Saggio storico , VII, p. 41. ( 4 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII , p.
42. 95 repubblicani, ora dobbiamo osservare più particolar mente la politica
governativa e la sua insufficienza . La rivoluzione a Napoli, abbiamo detto,
nasce come opinione, quindi passiva ; la corte finisce per renderla necessaria,
sforzando il cammino storico della nazione, suscitando vasti malcontenti in
tutte le classi del po polo, ne' signori e nella borghesia, perseguitando dotti
filosofi ed economisti, un giorno già vanto e decoro della corte stessa, nel
popolo, intaccando gravemente i suoi interessi . Vediamo quest'ultimo punto, il
quale ci mo strerà pure l'importanza che Vincenzo Cuoco dà all'ele mento
economico nella storia e nella politica. La storia per lui non è pura idea,
come per gl’intellettualisti, che finiscono per negarla, nè pura economia, come
per i ma terialisti storici : la storia è più complessa assai . « La storia si
può suddividere in tante parti quanti sono gli aspetti sotto de' quali gli
avvenimenti umani si vo gliono considerare » ( 1 ) . Ogni scienza particolare
ha una sua storia, ma quel che noi consideriamo come la storia per eccellenza
non s'esaurisce in alcuna ricerca partico lare. Lo spirito è complesso pur
nella sua unità, così com plessa è la vita dei popoli, che è attività pratica e
teore tica, prassi ed economia, intelletto e fantasia. Onde lo storico deve
tener conto di tutto, e di tutto deve rendersi conto. Ma non anticipiamo ! Il
Cuoco dà molta importanza all'elemento economico, ma non esaurisce in esso il
pro cesso storico, lo sviluppo d'una nazione. Qual è la posi zione geografica,
e di riflesso economica, del regno di Napoli ? Ove portano questo Stato i
bisogni generali ? Qual'è quindi la direttiva più naturale della sua politica ?
Quando Napoleone discende in Italia , la penisola è divisa in piccoli Stati, i
quali uniti avrebbero potuto opporre resistenza, disuniti era fatale che
cadessero . Que sta contingenza mostra quanto lo stato politico degli italiani
sia infelice , senza amor di patria e senza virtù militare. Di fronte al genio
d’un gran capitano tutte ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v . II , p. 31 . 96 le
barriere caddero come scenari vecchi : gli austriaci furono messi in fuga,
Venezia disparve colla sua imbe cille oligarchia , la distruzione del governo
teocratico del Pontefice non costò che il volerla. Napoli sola per un complesso
di cose poteva resistere . A Napoli c'era un governo monarchico forte, che
garantiva una maggiore compattezza, una certa disciplina, un esercito, un po
polo che bene o male seguiva il suo sovrano, c'era un popolo, e dietro di esso
una classe colta che voleva stu diare e vivere . Tutto rendeva possibile
l'esistenza felice della monarchia, pur nel vortice che dilagava in Eu ropa.
Non fu così : la politica borbonica da qualche anno seguiva , e ora sotto la
pressione napoleonica con tinuò a seguire, l'andazzo antifrancese de' governi
coa lizzati, ed urto in una condizione di cose secolare e pro fondamente
sentita dalle popolazioni meridionali. Il regno di Napoli era per sua natura
una potenza me diterranea . Tutti i suoi interessi lo portavano ad una politica
mediterranea, ad una politica, vale a dire, il cui centro di sviluppo fosse il
bacino del Mediterraneo, ad un commercio con l ' Oriente, con Tunisi, con la
Francia, con la Spagna. Queste le esigenze del paese : la volontà della regina
dominatrice co' suoi favoriti della corte e del governo dispose diversamente.
Lo Stato diventò ligio all'Austria, potenza lontana, dalla quale il paese nulla
aveva da sperare e tutto da perdere, che finì anzi per coinvolgerlo in continue
guerre . Le cause di questo errore si riconducono ad uno di quei concetti , che
nel Cuoco sono alla base di tutto il suo pensiero : il disdegno di tutto ciò
che è straniero. L'ita lianismo del Cuoco, che si vuol porre di solito come
mero antifrancesismo, è, entro certi limiti, un po' xenofobismo. Egli vuol
inoculare agli italiani un sicuro orgoglio nazio nale, un vero bisogno d'essere
esclusivamente italiani . La rivoluzione napoletana, come in genere tutte le
rivoluzioni italiane del tempo, sono la negazione dell'italianismo, negazione,
che, notiamo, è cominciata da lungo tempo e si perpetua tra gli errori de'
governi e dei repubblicani. È un indirizzo mentale, che il Cuoco combatte
ovunque 97 lo trova. Egli non è antirivoluzionario, perchè critica i patrioti:
egli non è antiborbonico, sol perchè critica il go verno . La sua critica ha
origini più grandi: bisogna riguar darla quale espressione d'una mentalità
politico- giuridica più italiana, più grande che non tutti i sistemi che la ri
voluzione ha maturati, d'una mentalità politica , che si rivolge combattiva
ovunque vede la sua negazione. L'azione rivoluzionaria è una prassi
d'astrattismo fran cese : è naturale che Vincenzo Cuoco non ne condivida le
direttive .. La politica di Maria Carolina di Napoli e del suo favorito Acton è
poco napoletana, molto austriaca : è naturale che Cuoco alla luce delle sue
idee ne riveli le incongruenze e le manchevolezze. La pietra di paragone: l'Italia
, Napoli, il popolo e i suoi bisogni. Tutte le poli tiche , che astraggono da
questo elemento insuperabile, sono rovinose. Maria Carolina, salendo al trono
meridionale, dovea dimenticare di essere una tedesca, pensare di divenire
napoletana, se voleva divenire davvero regina di Napoli e cessare di essere una
principessa germanica. Volle in vece essere novatrice, cioè sforzare la
tradizione, gli usi, i costumi del nuovo ambiente, sviluppando una frivola
smania per ogni cosa estera, sia materiale, sia intellet tuale . Dalla moda per
il vestire si passò a quella per il costume e per i modi, si parlò francese od
inglese, e si ritenne poco obbrobrioso non sapere l'italiano ; l'imita zione
del vestimento e delle lingue portò di conseguenza l'imitazione delle opinioni
. « La mania » ammonisce il « per le nazioni estere prima avvilisce, indi ammi
serisce, finalmente ruina una nazione, spegnendo in lei ogni amore per le cose
sue » ( 1 ) . La stessa ineguaglianza in tutti i rami dell'ammi nistrazione .
Ovunque si navigava nell'astrazione. Chi potrebbe mai pensare la felicità e la
potenza, a cui un governo savio ed attivo, cioè nazionale, avrebbe potuto
portare il paese, sviluppando l'energia pubblica, ed esen Cuoco ( 1 ) V. Cuoco
, Saggio storico, V, p. 29. 7 -- F. BATTAGLIA . 98 tando il paese perciò dalla
dipendenza manifatturiera estera, proteggendo le arti, sviluppando il commercio
! Invece no : non v'è provvedimento borbonico che non si possa rimproverare. «
L'epoca in cui giunse Acton era l'epoca degli utili progetti : qual progettista
egli si spac ciò e qual progettista fu accolto ; ma i suoi progetti,
ineseguibili o non eseguiti o eseguiti male, divennero cagioni di nuove ruine,
perchè cagioni di nuove inutili spese » ( 1 ) . Il Cuoco non fa distinzioni : il
male è nella ra dice, nella mentalità del tempo. Si spera in un ottimo
assoluto, che è il peggior nemico del bene, e si finisce per far male : si è
miracolisti e si riduce a terra ogni utile antica istituzione. Gli ordini
antichi bene o male assicuravano la vita civile : perchè distruggerli ab imo,
anzi che rif marli ? Chi era Acton, chi era questo favorito, che voleva ! «
Acton non conosceva nè la nazione nè le cose. Voleva la marina, ed intanto non
avevamo porti, senza de' quali non vi è marina : non seppe nemmeno riattare
quei di Baia e di Brindisi, che la natura istessa avea formati, che un tempo
erano stati celebri e che poteano divenirlo di nuovo con piccolissima spesa,
se, invece di seguire il piano delle creature di Acton, si fosse seguito il
piano dei romani, che era quello della natura » ( 2 ) . Un esempio della
vacuità del favorito di Maria Carolina. Napoli, dato che è un paese
mediterraneo, aveva bisogni marinari . I bar bareschi erano i suoi nemici
diretti, i nemici dei suoi commerci, che con le loro scorrerie finivano per
rovinare. Occorreva proteggere le navi mercantili, occorreva una flotta di
piccole navi veloci e leggiere da opporre alle navi da corsa. Acton volle
provvedervi. Manco a farlo appo sta, la flotta che fece costrurre, era composta
di legni pesanti, da combattimento e non da guerriglia. Io non posso indugiarmi
su questo argomento , poi che il mio assunto non è quello di dare la contenenza
del ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , VIII , p. 45. ( 2) V. Cuoco, Saggio
storico, VIII, p . 46. 99 Saggio storico, ma di tracciare un profilo ideale del
pen siero di Vincenzo Cuoco nelle sue svariate manifesta zioni, seguendo fin
dove è possibile la cronologia delle opere del molisano, tradendola ove essa
complica lo sviluppo sistematico dello spirito. Non mi indugierò quindi ad
enumerare gli errori, l'atteggiamento del go verno verso Napoleone,
l'aggressione durante la sua as senza, la marcia di Mack, capo dell'esercito
borbonico, su Roma. Mack.... Se volete un ultimo esempio di astrattismo, basta
pensare al generale austriaco, al quale il governo di Napoli'affidò le sue
fortune. Cuoco non è un uomo di guerra, ma ha il buon senso di cogliere il
punto debole di duci della natura di Mack, inclini a scambiare le loro idee con
l'universo . La scienza militare è una scienza positiva, scienza d'osservazioni
particolari, che ripugnano , alle schematizzazioni. Mack invece era la dottrina
in per sona, ma faceva i piani a tavolino, risalendo col pen siero ai princípi
della sua scienza, senza collaudarli con la realtà, che gli si parava dinanzi.
« Vuoi conoscere » do manda il Cuoco « a segni infallibili uno di questi
capitani ? Soffre pochissimo la contradizione ed i consigli altrui: il criterio
della verità è per lui, non già la concordanza tra le sue idee e le cose, ma
bensì tra le sue idee mede sime. Prima dell'azione sono audacissimi,
timidissimi dopo l'azione : audacissimi, perchè non pensano che le cose pos san
esser diverse dalle idee loro ; timidissimi, perchè, non avendo prevista questa
diversità, non vi si trovan pre parati. Affettano ne' loro discorsi estrema
esattezza ; ma questa è inesattissima, perchè trascurano tutte le diffe renze
che esistono nella natura » ( 1 ) . Simili uomini, come Acton e Mack, sono
deleterii in ogni tempo, furono rui nosi ai Borboni, in contingenze
delicatissime. Date queste premesse , la sconfitta, la fuga del re, l'in ganno
della partenza, l'ingresso de' francesi nella capi tale, il governo
repubblicano, la proclamazione della Par ( 1 ) V. Cuoco , Saggio storico , XII,
p. 72. 100 tenopea ci appaiono necessari sviluppi di tutti gli elementi , che
abbiamo precedentemente analizzato. Ma la storia del Cuoco procede con la
stessa spietata critica, per cui l ' in dagine penetra acuta negli avvenimenti
e nelle determi nazioni umane, come il bisturì nel corpo d'un paziente, e ne
rivela i mali, ne appalesa gli errori. Ancora le stesse deficienze, ancora la
stessa visuale falsa. Repubblica e popolo sono due cose distinte. Vediamo i due
gruppi. Chi sono i repubblicani di Napoli ? Sono repubblicani tutti coloro che
hanno beni e costume. L'aristocrazia, la borghesia, la classe accademica, gli
studenti, il clero an che alto , l'ufficialità dànno il contingente maggiore
dei patrioti : filosofi, finanzieri, giureconsulti, vescovi, teologi, giornalisti,
poeti. Nel moto del '99 non è davvero il pen siero che manca. Ma basta l'idea a
muovere i popoli, a sovvertire un ordine secolare, a riformare ab imo gli
istituti d'una nazione ? Tra le file dei repubblicani c'è, abbiam detto, quanto
di meglio ha prodotto il mezzo giorno d'Italia in tutti i rami dello scibile
umano, ma non si può negare , che anche a Napoli si sia prodotto quel fenomeno
tipico di tutti i sovvertimenti, l'arrivismo, la speculazione. Molti hanno la
repubblica sulle labbra, pochi nel cuore ; molti l'esaltano, pochi la
raffermano. Alcuni hanno voluto accusare il Cuoco di parzialità, anzi di
malvolere verso le nobili figure de ' martiri del '99 ( 1) . Ma il Cuoco è
storico e non travisa ! Che meraviglia che accanto a Pagano ci sia il faccendiere,
accanto a Russo li procacciante, accanto a Conforti il paglietta in cerca di
clienti, accanto a Grimaldi il soldato che vuol far car riera ! È la storia
d'ogni giorno, più o meno triste, ma sempre uguale. Il Cuoco del resto sa
sollevare la testa e notare le grandi figure ed eternarle. Questi repubblicani
il molisano distingue in due gruppi : coloro che vogliono più un cangiamento
che un buon cangiamento, per pescare nel torbido, coloro che in buona (1 ) Cfr.
U. TRIA, op. cit., p . 158 e sgg. in Rassegna critica della letteratura
italiana , vol. VI, ( 1901) ; L. CONFORTI, op. cit. , p. 21 e sgg. 101 fede
vogliono imitare tutto dalla Francia ; i furbi, in somma, e i fantastici ( 1 )
. Ma la virtù a Napoli è grande. Mentre in tutte le altre rivoluzioni è
l'elemento cattivo, che fa sorgere principi pessimi, qui vi sono i princípi non
buoni, che fanno cadere uomini buoni ed eletti . La memoria dello storico s'in
china dinanzi ai martiri del '99 . I patrioti sono uomini colti, superiori, il
fior fiore della nazione : forse questa stessa loro origine è la causa prima
che li allontana, sele zionandoli, dalle masse, e quindi dalla realtà d'ogni
sana politica. Gli uomini sono buoni ; i princípi che essi pro fessano, gli
ordini cattivi. La loro virtù è una virtù stoica, il loro spirito romano, la
loro morale superiore, troppo superiore a quella comune delle plebi : quest ' è
stata una delle cagioni della ruina ( 2 ) . Uomini i patrioti insufficienti
tutti, nel giudizio sereno dello storico, a creare e a diri gere uno Stato,
grandi solo nella morte : la loro fine con sacra alla posterità la loro sublime
grandezza. Il Cuoco è davvero nella sua analisi uno scettico, e sa esaltare
l’eroi smo, come abbattere la falsa politica. Lo stesso uomo, che enumera
errori errori errori, è poi colui che con pa role degne di Tacito, esaltatore
delle ultime aristocra tiche virtù, descrive la difesa strenua degli ultimi
nuclei rivoluzionari dinanzi all'irrompere delle torme sanfedi ste , la
distruzione del forte di Vigliena, oppure la ca duta di Altamura. L'assedio di
Altamura, per esempio, è scolpito con una concisione ed una rapidità mirabili :
l'eroica disperata lotta rivive paurosa nella nostra fantasia. Il salto del
forte di Vigliena, la battaglia navale di Procida delle flot tiglie barcarecce
di Caracciolo contro le munite navi di Nelson mostrano un Cuoco, non solo
freddo analista, cri tico spietato d'errati metodi legislativi e costituzionali
, ma un Cuoco, direi, lirico e commosso, preso dal fascino delle figure
eroiche, che la storia suscita fra errori e de lusioni, onde ei può nel crollo
della sua, dico sua, repub ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , XV, p. 84, nota . (
2) V. Cuoco, Saggio storico , XXXVI, p. 157 . 102 blica esclamare esaltato : «
Si sono tanto ammirati i tre cento delle Termopili, perchè seppero morire ; i
nostri fecero anche dippiù : seppero capitolare coll'inimico e salvarsi ;
seppero almeno una volta far riconoscere la repubblica napoletana » ( 1 ) . Ma
lo spirito politico di Vincenzo Cuoco non può non far risalire alla
sventatezza, all'impreparazione dei pa trioti la causa dello sfacelo ; non può,
esaltando virtù e meriti, dimenticare l'insufficienza e la vacuità del me todo
legislativo, che doveva dar le norme direttive al nuovo ordine . Si è detto ( 2
) che la storia del Cuoco non è scritta con un fine ben netto . No, il fine c'è
: la condanna spietata d'una mitologia costituzionale e filosofica, af finchè
l'Italia ritorni alla sua tradizione e non ricada sugli antichi errori . I
saggi sono inutili a produrre le ri voluzioni; i filosofi navigheranno sempre
in beate astra zioni, ma invano credono di poter muovere con i loro pensamenti
i popoli, poi che questi non si muovono che sotto l'urgenza di concreti
bisogni. A Napoli, come al trove, c'era un popolo : bisognava tenerne conto,
inter pretarne i desideri. I patrioti non ne fecero caso . Tutta la rovina
della repubblica s'impernia su questa incompren sione sociale. Il popolo,
sappiamo, è il grande, il solo agente delle rivoluzioni e delle
controrivoluzioni ( 3 ) . Credere un moto rivoluzionario determinato dalla
filosofia è una semplice illusione, che solo i francesi potevano concepire. La
rivo luzione deve parlare ai sensi e alla fantasia, non solo all'intelletto,
cioè alle plebi, e non solo ai pensatori. A Napoli c'era un popolo, che in
qualche modo aveva di che lagnarsi della più recente opera de' Borboni: biso
gnava farlo agire, soddisfare i suoi desideri, cointeressarlo alla nuova
ricostruzione, legarlo allo Stato : allora solo, ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico,
XLVIII, p. 188. ( 2 ) U. TRIA, op. cit., p. 196 , in Rassegna critica della
lette ratura italiana, v . VI, ( 1901 ) . ( 3 ) V. Cuoco, Saggio storico ,
Prefazione, p. 5. 103 fatto ciò, la repubblica poteva dirsi basata su un piedi
stallo incrollabile. In una rivoluzione è necessario il numero e l'idea. Le
idee repubblicane si sarebbero potute rendere popolari , ove si avesse voluto
trarle dal fondo istesso della nazione . Quando la rivoluzione scoppia, il
popolo ondeggia tra le due fazioni, i patrioti che vede padroni della capitale,
il re che vede fuggire ignominiosamente. È il momento ! Il popolo dubita della
saggezza del sovrano, della sua magnanimità, lo coglie in peccato di
vigliaccheria , dubita, e chi dubita condanna a metà . Si può rendere il popolo
partecipe all'azione, invece si fa di tutto per allontanarlo. « La nostra
rivoluzione » scrive Cuoco « essendo una rivo luzione passiva, l'unico mezzo di
condurla a buon fine era quello di guadagnare l'opinione del popolo » ( 1 ) .
Ma repubblicani e popolo sembrano nonchè due classi, due popoli diversi per
idee costumi lingua. I primi sono fran cesizzanti ; il secondo per natura
tradizionalista , attac cato alle sue istituzioni, ai suoi principi, alla sua
reli gione, ai suoi pregiudizi . Tra gli uni e gli altri c ' è un divario di
due secoli di cultura e di storia. I dirigenti invece prescindono da ogni
elemento nativo, quell'ele mento che si deve coltivare, essendo tutto nel
popolo . Co loro, che sono ancora napoletani, nota con amarezza lo storico , e
che compongono il maggior numero, sono in colti. Ritorniamo al solito concetto
: la moda straniera è la causa di tutta la rovina ( 2 ) . « Le disgrazie de'
popoli sono spesso le più evidenti dimostrazioni delle più utili verità. Non si
può mai gio vare alla patria se non si ama, e non si può mai amare la patria se
non si stima la nazione . Non può mai esser libero quel popolo in cui la parte,
che per la superiorità della sua ragione è destinata dalla natura a governarlo,
sia coll’autorità sia cogli esempi, ha venduta la sua opi ( 1 ) V. Cuoco,
Saggio storico, XVI, p. 90. ( 2) Il giudizio cuochiano coincide col giudizio
degli storici più recenti: vedi V. FIORINI e F. LEMMI, op . cit . , p. 104. 104
nione ad una nazione straniera : tutta la nazione ha per duto allora la metà
della sua indipendenza » ( 1 ) . Mancava alla rivoluzione l'orgoglio nazionale,
che solo può salvare i popoli nelle loro crisi . Si voleva imitare la Francia e
si dimenticava Napoli, si obliava che la gente meridionale avea una sua
specifica natura diversa dalla natura delle genti galliche . In Italia c'era un
comunali smo, che in Francia non era mai stato ; a Napoli c'erano cento volghi
diversi l'uno dall'altro, in Francia un popolo compatto ed omogeneo . I
repubblicani dovevano tener conto di ciò, e trovare un interesse comune, che
riunisse dirigenti e diretti, governanti e governati. « Quando la nazione si
fosse una volta riunita, invano tutte le potenze della terra si sarebbero
collegate contro di noi » ( 2 ) . Il popolo non è mai né borbonico nè
sovversivo, nè nero nè rosso : « i popoli si riducono » osserva con acutezza il
nostro autore « a seguir quelli che loro offrono maggiori beni sul momento » (
3 ) . Il popolo di Napoli così avrebbe seguito i rivoluzionari, se questi gli
avessero dato spe ranze di miglioramenti, avessero intesi i suoi desideri,
avessero rispettato gli istituti a cui era legato, avessero riverito la
religione dei suoi avi. « Che cosa è mai una rivoluzione in un popolo ? Tu
vedrai mille teste, delle quali ciascuna ha pensieri, interessi , disegni
diversi dalle altre . Se a costoro si nta un capo che li voglia riu nire, la
riunione non seguirà giammai. Ma, se avviene che tutti abbiano un interesse
comune, allora seguirà la ri voluzione ed andrà avanti solo per quell'oggetto
che è comune a tutti » ( 1 ) . Ma per fare ciò bisogna andare cauti : non
bisogna di struggere . Bene o male gli istituti esistenti assicurano la
convivenza , occorre riformarli, migliorarli, non ab batterli al suolo : « il
voler tutto riformare è lo stesso che voler tutto distruggere » ( 5 ) . ( 1 )
V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 91 . ( 2 ) U. Cuoco, Saggio storico, XVI, p .
92. ( 3 ) V. Cuoco, Saggio storico , VII, p . 42. ( 4 ) V. Cuoco , Saggio
storico , XVII, p . 94. ( 5 ) Framm ., p . 219. 105 Il popolo di Napoli, nota
il Cuoco, ha una sua religione. Osserviamo la natura di questa religione, e
vedremo che essa non ripugna ai principi della democrazia. « La reli gione
cristiana ridotta a poco a poco alla semplicità del Vangelo ; riformate nel clero
le soverchie ricchezze di po chi e la quasi indecente miseria di molti ;
diminuito il numero dei vescovati e dei benefici oziosi ; tolte quelle cause
che oggi separan troppo gli ecclesiastici dal go verno e li rendono quasi
indipendenti , sempre indifferenti e spesso anche nemici, ecc. ecc.: è la
religione che meglio d'ogni altra si adatta ad una forma di governo moderato e
liberale » ( 1 ) . In ciò il cristianesimo è assai diverso dal paganesimo, che,
basandosi su un'idea di forza, non può produrre che schiavi indocili e padroni
tirannici. La no stra religione si appoggia su princípi di libertà , su prin
cípi di fratellanza , su princípi di giustizia, e sembra quindi la più adatta
per legare il popolo allo Stato. La reli gione, nota il Cuoco ripetendo un pensiero
del Conforti ( 2 ), è un elemento insopprimibile nella vita dello spirito
umano, dal quale quindi non si può prescindere. « Non è ancora dimostrato che
un popolo possa rimaner senza religione : se voi non gliela date, se ne formerà
una da sè stesso . Ma, quando voi gliela date, allora formate una religione
analoga al governo, ed ambedue concorreranno al bene della nazione : se il
popolo se la forma da sè, allora la religione sarà indifferente al governo e
talora nemica » ( 3 ) . Questi i concetti di Vincenzo Cuoco ( 4 ) . Lo Stato
deve avere una sua religione, ed imporla : Stato e Chiesa nazionale debbono
concorrere al benessere gene rale . Princípi che meritano un superiore
approfondi ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p . 129 e sg. ( 2 ) Sulla posizione
religiosa del Conforti in confronto al Cuoco vedi B. LABANCA, Giambattista Vico
e i suoi critici cat tolici, Napoli, Pierro ed ., 1898, p . 414 e sgg. ( 3) V.
Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 130. (4) V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit ., p .
137. I due insigni storici concordano pienamente col Cuoco nel ritenere che gli
errori dei repubblicani in fatto di religione hanno non poco influito ad
allontanare il popolo dalla rivoluzione. 106 mento, che noi faremo in seguito :
resta acquisito in tanto l'alto e moderno ideale, che il molisano aveva della
religione ( 1 ) . La rivoluzione napoletana fu la negazione di questi princípi.
Sorse democratica, s'affermò anticlericale e vi lipese l'alto valore etico
della dottrina cristiana e catto lica, per sostituirla con una generica morale
laica. Si ab bandonò all'incomprensione dei subalterni un problema grave, anzi
gravissimo, come il problema religioso. « Il po polo si stancò tra le tante
opinioni contrarie degli agenti del governo, e provò tanto maggiore odio contro
i repub blicani, quanto che vedeva le loro'operazioni essere effetti della sola
loro volontà individuale » ( 2 ) . Il governo in sostanza era agnostico, non
conduceva ex professo una politica antireligiosa ed anticlericale, ma lasciava
fare, e gli emissari in provincia si sfogavano contro i beni ec clesiastici o
peggio contro il culto professato. Il popolo, colpito in uno dei suoi più
profondi affetti, s'affermò san fedista contro lo Stato. È questo un episodio,
ma certo il più saliente, dell'incomprensione tra quelli, che Cuoco, nonchè due
classi, due popoli volle chiamare, i repubbli canti dirigenti e le popolazioni
subordinate. Alla religione alcuni volevano opporre una generica morale civile
e laica. Si negava il cattolicesimo, si affer mava di contro la libertà. Ma che
cosa è la libertà, se non un mero astratto ? Chi chiedeva la libertà ? Non
certo quelle popolazioni rurali, che il governo così bel lamente fraintendeva,
« La libertà delle opinioni, l'abo lizione de ' culti, l'esenzione dai
pregiudizi, era chiesta ( 1 ) Nel Platone in Italia ( v . I , p . 84) ritornano
spesso con: cetti consimili, indice della mirabile armonia dell'ingegno di V.
Cuoco : « Nelle città colte le leggi civili debbono esser tutte diverse dai
precetti di religione e di costumi: chiare, precise, inesorabili. Ma sapete voi
perchè ? Perchè, quando si deb bono riformare, il che avviene spessissimo , il
popolo tien altri precetti da seguire . Se il popolo allora si trovasse senza
co stumi e senza religione, si distruggerebbe per anarchia, prima di darvi il
tempo necessario a riordinare le leggi » , ( 2) V. Cuoco, Saggio storico, XXV,
p. 131 . -107 da pochissimi, perchè a pochissimi interessava » ( 1 ) . L'er
rore, ripeto, è nelle basamenta, in un oblìo completo del popolo, nell'astrarsi
ne'sublimi princípi per dimenticare la vita e le sue molteplici manifestazioni.
Eppure, ep pure, nota con rimpianto il Cuoco, si poteva riuscire, si potevano
sfruttare le forze ignote, ma inesauribili del po polo, e creare così una
insuperabile barriera al legittimi smo borbonico . « Il popolo è un fanciullo »
( 2 ) : se ne intendi la complessa psicologia, lo porterai dove vuoi : basta
che tu intuisca la sua natura . « Il popolo è ordina riamente più saggio e più
giusto di quello che si crede » ( 3 ). Il talento del legislatore consiste nel
sapere sfruttare que sto innato senso di saggezza e di giustizia nelle più
adatte contingenze, così da « menare il popolo in modo che fac cia da sè quello
che vorresti far tu » ( 4) . Ovunque c'è un male da riparare, un abuso da
riformare, presentandosi come salvatore il riformatore, che non distrugge per
me todo, ma procede per osservazione diretta, troverà sem pre il popolo che
saprà seguirlo e rincorarlo. Il Cuoco osserva acutamente che a volte il
malcontento nasceva dal volersi fare talune operazioni senz'appa renza, senza
quelle solennità tipiche, che la plebe ama, perchè sono nella tradizione. Si
trattava di forma e non di sostanza . Ebbene, i repubblicani preferivano urtare
contro questi apparati, anzi che secondarli, perdere l'ar rosto per non volere
il fumo. La filosofia politica di Vincenzo Cuoco a proposito della rivoluzione
si concreta in una sola constatazione. « Ecco tutto il segreto delle
rivoluzioni: conoscere ciò che tutto il popolo vuole, e farlo ; egli allora vi
seguirà : distinguere ciò che vuole il popolo da ciò che vorreste voi, ed arre
starvi tosto che il popolo più non vuole ; egli allora vi abbandonerebbe » ( 5
) . Una prassi rivoluzionaria, che si ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p.
104. ( 2) V. Cuoco, Saggio storico , XIX, p. 106. ( 3 ) V. Cuoco , Saggio
storico , XIX, p. 108. ( 4) V. Cuoco , Saggio storico, XIX , p. 107 . ( 5) V.
Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 95. 108 allontani da questo elementare
principio produce effetti incalcolabilmente gravi e perniciosi. « La manìa di
voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione » ( 1 ) . Le rivoluzioni
nascono dai bisogni, ma dietro i bisogni sono gli uomini, e gli uomini sono
idee, idee vive palpitanti, non astratte e categoriche, sono senso, sono
fantasia, sono religione, sono molte cose in uno. Ogni nazione ha un patrimonio
di idee, il risultato d'una esperienza secolare , d'una vita non interrotta
mai: essa è attaccata a questi princípi, vivi nella sua coscienza, presenti
alla sua atti vità. La rivoluzione scompiglia questo stato mentale, ma è un
errore credere che si possa distruggere tutto , far sottentrare alle idee
antiche idee del tutto nuove, ai princípi antichi princípi opposti . La
rivoluzione può so pire molte cose, ma esse, idee e princípi, si rifanno sulla
rivoluzione ; come la pressione s'indebolisce, affiorano novellamente ne
contrasti. Il popolo è scosso, tentato ne' suoi convincimenti : se voi
esagerate, ritorna sui suoi passi. Anche nelle idee v'è uno spiegamento, una
natu rale continuità : non rompete il processo : è da savi : « il popolo passa
per gradi dalle antiche idee alle nuove, e sempre le nuove sono appoggiate alle
antiche » ( 2 ) . Ogni nazione ha un suo spirito , una sua mente, dice Cuoco .
Questo spirito soggiace ad un processo, non al trimenti che lo spirito
individuale. L'estremismo poli tico , in qualsiasi suo aspetto, di destra o
sanfedista o legittimista, di sinistra o repubblicano o giacobino, riceve la
sua condanna nelle osservazioni del molisano . Le idee nel loro spiegamento non
possono essere sforzate , perchè, come ho detto, trovano nello stesso momento
della loro negazione un' implicita affermazione. L'estremismo, in sostanza, è
un vero e proprio sforzo estrinseco, che si esercita sullo spirito e sul popolo
. Le idee giunte allo estremo, debbono retrocedere. Si riforma più di quel che
è nelle esigenze de' popoli ; il popolo crede le riforme su perflue, cerca di
sottrarvisici; bisogna che il governo, se ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico ,
XVII, p. 96. ( 2 ) V. Cuoco, Saggio storico , XVII, p . 97 . 109 vuol mantenere
il suo punto di vista, le faccia osservare con la forza : ecco come un
malinteso riformismo legi slativo conduce all'estremismo, al terrore statale,
alla fine della repubblica a Napoli, a Robespierre in Francia . « L'uomo è di
tale natura, che tutte le sue idee si can giano, tutt' i suoi affetti, giunti
all'estremo, s'indeboli scono e si estinguono : a forza di voler troppo esser
libero, l'uomo si stanca dello stesso sentimento di libertà » ( 1 ) . I popoli
hanno un corso naturale tra l'estrema servitù e la licenza, estrema libertà ,
corso eterno che tutte le genti percorrono ! I princípi non debbono correre
innanzi alla storia, sforzandola a seguirli, poi che essa si vendica de '
princípi ed afferma la sua autonomia. La vendetta è nel sangue, nella reazione
legittimista a Napoli, nella ghigliottina che abbatte Robespierre a Parigi. Da
un estremo si ricorre all'altro, e così via, finchè non si ritrova l'equilibrio
: il liberalismo moderato . Il Cuoco è l'esponente più vivido del liberalismo
italiano . La sua figura si illu mina alla luce di questa idea liberale, grande
sopra tutte le idee, la quale ha saputo dare agli italiani l'Italia. Da tutto
il Saggio storico l'insopprimibilità del liberalismo, non come teoria, ma come
prassi costituzionale e politica, appare evidente. Non mi accusi il lettore di
sforzare la fisionomia intellettuale del Cuoco, no, poichè io mi rife risco a
ciò che leggo, e mi faccio cauto interprete di ciò che trovo, e documento. « Questo
è il corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il popolo si
agita senza saper ove fermarsi : corre sempre agli estremi e non sa che la
felicità è nel mezzo » ( 2 ) . Del resto queste opi nioni, che ora vediamo in
atto nella storia, che il”Cuoco fa degli avvenimenti napoletani, di cui fu
attore, spetta tore e giudice, rivedremo sotto un nuovo aspetto, allor quando
egli stesso ci dirà come e sino a quanto la storia , che si sviluppò dopo il
crollo della Partenopea, abbia dato a lui ragione , vale a dire allor quando
considere remo Cuoco di fronte alla figura di Napoleone, Cuoco di ( 1 ) V.
Cuoco, Saggio storico , XVIII, p. 99. ( 2 ) V. Cuoco, Saggio storico , XVIII,
p. 102. 110 1 2.02 fronte al problema teorico e pratico, filosofico e costitu
zionale dello Stato, Cuoco di fronte all'ideale dell'unità della patria.
Notiamo: quest'atteggiamento di modera tismo cuochiano non è estrinseco, non è
solo il principio base della critica rivoluzionaria , è anche l'elemento
unificatore di tutta la filosofia politica del molisano, l'ele mento che le dà
coerenza, e che egli trova impersonato in Napoleone, il restauratore
dell'ordine, il corifeo delle idee medie. L'estremismo è esaltazione di
princípi : allo Stato si sostituisce la setta : all'ordine costituzionale
l'associa zione fuori e a volte contro lo Stato : al diritto codificato le
norme del partito . Moderatismo significa : libertà nella legge, i partiti
nello Stato e non fuori dallo Stato, diret tiva unitaria della vita civile ,
garanzia nel diritto . Come il Cuoco vedrà incarnata e realizzata questa sua
conce zione, è cosa da studiarsi in seguito ( 1 ) . La rivoluzione del '99, che
per il Cuoco è veramente l'esperienza del sistema abbozzato ne' Frammenti,
nella stessa degenerazione de' princípi, riconferma il nostro nelle sue
aspirazioni. Egli, che dalla storia trae ogni in segnamento – la storia è la
fonte d'ogni pedagogia poli litica scrive : « La storia di una rivoluzione non
è tanto storià dei fatti quanto delle idee » ( 2 ) . Conoscere il corso delle
idee nella storia significa impadronirsi d'una tale sapienza, che ci permette
di evitare ogni errore poli tico. Gli errori di Napoli ? Denudiamo la realtà
dai fron zoli della retorica, dice Cuoco, esponiamoli nella loro cru dezza,
perchè gli uomini, gl'italiani si ravvedano. A Napoli abbiamo avuto perfino un
esperimento di terrorismo. È mirabile la definizione psicologica del feno meno.
« Il terrorismo è il sistema di quegli uomini che vogliono dispensarsi
dall'esser diligenti e severi ; che, non sapendo prevenire i delitti, amano
punirli; che , non sa pendo render gli uomini migliori, si tolgono l'imbarazzo
( 1 ) Questa fondamentale coerenza del pensiero di V. Cuoco è stata più che a
sufficienza dimostrata da M. ROMANO, op. cit., p. 90 e sgg. ( 2 ) V. Cuoco,
Saggio storico, XXXVIII, p . 169. 111 che dànno i cattivi, distruggendo
indistintamente cat tivi e buoni. Il terrorismo lusinga l'orgoglio, perchè è
più vicino all'impero ; lusinga la pigrizia naturale degli uomini, perchè è
molto facile » ( 1 ) . Il Cuoco non lo dice, ma lo pensa : i governi deboli
sono i più inclini all'abuso costituzionale, al terrorismo di Stato . Tutte le
considerazioni, che lo storico trae dai fatti, convergono verso uno
scioglimento, che ci appare fatal mente consequenziario. L'estremismo
terroristico, l'ultima ratio de' governi prossimi a cadere, si mostrò più
d'ogni altro sistema inutile . Il tribunale rivoluzionario, che si macchid del
sangue dei Baccher ( 2 ) , non salvò la repub blica pericolante . Stringiamo le
fila della trama, che siamo venuti dise gnando, portiamoci col pensiero di
nuovo alla critica del l'opera governativa, alla génesi della repubblica,
all'azione legislativa e costituzionale dei rivoluzionari, all'estremi smo di
molti patrioti, e ci apparirà vero quanto il nostro autore scrive
sull'ineluttabilità dello scioglimento. La sto ria del Cuoco corre, si può dire
precipita, ad un fine. Non c'è avvenimento, pagina che non ci ammonisca : ecco
un male, ecco un malinteso ! Perciò quando noi ci avvici niamo agli ultimi
ruinosi eventi, non possiamo che dire : era fatale ! , sia pure con rimpianto,
con dolore. Ho detto in principio che nel Saggio storico si nota una mirabile
obiettività, quell'obiettività del creatore, che sola può dare il capolavoro ;
ho detto che la personalità dello scrittore non s'intrude mai praticamente
nello svi luppo narrativo e nel progresso degli avvenimenti : la storia si
svolge da sè, corre sul suo binario logico, senza estrinseci sforzi. Ciò non
toglie che il Cuoco a volte rompa con sublime sapienza l'esposizione per
ammonire, per parlare ai suoi posteri, per consigliare : è lo storico che è
consapevole della sua missione, dell'altezza del suo inse gnamento. Questa
pedagogia non è, però, fuori dall'arte, ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico ,
XXXVIII, p. 160. ( 2 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 115 e sgg. 112
personalità pratica esterna all'arte, ma si risolve, attra verso una viva
commozione dello spirito, in una forma fantasiosa, in una espressione
immaginifica, insomma, nell'arte stessa. « La sua personalità » scrive assai
bene Guido De Ruggiero ( 1 ) « non s'intrude arbitrariamente nel corso degli
avvenimenti; essa non è che raramente la sua empirica e circoscritta
soggettività, è più spesso invece la drammatica personificazione del giudizio
storico, è quella soggettività superiore dove l'oggettività degli av venimenti
e la soggettività dello storico sono fusi in un sol getto » . È insomma il
processo creativo della vera storia, che conduce alla vera arte, risolvendo
l'empirica personalità, in quell'alta subiettività , che forma l'essenza della
storia e dell'arte. La forma precettistica qui non è un elemento estrinseco
alla storia, è la gran voce della storia . La critica spietata degli
avvenimenti politici lo porta ad accalorarsi per la sua stessa valutazione
filoso fica, lo porta a constatazioni, ad esclamazioni, in cui tu senti a volte
un rimpianto, perchè uomini di ingegno s'ingolfano in lotte, che il nostro
stima senza uscita, a volte una gioia profonda, in cui tu senti il pensatore
che discopre un principio sano di vita . Così, dopo una disa mina minuta di
idee e di fatti , il Cuoco può ésclamare, e nell'esclamazione io sento un
dolore profondo romper la glacialità dell'analista : « Tutti i fatti ci
conducono sem pre all'idea, la quale dir si può fondamentale di questo Saggio :
cioè che la prima norma fu sbagliata, ed i mi gliori architetti non potevano
innalzar edificio che fosse durevole » ( 2 ) . Le premesse dello scioglimento
sono d'ordine spirituale, sono metodologiche, politiche. I susseguenti errori,
mili tari, giuridici, religiosi, le disfatte, le congiure realiste appaiono
inevitabili. Le truppe repubblicane agiscono in territori infidi, fra
popolazioni ostili ; i capi sono ine sperti, troppo giovani; i francesi portano
aiuti sempre più ( 1 ) G. DE RUGGIERO, op. cit. , p. 189. ( 2 ) V. Cuoco ,
Saggio storico, XXXIX, p. 163. 113 scarsi ; al contrario i borbonici sono ben
diretti, ben vet tovagliati, sempre più numerosi ; le plebi sempre più fa
vorevoli ad essi : sono particolari, ma che non possono distogliere il pensiero
dal principio sopra espresso, sola ed unica causa della sciagura. Il disastro
appare la logica cruda conseguenza di premesse false . Tutto il Saggio ci porta
in un mondo di rivoluzione , ove la critica è cruda e precisa, ma ove la
simpatia umana non manca. Vincenzo Cuoco possiamo credere che rappresenti nel
pensiero italiano quella medesima posizione ideale che Edmund Burke rappresenta
in quello inglese . Un raf fronto minuto, particolareggiato tra i due scrittori
non è stato fatto. Esso riuscirebbe assai interessante , e po trebbe dimostrare
come in ogni lato della vecchia Eu ropa l'opposizione alla rivoluzione si
faccia in nome d'un ritorno alla tradizione nazionale. Il liberale moderato
Cuoco è il rappresentante tipico dell'italianismo risor gente : il Burke whig,
cioè in sostanza liberale, non crede ancora esaurita la missione delle antiche
classi storiche, almeno nella vecchia Inghilterra. È facile vedere alcuni punti
di contatto tra i due scrittori d'opposizione. Fre quentemente il Cuoco deplora
l'esagerazione dei princípi di libertà e d'eguaglianza. Gli uomini, se, di
diritto, dinanzi alla legge, sono uguali, serbano una originaria disugua
glianza nel fatto : vi sono i buoni e i cattivi, gli operosi e i parassiti , i
borghesi industriosi e i lazzaroni oziosi , gli aristocratici colti e gli
aristocratici gaudenti: il governo dello Stato deve essere riserbato ai
migliori, cioè ai bor ghesi, e lo vedremo documentato in seguito, poi che
questi soli sono maturi. « Quando le pretensioni di eguaglianza si spingono
oltre il confine del diritto, la causa della libertà diventa la causa degli
scellerati . La legge, diceva Cicerone, non distingue più i patrizi dai plebei
: perchè dunque vi sono ancora dissensioni tra i plebei ed i pa trizi ? Perchè
vi sono ancora e vi saranno sempre, i pochi e i moiti : pochi ricchi e molti
.poveri, pochi indu striosi e moltissimi scioperati, pochissimi savi e
moltissimi 8 - F. BATTAGLIA. 114 stolti » (.1 ). Se diamo una scorsa ai Discorsi
parlamentari o alle Riflessioni sulla rivoluzione francese del Burke scaturi
scono osservazioni assai consimili, nel senso, che pur am mettendo liberalmente
una rotazione di classi, il politico inglese crede ad un ordine sociale, in cui
l'aristocrazia d'Inghilterra ha ancora una sua propria missione . Certo vi sono
differenze tra i due scrittori, ma le analogie sono sempre interessanti.
S'intende, l'aristocrazia politica del Burke, il lievito, possiam dire, della
grande vita costituzio nale d'Inghilterra è qualche cosa di diverso dalla
nobiltà italiana, con la quale parola il molisano indica « un ceto che più non
deve esistere, ma che ha esistito finora » ( 2 ) . Ma le nazioni hanno
svolgimenti diversi e bisogni spesso opposti : quel, che nell’un paese si
chiama con lo stesso nome che nell'altro, a volte è una cosa sostanzialmente
diversa , secondo varî elementi. Ma non posso lasciare questo argomento senza
notare come lo stesso Burke nelle sue Riflessioni sulla rivoluzione francese si
rifaccia ad una valutazione, nella sua natura, simile a quella del Cuoco. Il
liberale Burke nella rivoluzione d'Oltre manica vede la negazione del suo
moderatismo, una ri voluzione, che prescinde dalle realtà peculiari d’un po
polo, quale l'inglese, la cui vita è un esempio dimirabile continuità politica,
una rivoluzione che pretende di struggere il passato, anche laddove il passato
è il presup posto d’un non disprezzabile presente ; uno Stato, che rigetta
alcune classi per altre, invece di sintetizzarle in una volontà superiore ed
unica ; uno Stato, che rigetta elementi sociali di primissimo ordine, senza
pensare che si possano utilizzare per la vita civile, perché hanno ancora
energia e sopra tutto hanno quell'esperienza pub blica, che ad altri manca.
All'inglese, per cui la vita civile dei popoli è un prodotto graduale d'una
evoluzione storica incancellabile, per cui la costituzione de' padri è una
conquista continua, nell'aderenza più completa coi ( 1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, XVIII, p. 100. ( 2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XX, p. 109. 115 n mille
bisogni d'un popolo secolare, la nuova pretesa di derivare un ordinamento
democratico, valido per tutte le genti del globo, desumendolo dalla pura
ragione, appare veramente ridicola . Mi sembra che il parallelo tra il Cuoco e
il Burke non potrebbe essere più calzante, sia pure tra numerose differenze. Il
Burke è un oratore, un parlamen tare, pratico e sensibile politico, che non
risale mai a con siderazioni superiori, pur quando la sua critica potrebbe
coinvolgere non solo la mentalità rivoluzionaria francese, ma una mentalità ,
che è di tutti i tempi e di tutti i paesi. Il Cuoco invece, testa politica ma
di volo più robusto, dai particolari ascende ai princípi, dai fatti ritorna
alle idee, che hanno un corso eterno ed uno sviluppo continuo, per foggiare un
suo sistema, che, collaudato da una espe- ' rienza moderna ed antica, ha in sè
qualcosa di ferreo . Sì, il Cuoco si può raffrontare al Burke, ma il Saggio
storico 1 « è un'opera capitale di pensiero storico, la quale, come osserva B.
Croce ( 1 ) , tiene in certo modo in Italia, e forse con maggiore altezza
filosofica le celebri Riflessioni sulla rivoluzione francese » , non fosse
altro per la vastità del campo d'osservazione, per il senso vigile, che vi do
mina, della storia, come eterno farsi, come eterno divenire dello spirito
umano. Della maggiore levatura del moli sano sull'inglese noi abbiamo una prova
sicura e positiva nell'atteggiamento definito di fronte alla rivoluzione: il
Burke da una critica superiore passa presto all'op posizione sistematica,
vedendo pura ribellione, mero ri voluzionarismo, semplice neomania, anche ove
vè sano liberalismo, desiderio d'un nuovo pacifico equilibrio, rifor mismo
contenuto entro limiti di saggezza, sicchè i benefici effetti del movimento gli
sfuggono : il Cuoco, invece, rico nosce le origini delle rivoluzioni come
legittime, e le spiega completamente; nega, sì , l'applicazione universale dei
princípi da essa desunti, ma, nello stesso tempo, sa va lutare l'importanza
della nuova situazione creatasi , dalla ( 1) B. CROCE, Storia della
storiografia italiana nel secolo XIX, Bari, Laterza ed. , 1921 , v. I , p. 9 e
sgg. 1 116 quale nessun paese, nè l'Italia, nè l'Inghilterra, può prescindere
(1 ) . Siamo giunti alla fine del nostro discorso sul Saggio storico. Come
quest'opera sia nata, dal punto di vista materiale, ove sia stata scritta, come
sia stata concretata, a noi importa assai poco. L'esame che ne abbiamo fatto
non può non essere sommario, incuneato com'è in un più vasto problema : il pensiero
politico di Vincenzo Cuoco, che non si esaurisce, come comunemente si crede,
nel Saggio, ma trova il suo naturale sviluppo e comple mento negli articoli del
Giornale italiano, che il molisano venne scrivendo negli anni 1804-1806 , dopo
il grande successo che ebbe il Saggio nell'ambiente milanese ( 2 ) . Il Saggio
storico, per chi ricerchi la sua genesi spirituale, si svolge spontaneamente
dai Frammenti di lettere a V. Russo, de cui principi è la riprova vissuta,
l'espe rienza . Se la rivoluzione di Napoli ha avuto una utilità, è questa : il
foggiarsi d'una coscienza italiana, che all'estre mismo e all'astrattismo
oppone una veduta moderna e positiva della vita pubblica. Nel Saggio, abbiamo
detto, dette ( 1 ) Conobbe il Cuoco quando scrisse il Saggio storico sulla ri
voluzione napoletana le Reflections on the French Revolution di Edmund Burke ?
Con ogni probabilità, sì. Le sopra Reflections furono pubblicate per la prima
volta neil' ottobre del 1790, vale a dire dieci e più anni prima dell'opera del
no stro . Nel Saggio stesso vi è una nota in cui il nome del Burke spicca
evidente e col nome un suo giudizio ( II , p. 18 ) . Il Cuoco conosce assai
bene i princípi costituzionali inglesi e ne fa sfoggio nelle sue opere. Il
popolo inglese lo interessa assai, e le scritture d'autori inglesi ha spesso
fra le mani e le recensisce nel Giornale italiano (cfr. 1804, n. 17 , 8
febbraio , p. 68; -1804, n. 28, 5 marzo , pp. 111-12 ; 1804, n. 54 , 5 maggio ,
pp. 215-216 ; 1804, n. 58, 12 maggio, p . 228 ; ecc. ). Che l'opera del Burke,
V. Cuoco conoscesse assai profondamente, lo dimostra una re censione ( cfr.
Giorn . ital . , 22 settembre 1804, n. 114, p. 446) , ove egli discorre
abbondantemente e fa un largo elogio di una traduzione italiana d'una opera
estetica del celebre autore in glese , Essay on the Sublime and Beautiful,
Tutto ciò mostra una conoscenza delle cose d'oltre Manica assai profonda, prima
e dopo la pubblicazione del Saggio. ( 2 ) N. RUGGIERI, op. cit., p . 34 : G.
Cogo, op. cit. , p. 10. 117 non è tutto il Cuoco, non è tutto il suo pensiero
politico, ma è certo quanto di meglio abbia prodotto il suo genio, dal punto
-di vista artistico . Il Gentile, giudice di alto valore, crede il Rapporto al
re Murat per l'ordinamento della pubblica istruzione, di cui avremo a parlare
in seguito, quando tratteremo d'altri atteggiamenti spirituali del Cuoco, crede
dunque il Rapporto , insieme con il Saggio storico, « ciò che di più notevole
produsse il pensiero napoletano in quegli anni agitati tra il '99 e il '20 » (
1 ) . Ma ciò riguarda più il valore politico dell'opera , di cui diciamo,
piuttosto che il valore artistico. Dal punto di vista puramente storico, dal
1801 in poi gli scrittori hanno cercato in varî modi di far luce sugli
avvenimenti napoletani, ma le conclu sioni , alle quali si è pervenuto, sono
sostanzialmente quelle del nostro autore ( 2 ) . Sembra impossibile che un
individuo, che, come il Cuoco, scrive pochi mesi dopo la sciagura, di cui è
stato egli non piccola parte, possa superare i fatti stessi e la sua per sonale
passionalità, in una lucida espressione artistica, che di converso è anche una
mirabile storia umana. Lo storico si leva sugli avvenimenti, e il suo sguardo
pene tra a fondo nello spirito degli uomini e nel corso delle cose, allargando
la sua visuale dai fenomeni particolari ai princípi che sono eterni, dal
problema peculiarmente napoletano a questioni che sono europee, a considera
zioni più largamente umane. L'artista poi trova l'espressione più adeguata e
palpi- . tante in una forma, che non si sa se più ammirare per la sua immediata
precisione o per la sua sinteticità taci ( 1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p .
279. ( 2 ) Un'offensiva anticuochiana tenta L. CONFORTI, op. cit. , P: 21 e
sgg. , ma da un punto di vista assolutamente errato é falso. Dopo quanto
abbiamo scritto per il Tria una confuta zione delle affermazioni del Conforti
ci appare inutile , anche perchè non potremmo che ripetere ciò che già fu detto
dal RUGGIERI, op . cit. , p. 104 e sgg ., e dal ROMANO, op. cit. , p . 99. 118
tiana, a scatti , nervosa, e pur viva e palpitante ( 1 ) . In un mondo di
riflessi e di chiaroscuri, di luci e di ombre, le figure dei tragici eroi del
'99 appariscono scolpite per l'eternità, appaiono martellate nel marmo da una
mano michelangiolesca. Io non conosco pagina di storico mo derno, che mi animi
la trista figura del Vanni, bieco stru ( 1 ) Anche qui non mancarono i critici
. Il GIORDANI, per esempio , in un abbozzo di opera, che aveva intenzione di
scri vere col titolo di Studi degli Italiani nel secolo XVIII, discor. rendo di
quelli che « sono venuti in tanta stoltizia che hanno fermato non esservi arte
alcuna di scrivere » , osserva che in vece: « l'esperienza e la ragione e
l'autorità de' primicomprova che vi è : ed è fra tutte difficilissima: e ben lo
notò Cicerone che pur futra’ principali. Ma dovette credersi più savio ed
esperto di Cicerone quel Vincenzo Cuoco che scrisse non darsi arte di scrivere,
e quello che in poche parole affermò, ben con troppe carte, quanto a sè ,
confermò » . ( Scritti editi e postumi, pubblicati da A. Gusalli, Milano,
Borroni e Scotti, 1856, v. I , p. 187 e sgg). Giudizio addirittura stroncatorio
! Del resto l'ar tifizioso Giordani per la sua cultura accademica, per la sua
mentalità scolastica era il meno adatto ad intendere la spon taneità geniale
dello scultore del Saggio. Ben altro giudizio di quello del Giordani dovea dare
di V. Cuoco il Manzoni, per esempio ! Forse per reazione al Giordani il
SETTEMBRINI (op. cit. , v. III , p. 280) nella sua felice esaltazione del
Saggio , come opera di pensiero, in cui il Cuoco, pur narrando i fatti da pa
triota, « li considera da filosofo , e la sua filosofia non è tutta francese,
ma è anche senno italiano , è la sapienza storica di Giambattista Vico e di
Mario Pagano » , venendo quindi a dire della lingua della grande opera , «
nella quale si sente il mesco lamento di due popoli » , il francese e
l'italiano, prorompe : « Che importa a me di lingua non pura e di francesismi,
se io non me ne accorgo perchè le cose che dice mi occupano tutta l'anima, e in
quella lingua torbida io vedo e sento tutto quel torbido rimescolamento
diuomini e di cose ? È la lingua stessa del Filangieri, del Beccaria , del
Verri , con qualche cosa di più che viene da un profondo sentimento di dolore.
Dopo il 1815 i grammatici s' intabaccarono con la Polizia e con l' Indice, e
dissero che gli scrittori del tempo della Rivoluzione furono scorretti di
lingua, anzi barbari, anzi senza italianità , e da non leggersi, e da
dimenticarsi: e così Vincenzo Cuoco fra gli altri fu proscritto da tutte le
potestà. Noi dobbiamo conoscere quest'uomo che fu il solo scrittore di pregio
che i napoletani ebbero durante la rivoluzione, il solo che in sè stesso
raccoglie il senno e la fortuna di un regno » . 119 mento borbonico di
reazione, con tratti così rudi ed espres sivi, come quelli dello scrittore
civitese. « Lo sguardo di Vanni era sempre riconcentrato in sè stesso ; il
colore del volto pallido- cinereo , come suole essere il colore degli uomini
atroci; il suo passo irregolare e quasi a salti, il passo insomma della tigre :
tutte le sue azioni tendevano a sbalordire ed atterrire gli altri; tutt' i suoi
affetti at terrivano e sbalordivano lui stesso . Non ha potuto abitar più di un
anno in una stessa casa, ed in ogni casa abitava al modo che narrasi de '
signorotti di Fera e di Agrigento . Ecco l'uomo che dovea salvare il Regno ! »
( 1 ) . V’è in questa prosa lucida e insieme aderente alla realtà dello
spirito, tutta l'eloquenza di Livio, tutta la concentrata possanza di Tacito,
v'è la acutezza di Ma chiavelli, l'oscura densità di Vico. Una parola scolpisce
un individuo, una immagine ci rende un uomo. « Schipani rassomiglia Cleone di
Atene e Santerre di Parigi. Ripieno del più caldo zelo per la rivoluzione,
attissimo a far sulle scene il protagonista d'una tragedia di Bruto, fu eletto
comandante di una spedizione desti nata passar nelle Calabrie, cioè nella due
provincie le più difficili a ridursi ed a governarsi, per l'asprezza dei siti e
per il carattere degli abitanti. Non avea seco che ottocento uomini, ma essi
erano tutti valorosi e di poco inferiori di numero alla forza nemica » ( 2 ) .
Ecco come un raffronto , anzi due raffronti ci dànno il tipo dell'eroe gia
cobino, pieno di pseudo-romanità teatrale, e perciò lon tano dal secolo, in cui
vive ed opera. Dovrei continuare.... Caracciolo e la battaglia navale di
Procida, la difesa del forte di Vigliena sono nella narrazione del Cuoco poche
righe, ma s'imprimono indelebilmente nella memoria di chi legge e suscitano una
larga fantasia. Le pagine che lo scrittore dedica alla reazione sanfe dista e
alla caduta della repubblica fanno fremere. Chi non ricorda il combattimento
intorno ad Altamura ? ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , VI, p . 35. ( 2) V.
Cuoco, Saggio storico, XXXIII , p. 150, 120 « Il disegno di Ruffo era di
penetrar nella Puglia. Al tamura formava un ostacolo a questo disegno. Ruffo
l'assedia ; Altamura si difende. Per ritrovare esempi di difesa più ostinata,
bisogna ricorrere ai tempi della storia antica. Ma Altamura non avea munizioni
bastanti a di fendersi ; impiegarono i suoi abitanti i ferri delle loro case,
le pietre, finanche la moneta convertirono in uso di mi traglia ; ma finalmente
dovettero cedere. Ruffo prese Altamura di assalto , giacchè gli abitanti ricusarono
sem pre di capitolare ; e, dove prima nelle altre sue vittorie avea usato
apparente moderazione, in Altamura, sicuro già da tutte le parti, stanco di
guadagnar gli animi che potea ormai vincere, volle dare un esempio di terrore .
Il sacco di Altamura era stato promesso ai suoi soldati : la città fu
abbandonata al loro furore ; non fu perdonato nè al sesso nè all'età.
Accresceva il furore dei soldati la nobile ostinazione degli abitanti, i quali,
in faccia ad un nemico vincitore, col coltello alla gola, gridavano tutta via :
Viva la repubblica ! Altamura non fu che un mucchio di ceneri e di cadaveri
intrisi di sangue » (1 ) . Ma ove il Cuoco raggiunge le vette dell'eloquenza, e
la sua espressione è cristallina, d'una cristallinità meravi gliosa , è nelle pagine
da lui dedicate alla ricordanza dei grandi caduti, ai mani grandi di Cirillo ,
di Grimaldi, di Caracciolo, di; Carafa , di Conforti, della Fonseca . Alle
volte è un episodio che lo scrittore riferisce , un aneddoto, una parola
pronunziata : basta , una figura s'illumina. Io non so, ma, forse, non c'è
biografia dell'autore dei Saggi politici che valga le poche righe, che
Vincenzo, discepolo riverente, dedica al maestro immortale. « Pa gano Francesco
Mario . Il suo nome vale un elogio . Il suo Processo criminale è tradotto in
tutte le lingue, ed è ancora uno delli migliori libri che si abbia su tale
oggetto . Nella carriera sublime della storia eterna del genere umano voi non
rinvenite che l'orme di Pagano, ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLV, p. 183. 121
che vi possano servir di guida per raggiugnere i voli di Vico » ( 1 ) . V'è una
grandezza degna di Machiavelli. Insomma il Saggio storico non è solo un
monumento di sapienza politica e di grande istoria , ma è ancora un capolavoro
d'arte, forse la più grande opera di prosa italiana , che dal Machiavelli al
Manzoni si sia scritta . I protagonisti del dramma, e il poeta li coglie in
atto, in tutta la loro spiritualità , illuminati da una luce di pen siero ,
possono sembrare ad alcuno marionette agitate da un triste fato. Non è così !
Gli uomini determinano gli eventi , sono gli operatori della vita civile,
dell'orribile rivoluzione ; sono essi stessi , poi, che cadono sotto il peso
dei loro errori . La loro autonomia così è salva . La storia del Cuoco è storia
di idee, da cui uomini potrebbero ban dirsi ed essere sostituiti con lettere
dell'alfabeto, X, Y, 2.... Sì , è vero, poichè l'autore mira alle cose, agli
interessi, ai bisogni; ma non dimentichiamo che i bisogni, gli inte ressi , le
cose, sono in quanto vi sono gli uomini: il Cuoco politico, che scaccia la
personalità dalla storia, è vinto dal Cuoco artista, che a tratti nervosi ed
icastici scolpisce una figura , anima una creatura umana. Lo storico ab- ·
braccia un vasto quadro, e ricerca il corso eterno di quelle idee, sulle quali
corrono gli eventi delle nazioni, e per lui gli uomini sono elementi
particolari e transeunti, meteore, che oggi sono e domani non saranno :
l'artista , integrando lo storico , anima gli uomini, e di essi e del loro
spirito vede piena la vita, di cui essi stessi sono i fattori. Tra storico ed
artista, insomma, c'è una supe riore armonia. « Il realismo della
rappresentazione, la nettezza del [ contorno » scrive Giovanni Gentile « il
rilievo delle figure, la luce di tutto il quadro » fanno del Saggio « una delle
maggiori opere storiche di tutte le letterature. Gli uo mini ci vivono ntro con
la vita individuale della loro psicologia, intuita in atto, e con la vita
storica, e più vera, degli interessi che rappresentarono, delle idee onde ( 1 )
V. Cuoco, Saggio storico , L, p . 208 . 122 furon investiti, della logica che
li governd. Pochi i nomi, e le figure appena abbozzate a tratti rapidi,
scultorii, quasi danteschi : l'interesse dello scrittore è per l'in sieme, per
le cose, come ei diceva, e per le idee, da cui gl'individui son dominati, e che
giovano più all' istru zione di chi legge . Pure, dove sorgono quelle mozze
figure, è tanto il sentimento che lo scrittore vi spira dentro, e così fosca la
luce in cui le avvolge, che l'opera politica , più che storica, s'anima del
patos d'una tragedia » ( 1 ) . Questo giudizio riecheggia con maggior
precisione il giu dizio, che sul capolavoro cuochiano ebbe ad esprimere Luigi
Settembrini ( 2 ) . Il De Sanctis conobbe il Cuoco ; se pur non integralmente,
conobbe certo il Saggio storico e il Platone in Italia, ma in lui non vide il
maggior pro satore dell'èra napoleonica; non vide che un mero disce polo di
Giambattista Vico. Del resto ai critici come ai poeti non possiam chiedere più
di quel che ci hanno dato, quando quel che ci hanno dato, ed è il caso di
Francesco De Sanctis, è perfetto . ( 1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 351 e
sg. ( 2 ) Luigi SETTEMBRINI, op . cit. , v. III , p. 279. CAPITOLO IV.
Napoleone e la sua politica generale. L'antifrancesismo di Cuoco : reazione
italiana. - Il prin cipio monarchico s'incarna in Napoleone. - I benefici della
rivoluzione. - La borghesia. - La proprietà base del nuovo ordine civile . -
Quarto stato : proletariato . - Milizia . - Liberismo e protezionismo
economico. – Lo Stato napoleonico. - L'unità d'Italia in rapporto alla politica
generale europea. - Anglofobia di Cuoco. Stato e religione. -
Giurisdizionalismo . Una illazione, forse fuori di posto, che si suole trarre
dall'atteggiamento di Vincenzo Cuoco di fronte alla rivo luzione di Francia e
al giacobinismo napoletano, è quella di un vero e proprio suo antifrancesismo.
Paul Hazard nel suo bel libro La révolution française et les lettres ita
liennes, parlando del molisano, al quale egli dedica un buon capitolo, che io
credo una delle cose migliori che sul nostro sia stata scritta , ponendo in
rilievo la sua op posizione all'astrattismo giacobino, accenna non solo ad una
reazione culturale dell'italianismo, e fin qui tutto è legittimo, ma crede di poter
rinvenire una vera e pro pria opposizione di natura politica ( 1 ) . È un punto
non solo storicamente importante , ma anche degno di di ( 1 ) P: HAZARD, op .
cit . , pp. 218 e sg. 124 scussione per intendere un nostro giudizio sul Cuoco,
che abbiamo detto essere assai coerente nel suo sviluppo spirituale,
affermazione e giudizio, che ora — è venuto il tempo dobbiamo dimostrare, per
respingere, di ri flesso, la taccia, che all'autore del Saggio è gettata di
opportunismo e di particolarismo . Solo risolvendo questo problema, potremo
intendere la situazione del Cuoco a Napoli, la sua visione generale della
politica repubblicana e poi di quella napoleonica, la sua concezione dello
Stato, la sua risoluzione d'un antico problema, i rapporti tra Stato e Chiesa, tutte
questioni che formano la materia del presente capitolo . La critica, che il
Cuoco fa della rivoluzione francese - astrattismo, esaltazione di princípi,
democratizzazione universale – non è solo critica metodologica e filosofica ,
ma anche critica politica. Che cosa egli vede nei francesi? Nei francesi vede
un popolo, il quale tende a sostituire il proprio spirito, la propria natura ,
la propria tradizione allo spirito, alla natura, alla tradizione nostra.
L'opera cuochiana, vista nel suo complesso, è dunque una reazione al
francesismo dilagante in nome della cultura e delle glorie italiane , in nome
della nostra storia : ben ha fatto l' Hazard , allorchè, sia pure con qualche
esagerazione propria della dimostrazione assunta, ha impersonata que sta cultura,
questa gloria, questa storia proprio in Vin cenzo Cuoco. Tutto l'atteggiamento
mentale di Vincenzo è diffidenza contro i francesi e contro coloro che
credettero di po tere imporre senza difficoltà gl' immortali princípi con le
baionette. Il Saggio storico, che il critico francese de finisce l'esame di
coscienza del popolo italiano, è infine la denunzia documentata di un sistema
che non va ; è la critica senza tregua di un ibridismo politico che la realtà
smentisce. La documentazione non potrebbe es sere più sicura e più ricca . E il
modo questo di porta la libertà, l'uguaglianza, la fraternità ? di farsi amare
dalle popolazioni illuse ? Il popolo italiano, sembra dire il Cuoco, che
aspetta l'indipendenza, e fors'anche l'unità , dall'opera altrui, s'adagia in
una troppo beata attesa di 125 ciò che non sarà mai. La libertà,
l'unificazione, l'indi pendenza occorre sapersele conquistare attraverso un'o
pera lunga indefessa grave . Bisogna rendersi degni di miglior fortuna, e però
bisogna rendersi prima spiritual mente migliori: divenire prima cittadini in
ispirito della gran patria Italia per poi esserlo di fatto . Attendere la
libertà come un dono dagli altri ? Ohimè ! La libertà, prima di essere libertà
civile, è libertà di pensiero, auto nomia di cultura. Possiamo mai essere
liberi noi, che prima di essere italiani, vogliamo essere francesi, noi che
nelle cose più banali e più grandi, nella foggia del vestire e nell'ordinamento
costituzionale, ci allontaniamo sempre più dalla nostra natura per acquistarne
un'altra estrin seca ? Le nazioni hanno un corso che è unitario e lineare,
perchè determinato da un primitivo impulso, che costi tuisce il fondo materiale
e morale della loro vita . « Una nazione che si sviluppa da sè acquista una
civiltà eguale in tutte le sue parti, e la coltura diventa un bene generale
della nazione » ( 1 ) . Ecco quindi come l'elemento cultu rale si lega
intimamente alle fortune politiche di un paese . Una nazione, che imita
un'altra , perde ogni com pattezza, ogni omogeneità, ogni ideale coerenza, e
non può che restare inferiore al modello, che ha dinanzi, senza considerare che
la perdita dell'unità spirituale porta seco fatalmente la perdita dell'unità
politica, se questa già c'è, ' o ritarda la sua formazione, se questa manca. «
Non può mai esser libero » ammonisce il Cuoco « quel popolo in cui la parte che
per la superiorità della sua ra gione è destinata dalla natura a governarlo,
sia coll’auto rità sia cogli esempi, ha venduta la sua opinione ad una nazione
straniera : tutta la nazione ha perduta allora la metà della sua indipendenza »
( 2 ) . A ciò bisogna aggiungere considerazioni d'altra natura . Il Cuoco nel
suo stesso fondo culturale è antirepubblicano, antirepubblicano per princípi,
che trascendono la sua stessa esperienza politica, la sua prassi civile. Ci
obiet ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p . 90, nota. ( 2 ) V. Cuoco, Saggio
storico , XVI, p. 91 . 126 teranno : ma la sua partecipazione al moto del '99,
par tecipazione ( 1 ) che oggi al lume della critica storica appare più
importante che per l'innanzi non fosse sem brato, come si spiega ? È dovere del
buon cittadino ser vire la patria, qualunque sia la forma di governo, qua
lunque sia il suo reggimento politico. Senza dimenticare che tra i Borbonici
malversatori e le nobili figure re pubblicane di Cirillo , di Pagano e di Ciaia
Cuoco sapeva fare le opportune distinzioni . Io credo che l'opposizione
antirepubblicana e antigia cobina del Cuoco derivi da veri e propri princípi
filoso fici, oltre che da pura ostilità pratica, che potrebbe anche essere un
fenomeno transeunte . Nei Frammenti di lettere, cioè nel pieno della
rivoluzione scriveva che « un re ere ditario... , quando non ad altro, serve a
togliere agli altri l'ambizione di esserlo » ; e che egli credea « la monarchia
temperata meno di quel che si pensa nemica degli ordini liberi » ( 2 ) . A me
pare che il Cuoco inclini ad una forma di monarchia costituzionale vera e
propria. La vita dei popoli corre uno sviluppo prestabilito. Dall'assoluta ti
rannia all'assoluta libertà è un passo, da un eccesso al l'altro eccesso : il
punto d'equilibrio , che salva l'unità e la coerenza interiore delle stirpi, è
la monarchia costitu zionale. La libertà è un astratto . Bisogna che il popolo
se ne renda degno, ed abbia nello stesso tempo un inte resse nella libertà, in
quanto questa effettivamente mi gliori la convivenza civile . Bisogna in
sostanza che il popolo sia maturo per le conquiste rivoluzionarie, e com prenda
: se non è così, gli stessi più alti benefíci si con vertono in pericoli. È
matura, si domanda il Cuoco, l'Eu ropa per l'assoluta libertà, per la
repubblica ? È matura Napoli per accogliere ordini rivoluzionari ? La risposta
( 1 ) Alludo alla preparazione del moto insurrezionale in Avi. gliano ,
all'opera repubblicana che il nostro preparò in Basili cata. Questa attività
cuochiana era rimasta nell'ombra fino a ieri : il primo che l'ha studiata
e documentata è stato M. Ro MANO, op. cit. , p . 19 e sgg. ( 2 ) Framm . III ,
p. 250. 127 non lascia dubbio. I popoli hanno ancora bisogno d'una guida, hanno
bisogno d'una forza, che li tenga costretti nei limiti d'una volontà generale,
pur contemperando questa con una maggior autonomia delle volontà parti colari o
individuali. Questi sono gli ordini costituzionali. Gli ordini giacobini sono
costituzionali a parole, in realtà sono anarchici, libertari. La saggezza dei
popoli è ancora da ritrovarsi: i popoli sono ancora più fantasia e mito , senso
e leggenda anzi che pensiero ed intelletto : i gover nanti mostrano di non
avere intesa questa complessa e primordiale natura loro. I popoli hanno bisogno
d'un in telletto, che li guidi ed eserciti ciò che essi, tutto senso e poesia
nel significato vichiano, non possono esercitare, la volontà dell'intelletto. «
Un sovrano saggio sul trono » scrive il molisano, « è meno raro d'un popolo
saggio ne' comizi » (1) . Notiamo che il Cuoco scriveva queste righe, quando
l'astro di Napoleone non brillava ancora di pura luce, di tutta la luce grande
che doveva poi spiegare, quando egli scrivendo non poteva menomamente pen sare
che dalle repubbliche di Francia e d'Italia doveva svolgersi il consolato,
l'impero . Il Cuoco ci appare dunque coerente. I suoi sentimenti, ripetiamo una
sua frase ti pica, sono eterni. In Napoleone egli vedrà realizzato po sitivamente
tutto il suo grande ideale. Nessuno potrà accusarlo di particolarismo , d'amore
per il suo parti culare. Ora nella repubblica francese Vincenzo Cuoco vede pre
cisamente la negazione di tutto il suo sistema politico, l'astrattismo
formulante vuoti schemi per chiudervi l ' ineffabilità delle determinazioni
naturali; la democra ( 1) Framm . III , p . 242. Quanto quei sentimenti siano
ra dicati nel Cuoco puoi vedere leggendo i suoi articoli su pro blemi politici
: in particolare cfr. Giorn . ital., 1804 , 30 maggio, 2 giugno ; n. 65, 66 ;
p. 260, p . 264 ; 1805, 2 , 7 , 17 gennaio ; n. 1, 3 , 7 ; pp. 3-4 , pp. 11-12
, pp. 26-28. Nel Platone in Italia , v. I , p . 142 e sgg. , riconferma il suo
pensiero , « riafferma » , come scrive il ROMANO, op. cit. , p . 85, « la sua
fiducia in ungoverno misto , temperato, tra la monarchia, l'aristocrazia e la
democrazia » . 128 zia universale, che cerca di sovrapporsi a popoli , diversi
di coltura e di interessi, per costringerli ad accettare un governo monotono
uguale ; la volontà generale, che cozza con le volontà singole ; un pazzo
alternarsi d'anar chismo e di tirannia . Che cosa è mai questa benedetta
libertà, che i francesi portano ? È la più sfacciata tirannia . Essere libero
signi fica adattarsi al metodo , all'andazzo giacobino; se no, guai a chi si
oppone: le baionette strappano il consenso liberamente mancato. La libertà
imposta non è più li bertà, cioè libero volere, libera determinazione. La
libertà data dalle repubbliche, nota Vincenzo, è sempre più dura che non la
libertà data dai re . Sembra un paradosso, ma è così. Le repubbliche sono
infatuate dai loro prin cípi, e credono che tutti siano desiderosi di
comparteci parne, e quando li vedono ripudiati, li impongono, poi che non
vedono bene e felicità fuori di essi. L'antifrancesismo, dunque, di Vincenzo
Cuoco real mente ha radici profonde in questioni di metodo e di po litica . Il
Cuoco non è un repubblicano. Egli vagheggia forme costituzionali, che
sintetizzino l'indirizzo potente mente unitario dello Stato con le volontà
autonome delle popolazioni. Queste considerazioni di natura generale possono
spie garci vari punti della biografia di Cuoco, che altrimenti sarebbero
destinati a rimanere senza delucidazioni; pos sono darci la ragione della
scarsa sua partecipazione alla rivoluzione partenopea , la ragione forse della
sua sal vezza dopo la prigionia borbonica, la ragione del suo iso lamento a
Milano prima che un nuovo ordine un po' più schiettamente italiano e meno
repubblicano non venga a costituirsi; questioni, assai gravi, come ognun vede,
ma che acquistano maggior luce, se le si riconducono ai princípi, che sopra
abbiamo accennato. Il pensatore, che, criticando il progetto di costituzione
del Pagano, scriveva a Vincenzio Russo amaramente ed ironicamente nello stesso
tempo : « Oh ! perdona. Non mi ricordavo di scrivere a colui, che, sull'orme
della buona memoria di Condorcet, crede possibile in un es 129 sere finito una
perfettibilità infinita » ; il pensatore, che così ironicamente pungeva
l'amico, è lo stesso uomo, che oggi a Milano esule ricorda a un suo intimo il
suo co stante odio contro i Galli ( 1 ) . « Non ti pare che io era profeta »
scrive « quando in faccia a Scipione Lamarra ( generale e carceriere dei
repubblicani del 1799 ) mi dissi cisalpino ? E profeta anche più grande, quando
diceva tanto male dei francesi ? Eccomi dunque cisalpino, per chè in Milano, ed
odiator de'Galli, quale lo era nel '93 , nel '94 , nel '95 , nel '96 , nel '97
, nel '98 e finalmente in Capua nel '99 . I miei sentimenti sono eterni. » Il
Cuoco ci appare come il più genuino rappresentante di un pensiero politico in
tutte le sue manifestazioni in an titesi col pensiero e con la prassi politica
francese. Il suo spirito storico e pratico lo rimena al Vico, l'investi gatore
profondo delle leggi, che governano il corso delle nazioni, al Machiavelli, che
dai fatti trae le norme della vita pubblica, al Montesquieu , il più acuto
studioso della natura delle leggi e della loro conformazione ai bisogni fisici
e spirituali de' popoli. Nel Saggio, ricordiamo, dopo avere analizzato quanto
la rivoluzione era lontana dalla vita italiana e napoletana, quanto i bisogni
nostri eran , diversi da quelli francesi, quanto i nuovi princípi erano
astrusi, scrive delle righe assai importanti per una com prensione del suo
pensiero. « La scuola delle scienze mo rali e politiche italiane seguiva altri
princípi. Chiunque avea ripiena la sua mente delle idee di Macchiavelli, di
Gravina, di Vico, non poteva nè prestar fede alle pro messe nè applaudire alle
operazioni de ' rivoluzionari di | Francia, tostochè abbandonarono le idee
della monar chia costituzionale » (2 ) . Ecco, l'opposizione politica di viene
una vera e propria reazione culturale in nome del l'italianismo. Non mi sembra
più il caso ora di dubitare circa la po ( 1 ) La lettera che segue, pubblicata
per primo da M. Ro MANO, op. cit. , p. 269, in parte fu poi ripubblicata da G.
GEN TILE , Studi vichiani, p. 350. ( 2 ) . V. Cuoco, Saggio storico , VII, p.
40. 9 - F. BA'I TAGL A. 130 sizione del Cuoco di fronte alla rivoluzione . Il
Cuoco non è repubblicano, è monarchico costituzionale. Il Cuoco è antifrancese
perchè è troppo profondamente italiano. La posizione non potrebbe essere più
chiara. Questa rinnovata posizione di critica non conduce però Vincenzo ad un
isolamento politico totale . Egli s'oppone ad uno stato di cose profondamente
radicato nella vita contemporanea, ma crede suo dovere agire, operare in un
mondo di illusi e di dormienti, mostrare agli italiani quanto essi siano in
errore, ripudiando la loro essenza per una natura estrinseca . Come nel '99
egli, vagheggia tore d'una repubblica costituzionale indipendente, da fondarsi
subito dopo la partenza dei Borboni, prima del l'ingresso dei francesi, d'una
repubblica nazionale, non soggetta ad alcun influsso estraneo , che sapesse
intendere la natura del popolo, e su questo solo trovasse la base d'ogni suo
operare, rendendolo partecipe ed interessato, non seppe, non potè abbandonare i
suoi generosi compa gni per problemi e dissensi di carattere teorico , e si
senti travolto in quel vortice che pur non amava ; così oggi, a Milano,
ricostituitasi bene o male una parvenza di libertà italica, egli è al suo posto
di combattimento, assertore infaticabile delle più pure idealità nazionali. La
vita ha una sua particolare dialettica. Questo spie gamento non è lineare
uguale, ma inframmezzato da cu riosi contrasti : una affermazione è implicita
nell'atto stesso della negazione. La rivoluzione francese, che nega la storia,
è nella storia, e afferma la storia . Tutto il movi mento post -rivoluzionario,
in antitesi alla rivoluzione, nasce da uno stesso getto, con la rivoluzione .
L'illumini smo afferma l'assoluto della ragione e da questa desume formule e
princípi ad informarne la vita. Il nuovo pen siero trova il fondamento di tutto
nello spirito , che è in sè e fuori di se, istoria e natura, sviluppo continuo,
pro duttività infinita, principio attivo. Il Fichte in Germania in parte è
ancora nella rivoluzione ; lo Schelling e l'Hegel, e con essi tutto il movimento
storicista nella politica e nel diritto , sono già fuori dalla rivoluzione . La
filosofia della rivoluzione non aveva prodotto un vero sistema costitu 131
zionale, aveva ondeggiato tra troppo opposti princípi, per finire ad uno Stato,
il cui contenuto etico era e non era. La nuova filosofia riconsacra nella
natura lo spirito, e lo spirito sublima nello Stato, sua perfetta creazione. La
fatale necessaria evoluzione dello spirito porta allo Stato, e in esso celebra,
diciamo pur così, tutto sè stesso . Chi dice Stato dice realtà ed ideale,
autorità e libertà, forza e consenso. È la reazione dello Schelling e
dell’Hegel alla rivoluzione. È la stessa reazione, ma anticipata, di altri
filosofi della restaurazione . In Italia questa reazione, che però è una rivalutazione
dello Stato monarchico nel suo contenuto etico, è fatta da Vincenzo Cuoco. Col
Cuoco, giornalista nella repubblica cisalpina e poi nel regno italico, la
rivoluzione muore, depone il berretto frigio, lascia il posto allo Stato, come
manifestazione ultima d'un processo etico, in cui la libertà è nel con senso,
l'unitarietà nella forza. Pochi hanno notato l'importanza del molisano, come
rivendicatore del principio monarchico. Si è detto che egli è il primo, che si
faccia araldo del problema unitario in quanto problema spirituale e pedagogico
; ma si è dimenticato che nel suo pensiero il fine della rinascita morale è una
unità, che non può ottenersi che nella mo narchia . Affermazione questa ,
notiamo, che non implica alcun assoluto politico, ma che è la risultante di
mere contingenze storiche, di una vera impreparazione popo lare a più ampie
libertà, da studiarsi, dunque, nell'am biente, in cui e per cui il Cuoco
l'esprime. Il processo pedagogico, che deve condurre all'unità, è un processo
nulla affatto rivoluzionario, anzi evolutivo. Mentre in Germania questa
rivalutazione è posteriore : alla rivoluzione, mentre in Germania il Fichte, il
futuro autore dei Discorsi alla nazione tedesca, scrive il suo Con tributo alla
rettificazione dei giudizi del pubblico sulla ri voluzione francese, che non
può non essere, nel grave incendio sovvertitore, una partecipazione a quei
princípi che agiscono in tutto il movimento, ed insieme una loro legittimazione
; in Italia lo spirito nazionale nasce nella stessa rivoluzione, come reazione
d'una sostanza speci 132 ficamente italiana ad una forma vuota ed estrinseca
che le si vuol sovrimporre. Napoleone per Cuoco è la creatura di genio, che
impersona in sè tutto il nuovo ordine di cose, che sorge dalla rivoluzione e
alla rivoluzione s'op pone, ordine di cose che il pensatore ha previsto sin dai
primi bagliori dell ' incendio giacobino . Le prime pagine del Saggio storico,
la Lettera dell'autore all'amico N. 0. , la Prefazione alla seconda edizione
sono la conferma di tutto ciò , che siamo venuti faticosamente esplicando fin
qui . In questi scritti la figura del gran capitano è esal tata : ma, se
leggiamo profondo, più che l'uomo fatale sono esaltati il nuovo ordine di cose
e i nuovi princípi ci vili , che affiorano nella politica generale di Francia.
Il Cuoco, dopo alcuni anni dalla rivoluzione di Napoli, di cui era stato
spettatore, si rivolge indietro, rivede con la fantasia accesa tutti gli
avvenimenti, che nel breve corso d’un anno, il 1799, la storia ha suscitato
nella sua patria : il regno del Borboni ruinato mentre minaccia la conquista
d'Italia, un monarca debole abbandonare i suoi Stati, la libertà sorgere e
stabilirsi quando meno la si attende, i fati combattere la buona causa, e poi
gli er rori e il crollo ; rivede tutto con la fantasia e, facendo ciò prova il
piacere di chi, essendo stato giudice impar ziale, ha profetato un avvenire,
nascente sulle contrad dizioni del presente. L'uomo dei Frammenti è infine il
profeta di Napoleone. « Desidero » scrive Vincenzo nella Prefazione alla
seconda edizione del Saggio storico « che chiunque legge questo libro paragoni
gli avvenimenti dei quali nel medesimo si parla a quelli che sono succeduti
alla sua pubblicazione . Troverà che spesso il giudizio da me pronunziato sopra
quelli è stata una predizione di questi, e che l'esperienza posteriore ha
confermate le antecedenti mie osservazioni » ( 1 ) . La storia ha uno'svi luppo
che non falla : lo storico, il quale intende le idee che sono eterne, e non gli
uomini che brillano un istante, può a ragione divenir profeta. V'è nelle righe
sopra citate ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 8 . 133 la
soddisfazione dell'uomo, che vede la conferma d'una realtà, che non gli sfugge.
« Io ho il vanto » aggiunge « di aver desiderate non poche di quelle grandi
cose che egli [Napoleone] posteriormente ha fatte ; ed, in tempi nei quali
tutt' i princípi erano esagerati, ho il vanto di aver raccomandata , per quanto
era in me, quella moderazione che è compagna inseparabile della sapienza e della
giu stizia , e che si può dire la massima direttrice di tutte le operazioni che
ha fatte l'uomo grandissimo. Egli ha verificato l'adagio greco per cui si dice
che gl ' iddii han data una forza infinita alle mezze proporzionali, cioè alle
idee di moderazione, di ordine, di giustizia. Le stesse lettere , che io avea
scritto al mio amico Russo sul pro- . getto di costituzione composto
dall'illustre e sventurato Pagano, sebbene oggi superflue, pure le ho
conservate e come monumento di storia e come una dimostrazione che tutti quelli
ordini che allora credevansi costituzionali non eran che anarchici » ( 1 ) .
V'è qui tutta la spiegazione della nuova situazione, che s'è imposta e di cui
il Cuoco si sente partecipe. La rivoluzione era un vortice, che se egli non
odiava, certo non amava, al quale s ' era abban donato un po' passivamente, più
per criticare che per esaltare, più per negare che per affermare : libertà, fra
ternità, vane parole ; virtù e gloria : parole astratte, lon tane
dall'intendimento del popolo. Il regno d'Italia, l'impero di Francia, ora, sono
invece realtà concrete, ove la prassi politica è ispirata al concreto , al
benes sere delle genti, è ispirata ad un principio monarchico unitario, che
trova una precisa e sicura delimitazione tra volontà generale e volontà
particolari, tra governo ed individuo , in una nuova visione costituzionale,
per cui lo Stato è concepito come sublimazione dello spi rito , come forza e
consenso, e quindi come autorità e libertà . Il Cuoco dinanzi a Napoleone si
trova nell'atteg giamento di chi osserva una realtà, a lungo deside rata ,
finalmente concretata nella politica generale euro ( 1 ) V. Cuoco , Saggio
storico, Prefazione, p. 9. 134 pea, e non nell'atteggiamento dell'adulatore che
leva lodi per averne compensi. Si è voluto dipingere il nostro come un volgare,
se pur d'ingegno, procacciante , ma coloro, che hanno sostenuto questa tesi non
hanno esaminato certo per intero gli scritti del molisano, o hanno perduto per
il particolare quell'esatta e continua visione d'in sieme, che ci spiega solo
la natura d'una mentalità poli tica. Il Cuoco è l'uomo dai sentimenti eterni,
l'eterno an tigiacobino, e in Bonaparte vede l'uomo geniale, sintesi delle
nuove idee, che si sono venute formando, di libe ralismo, di moderazione, d'equilibrio
. Come sorgono quegli uomini, che per il volgo sono usurpatori, che per lo
storico non sono che l'espressione d'una fatalità storica, determinata da
bisogni insiti nelle nature umane ? « La mania di voler tutto riformare porta
seco la controrivoluzione : il popolo allora non si rivolta contro la legge,
perchè non attacca la volontà generale, ma la volontà individuale . Sapete
allora perchè si segue un usurpatore ? Perchè rallenta il vigore delle leggi;
perchè non si occupa che di pochi oggetti, che li sottopone alla volontà sua,
la quale prende il luogo ed il nome di volontà generale, e lascia tutti gli
altri alla volontà in dividuale del popolo . Idque apud imperitos humanitas
vocabitur, cum pars servitutis esset . Strano carattere di tutti i popoli della
terra ! Il desiderio di dar loro sover chia libertà, risveglia in essi l'amore
della libertà contro gli stessi loro liberatori » ( 1) . L'usurpatore ha una
ragione di essere nella stessa esagerazione della rivoluzione, rallenta il
vigore delle leggi antiche, lascia pochi oggetti a sè, il resto alla volontà
singola. Mentre le repubbliche nel l'esaltazione dei princípi cadono dalla
tirannia all'anar chia, dall'eccesso d’una volontà generale, che vuol sof
focare ogni autonomia o volontà subiettiva, all'eccesso di volontà individuali
che non s'accordano in una vo lontà generale, e viceversa, il monarca trova più
facil mente l'equilibrio, che nelle ere primitive è nella forza, ( 1 ) V.
Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 96. 135 nelle ere evolute nel consenso . Il
giacobinismo, esaltando sè stesso, parimenti ha sviluppato una nuova opinione
pubblica. Napoleone è il rappresentante di questa nuova opinione pubblica. Non
è detto che il potere, che si viene accentrando in un singolo, quando si sia
trovata la delimitazione sovraccennata tra individualità e legge, sia per sè
stesso cattivo : quand'esso , anzi, è saldo sicuro , può anche essere umano e
temperato. È carattere pro prio dei principi deboli essere sospettosi e feroci,
mentre i sovrani, potenti su basi di consenso e di forza, non possono che
essere equanimi, larghi, liberali. Tutta la logica storica cuochiana porta alla
monarchia : la monarchia, date le condizioni dei tempi e degli uomini, è la
migliore forma di governo . Napoleone, ho detto, sorge dalla rivoluzione, e ad
essa si oppone. Il Cuoco stesso ha la lucida intuizione che al sistema
giacobino si è sostituito un sistema nuovo su nuove basi. Ciò non pertanto
egli, ingegno superiore sto rico , portato a valutare le conseguenze ultime
della ri voluzione, di fronte al nuovo reggimento instaurato , sa trovare i
benefíci che da questa sono scaturiti insoppri mibilmente per l'uman genere.
L'articolo Varietà ( 1 ) che il molisano pubblicò nel suo Giornale italiano, i
primi giorni del 1805, è un vero e proprio esame di coscienza, dinanzi alla
nuova situazione politica, che trova le sue origini, pur negandole, nella
rivoluzione. Col nuovo anno che si apre Vincenzo Cuoco s'arresta e guarda
indietro : molti mali da un lato, molti beni dall'altro : nonostante i grandi
errori, le grandi deficienze, si può notare un progressivo cammino sulla via
della saggezza. « Gran parte dell'Europa fa grandi progressi verso un ordine
migliore . « In Francia nell'anno scorso le opinioni sono diventate più
concordi, gli ordini più regolari. Le idee di rivolu- · ( 1 ) Giorn . ital. ,
1805, 2, 7 , 17 gennaio ; n. 1 , 3 , 7 ; pp. 3-4 , pp. 11-12, pp. 27-28 :
Varietà ( ristampato in Scritti vari, v . I , pp. 134-144 col titolo La
rivoluzione francese e l'Europa) . 136 zione, divenute una volta estreme, han
fatto avverare il detto di Mirabeau che l ' esaltazione de' princípi altro non
è che la distruzione de' princípi. Ma, incominciando tali idee a retrocedere
dal 1795 , non potevano arrestarsi se non giunte ad una forma di ordine regolare.
Imper ciocchè ciascun costume richiede una forma di governo , e ciascun governo
ha in sé talune parti essenziali, senza le quali, invece di costituzioni, si
hanno que' mostri po litici, i quali soglion aver la vita di un almanacco.
Possono sembrar sublimi agli occhi de’ mezzo- sapienti, ma sem brerebbero
comici agli occhi de' sapienti veri , se l'espe rimento de medesimi non
costasse tanto all'umanità. Ri conosciuta una volta necessaria la
concentrazione del potere, è indispensabile renderlo ereditario ; altrimenti
sarebbe lo stesso che aprir la via a perpetue guerre ci vili. Esempio ne sia la
Polonia . Nè vale il dare al primo magistrato il diritto di nominar il suo
successore, poichè l'esempio di Roma antica e della Russia ben dimostrano che
questo ordine di successione non basta a render lo Stato sicuro dai tristi
effetti dell'ambizione de' privati. Reso una volta il potere ereditario, è
necessario rivestirlo di tutte le apparenze esteriori della dignità, perchè
queste accrescon la forza della opinione, e la forza delle opinioni serve a
risparmiar quella delle armi, della quale non si può mai far abuso senza
pericolo . Un governo, il quale non ha per sè la forza dell'opinione, si chiami
pure con quel nome che si voglia, sarà sempre un governo militare, il pessimo
di tutti . Un governo, il quale, avendo già tutto il potere, procura di
fortificarsi coll'opinione, se questa opinione non è di sua natura teocratica,
tende a cangiarsi da governo militare in governo civile . « Tale è l'ordine
delle cose, immutabile, eterno . L'ar restarsi dopo una rivoluzione in mezzo a
questa progres sione è lo stesso che dar fine ad una rivoluzione per in
cominciarne un'altra » . Come ognun vede, il pensiero di Vincenzo Cuoco, nella
sua limpidezza , non lascia dubbio alcuno . Il nuovo or dine costituito, cioè
Napoleone, ha la sua origine nella rivoluzione, ma la sua ragion d'essere nella
negazione 137 della rivoluzione, la sua base concreta ne' bisogni dei popoli di
trovare il loro punto d'equilibrio tra gli estre mismi di destra e di sinistra
in quel consenso, che nel mondo moderno solo può fortificare i governi. In Napo
leone il Cuoco vede il restauratore dell'ordine civile, ma non vuol vedere,
nello stesso tempo, il militare, il con quistatore . Il governo militare, che si
erige sulle baio nette , gli ripugna : non per nulla egli ha parteggiato nel
'99 per la repubblica , ha salutato con letizia la partenza dei borbonici dalla
sua Napoli. Il governo, che tiene in pugno la cosa pubblica e la direzione
dello Stato, deve avere seco la forza del consenso, e da questa derivare la
forza delle armi. Altrimenti si cade in quel governo mi litare, che, come dice
il nostro autore, è il peggiore dei governi , come quello, che, essendo odiato,
sovrapponen dosi alle volontà dei cittadini, rinnega le esigenze, i bi sogni,
gli interessi delle popolazioni. Lo Stato del Cuoco non è nè lo Stato paterno,
di polizia del Wolff, nè lo Stato rivoluzionario , che pone un limite
insuperabile alla sua autorità in una visione anarchica dei diritti subiettivi.
Nello Stato del Cuoco confluiscono vari e complessi ele menti, dal Rousseau al
Vico, dal Montesquieu ad Aristo tele . Se vogliamo caratterizzarlo, diremo che
è Stato di diritto , che importa e riposa su un contratto sociale, non storico
ma immanente alla vita stessa dello Stato, sin tesi di attività e di diritti
singolari, Stato infine che non pud agire che sub specie juris, nella forma del
diritto, in quanto il diritto stesso, nella sua natura generale, è alla fine
riaffermazione e consacrazione delle libere vo lontà particolari, che lo
costituiscono. Il molisano è ugual mente lontano dalle esagerazioni
rivoluzionarie, che egli stesso definì anarchiche e non costituzionali , come
dalle affermazioni di coloro, che in Napoleone avrebbero vo luto il signore dei
gratia, superiore ad ogni volontà na zionale . Egli, ingegno storico, sente che
tra Napoleone e il regime assoluto c'è una rivoluzione, e la rivoluzione non si
può nè politicamente ne teoreticamente superare a ritroso, onde s'arresta nel
giusto mezzo, e ci dà un con cetto dello Stato, che si ricollega sotto alcuni
aspetti al 138 Rousseau e al Vico, che ha, pure, qualche rassomiglianza con la
teorica kantiana, sebbene il nostro del Kant cono scesse assai poco, e più per
seconda mano che per let tura diretta (1 ) . Il Cuoco afferma in sostanza la
monar chia liberale moderata, che assomma in sè l'autorità e la forza con il
consenso e l'autonomia ( 2) . Le opinioni degli uomini, aggiunge continuando il
Cuoco, sono discordi: è fatale che siano discordi, poi che v'è stato di mezzo
una rivoluzione, e gli uni parteggiano ancora per essa, gli altri ancora la
maledicono. Perchè l'equilibrio si ristabilisca , è necessario che sorga un or
dine nuovo tra le varie opinioni, diverso dall'ordine an tico distrutto, diverso
dal nuovo che si desiderava. Sono concetti di moderazione, che appaiono anche
nel Platone. Michele Romano ha fatto un'analisi minuta di questo ro manzo sotto
l'aspetto politico, e noi, che seguiamo un'al tra strada, vi rinveniamo
facilmente la conferma delle nostre affermazioni, ed una prova diretta della
coerenza cuochiana. « Viene anche per le nazioni il tempo ineluttabile dei mali
; il tempo in cui tutta la forza è nelle mani di coloro che non hanno virtù, e
qualche virtù rimane solo a co loro che non hanno forza ; onde avviene che tra
le scel lerate pretese de' primi, tra le inutili tenacità de'secondi, tra quei
che tutto voglion distruggere e quei che tutto voglion conservare, sorge una
lotta asprissima, funesta, in cui i primi a cadere son sempre coloro i quali
osan parlar le parole di moderazione che dopo venti anni di strage e di orrore
diventa l'inutile pentimento di molti e l'unico desiderio di tutti » . La
moderazione, commenta però il Romano, non è virtù negativa in politica, perchè
« noi cresciamo andando avanti ; ci conserviamo rima nendoci al nostro posto ;
ma non possiamo riformarci tornando indietro, perchè indietro non si ritorna
mai » ( 3 ) . Ai partigiani dell'ordine antico si può rispondere che ( 1 ) G.
GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, p . 377 . ( 2 ) M. ROMANO, op . cit . , p.
81 e sgg. ( 3) M. ROMANO, op. cit. , p. 84. 139 non è stato Bonaparte a
distruggerlo : sono stati essi stessi con la loro viltà, con la loro caparbietà
. « Ai parteggiani della libertà si può rispondere che la Rivoluzione non è
stata interamente inutile. Si è ot tenuta una forma di governo costituzionale,
e, quando anche si volesse credere che questa non sia ancora per fetta , si è
sempre ottenuto molto avendone una. Le ot time costituzioni sono figlie del tempo
e non di sistemi. Quali sono le parti loro più belle ? le più rispettate. E
quali le più rispettate ? le più antiche. Quindi due ve rità : 1° Per ottenere
una buona costituzione, è necessario aver, quasi direi, un antico addentellato
al quale attac carla . 2 ° Per giudicare di una costituzione è necessario il
tempo, perchè le nuove, non potendo ancora goder il rispetto del popolo,
ancorchè sien ottime, si credon cat tive. Col tempo, i vari corpi , che formano
il governo, di ventano più rispettati dal popolo, e perciò più potenti anche in
faccia al governo ; e la libertà pubblica diventa maggiore. Intanto è sempre un
gran bene per una nazione che il suo capo s'intitoli tale per le costituzioni
della Re pubblica ; che si parli di libertà civile , di libertà di per sone, di
libertà di stampa ; che vi sien delle magistrature incaricate di vegliare alla
loro custodia ; che vi siano delle assemblee nelle quali si riuniscano i
migliori di cia scun dipartimento e di ciascun cantone per proporre ciò che
credon più utile allo Stato. Tutte queste istitu zioni han prodotti finora
molti beni e ne produrranno ancora . In ogni caso, la religione è stata per
sempre riu nita allo Stato col vincolo della tolleranza ; la feudalità è stata
abolita per sempre, e, quando anche risorgesse un patriziato, potrebbe esser
quello de'greci e de ' romani, eccitator di grandi azioni e non già oppressore
de'grandi ingegni; è stata aperta libera e larga la via della gloria ad ogni
specie di merito; non vi saranno più le dispute e le persecuzioni de'gesuiti e
de'giansenisti ; non vi sarà più la funesta distruzione de'tre stati, de' quali
uno era con dannato a pagare e soffrir tutto e a non aver mai nulla ; le
imposizioni saranno ripartite egualmente fra tutti ; le proprietà saranno tutte
della stessa natura, e le persone 140 della stessa classe . Questi vantaggi si
sono ottenuti, nè si perderanno più, e questi vantaggi non sono mica pic cioli
» . Tutta la filosofia cuochiana è rinserrata qui. È natu rale che, quando un
ordine nuovo di cose si afferma dopo turbamenti generali , questo si presenti
come una pana cea di tutti i mali, e temperi l'antico con il nuovo in una
fiducia mirabile di sè stesso : spazza via l'antico, e in tanto crea una nuova
aristocrazia, se non di sangue, d'armi ; distrugge la teocrazia, e intanto vuol
l'accordo con la religione ; sgomina l'anarchia , e dà una nuova costituzione,
che, sia pur limitatamente, ha la sua impor tanza ; si basa sull’autorità, ma
non prescinde dal con senso . Il nuovo reggimento è in fine un reggimento eclet
tico, ma è quel che ci vuole dopo una rivoluzione, è quel che ci vuole in
un'epoca, che ha bisogno di freno per non dilagare nella licenza, di libertà
per non rammaricarsi del passato soppresso. Lo spirito del bonapartismo è in
questo eclettismo moderato, che è classico e moderno nello stesso tempo in
arte, che è illuminista nello stesso tempo che afferma la tradizione in
filosofia, che è autoritario e non disprezza il costituzionalismo in politica.
Ma a noi poco importa la prassi politica del primo console e del l'imperatore,
a noi interessa il pensiero di Vincenzo Cuoco in quanto sistematizza tutto un
insieme di idee, proprie dell'èra sua, sia sotto un aspetto critico, sia sotto
un aspetto di simpatizzante affermazione. Il senso squisitamente politico del
Cuoco ci si appalesa sotto un altro punto di vista . Il Saggio storico, abbiamo
osservato, mostrava la rivoluzione in atto, e di essa era la critica spietata e
fiera . Ma la rivoluzione ha prodotto, ha spiegato tutti i suoi effetti, ha
sommerso un mondo, ne ha instaurato uno novello. La realtà storica è quello che
è , s ' impone senza rimedio . È possibile rinnegare i benefici evidenti della
rivoluzione ? Il Cuoco risponde di no. La rivoluzione ha prodotto benefíci
senza pari in Italia e in Francia, e in certi limiti anche altrove, ha ab
battuto la feudalità , ha riattivata la vita de' popoli in un ritmo più
robusto. Il Cuoco ancor oggi crede che la 141 rivoluzione si sarebbe potuto
evitare, con una savia mo derazione sia de' governi sia de' popoli, ma la
storia è stata quel che è stata, e non si ritorna indietro per le
recriminazioni. Oggi è inutile ogni constatazione artifi cioso, occorre pensare
a trarre i maggior frutti possibili dalla concreta realtà. « Le crisi sono nate
dall'ostinazione per cui i governi non hanno voluto mai soddisfare [ i reclami
dei popoli] . Con una savia moderazione, invece di rivoluzioni distrut tive, si
sarebbero ottenute utili riforme » . Il ritornare oggi con ostinazione agli
antichi princípi sarebbe lo stesso che preparare nuovi torbidi rivoluzionari.
Sono ' con cetti questi assai radicati nel Cuoco : ritornano frequente mente
ne' suoi articoli nelle forme più varie . Altrove scrive : « Cangiamo di nuovo
lo stato delle idee, facciamo prevalere l'opinione di qualunque partito; e
vedremo tutta l'Europa turbarsi di nuovo. E, sia qualunque l'opi nione che noi
vorremo far prevalere, l'effetto sarà sem pre lo stesso » ( 1 ) . La storia non
si supera a ritroso . Ri tornando allo scritto, di cui noi segnamo il filo
ideale, vi troviamo una sicura legittimazione delle nuove forze ( 1) Giorn .
ital., 1804 ; 11, 23, 30 luglio, 1 , 11 agosto ; n . 87, 88, 91, 92, 96; pp.
350-351 , pp. 356, pp. 367-68, pp. 371-372, pp. 393-394 : Politica ( ristampato
in Scritti vari, v . I , pp . 28-43 sotto il titolo Il sistema politico europeo
al principio dell'Otto cento ). Riporto in nota uno squarcio dell'articolo, in
seguito al brano citato . « Facciam ritornare in campo i princípi che han
dominato dal 1793 fino al 1798. Che avremo ? Nell'interno, incertezza nel
potere, che lo rende più impotente nel bene, più sospettoso e più crudele nel
male ; divisione tra i vari rami del potere medesimo, onde l'anarchia e la
guerra civile ; l ' in certezza dei principi , onde ne diventa l'uso difficile
ai buoni e facile l'abuso agli intriganti ed ai prepotenti. Nell'esterno, da
una parte l'ambizione, che prende le apparenze di democratiz zazione universale
e diventa tanto più terribile quanto che alla forza delle armi riunisce quella
delle opinioni ; dall'altra, il timore e sospetto ; dall'una e dall'altra ,
minacce, tradimenti, inganni di popoli e di re, guerre interminabili e feroci
». Il quadro è fosco : è impossibile ritornare ai princípi puri della
rivoluzione, come è impossibile una restaurazione del regime prerivoluzionario
: il separamento è inderogabile. 142 (( umane espresse dal capovolgimento
rivoluzionario della borghesia. È una osservazione costante, che da tre secoli
in qua ( anzi si potrebbe dire dall'epoca delle crociate ) , tutti gli Stati dell'Europa
sono cresciuti di forza per l'accresci mento del numero, dell'industria,
dell'attività di quella parte della popolazione che chiamavasi in Francia, e si
potrebbe chiamar presso ogni nazione, terzo stato . Quelli tra' popoli
dell'Europa furono i primi a risorgere dalla barbarie, dall'ignoranza , dalla
debolezza, che primi sol levarono questo terzo stato. Tali furono l'Italia, l '
In ghilterra, la Spagna. Quei popoli ne' loro progressi s’ar restarono, che,
per la forma del loro governo, tennero questo terzo stato più oppresso :
l'oligarchica Venezia, la Polonia . Quei popoli soffrirono rivoluzioni e
sedizioni asprissime, ne' quali il terzo stato non fu distrutto ne ottenne
giustizia .... E non vi è termine di mezzo. Lo stato di oppressione è uno stato
di guerra. Uno de' due : o convien che la classe predominante distrugga la ser
viente, o convien che divida con lei tutti i vantaggi della vita civile . Nel
primo caso, eviterà le sedizioni in terne, perchè agli estremamente miseri che
soffrono pa zientemente, la miseria toglie loro, come diceva Omero, la metà
dell'anima; ma, invece delle sedizioni interne, avrà debolezza esterna
grandissima, e sarà lo Stato esposto al furore del primo che vorrà occuparlo.
Tale è stata la sorte della Polonia ; e perchè non direm noi che è stata la
sorte di tutti gli Stati ove ancora è feudalità ? Nel secondo caso, non
solamente si accrescerà la forza esterna, ma si renderà più durevole la
tranquillità in terna, perchè la parte più numerosa del popolo non avrà alcun
motivo di doglianza ;, ed, essendo la nazione piena d'amor di patria e di
orgoglio nazionale, mancheranno anche quei fomenti di sedizioni, i quali
vengono dalla stolta ammirazione degli stranieri » . Il terzo stato, la
borghesia, è il lievito del nuovo ordine, è la parte più sana della nazione,
che rivendicati i suoi diritti, è quella che, ugualmente lontana dalla potenza
corruttrice e dall' indigenza mortificante, realizza nella 143 modernità quella
classe dei migliori, che Aristotele ha indicata come la più adatta a reggere la
cosa pubblica . E precisamente nel senso aristotelico il molisano intende la
borghesia, non dunque come una casta chiusa e dit tatoria, ma come una classe,
in cui liberamente conflui scono le forze vitali del popolo tutto, una classe
insomma aperta a tutti coloro, che per virtù d'ingegno e di atti vità s'elevino
dall'indigenza. « Le idee, i costumi, gli ordini pubblici di tutta l'Eu ropa »
scrive il nostro in un altro suo articolo ( 1 ) che adduco a conferma di quanto
vengo dicendo « tendono al ristabilimento di una nobiltà più antica, meno di
struttiva e più illustre : a quella nobiltà della quale si gloriavano i Fabi,
gli Scipioni, i Camilli, de ' nomie degli esempi de'quali noi italiani dovremmo
esser più superbi che di quelli degli Agilulfi e de ' Gundebaldi. La proprietà
diventerà la base di tutte le costituzioni : quella proprietà che sola può
tener uno Stato lontano dalla letargica in dolenza dell'oligarchia e delle
funeste commozioni del l'oclocrazia , perchè nè lo priva dell'opera di molti, i
quali possono colla loro industria acquistare un podere, ma non potrebbero mai
disfare l'ordine de’ secoli passati e darsi un antenato che non hanno ; nè,
dall'altra parte, affida la cosa pubblica alla fede, sempre dubbia, di co loro
i quali non hanno verun interesse a sostenerla. Non altra base che la proprietà
avea la costituzione di Roma, e noi abbiamo anche ciò che non poteano avere i
ro mani, cioè riputiamo proprietà anche l'industria ed il sapere. È la natura
delle cose che ha comandata questa differenza : i romani non aveano altra
industria che l'agricoltura e per molti secoli non conobbero studi più gravi di
quelli necessari a vincere i loro vicini. T ( 1 ) Giorn. ital., 1804, 14, 16,
18, 30 gennaio, 8 febbraio ; n . 6 , 7, 8 , 13 , 17 ; pp. 22-23, p. 27 , pp.
30-31 , p . 51-52, pp. 66-67 : Osservazioni sullo stato politico dell'Europa (
ristampato in Scritti vari, v. I , pp. 13-28 sotto il titolo Il sistema
politico europeo al principio dell'Ottocento in uno con l'altro articolo
cuochiano da noi già accennato, Politica . 144 « Io non nego che le varie
circostanze, nelle quali potrà trovarsi una nazione, possan render necessarie
molte modificazioni; ma la massima fondamentale rimane sem pre la stessa. Il
migliore de' governi, diceva Aristotele, è quello in cui governano i migliori;
e , siccome essi non si potrebbero mai ricercare ad uno ad uno, così il
migliore dei governi è quello in cui preponderano tutte quelle classi, nelle
quali per l'ordinario si ritrovano gli uomini migliori » . L'aristocrazia
nuova, di cui l'autore nostro discute a lungo, è, come ognuno bene intende, la
borghesia . Questa classe, che è la più numerosa , in quanto classe aperta a
tutti, in quanto esprime la forza di coloro, che si sono potuti sollevare dalle
masse, dal proletariato, dal l'artigianato, per darsi all'industria ed agli
studi, ha di nanzi a sè un vasto cammino da compiere, è destinata, ove non lo
sia già, ad essere la classe dirigente. Ritornando allo scritto sulla
rivoluzione francese e i suoi effetti, dal quale abbiamo preso le mosse, vi ri
troveremo sempre le stesse idee. « Il gran generale osserva il Cuoco « il
profondo ministro sono uomini rari. Chi s ' impone la legge di ricercarli tra
dieci, li troverà più difficilmente di colui il quale li ricerca tra mille, tra
tutto il popolo.... ») . Ma non bisogna abusare ; la rivoluzione francese aprì
la via alla canaglia. Ritorna il Cuoco antigiacobino, l'odia tore de ' princípi
esaltati, della democratizzazione uni versale . « Si obliò la profonda
osservazione di Aristotele, il quale avea detto che l ' ottimo de ' governi era
quello in cui predominavan gli ottimi, ma che questi ottimi non si dovean nè si
potevan ricercare individualmente, bensì doveansi ricercare per classe ; che vi
era in ogni Stato una classe di ottimi, e che questa era composta di co loro i
quali non fossero nè corrotti per eccessiva ric chezza né avviliti per
soverchia povertà . Quindi la pro prietà, nella nuova forma di governo, è
divenuta con ragione base delle costituzioni. Alla proprietà è ben af fidata la
custodia delle leggi : i proprietari, dice lo stesso 145 Aristotele, sono i più
atti a tal fine; e come no, se le leggi son tutte fatte per difendere i
proprietari ? Ove però non si tratta di custodire ma di agire, ove non basta la
volontà, ma vi bisogna la mente, è necessario sostituire alla semplice
proprietà l’educazione ; che val quanto dire mettere il merito personale nella
stessa linea della pro prietà . Quella parte di popolo, dice lo stesso
Aristotele, la quale non ha nè proprietà né educazione ; sarà su bordinata se
sarà contenta : è un gravissimo errore darle tutto e non darle nulla » . A me
sembra che il problema politico non potrebbe essere impostato dal Cuoco in
migliore maniera possibile. Che cosa sono le costituzioni, gli istituti , gli
ordinamenti, così come li studia la storia del diritto e il diritto stesso , se
non vuoti astratti ? Quel che a noi importa non è la forma in sè, che ci appare
morta senza un contenuto umano, ma il contenuto stesso . Le costituzioni in
realtà sono , e con esse tutta la struttura giuridica d’un popolo, in quanto in
esso popolo c'è una classe dominante, ri stretta o vasta importa poco, certo
qualitativamente mi-. gliore, che le determina, e non per via di pura ragione,
ma d'analisi concreta sulla realtà viva e pulsante delle masse, una classe
dirigente, che si fa interprete sicura della società che l'esprime. La storia
del diritto , io credo, anzi che studiare morte sovrastrutture, dovrebbe stu
diare come classi dirigenti, per natura condizioni coltura [ estensione diverse
secondo le varie epoche, possano de terminare tutto un complesso sistema
giuridico e costi tuzionale. In tal caso la storia del diritto, studio di
strutture vuote di realtà concrete, si risolverebbe nella politica, studio d’un
vero contenuto umano, pulsante d'attualità . Ma questo è un problema teoretico,
che nel caso nostro importa relativamente, e la di cui formulazio ne, a me
sembra, sorge spontanea dal pensiero cuochiano. Come ognun vede, la vita
moderna nella sua vasta for mazione non poteva essere tratteggiata in maniera
più vivace, più rispondente al vero, a ciò che poi sarà la realtà dello Stato
moderno, di quanto è nell'analisi del grande molisano. . 10 - F. BATTAGLIA ,
146 Una classe di migliori, che per la sua stessa composi zione e formazione è
atta a modificarsi e ad evolversi con la storia, tiene il reggimento dello
Stato. Lo Stato libe rale non è, come lo Stato assoluto e patrimoniale, sta
tico, anzi è il più atto ad ulteriori sviluppi. La base imprescindibile di esso
è la proprietà . La proprietà è la sua difesa, il suo presidio naturale. Chi ha
una sua pro prietà, mobile ed immobile, industriale o fondiaria, in tellettuale
o commerciale, tende per natura a conservarla e a migliorarla. Fate sì che uno
Stato si appoggi alla classe dei proprietari, questo Stato è al sicuro da ogni
attacco contro la sua compagine, poi che troverà sempre la sua difesa in
coloro, che, difendendo lo Stato, difendono i loro beni, i propri interessi .
Ove lo Stato transige sul l'inviolabilità della proprietà, tradendo le sue basi
e le sue origini, viene a mancare la classe de ' possidenti alla tutela della
cosa pubblica, e, se non interviene una pronta reazione a ristabilire
l'equilibrio, è il crollo, lo sfacelo. Abbiamo così uno Stato liberale, che,
pur tendendo alla sua conservazione in ogni manifestazione giuridica, si
afferma come dinamico e progressista, trovando però nella sua stessa
composizione un limite ad un progresso, che potrebbe divenire, se spinto troppo
oltre, anarchico e rivoluzionario . Questo concetto dello Stato borghese, che
solo nella proprietà può trovare una base salda, perchè non data
dall'estrinseca volontà legislativa, ma dagli umani in teressi per natura
conservativi, questo concetto politico della vita moderna non è nuovo, nè
sporadico in Vin cenzo Cuoco. Ne’ Frammenti è l'esempio di questa gran coerenza
del molisano, il di cui sistema politico non ha mai un'origine estranea alla
realtà umana, anzi tutto è organato ed ispirato a princípi superiori di logica
ed insieme ad una sicura visione storica . Dopo aver soste nuto che la
costituzione non può crearsi a tavolino, pre scindendo dalla vita, dopo aver
affermato che le costitu zioni debbono essere vive sensibili parlanti, e noi
abbiamo a lungo detto di ciò, il Cuoco viene ad analizzare il proble ma : come
si possa organizzare una divisione de' poteri. 147 « Dopo che avrete » scrive «
divisi i poteri, assodata la base della costituzione e fortificata la legge col
l'opinione e colle solennità esterne, per frenare la forza vi resta ancora a
dividere gli interessi . Fate che il po tere di uno non si possa estendere
senza offendere il potere di un altro ; non fate che tutti poteri si otten
ghino e si conservino nello stesso modo ; talune magi strature perpetue, talune
elezioni a sorte, talune pro mozioni fatte dalla legge, cosicchè un uomo, che
siasi ben condotto in una carica, sia sicuro di ottenerne una migliore senza
aver bisogno del favor di nessuno ; tutte queste varietà, lungi dal distruggere
la libertà, ne sono anzi il più fermo sostegno, perchè così tutti i possidenti,
e co loro che sperano, temono un rovescio di costituzione, che sarebbe
contrario ai loro interessi. Per questa ragione negli ultimi anni della
repubblica romana il senato ed i pa trizi furono sempre per la costituzione » (
1 ) . Se voi vi addentrate nel pensiero dello scrittore, ve drete però che
egli, pur disposto a dare alla proprietà la massima importanza tanto da fondare
su di essa il sistema politico moderno, non giunge mai a darle una origine
metafisica, e quindi a concepirla come un quid di eterno e di immutabile. Ed è
naturale : l'origine della proprietà non è in princípi generali filosofici, ma
in quel che nell ' uomo è senso , cioè bisogni mutevoli e transe unti. La
stessa natura dell'uomo, che vichianamente dà origine alle costituzioni, dà
origine alla proprietà, base degli odierni ordini civili . La natura, a cui
accenno, non è la natura intellettuale, ma quella natura primordiale e plebea,
tutta senso e fantasia, bisogni ed esteriorità . Quindi teoricamente non è
impossibile un sistema costi tuzionale, che prescinda dalla proprietà : resta a
vedere come questo sistema risolva il problema economico e pratico della vita,
che sempre bisogna aver di mira : lo che, evidentemente, non è facile ! Il
titolo della pro prietà ! ? È un po' arduo trovarlo nella metafisica.... ( 1 )
Framm. III. , p. 247 , 148 « Voler ricercare un titolo di proprietà nella
natura è lo stesso che voler distruggere la proprietà : la natura non riconosce
altro che il possesso, il quale non diventa pro prietà se non per consenso
degli uomini. Questo consenso è sempre il risultato delle circostanze e dei
bisogni nei quali il popolo si trova. Tutto ciò che la salute pubblica impe
riosamente non richiede, non può senza tirannia esser sottomesso a riforma,
perchè gli uomini, dopo i loro bi sogni, nulla hanno e nulla debbono aver di
più sacro che i costumi dei loro maggiori » ( 1 ) . È chiaro ! La pro prietà ha
un'origine schiettamente economica, e questa origine posa su un consenso
generale, ma storico, cioè null’affatto immutabile ed eterno . Una
giustificazione dell'istituto secondo i principi del diritto di natura ap pare
a Cuoco poco soddisfacente. Solo i bisogni e gli interessi lo consacrano e lo
legittimano : la ragione e la volontà giuridica spiegano, ma non esauriscono il
pro blema ( 2 ) Dato il concetto che Vincenzo Cuoco ha della borghesia, che per
lui non è una classe chiusa, capitalistica, oppres siva nel monopolio della
vita pubblica, è naturale che egli non parli mai o assai di rado del cosiddetto
proleta riato o quarto stato, il quale per altro non ha, ne ' tempi di cui ci
occupiamo, una sua fisionomia sociale ed eco nomica. Se il Cuoco vede un quarto
stato, lo vede, se mai, ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , XXV, p. 123 e sg . ( 2
) In tutta questa esaltazione della proprietà C., mi sembra, reagisce in parte
alla rivoluzione, che nelle sue esagerazioni ha cercato di scrollarla. Lo
stesso Russo, l'amico del nostro, non è tenero per i proprietari, e basa il suo
sistema su un ele mento comunistico . Io non faccio che rimandare il lettore,
che si interessa del problema, allo studio su V. Russo del CROCE ( La
rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. ). Lo stesso Edmund Burke in Inghilterra
reagà agli attacchidialcuni giacobini con tro la proprietà, e ne affermò il
gran compito sociale: è questo uno de tratti comuni tra l’A . delle Reflections
on the French Revolution e l'A . del Saggio storico sulla rivoluzione di
Napoli. Il problema, di cui sopra ci siamo occupati, fu studiato da M. ROMANO,
op . cit. , p. 152, il quale peraltro non si diffuse molto. 149
nell'artigianato, il quale è il germe di ciò che noi chia miamo proletariato,
ma da questo differisce sotto molte plici aspetti. L'artigiano è libero
lavoratore, il prole tario è il salariato della grande industria. La grande
industria è il prodotto di condizioni, che in Italia, al tempo in cui il nostro
medita, non si sono ancora svolte nella loro interezza. Le questioni attinenti
al quarto stato sfuggono perciò al Cuoco, ma non in tal misura che egli non vi
accenni brevemente in qualche articolo del Gior nale italiano ( 1 ) . Sarebbe
pur questo un tema interes santissimo ; senonchè, diffondendoci, noi usciremmo
dal nostro assunto : tracciare una linea generale e sommaria del pensiero
politico di Vincenzo Cuoco . Se con il pensiero noi andiamo agli scrittori
politici , che il secolo XIX offre al nostro studio, invano trove remo un
quadro così vivo della società post -rivoluzio naria , ed un intuito così
immediato dei problemi, che ne agitano la compagine. Basterà che noi riferiamo
ciò che il molisano dice intorno ai benefici effetti della rivo luzione, e che
sono i capisaldi di tutta la vita successiva, per intendere quanto lungimirante
fosse il suo senso po litico e quanto fine la sua visione economica. Un effetto
importante del sovvertimento è un progres sivo migliorarsi della morale
pubblica. Quanto grande posto il Cuoco faccia alla morale e alla religione
nella vita civile de ' popoli è un problema, sul quale dovremo indugiarci dopo.
Una seconda conseguenza è « la perfezione della mi lizia , poichè essa non è
perfetta se non dove il nome di soldato si alterna con quello di cittadino ; e
questo non può avvenire se non dove non siano nè esenzioni nè pri vilegi » .
Tutto il pensiero della rivoluzione si rivela nella sua intima radice
antimilitarista. Perchè ? Lo Stato as ( 1) Giorn . ital., 1804, 6 febbraio, n .
16, p . 64 , Economia po litica: a proposito di una cassa filantropica a
beneficio degli artigiani; Giorn. ital., 1804, 7 maggio, n. 55, pp. 210-220:
Pub blica beneficenza, a proposito della mendicità e dei problemi connessi. 150
solutista era da esso considerato come estrinseco alla volontà dei subietti
singoli, come tirannico e nemico : l'esercito nelle sue mani una forza passiva
ed antide mocratica . Lo Stato repubblicano, il vero Stato rivo luzionario,
alla sua volta, riposa invece su un consenso così largo, da ammettere, ed è un
estremo, il diritto alla sommossa, e il consenso così concepito non ha biso gno
della forza a suo sussidio ( 1 ) . Il Cuoco naturalmente non può condividere
questi princípi . Il suo Stato è stato di diritto, ma per natura tende alla
conservazione, e re spinge ogni attacco alla sua compagine anche violente
mente. Il contratto sociale, che è alla base della sua co stituzione, non è un
contratto storico, ma è immanente alla struttura dello Stato , cioè bisogna
riguardarlo come una esigenza ideale ed un presupposto della vita civile
stessa. Il Cuoco deriva il principio dal Rousseau, ma lo anima alla luce di
superiori meditazioni vichiane. Lo Stato sintetizza le volontà individuali o le
libertà indi viduali ( libero volere è libertà ) , ma, appunto perchè in ogni
momento della sua esistenza è tale, si afferma come autoritario, contro chi
rompe o cerca di rompere l'armonia delle volontà concomitanti al fine sovrano.
Il contratto sociale eterno, che è alla base della vita stessa, in quanto è
convergenza di volontà e di diritti particolari, dà allo Stato il diritto
generico della difesa e della conservazione. In ciò la filosofia giuridica del
Cuoco si differenzia dalla filosofia della rivoluzione e, pur mantenendo alcuni
punti di contatto con quella del Rousseau, si avvicina alla filo sofia di
alcuni pensatori germanici. Nell'uomo si realiz zano due qualità di sovrano e
di suddito, in quanto lo Stato è sintesi di volontà singole e insieme volontà
ge nerale, che non ammette peraltro sottrazioni, anzi ri chiede la più assoluta
sottomissione. In ogni atto giuri ( 1 ) Notiamo che persino la costituzione
inglese ha tolto al re e al potere esecutivo ogni possibilità di disporre della
forza armata . Il principio è stato superato durante la guerra, date le
condizioni eccezionali, ma resta sempre base degli ordini ci vili dell'isola .
151 dico dello Stato è implicita la volontà generale, la quale volontà generale
non permette che alcuno possa evitare la sua autorità. Ecco il principio della
forza, che integra il consenso ; ecco lo stato di diritto, che nelle sue mani
festazioni sovrane diviene militare. Gli stessi cittadini, che sono sudditi di
una volontà generale e sovrani, poi chè sono gli elementi costitutivi di essa ,
sono anche soldati, cioè forza diretta a tutelare il rispetto alla legge, la
cui genesi, ripeto, è nel popolo, pur trovando la sua manifestazione più piena
e sintetica nel monarca , sim bolo della continuità nella vita giuridica e
storica della nazione. Mentre tutta la filosofia della rivoluzione inglese, la
filosofia dell'illuminismo e del giacobinismo sono anti militaristiche - e le
costituzioni, da esse scaturite, sot traggono al potere esecutivo ogni forza
armata — ; il pensiero politico del Cuoco, più addentro nelle concrete esigenze
della vita, è in senso altamente nobile milita ristico . La milizia , sotto i
Romani dovere e diritto, anzi più diritto che dovere, del cittadino, diviene
nel mondo feudale mestiere e prestazione con alla base un ob bligo
contrattuale, ritorna nel mondo moderno diritto del cittadino, che dà allo
Stato la forza morale del con senso, e la forza materiale delle armi, senza le
quali il consenso è mera parola e lo Stato s'espone indifeso agli attacchi di
pochi faziosi. Di ciò noi troviamo la con ferma in tutti gli scritti cuochiani,
dal Saggio storico al Platone in Italia. Dice assai bene il Romano : « L'anti
militarismo, così notevole nella letteratura meditativa del secolo XVIII,
permane nel Cuoco solo in quanto si ri ferisce alla bruta forza messa a
sostegno della tirannide. Con questa sarà militare il governo ma non il popolo
; e d'altra parte un popolo senza virtù militari passerà per vicende politiche
più frequenti e più crudeli » ( 1 ) . Con un governo costituzionale, lo Stato
sarà forte, ma il po polo, essendo esso stesso che dà l'elemento materiale per
( 1 ) M. ROMANO, op. cit. , p. 88. 152 l'esercizio della sovranità, avrà tanto
coraggio da non sopportare alcuna inconsigliata modificazione dei suoi di ritti
. Quest'alto sentimento dell'importanza civile della milizia meglio vedremo,
allorquando il Cuoco, apostolo dell'unità italiana e della resurrezione morale
del popolo nostro, rincorerà i suoi concittadini a ritornare agli an tichi sani
esercizi bellici . E passiamo ad altro . « Il terzo vantaggio » continua il
nostro autore « e mas simo, sarà quello di abolire l'antico pregiudizio che con
dannava all'ignominia l'utile industria, e specialmente l'agricoltura. Divenuta
una volta la proprietà la massima tra le distinzioni civili , questo farà sì
che il primo sen timento sociale sarà il desiderio di accrescerla, e quindi
un'attività maggiore nell'industria. Un mezzo secolo fa, l'abate Coyer destò
gran rumore in Europa pel suo opu scolo Sulla nobiltà commerciante. Egli però
non faceva che predicar l'imitazione dell'Inghilterra, ma non tentò mai
d'esaminar la cagione per la quale in Inghilterra era comune ciò che si
reputava paradosso in Francia . L'industria inglese era figlia delle
rivoluzioni che quella nazione avea sofferte più frequenti e più feroci delle
altre. È un'osservazione costante che , quando le rivoluzioni finiscono in
bene, l'agricoltura fa nuovi e rapidissimi progressi. Questo fenomeno,
osservato negli altri secoli, si è ripetuto anche nel nostro entro la Francia .
L'in dustria , e specialmente agricola , fa grandi progressi, ed i progressi
dell'industria non possono esser mai divisi da quelli della pubblica morale.
Esser buon cittadino non è altro che esser cittadino utile, e cittadino utile,
diceva Catone, vuol dire buon agricoltore >> Il nuovo Stato, appunto
perchè Stato di consenso, lascia la massima libertà individuale ; afferma la
volontà generale in tutto ciò che pertiene all'esercizio della so vranità , ma
lascia intatta la volontà particolare in ogni sua estrinsecazione, ove essa , s
' intende, si muova in una sfera determinata. Ogni attività , che non coinvolga
l'essenza sovrana dello Stato, è lasciata alla volontà dei singoli subietti :
il commercio, l'industria , la navi gazione, l'agricoltura , l'istruzione, con
riserve debite, 153 sono lasciate alla libera autonomia dei cittadini. Appa
riscono qui i princípi del liberismo economico, che ap pare già ne' primordi
dell'economia politica, nei Fisio crati, nella scuola liberale inglese e
francese, e giù di là ne' nostri maggiori scrittori, per essere l'anima d'ogni
ulteriore sviluppo della scienza. Secondo me, entro certi limiti , non si può
dubitare di un liberismo vero e pro prio nel Cuoco. Lo Stato assoluto, basato
sul principio patrimoniale regio, non potea di fatto non essere Stato
monopolistico , come quello che mirava ad un utile particolare e non
collettivo, di classe e non generale. L'equilibrio econo mico è la risultante
di libere forze individuali, è ciò che nasce dall'esplicazione di queste
attività. Ciò che è , è quanto di meglio si possa concepire . Questi princípi
liberali , che noi troviamo sviluppati in Adamo Smith, in Ricardo , in Giovan
Battista Say, ecc. non sono in antitesi notiamo ai principi della filosofia
cuochiana, per meata di vichismo. Le nazioni, dice il Cuoco col Vico , le
società umane, i popoli sono governati da leggi naturali eterne, che hanno un
proprio sviluppo, un proprio spie gamento, dietro un impulso originario ab
antiquo . Gli uomini non possono mutare queste leggi , perchè ciò che è dato
dalla natura stessa meglio soddisfa le esigenze umane, quindi rappresenta ciò
che, date le condizioni sociali e civili , di migliore si possa imaginare. È l'ordine
delle cose che determina l'ordine costituzionale, e non la nuda filosofia : è
l'ordine delle cose che determina l'or dine economico, e non l'astratta
economia . Di ciò ab biamo una prova diretta nel Cuoco. Esiste, secondo il
nostro, una vera scienza economica, ma, appunto perchè questa scienza ha una
base non dommatica ed apriori stica , ma di fatto e storica, i princípi che la
governano sono pochi, di loro natura « tanto semplici e pochi» che «
scompagnati dall'esperienza » divengono « incerti e fa cili ad esser corrotti »
( 1 ). I princípi dell'economia sono ( 1 ) V. Cuoco , Scritti vari, v . II , p.
89. 154 pochi, perché sono i princípi stessi della natura . La na tura
determina l'ordine e lo sviluppo delle cose umane, in tutte le loro conseguenze.
Lasciamo operare la natura, e questa condurrà a sviluppi, che sono quanto di
meglio si possa immaginare ed operare per predeterminazione umana, ammesso cioè
che gli uomini, lasciato da parte ogni intendimento utilitario individuale,
mirino apriori sticamente ad un fine utilitario generale. La disarmonia di
contrastanti interessi porta all'armonia dell'utilità col lettiva, ad un utile
generale, lo stesso che si avrebbe, qua lora gli uomini abbandonassero, ed è
mera astrazione, l'egoismo economico nativo , che li porta alla ricerca della
soddisfazione maggiore de' propri bisogni anche a sca pito altrui. Lo Stato
cuochiano quindi è Stato liberista : il prin cipio però notiamo è tutt'altro
che chiaro, e lo stesso no stro autore lo intorbida e spesso lo rinnega. Il
legislatore interviene a limitare l'attività economica individuale, solo in
quanto quell'attività lasciata a sè stessa, in de terminate circostanze sociali
anomali, possa risolversi in un danno collettivo, o in quanto quest'attività
indivi duale, nel rimuovere gli ostacoli che le si oppongano, agisca fuori dal
lecito giuridico. Il Cuoco è troppo for temente concreto per potere formulare
princípi astratti e crederli validi per un'universalità di fatti. I princípi
economici, ha detto sono pochi, perchè poche sono le leggi eterne della natura
; i casi concreti invece sono molti moltissimi: quindi il principio economico
trova nella realtà mille limitazioni, e solo un'analisi caso per caso può ri
solvere un problema positivo che ci si presenti. Liberismo o protezionismo ?
Questione fino ad un certo punto astratta. La vita nelle sue manifestazioni
reali può ren dere necessario il protezionismo, e lo può presentare, vi sono
pur de' casi, come un male minore di quello, che si avrebbe lasciando sfogare
le libere forze economiche. « Niente si cura produrre chi non è sicuro di
vendere. Or, perchè gli abitanti di uno Stato possan vendere molto e con
vantaggio , è necessaria una certa potenza politica nello Stato . È necessaria,
perchè possa ottenere 155 dalle altre nazioni que patti equi, i quali non si
otten gono se non quando taluno creda che noi possiamo ot tenerli anche contro
sua voglia. I popoli, dice Melun, e noi diremo i governi, non si regalano
nulla. Se non siete forte, sarete sopraffatto. Non solamente non otter rete
condizioni giuste, ma sarete costretto a soffrirne delle ingiustissime » ( 1 )
. Come mai il Cuoco, di cui abbiamo veduto il pensiero nella sua sostanza
liberista, sembra tradire così i suoi princípi ? In realtà, la concretezza del
suo pensiero non può permettergli apriorismi nè costituzionali, nè econo miei,
ond’ei bene intende quanto necessario sia il prote zionismo in certe
contingenze politiche. Non dimenti chiamo, poi, che non si può parlare di
liberismo asso luto in un'età, in cui ferve continua la lotta tra la Francia e
le coalizioni europee, fra la Francia e l'Inghilterra do minatrice de’mari, in
un'età in cui ogni mezzo politico diviene spietato per vincere economicamente,
e le armi del contrasto non sono più la libera concorrenza tra im prese nel
campo internazionale, ma il sequestro marit timo, il boicottaggio, il blocco.
La realtà dell'èra napo leonica, tragica nel conflitto tra il genio e le forze
avverse, impone all' impero il protezionismo. Il Cuoco lo crede ne cessario per
evitare danni maggiori, senza però condurre questa tattica positiva a princípi
generali e valevoli in eterno ( 2 ) . Ma dove il pensiero cuochiano attinge una
verità eco nomica di prim'ordine è in un principio, al quale il no stro accenna
ne' Frammenti di lettere a Vincenzio Russo, ( 1 ) Giorn. ital., a. 1806 ; 5, 6
, 7, 8 gennaio ; n . 5 , 6, 7 , 8 ; pp. 19-20, pp. 23-24, pp. 27-28, pp. 31-32;
Politica : ( ristampato in M. ROMANO, op. cit ., in Appendice; ed ora negli
Scritti vari, v . I, pp. 201-213 col titolo La politica inglese e l'Italia ). (
2 ) Mi sembra che anche il ROMANO, op. cit., p . 155, creda così. Dopo aver
riportato in nota il brano da me sovra ci . tato aggiunge: « Anche qui è palese
che il protezionismo del Cuoco non moveva da teoriche astratte, sibbene
dall'esame delle condizioni storiche del suo tempo. E che avesse ragione allora
.... non è chi non veda », 156 principio, al quale egli stesso non dà alcuna
elaborazione, ma in cui è il germe di dottrine, che nella stessa nostra Italia
hanno avuto così bello sviluppo. « Una nazione si dirà virtuosa, quando il suo
costume sia tale che non renda infelice il cittadino ; e se tutte le nazioni
potessero essere sagge a segno che, invece di farsi la guerra e di distruggersi
a vicenda, si aiutassero , si giovassero, questa sarebbe la virtù del genere
umano. Il fine della virtù è la felicità , e la felicità è la soddisfazione dei
bisogni, ossia l'equilibrio tra i desidèri e le forze. Ma, siccome queste due
quantità sono sempre variabili, così si può andare alla felicità, cioè si può
ottener l'equilibrio o scemando i desideri o accrescendo le forze. Un uomo, il
quale abbia ciò che desidera, non sarà mai ingiusto ; perchè naturale e
quasichè fisico è in noi quel senti mento di pietà , che ci fa risentire i mali
altrui al pari dei nostri, e questo solo sentimento basta a frenare la nostra
ingiustizia, sempre che la crediamo inutile. L'uomo selvaggio non cura il suo
simile, perchè non gli serve : egli solo basta a soddisfare i suoi bisogni, che
son pochi. Debbono crescere i suoi bisogni, perchè si avvegga che un altro uomo
gli possa esser utile, ed allora diventa umano. Per un momento nel corso
politico delle nazioni le forze dell'uomo saranno superiori ai bisogni suoi ;
allora que st'uomo sarà anche generoso . Ma questo periodo non dura che poco :
i bisogni tornan di nuovo a superar forze; l'uomo crede un altro uomo non solo
utile, ma anche necessario : ed allora non si contenta più di averlo per amico,
ma vuole averlo anche per schiavo » ( 1 ) . Per il Cuoco la felicità è ciò che
con linguaggio più pro prio possiamo dire soddisfazione de' bisogni,
possibilità di sfruttare le qualità fisico - chimiche de ' beni, dati de
terminati bisogni individuali. L'uomo è felice, cioè sod disfa interamente i
suoi bisogni, realizza uno stato di ap ( 1 ) Framm . VI, p. 262. Errerebbe
colui che nel brano citato volesse vedere un abbozzo di morale utilitaria : il
problema mo rale ben altrimenti è impostato da V. Cuoco . 157 pagamento, trova
un punto d'equilibrio, quando non v'è contrasto tra desideri e forze. La
visione però è moderna in ciò che segue. I bisogni , aggiunge lo scrittore, non
sono da comprimersi, tut t'altro, anzi è d'uopo dargli il modo d’esplicarsi. «
Invano tu colla tua eloquenza fulminerai il nostro lusso, i no stri capricci ,
l'amor che abbiamo per le ricchezze: noi ti ammireremo, e ti lasceremo solo » .
L'economia privata e pubblica dà l'esempio continuo di nuovi bisogni che
sorgono, che non trovano soddisfazione che parzialmente, e poi per le mutate
condizioni delle produzioni vengono soddisfatti sempre meglio . Il progresso
civile è una ca tena ininterrotta di bisogni nuovi e di soddisfazioni ade guate
che si sviluppano. Che vale gridare catoniana mente contro le troppo molteplici
esigenze della vita moderna ? Quel che è non si discute . Passarvi sopra sa
rebbe un condannarsi ad una eterna infelicità . L'equi librio tra i desideri e
le forze non può mantenersi che per breve tempo, perchè tosto che si realizza,
intervengono nuovi bisogni impreveduti per romperlo. Nella realtà, anzi, è
impossibile concepire un vero e proprio equili brio : quel che più ci dà l'idea
di questo mondo eco nomico è una serie di equilibri tra desidèri nuovi e forze
preesistenti, tra bisogni nuovi , che dan luogo a nuove domande di beni atti a
soddisfarli e lo stato della produ zione, che s'adatta all'oscillazioni delle
domande. Qual'è il comportamento naturale dello Stato in tali contin genze ? «
La cura del governo deve esser quella di distrug gere le professioni che nulla
producono, e quelle ancora le quali consumano più di ciò che producono ; e
verrà a capo, se stabilirà tale ordine, che per mezzo di esse non si possa mai
sperare tanto di ricchezza quanto colle arti utili se ne ottiene » . Il Cuoco
continua in una esaltazione del lavoro agricolo ed industriale, e in una
deplorazione degli impieghi, che chiama pericolosi per chè fomentano le
ambizioni. Con ciò noi usciamo dalla pura indagine economica . L'autore lascia
intravedere la possibilità d'un intervento statale in un campo che noi ne 158
vorremmo libero. Ma nel molisano, purtroppo, i concetti economici non sono
chiari : il Cuoco indulge troppo spesso a forme d'economia statale, che portano
ad un interven tismo e ad un protezionismo fuor di luogo, che, se sono a volte
spiegabili come espressioni di circostanze ano male, non hanno mai ragioni
scientifiche tali da imporli per una pratica economica generale ( 1 ) . ( 1 )
Bisogna pur riconoscere che elementi estrinseci interven gono a turbare la mera
analisi economica, onde il Cuoco so stiene forme d'economia statale e
d'intervento per altre ragioni, nobili e spiegabilissime. Dopo gli studi del
RUGGIERI ( op . cit., p. 39) e del Cogo sopra tutto ( op. cit. , pp. 13-23, pp.
59-66) non v'è alcun dubbio che l'opera statistica Operazioni sul di partimento
dell'Agogna anzichè al cittadino Lizzoli Luigi come appare estrinsecamente dal
frontespizio dell'opera ( Dalla tip. Nobile e Tosi, 8. d. ) , debba attribuirsi
al Cuoco, che la scrisse per incarico dell'amico tutta di suo pugno , sia pure
consigliato dal Lizzoli. Orbene in detta opera (cap. XII, Istruzione pubblica,
p. 107) il Cuoco tratta dell'importanza delle scuole di disegno e de' vantaggi
che da questa specie d'educazione si ritraggono. « Saremo sempre » scrive poi «
i servi degli esteri fin che crede remo che essi sieno i nostri maestri: chi ha
perduto la stima di sè stesso , ha già perduto tre quarti della sua
indipendenza. Or questa stima di noi stessi non si perde tanto ammirando i genî
che ha prodotto, e le grandi azioni che ha fatte una na zione estera, quanto
ammirando di soverchio alcune cose che sono per loro natura indifferenti , e
che forse anche sarebbero migliori tra noi , se come nostre non fossero
disprezzate. Pochi sono sempre presso qualunque nazione coloro che intendono e
pregiano le prime, e questi pochi per lo più hanno uno sviluppo tale di ragione
che impedisce l'abuso dell'ammirazione. Ma mol. tissimi sono quelli che
ammirano le chincaglierie, i ventagli, le fibbie , i mobili, le stoffe , e che
aspettano da Lione , o da Londra il figurino della moda. Tra cento uomini
convien trovare cin . quanta donne, e quarantotto altri esseri inferiori alle
donne, i quali ragionano così: in Inghilterra le fibbie, i mobili , le scarpe
sono migliori delle nostre : dunque gl' Inglesi sono migliori di noi. Allora
tutto è perduto. Le nazioni estere attaccano sempre la parte più numerosa e più
debole di un'altra nazione, e l'at taccano per le vie del comodo e del bello ;
e quindiè che un go verno savio deve procurar sempre di dare alla nazione propria
gran facilità di mezzi, onde poter vincere in questa concorrenza, e questa cura
deve formar la parte principale della pubblica istru zione » . 159 Abbiamo
studiato come il Cuoco concepisca lo Stato , Stato di diritto basato sul
consenso e realizzante la sua sovranità nella maggior pienezza, Stato militare
e forte; abbiamo anche studiato come questo suo Stato sia in fine lo Stato che
egli vede sorgere per opera di Bonaparte. Il Cuoco a me appare come il
teorizzatore di quel tipo di Stato, che alla storia è passato col nome di
napoleonico . Abbiamo già dato in parte la giustificazione di ciò che i
legittimisti ben poteano chiamare usurpazione, ma che per il nostro è lo
sviluppo logico delle cose, è la fine di tutto un processo storico : occorre
però ritornare sul l'argomento per una più vasta documentazione. La storia non
s'interrompe. Il primo console diviene presto imperatore di Francia e poi re
d'Italia (1 ) . Tutto il movimento spirituale che porta dalla repubblica ita
liana al regno italico , trova la sua spiegazione negli scritti cuochiani. Sul
Giornale italiano il molisano manda fuori le sue Considerazioni sopra il senato
- consulto ( 2 ) , scritto denso di pensiero politico, ove la monarchia
napoleonica trova un'adeguata giustificazione nella natura stessa delle cose,
nel corso della storia, che tra due estremismi, la tirannia e l'anarchia ,
trova il suo equilibrio nella costi tuzionalità . I contemporanei non possono
intendere Napoleone : la sua figura complessa sfugge ad essi , perchè la
conside rano isolatamente, avulsa dal moto storico, in cui opera e dal quale è
determinata , moto storico, che solo la po sterità potrà intendere. Avevamo una
repubblica. Come va che dal direttorio , dal consolato decennale, dal conso
lato a vita, dalla presidenza si passa all'impero e al regno ? « Noi diciamo,
pieni di stupore : – Come mai ha potuto avvenir questo ? — E coloro che ci han
preceduto, molto tempo prima che avvenisse, lo avean predetto ( 1 ) M. Rosi, op
. cit. , p. 230 e sgg. ( 2 ) Giorn . ital., 1804, 30 maggio, 2 giugno ; n. 65,
66 ; pp. 260, 264 : Considerazioni sovra il senato - consulto ( ristampato dal
Ro MANO , op. cit., in Appendice ; ed ora in Scritti vari, v. I , pp. 103-108,
col titolo Napoleone imperatore) . 160 inevitabile » . L'impero è sorto, perchè
tutte le idee por tavano all'impero. L'analisi di tutti i precedenti storici ,
senza i quali ogni evento ci appare estrinseco, è fatta dal nostro con una
lucidità mirabile . La rivoluzione francese, prima di scatenarsi sulle piazze e
sui patiboli col terrore, aveva tentato un esperimento costituzionale. Una
monarchia moderata sarebbe stata quanto di meglio potea avere in quel momento
la Francia . « La rivoluzione scoppiò, perchè era inevitabile. Tutte le idee
degli uomini non ebbero allora altro scopo che quello di formare una monarchia
costituzionale ; ma si errò nel circoscrivere il limite del potere esecutivo, e
se ne creò uno troppo debole e troppo poco rispettato » . Si inde bolì
costituzionalmente il potere centrale, togliendo così ogni difesa agli stessi
ordini civili, aprendo la via alla licenza trionfante . Gli errori in questo
campo furono in numerevoli. Il potere legislativo esercitò un predominio
eccessivo, inframettenze internazionali, in campi che pra ticamente, se pur non
logicamente, spettano all'autorità amministrativa. La forza ' armata fu divisa
, parte al re , parte al popolo : la monarchia fu esautorata, ma il paese resto
senza presidio alcuno . Il potere esecutivo perse ogni autorità sul
legislativo, e si giunse all'assurdo di togliergli parte sia diretta sia
indiretta, sia d'iniziativa sia di veto, nella decretazione e nella sanzione
delle leggi. Si separò ancora interamente il potere esecutivo dal giu diziario,
e al re fu vietato l'ultimo residuo d'autorità : il diritto di grazia e
d'amnistia, che pur tanto serve a sanare situazioni in via strettamente
giudiziaria irre solubili. « Che ne avvenne ? La monarchia costituzionale,
simile ad un colosso di arena, si sgretolò e cadde » . S'immaginò poi la
costituzione del 1793. Un altro ec cesso . Per non cedere la Francia il potere
esecutivo ad un organo specifico, esso fu assunto dalla stessa conven zione
nazionale . « L'epoca, in cui noi ebbimo distrutto ogni potere esecutivo, si
può chiamar l'epoca in cui al governo si sostituì la guillottina » . « Eravamo
giunti all'estremo. Era necessità retroce dere . Si comprese l’errore della
riunione de' poteri e, 161 colla costituzione del 1795, furon di nuovo
separati. Si comprese che la forza fisica di uno Stato dovea esser una sola , e
che questa dovea dipendere dal governo . Le at tribuzioni della guardia
nazionale furono limitate ; il co mando della forza armata, il pieno comando,
fu dato al Direttorio, a cui furon dati attributi più ampi che al re » . Come
ognun vede il processo della storia è sempre lo stesso : un estremo porta
all'altro estremo, ma nel l'urto e nell'antitesi si sviluppa spontaneo un
supera mento, che rappresenta il nuovo e logico equilibrio . La costituzione
del '95 avea molti difetti che dovevano in breve distruggerla : la lentezza e
la mancanza del se greto in azioni, che esigono rapidità ed unità di comando ;
l'incertezza del sistema nel troppo rapido cambiamento del Direttorio ;
l'ambizione de' membri che componevano il Direttorio stesso. Gli effetti del
sistema : vittorie inu tili, vertiginose disfatte, discredito all'interno e
all'estero . La storia continua il suo processo, alla ricerca d'un punto
d'equilibrio stabile. La costituzione del 18 bru male fu un rimedio solo in
parte . Comincia l'ascesa di Napoleone, ascesa che ora ci appare naturale,
inquadrata come è nella continuità d'un processo che si svolge con una
particolare logica. Invece che a cinque membri, il potere esecutivo fu affidato
ad uno solo, togliendo ogni lentezza alla vita statale ; il potere fu prolungato
per dieci anni, evitando la troppo frequente rotazione di governi ; s'evitò
ogni ingerenza legislativa nella sfera na turale d'azione del potere
amministrativo restituito così alla sua sovranità . Una volta preso questo
cammino, le idee andarono fino alla fine : per rendere l'ambizione privata meno
nociva, si ebbe il consolato a vita e si diede al console il diritto di
nominare il successore . L'ascesa di Napoleone appare così pienamente spiegata
nella storia . V'è perfetta reciprocanza : gli uomini deter minano la storia ed
operano per la storia ; sono liberi perchè sono i fattori della storia, sono
schiavi perchè soggiacciono alla loro opera. « Ciò che è avvenuto
posteriormente non è che il com pimento di tali istituzioni . L'eredità rende
il potere più 11 - F. BATTAGLIA, 162 sicuro, ed in conseguenza ne rende
l'esercizio più dolce; la responsabilità de' ministri corregge ogni abuso che
dal l'eredità potrebbe avvenire. Coll'eredità e colla responsa bilità si
riuniscono due cose che paiono di loro natura inconciliabili : la libertà e
l'impero » . Quand' io ho analizzata la critica rivoluzionaria nel pensiero
cuochiano, ho avvertito come da questa critica nasca tutto un sistema politico,
di cui la storia è la con sacrazione e la legittimazione. Eccoci giunti al
punto, in cui ciò che il Cuoco ha preveduto trova la sua realtà e la sua
riprova materiale . La storia ha un processo dialet tico eterno, le cui grandi
linee approssimativamente si possono cogliere, pur quando l' ineffabilità de'
partico lari ci sfugge. Il Cuoco ha osservato le idee, che sono eterne e non
fallano ; ha trascurato gli uomini, che brillano un istante ed ingannano, se li
si astrae dal corso ideale delle cose : le sue deduzioni fondate sulla natura
umana non sono fallite, ed hanno avuto la più piena sicura conferma. Com'ognun
vede, siamo giunti a Napoleone attraverso uno spiegarsi logico delle cose.
Bonaparte è la risultante di tutta una convergenza d'elementi, che allo storico
e al politico acuto non isfuggono, e de ' quali noi abbiamo descritto la natura
. Bonaparte è il creatore di quel tipo di Stato, che, pur lasciando il più
vasto campo alle atti vità individuali, esercita unitariamente il suo compito
sovrano, e, pur riposando consensualmente su un con tratto sociale, in ogni
istante vero nella convergenza delle volontà subiettive, sa trovare la sua
difesa in una forza attiva che non falla . Un'esperienza rovinosa di frammen
tarismo e di debolezza porta all'impero ( 1 ) . Si è avuta troppo lunga pratica
d'anarchismo costituzionale , d'insuf ficienza esecutiva, perchè si possa
continuare sulla stessa strada. I popoli non possono prosperare, quando gli or
dini civili non rispondono alla vita stessa. La vita è vo lontà unitaria ; lo
Stato è sovranità, cioè estrinsecazione di quella volontà suprema, che è alla
base d'ogni atti ( 1 ) V. FIORINI ( F. LEMMI, op . cit ., p. 619. 163 vità
umana coordinata in società. Ogni menomazione del principio porta all'anarchia
. Le costituzioni debbono ri spondere a quelle esigenze eterne ed immutabili,
senza le quali gli organismi sociali deperiscono e muoiono. Curioso e tipico è
osservare come ugualmente nella storia il Cuoco trovi la legittimazione di
altre figure in signi di capitani e di uomini eletti, il duca Valentino,
Cromwell. Mi si permetta la parentesi, anche perchè si tratta di considerazioni
che illuminano direttamente il nostro argomento. In uno scritto ( 1 ) il
molisano immagina che un suo amico possegga un manoscritto antico, descrivente
un viaggio per l'Italia nel secolo di Leone X, secolo aureo e grande nella sua
pura italianità : dall'opera egli desume un collo quio tra l'anonimo autore e
il Machiavelli. Non istard qui a riferire il dialogo, che si svolge animato e
profondo di politica, tra i due, nel quale Vincenzo tenta una giusti ficazione
di quell'atteggiamento del grande fiorentino, che i secoli hanno battezzato con
l'epiteto di machiavel lismo . L'Anonimo' nota al Machiavelli che il mondo lo
accusa d'avere insegnato massime di tirannia ai Medici e di avere presi per
suoi modelli uomini scellerati, Ca struccio e il Valentino . Alla prima
obiezione il Machia velli risponde che egli tanto poco è stato fautore dei
signori della sua città, che questi al contrario lo han per seguitato come
troppo caldo fautore della libertà della patria ; alla seconda obiezione oppone
un ragionamento assai acuto, sul quale merita fermarvisici un po ' . « Ascolta.
Per Castruccio ti dirò che, scrivendo la sua Vita, non ebbi altro pensiero che
quello di ridestar gli animi degl'italiani, inviliti tra l’ozio e la cura de'
cani, della caccia, delle donne e dei buffoni, all'amor delle cose militari,
mostrando loro coll' esempio di un uomo illu stre che per questa sola via si
può ascendere alla gloria e all'impero .... ». ( 1 ) Giorn. ital., 1804, 21,
23, 25 gennaio ; n . 9 , 10, 11; pp. 35-36 , pp. 39-40, pp. 43-44 : Varietà (
ristampato in Scritti vari, v . I , pp . 42-52 sotto il titolo Due frammenti
d'una storia della poli tica italiana ). 164 « Ma pel duca Valentino ? ... » «
Perchè quelli che egli oppresse e distrusse eran più scellerati di lui .... Tra
tanti scellerati io preferiva quello che almeno dirigeva le sue scelleraggini
ad un fine più nobile e tendeva a riunir l'Italia, che gli altri, con iscel
leraggini più vili, dividevano e desolavano. L'Italia non avea altro più da
sperare : niuna virtù ne' popoli, niun ordine di milizia . Quei tanti
tirannotti, che la laceravano, si facevan ogni giorno la guerra ; ma questa
guerra non decideva mai nulla. Nel massimo de' mali, era un sol lievo
diminuirne il numero. Valentino sarebbe rimasto solo. Più grande, sarebbe stato
più umano ed avrebbe accomodati i suoi pensieri all'ampiezza del nuovo impero.
Senza rivali, sarebbe stato anche senza sospetti e senza crudeltà. L'Italia
avrebbe cominciato a goder la pace, e dopo due età avrebbe incominciato ad
avere anche la virtù.... » . Il pensiero del Cuoco è chiaro . La
giustificazione del Duca è nei suoi stessi fini. Il secolo di Leone voleva
questi mezzi, e da essi non si poteva prescindere: un uomo, che aveva per
iscopo di realizzare la sua personalità, non po teva non agire in quella
maniera. Oggi la storia è cam biata . Napoleone non è il Valentino ; Napoleone
è un ambizioso, il nostro autore non lo disconosce, ma un ambizioso, che unisce
la gloria alla virtù . Coloro che lo han preceduto sono inetti metafisici,
incapaci di portare la nazione ad un fine grande. Qual è la ragione etica e
storica, che possa impedire al genio di farsi strada e di trovare nella sua
stessa personalità la sanzione del l'impero ? Nessuna. Tutte le cose invece
additano Na. poleone come il restauratore degli ordini civili sconvolti, come
colui, che può dare allo Stato un potente indirizzo unitario ( 1 ) ( 1) È
curioso ed interessante come l'anglofobo Cuoco spieghi e legittimi il Cromwell.
In un articolo del Giorn. ital., 1804, 5 marzo , n . 28 , pp. 111-12 :
Considerazioni sul libro in . glese « Uccidere non è assassinare » e sul
diritto delle genti ( ri stampato in Scritti vari, v . I , pp . 81-85 col
titolo L'assassinio politico e le violazioni del diritto delle genti) scrive, a
proposito 165 Napoleone ha inoltre un titolo maggiore al trono, un titolo più
nobile, il quale sta maggiormente al cuore di Cuoco : egli ha dato all'Italia
quell'unità , e in parte quel l'indipendenza, che è stata il sogno di tanti
pensatori e di tanti martiri della Partenopea. Vedremo, in seguito , quando
verremo a parlare della pedagogia e dell'ita lianismo del nostro, come il
problema unitario italiano sia anzi tutto un problema spirituale, cioè
educativo, e poi un problema politico . Limitiamoci ora a vedere la cosa
piuttosto dal di fuori, per poi penetrarla meglio nel suo intimo. Bene o male
s'è costituito nell'Italia settentrionale uno Stato unitario . Quel che al
Cuoco interessa è che, nella nostra patria, si cominci a vivere italianamente,
a pen sare nazionalisticamente. Altri dirà: il nuovo organismo è accodato al
carro di Napoleone ! Che importa ciò , se quest'uomo grande ha di mira il bene
comune dell'Italia , sua patria d'origine, e della Francia, sua patria di ele
zione . Il nuovo regno non ha con l'Impero' se non quel vincolo di solidarietà
reciproca, che lega il benefi cato al benefattore : Napoleone è il pegno tra i
due po poli, comune sovrano di due nazioni sorelle. Come mai il Cuoco così
irrimediabilmente antifrancese ora è così strettamente francofilo, incline ad
intendere i benefici dell'alleanza e dell'amicizia franco- italiana, fino a
ringraziare Iddio, che ha voluto porre Italia e Francia sotto il comune scettro
d’un uomo solo ? La risposta è implicita in tutto il pensiero politico del no
stró scrittore. di un'operetta del colonnello SEXBY, Killing is no murder e
dell'attentato contro Napoleone del febbraio 1804 queste con siderazioni sulla
posizione storica del lord protettore Cromwell: Dopo le crudeli stolidezze
degli evangelici, de'puritani, de' livellisti e di tutto quell'infinito numero
di sette religiose e politiche, che si agitavano allora in Inghilterra come
igra nelli di sabbia quando spira il vento di mezzogiorno ne' deserti
dell'Arabia, ... era inevitabile che sorgesse finalmente un uomo atto a
ricomporre in un qualche modo le cose. Ciò che è ine. vitabile è sempre il
minor male » , 166 La Francia, che il Cuoco non ama, è la Francia repub
blicana, sinonimo d'astrattismo e di debolezza, che am mannisce ai popoli
parole vacue di libertà di fratellanza d'uguaglianza, e intanto depreda musei
archivi bibliote che, saccheggia case private, taglieggia le stesse città che
dice d'aver liberato. La Francia rivoluzionaria , che egli descrive con così
foschi colori, non può dare a noi l'indi pendenza e l'unità. La Francia, che
invece esalta, è la Francia che ha superato la rivoluzione, ha ricostituito gli
ordini pubblici sconvolti, ha trovato in Bonaparte, la sintesi superba della
sua rinascita . L’unità che il molisano osserva realizzata nel nuovo Stato è,
però, un'unità più politica che spirituale, più estrinseca che intima. Bisogna
dunque operare ancora per rendere le fondamenta del nuovo regno salde ed
eterne, bisogna formare quel che manca : la coscienza dell'italianità, la
volontà unitaria , un nazionalismo. A ciò mirano gli sforzi del Cuoco, pedagogo
dell'Italia, « il pedagogista del primo risveglio della coscienza nazio nale »
( 1 ) . Abbiamo il Regno italico libero indipendente, punto di partenza per
estendere a tutta la penisola i benefici d’un nuovo ordinamento. È il gran
sogno di Vincenzo Cuoco, che s'esalta, egli , temperamento posi tivo, ovunque
veda un barlume d'unità italiana, lo stesso sogno che lo farà fervido
murattista ne' suoi ultimi anni, sembrandogli d'intravvedere in Gioacchino il
desìo am bizioso d’un più vasto dominio. Certo l'autore del Saggio storico
avrebbe voluto che il nuovo organismo nazionale sorgesse più naturalmente, per
virtù d'italiani, per il formarsi e il maturarsi d'uno spirito civile nostrano,
per un processo politico naturale, senza quell'intervento napoleonico, che pur
serba sempre il suo peccato d'origine: la sua esteriorità . Ma, tutto è fatale
necessario nella storia. « Quella ragione, per la quale gl'italiani, reggendosi
a repubblica, non potrebbero for mar mai uno Stato potente, quella ragione
istessa fa sì ( 1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 335. 167 che uno Stato
potente, tra le tante divisioni di luoghi e di animi, non possa sorgere in
Italia se non per mezzo dell’unione ; e questa unione, non essendo più figlia
della virtù e degli ordini antichi, non può ottenersi se non per la forza. E
come mai non sarà straniera la forza, quando ogni forza patria è già da tanto
tempo distrutta ? » ( 1 ) . La repubblica non fa per noi, come non fa per i
francesi : essa è disgregazione e ruina, mentre occorre unitarietà e forza per
superare i mali e i dottrinarismi del secolo. La Francia repubblicana, dannosa
a sè stessa, non potea essere benefica per poi : i suoi rapporti con l'Italia
eran rapporti di sudditanza e non di parità. « I legami che ci uniscono alla
Francia » scrive il Cuoco, « sono legami di necessità e di vantaggio
vicendevoli. Era naturale che la Francia vincitrice volesse usare della sua
vittoria ; ma, finchè la Francia ebbe apparenza di governo repubblicano, la
sorte d'Italia non fu per certo molto felice, perchè pessima è sempre la
condizione de' paesi conquistati o dominati dalle repubbliche . Par che la
somma delle libertà tutta si concentri entro le mura, e fuori non rimane che
l'oppressione. Forse è inevitabile nell'ordine della natura che l'estremo de
'mali non si possa evitare senza rinunciare a quell'estremo de' beni , a
quell'ottimo che si chiama con ragione il peggior ne mico del bene, e mettersi
in quella mediocrità che forma la base de governi temperati. La Francia, quando
ella stessa non avea governo, prometteva agli altri popoli un governo simile al
suo : con promesse, per tutt' i popoli , fallaci, perchè non poteano eseguirsi;
per l'Italia , an corchè potessero eseguirsi, dannose. Imperciocchè, am messo
per vero che i costumi degli europei viventi fos sero capaci di pure forme
repubblicane, rimane però sempre problematico se con forme puramente repubbli
cane l’Italia, il di cui male più grave stava nella divi ( 1 ) Giorn . ital . ,
1805, 1 , 3 , 6 aprile ; n. 39, 40, 41; p. 158 pp. 161-162, pp. 165-166: Sul
regno d'Italia ( ripubblicato in , parte da G. Cogo, op. cit. , pp. 134-136 ;
ed ora in Scritti vari, V. I , pp. 149-158) . 168 sione, avrebbe potuto mai
riunirsi; e se, non riunendosi, poteva acquistar forza e vera indipendenza ; e
se, senza indipendenza e senza forza, preda del primo che volesse invaderla ,
avrebbe mai potuto perfezionar gli ordini suoi ? » . Ritorniamo alla critica
rivoluzionaria di cui abbiamo parlato. Il popolo italiano, pur diviso e
suddiviso, ha una sua fisionomia speciale, bisogni propri, antichi ordini na
zionali, che non possono mutarsi ed adattarsi ai sistemi nuovi d'oltralpe.
Napoleone agisce diversamente : crea in Italia un Regno nuovo e lo pone
direttamente sotto il suo scettro, ma nello stesso tempo gli dà, almeno in
parte, una certa autonomia governativa, che intenda i bisogni e gli interessi
locali, gli dà un esercito proprio, che sol levi lo spirito popolare depresso e
lo riabiliti dopo un fiacco passato ; gli dà istituzioni, leggi proprie. V'è
una politica imperiale, politica estera, amministrazione ge nerale, la stessa
in Italia e in Francia, dipendente dalla volontà del monarca. V'è poi una
politica locale, diretta alla soddisfazione di esigenze specifiche, che varia
da luogo a luogo, lasciata alla volontà delle popolazioni, che intanto
s’abituano alle gestioni pubbliche, alle fun zioni civili, dalle quali sino ad
oggi erano state tenute lontane. « Il cangiamento di governo che è avvenuto in
Francia, per quanto sia stato necessario ai francesi, si può dire però che sia
stato egualmente utile agl'italiani. Di tutti i legami che univan questa a
quella non rimane che l'al leanza ; alleanza , che, se alla Francia è utile,
all'Italia è indispensabile . Il Regno dell'Italia è divenuto proprietà dello
stesso sovrano, e questo sovrano è il più grande uomo del secolo : egli saprà,
egli potrà e, ciò che più im porta, egli vorrà farlo prosperare. Questo uomo
avea già due titoli i più giusti alla sovranità : quello di creatore e di
restauratore dello Stato. Le circostanze politiche del l'Europa gliene dànno un
terzo, più giusto di tutti : la necessità di difendere ancora per altro tempo
lo Stato che egli ha creato, la necessità che ancora ha questa nazione dei
benefíci suoi » , 169 H In Italia non si è formato ancora uno spirito pubblico
nazionale , una comunione d'idealità, un italianismo in somma . L'unità , che
Napoleone ha dato a noi, è un'unità che non può trovare altra ragione che nel
suo genio . L'in dipendenza per volontà intrinseca del popolo è un as surdo :
in Italia non c'è ancora un popolo consapevole della sua natura e della sua
forza. L'unica possibile ri soluzione del problema italiano è quella che la
storia ha sancito . Il fatto nuovo avrà per effetto di mostrare agli italiani,
come la convivenza comune ed unitaria sia possibile, anzi vantaggiosa ; come
essi uniti siano più forti che non separati; come essi abbiano da sperar tutto
da un avvenire libero, e tutto da perdere ricadendo negli antichi errori. I
germi di quest'esperienza non andranno perduti, morto Napoleone, poi che la
storia non ritorna sui suoi passi, e procede infallibilmente. Qui il Cuoco è
davvero il profeta dell'avvenire. Siamo in un campo puramente politico. Ho detto
che ci riserviamo di studiare in seguito la maniera con la quale il Cuoco crede
possibile una unità italiana più in tima, di natura spirituale, attraverso
un'alta pedagogia, che cementi per l'eternità, ciò che il genio d’un uomo ha
potuto realizzare in maniera affatto pratica, e , nella sua stessa génesi,
estrinseca . Prima però di venire a questo problema, che formerà un capitolo
del presente lavoro, bisogna gettare uno sguardo rapido sulla politica gene
rale europea, in cui il nostro scrittore ebbe intuizioni ge niali e alcune
poche insufficienze tipiche. Per chi ritorna col pensiero alla tormentata
storia del secolo XIX, l'unità d'Italia appare come una necessaria conseguenza
di forze politiche in pieno sviluppo, come l'inderogabile fine d'un non mai interrotto
processo. La questione italiana, considerata da un punto di vista po litico ,
appare, senza dubbio, come una grande questione europea . L'Italia è il centro
del Mediterraneo, il centro pulsante della vita civile di tante stirpi, il
transito tra l'Oriente mistico e voluttuoso e l'Occidente pratico e po sitivo;
il paese destinato a moderare, se libero ed uno, tutte le competizioni di
predominio commerciale, ad ali 170 mentarle, se disgiunto e schiavo, in quanto
nessuna grande potenza permetterà mai ad un'altra un dominio incontrastato
sulla penisola, che domina tutti gli sbocchi marinari e commerciali europei.
L'unità italiana è il fulcro del problema dell'equilibrio europeo. Le guerre
cesseranno, in gran parte, quando le nazioni si convince ranno di questa grande
verità : l'unità d'Italia è la condi zione indispensabile d'un assetto europeo
duraturo. È il concetto centrale del Saggio, il concetto animatore della
politica cuochiana. Vincenzo Cuoco si è tuffato nel vor tice che non amava, la
rivoluzione, solo perchè aveva una lontana vaga speranza d'indipendenza e di
unità italiana. « La rivoluzione di Napoli, rimpiange l’esule della Ci salpina,
potea solo assicurar l ' indipendenza d'Italia, e l'indipendenza d'Italia potea
solo assicurar la Francia. L'equilibrio tanto vantato di Europa non può esser
af fidato se non all'indipendenza italiana ; a quell'indipen denza, che tutte
le potenze, quando seguissero più il loro vero interesse che il loro capriccio,
dovrebbero tutte procurare. Chiunque sa riflettere converrà meco che, nella
gran lotta politica che oggi agita l'Europa, quello dei due partiti rimarrà
vincitore che più sinceramente favo rirà l'indipendenza italiana » ( 1 ) . La
visuale politica di Vincenzo è senza dubbio vasta e profonda. La lotta tra le
grandi nazioni s'impernia sul Mediterraneo : la questione unitaria cessa di
essere, come per molti patrioti del tempo, strettamente nazionale, e s'inquadra
in problemi più complessi, europei. Gli uomini politici del Risorgimento,
purtroppo, non intesero questa grande verità, e la storia, si può dire, operò
per virtù naturale delle cose, fra l'incomprensione anche di menti riccamente
dotate. Per lo stesso Cavour la lotta è una questione continentale di
importanza limitata . Solo un po'tardi, ma a tempo, lo statista piemontese,
nell'im presa garibaldina del '60 , s'accorge dall'atteggiamento in ( 1 ) V.
Cuoco, Saggio storico , XLIII , p . 178. 171 glese quanto importante sia il
problema meridionale nel gioco delle forze mediterranee. Tutta la maggiore o minore
bontà della politica delle varie nazioni europee, vien giudicata dal Cuoco alla
stre gua di questo fine superiore, secondochè abbiano esse più o meno favorito
l'equilibrio internazionale nell'unità d'Italia. Abbiamo uno scritto cuochiano,
già innanzi ci tato, assai interessante per la comprensione integrale del suo
italianissimo pensiero politico, scritto del quale io darò un largo riassunto,
poi che mi sembra che non sia stato considerato dagli studiosi a sufficenza ( 1
) . L'arti colo , Osservazioni dello stato politico dell'Europa, è una sintesi
mirabile delle intime ragioni della storia europea negli ultimi secoli, delle
lotte per il predominio , dell'as setto italiano . Lo studio è determinato
dalla lotta, che si riacutizza, tra l'Inghilterra e Napoleone, ma il Cuoco
supera le contingenze politiche e risale a notazioni di ca rattere assai ampio.
Nella vita moderna due sono le pietre miliari dello sviluppo storico, il
trattato di Westfalia e il trattato di Amiens, i quali segnano come due epoche
ben distinte della vita europea, dopo Carlo V. « Quello che si chiama in Europa
tempo di pace non è che il tempo della minor guerra possibile. L'equilibrio
politico dell'Europa è la causa principale di tutte le guerre e di tutte le
paci : gli uomini e le nazioni travagliano con una mano a distrug gerlo e coll'
altra a ristabilirlo . Vi sono sempre due na zioni preponderanti, le quali, a
calcolo sicuro, si fanno. la guerra un giorno sì ed un altro no ; e la guerra
dura finchè ad una non riesca di acquistar sull'altra una su periorità tale che
sensibilmente faccia preponderare uno dei bacini della bilancia e faccia
nascere il bisogno di un equilibrio novello. » Le potenze, che fino a Westfalia
detennero il dominio in Europa, furono la Francia e la Spagna. Alla pace di (1
) Giorn . ital. , 1804, 14, 16 , 18, 30 gennaio, 8 febbraio ; n . 6, 7, 8, 13,
17 ; pp: 22-23, p . 27 , pp. 30-31, pp. 51-52, pp. 66-67 : Osservazioni sullo
stato politico dell'Europa ( vedi in precedenza, p . 143 ). 172 Westfalia si
scoprì la ragione della debolezza spagnuola, a Nimega questa si riconfermò:
l'Inghilterra surse a prendere il posto della Spagna nella rivalità con la
Francia . Queste le linee sommarie della storia. Vediamo, e qui sta il punto
che a noi interessa, quale sia la posizione della Spagna nella vita
continentale e quale l'intima ra gione della sua fiacchezza . La Spagna e la
Francia erano due nazioni di forze quasi uguali, l'una più grande, l'altra
meglio preparata : la Spagna poteva ' trionfare, ma non riuscì. Perché ! La Spagna
diventò potente, perché la fortuna delle successioni riunì sotto uno stesso
scettro metà dell'Europa, perchè Colombo le donò l'America, perchè potè
guadagnare in un primo tempo gli animi degli italiani divisi, discordi, e
contro altri irritati. Ma, una volta acquistato un dominio enorme, attese più
ad estenderlo ancora, anzi che a rinforzarlo , ad arricchirsi materialmente
anzi che moralmente : l'espulsione degli ebrei, le persecuzioni religiose, le
dispute teologiche, i governatori rapaci furono le piaghe della sua compagine.
La mancata risoluzione del problema italiano, e qui vo glio insistere, fu
secondo il Cuoco la causa prima della mancata affermazione della Spagna. « Se
la Spagna, potendo riunir l'Italia o formarvi un grande Stato, l'avesse fatto,
avrebbe, ottenuto un eterno poten tissimo alleato . Ma il fato avea riserbato
ad altri tempi l'uomo grande cui era commesso questo disegno. La volle ritenere
distruggendola . Montesquieu dice che la ritenne arricchendola : da troppo
impure fonti avea bevuto Mon tesquieu la storia nostra ! Dopo averli impoveriti
e spo polati, questi paesi divennero per la Spagna cagioni di spese e non di
forza. Difatti la Francia attaccò sempre la Spagna, non già nel centro della
monarchia, ma nella Borgogna, nelle Fiandre, nell'Italia, nelle provincie lon
tane, le quali non si potevan difendere per loro stesse, ed i successori de'
bravi Gonsalvi, De’ Leva e D'Avalos si perdettero inutilmente sulla Mosa e sul
Po. La Spagna s ' indebolì per conservar ciò che conservar non poteva » .
L'errore politico, causa della rapida decadenza spa 173 gnuola, è il non aver
voluto costituire uno Stato d'Italia, libero ma alleato, onde colpire la
Francia avversaria da ogni lato ; l'errore politico della Spagna sta dunque
nell’aver trattato l'Italia alla stregua delle colonie ame ricane, anzi peggio,
perchè in Italia la dominatrice di silluse un popolo grande colto e capace,
mentre fuori sfruttò solo genti barbare o semibarbare, tribù selvagge. La
politica francese nella lotta per il predominio, secondo il Cuoco, fu l'opposto
di quella spagnuola. La Francia divenne potente, mostrando di proteggere gli
italiani, proteggendo veramente l'Olanda, aiutando i principi dell'Impero :
così detta le condizioni a Munster ; sostiene il Portogallo , si allea con
l'Inghilterra : indebo lisce in Europa e nelle colonie, la rivale . I francesi
sono forti, desiderosi di dominio , ma non si lasciano accecare dalle
ambizioni. Luigi XIV, il superbissimo monarca , non giunge mai ad aspirare al
dominio del mondo ; ed è dif ficile trovare nelle storie un principe più di lui
moderato nelle vittorie . « La Francia ebbe per sistema quasi eterno di susci
tare sempre un'altra potenza contro la sua rivale. Ho detto che fece risorgere
il Portogallo e l'Olanda ; fece uso anche del gran Gustavo, e chiamò le forze
svedesi sulle sponde del Reno. Dopo le vittorie di Eugenio e la pace di
Utrecht, la monarchia austriaca di Germania era divenuta infinitamente più
potente di prima. La Svezia non bastava più a contenerla . La Prussia , con popolazione
più numerosa, con sito più opportuno, era più atta al bisogno; e la Francia
fece sorger la Prussia. «Tale è stata la condotta colla quale la Francia è
giunta a tanta grandezza. È la condotta della saviezza , della giustizia e
della generosità » . Cuoco non accenna qui all'Italia. La Francia ovunque
suscita Stati liberi contro le sue rivali, la Spagna e l'Au stria , ma non crea
un Regno d'Italia : ecco la causa del suo non completo trionfo . « Vediamo che
han fatto gl'inglesi » . Battuta la Spagna, la cui insufficienza si fa palese a
Westfalia e poi a Nimega, l'Inghilterra prende il posto della Spagna.
L'Inghilterra 174 è il fomite per tanti anni sino ad oggi, pensa il Cuoco , di
tutte le guerre in Europa : per la sua stessa natura non può mantenersi forte
che con la guerra. « Il vero baluardo dell'Inghilterra è l'immensa quantità
de'capitali che ha accumulati : con questi conserva la sua superiorità ma
rittima, perchè con questi mantiene quelle flotte che gli altri non possono
costruire. Ma, siccome questi capi tali li può accumular qualunque altra
nazione, tostochè abbia industria, commercio e pace ; così gl'inglesi deb bono
sostenere la loro superiorità con una continua guerra » . Dalle guerre di
successione ad oggi, alle guerre contro Napoleone è la stessa ragione che muove
gli iso lani a battersi. Ma questo metodo è assurdo e pazzesco : «
l'Inghilterra tende più rapidamente della Spagna alla sua dissoluzione » . Il
Cuoco, senza dubbio, s'inganna, ma s'inganna su dei particolari. La visione d'insieme
a me sembra luminosa, se pure in tutti i suoi punti non accet tabile.
Gl'inglesi prolungano le guerre, oltre il necessario , avidi desiderano troppo.
Nella guerra di successione di Spagna perdettero per un orgoglio male inteso
ciò che Luigi XIV voleva cedere prima delle vittorie del Villars. In essi nullà
della magnanimità de' romani. Essi sono forviati dalla saviezza dalla lusinga
di più felici successi. Alla guerra sono spinti dalla loro natura marinara
stessa, nella guerra permangono per migliorare il loro stato. Così ieri, così
oggi: così nelle guerre dinastiche di suc cessione, così nelle guerre nazionali
di oggi. E dire che l'Inghilterra con questa sua iniqua poli tica estera va
perdendo i frutti d ' un'antica continua savia politica interna di tolleranza e
di libertà ! Coloro, che ne' secoli favoriscono quella che il Cuoco chiama «
naturale irresistibile inclinazione a migliorare politica mente » lo stato de'
popoli, « o presto o tardi vincono gli uomini ed i tempi » . « L'Inghilterra è
giunta ad un grado di prosperità immenso ; fin dall'epoca di Luigi IX, l'in
terna sua amministrazione era superiore a quella degli altri popoli : ce lo
attesta un uomo, che io chiamo al tempo istesso il Villani ed il Macchiavelli
della Francia, il signor di Joinville. Perchè ? Perchè l'Inghilterra fu la
prima 175 à riconoscere la proprietà e la libertà civile . Perchè i papi furono
fino al secolo XI gli arbitri di tutta l'Europa ? Per chè, in tanta barbarie e
ferocia, erano i soli che predi cavano la pace ; perchè abolirono la schiavitù
; perchè, dice Leibnizio, erano i più savi e i più giusti uomini dei loro
tempi, e senza i papi l'Europa sarebbe caduta in mali peggiori. Dopo il XII
secolo cangiarono massime, e la loropotenza incominciò a diminuire. Perchè la
Fran cia e la Svezia vinsero nella guerra dei trent'anni ? Perchè sostennero il
partito della tolleranza, dell'umanità , delle idee liberali de'popoli tutti.
Nell'ordine eterno delle cose, la legge è sancita anche per i potenti ; anche i
popoli hanno la loro morale : chi la trascura , chi la calpesta , o presto o
tardi ruina. I francesi promettevano agl'italiani grandi ed utili cangiamenti;
non quelli che la stoltezza de’tempi fa ceva millantare in un'epoca che si
chiamava di riforma ed era di distruzione,ma quelli che ogni uomo savio sperava
da quel disordine dover sorgere un giorno. Imperocchè gli utili cangiamenti-
sogliono incominciare per lo più da vivissime commozioni ; ed errano egualmente
coloro che , amando troppo queste, voglion perpetuarle, e coloro che, temendole
soverchio, disperano di un fine migliore. Il destino dell'Italia era quello
che, dopo tre secoli di languore e d'inerzia, dovesse finalmente risorgere a
nuova vita. Inglesi, qual male vi avean fatto i discendenti di Galileo, di
Raffaello, di Virgilio, di Cicerone ? Ed il vo stro Wickam ha ricoperte le loro
terre di tanti orrori ! Ed invece di concorrere al loro risorgimento, non avete
neanche voluto riconoscere la repubblica italiana ! » ( 1) . Il Cuoco s'esprime
chiaramente. La sua anglofobia non ha origine, come sembrerebbe a prima vista,
in un en tusiasmo cieco per la politica di Napoleone contro l'acer rima isola
ribelle, ma si giustifica alla luce di supreme esigenze pratiche. La pietra di
paragone in tutta questa ( 1 ) . A. BUTTI, L'anglofobia nella letteratura della
cisalpina e del regno italico , in Archivio storico lombardo, a. XXXVI ( 1909 )
, p. 434 e sgg. 176 analisi critica è la necessità dell'unità d'Italia, che
tutti intendono come fatale, ma che non tutti amano. Alcuno potrebbe dire che
questa visione pecca di so verchia parzialità bonapartistica, perchè il nostro
scrit tore non rivolge alcun incitamento, alcun rimprovero all'imperatore, per
spronarlo a condurre a buon fine l'opera intrapresa, di cui il regno d'Italia
non è che un buon cominciamento , che attende ulteriori sviluppi. Non è così.
Vincenzo stesso intende quanto poco ab biano fatto i francesi, e la sua parola
non è servile . « Se io dovessi parlare al governo francese » scrive nel Saggio
« per l'Italia, gli direi liberamente che o convien liberarla tutta ò non
toccarla . Formandone un solo go verno, la Francia acquisterebbe una
potentissima alleata; democratizzandone una sola parte, siccome questa pic cola
parte nè potrebbe sperar pace dalle altre potenze nè potrebbe difendersi da sè
sola, così o dovrebbe pe rire abbandonata dalla Francia o dovrebbe costare alla
Francia una continua inutile guerra .... L'Italia è più utile alla Francia
amica che serva, e quindi è meglio renderla libera che provincia » (1 ). Nella
Lettera a N.Q., dinanzi al Saggio storico leggiamo gravi parole. « Se io
potessi parlare a colui a cui (il ] nuovo ordine si deve, gli direi che
l'obblìo ed il disprezzo appunto [delle idee di moderazione] fece sì che la
nuova sorte, che la sua mano e la sua mente avean data all'Italia, quasi dive
nisse per costei, nella di lui lontananza, sorte di desola zione, di ruina e di
morte, se egli stesso non ritornava a salvarla. Un uomo gli direi , che ha
liberata due volte l'Italia, che ha fatto conoscere all'Egitto il nome francese
e che, ritornando, quasi sulle ale de’vènti, simile alla folgore, ha dissipati,
dispersi, atterrati coloro che eransi uniti a perdere quello Stato che egli
avea creato ed illustrato colle sue vittorie, molto ha fatto per la sua gloria
; ma molto altro ancora può e deve fare ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLIII,
p. 178 , nota. Cfr. an che tutto ciò che il Cuoco scrive a Napoleone nella
Lettera del. l'autore all'amico N. Q. che va dinanzi al Saggio storico ,' a mo'
di prefazione, di cui solo poche righe ho riferito nel testo 177 per il bene
dell'umanità. Dopo aver infrante le catene all' Italia, ti rimane ancora a
renderle la libertà cara e sicura, onde nè per negligenza perda nè per forza le
sia rapito il tuo dono » . Queste righe il Cuoco scrive in piena Cisalpina, non
molti anni prima dell'articolo del quale ci siamo occupati. Queste righe furono
stampate, pub blicate, lette. La voce di Ugo Foscolo nella famosa de dicatoria
a Bonaparte liberatore non è più liberale della voce del Cuoco, anzi, direi,
che quest'ultimo nel suo genio politico metta il dito sulle piaghe, ond'è
afflitta l'Italia, con energia ed acume maggiore che non faccia il poeta de
Sepolcri. E dire che v'è sempre colui che vede l'adulazione, laddove questa non
c'è , e c'è solo un alto elogio per un uomo grande, il più puro interessamento
per le sorti della patria nostra ! Se ora ci accingiamo a dare un giudizio
sintetico sulla visione politica che il Cuoco ebbe dell'Europa e dell'Italia ,
possiamo dire con sicurezza che la storia ha dato in gran parte ragione al
grande molisano, in minima parte gli ha dato torto . La questione italiana, a
chi la studia oggi, mentre l'unità non solo politica, ma eziandio, come il
Cuoco l'ha desiderata, spirituale, è un fatto compiuto, appare sopra tutto una
questione di politica generale europea e me diterranea e non limitatamente
nazionale . Gli uomini del Risorgimento, attori coscienti e incoscienti della
sto ria, mossi da idee e da forze, di cui essi erano gli espo nenti e non i
creatori, videro poco : noi storici e critici possiamo affermare certi fatti
con maggiore sicurezza, e figurarci l' unità nazionale come un fenomeno prepa
rato da secoli nella coscienza del popolo, legato da se coli intimamente ad una
realtà spirituale e ad una storia, che si celebrava con mirabile continuità
ovunque. La rivoluzione francese desta dall'imo dello spirito italiano, sia
pure come reazione allo stesso giacobinismo, un mo vimento di rivalutazione
civile , di cui il nostro è il mag giore rappresentante, ma non crea menomamente
un fe nomeno, le di cui origini sono assai più remote. Invero il Risorgimento
s’è manifestato come un movi 12 - F. BATTAGLIA. 178 mento altamente spirituale
da un lato, come un problema d'equilibrio europeo dall'altro . Mazzini e
Gioberti sono stati il lievito della rinascita, ma essi non s'intendono se non
si comprende il pensiero del loro precursore Cuoco. L'equilibrio politico è
stato la causa prima, per cui il terzo Napoleone discese nel '59 in Italia
contro l'Austria ; l'equilibrio mediterraneo è stato la causa, per cui
l'Inghilterra permise l'opera di Garibaldi nel '60, opera che l'imperatore de
francesi prima osteggiò , e poi , inconscio e gabbato dal Nigra e dal Cavour,
finì per per mettere . Il Cuoco intravide il problema, e, se errò ne' partico
lari , nessuno può condannarlo. L'Inghilterra per il molisano è la nemica
naturale del l'unità italiana. È ciò vero ? La storia ha dimostrato di no. La
stessa politica, che egli attribuisce alla Francia di liberare i popoli per
farne alleati ed opporli ai suoi rivali, è stata la politica dell'Inghilterra ,
quando nel '60, di fronte al Piemonte vincitore della guerra contro l'Austria ,
preferì un Regno d'Italia, signore del mezzo giorno della penisola, grande e
forte, ad un Regno di Sardegna, grande sì da dominare tutto il settentrione, ma
non tale da sottrarsi al vassallaggio della Francia. L'Inghilterra dopo il '59
, durante l'impresa garibaldina, favorì l'Italia per le stesse considerazioni,
di cui abbiamo parlato : suscitiamo un forte organismo statale contro la
Francia, aiutiamolo ad esimersi dal legame con Napo leone III, esso ci sarà
riconoscente, e non ci nuocerà La storia procede così : uno Stato crea un altro
Stato, questo dapprima debole è legato all'astro del suo geni tore, poi s '
ingrandisce aiutato sia dalla sorte e dalla sua intima virtù, sia da altri che
abbia interesse a svilup parlo, poi, un bel giorno, divenuto potente, saluta i
suoi padroni, inizia il suo corso fatale, la sua naturale evolu zione. Egoismo,
mancanza di riconoscenza, diranno i mo ralisti, che nella vita vogliono attuate
le idee del loro cervello ! È della storia, rispondiamo. L'.Italia sorge na
zione dal conflitto austro - inglese, trova ausilio nella Francia, nell'
Inghilterra in seguito contro la sua stessa 179 antica protettrice, oggi è
autonoma e forte : sarebbe ri dicolo che oggi seguisse la politica de' suoi
vecchi mag giori amici, essa che ha in sè forze latenti è, in isviluppo, più
esuberanti e vitali che non l'Inghilterra e la Fran cia . La storia consacra interessi,
bisogni, volontà e non precetti) filosofici aprioristici.... Che il Cuoco nella
storia vegga uno spiegamento di bi sogni naturali ed omogenei, ci si appalesa
facilmente, se riguardiamo la condanna, che egli fa di organismi storicamente
gloriosi , un giorno potenti, oggi deboli, fiacchi, superati. La caduta
dell'antica repubblica di San Marco nel Saggio storico è espressa nella sua
gelida obiettività , un sospiro, senza un rimpianto. L'Italia di fronte a
Bonaparte, che nel 1796 discende per la pri mavolta da noi, si trova « divisa
in tanti piccoli Stati » , che", uniti potrebbero però opporre qualche
resistenza . Il papa propone un'alleanza difensiva. I Savii di Ve nezia
rispondono che da secoli nel loro paese non si parla di alleanze, che è inutile
quindi far proposte. Venezia con ciò sottoscrive la sua condanna di morte. «
Per qual forza » si domanda il Cuoco « di destino avrebbe potuto sussistere un
governo, il quale da due secoli avea distrutta ogni virtù ed ogni valor
militare, che avea ristretto tutto lo Stato nella sola capitale, e poscia avea
concentrata la capitale in poche famiglie, le quali, sentendosi deboli a tanto
impero, non altra massima aveano che la gelosia, non altra sicurezza che la
debolezza de ' sudditi e, più che ogni nemico esterno, temer doveano la virtù
dei propri sudditi ? » . « Non so che avverrà » conclude « del l'Italia ; ma il
compimento della profezia del segretario fiorentino, la distruzione di quella
vecchia imbecille oli garchia veneta, sarà sempre per l'Italia un gran bene »
(1 ) . Quanto diverso il politico Vincenzo Cuoco, che nella sua fredda
obiettività interpreta la storia presente, dal poeta Jacopo Ortis, che getta
uno sguardo sulle età di gloria che furono, piene di luce e di epopea , e sulle
ruine della senza ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , III , p. 22. 180 patria ,
non trova di meglio , disperato dell'avvenire, che darsi la morte ! Sotto i
colpi di Napoleone un altro antichissimo Stato cede : il potere temporale de'
papi. Il trattato di Tolen tino ha una importanza senza pari per la storia.
Mentre ne' tempi trascorsi , i papi vinti, sgominati, afflitti si rifiu tarono
sempre di porre a base delle trattative la benchè minima particella del
territorio della Chiesa, a Tolentino per la prima volta per la storia si fa uno
strappo, si passa sopra ai diritti inalienabili e imprescrittibili della Sede
Romana. L'organismo antico invero è tarlato : un pro cesso storico di
disgregazione s'inizia , di cui il Cuoco non può vedere le conseguenze, ma che
noi oggi possiamo ben studiare. « La distruzione di un vecchio governo teocra
tico » non costa a Bonaparte « che il volerla » ( 1) . La politica di Napoleone
dal '97 in poi ne' riguardi della Chiesa, il modo con cui egli impianta il
nuovo ed antichissimo problema delle relazioni, merita un acuto studio, che non
possiamo fare. Limitiamoci a vedere come Vincenzo apprezzi e giustifichi la
visuale ecclesiastica dell'imperatore . Non dimentichiamo che il Cuoco è nato
in quel Regno di Napoli, che nello stesso secolo XVIII ebbe a sostenere fiere
lotte contro la Curia, in cui il giu risdizionalismo ebbe una vera e propria
teorica non solo in iscrittori insigni come Giannone, D’Andrea, Capasso,
Aulisio, Conforti, ma anche in ecclesiastici eletti come il famoso arcivescovo
Giuseppe Capeceletrato ( 2) : l'atteg. giamento cuochiano solo tenendo presente
tutti questi precedenti può apparirci chiaro . Prima però di venire a discutere
questo aspetto del pensiero del nostro, dobbiamo intendere quale posto egli
assegni alla religione nella vita dello spirito e nella vita dello Stato . Lo
Stato deve avere una base spirituale , la quale non può essere data che
dall'istruzione umana da un lato, dalla religione dall'altro. Lo Stato per il
Cuoco è stato ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , III , p. 23. ( 2 ) G. GENTILE,
Studi vichiani, p. 391 . 181 etico, sintesi di volontà libere, e come tale non
ha alcun limite alle sue funzioni, se non nelle volontà particolari stesse che
determinano la volontà generale ; esso non può essere agnostico, in quanto
l'attività religiosa è uno degli elementi che costituiscono la sua stessa
natura, che stanno alla base della sua vita . La funzione educativa è di tale
importanza che lo Stato del Cuoco, concepito come so stanza etica, non può
disinteressarsene. La religione , anche se lo Stato non volesse occuparsene per
principio , rientrerebbe nel quadro civile e pubblico, cioè sottoposto alla
sovranità, nel fatto stesso che essa non può nè vuole prescindere d'operare nel
campo educativo. Anche lo Stato agnostico di fatto deve riconoscere la
religione, quando insieme con essa opera nel terreno vivo della pe dagogia ,
nella sfera perciò delle coscienze singole . Che cosa è per il Cuoco la
religione ? In una sua nota scritta su un foglietto, lasciato inedito e
pubblicato per la prima volta da G. Cogo nel suo tante volte da me ci tato
volume, egli si pone il formidabile quesito, se sia possibile una delimitazione
tra la morale e la religione ( 1 ) . Vediamo. « In questi ultimi tempi » egli
scrive « si è domandato se si dovesse o no separare la religione dalla morale,
e si è risposto da tutti che si dovea ; si è domandato se si po tesse , e mille
han risposto che si poteva ; si è tentato di separarla, e quasi nessuno vi è
riuscito. Io non credo che abbiano sciolto il problema coloro i quali hanno
tratti i princípi della nostra morale e de' doveri nostri da una profonda
analisi del cuore umano, o dall'ordine generale dell'universo, o dalla dignità
dell'uomo ; sublimi idee, ma inutili pe'l popolo il quale intende queste cose
meno del l'esistenza di una divinità ! ... Persuadiamoci : per esser ateo ci
vuole uno sforzo, e tutto nella natura ci parla di Dio. Coloro che,
restringendo l'idea della divinità a quella che noi abbiamo, invece di dire :
questo popolo ha un'idea della divinità diversa della nostra, o per imbe ( 1 )
G. Cogo, op. cit. , p. 80. Vedi anche V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit. , p. 653.
182 cillità o per malizia han voluto dire che non aveva ve runa idea della
divinità , han pronunziato l'assurdo di credere che una nazione selvaggia
potesse avere più forza d ' intelligenza della nazione culta ; perchè di fatti
che altra è presso tutt' i popoli la prima idea della di vinità se non quella
di una forza di cui non possiamo nè evitare ne comprendere gli effetti ? » In
sostanza il Cuoco non condanna coloro che credono la religione sopprimibile, o
almeno la credono distin guibile dalla morale, ma si limita positivamente ad
una affermazione : il popolo ha una religione, di essa non può fare a meno. Ben
nota Giovanni Gentile ( 1 ) come il Cuoco, ingegno eminentemente politico,
capace di ele varsi sicuro alle vette più eccelse della filosofia, ami,'una
volta attinto il sommo, ridiscendere al concreto della storia, lasciando a
mezzo ogni pensiero speculativo. Ogni problema, sia pure di natura teoretico,
al molisano si presenta nelle sue relazioni con la vita d'ogni giorno, con la
vita pratica dell'individuo e dello Stato. Noi nel caso nostro andavamo alla
ricerca d'un presupposto di natura ideologica, e ci imbattiamo in un problema
co stituzionale ; ci attendevamo una dimostrazione di prin cípi , e il Cuoco ci
dà senz'altro il principio, come mero dato di fatto. « L'idea di una divinità
si può chiamare una proprietà intrinseca dello spirito umano. Se la verità di
cui noi siam capaci è la coerenza di una nostra idea con tutte le altre, l'idea
di una divinità sarà eternamente vera, e coloro che vogliono distruggerla non
possono opporle che parole le quali s'intendono meno » . La religione ci appare
come un quid d'insopprimibile, di non superabile, in quanto è un elemento
eterno della stessa nostra natura umana. « La prima idea che gli uomini hanno
avuto della di vinità è stata quella della forza ; la seconda quella della
giustizia, la terza quella della bontà. Ecco il corso natu 11 ) G. GENTILE, Studi
vichiani , p. 376. 183 rale delle idee degli uomini. Se noi non daremo loro una
divinità, essi se ne formeranno mille, le quali spesso non comanderanno quello
che il bene dell'umanità esige, per chè l'idea di un nume è potente sullo
spirito umano ed è capace di far obliare i doveri dell'umanità per quelli della
religione ». Ritorniamo ad un concetto assai caro al Cuoco, di cui il Saggio ci
offre la conferma. « Non è ancora dimostrato che un popolo possa rimaner senza
religione: se voi non gliela date, se ne formerà una da sè stesso » ( 1 ) . E
perchè un popolo non può restar senza religione ? Perchè la re ligione è la
morale fantastica del popolo, e il popolo ha bisogno di qualche cosa che lo
guidi e lo governi. Io credo che sia questo il pensiero del Cuoco. L'uomo colto
può superare la religione nella filosofia , il semiconcetto nel concetto ,
trovando la norma della sua condotta nell'as soluto etico ( 2 ) ; il popolo,
invece , ha ancora bisogno d'una morale d'autorità , e quindi parzialmente
estrin seca, le cui basi non possono non essere religiose. Nelle origini la
religione è tutto : diritto, cosmologia, morale : nella religione tutte le
forme della vita trovano un prin cipio autoritario e un fondamento. La
distinzione fra l'una attività e l'altra è assai tarda. Il popolo però oggi ci
offre l'immagine, almeno in parte, dell'umanità primi tiva . La religione per
lui è tutto, perchè, essendo, come dice il Cuoco, forza giustizia bontà, è la
base insopprimi bile, nel suo pensiero, d'ogni educazione, d'ogni morale,
d'ogni diritto umano. Togliete questa base, egli non vi ubbidirà , perchè non
trova più alcuna cosa che legittimi l'ubbidienza all'autorità . Il legislatore
deve porsi da un punto di vista pratico , ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , XXV,
p. 130. Vedi a propo sito B. LABANCA, op. cit. , p. 411. ( 2 ) Questo
superamento , come vedremo in seguito, è più formale che sostanziale . Il Cuoco
non crede possibile una mo rale fuor dalla religione. L'uomo colto
concettualizza ciò che pel volgo è senso e fantasia, ma dinanzi al mistero si
arresta pur esso . La filosofia sistematizza quel che nel popolo è senza
ordine, ma non rinnega la religione, 184 e rendersi interprete della natura dei
subietti, che vuol disciplinare : se egli vuol regolare tutta l'educazione, in
staurare una morale uniforme e sicura, dare un diritto ri spondente a bisogni
concreti, egli non può prescindere da quest'elemento dello spirito, la
religione ; anzi su questo elemento- base, nativo ed originario nella natura
umana, edificherà il suo edificio civile . Ecco come un problema di natura
filosofica si è con vertito in un problema politico, anzi nel problema poli
tico per eccellenza, come quello che involge tutta la vita giuridica della
nazione. Da quanto abbiamo detto derivano due corollari im portanti. Lo Stato ,
che combatte la religione entro le sue stesse terre, quando la religione è la
religione di tutti , è uno Stato che ha sbagliato grossolanamente tattica :
egli concepisce la religione come mero fenomeno tran seunte, come pregiudizio,
ignora che essa è nello spirito dell'uomo un momento insopprimibile. Lo Stato
agno stico, lo Stato neutrale in materia di fede, è ugualmente uno Stato senza
base , come quello al quale il problema fondamentale d'ogni vita civile viene a
sfuggire, cioè il compito educativo, pedagogico. Lo Stato non può dar mai al
popolo un'educazione interamente laica . Il popolo è quello che è. La religione
è radice di ogni suo convinci mento, opera della natura e non de' preti.
L'educazione popolare non può essere che educazione, non dico reli giosa, ma su
base religiosa . Date al popolo i concetti di libertà, virtù, bontà, egli non
vi comprende, perchè egli, eterno barbaro, eterno fanciullo, non intende il
linguag gio della ragione. Date al popolo miti, leggende, precetti in forma
sensibile semifantastica, egli non solo vi intende, ma vi segue, perchè egli ha
potente la facoltà fantastica dello spirito , e tutto intuisce prima di
pensare, e tutto vede e crede prima di rendersi conto di ciò che vede e crede.
Un'educazione popolare non può non informarsi a questi principi. Chi ne
prescinde, e va predicando l'istruzione areligiosa e civile, naviga
nell'astrazione. Ma del problema scolastico, come problema pedagogico e statale
dovremo occuparei in seguito ; qui notiamo la 185 prassi politica dello Stato
di fronte ad una realtà eterna, la religione. Lo Stato, se vuole avere un
fondamento incrollabile nel popolo, deve parlare al popolo, e, se al popolo
vuol parlare, deve parlargli nelle forme a lui familiari, cioè il linguaggio fantastico
della favola, il linguaggio semi concettuale della religione, in quanto solo
questo intende e non altro . Lo Stato deve in sostanza utilizzare ai suoi fini
la religione, come ogni altra realtà umana. Nulla di odioso . Lo Stato fa il
suo proprio bene, che collima con gli interessi della popolazione che si vede
meglio com presa, con le aspirazioni universali della religione. Co loro , che
credono di potere far la guerra alla religione, ed incitano lo Stato ad una
lotta impari, poi che esso non può contare che su pochi, mentre la religione ha
dietro di sè masse compatte di credenti , non sono che de' vol gari astrattisti
. Qui noi possiamo ben vedere quanto il Cuoco si stacchi dal pensiero tipico
della rivoluzione e segua una strada tutta sua . Il giacobinismo è
anticlericale ; il Cuoco non è nè clericale nè anticlericale, guarda la vita
nel suo con creto , e si accorge che lo spirito umano ha esigenze re ligiose .
Il Lomonaco urla , s'inquieta, scara venta invettive contro la Sede Romana,
contro i leviti, contro i falsi sa cerdoti ; il Cuoco analizza, studia, infine
edifica : due tem peramenti, due mentalità diverse, due metodi antitetici :
l'uno caduco, l'altro eterno . La nota, sulla quale io vengo facendo le mie
conside razioni e che a me appare d’una importanza grande, con tinua ancora : «
Io dirò a questo proposito un mio pensiero . Coloro i quali per far la guerra
ai preti han voluto segregarli dalla società non hanno inteso il modo di
combatterli. Era im possibile che in questa guerra non vincesse quella causa
che piaceva ai ( sic ) Dei . Se fosse dipeso da me, mi sarei con dotto
diversamente: avrei riunito la religione allo Stato » ( 1 ). ( 1 ) Seguono
importanti considerazioni che io non posso ri portare : cfr. Cogo, op . cit.,
p. 80 e sg. 186 mo La politica che il Cuoco consiglia è confessionista. Que sto
significa edificare su fondamenta incrollabili, edificare sulla stessa natura
degli uomini. Nel Platone in Italia, Archita esprime concetti assai simili e
stabilisce che il diritto , pur mantenendosi ben distinto dalla religione, di
questa si serva per raggiungere i suoi fini ( 1 ) . Il Cuoco non investiga in
fine l'essenza vera della reli gione, anzi, come può notare chi legga il
bellissimo scritto di Giovanni Gentile sul nostro, egli in ogni suo tenta tivo
filosofico s'arresta timoroso dinanzi alla formida bile incognita della
divinità, e china il capo riverente. V’è in Cuoco un nucleo di trascendenza,
che nella nuova teologia vichiana è del tutto superata ( 2 ) . « Il savió»
scrive nel Platone « si ritira in sè stesso, riconosce che la nostra mente è
una particella della divinità, che noi non riamo . Vede in questa massima il
fondamento della mo rale umana, e tenta di stabilirla e diffonderla, non con
misteri ristretti agli abitanti d'una sola città.... ; non con istorie, che
ciascuno può credere e non credere ; ma con ragioni tratte dall'intrinseca
natura delle menti di tutti gli uomini, e dalle quali nessun uomo possa opporre
altro che l'ostinazione . Ecco il primo dovere del savio. Il se condo è quello
di compatire il volgo, che cerca ad ogni momento delle cose sensibili , ed i
filosofi, che, per stabi lir la virtù, si adattano talora al desiderio del
volgo » ( 3 ) . Siamo sempre ad un punto. Una base religiosa della mo rale non
può mettersi in dubbio. Mentre l'uomo colto, pur arrestandosi dinanzi al
mistero della trascendenza, ha nella ragione, se non una impossibile
spiegazione, una maggior coscienza della rivelazione ; il volgo ha bisogno di
vedere e di sentire anche le cose più immateriali nel travaglio inesauribile
della fantasia. Solo la religione può rendere vicina agli uomini la sublime
norma della morale : la religione, fondamento della morale, essa stessa pensa a
renderla viva nella coscienza. ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v . I , p . 84 e sg . (
2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 385. ( 3 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p. 133.
187 Non posso negare che in tutto ciò vi sia una vera e propria incertezza . La
verità è che il Cuoco non è filosofo, e de' grandi problemi filosofici non può
darci un'esplica zione adeguata. La questione per lui è tutta politica e
pratica, e, se s'ingolfa in discussioni teoretiche, lo fa per ridiscendere più
agguerrito sul terreno pratico. Alcuno potrebbe obiettare che da questa
contamina zione di morale civile e di religione, di politica e di reli gione,
vengano a scapitarne sia lo Stato sia la religione, in quanto lo Stato penetra,
si dice, in una sfera non sua, la religione viene ad essere subordinata ad un
fine mon dano. Non è così, ripeto. Il Cuoco stesso ci avverte che v'è netta
delimitazione di fini, tra Stato e religione, in quanto il primo persegue un
fine politico e gli trova la base sua naturale nello spirito e nella natura
umana, mentre la seconda dal fine poli tico si astrae o dovrebbe astrarsi
limitandosi ad un'opera meramente interiore. Sul terreno politico non v'è
possibilità di conflitti, ammesso che la religione si volga all'eterno ed
obblii il mondano . Sul terreno spirituale v'è identità d'oggetto, il
miglioramento interiore del po polo, cooperazione e non antitesi. In ogni caso
v'è vi cendevole vantaggio : lo Stato deve favorire, pur essendo tollerante, la
religione, perchè persegua i suoi fini super terreni; la religione deve aiutare
lo Stato, perchè questo possa in terra fruire materialmente d'ogni miglioramento
morale degli uomini : l'uomo veramente in ispirito reli gioso non può non
essere un buon padre di famiglia, un buon cittadino. Da quanto abbiam detto è
evidente come il Cuoco non cada affatto nell'errore di molti, proclamando uno
Stato, per il quale non v'è che una sola religione, ed è intolle rante verso le
altre. Lo Stato del Cuoco persegue un fine politico ed utilizza ogni forza
fisica e morale che trova, utilizza quindi anche, col vincolo d’un vantaggio
reci proco, le forze smisurate della religione dominante la cattolica nel caso
nostro e a questa dà benefici, come li darebbe ad un qualunque altro ente
pubblico che per segua un fine collettivo e civile , senza che ciò significhi
> 188 intolleranza verso gli altri culti, che possono pur essi fruire di
benefíci, ove il loro fine collimi col fine statale. Lo Stato agisce nel suo
interesse pratico , ond'è chiaro quanto sia necessario un controllo continuo da
parte sua sulle istituzioni ecclesiastiche, controllo che non può essere
altrimenti ispirato che a superiori esigenze di di fesa pubblica e di polizia .
( 1 ) Sino ad ora abbiamo parlato della religione come fa coltà dello spirito,
come insopprimibile realtà umana, e il caso di conflitti tra Stato e religione
non poteva a noi presentarsi se non come un caso abnorme. Ma il problema
politico particolare e il caso d'un conflitto nella sfera pratica può
presentarsi, quando noi non consideriamo la religione, ma la Chiesa, l'istituto
universale, che può porsi e si pone di fronte allo Stato con uguali caratteri
d'eticità e di assolutezza, e con pretese che a volta usur pano le facoltà
proprie dello Stato nel campo giurisdi zionale . Date le premesse che abbiamo
poste, il Cuoco non può negare il giurisdizionalismo dello Stato e la subordina
zione entro i suoi confini d'ogni istituzione ecclesiastica alla legge.
L'educazione religiosa non sfugge al controllo dello Stato : l'attività
ecclesiastica culturale non può sot trarsi alla norma comune. Il Cuoco
differisce solo dai giurisdizionalisti antichi, in quanto ha un senso
vigilissimo dell'importanza della religione, « un'intuizione sicura dello
spirito nella sua vita politica » ( 2 ) . Con questa sua concezione dello Stato
come sostanzia lità etica, è naturale che il nostro non solo « della reli gione
come della filosofia, in quanto servono anch'esse come elementi riformatori
della coscienza civile » faccia « uno strumento del fine politico » , ma non
possa ne ( 1 ) Dopo quanto abbiam detto, ci appare affatto falsa l'af
fermazione di B. LABANCA, op. cit . , p . 409, che il Cuoco non abbia mai
approfondita la questione religiosa. ( 2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p . 416.
189 ammettere che la Chiesa di Roma, istituto fuori dello Stato, possa entrare
a competere con lo Stato in que stioni che involgono la sua sovranità. Libertà
di culto e d'istruzione, ma controllo dello Stato, subordinazione allo Stato !
Lo Stato agisce nella forma del diritto, e il diritto pone un obbligo ed una
tutela : la religione ha, di conseguenza, l'obbligo di agire ne' limiti delle
norme giuridiche, e la libertà di operare come crede in essi, li bertà che si
traduce in una tutela civile contro i violatori di essà. Ognuno sa come t si
siano svolte le relazioni tra lo Stato e la Chiesa sotto Napoleone, sa come Pio
VII si mo strasse conciliante col déspota di Francia, come si giun gesse al
Concordato tra Francia e Santa Sede ( 1801 ) , come il papa presenziasse
all'incoronazione di Parigi, come presto la politica giurisdizionalista
degenerasse in tirannia, per finire attraverso varie occupazioni ( Ancona, 1805
; Civitavecchia, 1807 ; tutte le Marche, 1808) , con l'arresto brutale del
Pontefice in Roma ( 1809) , con la di chiarazione della fine del potere
temporale (maggio 1809) . Noi non abbiamo documenti tali dá permetterci di
seguire il Cuoco nel suo pensiero dinanzi a tali e sì gravi eventi: dovendo
stare allo spirito dell'opera sua fin qui studiata, potremmo, credo, con quasi
certezza dire, che egli non partecipasse alle violenze ultime di Napoleone
contro Pio VII. Tuttavia per intendere come il Cuoco ponesse il pro blema de'
rapporti tra Stato e Chiesa, possiamo esami nare un suo articolo,
Considerazioni sul concordato del febbraio del 1804 ( 1 ) . La pace religiosa è
uno degli elementi indispensabili della vita civile . Una nazione, che serri in
sè discordie chiesastiche si trova in condizioni peggiori d’una nazione, che
alimenti in sè le fazioni, poichè, mentre queste sono ( 1 ) Giorn . ital . ,
1804, 1 , 4, 6 febbraio ; n. 14, 15, 16 ; p. 56, pp. 59-60, pp. 62-63:
Considerazioni sul Concordato ( ristampato in Scritti vari, v. I , pp. 62-70
col titolo Stato e Chiesa ). 190 alimentate da meri bisogni materiali, le prime
traggono origine da esigenze spirituali, ben più profonde e durevoli. I
turbamenti di molti Stati derivano appunto dal credere che fenomeni di natura
religiosa si possano vincere con i metodi comuni, con i quali si distruggono le
sedizioni. La Francia in principio ha seguito queste massime, e ne ha fatto una
tristissima esperienza : la religione stessa è decaduta, ha perduto buona parte
dell’utilità sua ; lo Stato ha subìto più d'una menomazione nella sua auto rità
. « .... Chiunque ha un cuore deve applaudire ( siamo, quando il Cuoco scrive,
nel 1804, e il conflitto tra Napo leone e Pio non s’è ancora delineato )
all'umanità colla quale un governo savio ed un pontefice degno per le sue virtù
del posto eminente che occupa, ponendo fine ai dubbi, ai timori, alle querele,
ne hanno data quella pace che è preferibile a mille trionfi. La prudenza ha
trovata la via nelle angustie tortuose che vi erano tra il sacerdozio e
l'impero » . Fin qui , come ognun vede, ci troviamo di fronte a frasi
d’occasione, a concetti ben noti del Cuoco, altre volte espressi e ribaditi
nello stesso Saggio storico. Gli Stati sono tanto più forti , quanto più gli
elementi della vita materiale e spirituale convergono ad un fine unico . Lo
Stato, ove diritto e religione non cozzano in sieme, ma da punti opposti
realizzano una stessa verità, è lo Stato più forte che si possa immaginare.
Guardiamo la storia : le nazioni floride sono quelle, ove l’armonia tra diritto
e religione, autorità e libertà, s'è meglio pre sentata . Nel 1804, commentando
la storia che Melchiorre Delfico avea scritto della repubblica di San Marino,
dopo aver ricordato che negli Stati non è tanto l'ampiezza del territorio, il
numero degli uomini, la forza degli eserciti, che conta, quanto la virtù de '
cittadini e la giustizia degli ordini, scrive riferendosi al fatto che il
fondatore del pic colo Stato fu un religioso : « Sulla porta della maggior
chiesa leggesi questa iscrizione : Divo . Marino . Patrono. Et. Libertatis .
Auctore. Iscrizione che rammenta il de creto col quale gli Ateniesi
dichiararono Giove arconte perpetuo della loro repubblica ; iscrizione forse
unica tra popoli moderni, i quali per lo più hanno la religione di 191 visa
dallo Stato, e degna che si mediti dai ministri del l'una e dell'altro » ( 1 )
. Il sogno del Cuoco mi sembra molto simile al sogno di Dante e di Marsilio da
Padova : una Chiesa, ricondotta alla natìa purezza, riaffermante novellamente
col divino Maestro che il suo regno non è di questa terra : impero e papato,
Napoleone e Pio, con diversi mezzi, con scopi diversi, l'uno terreno, l'altro
celeste, operano concordi in terra per assicurare il benessere dei popoli. Il
Con cordato , al quale specificamente si riferisce il Cuoco, è il documento del
nuovo patto. Breve patto invero ! Ma il Cuoco nel 1804 è fiducioso di un
avvenire religioso di pace, che non sarà, crede sinceramente che le antiche
lotte giurisdizionali siano definitivamente della storia e non più della vita :
l'analisi , perciò, che vien facendo, è meramente storica, è uno sguardo su un
passato, che, pia illusione, non ritornerà più ! Nei primi secoli, riassumo il
pensiero del nostro, si disputò pochissimo di giurisdizione. Il divin Maestro
aveva detto che il suo regno non è di questa terra, onde non si potette
confondere ciò ch'era di Dio con quel che spettava a Cesare. Le dispute furono
sul dogma. Costan tino mirò solo a mantenere l'ordine nelle dispute, ma i suoi
successori Ariani, Nestoriani, Eutichiani si mischia rono ad esse, e l'impero
ne fu turbato : lo stesso Giusti niano cadde nell'errore. In Italia solo
Teodorico mo strò bene ciò che un principe savio deve alla religione . Egli la
rispettò e la fece rispettare. Rigido conservatore dell'autorità regia, fu
giusto giudice nella controversia tra il pontefice Simmaco e il suo competitore
Lorenzo. « Teodorico volea esser il sovrano egualmente e de’laici e de ' preti
» . Ma anche i suoi successori non ebbero la di lui virtù. Surse così in Europa
un nuovo ordine di cose . « Delle vicende della giurisdizione ecclesiastica
nell’Oc cidente hanno scritto moltissimi, tra i quali un gran nu mero forse non
è stato esente da ogni spirito di partito. ( 1 ) Giorn. ital., 1804 25 giugno ,
n . 76, p. 308 : Memorie stori che della repubblica di San Marino, ecc . 192 )
) . Noi crediamo che l'indicar le ragioni, per le quali si con fusero i limiti
delle due giurisdizioni, sia il più giusto elogio che far si possa e del nostro
governo e della Santa Sede ( ! ) , che con tanta prudenza li hanno ristabiliti.
Tutto ciò —— scriveva San Bernardo ad Eugenio papa, suo discepolo — tutto ciò
che tu hai ricevuto non da Cri sto , ma da Costantino, io ti consiglio a
ritenerlo a seconda de ' tempi, ma non mai a pretenderlo come un diritto Il
consiglio, che il molisano ripete al Pontefice, è un consiglio altamente
politico. Il Cuoco dice: io riconosco che, in determinate contingenze storiche,
il papa, posto tra barbari armati, crudeli, pronti alla violenza, abbia dovuto
far ricorso alle armi per difendersi, abbia quindi desiderato il potere
temporale; oggi le condizioni sono mutate, l'autorità regia non vuol menomare
il prestigio della Chiesa, anzi vuole accrescerlo, difenderlo, arric nirlo ; a
che dunque serve il potere temporale ? Il po tere temporale ci appare come il
resto inutile d'età sor passate, poi che, la base del rispetto e dell'autorità
non è più nella forza e nelle armi, ma nella giustizia e nella virtù. Il
patrimonio di San Pietro è intangibile ! Ma perchè? Serve alla difesa della
Chiesa .... Serviva : ora non più ! Le parole che il Cuoco ripete sono le
parole della sa viezza, le parole che la storia, che non torna indietro,
consacra nella realtà della vita . L'abdicazione ai diritti antichi significa
potenziazione della Chiesa nelle coscienze degli uomini, ritorno alla purezza
antica degli Apostoli. La Chiesa Romana ha in sostanza un duplice elemento : un
elemento dommatico, che nessuno pensa a menomare, specie l'autorità pubblica,
che non intende penetrare in una sfera che non è sua ; un elemento politico,
determi nato dai tempi, soggetto a flussi e a riflussi, ma sul quale il
conflitto con il potere civile è stato e può essere sempre facile. Il punto di
minore resistenza è il dominio temporale, che oggi è una vera barriera per una
( 1 ) Si riferisce sempre al Concordato. 193 comprensione tra Stato e Chiesa, e
che occorre superare, perchè i rapporti divengano da buoni ottimi. La Chiesa
abdichi ad ogni temporalità, lo Stato riconoscerà tutta la grandezza della
religione, la potenzierà praticamente, le darà tutti i mezzi per attuare in
terra il compito antico . Certo le ragioni del dominio temporale sono profonde,
ma sono tutte storiche, cioè superate; mentre le ragioni della grandezza
spirituale della religione sono eterne , cioè presenti alla nostra coscienza
umana insopprimibil i mente. Che le condizioni, che han reso il dominio
temporale necessario per la religione e il suo bene, siano sorpassate, il Cuoco
lo dimostra con una acutissima analisi, sulla quale merita fermarsi. I barbari,
discesi dalle provincie nordiche dell'impero romano, permisero, essi meno
civili, ai vinti culti e ricchi di sapienza, di vivere secondo le loro leggi,
le loro usanze, i loro istituti . Nacque così, crede il molisano, quella specie
di giurisdizione personale ignota agli antichi, donde poi scaturì la
distinzione de' fori. « A poco a poco le menti degli uomini si avvezzarono a
concepire due legislatori diversi ed uno Stato entro un altro Stato » . I vescovi
professarono la giurisprudenza romana e l'adattarono ai nuovi bisogni,
divennero feudatari, divennero ministri, cancellieri dei grandi sovrani.
L'elemento romano trovò in essi un baluardo contro la sopraffazione . La Chiesa
insomma fu nell'alto Medio Evo davvero un faro di luce nelle tenebre. Essa
predicava l'umanità e la libertà, essa sola potè dichiarare la schiavitù
contraria alla religione. Tutti questi elementi contribuirono a darle una forza
grandissima, che si tradusse presto in un dominio terreno. È naturale quindi
che un mutamento profondo negli ordini sociali porti seco un mutamento negli
ordini ec clesiastici . La storia ha uno sviluppo che non permette a lungo
superfetazioni antisociali . « Noi scorriamo rapi damente » scrive il nostro
autore « sopra un soggetto che è di sua natura vastissimo. Ci basta avere
indicate le cagioni principali. Conosciute queste, è facile conoscere che, a
misura che gli uomini s'incivilivano e gli ordini 13 F. BATTAGLIA . 194
pubblici ritornavano verso la loro perfezione, dovea ces sare tutto ciò che la
sola infelicità de' tempi avea consi gliato, introdotto, tollerato ; e dovean
segnarsi di nuovo quei confini entro de' quali la sovranità temporale fosse più
energica e meglio ordinata, e l'autorità religiosa più augusta e più sicura.
Così dal caos emerse l'ordine, e fu a ciascuna cosa assegnato il suo luogo ».
Questo or dine il Cuoco vede avverato in un giurisdizionalismo con fessionista,
che tende a volte ad un vero e proprio con fessionalismo all’austriaca. Gli elementi
di questo sistema non possono essere esposti brevemente, onde occorre pas sarvi
su, Vincenzo Cuoco, se noi guardiamo ora dall'alto le cose, e cerchiamo di
raccogliere le fila di ciò che siam venuti dicendo, ci si appalesa come un
fermo sostenitore dei diritti dello Stato, concepito come sostanza etica,
sostenitore che non ammette alcuna menomazione di quei caratteri salienti che
abbiamo veduto. Egli si pre senta come un vero e proprio giurisdizionista,
rappre sentante di quel giurisdizionalismo, che lo storico co nosce nelle forme
del leopoldinismo, del giuseppinismo e sopra tutto del tanuccismo. Che il Cuoco
sia giurisdizio nalista nel senso sovraccennato, molti elementi lo testifi
cano. Egli è giurisdizionalista , ma nello stesso tempo il suo Stato è confessionista,
sebbene tollerante : anzi il nostro lo consiglia ad essere più confessionista
che può, perchè gli interessi dell'autorità civile e dell'autorità ec
clesiastica collimano perfettamente. Lo Stato del Cuoco trova una Chiesa
dominante e le dà di fatto privilegi, benefíci, considera i suoi sacerdoti come
pubblici fun zionari, investiti di vere e proprie funzioni pubbliche,
esercitanti un compito che il potere supremo non solo riconosce ma subordina al
suo controllo : la stessa educa zione religiosa è vigilata dagli organi
centrali. « Il che» come ben nota Giovanni Gentile « non viene, in conchiu
sione, a soggiogare quello che non è soggiogabile, lo spi rito religioso e
scientifico, alle forme giuridiche istitu zionali dello Stato ; ma soltanto a risolvere
nella vita concreta dello Stato l'elemento sociale e pratico di co teste forme
superiori dello spirito , le quali, se sono ideal 195 mente sopramondane,
storicamente rientrano anch'esse nella sfera dei rapporti sociali, materia del
diritto » ( 1 ) . Questo giurisdizionalismo confessionista del XVIII se colo,
anteriore alla rivoluzione francese, aveva nei prin cipi e negli statisti un
fondamento di vere e proprie credenze e convinzioni religiose, che portavano,
come os serva lo Scaduto ( 2 ) , all'affermazione d'una supremazia nel campo
morale della Chiesa sullo Stato . Il giurisdizio nalismo napoleonico ha invece
cause più politiche che re ligiose, s ' ispira più all'analisi delle condizioni
storiche contemporanee che ad altro. Il Cuoco segue quest'ultimo indirizzo,
temperandolo col tanuccismo, vale a dire, ri conoscendo l'altezza etica della
Chiesa . Nulla ci induce a credere che egli fosse specificamente cattolico
prati cante, ma da un'analisi minuta de' suoi scritti, da un manoscritto
inedito sull' Ideologia , di cui ci dà' notizia il Gentile, dal Platone in
Italia, noi possiamo ritenerlo uno spirito profondamente religioso. La sua
filosofia serba anzi resti di trascendenza, e la sua teologia, se è lecito così
esprimersi, ritorna ad una posizione che il Vico, suo maestro ideale, avea già
superata ( 3) . Egli differisce dagli scrittori politici del tempo suo,
scettici e agnostici, per i quali il confessionismo ha basi puramente effimere,
dif ferisce dunque per il fatto che nella religione vede un elemento
insopprimibile della vita dello spirito . Da noi la religione dominante è la
cattolica : non vi è legge che da essa e dalla sua morale possa prescindere .
Il suo in gegno, la sua sicura intuizione delle varie attività dello spirito,
lo porta ad un riconoscimento che non è solo do veroso in linea di principî, ma
è savio in linea politica per lo Stato che voglia realmente attuare la sua
missione, e sulla natura umana costruire il suo edificio istituzio nale. « Il
primo dovere di chi ama la patria è quello di ( 1 ) G. GENTILE, Studi vichiani,
p. 416. ( 2) F. SCADUTO, Diritto ecclesiastico vigente, 1923, Cortona, v. I ,
p. 19 sg. ( 3) G. GENTILE; Studi vichiani, p . 385. Una parte dell’Ideo logia è
stata ripubblicata in Scritti vari, v. I , pp. 297-302 . 196 rispettare la
religione de' padri suoi ; il primo dovere di chi ama la religione è quello di
rispettare il governo della patria, senza di cui non vi sarebbe alcuna
religione ». Qui mi sembra che veramente il Cuoco si distacchi dal l’età che fu
sua, e all'astrattismo filosoficizzante e scet tico sostituisca la realtà
insopprimibile dello spirito, che è anche religiosità, ed, essendo religiosità,
non può essere che tolleranza. CAPITOLO V. Nazionalità e italianismo nel «
Giornale italiano » . Le origini della nuova Italia . Il concetto di naziona
nalità presso Cesare Paribelli e Francesco Lomonaco. Presso Vincenzo Cuoco. -
Sua visione spiritualistica del problema unitario e nazionale. - Mezzi per
formare una nuova coscienza nazionale. Abbiamo nella prima parte di questo
studio a lungo parlato del pensiero costituzionale di Vincenzo Cuoco , quale
egli di fronte all'astrattismo rivoluzionario dei giacobini franco- italiani
sistematicamente espresse ne'suoi Frammenti di lettere dirette a Vincenzio
Russo, e quale poi mostrò in atto negato in quel Saggio storico, che resta
ancora il più mirabile documento dei terribili giorni che passarono alla storia
col nome di Rivoluzione napoletana e con la gloria d'eroismi non emulabili. Nel
nostro lavoro abbiamo studiato il concetto che il molisano si è fatto dello
Stato e dei suoi attributi, la visione della vita giu ridica e politica , e,
infine, il modo ond'egli fissa il mille nario problema dei rapporti tra
l'autorità civile e l'auto rità ecclesiastica. In tutta questa nostra analisi
abbiamo visto come unitario sia il pensiero del nostro autore, che abbiamo
definito il più vivo esponente dell'italianismo di fronte ad ogni forma, ad
ogni espressione di vita, che non sia consona al nostro spirito, alle nostre
esigenze, ai nostri bisogni, alla nostra tradizione. 198 L'italianismo del
Cuoco ci si appalesa in tutta l'opera sua multiforme e molteplice, e noi non
avremmo bisogno di insistervi più, se in esso non vi fosse un elemento nuovo
che lo differenzia dall'italianismo di tutti i con temporanei e degli immediati
' posteri: il modo in cui egli concepisce la nazione e lo spirito nazionale . È
que sto il punto sul quale verterà la nuova indagine. Giustamente Benedetto
Croce, nella prefazione a La ri voluzione napoletana del 1799, dice che chi
cerca « le ori gini sacre della nuova Italia » deve di necessità rifarsi ai
fatti della Partenopea ( 1 ) . Il tragico fato della repubblica disperde per la
penisola centinaia di patrioti, gente, che, per quanto dottrinaria, astratta ,
più francese di costumi e di pensiero che italiana, ciò non pertanto ha una
fede rigida e calorosa nei destini immancabili della patria . È il polline
vivo, che trasportato dalla tempesta fecon derà in altri liti , e poi
s'esprimerà in nuovi fiori e in nuovi frutti . Sarebbe facile fare dei nomi e
degli scritti, ma uscirei dal mio compito e mancherei con ciò dal mio pro posto
: ricorderò solo due scritti molto importanti per due ragioni, in primo luogo
perchè in essi l'indagine storica può rinvenire le prime idee sull'indipendenza
e sull'unità della nazione italiana ; in secondo luogo perchè dal con fronto,
che di essi si farà con le pagine cuochiane, sca turirà la diversa posizione
spirituale, che il Cuoco rap presenta. Cesare Paribelli, ex ufficiale di
Ferdinando IV, dal 1793 al 1799 rimasto quasi sempre in prigione per ragioni
politiche, poi membro del Governo Provvisorio a Napoli, il 18 giugno 1799,
essendo incaricato d’una missione a Parigi, proprio mentre le sorti
repubblicane volgevano al peggio ( il 17 giugno Ruffo accorda la resa alla
città di Napoli e la Partenopea è finita ) scrive un Indirizzo dei Patriotti
Italiani ai Direttori e Legislatori Francesi, in cui, dopo avere espresso
numerose lagnanze contro gli stra nieri nemici ed amici, dopo avere descritto la
misera ( 1 ) B. CROCE , La rivoluzione napoletana , p . XII . 199 condizione
dell'Italia tutta, dopo avere enumerati i voti delle varie regioni conclude con
profetiche parole. « Legi slatori e Direttori, invoca , osate alfine di
soddisfare il voto universale dell'Italia, e di proclamare la sua indi pendenza
e la sua riunione, il di cui centro esiste già nella santa energia dei figli
del Vesuvio, nello spirito repubblicano dei montagnari Liguri, nello sdegno
invano ritenuto dei figli dell'infelice Vinegia, e nella disperazione di tutti
i rifugiati Piemontesi, Romani e Toscani, cui non resta più ormai verun'altra
alternativa , che o di cercare per via d'una morte volontaria un asilo nella
tomba, o di crearsi di bel nuovo, per mezzo d'una volontà ferma e determinata,
il felice avvenire, che era stato promesso alla loro Patria. Legislatori e
Direttori del popolo fran cese, parlate, e la Repubblica Italica esisterà .
Un'assem blea Nazionale e un Governo provvisorio, riunito in Fi renze nel
centro dell'Italia , saranno invito a tutti gli abitanti di queste belle
contrade ; un'armata ausiliaria sarà formata, lo stendardo Italico sventolerà
nell'aria ac canto al vessillo tricolorato, e gl ' intrighi stranieri sa ranno
sventati ancor questa volta ; e il secolo decimonono vedrà folgorare questi due
astri vittoriosi e protettori, che annunzieranno all'Austria e al gabinetto
Brittanico la vicina distruzione, o ai discendenti dei germani e agli abitanti
delle tre isole, ormai troppo serve, la prossima loro libertà ( 1 ) . Il
documento è importantissimo, e la sua importanza appare ancor maggiore, se si
pensa che è esso stato ver gato , quando le sorti non solo di Napoli e
d'Italia, ma anche di Francia, volgevano al male, e molti pavidi disperavano.
Lo stesso pensiero, un po ' più tardi, esprime Francesco Lomonaco in uno
scritto , enfatico e gonfio di forma, ma caldo e commosso d'amor patrio : il
Rapporto fatto al cit tadino Carnot, fiera requisitoria contro le malefatte
degli ( 1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana , p . 335 ; M. Rosi , op. cit.,
v. I , p. 215 e sgg.; V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit . , p. 151 e sgg 200
stessi francesi in Italia, malefatte, che non ebbero altro effetto che quello
di allontanare sempre più le simpatie del popolo dalla causa rivoluzionaria. Anche
il vesuviano Lo monaco sente che in Italia si sta formando una volontà che non
era per l ' innanzi, ma invano si sforza di spie garsela filosoficamente,
troppo imbevuto com'è di rigi dismo giacobino. Egli enumera i diritti, quelli
che egli almeno dice diritti del popolo italiano, all'unità e all'in dipendenza
, quegli elementi che l'indagine sistematica del secolo XIX poi preciserà come
i presupposti del con cetto di nazionalità. L'Italia, non divisa da grossi
fiumi nè da grandi mon tagne, separata dalle Alpi e dal triplice mare dagli
altri popoli, forma una indissolubile unità geografica : è questo il primo
elemento della nazionalità. Gli abitanti che l'a bitano hanno la stessa tinta
di passioni e di carattere, godono d'un eguale germe di sviluppo morale e di
fisica energia, hanno gli stessi interessi, la stessa lingua, la stessa
religione : tutto li addimostra per membri della stessa famiglia : sono questi
nuovi e complessi elementi della nazionalità, elementi etnici, linguistici e
religiosi, che si pongono accanto al primo elemento geografico. Aggiungete a
ciò una ininterrotta tradizione storica, per cui uno è il processo evolutivo
della stirpe, uno il fasto e la sventura, come uno l'avvenire, ed avrete
l'ultimo elemento, che informa di sè un popolo e cementa quel che possiamo dire
d'una nazione ( 1 ) . Gli italiani hanno perciò un diritto naturale, ab aeterno
acquisito, all'unità e all ' indipendenza. La Francia, dice in sostanza lo
stesso scrittore, può e deve riconoscerlo positivamente. Solo così l'Italia,
dopo tanti secoli potrà vedere sanate le sue molte e sanguinose piaghe, che la
tormentarono e la tormentano. « Qual riparo » scrive il Lomonaco « a tanti mali
? Qual rimedio a piaghe sì profonde ? Come imprimere alle de ( 1 ) F. LOMONACO
, Rapporto al cittadino Carnot, ecc. , in se guito al Saggio storico di V.
Cuoco , Laterza ed. , Bari, 1913 , p. 323. 201 presse ed avvilite fisonomie
italiane il suggello dell'an tica grandezza e maestà ? Uno dei principali
mezzi, se condo me, è l'unione. Perchè termini il monopolio in glese , e i vili
isolani cessino di arricchirsi su le rovine del continente ; perchè si
oppongano argini all'ambizione del l'Austria , la Francia abbia una fedele
alleata , la condotta della Prussia sia meno equivoca, il gran colosso dell’im
pero russo stia immobile ne ' ghiacci del nord, la Spagna divenga stabile amica
della gran repubblica ; perchè, in una parola, vi sia in Europa bilancia
politica e si disec chi la sorgente delle guerre, è d'uopo che l'Italia sia
fusa in un solo governo, facendo un fascio di forze. Rea lizzandosi quest'idea
, gl'italiani, avendo nazione, acqui steranno spirito di nazionalità ; avendo
governo, diver ranno politici e guerrieri; avendo patria, godranno della
libertà e di tutti beni che ne derivano ; ecc. » ( 1 ). La ragione prima
dell'unità italiana così è un fattore esterno, quello di un presunto equilibrio
europeo , quello d'una nuova armonia tra i popoli, tra le genti del nostro
belligero vecchio continente. Questi gli antecedenti dell'idea unitaria, queste
le sante origini di quel concetto di nazionalità ( 2 ) , che troverà poi in
Giuseppe Mazzini il suo apostolo. Il Cuoco, che a Na poli visse ed operò, che
con tutti i patrioti di Napoli a lungo ebbe rapporti, non può non agitare gli
stessi senti menti . Ma questi da lui come vengono trasformati , in lui quanta
nuova luce acquistano ! Esule dalle sventure della Partenopea, visitato Marsi
glia , Chambery, Parigi, dopo Marengo, nel dicembre 1800 il Cuoco è a Milano,
ove presto pubblica il Saggio e i Fram menti (3 ) . Io non mi indugierò neppur
brevemente sul l'attività del molisano nella Repubblica cisalpina ( poi italica
) e nel Regno italico, attività vasta e complessa di ( 1). F. LOMONACO, op.
cit. , p. 327. (2 ) Chi vuole avere notizie più ampie veda La rivoluzione
napoletana del CROCE , ove vi è un largo studio sull'argomento , pp . 329-342.
( 3) N. RUGGIERI , op. cit . , p . 3 ] . 202 studioso, di cui sono documento le
Osservazioni sul Dipar timento dell'Agogna, che vanno sotto il nome di L.
Lizzoli, sebbene siano, come è stato indiscutibilmente dimo strato ( 1), del
nostro scrittore, e i frammenti su la Sta tistica della Repubblica italiana,
opera scientifica di vasto respiro ( 2 ) , che dimostrano quanto alto fosse il
bisogno del nostro autore d'esaurire ogni forma di realtà umana, poichè solo
sovra una conoscenza adeguata di essa si può fondare un coerente edificio
politico e legislativo . Sono punti questi oramai acquisiti alla storia e su
essi non mi soffermo. Vengo piuttosto ad un altro punto, la fonda zione del
Giornale italiano, che tanta larga parte ha nella formazione della nostra
coscienza nazionale, che primo agita, nel fulgore della gloria napoleonica , il
problema unitario . In quel periodo tumultuoso, che comprende i primi decenni
del secolo XIX, Milano è il centro culturale più cospicuo d'Italia . Napoli,
dopo le aspre lotte giurisdi zionali con la Chiesa , dopo il fiorire della sua
Università, dopo la gran luce diffusa da Filangieri, Galiani, Pagano, Cirillo ,
caduta la breve repubblica del 1799, colla restau razione del Ruffo, aveva
visto disperso tutto quel te soro di sapienza che cinquant'anni di attività
scientifica aveano accumulato. Torino era un centro troppo ristretto, ancor
provinciale e particolaristico, sebbene già comin ciasse a dar segno di nuova e
più ampia vita, ma non poteva offrire assolutamente nulla , dato che con le vit
torie del Bonaparte aveva perduto l'antica libertà. Di Venezia , di Firenze, di
Roma inutile parlare. Milano dunque ne ' primi anni del nuovo secolo è il
centro più attivamente colto d'Italia . Grandi in essa sono le memorie del
popolo, grande la tradizione recente. « Ivi si era formata prima la scuola del
giansenismo, e poi la scuola de' diritti dell'uomo » ; ivi « la 6 Società
patriot tica ” , divenuta poi Società popolare, aveva lavorato alla diffusione
delle idee nuove » . Come rileva Francesco ( 1 ) N. RUGGIERI, op. cit . , p. 40
; G. Cogo , op. cit. , pp. 13-23, ( 2 ) G, Cogo, op. cit . , p . 24 e sgg. 203
De Sanctis ( 1 ) ivi s'era espresso, contemporaneamente forse ai primi
tentativi giurisdizionalisti del Tanucci, un moto, diretto principalmente
contro la curia romana, per sonificata nei gesuiti, e contro l'aristocrazia,
che pur non avendo portato ad immediati mutamenti politici, annun ciò importanti
riforme civili per il miglioramento del l'uomo, che già erano concrete
conquiste civili , allor quando il turbine rivoluzionario si scatenò,
distruggendo tutto, l'antico e il nuovo, il cattivo e il buono, ciò che doveva
crollare e ciò che era degno di restare. A Milano aveva scritto il Beccaria,
instaurando nel campo penale nuove dottrine, che, reagendo a tutto il sistema
degenere del medievale processo inquisitorio, preludono ad un mi rabile fiorire
delle dottrine criminalistiche ; il Verri aveva disputato di economia, di
finanza , di sociologia ; il Caffè aveva agitato nelle menti più illuminate i
nuovi pro blemi filosofici e scientifici, le nuove posizioni artistiche, che
appassionavano non solo l'Italia, ma la Francia e l'Europa tutta. Questa la
tradizione, che ne' primi anni del nuovo se colo Milano rinnova in una vita
sempre più grande e degna. Le varie rivoluzioni vi hanno fatto affluire esuli
non solo da Napoli , ma da ogni parte d'Italia , poeti e filosofi, soldati e
commercianti, giureconsulti ed econo misti ( 2 ) . È il periodo grande della
vita milanese; il pe riodo in cui, per dare tre illustri nomi, appena da poco
spento il Parini, cantano Monti Foscolo Manzoni. Nulla da meravigliare se in
questo ambiente d’intellettualità si agitano quelle questioni, che poi lo
stesso secolo XIX vedrà realizzate e risolte, concreterà insomma nell’azione
politica . L'animo ardente di Vincenzo Cuoco in questa società così vivace ed
attiva trova tutta lo stimolo per destarsi da quella sua natural pigrizia, che
lo stesso Manzoni in (1) F. DE SANCTIS , Saggi critici, Milano, Treves ed. ,
1918 , v. III , p. 2 . ( 2 ) R. SORIGA, L'emigrazione meridionale a Milano nel
primo quinquennio del secolo XIX, in Bollettino della Società pavese di storia
patria , a. XVIII ( 1918 ) , pp. 102-117 , pp. 119-121 , 204 lui notava , e
della sua nuova attività, oltre gli scritti statistici su citati, sono
testimonianza gli articoli sul Gior nale italiano, che egli pubblica il 2
gennaio 1804 e di rige continuamente fino all'agosto del 1806, fino cioè al suo
ritorno in patria, avvalendosi della cooperazione di due valentuomini,
Bartolomeo Benincasa e Giovanni d'Aniello ( 1 ) . Seguendo il nostro metodo di
non occuparci di pro blemi biografici, noti a sufficienza, sorvoliamo sulla fon
dazione del foglio milanese ( 2 ) , e vediamo piuttosto che cosa esso
rappresenti nella storia dell'idea nazionale, quale sia il suo rapporto con i
precedenti ideologici del nazionalismo, che abbiamo visto in Paribelli e
Lomonaco. Che cosa è innanzi tutto la nazione per Vincenzo Cuoco? È qualcosa di
già acquisito, di rigidamente fatto, di sta tico, o invece qualcosa da
acquisirsi, da farsi, di dina mico, qualcosa insomma che diviene in un processo
inin terrotto ? Esiste realmente e storicamente una naziona lità italiana, che
è formata con questi e con quegli altri elementi, che sono questi e quelli, e
nulla più ? E quali sono questi elementi ? Abbiamo noi perciò un diritto na
turale ad essere nazione, diritto che gli stranieri non pos sono contestare,
donde scaturisce un correlativo supe riore dovere a permettere la nostra unità
nella forma d'uno Stato indipendente e sovrano ? Sono questi al trettanti
problemi , ai quali dovremo singolarmente ri spondere. Se noi ritorniamo col
pensiero agli scritti del Paribelli e del Lomonaco, noi vediamo in essi uno
sforzo a definire concretamente gli elementi costitutivi di questo concetto di
nazionalità, che poi alla resa dei conti finisce per man care e per sfumare,
proprio nel momento , in cui pure essi credono d'averlo conquistato e fissato.
Nè è a dire che ( 1 ) V. FIORINI e F. LEMMI, op . cit., p . 655. ( 2 ) Cfr. A.
BUTTI, La fondazione del Giornale italiano » e i suoi primi redattori, Milano,
Cogliati ed ., 1905 ( estr. dall’Ar chivio stor. lomb. , a. XXXII, fasc . VII)
; vedi pure N. RUGGIERI, op. cit . , p. 43 e sgg.; nonchè G. Cogo, op. cit.,
pp. 30-34. 205 l'insufficienza sia dovuta all'insufficienza della loro cul tura
. Uomini di ben maggiore preparazione si sono sfor zati d'esaurire criticamente
il contenuto della naziona lità e non ci sono riusciti. Ogni elemento, tra
quelli da noi presi in esame, si rivela attivo nella formazione della
nazionalità, ma poi non può essere a rigore accolto come necessario essenziale
costi tutivo. Ancora : vi sono elementi, che a volta sono, a volta non sono ;
altri che operano storicamente con una certa intensità , ed altri con una
intensità maggiore o minore. Il Lomonaco accenna ad elementi geografici,
etnici, lin guistici ed eziandio religiosi, quali antecedenti del nostro
concetto, del concetto che noi tutti abbiamo di nazione, per cui gli italiani
sono fatti per essere membri d'una sola famiglia. Tutti questi egli afferma
come la base concreta , sovra la quale s'aderge il superiore diritto a che
l'Italia sia un solo Stato. Data questa concezione naturalistica, la
conseguenza che ne scaturisce è una sola : il popolo italiano ha una superiore
ragione a divenire indipendente, a trovare la sua forma giuridica in un
reggimento uni tario ; gli stranieri non debbono che riconoscere positiva mente
quel che Dio o la natura, o altri che dir si voglia, segnarono sulle coste
delle montagne e nel corso de'fiumi, separando la patria nostra dalle altre
patrie, facendo si che essa, geograficamente delimitata dalle Alpi e dal mare,
sia abitata da una sola gente, parlante un solo idioma, avente una sola
religione, una sola storia, una sola mis sione, una sola somma d'interessi.
Ecco perchè il Paribelli e il Lomonaco si rivolgono ai francesi . Essi sono i
più forti, essi possono perciò estrin secamente donare all'Italia quell'unità
statale, a cui senza dubbio ha diritto, perchè la nazionalità è una realtà non
da farsi, ma già fatta e perciò statica. Quel che ancora non è fatto ma da
farsi è lo Stato uno ed indipendente, considerato come esterno alla nazione,
quasi come una sua sovrastruttura, che può essere e può non essere, ma che, sia
o non sia, lascia inalterata la nazionalità. Può esservi la nazione e non
esservi lo Stato, e viceversa. Lo Stato sarà il riconoscimento susseguente ed
esteriore d'una 206 realtà già concretizzata , e quindi definitiva, che è la na
zione con quegli elementi che sappiamo. Contro questa concezione s’oppone il
Cuoco Nessuno de gli elementi positivi della nazionalità può dirsi essenziale
al concetto di nazionalità. Prendiamoli uno ad uno, ed ognuno di essi ci
apparirà fallace e transeunte. Costruire sovr’essi val quanto costruire sovra
la sabbia. Che è la terra se non una mera quiddità naturale, che in sè e per sè
non ha che una importanza relativa, tant'è vero che gli ebrei sono nazione pur
fuori dal territorio nativo, e lo sono dopo quasi due millenni da che si sono
dispersi per il mondo ? Che è la religione, se noi la concepiamo come religione
comune di tutti, con quei determinati solenni riti e con quella certa gerarchia
ecclesiastica , se non un astratto ? Ma d'altra parte ognuno di questi ele
menti, ed altri che abbiamo sorvolato, acquistano mag giore consistenza , se
noi li guardiamo non già nella loro estrinsecità e nella loro astrattezza, ma
se li consideriamo nella loro significazione spirituale, vale a dire in quanto
noi li compenetriamo di noi, de ' nostri affetti, de' nostri sentimenti. Non è
più allora la terra fisica geografica, « bagnata » come dice il Lomonaco « dal
Mediterraneo, dal l ' Jonio , dall'Adriatico , e separata dagli altri popoli da
una catena di monti inaccessibili » , ma bensì quella terra che ci vide nascere
e vide nascere i nostri avi, ove i nostri avi sono sepolti, saranno sepolti i
nostri padri, saremo sepolti noi pure, quella terra ove noi lavoriamo ed amia
mo, ove lavorarono le generazioni che furono e compi rono grandi cose, quelle
grandi cose, di cui si vede ancor oggi la testimonianza nelle grandi
costruzioni, nelle opere plastiche, ne ' carmi, nelle.storie, che ci commovono
e ci fanno fremere d'orgoglio. Non è più allora la religione cattolica romana
con i suoi dommi scritti e rivelati, fissati perennemente ne' sacri libri,
bensì quella religione che vive ne ' nostri cuori, e ci anima nelle opere
degne, ci rimprovera nelle indegne, ci consola nelle disgrazie, che brilla come
speranza di luce futura, che noi sentiamoogni momento, sempre nuova e presente,
sempre viva e rin novantesi . 207 La nazione insomma è in noi, è quella maggior
consape volezza che noi abbiamo di noi, onde ci sentiamo fratelli di tanti
altri individui, che perciò poniamo non come estranei a noi, ma simili
ne’sentimenti e negli affetti, for manti una superiore unità spirituale. Non è
perciò nè il territorio, nè la lingua, nè la razza, nè l'interesse che de
termina la nazionalità, il suo essere e il suo contenuto, ma siamo noi stessi,
che con la nostra spiritualità affermiamo i vari elementi di volta in volta
come costituenti la nazio nalità, e li plasmiamo in una suprema volontà, che è
co scienza ed energia . La nazionalità così non è fuori di noi, ma in noi ; non
è materia o natura, ma spirito ; non è contenuto, ma forma del più vario
contenuto . Le conseguenze di questa posizione sono incalcolabili. La
nazionalità non è , diviene; non è qualche cosa di preesistente alla nostra determinata
energia spirituale, ma coeva con essa, perchè da questa posta e generata in
ogni suo momento. Tale più alta visuale del problema il Cuoco esprime in quel
Disegno di un giornale italiano, che egli presentò nel 1809 al vice- presidente
della Repubblica italiana Fran cesco Melzi d'Eril ( 1 ) . La nazione, egli
dice, non è formata ; si tratta anzi di formarla. « Fra noi non si tratta di
conservar lo spirito pubblico, ma di crearlo. Conviene avezzar le menti degli
italiani a pensar nobilmente, condurle, quasi senza che se ne avvedano, alle
idee che la loro nuova sorte richiede, e far divenire cittadini di uno Stato
coloro i quali sono nati abitanti di una provincia o di paesi anche più umili
di una provincia » ( 2 ) . Da ciò è facile vedere come la con cezione
naturalistica sia superata : la nazione non esiste ( 1 ) Il documento tratto
dall'Archivio di Stato di Milano è stato pubblicato dal prof. ATTILIO Butti in
appendice alla sua op. cit., nonchè ristampato da G. GENTILE : VINCENZO Cuoco,
Scritti pedagogici inediti e rari, Roma-Milano, Albrighi e Se gati ed., 1909, p
. 3 e sgg.; e poi da N. CORTESE e F. NICOLINI: VINCENZO Cuoco, Scritti vari,
Bari, Laterza ed. , 1924, v. I. , pp. 3-12 . ( 2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v .
I , p. 4 . 208 in natura, come mera entità di fatto, ma nello spirito, come
superiore unità ideale. Quest'unità dello spirito, che poi è energia
plasmatrice e volontà realizzatrice, come abbiamo detto, consiste di due parti
principali: « la prima è la stima di noi stessi e delle cose nostre ; la
seconda è l'accordo de' giudizi di tutti su quegli oggetti che possono essere
utili o dannosi » ( 1 ) . Io direi : è in primo luogo autocoscienza,
consapevolezza di noi e delle nostre pos sibilità ; in secondo luogo
quell'atto, per cui il nostro io particolare, coincidendo con tutti gli altri
particolari in una sola volontà, s'afferma come universale. La nazione così
null'altro è che volontà di nazione, e, siccome con cretamente la volontà è in
noi uomini, la nazione è in noi, quella nazione che noi amiamo, sospiriamo, che
noi idoleggiamo ne' nostri pensamenti, che vediamo cantata ne' grandi poeti,
che desideriamo grande e possente nel futuro come lo fu nel lontano passato,
che infine noi vo gliamo ed affermiamo in ogni nostro pensiero ed atto, onde
ogni nostra opera o scritto reca l ' impronta d'un superiore carattere, che è
il carattere di nostra gente. La stessa così detta tradizione nazionale non è,
non ha alcun valore, se non nel presente, se non in quanto la poniamo come
presente, e perciò solo operativa di grandi cose, incitamento a maggiori
grandezze . Se noi l'assu miamo come passato, essa null'altro è che retorica,
sban dieramento inutile di grandi fatti , su cui tutti possono meritamente
ridere. « Un giornalista di Londra o di Pa rigi può mille volte al giorno
ripetere ai suoi compatrioti: Noi siamo grandi. Egli sarà sempre creduto . Un
giornalista italiano, se pronunzierà questa stessa propo sizione, desterà il
riso ; ed una proposizione di cui si è riso una volta, dice Shaftesbury , non può
produrre mai più verun buon effetto » ( 2 ) . Anche la tradizione, come tutti
gli elementi della nazionalità non deve essere fuori degli uomini, ma
veracemente parlare agli uomini. La sto ria resta mera erudizione passiva
inerte, se la riguardiamo ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I , p . 3 . ( 2 ) V.
Cuoco, Scritti vari, v . I , p. 4 . 209 come un frigido insieme di fatti ; ma
se questi fatti par lano ad uomini, e ad essi dànno maggior consapevolezza di
loro stessi, ond'essi acquistano maggiore energia e vo lontà di dominio, allora
la storia diventa davvero maestra de' popoli. Così la tradizione ben'intesa
diviene autoco scienza, stima di noi stessi. « Alla stima di loro stessi »
scrive il Cuoco « e delle pro prie cose debbono le grandi nazioni e quella energia,
per cui han fatto le grandi operazioni; e quella pazienza , per cui han
sopportati grandi mali e sacrifizi gravissimi; e quell' affezione al proprio
governo, che si raffredda ed estingue dall'idea che esso non operi bene o che
un altro operi meglio ; e finalmente quella costanza ne' pensieri, ne' disegni
e nelle operazioni, la quale, fondata sul rispetto che abbiamo per i nostri
maggiori, può sola farci ottenere i grandissimi effetti. Quando si analizzano
le nazioni, si trova che i beni ed i mali, la verità e gli errori sono misti
egualmente da per tutto, e che la differenza tra l'una e l'altra non dipende da
altro che dalla loro diversa ma niera di pensare e di sentire » ( 1 ) . Posto
ciò , allorquando la nazione non si è ancora con cretata nella forma di uno
Stato, non può esservi un di ritto, una pretesa a Stato unitario, che noi
possiamo esi gere dagli stranieri, aventi verso di noi un corrispondente dovere
al riconoscimento. Lo Stato è sì riconoscimento di nazionalità, ma non
riconoscimento estrinseco di altri, ma bensì intima affermazione della
nazionalità in ogni suo momento. Dire volontà di nazione e dire volontà di
Stato nazionale è la stessa cosa : affermare la nazione val quanto affermare lo
Stato nazionale. E siccome la nazione non è , ma diviene ; lo Stato non è, ma
diviene. In un senso altamente ideale esso è anche quando giuridicamente non è
riconosciuto dagli altri Stati, in quanto è in noi che lo poniamo ed operiamo
per realizzarlo , e lo realizziamo continuamente in ogni nostro atto. Come si
tratta di fare lo spirito pubblico , la coscienza nazionale, si tratta di ( 1 )
V. Cuoco, Scritti vari, v. I , p. 3 . 14 F. BATTAGLIA . 210 fare lo Stato, e lo
si fa, facendo lo spirito pubblico e la coscienza nazionale. Circa la seconda
parte della nazionalità, dello spirito pubblico, il Cuoco dice, c'è poco da
aggiungere: è il pro blema dell'accordo di più uomini nelle idee utili ( 1 ) ,
onde la loro volontà si può considerare come una sola volontà . Basta
presentare queste idee utili, presentarle caldamente sinceramente, presentarle
spesso, perchè tutti siano d'ac cordo. « È necessario che tutti gli uomini
convengano in tre cose : in rispettar i governi, in rispettar la religione ed
in praticar la morale ; e se tra queste cose si potesse stabilire una
progressione, io non avrei veruna difficoltà di dire che la corruzione della
morale porta seco il di sprezzo prima della religione e poscia del governo. È
na tura dell'uomo trascurar prima i doveri, indi conculcar le leggi che
sanciscono i doveri, e finalmente disprezzar coloro dai quali ci vengono le
leggi » ( 2 ) . Dato che lo Stato moderno null'altro è che nazione, coincidendo
la volontà di Stato con la volontà di nazione, e posto che questa non è fuor di
noi, ne viene che la volontà statale non è estrinseca al soggetto, ma a lui
intima e connaturale : anzi la volontà di Stato coincide con la nostra in
quanto que sta si pone come universale, una ed armonica con tutte le altre. Il
rispetto al governo non deve essere una coa zione, ma un'accettazione libera,
poichè nell'atto go vernativo vediamo l'espressione di posizioni da noi con
divise, anzi da noi volute. Il rispetto quindi allo Stato è in quanto nello
Stato vediamo la sublimazione di quanto di meglio è in noi, e, siccome lo Stato
del Cuoco è stato etico, e, in termini giuridici, professionista, ne
scaturiscono come conseguenze inderogabili: il bisogno che i soggetti
rispettino la loro religione che è anche religione di Stato, pratichino la loro
morale che è anche morale di Stato. Vincenzo Cuoco, in quella parvenza di Stato
unitario che è la Repubblica italica, poi Regno italico, si pone ( 1 ) V.
Cuoco, Scritti vari , v. I, p. 3. ( 2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I , p. 8 .
211 dinanzi una sublime missione, un compito titanico : for mare la coscienza di
quel che sarà o diverrà la nazione italiana. Il problema che abbiamo esaminato
nei napo letani del '99 è invertito. La rivoluzione imponeva una unitarietà
estrinseca, mirava a formare un sentimento vuoto ed astratto di pseudo -
solidarietà umana ; il Cuoco invece s'affisa nell'interiore degli uomini, opera
sui loro spiriti, ne ridesta quella coscienza che il nuovo secolo XIX dirà
nazionalità, e che infine null'altro è che un atto d'energia volitiva, che
plasma e fonde in sè ogni parti colare contenuto. V'è il popolo, quel popolo
che i giacobini idolatravano e levavano alle stelle , ma a questo popolo la
patria non è da darsi bell’e fatta, compiuta e grande, attraverso l'opera di
pochi disinteressati idealisti, o italiani o stra nieri; no , questo popolo deve
agire, vivere pur esso, sen tire i grandi problemi del tempo, acquistarne la
cono scenza , prepararsi liberamente l'avvenire. Il Cuoco pone il popolo come
elemento indispensabile della vita civile , come il grande operatore della
storia in tutti i suoi sviluppi. La rivoluzione sublima in teoria il popolo, ma
di fatto ne ha poco rispetto ; poichè crede po terlo dominare dal di fuori, e
fargli subire i nuovi sistemi politici , come già subiva i vecchi, vuote
sovrastrutture, in cui può vibrare ogni mutevole realtà. La rivoluzione infine
è ne' giacobini, che sono i pochi, non nel popolo, che è la molteplicità. Il
Cuoco crede ciò un grande errore, ed è questa la grande sua trovata, ond’egli
meritamente s’as side tra i grandi del nostro paese. Se vogliamo creare quella
realtà spirituale che è la nazione, non possiamo prescindere dal popolo, dal
popolo che abbiamo visto nel Saggio essere il solo autore delle rivoluzioni e
delle con trorivoluzioni. Il principio della storia è in lui, e in lui sono
tutte le più remote scaturigini della vita. Parlare al popolo, dunque, e
ridestarlo, inserirlo nel pulsare della cosa pubblica, fargli acquistare
dignità e sensibilità, e allora esso non odierà le istituzioni o non sarà ad
esse indifferente, in quanto queste vede fuor di sè stesso, ma le amerà come
sue, espressione della sua più alta eticità , 212 e con le istituzioni amerà la
morale e la religione, che con le prime vedrà intimamente legate. Oggi, dice il
molisano, esiste bene o male una Repub blica o un Regno italico ; il popolo
però ancora ne è fuori: bisogna unire i due termini, perchè solo così il primo
sarà veramente un ente vitale, il secondo un'unità cosciente e non una
molteplicità naturale e perciò bruta. Se domani, il Cuoco non lo dice ma noi lo
intendiamo, vicende storiche nuove distruggeranno la mal connessa unità
napoleonica, e nuovi stranieri invaderanno il bel suolo d'Italia, se in questo
domani il popolo sarà ancor sopito o morto alla vita pubblica, ohimè, non vi
sarà speranza più di unità e di indipendenza ; ma, se per av ventura questo
popolo noi lo avremo educato, istruito , reso elementó vero dell'attività
sociale, oh, allora non vi sarà bisogno di lunghissime lotte perchè la volontà
co mune di nazione, la volontà di Stato libero si concreti, s'imponga in giuridiche
affermazioni dinanzi agli stra nieri, che le subiranno e le riconosceranno !
Così il problema politico in Vincenzo Cuoco diventa sopra tutto problema
pedagogico, anzi il problema peda gogico per eccellenza, come quello che è
destinato a creare un popolo, una nazione, uno Stato ( 1 ) . Ben nota Guido De
Ruggiero che, laddove il carattere spirituale dei moti, che dalla rivoluzione
si espressero, sfuggiva ai rivoluzionari, anche ai più eletti, il Cuoco intende
la nuova esigenza e vuol essere educatore : nella sua grandezza come peda
gogista intendiamo la sua grandezza come storico e po litico ( 2 ) . Certo gli
ostacoli a questa missione, a questo fine sono grandissimi, ma non per ciò il
molisano si sbigottisce: quanto maggiori sono gli ostacoli tanto più bello sarà
il premio nell'avvenire. Oggi in Italia non v'è nazione, non v'è senso
unitario; siamo poveri, pochi , disgregati, senza un esercito vero e ( 1 ) P.
ROMANO, Per una nuova coscienza pedagogica, G. B. Pa ravia, s. d. ( 1924 ),
Torino , p. 106. ( 2 ) G. DE RUGGIERO, op . cit., p. 175. 213 proprio ; non
importa, tutto si farà, ammonisce Cuoco, ed esce in una profetica dichiarazione
di fede, che, ancor oggi, commove e rende superbi nello stesso tempo. « Ogni
Stato » scrive « ha un periodo da correre . Tutte le nazioni piccole son
destinate ad ingrandirsi o a perire. Quelle non periscono, le quali dispongon
per tempo le loro menti all'ampiezza de’destini futuri; onde, quando il corso
de gli avvenimenti loro presenti le occasioni opportune, esse, per mancanza di
preparazione, non si ritrovano impo tenti » ( 1 ) . L'unità d'Italia prima sia
nello spirito, poi certamente sarà nella vita giuridica : ma noi non possiamo
presu merla in questa se non ci sforziamo di concretarla in quello. Dalla frase
che io ho richiamato appare chiaro quanto caldo sia in Cuoco il pensiero
unitario : non basta quella parvenza d'autonomia che la Francia ci dà e Na
poleone mantiene, occorre di più, occorre che ciò che è Italia a Milano sia
Italia a Scilla, e viceversa, occorre la vera unità, cioè lo Stato nazionale.
Questo non è un di ritto del passato inestinto e inestinguibile, sacra eredità
di generazioni trascorse, ma unità da formare ex novo attraverso un'opera
diuturna e disinteressata, in cui tutto ciò che è diritto e storia antica deve
rifondersi e rifog giarsi nel presente, diritto e storia nuova, perchè nuova
volontà e nuova consapevolezza. La storia in un certo senso è peso bruto, se
non si vince come passato ; è atti vità propulsatrice, se noi la riviviamo e ne
ritragghiamo incitamento. Perciò tutto il Giornale italiano è pieno di storia,
di memorie antiche, di riesumazioni dotte, d'in formazioni nazionalistiche : ma
tutto ciò non è materiale d'archivio , da biblioteca, bensì esempio da
prospettarsi ad animi italiani, ond'essi vibrino di un legittimo orgoglio, che
non è comodo adagiarsi in una indiscussa superiorità o antico primato italico,
ma incitamento a nuove opere . Ecco ciò che si propone all'incirca il Giornale
italiano : un'alta opera di pedagogia pubblica . ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari,
v. I , p. 7. 214 Questo giornale, divenuto rarissimo, per lungo tempo è stato
dimenticato dagli studiosi, ma oggi ad esso si è ritornati, e in esso si sono
rinvenute le vere ideali origini, di questa nostra Italia, di cui il Risorgimento
è stato la cosciente affermazione, non l'estrinseco dono di questo o di quello,
sia esso il terzo Napoleone o il Gabinetto britannico. La direzione cuochiana
al Giornale italiano durò tre anni : sono tre anni d'un apostolato fervido
sincero ele vatissimo, senza mai un minuto di riposo . Nessun pro blema,
giuridico o politico, etnografico o storico, econo mico od agricolo, militare o
industriale, sfugge alla mente di Vincenzo, e tutto egli rivolge ad un ben noto
fine, poichè, com'egli stesso osserva, « per formar la mente de’ lettori, è
necessario che l'opera istessa, abbia una mente, cioè un fine unico, e parti
tutte corrispondenti al fine » ( 1 ) . L'importanza di questo foglio non
isfuggì ai più acuti studiosi delCuoco. Già il Romano lo proclamò « un nobi
lissimo apostolato di italianità ( 2 ) » , e, come il Cogo ri leva, questa
affermazione il sopra detto critico convalida con prove sicure, sebbene sarebbe
stato forse opportuno che egli vi avesse fermato un po' di più la sua atten
zione ( 3 ) . Parimenti sul Giornale italiano ha scritt oltre il Cogo, Paul
Hazard, il quale nel suo obiettivo e felice intuito ha ben visto quanto il
Cuoco si differenzia dai gia cobini francesi e quanto rigidamente affermi la
sua na zione ( ) . Ma, nonostante il loro acume, il Romano, il Cogo, l'Hazard ,
non poterono avere quella sensazione sicura della grandiosa importanza di quel
giornale, che solo noi oggi possiamo apprezzare dopo che ulteriori studi hanno
messo in luce come quegli scritti della gazzetta milanese, spesso non firmati,
o sottoscritti con la sem plice sigla C. , fossero letti da un giovanetto
idealista ap ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari , v. I , p. 3. ( 2 ) M. ROMANO , op .
cit . , p. 136. ( 3 ) G. Cogo, op . cit. , p. 32. ( 4 ) P. HAZARD, op. cit., p.
231 e sgg. 215 pena uscito dall'università, che li postillava e li trascri veva
, da Giuseppe Mazzini: piccola favilla atta a destar gran fuoco. Per
raggiungere i suoi alti fini tre sono i mezzi che il Giornale italiano si
propone, e che esplicitamente di chiara : in primo luogo, « presentare al
pubblico quanto più spesso si possa le memorie degli altri tempi : non, come
talora si è fatto, sfigurate e dirette a turbar gli ordini che si avevano, ma
quali realmente sono, e per confermar colla stima di noi stessi gli ordini che
abbiamo » ; in se condo luogo, « incominciare a misurarci, almen col pen siero,
colle altre nazioni » ; poi, « ragionar frequentemente sulle operazioni nostre
», onde acquistare coscienza delle nostre possibilità, delle nostre virtù e dei
nostri vizi (1 ) . Tutti questi tre mezzi miravano ad un fine unico, far
comprendere agli italiani che « chi oggi non è grande » e « quasi diffida di
poterlo divenire » , lo sarà, come « lo è stato una volta » (2 ). Nel luglio
1805 Vincenzo Cuoco, recensendo uno scritto del Monti, di quel Monti, che egli
pur non troppo ammira come personalità morale ( 3) , scritto col quale il poeta
cesareo esalta l'Eroe, che' la gratitudine nazionale in voca « nel tempo stesso
suo conquistatore, suo liberatore, suo Re », non loda l’autore per il suo
lodare l'Eroe, « soggetto tanto comune qual è sempre » , ma bensì per la novità
che ha saputo trovare e per « l'interesse che ha saputo destare rammentando le
antiche glorie italiane, e le sciagure e l'avvilimento , che alla gloria
succedettero, ridestando le ombre de' tempi antichi, e dopo di esse l'ombra di
Dante, di quel poeta del quale nessuna nazione p. 5. ( 1 ) V. Cuoco, Scritti
vari, v. I , p. 5 e sgg . ( 2 ) V. Cuoco, Scritti vari , v. I , ( 3 ) Vedi N.
RUGGIERI, op. cit., p . 163 ; nonchè A. LEVATI, Saggio sulla storia della
letteratura italiana nei primi venti cinque anni del sec. XIX , Milano, Stella
ed ., 1831, p. 131 e sgg ., e G. MAFFEI, Storia della letteratura italiana, 3a
ediz. corretta da P. THOUAR, Firenze, 1853, v. II , p. 259, n . 3 , ai quali il
Ruggieri stesso rimanda. 216 può vantarne un altro più pieno di civile sapienza
» ( 1 ) . « Non altri » commenta « vi era di più opportuno di Dante
all'occasione solenne che Monti celebrava ; di Dante il quale forse il primo
incominciò a illuminar le opre infi nite degli antichi italiani per
ammaestramento de' mo derni; di Dante il più zelante dell'antica gloria degli
italiani ; il più severo censore della corruzione nella quale ai suoi tempi
l'Italia era caduta ; di Dante che tutti i suoi studi e tutte le sue cure
dirigeva al solo fine del risorgimento dell'Italia ; e con quali arti vi
tendeva ! Col predicare tra gli abitanti delle varie parti nelle quali era
allora divisa l'Italia l’unione, e negli ordini pubblici la concentrazione del
potere moderata dalle leggi » . L'alta coscienza del Cuoco vede in Dante il
simbolo d'ogni attività della stirpe, e per il divino poeta ha un vero culto,
come lo hanno e l'avranno tutti i grandi fattori della nostra storia e della
nostra civiltà , da Manzoni a Carducci, da Mazzini a Gioberti ( 2 ) . E la sua
volontà d'esaltare tutto ciò che è italiano, e in Italia ha avuto origine e
nascimento, si compenetra con un felice intuito storico, per cui il fenomeno
politico ( 1 ) Giorn. ital. , 1805, 27 maggio, n. 63, p. 274 : Visione del
professore V. Monti. Per altri accenni del Cuoco sull’Alighieri vedi Scritti
vari, v. I , p. 235, 257 ; v. II , p. 267. ( 2 ) L'alto concetto che V. Cuoco
avea della grandezza di Dante si addimostrò chiaramente in una circostanza
spiace vole, in una di quelle tante polemiche, con cui gli stranieri cercano di
menomare quel che è nostro e di impicciolirlo. Avendo un giornalista dei Débats
scritto che una vita di Dante poteva ritenersi a priori una lettura sonnifera ,
e che la Divina Commedia era l'opera di un piccolo politico , di un poeta bar:
baro, del quale solo pochi frammenti potevano dirsi buoni, il molisano rimbecca
: « Sia permesso all'autore dell'articolo di ignorare la storia, e non saper
quanto Dante fosse politica mente grande. La gloria del sublime poeta ha
offuscata quella del profondo politico , ed il maggior numero degli uomini ram
menta l'autor della Divina Commedia e quasi oblìa l'autor della Monarchia ,
libro che, ad onta delle spinosità scolastiche onde è ricoperto, racchiude
pensieri profondi, e, ciò che più importa, non è molto lontano dai nostri
attuali bisogni » . Vedi Giorn. Ital . , 1804 , 25 gennaio, n. 11 , p. 45. 217
e culturale è mirabilmente rappresentato . Esalta il se colo XVI, « il secolo
in cui rinacquero tutte le arti e tutte le scienze, e tutte rinacquero in
Italia, e dall'Italia si diffusero per tutto il resto ancor barbaro dell'Europa
; si scopersero due nuovi mondi, e tanti mali e tanti beni si aggiunsero
all'antico ; sursero nuove sette religiose, ed il fermento che esse produssero
fecondò li primi semi di quella libertà di pensare che dovea col tempo produrre
e la sana filosofia e l'imsensato pirronismo » ; ma subito si entusiasma, e ,
quasi a suggellare tanta gloria , esclama : « e tutti questi avvenimenti o
nacquero o agitaronsi o compironsi in Italia o per l'Italia o per l'opera degli
italiani...! » ( 1 ) . Il secolo XVI è il secolo di Leonardo, di Raffaello , di
Michelangiolo, di Cellini, di Palestrina, di Ariosto , di Tasso, di Machiavelli
. Il Cuoco è un ammiratore del se gretario fiorentino. E chi mai, se si
eccettui Francesco De Sanctis, intese così profondamente l'autore del Prin cipe
e delle Deche ? Anzi astraendo e generalizzando un parallelo tra il Cuoco e il
Machiavelli si può fare, ed è stato fatto ( 2) . « Più di uno » nota Giuseppe
Ottone « ha paragonato [ Il Cuoco) al Machiavelli, perchè al pari di lui trovò
i princípi e le formule di un rinnovamento della coscienza nazionale : e come
il Machiavelli segna il punto nel quale i fervori umanistici si incarnano nella
realtà della vita politica , e, svestito il paludamento retorico, si rivelano
nelle linee semplici e precise di un nuovo ideale, così il Cuoco, dopo un
secolo di vaneggiamenti filosofici e col concorso di una dura esperienza, per
la quale si fondono come cera le antiche illusioni, ci rivela rinnovata e con
sapevole di sè la coscienza italiana » ( 3 ) . ( 1 ) Giorn . ital., 1804, 21 ,
23 , 25 gennaio ; n . 9, 10, 11 ; pp. 35-36 , pp. 39-40, pp. 43-44 : Varietà :
( vedi in precedenza, p . 163 ) . ( 2) G. OTTONE, Vincenzo Coco è il risveglio
della coscienza nazionale, Vigevano, Unione tipografica vigevanese, 1903, Ap
pendice B. LABANCA, op . cit., p. 407 e sgg. (3) G. OTTONE, op. cit., p. 4. 218
« Le ragioni che possono suggerire il pensiero di una certa affinità tra i due
scrittori sono parecchie : 1° la tradizione, superficiale e scolastica più che
al tro, della trasmissione dell'ideale unitario ; 2º una certa affinità nelle
circostanze che hanno sug gerito all'uno e all'altro scrittore di attendere
alle fatiche dello scrivere ; 30 il comune intento di ricamare sul tessuto
della storia il disegno della loro personale esperienza e delle loro
convinzioni; 40 le frequenti citazioni che il Cuoco appunto fa di detti e sentenze
del Machiavelli; 50 la comune ammirazione per Roma repubbli cana » ( 1 ) . Ma
non è questo che a noi interessa vedere, poi che i paralleli hanno sempre un
valore approssimativo, dato che prescindono dalle mutevoli condizioni dei
tempi, che di volta in volta sono e non si riproducono più, onde il
Rinascimento, fenomeno sopra tutto culturale e in su bordinata politico, non si
può mai raffrontare col Risor gimento , fenomeno soprattutto politico sebbene
anche culturale. Quel che a noi invece interessa , ripeto, è la nuova luce che
il Cuoco riverbera sul segretario di Fi renze, onde per vie diverse da quelle
che tiene Ugo Fo scolo, tende a scagionarlo dai « giudizi ingiusti che il
maggior numero degli uomini dà sugli scritti suoi » . A ciò immagina che un suo
amico conservi il mano scritto d'uno de' suoi antenati, che visse nel secolo di
Leone X ed ebbe rapporti con i grandi uomini del tempo : in questo manoscritto
l'avo descrive una sua conversa zione col Machiavelli sovra un tema politico.
La discolpa del grande fiorentino non potrebbe essere più completa e sicura . «
Il maggior numero ( degli uomini), dice il Machiavelli, è ingiusto, perchè
pieno di passioni e servo de' partiti. Io ( 1 ) G. OTTONE, op. cit ., p. 51.
Giustamente nota l’A. che l'ideale unitario nel Machiavelli è scolastico,
laddove nel Cuoco è più profondo ed intimo. 219 ho voluto scrivere senza
passione veruna ; non ho seguito nessun partito , e li ho offesi tutti. Ho
scritto per gli uomini ragionevoli, e questo è stato il mio torto : gli uomini
ragionevoli son pochi » . Il Cuoco perciò intende studiare e giudicare il
Machia velli realisticamente, da un punto di vista storico, pre scindendo da
ogni giudizio a priori ( 1 ) . Ha il Machiavelli insegnato massime di tirannia
ai Me dici , ha preso per modelli uomini scelleratissimi quali Ca struccio e il
duca Valentino ? Nulla di tutto ciò . Egli ha visto i costumi e gli ordini dei
suoi tempi, e li ha descritti. Ha detto ai principi : che fate ? voi non sapete
essere nè buoni nè cattivi, voi finirete con l'essere nulla e vi per derete;
voi non avete religione e virtù, necessarie allo Stato, e finirete per
distruggerle negli altri. Ha detto : siate giusti, e, se pure qualche volta
vorrete permettervi di derogare dalle leggi della giustizia, sia questo a voi
soli permesso, non agli altri, non a tutti. Ecco un Machia velli più umano
dell'uomo foscoliano : che temprando lo scettro a' regnatori gli allòr ne
sfronda, ed alle genti svela di che lagrime grondi e di che sangue. ( 1 ) Che
questa sia proprio la posizione, sulla quale il Cuoco crede di poter pervenire
ad una esatta comprensione di Ma chiavelli politico, lo dimostra assai bene un
passo di un altro suo articolo : Giorn. ital., 1806, 5, 6 , 7, 8 gennaio , n .
5 , 6, 7, 8 ; p. 19, pp. 23-24, pp. 27-28 , pp . 31-32: Politica ( ristampato
in Scritti vari, v . I, pp. 201-213 col titolo La politica inglese e l’Italia
). « Quelli li quali leggono » scrive il Cuoco « le opere di Macchiavelli colla
stessa attenzione colla quale leggono un romanzo, e quegli altri i quali lo
giudicano senza averlo letto ( com'è accaduto al padre Possevino ed a tutta la
scuola ge suitica ) credono che Macchiavelli abbia date lezioni di tiran nide o
abbia voluto rappresentar quella stessa parte che rap presentò Samuele al popolo
ebreo . Io son persuaso che Mac. chiavelli non volle fare nè l'una nè l'altra
cosa, ma vide i costumi e gli ordini de' suoi tempi, e ne giudicò con una mente
la quale era superiore ai tempi suoi , e che in conseguenza doveva esser per
necessità ammirata o biasimata, e sempre senza ragione, perchè non era mai ben
compresa » . 220 Ma perchè invece di parlare ai sovrani non ha parlato ai
popoli ? Ha tentato di parlare anche ai popoli, ma si è avveduto che avrebbe
parlato, dati i tempi, invano. I principi si muovono per il loro potere, i
popoli per la loro virtù. Sperimentati i popoli tra i quali viveva, non ha
potuto dir loro : fate uso della vostra virtù ; essi non l'avevano. Invece si è
rivolto ai principi ed ha detto : fate uso del vostro potere ; e questo
precetto prima o dopo avrebbe dovuto produrre gli stessi effetti del primo, «
perchè è tanta l'efficacia della virtù che, anche simulata, vale a ricomporre
gli animi e gli ordini delle nazioni » . Ma perchè ha scelto come suo esempio
il duca Valentino ? Perchè quelli che il duca oppresse e distrusse erano più
scellerati di lui, e fra tanti scellerati ha preferito quello « che almeno
dirigeva le sue scelleraggini ad un fine più nobile e tendeva a riunir
l'Italia, che gli altri, con iscel leraggini più vili , dividevano e desolavano
» . Da queste notazioni scaturisce ben netto il giudizio che il Cuoco fa del
Machiavelli, giudizio ben diverso da quello che ne davano tutti gli storici e
ne dà lo stesso Foscolo, che si arresta sbigottito di fronte alla crudezza e
alla rigidità delle massime politiche dell'autore del Principe. Ma il molisano
troppo vigile senso storico e troppo realismo ha in sé per arrestarsi, ed il
suo giudizio infine coincide con quello di Francesco De Sanctis (1). Conobbe
questi proprio lo scritto cuochiano ? Io ne du bito assai ; ma certo è che i
due critici si incontrano, spinti forse ad un punto comune da un solo ideale,
da studi similari sovra la grande opera vichiana, da un eguale temperamento
meridionale, più nobilmente concreto nel suo idealismo critico che non astratto
in un nebuloso atomistico positivismo. ( 1 ) « C'è un piccolo libro del
Machiavelli, tradotto in tutte le lingue, il Principe, che ha gittato
nell'ombra le altre sue opere. L’autore è stato giudicato da questo libro , e questo
libro è stato giudicato non nel suo valore logico e scientifico, ma nel suo va.
lore morale. E hanno trovato che questo libro èun codice della tirannia,
fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i mezzi e il successo loda
l'opera. E hanno chiamato machia. 221 Il Cuoco risulta da questo nostro esame
un esaltatore caldo delle glorie italiche, ma la sua esaltazione non è
un'esaltazione cieca fanatica, bensì cosciente illuminata da fine senso
storico, per cui ogni uomo, poeta o statista, ogni fenomeno politico, glorioso
od infausto, deve inse rirsi nel suo tempo, ove trova le sue radici, cioè la
sua determinazione genetica. Dante è Dante nel suo tempo ; Machiavelli è
Machiavelli nel suo. Quel che per essi potea avere una ragione, per noi può anche
non averla. In ogni caso noi non dobbiamo essere dinanzi a loro passivi, ma
assorbirli, farli nostri, sentirli, fare la loro esperienza no stra, affinchè
la loro vita spirituale non resti campata in cielo ma si saldi con la nostra, e
si continui e si perpetui. Quest'alta dignità umana di Vincenzo lo differenza
ben nettamente dagli stessi suoi cooperatori. Ben rivela a questo proposito l '
Hazard che, per esempio, il Benin casa esercita nel giornale una propaganda
continua d'ita vellismo questa dottrina. Molte difese sonosi fatte di questo
libro , ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o quella intenzione più
o meno lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata e un Machiavelli
rimpiccinito » . ( F. DE SANCTIS , Storia , v . II , p. 50) . « Machiavelli
bisogna giudicarlo da un alto punto di vista . Ciò a cui mira è la serietà
intellettuale, cioè la precisione dello scopo, e la virtù di andarvi diritto
senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da riguardi
accessorii o estranei. La chiarezza dell'intelletto, non intorbidato da
elementi so prannaturali o fantastici o sentimentali, è il suo ideale. E il suo
Eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che com prende e regola le
forze naturali e umane, e le fa suoi istru menti. Lo scopo può essere lodevole
o biasimevole ; e se è degno di biasimo , è lui il primo ad alzare la voce e
protestare in nome del genere umano.... Ma, posto lo scopo, la sua am mirazione
è senza misura per colui che ha voluto e saputo con seguirlo . La
responsabilità morale è nello scopo, non è nei mezzi. Quanto ai mezzi, la
responsabilità è nel non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella
fiacchezza. Ammette il terribile ; non ammette l'odioso e lo spregevole.
L'odioso è il male fatto per libidine o per passione e per fanatismo, senza
scopo. Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove
l'intelletto ti dice che pur bisogna andare » . ( F. DE SANCTIS , Storia , v.
II , p. 69 ) . 222 lianità esaltata, che finisce per divenire noiosa nella sua
metodicità, che fa pensare al partito preso. Si tratta di geografia : sono gli
italiani che hanno scoperto India ed America ( 1804, n. 6 ) ; si tratta del
sistema di Gall: esso è stato preceduto da trovate di italiani ( 1804, n. 140)
; si tratta d'arte tipografica : il primato italico con i vari Bo doni è
indiscusso ( 1805, n. 55) : e così in materia di belle arti, di poesia, di
teatro (1 ) . Il Cuoco ha un altro metodo, spesso esagera sull'infe riorità dei
suoi connazionali di fronte agli stranieri, ma esagera non per altro che per
provocare una specie d'emu lazione, una specie di slancio a cose più alte. Nè è
a dire però che la lode manchi al Cuoco, no, anzi gli abbonda, e si rivolge non
solo ai grandi antichi, ma anche ai contemporanei più eletti o a coloro che da
poco sono mancati ai vivi . E in quest'elogio quasi sempre co glie nel segno, e
le sue osservazioni sono quanto di più giusto si possa concepire. Esprime un
giudizio su Verri, ed il giudizio gli sgorga caldo, come un'apoteosi. « Egli fu
» scrive « sublime filosofo , profondo letterato ; il primo storico della sua
patria, la quale avanti di lui non aveva avuto che cronichisti privi per lo più
di filosofia , di cri tica , di gusto ; magistrato zelante, attivissimo, autore
o almeno parte principale di tutte le utili riforme che can giarono quasi
interamente la vita politica della Lom bardia austriaca » . E il Verri richiama
alla mente un altro grande, che in una disciplina delicatissima, come quella
dei delitti e delle pene, segna l'inizio d'una nuova èra. « A Verri deve
l'Europa Beccaria. Egli fu quasi l'oste trico di un genio grandissimo che
taceva compresso dal l'indolenza a cui era portato per fisica costituzione »
(2) . Spesso sono nomi, grandi ma non abbastanza noti, quelli ai quali si
riferisce, e allora il Cuoco si accalora e la parola diviene incitatrice ed
eloquente, sebben dolorosa ( 1 ) P. HAZARD , op . cit. , p. 235. ( 2) Giorn :
ital., 1804, 4 luglio, n . 80, p. 323-324, Scrittori clas sici italiani di
economia politica. 1 223 nello stesso tempo per la incomprensione degli
italiani . Parlando d’economia trova modo di ricordare un pio niere di questa
scienza e di richiamarvi l'attenzione na zionale, Giammaria Ortez . « Chi era
questo Giammaria Ortez ? Ecco una domanda che tutti gl'italiani fanno, e che
intanto farebbe torto a tutti gl'italiani se un uo mo di tanto merito quanto
Ortez, non avesse voluto egli stesso rimanersene ignoto, non sapremmo dir se
per mo destia o per orgoglio ; modestia sempre lodevole, orgoglio spesso nobile
in un secolo corrotto, ma tanto l'una quanto l'altro eccedenti quei limiti tra
quali si contiene la virtù » ( 1 ) . In questa difesa del nome italico il
molisano muove contro tutti gli stranieri che a lui ingiustamente s’oppon gono
e divengono dispregiatori delle glorie nostre . Recen sendo infatti nel
giornale un opuscolo di Vincenzo Monti , Del cavallo alato d'Arsinoe, nel quale
il poeta si scaglia contro Salvatore De Coureil, che con gallica fatuità aveva
osato menomare glorie purissime d'Italia , il Cuoco lo loda assai di ciò . «
Noi non entriamo in questa disputa.... Ma il sig. De Coureil chiama Parini
cattivo poeta ; Alfieri, se non mediocre, almeno non degno di tante lodi quante
gliene dànno gli italiani sol perchè non hanno altri tra gici; ecc. ecc....
Haec non sana esse, non sanus juvet Ore stes » ( 2 ) . ( 1 ) Giorn . ital . ,
1804, 24 novembre, n. 141 , p. 573 : Economisti italiani. ( 2) Giorn. ital. ,
1804, 24 novembre, n. 141 , p. 574 : Il cavallo alato di drsinoe di V. MONTI.
Nè la tutela vigile che il Cuoco fa del buon nome italico s’ar resta qui:
allorquando « un Lalande dice con pueril sangue freddo, che l'Italia non ha
oggi un solo ( un solo ? ) uomo di merito» ; allorquando il tragico -comico,
drammatico -sentimen tale e memorioso Kotzebue tratta tutti gl'italiani da
ignoranti , da incolti e quasi da canaglia » (Giorn . ital., 1805, 18 agosto,
Sup plemento al n . 98 , pp. 577-8 , Necrologia ), egli è là , e s'appa lesa
bellicoso difensore d'italianità. Recensisce un opuscolo di Luigi Bossi, in cui
questi vendica « l'onore italico trattato con poca civiltà dal sig . Akerblad »
, egli pur sempre ha dinanzi a sè un alto fine civile: la difesa delle nostre
intangibili glorie 224 Da questa rapida scorsa attraverso il Giornale italiano
appare chiara la posizione di Vincenzo. « Noi italiani ab biamo un maggior
numero di uomini grandi che non le altre nazioni », ma noi non li conosciamo
neppure per la nostra apatia : « longa urgentur nocte, carent quia vate sacro »
( 1 ) . La pianta uomo da noi cresce florida, ma gli ' italiani non la
coltivano; e, se vicendevolmente non si ignorano, gli italiani si disconoscono.
« Dotati gl' italiani dalla natura di grandissimo ed acutissimo ingegno, non
mancano di cognizioni ed osservazioni, e nell'angolo più incolto si ritrova
talora un uomo il quale vale per dieci accademici. Che pro ? Le sue
osservazioni, le cognizioni sue vivono una brevissima vita, ristretta tra i
confini di una picciola terra e muoiono con lui. Gli italiani sono grandi, ma
l'Italia rimane picciola » ( 2 ) . E così gli stra nieri si avvantaggiano su
noi : scoperte che furon fatte da italiani, poi vengon ripresentate come novità
francesi o inglesi, e magari da noi ammirate, da noi che forse le avevamo
vilipese e trascurate . E nel rilevare ciò Cuoco non esita a discendere a
problemi pratici, per dimostrare, per esempio, come un ramo d'industria, la
pastorizia « tanto utile » e largamente sfruttata all'estero, sia stata
esercitata tecnicamente per la prima volta da un italiano, il Dandolo, il quale
poi l'ha diffusa con grande dottrina e ripetuta esperienza ( 3 ) ; come, ancora
, certe pratiche agricole generalizzate in Inghilterra o altrove, siano po
steriori d’un buon secolo a ricognizioni nostre, del tutto (Giorn. ital. ,
1805, 22 luglio , n . 87 , p. 470 : A proposito della « Lettre » di L. Bossi
allo SCHLEGEL ). Sovra Lalande, Kotzebue e Akerblad vedi G. Cogo, op . cit., p.
89-90, ove di essi si parla esaurientemente, dando biblio grafia e notizie . (
1 ) Giorn. ital . , 1804, 28 marzo , n . 38, p. 152 : Scrittori italiani di
economia politica. ( 2 ) Giorn. ital., 1804, 19 novembre, n. 139, p. 566 :
Biblioteca di campagna , ecc. ( 3) Giorn . ital., 1805, 25 febbraio, n. 24, p.
96 : Del governo delle pecore spagnole e italiane , ecc. , saggio di VINCENZO
Dan. DOLO: sovra il Dandolo vedi G. Cogo, op. cit. , p. 88. 225 nostre secondo
il giudizio degli stessi stranieri ( 1 ) ; come, infine, addirittura pretese
scoperte fisiche intorno a cui inglesi e galli si disputano il primato siano
scoperte, ri trovati di un filosofo il cui nome va per la maggiore, nientemeno
di Giambattista Vico ( 2 ) . Tutte queste osservazioni rispondono ai mezzi, con
cui il Cuoco si propone di raggiungere il suo fine : la formazione della
coscienza nazionale e dello spirito pubblico. Bisogna cominciare a misurarci
con gli stranieri, ond'essi così ci p. 87. ( 1 ) Giorn . ital., 1805, 31
ottobre, 2 , 4 novembre; n. 148 , 150, 152; p. 874, pp. 882, p. 889-90 :
Giudizio sopra tre istituzioni agrarie. A proposito di questo articolo vedi G.
Cogo, op. cit. , ( 2 ) « Abbiamo parlato della scoperta fatta da un inglese
della virtù che hauna sfera magnetica nuotante nel mercurio di rivolgersi
intorno al proprio asse, e d'indicare così la la titudine e la longitudine. Ora
i francesi disputano agli in glesi l'onor della scoperta, e pretendono che
questo fenomeno trovasi descritto nelle Efemeridi geografiche di Busch, 1803. È
pur graziosa cosa veder altri popoli disputarsi la gloria di ciò che è
italiano. Nella Vita che Vico ha scritto di sè stesso ( e la scriveva circa il
1730 , quasi un secolo prima di Busch e del l'inglese ) , quest'uomo parla di
una nuova teoria che egli avea imaginata per ispiegar il fenomeno della
calamita, e da questa sua nuovateoria trae la conseguenza che la calamita non
solo si dirige al polo, ma anche al zenit, onde vien poi la rotazione intorno
al proprio asse, l' imitazione, diciam così, del giro della terra, ecc. Ķico
conchiude dicendo che questa nuova proprietà si sarebbe osservata tosto che si
fossero fatte dell'esperienze, in modo che la calamita avesse potuto
svilupparla. Non parliamo della ragione che mosse Vico a far questa congettura
: essa era figlia di una ipotesi forse falsa . E qual altra ragione può aver
altro fondamento che un'ipotesi , o qual altra ipotesi può dirsi vera ? Del
resto Vico proponeva un'esperienza : dovea farsi e non si fece. Ma già da due
secoli l'Italia non mancava di sommi ngegni, perchè questi li producono il
suolo ed il cielo : però l'italiani più non navigavano, più non commerciavano ;
i overni non si curavano di nulla ed i privati curavan solo lo studio delle
leggi o della medicina, dal quale speravan ric chezza, quello della teologia ,
che li promoveva ad un canoni cato, e qualche sonetto, unico mezzo che un uomo
d'ingegno avea per vedersi aprire la casa d'un grande... » . (Giorn. it. ,
1804, 6 'ottobre, n. 120, p. 489, Senza titolo : vedi V. Cuoco, Scritti vari,
v. I , p. 244. 15 F. BATTAGLIA, 226 appariranno sempre meno grandi di quello
che presu mono di essere, e noi appariremo sempre più grandi di quel che noi
stessi non crediamo. Se essi poi di fatto « sono oggi più grandi di noi » ; «
non importa : appariranno sem pre tanto meno grandi quanto più ci saranno
vicini, e perderanno quella riverenza che suole aversi per le cose lontane » (
1 ) . Ma in quest'esaltazione dell'italianità l'autore del Sag gio storico non
è cieco, anzi, laddove vede una deficienza, la rileva, la rileva, direi, con
crudeltà e freddo sguardo d'anatomista. Gli italiani, per esempio, hanno
rinvenuto quella filosofia delle lingue che è una scienza tutta nostra , ma i
piccoli nipoti , i discendenti di quel Vico, che in essa tant’orma stampò, non
che curarla, l'hanno abbando nata ( 2 ) : gli italiani hanno creato i più
splendidi melo drammi e libretti, che si conoscano, orbene, oggi essi stessi
non sono capaci di darci nulla più di buono, e la deca denza del libretto porta
seco la decadenza della musica ( 3 ) : gli italiani un dì maestri nella
difficile arte della sacra eloquenza, oggi sono inferiori agli stranieri che da
noi hanno appreso ( 4 ) . Questa posizione critica, che tanto distingue
l'italiani smo del Cuoco da quello del Benincasa o del Lomonaco, si rivela
anche nel terzo mezzo dal molisano adottato per creare un sentimento unitario :
il ragionar di frequente delle cose nostre. « Delle cose nostre o non ne
abbiamo parlato, o ne abbiam parlato con insensato disprezzo e con più
insensata lode ; cose le quali, sebbene opposte, pure per la natura dello
spirito umano, che oscilla sempre tra gli estremi, non sono inconciliabili tra
loro ». Delle cose nostre occorre invece ragionare obiettivamente, senza ( 1 )
V. Cuoco, Scritti vari, v. I , p. 5. ( 2 ) Giorn . ital. , 1804, 25 febbraio,
n. 24 : Sullo studio delle lingue ( ristampato in Scritti vari, v . I, p. 78 e
sgg., col titolo G. B. Vico e lo studio delle lingue come documenti storici). (
3 ) Giorn. ital . , 1804, 8 ottobre, n. 121 , p. 493: Spettacoli. ( 4 ) Giorn.
ital., 1804, 25 aprile , n. 50, p. 200 : Varietà ( ristam pato in Scritti
pedagogici, pp. 16-22; ed ora in Scritti vari, v. I , pp. 89-92, col titolo di
Eloquenza ecclesiastica ) . 227 accenderci troppo, con scienza e ragione, e
allora saremo davvero illuminati, e allora troveremo « mille volte motivi di
renderci migliori e non mai di crederci pessimi » ( 1 ) . A questi princípi
superiori il nostro uniforma l'analisi, che, di volta in volta, fa dei più
importanti fenomeni del tempo. Recensendo, per esempio , un libro dell'avv. An
tonio Corbetta sulla malavita , ( 2 ) ritiene che tra le altre cause, che
questa alimentano, la più importante și debba ritrovare nell'educazione
insufficiente. « Noi non abbiamo costume » . « Noi non abbiamo educazione
fisica » . « Noi non abbiamo educazione dello spirito. I figli del popolo non
imparan da fanciulli nulla di ciò che.... dovrebbero sapere quando sono
adulti». Ecco come Cuoco getta rapi damente la luce sul fenomeno, e dal
fenomeno risale alle cause , anzi alla causa per eccellenza, più remota, ma più
vera . Provvedimenti di sicurezza ? Ma questi sono insuf ficienti per eliminare
il male, una volta note le cause de terminanti. Se volete estirpare la
delinquenza, consiglia Vincenzo, i mezzi non sono la reazione e il carcere, ma
le istituzioni sociali con una intensa opera di pedagogia preventiva. Che abbiamo
fatto, si domanda, in questo campo ? Nulla. Ecco come un problema giuridico
diviene un problema di natura superiore, pedagogico, anzi filosofico : l'educa
zione del popolo, di cui il Cuoco è il più strenuo soste nitore , e che egli
pone sovra basi nuove e geniali. Ma questo problema, che poi è il fulcro del
pensiero del mo lisano, il problema insomma per eccellenza, noi esamine remo
più a lungo, quando verremo a parlare del Rap porto e Progetto di decreto per
l'ordinamento della pubblica istruzione nel regno di Napoli. ( 1 ) V. Cuoco,
Scritti vari, v. I , p. 6 . (2) Giorn. it ., 1804, 20 agosto, n . 100, p. 410 :
Osservazioni di un ex giudice , ecc . CAPITOLO VI. Il « Platone in Italia » e
la tesi di un antico primato italico. Deficienza artistica filosofica e storica
del « Platone » . – Suo - valore ideeale nella formazione d'una nuova coscienza
na zionale. - Antico primato italico preellenico. - Unità. - Educazione del
popolo. Governo dei migliori . – Stato e religione. - Lotta di classe , - Cuoco
e Gioberti. L'opera pubblica e pedagogica di Vincenzo Cuoco nella Repubblica e
nel Regno italico non si esaurisce nei molte plici articoli del Giornale
italiano, di cui noi abbiamo rile vato soltanto i più importanti, quelli che
meglio servivano a documentare particolari punti da noi presi in esame, ma si
continua nel Platone in Italia, nuova ed alta testi monianza di quello spirito
che abbiam visto in opera ininterrottamente dai Frammenti agli scritti del
foglio milanese. Questo sentimento nazionalistico, che ha il suo centro sol
nello spirito e non fuori di esso, è la gran trovata, il punto fermo del
molisano, e compenetra il Platone. Quello stesso uomo, nota giustamente Paul
Hazard ( 1 ) , che nel 1801 scriveva che avrebbe « amato di morir per la sua
patria » , con la sua Napoli, « poichè essa più non esiste », ( 1 ) P. HAZARD,
op. cit. , p. 243. 229 mentre egli vive ancora, ed aggiungeva che ad essa ha
consacrati tutti i suoi pensieri ( 1 ) ; ora consapevole sem pre di più di
quanto nel Saggio storico ha pur detto, cioè che « l'amore di patria.... nasce
dalla pubblica educa zione » ( 2 ) , ora scrive una nuova opera il cui solo
fine è sempre lo stesso da noi precedentemente dichiarato : creare lo spirito
nazionale, e crearlo, presentando quanto più spesso si possa le memorie dei
tempi gloriosi . Che questo sia lo scopo del Platone in Italia nessun dubbio :
è Cuoco stesso che ce lo dice. Il Platone scrive l'autore , prossimo a
pubblicare il terzo ed ultimo volume del suo romanzo, in una lettera al vicerè
Eugenio è « diretto a formar la morale pubblica degl'italiani, ed ispirar loro
quello spirito d’unione, quell’amor di patria, quell’amor della milizia che
finora non hanno avuto » ( 3 ) . Il Platone perciò è un romanzo a tesi, o, se
volete , un romanzo didattico, se con ciò noi vogliamo riferirci al suo fine,
lasciando impregiudicata assolutamente l'ulte riore valutazione artistica. E
chi lo legge con cura non può non accorgersi di questo scopo , estrinseco sì
all'arte, ma non allo scrittore, di questo scopo che egli persegue, e per il
quale solo sembra vivere. La trama in sè è tenuissima, tanto tenue che lo scrit
tore quasi non se ne accorge, onde appena l'abbozza per tosto sorvolarla : un
giovane greco, Cleobolo, fa un viag gio culturale nella Magna Grecia al principio
del quinto secolo di Roma, con il suo grande maestro Platone, vi sita le più
importanti città d'Italia, Taranto, Metaponto, Eraclea, Turio, Sibari, Crotone,
Locri, ecc . , conosce di rettamente o indirettamente i più fieri popoli della
pe ( 1 ) G. ROBERTI, Lettere inedite di G. Botta, U. Foscolo e V. Cuoco, in
Giornale storico della letteratura italiana , a. XII ( 1894), v. XXIII , pp.
416-427. La lettera del Cuoco è ora ri prodotta in Scritti vari , v. II , p .
302. ( 2 ) V. Cuoco, Saggio storico , p. 91 . ( 3) A. BUTTI, Una lettera di V.
Cuoco al Vicerè Eugenio nella miscellanea Da Dante al Leopardi, per Nozze
Scherillo -Negri, Milano, Hoepli ed. , 1904, pp . 529-40. La lettera è ora
ripro . dotta in Scritti vari, v. II, pp. 334-338. 230 nisola, i sanniti e i
romani, ammira le opere d'arte, di sputa di filosofia, si innamora d'una bella
ragazza, Mne silla, stringe con essa un bel nodo d'amore. La trama è questa, ma
vien meno dinanzi a l'urgere d'un contenuto didascalico svariatissimo, che la
spezza, la frantuma, e in fine ce la fa dimenticare. Nè il Platone in Italia è
sotto questo riguardo un ro manzo originale. Anzi ha i suoi bravi antecedenti,
tra cui sopra tutti importante quel Voyage du jeune Ana charsis en Grèce, che
nel secolo XVIII ebbe una grande diffusione in Francia e fuori, che ovunque
ebbe ammira tori ed imitatori. Ma nella maggior parte de' casi , come nota il
De Sanctis, il viaggio è « un semplice mezzo, con un altro scopo ed un altro
contenuto », che non sia quello vero e proprio di descrivere paesaggi e
monumenti. « Lo scopo non è più il viaggio ; ma l'espressione di certe idee e
sentimenti, fatta più agevole, con questo mezzo » . I secoli XVIII e XIX
amarono il romanzo viaggio, come del resto anche il romanzo -epistolario ,
perchè col suo meccanismo si piega ad ogni finalità . Il Platone anzi è nello
stesso tempo viaggio ed epistolario , è un insieme di lettere spedite visitando
l'una dopo l'altra le varie città d' Italia. « Il viaggio, come forma
letteraria, può servire a qua lunque scopo ed avere qualunque contenuto ; è
cera, che può ricevere ogni specie d'impressione; marmo, che può configurarsi
secondo il capriccio dello scultore. È diffi cile trovare una forma più libera,
più pieghevole al vo stro volere. Passate da una città in un'altra : nessun
limite trovate al vostro pensiero . Potete incontrarvi con gli uomini che vi
piace ; immaginare ogni specie d'acci denti ; saltare dalla natura ai costumi,
da' costumi al l'anima; visitare, qua e colà, come vi torna meglio ; rin
chiudervi, tutto solo, nella vostra stanza, e fantasticare, filosofare,
poetare, mescere, a vostro grado, sogni , ghiri bizzi e ragionamenti, dialoghi
e soliloqui, visioni e rac conti . Se voi vi proponete uno scopo particolare,
questo v ' impone il tal contenuto, il tale ordine, la tal propor zione:
insomma v’impone un limite, che non procede 231 dal mezzo liberissimo di cui vi
valete, ma dal fine che avete in mente » ( 1 ) . Ma se voi leggete l'opera del
Barthélemy e la raffron tate con l'opera cuochiana, una differenza vi balzerà
su bito agli occhi, nell'alto fine che il nostro scrittore s'è proposto e che
nel francese, naturalmente, manca del tutto. È il fine quello che interessa il
Cuoco, e che da lungo tempo egli persegue ne' più vari modi. Il Giornale
italiano, a questo proposito, ci mostra come l'idea d'un viaggio educativo nei
vari reami della storia si sia al molisano altre volte presentata. « Tra tante
opere che ci si dànno ogni giorno, buone, mediocri, cattive » quella
descrivente un viaggio, per esempio, nel secolo di Leone X, « non sa rebbe
certamente la meno utile per la nostra istruzione e per la nostra gloria » .
Così scrive, e di questo viaggio ideale, di cui immagina che un suo amico
conservi l'an tico manoscritto d'un suo maggiore, dà un saggio in quel colloquio
col Machiavelli che abbiamo a più riprese ve duto ( 2 ) . Il fine dunque è
quello che occupa l'animo del nostro , e questo domina tutto, soffoca,
purtroppo, ogni intendimento che pedagogico non sia ( 3 ) . Il romanziere cerca
di scusare questa deficienza di trama, che si risolve in una deficienza
fantastica e quindi in una deficienza artistica, e nella prefazione scrive che
la sua storia fu rinvenuta in un antico manoscritto, auten tico , perchè
ritrovato da suo nonno proprio fra le fonda menta d'una sua casa, ergentesi
sovra quel suolo ove un dì superba fu Eraclea, manoscritto che è lacerato in
varî punti e perciò lacunoso , onde varje situazioni, prima ac cennate, non
sono poi svolte e tanto meno condotte a fine: ma questa è una scusa che non scusa
nulla, poichè tutti sanno che il manoscritto non è se non nell'immagi nazione
del Cuoco, nè più nè meno come l'anonimo ma ( 1 ) F. DÉ SANCTIS, Saggi critici,
v . III , pag. 290 e seg . ( 2 ) Giorn. ital . , 1804 ; 21 , 23, 25 gennaio ; n
. 9 , 10, 11 , pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44 : Varietà (vedi p . 163 del
nostro lavoro ) . ( 3) L. SETTEMBRINI, op. cit ., v. III, p. 282. 232 noscritto
dei Promessi Sposi è nell'immaginazione di Don Alessandro . Perciò l'esiguità
della trama si deve unicamente al sopravvento di fini estrinseci all'arte ,
pedagogici e dida scalici . E gli stessi personaggi, che la piccola trama lega
, sono e non sono : noi li vediamo e non li vediamo : so prattutto noi non li
vediamo mai in azione, in atto , con i loro caratteri e con le loro passioni .
A rigore possiamo dire che non sono protagonisti di nessun dramma, poichè ci
appaiono, se mai, nella stessa funzione del prologo in certi antichi
componimenti teatrali, che si limita ad an nunciare ciò che fu o sarà e fa
alcune sue considerazioni . Essi hanno perciò un nome, come ne potrebbero avere
un altro : non sono essi quelli che contano, conta quel che dicono, o che per
essi dice Cuoco. Da questa condizion di cose, è evidente, scaturisce un
dissidio insanabile tra quello che è arte, e che perciò non ha nè può avere un
fine estrinseco a sè stessa, e lo scopo stesso dichiarato dall'autore : il
rammentare agli italiani « che essi furono una volta virtuosi, potenti, felici
» ; « che furono un giorno gl'inventori di quasi tutte le cognizioni che
adornano lo spirito umano » ( 1 ) . Come il Vico nel De antiquissima italorum
sapientia si pone dinanzi il fine di dimostrare qual filosofia si debba trarre
dalle origini della lingua latina, quella filosofia che in antico dovè certo
essere professata dai sapienti ita liani ; così il Cuoco si propone di
dimostrare che, nel pas sato più remoto, tra i popoli, che abitarono la nostra
penisola, ve ne furono di civilissimi, popoli, la cui ci viltà fu persino
anteriore alla civiltà ellenica, che dalla prima ricevette luce, e non
viceversa. E come « chi vo glia intendere il De antiquissima non deve tenere
nessun conto del suo titolo e del proemio , e di tutte le vane investigazioni
che qua e là , vi ricorrono dei riposti con cetti , che, secondo il Vico supporrebbero
talune voci la tine, per considerare unicamente in sè stessa questa dot ( 1 )
V. Cuoco, Platone, v. I , p. 3. 233 trina che egli pretende rimettere in luce
dal più vetusto tesoro della mente italica, e che non è altro che una dot trina
modernissima, quale poteva essere costruita da esso Vico nel 1710 » ( 1 ) ;
così chi voglia comprendere il vero spirito del Platone deve prescindere
dall'esil nucleo ro mantico , come dalla faticosa ricostruzione archeologica ,
e considerarlo nella sua attualità, poichè esso non esprime i pensieri nè di
Archita nè di Cleobolo, ma i pensieri del Cuoco, scrittore del Regno italico,
meditante sulle pro prie personali esperienze, e non sulle esperienze di ven
ticinque secoli avanti : all'anno di grazia 1806 vanno, per esempio , riferite
tutte le abbondanti considerazioni sulle leggi, sulla religione, sulle
istituzioni, sulle rivoluzioni, Ma l'opera del Vico è un'opera dottrinale,
filosofica, per cui lo sforzo di superamento temporale è facile, mentre l'opera
del Cuoco è un romanzo che vuol pure essere consi derato dal punto di vista
dell'arte : da ciò un insormon tabile dualismo, onde noi veniamo risospinti
dall'Italia del VI secolo di Roma all'Italia del secolo XIX di Cristo, da
Platone a Vico, da Archita a Napoleone, dai filoneisti di Taranto ai giacobini
di Francia , da Alcistenide e Nicorio a Monti ( 2) . E in questo urto di due
visioni opposte e con trastanti l'arte fugge via, e noi non sappiamo ove
finisca la finzione e cominci la realtà . La funzione è troppo evi dente,
perchè noi possiamo ingannarci. V'è troppa eru dizione, troppi richiami di
testi classici, e non solo greci, ma anche latini , medievali, moderni, perchè
la fantasia possa godere d’una pura contemplazione. E chi è quella Mnesilla,
che disputa così bene d'arte e di musica, se non un'estetica moderna, che
conosce Vico ? E chi è quel Cleobolo , che cita opinioni del Filangieri e del
Pagano, e parafrasa persino versi del Petrarca ? ( 3 ) . ( 1 ) G. GENTILE,
Studi vichiani, p . 95. (2 ) L. SETTEMBRINI , op. cit., v. III, p. 284. ( 3 )
In una lettera che Cleobolo scrive all'amata è detto . ( Platone, v. II , p.
114 ). « Così, passando di pensiero in pensiero e dimonte in monte, spesso
sopraggiunge la sera ; e , mentre par che tutta la natura dorma, solo il mio cuore
veglia, innalzan dosi col pensiero fino a quegli astri eternamente lucenti che
234 E chi è quel Platone, che non ignora i princípi della na zionalità e con
Archita disputa di filosofia moderna ! La contaminazione è troppo evidente, e
la filosofia pi tagorica e platonica si mesce in uno strano viluppo con quella
vichiana. Da ciò, notiamo, scaturisce non solo , come abbiam detto una
deficienza grande nell'opera d'arte, ma anche nell'importanza filosofica del
Platone in Italia. È questo un'opera d'arte ? un lavoro filosofico ? uno
scritto politico ? Nulla di tutto ciò , e pure tutto ciò misto in una unità
singolare. Non scritto storico, perchè, « a parte il valore molto discutibile
del suo metodo, che egli si proponeva di ragionare e giustificare più tardi,
con una di quelle dilazioni, che svelano appunto l' incertezza del pensiero e
l'oscurità da vincere, lo scrittore è troppo preoccupato da fini estrinseci
alla storia, artistici ed educativi » ( 1 ) ; non filosofia , perchè, com' ho
detto, egli non segue un indirizzo unico, ma si trova costretto dal
l'imbastitura della narrazione a mescere quel che è pa trimonio dell'antichità
con quella vigile coscienza tutta moderna e vichiana della spiritualità del
reale ; non opera d'arte per ragioni sovra dette, poichè egli non riesce mai a
trovare in sè quell'assoluta pacatezza della fantasia, che sola può generare
creature vive. L'arte « non c'è principalmente nota » il Gentile « perchè egli
non si dimentica abbastanza in questa visione con fortante, che a un tratto gli
sorge nell'animo, di un'Italia grande per virtù private e pubbliche, perchè
retta da una saggia filosofia. E corre a ogni po' col pensiero all'Italia per
cui scrive, all'Italia presente, piccola, inferma, senza spirito pubblico,
senza amor di grandezza , senza orgoglio di nazione, senza forze vive : e
ondeggia tra la statua brillano sul mio capo ; e , dopoaverli riguardati ad uno
ad uno, il mio occhio si ferma in quella fascia immensa, la quale pare che
tutto circondi l'universo . Di là si dice che le nostre anime sien discese, ed
ivi ritorneranno.... e rimarranno unite.... per sempre ! » . ( 1 ) G. GENTILE,
Studi vichiani, p. 375. 235 che avrebbe da animare, e sè stesso che egli quasi
non crede da tanto ; e gli trema la mano » . Non c'è l'opera d'arte, ma il
lavoro non è cosa del tutto morta e caduca. Ci sono parti molto belle, in cui
realmente l'animo si placa in una commossa visione d'amore, o in un paesaggio
italico , ricco di tinte forti calde sfumanti ( 1 ) ; poi c'è una sempre vigile
volontà, tesa in un fine, che, se è estrinseco all'arte, non è mai fuori
dall'autore, ma pur sempre in lui, e l'accende di sano amore di patria e d'alto
nazionalismo. C'è in somma una matura attività dello spirito, che, sia che ( 1
) Per dare un esempio dell'arte del Platone, trascrivo un brano, che già al
RUGGIERI, op. cit. , p. 158 , apparve degno d'attenzione: è una lettera di
Cleobolo. « Ieri sera sedevamo in quel poggio il quale tu sai che domina il
mare e Taranto. È il sito più delizioso della villa ch'ella tiene nell'Aulone.
E noi non sedevamo propriamente sulla sommità, ma in mezzo della falda, come in
una valletta, la quale, ren dendo più ristretto l'orizzonte , par che renda più
ristretti e più forti i sensi del cuore. Il sole tramontava ; spirava dal
l'occidente il fresco venticello della sera, che scendeva a noi turbinosetto
per l'opposta falda del colle. Eravamo soli, io ed ella, e nessuno di noi due
parlava, assorti ambedue in quella languida estasi che ispira il soave profumo
de' fiori di primavera , forse più grave la sera che la mattina ne' luoghi
frequenti di alberi. Di tempo in tempo io rivolgevo i miei occhi a lei, ma un
istante dipoi li abbassava ; ella li abbassava come per non incontrarsi coi
miei, ma un istante dipoi li rial zava , quasi dolendole di non averli
incontrati.... Vedi quel l'arboscello di cotogno ? — mi disse ( e di fatti ve
ne era uno a dieci passi da me) — vedi come il vento, che si rompe in faccia
agli annosi ulivi ed ai duri peri, pare che sfoghi tutta la sua prepotenza
contro quel debole ed elegante arboscello ? Quanta verità è in quei versi di
Ibico : Il mio cuore è simile al cotogno fiorito, che il vento della primavera
afferra per la chioma e ne con torce tutti i teneri rami! ... Tu non hai detti
tutti i versi di Ibico ; no escləmai io tu non li hai detti tutti .... Esso è
stato nudrito colla fresca onda del ruscello che gli scorre vicino; ma nel mio
cuore un vento secco , simile al soffio del vento di Tra cia, divora .... Io
voleva continuare ; ma ella mi guardò e le vossi.... Qual potere era mai in
quel guardo, in quell'atto ? ... Io non lo so; so che tacqui, mi levai e
ritornai in casa , se guendola sempre un passo indietro , senza poter mai più
alzar gli occhi dal suolo » . (Platone, v. II , p. 58 ). 236 eccesso e analizzi
le antiche istituzioni del Sannio ; sia che valuti i germi della futura
grandezza di Roma, sia che da questi discenda ai fatti moderni, e
indirettamente dica della ri voluzione francese e de' popoli, che tra un
l'altro amano posarsi nelle opinioni medie o magari tro vare la pace in un
Napoleone, tiranno restauratore del l'ordine, rivela pur sempre un uomo d'alta
coscienza, con sapevole di sè e del suo posto nel suo popolo . Noi dimen
tichiamo l'artista mal riuscito , il metafisico contaminato, lo storico poco sicuro
, ma ammiriamo il pedagogo, che dai dati concreti della storia umana trae un
non perituro insegnamento. Egli parla non a sè stesso, poi che non si pone dal
rigido punto di vista subiettivo proprio dell'arti sta, ma a noi, a noi
italiani; e per noi vibra, per noi di sputa , per noi parla . Platone non parla
al suo discepolo Cleobolo, Archita non parla ai suoi tarantini, Ponzio non
parla ai suoi sanniti, ma tutti e tre, attraverso il Cuoco, si rivolgono a noi,
e il loro insegnamento mira a formare una più sicura anima italica . Certo
questa posizione è un po' monotona, e riporta l'autore ad insistere su punti
già precedentemente esposti nel Saggio, nei Frammenti, nel Giornale italiano,
ma, se guardiamo l'arduità dello scopo, la difficoltà d'attingerlo, le ripetizioni
non appariranno mai soverchie : da noi non si tratta , dice il Cuoco, di
conservare lo spirito pubblico, ma di crearlo, e la creazione è opera lunga,
spesso do lorosa . La tesi principale del Platone in Italia , che del resto non
è una novità cuochiana, ma una trovata del Vico, è che nella nostra penisola vi
sia stata una civiltà, come ho detto, anteriore alla greca , quella etrusca,
che per il mondo ha diffuso luce di sapere filosofico e splendore d'arte, della
quale civiltà quella ellenica e pitagorea è un posteriore riverbero.
L'opinione, sia essa tramontata, come pretendono alcuni, per cui le origini
greche del pi tagorismo sono indubbie, sia essa vera , come sostengono altri,
per cui l'autonomia della civiltà etrusca e delle susseguenti civiltà italiche
è parimenti comprovata, è profondamente radicata nel Cuoco, la di cui serietà
scien 237 tifica non può essere posta in dubbio. Il Cuoco è forte mente
compenetrato di essa, e, laddove crede di vederla comprovata dai fatti, l'animo
suo trema d'intima com mozione e di passionata esaltazione . Al tempo del
viaggio di Platone la Magna Grecia è in decadenza : molte città, che già furono
grandi, vennero nelle civili dissensioni rase al suolo ; altre, che un dì do
minarono molte terre, sono ridotte a piccoli borghi ; stirpi, che ebbero un
passato glorioso, fiere delle loro milizie e dei loro trionfi, ora languono
nell'ozio e nella effemina tezza ; ma, ovunque, a chi mira intimamente le cose
s'ap palesano i segni dell'antica grandezza e dell'antica forza, diffusi ne'
monumenti architettonici, vivi negli ordini ci vili, parlanti nelle costruzioni
filosofiche del pensiero e dell'arte. « Io credo, dunque » dice Ponzio a
Cleobolo « ciò che dicono i nostri sapienti, i quali dan per certo che ne'
tempi antichissimi l'Italia tutta fioriva per leggi, per agricol tura, per armi
e per commercio . Quando questo sia stato, io non saprei dirtelo : troverai
però facilmente altri che te lo saprà dire meglio di me. Questo solamente posso
dirti io : che allora tutti gl'italiani formavano un popolo solo, ed il loro
imperio chiamavasi etrusco » ( 1 ) . Mentre la Grecia è ancor giovane, l'Italia
è assai an tica e sul suo vecchio suolo già due epoche s'avvicen dano : l'una è
scomparsa, l'altra è in isviluppo, e solo esteriormente potrà dirsi ellenica,
nelle innegabili im migrazioni di popoli greci, poichè nel suo spirito è
italica, erede della prima : Pitagora, che la impersona, null'altro è che un
mito, ma un mito italico, una sintesi concettosa della sapienza, ma una sintesi
tutta italica . Come nella natura vi sono terribili sconvolgimenti fisici, per
cui la faccia della terra è alterata , i monti si fendono ed aprono larghe
valli, in cui scorrono nuovi fiumi che prima non erano, mentre i vecchi veggono
alterato il loro corso, così nella storia antiche catastrofi hanno distrutto
una fiori tura senza pari e modificato organismi civili possenti. ( 1 ) V.
Cuoco, Platone, v. II , p. 157. 238 « Sappi dunque » scrive Cleobolo al
maestro, riferendo un colloquio che egli ha avuto con un sacerdote di Pesto «
che un tempo tutta l'Italia è stata abitata da un popolo solo, che chiamavasi
etrusco. Grandi e per terra e per mare eran le di lui forze ; e, de' due mari
che, a modo d'isola, cingon l'Italia, uno chiamossi, dal nome co mune del popolo,
Etrusco ; l'altro , dal nome di una di lui colonia, Adriatico . « Antichissima
è l'origine di questo popolo ; le memorie della sua gloria si confondono con
quella de' vostri iddii e de ' vostri eroi.... « Ma chi potrebbe dirti tutto
ciò che gli etrusci opra rono nell’età de' vostri eroi e de' vostri iddii ?
Oscurità e favole coprono le memorie di que' tempi. Posso dirti però che gli
etrusci estendevano il loro commercio fino all'Asia ; signoreggiavano tutte le
isole che sono nel Medi terraneo, ed anche quelle che sono vicinissime alla Gre
cia. Dall'ampiezza dell'impero giudica dell'antichità » ( 1 ) . Quest'impero
però era troppo grande e poco omogeneo, più federazione di città che Stato
unitario, onde esso « avea in sè stesso il germe della dissoluzione. Non mai si
era pensato a render forte il vincolo che ne univa le varie parti. Ciascun
popolo avea ritenuto il proprio nome : era il nome della regione che abitava,
era quello della città principale.... Che importa saper qual mai fosse ? Non
era il nome etrusco. Ciascun popolo avea governo, leggi e magistrati diversi.
Non vi era nè consiglio, nè magistrato comune se non per far la guerra » ( 2 )
. Da ciò trassero origine grandi mali che distrussero ogni organiz zazione : «
la corruzione de' costumi produsse la corru zione delle arti, le quali sono de'
costumi ed istrumenti ed effetti » ( 3 ), e poi generò la corruzione della
religione, la quale « corrotta accelera la morte delle città » ( 4 ) . Perciò
l'Etruria si sfasciò per legge naturale di cose . ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v.
II , p. 244. ( 2 ) V. Cuoco, Platone, v. II , ( 3 ) V. Cuoco, Platone, v. II ,
p. 249. ( 4 ) V. Cuoco, Platone, v. II , p. 254. p. 247. 239 « Così cade, o
Cleobolo » commenta il divino Platone « qualunque altro impero ove non è unità.
Così cadrà la Grecia,, se non cesserà la disunione tra le varie città che la
compongono, tra gli uomini che abitano ciascuna città. Imperciocchè, ovunque è
sapienza, ivi si tende al l'unità ; all'unità si tende ovunque è virtù , il
fine della quale è di render i cittadini concordi e simili ; nè possono .
esserlo se non son buoni. La vita istessa di tutti gli esseri non è se non lo
sforzo degli elementi, che li compongono, verso l'unità. Ovunque non vi è
unità, ivi non è più nè sapienza, nè virtù , nè vita, e si corre a gran
giornate alla morte » ( 1) . Ma la morte non è mai interamente morte, bensì tra
sformazione, cioè riduzione in nuove forme di vita, forme nuove, che della
prima vita mantengono alcuni elementi originari ed altri novelli acquistano. Così
l'Italia, dive nuta deserto nella ruina d'Etruria , tosto si ripopola di genti,
di nuove città, si riorganizza, si riabbellisce, e al contatto di nuovi popoli,
specie i greci, di nuovo si ri presenta composta all'ammirazione universa . Ma
questa nuova civiltà , che possiamo dire pitagorea, nella sua es senza è pur
essa autoctona, se pure apparentemente elle nistica. Quando le colonie greche
si sono stabilite in Italia, già le stirpi indigene dalle montagne eran discese
al piano, e due civiltà s'erano espresse. « Noi disputiamo » osserva un italico
a Cleobolo « per sapere se i greci abbian popolata l'Italia o gl'italiani
abbian popolata la Grecia ; ed intanto è l'una e l'altra regione sono state
forse po polate da un altro popolo, ch'è il padre comune de' greci e
degl'italiani » ( 2) . Comune è perciò l'origine dei due popoli, ma,
stanziatisi in diverse sedi, gl' italiani hanno avuta una fioritura più precoce
che non i greci, che pure al V secolo, ai tempi di cui trattiamo, sembrano i
più ci vili, i maestri degli italiani in ogni campo dell'umana attività. ( 1 )
V. Cuoco, Platone, v. II , p. 257 . ( 2 ) V. Cuoco, Platone, v . II , p . 220.
240 L'antico primato etrusco però ancor si conserva, tra sformato sì , ma
sempre attivo, e si manifesta soprattutto ne' paesi meridionali, ove
l'influenza ellena sembra più manifesta. E su questo primato italico il Cuoco
insiste, insiste, in siste calorosamente : è la sua tesi nucleare. La pittura
era ' in Italia già vecchia ed evoluta, allorquando Panco, fra tello di Fidia, «
dipinse ne' portici di Atene la battaglia di Maratona » , riempiendo di stupore
i suoi concittadini per la rassomiglianza che seppe mettere nelle immagini dei
duci greci e dei capitani nemici ( 1 ) . Furono gl'ita liani che primi «
diedero opera alle matematiche, e ne fecero un istrumento principale della loro
filosofia » : prima che Teodoro recasse ai greci la scienza degli italiani, in
Grecia « le idee geometriche erano puerili, frivole, con traddittorie » ;
invece « gl'italiani, potenti per un istru mento di filosofia tanto efficace,
han fatto delle scoperte ammirabili in tutte quelle parti delle nostre
cognizioni che versano sulla quantità : nella geometria, nella astro nomia,
nella meccanica, nella musica ; ed hanno spinte al punto ' più sublime e più
lontano dai sensi tutte quelle altre che versan sulla qualità » ( 2 ) . La
stessa arte della guerra e delle milizie in Italia si perde nella remotezza de'
secoli, onde ancora ai tempi di Platone gli italici mantengono indiscussa la
loro supe riorità : « la guerra presso i greci ancora è duello » (3), scienza
rudimentale ; mentre presso gli italiani è savio urto di masse e organica
distribuzione di manipoli. Le stesse leggi, che regolano la convivenza dei
popoli della penisola, sono originarie e nazionali, frutto della loro in tima
esperienza sociale, e perciò nel loro complesso im muni da contaminazioni
eterogenee. Le romane dodici tavole quindi non sono mai derivate, come alcune
storie vogliono , da Atene, poiché Atene nulla poteva dare a un ( 1 ) V. Cuoco,
Platone, v. I , p . 252. ( 2 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 5 . ( 3 ) V. Cuoco,
Platone, v. II , p. 119. 241 . popolo, come il romano, discendente da popoli
dell’ate niese più antichi. « Vedete dunque » dice Cleobolo ad alcuni legati di
Roma « che una parte delle vostre leggi è più antica della città vostra.
Un'altra è sicuramente più antica di quei dieci che voi dite aver imitate le
leggi di Atene. Voi mi avete recitate le leggi de’ dieci e quelle dei re, le
quali dite esser state raccolte da Sesto Papirio sotto il regno del buon Servio
Tullio. Alcune, che voi recitate tra quelle, le ripetete anche tra queste. Tali
sono tutte quelle che regolano gli auspici, le assemblee del popolo, il diritto
di giudicar della vita di un cittadino, e che so io ! Queste dunque già
esistevano in Roma ; ed era superfluo correr tanti stadi e valicare un mare
tempestosissimo per pren derle da un popolo che non le avea » ( 1 ) . « Tre
quarti dunque del vostro diritto non ha potuto esser imitato da noi. Vi rimane
una quarta parte, ed è quella appunto nella quale può aver luogo l '
imitazione, perchè può stare, senza sconcio alcuno, ed in un modo ed in un
altro. Tali sono le leggi sulla patria potestà, sulle nozze , sulle eredità,
sulle tutele.... Ma queste cose sono dalle vostre leggi ordinate in un modo
tanto diverso dal nostro, che, se mai è vero che i vostri maggiori abbiano
inviati de' legati in Atene, è forza dire che ve li abbian spediti per
imparare, non ciò che volevano, ma ciò che non volevano fare.... » ( 2 ) .
Passando nel campo delle arti belle, tra gli elleni la poesia drammatica è meno
antica che tra gl'italiani : « ben poche olimpiadi » dice un comico italiano,
Alesside, a Platone e Cleobolo « contate dalla morte di Tespi e di Frinico,
padri della vostra tragedia . Quando il siciliano Epicarmo si avea già meritato
quel titolo di principe della commedia, che, più di un secolo dopo, gli ha dato
il principe de’ vostri filosofi, Magnete d'Icaria appena bal butiva tra voi un
dialogo goffo e villano, che tutta ancor ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. II , p. (
2 ) V. Cuoco, Platone, v. II , p . 155. 156. 16 F. BATTAGLIA . 242 oliva la
rusticità del villaggio ove era nato. Quando la commedia tra voi nasceva, tra
noi era già adulta » ( 1 ) . I poemi omerici stessi nel loro nucleo fondamentale
sono stati elaborati in Italia, poichè di favole omeriche gli italiani ne hanno
più de' greci, e quelle greche co minciano ove le italiche finiscono. In tutto
ciò noi non possiamo non notare il partito preso, la volontà di dimostrare ad
ogni costo quel che il Cuoco a priori afferma, l'originario primato italico ;
ma lo scopo nobilissimo, che ha dinanzi, vale a fare perdonare allo scrittore
varie inesattezze. Nel tempo in cui Platone e Cleobolo iniziano il loro viaggio
per l'Italia, la Magna Grecia è in dissoluzione : i vari popoli hanno fra loro
re lazioni saltuarie ed estrinseche, non si sentono fratelli animati da
un'unica missione: guerre, dissensioni, lotte sono frequenti, donde scaturisce
una condizione di per petua incertezza. « Vedi, da una parte, l'Italia simile a
vasto edificio rovinato dal tempo, dalla forza delle acque, dall'impeto del
terremoto : là un immenso pilastro ancora torreggia intero, qua un portico si
conserva ancora per metà ; in tutto il rimanente dell'area, mucchi di calcinacci,
di co lonne, di pietre, avanzi preziosi, antichi, ma che oggi non sono altro
che rovine. Ben si conosce che tali mate riali han formato un tempo un nobile
edificio, e che lo potrebbero formare un'altra volta ; ma l'antico non è più,
ed il nuovo dev'essere ancora » ( 2 ) . È l'unità che si è infranta, per cui
alla primigenia unitaria forza statale è sottentrata la debolezza della
molteplicità, mal celata dall' invadente forza belligera di alcune stirpi ,
come i sanniti, o dal fasto di altre, come i tarentini. Ma questa molteplicità
tende quasi per fatale legge di natura all'unità, e dall'indistinto pullulare
delle genti dovrà pur sorgere chi di esse farà una sola gente, un nome unico,
Italia . « Pure, se tu osservi attentamente e con costanza , ti avvedrai che le
pietre, le quali formano ( 1 ) V. Cuoco , Platone, v. I , p. 204 e sg. ( 2 ) V.
Cuoco , Platone, v. II , p . 258. 243 quei mucchi di rovine, cangiano ogni
giorno di sito ; non le ritrovi oggi ove le avevi lasciate ieri ; e mi par di
rico noscere un certo quasi fermento intestino e la mano d'un architetto ignoto
che lavora ad innalzare un edificio no vello » ( 1 ) . È la gran fede del Cuoco
. Da questa unità o da questa frammentarietà dipende l'avvenire della penisola.
« Tutta l'Italia » dice Cleobolo « riunisce tanta varietà di siti e di cielo e
di caratteri, e nel tempo istesso sono questi caratteri tanto marcati e forti,
che per essi mi par che non siavi via di mezzo. Da ranno gl'italiani nella
storia, come han dato finora, gli esempi di tutti gli estremi, di vizi e di
virtù, di forza e di debolezza. Se saranno divisi , si faranno la guerra fino
alla distruzione : tu conti più città distrutte in Italia in pochi anni, che in
Grecia in molti secoli. Se saranno uniti, daranno leggi all'universo » ( 2 ) .
Il Cuoco però ha fede che questo suo ideale non resterà mero ideale, ma si
concreterà in una entità statale, in un impero, che all'itala gente dalle molte
vite darà or ganizzazione e potenza. Egli dice che questo ideale non è nuovo,
ma quasi conformandosi ad un antico vero, il dominio etrusco, è risorto e di
continuo risorge nelle più elette menti. Lo stesso Pitagora « concepì l'ardito
disegno di rista bilir la pace e la virtù, senzadi cui la pace non può du rare.
Egli volea far dell'Italia una sola città ; onde l’ener gia di ciascun
cittadino avesse un campo più vasto per esercitarsi, senza essere costretta a
cozzare continua mente con coloro, che la vicinanza, la lingua, il costume
facean nascer suoi fratelli e la divisione degli ordini politici ne costringeva
ad odiar come nemici ; e l'energia di tutti non logorata da domestiche gare,
potesse più vigorosamente difender la patria comune dalle offese de ' barbari.
Egli dava il nome di barbari a tutti coloro che s’in tromettono armati in un
paese che non è loro patria, e ( 1 ) V., Cuoco, Platone, v. II , ( 2 ) V.
Cuoco, Platone, v. I , p . 20. p. 258. 244 chiamava poi barbari e pazzi quegli
altri, i quali, parlando una stessa lingua, non sanno vivere in pace tra loro
ed invocano nelle loro contese l'aiuto degli stranieri. Egli soleva dire
agl'italiani quello stesso che Socrate ripeteva ai greci: Tra voi non vi può nè
vi deve essere guerra : ciò, che voi chiamate guerra, è sedizione, di cui, se
amas sivo veracemente la patria, dovreste arrossire -» ( 1 ) . Sia stato
Pitagora un essere umano di fatto vissuto, sia egli invece un'idea, un mito
elaborato dalla fantasia delle stirpi indigene, nel quale esse han fatto
confluire i risultati ultimi di tutte le loro secolari esperienze, ciò dimostra
l'antica radice, le remote propaggini nella co scienza collettiva del problema
unitario . Ma come attingere l'unità ? Ritorniamo a posizioni che noi già
sappiamo. Il problema è un problema etico e pe dagogico insieme. « A questa
meta non si può pervenire senza virtù e senza ottimi ordini civili : onde non
vi sia chi voglia e chi possa comprar la patria, chi voglia e chi possa
venderla ; ma l'ambizione di ciascuno, vedendosi tutte chiuse le vie della
viltà e del vizio, sia quasi co stretta a prender quella della virtù . È necessario
istruir il popolo, perchè.... un popolo ignorante è simile all'ata bulo, che
diserta le campagne : spirando con minor forza il vento delle montagne lucane,
porta sulle ali i vapori che le rinfrescano e le fecondano. È necessario
istruir coloro che devono reggerlo , perchè un popolo con cen tomila piedi ha
sempre bisogno di una mente per cam minare, e, con centomila braccia, non ha
una mente per agire » ( 2 ) . Ma quest'educazione pubblica, che occorre
diffondere, non deve essere per sua natura uniforme, uguale per tutti, bensì
multiforme, varia , secondante le infinite varietà che la natura umana ci offre
: deve essere educazione vera, cioè deve parlare agli spiriti, e perciò deve
essere in essi , e non fuori di essi . Diversa perciò l'educazione della classe
dirigente da quella delle classi povere, diversa però ( 1 ) V. Cuoco, Plaione,
v. I , p. 74. ( 2 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p . 74 e sg. 245 non nell'intima
qualità, perchè l'una e l'altra si volgono alla stessa natura umana e alle
stesse potenze dello spirito. « Un popolo » dicono alcuni « il quale conoscesse
le vere cagioni delle cose, sarebbe il più saggio ed il più virtuoso de'popoli
» . Non è invero così. « Riunite i saggi di tutta la terra, e formatene tante
famiglie ; riunite queste fami glie, e formatene una città : qual città potrà
dirsi eguale a questa ! » Nessuna, risponde il Cuoco o Archita per lui . « Essa
non meriterebbe neanche il nome di città, perchè le mancherebbe quello che solo
cangia un'unione di uo mini in unione di cittadini : la vicendevole dipendenza
tra di loro per tutto ciò che rende agiata e sicura la vita e la perfetta
indipendenza dagli stranieri » ( 1) . È necessario perciò ai fini dello Stato
che gl' indotti coesistano accanto ai dotti, come i poveri accanto ai ricchi ,
perché si realizzi quell’armonica convergenza di forze distinte che è la vita.
« Ciò, che veramente è neces sario in una città, è che ciascuno stia al suo
luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad ottener l'uno e l'altro
, sono necessarie egualmente la scienza e la su bordinazione » ( 2 ) . Diversa
sarà l'educazione dei poveri da quella dei di rigenti, ma una educazione per i
primi deve pur esservi. E per istruirli bisogna avere la loro stima. « Non
perdete la stima del popolo, se volete istruirlo . Il popolo non ode coloro che
disprezza . Di rado egli può conoscer le dottrine, ma giudica severissimamente
i maestri, e li giu dica da quelle cose che sembrano spesso frivole, ma che son
quelle sole che il popolo vede. Che vale il dire che il popolo è ingiusto ?
Quando si tratta d'istruirlo , tutt'i diritti sono suoi ; tutt’i doveri son
nostri, e nostre tutte le colpe » ( 3 ) . Al popolo occorre insegnare tutto ciò
che è necessario per agire, tutto ciò che può rendergli o più facile o più utile
il lavoro, più costante e più dolce la virtù . Al savio, ( 1 ) V. Cuoco,
Platone, v. I , p. 85 e sg. ( 2) V. Cuoco, Platone, v. I , p. 87. ( 3) V.
Cuoco, Platone, v. I , p. 87 e sg. 246 invece, « è necessaria la conoscenza
delle cagioni vere, perchè sol col mezzo della medesima può render più chiara,
più ampia e più sicura la conoscenza delle stesse cose. Al volgo conoscer le
vere cagioni è inutile, perchè non potrebbe farne quell'uso che ne fanno i savi
. È ne cessario però che ne conosca una, in cui la sua mente si acqueti ; e
questa necessità è tanto imperiosa, che, se voi non gli direte una cagione, se
la farneticherà egli stesso » ( 1 ) . Errano perciò i filosofi che credono
opportuno divul gare la sapienza è mettere il popolo a contatto con i sublimi princípi
della vita. Del resto ben diversa è la na tura del dotto e del popolano :
laddove il savio è ragione, il popolano è tutto senso e fantasia. Il popolo è «
un eterno fanciullo che ha sempre più cuore che mente, più sensi che ragione »
( 2 ) : e quindi ad esso bisogna parlare con quello stesso linguaggio che s'usa
con il fanciullo , dan dogli in un certo qual modo cose e massime già fatte.
Bisogna parlare al popolo dei suoi cari interessi, e parlarne con il linguaggio
che a lui più si conviene, con parabole e proverbi. « Se è vero che gli esempi
muovon più dei precetti, le parabole, le quali non sono altro che esempi,
debbon muovere più degli argomenti » ( 3 ) . I proverbi, che a noi possono
sembrare inintelligibili, perchè igno riamo i veri costumi dei popoli per i
quali furono imma ginati, sono nella rude concettosità adattissimi per lo scopo
prefissoci. La stessa virtù non la si può inculcare al popolo se non con mezzi
diversi di quelli che ci si offrono nelle scuole di filosofia . « La virtù è
saviezza : la saviezza ha bisogno di ragione, e la ragione ha bisogno di tempo.
I pregiudizi, gli errori, i vizi che nella fantasia de' popoli vanno e vengono
come le onde del nostro Jonio, riempi rebbero sempre di nuova arena quel
bacino, che tu vuoi scavare a poco a poco per formarne un porto. È necessità (
1 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p. 85. ( 2 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 23. ( 3
) V. Cuoco, Platone, v. I , p . 82. 247 piantare con mano potente una diga, che
freni la violenza delle onde sempre mobili. Prima di avvezzare il popolo a
ragionare , convien comandargli di credere ; e, per convin cerlo che il vero
sia quello che tu gli dici, convien per suadergli, prima, che non possa essere
vero quello che tu non dici . Non cerchiamo.... l'uomo che abbia detto più
verità, ma quello che ha persuase verità più utili ; e, se talora la necessità
ha mossi i grandi uomini ad illudere il popolo , cerchiamo solo se l'hanno
utilmente illuso » ( 1 ) . Sono queste conclusioni che già erano implicite nel
Saggio storico, ma riescono sempre interessanti, sia per il loro intrinseco
valore, sia per la forma con la quale l'autore ce le prospetta . Questa
educazione che mira a far sentire l'interesse comune alla virtù, e quindi a
radicarla in eterno, deve precedere la stessa attività legislativa, se non si
vuole che essa cada nel vuoto. « Quando tu avrai incise le leggi della tua
città sulle tavole di bronzo, nulla potrai dir di aver fatto, se non avrai
anche scolpita la virtù ne' cuori de' suoi cittadini » ( 2 ) . Leggi e costumi
sono i principali oggetti di tutta la scienza politica : le prime debbono
rispondere all'ordine eterno che è nelle cose, sempre perciò buono e vero ; i
se condi invece presentano estreme varietà, e, nella maggior parte dei casi, ci
si presentano anzi che come correttivo delle prime, come deviazione da esse ;
onde coloro, che traggono da una corrotta natura de' popoli le norme obiettive
del vivere, invece di evitare il male, spesso lo sanciscono, e la loro opera
pedagogica manca . « La legge è sempre una, perchè la natura dell'intelli genza
è immutabile. Mutabile è la natura della materia, di cui gli uomini sono in
gran parte composti; e quindi è che i costumi inclinan sempre ad allontanarsi
dalla legge. È necessità, dunque, conoscere del pari la natura sempre mobile di
questo fango di cui siamo formati, onde sapere ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. I ,
p . 78. ( 2 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p. 139. 248 per quali cagioni i nostri
costumi si allontanano dalle leggi, per quali modi, per quali arti possano
riavvicinarsi alle medesime ; il che forma l'oggetto di tutta la scienza
dell’educazione : non di quella educazione che le balie soglion dare ai nostri
fanciulli, ma di quell'altra che Li curgo e Minosse seppero dare una volta agli
spartani ed ai cretesi. La ignoranza di una di queste due scienze ha
moltiplicati sulla terra i funesti esempi di quei legisla tori, i quali,
volendo tentare riforme di popoli, hanno o cagionata o accellerata la loro
ruina. Imperciocchè, pieni la mente delle sole idee intellettuali delle leggi
ed ignoranti de' costumi de ' popoli, li hanno spinti ad una meta a cui non
potevan pervenire, perdendo in tal modo il buono che poteano ottenere, per
avere un ottimo che era follia sperare ; o, conoscendo solo i costumi ed igno
rando il vero bene ed il vero male, hanno sancito i me desimi, ed han fatto
come quel nocchiero, il quale, non conoscendo il porto in cui dovea entrare, e
servendo ai venti ed all'onde, ha rotto miseramente il suo legno tra gli scogli
» (1 ) . La legge però resterà sempre un astratto, se gli uomini non ne
intenderanno la sua necessarietà e, quel che più conta, la sua utilità. È
d'uopo a ciò che essa sia accom pagnata non solo da pene, onde possa con
efficacia di storre gli animi dai vizî, ma eziandio da premi, onde possa
allettare alla virtù . Occorre parlare agli uomini un lin guaggio utilitario ed
edonistico, se si vuole essere seguiti da essi. E questa scienza, che si occupa
dei premî e delle pene, è difficilissima, perchè inutili sono senza premî e
pene le leggi, e arduo è calcolare l'adeguato rapporto so pra tutto delle pene
con i costumi dei popoli. Il crimi nalista perciò deve studiare non tanto i
rapporti giuri dici, di per sé astratti, ma i soggetti di essi rapporti, entità
concrete e viventi, e rispetto a questi porsi piut tosto in veste d’educatore,
anzi che di carceriere, e peg gio di boia. « La scienza delle pene e de' premî
» dice ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p . 139 e sg. , 249 il Cuoco con
perfetta sicurezza « appartiene alla pubblica educazione » ( 1) . Le leggi, date
alla città, hanno necessità di uomini atti ad eseguirle, che veglino alla loro
esecuzione. Le leggi, ho detto, sono nell'ordine eterno delle cose, onde la
filosofia a lungo le ha ritenute provenienti dalla divi nità. Perciò il primo
dovere degli esecutori è di comandare ne' limiti di esse, sovra la loro base,
poichè solo così si adempie l'universa volontà di Dio, o meglio, s'attua l'ar
monia immanente nelle cose. « Ora, ordinate le leggi di una città, per qual
modo ritroveremo noi gli uomini degni di eseguirle ? Questa è.... la parte più
difficile della scienza della legislazione : perchè, da una parte, le buone
leggi senza il buon governo sono inutili ; e, dall'altra, sulla natura del
migliore de’governi gli uomini son più discordi che su quella delle buone leggi
» ( 2 ) . Anche questo secondo problema è di natura spirituale e pedagogica: la
preparazione della classe dirigente, la sua natura, ecc. non possono non
rientrare in quella scienza, di cui abbiamo visto i caratteri e le forme. In
quanto al problema subordinato se sia da accogliere il governo di un solo, di
pochi, o di molti ; il governo ereditario o l'elettivo ; e tra quest'ultimo
quello regolato dalla nascita , dagli averi, dalla sorte, questo è un pro blema
essenzialmente relativo e che del resto abbiamo già storicamente esaminato in
altra parte di questo la voro. La risoluzione è offerta dal Cuoco in poche
parole che giova riportare. « Noi diremo il miglior de' governi esser quello
che non è affidato ad uno solo, perchè un solo può aver delle debolezze ; non a
tutti, perchè tra tutti il maggior numero è di stolti ; ma a pochi, perchè
pochi sempre sono gli ottimi. E questi pochi avranno obbligo di render ragione
delle opere loro, onde la spe ranza dell'impunità non li spinga o ad obbliare
per negligenza le leggi o a conculcarle per ambizione ; e per ( 1 ) V. Cuoco,
Platone, v. I , p. 140. ( 2 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p . 142, 250 ciò
divideremo il pubblico potere in modo che le diverse parti del medesimo si
temperino e bilancino a vicenda, e, dando a ciascuna classe di cittadini quella
parte a cui pare per natura più atta, riuniremo i beni del governo di uno solo,
di pochi e di tutti » ( 1 ) . Ma piuttosto altre considerazioni occorre fare,
che ci riportano ad un punto troppo caro al Cuoco perchè noi possiamo
dimenticarcelo : le considerazioni intorno alla religione. Abbiamo già visto i
rapporti tra autorità reli giosa ed autorità statale, il posto che la religione
deve occupare nello Stato, e lo abbiamo visto da un punto essenzialmente storico,
cioè in rapporto ai tempi del mo lisano : ora dobbiamo esaminare lo stesso
problema da un diverso punto, osservando quale posto può occupare la religione
nella formazione spirituale dei popoli. La religione è un fatto spirituale dal
quale non si può prescindere. « Quindi è che erran egualmente e coloro i quali
credon poter tutto ottenere colle sole leggi civili, e coloro che credono poter
colla religione e coi costumi supplire alle medesime. Questi renderanno le vite
dei cittadini e le loro sostanze dubbie, incerte ; quelli rende ranno
vacillante lo stato dell'intera città. È necessità che vi sieno egualmente
costumi, religione e leggi: uno che manchi, la città, o presto o tardi, ruina »
( 2 ) . Il bisogno della religione per il Cuoco non si basa tanto su ragioni
ideali quanto su ragioni pratiche. Lo Stato, che assorbe in sè la religione,
s'eleva agli occhi de'singoli e acquista maggiore rispetto . Nè è a dire che
esso con ciò menomi la religione, in quanto vita dello spirito, poi che esso
assorbe quel che può assorbire, infine il lato estrinseco e mondano della
religione, lasciando intatto il dommatico . I paesi, in cui i patrizi
conservano autorità, sono quelli in cui essi esercitano il sacerdozio, e in
questi paesi la religione può moltissimo sui costumi. « E forse queste due cose
[ religione e costumi, Stato e Chiesa) sono natural ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v.
I , ( 2 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p. 144. P. 84. 251 mente inseparabili tra
loro ; perchè nè mai religione emen derà utilmente i costumi se non sarà
dipendente dal go verno ; nè mai religione, che non emendi i costumi e non
ispiri l'amor della patria, potrà esser utile allo Stato » ( 1 ) . Ora
concepite in questa maniera le due classi dei ricchi e dei poveri, dei savi e
degli stolti, il Cuoco riguarda la vita pubblica come una loro armonizzazione
continua, in una evoluzione ininterrotta. Ricco non vuol dire a priori savio,
ma è certo che il ricco, coeteris paribus, può pro curarsi un'educazione
superiore, che il povero non può procacciarsi che in casi eccezionali , onde
quasi sempre , nella sua indigenza, resterà ignorante e spesso stolto .
L'opposizione tra savi e stolti si può in linea generalis sima presentare come
opposizione tra patrizi e plebei, op posizione delucidata anche dal fatto che i
patrizi, cioè coloro che nelle epoche primitive s'affermano negli Stati e
perpetuano la loro posizione dirigente per eredità di sangue e di censo, sono,
per lunga consuetudine e pratica pubblica, i più atti al reggimento civile ,
mentre i plebei, gente nova, spesso portata su da súbiti guadagni, sono di
solito inesperti e fiacchi, perchè ignari del nuovo go verno della cosa
statale. Il segreto della varia vita delle città è nella saggia ar monia di
queste due forze, l'esperienza matura dei patres e la giovinezza audace delle
classi nuove. Quelle nelle quali i primi furono troppo fieri difensori dei loro
diritti lan guirono : i patres non vollero essere giusti, preferirono es sere i
più forti, onde fu mestieri che divenissero tirannici ed oppressori :
conservarono i loro privilegi, ma il prezzo di questi privilegi fu la debolezza
dello Stato, che al primo urto divenne preda dell' inimico. Quelle altre, in
cui la plebe per atto rivoluzionario acquisì d'un tratto i suoi diritti, ebbero
sempre costituzioni ispirate più dalla vendetta che dalla sapienza, e poterono
durare, per lo più, breve tempo, per turbolenze e dissensioni interne. Ben
diversa è la vita degli Stati, ove si giunge ad una ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v.
II , p. 148, 252 reciproca graduale integrazione de' due opposti in una vitale
sintesi. È nell'ordine eterno delle cose che « le idee non possano mai
retrocedere » , ed hanno vita felice soltanto « quelle città nelle quali e la
plebe ed i grandi vengono tra loro ad eque transazioni » ( 1 ) . Ma pur
tuttavia il Cuoco. concepisce la lotta di classe non solo come un utile
spediente, purché mantenuta ne' limiti della legge per giungere ad un buono e
durevole reggimento politico, ma come necessità di vita : e qui è un punto
fermo della sua dottrina politica, che nel Saggio storico non appare, e che nel
Platone si rivela nella sua luminosa chiarezza. « Or vedi tu questa lotta
eterna tra gli ottimati e la plebe, tra i ricchi ed i poveri ? In essa sta la
vita non solo di Roma, di Atene, di Sparta, ma di tutte le città. Ove essa non
è , ivi non è vita : ivi un giogo di ferro impo sto al cittadino ha estinte
tutte le passioni dell'uomo e, con esse, il germe di tutte le virtù, lo stimolo
a tutte le più grandi imprese. Al cospetto del gran re, nessun uomo emula più
l'altro : e che invidierebbe, se son tutti nulla ? Quanto dura la vera vita di
una città ? Tanto quanto dura la disputa. Tutti popoli hanno un periodo di vita
certo e quasi diresti fatale, il quale incomincia dall'estrema barbarie, cioè
dall'estrema ignoranza ed op pressione, e finisce nell'estrema licenza di
ordini, di co stumi, di idee . Nella prima età i padri han tutto, sanno tutto,
fanno tutto, posseggon tutto. Se le cose si rima nessero sempre così, la città
sarebbe sempre barbara, cioè sempre fanciulla . È necessario che si ceda alla
plebe , poco a poco, ed in modo che non se le dia ne meno nè più di quello che
le bisogna : l'uno e l'altro ec cesso porta seco o pericolosa sedizione o
languore più funesto della sedizione istessa. È necessario che il popolo prosperi
sempre e che abbia sempre nuovi bisogni, per chè questo è il segno più certo
della sua prosperità. Guai a quella città in cui il popolo non ha nulla ! Ma
due volte ma ( 1 ) V. Cuoco , Platone, v . II , p. 167. 253 guai a quell'altra,
in cui, non avendo nulla, nulla chiede ! È segno che la miseria gli abbia tolto
non solo, come dice Omero, la metà dell'anima, ma anche l'ultimo spirito di
vita che ci rimane nelle afflizioni, e che consiste nel la gnarsi. È necessario
però che il popolo e pretenda con modestia, e riceva con gratitudine, e non
cessi mai di sperare » ( 1 ) . Da queste considerazioni il molisano trae una
impor tante conclusione. Se la vita è molteplicità, ma molte plicità non
inorganizzata, bensì tendente ad unità, la molteplicità è pur necessaria per
attingere quella diffe renziazione di funzioni, il cui convergere forma la
felicità dello Stato. La vita di questo perciò è varietà, e non può essere
diversamente : l'uguaglianza assoluta è un'u topia, anzi un'utopia dannosa. «
Vi saranno sempre pa trizi e plebei, perchè vi saranno sempre i pochi ed i
molti; pochi ricchi e molti poveri ; pochi industriosi e molti scioperati;
pochissimi savi e moltissimi stolti. I partigiani de' primi si diran sempre
patrizi , quelli de'se condi sempre plebei » ( 2 ) . Allorquando la plebe avrà
tutto il potere pubblico, e i patrizi nulla più avranno a cedere, allora, «
dopo aver eguagliati a poco a poco gli ordini, si vorranno eguagliare anche gli
uomini; dopo aver eguagliati i diritti, si vorrà l'eguaglianza anco dei beni :
e sorgeranno da ciò dispute eterne e pericolose. Eterne, perchè la ragione
delle dispute sussisterà sempre : vi saranno sempre poveri, vi saranno sempre
uomini da poco, i quali pretenderanno e crede ranno di meritar molto.
Pericolose, perchè tali dispute moveranno sempre la parte più numerosa del
popolo : i poveri, gli scioperati, i viziosi, tutti coloro i quali, nulla
avendo che perdere, non ricusan qualunque modo si of fra a guadagnare.... Le
assemblee diventeranno più tu multuose, le decisioni meno prudenti. I cittadini
dalle sedizioni civili passeranno alla guerra . Fra tanti partiti nascerà la
necessità che ciascuno abbia un capo ; tra tanti ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. II
, p. 167 e sg. ( 2) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 147. 254 capi uno rimarrà
vincitore di tutti. Ed avrà fine così la lite e la vita della città » ( 1 ) .
Da ciò scaturisce un'altra conclusione, che è una ri prova di precedenti nostre
osservazioni circa la politica cuochiana : i più adatti al pubblico reggimento
non sono nè i ricchi, pochi e tirannici, nè i poveri, molti e ti rannici in
senso inverso dei ricchi, ma bensì quel ceto medio, che con forme diverse e
diversi aspetti, secondo i vari tempi e la mutevole realtà storica, è in ogni
Stato. « I migliori ordini pubblici sono inutili se non vengono affidati ai
migliori cittadini. Quelli sono, in parole ed in fatti, ottimi tra gli ordini,
i quali fan sì che la somma delle cose sia sempre in mano degli uomini ottimi.
Ma dove sono gli uomini ottimi ? Essi non son mai per l'ordinario nè tra i
massimi, corrotti sempre dalle ric chezze, nè tra i minimi di una città,
avviliti sempre dalla miseria » ( 2 ) . Ecco qui ritornare il concetto da noi
già esaminato di un governo temperato, equilibrio di forze opposte, e perciò
armonia e giustizia, la quale giustizia null'altro è se non obiettiva elisione
d'ogni antagonismo e d'ogni dissensione. « Ove avvien che siavi un ordine
scelto, ma nel tempo istesso la facoltà a tutti d'entrarvi, tostochè per le
loro azioni ne sien divenuti degni, ivi tu eviti gli scogli del l'oligarchia e
della democrazia. Il popolo non permetterà che i grandi, per gelosia di ordine,
trascurino il merito; i grandi non soffriranno che altri si elevi per via di
viltà e di corruzione : per opra de’secondi eviterai quella dissi pazione che
ne' tempi di pace dissolve le città popolari ; per opra de' primi eviterai
quella viltà per cui le città oligarchiche temono i pericoli, e quel livore col
quale si oppongono ad ogni pensiero nobile ed ardito, e che vien dal timore dei
grandi di dover ricorrere al merito di un uomo il quale non appartenga al loro
numero. Queste città così temperate sono quelle che fanno più grandi ( 1 ) V.
Cuoco, Platone, v. II , ( 2 ) V. Cuoco , Platone, v. II , p. 161 . p. 168. 255
cose delle altre, perchè non vi manca mai nè chi le pro ponga nè chi le esegua
» ( 1 ) . Soltanto attraverso questa coscienza politica dei diri genti,
attraverso quest'educazione dei poveri, attraverso questa organizzazione di
classi, sarà possibile realizzare quell’unione che è nel pensiero del Cuoco :
fare delle varie stirpi italiche un popolo unico. Come nelle singole città è
possibile un contemperamento di interessi e di volontà singole, così nella più
vasta Italia è possibile un armo nizzamento di stirpi, di genti, d' ideali diversi.
Ma, mentre nelle città il processo d’unità procede dal l'interno all'esterno ,
poichè una tirannia imposta estrin secamente è sempre nociva e deleteria ;
nell'Italia il processo unitario può essere affrettato dalla conquista e poi
cementato dall'opera pubblica e pedagogica, dalla religione unica e dalla legge
unica. « Il primo effetto della sapienza » dice il Cuoco « è.... quello di
avvezzar gli uomini a considerar la conquista non come un mezzo di distrug
gersi, ma di difendersi » ( 2 ) ; e, aggiungiamo noi, si di fende spesso più
validamente colui, che, essendo forte impone la sua ragion civile, la sua legge
agli altri, e non si assopisce in una pace senza parentesi d'attività belli
gera, assopimento che può diventare anche sonno e poi ancora morte. La
conquista perciò non deve rimanere mera conquista, cioè estrinseca forza, ma
deve conver tirsi in attività pubblica, imporsi alle volontà, plasmarle di sè,
unificarle nel nome d'un superiore verbo, il diritto . Questa, ammonisce il
Cuoco, è la missione d’un popolo tra i tanti popoli della penisola, che Platone
e Cleobolo nel loro viaggio incontrano, missione divina, missione il cui
spiegamento d'altra parte è nell'attualità della storia. Certo Platone e
Cleobolo, nel frammentarismo italico del V secolo, non avrebbero mai potuto
dire quel che Vincenzo pone in bocca loro ; ma le loro osservazioni, per quanto
il nostro spirito critico le riferisca all'autore del ( 1 ) V. Cuoco, Platone,
v. II , p. 162. ( 2) V. Cuoco, Platone, v. I , p . 32. 256 romanzo , non
possono non commoverci, e la commozione è in noi com'è nel molisano . In una
prima età, scrive Platone all'amico Archita, le città vivono pacificamente, e
perciò s ' ignorano ; ma in un secondo tempo si conoscono, e quindi si fanno
guerra, o con le armi o con le sottigliezze del commercio ; ma questa
conoscenza e questa guerra non sono mai distruzione, ma reciproca integrazione
: « da questa vicendevole guerra, sia d'armi, sia d'industria, io veggo
un'irresistibile ten denza di tutte le nazioni a riunirsi ; e, siccome ciascuna
di esse ama aver le altre piuttosto serve che amiche... , così veggo che, ad
impedire la servitù del genere umano ed a conservar più lungamente la pace
sulla terra, il miglior consiglio è sempre quello di accrescer coll' unione di molte
città il numero de' cittadini, prima e principal parte di quella forza , contro
la quale la virtù può bene insegnare a morire, ma la sola cieca e non
calcolabile fortuna può dar talora la vittoria » . « Non pare a te » continua
il filosofo antico caldo ne' suoi accenti e attraverso lui il magnanimo Cuoco «
che la natura, colle diramazioni de' monti e de' fiumi, col circolo de' mari,
colla varietà delle produzioni del suolo e della temperatura de'cieli , da cui
dipende la diversità de' nostri bisogni e de' costumi nostri, e colla varia mo
dificazione degli accenti di quel linguaggio primitivo ed unico che gli uomini
hanno appreso dalla veemenza de gli affetti interni e dall'imitazione de’vari
suoni esterni ; non ti pare, amico, ch'essa abbia in tal modo detto agli
abitanti di ciascuna regione : — Voi siete tutti fratelli: voi dovete formare
una nazione sola ? --- » ( 1 ) . Da ciò scaturisce la necessità della conquista
come mezzo per affrettare dall'esterno un processo naturale : chi si assume
questa missione, diviene arbitro e stru mento della Provvidenza, Provvidenza
che per il Cuoco, come del resto per Giambattista Vico, è nell'immanenza della
storia , piuttosto che nella celeste trascendenza di ( 1 ) V. Cuoco , Platone,
v. II , p. 186. 257 un Dio posto fuori di noi : questo l'intimo concetto, se
pur qualche volta tradito dall'esteriorità delle parole e dei simboli, nonchè
da una certa oscillanza di pensiero . In Italia , intuisce Platone, un solo
popolo sarà di ciò capace, il romano, che sovra la fiera rudezza dei san niti,
sovra la imbecillità effeminata dei greci del mez zodì, sovra la volubilità dei
galli del Nord imporrà la sua legge, il suo diritto, strumento d’universale
civiltà, e che, in un lontano avvenire, venuto a contatto con i cartaginesi e poi
con i greci, non solo li debellerà come entità politiche, ma solo s'assiderà
dominatore del Me diterraneo e del mondo, « Rimarrà un solo popolo dominatore
di tutta la terra, innanzi al di cui cospetto tutto il genere umano tacerà ; ed
i superbi vincitori, pieni di vizi e di orgoglio, rivolge ranno nelle proprie
viscere il pugnale ancor fumante del sangue del genere umano ; e quando tutte
le idee liberali degli uomini saranno schiacciate ed estinte sotto l'im menso
potere che è necessario a dominar l'universo, e le virtù di tutte le nazioni
prive di vicendevole emula zione rimarranno arrugginite, ed i vizi di un sol
popolo e talora di un sol uomo saran divenuti, per la comune schiavitù , vizi
comuni, sarà consumata allora la vendetta degli dèi, i quali si servono delle
grandi crisi della natura per distruggere, e dell'ignoranza istessa degli
uomini per emendare la loro indocile razza » ( 1 ) . Grande sogno questo, in
cui vibra tutto l'animo nostro in uno con quello del Cuoco, ma che noi critici
non dob biamo lasciare nel passato inerte e perciò morto, come quello che non
ritornerà più , ma trasportare nel presente del Cuoco, cioè nel presente del
1806, che noi vediamo e pensiamo tale, quando in un' Italia scissa e menomata
da straniere superfetazioni, sia pur benigne come quelle napoleoniche, l'unità
era davvero un sogno ; nel nostro presente, nella nostra vita, che non è stasi
, ma divenire, e perciò slancio, espansione, conquista prima di noi stessi,
della nostra maggiore unità, e poi del vario mondo dei ( 1 ) V. Cuoco, Platone,
v. II , p. 190. 18 - F. BATTAGLIA . 258 commerci e delle genti, che noi non
vogliamo lasciare fuori di noi, inerte grandezza da contemplare taciti am
miranti, ma rendere nostre, per la nostra civiltà, che è civiltà latina.
Considerato da questo punto di vista altamente poli tico , prescindendo da ogni
considerazione artistica o filo sofica, il Platone in Italia riacquista una
grandissima importanza, « riacquista » come ben dice il Gentile « tutto il suo
valore, ed è la più grande battaglia, combattuta dal Cuoco, per il suo ideale
della formazione dello spi rito pubblico italiano » ( 1 ) . È l'animato ricordo
d'un tempo che fu e d'una grandezza, che sta a noi rinnovel lare, in cui tutta
l'Italia si pose maestra di civiltà tra i popoli, che da essa appresero le cose
belle della vita , la poesia, il teatro, la musica , la scultura, la pittura,
che da essa intesero i primi precetti del vivere e le norme de ' savi
reggimenti; in cui l'Italia ebbe un'egemonia indi scussa, che nella storia non
si ripresenterà più se non forse nel Rinascimento : ma, oltre che ricordo, è
nello stesso tempo vivo presente, perchè molte considerazioni che si fanno
riferendosi all'Impero etrusco, alla Magna Grecia , a Roma calzano nella loro
semplicità , s'adattano alla nostra travagliata vita moderna : ciò fa del
Platone un libro, la cui importanza trascende la sua deficienza artistica, il
suo ibridismo filosofico. Perciò un solo raffronto legittimo, quello tra il Pla
tone e un altro grande libro, il Primato morale e civile degli italiani, come
quelli il cui obietto è uno solo, e la materia alfine è pur essa comune :
un'alta nazionale pedagogia politica. Questo parallelismo fu prima accennato
dal Gentile (2 ), ma poi sbozzato da un francese, acuto studioso del Cuoco, al
quale nel nostro studio abbiamo frequentemente cennato, Paul Hazard ( 3 ). ac (
1 ) G. GENTILE, Studi vichiani , p. 386, ( 2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p.
387. ( 3 ) P. HAZARD, op. cit., p. 246. Anche P. ROMANO, op. cit., p. 5
raffronta il Cuoco e il Gioberti e dice che il Platone in Italia è la
preparazione del Primato morale e civile degli Italiani. 259 Il principio
genetico dei due libri è lo stesso : una na zione non può esplicare le forze
vere, che sono in essa in potenza, nè può di esse usare, se non ha la coscienza
d'avere queste forze, o almeno la coscienza di poterle sviluppare, e quindi
dispiegare nella storia : perciò bi sogna nutrire un orgoglio nazionale, che,
basato sulla concreta realtà , è legittimo, non arbitrario. Ma, d'altra parte,
laddove il Primato giobertiano, pur riannodan dosi, attraverso le glorie
romane, alle remote genti italo pelasgiche, trova il suo asse, il suo fulcro
nel Papato , espressione di purità religiosa e d'originaria sapienza, e si
rinnoverà, se il presente sarà a sufficienza legato al passato, cioè alla
tradizione medievale- cattolica ; il Cuoco, pur mantenendo ferma la remotissima
storia italo -pela sgica ed estrusca e poi ancora romana, pur riconoscendo
l'alta missione civilizzatrice della Chiesa nel Medio Evo, questo primato vuol
rinnovellare solo nel gioco delle li bere forze, espresse da quella tragica
crisi che è la rivo luzione francese ed italiana, nel loro sviluppo, e nello
spiegamento della loro maggior coscienza ; nello Stato laico, insomma, che
afferrni sì la religione, come luce alla plebi, ma affermi pure una sua intima
naturale ra gione, che con la religione non ha nulla a che fare. E in
quest'accettamento delle nuove forze popolaresche, alle quali bisogna parlare,
perchè la volontà di nazione sia realmente nazione, e la volontà di Stato
realmente Stato , Vincenzo Cuoco si lega ad un altro grande, Mazzini, tanto
diverso da Gioberti, ma pur con questi entusiasta caldo nella visione del
futuro popolo dell'Italia re denta. CAPITOLO VII. L'educazione nazionale nel
pensiero cuochiano. Il popolo e la scuola . - I tre caratteri di una educazione
nazionale : universalità , pubblicità , uniformità. - Tre gradi in una completa
educazione : scuola elementare, media , universitaria . - Morale e religione
nella scuola . - Educazione filosofica . Quanto sopra abbiamo detto segna ben
precisa la po sizione di Vincenzo Cuoco come politico e pedagogo nel Regno
italico . Il Platone e gli scritti del Giornale italiano sono i do cumenti
luminosi del periodo milanese della vita del l'autore, e basterebbero a dargli
una gloria non dubbia nelle lettere del nostro paese, confortata anche da una
amicizia intellettuale, che egli godette con uomini come il Monti e il Manzoni
( 1 ) . Con il 1806, ritornati i francesi oramai a Napoli, Vin cenzo pur esso
riede in patria , preceduto da una vasta notorietà e annunciato da missive
ufficiali del governo di Milano per quello meridionale . È l'ultimo tratto
della nobile vita del molisano, che, attraverso una fiera ma ( 1 ) B. LABANCA,
op . cit., p. 409 ; N. RUGGIERI, op. cit ., p. 48 ; B. CROCE, La rivoluzione
napoletana, p. 172 ; G. GEN TILE , op. cit. , p. 389. 261 lattia di nervi e di
mente, si concluderà il 13 dicembre 1823 con la morte, tratto di vita, che è
pur ricco di atti vità pubblica, per cui il nostro attinge cariche supreme ( 1
) , nonchè di un'opera dottrinale e pratica nello stesso tempo ( 2 ) , il
Rapporto e il Progetto di decreto per l'ordi namento della pubblica istruzione
nel Regno di Napoli, che di per sé sola basterebbe ad assicurargli un posto
eminente tra i pedagogisti dell'epoca, Rapporto, che, seb bene tragga «
occasione da un incarico speciale.... agli inizi del regno murattiano » non è «
il prodotto dell’oc casione, poichè come vedremo, risponde nelle linee prin
cipali , a idee profondamente maturate dal Cuoco in tutta ( 1 ) G. GENTILE, op.
cit., p. 390. ( 2 ) Oltre il Rapporto il Cuoco lavorò in vari campi dello sci
bile , e della sua attività sono documento varie pagine raccolte nel secondo
volume degli Scritti vari. Del Rapporto e del Pro getto di decreto esistono
numerose edizioni : una prima, senza data e senza frontespizio , fatta a spese
del governo prima del 10 ottobre 1809 per tenere il luogo del manoscritto nelle
distri buzioni che del Rapporto e del Progetto si fece al re, ai mini stri e ad
altre autorità , e quindi non pubblica ; una seconda, che dovea essere il primo
volume delle Opere di V. Cuoco, raccolta iniziata nel 1848 a speso di Luisa de
Conciliis, nipote del gran molisano, e naturalmente non venuta mai a compi
mento, edizione che porta il titolo : Progetto di decreto per l'or dinamento
della pubblica istruzione seguito da un Rapporto ra gionato per V. Cuoco (
Napoli, Migliaccio, 1848); una terza infine, che uscì alla luce nel primo tomo
della Collezione delle leggi, de' decreti e di altri atti riguardanti la
Pubblica Istruzione promulgati nel già Reame di Napoli dall'anno 1806 in poi
(Na poli , Fibreno, 1861). Sovra queste edizioni, tutte e tre scor rette, il
Gentile trasse la sua edizione critica del Rapporto e del Progetto, corredata
di documenti e note bio -bibliografiche illustrate, che inserì negli Scritti
pedagogici inediti o rari ( pa gine 49-276 ). I criteri critici di collazione
delle tre suddette edizioni, seguìti dal Gentile , non furono dismessi da N.
Cortese e da F. Nicolini, che dovettero far posto sia al Rapporto che al
Progetto negli Scritti vari ( v. II , pp. 3-161 ), correggendo ta lune sviste e
supplendo in talune omissioni il loro illustre pre decessore. Nonostante che
gli Scritti vari abbiano visto la luce , allorquando questo lavoro era già
compiuto , le citazioni sono state su di essi rivedute definitivamente anche
per la parte pedagogica. 262 ī la sua carriera di scrittore e di uomo politico,
in rela zione con le questioni fondamentali del tempo suo » ( 1 ) . Evitando di
entrare nell'analisi dei fatti, che al Rap porto precedettero e che perciò lo
determinarono, perchè oramai sufficienza noti, vengo a studiare le idee che in
esso si agitano ed i loro addentellati con tutto il pen siero cuochiano.
L'istruzione è la chiave di volta d'ogni sistema po litico . E, come ogni
sistema politico mira al benessere sociale, in quanto questo è realizzato
eticamente dallo Stato, così chi questo benessere vuol attuato, deve ope rare
col mezzo dell'istruzione e della scuola. Il Cuoco vuol rendere grande uno
indipendente il popolo italiano, dan dogli veramente il modo di formarsi una
coscienza na zionale . Ma praticamente come? Con la scuola. « La sola
istruzione, risponde, può far diventare volontà ciò che è dovere. La sola
istruzione può renderci l'antica gran dezza e l'antica gloria » ( 2 ) . Il
termine di riferimento di questa istruzione è pur sempre il popolo, nel di cui
spi rito dovranno essere alimentate le più nobili idealità pub bliche e civili
, alimentate da un lato dall'opera giorna listica , dall'altro dalla scuola.
Per comprendere questo punto occorre riferirsi, aver presenti le condizioni del
popolo e della scuola ne' primi decenni del secolo XIX. Di chi era la scuola ?
Non certo del popolo, il quale, assente in tutte le manifestazioni della vita ,
era assente anche nella scuola. Di chi dunque ? Di pochi fortunati , dotati
dalla sorte dei mezzi necessari, onde formarsi quel che si suol dire una
cultura : i nobili, i possidenti delle campagne, i borghesi e i commercianti
nelle grandi città. La rivoluzione ha il grande merito di avere richiamato
l'attenzione dei governanti sulle masse popolaresche, ha il merito di aver
compreso che solo queste sono il nucleo dello Stato, e che cointeressarle alla
cosa pubblica equi vale eternare lo Stato stesso . Ma la rivoluzione non po ( 1
) G. GENTILE , op . cit ., p . 336 e sg. ( 2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II ,
p. 3. 263 teva dare nel campo educativo, e in generale formativo, buoni
risultati, dato il suo astrattismo e la sua filosofia, troppo razionalista,
lontana com'era dai bisogni e dagli interessi delle classi basse. Il Cuoco di
contro accetta il postulato rivoluzionario , per cui dal popolo non si pre
scinde, ma lo rinnova col suo concreto senso storico della realtà : bisogna,
dice, non elevare il popolo alle nostre supreme idee di libertà , di virtù, di
moralità, che, in quanto assolute, esso non comprenderà, ma noi discen dere a
lui, entrare nel suo spirito, nel suo sistema men tale, e , attraverso un
progresso graduale e lento, mostrar gli l'utilità , oltre che la necessità
ideale, della libertà , della virtù , della moralità . Questo compito,
essenzial mente pratico, si può assolvere con la scuola, che prende l'uomo
fanciullo, e lo conduce all'adolescenza, e magari alla gioventù , maturandone i
sentimenti con un processo intimo ed interiore, non mai estrinseco e forzato .
Sol tanto così il popolo entrerà nello Stato , rafforzandolo e potenziandolo.
Sentite come ragiona il Cuoco. « Le rivoluzioni » scrive « sogliono svelare il
gran segreto della forza di quel po polo, che ne' tempi di tranquillità suol
esser la parte pas siva di uno Stato. La rivoluzione francese lo ha messo in
istato di produrre grandi beni e grandi mali : la sua condizione è cangiata in
gran parte degli Stati dell'Eu ropa. Chiamarlo a parte della difesa dello Stato
e delle leggi senza istruirlo è lo stesso che renderlo pericoloso, facendogli
fare ciò che non sa fare . Volerlo ritenere inu tile, qual era prima, è lo
stesso che voler condannare lo Stato a perpetua debolezza esterna, a frequente
disordine interno. Debolezza, perchè è sempre debole quello Stato che non è
difeso da’ cittadini, e non sono cittadini co loro che occupano col loro corpo
sette palmi di terra in una città, ma bensì coloro che contano tra i loro
doveri l'amarla ed il difenderla. Disordine, perchè le leggi e le istituzioni
politiche non hanno la loro garanzia se non nella volontà del maggior numero, e
, se questo maggior numero non è istruito , o non ha volontà o spesso ne ha una
contraria alla legge .... Tutto in Europa mostra la 264 necessità di dare al
popolo, e specialmente alla classe degli artefici e degli agricoltori, una
nuova educazione ed ispirargli l'amor della patria, delle armi, della gloria
nazionale » ( 1 ) . Indietro non si torna ! Avranno i conser vatori tutte le
loro buone ragioni per fossilizzarsi in forme statali superate, ma essi non
potranno mai negare al popolo , quello che a lui si deve : l'educazione, A
coloro che obiettano che il popolo è un ammasso inemendabile di vizi e di
passioni è facile rispondere . « E pure tra questo popolo noi viviamo ; questo
popolo forma la parte più grande della nostra patria , da cui di pende,
vogliamo o non vogliamo, la nostra sussistenza e la difesa nostra ; e noi
abbiam core di dormir tran quilli, affidando la nostra sussistenza e la difesa
nostra a colui che noi stessi reputiamo pieno di ogni vizio ed incapace d'ogni
virtù ? » . A coloro poi che dicono il popolo essere senza mente, o che
ripetono il vecchio sofi sma aristotelico, esservi uomini nati a servire ed
altri nati a governare, è pur facile controribattere. « Ebbene questo popolo
nato a servire, questo popolo che non ha mente, è quello che tante volte vi fa
tremare con quei delitti, ai quali lo spingono quella miseria , quell’ozio,
quella roz zezza in cui, per mancanza di educazione, voi lo lasciate. Se la
religione non avesse presa un poco di cura della educazione sua, qual sarebbe
mai questo popolo ? » . Oggi non si può tornare indietro : il bisogno dell'edu
cazione è immanente, sentito da tutti, sovrani e sudditi, governanti e
governati. « Non mai il bisogno dell'educa zione è stato maggiore. Tutti gli
usi antichi, che tenevan luogo di precetti, vacillano : gli uomini, dopo i
troppo vio lenti cangiamenti di ordini e d'idee, soglion cadere nel l'anarchia
de'costumi, che è peggiore di quella delle leggi. Non mai vi è stato bisogno
maggiore di educare quella ( 1 ) Giorn . ital . , 1804 ; n. 61 , 62, 75 ; 21 ,
23 maggio, 23 giugno; pp. 243-44, pp. 247-48, pp. 303-304 : Educazione popolare
(ri stampato in Scritti pedagogici, p. 23 e sgg.; ed ora in Scritti vari v. II,
pp. 93-102 ) . 265 parte della nazione che chiamasi popolo e diffonder l'istru
zione ne' villaggi e nelle campagne » . Per queste sue considerazioni il Cuoco
si ricollega al grande pedagogista prerivoluzionario, a Jean- Jacques Rousseau
, il solo forse che primo sentì le vive pulsanti forze del popolo nuovo ed il
bisogno di provvedere alla di lui istruzione, riferendosi alla sua natura e
all'evolu zione delle sue facoltà ( 1 ) . A chi noi daremo mai questo alto
compito di creare degli uomini consapevoli del loro posto nella società ! La
risposta del Cuoco non è dubbia. Dato il carattere etico -giuridico che egli
attribuisce allo Stato, è ovvio che l'educazione debba essere impartita, o
almeno control lata, dallo Stato. L'educazione mira a formare buoni cit tadini
: è naturale dunque che lo Stato » volontà collet tiva, somma di volontà
individuali, da essa non possa prescindere. « Posto questo bisogno nello Stato
» osserva giustamente il Gentile « di consolidare sempre più le pro ( 1) Del
resto il concetto di natura e quello d'educazione e di Stato nel Rousseau hanno
un significato ben più profondo di quanto generalmente non si creda. Vedi a
questo proposito il libro di G. DEL VECCHIO, Su la teoria del contratto
sociale, Bologna, Zanichelli, 1906, p . 32. « È .... massima ( del Rous seau )
che nella realtà si distingua ciò che è fattizio , ossia sopravvenuto per
arbitrio ed arte dell'uomo , da ciò che è na turale, ossia fondato nell'essenza
medesima della cosa. Questo ha valore di norma rispetto a quello. La natura è
dunque per Rousseau il principio del dover essere, più ancora che quello
dell'essere . Essa esprime la realtà in un senso filoso fico e non già fisico ;
rappresenta la sua ragione e non la sua contingenza » . Ma questa concezione
della natura, propria del Rousseau, nel Cuoco viene integrata e corretta, come
nota il GENTILE ( Studi vichiani , p. 419), con la concezione storica dello
spirito. « Ed è in verità non una contaminazione delle due filo sofie, ma la
schietta pedagogia del Vico , che aveva più salda mente fondata (benchè con
fortuna storica senza paragone minore) che non il Rousseau, il motivo di vero
del suo natu ralismo: l'autonomia dello spirito » . A due distinte fonti oc
corre ricondurre la pedagogia cuochiana, al Rousseau che gli dà vivo il senso
dell'essenza prima d'ogni realtà, al Vico che gli dà la consapevole riduzione
della stessa realtà allo spirito nella sua dialetticità . 266 prie basi nella
coscienza nazionale, è evidente che l'istru zione, come pensavano i pedagogisti
della Rivoluzione francese, e come prima aveva insegnato il Montesquieu per lo
Stato democratico, è funzione di Stato . Poichè lo Stato si regge sulla coscienza
nazionale, e questa si forma con l'istruzione pubblica , rinunziare a questa è
per lo Stato un assurdo : sarebbe come rinunziare a sè stesso » (.1). Il
compito educativo certo non si esaurisce nella scuola, ma questa trascende :
l'ecclesiastico , il filosofo, il legi slatore tutti e tre mirano allo spirito
e al suo sviluppo, ma la loro opera è di necessità insufficiente, se non è in
tegrata dall'attività generale e pubblica dello Stato. Scuole di morale, laiche
od ecclesiastiche, possono pur vivere, occorre però che lo Stato le controlli,
e le adatti sempre meglio allo scopo, alla finalità che esso si pro pone, e le
riconduca a questo, ove se ne allontanino. Sarà perfetta quella città, quello
Stato, in cui il sa cerdote, il filosofo e il legislatore si saranno messi di
ac cordo, e concorreranno ugualmente all'educazione del popolo. Stabilito il
punto primo che l'educazione deve essere dello Stato, ancorchè sia educazione
religiosa, fissiamo i suoi caratteri : essa deve essere in primo luogo univer
sale, poi pubblica, infine uniforme. L'educazione deve essere universale. Il
Cuoco concepi sce la vita da un punto di vista spiritualistico . Vita non è
vegetazione o deambulazione, è coscienza della propria posizione nel mondo,
perciò è innanzi tutto attività dello ( 1 ) G. GENTILE, Studi vichiani , p.
408. Noto a questo propo sito come soltanto tenendo presente il concetto di
Stato qual'è nel Rousseau, il Cuoco poteva giungere a concepire uno Stato
educatore. « Quando il Rousseau parla ( Vedi DEL VECCHIO, op. cit. , p. 33)
della « nature du corps politique » , non intende con ciò di riferirsi alla
guisa onde lo Stato si presenta nei fatti ; ma alla ragione dell'essere suo
ingenerale, all'esigenza suprema, cui esso ha da corrispondere.... La libertà e
l'uguaglianza, fon date nell'essenza stessa dell'uomo, debbono aver nello Stato
la loro assoluta sanzione » . E la libertà e l'uguaglianza bisogna intendere in
un senso spirituale e non empirico, intimo e non estrinseco. 267 spirito . Lo
spirito è qualcosa di inscindibilmente uni tario, onde l'educazione dev'essere
inscindibilmente uni taria . Tutto, scienze ed arti, scienze fisico - naturali
e scienze morali, debbono convergere ad un sol centro, lo spirito . I secoli
barbari potranno dire « non esservi alcun rapporto tra le scienze e le arti » (
1 ) ; i secoli di pro gresso, in quanto più hanno consapevolezza della realtà
mirano ad unire le disiecta membra di quel che in astratto sarà questa o quella
scienza a noi precostituita, ma che in concreto non è che una elaborazione
dello spirito, una nostra formazione, e nello spirito attinge l'uni versale .
Perciò, dice il Cuoco, « noi adopriamo la parola istruzione nel suo più ampio
significato ; ed in ciò , oltre d'imitare tutta l'Europa colta, abbiam la
gloria di se guire gli esempi domestici. I nostri pittagorici, forse i più savi
istruttori di tutta l'antichità, niuna parte della vita umana escludevano dalla
pubblica istruzione » ( 2 ) . L'educazione, in secondo luogo, deve essere
pubblica . L'Italia è sempre stata una terra feracissima di ingegni, ricca di
uomini grandi, ma costoro, maturatisi in am bienti apatici e morti alla
cultura, hanno molto contri buito alla propria gloria, poco alla gloria dello
Stato e al benessere della collettività . Poichè « la nazione non era istruita,
essi fecero molto per la gloria loro, nulla o poco per l'utilità della patria ;
tra essi ed il popolo non eravi nè lingua intelligibile, nè mezzo alcuno di
comunica zione » ( 3 ) . Occorre quindi che lo Stato dia un'istruzione ai suoi
cittadini, onde le loro forze non vadano disperse, ma convergano sempre più e
meglio ad un fine unico, . il progresso civile. Ma il fatto che l'istruzione
sia pubblica e statale si gnifica dunque la morte delle scuole private, specie
in un paese come l'Italia ed in particolare Napoli, ove la scuola privata ha
una storia nobilissima ? No certo : le scuole private sussistano pure gestite
da chiunque, ma ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II , p. 4. ( 2 ) V. Cuoco,
Scritti vari , v . II , p. ( 3) V. Cuoco, Scritti vari, v. II , p. 4. 5. 268 lo
Stato ha l'alto controllo a che i maestri siano degni e moralmente e
culturalmente, a che la materia d'in segnamento sia comune a quella delle
scuole pubbliche, a che non si propaghino per mezzo loro dottrine con trarie
all'ordine pubblico e alla moralità media della società . Il fatto però che
l'ente pubblico, cioè lo Stato, dia una educazione ai suoi cittadini non
significa che tutti i cit tadini debbano divenire altrettanti dotti. Lo Stato
non pud perseguire questo fine. Ricordiamo quel che il Cuoco dice nel Platone
in Italia, laddove osserva che una città di soli savi non meriterebbe nemmeno
il nome di città, perchè le mancherebbe ciò che solo tramuta una congre gazione
d’uomini, in città, in Stato : « la vicendevole di pendenza tra di loro per
tutto ciò che rende agiata e sicura la vita e la perfetta indipendenza dagli
stra nieri » ( 1 ) . Accanto al savio è necessaria la coesistenza della massa
dei non savi, e in questa è poi necessaria una ulteriore differenziazione di
funzioni , per cui l'agricoltore non sia calzolaio, il muratore non sia
mugnaio. Coloro che si propongono un assoluto illimitato eleva mento
intellettuale del popolo cadono nell'errore, poichè vogliono l'impossibile e il
dannoso : l'impossibile, « per chè non si può giungere alla perfezione nelle
scienze se non per la stessa via , per la quale vi si perviene in tutte le arti
, cioè dividendo gli oggetti del lavoro ed occu pandosi di un solo ; il che da
un popolo intero non si può fare, poichè, per sapere, dovrebbe egli rinunciare
ai mezzi di vivere » : il pernicioso, « perchè rimanendosi il popolo a mezza
strada, avremmo una nazione di mezzo sapienti; ed un mezzo sapiente, diceva il
Chesterfield, è unpazzo intero » ( 2 ) . Da ciò consegue che l'istruzione,
sebbene pubblica, non può essere uguale per tutti, e come nel paese vi deb bono
essere i ricchi e i poveri, i conservatorie i filoneisti, ( 1 ) V. Cuoco,
Platone, v. I , p. 86. ( 2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v . II , p. 5. 269 così vi
debbono essere i dotti e gli indotti, i più colti e i meno colti. Vi sarà
perciò una istruzione per pochi, che diremo sublime o alta, una per molti, che
diremo media o secondaria, una per tutti, che diremo elementare o pri maria .
La prima è destinata al progresso delle scienze, la seconda ha per iscopo di
diffondere i trovati dell'alta cultura nella vita commerciale industriale
agricola a con tatto con il popolo, la terza di dare allo Stato fedeli sud
diti, virtuosi e morali cittadini. Questa tripartizione della scuola rivela il
gran senso pratico del nostro autore, a cui della vasta gamma della vita umana
nulla sfugge e si perde. Ma la discriminazione non si ferma qui. Occorre che
l'istruzione, che lo Stato impartisce alle donne, sia diversa da quella, che
impar tisce agli uomini, e che per le donne stesse sianvi pure le tre forme o
gradi di scuola sovra dette. L'istruzione alle donne ? È questo un tema caro al
Cuoco. Le donne, scrive nel Platone, hanno il grandioso compito di allevare
figli per lo Stato, e di allevarli non nel senso comune, cioè di nutrirli, ma
di istillare in essi i primi sensi della vita sociale, i primi germi, che poi
nell'interiorità dello spirito si svilupperanno. Esse, che hanno un così alto
compito, conviene che abbiano una adeguata preparazione. Infatti, scrive il
Cuoco, « non può dare al figlio l'educazione di un cittadino colei che ha la
condizione e la mente di una serva » (1. ) . Perciò lo Stato si deve
preoccupare dell'educazione femminile, e provvedervi in modo da non turbare
l'ordine della natura e la sua essenza : educare le donne da donne, ed educarle
secondo la diversa posizione sociale che nel mondo esse avranno : e « quando le
donne saranno educate, sarà com piuta per metà l'educazione degli uomini » ( 2
) . Una questione subordinata è quella della gratuitità del l'istruzione. Deve
essere questa gratuita per tutti ? No. L'istruzione inferiore o primaria,
appunto perchè ha i ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p. 25. ( 2 ) V. Cuoco,
Scritti vari, v. II , p. 21 . 270 caratteri della più vasta generalità, è offerta
dallo Stato a tutti senza retribuzione alcuna, ma l'istruzione media e
superiore, siccome risponde ad utilità non solo sociale, ma altresì
particolare, deve essere pagata da chi ne usu fruisce, salvo sempre a fare
condizioni di favore a chi, essendo sfornito di beni di fortuna, s'addimostri
degno per altezza d'ingegno di essere mantenuto agli studi dallo Stato, che un
giorno o l'altro con le opere sue glo rificherà . Infine, in terzo luogo,
l'istruzione deve essere uni forme. Dopo quanto abbiamo detto l'uniformità
dell'istru zione appare chiara : in ogni suo grado, inferiore medio e
superiore, in ogni suo aspetto, maschile e femminile, l'istruzione deve essere
uniforme, svolta con gli stessi programmi, con gli stessi metodi, con gli
stessi libri. Il Cuoco non si nasconde i gravi difetti insiti nell'abuso d'un
simile sistema : le scienze possono anche arrestarsi, poichè la discussione e
il contrasto sono il vero e più efficace stimolo al progresso : si può
generalizzare un abito di servilità verso il passato, che è quanto di più
nocivo per la vita, che si sviluppa in un irrefrenabile superamento dell'antico
nel nuovo. Perciò questa uniformità non si può intenderla in un senso assoluto,
ma bensì relativo. Ognuno che insegna deve insegnare, previa autorizzazione
dello Stato, ed in segnare sulla base di un programma -metodo anteceden temente
presentato alle superiori autorità pubbliche. I corsi impartiti da privati non
avranno effetto accade mico, se non in seguito ad un esame dinanzi ai docenti
di Stato . Lo Stato inoltre esamina e giudica i libri di testo che andranno per
le mani dei giovani . Certo questo sistema potrebbe portare con sè il più grave
degli inconvenienti, lo staticizzarsi dell'insegnamento, il chiudersi in for
mule, in programmi, in metodi, cioè in quanto di più astratto si possa
immaginare. Per eliminare tutto ciò il Cuoco propone una direzione o ministero
di tecnici, che aperto a tutti gl'influssi scientifici europei, nell'opera sua
di controllo riconosca meriti e punisca abusi, ed 271 in ogni caso abbia di
mira il progresso e lo sviluppo del l'attività spirituale ( 1) . Posti questi
princípi fondamentali , Vincenzo Cuoco abbozza un suo vero e proprio progetto
di riforma sco lastica, particolareggiato e minuto, monumento insigne di
sapienza pedagogica, in cui davvero noi sentiamo vi vere quella che è la scuola
moderna. Noi non possiamo seguirlo fino alle ultime delucidazioni, ma ci
proponiamo di astrarre dall'opera quei princípi generali, che più hanno
relazione con l'assunto politico . Caratterizzando la scuola primaria il nostro
scrittore dice che questa, oltre a dare le prime nozioni della lettura e della
scrittura, mira a formare una morale, volendo significare che mira a formare
una moralità media so ciale . È un punto importante. La morale è necessaria per
gli aggregati umani, ed è necessaria in sè e nella sua uniformità. Possiamo
anzi osservare che essa è un bi sogno dello spirito che la elabora e la pone.
Questo pro cesso di formazione è un processo spontaneo . Lo Stato non può
ignorarlo . O esso interviene e lo promuove, al lorquando prende i fanciulli
nelle prime scuole e li porta giovinetti fino alle superiori, plasmando e
riplasmando le loro coscienze, o esso inattivo assisterà a degli svi luppi
spirituali, dai quali può anche ricevere danno. « È necessario che ai popoli si
dia ( una morale ]: altri . menti se la formeranno da loro » ( 2 ) . Questo
compito, il dare al popolo una morale, è af fidato alla scuola primaria,
allorquando l'uomo è tenero ed atto a ricevere le più svariate nozioni e a
compene trarle di tutto il proprio afflato spirituale . Se questa mo rale « la
riserbate all'età adulta, quando già l'uomo ha sentito ed ha agito, voi gliela
darete tardi ; egli si tro verà di aversene già formata un'altra : siete sicuro
che non sia diversa dalla vostra, e che, essendo diversa, vi riesca di
distruggerla ? » ( 3) . ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II , p. 14. ( 2 ) V.
Cuoco, Scritti vari, v. II , p. 16. ( 3 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II , p.
16. 272 La prima morale, quella dell'infanzia, è la più pro fonda. Il fanciullo
la riceverà, quando il suo animo è ancora puro, in sublime stato d'innocenza,
scevro di passioni conturbatrici, e non la dimenticherà mai più, poichè essa
gli è divenuta abitudinaria, vale a dire con naturale al proprio esssere . E,
se tutti i fanciulli saranno stati educati dallo Stato allo stesso modo,
l'opinione dei singoli sarà coincidente con l'opinione universale. Qui si
rivela un grande senso pratico . Non basta im porre la legge ai singoli,
occorre sentirne la necessarietà od anche, ov'è possibile, l'utilità, perchè
essa non resti un astratto, ma vibri davvero nella coscienza collettiva : e
questo è il compito della morale. Lo Stato perciò di Cuoco non si preoccupa
dell'istru zione letteraria soltanto, ma anche, e sopra tutto, del l'istruzione
morale e politica. Dell'istruzione religiosa non si preoccupa « perchè
appartiene ai di lei ministri » ( 1 ) . Ma quest'affermazione non bisogna
assumerla in senso rigido . Dato il sistema politico del Cuoco, per cui lo Stato
è stato professionista e giurisdizionalista, è ovvio che lo Stato non può
disinteressarsi di quell'educazione reli giosa, che, ancorchè si ponga fuori
dalle mura delle aule scolastiche, mira agli spiriti, cioè agli uomini, che
sono poi cittadini. La religione è un mirabile strumento d'educazione, an
corchè non sia l'educazione stessa . Come può lo Stato ri manere indifferente
dinanzi ad essa ? « È necessario che la legge le dia la norma, perchè spetta
alla legge, alla sola legge, il determinare qual debba essere la virtù del
cittadino . È necessario che la filosofia le indichi i mezzi, perchè la
filosofia è quella cui spetta conoscere il cuore e la mente umana e le vie per
insinuarvi la virtù e la saviezza » ( 2 ) . Ma d'altra parte la stessa
educazione di Stato deve ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II , p. 12. ( 2 )
Giorn . ital . , 1804, n. 61, 62, 75 ; 21, 29. maggio , 23 giugno; pp. 243-44,
pp. 247-48 , pp . 303-4: Educazione popolare (vedi p. 264 del presente lavoro
). 273 avere carattere religioso. Il Cuoco ha detto che la reli gione non
s'insegnerà nelle scuole : va bene : ma l'in segnamento, ' specie il primario,
non sarà efficace se non sarà circonfuso di quello spirito religioso, che parla
alle anime semplici. Il dotto trova nell'assoluto etico il soddisfacimento
delle sue esigenze di libertà ; l ' indotto, il fanciullo hanno bisogno di
quella morale rivelata ed oggettiva che è la religione. In un articolo del
Giornale italiano il Cuoco, par lando di una scuola normale danese, atta a
creare ottimi maestri, scrive che « il popolo deve esser istruito, ma non deve
esser dotto : ad ottener ambedue questi fini, non vi è altro mezzo più efficace
che dargli de' maestri egual mente lontani dall'ignoranza e dalla pedanteria ;
met terli in tutt'i punti dello Stato, onde sieno .in contatto col popolo, nè
il popolo abbia bisogno di cercarli; rive stirli di un carattere che pel popolo
è il più sacro, cioè del carattere religioso » ( 1 ) . Quindi anche
l'istruzione ele mentare, ancorchè laica e gestita e controllata dallo Stato,
non può prescindere da quel carattere, che diremo in senso assai largo
religioso, come quello che meglio risponde all'indole e alla natura del popolo,
che è tutto senso e fantasia e poco ragione. Sovra questa base religiosa si
potrà fondare una mo rale civica, poichè chi è buon credente in massima sarà
buon cittadino, e sulla morale poi si assicurerà il rispetto alle leggi e allo
Stato . Ma la base di tutto è la religione. E, siccome la pubblica autorità «
si occupa dapertutto a fare sì che vi sieno istituzioni uniformi di quelle idee
che più importa che sieno comuni e concordi, così dia una norma anche per le
istruzioni che fanno i ministri dell'altare ; le quali, se non sono concordi
colle altre, sa ranno inutili; se sono discordi , diventeranno nocive » . Da
tutto ciò una illazione. « Riuniamo ( esse non si avreb bero dovuto separar
giammai) le istruzioni della casa, ( 1 ) Giorn . ital . , 1804, 29 ottobre, n.
130, p. 528-29 : Utilità pubblica. 18 - F. BATTAGLIA . 274 del fòro, del tempio
; tolgansi una volta quelle diversità di princípi , per cui ciò che la legge
economica di una famiglia richiede è condannato dalla legge politica di tutta
la città, e ciò che la patria impone è indifferente per la religione ; facciam
sì che costumi, leggi, religione non abbiano che un sol fine, che è quello di
render i cit tadini più virtuosi e la patria più felice » ( 1 ) . È la naturale
logica conseguenza di quella visuale che il Cuoco ha dei rapporti tra Stato e
Chiesa e del posto che egli attribuisce alla religione nella vita dello
spirito, so luzione tirannica, se si vuole, ma altamente liberale, se si pensa
alla natura dello Stato cuochiano, Stato etico, attuante una sua libera
finalità superiore ad ogni parti colare transeunte ed assommante in sè tutte le
varie ma nifestazioni della vita. Lo Stato del Cuoco ha molti punti di contatto
con lo Stato del Fichte e dell' Hegel. « E ogni - volta » nota giustamente il
Gentile « che si sente forte mente la sostanzialità etica, il valore ideale e
morale dello Stato ( il che avviene quando piuttosto si guarda all'idea di esso
o a uno Stato futuro, che non quando si abbia sott'occhio un determinato
governo, il quale di tanto è imperfetto a rappresentare realmente lo Stato, di
quanto è inferiore alle idealità che nello Stato pure si agitano , senza
raggiungere la forma giuridica ) , così della religione come della filosofia,
in quanto servono anch'esse come elementi riformatori della coscienza civile,
si fa necessariamente uno strumento del fine politico » ( 2 ) . Laddove
l'educazione primaria deve mirare alla fan tasia e al senso, e perciò deve
essere essenzialmente re ligiosa, l'educazione superiore deve essere
filosofica, cioè mirare allo spirito nelle sue più elevate manifestazioni
razionali. Le qualità proprie d'ogni vera educazione, in quanto spirito,
l'unitarietà sopra tutte, si rivelano ora. « L'educazione ben diretta non ha
tanto in mira d’in segnare una o due idee positive di più o di meno, quanto ( 1
) Giorn. ital . , 1804, 25 aprile, n. 50, p. 200 : Varietà ( vedi p. 226 del
presente nostro lavoro ). ( 2 ) G. GENTILE, Studi vichiani , p. 416. 275
d'ispirare l'amore di una scienza e dare alla mente una attitudine maggiore a
comprenderla. Quasi diremmo che non si tratta di formar un libro, ma un uomo :
giacchè ad un libro rassomiglia un uomo meramente passivo, il quale tante idee
tiene quante se gliene son date ; mentre al contrario il carattere della mente
è quella di esser at tiva, creatrice, capace di formare le sue idee, ordinarle,
saperle insomma dominare in tutti i modi e signoreg giare » (1 ) . Il concetto
realistico della vecchia pedagogia è superato. Il maestro, infine, è tale in
quanto è nello spirito del discente, in cui si compie quel processo, per cui la
nozione divien vita, cioè atteggiamento spirituale e s’armonizza in un vasto
tutto , la personalità. La scuola non è accademia, ma intima affermazione di
coscienze formatesi gradualmente in un logico libero sviluppo. Tutto il vecchio
macchinario formalistico deve essere bandito : il giovane deve essere posto a
tu per tu con i grandi scrittori, poeti storici filosofi, senza il tramite di
quei cimiteri di formule che sono le grammatiche, senza il tramite di quelle
carceri di idee, che sono le retoriche e le poetiche : il giovane deve mirare
al contenuto ideale delle cose, formarsi quel che si può dire estrinsecamente
un metodo acquisitivo , ma che in sostanza null'altro è che una forma dello
spirito inscindibile dal suo conte nuto. Questo stesso carattere unitario deve
offrire l'istru zione superiore. Una differenziazione di facoltà o scuole
speciali e di cattedre s ' impone per i fini professionali che si perseguono,
ma « l'istruzione vera è quella che tutte le parti dello scibile ci presenta
ben ordinate, tutte ce le addita e ci mette nello stato di poter da noi stessi
trattenerci intorno a quella che più ci piace » ( 2 ) . Messo dinanzi ai mezzi
con cui si può progredire nello spirito, il giovane deve scegliere,
perfezionarsi nel sapere, af fermarsi nella gara della vita. ( 1 ) V. Cuoco,
Scritti vari, v. II , p. 25. ( 2) V. Cuoco, Scritti vari, v. II , p. 53. 276 Se
ora l'istruzione media ed universitaria, come ho detto deve avere carattere
filosofico, ne deriva una pro fonda trasformazione di tutto ciò che era per l'
innanzi. Un esempio solo basterà per mostrarci le infinite conse guenze di
questa nuova posizione. L'eloquenza per gli antichi null'altro era che uno
strumento per il ben scri vere, e questo bene scrivere tutto si imperniava
sovra il gioco delle grammatiche, delle retoriche, delle poe tiche. Ora,
osserva il Cuoco, la filosofia s'è impadronita delle materie dell'eloquenza .
Nè è a dire questa una usur pazione, ma una legittima rivendica di ciò che la
filosofia già possedeva in antico, cioè con i Platoni e gli Aristo teli. La
forza del dire, la perspicuità dello stile non di pendono da cause estranee a
noi, come le norme più o meno buone apprese sui " libri scolastici, ma
dalla ric chezza della nostra vita interiore, « dalla forza e dal nu mero delle
idee presentate al nostro spirito » ( 1 ) . Perciò quello che nella riforma del
Cuoco serba il vecchio nome di eloquenza , diviene una vera filosofia del bello
o este tica , che dir si voglia, come quella che direttamente mira allo spirito
e alle sue manifestazioni fantastiche, cioè artistiche. Ne il Cuoco si arresta
qui, ma seguendo la sua idea che la vera grammatica non possa essere se non
nella vita del periodo, in quanto questo scaturisce dalla mente originario e
fresco, vagheggia una grammatica universale e filosofica , che insegni il
meccanismo di tutte le lingue sulla base della comune uniforme mente umana ( 2
) . La stessa filologia, come la stessa erudizione e lo stesso studio dei
monumenti antichi, sia grafici che tecnici, « ha le sue idee astratte, ha la
sua parte filosofica ; perchè ha ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v p . 56. . II ,
( 2 ) Qui più che mai si palesa quel concetto della natura , per cui nelle cose
occorre distinguere quel che è fattizio accessorio da ciò che è essenziale ed
originario , che il Cuoco attinge come abbiamo veduto dal Rousseau ed integra
con una sicura intui. zione dello spirito in ogni suo aspetto o attività di
vita, che de riva certamente dal Vico. 277 le sue regole universali applicabili
ai fatti di tutte le na zioni. » ( 1 ) . Bisogna uscire dallo studio del fatto
in sè e per sè, sia esso un documento grafico o un rudere ar chitettonico,
risalire allo spirito, all'idea che ha mosso un popolo o un individuo a crearlo
. E come nello spi rito umano c'è un'essenzialità comune, dalle conclusioni
particolari ad un popolo occorre risalire a conclusioni più vaste, a
generalizzazioni più audaci, investenti il nu cleo della universalità, seguendo
questi stessi princípi, che il Vico ha divinato nella sua Scienza nova .
Giambattista Vico, analizzando la filologia dei greci e dei romani, ha così
fissato le norme per ogni filologia , ha stabilito leggi sicure, addimostrando
non le leggi che governano il linguaggio dei singoli , ma bensì quelle che
governano il linguaggio delle nazioni. E così si dica, per i miti, per le norme
giuridiche, per i riti . « In tal modo la scienza dell'erudizione diventa
veramente filosofica ; e ciò, che sappiamo de ' greci e de ' romani, diventa
utile ad intendere ciò che della filologia delle altre nazioni o ignoriamo o
conosciamo imperfettissimamente » (2 ) . ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II ,
p. 62. ( 2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II , p. 62. Conclusione. Ed ora che
abbiamo analizzato la personalità di Vin cenzo Cuoco in tutte le sue
manifestazioni politiche e pedagogiche, ci sia lecito concludere, pur sapendo
quanta parte del pensiero del molisano sia rimasta fuor dalle linee tracciate .
Qual'è la posizione del nostro scrittore nella storia culturale d'Italia ?
Posto a cavaliere tra il secolo XVIII e il XIX è il più importante
rappresentante di quel che un critico francese, Paul Hazard, ha detto
l'italiani smo, e che, se nel secolo XVIII s'impersona nel pen siero
storicista, e perciò antirazionalista, di Giambattista Vico, reagente contro
l'astrattismo razionalistico di Car tesio, nonchè contro il materialismo di
altri minori, in nome di supreme esigenze dello spirito ; nel secolo XIX si
impersona nel Cuoco, che animato dall'alta tradizione nazionale muove contro
ogni forma di vita, che italiana non sia , e quindi non connaturale a noi, e
perciò non veramente storica ma rigidamente morta, astratta, vuota d'ogni
vibrante contenuto umano . È un'ideale continuità quella che lega il Vico al
Cuoco, è la gloria perenne del pensiero italico rinascente, quando le straniere
infiltrazioni sempre più sembrano soffocarlo. Il Vico rappresenta un profondo
rinnovamento nella filosofia , e perciò in tutte le attività umane, che dal me
todo filosofico non possono prescindere : la politica, la storia, la
giurisprudenza, l'economia. Asserendo lo spi 279 rito fonte prima d'ogni realtà
morale, asserisce la vera libertà , libertà che nè il Medio Evo nè il
Rinascimento, moventisi ancora nell'antico dualismo dell'essere e del divenire,
potevano assolutamente concepire. Egli è il primo, che sente il dinamismo dello
spirito e pone le grandi proposizioni della filosofia moderna : il mondo del
l'arte sensuoso e fantastico, il mondo della storia delle nazioni concretato
nelle istituzioni e nelle leggi, il mondo della religione e della moralità
s'originano da noi, in noi trovano la loro fonte prima perenne inesauribile,
nella continua attività dello spirito. E, se teniamo fermo questo punto, tutto
ci si discopre trasformato, e quel che prima era estrinseco, incasellato ,
morto diviene intimo, libero, vivo. Ma questa posizione implica un nuovo e
diverso processo : la realtà spirituale non si conosce, se non affi sandosi
nelle più varie manifestazioni delle sue concretiz zazioni, vale a dire
discendendo al vero storico, per poi risalire di nuovo allo spirito prima e
remota scaturigine : l'unità dello spirito non si comprende se non attraverso
la molteplicità , e viceversa la molteplicità non si com prenderebbe se non per
il tramite dell'unità. Chiamiamo filosofia la scienza dell'idea eterna ed im
mutabile, di ciò che non è transeunte e contingente ; chiamiamo filologia la
scienza dei fatti umani, assom mante in sè ogni mutevole prodotto storico :
occorre con ciliare l'una con l'altra , la filologia con la filosofia . È il
grande assunto del Vico : porre questo nesso correlativo : non v'è filosofia
senza filologia, nè filologia senza filosofia . La mente umana è l'origine
dell’una e dell'altra, produce l'idea, il vero filosofico, come genera il fatto
umano, il vero storico . Da ciò scaturisce che la sua realtà è questo mondo
degli uomini, in cui siamo nati ed in cui ci muo viamo, in cui dobbiamo
foggiare la nostra individualità ed agire per noi e per gli altri, per il
nostro particolare e per lo Stato, in cui vive il nostro miglior noi . E questo
il Vico esprime nella notissima icasastica frase : « questo mondo civile
certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perchè se ne
debbono, ritruovare i prin cípi, dentro le modificazioni della nostra medesima
mente 280 umana » ( 1) . Questo il nucleo profondo della filosofia del Vico,
che Cuoco acquisisce e fa sangue del suo sangue, movendo da esso a rinnovare la
struttura della politica e della pedagogia tradizionale: Il Cuoco in senso
rigido non è filosofo vero, come colui nel quale rimangono vecchi e irresoluti
reliquati intellet tualistici nonchè contraddizioni insanabili, per cui in
qualche punto è ancor più indietro del suo istesso maestro; ma il suo grande
merito è l'aver posto in termini poli tici quel che in Vico era filosofia , e
l'aver visto quale inesauribilità di situazioni poteva germinare dalla vec chia
esperienza vichiana . In un mondo vuoto e falso quale quello della rivolu zione
italo - francese, egli, riinnestandosi al Vico, dà alla nazione quel senso
storico che le mancava, e le ridona * quella comprensione sicura della realtà,
quella fiducia, che solo può scaturire da una ferma credenza in noi, nelle
nostre possibilità, nel nostro avvenire. Nella rivoluzione napoletana si è
detto con felice frase sono i germi dell'unità d'Italia, e, notiamo, non solo
dal punto di vista estrinseco, ma dal punto di vista anche intellettuale. Con
il cadere della Partenopea, diecine e diecine di esuli si diffondono per il
Nord d'Italia, ed ivi portano il loro sapere, la loro cultura filosofica più o
meno permeata di vichismo, il loro diritto , la loro economia: da ciò nasce una
più intima comunione di spiriti, una più attiva fratellanza di idee tra
italiani ed italiani. E chi resta insensibile a questo gran movimento cultu
rale, in cui sono non pochi e piccoli germi di quel che sarà il Romanticismo ?
Nessuno, direi : non v'è alta co scienza che per effetto di questa propaganda
non vi chianeggi . È un po' la moda, ma una moda benefica, che porta ad una
migliore intesa tra uomini di diverse regioni d'Italia, che erano per secoli
rimaste quasi estranee tra loro . Più gli studi si approfondiscono e più questo
fenomeno ( 1 ) G. Vico, Scienza nova , v . I , p. 172. 281 appar vero, ' e,
notiamo, anteriore in un certo senso al l'opera stessa di Vincenzo Cuoco. È di
ieri, recentissimo, uno scritto di Luigi Rava, che ci informa di una rivista,
fiorita a Venezia verso il 1796, tre anni prima dunque dell'esilio del nostro
molisano, il Mercurio d'Italia , in cui Ugo Foscolo giovinetto fa le sue prime
armi e pubblica i suoi precoci scritti, La Croce, l'Ode a Dante, La morte di
*** ed altri componimenti di minore importanza ( 1 ) . Ebbene in un articolo
anonimo sovra l'Abbozzo di un quadro del progresso dello spirito umano del
Condorcet v'è un raffronto tra le dottrine del francese e quelle di
Giambattista Vico. È proprio ca suale questa coincidenza ? E il Foscolo
giovinetto, che del Vico poi certo si nutrì come dimostrano molte idee dei
Sepolcri e degli scritti critici, rimase insensibile al richiamo di questo
grande filosofo italiano, « così poco conosciuto fuori della sua Napoli » ? ( 2
) . Ma i veri apo ( 1) Luigi RAVA, Le prime armi del Foscolo giornalista : il
Mercurio d'Italia , in Rivista d'Italia , a. XXVII ( 1924) , v. I , fasc. III ,
pp. 257-279. ( 2 ) Un certo quale influsso vichiano forse inconscio si può
rinvenire in Carlo Gozzi e nella posizione assunta con le sue ce lebri Fiabe
contro il Chiari e il Goldoni, in cui certo egli rappre senta una tradizione
veramente italica, se pure esausta dal tempo, contro una riforma che a lui
pareva una volgarità , troppo permeata di verismo com'era. Lastessa ricerca del
fan tastico per il popolo in una società razionalista, superba della infinita
sicurezza dell' intelletto , è una posizione vichiana. « Il contenuto » scrive
il DE SANCTIS , ( Storia, II, p. 305 e sg. ) se è il mondo poetico com'è
concepito dal popolo , avido del meraviglioso e del misterioso,
impressionabile, facile al riso e al pianto. La sua base è il soprannaturale
nelle sue forme : miracolo, stregoneria, magia. Questo mondo dell'immagina zione,
tanto più vivo quanto meno l' intelletto è sviluppato, è la base naturale della
poesia popolana sotto le più diverse forme: conti, novelle, romanzi, storie,
commedie, farse. La vecchia letteratura se n'era impadronita , ma per
demolirlo, per gettarvi entro il sorriso incredulo della colta borghesia.
Rifare questo mondo nella sua ingenuità, drammatizzare la fiaba o la fola,
cercare ivi il sangue giovane e nuovo della com media a soggetto : questo osò
Gozzi in presenza d'una società scettica e nel secolo de’lumi, nel secolo degli
spiriti forti e 282 stoli del vichismo sono nell'Italia settentrionale gli
esuli napoletani del '99, come osserva B. Croce ( 1 ) , sono Vin cenzo Cuoco,
Francesco Lomonaco, Francesco Salfi, il Massa, il De Angelis ed innumerevoli altri
minori ma pur degni. Per la loro opera si può dire che non vi sia grande
scrittore che non vichianeggi. L'influsso che il Cuoco od altri esercitò sul
Foscolo, è indiscutibile. A noi non risulta alcun documento com provante
possibili e diretti rapporti Cuoco - Foscolo, ma è certo che, se il molisano
ebbe relazioni , anche super ficiali, con amici del poeta dei Sepolcri, questi
non potè ignorare l'autore del Saggio storico ( 2 ) . Ma sia o non sia stato il
Cuoco od altri ( 3 ) a far conoscere il Vico al Foscolo, de’belli spiriti. E
riuscì ad interessarvi il pubblico , perchè quel mondo ha un valore assoluto e
risponde a certe corde che, ma neggiate da abile mano d'artista, suonano sempre
nell'animo: ciascuno ha entro di sè più o meno del fanciullo e del popolo ».
Del resto l'ultimo editore di C. Gozzi, Domenico Bulferetti, ( Le memorie
inutili , Torino , 1923 , vol. due) non ha potuto ne gare che lo spirito
dell'autore delle Fiabe assuma atteggia menti non certo consoni al tempo suo e
alla veneta società, come tutte le società del tempo illuminata, ma riecheggi
un po' il nuovo storicismo meridionale, pur senza essere riuscito a provare una
diretta influenza di quest'ultimo sugli studi del suo autore. (1 ) B. CROCE ,
La filosofia di G. Vico, p . 289 ; B. CROCE, Storia della storiografia , v . I
, p. 12. ( 2 ) G. ROBERTI, in Giornale storico della letteratura italiana , a.
XII, v. XXIII, pp . 416-427. Il Roberti raccoglie nell'arti colo alcune lettere
che C. Botta, U. Foscolo , V. Cuoco inviarono al suo bisavolo paterno ,
Giovanni Giulio Robert ( poi italianiz zato in Roberti). Le lettere di Foscolo
sono delle mere com mendatizie di due esuli meridionali, uno certo Piscopo,
l'altro un anonimo, che il Roberti crede, senza peraltro dimostrarlo, che sia
il Lomonaco . Da ciò si deduce sicuramente che Ugo ebbe rapporti con
meridionali e con amici diretti del Cuoco. ( 3 ) Vedi a proposito G. PECCHIO,
Vita di U. Foscolo, Città di Castello, Lapi, ed. , 1915 , p. 170, p. 210 e
passim . P. HAZARD, op. cit. , p. 241 osserva : « Son influence se répandra
même dans la littérature pure, où en trouvera des traces chez Monti et chez
Foscolo. Toux ceux lacomprennent les articles que Cuoco consacre à son maître
(Vico] » . Ora F. NICOLINI nella Nota agli Scritti vari di V. Cuoco, v . II ,p.
397 , dice che gli 283 gli scritti del poeta stanno lì a testimoniare come pro
fondamente nutriti essi siano di pensiero vichiano : così il processo
dell'incivilimento descritto nel carme, per cui furono nozze e tribunali ed
are, che diero alle umane belve essere pietose di sè stesse e d'altrui, è
derivato di- . rettamente dalla Scienza nova, ove è meditato il pas saggio
dall'età degli dei alle grandi società eroiche (1 ); e così pure il costume che
tolse i miserandi cadaverici avanzi alle fiere e li provvide di sepoltura ( 2 )
. Parimenti articoli del Giornale italiano furono letti attentamente, « molto
letti » oltre che da V. Monti e A. Manzoni anche da U. Fo scolo , e allo scopo
di provare ciò rimanda ad una recensione, in cui il molisano parla del libro
Della Tumulazione di A. DELLA PORTA, Como, Ostinelli, in cui « è, come si vede,
il medesimo fondo di idee vichiane, a cui .... s’ ispirò il Foscolo nei
Sepolcri » ( v. I , p. 254) . (1 ) B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, p.
172. ( 2) Confronta i su citati brani foscoliani con i seguenti di Vico : à
Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi
spazi di luoghi e tempi tra loro lon tane, divisamente fondate, custodire
questi tre umani costumi : che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono
matri moni solenni, tutte seppelliscono i loro morti ; nè tra nazioni,
quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate
cerimonie e più consagrate solennità che reli gioni, matrimoni e seppolture. Chè
per la Degnità, che « idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti tra loro ,
debbon avere un principio comune di vero, dee essere stato dettato a tutte, che
da queste tre cose incominciò appo tutte l'umanità , e perciò si debbano
santissimamente custodire da tutte, perchè 1 mondo non s'infierisca e si
rinselvi di nuovo » ( Scienza nova, v. I , p. 173) . « Finalmente, quanto gran
principio dell'umanità sieno le seppolture, s'immagini uno stato ferino nel
quale restino insep polti i cadaveri umani sopra la terra ad esser esca de
corvi e cani ; chè certamente con questo bestiale costume dee andar di concerto
quello d'esser incolti i campi nonchè disabitate le città, e che gli uomini a
guisa di porci anderebbono a mangiar le ghiande, colte dentro il marciume de’
loro morti congionti. Onde agran ragione le seppolture con quella espressione
su blime Foedera Generis Humani ci furono diffinite e, con minor grandezza ,
Humanitatis Commercia ci furono descritte da Ta cito » . ( Scienza nova, I , p.
177 ) . Notiamo che nel primo brano citato il rinselvarsi sta per 284 lo stato
ferino dei figli della terra, duellanti a predarsi, primi avi dell'uomo, quei
cannibali che s ' imbandiscono convito delle carni umane, così vivi nel mondo
rifinito de Le Grazie, non si intendono, se non riferendoci ad un sistema
filosofico che è certo quello del Vico ( 1 ) , si stema che siffattamente
compenetra l'opera del poeta, che questa trascende e si riflette in tutti gli
scritti pro sastici, sia pure storici e critici ( 2 ) . Onde tutta la sua cri
tica trova il nucleo originale nei nuovi portati dell'este significare il
ritorno allo stato selvaggio primitivo, onde la parola selva significherebbe lo
stato stesso, e che precisamente in questo senso il primo e il secondo termine
sono stati as sunti da Ugo Foscolo nella celebre Orazione inaugurale: « le
umane belve ancor vagabonde per la grande selva della terra » ( Opere, ed.
Lemonnier, v . II , p. 21 ) ; nonchè ripetuti da un gio vane, pur esso
destinato a divenire un grande scrittore , da GIOSUE CARDUCCI : « fuggendo per
la gran selva de la terra il nato de la donna ululò già co' leoni a la preda
cruenta : indi con vitto ferin la vita propagando, incerti videsi intorno i
figli: e lui cedente de la materia a le vicende eterne l ' immane salma, per lo
gran deserto dilaceraro i lupi ». ( Rime, San Miniato, Tipografia Ristori ,
1857 , p. 84) . ( 1) La vita preistorica è con viva arte descritta dallo stesso
Vico nelle prime pagine dell'opera sua, laddove accenna alle prime
trasmigrazioni marittime: « .... gli antenati di coloro che furono poi gli
autori delle trasmigrazioni medesime: furono dapprima uomini empi, che non
conoscevano niuna divinità ; nefari, chè, per non esser tra loro distinti i
paren tadi co' matrimoni, giacevano sovente i figliuoli con le madri, i padri
con le figliuole; e , finalmente, perchè, come fiere be stie, non intendevano
società , in mezzo ad essa infame comu nion delle cose , tutti soli e , quindi,
deboli e , finalmente, miseri ed infelici , perchè bisognosi di tutti i beni che
fan d'uopo per conservare con sicurezza la vita . Essi, con la fuga de propri
mali, sperimentati nelle risse , ch'essa ferina comunità produ ceva, per loro
scampo e salvezza, ricorsero ecc. » ( Scienza nova, v. I , p. 27 ) . ( 2 ) Il
vichismo del Foscolo è stato rilevato da N. TOMMASEO, Storia civile nella
letteraria , Torino, 1872 , ma certo non com preso , troppo imbevuto , com'era
il critico, di passioni oscura trici d'un equanime giudizio e di false idee
d’un'arte pedago gica : il brano, al quale intendiamo riferirci , è stato
raccolto nell'antologia del TOMMASEO, Scritti di critica e di estetica scelti
da A. ALBERTAZZI, Napoli, Ricciardi ed ., s . d. , p. 192 e sgg. 285 tica
vichiana, che prima scuote le vecchie scolasticherie, a base di retoriche e di
poetiche per penetrare nello spi rito vivo e fantastico dell'opera d'arte ( 1)
. Ma l'influsso più importante e diretto Cuoco lo eser cita direttamente sul
Monti col quale ebbe rapporti epi stolari ( 2 ) , nonchè disappunti letterari,
dovuti al fiero" giudizio che l'autore del Saggio faceva circa il
carattere del poeta cesareo assai volubile in politica ; e sul Man zoni di cui
fu davvero intimo ( 3 ) . Le lezioni universi tarie, dal primo tenute a Pavia,
specie la prolusione Della necessità dell'eloquenza ( 1 ) , il Discorso sulla
storia longobarda del secondo ( 5 ) , sono la prova sicura della dif fusione
delle dottrine del Vico. ( 1 ) Vedi a proposito come Foscolo intende
l'eloquenza e confrontala con il modo come l'intende il Cuoco : G. PECCHIO, op.
cit., p . 210, nota ; B. ZUMBINI, Studi di letteratura ita liana, Firenze, Le
Monnier ed . , 1894, p. 267; G. A. BOR GESE, Storia della critica romantica in
Italia, Milano, Treves ed. , 1920, p. 248 e sgg. , sopra tutto p. 266 : « non è
una scoperta , dice quest'ultimo, quella dello Zumbini che anche le lezioni di
eloquenza siano tutte nutrite di concetti vichiani ; anzi fa rebbe una scoperta
chi indicasse uno scritto capitale del Fo scolo , nel quale la filosofia della
Scienza nova non abbia bene o male la sua parte » . ( 2 ) G. Cogo , op. cit. ,
p. 181; N. RUGGIERI, op. cit. , p. 47 ; P. HAZARD, op. cit ., p. 241 ; vedi
anche V. Cuoco, Scritti vari v. II , pp. 318 , 367 , passim . ( 3) N. RUGGIERI
, op. cit. , p. 48 , il quale in nota richiama G. CAPITELLI, Patria ed arte,
Lanciano, Carabba ed. , 1887 , p. 182 e sg.; vedi V. Cuoco , Scritti vari , v.
I , p. 285 ; v. II , pp. 318, 358, 367, 397 , passim . ( 4 ) V. MONTI, Prose e
poesie, Firenze, Le Monnier, 1847 , v. IV, p . 31 e sgg. ( 5 ) A. MANZONI,
Prose minori con note di A. BERTOLDI, Firenze, Sansoni ed ., s . d ., p. 22 e
sgg. Allorquando questo lavoro era già ultimato usciva per le stampe l'opuscolo
di G. GENTILE, Vincenzo Cuoco; commemorazione tenuta a Campo basso nel primo
centenario della sua morte, Roma, C. De Al berti ed ., *1924. L'influsso
vichiano, per il tramite del Cuoco, nota il prof. Gentile, si rivela « non solo
per l'alto concetto in cui dimostra di tenere il grande filosofo napoletano, ma
anche e principalmente per la forma definitiva della sua mente, per alcuno dei
caratteri più significativi della sua individualità di 286 n Nè questa si
arresta qui , ma plasma disè tutta la nuova critica d'arte, e in parte la nuova
storiografia, rifonden dosi con dottrine di diversa origine e di diversi paesi,
specie con i canoni romantici di Germania : a chi legge gli scritti del Berchet
( 1 ) , del Torti ( 2 ) , del Di Breme ( 3 ) , non sarà difficile rinvenirvi
idee e proposizioni vichiane. Così, gradualmente per opera del Cuoco e di pochi
altri napoletani, il pensiero nazionale si vien formando attra verso un apporto
di storicismo e d’idealismo meridio pensatore e scrittore , quale è
rappresentata sopra tutto ne romanzo. Poichè anche Manzoni pensatore e
scrittore è un realista che non conosce tipi astratti, ma vede sempre gli uo
mini e li rappresenta come sono in fatto storicamente; non repubblica di
Platone e neppur feccia di Romolo ; ideale col suo limite , come diceva De
Sanctis : tutto determinato, vero e certo : e così in questa determinatezza e limitazione
e storia, tutto segnato dal dito di Dio , tutto,come aveva insegnato Vico,
governato da una Provvidenza che non precede per mi racoli, ma opera
naturalmente attraverso gli stessi effetti delle cose e le azioni degli uomini
. ( 1 ) Vedi BORGESE, op. cit., p . 105 : « il Berchet s'era nutrito degli
scrittori più audaci d'oltremonte : la Staël, il Bouterweck, gli Schlegel
erangli familiari; conobbe non leggermente la let teratura inglese e la tedesca
; dei nostri venerò sopra tutti il Vico e il Beccaria. Vari fili della vita
intellettuale d'Italia, annodandosi, davano origine alla nuova critica e alla
nuova letteratura ; .... nel secolo decimottavo la filosofia aveva silen
ziosamente ed oscuramente rinnovato gli spiriti e s' era con pertinace lentezza
accostata alla letteratura , col Vico, non compreso, col Cesarotti non comune
ragionatore, col Beccaria autore di un trattato dello stile : e , se forza di
filosofare non ebbe il Berchet, questi filosofi studiò e ammirò non debol mente
» . ( 2 ) BORGESE, op . cit., p. 189 : « il Torti fu uomo di non co mune
coltura e d'ingegno e, cosa a quei tempi molto rara, conobbe il Vico e si
richiamò alle leggi da luisegnate, senza divenire per questo critico grande » .
( 3 ) L'ampia influenza del Vico si stende su tutta l'opera di Ludovico Di
Breme e su quella di tutti i redattori del Concilia tore, ed è stata ben messa
in luce dall'ultimo editore dell'abate piemontese C. CALCATERRA ( L. d . B.,
Polemiche, Torino, Unione tip . - editrice torinese, s . d. ( 1923 ) ] , che
dell'idealismo dei primi romantici, della loro reazione ai vecchi sistemi
filosofici, dei loro studi, fa un'ampia disamina . 287 nale al positivismo e al
razionalismo settentrionale . È certo un processo lento e faticoso, ma
nondimeno si curo, le di cui conseguenze ultime occorre osservare non soltanto
nel campo critico e storiografico, ma anche, e sopra tutto, nel campo politico
. « Eppure si come giusta mente nota Giovanni Gentile « nonostante la
propaganda del Cuoco,... quantunque i germi da lui seminati sian caduti in
intelligenze delle maggiori del secolo, si può affermare che la voce del Cuoco
come banditrice della verità vichiana non trovi nessuna eco in tutto il resto
del secolo. Altri scrittori, segnatamente il Gioberti, hanno lavorato ad educare
le menti italiane al realismo poli tico ; altri filosofi, segnatamente lo
Spaventa, hanno la vorato a sviscerare il nucleo centrale della filosofia vi
chiana ; ma fino ai nostri giorni nessuno ha visto in questa filosofia così
nettamente e fermamente come Vincenzo Cuoco il nuovo metodo, veramente
rivoluzionario , " del pensare storico e politico e un potente
irresistibile argo mento per un programma politico nazionale. Egli, per questo
rispetto, rimane sulla soglia del secolo XIX, maestro unico solitario : un
veggente » ( 1 ) . Con ciò vo gliamo semplicemente dire che se le dottrine
vichiane nel campo estetico, attraverso la propaganda del Cuoco, dànno subiti e
luminosi effetti, nel campo politico, que sti effetti sono più lenti e tardi,
quasi misconosciuti al lorquando si manifestano : Vincenzo Cuoco è un maestro
senza discepoli, o meglio , con un solo discepolo, e per avventura grandissimo,
Giuseppe Mazzini. Quel che nel Cuoco abbiamo detto realismo politico,
derivazione stretta di tutto l'insegnamento della Scienza nova, non è destinato
a perire, ma, rinnovandosi, tra sformandosi porta alle più grandi conquiste del
secolo : « primo, a riconoscere e a mettere in rilievo l'individua lità
insopprimibile di tutte le formazioni storiche; se condo, a negare che un
popolo, come un individuo, possa nulla ricevere di fuori, e che possa
progredire ed elevarsi senza uno sforzo proprio fondato sulla stima di sè e
sulla ( 1 ) G. GENTILE, V. Cuoco : commemorazione, p . 13 e sg. 288 fiducia
delle proprie forze » ( 1 ) . Questi due postulati gran diosi e veri, posti dal
Cuoco nella coscienza degli Italiani, non si distaccheranno più da essa, e
formeranno il nucleo di tutta l'educazione nazionale e di tutta la pratica po
litica, che si sintetizza nell'opera di Mazzini. Ora i nuovi studi di F. L.
Mannucci circa la prima fase del pensiero mazziniano hanno messo bene in luce
come il genovese non solo si sia nutrito del Vico ( 2 ) per il tra mite del
Michelet ( 3 ) , ma in suoi privati zibaldoni abbia recensito e fatto estratti
de ' numerosi e vivi articoli, che ( 1 ) G. GENTILE, V. Cuoco : commemorazione,
p. 14. ( 2 ) L'influenza del Vico su Mazzini è stata ben posta in luce prima
che dal Mannucci dal BORGESE, op. cit., p. 291 e sgg. « Egli era, come il
Foscolo, lontano dal finalismo dommatico che impediva in ogni modoal Tommasèo
di trarre vita e nutri mento dalle dottrine del Vico. Epperò egli era in
condizioni più felici di quei due che l'avevano preceduto nell’a i mirazione
pel Vico, e se ne disse discepolo con convinzione non minore, ed anzi ne
persuase lo studioproprio per il rinnovamento della storia letteraria. « Il
vuoto esistente nella filosofia » , egli la mentava, « deve naturalmente
ripetersi nella critica letteraria, che è la filosofia della letteratura » ; e
la filosofia ch'egli desi derava era proprio la Scienza nova. « Il vincolo » ,
disse altrove, paragonando le antiche congerie erudite che usurpavano il nome
di storie letterarie con quelle che venivano in onore per effetto del
rinnovamento romantico, « il vincolo che annoda in un popolo le istituzioni, le
lettere e i progressi della civiltà, indovinato un secolo innanzi dal nostro
Vico, fu posto in chiaro, sottomesso ad analisi e diede cominciamento ad una
sola scuola, il cui scopo santissimo or s'irride da chi non sa , o non cura
comprenderlo » . E si compiaceva che ora molti libri e molti studiosi traessero
il Vico da quell'obblìo a cui per cento anni lo avevano condannato le
baieerudite e l'inerzia degli animi». ( 3 ) F. L. MANNUCCI, Giuseppe Mazzini e
la prima fase del suo pensiero letterario : l'aurora d'un genio, Casa ed.
Risorgi. mento, Roma, ecc. , 1919, p. 16, p. 23 e sg. , p. 66 e sgg., p . 143.
Il Mannucci ci rende edotti che uno dei cinque mss. da lui stu diati, di cui
due sono aPortomaurizio in casa dei sigg. Cremona eredi Ferrari, tre nel Museo
del Risorgimento a Genova, con tiene una recensione dei Principes de la
philosophie de l'histoire traduits de la Scienza Nuova de Fico et precédés d'un
discours sur le système et la vie de l'auteur, par J. MICHELET, professeur,
ecc. , Paris, Renouard , 1827. Vedi a proposito di questa versione fran cese ,
CROCE. La filosofia di G. B. Vico, pp. 289, 291, 304. 289 il Cuoco andava
pubblicando sul Giornale italiano, firman doli con la semplice sigla C (1 ) . E
in questi zibaldoni il lettore commosso può rinvenirvi annotate le Osserva
zioni sullo stato politico dell'Europa, le Considerazioni sul Concordato, in
cui Vincenzo getta uno sguardo rapido non solo sul passato e sul presente
d'Italia, ma anche nel più lontano avvenire, risolvendo, da una parte, sovra
basi giurisdizionali il millenario problema dei rapporti tra Stato e Chiesa,
dall'altra la questione dell'equilibrio europeo. È interessante notare, pure,
come il Mazzini, po stillando il famoso scritto cuochiano sul Machiavelli, da
noi a più riprese richiamato, laddove il molisano loda con il segretario di
Firenze il duca Valentino, perchè tra tanti scellerati principotti avrebbe
potuto rimanere solo, nota : oltre a questo aggiungerei che un tiranno si
spegne più facilmente di cento ». Esuberanze giova nili che il Cuoco avrebbe
rimproverato e che lo stesso Maz zini maturo avrebbe certo rinnegato !
Sicuramente .... Ma io amo pensare il giovane Giuseppe, appena uscito dal
l'università, chino sulle pagine del Cuoco, e, meditabondo, ripensare con lui
le sorti della patria e la sua redenzione morale non attraverso giuridici
compromessi o speranze d'equilibrii europei, ma attraverso un'azione che è pen
siero , perchè guidata dal pensiero, attraverso un pen siero che è azione, perchè
mirante agli uomini e alle loro coscienze. Il grande merito del Mazzini è
precisamente l'avere accettato le ultime conclusioni politiche cuochiane ed
averle con un apostolato senza pari concretate nella vita. Il popolo, il
popolo, che il Cuoco vede nell'avvenire nucleo vibrante della patria, diviene
il fondamento della repubblica del Mazzini, e in suo nome e per lui l'Italia (
1 ) Il fatto che gli articoli non siano firmati che con una si gla, il fatto
che negli zibaldoni il Mazzini non citi espressamente il Cuoco fa pensare al
Mannucci ( op. cit. , p. 107, n. 101 ) che il grande agitatore non abbia mai
pensato che gli articoli da lui letti nel Giornale italiano fossero proprio di
V. Cuoco : così pure GENTILE, V. C.: commemorazione, p. 26. In quanto poi al
Saggio storico il prof. Gentile sostiene nella stessa pagina che il genovese
non solo lo conobbe ma lo menzionò. 19 F. BATTAGLIA , 290 diviene dopo tante
lotte una e indipendente, diviene nazione e Stato . Il Cuoco intuisce che il
problema unitario è un problema di coscienze, Mazzini lo conferma, e nel
binomio Pensiero e azione redime l' Italia . Questa vasta trama d'influssi, che
la dottrina cuo chiana, in tutti i suoi attributi, sopra tutto nelle inter
ferenze politiche, ha esercitato nel pensiero italiano, specie settentrionale ,
meriterebbe uno studio a parte, ma a me basta averne tracciato le somme linee,
il filo conduttore, perchè risulti ai lettori uno essere il processo che porta
all'unificazione d'Italia nel nome di una tra dizione secolare, che dal Vico va
al Mazzini e che un'unità così raggiunta, vale a dire attraverso una compenetra
zione graduale e lenta di spiriti e d'idee, per quanto ancor recente, è troppo
salda, perchè alcuno possa te mere di vederla infranta nell'urto fragoroso
d'interessi antagonistici internazionali o classisti, perchè altri si ar roghi
il non ammissibile diritto di salvarla e di rappre sentarla. 4 Nota
bibliografica. Ho seguito i testi più sicuri dal punto di vista tipografico,
cioè : VINCENZO Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 a
cura di Fausto Nicolini, Bari, Laterza ed. , 1913, che ho raffrontato con
l'edizione milanese del Sonzogno, 1820, e con quella fiorentina del Barbèra,
1865 ; VINCENZO Cuoco, Platone in Italia a cura di F. Nicolini, Bari, Laterza,
ed. , 1916-24, volumi due ; VINCENZO Cuoco, Scritti pedagogici inediti o rari
raccolti e pubblicati da Giovanni Gentile, Roma-Milano, Albrighi e Se ganti ed.
, 1909. Gli articoli del Giornale italiano ho veduto sul testo originario , ma
spesso mi sono servito delle ristampe in appendice alle opere critiche del
Romano e del Cogo. Allorquando il mio lavoro era già compiuto sono usciti i due
volumi di scritti cuochiani, che integrano nella raccolta degli Scrittori
d'Italia laterziana il Saggio e il Platone: VIN CENZO Cuoco, Scritti vari a
cura di N. Cortese e F. Nicolini, Bari, Laterza ed. , 1924, volumi due. Con
questa stampa quanto di meglio è stato scritto dal grande molisano è oramai
stato dato al pubblico, e ben poco resta da fare nel campo dell'ine dito. Non
tutti gli articoli del Giornale italiano invero hanno tro vato l'attesa
ripubblicazione, ma, sebbene alcuni scritti di una certa importanza siano stati
posti fuori, quei ventisette che il Cortese e il Nicolini hanno scelto , uniti
al catalogo ragionato dei 292 rimanenti, bastano a dare un'idea più che
sufficiente al let tore dell'attività pubblicistica del nostro autore. Va data
lode ai due insigni editori Cortese e Nicolini per non avere lasciato da parte
gli articoli; che il Cuoco ha pubblicato nel Corriere di Napoli e nel Monitore
delle due Sicilie, i quali, sebbene assai meno interessanti di quelli del
Giornale italiano, pure possono essere utili, e per avere di essi pure offerto
un catalogo ragio nato. S’ intende che ho riveduto il testo di tutti gli
scritti minori di Vincenzo Cuoco sovra la nuova edizione laterziana, che offre
i migliori affidamenti di serietà e di rigore, sopra tutto per la ortografia,
che, specie nei fogli originari del Giornale italiano, è la più volubile e
ineguale. P. ALBINO, Biografie e ritratti degli uomini illustri della pro
vincia di Molise, Campobasso, 1864, I , pp. 1-36 ; F. BALSANO, Vincenzo Cuoco e
gli studi della gioventù italiana in Rivista Bolognese, a. II , v. I , fasc.
IV, aprile 1868 ; F. BATTAGLIA, Critica rivoluzionaria e tradizione nel
pensiero di V. Cuoco in Studi politici, a. I , fasc . 4-5, aprile 1923 ; A.
BUTTI, La fondazione del « Giornale italiano » e i suoi primi redattori (
1804-1806) , Milano, Cogliati ed. , 1905 ( estr. dall' Arch. stor. lomb . , a.
XXXII, fasc. VII ) , alla quale operetta si riferisce la recensione di G.
OTTONE in Riv, stor. it ., a. XXIII, za serie, vol. V ( 1906 ) , p. 341 e sgg.;
A. BUTTI, Una lettera di V. Cuoco al vicerè Eugenio, nella miscellanea Dai
tempi antichi ai tempi moderni ( per nozze Scherillo- Negri), Milano , Hoepli
ed. , 1904, p. 529 e sgg .; A. BUTTI, L'Anglofobia nella letteratura della
cisalpina e del regno italico , in Archivio storico lombardo, a. XXXVI ( 1909)
, p. 434 e sgg.; C. CANTONI, Giambattista Vico, studi storici e comparativi,
Torino, Civelli ed . , p. 23 e sgg.; N. CAPRARA, V. Cuoco, Isernia , 1919 ( 1 )
; ( 1 ) L'indicazione dell'opuscolo non è esatta, poichè la sola copia che ho
potuto vedere manca del frontespizio : del resto si tratta di uno scritto di
mero inte resse bio - bibliografico . 293 9 G. Cogo, Vincenzo Cuoco, note e
documenti, Napoli, Jovene ed. , 1909 ( cfr. le recensioni di G. GENTILE in
Archivio stor. nap . XXXIV ( 1909) , pp. 588 e sgg ., poi ristampata in ap
pendice agli Studi vichiani, Messina, Principato ed ., 1915 ; di G. GALLAVRESI
in Il Risorgimento italiano, a. III , fasc. I - II , p. 223 e sgg .; e ancora
di G. GALLAVRESI in Arch. stor. lomb. , a. VII , ( 1910) , p. 462 e sgg. ) ; L.
CONFORTI, Napoli nel 1799, critica e documenti inediti, Napoli, De Falco ed. ,
1886, p. 21 e sgg ., passim (una confuta zione di molte affermazioni ingiuste
dell'autore è in N. RUG GIERI, Vincenzo Cuoco , Rocca San Casciano, Cappelli,
ed. , 1903, p. 104 e sgg. , nonchè in M. ROMANO, Ricerche su V. Cuoco, Isernia,
1904, p. 99 ) ; B. CROCE, La filosofia di Giambattista Vico, Bari, Laterza ed.
, 1911 , passim ; B. CROCE, La rivoluzione napoletana del 1799, terza edizione,
Bari, Laterza, 1912, passim ; B. CROCE, Storia della storiografia italiana nel
secolo XIX , Bari, Laterza, 1921 , vol. I , p. 8 e sgg ; R. DE RENZIS, Il
risveglio degli studi intorno a V. Cuoco in Italia moderna, 1905 ; G. DE
RUGGIERO, Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Bari,
Laterza ed . , 1922, p. 166 e sgg.; F. DE SANCTIS , Storia della letteratura
italiana, Milano, Treves ed. , v. II , p. 309, p. 327 ( accenni ) ; F. DE
SANCTIS , Saggi critici, Milano , Treves, v. III , p. 291 ; A. FRANCHETTI,
Storia d'Italia dal 1789 al 1799, Milano, s. d. , Vallardi, p. 557 e sgg .; G.
GENTILE, Studi vichiani, Messina, Principato ed. , 1915 ( in cui è ristampato
lo studio Un discepolo di G. B. Vico : Vincenzo Cuoco pedagogista , già
pubblicato in Riv. pedagogica, a. II , 1908) ; G. GENTILE, Dal Genovesi al
Galluppi, Napoli, edizione della Critica, 1903, p. 375 e sgg . G. B. GERINI,
Gli scrittori pedagogici italiani del secolo XIX, G. B. Paravia ed. , 1910,
Torino, pp. 30-44 ; F. GUEX, Storia dell' istruzione e della educazione, trad.
o note con app. su Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico di
G. VIDARI, G. B. Paravia ed. , s . d. , Torino, v. II , p. 314 e sgg.; 294 e P.
HAZARD, La révolution française et les lettres italiennes, 1779-1815, Paris,
Hachette ed. , 1911 , p. 218 e egg.; B. LABANCA, Giambattista Vico e i suoi
critici cattolici, Na poli, Pierro ed. , 1898, p. 406 e sgg.; A. LEVATI, Saggio
sulla storia della letteratura italiana nei primi venticinque anni del secolo
XIX, Milano, Stella ed. , 1831 , p. 228 ; G. MAFFEI, Storia della letteratura
italiana, riveduta da P. Thouar, Firenze, Le Monnier ed. , 1853, v. II, p. 259,
p. 348 e sgg.; F. L. MANNUCCI, Giuseppe Mazzini e la prima fase del suo
pensiero letterario ; l'aurora di un genio , Casa ed. Risorgimento, Roma, 1919,
(cfr. recensione di G. GENTILE in Critica, v. XVII, p. 317 e sgg. ) ; G. B.
MARCHESI, Studi e ricerche intorno ai romanzieri e ro manzi del ' 700, Bergamo,
1903 ; A. MARTINAZZOLI E CREDARO, Dizionario illustrato di peda gogia, F.
Vallardi ed. , 1901-5, Milano, v. I , p. 420 e sgg. ( 1 ) ; 0. MASTROIANNI,
Ricerche storiche pubblicate per delibera zione del R. Istituto d'
incoraggiamento di Napoli, Napoli, Pierro ed. , 1907, p. 196 e sgg .; P. MONROE
ed E. CODIGNOLA, Breve corso di storia dell'edu cazione, trad. di S. CARAMELLA,
Vallecchi ed. , 8. d. , Firenze, v. II , pp. 207 e sgg.; G. NATÁLI, Nel primo
centenario della morte di V. Cuoco in Rivista d'Italia, a. XXVI, fasc. XII ( 15
dic. 1923) ; G. NATALI, L'idea del primato italiano prima di V. Gio berti ,
Roma, 1917 ( estr. dalla Nuova Antologia ); G. NATALI, La letteratura italiana
nel periodo napoleonico, 1916 ( estr, dalla Rivista d'Italia ); G. NATALI, La
vita e il pensiero di F. Lomonaco , Napoli, San giovanni ed. , 1912 ( estr.
dagli Atti della R. Accademia di sc. mor. di Napoli: cfr. GENTILE, Studi
vichiani, p. 361 ) ; L. PALMA, I tentativi di nuove costituzioni in Italia dal
1796 al 1815 in Nuova Antologia, a. XXVI, fasc. XXVI, 16 novembre, 1-16
dicembre 1891 , p. 433 e sgg. ( 1 ) L'articolo Cuoco è fifmato A. Martin azzoli.
295 1 G. OTTONE, V. Cuoco e il risveglio della coscienza nazionale, Vigevano,
Unione tip. vigevanese, 1903 (cfr. le recensioni di A. LEONE, in Riv. stor.
ital., a XXI ( 1904) , s. 3a , v. III , pp. 57-8 ; di A. Butti, in Giorn .
stor. d. lett. it. , a. XLIV ( 1904) , p. 240 e sgg .; di S. Rocco, in Rass.
crit. d. létt. it. a. IX ( 1904) , p. 277 e sgg.; e infine di G. G[ ENTILE) in
Arch . st. per le prov. nap. , a. XXX ( 1905) , p. 73 e sgg. ) ; G. OTTONE, La
tesi vichiana di un antico primato italiano nel « Platone » di V. Cuoco:
contributo alla storia del risveglio nazionale nel periodo napoleonico,
Fossano, Rossetti, 1905, ( cfr. recensioni di A. Butti, in Giorn . st. d. lett.
it., a. XLVII ( 1906) , p. 157 e sgg.; di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett. it.
, a. XI ( 1906) , p. 181 e sgg. ) ; G. OTTONE, Mario Pagano e la tradizione
vichiana del secolo scorso, Milano , Trevisini, 1897 ; G. PEPE, Necrologia :
Vincenzo Cuoco , in Antologia, a. XIV ( 1824) , p. 99 e sgg. ( riprodotta
dinanzi a varie edizioni del Saggio storico del Pomba di Torino ) ; I. RINIERI,
Della rovina d'una monarchia ; relazioni storiche tra Pio VI e la Corte di
Napoli negli anni 1776-1779, Torino, 1901 , p. 484 e sgg.; G. ROBERTI, Lettere
inedite di C. Botta , U. Foscolo e V. Cuoco in Giorn. st. d. lett. it. , a.
XII, v. XXIII ( 1894) , p. 416 e sgg.; M. ROMANO, Ricerche su V. Cuoco,
politico, storiografo, ro manziere, giornalista , Isernia, Colitti, 1904 ( cfr.
recensioni di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett. it. , a. IX (1904 ), p. 147 e
sgg.; di A. BUTTI, in Giorn . st. d. lett . it. , a. XLVI ( 1905) , p. 412 e
sgg ; infine di G. GENTILE, in Critica , III ( 1905) , p. 39 e sgg. ,
ristampata in Scritti vichiani, p. 427 e sgg. ) ; M. ROMANO, Una pagina inedita
di V. Cuoco su G. B. Vico, nella miscellanea : Scritti di storia , di filosofia
e d'arte ( nozze FEDELE- DE FABRITIIS ) , Napoli, Ricciardi ed. , 1908 , p. 181
e sgg.; P. ROMANO, Per una nuova coscienza pedagogica, G. B. Pa ravia ed. , s.
d . , Torino, pp. 102-124 ; N. RUGGIERI, Vincenzo Cuoco : studio storico
critico con una appendice di documenti inediti, Rocca S. Casciano , L. Cappelli
ed. , 1903 ( cfr. recensioni di B. CROCE, nella Critica, v. I ( 1903) , ſ. pad
296 p. 298 e sgg .; di G. R[OBERTI) , in Giornale st. d. lett. it., a. XLII (
1903 ) , p. 429 e sgg.; di F. TORRACA, in Rass. bibl. d. lett. it. , a. XII (
1904 ) , p. 132 e sgg.; di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett . it. , a. IX (
1903) , p. 34 e sgg.; di C. R [INAUDO), in Riv. stor. it. , a. XXI, 3a 8. ,
vol. III ( 1904) , p. 58 e sgg ); L. SETTEMBRINI, Lezioni di letteratura
italiana, Napoli, Mo rano ed. , 1872 v. III , p. 279 e sgg.; R. SÓRIGA,
L'emigrazione meridionale a Milano nel primo quinquennio del secolo XIX , in
Bollettino della società pavese di storia patria , XVIII ( 1918 ) , pp. 102-117
, pp. 119-121 ; U. TRIA, Vincenzo Cuoco a proposito di due sue lettere ine dite
in Rass. crit. d. lett. it . , v. VI ( 1901 ) , p. 193 e sgg . ( cfr. RUGGIERI,
op. cit. , p . 94 ; ROMANO, op. cit. , p. 51 e sgg. ) ; A. Zazo , Le riforme
scolastiche di Gioacchino Murat, Roma, Albrighi e Segati ed. , 1924, ( estratto
dalla Rivista pedagogica, a. XVII ) . « Nel 1905, scrive il GENTILE ( Studi
vichiani p. 336) , l'Accade. mia delle scienze morali e politiche di Napoli
bandì un concorso sul pensiero politico di V. Cuoco, da studiarsi anche nei
mss. acquistati dalla Nazionale di Napoli. Fu presentata una sola memoria,
ancora inedita, di M. ROMANO, Di V. Cuoco consi derato come scrittore politico
e dei mss. recentemente acquistati dalla Nazionale di Napoli ( sulla quale vedi
F. PERSICO , Rel. sul concorso per il premio annuale dell'anno 1905 sul tema «
Di Vincenzo Cuoco, ecc. » nei Rend. dell'Acc. ecc. , tornata del 22 dic. 1906 »
. Circa questi mss. vedi Suppl. alla Riv. di bibl. ed arch. , 1905, pag. 3 ,
nonchè RUGGIERI, op. cit. , p. 63 ; Cogo, op. cit ., p. 45, n. 13, il quale
ultimo di essi mss. abbondante mente si serve, documentando le sue acute
asserzioni, e infine CROCE nella Critica, a. I ( 1903 ) , p. 299. Del Cuoco si
sono occupati varî autori in storie generali politiche e letterarie, di cui
citerò soltanto alcuni più noti : V. FIORINI e F. LEMMI, Periodo napoleonico
dal 1799 al 1814, in Storia politica scritta da una Società di professori,
Milano, Vallardi, s. d . passim ; F. LEMMI, Le origini del Risorgimento
italiano ( 1789-1815) , Milano, Hoepli, 1906, passim ; M. Rosi, L'Italia
odierna, Unione tip .- editr. torinese , 1922, v. I, p. 206, p. 238, passim ;
G. MAZZONI, L'Ottocento, Milano, Vallardi, 1913, p. 106-7, p. 131-32, e passim
, in Storia letteraria scritta da una 297 società di professori; V. Rossi,
Storia della letteratura italia na, Milano, Vallardi, 1915, v. III , p. 243 ;
A. D' ANCONA e 0. BACCI, Manuale della letteratura italiana , Firenze, Barbèra,
1914, v. V, p. 132, v. VI, p. 386-7 ( 1 ) ; F. TORRACA, Manuale della
letteratura italiana, settima ed. , Firenze, Sansoni, 1918, v. III, p. II , p.
441 e sgg. Il primo centenario della morte di V. Cuoco è stato degna mente
ricordato agli italiani, oltre che dalla pubblicazione dei due volumi di
Scritti vari per cura di N. Cortese e di F. Nico lini , dalla commemorazione di
Campobasso tenuta da G. GEN TILE ( Vincenzo Cuoco , Roma, Alberti ed ., 1924) .
Preannunziando o annunziando la ricorrenza scrissero del grande molisano S.
ARCOLESE, Vincenzo Cuoco ( 1823-1923 ) , in Il popolo molisano, 15 marzo 1923 ;
G. COLESANTI, Un realista ; Vincenzo Cuoco, in Il mondo, 13 dicembre 1923 ( 2 )
; F. BARIOLA, Vincenzo Cuoco, in Gazzetta delle Puglie, febbraio 1924 ; F. Mo
MIGLIANO , Commemorazione di V. Cuoco, in Conscientia, 2 feb braio 1924. Ottima
sotto ogni rapporto è la prolusione al Corso di Fi losofia Giuridica tenuta
nella R. Università di Firenze da G. DE MONTEMAYOR : La buona politica : dal
Vico al Cuoco al Risorgimento Italiano ( Roma, Soc. Anonima Poligrafica 1925) .
Altra raccolta di scritti per uso scolastico . V. CUOCO - Educazione e politica
( Bemporad 1925 ) fu composta, pre ceduta da una larga introduzione, da G.
MARCHI. ( 1 ) A pag. 387 v'è una duplice inesattezza : ad A. BUTTI sono
riferiti gli scritti, Un articolo dimenticato di V. Cuoco sugli scrittori
politici italiani, in La Critica , II , p. 337 e Una pagina inedita su G. B.
Vico in miscellanea Per nozze Fedele- Fabritiis, p. 181 , la riesumazione dei
quali spetta , del primo a B. CROCE, del secondo a M. ROMANO. ( 2) L'articolo
del Colesanti era presentato su Il mondo come facente parte di un numero unico
cuochiano da pubblicarsi in Campobasso, che non ho potuto avere nè vedere.
INDICE CAP. I. La tradizione italica Pag. CAP. II . I « Frammenti di lettere a
V. Russo » e la critica rivoluzionaria . 27 CAP. III . Il « Saggio Storico
sulla rivoluzione di Napoli » 80 CAP. IV. Napoleone e la sua politica generale.
123 CAP. V. Nazionalità e italianismo nel « Giornale italiano » 197 CAP. VI. Il
« Platone in Italia » e la tesi di un antico primato italico . . >> 228
Cap. VII. L'educazione nazionale nel pensiero cuochiano 260 Conclusione 278
Nota bibliografica. ·Felice Battaglia. Keywords: “spirito
nazionale in Italia” -- ius, giure. – spirito nazionale, spirito italico,
spirito italiano, spirito nazionale in Italia, Vicco, Cuoco, roma antica,
Etruria, ‘la tradizione italica’, il ‘Platone’ di Cuoco, ‘Cuoco non e un vero
filosofo’, Gentile, Schelling, volksseele volksgeist, anima di una nazione,
anima universale, animus di una nazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Battaglia” –
The Swimming-Pool Library.
Battista (Nicosia).
Filosofo. Grice: Very good. – Giovanni Battista – he assumed the name “BONOMO” Gabriele Bonomo Frate Gabriele Bonomo
o Bonhomo – Appartenente all'Ordine dei Minimi. Scrive un saggio sulla “trigonometria”.
e inventò un orologio automatico. Entra come frate nell'Ordine dei Minimi con
il nome di Gabriello e fu assegnato al convento di Santa Oliva di Palermo. Pietro Riccardi, Bibliotheca mathematica
italiana dalla origine della stampa ai primi anni del secolo XIX, Editore
Soliani, 1871153. Antonio Muccioli, Le
strade di Palermo, Editore Newton & Compton, 1998127. Dizionario biografico
degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. 89092338 495/98454 Identities-89092338 Biografie Biografie:
di biografie Categorie: Teologi
italianiMatematici italiani del XVIII secoloFilosofi italiani Professore1694
1760 13 aprile 24 agosto Nicosia (Italia) PalermoMinimi. Batista. Giovanni
Batista. Giovanni Battista. Battista. Keywords: trigonometria, orologio
automatico, la filosofia della trigonometria, Comte, la trigonometria nella
matematica italiana, Venezia, la filosofia illustrata, la teoria causale della
percezione. Refs.: “Grice e Battista” – The Swimming-Pool Library.
Bausola (Ovada). Filosofo. Grice: “I would call Basuola a Griceian –
he speaks of the ‘reasons for solidarity,’ which is exactly the point I want to
make, alla Kant, in ‘Aspects of reason,’ as people kept asking me for the
rationale – i. e., literally, the rational basis – for conversational
cooperation – People agree that conversation is rational; but my stronger
thesis is that it’s cooperation which is rational. That is Bausola’s point.” “Basuola
has also explored the topics of ‘inter-personal relation’ from a philosophical
rather than sociological perspective – and therefore into the compromise
between self-love and other-love, or freedom and responsibility --. A genius!
That he also admires my latitudinal and longitudinal unity of philosophy
(‘storiografia filosofica,’ as the Italians call it) is a plus, or bonus!” – Figlio
di Filippo, scultore cieco di guerra ed Eugenia Bertero. Conseguita una
formazione cattolica attraverso le scuole primarie delle Madri Pie, fondate da
Paolo Gerolamo Franzoni, e dei Padri Scolopi, gli studi liceali lo vedono a
Novi Ligure al Classico Statale "Doria" dove «la materia che
veramente fu per lui una rivelazione è la filosofia». Sceglie così la facoltà all'Università
Cattolica a Milano, dopo un incontro con Padre Agostino Gemelli e Monsignor
Francesco Olgiati, vincendo anche il concorso per un posto gratuito nel
Collegio Augustinianum. Fra i suoi docenti emergono due figure che per lui sono
«maestri di vita e di pensiero», esponenti di spicco del movimento neotomista:
Gustavo Bontadini e Sofia Vanni Rovighi. Diventa così libero docente di
filosofia morale nel 1962. Nel 1970 vincendo la cattedra di storia della
filosofia viene chiamato alla Cattolica, dove dal 1974 al 1979 è ordinario di
filosofia morale passando poi, nel 1980, ad ordinario di filosofia teoretica. È
preside della facoltà di lettere e filosofia dal 1974 al 1983. Nel 1982 è chiamato a far parte del
Pontificio Consiglio della Cultura istituito da Giovanni Paolo II per il
periodo 1982-1992. Nel 1983 dell'Università Cattolica del Sacro Cuore ne
diventa il Rettore, carica che mantiene fino al 1998. È stato anche direttore della Rivista di filosofia
neo-scolastica, ininterrottamente, dal 1971, e dal 1984 della rivista Vita e
Pensiero e condirettore della Rivista Internazionale dei diritti dell'uomo.
Inoltre ha diretto la sezione di filosofia moderna della collana dei Classici
della Filosofia dell'Einaudi Rusconi. Ha fatto parte del Direttivo del Centro
di metafisica istituito dalla Cattolica, e per esso ha co-diretto la collana di
pubblicazioni Metafisica e storia della metafisica. Tra gli altri incarichi e funzioni è stato: Socio dell'Accademia Nazionale dei Lincei
nella categoria scienze filosofiche; Membro dell'Istituto LombardoAccademia di
Scienze e lettere; Membro del direttivo della Società Filosofica Italiana; Vice
Presidente del Comitato Scientifico e Organizzatore delle Settimane Sociali dei
Cattolici Italiani dal 1985 al 1994; Consulente della Sacra Congregazione per
l'Educazione Cattolica; Presidente di una delle Commissioni del Convegno
ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana a Roma dal 30 ottobre al 4
novembre 1976; Moderatore di uno dei cinque ambiti del Convegno ecclesiale
Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini a Loreto dal 9 al 13 aprile
1985; Uditore al Sinodo straordinario dei Vescovi indetto dal Papa per il 20º
anniversario del Concilio Vaticano II; Studi Sul piano teorico, le direttive di
indagine di Bausola sono soprattutto quella etica (fondazione della morale),
quella antropologica (il problema della libertà; il tema della cultura e della
cultura cristiana in particolare), e quelle della metafisica e della
gnoseologia. I suoi interessi principali di studioso sono rivolti, sul piano
storico all'idealismo e al neo-idealismo, esperto a livello internazionale di
Friedrich Schelling e di Blaise Pascal i suoi studi sono rivolti anche a Franz
Brentano, John Dewey e al pragmatismo, alla tematica esistenzialista.
Caratteristico delle opere di Bausolalà dove si tratti dello studio di filosofi
del passato, o del nostro tempoè il legame tra ricostruzione storica e
ripensamento critico, secondo criteri teoretici: un orientamento volto,
attraverso il dialogo con alcune delle più importanti prospettive della
filosofia moderna e contemporanea, ad un ripensamento della concezione classica
del sapere. La sua attività pubblicistica si è svolta sul terreno filosofico,
politico-culturale, etico-religioso, e si è realizzata su giornali e su riviste
di cultura. Altre opere: “Saggi sulla
filosofia di Schelling” (Milano, Vita e Pensiero); “L'Etica di John Dewey,
Milano, Vita e Pensiero); “Filosofia e storia nel pensiero crociano, Milano,
Vita e Pensiero); “Metafisica e rivelazione nella filosofia positiva di Schelling,
Milano, Vita e Pensiero); “Etica e politica nel pensiero di Benedetto Croce,
Milano, Vita e Pensiero); “Il pensiero di Schelling); “Conoscenza e moralità in
Franz Brentano, Milano, Vita e Pensiero); “Indagini di storia della filosofia.
Da Leibniz a Moore, Milano, Vita e Pensiero); “Lo svolgimento del pensiero di
Schelling. Ricerche, Milano, Vita e Pensiero); “Il problema del valore nella
filosofia analitica, Milano, Scuole Grafiche Opera Don Calabria); “Il problema
della libertà. Introduzione a Sartre, Milano); “Filosofia della rivelazione.
Federico Guglielmo Giuseppe Schelling” (Bologna, Zanichelli); “Introduzione a
Pascal, Bari, Laterza); “Friedrich W. J. Schelling, Firenze, La Nuova Italia);
“Filosofia Morale. Lineamenti, Milano, Vita e Pensiero); “Natura e progetto
dell'uomo : riflessioni sul dibattito contemporaneo, Milano, Vita e Pensiero);
“Libertà e relazioni interpersonali : introduzione alla lettura di L'essere e
il nulla, Milano, Vita e Pensiero); “Pensieri, opuscoli, lettere di Blaise
Pascal, con Remo Tapella, Milano, Rusconi); “Libertà e responsabilità, Milano,
Vita e Pensiero “La libertà” (Brescia, La Scuola); “Le ragioni della libertà,
le ragioni della solidarietà” (Milano, Vita e Pensiero); “Fra etica e politica,
Milano, Vita e Pensiero. Onorificenze Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola
della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'oro ai
benemeriti della scuola della cultura e dell'arte — Roma, 2 giugno 1981
Commendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino per
uniforme ordinariaCommendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiana
— 2 giugno 1985 Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica
italiananastrino per uniforme ordinariaCavaliere di gran croce dell'Ordine al
merito della Repubblica italiana — Roma, 2 giugno 1988 Cavaliere di Gran Croce
dell'Ordine di San Gregorio Magnonastrino per uniforme ordinariaCavaliere di
Gran Croce dell'Ordine di San Gregorio Magno Note Anna Maria Bausola Grillo, Adriano Bausola
nei ricordi della sorella, ne Atti del convegno "Studi di Storia
Ovadese", pubblicazione dedicata alla memoria di Adriano Bausola,
Accademia Urbense di Ovada, 2005 Avvenire,
29 aprile 2000, su swif.uniba. 30.08. 22 febbraio 2007). Sito web del Quirinale: dettaglio
decorato. Sito web del Quirinale:
dettaglio decorato. Sito web del
Quirinale: dettaglio decorato. Emilio
Costa, Un Ovadese nel mondo della cultura italiana: Adriano Bausola, filosofo,
in URBS Silva et flumen, Anno XIII n.2 giugno 2000, 71-72. Alessandro Laguzzi; Edilio Riccardini
, Atti del Convegno Studi di Storia Ovadese, Ovada, Accademia Urbense,
2005, 669-672. Altri progetti Collabora
a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Adriano
Bausola Emilio Costa, Un Ovadese nel
mondo della cultura italiana: Adriano Bausola, filosofo, URBS silva et flumen,
trimestrale di storia locale dell'Accademia Urbense di Ovada, Anno XIII n.2
giugno 2000, 71-72 , su
archiviostorico.net. Flavio Rolla, Adriano Bausola, filosofo. Ricordo
dell'illustre ovadese a 10 anni dalla scomparsa, URBS silva et flumen,
trimestrale di storia locale dell'Accademia Urbense di Ovada, Anno XXIII n.3-4
settembre-dicembre , 180-191 , su
accademiaurbense. Dal sito filosofico.net : Adriano Bausola Diego Fusaro, su
filosofico.net. blogphilosophica.wordpress.com//08/31/4161/ Lorenzo Cortesi
PredecessoreMagnifico Rettore dell'Università Cattolica del Sacro
CuoreSuccessoreStemma UCSC.png Giuseppe Lazzati19831998Sergio Zaninelli Filosofia
Università Università Filosofo del XX
secoloAccademici italiani Professore1930 2000 22 dicembre 28 aprile Ovada
RomaBenemeriti della scuola, della cultura e dell'arteCavalieri di gran croce
OMRICommendatori OMRIStudenti dell'Università Cattolica del Sacro CuoreRettori
dell'Università Cattolica del Sacro CuoreProfessori dell'Università Cattolica
del Sacro Cuore. Adriano Bausola. Keywords: solidarieta, storia in Croce – “The
problem with Bausola is that he is a Roman!” – Grice. Croce, fascismo,
totalitarismo, utilitarismo, egoita, noi-ita, Marx, conflitto, cooperazione,
soderale, anche solidaria, Butler, egoism, altruismo, self-love, other-love,
self-love, benevolence, ichheit, wirkheit, weness, we-ness, io-ita, ioita –
Archivio di Filosofia, 1937 – noi-eta, noi-ita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Bausola” – The Swimming-Pool Library.
Bazzanella (Trieste).
Filosofo. Grice: “I like Bazzanella; he has a totally different background from
mine, but we can communicate – I have focused on conversational communication;
he specializes in televisional communication; he has used Heidegger’s concept
of contamination to elucidate that of structure –.” Grice: “My favourite of his
tracts must be one on ethics and topology, broadly understood, which is all
that my theory of conversational helpfulness is about – Bazzanella entitles his
essay, ‘il lugo dell’altro,’ playing with the strictness of his topological
approach as applied to the ethos that results when ‘ego’ meets and communes with
‘alter.’” Partecipa a tre edizioni della
Biennale di Venezia e a una edizione della Biennale di Architettura. Di formazione
fenomenologica e tutee di Rovatti, inizia la sua attività filosofica a con un
saggio su Jankélévitch, per poi approfondire il pensiero di Heidegger, Husserl,
nonché di autori francesi del secondo dopoguerra quali Derrida, Foucault,
Lacan, Merleau-Ponty, Deleuze e Guattari. Delinea una echologia. Ipotizzando
che l'ontologia non e che una finzione o un dispositivo di tipo immunologico,
storicizzabile e tipico della società occidentale. Successivamente elabora
l’echologia inserendola nel contesto più ampio del senso -- applicandola al
consumo. Espone a Udine "Size". Il suo sviluppo della performance introduce
nella gestualità del corpo le nuove tecnologie multimediali sulla scia delle
installazioni di Tony Oursler. Alla
Biennale di Venezia progetta un'installazione multimediale (Blue Zone)
che inaugura una serie di opere ispirate alla "morte dell'arte". In
una mostra surreale, quasi post-human, le opere degli artisti sono ricoperte da
un velo, mentre in una serie di monitor sparsi negli spazi espositivi vengono
riprodotti i volti degli artisti che cercano di descrivere a parole le loro
opere invisibili. Alla Biennale di Venezia del , invece, propone
un'installazione (Overplay), inserita nel contesto di un palazzo veneziano, in
cui 16 iPad riproducono in maniera casuale e differenziata delle domande
generate da un software. Si tratta di un'evoluzione del progetto "Tautologia"
nel quale invece il programma riproduce in rete una serie infinita di pensieri
filosofici. Dal pensiero debole al pensiero orizzontale. Bazzanella
declina la debolezza nel senso di un passaggio dalla profondità della
metafisica a un'idea del superficiale di cui vede alcune tracce presenti in
Husserl, Merleau-Ponty e Heidegger. In questo passaggio il relativismo non
viene più interpretato come una manifestazione del nichilismo, bensì come il
tentativo di articolare una filosofia di una “relazionie orizzontale” che tende
a scardinare l'impianto della logica aristotelica. L'echologia è un
termine che Bazzanella desume da Deleuze a proposito di Tarde. Nella genesi
delle Categorie di Aristotele ci siano stati movimenti contrapposti, in cui
soltanto in una seconda istanza sarebbe prevalsa un'impostazione
"usiologica", “ouisologia” -- cioè basata sulla centralità della
"sostanza" (ousia, stantia, essential, izzing, x izzes y. Questo passaggio è decisivo poiché segna il
definitivo abbandono delle suggestioni della filosofia presocratica (Velia,
Parmenide, Zenone, Crotone, Empedocle da Girgentu) ponendo le basi di quello
che sarebbe stato l'impianto della filosofia occidentale. La lateralizzazione,
dunque, della categoria di “échein” (hazzing – habitus) nel suo duplice
significato di "avere" (Grice: x hazzes y”) e di "essere in
relazione" ha comportato il privilegio dell'"essere" e di
un'ontologia che impone un principio ed una gerarchia verticale, colla,
suddivisione tra la "cosa" ed il "oggetto" (Grice’s
‘obble’). x Fid y. La relazione diadica
x/y e una “echo-logia, e non una “onto-logia”. L’echologia e decostruttiva.
L’echo-logia evidenzia come ogni costruzione di senso, prima che “onto-logica”
od ‘ontica’ e fondata sull’ente e
articolata sulla relazione o, come li definisce Bazzanella,
sull’”essema”. In “Echologia,” attraverso una rilettura del concetto di “aletheia”
(disvegliamento), sviluppa una teoria del senso secondo la quale il senso non
può sussistere senza un rapporto essenziale con il “non” senso. Ciò significa
che le classiche legge di Parmenide dell’identità, la legge della non-contraddizione,
e la legge del terzo escluso sono costruite sopra una superficie illogica. La
legge logica e una forma di copertura (vegliamento) dell'”àlogon”
(‘irrationale’). Bazzanella sostiene inoltre che la legge logica (a izz a,
non-a non izz a, a o non-a), dipende mimeticamente o iconicamente da una
relazione essematica esprimibile come una pre-posizioni che istanzia una
relazioni senza referenza a le due relati. La preposizione "in" (‘jack IN the
box). La preposizione "con" (p & q, p con q). La preposizione
"di” (il perro di Strawsn). La preposizione “ri-" (Grice ri-torna).
Si tratta di una filosofia al limite della pensabilità. Invita a non concepire la
cosa o l’oggetto. Invita a concepire la *re-lazione* (re-ferenza) -- che
vengono ad esempio esperite dal neonate. l'"in" esprime l'in-essere
del feto nel grembo materno – Jack in the box, il feto nel grembo. Il
"con" esprime l'essere-con la propria madre e il suo seno (“Achille e
Teti”, “Romolo con la lupa”, La madre di Ascanio. La madre di Enea. La madre di
Romolo (Rea Silva). Il padre di Romolo: Marte. Il "di-" echeggia nel “dià”
del “dia-framma” rappresentato dal liquido amniotico rispetto al mondo esterno.
Il dia-framma della dia-logo. El dia-lettico. Il "ri-" allude alla
ri-petizione e al carattere originariamente ossessivo del bambino che cerca
sicurezza ri-petendo sempre i medesimo gesto (pianto, sorriso) e i medesimi suono (‘ma-ma’
‘da-da’). L'impostazione relazionistica che è partita da una fenomenologia
dell'orizzonte per articolarsi attraverso un'echologia e una teoria del senso, trova
il suo significato nel "paradigma immunitario. Lo desume da Foucault e,
soprattutto, da Gehlen, Sloterdijk ed Esposito. Se l'Ego si trova ggettato"
nell'Altro sin dalla nascita, cioè in una relazione che viola la legge della
logica e, soprattutto, che non consentono un ancoraggio rassicurante alla cosa ed
all’ oggetto, deve proteggersi e difendersi. Questo processo avviene però in
analogia con il sistema immunitario del corpo. Cioè l'Altro, il non-Ego, il
non-senso (o anche il "reale" come lo definisce traendo spunto dalla
definizione di Lacan) non può essere addomesticato che attraverso l'Altro. Il
senso ha una funzione difensiva e immunizzante e si basa su una
"mimesi" del reale mediata dall’essema. Il senso "imita" iconicamente
così il non-senso, ne è una sorta di estrusione. Questo paradosso implica anche
una riconsiderazione del soggetto e della relazioni di soggeti
(l’inter-soggetivo), soprattutto alla luce del suo dispiegamento a partire dal
cogito cartesiano. Il soggetto non coincide con un'identità, un "io"
pre-costituito. L’”io” rappresenta una funzione immunologica in cui l'individuo
assoggetta una cosa o un’altra persona, delegando le medesime ad affrontare il
reale al proprio posto. Il soggetto è un a-soggetto nel doppio senso di
non-essere-soggetto e di as-soggettare (ab-sub-jectum, ad-sub-jectum). La
communita inter-soggetiva rappresenta il paradigma di un processo di normo-tipizzazione
in cui una relazione essematica il puro cum senza relati, in questo caso si
trasforma in una difesa immunologica nei confronti del "fuori". Riprende
il dispositivo come orizzonte di potere intersoggetivo che funge da barriera o
filtro nei confronti del reale, nonché da sistema di controllo endo-geno e
normalizzante. La normotipia da' senso a una relazione nella misura in cui
riesce a bilanciare più o meno efficacemente il senso e il non-senso. Il
rischio di un sistema di senso, infatti, è paradossalmente quello di un eccesso
di senso. Ciò implica infatti una psico-tizzazione della comunità intersoggetiva,
e, quindi, una sorta di non-senso di ritorno. Gli esempi sono ormai
classici: il marxismo declina nel leninismo e degenera nello stalinismo. Il fascismo dai un
presupposto socialista diviene un
totalitarismo spietato e annientante. Si tratta di un *eccesso* di senso, di un
surplus immunitario che, se inizialmente intendeva distanziare e filtrare il
reale, comporta alfine una sorta di "divenire-reale" del senso
stesso, un'insensatezza reattiva e reazionaria. È in tale prospettiva che il
modello di senso tardocapitalistico sembra svolgere una funzione
autoimmunitaria. Il soggeto non ha a che fare soltanto con un processo di
stretta pertinenza economica, ma con un orizzonte di senso condiviso che permea
ogni aspetto dell'esistenza itersoggetiva. Società dello spettacolo e società
dei consume momenti in cui in particolare si esplica il capitalism non
sarebbero che una forme dialettica di reazione all'eccesso di senso del
totalitarismio. Si tratta di un bilanciamento tra un'evasione nell'immaginario
e un ri-torno al reale che si manifesterebbe nel momento stesso del consume. Note A. Fabris, La noia, il nulla, in «aut aut»,
n. 270, La Nuova Italia, Firenze 199565.
2 F. Bonami (a c. di), La dittatura dello spettatore, Catalogo generale
della 50. Esposizione Internazionale d'Arte. La Biennale di Venezia, Marsilio,
Venezia 2003. 3 R. Storr (a c. di),
Pensa con i sensi, senti con la mente, Catalogo generale della 52. Esposizione
Internazionale d'Arte. La biennale di Venezia, Marsilio, Venezia 2007. D. Birnbaum (a c. di), Fare Mondi, Catalogo
generale della 53. Esposizione Internazionale d'Arte. La Biennale di Venezia,
Marsilio, Venezia 2009. M. Foucault,
Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978),
Feltrinelli, Milano 2005. R. Esposito,
Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002. R. Esposito, Communitas. Origine e destino
della comunità, Einaudi, Torino 1998.
Tempo e linguaggio. Studio su Vladimir Jankélévitch, Franco Angeli,
Milano 1994; Orizzonte. Passività e soggetto in Husserl e Merleau-Ponty,
Guerini e associati, Milano 1995; Contaminazione. L'idea di struttura in
Heidegger, Franco Angeli, Milano 1995; Spazio e potere. Heidegger, Foucault, la
televisione, Mimesis, Milano 1996; Il luogo dell'Altro. Etica e topologia in Jacques
Lacan, Franco Angeli, Milano 1998; Idee per un'echologia fenomenologica, Franco
Angeli, Milano 1999; Echologia. Introduzione a una fenomenologia della
proprietà e a una critica del pensiero ontologico, Asterios Editore, Trieste
2000; Fede, echologia, sapere, Asterios Editore, Trieste 2002; La Fabbrica,
Trieste, FrancoPuzzoEditore, Trattato di
echologia, Mimesis, Milano 2004; La fabbrica, FPE Editore, Trieste 2005; Il
ritornello. La questione del senso in Deleuze-Guattari, Mimesis, (Milano 2005).
Il tardocapitalismo. Decorsi e patologie di una rivoluzione permanente,
Asterios Editore, Trieste 2006. Etica del tardocapitalismo, Mimesis, Milano
2008. Logica e tempo, Abiblio, Trieste 2009 Autoscrittura, Asterios Editore,
Trieste 2009 Religio I. Senso e fede nel tardocapitalismo, Mimesis, Milano Religio II. La religione del soggetto,
Mimesis, Milano . Indignatevi, Asterios Editore Trieste . Oltre la decrescita.
Il Tapis Roulant e la società dei consumi, Asterios Editore, Trieste . Lacan.
Immaginario, simbolico e reale in tre lezioni, Asterios, Trieste . Filosofie
della paura. Verso la condizione post-postmoderna, Asterios Editore, Trieste .
La filosofia e il suo consumo. Nuovo realismo e postmoderno, Asterios Editore,
Trieste . Religio III. Logica e follia, Mimesis, Milano . Eros e Thanatos.
Senso, corpo e morte nel XX Seminario di Lacan, Asterios Editore, Trieste, .
Come. Linee guida per una immuno-fenomenologia, Asterios Editore, Trieste, . Il
numero e il fenomeno, Asterios Editore, Trieste . Il tragico e il comico
nell'epoca del grillismo e del trumpismo, Asterios Editore, Trieste . Simbolo e
violenza, Asterios Editore, Trieste . Del fallimento. Simbolo e violenza II,
Asterios Editore . Filosofi italiani del XX secoloFilosofi. Emiliano
Bazzanella. Keywords: L’echologia di Grice (dal greco ‘echein,’ avere,
hazzing), essema, essematica, inessema, coessema, diaessema, riessema,
aritmetica. Esposito, communita, immunita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bazzanella” –
The Swimming-Pool Library.
Beccaria (Milano). Filosofo.
Grice: “I would call Beccaria a Griceian, but I’m not sure he would call me a
Beccarian!” Grice: “His explicit, rather than implicated, Griceian ideology is
in the opening chapter on “Lo stilo conversazionale’ – he notes that the
implicaturum ain’t a part of the ‘sintassi’ of the ‘proposizione’ which is
explicated – he adds that ‘senses’ should not be multiplied because your
addressee may get YOUR sense, but trust he will lose interest if you keep
multiplying – “to the risk that he won’t get your sense in the last place!” – Grice:
“Like me, Beccaria was a unitarian philosopher; his tract on ‘I piaceri’ is
delightful, very pleasant read!” – If Austin and us met on different grounds
and pubs, Beccaria met at the caffe, and he liked it – Italians, unfortunately,
only know him for his tract on guilt and punishment!” – Grice: “Most Italians
don’t even consider Beccaria an Italian
philosopher but as a member of the Accademia dei Pigne, as part of the
illuminismo Lombardo --.” Grice: “The philosophical panorama or landscape of
Italian philosophy is much diverse than our Oxonian dialectic!” -- One of the most essential of Italian
philosophersReferred to by H. P. Grice in his explorations on moral versus
legal right, studied in Parma and Pavia and taught political economy in Milan.
Here, he met Pietro and Alessandro Verri and other Milanese intellectuals
attempting to promote political, economical, and judiciary reforms. His major
work, Dei delitti e delle pene “On Crimes and Punishments,” 1764, denounces the
contemporary methods in the administration of justice and the treatment f
criminals. Beccaria argues that the highest good is the greatest happiness
shared by the greatest number of people; hence, actions against the state are
the most serious crimes. Crimes against individuals and property are less
serious, and crimes endangering public harmony are the least serious. The
purposes of punishment are deterrence and the protection of society. However,
the employment of torture to obtain confessions is unjust and useless: it
results in acquittal of the strong and the ruthless and conviction of the weak
and the innocent. Beccaria also rejects the death penalty as a war of the state
against the individual. He claims that the duration and certainty of the
punishment, not its intensity, most strongly affect criminals. Beccaria was
influenced by Montesquieu, Rousseau, and Condillac. His major work was tr. into
many languages and set guidelines for revising the criminal and judicial
systems of several European countries. Se dimostrerò
non essere la pena di morte né utile, né necessaria, avrò vinto la causa
dell’umanità.» (da Dei delitti e delle pene) Cesare Beccaria Bonesana,
marchese di Gualdrasco e di Villareggio (Milano), giurista, filosofo,
economista e letterato italiano considerato tra i massimi esponenti
dell'illuminismo italiano, figura di spicco della scuola illuministica
milanese. La sua opera principale, il trattato Dei delitti e delle pene,
in cui viene condotta un'analisi politica e giuridica contro la pena di morte e
la tortura sulla base del razionalismo e del pragmatismo di stampo
utilitarista, è tra i testi più influenti della storia del diritto penale ed
ispirò tra gli altri il codice penale voluto dal granduca Pietro Leopoldo di
Toscana. Nonno materno di Alessandro Manzoni, Cesare Beccaria è
considerato inoltre come uno dei padri fondatori della teoria classica del
diritto penale e della criminologia di scuola liberale. nacque a Milano
(allora appartenente all'impero asburgico), figlio di Giovanni Saverio di
Francesco e di Maria Visconti di Saliceto, il 15 marzo 1738. Fu educato a Parma
dai gesuiti e si laureò in Giurisprudenza il 13 settembre 1758 all'Università
degli Studi di Pavia. Il padre aveva sposato la Visconti in seconde nozze nel
1736, dopo essere rimasto vedovo nel 1730 di Cecilia Baldroni. Nel 1760
Cesare sposò Teresa Blasco contro la volontà del padre, che lo costrinse a
rinunciare ai diritti di primogenitura (mantenne però il titolo di marchese);
da questo matrimonio ebbe quattro figli: Giulia, Maria (1766-1788), nata con
gravi problemi neurologici e morta giovane, Giovanni Annibale nato e morto nel
1767 e Margherita anch'essa nata e morta nel 1772. Il padre lo cacciò
anche da casa dopo il matrimonio, così dovette essere ospitato da Pietro Verri,
che lo mantenne anche economicamente per un periodo. Teresa morì il 14
marzo 1774, a causa della sifilide o della tubercolosi. Beccaria, dopo appena
40 giorni di vedovanza, firmò il contratto di matrimonio con Anna dei Conti
Barnaba Barbò, che sposò in seconde nozze il 4 giugno 1774, ad appena 82 giorni
dalla morte della prima moglie. Da Anna Barbò ebbe un altro figlio,
Giulio. l suo avvicinamento all'Illuminismo avvenne dopo la lettura delle
Lettere persiane di Montesquieu e del “Contratto sociale” di Rousseau, grazie
ai quali si entusiasmò per i problemi filosofici e sociali ed entrò nel cenacolo
di casa Verri, dove aveva sede anche la redazione del Caffè, il più celebre
giornale politico-letterario del tempo, per il quale scrisse
sporadicamente. Dopo la pubblicazione di alcuni articoli di economia, nel
1764 diede alle stampe Dei delitti e delle pene, capolavoro ispirato dalle
discussioni in casa Verri del problema dello stato deplorevole della giustizia
penale. Inizialmente anonimo è un breve scritto contro la tortura e la pena di
morte che ebbe enorme fortuna in tutta Europa e nel mondo e in particolare in
Francia. Contro le posizioni di Beccaria uscì, nel 1765 il testo Note ed
osservazioni sul libro intitolato Dei delitti e delle pene di Ferdinando
Facchinei. Le polemiche che ne seguirono contribuirono alla decisione di
mettere il trattato di Beccaria all'Indice dei libri proibiti nel 1766, a causa
della distinzione tra peccato e reato. Nel 1766 Beccaria viaggiò poi
controvoglia fino a Parigi, e solo dietro l'insistenza dei fratelli Verri e dei
filosofi francesi desiderosi di conoscerlo. Fu accolto per breve tempo nel
circolo del barone d'Holbach. La sua giustificata gelosia per la moglie lontana
e il suo carattere ombroso e scostante, fecero sì che appena possibile tornasse
a Milano, lasciando solo il suo accompagnatore Alessandro Verri a proseguire il
viaggio verso l'Inghilterra. Il carattere riservato e riluttante di Beccaria,
tanto nelle vicende private quanto nelle pubbliche, ebbe nei fratelli Verri, e
soprattutto in Pietro, un fondamentale punto di appoggio e di stimolo
soprattutto quando iniziò ad interessarsi allo studio dell'economia. Come
Rousseau, Beccaria era a tratti paranoico e aveva spesso sbalzi d'umore, la sua
personalità era abbastanza indolente e il carattere debole, poco brillante e
non portato alla vita sociale; ciò non gli impediva però di esprimere molto
bene i concetti che aveva in mente, soprattutto nei suoi scritti. Tornato
a Milano nel 1768 ottenne la cattedra di Scienze Camerali (economia politica),
creata per lui nelle scuole palatine di Milano e cominciò a progettare una
grande opera sulla convivenza umana, mai completata. Antonio
Perego, L'Accademia dei Pugni. Da sinistra a destra: Alfonso Longo (di spalle),
Alessandro Verri, Giambattista Biffi, Cesare Beccaria, Luigi Lambertenghi,
Pietro Verri, Giuseppe Visconti di Saliceto Entrato nell'amministrazione
austriaca nel 1771, fu nominato membro del Supremo Consiglio dell'Economia,
carica che ricoprì per oltre vent'anni, contribuendo alle riforme asburgiche
sotto Maria Teresa e Giuseppe II. Fu criticato per questo dagli amici (tra cui
Pietro Verri), che gli rimproveravano di essere diventato un burocrate. Gli
studiosi, però, considerano questi giudizi ingiusti dal momento che Cesare
Beccaria si dedicò ad importanti riforme, che richiedevano una notevole
preparazione intellettuale, non solo amministrativa. Fra queste ci fu la
riforma delle misure dello stato milanese, intrapresa prima di quella del
sistema metrico decimale francese, e a cui Beccaria, insieme al fratello
Annibale, dedicò quasi vent'anni della sua vita. (La riforma, notevolmente
complessa, coinvolse alla fine solo il braccio milanese. La successiva riforma
dei pesi non fu mai realizzata.) Il suo rapporto con la figlia Giulia,
futura madre di Alessandro Manzoni, fu conflittuale per gran parte della sua
vita; ella era stata messa in collegio (nonostante Beccaria avesse spesso
deprecato i collegi religiosi) subito dopo la morte della madre e lì
dimenticata per quasi sei anni: suo padre non volle più sapere niente di lei
per molto tempo e non la considerò mai sua figlia, bensì il frutto di una
relazione extraconiugale delle numerose che la moglie aveva avuto. Beccaria non
si sentiva adeguato al ruolo di padre, inoltre negò l'eredità materna alla
figlia, avendo contratto dei debiti: ciò gli diede la fama di irriducibile
avarizia. Giulia uscì dal collegio nel 1780, frequentando poi gli ambienti
illuministi e libertini. Nel 1782 la diede in sposa al conte Pietro Manzoni,
più vecchio di vent'anni di lei: il nipote Alessandro nacque nel 1785, ma pare
fosse in realtà il figlio di Giovanni Verri, fratello minore di Pietro e
Alessandro, e amante di Giulia. Prima della morte del padre, Giulia abbandonò
il marito, nel 1792, per andare a vivere a Parigi insieme al conte Carlo
Imbonati, rompendo i rapporti definitivamente col padre, e temporaneamente anche con il figlio.
Beccaria morì a Milano il 28 novembre 1794, a causa di un ictus, all'età di 56
anni, e trovò sepoltura nel Cimitero della Mojazza, fuori Porta Comasina, in
una sepoltura popolare (dove fu sepolto anche Giuseppe Parini) anziché nella
tomba di famiglia. Quando tutti i resti vennero traslati nel cimitero
monumentale di Milano, un secolo dopo, si perse traccia della tomba del grande
giurista. Pietro Verri, con una riflessione valida ancora oggi, deplorò nei
suoi scritti il fatto che i milanesi non avessero onorato abbastanza il nome di
Cesare Beccaria, né da vivo né da morto, che tanta gloria aveva portato alla
città. Ai funerali di Beccaria era presente anche il giovane nipote Alessandro
Manzoni (che riprenderà molte delle riflessioni del nonno e di Verri nella
Storia della colonna infame e nel suo capolavoro, I promessi sposi), nonché il
figlio superstite ed erede, Giulio. Beccaria fu influenzato dalla lettura
di Locke, Helvetius, Rousseau e, come gran parte degli illuministi milanesi,
dal sensismo di Condillac. Fu influenzato anche dagli enciclopedisti, in
particolare da Voltaire e Diderot. Partendo dalla classica teoria
contrattualistica del diritto, derivata in parte dalla formulazione datane da
Rousseau, che sostanzialmente fonda la società su un contratto sociale
(nell'omonima opera) teso a salvaguardare i diritti degli individui e a
garantire in questo modo l'ordine, Beccaria definì in pratica il delitto in
maniera laica come una violazione del contratto, e non come offesa alla legge
divina, che appartiene alla coscienza della persona e non alla sfera pubblica.
La società nel suo complesso godeva pertanto di un diritto di autodifesa, da
esercitare in misura proporzionata al delitto commesso (principio del proporzionalismo
della pena) e secondo il principio contrattualistico per cui nessun uomo può
disporre della vita di un altro (Rousseau non considerava moralmente lecito
nemmeno il suicidio, in quanto non l'uomo, ma la natura, nella visione del
ginevrino, aveva potere sulla propria vita, e quindi tale diritto non poteva
certamente andare allo Stato, che comunque avrebbe violato un diritto
individuale). Il punto di vista illuministico del Beccaria si concentra in
frasi come «Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni
eventi l'uomo cessi di essere persona e diventi cosa». Ribadisce come è
necessario neutralizzare l'«inutile prodigalità di supplizi» ampiamente diffusi
nella società del suo tempo. La tesi umanitaria, messa in risalto da Voltaire,
è parzialmente da lui accantonata, in quanto Beccaria vuole dimostrare
pragmaticamente l'inutilità della tortura e della pena di morte, più che la
loro ingiustizia. Egli è infatti consapevole che i legislatori sono mossi più
dall'utile pratico di una legge, che da principi assoluti, di ordine religioso
o filosofico. Beccaria afferma infatti che «se dimostrerò non essere la morte
né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell'umanità». Beccaria quindi si
inserisce nel filone utilitaristico: considera l'utile come movente e metro di
valutazione di ogni azione umana. Monumento a Cesare Beccaria,
Giuseppe Grandi, Milano L'ambito della sua dottrina è quello
general-preventivo, nel quale si suppone che l'uomo sia condizionabile in base
alla promessa di un premio o di un castigo e, nel contempo, si ritiene che
sussista fra ogni cittadino e le istituzioni una conflittualità più o meno
latente. Sostiene la laicità dello Stato. Adotta come metodo d'indagine quello
analitico-deduttivo (tipico della matematica) e per lui l'esperienza è da
intendersi in termini fenomenici (approccio sensista). La natura umana si
svolge in una dimensione edonistico-pulsionistica, ovvero sia i singoli, sia la
moltitudine, agiscono seguendo i loro sensi. In poche parole l'uomo è caratterizzato
dall'edonismo. Gli individui possono essere parago dei «fluidi» messi in
movimento dalla costante ricerca del piacere, intesa come fuga dal dolore.
L'uomo però è una macchina intelligente capace di razionalizzare le pulsioni,
in modo da consentire la vita in società; infatti certamente ogni uomo pretende
di essere autonomo e insindacabile nelle sue decisioni, ma si rende conto della
convenienza della vita sociale. Ma la conflittualità rimane e quindi bisogna
impedire che il cittadino venga sedotto dall'idea di infrangere la legge al
fine di perseguire il proprio utile a tutti i costi, pertanto il legislatore,
da «abile architetto», deve predisporre sanzioni e premi in funzione
preventiva; è necessario tenere sotto controllo i «fluidi», inibendo le pulsioni
antisociali. Tuttavia Beccaria sostiene che la sanzione deve essere sì
idonea e sicura, a garantire la difesa sociale, ma al contempo mitigata e
rispettosa della persona umana. «Il fine delle pene non è di tormentare
ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. Può
egli in un corpo politico, che, ben lungi di agire per passione, è il
tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare questa
inutile crudeltà stromento del furore e del fanatismo o dei deboli tiranni? Le
strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già
consumate? Il fine dunque non è altro che d'impedire il reo dal far nuovi danni
ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque
e quel metodo d'infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione,
farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini, e la
meno tormentosa sul corpo del reo.» «Parmi un assurdo che le leggi, che
sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono
l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini
dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio» (Dei delitti e delle
pene, cap. XXVIII) Illustrazione allegorica da Dei delitti e delle pene:
la giustizia personificata respinge il boia, con in mano una testa, e una
spada. La pena di morte, “una guerra della nazione contro un cittadino”, è
inaccettabile perché il bene della vita è indisponibile, quindi sottratto alla
volontà del singolo e dello Stato. Inoltre essa: non è un vero deterrente
non è assolutamente necessaria in tempo di pace Essa non svolge un'adeguata
azione intimidatoria poiché lo stesso criminale teme meno la morte di un
ergastolo perpetuo o di una miserabile schiavitù: si tratta di una sofferenza
definitiva contro una sofferenza ripetuta. Ai soggetti che assistono alla sua
esecuzione, inoltre, essa può apparire come uno spettacolo o suscitare
compassione. Nel primo caso, essa indurisce gli animi, rendendoli più inclini al
delitto; nel secondo, non rafforza il senso di obbligatorietà della legge e il
senso di fiducia nelle istituzioni. Questa condizione è assai più potente
dell'idea della morte e spaventa più chi la vede che chi la soffre; è quindi
efficace ed intimidatoria, benché tenue. In realtà così facendo viene
sostituita alla morte del corpo la morte dell'anima, il condannato viene
annichilito interiormente. Tuttavia non è la punizione fine a sé stessa
l'obiettivo di Beccaria, ma egli utilizza questo argomento dell'afflittività
penale per convincere i governanti e i giudici, in quanto il suo fine resta
eminentemente rieducativo e risarcitivo (il condannato non deve essere afflitto
o torturato, ma deve riparare il danno in maniera economico-politica, come
previsto da una concezione puramente utilitaristica e di giustizia
anti-retributiva). Beccaria ammette che il ricorso alla pena capitale sia
necessario solo quando l'eliminazione del singolo fosse il vero ed unico freno
per distogliere gli altri dal commettere delitti, come nel caso di chi fomenta
tumulti e tensioni sociali: ma questo caso non sarebbe applicabile se non verso
un individuo molto potente e solo in caso di una guerra civile. Tale
motivazione fu usata, per chiedere la condanna di Luigi XVI, da Maximilien de
Robespierre, il quale era inizialmente avverso alla pena capitale ma in seguito
diede il via ad un uso spropositato della pena di morte e poi al Terrore;
comportamenti del tutto inammissibili nel pensiero di Beccaria, che infatti
prese le distanze, come molti illuministi moderati, dalla Rivoluzione francese
dopo il 1793. La tortura, “l'infame crociuolo della verità”, viene
confutata da Beccaria con varie argomentazioni: essa viola la presunzione
di innocenza, dato che «un uomo non può chiamarsi reo fino alla sentenza del
giudice». consiste in un'afflizione e pertanto è inaccettabile; se il delitto è
certo porta alla pena stabilita dalle leggi, se è incerto non si deve
tormentare un possibile innocente. non è operativa in quanto induce a false
confessioni, poiché l'uomo, stremato dal dolore, arriverà ad affermare falsità
al fine di porre termine alla sofferenza. è da rifiutarsi anche per motivi di
umanità: l'innocente è posto in condizioni peggiori del colpevole. non porta
all'emenda del soggetto, né lo purifica agli occhi della collettività. Beccaria
ammette razionalmente l'afflizione della tortura nel caso di testimone
reticente, cioè a chi durante il processo si ostini a non rispondere alle
domande; in questo caso la tortura trova una sua giustificazione, ma egli
preferisce comunque chiederne la totale abolizione, in quanto l'argomento
utilitario viene in questo caso sopraffatto comunque da quello razionale (il
fatto che è ingiusto applicare una pena preventiva, sproporzionata e comunque
violenta). Il carcere preventivo Beccaria mostra dubbi e raccomanda
cautela nella custodia cautelare in attesa di processo, attuata negli
ordinamenti penali solitamente in casi di pericolo di fuga, reiterazione o
inquinamento delle prove, e alla sua epoca assolutamente discrezionale e
ingiusta. «Un errore non meno comune che contrario al fine sociale, che è
l'opinione della propria sicurezza, è il lasciare arbitro il magistrato
esecutore delle leggi, d'imprigionare un cittadino, di togliere la libertà ad
un nemico per frivoli pretesti, e il lasciare impunito un amico ad onta
degl'indizi più forti di reità. La prigionia è una pena che per necessità deve,
a differenza di ogni altra, precedere la dichiarazione del delitto; ma questo
carattere distintivo non le toglie l'altro essenziale, cioè che la sola legge
determini i casi, nei quali un uomo è degno di pena. La legge dunque accennerà
gli indizi di un delitto che meritano la custodia del reo, che lo assoggettano
ad un esame e ad una pena.» Può essere necessaria, ma essendo comunque
una pena contro un presunto innocente, come la tortura (concezione garantista
della giustizia), non deve essere attuata tramite arbitrio di un magistrato o
di un ufficiale di polizia. La carcerazione dopo cattura e prima del processo è
ammessibile solo quando ci sia, oltre ogni dubbio la prova della pericolosità
dell'imputato: «pubblica fama, la fuga, la stragiudiciale confessione, quella
d'un compagno del delitto, le minacce e la costante inimicizia con l'offeso, il
corpo del delitto, e simili indizi, sono prove bastanti per catturare un
cittadino. Ma queste prove devono stabilirsi dalla legge e non dai giudici, i
decreti de' quali sono sempre opposti alla libertà politica, quando non sieno
proposizioni particolari di una massima generale esistente nel pubblico
codice». Le prove dovranno essere quanto più solide quanto la prigionia
rischi di essere lunga o pesante: «A misura che le pene saranno moderate, che
sarà tolto lo squallore e la fame dalle carceri, che la compassione e l'umanità
penetreranno le porte ferrate e comanderanno agli inesorabili ed induriti
ministri della giustizia, le leggi potranno contentarsi d'indizi sempre più
deboli per catturare». Egli raccomanda inoltre la piena riabilitazione
per la carcerazione ingiusta: «Un uomo accusato di un delitto, carcerato ed
assoluto, non dovrebbe portar seco nota alcuna d'infamia. Quanti romani
accusati di gravissimi delitti, trovati poi innocenti, furono dal popolo
riveriti e di magistrature onorati! Ma per qual ragione è così diverso ai tempi
nostri l'esito di un innocente? perché sembra che nel presente sistema
criminale, secondo l'opinione degli uomini, prevalga l'idea della forza e della
prepotenza a quella della giustizia; si gettano confusi nella stessa caverna
gli accusati e i convinti; perché la prigione è piuttosto un supplizio, che una
custodia del reo, e perché la forza interna tutrice delle leggi è separata
dalla esterna difenditrice del trono e della nazione, quando unite dovrebbono
essere». Il carattere della sanzione Frontespizio di Scritti e
lettere inediti del 1910 Cesare Beccaria, incisione da Dei delitti e
delle pene Beccaria indica come la sanzione deve possedere alcuni
requisiti: la prontezza ovvero la vicinanza temporale della pena al
delitto l’infallibilità ovvero vi deve essere la certezza della risposta
sanzionatoria da parte delle autorità la proporzionalità con il reato
(difficile da realizzare ma auspicabile) la durata, che dev'essere adeguata la
pubblica esemplarità, infatti la destinataria della sanzione è la collettività,
che constata la non convenienza all'infrazione essere la «minima delle
possibili nelle date circostanze» Secondo Beccaria, per ottenere
un'approssimativa proporzionalità pena-delitto, bisogna tener conto: del
danno subito dalla collettività del vantaggio che comporta la commissione di
tale reato della tendenza dei cittadini a commettere tale reato Non dev'essere
comunque una violenza gratuita, ma dev'essere dettata dalle leggi, oltre a
possedere tutti i caratteri razionali citati, e sprovvista di personalismi e
sentimenti irrazionali di vendetta. La pena è oltretutto una extrema
ratio, infatti si dovrebbe evitare di ricorrere ad essa quando si hanno
efficaci strumenti di controllo sociale (non deve inoltre colpire le intenzioni
in maniera analoga al fatto compiuto: ad esempio, l'attentato fallito non è
paragonabile a uno riuscito). Per questi motivi è importante attuare degli
espedienti di “prevenzione indiretta”, come ad esempio: un sistema ordinato
della magistratura, la diffusione dell'istruzione nella società, il diritto
premiale (premiare la virtù del cittadino, anziché punire solo la colpa), una
riforma economico-sociale che migliori le condizioni di vita delle classi
sociali disagiate. Beccaria si dichiara inoltre sospettoso verso il sistema
delatorio (cosiddetta collaborazione di giustizia), da usare solo per prevenire
delitti importanti, in quanto incoraggia il tradimento e favorisce dei
criminali rei confessi dando loro l'impunità. Per quanto riguarda
l'istituto premiale nella pena già comminata, cioè le amnistie e la grazia,
essi possono essere usati ma con cautela: al condannato che si comporta in
maniera esemplare durante l'esecuzione della pena o in casi specifici, ma solo
in caso di pene pesanti, esse possono essere concesse; suggerisce però di
limitare la discrezionalità del governante e del giudice, poiché egli teme che
lo strumento della clemenza venga usato per favoritismi, come nell'Antico
Regime, eliminando anche pene lievi a persone che siano potenti o vicini
politicamente o umanamente al sovrano: «La clemenza è la virtú del legislatore
e non dell'esecutor delle leggi», scrive infatti. Pertanto il fine della
sanzione non è quello di affliggere, ma quello di impedire al reo di compiere
altri delitti e di intimidire gli altri dal compierne altri, fino a parlare di
"dolcezza della pena", in contrasto alla pena violenta: «Uno
dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l'infallibilità
di esse. La certezza di un castigo, benché moderato farà sempre una maggiore impressione
che non il timore di un altro più terribile, unito con la speranza
dell'impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre
gli animi umani, e la speranza, dono celeste, che sovente ci tien luogo di
tutto, ne allontana sempre l'idea dei maggiori, massimamente quando l'impunità,
che l'avarizia e la debolezza spesso accordano, ne aumenti la forza. L'atrocità
stessa della pena fa sì che si ardisca tanto più per schivarla, quanto è grande
il male a cui si va incontro; fa sì che si commettano più delitti, per fuggir
la pena di uno solo. I paesi e i tempi dei più atroci supplicii furon
sempre quelli delle più sanguinose ed inumane azioni, poiché il medesimo
spirito di ferocia che guidava la mano del legislatore, reggeva quella del
parricida e del sicario. (...) Perché una pena ottenga il suo effetto basta che
il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto, e in questo eccesso di
male deve essere calcolata l'infallibilità della pena e la perdita del bene che
il delitto produrrebbe. Tutto il di più è dunque superfluo e perciò
tirannico.» Il diritto all'autodifesa: sul porto di armi Il pensiero di
Beccaria sul porto di armi, che egli riteneva un utile strumento di deterrenza
del crimine, si riassume nelle seguenti citazioni: «Falsa idea di utilità
è quella che sacrifica mille vantaggi reali per un inconveniente o immaginario
o di troppa conseguenza, che toglierebbe agli uomini il fuoco perché incendia e
l'acqua perché annega, che non ripara ai mali che col distruggere. Le leggi che
proibiscono di portare armi sono leggi di tal natura; esse non disarmano che i
non inclinati né determii delitti, mentre coloro che hanno il coraggio di poter
violare le leggi più sacre della umanità e le più importanti del codice, come
rispetteranno le minori e le puramente arbitrarie, e delle quali tanto facili
ed impuni debbon essere le contravvenzioni, e l'esecuzione esatta delle quali
toglie la libertà personale, carissima all'uomo, carissima all'illuminato
legislatore, e sottopone gl'innocenti a tutte le vessazioni dovute ai rei?
Queste peggiorano la condizione degli assaliti, migliorando quella degli
assalitori, non iscemano gli omicidii, ma gli accrescono, perché è maggiore la
confidenza nell'assalire i disarmati che gli armati. Queste si chiamano leggi
non prevenitrici ma paurose dei delitti, che nascono dalla tumultuosa
impressione di alcuni fatti particolari, non dalla ragionata meditazione
degl'inconvenienti ed avantaggi di un decreto universale» Influenza Anche
Ugo Foscolo rileverà nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis che "le pene
crescono coi supplizi". L'opera ed il pensiero di Beccaria, inoltre,
influenzarono la codificazione del Granducato di Toscana, concretizzata nella
Riforma della legislazione criminale toscana, promulgata da Pietro Leopoldo
d'Asburgo nel 1787, meglio conosciuta come "Codice leopoldino" col
quale la Toscana divenne il primo stato in Europa ad eliminare integralmente la
pena di morte e la tortura dal proprio sistema penale. Il filosofo
utilitarista Jeremy Bentham ne riprenderà alcune idee. Le idee del
Beccaria stimolarono un dibattito (si pensi alle critiche che Kant gli mosse
nella sua Metafisica dei costumi) ancora vivo e attuale oggi. Citazioni e
riferimenti Monumento a Cesare Beccaria, Milano Nel 1837 venne realizzato
un monumento a Cesare Beccaria, opera dello scultore Pompeo Marchesi, posto
sulla scalinata richiniana del palazzo di Brera. Nel 1871 venne inaugurato un
secondo monumento in marmo a Milano (oggi piazza Beccaria); a causa del
deterioramento, nel 1913 il monumento fu sostituito da una copia in bronzo. Gli
è stato dedicato un asteroide: 8935 Beccaria. Il carcere minorile di Milano è a
lui intitolato. A lui è intitolato un prestigioso Liceo Classico milanese, il
Ginnasio Liceo Statale Cesare Beccaria. A lui è dedicato uno dei 3 dipartimenti
della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Milano. Altre
opere: “Del disordine e de' rimedi delle monete a Milano”; “Del delitto e della
pena” (Livorno, Marco Cortellini). Giovanni
Claudio Molini); “Ricerche intorno alla natura dello stile”; “Elementi di
economia pubblica”; “Raccolte di articoli Gli articoli di Beccaria in «Il
Caffè» Collana «Pantheon», Bollati Boringhieri). Due volumi, Genealogia
Dati tratti da genealogia settecentesca della famiglia Beccaria con indicazione
della discendenza di Cesare Beccaria”; “Simone «attese a negozi con
prosperità”; Gerolamo «tesoriere di vari luoghi pii, uomo di molti
trafici” Sposa Isabella Busnata di Giovanni Stefano. Galeazzo
«I.C. causidico nel civile». Francesco “cassiere generale del Banco
Sant'Ambrogio sino a morte ed agente del luogo Pio della Carità». Sposa Anna
Cremasca.Filippo «Successe al padre nel posto di cassiere suddetto, che poscia
rinunciò e si fece sacerdote». Anastasia«Monaca in Vigevano»
Giovanni «Alla morte di suo padre ebbe un'entrata di scuti 5000 con
che la trattò alla cavalleresca». Sposò Maddalena Bonesana figlia di Francesco
(«rimaritata nel conte Isidoro del Careto»). Francesco «Fece
aquisto de sudetti feudi di Gualdrasco e Villareggio nel vicariato di Settimo
per istrumento 3 marzo 1705 rogato dal notaio Benag.a. Creato marchese nel 1711
per cesareo diploma». Sposò Francesca Paribelli di Nicolò «da Sondrio nella
Valtellina». Giovanni Saverio Secondo marchese di Gualdrasco e di
Villareggio. Ereditò il cognome Bonesana del prozio Cesare Bonesana. Con
decreto, entrò a far parte del patriziato milanese. Sposa Cecilia Baldironi Maria
Visconti di Saliceto Cesare Terzo marchese di Gualdrasco e di Villareggio.
Sposò nel 1761 Teresa de Blasco Anna Barbò
Giulia Sposò nel 1782 Pietro
Manzoni. Anna Maria Aloisia Giovanni Annibale Margherita Teresa Giulio Quarto marchese di
Gualdrasco e di Villareggio. Sposò nel 1821 Antonietta Curioni de Civati
Francesca Cecilia Cesare Antonio Maddalena Sposò nel 1766 Giulio Cesare
Isimbardi Tozzi. Annibale Sposò nel 1776 Marianna Vaccani Francesco
(1749-1856)Sposò Rosa Conti (vedova
Fè). Carlo Sposò Rosa Tronconi Giacomo Filippo Mariaabate
Carlo Teresamonaca Chiaramonaca
Nicola Francesco (1702-1765) -Laureato in legge, membro del
collegio dei giurisperiti dal 1738, fu anche giudice a Milano e a Pavia.
Giuseppe Marianna Ignazio Anna
MariaSposò un Cattaneo «fisico» Gerolamo«Canonico ordinario del
Duomo» AngiolaSposò Alberto Priorino nel 1619. Tendente al
deismo Il nome di «marchese di
Beccaria», usato talvolta nella corrispondenza, si trova in molte fonti (tra
cui l'Enciclopedia Britannica) ma è errato: il titolo esatto era «marchese di
Gualdrasco e di Villareggio» (cfr. Maria G. Vitali, Cesare Beccaria. Progresso
e discorsi di economia politica, Paris, 20059. Philippe Audegean, Introduzione,
in Lione, 20099. ) John Hostettler,
Cesare Beccaria: The Genius of 'On Crimes and Punishments', Hampshire,
Waterside Press, 160,
978-1-904380-63-4. Indicata come
"Ortensia" in Pompeo Litta, Visconti, in Famiglie celebri italiane. Renzo Zorzi, Cesare Beccaria. Dramma della
Giustizia, Milano, 199553. Pirrotta, art. cit C. e M. Sambugar, D. Ermini, G. Salà, op,
cit.. Emanuele Lugli, 'Cesare Beccaria e
la riduzione delle misure lineari a Milano,' Nuova Informazione Bibliografica
3/, 579-602., DOI:10.1448/80865. l'11
dicembre . Beccaria non riposa sul
Lario F.Venturi, Settecento riformatore,
Einaudi, Torino, 1969 Sambugar, Salà,
Letteratura modulare, I Dei delitti e delle pene, capitolo XII Cesare Beccaria, la scoperta della libertà,
con Lucio Villari, Il tempo e la storia, Rai Tre Dei delitti e delle
pene, capitolo VI Dei delitti e delle
pene, Capitolo XLVII Dei delitti e delle
pene, Capitoli 38 e seguenti Dei delitti
e delle pene, capitolo 46, Delle grazie Dei
delitti e delle pene, capitolo 27 I.
Kant, La metafisica dei costumi, traduzione e note di G. Vidari, revisione di
N. Merker, 10ª ed., Roma-Bari, Laterza, «Il marchese Beccaria, per un
affettato sentimento umanitario, sostiene [...] la illegalità di ogni pena di
morte: essa infatti non potrebbe essere contenuta nel contratto civile
originario, perché allora ogni individuo del popolo avrebbe dovuto acconsentire
a perdere la vita nel caso ch'egli avesse a uccidere un altro (nel popolo); ora
questo consenso sarebbe impossibile perché nessuno può disporre della propria
vita. Tutto ciò però non è che sofisma e snaturamento del diritto». Teatro genealogico delle famiglie nobili
milanesi, su Hispanic Digital Library.
Felice Calvi, Il patriziato milanese, Milano, 1875, 52-53.
Nella genealogia settecentesca è indicato un Nicolò abbate. Pietro Verri, Scritti di argomento familiare
e autobiografico, G. Barbarisi, Roma, 2003118.
Franco Arese, Il Collegio dei nobili Giureconsulti di Milano, in
Archivio Storico Lombardo, 1977162.
Cesare Beccaria, Ricerche intorno alla natura dello stile, Milano,
Società tipografica de' classici italiani, 1822. Cesare Beccaria, Scritti e
lettere inediti, Milano, Hoepli, 1910. Cesare Beccaria, Opere, I, Firenze,
Sansoni, 1958. Cesare Beccaria, Opere, II, Firenze, Sansoni, 1958. Introduzione
a Beccaria, Enza Biagini, Roma-Bari,Laterza, 1992 Antoine-Marie Graziani,
Fortune de Beccaria, Commentaire 2009/3 (Numéro 127). Dei delitti e delle pene Diritti umani
Ergastolo Tortura Pena capitale Del disordine e de' rimedi delle monete nello
stato di Milano nel 1762 Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource
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Istituto dell'Enciclopedia Italiana, . Cesare Beccaria, su Enciclopedia
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Cesare Beccaria, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Cesare Beccaria, su Find a Grave. Opere di Cesare Beccaria, su Liber
Liber. Opere di Cesare Beccaria / Cesare
Beccaria (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Cesare
Beccaria, . Audiolibri di Cesare Beccaria, su LibriVox. Vita di C.Beccaria, su zam. V D M Coterie
holbachiana V D M Illuministi italiani Filosofia Letteratura Letteratura Categorie: Giuristi italiani del
XVIII secoloFilosofi italiani del XVIII secoloEconomisti italiani 1738 1794 15
marzo 28 novembre Milano MilanoFilosofi del
dirittoIlluministiUtilitaristiLetterati italianiOppositori della pena di
morteStudiosi di diritto penale del XVIII secoloCriminologi italianiStoria del
dirittoNobili italiani del XVIII secoloStudenti dell'Università degli Studi di
Pavia. Refs.: Luigi Speranza, "Grice
e Beccaria," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa
Grice, Liguria, Italia. Delle idee espresse, e delle idee semplicemente suggerite.
Un altra osservazione non meno importante che generale sarà intorno al diverso
effetto che le idee accessorie pos sono produrre quando siano espresse coi
termini loro corrispondenti, o quando siano semplicemente suggerite o destate
nell' animo di chi legge o di chi ascolta. Espresse nuocerebbero al fascio
intero del le sensazioni; destate solamente lo giovano, non solo perchè la
picciola fatica che facciamo, e l'applauso interno del nostro ritrovato ci
rinfranca l'attenzione sul restante, ma molto più perchè è legge della nostra
sensibilità che tutt'altra forza abbiano le idee espresse e le taciute, e
tutt'altra attenzione esigono da noi quel le che queste. Ora le attenzioni
saranno tanto più lunghe o più frequenti, tanto più si nuocono tra di loro, e
scemano l'attenzione al tutto; mentre per lo contrario quei lampi, rapidi e
passeggieri di attenzione che balenano, in noi per tutte le idee espresse, e
confusa per il tutto e debolissima sarà la percezione deile parti, o solamente
ad alcune noi faremo idee accessorie e non espresse, accrescono delle
sensazioni senza nuocere all'attenzione ed all'energia del tutto. Abbiamo
semplicemente il numero dimostrato che la quantità d'impressione momentanea non
deve eccedere che tre o quattro sensazioni ordinarie, perchè per tante e non
più la mente umana è capace di una simultanea attenzione: la vivacità degli
oggetti presenti non le concedono una maggior ampiezza ed u na maggiore
comprensibilità. Nelle cose lette o ascoltate, in luogo della vivacità e della
realità che è nell'oggetto quando è presente, vi è la vivacità e la realità
della parola visibile o auditiva se noi dunque volessimo tutte le accessorie,
che si tacciono, esprimere, veremmo ad offendere quella legge determina e
limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre la quale, o lo sforzo della
mente si porterà su destate che le attenzione, cioè solamente di alcune
l'immagine corrispondente alla parola si risveglierà nella mente, ed allora le
altre parole rimanendo insignificanti. Se dunque una parola racchiude nel suo
concetto molte e varie sensazioni, come 'spada', 'esercito', 'nave', ec. cosic
chè la mente dalla parola medesima non sia determinata a considerar più l'una
che l'altra delle sensazioni componenti 1 e terruzione al senso, e
distruggeranno l'effetto delle altre in vece di aumentarlo. , faranno i n 43
suc, ma sibbene sia piuttosto sforzata a co nsiderarle tutte in una volta,
accaderà che condensando due o tre di queste parole intorno ad un'idea principale,
vi saranno non due o tre accessorie soltanto unite e destinate ad aggiunger
forza al la principale, ma invece un molto maggior numero, quante saranno le
sensazioni egualmente comprese sotto i nomi di 'spada', 'esercito', 'nave',
ec.: tutte queste varie e numerose sensazioni non essendo più immediatamente le
une che le altre suggerite, tutte concorrono contemporaneamente ad associarsi
colla principale; onde l'effetto reale che ne cede si è, che la fantasia nostra
resta distratta é confusa. Per lo contrario, se invece de' nomi 'spada',
'esercito', 'nave', ec., si dicesse 'ferro', 'soldato', 'vele', e che questi
nomi si condensassero attorno ad un'idea principale per formarne un senso, si
osservi che le tre sole nozioni e precise sensazioni comprese nel proprio
significato delle tres uddette parole si quelle ogni sono che immediatamente, e
prima di altra, si risvegliano nella fantasia; saranno quelle che
immediatamente si uniranno colla principale. Ma per forza di onde associazione
non tra lascerà la parola di 'ferro' di suggerire rapidamente le altre
sensazioni comprese sotto la parola 'spada'; quella di 'soldato', quelle di
'esercito'; quella di 'vele', quelle di 'navi'. Ma essendo priamente queste
sensazioni suggerite pro associate colle parole 'ferro', 'soldato', e 'vele',
ma con le idee che nuocere alla principale così facilmente. Ecco chiaramente
spiegato ciò st che io intendo per idee suggerite e per idee espresse, mentre
però tutta questa teoria sarà resa più evidente dopo che nel progresso io avrò
parlato de' nomi speciali ed appellativi, e de' traslati. sono. E de sta que
immediatamente risvegliano, non pos Le idee semplicemente suggerite non entrano
nella sintassi della proposizione, la quale regge senza di quelle: non sono non
SI. Accipite hanc animam, me que his exolvit e curis, quanta folla d'idee si
risveglia in chi legge quelle sole parole, in quella occasione dette, dulces
exuviae: la sintassi regge senza che si risveglino queste idee, onde la mente
non trovasi affaccendata a raccapezzare un senso complicato e in molte parti
diviso e coll'accennar sol tanto la spada di Enea sotto il nome di una spoglia,
cioè di una cosa da lui portata e da lui ricevuta in dono, quanto teneri e
contrastanti sentimenti non ci sentiamo fremere interiormente! Egli è evidente
che una medesima serie d'idee per intervalli di tempo più lunghi occupa la
mente se siano espresse, di quello che se siano taciute, per chè un maggior
tempo si consuma nella percezione della parola, per la durata della quale si
continua la presenza dell'idea corrispondente di quello che sia con durevoli
nella mente quanto le idee che eccitate sono dalle parole immediatamente,
quantunque come le altre, alla occasione di quelle, si risveglino; onde con
minore dispendio ditempo e di forzesi ottiene un più grande effetto. Quando
Virgilio fa dire à Didone: 'Dulces exuviae dum futa, Deusque sinebant, a
rendere più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali, il che
renderebbe annoiante e faticoso il netto coucepimento del tutto, oppure essunto
nella rapida ed affollata successio ne d'imagini che per forza di associa zione
si eccitano reciprocamente. Tanto è ciò vero, che non sarà inutile il qui
osservare che molte espressioni non so no preferibili alle altre, se non
appunto perchè la sensazione auditiva o della parola è materialmente più dell'
altra. È più bella e più nobile pressione la parola cocchio della carrozza non
per es parola visibile breve l'azzardo capriccioso dell'esser meno comune ed
avilita pressione, giacchè tant'altre che nelle bocche di tutti sieno
continuamente; cio nonostante nè si rigettano, nè per meno belle son riputate,
ma soltanto p e r chè è parola più breve, e l'idea da un più rapido segno è
rappresentata; onde si ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e ditempo.
Ora se le idee taciute fossero tutte espresse, noi verremmo mente nostra
dividerebbe in più tempi ciò che per l'unità dell'idea principale dovrebbe
essere rinchiuso in un solo; il che rendendo l'accessorio principale, pro la
durrebbe e confusione nella chiarezza, e noia nelle unioni diseguali e
sproporzionate d'idee fatte nella mente nostra. Tanto è vero che il tempo (che
altro nonè per noi che la successione delle idee degli esseri sensibili) è una
quantità alla quale non la scienza del moto solamente, ma le scienze tutte e le
belle ti e la politica debbono aver considerazione; perchè tutte le più fine e
le più sottili ed interiori, egualmente che le più complicate e più grossolane
ed esteriori operazioni dell'intelletto sotto l'inesorabile suo dominio si
fanno e si manifestano. Fra la moltitudine delle idee accesso rie che si
presentano, quali sceglieremo per essere espresse, quali serberemo per essere
semplicemente destate? In primo luogo, tramolte accessorie analoghe e
moltissimo simili fra di loro, e che si risvegliano reciprocamente ed
infallibilmente l'una l'altra, una sola sarà l'espressa, le altre taciute;
perchè se tutte fossero espresse, ciascheduna espressione replicando le idee di
tutte le altre, vi sarebbe superfluità e ridondanza che fastidio produrrebbe e
stanchezza, e d i spendio di tempo. La ripetizione delle idee accessorie non
produce lo stesso. In secondo luogo, tra la moltitudine delle idee accessorie
vi saranno, oltre le analoghe, quelle che sono più distanti, ciascheduna delle
quali avrà le sue rispettive simili ed associate: di queste ognu na apre la
mente ad una serie d'impressioni, e sono direi quasi capi -idee e c a pi-
pensieri; queste saranno le espresse, perchè non si destano reciprocamente,
ed effetto della ripetizione delle idee principali; queste si rinfrancano
come tali nella mente, e divengono perciò come un centro di luce che il tutto
riscalda e rischiara; quelle ripetute annebbiano e dissipano l'attenzione dalle
principali: per lo contrario, se una sola sia 1 espressa, le altre analoghe
semplicemente destate, la quantità d'idee ed'impressione rinchiusa in una sola
espressione diviene più grande, e per conseguenza più piacevole, restando
picciola la insipida sensazione dell'udito l'occhio, che abbiamo tempo considerabile
esige le idee e dell'immaginazione: così veniamo ad ottenere un più
grand'effetto in più breve tempo; problema è solo l'oggetto de'meccanici,m a
della morale e della politica, anzi di tutta la filosofia e del visto che un a
che non to spese del necessa è necessaria l'espressione per
eccitare, ossia perchè la mente possa percorrere tutte queste differenti
progressioni d'idee. Sarà dunque eccellente la combinazione di quelle
accessorie colla principale, in cui tutte le accessorie espresse siano ca pi-pensieri,
e non molto analoghi ed associati tradi loro, e moltissimo colla principale per
una delle tre indicate sorgenti per cui le idee vicende volmente si legano. Una
riflessione soggiungo intorno al l'effetto delle idee espresse e taciute; cioè
che tra una espressione e l'altra, per i limiti e la debolezza de'sensi
esterni, tanto per mezzo dell'occhio quanto per mezzo dell'udito, corre un
picciolo intervallo di tempo e, per così dire, di silenzio e di riposo: se vi
sono idee desta te e non espresse, queste come lampi di mente riempiono questo
vuoto senza stan chezza; ma se tutte sono espresse, si moltiplicano i vuoti e
non si riempiono; il che porta diminuzione di piacere e stanchezza per
l'aumentata fatica delle espressioni da leggersi o da ascoltarsi. Quanto più
grandi epiù forti saranno le idee accessorie espresse, tanto più numerose pos
ono essere le idee taciute, ma riamente destate da quelle, perchè l'efficacia
delle prime tende e rinforza l'attenzione che con più rapidi voli slancia si ad
abbracciare le idee non espresse senza pregiudicare all'interesse del tutto, e
perchè espressioni più grandi e più forti fermano l'immaginazione di chi legge
o d'ascolta, essendo manifesta legge della mente nostra di trovarsi obbligata
ad impiegar un tempo maggiore nella considerazione delle idee a misura che sono
più grandi e più forti: onde per questo tempo necessario, per questa dimora,
per così dire, della mente su di un oggetto, quantunque egli medesimo per la
forza é grandezza sua esiga tutto questo tempo maggiore di attenzione, cio
nonostante la mente, dall'impeto concepito a percorrere una serie d'idee quasi
trattenuta, più facilmente potrà ricevere altre idee rapidamente risvegliate
all'occasione di espressioni forti ed energiche. Chi ben considera, e ritorna
sulla esperienza dell'animo suo, potrà facilmente scorgere che sempre che un
grande ed interessante o ggetto fermi il pensiero, e percuota improvvisamente
l' immaginazione, questa dopo considerato quell'oggetto, nell'atto che si
riscuote e si risveglia dall' inten sione nella quale trovavasi, per così dire,
attuatae raccolta, non si abbandona su bito all'ordinaria impressione delle
cose che le stanno d'attorno, ma sibbene de stasi in lei una moltitudine d'idee
tutte relative non solo a quella straordinaria impressione che l'ha percossa,
ma ancoraa se stessa, ed alle passioni dalle quali è dominata. È da ciò che i
boschi, nei cupi e vari ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le
solitudini antiche dei monti ove signoreggia illimitata la natura, che la vista
del mare che si allarga fra mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti
l'attonita immaginazione, som no ricercati da coloro che più amano di pascolare
i loro pensieri, ed esercitar l'animo liberamente e senza distrazioni dal la
considerazione di se medesimi; mentre coloro i quali odiano di rientrare in se
stessi, e cercano fuggire in certo modo e sottrarsi dal sincerissimo accusatore
pensiero, si gettano nel minuto e sempre u niforme vortice della vita comune,
gli oggetti della quale sono atti bensi a spin 51 ľ 1 gertato l'animo
fuori di se stesso in un continuo movimento, ma non a fermarlo, e renderlo
attonito e pensieroso. Per lo contrario, più picciole e più deboli saranno le
accessorie espresse; la scelta si farà su di quelle che ne risvegliano un minor
numero, perchè la differenza tra le une e le altre essendo minore, e sovente
più importanti e più forti potendo essere le destate che le espresse, si corre
rischio che le idee dell'autore siano perdute divista, e confuso ed interrotto
riesca l'effetto del tutto sopra le immaginazioni varie e non legate da
sufficientemente forti ed esterne sensibili manifestazioni. L e deboli
accessorie espresse, secondo abbiamo di mostrato, debbono essere molte, accioc
chè il numero compensi la debolezza; m a molte idee espresse occupano un tempo
ch' esclude molte idee taciute o sottinte se, altrimenti di troppo
allontaneremo il concepimento dell'idea principale. L e accessorie forti, per
una contraria ragio ne, debbono essere poche in ciascun m o mento d'impressione;
m a poche forti la scierebbero del vuoto negli intervalli n e cessari
dell'espressione,che da molte idee non espresse debb'essere supplito. Delle
idee espresse, e delle idee semplicemente suggerite. Un altra osservazione non
meno importante che generale è intorno al diverso *effetto* che una
idea *accessoria* puo produrre quando è *espressa* col termino
corrispondente, o quando è *semplicemente suggerita o *destata* nell'animo
di chi ascolta. Espressa nuocerebbero al fascio intero della sensaziona; destata
solamente lo giove, non solo perchè la picciola fatica che facciamo e
l'applauso interno del nostro ritrovato ci rinfranca l'attenzione sul restante,
ma molto più perchè è legge della nostra sensibilità che tutt'altra forza ha la
idea espressa e la idea taciuta, e tutt'altra attenzione esigono da noi quella
le che questa. Ora l'attenzione è tanto più lunga o più frequente,
tanto più si nuocono tra di se, e scema l'attenzione al tutto. Mentre per lo
contrario quei lampi, rapidi e passeggieri di attenzione che balenano, in noi
per la idea espressa, e confusa per il *tutto* e debolissima è la
percezione della *parte* o solamente ad alcune noi faremo idea accessoria e non
espressa, accrescono della sensazioni senza nuocere all'attenzione ed all'energia
del tutto. Abbiamo semplicemente il numero dimostrato che la quantità
d'impressione momentanee non deve eccedere che *tre o quattro* sensazioni
ordinarie, perchè per tante e non più la mente umana è capace di una simultanea
attenzione. La vivacità dell'oggetto presenti non le concede una maggior
ampiezza ed una maggiore comprensibilità. Nella cosa ascoltate, in luogo della
vivacità e della realità che è nell'oggetto quando è presente, vi è la vivacità
e la realità dell'*espressione* se noi dunque volessimo l'accessoria, che si
tacce, esprimere, veremmo ad offendere quella legge determina e limita la
quantità d'impressioni simultanee, oltre la quale, o lo sforzo del recipiente
si porterà su destate che le attenzione, cioè solamente di alcune l'immagine
corrispondente all'espresione si risveglie nella mente, ed allora le altre
espressioni rimaneno insignificanti. Se dunque un'espressione racchiude nel suo
concetto o senso molte sensazioni -- come 'spada', 'esercito', o'nave' --
cosicchè la mente dall'espressione medesima non sia determinata a considerar
più l'una che l'altra delle sensazioni componenti e l'interruzione al *senso*
della profferenza, e distruggeranno l'effetto delle altre espressione in vece
di aumentarlo. , faranno in suc, ma sibbene sia piuttosto sforzata a
considerarle tutte le sensazioni in una volta, accade che, condensando
l'espressione intorno ad un'idea *principale*, vi è un'idea
accessoria soltanto unita e destinata ad aggiunger forza alla idea principale,
ma invece un molto maggior numero, quante sono le sensazioni egualmente
comprese sotto l'espressione 'spada', o 'esercito' o 'nave'. Le varie
sensazioni, non essendo più immediatamente le une che le altre suggerite,
concorrono contemporaneamente ad associarsi coll'idea principale. Onde l'effetto
reale che ne cede si è, che la fantasia nostra resta distratta é *confusa*. Per
lo contrario, se invece dell'espressione 'spada', o 'esercito', o 'nave', si
dicesse 'ferro', o 'soldato', o 'vele', e che questa espressione si condensa
attorno ad un'idea principale per formarne un senso, si osserva che la sola
nozione e precisa sensaziona compressa nel proprio significato dell'espressione
'ferro', o 'soldato' o 'vele', si quelle ogni sono che immediatamente, e prima
di altra, si risvegliano nella fantasia -- è quella che
immediatamente si une coll'idea principale. Ma per forza di onde associazione
non tra lascerà l'espressione 'ferro' di suggerire rapidamente altre sensazioni
comprese sotto l'espressione 'spada'; quella di 'soldato', quelle di 'esercito';
quella di 'vele', quelle di 'navi'. Ma essendo priopiamente questa o quella
sensazione *suggerita* propriamente, associata coll'espressione 'ferro' o
'soldato' o 'vele', ma colla idea che nuocere all'idea principale così
facilmente. Ecco chiaramente spiegato ciò che io intendo per una *idea
suggerita* e per una *idea espressa*, mentre però tutta questa
teoria è resa più evidente nel nome o espressione speciale,
l'appellativo, e nel traslato. E de sta que immediatamente risvegliano, non
pos. Un'*idea semplicemente suggerita* non entra nella sintassi o forma logica
della proposizione, la quale regge senza di quella. Non sono non. Quando
Virgilio fa dire à Didone: 'Dulces exuviae dum futa, Deusque sinebant, accipite
hanc animam, me que his exolvit e curis" -- quanta folla d'idee si
risveglia in chi ascolta quelle sole espressioni, in quella occasione dette,
'dulces exuviae'. La sintassi latina regge senza che si risveglino quest'idea
semplicemente suggerita, onde la mente non trovasi affaccendata a raccapezzare
un *senso complicato* e in molte parti diviso e coll'accennar sol tanto la
spada di Enea sotto l'espressione di una spoglia, cioè di una cosa da lui
portata e da lui ricevuta in dono, quanto teneri e contrastanti sentimenti non
ci sentiamo fremere interiormente! Egli è evidente che una medesima idea
per intervalli di tempo più lunga occupa la mente se è espressa, di
quell'idea che se è taciuta, per chè un maggior tempo si consuma
nella percezione dell'espressione, per la durata della quale si continua la
presenza dell'idea corrispondente di quello che sia con durevoli nella mente
quanto le idee che eccitate sono dall'espressione *immediatamente*, quantunque
come le altre, alla occasione di quelle, si risveglino; onde con minore
dispendio di tempo e di forze si ottiene un più grande effetto. a rendere
più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali, il che
renderebbe annoiante e faticoso il netto coucepimento del *tutto*, oppure
essunto nella rapida ed affollate imagini che per forza di associazione si
eccitano reciprocamente. Tanto è ciò vero, che non è inutile il qui
osservare che un'espressione E1 non e preferibili ad altr'espressione E2, se
non appunto perchè la sensazione auditiva o dell'espressione è materialmente
più dell' altra. È più bella e più nobile pressione l'espressione 'cocchio' (o
'se p, q') dell'espressione 'carrozza' (o 'p o non q') non per l'azzardo
capriccioso dell'esser meno comune ed avilita epressione, giacchè tant'altra
che nella bocca di tutti è continuamente. Cio nonostante nè si
rigettano, nè per meno bella è riputata, ma soltanto perchè è
espressione più breve e l'idea da un più rapido segno è rappresentata. Onde si
ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e di tempo. Ora se l'idee
taciuta divienne espressa, noi verremmo la mente nostra dividerebbe in più
tempi ciò che per l'unità dell'*idea principale* dovrebbe essere rinchiuso in
un solo; il che rendendo l'idea accessoria una idea principale, pro la durrebbe
e *confusione* nella chiarezza, e noia nelle unioni diseguali e sproporzionate
dell'idea fatta nella mente nostra. Tanto è vero che il tempo, che altro non è
per noi che la successione delle idee degli esseri sensibili, è una quantità
alla quale non la scienza del moto solamente, ma le scienze tutte e le belle ti
e la politica debbono aver considerazione. Perchè la più fina e la più sottile
ed interiore, egualmente che la più complicata e più grossolana ed esteriore
operazioni dell'intelletto sotto l'inesorabile suo dominio si fanno e si
manifestano. Fra l'idea accessoria che si presenta, quali sceglieremo per
essere espressa, quali sceglieeremo per essere *semplicemente destata*? In
primo luogo, tra una accessoria analoga e moltissimo simile e che si risveglia
reciprocamente ed infallibilmente l'una l'altra, *una sola* sarà l'espressa
(l'acqua liquida), l'altra *semplicemente* taciuta. Perchè se
'liquida' è espressa, ciascheduna espressione replicando
l'idea è superfluità e ridondanza che fastidio produrrebbe e
stanchezza, e di spendio di tempo. La ripetizione di una idea accessoria non
produce lo stesso. Tra l'*idea accessoria* è , oltre l'analoga,
quelle che è più distante (disparata), ciascheduna delle quali ha la
sua rispettiva simile ed associata (acqua liquida, bambino non-adulto). Di
questa ognuna apre la mente del co-conversatore ad una serie d'impressioni,
e è direi quasi capi-idea e capi-pensiero. Questa è l'idea
accessoria *espressa*, perchè non si desta reciprocamente, ed effetto della
ripetizione dell'idea principale ('bambino'). Questa si rinfranca come tale
nella mente, e divienne perciò come un centro di luce che il *tutto* ('il
bambino è un'adulto') riscalda e rischiara. Quella (non-adulto)
ripetuta annebbia e dissipa l'attenzione dall'idea principale ('bambino'). Per lo
contrario, se una sola sia l'idea espressa, le altr'analoga *semplicemente
destata*, la quantità dell'idea e dell'impressione rinchiusa in una *sola*
espressione ('bambino' = umano non adulto) diviene più grande, e per
conseguenza più piacevole, restando picciola la insipida sensazione dell'udito,
che abbiamo tempo considerabile esige le idee e dell'immaginazione. Così
veniamo ad ottenere un più grand'effetto in più breve tempo; Questo problema
non è solo l'oggetto de'meccanici, ma della morale e della politica, anzi di tutta
la filosofia! Abbaimo visto che un a che non to spese del necessa è
necessaria l'*espressione* per *eccitare* (o comunicare), ossia perchè la mente
possa percorrere la progressione dell'idea del discorso. Sarà dunque eccellente
la combinazione di quell'idea accessoria coll'idea principale, in cui l'
accessorie espresse siano capi-pensieri ('ha una calligrafia bellissima') e
*non* molto analoga ed associata e moltissimo coll'idea principale ('è un
pessimo filosofo') per una delle ndicate sorgenti per cui le idee vicende
volmente si legano. Una riflessione soggiungo intorno al l'effetto dell'idea
espresse e dell'idea taciuta. Tra una espressione E1 e l'altra, E2, per i
limiti e la debolezza de' sensi esterni, tanto per mezzo dell'udito, corre un
picciolo intervallo di tempo e, per così dire, di silenzio e di riposo. Se
vi è idea semplicemente destata e non espressa, questa come
lampi di mente riempiono questo vuoto senza stanchezza. Ma se
l'idea è espressa, si moltiplicano i vuoti e non si riempiono; il che
porta diminuzione di piacere e stanchezza per l'aumentata fatica dalla quantita
d'informazione dell'espressione totale (ill moto conversazionale) da
interpretare. Quanto più grande e più *forte* ('bella
calligrafia) è l'idea accessoria espressa, tanto più numerosa
puo essere l'idea semplicemente taciute, ma riamente destata da quelle, perchè
l'efficacia dell'idea espressa tende e rinforza l'attenzione che con più rapidi
voli slancia si ad abbracciare l'idea non espressa ('è un pessimo filosofo') senza
pregiudicare all'interesse dell'espressione totale, e perchè l'espressione più
grande e più forte ferma l'immaginazione del co-discorsante, essendo manifesta
legge della mente nostra di trovarsi obbligata ad impiegar un tempo maggiore
nella considerazione di una idea ('è un pessimo filosofo?') a misura
che è più grande e più forte. Onde per questo tempo necessario,
per questa dimora di processamento, per così dire, della mente su di un
oggetto, quantunque egli medesimo per la forza e grandezza sua esiga tutto
questo tempo maggiore di attenzione, cio nonostante la mente, dall'impeto
concepito a percorrere un'idea quasi trattenuta, più facilmente puo ricevere
altr'idea rapidamente risvegliata all'occasione di una espressione forte ed
energica ('Ha bella calligrafia'). Chi ben considera, e ritorna sulla
esperienza dell'animo suo, puo facilmente scorgere che sempre che un grande ed
interessante oggetto fermi il pensiero, e percuota improvvisamente l'
immaginazione, questa dopo considerato quell'oggetto, nell'atto che si riscuote
e si risveglia dall' intensione nella quale trovavasi, per così dire, attuata e
raccolta, non si abbandona subito all'ordinaria impressione delle cose che le
stanno d'attorno, ma sibbene destasa in lei un'idea relativa non solo a quella
straordinaria impressione che l'ha percossa, ma ancora a se stessa, ed alla
passione dalla quale è dominata. È da ciò che i boschi, nei cupi e vari
ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le solitudini antiche dei monti
ove signoreggia illimitata la natura, che la vista del mare che si allarga fra
mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti l'attonita immaginazione, sono
ricercati da coloro che più amano di pascolare i loro pensieri, ed esercitar
l'animo liberamente e senza distrazioni dal la considerazione di se medesimi.
Mentre chi odia di rientrare in se stessi, e cerca fuggire in certo modo e
sottrarsi dal sincerissimo accusatore pensiero, si getta nel minuto e sempre u
niforme vortice della vita comune, gli oggetti della quale sono atti bensi a
spingertato l'animo fuori di se stesso in un continuo movimento, ma non a
fermarlo, e renderlo attonito e pensieroso. Per lo contrario, più picciola e
più debole è l'idea accessoria espressa. La scelta si farà su
di quelle che ne risvegliano un minor numero, perchè la differenza, essendo
minore, e sovente più importanti e più *forti* potendo essere l'idea destata
che l'idea espressa, si corre rischio che le idea, intenzione, significato
dell'autore è perduto (involontariamente) di vista, e confuso ed interrotto
riesca l'effetto del tutto o l'espressione totale sopra l'immaginazione non
legata da sufficientemente forte ed esterne sensibile manifestazione
('-- è un pessimo filosofo'). L'idea debola accessoria espressa
debbe essere molte, acciocchè il numero compensi la debolezza. Ma un'idea
espressa ('bambino) occupa un tempo ch'*esclude* un'idea taciuta o sottintesa
('non-adulto'), altrimenti di troppo allontaneremo il concepimento di un'idea
principale. L'idea accessoria forte, per una contraria ragione, debbe essere
minima in ciascun momento d'impressione. Ma poche forti la scierebbero del
vuoto negli intervalli n e cessari dell'espressione,che da molte idee non
espresse debb'essere supplito. Dello espresso e dello semplicemente suggerito, un’osservazione
non meno importante che generale è intorno al diverso effetto che una
proposizione, non principale, ma *accessoria*, puo produrre quando
*espressa* o quando è semplicemente suggerita dal conversatore,
o destata nell'animo di chi con che conversa. Espressa nuocerebbero al fascio
intero della sensazione; destata solamente lo giove, non solo perchè la
picciola fatica che facciamo e 1'applauso interno del nostro ritrovato ci
rinfrancano l'attenzione sul restante, ma molto più perche è legge della nostra
sensibilità che tutt’altra forza ha una proposizione espressa e una
proposizione taciuta o semplicemente suggerita, e tutt’ altra attenzione
esigono da noi conversatori civile quella che questa. Ora
l'attenzione è tanto più lunga o più frequente, tanto più si nuoce
tra di se , e scema l’attenzione al tutto comunicato; mentre per lo contrario
quei lampi rapidi e passaggeri d'attenzione, che balenano bruci per la
proposizione accessoria *semplicemente suggerita* o destata e *non* espressa,
accresce il numero di sensazione senza nuocere all’attenzióne ed all'energia
del tutto comunicato. La quantità d’impressione momentanea non deve eccedere
che tre o quattro sensazioni ordinarie, perchè per tante, e non più, la mente
umana è capace di una simultanea attenzione. La vivacità di un oggett presente
-- la spada di Enea -- non le concedono ima maggior ampiezza ed una maggiore
comprensibilità . Nell'espresso, in luogo della vivacità e della realità che è
nell'oggetto quando è presente, vi è la vivacità e la realità della
*espressione* che representa (di modo iconico o altro) la spada d'Enea. Se noi
dunque volessimo la proposizione accessoria che si taccie esprimere verressimo
ad offendere quella legge che determina e limita la quantità d'impressioni
simultanee, oltre la quale, o lo sforzo d'interpretazione si porterà su il
tutto communicato (espresso e semplicemente suggerito) e confusa per il tutto e
debolissima sarà la percezione delle due parti (l'espresso e lo semplicementee
suggerito) o solamente ad alcune , noi faremo attenzione cioè solamente di
alcune 1'immagine o concetto o segnato o significato o senso corrispondente
all'espressione si risveglie nella mente, ed allora un altr'espressione
rimanendo *insignificanti* o superflua, fa inter- ruzione al senso della
proposizione comunicata , e distrugge l'effetto delle altre in vece di
aumentarlo . Se dunque una proposizione espressa racchiude nel suo concetto
molte e varie sensazioni, come "Questa spada e bella",
"L'esercito e bravo", "La nave va," ec. , cosicché la mente
dalla proposizione espressa medesima noù sia determinata a considerar più l'una
che 1'altra delle sensazioni componenti ma sibbene sia piuttosto sforzata a
considerarle tutte in una volta accaderà che condensando due o tre di queste
proposizioni intorno ad un proposizione *principale*, vi saranno non due o tre
proposizioni accessorie soltanto unite e destinate ad aggiunger forza alla
proposizione principale, ma invece un molto maggior numero quante saranno le
sensazioni egualmente comprese sotto la proposizione espressa, "La spada e
bella", "L'esercito e bravo," "La nave va", e tutte
queste varie e uumerose sensazioni, non essendo più immediatamente le uno che
le altre suggerito, tutte concorirono contemporaneamente ad associarsi colla
proposizione principale; onde l'effetto reale che ne succede è , che la
fantasia di nostro conversatore resta distratta e confusa. Per lo contrario, se
invece della proposizione "La spada e bela", "L'esercito e
bravo", "La nave ve", spa* da si dicesse "Il ferro e formidable",
"Il soldato e bravo", "Le vele va", e che questi
proposizioni si condensassero attorno ad una proposizione principale per
formarne il senso complesso, si osservi che le tre sole nozioni e precise
sensazioni comprese nel proprio significato o senso delle tre suddette
proposizione espresse piu specifica sono quelle che immediatamente e, prima d’
ogn’ altra si risvegliano nella fantasia. Onde saranno quelle che
immediatamente si uniranno colla principale. Ma per forza di associazione non
tralascerà la parola di fer- ro di suggerire rapidamente le altre sensazioni
comprese sotto la parola spada quella di soldato quelle di ;, esercito quella
di vele quelle di navi. ;, Ma non essendo queste sensazioni sug- gerite
propriamente associate colie parole ferro , soldato e vele , ma Con le idee che
queste immediatamen- te risvegliano non possono nuocere , alla principale così
facilmente. Ecco chiaramente spiegato ciò che io in- tendo per idee suggerite e
per idee * espresse , mentre però tutta questa teoria sarà resa più evidente
dopo ‘ che nel progresso io avrò parlato de’ nomi speciali ed appellativi , e
de’ traslati. Ee idee semplicemente, suggerite Digitj^ed by Google
3o non entrano nella sintassi della pro- posizione la quale regge senza
di , quelle: non sono durevoli nella mente quanto le idee che eccitate sono
dal- le parole immediatamente, quantun- que come le altre alla occasione di
quelle si risveglino ; onde con mino- re dispendio di tempo e di forze si
ottiene uu più grande effetto. Quan- do Virgilio fa dire a Didone : Dulces
exuviae dum fata, Deusque sinebant, Accipite hanc animam, meque his exolvite
curi», quanta folla d’idee si risveglia in citi legge quelle sole parole, in
quella oc- casione dette, dulces exuviaes la sin- tassi regge senza che si
risveglino queste idee , onde la mente non tro- vasi affacceudata a
raccapezzare un senso complicato e in molte parti diviso; e coll* accennar
soltanto la spada di Enea sotto il nome di una spoglia , cioè di una cosa da
lui por- tata e da lui ricevuta in dono quan- , to teneri e contrastanti
sentimenti noa ci sentiamo fremere interiormente! Egli è evidente che una
medesi- ma serie d’idee per intervalli di tem- po più lunghi occupa la menta se
siano espresse, di quello che se siane taciute perchè un maggior tempo ,
$T si cotìsuma nella percezione della pa- rola per la durata della quale
si con- tinua la presenza deir idea corrispon- dente di quello che sia consunto
, nella rapida ed affollata successione d* immagini che per forza di associa- zione
si eccitano reciprocamente. Tan- to è ciò vero, che non sarà inutile il qui
osservare ohe molte espressioni non sono preferibili alle altre appunto perchè
la sensazione auditiva o visibile della parola è materialmen- te più breve
dell’ altra . E* più bella e più nobile espressione la parola cocchio della
parola carrozza non per l’azzardo capriccioso dell’ esser meno comune ed
invilita espressione, giac- ché tant’ altre che nelle bocche di tutti sieno
contiuuamente cionono- ; stante nè si rigettano nè per meno belle son riputate,
ma soltanto perchè è parola più breve, e l’idea da un più rapido segno è
rappresentata; onde si ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e di
tempo Ora se le idee taciute fossero tutte espresse, noi verressimo a rendere
più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali il che rende- ,
rebbe annojaote e faticoso il netto , se non . Digitized by Google
Sa concepimento del tutto, oppure fa mente nostra dividerebbe in più tem-
pi ciò che per 1’ unità dell’ idea prin- cipale dorrebbe essere rinchiuso in un
solo ; il che rendendo 1* accessorio principale, produrrebbe e confusione nella
chiarezza , e noja nelle unioni diseguali e sproporzionate d’ idee fatte nella
mente nostra . Tanto è vero che il tempo (che altro non è per noi che la
successione delle idee degli es- è una quantità alla qua- le non la scienza del
moto solamente, ma le scienze tutte e le belle arti e la politica debbono aver
considera- zione perchè tutte le più fine e le ; più sottili ed interiori
egualmente , che le più complicate e più grossola- ne ed esteriori operazioni
dell’ intel- letto, sotto l’ inesorabile suo dominio si fanno e si manifestano
. Fra la moltitudine delle idee accessorie che si presentano , quali
sceglieremo per essere espresse, quali serberemo per essere semplicemente
destate? In primo luogo tra molte accessorie analoghe e moltissimo simili fra
di loro , e che si risvegliano reci- procamente ed infallibilmeute l* una l’
altra uua sola sarà 1’ espressa > le y peri sensibili ) Digitized by
Google 33 altre taciute perchè se tutte fossero ; espresse , ciascheduna
espressione re- plicando le idee di tutte le altre , vi sarebbe superfluità e
ridondanza che , fastidio produrrebbe e stanchezza e dispendio di tempo . La
ripetizione delle idee accessorie non produce lo stesso effetto della
ripetizione delle idee principali queste si rinfrancano ; come tali nella
mente, e divengono perciò come un centro di luce che il tutto riscalda e
rischiara quelle ri- ; petute annebbiano e dissipano 1’ atten- zione dalle
principali : per lo contra- rio se una sola sia 1* espressa le al- ,, tre
analoghe semplicemente destate , la quantità d’ idea e d’ impressione rinchiusa
in una sola espressione di- viene più grande, e per* conseguenza più piacevole
restando picciola la , insipida sensazione dell’ udito e dell* occhio che
abbiamo visto che uu , tempo considerabile esige a spese delle idee e dell’
immaginazione : così ve- niamo ad ottenere un più grand’ effet- to in più breve
tempo problema che ; nonè solo l’oggetto de’meccanici ma della morale e della
politica anzi , di tutta la filosofia. lu secondo luogo , tra la molti- ,
, 34 tuaine dell© idee accessorie vi saran- no, oltre le analoghe,
quelle che sodo più distanti, ciascheduna delle quali avrà le sue rispettive
simili ed asso- ciate; di queste ognuna apre la meu- te ad una serie
d’impressioni, e sono direi quasi capi-idee e capi-pensieri; queste saranno l’
espresse perchè non , si destano reciprocamente ed è ne- , cessaria F
espressione per eccitare ossia perchè la mente possa percorre- re tutte queste
differenti progressioni d’ idee . Sarà dunque eccellente la combinazione di
quelle accessorie col- la principale in cui tutte le accesso- rie espresse
siano capi-pensieri, e non molto analoghi od associati tra di loro , e
moltissimo colla principale per una delle tre indicate sorgenti per cui le idee
vicendevolmente si legano . Una riflessione soggiungo intorno all* effetto
delle idee espresse e ta- ciute ; cioè che tra una espressione e F altra, per i
limiti e la debolezza de’ sensi esterni, tanto per mezzo del- F occhio quanto
per mezzo del- F udito , corre un piccolo interval- lo di tempo e, per così
dire, di silenzio e di riposo se vi sono idee ; 35 queste come
lampi di mente riempiono questo vo- to senza stanchezza; ma se tutte sono
espresse , moltiplioano i voti e non si riempiono il che porta diminuzio-
mentata fatica delle espressioni da leg- gersi o da ascoltarsi. Quanto più
gran* di e più forti saranno le idee acces- sorie espresse tanto più numerose ,
destate e non espresse , ; ne di piacere e stanchezza per 1* au. possono essere
le idee taciute , ma necessariamente destate da quelle , perchè l* efficacia
delle prime tende e rinforza 1* attenzione che con più rapidi voli slanciasi ad
abbracciare le idee non espresse senza pregiudica- re all* interesse del tutto
, e perchè espressioni più grandi e più forti fer- mano T immaginazione di chi
legge od ascolta, essendo manifesta legge della mente nostra di trovarsi obbli-
gata ad impiegar un tempo maggiore nella considerazione delle idee a mi- sura
che sono più grandi e più forti: onde per questo tempo necessario, per questa
dimora per così dire della ,, mente su di un oggetto quantunque , egli medesimo
per la forza e gran- dezza sua esiga tutto questo tempo maggiore di attenzione
ciononostan- , Digitized by Google 36 te la mente, dall’impeto
concepito * percorrere una serie d’ idee quasi trat- tenuta più facilmente
potrà ricevere , altre idee rapidamente risvegliate al- P occasione di
espressioni forti ed energiche : chi ben considera torna sulla esperienza dell*
animo suo» potrà facilmente scorgere che sempro che un grande ed interessante
oggetto fermi il pensiero, e percuota improv- visamente P immaginazione, questa
do- po considerato quell’oggetto, nell’at- to che si riscuote e si risveglia
dal- Pintensione nella quale trovavasi, per così dire , attuata e raccolta non
si , abbandona subito all’ordinaria impres- sione delle cose che le stanno d’
at- torno ma sibbene destasi in lei una , moltitudine d’idee tutte relative non
solo a quella straordinaria impressio- ne che P ha percossa ma ancora a , , ed
alle passioui dalle quali se stessa è dominata. E’ da ciò che i boschi nei cupi
e varj ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le solitudini an- tiche de’
monti ove signoreggia illi- mitata la natura che la vista del , mare che si
allarga fra mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti P attonita
immaginazione, sono ricer- , e ri- Digifeed by Google cati da
coloro che piu amano di pa- scolare i loro pensieri, ed esercitar P animo
liberamente e senza distra- - zioni dalla considerazione di se me- desimi;
mentre coloro i quali odiano • di rientrare in se stessi, e cercano fuggire in
certo modo e sottrarsi dal sincerissimo accusatore pensiero si , gettano nel
minuto e sempre unifor- me vortice della vita comune, gli og- getti della quale
sono atti bensì a spioger l’animo fuori di se stesso in un coutinuo movimento,
ma non a fermarlo , e renderlo attonito e pen- sieroso. Per lo contrario, più
piccio- le e più deboli saranno le accessorie espresse , la scelta si farà su
di quel- le che ne risvegliano un minor nu- mero, perchè la differenza tra le
mie e le altre essendo minore, e sovente piu importanti e più forti potendo
essere le destate che P espresse si , corre rischio che le idee dell’ autore
siano perdute di vista e confuso ed , interrotto riesca l’effetto del tutto
sopra le immaginazioni varie e non legate da sufficientemente forti ed esterno
sensibili manifestazioni . Le deboli accessorie espresse, secondo ab- biamo
dimostrato debbono essere , Digitized by Google 38 molte ,
acciocché il numero compenti la debolezza ; ma molte idee espresse occupano un
tempo eh* esclude molte idee taciute o sottintese , altrimenti di troppo
alloutaneressimo il conce- pimento dell’ idea principale. Le ac- cessorie forti
, per una contraria ra- gione debbono essere poche in cia- , scun momento
d’impressione; ma po- che forti lascierebbero del voto ne- gl* intervalli
necessarj dell* espressione che da molte idee non espresse deb- b’essere
supplito. Cesare Beccaria. Keywords.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Beccaria” – The Swimming-Pool Library.
Becchi (Genova). Grice:
“Becchi is pretty controversial; a good reason why he is not invited to the New
World for “Italian Studies”! – My favourite is his tract mocking Umberto Eco’s
“Il pnedolo di Foucault,” “L’incubo di Foucault”! – But Becchi is a
jurisprudential philosopher like Hart, and perhaps more than Hart did, knows
what’s he’s doing! -- Paolo Becchi -- Paolo
Aureliano Becchi (Genova), filosofo. Laureato
in filosofia, si è poi trasferito in Germania dove ha collaborato come
assistente alla cattedra di Filosofia e Sociologia del Diritto della Facoltà di
Giurisprudenza dell'Università del Saarland, e in seguito come borsista per il
Deutscher Akademischer Austauschdienst (DAAD). Attualmente è Professore di
Filosofia del Diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Genova. Inoltre
fino al è stato professore presso
l'Lucerna. Ha prodotto circa 200 pubblicazioni su temi concernenti la filosofia
del diritto, la storia della cultura giuridica e la bioetica. Nel si
avvicina al Movimento 5 Stelle, venendo definito dalla stampa l’“ideologo del
movimento” ma a gennaio del lo abbandona
criticandolo duramente e scrivendo ad aprile il libro Cinquestelle &
Associati. Di recente ha focalizzato il discorso politico sulla categoria del
sovranismo ed in particolare sul concetto di sovranismo debole, detto
althusiano; coniugando così, istanze federaliste e sovraniste in linea con la Lega
di Matteo Salvini. I suoi interventi di
natura politica sono raccolti nel suo blog. Fino alla metà del era noto al pubblico del piccolo schermo per
le interviste e i talk show in cui dibatteva.
È attualmente editorialista di Libero e de Il Sole 24 ORE, oltre ad
avere un blog sul sito de Il Fatto Quotidiano. Altre opere: “Morte cerebrale e
trapianto di organi. Una questione di etica giuridica” (Morcelliana); “Quando
finisce la vita. La morale e il diritto di fronte alla morte” (Aracne); “Giuristi
e prìncipi. Alle origini del diritto moderno” (Aracne); “Il principio dignità
umana” (Morcelliana), “Nuovi scritti corsari (Adagio Editore); “I figli delle
stelle. L'Italia in moVimento” (Adagio); “Colpo di Stato permanente”
(Marsilio); “Apocalypse Euro” (Arianna); “Oltre l'Euro” (Arianna); “Napolitano,
re nella Repubblica. Per una messa in stato d’accusa (Mimesis): “Cinquestelle
& Associati. Il MoVimento dopo Grillo (Kaos); “Referendum costituzionale.
Sì o no. Le ragioni per il no e il testo della «controriforma» (Arianna); “Come
finisce una democrazia. I sistemi elettorali dal dopoguerra ad oggi (Arianna);
“Italia sovrana (Sperling & Kupfer); “Democrazia in quarantena. Come un
virus ha travolto il Paese” (Historica) Note Biografia sul sito Genova Archiviato il 19
marzo in . M5S, Grillo scomunica (di nuovo) Becchi: “Non
ci rappresenta”. Lui: “Tolgo il disturbo”, ilfattoquotidiano, Perché dico addio al Movimento 5 Stelle. Parla
Paolo Becchi, formiche.net, 5 gennaio .
M5S, Becchi lascia il Movimento: “È diventato partito stampella di
Renzi. È finito il sogno”, ilfattoquotidiano, 5 gennaio . 9 gennaio . Per un’idea ‘federativa’ di Stato nazionale,
in "ParadoXa", anno XI, n. 2, aprile-giugno , 157-169.
Skytg24, Becchi: “Repubblica? Il giornale dell’orfano”. Bellasio lascia
lo studio. La redazione della tv si scusa con Calabresi, ilfattoquotidiano, 7
giugno . 9 gennaio . Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Paolo
Becchi Blog ufficiale, su
paolobecchi.wordpress.com. Opere di Paolo Becchi, . Registrazioni di Paolo Becchi, su
RadioRadicale, Radio Radicale. Filosofia
Politica Politica Filosofo del XXI
secoloAccademici italiani del XXI secoloBlogger italiani 1955 16 giugno
GenovaProfessori dell'LucernaProfessori dell'Università degli Studi di Genova.
Paolo Aureliano Becchi. Paolo Becchi. Keywords: filosofia politica, dignita,
soveranita, giurisprudenza, filosofia della giurisprudenza, repubblica. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Becchi” – The Swimming-Pool Library.
Bedeschi (Alphonsine).
Grice: “You gotta love Bedeschi – at Oxford Jurisprudence is not considered
Philosophy, but in Italy, ‘filosofia politica’ is at the centre of it all – and
Bedeschi knows it – this is because Italians take Hegel seriously with his
‘dialectic;’ and while I did speak profusely of the Athenian versus the Oxonian
dialectic or dialexis, I skipped the Hegelian dialectic! Bedeschi doesn’t – and
Hegel leads to the reset of it!” -- Giuseppe
Bedeschi (Alfonsine), filosofo. Docente di storia della filosofia
all'Università La Sapienza di Roma, ha insegnato all'Cagliari e all'Istituto
Universitario Orientale di Napoli. Studioso di Hegel e del marxismo, ha
approfondito in seguito la storia del pensiero liberale. Caporedattore
dell'Enciclopedia del Novecento, direttore dell'Enciclopedia delle scienze
sociali e dell'Enciclopedia dei Ragazzi, è membro del comitato scientifico
della rivista "Nuova storia contemporanea" e collabora al supplemento
domenicale de Il Sole 24 ORE. Altre
opere: “Alienazione e feticismo nel pensiero di Marx” (Bari, Laterza); “Introduzione
a Lukacs” (Bari, Laterza); “Politica e storia in Hegel” (Roma-Bari, Laterza); “Introduzione
a Marx” (Roma-Bari, Laterza); “La parabola del marxismo in Italia” (Roma-Bari,
Laterza); “Introduzione a La scuola di Francoforte
(Roma-Bari, Laterza); “Storia del
pensiero liberale” (Roma-Bari, Laterza); “Il pensiero politico di Hegel”
(Roma-Bari, Laterza); “Il pensiero politico di Tocqueville” (Roma-Bari,
Laterza); “La fabbrica delle ideologie: il pensiero politico nell'Italia del
Novecento” (Roma-Bari, Laterza); “Liberalismo vero e falso, Firenze, Le
lettere); “Il rifiuto della modernita: saggio su Jean-Jacques Rousseau”
(Firenze, Le lettere); “La prima Repubblica (1946-1993). Storia di una
democrazia difficile” (Soveria Mannelli, Rubbettino, Opere di Giuseppe Bedeschi, . Giuseppe
Bedeschi, su Goodreads. Registrazioni di
Giuseppe Bedeschi, su RadioRadicale, Radio Radicale. Profilo su RAI Educational, su emsf.rai. 16
marzo 21 dicembre ). Giuseppe Bedeschi
sul RAI Filosofia, su filosofia.rai. Filosofi
italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1939d Alfonsine. Giuseppe
Bedeschi. Keywords: la parabola del Marxism in Italia, liberalismo,
conservatorismo, italia, fabbrica di ideologie”, sulla parte conservatrice, I
conservatori in italia, Scruton, ‘conservatismo’, nel dizionario di politica
del partito, la dialettica hegeliana, dialettica, dialexis. The two references
‘Sulla parte conservatrice’ and ‘I conservatori’ given in that entry, studio
della ideologia nell’italia del Novecento, Giuliani, prima guerra, veintenna. Refs.:
Luigi Speranza, “Bedeschi e Grice” – The Swimming-Pool Library.
Belleo. search –
Bedoni. search – Belloni, Camillo --
Belluto (Catania).
Filosofo. Grice: “You gotta love Belluto; he shows that the philosopher is the
master of grammar – his explanation of modi of the different ‘perfect’ orations—is
genial and exactly what I tried to convey in my lectures on ‘mode’: vocativo,
imperativo, optativo, indicativo – That this belongs in dialettica is obvious –
since all modi share the same logic, and that’s Belluto’s point!” -- Bonaventura Belluto, o Belluti (n. Catania), filosofo. Nato da distinta e facoltosa famiglia, studiò
diritto civile all'Catania. Entrato nell'Ordine dei Frati Minori Conventuali
nel 1621, emise la professione religiosa l'anno successivo. A Roma studiò
teologia presso il Collegio sistino di San Bonaventura dove conobbe il
confratello Bartolomeo Mastri di Meldola del quale divenne compagno
indivisibile di studio e di lavoro come reggente degli studi prima al convento
di Cesena, quindi a Perugia e poi a Padova. Durante questo periodo, entrambi
operarono per il rinnovamento della tradizione e per una nuova interpretazione
della dottrina scotista tale da soddisfare la nuova cultura religiosa
dell'epoca. Pubblica a Roma con la
collaborazione di Bartolomeo Mastri il primo volume di filosofia scolastica,
dal titolo “Disputationes in Aristotelis libros physicorum, quibus ab
adversantibus... Scoti philosophia vindicator” che ha il fine di essere diffuso
nelle scuole francescane per far conoscere la filosofia di Scoto difendendola
dalle critiche d’Aquino i e dai travisamenti operati da altri interpreti tra i
quali i gesuiti. Successivamente pubblica
un piccolo trattato di logica, “Institutiones logicae, quae vulgo Summulas, vel
logicam parvam nuncuparunt” (Venezia) . Ad opera dei due filosofi fu pubblicato
un “Cursus integer philosophiae ad mentem Scoti” che riune le “Disputationes”, le “Disputationes in libros de coelo et de
metheoris”, le “Disputationes in libros de generatione et corruptione” e le “Disputationes
in libros de anima”. Il “Cursus” e un'opera, con fini esclusivamente didattici
e divulgativi del pensiero scotista, dove manca ogni riferimento alla cultura
filosofica e scientifica contemporanea. Alla fine della comune reggenza a
Padova i due filosofi si separarono. Belluto torna a Catania dove fu ministro
provinciale di Sicilia e di Malta, distinguendosi per intelligenza e saggezza
di governo. In questo periodo esercita anche la carica di consultore e censore
per l'Inquisizione. Nell'ambito del piano di rinnovamento del pensiero di Scoto
oltre all'insegnamento della sua filosofia i due filosofi progettarono un corso
di teologia che Mastri sviluppa con il trattato D”e Deo in se” mentre Belluto
continua l'elaborazione dell'opera “De Deo homine” della quale fu pubblicata
solo la parte riguardante le “Disputationes de Incarnatione dominica ad mentem
Doctoris subtilis”. Tema specifico e quello della predestinazione di Maria:
argomento questo che non apparteneva alla dottrina di Scoto ma che cerca di
risolvere applicando i principi del maestro nel senso che applicò alla
predestinazione della Vergine Maria la dottrina scotista della predestinazione
assoluta di Cristo. Note F. Costa, IlBonaventura Belluto, (1603-1676).
Il religioso, lo scotista, lo scrittore, Roma 1976 La Sicilia e l'Immacolata: non solo 150 anni
: atti del convegno di studio, Palermo, Diego Ciccarelli, Marisa Dora Valenza,
Officina di Studi Medievali, 2006 p.172
Francesco Costa, Il primato assoluto di Cristo secondo Bonaventura
Belluto, OFMConv. (+1676), in "Miscellanea francescana", Cesare
Vasoli, Belluti, Bonaventura, in: Dizionario Biografico degli Italiani, Roberto
Osculati, Gli Opuscoli morali di Bonaventura Belluti . Duns Scoto Bartolomeo
Mastri V D M Francescanesimo. INSTITVTIONVM LOGICALIVM. Nomina transcendentia
infinitari possint verbum adiectiuum & substantiuum de Secundo adiacente
sint verba apud Log, de attinentibùs ad formam syllogiſmi, De oratione, quid
sit, quotuplex, oratio necesario debeat constare verbo, quid sit propositio, seu
Enunciatio, quotu De terminis, ac eorum affectionibus, Quanam sit recta Enunciationis
definitio.quotuplex sit terminus. Quomodo Enunciatio vocalis dicatur vera, vel
communi. falſa . Quæ dctiones fubeant rationem, divisio in catheg. bypotb. sit
generi sin termini. Species. An dentur termini in cap. 4. Quid sit propositio
cathegorica b quotuplex. propositione mentali, Determinorum multiplicitate
ratione fignifi Dub. 1 , Qualis sit diuisio propusitionis in veram, falsam ,
affirmativam, negativam, quid sit signum [segno], a quotuplex uniuersalem o particularem qui sint termini mixti
inter cathegoremati qualis sit diuisio propositionis in modalem cum syncathegorematicum
de inesse qui sit terminus complexus o incomplexys Capo, 5. Quid sit propositio
modalis , & quotuplex , Cap: 3. Determinorum multiplicitate in ratione modi
qualis sit divisio propositionis modalis significandi in compositam o diuitam. Quid fit terminus
connotatiuus. n.g Quid sit propositio bypothetica , oquotuplex, D emultiplicitate
terminorum in ordine ad res P.20 fignificatas . Dubi. An bypotbetica propositio
benèdefiniatur.n. De Uniuerfalibus, fue Prædicabilibus. Divisio bypothetice in
conditionalem. De Prædicamentis, primode absolutis. copulativam & disiunctiuam sit generis in species De
prædicamentis respectivis, De legibus eorum, quæ funt in Predicamento, De
oppositione cathegoricarum simplicium. De Terminorum collatione inter se, An
inter contradictoria detur medium , Varia terminorum supposition quod sint species oppositionis, An suppositio
competat adiectivis de æquipollentia, o conversione categorical. Quo pacto
differente suppositio determinata , rum simplicium & confusa, Quomodo equipolleant
ſubcontraria, De reliquis terminorum proprietatibus, propositio affirmativa
depredicato infins, Determinis componibilibus aquipolleat negative de predicato
finite explicantur quidam termini in fchalis fre è contra quentiffimi, De
oppositione, æquipollentia , &conuersione catbegoricarum , modalium, ac
etiam hypotheticarum propositionibus exponibilibus, insolubili de Propositione &
eius affectionibus, bus, propositiones exponibiless int catheg vel by Comez de nomine
o verba, pot. & quomodo contradicant solum nomen finitum rectum sit propositiones
insolubiles sint catheg, vel by nomen apud Logicum , pot.cies de Argumentatione,
& eius affectionibus de attinentibus ad materiain syllogiſmi. oquotuplex
fit Argumentatio formalis. De syllogismo Demonstrativo. De speciebus
argumentat. Quoi fint argumentationiss pecies, og mun ald. precognitionibus eo
perecognitis quod sint precognitiones, omnis consequentia sit argumentatio de
regulis communibus bona argumentatione. Quid depaſſionepre cognoscatur . nis. De
fcientia demonftrationis effectu liceat argumentariex fuppofitioneimpos Dub.V n
.An dentur scientia de novo. sibili, de neceffitate principiorum, ubi de modis
de inductione, ubi de ascensu, descensu, per feitatis Que predicentur in primo
modo dicendi per Dei. inductio fit bona, formalis consequentia , vel
argumentatio, modus intrinsecuspredicetur in primo modo De syllogifmo, &
eius principis constitutiuis, dicendi per se . n.is obi de figuris eiusdem quo patto
quartus modus dicendiper se disse unde dicantur maior, o minor in syllogism rat
a secundo. Propositio per se convertatur in propositio, conclusio sit de
essentia syllogismi nem per fe . detur quarta figura De demonstratione propter
quid De principis regulatiuis syllogismi Ancaufa virtualis pofit in seruire
demonstra dub us. quodnam sit principium precipuum regulationi siuum syllogismi
quomodo illud axioma propter quod, unum regule generales, especiales
cuiuscunque si quodque tale & illud magis. gure alignantur. De
demonstratione quia Alignantur modi cuiuscumque figura cum. De medio
demonstrationis .corum exemplis. De numero quaffionum modi syllogismorum sint sufficientere
numerati. figura dentur modi indirecte concludentes sicut in prima de syllogiſmo
topico, de inductione modorum imperfectorum ad perfectos. De varis speciebus syllogiſmi
cathegorici. De materia tum remota tum proxima syllogiſmi topici. detur
syllogismus constans ex propositinibus non significantibus de numero
predicatorum de locis topicis de Syllogismo hypothetico & alijs syllogismi,
de locis intrinsecis speciebus de locis extrinsecis un de finepetende divisions
syllogifmi, De locis medijs.fint eſentiales. Digifmus, ut fic, fit genus
demonftratiui, opici, co Sopbiſici.De arte inueniendí medium, ac bene disputan
de syllogismo sophistico de modis seu instrumentis sciendi fallacis in genere An
detur diftin & tiomedia interdiftin & tionem reslem,orationis, de
Fallaciis extra dictionem. Impiegatura del segnare. Ex
variis capitibus solent termini multiplicari et variæ eorum divisiones
assignari, ex parte nimirum significationis, ex parte modi significandi, et ex
parte rei significatæ. Ex primo capite, quantum ad præsens spectat, solet in
primis dividi vocalis terminus in significativum et non significativum. Ille
est, qui aliquid significat, ut hæc vox homo, qui naturam significat humanam,
ille est, qui nihil qui nihil fignificat, ut "blittri",
"buf", "baf". Sed ut ista divisio sit recte tradita intelligi
debet de termino in prima acceptione assignata cap. præced. nam in secunda
acceptione omnes termini sunt significativi, cum esse possint subiectum et
prædicatum in propositione. Terminus igitur vocalis in tota sua latitudine
sumptus dividitur in significativum et non significativum. Quæ divisio ut bene
percipiatur, cum terminus vocalis constituatur in ratione significantis per
significationem, videnduın est quid sit significare & quid signum
[segnante, segnare, segnato] a quo verbum "significare" derivatum
est. [A cloud may sign but a cloud does not 'make' [fare] a sign -- you cannot
order a cloud, 'make a sign!' 'Signify', "Fa un segno!"]. Signum (ex
August. De Doct. Christ. cap. i) est illud [x], quod præter sui cognitionem,
quam ingerit sensibus, facit nos venire in cognitionem alterius [y], v. g. hæc
vox "homo" præter speciem, quam imprimit in auditu, ut sonus est,
facit nos venire in cognitionem alterius scilicet naturæ humanæ, unde signum
[segnante] debet esse tale, utillo cognito per sensus, mediante illo deinde
veniamus in cognitionem rei, cum qua signut habet *connexionem* [any link will
do]. Hinc significare nil aliud erit, quam aliquid aliud a se distinctum
*re-præsentare* potentiæ cognoscenti. Ex quo patet signum dicere ordinem et ad
potentiam cognoscentem, cui *re-præsentat* et ad rem significatam [signata,
segnata], quam re-præsentat. Dividitur porro signum in formale et est illud,
quod absque sui prævia cognitione aliud nobis [dual scenario] re-præsentat
& in eius cognitionem ducit, quales sunt species impressa et expressa respectu
proprii objecti et in instrumentale, quod præ-supposita sui cognitione facit
nos in alterius cognitionem venire, ut imago respectu Cælaris, vestigium
respectu feræ transeuntis. Qua de causa Scotus 2. d. 3.quæst. 9. et quol.14,
hoc secundum signum appellat medium cognitum, quia ut ducat in cognitionem
*signati* [segnato], prius petit ipsum cognosci, illud vero primum vocat
præcise rationem cognoscendi, quatenus præcise est quo aliud cognoscitur et non
quod cognoscitur. Signum autem instrumentale est, de quo agimus in præsenti et
quod proprie dicitur signum et definitur ab August. citat, ea tamen definitio
etiam formali conveniet, si prima pars dematur & dicatur signum esse, quod
facit nos in alterius rei cognitionem venire. Hæc tamen signi descriptio,
quamvis sit ab August, tradita & ob tanti doctoris authoritatem ab omnibus
passim recepta, non recipitur a Poncio disput. 19. Log. quæst. i, eamque
impugnat quo ad veramque partem. Quo ad primam quidem cum ait signum [segnante]
esse id, quod præter sui cognitionem, quam ingerit sensibus, etc. redarguit,
quia non complectitur omne signum, quia possent dari *signa spiritualia*, quae
deducerent in cognitionem aliarum rerum, nec possent percipi a *sensibus
materialibus*. Quo ad aliam vero partem, in qua ait. Quod signum facit nos
venire in cognitionem alterius eam impugnat, tamquam ab Arriag. traditam, quia
obiectum facit nos in cognitionem sui venire et tanem *non* dicitur signum.
Rursus Deus ipse facit nos venire in cognitionem multarum rerum eas nobis revelando,
nec tamen ab illo vocatur signum illarum rerum. Præterea cognitio est signum
rei quae cognoscitur per ipsam & tamen non facit nos in cognitionem
venire. Sed nimis audacter insiciatur Poncius doctrinam D. Augustini,
quam omnes venerantur, ut communis Magistri, unde mirum esse non debet, quod
saepius hic auctor minimo rubore suffusus doctrinam Scoti praeceptoris audeat
impugnare. Optima enim est illa descriptio quo ad omnes partes, si bene
intelligatur, nam duae solent assignari conditiones alicuius, ut alterius rei
signum dicatur, una est, quod nos ducat in illius rei cognitionem, altera est,
quod ducat in eius cognitionem, quatenus cognita, quarum conditionum utramque
*optime* [cf. optimality] exprimit definitio signi ab Augustino tradita. Nam
per primam partem definitionis secundum exprimit conditionem. Vulc enim rem,
quæ inservire debet pro alterius signo, prius nostris sensibus cognitionem sui
ingerere debere, specificat autem signum esse debere *sensibile*, quia ut notat
doctor 4. d. 1. quæst. 2. & 3. *signa sensibilia* sunt *maxime apta pro
statu ipso excitare intellectum coniunctum a sensuum ministerio dependentem, ut
in alterius rei cognitionem veniat. Per alteram vero partem definitionis altera
quoque conditio exprimirur, contra quam nil urgent instantiæ a Poncio adducta,
quia obiectum facit venire in cognitionem sui, non alterius, nec facit venire
in cognitionem sui, quatenus cognitum, ut facit signum, sed quarenus
cognoscibile. Nec etiam *Deus* hoc modo ad instar signi ducit nos in rerum cognitionem,
quatenus cognitus, sed eas revelando, quod adhuc facere posset, etiamsi prius a
nobis non cognosceretur. Cognitio denique esse signum rei cognitae per ipsam
formale, ut dicebamus, non autem instrumentale, quod solum *proprie* dicitur
signum et ab Aug. definitur & ideo cognitio proprie loquendo non dicitur
facere nos venire in cognitionem rei, quam re-præsentat, quia non ducit nos in
cognitionem illius rei, quatenus cognita, sed ut medium cognitum, sed ut racio
cognoscendi. Solum autem signum instrumentale est illud, quod hic definitur. Et
hoc signum instrumentale adhuc *duplex* [like vyse and vice?] est, aliud
*naturale*, et est quod *ex natura* sua independenter ab hominum voluntate
[those spots mean measles] aliquid [measles] re-praesentat, ut fumus ignem
[where there is smoke, there's fire], et universaliter omnis *effectus*
[causa/effectus] suam causum, qui præsertim si *sensibilis* [fumus] erit,
dicetur signum causae juxta sensum definitionis allatæ. An vero ita e contra
*causa* dici posse signum sui *effectus*, negat Hurtad. disput. 1. sect. 4.
quia etsi causa cognitio ducat in cognitionem *effectus*, tamen, non es
ordinata ad illum re-præsentandum. Sed plane non minus ordinata est cognitio
*causæ* ad nos ducendum in cognitionem *effectus* a priori, quam cognitio
*effectus* sic *ordinata* ad notitiam *cautiam* a posteriori, quare ratio
Hurtad. parum valet. At inquirare alii, quod licet ita res se habeat, sola
tamen cognitio, quae per *effectum* habetur, dicitur haberi per signum, unde
sola demonstratio a posteriori, quae est *per effectum*, dicitur *a signo* et
ideo solum *effectus* dici potest signum *causæ*, non e contra. Verum neque hoc
viget, licet enim cognitio habita *per effectum* veluti sensibiliorem *causa*,
magis proprie dicatur *a signo*, nil tamen impedit, quin et cognitio habita
*per causam* possit dici *a signo* absolute loquendo. Potest igitur etiam
*causa* dici signum sui *effectus*, et praesertim quando *sensibilis* est, unde
a theologis sacramenta dicuntur *signa* *gratia*, cuius sunt *causa*, ita clare
colligitur ex Doctore 4. d. 1. quaest. 2. De secundo principali et sequitur
Casil. cit. & Arriaga disputat. 3. sect. 2. Aliud vero est *signum
artificiale* [not conventional! ars/natura], seu *ad placitum* et est: quod ex
hominum impositione aliud re-præsentat, sic ramus est signum venditionis vini,
sonus campanae est signum lectionis [the bell means the bus is full], et vox
illius rei, ad quam *signi-ficandum* est imposita. Ubi tamen est advertendum
etiam in vocibus ipsis non tamtum significationem ad placitum reperiri posse,
sed etiam naturalem, ut patet de gemitu infirmorum et latratu canum et ideo
terminus vocalis *signi-ficativus subdividi solet in *significatiuum
naturaliter et ad placitum et hic ad dialecticum spectat non quidem secundum
suam realem entitatem, ut vox est, et sonus quidam in aere *causatus*, sed
secundum quod impositus est ad res ipsas *signi-ficandas* et conceptus mentis
exprimendos, in hoc enim sensu voces pertinere dicuntur ad institutum
dialecticum, ut dicemus disp. de vocibus, ubi etiam declarabimus, per quid
constituatur ratio signi. Special section on ‘sign’ – two
sections. General definition of sign, following Augustine, but with objections
by Ponzio. Second section, the criterion between artificial (‘a piacere’) and
mere natural signs. Segno – segnare – segnante, segnatum. Bonaventura Belluti.
Bonaventura Belluto. Keywords, “Institutiones logicae, quae vulgo Summulas, vel
logicam parvam nuncuparunt”, section on ‘segno’ – signum. The teacher ringing
the bell means that Strawson should go to the tutorial. The branch of grapes
means that Grice is selling wine from his orchard. Rather than ‘artificiale’ ‘a
piacere’ is better, ‘ad placitum’. Scottism against Thomism in Italy – x means
y in terms of cause and effect. The problem of God, should sign be always
‘material’?—Etimologia di ‘segno’ – relazione con greco ‘semeion’ neutro. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Belluto” – The Swimming-Pool Library.
Bencivenga (Reggio
Calabria). Filosofo. Grice: You’ve got to love Bencivenga; my favourite is his
little tract on ‘pleasure,’ but he has philosophised on one of Austin’s
favourite concepts – that of ‘game’ – gioco – which he applies to communication
and philosophy – he thinks that Austin took philosophese too seriously –
‘implicatura,’ ‘perlocution,’ – when it was all meant in fun – as a joke –“. Dopo
la laurea in filosofia alla Statale di Milano, Bencivenga ha lasciato presto
l'Italia, trasferendosi prima in Canada per gli studi di dottorato e poi negli
Stati Uniti, dove ha intrapreso la sua carriera accademica insegnando, dal
1979, all'Università della California a Irvine.
I suoi interessi di studio, nel corso del tempo, hanno riguardato la
logica formale (negli anni settanta), la storia della filosofia (negli anni
ottanta), l'etica, la filosofia politica. Ha pubblicato numerosi testi sulla
storia della filosofia e su specifici argomenti filosofici, come logica,
estetica, filosofia del linguaggio, in forma dialogica, saggistica, trattatistica
– “Teoria del linguaggio e della mente” (Bollati Boringheri --, con scrittura
aforistica – “Anime danzanti” (Aragno) -- o affrontando singole figure storiche
(come Hegel e Kant). Ha scritto inoltre diversi testi introduttivi alla
filosofia e a sue tematiche, desti un pubblico più vasto, e alcuni libri di
poesie. “La filosofia in trentadue favole” (Arnoldo Montadori) è un saggio ripubblicato negli Oscar
Mondadori. Pur potendo essere raccontato a un uditorio di bambini, il saggio si
pone l'obiettivo di rivolgersi al bambino presente in ogni essere umano, che lo
rende capace di stupirsi e incantarsi di fronte alle domande della filosofia.
Il saggio è stato riedito in edizioni aumentate (a quarantadue, cinquantadue,
sessantadue e ottantadue favole). “Giocare per forza: critica della società del
divertimento” (Arnoldo Mondatori) è dedicato all'importanza del gioco e
all'esame critico del sovvertimento di senso di cui esso è stato fatto oggetto
nella società contemporanea: trasformato in industria, il divertimento ha
perduto la sua naturale collocazione, quale manifestazione della sfera
fantastica, ricerca libera e volontaria. Trasposto in una dimensione
'industrializzata' e organizzata, il gioco si qualifica come attività passiva e
ripetitiva, espressa all'insegna di rapporti psicologici coattivi che snaturano
completamente il senso dell’Homo Ludens di Johan Huizinga: il gioco del lotto e
l'intrattenersi con videogame o slot machine diventano forme di subire passivo,
una dimensione alla quale è precluso il manifestarsi dell'agire ludico
dell'uomo attraverso l'attività fantastica della psiche umana. In un mondo in cui domina la dimensione
organizzata del divertimento, si apre all'uomo una prospettiva impoverita
dell'esistenza, in cui si realizza la perdita del senso profondo del gioco, una
prospettiva che l'autore considera esiziale perché, nelle sue stesse parole,
«se perdiamo il gioco perdiamo la stessa umanità». Pubblica il saggio “L'etica di Kant: la
razionalità del bene” (Bruno Mondatori), una riflessione sul concetto di Etica
in Kant e sul fondamento logico-razionale del Bene. L'Etica consiste nel negare la preminenza al
nostro punto di vista, aprendosi all'esperienza altrui, all'ascolto di tutte le
altre voci e presenze che hanno diritto a occupare un posto nella riflessione
comune. Di converso, la negazione dell'etica consiste esattamente nella
negazione di questo diritto, nell'impedire agli altri la partecipazione alla
riflessione collettiva, la possibilità di offrire all'esperienza comune il
contributo particolare della propria ragione. Questa partecipazione coinvolge
ciò che si chiama l'"uso pubblico della ragione", un'espansione della
dimensione privata della ragione, quest'ultima intesa come la sfera d'uso che
ci è concessa, ad esempio, nell'esercizio dei compiti derivanti da necessità e
ruoli della nostra vita e della nostra professione. L'Etica è come un "fuoco
immaginario", impossibile da attingere. Ma ciò che conta veramente è il
percorso attraverso cui ci si muove in direzione di questo "fuoco",
un cammino in grado di aprire l'uomo a nuove acquisizioni, schiudendone gli
orizzonti al di fuori di pregiudizi e preconcetti. Si pone poi il problema di come considerare
l'etica in un contesto dominato dalla corruzione: l'etica non lascia spazio
alla rinuncia e al cinismo, anche se spesso quest'ultimo può presentasi in
forma artefatta, dissimulato da "realismo", e per questo non
immediatamente riconoscibile. Riprendendo la celebre riflessione sulla
«banalità del male» di Arendt (per Bencivenga, la massima interprete kantiana
del XX secolo), il bene ha una logica e una ragione, un fondamento da cui non è
invece sorretto il male. Quest'ultimo, infatti, trae origine proprio dalla
rinuncia alle ragioni dell'etica, si insinua proprio nelle lacerazioni
dell'etica lasciate aperte da questa rinuncia. Diversi suoi contributi sono
apparsi negli anni su vari giornali italiani, come La Stampa, il Sole 24 Ore,
l'Unità, ecc. Altre opere: “Le logiche libere” (Bollati
Boringhieri); “Una logica nei termini singolari” (Bollati Boringhieri); “Il
primo libro di logica” (Bollati Boringhieri); “Tre dialoghi: un invito alla
pratica filosofica” (Bollati Boringhieri); “Giochiamo con la filosofia” (Arnoldo
Mondadori); “La filosofia in trentadue favole” (Arnoldo Mondadori); “La filosofia
in quarantadue favole”; “La filosofia in cinquantadue favole”; “La filosofia in
sessantadue favole”; “La filosofia in ottantadue favole”; “La libertà: un
dialogo. Il Saggiatore); “Oltre la tolleranza. Feltrinelli); “Il metodo della
follia. Il Saggiatore); “Filosofia: istruzioni per l'uso. Arnoldo Mondadori); “Platone
amico mio. Arnoldo Mondadori); “Manifesto per un mondo senza lavoro,
Feltrinelli); “Per gioco e per passione, Di Renzo); “La rivoluzione copernicana
di Kant. Bollati Boringhieri); “Filosofia: nuove istruzioni per l'uso. Arnoldo
Mondadori); “I passi falsi della scienza. Garzanti 2001, Premio Nazionale
Rhegium Julii); “Una rivoluzione senza futuro. Garzanti); “Parole che contano.
Da amicizia a volontà, piccolo dizionario filosofico-politico. Arnoldo
Mondadori); “Le due Americhe. Perché amiamo e perché detestiamo gli Usa”
(Arnoldo Mondadori); “Dio in gioco: logica e sovversione in Anselmo d'Aosta”
(Bollati Boringhieri); “Il pensiero come stile” (Bruno Mondadori); “La
dimostrazione di Dio. Come la filosofia ha cercato di capire la fede” (Arnoldo
Mondadori Editore); “La filosofia come
strumento di liberazione” (Raffaello Cortina); “Parole in gioco. Arnoldo
Mondadori); “La logica dialettica di Hegel. Bruno Mondadori); “Il piacere.
Indagine filosofica. Laterza); Filosofia in gioco. Laterza); “Filosofia chimica”
(Editori Riuniti); “Il bene e il bello. Etica dell'immagine” (Il
Saggiatore Prendiamola con filosofia.
Nel tempo del terrore: un'indagine su quanto le parole mettono in gioco); “Giunti La scomparsa del pensiero. Perché non
possiamo rinunciare a ragionare con la nostra testa. Feltrinelli); “Filosofo
anche tu. Siamo filosofi senza saperlo. Giunti); “La stupidità del male. Storie
di uomini molto cattivi” (Feltrinelli); “L'arte della guerra per cavarsela
nella vita” (Rizzoli Bur); “100 idee di cui non sapevi di aver bisogno”
(Rizzoli Bur); “Critica della ragione digitale. Feltrinelli); “Nel nome del
padre e del figlio. Hoepli; “I delitti della logica” (Arnoldo Mondadori); “Abramo,
tragedia in tre atti. Aragno Case.
Cairo Il giorno in cui non tornarono i
conti. MdS, “Annibale, tragedia in tre atti” (Aragno); Amori. MdS; “Alessandro,
tragedia in tre atti” (Aragno); Ada. Lettera a mia madre. Arsenio . Poesia
Panni sporchi. Garzanti); Un amore da quattro soldi. Aragno); Polvere e
pioggia. Aragno Poesia dei miei
coglioni. Galassia Arte); “Le parole della notte. Di Felice Amore per Milla. Di Felice. Interventi di
Ermanno Bencivenga Archiviato il 13 giugno
in . da SWIFTSito web italiano per la filosofia premio Rhegium Julii, su circolorhegiumjulii.wordpress.com.
Blog ufficiale, su sites.uci.edu. Opere
di Ermanno Bencivenga, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Ermanno
Bencivenga, . Profilo dal sito dell'UCI
Department of Philosophy Testi di e su Ermanno Bencivenga dal sito dell'UCI
Department of Philosophy Biografia dal sito del Festivaletteratura di Mantova. Da
un quarto di secolo ormai parlo di gioco, e intorno a questo tema ho raccolto
tutte le attività che hanno per me il più profondo significato. Ho detto che il
linguaggio e la mente sono spazi ludici, che lo sono la soggettività e la
politica, che letteratura e filosofia sono giochi intellettuali. Ho scritto un
libro polemico nel quale criticavo varie attività che nel mondo contemporaneo
sono presentate e propagandate come forme di gioco e invece ne rappresentano
l’opposto: una violazione e repressione del gioco. Ma non ho mai spiegato con
cura che cosa intendo per gioco, non ho mai articolato i molteplici risvolti di
questo intricato concetto. Lo faccio qui, e forse è bene che lo faccia alla mia
età e dopo tante vicissitudini e traversie: forse un libro così, su un
argomento per me di tale importanza, poteva solo presentarsi come sommario di
un’esperienza di vita, come enunciazione della sua morale. Questo dunque
è il libro di tutti i miei libri e ogni mia forma espressiva è stata un suo
episodio. Che io mi sia dedicato alla logica o alla poesia, abbia esplorato
problemi metafisici o dialogato con i grandi della storia del pensiero, abbia
insegnato, parlato in pubblico o scritto articoli di giornale, non ho fatto che
pratica della sua composizione, non ho trovato che esempi delle sue tesi. Di
conseguenza, nel prepararlo, ho dovuto affrontare una difficoltà: quella di
mantenere una precisa misura. Il libro non poteva diventare un’enciclopedia:
doveva essere chiaro ed efficace, breve anzi, e gli stimoli che avrebbe offerto
alla lettura non dovevano causare distrazioni per un percorso che volevo
coerente e risolto in sé stesso. Se ho realizzato i miei scopi non sta a me
dire; aggiungerò solo una nota di commiato. In quella costellazione variegata
che è il mio lavoro di quarant’anni c’è un sole (un faro, l’aveva chiamato
l’amico Luciano Genta in un’intervista di molto tempo fa): Immanuel Kant. E c’è
un centro di forza, a lungo nascosto per quanto instancabilmente operoso e ora
infine venuto alla luce. Ringrazio Alessandro Giuliani, Ignazio Licata, Cinzio
Lombardi, Pasqualino Masciarelli, Daniela Mazzoli, Fabio Paglieri e Paolo
Zorzato per i loro commenti a una versione precedente del libro. Un
ringraziamento e un ricordo particolari vanno a Nuccia, antica compagna di
giochi, che, fin quando ha potuto, ha seguito queste pagine con l’intelligenza,
il rigore e la sensibilità di sempre. Roma, novembre 2012 Avvertenza Di regola,
le citazioni sono accompagnate dall’autore, dal titolo della fonte e dai numeri
delle pagine (le altre informazioni bibliografiche sono contenute nella
Bibliografia in fondo al volume), con le eccezioni seguenti: Quando mancano
autore o titolo è perché (a) sono menzionati nel testo che accompagna
immediatamente la citazione, (b) nel libro viene citata una sola opera di
quell’autore e l’opera è già stata menzionata, oppure (c) la citazione è tratta
dalla stessa fonte della citazione precedente. Quando mancano le pagine è
perché sono le stesse della citazione precedente. Infine, quando una citazione
è inserita nel testo (anziché presentata a parte, in corpo minore), la sua
iniziale maiuscola o minuscola è stata adattata alle esigenze del contesto.
1. Il gioco Una bambina di due anni entra in una stanza per lei nuova, cosparsa
di oggetti ignoti. Si muove incerta dall’uno all’altro; li prende in mano,
osservandoli curiosa e perplessa da ogni punto di vista; li assaggia e li
mordicchia con i suoi piccoli denti; li scaglia per terra e per aria; li fa
rotolare sul pavimento, seguendone il percorso e le reazioni; ci infila dentro
le mani cercando di smontarli, di farli a pezzi; li picchia con forza per
trarne un suono e sorride quando rispondono. Poi si accovaccia in un
angolo, raccoglie intorno a sé tutti questi suoi tesori e li combina in forme
sempre nuove: un cerchio di libri e scarpe con un telefono in mezzo, una pila
di pentole e stoviglie, un orsacchiotto che guarda in cagnesco un altoparlante.
Il portiere ha appena raccolto una palla morta. Potrebbe rilanciare lungo,
oltre il centrocampo; ma preferisce l’appoggio al difensore di fascia, appena
fuori dall’area. Il terzino scatta veloce: gli avversari sono sbilanciati
dall’altro lato del campo, lui ha un’autostrada davanti e il centinaio di metri
che lo separa dalla linea di fondo è la distanza giusta per le sue doti di
velocista potente e armonioso. In affanno, sopraggiunge infine un marcatore, ma
prima che si stringa troppo il terzino si ferma di botto in un fazzoletto di
terra. Ha spazio, ancora per una frazione di secondo; lancia un cross morbido
per la testa del suo centravanti, chiaro punto di riferimento a dieci metri dal
portiere. L’attaccante ne ha due addosso, che lo spingono e lo strattonano
rischiando il rigore e gli bloccano la visuale della porta, così invece di
schiacciare direttamente a rete fa da torre e deposita la sfera sui piedi
dell’ala che si è appostata sul secondo palo. Non c’è che da spingere, il
pallone varca la linea bianca, lo stadio impazzisce. Tutto questo miracolo di
perfetti gesti atletici, di geometrie essenziali non è durato neanche un
minuto. Sono due esempi di un’attività che chiamiamo «gioco»; ma non è affatto
evidente che sia lecito usare per entrambi la stessa denominazione. Sembra anzi
un arbitrio, un capriccio; sembra non possano esserci modi più disparati di
occupare il tempo. La bambina agisce in assoluta libertà, guidata solo
dall’inclinazione del momento; non accetta alcuna barriera tra ciò che è
in gioco e ciò che non lo è, tra mosse consentite ed escluse; non
contempla un limite temporale per quel che sta facendo, e infatti si dovrà
sempre e comunque interromperla, e quando lo si farà lei manifesterà con vigore
il suo disappunto; non ha uno scopo, non vuole ottenere nulla – null’altro,
cioè, che continuare a giocare. I calciatori, invece, vivono un episodio che
dura esattamente novanta minuti (più recupero); sono soggetti a regole che è
compito dell’arbitro e dei suoi collaboratori far rispettare alla lettera (e
che domani provocheranno discussioni a non finire sui giornali e nei bar);
hanno l’obiettivo di vincere la partita, segnando un gol più degli avversari, e
per questa via conseguire fama imperitura e ingaggi stratosferici. Che cosa ci
può offrire l’uso di una stessa parola con significati tanto diversi se non una
penosa confusione? E non è finita, non per me almeno. Consideriamo infatti un
passo come il seguente, dalla Critica del giudizio: È un principio
trascendentale quello col quale è rappresentata la condizione universale a
priori, sotto la quale soltanto le cose possono diventare oggetti della nostra
conoscenza in generale. Invece, un principio si chiama metafisico quando esso
rappresenta la condizione a priori, sotto la quale soltanto oggetti, il cui
concetto deve esser dato empiricamente, possono essere ulteriormente
determinati a priori. Così il principio della conoscenza dei corpi, come
sostanze e come sostanze mutevoli, è trascendentale, quando s’intenda che il
loro mutare debba avere una causa: è metafisico, invece, quando s’intenda che
quel mutamento debba avere una causa esterna; perché nel primo caso basta che
il corpo sia pensato solo mediante predicati ontologici (concetti puri
dell’intelletto) – per esempio, come sostanza – per conoscere a priori la
proposizione; laddove nel secondo deve essere messo a fondamento di questa
proposizione il concetto empirico di un corpo (come una cosa mobile nello
spazio), ed allora si può vedere interamente a priori che l’ultimo predicato
(del movimento prodotto solo da una causa esterna) conviene al corpo (p. 21).
Queste frasi compaiono in un libro che rappresenta uno dei massimi vertici
della filosofia occidentale, e io ho sostenuto a più riprese che la filosofia è
un gioco. Non solo la filosofia, perché l’ho detto pure dell’arte e della
letteratura, ma anche la filosofia. E che cosa giustifica l’accostamento di
espressioni così nobili dell’ingegno umano a una partita di calcio o alle
peripezie di una bimba da poco in grado di reggersi in piedi? In filosofia si
fa terribilmente sul serio, ci si concentra sui temi che più contano, che dànno
senso alla vita e all’esperienza del mondo, e si fa di tutto per sviscerarne la
struttura, per arrivare in proposito all’unica, esatta verità; non ci si sta
divertendo (sviando, cioè: andando a spasso) per godere della novità e della
sfida. In ballo non ci sono soldi o il plauso delle folle, e neppure il piacere
che deriva da qualche ora trascorsa spensieratamente. Tutt’altro: il pensiero
qui è acuto come uno spillo e profondo come l’oceano, diretto come un raggio
laser verso problemi per cui le folle non provano (ahimè) alcun
interesse, anche perché sono spesso trattati in termini (come quelli del passo
citato) che le folle troverebbero incomprensibili; e talvolta l’esito di tanto
ossessivo impegno, di tanta rigorosa dedizione, di tanta puntuale insistenza
sull’uso di formule corrette e ragionamenti apodittici è un infuso di cicuta
propinato al tramonto o il rogo in una piazza romana, fra i pellegrini
convenuti per l’anno santo. Anche questo è un gioco: quello che stiamo
conducendo adesso, voglio dire, quello suggerito dall’inizio del mio libro. Ed
è importante capire che gioco sia. Potrebbe essere come quando si mettono
accanto due vignette che raffigurano situazioni del tutto diverse – che so io?,
il varo di una nave e un compito in classe – e si chiede che cosa abbiano in
comune. E, aguzzando bene la vista e non lasciandosi distrarre dalle forme più
prominenti, si finisce per scoprire che la superficie di un banco coincide con
la bandiera spiegata, o la barra del timone con il righello. Un gioco così non
è nuovo, per rispondere alle domande che ho posto qui sopra. Si mettono accanto
un ragazzo che costruisce un castello di sabbia, un campione di scacchi alle
prese con un’apertura inconsueta, Guernica ed Essere e tempo e ci si interroga
su quali siano i dettagli che si ripresentano identici in ciascuna situazione.
Stabilendo, per esempio, che si ha sempre a che fare con un esercizio fine a sé
stesso o con un affrancamento dell’essere umano dalla servitù del bisogno.
Identificando il gioco, insomma (quel che lo rende tale), con una singola,
astratta caratteristica di ogni gioco particolare, tanto astratta da far
scomparire ciò che un gioco particolare ha di vivido e intenso, di suggestivo e
appassionante. Che cosa rimane dell’inventiva del trasformare un passeggino in
un’automobile, dell’eccitazione di tirare un rigore all’ultimo istante, della
sconfinata ingegnosità (e sublime impertinenza) della prova ontologica
anselmiana quando le dichiariamo ridotte a una qualsiasi concisa definizione
che ci dia l’essenza del gioco? Non è questo il gioco a cui voglio giocare. È
invece un gioco analogo a quello del labirinto. C’è un punto di partenza e noi
siamo lì, carichi di tutta la nostra individualità, di tutto ciò che ci rende
irripetibili, inconfondibili con chiunque altro. Davanti a noi ci sono bivi e
ostacoli, comodi varchi che potrebbero finire in un vicolo cieco e strettoie
malsane per cui potremmo trovare il passaggio agognato. E c’è una meta che ci
aspetta al termine di un tracciato arduo e sofferto; ma una meta da raggiungere
interi, non assottigliati in un’ombra priva di peso e di spessore, anzi avendo
acquisito maggior peso e spessore per le avventure vissute e i rischi corsi,
avendo visto maturare anziché spegnersi le nostre opinioni e i nostri
sentimenti. Nel linguaggio della filosofia, i due giochi che ho descritto
sarebbero ribattezzati con i nomi di Aristotele e di Hegel: il primo fautore di
una logica analitica che divide (analizza) oggetti ed esperienze nelle loro
molteplici caratteristiche e quindi astrae le caratteristiche comuni
costituendo concetti universali che diventano il luogo privilegiato della sua
azione; il secondo, invece, di una logica dialettica che unisce (lega) oggetti
ed esperienze fra loro, senza perdere nulla della loro complessità, mediante un
tessuto narrativo, una storia che gradualmente trascende l’uno nell’altro
mantenendo però l’uno presente e attivo nell’altro, un po’ come il monello
dodicenne è trasceso, ma ancora presente e attivo, nell’attempato capitano
d’industria. Più avanti potremo riprendere in mano questa terminologia
filosofica e precisarla meglio; ora è tempo di giocare, di trovare la via nel
labirinto. Dovremo spiegare il punto di partenza: il gioco della bimba di due
anni – spiegarlo come si spiega una vela, mostrando tutto quel che le pieghe
nascondono. Dovremo avere sempre chiaro in mente l’obiettivo: ritrovare quel
gioco e quella bambina nella Critica del giudizio, passando per il gioco del
calcio e molte altre tappe. E dovremo affrontare false piste e pericoli, cioè
tutte le domande e obiezioni che già ci siamo posti e quelle che dovremo ancora
porci, e superarle senza lasciare sul terreno alcun elemento significativo del
punto di partenza: senza smarrire l’incanto che affascina la bimba, il brivido
con cui tenta un nuovo gesto o una prospettiva strampalata, il piacere riflesso
nel suo sorriso, il paziente e prezioso sviluppo della sua personalità che si
realizza attraverso questi um ili, intimi passi. 2. Il punto di
partenza Cominciamo con la bimba, dunque; studiamone la situazione e (per quel
che possiamo capirlo) lo stato d’animo. La prima cosa da notare è che il suo
comportamento è trasgressivo: sovverte ogni abitudine sull’uso «corretto» degli
oggetti con cui ha a che fare e ogni aspettativa che chiunque si sia formato in
proposito. Parte di questa sua natura rivoluzionaria è dovuta al semplice fatto
che la bimba non sa quale sia l’uso corretto degli oggetti: non sa, per esempio,
che con una spillatrice si cuciono dei fogli e se ne serve invece come di un
grosso pesce nella cui bocca spalancata inserire l’«esca» di una pedina della
dama, e chi la vede sorride e osserva bonario quanto ingegnoso sia il suo
spirito, quanto la sua immaginazione sia in grado di sopperire ai difetti
dell’ignoranza. Magari il benevolo spettatore prenderà la spillatrice e ne
dimostrerà con sapiente manovra pedagogica il funzionamento: la userà per
realizzare in quattro e quattr’otto un bel quadernetto degli appunti che
porgerà alla sua pupilla, perché colga subito un elemento decisivo della sua
educazione formale prossima ventura – perché l’esperienza attuale non rimanga
«solo un gioco». E avvertirà una profonda frustrazione quando l’indisciplinata
(presunta) scolara in erba si guarderà bene dall’imitare il suo esempio e
realizzare altri dieci quadernetti, e cercherà piuttosto di infilare le dita
dentro la spillatrice e strapparle i punti, cioè i piccoli denti affilati di
questo pesce goloso, intenzionato a divorare tutte le pedine della dama.
Scuoterà la testa, il nostro insegnante per il momento mancato, e si consolerà
pensando che è solo questione di tempo: prima o poi la bimba imparerà il minimo
indispensabile per un comportamento «come si deve» e allora ci si potrà
costruire sopra e darle altre utili lezioni, senza questo continuo cambiare le
carte in tavola che sarà forse motivo d’allegria per lei ma è anche, per tutti
gli altri e per la sua stessa crescita, un’inutile distrazione. Il secondo
commento va in senso opposto al primo, indicando che con il suo procedere
caotico e informale la bimba impara un’enorme quantità di cose molto
importanti. Non quante siano state le guerre puniche o chi abbia malgovernato
l’Italia negli ultimi anni; questi contenuti li apprenderà a scuola,
quando ci andrà, o da altre autorevoli e comunque successive fonti
d’informazione. Ora invece impara a vivere nel suo corpo, a distenderlo e
ritrarlo; impara quali resistenze è in grado di superare e a quali altre deve
cedere; impara a valutare le distanze fra le pareti e fra gli oggetti sparsi
per la stanza; impara la struttura complessa di quegli oggetti, rigirandoli fra
le mani e guardandoli e toccandoli da ogni angolo. Vocalizzando reazioni
emotive alle sue vicende, impara a padroneggiare la sua voce, ad articolarla e
modularla: a trasformare suoni rozzi e primitivi in un flusso sonoro di grande
ricchezza e flessibilità, nel quale inscenare il dramma del linguaggio. Non è
un’esagerazione dire che tutto quel che facciamo sul serio lo abbiamo un giorno
imparato giocando, purché non si dia dell’imparare – cioè della conoscenza –
un’interpretazione puramente intellettuale, che lo legga come una relazione fra
un soggetto ed entità astratte quali idee o proposizioni (i «contenuti» cui accennavo).
Certo sarebbe possibile, e per me desiderabile, imparare il teorema di Pitagora
o le valenze chimiche giocando; ma sta di fatto che la maggior parte di noi li
impara in situazioni d’imbarazzante rigidità. Non potrebbe impararli affatto,
però, se non avesse acquisito abilità «elementari» che tendiamo a prendere per
scontate ma che, riflettendoci, ci riempiono di ammirato stupore: nel caso
specifico, l’abilità di comprendere quel che ci viene detto, di coglierlo come
uguale a sé stesso nelle mille differenze di tono e pronuncia di parlanti
diversi, di adattarlo al contesto nel quale è inserito. Prima dei tre anni un
bambino impara tutto ciò senza sforzo – alcuni bambini in più lingue – mentre i
cultori dell’intelligenza artificiale ancora non sono riusciti a produrre un
meccanismo di traduzione automatica decente. E impara a riconoscere e
categorizzare oggetti nello spazio, distinguendoli dallo sfondo; a interagire
ed empatizzare con altri esseri umani; a bilanciarsi sulle gambe e muoversi
disinvoltamente in ogni direzione. Se pensiamo alla fatica con cui, in età
posteriori, quello stesso bambino ormai cresciuto tenterà d’impadronirsi di una
lingua straniera, di una teoria scientifica o di uno strumento musicale, non
possiamo non rimpiangere la facilità con cui l’apprendimento avveniva
nell’infanzia, e il fatto che l’infanzia sia terminata. Ho menzionato
l’apparente contrasto fra il carattere sovversivo del gioco e la sua sconfinata
capacità di insegnare. Sembra esserci un contrasto, qui, perché di solito
concepiamo la conoscenza (oltre che in termini astratti) come rispecchiamento
di una realtà data, da acquisire senza modificarla. Io vengo a sapere che piove
osservando in modo neutrale lo spettacolo che mi si porge attraverso i
vetri della finestra, piegandomi con assoluta deferenza all’indipendente
oggettività della pioggia e facendo del mio meglio perché i miei piani, le mie
esigenze e la mia immaginazione non la turbino. Se avvertissi troppo forte
l’anelito per una bella giornata di sole e una fantasia troppo vivida me ne
rappresentasse una davanti, finirei forse per illudermi (parola importante,
sulla quale ritornerò) che non piova, per rimanere vittima del gioco delle mie
emozioni e delle mie facoltà mentali – e non saprei più che tempo fa. Il che
senz’altro è ragionevole, ma non va frainteso. Non c’è nulla di sbagliato nel
desiderio di una conoscenza che rispecchi la realtà; ma non ne segue che il
metodo migliore per soddisfare tale desiderio sia adagiarsi in una supina e
passiva registrazione di circostanze a noi aliene. La realtà va costantemente
sfidata, messa sotto pressione come farebbe uno scienziato con i suoi
esperimenti di laboratorio: il suo carattere oggettivo non è un dono che ci
viene generosamente elargito ma il residuo di un’attività ininterrotta da parte
nostra. Per essere conosciuta, la realtà va esplorata; e il gioco è il
paradigma di questa esplorazione. La tensione fra trasgressione e apprendimento
può così essere risolta. Senza arrivare agli estremi di Bacone, per il quale
dovremmo costringere la natura con le sevizie a rivelarci i suoi segreti,
l’apprendere è un fare, non un puro constatare, o meglio è un constatare che
risulta da un fare. Se ci fossimo limitati a guardare la luce che emana dal
sole e da altre fonti luminose, la concepiremmo ancora come un fluido che
pervade l’aria. Invece abbiamo proiettato un fascio di luce su uno schermo
attraverso due fessure, osservando fenomeni d’interferenza e concludendo che
eravamo in presenza di onde. Prove successive ci hanno convinto che la luce si
comporta anche come se fosse costituita da particelle, e ragionando su questo
paradosso siamo arrivati alla meccanica quantistica che, sebbene in certa
misura inintelligibile, dà previsioni più accurate di ogni altra teoria nella
storia della fisica. Possiamo dire di aver raggiunto una perfetta conoscenza
della realtà? No di certo; ma non credo ci siano dubbi che abbiamo imparato
sulla luce molto più di quanto ne sapessimo in passato, e che abbiamo fatto
grandi progressi perché non siamo rimasti con le mani in mano, perché in
analogia con i grandi viaggiatori e scopritori di continenti del Rinascimento
ci siamo inoltrati in un terreno ignoto e lo abbiamo percorso in lungo e in
largo come cavalieri erranti, scrutando qua e là e menando fendenti
all’impazzata e a volte commettendo veri e propri errori – scambiando mulini a
vento per giganti. Il primo cavaliere errante è il bambino; il terreno ignoto
che esplora è il suo ambiente; i continenti che scopre sono oggetti di
uso comune, il che potrà sembrare banale solo a chi non consideri quanto
indispensabili, irrinunciabili siano tali scoperte e non ricordi che non c’è
altro modo di scoprire alcunché. Si potrebbero seguire alla lettera delle
istruzioni, ovviamente, e se ne diventerebbe prigionieri. Pensate per esempio
ai diversi atteggiamenti che un ragazzo e un adulto hanno spesso nei confronti
di un nuovo dispositivo elettronico. Il secondo segue istruzioni; il primo
invece schiaccia tutti i tasti e tenta tutte le combinazioni operative; come
risultato, quando il secondo si trova in difficoltà deve chiedere aiuto al
primo. Perché il primo ha errato, in entrambi i sensi della parola, quindi ha
imparato davvero: non solo quel che gli era stato detto ma anche, forse, quel
che nessuno gli avrebbe potuto dire, quel che nessuno sapeva, quel che stava
intorno a quel che ognuno sapeva e che mai si sarebbe visto se non si fosse
andati a zonzo, girovagato, per divertirsi – per deviare cioè dalla strada
battuta. Le parole «divertimento» e affini sono usate sovente come sinonimi di
«piacere» e affini; «mi sono divertito molto» ha nella maggior parte dei casi
lo stesso significato di «è stata un’esperienza molto piacevole». Il legame che
ho appena tracciato fra divertirsi e imparare getta una luce provvidenziale su
questa particolarità semantica: provvidenziale come sa esserlo l’evoluzione. Ha
fatto bene la natura, operando per mutazione e selezione, ad associare un vivo
piacere alla nutrizione e al sesso, come incentivo ad attività essenziali per
la sopravvivenza dell’individuo e della specie, e altrettanto ragionevole si è
mostrata nel farci vivere il divertimento, la divagazione, come fonte di gioia,
se è vero che divagare è il modo migliore di apprendere. L’ampio spettro
d’intercambiabilità fra piacere e divertimento suggerisce addirittura che
esplorare ed errare abbiano un valore adattativo più alto, o almeno più
capillare, di mangiare e accoppiarsi: non esiste occupazione umana che non
provochi «divertimento» per qualcuno, ma non sempre le stesse occupazioni sarebbero
definite dalle stesse persone «erotiche» o «gustose». Ad ogni buon conto,
arriviamo così a identificare un’ulteriore caratteristica della scena ludica
primaria: la bimba prova un indubbio piacere, che sembra durare per tutto il
tempo in cui gioca. Lo tradiscono talvolta i suoi sorrisi e gridolini di
eccitazione, ma in modo più ovvio (perché più continuo) la sua assoluta
concentrazione e apparente instancabilità, le sue proteste quando viene
interrotta, il suo pronto ritornare a quel che tanto la avvince quando le
proteste hanno effetto. Ed è il piacere che prova a motivarla a giocare: non
c’è in questa attività nessun secondo fine; l’attività è fine a sé stessa,
perseguita in completa autonomia (in accordo con una delle possibili
definizioni analitiche di gioco). La bimba non si aspetta nessun risultato, non
intende conseguire nessun obiettivo, o quantomeno nessun risultato o obiettivo
esterni. Nonostante tutto quel che ho detto sulla funzione pedagogica del
gioco, non è per imparare che si gioca: quale che sia il vantaggio adattativo
che il gioco procura, ognuno di noi gioca all’unico scopo di giocare. Nelle
prime pagine del suo I giochi e gli uomini, Roger Caillois lascia
apparentemente la porta aperta a un’interpretazione strumentale delle attività
ludiche, nel senso di un loro contributo all’addestramento fisico:
Contrariamente a quanto si sostiene spesso, il gioco non è un apprendistato del
lavoro. Esso non anticipa che in apparenza le attività dell’adulto [...]. Il
gioco non prepara a un mestiere preciso, esso allena in generale alla vita
aumentando ogni capacità di superare gli ostacoli o di far fronte alle
difficoltà. È assurdo, e non serve a niente nella vita reale, lanciare il più
lontano possibile un martello o un disco di metallo, o riprendere e rilanciare
continuamente una palla con una racchetta. Ma è utilissimo avere dei muscoli
possenti e dei riflessi pronti (p. 12; corsivo aggiunto). Alla fine del libro,
però, la chiude con decisione: Il gioco non è esercizio, non è neanche gara o
prodezza, se non in sovrappiù. Le facoltà che esso sviluppa beneficiano
certamente di questo allenamento supplementare, che è per di più libero,
intenso, divertente, creativo e protetto. Ma funzione specifica del gioco non è
mai quella di sviluppare una capacità. Scopo del gioco è il gioco stesso (p.
195). A testimonianza del fatto che il gioco non è facile da capire, affiora in
queste ultime battute un nuovo elemento di tensione. È naturale infatti porre
in contrasto il gioco fine a sé stesso con quanto si fa «sul serio»; ma che
cosa c’è di più serio, per la bimba, dell’immersione totale, dell’assorta
partecipazione con cui vive le sue trasgressioni e i suoi esperimenti? È quando
le si vorrà imporre un comportamento giudicato desiderabile dai grandi che si
mostrerà svogliata e distratta come chi non prenda la cosa sul serio; lo farà
anche quando le si vorrà dare da mangiare, una volta soddisfatta la fame più
immediata, e si calmerà e riprenderà il suo sguardo intento e le sue mosse
accurate appena i grandi si saranno allontanati e le sarà possibile giocare con
il cibo. In Homo ludens, Johan Huizinga conferma l’esistenza di un problema
quando scrive: «l’opposizione gioco-serietà non pare né conclusiva né stabile»
(p. 23). E più avanti dichiara: «Bambini, calciatori, scacchisti giocano con la
massima serietà senza la minima tendenza a ridere» (p. 24). «L’autentica,
spontanea mentalità del gioco può essere quella della profonda serietà. Il
giocatore può arrendersi al gioco con tutto l’essere» (p. 45). Càpita spesso che
termini ritenuti descrittivi di come va il mondo abbiano un valore assai più
decisamente prescrittivo: fungano, cioè, da ricette implicite su come il
mondo dovrebbe andare. Una persona è spesso detta normale non perché
rappresenta una media statistica ma perché meglio si adatta alle norme di chi
così la descrive, e il senso comune è spesso comune solo a chi lo chiama in
causa per dar credito a una propria tesi. Qui siamo di fronte a una situazione
analoga. Le cose che si fanno sul serio sono quelle cui si dedica pazienza,
sforzo, attenzione costante, e per chi sia stato «appropriatamente»
socializzato pazienza, sforzo e attenzione dovrebbero essere profusi
nell’andare al lavoro, nel preparare la cena e nel lavare i piatti. Che nel
fare cose del genere si risulti svogliati e distratti, che non si riesca a
prestar loro la cura che meritano, è giudicato un’anormalità, per quanto
sovente succeda, per quanto oneroso sia adempiere alla norma che viene così
(implicitamente) assunta. La bimba che stiamo osservando ci rivela la vanità di
tali pretese: rivela nel modo più chiaro che per lei il gioco è l’attività più
seria, anzi perché qualcosa sia davvero preso sul serio (non si voglia soltanto
che lo sia) deve entrare a far parte di un gioco. Superata anche questa difficoltà,
sembriamo aver ottenuto un’immagine incondizionatamente positiva del nostro
oggetto di studio. Il gioco sovverte abitudini e aspettative, ma non solo
questa sua natura irrispettosa è compatibile con una sua funzione educativa:
sembra che non ci sia un modo migliore, forse non ci sia un altro modo, di
educare che sfidando lo status quo ed esaminandone minuziosamente tutte le
possibili alternative. Il gioco è piacevole ed è praticato per il piacere che
dà; eppure è l’attività più seria, forse l’unica attività che venga condotta
con autentica serietà. C’è però ancora un aspetto del gioco che occorre
discutere, ed è un aspetto stavolta inquietante. Il gioco è pericoloso;
violando abitudini e aspettative ci si può far male, ed è probabile che i
grandi lo sappiano – che, se la bimba è stata lasciata sola nella stanza a
giocare, gli spigoli più acuti siano stati tolti di mezzo, le prese di corrente
siano state coperte e le finestre siano ben chiuse (già il fatto che avesse a
disposizione una spillatrice avrà sollevato qualche perplessità). Abitudini e
aspettative richiamano alla mente un’atmosfera di inerzia, di tedio, di
mediocrità; e nell’immagine che ne abbiamo dato finora il gioco emerge, per
contrasto, come eroico e innovativo, fantasioso ed eccitante. Ma su abitudini e
aspettative si fondano contesti che ci rassicurano, che ci permettono di
guardare al futuro con fiducia, almeno finché il futuro somiglierà al passato –
a quel passato che ha gradualmente dato luogo al costituirsi di abitudini e
aspettative. Chi gioca, d’altra parte, non mette in crisi solo il suo ambiente
e magari le altre persone che lo popolano: mette in gioco, e in crisi, anche sé
stesso, e questo comportamento avventato implica inequivocabilmente dei
rischi. Di gioco si può morire. «Il gioco può sempre diventare un fatto
pauroso», afferma lo psicoanalista Donald Winnicott in Gioco e realtà. «I
giochi regolamentati [in inglese games, parola che in seguito dovrà essere
discussa] e la loro organizzazione debbono essere considerati come parte di un
tentativo inteso a tenere a bada l’aspetto pauroso del gioco» (p. 88;
traduzione modificata). Incontriamo così un ulteriore ostacolo sul nostro
cammino, un enigma da risolvere prima di poter raggiungere la prossima tappa.
Stabilito che il gioco ha tutte le caratteristiche positive che ho elencato,
urge però un’analisi di costi e benefici se vogliamo mantenerne una concezione
generalmente provvidenziale. Vale la pena di educarsi attraverso una piacevole
attività di trasgressione se tale attività minaccia la nostra integrità fisica
o psicologica? Non sarebbe stato meglio per l’evoluzione scegliere percorsi
meno arditi: associare un vivo piacere, per esempio, proprio a quell’ascolto e
a quell’applicazione degli insegnamenti di un esperto cui il gioco, irridente,
fa gli sberleffi? Sarà anche vero che giocando impariamo di più; ma non è
preferibile talvolta, o sempre, imparare meno, se l’imparare mette a
repentaglio la nostra esistenza e il nostro benessere – le ragioni, cioè, per
le quali vorremmo imparare qualsiasi cosa? In che senso un’attività che ci fa
spesso correre pericoli può essere funzionale alla nostra sopravvivenza?
3. Caos e ordine Nell’antica mitologia greca non esiste una creazione dal
nulla. Quel che dà origine al mondo così come abbiamo imparato a conoscerlo e
abitarlo è invece una variante globale delle pulizie primaverili: al caos
originario (quindi in particolare privo di inizio) si sostituisce un cosmo,
cioè una struttura ordinata che obbedisce a leggi definite. Noi da tempo non crediamo
più nella storia di Zeus e delle sue lotte sanguinose con Crono, i Titani e
svariate altre forze oscure e ancestrali (forse non ci credevano davvero
neanche i greci); in secoli di sviluppo scientifico abbiamo elaborato un
modello ben più articolato e plausibile dell’universo e delle sue origini. Solo
recentemente, però, tale sviluppo ha cominciato a incidere in modo critico su
quello che era rimasto un elemento fondamentale di accordo con le favole
antiche: risiediamo in un cosmo e di conseguenza basta (in linea di principio,
perché poi la cosa è difficile e magari impossibile da realizzare) scoprire le
leggi che lo regolano per poterne prevedere con assoluta certezza il
comportamento futuro. Se così fosse, non sarebbe una cattiva idea fidarsi delle
istruzioni di chi è più esperto di noi: le leggi del cosmo dovrebbero essere
sempre le stesse e chi le ha viste all’opera più a lungo di noi dovrebbe essere
in grado di darci in proposito indicazioni preziose. Non sembrerebbe economico
o vantaggioso che ciascuno di noi dovesse invece riscoprire – giocando,
esplorando e contestando – quel che è comunque già noto. Se pure traessimo un
grande piacere da queste pratiche, ci sarebbe da chiedersi – riformulando in
altri termini le domande con cui ho chiuso il capitolo precedente – perché la
biologia associ un piacere simile a un’attività che nella migliore delle
ipotesi è inutile e nella peggiore è controproducente. Certo è possibile che le
leggi «scoperte» da chi è vissuto e ha operato prima di noi siano sbagliate;
nella scienza non solo le teorie si sono spesso reciprocamente confutate e
avvicendate ma sembra addirittura all’opera una perversa induzione in base alla
quale ogni teoria un tempo ritenuta corretta si è poi rivelata fallace –
dunque, probabilmente, lo saranno anche le teorie che oggi riteniamo corrette.
Questa allarmante conclusione, però, varrebbe solo per quel che la
scienza offre di più profondo e sofisticato, non per quella sua solida
struttura intermedia che appare costituita di verità inoppugnabili. Nel saggio
Sulla libertà John Stuart Mill, paladino di una discussione pubblica il più
possibile aperta e coraggiosa, considera un problema il fatto che su un numero
crescente di tesi il progresso scientifico abbia pronunciato una sentenza
definitiva (quindi, in particolare, indiscutibile) e auspica che si ricorra a
espedienti fittizi – che so io? a sostenere accanitamente che la Terra sia
piatta – per ridar significato e vividezza a credenze che altrimenti rischiano
di trasformarsi in puri dogmi. In assenza di dibattito non vengono dimenticati
solamente i fondamenti di un’opinione, ma viene dimenticato sovente il
significato dell’opinione stessa. Le parole che la esprimono cessano di
suggerire idee, o suggeriscono solo una piccola parte di quelle idee che in
origine comunicavano. In luogo di un concetto vivido e di una convinzione viva,
rimangono soltanto alcune frasi ritenute meccanicamente; oppure, se rimane
qualcosa, è solo l’involucro o il guscio del significato, mentre la sua essenza
più pura è andata dissolta (p. 135). Col progresso dell’umanità, il numero
delle dottrine che non vengono più messe in discussione o in dubbio sarà
costantemente in aumento, e il benessere del genere umano può essere quasi
misurato dal numero e dalla rilevanza delle verità che hanno raggiunto la
condizione di verità incontestate [...]. Il venire meno di un aiuto così
importante all’intelligente e viva comprensione di una verità – com’è quello
offerto dalla necessità di spiegarla o di difenderla dagli avversari – [...] rappresenta
un inconveniente non di poco conto. Là dove questo vantaggio viene a mancare,
confesso che sarei contento di vedere i maestri del genere umano sforzarsi per
trovarne un sostituto, un espediente per far sì che le difficoltà della
questione siano presenti alla coscienza di colui che la affronta, allo stesso
modo in cui lo sarebbero se gli venissero imposte da un avversario agguerrito,
impegnato a convertirlo (p. 147). Con tutto il rispetto per Mill, però, siamo
daccapo: sarà appassionante riscoprire il senso di opinioni generalmente
accettate sottoponendole a critiche fittizie ma, al di là dell’intensa emozione
che provoca, a che cosa serve questo esercizio? Non converrebbe invece
riservare le nostre risorse ludiche per le questioni che si collocano ai
margini della conoscenza, dove non si è ancora raggiunto un pacifico accordo e
quindi le opinioni attuali saranno verosimilmente contestate in futuro? Una
modesta replica alla sfida suggerita da queste domande emergerà nel quinto
capitolo: se non mantenessimo attiva in noi la pratica della contestazione, sia
pure senza vantaggi diretti, non potremmo risvegliarla quando lo giudichiamo
opportuno. Come suggerivo poc’anzi, però, la scienza contemporanea ha fatto di
meglio: ha mostrato che è vantaggioso contestare non solo quel che è in
discussione o in dubbio (esercitandosi magari prima con quel che non lo è) ma
anche tutto ciò che si ritiene ormai acquisito. Un primo passo in tal senso
viene dalla teoria del caos. A dispetto del suo nome, questa teoria non dichiara
che il mondo non sia mai uscito da una condizione di disordine e non ci siano
leggi che ne regolano il funzionamento. Le leggi ci sono, codificate come
sempre nella fisica moderna da equazioni matematiche, ma le equazioni sono
altamente non-lineari. Per esse, cioè, non vale la condizione seguente (tipica
delle equazioni lineari): a variazioni minime nell’input (diciamo, nell’istante
di tempo considerato) corrispondono variazioni minime nell’output (diciamo,
nella posizione spaziale di un certo corpo; quindi in istanti molto vicini fra
loro il corpo sarà in posizioni molto vicine fra loro). In un’equazione
non-lineare, una variazione impercettibile nell’input può causare conseguenze
catastrofiche nell’output, secondo la metafora suggerita dal famoso effetto-farfalla:
il battito d’ali di una farfalla in un punto della Terra può causare, dopo un
certo numero di passi, un uragano di spaventose dimensioni in un altro punto.
Nel linguaggio tecnico della filosofia, la teoria del caos non cambia la
sostanza metafisica dell’universo, e infatti il caos che essa evoca è descritto
come deterministico, fedele alla posizione tradizionale (per quanto oggi un po’
in crisi) secondo cui il passato determina necessariamente il futuro. Sconvolge
però l’epistemologia del nostro rapporto cognitivo con il mondo. In ogni
situazione in cui ci troviamo, sapremo solo in misura approssimativa come
stanno le cose: i nostri strumenti di osservazione e di controllo hanno una
portata limitata e, se per caso non l’avessero, perderemmo la testa davanti
alla quantità infinita di dati (perlopiù irrilevanti) che ci fornirebbero (un
po’ come la perdiamo davanti all’incontrollabile quantità di dati fornita da
Internet). Il che non creerebbe problemi se una conoscenza approssimativa delle
cause ci desse una conoscenza approssimativa degli effetti: se potessimo
stabilire grosso modo che cosa seguirà da che cos’altro. L’effetto-farfalla ci
costringe ad accantonare questa ipotesi favorevole: informazioni che al momento
sono sotto la soglia osservabile dai nostri strumenti o che, se osservabili,
rimarrebbero alla stregua di un fastidioso rumore di fondo, potrebbero in
seguito acquisire un peso decisivo e confutare drasticamente ogni nostra
previsione – trasformarla in qualcosa che non è vero approssimativamente, o
fino a un certo punto, ma non è vero per nulla. In un caos del genere, il fatto
che esistano leggi (cioè equazioni matematiche che ne descrivano il
comportamento) o che le conosciamo ha scarso peso ai fini della nostra capacità
di adattarci al mondo. Le equazioni non-lineari, in generale, non sono solubili
con i metodi dell’analisi matematica; il meglio che si possa fare, in generale,
è simularle a un computer e osservarne il percorso – senza peraltro mai
sfuggire al problema che ho indicato: la nostra simulazione sarà efficace nella
misura in cui avremo dato i valori «giusti» ai parametri significativi, ma
spesso basterà un’alterazione infinitesima in uno di questi valori per cambiare
radicalmente la situazione. Che cosa ci converrà fare allora? Le equazioni
non-lineari attraversano fasi anche estese di linearità; nel caos esistono
nicchie anche cospicue di cosmo. In tali nicchie il futuro somiglia al passato
e, per chi ci vive, le previsioni degli esperti risultano accurate e le loro
istruzioni valide. Sarebbe una pessima idea, però, estrapolare da
un’accuratezza e validità locali una loro variante universale, perché le cose
possono cambiare enormemente e molto in fretta. È preferibile procurarsi una
polizza di assicurazione: rispettare previsioni e istruzioni finché dànno buona
prova di sé, ma continuare anche incessantemente a sperimentare concezioni
alternative del mondo e modalità alternative di azione. Vale a dire: conviene
incoraggiare la trasgressione dell’autorità (intellettuale e operativa)
costituita, l’esplorazione fine a sé stessa e il rischio che vi si accompagna –
perché il gioco, secondo il detto popolare, vale la candela. E, siccome (già vi
accennavo e ci ritornerò) non si può improvvisare un atteggiamento trasgressivo
da un momento all’altro, dopo aver seguitato per anni a genuflettersi deferenti
verso «chi ne sa più di noi», conviene (alla natura e anche a noi, in quanto
capiamo che in questo caso è meglio non ostacolarla) lasciare i cuccioli umani
liberi di godersi il loro gioco, precisamente nel senso delineato nel capitolo
precedente. Fin qui la teoria del caos, ma c’è di più. C’è la teoria della
complessità, dove (in una lettura, lo ammetto, un po’ radicale, che peraltro si
accorda bene a mio parere con importanti conclusioni kantiane) la sfida alla
visione tradizionale è di carattere metafisico, dove anzi si mette in
discussione il concetto stesso di metafisica. La conclusione raggiunta dalla
teoria del caos è che il mondo sia troppo complesso perché noi possiamo
conoscerlo in modo certo ed esauriente, e questa tesi (epistemologica) continua
a essere vera nel nuovo scenario, ma come conseguenza di una tesi assai più
forte, in base alla quale non esiste «il mondo», inteso come ente unico e
onnicomprensivo, dotato di una sua propria struttura, indipendente dal fatto
che lo si conosca o meno. Esiste invece un numero indefinito di descrizioni
diverse, formulate in vocabolari fra loro incommensurabili; quindi prima di
poter accedere a domande su che cosa ci sia e che natura abbia occorre
scegliere un vocabolario e così determinare un particolare ambito descrittivo,
nel quale sarà possibile fornire una risposta a quelle domande. Non si può dire
come stiano le cose, insomma (ed eventualmente fino a che punto siamo in grado
di conoscerle), finché non si sia deciso in che linguaggio dirlo. (E
parole come «scegliere» e «deciso» vanno prese alla lettera: la selezione di un
linguaggio non è un evento a sua volta determinato; è invece condizione
necessaria perché possa darsi, nel suo ambito, una qualsiasi determinazione.)
Vediamo di capirci con un esempio. Davanti ai nostri occhi allibiti si svolge
una seduta del Senato italiano, con il solito contorno di urla, parolacce,
insulti e spintoni. Questa, verrebbe da dire, è la realtà oggettiva, e non c’è
che da diventarne consapevoli. Si potrà provare a spiegarla, ma prima di
lanciarsi in una siffatta operazione bisogna appurare che cosa sia
effettivamente successo – e debba essere spiegato. E su questo non ci sono
dubbi. Davvero? Certo per me è naturale, essendo io un essere umano, leggere la
situazione in termini di esseri come me e di oggetti di media grandezza
(scranni, sedie, microfoni) come quelli con cui sono abituato ad aver a che
fare. Ma la stessa identica scena potrebbe essere descritta in un linguaggio,
per esempio, di particelle elementari, e in quel linguaggio la frase «X ha dato
una bastonata a Y» (memore in ciò dell’infelice destino di Tiberio Gracco, in
un altro Senato di epoche remote ma di clima analogo) non avrebbe corso: non potrebbe
essere né direttamente formulata né tradotta in un’altra frase di uso corrente
(o insieme di tali frasi). Oppure, invece di spostarci dalla media grandezza a
uno sguardo microscopico, potremmo andare in direzione inversa ed esprimere in
un linguaggio ideale e astratto la nostra accorata testimonianza di quanto sia
caduta in basso la civiltà occidentale e di come atti di ingiustizia, violenza
e volgarità siano conseguenze inevitabili di una perdita dei valori di
riferimento, e in questo linguaggio non ci sarebbero bastoni e nemmeno
particolari individui ma solo, appunto, valori e princìpi, contraddizioni
logiche e (forse) loro risoluzioni dialettiche. Oppure potremmo muoverci
lateralmente, per così dire, e, rimanendo sempre al livello degli oggetti di media
grandezza, vedere la scena con gli occhi non di un giornalista affascinato dai
pettegolezzi della politica ma di un usciere che appena il baccano sarà finito
e gli onorevoli si saranno allontanati dovrà pulire l’aula. (E si noti come
l’ultima possibilità citata permetta di affinare e approfondire quel che ho
detto in precedenza: che io sia un essere umano potrà influire in parte su come
mi viene «naturale» leggere una situazione, ma molto dipenderà anche, al
riguardo, da che tipo di essere umano sono – fra l’altro, da qual è la mia
occupazione.) Secondo la teoria della complessità, vale per molti dei linguaggi
in cui «la stessa» situazione può essere descritta che nessuno di essi sia
riducibile a un altro: ciascuno rappresenta un punto di vista autosufficiente
che costituisce la sua realtà, e non c’è una realtà neutrale e autonoma,
«sottostante» a queste diverse costituzioni. Un particolare linguaggio potrà
essere o non essere deterministico, nel suo ambito descrittivo il futuro potrà
somigliare o non somigliare al passato; ma anche chi avesse un controllo
assoluto di un linguaggio deterministico e potesse formulare in esso previsioni
del tutto certe rimarrebbe in presenza di un’infinita, irrimediabile apertura a
linguaggi diversi e dovrebbe operare una scelta fra tali linguaggi, sia pure
implicitamente o inconsciamente, prima di poter emettere qualsiasi frase dotata
di senso. Una delle difficoltà più ardue con cui si è costantemente confrontata
l’intelligenza artificiale è il cosiddetto frame problem: il problema della
cornice. Un computer è uno strumento di prodigiosa efficienza una volta che gli
sia stato assegnato un compito preciso: sa ricordare, calcolare e combinare
dati a velocità e con rigore sovrumani. Perché ciò accada, però, deve prima
ricevere questi dati; qualcuno glieli deve dare. Qualcuno, cioè, deve
configurare per lui il compito da eseguire e assegnarglielo: incorniciare un
quadro ben definito della situazione e chiedergli un intervento specifico entro
quella cornice, alle condizioni che essa pone. Sono esseri umani quelli che
provvedono alle cornici dei computer, e gli esseri umani non hanno bisogno che
altri lo facciano per loro: ovunque si trovino, sono in grado di decidere da
soli quale sia il compito prima di tentare di eseguirlo – e magari poi lo
eseguiranno con prontezza inferiore a un computer, ma è proprio per questo che
sono stati gli esseri umani a inventare dei computer che li assistessero e non
viceversa. Che cosa fa la differenza fra gli uni e gli altri? Una volta
inquadrato, un problema sarà risolto applicando istruzioni valide in quel
quadro; ma non possono esserci istruzioni su quali siano le istruzioni da
applicare prima che il problema sia inquadrato, perché ciò presupporrebbe che
l’inquadramento fosse già avvenuto; quindi un approccio che si serva solo di
istruzioni (come è stato finora quello disponibile a un computer) non può avere
successo. Posto di fronte a un quesito analogo, Kant invocava il giudizio, che,
in contrasto con le istruzioni, non può essere imparato a memoria e poi
eseguito meccanicamente ma solo essere stimolato e perfezionato mediante
l’esercizio e l’esempio. Il quesito però rimane: esercizio di quale pratica?
esempio di quale comportamento? La mia riformulazione del quesito ci riporta al
tema principale della nostra discussione. Quel che un essere umano impara (e a
tutt’oggi un computer non ha imparato) a fare è selezionare un punto di vista
appropriato dal quale vedere le sue circostanze, e nessuna selezione può
avvenire nel vuoto. L’esercizio che è opportuno per acquisire questa
capacità deve dunque consistere nel mettere in gioco i punti di vista più
svariati e adattarli alle circostanze, finché uno fra essi ci sembri (a torto o
a ragione) il più appropriato e facendolo nostro (almeno temporaneamente) noi
procediamo a interagire con le circostanze in quell’ottica, applicando le
istruzioni, o regole, che l’ottica determina (con modalità che studieremo nel
prossimo capitolo). L’esempio che può aiutarci in proposito avrà a che fare con
altre persone che fanno la stessa cosa. E la «cosa» di cui stiamo parlando ha
un nome, che non a caso ho già usato: gioco. Senza la continua, piacevole
trasgressione di abitudini e aspettative che abbiamo identificato con il gioco,
rimarremmo bloccati in un’unica prospettiva e forse qualcuno (dall’esterno)
dovrebbe premere un nostro tasto per farci scattare in una prospettiva diversa.
Violando l’uso appropriato di tutto ciò che ha intorno, il bambino sta
addestrandosi a sviluppare un suo senso di appropriatezza che gli permetta di
inquadrare un compito senza che altri lo facciano per lui. E, se volessimo
davvero che un computer acquistasse la stessa capacità, dovremmo avere il
coraggio di lasciar giocare anche lui – come suggerivo anni fa, un po’
preoccupato delle conseguenze del mio stesso suggerimento, in Giocare per
forza. Riassumendo, l’itinerario che stiamo percorrendo nel continente gioco ci
aveva posto davanti a un ostacolo: sembrava irragionevole che i nostri istinti
privilegiassero un’attività che avrà sì valore educativo ma comporta gravi
rischi. L’ostacolo è stato affrontato e superato, chiarendo che non ci sono
alternative plausibili al correre rischi di questo tipo. Indipendentemente dal
fatto che ogni ricetta di vita elaborata in passato potrebbe rivelarsi sbagliata,
è comunque vero che le ricette che fossero al momento «giuste» sono state
elaborate sulla base delle regolarità riscontrate finora e saranno prima o poi
contraddette dalla natura caotica del mondo; quindi è bene adottare un
atteggiamento sperimentale ed esplorativo che allarghi l’ambito delle nostre
possibilità di concezione e di azione ben al di là di quanto è utile adesso –
perché non possiamo sapere che cosa sarà utile in futuro, quando la nostra
nicchia diventerà inospitale. Inoltre, questo stesso sperimentare ed esplorare
è indispensabile se vogliamo essere più che semplici esecutori di compiti: se
vogliamo determinare quali siano i compiti da eseguire. C’è qualcosa di
eccessivo nel gioco; esso sembra richiedere qualcosa (o molto) di più del
necessario (ricordiamo la segnalazione da parte di Caillois del suo
«sovrappiù»). Stiamo cominciando a capire, però, che per ottenere il necessario
si deve spesso scommettere sull’eccessivo, su ciò che al momento non
conta, che al momento è solo possibile. 4. Regole Avendo così
tutelato la natura provvidenziale della sua attività, torniamo alla bimba che
gioca e portiamone alla luce un aspetto che era rimasto in ombra. Per quanto
trasgressivo ed esplorativo, impertinente e creativo, il gioco ha dei limiti.
La bimba può percorrere la stanza in lungo e in largo, ma si scontrerà infine
con le pareti; può rigirare per ogni verso gli oggetti disponibili e combinarli
nei modi più inaspettati, ma dovrà piegarsi al fatto che questi oggetti hanno
una certa forma, sono composti di un certo materiale, hanno un certo peso e
certe dimensioni, una superficie ruvida o levigata, sono rossi piuttosto che
neri, sonori piuttosto che ottusi, luccicanti piuttosto che opachi. E lo stesso
varrebbe per qualsiasi altra situazione e in qualsiasi altro ambiente: ci
sarebbero sempre dei parametri che determinano l’impossibilità di certe mosse e
l’irraggiungibilità di certi obiettivi. Quando gioca, la bimba può fare molto,
e molto di sorprendente, ma non può fare tutto. Per dirla altrimenti, la mia
descrizione del gioco ne ha sottolineato la tendenza a ribellarsi a ogni fonte
di autorità, sia essa la tradizione, il buonsenso, gli espliciti comandi o
divieti di un «superiore» o la soggezione che proviamo nei confronti di quanto
è utile o opportuno – e ci costringe a comportarci in un modo specifico per
conseguirlo. In contrasto con ogni attività asservita e deferente (a una
persona, a un compito, a un ruolo, a uno scopo esterno), il gioco si presenta
come spontaneo: pronto a seguire idiosincrasie e ghiribizzi, a cambiare
direzione, a ricominciare da capo senza sentirsi vincolati a quel che si è già
realizzato o raggiunto, per nessun altro motivo che il puro piacere di giocare.
Ha insomma tratti che normalmente associamo alla libertà, e Huizinga è d’accordo:
«Ogni gioco è anzitutto e soprattutto un atto libero. Il gioco comandato non è
più gioco» (p. 26). Da qui a trovare nella libertà, quindi nel gioco, l’essenza
della nostra umanità e a lanciarsi in un peana celebrativo di una specie
biologica che sacrifica il proprio tornaconto alla pratica del superfluo, del
gratuito, dell’errabondo il passo sarebbe breve; ma non cederò (per ora) a
questa tentazione. Mi chiederò invece che cosa si debba intendere per libertà e
risponderò che di solito non s’intende un’infinita capacità di arrivare
dappertutto e ottenere qualsiasi risultato bensì la capacità di operare una
scelta entro un ambito più o meno ristretto di opzioni. La libertà che noi
conosciamo non è una condizione assoluta, sciolta cioè da ogni legame, da ogni
relazione; è sempre e solo un determinato grado di libertà, come quello che mi
è consentito dai miei arti, che certo mi dànno una notevole libertà di
movimento ma non mi rendono possibile ogni movimento. Nel primo capitolo ho
mostrato quanto ambigua appaia la parola «gioco» e mi sono proposto di
riscattare questa (apparente) ambiguità: di raccontare una storia in cui i suoi
vari significati siano connessi, nascano l’uno dall’altro per motivi
comprensibili. In lingue diverse dall’italiano l’ambiguità sembra ancora
maggiore: parole come «play», «spielen» e «jouer» possono anche significare che
si recita o si suona uno strumento – e anche questi significati dovranno essere
catturati dalla mia storia. Qui però voglio notare un’altra vicissitudine semantica
del gioco (Huizinga ci informa che essa «è comune al francese, all’italiano,
allo spagnolo, all’inglese, al tedesco, all’olandese e [...] al giapponese», p.
66), illustrativa della tesi che sto articolando adesso. Chiamiamo «gioco»,
infatti (o «play», o «Spielraum», o «jeu»), lo spazio libero che (per esempio)
una vite ha nel suo foro filettato, quando non aderisce a perfezione, quando
«balla». È anche in questo senso che la bimba gioca: le pareti, il pavimento e
i vari oggetti che vi giacciono sopra le permettono un certo gioco, un certo
(limitato) spazio di discrezione, che lei occupa ballandovi, riempiendolo con
le sue piroette e i suoi salti. Ed è questo il ruolo principale, ritengo, che
il gioco ha nella nostra vita, il fondamento ultimo di ogni suo contributo alla
nostra sopravvivenza e al nostro benessere. Quella che ho appena enunciato
è una tesi controversa e audace, una sfida a inoltrarsi per un ispido percorso
nel labirinto e una promessa che per tale via procederemo più spediti verso il
traguardo. Devo dunque giustificare la tesi, convincere i miei compagni di
avventura ad accettare la sfida. Per farlo, torniamo al valore adattativo del
gioco. In primo luogo, ho detto, esso funge da polizza di assicurazione:
esplora comportamenti alternativi cui rivolgersi quando le equazioni
non-lineari che controllano il mondo dovessero impazzire; risponde al caos
esterno dando luogo a un microcaos privato, cercando di anticipare le prossime
sorprese che l’ambiente ci offrirà con mosse a loro volta imprevedibili e
destabilizzanti. In secondo luogo, ci educa a slittare costantemente da una
prospettiva all’altra, a non rimanere inchiodati a un singolo modo di percepire
la nostra situazione, a «incorniciarla» dagli angoli più diversi, perché
questo slittamento diventi a sua volta un’abitudine e ci aiuti a scegliere in
ogni occasione la cornice adeguata in cui inquadrare i nostri problemi e le
nostre esigenze. Entrambe le funzioni implicano una medesima conseguenza: il
gioco deve avere un oggetto, ci deve essere qualcosa con cui si gioca, quindi
qualcosa che inevitabilmente offre resistenza al gioco. I comportamenti
alternativi cui mi rivolgerò quando quelli attuali facessero cilecca devono
trovar posto in un qualche ambiente specifico: per folle che sia diventato il
mondo, devo comunque sperare che ci sia ancora intorno a me un mondo oppure non
varrebbe la pena di indulgere in nessun comportamento. Lo stesso vale per le
mutazioni prospettiche: una prospettiva è sempre di, o su, qualcosa; una
cornice racchiude sempre un quadro. Il gioco dunque potrà (e dovrà) essere
sovversivo ma non uniformemente distruttivo; la libertà che in esso si esprime
ci porterà a varcare la soglia di quanto finora era stato considerato lecito o
vantaggioso ma non ad annullare la legittimità di ogni soglia e di ogni limite
e ad azzerare ogni possibile struttura in un’esplosione universale e
universalmente catartica. Al di là della soglia che varchiamo ne troveremo
un’altra, che definirà la nostra azione ludica; fatta a pezzi una struttura ne appronteremo
un’altra, che darà alla nostra azione concretezza e sostanza. La sostanza e la
concretezza di un sogno, forse; ma non del nulla. A rendere difficile lo studio
e la valutazione della nostra forma di vita è soprattutto il suo mantenersi in
precario equilibrio tra fattori e istanze contrastanti, il cui peso opposto va
tenuto in debito conto, evitando facili ma deleterie riduzioni a uno dei piatti
della bilancia. Questa considerazione cade a proposito con il termine che
stiamo esaminando, nella fase in cui siamo dell’esame: che il gioco
trasgredisca le aspettative è vero ma non va portato all’estremo, dando luogo a
una retorica della trasgressione in quanto tale, aprendo la strada a una
trasgressione così generalizzata e globale che alla fine non le rimanga più
niente da trasgredire. Sapete bene di che cosa sto parlando: di quegli
intellettuali (o artisti, o politici rivoluzionari) che il film C’eravamo tanto
amati rappresentava con sapiente ironia nel personaggio interpretato da Stefano
Satta Flores, sempre «oltre», sempre terrorizzato dall’eventualità di poter
andare d’accordo con qualcuno e infine schiacciato nella più banale e
televisiva delle ossessioni. Non è strano che questa retorica copra spesso
atteggiamenti conservatori, quando non biecamente reazionari: se la nostra
trasgressione equivale semplicemente a far saltare in aria tutte le polveriere,
allora nel vuoto che avremo creato (e sotto la protezione del fumo con
cui avremo oscurato la vista) si rifaranno avanti per inerzia le solite mosse e
i soliti valori. Negarli è un momento essenziale della costruzione di
un’alternativa, ma non può essere l’unico momento perché una negazione, in sé e
per sé, non costruisce nulla; e se nessuna nuova costruzione è disponibile ci
adatteremo, magari a malincuore (e con la coscienza un po’ sporca), nelle
baracche cui siamo abituati, per quanto danneggiate siano dalla nostra azione
trasgressiva. L’umile gioco della vite ci offre un antidoto a tanto mal riposto
entusiasmo. Ci invita a non trasformare il gioco in una condotta esorbitante,
cioè ex orbe, fuori dall’orbe terracqueo; ci ricorda che il gioco avviene
sempre in un contesto, ha sempre un orizzonte (vale per l’orizzonte, come per
la soglia, che varcatone uno se ne troverà un altro) e consiste nel modulare le
nostre reazioni al contesto, nel navigarne con perizia le correnti, nel
manipolare con gesti insospettati e inauditi quanto popola il contesto senza
però rifiutarlo in blocco, senza chiudere gli occhi davanti alla sua specifica
consistenza, alle sue particolari proprietà, che possono essere manipolate in
certi modi ma non in altri. È gioco (come quello della vite) approfittare del
grado di libertà che mi è lasciato dai miei impegni di lavoro per imparare il
russo o andare in palestra; non sarebbe gioco bruciare la casa e tutti i miei
averi e allontanarmi senza meta nella notte. Ci sono circostanze in cui può
essere giusta una scelta così radicale, ma solo come premessa per un gioco
ancora da inventare, in un ambiente ancora da scoprire, non come essenza di un
gioco già in atto. Chi risulterà convinto da queste mie argomentazioni sarà ora
disposto a seguirmi per la via che ho intrapreso e avrà nel contempo imparato,
vedendola all’opera in un caso paradigmatico, un’importante lezione: quanta
pazienza occorra per evitare prevaricazioni e assurde semplificazioni, quanta
saggezza sia necessario conservare nel mezzo delle pratiche più dissacratorie.
Incontreremo altri esempi con la stessa morale; per ora riaffermiamo la
conclusione raggiunta con una variazione sulla metafora dell’orizzonte. Il
gioco è sempre parzialmente trasgressivo; ci sono sempre per esso una figura
che il gioco mette in discussione e uno sfondo che rimane fuori portata. E si
badi che questa è una metafora, quindi lo sfondo può benissimo far parte della
figura quando «figura» sia presa in senso letterale (e viceversa). Per la bimba
che gioca (in un certo modo) con la spillatrice, il normale uso di tale
strumento fa parte della figura che viene contestata, ma la sua forma e
solidità fanno parte dello sfondo – oppure, tornando alla metafora precedente,
fanno parte del foro filettato nel quale balla la vite. A riprova della
pazienza che ho definito indispensabile, quest’ultimo sommario del risultato
acquisito ha già bisogno di una correzione, o almeno di una precisazione contro
possibili malintesi. Potrebbe sembrare infatti che la forma e la solidità della
spillatrice, o di qualunque altro elemento appartenga allo sfondo, vi
appartengano in senso oggettivo, siano presupposti del gioco della bimba
indipendentemente da come lei agisca; e questa apparenza è errata. Ma, come con
molti errori, discuterlo ci aiuterà a capire meglio l’intera faccenda. I
bambini non sono soltanto simpatici e allegri scavezzacollo, non passano tutto
il loro tempo giocando con fantasia e con profitto. Talvolta fanno i capricci,
urlano e strepitano, si divincolano e picchiano i pugni per terra, o su quello
che fino a un istante prima era l’oggetto del loro gioco. Quando si abbandonano
a simili sfoghi, spesso il motivo è che l’oggetto si rivela un ostacolo ai loro
piani, sordo alle loro richieste, impermeabile alle loro sollecitazioni. Il
cubo non vuole saperne di rotolare come una palla; la palla continua a
scivolare giù dal cubo sul quale si vuole che stia ferma, e neanche il cubo
riesce a stare sopra la palla. Allora il bambino, frustrato e irritato,
afferrerà cubo e palla e li getterà contro il muro, e manifesterà una
disperazione tanto insanabile quanto, per fortuna, solitamente di breve durata.
Non sta a me dire quanto durano in media i capricci di un bambino o come
risolverli il più in fretta possibile; non sono uno psicologo, dell’età dello
sviluppo o di altra età. So però come descrivere e spiegare quel che accade,
nella migliore delle ipotesi, quando i capricci si siano risolti; so fornire
un’impalcatura concettuale per comprenderlo e servirmene per articolare
ulteriormente l’impalcatura concettuale del gioco. Il bambino può perdere
interesse per un oggetto così recalcitrante, così poco collaborativo, e
rivolgere la sua attenzione altrove. Può farsi distrarre e consolare dalla
mamma. Ma può anche – e questa è per noi la migliore delle ipotesi, quella che
ci aiuta a proseguire nel nostro cammino – accettare quanto nell’oggetto si è
mostrato recalcitrante: accettare che l’oggetto non possa essere contestato in
quel modo, a quel livello. Un cubo può passare per mille peripezie, entrare in
mille storie, ma non rotola; ed è necessario prenderne atto se si vuole davvero
farci qualcosa – qualcosa di diverso dal gettarlo contro il muro. Quando il
bambino ne ha preso atto, questa proprietà del cubo recede sullo sfondo, ma ciò
non vuol dire che perda importanza. Tutt’altro: ognuna delle figure che il
gioco costruisce e sostituisce a quella originaria, a quella che viene violata
e trasgredita, è un elemento variabile del gioco, può esserci o non esserci,
comparire o sparire, senza che il gioco cambi, perché esso consiste
proprio nel generare figure così variabili. Lo sfondo, al contrario, definisce
il gioco: ne detta le condizioni. Accompagneremo il cubo per mille peripezie
compatibili con il fatto che non rotola. Chi pensasse che il cubo rotoli
starebbe giocando (senza troppo successo, presumo) un altro gioco. Appropriata
soggettivamente dal bambino, la resistenza esercitata da un oggetto diventa
interna al gioco: ne diventa una regola. «L’attributo essenziale nel gioco»,
dichiara Lev Vygotskij in Il processo cognitivo, «è una regola che è diventata
un desiderio» (p. 146), e continua: è una regola interna, una regola di
autorepressione e autodeterminazione, come dice Piaget, e non una regola a cui
il bambino obbedisce come a una legge fisica. In breve, il gioco dà al bambino
una nuova forma di desideri. Gli insegna a desiderare mettendo in relazione i
suoi desideri con un «Io» fittizio, con il suo ruolo nel gioco e con le regole
di questo. Inoltre per Vygotskij, a differenza che per Jean Piaget, «si
potrebbe [...] proporre che non esiste gioco senza regole» (p. 138), e Huizinga
è d’accordo: «L’essenza del gioco [...] sta nel rispetto alle regole» (p. 86).
Da un po’ di tempo nel nostro paese si parla una strana lingua, soprattutto in
ambienti giovanili, aziendali e in generale «al passo» con la cultura popolare
più avanzata. A un italiano rozzo e approssimativo si mescolano termini inglesi,
insieme con strafalcioni che vorrebbero essere termini inglesi ma invece non
hanno corso (o senso) in nessuna lingua. Chi parli questo gergo (o se preferite
lingo) non sarà rimasto particolarmente colpito dal mio giustapporre, nel primo
capitolo, il gioco della bimba e il gioco del calcio; si tratta chiaramente,
avrà pensato, della differenza tra play e game, quindi non c’è motivo di
perplessità. Sarebbe facile obiettare che le due parole, in inglese, sono assai
più intimamente legate di quanto questa semplice distinzione faccia supporre:
che si dice «to play a game», i partecipanti a un game si dicono players e
l’italiano «giocoso» si può tradurre altrettanto bene con «playful» e
«gamesome». Io qui intendo, però, fare un altro discorso, che riprende la chiusa
di quello stesso primo capitolo: rilevare l’importanza della strategia
intellettuale sottesa alla distinzione e chiarire che, per motivi altrettanto
importanti, me ne dissocio. Ho detto che la logica aristotelica è analitica
perché fondata sull’analisi, sulla divisione; e ho aggiunto che adotterò invece
una logica dialettica, hegeliana. Aggiungo ora che le due logiche nascono da
due diversi atteggiamenti nei confronti della contraddizione, dell’incoerenza.
Nella logica analitica, la contraddizione è il più terribile spauracchio e,
ogniqualvolta se ne profili la minaccia, il rimedio universale è appunto il
divide et impera: il significato che sembrava contraddittorio consta in realtà
di due (o più) significati distinti, che sarebbe meglio, per evitare confusioni,
etichettare con due distinte parole – se è il caso, con termini tecnici
introdotti all’uopo. Non c’è vera contraddizione, per esempio, fra l’educazione
intesa come formazione di una personalità e come passaggio di contenuti
nozionistici (che non forma nessuno): è che la stessa parola è usata in sensi
diversi, quindi sarebbe meglio usare parole diverse, diciamo «educazione» e
«istruzione». La logica dialettica, invece, si nutre di contraddizioni come se
ne nutre una storia e, in generale, ogni struttura vitale: è affrontando e
superando il contrasto radicale fra il suo desiderio d’indipendenza emotiva da
un lato e quello di stabilire un legame affettivo dall’altro che un adolescente
arriva a ridefinirsi non più come membro della sua famiglia di origine ma come
partecipe della fondazione di una nuova famiglia; e in questa ridefinizione i
due elementi del contrasto che lo lacerava non sono dimenticati – sono anzi la
sostanza stessa della nuova fase del suo sviluppo, che è ora quella di una
persona tanto indipendente quanto emotivamente legata. È bene per me reiterare
qui la mia scelta logica di fondo e specificarla meglio perché siamo arrivati a
un punto nodale del nostro percorso, in cui si apre chiaramente un bivio fra le
due strategie. Tutto quel che ho detto finora del gioco della bimba, del suo
significato adattativo, dei rischi che comporta e dell’opportunità di correre
tali rischi può essere considerato appartenente a un singolo significato
(analiticamente inteso) della parola «gioco». Un significato complesso e
intricato, da svolgere con cura, ma ciò nonostante un unico significato perché
non infetto da alcuna contraddizione. Ora però ci troviamo di fronte al fatto,
apparentemente innegabile, che il gioco del calcio è identificato da un insieme
di regole e il gioco della bimba no; quindi, da un punto di vista analitico,
deve trattarsi di «giochi» distinti. In questo spirito Caillois, per fare solo
un esempio (ne farò un altro più avanti), divide i giochi in categorie
contrapposte, affermando: «I giochi [...] non sono regolati e fittizi. Sono
piuttosto o regolati o fittizi» (p. 25). E poi precisa: «[la] classificazione
proposta [...] [che distingue giochi di competizione, di fortuna, di
travestimento e di vertigine] non avrebbe alcuna validità se non si vedesse con
evidenza che le suddivisioni che essa stabilisce corrispondono a degli impulsi
essenziali e irriducibili» (p. 30; corsivo aggiunto). Il lavoro svolto in
questo capitolo mi consente, nello spirito della logica dialettica, di gestire
la contraddizione in altro modo, perché mi consente di riconcettualizzare
alcuni aspetti della situazione della bimba come regole del suo gioco e di
stabilire così la parentela fra i due tipi di gioco, che in questa luce
sarebbero meglio detti due fasi del gioco – di un gioco che, nella sua
evoluzione da una fase all’altra, rimane sempre uguale a sé stesso.
Ridefinizioni come quella che incontriamo qui sono possibili solo a uno sguardo
retrospettivo. Se le nostre osservazioni e i nostri dati fossero limitati al gioco
della bimba, sarebbe peregrino parlare del fatto che la bimba rinuncia a far
rotolare il cubo come della sua assunzione di una regola. Per dirne una, questa
è una «regola» che nessuno ha formulato e di cui addirittura forse nessuno è
cosciente. Ma dal successivo punto di vista di giochi come il calcio, le cui
regole sono sancite da istituzioni ufficiali e applicate (si spera) alla
lettera da tutti i praticanti, è possibile cogliere l’analogia con quella
primitiva forma di adeguamento: vederla come il germe che sarebbe poi fiorito
in regole precisamente codificate e trasmesse, come una manifestazione ancora
implicita di una caratteristica che si sarebbe successivamente fatta largo con
evidenza. Tale è appunto la logica della vita. Il senso dell’essere un bambino
subito quietato da una ninna nanna, o affascinato da oggetti di forma semplice
e pura, si coglierà solo quando l’adulto che quel bambino sarà diventato si
rivelerà un critico musicale o un geometra di prima grandezza; solo allora sarà
possibile raccontare la storia che è quel senso. Così, almeno, si procede nella
logica dialettica che ho adottato; in logica analitica, si potrebbero solo
smembrare le situazioni ed esperienze infantili e definirle in base ad alcuni
tratti (essenziali) che risultassero dallo smembramento, e andrebbero
nettamente distinti dai tratti che definirebbero le situazioni ed esperienze
dell’adulto. Nel caso specifico del gioco, come già accennavo, Piaget nega che
quelle del bambino molto piccolo siano regole, e dichiara (aprendo un tema sul
quale dovrò ritornare): prima del gioco in comune non potrebbero esistere delle
regole vere e proprie: esistono già delle regolarità e degli schemi
ritualizzati, ma simili rituali, essendo l’opera di un individuo solo, non
possono comportare quella sottomissione a qualcosa di superiore all’io,
sottomissione che caratterizza l’apparire di ogni vera regola (Il giudizio
morale nel bambino, pp. 29-30). Vygotskij, invece, scopre le sue carte
hegeliane (e quelle della sua fonte) quando, nella stessa pagina in cui esprime
il suo disaccordo con Piaget, cita il detto di Marx secondo cui «l’anatomia
dell’uomo è la chiave dell’anatomia della scimmia» (p. 138). Decenni più tardi,
e senza citare nessuno, Steve Jobs avrebbe affermato che si può ricostruire il
senso della propria vita – in inglese, connect its dots – solo per il passato,
non per il futuro. Ecco allora come la ridefinizione del gioco della bimba si
estende alle prossime fasi del nostro itinerario: Se è vero che il gioco è
trasgressivo, è anche vero però che la sua trasgressione ha luogo in un ambito
che non viene a sua volta trasgredito. Questo ambito dà al gioco
condizioni, cioè regole, precise e ne definisce l’identità – determina che
gioco sia: il gioco condotto a quelle regole. Nell’ambito delle sue regole, un
gioco rimarrà tale in quanto è trasgressivo e anche esplorativo, piacevole e
rischioso; ma, più complesse e articolate sono le sue regole, più complesse e
articolate dovranno essere la sua trasgressione, esplorazione eccetera. Un buon
giocatore di scacchi conoscerà bene le regole e avrà studiato molte partite dei
grandi maestri del passato, ma sarà un buon giocatore non perché ricorda e
saprebbe ripetere fedelmente le une e le altre quanto piuttosto perché, sapendo
tutto quel che sa, è in grado di sorprendere il suo avversario con una variante
inedita o un misterioso sacrificio – anzi, tanto più sarà bravo quanto più
saprà sorprendere un avversario che abbia conoscenze pari alle sue, magari
usando le conoscenze stesse per elaborare tattiche ancora più originali e
sorprese ancora più intense. Nelle parole di Caillois: «Il gioco consiste nella
necessità di trovare, d’inventare immediatamente una risposta che è libera nei
limiti delle regole» (p. 24). Tutto bene, sembra. O forse no. L’unificazione
dialettica che abbiamo così realizzato fra giocare con palle e cubi e giocare a
calcio o a scacchi reagisce ora in modo inquietante con la giustificazione
provvidenziale che avevo dato del gioco. È straordinariamente utile, dicevo,
per un cucciolo umano imparare giocando a controllare il suo corpo e i suoi
movimenti, a riconoscere e manipolare oggetti nello spazio, a dialogare ed
empatizzare con i suoi simili. Quando però questi straordinari progressi siano
già stati effettuati, qual è il senso e il valore del correre dietro un pallone
o dello scervellarsi su un’apertura di cavallo? Se il mondo è caotico, sarà una
buona idea esercitarsi ad abitare scenari diversi da quello attuale; ma che
idea è concentrarsi su attività come quelle appena citate? Ci aspettiamo che il
mondo diventi un giorno un gigantesco stadio o una gigantesca scacchiera? O
abbiamo invece a che fare, in questi casi, con delle forme di tic, di
dipendenza: con circostanze in cui quel che una volta dava piacere per ottimi
motivi adesso continua a dare piacere senza nessun motivo, e noi non sappiamo
farne a meno? 5. Microcosmi Che un’attività o un’inclinazione
originariamente proficue si cristallizzino in un vano manierismo, in un’assurda
coazione a ripetere è certo possibile, e nel caso del gioco accade di
frequente. In Giocare per forza, dicevo, ho esaminato varie patologie ludiche,
varie sembianze posticce in cui si presenta qualcosa che non è più se non lo
spettro del gioco, un parassita che ne ha invaso l’area vitale soffocandone l’energia,
la scoperta e il piacere; le patologie non insorgerebbero se non si desse la
perversa possibilità che ho appena riconosciuto – se il gioco non potesse
andare alla deriva, non ci andrebbe così spesso. Per quanto ampiamente diffuso,
però, questo esito negativo non ha portata universale per il gioco condotto,
soprattutto dagli adulti, in ambienti fittizi e addomesticati come un campo di
calcio o una scacchiera. Al contrario, rimane vero in tali casi che l’esito
negativo è una perversione e che esistono modi legittimi di abitare quegli
ambienti fittizi e ottime ragioni per cui debbano essere fittizi. O forse
«fittizi» non è il termine giusto; più oltre dovremo riprendere in esame la
questione, con risultati su cui al momento converrà soprassedere. Cominciando
con la ragione più semplice, chi non gioca mai finirà per atrofizzare
completamente la sua capacità ludica così come chi non si muove mai finisce per
atrofizzare i suoi muscoli; una certa quantità di gioia trasgressiva, di
istruttiva esplorazione deve trovar posto nella nostra esistenza se non
vogliamo trasformarci in automi, morti prima del tempo pur continuando a
respirare e a metabolizzare il cibo. Se occupazioni e pratiche quotidiane non
ci lasciano molto tempo per il gioco, non avremo alternativa a trovarlo in
spazi riservati, in microcosmi di libertà entro i quali sfuggire a obblighi e
impegni. (E sarà un destino tanto più atroce e beffardo vedere questi presunti
spazi serrarci in nuove forme di schiavitù: vedere la nostra presunta libertà
arenarsi nel tetro cerimoniale di una slot machine o del «gioco» del lotto.)
L’agilità non si conquista una volta per tutte ma va mantenuta con uno sforzo
costante: in ambito fisico, con le corse e le flessioni mattutine; in ambito
mentale, con il sudoku e le parole crociate; in ambito ludico, improvvisando
una discesa da centrocampo o un arrocco – se non si dànno altre
circostanze in cui ci sia lecito improvvisare. Per addentrarci più a fondo e
nelle pieghe più complesse del problema, riprendiamo in considerazione il
carattere rischioso del gioco. È necessario tollerarlo, dicevo nel terzo
capitolo, perché senza correre rischi non potremmo sostenere il delicato
equilibrio, sempre temporaneo e sempre da rinegoziare e reinventare, richiesto
da un mondo caotico e costituzionalmente imprevedibile. Elaborare nuove
strategie e comportamenti inusuali è a sua volta una strategia preziosa se
nessuna strategia sarà efficace per sempre, e il gioco assolve questa
indispensabile funzione. C’è però una strada intermedia fra l’arrivare
impreparati alla prossima catastrofe (ecologica, finanziaria, sociale) e
l’affrontare ogni catastrofe possibile prima che diventi reale: affrontare
piccole catastrofi sostitutive e rappresentative di quelle che potrebbero
capitare, giocare non direttamente nel mondo, e con il mondo, ma ancora una
volta in un microcosmo, una palestra che ci permetta di compiere qualche
avventata manovra senza correre gravi pericoli. Non proprio le avventate
manovre di cui avremmo bisogno quando si prospettasse un’autentica catastrofe,
forse; ma manovre abbastanza simili a quelle da darci una speranza di salvezza.
In altra sede ho articolato questa tesi commentando un passo del Principe di
Machiavelli; qui riassumerò in breve l’aspetto che ci riguarda. Il principe, dice
il Nostro, deve ininterrottamente addestrarsi alla guerra; ma come può farlo
quando la guerra non c’è e manca l’opportunità di farne pratica? Risposta: in
periodi di pace l’esercizio bellico del principe dovrà essere condotto andando
a caccia. Si metteranno così in azione doti che in guerra saranno di grande
utilità: la resistenza alla fatica, il compatto e disciplinato lavoro di
gruppo, la disinvoltura nel gestire varie configurazioni del terreno. E lo si
farà in modo tanto più adeguato allo scopo finale quanto più quello scopo sarà
presente al principe e ai suoi compagni: quanto più essi non si lasceranno
assorbire inerti dai meccanismi della caccia ma se ne serviranno attivamente
come di una scusa per giocare alla guerra. Immaginando nemici appostati su una
collina o nascosti nella macchia; ragionando su come sventarne la minaccia e
ridurli in proprio potere. Certo sarebbe più realistico, quindi più efficace,
inscenare una vera guerra, con vero spargimento di sangue; numerose narrative
distopiche molto popolari di questi tempi raccontano un futuro angoscioso in
cui un’umanità perduta si diletta con simili trastulli. Chi (come me) ritenga
inviolabile il rispetto per l’integrità fisica e psicologica di ogni persona
rifuggirà con orrore da manifestazioni di tale vividezza e preferirà
«accontentarsi» della lezione di Machiavelli. Una lezione che dobbiamo
generalizzare e dalla quale dobbiamo trarre importanti conseguenze. Prepararsi
alle sorprese che il futuro ci riserba esige che abbandoniamo la serena, un po’
soporifera certezza delle abitudini consolidate e ci mettiamo in gioco. Non
necessariamente in modo estremo, però, se arrivare all’estremo significa far
violenza a noi o ad altri. Possiamo metterci in gioco per procura, compiendo
mosse che in parte somigliano a quelle che dovremmo compiere nei momenti
effettivi di crisi, e sperare che quando tali momenti verranno ciò che abbiamo
imparato, per quanto insoddisfacente rispetto all’originale (quel che in parte
somiglia è anche in parte diverso), ci aiuti a sopravvivere e a prosperare. È
questo il ruolo del calcio e degli scacchi (oltre al loro contributo, già
menzionato, nel tenere il corpo o la mente «in forma»): chi sa sfuggire con
destrezza a un marcatore riuscirà forse a farlo davanti a un attacco ben più insidioso;
chi sa anticipare dieci mosse del suo avversario saprà forse anticipare il
percorso di una meteora o di un tornado. Poco fa ho chiamato questi «giochi per
procura»; voglio ora insistere sul termine perché è indice di un cruciale
slittamento semantico. Ogni sportivo sa quanto valgano gli allenamenti per far
bene in gara o nella partita; e sa che, per quanto preso tremendamente sul
serio, un allenamento non è mai la stessa cosa di una gara o di una partita.
Troppi fattori emotivi entrano in circolo quando si è alle prese con i cento
metri di una finale olimpica o l’ultimo incontro di un torneo: fattori che, per
quante volte si siano ripetute le mosse che si eseguiranno allora, rendono
quella situazione totalmente diversa – diversa proprio perché in essa non si
può ripetere nulla, perché è unica e irripetibile. Propongo di concepire la
grandissima maggioranza di quelli che comunemente denominiamo giochi come
allenamenti in questo senso. In certi casi noi stessi, o qualcosa o qualcuno
che conta molto per noi, siamo letteralmente in gioco; e questo è il gioco che
ci definisce, che ci qualifica come animal ludens, come l’animale che non ha
una nicchia ecologica ma, forzando costantemente i limiti della sua
adattabilità e sopportazione, ha fatto del mondo intero (questo mondo, per ora,
e domani, chissà, anche altri) la sua nicchia. Quelli che denominiamo giochi
sono spesso forme di allenamento al gioco per antonomasia, in cui si corrono i
veri rischi e si ottengono i veri benefici: un gioco che è bene in generale
rimandare fino a quando non diventerà inevitabile. Ottenendo in tal modo il
doppio vantaggio di assaporare la stabilità degli angoli di cosmo che si
annidano in un universo caotico e coltivare al tempo stesso, senza farsi
troppo male, abilità e mosse che potrebbero servirci quando il caos reclamerà
il suo dominio. Con una (già menzionata) limitazione, frutto scomodo della
relativa comodità dei giochi per procura: un allenamento non è mai la stessa
cosa della partita. In quanto puramente rappresentativo della partita, è
vittima della logica della rappresentazione: qualcosa è sempre rappresentato da
qualcos’altro, da qualcosa di diverso. La mia immagine nello specchio mi
rappresenta, ma non posso accarezzarla; i deputati in Parlamento mi
rappresentano (o almeno dovrebbero farlo), ma solo in quanto accetto di ridurmi
a una particolare costellazione di interessi; la caccia rappresenta la guerra,
o il calcio rappresenta un’invasione del terreno avversario e una violazione
della sua porta, della sua intimità, o gli scacchi rappresentano una raffinata
combinazione di intrighi, trappole e agguati, ma da queste violazioni e da
questi agguati nessuno dovrebbe uscire menomato o deflorato. (E forse è questo
il motivo per cui eccellono in tali rappresentazioni coloro che ne
marginalizzano il più possibile il carattere rappresentativo e in un certo
senso lo dimenticano: riescono cioè a disattivare nella loro pratica la
consapevolezza che si tratta solo di un gioco – su questo tema di grande
importanza ritornerò alla fine del capitolo.) Ernst Gombrich, che citerò ancora
in seguito a proposito del rapporto fra gioco e arte, rileva in A cavallo di un
manico di scopa (p. 14) che per un bambino un manico di scopa rappresenta un
cavallo solo in quanto può essere cavalcato, non perché gli somiglia. E, in
Arte e illusione, conferma ed estende il rilievo: L’essenziale dell’immagine
non è la sua verosimiglianza, ma la sua efficacia in un certo contesto
operativo. Può essere anche verosimile, allorché si ritiene che questo possa contribuire
alla sua efficacia (p. 112). Ho detto che i giochi per procura si svolgono in
microcosmi: ambienti ristretti e fittizi che simulano condizioni reali.
Potrebbe sembrare un paradosso che la bimba da cui è iniziato il nostro
percorso giochi nel mondo e i membri di una squadra di calcio, invece, in una
copia in miniatura del mondo, considerando quanto è piccola la stanza in cui si
muove la bimba in confronto allo stadio affollato e urlante in cui ha luogo la
partita; e sarà bene allora sottolineare che la miniatura di cui stiamo
parlando si riferisce a dimensioni non spaziali ma esistenziali. Nel suo
piccolo spazio la bimba investe tutta sé stessa, e bisogna farle attenzione e
proteggerla per evitare che questa sua assoluta dedizione abbia effetti distruttivi;
davanti alle folle oceaniche degli stadi si compie invece un rito dalla
fisionomia precisa ed esclusiva, in cui solo alcuni movimenti e
atteggiamenti sono legittimi. Le barriere che separano questo microcosmo dal
mondo sono assai porose, certo; il gioco vero è sempre sul punto di prendere la
mano a quello finto, con effetti talvolta tragici; ma la possibilità che l’uno
si trasformi nell’altro non nega la loro distinzione. Fa solo notare che non si
tratta di una distinzione neutrale, definita una volta per tutte: come la
repressione freudiana, va mantenuta a ogni istante esercitando appropriate
resistenze, e nel momento in cui le resistenze vengono meno il microcosmo è
inghiottito dal gioco globale, in cui ci si fa male davvero. Quest’ultima osservazione
ci costringe a rivisitare le conclusioni del capitolo precedente. (In un
labirinto, oltre a girare a vuoto e percorrere sentieri tortuosi, si deve
talvolta fare qualche passo indietro.) Lo sfondo, cioè le regole, avevo
concluso, definiscono il gioco a cui stiamo giocando; le figure che tracciamo
sullo sfondo costituiscono la nostra attività ludica. Le regole determinano la
topologia del microcosmo in cui abbiamo deciso di risiedere e a quelle regole
noi vi risiederemo con maggiore o minore creatività e godimento, da buoni o
cattivi giocatori quali siamo. Occorre però evitare il malinteso che la
distinzione tra figura e sfondo, tra regole e creatività, sia, una volta
decisa, mai più contestabile, che non sia essa stessa in gioco. In una scena
esilarante di Butch Cassidy, Paul Newman viene sfidato a duello da un membro
della sua banda, un bruto gigantesco che dà l’impressione di poterlo sbudellare
con facilità. Senza scomporsi, Butch/Paul lo avvicina e gli dice che, prima di
lottare, devono mettersi d’accordo sulle regole. Il mostro lo guarda allibito;
in quell’attimo di sconcerto Butch gli assesta un poderoso calcio al basso
ventre e poi, quando si piega in avanti, una robusta mazzata in faccia con i
due pugni congiunti. Il duello è finito prima ancora di cominciare, prima
ancora di stabilire le regole alle quali doveva essere condotto. Siamo così
tornati per altra via alla complessità sancita dalla fisica e quel che
sembravamo aver capito quando ne abbiamo parlato la prima volta si trasforma
ora in un oscuro dilemma. (In un labirinto, càpita di ripassare per lo stesso
punto e di non riconoscerlo.) Il mondo è infinitamente ambiguo, avevamo
concluso: non obbedisce a regole univoche ma risulta invece da una
sovrapposizione di sistemi di regole fra loro incommensurabili, entro ciascuno
dei quali si potranno anche fare previsioni senza però poter prevedere, di
volta in volta, in che sistema sceglieremo di vivere. Non c’è, anzi, il mondo
ma ci sono questi sistemi molteplici, e nello slittare dall’uno all’altro ci
spostiamo da un mondo all’altro. Nel linguaggio che stiamo utilizzando adesso,
potremmo dire che ciascun sistema è un microcosmo, un particolare ambiente
ludico; ma qui abbiamo anche detto che ogni microcosmo corre sempre il
rischio che i suoi confini non tengano, che il mondo reale (il mondo del gioco
reale) che fa pressione su quei confini li sfondi e a un tratto ci si possa far
male davvero. Come la mettiamo, allora? Esiste un mondo reale che fa pressione
sui microcosmi, sui sistemi di regole, sui giochi; oppure vale quel che si è
detto nel terzo capitolo, che esiste un mondo solo dopo che si sia scelto un
sistema di regole? Una risposta semplice e lapidaria a questa domanda è:
valgono entrambe le cose. Non c’è nulla di semplice, tuttavia, nel significato
della risposta. Per cominciare, occorre intendersi: se un «mondo» dev’essere
una struttura definita, che contenga oggetti specifici con specifiche proprietà
e relazioni, allora non esiste un mondo senza la scelta del vocabolario che lo
fonda (in accordo con le spiegazioni date nel terzo capitolo). Possiamo anche
dire, però, che «così va il mondo», cioè che esso non va come si pensava un
tempo (e come ancora pensano in molti): non è indipendente da una scelta; le
cose non stanno in nessun modo finché non si sia deciso come descriverle – e
anche questo è, in senso lato, un modo in cui stanno le cose. Da questa banale
distinzione terminologica segue una conclusione tutto men che banale: se «al
mondo» non ci sono che microcosmi, allora quel che fa «realmente» pressione su
un microcosmo, «il mondo» che minaccia di sommergerlo, sono altri microcosmi.
Un gioco è sempre e soltanto minacciato da altri giochi (nel senso che è sempre
possibile slittare dall’uno agli altri). Giocare con le regole invece che alle
regole di un particolare gioco (come faceva Butch Cassidy) non significa
situarsi in una dimensione neutrale, fuori da ogni gioco, dalla quale il gioco
e le sue regole possano essere contestati; significa sempre e soltanto
collocarsi in un altro gioco. Nel percorso compiuto finora abbiamo già provato
qualche sconvolgimento prospettico; abbiamo già visto talvolta l’anatra
tramutarsi sotto i nostri occhi in un coniglio. Qui siamo arrivati a un nuovo
episodio dello stesso tipo. In partenza, sembrava ovvio che la bimba stesse
giocando e i suoi genitori no (quando, per esempio, si assicuravano che fossero
coperte tutte le prese e chiuse tutte le finestre prima di lasciarla giocare
indisturbata); che gli atleti su un campo di calcio giocassero ma gli operai
che montavano le porte no; che ci fosse differenza tra giocare alla guerra e
fare la guerra (davvero, invece che per finta). Ora questa ovvia differenza non
solo non è più ovvia; non è più nemmeno una differenza. O meglio, una
differenza c’è ma non è quella tra un gioco e un non-gioco, o tra un ambiente
fittizio e uno reale. Se per la bimba non c’è niente di più serio del suo
gioco, e se in generale i giocatori prendono il loro gioco molto sul serio, è
perché non c’è distinzione sostanziale fra gioco e attività serie: un’attività
seria è un gioco preso sul serio, un’attività definita da uno sfondo di regole
in cui una o più persone decidono di immergersi, un microcosmo entro i cui
confini una o più persone decidono di abitare. Prendere sul serio qualcosa vuol
dire assumere un atteggiamento di completa concentrazione e rifiutarsi di
ammettere qualsiasi distrazione, qualsiasi alternativa alla pratica corrente.
Succede ai bambini che giocano, agli adulti ossessionati dal poker o dalla
roulette e agli altri adulti, molto più maturi e responsabili, che si dedicano
anima e corpo al loro lavoro. L’analogia fra tutte queste situazioni è
evidente, o almeno dovrebbe esserlo, ma noi di solito riusciamo a non vederla
inforcando gli occhiali normativi (o prescrittivi) di cui ho parlato nel
secondo capitolo: chi si concentra sul proprio lavoro fa bene perché sul lavoro
ci si deve concentrare; chi si concentra sulle avventure di una bambola
dimostra il proprio carattere infantile; chi si concentra sul poker è
dipendente e malato. Mettiamo da parte queste norme introdotte di straforo,
senza valutazione e senza critica, e rimaniamo su un piano descrittivo, là dove
l’evidenza dell’analogia è innegabile. Ci apparirà allora con improvvisa
chiarezza una nuova prospettiva sull’intera faccenda: la realtà «seria» non è
che un gioco senza alternative riconosciute, su cui non si avverte la pressione
di altri giochi. Il lavoro è la realtà di chi non vive le sue regole come una
scelta; il poker è la realtà del giocatore ossessivo. (Il che non modifica il
fatto che alcuni giochi possono [a] essere più ampi e ramificati di altri, meno
disponibili alla ripetizione, a provare e riprovare le stesse mosse, e più
propensi a esiti dolorosi e devastanti o [b] rappresentarne altri, con tutte le
ambiguità connesse alla rappresentazione, quindi che [c] si possono limitare i
danni giocando «per procura» a giochi puramente rappresentativi di quelli più
rischiosi.) C’è un’importante precisazione da fare su quel che ho appena detto:
è necessario correggere subito la rotta per non andare fuori strada.
Sembrerebbe, a questo punto, che ci sia qualcosa di intrinsecamente sbagliato
nel prendere un’attività sul serio, il che non è vero. Torniamo ancora una
volta alla bimba: sbaglia forse, lei, a immergersi in modo assoluto, totale,
nelle figure che costruisce? Niente affatto: praticare un gioco con pazienza,
con dedizione, nell’oblio di ogni alternativa, è il modo migliore per
familiarizzarsi con il suo particolare microcosmo, per esplorare tutta la
creatività, tutto il «gioco» consentiti dalle sue regole. Ma domani la bimba
sarà in un’altra stanza, o in giardino, o sul sedile posteriore di
un’automobile, dove incontrerà altre resistenze che accetterà come regole
di un altro gioco; ed è questa flessibilità che la protegge dall’ossessione,
che anzi trasforma la sua momentanea ossessione in un punto di forza. Ogni
gioco, mentre è giocato, va preso sul serio; quel che ne conserva anche il
carattere di gioco (oltre a quello di serietà), per chi lo pratica, è il fatto
che gli siano presenti, magari implicitamente, altri giochi. Nell’Essere e il
nulla, Sartre parla di un cameriere che si è trasformato nello stereotipo di un
cameriere, e che cerca così di sfuggire alla coscienza di essere un cameriere.
Adattando il suo esempio al mio discorso, direi che al cameriere manca ogni
senso di alterità e che senza alterità non c’è vera identità: c’è solo un magma
indifferenziato nel quale siamo avvolti senza rimedio. Gli manca un lampo di
quell’ironia che segnala l’alterità e gli permetterebbe di vedere (da un altro
punto di vista) quel che sta facendo come uno dei tanti giochi possibili – come
qualcosa che non lo inchioda fatalmente a un ruolo e proprio per questo gli
permette di vivere il suo ruolo con serenità. Ho avuto la fortuna, talvolta, di
veder affiorare questo lampo d’ironia (che sarebbe come dire, per me,
d’intelligenza) in un bambino, di solito intorno ai due anni, e mi sono reso
conto allora che avevo davanti un essere umano. In Verso un’ecologia della
mente, Gregory Bateson arriva a una conclusione analoga, formulata nei termini
logico-matematici che gli sono abituali. Un gioco, dice, è generalmente vissuto
in un’atmosfera paradossale: nell’ambito della premessa «Questo è un gioco» e
quindi di indicazioni contrastanti a prendere sul serio quel che si fa e anche
a non prenderlo sul serio. «È nostra ipotesi che il messaggio “Questo è gioco”
stabilisca un quadro paradossale, paragonabile al paradosso di Epimenide [cioè:
quel che sto dicendo adesso è falso]» (pp. 225-226). Ma tali paradossi,
analoghi a quelli della teoria degli insiemi (come «l’insieme di tutti gli
insiemi che non si appartengono si appartiene e non si appartiene») non vanno
esorcizzati (come fa Bertrand Russell introducendo la sua teoria dei tipi
logici), perché nella loro assurda, irriducibile complicazione sono l’essenza
stessa dell’attività e della vita. La nostra tesi principale può essere
riassunta in un’affermazione della necessità dei paradossi dell’astrazione.
L’ipotesi che gli uomini potrebbero o dovrebbero obbedire alla teoria dei tipi
logici nelle loro comunicazioni non sarebbe solo cattiva storia naturale; se
non obbediscono alla teoria non è solo per negligenza o per ignoranza.
Riteniamo, viceversa, che i paradossi dell’astrazione debbano intervenire in
tutte le comunicazioni più complesse di quelle dei segnali di umore, e che
senza questi paradossi l’evoluzione della comunicazione si arresterebbe. La
vita sarebbe allora uno scambio senza fine di messaggi stilizzati, un gioco con
regole rigide e senza la consolazione del cambiamento o dell’umorismo (p.
235). Alla fine del capitolo precedente mi ero posto un problema: qual è
il senso di giochi dai quali non sembriamo imparare nulla d’importante, che
sembrano servire solo a passare (ad ammazzare?) il tempo? La «soluzione» del
problema ha finito per negarlo, ridisegnando l’intera cartografia che ne
tracciava il territorio. Non ci sono giochi utili per conoscere il mondo reale
e altri oziosi e gratuiti. Ci sono solo giochi, che rimangono tali finché
rimangono al plurale e smettono di esserlo (diventano reali) quando ne perdiamo
di vista la molteplicità. Anche in questo caso, la molteplicità non cesserà di
esistere e noi dovremo pur sempre difenderci dalla sua intrusione; la nostra
difesa però non sarà (per usare ancora una volta metafore freudiane) un
consapevole, versatile negoziato fra istanze ugualmente legittime e in grado di
scambiarsi le parti, di mescolarle e così rinnovarsi continuamente, ma una
rimozione di fissità nevrotica che con l’altro non dialoga e che proprio per
questo all’altro prima o poi si arrenderà. 6. Calma e gesso Nel gioco del
biliardo, che un mio compagno di liceo definiva «giusto e saggio», càpita di
trovarsi davanti a situazioni molto complicate. La palla che dobbiamo colpire è
coperta dal pallino o dal castello (sto parlando di un biliardo all’italiana, o
eventualmente alla goriziana, con due palle, un pallino e cinque birilli, o
eventualmente nove); possiamo prenderla solo di sponda, quindi invece di
sparare subito d’istinto conviene esaminare le nostre opzioni con calma, e
meglio ancora se nel frattempo ingessiamo la stecca per evitare che dopo tante
elucubrazioni scivoli malamente nel tiro (probabilmente a effetto) che
decideremo di tentare. Fuor di metafora, quando si percorre un itinerario
tortuoso e accidentato come quello attuale è buona idea fermarsi ogni tanto e
considerare la nostra posizione, che magari dopo numerose giravolte è cambiata
e va rivalutata nella nuova forma che ha assunto e nelle nuove condizioni e
opportunità che ci offre. È quanto mi propongo di fare in questo capitolo,
prima di riprendere il cammino. Nelle ultime pagine abbiamo compiuto, ho detto,
un rivolgimento prospettico. Naturalmente, mi sono affrettato a trarne le
conseguenze e a ridisegnare alla sua luce il nostro territorio. Ma qualche
minuto di pausa supplementare e qualche riflessione più articolata sono
opportuni, per apprezzare la radicale novità della mappa che sta emergendo.
Siamo partiti con una distinzione forse talvolta (in casi limite) vaga ma di solito,
apparentemente, piuttosto chiara. A nascondino e a pallacanestro si gioca;
quando si prende il tram per andare in ufficio o si prepara la cena non si
gioca – e chi lo facesse non starebbe davvero preparando la cena o andando in
ufficio; starebbe facendo chissà che cosa, con l’alibi di preparare la cena o
andare in ufficio. Ora però abbiamo detto che ci sono solo giochi. Vogliamo
dire che quella distinzione apparentemente chiara (ma, ho affermato, non
«sostanziale») va abbandonata? E che senso ha parlare di gioco, di attività
ludica, se non esiste nessun altro tipo di attività: se il fatto che
un’attività sia un gioco non la pone in contrasto con nient’altro di quel che
possiamo fare? Non abbiamo così inopinatamente perso per strada il concetto
stesso di cui volevamo rendere conto, alla cui comprensione abbiamo
dedicato tanti sforzi? Ho detto che un gioco è definito da uno sfondo su cui il
gioco elabora le sue figure; ho detto che c’è concorrenza, e lotta, sulla
natura di questo sfondo, che si gioca non solo alle regole ma anche con le
regole. E ho detto che quello che stiamo conducendo qui è un gioco, di
carattere trasformativo (o dialettico): che esso ci porta (per esempio) a
vedere il gioco di una bimba trasformarsi nel gioco del calcio. Stiamo ora arrivando
a capire meglio che gioco è. Parte di quel che questo gioco fa è trasformare il
rapporto tra figura e sfondo nell’essere umano (dove «essere» è inteso come
verbo; alla fine del viaggio suggerirò che la qualifica «umano» potremmo
lasciarla cadere e che la trasformazione riguarda tutto l’essere). Normalmente
(e ricordiamo la norma sempre implicita in simili espressioni) si pensa che il
gioco sia una figura un po’ strana e misteriosa tracciata sullo sfondo delle
comuni, serie occupazioni quotidiane. Il suo posto è marginale, letteralmente
ai margini della vita ordinaria: pertiene all’infanzia, ai giorni di festa,
alla vita di scioperati e nullafacenti («Chi ha fame non gioca», dice Caillois
a p. 14). E c’è da chiedersi se serva a qualcosa. Il rivolgimento prospettico
che abbiamo attuato ci mostra un quadro completamente diverso: una condizione
umana in cui lo sfondo, la normalità, la norma sono attività ludiche, condotte
per il puro gusto e il puro piacere che dànno, e le attività strumentali, tese
a uno scopo esterno a sé stesse, al conseguimento di un risultato, sono un
mistero da spiegare. Nell’Educazione estetica Friedrich Schiller arriva a una
conclusione analoga quando afferma: «l’uomo gioca soltanto quando è uomo nel
senso pieno del termine, ed è interamente uomo solo laddove gioca» (p. 56). E
la spiega, anche, in modo simile all’articolazione che ho fornito qui, come il
risultato di una costante tensione fra esigenze opposte: «deve esservi un
elemento comune tra impulso formale e impulso materiale, cioè un impulso al
gioco, perché solo l’unità della realtà con la forma, della contingenza con la
necessità, della passività con la libertà porta alla perfezione il concetto di
umanità» (p. 54). In una famosa scena di 2001: Odissea nello spazio un nostro
antenato ominide solleva da terra un lungo, robusto osso e lo agita senza senso
e senza intenzione di qua e di là. Per gioco, potremmo dire. Finché,
casualmente, l’osso urta un cranio che giace lì vicino e lo frantuma, e così lo
scimmione scopre (con enorme eccitazione) di avere in mano un’arma e nella
prossima scaramuccia con un gruppo di avversari la usa per commettere un
omicidio. Kubrick vuole raccontarci la storia di una specie (la nostra) feroce
e sanguinaria; ma storie simili e meno cruente si potrebbero raccontare su
un’altra scimmia che con la medesima casualità scopra come far cadere un
cespo di banane da un albero, o come adagiare un tronco per traverso su un
ruscello e usarlo da ponte. Jerome Bruner, in Natura e usi dell’immaturità,
riassume storie analoghe in questo modo: Sarei tentato di avanzare l’ipotesi
poco ortodossa secondo la quale nello sviluppo dell’uso degli strumenti è stato
necessario un lungo periodo di attività combinatoria opzionale e libera da
qualsiasi pressione. Per sua natura l’uso di strumenti (o l’incorporazione di
oggetti in attività qualificante) ha richiesto la preliminare possibilità di
un’ampia varietà di esperienze sulla quale potesse poi operare la selezione (p.
37). Una caratteristica fondamentale dell’uso di strumenti negli scimpanzé come
nell’uomo è la tendenza a sperimentare varianti del nuovo pattern di attività
in differenti contesti [...]. Probabilmente è proprio questa «spinta alla
variazione» (piuttosto che la fissazione per rinforzo positivo) che rende tanto
efficace la manipolazione nello scimpanzé (p. 41). Il gioco, data la sua
concomitante libertà da rinforzi e il suo collocarsi in un ambiente
relativamente libero da pressioni, può produrre la flessibilità che rende
possibile l’uso di strumenti (p. 43). La libertà espressa nel gioco sarebbe
dunque il serbatoio inesauribile da cui sfociano tutte le attività serie:
cristallizzazioni perlopiù temporanee e locali cui ci affezioniamo e che
ripetiamo con fedeltà perché si sono rivelate inaspettatamente preziose, mentre
il gioco continua. (Ritroviamo così, come cifra del gioco, l’investimento
nell’eccessivo e nel puramente possibile, da cui viene distillato con pazienza
ciò che finisce per apparire utile o anche necessario.) L’immagine che stiamo
disegnando è quella di uno spettro di comportamenti (analogo allo spettro dei
colori), a un’estremità del quale c’è pura libertà (comportamenti del tutto
caotici e imprevedibili) e all’altra pura costrizione (comportamenti del tutto
fissi e stereotipi). In modo analogo, Caillois sovrappone alla sua già citata
categorizzazione analitica di vari tipi di gioco un’ulteriore tassonomia
organizzata in modo graduale: [Si possono] ordinare [i giochi] fra due poli
antagonisti. A un’estremità regna, quasi incondizionatamente, un principio
comune di divertimento, di turbolenza, di libera improvvisazione e spensierata
pienezza vitale, attraverso cui si manifesta una fantasia di tipo incontrollato
che si può designare con il nome di paidia. All’estremità opposta, questa
esuberanza irrequieta e spontanea è quasi totalmente assorbita, e comunque
disciplinata, da una tendenza complementare, opposta sotto certi aspetti, ma
non tutti, alla sua natura anarchica e capricciosa: un’esigenza crescente di
piegarla a delle convenzioni arbitrarie, imperative e di proposito ostacolanti,
di contrastarla sempre di più drizzandole davanti ostacoli via via più
ingombranti allo scopo di renderle più arduo il pervenire al risultato ambìto
[...]. A questa seconda componente do il nome di ludus (p. 29). E anche Piaget
parla di polarità: il gioco non costituisce una condotta a parte o un tipo
particolare di attività tra le altre: esso si definisce soltanto mediante un
certo orientamento della condotta o in virtù di un «polo» generale verso
cui converge quest’attività nel suo complesso restando caratterizzata
così ogni azione particolare dall’essere più o meno vicina a questo polo e dal
tipo di equilibrio che c’è tra le tendenze polarizzate (La formazione del
simbolo nel bambino, pp. 213-214). il gioco si riconosce da una modificazione,
variabile di grado, dei rapporti di equilibrio tra il reale e l’io. Si può
sostenere dunque che, se l’attività ed il pensiero adattati costituiscono un
equilibrio tra l’assimilazione [del reale all’io] e l’accomodamento [dell’io al
reale], il gioco comincia quando la prima predomina sul secondo [...]. Ora, per
il fatto stesso che l’assimilazione interviene in ogni pensiero e che
l’assimilazione ludica ha per solo segno distintivo il fatto di subordinarsi
l’accomodamento invece di realizzare un equilibrio con esso, il gioco si deve
considerare collegato al pensiero adattato da una gamma di stati intermedi, e
solidale con tutto il pensiero, di cui esso non costituisce che un polo più o
meno differenziato (pp. 218-219). Io però intendo proporre qui un’operazione
più radicale. Invece di trovare il gioco in una parte dello spettro e il
non-gioco in un’altra (o, come fa Caillois, giochi diversi da una parte e
dall’altra), intendo rivoluzionare il senso della parola «gioco», decidendo che
il gioco sia non un’attività specifica («questo è un gioco e quello non lo è»)
ma un aspetto di ogni attività, un suo parametro: il parametro che misura
quanta libertà l’attività esprima. Che ci siano solo giochi vorrà dire allora
che tutte le attività possono essere misurate relativamente a questo parametro,
anche se per alcune la misurazione darà un valore assai vicino allo zero. In
modo inversamente proporzionale alla libertà di un comportamento cresce, nello
spettro, la presenza e l’importanza delle regole; quindi, se ammettiamo che gli
estremi dello spettro (il grado zero di libertà e il grado zero di regole)
siano astrazioni puramente ideali, confermeremo quanto si è detto nel quarto
capitolo, che cioè ogni gioco si svolge a determinate regole – intendendo la
frase nel nuovo senso che ha ora acquisito: ogni attività ha insieme un aspetto
regolamentato e uno ludico. Mentre varchiamo una soglia per affrancarci dalle
strettoie che al suo interno ci opprimono, troveremo un’altra soglia; e sarà
nell’interazione tra il nostro desiderio di affrancamento e i limiti con cui
quel desiderio si deve confrontare che la nostra libertà guadagnerà contenuto e
sostanza, e realizzerà strutture sempre più articolate, complesse e funzionali.
Quando siamo d’accordo che così stanno (così vediamo) le cose, nulla ci
impedisce di ammettere un uso informale e colloquiale della parola «gioco» in
riferimento a specifiche attività. Un gioco, potremmo dire, è un’attività il
cui parametro ludico è elevato, o almeno significativo; un non-gioco è
un’attività il cui parametro ludico è trascurabile. In modo analogo, gli esseri
umani potrebbero essere disposti su uno spettro in base alla loro altezza, e da
un certo punto in avanti (impossibile da determinare con esattezza) le persone
con un’altezza elevata, o almeno significativa, verrebberro dette,
semplicemente, alte. Rimarrebbe vero, con questa convenzione, che in
generale (il senso della precisazione sarà chiaro tra breve) il nascondino e la
pallacanestro sono giochi ma il preparare la cena e l’andare in ufficio no; e
sarebbe anche vero che le slot machines e il «gioco» del lotto, avendo un
parametro ludico praticamente nullo, non sono giochi ma imposture. Che
all’indomani del rivolgimento prospettico si possano dire le stesse cose di
prima non equivale però ad averne moderato l’impatto, ad avergli spuntato le
unghie. Categorizzare le attività umane in termini di uno spettro come quello
che ho descritto non è un’operazione innocente, perché implica che ogni
attività, per quanto scontata e ripetitiva, abbia almeno implicito, almeno
potenziale, un certo grado di libertà, e che dunque in essa ci sia spazio (ci
sia gioco, come quello della vite) per esplorare e apprendere, per rischiare e
trasgredire. (Così come ogni attività ludica può venir soffocata da un eccesso
di regole.) Nel mondo ordinato degli antichi greci, ogni cosa aveva il suo
posto e lo stato naturale era la quiete – lo stato, cioè, in cui era ogni cosa
quando aveva raggiunto il suo posto. (Questo valeva sulla Terra. Nei cieli, i
corpi si muovevano con il moto più simile alla quiete: il moto circolare
uniforme, che ritorna sempre su sé stesso.) E capire quel mondo voleva dire
«tagliarlo seguendone le nervature»: riflettere nelle nostre classificazioni
concettuali la precisa e definitiva articolazione delle sue differenze. In base
a questa logica, fra gioco e non-gioco esisterebbe uno scarto qualitativo: si
tratterebbe di qualità diverse, anzi opposte, e nulla potrebbe essere l’uno e
l’altro insieme. Che il nostro mondo sia caotico implica che in esso sia
naturale non la quiete ma un movimento costante e irregolare, e non solo il
movimento di una cosa da un posto all’altro ma anche un movimento che riguarda
l’essere di quella cosa, che costantemente e irregolarmente ne cambia la
definizione e le caratteristiche più intime. La nostra nuova prospettiva sul
gioco s’inquadra in un mondo siffatto, in cui l’essere gioco non è un destino
degli scacchi o del tennis e l’essere non-gioco un destino dell’avvitare un
bullone o dello spolverare il mobilio. Gioco e non-gioco sono invece
opportunità sempre aperte; e può essere sufficiente, a volte, il battito d’ali
di una farfalla perché la più ottusa delle routine si accenda d’improvvisa
follia (manifestando il pizzico di follia che già conteneva) o perché la più
audace delle avventure s’incagli su un binario morto. 7. Illusioni Nel
quarto capitolo ho detto che quella di figura e sfondo è una metafora: che le
«figure» non hanno necessariamente nulla di visivo. Una metafora estende l’uso
di una parola al di là dei suoi contesti abituali, dandole un senso traslato,
inappropriato e incongruo ma spesso suggestivo (in quanto suggerisce
associazioni, emozioni, ricordi). È anch’essa un gioco, di parole appunto; e
come tale ce ne dovremo occupare a tempo debito. Per ora mi limito a osservare
che se una metafora può traslare, trasferire il senso di una parola allora quel
senso, si presume, ha un’origine da cui essere trasferito: che si diano sensi
metaforici presuppone che ne esista uno letterale. Giulietta non è, letteralmente,
il sole; ma quel che ci permette di capire che cosa il poeta intenda con questa
frase è la nostra familiarità quotidiana con un astro che è il sole nel senso
più proprio del termine. Anche questa distinzione verrà in seguito contestata;
ma qui prendiamola per buona perché ha molto da insegnarci. Un cambiamento di
prospettiva, di punto di vista, può essere un evento di natura astratta, che ci
coinvolge solo a livello concettuale. Abbiamo sempre pensato a noi stessi come
a fedeli esecutori di istruzioni ricevute dall’esterno, da una guida o un capo
più o meno benevoli, e tutt’a un tratto comprendiamo («ci salta agli occhi»,
metaforicamente parlando) di quante microdecisioni sia intessuta la nostra
esecuzione di un compito, e quanto siano quelle decisioni, quelle scelte forse
inconsapevoli ma importanti, a determinarne il successo, invece della pedestre
acquiescenza a modelli alieni. Se pure adoperiamo un vocabolario percettivo per
descriverla (dicendo per esempio che abbiamo imparato a «vederci» in modo
diverso), questa trasformazione è di carattere intellettuale, logico; riguarda
una «prospettiva» che è un’interpretazione, non una direzione nello spazio.
Esistono però anche casi come il seguente (ne parla fra gli altri Jacques
Lacan). Il famoso quadro Gli ambasciatori di Hans Holbein, se guardato di
fronte, presenta una strana forma in basso (Lacan la paragona a uova fritte);
ma se, mentre ce ne allontaniamo, ci giriamo ancora una volta a guardarlo
(forse perché quella forma misteriosa ci ha inquietato) ecco che da quel punto,
letteralmente, di vista scorgiamo infine l’immagine che il pittore voleva
mostrarci (e capiamo il messaggio che voleva lanciarci – ogni trasformazione
percettiva ha una ricaduta intellettuale, ma non vale l’inverso). Le uova fritte
sono diventate un teschio. Nell’universo infantile, cambiamenti letterali di
prospettiva (su un corpo, un oggetto, una situazione) sono tra le fonti più
intense di gioia. È un mondo popolato di smorfie, guizzi, voltafaccia, nel
quale nulla diverte di più del vedere personaggi di dimensioni gigantesche, che
normalmente costringono a guardarli dal basso in alto, rotolarsi per terra,
camminare a quattro zampe, magari con un bambino in groppa per fargli vedere
dall’alto spettacoli di solito inaccessibili: una nuca, del cuoio capelluto,
delle stanghette di occhiali. Nella vita adulta, occasioni del genere sono più
rare, limitate come sempre accade con il gioco a ricorrenze catartiche (il
carnevale, le vacanze, il sesso) e occupazioni specifiche (l’attore, il clown).
Quel che conserva una frequenza più costante sono non tanto occasioni quanto
particolari oggetti multiformi, insieme artistici e illusori, anzi artistici
perché illusori (come ben aveva capito Gombrich, che al tema dedicò il suo
capolavoro Arte e illusione). A questi loro aspetti mi rivolgerò adesso,
cominciando dal secondo. Abbiamo già incontrato il paradosso della
rappresentazione: di una cosa, cioè, che ne rappresenta un’altra, diversa da sé
stessa. Una rappresentazione, aggiungo ora, è in certa misura un’illusione; in
particolare, una rappresentazione percettiva come quelle su cui mi concentrerò
qui è (in certa misura) un’illusione percettiva. Nel linguaggio ordinario,
«illusione» non è un termine neutrale: accenna a qualcosa di falso, di ingannevole;
è legato a giudizi di valore negativi, usato con intento critico. Dobbiamo
evitare di rimanere vittime di illusioni; dobbiamo conoscere la realtà che le
illusioni ci nascondono. Voglio prendere le distanze da tali giudizi e dalle
norme che essi sottintendono: norme che favoriscono stabilità e conformismo
nella visione del mondo. Osservo invece che dentro «illusione» c’è la radice
del gioco e il prefisso «in» annuncia (se solo stessimo a sentire quel che
diciamo) che un’illusione (ci) mette in gioco. Questo è il senso in cui voglio
usare la parola, respingendo ogni ipotesi di inganno o di frode e sostituendola
con un richiamo positivo alla sfera ludica. È in questo senso, per esempio, che
nubi di una certa forma possono illuderci che un destriero stia galoppando per
il cielo: rimettendo in discussione il fatto che quelle siano nubi, che il
cielo abbia una sua determinata, fissa configurazione, che certe cose (certi
animali) non vi abbiano corso. L’epigrafe del capitolo L’immagine nelle nubi,
in Arte e illusione, è tratta da Antonio e Cleopatra di Shakespeare, e
recita: Talvolta noi vediamo una nuvola prendere forma di drago; talvolta
un cirro la forma di leone o d’orso o di turrita cittadella o d’un aereo picco;
di forcuta montagna, di azzurri promontori vestiti d’alberi, che fanno cenno
colle chiome al mondo giù e ci illudono gli occhi con un gioco d’aria (p. 172).
A mente fredda diremo poi, forse, che le nubi hanno rappresentato un cavallo,
sigillando il gioco in un’espressione paradossale che lo esorcizza invece di
spiegarlo (e, se viene ripetuta abbastanza spesso, darà probabilmente
l’illusione di aver capito – metterà in gioco che cosa voglia dire «capire»);
quando invece il gioco ci catturerà, ci accoglierà in sé, vedremo davvero – e
nessuno potrà dirci che non lo vediamo – il cocchio di Fetonte scalpitare a
precipizio verso il suo infelice destino. L’«in» di «illusione» è una
particella, una preposizione, ambigua (ha un significato che è a sua volta in
gioco). Può introdurre un complemento di moto a luogo («vado in piazza») e
allora indicherà oggetti che ci attirano, ci seducono a entrare in un gioco; ma
il complemento può anche essere di stato in luogo e allora s’insinuerà che il
gioco ci ha avvolto, che abitiamo al suo interno. L’ambiguità, e la tensione
che l’accompagna, traspaiono nel nostro rapporto con le nubi, se oscilliamo fra
il notarne (dall’esterno) una semplice ma affascinante analogia con la criniera
di Pegaso e l’abbandonarci all’altalena cui l’analogia allude, senza riposare
nell’una o nell’altra condizione. Sono anche attivate da oggetti creati proprio
a tale scopo, creati ad arte; e così slittiamo da una delle nostre parole
all’altra. «Artificiale» si oppone a «naturale», ed è un contrasto da prendere
con beneficio d’inventario. Molto ci sarebbe da dire su quanto sia naturale per
gli esseri umani costruire oggetti diversi da quelli che trovano già fatti. Ma
non è il discorso che m’interessa qui; accetterò l’idea che un albero è un
oggetto naturale e la casetta che gli è stata costruita sopra è artificiale, e
dirò quindi che gli oggetti che ci imprigionano in un gioco perpetuo, o almeno
di una certa durata (ci imprigionano in un comportamento libero? poco fa ho
detto che il gioco può catturarci; c’è una guerra condotta su queste parole, su
che cosa vogliano dire «libertà» e «schiavitù», ed espressioni del genere fanno
ampie concessioni all’avversario), sono in gran parte artificiali e, quando
acquisiscono una buona reputazione sociale, vengono qualificati come artistici.
L’anatra/coniglio cui ho fatto riferimento in precedenza appartiene a questa
classe di oggetti: basta continuare a guardarlo, senza fare altro, per veder
apparire alternativamente l’una e l’altra figura. E si noti a che livello
l’oggetto agisce: quel che stiamo guardando non sono nubi che diventano un
cavallo, stelle che diventano un leone e nemmeno un’anatra che diventa un
coniglio – è un disegno di un’anatra che diventa il disegno di un
coniglio. L’anatra/coniglio è un giocattolo: non una parte dell’ambiente che noi
sottoponiamo a pressioni e rivoluzioni ludiche, ma un oggetto deputato
precisamente a consentirci e facilitarci tali pressioni e rivoluzioni – un
oggetto nato per essere elemento di un gioco. E per questa via siamo arrivati
una prima volta a dama; abbiamo raggiunto nel nostro percorso una prima sublime
manifestazione dell’ingegno e della perizia umani. Abbiamo raggiunto l’arte,
che possiamo ora definire come la costruzione di oggetti che consentano e
facilitino il gioco percettivo, il sovrapporsi e lo scambiarsi di immagini
multiple, l’illusione percettiva. Torniamo al quadro di Holbein e trascuriamo
la sorpresa con cui saprà accomiatarci. Rimane il fatto che questo oggetto
artificiale ci dà l’impressione di essere al cospetto di due distinti
gentiluomini, riccamente vestiti e circondati da svariati simboli di potere,
cultura e intrattenimento; ma, anche mantenendo la nostra posizione frontale
rispetto alla scena, scorrendo gli occhi è facile vedere al loro posto una
tavola bidimensionale ricoperta di colori a olio, e poi tornare a vedere i
gentiluomini, e poi ancora la tavola, e magari, se il gioco ci appassiona,
sforzarci di svelare il segreto di tale sortilegio – avvicinarci e allontanarci
dal dipinto per cogliere il punto esatto in cui un’immagine dà luogo all’altra,
in cui i gentiluomini si fanno avanti, robusti e vitali, dal legno e dal
pigmento che ne evocano la presenza. Lo stesso vale per i sobri tratti che in
uno schizzo o in un fumetto dànno vita a un personaggio e al suo umore, per le
trombe e i timpani che nella Sesta di Beethoven ci immergono in un temporale,
per le volte e le vetrate che da una cattedrale gotica ci trasportano in una
selva oscura, attraversata da lampi di luce divina. Ogni oggetto artistico sa
illuderci, invitarci a un gioco aperto fra le sue molteplici incarnazioni,
ispirarci a un’oscillazione gestaltica che ne costituisce, in quanto appartiene
all’arte, la ragion d’essere. Lo stimolo [...] è infinitamente ambiguo, e
l’ambiguità in sé [...] non può esser vista: può solo essere indotta dal
confronto di diverse letture che tutte si adattano a una stessa configurazione.
Credo [...] che il dono dell’artista sia di questo genere. Egli è un uomo che
ha imparato a guardare criticamente, a saggiare le sue percezioni provando
interpretazioni diverse o opposte, sia per gioco che seriamente (p. 282). Il
piacere che proviamo davanti a un quadro, affermava il grande critico
neoclassico Quatremère de Quincy citato da Gombrich, dipende esattamente dallo
sforzo che la mente fa per creare un ponte tra arte e realtà. È proprio questo
piacere che viene distrutto allorché l’illusione è troppo completa. «Allorché
un pittore costringe una grande estensione in uno spazio ristretto, quando mi
porta attraverso gli abissi dell’infinito su una superficie piatta e fa
sì che l’aria circoli [...] mi piace abbandonarmi alle sue illusioni; ma voglio
che ci sia la cornice, voglio essere certo che ciò che vedo in realtà non è
altro che una tela o un semplice piano» (p. 254). Se questo gioco viene a
mancare, se l’illusione diventa inganno, allora in modo solo apparentemente
paradossale per chi abbia seguito la parola nella deriva semantica che ho
proposto, l’illusione scompare: «la perfezione dell’illusione ne ha segnato
anche la fine» (p. 253; traduzione modificata). E talvolta l’artista gioca
anche con l’illusione (gioca con il gioco stesso) e con le aspettative
culturali che le sono associate: l’orinatoio di Duchamp ci riporta indietro, al
bambino per cui i migliori oggetti con cui giocare sono quelli d’uso comune, e
insieme ci ricorda che un oggetto non è mai solo, è sempre vissuto in un
ambiente che ne determina il ruolo; quindi un orinatoio in un museo è qualcosa
di più (e di meno) di un orinatoio in un bagno e ci racconta qualcosa non solo
di sé ma anche di noi stessi. Siamo noi a illuderci (a giocare con il fatto)
che visitare un museo sia un’operazione equivalente a guardare dal buco della
serratura, lasciando tutto – tutta l’arte – com’è; mentre invece è proprio
quella nostra visita a costituire l’arte. In molti punti del labirinto in cui
ci siamo inoltrati si aprono altri labirinti: la struttura tortuosa
dell’insieme si riflette nella struttura di molte delle sue parti (simile in
ciò agli strani attrattori della teoria del caos, in cui ogni dettaglio ha
complessità tanto infinita quanto il tutto). Qui siamo arrivati a un punto
siffatto: sull’arte si potrebbe scrivere un altro libro, o una biblioteca. Ma
resisterò anche a questa tentazione e mi rimetterò in marcia, dopo aver fatto
tre precisazioni. In primo luogo, devo insistere che non ho collegato gioco e
arte in modo analitico, scoprendo delle loro caratteristiche comuni. L’attività
artistica è attività ludica, più precisamente un gioco percettivo che ci porta
a vedere oggetti in prospettive e con risultati diversi da quelli abituali;
dunque è la stessa attività praticata da un bambino che rigira un cubo fra le
mani per vederlo da ogni lato. Se il cubo è una scatola che ha trovato in
cucina, il caso è identico a quello delle immagini nelle nubi; se invece è un
oggetto (un giocattolo) che gli è stato comprato apposta perché lui esegua tali
rotazioni, corrisponde al quadro di Holbein (e chi ha costruito il giocattolo
corrisponde al pittore). Gli oggetti ufficialmente giudicati artistici sono più
raffinati di quelli con cui si diletta un bambino (anche se ciò non vale sempre
per l’arte contemporanea, da Duchamp in poi); ma ciò vuol dire solo che
un’attività (ludica, in questo caso) può essere praticata con maggiore o minore
maestria, non che si tratta di attività diverse. Chiunque abbia
partecipato a una settimana bianca ha sciato, pur non danzando sulla neve con
la grazia di Ingemar Stenmark. E non lasciamoci turbare, nell’enunciare questa
tesi, dalle inevitabili proteste di chi sostiene che l’arte ha valore solo per
sé stessa (l’art pour l’art) e non va assoggettata alla funzione
quasi-evolutiva che le ho conferito. Nessuno meno di un appassionato giocatore,
totalmente immerso nella sua partita, è in grado di apprezzarne il contributo a
un più vasto ambito d’interessi. Al limite, questo genere di passione acceca,
come osserva Gombrich in A cavallo di un manico di scopa: gli scrittori di
estetica ci dicono da tempo che cosa l’arte non è, e si sono tanto preoccupati
di liberare l’arte da valori eteronomi, che hanno finito con il creare al
centro di essa un vuoto, alquanto impressionante (p. 25). In secondo luogo,
l’arte è solitamente concepita come prodotta da certe persone (gli artisti) e
fruita da altre (il pubblico); le prime sono considerate attive e le seconde
ricettive, passive. Nel modello freudiano del motto di spirito, nucleo di una
generale teoria estetica, il piacere provato da chi ascolta una barzelletta e
il riso che ne segue sono causati proprio dal suo essere inerte e trovarsi a un
tratto libere energie psichiche che prima servivano a reprimere dei contenuti
inaccettabili, in seguito all’azione di un altro (chi racconta la barzelletta,
usando a tale scopo le stesse energie e quindi provando meno piacere e non
ridendo affatto). È un modello che potrà andar bene per le oscene vicissitudini
dell’industria artistica contemporanea: per opere teatrali e liriche davanti
alle quali beatamente assopirsi dopo una lauta cena o per croste e
installazioni rifilate da furbi mercanti a ricchi e incolti borghesi. È anche
un modello, però, che viola e stravolge la comunità d’intenti e d’impegno che
esiste fra un pittore, un architetto, un musicista e il suo pubblico. Chi
guarda un quadro, ammira un edificio o ascolta una sonata non saprebbe,
perlopiù, dipingere, progettare o comporre con la stessa abilità, ma può godere
dell’esperienza solo in quanto è coinvolto nelle stesse scoperte e sorprese
dell’artista: solo in quanto l’artista (come l’animatore di un gioco di
società) sa coinvolgerlo in quelle attive scoperte e sorprese. Si può essere
autentici spettatori di un’opera d’arte solo nella misura in cui si è a propria
volta artisti: solo in quanto si è in grado di far riecheggiare in sé la stessa
esplosione gestaltica che l’autore ha provato. Ancora Arte e illusione di
Gombrich e ancora una sua citazione, questa volta da Filostrato, biografo del
filosofo pitagorico (contemporaneo di Cristo) Apollonio di Tiana: «Ma
questo non significa forse – propone Apollonio – che l’arte dell’imitazione ha
un duplice aspetto? Uno è quello che porta ad usare le mani e la mente per
realizzare imitazioni, l’altro quello che realizza la somiglianza unicamente
con la mente?». Anche la mente dell’osservatore ha la sua parte
nell’imitazione. Anche una pittura a monocromo, o un rilievo in bronzo ci colpiscono
come qualcosa di somigliante: li vediamo come forma ed espressione. «Perfino se
disegnassimo uno di questi indiani con del gesso bianco, – conclude Apollonio,
– apparirebbe nero perché ci sarebbero sempre il suo naso schiacciato, i suoi
spessi capelli ricciuti e la sua mascella sporgente [...] a rendere nera
l’immagine per chi sa usare gli occhi. Per questo dico che coloro che osservano
opere di pittura e disegno devono possedere la facoltà imitativa» (p. 173). In
terzo luogo, chi propone una «naturalizzazione» di un aspetto della nostra vita
caratterizzato da pesanti risvolti normativi è spesso accusato di farne
evaporare ogni norma e lasciarci privi di ogni criterio o giudizio di valore.
Tale è il caso, per esempio, dell’etica, disciplina normativa per eccellenza,
quando la si riduca alla teoria della scelta «razionale»: d’accordo che mi
converrà accettare e rispettare certi patti, ma che cosa resta allora
dell’intuizione che, indipendentemente dalla convenienza, sia giusto accettarli
e rispettarli? La mia posizione complessiva non ha simili conseguenze; l’etica
(normativa) ha in essa un ruolo sostanziale, anche se diverso dalla
ricognizione e dal chiarimento concettuale che competono alla metafisica. In
questo libro, destinato alla ricognizione del territorio ludico e al
chiarimento dei concetti che lo popolano, di etica non mi occuperò; ma non
voglio congedarmi dall’argomento che stiamo trattando senza notare che definire
l’arte un gioco percettivo ci offre un coerente e plausibile sistema di valori interno
per oggetti artistici. C’è chi gioca a scacchi e chi a filetto; chi a bridge e
chi a briscola. Tutti quanti possono divertirsi; ma è indubbio che, in quanto
giochi, gli scacchi siano meglio del filetto e il bridge meglio della briscola.
Il filetto è decidibile: esiste una strategia sicura per chiudere in parità
ogni partita. A briscola (quella comune, tralasciando le sue infinite e
complicate varianti) di solito vince chi pesca i carichi (soprattutto quelli di
briscola). Dopo un po’, ci si annoia. Gli scacchi e il bridge, invece, non
stancano mai: con un repertorio limitato a trentadue pezzi o cinquantadue carte
sanno proporci una messe inesauribile di combinazioni diverse e richiedere usi
sempre nuovi del nostro talento e della nostra ingegnosità. Si può capire come
per molti diventino un’ossessione; è difficile immaginare persone altrettanto
ossessionate dal filetto o dalla briscola. Con l’arte è lo stesso. Ogni oggetto
artistico ci mette in gioco, ma talvolta il gioco è esile e di scarso respiro.
L’orinatoio di Duchamp ha rivoluzionato la nostra prospettiva su pratiche
sociali consolidate (e ne ha irrimediabilmente scosso la solidità); ma dubito
che l’ennesimo esempio di arte «trovata» solleciti più di una scrollata
di spalle o di uno sbadiglio (in chiunque non sia un critico che su queste cose
ci vive o uno sciocco in cerca di «investimenti»). Guardiamo invece al viso
della Gioconda: le labbra atteggiate a un sorriso, gli occhi tristi e pensosi,
e il conflitto fra questi due poli della condizione umana proposto (ma non
risolto) in un’espressione di incomprensibile, miracoloso, fragile equilibrio.
Se anche avessimo un tempo infinito, potremmo non smettere mai di oscillare
dall’uno all’altro «suggerimento» e di stupirci di un ossimoro presentato con tanto
candore e tanta armonia. Il capolavoro di Leonardo è un perfetto oggetto
artistico perché in esso potremmo a lungo e ripetutamente perderci (illuderci)
e da ogni siffatta avventura emergeremmo con uno sguardo nuovo sul mondo.
8. Il fattore in gioco Una cosa che ho appena detto può dare adito a
perplessità, quindi devo affrontarla e risolvere il relativo problema prima di
proseguire. Ho detto che chi gioca a filetto o a briscola può divertirsi.
Questo magari succede perché non ha grandi doti intellettuali e il filetto e la
briscola sono alla sua altezza. Ma che dire di quanti si dilettano di giochi
semplici proprio nella loro semplicità, pur cogliendone perfettamente i limiti?
Di quanti godono della tombola natalizia con un piacere forse regressivo ma non
per questo meno intenso? Una volta a Parma, durante una presentazione di
Giocare per forza, uno spettatore mi rivolse una domanda analoga. «Quando ero
ragazzo» disse «i miei compagni e io “giocavamo” a guardar le macchine passare
per strada, e ci eccitava molto vedere una macchina inconsueta. In che senso un
gioco così è innovativo, esplorativo, istruttivo o trasgressivo? È di una
banalità assoluta; eppure noi ci divertivamo un sacco». L’osservazione è acuta
e pertinente: un buon esempio di quanto ci sia da imparare se, in un’occasione
pubblica in cui si parla del proprio lavoro e si dovrebbe avere completo
controllo della situazione, invece di reiterare una predica risaputa e inutile
si accetta di mettersi in gioco e di raccogliere gli stimoli straordinari che
ci vengono dispensati da chi dialoga con noi. Ma veniamo al punto. Supponiamo
dunque che una famiglia (allargata) costituita da persone di notevole spessore
intellettuale si ritrovi durante le vacanze di Natale per giocare a tombola.
Tutti sono consapevoli dell’estrema semplicità del rito; eppure le ore
trascorse in questa operazione d’imbarazzante infantilismo sono serene ed
eccitanti, gradevoli e ilari. Come spiegarlo? Se interrogati, i protagonisti
potrebbero giudicarla una forma di abbrutimento: una provvida parentesi fra
occupazioni di rigore e profondità encomiabili ma anche, a lungo andare,
insostenibili. Dobbiamo crederci? Dobbiamo ammettere che, in qualche caso, il
gioco e il suo piacere vadano cercati proprio nel carattere brutale ed elementare
di certi comportamenti? Nel puro sfogo che essi esprimono? Non necessariamente.
Basta osservare che, se stiamo giocando e se il presunto oggetto del
nostro agire è un’attività socialmente considerata ludica, non ne segue che
questa attività sia il gioco cui stiamo giocando. Forse stiamo giocando ad
altro, con la scusa di giocare a quel gioco socialmente riconosciuto. Che cosa
succede quando una famiglia (allargata) si ritrova per le vacanze di Natale?
Che persone con scarsa dimestichezza reciproca oppure (peggio ancora) con
ricordi di una dimestichezza ormai tramontata, alla luce del modo in cui sono
cresciute e maturate, si costringono a condividere spazi ristretti per qualche
giorno, con l’obbligo supplementare di manifestare ripetutamente reazioni estatiche
a tale improvvisa, temporanea, spesso faticosa vicinanza. Non devo dilungarmi
in dettagli: drammi di notevole veridicità (e crudeltà) sono stati scritti in
proposito. La tombola o la briscola possono allora costituire un’area neutra
nella quale sperimentare senza troppi rischi mosse e atteggiamenti che in altri
contesti potrebbero far male ma qui, nell’atmosfera lieve di un gioco, hanno
«corso legale» e consentono preziosi passi avanti nel difficile compito di
trasformare quella che di nome è una famiglia nel senso di una concreta
familiarità. Stiamo dunque assistendo a una scena in cui si sovvertono e si
rinnovano le proprie competenze e i propri ruoli, si esplorano i propri
rapporti con altri che, nonostante il disagio e l’occasionale ostilità, sono pur
sempre cari e s’imparano strategie per distillare l’affetto dal disagio, e
tutto questo accade mentre si gioca a tombola, ma non riguarda la tombola. La
delicatezza e la sottigliezza dei tentativi che vengono condotti in quest’area
protetta e la ricchezza di insegnamenti che se ne derivano (senza rifletterci,
senza neppure esserne consapevoli, ma in modo estremamente utile per il
prosieguo e il successo dell’effimera convivenza) sono lontane toto coelo
dall’insulsaggine degli ambi e delle cinquine. Considerazioni analoghe valgono
per i ragazzi che «giocano» a veder passare le macchine, o a chi scorreggia più
forte o dice più parolacce. Se pensiamo che il fattore in gioco, in casi del
genere, siano le scorregge o le parolacce, dovremo modificare radicalmente la
nozione di gioco che abbiamo elaborato. Ma non bisogna pensarla così; e per
capirne le ragioni dobbiamo distanziarci dalle etichette correnti e anche da
quelle che gli stessi giocatori (si) attribuiscono. Le competizioni di cui
sopra sono giochi, ma non è detto che chi gioca partecipando a tali
competizioni stia giocando a scorreggiare, e si stia divertendo perché
scorreggia. Forse sta giocando, esattamente nel senso in cui ho definito il
gioco, a qualcos’altro di ben più complesso (a socializzare con dei coetanei, a
mettere sotto pressione la sua fisicità ed emotività), mentre tutti i presenti
(e lui stesso) sono distratti dalle scorregge; ed è anzi importante che
ne siano distratti, perché altrimenti il gioco cui stanno davvero giocando non sarebbe
altrettanto trasgressivo e innovativo, esplorativo e istruttivo, e piacevole.
Questa osservazione mi consente di precisare il punto con cui ho chiuso il
capitolo precedente e di prendere posizione rispetto a un tema che per molti
autori ha grande importanza nel definire il gioco ma nella mia trattazione,
finora, è stato oggetto di commenti piuttosto negativi. Cominciamo con la
precisazione. Ho detto che la Gioconda è un oggetto artistico di sublime
efficacia e ho liquidato quanti salutano con entusiasmo un po’ di sassi
dispersi «ad arte» in un museo come stupidi o conniventi. Devo ammettere che
non è sempre così (per quanto riguarda i sassi). Talvolta l’entusiasmo è
genuino, e genuinamente ludico. Se è vero che la fruizione di un’opera d’arte è
un gioco che coinvolge insieme i sapienti indizi lasciati dall’autore e
l’attivo contributo dello spettatore nel trasformare quegli indizi in un gioco
percettivo, è anche vero che i due elementi coinvolti in questa interazione
possono esserlo in misura molto diversa: esiste anche qui uno spettro di
opzioni, che va da uno spettatore inerte, sedotto suo malgrado, a uno invece
iperdisponibile a raccogliere ogni più remoto, implicito invito – perfino ciò
che non potrebbe essere vissuto come un invito senza tale sua immensa
disponibilità. Socialmente, molte delle persone che si collocano all’estremità
benevola dello spettro sono vittime di una posa, di una moda, di chiacchiere
senza sostanza e senza costrutto. Per noi però, qui, non importa: non stiamo
facendo sociologia ma disegnando uno spazio logico, una struttura concettuale,
quindi è sufficiente che sia possibile un’alternativa meno funesta per doverne
rendere conto. E il conto è presto reso: così come si può giocare con passione
e con gioia, da bambini, con gli oggetti più banali, e impararne fondamentali
lezioni di vita, lo si può fare da grandi con le molte banalità che popolano i
musei d’arte contemporanea. In entrambi i casi, gli oggetti con cui si gioca
sono solo minimamente responsabili dell’emozione e del piacere provati e
dell’apprendimento che ne segue. Non sono essi il principale fattore in gioco:
è lo spettatore (o il bambino) a sobbarcarsi la maggior parte del lavoro.
All’estremo opposto dello spettro, oggetti come la Gioconda hanno un valore
universale in quanto sanno parlare anche a chi non è disposto a impegnarsi
personalmente per dar vita a un dialogo – sanno parlargli anche se resiste,
anche se fa di tutto per convincersi che non gli si stia dicendo nulla. Il tema
che finora è stato trascurato (o peggio) e su cui è bene spendere qualche
parola è il gioco d’azzardo. Un autore che gli attribuisce sovrana
importanza è Caillois, che se ne serve per porre un’ulteriore radicale
distinzione in campo ludico – tra il gioco infantile (e animale) e quello adulto:
I giochi d’azzardo appaiono giochi umani per antonomasia. Gli animali conoscono
i giochi di competizione, d’immaginazione e di vertigine [...]. In cambio, gli
animali, esclusivamente immersi nell’immediato e troppo schiavi dei loro
impulsi, non sono in grado di immaginare una potenza astratta e insensibile al
cui verdetto sottomettersi anticipatamente per gioco e senza reagire. Attendere
passivamente e deliberatamente un pronunciamento del fato, rischiare su questo
una somma per moltiplicarla proporzionalmente al rischio di perderla, è
atteggiamento che esige una possibilità di previsione, di rappresentazione e di
speculazione, di cui può essere capace solo un pensiero oggettivo e
calcolatore. Ed è forse nella misura in cui il bambino è vicino all’animale che
i giochi d’azzardo non hanno per lui l’importanza che ricoprono per l’adulto.
Per il bambino, giocare è agire (p. 35). Buona parte dei giochi comunemente
detti d’azzardo può già essere inclusa nella rete concettuale che ho esposto.
Nel poker, per esempio, sia le carte che mi vengono di volta in volta offerte
dal caso sia gli avversari che affronto (e su cui amplieremo il discorso nel
prossimo capitolo) possono essere visti come condizioni oggettive del gioco,
sue regole né più né meno della particolare natura geometrica di un cubo o di
una palla; e a queste condizioni io esprimerò la mia capacità e creatività né
più né meno che se giocassi a scacchi o a calcio. Sembra rimanere totalmente
esclusa da questo ambito, però, una classe di giochi in cui non si può manifestare
nessuna capacità o creatività, in cui non si può mai migliorare, mai diventare
buoni giocatori, in cui si può solo assistere imbelli al modo in cui la sorte
gioca con noi: il lotto, la roulette, le slots... Nella maggior parte dei casi
chi «partecipa» a tali giochi, ho sostenuto in Giocare per forza e ripetuto
qui, è vittima di un imbroglio, di un asservimento truffaldino delle sue
legittime aspirazioni liberatorie a rituali il cui unico scopo è l’estorsione
di (suo) denaro; il che contrasta con l’esaltazione prometeica, nobile, perfino
mistica dell’azzardo in Caillois e altri. Hanno semplicemente torto, questi
autori? Sarebbe un errore affermarlo, e l’osservazione fatta sopra ci permette
di capire perché. Il gioco del lotto, ho detto nel sesto capitolo, è molto
vicino al grado zero di ludicità; se mantenuto a livelli moderati, ha l’unico
effetto (e senso) di causare una periodica emorragia pecuniaria e magari
saldare alcuni debiti psicologici che una persona ha con sé stessa (o con
altri). Può anche essere praticato, però, a livelli eccessivi, e allora il suo
senso cambia. Allora, su basi del tutto inconsistenti ma con esiti non per
questo meno fatali, una persona può trovarsi alle prese con un gioco che non
accetta di farsi rinchiudere entro limiti precisi, il cui ambito invade tutti i
microcosmi limitrofi e attenta a quella che è considerata la sua vita vera – la
sua sopravvivenza e il suo benessere. Depurato di ogni altro aspetto, qui
il gioco compare nella pura forma di rischio; ed è innegabile che in esistenze
ordinate e ripetitive, consuetudinarie e noiose l’affiorare del rischio sia
vissuto come il richiamo a una vocazione dimenticata, a un impegno tradito con
sé stessi. Chi sperpera le proprie risorse puntando sui numeri del lotto, o
della roulette, o sulle combinazioni di una slot, sta dunque talvolta giocando
– o meglio, direi, formulando una solenne promessa di un gioco a venire. Ma
tutto ciò non riguarda il lotto: il lotto, in quanto tale, non ha un parametro
ludico di valore abbastanza cospicuo da poter essere considerato un gioco, così
come non si può considerare alto un nano. Con la scusa del lotto, il giocatore
sta mettendosi alla prova, rinunciando alla sua sicurezza economica, emotiva e
anche familiare e personale, chiamando in causa tutto quanto per lui appariva
già deciso, già stabilito, in attesa di un rispettoso necrologio. Siccome
questo mettersi alla prova è l’essenza stessa della vita, il fascino di un
simile azzardo è comprensibile; purtuttavia voglio insistere che, senza negare
il fascino, non siamo in presenza di un vero gioco ma (ripeto) della promessa
di un gioco. Ho detto nel quarto capitolo che la semplice trasgressione non
costruisce nulla e che far saltare in aria la propria dimora e incamminarsi
nella notte può essere il preambolo di un nuovo gioco ma non ne costituisce lo
svolgimento. Il puro azzardo va spiegato allo stesso modo: è il ripido crinale
su un precipizio che minaccia di inghiottire tutto quel che siamo e suggerisce
che potremmo essere altro, radicalmente altro. Ma non sarebbe gioco buttarsi
giù per il precipizio e non lo sarebbe rimanere immobili e attoniti sul
crinale, nonostante l’intenso brivido che entrambe le esperienze ci darebbero.
Sarebbe gioco, invece, familiarizzarsi con il crinale o il precipizio e
realizzarvi un inaspettato insediamento, o percorrere con destrezza crescente
il crinale fino alla prossima valle. Non compiacersi del brivido e del rischio,
insomma, o lasciarsene sopraffare, ma integrarli in quell’equilibrio con atti
educativi e costruttivi che Schiller giudicava manifestazione del vero impulso
ludico e della vera umanità. (Un discorso analogo, ma che poco ha a che vedere
con l’azzardo, si potrebbe fare per molti di quanti giocano al lotto con
moderazione; anche loro non giocano al lotto, ma facendo finta di giocare al
lotto partecipano a un gioco sociale costituito da messaggi onirici,
numerologia superstiziosa e magia metropolitana. Un gioco che diventa un
linguaggio per una comunità, e talvolta una sfida per quella comunità «ufficiale»
che è basata su rigorose procedure scientifiche, leggi comprovate e soprattutto
«autorità competenti» sentite come estranee e predatrici. Un ulteriore
esempio, questo, di come sia necessario chiedersi, per ogni caso di esperienza
[presunta] ludica, «A che gioco giochiamo?».) Il fascino e l’esaltazione
mistica dell’azzardo sono spesso legati, in autori quali Caillois e Huizinga,
all’attribuzione al gioco di una natura sacrale; è opportuno quindi chiarire la
mia posizione al riguardo. Sono d’accordo che esista un’analogia formale tra il
gioco e il sacro, in quanto entrambi sono definiti da precise barriere
(regole): «Formalmente [...] [la] nozione di delimitazione è assolutamente una
e identica per un fine sacro o per un puro gioco» (Homo ludens, p. 43). E sono
d’accordo che ci sia un’altra analogia fra la presenza dell’azzardo (del
rischio) nel gioco e nel sacro: L’esito del gioco d’azzardo è di natura una
sacra decisione. Lo è ancora laddove un regolamento dice: a parità di voti
decide la sorte. Solo in una fase progredita dell’espressione religiosa, sorge
la nozione che verità e giustizia si manifestano perché un dio guida la caduta
dei dadi o la vittoria nella lotta [...]. [G]iurisdizione e ordalìe sono
radicate insieme in una pratica di decisione propriamente agonale, ottenuta sia
con un sorteggio sia con una lotta. La lotta per vittoria o perdita è sacra per
se stessa. Quando è animata da concetti formulati di giustizia e di
ingiustizia, allora si eleva nella sfera giuridica, e quando è dominata da concetti
positivi d’una forza divina, allora si eleva nella sfera della fede. Qualità
primaria di tutto questo è però la forma ludica (p. 125). La mia coscienza
laica si rifiuta di andare oltre. Uomini e donne giocano in ogni sfera della
loro esistenza; in particolare, esistono sacerdoti scherzosi e autori come
Gilbert Chesterton che parlano della religione come di una forma suprema di
umorismo. Ma esiste anche un sacro che è oppressione e nevrosi, gerarchia e
cieca obbedienza, nel quale vedo ben poco di ludico; e c’è un gioco che è
sberleffo fatto a Dio (pensate alla morte del Perozzi/Philippe Noiret in Amici
miei) e violazione della barriera o del recinto che ci rinchiudono – sacri o
meno che siano. Perché il legame fra gioco e sacro possa apparire convincente
bisogna appunto insistere sull’azzardo come elemento più autentico del gioco e
quindi spingerlo all’estremo, finché diventi l’Azzardo con la A maiuscola di
Abramo o di Pascal. E l’azzardo così concepito e vissuto ha un effetto
paralizzante, che può essere riscattato solo da un intervento esterno: da
un’entità trascendente che ci conferisca arbitrariamente una grazia. Non voglio
negare che la grazia e l’abbandono a essa ci salvino (anche se, per me laico, è
la grazia che l’un l’altro ci facciamo); ma in questa rarefatta atmosfera
oracolare non trovo più nulla della serena intraprendenza, dello sforzo
ingegnoso, del piacere insolente e, sì, del brivido presto dominato e a sua
volta goduto che tessono per me la trama del gioco. 9. Compagni di gioco
Torniamo ancora una volta alla bimba che gioca in una stanza. Il suo gioco
incontra resistenze, ho detto, che ne definiscono lo sfondo e ne articolano le
regole. Nel modo in cui ho descritto la situazione finora, le resistenze sono
offerte da quelli che comunemente denominiamo oggetti: le pareti, la palla, la
spillatrice. Immaginiamo però ora di introdurvi un altro essere umano:
affianchiamo alla bimba Sara un coetaneo di nome Tommaso e osserviamoli mentre
giocano insieme. In un certo senso, Tommaso e la palla presentano gli stessi
problemi. Anche di Tommaso bisogna tener conto, come della palla. La palla non
vuol saperne di rimanere in equilibrio sul cubo e Tommaso non vuol saperne di
dare la palla a Sara, quando l’ha afferrata dopo l’ennesimo scivolone dal cubo.
In entrambi i casi, questi inconvenienti possono causare violente frustrazioni
(nel caso della palla, come abbiamo visto, Sara potrebbe fare i capricci; con
Tommaso potrebbe litigare) oppure con entrambi si può arrivare (magari dopo una
successione di capricci e litigi) a una pacifica convivenza. Se e quando ci si
arriverà, Tommaso incarnerà un ulteriore insieme di regole cui il gioco deve
adeguarsi, un ulteriore insieme di spigoli esistenziali da scansare con
abilità, manipolandoli come si fa con gli spigoli fisici di una scatola o con
la rotondità della palla. Il comportamento di Tommaso diventerà parte della
struttura che Sara imparerà a riconoscere e sulla quale il suo gioco eserciterà
pressione, traendone lezioni di grande influsso su giochi futuri. (I maschi
sono prepotenti, concluderà per esempio Sara, ma facilmente distratti. Tommaso
stringe tanto forte la palla proprio perché io mostro di volerla per me. Basta
non farci caso, dedicarmi interamente a qualcos’altro, e la lascerà andare.)
Nel quarto capitolo ho citato un passo in cui Piaget giudica impossibile che un
bambino si dia regole da solo. Per il tramite di Émile Durkheim, secondo cui la
religione nasce dalla pressione del gruppo sull’individuo («Il gruppo [...] non
potrebbe imporsi all’individuo senza rivestire l’aureola del sacro e senza
provocare il sentimento dell’obbligo morale», Il giudizio morale nel bambino,
p. 98), questo giudizio lo porta a collegare una volta di più il gioco e il
sacro: La regola collettiva è dapprima qualche cosa di esterno
all’individuo e per conseguenza di sacro, poi a poco a poco si interiorizza ed
appare come il libero prodotto del consenso reciproco e della coscienza
autonoma. Ora, per ciò che riguarda la pratica, è naturale che al rispetto
mistico della legge corrisponda una conoscenza ed un’applicazione ancora
rudimentali del loro contenuto, mentre al rispetto razionale e motivato
corrisponda una conoscenza ed una pratica dettagliate di ogni regola (pp.
22-23). Una volta di più, non sono d’accordo: il bambino, come ho spiegato, può
darsi regole da solo purché queste siano viste come regole con il senno di poi
di chi ricostruisce retrospettivamente il suo sviluppo. Eppure, per una via che
Piaget non approverebbe, anch’io arriverò a concepire una forma di comunità come
condizione, se non proprio necessaria, almeno predominante di ogni gioco, che
per me è quanto dire di ogni gioco regolamentato: non tanto la comunità di cui
parla lui, costituita spesso da figure autoritarie che decretano le regole
(«Dal momento in cui un rituale viene imposto ad un bambino da adulti o da
ragazzi maggiori per i quali egli ha del rispetto [...] oppure [...] da quando
un rituale risulta dalla collaborazione di due bambini, esso acquista per la
coscienza del soggetto un carattere nuovo, che è precisamente quello della
regola», pp. 27-28), quanto piuttosto la comunità del suo teatro interiore.
L’itinerario cui ho appena accennato includerà questo capitolo e il successivo,
e il suo primo passo consiste nel notare che le situazioni descritte finora non
equivalgono a un giocare insieme. L’espressione «Sara gioca con Tommaso», e in
generale «X gioca con Y», può infatti essere intesa in due sensi piuttosto
diversi. Quello che ho descritto è il senso in cui Sara gioca con Tommaso come
gioca con la palla, o un adulto che disponesse di grande potere (e si
compiacesse di averlo, e di darne prova) potrebbe giocare con i suoi simili
come se fossero pedine della dama o birilli del bowling: il «con» in tali casi
introduce un complemento di mezzo. È anche possibile, e auspicabile (vedremo
perché), che il «con» introduca un complemento di compagnia: che Sara giochi
con Tommaso, o un adulto meno squallido di quello immaginato prima giochi con i
suoi simili, nel senso che Tommaso o gli altri adulti siano non elementi o
pezzi ma compagni del gioco. Che cosa succede quando si manifesta questa
seconda possibilità? Per capirlo, stabiliamo che un gioco sia costituito da una
serie di sfide rivolte all’ambiente (inteso sempre come ambiente esistenziale,
non soltanto fisico, quindi inclusivo di abitudini e aspettative), ciascuna
produttrice di una figura possibile ma di solito non realizzata in
quell’ambiente. Il letto è fatto per dormirci sopra e io (con grande fatica) mi
ci infilo sotto; l’interruttore è fatto per tenere la luce accesa o spenta e io
lo manovro in continuazione causando un costante lampeggiare (e, a lungo
andare, fulminando la lampadina); il tavolinetto è fatto per appoggiarci
bicchieri e tazzine e io lo uso come scalino per arrampicarmi sulla credenza.
Quando un gioco è praticato insieme da due o più compagni, quando cioè due o
più persone presenti al gioco vi sono presenti come giocatori, non come pezzi
del gioco (o come spettatori), ciascuno contribuisce ad accrescere il
repertorio di sfide di cui il gioco è costituito. Le sfide anzi si accavallano
le une sulle altre: se Tommaso usa il tavolinetto per arrampicarsi sulla
credenza, Sara ci metterà sopra un paio di grossi libri perché si riesca a
salire più in alto; se Sara s’infila sotto il letto, Tommaso vi trascinerà
anche palle e cubi, e tenterà di replicarvi tutte le evoluzioni che riuscivano
più facili all’aperto. Con tanta inventiva a disposizione, capiterà che qualche
sfida sconvolga le resistenze accettate come regole dai giocatori e cambi la
natura del gioco. D’accordo che la porta è chiusa e le pareti non retrocedono;
ma, guarda un po’, se spingi questa levetta la finestra si apre e tuffandosi
oltre il davanzale si esce in giardino! Ho detto che «costruire figure» è
un’espressione metaforica; talvolta però il gioco costruisce in senso
letterale. Seguiamo uno di questi episodi per un attimo, perché si tratta di un
tipo di costruzione che in seguito acquisterà notevole importanza. Spostiamo
Sara e Tommaso (più grandicelli) su una spiaggia e osserviamoli mentre
edificano un castello di sabbia. L’idea generale è semplice: si scava, con le
mani o con la paletta, e si usa il secchiello pieno di sabbia umida per
innalzare torri o il rastrello per raccogliere sabbia a forma di mura. Se un
solo bambino fosse responsabile dell’operazione, lavorerebbe eccitato per un
po’ e quindi forse rimarrebbe a corto di idee e si fermerebbe, contento di
rimirare il risultato; in due, invece... Uno pensa che con il secchiello si può
raccogliere acqua dal mare e circondare il castello con un fossato; l’altra
s’industria immediatamente a metterci sopra un rametto a mo’ di ponte, e il
primo allora va in cerca di una corda perché il ponte diventi levatoio. Una si
serve di una pietra per rappresentare il portone e l’altro ricopre il palazzo e
le mura di finestre e feritoie, e allora la prima fa sporgere armi dalle
feritoie, puntandole contro il nemico. Ogni nuova idea che l’uno offre cambia
il contesto in cui il gioco si muove, e nel contesto così mutato «viene
naturale» all’altra un’altra idea, che a sua volta cambia il contesto aprendosi
a ulteriori avventure, in una rincorsa ininterrotta di coraggio e creatività.
Un gioco coinvolge un certo numero di oggetti (talvolta puramente mentali, o
ideali), che il gioco usa entro limiti accettati come sue regole, e ha almeno
un soggetto che conduce la manipolazione: ha almeno un giocatore. Gli oggetti
possono essere inanimati, animati o anche umani; il soggetto sembra dover
essere animato (cani e gatti giocano, con gomitoli di filo, con topi o con i
loro padroni; al termine del libro suggerirò – già vi avevo accennato – che la
restrizione a soggetti animati, e forse la distinzione stessa fra enti animati
e non, sia da mettere in discussione). Un gioco che abbia un solo soggetto
sarebbe un solitario, e nel prossimo capitolo mostrerò come gli autentici
solitari siano rarissime eccezioni; ora m’interessa elaborare un altro punto,
illustrato dalla discussione condotta qui sopra. Un gioco che non sia un
solitario risponde infinitamente meglio alla sua natura di gioco, così come due
specchi paralleli dànno luogo a infinite riflessioni, perché moltiplica le
opportunità di trasgressione ed esplorazione, di apprendimento e relativo
piacere, permettendo a ognuno dei partecipanti di trarre spunto dal contributo
degli altri per mosse più libere e devianti di quanto lui mai sarebbe riuscito
a scoprire da solo. C’è però un risvolto meno edificante della faccenda: se è
vero che un gioco giocato insieme è più un gioco di uno giocato in solitudine
allora è anche vero che un gioco giocato insieme è più pericoloso di un
solitario. Quando prima ho parlato dei due bimbi che, riunendo le loro forze,
riescono a spalancare la finestra, molti avranno rabbrividito e io mi sono
affrettato a rassicurarli facendo capire che si trattava di una finestra al
pianterreno. Ma il problema era solo rimandato, non risolto, perché è chiaro
che i bambini di un altro esempio (come alcuni bambini reali, diciamo il figlio
di Eric Clapton) potrebbero fare la stessa scoperta ai piani alti di un
grattacielo, con esiti disastrosi. Il rischio continua, e anzi si accentua, fra
gli adulti, soprattutto fra i giovani adulti, che sovente si trovano spronati
dall’essere in gruppo a mosse devianti che ne mettono a repentaglio
l’incolumità (o la salute altrui) – e che non compirebbero isolati. Ogni
genitore avrà considerato eventualità del genere e molti, purtroppo, hanno
dovuto affrontare non il timore di un’astratta considerazione ma il dolore di
una concreta tragedia, non potendo capacitarsi di come il loro «bravo ragazzo»
(o brava ragazza) avesse potuto lasciarsi trascinare dalle «cattive compagnie»
a comportamenti distruttivi o criminali, e per lui (o lei) del tutto anomali,
addirittura irriconoscibili come suoi. Non intendo certo negare l’intensità o
la validità di tali preoccupazioni e sofferenze (sono un genitore anch’io), ma
insisto sulle tre tesi seguenti: (a) Le varie caratteristiche del gioco ne sono
componenti organiche e vitali, quindi il gioco va preso (o rifiutato) in
blocco, tutto insieme. Esplorazione e apprendimento non possono essere
disgiunti da violazione e rischio (per quanto il rischio possa essere ridotto
giocando «per procura»). (b) Il gioco è prezioso per la nostra forma di vita
(direi anzi per la vita in quanto tale), ne è una componente irrinunciabile:
meno gioco vuol dire meno umanità. (c) Il gioco è tanto più gioco se
giocato insieme, quindi (in ossequio alla formula aristotelica che fa dell’uomo
un animale sociale) siamo tanto più umani quanto più giochiamo con altri (dove
il «con» introduce un complemento di compagnia). Come gestire allora i pericoli
e i timori di cui ho detto? La mia risposta si applica in generale a tutti i
rischi in cui il gioco (anche solitario) incorre e a tutti i mali che può
causare: per proteggersene è opportuno non meno ma più gioco, e non meno ma più
gioco fatto insieme. Un ragazzo che sia stato troppo a lungo «bravo» e poco
avvezzo alla compagnia e all’esempio di altri sarà facilmente travolto dalla
prima circostanza in cui si ritrovi in un gruppo che agisca in modo
trasgressivo ed eccitante: per prepararlo a vivere questa circostanza con un
minimo di ragionevolezza nulla funziona meglio di una socializzazione ludica
precoce e continua, che lo metta in grado di riconoscere gli straordinari
vantaggi ma anche le trappole di una reazione a catena che può tanto riscaldare
le nostre emozioni e il nostro ingegno quanto bruciarli. L’unica cosa che mi ha
dato fiducia, quando ho pensato ai miei figli in tali circostanze (e in mia
assenza) è stato il fatto di sapere che in circostanze analoghe (pur se meno
estreme) c’erano già stati, in tempi in cui potevo ancora evitarne le
conseguenze più gravi. Il gioco dunque, e in particolare il gioco in compagnia,
è, direbbe Huizinga, «innegabile» (p. 20). Stabilita questa tesi, è il momento
di affrontare un aspetto del gioco che finora ho tralasciato e che per molti ne
è invece (come per altri l’azzardo) caratteristica essenziale: il fatto che
esso si presenti come competizione, come scontro, come lotta. In Giocare per forza
ho parlato di teoria dei giochi, come uno dei vari modi in cui il gioco è
violato e la sua natura distorta. La teoria dei giochi ha avuto origine
definendo «gioco» un’attività competitiva in cui si affrontano avversari con
l’obiettivo di batterli – di vincere quel che loro perdono (la teoria lo chiama
un «gioco a somma zero») – e su questa base ha conosciuto fortunate (e
sciagurate) applicazioni in politica e in economia. (Solo più recentemente ha
cominciato a studiare anche i giochi cooperativi, in cui i giocatori vincono
insieme.) In modo analogo, Piaget afferma che i giochi regolamentati (i quali,
come abbiamo visto, non esauriscono per lui tutti i giochi) sono
necessariamente competitivi e hanno necessariamente come obiettivo la sconfitta
di uno o più avversari: i giochi di regole sono giochi di combinazioni
sensorio-motrici [...] o intellettuali [...] con competizione degli individui
(senza di che la regola sarebbe inutile) e regolati sia da un codice trasmesso
di generazione in generazione sia da accordi momentanei (La formazione del
simbolo nel bambino, p. 209; corsivo aggiunto). il gioco di regole [...] è
ancora soddisfazione sensorio-motrice o intellettuale e, inoltre, tende alla
vittoria dell’individuo sugli altri (p. 247). È un sintomo rivelatore del
diverso atteggiamento espresso dalla mia teoria che le nozioni di avversario,
di competizione (o combattimento) e di vittoria non vi abbiano una dignità
autonoma o un senso unitario: in esse s’incontra ambiguamente una pluralità di
esperienze distinte, fra cui è bene non fare confusione. Per capirci,
supponiamo che io giochi a tennis con qualcuno. Posso giocarci come con uno
spigolo o una parete: dopo un certo numero di tentativi ed errori, capirò come
avere la meglio e ripeterò religiosamente (a proposito del sacro, e di quanto
spesso non sia ludico) le stesse mosse – quelle che hanno dimostrato di
«funzionare». Smetterò di esplorare, di trasgredire, di correre rischi e quindi
di imparare; il mio non sarà più un gioco. Posso anche, però, entrare in un dialogo
con l’altro giocatore in cui ciascuno inciti l’altro a mosse ignote e
avventate, per vedere che cosa càpita, e prima o poi l’ignoto diventerà
familiare e ciò che era avventato verrà eseguito con maestria; starò allora
giocando con un compagno e traendone tutta la ricchezza di stimoli, l’inventiva
e la soddisfazione che sempre derivano dal giocare insieme. Oppure posso fare
l’una o l’altra cosa per ottenere poi (c’è di solito uno scarto temporale, in
tal caso: il gioco è stato piegato alla logica di una prudente e oculata
gestione delle proprie risorse) un premio in denaro o una fama di ottimo
tennista; di conseguenza, se pure esploro e mi metto alla prova, corro rischi e
imparo, quello non è un gioco perché ha un fine strumentale ed esterno (oppure
è un gioco solo in quanto riesce ad affrancarsi da questo fine esterno e a
liberarsi, magari inconsapevolmente, dalla logica della prudenza). La
percezione del mio «avversario», in questi diversi casi, sarà molto diversa, e
sarà molto diverso che cosa voglia dire «combattere» o «vincere». Nel primo
caso si combatterà e si vincerà letteralmente: si affronterà un altro e lo si
ridurrà in proprio potere, perpetuando i sinistri riti della violenza (più o
meno simbolica). Nel secondo caso si combatterà per fare un passo avanti nel
gioco e si vincerà se si riuscirà a farlo; potrei dire che si combatterà con (e
si vincerà su) sé stessi, salvo che, come appunto spiegherò nel prossimo
capitolo, si è raramente soli quando si gioca, quindi preferisco dire che i due
giocatori combatteranno e vinceranno insieme superando lo stadio che il gioco
aveva prima raggiunto per ciascuno di loro. Nel terzo caso questa opportunità
di crescita, e il contributo che le dànno la presenza e l’azione del compagno,
saranno a loro volta asserviti alla volgarità e alla miseria dell’esercizio del
potere sull’altro – che può non essere il compagno stesso, il quale può
fungere invece da complice (da allenatore, per esempio). Non c’è nulla di
oggettivo o di neutrale, in conclusione, nel chiedersi chi sia il mio
avversario in un gioco o chi alla fine abbia vinto. Se queste domande sono
intese nel modo più comune, e sancito dalla più tradizionale teoria dei giochi,
ciò che ne traspare è un’istanza maligna che nega al gioco la sua libertà, il
suo abbandono e anche il suo specifico piacere (che non è quello di abbattere e
umiliare un altro giocatore). Dobbiamo cogliere l’ambiguità e – qui davvero, e
nel senso più ovvio – combattere perché il gioco non ne esca con le ossa
rotte. 10. Azione! Il gioco che più appassiona i bambini è quello di
impersonare chi li circonda, soprattutto chi li incuriosisce o li attrae (in
senso positivo o negativo). Talvolta mimano attività in cui hanno visto
occupati i protagonisti del loro universo familiare – genitori, zii, fratelli
maggiori. Li vediamo allora affaccendarsi intorno a finti fornelli, sgridare
una bambola che fa le bizze, distendersi su una sedia abbandonati alle cure di
un «parrucchiere»; la mia figlia più piccola, quando aveva da poco imparato a
parlare, riempiva quaderni di geroglifici incomprensibili e, a chi le chiedesse
che cosa stava facendo, rispondeva con sussiego «Faccio i compiti». Talaltra
ricalcano con imbarazzante fedeltà gli atteggiamenti, le espressioni, i
manierismi di un altro: li vedi corrugare la fronte, spingere avanti il petto,
usare parole e frasi idiosincratiche in un modo così sfacciato ed estremo
(proprio per la sua innocenza) che non può non sembrare caricaturale e invitare
al sorriso (ma vedi più avanti). Il tutto culmina in manifestazioni molto
appariscenti: le mascherate con lenzuola e tovaglie davanti allo specchio, le
facce dipinte con colori di guerra, le vite alternative vissute con amici,
parenti e spesso figli immaginari. Le feste commerciali rivolte a pratiche
analoghe e destinate a rinvigorire periodi di stanca del mercato – il vecchio
carnevale, il più recente Halloween – non sono che citazioni esauste di tanta
passione, sensibilità e allegria. Gli adulti non sono da meno. L’umanità, ho
sostenuto altrove, non è che una forma superiore (cioè più raffinata, più
articolata) di scimmiottamento: tutti riceviamo frammenti di personalità da
amici del cuore, sconosciuti intravisti una volta sul tram, artisti di successo
o anche individui odiosi e ributtanti ma tali da imporsi alla nostra
attenzione, sia pure per un minuto. E niente ci dà più piacere dell’inscenarli
in una pantomima: complici una buona bevuta o una situazione di alto tenore
emotivo, imitiamo con gusto, con abilità, con estrema attenzione ai dettagli.
Il momento migliore di Novak Djokovic, secondo me, non è stato uno dei suoi
servizi fulminanti o dei suoi incredibili recuperi difensivi, e neppure uno dei
tanti trionfi nello Slam o nella Coppa Davis: si è verificato in uno dei primi
turni di Flushing Meadows, qualche anno fa, quando ancora aveva vinto
poco e a un tratto, prima di una partita, dilettò il pubblico copiando con
sorprendente precisione i tic in fase di battuta di Rafael Nadal e Maria
Sharapova. Il piacere che ne provarono gli spettatori era analogo a quello di
cui ho parlato nel settimo capitolo, esaminando il rapporto fra un artista e il
suo pubblico: l’artista crea e noi ne riconosciamo l’azione perché abbiamo in
noi la capacità (magari latente) di vedere o ascoltare quel che lui vede o
ascolta (e quindi mostra); l’attore «entra» in un personaggio e noi ne godiamo
perché comprendiamo che cosa voglia dire entrarci. Nell’antica Atene la
naturale teatralità dell’essere umano era non solo praticata e apprezzata: in
un mondo privo di scritture sacre in cui sentenze e parabole erano raccolte dai
testi poetici, drammaturghi e commediografi dominavano la vita culturale. Da
ciò Platone si dissocia con severità nella Repubblica, bandendo ogni
rappresentazione teatrale dal suo Stato perfetto. Anzi, non proprio ogni rappresentazione:
il filosofo ha una sua teoria in proposito, e ragionarne ci aiuterà a
proseguire nel nostro cammino. La teoria si compone di due tesi principali, una
descrittiva e una normativa. In primo luogo, Platone sostiene che ogni recita
ha delle conseguenze sul carattere di un individuo: assumere un ruolo significa
identificarsi, per quanto parzialmente e temporaneamente, con quel ruolo, e
l’identificazione lascerà tracce nella nostra identità – la contaminerà con le
caratteristiche del personaggio di cui ci siamo presi carico. Da allora in
avanti, volenti o nolenti, non saremo più soltanto noi stessi: avremo
incorporato un estraneo che continuerà ad abitarci, anche se forse in sordina e
in disparte. Questo estraneo potrebbe essere un criminale o un mostro: pensiamo
a Bruno Ganz che recita la parte di Adolf Hitler nel film La caduta, oppure a
Medea o Riccardo III. Ma potrebbe essere Gandhi interpretato da Ben Kingsley, o
Atticus Finch interpretato da Gregory Peck, o semplicemente una brava persona
come il Mr. Smith di James Stewart che va a Washington a dire la sua. Qualcuno
vorrebbe fare delle differenze fra questi casi: può essere pericoloso imitare
un malvagio, direbbe, ma non c’è nulla di preoccupante nel farlo con individui
normali, o addirittura encomiabili. Qui interviene la seconda tesi di Platone,
quella normativa, che stigmatizza non solo la cattiveria ma ogni forma di
diversità: ciascuno dei cittadini della repubblica è «tagliato» per uno
specifico compito, cui deve assolvere con la pazienza di una formichina, e
qualunque attività possa distrarlo da tanta devozione va rifuggita come la
peste. Bando a ogni passione estranea, dunque; bando a ogni musica ritmata e
suggestiva; e bando soprattutto all’infezione che il contatto con ogni
altra indole, con ogni altro repertorio di mosse e di abitudini potrebbe
causare in un individuo così letteralmente «tutto d’un pezzo». Se pure si
trovasse su un palco, davanti a un pubblico, il nostro eroe non dovrebbe che
recitare monologicamente, monodicamente e (diciamolo!) monotonamente sé stesso,
per confermare e rafforzare quella coerenza inesorabile del suo io che sarebbe
invece attenuata e imbastardita dall’affiorare di impulsi e gesti alieni (e
queste sono le uniche rappresentazioni teatrali ammesse da Platone nella sua
repubblica). Ho già detto che in questo libro eviterò perlopiù i discorsi
normativi. Sono in totale disaccordo con i valori enunciati da Platone, ma
caliamoci sopra un velo e limitiamoci a una considerazione. La repubblica
ideale sarà forse di casa nel mondo della realtà più autentica, quella
illuminata dal sole che i prigionieri della caverna non vedono; nella caverna,
però (dove i prigionieri, varrà la pena di notare, sono continuamente testimoni
di uno spettacolo, anzi di uno spettacolo fatto di ombre, un vero e proprio
antesignano del cinema), domina non quella realtà, con tanto di noiosa
conformità alle proprie tendenze e funzioni e «sano» orrore per ogni tentazione
ad allargarne l’ambito, ma invece l’«apparenza» difettosa e biasimevole di cui
Platone ci ha appena dato una brillante descrizione. Ciascuno di noi (nel mondo
terreno) non fa che scimmiottare e scopiazzare il suo prossimo, e l’operazione
(Platone insegna) non è innocua: nel compierla, ciascuno di noi diventa un po’
il suo prossimo, lo incarna, fa del suo corpo un palcoscenico su cui l’altro
può giocare il suo ruolo. È una delicata questione metafisica se, quando un
attore recita un personaggio, faccia appello a qualcosa che gli appartiene o si
adegui a un modello esterno; anche a tale riguardo ho le mie idee e le passerò
qui sotto silenzio. Perché in ogni caso la pratica di un attore e di tutti noi
in quanto attori, in quanto osservatori e imitatori della molteplicità, umana e
non, che abbiamo intorno, è sempre la stessa: che il germe di un personaggio ci
ingravidi a sorpresa con una sua forma che possiamo solo accogliere
passivamente, come avrebbe detto Pirandello, o giaccia invece sepolto negli
abissi della nostra psiche, come avrebbe detto Stanislavskij, l’unico modo per
far crescere tale germe, per attualizzarne la possibilità, per farlo venire al
mondo, consiste nel prestare attenzione a come si è sviluppato ed è maturato in
altri, nell’emulare questi altri passo passo, nel rifletterne movenze ed
espressioni – forse inconsapevolmente ma efficacemente. E magari facendo loro
violenza, perché riduciamo la loro complessità a un ritratto in filigrana, a
una singola voce che arricchisce il nostro coro, o perché perdiamo di vista
il loro significato schiacciandolo su uno schema puramente motorio. Come
farebbe un bambino: il bambino che rimane dentro di noi e lì non cessa di
godere del suo gioco più intenso e appassionante. (Un gioco che, sia detto fra
parentesi, spesso finisce per indispettire quel che c’è di più platonico negli
adulti: quando un bambino fa il verso a qualcuno, è facile passare dal
divertimento e dalla tenerezza all’irritazione e al rimprovero.) La recente
scoperta dei neuroni specchio ha dato dignità scientifica a questa intuizione:
gli esseri umani si riflettono l’uno nell’altro e si capiscono perché vivono
sia pur vicariamente, sia pure in modo traslato le medesime esperienze. Io so
quel che fai perché mentre lo fai in certa misura (come preparazione all’atto,
non come atto vero e proprio, e comunque in senso appunto solo motorio) lo
faccio anch’io: mi atteggio e mi dispongo come vedo fare a te, e con tali
atteggiamenti e disposizioni sono in grado di seguirti nel tuo percorso. La
prossima volta forse, in tua assenza, saprò inoltrarmici da solo. Incontriamo
così di nuovo la biologia e di nuovo stupiamo dell’avvedutezza con cui un
piacere tanto vivo è associato a una qualità di grande importanza evolutiva.
L’essere umano (ci ricorda ancora Aristotele) è un animale sociale: non si
realizza, non diventa quel che dovrebbe essere se non in comunità con altri
esseri umani, traendone esempio e stimolo per foggiare il suo comportamento. La
microfisica dell’umanità, dunque, l’atto elementare che, costantemente ripetuto
e ricombinato in mille forme con sé stesso, ci rende umani, è il modesto
miracolo dell’imitazione di un esempio. Di alcuni di questi atti saremo
intimamente consapevoli: guarderemo ai loro archetipi con venerazione e
sentiremo un profondo impegno nei loro confronti; ne riceveremo ispirazione e
indimenticabili modelli di vita e di saggezza. Ma casi tanto sublimi non
avrebbero luogo (né lo avrebbero le mode che con stanca regolarità uniformano
un’intera generazione a uno stereotipo) senza l’umile sottobosco del
rispecchiamento quotidiano: di quegli impercettibili aggrottamenti di
sopracciglia, torsioni del naso, accenti peregrini con cui ci riscopriamo
bambini impertinenti. Quel nostro aspetto così serio e edificante ci è
possibile perché da piccoli abbiamo giocato e da grandi abbiamo continuato,
spesso nostro malgrado, a giocare, a impersonarci l’un l’altro. A impersonare
anche i malvagi, perché anche da loro c’è da apprendere, fosse solo per
rimanerne alla larga: nel dramma della vita, insegna Plotino, servono anche i
cattivi caratteri, per dare la massima completezza all’insieme. C’è di più.
Quello dell’imitazione non è solo uno dei tanti giochi che, inaugurati con
aspetto dimesso nell’infanzia, sanno crescere con l’età fino a
raggiungere splendide vette. È la base che sottende tutti i giochi, il
materiale di cui ogni altro gioco si nutre. Per capirlo, torniamo sui nostri
passi e riprendiamo in esame un contrasto che avevo segnalato nel capitolo
precedente (suggerendo che potesse risultare poco significativo): quello tra
giochi solitari e giochi fatti in compagnia. Chiediamoci: esistono davvero, i
solitari? Tanto per cominciare, un bambino non giocherebbe affatto se non fosse
coinvolto in un ambiente emotivo in cui si sente (comunque stiano concretamente
le cose) in compagnia di qualcuno, sotto gli occhi (benevoli) di qualcuno. «Il
“bambino in carenza”» dice Winnicott «è notoriamente irrequieto ed incapace di
giocare» (p. 162). Questo perché «il gioco implica fiducia e appartiene allo
spazio potenziale tra (quelli che erano in origine) il bambino e la figura
materna, con il bambino in uno stato di dipendenza quasi assoluta e la funzione
adattativa della figura materna presa dal bambino per scontata» (p. 90;
traduzione modificata). In termini epigrammatici, «il bambino è solo soltanto
in presenza di qualcuno» (p. 154). Che dire allora dell’adulto? Osserviamo una
situazione in cui io stesso sono occupato in un gioco senza altri partecipanti
o testimoni, magari in uno di quei giochi di carte che si chiamano proprio
«solitari», e poniamoci riguardo a questo particolare episodio la stessa
domanda formulata sopra: sono davvero solo, mentre gioco? Posso immaginare
circostanze in cui la risposta sia «Sì», ma si tratta di circostanze aberranti,
eccezionali. Se giocassi automaticamente, pensando ad altro, potrebbe capitarmi
di fare una mossa a caso e poi, ritornato improvvisamente in me stesso,
rendermi conto che la mossa è vantaggiosa e acquisirla come strategia
consapevole, perfino abituale. Oppure la casualità potrebbe essere frutto di
disperazione: le ho provate tutte e niente funziona, quindi provo una mossa
assurda, che assurdamente funziona. Circostanze del genere non sono da
escludere: anche un comportamento individuale obbedisce alle leggi
dell’evoluzione, dunque non è escluso che in esso si verifichino mutazioni
stocastiche. Ma non è così che il mio comportamento si evolve nella maggior
parte dei casi. Quasi sempre mentre gioco «da solo», prima di fare una mossa,
io esploro più o meno sistematicamente e consciamente una serie di alternative,
e ne traccio almeno per un po’ le conseguenze, cioè mi colloco, colloco
svariati «me stesso», in un certo numero di mondi possibili – ciascuno
contraddistinto da una particolare mossa – e confrontando fra loro queste
diverse eventualità decido infine quale sia la mossa da fare, o il mondo possibile
da abitare davvero. I vari me stesso coinvolti nel processo di deliberazione
appena descritto avranno caratteri diversi: qualcuno sarà più audace e
qualcun altro più cauto, ci sarà chi ama le carte rosse e chi le nere, chi non
si dà pace se non saltano fuori presto i re e chi è disposto a lasciarli nel
mazzo fino all’ultimo; e a loro volta tutti questi diversi caratteri li avrò
mutuati, in generale, da persone che ho incontrato, da cui ho tratto lezioni e
le cui lezioni adatto alla situazione in cui mi trovo, selezionando quelle che
mi sembrano più opportune. Insomma, se conduco il gioco in quel modo specifico
è perché altri, le cui mosse e strategie ho incorporato, stanno giocando con me
(complemento di compagnia) e aiutandomi a vedere la situazione in tanti modi
diversi – a metterla appunto in gioco. La morale di questo discorso è che gli
autentici solitari sono, come già accennavo, rarissimi. Succede assai raramente
che quello spostamento di prospettiva, quell’esplorazione di terreni non
altrimenti battuti, quella violazione di quanto è noto e consueto che
costituiscono il gioco mi arrivino dal nulla, non abbiano a fondamento che un
mio cieco arbitrio. Quel che succede più di frequente, invece, è che gli
apparenti solitari (e le apparenti «idee originali» con cui dò un contributo
«creativo» a un gioco fatto con altri) siano giochi fatti in compagnia di
persone fisicamente assenti ma ben presenti nella mia pratica. E come ottengono
la loro presenza tali persone assenti? Ho usato la parola «incorporato» poco
fa, applicando la stessa metafora di quando prima ho parlato del fare del
nostro «corpo un palcoscenico su cui l’altro può giocare il suo ruolo» (e prima
ancora ho espresso il rifiuto platonico di questa forma di metabolizzazione del
nostro prossimo): la presenza degli assenti si ottiene imitandoli –
scimmiottandoli oppure atteggiandosi e disponendosi come loro secondo il
modello dei neuroni specchio. Fatta salva la sporadica occorrenza di mosse
devianti e ludiche che emergano dal puro caso, l’imitazione è la madre di tutti
i giochi: ogni altro gioco si svolge su una scena che il gioco dell’imitazione
ha popolato di personaggi e storie. Ho sempre trovato affascinante il fatto che
la battuta che dà inizio a ogni ripresa cinematografica sia «Azione!». A prima
vista, la battuta non ha senso: quel che la segue non è un’azione; al massimo
la rappresenta; coloro che vi «agiscono» non stanno facendo quel che pretendono
di fare, e tutti lo sanno – loro stessi, il regista, il pubblico. Perché
«Azione!», allora? Ci saranno senz’altro motivi contingenti che hanno dato
origine alla battuta, ma non m’interessano; m’interessa invece che sia rimasta,
perché se è rimasta il motivo è, ritengo, che c’è in essa una profonda,
illuminante giustizia. Nella rivoluzione concettuale proposta nel quinto e
sesto capitolo la vita umana era intesa come un insieme di giochi più o meno
regolamentati, più o meno vincolati a parametri fissi, e per converso più
o meno espressione di libertà; il gioco era la norma e le attività solitamente
giudicate serie erano giochi ristretti e limitati. Qui possiamo arrivare alla
medesima radicale costellazione di idee per una strada diversa (in un
labirinto, strade diverse ci portano spesso a un’identica meta). Che cos’è
un’azione? È corsa sul posto, routine, acquiescenza a ogni abitudine e
aspettativa? È ripetizione del già agito? Forse, ma solo nel senso della
straordinaria intuizione kierkegaardiana per cui l’unica vera ripetizione
sarebbe una novità, e le stesse cose non sono mai le stesse cose. Nel comune
senso della parola, invece, nella comune ideologia che informa il senso della
parola, una ripetizione non è un’azione. Il mio computer non agisce quando
applica alla lettera (ripetutamente) le istruzioni che gli ho dato: tutto quel
che c’era da fare l’hanno fatto le istruzioni, il computer non «fa» che
confermarle. Solo una mossa che cambia qualcosa, che stupisce, che scombina le
carte è un’azione, solo allora siamo attivi. Quindi solo il parametro ludico
del nostro comportamento lo costituisce come azione, nella misura in cui si
manifesta. Solo il gioco è azione. Ma è nella teatralità, ho detto, che il
gioco trova il suo humus, il terreno fertile sul quale crescere, e una
produzione cinematografica ha il pregio di mostrarci questa teatralità ridotta a
scene elementari, a quella che ho chiamato la microfisica dell’umanità, il
modesto miracolo dell’imitazione di un esempio. Niente più di tale costante e
ripetuto (!) miracolo merita di essere annunciato con «Azione!». 11.
Giochi di parole A questo punto del nostro percorso ci troviamo davanti a un
abisso, non meno impervio e minaccioso di quello che nel canto XVII
dell’Inferno separa Dante da Malebolge, e che il poeta e la sua guida riescono
a superare solo aggrappandosi a Gerione, mostruosa e malevola bestia. Abbiamo
compiuto un’accurata perlustrazione di tutta l’ampia e variegata area dei
giochi fisici, quelli che coinvolgono i nostri organi e sensi corporei e ci
permettono di percepire altri oggetti nello spazio e di interagire con essi.
Abbiamo scoperto nel gioco di una bimba elementi con un ruolo identico a quello
delle regole del calcio; abbiamo esplorato il gioco fatto insieme, nello stesso
modo, da bambini e da adulti; abbiamo perfino catturato nella nostra rete le
arti figurative, plastiche e musicali come giochi sensoriali. Rimane però il
fatto, sembra, che il nostro corpo non esaurisce il nostro essere: che
quest’ultimo contiene anche, molti direbbero, componenti spirituali che non
occupano spazio, che palesano anzi una radicale alterità nei confronti di tutto
ciò che occupa spazio. A una di tali componenti ho accennato nel secondo
capitolo, quando ho paragonato il modo in cui la bimba apprende qualcosa dal
suo gioco al procedere della scienza. Chiaramente quello della scienza è un
procedere metaforico, un metaforico «inoltrarsi in un terreno ignoto»: la
scienza non si muove (per quanto gli scienziati lo facciano) e non può
letteralmente procedere o inoltrarsi. Lo stesso vale per la poesia, la
filosofia e tutte le altre discipline di natura verbale o mentale; se pure
riuscissimo a dimostrare che queste discipline hanno un carattere ludico, come
potrebbe esserci più di un’analogia fra il loro carattere ludico e quello,
diciamo, del tennis? Come potrei continuare a insistere che il tennis e il
«gioco» dell’Etica spinoziana sono (sia pur dialetticamente) la stessa cosa?
Qui sono in ballo (in gioco) due cose diverse, ci ha insegnato Cartesio: la
nostra anima è una cosa distinta dal nostro corpo, dunque gioca ad altri
giochi. Il meglio che io possa fare, si concluderà, è trascurare questa
differenza ed evidenziare alcuni tratti che tali diversi giochi hanno in
comune: tornare cioè precipitosamente a una visione analitica del gioco che lo
riduca a un’essenza astratta e abbandoni al suo destino tutta la zavorra
– in particolare la zavorra fisica – che finora mi sono trascinato dietro. Non
sono d’accordo. Ai giochi verbali e mentali voglio arrivare come Dante arriva
in Malebolge, con tutto il mio corpo e ancora vivo (cioè giocoso), non
facendomi sostituire da un ectoplasma. E, se ciò cui intendo aggrapparmi per
eseguire questo salto mortale non è una bestia mostruosa, è però un’inversione
che qualcuno giudicherà altrettanto mostruosa nell’ordine logico in cui
solitamente (e ingannevolmente) vengono disposti i termini della questione. Qui
sopra ho accennato un po’ di corsa a «discipline di natura verbale o mentale»;
ora però è bene rendersi conto che verbale non è lo stesso che mentale – uno si
riferisce a parole e l’altro a idee o concetti – quindi se verbale viene
associato a mentale si tratta d’intendersi su come funziona l’associazione. Più
precisamente, si tratta di decidere se verbale vada spiegato partendo da
mentale, cioè mentale sia la base, il fondamento e verbale quel che gli si
associa, che su tale fondamento si regge, o se invece valga l’inverso. Chi
accetti la radicale distinzione fra anima e corpo sceglierà il primo corno del
dilemma. Per esempio, un filosofo del linguaggio come Geach (che, non a caso,
ha scritto anche su Cartesio) ci dirà che, se pure una scimmia o il vento nel
deserto emettessero un suono del tutto indistinguibile dalla parola «albero»,
quella non sarebbe un’occorrenza della parola «albero» perché ciò che rende
«albero» una parola non è il suo suono ma il suo significato, e solo una mente
(che, presumibilmente, né la scimmia né il vento hanno) ha accesso a quelle
cose astratte, ideali, non spaziali, spirituali insomma, che sono i
significati. Quasi un secolo prima di Geach, il fondatore della linguistica
contemporanea Ferdinand de Saussure aveva addirittura stabilito che il rapporto
di significazione valesse fra due oggetti mentali – la rappresentazione mentale
del suono «albero» (non il suono stesso) e la rappresentazione mentale di un
albero – trasformando di fatto la linguistica in una branca della psicologia e
il linguaggio in qualcosa che compete solo a enti che abbiano una psiche
(un’anima, appunto) e solo in quanto tali enti esercitino le loro funzioni
psichiche (non in quanto abbiano un corpo). La drastica scissione che cartesianamente
attraversa ciascuno di noi viene così esaltata a livello cosmico: tutto
l’essere, non solo il mio, è radicalmente diviso fra uno spirito che parla
perché è consapevole del significato di quel che dice e una natura che è
irreparabilmente muta – anche se emette suoni, e quale che sia la ricchezza e
complessità di tali suoni, non vuole dire nulla. Se in principio era il Verbo,
non si trattava del Verbo in quanto lo sentono le mie orecchie, ma in quanto lo
capisce la mia mente. Io scelgo la direzione inversa: è la mente a reggersi sul
linguaggio e non c’è differenza sostanziale, sebbene certo ci siano molte
differenze specifiche, tra il linguaggio di un essere umano e quello di una
scimmia o del vento. Ci vorrà una buona dose di testardaggine per rimanere
attaccati a questa mostruosità, ma confido che facendolo sarò in grado di
superare il baratro che incombe e traghettare il gioco verso sublimi creazioni
spirituali senza perderne per strada la fisicità. Nel resto di questo capitolo
mi occuperò dunque di giochi verbali e nel prossimo di quelli mentali.
Cominciamo definendo con esattezza il problema. La teoria tradizionale del
linguaggio, cui io mi oppongo e di cui Geach e de Saussure sono autorevoli
rappresentanti, afferma quanto segue: Il linguaggio è un mezzo di comunicazione
fra menti. Quando io parlo con un interlocutore A, ho un certo contenuto B
(un’idea, un desiderio, un giudizio) nella mia mente, lo codifico in un
linguaggio che suppongo A conosca ed emetto dei suoni che in quel linguaggio
significano B; A recepisce i suoni, li decodifica e acquisisce il contenuto B,
che d’ora in poi avremo in comune. La comunicazione ha avuto successo e il
linguaggio ne è stato prezioso ma in fondo inessenziale strumento. Se io so che
sono le cinque meno un quarto e ti dico «Sono le cinque meno un quarto», anche
tu verrai a sapere che sono le cinque meno un quarto; ma è un peccato che per
informarti di che ora sia io debba scegliere un percorso così tortuoso. Sarebbe
tanto più semplice se tu potessi leggere nella mia mente, se la comunicazione
potesse avvenire per via telepatica. C’è da stupirsi che per una volta
l’evoluzione si sia impegolata in un rituale maldestro e aperto a ogni sorta di
inconvenienti (cattiva pronuncia da parte mia, cattiva ricezione da parte tua,
insufficiente competenza linguistica, rumori di fondo...). Come combatterò
questa teoria? Dimostrandola sbagliata? Solo un ingenuo si porrebbe un simile
obiettivo: introducendo opportune complicazioni, una teoria può essere protetta
da dati empirici «recalcitranti» o sue inerenti assurdità. Il modello
geocentrico afferma che Mercurio e Venere girano intorno alla Terra ma noi li
vediamo sempre molto vicini al Sole? Niente paura: basta aggiungere un certo
numero di epicicli e i conti tornano. Il mondo è sovrappopolato e io rifiuto
categoricamente ogni forma di controllo delle nascite? Perché dovrei
preoccuparmi? Forse che un Dio onnipotente, dopo averci detto «Crescete e
moltiplicatevi», non saprà salvare capra e cavoli? Una teoria avversa non si
affronta cercando di confutarla ma costruendole accanto un’altra teoria più
plausibile, più potente, più elegante e lasciando che sia il pubblico a
decidere. Nella peggiore delle ipotesi, se il pubblico rimanesse fedele alla
concorrenza, avremmo almeno ampliato il numero delle opzioni disponibili:
avremmo allargato il gioco. Albert Mehrabian, professore di psicologia alla
Ucla, afferma che, quando una persona ci comunica i suoi sentimenti o stati
d’animo, solo il 7% della fiducia che ci ispira, quindi dell’efficacia della
comunicazione, dipende dalle parole che usa, mentre il 38% dipende dal suo tono
e il 55% dal suo comportamento non verbale, o body language – il che
spiegherebbe fra l’altro perché veicoli eterei e immateriali come la posta
elettronica diano origine a tanti malintesi e corti circuiti emotivi. A riprova
della capacità di resistenza delle teorie, un fautore della posizione
tradizionale non si lascerebbe turbare da fatti del genere. Categorizzerebbe
malintesi e corti circuiti come incidenti di percorso (privilegiando così la
norma sui dati, per quanto frequenti) e aggiungerebbe al modello un epiciclo:
la mente non codifica il suo significato in un messaggio soltanto verbale ma in
una performance inclusiva di gesti, atteggiamenti del viso e del corpo, ritmi e
inflessioni di voce. (Già il fatto che il relativo comportamento venga
qualificato come body language segnala il tentativo di asservire il corpo a
ulteriore elemento di trasmissione di un contenuto che non gli appartiene.) Io
invece prendo questi fatti molto sul serio e ne traggo la morale opposta: noi
comunichiamo, cioè ci capiamo reciprocamente e mettiamo in comune non solo
sentimenti e stati d’animo ma anche idee e opinioni, perché siamo innanzitutto
corpi e una lunga consuetudine a vivere in mezzo ad altri corpi (e a
rispecchiarne le mosse) ci ha educato a coglierne ogni variazione, ogni
indugio, ogni forzatura come significativi, né più né meno di quanto un esperto
marinaio sappia trarre le conseguenze di ogni minimo trasalimento della massa
d’acqua al cospetto della quale vive e opera (o una scimmia sappia fare con
un’altra scimmia, con il mare o con i visitatori dello zoo – per il vento
occorrerà attendere la fine del libro) Una piccola parte delle mosse fisiche
che comprendiamo e mediante le quali comunichiamo è costituita dall’emissione
di suoni, e anche qui capiremo di più e comunicheremo meglio quanta più
familiarità avremo con il corpo che ci funge da interlocutore – con il tipo di
suoni che ce ne possiamo aspettare. Con uno sconosciuto adotteremo
comportamenti guardinghi e stilizzati, sintomo dell’incertezza e apprensione
che proviamo; chiederemo per esempio nel tono più neutro possibile che ore
siano, ed è paradossale che la tradizione che qui sto contestando assuma casi
di natura così marginale e deviante come modelli ideali di comunicazione. Per
me l’ideale sono invece i casi in cui varie persone sono immerse in un progetto
o in un impegno comune, e le parole che si scambiano sono perlopiù ridondanti,
echi di quel che si è già comunicato in modo non verbale: un’asserzione
diffonde e ufficializza quanto tutti hanno già riconosciuto, un’espressione
d’incoraggiamento conferma il sostegno emotivo che tutti già avvertono. (E,
invece di suggerire parlando di body language che il comportamento sia una
specie del genere linguaggio, preferisco suggerire che il linguaggio sia una
specie del genere comportamento usando termini come linguistic behavior.) Ma,
si dirà, il linguaggio non è usato solo in situazioni come quelle che ho
descritto, in cui l’ascoltatore è in presenza di quel che gli viene comunicato:
in cui un sentimento, un’intenzione o un’idea sono espressi da un parlante che
gli è direttamente accessibile, con tutto il suo essere, e quel che il parlante
dice è in buona parte superfluo, considerando in quanti altri modi «dice» la
stessa cosa. Il linguaggio è un prezioso mezzo di comunicazione perché ci
permette di comunicare anche significati che ci sono assenti. Il parlante può
raccontarci che cosa gli è capitato ieri in ufficio, o che disastro ferroviario
sia avvenuto in India, e non solo: può essere lui stesso assente e raccontarci
queste cose al telefono, o scrivercene in una lettera o per posta elettronica;
e noi acquisiremo comunque tali informazioni, ne sapremo di più alla fine dello
scambio di quanto ne sapessimo all’inizio. Non è comunicazione, questa? E non è
suo strumento un linguaggio distaccato dal corpo? Non intendo negare simili
ovvietà. Teorie alternative devono spiegare gli stessi fatti, non scegliersi i
fatti più convenienti, ma li spiegheranno stabilendo diverse relazioni di
dipendenza, collocando diversamente gli accenti; dunque mi prenderò la libertà
di rimandare a più tardi la spiegazione del linguaggio come racconto e
formulerò invece una domanda che sembrerà, a chi sostenga la priorità del
mentale, mettere il carro davanti ai buoi. Mi chiederò: se la funzione
fondamentale del linguaggio non è quella comunicativa, quale potrebbe essere?
Ai miei avversari sembrerà che io possa porre tale domanda solo dopo aver
fornito un’interpretazione convincente, dal mio punto di vista, del carattere
narrativo del linguaggio; ma cambiare teoria (ripeto) vuol dire anche cambiare
priorità, e in particolare ritengo che il racconto linguistico diventi
perfettamente comprensibile se prima rispondo alla mia domanda. Nel quinto
capitolo ho detto che un gioco come il calcio o gli scacchi è un
microcosmo nel quale rappresentare mosse ludiche che sarebbe in generale troppo
rischioso praticare «dal vivo» e ho discusso la logica della rappresentazione:
qualcosa è sempre rappresentato da qualcos’altro, quindi gli è simile per certi
aspetti ma se ne differenzia per altri. Se mai si verificasse una situazione in
cui il gioco vicario che abbiamo condotto dovesse rivelare la sua utilità (in
cui l’elaborazione di piani intricati per guadagnare un alfiere dovesse
aiutarci in una manovra di aggiramento diretta a conseguire una promozione),
c’è da sperare che a risultare decisivi siano gli aspetti in cui i due contesti
sono simili, non l’infinità di aspetti in cui non lo sono. Stando così le cose,
una rappresentazione che somigli di più all’originale sarà più utile di una che
gli somigli di meno: più riuscirà a seguirlo nei suoi dettagli, nelle sue
modulazioni, nella sua incalcolabile architettura frattale, più sarà probabile
che, quando si abbia a che fare con l’originale, si sappia come muoversi con i
dettagli che allora risulteranno pertinenti. Nessun mezzo rappresentativo
disponibile agli esseri umani può rivaleggiare su questo terreno con il
linguaggio (sebbene il computer, affermavo in Giocare per forza, stia emergendo
come un pericoloso candidato): l’eccezionale quantità e qualità di suoni che
riusciamo a produrre ci permette di costruire rappresentazioni estremamente
particolareggiate di oggetti, situazioni ed eventi, e di esplorare ludicamente
queste rappresentazioni con vantaggi potenziali molto maggiori di quelli
consentiti da un gioco sportivo o da un gioco di carte. Il linguaggio è, in
primo luogo, uno spazio di gioco.nGuardate al modo in cui un bambino vive il
linguaggio. Spezza le parole, le stiracchia, le unisce in aggregati inconsueti
e scorretti, è attratto dalle loro risonanze, dal rumore che fanno, e spesso
combina quei rumori con altri che noi giudicheremmo «inarticolati»; per lui le
parole sono oggetti da manipolare, mettere sotto pressione e violare tanto
quanto palle e cubi. Questa, per me, è la scena primaria del linguaggio, il
prototipo che ne chiarisce il ruolo e il senso. In età adulta, a rimanere più
vicini all’intimità e al calore della scena primaria sono i poeti; sono loro
più di chiunque altro a giocare con le parole e a trattarle, giocandovi, come
cose. Ancora una volta reinterpretando il passato alla luce del suo futuro,
dunque, vedendo il bambino alla luce del poeta che promette di diventare,
potremmo dire che l’uso primario del linguaggio è quello poetico. Il che
equivarrebbe a riascoltare bene questa parola: poieo è fare, in greco, quindi
il poeta è creatore, e lo è proprio in quanto gioca, perché solo chi gioca
inventa, supera l’esistente nel nome di un processo innovativo che solo il
gioco consente di realizzare. Se le parole sono (trattate come) cose le si
potrà associare ad altre cose, e mediante tali associazioni costituire quelle
corrispondenze fra parole e cose che sono alla base del significato delle
parole. Quando ero piccolo a casa dei miei nonni, d’estate, raccoglievo tappi
di bottiglia (di birra, di Coca-Cola) e poi li usavo per rappresentare eserciti
e battaglie. Ogni tappo era un soldato, e quando il tappo era rovesciato il soldato
era morto. Detta altrimenti: ogni tappo significava un soldato, e che il tappo
fosse rovesciato significava che il soldato era morto. Nel linguaggio, invece
di tappi, pedine o gettoni, e invece delle configurazioni in cui possono
comparire tappi e pedine, usiamo nomi e verbi e loro configurazioni, di cui
abbiamo imparato il significato (le associazioni) osservando e scimmiottando
padri e madri, cugini e amici di famiglia, e acquistando attraverso i nostri
errori una dimestichezza sempre più sottile con le mille sfumature, cadenze e
intonazioni che organizzano quei significati, in modi mille volte più complessi
di tappi e pedine, mille volte più disponibili a scatenare la fantasia ludica.
Ogni gioco ha delle regole, abbiamo visto: va a sbattere contro spigoli e
pareti. Nel caso di un gioco linguistico, del linguaggio in quanto gioco, le
regole non sono ostacoli o limiti fisici ma sociali. Ho usato il termine
«scorretto» per spiegare come un bambino opera con le parole; un atto è
scorretto (o corretto) in relazione a una norma, ed è la società a imporre le
norme linguistiche e a designare quello del bambino come un comportamento
linguistico scorretto. Lasciato a sé stesso, il linguaggio non fa che seguire
un’inarrestabile deriva metaforica e metonimica, trasformato costantemente dai
poeti che lo abitano (cioè da tutti coloro che lo parlano) e che tendono a
volgerlo in un gergo familiare o di gruppo e infine in un idioletto,
comprensibile solo a chi lo parla. Ma la libertà – lo sappiamo – è rischiosa;
bisogna limitarne l’ambito e il potere. Intervengono allora discipline
(ascoltiamo anche questa parola: anche le sue associazioni ci dicono qualcosa)
normative: grammatica, logica, semantica, retorica, stilistica, che sanciscono
quali combinazioni di parole siano accettabili, quali associazioni fra parole e
(altre) cose siano significanti, a quali fra le molteplici tappe della deriva
linguistica si possa attribuire l’etichetta di un significato letterale
(cercando così di fermare la deriva: un significato letterale è una metafora o
metonimia su cui ci siamo arenati), quali ritmi e cadenze abbiano valore
estetico. L’uso comune del linguaggio si colloca su uno spettro analogo a
quello discusso nel sesto capitolo (anzi, è proprio lo stesso spettro). A un
estremo c’è l’assoluta licenza di una vocalizzazione esasperata; all’altro gli
anodini enunciati della filosofia del linguaggio anglosassone – «The fat cat
sat on the mat; he saw a big rat», «Il gatto è sulla stuoia»: perfettamente
grammaticali, costruiti con termini assolutamente privi di ambiguità, ciascuno
indissolubilmente legato a una singola associazione, e proprio per questo,
direi, incapaci di esprimere un qualsiasi significato o dar vita ad alcuna
comunicazione. Né l’uno né l’altro degli estremi (per quanto citato nei testi
di filosofia del linguaggio) è mai effettivamente realizzato; quel che
incontriamo nelle nostre quotidiane vicissitudini è un universo multiforme di
mediazioni fra gli estremi. Incontriamo parole e frasi che in certa misura
fanno ossequio alle norme (tanto maggior ossequio quanto minor fiducia abbiamo
nell’ambiente) e in certa misura le trascendono colorandole di esperienze
personali, immettendovi il gusto saporito, talvolta un po’ nauseante, di una
sceneggiata che coinvolge tutto il corpo, non solo le labbra e la lingua. Come
in ogni altro caso, regole rigorose diventano l’occasione per una creatività
più raffinata, per un gioco più sagace anche se indubbiamente più difficile,
come il bridge è più difficile della briscola. Pensate a quanto è costrittiva
la forma di un sonetto: quattordici endecasillabi divisi in due quartine e due
terzine, rimati secondo pochi e precisi schemi. Come ci sarebbe da aspettarsi,
la grandissima maggioranza dei sonetti è mediocre e noiosa – adiacente
all’estremo regolamentato dello spettro linguistico. Quando però recitiamo (la
poesia va recitata ad alta voce, per motivi che ora dovrebbero essere ovvi!) un
capolavoro di Dante, Petrarca o Foscolo, ci rendiamo conto che senza quelle
costrizioni non avremmo potuto scoprire tanta ingegnosa libertà, e goderne. E
la medesima libertà è espressa, non sempre a questi livelli, da ogni
parlante/poeta in ogni linguaggio: quando inventa una battuta, adatta a nuovo
uso una parola, raccoglie e concentra le sue emozioni in una frase a effetto,
improvvisa una cantilena per un figlio che non vuol saperne di dormire. In
ciascuna di queste occasioni la vocazione ludica del linguaggio si riattiva: le
regole diventano un trampolino per un tuffo ancor più avvitato e carpiato,
invece che una camicia di forza. È arrivato il momento di affrontare il
linguaggio dell’assenza e, nel farlo, di distinguerne con cura le due modalità
che prima avevo indicato. Il linguaggio, dicevo, può essere usato da un
parlante per descrivere qualcosa di cui il suo interlocutore non è e non è
stato testimone; in tal caso, è il significato del linguaggio a essere assente
(a chi ascolta). Ma, aggiungevo, anche il parlante può essere assente:
l’interlocutore può essere fisicamente solo e il linguaggio apparirgli come testo
scritto. Questa seconda modalità sembra ora la più inquietante, per la mia
posizione. Che cosa ne è in essa della corporeità della comunicazione, delle
parole trattate come cose, della libertà di giocarvi e di creare? Quando leggo
un resoconto scritto di una seduta parlamentare o di una sparatoria, di solito
non ne conosco l’autore (il suo è per me «un mero nome»): capisco quel che c’è
scritto perché le parole hanno il loro significato abituale e le frasi sono
composte in modo grammaticalmente corretto. Sarà vero che molti testi di
filosofia del linguaggio mi restituiscono un’immagine stantia e retriva del
loro argomento; ma anche questi testi sono scritti in un linguaggio, e io li
leggo e li capisco. Capisco «The cat is on the mat» e capisco il senso di questo
esempio. Non è vero dunque che i testi scritti suggeriscono una visione del
linguaggio del tutto opposta alla mia, e affine a quella tradizionale? Andiamo
per gradi. Consideriamo prima il caso in cui il contenuto di un racconto ci sia
assente (non ne siamo stati testimoni) ma la persona che lo racconta ci sia
presente, e immaginiamo che più persone ci facciano un racconto con lo stesso
contenuto, descrivano per esempio lo stesso disastro ferroviario in India. Ne
segue che tutti ci comunicano la stessa cosa? Che, pur assumendo che
controllino al massimo i loro movimenti e mantengano un volto impassibile, ne
riceviamo le medesime informazioni? Forse sì, se intendiamo «informazione» nel
senso più comune, e profondamente legato al modello mentalistico del linguaggio:
un pacchetto di enti immateriali (chissà come faranno degli enti immateriali a
entrare in un pacchetto!) che va trasferito da una mente all’altra. No, invece,
se ascoltiamo quel che «informazione» ci sta dicendo: se a contare per noi è
quanto una comunicazione ci forma, ci cambia, ha un influsso temporaneo o
permanente su di noi. Se prendiamo il termine in questa seconda accezione (che
io preferisco), dovremo ammettere che le parole scelte da ciascuno dei
narratori fanno un’enorme differenza per l’efficacia del suo discorso: che il
loro suono, il tono e il ritmo con il quale sono pronunciate, le loro
associazioni, le risonanze o dissonanze che hanno con altre parole dello stesso
discorso, la forza con cui tutte queste parole sono concatenate l’una con
l’altra suggerendo un’immagine unitaria e l’inventiva con cui questa immagine
si rinnova senza sosta, illuminando angoli oscuri e chiamando in causa
prospettive balzane, possono coinvolgerci in un gioco vivido ed eccitante, in
cui costantemente elaboriamo aspettative sul prossimo passo e le vediamo
confermate o contraddette, e proviamo sorpresa e frustrazione e incanto e
disgusto, e alla fine sentiamo di aver percorso noi stessi quel territorio e di
conoscerlo bene anche se ciò non è vero – anche se il territorio non somiglia
affatto a quel che ci è stato comunicato e ci ha informato. Oppure le parole
possono essere spente e banali, sfilacciate e risapute, e dovremo fare un
grosso sforzo per mantenere desta l’attenzione su quel che vogliono dire perché
sembra che non vogliano dire niente, e alla fine ci sarà difficile ricordarle e
capire che cosa è successo, in India. Un logico sentenzierebbe che entrambi i
discorsi esprimono lo stesso pensiero e hanno lo stesso valore di verità, e
magari sarà così, quando «pensiero» e «valore di verità» siano stati definiti
in modo opportuno; ma allora si dovrà concludere che pensieri e valori di
verità hanno poco a che fare con quel che succede quando ci raccontiamo
qualcosa. Il linguaggio non è mai dell’assenza. L’assenza esiste, non ci sono
dubbi: cose e persone ci mancano, spesso per sempre. Ma il racconto non ha
altra funzione che evocare queste cose o persone: la parola è innanzitutto
magica. Con le sue limitate risorse – qualche nota, qualche alterazione di
timbro o volume – richiama quel che non c’è e lo fa essere, anzi fa essere
qualcosa che s’ispira a quel che non c’è, e che forse ne è molto diverso ma
adesso con questa scusa ci è diventato presente. E la magia del linguaggio non
è mai disgiunta dal suo carattere ludico: la seconda volta che ascoltassi lo
stesso racconto, formulato con le stesse parole, non evocherebbe più nulla e io
mi troverei a pensare ad altro. Solo un linguaggio che esplora e sovverte,
inquieta e soddisfa, solo un linguaggio giocoso, può raccontare. Anzi, meglio:
solo un linguaggio in quanto giocoso, in quanto esplora e sovverte, inquieta e
soddisfa, perché come al solito i nostri racconti quotidiani sono compromessi
fra trasgressione e conformismo, scoperta e stereotipo, quindi sono racconti fino
a un certo punto. Al limite, se il linguaggio fosse usato in modo puramente
rituale e prefissato, non lo staremmo nemmeno a sentire. Veniamo ora alla
scrittura. Anche qui c’è uno spettro di possibilità, e anche qui la mia
posizione e quella avversa assumono come paradigmatici i due diversi estremi
dello spettro. Per i miei avversari il modello di comunicazione scritta, cui
ogni altra si deve uniformare, è il dispaccio d’agenzia: «Ieri alle ore 18.05
la Corea del Nord ha lanciato un missile verso Seoul». Io parto dall’estremo
opposto: così come l’archetipo del linguaggio è per me la poesia, l’archetipo
del linguaggio scritto è la prosa letteraria. In un dispaccio d’agenzia – anzi,
per la precisione, secondo il modo ideologico in cui la posizione avversa interpreta
un dispaccio d’agenzia – le parole non contano: basta esprimere il significato
giusto, inteso come entità astratta e mentale. In un testo letterario, invece,
è chiaro che le parole contano, e noi le sentiamo anche se leggiamo «a mente»;
e sono parole scelte con creatività e maestria (con la maestria di un grande
giocatore) a far nascere per noi dalla pagina dei personaggi, delle avventure,
delle passioni, un mondo. Parole diverse, se pure dicessero «la stessa cosa»
(quella che la posizione avversa concepirebbe come la stessa cosa) non
avrebbero lo stesso effetto, o non avrebbero alcun effetto. E, se un dispaccio
d’agenzia mi colpisce, se entra davvero in circolo nella mia persona, se non si
perde fra i rumori di fondo, è perché sa trasmettermi tutt’altro che un
resoconto neutrale e oggettivo di un semplice fatto (come vorrebbe l’ideologia
cui mi oppongo): perché il suo linguaggio economico ed essenziale conferisce
invece maggiore urgenza ai timori e alle ansie che si sono immediatamente
scatenati in me appena ho visto queste parole insieme – «Corea del Nord»,
«missile», «Seoul», «ieri». A suo modo, questo dispaccio (fittizio) è un
riuscito aforisma. Riassumiamo. Ho forse dimostrato che non esistono i
significati come entità astratte e accessibili solo a delle menti, e che non è
il rapporto con significati astratti a qualificare il linguaggio come tale? a
fare di un suono o di uno scarabocchio una parola o una frase? No di certo.
Dopo tutto quel che ho detto, anche chi volesse accettarlo potrebbe credere
che, in aggiunta a tutto quel che ho detto, ci sono i significati astratti ed è
la loro presenza a conferire dignità linguistica a suoni e scarabocchi. Ma non
era mia intenzione dimostrare niente del genere. Quel che ho cercato di fare è
stato difendere una tesi più debole ma per me d’importanza cruciale: dei
suddetti significati non abbiamo bisogno, possiamo farne a meno. Il nostro
linguaggio, anzi il nostro comportamento linguistico, è parte del flusso
continuo di tutto il nostro comportamento, che noi siamo in grado di
interpretare nei nostri simili o in noi stessi (perché ho detto quel che ho
detto?) così come interpretiamo l’annuvolarsi del cielo o il latrato di un
cane. Come con ogni altro aspetto del nostro comportamento, anche con il
linguaggio possiamo giocare; ed è qui che esso rivela la sua unicità, perché
nessun altro mezzo a nostra disposizione è tanto duttile, tanto articolato,
ricco di tanti dettagli e aperto a tante variazioni, quindi tanto generoso
nell’offrirci giochi d’insondabile profondità e complessità – microcosmi
infinitamente interessanti e istruttivi. Questa essenziale natura ludica del
linguaggio si combina con le sue altre caratteristiche dando luogo a ogni sorta
di mediazioni. Capiamo un altro che parla come capiamo un altro che cammina;
ma, parlando, quell’altro può esplorare e trasgredire e farci piacere e farci
paura molto meglio che camminando, e possiamo capire anche questo, e lasciarci
coinvolgere in questo gioco, e farcene trasportare in posti dove non siamo mai
stati, in compagnia di persone che non abbiamo mai visto. E possiamo creare lo
stesso miraggio senza nemmeno parlare, scrivendo parole in un libro come
questo; e le parole scritte evocheranno un significato se sono scelte con cura,
la stessa cura con cui uno scacchista prepara la sua prossima mossa – cura di
rassicurare e stupire al tempo stesso, di confermare e destabilizzare. Ho
chiarito come si possa arrivare, partendo da questa visione, a spiegare l’uso
del linguaggio per chiedere che ora sia, ma sono convinto che, se questo fosse
l’uso principale del linguaggio, esso sarebbe da tempo diventato non meno
vestigiale dei denti del giudizio. Temo che possa diventarlo, ho detto, che
all’orizzonte si profili minaccioso un terribile concorrente. Ma so che se non
lo è ancora diventato è perché nel linguaggio, più e meglio che altrove, si
gioca. All’inizio di questo capitolo mi ero assegnato il compito di
«traghettare il gioco verso sublimi creazioni spirituali senza perderne per
strada la fisicità». Che il lettore sia o meno d’accordo con le idee che sono
venuto sviluppando, avrà capito in che senso io intenda riconoscere un
importante elemento di fisicità in sublimi creazioni come sono spesso quelle
poetiche o letterarie. È ancora lecito, però, potrebbe chiedere, che io qualifichi
tali creazioni come spirituali? Non ho lasciato cadere lo spirito, o anima o
mente che dir si voglia, rifiutando la dualità cartesiana? Non sono rimasto,
quindi, in un universo che non ha più nulla di spirituale – un universo fatto
solo di corpi, eventualmente poetici o letterari? Non è, lo stesso obiettivo
che mi sono posto, prova evidente di una mia confusione, come se volessi
ammettere oggetti, o attività, che appartengono contemporaneamente all’ambito
fisico e spirituale? In realtà sono queste domande a provare qualcosa: quanto
sia difficile liberarsi di un pregiudizio. Per loro tramite il cartesianesimo,
scacciato dalla porta, rientra dalla finestra. Detta nel modo più semplice e
chiaro possibile, lo spirito (o la mente, o l’anima) può solo essere un modo di
vivere il corpo: non esiste uno spirito indipendente dal corpo. Un corpo si
anima quando i suoi atteggiamenti e le sue mosse si colorano di spirito ludico:
è spirito (o mente, o anima) in quanto gioca. (Potrei dire «in quanto danza»,
purché per danza s’intenda una pratica creativa, non puramente rituale e aperta
ai movimenti della parola e del pensiero: una danza nello spazio esistenziale.)
La visione cartesiana ci fornisce uno spirito a buon mercato: anche se giaccio
del tutto inerte, o la mia vita è inchiodata senza speranza di salvezza alla
routine più inflessibile, sono comunque una mente, una sostanza pensante;
all’ottusità del mio corpo è comunque offerto questo riscatto. Per me invece lo
spirito compare quando il corpo si accende di vitalità; il suo fiato è quello
che avverto quando qualcosa mi stimola, mi provoca e mi risveglia; e occuparsi
di libri o concetti non dà nessuna garanzia che lo spirito sia presente – basta
guardare al mondo accademico per rendersene conto. Siccome anche gli estremi di
questo spettro sono astrazioni teoriche e ogni nostra vicenda ha luogo come
mediazione fra di essi, tutti noi siamo in ogni momento corpi/spiriti, in parte
animati e in parte inerti. Lo siamo, però, non come convivenza di due entità
radicalmente distinte ma come coesistenza di due distinte modalità di
comportamento di una medesima entità. E, in conclusione, posso approvare
Huizinga quando dice che «il gioco, qualunque sia l’essenza sua, non è materia»
(p. 21) ma non perché si riveli in esso un carattere soprannaturale. Il gioco
non è materia perché è spirito, cioè materia che si reinventa incessantemente,
così come il non-gioco (cioè la materia) è spirito in coma. I Pensieri stupendi
dell'Aosta sono stupendi. L’aspetto fondamentale della tradizione cartesiana è
stato denominato in tempi recenti (posteriori a Cartesio) «accesso
privilegiato». Consiste nella tesi seguente: la mia vita mentale, privata, mi è
del tutto trasparente; io ne colgo con assoluta limpidezza ogni particolare; in
proposito non posso sbagliarmi. Posso sbagliarmi sul fatto che ci sia un
elefante in questa stanza, ma non sul fatto che io lo veda e sia sicuro di
vederlo. E sono l’unico detentore di tale certezza: chiunque voglia sapere che
cosa provo, penso o voglio, non può far altro che chiederlo a me – io sono
l’unica autorità al riguardo.Ci sono voci molto accreditate che si oppongono a
questa tesi. La psicoanalisi stabilisce quali siano le mie intenzioni o i miei
desideri in base a un’osservazione del mio comportamento ed eventualmente in
contrasto con le intenzioni e i desideri che io mi attribuisco. La
neurofisiologia ritiene di poter determinare se ho un’emozione consultando
immagini del mio cervello. Ma, per quanto in difficoltà fra gli specialisti,
l’idea cartesiana che io sia padrone a casa mia (cioè nella mia mente) continua
ad aver fortuna nella cultura popolare, sostenuta da potenti alleati: la
responsabilità religiosa che ognuno deve assumersi per i suoi peccati, la
responsabilità legale che deve assumersi per i suoi crimini, la responsabilità
politica che deve assumersi per il suo voto. In tutti questi casi, il fattore
decisivo è quel che l’individuo ha voluto fare, e solo lui (e magari il suo
Dio) sa che cosa sia. Gli altri, al massimo, potranno fare congetture sulle sue
intime motivazioni ed emettere un verdetto al di là di ogni ragionevole dubbio.
Ciò che è comunque al di là di ogni dubbio, ragionevole o irragionevole, è il
cogito: il rapporto che il soggetto ha con sé stesso come sostanza pensante. A
giustificare questa convinzione c’è il modo in cui viene concepito il rapporto:
lo amministrerebbe la funzione nota come coscienza, un flusso continuo di
attenzione rivolto alla nostra vita interiore, incapace di errore, custode
della verità del nostro essere. Io so che cosa provo, penso e voglio perché la
mia coscienza me ne dà un responso infallibile; nessun altro ha la mia
coscienza, dunque nessun altro ha diretto accesso ai miei dati. Ho affermato
altrove che la coscienza così concepita è un mito: non esiste un flusso
continuo di attenzione a sé stessi che abbia il compito di farci appurare tutto
quel che accade in noi, ma una serie di episodi indipendenti e frammentari in
ciascuno dei quali dalla molteplicità che noi siamo (che ciascuno di noi è)
emerge un giudizio negativo, un’obiezione, verso l’istanza che in quel momento
occupa il proscenio e sta dirigendo i lavori. La coscienza come flusso continuo
e coerente è il risultato di un’azione politica (reazionaria): di uno
stravolgimento di tale episodico esercizio critico che ha come scopo la
conservazione dell’ordine sociale – ritenendoci costantemente osservati, si
spera che ci comporteremo bene. Qui non intendo sviluppare ulteriormente
l’argomento, se non per notare un punto in cui questo discorso interseca i
nostri temi attuali. La visione mentalistica del significato sostiene che siano
le mie esperienze mentali, le stesse che Cartesio giudicava infallibili, a
determinare la dignità linguistica delle parole e frasi che pronuncio o scrivo,
dicevo nel capitolo precedente, e io sostengo l’inverso (e sostengo che quelle
esperienze siano tutt’altro che infallibili). La mia posizione richiede così
che si contesti il presunto carattere originario del mentale, caratterizzandolo
invece come dipendente dal non-mentale, e per raggiungere questo obiettivo
comincerò ascoltando ancora una volta una parola. «Privato», che nella
tradizione cui mi oppongo è sinonimo di «mentale», è un termine negativo,
perché ciò che è privato lo è in quanto privato di qualcosa, come un bimbo è
privato d’affetto o un operaio del suo lavoro. Qual è dunque la privazione che
costituisce il dominio privato del soggetto e della sua mente? Il gioco è
rischioso, e abbiamo visto quante barriere si erigano per evitare che faccia
troppo male. Un adulto proteggerà lo spazio in cui giocano i bambini: chiuderà
porte e finestre, toglierà di mezzo gli oggetti che possano essere ingoiati,
nasconderà i fiammiferi. Quando sarà lui stesso a giocare, troverà più
conveniente scagliarsi contro un avversario su un campo di calcio o tessere
trame su una scacchiera piuttosto che nel quartiere o in fabbrica. E spesso
parlerà soltanto di quel che potrebbe fare invece di farlo: si accontenterà di
esplorare microcosmi linguistici in cui ogni mossa è lecita invece di
coinvolgere in analoghi movimenti il (resto del) suo corpo. Ma non si è mai
abbastanza cauti: una parola avventata, detta con sovversivo spirito ludico,
può ferire l’interlocutore, suscitare i sospetti del principale, essere presa
troppo sul serio da una «testa calda». Allora la nostra specie (e forse non
solo, ma è arduo decidere la questione) ha introdotto un’ulteriore misura
cautelare: molte parole sovversive, molte associazioni inappropriate, molti
racconti fantastici che attentano alle norme del vivere civile li enunciamo
solo a noi stessi, li vocalizziamo senza emettere alcun suono, senza neanche
muovere le labbra – li priviamo di ogni contatto con l’esterno. Ecco in che
senso il mentale dipende dal verbale: i pensieri sono parole non dette –
immagini mnestiche di tali parole, secondo l’espressione freudiana – perché
l’interlocutore giusto, che potrebbe capirle e apprezzarle, non c’è o forse non
c’è mai stato, e noi abbiamo imparato, dopo molti sforzi e qualche delusione, a
farle risuonare in un pubblico silenzio, unici testimoni della loro presenza.
Lo spazio abitato dai pensieri è l’esatto opposto di quello cartesiano. Quello
era popolato di infinite idee, acuto e perspicace nel cogliere quanto sfuggisse
ai sensi del corpo, solidamente risolto in sé stesso e pronto a sollevare dubbi
su tutto ciò che non gli appartenesse. Questo è parassitario, anaclitico,
povero di contenuto e di struttura, in costante pericolo di venire assorbito
nel pubblico chiacchiericcio. Non voglio negare che esistano persone con
straordinarie capacità di concentrazione; la realtà di noi comuni mortali,
però, è che ci risulta estremamente difficile seguire un’idea senza perdere il
filo, o cogliere il rapporto che questa idea ha con quell’altra che abbiamo
avuto ieri; e intanto il mondo incombe e disturba il fragile equilibrio che
siamo penosamente riusciti a costruire, e dopo un attimo tutto crolla e non
ricordiamo più nemmeno che cosa stavamo pensando, o perché ci sembrava così
importante. Se uno di noi comuni mortali vuole far chiaro «dentro sé stesso» e
capire che cosa sta pensando, deve fare un passo indietro in questo percorso e
abbozzare un testo, un diagramma, un disegno su un pezzo di carta. Si chiama
«pensare attraverso la scrittura» ed è un luogo comune per chiunque si occupi
di processi creativi; ma l’ipoteca cartesiana ci impedisce di comprendere la
lezione che ci sta impartendo. Il pensiero è fondato sul linguaggio; i singoli
pensieri non sono che parole o frasi private dell’audio; la mente non è altro
che la capacità di parlare un linguaggio silenzioso (e si noti che sto parlando
della mente, non del cervello, cioè dell’organo di enorme complessità ed
efficienza che presiede, perlopiù inconsciamente, a tutte le nostre funzioni).
Quando questa capacità mostra i suoi limiti, si ritorna alla base: talvolta ci
si racconta ad alta voce quel che si stava cercando di seguire nel pensiero,
più spesso lo si scrive. Con buona pace di Cartesio, non è proprio vero che la
mente ci fornisca idee più chiare e distinte di quanto faccia il corpo: nella
mente regna di solito una grande oscurità e confusione, che si può dissipare
solo eseguendo movimenti fisici – scrivendo, per esempio. Fra le cose che
potremo scrivere ci sono novelle e romanzi, e ho già suggerito come sia da
intendere questo gioco; qui aggiungerò solo qualche dettaglio. Buona parte
dell’esperienza ludica dei bambini consiste nel raccontarsi storie; se sono
fortunati, incontreranno anche degli adulti che ne racconteranno a loro,
trascinandoli fra misteri e sorprese, spaventi e salvataggi, facendo loro
saltare il cuore in gola e tirare sospiri di sollievo. Uno scrittore compie la
stessa benefica azione con i suoi lettori: si sceglie un bambino ideale (i
critici letterari direbbero: un lettore ideale) di cui conosce gusti e
passioni, sogni e desideri, e lo asseconda e lo scoraggia e lo deprime e lo
esalta evocando con parole incisive e frasi seducenti un mondo fittizio che
starà al bambino (al lettore) completare a suo modo, partendo dalle tracce che
le parole e le frasi dello scrittore avranno sparso, come molliche di pane, per
le pagine del libro. L’azione è benefica perché il bambino ne trae godimento:
non sono molti i giochi che offrano tanto piacere quanto una simile altalena di
vicende, scenari e affetti. Ed è benefica anche perché il bambino per suo
tramite impara a conoscere i personaggi e gli eventi del mondo fittizio, come
s’impara qualsiasi cosa – partecipandone attivamente: anticipando la prossima
mossa e verificando le sue ipotesi, piangendo insieme con le vittime e
delirando insieme con gli amanti, immaginandosi a sua volta martire o
raddrizzatorti – e così amplia il repertorio di atteggiamenti e strategie a sua
disposizione correndo rischi minimi: il rischio di una crisi emotiva o di un
estraniamento dalle urgenze quotidiane, il rischio di cercare invano un’Anna
Karenina, il rischio di scambiare per Anna Karenina una persona molto diversa;
certo non il rischio di finire sotto un treno. Anche la filosofia nasce come
racconto, ma con un accento diverso, più insolente. Nel testo che la inaugura,
i dialoghi di Platone, si comincia narrando aneddoti su un discolo che si
rifiuta di crescere, di trovarsi un lavoro, di badare alla sua famiglia,
perfino di cambiarsi d’abito, perché è troppo impegnato a contestare ogni forma
di autorità, a prenderla in giro, a insistere con i suoi infantili «Perché?», a
giocare con le parole degli esperti in modo che, qualunque definizione
propongano, «ci gira sempre dattorno e non c’è verso che voglia star ferma nel
punto dove la mettiamo» (Eutifrone, p. 21). Sembra di leggere Pinocchio, solo
che qui non c’è nessuna fata turchina che salvi il discolo dall’esecuzione. Più
avanti il racconto si complica: il discolo prende ancora la parola, ma non solo
per far esplodere l’arroganza e la presunzione dei grandi. Ora, invece di
distruggere i castelli in aria degli altri, ne costruisce di propri, con acume,
scrupolo e pazienza (gli stessi con cui si costruiscono bei castelli di
sabbia), e li presenta con atteggiamento di sfida a quanti ritengono di vivere
in un castello e invece abitano in una stamberga, convinto che questa sia la
forma più efficace di critica: invece di perder tempo rivelando le stamberghe
per quel che sono, edifichiamo loro accanto una reggia e tutti vorranno
abbandonarle. (Così infatti ho trattato la posizione cartesiana in questo
capitolo e nel precedente; ho avuto buoni compagni di gioco.) Alcuni elementi
della repubblica platonica provocano la nostra indignazione: che si debba
mentire al popolo per il suo bene; che le unioni fra uomini e donne debbano essere
decise dal governo per motivi eugenetici. Altri ci sembrano di grande
ragionevolezza: che i governanti debbano essere educati con cura e il loro
carattere messo alla prova prima di affidar loro lo Stato; che le donne non
meno degli uomini possano governare, perché la loro differenza biologica non
implica una differenza di abilità. Quel che è comune a entrambi è il coraggio,
la sfacciataggine quasi, con cui vengono proposti, la risolutezza con cui
s’insiste sulla loro inevitabilità, sulla loro consequenzialità logica, la
noncuranza con cui vengono trattate le proteste del «senso comune», l’ambizione
e la genialità con cui tutti gli elementi vengono combinati in un colossale
affresco, nell’immagine di un mondo, di esseri umani, di una società totalmente
nuovi. Se un bambino vero (sotto i dieci anni d’età) mai avesse le risorse
intellettuali per compiere un’opera del genere, certo non gli mancherebbero
queste altre doti; certo non avrebbe ancora imparato il conformismo, la
soggezione, la viltà. Platone come Socrate è un bambino che si rifiuta di
crescere, che a risorse intellettuali mature accompagna le qualità innocenti e
sfrontate dell’infanzia: il maestro a settant’anni scherza con i suoi
accusatori e con la giuria; il discepolo a quasi ottanta non smette di
aggiungere dettagli al suo racconto. All’inizio del nostro itinerario ho citato
un passo della Critica del giudizio; ora, vicini al termine del viaggio,
occorre riprenderlo in esame e renderne conto. Che cosa sta facendo Kant? Sta
esponendo uno degli elementi del suo castello, da lui opposto a una tradizione
che considera derelitta. La stamberga da cui vuole che gli altri fuggano è la
concezione realista della conoscenza: Da una parte ci sono io (anzi, la mia
mente) e dall’altra c’è un tavolo. Nella mia mente si forma un’idea del tavolo
che gli corrisponde fedelmente; quindi io conosco bene il tavolo, al punto di
poter prevedere con certezza le sue risposte a varie sollecitazioni. Come sia
possibile che fra due oggetti distinti e tanto diversi fra loro (la mia mente e
il tavolo) si stabilisca una così perfetta corrispondenza, la tradizione non sa
spiegare; Leibniz in proposito invocava il miracolo divino di un’armonia
prestabilita. Kant non si occupa di questa scalcinata tradizione; la liquida
con una battuta pesante (essa dà «il comico spettacolo [...] di uno che munge
il becco [cioè il montone] mentre l’altro tiene lo staccio [cioè il setaccio]»,
Critica della ragion pura, p. 96) e suggerisce invece di fare un nuovo
«tentativo» (p. 10), un «rivolgimento» di prospettiva analogo a quello di
Copernico. Supponiamo, dice, che un oggetto sia proprio ciò di cui possiamo
prevedere il comportamento, per cui se quello che sembra un tavolo avesse un
comportamento imprevedibile non sarebbe un oggetto (ma, diciamo, un’allucinazione);
allora non sembrerà più strano che riusciamo a prevedere il comportamento degli
oggetti. Il principio di cui ci serviamo per siffatte previsioni, che cioè a
ogni causa seguano precisi effetti, non è da noi imposto dall’esterno alla natura;
è ciò che costituisce internamente la natura – non sarebbe una natura, ma un
sogno, se non esibisse tale regolarità. Perseguendo il suo tentativo Kant, come
Platone, costruisce un mondo nel quale non solo la conoscenza ma anche i valori
morali, l’apprezzamento estetico, Dio e l’immortalità assumono ruoli diversi
che nella tradizione. E, nel farlo, come tanti altri giocatori alle prese con
le loro costruzioni originali e bizzarre, usa parole magiche: termini
antiquati, imponenti ed enigmatici che colloca in contesti e in reti
associative devianti rispetto a quelli già noti, talvolta devianti fra loro,
gettando i lettori nello sbalordimento e nello scompiglio – lo stato d’animo
giusto per chi voglia aprirli a un punto di vista radicalmente nuovo. Qui, per esempio,
compaiono due di queste parole formidabili: il principio in base al quale il
tavolo non sarebbe un oggetto se il suo comportamento non fosse regolare e
prevedibile viene detto «trascendentale» e l’altro principio per cui niente
sarebbe un oggetto se non fosse nello spazio viene detto «metafisico», violando
gli usi comuni di entrambi i termini e quelli cui lo stesso Kant li adatta in
altri passi. Mentre gioca con la nostra visione dell’universo, il filosofo sta
giocando anche con il linguaggio. Giocando s’impara, quindi il gioco della
filosofia può essere istruttivo, nello stesso modo caotico e imponderabile di
ogni altro gioco. Per caso, una delle elaborate, ambiziose costruzioni
filosofiche di mondi, esseri umani o Stati alternativi a quelli esistenti entra
in contatto, talvolta, con la realtà quotidiana (con il gioco che è diventato
abitudine) e la cambia in modi che vengono giudicati vantaggiosi; può anche
capitare che in una di queste costruzioni decidiamo di traslocare e quella
diventi, per un po’, la nostra realtà quotidiana (il nuovo gioco diventi una
nuova abitudine). Quando ciò càpita, riteniamo di aver imparato qualcosa e
pensiamo che la costruzione filosofica abbia dato un contributo alla nostra
conoscenza – un contributo che viene detto scientifico. Giocando abilmente con
le lenti, Galileo riuscì a trasformare il nostro senso di che cosa significhi
osservare: ora, se vogliamo osservare un pianeta, guardiamo uno schermo invece
di sollevare la testa e aguzzare la vista. Ma il mondo fisico di Galileo non
esiste più, come non esiste più quello di Aristotele (noi non ci viviamo più);
altre costruzioni filosofiche ne hanno preso il posto e sono oggi al cutting
edge della scienza. Nel frattempo, i nostri giorni continuano a essere popolati
di pratiche e oggetti che sono il lascito di giochi «scientifici» a lungo
accantonati – di ciò che quei giochi sono stati in grado d’insegnarci. La
macchina a vapore fu inventata in base alla teoria del flogisto, l’esempio più
tipico di teoria screditata; molte persone colpite da tubercolosi sono state
curate dallo pneumotorace, anche se la teoria «meccanica» su cui lo
pneumotorace aveva basato il suo successo, avanzata da Carlo Forlanini, si è
volta presto in una simpatica curiosità. Nel prossimo (e ultimo) capitolo
tirerò le fila dei nostri sforzi. Qui voglio chiudere con una storia: un
esempio di come funzioni il gioco filosofico/scientifico, di come possa
cambiare – forse in meglio, forse orribilmente in peggio – le nostre condizioni
di vita. (I fatti che riferisco sono tratti da un articolo di Michael Specter
intitolato The Mosquito Solution e pubblicato sul «New Yorker» del 9 e 16
luglio 2012.) Le zanzare sono state responsabili del 50% delle morti umane
nella storia. La malaria, la febbre gialla, varie forme di encefalite e
numerose altre piaghe le vedono come protagoniste. Fra le zanzare più letali
c’è Aedes aegypti, che fa strage in Africa e in Brasile ed è da poco rientrata
negli Stati Uniti (vi aveva già prosperato fino agli anni Sessanta del secolo
scorso). Uno dei metodi con cui si cercava di combattere Aedes era
sterilizzando milioni di insetti con dosi massicce di radiazioni e impedendo
così loro di riprodursi. Ma, per quanto efficaci con altri agenti patogeni, le
radiazioni funzionavano male con animali piccoli come le zanzare. Intorno al
1990, un genetista di nome Luke Alphey incontrò per caso un collega che gli
parlò della tecnica di sterilizzazione e delle sue difficoltà. Immediatamente,
vista la sua formazione professionale, pensò che, invece di sterilizzare le
zanzare, si potesse cambiarne il codice genetico in modo che si
autodistruggessero. C’erano due problemi, però. In primo luogo, bisognava
intervenire solo sui maschi, perché le femmine mordono gli esseri umani e
avrebbero potuto infettarli con chissà quale variazione genetica. In secondo
luogo, bisognava che i maschi rimanessero in vita abbastanza a lungo, e fossero
abbastanza vigorosi, per trasmettere i geni mortiferi ai loro discendenti.
Vuole il caso che, nella specie Aedes aegypti, le femmine siano molto più
grandi dei maschi, quindi facilmente identificabili; il primo problema poteva
essere risolto. E presto anche il secondo lo fu, ugualmente per caso. Alphey
infatti capitò in un seminario in cui si parlava di come la tetraciclina funga
da antidoto contro l’azione di un gene. Il piano era pronto: si sarebbero
creati milioni, miliardi di maschi Aedes con il gene autodistruttivo
proteggendoli in laboratorio con la tetraciclina; una volta immessi
nell’ambiente, avrebbero avuto il tempo e la forza di accoppiarsi prima di
soccombere (ormai privi dell’antidoto) insieme con tutta la loro progenie.
Detto fatto, il piano è già in fase di realizzazione in Brasile e in altri
paesi. Negli Stati Uniti, però, vari gruppi ambientalisti sono insorti
protestando: Possiamo prevedere tutto ciò che accadrà quando avremo scatenato
questo nuovo Frankenstein? Certo allora non potremo più rimettere il genio
nella bottiglia. Per esempio, che cosa succederà se anche solo poche femmine
sopravviveranno dopo il contatto con il gene e morderanno un essere umano?
Oppure, che conseguenze avrà la scomparsa di Aedes aegypti per la nicchia
ecologica che adesso occupa e per l’intera ecologia del sistema? Sullo sfondo,
intanto, si agitano domande filosofiche di grande profondità (cioè domande
globali sul tipo di vita che vogliamo vivere): È meglio sbarazzarsi di un
pericolo o imparare a conviverci? Può essere desiderabile un mondo in cui una
specie sia stata distrutta? È lecito considerare il bene degli esseri umani
come decisivo? È lecito per gli esseri umani giocare il ruolo di Dio? È un
esempio paradigmatico della natura ludica della ricerca più avanzata e
prestigiosa. Si procede (quando si procede e non si corre sul posto) non con un
disciplinato esame della questione e un lavoro certosino teso a scoprire che
cosa sia necessario per dirimerla (come vorrebbe la più comune ideologia) ma
invece ascoltando discorsi che non c’entrano, combinando contributi eterogenei,
mutando radicalmente prospettiva e contando molto sulla fortuna (se volete
giocare bene a briscola, o anche a bridge, fatevi venire delle carte). E, una
volta che, in questo modo macchinoso e fortuito, abbiamo eventualmente trovato
qualcosa che sembra risolvere la questione, dobbiamo confrontarci con il fatto
che ci sono rischi forse tragici nello scegliere una strada così inedita.
Potremmo illuminare la stanza o bruciare la casa, e, per quanto a lungo abbiamo
giocato per procura con una rappresentazione verbale o mentale delle
conseguenze della nostra scelta, girare l’interruttore è un’altra cosa. Prima
che ci si decidesse a esplodere una bomba atomica, c’erano fisici nucleari che,
sulla base della stessa teoria dei loro colleghi «interventisti», prevedevano
che l’atmosfera ne sarebbe stata consumata e la vita sulla Terra si sarebbe
estinta. È facile dire che avessero torto, dopo aver girato l’interruttore. E
dobbiamo confrontarci con il fatto che una questione non è mai davvero risolta:
che ogni risposta suscita nuove domande, che il gioco che ha prodotto quella
soluzione la supererà, come supererà ogni altra soluzione, perché il gioco non
ha mai fine. Sono i Labirinti dell’essere. Abbiamo compiuto il viaggio
promesso. Partendo dal gioco di una bimba di due anni abbiamo raggiunto giochi
fisici come il calcio e il tennis, intellettuali come gli scacchi e il bridge,
giochi in compagnia e solitari; abbiamo catturato nella nostra rete ludica
l’arte, la letteratura e la filosofia. E lo abbiamo fatto, converrà ripetere,
non riducendo il gioco a un’eterea silhouette, non facendo del «gioco»
filosofico o letterario una metafora che mostra presto la corda – perché se è
vero che ci sono analogie fra l’etica e il tressette, si sarebbe pronti a
obiettare, è anche vero che ci sono molte differenze. La bimba che ha
inaugurato la nostra avventura non ci ha mai lasciato; ha acquisito per strada
competenze e capacità che nessuno può avere a due anni, ma il suo universo
ludico è rimasto lo stesso, una versione adulta del medesimo gioco infantile.
Ha incorporato le pareti contro cui andava a sbattere come regole; collabora
con maggiore efficacia con i suoi compagni o li manipola con maggiore
destrezza; le sue vocalizzazioni hanno preso la forma di un linguaggio
articolato; ha imparato, quando è il caso, a parlare senza farsi sentire. Ma
l’acqua che scorre fra questi meandri (creati, è importante notarlo e ci
ritornerò fra breve, dall’acqua stessa) è ancora quella della sorgente: a
dispetto delle complicazioni, per la bimba cresciuta giocare (a calcio, a
scacchi, all’arte, alla filosofia, alla letteratura...) è pur sempre immergersi
senza alcun fine esterno in un’attività trasgressiva ed esplorativa, piacevole
e istruttiva, appassionata e rischiosa. Ogniqualvolta entro le regole che si è
imposta o le hanno imposto, o contro le regole, una persona riesce a ritrovare
lo spirito che l’animava a due anni, la bimba ritorna e riprende il controllo
delle operazioni: seria, intenta, un po’ inquieta, audace, intimamente
soddisfatta. Ancora Huizinga: «Il gioco del bambino possiede la qualità ludica
qua talis e nella sua forma più pura» (p. 40). La peculiarità di questo
atteggiamento risulta più chiara quando se ne considerino le conseguenze sul
piano dei valori. Se la filosofia avesse una sua definizione indipendente,
diciamo di essere tesa alla scoperta della realtà o della verità o della
saggezza, e fosse un gioco solo in senso metaforico, perché praticata con
creatività e passione, ne seguirebbe che una buona filosofia è quella che
meglio approssima la scoperta della realtà o della verità o della saggezza, senza
riguardo alla creatività o passione con cui è condotta. Chi eventualmente
potesse pervenire alle stesse scoperte senza creatività o passione avrebbe, in
ambito filosofico, gli stessi meriti (e dimostrerebbe che la metafora ha fatto
il suo corso: Giulietta non brilla più come il sole). Se invece la filosofia è
definita come un gioco, sia pure il gioco di cercare la realtà, la verità o la
saggezza, non ci può essere buona filosofia senza creatività e passione – e
trasgressione, e apprendimento, e rischio. Quali che siano le sue pretese di
verità e saggezza, una filosofia è degna della nostra attenzione e
partecipazione se ci spiazza e ci avvince, ci irrita e ci lusinga, ci fa vivere
ripetute Ah-ha experiences e ci suscita obiezioni e disaccordo a non finire. Nello
stesso modo, se il linguaggio è innanzitutto uno spazio di gioco, avremo
scritto una bella lettera, un bel racconto o una bella comunicazione d’ufficio
se le nostre parole sapranno riscuotere il lettore e implicarlo in un progetto
comune, il che tanto meglio faranno quanto più porteranno le tracce del respiro
e della saliva in cui sono nate, dell’eco che ci hanno fatto risuonare dentro,
dell’entusiasmo o dello sconforto, delle lacrime di gioia o di dolore che ne
hanno accompagnato l’accesso alla pagina. Ciò corrisponde esattamente,
peraltro, ai nostri giudizi empirici ordinari su testi filosofici e
comunicazioni d’ufficio, salvo che le nostre concezioni di tali oggetti non
fanno giustizia alle nostre intuizioni, e così rimaniamo perplessi davanti a un
testo filosofico o una comunicazione d’ufficio «che non hanno niente di
sbagliato» perché dicono quel che devono dire e contengono solo enunciati veri,
eppure ci sembrano, chissà perché, da buttare. Il discorso sarebbe terminato,
dunque: avremmo percorso il labirinto e saremmo arrivati nella stanza dove si
ritirano i premi. Ma mi piace pensare che la stanza non sia chiusa e che anzi
il premio consista in una porta aperta su un altro sentiero tortuoso da
percorrere, in un bosco stavolta anziché in una claustrofobica caverna. Non mi
lancerò qui nel nuovo viaggio cui il sentiero invita, ma getterò lo sguardo in
quella direzione per stimolare la mia e forse l’altrui curiosità. In questo
libro ho parlato del gioco come di un’attività esclusivamente animale, e perlopiù
umana. L’ambiente inanimato è stato visto come strumento del gioco (palle,
cubi, carta e penna) o come suo ostacolo (pareti, spigoli), non come suo
soggetto. La cosa sembra ragionevole: se il gioco, come ho detto, è vita,
allora è riservato agli organismi viventi; se consiste in una serie di mosse –
devianti, istruttive, pericolose, ma pur sempre mosse – allora per praticarlo
occorre potersi muovere, il che fra gli organismi viventi sembrerebbe escludere
le piante. Ma è poi tanto certo che così stiano le cose? Proviamo a giocare con
le apparenti tautologie che ho enunciato. Se la vita richiede funzioni che noi
siamo in grado di riconoscere come respiratorie, metaboliche e riproduttive,
allora è chiaro che un orso, un pappagallo e una quercia sono vivi ma una
pietra no; se il movimento richiede che un ente con una sua precisa struttura
si stacchi (almeno in parte) dalla sua posizione spaziale e ne assuma un’altra,
allora formiche ed elefanti si muovono ma un geranio o un cipresso no.
Supponiamo però di invertire l’equazione che ho appena citato: se il gioco è
vita, la vita è gioco. E ricordiamo che il movimento che conta per il
gioco/vita si svolge in uno spazio esistenziale, non sempre fisico. Con tali
premesse, non è forse gioco/vita quello di un cielo che non appare mai due
volte nella stessa configurazione, di un corso d’acqua che costruisce i suoi
meandri o della sabbia che costruisce un lido, di cristalli di neve di forme
delicate e idiosincratiche (ciascuno, sembra, un esperimento a sé stante), di una
foresta che alterna grovigli e radure, tronchi giganteschi e canne flessuose? E
non è forse vero allora che al mondo non esiste nulla di inanimato? Nel nono
capitolo ho parlato dei diversi modi in cui possiamo giocare con un altro:
trattandolo da strumento o da compagno. Vorrei aggiungere ora che trattare un
altro da strumento significa trattarlo come un oggetto inanimato: anche se
l’altro è un essere umano, il mio rapporto con lui (o lei) sarà basato sul
controllo che esercito, schiacciando i suoi tasti per ottenere l’effetto
voluto. Il limite di questo controllo sarà percepito come un’oscura minaccia e
sarà causa di disagio o di terrore; sentimenti così penosi hanno però un ruolo
significativo – segnalano la possibilità ancora indistinta di passare da un’utilizzazione
a un incontro, quando si riescano a dominare l’ansia e la paura. La medesima
pluralità di atteggiamenti ci è disponibile nei confronti di tutto l’essere.
Possiamo giocare con la natura come con una risorsa, e oscillare dalla boria
sprezzante di averla ridotta al nostro servizio all’inquietudine che quando
meno ce lo aspettiamo ci si apra la terra sotto i piedi (dal bruciare
allegramente carbone e petrolio al preoccuparci per il buco d’ozono e il
riscaldamento globale), oppure come con un compagno, raccogliendone i
suggerimenti, facendole delle proposte, cercando di costruire insieme un bel
castello. Chi vive il rapporto in questo secondo modo (molti lo fanno, pur se
spesso non hanno parole per dirlo) sente che una montagna lo sfida ma anche lo
assiste premurosa nel trovare una via per scalarla, che il mare ti avverte
quando vuole lottare con te, che la macchina ha piacere a distendersi veloce
fra curve e dislivelli con sapienti cambi di marcia, che il caffè mattutino
parla di energia, di fiducia, di piani ambiziosi per la giornata. Sarà bene che
la smetta, prima che qualcuno pensi che il gioco mi ha preso la mano – che poi
sarebbe il suo, e il nostro, destino. Ma non posso che congedarmi con una
provocazione. Ho percorso un labirinto per dipanare il senso di un’attività che
è a sua volta labirintica, ferocemente intricata. A quello che sembrava il
termine del labirinto ho trovato un’indicazione, ancora in buona parte
misteriosa: che non si tratti di un labirinto qualsiasi, che la sua natura labirintica
sia la natura dell’essere in quanto tale. Perché solo chi gioca, nelle mille
disparate manifestazioni in cui il gioco si realizza, è: è vivo, esiste. I
labirinti ludici dell’essere sono l’essere; il resto è uno zombie, un fantasma,
uno spettro. Basta una risata divertita per farlo scomparire.Ermanno Bencivenga. Keywords: teoria del linguaggio, logica
libre, metodo della logica, calcolo di predicati di primo ordine, logica di
termini singolari, piacere, bello, logica dialettica, implicatura, Hegel, Kant,
gioco. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bencivenga” – The Swimming-Pool Library.
Bene (Maruggio).
Filosofo. Grice: “Molto bene”. Figlio da Lupo e da Perna Longo, entra nell'ordine
dei Teatini e fu professore. Lascia importanti opere come l'Apologia del
Tancredi e la Summa Theologica. A Maruggio, in sua memoria è stato intitolato
l'istituto comprensivo e una via cittadina.
Opere: “Apologia del Tancredi”, “Summa Theologica” “De officio S.
inquisitionis circa haeresim” “De immunitate, et iurisdictione ecclesiastica”,
“Theologiae moralis Tractatus”. Tommaso del Bene. Nacque in
Maruggio -- luogo nella diocesì, non già della diocesì di Taranto,
come li è scritto da molti; perchè è nullius come Tuoi dirli , ed è Commenda della
Religione di Malta -- e dopo di aver apprese le latine lettere, e le
greche , la matematica, e l’astronomia, entra fra’ Teatini, e ne professa
l’instituto in SS. Apolidi di Napoli. Sostenne l’ impiego di lettore di
filosofia. Ma avendo poi pubblicato il "De comitiis" per cui ebbe in
Napoli qualche disgusto, gli convenne di trasferii in Roma. Quivi pensando e
scrivendo in modo da piacere a quella corte, incontra miglior sorte, e fu predo
decorato delle cariche di esaminator del clero, di qualificator del S. Uffìzio,
e di confaitore di più congregazioni (a). Fu incaricato inficine co’Tea- tini
Vincenzio Riccardi , ed Aeoftino de Bellis della revifione ed y emendazione
dell’ Eucologio de Greci: e da Papa Alessandro VII. fu messo nella
congregazione indituita per l'esame delle proposizioni di Gianfenio. In premio
de’ fuoi fermisi furongli offerti alcuni Vcfcovadi ch’egli Rimò meglio di
modedamente rifiutare . On- ? de terminò di vivere da semplice religioso in
Roma. (b). Le sue opere sono molte. Brieve Apologia del Tancredi, Poema di
Ascanio Grande. Si trova dietro l'Apologia dell’ iftefio poema fatta
dall'arcidiacono Palma, e Rampata in Lecce i Ò35. in 8. Niuno ha fatta menzione
di quell'opuscolo del P. Del Bene, dell’ Ab. de Angelis in fuori, il quale ne ha
parlato con lode nc’ Letterati Salentini Par. z. nella Vita del Grande pag.
i$z. a. De Comitiis yfeu Parlamenti! •, ac inciijfnter (T corollarie de aliis
moralibas marerii!, precipue de ecclefinQica immunitate , Dubitationes morale!.
Lugduni fttmpt. Nemejìi Trichet i6\g in 4. con dedicatoria dell’autore a Papa
Urbano Vili, e poi, da lui deffo ri- veduto ed ampliato, Avemonefumpt. Guill.
Halli inf. cor. dedicatoria al Card. Francesco Albizi. Quedo su il libro, per
cui dovette partir di Napoli il P. Del Bene. Prese in elfo a trattare della
morale, che nfguarda i tribunali regi, e gli delfi sovrani. Materia assai
di!icata,e che vuole altri lumi di quelli, che aver fuole il volgo de’ moralidi
3. De immunitate jurifdittione eccleftajlìca Opus abfolutìjfimum in z. parte!
di/lributttm . Ivi Jumpt. Phil. Borie, Laur. Arnaud , <5* Claud. Rigaud
1650. in f. (c) 4. Summa theologica. Ivi fumpt. Jo. Ant. Huguetan , O* Mar.
Ant. Ravaud in f. 5. Trattarui morale! : videlicet de Conscientia; de radice
re/litu- rioni1 aliarumque obligationum <2Tpcenarum,ut eucommunicatio- nii
& irregularitatt! eu delitto de Comieiii seu Parlamenti! , ubi etiam da
alagiti (5“ contrattibus; de donativi! tributis (T fubjìdio Caritativo .
Avtnione Guill. Halli ió%8. in f. (d) ó.De (a) Di tatti cotefli titoli fi
fregia in virj suoi libri. (b) Cosi il Vezzoli Senti. Titt. che cita i
reijitlri di S.Ao'* ea della Val- le; e perciò debboao correggerli il SavanaroU
Gtrarth. Eccl. Tttt. p. 6j. e fegg. il Mazzucch. Striti, $ lui. ed altri (c) E
poi Avtniont Jo. Fiat. T.z. in f. Il MazzuecheHi s’è inganna- to r eli
attribuire a quell’ Opera le aggiunte fatte dall’Autore al libro dt Offi. ti Y.
Inquisitionit. (d) Il Vezzofi lot. tit, p.i 15. annoi, z. cenfura il
Mazzucchelii d’aver det- . t». Digjtized by Google BENE BENEDETTI.
,99 • 6. De Officio S. Inquisitionis circa h<trejim cum Bulli* tam voteti-
bus quam recentioribus etc. Lugd. Jumpt. ] A. Huguetan, T. 2. in f. L’ autore
poi compose, e vi uni le seguenti: Additiones de loci theologicis ad tomo de
Officio S. Inquisitionrs perneceffa• ria in f. Opuscolo di pag. sa il quale fi
riftampò in 8. fenz’ alcu- na data, coi titolo di Trattanti in vece di
Additiones. 7. De Juramento, in quo de ejus 0" voti rclaxationibus &c.
cui Dectftonet S- Rotte Romana accedunt &C- Lugd. fumpt. guetan , 0"
G. Barbier. in f, CXI. da Capoa , ha rime nel Sello libro delle Rime di
diverfi eccell. Autori nuovamente raccolte ec. da G. Rufcelli . Vene*. G.M-
Bottelli 1553. in 8. (a), CXII. e Canonico Aquilano, diede alla luce : L' Imprefe
della Mae/là Cattolica di D. Filippi di Auflria II. Re di Spttgna rapprefentate
nel tumolo ptr la Jua , morte eretto dalla fedèlifs. citta de.’f Aquila ec.
Aquila Lepido Faci 1599. in 4. Toppi Bibl. Nap. CXIII. BENEDETTI ( Giuf.
dilettò di Poefia volgare, ed era Paftor A/cade della Colonia Ater- nino , di
cui fu Vicecuftode , e vi fi denominò Alcidalgo Spai da- te (b) Nell’ Accademia
de’ Velati di fua patria egli era Principe nel 1717. (r). Fu anche accademico
Infenfato di Perugia (d). Di lui fi ha alle {lampe la vita di Biagio Aleffandrò
dall’Aquila nel- le Notiss. Iftor. degli Arcadi morti T. 3. p. 346. S.
BENEDETTO, Arciv. di Milano . V. Crifpo ( Benedetto ), BE- . to, edere (lato il
libro de Comìtiis unito dal P. del Bene in un corpo, o to- mo il Trattanti
moralts: elfendo quello un libro didimo, comechè in alcuni efemplari fi trovi a
quello unito. Ora in primo luogo il Mazzucchelli non dice nè punto nè poco di
tutto ciò ; e foltanto riferifee 1’ edizione de’ Tra- ttatus moralts, come io
pure ho fatto , unendovi deCom'niis etc. La qual co- fa è ben diverta, come
ognun vede . Ma poi non fo, fé il Vezzofi nella co- fa (Iella abbiali ragione .
Io non’ ho il libro , ma lo trovo riferito nel Cara!. Cafanattenfe alla voce
Detiene ( sbaglio prefo pure dal Toppi B'bl. Nap. } infieme eoa quello de
Comìtiis ; e ciò , eh' è più , il Nicodemo Addìi. al Toppi p.i]4. chiaramente
dice: ,, Io oltre l’ultima edizione del libro de Co- ,, mitiis etc. fi regillri
nel modo, che fiegue : Tbeologia moralis trattetus fextut. „ I. de Comìtiis
etc. II. de Alagiis etc. Un trattato fello ne fuppone cin- que, a’ quali dee
unirli. (a) Quadrio, Crefcimbeai , Tafuri.
Tommaso Del Bene. Keywords: Tancredi, Monteverdi, Tasso. Moralia, mos, morale,
cavalleria. Il santo cavaliere, mendacio, mentire, iuramento, morale, moralia,
abiuratio, conscienza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bene” – The
Swimming-Pool Library.
Benedetto (Crema).
Flosofo. Insegna a Padova, di cui divenne in seguito rettore. È ritratto in un
dipinto di Giovanni Busi detto il Cariani, allievo del Giorgione.Giovanni
Benedetto da Caravaggio. Benedetto. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Benedetto” – The Swimming-Pool Library.
Benincasa (Eboli).
Filosofo. Grice: “Benincasa is a good one; my fvaourite is his ‘la svolta
dell’interpretatzione,’ for that is what Boezio knew ‘hermeneias’ was! a
turning point!” -- Durante la conferenza "Da Zurbaran ad oggi" tenuta
a Ispra, Varese, 2009 Carmine Benincasa (Eboli), filosofo. Carmine Benincasa (sinistra) con il
presidente Sandro Pertini (centro) e Umberto Mastroianni (destra) Carmine Benincasa studiò teologia, filosofia
e giurisprudenza a Roma. Dopo aver completato tutti i suoi studi iniziò a
lavorare come traduttore di testi letterari (tra altri, Hans Urs von Balthasar)
per poi organizzare e curare mostre d'arte.
Dal 1978 al 1982 fu membro della Commissione Consultiva Arti Visive
della Biennale di Venezia e consigliere del Ministro per i Beni Culturali e
Ambientali. Fu professore di storia
dell'arte presso l'Accademia di Belle Arti di Macerata e di Firenze e docente
di storia dell'arte presso la facoltà di Architettura dell'università La
Sapienza di Roma (dal 1977 al 1994).
Scrisse testi storico-critici su vari artisti del XX secolo. Benincasa è morto nell'estate del a Roma, dove risiedeva. Altre opere: “Chiesa e storia di Suhard e il
Concilio Vaticano II, Paoline); “L'interpretazione tra futuro e utopia” (Ed.
Magma, Roma); “Poetica della negazione e della differenza” Il Giudizio
Universale (Magma, Roma); “Sul manierismo: come dentro uno specchio” (La Nuova
Foglio); “Babilonia in fiamme: saggi sull'arte contemporanea” (Electa, Milano);
“Architettura come dis-identità” (Dedalo, Bari); “L'altra scena: saggi sul
pensiero antico, medioevale e contro-rinascimentale” (Dedalo); “Anabasi Architettura
e arte” (Dedalo, Bari); “Alle soglie del sapere” Ed. del Tornese” Joan Miró 2C,
Roma); Oskar Kokoschka La mia vita” (Marsilio, Venezia); Oriente allo specchio 2C,
Roma); Georges Braque” (Marsilio, Venezia); Jackson Pollock : opere” (mostra,
Bari, Castello Svevo) Ed. Marsilio, Venezia); “Verso l'altrove: Fogli eretici
sull'arte contemporanea” Electa, Milano); Alvar Aalto” Leader); Umberto
Mastroianni Monumenti” (Ed. Electa, Milano); Il colore e la luce L'arte
contemporanea” (Ed. Spirali, Milano); “André Masson “L'universo della pittura” Mondatori,
Milano; Spirali/Vel, "Alfio
Mongelli: infinito futuro", Joyce & Company, Il tutto in frammenti :
arte Professore: una nuova interpretazione storica” (Giancarlo Politi, Milano).
Note: "la citta disalerno ricerca repubblica repubblica archivio repubblica biennale-il-
psi-fa-incetta-di-poltrone. html1http://ricerca.repubblica. it
repubblica/archivio/ repubblica artisti-rasputin-nel- mondo- dei- telefoni.
html2 lacittadisalerno/ cronaca /benincasa-fece-amare-l-arte-all-italia-~:text=È%20morto%20ieri%20a%20
Roma,autore importanti%20opere letterarie Dal Benincasa 20 Beni
Culturali%20e%20 Ambientali. La Repubblica_1, su ricerca.repubblica. Errori
giudiziari, su errorigiudiziari.com
Carmine Benincasa. Keywords: implicatura plastica, la svoglia
dell’interpretazione, umberto mastroianni, nudo maschile, statuaria, il segno
del teatro: rito, mascara, anabasi, arte come dis-identita, futurismo, arte
futurista, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benincasa”– The Swimming-Pool
Library.
Benvenuto (Napoli).
Filosofo. Grice: “Benvenuto is a good one; my fiavoruite is his ‘stupore e
grido,’ the functionalist idea that after some sensorial input (stupor) you get
the manifestation in behaviour alla Witters – the ‘grido’ – and then there’s
one which is J. L. Austin’s favourite: his “a man of words and not of deeds is
like a garden full of weeds,” – difficult to translate, but Benvenuto offers,
‘dicieria,’ and ‘dicitura,’ which aptly combines with ‘empiegatura, or in my
more Latinate (or learned) terminology, ‘in-plicatura’!” Già Primo Ricercatore
presso l'Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione (ISTC) del CNR a
Roma. Professor Emeritus di Psicoanalisi presso l'Istituto Internazionale di
Psicologia del Profondo di Kiev (gemellata all'Nizza). Ha fondato (nel 1995) e
diretto l'European Journal of Psychoanalysis. Ha compiuto gli studi
universitari all'Università Paris VIIDenis-Diderot dal 1967 al 1973, dove ha
ottenuto la Maîtrise in Psicologia. Nel frattempo, ha seguito i seminari di
Roland Barthes e di Jacques Lacan. In seguito ha preparato un dottorato in
Psicoanalisi con Jean Laplanche all'Università Parigi 7. A Milano si è formato
in psicoanalisi attraverso gli psicoanalisti della S.P.I. Elvio Fachinelli e
Diego Napolitani, fondatore della Società Gruppo-Analitica Italiana. Trasferitosi in seguito a Roma, si divide tra
la ricerca in psicologia sociale al CNR, l'attività privata come psicoanalista,
e il lavoro di pubblicista. È stato cofondatore e caporedattore della rivista
Lettera Internazionale (fondata nel 1984) ed è tuttora assiduo collaboratore
del trimestrale Lettre Internationale di Berlino, e Magyar Lettre di Budapest.
Nel 1995 ha fondato a New York il semestrale Journal of European Psychoanalysis,
divenuto poi EJPsy, European Journal of Psychoanalysis, che tuttora dirige.
Dal insegna psicoanalisi all'Istituto
Internazionale di Psicologia del Profondo di Kiev e all'Istituto di
Psicoanalisi Moderna di Mosca. Pensiero
Benché Benvenuto si sia occupato di campi in apparenza alquanto diversi tra
loropsicologia sociale, filosofia del linguaggio e della politica,
psicoanalisi, teoria della politicaa partire dagli anni 90 ha articolato un
progetto predominante che tocca i vari campi: sostituire al primato della
riflessione sulla Verità (tipico della cultura occidentale) una riflessione che
punti al Reale. In questo modo egli cerca una terza via tra le due culture
predominanti e in opposizione in Occidente: l'epistemologia positivista
(interessata alle condizioni di verità degli enunciati) da una parte, la
fenomenologia e l'ermeneutica dall'altra (interessata al disvelamento di una
Verità che si dipana nella storia umana).
Egli mutua il concetto di Reale dal pensiero di Jacques Lacan, ma ne
allarga il senso, includendovi tutto ciò che resta esterno (origine e resto) a
ogni assetto di senso, sia esso scientifico, estetico, o etico-politico. Il
Reale è quel fondo attorno a cui gira ogni teoria scientifica, ogni produzione
artistica, la psicoanalisi di ciascun soggetto, ogni assetto etico, e che resta
sempre in eccesso rispetto a tutti questi “discorsi”. Così, il Reale di ogni
teoria scientifica è il Caos che si pone come limite e sfondo di ogni processo
causale. Il Reale in psicoanalisi è il fondo pulsionale, corporeo,
irriducibilmente individuale, di fronte a cui ogni interpretazione si
arresta. In Dicerie e pettegolezzi (dove
articola una teoria delle leggende metropolitane) mostra come quasi tutto il
nostro sapere di fatto sia costituito da leggende metropolitane, oltre le quali
fa capolino la realtà dell'evento che ogni discorso sociale aggira. In Un
cannibale alla nostra mensa affronta la questione del relativismo moderno, a
cui oppone un “relativismo relativo”, facendo notare come ogni impostazione
relativista rimanda necessariamente a qualcosa di assoluto che resta non
tematizzato, presupposto e schivato. Accidia è una storia della malinconia dal
Medio Evo fino a oggi: il senso e la natura che ogni epoca dà alla
“depressione” rimanda a un vissuto opaco che nella storia viene interpretato
diversamente. In “Sono uno spettro, ma
non lo so” analizza la cultura degli spettri e il nostro rapporto con i morti,
notando come la morte “viva” tra noi proprio come istanza di Reale
inassimilabile a ogni progetto di vita, ma che avvolge la costituzione di
questi progetti. In particolare (ad esempio in La strategia freudiana e in
Perversioni) si è dedicato a una rilettura originale della teoria di Freud, e
della psicoanalisi in generale, come fondata su una metafisica precisa della
“carne significante”. Il tessuto interpretativo ed esplicativo di Freud rimanda
però a sua volta a qualcosa di non interpretabile né spiegabile: la pulsione
come sorgente opaca e non-significante della soggettività. Altre opere: “La strategia freudiana, Napoli,
Liguori); "Traduzione / Tradizione"
in Moderno Postmoderno, Feltrinelli, Milano); La bottega dell' anima, Milano, Franco
Angeli); Capire l'America, Genova, Costa & Nolan); Dicerie e pettegolezzi,
Bologna, Il Mulino); Un cannibale alla nostra mensa. Gli argomenti del
relativismo nell'epoca della globalizzazione, Bari, Dedalo); Perversioni.
Sessualità, etica e psicoanalisi, Torino, Bollati Boringhieri); “Accidia. La
passione dell'indifferenza, Bologna, Il Mulino); “Lo jettatore, Milano,
Mimesis); “La gelosia, Bologna, Il Mulino); “Alle origini del relativismo moderno”,
Dei cannibali, Mimesis, Milano); “Confini dell'interpretazione. Freud Feyerabend
Foucault, Milano, IPOC); “Sono uno spettro, ma non lo so, Milano, Mimesis); “Wittgenstein.
Lo stupore e il grido, Milano, meditare; Sette conversazioni per capire Lacan, Milano,
MIMESIS, La psicoanalisi e il reale. 'La negazione' di Freud, Orthotes,
Napoli-Salerno. Godere senza limiti. Un italiano nel maggio '68 a Parigi,
Milano, Mimesis, Leggere Freud.
Dall'isteria alla fine dell'analisi, Orthotes, Napoli-Salerno. Il significante,
tra Saussure e Lacan, su journal-psychoanalysis.eu. su psychomedia. Il progetto
della psichiatria fenomenologica, su mondodomani.org. Sergio Benvenuto. Keywords:
segnante, segno, segnato, arbitrario, naturale, convenzionale, established,
recognised, stabile, stabilito, sistema di communicazione, iconico,
non-iconico, convenzionale, assoziativo, artificiale, non-naturale,
non-artificiale, procedimento, repertorio di procedimento, idio-lecto,
idio-sincrasia, popolazione, interprete, interpretante, mittente, recipiente,
nozione di consequenza come nozione comune a segno naturale e segno no
naturale, Hobbes sulla consequenza del segno convenzionale, segno naturale, segnare
naturalmente, segnare non naturalmente, l’adverbio ‘naturaliter’, ‘ad
placitum’, a piacere, natura, convenzione, posizione, natura, phusei, thesei,
positio, positione (ablativo di positio) – thesei – ‘natura’ (ablativo di
natura), imago Acustica, naturalita dell’imago, segno come imago, Benvenuto su
Plato sulla aribtrarieta del segno, Benvenuto su Heidegger sulla arbitrarieta
del segno, l’impiegatura della dicitura, segnante, meaner, one-off
communication, communicatum, segnaturm, one-off segnatum, iconico, non-iconico,
confine dell’interpretazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benvenuto” – The
Swimming-Pool Library.
Benvenuti (Montodine).
Filosofo. Grice: “A good thing about Benvenuti’s discussion of Agostino’s
semiotics is that Benvenuti has a strictly philosophical background, rather
than in grammar or linguistics or belles lettres, or even ‘theory of
communication.’ Therefore, he INTERPRETS Augustine as *I* do!” -- Grice: “You gotta love Benvenutti. He
dedicated his life to the semiotics of Agostino (who never knew he was a
saint), the first Griceian. Benvenutti divides his discussion of Agostino’s
semiotics in three: the semiotic triangle, the taxonomy of signs, and inferenza
– For Agostino, ‘segno’ contrasts with ‘cosa.’ And a sign can signify
‘naturaliter’ (fumo, orma, volta). Or non-naturaliter – daglia animali
including homo – prodotto dall’uomo – a ‘gesture’ that has to be perceived by
one of the five senses – or by the senses – auditum (parola detta) – visum (segno
scritto).” --. Cesare Benvenuti Cesare
Donato Benvenuti Don Cesare Donato Benvenuti (Montodine) filosofo. A partire
dal 1708 ricoprì la carica di Abate Generale Lateranense. Fece stampare
un'opera sulla vita di Sant'Agostino e una traduzione in italiano della Città
di Dio Biografia Cesare Benvenuti nacque
dal conte Girolamo Benvenuti e dalla contessa Domitilla Scotti di Piacenza. La
prima istruzione fu nella casa paterna di Crema, successivamente nelle scuole
tenute dai Barnabiti. All'età di 16 anni volle seguire l'esempio dei suoi due
fratelli entrando nella vita ecclesiastica prendendo l'abito della Congregazione
lateranense a San Leonardo di Verona. Dopo sette anni di studi di filosofia e
teologia venne nominato lettore e come tale risiedette in varie città. Nel 1708
a Roma venne dichiarato abate perpetuo privilegiato con l'incarico di
presiedere alla Congregazione dei casi di coscienza e di emanare i giudizi
relativi. Per questo suo incarico che esercitò per otto anni crebbe la sua fama
di teologo tanto che dal cardinale Barberini lo volle accanto a sé come teologo
ed esaminatore sinodale. Benvenuti fu anche postulatore della cause dei santi e
si adoperò in particolare per la beatificazione del venerabile Pietro Fererio
che fu beatificato da papa Benedetto XIII.
Cesare Benvenuti era anche dotato di particolari capacità diplomatiche
tanto da ricevere incarichi in tal senso in Germania e a Vienna. Assieme a
questi ufficii curiali Benvenuti esercitò anche le pratiche caritative della
sua ordinazione sacerdotale visitando e prendendosi cura dei poveri e degli
ammalati. Trasferitosi da Roma a Napoli fu colpito da apoplessia e quivi morì
nel 1746. Altre opere: “Vita del
gloriosissimo padre santo Agostino, vescovo e dottore di S.Chiesa” (Stamperia
Barberina); “Discorso Storico-Cronologico-Critico della vita comune dei
chierici de' primi sei secoli della Chiesa” (Stamperia di Antonio de Rossi); “La
città di Dio, opera del gran padre s. Agostino vescovo d'Ippona, tradotta
nell'Idioma italiano, Stamperia di Antonio de Rossi). stone
lo Stato di Grazia. I. Sono sua eredità, Vita comune deg'apostoli &the sono
i primi Sacerdoti di Gesù-Cristo.V.S. Lucanonne parla: la rispondechica vedere
la poca forza dell'argomento negativo. Vita comune de primi fedeli. Uti. Vita
comune e votiva de Santi Apostoli e de primi Fedeli Passò succesivamen s e la
Vita comune ne Ministri dell'A l r a r e . De' terapeuti, che se ne dice.
Persecuzione della Chiesa. Comunità di Vergini Sagre nelle decadenze di questo
primo secolo, è fa nell'incominciare del secondo Sentimenti d'Origene. Della
Comunità Apostolica come parli Cipriano. Del i modo di vivere degli
Ecclesiastici Jocto Dionigi. Paolino . SE G10LO 1L Comunità de' beni nello
stato dell'innocenza. Sacerdoti istituiti daGesù-Cria Vita comune votiva del
clero di Gerusalemme secondo la decretale afsritta a Clemente. Della comunità
del clero ďAntiochia. Della Vita, de Fedeli e reSpettivamente degli
Eclesiastici cosa scrissero: Giustino martire, Policarpo, Ireneo, Dionigi di
Corinta ed Apollonia. Della Vita comin g ne del Clero di Mans SECOLO III.
Clemente Alessandrino come parla della Continenza. Della vita comune votiva,
triferita da Urbano Papal. relativamente a quella descritra da Clemente PapaI.
III. praticoinse la Povertà Apostolica. Del celebre Pierio Prete della Chiesa
diAlessandria. Genulfo Uomo Apostolico promove la Vita Comunono Fedelida lui convertitieconfa.
gratialculeo del Signore on la Cornunità de'Cherici ly Vira Comune
nel Clero di Vercelli. Come de Cherici iparla Ilario Pittavienfe. Esortazione
del SantoDiaconoEfrem Siro agli Ecclessastici. Comunità de'Cherici della Chiesa
Rinocorurese. Basilio come parla a' CanoniciedaleCanonicbese. Basilio che
scrise di Ermogene e di Zenon neilPelusota, ed i molti Vescovie Preri Se
Epifanig. Che racconta Severo Sulpizio della Povertà d'u n Prece , Tofimonio
Postumiano. Del Clero vivente in commune nela Chiesa di Salaming in Cipre. De
Clero di Ambrogio di Milano. De Cherici d'Aquileja. Della Chiesa Cartaginesi.
Della Comunità di Agostino nelle vicinanze di Tagasta. Sentimenti di Girolamo
sopra lot Staro di Chorici. Comunità di Agostino Prete in Ippona. Della Comu
nità d'Agostino nel PalazzoVescovile–Ippona. Ii Concilio Cartaginese ci porta
la Comunità di Vescovi coloro Cherici. SEGOLO V. La Comunità Chericale Sparsa
perl'Africa. Di Mario Arelatenfee del suovina vere Chericale. Del Clero
Africano corso à Roma à cagione de'Vandali forto il Papa LeoIne. Cheg indižio
possa farlidelaperforiadit. Prospero e delsuo vivere Chericale, Della Vita
comunend Clero d'Ibernią foto,S.Rørrizio Vescovo.VI. Della Vita Regolare degli
Ecclesiastici della Chiesa di Calcedonia. Che dice Giuliano Pomerio de
Chericie, de Cherici del suo tempo. Del Pontefice Gelafio Primiera mente
tratasi delMonte Celio. De Laterani e loro Palazzo, che fù convertito nela
Basilica Lateranense, Del vivere comune de ChericiLao "teranefo, Che's.Gelafio
è Africano, Dell' antica puncupazione di Canoni, Dell'invasione di Longobardi
nel Monte Cassino e venutdai que' Monacià Roma, e loro dimora; e dell'oratorio
di Pancrazio, De Priori della Chiesa 1 Lateranense Canonici Regolari SECOLO VI,
m. Della Vita Chericale comune secondo quella d'Ippona indicata negl'tti di
Lorenzo detta! Illuminatore. Che cosa prescrive il Concilio Ilerdense. Che il
Concilio di Toledo, Che i Padri del Concilio d'Orlans. Che ferive di Baudino
Gregorio SICOLO:Ivi. Povertà Evangelica sandria. Ill.Zin Canone del
Concilio Romano, atribuito à Silvestro vien intejaper Buplio Diacono. Comunità
Chericalen e laChiesa d Ales O o. DI 1 1 Turonense. Che fece Leobina Vescovo
nella Chiesa Carnotenje. Dalle proibizioni del Concilio Arelaten fededucesi il
metodo del vivere Chericale di que' tempi.Vita Regolare ne' Cherici espressa
nel Concilio di Tours. De vivere in comune de Chericj in Romaforzo il
Pontificato di Gregorio Magno. Note Fonte: Francesco Sforza Benvenuti, Storia di
Crema, Volume 2, 1859 p.37Filosofia Filosofo del XVII secoloTeologi italiani
1669 1746 Montodine NapoliTraduttori dal latino. Don Cesare Donato Benvenuti.
Cesare Donato Benvenuti. Cesare Benvenuti. Keywords: paganismo, religione
romana antica, paganesimo ario in Italia, i romani, i ostrogoti, i longobardi,
religione romana, religione ostrogota, religione longobarda, mitologia romana,
mitologia ostrogota, mitologia longobarda, cultura romana, cultura ostrogota,
cultura longobarda, le fonte pagane della teoria del segno in Agostino –
semeion, signum, segno, segnare, segnante, segnato. Antecedenti di una teoria
unitaria del segno. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Benvenuti” – The Swimming-Pool Library.
Berardi (Bologna).
Filosofo. Grice: “You gotta love Berardi, but I wonder if his background is in
the classics – he has written on ‘il futuro della comunicazione,’ and coined
some nice neologisms, like ‘psiconautica,’ – which is like my
telementationalism, only different – and dialogued with Guattari -- While Berardi is into ‘il futuro della
comunicazione,’ we at Oxford, them with a lit.hum. are usually into the PAST of
communication!” -- Franco Berardi (n. Bologna), filosofo. Detto “Bifo” -- Agitatore
culturale italiano. All'età di quattordici anni si iscrive alla FGCI, ma ne
viene espulso tre anni più tardi per "frazionismo". Partecipa al
movimento del '68 nella facoltà di lettere dell'Bologna, ove nel '67 conosce
Toni Negri. Si laurea in Estetica con Luciano Anceschi e aderisce a Potere
Operaio, gruppo della sinistra extraparlamentare di cui diviene figura di
spicco a livello nazionale. Nel 1970 pubblica il suo primo libro, Contro il
lavoro (edito da Feltrinelli). Nel 1975 fonda la rivista A/traverso, un foglio
che era espressione dell'ala "creativa" del movimento bolognese del
1977; nei suoi scritti mette al centro della propria analisi il rapporto tra
movimenti sociali e tecnologie comunicative.
Nel 1976 partecipa alla fondazione dell'emittente libera Radio Alice e
subisce l'arresto per l'accusa di partecipazione alle Brigate Rosse, da cui
viene assolto un mese dopo. Per richiederne la scarcerazione, Radio Alice
organizza una festa in Piazza Maggiore, a cui partecipano oltre diecimila
persone. Berardi viene scarcerato poco dopo, e diviene il leader dell'"ala
creativa" della protesta studentesca bolognese del 1977. Dopo la chiusura
della radio da parte della polizia, contro Berardi viene spiccato un mandato
per "istigazione di odio di classe a mezzo radio", per sottrarsi
all'arresto fugge da Bologna. Si rifugia a Parigi dove frequenta Félix Guattari
e Michel Foucault e pubblica il libro Le Ciel est enfin tombé sur la terre
(Éditions du Seuil). Negli anni ottanta
rientra brevemente in Italia e poi si trasferisce a New York dove collabora
alle riviste Semiotext(e), Almanacco musica e Musica 80. Viaggia a lungo in
Messico, India, Cina e Nepal. In quel periodo inizia ad occuparsi della
crescita delle reti telematiche e preconizza la futura esplosione della rete
quale vasto fenomeno sociale e culturale[senza fonte]. Alla fine degli anni
ottanta si trasferisce in California dove pubblica alcuni saggi sul cyberpunk.
Ritorna a Bologna e, in veste di protagonista, partecipa al documentario Il
trasloco di Renato De Maria, prodotto dalla RAI nel 1991, incentrato sulla
storia del suo appartamento. Collabora poi con varie riviste culturali fra cui
Virus mutations, Cyberzone, Millepiani e varie case editrici fra cui la
Castelvecchi e DeriveApprodi. Collabora, inoltre, alla stesura di testi per
MediaMente, la trasmissione televisiva prodotta da RAI Educational e condotta
da Carlo Massarini dedicata al mondo di Internet e delle nuove tecnologie di
comunicazione. Dal 1992 al 2004
collabora alla rivista DeriveApprodi insieme a Sergio Bianchi e altri. Dal 2000
al 2009 cura con Matteo Pasquinelli l'ambiente di rete Rekombinant. Nel 2002
fonda Orfeo Tv, la prima televisione di strada italiana. Nel 2005 un suo
pamphlet che si scaglia contro le politiche sociali del nuovo sindaco di
Bologna Sergio Cofferati viene ripreso con enfasi dalle testate giornalistiche
nazionali. Lavora come insegnante presso l'istituto tecnico industriale Aldini
Valeriani di Bologna. Pubblica regolarmente sul quotidiano Liberazione, sulla
rivista alfabeta2 e sul sito Through Europe. Collabora alla rivista canadese
Adbusters. Dal 2000 al 2009 ha animato la mailing-list Rekombinant con Matteo
Pasquinelli. Altre opere: “Contro il
lavoro”; “Scrittura e movimento” (Marsilio); “Teoria del valore e rimozione del
soggetto: critica dei fondamenti teorici del riformismo” (Verona, Bertani);
“Primavera” (Roma, Stampa Alternativa); “Chi ha ucciso Majakovskij” (Milano,
Squi/libri); “L'ideologia francese: contro i "nouveaux philosophes"”
(Milano, Squi/libri); “Finalmente il cielo è caduto sulla terra. Milano,
Squi/libri); “La barca dell'amore s'è spezzata. Milano, SugarCo); “Dell'innocenza”
(Bologna, Agalev); “Presagi. L'arte e l'immaginazione visionaria” (Bologna,
Agalev); “Terzo dopo guerra” (Bologna, A/traverso); “La pantera e il rizoma” (Bologna,
A/traverso); “Una poetica Ariosa” (Milano, ProgettoArio); “Più cyber che punk.
Bologna, A/traverso); “Politiche della mutazione. Milano-Bologna, Synergon), “Dalla
psichedelia alla telepatica” (Milano-Bologna, Synergon); “Hip Hop rap graph
gangs sullo sfondo di Los Angeles che brucia. Milano-Bologna, Synergon); “Cancel
& Più cyber che punk. Milano-Bologna, Synergon); “Come si cura il nazi.
Castelvecchi); “Mitologie Felici. Milano, Mudima); “Mutazione e cyberpunk.
Immaginario e tecnologia negli scenari di fine millennio. Costa & Nolan); “Lavoro
zero. Castelvecchi); “Neuromagma. Lavoro cognitivo e infoproduzione. Castelvecchi);
“Ciberfilosofia”; “Dell'innocenza”, “Premonizione. Verona, Ombre Corte); “Exit.
il nostro contributo all'estinzione della civiltà. Costa & Nolan); “La
nefasta utopia di Potere operaio. Castelvecchi); “Alice è il diavolo. storia di
una radio sovversiva”; “Shake edizioni. La fabbrica dell'infelicità: new
economy e movimento del cognitariato. Roma, DeriveApprodi); “Felix. Narrazione
del mio incontro con il pensiero di Guattari, cartografia visionaria del tempo
che viene. Luca Sossella Editore), “Quando il futuro incominciò. Fandango Libri);
“Un'estate all'inferno”; “Telestreet. Macchina immaginativa non omologata.
Baldini Castoldi Dalai); “Il sapiente, il mercante, il guerriero. Dal rifiuto
del lavoro all'emergere del cognitariato” (Roma, DeriveApprodi); “Da Bologna
(serie A) a Bologna (serie B). DeriveApprodi); “Skizomedia. mediattivismo.
Roma, DeriveApprodi); “Europa 2.0 Prospettive ed evoluzioni del sogno europeo,
edito da ombre corte, Un'utopia senile per l'Europa. Run. Forma, vita,
ricombinazione, Mimesis); L'eclissi. Dialogo precario sulla crisi della civiltà
capitalistica, Manni Editori); “La Sollevazione. Collasso europeo e prospettive
del movimento. Manni Editori); “L'anima al lavoro, DeriveApprodi); “After the
future AKPress, Oakland); “Dopo il futuro. Dal futurismo al cyberpunk.
L'esaurimento della modernità, DeriveApprodi); “La nonna di Schäuble. Come il
colonialismo finanziario ha distrutto il progetto europeo, Ombre corte, Heroes Suicidio e omicidi di massa, Baldini
& Castoldi, Asma, C&P Adver
Effigi); “Contro il lavoro, DeriveApprodi); “Il secondo avvento. Astrazione
apocalisse comunismo, DeriveApprodi); “Futurabilità, Produzioni Nero); “Respirare.
Caos e poesia, Sossella), “Il trasloco”, “Io non sono un moderato”. Note
Filmato audio Alexandra Weitz, Andreas Pichler, L'eterna rivolta, su
YouTube, 2006, a 0 min 47 s. 6 agosto .
Cronologia di Radio Alice, radiomarconi.com. 6 agosto . E-text s.r.l. (http://e-text/), MediaMente:
Franco Berardi, su mediamente.rai. 24 luglio
25 giugno ). Bifo: "Con la
Gelmini non insegno" Sospeso dall'insegnamento | Bologna la
Repubblica Cominciamo a parlare del
collasso europeo, alfabeta2 n.5, dicembre , pag. 5 rekombinant@liste.rekombinant.org, su
rekombinant.liste.rekombinant.narkive.com. 6 aprile . A/traverso | Casa Editrice Etichetta
Discografica | AlterAlter Erebus press & label, su Alter Erebus. 26
giugno 26 giugno ). Félix Guattari Gilles Deleuze Movimento del
'77 Radio Alice Telestreet Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su
Franco Berardi Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
immagini o altri file su Franco Berardi Franco Berardi, su Internet Movie
Database, IMDb.com. //th-rough.eu/Pagina personale di Bifo sul Through Europe Interregno[collegamento
interrotto]Hacer lo imprevisible… después del 68: Entrevista con Franco Berardi
Bifo(Español) Rekombinant"Listblog" animato da Franco Berardi e
Matteo Pasquinelli radioalice.orgsito web su Radio Alice Il Trasloco
(scaricabile) su New Global Vision, su ngvision.org.
podcast.fmlatribu.comPodcast en castellanoEntrevista con Bifo en FM La Tribu,
Buenos Aires Articoli su arte e sensibilità, European School of Social Imagination
San Marino; scepsi.eu. 13 agosto 27
novembre ). Interviste a Franco Beradi di Christian Brogi, su ltmd. Franco
Berardi su Bookogs. Biografie Biografie
Letteratura Letteratura Politica Politica Categorie: Saggisti italiani del XX
secoloFilosofi italiani Professore1949 2 novembre BolognaMilitanti di Potere
OperaioMovimento del '77Studenti dell'BolognaFondatori di riviste
italianeAttivisti italiani. Franco Berardi. Keywords: implicatura del presagio,
poetica ariosa, progetto ario, telepatia, pre-sagio, sagio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berardi” – The
Swimming-Pool Library.
Bernardi (Mirandola).
Filosofo. Grice: “We discussed Bernardi with Sir Peter – when we were tutoring
on ‘Categoriae’ – “Surely this is not propedeutic logic! This is pure
metaphysics, and even pure physics!” Bernardi held the same view! On top, I
love Bernardi because he does not use ‘logica,’ which he thinks for ‘kids,’ but
‘dialettica,’ which is real philosophy!” Aristotelico, nominato vescovo di Caserta.
Duomo di Mirandola. Compiuto gli studi presso Bologna avendo come maestri Boccadiferro
(l’autore di un trattato sui luoghi comuni d’Aristotele) e Pomponazzi. Si
trasferì poi a Roma presso la corte di Farnese, dove frequenta Bembo, Casa e Giovio,
e si conquista una fama di filosofo aristotelico e letterato. Consacrato vescovo di Caserta. Poi a Parma nel monastero di San Giovanni dei Cassinesi.
Fu tumulato nel Duomo di Mirandola. In
occasione del 5º centenario della sua nascita, il 30 novembre 2002, il Centro
Internazionale Giovanni Pico della Mirandola gli dedicò un convegno. Lo scrittore Antonio Saltini ha utilizzato la
figura di Antonio Bernardi come personaggio del suo romanzo storico L'assedio
della Mirandola. Atre opere: “La
Monomachia” -- dove si sostiene che il duello è legittimo secondo la ragione e
la filosofia morale ma illecito sotto il punto di vista religioso. Note Vedi Google Libri. Duello cavalleresco. , Antonio Bernardi della Mirandola
(1502-1565). Un aristotelico umanista alla corte dei Farnese. Atti del convegno
"Antonio Bernardi nel V centenario della nascita" (Mirandola, 30
novembre 2002), M. Forlivesi, Firenze, Olschki, 2009. 978-88-222-5846-5 Aristotelismo Altri progetti Collabora a
Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Antonio
Bernardi Paola Zambelli, «BERNARDI,
Antonio», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 9, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1967. Filosofia Categorie: Vescovi cattolici
italiani del XVI secoloFilosofi italiani Professore1502 1565 3 giugno Mirandola
Bologna. EVERSIONIS SINGVLARIS
CERTAMINIS. PROPOSITVM NOBIS EST, SINGVLARE certamen , quantum quidem
poterimus , fundamentis ſanctiſsimæ religionisnoſtræinnitentes, euertere, ac pe
nitus ex animis hominum extirpare , ( utpote quod ab homine qui Chriſti
ſeruatoris noftri religionem & pie tatem profitetur, abhorreat.) Sed quia
edituseſtliber quidam , infcriptus Contra uſum duelli,in quo multa e tiam
diſputanturcontra libros noſtrosDehonore,ubi agitur de ſingulari certamine: qui
libri ſub nomine loan nis Baptiſtæ Poſleuinifallò in lucem prodierunt:etlino
lateat nos illud Ariſtotelis, to gasto TutóvG-gvarſíce tas Sofaes espolwaulio
agorti{ eup vxbés oszy : tamen faciendum nobis primùm uidetur,ut ea refellere
conemur, quæ contra libros noſtros De honore fcripta ſunt: ut,qui tantű. modò
uerborum faciem intuentes , interius autem non expendentes reconditam rerum
ueritatem , putauerunt eius libri quem diximus, auctorem , Ariſtotelis ſenten
tiam, ueritatem ipſam omnino affequutum effe, facileintelligant,non folùm no.
ftra quæ is refellit Peripateticorum doctrinæ prorſus conſentire, fed etiam
tantum abeſleut ille ( quiquidem magnum ſeadiumentum fuo hoclibro generi humano
at tuliſſe putauit) ex doctrina Ariſtotelis, & ex
philoſophiamoralilingulare certamē euerterit,ut id etiam ex ipfiuſmet uerbis
dari ac permitti in omnibus fere cauſis per, ſpicuè appareat.At ita plane
intelligetur,fierinon poſſe utſingulare certamene, uertatur,niſiex fundamentis
ſanctiſsimæ religionis noftræ. Quæ quidem res potiſ fimùm nos impulit,ut ad
hæcſcribenda aggrederemur. Hocigitur (niſi fallimur) cum ita futurum ſit contra
id quod ſibi iſte propoſuerat,magis probandữmihiqui dem uidetur eius conſilium
, uoluntas , quàm eo ipfe laudandus, quòd quæ uel let præſtiterit. Sed primùm
loquamur generaliter, ponentes id quod ipfe fatetur totius ſuæ cau fæ
fundamétum efle ,uidelicet ipſius ſingularis certaminis plura eſſe genera.
Verùm antequam ueniamus adipfius uerba , uideamus quam facilè hoc eius
fundamentum peruertamus:accipientes ex eis quæ ipfe conceſsit &dixit, arma,
quibus eius impe, tus aduerſusnoftrum librum labefactetur atą frangatur. Sed
quia nos, qui deopi nione Ariſtotelis diſſerimus, hujus controuerſiæ iudicem
Ariſtotelem conſtitui mus: afferemus in omnibus uerba ipſius Ariſtotelis,
ponentes ea ante oculos, ucho mines qui non certis quibuſdam , deſtinatis
ſententijs addicti confecratiga funt, fed ueritatem amplecti deſiderant, facile
intelligant quam iniuſtè, quàm etiam con . tra hominum utilitatem , iſte in me
quali grauiſsimum aliquod facinus admiſillem , inuaferit. Sed iam ad rem
ueniamus. Omnia ſingularia certamina, quæ ex fundamentis naturæ , non ex fancta
noftra religione permitti poffunt, ſuntunius generis,uel fpeciei(utiſte
loquitur:)ergo fun damentum eius à ueritate abhorret, quod ſcilicet fint plura
genera: & quòd ob hanc caufam unum genus fuerit permiſſum , &aliud nõ
permiſſum . Ex quo poftmodum emanat , me in libro Dehonore non eſſe lapſum ,
quia ignorauerim nomen &no. tionem , uim ; & originem fingularis
certaminis ,cum dixerim eius nomen apud GræcosfuiffeMonomachiam ,apud Romanos
Singulare certamen: quia non fue runt generalia nomina(ut ipſe dicit )fed folùm
nomina unius fpeciei uel generis. Conſequentia perſpicua eft: id uero quod
antecedit, probemus in hunc modum. Illa certamina quorum eft idem finis , effe
etiam eiuſdem generis uel ſpeciei neceſſe eſt.hoc enim loco pro eodem ſumuntur
genus & ſpecies. Propofitio ifta conceſſa eſt ab ipſo, etenim a
diltinctione finium ſumpſit diſtin , a ctioncm EVERS. SING CERTA M. ctionem
illorum certaminum :ut ex fine,qui erat honor,concluſit unum genus cer, 2.
Deanima. taminis. Sed probemus ipfam ex Ariſtotele. etenim ipſe inquit :
Quoniam autem à text.49. fineappellariomnia iuſtum eſt . Item inquit :
Determinatur enim & definitur u. 3.Ethic.o. numquodą fine. Siquidem
&ſuperabundantia ut nominetur ad finem, &excellen " tia uirtutum
oporter. Si ergo unumquodq; determinatur &definitur fine : ſingu laria ergo
certamina decerminabuntur & definientur fine. Ergo ſi finis erit unus, una
erit ſpeciesſingularis certaminis :ſi plures,ergo plures ſpecies. De cælo Item
Ariſtoteleshæcſcripta reliquit:Cuius enim cauſa unumquod eſt, &factű
mundo,tex.116 eſt ipſum eſt illius ſubſtātia . Quæ ergo certamina habent eundē
finē, ut fint etiam 1.Oeconom . eiuſdem ſpeciei neceffe eft: etenim ſunt eiufdé
fubftantiæ & formæ,necefTech eſt ut materia tantùm differant. Sed omnia
illa ſingularia certamina quæ ipſe conceſsit ex fundamentis naturæ , &
illud etiam genus quod nos conceſsimus in libris Deho . nore, ſunt certamina
ſingularia, quorum eſt idem finis :ut igitur ſint eiuſdem gene. ris uel
ſpeciei,neceſſe eſt. Minor probaturſic :llla quorum honeſtum eſt finis, ſunt
eiuſdem finis. Propofi tio iſta perſpicua eſt. Sed omnium illorum quæ ipfe
conceſsit ( utpugnare pro pa tria ,pro coniuge,pro regnis , honeſtum eſt finis
:ergo habent eundem finem . Sed oftendanus pofterioris huiusſyllogiſmiminorem .
Sienim honeſtum non effet eo. rum finis, non eſſent concedenda a Republica bene
inſtituta: quandoquidem Rer publica bene inſtituta nunquã concedicinhoneſta ,
alioquin nõ eſec bene inſtituta. 1. Rhet... Item inquit Ariſtoteles:Ėc
fimpliciter bona ſunt honeſta , & quæcunq pro patria facit,perdens fua. Qui
ergo facit pro patria, facit propter honeltatem . " Item , Viri fortis
finis eſt honeſtum . Qui pugnant pro patria, pro coniugibus, pro filijs, prore
. gno,ſuntuirifortes :ergo eorum quipugnant pro patria, pro coniugibus,pro
filijs, pro regnis,eſt finis honeſtum. Maior etli perſpicua ex ſe eſt,
declaraturtamen ab Ariſtotele his uerbis , quæ ſư 3. Ethic.io. prà etiam
citauimus ad aliud probandum : Finis enim, inquit, omnis actionis eft fe. ,
cundum habitum: &uiro forti fortitudo eft honeſta, &talis eſt finis :
determinatur , ' & definitur unumquodq; fine.Honeſtienim gratia fortis
ſuſtinet &agit ea quę funt , ' ſecundum fortitudinem Ergo uiri fortis eſt
finis honeſtum. Deinde paulo pòſt inquit: Oportet autem non propter
neceſsitatem fortem el so ſe,ſed quia honeſtum eſt . Item paulo poſt
inquit:Fortes enim agunt propter honeſtā ira aūtadiuuatipſos." 1. Rhet...
Item inquit:Quæcunq; funt opera fortitudinis , funt honeſta & iufta: &
opera iu . ftè facta,ſupple ſunt honeſta. Bernardi (Ant.,
Mirandulani, Episcopi Casertani ). - ANTONII BERNAR / di Mirandulani, epiſco- /
pi Caſertani, Eversionis / Singvlaris Certa- / minis Libri XL. / In quibvs cvm
omnes inivriæ / ſpecies declarantur: tum uerò offenſionum , & côtentio- /
num, quæ ex illis nafcuntur, honeſtė atque ex uirtute tol- / lendarum ratio
traditur : & præter multos, ac propè in- ! finitos locos Ariſtotelis, qui
ſunt difficilimi, obiter expli- / catos. Animi etiā immor talitas ex ipfius
ſententia oſten- / ditur : Aſtrologiæ quoq ; diuinatio omni pene au- / toritate
fpoliatur, atque libertas hu- / mana ſtabilitur. / -- Ad amplißimum uirum
Alexandrrm Farnesium Cardinalem , S. R. E. Vicecancellarium . Acceſsit locuples
rerum & uerborum toto Opere / memorabilium , Index. --- Basilea, Per llen-
/ ricum Petri. [ W - 1 '] In folio, p. 694 n. e p. 18 n . n . al princ . Di
queste : 3 per la dedica e 13 pel Rerum atqve verborum locuple tibimus Index.
Nel testo alcune iniziali con vignette . La stessa opera di questo autore,
detto da alcuni il Mi randola , dalla patria , e da altri il Caserta dalla
dignità , è stata pure pubblicata sotto l'altro titolo : ANTONII BERNAR- / DI
Mirandulani, epiſco- i pi Caſertani, 1 Dispvtatio / nes. I – In qvibvs primvm
ex professo / Monomachia ( quam Singulare certamen Latini, recentio- / res
Duellum uocant) philoſophicis ra tionibus aſtruitur, & / mox. diuina
authoritate labefactata penitùs euertitur : om- / nes quoq : iniuriarum ſpecies
declarantur, easq' ; conciliandi / & è medio tollendi certiſsimæ rationes
traduntur. Deinde / uerò omnes utriuſque Phi lofophiæ, tam contemplatiuæ / quàm
actiuæ, Loci / obfcuriores, & ambiguæ Quæſtiones, / (præſertim de Animæ
immortalitate, & Aſtrologiæ iudi- / ciariae diuinationibus) Ariſtotelica
methodo / luculentiſsimè examinantur & / expli cantur. / Ad amplißimum
uirum Alexandrem Farnesirm / Cardinalem , S. R. E. Vicecancellarium . / -
Acceſsit locuples rerum & uerborum toto Opere / memorabilium , Index. / -
Basileae, Per Henriccm / Petri, et Nicolarm SCIENZA CAVALLERESCA ANTICA 113
Bryling. | Anno 1562. / - ( In fine :) Finis Qvadragesimi et vltimi i libri
Euerfionis fingularis certaminis. / [ * -Fer] In folio p. 694 con iniziali con
vignette. Al princ. 18 p. 1. n . pel titolo, pella dedica al Cardinale Far nese
( nella quale accusa di plagio G. B. Possevino, uditore suo, per essersi
appropriata un'opera sull'Onore da esso scritta ) e pell' Index . Il Tiraboschi
nel t . 1.o della Bibliot. Modenese a p. 241 erroneamente sem brasa credere,
che questa seconda edizione losse la stessa cosa della 1.a edizione , della
quale essố aveva trovato il titolo nel Mazzuchelli. – Di quest'opera voluminosa
del Bernardi, divisa in 40 libri e scritta col preteso assunto di abbattere il
duello , stampa il Maffei ( op. cit. , 1.a ed. , a p. 252) , che è stata stesa
; « con metodo sco « lastico e coll'argomentazione usata in quegli scrittori,
che si chiamano di Filosofia ; ma procedendo sempre con « equiroci, e confusion
di vocaboli e con perpetui sofismi talvolta intrigatissimi e difficili e
talvolta manifesti e • palesi » Eppure, narra lo stesso Maffei ( a p. 264 ) ,
che dell'opera del Bernardi quattro doppie si stimava modesto prezzo . In
quell'epoca i libri di scienza cavalleresca erano tanto ricercati, che, scrive
lo stesso Maffei, quattro doppie è pur stata valutata un'edizione dell'Ariosto,
quella di Venezia 1566 per il Valvassori, « sol per poche righe , che in alcuni
luoghi vi si trovano con titolo di Pareri in Ducllo » . - In quanto all'accusa di
plagio dita apertamente dal Bernardi a G. B. Possevino , essa è abbastanza
giustificata. Il G. B. Posse vino era scolaro del Bernardi e questi ebbe dal
maestro il suo lavoro sul duello per copiarlo , ma il Pos sevino non si fece
alcuno scrupolo di rafazzonarlo alquanto per poterlo far passare come proprio.
È vero peró , che la pubblicazione dello scritto non avvenne per opera del
Possevino, ma di suo fratello Antonio , che appartenne alla Compagnia di Gesù ,
ed anzi vuolsi, che G. B. Possevino morendo raccomandasse al fratello di non
pubblicare quell'opera sul duello da esso lasciata , ma Antonio Possevino non
avrebbe però tenuto conto di questa raccomandazione, tanto più , che al dire
del Tiraboschi, a vincer i suoi scrupoli gli era oppor tanamente giunta all'orecchio
la falsa notizia della morte avvenuta a Ferrara del Bernardi, vero autore del
trattato sul duello , ed egli a tale notizia aveva prestato fede. Il
Tiraboschi, che dapprima aveva difeso G. B. Possevino dall'accusa di plagio
doveva finire per persuadersi, che tale accusa era ben fondata.
Antonio Bernardi. Keywords:
L’assedio della Mirandola. i duellisti, la legittimita del duello, i duellisti,
mono machia, duo machia. Il duello nell’antichita romana, roma antica, il
duello, statua di due duellisti antichi, armi bianchi, Boccadiferro, Pomponazzi,
aristotelismo Bolognese. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bernardi” – The
Swimming-Pool Library.
Bernardo (Benne). Filosofo.
Grice: “I like Bernardo: he is a philosophical mason – but then most Italian
philosophers are, as a way of NOT being Roman!” Massone. Gran maestro del
Grande Oriente d'Italia dal 1990 al 1993, ha poi fondato la Gran Loggia Regolare
d'Italia. Diplomato in ragioneria e poi impiegato in banca, si laureò in
Sociologia presso l'Università degli Studi di Trento. Nello stesso ateneo seguì
la carriera accademica, divenendo docente ordinario di Filosofia della scienza
e di Logica, nonché pro-rettore. È inoltre autore di nmerosi saggi e
pubblicazioni sul tema della filosofia delle scienze sociali e della logica
delle norme. Fu iniziato alla massoneria
nella loggia bolognese "Risorgimento-VIII agosto" divenendo Maestro
venerabile della loggia "Zamboni-De Rolandis". Nello stesso anno
chiese e ottenne di venire inserito tra i massoni coperti per ragioni di
riservatezza legata alla sua professione di docente. Stessi requisiti di
riservatezza ebbe la sua appartenenza al Capitolo Nazionale del rito scozzese
antico e accettato. Eletto Gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Negli anni
della sua maestranza tenne posizioni di aperto contrasto con la Chiesa
cattolica, dichiarò espressamente il proprio sostegno al Partito Socialista
Italiano, e dovette confrontarsi con la cosiddetta "inchiesta
Cordova" (dal nome del pubblico ministero di Palmi Agostino Cordova). Al
centro di polemiche anche con i vertici del GOI, Di Bernardo decise di
dimettersi dalla carica di Gran maestro al termine della Gran Loggia annuale a
Roma alla quale si era presentato dopo aver redatto atto costitutivo e statuto
di una nuova Obbedienza, la Gran Loggia Regolare d'Italia. Al vertice del GOI
gli succedette il reggente Eraldo Ghinoi.
La neonata Obbedienza si regge su uno sparuto gruppo di Logge
fuoriuscite dal GOI, caratterizzandosi per l'uso esclusivo del rito inglese
Emulation. Otto anni dopo la fondazione, viene espulso dalla GLRI; gli succede
alla guida dell'Obbedienza Venzi. Quindi avvia un nuovo progetto di un ordine
paramassonico, denominato Dignity Order, che tuttavia non è un'Obbedienza
regolare. Pur dichiarando di essere fuoriuscito dalla Massoneria, Di Bernardo
da anni si presta a rilasciare interviste e dichiarazioni sull'argomento sia a
giornalisti che ad organi inquirenti. Nel
ha polemizzato con il GOI dopo aver reso una dichiarazione alla
Commissione Antimafia relativa a presunte rivelazioni del defunto Ettore Loizzo
(vedi ). Il GOI ha annunciato l'intenzione di denunciare Di Bernardo per diffamazione
e calunnia. Il lo stesso Di Bernardo annuncia di voler a sua volta querelare il
Gran Maestro del GOI Stefano Bisi per diffamazione. La querela di Di Bernardo a
carico di Bisi viene archiviata per insussistenza. Aldo Alessandro Mola, Gelli e la P2: fra
cronaca e storia, Bastogi Editrice Italiana, Giuliano Di Bernardo, unitn. Il Gran Maestro: chi è Giuliano Di Bernardo.
Aldo A. Mola. Pubblicazioni di Giuliano
Di Bernardo, unitn. Fra tradizione e rinnovamento: la lunga traversata del
deserto dal 1945 a oggi, GOI. Aldo A.
Mola, 801 e ss. Aldo A. Mola, Di Bernardo fonda la nuova
Grande loggia, in Corriere della Sera. Sito ufficiale del Dignity Order,
dignityorder.com. Aldo Alessandro Mola, Storia della massoneria italiana, Bompiani,
Gran loggia regolare d'Italia Massoneria in Italia Massoneria Citazionio su
Giuliano Di Bernardo Intervista a
Giuliano Di Bernardo del, Predecessore Gran maestro del Grande Oriente d'Italia
Successore Square compasses.svg Armando Corona. Eraldo Ghinoi (reggente) Predecessore
Gran maestro della Gran Loggia Regolare d'Italia SuccessoreSquare compasses.svg
Carica inesistente Fabio VenziB Filosofia Università Università Filosofo del XX secolo Filosofi
italiani Professore Penne Gran maestri del Grande Oriente d'Italia. Giuliano Di
Bernardo. Keywords. logica dei sistemi normativi, normativa sociale,
l’implicatura del massone, psicologia filosofica, Homo sapiens sapiens. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Bernardo” – The Swimming-Pool Library.
Bernieri (Lodi).
Filosofo. Grice: ‘I like Berneri; of course we need to know more about his
philosophical background and education – he represents the epitome of what
Italian philosophers call ‘filosofia militante,’ but then I fought the Hun – so
I was militante, too!” – Figlio di padre originario di Ronco, frazione di
Corteno Golgi (nella Val Camonica, in provincia di Brescia) e da madre
emiliana, ben presto, si trasferì con la famiglia dapprima a Milano, poi a
Palermo, e Forlìdove, a Varallo Sesia (in provincia di Vercelli) e, infine, a
Reggio nell'Emilia. Qui, da una
testimonianza di Angelo Tasca risulta che Camillo Berneri militava nella
Federazione Giovanile Socialista di Reggio Emilia già dal 1912 (da
"Mussolini-Psicologia di un dittatore", Camillo Berneri, Pier Carlo
Masini, Milano, 1966, pag 109). Dopo essere stato membro del Comitato Centrale
della Federazione Giovanile Socialista reggiana, e dopo aver collaborato
all'Avanguardia (organo nazionale della FGS), nel 1915 rassegna le dimissioni
dalla FGS, attraverso una lettera ai compagni, avendo maturato convinzioni
anarchiche. Sarà colpito dal gesto dei compagni che, nonostante le dimissioni,
vorranno che presieda un'ultima riunione della FGS a Reggio, e dal gesto del
mentore Camillo Prampolini, che lo convocherà per conoscere le ragioni del suo
dissenso. Berneri ricorderà sempre "i dolci ricordi del mio catecumenato
socialista". Nel 1916 si trasferisce ad Arezzo dove frequenta il
liceo. Chiamato alle armi ed escluso
dall'Accademia Militare di Modena per le sue idee, fu inviato al fronte nel
1918; quindi, ancora in servizio, venne confinato nell'isola di Pianosa in
occasione dello sciopero generale del luglio 1919. Iniziava intanto con lo
pseudonimo Camillo da Lodi la sua copiosa attività pubblicistica collaborando
per anni a vari periodici libertari: da Umanità Nova a Pensiero e Volontà, da
L'avvenire anarchico di Pisa a La Rivolta di Firenze e a Volontà di
Ancona. Laureatosi in filosofia, insegnò
tale materia per qualche tempo a Camerino. Pronta e decisa si manifestava la
sua avversione al fascismo e, dall'Umbria in particolare, egli manteneva i
contatti con gli antifascisti fiorentini diffondendo il battagliero giornaletto
Non mollare. Molto intensa fu in quegli anni l'attività nell'Unione anarchica
italiana. Inaspritasi la dittatura fascista, dovette espatriare clandestinamente
in Francia e lo raggiunse poco dopo la moglie con le figlie; sua moglie era
Giovanna Caleffi anche lei militante anarchica così come poi le figlie Marie
Louise Berneri e Giliana Berneri. Scoppiata la guerra civile spagnola, fu tra i
primi ad accorrere in Catalogna, centro dell'attività di massa libertaria
esprimentesi nella Confederación Nacional del Trabajo: qui si trovò a fianco di
Carlo Rosselli con tanta parte dell'antifascismo italiano e internazionale. Al
di là della solidarietà militante, a Carlo Rosselli lo legava anche
l'atteggiamento critico, e l'apertura mentale verso le prospettive del
socialism. Collabora con l'organo clandestino del movimento socialista-liberale
"Giustizia e Libertà", argomentando con Rosselli sull'alternativa
secca tra socialismo libertario e socialismo dispotico ("Gli anarchici e
G.L.", Camillo Berneri e Carlo Rosselli, Giustizia e Libertà). Furono gli
ultimi mesi febbrili della sua vita: inadatto alle fatiche del fronte, si
dedicò con entusiasmo all'opera formativa, al dibattito ideale e alle
incombenze politiche pubblicando un proprio periodico dal titolo “Guerra di
classe” che sintetizza la sua precisa interpretazione del conflitto in corso.
In esso infatti Berneri, preoccupato per il crescente isolamento non tanto del
legittimo governo repubblicano quanto delle più tipiche realizzazioni rivoluzionarie
e libertarie conseguite in Catalogna, Aragona e altre regioni, si batté
vigorosamente per la stretta connessione di guerra e rivoluzione ponendo agli
antifascisti e ai suoi stessi compagni anarchici il dilemma: vittoria su
Franco, grazie alla guerra rivoluzionaria, o disfatta. Tale la sostanza di
numerosi suoi articoli e discorsi come della famosa Lettera aperta alla
ministra anarchica della Sanità Federica Montseny che con altri tre anarchici
era nel governo di Largo Caballero.
Molteplici, seppure inascoltati, furono anche i suoi suggerimenti
politici per colpire le basi operative del fascismo proclamando l'indipendenza
del Marocco, coordinare gli sforzi militari, potenziare gradualmente la
socializzazione. Fu dunque quella di Berneri una funzione singolarmente
impegnata che lo espose ben presto alle feroci repressioni condotte dai
comunisti ormai prevalsi dopo l'avvento del governo di Juan Negrín: scomparvero
così tragicamente, vittime dei massacri di massa, migliaia di combattenti
antifascisti non comunisti, anarchici ma anche comunisti non stalinisti, come i
miliziani del POUM. L'assassinio di Camillo Berneri, sulle cui esatte
circostanze esistono diverse versioni, si colloca precisamente nella sanguinosa
resa dei conti tra stalinisti e loro avversari antifascisti conosciuta come le
giornate di Maggio. Il 5 maggio Berneri fu prelevato insieme con l'amico
anarchico Francesco Barbieri dall'appartamento che i due condividevano con le
rispettive compagne. I cadaveri dei due anarchici italiani furono ritrovati
crivellati di proiettili. La moglie allevò i figli di Antonio Cieri, anche lui
caduto in Spagna. In morte di Berneri, il leader socialista Pietro Nenni
scrisse: "Se l'anarchico Berneri fosse caduto su una barricata di
Barcellona, combattendo contro il governo popolare, noi non avremmo niente da
dire, e nella severità del suo destino ritroveremmo la severa legge della
rivoluzione. Ma Berneri è stato assassinato, e noi dobbiamo dirlo" (Pietro
Nenni, Nuovo Avanti, Parigi). Altre
opere: “Lettera aperta ai giovani socialisti di un giovane anarchico”
(Orvieto); “I problemi della produzione comunista” (Firenze); “Le tre città” (Firenze);
“Un federalista russo. Pietro Kropotkin, Roma); “Mussolini normalizzatore,
Zurigo); “Lo spionaggio fascista all'estero, Marsiglia); “Nozioni di chimica antifascista”;
“L'operaiolatria, Brest); “ll lavoro attraente, Ginevra); “Ed ancora: Mussolini normalizzatore La donna e la
garçonne”; “Pensieri e battaglie Il cristianesimo e il lavoro” – “Il Leonardo
di Freud”. da "Mussolini-Psicologia di un dittatore", Camillo
Berneri, Edizioni Azione Comune, Pier Carlo Masini, Milano, 1966, pag
115-117) Mirella Serri, I profeti
disarmati. 1945-1948, la guerra fra le due sinistre, Milano, Corbaccio,
2008. Cfr. Nicola Fedel, Introduzione e
criteri di edizione in Camillo Berneri, Lo spionaggio fascista all'estero,
Nicola Fedel (prefazione di Mimmo Franzinelli), Fondazione Comandante Libero,
Milano, , XVII-XIX , Enciclopedia UTET. Camillo Berneri,
Anarchia e società aperta, Pietro Adamo, M&B Publishing, Milano 2006.
Stefano D'Errico, Anarchismo e politica. Nel problemismo e nella critica
all'anarchismo del Ventesimo Secolo, il "programma minimo" dei
libertari del Terzo Millennio. Rilettura antologica e biografica di Camillo
Berneri, Mimesis, Milano 2007. Roberto Gremmo, Bombe, soldi e anarchia:
l'affare Berneri e la tragedia dei libertari italiani in Spagna, Storia
Ribelle, Biella 2008. Mirella Serri, I profeti disarmati. 1945-1948. La guerra
tra le due sinistre, Milano, Corbaccio, 2008. Flavio Guidi, "Nostra patria
è il mondo intero". Camillo Berneri e "Guerra di Classe" a
Barcellona (1936-37), pubblicato dall'autore, Milano . Giampietro Berti,
Giorgio Sacchetti , Un libertario in Europa. Camillo Berneri: fra totalitarismi
e democrazia. Atti del convegno di studi storici, Arezzo, 5 maggio 2007,
Archivio famiglia Berneri A. Chessa, Reggio Emilia . Camillo Berneri, Lo
spionaggio fascista all'estero, Nicola Fedel (e prefazione di Mimmo
Franzinelli), Fondazione Comandante Libero, Milano, , 978-88-906018-9-7 Antifascismo Archivio Famiglia Berneri Guerra
civile spagnola Giornate di maggio Altri progetti Collabora a Wikisource
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line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Camillo Berneri, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Camillo Berneri, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Camillo Berneri, su Liber
Liber. Opere di Camillo Berneri, su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Camillo Berneri, . Camillo Berneri,
su Goodreads. Altri particolari sul sito
dell'ANPI di Roma, su romacivica.net. 6 aprile 2006 31 agosto 2006). Carlo De
MariaUn convegno e una nuova stagione di studi su Camillo Berneri, su
storiaefuturo.com 26 luglio 2007). Socialismo LibertarioProfili biobibliografici
libertari, su socialismolibertario. Abolizione ed estinzione dello stato (1936)
Anarchismo e federalismo di Camillo Berneri, su magozine. V D M Antifascismo. Anarchia Anarchia Biografie Biografie Politica Politica Storia Storia Filosofo del XX secoloScrittori
italiani del XX secoloAnarchici italiani 1897 1937 20 maggio 5 maggio Lodi
BarcellonaAntifascisti italianiAssassinati con arma da fuocoVittime di
dittature comuniste. Camillo Bernieri. Keywords: normalizazzione, delirio
racista, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bernieri” – The Swimming-Pool Library.
Berti (Valeggio
sul Mincio). Filosofo. Grice: “I like Berti; of course he has philosophised on
the only two philosophers worth philosophising about Plato and Aristotle – his
interest is in the ‘number idea’ in Plato, the unity in Aristotle, and various
other things – notably Socratic dialectic as the basis for both!” -- Grice: “I also love his courtesy: cf. Sir
Peter, “Introduction to logical theory,” versus the gentle “Un invite alla filosofia,”
– for philosophy needs to be invited to, rather than intro- and extro-ducted to
and fro’!” Professore emerito di storia
della filosofia, presidente onorario dell'Istituto internazionale di
filosofia. Laureatosi in filosofia
all'Padova nel 1957, è stato allievo di Marino Gentile. Dal 1961 al 1964 è assistente presso
l'Padova. Nel 1965 diventa professore di storia della filosofia antica
all'Perugia e nel 1969 di storia della filosofia nella stessa Università. Nel 1971 si trasferisce all'Padova, dove
insegna storia della filosofia. È poi docente anche nelle Ginevra, di
Bruxelles, di Santa Fé (Argentina) e alla Facoltà di Teologia di Lugano. Dal 1983 al 1986 presiede la Società
Filosofica Italiana. Nel 1987 vince il
premio dell'Associazione internazionale "Federico Nietzsche" per la
filosofia, nel 2005 il premio Iannone per la filosofia antica, nel 2007 il
premio Santa Marinella e il premio Castiglioncello per la filosofia, nel 2009
il premio "Athene Noctua" e nel
il premio giornalistico Lucio Colletti.
Nel è nominato "doctor
honoris causa" dell'Università nazionale capodistriana di Atene e nel Honorary Fellow dell'"Interdisciplinary
Centre for Aristotle Studies" dell'Salonicco. Pensiero Interessato particolarmente alla
filosofia di Aristotele, Enrico Berti ne ha intravisto le tracce nella
metafisica, nell'etica e nella politica contemporanea in particolar modo per il
problema della contraddizione e della dialettica. Berti si è poi inserito nella dibattuta
questione del rapporto tra filosofia e scienza, cercando di definire la
specificità della filosofia, che si fonda su una razionalità non rapportabile a
quella scientifica, ma piuttosto alla dialettica e alla retorica. Su un piano
più propriamente teoretico si è interessato alla possibilità di riproporre oggi
una filosofia di tipo metafisico, formulando una concezione «umile« o «povera»
della metafisica come consapevolezza della problematicità, e quindi
dell'insufficienza, del mondo dell'esperienza, considerato nella sua totalità
(comprendente scienza, storia, individuo e società). Altre opere: “L'interpretazione neo-umanistica
della filosofia presocratica” (scuola di Crotone, la porta di Velia); “La filosofia del primo
Aristotele” (Padova, Cedam); Il "De republica" di Cicerone e il pensiero
politico classico”; “L'unità del sapere in Aristotele”; “La contraddizione” (la
porta di Velia, la dialettica della struttura originaria, Bontadini); “Studi
sulla struttura logica del discorso scientifico”; “Studi aristotelici”;
“Aristotele: dalla dialettica alla filosofia prima” (Padova, Cedam); “Ragione
scientifica e ragione filosofica” (Roma, La Goliardica); “Profilo di
Aristotele, Roma, Studium); “Il bene” (Brescia, La Scuola); “Le vie della ragione” (Bologna, Il Mulino);
“Contraddizione e dialettica negli antichi” (Palermo, L'Epos); :Le ragioni di
Aristotele, Roma-Bari, Laterza); “Storia della filosofia” (Roma-Bari, Laterza);
“Aristotele nel Novecento, Roma-Bari, Laterza); “Introduzione alla metafisica,
Torino, UTET); “Il pensiero politico di Aristotele, Roma-Bari, Laterza); “Aristotele
e altri autori, Divisioni, con testo greco a fronte, coll. Il pensiero
occidentale); “In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia
antica, Laterza, Roma-Bari); “Il libro primo della «Metafisica» (Laterza,
Roma-Bari); Sumphilosophein. La vita
nell'Accademia di Platone, Roma-Bari, Laterza); “Nuovi studi aristotelici”
(Morcelliana); “Invito alla filosofia, Brescia, La Scuola); “La ricerca della
verità in filosofia, Roma, Studium. Ha scritto un dialogo satirico, un
"falso d'autore" attribuito ad Aristotele, Eubulo o della ricchezza:
dialogo perduto contro i governanti ricchi.
Traduzioni Aristotele, Metafisica, traduzione, introduzione e note di E.
Berti, Collana Biblioteca Filosofica, Roma-Bari, Laterza. Onorificenze e
riconoscimenti Grande Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica
Italiana È membro delle seguenti
accademie e istituzioni scientifiche:
Accademia nazionale dei Lincei Institut international de philosophie
Istituto veneto di scienze, lettere ed arti Société européenne de culture
Fédération internationale des sociétés de philosophie Pontificia accademia
delle scienze Pontificia accademia di San Tommaso d'Aquino Accademia galileiana
di scienze, lettere ed arti Società filosofica italiana Note festivalfilosofia, su festivalfilosofia 15
novembre 2008). Enciclopedia
multimediale delle Scienze filosofiche, su emsf.rai. 10 settembre 27 settembre ). Biografia Enrico Berti [collegamento interrotto], su
comune.ancona. Aristotele Opere di Enrico Berti, su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. Opere di Enrico Berti, .
Registrazioni di Enrico Berti, su RadioRadicale, Radio Radicale. Intervista a Enrico Berti () Enrico Berti
scheda nel sito dell'Padova (con l'elenco delle pubblicazion. Filosofia Filosofo
del XX secoloFilosofi italiani Professore1935 3 novembre Valeggio sul
MincioProfessori dell'Università degli Studi di PadovaStudenti dell'Università degli
Studi di PadovaProfessor dell'Università degli Studi di PerugiaAccademici dei LinceiStorici
della filosofia italiani. I pitagorici -- Gli eleati -- Parmenide -- Zenone, Melisso
-- Empedocle -- Gorgia --. LA FILOSOFIA A ROMA Lo stoicismo medio il
neo-epicureismo e Lucrezio -- L’Accademia nuova e Cicerone -- Il neo-stoicismo
romano Seneca, Epitteto, Marc'Aurelio,
Enrico Berti. Keywords. Cicerone res publica – “De republica” – cf. il bene/il
buono/il bello, “il bene e il buono”, Cicerone e la filosofia politica
classica, il De Republica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berti” – The Swimming-Pool
Library.
Bertinaria (Genova).
Filosofo. Grice: “I like Bertinaria; he is, like me a philosophical
cartographer – in his case, of ‘filosofia italiana’ for which he has identified
‘indole’ e this or that ‘vicenda,’ – now J. L. Austin once remarked that ‘sake’
has no denotatum – but ‘vicem’ does!” -- Francesco Bertinaria (n. Genova), filosofo.
Studiò all'Pisa, si trasferì a Torino per collaborare con l'editoria Pomba. Ha
curato la traduzione Abriss der Geschichte der Philosophie di Kennegieszer,
professore dell'Breslavia. Si occupò anche di filosofia orientale e di
filosofia italiana. Nel 1860 Bertinaria ottenne la cattedra di Filosofia della
Storia all'Torino. Nel 1865 fu chiamato all'Genova. Morì a Genova nel
1892. Altre opere: “La filosofia italiana” (Pomba, Torino);
“Compendio di storia della filosofia” (Pomba, Torino); “Discorso sull'indole e
le vicende della filosofia italiana” (Pomba, Torino). “Concetto della filosofia
e delle scienze inchiuse nel dominio di essa, «Antologia italiana»”; “Disegno
di una storia delle scienze filosofiche in Italia dal Risorgimento delle lettere
sin oggi, Antologia italiana», “Concetto scientifico della storia, Stamp.
sociale degli artisti tipografi, Torino); “Saggi filosofici” (Tip. Fory e
Dalmazza, Torino); “Prospetto dell'insegnamento della filosofia della storia” (Stamperia
dell'unione tipografico editrice, Torino); “Della teoria poetica e dell'epopea
latina, Torino); “Dell'importanza della filosofia della storia e sue relazioni
con le altre scienze” (Torino); “L'antica filosofia del diritto” (Tip. Cavour,
Torino); “Principi di biologia e di sociologia, Negro, Torino); “La storia
della filosofia e la filosofia della storia” «Riv. cont.», Estr.: Baglione,
Torino); “Sulla formola esprimente il nuovo principio dell'enciclopedia” «Riv. cont.»,Il
positivismo e la metafisica” «Riv. cont.», Estr.: A. F. Negro, Torino); “Scienza, Arte e
Religione, «Gerdil», Estr.: Tip. Torinese, Torino); “Dell'origine, progresso e
condizione presente della filosofia civile, «Riv. bol.», “Saggio sulla funzione
ontologica della rappresentazione ideale, FSI); “Concetto del mondo civile
universale, FSI); “La dottrina dell'evoluzione e la filosofia trascendentale”
(Tip. Ferrando, Genova); “Ricerca se la separazione della Chiesa dallo Stato
sia dialettica ovvero sofistica, FSI, Estr.: Tip. dell'Opinione, Roma); “Il
problema dell'incivilimento, ossia come possano essere conciliate fra loro le
dottrine della civiltà nativa di Vico e della civiltà nativa di Romagnosi,
FSI); “La psicologia fisica ed iperfisica” (Unione tipografico-editrice,
Torino); “Ricerca se l'odierna società civile progredisca ovvero retroceda,
FSI); “L'odierno antagonismo sociale. Discorso inaugurale nella Genova”
(Tip.Martini, Genova); “Il problema critico esaminato dalla filosofia
trascendente, FSI); “Discorso per l'inaugurazione dei corsi filosofici e
letterari nella R. Genova, Tip.Martini, Genova); “Idee introduttive alla storia
della filosofia, RIF, Estr.: Tip. della R. Accademia dei Lincei, Roma); “Determinazione
dell'assoluto. Saggio di filosofia esoterica, «Giornale della Società di
letture e conversazioni scientifiche di Genova», Estr.: Tip. A. Ciminago, Genova); “Il problema
capitale della scolastica risoluto dalla filosofia trascendente. Nota
storico-critica, RIF, Estr.: Tip. alle Terme Diocleziane di Giovanni Balbi,
Roma); “Scritti Bulgarini, G. B., Recensione dell'articolo del prof. F.
Bertinaria apparso sulla «Rivista Italiana»: Idee introduttive alla storia
della filosofia, «Rosmini», F. Bertinaria. Studio biografico, «Annuario della R.
Genova», Estr.:Martini, Genova, CecchiL., Francesco Bertinaria. Commemorazione,
Martini, Genova); D'Ercole, P., Notizie biografiche del prof. F. Bertinaria,
«Annuario della R. Università degli studi di Torino», Estr.: Torino; Mamiani,
T., Rec. di F. Bertinaria, La dottrina della evoluzione e la filosofia
trascendente.Discorso, Genova 1876, FSI); “Mamiani T., Intorno alla sintesi
ultima del sapere e dell'essere. Lettere al professore Bertinaria, FSI, XII,
1881, XXIII, 3-28, 231-249; XIII, 1882, XXVI,
84-95. Estr.: Roma 1882. Tolomio,
249-266. Note Bertinaria, su dif.unige. Piero Di Giovanni , Un secolo di filosofia
italiana attraverso le riviste 1870-1960, FrancoAngeli, 304,
978-88-56-86938-5. Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su
Francesco Bertinaria Opere di Francesco
Bertinaria, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Biografie Biografie Letteratura Letteratura Filosofo del XIX secoloSaggisti
italiani del XIX secoloInsegnanti italiani Professore1816 1892 Genova. TAVOLA
GENETICA DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA ( 1 ) ( Secondo la legge di
creazione) I. Facoltà spirituali e fisiche dell'uomo, le quali ne fanno condi
zionalmente un essere razionale, vale a dire un ente creato, soggetto alle
condizioni della sua vita presente ossia all'orga namento terrestre. = UOMO
MORTALE . A ) Teoria o Autotesia ; quello che v’ha di dato nello spirito
dell'uomo per istabilirne le facoltà fisiche ossia create . a ) Contenuto,
ossia costituzione psicologica. a2) Parte elementare. = FACOLTÀ ELEMENTARI (in
numero di sette ). a3) Elementi primitivi. = FACOLTÀ PRIMITIVE . a4) Elemento
fondamentale ossia neutro ; facoltà di sapere, = COGNIZIONE (Kenntniss]. (I)
64) Elementi primordiali ossia polari. a5 ) Cognizione del Non - Io . = RAPPRESENTAZIONE
( Vorstellung]. ( II) ( 1 ) Per la lettura delle nostre Tavole genetiche
noi.dobbiamo far notare alle persone non peranco abituate a siffatta
esposizione tabellare, che, a seconda della divisione dicotomica , ch'è la sola
rigorosamente logica , le due sottoclassi di ciascuna classe suddivisa sono
notate colle lettere a) e b) a destra accompagnate da un numero superiore
d'un'unità a quello che ha il medesimo indice della classe così suddivisa. In
tal maniera, muo vendo dai due generi primitivi, designati da A) e B), ciascuno
di questi due generi ha due classi designate rispettivamente da a) e b) ;
ciascuna di queste classi a) e 6) può avere di nuovo due sottoclassi a2) e 62 )
; ciascuna di queste ultime classi a2) e 62) può avere di nuovo due sotto classi
, designate rispettivamente da a3) é 73 ); e così di seguito finchè ciascuna di
queste diverse sottoclassi ammette divisioni ulteriori. BERTINARIA -3 34 TAVOLA
GENETICA 65) Cognizione dell'Io . = COSCIENZA (Bewusztsein ).(III) 63) Elementi
derivati. = FACOLTÀ ORGANICHE. a4) Elementi derivati immediati ossia distinti .
a5) Combinazione della Cognizione colla Rappresen tazione. = SENSIBILITÀ. (IV)
Nota. Qui hanno luogo i Sensi esterni ed il Senso interno. 65) Combinazione
della Cognizione colla Coscienza. = INTELLETTO. (V) Nota. Qui hanno luogo
l'Intelligenza, il Giudizio e la Ragione condizionale ( quella che si trova
incarnata nel. l'organismo fisico ossia terrestre dell'uomo) . 64) Elementi
derivati mediati ossia transitivi. = IM MAGINAZIONE, a5) Transizione dalla
Sensibilità all'Intelletto . = IM MAGINAZIONE RIPRODUTTIVA. (VI) Nota. —Qui
hanno luogo la Memoria e la Previsione. 65) Transizione dall'Intelletto alla
Sensibilità . = IM MAGINAZIONE PRODUTTIVA . (VII) Nota. — Qui hanno luogo la
Costruzione e la Fantasia . 62) Parte sistematica. = FACOLTÀ SISTEMATICHE (in
numero di quattro ). a3) Diversità nella riunione sistematica degli elementi
primordiali. a4) Influenza parziale. a5) Influenza della Rappresentazione nella
Coscienza . = SENTIMENTO. ( I) 65) Influenza della Coscienza nella Rappresenta
zione. = COGNIZIONE . (II) b4) Influenza reciproca di questi elementi
primordiali; armonia sistematica tra la Rappresentazione e la Coscienza per
mezzo del loro concorso teleologico alla generazione delle Cognizioni. =
COMPRENSIONE. ( III) NOTA. Qui hanno luogo il Giudizio teleologico ( per la
cognizione dell'ordine ), ed il Gusto estetico ( per la cogni zione del bello e
del sublime) . DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 35 63) Identità finale nella
riunione sistematica dei due ele menti distinti, della Sensibilità e
dell'Intelletto , per mezzo dell'elemento fondamentale ossia neutro , for mante
la Cognizione. = POTENZIALITÀ. (IV) NoTA. - Qui hanno luogo, nell'aspetto
speculativo, ch'è quello della cognizione senza causalità, il GENIO, e nel
l'aspetto pratico, che è quello della cognizione colla cau salità , la VOLONTÀ.
b ) Forma, ossia relazione psicologica. a2) Nella parte elementare della
costituzione psicologica. a3) Per le facoltà primitive. a4) Per l'elemento fondamentale
; forma della Cogni zione. = ATTENZIONE. 64) Per gli elementi primordiali : a5)
Forma della Rappresentazione. = OBJETTIVITÀ. b5) Forma della Coscienza. =
SUBJETTIVITÀ . 63 ) Per le facoltà organiche : a4) Immediate o distinte . a5)
Forma della Sensibilità. = INTUIZIONE ( An schauung). 65) Forma
dell'Intelletto. = CONCETTO ( Begriff ). 64) Mediate o transitive. a5) Forma
dell'Immaginazione riproduttiva. = IM MAGINE . 65) Forma dell’Immaginazione
produttiva. = SCHEMA. 62) Nella parte sistematica della costituzione
psicologica. a3) Nella diversità sistematica . a4 ) Per l'influenza parziale
degli elementi primordiali. a5) Forma del Sentimento. = APPRENSIONE . 65) Forma
della Cognizione. = APPERCEZIONE . 64) Per la loro influenza reciproca ; forma
della Com prensione. = RIFLESSIONE. 63) Nell'identità finale degli elementi
distinti ; forma della Potenzialità . = AZIONE [Thaetigkeit ). 36 TAVOLA
GENETICA B) Tecnia o Autogenia ; quello che bisogna fare pel compimento delle
facoltà fisiche ossia create nell'uomo. a ) Nel contenuto ossia nella
costituzione psicologica. a2) Nella parte elementare di questa costituzione. '
a3) Per gli elementi immediati ossia distinti. al) Compimento della Sensibilità
. = PERFEZIONE ESTE TICA. 64) Compimento dell'Intelletto. = PERFEZIONE LOGICA .
Nota. —I caratteri di questa doppia perfezione, estetica e logica, sono :
l'estensione, la chiarezza, la varietà , la precisione, il complesso e la
certezza . 63) Per gli elementi mediati o transitivi. a4) Compimento
dell'Immaginazione riproduttiva , per la legge d'associazione delle immagini. =
As SIMILAZIONE ( spiritualizzazione delle intuizioni). 64) Compimento
dell'Immaginazione produttiva , per la legge di schematizzazione delle idee. =
MOSTRA ( corporificazione dei concetti ). 62) Nella parte sistematica di questa
stessa costituzione. a3) Per il compimento dell'armonia prestabilita ( préfor
mation primitive] nei due elementi primordiali, nella Rappresentazione e nella
Coscienza ; la quale armonia prestabilita fornisce le ragioni sufficienti per
la desi gnazione reciproca ( facultas signatrix ) dei concetti per mezzo delle
intuizioni, e delle intuizioni per mezzo dei concetti. = LINGUAGGIO ( in
generale). 63) Per il compimento dell'identità primitiva negli ele menti
distinti, nella Sensibilità e nell'Intelletto ; la quale identità fornisce il
compimento della Potenzialità per via d'indefinita ascensione ai principii, e
per mezzo d'indefinita deduzione delle conseguenze, siccome legge suprema delle
umane cognizioni. = RAGIONE INCONDI ZIONALE. 6 ) Nella forma ossia nella
relazione psicologica. DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 37 a2) Nella parte
elementare di questa stessa relazione; com pimento delle facoltà organiche in
ordine all'uniformità nella generazione delle cognizioni umane, siccome regola
ossia canone psicologico. = METODO. (DESTINO ). 62) Nella parte sistematica di
questa stessa relazione; com pimento delle facoltà sistematiche in ordine
all'identità finale negli oggetti delle cognizioni umane, siccome pro blema
universale della Psicologia. = IDEE ( trascendenti) (RAGIONE ASSOLUTA ). II.
Facoltà spirituali ed iperfisiche dell'uomo, le quali ne fanno in
condizionatamente un essere razionale , vale a dire un ente assoluto ,
indipendente da qualsivoglia condizione. = UOMO IMMORTALE . Nota. - Questa
seconda parte della vera psicologia, da niuno finora avvertita, appartiene
solamente alla filosofia assoluta del Messianismo. Essa non potrebbe in alcun
modo venir raggiunta dall'esperienza, perchè le facoltà che ne formano
l'oggetto sono, non solamente iperfisiche, ma al tresì creatrici, vale a dire
poste fuori del mondo creato , dove si trovano gli oggetti dell'osservazione e
dell'espe rienza. Eccone la genesi assoluta. A) Teoria o Autotesia ; quello che
vha di dato nell'ipostasi dello spirito dell'uomo per poterne ricavare le sue
facoltà iper fisiche ossia creatrici . a) Contenuto ossia costituzione
eleuterica . a2) Parte elementare. = FACOLTÀ CREATRICI ELEMENTARI (in numero di
sette ). a3) Elementi primitivi. = FACOLTÀ PRIMITIVE. a4) Elemento fondamentale
o neutro ; principio ipo statico nell'uomo. = COSCIENZA POTENZIALE . ( I) 64)
Elementi primordiali o polari. a5 ) Coscienza potenziale del Non - 10 . =
ALTERIETÀ . ( II) 65) Coscienza potenziale dell’Io. = IPSEITÀ. ( III) 38 TAVOLA
GENETICA 63) Elementi derivati. = FACOLTÀ ORGANICHE. a4) Elementi derivati
immediati o distinti. a5) Combinazione della Coscienza potenziale coll’Al
terietà . = ETERONOMIA . (IV) 65) Combinazione della Coscienza potenziale con
l'Ipseità. = AUTONOMIA. (V) 64) Elementi derivati mediati o transitivi. a5)
Transizione dall'Eteronomia all'Autonomia . = RELIGIONE RIVELATA . (VI) 65)
Transizione dall'Autonomia all'Eteronomia . = RELIGIONE ASSOLUTA . ( VII) 62)
Parte sistematica . = FACOLTÀ SISTEMATICHE (in numero di quattro ). a3)
Diversità nella riunione sistematica degli elementi primordiali. a4) Influenza
parziale. a5) Influenza parziale dell'Alterietà nell'Ipseità. = ETEROTELIA . (
I) 65) Influenza parziale dell'Ipseità nell’Alterietà. = AUTOTELIA . ( II) 64)
Influenza reciproca di questi elementi primordiali ; armonia sistematica tra
l’Alterietà e l'Ipseità, per mezzo del loro concorso teleologico alla creazione
propria dell'uomo. = SPIRITO (Geist]. ( III) Nota. Questo è il principio più
alto della filosofia di Hegel ; ma si vede ch'esso non raggiunge il Verbo e nem
meno l'Assoluto, del quale secondo riesce, in certa ma niera, solamente
peristilio. 63) Identità finale nella riunione sistematica degli ele menti
distinti dell'Eteronomia e dell'Autonomia per mezzo dell'elemento fondamentale
o neutro , formante la Coscienza potenziale. = ASSOLUTO nella coscienza ossia
COSCIENZA ASSOLUTA . (IV) b) Forma o relazione eleuterica. a2) Nella parte
elementare della costituzione eleuterica. DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 39 a3)
Per le facoltà primitive. a4) Per l'elemento fondamentale ; formadella
Coscienza potenziale. = GENIALITÀ . 64) Per gli elementi primordiali. a5) Forma
dell'Alterietà. = RECETTIVITÀ (nella co scienza ). 65) Forma dell'Ipseità. =
PROPRIETIVITÀ ( nella co scienza ). 63) Per le facoltà organiche : a4)
Immediate o distinte. a5) Forma dell'Eteronomia . = MORALITÀ . 65) Forma
dell’Autonomia. = MESSIANITÀ. 64 ) Mediate o transitive. a5) Forma della
Religione rivelata . = GRAZIA. 65) Forma della Religione assoluta . = MERITO.
62) Nella parte sistematica della costituzione eleuterica. a3) Nella diversità
sistematica. a4) Per l'influenza parziale degli elementi primordiali. a5) Forma
dell'Eterotelia. = DIPENDENZA PROVVI DENZIALE . 65 ) Forma dell'Autotelia. =
INDIPENDENZA UMANA. 64) Per l'influenza reciproca ; forma dello Spirito. =
SPONTANEITÀ. 63) Nell'identità finale degli elementi distinti; forma
dell'Assoluto nella coscienza . = RAZIONALITÀ CREATRICE . B ) Tecnia o
Autogenia ; ciò che bisogna fare pel compimento delle facoltà iperfisiche o
creatrici nell'uomo. a) Nel contenuto o nella costituzione eleuterica. a2)
Nella parte elementare di questa costituzione. a3) Per gli elementi immediati o
distinti. a4) Compimento dell’Eteronomia ; stabilimento proprio, operato
dall'uomo stesso, del suo essere assoluto . = AUTOTESIA . 40 TAVOLA GENETICA
DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 64) Compimento dell'Autonomia ; stabilimento
proprio, operato dall'uomo stesso del suo sapere assoluto . = AUTOGENIA . 63)
Per gli elementi mediati o transitivi. a4) Compimento della Religione rivelata
. = Per mezzo della LEGGE DEL PROGRESSO . 64) Compimento della Religione
assoluta . = Per mezzo della LEGGE DI CREAZIONE . 62) Nella parte sistematica
di questa stessa costituzione. a3) Per il compimento dell'armonia prestabilita
(préfor mation primitive] nei due elementi primordiali, nella Alterietà e
nell'Ipseità ; armonia che fornisce le ra gioni sufficienti per l'esplicazione
della Virtualità creatrice nell'uomo. = VERBO. 63) Per il compimento dell'identità
primitiva nei due elementi distinti, nell'Eteronomia e nell'Autonomia ;
identità che fornisce il compimento dell'Assoluto nella coscienza per mezzo
della sua identificazione col Verbo, come legge suprema della creazione propria
dell'ờomo. = ARCIASSOLUTO ossia ciò che è INDICIBILE (nell'ipostasi della
coscienza umana ). b) Nella forma o nella relazione eleuterica. a2) Nella parte
elementare di questa relazione; compimento delle facoltà organiche in ordine
all'uniformità nella pro pria creazione umana, come regola o canone eleuterico
per la liberazione dell'uomo dalle sue condizioni fisiche. = RIGENERAZIONE
SPIRITUALE DELL'UOMO. 62) Nella parte sistematica di questa stessa relazione ;
com pimento delle facoltà sistematiche in ordine all'identità finale nel
risultamento della propria creazione umana, cioè in ordine all'individualità
assoluta dell'uomo, come problema universale di questa parte eleuterica della
Psi cologia. = CREAZIONE PROPRIA DELL'UOMO ( Immortalità ). COMMENTO ALLA
TAVOLA GENETICA DELLA . PSICOLOGIA FISICA ED IPERFISICA DI HOENATO
WRONSKI PARTE PRIMA PSICOLOGIA FISICA Facoltà spirituali e fisiche
dell'uomo, le quali ne fanno condi zionatamente un ESSERE RAZIONALE , vale a
dire un ente creato , soggetto alle condizioni della sua vita presente , ossia
all'organamento terrestre. - UOMO MORTALE . Commento. — In questa prima parte
della Tavola genetica della Filosofia della Psicologia l'Autore tratta
solamente delle facoltà spirituali da lui dette fisiche per ciò ch'esse sono
date immediatamente dalla natura , e si svolgono per necessità della
costituzione naturale dell'uomo, riserbandosi di trattare delle facoltà
iperfisiche nella seconda parte della Tavola stessa . L'Autore dice che le
facoltà fisiche fanno dell'uomo condizio natamente un essere razionale, e
spiega l'avverbio , chiamando l'uomo, in quanto egli è solamente fornito di
tali facoltà, un ente creato soggetto alle condizioni della sua vita presente.
Chiun que non conosca l'ontologia wronskiana, e si trovi solamente iniziato alla
psicologia ancora comunemente coltivata oggidì, avrà motivo d'inarcare le
ciglia udendo queste espressioni ; ma colui il quale sappia che l'Autore
ammette due sorta di creazione, delle quali la prima è opera dell'Ente supremo,
e costituisce, rispetto alla mente umana che la contempla, l'ordine eterono
mico governato dalla necessità, e la seconda è opera dello Spi ſito creato , e
costituisce, rispetto allo spirito stesso , l'ordine autonomico governato dalla
libertà di cui egli è dotato, capirà pure facilmente che l'uomo, quale creatura
di Dio, è essenzial mente eteronomico, e per conseguenza soggetto alle
condizioni 44 PARTE PRIMA dell'organamento terrestre, al quale la sua vita è
vincolata in forza delle leggi necessarie del cosmo ; e quale autore del proprio
svolgimento, egli è essenzialmente autonomico, vale a dire crea tore di se
stesso. Posta questa teoria ontologica, si debbono pure ammettere due ordini di
umane facoltà, fra loro così distinti che non vadano mai fra loro confusi,
sebbene siano fra loro collegati come qualità di un medesimo soggetto, ed il
primo si trovi logi camente e cronologicamente anteriore al secondo, che in
dignità gli è superiore. Laonde, chiamando naturale o fisica l'entità
eteronomica, e soprannaturale od iperfisica l'entità autonomica dell'uomo, si
vengono a caratterizzare benissimo i due ordini di facoltà fra loro così
diversi, che quelle del primo fanno dell'uomo bensì un ente razionale, ma
condizionato, laddove quelle altre del secondo rendono l'uomo stesso ente
razionale incondizionato cioè assoluto. A Teoria o Autotesia. Presso le
colonie greche nell'Italia inferiore, le quali erano per lo più composte di
Dori ed Achei, ebbe luogo molto svolgimento di vita esteriore ed interna ;
imperocchè vennero a rinomanza per le legislazioni di Saleuco e Caronda, per
l'arte orato ria e la poesia lirica , per un'eccellente scuola me dica
stabilita in Crotone, città salita a prospera for tuna , e per molti vincitori
ai giuochi olimpici , che quivi ebbero i natali . $ 65 PITAGORA da Samo, nato
verso il 584, portossi a Crotone e dimorò per lo più nella Magna - Grecia. La
sua vita è oscura e molto favolosa . Egli fu dotto particolarmente in
matematica , musica teoretica, astronomia e ginnastica . Le favole lo dicono
tau maturgo e rivelatore di sapienza divina. Egli deve essere figlio d'Apollo e
d'Ermete, con una gamba d'oro, e fu veduto in più luoghi nello stesso tempo.
Gli animali seguivano la sua chiamata. Da Ermete ebbe il dono della ricordanza
della sua vita ante riore, come Euforbio, e seppe ridestare la medesi PRIMO
PERIODO -- PITAGORICI. 91 ma in altri . Egli sentiva l'armonia delle sfere
celesti , e venne considerato come una divinità . Però è che si parla di un
culto sacro e di orgie pitagoriche. Egli deve aver conosciuto Ferecide e Talete
, ed essere stato educato dai sacerdoti egiziani ; ma da se stesso si procacciò
la maggior parte di sue cogni zioni. Fondò a Crotone una società segreta in cui
si professavano i principii politici dell'aristocrazia : Pri ma che un
individuo venisse accettato in quella do veva subire prove. I membrisi
distinguevano in eso. terici ed essoterici, cioè più e meno iniziati. In tale
società praticavanşi esercizii corporali e spirituali, vita e costumi comuni e
regole, parole simboliche, invocazioni al fondatore (aútòs špa ), banchetti (
ovo oltia ) e funerali ; ma non già comunione di beni. I fini principali della
società erano prima la mo rale religiosa , poi la scienza , particolarmente la
matematica e la musica . La società pitagorica ebbe influenza diretta sugli
interessi politici nelle città di Crotone, Sibari , Metaponto, Locri e Tarento
; ma essendo stata cagione di una guerra, molti Pitago rici perirono e
fors’anche lo stesso Pitagora mori a Metaponto, e dopo morte fu onoratissimo. I
Pita gorici perseguitati e scacciati, conservarono pure influenza politica . A
molti di essi, come Timeo , Archita ed Ocello da Lucania, sono attribuiti
scritti, e le lettere attribuite a Pitagora ed a sua moglie o figlia Teano,
come pure i versi d'oro, sono d'ori gine posteriore. Fra gli ultimi Pitagorici
i migliori sono Filolao ed Archita , e dei primi scritti riman gono ancora
frammenti. 92 FILOSOFIA GRECA S 66 Quantunque la filosofia pitagorica abbia
seguito varie direzioni, pure dobbiamo considerarla nella sua unità . L'esporre
la medesima riesce difficile sia pella diversità delle vedute de'varii
scrittori che le appartengono, sia pei segni simbolici di cui servi vasi quella
scuola per significare le idee ed i varii sensi a cui s'impiegavano. -Come
Ferecide, miti camente esprimendosi, diceva che Erebo aveva dato forma al Caos
e ne venne il Tempo, Pitagora volle la pluralità generata dall'unità , ossia
dal numero. Que sto è l'essenza (ovoia) od il principio (apxn) di tutte le
cose. Il numero è pensato come uno, però anche quale unità di due antitesi ,
del pari e dispari. Onde la monade e la diade sono i principii delle cose . La
diade è il principio della sostanza informe, ossia il numero indeterminato ; la
monade è il principio ordinatore. La sostanza informe viene alla pluralità ed
alla varietà per mezzo dell'unità ; però tutte le cose si fanno ad imitazione
del nu mero, possono considerarsiqualinumeri. Il numero . è il principio
generale tanto della natura , quanto della cognizione. Cosi l'uno è l'essenza
del numero, il numero semplicemente , il fondamento di tutti i numeri, l'unità
suprema, la divinità nel mondo . I Pitagorici dissero triade il numero del
tutto consi derato nell'integrità di principio, mezzo e fine. La tetrattisi è
importante, perchè i primi quattro nu meri formano assieme dieci , ed i primi
quattro PRIMO PERIODO — PITAGORICI. 93 pari e dispari formano trentasei;
parimente im portante è la deca, e vale come l'unità per sim bolo del principio
di tutte le cose. Nell'essenza del numero , ossia nell'unità suprema, si
contengono tutti i numeri , e per conseguenza gli elementi della natura e
dell'universo. Questa teoria si accorda colla divisione dei toni del monocordo
inventato da Pitagora. Dividendo in due parti una corda tesa, la metà produce
l'ottava ; cosi il tono fondamentale della corda intiera sta all'ottava come 2
: 1 , che è la perfetta proporzione musicale. La corda divisa in tre parti dà
2/3 della corda divisa, la quinta che sta al tono fondamentale come 2 : 3 ;
così 3/4 della corda dà la quarta , che sta al tono fondamen tale come 3 : 4.
Questi tre intervalli formavano l'ar monia degli antichi, onde l'importanza dei
segni 1 , 2 , 3 , 4. L'unità suprema è pari- dispari. Gli elementi della natura
sono compresi nelle seguenti dieci antitesi : 1. Limitato , illimitato : 2.
Dispari, pari : 3. Uno , più : 4. Destro , sinistro : 5. Mascolino, femminino:
6. Quiete , moto : 7. Retto , curvo : 8. Luce, tenebra : 9. Buono, cattivo :
10. Quadrato, rettangolo . Tuttavia non furono escluse altre antitesi. L'uno 94
FILOSOFIA GRECA è solo nella terza antitesi, perchè ha due signifi cati , come
principio e come sintesi di tutte le an titesi . Nelle antitesi il primomembro
significa sem pre il più perfetto, in quanto che tutto nel mondo risulta dal
perfetto e dall'imperfetto. L'uno essendo il fondamento di tutti i numeri,
perchè è pari e dispari nello stesso tempo , non solamente è il principio del
perfetto, ma anche dell'imperfetto. Il perfetto , ossia il buono, non è dunque
primamente, ma coesiste all'imperfetto nell'uno come diade ; perciò avviene in
prima che l'uno forma il mondo, ossia quanto è possibile ; imperocchè
l'efficacia di Dio è limitata, ed ogni cosa recà al meglio solamente secondo
sua potenza. Ma perchè i Pitagorici non prendono l'antitesi per fondamento delle
cose, bensi il numero ossia il pari- dispari come dispari e pari? Nella tavola
si presentano il limite, ossia il limitanté, ed il limitato . Il limitante è
secondo loro, rispetto ai corpi , una pluralità di punti che formano un numero.
L'illimitato significa il mezzo tra il limite, ossia lo spazio di mezzo ; la
quale espressione aveva grande significato nella musica e geometria loro .
Dagli spazii musicali mezzani , ossia intervalli, essi derivavano l'accordo
de'varii toni. I punti di limite costituendo il principio e la fine,
l'illimitato è nel mezzo e produce l'espansione, e precisamente la geometria
secondo le tre misure. Il cubo è pro dotto da tre intervalli , la superficie da
due , la linea da un solo ; il punto non ha intervallo , è l'u nità . Dal limite
e dall'illimitato , ossia dalle unità e dagli intervalli , viene la grandezza
dello spazio . PRIMO PERIODO -PITAGORICI . 95 Ma d'onde lo spazio mezzano ? Il
secondo membro delle loro antitesi è il negativo ; perciò l'illimitato, o lo
spazio mezzano , è il vacuo. La separazione delle unità , ossia numeri ,
avviene per mezzo del vacuo ; questo è dunque principio e solamente un'altra
espressione dell'illimitato o pari , perchè tutti i membri posteriori delle
antitesi possono es sere mutati, e cosi anche i membri anteriori. Qual fu
l'opinione dei Pitagorici intorno l'origine del mondo ? Le cose provengono
dalle unità in diversi spazii mezzani , esse formano un numero di unità , ed in
ciò consiste la loro natura e la loro origine, non 'secondo il tempo , ma
secondo la maniera umana di pensare. L'unità suprema come circon data
dall'infinito , ossia dal vacuo, si sforza di di vidersi in antitesi e di
ricongiungersi di nuovo. L’uno si divide in una pluralità di cose per mezzo
dello spazio vacuo, perció l'illimitato si partisce in più parti affinchè entri
nel limitante. Il vero essere ha dunque il suo fondamento nel limite .
L'entrare dell'illimitato nel limitato vien detto l'alito ossia la vita del
mondo . Perciò bisogna prendere il mondo come numero , come unità, le quali
sono congiunte in Dio, che è l'unità primitiva , e separate dallo spazio
mezzano . Dalla composizione delle unità provengono diverse relazioni, che sono
ordinate armonicamente e con simmetria . Il legame di ogni relazione è
l'armonia . Ora l'unione delle antitesi trovandosi nell'unità suprema, essa è
il principio dell'armonia e l'universo numero ed armonia, ed anche l'armonia è
di bel nuovo il principio dell'u 96 FILOSOFIA GRECA nità di tutte le cose . Ma
nell'armonia è pur anco compreso il concetto di ordine. Avuto riguardo all'
importanza della deca , adottavano dieci corpi mondani che si trovano in
armoniche distanze. Rispetto ai sette toni, dal tono fondamentale all'ot tava
adottavano sette -vocali. La monade è il punto, la diade la linea , la triade
la superficie , la tetrat tisi il corpo geometrico, la pentattisi i corpi
fisici. In questo modo arbitrario continuavano essi a porre cinque elementi, e
dicevano paragonando : Il cubo significa la terra, la piramide il fuoco,
l'ottaedro l'aria, l'icosaedro l'acqua, ed il dodecaedro l'etere come quinto
elemento . Il migliore di questi ele menti è il fuoco , probabilmente perchè
fra le dieci antitesi la luce e l'inerte significano il perfetto. Il fuoco
riposa nel mezzo del mondo ed è la guardia ο castello di Giove ( Διός φυλακή
.Ζηνός πύργος) , ha la forma di un cubo, perché questo, essendo consi derato il
corpo più perfetto a cagione dei tre inter valli simili, secondo i Pitagorici
era l'altare dell'u niverso ; il qual fuoco si forma prima da sè e guida poi la
formazione del mondo. Dal mezzo il fuoco si spande per tutto l'universoe lo
abbraccia . Attorno al fuoco centrale sono ordinati i dieci corpi mon dani,
cioè il cielo delle stelle fisse, i cinque pianeti, il sole, la luna , la terra
e la controterra ( artiyJabí), il quale ultimo corpo è invisibile. Essi si
vibrano in direzione circolare, ad eccezione della terra im mobile nel mezzo (
probabilmente con la contro terra ), e la quale contiene il fuoco ; perchè
anche il mondo intiero corrispondente alla deca è una PRIMO PERIODO PITAGORICI.
97 palla : onde l'armonia delle sfere, perchè ogni corpo vibrandosi rende un
tono. Tuttavia noi non sentiamo quell'armonia, giacchè appartiene alla nostra
so stanza , e come ogni tono si può solo sentire pel contrapposto del silenzio
, l'armonia delle sfere è senza pausa . I corpi circolanti sono otto solamente
, e questi sono ordinati in quattro intervalli e sette toni , talchè la sfera
delle stelle fissé ha il tono più basso , quello della luna il più alto . L'imperfezione
è particolarınente sulla terra ; però la luna e gli altri mondi sono più
perfetti e più belli. Sulla terra ba luogo il cangiamento disordinato ed in
appa renza molto fortuito ; essa stessa è soggetta all'in stabilità . S 67 Si
annodano ai numeri anche i concetti di per fezione e d'imperfezione in senso
morale. La diade è principalmente il simbolo dell'immorale . L'anima dell'uomo
è parimenti un numero od armonia , l'intelletto o pensiero è l'uno , la scienza
il due , l'immaginazione il tre , il sentimento il quattro. L'anima è inserita
nel corpo pel número e relazione armonica del corpo , perciò non è corporea ,
ma solo apparente in una relazione corporale . Vi sono anche anime prive di
corpo che hanno vita di fan tasma , e le quali non sono mai entrate in alcun
corpo o di nuovo ne sono uscite ; queste sono i de moni . A questo si riferisce
la dottrina esoterica della metempsicosi e la fede nella ricompensa dopo H 98
FILOSOFIA GRECA morte, a cui conseguita la personalità e l'immor talità
dell'anima. L'unione dell'anima con un corpo è la pena di qualche empietà ; la
vita terrena è uno stato d'infelicità , ma necessario ed ordinato al buo no per
mezzo dell'unione col tutto . L'anima umana possiede l'essenza ragionevole e
l'essenza irragio nevole, quella delle bestie solamente la seconda , però ha
qualche germe d'intelligenza . La virtù è armonia, la giustizia è detta anche
numero uguale. Tutta la vita è sotto la cura divina : il suicidio è da
condannarsi. Pare che la morale e la politica dei Pitagorici si appoggiasse a
massime separate di ca rattere ascetico ; essi inculcavano la moderazione nei
desiderii e nelle passioni, la fedeltà, l'amore, l'amicizia, il lavoro , la
costanza e l'educazione ri gorosa. – Cosi la dottrina pitagorica è in parte
etica , rappresentata dall'armonia e dalla musica, in parte fisica per la
matematica , pei fenomeni fisici derivanti dalla forma della sensibilità ; la
quale si ricava da ciò che l'unità del principio si risolve in una pluralità di
cose. La presupposizione della ori ginale imperfezione deve unire ambe queste
parti . L'unità suprema è semplice, ma considerata nella sua attività, nello
sviluppo mondano della sensibi lità è composta ; il soprasensibile ossia
l'unità su prema è indeterminato . In ciò sta riposta senza dubbio l'idea di
Dio come creatore del mondo, ma è offuscata dal modo forzato con cui si
presenta all'uopo di spiegare l'origine del mondo, la natura delle cose
singolari e la loro connessione, e dalla nozione simbolica e particolarmente
matematica PRIMO PERIODO -PITAGORICI 99 della provvidenza divina . Onde
l'applicazione di questa dottrina alla parte spirituale è difficilissima.
Pertanto la dottrina pitagorica è nell'etica tanto difettosa , quanto pare
siano stati eccellenti i parti giani di essa nell'esercizio della virtù . I lonii e Pitagorici
tentarono spiegare l'origine del mondo ; essi ammettendo la produzione delle
cose riuscirono realisti . Per l'opposto gli Eleati sono idealisti, tendono
alla cognizione del non -sensibile ed affermano : Nulla viene all'essere, tutto
esiste. Il nome loro proviene dalla città d'Elea nella Magna Grecia , dov'era
la sede principale di questa scuola filosofica . S 69 SENOFANE da Colofone,
sede della poesia epica e gnomica , contemporaneo di Pitagora, si portò verso
il 536 ad Elea nella Magna Grecia, e fu prima poeta epico ed elegiaco.
Rimangono solo frammenti delle sue opere . La sua tesi fondamentale è questa :
Dio è, e non può divenire; come pure in generale nis 100 FILOSOFIA GRECA suna
cosa può cominciare ad esistere ; imperocchè il generato dovrebbe essere uguale
al generante , epperò ambi non sarebbero fra loro differenti; ma
l'ineguaglianza, come per esempio , che il più pic colo nasca dal più grande e
vi ritorni , si deve attri buire all'opinione insussistente che alcuna cosa non
esistente possa venir prodotta da ciò che esiste. Per ciò vi ha solamente
l'uno, e questi è Dio , il quale forma col cielo e la terra un essere solo ,
unico (in TÒ öv xai tò Tây) . Per conseguenza il politeismo o la mitologia
parvegli un'empietà, particolarmente i miti immorali . Sostenne contro le
scuole jonica e pitagorica che Dio non è mosso e limitato , nè inerte ed
illimitato, perchè le prime limitazioni sono pro prie della pluralità , le
altre appartengono al non esistente. Dio è perfettamente uguale perchè non ha
parti; considerato spiritualmente è pura intelli genza, considerato
corporalmente è da paragonarsi ad un globo. Secondo tali principii era
impossibile una spiegazione della natura . Cosi egli oppose alla verità
l'opinione, ossia l'intuizione sensibile ; ep però non seppe trovare il nesso
tra l'unità e la pluralità. Per la qual cosa si duole che l'ignoranza sia
retaggio dell'umana schiatta. Senofane è pan teista ; ma importante il suo
pensiero dell'essere assoluto . S 70 PARMENIDE da Elea fece verso l'anno 460
con Zeno ne un viaggio ad Atene, dove forse conobbe Socrate . PRIMO PERIODO 101
. ELEATI . Egli sviluppò il sistema di Senofane ; tuttavia non prese le mosse
dal concetto di Dio , ma da quello dell'essere e del non -essere, della
certezza e dell'o pinione, riconducendosi poi all'idea di Dio siccome quella
che è riposta nell'esistente . Secondo lui v'ha un doppio sistema di conoscenza
, quello della ra gione ossia del vero , e quello dei sensi ossia del
l'apparenza . Il suo poema sulla natura trattava di ambe le maniere, ma dai
frammenti che pervennero a noi conosciamo la prima meglio della seconda. Es
sere , pensare e conoscere è tutt'uno. Il non-essere è impossibile, tutto
l'essere è identico ; perciò il reale non lią cominciamento, è invariabile,
indivisibile, riempie tutto lo spazio, da se stesso si limita, sussi ste per
legge di necessità : onde qualunque cangia mento, qualunque movimento è mera
apparenza . Ciò non ostante la stessa apparenza è regolata da una legge, per cui
le rappresentazioni delle cose sono costanti ( 80% a ). A fine di spiegare la
natura di tali rappresentazioni ricorre a due principii , il caldo, ossia il
fuoco etereo , il freddo ossia la notte della terra ; il primo è penetrante,
positivo , reale , pensante ( Saucoupyós), epperò più vicino alla verità; il
secondo è denso , pesante (@an) , negativo, sola mente una limitazione del
primo . Questa dottrina della natura è meccanica . Da tali due principii de
rivò egli tutti i cangiamenti ed anche i fenomeni del senso interno. L'uomo è
un composto di fuoco etereo e di notte, per conseguenza partecipa alla
cognizione della verità ed all'apparenza . : 102 FILOSOFIA GRECA $ 71 MELISSO
da Samo, verso l'anno 444, celebre an che come politico e capitano di flotta contro
Pericle, adottò lo stesso idealismo, e prese a combattere particolarmente la
filosofia naturale della scuola ionica. Non si deve far parola degli dei,
perchè gli uomini non hanno cognizione alcuna di tali enti. Presso Melisso
ritorna il concetto di perfezione. Ciò che esiste è infinito, non è prodotto ,
nè può perire. Non v'ha movimento o trasformazione, perché avvi un essere solo
e nissun vacuo; epperò non si danno la porosità e la densità . L'esistente non
può essere diviso, cosi non ha parti , non è corporeo . La plu ralità è sola
apparenza sensibile. Quello che in ve rità esiste è dotato di vita . $ .72
ZENONE d'Elea , discepolo ed amico di Parmenide, fece con questo un viaggio ad
Atene e si distinse tanto per acume d'intelletto e sottile dialettica , quanto
per fortezza d'animo, avendo sacrificata in battaglia la propria vita a difesa
della patria . Egli sostene va il sistema di Parmenide in ciò che nega la plu
ralità delle cose, il movimento e lo spazio. Data la pluralità delle cose , ne
dovrebbe conseguitare che nello stesso tempo fossero infinitamente piccole ed
infinitamente grandi; la prima condizione perchè risultano di ultime unità
indivisibili, il cui aggre PRIMO PERIODO - ELEATI. 103 zo . gato non può
produrre grandezza ; la seconda con dizione perchè risultano da una quantità
infinita di parti sempre più estese e per conseguenza divisi bili. Qui il
sofisma consiste in ciò, che nel primo caso suppone l'indivisibilità , nel
secondo la rigetta. In seguito diceva : la pluralità è ad un tempo limitata ed
illimitata ; limitata perchè più o meno determinata , illimitata perchè ogni
distanza da un punto di una grandezza fino all'altro è infinito , avuto
riguardo all'infinita quantità di parti di mez Egli contestava il movimento per
le contrad dizioni inerenti a questo concetto ; imperocchè bi sogna che lo
spazio misuratore , il quale consta di parti infinite , venga percorso in un
intervallo limi tato . Onde l'argomento detto l'Achille, con cui af fermava che
se una testuggine avesse il vantaggio d'un passo avanti, non potrebbe essere
raggiunta da Achille, perchè la distanza non cesserebbe mai appieno, quantunque
si facesse sempre più breve. Diceva poi che non dovevasi accettare la dottrina
del movimento , risultando da semplici momenti di quiete, in quanto ciò che si
muove perpetuamente si sviluppa in qualche parte . Lo spazio vacuo è ines
cogitabile, appunto perché la pluralità ed il mo vimento non sono pensabili.
Che se fosse alcun che reale , esso dovrebbe trovarsi in uno spazio , giac chè
ogni realità è compresa in quello, epperò una continuazione senza fine dovrebbe
trovare luogo in uno spazio che la contenesse. Queste prove apago giche,
appoggiate all'assurdità dell'opinione con traria , sono sofistiche per lo
scambio delle forme 104 FILOSOFIA GRECA rappresentative logico -matematiche di
valore su biettivo e delle forme razionali di valore obiettivo. Nell'Achille si
trova una falsa applicazione della ce lerità all'espansione, ossia del tempo
allo spazio. Per mezzo dell'antitesi della ragione e dell'espe rienza Zenone
pose le fondamenta della dialettica e dello scetticismo , che ben presto venne
continuato dalla scuola di Megara e finalmente corruppe tutta la filosofia
greca . $ 75 EMPEDOCLE d'Agrigento in Sicilia , verso l'anno 460, naturalista,
medico, celebre come taumaturgo, perfezionò la fisica degli Eleati, siccome
Zenone la metafisica . L'unità delle cose è il mondo, simile ad un globo,
ragione per cui lo chiama opalpos, opera perfetta dell'amore, da lui governata,
a lui iden tica. La materia e la forza non si decompongono. L'amore
irradiandosi dal centro penetra tutto ed è ad un tempo necessità : dipende da
tutto pel con trasto delle forze . Essendo l'uomo solamente una parte della
divinità , la cognizione umana non può essere che imperfetta ,''e quantunque
conosca gli elementi del tutto , non può penetrarne l'unità , che Dio solo può
comprendere. Egli distingue dalla mas sa la forza movente . Le forze solamente
movono, ma non variano le cose ; però questa dottrina della natura è meccanica
. Egli è impossibile che il nulla produca alcuna cosa , e che venga a mancare
ciò che esiste . Egli ammette quattro elementi, fra i PRIMO PERIODO - ELEATI.
105 quali dà preferenza al fuoco, considerandolo come l'essenza divina delle
cose ; imperocchè tutto si ri cava dal fuoco ed in esso tutto si risolve. La
sepa razione avviene per odio , ma senza che riman gano intervalli vacui.
L'amore congiunge le cose eterogenee , l'odio le omogenee, operando la sepa
razione del composto. Vi sono periodi nella for mazione del mondo. Ma il mondo
mosso è sola mente una parte del tutto , il dominio dell'odio solo
sottordinato, ed anche solo presente nella rappre sentazione. Prima si formano
le cose elementari, il sole, l'aria, il mare, la terra, poi da questi pro
vengono le organiche per mezzo dell'amore ; le piante e gli animali si formano
dal concorso degli elementi, ma in principio le membra esistendo se paratamente
hanno prima luogo i mostri. La na tura organica essendo formata dall'amore è il
pas. saggio alla vita beata nello sfero. Gli spiriti sono trasmigrati in corpi
per delitto , epperò sono neces sarie le purificazioni. Tutto è ripieno di
ragione e partecipa alla conoscenza. Gli elementi non godono di vita pacifica,
essendo svelti dallo sfero, mossi dall'odio, epperciò ricevono diverse forme
senza propria metempsicosi. Tale migrazione per tutte le forme è la miseria
delle cose , conseguenza dell’o dio . Rimedio contrario è l'intiero abbandono
all'a more. Non v'ha guarentigia d'intelletto se ci diamo alla vita sensuale. La
cognizione de' corpi ha per fondamento l'osservazione sensibile , ed è opera
dell'unione meccanica de'corpi per mezzo dei tras corrimenti á toppolai) e
delle correnti che pene 106 FILOSOFIA GRECA trano in altri corpi per via
de'pori (xotha ). L'unione delle impressioni sensibili nella coscienza,
spiegasi col congiungersi del sangae nel cuore . Questa co gnizione procura
l'opinione, ma non il vero sapere. La cognizione divina è somministrata dalla
ragione ed avviene in maniera mistica per mezzo della pu rificazione. — La
filosofia di Empedocle è il primo tenue saggio per rettificare le nozioni
sensibili coi puri concetti della ragione, e disgiungere dai feno meni fisici
la cognizione del vero reale, ossia il fondamento sensibile delle cose. La sua
fisica ha tutti i difetti della spiegazione meccanica della na tura . Anch'egli
si duole della ristrettezza dell'uma no intendimento. Si racconta che incontrò
la morte nel cratere dell'Etna . Empedocle aveva scritto un poena didattico
sulla natura, ma non ne perven nero a noi che frammenti. GORGIA da Leonzio , verso l'anno 440, discepolo
d’Empedocle, fu anche maggior dispregiatore di Protagora di quanto è vero e
buono. Egli si portò 112 FILOSOFIA GRECA in Atene in qualità d'ambasciatore ,
si attirò gli sguardi per una nuova maniera oratoria , viaggið all'intorno ,
raccolse molto danaro dall'insegna mnento e morì in età avanzata. Le sue
orazioni sono meramente pompose, svolte per mezzo di antitesi, epperciò fredde.
Egli si vantava di parlare all'im provviso di tutto , sia brevemente sia a
lungo, e di sapere a tutto rispondere. Il suo insegnamento nel l'arte oratoria
consiste in artifizii, specialmente in paralogismi. Egli sprezzava la virtù,
tenendo l'arte di persuadere per la suprema. In luogo dell'esistente degli Eleati
pose il non - esistente . Egli sosteneva tre tesi : 1 ° egli v'ha niente , nè
l'essere nè il non essere, nè ambi assieme. L'essere non è perchè o non deve
aver principio o deve averlo , od ambi assieme. Se non ha principio è eterno ,
perciò un non - essere , è come eterno anche infinito, ma poi dovrebbe essere
od in se stesso od in -un altros ma in se stesso dovrebbe essere ad un tempo
contenente e contenuto, in un altro vi sarebbe un infinito in un altro infinito
; però ambi i casi sono impossibili. Se ha principio, dev'essere prodotto o
dall'esistente o dal non esistente. Nel primo caso sarebbe contro la
presupposizione eterno e non avrebbe principio , nel secondo dovrebbe il nulla
come non esistente, produrre alcuna cosa . Ma il nulla esistendo, l'es sere
dovrebbe essere non esistente, perchè il nulla e l'essere sono contrapposti .
L'essere poi non po trebbe avere principio e non averlo nello stesso tempo per
essere un'antitesi. Parimenti il non essere non può essere, perchè altrimenti
l'essere PRIMO PERIODO - ATOMISTI E SOFISTI. 113 stesso non potrebbe essere .
2° Quand'anche qual che cosa fosse, tuttavia non si potrebbe conoscere , perchè
non si può pensare che il pensabile, non il reale che è fuori del pensiero. Vi
ha differenza tra il pensato ed il reale (questa distinzione è vera , maGorgia
ne fece un'applicazione falsa ). 3° Quando anche alcuna cosa fosse pensabile ,
essa pero non sarebbe comunicabile, perchè solamente il concetto ed il discorso
si possono comunicare, non già la cosa stessa.- Zenone aveva già adoperato gli
ele menti delle nozioni sensibili per mostrare in esse stesse la loronullità a
frontedella verità puramente razionale ; Gorgia si prevalse degli elementi
della dottrina eleatica intorno alla ragione per annullare l'ultima stessa , essendo
contraria alla verità delle nozioni sensibili, ed il pensiero potendo solamente
produrre apparenze. $ 80 In tal maniera fini il primo periodo della filosofia
greca. I lonii partirono dalla natura, ossia dalmondo, gli Eleati da Dio; i
primi rifletterono meno alla Di vinità, facendone conto solamente come
dellaforza prima della natura o della vita ; imperocchè per essa solamente
intendevano a spiegare l'origine del mondo o per via dinamica o meccanica ,
finchè Anassagora separò Dio dalla materia , però ad ambi attribuendo pari
originalità e concedendo solo al primo la direzione del mondo. Gli Eleati
rigetta rono cotesto dualismo, ritornarono al monismo, ma 114 FILOSOFIA GRECA
non poterono accordare la perfezione di Dio coll'im perfezione del mondo, cercando
un rifugio col dire che il mondo non è alcuna cosa reale, ma solo ap parente.
Fu questo il grave errore, che sempre più ingrandito aboli finalmente Dio, la
religione e la moralità. Già la scuola ionica aveva lasciato la mo rale in un
canto . Pitagora, il quale trattò l'origine ed il governo del mondo col suo
ingegnoso ma farzato e sterile paragone colla matematica, ebbe riguardo al
morale, però meno in teorica che in pratica. –La filosofia ebbe poi un nuovo
eccita mento della parte morale per - mezzo di Socrate , quantunque egli non
abbia seguito la direzione scientifica , ma solo la pratica e religiosa. A ciò
conseguitarono i sublimi saggi di Platone e d'Aristo tele per investigare la
natura, Dio e la moralità ; ma anche questi uomini dovettero soccombere al
grande incarico, per quanto inspirato sembrasse il primo e circospetto il
secondo . Finalmente la scuola epicurea prese, come gli Atomisti e Sofisti sul
finire del primo periodo , a proteggere la sensualità e l'ateismo. Per opera
degli Scettici prese a domi nare il dubbio ; si cercò invano di risolvere il
pro blema dell'unione della materia e dello spirito , dell'intuizione e del
pensiero , e bisogno gettarsi nelle braccia del teosofismo: Così terminava la
fi losofia greca , avendola dal principio alla fine ac compagnata il dubbio e
la tristezza. Il Cristiane simo salvo poiil mondo dalla corruzione
intellettuale e morale. I Romani non ebbero mente filosofica . Essi ac colsero la
filosofia greca , particolarmente l'epicu rea, che rispondeva al loro lusso, e
Tito LUCREZIO TERZO PERIODO -ECLETTICI E SINCREBISTI. 177 ne fece soggetto di
un poema didattico , cui diede l'antico titolo : Della natura delle cose ;
anche più famigliare si resero la dottrina stoica , che accor dandosi
all'antico carattere romano, esercitò in fluenza sulla loro legislazione ed
amministrazione, e trovò ancora rinomati partigiani al tempo del l'impero , cioè
Lucio ANNEO SENECA , maestro di Nerone, autore di molti scritti filosofici,
EPITTETO da Terapoli in Frigia , verso lo stesso tempo, schia vo , il cui
discepolo FLAVIO ARRIANO da Nicomedia compilò in greco un piccolo manuale (
éyxezpidcov) secondo le lezioni del maestro, e MARCO AURELIÓ ANTONINO ,
imperatore romano dall'anno 164 fino al 180, autore di meditazioni in lingua
greca sotto il titolo : Eis éautóv. Seneca fu più eclettico , Epit teto si
attenne ai voti della natura e ridusse la dottrina stoica alla formola ανέχον
και απέχου , 81 stine et abstine. Lo scritto di Antonino ha carattere di
dolcezza e pietà ; tutti e tre abbracciarono sola mente la parte etica della
filosofia stoica . Che se questi Epicurei e Stoici romani si mantennero fedeli
ad un solo sistema , MARCO TULLIO CICERONE diede esempio di un compiuto
eclettismo, e tanto egli contribui co'suoi numerosi scritti a rendere acces
sibile ai Romani la filosofia greca , quanto gli mancò originalità filosofica .
Nella pratica preferi il sistema stoico, nella teoretica l'accademico,
accettandovi anche l'epicureo e l'aristotelico . In generale poi le dottrine di
Platone ed ancora più quelle di Aristo tele rimasero pei Romani tesori nascosti
.
Francesco Bertinaria. Keywords.
Refs.: determinazione dell’assoluto. Luigi Speranza, “Grice e Bertinaria” – The
Swimming-Pool Library.
Berto (Venezia).
Filosofo. Grice: “I like Berto, but then, my first unpublication is on negation
and privation! Against my tutee, Sir Peter, I always took Aristotle’s tertium
non datur pretty seriously, but the consequentia mirabilis I had to re-label
implicature; for, as Tertulliano used to say, ‘Just because it is deaf
(ab-surdum), I believe it!” -- Grice:
“If Peirce (I lectured on him for years, and deem him my friend) is right that
‘dictum,’ in Roman, is cognate with Hellenic ‘deixis,’ Boezio was too hasty to
translate ‘anti-phasis’ as ‘contra-dictio,’ for ‘phrasis’ is indeed Hare’s
phrastic, while the dictio can be just a signal – as a spoon casting the shadow
of a fork, to use Berto’s genial example!” – Grice: “Berto likes to pose the
thing as an x-rhetorical question: che cosa e una contradizione, --
implicaturum: ‘if anything AT ALL!” – “He is friends with Priest, so what can
you expect!? J).
Francesco Berto (Venezia), filosofo. Laureatosi a Venezia con una tesi su
Emanuele Severino, ha conseguito il dottorato presso la stessa università con
una tesi sulla dialettica hegeliana. Dopo aver conseguito un post-doc in
Filosofia teoretica all'Università degli Studi di Padova è stato Chaire
d'Excellence Fellow al CNRS di Parigi, dove ha insegnato Ontologia all'École
Normale Supérieure ed è stato membro dell'Istituto di Filosofia della Scienza e
della Tecnica della Sorbona. È stato Research Fellow all'Institute for Advanced
Study della University of Notre Dame (Indiana, USA). Ha insegnato Logica anche
all'Università Ca' Foscari di Venezia e all'Università Vita-Salute San
Raffaele. È stato Structural Chair of Metaphysics alla Universiteit van
Amsterdam e membro del Northern Institute of Philosophy di Crispin Wright alla
University of Aberdeen. Attualmente tiene la Chair of Logic and Metaphysics al
dipartimento di Filosofia dell'University of St Andrews ed è Research Chair
all'Institute for Logic, Language and Computation alla Universiteit van
Amsterdam. Nel 2007 ha vinto il Premio
Filosofico Castiglioncello, nella sezione giovani, con il libro Teorie
dell'assurdo. I rivali del Principio di Non-Contraddizione. Nel
l'Università Ca' Foscari di Venezia gli ha assegnato il Premio
Ca'Foscari alla Ricerca di 10.000 euro per giovani ricercatori. Nel ha
ottenuto dall'AHRCResearch Council di Gran Bretagna un finanziamento di 240.000
sterline per il progetto "The Metaphysical Basis of Logic". Nel ha
ottenuto dall'European Research Council un finanziamento di 2.000.000 di euro
per il progetto "The Logic of Conceivability". Altre opere: “Logica” (Roma, Carocci); “Che
cos'è una contraddizione” (Roma, Carocci); “L'esistenza non è logica: dal
quadrato rotondo ai mondi impossibili” (Roma-Bari, Laterza); “Tutti pazzi per
Gödel. La guida completa al Teorema di Incompletezza” (Roma-Bari, Laterza);
“Logica da Zero a Gödel” (Roma-Bari, Laterza); “Teorie dell'Assurdo. I rivali del
Principio di Non-Contraddizione” (Roma, Carocci); “Che cos'è la dialettica
hegeliana? Un'interpretazione analitica del metodo” (Padova, Il Poligrafo); “La
Dialettica della struttura originaria, Padova, Il Poligrafo). “Il Pensiero”;
“Sistemi intelligenti”; “Iride”, “Rivista di estetica”, “Divus Thomas” “Il
Giornale di metafisica. Comune
RosignanoLivorno, su comune.rosignano.livorno. 3 febbraio 19 luglio ).
Università Ca'Foscari di Venezia, su unive. 23 aprile 20 luglio ).
Aberdeen Amsterdam Archiviato il
12 febbraio in . Aberdeen Archiviato il 9 settembre in .
PhilPapers.org Stanford
Encyclopedia of Philosophy: Dialetheism, su plato.stanford.edu. Stanford
Encyclopedia of Philosophy: Impossible Worlds, su plato.stanford.edu. Stanford
Encyclopedia of Philosophy: Cellular Automata, su plato.stanford.edu. 23
aprile 23 aprile ).Filosofia Filosofo
del XXI secoloLogici italianiAccademici italiani Professore1973 10 luglio
VeneziaProfessori dell'Università Ca' FoscariProfessori dell'AmsterdamStudenti dell'Università
Ca' Foscari Venezia. Francesco Berto. Keywords: il quadrato redondo,
incompletezza goedeliana, Grice’s System Q, Myro’s System G, Speranza’s System
GHP, R. J. Jones’s System C., dialettica, contradizzione, negazione, quadratto
di opposizione, Hegel e l’opposizione, Hegel e la contradizione, che e
inompleto secondo Godel? Sistema G incompieto, incopetiezza, Bellorofonte in
sistema G, Parmenide, neo-Parmenide, Severino come neo-Parmenidiano, circolo
quadrato, la quadratura del circolo, calcolo di predicate di primo ordine con
identita, la struttura originaria della dialettica, dialettica, posizione,
contraposizione, composizione – Oxonian dialectic, dialettica hegeliana,
severino, dialettica oxoniense, dialettica ateniense. -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Berto” – The Swimming-Pool Library.
Betti (Camerino).
Filosofo. Studia a Parma e Bologna (con una tesi sulla Crisi della
repubblica e la genesi del principato in Roma). Insegna per un anno
Lettere al Liceo classico di Camerino e nel 1915 vince il concorso per la
libera docenza presso l'Università di Parma. Trascorre lunghi periodi di studio
all'estero, grazie a diverse borse di studio, nelle più prestigiose università
europee (Marburgo, Friburgo e altre). Nel 1917 diviene professore ordinario
all'Università degli Studi di Camerino. In seguito insegna diritto nelle
Università degli Studi di Macerata (1918-1922), Pavia (1920), Messina
(1922-1925, dove ha tra i suoi allievi Giorgio La Pira e Tullio Segrè), Parma
(1925-1926), Firenze (1925-1927), Milano (1928-1947), Roma (1947-1960).
Come Gastprofessor e visiting professor svolge corsi nelle Università di
Francoforte sul Meno, Bonn, Gießen, Colonia, Marburgo, Amburgo, Il Cairo,
Alessandria d'Egitto, Porto Alegre, Caracas. Betti è stato uno dei più
importanti giuristi italiani di tutti i tempi e fu tra i principali artefici
del codice civile italiano del 1942 tuttora vigente. Collocato fuori ruolo
1960, emerito dal 1965, è chiamato a insegnare ius romanum alla Pontificia
Università Lateranense. Nel corso della sua attività accademica ha
coperto tutti i rami del diritto, in particolare il diritto romano, civile,
commerciale e processuale[2]. Nel 1955 ha fondato presso le Università di Roma
e di Camerino l'Istituto di Teoria dell'interpretazione. È stato socio
corrispondente dell'Accademia dei Lincei e dottore honoris causa delle
Università di Marburgo, Porto Alegre e Caracas. Per il suo sostegno
intellettuale al fascismo fin dal 1919, alla Liberazione fu messo agli arresti
nel 1944 a Camerino e imprigionato per circa un mese per decisione del CLN[3].
Nell'agosto del 1945 fu sospeso dall'insegnamento e sottoposto a giudizio di
epurazione. Il procedimento lo prosciolse da ogni imputazione. Produzione
scientifica Le sue scelte politiche comunque non hanno compromesso il pregio e
l'importanza delle sue opere. Le sue opere principali sono: Teoria generale del
negozio giuridico, Teoria generale delle obbligazioni, Teoria generale della
interpretazione. Fin dal 1939 fece parte delle commissioni ministeriali
che hanno redatto il codice civile del 1942. L'influenza di Betti fu
determinante nella soluzione, adottata dal guardasigilli Dino Grandi,
dell'abbandono del progetto italo-francese delle obbligazioni e dei contratti
del 1927, che negli intenti originari del piano per la nuova codificazione
avrebbe dovuto costituire l'attuale quarto libro del codice civile. Altre
opere: “Sulla opposizione dell'exceptio sull'actio e sulla concorrenza tra
loro”; “La vindicatio romana primitiva e il suo svolgimento storico nel diritto
privato e nel processo”; “L'antitesi storica tra iudicare (pronuntiatio) e
damnare (condemnatio) nello svolgimento del processo romano”; “Studii sulla
litis aestimatio del processo civile romano”; “Sul valore dogmatico della
categoria contahere in giuristi proculiani e sabiniani”; “La restaurazione
sullana e il suo esito: contributo allo studio della crisi della costituzione
repubblicana in Roma”; “La struttura dell'obbligazione romana e il problema
della sua genesi”; “Il concetto dell’obbligazione costruito dal punto di vista
dell'azione”; “Trattato dei limiti soggettivi della cosa giudicata in diritto
romano”; “La tradizione nel diritto romano classico e giustinianeo”; “Esercitazioni
romanistiche su casi pratici”, “Anormalità del negozio giuridico”; “Diritto
romano”; “Diritto processuale civile italiano”; “Teoria generale del negozio
giuridico”; “Interpretazione della legge e degli atti giuridici: teoria
generale e dogmatica”; “Teoria generale delle obbligazioni”; “Teoria generale
della interpretazione”; “Teoria delle obbligazioni in diritto romano”; “L'ermeneutica
come metodica generale delle scienze dello spirito” (Città Nuova, Roma); “Attualità
di una teoria generale dell'interpretazione”; “La crisi della repubblica e la
genesi del principato in Roma”. Note ^ La sua dottrina ha costituito oggetto di
studio approfondito da parte di Tonino Griffero. ^ Crifò Giuliano, Maestri del
Novecento : Emilio Betti : il ruolo del giurista, Milano : Franco Angeli,
Ritorno al diritto : i valori della convivenza. Fascicolo 7, 2008. ^
Sull'intervento a suo favore di Giuseppe Ferri, v. S. Truzzi, Stefano Rodotà,
l’autobiografia in un’intervista: formazione, diritti, giornali, impegno civile
e politica, Il Fatto quotidiano, 24 giugno 2017. Bibliografia Crifò, Giuliano
(1978). Emilio Betti. Note per una ricerca, in Quaderni fiorentini per la
storia del pensiero giuridico, 7, 1978, pp. 165-292. Ciocchetti, Mario (1998).
Emilio Betti, Giureconsulto e umanista. Belforte del Chienti. Brutti, Massimo
(2015). Emilio Betti e l'incontro con il fascismo. Roma Tre-Press. Voci
correlate Filosofia del diritto Ermeneutica giuridica Collegamenti esterni
Dizionario Biografico, su treccani.it. Controllo di autoritàVIAF (EN) 109887066
· ISNI (EN) 0000 0001 1082 3180 · SBN IT\ICCU\CFIV\070637 · LCCN (EN) n79113001
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Portale Biografie Diritto Portale Diritto Categorie: Giuristi italiani del XX
secoloStorici italiani del XX secoloAccademici italiani del XX secoloNati nel
1890Morti nel 1968Nati il 20 agostoMorti l'11 agostoNati a CamerinoAccademici
dei LinceiProfessori della Sapienza - Università di RomaProfessori
dell'Università degli Studi di CamerinoProfessori dell'Università degli Studi
di FirenzeProfessori dell'Università degli Studi di MacerataProfessori
dell'Università degli Studi di MessinaProfessori dell'Università degli Studi di
MilanoProfessori dell'Università degli Studi di ParmaProfessori dell'Università
degli Studi di PaviaProfessori dell'Università di MarburgoProfessori
dell'Università di ViennaStudiosi di diritto romanoStudenti dell'Università
degli Studi di ParmaStudenti dell'Università di BolognaStudenti dell'Università
di FriburgoStudenti dell'Università di MarburgoStudiosi di diritto civile del
XX secoloStudiosi di diritto commercialeStudiosi di diritto processuale civile
del XX secolo[altre] Emilio Betti. Keywords: auslegung, auslegungslehre, storia
della repubblica romana, diritto romano, exception, action, vindication,
dirittop rivato, iudicare, pronuntiatio, damnare, condemnation, processor
omano, litis aestimatio, processo civile, contaheer, giurista proculiano,
giurista sabiniano, restauraziones ullana, constitutziane rpeubblicana,
obbligazioner omana, cosa giudicata, diritto romanoc lassico, diritto romano
guistinaneo, diritto processuale civile, negozio giuridico, interpretazione, genesi
del principato, lingua romana, lingua latina, base etnica della antica Roma, i latini,
l’eta monarchica, il signficato di ‘rex’ (regere, cf. lex, legare), l’eta
repubblicana, res pubica used during l’eta monarchica, Romolo, il primo re,
Tarquino, l’ultimo re, l’eta repubblicana, la stirpe dei patrizi, patrizio,
cepo aristocratico, Caesar dittatore, assassinio di Caesar, il principato,
Augusto, significante ‘consacrato’, ‘Imperator Augusto Ottaviano’, imperio,
imperatore, pater familias, paternalism, diritto consuetudinario, il fuhrer,
l’hero, autorita carismatica, civilita, ius civile, romanita, diritto romano
ostrogotico, diritto romano longobardi, popolo romano, nazione romana, romano e
sabini, diritto per romani e diritto per pellegrini, vocabulario del diritto
romano, dizionario di diritto romano, lexicon di diritto romano, concetto
autenticamente romano di auctoritas, lex, legare, eddictum, decretum,
suggestion, agere, diritto processuale, contratto, negozio, diritto penale,
diritto civile, crisi della repubblica, Antonio e Ottaviano, stato autoritario,
concetto di stato, Ponzio Pilato e la morte di Gesu, pontificex massimo,
laicitia del diritto romano, senatus, PSQR, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Betti: Vico ed il circolo dell’implicatura” – The Swimming-Pool Library.
Bianco (Cervinara). Filosofo. Grice: “I
like Bianco; he optimistically thinks of ‘morale’ as a ‘scienza’ – but ‘della
vita,’ which helps. I have myself explored the topic, and came with a
‘philosophy’ of life, rather!” -- Carlo Bianco (n. Cervinara), filosofo. Ha
vissuto per tutta la vita nella città natale, in provincia di Avellino. La sua
intensa e appassionata vita di uomo di cultura lo ha portato in giro per tutto
il mondo. Laureato in lettere,
filosofia e scienze, docente di filosofia morale all'Trento, fu un seguace del
pensiero di Platone e Marcuse. Fondatore della corrente del concretismo,
dottrina filosofica che propugna il rispetto di ogni fede religiosa, il credo
nell'aldilà e nella vita dopo la morte, ottenne nel 2004 la candidatura al
premio Nobel per la letteratura dalle Accademie italiane. Nel corso della sua carriera ricevette per
tre volte il premio della Presidenza del Consiglio dei ministri: nel 1953, nel
1975 e, infine, nel 1995. Accademico di Francia, membro della Columbia Academy,
nella sua lunga attività letteraria conseguì diversi diplomi e riconoscimenti.
Nel 2003 vinse il premio "Elsa Morante" che gli venne consegnato da
Maurizio Costanzo e Dacia Maraini. Il sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino
gli conferì la medaglia d'oro quale miglior ambasciatore della Campania nel mondo.
Bianco, infatti, era un valente conoscitore di lingue straniere, compresi
alcuni dialetti. Conosceva molti dialetti di paesi africani, che aveva avuto
modo di apprendere nei suoi frequenti viaggi; aveva conseguito, inoltre, una
laurea in scienze coloniali. L'Università Latina di Parigi gli conferì una
laurea honoris causa in lettere. Un
saggio biografico del 2001 e una raccolta di poesie curata da Alfredo Marro,
direttore del Caudino (mensile cervinarese col quale il filosofo ha a lungo
collaborato), si occupano del filosofo cervinarese. Nell'autunno , Franco
Martino gli dedicò una poesia dal titolo "A Carlo Bianco" nel suo
libro Paese mio carissimo. Bianco morì
il 9 aprile a 99 anni mentre stava
lavorando su un testo di Tommaso d'Aquino. Il 29 ottobre la città di Cervinara gli ha dedicato una
piazza nella natia frazione dei Salomoni.
Altre opere:: “Introduzione a Kant” (Edizione La nuova Italia letteraria,
Bergamo); “Saggio di filosofia dello spirito” (Editrice La Zagara); “L'Uomo sui
confini dell'ignoto” (Edizioni centro ricerche Biopsichiche, Padova); “La morale
come scienza della vita” (Edizioni Studi e ricerche, Catania); “Tempi di
Sofistica” (Edizioni studi e ricerche, Catania); “Pensieri, Vincenzo Ursini
Editore, Catanzaro); “L'uomo, l'inconoscibile” (Edizioni Scientifiche
Internazionale, Napoli); “La vita davanti a voi, Casa Editrice Fausto
Fiorentino. Vedi Cervinara commemora Carlo Bianco articolo de la Repubblica, 3
settembre , Sezione Napoli, Archivio storico.
Vedi È morto Carlo Bianco avvocato e candidato al Nobel nel 2006
articolo de la Repubblica, 11 aprile , Sezione Napoli, Archivio storico. Alfredo Marro, Un gigante del pensiero,
Edizioni Il Caudino, Cervinara 2001. Alfredo Marro, Biografie cervinaresi, Edizioni
Il Caudino, Cervinara 2004. Alfredo Marro, Frammenti di un'animapoesie scelte
di Carlo Bianco, Edizioni Il Caudino, Cervinara 2006. Filomena Stanzione, Carlo
Bianco nella Cultura Caudina, Casa Editrice Fausto Fiorentino, Rotondi
2000. Carlo Bianco, poeta della fede e
del dolore biografia e nel sito
"carlobianco.blogspot". Filosofia Categorie: Avvocati italiani del XX
secoloFilosofi italiani del XX secoloLetterati italiani 1911 25 luglio 9 aprile Cervinara Cervinara. Carlo
Bianco. Keywords: Centro Ricerche Biopsichiche Padova, saggio sulla filosofia
dello spirito, kantismo, spiritualismo, morale, vita, liberta, piazza bianco,
cervinara. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bianco” – The Swimming-Pool
Library.
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