The Grice Club

Welcome

The Grice Club

The club for all those whose members have no (other) club.

Is Grice the greatest philosopher that ever lived?

Search This Blog

Wednesday, October 20, 2021

GRICE ITALICVS V/X

 

Cantoni (Milano). Filosofo. Grice: “You gotta love Cantoni; I call him the Italian Hampshire! Cantoni philosophises on ‘anthropology’ and he has not the least interest in past philosophies, -- only contemporary! – Oddly, he reclaimed the good use of ‘primitive,’ meaning ‘originary,’ and he has philosophised on pleasure and com-placent – also on ‘seduction,’ and eros. It is most interesting that he reclaimed the concept of ‘umano,’ when dealing with anthropology, as he considers the ‘disumano’, and the ‘crisi dell’uomo,’ and also the ‘desagio dell’uomo’ – He has philosophised on the complex concept of the ‘tragic’ alla Nietzsche – and he dared translate my métier and Fichte’s bestimmung as ‘la missione dell’uomo’! – Like other Italian philosophers they joke at trouser words and he has philosophised on ‘what Socrates actually said’! My favourite is his treatise on Remo and Romolo in ‘mito e storia’. In opposizione alla tradizione storicista, idealistica crociana si occupa di cultura e storia usando contaminazioni sociologiche e antropologiche. Per queste aperture venne considerato uno dei maggiori promotori dell'antropologia culturale in Italia. Nel solco del maestro Banfi e uno dei maggiori esponenti della "Scuola di Milano".  Oltre ai numerosi volumi pubblicati fonda le riviste Studi filosofici e Il pensiero critico.  Fu allievo di Banfi, amico di Sereni e Formaggio. Nella cerchia di amicizie di Banfi conobbe Antonia Pozzi che di lui si innamorò di amore non corrisposto. In una lettera a Sereni ella scrisse:  «[…] Non riesco nemmeno a trarre un senso da tutti questi giorni che abbiamo vissuto insieme: sono qui, in questa pausa di solitudine, come un po' d'acqua ferma per un attimo sopra un masso sporgente in mezzo alla cascata, che aspetta di precipitare ancora. Vivo come se un torrente mi attraversasse; tutto ha un senso di così immediata fine, e è sogno che sa d'esser sogno, eppure mi strappa con così violente braccia via dalla realtà. […] Sempre così smisuratamente perduta ai margini della vita reale: difficilmente la vita reale mi avrà e se mi avrà sarà la fine di tutto quello che c'è di meno banale in me. Forse davvero il mio destino sarà di scrivere dei bei libri per i bambini che non avrò avuti. Povero Manzi: senza saper niente, mi chiamava Tonia Kröger. E questi tuoi occhi che sono tutto un mondo, con già scritta la tua data di morte […] Un'ora sola in cui si guardi in silenzio è tanto più vasta di tutte le possibili vite […]»  Cantoni define come "primitivo" quel pensiero sincretico che non distingueva nettamente tra mito e realtà tra affezione e razionalità. In questo senso "primitivo" assume una valenza psicologica più che antropologica. Il pensiero mitico, scrive in "Pensiero dei primitivi, preludio ad un'antropologia", non è "arbitrario e caotico", ma pervaso di una razionalità, una razionalità fusa in un crogiuolo affettivo. Yna delle differenze fondamentali tra il pensiero moderno e quello primitivo consiste nel fatto che il pensiero moderno ha una chiara coscienza della relazione e dell'intreccio delle varie forme culturali tra loro e può sempre transitare da una all'altra quando lo voglia; mentre noi sappiamo, ad esempio, che v'è un conflitto tra la scienza e la religione, l'arte e la morale, il sogno e la realtà, il pensiero logico e la creazione mitica, i primitivi mantengono tutte queste forme su di un piano indistinto per cui fondono e confondono ciò che noi non sempre distinguiamo, ma possiamo pur sempre distinguere. Questa mancanza di distinzioni nette è uno dei caratteri più salienti della mentalità primitive. Quindi sogno e realtà trapassano uno nell'altro e costituiscono nella loro saldatura un continuum omogeneo. Si ocupa  occupò con prefazioni, traduzioni, curatele e altro di Kierkegaard, Dostoevskij, Nietzsche, Kafka, Spinoza, Fichte, Renan, Hartmann, Huxley, Balzac, Jaspers, Banfi, Durkheim, Sofocle e Musil.  Altre opere: “Il pensiero dei primitivi, Milano: Garzanti); Estetica ed etica nel pensiero di Kierkegaard, Milano: Denti); Crisi dell'uomo: il pensiero di Dostoevskij, Milano: Mondadori, 1948, n. ed. Milano: Il Saggiatore); La coscienza inquieta: Soren Kierkegaard, Milano: Mondadori, 1949; n. ed. Milano: Il Saggiatore, 1976 Mito e storia, Milano: Mondadori); La vita quotidiana: ragguagli dell'epoca, Milano: Mondadori, 1955 (articoli apparsi su "Epoca" 1950-54); n. ed. Milano: Il Saggiatore); La coscienza mitica, Milano: Universitarie, 1957 (lezioni dell'anno accademico 1956-57) Umano e disumano, Milano: IEI); Il pensiero dei primitivi, Milano: La goliardica, 1959 Il tragico come problema filosofico, Milano: La goliardica); La crisi dei valori e la filosofia contemporanea: con appendice sullo storicismo, Milano: La goliardica); Filosofia del mito, Milano: La goliardica); Il problema antropologico nella filosofia contemporanea, Milano: La goliardica, 1963 Tragico e senso comune, Cremona: Mangiarotti, 1963 Società e cultura, Milano: La goliardica, 1964 Filosofie della storia e senso della vita, Milano: La goliardica, 1965 Scienze umane e antropologia filosofica, Milano: La goliardica, 1966 Illusione e pregiudizio: l'uomo etnocentrico, Milano: Il Saggiatore, 1967, 1970 Storicismo e scienze dell'uomo, Milano: La goliardica, 1967 Personalità, anomia e sistema sociale, Milano: La goliardica); Che cosa ha veramente detto Kafka, Roma: Ubaldini); Il significato del tragico, Milano: La goliardica, 1970 Introduzione alle scienze umane, Milano: La goliardica); Che cosa ha detto veramente Hartmann, Roma: Ubaldini, 1972 Robert Musil e la crisi dell'uomo europeo, Milano: La goliardica, 1972; n. ed. Milano: Cuem); Persona, cultura e società nelle scienze umane, Milano: Cisalpino-Goliardica); Antropologia quotidiana, Milano: Rizzoli); Il senso del tragico e il piacere, prefazione di Nicola Abbagnano, Milano: Editoriale nuova, 1978 Franz Kafka e il disagio dell'uomo contemporaneo, con una nota di Carlo Montaleone , Milano: Unicopli).  Attiva tra 1950 ed il 1962 e edita dall'Istituto Editoriale Italiano  Lettere d'amore di Antonia Pozzi Archiviato il 12 dicembre 2008 in . il 17 dicembre 2008  Carlo Montaleone, Cultura a Milano nel dopoguerra. Filosofia e engagement in Remo Cantoni, Torino: Bollati Boringhieri, 1996  8833909689 Caterina Genna, «Il pensiero critico» di Remo Cantoni, Firenze: Le Lettere, 2008  8860871603 Massimiliano Cappuccio e Alessandro Sardi , Remo Cantoni, Milano: Cuem, 2007  9788860011381 Clementina Gily Reda, L'antropologia filosofica di Remo Cantoni. Miti come arabeschi, Fondazione Ugo Spirito, 2008  8886225091  Antonia Pozzi Antonio Banfi Scuola di Milano Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Remo Cantoni Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Remo Cantoni  sito di Antonia Pozzi, su antoniapozzi. Filosofia Letteratura  Letteratura Università  Università Filosofo del XX secoloAccademici italiani Professore1914 1978 14 ottobre 3 febbraio Milano MilanoStudenti dell'Università degli Studi di MilanoProfessori dell'Università degli Studi di CagliariProfessori della SapienzaRomaProfessori dell'Università degli Studi di PaviaProfessori dell'Università degli Studi di MilanoFondatori di riviste italianeDirettori di periodici italiani. Remo Cantoni. Keywords: Carlo Cantoni, filosofo, Remo Cantoni filosofo, mito e storia, implicatura mitica, la morte di Remo, prejudices and predilections, umano, preludio a un’antropologia, il primitivo. Il mito di Remo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cantoni” – The Swimming-Pool Library.

 

Capitini (Perugia). Filosofo. Grice: “I love Capitini: his idea (or ‘paradigma,’ as he prefers, echoing Plato and Kuhn) of ‘compresenza conversazionale’ is genial and Griceian! Capitini abbreviates all my pragmatics in the ‘tu’ – or ‘noi,’ – “I am born when I say ‘thou’’ – translated alla Buber – what more conversationally implicaturish can THEE be? (I’m using West-Country puritan patois!”). Fu uno tra i primi in Italia a cogliere e a teorizzare il pensiero nonviolento gandhiano, al punto da essere chiamato il Gandhi italiano.   Nato in una famiglia modesta, Capitini si dedica dapprima agli studi tecnici, per necessità economiche e, in seguito, a quelli letterari, come autodidatta. La madre lavora come sarta e il padre era impiegato comunale, custode del campanile municipale di Perugia. Ritenuto inabile al servizio militare per ragioni di salute, non partecipa alla Prima guerra mondiale. Dopo gli studi della scuola tecnica e dell'istituto per ragionieri, dai diciannove ai ventuno anni si dedica alla lettura dei classici latini e greci, studiando da autodidatta anche dodici ore al giorno, dando così inizio al suo ininterrotto lavoro di approfondimento interiore e filosofico.  In questi anni legge autori e libri molto diversi tra loro, su cui forma la propria cultura letteraria e filosofica: D'Annunzio, Marinetti, Boine, Slataper, Jahier, Ibsen, Leopardi, Manzoni, la Bibbia, Gobetti, Michelstaedter, Kant, Kierkegaard (profondamente influenzato dal Vangelo), Francesco d'Assisi, Mazzini, Tolstoj e Gandhi. In questo periodo aderisce quindi al pensiero nonviolento del politico indiano.  Nel 1924 vince una borsa di studio presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, nel curriculum universitario di Lettere e Filosofia. Capitini critica aspramente il Concordato con la Chiesa cattolica, da lui giudicato una "merce di scambio" per ottenere da Pio XI e dalle gerarchie ecclesiali un atteggiamento "morbido" nei confronti del fascismo. In uno dei suoi libri arriva ad affermare che «...se c'è una cosa che noi dobbiamo al periodo fascista è di aver chiarito per sempre che la religione è una cosa diversa dall'istituzione».  Nel 1930 viene nominato segretario della Normale di Pisa. Durante il periodo trascorso a Pisa, Capitini matura la scelta del vegetarianismo come conseguenza della scelta di non uccidere, e ogni suo pasto alla mensa della Normale diventa un comizio efficace e silenzioso, un'affermazione della nonviolenza in opposizione alla violenza del regime fascista.  Insieme a Claudio Baglietto, suo compagno di studi, promuove tra gli studenti della Scuola Normale riunioni serali dove diffonde e discute scritti sulla nonviolenza e la nonmenzogna. Allorché Baglietto, recatosi all'estero con una borsa di studio, rifiuta di tornare in Italia in quanto obiettore di coscienza al servizio militare, scoppia lo scandalo e il direttore della Scuola Normale Giovanni Gentile, per reazione, chiede a Capitini l'iscrizione al partito fascista. Capitini rifiuta e Gentile ne decide il licenziamento. Sergio Romano scriverà:  «Gentile e Capitini si separarono poco tempo dopo nella sala delle adunanze del palazzo dei Cavalieri. Il filosofo disse di sperare che "le future esperienze gli facessero vedere la vita e la realtà delle cose sotto un aspetto diverso"; e Capitini rispose che non poteva fare altro che "contraccambiare l'augurio". Fu certamente una rottura. Ma non appena il giovane pacifista uscì dalla sala, il filosofo si voltò verso Francesco Arnaldi, che aveva assistito a questo scambio di battute, e disse "Abbiamo fatto bene a mandarlo via perché, oltre tutto, è un galantuomo".»   Benedetto Croce; in riferimento a lui Capitini scriverà: «dal Croce può venire il servizio ai valori. Il Croce è greco-europeo, perché la civiltà europea porta al suo sommo l'affermazione dei valori». A questo punto Capitini torna a Perugia nella casa paterna, vivendo di lezioni private. Nel periodo di tempo tra il 1933 e il 1934 compie frequenti viaggi a Roma, Firenze, Bologna, Torino e Milano per incontrare numerosi amici antifascisti e intessere in questo modo una fitta rete di contatti.  Nell'autunno del 1936 a Firenze, a casa di Luigi Russo, ha modo di conoscere Benedetto Croce, a cui consegna un pacco di dattiloscritti che Croce apprezza e fa pubblicare nel gennaio dell'anno seguente presso l'editore Laterza di Bari con il titolo Elementi di un'esperienza religiosa. In poco tempo gli Elementi diventano uno tra i principali riferimenti letterari della gioventù antifascista.   Giovanni Gentile negli anni trenta, ai tempi del direttorato alla Normale In seguito alla larga diffusione del suo libro, Capitini promuove assieme a Guido Calogero un movimento culturale che negli anni successivi cercherà di trasformare in un progetto politico atto a realizzare le idee di libertà individuale e di uguaglianza sociale contenute negli "Elementi". Nasce così il Movimento Liberalsocialista, in un anno segnato dall'assassinio dei Fratelli Rosselli, dalla morte di Antonio Gramsci e da una forte ondata di violenza repressiva contro l'opposizione antifascista. Alle attività del movimento collaborano, tra gli altri, Ugo La Malfa, Giorgio Amendola, Norberto Bobbio e Pietro Ingrao.  Nel febbraio 1942 la polizia fascista effettua una retata nel corso di una riunione del gruppo dirigente liberalsocialista, in seguito alla quale Capitini e gli altri partecipanti alla riunione vengono rinchiusi nel carcere fiorentino delle Murate. Dopo quattro mesi Capitini viene rilasciato, grazie alla sua fama di "religioso". «Quale tremenda accusa contro la religione, se il potere ha più paura dei rivoluzionari che dei religiosi», commenterà più tardi.  Nel giugno 1942 nasce il Partito d'Azione, la cui dirigenza proviene direttamente dalle file del liberalsocialismo. Capitini rifiuta di aderire a qualsiasi partito, poiché a suo giudizio «... il rinnovamento è più che politico, e la crisi odierna è anche crisi dell'assolutizzazione della politica e dell'economia». Per il suo rifiuto di collocarsi all'interno delle logiche dei partiti, Capitini rimane escluso sia dal Comitato di Liberazione Nazionale, sia dalla Costituente, pur avendo lui dato un'impronta indelebile alla nascita della Repubblica con il suo lavoro culturale, politico, filosofico e religioso di opposizione morale al fascismo.  Nel maggio 1943 Capitini viene nuovamente arrestato e rinchiuso, questa volta, nel carcere di Perugia; viene definitivamente liberato col 25 luglio.   Capitini tra gli anni '30 e '40 Il Centro di Orientamento Sociale (COS) Nel 1944 Capitini cerca di realizzare un primo esperimento di democrazia diretta e di decentralizzazione del potere, fondando a Perugia il primo Centro di Orientamento Sociale, un ambiente progettuale e uno spazio politico aperto alla libera partecipazione dei cittadini, uno «...spazio nonviolento, ragionante, non menzognero», secondo la definizione data dallo stesso Capitini. Durante le riunioni del COS i problemi di gestione delle risorse pubbliche vengono discussi liberamente assieme agli amministratori locali, invitati a partecipare al dibattito per rendere conto del loro operato e per recepire le proposte dell'assemblea, con l'obiettivo di far diventare "tutti amministratori e tutti controllati". A Partire da Perugia, i COS si moltiplicano in diverse città d'Italia: Ferrara, Firenze, Bologna, Lucca, Arezzo, Ancona, Assisi, Gubbio, Foligno, Teramo, Napoli e in moltissimi altri luoghi.   Aldo Capitini nel 1929 I Centri di Orientamento Sociale si sono diffusi sul territorio nazionale, scontrandosi tuttavia con l'indifferenza della Sinistra e con l'aperta ostilità della Democrazia Cristiana, che impediscono l'affermazione su scala nazionale dell'autogoverno e della decentralizzazione del potere sperimentati con successo nelle riunioni dei COS.  Nel secondo dopoguerra Capitini diventa rettore dell'Università per stranieri di Perugia (come Commissario, dal 1944 al 1946), un incarico che sarà costretto ad abbandonare a causa delle fortissime pressioni della locale Chiesa cattolica. Si trasferisce a Pisa, dove ricopre il ruolo di docente incaricato di Filosofia morale presso l'università degli Studi.  Parallelamente all'attività didattica, politica e pedagogica, Capitini prosegue la sua attività di ricerca spirituale e religiosa, promuovendo nel 1947 il Movimento di religione insieme a Ferdinando Tartaglia, singolare figura di sacerdote scomunicato ed audace teologo, che però se ne allontanerà nel 1949. Negli anni che vanno dal 1946 al 1948 il Movimento di religione organizza una serie di convegni con cadenza trimestrale, che culminano con il "Primo congresso per la riforma religiosa" (Roma 13/15 ottobre 1948).  Nel 1948 il giovane Pietro Pinna, dopo aver ascoltato Capitini in un convegno promosso a Ferrara dal Movimento di religione, matura la sua scelta di obiezione di coscienza: è il primo obiettore del dopoguerra. Pinna è processato dal tribunale militare di Torino il 30 agosto 1949 e a nulla serve la testimonianza a suo favore di Aldo Capitini. Pinna subisce una serie di processi, condanne e carcerazioni, fino al definitivo congedo per una presunta "nevrosi cardiaca". Agli inizi degli anni 60 si dimetterà dal suo impiego in banca per raggiungere Danilo Dolci in Sicilia e dopo un anno si trasferirà a Perugia per diventare il più stretto collaboratore di Capitini.  Dopo l'arresto di Pinna, Capitini promuove una serie di attività per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza, convocando a Roma nel 1950 il primo convegno italiano sul tema.  Il Centro di Orientamento Religioso (COR)  Un primo piano di Aldo Capitini (ca. 1960) Nel 1952, in occasione del quarto anniversario dell'uccisione di Gandhi, Capitini promuove un convegno internazionale e fonda il primo Centro per la nonviolenza. Sempre nel 1952 Capitini affianca ai Centri di Orientamento Sociale il Centro di Orientamento Religioso (COR), fondato a Perugia con Emma Thomas (una quacchera inglese di ottant'anni). Il COR è uno spazio aperto, in cui trova espressione la religiosità e la fede di tutte le persone, i movimenti e i gruppi che non trovavano posto nel Cattolicesimo preconciliare. Lo scopo dei COR era quello di favorire la conoscenza delle religioni diverse dalla cattolica, e di stimolare i cattolici stessi ad un approccio più critico e impegnato alle questioni religiose.  La Chiesa locale vieta la frequentazione del Centro di Orientamento Religioso, e quando nel 1955 Capitini pubblica Religione Aperta il libro viene immediatamente inserito nell'Indice dei libri proibiti. Nonostante l'ostracismo delle alte gerarchie ecclesiali, Capitini stabilisce ugualmente degli efficaci rapporti di collaborazione con alcuni cattolici come Don Lorenzo Milani e Don Primo Mazzolari.  Capitini organizza a Perugia un convegno su La nonviolenza riguardo al mondo animale e vegetale e, insieme a Edmondo Marcucciautore di Che cos'è il vegetarismo e, al pari di Capitini, mai iscritto al partito fascistafonda la prima organizzazione nazionale di coordinamento delle tematiche del vegetarianismo, la "Società vegetariana italiana".  La polemica tra Capitini e la Chiesa Cattolica continua anche dopo il Concilio Vaticano II, con la pubblicazione del libro Severità religiosa per il Concilio. A partire dal 1956 Capitini insegna all'Cagliari come docente ordinario di Pedagogia e nel 1965 ottiene un definitivo trasferimento a Perugia. Nel marzo 1959 è tra i fondatori dell'ADESSPI, l'Associazione di Difesa e Sviluppo della Scuola Pubblica in Italia. Capitini arriva a chiedere al proprio vescovo di non essere più annoverato nella Chiesa, lui profondamente religioso, della quale non condivideva più i metodi e le idee.   La prima Bandiera della pace  Bandiera della pace portata da Capitini nella prima marcia Perugia-Assisi, attualmente custodita presso la Biblioteca San Matteo degli Armeni del comune di Perugia. Domenica 24 settembre 1961 Capitini organizza la Marcia per la Pace e la fratellanza dei popoli, un corteo nonviolento che si snoda per le strade che da Perugia portano verso Assisi, una marcia tuttora proposta in media ogni due/tre anni dalle associazioni e dai movimenti per la pace. In questa occasione viene per la prima volta utilizzata la Bandiera della pace, simbolo dell'opposizione nonviolenta a tutte le guerre. Capitini descrive l'esperienza della marcia nel libro Opposizione e liberazione: «Aver mostrato che il pacifismo, che la nonviolenza, non sono inerte e passiva accettazione dei mali esistenti, ma sono attivi e in lotta, con un proprio metodo che non lascia un momento di sosta nelle solidarietà che suscita e nelle noncollaborazioni, nelle proteste, nelle denunce aperte, è un grande risultato della Marcia». Aderiscono molte personalità, tra cui lo scrittore Italo Calvino. L'impegno di Capitini per la pace infranazionale e internazionale (con particolare attenzione al pericolo atomico) lo coinvolse sempre più in una collaborazione con Norberto Bobbio, il quale raccoglierà tali riflessioni nell'opera Il problema della guerra e le vie della pace.  Negli ultimi anni della sua vita Capitini fonda e dirige un periodico intitolato Il potere di tutti, sviluppando i principi di quella che lui definì "omnicrazia", la gestione diffusa e delocalizzata del potere da lui contrapposta al centralismo dei partiti. In questi anni Capitini promuove anche il Movimento nonviolento per la Pace e il mensile "Azione nonviolenta", l'organo di stampa del movimento, che attualmente viene pubblicato a Verona.  Dedito completamente al suo lavoro di divulgatore della nonviolenza, Capitini non si sposò mai, per scelta, in modo da poter dedicare tutte le proprie energie alla sua attività.  Il 19 ottobre 1968 Aldo Capitini muore circondato da amici e allievi, dopo aver subìto un intervento chirurgico che consuma le sue ultime energie. Il 21 ottobre il leader socialista Pietro Nenni scrive una nota sul suo diario: «È morto il prof. Aldo Capitini. Era una eccezionale figura di studioso. Fautore della nonviolenza, era disponibile per ogni causa di libertà e di giustizia. (...) Mi dice Pietro Longo che a Perugia era isolato e considerato stravagante. C'è sempre una punta di stravaganza ad andare contro corrente, e Aldo Capitini era andato contro corrente all'epoca del fascismo e nuovamente nell'epoca post-fascista. Forse troppo per una sola vita umana, ma bello». È sepolto a Perugia nella tomba di amici del C.O.R., insieme a Emma Thomas.  Il pensiero Religione e laicità  Il Mahatma Gandhi Aldo Capitini aveva l'abitudine di definirsi un "religioso laico". Egli accomunava la religione alla morale in quanto essa critica la realtà e la spinge al cambiamentoin positivo. Quella di Capitini era un'opposizione religiosa al fascismo. Il sentimento religioso, inoltre, nasce nei momenti di difficoltà e sofferenza, in particolare nel rapporto individuale con la morte. L'idea di laicità nasceva dal distacco di Capitini dalla Chiesa cattolica, complice del regime: egli sosteneva che col Concordato del 1929 la Chiesa avesse legittimato il potere di Mussolini, dimenticando le violenze squadriste e, in tal modo, lo sostenesse garantendo la sua moralità di fronte alla maggior parte della popolazione che riponeva fiducia nell'istituzione religiosa. Capitini è molto distante dalla religione istituzionalizzata. Dio, come Ente, non esiste per Capitini: per evitare ogni equivoco e marcare la distanza della sua concezione religiosa da quella corrente, Capitini preferirà parlare di compresenza piuttosto che di Dio; per la stessa ragione, per indicare la vita religiosa così intesa non parla di fede, ma riprende da Michelstaedter il termine persuasione. Capitini si dichiara post-cristianoevidente anche dal suo "sbattezzo"e non cattolico, ma ama e si ispira alle figure religiose. Ogni figura con una profonda credenza, anche laica, è per lui un "religioso". Egli nega con decisione la divinità di Gesù Cristo: convinzione senza la quale non si può essere cristiani. Contesta, come Tolstoj, tutti gli aspetti leggendari e non dimostrabili dei Vangeli, compresa la Risurrezione. Ciò che apprezza sono le Beatitudini, il modello spirituale di un agire verso gli ultimi. Gesù ha insegnato dove può giungere una coscienza religiosa, è stato più di un uomo: "fu anche lui, come tutti, un essere con certi limiti; ma d'altra parte fu in lui, come in ogni altro essere, la qualità della coscienza che va oltre i limiti, che è in lui come in un mendicante" scrive negli Elementi. L'imitazione di Cristo secondo Capitini non è altro che realizzazione della propria realtà umana. Si potrebbe ugualmente parlare di una imitazione del Buddha, di Francesco d'Assisi, di Gandhi, di Tolstoj e molti altri.  Persuasione, apertura, compresenza, omnicrazia Col termine "persuasione", ripreso da Carlo Michelstaedter e da Gandhi, Capitini indicava la fede, sia in senso laico sia religioso, la profonda credenza in determinati valori ed assunti, e tramite essa, la capacità di persuadere gli altri della bontà del proprio ideale.   Il professor Aldo Capitini negli anni '60 L'apertura è l'opposto della chiusura conservatrice ed autoritaria del fascismo, e l'elevazione dell'anima verso l'alto e verso Dio.  Un concetto chiave nella filosofia capitiniana era la compresenza di tutti gli esseri, dei morti e dei viventi, legati tra loro ad un livello trascendente, uniti e compartecipi nella creazione di valori.  Nella vita sociale e politica la compresenza si traduce in omnicrazia, o governo di tutti, un processo in cui la popolazione tutta prende parte attiva alle decisioni e alla gestione della cosa pubblica.  La nonviolenza e il liberalsocialismo Non può mancare il concetto di nonviolenza, un ideale nobile, sinonimo di amore, coerenza di mezzi e fini, la forza in grado di sconfiggere il fascismo, che non è solo un regime, ma anche un modo di essere violento e autoritario.  Il liberalsocialismo di Capitini e di Guido Calogero si sviluppa in modo autonomo dal socialismo liberale di Carlo Rosselli. Si forma infatti in un periodo posteriore, quando il regime fascista è vicino al collasso, nell'ambiente dei giovani crociani che hanno studiato ed insegnato alla Normale di Pisa, mentre il pensiero di Rosselli, che lo precede temporalmente, essendosi forgiato nel fuoco della lotta antifascista, in Italia e in Europa, già a partire dagli anni Venti, si iscrive in modo diretto nella tradizione socialista. Capitini per liberalismo intende il libero sviluppo personale, la libera ricerca spirituale e la produzione di valori. Il socialismo è invece nei suoi intendimenti la realizzazione nel lavoro, l'assistenza fraterna dell'umanità lavoratrice soggetto corale della storia. Anche se «...il socialismo liberale di Rosselli […] è una delle eresie del socialismo, mentre il liberalsocialismo è un'eresia del liberalismo» (M. Delle Piane), si può affermare tuttavia che entrambi condividessero la critica ai totalitarismi,sia di destra che di sinistra, una visione laica della politica e l'obiettivo di una profonda riforma morale e sociale dell'Italia distrutta dalla guerra.  L'educazione e la civiltà L'educazione "profetica" è quella di colui che, con uno sguardo al futuro, è capace di criticare la realtà sulla base di valori morali, anche a costo di sembrare fuori dal suo tempo. Con l'espressione "civiltà pompeiana-americana" intende biasimare la mentalità materialista che vede nel lusso e nel possesso la realizzazione delle persone. Il "tempo aperto" è il tempo libero che ognuno potrebbe destinare alla discussione, alla socializzazione, al raccoglimento, all'elevazione spirituale. Ad Aldo Capitini sono intitolate strade in molte città di Italia: Perugia, Firenze, Roma, Pisa, Milano, ecc  Riconoscimenti Ad Aldo Capitini sono oggi intitolati un Istituto di istruzione tecnica economica e tecnologica, un centro congressi a Perugia, un'Aula magna all'interno dell'Cagliari, presso la Facoltà di Studi umanistici. Altre opere: “Esperienza religiosa” Laterza, Bari); “Vita religiosa, Cappelli, Bologna); “Atti della presenza aperta, Sansoni, Firenze); “Saggio sul soggetto della storia, La Nuova Italia, Firenze); “Esistenza e presenza del soggetto in Atti del Congresso internazionale di Filosofia (II ), Castellani, Milano); “La realtà di tutti, Arti Grafiche Tornar, Pisa); “Italia nonviolenta, Libreria Internazionale di Avanguardia, Bologna); “Nuova socialità e riforma religiosa, Einaudi, Torino); “L'atto di educare, La Nuova Italia, Firenze); “Religione aperta, Guanda, Modena); “Colloquio corale, Pacini Mariotti, Pisa); “Discuto la religione di Pio XII, Parenti, Firenze); “Aggiunta religiosa all'opposizione, Parenti, Firenze); "Danilo Dolci", Piero Lacaita Editore, Manduria); “Battezzati non credenti, Parenti, Firenze); “Antifascismo tra i giovani, Celebes editore, Trapani); “La compresenza dei morti e dei viventi, Saggiatore, Premio Viareggio Speciale); “Le tecniche della nonviolenza, Feltrinelli, Milano (rist. Linea D'Ombra, Milano 1989; rist. Edizioni dell'asino, Roma); “Educazione aperta” La Nuova Italia, Firenze); “Il potere di tutti, introduzione di N. Bobbio, prefazione diPinna, La Nuova Italia, Firenze); “Scritti sulla nonviolenza, L. Schippa, Protagon, Perugia); “Scritti filosofici e religiosi, M. Martini, Protagon, Perugia); “Il potere di tutti, 2 ed. riveduta e corretta, Guerra Edizioni, Perugia); “Opposizione e liberazione: una vita nella nonviolenza, Piergiorgio Giacché, Napoli, L'ancora del Mediterraneo. Le ragioni della nonviolenza. Antologia degli scritti, Mario Martini, ETS, Pisa scheda; Lettere;  "Epistolario di Aldo Capitini, 1"con Walter Binni, L. Binni e L. Giuliani, Carocci, Roma (intr.di M. Martini). Lettere, "Epistolario di Aldo Capitini, 2"con Danilo Dolci, G. Barone e S. Mazzi, Carocci, Roma); La religione dell'educazione: scritti pedagogici, Piergiorgio Giacché, La meridiana, Molfetta); Lettere 1936-1968, "Epistolario di Aldo Capitini, 3"con Guido Calogero, Th. Casadei e G. Moscati, Carocci, Roma.  L'atto di educare, M. Pomi, Armando editore, Roma.  Lettere, "Epistolario di Aldo Capitini, 4"con Edmondo Marcucci, A. Martellini, Carocci, Roma.  Religione Aperta, M.Martini, Laterza, Roma-Bari.  Lettere 1937-1968, "Epistolario di Aldo Capitini, 5"con Norberto BobbioPolito, Carocci, Roma.  Lettere familiari, "Epistolario di Aldo Capitini, 6"M. Soccio, Carocci, Roma.  Un'alta passione, un'alta visione. Scritti politici 1935-1968L. Binni e M. Rossi, Il Ponte Editore, Firenze.  Attraverso due terzi del secolo, Omnicrazia: il potere di tuttiL. Binni e M. Rossi, Il Ponte Editore, Firenze.  La mia nascita è quando dico un tu, quaderno per la ricercaLanfranco Binni e Marcello Rossi, Il Ponte Editore, Firenze.  Antifascismo tra i giovani, collana «Opere di Aldo Capitini», Il Ponte Editore, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi Aldo Capitini, Firenze.  Nuova socialità e riforma religiosa, collana «Opere di Aldo Capitini», Il Ponte Editore, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi Aldo Capitini, Firenze.  La compresenza dei morti e dei viventi, collana «Opere di Aldo Capitini», Il Ponte Editore, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi Aldo Capitini, Firenze.  Educazione aperta collana «Opere di Aldo Capitini», Il Ponte ditore, Voll. 1-2, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi Aldo Capitini, Firenze. Note  Incontro con il "Gandhi" italiano, La Stampa, 22 giugno 1968; Il Gandhi Italiano, Panorama, Tale soprannome è condiviso con altri, come Danilo Dolci e Franco Corbelli  Capitini ricorderà: «Gentile era impaziente che io sistemassi le cose e me ne andassi, perché ero divenuto di colpo vegetariano (per la convinzione che esitando davanti all'uccisione degli animali, gli italianiche Mussolini stava portando alla guerraesitassero ancor di più davanti all'uccisione di esseri umani): e a Gentile infastidiva che io, mangiando a tavola con gli studenti, come continuavo a fare, fossi di scandalo con la mia novità». (citato in Lorenzo Guadagnucci, Restiamo animali, Milano, Terre di mezzo)  Sergio Romano, Aldo Capitini e il pacifismo alla Scuola Normale, Corriere della Sera, 4 luglio 2006.  l'8 febbraio  18 giugno ).  Aldo Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Il Saggiatore, Milano, 1966131.  Da Le lettere di religione Archiviato il 26 novembre  in . su aldocapitini  Edmondo Marcucci, Che cos'è il vegetarismo?, Società vegetariana italiana, 1953.  Giulio Angioni, Tutti dicono Sardegna, Cagliari, Edes, 1990, 3049  Dal sito del COS fondato da Capitini[collegamento interrotto]  Testimonianza di Luciano Capitini, figlio del cugino di primo grado Piero, il parente più stretto di Capitini  Antonio Vigilante, Religione e nonviolenza in Aldo Capitini.  Martini Mario, Aldo Capitini e le possibilità religiose della laicità, Nuova antologia : 608, 2262, 2, , Firenze (FI): Le Monnier, .  Nel 1938 aveva reso visita a Piero Martinetti, ritiratosi nella sua villa di Spineto a Castellamonte, con le cui concezioni religiose aveva una grande sintonia.  Per un approfondimento, vedi i seguenti testi: G. Calogero, Difesa del liberalsocialismo, Marzorati, Milano, 1972; M. Bovero, V. Mura, F. Sbarberi , I dilemmi del liberalsocialismo, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1994; A. Capitini, Liberalsocialismo, e/o, Roma, 1996 (che raccoglie una serie di scritti apparsi fra il '37 e il '49).  Premio letterario Viareggio-Rèpaci, su premioletterarioviareggiorepaci. 9 agosto .  Piero Craveri, CAPITINI, Aldo, in Dizionario biografico degli italiani,  18, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1975. 26 maggio .  Norberto Bobbio, La filosofia di Aldo Capitini, Religione e politica in Aldo Capitini, in Id., Maestri e compagni, Firenze, Passigli Editori, Antonio Areddu, La via italiana al gandhismo in “Il Manifesto”, Antonio Areddu, Non violenza e utopia. Aldo Capitini ed Ernst Bloch, in “Behemoth”, trimestrale di cultura politica, a. 1988,  4, fasc.1-2. Giacomo Zanga, Aldo Capitini. La sua vita, il suo pensiero, Torino, Bresci Editore, 1988. Marco Capanna, Speranze, Rizzoli,  Mario Martini, L'etica della nonviolenza e l'aggiunta religiosa, in "Il Ponte", Mario Martini, Capitini ispiratore di Bucchi. La sintesi di pensiero del Colloquio corale, in "Esercizi Musica e spettacolo", nn. 16-17, 1997-98. Antonio Vigilante, La realtà liberata. Escatologia e nonviolenza in Capitini, Foggia, Edizioni del Rosone, 1999. Mario Martini, I limiti della democrazia e l'aggiunta religiosa all'opposizione, in G. B. Furiozzi , Aldo Capitini tra socialismo e liberalismo, Milano, Franco Angeli, 2001. Pietro Polito, L'eresia di Aldo Capitini, prefazione di N. Bobbio, Aosta, Stylos, 2001. Giuseppe Moscati, La presenza alla persona nell'etica di Aldo Capitini: considerazioni in alcuni scritti minori, in "Kykeion", n. 7, Firenze, University Press, 2002. Tuscano, Pasquale, Poetica e poesia di Aldo Capitini, Critica letteraria. N. 4, 2008, Napoli: Loffredo Editore, 2008. Mario Martini, Mazzini, Capitini, Gandhi: una religione umanitaria per la democrazia, in "Il Pensiero Mazziniano", Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Biografia intellettuale di Aldo Capitini, 1ª ed. BFS edizioni, 2 ed., Pisa, BFS edizioni, 2003. Mario Martini, Laicità religione nonviolenza, in M. Soccio , Convertirsi alla nonviolenza?, Verona, Il Segno dei Gabrielli, 2003. Mario Martini, Religiosità, ateismo e laicità: la religione aperta, in D. Tessore , L'evoluzione della religiosità nell'Italia multiculturale, Roma, Settimo Sigillo, 2003. Federica Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini, Assisi, Cittadella, 2004. Alberto de Sanctis, Il socialismo morale di Aldo Capitini (1918-1948), Firenze, CET, 2005. Caterina Foppa Pedretti, Spirito profetico ed educazione in Aldo Capitini. Prospettive filosofiche, religiose e pedagogiche del post-umanesimo e della compresenza, Milano, Vita e Pensiero, 2005. Massimo Pomi, Al servizio dell'impossibile. Un profilo pedagogico di Aldo Capitini, Firenze, La Nuova Italia, 2005. Andrea Tortoreto, La filosofia di Aldo Capitini. Dalla compresenza alla società aperta, Firenze, Clinamen, 2005. Maurizio Cavicchi, Aldo Capitini. Un itinerario di vita e di pensiero, Bari, Piero Lacaita, 2005. Mario Martini, La nonviolenza e il pensiero di Aldo Capitini, in , La filosofia della nonviolenza, Assisi, Cittadella editrice, 2006. Laura Zazzerini ,  di Scritti su Aldo Capitini, Perugia, Volumnia, 2007. Caterina Foppa Pedretti,  primaria e secondaria di Aldo Capitini (1926-2007), Milano, Vita e Pensiero, 2007. Marco Catarci, Il pensiero disarmato. La pedagogia della nonviolenza di Aldo Capitini, Torino, EGA, 2007. Amedeo Vigorelli, La nostra inquietudine. Martinetti, Banfi, Rebora, Cantoni, Paci, De Martino, Rensi, Untersteiner, Dal Pra, Segre, Capitini, Milano, Bruno Mondadori, 2007. Mario Martini, Lo stato attuale degli studi capitiniani, in "Rivista di storia della filosofia", n. 4, 2008. Silvio Paolini Merlo, La teoria della compresenza di Aldo Capitini. Fisionomia logica di una categoria religiosa, in "Itinerari" (seconda serie), XLVIII, 3, 2009. Nunzio Dell'Erba, Aldo Capitini, in Id., in "Intellettuali laici nel 900 italiano", Padova ,  169–188 Mario Martini, Capitini oltre il quarantennio della sua scomparsa. Una rassegna, in "Quaderni dell'Associazione Diomede", n. 2, . Mario Martini, Capitini, maestro di rigore intellettuale e politico, in "Il Ponte", nn. 7-8, . Mario Martini, Aldo Capitini e le possibilità religiose della laicità, in "Nuova Antologia", aprile-giugno . Gian Biagio Furiozzi, Aldo Capitini e Giacomo Matteotti, Nuova antologia. APR. GIU., 2009. Gabriele Rigano, Religione aperta e pensiero nonviolento: Aldo Capitini tra Francesco d'Assisi e Gandhi, Mondo contemporaneo: rivista di storia: 2,  (Milano: Franco Angeli). Polito, Pietro, editor; Impagliazzo, Pina, editor, Norberto Bobbio: testimonianze e ricordi su Aldo Capitini, Nuova antologia: 607, 2260,  (Firenze (FI): Le Monnier). Mario Martini, Aldo Capitini e le possibilità religiose della laicità, Nuova antologia: 608, 2262, 2,  (Firenze (FI): Le Monnier). Aldo Capitini (Lanfranco Binni e Marcelo Rossi), Numero speciale di “Il Ponte” n.4, luglio-agosto .  Danilo Dolci Pietro Pinna Guido Calogero Mahatma Gandhi Nonviolenza Alberto L'Abate Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Aldo Capitini Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Aldo Capitini  Aldo Capitini, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Aldo Capitini, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Aldo Capitini, su sapere, De Agostini. Opere di Aldo Capitini, .  Associazione "Amici di Aldo Capitini", su citinv. Puntata de "La grande storia", su rai. 3 ottobre  7 marzo ). Tesi di laurea: Guido Calogero, Aldo Capitini, Norberto BobbioTre idee di democrazia per tre proposte di pace, su peacelink. PredecessoreRettore dell'Università per Stranieri di PerugiaSuccessore Astorre Lupattelli19441946 commissarioCarlo Sforza Filosofia Politica  Politica Filosofo del XX secoloPolitici italiani del XX secoloAntifascisti italiani 1899 1968 23 dicembre 19 ottobre Perugia PerugiaAccademici italiani del XX secoloAttivisti italianiEducatori italianiNonviolenzaPacifistiPersone legate alla Resistenza italianaPoeti italiani del XX secoloPolitici del Partito d'AzioneSostenitori del vegetarianismoTeorici dei diritti animali. Aldo Capitini. Keywords: il noi, l’io, il tu, un tu, la compresenza conversazionale – il noi conversazionale – il noi duale – la diada conversazionale – diada e compresenza – “io” e “non-io” – io e tu – Hegel. Du, Thou, I and Thou, Buber, The ‘we’, -- the dual ‘us’ – both, entrambi noi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capitini” – The Swimming-Pool Library.

 

Capizzi (Genova). Filosofo. Grice: “You gotta love Capizzi; he is the type of philosophical intellectual we do not have at Oxford, where it is clever to be dumb! Capizzi knows almost everything! His ‘Parmenids’s door’ is genial – and so is his philosophy on Roman philosophy (‘il colosso romano,’ ‘Catone,’ ‘Roma madre,’ ‘Roma e Sparta,’) – but my favourite is his tract on conversational implicature which he entitles, in a most Italianate manner, ‘Per l’attualismo del dialogo’.” Insegna a Villa Mirafiore, Roma. Si contraddistinse per l'accurato studio storico e filologico dei filosofi italici (Velia, Crotone, Girgentu, Roma). Contesta radicalmente le ricostruzioni ottocentesche del pensiero occidentale del VI e V secolo a.C., che attribuiscono validità storica alle interpretazioni di Aristotele e alla dossografia dipendente da Teofrasto. A questo scopo collabora con il circolo urbinate di Gentili nello sforzo di inserire i sapienti italici nelle tematiche concernenti le città, il pubblico, il committente, l'evoluzione delle strutture sociali, il trapasso dalla tradizione orale alla società della scrittura. Si forma alla scuola di Carabellese. Ben presto entra nei circoli degli studiosi che gravitavano intorno ai filosofi Spirito e Calogero. Insegna a Frosinone e Roma. Si evidenziandosi per l'originalità delle vedute e la radicalità del temperamento.  Coltiva due interessi paralleli.  Uno, da storico, per la sapienza italica arcaica, che lo portò a contestare la narrazione dei italici fatta da Aristotele. Questi, secondo lui, scrisse per esigenze di insegnamento del proprio pensiero nell'ambito del Liceo, e non con lo scopo di ricostruire quanto realmente accaduto. Dopo di lui, per un colossale equivoco, Teofrasto, i grammatici alessandrini, Hegel, Eduard Zeller, Gomperz e Burnet protrassero una sistematica falsificazione. Riprese, per contro, la lezione di Diels, Reinhardt, Cherniss, McDiarmid e Kirk, i quali dimostrarono che Aristotele ha avuto solo interessi speculativi. Aristotele, come tutti i filosofi, parla sempre e soltanto del suo tempo, della cultura del suo tempo, dei problemi del suo tempo. Approfondendo gli studi di Calogero sul “pre-logismo” italico, di Detienne sul mito antropomorfico, di Havelock sulla diffusione della filosofia e di Colli sulla sapienza pre-filosofica, fu il primo storico di formazione filosofica a scoprire l'importanza della dimensione politica negli enigmatici frammenti dei sapienti italici. Ritenne che, ogni volta che si studiano filosofi italici, occorra privilegiare il rapporto tra ogni singolo autore e la sua singola città: Velia, Crotone, Roma, Girgentu.  L'altro interesse, preminentemente teoretico, si svolse sui temi dell'attualismo, che tenta di superare liberandolo dal presupposto interioristico e cogitativistico e proponendo di passare alla interosggetivita della comunicazione, in particolare a quella comunicazione protesa verso una risposta futura che è il dialogo o la conversazione. Intransigente oppositore dell’assoluto hegeliano, nei sui saggi di maggior rilievo filosofico, distinse la filosofia in "comica" e "tragica". Per filosofia comica intende quella che presuppone una struttura unitaria a priori della realtà, che pertanto analizza cose come l'essere, l'uomo, la conoscenza, la ragione, che ignora i modi di essere delle singole diada conversazionale, i tipi di uomo, i modi di conoscere legati ai modi di vivere, le ragioni dei singoli gruppi esistenti in vari luoghi e in vari momenti. L'altra filosofia, ampiamente minoritaria e controcorrente, è quella che presuppone la pluralità delle culture, dei costumi, dei pensieri, e che, avendo a che fare, nei vari momenti storici, con incontri e scontri di alcune culture, alcuni costumi e alcuni pensieri, entra nell'età adulta del dilemma tragico, della scelta tra due opzioni contrarie le quali, in assoluto, non rappresentano il bene o il male, ma ciascuna il bene in un determinato sentire che spesso coincide con il male di un sentire opposto.  Altre opere: “Protagora. Le testimonianze e i frammenti); “Il libero arbitrio”; “Per un attualismo del dialogo”; “Dall'ateismo all'umanismo: correnti incredule del dopoguerra e loro prospettive dialogiche”); “Socrate e i personaggi filosofi di Platone: uno studio sulle strutture della testimonianza platonica e un'edizione delle testimonianze contenute nei dialoghi, Roma); “Impegno e disponibilità: la doppia morale degli intellettuali di oggi); “I Presocratici. Antologia di testi, Firenze, La Nuova Italia); “Introduzione a Velia”, Roma-Bari, Laterza); “La porta a Velia: per una lettura del poema”; “I Sofisti. Antologia di testi, Firenze, La Nuova Italia); “Sinfonia patriarcale. Storia antologica dela filosofia maschile” Roma, Savelli editore); “La radice ideologica del fascismo: il mito della libertà” (Roma, Savelli); “Socrate. Antologia di testi, Firenze, La Nuova Italia); “Eraclito e la sua leggenda. Proposta di una diversa lettura dei frammenti); “La repubblica cosmica. Appunti per una storia non-peripatetica della nascita della filosofia” (Roma, Edizioni dell'Ateneo); Platone e il suo tempo, Roma, Edizioni dell'Ateneo); Forme del sapere nei presocratici, Roma, Edizioni dell'Ateneo); L'uomo a due anime. Il comico-tragico adolescenziale” )Firenze, La Nuova Italia); Il tragico in filosofia, Roma, Edizioni dell'Ateneo); I sofisti ad Atene. L'uscita retorica dal dilemma tragico” (Bari, Levante Editori); “Paradigma, mito, scienza” (Gruppo editoriale internazionale); “Platone nel suo tempo. L'infanzia della filosofia e i suoi pedagoghi”; “Corpo ed anima”, “Veleatismo”; Il 'mito di Protagora' e la polemica sulla democrazia”; "A proposito di Parmenide e di Socrate demistificati", in Il demistificatore"; "I italici furono ‘filosofi’? L’origine dello specifico filosofico"; "Tracce di una polemica sulla scrittura in Eraclito e Parmenide", "Cerchie e polemiche filosofiche del V secolo", in Storia e civiltà dei Greci,  III, Milano) "Veliadi Eliadi Meleagridi Pandionidi: la metafora mitica in Parmenide" "Eraclito e Parmenide, un tipico luogo comune"; "Parmenide", "Eschilo e Parmenide",  "Sono/fui; sum-fui: oysia/physis; eimi/phyo: due concetti”; "Mente elevata e mente profonda" in  Il Sublime: contributi per la storia di un'idea (Napoli);  "Trasposizione del lessico omerico in Parmenide ed Empedocle", in "Quattro ipotesi veleatiche/eleatiche", "Di Pitodoro, di Omar, di Don Ferrante e anche degli aristotelici attuali", Platone, Protagora, Firenze, La Nuova Italia.Partecipa con una delegazione di professori ad un'assemblea a Roma. La discussione si fa animata soprattutto con Rosario Romeo, professore di Storia Moderna, che prima lo accusa di fiancheggiare gli "squadristi rossi" e poi lo schiaffeggia. Gli Indiani metropolitani rincorrono Romeo al grido di "Compagno Capizzi, te lo giuriamo, ogni Romeo preso te lo schiaffeggiamo" In actual fact, Odysseus and the charioteer are complete opposites.4 Antonio Capizzi thinks that the journey is through the streets of Velia, out of the northern gates of the city and down to the inlet where the Velians moored their ships.5 This ...  I Romani , nel cui alfabeto figurava la V , non ebbero problemi di trascrizione : influenzati probabilmente dalla Velia o Veliae del Palatino24 , modificarono in tal senso il Vele ... Dichtersprache und geistige Tradition des 44 ANTONIO CAPIZZI. studi sul pensiero greco Antonio Capizzi. QUATTRO IPOTESI ELEATICHE 1 . Elea : nascita di un nome In epoca romana la città di Parmenide e di Zenone era detta Velia o Veliae dagli scrittori latini ( a partire da Cicerone ) , Eléa da quelli.. Antonio Capizzi , La porta di Parmenide . Due saggi per una nuova lettura del poema ( = Filologia e Critica 14 ) . Edizioni dell ' Ateneo , Rom 1975 . 125 S . Diese Arbeit hat zwei Kapitel , die mit „ Il proemio di P . e gli scavi di Velia “ bzw Giovanni Casertano Antonio Capizzi. Tuttavia , Alcmeone fu ... 132 ; V. Catalano , ' L'Asklepeion di Velia ' , estratto dagli Annali del Pontificio Istituto Superiore di Scienze e Lettere « Santa Chiara » , Napoli 1965-66 , pagg . 289-301 , a pag la homoiòtes e l'atrékeia , proponendosi di trasformare Velia ( prima aggregato di corn , di villaggi autonomi ) in una polis compatta e stabile . L'uomo ... IL CARTESIO DI GIANNONE *Un grande storico della filosofia 130 ANTONIO CAPIZZI Antonio Capizzi , La porta di Parmenide . ... une interprétation nouvelle de certains passages du poème de Parménide , en particulier des fragments 1 et 6 , à la lumière des fouilles de Velia - ' Eléa commencées en 1962 par Mario Napolil'uscita retorica dal dilemma tragico Antonio Capizzi. feste quinquennali Zenone ricomparve in città , e il ... 183 E - 184 A. 5 E. Pozzi PAOLINI , Problemi della monetazione di Velia nel V secolo a . C. , « La parola del passato » 25,1970 , pp .... e ritiene l'argomento c irrilevante in quanto Parmenide poteva essersi ispirato alla Velia reale anche in una metafora ( p . ... che si preoccupa di riu- -- nire una città sotto una costituzione aristocratica , omogenea e 402 ANTONIO CAPIZZI. proposta di una diversa lettura dei frammenti Antonio Capizzi ... del corpo sociale , doveva conoscere bene anche quei gruppi di cittadini che usavano la scrittura nelle loro ricerche scientifiche , come la scuola medico - astronomica di Velia . 1 tra le vie e le porte di Velia , recentemente dissepolte ; e i " mortali ignoranti ” del fr . 6 tra i nemici non metafisici , ma politici , che insidiavano la libertà della polis velina . Antonio Capizzi , incaricato di filosofia teoretica presso l'Università di ... un superdio – chi siede di fronte a te e ogni moeclittico è già il proemio : di recente Antonio Capizzi ( La porta di ... ( RODOLFO MACCHIONI Velia , e Renzo Vitali ( Una ricostruzione del Jodi ) . poema , Faenza 1978 ) una allegorica e ...

 da dove nasce l’idea di un ciclo di convegni sulla figura di Parmenide proprio qui dove Parmenide è vissuto? Mi pare di non potermela cavare con due parole appena. Consideri solo questo, che i riflettori su Elea/Velia si accesero nel 1964, quando Mario Napoli pervenne a identificare la strada e la porta dette “di Parmenide” e, contemporaneamente, Marcello Gigante pubblicò sulla rivista La Parola de Passato una breve nota, «Parmenide Uliade», che attirava l’attenzione su due iscrizioni anch’esse emerse grazie agli scavi condotti dal Prof. Napoli. Si gettarono allora le premesse per una progressiva riscoperta della patria di Parmenide e Zenone, e l’emozione dei primi visitatori colti venne alimentata dalla memorabile foga con cui, intorno al 1970, Antonio Capizzi si dedicò a proclamare che non può capire Parmenide chi non ha visto gli scavi. La scoperta del sistema viario che collegava il quartiere meridionale con quello settentrionale, di cui fanno parte la Porta Rosa e la cosiddetta Porta arcaica, con il conseguente disvelamento della topografia del sito, hanno stimolato lo studioso di filosofia antica Antonio Capizzi, a una rilettura affascinante,[6] ma non universalmente accettata,[7] del proemio Parmenideo al poema in versi Peri Physeos (Sulla Natura).  Antonio Capizzi, La porta di Parmenide, Roma, 1975 e, dello stesso autore, Introduzione a Parmenide, Bari, 1975. PARMENIDE SULLA NATURA Introduzione, traduzione, note e commento a cura di Dario Zucchello PREMESSA Il lavoro qui proposto è il risultato di anni di confronto con il testo e la letteratura parmenidei, sollecitato dalla discussione con l’amico Livio Rossetti, cui sono riconoscente per stimoli, idee ed esempio, e alla cui vivacità e intelligenza d’approccio alla cultura preplatonica sono debitore di non pochi elementi di riflessione. Per rintracciare nel tempo le origini di questo specifico interesse eleatico, devo invece risalire agli anni universitari pisani, alle lezioni di Giorgio Colli, nel periodo in cui i volumi della Sapienza greca stavano vedendo la luce presso l’editore Adelphi: il primo impatto con il pensatore di Elea avvenne infatti nei riferimenti alla discussione intorno alla natura della dialettica arcaica e all’origine della filosofia, nonché attraverso la lettura del Parmenide platonico, proprio in occasione di un corso seguito, tra gli altri, anche da due affermati studiosi e recenti editori dell’opera del sapiente di Elea: Angelo Tonelli e Riccardo Di Giuseppe. Prima dell’impegnativo lavoro di esegesi che ha richiesto una paziente frequentazione delle interpretazioni classiche e contemporanee, la mia fatica (la fatica di chi non ha ricevuto un’educazione filologica) si è concentrata sulla restituzione di un testo greco che tenesse conto dei contributi originali degli editori più recenti, conservando tuttavia, a dispetto delle molte suggestioni, una coerenza complessiva. La traduzione non ha alcuna pretesa di conservare le qualità letterarie del verso epico, puntando piuttosto alla massima prossimità possibile ai termini e alla costruzione dei versi stessi. Il mio sforzo non attende quindi riconoscimenti per originalità ed efficacia nella resa del testo parmenideo: esso ha puntato piuttosto, sin dall’inizio, a ricostruire la fi- sionomia di un’opera complessa, cercando di strapparla alle ipoteche metafisiche da cui è stata spesso condizionata la lettura. Ho già avuto modo di proporre le mie idee sulla posizione del poema nel quadro della storia della sapienza arcaica in due saggi stesi in parallelo alla composizione della presente edizione: Parmenide e la tradizione del pensiero greco arcaico (ovvero, della sua eccentricità), in Il quinto secolo. Studi di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S. Giombini e F. Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011; Parmenide e la περὶ φύσεως ἱστορία, in Elementi eleatici, a cura di I. Pozzoni, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2012. Il lettore troverà nel commento ai frammenti e nella introduzione generale un’ampia difesa della lettura “cosmologica“ del poema, ma, allo stesso tempo, attenzione per le tracce delle interazioni di Parmenide con la cultura del suo tempo: un campo d’indagine che ritengo ancora del tutto aperto a nuove suggestioni. Nel presentare il risultato del mio lavoro mi sia concesso ringraziare i miei anziani genitori per il sostegno che non mi hanno fatto mai mancare e che ha reso possibile le mie ricerche e i mei studi, e Umbi e Gigì per la loro pazienza. Nonostante tutto. A loro questa fatica è dedicata. Dario Zucchello Como, febbraio 2014 4 INTRODUZIONE IL POEMA E IL SUO TEMA Secondo quanto ci attesta Diogene Laerzio (II-III secolo), Parmenide sarebbe autore di un'unica opera: οἱ δὲ [sc. κατέλιπον] ἀνὰ ἓν σύγγραμμα· Μέλισσος, Π., Ἀναξαγόρας altri – Melisso, Parmenide e Anassagora – [lasciarono] un unico scritto (DK 28 A13), un poema in esametri, cui la tradizione posteriore attribuisce la titolazione di Περὶ φύσεως: ἢ ὅτι Περὶ φύσεως ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ Μέλισσος καὶ Π. ... καὶ μέντοι οὐ περὶ τῶν ὑπὲρ φύσιν μόνον, ἀλλὰ καὶ περὶ τῶν φυσικῶν ἐν αὐτοῖς τοῖς συγγράμμασι διελέγοντο καὶ διὰ τοῦτο ἴσως οὐ παρηιτοῦντο Περὶ φύσεως ἐπιγράφειν Sia Melisso sia Parmenide intitolarono i loro scritti Sulla natura .... E certo in questi scritti trattano non solo di ciò che è oltre la natura, ma anche delle cose naturali e per questo probabilmente non disdegnarono di intitolarli Sulla natura (Simplicio; DK 28 A14). 5 L'indagine περὶ φύσεως Che in effetti tale intestazione potesse risalire a Parmenide è stato sostenuto da Guthrie1 , sulla scorta della parodia che ne avrebbe fatto Gorgia con il suo Περὶ τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ φύσεως, anche se è comune la convinzione che, prima dei sofisti, la designazione di un testo avvenisse attraverso la citazione dell’incipit (che doveva risultare particolarmente incisivo), con l'indicazione del contenuto, preceduta dal nome dell'autore (sulla prima riga del testo, analogamente a quanto registriamo nel caso di Erodoto)2 . Il trattato ippocratico Sull'antica medicina riferisce la formula indentificativa περὶ φύσεως almeno ai testi della metà del V secolo a.C.: Ἐμπεδοκλῆς ἢ ἄλλοι οἳ περὶ φύσιος γεγράφασιν Empedocle e gli altri che scrissero sulla natura (De prisca medicina cap. 20). È opinione ampiamente condivisa che essa abbia funzionato, a posteriori, da etichetta per classificare una certa tipologia di scritti, manifestandone il tema: in questa direzione è possibile che, in particolare, la Συναγωγή di Ippia abbia contribuito a fissare un certo numero di categorie storiografiche tradizionali, tra cui appunto la nozione unificante di φύσις, la denominazione Περὶ φύσεως, il termine generico φυσιόλογος3 . Si tratta, infatti, di uno dei primi4 sforzi "dossografici", un'opera (molto utilizzata da Platone e Aristotele) intesa a selezionare, raccogliere, mettere in relazione e commentare gli enunciati trovati in ogni genere testuale (poetico e 1 W.K.C. Guthrie, The Sophists, C.U.P., Cambridge 1971, p. 194. 2 G. Naddaf, The Greek Concept of Nature, SUNY Press, New York 2005, p. 16; W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p. 12. 3 J.-F. Balaudé, Hippias le passeur, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, p. 296. 4 Gorgia ne avrebbe portato avanti uno analogo, ma connotato più in senso critico, per sottolineare gli insolubili contrasti tra filosofie. Gorgia avrebbe influenzato direttamente Isocrate, Platone e lo stesso Aristotele. 6 in prosa), di ogni epoca, per coglierne convergenze e stabilire linee di continuità 5 . In ogni caso, al di là della discussione sull'attendibilità storica di quel titolo per le opere del V secolo a.C., non è contestato il fatto che tra V e IV secolo a.C. fosse individuabile un gruppo di autori περὶ φύσεως, impegnato, in altre parole, in ricerche sulla natura delle cose: sebbene risulti problematico accertare se coloro che chiamiamo «filosofi presocratici» fossero consapevoli di contribuire a una specifica impresa culturale (sottolineandola nell'intestazione o incipit dei propri contributi), è tuttavia difficile negare che, almeno tra i contemporanei di Platone, si fosse diffusa la convinzione dell'esistenza di una tradizione di ricerca sulla natura (φυσιολογία), iniziata con Talete e conclusasi con Socrate6 . L'espressione περὶ φύσεως A quali contenuti ci si intendeva riferire con l'etichetta περὶ φύσεως? Quale significato è da attribuire a tale espressione? Secondo Naddaf7 , che al problema ha dedicato un'ampia indagine, con ἱστορία περὶ φύσεως si doveva intendere una storia dell'universo, dalle origini alla presente condizione: una storia che abbracciava nel suo insieme lo sviluppo del mondo (naturale e umano), dall'inizio alla fine. In effetti, origini e sviluppo sono etimologicamente implicati in φύσις: nella forma attiva-transitiva φύω, il radicale del sostantivo significa «crescere, produrre, generare»; in quella mediopassiva-intransitiva φύομαι, invece, «crescere, originare, nascere». La prima occorrenza del termine φύσις, nel libro X dell'Odissea (303), si registra nell'ambito delle istruzioni (da parte di Hermes all'eroe) per la preparazione di una «pozione efficace» (φάρμακον 5 Balaudé, op. cit., p. 291. 6 W. Leszl, Aristoteles on the Unity of Presocratic Philosophy. A Contribution to the Reconstruction of the Early Retrospective View of Presocratic Philosophy, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, cit., p. 357. 7 Op. cit., pp. 28-29. 7 ἐσθλόν) contro gli effetti delle «pozioni velenose» (φάρμακα λύγρα) di Circe: Odisseo racconta come Hermes, estratta dalla terra (ἐκ γαίης ἐρύσας) una pianta medicamentosa (μῶλυ), ne illustrasse la «natura» (καί μοι φύσιν αὐτοῦ ἔδειξε). Per un verso, in quel contesto, φύσις può apparire immediatamente sinonimo di εἶδος, μορφή, φύη, termini (ricorrenti in Omero) indicanti la «forma»: è per altro evidente, tuttavia, che quanto Hermes rivela non riguarda semplicemente l'aspetto esteriore, identificativo della pianta, piuttosto le sue effettive qualità e la costituzione interna da cui esse discendono. In particolare Hermes si riferisce alla radice, nera, da cui cresce il fiore dal colore opposto, bianco: utilizza il termine, quindi, per denotare non tanto la forma fenomenica, né propriamente quella che potremmo anacronisticamente definire l'essenza della pianta, quanto la sua origine (la radice), differente da quel che appare (il fiore, che ne è comunque sviluppo). In questo senso il termine φύσις occorre nelle più antiche citazioni della sapienza greca: τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι, πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται Di questo logos che è sempre gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di udirlo, sia subito dopo averlo udito; sebbene tutto infatti accada secondo questo logos, si mostrano privi di esperienza, mentre si misurano con parole e azioni quali quelle che io presento, analizzando ogni cosa secondo natura e mostrando come è. Ma agli altri uomini rimane celato [sfugge] quello che fanno da svegli [dopo essersi destati], così come sono dimentichi di quello che fanno dormendo (Sesto Empirico; DK 22 B1) φύσις δὲ καθ’ Ἡράκλειτον κρύπτεσθαι φιλεῖ 8 la natura, secondo Eraclito, ama [è solita] nascondersi (Temistio; DK 22 B123). Sebbene nell'incipit dello scritto di Eraclito l'espressione κατὰ φύσιν sia per lo più resa dagli interpreti moderni intendendo φύσις come «natura, essenza», incrociando i due frammenti eraclitei è inevitabile pensare al passo omerico sull'erba moly: l'«origine» che si cela dietro il fenomeno8 . In questa accezione la φύσις – secondo l'Efesio – «ama nascondersi». Kahn9 ha marcato, invece, come la formula del frammento B1 di Eraclito attesti già un uso "tecnico" del termine nel linguaggio contemporaneo, per designare il «carattere essenziale» di una cosa, unitamente al processo da cui scaturirebbe: la comprensione della «natura» di una cosa passerebbe attraverso la ricostruzione del suo processo di sviluppo. Analogamente Naddaf valorizza la dimensione dinamica implicita in φύσις: «la costituzione reale di una cosa così come si realizza – dall'inizio alla fine – con tutte le sue proprietà»10 . Il modello nella tradizione medica Se ora torniamo al trattato ippocratico sull'Antica medicina, da cui abbiamo tratto conferma dell'esistenza (almeno alla metà di V secolo a.C.) di una produzione a posteriori classificata come περὶ φύσιος, possiamo evincere dal contesto alcuni elementi del modello: Λέγουσι δέ τινες καὶ ἰητροὶ καὶ σοφισταὶ ὡς οὐκ ἔνι δυνατὸν ἰητρικὴν εἰδέναι ὅστις μὴ οἶδεν ὅ τί ἐστιν ἄνθρωπος·ἀλλὰ τοῦτο δεῖ καταμαθεῖν τὸν μέλλοντα ὀρθῶς θεραπεύσειν τοὺς ἀνθρώπους. Τείνει δὲ αὐτέοισιν ὁ λόγος ἐς φιλοσοφίην, καθάπερ Ἐμπεδοκλῆς ἢ ἄλλοι οἳ 8 M.L. Gemelli Marciano, Lire du début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques, «Philosophie Antique», 7, 2007 (Présocratiques), pp. 16-17. 9 Ch.H. Kahn, Anaximander and The Origins of Greek Cosmology, Hackett Publishing Company, Indianapolis 1994 (edizione originale 1960), pp. 201-202. 10 Naddaf, op. cit., p. 15. 9 περὶ φύσιος γεγράφασιν ἐξ ἀρχῆς ὅ τί ἐστιν ἄνθρωπος, καὶ ὅπως ἐγένετο πρῶτον καὶ ὅπως ξυνεπάγη. Ἐγὼ δὲ τουτέων μὲν ὅσα τινὶ εἴρηται σοφιστῇ ἢ ἰητρῷ, ἢ γέγραπται περὶ φύσιος, ἧσσον νομίζω τῇ ἰητρικῇ τέχνῃ προσήκειν ἢ τῇ γραφικῇ. Νομίζω δὲ περὶ φύσιος γνῶναί τι σαφὲς οὐδαμόθεν ἄλλοθεν εἶναι ἢ ἐξ ἰητρικῆς. Alcuni medici e sapienti [sofisti] sostengono che nessuno possa conoscere la medica a meno di non sapere che cosa sia l'uomo, ma che ciò debba conoscere colui che intenda curare correttamente gli uomini. Il loro discorso verte dunque sulla filosofia, proprio come nel caso di Empedocle o degli altri che scrissero sulla natura: che cosa sia dal principio l'uomo, come sia stato dapprima generato e come costituito. Io ritengo che quanto è stato scritto da medici e filosofi sulla natura abbia più a che fare con il disegno che con la medicina. Ritengo che in nessun altro modo si possa conoscere qualcosa di chiaro sulla natura se non attraverso la medicina (De prisca medicina cap. 20). L'autore, evidentemente polemico, marca in effetti lo scarto tra indagine medica e indagine περὶ φύσιος: nell'apertura dell'opera aveva contrapposto all'approccio di coloro che ricorrevano a postulazioni e ipotesi (ὑποθέμενοι) – cioè speculazioni - per l'indagine dei fenomeni celesti e terrestri (περὶ τῶν μετεώρων ἢ τῶν ὑπὸ γῆν), il principio e il metodo (ἀρχὴ καὶ ὁδὸς) della medicina, in altre parole le «scoperte» (τὰ εὑρημένα) avvenute nel corso del tempo e l'osservazione11. Per avere un'idea più precisa dell'impostazione alternativa che egli andava criticando, possiamo leggere un altro trattato ippocratico – il De carnibus – il cui estensore sottolinea di prendere le mosse da convinzioni condivise (κοινῇσι γνώμῃσι): Περὶ δὲ τῶν μετεώρων οὐδὲ δέομαι λέγειν, ἢν μὴ τοσοῦτον ἐς ἄνθρωπον ἀποδείξω καὶ τὰ ἄλλα ζῶα, ὁκόσα ἔφυ καὶ ἐγένετο, καὶ ὅ τι ψυχή ἐστιν, καὶ ὅ τι τὸ ὑγιαίνειν, 11 Naddaf, op. cit., pp. 24-25. 10 καὶ ὅ τι τὸ κάμνειν, καὶ ὅ τι τὸ ἐν ἀνθρώπῳ κακὸν καὶ ἀγαθὸν, καὶ ὅθεν ἀποθνήσκει. Non devo parlare di questioni celesti se non per quanto necessario a mostrare, rispetto all'uomo e a tutti gli altri viventi, come si sono generati e sviluppati, che cosa sia l'anima, che cosa la salute e la malattia, che cosa sia cattivo e buono nell'uomo, e perché muoia (De carnibus 1). Il passo rivela quelle che dovevano essere le comuni assunzioni (le ὑποθέσεις contro cui polemizza l'Antica medicina) nella tradizione della ἱστορία περὶ φύσεως: lo schema adottato è infatti il seguente: (i) originaria caoticità e indistinzione di tutte le cose; (ii) processo di discriminazione degli elementi (etere, aria, terra); (iii) formazione dei corpi. Centrale risulta il parallelo tra formazione dei viventi e formazione del cosmo che deve aver effettivamente costituito un asse portante nella cultura arcaica, sin dalla produzione teogonica. Ciò risulta confermato dall'autore anonimo del De diaeta: Φημὶ δὲ δεῖν τὸν μέλλοντα ὀρθῶς ξυγγράφειν περὶ διαίτης ἀνθρωπίνης πρῶτον μὲν γνῶναι καὶ διαγνῶναι· γνῶναι μὲν ἀπὸ τίνων συνέστηκεν ἐξ ἀρχῆς, διαγνῶναι δὲ ὑπὸ τίνων μερῶν κεκράτηται· εἴ τε γὰρ τὴν ἐξ ἀρχῆς σύστασιν μὴ γνώσεται, ἀδύνατος ἔσται τὰ ὑπ’ ἐκείνων γιγνόμενα γνῶναι· εἴ τε μὴ γνώσεται τὸ ἐπικρατέον ἐν τῷ σώματι, οὐχ ἱκανὸς ἔσται τὰ ξυμφέροντα τῷ ἀνθρώπῳ προσενεγκεῖν Affermo che colui che intenda scrivere correttamente sul regime di vita dell'uomo deve prima conoscere e riconoscere la natura di tutto l'uomo: conoscere allora da quali cose è composto dal principio, riconoscere da quali parti è governato. Se non conosce infatti quella composizione originaria, sarà incapace di conoscere quanto da essa generato; se poi non conosce quel che prevale nel corpo, non sarà in grado di prescrivere all'uomo il trattamento adeguato (De diaeta I, 2) Conoscere «la natura di tutto l'uomo» (παντὸς φύσιν ἀνθρώπου) è condizione del corretto intervento medico: ciò implica eviden- 11 temente conoscere (i) quanto costituisce originariamente l'uomo (ἀπὸ τίνων συνέστηκεν ἐξ ἀρχῆς), per rintracciarne e riconoscerne gli effetti (τὰ ὑπ’ ἐκείνων γιγνόμενα), e (ii) le componenti che lo governano (ὑπὸ τίνων μερῶν κεκράτηται). Conoscere la natura comporta, insomma, risalire alla composizione originaria e al successivo processo. Significativamente questa riduzione al principio riconduce «tutte le cose» a due elementi originari, fuoco e acqua: Ξυνίσταται μὲν οὖν τὰ ζῶα τά τε ἄλλα πάντα καὶ ὁ ἄνθρωπος ἀπὸ δυοῖν, διαφόροιν μὲν τὴν δύναμιν, συμφόροιν δὲ τὴν χρῆσιν, πυρὸς λέγω καὶ ὕδατος I viventi e tutte le altre cose e anche l'uomo sono composti da due elementi, l'uno ha il potere di differenziare, l'altro il temperamento che combina: intendo il fuoco e l'acqua (De diaeta I, 3) L'analogia tra formazione biologica dell'individuo umano (nel senso dell'odierna embriologia) e processi di strutturazione dell'universo (cosmogonia), è un dato riscontrato anche nelle testimonianze relative ad Anassimandro e autori pitagorici, oltre che nei precedenti mitici 12 : l'antropologia non poteva prescindere dalla antropogonia, come la cosmologia dalla cosmogonia. Altre tracce antiche del modello Se queste indicazioni - ricavate dalla letteratura scientifica risalente plausibilmente al V-IV secolo a.C. – consentono di farsi un'idea circa la ricezione antica della περὶ φύσεως ἱστορία e dunque dell'argomento cui i pensatori arcaici avevano dedicato le loro opere, alle origini della letteratura filosofica, prima che il modello si affermasse e consolidasse definitivamente nella narrazione peripatetica, un primo abbozzo ne era stato tracciato in un celebre passo del Fedone platonico: 12 Naddaf, op. cit., pp. 22-23. 12 ἐγὼ γάρ, ἔφη, ὦ Κέβης, νέος ὢν θαυμαστῶς ὡς ἐπεθύμησα ταύτης τῆς σοφίας ἣν δὴ καλοῦσι περὶ φύσεως ἱστορίαν· ὑπερήφανος γάρ μοι ἐδόκει εἶναι, εἰδέναι τὰς αἰτίας ἑκάστου, διὰ τί γίγνεται ἕκαστον καὶ διὰ τί ἀπόλλυται καὶ διὰ τί ἔστι Io, Cebete, da giovane ero straordinariamente affascinato da quella sapienza che chiamano indagine sulla natura. Mi sembrava fosse magnifico conoscere le cause di ogni cosa, perché ogni cosa si generi, perché si corrompa e perché esista (96a). Il filosofo racconta la storia della fascinazione esercitata (non è chiaro se effettivamente sul protagonista Socrate o sullo stesso autore) da una forma di sapere – evidentemente già riconoscibile e dunque assestato, come rivela la formula impiegata («che chiamano», ἣν δὴ καλοῦσι) - in grado di rispondere agli interrogativi sulla generazione e corruzione, e così di dar ragione dell'esistenza di ciascuna cosa. Anticipando lo schema del primo libro della Metafisica aristotelica, Platone disegna una storia della sapienza incentrata sull'efficacia della esplicazione causale, nella quale intende marcare la svolta radicale rappresentata dalla propria «seconda navigazione» (δεύτερος πλοῦς): il filosofo non discute la necessità di ricondurre le cose alla loro ragion d’essere; contesta invece la riduzione limitata all’orizzonte delle cause fisiche, per Platone insufficienti a dar adeguatamente conto del perché della disposizione del tutto. È probabile che, pur attingendo a raccolte dossografiche organizzate in ambito sofistico, egli ne adottasse il materiale in modo creativo, allo scopo di giustificare e valorizzare una prospettiva filosofica peculiare13 . Un'ulteriore attestazione dell'originaria accezione dell'espressione περὶ φύσεως ἱστορία ritroviamo, tra i contemporanei di Platone, nel riscontro accidentale di un non-specialista come Senofonte: 13 M. Adomenas, Plato, Presocratics and the Question of Intellectual Genre, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, cit., p. 344. 13 οὐδεὶς δὲ πώποτε Σωκράτους οὐδὲν ἀσεβὲς οὐδὲ ἀνόσιον οὔτε πράττοντος εἶδεν οὔτε λέγοντος ἤκουσεν. οὐδὲ γὰρ περὶ τῆς τῶν πάντων φύσεως, ᾗπερ τῶν ἄλλων οἱ πλεῖστοι, διελέγετο σκοπῶν ὅπως ὁ καλούμενος ὑπὸ τῶν σοφιστῶν κόσμος ἔχει καὶ τίσιν ἀνάγκαις ἕκαστα γίγνεται τῶν οὐρανίων Ma nessuno mai vide o sentì Socrate fare o dire alcunché di irreligioso o empio. Egli infatti non si interessava della natura di tutte le cose, alla maniera della maggior parte degli altri, indagando come è fatto ciò che i sapienti chiamano "cosmo" e per quali necessità si produca ciascuno dei fenomeni celesti (Senofonte, Memorabili I, 1, 11). Non solo appare assodata - a livello di opinione diffusa - (i) la sostanziale equivalenza tra sapienza e ricerca «sulla natura di tutte le cose» (περὶ τῆς τῶν πάντων φύσεως), ma anche (ii) la funzionalità di cosmogonia e cosmologia (ὅπως [...] κόσμος ἔχει), e ulteriormente (iii) l'attenzione per la spiegazione di fenomeni specifici (ὅπως [...] τίσιν ἀνάγκαις ἕκαστα γίγνεται τῶν οὐρανίων). Una "istantanea" che aiuta a fissare, dall'esterno, i caratteri del naturalismo presocratico è infine costituita dal frammento dell’Antiope di Euripide (fr. 910 Nauck)14: ὄλβιος ὅστις τῆς ἱστορίας ἔσχε μάθησιν, μήτε πολιτῶν ἐπὶ πημοσύνην μήτ’ εἰς ἀδίκους πράξεις ὁρμῶν, ἀλλ’ ἀθανάτου καθορῶν φύσεως κόσμον ἀγήρων, πῇ τε συνέστη καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως. τοῖς δὲ τοιούτοις οὐδέποτ’ αἰσχρῶν ἔργων μελέδημα προσίζει 14 A. Laks, «Philosophes Présocratiques». Remarque sur la construction d’une catégorie de l’historiographie philosophique, in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, p. 20. 14 Beato è colui che alla ricerca ha dedicato la sua vita; egli né i suoi concittadini danneggerà né contro di loro compirà atti malvagi, ma, osservando della immortale natura l'ordine che non invecchia, ricercherà da quale origine fu composto e in che modo. Tali individui non saranno mai coinvolti in atti turpi. In questo caso, addirittura, abbiamo il privilegio di veder sottolineato dal poeta il nesso tra contemplazione (καθορᾶν) dell'«ordine che non invecchia» (κόσμον ἀγήρων) della «natura immortale» (ἀθανάτου φύσεως) e ricostruzione delle sue modalità di formazione. A dispetto degli aggettivi coinvolti - ἀθάνατος e ἀγήρως (di uso omerico ed esiodeo) – evidentemente il κόσμος oggetto d'attenzione – l'ordinamento attuale dei fenomeni – è percepito come il risultato di un processo di composizione (πῇ τε συνέστη καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως), e il suo studio non può prescindere dall'indagine (speculativa) sulle sue tappe. Il modello peripatetico Della περὶ φύσεως ἱστορία la storiografia peripatetica ha certamente fissato il canone interpretativo che ha pesato su tutta la tradizione: nella ricostruzione aristotelica delle origini della filosofia, infatti, si attribuisce alla «maggioranza di coloro che per primi filosofarono» (τῶν δὴ πρώτων φιλοσοφησάντων οἱ πλεῖστοι) la convinzione che «principi di tutte le cose» (ἀρχὰς πάντων) fossero «solo quelli nella forma di materia» (τὰς ἐν ὕλης εἴδει μόνας), così argomentando: ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης 15 ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono essere elemento e questo principio delle cose, e per questo credono che né si generi né si distrugga alcunché, dal momento che una tale natura si conserva sempre. (Metafisica I, 3 983 b8-13) Nella lettura di Aristotele, la specificità del contributo dei «primi filosofi» risiederebbe nella riduzione degli enti (ἅπαντα τὰ ὄντα) soggetti a divenire alla stabilità della φύσις soggiacente, ovvero, come lo stesso Aristotele precisa: ὥσπερ φασὶν οἱ μίαν τινὰ φύσιν εἶναι λέγοντες τὸ πᾶν, οἷον ὕδωρ ἢ πῦρ ἢ τὸ μεταξὺ τούτων come affermano coloro che sostengono che il tutto [l'universo] è una certa, unica natura, quale l'acqua o il fuoco o qualcosa di intermedio (Fisica I, 6 189 b2), all'unità di una sostanza materiale originaria, «elemento» (στοιχεῖον) e «principio» (ἀρχή) delle cose (τῶν ὄντων). Il quadro si definisce ulteriormente nella ricostruzione che Teofrasto propone delle origini in Anassimandro: [A.] [...] ἀρχήν τε καὶ στοιχεῖον εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον, πρῶτος τοῦτο τοὔνομα κομίσας τῆς ἀρχῆς. λέγει δ’ αὐτὴν μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλο τι τῶν καλουμένων εἶναι στοιχείων, ἀλλ’ ἑτέραν τινὰ φύσιν ἄπειρον, ἐξ ἧς ἅπαντας γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τοὺς ἐν αὐτοῖς κόσμους· ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι͵ καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν [B 1], ποιητικωτέροις οὕτως ὀνόμασιν αὐτὰ λέγων. δῆλον δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα μεταβολὴν τῶν τεττάρων στοιχείων οὗτος θεασάμενος οὐκ ἠξίωσεν ἕν τι τούτων ὑποκείμενον ποιῆσαι, ἀλλά τι ἄλλο παρὰ ταῦτα· οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ 16 ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως. [...] Anassimandro [...] affermò l’infinito principio e elemento delle cose che sono, adottando per primo questo nome di “principio”. Egli sostiene, infatti, che esso non sia né acqua né alcun altro di quelli che sono detti elementi, ma che sia una certa altra natura infinita, da cui originano tutti i cieli e i mondi in essi: «è secondo necessità che verso le stesse cose, da cui le cose che sono hanno origine, avvenga anche la loro distruzione; esse, infatti, pagano la pena e reciprocamente il riscatto della colpa, secondo l’ordine del tempo» [B1]. Così si esprime in termini molto poetici. È evidente allora che, avendo considerato la reciproca trasformazione dei quattro elementi, non ritenne adeguato porre alcuno di essi come sostrato, preferendo piuttosto qualcos’altro al di là di essi. Egli poi non fa discendere la generazione dalla alterazione dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno [...] (Simplicio; DK 12 A9). Senza scendere nel dettaglio dell'analisi, la testimonianza e la citazione lasciano intravedere chiaramente alcuni punti su cui si sarebbe concentrata l'indagine del Milesio: (i) l'individuazione di un principio-origine delle cose (ἀρχή τῶν ὄντων) sottoposte a generazione (γένεσις) e corruzione (φθορά); (ii) la formazione – nel linguaggio peripatetico della testimonianza - degli «elementi» (στοιχεία), costitutivi materiali da cui (ἐξ ὧν, «dalle quali cose») le cose hanno la loro generazione, e verso cui (εἰς ταῦτα, «verso quelle stesse cose») si produce (γίνεσθαι) la loro corruzione; (iii) le modalità del processo dalla natura originaria, attraverso gli elementi, agli enti: «secondo necessità» (κατὰ τὸ χρεών), secondo l’ordine del tempo» (κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν); (iv) il perché, la causa del processo: il costante e compensativo confronto conflittuale tra i contrari (διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας). Le osservazioni di Teofrasto documentano quindi, agli albori dell'indagine περὶ φύσεως, un'attenzione che non si esaurisce nella determinazione della materia originaria (secondo l'interpretazione 17 di Burnet15), ma si rivolge almeno anche ai processi di formazione delle «cose che sono» (come pensava Jaeger, accostando φύσις e γένεσις 16 ). Complessivamente ciò doveva conferire alla ricerca quella caratteristica impronta speculativa da cui l'autore dell'Antica medicina prendeva le distanze. Che l'interesse non dovesse comunque risolversi in una mera dimensione archeologica e abbracciare invece anche i risultati dei processi, e dunque l'ordinamento dei fenomeni, è suggerito da varie fonti. Aristotele, per esempio, marca in modo sufficientemente netto il focus cosmologico: οἱ μὲν οὖν ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι φιλοσοφήσαντες περὶ φύσεως περὶ τῆς ὑλικῆς ἀρχῆς καὶ τῆς τοιαύτης αἰτίας ἐσκόπουν, τίς καὶ ποία τις, καὶ πῶς ἐκ ταύτης γίνεται τὸ ὅλον, καὶ τίνος κινοῦντος, οἷον νείκους ἢ φιλίας ἢ νοῦ ἢ τοῦ αὐτομάτου, τῆς δ’ ὑποκειμένης ὕλης τοιάνδε τινὰ φύσιν ἐχούσης ἐξ ἀνάγκης, οἷον τοῦ μὲν πυρὸς θερμήν, τῆς δὲ γῆς ψυχράν, καὶ τοῦ μὲν κούφην, τῆς δὲ βαρεῖαν. Οὕτως γὰρ καὶ τὸν κόσμον γεννῶσιν. Gli antichi, che per primi filosofarono intorno alla natura, indagarono, circa il principio materiale e la causa siffatta, che cosa e quale fosse, e in che modo da questa si generasse l'intero, e da che cosa il movimento, ad esempio dall'odio o dall'amore, o dall'intelletto, o dal caso, poiché la materia sostrato ha una certa siffatta natura per necessità, ad esempio calda quella del fuoco, fredda quella della terra, una leggera, l'altra pesante; in questo modo, infatti generano anche il cosmo. (Aristotele, Le parti degli animali, 640 b4-12. Traduzione di A. Carbone, BUR Rizzoli, Milano 2002). La ricerca περὶ φύσεως degli «antichi primi filosofi» (ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι φιλοσοφήσαντες) sarebbe stata variamente modulata intorno a: 15 J. Burnet, Early Greek Philosophy, Black, London 19203 , pp. 11-12. 16 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze 1961, p. 32. 18 (i) natura e proprietà del «principio materiale» (περὶ τῆς ὑλικῆς ἀρχῆς); (ii) individuazione della causa del movimento (καὶ τίνος κινοῦντος); (iii) modalità di generazione dell'«intero» (πῶς ἐκ ταύτης γίνεται τὸ ὅλον) ovvero del «cosmo» (τὸν κόσμον γεννῶσιν). Parmenide e la φύσις Tornando ora alla titolazione del Poema parmenideo, le testimonianze di coloro che hanno contribuito a trasmetterne citazioni – sopra tutti Sesto Empirico e Simplicio (il secondo molto probabilmente disponeva di copia dell'opera, il primo plausibilmente) – sono univoche nell'attribuirgli l'intestazione Περὶ φύσεως. Abbiamo già letto le affermazioni di Simplicio (ἢ ὅτι Περὶ φύσεως ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ Μέλισσος καὶ Π.), in linea con quelle di Sesto: ὁ δὲ γνώριμος αὐτοῦ Παρμενίδης [...] ἐναρχόμενος γοῦν τοῦ Περὶ φύσεως γράφει τοῦτον τὸν τρόπον «Il discepolo di lui (= Senofane), Parmenide [...] iniziando appunto il Peri physeōs scrive in questo modo […]» (Adv. Math. VII, 111). Si tratta ora di capire entro quali schemi avvenisse la ricezione dell'opera e del pensiero di Parmenide nella tradizione περὶ φύσεως. Parmenide nella περὶ φύσεως ἱστορία Prescindendo dagli inquadramenti della produzione per noi frammentaria di Gorgia e Ippia, alla collocazione e al ruolo di Parmenide nel quadro della sapienza antica pensò per primo Platone. Delineando in un lungo passo del Sofista (242 b6-251 a4), che costituisce indubbiamente l'antecedente diretto della disamina 19 dossografica aristotelica, il panorama delle teorie dell’essere, egli introduce di fatto alcune categorie destinate a grande fortuna storiografica: l'occasione è fornita proprio da un rilievo su Parmenide: Εὐκόλως μοι δοκεῖ Παρμενίδης ἡμῖν διειλέχθαι καὶ πᾶς ὅστις πώποτε ἐπὶ κρίσιν ὥρμησε τοῦ τὰ ὄντα διορίσασθαι πόσα τε καὶ ποῖά ἐστιν Mi sembra che con leggerezza si siano rivolti a noi Parmenide e tutti coloro che a un certo punto si sono impegnati a determinare gli enti: quanti e quali enti esistano (242 c4-6). L’opposizione tra pensatori pluralisti e unitari, e la «battaglia di giganti» (γιγαντομαχία) tra coloro che riducono «tutto a corpo» (εἰς σῶμα πάντα) e coloro che, al contrario, pongono l'essere (οὐσία) «nelle idee» (ἐν εἴδεσιν), sono fatte scaturire proprio dai problemi (πόσα τε καὶ ποῖά ἐστιν, «quanti e quali enti esistano») sollevati (anche) dal Poema. L'ottica "ontologica" adottata non può nascondere, nel contesto, il riferimento all'indagine περὶ φύσεως, e, in particolare, l'equivalenza tra ὄντα e ἄρχαί17: Μῦθόν τινα ἕκαστος φαίνεταί μοι διηγεῖσθαι παισὶν ὡς οὖσιν ἡμῖν, ὁ μὲν ὡς τρία τὰ ὄντα, πολεμεῖ δὲ ἀλλήλοις ἐνίοτε αὐτῶν ἄττα πῃ, τοτὲ δὲ καὶ φίλα γιγνόμενα γάμους τε καὶ τόκους καὶ τροφὰς τῶν ἐκγόνων παρέχεται· δύο δὲ ἕτερος εἰπών, ὑγρὸν καὶ ξηρὸν ἢ θερμὸν καὶ ψυχρόν, συνοικίζει τε αὐτὰ καὶ ἐκδίδωσι Mi sembra che ognuno racconti una storia, come fossimo bambini: l'uno [racconta] che gli esseri sono tre, alcuni di essi talvolta sono in qualche modo in lotta reciproca, talvolta al contrario, diventano amici, si sposano, fanno figli e procurano nutrimento alla progenie; un altro, invece, sostiene che [gli esseri] sono due - umido 17 Su questo punto N.L. Cordero nel suo commento a Platon, Le Sophiste, traduction et presentation par N.L. Cordero, Flammarion, Paris 1993, p. 240; J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides, Clarendon Press, Oxford 1999, p. 190. 20 e secco ovvero caldo e freddo -, li fa convivere e li unisce in matrimonio (242 c8-d4). È appunto all'interno di questo ampio disegno di ricostruzione della tradizione di pensiero precedente che Platone fa della «stirpe eleatica» (Ἐλεατικὸν ἔθνος) 18 il prototipo del “monismo”. È chiaro nel contesto come esso sia, tuttavia, da intendere non ingenuamente - non come se esistesse una sola cosa -, ma in riferimento alla discussione sulla realtà fondamentale: alcuni pongono tre principi, altri due, gli Eleati uno solo: τὸ δὲ παρ’ ἡμῖν Ἐλεατικὸν ἔθνος, ἀπὸ Ξενοφάνους τε καὶ ἔτι πρόσθεν ἀρξάμενον, ὡς ἑνὸς ὄντος τῶν πάντων καλουμένων οὕτω διεξέρχεται τοῖς μύθοις da noi la stirpe eleatica - che ha avuto inizio da Senofane e anche prima – riferisce le proprie storie secondo cui ciò che è chiamato "tutto" [tutte le cose] non è che un solo essere (Sofista 242 d5-6). Nell'intenzione di Platone, ricondurre l'eleatismo a Senofane era probabilmente funzionale alla sua collocazione entro un dibattito culturalmente definito19: nella prospettiva di questa ricerca, in particolare, risulta significativa la scelta di non isolare il contributo di Parmenide dallo sfondo d'indagine sui principi (τὰ ὄντα διορίσασθαι). In termini analoghi il Parmenide (180a) delinea le posizioni di Parmenide e Zenone: σὺ μὲν γὰρ ἐν τοῖς ποιήμασιν ἓν φῂς εἶναι τὸ πᾶν, καὶ τούτων τεκμήρια παρέχῃ καλῶς τε καὶ εὖ· ὅδε δὲ αὖ οὐ πολλά φησιν εἶναι, τεκμήρια δὲ καὶ αὐτὸς πάμπολλα καὶ παμμεγέθη παρέχεται. τὸ οὖν τὸν μὲν ἓν φάναι, τὸν δὲ μὴ 18 È probabile che la genealogia sfumata del gruppo eleatico (ἀπὸ Ξενοφάνους τε καὶ ἔτι πρόσθεν ἀρξάμενον) fosse motivata dall'intenzione di accentuare la "profondità" (l'antichità) della dottrina di Parmenide in direzione delle origini. Su questo il commento di F. Fronterotta in Platone, Sofista, a cura di F. Fronterotta, BUR Rizzoli, Milano 2007, p. 341-342. 19 Palmer, op. cit., pp. 191-192. 21 πολλά, καὶ οὕτως ἑκάτερον λέγειν ὥστε μηδὲν τῶν αὐτῶν εἰρηκέναι δοκεῖν σχεδόν τι λέγοντας ταὐτά Tu [Parmenide], infatti, nel tuo poema affermi che il tutto [l'universo] è uno, e porti prove di ciò in modo brillante ed efficace; questi [Zenone], invece, sostiene che i molti non esistono, e anche lui porta prove molto numerose e consistenti. Il primo dice quindi che esiste l'uno, l'altro che i molti non esistono: così ciascuno parla in modo che sembri che non sosteniate alcunché di simile, mentre in realtà affermate le stesse cose, mentre il Teeteto (180e) sottolinea la continuità tra Parmenide e Melisso: καὶ ἄλλα ὅσα Μέλισσοί τε καὶ Παρμενίδαι ἐναντιούμενοι πᾶσι τούτοις διισχυρίζονται, ὡς ἕν τε πάντα ἐστὶ καὶ ἕστηκεν αὐτὸ ἐν αὑτῷ οὐκ ἔχον χώραν ἐν ᾗ κινεῖται e le altre [dottrine] che i vari Melissi e Parmenidi propongono con convinzione, opponendosi a tutti costoro [i sostenitori della dottrina del flusso universale], secondo cui tutte le cose sono uno e questo rimane stabile in se stesso, non avendo luogo in cui muoversi. Ciò che questi passi confermano è – almeno nell’elaborazione della maturità di Platone20 - la riduzione della dottrina eleatica alla formula ἓν τὸ πᾶν (ovvero ἕν πάντα), con un’implicita valenza cosmologica che si affaccia, oltre che in Parmenide (180a), nel Sofista (244e): Εἰ τοίνυν ὅλον ἐστίν, ὥσπερ καὶ Παρμενίδης λέγει, πάντοθεν εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ, 20 Sulle fasi della ricezione platonica di Parmenide è oggi fondamentale J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides, cit.. 22 τοιοῦτόν γε ὂν τὸ ὂν μέσον τε καὶ ἔσχατα ἔχει, ταῦτα δὲ ἔχον πᾶσα ἀνάγκη μέρη ἔχειν Se allora è un intero, come sostiene anche Parmenide: «da tutte le parti simile a massa di ben rotonda palla, a partire dal centro ovunque di ugual consistenza: è necessario infatti che esso non sia in qualche misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra», essendo tale ciò che è avrà un centro e dei limiti estremi, e, avendoli, necessariamente avrà parti, e che il Timeo sembra esplicitare21, riferendo l'opera di produzione del cosmo da parte del demiurgo: σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ συγγενές. τῷ δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ ζῷα περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα τὸ περιειληφὸς ἐν αὑτῷ πάντα ὁπόσα σχήματα· διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ πρὸς τὰς τελευτὰς ἴσον ἀπέχον, κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν τε αὐτὸ ἑαυτῷ σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο ἔξωθεν, οὐδ’ ἀκοῆς, οὐδὲ γὰρ ἀκουστόν· πνεῦμά τε οὐκ ἦν περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς, οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς ἦν ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο, τὴν δὲ πρότερον ἐξικμασμένην ἀποπέμψοι πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ ποθεν - οὐδὲ γὰρ ἦν - αὐτὸ γὰρ ἑαυτῷ τροφὴν τὴν ἑαυτοῦ φθίσιν παρέχον καὶ πάντα ἐν ἑαυτῷ καὶ ὑφ’ ἑαυτοῦ πάσχον καὶ δρῶν ἐκ τέχνης γέγονεν E gli diede una figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura congeniale al vivente che doveva contenere in sé 21 Secondo le indicazioni di Palmer (op. cit., pp. 193 ss.) sulla concentrazione di termini parmenidei nel dialogo. 23 tutti i viventi non poteva essere che quella che comprendesse in sé tutte le figure possibili; per cui, lo tornì come una sfera, in una forma circolare in ogni parte ugualmente distante dal centro alle estremità, che è la più perfetta di tutte le figure e la più simile a se stessa, giudicando il simile assai più bello del dissimile. E ne rese perfettamente liscio l'intero contorno esterno per molte ragioni. Infatti, non aveva bisogno di occhi, perché nulla era rimasto da vedere all'esterno, né di orecchie, perché nulla era rimasto da sentire; né vi era intorno aria, che dovesse essere respirata, né aveva bisogno di un organo per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori; infatti, è stato prodotto in modo da offrire a se stesso, come nutrimento, la propria corruzione e da avere in sé e da sé ogni azione e ogni passione (33 b-c)22 . Indizi lessicali che invitano a supporre che Platone vedesse nell'Essere di Parmenide una sorta di entità cosmica23, nell'interpretazione platonica modellata secondo il precedente della divinità cosmica di Senofane24. Come ha prospettato Brisson25, la stessa discussione del Parmenide potrebbe essere imperniata sull'alternativa: (a) tutte le cose (l'universo) costituiscono una realtà unica (ἓν εἶναι τὸ πᾶν) – come sarebbe stato affermato da Parmenide; la molteplicità degli enti è solo apparente, dal momento che la loro pluralità reale condurrebbe a paradossi: in questo senso «i molti non esistono» (οὐ πολλά εἶναι) - secondo quanto argomentato da Zenone; 22 Platone, Timeo, introduzione, traduzione e note di F. Fronterotta, BUR Rizzoli, Milano 2003. 23 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 24. 24 Su questo punto Palmer, op. cit., pp. 193 ss.. 25 L. Brisson, Introduction a Platon, Parménide, présentation et traduction par L. Brisson, Flammarion, Paris 1994, pp. 20-21. 24 (b) esistono realmente molteplici realtà sensibili, esse sono componenti dell'universo a loro volta costituite da componenti elementari26 . Eccentricità di Parmenide nella περὶ φύσεως ἱστορία Nel terzo capitolo del primo libro della Metafisica, Aristotele, riprende uno schema platonico, contrapponendo «coloro [...] che sostennero che uno solo è il sostrato» (οἱ [...] ἓν φάσκοντες εἶναι τὸ ὑποκείμενον) a «coloro che ammettono più principi» (τοῖς δὲ δὴ πλείω ποιοῦσι), ribadendone poi (nel quinto capitolo) le implicazioni cosmologiche, in conclusione della discussione sui Pitagorici: τῶν μὲν οὖν παλαιῶν καὶ πλείω λεγόντων τὰ στοιχεῖα τῆς φύσεως ἐκ τούτων ἱκανόν ἐστι θεωρῆσαι τὴν διάνοιαν· εἰσὶ δέ τινες οἳ περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως ἀπεφήναντο, τρόπον δὲ οὐ τὸν αὐτὸν πάντες οὔτε τοῦ καλῶς οὔτε τοῦ κατὰ τὴν φύσιν. Da queste cose è possibile intendere a sufficienza il pensiero degli antichi che sostenevano la pluralità di elementi della natura. Ci sono poi coloro che parlarono del tutto [dell'universo] come di un'unica natura, ma non tutti allo stesso modo, né per convenienza né per conformità alla natura (986 b8-12). Evidentemente in relazione a Parmenide e ai suoi seguaci, Aristotele osserva: εἰς μὲν οὖν τὴν νῦν σκέψιν τῶν αἰτίων οὐδαμῶς συναρμόττει περὶ αὐτῶν ὁ λόγος (οὐ γὰρ ὥσπερ ἔνιοι τῶν φυσιολόγων ἓν ὑποθέμενοι τὸ ὂν ὅμως γεννῶσιν ὡς ἐξ ὕλης τοῦ ἑνός, ἀλλ’ ἕτερον τρόπον οὗτοι λέγουσιν· ἐκεῖνοι μὲν γὰρ προστιθέασι κίνησιν, γεννῶντές γε τὸ 26 Ivi, p. 21. 25 πᾶν, οὗτοι δὲ ἀκίνητον εἶναί φασιν)· οὐ μὴν ἀλλὰ τοσοῦτόν γε οἰκεῖόν ἐστι τῇ νῦν σκέψει. Una discussione intorno a costoro esula dall’esame attuale delle cause: essi, infatti, non parlano come alcuni dei naturalisti, i quali, posto l’essere come uno, fanno comunque nascere [le cose] dall’uno come da materia; essi parlano, invece, in altro modo. Mentre quelli, in effetti, aggiungono il movimento, facendo nascere il tutto [l’universo], questi, al contrario, sostengono che [il tutto] sia immobile. Almeno quanto [segue], tuttavia, è appropriato alla presente ricerca (986 b12-18). Nell'ambito di una indagine sulle cause e sui principi primi, il confronto con le dottrine eleatiche non avrebbe dovuto trovare spazio: in questo senso è marcata una radicale differenza rispetto alla ricerca dei «naturalisti» (ἔνιοι τῶν φυσιολόγων). Essendosi espressi «sull'universo [sul tutto] come fosse un'unica natura [realtà]» (περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως), «immobile» (ἀκίνητον) e immutabile, gli Eleati, in effetti, lo avevano pensato incausato27 . In De Caelo si sottolinea ulteriormente la peculiare posizione di Parmenide e Melisso: Οἱ μὲν οὖν πρότερον φιλοσοφήσαντες περὶ τῆς ἀληθείας καὶ πρὸς οὓς νῦν λέγομεν ἡμεῖς λόγους καὶ πρὸς ἀλλήλους διηνέχθησαν. Οἱ μὲν γὰρ αὐτῶν ὅλως ἀνεῖλον γένεσιν καὶ φθοράν· οὐθὲν γὰρ οὔτε γίγνεσθαί φασιν οὔτε φθείρεσθαι τῶν ὄντων, ἀλλὰ μόνον δοκεῖν ἡμῖν, οἷον οἱ περὶ Μέλισσόν τε καὶ Παρμενίδην, οὕς, εἰ καὶ τἆλλα λέγουσι καλῶς, ἀλλ’ οὐ φυσικῶς γε δεῖ νομίσαι λέγειν· τὸ γὰρ εἶναι ἄττα τῶν ὄντων ἀγένητα καὶ ὅλως ἀκίνητα μᾶλλόν ἐστιν ἑτέρας καὶ προτέρας ἢ τῆς φυσικῆς σκέψεως. Ἐκεῖνοι δὲ διὰ τὸ μηθὲν μὲν ἄλλο παρὰ τὴν τῶν αἰσθητῶν οὐσίαν ὑπολαμβάνειν εἶναι, τοιαύτας δέ τινας νοῆσαι πρῶτοι φύσεις, εἴπερ ἔσται τις γνῶσις ἢ φρόνησις, οὕτω μετήνεγκαν ἐπὶ ταῦτα τοὺς ἐκεῖθεν λόγους 27 Perplessità analoghe sono espresse e discusse da Aristotele nei primi capitoli della Fisica (I, 2 e 3). 26 Coloro dunque che dapprima filosofarono intorno alla verità sono stati in disaccordo sia rispetto ai discorsi che noi proponiamo, sia reciprocamente. Gli uni, infatti, eliminarono completamente generazione e corruzione: sostengono in vero che nessuna delle cose che sono si generi o si corrompa, ma semplicemente che ciò sembra a noi. Così i seguaci di Melisso e Parmenide, i quali, anche se si esprimono adeguatamente sulle altre cose, tuttavia non si deve credere che parlino da un punto di vista fisico, dal momento che l'essere alcuni degli enti ingenerati e completamente immobili è proprio piuttosto di un'indagine diversa e prima rispetto a quella fisica. Costoro, invece, da un lato non ritenevano esistesse altro oltre la sostanza dei sensibili, dall'altro per primi pensarono delle nature di tale specie, se doveva esserci una qualche forma di conoscenza o intelligenza: così trasferirono su questi enti [sensibili] i ragionamenti riferiti a quell'ambito»(Aristotele, De Caelo III, 1 298 b12-24). Alludendo esplicitamente a Melisso e Parmenide, Aristotele ne disloca il contributo rispetto a una ricerca incardinata sulla ricostruzione dei processi di «generazione e corruzione» (γένεσις καὶ φθορά): considerare gli enti «ingenerati» (ἀγένητα) e «completamente immobili» (ὅλως ἀκίνητα) è proprio «di un'indagine diversa e prima rispetto a quella fisica» (μᾶλλόν ἐστιν ἑτέρας καὶ προτέρας ἢ τῆς φυσικῆς σκέψεως). Eppure l'analisi della Metafisica rivela come, secondo Aristotele, l’eleatismo presentasse al proprio interno incrinature e fratture che l'appiattimento operato dalla dossografia sofistica doveva aver coperto o trascurato28. Nel primo libro (Ι, 3 984 a27-b4) – dopo aver discusso «l'opinione circa la natura» (περὶ τῆς φύσεως ἡ δόξα) dei pensatori orientati a ricercare la causa prima (περὶ τῆς πρώτης αἰτίας) in ambito materiale (di cui Talete sarebbe stato «i- 28 J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, OUP, Oxford 2009, p. 35 giustamente sottolinea come i raggruppamenti operati da Gorgia nel suo Sulla natura o sul non essere avessero incoraggiato l'assimilazione "riduttiva" di Parmenide e Melisso. Aristotele avrebbe avuto il merito di recuperare le differenze tra le relative posizioni. 27 niziatore», ἀρχηγὸς) – lo Stagirita marca una discontinuità nel contributo di Parmenide, capace di individuare la causa specifica del mutamento (τῆς μεταβολῆς αἴτιον): οἱ μὲν οὖν πάμπαν ἐξ ἀρχῆς ἁψάμενοι τῆς μεθόδου τῆς τοιαύτης καὶ ἓν φάσκοντες εἶναι τὸ ὑποκείμενον οὐθὲν ἐδυσχέραναν ἑαυτοῖς, ἀλλ’ ἔνιοί γε τῶν ἓν λεγόντων, ὥσπερ ἡττηθέντες ὑπὸ ταύτης τῆς ζητήσεως, τὸ ἓν ἀκίνητόν φασιν εἶναι καὶ τὴν φύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ γένεσιν καὶ φθοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαῖόν τε καὶ πάντες ὡμολόγησαν) ἀλλὰ καὶ κατὰ τὴν ἄλλην μετα βολὴν πᾶσαν· καὶ τοῦτο αὐτῶν ἴδιόν ἐστιν. τῶν μὲν οὖν ἓν φασκόντων εἶναι τὸ πᾶν οὐθενὶ συνέβη τὴν τοιαύτην συνιδεῖν αἰτίαν πλὴν εἰ ἄρα Παρμενίδῃ, καὶ τούτῳ κατὰ τοσοῦτον ὅσον οὐ μόνον ἓν ἀλλὰ καὶ δύο πως τίθησιν αἰτίας εἶναι· Coloro, dunque, che fin dall’inizio aderirono completamente a tale tipologia di ricerca e sostennero che uno solo è il sostrato, non si resero conto di questa difficoltà, ma alcuni di coloro che affermano tale unicità, quasi sopraffatti da questa ricerca, sostengono che l’uno è immobile e che lo è anche la natura nel suo complesso, non solo rispetto a generazione e corruzione - questa è, infatti, [convinzione] antica, su cui tutti concordavano -, ma anche rispetto a ogni altro genere di mutamento. Questa è loro peculiarità. A nessuno, pertanto, di coloro che affermarono che il tutto [l’universo] è uno è capitato di scoprire tale tipologia di causa, tranne, forse, a Parmenide, e a costui nella misura in cui pone non solo l’uno, ma anche che le cause sono in un certo modo due. È significativo che, illustrando queste affermazioni di Aristotele nel proprio commento (in Metaphys. Ι, 3 984 b3), Alessandro di Afrodisia citi Teofrasto: τούτωι δὲ ἐπιγενόμενος Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης (λέγει δὲ [καὶ] Ξενοφάνην) ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ 28 ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. Venuto dopo costui (si riferisce a Senofane), Parmenide - figlio di Pyres, da Elea - percorse entrambe le strade. Dichiara infatti che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la generazione degli enti, pur non affrontando entrambe allo stesso modo: piuttosto sostenendo, secondo verità, che il tutto è uno e ingenerato e di aspetto sferico; ponendo invece, secondo l’opinione dei molti – allo scopo di spiegare la generazione dei fenomeni [delle cose che appaiono] - che i principi siano due, fuoco e terra, l'una come materia, l'altro come causa e agente (DK 28 A7). Condizionata dalla stessa ricezione schematica, in entrambi i casi la valutazione del contributo di Parmenide è chiaramente orientata dalla prospettiva della περὶ φύσεως ἱστορία: non solo per l'attenzione alla «natura nel suo complesso» (τὴν φύσιν ὅλην), al «tutto uno» (ἓν τὸ πᾶν), ma soprattutto per l'evidenza della «ricerca dell'altro principio» (τὸ τὴν ἑτέραν ἀρχὴν ζητεῖν), cioè del «principio del movimento» (ἡ ἀρχὴ τῆς κινήσεως), per «spiegare la produzione dei fenomeni» (εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων). In questo senso Teofrasto poteva proporre Parmenide al centro di una delle due serie di pensatori affrontati sistematicamente: quella che collegava i primi a «rivelare ai Greci l’indagine intorno alla natura» (τὴν περὶ φύσεως ἱστορίαν τοῖς Ἕλλησιν ἐκφῆναι) 29 agli atomisti30 . 29 G. Colli, La sapienza greca, Vol. II, Milano 1978, Adelphi, p. 247. Teofrasto, in effetti, prospetta Parmenide discepolo di Senofane - come riferiscono Diogene Laerzio (IX, 21, DK 28 A1), e i commentatori aristotelici Alessandro e Simplicio (DK 28 A7) - e di Anassimandro (secondo quanto attesta sempre Diogene Laerzio), associandolo poi a Empedocle - «ammiratore» (ζηλωτής) e «imitatore» (μιμητής) di Parmenide (DK 28 A9) - e Leucippo - «unito a Parmenide nella filosofia» (κοινωνήσας Παρμενίδηι τῆς φιλοσοφίας, DK 28 A8). 29 Per quanto possa apparire inverosimile da un punto di vista cronologico, l’accostamento ad Anassimandro non è tuttavia sorprendente31 e rivela il modus operandi di Teofrasto nelle sue ricostruzioni: egli insegue le tracce di problemi che sarebbero giunti ad adeguata formulazione solo successivamente, cogliendone lo sviluppo attraverso la connessione tra le principali personalità (per altro all’interno di rigide categorie aristoteliche)32. In questa prospettiva, allora, Parmenide, come abbiamo sopra registrato, avrebbe compiuto quanto da Anassimandro solo impostato: non si sarebbe limitato a mantenere la prospettiva del divenire distinta da quella del sostrato materiale, ma ne avrebbe anche individuato chiaramente i principi diversi33 . Un secondo elemento di discontinuità all'interno dell'eleatismo è da Aristotele individuato nella concezione dell'unità dell'universo (περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως), di cui si sottolineano le ricadute interessanti anche «sull'indagine in corso intorno alle cause» (εἰς τὴν νῦν σκέψιν τῶν αἰτίων). Parmenide, infatti, avrebbe inteso l’uno «secondo la nozione [forma]» (κατὰ τὸν λόγον), ovvero come unità finita (essendo la finitezza espressione di determinatezza); Melisso, da parte sua, «secondo la materia» (κατὰ τὴν ὕλην), come unità indeterminata e quindi infinita. Senofane - «il primo tra costoro a essere partigiano dell'Uno» (πρῶτος τούτων ἑνίσας) e per ciò ancora una volta riconosciuto maestro di Parmenide – si sarebbe invece limitato, volgendosi «all'universo nel suo 30 L’altra doveva raccogliere Anassimandro, Anassimene, Anassagora, Archelao, Empedocle, Diogene di Apollonia. Determinante il ruolo riconosciuto complessivamente ad Anassimandro. 31 Nella ricerca contemporanea è stata sottolineata la dipendenza della cosmologia del poema Sulla natura dalla cosmologia e cosmogonia attribuite al Milesio: si veda in particolare Naddaf, op. cit., p. 138. D’altra parte, a dispetto di singoli elementi di convergenza, David Furley ha opportunamente marcato la distanza tra «the centrifocal universe» del poema e quello «lineare» delle cosmologie milesie (D. Furley, The Greek Cosmologists.Volume I: The formation of the atomic theory and its earliest critics, C.U.P., Cambridge 1987, pp. 53 ss.). 32 Un’ampia discussione della storiografia teofrastea sui presocratici si trova in G. Colli, La natura ama nascondersi. Physis kruptesthai philei, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano 1998, cap. II (Storicismo peripatetico). 33 G. Colli, La sapienza greca, Vol. II, cit., p. 327. 30 insieme» (εἰς τὸν ὅλον οὐρανὸν), ad affermarne la divinità (τὸ ἓν εἶναί φησι τὸν θεόν). Ribadendo un giudizio di valore già espresso nel Teeteto platonico (183e), lo Stagirita registra l'acutezza del contributo di Parmenide, a dispetto della sua eccentricità rispetto al focus "aitiologico". Messi da parte Melisso e Senofane come «un po’ troppo grossolani» (μικρὸν ἀγροικότεροι), egli infatti sottolinea: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν (περὶ οὗ σαφέστερον ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν), ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (986 b27-987 a1). Nella ricostruzione aristotelica due sarebbero i cardini della dottrina parmenidea: (i) la convinzione circa l'unità dell'essere (ἓν οἴεται εἶναι) - da un punto di vista razionale (κατὰ τὸν λόγον) necessaria (ἐξ ἀνάγκης), imposta dalla disgiunzione e mutua esclusione tra essere e non-essere: «non esiste ciò che non è al di là di ciò che è» (παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν εἶναι); (ii) la presa d'atto dell'evidenza fenomenica: così, secondo noi, è da intendere l'espressione greca ἀναγκαζόμενος ἀκολουθεῖν τοῖς 31 φαινομένοις (letteralmente «costretto a essere guidato dai fenomeni [cose che appaiono]»). Proprio l'ineludibile rilievo empirico della molteplicità (πλείω κατὰ τὴν αἴσθησιν) avrebbe imposto un nuovo campo d'indagine, inducendo Parmenide a introdurre «due cause e due principi» (δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς), ciò legittimando la sua rilevanza per la discussione aristotelica. Si tratta di una lettura che trova conferma nella dossografia successiva, anche in un autore, Plutarco, che attingeva probabilmente a una tradizione accademica, relativamente autonoma rispetto alla linea teofrastea: ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς τὸ προσῆκον εἰς μὲν τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος ἰδέαν τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν. ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεκ < ὲς ἦτορ >’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον, ‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ (Parmen. B 1, 29. 30) διὰ τὸ παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι. καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν; οὐκ ἔστιν εἰπεῖν. [Parmenide] non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna conferendo ciò che le è proprio, pone l'intelligibile nella classe dell'uno e dell'essere, definendolo "essere" in quanto eterno e incorruttibile, e ancora uno per uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile invece in quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è possibile vedere: «il cuore preciso della Verità ben convincente», che raggiunge l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e «le opinioni dei mortali in cui non è vera certezza» [B1.29-30], perché esse sono congiunte con cose che accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze. Come avrebbe potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il sensibile e 32 l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus Colotem 1114 d-e). Le osservazioni di Plutarco sono particolarmente significative perché intervengono a correggere l'interpretazione "melissiana" di Parmenide (proposta da Colote), secondo cui «Parmenide cancella ogni cosa postulando l'essere uno» (πάντ’ ἀναιρεῖν τῷ ἓν ὂν ὑποτίθεσθαι τὸν Παρμενίδην): è appunto contro questo fraintendimento che il platonico attribuisce anacronisticamente all'Eleate l'articolazione della realtà in «intelligibile» (τὸ νοητόν) e «sensibile» (τὸ αἰσθητόν), avendo in precedenza ricordato lo sforzo del Poema di produrre un «sistema del mondo» (διάκοσμον), in conformità con quanto ci si poteva attendere da un «naturalista arcaico» (ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι): ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro (Adversus Colotem 1114b, DK 28 B10). Questa testimonianza rafforza la convinzione che - sia per la tradizione dossografica antica, sia per la posteriore (in gran parte però dipendente da quella) - il tema del Poema parmenideo fosse anche la φύσις (nel senso sopra sommariamente ricostruito), seb- 33 bene se ne registrasse la "eccentricità" 34 e quindi la problematica riducibilità al paradigma della περὶ φύσεως ἱστορία. Tra ricerca περὶ φύσεως e ricerca περὶ τῆς ἀληθείας Aristotele, introducendo l’indagine «sull’essere in quanto essere» (περὶ τὸ ὂν ᾗ ὂν), su ciò che appartiene «a tutte le cose in quanto enti» (ᾗ ὄντα ὑπάρχει πᾶσι), la differenzia rispetto a ricerche più specifiche: ciò che la connota è, infatti, accanto alla eziologia propria di ogni sapere, l'apertura alla totalità della realtà. Riguardo alla περὶ φύσεως ἱστορία, tuttavia, la sua posizione è più sfumata: l'originale speculazione sull’«essere in quanto essere» è proposta, infatti, in continuità con la precedente tradizione: ἐπεὶ δὲ τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας αἰτίας ζητοῦμεν, δῆλον ὡς φύσεώς τινος αὐτὰς ἀναγκαῖον εἶναι καθ’ αὑτήν. εἰ οὖν καὶ οἱ τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων ζητοῦντες ταύτας τὰς ἀρχὰς ἐζήτουν, ἀνάγκη καὶ τὰ στοιχεῖα τοῦ ὄντος εἶναι μὴ κατὰ συμβεβηκὸς ἀλλ’ ᾗ ὄν· διὸ καὶ ἡμῖν τοῦ ὄντος ᾗ ὂν τὰς πρώτας αἰτίας ληπτέον Dal momento che ricerchiamo i principi e le cause supreme, è evidente come esse riguardino necessariamente una certa natura [realtà] in quanto tale. Se dunque coloro che ricercano gli elementi delle cose ricercavano questi principi, è necessario che fossero anche gli elementi dell'essere non per accidente ma in quanto essere. Per questo motivo dobbiamo comprendere le cause prime dell'essere in quanto essere» (Metafisica IV, 1 1003 a26-32). «Gli elementi costitutivi delle cose che sono» (τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων) – nella misura in cui sono intesi come principi di tutte – 34 Ci siamo occupati di questo aspetto in Parmenide e la tradizione del pensiero greco arcaico (ovvero della sua eccentricità), in Il quinto secolo. Studi di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S. Giombini e F. Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011, pp. 165-178. 34 risultano in effetti «elementi dell'essere in quanto tale» (τὰ στοιχεῖα τοῦ ὄντος ᾗ ὄν), costitutivi di tutto ciò che è. In questo senso la cifra sapienziale comune alla «scienza dell'essere in quanto essere» (ἐπιστήμη ἣ θεωρεῖ τὸ ὂν ᾗ ὂν) e all'indagine dei φυσικοί è data, in definitiva, dalla convergente modalità di realizzazione: «ricercare i principi e le cause prime» (τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας αἰτίας ζητεῖν) della realtà. Più avanti nello stesso libro, infatti, Aristotele rileva come «alcuni dei fisici» (τῶν φυσικῶν ἔνιοι) si fossero mostrati evidentemente consapevoli di «ricercare sulla natura [realtà] nella sua interezza e sull’essere» (περί τε τῆς ὅλης φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος, Metafisica IV, 3 1005 a32- 33), intendendo quindi la «natura» come una totalità omogenea (dal punto di vista dell'essere), cui ineriscono determinate proprietà riconducibili a principi universali. Ritenendo così che φύσις e τὸ ὂν coincidessero, che la φύσις cioè costituisse «tutta la realtà», quei «fisici» avrebbero manifestato interesse per gli «assiomi» (ἀξιώματα), i principi più generali di tutti, quelli che «appartengono a tutti gli enti» (ἅπασι ὑπάρχει τοῖς οὖσιν), la cui discussione non è di competenza dello specialista (che si limita ad applicarli) ma appunto della «ricerca del filosofo» (τῆς τοῦ φιλοσόφου [σκέψεως]). Il riferimento è indeterminato ed è stato precisato in modo diverso dagli interpreti: noi riteniamo che esso coinvolga direttamente Eraclito (per la riflessione sul logos) e in particolare Parmenide, soprattutto in considerazione del lessico dei frammenti B2 e B8. Un lessico che effettivamente sembra istituire la riflessione ontologica, sia con l'analisi dei «segni» (σήματα), delle proprietà che manifestano τὸ ἐόν, sia con l'insistenza sulla reciproca implicazione di verità ed essere. Natura, essere, verità Lo Stagirita, in effetti, rilegge la tradizione anche alla luce di un'intenzione veritativa di fondo: 35 ὅμως δὲ παραλάβωμεν καὶ τοὺς πρότερον ἡμῶν εἰς ἐπίσκεψιν τῶν ὄντων ἐλθόντας καὶ φιλοσοφήσαντας περὶ τῆς ἀληθείας consideriamo comunque anche coloro che prima di noi hanno proceduto alla ricerca intorno agli enti e hanno filosofato intorno alla verità (Metafisica I, 3 983 b1), Espressioni come «coloro che dapprima filosofarono intorno alla verità» (οἱ μὲν οὖν πρότερον φιλοσοφήσαντες περὶ τῆς ἀληθείας, De Caelo III, 1 298 b12), ovvero che «indagarono la verità intorno agli enti» (περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, Metafisica IV, 5 1010 a1), rivelano come Aristotele intendesse l'indagine sulla natura come indagine sulla verità, la prima comportando una presa di posizione circa ciò che è Realtà 35. In questo senso i primi filosofi avevano contribuito «all’indagine sugli enti» (εἰς ἐπίσκεψιν τῶν ὄντων): in quanto convinti che la natura fosse la realtà fondamentale, ricercando «sulla natura [realtà] nella sua interezza» (περί τε τῆς ὅλης φύσεως) essi avevano offerto anche riflessioni «sull’essere» (περὶ τοῦ ὄντος): ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Coloro che per primi hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti, furono sviati come su una certa altra strada, sospinti dall'inesperienza: essi sostennero che delle cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò che si genera origina o da ciò che è o da ciò che non è; ma ciò è 35 W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p. 16. 36 impossibile da entrambi i punti di vista. Ciò che è, infatti, non si genera (dal momento che è già); né da ciò che non è è possibile si generi alcunché: è richiesto in effetti qualcosa che funga da sostrato. E aggravando in questo modo la conseguenza immediata, affermarono che non esistano i molti ma che esista solo l'essere stesso (Fisica I, 8 191 a25 ss.). Il passo è di grande interesse: nell'ambito di una discussione sui principi (il primo libro della Fisica compare nei cataloghi antichi come Περὶ ἀρχῶν), Aristotele (i) intende la riflessione dei primi filosofi (οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι) come indagine a un tempo sulla natura e sulla verità (ζητοῦντες τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων), e (ii) attribuisce il loro "sviamento", la loro erranza, a una precoce analisi ontologica condotta con imperizia (ὑπὸ ἀπειρίας). Benché spesso riferita dai commentatori specificamente agli Eleati, la difficoltà segnalata potrebbe intendersi rivolta a coloro che avevano operato la riduzione a elementi base (questo appare il significato nel contesto di τὰ ὄντα) 36. In tal caso Aristotele riconoscerebbe all'indagine dei «fisici» un filo conduttore ontologico, che in Parmenide sarebbe stato pienamente esplicitato. È significativo che dalle intestazioni attribuite (probabilmente sin dall'antichità 37) alle opere di Melisso e Gorgia (di una generazione posteriore a quella di Parmenide) emergesse già la consapevolezza dell'inadeguatezza del tradizionale repertorio Περὶ φύσεως, con la proposta di Περὶ φύσεως ἢ περὶ τοῦ ὄντος, nel primo caso, e Περὶ τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ φύσεως nel secondo; e che in ambi- 36 Su questo in particolare Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 130 ss.. 37 È tradizionalmente riconosciuto che l'intenzione dello scritto gorgiano era di ribaltare le tesi eleatiche (per esempio, W.K.C. Guthrie, The Sophists, C.U.P., Cambridge 1971, pp. 270-271). I due resoconti dell'opera – quello di Sesto Empirico (che ci fornisce anche la titolazione completa) e quello dell'Anonimo del De Melisso, Xenophane et Gorgia (forse I secolo d.C.) – potrebbero dipendere da Teofrasto ed essere stati semplicemente elaborati in modo diverso. In alternativa, per la seconda redazione, si è supposta la mano di un peripatetico antico (si veda la nota di M. Untersteiner in Sofisti, Testimonianze e frammenti, a cura di M. Untersteiner, con la collaborazione di A. Battegazzore, Bompiani, Milano 2009, p. 234). 37 to sofistico proliferassero opere sulla «Verità» (Περὶ τῆς ἀληθείας e Ἀλήθεια sono le titolazioni attribuite alle opere principali rispettivamente di Antifonte e di Protagora). Aristotele, in ogni caso, con la formula «indagine sulla verità» intende un’indagine sulla realtà genuina, tesa ad accertare quale essa sia, spingendosi oltre le apparenze che la occultano38. Illuminante un passo di De generatione et corruptione: Ἐκ μὲν οὖν τούτων τῶν λόγων, ὑπερβάντες τὴν αἴσθησιν καὶ παριδόντες αὐτὴν ὡς τῷ λόγῳ δέον ἀκολουθεῖν, ἓν καὶ ἀκίνητον τὸ πᾶν εἶναί φασι καὶ ἄπειρον ἔνιοι· τὸ γὰρ πέρας περαίνειν ἂν πρὸς τὸ κενόν. Οἱ μὲν οὖν οὕτως καὶ διὰ ταύτας τὰς αἰτίας ἀπεφήναντο περὶ τῆς ἀληθείας· ἐπεὶ δὲ ἐπὶ μὲν τῶν λόγων δοκεῖ ταῦτα συμβαίνειν, ἐπὶ δὲ τῶν πραγμάτων μανίᾳ παραπλήσιον εἶναι τὸ δοξάζειν οὕτως A partire dunque da questi ragionamenti, e spingendosi oltre la sensazione e ignorandola, dal momento che si dovrebbe seguire il ragionamento, alcuni dicono che il tutto [l'universo] è uno, immobile e infinito: il limite, infatti, confinerebbe con il vuoto. Costoro, dunque, in questo modo e per queste ragioni si sono espressi sulla verità: ora, alla luce dei ragionamenti sembra che queste cose accadano così; alla luce dei fatti, invece, il pensare così sembra quasi follia (Aristotele, De generatione et corruptione I, 8 325 a13ss.). Qui Aristotele stigmatizza, per la sua paradossalità (sintomatico il riferimento alla «follia»), una forma di «razionalismo eleatico» 39 che, nel riferimento all'infinito, appare sostanzialmente melissiano40: il contributo all'indagine sulla verità scaturisce da una 38 Leszl, op. cit., p. 17. 39 Così Migliori, Aristotele, La generazione e la corruzione, traduzione, introduzione e commento di M. Migliori, Loffredo Editore, Napoli 1976, p. 200. 40 Non è un caso che Reale abbia accolto le prime righe del passo aristotelico come un vero e proprio frammento di Melisso: Melisso, Testimonianze e frammenti, traduzione, introduzione e commento di G. Reale, Firenze 1970, La Nuova Italia, pp. 98-104. 38 ricerca volta alla comprensione della realtà naturale nel suo insieme (τὸ πᾶν). Una ricerca, dunque, a un tempo "ontologica" ed "epistemologica" (in senso lato), nella misura in cui la determinazione della realtà genuina dipende da considerazioni di ordine gnoseologico (delineate nella contrapposizione ἐπὶ μὲν τῶν λόγων - ἐπὶ δὲ τῶν πραγμάτων). Ora, nei frammenti parmenidei non mancano indizi (come rivelano le letture antiche) della possibilità che l'espressione τὸ ἐόν («ciò che è» ovvero «l'essere»), di cui si definiscono proprietà strutturali - «senza nascita» (ἀγένητον) «senza morte» (ἀνώλεθρον), «tutto intero» (οὖλον), «uniforme» (μουνογενές), «saldo» (ἀτρεμές) (B8.4-5) – si riferisca a quel che Aristotele indica come τὸ πᾶν, il Tutto dell’universo41: Parmenide, nel suo sforzo di evitare le incongruenze colte nelle coeve indagini sull'origine e sulla struttura del mondo naturale42, avrebbe trasfigurato lo spazio cosmico nel compiuto, omogeneo, immutabile campo dell’«essere», così spingendo la filosofia naturale ai limiti di logica e metafisica43. Né, d'altra parte, mancano tracce di una trattazione περὶ τῆς ἀληθείας44: la prima sezione del Poema si apre e si chiude con chiare menzioni della Verità – intesa come la Realtà oggetto dell'esposizione stessa, mentre l'impianto dicotomico dell'opera tràdita riflette la tensione tra il resoconto genuino di quella realtà e una sua accettabile ricostruzione a partire dall'esperienza che gli uomini ne hanno. 41 Interpreta in questo senso D. Furley, The Greek Cosmologists, cit., p. 54. Conche – in Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1996, p. 182 – osserva come l’essere abbia a che fare con il Tutto, con l’insieme di ciò che è, e sia dunque coestensivo al mondo. Una prospettiva analoga a quella che proponiamo è espressa da M. Kraus, "Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht des Parmenides", in G. Rechenauer (Hg.), Frügriechisches Denken, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005, pp. 252-269. Di particolare rilievo le pagine 260-1. 42 Lasciamo qui indeterminati i bersagli possibili, da ricercare comunque in ambito ionico e pitagorico. 43 D.W. Graham, “Empedocles and Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge 1999, p. 175. 44 Leszl, op. cit., p. 19. 39 Natura e verità in Parmenide In effetti, nel caso del poema di Parmenide, presumendone unitarietà e coerenza, possiamo registrare: (i) lo squilibrio di struttura: la (seconda) sezione dedicata all'esposizione dell'«ordinamento [del mondo] del tutto appropriato» (διάκοσμον ἐοικότα πάντα, B8.60) doveva essere assai più consistente di quella (la prima) relativa al «percorso di Persuasione, che si accompagna a Verità» (Πειθοῦς κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ, B2.4); (ii) il costante richiamo, nell'introduzione del διάκοσμος, a un lessico di conoscenza: B10 appare, in questo senso, un vero e proprio programma di istruzione cosmologica e cosmogonica, tra l'altro in sintonia con il modello poetico esiodeo della Teogonia45: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης [5] καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini degli astri. 45 L’accostamento è naturale in Aristotele, quando, in apertura di Metafisica I, 4, introduce l’analisi della causalità efficiente, rinviando proprio ai precedenti di Esiodo e Parmenide sul ruolo cosmogonico di Amore. 40 Che l'articolata indagine prospettatavi possa essere rubricata come περὶ φύσεως ἱστορία sembra, alla luce delle considerazioni introduttive, indiscutibile, così come appare chiara la sua intenzione cognitiva: nella costruzione del Poema, è allora possibile rintracciare una corrispondenza tra la ricerca della seconda sezione e l'impegno ontologico-veritativo dei frammenti B2-B8. L'obiettivo dichiarato (nel proemio) della comunicazione divina è compiutamente conoscitivo, scandito da espressioni verbali dalla inequivocabile valenza cognitiva, in relazione tanto a Ἀληθείη quanto ai δοκοῦντα: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità. Nondimeno anche questo imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti (B1.28b-32). La Dea sottolinea il proprio impegno a (i) rivelare la realtà genuina (Ἀληθείη), tradizionale appannaggio divino, e (ii) denunciare le infondate (senza «reale credibilità», πίστις ἀληθής) «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξας), in ciò riflettendo il canonico pessimismo sulla condizione e comprensione umana che aveva trovato espressione nella poesia e nella sapienza antica: τοὔνεκά τοι ἐρέω, σὺ δὲ σύνθεο καί μευ ἄκουσον· οὐδὲν ἀκιδνότερον γαῖα τρέφει ἀνθρώποιο [πάντων, ὅσσα τε γαῖαν ἔπι πνείει τε καὶ ἕρπει.] οὐ μὲν γάρ ποτέ φησι κακὸν πείσεσθαι ὀπίσσω, ὄφρ’ ἀρετὴν παρέχωσι θεοὶ καὶ γούνατ’ ὀρώρῃ· ἀλλ’ ὅτε δὴ καὶ λυγρὰ θεοὶ μάκαρες τελέωσι, 41 καὶ τὰ φέρει ἀεκαζόμενος τετληότι θυμῷ. τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε. Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi: nulla è più inconsistente dell'uomo tra tutte le cose che nutre la terra, e sulla terra camminano e si muovono. Egli sostiene che nulla di male mai gli accadrà, fin quando gli dei concedono forza e le membra sono in movimento. Quando invece gli dei beati infliggono anche dolori, pure questi sopporta, suo malgrado, con animo paziente. Tale è la comprensione degli uomini che vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli dei e degli uomini (Odissea XVIII, 129-137) θνατὰ χρὴ τὸν θνατόν, οὐκ ἀθάνατα τὸν θνατὸν φρονεῖν il mortale deve pensare cose mortali, non cose immortali (Epicarmo, DK 23 B20) ἄρα θεὸς μὲν οἷδε τὴν ἀλήθειαν δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται soltanto dio conosce la verità, a tutti è dato solo opinare (Senofane, DK 21 A24). Ma il programma non si esaurisce nella contrapposizione tra comprensione divina e incomprensione umana, pur limpidamente e criticamente evocata. La rivelazione della realtà autentica - per la quale Parmenide ricorre a una perifrasi, impiegando due immagini: letteralmente «cuore che non trema» (ἀτρεμὲς ἦτορ) di «Verità ben rotonda» (Ἀληθείης εὐκυκλέος ovvero, secondo altri codici, «ben convincente», εὐπειθέος) - è certamente occasione per condannare di fronte al giovane poeta (κοῦρος) l’inattendibilità delle convinzioni umane. Essa, nell'economia del poema, appare tuttavia funzionale anche alla presentazione di un resoconto alternativo, plausibile (δοκίμως), del mondo dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα): 42 a dispetto dell'inaffidabilità delle correnti opinioni mortali, è possibile delinearne una sintesi compatibile con la lezione di verità della prima istruzione. Difficile credere che Parmenide non fosse in qualche misura convinto della bontà del punto di vista espresso negli attuali frammenti B9-B1246, ovvero della ἱστορία περὶ φύσεως tracciatavi, anche perché i rilievi del testo richiamano puntualmente i divieti di B2-B8: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9). Discorso affidabile e ordinamento verosimile Eppure il passaggio tra le due sezioni è marcato in modo inequivocabile: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando che può ingannare (B8.50-2). 46 Lesher, op. cit., p. 240. 43 In questi versi si incrociano le due prospettive che Parmenide tenta di salvaguardare all'interno della tradizionale opposizione tra umano e divino: (i) da un lato la "superiore" ottica della divinità, che si esprime in un logos degno di fiducia: svolgendo rigorosamente la propria disamina dall'alternativa «è e non è possibile non essere»-«non è ed è necessario non essere», esso riconosce che: ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme, saldo e senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.3b-6a), (ii) dall'altro i punti di vista umani, molteplici e concorrenti, insidiosi e potenzialmente dispersivi: è esplicitamente all'interno di questo orizzonte che la Dea introduce la seconda sezione: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti. Nessun resoconto cosmologico, nella misura in cui si riferisca alle vicende di una molteplicità di enti in divenire (instabili e mutevoli), può essere considerato completamente affidabile, come, invece, il discorso su «ciò che è» (τὸ ἐόν), sulla realtà colta come totalità (unitaria, immutevole, essendo nel suo complesso tutto ciò che è). Per valutare correttamente l'impresa parmenidea dobbiamo tenere conto di due elementi: 44 (a) del contributo scientifico47 (prevalentemente in campo cosmologico48) riconosciuto a Parmenide nell’antichità: ancora una volta è interessante soprattutto il fatto che Teofrasto (DK 28 A44) gli attribuisse la scoperta della sfericità della Terra: ἀλλὰ μὴν καὶ τὸν οὐρανὸν πρῶτον ὀνομάσαι κόσμον καὶ τὴν γῆν στρογγύλην, ὡς δὲ Θεόφραστος [Phys. Opin. 17] Παρμενίδην, ὡς δὲ Ζήνων Ἡσίοδον [in riferimento a Pitagora] ma fu anche il primo a chiamare il cielo cosmo e la terra sferica; per Teofrasto fu invece Parmenide, per Zenone Esiodo, e che altre fonti risalissero all’Eleate per osservazioni sulla identità di Espero e Lucifero (DK 28 A40a): Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι· μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ οὐρανὸν καλεῖ Parmenide pone come primo nell'etere Eos, lo stesso da lui chiamato anche Espero; dopo di esso pone il Sole, sotto questo, nella parte ignea che chiama cielo, gli astri, e sulla natura solare della luce della Luna: Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc. εἶναι τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’ αὐτοῦ φωτίζεται 47 Per una recente valorizzazione di questo aspetto G. Cerri, La riscoperta del vero Parmenide, introduzione a Parmenide di Elea, Poema sulla natura, introduzione, testo, traduzione e note a cura di G. Cerri, Milano 1999, BUR Rizzoli (in particolare pp. 52-57); D.W. Graham, Explaining the Cosmos.The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006, pp. 179-182. 48 Naddaf ha d’altra parte segnalato come il modello cosmogonico della seconda sezione del poema dovesse essere influenzato da una prospettiva biologica e ricordato opportunamente le tracce di una «antropogonia», attestata da Diogene Laerzio (DK 28A1). Si veda G. Naddaf, The Greek Concept of Nature, cit., pp. 137-138. 45 Parmenide [dice che] la luna è uguale al sole: da esso è infatti illuminata (DK 28 A42); (b) dell'evidente contrasto tra la condanna della confusione "mortale" tra le due vie: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro (B6.8-9) οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα Mai questo sarà forzato: che siano cose che non sono (B7.1), ovvero dell’irrisolta opposizione nelle cosmogonie correnti (ioniche? pitagoriche?): μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme, delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (B8.53-4), e la sottolineatura (nel già citato B9) della riduzione omogenea all'essere delle forme introdotte per il διάκοσμος ἐοικώς: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9). 46 La distinzione tra i due momenti dell'istruzione divina sembra quindi consapevolmente delineare due distinte forme di conoscenza: (a) la certezza della comprensione razionale – evocata dalla reiterazione di νοεῖν (comprendere, concepire, pensare) e νόος (intelligenza, pensiero), nonché di espressioni come κρῖναι δὲ λόγῳ («giudica con il ragionamento») - degli attributi universali di «ciò che è» (τὸ ἐόν, il complesso della realtà colto come tutto-intero); (b) la plausibilità di una conoscenza – l'uso di verbi di conoscenza è indiscutibile nei frammenti attribuiti alla seconda sezione - che possiamo definire "empirica", dal momento che si concentra sulla natura delle cose che incontriamo nella nostra esperienza49 . In realtà il quadro è più complesso, perché fortemente condizionato da una cornice religiosa che deve indurre cautela. Intanto, quella che abbiamo indicato come «conoscenza razionale» (via d'accesso privilegiata alla Verità) è proposta come contenuto diretto di una rivelazione (B1) che costituisce il contesto dell'intera esposizione del Poema, e che pone immediatamente (B2) le premesse da cui dipendono i ragionamenti successivi. Come avremo modo di sottolineare nel commento, tale rivelazione non appare un semplice escamotage poetico, estrinseco rispetto alla comunicazione di verità, ma, al contrario, il vero nucleo propulsivo dell’opera, la condizione di continuità entro cui le due sezioni assumono il loro senso e il loro statuto50. Un elemento andato perduto nella ricezione di Parmenide nel IV secolo a.C. (che, infatti, non ci ha conservato citazioni dal proemio), ma in sé di grande interesse per la collocazione culturale dell'Eleate e per la valutazione del suo contributo. L'oggetto di tale conoscenza - τὸ ἐόν – appare, a sua volta, nei frammenti sia come risultato di una costruzione logica: 49 Lesher, op. cit., p. 241. 50 Su questo punto insiste Lambros Couloubaritsis, nella nuova edizione (La pensée de Parménide, Éditions Ousia, Bruxelles 2008) del suo Mythe et Philosophie chez Parménide. 47 ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale (B8.15b-18), sia come concrezione di una sintesi intuitiva, a partire dallo sguardo rivolto alla molteplicità degli enti: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere, né disperdendosi completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi (B4). In questo secondo caso, la costante presenza dell'essere è giustapposta alla presenza-assenza degli enti, prefigurando l'opposizione tra l'immutabile presente dell'uno: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.5-6a) e il divenire - scandito da passato, presente e futuro – degli altri: οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι 48 καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε τελευτήσουσι τραφέντα Ecco, in questo modo, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito sviluppatesi, avranno fine (B19.1-2). Ciò può suggerire che i due momenti del discorso divino riflettano l'originale rielaborazione parmenidea della tensione, implicita nella cultura delle origini, tra la dimensione temporale delle cose in divenire (τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, «le cose che sono, le cose che sono state e le cose che saranno», Iliade I, 70) e quella peculiare alla concezione arcaica del divino (θεοὶ αἰὲν ἐόντες, «dei che sono sempre», Iliade I, 290)51 . La distinzione ben delineata nei frammenti tràditi, come abbiamo visto, è quella tra: (i) la certezza (πίστιος ἰσχύς) che scaturisce dal giudizio razionale su τὸ ἐὸν: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν Dire e pensare: «ciò che è è», è necessario: essere è infatti possibile, il nulla, invece, non è (B6.1-2a); (ii) la verosimiglianza del resoconto cosmologico, che pur legittimato dalla parola divina: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti (B8.60-1) si rivolge all'origine e sviluppo di fenomeni prodotti dall'azione celeste: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα 51 Ivi, p. 102. 49 σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente Sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della Luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura (B10.1-5a), e, ulteriormente, ai fondamenti cosmogonici e cosmologici (in questo senso alle condizioni generali del mondo naturale): εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidando lo vincolò a tenere i confini degli astri (B10.5b-7). La certezza è prodotto del «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος) associato a Verità (Ἀληθείη) ed essere (τὸ ἐὸν): Parmenide insiste sulla necessità di tale sapere, chiaramente correlata a immutabilità, identità e stabilità del suo oggetto. La ricostruzione del διάκοσμος ἐοικώς riflette, d'altra parte, la mutevolezza dei fenomeni fissati dall'arbitrio delle denominazioni umane: in questo senso, rispetto all'affidabilità del «percorso di Persuasione» che manifesta la genuina realtà (la Verità), essa è proposta dalla Dea come κατὰ δόξαν, «secondo opinione». Essere e natura in Parmenide Nel proprio schema (Metafisica I, 5 986 b27-987 a1) - che già abbiamo commentato - Aristotele aveva dunque colto sostanzialmente nel segno: 50 Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν (περὶ οὗ σαφέστερον ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν), ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere. La lettura aristotelica suggerisce, infatti, che l'oggetto – apparentemente diverso - delle due sezioni del Poema sia in verità identico, sebbene prospettato secondo differenti modalità gnoseologiche: «secondo ragione» (κατὰ τὸν λόγον) e «secondo sensazione» (κατὰ τὴν αἴσθησιν). Una considerazione puramente razionale fa emergere la realtà (naturale) come uno-tutto; il riferimento all'esperienza manifesta la pluralità dei fenomeni: nel primo caso il livello di astrazione fa perdere di vista i connotati fenomenici e risaltare i tratti di fondo della realtà; nel secondo l'urgenza di dar conto dei fenomeni spinge all'individuazione di efficaci principi esplicativi. Come non è possibile parlare di due oggetti diversi, così non può sfuggire nei frammenti il tentativo di Parmenide di ripensare il problema dei principi in termini ontologici, attribuendo cioè ai principi alcune caratteristiche dei «segni» di τὸ ἐὸν: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, 51 τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto leggero, a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (B8.55-9) τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9). Questo autorizza l'ipotesi che la prima sezione – pur compiuta, autosufficiente e autonoma – fosse effettivamente intesa come preparatoria alla seconda, con la quale l'autore entrava in competizione (come sottolineato anche dalle parole della divinità) con altre cosmologie. È plausibile che il modello esplicativo del mondo naturale che vi si delinea abbia profondamente influenzato quello, fondato sulla nozione di mescolanza, adottato da Empedocle e Anassagora52, sensibili, tra l'altro, ai rilievi “ontologici” di 52 In modo diverso giungono a sostenere questa ipotesi P. Curd, The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998; P. Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical Interpretation, cit.; D.W. Graham, Explaining the Cosmos, cit.. 52 Parmenide53 – come risulterebbe da una serie di frammenti (DK 31 B8, B9, B11, B12; DK 59 B17). 53 D.W. Graham, “Empedocles and Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., p. 167. Per una più meditata e articolata riflessione sullo stesso tema, si può ora consultare D.W. Graham, Explaining the Cosmos, cit.. 53 IL TESTO DI PARMENIDE E LA SUE FONTI Si ipotizza che la consistenza dell'unica opera di cui la tradizione sostiene Parmenide sia stato autore, fosse approssimativamente di un migliaio di versi, 160 (circa) dei quali abbiamo ricevuto attraverso posteriori citazioni da parte di altri autori. Essi riferivano in qualche caso direttamente da una copia del poema, in altri indirettamente da selezioni antologiche ovvero da citazioni altrui. Riflettendo sulla storia di queste citazioni testuali, possiamo concludere che il poema di Parmenide sia stato oggetto di due distinti momenti di attenzione, a distanza di 4 secoli l’uno dall’altro, prima di scomparire definitivamente54 . Il materiale del Poema Possiamo supporre che una prima diffusione di copie del Poema avvenisse sotto il controllo dell'autore e che forme di controllo sul testo e sulla sua circolazione fossero esercitate dagli allievi nel periodo immediatamente successivo alla sua morte. È plausibile che nel mondo greco occidentale si conservasse una memoria testuale autonoma, da collegare forse ad ambienti pitagorici 55 , e che, analogamente, tradizioni del testo si affermassero anche in altre aree di civilizzazione greca, come l'Asia Minore, dove il poema sembra essere stato conosciuto abbastanza presto. Si tratta solo di congetture, dal momento che non disponiamo di evidenze di questa fase pre-platonica, ma, secondo Passa56, non è da escludere che a una di queste tradizioni abbia attinto Sesto Empirico. La prima attestazione del Poema risale a Platone, che cita per cinque volte Parmenide: nel Teeteto (180d a proposito della tesi dell’unità e della immobilità dell’Uno-Tutto), nel Simposio (178b 54 N.-L- Cordero, L’histoire du texte de Parménide, in Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. II, Problèmes d’interpretation, Vrin, Paris 1987, p. 4. 55 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 143. 56 Ibidem. 54 a proposito del primato di Eros), tre volte nel Sofista (237a e 258d a proposito del «parricidio»; 244e a proposito della struttura e indivisibilità del Tutto). Aristotele, a sua volta, replica la descrizione del Tutto già citata da Platone (Fisica 207 a18), cita il verso su Eros (Metafisica 984 b26) e trascrive l'attuale frammento 16 (Metafisica IV, 5 1009 b22). L’ultima citazione della prima "esistenza postuma" del Poema è in Teofrasto, che riprende tre volte il fr. 16 (in una versione diversa da quella aristotelica). È probabile che le citazioni del frammento 8 nello pseudo-aristotelico Su Melisso, Senofane e Gorgia e in Eudemo derivino da Platone 57 . Dopo un lungo silenzio - segnale, secondo Cordero58, non propriamente di scomparsa del testo parmenideo, piuttosto di «mancato utilizzo» - il platonico Plutarco (I secolo d.C.) torna a fare uso abbondante dei frammenti del poema, aprendo di fatto la seconda stagione d’attenzione per l'opera - la più ricca di citazioni testuali - che dura fino a tutto il VI secolo. Caratteristica di questa fase è il ricorso al Poema non per illustrare la posizione dell'autore, ma per confermare o chiarire il tema oggetto di analisi da parte dei commentatori: è probabile che le citazioni non siano di prima mano, ma dipendano in gran parte da Platone, Aristotele e Teofrasto. A Simplicio, l’ultimo autore conosciuto che abbia usato un manoscritto dell’intera opera di Parmenide 59, dobbiamo la citazione (in gran parte come unica fonte) dei due terzi dei 160 versi tràditi del poema: egli cita estensivamente anche perché consapevole della rarità del testo già nella sua epoca (clamorosamente quella in cui aumenta il numero di autori che direttamente o indirettamente citano Parmenide: Damascio, Filopono, Asclepio, Boezio, Olimpiodoro60): καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε 57 Cordero, op. cit., pp. 4-5. 58 Ivi, p. 5. 59 A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986, p. 1. 60 Cordero, op. cit., p. 6. 55 τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo (DK 28 A21). Cordero giudica molto probabile – sulla scorta del lavoro filologico di Diels – l'utilizzazione da parte di Proclo (V secolo) e Simplicio (VI secolo) di due differenti versioni del poema di Parmenide61. Damascio (V-VI secolo d.C.) cita sulla scorta del commento perduto di Giamblico (III-IV secolo d.C.) al Parmenide platonico. Altri autori antichi (V e VI secolo d.C.) come Ammonio, Filopono, Olimpiodoro e Asclepio potrebbero non aver avuto la possibilità di accedere direttamente a copia dell’intero poema62 . Le fonti e i loro problemi Da un punto di vista culturale, possiamo rileggere questa storia disponendo le fonti in tre raggruppamenti63: (i) Platone, Aristotele, Teofrasto e Eudemo (tutti del IV secolo a.C.), gravitanti intorno alle due principali istituzioni filosofiche ateniesi: Accademia e Liceo; (ii) figure eterogenee appartenenti a centri di cultura ellenistico-romana: Plutarco (I sec.), Galeno (II sec.), Clemente Alessandrino e Sesto Empirico (II-III sec.), Diogene Laerzio (III sec.); (iii) figure cronologicamente e geograficamente distanti, ma unite culturalmente dal fondamentale neoplatonismo: Plotino (III sec.), Giamblico (III-IV sec.), Proclo (IV-V sec.), Damascio e Ammonio (V-VI sec.): Simplicio è loro discepolo. 61 Cordero, op. cit., p. 5. 62 Coxon, op. cit., p. 2. 63 Seguiamo Passa, op. cit., p. 21. 56 Fonti attiche Possiamo supporre che le fonti del primo gruppo abbiano avuto accesso a copie del poema: secondo Passa64, si può facilmente dimostrare, tuttavia, che in molti casi esse citano a memoria, ma è probabile che sfruttassero anche la prima sistemazione del materiale presocratico a opera dei sofisti. Si ritiene, infatti, che Platone e Aristotele ricorressero alle selezioni approntate nella seconda metà del V secolo a.C. da Ippia (che nella sua Συναγωγή aveva estratto, messo in relazione e commentato tesi presenti in opere poetiche e in prosa65) e Gorgia (che, a sua volta, aveva estrapolato dalla prima produzione filosofica enunciati teorici che potevano essere organizzati per contrapposizioni, così sottolineando gli insolubili contrasti tra filosofie: un'impostazione che certamente ha lasciato tracce ancora nelle opere ippocratiche, in Senofonte e Isocrate). Platone e Aristotele, che rivelano nelle loro opere di combinare i due approcci, pur avendo modo di consultare direttamente almeno una parte delle opere attribuite ai primi filosofi, sarebbero stati comunque condizionati dagli schemi sofistici nella loro lettura66 . Se è plausibile, dunque, che le nostre fonti più antiche - Platone, Aristotele e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo - avessero accesso a copie dell’intero poema, è tuttavia significativo che Teofrasto e Eudemo non siano fonti primarie dei versi che citano e che lo stesso Aristotele citi (3 volte su 4) probabilmente sulla scorta dei dialoghi platonici (per altro poco accurati nel riportare il testo parmenideo)67. La disponibilità, inoltre, di differenti versioni dello stesso frammento (B16) in Aristotele e Teofrasto può essere indizio dell’esistenza, già nel IV secolo a.C., di almeno due distinte tradizioni manoscritte. Nonostante sia praticamente impossibile per noi risalire oltre la redazione attica del poema pos- 64 Ivi, p. 25. 65 J.-F. Balaudé, Hippias le passeur, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp. 288 ss.. 66 J. Mansfeld, Sources, in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., pp. 26-27. 67 Ivi, pp. 2-3. 57 seduta dall'Accademia e dal Peripato, è dunque almeno ipotizzabile discriminare al suo interno tra il testo usato (o citato a memoria) da Platone e Aristotele e quello usato da Teofrasto. Né, come abbiamo in precedenza segnalato, si può escludere che redazioni alternative autonome siano sopravvissute nella tradizione più tarda68 . La recente ricerca linguistica69 sottolinea come Platone citi da una versione già in parte "atticizzata" del Poema, che aveva dunque sopportato interventi simili a quelli operati (nello stesso periodo) sul testo omerico: modificazioni del vocalismo e introduzione di aspirazioni (in origine il testo doveva essere psilotico). Il testo riportato da Platone è nel complesso accurato, sebbene, secondo Passa, proprio a Platone si possa far risalire la spiccata propensione a interpretarlo, che diventerà poi norma per i neoplatonici, con conseguenti gravi alterazioni nelle loro redazioni. Da Platone e dalla sua scuola deriverà, fino a Proclo, quella tradizione "accademica" da cui è tratta la maggioranza delle citazioni del Poema disponibili. In considerazione di quanto sopra osservato, è plausibile che Aristotele, a sua volta, dipenda da Platone, mentre Teofrasto potrebbe aver attinto da fonte alternativa: è dalla ricerca dell'allievo di Aristotele che si sarebbe formata, in ambiente peripatetico, la tradizione "dossografica", quella delle fonti che derivano le proprie citazioni da compilazioni70 . 68 Passa, op. cit., p. 26. 69 Ibidem. 70 La tradizione dossografica si apre in effetti con le Φυσικαὶ Δόξαι (nella tradizione per lo più indicato come Physicorum Opiniones) di Teofrasto (in 16 libri): integrata in periodo ellenistico, l’opera sarebbe stata poi utilizzata dagli Epicurei, Cicerone, Varrone, Enesidemo (fonte di Sesto Empirico, seconda metà II secolo), dal fisico Sorano (I-II secolo), Tertulliano (II-III secolo). Diels denominò questa revisione Vetusta Placita. Essa sarebbe stata ulteriormente rivisitata, abbreviata e integrata – nel I secolo – da un autore indicato come Aëtius, la cui raccolta, per noi perduta, è stato ricostruita da Diels. Il filologo tedesco ha mostrato come i Placita attribuiti a Plutarco (in realtà pseudo-Plutarco, II secolo) fossero una sintesi dell’opera di Aëtius (e il De historia philosophica di Galeno un’ulteriore riduzione di pseudoPlutarco) e soprattutto come da Aëtius (anche attraverso il materiale riassunto da pseudo-Plutarco) dipendessero la monumentale antologia (solo 58 Fonti ellenistico-romane Plutarco (esponente di punta della Media Accademia) è il primo autore, dopo il lungo silenzio dell'età ellenistica, a citare passi del Poema: gli attuali frammenti B1.29-30, B8.4, B13, B14, B15 hanno Plutarco come fonte; degli ultimi due egli è la nostra unica fonte. Sebbene dichiari di ricorrere ad appunti (ὑπομνήματα), alcune varianti di testo fanno supporre che egli citi da fonti attendibili71 . È probabile attingesse a una tradizione vicina o identica a quella "accademica" (le sue citazioni presentano coincidenze con varianti trasmesse da Proclo), prima, tuttavia, delle alterazioni intervenute nella successiva tradizione neoplatonica. La redazione plutarchea di B1.29, infatti, coincide con quella di Sesto Empirico e Diogene Laerzio, ed è alternativa a quelle di Proclo e Simplicio72. Indicativo della validità della fonte plutarchea è soprattutto il caso di B13 (trasmesso anche da Platone, Aristotele, Sesto Empirico, Simplicio, Stobeo): Plutarco è l'unico testimone in grado di menzionare chiaramente soggetto e contesto del frammento, con l'indicazione della sezione cui la citazione apparteneva (un unicum nelle fonti)73 . Dimestichezza con il Poema, secondo Coxon74, mostrerebbe nel complesso Clemente Alessandrino (per noi fonte più antica di quasi tutto ciò che cita75: B1.29 s., B3, B4, B8.3 s., B10), ma il fatto che di B8.4 egli sia l'unico a riportare la variante ἀγένητον (nella dossografia impiegata per sottolineare l'accordo di Parmenide con Senofane) - dove Simplicio presenta ἀτέλεστον - fa suppore, nella ricezione del testo, un condizionamento da parte di in parte conservata) di Stobeo (V secolo), Eclogae physicae, e la Graecarun affectionum curatio di Teodoreto (V secolo). A Teofrasto sarebbero in ultimo da ricondurre anche la Refutatio omnium haeresium di Ippolito (III secolo), gli Stromateis di altro pseudo-Plutarco (conservato da Eusebio), i capitoli dedicati ai primi filosofi greci nelle Vitae philosophorum di Diogene Laerzio (III secolo). Su questo Mansfeld, op. cit., pp. 23-24. 71 Passa, op. cit., p. 27. 72 Ivi, pp. 27-28. 73 Ivi, p. 28. 74 Coxon, op. cit., p. 5. 75 Ivi, p. 3. 59 versioni dossografiche. Più recisa la valutazione di Passa76, secondo cui gli atticismi delle citazioni rivelerebbero come Clemente lavorasse su un testo fortemenete modificato, di fonti atticizzate. Il livello di corruttela farebbe escludere (contro l'ipotesi di Coxon) la disponibilità di copia integrale del Poema. La ricerca di Passa ha evidenziato la peculiarità del contributo di Sesto Empirico nella storia del testo del Poema: egli sarebbe, in effetti, il solo a conservare nelle proprie citazioni tracce di una tradizione testuale alternativa a quella attica77 . In particolare è Sesto - cui dobbiamo anche la citazione di B7.2-7 e B8.1-2) – l'unica fonte del Proemio (B1.1-30) e una sua interpretazione allegorica: in genere si afferma che esse dipendano da fonte intermedia, probabilmente di ambiente vicino a Posidonio, ma lo studioso italiano ha avanzato l'ipotesi che Sesto abbia utilizzato fonti diverse per il testo del proemio e per la sua parafrasi78. Questa dipenderebbe effettivamente da commento stoico; nel caso del testo del Proemio, tuttavia, Sesto è l'unico a conservare traccia dell'antica redazione psilotica del poema: probabile, dunque, che egli disponesse di una buona copia del Proemio, verosimilmente da esemplare di tutto il poema79. Che Sesto (ovvero la sua fonte) possa aver attinto a una terza tradizione testuale, è ipotesi che anche Cordero80 avanza, sebbene la citazione di B1.29-30 in tre lezioni differenti non ne possa costituire prova conclusiva. A tradizione testuale molto vicina a quella sestana (quindi non attica), potrebbe aver attinto anche Diogene Laerzio, che fornisce identica redazione di B1.29 e, con Sesto, una buona porzione di B7 (vv. 3-5)81 . Fonti neoplatoniche La prima fonte neoplatonica – ovviamente dopo lo stesso Plotino (III secolo d.C.), che cita solo di passaggio frammenti isolati: 76 Passa, op. cit., p. 32. 77 Passa, op. cit., p. 29. 78 Ivi, p. 31. 79 Ibidem. 80 Cordero, op. cit., p. 5. 81 Coxon (op. cit., pp. 2-3) presume invece, nel caso di Sesto e di Diogene, fonti peripatetiche e stoiche. 60 B3, B8.5, B8.25, B8.43 - è costituita da Proclo, che fu scolarca dell'Accademia fino alla morte (fine V secolo). A lui dobbiamo un consistente numero di citazioni: gli attuali B1.29-30, B2, B3, B4.1, B5, B8.4, B8.5, B8.25, B8.26, B8.29-32, B8.35-36, B8.43- 45, che rivelano la sua familiarità con l’opera parmenidea82, ciò suggerendo la possibilità che avesse accesso a testo completo. Oggi si concorda83 sostanzialmente sulla notevole approssimazione dei suoi riferimenti, probabilmente risultato di citazioni a memoria, eppure si conviene che, in considerazione delle coincidenze non casuali con la versione di Plutarco, il testo di Proclo dovesse essere antico almeno quanto quello di Plutarco, e derivare dalla medesima tradizione testuale accademica84, sebbene ormai modificata dall'interpretazione neoplatonica di Parmenide. Nella propria edizione del Poema (1897)85 Hermann Diels attribuì a Simplicio - come fonte per la ricostruzione dell'opera di Parmenide - enorme valore. A conclusione della propria introduzione, il filologo tedesco da un lato assumeva che l'esemplare di Simplicio dovesse essere di qualità eccellente (im Ganzen vortrefflich), forse (vermutlich) risalente alla stessa biblioteca della scuola di Platone86, di cui egli fu uno degli ultimi esponenti prima della chiusura a opera di Giustiniano (529 d.C.); dall'altro, però, riconosceva anche come Simplicio e Proclo non potessero aver ricavato dalla stessa copia le rispettive citazioni. Così, nonostante risultassero legati alla stessa istituzione, secondo Diels i due commentatori neoplatonici avrebbero utilizzato codici diversi87 , esemplari di versioni testuali alternative all'interno della stessa tradizione accademica. L'impostazione dielsiana nello specifico è stata di recente discussa con acribia da Passa88, secondo il quale è difficile credere 82 Coxon, op. cit., pp. 2-3. 83 Coxon, op. cit., pp. 5-6; Passa, op. cit., pp. 38-39. 84 Passa, op. cit., p. 39. 85 H. Diels, Parmenides Lehrgedicht, Academia Verlag, Sankt Augustin 20012 , pp. 25-26. 86 Ivi, p. 26. 87 Ibidem. 88 Op. cit., pp. 35 ss. 61 che Simplicio potesse derivare la propria copia dalla biblioteca dell'Accademia, dal momento che: (i) dopo la chiusura decretata nel 529 dall'editto di Giustiniano, i filosofi neoplatonici (il diadoco Damascio e l'allievo Simplicio) prima si recarono in esilio presso il re persiano Cosroe (531), per ritirarsi poi (532) entro i confini dell'impero bizantino, a Harran (Mesopotamia) o in Siria; (ii) tutti i trattati simpliciani furono stesi dopo il ritorno dalla Persia, secondo questo ordine: (i) de caelo, (ii) in physicam, (iii) in categorias, (iv) de anima89 . Simplicio – cui dobbiamo citazioni degli attuali B1.28-32, B2.3-8, B6, B7.1-2, B8, B10, B11, B12, B13, B20 - è stato, in effetti, generalmente considerato fonte attendibile anche dagli editori successivi: ancora Coxon90 giudicava l'esemplare a disposizione di Simplicio «a rare and excellent copy». Nonostante si possa registrare come un certo numero di sue citazioni sia ricavato da testi platonici, e plausibilmente sospettare che sia ricorso a ὑπομνήματα e/o compilazioni antologiche (conosce infatti due redazioni di B8.4, di cui una molto vicina all'esemplare di Plutarco e Proclo)91 , a favore dell'affidabilità dell'attestazione di Simplicio depongono l'esplicito impegno a trasmettere documenti del pensiero antico ritenuti fondamentali e il fatto che egli mostri di padroneggiare la struttura del Poema sin dal primo commento aristotelico (de caelo) 92. Soprattutto hanno pesato, nella valutazione del suo contributo, i suoi espliciti rilievi, in precedenza citati: «vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo» (DK 28 A21). Passa93 ha tuttavia messo in dubbio l'attendibilità della redazione simpliciana, facendo leva in particolare su un indizio: citando i vv. B8.53-59, Simplicio (in physicam 31, 3) segnala: 89 Ivi, p. 36. 90 Coxon, op. cit., p. 6. 91 Passa, op. cit. p. 40. 92 Ibidem. 93 Ivi, pp. 41-43. 62 καὶ δὴ καὶ καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί τι ῥησείδιον ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως· ἐ π ὶ τ ῶ ι δ έ ἐ σ τ ι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ τ ὸ φ ά ο ς καὶ τὸ μ α λ θ α κ ὸ ν καὶ τὸ κοῦφον, ἐ π ὶ δ ὲ τ ῶ ι π υ κ ν ῶ ι ὠ ν ό μ α σ τ α ι τὸ ψυχρὸν καὶ τ ὸ ζ ό φ ο ς καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ· ταῦτα γὰρ ἀπεκρίθη ἑκατέρως ἑκάτερα tra i versi si riferisce un passo in prosa come dello stesso Parmenide, che dice così: per questo ciò che è raro è anche caldo, e luce e morbidezza e leggerezza; per la densità invece il freddo è indicato come oscurità, durezza e pesantezza. Dopo B8.57, evidentemente, nella copia utilizzata da Simplicio, uno scolio era stato incorporato (da un copista che non si era reso conto trattarsi di καταλογάδην τι ῥησείδιον, di «un passo in prosa») all'interno del testo del Poema. Il commentatore, tuttavia, nel citare il passaggio, non sembra preoccuparsene, riferendolo sostanzialmente allo stesso Parmenide (ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου)! Whittaker94 ne ha inferito che: (i) l'esemplare simpliciano del Poema doveva presentarsi come «the product of unintelligent transcription from an annotated source»; (ii) la competenza del commentatore (che non si avvede dell'inquinamento del testo) in relazione al testo parmenideo doveva essere discutibile. Una valutazione che dovrebbe far riflettere sulla problematica situazione testuale del Poema, soprattutto accreditando l'ipotesi di Deichgräber95 che tutta la copia di Simplicio fosse corredata di scolii. Passa ha proposto un'interessante spiegazione dell'atteggiamento del commentatore neoplatonico: il mancato allarme di fronte all'inserto in prosa nel corpo esametrico del Poema deriverebbe dalla piena assimilazione del quadro proposto nel Sofista platonico (237a): 94 J. Whittaker, God, Time, Being. Two Studies in the Transcendental Tradition in Greek Philosophy, Osloae 1971, p. 21. Citato da Passa, op. cit., pp. 41-2. 95 K. Deichgräber, "Xenophanes' περὶ φύσεως", «Rheinisches Museum» 87, 1938, p. 3. 63 Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ τέλους τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων - Οὐ γὰρ μή ποτε τοῦτο δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήμενος εἶργε νόημα [B7.1-2] Questo discorso ha osato ammettere che il non essere sia: il falso, in effetti, non potrebbe darsi diversamente. Il grande Parmenide, invece, caro figliolo, a noi che eravamo ragazzi testimoniava contro ciò dall'inizio alla fine, ribadendo ogni volta, nelle sue parole e nei suoi versi, che: «Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero». Platone documentava una pratica di insegnamento in cui si intrecciavano la memorizzazione dei contenuti fondamentali del Poema, l'esposizione dettagliata del maestro, l'approfondimento e il chiarimento di temi attraverso la comunicazione di informazioni supplementari96: è possibile che in tal modo egli recuperasse un modello effettivamente operante in ambito eleatico97. Non va inoltre dimenticato che, proprio a partire da questa "testimonianza" platonica, nella tradizione tarda (come attesta Suda, X secolo) si diffuse la convinzione che Parmenide avesse composto, oltre al Poema, anche opere in prosa: Παρμενίδης Πύρητος Ἐλεάτης φιλόσοφος, μαθητὴς γεγονὼς Ξενοφάνους τοῦ Κολοφωνίου, ὡς δὲ Θεόφραστος Ἀναξιμάνδρου τοῦ Μιλησίου. [...] ἔγραψε δὲ φυσιολογίαν δι’ ἐπῶν καὶ ἄλλα τινὰ καταλογάδην, ὧν μέμνηται Πλάτων 96 Passa, op. cit., p. 25. 97 Ne sono sostanzialmente convinti sia Cerri sia Passa, che richiamano questo punto. 64 Parmenide, figlio di Pireto, filosofo eleate, fu discepolo di Senofane di Colofone; secondo Teofrasto, al contrario, di Anassimandro di Mileto. [...] Scrisse di scienza della natura in versi e di altri argomenti in prosa, come ricorda Platone (DK 28 A2). Non sorprenderà, quindi, che Simplicio, poco avveduto sul piano filologico, potesse frettolosamente ricondurre l'inserto in prosa a commento dello stesso autore. Queste considerazioni contribuiscono a ridimensionare la fiducia nell'attendibilità dell'attestazione simpliciana, che Passa98 giudica fondamentale ma sopravvalutata: [Simplicio] mancava infatti sia della capacità di inquadrare correttamente Parmenide nel suo vero contesto storico-culturale, sia di strumenti critici in grado di smascherare i vizi dell'esemplare in suo possesso. Quel che però risulta più preoccupante per l'editore del Poema parmenideo è la prospettiva che nelle citazioni simpliciane si riflettano interventi diretti sul testo, operati all'interno della scuola platonica, perché rispondesse alle sue aspettative teoriche: proprio il caso di Simplicio potrebbe essere esemplare, se accettiamo la ricostruzione di Passa99 . Nell'ambiente siriaco in cui Simplicio avrebbe sviluppato tutta la sua opera di commento, si era radicata, a partire dal II secolo, una tradizione che, da Numenio a Giamblico (III secolo), aveva puntato a una rilettura della storia della filosofia (Φιλόσοφος ἱστορία era il titolo della grandiosa ricostruzione del maestro di Giamblico, il neoplatonico Porfirio, allievo diretto di Plotino) imperniata sulla rivelazione della Verità: la filosofia vi era infatti interpretata come recupero, con gradi variabili di approssimazione, di una verità eterna, di cui Pitagora (erede delle antiche dottrine di Zarathustra, Anassimandro, Egizi, Fenici, Caldei ed Ebrei) prima, 98 Passa, op. cit., p. 145. 99 Ivi, pp. 35 ss.. 65 e poi soprattutto Platone sarebbero stati i più lucidi testimoni100 . Caratteristica dell'interpretazione siriaca di Giamblico (cui si deve un importante "canone" di lettura tematico-gerarchica dell'opera platonica101) rispetto all'interpretazione porfiriana102 era la valorizzazione dell'essenza "pitagorica" del pensiero di Platone (e Aristotele), che finiva per coinvolgere, in prospettiva, anche i pensatori presocratici: così, per esempio, Parmenide figurava nel catalogo dei pitagorici103 . È in tale ambiente che Simplicio avrebbe recuperato in genere gli strumenti necessari al ripensamento di Platone e Parmenide (visto come anello di congiunzione104) e il materiale per le proprie citazioni. Le citazioni di Simplicio rimangono comunque fondamentali (in particolare per la possibilità del commentatore di ricorrere direttamente a esemplare del Poema, che consente di conservare caratteristiche formali autentiche, perdute in altri settori della tradizione105), ma non senza riconoscimento e consapevolezza della presenza - all'interno delle citazioni stesse - di (i) un evidente processo di adattamento linguistico (contrazioni, crasi) al modello attico; (ii) un possibile intervento sul lessico per impreziosire il testo106; (iii) una probabile "normalizzazione"107 del testo sul piano dei contenuti, alla luce della chiave di lettura neoplatonizzante e pitagorizzante. 100 Molto utili per la ricostruzione di questo quadro il saggio introduttivo di G. Girgenti, Interpetazione filosofica della Vita di Pitagora, in Porfirio, Vita di Pitagora, a cura di A.R. Sodano e G. Girgenti, Rusconi, Milano 1998, e l'introduzione dello stesso Sodano alla sua edizione di Porfirio, Storia della filosofia, Rusconi, Milano 1997. 101 (i) Platone-etico: Alcibiade Primo, Gorgia e Fedone; (ii) Platone-logico: Cratilo, Teeteto; (iii) Platone-fisico: Sofista e Politico; (iv) Platone-teologo: Fedro, Simposio, Filebo (per il sommo bene). Il tutto era poi ricomposto nella lettura di Timeo e Parmenide, che riassumevano tutto l'insegnamento platonico sulla natura e la teologia. 102 Girgenti, op. cit., p. 11. 103 Passa, op. cit., p. 37. 104 Ivi, p. 145. 105 Ivi, p. 42. 106 Operazione caratteristica del Neopitagorismo secondo Passa, ibidem. 107 Ibidem. 66 BIBLIOGRAFIA Edizioni del testo consultate Per il testo greco e la traduzione ho tenuto conto delle seguenti edizioni contemporanee: H. Diels – W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Band I, Weidmannsche Verlagsbuchhandlung, Berlin 19526 [indicheremo l'edizione come Diels-Kranz ovvero DK. Per la traduzione italiana, quando non abbiamo personalmente tradotto, abbiamo utilizzato quella, a cura di G. Reale: I presocratici, Bompiani, Milano 2006] P. Albertelli, Gli Eleati. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari 1939 (ristampa Arno Press, New York 1976) [indicheremo l'edizione come Albertelli] I presocratici. Frammenti e testimonianze. I. La filosofia ionica. Pitagora e l’antico pitagorismo. Senofane. Eraclito. La filosofia elatica, introduzione, traduzione e note a cura di A. Pasquinelli, Einaudi, Torino 1958 [indicheremo l'edizione come Pasquinelli] Parmenide, Testimonianze e frammenti, Introduzione, traduzione e commento a cura di M. Untersteiner, La Nuova Italia, Firenze 1958 [indicheremo l'edizione come Untersteiner] G.S. Kirk, J.E. Raven, The Presocratic Philosophers. A Critical History with a Selection of Texts, C.U.P., Cambridge 1963 [indicheremo l'edizione come Kirk-Raven] Parmenides. A Text with Translation, Commentary and Critical Essays, by L. Tarán, Princeton University Press, Princeton 1965 [rimane, per i problemi testuali e la loro discussione, una edizione di riferimento. La indicheremo com Tarán] Parmenides, Über das Sein, übersetzt von J. Mansfeld, herausgegeben von H. von Steuben, Reclam, Stuttgart 1981 Les deux chemins de Parménide, édition critique, traduction, études et bibliographie par N.-L. Cordero, Vrin, Paris 1984 [da 67 integrare con l’opera interpretativa aggiornata - dello stesso autore – By Being, It Is, Parmenides Publisher, Las Vegas 2004: complessivamente offrono un grande contributo testuale, grazie alla discussione delle difficoltà e al confronto costante con la tradizione dei manoscritti. Indicheremo lo studio del 2004 come Cordero] Parménide, Le poème, présenté par J. Beaufret, PUF, Paris 19863 (edizione originale 1955) A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986 [fondamentale, anche per i riferimenti alla tradizione testuale e ai manoscritti, nonostante le riserve di O’Brien. La indicheremo come Coxon] Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. I, Le Poème de Parménide, texte, traduction, essai critique par D. O’Brien, Vrin, Paris 1987 [strumento molto utile per la discussione delle difficoltà testuali, ma anche per la doppia traduzione, francese e inglese, con le scelte conseguenti. Lo indicheremo come O'Brien] Parmenides of Elea, Fragments. A Text and Translation with an Introduction by D. Gallop, University of Toronto Press, Toronto 1987 [indicheremo l'edizione come Gallop] Parmenide, Poema sulla Natura. I frammenti e le testimonianze indirette, presentazione, traduzione e note a cura di G. Reale, saggio introduttivo e commentario filosofico a cura di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991 [non si distingue tanto come strumento filologico, quanto per l’ampio commentario filosofico di corredo. Indicheremo la traduzione come Reale e il commento come Ruggiu] Parmenides, Die Fragmente, herausgegeben von E. Heitsch, Artemis & Winkler, Zürich 1995 [indicheremo l'edizione come Heitsch] Parménide, Sur la nature ou sur l’étant. La langue de l’être?, présenté, traduit et commenté par B. Cassin, Éditions du Seuil, Paris 1998 [indicheremo l'edizione come Cassin] Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1999 (edizione originale 1996) [indicheremo l'edizione come Conche] 68 Parmenide di Elea, Poema sulla Natura, introduzione, testo, traduzione e note di commento di G. Cerri, BUR, Milano 1999 [strumento essenziale – pur trattandosi di edizione tascabile - per la discussione dei principali problemi testuali, e la chiarificazione dei nessi con la letteratura greca arcaica. Lo indicheremo come Cerri] H. Diels, Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen und Schlösser, mit einem neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidierten Bibliographie von D. De Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin 20032 (edizione originale 1897) [rimane opera fondamentale, soprattutto per la comprensione dell’ambiente culturale e i motivi del poema. La indicheremo come Diels] Parmenide, Poema sulla natura, a cura di V. Guarracino, Edizioni Medusa, Milano 2006 Parmenide, Sull’Ordinamento della Natura. Per un’ascesi filosofica, a cura di Raphael, Edizioni Asram Vidya, Roma 2007 Die Vorsokratiker, Band II (Parmenide, Zenon, Empedokles), Auswahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2009 [indicheremo l'edizione come Gemelli Marciano] Le parole dei Sapienti. Senofane, Parmenide, Zenone, Melisso, traduzione e cura di A. Tonelli, Feltrinelli, Milano 2010 [indicheremo l'edizione come Tonelli] The Texts of Early Greek Philosophy. The Complete Fragments and Selected Testimonies of the Major Presocratics, translated and edited by D.W. Graham, Part I, C.U.P., Cambridge 2010 [indicheremo l'edizione come Graham] Per specifici problemi testuali risulta ancora illuminante A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven – London 1970 (ora in edizione aggiornata presso Parmenides Publisher, Las Vegas 2008) [indicheremo l'opera genericamente come Mourelatos]. 69 Molto utili per la discussione di singoli problemi interpretativi J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964 [indicheremo l'opera genericamente come Mansfeld] e W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994 [indicheremo l'opera genericamente come Leszl]. In generale, per lo status interpretativo fino alla seconda metà degli anni Sessanta, è strumento di inquadramento l’aggiornamento, a cura di G. Reale, di E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III: Eleati, La Nuova Italia, Firenze 1967 (ora ristampato come E. Zeller, R. Mondolfo, G. Reale, Gli Eleati, Bompiani, Milano 2011, con aggiornamento bibliografico a cura di G. Girgenti). Per una dettagliata analisi del frammento B8 e delle sue premesse è davvero illuminante la lettura di R. McKirahan, “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008, pp. 189-229. Per la storia e lo stato del testo di rilievo, insieme al fondamentale Les deux chemins de Parménide cit., il recente lavoro di E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009 [che indicheremo come Passa]. Letteratura critica consultata J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics. An account of the interaction between the two schools during the fifth and early fourth centuries B.C., Cambridge University Press, Cambridge 1948 J. Zafiropulo, L’Ecole Eléate, Les Belles Lettres, Paris 1950 J.H.M.M. Loenen, Parmenides Melissus, Gorgias. A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorchum, Assen 1959 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze 1961 (edizione originale 1953) 70 W.J. Verdenius, Parmenides. Some Comments on His Poem, Hakkert, Amsterdam 1964 Parmenides, herausgegeben von K. Riezler, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 19702 (edizione originale 1934) M.C. Stokes, One and Many in Presocratic Philosophy, The Center for Hellenic Studies, Washington 1971 M. Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A New View on Their Cosmologies and on Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974 G. Calogero, Studi sull’eleatismo, La Nuova Italia, Firenze 19772 (edizione originale 1932) G. Casertano, Parmenide: il metodo, la scienza, l’esperienza, Guida Editori, Napoli 1978 E. Heitsch, Parmenides und die Anfänge der Erkenntniskritik und Logik, Auer, Donauwörth 1979 M. Heidegger, Gesamtausgabe, II Abteilung: Vorlesungen 1923-1944. Band 54. Parmenides, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1982 K. Reinhardt, Parmenides und die Geschichte die griechischen Philosophie, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 19854 (edizione originale 1916) S. Austin, Parmenides. Being, Bounds, and Logic, Yale University Press, New Haven and London 1986 L. Couloubaritsis, Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia, Bruxelles 1986 La scuola eleatica, «La Parola del Passato», volume XLIII, Macchiaroli, Napoli 1988 G. Colli, La natura ama nascondersi. FYSIS KRUPTESQAI FILEI, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano 1988 (edizione originale 1948) P.A. Meijer, Parmenides Beyond the Gates. The Divine Revelation on Being, Thinking and the Doxa, Brill Academic Publishers, Amsterdam 1997 P. Thanassas, Die erste "zweite Fahrt": Sein des Seienden und Erscheinen der Welt bei Parmenides, Fink, Munich 1997 71 S. Sellmer, Argumentationsstrukturen bei Parmenides. Zur Methode des Lehrgedichts und ihren Grundlagen, Peter Lang, Frankfurt a.M. 1998 P. Curd, The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998 G. Colli, Zenone di Elea. Lezioni 1964-1965, a cura di E. Colli, su appunti di E. Berti, Adelphi, Milano 1998 P. Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999 J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides, O.U.P., Oxford 1999 G. Colli, Gorgia e Parmenide. Lezioni 1965-1967, a cura di E. Colli, su appunti di E. Berti, Adelphi, Milano 2003 M.J. Henn, Parmenides of Elea: A Verse Translation with Interpretative Essays and Commentary to the Text, Praeger Publishers, Westport 2003 A. Hermann, To Think like God. Pythagoras and Parmenides, Parmenides Publishing, Las Vegas 2004 N.-L. Cordero, By Being, It Is. The Thesis of Parmenides, Parmenides Publisher, Las Vegas 2004 G. Scuto, Parmenides’ Weg. Vom Wahr-Scheinenden zum Wahr-Seienden. Mit einer Untersuchung zur Beziehung des parmenideischen zum indischen Denken, Academia Verlag, Sankt Augustin 2005 M. Fattal, Ricerche sul logos. Da Omero a Plotino, a cura di R. Radice, Vita e Pensiero, Milano 2005 J. Bollack, Parménide, de l’Etant au Monde, Verdier, Lagrasse 2006 D.W. Graham, Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006 C. Robbiano, Becoming Being. On Parmenides’ Transformative Philosophy, Academia Verlag, Sankt Augustin 2006 P. Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical Interpretation, Marquette University Press, Milwaukee (Wisconsin USA) 2007 72 S. Austin, Parmenides and the History of Dialectic: Three Essays, Parmenides Publishing, Las Vegas 2007 E. Struck, Parmenides von Elea. Philosophie an der Wende von der Naturphilosophie zur Ontologie. Studienarbeit, Grin, Münich 2007 M. Stemich, Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, Ontos Verlag, Frankfurt 2008 Parmenide scienziato?, a cura di L. Rossetti e F. Marcacci, Academia Verlag, Sankt Augustin 2008 L. Couloubaritsis, La pensée de Parménide, Ousia, Bruxelles, 2008 (si tratta della terza edizione, modificata e aumentata, di Mythe et Philosophie chez Parménide) G. Colli, Filosofi sovrumani, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano 2009 (il testo risale al 1939) L.A. Wilkinson, Parmenides and To Eon. Reconsidering Muthos and Logos, Continuum International Publishing, London – New York 2009 J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, OUP, Oxford 2009 F. Merkel, Das Verhältnis von Meinung und Wissen im Lehrgedicht des Parmenides, Grin, Münich 2009 F. Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Aracne Editrice, Roma 2010 R.J. Roecklein, Plato versus Parmenides. The Debate Cominginto-Being in Greek Philosophy, Lexington Books, Plymouth (UK) 2011 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, Orizons, Paris 2011 Parmenides, Venerable and Awesome, Proceedings of the International Symposium (Buenos Aires, October 29-November 2, 2007), Parmenides Publishing, Las Vegas 2011 J. Frère, Parménide ou le Souci du Vrai. Ontologie, Théologie, Cosmologie, Kimé, Paris 2012 J. Burnet, Early Greek Philosophy, Black, London 19203 W.K.C. Guthrie, A History of Greek Philosophy. Vol. 1. The Earlier Presocratics and the Pythagoreans, C.U.P., Cambridge 1962 73 Id., A History of Greek Philosophy. Vol. 2. the Presocratic Tradition from Parmenides to Democritus, C.U.P., Cambridge 1965 Id., The Sophists, C.U.P., Cambridge 1971 G. Colli, La sapienza greca. Vol. I: Dioniso, Apollo, Eleusi, Orfeo, Museo, Iperborei, Enigma, Adelphi, Milano 1977 Id., La sapienza greca. Vol. II: Epimenide, Ferecide, Talete, Anassimandro, Anassimene, Onomacrito, Adelphi, Milano 1978 W. Schadewaldt, Die Anfänge dei Philosophie bei den Griechen, Suhrkamp, Frankfurt am Mein 1978 G. Colli, La sapienza greca. Vol. III: Eraclito, Adelphi, Milano 1980 G. Wöhrle, Anaximenes aus Milet. Die Fragmente zu seiner Lehre, herausgegeben, übersetzt, erläutert und mit einer Einleitung versehen von G. Wöhrle, Steiner, Stuttgart 1993 Ch.H. Kahn, Anaximander and The Origins of Greek Cosmology, Hackett Publishing Company, Indianapolis 1994 (edizione originale 1960) K. Morgan, Myth and Philosophy From the Presocratics to Plato, C.U.P., Cambridge 2000 V. Caston, D.W. Graham (editors), Presocratic Philosophy. Essays in Honour of Alexander Mourelatos, Ashgate, Aldershot 2002 A. Laks, C. Louguet (eds), Qu’est-ce que la philosophie présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq 2002 G. Naddaf, The Greek Concept of Nature, SUNY Press, New York 2005 G. Rechenhauer (Hg.), Frühgriechisches Denken, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005 La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006 C. Rapp, Vorsokratiker, Beck, München 20072 F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza dall'Odissea alle lamine misteriche, Utet Libreria, Torino 2007 Die Vorsokratiker, Band I (Thales, Anaximander, Anaximenes, Pythagoras und die Pythagoreer, Xenophanes, Heraklit), Au- 74 swahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2007 [indicheremo questa edizione come Gemelli Marciano] A. Bernabé y F. Casadesús (coords.), Orfeo y la tradicíon órfica. Un reencuentro, 2 voll., Akal, Madrid 2008 The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008 Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009 Die Vorsokratiker, Band II (Parmenides, Zenon, Empedokles), Auswahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2009 G. Wöhrle (Hrsg.), Die Milesier: Thales, De Gruyter, Berlin 2009 [Traditio Praesocratica] Die Vorsokratiker, Band III (Anaxagoras, Melissos, Diogenes von Apollonia, die antiken Atomisten), Auswahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2010 Il quinto secolo. Studi di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S. Giombini e F. Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011 La Sagesse Présocratique. Communications des Savoirs en Grèce Archaïque: des Lieux et des Hommes, sous la direction de M.-L. Desclos et F. Fronterotta, Armand Colin, Paris 2013 Con la sigla LSJ indichiamo H.G. Liddell, R. Scott, GreekEnglish Lexicon, revised and augmented throghout by H.S. Jones, Clarendon Press, Oxford 1996 PARMENIDE SULLA NATURA Frammenti testo greco e traduzione italiana1 1 Le note al testo greco si riferiscono a problemi di determinazione del testo originale; quelle alla traduzione, invece, a problemi di resa del testo greco e di interpretazione. 76 DK B1 ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι, πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι δαίμονος1 , ἣ κατὰ † ... †2 φέρει εἰδότα φῶτα· τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι φέρον ἵπποι [5] ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον. ἄξων δ΄ ἐν χνοίῃσιν ἵ < ει >3 σύριγγος ἀυτήν αἰθόμενος - δοιοῖς γὰρ ἐπείγετο δινωτοῖσιν κύκλοις ἀμφοτέρωθεν -, ὅτε σπερχοίατο πέμπειν Ἡλιάδες κοῦραι, προλιποῦσαι δώματα Nυκτός4 [10] εἰς φάος, ὠσάμεναι κράτων5 ἄπο χερσὶ καλύπτρας. ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι κελεύθων, καί σφας6 ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός· αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται μεγάλοισι θυρέτροις· τῶν δὲ Δίκη7 πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς. [15] τὴν δὴ παρφάμεναι κοῦραι μαλακοῖσι λόγοισιν 1 Diels-Kranz (ma non Diels nella sua originaria edizione del poema parmenideo, 1897) accolgono la correzione (Stein, 1867) del genitivo δαίμονος nel nominativo δαίμονες, di cui oggi si riconosce l'arbitrarietà. 2 Non si tratta di lacuna testuale, ma di testo presumibilmente corrotto: KATAPANTATH, trasmesso nei codici come κατὰ πάντ’ ἄτη (N), κατὰ πάντἀτη (L), κατὰ πάντα τη (E), κατὰ πάντα τῆ (codices deteriores). Diels legge: κατὰ πάντ’ ἄ < σ > τη (partendo dall'errore di decodifica del codice N da parte di Mutschmann). Per il resto gli editori hanno fatto ricorso a congetture plausibili nel contesto: Cerri: κατὰ πάντ’ ἃ τ’ ἔῃ; Cordero: κατὰ πάν ταύτῃ; Coxon suggerisce κατὰ πάντ’ ἄ < ν > τη < ν >. Per la traduzione si veda nota relativa. 3 χνοίῃσιν ἵ < ει > è correzione di Diels (1897) a χνοῖησινι del codice N, χνοιῆσιν (codici EL). 4 Scegliamo, seguendo Diels, di considerare Νύξ nome proprio della divinità, così come nel caso del successivo Ἦμαρ. 5 Il genitivo κρατερῶν dei codici è stato emendato in κρατῶν da Karsten e il κράτων da Diels. 6 La forma pronominale greca σφας è evoluzione dell'accusativo plurale di terza persona in uso nell'epica arcaica (σφε) all'interno della aedica ionica: la presenza della forma in Parmenide è considerata notevole da Passa (pp. 99-100). 7 La forma Δίκη è degli editori moderni: nei codici δίκην. 77 πεῖσαν ἐπιφράδέως, ὥς σφιν βαλανωτὸν ὀχῆα ἀπτερέως ὤσειε πυλέων8 ἄπο· ταὶ δὲ θυρέτρων χάσμ΄ ἀχανὲς ποίησαν ἀναπτάμεναι πολυχάλκους ἄξονας ἐν σύριγξιν ἀμοιϐαδὸν εἰλίξασαι [20] γόμφοις καὶ περόνῃσιν ἀρηρότε9 · τῇ ῥα δι΄ αὐτέων10 ἰθὺς ἔχον κοῦραι κατ΄ ἀμαξιτὸν 11 ἅρμα καὶ ἵππους. καί με θεὰ πρόφρων ὑπεδέξατο, χεῖρα δὲ χειρί δεξιτερὴν ἕλεν, ὧδε δ΄ ἔπος φάτο καί με προσηύδα ὦ κοῦρ΄ ἀθανάτοισι συνάορος12 ἡνιόχοισιν, [25] ἵπποις θ’ αἵ 13 σε φέρουσιν ἱκάνων ἡμέτερον δῶ, 8 La forma del genitivo πυλέων trasmessa dai codici potrebbe rivelare (Passa, p. 84) la familiarità di Parmenide con la dizione epica, manifestando in particolare la vicinanza a Esiodo. Si tratta comunque di un caso dubbio di metatesi quantitativa. Diels, nell'edizione del poema (1897), si interrogava (pp. 26-27) sull'opportunità di conservare πυλέων in vece di πυλῶν. 9 La forma duale ἀρηρότε è stata restaurata da Bergk e generalmente accolta dagli editori. Si distingue Cordero, che conserva la forma del participio plurale ἀρηρότα dei codici NE e deteriores. 10 Il genitivo in αὐτέων, accolto per lo più dagli editori, è conservato dal solo codice N; gli altri (LE e deteriores) riportano αὐτῶν. Sarebbe esemplare dello stile solenne (di ascendenza epica ionica) adottato da Parmenide. Diels, in verità, nell'edizione del poema (1897), optava per αὐτῶν, come oggi fa Cordero. Effettivamente si possono trovare precedenti omerici (Iliade XII, 424) e esiodei (Scutum 237) nella formula ὑπὲρ αὐτέων: rimane comunque il sospetto (Passa, p. 85) che la lezione apparentemente superiore del codice N, copia di uno scriba doctus, rifletta un tentativo di "omerizzazione" del poema. 11 Si veda la successiva nota a θ’ αἵ del v. 20. 12 I codici di Sesto Empirico attestano unanimemente συνάορος, il cui vocalismo - ᾱορος appare fuori posto in un poema in esametri, composto da un autore ionico. In Omero è attestato συνήορος, preferito da Brandis (1813) e, nel nostro secolo, da Coxon (ἀθανάτῃσι συνήορος). Diels (1897) rifiutò la correzione, seguito dalla quasi totalità di editori successivi. La scelta di Diels è stata di recente difesa, su diverse basi interpretative, da Passa (pp. 132-137), che vede nel vocalismo - ᾱορος il segno di una incidenza della lirica corale nella letteratura arcaica e tardo-arcaica: συνάορος non è lezione dei codici attici del poema (che dovevano riportare συνήορος), ma probabilmente è la forma voluta dallo stesso Parmenide, che se ne appropriava appunto in quanto forma di successo nella poesia contemporanea. 78 χαῖρ΄, ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα14 κακὴ προὔπεμπε νέεσθαι τήνδ΄ ὁδόν - ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν -, ἀλλὰ Θέμις15 τε Δίκη16 τε. χρεὼ 17 δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης18 εὐκυκλέος19 ἀτρεμὲς 20 ἦτορ 13 I codici LE riportano ταί; N riproduce θ’ αἵ; i codices deteriores τε. Come osserva J. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford 2009, p. 378): «the postpositive connective is required here». La presenza di ταί nei codici si giustifica probabilmente per l'eco quasi letterale del v. 1, che può aver confuso i copisti: i codici, infatti, riproducono per B1.1 la stessa lezione data in B1.25 (Passa, p. 59). Passa fa tuttavia osservare come il passaggio da un originale ΘΑΙ (nella scriptio continua dei codici) al ταί della copia non sia facilmente spiegabile, mentre è più naturale ipotizzare che, meccanicamente, ΤΑΙ sia stato reso come ταί. È probabile che il copista di N abbia corretto (come ha fatto in altri punti) il testo che aveva di fronte (ΤΑΙ), allineando la lezione dei versi 1 e 25, ovvero rilevando una sintassi difettosa: introducendo l'aspirazione, l'originale ΤΑΙ sarebbe stato copiato appunto come θ’ αἵ. Secondo Passa, è probabile invece che la tradizione di Sesto Empirico riportasse ΤΑΙ, da rendere come τ’ ἄι, senza aspirazione: θ’ αἵ sarebbe forma normalizzata di τ’ ἄι (congiunzione τε seguita dal pronome relativo ἄι senza aspirazione), che conserverebbe traccia di psilosi, la mancanza di aspirazione, comune nel dialetto ionico in cui il poema fu originariamente composto. A conferma lo studioso italiano porta, sempre nel proemio, il caso di κατ΄ ἀμαξιτὸν del v. 20, conservato dai migliori codici di Sesto Empirico (NLE), in luogo della forma aspirata καθ΄ ἁμαξιτὸν, da attendersi. È possibile, dunque, che la redazione del proemio da cui discende la tradizione sestana fosse psilotica. 14 Scegliamo, a differenza degli altri editori, di considerare Μοῖρα nome proprio, coerentemente con il contesto divino. 15 La scelta della maiuscola è solo di alcuni editori. 16 Secondo M.E. Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A new view on their cosmologies and on Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974, p. 59, l'uso della minuscola in questo caso sarebbe legittimo, in quanto non ci troveremmo di fronte alla «nozione concreta» di Δίκη incontrata al v. 14. 17 Un caso di metatesi: χρεώ forma epica da χρήω. L'epica conosce anche la forma più antica χρειώ (Passa, p. 77-9). 18 È interessante segnalare che in questo caso, nelle vecchie edizioni (Diels 1897; Diels-Kranz), il testo greco riportava il maiuscolo Ἀληθείη, evidentemente classificando Verità tra le rappresentazioni divine. In considerazione della posizione - che, seguendo Passa (p. 53), si potrebbe definire di «ipostasi divina» - riconosciutale anche in B2.4, reintroduciamo la maiuscola iniziale. La stessa scelta è stata compiuta da Gemelli Marciano (II, p. 12). 79 [30] ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα21 χρῆν δοκίμως22 εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα23 . 19 Degli ultimi versi del proemio abbiamo, oltre a quella (vv. 1-30) di Sesto Empirico, diverse citazioni: Simplicio cita 28b-32 nel commentario al De Caelo aristotelico; Diogene Laerzio cita 28b-30, mentre Plutarco, Clemente di Alessandria, Proclo e ancora Sesto (nella discussione) citano 29-30. Il testo di Simplicio riporta εὐκυκλέος («ben rotonda»), accolto da Diels in forza della qualità e interezza (presunte) del manoscritto di Simplicio. Il filologo tedesco è stato in passato seguito (tra gli altri) da Untersteiner, Guthrie, Tarán, Hölscher, e oggi da Cordero, Reale, Cerri, Ferrari, Tonelli, Palmer. I manoscritti ellenistici (quello di Plutarco, Sesto Empirico e Diogene Laerzio), tuttavia riportavano εὐπειθέος (che viene tradotto come «ben convincente»), che i più (tra gli altri Mansfeld, Mourelatos, Coxon, Conche, O'Brien, Gallop, Curd, Gemelli Marciano, Passa) preferiscono. Solo Proclo usa εὐφεγγέος («risplendente»), poco attendibile. Come in altri casi, si è rivelata decisiva la convinzione della affidabilità della redazione di Simplicio. Passa è certamente colui che, con maggiore acribia, ha argomentato, in tempi recenti, la propria opzione (pp. 55 ss.), tra l'altro all'interno di una ricostruzione delle tradizioni testuali del poema che mette in discussione proprio l'affidabilità della versione di Simplicio, che risentirebbe pesantemente di adattamenti platonizzanti (come quella di Proclo). Di diverso avviso Cerri (p. 184), per il quale Simplicio sarebbe invece molto attento alla conservazione del testo e del lessico parmenidei. Buone osservazioni a difesa della lezione εὐκυκλέος, si trovano ora in Palmer (op. cit. pp. 378-80). 20 Plutarco, Diogene Laerzio e Sesto Empirico (in math. 7.111) trasmettono ἀτρεκές («non torto»). Sulla lezione ἀτρεκές ha pesato la liquidazione di Diels (1897, pp. 54 ss.), che vi ha colto una trivializzazione, riconoscendo, invece, nell'alternativa ἀτρεμὲς un «predicato caratteristico dell'Ἐόν parmenideo». A contestare la liquidazione dielsiana, riproponendo la lezione ἀτρεκές, è stato di recente Passa (pp. 53 ss.), il quale ha dimostrato come l'aggettivo non implichi alcuna trivialità, vantando invece precedenti illustri in Omero e Pindaro. Come tutto il verso, anche ἀτρεκές sarebbe stato vittima di un rimaneggiamento secondario. 21 Passa (p. 121) segnala come la forma contratta δοκοῦντα sia molto probabilmente un atticismo nella tradizione del testo: egli esclude che δοκοῦντα (come anche φοροῦνται in B6.6) sia lezione autentica. La lezione δοκοῦντα sarebbe stata sostituita a δοκέοντα o δοκεῦντα. 22 Nella sua edizione del poema (1897) Diels propose di leggere δοκίμως εἶναι come δοκιμῶσ(αι) εἶναι. Tra gli editori novecenteschi Untersteiner è tra i pochi ad aver rilanciato tale lezione, seguito di recente da R. Di Giuseppe, 80 [vv. 1-30 Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 111; vv. 28b-32 Simplicio, In Aristotelis De Caelo 557-558; vv. 28b30 Diogene Laerzio IX, 22; vv. 29-30 Plutarco, Adversus Colotem 1114 d-e; Clemente Alessandrino, Stromata V, 9 (II, 366); Proclo, In Platonis Timaeum I, 345; Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 114] Le Voyage de Parménide, Orizons, Paris 2011, che documenta ampiamente, anche nella tradizione latina, le ragioni della propria scelta. 23 La lezione dei codici DEF di Simplicio è πάντα περ ὄντα, che accogliamo, mentre il solo codice A riporta πάντα περῶντα («tutte le cose pervadendo»), per lo più preferito dagli editori, sulla scorta del precedente omerico (Iliade XXI.281 ss.). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei presocratici, Aracne, Roma 2010, p. 43) osserva che la forma περῶντα (da περάω) non ha riscontri nelle parti del poema che ci sono pervenute. Passa (p. 127-8), incerto sulla lezione, ritiene che, accettando l'opzione περ ὄντα, si debba comunque correggere la forma attica del participio di εἰμί in quella ionica ἐόντα: in rapporto a un verbo fondamentale, nell'uso e nella frequenza, all'interno del poema, è plausibile che Parmenide «abbia voluto usare sempre la stessa forma, quella propria del suo dialetto». 81 Le cavalle1 che mi portano2 fin dove il [mio] desiderio3 potrebbe giungere4 , 1 Il testo greco riporta ἵπποι ταί, con il sostantivo dunque al femminile (come in Pindaro, Bacchilide e Sofocle). Il tema del tiro di «cavalle» sarebbe di origine omerica: secondo Tarán (p. 9) sarebbe forzato cogliervi prova di una influenza orfica. 2 Il verbo φέρουσιν è al presente, che, come tempo verbale, si alterna nel proemio all’imperfetto (che indica abitualmente azioni continuate) e all’aoristo (impiegato normalmente per azioni puntuali). Secondo Coxon (p. 14) l’uso del presente sottolineerebbe come il poeta sia ancora sul carro, con un viaggio ancora davanti a sé. È possibile, invece, che Parmenide intendesse effettivamente marcare delle sequenze temporali, costruendo un proemio in cui nel canto (presente) del poeta fosse rivissuta un'esperienza di rivelazione (passato): rivelazione con cui il poeta stesso giustificherebbe la propria attività, la scelta della via poetica (ὁδός πολύφημος, «via ricca di canti»). G.A. Privitera ("La porta della Luce in Parmenide e il viaggio del Sole di Mimnermo", «Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di scienza morali, storiche e filologiche» s. 9, v. 20, 2009, pp. 447- 464) osserva come il Proemio sia «fondato sulla memoria» e «autobiografico»: Parmenide avrebbe «elevato alla dignità di proemio una sua lontana esperienza». A proposito dell'uso dei tempi verbali, il presente «mi portano» indicherebbe in particolare che sono state «le solite cavalle di adesso e di sempre ad averlo indirizzato nel viaggio»; il successivo imperfetto πέμπον che l'azione è avvenuta nel passato; il sostantivo κοῦρος (v. 24) segnalerebbe l'età in cui il viaggio fu intrapreso. (p. 449). 3 Traduciamo θυμός come «desiderio», ritenendo che il termine greco, nel contesto dinamico in cui è inserito, abbia il valore di «slancio», ovvero – ma il significato appare più generico - di «animo». È plausibile che θυμός si riferisca non alle cavalle (ἵπποι) ma al poeta che parla: il termine, tuttavia, può essere simbolicamente collegato anche allo sforzo della corsa delle cavalle (Coxon, p. 157). Secondo Chiara Robbiano (Becoming Being. On Parmenides’ Transformative Philosophy, Academia Verlag, Sankt Augustin 2006, p. 124), che interpreta come se i primi versi rinviassero all'inizio del viaggio verso la rivelazione, la scelta di θυμός nell’apertura del poema suggerirebbe come la guida possa dirigere all’obiettivo solo se si è già motivati e disposti ad assumere un ruolo attivo nel perseguirlo. 4 L’ottativo ἱκάνοι è stato considerato (Tarán, Coxon) iterativo, indicante cioè un’indefinita frequenza (dunque: «giunge»), ma nella poesia omerica è attestato un uso potenziale (senza ricorso alla particella ἄν: Robbiano, op. cit., pp. 65-6, n. 189), che autorizza la traduzione che proponiamo. Anche Mourelatos (The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven – London 82 mi guidavano5 , dopo che, conducendomi, mi ebbero avviato6 sulla via7 ricca di canti8 1970, p. 17, n. 21) sottolinea – sulla scorta di precedenti omerici - che la modalità rilevante è quella della possibilità. Cerri (p. 166) segnala come la metafora del moto del pensiero, paragonato al moto traslatorio, sia molto radicata nell’immaginario greco arcaico. 5 Il verbo greco è all’imperfetto (πέμπον): l'uso di imperfetto durativo e participio presente (φερόμην v. 4, τιταίνουσαι v.5, ἡγεμόνευον v. 5) denoterebbe che l'apertura del proemio proietta al centro dell'azione in corso; le forme dell'aoristo (βῆσαν v. 2, προλιποῦσαι v. 9), secondo uno schema ricorrente in Omero (O’Brien, p. 8), indicano, per contrapposizione, quanto precede. Conche interpreta πέμπον come “imperfetto storico”, optando dunque per una traduzione con il presente indicativo. Ferrari, nella sua analisi del proemio (F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza dall’Odissea alle lamine misteriche, Utet, Torino 2007, p. 104; ora anche Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Aracne, Roma 2010, p. 162), ha sottolineato come l’intreccio dei verbi al presente e all’imperfetto sembri evidenziare la continuità tra il presente e il ritorno dall’oltretomba. 6 Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., p. 102) coglie in questo passaggio un’eco dell'iniziazione poetica di Esiodo: ciò che Parmenide intenderebbe suggerire è che le cavalle (figure dello slancio interiore del poeta) del suo θυμός lo hanno avviato sulla via poetica (connotata come ὁδός πολύφημος, «via ricca di canti»), che gli permetterebbe di comunicare la rivelazione ricevuta nell’Ade. Parmenide porrebbe in primo piano il risultato dell’incontro con la divinità iniziatrice. 7 La ὁδὸς πολύφημος δαίμονος, ἣ κατὰ † ... † φέρει εἰδότα φῶτα è contrapposta – secondo Cerri (p. 170) – alla strada pubblica, frequentata da tutti (secondo precedente omerico). Possiamo individuare nel rilievo la possibile eco di un precetto pitagorico riferito da Porfirio: τὰς λεωφόρους μὴ βαδίζειν («non percorrere le strade popolari»). Maria Michela Sassi ("Parmenide al bivio", in «La Parola del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 383- 396) – accostando sistematicamente il Proemio ai frammenti di letteratura orfica, alle laminette e ai miti escatologici platonici – interpreta l'espressione come indicante la via che precede la porta dell'oltretomba, oltre la quale Parmenide troverà la dea (p. 387): simbolicamente vi si potrebbe cogliere il riferimento al processo di iniziazione (donde poi il coinvolgimento di termini "tecnici" come εἰδώς φώς o κοῦρε. Questo potrebbe spiegare anche la presenza di guide divine: come rivelano i miti platonici (Fedone 107 ss.), le anime devono percorrere un certo cammino per giungere propriamente nell'Ade; cammino non agevole, per il quale è richiedo l'intervento di δαίμονες come ἡγεμόνες. 83 della divinità9 che10 porta † ... †11 l’uomo sapiente12 . Ma l'espressione potrebbe più semplicemente riferirsi all'attività poetica intrapresa (con eco esiodea), proposta in un contesto pubblico (come suggerirebbe l'eco omerica di πολύφημος). O ancora, come sostiene con buoni argomenti Palmer (J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford 2010, p. 56) in relazione al contesto, essa potrebbe designare il percorso che il carro del Sole deve tracciare ogni giorno. 8 Il termine πολύφημος è qui reso in senso attivo, a indicare l’abbondanza di canti, leggende, ma anche voci, suoni e informazioni: si tratta del valore più antico, omerico, riferito per esempio a una piazza (che risuona di voci e rumori), come di recente ribadito da Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., p. 102). Diels e altri decidono invece di tradurre, sottolineandone il valore passivo, come «molto celebrata». 9 Il termine δαίμων (maschile o femminile, secondo i contesti) potrebbe riferirsi al successivo (v. 22) θεά: alla Dea interlocutrice del poeta. Di diverso avviso Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., pp. 106-7): riferendo il successivo pronome ἣ alla divinità (e non alla via), egli osserva che «il ritmo stesso del verso» suggerisce di considerare la relativa come «una perifasi che sollecita l’identificazione della daimôn». In tal senso, essa non coinciderebbe né con la divinità in genere (come crede invece Cerri, il quale traduce ὁδὸν δαίμονος come «strada divina»), né con Dike, né con la θεά del v. 22: i paralleli omerici ed esiodei inducono a credere che questa divinità femminile, che guida su un carro condotto dalle figlie del Sole «l’uomo sapiente», sia da identificare con Ἡμέρη, la figlia di Notte, ovvero Ἠώς, Aurora. In Odissea XXIII.241-246 troviamo Aurora condotta attraverso l’Etere dai cavalli «che portano luce ai mortali», un possibile modello per Parmenide. Il genitivo è da considerare possessivo. Un’alternativa suggestiva – richiamata dal successivo coinvolgimento delle figure mitiche delle Eliadi (vedi v. 9) - è quella secondo cui l’allusione sarebbe al Sole, sul cui carro il poeta starebbe viaggiando (Leszl, p. 147). 10 Mantengo l’ambiguità di riferimento del relativo ἣ: alla Dea o alla via (ὁδός): l’analisi convincente di Ferrari spinge nella prima direzione, ma la nostra soluzione lascia aperta la possibilità che il relativo possa riferirsi a un tempo alla divinità – Helios, il Sole – e al tracciato celeste che essa percorre quotidianamente. 11 Abbiamo già segnalato in nota al testo greco il problema della corruzione del passo. Le principali proposte degli editori: κατὰ πάντ’ ἄ < σ > τη (Diels, seguito da molti), «per tutti i luoghi» ovvero, letteralmente, «per tutte le città»; κατὰ πάν ταύτῃ (Cordero), «là riguardo a tutto»; Conche, che accoglie la proposta di Cordero, interpreta tuttavia ταύτῃ non come forma avverbiale, bensì come dativo del dimostrativo femminile, riferito a ὁδός; κατὰ πάντ’ ἄ < ν > τη < ν > (Coxon), «through every stage straight onwards»; 84 Su questa via13 ero portato14, su questa via mi portavano15 molto avvedute16 cavalle, κατὰ πάντ’ ἃ τ’ ἔῃ (Cerri), «per tutte le cose che siano». Ferrari (op. cit., nota p. 114) ha sostenuto a più riprese l’opportunità di recuperare la lettura κατὰ πάντ’ ἄ < σ > τη, «come emendamento anche se non più come lezione tramandata». In questo caso sarebbe tuttavia necessario tenere ben distinta la ὁδός πολύφημος δαίμονος dell'apertura del proemio da quella di cui proprio la Dea sottolinea il fatto che è ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου («lontana dalla pista degli uomini»). 12 L’espressione greca εἰδὼς φώς si riferisce, per alcuni (Bowra, Untersteiner, Burkert), alla figura dell’«iniziato», secondo la terminologia propria della tradizione misterica: «espressione quasi tecnica in tal senso», come nota la Sassi (op. cit., p. 387), attestata nei frammenti orfici (fr. 233 Kern). Per altri (Fränkel, Tarán), invece, all’uomo che già conosce la via per averla percorsa; Coxon e Cerri insistono sul riferimento alle competenze e conoscenze preventivamente richieste per la piena conquista della verità. Di diverso avviso Mansfeld (J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964, pp. 226-7), il quale, partendo da Senofane B34, sottolinea come εἰδώς abbia un valore legato all’esperienza visiva, che si conserverebbe in Parmenide: la conoscenza che il poeta rivendica è dunque legata a un esperire, vedere, diretto. Il termine εἰδώς dovrebbe rendersi allora come «[l’uomo] che ha visto» ovvero «che ha conoscenza». Nella stessa direzione si è mosso Ferrari (op. cit., pp. 102 ss.), il quale sottolinea come la qualifica di sapiente, che indirettamente viene attribuita al poeta narrante, presupponga che l'incontro con la Dea e la rivelazione siano già avvenuti. La qualifica di εἰδώς indica, infatti, ancora in Aristofane e Euripide, la condizione del «miste», di colui che ha ormai superato la prova dell’iniziazione. L’immagine del sapiente che per il mondo diffonde con la paola poetica la verità conquistata, suggerirebbe dunque di riferire la situazione (e la condizione del poeta) a un tempo successivo all’incontro con la θεά. 13 Intendo la forma avverbiale τῇ (ταύτῃ), ribadita nello stesso verso, come se si riferisse non a un luogo determinato ma alla via lungo la quale il poeta è condotto: «lungo questa via», dunque, o al limite «qui». Scegliendo di tradurre in questo modo e non come per lo più si fa («là»), intendo marcare questa sequenza – concentrata sul viaggio-missione del poeta - dalla successiva, che si apre (v. 11) con un altro locativo (ἔνθα) e che propriamente introduce alla rivelazione. La traduzione in questo caso ha un peso: dal momento che τῇ può rendersi tanto con «qui» che con «là», le indicazioni di luogo, analogamente ai tempi verbali, possono avere un'incidenza nell’interpretazione complessiva. Abbiamo scelto una perifrasi, cercando di conservare, anche in questa occasione, l'ambiguità: «questa via» 85 [5] trainando il carro17: fanciulle18 mostravano la via. Nei mozzi emetteva un sibilo acuto19 l’asse, può riferirsi alla via su cui al momento si muove il poeta nella sua missione pubblica, ovvero la via al centro del successivo racconto. 14 Le due forme verbali del verso – φερόμην e φέρον – sono imperfetti in diatesi passiva e attiva: sottolineano l'azione di trasporto (delle cavalle) e il privilegio di essere trasportato (del poeta). 15 Si tratta dell’ennesima ripetizione di una forma del verbo φέρω nei versi iniziali. Tale ripetizione, sottolineata dagli interpreti, è intesa da alcuni (Mourelatos, p. 35) come un difetto, un limite della poesia di Parmenide, da altri (P. Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999, p. 135), invece, come mezzo per incidere sull’audience: la ripetizione sarebbe «una tecnica per creare un effetto incantatorio». Secondo Chiara Robbiano (op. cit., p. 124), essa avrebbe essenzialmente una funzione retorica: preparerebbe l’audience al concetto di guida, centrale nel «second journey», cioè nel viaggio intrapreso, appunto sotto la direzione della Dea, verso la verità. 16 L’aggettivo πολύφραστοι, riferito alle cavalle, significa letteralmente «che hanno molto da dire»: supponendo che πολύ comporti intensità, si può rendere con «molto avvedute», «molto sagge». Parmenide vuole forse sottolineare le affinità tra le cavalle e le guide cui si allude ai vv. 5 e 9. 17 Cerri (pp. 96-7) ricorda come il carro trainato da cavalle o cavalli sia chiara metafora della poesia, impiegata spesso nella lirica corale: il poeta sul carro guidato dalle Muse è avviato all’itinerario espressivo più adeguato all’occasione. D’altra parte anche lo sciamano mediatore tra uomini e dei, come sottolinea Mourelatos (pp. 42-3), ha la capacità di lasciare in trance il proprio corpo e viaggiare in cielo o nell’oltretomba, per accompagnare altre anime o ricevere istruzioni mediche o cultuali da una divinità. Il suo viaggio, pericoloso, avviene talvolta su un carro volante: frequentemente accostata a certi animali, come i cavalli, la figura dello sciamano - spesso poeta o cantore - narra in prima persona le sue esperienze celesti. L’associazione con le Ἡλιάδες κοῦραι (v. 9) e i riferimenti (v. 9) alla «dimora della Notte» (δώματα Νυκτός) e (v. 11) alla «porta dei sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων) suggeriscono un nesso tra il carro (ἅρμα) di cui si parla e il carro del Sole. La possibile contestualizzazione oltremondana del viaggio fa pensare, d'altra parte, al carro di Hades. 18 Si tratta, come risulta dal v. 9, delle Eliadi. 19 Così traduciamo σύριγγος ἀυτήν, letteralmente «lamento di siringa [organetto a canne]». Ferrari rende con «sibilo di zufolo». Si tratta del sibilo prodotto dall’asse nella sua rotazione all’interno delle sedi (χνοῖαι) che lo fissano al carro. Kingsley (op. cit., pp. 89 ss.) ha rilevato che le fonti antiche (Ippolito, Plutarco, Giamblico) collegano l’esperienza del suono della σῦριγξ a 86 incandescente20 (poiché era mosso da due rotanti cerchi da ambo i lati), mentre si affrettavano21 a scortar[mi]22 le fanciulle Eliadi 23, avendo abbandonato24 la dimora25 della Notte resoconti di incubation, cioè a esperienze di trance: uno dei segni che accompagnano il passaggio a un diverso stadio di consapevolezza (tra sonno e veglia) sarebbe appunto il fischio della σῦριγξ. 20 L’aggettivo αἰθόμενος letteralmente «infiammato», ma anche «surriscaldato». 21 L’ottativo σπερχοίατο avrebbe, secondo Coxon (p. 161) e altri, valore iterativo (come ἱκάνοι, v. 1). O’Brien (p. 10), invece, ne rileva – sulla scorta di analoghe espressioni omeriche – l’uso per designare semplice concomitanza di azioni. 22 Il testo greco non riporta alcun complemento pronominale, ma è ovviamente da sottintendere, come nel precedente v. 4, che πέμπειν si riferisca al poeta. Coxon (p. 161) fa osservare come il soggetto di πέμπειν - e quindi anche della conduzione del carro del poeta - a questo punto non siano più le cavalle ma le Eliadi. 23 L'espressione greca Ἡλιάδες κοῦραι determina il precedente (v. 5) uso indefinito di κοῦραι: si tratta delle Eliadi, le figlie del Sole. In Omero (Odissea XII.127-36) esse attendono all'immortale bestiame del genitore, ma nel mito, cantato in un frammento esiodeo (fr. 311 Merkelbach-West) e ripreso in un'opera perduta (Ἡλιάδες, appunto) di Eschilo (alla cui rappresentazione in Siracusa Parmenide potrebbe aver presenziato, secondo quanto ipotizza A. Capizzi, "Quattro ipotesi eleatiche", «La Parola del Passato», XLIII, 1988, pp. 42-60; il riferimento a p. 52), sono direttamente coinvolte nella drammatica vicenda del fratello Fetonte, al quale consegnano il carro del Sole, all'insaputa del padre. In questo modo esse sono corresponsabili della sua impresa punita dall'intervento di Zeus con la morte di Fetonte. Per punizione Zeus le mutò in pioppi: le loro lacrime si trasformarono in ambra. Nel contesto è significativo ricordare che la prole del Sole è connotata nell’universo mitico in termini sapienziali (Cerri, p. 173), e, d'altra parte, appariva funzionale all'economia del racconto, del viaggio e della rivelazione. 24 Il participio aoristo προλιποῦσαι – secondo il precedente omerico - indica il punto di partenza dell'azione corrente (la conduzione del poeta da parte delle Eliadi). La «dimora della Notte» - luogo di soggiorno alternato di Notte e Giorno – è, dunque, naturale luogo di destinazione delle Eliadi che accompagnano il poeta. 25 Il termine δώματα è al plurale («case»), probabilmente per accentuare le dimensioni della casa della Notte. L’espressione δώματα Nυκτός richiama l’analoga Nυκτός οἰκία esiodea (Teogonia, 744) e fa pensare, dunque, a una collocazione nell’abisso del mondo infero (che in Esiodo domina sulla 87 [10] verso la luce26, rimossi con le mani i veli dal capo27 . prigione dei Titani): la casa della Notte - in cui alternativamente soggiornano Notte e Giorno – è probabilmente situata, oltre la porta presso cui essi si danno il cambio, nel χάσμα sottostante. In questo senso potrebbe leggersi l'indicazione del v. 11 a «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων). Mantenendo il riferimento esiodeo, sembrerebbe quindi che Parmenide alluda in questi passaggi non a una locazione genericamente ai limiti occidentali della Terra, ma a una direzione sotterranea, verso le regioni del Tartaro e dell’Ade (Cerri, p. 173). Nella letteratura orfica (fr. 105 Kern) abbiamo attestata l'espressione ἐν τοῖς προθύροις τοῦ ἄντρου τῆς Νυκτὸς («sulla porta dell'antro della Notte»). Da notare che, in questo caso, l'«antro» è sorvegliato da Dike, Adrasteia e Nomos. D’altra parte, le porte di Notte e Giorno potrebbero intendersi come le omeriche porte del cielo (Iliade V.754 ss.), sorvegliate dalle Ore: Dike - in Esiodo - è proprio una di loro (Mourelatos, p. 15). È possibile, tuttavia, che sia Esiodo sia Parmenide in realtà si appoggino a una tradizione mesopotamica: W. Heimpel ("The Sun at Night and the Doors of Heaven in Babylonian Texts", Journal of Cuneiform Studies, 38, 127-51) ha mostrato come i testi sumerici e accadici presentassero esattamente lo stesso immaginario celeste e infero, con analogo ruolo dei cancelli del cielo rispetto al passaggio del Sole, analoga descrizione dei loro meccanismi di apertura, analogo soggiorno notturno presso un dimora locata tra mondo celeste e mondo infero (il Sole in effetti avrebbe svolto anche funzioni di giudice oltremondano). Su questo Palmer, op. cit., pp. 55-6. 26 L’espressione εἰς φάος può essere riferita a πέμπειν (v. 8), nel senso di «scortare verso la luce», ovvero, come è più naturale, a προλιποῦσαι (v. 9), scelta preferibile, anche per la prossimità del collegamento. Quindi: «[le fanciulle Eliadi] abbandonata la dimora della notte [muovendo] verso la luce». In ogni caso la costruzione appare intenzionalmente ambigua e l'interpretazione è stata spesso condizionata dalla punteggiatura: DielsKranz, per esempio, inserivano la virgola prima di εἰς φάος, forzando il suo riferimento a πέμπειν. L’espressione è ricca di implicite possibilità simboliche: un viaggio verso il regno della luce è metafora appropriata per una esperienza di illuminazione (Mourelatos, p. 15) ovvero di rivelazione; ma potrebbe richiamare il fatto che il poeta accede all’αἰθήρ, alla estrema regione di fuoco dell’universo fisico, di cui la dea innominata successivamente (v. 22) citata sarebbe personificazione (Coxon, p. 163). Ma la luce potrebbe anche rappresentare il nostro mondo, se interpretiamo il racconto come resoconto di un νόστος, di un periglioso viaggio di ritorno dal mondo dell’Ade, dove il poeta ha ricevuto la rivelazione (così Ruggiu, pp. 162-3). Cerri (p. 173) segnala come l’espressione ricorra in altri testi arcaici, per indicare l’«azione portentosa del riemergere dall’Ade». Ferrari (op. cit., pp. 101-2) con buoni argomenti sostiene questo tipo di lettura: nel 88 Là28 sono i battenti29 dei sentieri30 di Notte e Giorno: proemio il tempo del racconto scorrerebbe a ritroso: il ritorno finale alla luce precederebbe il racconto della catabasi nel regno della Notte. Secondo Privitera (op. cit., p. 460), invece, proprio l'indicazione προλιποῦσαι δώματα Nυκτός εἰς φάος rappresenterebbe «precisazione inequivocabile e scoglio funesto, contro cui è destinata a naufragare ogni interpretazione catabatica del viaggio di Parmenide». 27 Esiodo descrive la dimora della Notte avvolta nelle tenebre: καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι E di Notte oscura la casa terribile s’innalza di nuvole livide avvolta (Teogonia 744-745). Nella stessa opera, le Muse sono introdotte come figure notturne: ἔνθεν ἀπορνύμεναι κεκαλυμμέναι ἠέρι πολλῷ ἐννύχιαι στεῖχον Di là levatesi, nascoste da molta nebbia, notturne andavano (Teogonia 9-10). I due passi, che non sono sfuggiti a Cerri (p. 174), potrebbero concorrere a illustrare il moto e i gesti delle Eliadi nel dettaglio fornito da Parmenide. Anche Palmer (op. cit., p. 57) suggerisce l'accostamento. 28 Cerri (p. 174) segnala come l’avverbio locativo ἔνθα ricorra nella tradizione epico-teogonica in relazione all’Ade come connotazione aggiuntiva. Nella lettura di Ferrari, a questo punto comincia «il resoconto dell’esperienza oltremondana» (p. 103). 29 Il testo greco presenta il plurale πύλαι, letteralmente «piloni» ovvero i pilastri che sorreggono un grande portale a due battenti (su questo punto si leggano le osservazioni di O’Brien, p. 11, e Conche, p. 49). Altri (Cordero 1984, p. 180, Coxon, pp. 161-2) riferiscono il plurale a due porte distinte, una in faccia all’altra: Coxon, per esempio, seguendo le letture neoplatoniche di Simplicio e Numenio, crede che le «porte» si riferiscano a quelle celesti, per le quali le anime sono condotte, rispettivamente, a discendere εἰς γένεσιν («alla generazione, incarnazione») e ad ascendere εἰς θεούς (verso le divinità), in altre parole a viaggi di genere opposto. Il verso successivo sembra tuttavia smentire tale lettura. In Omero è attestata l'espressione πύλαι Ἀΐδαο (Iliade V, 646; IX, 312; Odissea XIV, 156) per indicare i cancelli che immettono al mondo infero; uso analogo (Ἄιδου πύλαι) nella tragedia eschilea. Secondo Privitera (op. cit., p. 453), che ricostruisce l'immagine del mondo nel mito arcaico attraverso i versi di Omero, Esiodo, Mimnermo e Stesicoro, Parmenide avrebbe rinnovato il quadro che 89 architrave e soglia31 di pietra li incornicia32; emergeva dalla tradizione unificando quelle che erano in precedenza due porte distinte: la Porta dell'Ade (attraverso cui si davano il cambio Notte e Giorno) e la Porta del Sole (attraversando la quale, a occidente, l'astro trascorreva, sul bordo dell'Oceano, verso una porta orientale, per tornare a risplendere all'alba). Secondo lo studioso italiano, Parmenide avrebbe trasferito la Porta della Notte e del Giorno sulla Terra e l'avrebbe unificata con la Porta del Sole (sdoppiandola dunque in una porta occidentale e in una orientale): la Porta varcata dalle Eliadi riassumerebbe allora la doppia funzione nella tradizione distribuita tra Porta del Giorno e della Notte e Porta del Sole. 30 Già negli usi omerici e nella tragedia eschilea, il termine κέλευθος può indicare, secondo il contesto, «via», «sentiero», «strada», ma anche ciò che viene effettuato lungo quella via, cioè «viaggio» ovvero «spedizione». Il plurale κέλευθα potrebbe rendersi in questo caso, mediando tra i due significati segnalati, come «percorsi», come suggerisce anche Ferrari (op. cit., p. 109): si tratta in effetti degli itinerari compiuti da Giorno (Ἡμήρη) e Notte (Νύξ). La Sassi (op. cit., p. 388) fa notare come la porta, presso cui si incontrano e attraverso cui accedono alternativamente al cosmo Giorno e Notte, dia accesso a un «luogo mitico, analogo al Tartaro», dove, come in Esiodo (Teogonia 736 ss.) è situata la «dimora della Notte». 31 L’Olimpica VI di Pindaro si apre con un analogo riferimento alla soglia (οὐδός), a indicare l’esordio del canto. In relazione alla espressione πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων è probabile che οὐδός sia da intendere come entrata del mondo infero, accettando il suggerimento di Cerri (p. 175) di accostare il passo parmenideo ai versi esiodei di Teogonia 748-751: […] ὅθι Νύξ τε καὶ Ἡμέρη ἆσσονἰοῦσαι ἀλλήλας προσέειπον ἀμειβόμεναι μέγαν οὐδὸν χάλκεον· ἡ μὲν ἔσω καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε ἔρχεται, οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας δόμος ἐντὸς ἐέργει, ἀλλ’ αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα γαῖαν ἐπιστρέφεται, ἡ δ’ αὖ δόμου ἐντὸς ἐοῦσα μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν ἵκηται […] là dove Notte e Giorno incontrandosi si salutano, al momento di varcare la grande soglia di bronzo, l’uno per scendere dentro, l’altra per la porta se ne va, né mai entrambi a un tempo la casa trattiene dentro di sé, ma sempre l’uno, fuori della casa, la terra percorre, l’altra, dentro casa, attende la propria ora di viaggio, finché non giunga. 90 essi, alti nell’aria33, sono agganciati34 a grande telaio35 . Nel poema di Parmenide troviamo λάινος οὐδός invece di χάλχεος οὐδός, come appunto in Esiodo e Omero (Iliade VIII, 15). Secondo Cerri (p. 176) la correzione nell’uso dell’aggettivo potrebbe essere dettata dalla finalità del poema fisico dell’Eleate: la collocazione nelle viscere della terra avrebbe consigliato «pietrigna» piuttosto che «bronzea». 32 Rendiamo ἀμφὶς ἔχειν come «incorniciare»: il poeta intende segnalare i limiti verticali (la soglia e l'architrave appunto) della struttura, che, così descritta non può essere propriamente un cancello ma un vero e proprio portale. Sembra da escludere anche la possibilità delle due porte. 33 L’aggettivo αἰθέριαι si riferirebbe, secondo una certa tradizione interpretativa (Deichgräber, Coxon), alla collocazione della porta nella regione estrema del cielo; per altri, più semplicemente, il poeta sottolineerebbe la dimensione in altezza del portale (Cerri: «battenti che toccano il cielo»; Ferrari: «alta fino al cielo»). Alcune traduzioni (Tarán, O’Brien) privilegiano il valore materiale dell’aggettivo, dunque la natura eterea della porta: è vero però che Parmenide marca che essa è di pietra. Proprio con l’incrocio lessicale di pietra ed etere egli potrebbe allora suggerire che la porta è punto di incontro di terra e cielo (Leszl, p. 151). La scelta dell'aggettivo sarebbe significativa, secondo Privitera (op. cit., p. 453), perché rivelerebbe come la porta che le Eliadi stanno per varcare non è quella dell'Ade, la cui volta è descritta da Esiodo come sottostante il soffitto del Tartaro. Al contrario, la PellikaanEngel (op. cit., p. 57) ritiene che l'espressione αἰθέριαι πύλαι potrebbe essere ripresa sintetica del verso esiodeo: τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο πάις ἔχει οὐρανὸν εὐρὺν Di fronte a essa il figlio di Iapeto tiene il cielo ampio (Teogonia 746). Il riferimento ad Atlante, che con i piedi piantati per terra solleva il cielo con testa e braccia, potrebbe (come vuole Burkert) essere avvalorato proprio dall'uso di λάινος οὐδός («soglia di pietra») in relazione a αἰθέριαι πύλαι, quasi a indicare gli estremi (terra e cielo) dello sforzo del titano. Parmenide potrebbe dunque aver avuto Esiodo come modello per la sua porta dei «sentieri di Notte e Giorno», replicando l'analogo portale di Atlante (Pellikaan-Engel, op. cit., pp. 57-8). 34 La «strana» (Passa, op. cit., p. 100) forma verbale πλῆνται ha ingannato gli editori: normalmente la si riferisce a πίμπλημι («riempire»), ma, come ha con acribia dimostrato Passa (pp. 100-4), va ricondotta a πίλναμαι («avvicinarsi»), di cui rappresenterebbe forma "corta" del perfetto medio (πέπλημαι). Rendiamo, come suggerito dallo stesso Passa per il nostro contesto. 91 Dike36, che molto castiga37, ne38 detiene le chiavi dall’uso alterno39 . [15] Placandola40, le fanciulle, con parole compiacenti, 35 Anche in questo caso molti editori sono stati imprecisi, lasciandosi sfuggire il significato tecnico del termine θύρετρα, che è plurale tantum usato anche come variante di θύρα («porta»), ma il cui valore primario è «telaio [della porta]», come correttamente inteso da Coxon e recentemente ribadito da Passa. 36 Nella tradizione omerica ed esiodea, Dike era, con Eunomia e Irene, una delle Ore, sorelle delle Moire, figlie di Zeus e Temi: compito delle Ore (Iliade V, 749; VIII, 393) era quello di sorvegliare le porte del Cielo. È significativo che anche Eraclito (DK B94) alluda a Dike e alle coadiutrici Erinni come garanti del corretto percorso del Sole. Secondo Robbiano (p. 155), la figura di Dike è tradizionalmente introdotta in relazione al rispetto dei confini: non a caso la ritroviamo a sorvegliare il cancello che discrimina i percorsi di Giorno e Notte. Essa sarebbe responsabile delle divisioni e distinzioni all’interno di natura e società (dei confini tra parti e gruppi): in questo senso sarebbe garante di equilibrio (p. 157). Tuttavia, come la studiosa correttamente segnala (p. 158), l’ordine cui sovrintende la Dike parmenidea, rivelato nei versi successivi, non è quello tradizionalmente inteso. 37 L’espressione Díkh πολύποινος è attestata nella letteratura orfica (fr. 158 Kern), ma la datazione è incerta (Coxon, p. 163). D'altra parte, come abbiamo già avuto modo di segnalare, Dike compare nella stessa tradizione (fr. 105 Kern) come sorvegliante (con Adrasteia e Nomos) dell'«antro della Notte». Molto critico su questa prospettiva orfica Cerri (p. 104). Certamente, come osserva Mourelatos (p. 15), la figura di Δίκη πολύποινος, che tiene le chiavi (delle retribuzioni?), ricorda quella di una divinità infernale. Ferrari nella stessa direzione traduce come «Dike sanzionatrice». Nell'economia del racconto proemiale, accettando l'ipotesi di una katabasis, la funzione di Dike sarebbe quella di permettere al poeta di accedere, vivo, alla realtà oltremondana (Sassi, op. cit., p. 389). 38 L'interpunzione dell'edizione Diels-Kranz autorizza a intendere il genitivo pronominale iniziale τῶν riferito (come il pronome αὐταί, nella stessa posizione del verso precedente) a πύλαι. 39 L’aggettivo ἀμοιϐός – raro – sembrerebbe indicare successione: potrebbe riferirsi al fatto che le chiavi consentono l’apertura alternata della porta (Coxon, p. 164) ovvero al loro uso complementare (O’Brien, p. 11). Nel contesto è probabile che il riferimento sia all’alternanza di Notte e Giorno: Dike regolerebbe con la propria sorveglianza il passaggio del Sole. Questo potrebbe spiegare la situazione drammatica di seguito descritta: non era in effetti plausibile che Dike potesse lasciar passare il mortale viaggiatore. 40 Il verbo πάρφημι (παράφημι) ha un valore simile al successivo πείθω, ed è spesso associato all'inganno (come segnalato da LSJ). In questo senso forse 92 [la] persuasero41 sapientemente affinché per loro la barra del chiavistello togliesse rapidamente dai battenti42. E questi43 nel telaio vuoto enorme44 produssero aprendosi, i bronzei cardini nelle cavità in senso inverso facendo ruotare, [20] applicati per mezzo di ferri e chiodi45. Per di là46 , anche la scelta del complemento μαλακοῖσι λόγοισιν, per sottolineare la gentilezza dell'espressione. 41 Il racconto della (possibile) catabasi, introdotto con la descrizione del portale al v. 11, ha qui il suo effettivo inizio, segnalato dall’uso del primo aoristo (βῆσαν al v. 2 era stato utilizzato all’interno di una subordinata), cui seguono quelli ai vv. 18, 22, 23. Il racconto, secondo Ferrari cui si devono queste osservazioni (op. cit., p. 105), è prospettato come premessa e ragione del “ritorno”, cui sono stati dedicati i versi iniziali del proemio. 42 Un analogo repertorio di immagini, movimenti, meccanismi di chiusura e apertura di portali, così come analogo superamento divino dello stesso portale che discrimina mondo celeste e mondo infero a opera del Sole è documentato negli antichi testi sumerici (per i quali si rinvia ancora a Heimpel e Palmer, op. cit., pp. 55-6). 43 Anche in questo caso, come nei precedenti ai vv. 13-14, il pronome ταί si riferisce a πύλαι. 44 L’espressione χάσμ΄ ἀχανὲς sembra evocare il χάσμα μέγα esiodeo (in entrambi i casi χάσμα è in relazione con il genitivo πυλέων), il baratrochaos che Esiodo nella Teogonia (740) pone al di là della soglia della porta di Giorno e Notte: si tratta della voragine al fondo della quale è collocata la prigione in cui, al termine della titanomachia, furono rinchiusi i titani sconfitti. Leszl fa notare (p. 151), comunque, come non si abbia l’impressione che la porta di cui parla Parmenide sia la porta di accesso alla casa della Notte. La Robbiano (p. 150), invece, rileva la funzione drammatica dell’immagine, che si frappone, con la soglia petrigna, tra la quotidiana esperienza mortale del viaggiatore e l’incontro con la divinità. A rendere estremamente probabile la diretta evocazione di Esiodo da parte di Parmenide contribuisce un dato significativo: il termine χάσμα non ricorre in letteratura almeno fino alla metà del V secolo a.C. (M.E. Pellikaan-Engel, op. cit., p. 53). 45 A struttura e dinamica della “porta” dedicano spazio i commenti di Diels e Conche, che si servono anche di opportune illustrazioni a sostegno della spiegazione. 46 Seguiamo Ferrari nel rendere in italiano la formula greca τῇ ῥα δι΄ αὐτέων, costruita con la particella avverbiale locativa e il complemento di (moto attraverso) luogo. Letteralmente si dovrebbe tradurre: «Là, attraverso quella [porta]». 93 dritto condussero le fanciulle lungo la via maestra47 carro e cavalli. E la Dea48 benevola mi accolse: con la mano [destra] la [mia] mano 47 L'aggettivo (qui in forma sostantivata) ἀμαξιτός, comunemente associato a ὁδός, indica la strada attrezzata per il passaggio dei carri, quindi, derivatamente, una strada principale. Secondo la Pellikaan-Engel (op. cit., p. 54), la scelta del termine segnalerebbe che dalla porta al luogo dell'incontro con la Dea il percorso non è breve. In questo senso potrebbe dunque approfondirsi la dimensione sotterranea del viaggio. 48 Traduco θεά con «la Dea» per accentuarne il valore religioso: mi pare plausibile alla luce del suo ruolo personale di interlocutrice privilegiata, che guida, sollecita, espone, proibisce ecc.. Per l'identificazione dell’anonima divinità, tra le proposte degli ultimi decenni è interessante l’indicazione di Cerri (pp. 180-1): nelle città della Magna Grecia (Locri, Posidonia e varie altre) erano diffuse iscrizioni alla «dea infera», «ninfa infera» o semplicemente «alla dea», in cui il riferimento era chiaramente a Persefone. A conclusioni analoghe è giunto, indipendentemente, Kingsley (op. cit., pp. 93 ss.). Anche Passa ( p. 53) ha di recente riconosciuto in Persefone la dea rivelatrice del poema. Secondo West (M.L. West, La filosofia greca arcaica e l'Oriente, Il Mulino, Bologna 1993, p. 289 n. 57), la θεά alluderebbe a Θεία (Tia), in Esiodo (Teogonia 135) una delle Titanidi (come Temi), figlie di Urano e Gea, e madre di Sole, Luna e Aurora (371-4). Anche in Pindaro (Istmiche V.1) Θεία è invocata come «Madre del Sole». Pugliese Carratelli (“La Θεά di Parmenide”, «La Parola del Passato» XLIII, 1988, pp. 337-346) ha proposto – sulla scorta di una laminetta orfica dedicata a Μνημοσύνη, ritrovata nel 1974 a Ipponio – l'identificazione della dea appunto con Mnemosyne (a sua volta una Titanide). La stessa ipotesi è avanzata su basi analoghe da Sassi (op. cit., p. 393). Ferrari (op. cit., pp. 107-8), sulla scia di J.S. Morrison ("Parmenides and Er", «Journal of Hellenic Studies», 75, 1955, pp. 59-68) e W. Burkert ("Das Proömium des Parmenides und die Katabasis des Pythagoras", «Phronesis», 14, 1969, pp. 1-30), ha di recente concluso che la non meglio definita divinità del v. 22 altri non sarebbe che Νύξ (Notte), variamente attestata nella tradizione oracolare e orfica. In particolare egli ha osservato come, nella tradizione epica, l’uso di θεά senza ulteriori determinazioni sia anaforico: nel contesto, a parte Dike guardiana del portale, l’unica divinità nominata è appunto Νύξ. Anche Palmer (op. cit., pp. 58-61), seguendo Morrison e Mansfeld (pp. 244-7), è tornato a insistere su Νύξ, giustificando la propria opzione non solo nel contesto del proemio, ma rinviando anche all'ambiente culturale orfico, in particolare al poema oggetto di commento nel Papiro di Derveni, e alle funzioni oracolari associate alla figura di Notte nel mondo greco. A suo tempo la Pellikaan- 94 destra prese49, e così parlava e si rivolgeva50 a me: O giovane51, che, compagno52 a immortali guide53 Engel (op. cit., pp. 61-2) aveva opposto a questa proposta di identificazione l'osservazione sensata che la compresenza di Eliadi e Notte era quanto mai improbabile, proprio alla luce del precedente esiodeo. In alternativa, quindi, aveva suggerito l'esiodea Ἡμέρη (il Giorno), da Parmenide evocata come Ἤμαρ. A Πειθώ, invece, ha pensato Mourelatos (op. cit., p. 161). Di recente, riprendendo il suggerimento di Hermann Fränkel, Privitera (op. cit., pp. 461-2) ha proposto la Musa, portando sostanzialmente tre argomenti: (i) la ricorrenza del termine θεά all'interno del proemio di un poema epico; (ii) l'analogia con Iliade, nel cui primo verso la Musa è allusa appunto come θεά; (iii) il costume che prevedeva una invocazione alla Musa per poema "epico" di argomento sapienziale. In ogni caso, è significativo che questa δαίμων subito interpelli il poeta: ciò ha riscontro nell'immaginario viaggio oltremondano tratteggiato nelle laminette orfiche conservate, dove l'iniziato è interrogato da «custodi» (φύλακες) presso la palude di Mnemosine (Sassi, op. cit, p. 390). 49 Kingsley (op. cit., pp. 93 ss.) rinvia a testimonianze vascolari che ritraggono Persefone nell'atto di accogliere nell'Ade Eracle e Orfeo, offrendo loro appunto la mano destra. 50 Il verbo greco προσηύδα è all’imperfetto, come il successivo προὔπεμπε (v. 26: «spingeva»): i verbi che esprimono l’idea di un ordine o di una missione sono impiegati all’imperfetto perché implicano uno sforzo e indicano il punto di partenza di uno sviluppo. Così per i verbi che significano «dire» (O’Brien, p. 8): la forma epica φάτο, in effetti, può essere anche imperfetto. 51 Il termine vocativo κοῦρε non si riferisce necessariamente alla giovinezza del poeta, potrebbe piuttosto marcare lo scarto tra la natura divina e quella umana degli interlocutori. Il termine κοῦρος (forma epica e ionica di κόρος), relativamente raro nei testi arcaici, indica sia il giovane contrapposto all’anziano, sia il figlio, sia il ragazzo contrapposto alla ragazza. Esso può implicare anche un legame particolare con la divinità, dal momento che κοῦρoι erano chiamati i giovani addetti ai sacrifici, ma anche i figli degli dei (negli inni omerici a Hermes e Pan, e in Pindaro Olimpiche VI): in ogni caso, il termine sarebbe titolo di onore (Coxon e Kingsley). Conche (p. 59) fa notare come l’appellativo sia coerente con il contesto educativo, giustificando la disponibile e benevola accoglienza della dea. La Sassi (op. cit., p. 387) associa l'appellativo κοῦρε a εἰδὼς φώς, come espressione legata a una prospettiva iniziatica. 52 Il termine συνάορος non significa semplicemente «accompagnato da», ma «associato a», «collegato a»: la traduzione «compagno» è sufficientemente ambigua da accoglierne le sfumature. Etimologicamente è connesso a συναείρω («aggiogare»), con il significato immediato di «aggiogato insieme»: anche in questo caso, dunque, è evidente il debito del proemio 95 [25] e cavalle che ti conducono, giungi alla nostra casa54 , rallegrati, poiché non Moira55 infausta ti spingeva a percorrere questa via56 (la quale è in effetti lontana dalla pista degli uomini57), ma Temi58 e Dike 59 . Ora60 è necessario61 che tutto62 tu63 apprenda64: parmenideo all'immaginario dell'ippica (Passa, p. 137). Da sottolineare il fatto che la formula utilizzata dalla Dea fa del κοῦρος in questo modo un «compagno» delle Eliadi, a loro volta presentate (v. 5) come κοῦραι. Secondo Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia, Bruxelles 1986, p. 93), il rilievo della Dea si riferirebbe alla comune giovinezza delle Eliadi – κοῦραι - e del poeta - κοῦρος. 53 Il sostantivo maschile ἡνίοχος designa chi guida un carro, l'«auriga»; derivatamente è utilizzato anche per indicare chi governa e indirizza una nave, e, in senso lato chi guida e governa. Nel contesto il termine si riferisce alle Eliadi. 54 Secondo Ferrari (op. cit., p. 107), l'espressione ἡμέτερον δῶ («la nostra casa») richiamerebbe δώματα Nυκτός («la dimora della Notte») del v. 9, spingendo alla conclusione che la Dea sia da identificare appunto con Νύξ. 55 In Esiodo abbiamo tre Moire, figlie di Zeus e Temi. L’espressione μοῖρα κακή ricorre in Iliade XIII, 602 per indicare la morte: nel contesto, dunque, essa potrebbe alludere a un luogo preciso dell’incontro con la divinità: l’oltretomba. In questo senso Cerri e Ferrari traducono come «sorte maligna»: i traduttori, in effetti, per lo più preferiscono associare al termine, nel nostro contesto, il valore di «fato» o «destino». Così intende anche la Sassi (op. cit., p. 389). 56 L'espressione τήνδ΄ ὁδόν sottolinea, con il dimostrativo, il privilegio del κοῦρος: a partire dalla prima evocazione (vv. 2-3) della ὁδός πολύφημος δαίμονος, il tema della strada/via è rimasto dominante sullo sfondo del racconto, che si è sviluppato lungo l'itinerario del poeta. 57 Conche (p. 60) osserva che il riferimento coinvolge costumi, abitudini, modi di pensare diffusi tra gli uomini. È probabile ritrovare in questo passaggio un’eco del precetto pitagorico conservato da Porfirio (e sopra citato proprio in relazione alla ὁδός πολύφημος δαίμονος dei vv. 2-3): τὰς λεωφόρους μὴ βαδίζειν («non percorrere le strade popolari»). 58 In alternativa: «norma divina», ovvero «legge» (θέμις). Temi era una delle Titanidi, figlie di Urano e Gea, madre delle Moire e delle Ore, nonché una delle spose di Zeus. 59 Complessivamente il coinvolgimento di Temi e Dike sembrerebbe essere proposto a garanzia della eccezionalità dell’evento rivelativo. Il riferimento a Temi potrebbe giustificare l’intervento delle Eliadi presso Dike per persuaderla ad aprire una porta che avrebbe altrimenti dovuto rimanere 96 sia di Verità65 ben rotonda66 il cuore67 fermo68 , serrata per un mortale (in vita), e il rilievo della associazione delle due dee nelle parole della divinità innominata. Tenendo conto della associazione delle due dee con la norma e la giustizia divine, il loro coinvolgimento proietta e impone sulla successiva “rivelazione” una forte impronta d’ordine e di necessità (cosmici). In questo senso Tonelli, nella sua edizione dei frammenti (p. 116), rileva come Moira, Temi e Dike, unitamente ad Ananke (Necessità), rappresenterebbero «la divinità femminile nella sua dimensione di norma cosmica». 60 Pochi traduttori traducono la particella δέ. Ferrari le riconosce valore avversativo («Ma»), altri continuativo: Diels («so»), Gemelli Marciano («also»), Tonelli («e»). L'introduzione della particella non è legata forse solo a ragioni di equilibrio metrico, ma anche al senso della rassicurazione iniziale della Dea: ella dapprima tranquillizza il poeta circa il suo destino, quindi sottolinea il compito che lo aspetta. 61 Il termine χρεώ è associato nell'epica a χρειώ, che nelle fasi antiche dell'epica era utilizzato come vero e proprio nome femminile: nel corso del tempo esso fu trattato come un neutro. Analogamente χρεώ, che, preso il posto di χρειώ, finì per diventare un sinonimo di χρή (Passa, p. 77-8). La formula (con copula sottintesa) χρεώ rende una necessità soggettiva, dunque opportunità, convenienza, piuttosto che una costrizione oggettiva: si potrebbe rendere anche con «è giusto», «è opportuno». In ogni modo, l’uso di tale formula implica che quanto la Dea sta per esprimere è parte del compito, del dovere che il viaggiatore deve assumere (Robbiano, op. cit., p. 75). Ferrari (op. cit., p. 104) giustamente osserva come il kouros per la dea sia in fondo solo un «apprendista» (apostrofato appunto come κοῦρε). 62 La scelta del pronome neutro plurale πάντα («tutto», ovvero «tutte le cose») è significativa perché garantisce al programma della comunicazione (rivelazione) della Dea un orizzonte di verità piena, totale, giustificandone le articolazioni annunciate negli ultimi versi. 63 L'insistenza sui pronomi personali è confermata anche nei frammenti successivi (soprattutto la polarità «tu» e «io», in contrapposizione ai «mortali»). 64 Il verbo πυνθάνομαι ha il valore di «imparare per sentito dire (raccogliendo informazioni)» ovvero «imparare per indagine». Può implicare dunque sia un atteggiamento di passiva ricezione, sia di attiva ricerca («di tutto fare esperienza»). 65 Secondo Coxon (p. 168) il sostantivo ἀληθείη e l’aggettivo ἀληθής non significherebbero nel contesto del poema «verità» e «vero», ma «realtà» e «reale». Di recente Palmer (op. cit., pp. 89-93) ha rilanciato con buoni argomenti. Anche Ferrari traduce con «Realtà». Nel suo Parmenides und die Anfänge der Erkenntniskritik und Logik (Auer, Donauwörth 1979, pp. 33 ss.), E. Heitsch mostra, sulla scorta della preistoria del termine, come 97 ἀλήθεια etimologicamente (non occultamento e non dimenticanza) suggerisca una originaria affinità tra il senso oggettivo e soggettivo di verità: ἀλήθειαν εἰπεῖν verrebbe per esempio a significare «riportare nel discorso qualcosa che nel mondo si mostra come non nascosto». In effetti, in Omero ἀληθείη e ἀληθέα compaiono in dipendenza da verba dicendi: Gloria Germani ("ΑΛΗΘΕΙΗ in Parmenide", in «La Parola del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 177-206) ha sottolineato in questo senso la «peculiarità sintattica» del termine nella individuazione del processo unitario che connette soggetto e oggetto (p. 181). Tipico di ἀληθείη sarebbe infatti il riferimento a chi parla: l'oggetto si manifesta solo se c'è un soggetto a cogliere tale manifestazione. Il termine designerebbe dunque una relazione in cui «conoscere e realtà si completano e si realizzano a vicenda» (p. 185). In effetti, già Aristotele, riferendosi ai pensatori presocratici (Metafisica IV, 5 1010 a1-3), poteva sottolineare: αἴτιον δὲ τῆς δόξης τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι τὰ αἰσθητὰ μόνον la causa di questa opinione presso di loro è che essi certamente ricercavano la verità intorno agli esseri, ma supponevano che gli enti fossero solo quelli sensibili. L'accostamento verità-realtà (sensibile) proprio in relazione ai pensatori presocratici è ribadito in Aristotele, per esempio: ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων Coloro che per primi hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti (Fisica I, 8 191 a25). Ma rispetto al nostro contesto è significativo, come ha fatto notare Leszl (p. 16), il fatto che, a un certo punto, in relazione alle opere di Melisso e Gorgia (seconda metà V secolo a.C.), siano state utilizzate, accanto alla corrente indicazione περὶ φύσεως, rispettivamente le formule περί τοῦ ὄντος e περί τοῦ μὴ ὄντος (rivelando una certa consapevolezza della inadeguatezza della tradizionale titolazione). Passa (p. 53), che interpreta il proemio come itinerario dell'iniziato verso la Verità, sostiene che esso contiene «la rappresentazione poetica di esperienze sciamaniche vissute da Parmenide»: Ἀληθείη, in questo senso, sarebbe «figura del contenuto essenziale rivelato dalla dea, assurto esso stesso a ipostasi divina». Come segnala l'autore, per altro, Verità ritorna, "ipostatizzata", anche nei reperti archeologici (placche d'osso) recuperati a Olbia Pontica. 98 È allora da soppesare con attenzione l'ipotesi interpretativa che fa della figura divina appena introdotta il perno simbolico della ripresa e della soluzione parmenidea del problema della verità, dopo la profonda incrinatura dell'orizzonte arcaico, soprattutto a opera di Senofane: il tema dell'accesso alla verità potrebbe fungere da chiave di lettura generale (oltre che, specificamente, dello stesso proemio). Su questo punto ancora la Germani, op. cit., pp. 186-7. 66 Accogliendo la lezione εὐκυκλέος rendiamo letteralmente con «[Verità] ben rotonda». Effettivamente ci sarebbero buone ragioni per l'adozione di εὐπειθέος, se si potesse senza problemi tradurre come «persuasiva» (o «ben persuasiva»). Nel verso successivo si rileverà come nelle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξας) non vi sia «vera credibilità» (πίστις ἀληθής): con una inversione, Parmenide passerebbe da una «verità» (ἀληθείη) «persuasiva [credibile]» (εὐπειθής) a una «vera» (ἀληθής) «credibilità» (πίστις). In B2.4, la Dea rimarcherà come la via «che è» (ὅπως ἔστιν) sia «sentiero di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), in quanto «a Verità si accompagna» (ἀληθείῃ ὀπηδεῖ). In conclusione della sua esposizione della verità, la stessa Dea sottolineerà (B8.50-1): ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno alla verità. È indiscutibile l'insistenza parmenidea sul nesso tra ἀληθείη e πειθώ, che in B2 sono proposte sostanzialmente come ipostasi divine. Il vero problema dell'opzione εὐπειθέος è che il significato antico dell'aggettivo εὐπειθής – attestato ancora in Platone e Aristotele - è quello di «obbediente» «disponibile/pronto all'obbedienza»: il significato di «persuasivo» è posteriore. Nell'economia del poema, anche l'aggettivo εὔκυκλος – attestato sia in Pindaro sia in Eschilo – è comunque denso di implicazioni, soprattutto in relazione ai versi del poema più citati in assoluto nell'antichità (vv. B8.43-5), dove ritroviamo il ricorso a un'immagine: εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ («simile a massa di ben rotonda palla»). 67 Il sostantivo ἦτορ era impiegato prevalentemente per animali, uomini, dei, quindi in senso non astratto: il suo significato sarebbe vicino a quello di θυμός, per veicolare l’idea di un’attività intellettuale emotivamente tonalizzata. In Omero il termine ἦτορ (insieme a κραδίη), come θυμός, sembrerebbe coinvolgere soprattutto la sfera degli affetti, dei sentimenti. È significativo che Parmenide opti di correlare Ἀληθείη a ἦτορ, la verità all’uomo che la deve conoscere (Stemich, op. cit., pp. 78-80): nella letteratura arcaica ἦτορ è piuttosto 99 [30] sia dei mortali le opinioni69, in cui non è reale credibilità70 . connesso al corpo (Passa, p. 52). Il termine ἦτορ può indicare la «coscienza vigile» («un cuore di bronzo», in Omero), da cui la fermezza rilevata da Parmenide, ma anche la parte essenziale dell’uomo: in riferimento al Tutto, la «verità ben rotonda», compiuta, perfetta (Ruggiu, p. 199). R.B. Onians (The Origins of the European Thought, C.U.P., Cambridge 1951, p. 106) vi vede racchiusa «la sostanza della coscienza», cui è associata la sede del linguaggio. Questo può significare che all'espressione Ἀληθείης ἦτορ Parmenide intendesse far corrispondere la «sostanza conoscitiva e insieme linguistica del messaggio in esso [poema] contenuto» (Passa, p. 53). 68 L'aggettivo ἀτρεμές (letteralmente «che non trema»), variamente tradotto (per adeguarlo al contesto) come «intrepido» (Ferrari), «saldo» (Reale), «incrollabile» (Cerri, che rende però la formula ἀτρεμὲς ἦτορ come «il sapere incrollabile»), suggerisce immobilità, saldezza (e in questo senso lo ritroveremo annoverato tra i σήματα in B8.4). 69 Contrapposte alla Verità, la Dea propone βροτῶν δόξας («opinioni dei mortali»), insistendo sia sul tradizionale discrimine tra sapere divino e ignoranza umana, sia sulla opposizione tra «l’uomo che sa» (εἰδώς φώς, v. 3) e «i mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν B6.4): a dispetto dei mortali che non hanno conoscenza, il kouros deve conoscere tutto. Per connotare il punto di vista dei mortali, la dea (Parmenide) ricorre a un termine – δόξαι – che, a differenza del mero manifestarsi (φαίνεσθαι) e di una passiva registrazione empirica, implica giudizio e accettazione (ancorché affrettati e scorretti), opinione assunta attraverso una decisione, di cui, dunque, i «mortali» non sono vittime ma responsabili. In questo senso Couloubaritsis, per esempio, traduce con «considerazioni». È allora opportuno il rilievo di Conche (p. 66): Parmenide evita di contrapporre la sua verità a quella degli altri, un punto di vista ad altri alternativi. Il poeta, invece, è presentato come portavoce di una divinità anonima, scevra della soggettività dei mortali, impersonale: ella non è altro che la Verità stessa. Significativo l’accostamento a Eraclito: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι non me, ma il logos ascoltando, è saggio convenire che tutto è uno (DK 22 B50). Interessante il rilievo di Leszl (p. 37), in conclusione di un lungo esame della nozione di ἀληθεια: δόξα indicherebbe a un tempo l’opinione che abbiamo circa le cose e il modo in cui le cose si presentano a noi. 70 Il termine greco πίστις conserverebbe – secondo Heitsch (Parmenides, Die Fragmente, p. 95) – il valore di «prova, dimostrazione per credibilità o 100 Nondimeno71 anche questo72 imparerai73: come le cose accolte nelle opinioni74 fiducia» o semplicemente di «prova, dimostrazione» (Beweis) sia negli oratori attici, sia in Platone e Aristotele. Egli propone di utilizzare questo valore anche nel contesto di B1. Palmer (op. cit., p. 92) osserva, invece, come πίστις sia in questo passaggio impiegato con valore soggettivo, dunque nel senso di «trustworthiness»: tale (non genuina) «credibilità» si riferirebbe, tuttavia, non direttamente alle βροτῶν δόξαι, ma alla loro esposizione nel resoconto della Dea. 71 Come segnala LSJ, la formula ἀλλ΄ ἔμπης - composta da congiunzione avversativa (ἀλλά) e avverbio (ἔμπης) – è impiegata nel greco omerico come sinonimo di ὅμως (all the same, nevertheless, «nondimeno»), più tardi con valore più debole (at any rate, yet, «tuttavia, comunque»). Cordero (p. 32) osserva come la formula ἀλλ΄ ἔμπης sia utilizzata in Omero per introdurre una restrizione di senso rispetto a quanto appena enunciato: nel nostro contesto, dunque, secondo lo studioso argentino, la Dea intenderebbe sottolineare il fatto che, a dispetto della loro non-verità, il kouros dovrà essere informato sulle opinioni. La stessa convinzione era stata espressa da un altro grande interprete di Parmenide, Tarán: i vv. 31-32 del frammento «show the purpose that the goddess has in mind in asking Parmenides to learn the opinions of men in spite [rilievo nostro] of the fact that they are false» (p. 211). 72 Il pronome ταῦτα (letteralmente «queste cose») può indicare quanto precede immediatamente, quindi riferirsi alle «opinioni dei mortali», ovvero specificare ulteriormente πάντα («tutto», v. 28), riferendosi a quanto segue (in funzione prolettica rispetto a quanto introdotto con ὡς). La prima soluzione appare più naturale rispetto all'uso corrente, tuttavia è possibile la lettura dei due versi finali con un futuro programmatico (μαθήσεαι) e una proposizione dipendente introdotta per definirne gli obiettivi. In effetti, come nota Cerri, nell’uso corretto greco, per anticipare quanto segue sarebbe stato più naturale τάδε; ma, come dimostra M.C. Stokes (One and Many in Presocratic Philosophy, The Center for Hellenic Studies, Washington 1971, p. 302 nota 27) con paralleli in Erodoto, l'uso contemporaneo non escludeva un valore prolettico del pronome. Nella nostra lettura, la Dea, effettivamente, si riferisce ancora alle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξαι), i cui contenuti («le cose accolte nelle opinioni», τὰ δοκοῦντα) intende riscattare: ταῦτα, quindi, a un tempo (e ambiguamente) evoca quel che precede, precisandone il senso, e introduce l’ultimo punto del programma della rivelazione (corrispondente alla seconda grande sezione del poema). 73 Il verbo μανθάνομαι ha il valore di «imparare per esperienza o studio» (analogamente a πυνθάνομαι), ma anche di «comprendere, discernere». 101 Patricia Curd (The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998, pp. 113-4) ha marcato le differenti implicazioni semantiche rispetto al precedente πυνθάνομαι: πυνθάνομαι suggerisce che si raccolga informazioni e apprenda per esperienza, mentre μανθάνω suggerisce piuttosto apprendimento e comprensione acquisiti con un atto di giudizio. 74 Abbiamo scelto questa traduzione faticosa per τὰ δοκοῦντα, cercando di salvarne le implicazioni semantiche. L'espressione participiale τὰ δοκοῦντα indica le cose accettate nella opinione di qualcuno, ovvero che sono accolte nel giudizio di qualcuno. Non si tratta di punti di vista soggettivi, quanto del loro contenuto, delle cose cui ci si riferisce (che si manifestano) in quei punti di vista, delle cose (plurale), di quelle che sono dette anche τὰ ἐόντα (Ruggiu, p. 207). Cordero (p. 33) rende come «ciò che appare nelle opinioni», le cose che sembrano, che sono pensate, tra i mortali: il mondo come è visto dai mortali. Conche (p. 64) parla, a proposito di τὰ δοκοῦντα, di «correlati intenzionali (nel senso della fenomenologia) delle doxai». Mourelatos (p. 204), che ha scritto pagine illuminanti sul significato dei termini greci in radice dok-*, marca l’ambiguità del valore di τὰ δοκοῦντα: «le cose che i mortali ritengono accettabili», ma anche «le cose come i mortali [le] ritengono accettabili». Parmenide intenderebbe, insomma, suggerire che i termini con cui i mortali accettano o riconoscono le cose costituiscono l'identità propria dell’oggetto della accettazione dei mortali. Brague (Études sur Parménide, t. II, Problèmes d'interpretation, pp. 54-5) ricorda come in Simplicio ricorra la formula τὸ δοκοῦν ὄν, «l’essere apparente», «ciò che sembra [essere] ente» in contrapposizione a τὸ ὄν ἁπλῶς, «l’essere in senso pieno, assoluto». Una formulazione senza paralleli, che potrebbe quindi essere eco di una espressione autenticamente parmenidea. Couloubaritsis (op. cit., pp. 267 ss.), ribadendo il doppio registro semantico di τὸ δοκοῦν (τὰ δοκοῦντα) - in una direzione rivolto al discorso, in altra alla cosa - segnala il posteriore accostamento aristotelico (Confutazioni sofistiche, 33, 182 b38) di τὰ δοκοῦντα a τὰ ἔνδοξα e in genere la convergenza insistita in ambito peripatetico tra τὸ δοκοῦν ἑκάστῳ e τὸ φαινόμενον ἑκάστῳ. La specificità di τὸ δοκοῦν rispetto all'altro termine sarebbe tuttavia da rintracciare proprio nell'aspetto opinativo, nell'implicazione di un giudizio. Il nesso con δοξάζειν («considerare») si preciserà in relazione all'atto del nominare: è in quanto legata alla parola e all'imposizione di nomi, che la via della doxa viene sviluppata nel poema. In questo senso Couloubaritsis (op. cit., pp. 269-270) crede che l'espressione τὰ δοκοῦντα rimandi alle cose in quanto designate dai mortali piuttosto che da loro percepite. Più puntualmente: le cose che i mortali hanno designato per spiegare il mondo in divenire. 102 era necessario75 fossero effettivamente76, tutte insieme77 davvero esistenti78 . 75 L’imperfetto χρῆν seguito dall’infinito può indicare un tempo reale del passato (pensando soprattutto all’origine delle erronee opinioni mortali e all'alternativa proposta esplicativa di Parmenide), ovvero un tempo irreale, del passato o del presente. Nel contesto, come segnala Robbiano (p. 180), la forma verbale può riferirsi a un requisito nel passato che o è stato o non è stato ottemperato. Ricordiamo che nel greco arcaico il verbo esprime piuttosto convenienza che necessità logica (quindi «è giusto, opportuno»). La concomitante presenza di δοκίμως rende, secondo noi, più logico pensare che Parmenide intendesse contrapporre alle «opinioni dei mortali» una prospettiva esplicativa alternativa e plausibile rivolta agli stessi oggetti di quell'opinare: questo passaggio del testo è colto efficacemente nella resa di Palmer (op. cit., p. 363): «Nonetheless these things too will you learn, how what they resolved had actually to be [...]». 76 L’avverbio δοκίμως è qui usato come complemento dell’infinito εἶναι: il predicato in effetti può essere espresso da un avverbio, facendo così assumere al verbo «essere» il suo valore pieno di esistenza. L’avverbio può tradursi sia con «plausibilmente», «accettabilmente» (Mourelatos, p. 204), sia con «realmente, genuinamente» (secondo l’uso eschileo). Rendendo l’imperfetto (χρῆν) come forma di irrealtà, si determina una costruzione ambigua, che afferma e nega a un tempo (come irreale) un’esistenza qualificata come reale ovvero plausibile. Ne deriva una sorta di gioco espressivo, del tipo rintracciabile nei frammenti di Eraclito (O’Brien, pp. 13- 4). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 43) cita in proposito DK 22 B28: δοκέοντα γὰρ ὁ δοκιμώτατος γινώσκει, φυλάσσει ... (anche) l'uomo più considerato conosce e custodisce cose apparenti [ovvero opinioni]. Secondo lo studioso italiano, proprio la relazione tra τὰ δοκοῦντα e δοκίμως comporterebbe un «cortocircuito etimologico»: il participio sostantivato, con le sue potenzialità semantiche negative (parvenze), è coniugato con un avverbio dal significato positivo di accettabilità, plausibilità. δοκίμως deriva da δόκιμος («accettabile», «approvato», «stimato»); il verbo δοκιμάζω conferma il senso di «mettere alla prova» e «approvare»: l'avverbio ha dunque in sé implicite le sfumature di «come conviene» e di «realmente», «veramente». La sua radice indoeuropea *dek- evidenzierebbe il senso di adeguazione, conformità (Couloubaritsis, op. cit., p. 271). Accettando, invece, la vecchia lezione di Diels (δοκιμῶσ(αι) εἶναι), ripresa, tra gli altri, da Untersteiner e recentemente da Di Giuseppe, il senso di ὡς τὰ 103 δοκοῦντα χρῆν δοκιμῶσ(αι) εἶναι sarebbe: «come era necessario acconsentire (riconoscere) che le cose che appaiono ai mortali sono». 77 Traduco in questo modo il testo greco, intendendo διὰ παντὸς πάντα come una formula, secondo il suggerimento di Mourelatos (p. 204), il quale fa leva su paralleli testuali che vanno dalla letteratura ippocratica a quella platonica. Essi suggeriscono la traduzione «tutte [le cose] insieme» (all of them together), ovvero «tutte [le cose] continuamente». Sulla scorta dell’uso platonico (Repubblica, 429b-430b), Mourelatos (p. 205) propone di leggere in διὰ παντὸς il riferimento alle prove sopportate nel corso di una competizione. In alternativa si traduce διὰ παντὸς come «in ogni senso» (Tonelli), «in un tutto» (Cerri), «dappertutto» (Ferrari»), mantenendo autonomo il significato e la funzione di πάντα («tutte le cose»). 78 Si è dato notizia, in nota al testo greco, delle due lezioni (περ ὄντα e περῶντα) dei codici di Simplicio. Come ha giustamente fatto notare la Curd (op. cit., p. 114, nota 52), entrambe le letture rendono complessivamente lo stesso significato. Traduciamo ὄντα come participio e non come sostantivo (manca, in effetti, l’articolo τὰ), ricordando, tuttavia, come il termine, in Omero e Esiodo, designasse le realtà che esistono davvero e nei filosofi ionici l’oggetto della ricerca, la realtà permanente del mondo (Brague, pp. 61-2). 104 DK B2 εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν 1 ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας, αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι· ἡ μὲν ὅπως ἔστιν2 τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, Πειθοῦς 3 ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ 4 γὰρ ὀπηδεῖ -, [5] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών5 ἐστι μὴ εἶναι, τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα6 ἔμμεν ἀταρπόν7 · οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν8 - 1 Coxon, invece di ἄγ΄ ἐγὼν (proposto come emendazione dei codici di Proclo da Karsten e accolto da Diels-Kranz e dagli editori posteriori), legge con i codici εἰ δ΄ ἄγε, τῶν («orsù, parlerò di queste cose»), difendendo la propria scelta con la consuetudine epica del genitivo di argomento in dipendenza da verba dicendi. La proposta di Karsten non solo è considerata più naturale dal punto di vista paleografico, ma valorizza anche l’opposizione ἐγώ - σύ, che nel testo pare significativa. La forma ἐγών riflette l'uso omerico, che dissimulava l'antico digamma perduto nel dialetto degli aedi ionici: per eliminare gli iati creatisi nella dizione, fu introdotto –ν nel testo omerico (Passa, p. 74 nota). Qui il –ν di ἐγὼν supplisce il digamma iniziale di ἐρέω. 2 Come segnala Cordero (N.L. Cordero, "Histoire du texte de Parménide", in Études sur Parménide, cit., t. II: Problèmes d'interprétation, p. 21), ἔστιν è correzione di Mullach: la tradizione manoscritta conserva ἔστι. Il codice moscovita W di Simplicio è l'unico a presentare la forma similare ἐστίν. Passa (p. 97) osserva come i sei casi, in Parmenide, di ἐστιν con ν efelcistico davanti a consonante rappresentino «una vistosa innovazione rispetto alla dizione omerica». 3 Come in casi precedenti, intendo Πειθώ come nome personale. 4 Seguiamo Gemelli Marciano (II, p. 14) nell'intendere il sostantivo greco maiuscolo. I codici di Proclo e Simplicio riportano ἀληθείη: ἀληθείῃ è proposta degli editori. 5 La formula χρεών ἐστι è tipica della prosa: nella tragedia e in Pindaro si trova solo l'uso assoluto dell'accusativo χρεών, nel senso di χρή (Passa, p. 79). 6 I codici di Proclo riportano παναπειθέα e παραπειθέα; quelli di Simplicio παναπευθέα, forma corretta, come rivela il confronto con Odissea III, 88. Secondo Passa (p. 38), è evidente che in questo caso Proclo cita a memoria. 7 Si tratta della forma ionica - ἀταρπός – dell'attico ἀτραπός (da τρέπω). 8 I codici di Proclo riportano ἐφικτόν («che si può raggiungere», da ἐφικνέομαι), quelli di Simplicio ἀνυστόν. La lezione di Proclo, che presenta paralleli in Empedocle (B133) e Democrito (B58, B59), ha una sua 105 οὔτε φράσαις· [vv. 1-8 Proclo, In Platonis Timaeum I, 345; vv. 3-8 Simplicio, In Aristotelis Physicam 116-7; vv. 5b-6 Proclo, In Platonis Parmenidem, 1078, 4-5] plausibilità, ma la forma ἀνυστόν («che può essere compiuto») ha riscontri "eleatici" in Melisso (B2 e B7), e si trova ancora in Anassagora (B5). In questa occasione Proclo potrebbe nuovamente aver fatto ricorso alla citazione a memoria: il significato di οὐ ἐφικτόν è prossimo a quello di οὐ ἀνυστόν: «risultato che non si può raggiungere». 106 Orsù1 , io dirò - e tu2 abbi cura3 della parola4 una volta ascoltata5 - 1 La formula εἰ δ΄ ἄγε per «orsù» è ampiamente attestata nell’epica, anche in relazione al pronome ἐγώ (Cerri – p. 187 - cita a esempio un verso formulare che ricorre identico in molti luoghi di Iliade e Odissea). 2 Il pronome personale «tu» (σύ) si riferisce al poeta\filosofo, cui la Dea si rivolge. Questa interpretazione dà continuità a B1 e B2. Untersteiner (p. LXXX) ipotizza, invece, che a parlare sia lo stesso Parmenide: alcune espressioni che ricorrono nei frammenti (in relazione ai «mortali») confermano la lettura tradizionale. 3 Il senso dell’imperativo aoristo κόμισαι è quello di ricezione e cura (come di cosa preziosa), forse anche di trasmissione (come vuole Mansfeld, pp. 95-6). Tonelli (p. 119) rende questo complesso di significati con «accompagna la mia parola». Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 135) recupera, invece, da Kingsley il senso di «take away» e traduce come «riporta con te». 4 Il termine greco è μῦθος, che nella lingua greca tarda significa (come il latino fabula) una narrazione meravigliosa, in origine indicava qualcosa di completamente diverso: la «parola», la parola che esprime ciò che è realmente, effettivamente accaduto, implicando quindi la dimensione della oggettività: la parola che dà notizia del reale, che stabilisce qualcosa, e, in questo senso, è autorevole (W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in W.F. Otto, Il mito, a cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 30-32). Parola, quindi, intesa non come termine isolato, ma come discorso, comunicazione di verità. Mourelatos (p. 94, nota) contesta la traduzione di Tarán («word»), preferendole nel contesto di B2.1 «account», quanto la Dea ha da dire, la sua comunicazione. In questo senso egli si appoggia a Omero, in cui il valore del termine è quello di «discorso», «pensiero» o «consiglio». Solo progressivamente, nell’uso post-omerico, il significato di «discorso» sarebbe sfumato in quello di «resoconto», finendo poi per indicare «mito». Anche alla luce di tale evoluzione, altri autori (Coxon, Robbiano, Curd) hanno preferito tradurre con «story». Morgan (K. Morgan, Myth and Philosophy From the Presocratics to Plato, C.U.P., Cambridge 2000, pp. 17-18) distingue tra l’uso di ἔπος per «parola» o genericamente «affermazione» e quello di μῦθος, che, come rivelerebbero alcune ricorrenze omeriche, si riferirebbe a un «authoritative speech act». In questo senso, di recente Couloubaritsis, nella nuova edizione del suo volume su Parmenide, ha insistito su una resa poco familiare ma attenta a conservare un aspetto essenziale del valore originario del termine greco: egli traduce (La pensée de Parménide, , Ousia, Bruxelles, 2008, p. 541) come «ma façon de parler autorisée». Una traduzione di compromesso potrebbe essere: «e tu abbi cura delle mie parole dopo averle ascoltate». 5 Tutto il verso ha una forte assonanza con Odissea XVIII, 129: 107 quali sono le uniche6 vie7 di ricerca8 per pensare9 : τοὔνεκά τοι ἐρέω, σὺ δὲ σύνθεο καί μευ ἄκουσον Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi. 6 Il valore di μοῦναι è stato da alcuni interpreti relativizzato, intendendolo nel senso debole di «le sole legittime» (Conche, p. 76), da altri reso in senso forte, come se le «vie di ricerca» indicate costituissero le due sole possibilità per pensare (Cordero, p. 39). In effetti è difficile scindere il valore di μοῦναι dal successivo infinito e dal relativo significato. 7 È interessante segnalare come il termine ὁδός – che, nota Cerri (p. 60), ossessivamente ritorna nel versi parmenidei – non abbia solo il valore metaforico di metodo, cioè del percorso lungo il quale si sviluppa un’indagine per giungere alla verità: esso può suggerire anche l’idea di «direzione di vita», linea di condotta (Stemich, op. cit., p. 199), come è possibile riscontrare in Eraclito, letteralmente e metaforicamente (in riferimento al comportamento da assumere nella ricerca della verità). In Parmenide, tuttavia, nel ricorso a ὁδός prevarrebbe la suggestione di un peculiare metodo di pensiero e ricerca. La Stemich in questo senso indica (op. cit., pp. 200-1) una convergenza tra l’illustrazione parmenidea del metodo per giungere alla conoscenza dell’essere – inteso come via che conduce oltre l’ambito sensibile in un ambito metafisico - e il percorso di ascesi filosofica all'idea del Bello nel Simposio di Platone. 8 Coxon (p. 173) osserva come l’espressione ὁδοὶ διζήσιος occorra solo in Parmenide (e in un frammento orfico di dubbia congettura), forse per sottolineare la peculiarità della propria ricerca rispetto a quella ionica. Secondo Kahn (Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009, p. 147) δίζησις costituirebbe «equivalente poetico» del termine ionico ἱστορίη («ricerca scientifica»). Oggetto di investigazione è (B6-B8) l’essere (τὸ ἐόν), ovvero (B1.29 e B8.51) la realtà (ἀληθείη): «vie di ricerca», dunque, perché hanno come obiettivo la verità. Leszl (pp. 124-5) rileva come il verbo δίζημαι, corrente in Omero nel significato di ricercare una persona o cosa scomparsa, ovvero ricercare per identificare qualcuno, assuma il senso definito di indagare (e anche interrogare) in Eraclito e Erodoto. L’espressione δίζησις sottolineerebbe così che la ricerca riguarda qualcosa che non è manifesto o accessibile fin dall’inizio. Secondo Chiara Robbiano (op. cit., p. 125) il termine suggerisce anche l’attiva partecipazione richiesta per l’indagine stessa. 9 Come puntualmente rileva Cordero (p. 40), l’infinito aoristo νοῆσαι ha valore di infinito finale o consecutivo, ma è spesso stato letto con valore passivo, come se εἰσι («sono») avesse a sua volta valore di possibilità («siano [possibili] da pensare», «logicamente pensabili»). La scelta del valore attivo 108 l’una10: [che11] è12 e [che] non è possibile13 non essere14 – comporta che sia più facile spiegare la presenza delle successive congiunzioni dichiarative (ὅπως, ὡς), che possono corrispondere alla attività di pensare («l’una per pensare che …», «l’altra per pensare che …»). È possibile inoltre trovare un riscontro nel poema Sulla natura di Empedocle, dove il frammento DK 31 B3.12 presenta costruzione analoga: ὁπόσηι πόρος ἐστὶ νοῆσαι («dove ci sia passaggio per conoscere»). O’Brien (pp. 153-4) fa dipendere invece νοῆσαι da μοῦναι ovvero dall’unità sintattica μοῦναι + εἰσι: «Je dirai quelles sont les voies de recerche, les seuls à concevoir». La Robbiano (op. cit., p. 82) valorizza l’ambiguità nell’espressione di Parmenide, e propone, di conseguenza, di accettare contestualmente entrambe le interpretazioni: quella che fa delle vie l’oggetto del νοεῖν (da pensare) e quella che fa del νοεῖν la meta delle vie (per pensare). Contro la resa attiva e finale dell’infinito le osservazioni di Sellmer (S. Sellmer, Argumentationsstrukturen bei Parmenides. Zur Methode des Lehrgedichts und ihren Grundlagen, Peter Lang, Frankfurt a.M. 1998, pp. 11-12), in particolare il problema dell’impraticabilità della seconda via per il pensiero. Contro la lettura potenziale di εἰσι νοῆσαι Kahn, Essays on Being, cit., p. 146, nota 4. Abbiamo reso νοεῖν genericamente con «pensare», ma – come suggerito da vari interpreti - si potrebbe scegliere una espressione più specifica, come «comprendere», o anche «afferrare», che ancora conservano traccia dell'originario valore di percezione mentale, capace di vedere in profondità e più lontano, nel tempo e nello spazio (su questo punto Mourelatos, pp. 68 ss.). Vero è che nei frammenti ci si riferisce a νόος (πλακτὸν νόον, B6.6) anche per designare una intelligenza offuscata, confusa: ciò potrebbe indicare che Parmenide non si senta vincolato a un uso di νοεῖν e derivati nel loro significato cognitivo più forte, che, a nostro giudizio, rimane, tuttavia, l'unico a giustificare l'alternativa che la Dea qui propone. Recentemente Palmer (op. cit., pp. 69 ss.), nel tentativo di mediare tra una resa generica e una più specifica, ha proposto understanding ovvero achieving understanding. Tonelli, invece, rende direttamente come «intuire», per la continuità tra il verbo greco e l'intueor latino, che implica un vedere che «attraversa e penetra l'oggetto di conoscenza [...] facendosi tutt'uno con esso» (p. 118). 10 L’indicazione delle «uniche vie» è introdotta (v. 3 e v. 5) dalla formula ἡ μὲν - ἡ δέ: si tratta di una alternativa ulteriormente delineata con coerente corrispondenza anche nella costruzione sintattica. 11 Consideriamo in questo contesto ὅπως e il successivo ὡς congiunzioni che introducono una dichiarativa (retta da un sottinteso: «per pensare» ovvero «che pensa», «che dice»). In questo senso, suggeriamo la possibilità di 109 di Persuasione15 è il percorso16 (a Verità17 infatti si accompagna) – leggere il verso come: «l’una: è e non è possibile non essere» (analogamente il v. 5: «l’altra: non è ed è necessario non essere»). L’uso di ὅπως e ὡς per introdurre le due vie sarebbe – secondo Chiara Robbiano (op. cit., p. 82) - illuminante: esso suggerisce che esse sono due modi di guardare alle cose, due prospettive: ὡς sarebbe, infatti, preferito a ὅτι quando si voglia accentuare una affermazione come opinione, ovvero introdurre qualcosa intorno a cui esistano opinioni differenti. Per la studiosa italiana (p. 83), insomma, ὅπως\ὡς, con le loro implicazioni avverbiali, servirebbero a esprimere uno stato di cose da una certa prospettiva, manifestando dunque il proprio punto di vista. Analogamente Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 40), il quale rende in entrambi i casi con «secondo cui». 12 La terza persona singolare – ἔστιν - del presente di εἶναι, «essere», è qui resa letteralmente, senza decidere del suo valore (esistenziale, copulativo, veritativo), per conservarle tutte le sfumature. Tra i traduttori moderni, Tarán sceglie di renderla con «exists», Conche con «il y a», per sottolineare l’idea di presenza. In coerenza con il testo greco, non attribuiamo un soggetto al verbo, lasciandolo sottinteso: si rinvia al commento per un chiarimento. Coxon ricorda che l’omissione del pronome indefinito come soggetto sia ampiamente diffusa nell’epica e nel greco posteriore (p. 175). 13 Letteralmente ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι si potrebbe rendere come «che non [c’]è/esiste non essere», ovvero, sostantivando il μὴ εἶναι finale, «che il non-essere non è», cui corrisponderebbe, simmetricamente ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι: «che, come necessario, il non essere è». Ma, proprio considerando l’emistichio 5b (dove la traduzione «è necessario che… appare più naturale), optiamo per attribuire a ἔστι valore potenziale e considerare μὴ εἶναι come infinitiva: «che non è possibile non essere» (più ambigua), ovvero «che non è possibile che non sia». Si tratta, in ogni caso, di un passaggio controverso, anche per le sue implicazioni logiche, per le quali è molto lucida l’analisi di Leszl (pp. 131 ss.). 14 La nostra traduzione è vicina a quella di Heitsch: «Der eine, (der da lautet) “es ist, und Sein ist notwendig”». Frère (J. Frère, Parménide ou le Souci du Vrai. Ontologie, Théologie, Cosmologie, Kimé, Paris 2012) rende: «Le premier chemin énonçant: est, et aussi: il n’est pas possible de ne pas être». 15 Come divinità, Persuasione è nella cultura arcaica (Pindaro) collegata ad Afrodite, alla dea dell'Amore, in quanto esercita fascinazione e seduzione. È dunque originale e significativa la connessione stabilita da Parmenide, in apertura della comunicazione divina, tra Πειθώ e Ἀληθείη: nel suo caso i legami persuasivi saranno il risultato del rigore e della coerenza logica 110 [5] l’altra: [che] non è e [che] è necessario18 non essere19 . Proprio20 questa ti dichiaro21 essere sentiero22 del tutto privo di informazioni23: impliciti nella affermazione appena introdotta :«è e non è possibile non essere». 16 Il termine κέλευθος viene da Coxon distinto da ὁδός come il «viaggio» lungo la «via», contribuendo in questo modo a determinare successivamente (Platone) la nozione di μέθοδος, e di filosofia appunto come viaggio (p. 174). 17 Abbiamo già segnalato in nota a B1, come nel poema ἀληθής (e ἐτήτυμος) significhino «reale» e ἀληθείη «realtà». Heitsch (p. 97) argomenta a favore di una resa più esplicita, che ricava dai contraddittori caratteri negativi di μὴ ἐὸν (verso 7): egli traduce, infatti, con «evidenza» (Evidenz). Palmer ricorre a una formula inequivocabile: «true reality». Pur concordando che la Dea si riferisce alla realtà, insistiamo nel tradurre con il nostro «verità» e con la maiuscola, intendendo Verità come entità divina. In ogni modo, come nel linguaggio omerico, anche in Parmenide il contrario di ἀληθείη non sarà il falso, indicato da ψεῦδος o ψεύδεσθαι, ma l'assenza di ἀληθείη, la mancata manifestazione della realtà (su questo Germani, op. cit., pp. 183-4). 18 Colleghiamo, come appare naturale, l’espressione greca χρεών al verbo ἔστι, traducendo con «è necessario», conservando il valore modale. Come segnala Leszl (p. 136), χρεών può stare da solo, inteso come un participio (χρή ἐόν), che, preceduto da ὡς, assume valore avverbiale: ὡς χρεών potrebbe essere dunque inciso avverbiale in una frase il cui significato complessivo non sarebbe modale («come conveniente»). Il termine è usato nella cultura greca arcaica (e non) in espressioni come κατὰ τὸ χρεών (Anassimandro DK 12B1: «that which must be» secondo LSJ), ma per lo più nell'espressione χρεών [ἐστι] con il significato di χρή («è necessario»). 19 Considerato μὴ εἶναι come infinito sostantivato e interpretato ὡς χρεών avverbialmente, la traduzione del secondo emistichio potrebbe essere: «e, come conveniente, il non-essere è». Si tratta di una possibilità, che suona tuttavia piuttosto improbabile. Così come la traduzione proposta da Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 137-8): «l'una (via) secondo cui è lecito e non è possibile che non sia lecito... l'altra secondo cui non è lecito ed è necessario che non sia lecito». Coerentemente con la scelta del v. 3, Heitsch traduce: «Der andere, (der da lautet) “es ist nicht, und Nicht-Sein ist notwendig”»; Frère (J. Frère, Parménide ou le Souci du Vrai…, cit.) rende: «L’autre chemin énonçant: n’est pas, et aussi: il est nécessaire de ne pas être». 20 Traduciamo avverbialmente la particella δή, che molti decidono di non rendere ovvero di rendere come congiunzione («e») per marcare una 111 poiché non potresti conoscere ciò che non è24 (non è infatti cosa fattibile25), né potresti indicarlo26 . transizione nel discorso della Dea. In effetti, δή è frequentemente posposto a un pronome (nel nostro contesto τὴν con funzione pronominale), con il risultato di accentuare il rilievo nella frase. 21 Coxon osserva che il verbo φράζω, che in epica significa «indicare, evidenziare», è usato da Parmenide con oggetto diretto o accusativo e infinito nel senso (poi regolare) di «spiegare» (p. 177). 22 Il termine ἀταρπός è contrapposto a ὁδός e κέλευθος, impiegati in B1 (vv. 2 e 11) e qui ai vv. 2 e 4: mentre in B1.21 eravamo informati del fatto che il poeta viaggiava κατ΄ ἀμαξιτὸν «lungo la via maestra», in questo passaggio, accennando alla seconda via, Parmenide ricorre a un’espressione che veicola l'idea di sentiero, tracciato secondario, scorciatoia. 23 L’aggettivo παναπευθής può indicare – attribuendogli senso passivo - ciò che è del tutto ignoto, ovvero, in senso attivo, appunto «ciò che è del tutto privo di informazioni», ovvero «imperscrutabile» (Tonelli p. 119), come la via che pensa che «non è». Si tratta, nell'economia del discorso divino (e del poema), di un punto essenziale: la seconda via delineata non è proposta come «falsa», non è scartata come follia (non è prodotto di un πλακτὸς νόος, come si sottolinea in B6.6 a proposito della presunta ὁδος διζήσιός «inventata» da coloro che sono apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν); di essa si afferma che è sentiero lungo il quale non si possono raccogliere informazioni, che non può manifestare la realtà, come chiarisce immediatamente il verso successivo. 24 L’espressione τό μὴ ἐὸν si potrebbe rendere anche come «il non essere». Secondo Coxon (p. 177) essa si riferisce al soggetto della seconda via, di «non è», come manifestato in B6.2 dall’uso del pronome indefinito μηδέν (nulla). In effetti l'espressione τό μὴ ἐὸν è introdotta a giustificazione della dichiarazione del verso precedente, dunque per identificare il presunto contenuto della seconda via, necessariamente priva di informazioni. 25 L’aggettivo verbale ἀνυστόν è attestato in Simplicio: con la precedente negazione (οὐ), il valore – da ἀνύω («fare, compiere») - è quello di cosa che non è possibile compiere. Nel suo commento (p. 220), Ruggiu sottolinea come il valore di οὐ ἀνυστόν sia prossimo a quello del termine ἀμηχανίη: esprime una impossibilità che scaturisce da ontologica impotenza. Mourelatos (p. 100) insiste sull'idea di impraticabilità che οὐ ἀνυστόν porta con sé: «that which cannot be consummated». 26 La traduzione di φράζω con «indicare» vuol rendere il senso di «manifestare in segni» (anche a parole): ciò che non è non può rendersi (e essere reso) manifesto attraverso tracce, come saranno i σήματα dell’ἐόν in B8. 112 Mourelatos (p. 76) segnala che φράζω è impiegato nell’Odissea all’interno del motivo del viaggio, in riferimento al gesto di una guida che mostri a un viaggiatore il luogo o il percorso della sua destinazione. Si potrebbe rendere οὔτε φράσαις, restringendo il campo semantico del verbo, con «né potresti parlarne». 113 DK B3 ... τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν1 τε καὶ εἶναι. [Clemente Alessandrino, Stromata VI, 2.23 (II, 440); Plotino, Enneadi V, 1.8; V, 9.5; Proclo, In Plat. Parm. 1152, Theologia platonica I, 66 (ed. Saffrey, Westerink)] 1 Il codice di Clemente riporta ἐστί; il testo di Plotino, in due luoghi diversi, ἐστί e ἔστι. ἐστίν è correzione degli editori. 114 La stessa cosa, infatti, è1 pensare2 ed essere3 . 1 Zeller, seguito da Burnet, Cornford, Raven e altri, rende i due infiniti come dipendenti da ἔστιν (non ἐστίν) con valore potenziale (analogamente a B2.3: εἰσι νοῆσαι), quindi con «denn dasselbe kann gedacht werden und sein». Tarán, che accetta il suggerimento di Zeller, rende con «for the same thing can be thought and can exist». Anche per O’Brien (pp. 19-20) i due infiniti sono complementi del pronome (τὸ αὐτὸ) o dell’unità sintattica pronomeverbo. Quest’uso completivo dell’infinito (νοεῖν) ammetterebbe che lo si traduca come un passivo o equivalente: «C'est en effet une seule et même chose que l'on pense et qui est» («For there is the same thing for being thought and for being»). Il fatto che, optando per questa soluzione interpretativa, il soggetto di uno dei due infiniti (εἶναι) diventi oggetto dell’altro (νοεῖν), non rappresenterebbe un problema, essendo già attestato nei poemi omerici. È un fatto, comunque, come osserva Conche (op. cit., p. 89), che Parmenide ha scritto νοεῖν e non νοεῖσθαι. D’altra parte, seguendo Plotino, la resa «più fedele» (Heitsch, p. 144), il senso «ovvio» del greco (Conche, p. 89) sarebbe «pensare ed essere sono la stessa cosa», con τὸ αὐτὸ predicato, νοεῖν e εἶναι soggetti della frase. Un’alternativa sensata, che tiene conto di analoghe costruzioni nei frammenti sopravvissuti e soprattutto del senso dei vv. 34-36a di B8: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. [35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν è quella di Coxon («for the same thing is for conceiving as is for being»), variata nella recente resa di Palmer (op. cit., p. 122): «for the same thing is (there) for understanding and for being». 2 Secondo Cerri (p. 194), qui per la prima volta νοεῖν assumerebbe il significato specifico di «capire razionalmente», significato che, tuttavia, non si può regolarmente attribuire a νοεῖν (e νόος) nei frammenti. In una sua classica ricerca filologica, von Fritz (K. von Fritz, “Νοῦς, νοεῖν and Their Derivatives in Presocratic Philosophy (Excluding Anaxagoras). I: From the Beginnings to Parmenides”, «Classical Philology» 40, 1945, pp. 223-242) osserva come νοεῖν in Omero significhi «comprendere una situazione» e come questo valore sia ancora presente nel poema di Parmenide, indicando qualcosa di diverso da un processo di deduzione logica: sarebbe ancora sua funzione primaria essere in contatto con la realtà ultima (p. 237). Abbiamo sopra ricordato come Tonelli renda νοεῖν come «intuire», cogliendo la continuità tra il verbo greco e l'intueor latino, nella percezione che 115 «attraversa e penetra l'oggetto di conoscenza [...] facendosi tutt'uno con esso» (p. 118). 3 Gallop (p. 8) e Heitsch (p. 144) osservano che, sebbene la continuità di B3 con B2 sia incerta, metricamente B3 costituirebbe con B2.8 una perfetta linea di testo. Calogero (op. cit., pp. 22-23) aveva in effetti già proposto di leggere B3 come prosecuzione di B2, integrando il testo tràdito in questo modo: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· [B2.7-8] τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι < ὅσσα νοεῖς φάσθαι >, Ché quel che non è non lo puoi né pensare né dire: pensare infatti è lo stesso che dire che è quel che pensi!. 116 DK B4 λεῦσσε δ΄ ὅμως1 ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει2 τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον. [vv. 1-4 Clemente Alessandrino, Stromata V, 2 (II, 335); v. 1 Proclo, In Platonis Parmenidem 1152; Teodoreto, Graecarum Affectionum Curatio I, 72 (22); v. 2 Damascio, Dubitationes et Solutiones de Primis Principiis in Platonis Parmenidem I, 67] La proposta e l'integrazione sono state poi ancora rilanciate da Giannantoni. 1 Due codici di Teodoreto con la citazione di Clemente riportano ὁμῶς («ugualmente») in vece di ὅμως. Tra gli editori moderni solo Hölscher e Untersteiner preferiscono quella lezione. 2 I manoscritti di Clemente riportano ἀποτμήξει, quelli di Damascio ἀποτμήσει: ἀποτμήξει sarebbe effetto di una atticizzazione del testo parmenideo, probabilmente antica (come evidenziato dall'unanimità dei manoscritti). Secondo Passa (pp. 34-5), come avevano colto gli editori ottocenteschi che correggevano ἀποτμήξει in ἀποτμήξεις, la forma verbale corretta sarebbe quella della seconda persona singolare del futuro medio (ἀποτμήξῃ) nella probabile trascrizione di un esemplare attico. 117 Considera1 come cose assenti 2 siano comunque3 al pensiero4 saldamente5 presenti6 ; 1 Il verbo λεῦσσω è già impiegato da Omero (Couloubaritsis, pp. 336-7) per indicare la capacità di considerare simultaneamente passato e avvenire per comprendere il presente: capacità associata alla maturità dell’anziano, al suo discernimento, contrapposto alla precipitazione dei giovani. Molti traduttori optano per una resa che ne accentui il valore percettivo: «osserva», «guarda». Etimologicamente, d’altra parte, il verbo deriva dall’aggettivo λευκός, che nel linguaggio omerico significa «chiaro», «limpido»: porta con sé, dunque, l’idea di chiarezza, luminosità, trasparenza, come nell’italiano «chiarire», «rischiarare». 2 Ovvero «cose lontane». Il verbo ἄπειμι, come il successivo πάρειμι, ha un valore a un tempo materiale e mentale, indicando la distanza (πάρειμι la vicinanza) nel tempo e nello spazio. Manteniamo in traduzione un senso indefinito. 3 Traduciamo così la congiunzione ὅμως: nelle varie versioni, il suo valore oscilla tra l’avversativo e il concessivo, secondo i contesti. Dal momento che è possibile legare il termine sia al verbo iniziale, sia a ἀπεόντα, Ruggiu (p. 238) suggerisce che la collocazione sia intenzionalmente polisignificante, secondo lo stile attestato anche in Eraclito. 4 A chi debba essere immediatamente riferito il dativo νόῳ è oggetto di discussione: è possibile infatti accostarlo direttamente a lεῦσσε, nel senso di «chiarisci con intelligenza\intendimento», ovvero lasciarlo legato a παρεόντα, sottolineando come il nesso ἀπεόντα-παρεόντα dipenda dalla visione dell’intelligenza: l’espressione νόῳ παρεῖναι avrebbe appunto il valore di «essere presente alla mente, allo spirito». 5 L’avverbio βεϐαίως (saldamente) può essere collegato direttamente al verbo, come suggerisce Coxon (p. 188): «gaze steadily with your mind…». Lo studioso giustifica la proposta per il parallelo con il verso di Empedocle DK 31 B17.30: τὴν σὺ νόωι δέρκευ, μηδ’ ὄμμασιν ἧσο τεθηπώς Guardala con intelligenza, non restare con sguardo esterefatto. La collocazione dell’avverbio fa pensare tuttavia a un rapporto stretto con παρεόντα, di cui esprimerebbe il modo d’essere, la solidità, la permanenza. L’avverbio veicola infatti l’idea di stabilità, ma anche quella di costanza e lealtà. Robbiano (op. cit., p. 130) rileva la connessione con ἀτρεμὲς ἦτορ 118 non impedirai7 , infatti, che l’essere8 sia connesso all’essere, (B1.29): βεϐαίως esprimerebbe l’attitudine dell’uomo che ricerca sulla via della verità; un modo di guardare, ma anche un modo d’essere. 6 Ovvero «prossime». Sulla struttura del verso (lεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως) ha richiamato di recente l’attenzione Graham (Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006, p. 151), il quale ne ha rilevato la struttura a chiasmo, che ricorderebbe quella di alcuni frammenti eraclitei, per esempio DK 22 B25: μ ό ρ ο ι γ ὰ ρ μ έ ζ ο ν ε ς μ έ ζ ο ν α ς μ ο ί ρ α ς λ α γ χ ά ν ο υ σ ι destini di morte più grandi ottengono sorti più grandi. 7 La forma verbale ἀποτμήξει può essere terza persona singolare del futuro indicativo attivo (così intendono per lo più gli editori moderni, sottintendendo νόος come soggetto), ovvero, considerando la probabile atticizzazione del testo parmenideo, come forma (attica appunto) della seconda persona singolare dell’indicativo futuro medio: «tu non impedirai…». Secondo Passa (pp. 34-5) sarebbe questa, in coerenza con analoghe espressioni del poema (εἶργε, «allontana» B7.2b; μάνθανε, «impara» B8.52; εὑρήσεις, «troverai» B8.36), l'interpretazione corretta del passo. 8 Traduciamo il participio ἐόν preceduto dall’articolo (τὸ ἐόν) come «l’essere», senza articolo come «ciò che è»: per noi si tratta di espressioni sinonime, ma la formula con articolo è più astratta. Come nota Cordero (By Being, It is, cit., p. 169), Parmenide molto raramente usa l’articolo τò davanti al participio ἐόν; in effetti participio senza articolo cattura più precisamente il carattere dinamico della presenza denotata da ἐστί: «essendo, è». Il problema della traduzione del termine è comunque complesso: Heidegger (M. Heidegger, Was heisst Denken, Niemeyer, Tübingen 1954, p. 133) richiamò l’attenzione sul duplice valore di questo participio: nominale (ciò che è) e verbale (l’Essere di ciò che è), per sostenere la tesi che già con Parmenide la filosofia sarebbe scivolata nell’oblio dell’Essere, non riuscendo a mantenere distinti i due valori, confondendo quindi Essere e enti. Di recente Thanassas (pp. 44-5) ha insistito sul fatto che Parmenide avrebbe impiegato ἐόν esclusivamente in senso verbale, come equivalente semantico di ἐστί. Il rischio di intendere il participio nel valore nominale sarebbe quello di riconoscerne implicitamente l’esistenza come unico ente, negando dunque la pluralità del mondo. Il che sarebbe contraddetto dall’uso frequente di plurali (ἐόντα) nella sezione sulla Ἀληθείη (B4.1-2, B8.25, B8.47-8). L’identità semantica e la sinonimia tra ἐόν e ἐστί sarebbe inoltre 119 né disperdendosi9 completamente10 in ogni direzione per il cosmo11 , né concentrandosi. confermata da Parmenide nel poema stesso (B6.1-2). Thanassas sostiene che ἐόν possa identificarsi estensionalmente con la totalità degli enti che appaiono; intensionalmente (dal punto di vista del suo contenuto concettuale), invece, ἐόν sembrerebbe distinto da essa: il suo significato verbale, insomma, non si limiterebbe ad abbracciare la totalità degli enti, ma farebbe del loro Essere il proprio obiettivo. 9 Il participio σκιδνάμενον, come il successivo συνιστάμενον, si riferisce a τὸ ἐόν. 10 La funzione dell’avverbio πάντως (interamente, completamente) sarebbe, in congiunzione con l’altro avverbio πάντῃ (dappertutto, ovunque), quella di intensificarne valore spaziale. 11 L’espressione κατὰ κόσμον appare come uno dei più antichi passi presocratici in cui il termine κόσμος assume il valore di «ordinamento del mondo», «cosmo» (Cerri, p. 199). Tarán, tuttavia, contesta che la nostra espressione possa tradursi (così come abbiamo fatto) con un complemento di moto «nel mondo» (o «per il mondo»), preferendo renderla letteralmente come «in order», con il significato, dunque, di conformità a un ordine. Analogamente la Stemich (p. 190) sottolinea come dalla Dea il kouros sia chiamato a non alterare l’essere «secondo l’ordine delle cose», attribuendo quindi alla formula valore normativo. Coxon sottolinea il precedente omerico, traducendo «in regular order». Noi preferiamo attribuirgli il valore cosmico, considerando κατὰ κόσμον insieme alla forma avverbiale precedente (πάντῃ πάντως). 120 DK B5 ξυνὸν δέ μοί ἐστιν, ὁππόθεν1 ἄρξωμαι· τόθι γὰρ πάλιν ἵξομαι αὖθις. [Proclo, In Platonis Parmenidem 708] 1 La forma ὁππόθεν è correzione degli editori: i codici di Proclo riportano ὅπποθεν. 121 Indifferente1 è per me da dove cominci, dal momento che là, ancora una volta, farò ritorno. 1 Bicknell (“Parmenides, DK 28 B5”, «Apeiron», 13, 1979, pp. 9-11) ha proposto di tradurre ξυνὸν come «a basic point»: «It is a basic point from which I shall begin: I shall come back to it repeatedly». Collocando il frammento subito prima di B2, il senso complessivo effettivamente è assicurato e, come è stato notato (Gallop, p. 37), suggestivo. Difficile però avere un riscontro della traduzione proposta per ξυνὸν. 122 DK B6 χρὴ τὸ λέγειν τò1 νοεῖν τ΄ ἐὸν 2 ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν· τά σ΄ ἐγὼ 3 φράζεσθαι ἄνωγα. πρώτης γάρ σ΄4 ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος † ... † 5 , 1 I codici di Simplicio riportano unanimente τό; nel 1835 Karsten congetturò invece τε νοεῖν, ripreso poi da Diels. Il testo corretto, dopo la riscoperta a opera di Tarán e la ripresa da parte di Cordero, è tuttavia accolto solo da una minoranza di editori contemporanei. 2 I codici D e E di Simplicio riportano τὸ ὂν, il codice F τεὸν: τ΄ ἐὸν è correzione degli editori. 3 Il testo greco in DK è τά σ΄ ἐγὼ, secondo la lezione di Bergk. Cordero (pp. 101-2) preferisce la versione del codice D di Simplicio (considerato il più affidabile dallo stesso Diels 1897): τά γ΄ ἐγὼ. Il codice E riporta: τοῦ ἐγὼ; il codice F: τά γε. 4 Il codice D di Simplicio riporta σ΄ (così come E e F); B e C, invece, τ΄. 5 La tradizione manoscritta presenta a questo punto una lacuna: la proposizione manca del verbo. Congettura Diels, tradizionalmente accettata: εἴργω («tengo lontano», «distolgo»), sulla scorta di B7.2 (ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα - «ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero»). Congettura Mourelatos: εἷργον («tenevo lontano»), in riferimento al rifiuto della seconda via di B2. Congettura Cordero: ἂρξει («comincerai»). Congettura Nehamas: ἂρξω («comincerò»), ripresa di recente anche da Patricia Curd, che la preferisce alla precedente in quanto mantiene il baricentro del discorso sulla divinità, coerentemente con gli altri versi del poema. La Curd insiste in particolare sul parallelismo con i versi B8.50-52: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo termine al discorso affidabile e al pensiero intorno alla Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, ascoltando l’ordine delle mie parole che può ingannare. L’espressione «pongo termine» corrisponderebbe a «comincerò per te» appunto di B6.3, così come «da questo momento in poi» a «da questa via di ricerca». A più riprese (cominciando da B1.28-30) la dea sarebbe ritornata sulla 123 αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν [5] < πλάσσονται > 6 , δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν 7 νόον· οἱ δὲ φοροῦνται κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος. [vv. 1-2a Simplicio, In Aristotelis Physicam 86; vv. 1b-9 Simplicio, In Aristotelis Physicam 117; vv. 8-9a Simplicio, In Aristotelis Physicam 78] propria strategia, enunciando i suoi principi fondamentali (B2), ribadendoli (B6.3-4) e ricontestualizzando la propria esposizione in B8.50-52 (Curd, The Legacy of Parmenides, cit., p. 58). Tarán, che pur accetta la congettura Diels, suppone una lacuna successiva, tra i versi 3 e 4. 6 La tradizione manoscritta di Simplicio riporta πλάττονται, dichiarato corrotto in apparato da Kranz. In effetti πλάττονται sarebbe, secondo Cordero e Cerri (p. 210), atticizzazione (intervenuta nella tradizione manoscritta stessa) di πλάσσονται, da πλάσσομαι («mi invento»). Dello stesso avviso O'Brien e Gemelli Marciano (II, p. 82). Coxon (p. 183) sostiene la derivazione (per corruzione) da πλάζονται («vagano»). Diels fa della espressione una corrutela medievale di πλάσσονται, variante dialettale di πλάζονται, utilizzato nel poema (e in altri autori) per indicare sbandamento intellettuale, errore. Una recente messa a punto della questione testuale si trova in Passa (pp. 104 ss.), il quale ha con acribia sostenuto, su basi parzialmente diverse, la soluzione dielsiana con precoce corruzione di πλάσσονται in πλάττονται. Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 47 nota) ha contestato tale ricostruzione, preferendo tornare alla vecchia correzione πλάζονται, coerente con πλακτὸν νόον e φοροῦνται (v. 6). Accogliamo la correzione πλάσσονται, pur considerando l'emendazione πλάζονται, come sinteticamente insegna Ferrari, una valida alternativa. 7 I codici DE di Simplicio riproducono πλακτὸν, il codice F πλαγκτὸν, forma preferita da diversi editori (Coxon, O'Brien, Conche, Cerri, Gemelli Marciano, Palmer). 124 Dire e pensare1 : «ciò che è è2 », è necessario3 ; essere4 è infatti possibile, 1 Accogliendo la restituzione del testo originale di Simplicio proposta da Cordero (su indicazione di Tarán), abbiamo qui due infiniti (λέγειν, νοεῖν) introdotti da τό, da intendere: (i) come articolo determinativo (sarebbe allora più corretto rendere con «il [fatto di] dire e il [fatto di] pensare»), ovvero (ii) come pronome dimostrativo («dire questo e pensare questo»). Nella nostra traduzione abbiamo seguito la prima soluzione: i due infiniti articolari costituiscono soggetto congiunto del quasi impersonale χρή, come suggerisce Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., p. 111; ma si devono registrare le riserve di Cassin, p. 146). Costruzioni alternative: (a) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è il loro articolo e ἐόν il loro complemento oggetto («è necessario che dire e pensare ciò che è sia»): così, per esempio, Fränkel e Untersteiner. Una variante interessante è quella sostenuta da Tarán e Cordero (Les deux chemins de Parménide, Vrin, Paris 1984, pp. 111-2): essi suppongono la costruzione χρὴ εἶναι (ἔμμεναι) τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν («è necessario dire e pensare ciò che è». Cordero, tuttavia, nella revisione (2004) della sua opera, traduce diversamente: «It is necessary to say and to think that by being, it is». (b) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è articolo e ἐόν nome del predicato di ἔμμεναι («dire e pensare è necessario che siano un essere»): così, per esempio, Diels (1897), Heidel, Verdenius. Coxon (pp. 181-2) sostiene l'uso predicativo di ἐόν, supportandolo con paralleli (ἐὸν εἶναι) in autori influenzati da Parmenide (Gorgia, Leucippo, Platone, Aristotele). La sua traduzione (che accoglie il testo emendato da Karsten) è, di conseguenza: «it is necessary to assert and conceive that this is Being». Soggetto della proposizione sarebbe τό, pronome (che Coxon riferisce a τὸ αὐτὸ di B3). (c) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui τό...ἐόν è soggetto, da cui dipendono λέγειν e νοεῖν («ciò che è da dire e pensare è necessario che sia»): così, tra gli altri, Burnet e Raven. 2 Traduciamo ἔμμεναι con «essere», per mantenere l'ambiguità che a nostro avviso caratterizza il testo, attribuendogli tuttavia valore decisamente esistenziale. 3 L’impersonale χρή è formula di necessità ma anche di opportunità: il valore del vincolo implicato può variare in intensità, dal necessario, al corretto, all’opportuno. Ha insistito su questo punto Patricia Curd (1998, p. 53), 125 il nulla5 , invece, non è6 . Queste cose7 io ti esorto a considerare8 . riducendo così l’impianto modale dei primi due versi del frammento. Ma il nesso con B2 suggerisce la forma di necessità. 4 Nel caso di B6.1b, l'impegno per l'interprete è doppio. Si ripresenta infatti il problema di traduzione di ἔστι e si aggiunge quello della traduzione dell’infinito εἶναι in questo contesto: si tratta di due problemi correlati. Se, come scelgono di fare alcuni traduttori, si considera εἶναι come infinito sostantivato, soggetto di ἔστι, avremmo: «l'"essere" esiste» (Cerri); «infatti l'essere è» (Reale), «denn Sein ist» (Kranz), «for there is Being» (Tarán). Analogamente intende la Germani (op. cit., p. 191). Questa lettura potrebbe essere avvalorata dal fatto che due codici (BC) di Simplicio riportano τò εἶναι (Cordero, Les deux chemins de Parménide, cit., p. 24). Nel caso si accolga tale soluzione, in 6.1b-6.2a avremmo la piena esplicitazione dei soggetti delle vie di B2.3 e B2.5: rispettivamente εἶναι e μηδὲν. Per certi versi questa traduzione appare naturale, sebbene non risulti del tutto perspicuo l'uso di γὰρ, a meno di privarlo del suo valore esplicativo per riconoscergli una funzione confermativa. Se, invece, si intende εἶναι come infinito retto da ἔστι, allora è naturale attribuire a questo valore di possibilità (che sembrerebbe dare un senso alla particella γάρ). Alcuni sottintendono ἐὸν come soggetto, traducendo: «solo esso infatti è possibile che sia» (Pasquinelli); «For it is for being» (Coxon); «è possibile, infatti, che sia» (Giannantoni); «perché può essere» (Tonelli, Ferrari). Altri, come O'Brien e Cordero, optano per una formula impersonale: «car il est possible d'être»; «for it is possibile to be». 5 Secondo Coxon (p. 182) μηδέν conserverebbe in questo caso il suo significato più stretto, quello di «non una cosa». L’intera frase, dunque, asserirebbe che ciò che non ha essere, non è per niente una cosa. Kranz (in apparato) riteneva che μηδέν equivalesse a μὴ ἐόν (citando in questo senso B8.10: τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 46 nota) considera possibile un rimando al non-essere, intendendo la lezione (corrotta) del codice greco di Simplicio (Phys. 117) come μὴ δ’ ἐόν. 6 Anche in questo caso conserviamo l'ambiguità dell'«essere», intendendolo comunque in senso esistenziale: la necessità di affermare l’esistenza dell’essere sarebbe giustificata incrociando la possibilità dell’essere e l'inesistenza del nulla. Guthrie decide di attribuire al verbo essere nell’intera formula valore di possibilità: «for it is possible for it to be, but impossible for nothing to be». Analogamente Mansfeld: «denn dieses (sc. Das Seiende) kann sein, ein Nichts hingegen kann nicht sein». O’Brien (p. 27) è convinto che i due indicativi ἔστι e οὐκ ἔστιν abbiano valore potenziale, con l’infinito in funzione completiva, e suppone un secondo infinito per completare l’espressione negativa μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν: «il n’est pas possible 126 Per prima, infatti, da questa via di ricerca 9 ti 10 , e poi da quella11 che appunto12 mortali che nulla sanno13 (οὐκ ἔστιν) que (εἶναι) ce qui n’est rien (μηδὲν)». L’alternativa, seguita da alcuni, è quella di rimanere fermi, in entrambi i casi, al valore esistenziale, affermando (Tarán): «for there is Being, but nothing is not». È possibile, tuttavia, attribuire senso potenziale a ἔστι e senso esistenziale alla negazione οὐκ ἔστιν, come fanno Cordero (2004) e, seguendo Colli, Tonelli, a dispetto delle obiezioni di O’Brien, che ritiene improbabile la soluzione. Per conservare il senso modale di B2.3, Palmer (p. 113) propone di considerare ἐόν unico soggetto sottinteso di B6.b-2a (ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν), e rendendo μηδέν con valore predicativo: «(What is) is to be, but nothing it is not». Letteralmente più aderente al greco la traduzione senza articolo: «nulla [ovvero niente] non è». 7 Il pronome τά (accusativo neutro plurale) difficilmente può essere riferito esclusivamente al contenuto dei vv. 1-2a: è invece probabile che esso alluda a quanto seguiva B2 precedendo immediatamente B6, cioè la esclusione della via «che non è e che è necessario non essere» come effettivo percorso di indagine. 8 La formula τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα è mutuata da Omero ed Esiodo: richiama l’attenzione sull’esclusione della via «che non è e che è necessario non essere». 9 Concordiamo con Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 49) nel considerare questo riferimento alla «prima via di ricerca» (πρώτη ὁδός διζήσιος) vincolato alla discussione di cui B6.1-2a costituisce la conclusione, e che doveva vertere sul non-essere. Si tratta della discussione cui allude Simplicio nel contesto della citazione di B8.1-52: ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ μετὰ τὴν τοῦ μὴ ὄντος ἀναίρεσιν Le cose stanno in questo modo dopo l'eliminazione del non essere. Per evitare confusione, alcuni traduttori hanno fatto ricorso a costruzioni meno ambigue: «this is the first way of inquiry from which I hold you back» (Kirk-Raven-Schofield); «Questa è la via di ricerca da cui ti distolgo per prima» (Cerri); «Questa è la prima via di ricerca da cui ti tengo lontano» (Tonelli). Come quella che proponiamo, si tratta di soluzioni interpretative, che indubbiamente forzano la resa più naturale. In ogni caso, per rimanere più aderenti alla costruzione greca, abbiamo considerato πρώτης in funzione predicativa. 10 Manteniamo, pur con prudenza, la congettura Diels. 127 [5] , uomini a due teste14: impotenza15 davvero nei loro petti16 guida la mente errante17. Essi sono trascinati18 , 11 Il compemento ἀπὸ τῆς riferisce il pronome a ὁδοῦ διζήσιος: questo porta Coxon a concludere che nel contesto Parmenide si riferisca a filosofi, ricercatori. 12 Normalmente si lascia cadere in traduzione δή, che pure, seguendo un pronome relativo, ne enfatizza la posizione nella frase. L'uso nel contesto potrebbe alludere alla discussione che precede B6. 13 L’espressione greca βροτοὶ εἰδότες οὐδέν riprende il tradizionale contrasto tra sapienza divina e ignoranza umana, riferendolo in particolare a una tipologia di errore che nasce dal fraintendimento della κρίσις di B2. La ἀκρισία delle «schiere scriteriate» (ἄκριτα φῦλα) manifesta la loro «impotenza» (ἀμηχανίη). Nell’epica e nella lirica l’espressione βροτοὶ εἰδότες οὐδέν ritorna frequentemente per caratterizzare il fatto che i mortali non conoscono la totalità del passato, né possono prevedere il futuro, ristretti alla limitatezza del loro presente (Ruggiu p. 259). Nello specifico, l’ignoranza dei mortali è implicitamente contrastata dalla conoscenza che Parmenide ha rivendicato per sé in B1.3 (εἰδότα φῶτα). 14 Il greco δίκρανοι si riferisce alla condizione di coloro che manifestano una sorta di schizofrenia e in questo senso hanno una testa (una mente) divisa in due: affermano a un tempo essere e non-essere, fingendo di poter incrociare due vie in realtà (verità) incompatibili. Robbiano (op. cit., pp. 104-5) segnala come nella lirica arcaica il tema della indecisione-confusione propria della condizione umana fosse espresso nel riferimento a un νόος diviso (Teognide) o a una sorta di doppia mente (Saffo). 15 Il sostantivo greco ἀμηχανίη segnala la mancanza di mezzi, di aiuti per risolvere una situazione di difficoltà: insomma, una condizione di impotenza. In Omero gli dei possiedono σοφία, un saper fare (abilità nella costruzione di oggetti) che garantisce loro una vita facile, mentre gli uomini, ignoranti, conducono una esistenza dura. In Esiodo è grazie a Prometeo che gli uomini hanno potuto strappare agli dei alcuni dei loro segreti, facendo fronte alla propria impotenza. 16 L’espressione ἐν αὐτῶν στήθεσιν rinvia a Omero, dove è marcato il nesso tra ἀμηχανίη e θυμός, la cui sede è appunto nel petto. Coxon (p. 184) assume che nel contesto ciò possa alludere a un ruolo di θυμός distinto da νόος, secondo il modello pitagorico ripreso nell’immagine iniziale del carro (e poi reso celebre nel mito del Fedro platonico). 17 L’espressione πλακτὸς νόος sottolinea lo sbandamento, l’erramento in primo luogo della «mente» (così traduciamo in questo caso νόος) e quindi del «pensiero»: la mente, invece di essere guida sicura, conduce fuori strada. 128 a un tempo sordi e ciechi19, sgomenti, schiere scriteriate20 , per i quali esso21 è considerato22 essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti23 il percorso torna all'indietro24 . 18 La forma verbale φοροῦνται rafforza il senso di sbandamento, deriva, cui conduce la mente dissennata dei «mortali che nulla sanno». 19 L’espressione greca κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί vuol marcare una condizione di disorientamento, a un tempo (ὁμῶς) di isolamento uditivo e visivo. Anche Eraclito utilizzava l’aggettivo kwfój denunciare la stoltezza manifestata dalle opinioni correnti. 20 Il greco ἄκριτα φῦλα sottolinea l’incapacità, da parte di un gruppo numeroso (φῦλόν indica razza, tribù, classe, genia), di giudicare, di discernere. Evidentemente la Dea intende marcare, per contrasto, la prospettiva di ricerca aperta in B2 con l'alternativa delle «vie di ricerca per pensare»: in questo caso, la «mente» erra, e i «mortali» non conoscono alcunché. Alcuni ritengono (tra gli altri anche Cerri, p. 212), che Parmenide si riferisca qui ai seguaci di Eraclito. 21 Traduciamo in questo modo il pronome τό, che, come aveva a suo tempo rilevato Burnet (seguito poi da Coxon e ora da Palmer), potrebbe fungere da articolo per sostantivare πέλειν, ma non οὐκ εἶναι. Nel contesto del frammento τό è da riferire a ἐόν del v. 1. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, pp. 115-6), oltre a ricordare il frequente impiego da parte di Parmenide dell'articolo come dimostrativo (secondo l'uso arcaico), ha segnalato una costruzione analoga in B8.44b-45: τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ è necessario, infatti, che esso non sia in qualche misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra, in cui τό rinvia a τὸ ἐόν del v. 37. 22 Il perfetto medio-passivo νενόμισται ha attirato l’attenzione di Jaeger (La teologia dei primi pensatori greci, cit., p. 170, n. 36), il quale lo riferisce non all’opinione di un uomo o di qualche individuo, ma alla malignità del νόμος dominante (costume, tradizione), alla opinio communis degli uomini. Leszl in questo senso osserva (p. 230) come il passivo di νομίζω abbia il significato di «è pratica corrente». Il ricorso a νομίζω, con la soggettività implicata, fungerebbe, secondo Coxon (p. 185), da contrasto ai positivi (e oggettivi) λέγειν e νοεῖν. 129 23 Il genitivo plurale πάντων può essere qui inteso come neutro, riferito dunque a «tutte le cose», ovvero come maschile, riferito quindi ai «mortali», come il precedente relativo οἷς, «per i quali». Coxon traduce: «and for all of whom»; analogamente O'Brien, Palmer, Gemelli Marciano, che abbiamo seguito. La Gemelli Marciano (II, p. 83) segnala la composizione ad anello, con cui nell'ultimo emistichio Parmenide riprenderebbe il v. 4. 24 Secondo Mourelatos (p. 100), il senso dell’aggettivo παλίντροπός sarebbe da vedere in connessione con οὐ γὰρ ἀνυστόν (B2.7), indicando l’infinita regressione della ricerca lungo la via dei mortali. Potremmo dire che la Dea in questo modo stigmatizzi la inconcludenza della presunta via di ricerca inventata dai mortali, e quindi il destino di erranza che colpisce chi pretenda di seguirla. Secondo coloro che propendono per una interpretazione del frammento in chiave anti-eraclitea, qui avremmo una eco di DK 22 B51: Οὐ ξυνίασι ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῷ ὁμολογέει· παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ τόξου καὶ λύρης non capiscono che ciò che è differente concorda con se stesso, armonia di contrari, come l’armonia dell’arco e della lira. Contro questa interpretazione, tra gli altri, di recente A. Nehamas (“Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, edited by V. Caston & D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 55-6), il quale sottolinea come il termine παλίντροπός si riferisca qui in realtà ai mutamenti sequenziali delle cose reali l'una nell'altra (come nella cosmologia milesia); in Eraclito, invece, esso sarebbe impiegato in riferimento a un equilibrio statico. 130 DK B7 οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ 1 εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος2 εἶργε νόημα· μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν, κρῖναι δὲ λόγῳ 3 πολύδηριν4 ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα. [vv. 1-2 Platone, Sofista, 237 a 8-9, 258 d 2-3; Simplicio, In Aristotelis Physicam 135, 143-144; v. 1 Aristotele, Metafisica 1089 a; vv. 2-6 Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 111; v. 2 Simplicio, In Aristotelis Physicam 78, 650; vv. 3-5 Diogene Laerzio IX, 22] 1 Alcuni codici di Aristotele (EJ) e Simplicio (DE) riportano τοῦτο δαμῇ, quelli di Platone τοῦτ’ οὐδαμῇ. Sono attestate anche le forme τούτου οὐδαμὴ (Simplicio F), τοῦτο μηδαμῇ (Simplicio D), τοῦτο δαῇς (Aristotele recc.). 2 I codici di Sesto e Simplicio riportano διζήσιος (nelle varianti dialettali διζήσεος, διζήσεως), quelli di Platone il participio διζήμενος. 3 Nonostante i codici di Sesto e Diogene Laerzio riportino la forma del dativo λόγῳ, Kingsley (P. Kingsley, Reality, The Golden Sufi Center, Inverness (CA) 2003, pp. 139-140), all'interno di una lunga discussione sul valore da attribuire al termine (prima di Platone), propone (seguito da Gemelli Marciano) di leggere, in alternativa, il genitivo λόγου. 4 Il testo di Diogene Laerzio riporta πολύδηριν, quello di Sesto πολύπειρον. 131 Mai, infatti1 , questo2 sarà forzato3 : che siano cose che non sono4 . Ma tu da questa via di ricerca5 allontana il pensiero6 ; 1 Coxon (p. 190) osserva giustamente che la presenza di γὰρ presuppone un'asserzione da giustificare, per noi mancante: questo solleva dubbi sull'effettivo riferimento del successivo τοῦτο. 2 Cerri (p. 215) osserva l’uso apparentemente irregolare di τοῦτο in funzione prolettica (per la quale sarebbe stato naturale piuttosto τόδε): nel contesto il pronome sembra in realtà riferirsi anche a quanto precede (per noi perduto). 3 Seguiamo Tarán (e Diels) nel preferire questa resa a quelle suggerite da O’ Brien e Conche: «Jamais, en effet, cet énoncé ne sera dompté» («Mai, infatti, questo enunciato sarà domato») ovvero «Car jamais ceci ne sera mis sous le joug» («Poiché mai questo sarà posto sotto il giogo»). Secondo l’indicazione di Diels (Parmenides Lehrgedicht, p. 74), il senso dell’aoristo congiuntivo passivo di δαμάζω \ δάμνημι è da ricavare dalle citazioni platoniche del Teeteto (196b: viene usato ἀναγκάζειν) e del Sofista (241 d5- 7): Τὸν τοῦ πατρὸς Παρμενίδου λόγον ἀναγκαῖον ἡμῖν ἀμυνομένοις ἔσται βασανίζειν, καὶ βιάζεσθαι τό τε μὴ ὂν ὡς ἔστι κατά τι καὶ τὸ ὂν αὖ πάλιν ὡς οὐκ ἔστι πῃ. Ci troviamo di fronte alla necessità, per difenderci, di mettere alla prova il pensiero del padre, Parmenide, e di forzarlo [biázesqai] col dire che il non-essere «è», sotto un certo aspetto; e che, per converso, l’essere, in un certo senso, «non è» (traduzione M. Vitali, Bompiani, Milano 1992). A rafforzare questo valore, c’è anche il βιάσθω del v. 3. Interessante anche il suggerimento specifico di Liddell-Scott-Jones, di rendere il verbo in senso lato come «sarà provato», che Cerri (p. 215) difende, pur apprezzando l’interpretazione del passo offerta da O’Brien. Contro la scelta di Diels e LSJ argomenta tuttavia in modo convincente Coxon (p. 190). A suo tempo Calogero (Studi sull’eleatismo, cit., pp. 24-5, nota) aveva puntualmente contestato l'ipotesi τοῦτο δαμῇ, preferendole τοῦτο δαῇς (l'emistichio risultava così: «Non ti lasciar mai insegnare questo»). Alle osservazioni di Calogero si richiama oggi la Gemelli Marciano (II, p. 84). 4 Il non-essere è in questo caso espresso con il participio plurale μὴ ἐόντα, «cose che non sono». Secondo Tarán (p. 75), ciò si collegherebbe alla successiva polemica contro il dato dei sensi. 132 né abitudine7 alle molte esperienze8 su questa strada ti faccia violenza9 , 5 Simplicio (Fisica 78, 2) sembra riferire l’espressione τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος - «questa via di ricerca» - alla seconda via: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα· εἰπὼν γὰρ [B6.1b-2] < ἐπάγει > [B6.3-9] μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] sostiene che la contraddizione non sia vera [cioè: le proposizioni contraddittorie non siano vere] a un tempo in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti: dice infatti [citazione B6.1b-2a] e aggiunge [citazione B6.3-9]. (In Aristotelis Physicam 117, 2) Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.]. Secondo Simplicio, insomma, B7.2 alluderebbe alla «via che conduce al nonessere»; inoltre B7.1-2 seguirebbero B6.8-9, precedendo B8.1. Come fa osservare Tarán (p. 76), Simplicio sembra distinguere anche tra l’obiettivo polemico di B6 e quello di B7. 6 Il sostantivo νόημα è qui impiegato probabilmente nel significato – già omerico - di mente, intelligenza, organo del pensiero e della comprensione. I primi due versi del frammento sono citati da Platone e Simplicio: essi costituiscono un primo blocco testuale. Diogene cita isolatamente i vv. 3-5, secondo blocco. Sesto consente di cucire i due blocchi, citando i vv. 3-6 dopo il verso 2. nella sua citazione, tuttavia, non c’è posto per il verso 1. Non sorprenderà, dunque, che nella storia delle interpretazioni il frammento abbia subito vari smembramenti e montaggi. Noi scegliamo di conservare l’ordinamento che si può ricavare da Simplicio, l’ultimo autore che si ha fondato motivo di ritenere disponesse di una copia del poema (ancorché non esente da rielaborazioni linguistiche e contenutistiche). 7 Coxon (p. 191) legge ἔθος in contrapposizione a νόημα (abitudine versus analisi intellettuale): la prima forzerebbe, la seconda condurrebbe in modo persuasivo. 8 Dal momento che ἔθος si connoterebbe autonomamente in contrasto a νόημα, secondo Coxon (p. 191) πολύπειρον sarebbe da riferire a ὁδὸν: contribuirebbe a determinarne il valore rispetto a τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ del verso 133 a dirigere10 l’occhio che non vede, l’orecchio risonante11 [5] e la lingua12. Giudica13 invece con il ragionamento14 la prova15 polemica16 precedente. Cerri (p. 216) giudica tuttavia inaccettabile la proposta (anche) per ragioni metriche. Robbiano (p. 97) segue Coxon, insistendo sull’abitudine generata lungo la via di cui i mortali hanno molta esperienza. Anche Nehamas (op. cit., p. 59 nota 50) preferisce riferire πολύπειρον a ὁδὸν, ma suggerisce la possibilità che Parmenide intendesse riferirlo anche a ἔθος. Per quanto riguarda la traduzione, abbiamo optato per una resa che sottolinei nell’aggettivo il riferimento all’origine dalle molte esperienze; altri scelgono, invece, di marcare l’effetto implicito in esse, rendendo quindi con «molto esperta», «molto abile». 9 Il verbo βιάσθω si potrebbe rendere anche con «induca»: come informa Cerri (p. 217), esso ricorre frequentemente nella poesia tra fine VI secolo e inizi del V (Simonide, Pindaro, Bacchilide, Eschilo) nel senso di violenza esercitata dalla menzogna sulla verità. 10 Cerri (p. 217) osserva che νωμᾶν nel linguaggio epico significa «muovere, dirigere con abilità e destrezza». 11 Cerri (p. 217) rileva la natura ossimorica del verso: ἄσκοπον ὄμμα e ἠχήεσσαν ἀκουήν evocano le metafore eraclitee. Lo studioso giustamente le collega a B6.7, trovandosi però in difficoltà nell’interpretazione. In B6, infatti, esse sarebbero riferite agli eraclitei, qui, invece, recuperate (nella stessa prospettiva eraclitea) contro il sapere tradizionale. 12 Coxon (p. 192) sottolinea come l’epiteto ἠχήεσσαν qualifichi tanto ἀκουήν quanto γλῶσσαν: la lingua replicherebbe la confusione degli occhi e delle orecchie. La sua proposta è contestata, per ragioni semantiche (il significato dell’aggettivo - «risuonante» - mal si accorderebbe nel contesto con γλῶσσα), da Tarán (p. 77), il quale suggerisce invece di considerare ἄσκοπον riferito tanto a ὄμμα quanto a ἀκουήν e γλῶσσαν, con il valore avverbiale di «senza scopo», «a caso». Come riconosce lo stesso Tarán, tuttavia, la lettera del verso 4, con i due aggettivi immediatamente riferiti ai due sostantivi, rende più plausibile la solitudine di γλῶσσαν: il termine, in relazione a ἔθος πολύπειρον, indica il linguaggio ordinario. Heitsch (p. 161) suggerisce che, nel contesto, senza ulteriori predicazioni, γλῶσσα non sia da porre sullo stesso piano degli altri organi di senso: qui, dunque, il termine indicherebbe non l’organo del gusto ma l’organo del linguaggio, come riconosce anche Robbiano (pp. 97-98), insistendo sull’«organo che produce nomi che non sono in grado di riflettere la verità». 13 Kingsley (Reality, cit., p. 140) rende κρῖναι come «judge in favor of», nel senso di «scegli» (opzione adottata anche da Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 50); la Gemelli Marciano (II, p. 19) preferisce «entscheide dich für» («deciditi per»). 134 14 Secondo Cerri (p. 218), del termine λόγος – corradicale di λέγω (dire) e dunque originariamente sinonimo di μῦθος - qui sarebbe valorizzato l’aspetto semantico del ragionamento mentale (emergente anche in Eraclito), mentre nella seconda occorrenza nel poema (B8.50) l’aspetto semantico del discorso che verbalizza il ragionamento (λόγος è in tal caso complementare a νόημα). Tonelli (p. 126), insistendo sul parallelo con il contemporaneo Eraclito, mantiene una stretta connessione tra λόγος e νόος: λόγος non indicherebbe qui «il raziocinio ma la facoltà umana di cogliere il senso». A suo tempo Conche (p. 122) aveva sottolineato come, a differenza del νόος che può errare (B6.6), il λόγος non si allontani dalla verità, evidentemente intendendo con il termine la facoltà razionale. Ma di recente Kingsley (Reality, cit., pp. 129-50) ha lungamente argomentato che tale significazione è solo platonica e post-platonica, mentre in Parmenide λόγος avrebbe ancora il valore di «discorso» o «discussione»: in questo senso, egli preferisce (come segnalato in nota al testo greco) emendare il dativo in genitivo, facendone dunque una specificazione di ἔλεγχος. Contro la tendenza a contrapporre, in Parmenide, il λόγος all'esperienza, si esprime anche Cordero (By Being, It Is, cit., pp. 136-137), convinto che il significato base sia ancora quello di «discorso». A noi pare che la resa con «ragione» sia forzata, e che l'invito espresso dalla Dea sia quello di valutare discorsivamente, argomentativamente: il suggerimento di Cerri, insomma, evitando l'identificazione di una facoltà (la ragione appunto) e limitandosi a evocare un esercizio di controllo della discussione (λόγος, ἔλεγχος), pare prudente e funzionale. 15 Si tratta di una delle prime attestazioni del termine ἔλεγχος. Liddell-ScottJones, con esplicito riferimento al nostro testo, indica come significato «argument of disproof, refutation». Di recente, Chiara Robbiano (pp. 106- 107) – che legge B7 e B8 come costituissero un testo continuo - ha ricordato come ἔλεγχος debba riferirsi non solo alla contestazione già implicita nei versi precedenti, ma anche agli argomenti di B8, che hanno «la forma di un elenchos». In B8.1-49 la dea metterebbe alla prova varie strategie tradizionalmente ritenute in grado di condurre alla conoscenza. Interpretando correttamente il suo (della dea) logos, l’audience non solo sarebbe stata completamente persuasa dal non seguire la seconda via, ma avrebbe anche riconosciuto alcuni dei caratteri dell’Essere che concorrono all’obiettivo della prima via: la comprensione (insight) dell’Essere. 16 L’aggettivo πολύδηρις sarebbe, secondo Coxon (p. 192), di conio parmenideo, e si riferirebbe alla polemica contro la fisica ionica e pitagorica, poi ripresa da Zenone. In πολύδηρις – come osserva Conche (p. 123) - c’è l’idea di lotta, di combattimento (δῆρις): la forza della ragione opposta alla forza dell’abitudine. Liddell-Scott-Jones – con esplicito riferimento al nostro testo - rende con una espressione di senso passivo: «molto contestata». 135 da me enunciata17 . Interessante l'analisi di Patricia Curd (The Legacy of Parmenides, cit., p. 104): «The elenchos (testing) is poludēris (rich in strife) because it must repeatedly fight against habit and experience; it is a battle to be won over and over». Efficace la resa di A. Nehamas (“Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, cit., p. 59), il quale traduce κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον come «giudica con la ragione l'argomento che molto contesta». 17 Mentre Diels e Calogero riferiscono la prova (che così sarebbe genericamente «annunciata») alla sezione sulla Doxa, Verdenius, Tarán e Mourelatos la intendono riferita ai passaggi precedenti (il participio va allora tradotto più opportunamente con «enunciata»), in cui la Dea ha introdotto le due vie e argomentato contro la presunta terza via. Si tratta della posizione prevalente tra gli interpreti, tenuto conto dell’uso del participio aoristo ῥηθέντα, che proietta il termine cui si riferisce (ἔλεγχος) verso un passato appena compiuto. Preferiamo lasciare sospeso il riferimento, tenendo conto anche del suggerimento di R.J. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", in Presocratic Philosophy, cit., p. 76) di tradurre in questo caso il participio aoristo come «when it has been spoken by me». 136 DK B8 vv. 1-49 μόνος1 δ΄ ἔτι2 μῦθος3 ὁδοῖο λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε4 καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον5 · 1 È possibile, sulla scorta della citazione di Sesto (Adversus Mathematicos VII, 111), che il verso iniziale di B8 costituisse il secondo emistichio (b) di B7.6a (ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα). Il testo dei codici di Sesto - μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο - è tuttavia improbabile in epica, dove si attenderebbe μοῦνος, forma (presente nei codici DE di Simplicio) che, in effetti, alcuni editori preferiscono; d'altra parte, rettificandola, l'intero verso non reggerebbe metricamente. Di recente Passa (p. 87) si è espresso per la continuità tra B7 e B8, ritenendo di dover accettare μόνος come forma autenticamente parmenidea. 2 In vece di δ΄ ἔτι, i codici DEF di Simplicio e LEV di Sesto riportano δέ τι; il codice C di Sesto δέ τοι. Il contesto, tuttavia, suggerisce l’adozione – largamente prevalente tra gli editori – dell'attuale versione. 3 Sesto in vece di μῦθος riporta θυμὸς. 4 L'emistichio οὖλον μουνογενές τε è lezione attestata in Simplicio (commento alla Fisica 120.23, 145.4, 30.2, 78.13, 87.21 e al De Caelo 557.18), Clemente e Teodoreto (che tuttavia non è considerato fonte indipendente), originariamente accolta anche da Diels e per lo più ripresa dagli editori contemporanei. Nella V edizione dei Vorsokratiker a cura di Kranz, tuttavia, essa fu sostituita dalla trascrizione dei codici di Plutarco (Contro Colote 1114 c) ἔστι γὰρ οὐλομελές («è infatti intero [nelle sue membra]»), accolta tra gli altri anche da O’Brien e Reale. Come segnala Coxon (p. 195), ἔστι γὰρ potrebbe essere formula introduttiva di Plutarco: Passa fa notare, tuttavia, come la stessa formula sia ripetuta in B8.33. Proclo cita (commento al Parmenide 6.1007.25, 6.1084.29-30) in un caso solo οὐλομελές, ma, quando riporta l'intero verso (nello stesso commentario, 6.1152.25), il testo del primo emistichio è οὖλον μουνομελές τε. Si ha quindi l'impressione di una citazione a memoria (in effetti il testo è per il resto identico a quello citato da Simplicio). La forma οὐλομελές, come suggerisce Passa (p. 63), potrebbe essersi insinuata nella tradizione testuale parmenidea a partire dall'atmosfera pitagoreggiante dell'Accademia, tra II sec. a. C. e I sec. d. C.. Analogamente, deformazione del testo a noi tramandato dai codici simpliciani potrebbe essere anche μοῦνον μουνογενές, attestato in PseudoPlutarco, Teodoreto ed Eusebio. 5 La ricostruzione del testo di questo secondo emistichio è molto controversa. La versione più attestata nelle fonti antiche è: καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀγένητον. 137 [5] οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν 6 , ἕν, συνεχές7 · τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω8 φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι. τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος9 ὦρσεν [10] ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών10 ἐστιν ἢ οὐχί. Tuttavia Simplicio presenta anche (nel commentario alla Fisica 30.2, 78.13, 145.4) la variante ἠδ΄ ἀτέλεστον. La forma ἠδ΄ ἀγένητον non pare sostenibile, in quanto ripetizione di ἀγένητον del verso precedente. Sulla variante esistono comunque dubbi e non mancano le trascrizioni alternative nei codici: ἢ δ’ ἀτέλεστον, ἢ ἀτέλεστον, ἤδ’ ἀτέλεστον, ἢ δι’ ἀτέλεστον. Il testo potrebbe dunque essere corrotto, dal momento che il suo senso appare contraddetto da οὐκ ἀτελεύτητον (v. 32) e τετελεσμένον... πάντοθεν (vv. 42-3). Accettando la variante di Simplicio e volendone evitare le implicazioni contraddittorie, Karsten propose di emendare il testo come ἠδὲ τελεστόν (quindi «e perfetto»), seguito poi da Tarán e Cordero. Owen e altri (Kirk-Raven-Schofield, McKirahan, sostanzialmente Mourelatos e Coxon) hanno proposto ἠδὲ τέλειον («e completo»). Una minoranza (ma significativa: Hölscher, Cassin, Leszl, Gemelli Marciano) ha ripreso la versione di Brandis: οὐδ’ ἀτέλεστον. 6 Del verso esiste una variante attestata (con leggere differenze) in Ammonio, Asclepio, Filopono, Olimpiodoro: οὐ γὰρ ἔην οὐκ ἔσται ὁμοῦ πᾶν ἔστι δὲ μοῦνον. A seconda della punteggiatura potrebbe rendersi come: «poiché non era, non sarà, tutto intero insieme, ma è solamente», ovvero: «poiché non era, non sarà, ma è solamente, tutto intero insieme». 7 I codici di Simplicio riportano ἕν, συνεχές; in Asclepio è attestato invece οὐλοφυές («di natura intera»), lezione difesa e preferita da Untersteiner. 8 Alla forma ἐάσσω, riportata da alcuni codici di Simplicio, è da preferire ἐάσω, presente nei codici omerici e per lo più anche in quelli di Simplicio (che presentano anche la variante ἐασέω). 9 Nell'epica χρέος è forma recente di χρεῖος: essa è attestata in Odissea nel significato originario di «debito» e in quello secondario di «bisogno» (che ha riscontri in lirica e tragedia), come sottolinea Passa (pp. 82-3). 10 I codici attestano qui unanimemente χρεών ἐστιν; al v. 45, dove troviamo formula analoga, le lezioni si dividono: alcuni codici riportano χρεόν ἐστι. Passa (pp. 80 ss.) ha discusso specificamente il rapporto tra le forme χρεών e χρεόν, sottolineando come sia accettabile in Parmenide (analogamente a quanto riscontriamo nel caso di Erodoto) la forma ionica recente χρεόν, 138 οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος11 ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, [15] ἀλλ΄ ἔχει· ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν12; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; [20] εἰ γὰρ ἔγεντ΄13 , οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι. τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος14 ὄλεθρος. οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος. [25] τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. mentre χρεών sarebbe atticismo: a confermare un meccanismo di atticizzazione parallelo a quello operante sul testo omerico. 11 Il codice di Simplicio riporta ἐκ μὴ ὄντος («da ciò che non è»): l’emendazione proposta da Karsten - ἐκ τοῦ ἐόντος consente di concludere la dimostrazione come si trattasse di dilemma: l’essere non può avere origine dal non-essere (v. 7), né dall’essere, dunque è senza origine (ἀγένητον). La necessità dell’emendazione è analiticamente sostenuta da Tarán (pp. 95-102), ma combattuta con buone osservazioni da Coxon (pp. 200-201). Accogliamo, con qualche riserva sia relativamente alla fonte emendata – i codici di Simplicio rendono sostanzialmente in modo unanime il testo emendato – sia alle implicazioni teoriche, la correzione, in considerazione soprattutto del senso della successiva proposizione γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό. 12 I codici DE di Simplicio riportano πέλοι τὸ ἐόν, generalmente accettato; il codice F rende πέλοιτο ἐόν («potrebbe essere ciò che è», «essendo, potrebbe essere»), che una minoranza di editori (tra gli altri Coxon e Cassin) fanno proprio. Karsten propose di emendare il testo come ἔπειτ’ ἀπόλοιτο ἐόν («potrebbe poi perire ciò che è»), soluzione accolta da Kranz (Vorsokratiker, V edizione), ma oggi abbandonata. 13 La forma [εἰ γὰρ] ἔγεντ΄ è correzione (Preller) non attestata nei manoscritti simpliciani della edizione di Simplicio, che riportano invece ἔγενετ΄ (EF) e ἔγετ΄ (D). 14 Qui, in vece di ἄπυστος (De Caelo A e Fisica F), nei codici DE del commento al De Caelo abbiamo ἄπαυστος («incessante»), nel commento alla Fisica (ed. aldina) ἄπιστος («incredibile»), in Fisica DE il testo corrotto ἄπτυστος. 139 αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν ἔστιν ἄναρχον ἄπαυστον, ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε15 μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής. ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον16 καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται [30] χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν 17 δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο. ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. [35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ 18 πεφατισμένον19 ἐστίν, 15 Cordero ha restituito τῆλε sulla base dei codici EW di Simplicio (Phys.); i codici DF riportano τῆδε (τῆ δὲ E a ). 16 Della prima parte del verso abbiamo due redazioni: i codici di Simplicio (Phys.) riproducono (con varianti) ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον; quelli di Proclo (in Parmenidem 1134.22, 1177.5/6) ταὐτόν δ’ ἐν ταὐτῷ μίμνει («identico, resta in un identico [luogo]»). 17 La prima parte del verso è trasmessa con varianti nei manoscritti di Simplicio (Phys.): ἐπιδευές· μὴ ἐὸν (30, 10, 40, 6 Ea F) ovvero ἐπιδεές· μὴ ἐὸν (30, 10. 40, 6 DE); ἐπιδευές· μὴ ὂν (146, 6 EF) o ἐπιδεές· μὴ ὂν (146, 6 D). Da un punto di vista metrico, ἐπιδευές· μὴ ἐὸν non regge; d'altra parte ἐπιδεές non è forma epica: Cerri (pp. 234-5), che discute ampiamente i problemi connessi con la scelta del testo greco più plausibile, propende – con riserve – per l’adozione della soluzione ἐπιδεές, accettabile appunto per la misura del verso. Analogamente Coxon (p. 208). Vari editori (Tarán, O'Brien, Palmer, Graham), invece, seguendo la proposta di Bergk, espungono μὴ, conservando la forma epica ἐπιδευές. Passa (pp. 112 ss.) ha con buoni argomenti suffragato la scelta di Cerri, marcando come ἐπιδεές riflettesse in origine, prima ancora dell'atticizzazione del testo, l'adozione da parte di Parmenide, autore tardo-ionico, di forme dello ionico parlato, in cui già era caduta la più antica forma indoeuropea [w]: egli avrebbe preferito all'ἐπιδεῖς parlato la sinizesi ἐπιδεές, «la sola grafia adeguata a un testo scritto». Preferiamo, pertanto, evitare di ricorrere alla espunzione proposta da Bergk, conservando ἐπιδεές· μὴ ὂν. 18 I manoscritti di Simplicio riportano ἐν ᾧ, quelli di Proclo ἐφ’ ᾧ, dal significato sostanzialmente equivalente. O'Brien (p. 55) ipotizza che in origine la formula di Proclo dovesse essere glossa per precisare il senso di ἐν ᾧ. La lezione di Proclo è adottata da Cordero, seguito da Couloubaritsis. 19 I codici di Proclo e Simplicio (Phys. 146, 8; 87, 15 F; 143, 23-24 EF) riportano πεφατισμένον, privilegiato dagli editori; altri manoscritti di 140 εὑρήσεις τὸ νοεῖν· οὐδὲν γὰρ < ἢ > ἔστιν20 ἢ ἔσται ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον21 ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι22· τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται 23 , ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, [40] γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, Simplicio (Phys. 87, 15 DE; 143, 23-4 D) presentano invece πεφωτισμένον («è illuminato»). 20 Il testo del codice di Simplicio (Phys. 146, 9) riporta οὐδ’ εἰ χρόνος ἐστὶν («nemmeno se il tempo esiste»), che, metricamente accettabile, appare poco sensato nel contesto. Coxon (seguito da Conche) ha accolto la variante οὐδὲ χρόνος («And time is not»), che, a sua volta, non risulta però illuminante. Tra le proposte per aggiustare il senso del verso troviamo quella di Bergk - οὐδ’ ἦν γὰρ («né esisteva infatti») – e soprattutto quella di Preller (la più adottata), che (con qualche perplessità) seguiamo: οὐδὲν γὰρ ἔστιν [+ ἢ ἔσται]. Essa riprende (integrandola con la congiunzione ἢ) una citazione di Simplicio (Phys. 86, 31) – οὐδὲν γὰρ ἔστιν –. Va dato comunque atto a Coxon che il suo argomento a favore della lezione χρόνος di Simplicio in Phys. 146, 9 è buono: essa si trova, in effetti, nel contesto della citazione continua dei primi 52 versi del frammento (B8), quasi a garanzia di uno sforzo di attenta trascrizione dell’originale, mentre l’altra lezione (Phys. 86, 31) ha più l’aria di una libera parafrasi. Le difficoltà di questo passaggio potrebbero dunque suffragare l'ipotesi di interventi di montaggio sulla copia del poema disponibile a Simplicio. 21 I manoscritti EF di Simplicio (Phys. 146, 11; 87, 1) riportano οὖλον (D ὅλον); l'Anonimo (In Theaet.) οἶον («solo»); Platone (Teeteto 180 e1), Eusebio, Teodoreto οἷον («come»). 22 I manoscritti di Simplicio riportano τ΄ ἔμεναι (Phys. 146, 11) ovvero τ΄ ἔμμεναι (Phys. 87, 1 EF; D τ΄ ἔμμενε); quelli di Platone, Eusebio, Teodoreto (e Simplicio Phys. 29, 18; 143, 10) τελέθει; l'Anonimo τε θέλει. 23 Il secondo emistichio è di difficile decifrazione nei manoscritti. Nei codici di Simplicio prevalgono tuttavia due lezioni, prevalentemente adottate dagli editori: (i) πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται (Diels-Kranz, Tarán, Cordero, Coxon, O'Brien, Conche, Cassin, Reale, Cerri); (ii) πάντ΄ ὀνόμασται (Mourelatos, Casertano, Kirk-Raven-Schofield, Gallop). Gli accertamenti più recenti sui manoscritti sembrerebbero suffragare questa seconda lettura, che ha un riscontro anche in B9.1. Accanto a varianti secondarie, abbiamo come lezione alternativa il testo di Platone (Teeteto 180 e1), seguito dal commentatore anonimo del Teeteto, Eusebio, Teodoreto: παντὶ ὄνομ (α) εἶναι. Abbiamo mantenuto la lezione Diels-Kranz perché, nel contesto, ci sembra più naturale il senso che se ne può ricavare, anche in traduzione. 141 καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν. αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον [45] οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν24 ἐστι τῇ ἢ τῇ. οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν 25 ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι26 εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν 27 ἔστιν ὅπως εἴη κεν28 ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ἄσυλον· οἷ 29 γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει30 . [Fonti principali: vv. 1-52 Simplicio, In Aristotelis Physicam 145-146, vv. 1-14 id. 78] 24 Si veda l'annotazione a χρεών, v. 11. In questo caso i manoscritti riportano sia la forma χρεών, sia la forma χρεόν (sul piano filologico lectio difficilior), che, come sottolinea Passa (p. 81) difficilmente può intendersi come corruzione di χρεών. Manteniamo dunque la forma χρεόν, consapevoli dell'improbabilità del fatto che Parmenide impiegasse la stessa formula πελέναι ... ἐστιν, ricorrendo ora a χρεών ora a χρεόν. 25 La lezione dei codici di Simplicio è οὔτε γὰρ οὔτε ἐόν (ovvero ὄν): l’edizione aldina emendò οὔτε ἐόν in οὐκ ἐὸν, per lo più accettato. Diels (1897) preferì l’alternativa οὔτεον (= οὔ τι), forma rara dell’indefinito. 26 La forma ἱκνεῖσθαι è attestata in Simplicio (Phys. DE), accolta dagli editori. Simplicio F riporta invece κινεῖσθαι. 27 Il testo dei codici di Simplicio è οὔτε ὄν, emendato da Karsten in οὔτ΄ ἐὸν. 28 La forma κεν è emendazione di Karsten: i codici DEF di Simplicio riportano καὶ ἓν; l'edizione aldina κενὸν. 29 La lettura οἷ (dativo del pronome personale) si è affermata nel corso dell’ultimo secolo, a partire dalla proposta di Diels, il quale però intendeva οἷ come un relativo («verso cui»). I manoscritti (DEF) di Simplicio riportano οἱ (articolo determinativo ovvero dimostrativo), emendato nell’edizione aldina come ἦ (espressione omerica per «in effetti», «certo»). 30 Così già leggeva Diels; i manoscritti di Simplicio riportano in effetti κυρεῖ (EF), ovvero κυροῖ (D): κύρει è emendazione degli editori. 142 Unica1 parola2 ancora, della via3 che4 «è», rimane; su questa [via] sono5 segnali6 1 Il complesso della costruzione greca (aggettivo, avverbio, sostantivo e verbo) μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο accentua la connessione logica del frammento con quanto precede: prospettate le due vie, esclusa una delle due come impercorribile, discusse le contaminazioni dei mortali, «rimane una sola via» da esaminare, quella, appunto, ὡς ἔστιν. Sebbene chiaramente l’aggettivo mónoj si riferisca a μῦθος, molti traduttori di fatto lo applicano a ὁδοῖο: «One path only is left for us to speak of» (Burnet), ovvero «So bleibt nur noch Kunde von Einen Wege» (Diels), «One way only is left to be spoken of» (Raven). 2 Ricordiamo che il termine μῦθος ricorreva già in B2.1, qualificato dalla fonte divina: la «parola» (ovvero il «discorso») proferita dalla Dea doveva essere accolta, meditata e custodita dal kouros. Il valore del termine sembrerebbe dunque nel contesto quello di parola, discorso di Verità. Nella relativa nota di B2.1 abbiamo richiamato alcune recenti posizioni interpretative: Morgan (K. Morgan, Myth and Philosophy From the Presocratics to Plato, cit., pp. 17-18) sottolinea nell’uso di mythos il valore di «authoritative speech act»; Couloubaritsis (La pensée de Parménide, cit., p. 541) insiste sullo stesso valore con una traduzione poco familiare: «ma façon de parler autorisée». 3 Il genitivo ὁδοῖο è per lo più reso come genitivo oggettivo, di argomento, in relazione a μῦθος, di cui specificherebbe il contenuto. Cerri (p. 219) difende una sua interpretazione “partitiva” («di via, resta soltanto una parola»), riferendolo alle vie prese in esame. 4 Il valore della congiunzione ὡς sarebbe – secondo Mansfeld (p. 93) – complesso: non significherebbe semplicemente «che», ma anche «come». Per tale valore si veda il parallelo di B1.31. 5 Coxon (p. 194) sottolinea la contrapposizione tra σήματ΄ ἔασι e il successivo (v. 55) σήματ΄ ἔθεντο («posero segni»): alla convenzionalità dell’imposizione umana è opposta l'oggettività delle evidenze dell’Essere. 6 Il greco σήματα può rendersi nel contesto come «indizi», «segnali», anche «evidenze» (monuments, Coxon p.194). Essi possono essere intesi anche come i «riferimenti» che consentono di mantenere la propria direzione lungo una via: essi garantirebbero, in altre parole, al pensiero di non perdersi. Così, secondo Cordero (By Being, It Is, cit., p. 168), i σήματα sarebbero indicazioni, «prove» del carattere necessario e unico del fatto di essere: pietre miliari e segnavia che indicano che il pensiero sta seguendo la via giusta. Thanassas (p. 44), a sua volta, ritiene che i σήματα – rigorosamente parlando – non siano da intendere come segni dell’Essere, ma della sua via, con la funzione, quindi, di guidare lungo il percorso di conoscenza dell’Essere: il concetto di ἐόν assicurerebbe alla via la determinazione 143 specifica. A Thanassas (pp. 54-5) si deve soprattutto un rilievo: i «segni» fungerebbero essenzialmente da monito contro possibili deviazioni dalla via dell’Essere, quindi non tanto da attributi positivi, piuttosto da segnali negativi, che escludono ogni sovrapposizione con il Non-Essere. Un aspetto valorizzato anche da Scuto (G. Scuto, Parmenides’ Weg. Vom WahrScheinenden zum Wahr-Seienden. Mit einer Untersuchung zur Beziehung des parmenideischen zum indischen Denken, Academia Verlag, Sankt Augustin 2005, p. 142): tutti i segni ricavati da Parmenide sarebbero conseguenze necessarie e inconfutabili della applicazione del principio di fondo secondo cui l’essere non può sorgere dal non-essere. La Stemich (pp. 211-2) propone di analizzare i segni in quanto indicatori e a un tempo strumenti di orientamento per il kouros, segnavia ma anche descrittori della sua condizione spirituale nel momento in cui attinga la conoscenza. Da ricordare, in ogni caso, che il termine designa anche i «segni augurali» interpretati dagli indovini (Cerri p. 219); per Mansfeld (p. 104) σῆμα è il mezzo di rivelazione di una potenza superiore. L’eco religiosa potrebbe essere deliberatamente evocata dall’autore anche per predisporre la propria audience (interna ed esterna) alla disamina successiva. Sempre Mansfeld segnala (p. 104) come σῆμα sia sinonimo poetico di σημεῖον, termine che ritroviamo in Melisso (B8) e negli usi giuridici. Mourelatos (p. 94) inserisce l’interpretazione dei σήματα all’interno del motivo della quest: per raggiungere il fine della quest è necessario percorrere la strada «è»; per fare ciò è necessario tenere d’occhio i «segnavia». Rimanendo fedele all’immaginario epico, Mourelatos propone di leggere i segnavia come imperativi del tipo: «cerca sempre ciò che è ….». Di recente Chiara Robbiano (pp. 108-9) ha segnalato il nesso tra ἔλεγχος e σήματα: essi, in effetti, come rivela la letteratura arcaica, possono essere usati per provare, mettere alla prova (sottoporre a elenchos) l’identità di una persona. Robbiano si riferisce all’episodio del riconoscimento di Odisseo da parte di Penelope, dove il termine σήματα è messo in relazione alla verifica dell’identità del mendicante: è offrendo segni che Odisseo persuade della propria identità. Sempre alla Robbiano (pp. 125-6) dobbiamo il rilievo circa il nesso tra σήματα e loro interpretazione. La dea guida attraverso σήματα, che l’audience deve interpretare. La consapevolezza della necessità di interpretare segni per giungere alla verità richiamerebbe Eraclito DK 22 B93: ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει Il signore che ha il suo oracolo in Delfi non dice, non nasconde, ma dà segni. Il modello che la dea in questo caso evocherebbe sarebbe, dunque, quello di un dio che invia segnali ai mortali, per far loro conoscere cose normalmente 144 molto numerosi: che7 senza nascita8 è ciò che è9 e senza morte10 , fuori della loro portata. La Robbiano, per altro, concorda con Cerri (p. 214) sul fatto che σήματα non si riferirebbe ai predicati enumerati in B8.2-6, ma ai successivi argomenti. A una funzione essenzialmente argomentativa dei σήματα ha pensato invece Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 146): i «segni» costituirebbero gli argomenti della dimostrazione, coincidendo di fatto con gli attributi fondamentali dell’essere. Essi sarebbero in parte dimostrati nel seguito, in parte assunti senza dimostrazione, fungendo da medi aristotelici e contribuendo al carattere razionale della dimostrazione. 7 Della proposizione introdotta da ὡς (ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν) esistono varie traduzioni possibili: (a) intendendo ὡς come congiunzione dichiarativa: «Being is ungenerable and imperishable» (Tarán p. 85); «whatis is ungenerable and imperishable» (Mourelatos p. 94); (b) intendendo ὡς come congiunzione causale: «since it exists it is unborn and imperishable» (Guthrie p. 26); «étant inengendré, est aussi impérissable» (O’Brien, p. 171); analogamente Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 146). La costruzione σήματa … ὡς può (e probabilmente intende nel nostro contesto) indicare sia la significazione del come (dell’Essere) in senso descrittivo, sia il che (dell’Essere) in senso dichiarativo. I segni devono rivelare l’ἐόν e dunque la loro funzione può sembrare quella di indicare il che; al contempo, manifestandolo, consentono di prendere consapevolezza della sua natura (per cui il come potrebbe essere giustificato). Da apprezzare (secondo Mourelatos, p. 95), infine, la struttura che viene introdotta a partire da questo punto: Parmenide annuncia programmaticamente tutti i segnavia, quindi procede a una loro giustificazione. 8 Il greco ἀγένητον ricorre in pensatori contemporanei o di poco posteriori a Parmenide, come Eraclito (citazione di Ippolito di B50): Ἡ. μὲν οὖν φησιν εἶναι τὸ πᾶν διαιρετὸν ἀδιαίρετον, γενητὸν ἀγένητον, θνητὸν ἀθάνατον, λόγον αἰῶνα, πατέρα υἱόν, θεὸν δίκαιον· ‘οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι’ ὁ Ἡ. φησι. Eraclito sostiene che il tutto è diviso indiviso, generato ingenerato, mortale immortale, logos eterno, padre figlio, dio giusto, e afferma: énon me ascoltando, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno», ed Empedocle (B7, dal Lessico di Esichio): ἀ γ έ ν η τ α : στοιχεῖα. παρ’ Ἐμπεδοκλεῖ «Ingenerati»: gli elementi secondo Empedocle. 145 L'aggettivo indica dunque ciò che è ingenerato in contrapposizione a ciò che ha nascita (Eraclito), ovvero gli elementi primordiali, che non sono generati da altro ma che tutto generano. Diogene Laerzio sostiene (IX, 19) che Senofane sarebbe stato il primo ad affermare che «tutto ciò che è generato è corruttibile» (πρῶτός τε ἀπεφήνατο, ὅτι πᾶν τὸ γινόμενον φθαρτόν ἐστι). Secondo Coxon (p. 195), il termine potrebbe essere di conio parmenideo. Della stessa idea Mourelatos (p. 97), secondo cui esso ricorrerebbe qui per la prima volta nella letteratura greca, assumendo un significato più forte del semplice «ingenerato»: ἀγένητον in Parmenide escluderebbe ogni forma di processo in cui qualcosa venga all’essere. Possiamo qui notare di passaggio che la caratteristica essenziale dei segni parmenidei è quella di presentarsi come negazioni (alfa privativo + aggettivo) di qualcosa di significante all’interno del linguaggio e della esperienza dei mortali (Ruggiu p. 277). 9 Come già segnalato, traduciamo ἐόν come «ciò che è», segnalando invece τὸ ἐόν come «l’essere»: per noi si tratta di espressioni sinonime, ma la seconda, con l’articolo, è la formula più astratta. Nel contesto ἐόν, come forma participiale, potrebbe essere reso con valore verbale (come fa, per esempio Leszl, p. 171): «essendo ingenerato è anche imperituro». In tal caso, però, le altre determinazioni rischierebbero di essere subordinate alle prime due. Si può segnalare in questo contesto quanto sottolineato da Scuto (op. cit., p. 141), secondo cui in Parmenide assisteremmo al passaggio da un valore ancora temporale del participio a un significato atemporale: si tratterebbe di una netta correzione nella direzione dell'astrazione, con cui dall’esperienza della costante mutevolezza degli enti si concluderebbe nella certezza di un essere sottratto al tempo. 10 L’espressione ἀνώλεθρόν, come la precedente - ἀγένητον - formata con l’alfa privativo, indica letteralmente «ciò che è senza distruzione [morte] (ὄλεθρος)». Si tratta di termine veramente raro nella letteratura arcaica: prima di Parmenide ricorre una volta in Omero (Iliade XIII.761); dopo Parmenide ricompare per la prima volta solo in Platone (Cerri, p. 220). Nella testimonianza di Aristotele (Fisica III, 4 203 b13, DK 12 A15; 12 B3), in riferimento ad Anassimandro, abbiamo: καὶ τοῦτ’ εἶναι τὸ θεῖον· ἀθάνατον γὰρ καὶ ἀνώλεθρον [B 3], ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν φυσιολόγων E tale sembra essere il divino; è infatti immortale e imperituro, come dicono Anassimandro e la maggior parte dei filosofi della natura. Ciò potrebbe significare che l’aggettivo era stato effettivamente impiegato dai pensatori arcaici: Conche (p. 131) è convinto che il termine sia anassimandreo. In ogni caso, i due aggettivi – ingenerato e imperituro – corrispondono alle tradizionali connotazioni degli dei come sempre esistenti, immortali. 146 tutto intero11, uniforme12, saldo13 e senza fine14; 11 Il termine οὖλον (che rendiamo come «tutto intero» per dar ragione sia della totalità sia della integrità implicite) è di diretta eco senofanea: οὖλος ὁρᾶι, οὖλος δὲ νοεῖ, οὖλος δέ τ’ ἀκούει Tutto intero vede, tutto intero pensa, tutto intero ode (DK 21 B24). 12 Nonostante le difficoltà rilevate (Kranz, poi ripreso da Reale) nell'uso di μουνογενές dopo ἀγένητον (v. 3), Tarán (p. 92) ha buon gioco nel marcare il valore derivato dell’aggettivo, che anche in Eschilo (Agamennone 808) non ha significato letterale di «unigenito», ma quello di «unico». Cerri (p. 221), collegando μουνογενές all’epiteto sacrale di Ecate (secondo Esiodo, Teogonia 426, 488), valorizza la «metafora arditissima» proprio nella «contraddizione sarcastica» ad ἀγένητον. In realtà la radice *γεν esprime sia la nozione di “nascere”, “divenire”, sia quella di “essere”, “esistere”. Il termine μουνογενές potrebbe alludere a γένος piuttosto che a γίγνεσθαι e dunque veicolare l’idea di unicità. Mourelatos (pp. 113-4) suppone che Parmenide usi μουνογενές in diretta opposizione alla formula tradizionale per esprimere distinzioni, familiare da Esiodo: Οὐκ ἄρα μοῦνον ἔην Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν εἰσὶ δύω Non c’era dunque un solo genere di Eris; sulla τerra ce ne sono due (Opere e giorni 11-12). L’aggettivo μουνογενές si contrapporrebbe a μορφὰς δύο (B8.53): dietro οὖλον μουνογενές ci sarebbe dunque il rifiuto della contrarietà. Alcuni interpreti (Barnes, per esempio) associano μουνογενές a ἀτρεμὲς: "monogeneity" e immobilità sarebbero poi contestualmente riprese ai vv. 26-33. Secondo R.J. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", in Presocratic Philosophy…, cit., p. 73) questa soluzione è grammaticalmente più consona rispetto alla associazione alternativa a οὖλον, sebbene rimanga preferibile considerare l'aggettivo indipendentemente, nel significato di «uniforme». 13 L’aggettivo ἀτρεμές esprime stabilità, solidità, immutabilità: Conche (p. 133) vi coglie la «calma» dell’Essere, in contrasto con l’«inquietudine» degli enti. Coxon (p. 195) associa l’aggettivo alle successive espressioni ἀκίνητον (vv. 26 e 38: «immobile»), ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον (v. 29: «identico e nell’identica condizione perdurando») e ἔμπεδον αὖθι μένει (v. 30: «stabilmente dove è rimane»): esse denoterebbero identità esente da mutamento temporale. Alle stesse connessioni rinvia anche McKirahan (R. McKirahan, “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford 147 [5] né un tempo15 era16 né [un tempo] sarà, poiché17 è ora18 tutto insieme19 , Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008, p. 210), il quale però insiste nel suggerire che l’aggettivo sia inteso a esprimere il fatto che «ciò-che-è» è pienamente e non può cessare di essere pienamente, effetto dei limiti che costringono la sua natura. Esso sarebbe, quindi, impiegato per indicare qualcosa di più e di diverso dalla mera assenza di cambiamento e movimento fisico. Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 147), tra gli altri, leggendo il verso come ἔστι γὰρ οὐλομελές τε καὶ ἀτρεμὲς, lo avvicina a Platone, Fedro 250 c3: ὁλόκληρα δὲ καὶ ἁπλᾶ καὶ ἀτρεμῆ καὶ εὐδαίμονα φάσματα μυούμενοί integralmente perfette e semplici e senza tremore e felici erano le visioni cui eravamo iniziati. Si tratterebbe di un riferimento ai misteri eleusini, dove ὁλόκληρα («integralmente perfette») corrisponderebbe a οὐλομελές, indicando la completezza di struttura fisica, mentre ἀτρεμές ritorna identico, evocando «di Verità ben rotonda il cuore fermo» (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ B1.29). La ripresa platonica suggerirebbe allora una direzione interpretativa alternativa: uno sguardo sul mondo della alētheia indimostrato, il cui apprendimento è intuitivo, tanto da essere paragonato alla conoscenza misterica. 14 Leggo ἠδ΄ ἀτέλεστον – con DK, Coxon, O’Brien, Conche, Reale, Heitsch e altri – attestato da Simplicio. Il valore da attribuire a ἀτέλεστον dovrebbe essere, nel contesto, quello di «senza fine», «senza termine». Cerri (pp. 222- 3) interpreta l’aggettivo letteralmente come «incompiuto», riferendolo, senza interpunzione, alla riga successiva: «incompiuto mai fu un tempo, né sarà, poiché è ora tutto omogeneo». Da notare che Simplicio (Phys. 30, 4), volendo accostare Parmenide a Melisso, asserisce che l’essere di Parmenide è ἄπειρον, con ciò intendendo probabilmente ἀτέλεστον (Tarán, p. 93). 15 Intendendo οὐδέ ποτe come formula avverbiale, avremmo «non mai, giammai». Abbiamo preferito conservare πότe come avverbio separato dalla negazione, riferendolo sia a ἦν sia a ἔσται. Ruggiu (p. 283) interpreta πότε come indicatore della generale dimensione temporale, cui Parmenide contrapporrebbe l’ἔστιν rafforzato dal νῦν, a esprimere il presente atemporale. 16 In questo verso, come ha fatto giustamente osservare O’Brien (“L’Être et l’Éternité”, in Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, Tome II Poblèmes d’interprétation, p. 149), gli avverbi (πότε, νῦν) sono fondamentali come le tre forme verbali di εἶναι (ἦν, ἔσται, ἔστιν). 148 17 Non è chiaro se ἐπεί si riferisca immediatamente solo a νῦν ἔστιν o anche a ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές, cioè se anche questi attributi concorrano alla determinazione delle due affermazioni iniziali del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται: appare, in effetti, più semplice escludere la possibilità che «ciò che è» (ἐόν) sia stato (e in qualche modo non sia più) o debba essere in futuro (e in qualche modo non sia ancora) per il fatto che esso è ora tutto insieme, uno e compatto, cioè che è pienamente, senza mancare di alcunché che coinvolga in qualche modo «non è» (McKirahan, p. 207). 18 L’avverbio νῦν, come giustamente sottolinea Coxon (p. 196), non denota un istante o una unità temporale, ma la simultaneità. Secondo Conche (p. 136), «l’essere è, “ora”», irriducibile a un istante senza durata, o a una durata temporale, che implichi successione di prima e poi. Così l’«ora» indicherebbe una «durata senza successione» (come il «durare di Dio» secondo Tommaso). O’Brien (Études, II, pp. 335-362) sottolinea il nesso con ἀγένητον e ἀνώλεθρόν: la Dea intenderebbe escludere generazione e corruzione e dunque, in quanto ingenerabile e indistruttibile, l’Essere sarebbe eterno. Secondo Cordero (By Being, It Is, cit., p. 171) Parmenide usa il tempo presente ἔστιν per marcare la presenza propria dell’«ora» (νῦν), cioè il permanente presente dell’essere: l’essere non avrebbe nulla a che fare con il tempo strutturato in momenti temporali. A queste letture si contrappongono tradizionalmente quelle che, nel rilievo dell’avverbio temporale νῦν e nella contestuale negazione di passato e futuro, colgono la presenza di una concezione ardita e profonda: l’Essere sarebbe presente eterno, fuori dal tempo. Privilegiano questa dimensione della “atemporalità” dell’Essere parmenideo, tra gli altri, Calogero, Mondolfo, Gigon, Untersteiner, Reale (e Ruggiu nel suo commento). Mourelatos (pp. 103 ss.) ritrova nell’uso parmenideo dell’ἔστι il richiamo a una pratica consolidata in ambito matematico: proposizioni senza implicazioni temporali (tenseless) sono le verità necessarie - definizioni, verità classificatorie e implicazioni logiche – cui la «predicazione speculativa» di Parmenide si sarebbe ispirata. In B8.5 l’enfasi è ancora su νῦν ἔστιν, che suggerirebbe un condizionamento temporale. Il senso del verso, tuttavia, sarebbe, secondo Mourelatos: «né mai era, né sarà, né è ora, dal momento che semplicemente è». In direzione analoga si muove Thanassas (p. 47), per il quale l’intenzione di Parmenide in B8.5 sarebbe quella di marcare l’irrilevanza dello sviluppo del tempo in passato, presente e futuro per il suo progetto ontologico: l’Essere non è nel tempo, non ha storia né futuro, risultando estraneo a ogni mutamento. Tarán (p. 95) insiste, a sua volta, per intendere il verso nel senso di una continua durata temporale. È significativo, comunque, che sia assente una esplicita argomentazione di νῦν ἔστιν, che per McKirahan (p. 206) sarebbe conseguenza di «ciò-che-è è» (B2.7-8, B6.1-2) e riconducibile all’essenziale pienezza dell’essere di ciò-che-è. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", cit., p. 73) propone una lettura 149 uno20, continuo21. Quale nascita22, infatti, ricercherai di esso? originale: in forza degli attributi che τὸ ἐόν possiede «ora» (completezza, autosufficienza ecc.), non ha senso supporre che possa non esistere in qualche momento del passato o del futuro. 19 Conche (pp. 137-8), che valorizza il nesso con l’avverbio precedente, traduce ὁμοῦ πᾶν come «tout entier à la fois», accostandolo al tota simul con cui Boezio (e poi Tommaso) caratterizzava l’eternità. 20 Tra i «segni» destinati a gravare sul destino del pensiero parmenideo, questo è senz’altro il più importante. Nel contesto, tuttavia, ἕν è solo uno dei segni, inserito in una sequenza - ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές – in cui l’autore sembra insistere sulla compiutezza, integrità e omogeneità dell’essere piuttosto che sulla sua unicità. Come opportunamente marcato da McKirahan (p. 215), infatti, è probabile che μουνογενές e ἕν fossero sostanzialmente intesi come sinonimi, in relazione al gruppo di attributi οὖλον, ὁμοῦ πᾶν, συνεχές, la cui giustificazione argomentativa ritroviamo ai vv. 22-25. Come giustamente rileva Conche (p. 138), l’essere è «uno», non l’Uno della posteriore tradizione platonica-neoplatonica. Alla lezione ἕν, συνεχές di Simplicio, Untersteiner preferisce quella alternativa di Asclepio: οὐλοφυές, «un tutto naturale». Coxon osserva (p. 196) che questo è l’unico luogo in cui sia usato da Parmenide il termine ἕν, il cui posto sarà poi preso da oὐδὲ διαιρετόν (v. 22), con cui – qui e in v. 25 – συνεχές è virtualmente sinonimo. Mourelatos (p. 95, nota) legge come un unico blocco ὁμοῦ πᾶν ἕν, interpretando ἕν come predicato modificato dall’avverbio ὁμοῦ e dal pronome πᾶν: il senso complessivo sarebbe «all of it together one». Secondo Cordero (By Being, It Is, cit. p. 177), Parmenide intenderebbe marcare come il «fatto d’essere» sia denominatore comune a tutte le cose, affermando che esso è unico, non che tutte le cose sono uno ovvero che l’essere è l’Uno. Ruggiu (p. 286), pur non accettando la variante οὐλοφυές, ritiene che l’Essere valga come intero: esso non espungerebbe il molteplice, ricomprendendolo piuttosto in sé. 21 L’aggettivo συνεχές, in relazione con il precedente ἕν, sottolinea il fatto che «ciò che è» è «uno con se stesso» (Conche p. 139). Non è del tutto perspicua la connessione di questa ultima serie di attributi con quella introdotta ai vv. 3-4: si tratta di implicazioni dei precedenti ovvero di nuovi attributi? In ogni caso, qui termina l’elenco dei segni. Da questo momento in avanti si apre la loro discussione argomentativa, che altri (per esempio Heitsch, Leszl, Plamer) fanno iniziare dal v. 5. 22 Il termine γέννα potrebbe tradursi più semplicemente con «origine», ma, seguendo il suggerimento di Coxon (p. 197), insistiamo sul valore biologico della espressione. È possibile che – come nota la Stemich (Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, cit., p. 214) – in questo passaggio il filosofo contrapponga alla comune accezione religiosa (per cui le divinità sono sì 150 Come23 e donde cresciuto24? Da ciò che non è non permetterò25 che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare26 che «non è»27. Quale bisogno28, inoltre29, lo avrebbe spinto30 , [10] originando31 dal nulla, a nascere32 più tardi o33 prima34? immortali, ma non senza nascita) la sua concezione dell’essere, appunto «senza nascita e senza morte». 23 La formula interrogativa πῇ πόθεν potrebbe rendersi (con O’Brien e Cassin): «verso dove e da dove?», accentuandone le implicazioni spaziali, insistendo cioè su direzione e verso della crescita. Anche Mourelatos (p. 98, nota), attribuisce senso locale a πῇ. 24 Il passaggio dal sostantivo (γέννα) al participio aoristo (αὐξηθέν), con relativo cambio di sintassi, e il successivo (v. 8) implicito riferimento all’infinito aoristo αὐξηθῆναι (essere cresciuto) in relazione agli infiniti φάσθαι e νοεῖν, evocherebbero, secondo Coxon (p. 197) una tipica situazione di dibattito (quindi di oralità). McKirahan (p. 193) ha sottolineato le implicazioni tra le tre domande: assumendo che generazione e crescita siano equivalenti (come ragionevolmente attestato dai successivi vv. 9-10), la seconda e la terza domanda possono essere interpretate come riferentesi alle sue condizioni necessarie: la generazione è un processo («come») che richiede un’origine («donde»). 25 La formula οὔτ΄ … ἐάσω (futuro preceduto dalla negazione) vuol marcare la proibizione logica imposta e fatta rispettare dalla razionalità della Dea. 26 Letteralmente οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν dovrebbe rendersi come «non è infatti dicibile e pensabile», con la proposizione introdotta da ὅπως come soggettiva. I due aggettivi - φατόν e νοητόν – hanno dunque complessivamente il senso di «cosa che si possa dire e pensare». 27 Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", cit., p. 77) suggerisce come soggetto implicito di οὐκ ἔστι «the potential generator»: è la generazione dal non-essere che è impensabile. 28 La formula τί χρέος; è corrispettivo poetico dell’ordinario interrogativo τί χρήμα; «quale circostanza?» (Coxon p. 198). Gemelli Marciano (II, p. 87) rinvia a Pindaro e Eschilo per la sua traduzione («Verpflichtung», dovere, servizio). 29 Come segnalato da O'Brien nel suo commento (p. 50), la funzione di καί in questo caso non è solo avverbiale: esso rinforza l'interrogazione. 30 Rendiamo in questo modo la forma «irreale» dell’interrogativo (che suggerisce una risposta negativa) veicolata da ἄν + l’aoristo. 31 Rendiamo in questo modo il participio aoristo ἀρξάμενον, che in realtà dovrebbe implicare anteriorità rispetto all'azione espressa dall'infinito φῦν: altri preferiscono ricorrere a perifrasi: «se comincia dal nulla» (Pasquinelli), «se fosse nato dal nulla» (Cerri), «se trae inizio dal nulla» (Tonelli). 151 Così35 è necessario36 sia per intero o non sia per nulla37 . 32 L'infinito aoristo φῦν può essere reso come «nascere\sorgere» o «crescere»: i traduttori si dividono. 33 La particella ἢ può avere funzione disgiuntiva («o»), ovvero esprimere una comparazione (= quam). 34 Traduco letteralmente ὕστερον ἢ πρόσθεν. Le versioni più diffuse sono: «früher oder später» (Diels), «prima o poi» (Calogero), «later or sooner» (Tarán), «dopo o prima» (Reale), «dopo piuttosto che prima» (Cerri), «later or before» (Coxon), «plus tard, plutôt qu’ […] auparavant» (O’Brien). In effetti ὕστερον è comparativo dell’avverbio, ma πρόσθεν no: quindi, letteralmente «più tardi che [\o] prima», sebbene la costruzione possa sembrare asimmetrica. Nei versi 9-10 avremmo una delle prime applicazioni del cosiddetto «principio di ragion sufficiente»: nulla si verifica senza una ragione sufficiente a spiegare perché si verifichi così e non altrimenti. Secondo Conche (p. 141), si tratterebbe della seconda applicazione, dopo quella di Anassimandro (per dimostrare la centralità immobile della Terra nel cosmo), e dominerebbe nel complesso il «pensiero dell’essere» di Parmenide. Una opinione diversa in proposito è espressa da Leszl (pp. 182-5), che interpreta come se Parmenide intendesse marcare l’assenza di una ragione (causa) perché l’essere si generi in un qualsiasi momento: il non-essere, nella sua completa negatività, non potrebbe offrirne alcuna. In realtà, come viene rilevato acutamente da McKirahan (p. 194), delle due possibili traduzioni di ὕστερον ἢ πρόσθεν, «più tardi o più presto» ovvero «più tardi piuttosto che più presto», la prima evidenzia come manchi una ragione per cui ciò che è debba generarsi, cioè non ce ne sia in alcun momento; la seconda, invece, in modo più sofisticato e coinvolgendo il “principio di indifferenza”, sottolineerebbe come non ci sia ragione perché esso si generi «in un momento qualsiasi piuttosto che in un altro». Sempre McKirahan osserva come l’argomento sia formulato in termini di domanda retorica, che presuppone una risposta del tipo: in nessuna circostanza, da ciò che non è potrebbe generarsi qualcosa. 35 McKirahan (p. 194) ha contestato la tradizionale traduzione di οὕτως come «così, perciò», che introdurrebbe la conclusione di un'argomentazione. Secondo lo studioso, infatti, in tal caso il senso del v. 11 appare – nel contesto - problematico: πάμπαν πελέναι è più naturalmente collegato all'analisi dei successivi vv. 22 ss., piuttosto che a quel che immediatamente precede. La sua proposta è dunque quella di tradurre l’avverbio οὕτως collegandolo alla alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ οὐχί: il suo valore sarebbe allora «in questo modo» (cioè «essendo ingenerato»). La sua funzione sarebbe prolettica: quanto detto nel contesto sarebbe rilevante per la discussione successiva. A noi pare, comunque, che B8.11 concluda un passaggio (esclusione della generazione) dell'argomento avviato nei versi precedenti. In questo senso confermiamo la traduzione più comune. 152 Né mai 38 concederà forza di convinzione39 36 McKirahan (p. 194) traduce χρεών ἐστιν come «è giusto»: il suo significato - nel contesto dell’alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ οὐχί - sarebbe quello di prospettarne i corni come «le uniche possibilità» da considerare relativamente a ciò che è. 37 Come segnala Coxon (p. 199) la formula ἢ οὐχί sta per ἢ οὐ χρεών ἐστι πάμπαν πελέναι «o non deve essere per niente». Parmenide sottolinea la contraddizione e l’esclusione di una terza via (adottando di fatto il principio del terzo escluso): la via dell’essere esclude non solo la via del non-essere, ma anche un'impossibile combinazione tra essere e non-essere (Conche p. 142). Secondo Mourelatos (p. 101), questo verso non costituisce elemento della prova successiva, ma serve solo a ricordare la krisis radicale, la «decisione», operata in connessione con le due vie. 38 Avendo accolto con cautela la correzione di Karsten del testo tràdito, dobbiamo comunque osservare che lo stesso Simplicio, parafrasando due volte il nostro passo (Phys. 77, 9; 162, 11), offre il senso della emendazione: καὶ γὰρ καὶ Παρμενίδης ὅτι ἀγένητον τὸ ὄντως ὂν ἔδειξεν ἐκ τοῦ μήτε ἐξ ὄντος αὐτὸ γίνεσθαι (οὐ γὰρ ἦν τι πρὸ αὐτοῦ ὄν) μήτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος Anche Parmenide infatti sosteneva che l'essere in senso pieno è ingenerato: mostrava che esso non si genera né dall'essere (poiché non c'è qualche essere oltre a esso), né dal non essere (162, 11). D'altra parte, analoga impostazione dilemmatica è attestata anche da Aristotele in un celebre passo della Fisica (I, 8 191 a28-33), con chiara allusione anche agli Eleati (Palmer – Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 129- 133 - ha contestato, con buoni argomenti, che il testo si riferisca esclusivamente agli Eleati): Ὅτι δὲ μοναχῶς οὕτω λύεται καὶ ἡ τῶν ἀρχαίων ἀπορία, λέγωμεν μετὰ ταῦτα. ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. 153 che nasca qualcosa40 accanto41 a esso42. Per questo43 né nascere né morire concesse Giustizia44, sciogliendo le catene45 , Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei pensatori antichi, lo diremo in quel che segue. Coloro, infatti, che per primi hanno indagato in modo filosofico la realtà e la natura delle cose furono sviati come spinti lungo una via diversa dalla loro inesperienza. Essi sostengono in effetti che degli enti nessuno né si genera né si distrugge: poiché ciò che si genera, necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò che non è, ma è impossibile che ciò accada in entrambi i casi. L'essere, infatti, non si genera (perché è già) e nulla può generarsi dal non essere, dal momento che qualcosa deve fungere da sostrato. E sviluppandone ulteriormente le conseguenze, affermavano allora che non esiste il molteplice, ma solo l'essere stesso. 39 L’espressione πίστιος ἰσχύς è variamente tradotta: «la forza di una certezza» (Reale), «forza di prova», ovvero «forza di argomentazione» (Cerri). In ogni caso, come osserva Cerri (p. 224), è chiaro dal contesto che πίστις è termine da Parmenide impiegato nel valore di «convinzione razionale». Coxon (p. 199) rileva come l’Eleate scelga di esprimersi come se la certezza (πίστις, appunto) avesse un potere attivo e non solo critico. 40 Nel τι Conche (p. 145) coglie un riferimento all’ente: dall’essere non può essere generato né l’essere né un ente qualunque (esso non potrebbe che essere generato da un altro ente). 41 Attribuiamo a παρά valore locativo. In alternativa gli interpreti propongono «oltre a», ovvero «in addizione a». 42 L'infinitiva γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό sembrerebbe giustificare la scelta della variante di Karsten - ἐκ τοῦ ἐόντος. Difficile, infatti, trovare altrimenti un senso. Per chi assume la lezione dei codici - ἐκ μὴ ἐόντος – è più naturale cogliere in αὐτό un riferimento al non-essere, che appare però problematico: si dovrebbe ammettere che la Dea introduca ipoteticamente l'esistenza del non-essere (contraddicendo i precedenti divieti), per marcare come da esso nulla di diverso possa derivare ovvero nulla accanto, oltre a esso possa sorgere. Mourelatos (pp. 101-2), che segue il testo greco non emendato, riferisce comunque il pronome a ciò che è: nella sua lettura l’espressione «che da ciò-che-non-è qualcosa venga a essere accanto a esso» - interpretata come equivalente a προσγίγνεσθαι (accrual, accretion) - suggerisce l’idea di crescita come addizione (accretion) a qualcosa già esistente. 43 La preposizione εἵνεκεν, con il τοῦ dimostrativo, introduce quel che segue come conseguenza di quel che precede (Conche p. 146). 44 Intendo Δίκη come nome personale: Conche (p. 146), invece, nega consistenza mitica al riferimento, riconoscendolo come «metafora» della «legge dell’essere». Dike svolge in questo contesto quel tradizionale ruolo 154 [15] ma [lo] tiene46. Il giudizio47 in proposito48 dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità49 , di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile50 (poiché non è una via genuina51), e che l’altra invece esista e sia reale52 . equilibratore, di preservazione delle distinzioni e dei limiti, che abbiamo notato nel proemio. In questo caso – come osserva Robbiano (p. 163) – il limite che la dea deve rigidamente sorvegliare è quello che (al v. 42) è definito πεῖρας πύματον, «limite estremo», all’interno del quale riposa sicura l’intera realtà. L’effetto è allora quello di fungere, in quanto rigorosa garante della separazione (tra essere e non-essere), da sorvegliante dell’interezza e integrità dell’essere. 45 I termini impiegati da Parmenide (Δίκη, πέδῃσιν, nella riga successiva κρίσις) insistono sul lessico giudiziario, probabilmente per rendere con efficacia la forza della necessità logica. In effetti, come sottolinea Cordero (By Being, It Is, cit., p. 171), Dike, con Ananke e Moira, assicura a un tempo l'immutabile identità di ciò che è e l’inesorabilità della via. 46 Intendiamo ἐόν come oggetto sottinteso di ἔχει, per analogia a quanto sotto (verso 26) affermato, appunto a proposito di ἐόν. 47 Il termine greco κρίσις – così come il successivo verbo κέκριται – veicola ancora, insieme alla formalità del giudizio, l’autorevolezza della decisione: a marcare la forza razionale del passaggio nella dimostrazione della Dea. È esplicito nel contesto il riferimento all'alternativa di B2: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. In questo senso, Mourelatos ritiene che i vv. 17-18 abbiano la funzione di richiamare (come il v. 11) la «decisione» tra le due vie. 48 Letteralmente: «a proposito di queste cose», ovvero sulla questione della generazione e della corruzione o della nascita e della morte. 49 Letteralmente «come necessità»: rendiamo ἀνάγκη (preceduto da ὥσπερ) con il suo valore generico, non personale. 50 La coppia di aggettivi ἀνόητον ἀνώνυμον (proposti senza congiunzione) sono, a nostro avviso, da intendersi congiuntamente come connotazione dell’impalpabilità della seconda via (ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι). 51 L’espressione οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός si riferisce al fatto che la via «che non è (ὡς οὐκ ἔστιν)» non conduce in vero da nessuna parte e, in questo senso, non è una «via genuina (vera)». Conche (p. 147) insiste piuttosto sul fatto che non si tratti della «vera via»: in altre parole, di una via che conduca alla Verità. A conclusione del verso troviamo, invece, l’espressione τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι, che sottolinea come «l’altra [via] invece esista e sia reale», cioè una via che conduce effettivamente a una destinazione. Coxon (p. 168) ricorda come nelle occorrenze del poema, ἀληθείη (B1.29) e ἀληθής (B8.17, 39) si riferiscano non al pensiero o al 155 E come potrebbe esistere53 in futuro l’essere54? E come potrebbe essere nato55? [20] Se nacque, infatti, non è56, e neppure [è] se57 dovrà essere58 in futuro. linguaggio ma alla realtà oggettiva. Cordero (By Being, It Is, cit., p. 179) sostiene che per Parmenide la verità è prerogativa di un logos presentato da una via: solo per illegittima generalizzazione, la via stessa sarebbe da considerare vera. La verità risiede in un logos che, se valido, ha il privilegio di essere accompagnato dalla verità: così B2.4 recitava: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ («di Persuasione è percorso – a Verità, infatti, si accompagna»). Più avanti (B8.51) Parmenide, introducendo la sezione del poema dedicata alla Doxa, utilizzerà la formula [νόημα] ἀμφὶς Ἀληθείης («pensiero intorno alla Verità»). Anche per la Wilkinson (Parmenides and To Eon…, cit., pp. 87 ss.) impropriamente una “via” può definirsi «vera»: seguendo Mourelatos, ella suggerisce che ἀληθείη nel poema si riferisca non alla via ma alla dea: la verità è connessa a Persuasione, Πειθώ, che sarebbe la dea stessa del poema; al centro del poema ci sarebbe il riferimento al discorso della dea; la via «è» potrebbe intendersi come «il mio discorso è». 52 Il valore di ἐτήτυμος (vero, genuino, reale) è sostanzialmente coincidente con quello di ἀληθής: i due termini sono impiegati sostanzialmente come sinonimi. Per le differenze Germani, op. cit., pp. 184-5. 53 Coxon (pp. 202-3) difende il testo del codice F: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοιτo ἐόν, e, rilevando in πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα formula ricorrente (tre volte) in Omero, in cui l’avverbio ἔπειτα si riferisce alle asserzioni che seguono, rende diversamente l’intero verso: «And how could what becomes have being, how come into being?». Il senso sarebbe quello di contestare che ciò che diviene (what becomes) possa essere Essere o diventare Essere. La variante (oggi trascurata) di Karsten - πῶς δ΄ ἂν ἔπειτ’ ἀπόλοιτο ἐόν («potrebbe poi perire ciò che è») - invece, introdurrebbe un argomento contro la corruzione. 54 Qui Parmenide usa eccezionalmente l’espressione τὸ ἐόν. 55 Ovvero «venuto a essere» o «divenuto», «essere stato». 56 Tarán (p. 105) ritiene che il senso dell’affermazione si colga nella contrapposizione tra il passato ipotetico di εἰ γὰρ ἔγεντο – aoristo che può riferirsi sia al processo compiuto di venire ad essere, sia a una condizione remota («fu») - e il presente di οὐκ ἔστι: dunque, se è venuto a essere, è ora diverso da come fu (Tarán p. 105). Analogamente per il secondo emistichio: se sarà, se avrà da essere, ora è diverso da ciò che sarà. Anche Mourelatos (pp. 102-3) richiama l’attenzione sulla scelta dei modi e dei tempi verbali di questo passaggio: γένοιτο, ottativo, non porta riferimento al tempo; ἔγεντo, 156 Così è estinta59 nascita e morte oscura60 . aoristo, si riferisce a una azione puntuale nel passato; ἔστι, presente, veicola durata e continuità: se x è in un certo momento, allora non è in senso continuo e assoluto. O’Brien (“L’Être et l’Éternité”, in Études sur Parménide, cit., Tome II, p. 153) osserva come il presente οὐκ ἔστι non si riferisca al momento fuggevole intercalato tra passato e futuro, ma a un «presente» logico: al «nulla» anteriore a ogni possibilità di nascita («più tardi o prima»). Analogamente Cerri, che parafrasa: «se è nato (rinato), non esiste (nel momento in cui non è ancora nato\rinato) [...]» (p. 227). 57 Qui dovremmo intendere «se [è vero che]». 58 Il verbo μέλλω seguito da infinito futuro (ἔσεσθαι) può rendersi come «essere sul punto di, avere l’intenzione di». Si suppone che l’azione o la condizione indicata dall’infinito debba ancora avvenire. La presenza dell’avverbio (ποτε) rafforza questo aspetto temporale dell’espressione (O’Brien, “L’Être et l’Éternité”, in Études sur Parménide, cit., t. II, p. 139). McKirahan (p. 196) interpreta i vv. 19-20 come rivolti contro la generazione nel futuro, a completamento dell’argomento di B8.5-6, per cui ciò che è non può essere in futuro. Era rimasta aperta la possibilità che qualcosa che non è ora possa venire a essere in futuro: B8.19-20 negherebbero questa possibilità. Mourelatos (pp. 106-7) parafrasa diversamente il verso: «ciò che una cosa arriva a essere non è ciò che la cosa realmente è, nella sua essenza o natura». Egli vi coglie un contrasto non tra «arrivare a essere» e «essere durevolmente», piuttosto tra tempo e atemporalità. 59 O’Brien e Cerri pongono ἀπέσϐεσται («è estinta\spenta») come complemento verbale sia di γένεσις (genesi, nascita) sia di ὄλεθρος (distruzione, morte). Soluzione che abbiamo preferito a quella, adottata da molti, che invece sottintende il verbo essere nel secondo emistichio e fa di una due proposizioni coordinate: «Così generazione è estinta e distruzione ignorata». Secondo Thanassas (p. 46), l’analisi del primo segno intreccia intenzionalmente divenire e tempo, anticipando la correlazione aristotelica di tempo e mutamento. Gli enti individuali certamente sono sottomessi al divenire incessante: Parmenide non negherebbe ciò, dedicando al problema la parte più consistente del suo poema; ma nella Alētheia i segni non si riferiscono a enti particolari, bensì unicamente al loro Essere: solo questo Essere può rivendicare la estraneità a ogni forma di mutamento (pp. 48-9). 60 Cerri (pp. 227-8) osserva come – sulla scorta di assonanze omeriche – l’espressione ἄπυστος ὄλεθρος possa essere resa come «morte oscura (ma anche ignorata, oggetto di oblio)». Molto diversa la resa di McKirahan: «Thus generation has been extinguished and perishing cannot be investigated» (p. 196). Egli insiste (p. 223) sul legame tra ἄπυστος e il verbo πυνθάνεσθαι («imparare, investigare, cercare»), da cui anche παναπευθέα ἀταρπόν (B2.6), la via di ricerca scartata perché impossibile da investigare, da cui era impossibile, dunque, ricavare informazioni. In B8.21 ἄπυστος 157 Né è divisibile61, poiché62 è tutto omogeneo63; né c’è qui qualcosa di più64 che possa impedirgli di essere continuo65 , conserverebbe lo stesso valore: la corruzione, la morte non possono essere oggetto di indagine, in quanto, come la generazione, impongono di seguire una via che non può assolutamente essere investigata. Si tratta di una osservazione già proposta da Mourelatos (p. 97), secondo il quale Parmenide non avrebbe ritenuto necessario argomentare contro la corruzione, rubricandola all’interno della via negativa: ciò spiegherebbe appunto l’uso di aggettivi come παναπευθής e ἄπυστος, riferiti alla via negativa e a ὄλεθρος. 61 L'espressione διαιρετόν ἐστιν può rendersi (ed è effettivamente tradotta) sia come «è divisibile», sia come «è diviso»: come osserva Leszl (p. 202), concettualmente la prima possibilità dipende dalla seconda, dal momento che l’operazione intellettuale della divisione non fa che rivelare divisioni già oggettivamente presenti (come attestato anche dagli argomenti di Zenone). Anche Thanassas (p. 50) rileva come, nella discussione del secondo segno, Parmenide punti a escludere la precondizione per ogni discriminazione interna dell’eon: esso non ha parti in cui possa essere articolato. Ne seguirebbe che, considerando ogni ente non come questa o quella cosa ma come Essere, non sarebbe possibile riconoscere differenze: ogni determinatezza svanirebbe all’interno della uniforme prospettiva dell’Essere. 62 Coxon (p. 203) sottolinea come da ἐπεί dipendano tutte le asserzioni successive (vv. 22-25). 63 Traduciamo così l’aggettivo ὁμοῖον, che altri rendono come «uguale»: ci sembra logicamente più efficace rispetto alla indivisibilità (οὐδὲ διαιρετόν). È possibile anche una lettura avverbiale e non predicativa di ὁμοῖον, da rendere (come fanno Owen, Guthrie, Stokes e Gallop): «esiste tutto allo stesso modo». Tarán e Mourelatos hanno tuttavia, con buoni argomenti, contestato tale lettura. McKirahan intende sia πᾶν sia ὁμοῖον con valore avverbiale: ciò-che-è non avrebbe dunque l’attributo di essere tutto uguale (o omogeneo), piuttosto ciò-che-è è in un certo modo, cioè tutto uguale, «interamente e uniformemente» (v. 11: πάμπαν πελέναι). È l’omogeneità che rende impossibile ogni discriminazione e divisione di ciò che è. Mourelatos (p. 114) ritiene che Parmenide sostenga logicamente πᾶν ἐστιν ὁμοῖον con πάμπαν πελέναι. In ogni caso la fondatezza della premessa di omogeneità è stata molto discussa: mancherebbe un argomento a sostegno nei versi precedenti. 64 Traduciamo l’espressione τι μᾶλλον genericamente come «qualcosa di più»: Coxon accentua il valore intensivo del comparativo («any more in degree»). 65 McKirahan (p. 197) sottolinea come συνέχεσθαι suggerisca non tanto continuità quanto «holding together», tenersi insieme, e accosta il significato 158 né [lì] qualcosa di meno66, ma è 67 tutto pieno68 di ciò che è69 . [25] È perciò tutto continuo70: ciò che è si stringe71 infatti a ciò che è72 . del verbo a quello dell’attributo ὁμοῦ πᾶν (v. 5), che egli traduce come «all together». Robbiano (p. 130) segnala come συνέχεσθαι possa riferirsi a unioni strette: l’unione sessuale di individui o le estremità annodate di una cintura. Il senso è comunque quello di estrema coesione. 66 Rendiamo τι χειρότερον come «qualcosa di meno», per rimanere coerenti con la scelta effettuata traducendo τι μᾶλλον. Coxon (p. 204) sottolinea ancora il valore intensivo dell’aggettivo: Parmenide in questo senso avrebbe usato χειρότερον (inferiore) e non *hsson (meno). 67 Intendiamo ἐόν come soggetto sottinteso; altri intendono πᾶν come soggetto («but all is full of Being», Tarán). 68 L’espressione πᾶν ἔμπλεόν ἐόντος vuol marcare come ciò che esiste è solo l’essere, quindi esso è continuo, omogeneo, “denso” d’essere (uguale in tutto e per tutto a se stesso). Tarán (p. 108) osserva come la continuità sia dedotta dalla omogeneità. Coxon (p. 204) parafrasa: «Being is adjacent to Being», che implica l’assenza di qualsiasi cosa di diverso dall’Essere. McKirahan (p. 197) insiste invece sulla completa pienezza di ciò che è, che consegue dal bando di «non è». Si tratterebbe, nella sua lettura complessiva di B8, di un “segno” fondamentale, che riformulerebbe πάμπαν πελέναι del v. 11, cui essenzialmente si riferirebbero molti altri attributi. Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., p. 50), sottolineando come il contesto non sia quello di un’analisi fisica, ma di una considerazione ontologica (condotta alla luce della distinzione fondamentale tra Essere e Non-Essere), insiste nell’intendere l’espressione πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος come rilievo della «pienezza ontologica» (ontological plenitude) che non ha nulla da condividere con spazialità fisica, vuoto e massa. 69 McKirahan (p. 197) sottolinea il nesso tra πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος e πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (v. 22): egli, infatti, intende in entrambi i casi πᾶν avverbialmente (come nel successivo v. 25 ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν), così che ἔμπλεόν ἐόντος risulterebbe equivalente a ὁμοῖον. 70 Ovvero «coeso». Riformulazione dell’inziale indivisibilità: Coxon (p. 204) osserva giustamente che, a parte la solitaria occorrenza di ἕν nel v. 6, ξυνεχὲς è l’unico termine parmenideo per «uno». McKirahan traduce diversamente il greco: dal suo punto di vista (p. 224), la relazione con συνέχεσθαι suggerisce di valorizzare il fatto che ciò che è «si tiene insieme» (holds together); così in vece di «continuo», con la sua ambiguità spazio-temporale, egli preferisce usare per ξυνεχὲς la formula, di difficile resa italiana, «holding together». 71 Il verbo πελάζω suggerisce l’idea di avvicinamento. In questo senso potrebbe essere tematicamente collegato tanto alla via quanto al viaggio che trascorre 159 Inoltre73, immobile74 nei vincoli75 di grandi catene76 , lungo la via, seguendo i suoi segni. Robbiano (p. 133) insiste nel cogliere nella immagine ἐὸν ἐόντι πελάζει la suggestione dell’ultimo passo di un viaggio che si avvicina alla sua meta: l’Essere. 72 Abbiamo qui un passaggio in cui è dato intravedere come, facendo leva sui due "assiomi" di B2 - «è e non è possibile non-essere», «non è ed è necessario non-essere» - e dunque escludendo sistematicamente il ricorso al non-essere, Parmenide abbia potuto superare, nella nozione di τὸ ἐόν, la molteplicità dispersa degli enti, uniti e omogenei nell'«essere». In effetti Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 153) osserva come questi versi documentino il «continuo», dimostrando razionalmente il contatto di «ciò che è» con «ciò che è»: l’unità dell’essere sembrerebbe non escludere una sorta di molteplicità. Egli pone giustamente in relazione questo passo con B4. McKirahan (p. 197) sottolinea invece il valore figurato dell’espressione: una interpretazione letterale susciterebbe difficoltà. 73 Improbabile che nel contesto αὐτὰρ abbia valore avversativo: preferiamo attribuirgli valore progressivo (vedi Curd, The Legacy of Parmenides, cit., pp. 83-4). 74 L’aggettivo verbale ἀκίνητον può discendere dalla voce attivo-passiva o da quella media di κινέω: nel primo caso il suo significato sarebbe «non suscettibile di essere mosso dal proprio luogo»; nel secondo «non capace di muoversi dal proprio luogo» (Mourelatos, op. cit., pp. 117-120). Tarán giustamente sottolinea il nesso tra ἀκίνητον e ἀτρεμὲς (v. 4). L’aggettivo ἀκίνητον si riferirebbe sia alla immobilità sia, più in generale, alla immutabilità. Su questo si veda il commento. Una nuova, convincente luce sulla questione è stata – a nostro avviso – proiettata dalla lettura di McKirahan (p. 200), il quale insiste sul contesto immediato: «immobile» ha a che fare con i limiti dei grandi legami piuttosto che con assenza di generazione e corruzione. I vv. 27-28 ricavano dai precedenti vv. 6-21 due ulteriori conseguenze dell’essere ingenerato e incorruttibile, cioè senza inizio o fine, di «ciò-che-è» (ἐόν). Attributi che non hanno in alcun modo a che vedere con l’assenza di moto. Nel contesto l’espressione «immobile» coinvolgerebbe l’idea della natura fissa, limitata e costretta di ciò-che-è. In questa prospettiva rimane aperta la questione circa le convinzioni parmenidee sul movimento o cambiamento di ciò-che-è. Thanassas (p. 51) privilegia nella propria lettura un’immobilità fondata nell’assenza di relazioni con il Non-Essere: Parmenide escluderebbe il «movimento ontologico» che avvicina Essere e Nulla. 75 Ovvero «nei limiti» (πείρασι). Mourelatos (pp. 117-9) mostra efficacemente come alla nozione omerica di κινεῖν fosse associata non la nostra idea di traslazione rispetto a un punto di riferimento stazionario, ma quella di uscita, allontanamento da una posizione originaria e dai suoi limiti: il caso paradigmatico sarebbe, insomma, quello di "e-gresso", concettualmente 160 è senza inizio e senza fine77, poiché nascita e morte sono state respinte78 ben lontano79: convinzione genuina80 [le] fece arretrare. contrastante con la nozione di ὁδός («via»). Mentre il viaggiatore lungo la via raggiunge il luogo di destinazione, colui che si muove, invece, abbandona il suo luogo, supera, appunto, i suoi limiti. Il concetto di «via» è centripeto, quello di κινεῖν è centrifugo. La locomozione, in questo senso, sarebbe qualcosa di simile a un autoestraniamento: muoversi è essere oltre sé stessi, essere dove uno non è: è questa nozione di locomozione a essere oggetto di attacco nel paradosso della freccia di Zenone. Si esprime l’idea – arcaica, ma ancora operante in Aristotele (la teoria dei luoghi naturali) che il luogo di una cosa, con i suoi limiti-confini, sia parte della sua identità. La relazione tra ἀκίνητον e πείρατα escluderebbe dunque la locomozione intesa come moto assoluto, "e-gresso" dal proprio luogo specifico. 76 Giustamente Cerri (p. 229) segnala il cambiamento nel registro espressivo dell’autore, il cui linguaggio «torna alle movenze epiche del proemio». Questo passaggio, in particolare, è evocativo del mito prometeico, così come giuntoci nel dramma eschileo. Della relativa, breve discussione di Cerri, sembra opportuno valorizzare la possibilità che Parmenide e Eschilo (evitando improbabili contatti diretti) si ispirassero, per il tema dell’incatenamento e della conseguente immobilità, a un modello «già presente nella cultura mitico-filosofica della tarda arcaicità». Non è chiaro, tuttavia, il senso preciso dell’aggettivo «mitico-filosofica». Mourelatos (p. 115, nota), a sua volta, evoca un passo omerico (Odissea VIII, 296-98), che costituirebbe buon parallelo per l’immaginario parmenideo: ἀμφὶ δὲ δεσμοὶ τεχνήεντες ἔχυντο πολύφρονος Ἡφαίστοιο, οὐδέ τι κινῆσαι μελέων ἦν οὐδ’ ἀναεῖραι e tutto intorno le catene ingegnose chiuse, dell’astuto Efesto, ed essi non potevano più muoversi né sollevarsi. 77 Gli aggettivi ἄναρχον ἄπαυστον marcano la peculiare immutabilità dell’Essere, diversa dalla immobilità di ciò che si genera e corrompe. Per questo potrebbero implicare – se si accetta la lezione adottata – la formula ἠδ΄ ἀτέλεστον del v. 4. Coxon (p. 206) vi coglie un’eco delle affermazioni di Anassimandro (DK 12 A15): οὐ ταύτης ἀρχή, [...] ἀ θ ά ν α τ ο ν γὰρ καὶ ἀ ν ώ λ ε θ ρ ο ν di esso non c'è principio [...] immortale e indistruttibile. 161 Identico e nell’identica condizione81 perdurando82, in se stesso83 riposa84 , 78 All’aoristo ἐπλάχθησαν è possibile associare sia un significato attivo (Coxon: «becoming and perishing have strayed very far away»), sia un significato passivo (indicato in questo caso da Liddel-Scott): come suggerisce O’Brien (p. 53), il secondo emistichio del verso giustifica la resa passiva. 79 Coxon ricorda (p. 207) come l’espressione τῆλε μάλa occorra una sola volta in Omero ed Esiodo, dove si allude alla distanza del Tartaro: Parmenide potrebbe usarla per marcare analoga distanza dall’Essere di generazione e corruzione. 80 Traduco πίστις ἀληθής non con «reale credibilità» - come in B1.30: il diverso contesto – in particolare la sua impronta argomentativa, autorizza una differente accentuazione del valore di πίστις, intesa come convinzione, convincimento che scaturisce dall’esame condotto correttamente. In effetti il termine ha un suo specifico uso giudiziario (Heidel citato da Tarán p. 113), in cui designa l’evidenza o la prova addotta in tribunale. Il legame con la Realtà\Verità, espresso dall'aggettivo ἀληθής (reale, vera, veritiera, genuina), tuttavia, suggerisce di privilegiare il significato di convinzione. 81 L’espressione greca ἐν ταὐτῷ μένει è idiomatica, con valore variabile tra «restare nello stesso luogo» e «restare nello stesso stato» (Cerri p. 231). Heitsch (p. 172) e Coxon (p. 207) insistono piuttosto sulla condizione, Coxon escludendo il significato locale (come confermerebbe l’uso analogo dellespressione in Epicarmo, Sofocle, Euripide, Aristofane). Abbiamo privilegiato la seconda lettura per la sua portata più generale rispetto ai fenomeni del mutamento che Parmenide intende escludere dall’essere. McKirahan (p. 201) interpreta tutto il passo come una nuova sottolineatura del fondamentale rilievo della pienezza di ciò-che-è, riformulato nel linguaggio del limite, dei legami e della costrizione: in questo senso «identico e nell’identico» sarebbero implicazioni di «è pienamente». Anche le scelte verbali - «perdurare», «rimanere», «riposare» - supporterebbero questa lettura: ciò-che-è è pienamente e non può cessare di essere in quel modo. 82 L'intero verso 29 sembra evocare il frammento DK 21 B26 di Senofane: αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι μίμνει κινούμενος οὐδέν οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι Sempre nello stesso posto permane, e per nulla si muove, né gli si addice spostarsi ora in un posto ora in un altro. 83 McKirahan (p. 201) rileva come καθ΄ ἑαυτό possa significare sia «per sé», «solo», «solitario», ma anche «indipendente» (prossimo al valore che gli darà Platone in riferimento alle Idee). Nella sua prospettiva si tratta di una 162 [30] e, così, stabilmente85 dove è86 persiste87: dal momento che Necessità88 potente89 espressione plausibile per descrivere qualcosa che è pienamente e non può cessare di essere in quel modo. 84 Opportunamente Conche (p. 155) richiama, per contrasto, le posizioni di Eraclito e, soprattutto, nell’accentuazione dello spirito eracliteo, di Epicarmo DK 23 B2.9: ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει ora ciò che muta non rimane mai nel medesimo posto. I versi 29-30 sembrano riecheggiare, in negativo, quella concezione. Mourelatos (p. 119) osserva come la formula καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται manifesti noninterazione: il v. 29, dunque, esprimerebbe a un tempo, nella sua prima parte, autocontenimento e autoconsistenza, nella seconda parte isolamento, risultando complementare all’attributo ἀδιαίρετον. Thanassas (p. 52) valorizza il nesso tra ἐόν e identità: la saldezza dell’eon non si ridurrebbe alla semplice immobilità, al rifiuto di ogni relazione con il Non-Essere, ma scaturirebbe anche dal rilievo della identità (sameness) dell’eon con se stesso. 85 Rendiamo avverbialmente ἔμπεδον, che indica stabilità, fissità: come correttamente osserva McKirahan (p. 200), il termine nei suoi valori copre complessivamente le tre condizioni elencate al v. 29. 86 Traduciamo in questo modo αὖθι per evitare «qui», «là», che appaiono limitativi e troppo immediati (anche se non è da escludere a priori che proprio tale immediatezza fosse ricercata dall’autore). Conche (p. 156), invece, preferisce «qui», che indicherebbe – in parallelo con νῦν che è un «ora» non temporale – un «qui» non spaziale. 87 Come segnalano i commentatori, ἔμπεδον αὖθι μένει è formula epica, che richiama il celebre episodio in cui Odisseo si fa legare all’albero maestro della nave per resistere al canto delle Sirene (Odissea XII, 160-2): ἀλλά με δεσμῷ δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι μίμνω, ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνήφθω ma con funi saldissime dovete legarmi, perché io resti immobile, ritto alla base dell’albero – ad esso siano fissate le corde. Nel nostro contesto il valore della espressione non è tanto locale quanto temporale: segnala l’esenzione dell’essere da qualsiasi variazione temporale (Coxon p. 208). Ruggiu (p. 299) sottolinea il carattere militare di ἔμπεδον μένει: «stare saldo in battaglia». In gioco sarebbe non la stabilità spaziale o 163 nelle catene del vincolo90 [lo] tiene, che tutto intorno lo rinserra91 . temporale, ma l’esclusione di ogni alterità e il radicamento dell’identità. Come già segnalato in relazione a ἀτρεμὲς, McKirahan (p. 210) suggerisce una sostanziale sinonimia tra i due aggettivi: entrambi esprimerebbero il fatto che «ciò-che-è» è pienamente e non può cessare di essere pienamente, effetto dei limiti che costringono la natura di ciò-che-è. 88 Intendiamo Ἀνάγκη come nome proprio. Come Giustizia e Moira, Necessità è figura tradizionale e incarnazione della ineluttabile legge del destino (Tarán p. 117). Mourelatos, che identifica Necessità, Fato, Giustizia e Persuasione, traduce come «Constraint»: l’immagine della Costrizione che tiene ciò-che-è nel suo luogo rafforza la sua tesi secondo cui ἀκίνητον escluderebbe la locomozione intesa come moto assoluto, egresso dal proprio luogo specifico (pp. 118-9). Dalla triangolazione Giustizia, Fato (Moira), Costrizione risulterebbe che in Parmenide il concetto di rettitudine (Giustizia) assimila il concetto di necessità (Mourelatos p. 120). In un classico lavoro dedicato al concetto (W. Gundel, Beiträge zur Entwicklungsgeschichte der Begriffe Ananke und Heimarmene, Giessen 1914), Gundel individuò il significato di Ἀνάγκη nel passo in questione come Naturnotwendigkeit. Schreckenberg (H. Schreckenberg “Ananke. Untersuchungen zur Geschichte des Wotgebrauchs“, «Zetemata» 36, München 1964, pp. 1-188, cap. I) ne ha invece marcato la connessione tematica con altri termini, come giogo, catene, corde, con l’idea di legame, imprigionamento, schiavitù, rilevando così come sotto ananke non si sia in grado di scegliere che cosa fare. L’immagine platonica di σύνδεσμος τοῦ οὐρανοῦ avrebbe origine proprio in ambiente pitagorico, come Schreckenberg cerca di provare appoggiandosi alla testimonianza di Aëtius – Πυθαγόρας ἀνάγκην ἔφη περιεχεῖσθαι τῷ κόσμῳ - e collegandola alla nozione pitagorica di ἄντυξ κόσμου («limite del cosmo») e all’abbraccio cosmico di Ananke. In questo senso essa avrebbe la funzione di “destino” o “legge di natura”: qualcosa che si può esprimere in termini di legami che vincolano, l’uomo o l’universo (pp. 75-6). 89 L’espressione κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη richiama l’esiodea (Teogonia 517 ss.) κρατερῆς ὑπ’ ἀνάγχης, nella descrizione di Atlante che «sostiene l’ampio cielo per una potente necessità ai confini della terra», come segnalano vari commentatori. 90 Ovvero «nelle catene del limite» (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν). Ancora l’insistenza sui vincoli, ancora da intendere sostanzialmente in senso logico, nonostante la tendenza da parte di alcuni interpreti a insistere sui limiti spaziali. L’associazione di Giustizia (v. 14) e Necessità suggerisce in effetti a McKirahan (p. 200) che in gioco siano soprattutto forza e\o costrizione. Nel riferimento ai vincoli e alle catene Barbara Cassin (“Le chant des Sirènes dans le Poème de Parménide. Quelques remarques sur le fr. 8.34", in 164 Per questo92 non incompiuto93 l’essere [è] lecito che sia94: Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 163-169) ha colto un’eco di Odissea XII, 158-162: Σειρήνων μὲν πρῶτον ἀνώγει θεσπεσιάων φθόγγον ἀλεύασθαι καὶ λειμῶν’ ἀνθεμόεντα. οἶον ἔμ’ ἠνώγει ὄπ’ ἀκουέμεν· ἀλλά με δεσμῷ δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι μίμνω, ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνήφθω Per prima cosa ci impone delle Sirene di evitare il canto e il loro prato fiorito. Posso ascoltarlo solo io, ma con fune saldissima dovete legarmi, così che io resti immobile, ritto alla base dell’albero – ad esso siano fissate le funi. 91 Il confinamento da parte di Necessità-Costrizione è paradigmatico della concezione tradizionale greca per cui giustizia è mantenere il proprio luogo specifico, rispettare il proprio ruolo (Mourelatos, p. 119). 92 La congiunzione οὕνεκεν ha etimologicamente (οὗ ἕνεκεν) il significato di «ragion per cui», «cosa a causa della quale»; ha anche il significato di «poiché», «a causa del fatto che» (privilegiato da Fränkel), e può essere usata come ὅτι con il valore di «che», «il fatto che». Nel contesto preferiamo la resa etimologica (privilegiata da Diels), ritenendo che la perfezione dell’essere sia giustificata in quel che precede, ancorché con il ricorso a un’immagine (la costrizione delle catene di Necessità) di probabile matrice letteraria. 93 Secondo Coxon (p. 208), Parmenide impiegherebbe ἀτελεύτητον nella sua valenza omerica di «unfinished». Rendiamo con «incompiuto», «imperfetto». Mansfeld (p. 100) sottolinea il nesso tra l’essere vincolato e l’essere compiuto e perfetto, recuperando come implicito nel greco anche il valore di «realizzazione» e, di conseguenza, l’idea di un vincolo che legherebbe la cosa alla propria realizzazione. Si veda per questo R.B. Onians, The Origins of European Thought about the Body, the Mind, the Soul, the World, Time and Fate, C.U.P., Cambridge19882 , pp. 426-66. Mourelatos (p. 121) sottolinea come il verbo τελέω sia collegato al motivo del viaggio e abbia un'importante relazione con il verbo ἀνύω (consumare) e forse con l’idea di πεῖρας, come legame circolare. Nell’epica in generale il verbo esprime compimento, realizzazione di promesse, desideri, predizioni e compiti (comprensivi di viaggi). È in relazione a questa idea di compimento che il termine ammetterebbe il valore - più debole - di «fine», nel senso di «estremità» o «termine». 94 Abbiamo cercato di conservare la costruzione del verso greco, forzando la costruzione italiana. 165 non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non essere95, invece, mancherebbe di tutto. La stessa cosa96 invero è pensare97 e il pensiero98 che99 «è»: 95 Intendiamo l’espressione μὴ ἐὸν come participio sostantivo, in contrapposizione al precedente τὸ ἐὸν: quindi «il non essere» ovvero «ciò che non è» (espressione tuttavia meno felice nel contesto). Ci troveremmo in presenza di una articolazione del discorso imperniata su essere (τὸ ἐὸν) e non-essere (μὴ ἐὸν): non è lecito che l’essere sia incompiuto: in effetti non manca di niente; il non-essere, invece, mancherebbe di tutto». D'altra parte, μὴ ἐὸν può essere reso in senso verbale: letteralmente la Dea ipotizzerebbe: «se [l’essere] non fosse [non-manchevole], mancherebbe di tutto». 96 A questo punto avrebbe inizio secondo Mansfeld (p. 101) un excursus che impegnerebbe Parmenide fino al verso 41. Dello stesso orientamento anche Guthrie e Kirk-Raven, cui si oppone, per esempio, Mourelatos (p. 165). Molto convincente la lettura di McKirahan (p. 202): i vv. 34-41 esplorerebbero le implicazioni del precedente (B2.7-8) «non potresti conoscere ciò che non è […] né indicarlo». Se qualcosa è possibile conoscere o affermare, deve trattarsi non di «ciò-che-non-è», ma (come conseguenza dell’alternativa) di ciò-che-è. Esiste una proposta (originariamente suggerita da Calogero) di restauro del testo greco da parte di Theodor Ebert ("Wo beginnt der Weg der Doxa? Eine Textumstellung im Fragment 8 des Parmenides", «Phronesis», 34, 1989, pp. 121-138), secondo il quale il blocco di versi 34-41 andrebbe rilocato dopo il verso 52. Come ha di recente sottolineato anche J. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 352-4), il testo guadagnerebbe in coerenza sia nel blocco centrale del frammento, sia in quello conclusivo. Dello stesso avviso Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 32 ss.). Ciò significherebbe, tuttavia, mettere in discussione l'affidabilità della redazione del poema utilizzata da Simplicio (che Diels riteneva «im Ganzen vortrefflich»): come ha sostenuto Passa nella prima parte del suo lavoro, il testo simpliciano ha alle spalle, in misura più accentuata rispetto ad altre fonti, un'interpretazione del poema di Parmenide in chiave neoplatonizzante e pitagorizzante, che può averne alterato la ricezione. Passa si limita tuttavia a indicare scelte espressive, mentre l'ipotesi Ebert (e ora Palmer e Ferrari) implica un vero e proprio montaggio del testo, aprendo una serie di possibili altri problemi testuali relativi ad altri passaggi dei codici manoscritti. A Ebert va dato atto, nello specifico, di aver sollevato un problema serio: nessun'altra fonte antica cita il v. 34 dopo il v. 33 o il v. 42 dopo il v. 41. 97 Rendiamo ἐστὶ νοεῖν letteralmente. Sulla traduzione, tuttavia, esiste grande discordanza. Prevalgono due orientamenti, che optano per una resa diversa: (i) «thinking is» (Owen, Sedley); (ii) «is to be thought» (Mourelatos), «is there to be thought» (Kirk-Raven-Schofield), «is for thinking» (Curd). McKirahan (p. 203) traduce «is to be thought of» intendendo l’espressione 166 [35] giacché non senza l’essere, in cui100 [il pensiero] è espresso101 , come un richiamo di B2.2: ciò che è disponibile per il pensiero (ovvero “per essere pensato”). 98 Intendiamo il verso nel suo insieme come una ricapitolazione di B3 (a sua volta conclusione di B2): ciò che è è l’unico reale oggetto del pensiero. Solo ciò che è è disponibile come oggetto del pensiero e non esiste altro oltre ciò che è: quindi solo ciò che è può essere pensato (McKirahan, pp. 203-4). Sulla scorta di questa interpretazione, McKirahan suggerisce di interpretare anche l’affermazione di B5: «indifferente è per me donde debba iniziare: là, infatti, ancora una volta farò ritorno». 99 Intendiamo οὕνεκεν, in questo caso, come congiunzione equivalente a ὅτι («che»), come, tra gli altri, Calogero («La stessa cosa è il pensare e il pensiero che è»), Guthrie («What can be thought [apprehended] and the thought that “it is” are the same»), Tarán («It is the same to think and the thought that [the object of thought] exists»), O’Brien («C’est une même chose que penser, et la pensee : “est”»), Conche («C’est le même penser et la pensée qu’il y a»), Cassin («C'est la même chose penser et la pensée que "est"»). L'alternativa è rendere οὕνεκεν come formula pronominale, composta dal pronome neutro (caso genitivo) + preposizione. Questa lettura è difesa – tra gli interpreti recenti - da Reale («Lo stesso è il pensare e ciò a causa del quale è il pensiero»), Coxon («The same thing is for conceiving as is cause of the thought conceived»), Heitsch («Dasselbe aber ist Erkenntnis und das, woraufhin Erkenntnis ist»), Cerri («La stessa cosa è capire e ciò per cui si capisce»), Cordero («Thinking and that because of which there is thinking are the same»), Gemelli Marciano («Dasselbe ist zu denken und das, was den Gedanken verursacht»). Diels, intendendo come τὸ οὗ ἕνεκα con valore finale (ciò in vista di cui), aveva reso: «Denken und des Gedankens Ziel ist eins». Lo ha seguito Beaufret («Or c’est le même, penser et ce à dessein de quoi il y a pensée»). Lunga disamina critica in Tarán, pp. 120-3. Di recente McKirahan (p. 203) ha difeso la lettura causale di οὕνεκεν, ma ha avanzato l’ipotesi suggestiva che l’espressione abbia contemporaneamente anche una sfumatura finale. 100 Per evitare la difficoltà di una traduzione che sottolinea come il pensiero sia espresso «nell’essere», sono state proposte varie alternative. Zeller, Burnet, Cornford, Raven (tra gli altri) preferiscono rendere ἐν ᾧ con una perifrasi: «a soggetto del quale», «in riferimento al quale», «rispetto al quale». A conclusione di una lunga discussione (pp. 123-8), Tarán (seguendo Albertelli e Mondolfo) propone «in what has been expressed». A questa traduzione (cui ricorre anche Sedley) sono state tuttavia opposte obiezioni di ordine grammaticale (si veda Robbiano, p. 170). La Robbiano (pp. 169-170) intende ἐν ᾧ come equivalente a ἐν τούτῳ ἐν ᾧ, proponendo τὸ νοεῖν come soggetto di πεφατισμένον ἐστίν. Il passo in traduzione risulta quindi: «for without Being you will not find understanding in that where understanding 167 troverai il pensare. Né102, infatti, esiste, né esisterà altro oltre103 all’essere104, poiché105 Moira lo ha costretto106 a essere intero e immobile107. Per esso108 tutte le cose saranno nome109 , has been given expression». In questo caso ἐν ᾧ non si riferirebbe a τὸ ἐόν, ma a una formula implicita per «le mie parole, i versi del mio poema». La dea spiegherebbe, insomma, che non si può trovare νοεῖν in ciò che esprime νοεῖν, se non si trova l’Essere (τὸ ἐόν): per raggiungere la comprensione non è sufficiente ascoltare le parole della dea, ma si deve trovare l’Essere. Preferiamo, come versione più naturale, la traduzione (per lo più adottata dagli interpreti recenti) che risale a Diels («denn nicht ohne das Seiende, in dem sich jenes ausgesprochen findet, kannst Du das Denken antreffen»). 101 Secondo Ruggiu (p. 303, nota), πεφατισμένον indicherebbe non solo che il pensiero è manifestativo dell’Essere, ma che l’Essere è tale in quanto fondamento di ogni manifestabilità. In questo senso, πεφατισμένον sarebbe equivalente a φατὸν e νοητόν (B8.8) e οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις (B2.7-8). 102 Rendiamo le due congiunzioni < ἢ >... ἢ precedute da οὐδὲν come «né…né». 103 La formula ἄλλο πάρεξ è adattamento di analoga formula epica (ἄλλα παρὲξ). 104 Secondo Mansfeld (p. 101) Parmenide affermerebbe in questo passaggio l’identità di pensiero e essere, implicando che il pensiero non possa essere qualcosa di altro, indipendente, contrapposto all’essere o comunque estraneo a esso. 105 Anche in questo caso è la costrizione della divinità di turno (Moira) a giustificare compiutezza e unicità dell’essere parmenideo. 106 Si ripete, con ἐπέδησεν, la suggestione dell’incatenamento, della costrizione (da intendere, fuor di metafora, in senso logico). La formula μοῖρ΄ ἐπέδησεν è epica. 107 Le due connotazioni - οὖλον ἀκίνητον – marcano l’integrità e immutabilità, reiteratamente richiamate nel frammento. Per ἀκίνητον, tuttavia, vale quanto segnalato sopra: la sua comprensione, come suggerisce McKirahan, è probabilmente da collegare alla metafora dei legami e della costrizione. Così, l’integrità di ciò che è (espressa da οὖλον) è sostenuta dall’immagine della costrizione a essere pienamente ciò che è. 108 Seguiamo Palmer (op. cit., pp. 171-2) nell'intendere τῷ come pronome relativo (riferito a τὸ ἐόν): dal momento che egli accoglie la lettura πάντ΄ ὀνόμασται del secondo emistichio, la sua traduzione risulta: «to it all things have been given as names». Lo studioso si appoggia a una costruzione analoga presente in Empedocle B8.4: φύσις δ’ ἐπὶ τοῖς ὀνομάζεται ἀνθρώποισιν 168 quante i mortali stabilirono110, persuasi che fossero reali111: [40] nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo112 e mutare luminoso colore113 . natura è data come nome a questi [processi di mescolanza e separazione] dagli uomini. La resa pronominale di τῷ è comunque assolutamente compatibile anche con la lezione Diels-Kranz da noi adottata: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται Per esso [τὸ ἐόν] tutte le cose saranno nome. Per lo più gli editori hanno reso τῷ con valore assoluto come «perciò». 109 Il greco ὄνομα è singolare, per marcare l’identità nominale dei neutri plurali πάντα e ὅσσα: genericamente cose, eventi, fenomeni, la cui natura mutevole si rivela solo nome. La lezione alternativa dei codici di Simplicio - τῷ πάντ΄ ὀνόμασται - è variamente tradotta: «wherefore it has been named all things» (Gallop), attribuendo a τῷ valore avverbiale, ma anche «With reference to it [the real world], are all names given» (Woodbury), intendendo τῷ come un dimostrativo riferentesi a τὸ ἐὸν, ovvero (Leszl p. 231) «in relazione a questo è assegnato, come nome». Da osservare che una lunga tradizione risalente a Diels, ha tradotto l’emistichio introducendo un implicito aggettivo peggiorativo (blosser, ovvero «mero») al sostantivo «nome», assolutamente assente nel testo greco. Una diversa tendenza si è manifestata nelle versioni degli ultimi decenni. 110 Il verbo κατέθεντο ricorre tre volte nei frammenti del poema (qui, in B8.53 e B19.3): sottolinea la matrice linguistica della ordinaria comprensione del mondo. 111 Il greco è ἀληθῆ. McKirahan (p. 202) ha, secondo noi, correttamente colto il senso complessivo del passo: i vv. 34-38 argomentano che l’unico possibile oggetto di pensiero e linguaggio è ciò-che-è; i vv. 38-41 ricavano la conclusione che, a prescindere da ciò cui i mortali pretendano di riferirsi nei loro pensieri e discorsi, ciò cui essi realmente (veramente) pensano e possono pensare è ciò-che-è. Ciò-che-è è l’oggetto dei loro pensieri, anche di quei pensieri che ricorrono a formule proibite come generazione e corruzione. Leszl (p. 231) osserva come la tesi di Parmenide sarebbe che i «mortali» applicano all'essere – commettendo un errore – tutte le designazioni: il loro errore consisterebbe dunque nell'imporre nomi all'essere stesso, non nell'applicarli alle cose. 112 Tarán (pp. 138-9) ammette che, nella espressione τόπον ἀλλάσσειν, il sostantivo τόπος molto probabilmente significa «spazio vuoto». Parmenide, tuttavia, non sarebbe qui interessato a una polemica nei confronti dei 169 Inoltre, dal momento che [vi è]114 un limite115 estremo116, [ciò che è] è compiuto117 da tutte le parti118, simile119 a massa120 di ben rotonda121 palla122 , sostenitori della esistenza del vuoto, ma solo a rilevare la contraddittorietà del fenomeno del moto locale. 113 Il secondo emistichio - διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν – è variamente tradotto. Coxon (pp. 211-2) rende con «change their bright complexion to dark and from dark to bright». Come Reinhardt, egli coglie un'allusione alla successiva teoria (DKB9) della composizione degli enti. Le differenze nelle traduzioni dipendono soprattutto dall’intendere χρόα – accusativo di χρώς, «colore» - come χροιά ovvero χρόα, «superficie». O’Brien (p. 56) sottolinea come al significato di «complessione» (cui si riferisce anche Coxon) sia nel contesto da preferire quello più generico di «colore». 114 La proposizione introdotta da ἐπεί può omettere ἐστι: la traduzione può renderlo in questo caso come predicato verbale (come abbiamo fatto) ovvero come copula: «il limite è estremo». 115 Mourelatos (pp. 128-9) nota come l’immagine dei legami e dei limiti si faccia progressivamente «più plastica e concreta» man mano che B8 procede, per raggiungere il proprio culmine appunto in questo passaggio. 116 L’aggettivo πύματος significa «estremo», «ultimo»: in Omero indica, per esempio, il bordo estremo di uno scudo, ciò che lo limita e oltre il quale non c’è più scudo (Conche p. 176). 117 L’espressione τετελεσμένον πάντοθεν indica la completezza di ciò che è, risultando equivalente di πάμπαν πελέναι. Come ha convincentemente marcato McKirahan (pp. 212-213), le indicazioni spaziali, letteralmente disseminate nei vv. 42-49, possono essere intese anche in senso metaforico. Si tratta di naturali sviluppi della nozione di πέρας, le cui prime occorrenze, anche in ambito filosofico, hanno a che fare con i limiti spaziali, ma che presto è usata anche per altre finalità, non spaziali (come attesta il contemporaneo di Parmenide Eschilo). Thanassas (pp. 53-4), dal canto suo, valorizza una interessante implicazione: il limite che abbraccia e conserva l’interezza del reale (preservandola dal Non-Essere), consente da un lato di riconoscere l’eon «completo da ogni lato», dall’altro di intendere tutte le apparenze (appearances) come equivalenti, come esseri. Ciò richiamerebbe l’affermazione conclusiva della dea nel proemio, che nella versione accolta da Thanassas e da noi condivisa suona: διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα, «tutte insieme davvero esistenti». 118 L’avverbio πάντοθεν, sia che lo si intenda riferito a τετελεσμένον ἐστί (come nel nostro caso), sia che lo si riferisca, invece, a εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, sembra esprimere comunque un punto di vista, una prospettiva “esterna” (Mourelatos p. 126). Come, d’altra parte, per lo più 170 suggeriscono anche le altre immagini del frammento (lacci, legami, catene che rinserrano tutto intorno). 119 L’aggettivo ἐναλίγκιον introduce indubbiamente una comparazione, che tuttavia non si riferisce, si badi bene, direttamente a σφαῖρη (palla, sfera), ma a ὄγκος (massa, estensione). 120 Il termine ὄγκος può tradursi come «massa», volume fisico (Coxon p. 214): in tal senso è da intendersi dunque la «ben rotonda palla». Parmenide si riferisce probabilmente all'estensione fisica, tridimensionale, e alla forma geometrica compiuta. Conche (p. 177) suggerisce «grosseur» o «corps». Di recente McKirahan (pp. 213-4), riprendendo la questione, ha ritenuto significativo che Parmenide non dica che «ciò-che-è» è una sfera o simile a una sfera, ma «simile al corpo di una sfera», una espressione giudicata «inaspettatamente elusiva». Non si tratterebbe, infatti, né di massa (nel senso di peso) della sfera, né della sua misura, né di altre qualità fisiche, né, pur avendo a che fare con la forma della sfera, di forma o superficie. L’espressione potrebbe approssimativamente tradursi come «estensione fisica»: «fisica» per suggerire che non si tratta di astratta nozione geometrica; «estensione», in vece di «misura», per evitare la tentazione di pensarla come una quantità determinata. Mourelatos (p. 126) aveva a suo tempo segnalato il fatto che ὄγκος è espressione parmenidea per estensione tridimensionale e che il carattere che essa accentua rispetto alla sfera è la forma. 121 Come suggerisce Mourelatos (p. 127), intendendo πάντοθεν riferito a εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, l’aggettivo εὔκυκλος definirebbe un oggetto che, osservato da tutte le parti, ha il contorno di un cerchio perfetto. Come abbiamo in precedenza ricordato, Tonelli (p. 117 e pp. 133-4) ha sottolineato il nesso tra εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ - riferito a τὸ ἐὸν – e ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ (B1.29): la forma sferica è forma archetipica della perfezione e della totalità. 122 Seguo Leszl (p. 211) nel tradurre σφαῖρη come «palla», analogamente all’omerico σφαίρῃ παίζειν (giocare a palla). Ciò rende più efficace l’accostamento: Leszl osserva che «se l’essere fosse detto «simile a una sfera», l’implicazione potrebbe essere che esso non è veramente una sfera, mentre se è detto «simile a una palla», la giustificazione per quest’affermazione può essere precisamente che è una sfera». L’espressione εὐκύκλου σφαίρης ὄγκῳ rivelerebbe invece, secondo Coxon (p. 214), che Parmenide qui non intende genericamente un corpo a palla, ma proprio la sfera (σφαῖρη), la cui perfetta rotondità è sottolineata dall’epiteto εὐκύκλου. In ogni caso è ancora da osservare – con Mourelatos (p. 126) - come la comparazione proposta non sia direttamente tra ciò-che-è e una palla, piuttosto tra la completezza di ciò-che-è e l’espansione-estensione di una palla perfetta, ben-rotonda. L’analogia si riferirebbe alla curvatura esterna della sfera. 171 a partire dal centro123 ovunque di ugual consistenza124: giacché è necessario che esso non sia in qualche misura di più, Diels e Brehier hanno voluto cogliere dietro l’espressione l’influenza pitagorica: essa alluderebbe, quindi, a una immagine geometrica. Conche (p. 177) ribatte marcando come, in tal caso, non avrebbe senso precisare εὐκύκλου. L’immagine sarebbe invece «fisica». Il sostenitore più coerente della natura geometrico-spaziale dell’Essere parmenideo è De Santillana (Le origini del pensiero scientifico, Sansoni, Firenze 1966): l’Essere sarebbe il risultato di un processo di astrazione in cui Parmenide avrebbe tenuto presenti spazio del matematico e spazio del fisico. L’Essere sarebbe dunque un plenum, un'estensione corporea densa, cristallina: la realtà fisica non sarebbe illusoria, ma avrebbe luogo nello spazio geometrico, occupandolo. Coerentemente con la propria interpretazione dei segni come indici della consapevolezza cognitiva del kouros, la Stemich (op. cit., p. 212) ritiene che l’immagine della sfera, cioè della più perfetta di tutte le forme, attesti che la conoscenza dell’essere è la forma più pura del pensiero: la somma facoltà di pensiero del kouros, nel momento della conoscenza dell’essere, è completamente conchiusa in se stessa, coincidendo a tutto tondo con la verità della Dea. 123 Dal momento che è difficile attribuire parti all’essere, il termine μεσσόθεν è stato spesso volto in senso metaforico. Concordiamo con Conche (p. 180), che il centro cui si riferisce la Dea sia quello del mondo e che ella sottolinei come in ogni parte dell’universo l’essere sia lo stesso. Coxon (p. 217), invece, sottolinea come l’equilibrio cui Parmenide allude con μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ sia di carattere «non-fisico», e funga da complemento alla nozione di perfezione universale (somiglianza con il volume della sfera), marcando la sussistenza in se stessa di questa perfezione, la sua totale ed eguale dipendenza dal suo proprio centro. 124 Intendiamo l’espressione μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ come un rilievo della compattezza dell’Essere: ἰσοπαλές concorda con il neutro ἐόν\τὸ ἐόν, non con il maschile ὄγκος (o il femminile σφαῖρη), dunque con il soggetto sottinteso («ciò che è»), non con «massa di ben rotonda palla». Dal centro alla superficie della sfera si esprime la stessa forza (Diels, Tarán), ovvero lo stesso «peso», lo stesso «equilibrio», la stessa «spinta». Ruggiu (p. 309), riprende (da Calogero, Vlastos, Mourelatos e Guthrie) l’idea che l’immagine della sfera esprima una «uguaglianza dinamica»: forza e potenza dell’Essere si estendono in modo uguale dal centro alla periferia e dalla periferia al centro, senza possibilità di differenza alcuna in intensità o potenza d’essere. O’Brien e Conche preferiscono rendere come «uguale a se stesso», privilegiando l’aspetto della omogeneità a quello dinamico dell’aggettivo: è in particolare rilevante la sottolineatura, da parte di Conche (p. 180), di un fatto che nel contesto può sfuggire: ἰσοπαλές si riferisce all’Essere e non alla sfera. Secondo Mourelatos (p. 127) avremmo qui, invece, la definizione 172 [45] o in qualche misura di meno 125 , da una parte o dall’altra126 . Non vi è, infatti, non essere127, che possa impedirgli di giungere a omogeneità128, né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è 129 - qui più, lì meno130, poiché131 è tutto inviolabile132 . di equidistanza: ἰσοπαλές esprimerebbe l’idea di espansione uguale in ogni direzione. 125 Rendiamo in questo modo οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον, per sottolineare l’omogeneità dell’Essere in senso intensivo: non c’è un più o un meno d’essere. Si vedano anche i successivi τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον (v. 48). 126 Ruggiu (pp. 309-10) osserva come perfezione e stabilità dell’Essere non dipendano da vincoli esterni, ma dalla simmetrica distribuzione delle forze interne e dall’assoluta uguaglianza che sussiste tra le parti. 127 Traduciamo letteralmente οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι. Cerri (p. 239) osserva che, in questo caso, οὐκ ἐὸν «significa né più né meno che “vuoto”, “spazio vuoto”, “assenza di essere\materia”». 128 Traduciamo così l’espressione εἰς ὁμόν: il non-essere potrebbe teoricamente interrompere e discriminare l’identità e l’uguaglianza con se stesso di ciò che è. In questa direzione anche le traduzioni di O’Brien («à la similitude ») e Conche («à l’egalité à soi-même»). 129 Utilizziamo la forma dell’inciso (traducendo ἐόντος come «di ciò che è»), per facilitare la lettura in italiano. Avremmo potuto impiegare il pronome «di esso», ma abbiamo scelto di rimanere aderenti alla ripetizione greca. 130 L’espressione τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον ribadisce sostanzialmente omogeneità e uniformità già argomentate, e dunque la pienezza d’essere di ciò che è. Come ha osservato McKirahan (p. 213), Parmenide ha ogni motivo per concludere la trattazione di ciò-che-è sottolineando l’importanza della tesi che «ciò-che-è» è pienamente, esprimendola in modi differenti per catturare l’attenzione del suo pubblico e condurlo a comprendere il suo punto più chiaramente. 131 Recentemente Palmer (op. cit., pp. 157-8) – per evitare di fare del v. 49 (οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει) la ragione (γὰρ) dell'affermazione di v. 48b (πᾶν ἐστιν ἄσυλον), a sua volta proposta a giustificazione (ἐπεὶ) dei vv. 47-48a, che contengono una delle ragioni a sostegno di quanto affermato ai vv. 44b-45, rischiando così la circolarità – ha proposto di inserire un punto prima di ἐπεὶ, legando quindi il v. 48b al v. 49b: «Poiché è tutto inviolabile – dal momento che è a se stesso da ogni parte uguale – uniformemente entro i suoi limiti rimane». In questo modo 173 A se stesso, infatti, da ogni parte uguale133, uniformemente134 entro i [suoi] limiti rimane135 . ἐπεὶ introdurrebbe la ragione per l'affermazione (riassuntiva) finale: «uniformemente entro i [suoi] limiti rimane». 132 Il termine ἄσυλον evoca uno sfondo religioso: ἀσυλία era concetto del linguaggio giuridico religioso e indicava la condizione di inviolabilità di persone o luoghi sacri, associati al culto, la violenza nei confronti dei quali era perseguita, come sacrilegio, con la condanna capitale. Secondo Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 150) l’allusione religiosa andrebbe posta in relazione con la rivelazione del proemio. Nel contesto l’inviolabilità può intendersi come altra faccia della costrizione che tiene insieme ciò che è, che gli impedisce di essere diversamente da come è: impossibilità che gli siano sottratti i suoi attributi o gliene siano imposti altri che non ha (McKirahan p. 213). 133 Parmenide afferma l’eguaglianza dell’essere con se stesso (οἷ πάντοθεν ἶσον) - che esclude non-essere e possibili gradi d’essere – in relazione ai suoi limiti. Come osserva Coxon (p. 216), l’Essere è universalmente uguale a se stesso nel senso che è uniformemente confinato da un limite (ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει), il quale, essendo estremo, non lo divide da qualcos’altro ma lo determina a essere quello che è e identifica la sua perfezione. Mourelatos (p. 127) suggerisce una lettura diversa: in riferimento alla sfera, si valorizzerebbe il fatto che è un oggetto sempre uguale a se stesso, da qualsiasi prospettiva lo si guardi. 134 Così rendiamo ὁμῶς, che si dovrebbe più letteralmente tradurre come «ugualmente», «allo stesso modo». Mourelatos (p. 127) sottolinea come dire di qualcosa che «è presente» ugualmente entro i suoi limiti sia un modo di affermare che è simmetrico. 135 Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 150) traduce κύρει come «tende»: il verbo introdurrebbe un elemento dinamico, in tensione con la precedente connotazione statica dell’essere, presentando l’essere quasi fosse un organismo vivente, che tende a espandersi come un respiro verso i suoi limiti. In questo modo l’essere sarebbe presentato dall’interno: dall’esterno ne sarebbe dunque accentuata l’immobilità, dall’interno il dinamismo. 174 DK B8 vv. 50-61 [50] ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης1 · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας2 ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν -· [55] ἀντία3 δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν 4 , μέγ΄ ἐλαφρόν5 , ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε. [60] τόν6 σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη 7 παρελάσσῃ 8 . 1 Come in B1.29 indendiamo Ἀληθείη come nome divino. 2 I codici DEEa F di Simplicio Phys. 39, 1 riportano γνώμας, forma per lo più accolta dagli editori; i codici DEF di Phys. 30, 23 e DEF2 di Phys. 180, 1 riportano invece γνώμαις. 3 Ι codici DE di Simplicio riportano ἐναντία; alcuni editori leggono τἀντία. 4 Nei codici DE di Simplicio ritroviamo ἤπιον τὸ in vece di ἤπιον ὄν. 5 I codici delle tre citazioni di Simplicio riproducono il verso 57 con evidenti irregolarità metriche, per la presenza di ἀραιόν (rarefatto) prima di ἐλαφρόν. Il testo risulterebbe dunque: «che è mite, molto rarefatto e leggero....». Si è per lo più ritenuto che uno dei due aggettivi fosse glossa dell'altro, con conseguente espunzione. La versione del testo che suggeriamo è quella per lo più adottata. Cerri, che sceglie di conservare il testo dei codici, senza espunzioni, in una lunga nota testuale, con grande acribia ricostruisce la probabile fisionomia del testo di Simplicio in questa forma:ἤπιον ἀραιόν ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν. Da osservare che il termine ἀραιόν («raro», «rarefatto») è probabilmente da considerare un termine tecnico della cosmogonia milesia (Anassimandro DK 12 A22, Anassimene DK 13 B1). Al contrario, il termine ἐλαφρόν non è attestato nel linguaggio fisico presocratico. Coxon (p. 223) considera ἀραιόν certamente parmenideo, in quanto utilizzato come opposto di πυκνόν da Melisso e Anassagora e nella tradizione dossografica sulla fisica di Parmenide. 6 L'aggettivo dimostrativo τόν è concordato con διάκοσμον. Karsten propose di correggere il testo dei codici con τῶν. Il senso sarebbe allora: «relativamente a queste cose, io ti espongo ordinamento del tutto verosimile». 175 [Fonti principali: vv. 1-52 Simplicio, In Aristotelis Physicam 145-146; vv. 50-61 Simplicio, In Aristotelis Physicam 38-39] 7 Nella trascrizione dei codici, alcuni editori (Stein, tra i contemporanei seguito tra gli altri da Coxon, O'Brien) intendono γνώμῃ. Il significato complessivo del verso cambia di poco: «così che nessuno dei mortali possa esserti superiore nell'opinione» ovvero «nel giudizio» (o «practical judgement» Coxon). 8 I codici Ea F di Simplicio riportano παρελάσση, i codici DE παρελάση: gli editori hanno corretto in παρελάσσῃ. 176 [50] A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile1 e al pensiero intorno a Verità2 ; da questo momento3 in poi opinioni4 mortali5 impara6 , l’ordine7 delle mie8 parole9 ascoltando10, che può ingannare11 . 1 L'aggettivo πιστὸν è immediatamente riferito a λόγον, ma può riferirsi anche a νόημα: in qualche caso le traduzioni scelgono questa strada. Qui abbiamo preferito mantenere distinti i due oggetti - πιστὸν λόγον e νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης – che ci sembrano reiterare e rafforzare lo stesso concetto. 2 Si potrebbe rendere νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης – e si deve comunque intendere - anche come «pensiero intorno alla realtà». 3 I due versi 50-51 segnano il passaggio tra una sezione l'altra: la conclusione della Verità è segnalata da ἐν τῷ σοι παύω, l'attacco della Doxa da ἀπὸ τοῦδε [...] μάνθανε. 4 Ovvero «convinzioni» o «considerazioni». 5 L'espressione δόξας βροτείας – in considerazione del soggetto divino della comunicazione - potrebbe forse rendersi semplicemente con «opinioni umane». 6 L'imperativo μάνθανε riprende, nell'introdurre la sezione sulla Doxa, il programmatico futuro μαθήσεαι di B1.31. Cerri (p. 242) sottolinea il valore "scientifico" che il verbo venne ad assumere all'epoca, non indicando il mero ascoltare e memorizzare, ma «l'essere fatto partecipe di una elaborazione scientifica, di una dimostrazione rigorosa ed esaustiva». Interessante soprattutto ritrovare un verbo come μανθάνω, senza dubbio positivamente connotato in termini gnoseologici, nell'imminenza dell’esposizione della Doxa: B10 presenterà ancora εἴσῃ («conoscerai»), πεύσῃ («apprenderai»), εἰδήσεις («conoscerai»). Lo stesso B11 doveva esordire con un'esortazione simile. Tutti indizi di consistenza, evidentemente riconosciuta dalla divinità al sapere che andava a esporre. 7 Si potrebbe forse rendere κόσμον ἐπέων come «costrutto verbale», «sintassi verbale». In ogni modo è da preferire una resa letterale del sostantivo κόσμος (come suggerisce O' Brien, p. 57: «arrangement») nel senso di τάξις (Anassimandro). Mourelatos (p. 226) indica come possibilità anche «forma». Nella cultura arcaica l'espressione ricorre tra l'altro in Solone (κόσμον ἐπέων ὠιδὴν fr. 2.2 Diels); nel V-IV secolo in Democrito (DK 68 B21): in entrambi i casi si sottolinea la composizione, l'artificio poetico. Coxon (p. 218), che rende il greco come «composition», sostiene che il termine sarebbe stato scelto per la sua congruità con il successivo διάκοσμος, «sistema», che la «composizione» deve esporre. Una interpretazione radicalmente diversa è quella di J. Frère ("Parménide et l'ordre du monde: fr VIII, 50-61", in Études 177 sur Parménide cit., vol. II, pp. 199-200), che legge il genitivo ἐμῶν ἐπέων come complemento indiretto («dalle mie parole») di ἀκούων, e κόσμον come «ordine del mondo». Robbiano (op. cit., p. 182) avanza l'ipotesi che κόσμος mantenesse in Parmenide il suo valore omerico (disposizione ordinata che è conveniente, che funziona e che è anche bella da vedere: il prodotto di un essere intelligente), precedente al riferimento (che per altro conservava aspetti della accezione originaria) all'universo (per la prima volta forse in Eraclito B30). Nello specifico, secondo la studiosa, kosmos si riferirebbe a prodotto della mente e della parola umana: a ciò che vediamo da una certa prospettiva (umana) e non a ciò che (e come) le cose sono nell'ottica divina. Nehamas ("Parmenidean Being/Heraclitean Fire", cit., p. 60) ha invece ipotizzato che κόσμος significhi nel contesto il mondo di cui la dea parla: «da questo punto in avanti, impara le opinioni mortali, venendo a conoscere (attraverso l'ascolto) il mondo ingannevole cui le mie parole si riferiscono». È possibile che le affermazioni di cui consta la Doxa, la teoria che essa contiene, non siano di per sé erronee, che descrivano correttamente un mondo di per sé ingannevole, in quanto mascherato da realtà quando è solo apparenza. 8 L'uso dell'aggettivo possessivo sottolinea l'autorità della comunicazione e l'assunzione di responsabilità nell'introduzione della sezione sulla Doxa: analogamente ai pronomi personali ἐγὼν (B2.1), μοί (B5.1), ἐγὼ (B6.2), ἐγὼ (v. 60). 9 Coxon (p. 218) segnala l'opposizione di κόσμον ἐπέων a λόγος: «discorso poetico» sarebbe contrapposto a «discorso razionale». D'altra parte la cultura del V secolo riconosceva un nesso tra ἔπη e δόξα (come risulta da Euripide, Eracle 111). Cerri (p. 243) non è, tuttavia, disposto a esagerarne, nel contesto, le implicazioni: in particolare, l'irrazionalità e l'ingannevolezza delle parole che seguono sarebbero solo relative. Tarán (p. 221) sottolinea come la Dea, pur impiegando parole secondo le regole della grammatica e della poesia, non potrà evitare che il suo discorso risulti decettivo. 10 Nuovamente (dopo B2.1) il κοῦρος viene invitato ad ascoltare, a manifestare con la disponibilità all'ascolto la propria aspirazione alla conoscenza. 11 Dobbiamo a J. Frère (op. cit., p. 201) il rilievo circa il significato antico di ἀπατηλός: che non sarebbe, come per il corrispettivo moderno, «ingannevole», piuttosto «suscettibile di ingannare». La sua resa francese è la seguente: «[un ordre du monde], où l'on peut se trompeur». Lo studioso propone in effetti di collegare κόσμον e ἀπατηλὸν, senza fare di ἐμῶν ἐπέων un genitivo dipendente da κόσμον, ma vedendovi un complemento di ἀκούων (p. 199). Reale sceglie di rendere l'aggettivo con «seducente»: Ruggiu nel suo commento (pp. 313) sottolinea come il senso dell'aggettivo vada colto nella relazione di apertura alla verità e all'errore (come sarebbe proprio di ogni seduzione), alla luce del suo oggetto, l'apparire. Mourelatos (p. 227) ha valorizzato le potenziali ambiguità della formula κόσμον ἐπέων 178 Presero12 la decisione13, infatti14, di dar nome15 a due16 forme17 , ἀπατηλὸν: è la stessa combinazione di parole a celare la tensione di idee contrarie. L'espressione κατὰ κόσμον indica, in effetti, parlare veritativamente, appropriatamente: la polarità κόσμος-ἀπάτη segnalerebbe sia che le δόξαι sono decettive, sia che l'ordinamento delle parole della dea o il loro contesto può suggerire molteplici e\o confliggenti significati. In questo senso Mourelatos invita a tenere a mente la formula esiodea ἐτύμοισιν ὁμοῖα («simili a cose vere», Teogonia 27) e l'espressione ἀμφιλλογία (da tradursi come come «double talk», Teogonia 229), che Esiodo intenderebbe deliberata e maliziosa. Affascinante l'accostamento omerico all'episodio di Odisseo e Polifemo. Lo studioso ne ricava (p. 228) nel contesto una lezione di ironia da parte di Parmenide: i mortali praticano "anfilogia" innocentemente (senza saperlo), cadendo quindi in errore; la dea usa l'anfilogia in modo pienamente consapevole, svelando quindi la verità sulle opinioni umane! 12 Anche chi, come Coxon (p. 219), ritiene che il modello dualistico proposto nella Doxa possa risalire al pitagorismo antico, è convinto che κατέθεντο abbia comunque come soggetto genericamente «gli esseri umani», cogliendo una connessione tra lo stabilire nomi di questo verso e quanto sostenuto nei vv. 34-41. Tuttavia il problema del soggetto del verbo si pone: Frére (p. 203), per esempio, osserva come sia difficile pensare che tutti i «mortali» possano essere assunti come «dualisti», e decide di indicare come soggetto «alcuni» (certains). Seguendo la proposta di Ebert ("Wo beginnt der Weg der Doxa? Eine Textumstellung im Fragment 8 des Parmenides", cit.) di leggere la sequenza dei vv. 34-41 dopo il v. 52, il soggetto di κατέθεντο (e dei successivi ἐκρίναντο e ἔθεντο) diventerebbe βροτοί. Ma quali? Couloubaritsis (Mythe et philosophie, cit., p. 261) ritiene, per esempio, che, diversamente dai mortali (senza discernimento, che nulla sanno) di B6, i βροτοί di cui la Dea parla negli ultimi versi di B8 si siano smarriti solo su un punto preciso (B8.54). 13 Secondo Cerri (p. 245), la sequenza di aoristi (κατέθεντο, ἐκρίναντο, ἔθεντο) rivelerebbe un riferimento del discorso della Dea a un lontano passato. Secondo Diels (Parmenides Lehrgedicht, cit., p. 92) γνώμη κατατίσθεσθαι sarebbe da considerare formula abituale: Liddell-Scott traducono nel nostro caso κατέθεντο γνώμας ὀνομάζειν come «recorded their decision, decided to name». Si potrebbe rendere come «si decisero a nominare». In alternativa si potrebbe costruire il verso facendo dipendere da κατέθεντο («stabilirono») μορφὰς δύο («due forme») e attribuendo all'infinito ὀνομάζειν valore finale (per dar nome), con γνώμας come oggetto diretto: «stabilirono due forme per dar nome ai loro punti di vista» (soluzione vicina a quella adottata da Cerri). O ancora, considerare (come Deichgräber) sia γνώμας sia μορφὰς come oggetti retti da κατέθεντο («posero due forme 179 [come] principi per nominare»). Cordero fa, invece, di δύο γνώμας l'oggetto diretto di κατέθεντο e traduce quindi: «They estabilished two viewpoints to name external forms». Couloubaritsis (Mythe et philosophie cit., pp. 278-9) propone una soluzione analoga, intendendo γνώμας come «marque signifiante»; ne risulta: «En effect, ils proposèrent deux formes pour nommer les marques signifiantes». Pur essendo la struttura della frase molto diversa, nella sostanza il significato non muterebbe, come sottolinea anche Conche (p. 190). Frére (p. 203), invece, sottolinea come κατέθεντο non possa in questo caso essere costruito con il complemento diretto. Tenendo conto del fatto che· (i) i vari significati del termine γνώμη sono riconducibili essenzialmente a giudicare, pensare e (conseguentemente) decidere; (ii) nel contesto γνώμας si dovrebbe rendere con «opinioni», «giudizi», «punti di vista»; (iii) esiste nei codici DEF la variante γνώμαις: se accolta, la traduzione dovrebbe risultare: «[Uomini] stabilirono, infatti, due forme per nominare sulla base delle [loro] opinioni»; (iv) in alternativa γνώμας potrebbe essere inteso come accusativo di relazione (Frére: «en leurs jugements») – tutto ciò considerato, optiamo per la soluzione più lineare: quella di intendere κατέθεντο γνώμας come «risolvettero i [loro] punti di vista» e dunque tradurre «presero la decisione», «si decisero a». Va menzionata l'analisi di Mourelatos (pp. 228-9), che riscontra nel verso una costruzione a conferma della sua lettura "anfilogica" della sezione: l'effetto sarebbe quello di far avvertire all'uditore/lettore la tensione tra γνώμην κατέθεντο («essi decisero») e κατέθεντο δύο γνώμας (l'opposto: «essi erano di due opinioni, vacillavano»; situazione che può richiamare quanto espresso da δίκρανοι, B6.5). 14 Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., p. 354) ha di recente sottolineato come γὰρ qui abbia poco senso nel contesto, in quanto quel che segue non sembra giustificare le affermazioni della dea nei vv. 51-2: assumerebbe altro valore accettando la proposta di Ebert di "restaurare" i vv. 34-41 dopo il v. 52. In realtà la Dea, in quel che segue, illustra proprio come e dove possa annidarsi la distorsione nel punto di vista umano che va a presentare. 15 La decisione di nominare implica un’arbitrarietà che Parmenide ha già stigmatizzato in B8.38b-39: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ Perciò tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali. Sullo stesso motivo ancora in B19: 180 οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ. Così appunto, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, a partire da ora, sviluppatesi, moriranno. A queste cose un nome gli uomini imposero, particolare per ciascuna. Se teniamo conto della proposta di restauro del testo (vv. 34-41 dopo v. 52) da parte di Ebert, potremmo effettivamente concludere che l'arbitrio della convenzione linguistica è indissociabile dalla concezione parmenidea della Doxa. Leszl (p. 230) ha colto in questo un’anticipazione della distinzioneopposizione tra nomos e physis. 16 Interessante la proposta di Leszl (p. 230): egli suppone infatti che δύο abbia una doppia associazione, traducendo: «i mortali con doppia mente hanno dato nome a due forme». La descrizione dei mortali corrisponderebbe così a quella di B6.4-5. 17 Il valore di μορφαί sarebbe nel contesto, secondo Cerri (p. 246) quello di strutture categoriali, create dall'uomo in funzione delle sue (due) sensazioni più urgenti, sulla base delle quali si costruirebbe successivamente la trama complessa delle parole. Un parallelo in Platone, che sembra evocare direttamente il verso parmenideo: θῶμεν οὖν βούλει, ἔφη, δύο εἴδη τῶν ὄντων, τὸ μὲν ὁρατόν, τὸ δὲ ἀιδές vuoi che stabiliamo, disse, due categorie di tutto ciò che è, l'una del visibile, l'altra dell'invisibile? (Fedone 79 a 6-7). Nella stessa direzione Robbiano (op. cit., p. 181), che vede nelle due forme opposte la possibilità di ridurre il molteplice dell'esperienza «to a minimal number of categories». Per rimanere vicino all'uso arcaico del termine, Cordero (By Being, It Is, cit., p. 156) insiste per rendere μορφαί come «external forms». Analogamente Frére (p. 204) – che opta per «figures», anche alla luce del successivo riferimento a δέμας, che designa corpo e aspetto fisico - e Mourelatos, che rende con «perceptible forms». Granger (“The Cosmology of Mortals”, in Presocratic Philosophy, cit., p. 112) osserva come la scelta di μορφαί (che significa appunto anche «forme esteriori», «apparenze per un osservatore») potrebbe segnalare il fatto che la dea si è volta dalla realtà alle apparenze. 181 delle quali l’unità18 non è [per loro]19 necessario [nominare]20: in ciò sono andati fuori strada21 . 18 L'interpretazione del valore di τῶν μίαν è stata oggetto di interminabile dibattito (che origina nell'antichità!). La traduzione più fortunata è quella (proposta tra gli altri da Zeller e alla fine accolta anche da Diels, inizialmente critico) che intende rilevare come, delle due forme imposte dai mortali, una non avrebbe dovuto essere introdotta, una è «di troppo» (ci si riferisce spesso alle due forme come repliche di Essere e Non-Essere: la seconda non avrebbe dovuto essere nominata); ciò costituirebbe l'errore dei mortali secondo la Dea. Si tratta di fatto dell’interpretazione di Aristotele; essa è stata oggetto di critica, in quanto: (i) da un punto di vista linguistico intende μίαν come se fosse ἑτέρην (non si potrebbe leggere in μίαν il significato di «una delle due»); (ii) da un punto di vista interpretativo accosta arbitrariamente essere e luce e non-essere e tenebra. Una seconda linea di lettura (proposta tra i contemporanei in particolare da Kirk-Raven) sottolinea come i mortali abbiano stabilito di nominare due forme, di cui non si deve nominare una sola (cioè una senza l'altra), come specificato da Raven: «two forms, of which it is not right to name one only (i.e. without the other)». Coxon segue la stessa linea. Una terza esegesi (anticipata da Reinhardt e Kranz e poi seguita Verdenius, Deichgräber, Untersteiner, Pasquinelli, Schofield) fu proposta da Cornford, intendendo τῶν μίαν οὐ = οὐδετέραν: i mortali hanno errato nell'introdurre (oltre all'essere) due forme: nessuna delle due avrebbe dovuto essere nominata: «mortals have decided to name two Forms, of which it is not right to name (so much as) one». La Curd l'ha riproposta all'interno della sua analisi delle due forme come «enantiomorfe». Tarán (p. 219) ha sottolineato come tale resa sottintenda qualcosa (οὐδὲ μίαν) che il testo greco non propone. Una quarta possibile interpretazione è quella che abbiamo seguito: si può ritrovare già nell'edizione del poema di Diels (1897), ma è stata soprattutto ripresa e approfondita da H. Schwabl ("Sein und Doxa bei Parmenides", «Wiener Studien», 1953, p. 53 ss.) e poi adottata da Tarán («for they decided to name two forms, a unity of which is not necessary»), Couloubaritsis e da Reale. Gli uomini pongono due principi che non si possono ridurre a unità, in ciò cadendo in errore. Il genitivo del pronome (τῶν) non può essere partitivo (in tal caso avremmo ἑτέρην) ma collettivo, e riferirsi a entrambe le μορφαί. Conclusione: μία (da intendere in senso numerico) deve essere «una unità» delle δύο μορφαί. Insomma l'errore consisterebbe nel porre due forme e nel non cogliere che sono riconducibili a un'unica realtà (l'essere). Fondamentale dunque l'accurata traduzione di Schwabl dei vv. 53-4, che alcuni ritengono l'unica grammaticalmente accettabile (Mansfeld, p. 126): denn sie legten ihre Meinung dahin fest, zwei Formen zu benennen, 182 von denen die Eine (d.h. eine einheitliche, die beiden zusammenfassende Gestalt) nicht notwendig ist; in diesem Punkte sind sie in die Irre gegangen. Si tratta di una lettura sollecitata dallo stesso commento di Simplicio (Fisica 31, 8-9): τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας [si sono ingannati] coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la generazione. Su queste esegesi si diffonde Reale nel suo aggiornamento a Zeller-Mondolfo, Eleati, cit., pp. 244 ss.. Di recente Palmer (op. cit., pp. 169-170) ha contestato la soluzione di Schwabl, ribadendo che il significato di τῶν μίαν è «one of these», portando a esempio un testo di Erodoto (IX, 122), dove, però τῶν μίαν è riferito a una pluralità di luoghi (πολλαὶ ἀστυγείτονες) e non all'alternativa tra due elementi (che richiederebbe appunto ἑτέρην). 19 Importante per il senso complessivo stabilire se la mancata postulazione è tesi della Dea ovvero parte della sua analisi dell'errore dei mortali. Abbiamo scelto di seguire questa seconda opzione, che ci sembra suggerita anche dalla relativa seguente. Dello stesso avviso J.H.M.M. Loenen, Parmenides Melissus, Gorgias. A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorchum, Assen 1959, pp. 117-120. 20 L'espressione con valore modale χρεών ἐστιν richiede l'infinito: sottintendiamo ὀνομάζειν. Nei precedenti (B2.5; B8.11, B8.45) Parmenide utilizza εἶναι o πέλεναι, ma l'accusativo μίαν suggerisce nel contesto ὀνομάζειν. 21 Il perfetto medio-passivo πεπλανημένοι εἰσίν equivale a «si sono sbagliati»: conserviamo il valore implicito in πλανάομαι. Coxon (p. 220) osserva come l'uso del perfetto distingua l'allusione storica ai pensatori ionici dall'analisi dello status delle due forme espresso dall'aoristo κατέθεντο. In particolare, πεπλανημένοι εἰσίν richiamerebbe B6.4-6, per l'uso di πλάζονται (la variante che Coxon accoglie in vece di πλάσσονται) e dell'espressione πλακτὸν νόον. In questo modo si chiarisce anche che le allusioni di quel frammento erano ai pensatori ionici. La natura dell'errore cui si allude dipende dalla lettura dell'emistichio precedente: aver posto due principi, distruggendo il monismo ontologico, ovvero aver posto due principi senza coglierne l'unità; aver posto un solo principio. Secondo Patricia Curd (The Legacy of Parmenides…, cit., pp. 104 ss.) l'errore dei mortali sarebbe da ravvisare nel fatto che essi hanno fondato la Doxa su due opposti di genere speciale: enantiomorphs, «oggetti che sono immagini speculari l'uno 183 [55] Scelsero22 invece23 [elementi]24 opposti25 nel corpo26 e segni27 imposero dell'altro [...] definiti in termini di ciò che l'altro non è» (p. 107), dunque in una sorta di intreccio di essere e non-essere. Thanassas rimarca la connessione tra κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν e ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν: la formula «in questo essi si sono ingannati» concorrerebbe a restringere la validità del termine «ingannevole» alle «opinioni mortali» criticate in 8.54- 9, così da aprire la possibilità di una nuova comprensione della relativa incidentale (τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν). Essa esprimerebbe esattamente l’errore denunciato in quel che segue, poi corretto dalla «appropriata» Doxa divina (p. 65). 22 Seguiamo Coxon (p. 221) nel rendere – secondo il consueto uso epico di κρίνεσθαι - ἐκρίναντο come «scelsero». Anche in questo caso si pone il problema del soggetto: si tratta dello stesso soggetto di κατέθεντο? Ovvero, come crede Frére (p. 204), di altro soggetto, per cui «alcuni presero la decisione di dar nome a due forme» e «alcuni invece scelsero ... e segni imposero»? Optiamo per la continuità di un soggetto indefinito. 23 Traduciamo δέ attribuendogli valore avversativo (per lo più non è tradotto o gli viene aatribuito valore copulativo), nella convinzione che la Dea, faccia seguito al proprio rilievo critico del verso precedente. 24 Forzando l'interpretazione, sottintendiamo «elementi» (e non genericamente «cose») nel neutro plurale ἀντία. Simplicio in effetti parla di ἀρχαί e στοιχεία. Mansfeld (p. 140), sulla scorta di Deichgräber, sostiene che i «segni» con cui sono connotate le due forme concorrano a definire la nozione di «elemento», con cui, nella sua trattazione, sostituisce il termine «forma». 25 Alcuni interpreti (per esempio O' Brien e Frère) intendono ἀντία come avverbio («in modo contrario», «oppositivamente») riferendolo alle due forme nominate, «relativamente al corpo» (δέμας, accusativo di relazione). Altri, invece, pongono δέμας come oggetto diretto di ἐκρίναντο e pongono l'avverbio in relazione a esso. Coxon, dal canto suo, fa di πῦρ e νύκτα gli oggetti diretti e di ἀντία un predicativo. Intendiamo ἀντία come neutro plurale. 26 Il termine δέμας è sempre riferito a corpi viventi: secondo Coxon (p. 221) ciò rivelerebbe che Parmenide considera le due forme come divinità. Conche (pp. 194-5) ritiene che il significato omerico di forma corporea non possa funzionare nel contesto: risalendo al valore di δέμω (che indicherebbe un certo modo di costruire, per sovrapposizione di linee uguali), egli individua «struttura» come resa più sensata. 27 Il termine σήματα avrebbe, secondo Cerri (p. 248), qui il valore di «segni di lingua», «parole». Nella scelta di ἐκρίναντο e di σήματα, Mansfeld (p. 131) 184 separatamente28 gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco29 , che è mite30, molto leggero, a se stesso in ogni direzione identico31 , coglie una ripresa della «disgiunzione» (κρίσις) di B2 e delle proprietà dell’essere (B8). 28 Rendiamo χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων come espressione avverbiale, per ribadire l'opposizione (ἀντία δ΄ ἐκρίναντο). 29 Coxon (p. 221) ritiene che Parmenide, pur concordando nella sostanza con Eraclito sul fatto che il fuoco è costituente ultimo del mondo fisico, nella scelta della coppia luce-notte rivelerebbe come sua fonte immediata la tavola degli opposti pitagorica. Charles Kahn, invece - nel suo fondamentale Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis 1994 (originariamente Columbia U.P., New York 1960), p. 148 -, ha mostrato come l'espressione φλογὸς αἰθέριον πῦρ risenta della omerica connotazione di αἰθέρ (da αἴθω, «accendere, infiammare») come «celestial light», originariamente indicante una condizione del cielo e solo derivatamente l'elemento luminoso e raggiante connesso alla regione superiore dell'atmosfera, a contatto con la copertura celeste (οὐρανός): nel tempo, insieme al correlato ἀήρ, avrebbe modificato il proprio significato, finendo nel V secolo a.C. per indicare una regione di puro fuoco (come ancora attesta Anassagora in DK 59 B1, B2, B15). I sostantivi πῦρ e νύκτα (accusativi) sottintendono un verbo reggente: nella nostra traduzione si tratta di ἐκρίναντο. 30 L'aggettivo ἤπιος è per lo più tradotto con «mite», che nel contesto, dopo il richiamo a φλογὸς αἰθέριον πῦρ, potrebbe apparire insensato: in alternativa Cerri (p. 249) propone «utile» o «propizio». Ma anche questa soluzione, soprattutto nel confronto oppositivo con i «segni» di «notte oscura», appare poco convincente. Manteniamo «mite», nel senso fisico, suggerito da Frére (pp. 207-8), di «non intenso». 31 La due forme - «fuoco etereo» e «notte oscura» - sono poste a un tempo con la caratteristica identità uniforme dell'essere e con la non-identità rispetto alla forma opposta. Si tratta di caratteri fondamentali per l'interpretazione della cosmologia parmenidea: il sistema di spiegazione adottato riflette proprietà emerse dall'analisi della Verità. Su questo punto in particolare Graham (pp. 170-1). Couloubaritsis (Mythe et philosophie cit., pp. 281 ss.) vede in questo rilievo una sorta di indulgenza della Dea nei confronti dei «mortali» in questione, i quali si attengono parzialmente alla legge dell'essere: ciò consentirebbe di riconoscere i Pitagorici dietro alle espressioni parmenidee. Come abbiamo sopra ricordato, Mansfeld (p. 140) individua nei «segni» con cui Parmenide connota le due forme la nascita della nozione di «elemento»: 185 rispetto all’altro, invece, non identico32; dall’altra parte, anche quello in se stesso33 , le caratteristiche opposte34: notte oscura35, corpo denso e pesante36 . proprio «auto-identità» e «non-identità» rispetto alla forma contraria ne sarebbero i costitutivi concettuali decisivi. 32 Forse è proprio questo rilievo a segnalare il limite della posizione criticata: come suggerisce Couloubaritsis (Mythe et philosophie cit., p. 288) non aver saputo cogliere fino in fondo la legge della identità e non aver posto, per la conoscenza, l'orizzonte dell'unità. È possibile che il gioco di τωὐτόν - μὴ τωὐτόν richiami le «schiere scriteriate» (ἄκριτα φῦλα) di cui in B6.8-9a si dice: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν [...] per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa. A questo ha di recente prestato attenzione Granger ("The Cosmology of Mortals", in Presocratic Philosophy, cit., p. 111). Mansfeld (pp. 133-4) ha osservato come l’identità dell’essere sia differente da quella delle due forme: l’auto-identità dell’essere è identità nella quiete. L’auto-identità delle forme, inoltre, è auto-identità di aspetto che non esclude ma anzi concede allo stesso tempo una contraria auto-identità di aspetto. Nehamas (“Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, cit., p. 55) ha invece sottolineato come i due principi della Doxa - separati l'uno dall'altro, ognuno completamente identico a sé e differente dall'opposto - non si mescolino in alcun modo l'uno con l'altro: la loro «separazione radicale» sarebbe dunque, «linguisticamente e filosoficamente», contraria alla «pervasiva confusione di essere e non-essere» denunciata in B6. 33 Diels (DK vol. I, p. 240) legge κατ΄ αὐτό τἀντία come se αὐτό avesse valore avverbiale («gerade») e κατὰ reggesse τἀντία («all'opposto»). 34 L'espressione τἀντία è qui intesa come τά + ἀντία («gli opposti», «le cose opposte»), come oggetto indeterminato del verbo reggente (ἐκρίναντο), utilizzato per introdurre il vero oggetto (νύκτα) e le sue connotazioni. 35 L'aggettivo ἀδαής indica l'impossibilità di discernere, percepire, conoscere (costruzione con alfa privativo del verbo δάω, «imparare», «conoscere», «percepire»): «absence de sens», secondo O'Brien (p. 60), ma anche «absence de lumière» (δαίω). Liddell-Scott indica come secondo valore «oscuro», proprio in questa occorrenza nel poema di Parmenide. Coxon (p. 186 [60] Questo ordinamento37, del tutto38 appropriato 39, per te40 io41 espongo42 , 223) preferisce rendere l'aggettivo in senso attivo come «unintelligent». O'Brien in francese rende con «l'obscure nuit», in inglese offre una versione più sfumata: «dull mindless night». È da notare come questa connotazione di Notte possa essere intesa in senso epistemico negativo (impenetrabilità conoscitiva): ciò potrebbe aver spinto all'accostamento aristotelico tra Notte e non-essere. Su questo si veda Granger (op. cit. p. 113). Da osservare inoltre che alcune delle caratteristiche qui associate a νύξ (in particolare oscurità e densità) richiamano quelle arcaiche di ἀήρ, connotata come nebbia densa, oscura, fredda (per esempio Esiodo, Opere e giorni 547-556). Sulla origine e sui caratteri degli elementi nella cultura greca arcaica è ancora essenziale il contributo di Kahn, op. cit., pp. 119-165. A proposito di ἀήρ le evidenze testuali mostrano come in origine il termine non designasse una regione o un elemento specifico, ma una condizione: la condizione che rende invisibili le cose, assimilabile dunque sia a νέφος (nuvola) sia all'oscurità, intesa come positiva realtà (p. 143). 36 Mansfeld (pp. 132-3) vede nella corrispondente sequenza di segni delle due forme tre distinti aspetti: (i) denominativo (αἰθέριον πῦρ/νύξ), (ii) teoreticoconoscitivo (ἤπιον/ἀδαῆ), (iii) fisico (μεγ’ ἀραιὸν/πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε). Una quarta corrispondenza è ritrovata nel rilievo della comune autoidentità e etero-differenza delle due forme. 37 Mourelatos (p. 230) coglie nell'uso di διάκοσμος un aspetto decettivo. Esso può indicare «ordine del mondo», ma suggerire anche attività: un ordinamento in divenire nel tempo, una cosmogonia. Inoltre, in relazione a τἀντία e τ΄ ἐναντίον (B12.5), l'implicazione di ordine (κόσμος) di διάκοσμος sarebbe rovesciata nel senso di «segregazione, divisione»: il κόσμος dei mortali sarebbe dunque, in realtà, un campo di battaglia. Il termine è tuttavia impiegato anche in Aristotele per indicare l'ordinamento cosmico pitagorico e in genere anche nella forma verbale διακοσμεῖν conserva una valore positivo. Robbiano (op. cit., p. 183), riprendendo la propria interpretazione del termine κόσμος, osserva come διάκοσμος sia qui utilizzato per ribadire all'audience che il kosmos non è un aspetto della realtà, non esiste oggettivamente; che vedere un kosmos è vedere ed esprimere la realtà usando parole. Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., pp. 64-5) osserva, invece, come il termine diakosmos implichi un intreccio delle due forme, che prelude alla introduzione della nozione di mescolanza, impiegata per la Doxa “appropriata”. In questo senso, le espressioni «ordine ingannevole delle mie parole» e «ordinamento del mondo del tutto appropriato» denoterebbero due diversi livelli e obiettivi della Doxa: è importante che essi non siano confusi (pp. 67-8). 187 38 Mourelatos e Couloubaritsis intendono πάντα come aggettivo, concordato con τόν διάκοσμον: «this whole ordering [system, framework]»; «l'ordonnance totale». 39 Il significato del participio ἐοικώς usato con valore assoluto è secondo Liddell-Scott «seeming like, like» ovvero «fitting, seemly». La verosimiglianza è qui da intendere in relazione ai caratteri attribuiti alle due forme, in analogia con quelli dell'essere. Ruggiu osserva come, per connotare la doxa, Parmenide ricorra ad aggettivi, con caratterizzazione positiva, che hanno radice nell'apparire: ἐοικώς e δοκίμως (B1.32). RealeRuggiu scelgono comunque di rendere ἐοικώς come «veritiero», seguendo Schwabl e il suo suggerimento di leggere l'aggettivo «sulla base del linguaggio spontaneo di Omero» (p. 323), piuttosto che con quello della (posteriore) sofistica. In Omero effettivamente il significato prevalente di εἰκώς è «appropriato, adeguato». Untersteiner (pp. CLXXVII ss.), in questo senso, insiste sul nesso con Senofane B35 (ἐοικότα τοῖς ἐτύμοισιν), marcando l'accordo e la coerenza con i fatti. Anche Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, cit., pp. 264-5) sottolinea la positività del termine, optando per il valore di «conveniente», adeguato, analogo a quello (appunto) dell'avverbio δοκίμως. La dea segnalerebbe al giovane la propria intenzione di esporre l'ordinamento delle cose «che conviene», cioè tenendo conto della critica rivolta ai mortali (B8.54). Di diverso avviso Mourelatos (p. 231), per il quale anche ἐοικότα manifesterebbe lo stesso gioco di positività e negatività che in genere impronta la Doxa parmenidea: per i mortali non iniziati ἐοικότα significherebbe «adeguato, appropriato, probabile», per la dea e il kouros «apparente». Per Robbiano (op. cit., p. 183), la dea ricorrerebbe qui a ἐοικότα per correggere l'impressione negativa che l'audience poteva associare al precedente κόσμον ἀπατηλὸν. Leszl osserva (p. 223) come in questo verso di solito si renda διάκοσμον ἐοικότα come «ordine (disposizione di cose) conveniente», ritenendo che ἐοικώς non possa qui valere come «simile (a qualcosa)», in quanto sarebbe assente il termine di paragone. Ammettendo tuttavia che in questo verso vi sia un richiamo al v. 52 (κόσμος-διάκοσμος) e che la descrizione tradizionale (omerico-esiodea) della falsità sia quella di dire cose simili a quelle vere (ἐτύμοισιν ὁμοῖα), in effetti il termine di paragone risulterebbe introdotto indirettamente: l'essere, concepito come la realtà genuina. 40 Si susseguono i due pronomi personali σοι ἐγὼ: abbiamo di nuovo ben marcato nell'interlocutore diretto il destinatario dell'esposizione ancora rivendicata dalla dea. Qui il dativo è di interesse (Coxon p. 223). 41 Coxon (p. 223) rileva come, nonostante la dea attribuisca la «decisione di nominare due forme» e la scelta di luce e notte agli esseri umani, considerandole integrali alla natura dell'esperienza umana, ella invece sottolinea con ἐγώ che il sistema del mondo (caratterizzato come ἐοικώς) è 188 così che mai alcuna opinione43 dei mortali possa superarti44 . suo. Un aspetto rilevato anche da Thanassas (op. cit., p. 71): il pronome personale ἐγώ, in greco non necessario, sarebbe impiegato per enfatizzare il carattere rivelativo di quel che segue, così segnando il passaggio dalla Doxa ingannevole a quella appropriata. 42 Coxon (p. 224) intende φατίζω come «io dichiaro», modificando la struttura della frase: «This order of things I declare to you to be likely in its entirety». Couloubaritsis (Mythe et philosophie, cit., pp. 262-3) sottolinea come, nel linguaggio corrente, φατίζω fosse utilizzato per indicare una promessa, un impegno. Come se la scelta verbale di Parmenide impegnasse la Dea nella esposizione che segue. Interessanti le implicazioni lessicali: il sostantivo φάτις in effetti significa «parola», in particolare la parola di un dio o di un oracolo; ma anche «ciò che si dice di qualcuno», una «voce» e, di conseguenza, «la rinomanza». Si tratta, dunque, di espressione ambigua, il cui valore oscilla tra «verità» e discorso inverificabile. Utilizzato dalla Dea, φατίζω viene da un lato a significare parola vera (B8.35), che dovrà permettere al giovane di acquisire rinomanza, così da risultare credibile come «uomo divino» (θεῖος ἀνήρ). Questo spiegherebbe, secondo Couloubaritsis, il passaggio alla proposizione conclusiva: nessun sapere umano potrà superare quello così acquisito dal giovane. In ogni caso, anche per una valutazione complessiva della sezione sulla Doxa, è opportuno marcare (seguendo Frère, op. cit., p. 209) come φατίζω rinvii, all'interno di questo frammento, alla parola che manifesta l'Essere (vv. 35-36a: οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν). 43 Il termine γνώμη ha uno spettro semantico piuttosto ampio, che spazia da «pensiero», «giudizio», «opinione», a «decisione», «massima pratica», «proposito». Reale-Ruggiu (pp. 316-7) interpretano l'espressione βροτῶν γνώμη come se non indicasse semplicemente altre opinioni, altri giudizi «dei mortali», ma una forma di "saggezza" (come quella veicolata attraverso gli enunciati "gnomici" appunto, massime di saggezza pratica) tutta umana, che si riduce a mere parole. Tarán traduce in effetti come «wisdom» e Couloubaritsis come «savoir». 44 Il verbo παρελαύνω ha il significato di «passare», «superare». Mourelatos (p. 226 nota) osserva che il verbo appartiene al vocabolario delle corse di carri. Il senso sarebbe dunque da rintracciare nel superamento/sorpasso («outstrip»), ma anche nel rivelarsi superiore in ingegno («outwit»). Untersteiner ha sottolineato anche il valore di «portare fuori strada», «sviare», seguito da Reale-Ruggiu e anche da Cerri. Manteniamo la traduzione più comune. Su questa conclusione ha fatto per molto tempo leva l'interpretazione "dialettica" della Doxa parmenidea: uno strumento, il migliore possibile, per concorrere con successo con cosmologie rivali. Ma pur sempre "ingannevole"! Una recente ripresa, ben argomentata, è quella di 189 Granger (op. cit., pp. 102-3): l'impegno della Dea sarebbe stato quello di fornire il miglior strumento per individuare l'inganno che si annida nelle cosmologie. Nella misura in cui il giovane allievo fosse stato in grado di riconoscere i difetti del pensiero dei mortali nella cosmologia che la Dea aveva approntato, nessuna opinione mortale avrebbe più potuto sorprenderlo: la cosmologia più ingannevole, in effetti, è quella più vicina alla realtà. Tarán (p. 207) aveva marcato come i due versi finali del frammento non affermino che la ragione per esporre il διάκοσμος sia che esso è il migliore, ma solo che l’intero ordinamento è offerto perché nessuna sapienza umana possa superare Parmenide. 190 DK B9 αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται1 καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν. [Simplicio, In Aristotelis Physicam 180] 1 La forma verbale ὀνόμασται è in realtà nei codici DEF2 ὠνόμασται, corretta dagli editori per ragioni metriche. 191 Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate1 , e queste2 , secondo le rispettive3 proprietà4 , [sono state attribuite] a queste cose e a quelle5 , tutto6 è pieno ugualmente7 di luce e notte invisibile8 , 1 Coxon (p. 232) difende l'inversione tra soggetto e predicato: dal momento che in B8.53-59 si parla di nominare due forme, «luce e notte» dovrebbero essere soggetto della proposizione, mentre «tutte le cose» diventerebbe predicativo. I due nomi sarebbero, insomma, la sostanza della molteplicità di enti fisici. 2 Il pronome dimostrativo neutro plurale τά secondo Tarán (p. 161), seguito da Conche (p. 198), si riferisce a φάος καὶ νὺξ; Diels, invece, seguito da altri (per esempio Pasquinelli, Coxon), lo intende riferito a ὀνόματα. Gigon, Fränkel, Raven rendono il verso come espressione semplice: le cose in accordo con le qualità di luce e notte sono state attribuite a queste cose e a quelle. 3 L’aggettivo possessivo σφετέρας può essere tradotto con valore riflessivo («proprie») o meno: il valore dipende dalla decisione circa il significato da attribuire a τά. 4 Il termine δυνάμεις avrebbe qui, secondo Tarán (p. 162) e Coxon (p. 233) un valore analogo a quello di σήματα. Conche (p. 199), a nostro avviso giustamente, interpreta come le «qualità opposte» associate a luce e notte. Untersteiner (p. CLXXXIV, nota 66) vi coglie invece sinonimia con φύσις. In effetti il termine dovrebbe nel contesto significare proprietà, qualità essenziale. È vero però che la dimensione entro cui Parmenide inserisce la Doxa è certamente anche linguistica, donde la scelta di Tarán di tradurre con «meanings». Coxon sottolinea nella implicazione tra δύναμις e μορφή un carattere della posteriore associazione tra δύναμις e ἰδέα o εἶδος. 5 L'espressione ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς si riferisce agli enti fisici, con i loro opposti caratteri. 6 Il pronome πᾶν può essere riferito al Tutto ovvero a «tutte le cose», alla totalità delle cose: nel secondo caso, è l'insieme delle cose a essere pieno di luce e tenebra, non ogni singola cosa. B12.1 sembra avvalorare la seconda lettura, così come Teofrasto in DK 28 A46. Tra gli altri, Tarán (p. 162), Coxon (p. 233), e Gallop (p. 77) la sostengono. Conche (p. 200) esplicitamente contesta questa lettura: come è possibile che la totalità delle cose sia ripiena a un tempo di luce e notte se non non lo sono anche le singole cose? Guthrie (vol. II, p. 57) e Cerri (p. 255) insistono sulla equipollenza quantitativa. Ruggiu (p. 328) esplicitamente sottolinea come «ogni cosa sia costituita insieme e ugualmente di Luce e Notte». 192 di entrambe alla pari9 , perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla 10 . 7 L'avverbio ὁμοῦ può rendersi come «insieme», «allo stesso tempo», «egualmente». Se il valore sia da intendere nel senso di una rigorosa misura quantitativa, dipende da come si interpreta πᾶν. 8 L'aggettivo ἀφάντου è usato per marcare come, benché invisibile, la notte, opposta alla luce, è pur qualcosa (Coxon p. 233). 9 All'espressione ἴσων ἀμφοτέρων si può riconoscere valore quantitativo - come fanno Diels e Reinhardt e di recente, per esempio, Cerri (p. 255), per il quale Parmenide preciserebbe come i due principi debbano essere quantitativamente equipollenti – ovvero, come preferisce Tarán (p. 163), interpretare nel senso di una equivalenza funzionale, ovvero di status o potere, come vuole Coxon (p. 233). Empedocle (DK 31, B17.27): ταῦτα γὰρ ἶσά τε πάντα καὶ ἥλικα γένναν ἔασι questi sono infatti tutti uguali e coevi, sembra alludere a una equivalenza (non quantitativa) di funzioni delle quattro radici. Le due «forme» concorrono alla composizione del mondo: la loro complicità nell'opposizione assicura la stabilità del mondo (Conche, p. 201). L'idea di un equilibrio di forze, tuttavia, sembra comportare una interpretazione quantitativa. 10 L'espressione ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν è stata variamente tradotta, ciò comportando una diversa accentuazione del suo senso complessivo: (i) Diels, Burnet, Reinhardt, Cornford, Riezler, Untersteiner: «poichè nessuna delle due ha potere sull'altra»; (ii) H. Gomperz, Coxon: «con nessuna delle due c'è il vuoto»; (iii) Schwabl, Kirk-Raven, Beaufret, Hölscher, Mourelatos, Kirk-Raven-Schofield, Austin, Reale, Palmer: «poiché insieme a nessuna delle due è il nulla» (ovvero, Mourelatos: «since nothingness partakes in neither»); (iv) Zafiropulo, Casertano: «perché non esiste alcunché che non dipenda dall'una e dall'altra»; (v) Fränkel, Calogero, Verdenius, Tarán, O' Brien:·«perché non c'è nulla che non appartenga all'uno o all'altro dei principi»; (vi) Guthrie, Conche, Pasquinelli, O'Brien, Tonelli: «poiché niente partecipa di nessuna delle due». Abbiamo preferito la terza soluzione, in quanto sembra marcare con decisione la svolta rispetto all'errore imputato alle «opinioni mortali» criticate in B8.53- 59: come sottolinea Ruggiu (p. 329), il rilievo della Dea ribadisce come tutte le cose siano, come in esse si manifesti l'Essere. La lettura di Simplicio sembra corroborante: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν [...] εἰ δὲ μ η δ ε τ έ ρ ω ι μ έ τ α μ η δ έ ν καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται 193 e poco dopo ancora [citazione B9]; e se «insieme a nessuna delle due è il nulla», egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono opposti. Da segnalare come Gomperz e Coxon (suo allievo) ritornino sulla questione dell'equazione nulla-vuoto: in un contesto fisico – secondo lo studioso anglosassone (p. 234) – μηδέν significherebbe spazio vuoto, la cui esistenza Parmenide avrebbe rigettato implicitamente (in B8, insistendo sul pieno), Melisso esplicitamente. 194 DK B10 εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν1 ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα2 σελήνης [5] καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν3 ἔφυ τε4 καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. [Clemente Alessandrino, Stromata V, 14 (419)] 1 Si tratta di correzione degli editori; il codice di Clemente riporta ὁπόθεν. 2 Gli editori moderni hanno corretto la forma περὶ φοιτά del codice di Clemente in περίφοιτα. 3 Il codice di Clemente riporta, dopo ἔνθεν, μὲν γὰρ, poi espunto dagli editori. 4 La forma ἔφυ τε è correzione moderna: il codice di Clemente riporta ἔφυγε. 195 Conoscerai1 la natura2 eterea3 e nell’etere tutti i segni4 e della pura5 fiamma dello splendente6 Sole le opere invisibili7 e donde ebbero origine8 , 1 La forma del futuro εἴσῃ, come la successiva εἰδήσεις, è epica. Da sottolineare il valore positivo del verbo: insieme a πεύσῃ e εἰδήσεις sottolinea la natura programmatica del frammento e la sua funzione di cerniera nell'opera. 2 Il termine φύσις è stato in questo contesto tradotto (Coxon, Conche) come «nascita»: Parmenide non si proporrebbe di esporre la «costituzione» o l'«essenza» (Diels traduceva con «Wesen») dell'etere o della luna, analizzarne la composizione, ma di spiegare il loro venire a essere, la generazione dei costituenti del mondo e la genesi dei fenomeni (Conche, pp. 204-5). Non pare tuttavia naturale rendere l'espressione αἰθερίαν φύσιν come «la nascita dell'etere», né necessario intendere «natura» come «essenza»: il riferimento alla costituzione dei fenomeni implica, nel caso della cosmogonia della Doxa, illustrarne l'origine. 3 Dalla testimonianza di Aezio (DK 28 A37) possiamo intravedere come Parmenide intendesse αἰθήρ come l'atmosfera più pura, rarefatta, nella quale si muovono gli astri, e ἀήρ, invece, si riferisse all'atmosfera sublunare, dislocata a ridosso della superficie terrestre, più densa, meno pura. 4 In questo caso σήματα assume il suo valore comune nella lingua greca arcaica (Omero): gli astri intesi in generale come «segni» per l'orientamento. 5 Il termine καθαρή, «pura», ha un valore prossimo a una delle accezioni di εὐᾰγής (con alfa breve), utilizzato in questo verso nel senso di «splendente» (εὐᾱγής con alfa lunga): si tratta di purezza anche in senso religioso. 6 Abbiamo già detto di εὐᾱγής (con alfa lunga) con valore di «splendente», da preferire all'altra forma, εὐᾰγής (con alfa breve), per ragioni metriche (Cerri, p. 260). 7 L'espressione ἔργ΄ ἀίδηλα è attestata in Omero, dove significa «azioni odiose» (Iliade V, 897): in questo contesto si potrebbe rendere – come fanno molti traduttori - come «operazioni distruttive». Ma l'aggettivo ἀΐδηλος – costruito con alfa privativo e la radice ἰδ- di «vedere» - può indicare tanto la capacità di far sparire, rendere invisibile (dunque «distruttivo»), quanto la indisponibilità alla vista (quindi «oscuro», «ignoto»). Nell'insieme il significato di «invisibile» appare più convincente. Ricordiamo, inoltre, come fa notare Cerri (p. 260), che in B8.57 la Dea aveva connotato il fuoco come ἤπιον (mite, utile). Conche (pp. 205-7) sostiene la sua traduzione «les oeuvres destructrices du pur flambeau du brillant soleil» rinviando alle funzioni cosmogoniche di Fuoco e Notte: la loro unione implica generazione del mondo, la loro dissociazione distruzione del mondo. Nella misura in cui il fuoco solare si purifica al punto di liberarsi dalla componente notturna, 196 e le opere apprenderai periodiche9 della Luna dall’occhio rotondo10 , [5] e la [sua] natura11; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge12 , donde ebbe origine13 e come Necessità14 guidando lo vincolò15 a tenere16 i confini degli astri. esso diviene funesto e dunque dissociatore della mescolanza e distruttore della realtà. 8 Il verbo (aoristo medio) ἐξεγένοντο, alla terza persona, è riferito a tutti i termini elencati in precedenza, e non semplicemente al neutro plurale ἔργ΄ ἀίδηλα: si troverebbe altrimenti alla terza persona singolare. 9 Seguiamo Conche (pp. 207-8) nel tradurre ἔργα περίφοιτα come «opere periodiche», evitando «vaganti», troppo generico e fuorviante rispetto al senso implicito nell'aggettivo (che LSJ traducono nel contesto come «revolving»): quello di una ripetizione costante: già nell'ambito del pitagorismo, infatti, la lunazione sarebbe stata fissata in 4 periodi di 7 giorni. Il senso del rilievo parmenideo sarebbe allora quello di sottolineare la periodicità dell'azione lunare. Tonelli (p. 137) preferisce riferire a senso περίφοιτα a σελήνης («della luna errante»). 10 Qui κύκλωψ ha il valore di «occhio rotondo» (LSJ «round-eyed») e non si riferisce ovviamente al gigante dall'occhio solo, il Polifemo omerico. 11 In questo caso, come scelgono di fare alcuni traduttori (per esempio Coxon, Conche), φύσις potrebbe rendersi con il suo valore etimologico di «origine», «nascimento». 12 L'espressione οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα (letteralmente «cielo che tiene intorno») si riferisce alla funzione del cielo nel sistema astronomico di Parmenide: quella di racchiudere in sé l'universo, l'insieme di etere (contenente gli astri) e di aria (che fascia la Terra). 13 L'espressione interrogativa ἔνθεν ἔφυ rivelerebbe l'insistenza sulla spiegazione a partire dall'origine (Conche, p. 209). 14 Ritroviamo Ἀνάγκη, a governare (ἄγουσα) il cielo e soprattutto a costringere entro i limiti (ἐπέδησεν πείρατ΄ ἔχειν). In B8 Ἀνάγκη costringeva l'Essere alla identità e immutabilità; qui garantisce l'ordine dell'universo e la sua costanza. Coxon (pp. 229-230) sottolinea la relazione di somiglianza, analoga a quella che intercorre (in conclusione di B8) tra le due forme e l'Essere. 15 Letteralmente «legò» (ἐπέδησεν): torna anche in questo luogo l'eco prometeica che il verbo porta con sé (Cerri, p. 262). 16 Significativo il fatto che il Cielo abbia una doppia funzione: avvolgente (ἀμφὶς ἔχοντα) e limitante rispetto alla marcia astrale (πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων). 197 DK B11 πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ σελήνη αἰθήρ τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν 1 μένος ὡρμήθησαν γίγνεσθαι2 . [Simplicio, In Aristotelis De Caelo 559] 1 I codici DE di Simplicio riportano θερμῶν. 2 I codici AF riportano γίνεσθαι. 198 [...] come Terra e Sole e Luna, l'etere comune1 e la Via Lattea2 e l'Olimpo estremo3 e degli astri l'ardente forza4 ebbero impulso5 a generarsi6 . 1 L'espressione αἰθήρ ξυνὸς si riferisce probabilmente al fatto che tutti gli astri sono immersi nello spazio etereo. 2 La formula greca - γάλα οὐράνιον – significa letteralmente «latte celeste». L'uso dell'aggettivo potrebbe autorizzare a pensare (Conche, p. 211) che per Parmenide la Via Lattea fosse composta di stelle. 3 Nel contesto l'espressione ὄλυμπος ἔσχατος - «Olimpo ultimo» o «Olimpo estremo» - si riferisce chiaramente a quanto sopra abbiamo trovato indicato come οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, «il cielo che tutto attorno cinge». Esso costituisce l'estremo limite dell'universo, così forzando in circolo il corso degli astri. 4 In Empedocle (DK 31 B115.9) abbiamo un'espressione analoga: αἰθέριον μένος. Il valore di μένος sarebbe quello di forza vitale. L'impiego dell'aggettivo θερμός si spiega con la natura ignea degli astri. 5 Significativo nel contesto il ricorso al verbo ὁρμᾶν, che sottolinea la spinta, l'impulso interiore: è tale impulso a guidare il processo di costituzione delle cose. In B12.4 Parmenide lo attribuirà alla potenza immanente di una δαίμων. 6 Come sottolinea la scelta espressiva (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), il contenuto del frammento è comunque in continuità con il tema cosmogonico-cosmologico del precedente. 199 DK B12 αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο1 πυρὸς ἀκρήτοιο2 , αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· 3 γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει [5] πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄4 ἐναντίον αὖτις5 ἄρσεν θηλυτέρῳ. [vv. 1-3 Simplicio, In Aristotelis Physicam 39; vv. 2-6 Simplicio, In Aristotelis Physicam 31] 1 I codici di Simplicio riportano παηντο (Ea ), πάηντο (D1 ), πύηντο (D2E), ποίηντο (edizione aldina). Bergk ipotizzò prima (1842) πλῆντο (adottato da Diels), quindi (1864) πλῆνται, per ragioni metriche. Gli editori contemporanei sono divisi: alcuni (Tarán, Kirk-Rave-Schofield, O'Brien) preferiscono πλῆνται, che risulta tuttavia più improbabile dal punto di vista paleografico; altri la forma da noi adottata, πλῆντο, che presenta difficoltà metriche. 2 La forma ἀκρήτοιο è correzione di Bergk: i codici riportano ἀκρήτοις (DEa ), ἀκρίτοις (EF), ἀκρίτοιο (edizione aldina). 3 Il testo greco dei manoscritti DEF è πάντα γὰρ στυγεροῖο, problematico a livello metrico. Karsten e Diels propongono l'introduzione del pronome ἣ dopo γὰρ. Così ancora Cordero e Reale. Mullach preferì correggere πάντα in πάντηι, seguito da alcuni editori (Tarán, Coxon, O' Brien). Altri, appoggiandosi al manoscritto W, ignoto a Diels, leggono πάντων: così molti editori contemporanei: Mansfeld, Kirk-Raven-Schofield, Conche, Gallop. Si tratterebbe comunque, secondo Franco Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili…, cit., p. 86 nota), di congettura bizantina. 4 La forma μιγῆν τό τ΄ è correzione di Bergk: i codici riportano μιγέν τότε (DE), μιγέν τότ΄ (F). 5 La forma αὖτις si trova nel codice F: DE riportano αὖθις. 200 Quelle1 più strette2 , infatti, si riempirono3 di fuoco non mescolato; le successive4 [si riempirono] di notte, ma insieme si immette5 una porzione6 di fuoco; 1 L'articolo αἱ, qui usato con valore pronominale, e l'aggettivo στεινότεραι si riferiscono probabilmente a στεφάναι, come insegna Cicerone (DK 28 A37), il quale traduce il termine come corona e orbis. Coxon (p. 235) osserva giustamente come i versi che precedevano le citazioni di Simplicio dovessero vertere sugli elementi e sulla struttura delle sfere, evocate senza dettagli o nomi qualificanti in apertura. 2 Simplicio, nel contesto della citazione, si limita a dire che i versi seguivano un passo sui due elementi, e non chiarisce quindi a quale sostantivo l'aggettivo si riferisse: si intende comunemente στεφάναι. In questo senso στεινότεραι qualificherebbe quelle «più strette», ovvero quelle «interne», dunque le corone più vicine al centro del sistema. Nell'interpretazione complessiva che Diels proponeva già nell'edizione del poema (1897), il riferimento sarebbe alle corone interne di una doppia coppia, che costituirebbe centro e periferia del sistema cosmico: (i) la coppia di corone non mescolate (quindi una esterna di pura Notte, una interna di puro Fuoco) posta al centro costituirebbe la struttura terrestre con la sua crosta solida e il suo interno infuocato (fuoco vulcanico); (ii) quella alla periferia corrisponderebbe alla solida (di pura Notte) parete esterna contenente (indicata anche come ὄλυμπος ἔσχατος in B11, ovvero come «cielo che tiene tutto intorno», οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, in B10), e alla corona di puro Fuoco, evocata in B11 come αἰθήρ τε ξυνὸς. 3 L'aoristo (πλῆντο) di πίμπλημι significa decisamente «divennero\furono riempite»: Parmenide sta dunque alludendo alla formazione delle corone (Coxon, p. 237). 4 L'espressione αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς significa letteralmente «quelle sopra [ovvero dopo] queste»: per mantenere l'ambiguità di riferimento, abbiamo deciso di rendere con «le successive» (così Tonelli). I due pronomi dimostrativi (αἱ e ταῖς) si intendono riferiti sempre a στεφάναι: il problema è capire esattamente a quali «corone» si alluda. Nell'ipotesi di Diels, di recente rilanciata da Ferrari, si tratterebbe delle corone comprese tra la coppia centrale e quella periferica (composte di "elemento puro", di Fuoco all'interno, di Notte all'esterno); corone "miste" di Notte e Fuoco. 5 Si passa dal passato (πλῆντο) al presente (ἵεται), forse per marcare la perduranza degli effetti cosmogonici: il valore dei versi è dunque sia cosmogonico sia cosmologico. 201 in mezzo a queste7 la Dea8 che tutte le cose governa9 . 6 Letteralmente αἶσα – termine omerico - si dovrebbe tradurre con «parte». Parmenide preferisce l'espressione poetica, rara negli autori presocratici, a μέρος. 7 L'espressione ἐν δὲ μέσῳ τούτων è ambigua, come fa notare tra gli altri Tarán (p. 248): essa può riferirsi al centro dell'universo o al centro delle «corone miste». Nel contesto la seconda sembrerebbe la soluzione più naturale. 8 Aëtius esplicitamente identifica la δαίμων con una delle «corone miste»: τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone frammiste [di fuoco e oscurità], quella centrale è principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità (DK 28A37), facendola coincidere con Δίκη e Ἀνάγκη. In tal modo egli salda nella teogonia e cosmogonia della Doxa i riferimenti sparsi in B1, B8 e B10 a Δίκη e Ἀνάγκη. Ma Simplicio, evidentemente interpretando diversamente da Aëtius il riferimento di ἐν δὲ μέσῳ τούτων, intende la dea come collocata al centro dell'universo: καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione (contesto di B12). Qualcuno ha suggerito che ciò avvenisse in quanto il commentatore accostava la δαίμων parmenidea alla Hestia pitagorica: si veda, per esempio Filolao B7: τὸ πρᾶτον ἁρμοσθέν, τὸ ἕν, ἐν τῶι μέσωι τᾶς σφαίρας ἑστία καλεῖται la prima cosa ben composta, l'uno, nel mezzo della sfera si chiama Hestia (DK 44 B7). 9 L'espressione δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ sarebbe, secondo Tarán (pp. 248-9), probabilmente connessa con l'idea, più o meno corrente all'epoca di Parmenide, di una divinità suprema che governa l'universo. Coxon (p. 242) 202 Di tutte le cose ella sovrintende 10 all'odioso 11 parto e all’unione12 , [5] spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile13, e, al contrario, il maschile al femminile. vi ha voluto cogliere un'analogia con Eraclito, per cui il potere razionale del fuoco governa ogni cosa (DK 22B41). 10 Il senso più appropriato di ἄρχει, in un contesto in cui si parla dell'azione della «Dea che tutto governa» (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ), sembra essere quello di «presiede», «sovrintende». Si potrebbe rendere anche come «è principio di» ovvero «è all'origine di». 11 L'uso di στυγερός (da στυγέω, «avere in orrore») rivelerebbe il pessimismo di fondo di Parmenide, eco della Stimmung della sua epoca, come riscontrato soprattutto nella poesia, epica e lirica. Da notare (Conche, pp. 225 ss.) che in questo caso il riferimento non è esclusivamente alla nascita umana, ma alla genesi di tutte le cose: la condanna del filosofo sarebbe rivolta al divenire come tale (p. 227). Altri, tuttavia, attenuano il senso negativo dell'aggettivo proprio in relazione al sostantivo τόκος, traducendo «doloroso [ovvero duro] parto» (Reale), riferendolo quindi esclusivamente alla pena del travaglio, non ai suoi effetti. 12 Il greco μῖξις è reso, alla luce del verso successivo, come unione «sessuale», «coito» (Cerri), «amplesso» (Tonelli). In realtà non si deve dimenticare che qui il poeta si riferisce non solo all'unione sessuale di maschio e femmina, ma in genere all'unione dei due principi. 13 Le forme aggettivali sostantivate τό ἄρσεν (il maschile) e τό θῆλυ (il femminile) alludono forse - come nella tradizione pitagorica (secondo quanto attesta Aristotele) - alla riduzione del primo elemento alla luce e del secondo alla notte. 203 DK B13 πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν μητίσατο πάντων… [v. 1 Platone, Simposio, 178b; Plutarco, Amatorius 13; Sesto Empirico, Adversus Mathematicos IX, 9; Stobeo, Anthologium I, 9, 6; Simplicio, In Aristotelis Physicam 39; v. 1b Aristotele, Metafisica, 1, 4 984 b 23] 204 Primo tra gli dei tutti ella1 concepì2 Amore. 1 La δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ di B12. 2 Traduciamo in questo modo (ambiguamente) μητίσατο: il senso – nel contesto garantito dalle testimonianze di Platone e Aristotele (che pur lasciano incerto il riferimento al soggetto), Plutarco (che riferisce il verbo a Afrodite) e Simplicio (che invece esplicitamente identifica il soggetto nella δαίμων di B12) - dovrebbe essere quello di generare, ma il significato del verbo μητιάω è «meditare, deliberare, pianificare». Il verbo qualifica dunque la dea come una potenza razionale (Coxon, p. 243). 205 DK B14 νυκτιφαὲς 1 περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς… [Plutarco, Adversus Colotem 1116 A] 1 La forma νυκτιφαὲς è correzione dello Scaligero: il codice di Plutarco riporta νυκτὶ φάος. 206 di notte splendente1 , vagando intorno alla Terra2 , luce d'altri3 1 Il composto greco νυκτιφαὲς significa letteralmente «di notte visibile\splendente». Come fa notare Cerri (p. 274), in tutti i composti del tipo νυκτι- il primo elemento ha valore di determinazione temporale («di notte»). Questo è il senso che anche Conche (pp. 234-5) attribuisce al composto νυκτιφαὲς: «brillant la nuit», contestando la poco convincente resa di Coxon («shining like night»?!). L'aggettivo ricorre solo un'altra volta in Orphica, Hymnii 54, 10: ὄργια νυκτιφαῆ, in relazione ai riti dionisiaci, che si tenevano (evidentemente) alla luce delle torce. Aristotele documenta analoga interessante costruzione in riferimento al Sole: νυκτικρυφές, «di notte nascosto». Rivendicato da Jaeger come citazione parmenidea, l'aggettivo è stato accolto come frammento nella edizione Untersteiner. Lo facciamo seguire come B14a. 2 L'espressione περὶ γαῖαν ἀλώμενον riferisce alla Luna il moto di rivoluzione intorno alla Terra: in B10.4 Parmenide aveva usato la formula ἔργα τε κύκλωπος περίφοιτα σελήνης («le opere periodiche della luna dall'occhio rotondo»), alludendo già con περίφοιτα al regolare movimento (e quindi all'azione periodica) dell'astro. L'espressione sembrerebbe poi implicare la sfericità della Terra, come attestato anche da Teofrasto (Diogene Laerzio): πρῶτος δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι κεῖσθαι questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma di sfera e giace al centro [dell'universo] (DK 28 A44). 3 L'espressione ἀλλότριον φῶς, da intendere letteralmente come «luce altrui», si riferisce alla luce riflessa della luna (luce «presa in prestito», come traduce Conche). Parmenide consapevolmente gioca sull'assonanza con l'omerico ἀλλότριον φώς («straniero»). Come osserva Cerri (p. 275), tale formula era evidentemente opposta a ἴδιον φῶς, «luce propria». Espressione analoga in Empedocle (DK 31 B45): κυκλοτερὲς περὶ γαῖαν ἑλίσσεται ἀλλότριον φῶς in forma di cerchio introno alla Terra si aggira luce non propria (ovvero straniera). 207 B14a [...ἥλιος, ... τὸ περὶ γῆν ἰὸν ἢ] νυκτικρυφές [Aristotele, Metafisica, VII, 15 1040 a31] 208 [... il Sole, ... colui che va intorno alla Terra o] il di notte nascosto1 1 Secondo l'editore della Metafisica - W.D. Ross – in questo caso Aristotele non avrebbe citato Parmenide, ma forgiato il termine νυκτικρυφές in analogia con Parmenide (νυκτιφαὲς). 209 DK B15 αἰεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο. [Plutarco, Quaestiones Romanae 282 B; Plutarco, De facie in orbe lunae 929 B] 210 sempre volta e attenta1 ai raggi2 del sole. 1 Il participio παπταίνουσα dovrebbe letteralmente tradursi come «guardando attentamente». Come segnala Cerri (p. 276), è qui molto probabile che Parmenide giochi sulle implicazioni della relazione tra i due termini, maschile (ἥλιος) e femminile (σελήνη): la Luna innamorata volge il suo sguardo intenso verso il Sole. Immagine analoga in Empedocle (DK 31 B47): ἀθρεῖ μὲν γὰρ ἄνακτος ἐναντίον ἁγέα κύκλον contempla di fronte a sé il fulgido disco del suo signore. 2 Come osserva Cerri (p. 276), αὐγὰς vale non solo «raggi» ma anche «sguardi». 211 DK B15a [Π. ἐν τῆι στιχοποιίαι] ὑδατόριζον [εἶπειν τὴν γῆν] [Scolio a Basilio di Cesarea] 212 [Parmenide nei suoi versi dice che la Terra] ha radici nell'acqua1 1 Secondo Conche (p. 242), che si sofferma a lungo a chiarire l'affermazione di Basilio, la Terra cui si allude è quella ricoperta di flora e fauna, la Terra vivente, di cui l'acqua è effettivamente fonte di nutrimento. Non vi sarebbe dunque alcuna implicazione genetica: alla luce delle testimonianze, non è l'acqua all'origine della Terra, semmai il contrario. Coxon (pp. 246-7) ritiene, invece, che il riferimento sia alla massa di terre emerse (forse per spiegare fenomeni come i terremoti). Di diverso avviso, in passato Paula Philippson (Origini e forme del mito greco, Torino 1949, pp. 269 ss.), che riscontra in questo riferimento all'acqua una allusione al mito di Okeanos, che avrebbe circondato la Terra. 213 DK B16 ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ 1 ἔχῃ 2 κρᾶσιν3 μελέων πολυπλάγκτων4 , τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν5 · τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί· τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ 6 νόημα. [vv. 1-4 Aristotele, Metafisica IV, 5 1009 b21; Teofrasto, De sensu, 3; vv. 1-2a Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysicam (parafrasi del testo) IV, 5; Asclepio, In Aristotelis Metaphysicam (parafrasi) 277; vv. 3-4 Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysicam (parafrasi del testo) IV, 5] 1 Αlcuni codici aristotelici riportano ἕκαστος («ciascuno»), preferito da DielsKranz; altri ἕκαστοι o ἑκάστῳ. Il codice di Asclepio ἕκαστον. Gli editori contemporanei (Tarán, Coxon, Conche, O'Brien, Cerri) hanno optato per la versione di Teofrasto e di autorevoli codici aristotelici (i più antichi) della Metafisica: ἑκάστοτε (lectio difficilior). 2 Seguiamo Coxon e Cerri nel preferire ἔχῃ - attestata da un solo codice (E) aristotelico – a ἔχει (per lo più accolta dagli editori) o ἔχειν: come spiega Cerri (p. 280), il congiuntivo ἔχῃ è non solo lectio difficilior, ma anche scelta più sensata nel contesto. Passa (p. 48) sottolinea l'opportunità della scelta di Cerri e Coxon, trovando riscontri nell'uso omerico delle comparative. 3 La forma κρᾶσιν è attestata in Aristotele e Teofrasto (in unione a ἔχει o ἔχειν). Estienne modificò in κρᾶσις, ancora accolto da alcuni editori (Tarán, KirkRaven-Schofield, O'Brien, Conche). A κρᾶσιν alcuni (Coxon, Palmer) preferiscono la forma ionica κρῆσιν. Passa (p. 120) avanza perplessità in proposito. 4 Il testo aristotelico, Alessandro e Asclepio riportano πολυκάμπτων («dai molteplici movimenti»). Il testo di Teofrasto πολυπλάγκτων, preferito dagli editori. 5 I codici aristotelici (insieme a quelli di Alessandro e Asclepio) riportano il presente παρίσταται, accolto da Diels-Kranz (e di recente ancora difeso da Passa, pp. 48-51), di cui tuttavia è stata segnalata l'impossibilità metrica. La tradizione teofrastea propone invece il perfetto παρέστηκε (che ha esattamente lo stesso valore), metricamente accettabile. La forma παρέστηκεν è degli editori. 6 I codici di Aristotele e Teofrasto riportano ἐστὶ; quello di Alessandro λέγεται. 214 Come, infatti, di volta in volta si ha1 temperamento2 di membra3 molto vaganti4 , così il pensiero5 si presenta agli uomini6 : poiché è precisamente la stessa cosa 1 Attribuiamo al verbo valore impersonale. Per l'alternativa costruzione personale sono state proposte diverse possibili candidature al ruolo di soggetto del verbo: νόος del v. 2 (Diels 1897: l'unico soggetto rafforzerebbe la correlazione ὡς... τὼς), ovvero, adottando il testo greco di Diels-Kranz, ἕκαστος, o ancora un soggetto implicito (Cerri: «qualcuno», «ciascuno», «l'uomo») o sottinteso (Ferrari: τις βροτῶν Β8.61). Altri, emendando κρᾶσιν in κρᾶσις, hanno fatto della «mescolanza» il soggetto. 2 Il termine κρᾶσις ha un valore più forte di μῖξις: quello di perfetta fusione, mescolanza in cui non sia più possibile discernere le componenti (come invece accade in una μῖξις, semplice mescolanza). La κρᾶσις trasforma gli elementi in una nuova entità unitaria e armonica: per questo il termine viene reso con «fusione» (Ferrari) ovvero «impasto» (Cerri), «unione» (Tonelli). Va tuttavia osservato che, sulla scorta della testimonianza di Teofrasto (DK 28 A46), anche tale amalgama presuppone una composizione variabile dei due elementi base. Traduciamo quindi come «temperamento», anche in considerazione della lezione che giunge dalla tradizione della medicina ippocratica, dove l'idea di κρᾶσις era associata a quella di riconduzione del molteplice a unità (Stemich, op. cit., pp. 157 ss.). 3 Ricordiamo che nei poemi omerici il termine σῶμα non indica mai ciò che noi comunemente intendiamo con «corpo», bensì il suo contrario, il «cadavere». Omero non rappresenta il corpo dell’uomo come unità di una molteplicità: impiega infatti termini per lo più al plurale, come μέλεα (o γῦια) appunto, che noi traduciamo con «membra». Ciò cui qui Parmenide intenderebbe riferirsi con il termine μέλεα non sono dunque gli «organi di senso» (Diels) o gli «elementi» (Schwabl), ma il corpo, come ha ben rilevato Tarán (p. 170). È tuttavia interessante la proposta di Cassin-Narcy (B. Cassin – M. Narcy, “Parménide Sophiste”, in Études sur Parménide, cit., II, p. 289) di mantenere al termine la doppia significazione, riferendolo sia immediatamente al corpo, sia mediatamente alle componenti universali. 4 Traduciamo l'espressione κρᾶσις μελέων πολυπλάγκτων come «temperamento di membra molto vaganti [erranti]», intendendola riferita all'unità del corpo umano, che è articolata appunto in appendici mobili, che si agitano in molte direzioni. 5 Rendiamo il termine νόος con «pensiero» ritenendo che in questo caso Parmenide non si riferisca genericamente alla facoltà (mente), ma alla sua 215 ciò che pensa7 negli uomini, la costituzione8 del [loro] corpo9 , condizione in relazione alla situazione del corpo. La costruzione dei primi due versi e il loro contenuto propongono un'eco omerica: τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei (Odissea XVIII, 136-7). 6 È significativo che in questo contesto la Dea non ricorra a un'espressione come βροτοί ma a ἄνθρωποι: il termine assume un valore descrittivo, marcando l'identica natura degli esseri umani «tutti» (καὶ πᾶσιν καὶ παντί). 7 Ricostruzione letterale dei vv. 2b-4a: «perché è la stessa cosa ciò che pensa (τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει) la natura del corpo (μελέων φύσις) negli uomini, in tutti e in ciascuno (ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί)». Nella letteratura recente si è distinta la proposta (Thanassas, Meijer e ora anche Marcinkowska-Rosół) di tradurre linearmente il testo greco, supponendo νόος come soggetto (sottinteso) di ἔστιν: ὅπερ sarebbe complemento oggetto e φύσις soggetto del verbo (φρονέει): perché [esso (il pensiero)] è precisamente la stessa cosa che la costituzione del corpo pensa negli uomini, in tutti e in ciascuno. Un'alternativa classica (Verdenius, ripreso da Vlastos e, tra gli altri, da Hölscher, Barnes, Bormann, Mansfeld) è quella di fare di φύσις a un tempo il soggetto di ἔστιν e φρονέει: «la natura delle membra è negli uomini la stessa cosa che [essa] pensa». Tarán, Heitsch, Mourelatos, Gallop, O'Brien, Gadamer (tra gli altri) hanno avanzato a loro volta una traduzione letterale, che fa di φύσις μελέων il soggetto di φρονέει, di ὅπερ un accusativo, e di τὸ αὐτό il soggetto di ἔστιν: «la stessa cosa, infatti, è ciò che la natura delle membra pensa negli uomini». In questo modo si lega τὸ αὐτό a ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί, marcando quindi l'identità dell'oggetto del pensiero. 8 Intendiamo in questo contesto φύσις come «natura, costituzione» (μελέων φύσις: «costituzione del corpo»). Giorgio Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 189) intende φύσις come «essenza»: il νόος, come elemento della struttura dell'uomo, operebbe una fusione nella molteplicità delle «membra». Tonelli riprende nella sua traduzione queste indicazioni. 9 Rendiamo il plurale μέλεα come «corpo», secondo l'uso omerico segnalato sopra. 216 in tutti e in ciascuno: ciò che prevale10 , infatti, è il pensiero11 . 10 In questo caso intendiamo πλέον come comparativo di πολύ («molto»): τὸ πλέον non vale dunque «il pieno» (πλέος aggettivo: «pieno»), ma «il più», «quanto prevale», riferito, a quanto si ricava dal contesto della citazione teofrastea, agli elementi (Fuoco-Notte, ovvero caldo e freddo). Teofrasto interpreta infatti: «la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale» (κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις). Tra coloro che interpretano τὸ πλέον come «il pieno», interessante la posizione di Tarán (pp. 256-60), che argomenta a lungo a partire dallo stesso contesto teofrasteo. Teofrasto, infatti, citerebbe il frammento per marcare come determinante per il pensiero non tanto l'elemento che prevale, ma una certa proporzione tra i componenti (συμμετρία). Così, quando una certa proporzione delle componenti di Luce e Notte è presente nel corpo, ne risulterebbe lo stesso pensiero, dal momento che il pensiero è il risultato dell'intera mescolanza. Coxon (p. 87) interpreta «the plenum» come «the subject whose nature has been expounded in the Way of Truth»: esso sarebbe il solo contenuto del pensiero. Recentemente M. Marcinkowska-Rosół, in Die Konzeption des "Noein" bei Parmenides von Elea, De Gruyter, Berlin-New York 2010, p. 187, ha proposto di leggere τὸ come pronome dimostrativo (= τοῦτο) in funzione prolettica, πλέον come avverbio, e ipotizzando una relativa in funzione di completamento: «[denn dies ist mehr das Denken], was in der Mischung jeweils überwiegt». 11 Qui νόημα è decisamente il risultato dell'atto di pensare. 217 DK B17 δεξιτεροῖσιν1 μὲν κούρους, λαιοῖσι δὲ 2 κούρας… [Galeno, In Hippocr. Epid. VI, 48 (XVII, 1002)] 1 La forma δεξιτεροῖσιν è intervento degli editori: il codice di Galeno riporta δεξιτεροῖσι. 2 Il testo di Galeno riporta δ’ αὖ: per ragioni metriche è stato emendato in δὲ (Scaligero, poi Karsten). Cerri (pp. 283-4) ha contestato tale emendazione come inutile banalizzazione. 218 a destra1 i maschi, a sinistra le femmine. 1 Le due forme dative δεξιτεροῖσιν e λαιοῖσι sono riferite nel contesto del discorso di Galeno (che cita) alle parti dell'utero: τὸ μέντοι ἄρρεν ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι τῶν παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν. ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως ἔφη Molti altri tra gli antichi hanno sostenuto che il maschio sia concepito nella parte destra dell'utero. Parmenide infatti afferma.... Gli aggettivi andrebbero dunque riferiti alle parti dell'utero. 219 DK B18 Femina virque simul Veneris cum germina miscent, Venis informans diverso ex sanguine virtus Temperiem servans bene condita corpora fingit. Nam1 si virtutes permixto semine pugnent Nec faciant unam permixto in corpore, dirae Nascentem gemino vexabunt semine sexum. [Celio Aureliano, Tardarum sive chronicarum passionum libri IV, 9] 1 Nella tradizione si trova At come alternativa a Nam. 220 Quando femmina e maschio mescolano insieme i semi1 di Venere, la potenza2 formatrice nelle vene3 , che [deriva] da sangue4 opposto5 , conservando la giusta misura plasma corpi ben fatti. Se, infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono [5] e non diventano un'unica potenza nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche affliggeranno il sesso nascente con il [loro] duplice seme6 . 1 Dalla parafrasi di Celio Aureliano troviamo conferma della tradizione dossografica secondo cui Parmenide credeva che esistessero semi maschili e femminili, e che giocassero entrambi un ruolo nella riproduzione. Tale convinzione risale probabilmente ad Alcmeone di Crotone, ma fu contestata nell'antichità da Anassagora e Diogene di Apollonia. 2 Il latino virtus traduce il greco δύναμις («potenza, forza, qualità, proprietà»). 3 L'ablativo venis deve riferirsi o alle vene dei genitori o a quelle dell'embrione: la costruzione, con l'uso di «diverso ex sanguine» suggerisce che la seconda alternativa sia più probabile (Coxon, p. 254). 4 Evidentemente per Parmenide i semi deriverebbero dal sangue, rispettivamente maschile e femminile. Coxon (pp. 254-5) segnala come ciò differenzi la posizione di Parmenide da quella di Alcmeone (che faceva derivare il seme dal cervello), mentre al sangue pare rinviasse Pitagora. 5 Come suggerito da Conche (p. 262), «diversus» non ha qui valore generico, ma, in relazione al sangue maschile e femminile, il significato di «opposto, contrario». 6 Si allude alla situazione in cui l'individuo generato risulti possessore sia del seme maschile sia di quello femminile, caratteristici normalmente di uomini e donne separatemente (Coxon, p. 255). 221 DK B19 οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε1 καί νυν2 ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε τελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ. [Simplicio, In Aristotelis De Caelo 558] 1 I codici DE di Simplicio, in vece di ἔφυ τάδε, riportano ἐφύτα δὲ. 2 I codici di Simplicio riportano καὶ νῦν· καί νυν è correzione degli editori. 222 Ecco, in questo modo1 , secondo opinione2 , queste cose3 ebbero origine4 e ora5 sono6 , 1 La formula οὕτω τοι è impiegata per riassumere quanto detto: introduce quindi una ricapitolazione ovvero la "lezione" che si ricava dal discorso precedente (Conche, p. 265). 2 In conclusione della seconda sezione del poema, nella quale la Dea affrontava – come recita B8.51 - δόξας βροτείας, appare legittimo tradurre κατὰ δόξαν come «secondo opinione». In realtà, molti scelgono di insistere sulla radice in δοκέω, traducendo l'espressione come «secondo parvenza», «secondo apparenza» (Tonelli), «selon ce qui semble» (Conche), «according to belief» (Coxon). Il senso della formula a noi pare comunque salvaguardato: la Dea conclude la propria trattazione della realtà dal punto di vista dell'esperienza umana, cioè di quel punto di vista che matura a partire da τὰ δοκοῦντα («le cose che appaiono e sono assunte sulla base della esperienza»: Simplicio, a proposito di tale punto di vista parla di διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν), ribadendo il carattere che contraddistingue i fenomeni che registriamo (τάδε): nascita (ἔφυ), sviluppo (τραφέντα), morte (tελευτήσουσι). Nella sua interpretazione introduttiva, Simplicio impiega una formulazione platonico-aristotelica: egli parla di ὑπόστασις τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ ma anche di δοκοῦν ὄν. Come ha fatto osservare Coxon (p. 256), i due versi B19.1-2 mettono in contrasto la natura delle cose che appaiono nell'esperienza umana con la natura attribuita all'Essere in B8.5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν. 3 Il pronome dimostrativo τάδε è qui impiegato per designare l'insieme dei fenomeni cosmici oggetto della trattazione (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν nel linguaggio di Simplicio) precedente. Secondo Conche (p. 265) si riferisce alle cose che i mortali hanno sotto gli occhi: «queste cose qui», di cui il discorso cosmogonico ha spiegato l'origine, la natura e il destino. 4 Il testo greco riporta una irregolarità nell'uso del verbo: il plurale neutro τάδε regge sia la terza persona singolare ἔφυ, sia la terza plurale ἔασι e τελευτήσουσι: il passaggio da singolare a plurale nell'ambito di una stessa frase esistono comunque precedenti in Omero e Senofane (DK 21 B29). 5 La formula καί νυν, come segnalano Diels e Coxon, è comune in Pindaro (e Omero). 6 Come abbiamo già segnalato, è chiaro come in questo passo «queste cose» siano connotate da un punto di vista temporale in senso opposto rispetto a τὸ ἐόν: i tempi verbali (passato, presente futuro), gli avverbi (νυν, μετέπειτα), le scelte verbali (φύω, τρέφω, τελευτάω) contrastano la determinazione dell'essere come οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν di B8.5. 223 e poi, in seguito7 sviluppatesi, avranno fine8 . A queste cose, invece9 , un nome gli uomini10 imposero11, distintivo12 per ciascuna. 7 La formula avverbiale μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε (letteralmente «dopo, a partire da ora») contrasta la labile puntualità di νυν ἔασι. Leggiamo ἀπὸ τοῦδε collegato al participio τραφέντα. 8 La costruzione greca - τελευτήσουσι τραφέντα – consente diverse soluzioni nella traduzione (Cerri, p. 289): (i) la combinazione di futuro medio e participio aoristo può intendersi nel senso del compimento dell'azione indicata dal participio, quindi: «porteranno a termine la propria crescita»; ovvero (ii) nel senso di una cessazione di quell'azione, quindi: «cesseranno di crescere» (si interromperà il oro sviluppo); o ancora (iii) subordinando l'azione indicata dal futuro a quella indicata dal participio: «una volta cresciuti/sviluppati, avranno fine». 9 Sottolineiamo il valore avversativo di δέ, seguendo Untesteiner e Ruggiu: ciò contribusce a conferire senso critico al rilievo successivo. 10 Anche in questo caso, come in B16, il poeta opta per ἄνθρωποι: la Dea ricorre insomma a una designazione diversa rispetto alla diminutiva βροτοί. Sintomo, forse, del fatto che in questo contesto la polemica è stata abbandonata per lasciare il posto a una ricostruzione oggettiva. 11 L'espressione ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντο richiama puntualmente B8.38b-39a: πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο e B8.53: μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν secondo quella che Cerri (p. 289) definisce «la più tipica movenza della "composizione ad anello"». 12 L'aggettivo ἐπίσημος si riferisce alla funzione (in questo caso attribuita a ὄνομα) di distinguere, contraddistinguere (ἐπί-σημαίνω). All'instabilità del nascere, crescere, morire è sovrapposta la relativa stabilità del nome. 224 COMMENTO 225 IL VIAGGIO [B1] Introduzione Sesto Empirico, unica nostra fonte per i primi trenta versi del poema Περὶ φύσεως (Sulla natura), ne contestualizza il proemio in questi termini: ὁ δὲ γνώριμος αὐτοῦ Παρμενίδης τοῦ μὲν δοξαστοῦ λόγου κατέγνω, φημὶ δὲ τοῦ ἀσθενεῖς ἔχοντος ὑπολήψεις, τὸν δ’ ἐπιστημονικόν, τουτέστι τὸν ἀδιάπτωτον, ὑπέθετο κριτήριον, ἀποστὰς καὶ < αὐτὸς > τῆς τῶν αἰσθήσεων πίστεως. ἐναρχόμενος γοῦν τοῦ Περὶ φύσεως γράφει τοῦτον τὸν τρόπον Il discepolo di lui (= Senofane), Parmenide, svalutò il discorso opinativo – intendo quello che ha concezioni deboli -, e assunse come criterio quello scientifico, cioè quello infallibile, avendo preso le distanze anche lui dalla fiducia nelle sensazioni. Iniziando appunto il Peri physeōs scrive in questo modo … (Adv. Math. VII, 111). Il successivo commento (§§112-114), nel quale Sesto identifica il viaggio del poeta con lo studio filosofico (τὴν κατὰ τὸν φιλόσοφον λόγον θεωρίαν), ha nei secoli condizionato la ricezione del proemio, sia nel senso di proporlo come mera approssimazione metaforica all’istruzione filosofica del poema, sia, conseguentemente, nel senso di misconoscerne il rilievo teoretico, riducendolo a orpello poetico (in fondo trascurabile): ἐν τούτοις γὰρ ὁ Παρμενίδης ἵππους μέν φησιν αὐτὸν φέρειν τὰς ἀλόγους τῆς ψυχῆς ὁρμάς τε καὶ ὀρέξεις [1], κατὰ δὲ τὴν πολύφημον ὁδὸν τοῦ δαίμονος πορεύεσθαι τὴν κατὰ τὸν φιλόσοφον λόγον θεωρίαν, ὃς λόγος προπομποῦ δαίμονος τρόπον ἐπὶ τὴν ἁπάντων ὁδηγεῖ γνῶσιν [2. 3], κούρας δ’ αὐτοῦ προάγειν τὰς αἰσθήσεις [5], ὧν τὰς μὲν ἀκοὰς αἰνίττεται ἐν τῶι 226 λέγειν ‘δοιοῖς ... κύκλοις’ [7. 8], τουτέστι τοῖς τῶν ὤτων, τὴν φωνὴν δι’ ὧν καταδέχονται, τὰς δὲ ὁράσεις Ἡλιάδας κούρας κέκληκε [9], δώματα μὲν Νυκτὸς ἀπολιπούσας [9] ‘ἐς φάος < δὲ > ὠσαμένας’ διὰ τὸ μὴ χωρὶς φωτὸς γίνεσθαι τὴν χρῆσιν αὐτῶν. ἐπὶ δὲ τὴν ‘πολύποινον’ ἐλθεῖν Δίκην καὶ ἔχουσαν ‘κληῖδας ἀμοιβούς’ [14], τὴν διάνοιαν ἀσφαλεῖς ἔχουσαν τὰς τῶν πραγμάτων καταλήψεις. ἥτις αὐτὸν ὑποδεξαμένη [22] ἐπαγγέλλεται δύο ταῦτα διδάξειν ‘ἠμὲν ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεμὲς ἦτορ’ [29], ὅπερ ἐστὶ τὸ τῆς ἐπιστήμης ἀμετακίνητον βῆμα, ἕτερον δὲ ‘βροτῶν δόξας ... ἀληθής’ [30], τουτέστι τὸ ἐν δόξηι κείμενον πᾶν, ὅτι ἦν ἀβέβαιον. In questi versi Parmenide dice che le cavalle lo portano, [intendendo] gli impulsi e i desideri irrazionali dell'anima (1), e che esse avanzano lungo la via ricca di canti della divinità, [intendendo] nella ricerca secondo la ragione filosofica; la quale ragione guida a guisa di divinità, per la conoscenza di tutte le cose (2, 3); le fanciulle che lo precedono sono le sensazioni (5): di esse accenna all'udito laddove dice «due rotanti cerchi» (7, 8), cioè i cerchi delle orecchie, attraverso cui esse ricevono il suono. Chiama gli occhi fanciulle Eliadi (9), che avendo abbandonato la dimora della Notte (9) vanno «verso la luce> (10), poiché senza luce non può esservi uso di essi. Dice che procedono verso la Giustizia «che molto punisce» e che tiene «le chiavi dall'uso alterno» (14), [intendendo] la ragione che possiede una conoscenza certa delle cose. Essa lo accoglie (22) e promette di insegnare queste due cose: «il cuore saldo di verità ben persuasiva» (29), che è il fondamento immutabile della scienza, e l'altra «le opinioni dei mortali in cui non è reale credibilità» (30), cioè tutto quanto ricade nell'opinione, che non è saldo. In realtà, sin dalla fine del XIX secolo – dall'edizione (1897) del poema a opera di Hermann Diels - si è reagito al rischio di una banale allegoresi della poesia parmenidea, recuperando, proprio nel proemio, uno sfondo frastagliato di prospettive e possibili 227 suggestioni culturali, che hanno in comune l’effetto di renderne la relazione con i successivi frammenti molto più complessa. Dobbiamo alla competenza del filologo tedesco l’inquadramento dell’opera di Parmenide all’interno di un’articolata cornice di plausibili precedenti (e motivi) poetici, che appaiono rilevanti per apprezzarne l’originalità. Nella consapevolezza che la conoscenza della tradizione poetica intermedia (secoli VII-VI a.C.) tra le fonti omeriche ed esiodee e il poema parmenideo è, per noi, in gran parte compromessa, Diels valorizzava in particolare1 : (i) il modello della speculazione cosmogonica e cosmologica di Esiodo, che avrebbe improntato soprattutto la seconda sezione del Περὶ φύσεως, ma da cui dipenderebbe la sua stessa struttura bipartita - corrispondente all'iniziale sottolineatura delle Muse in Teogonia, vv. 27-28: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare, insieme al motivo della “doppia via” (verità ed errore), che evocherebbe l’analoga alternativa tra miseria morale (κακότης) e valore morale (ἀρετή) in Opere e giorni (vv. 287 ss.); (ii) il modello della poesia orfica, di cui nel poema riecheggerebbero termini e immagini: nel riconoscerne l’importanza, le connessioni con altre correnti religiose contemporanee (misteri) e il radicamento nella tradizione più antica, lo studioso ne marcava l’ampia incidenza nella cultura greca in genere, rilevando tracce del «pessimismo» (Pessimismus) di questo movimento di «riforma» (Reformation) anche nel «razionalismo» (Rationalimus) della filosofia ionica. 1 H. Diels, Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen und Schlösser, mit einem neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidierten Bibliographie von D. De Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin 20032 (edizione originale 1897), pp. 12 ss. 228 In tale prospettiva, Diels richiamava l’attenzione sulla tradizione dei leggendari «profeti» del misticismo greco arcaico (Epimenide, Onomacrito, Museo) che avrebbe ancora trovato espressione nei Καθαρμοί di Empedocle: nel caso della forma poetica («rivestimento poetico», poetische Einkleidung) privilegiata da Epimenide per la propria «rivelazione» (Offenbarung), ritroveremmo, per esempio, il prototipo della «narrazione in prima persona» (Icherzählung) di un’esperienza di Incubation, quale riferita da Alessandro di Tiro: ἦλθεν Ἀθήναζε καὶ ἄλλος Κρὴς ἀνὴρ ὄνομα Ἐ.· οὐδὲ οὗτος ἔσχεν εἰπεῖν αὑτῶι διδάσκαλον ἀλλ’ ἦν μὲν δεινὸς τὰ θεῖα, ὥστε τὴν Ἀθηναίων πόλιν κακουμένην λοιμῶι καὶ στάσει διεσώσατο ἐκθυσάμενος· δεινὸς δὲ ἦν ταῦτα οὐ μαθών, ἀλλ’ ὕπνον αὑτῶι διηγεῖτο μακρὸν καὶ ὄνειρον διδάσκαλον. ἀφίκετό ποτε Ἀθήναζε ἀνὴρ Κρὴς ὄνομα Ἐ. κομίζων λόγον οὑτωσὶ ῥηθέντα πιστεύεσθαι χαλεπόν· < μέσης γὰρ > ἡμέρας ἐν Δικταίου Διὸς τῶι ἄντρωι κείμενος ὕπνωι βαθεῖ ἔτη συχνὰ ὄναρ ἔφη ἐντυχεῖν αὐτὸς θεοῖς καὶ θεῶν λόγοις καὶ Ἀληθείαι καὶ Δίκηι. Venne ad Atene anche un altro Cretese, di nome Epimenide: nemmeno costui seppe dire chi gli sia stato maestro, ma era straordinariamente competente nelle questioni divine, tanto che, facendo offrire sacrifici, riuscì a salvare la città degli Ateniesi, afflitta dalla peste e dalla discordia civile. Ed era così esperto in questa materia non perché l'avesse imparata, ma si diceva che suo maestro fosse stato un lungo sonno con un sogno. – Arrivò un tempo ad Atene un Cretese, di nome Epimenide, portando un racconto difficile da credere, formulato nei seguenti termini: disse che, sdraiatosi a mezzogiorno nella grotta di zeus Ditteo, rimase immerso in un sonno profondo per molti anni, e si intrattenne in sogno con dèi e discorsi di dèi, con la Verità e con la Giustizia (contesto DK 3 B1. Traduzione di I. Ramelli e G. Reale). 229 Proprio Epimenide (nei suoi Καθαρμοί, in particolare) sarebbe figura esemplare di uno sciamanismo, presente nelle credenze religiose elleniche (in associazione con fenomeni rilevanti, anche a livello letterario, come le epifanie, i sogni, i sacrifici), in cui, rispetto al più generale tema della purificazione e della relativa iniziazione, decisivo diventa il motivo del “viaggio” ultraterreno, del contatto con una realtà trascendente: in questa direzione la poesia genericamente orfica avrebbe incrociato l’elemento “estatico”, di cui appunto il «viaggio celeste» (Himmelreise) costituirebbe frammento. All’interno di tale orizzonte culturale, il Περὶ φύσεως si propone in una luce diversa, tale da suggerire maggiore cautela ermeneutica nella riduzione dei suoi contenuti ai moduli del dibattito contemporaneo (come accade negli approcci analitici ai frammenti). Nel caso del suo proemio, in particolare, si rischia il fraintendimento proponendolo come mera introduzione d’occasione o tributo formale, in cui il sapiente (un filosofo!), per opportunità letteraria e compiacenza verso il proprio pubblico, avrebbe optato per un mascheramento allegorico della propria concettualità (assumendo l’implausibile veste del poeta!): è necessario invece conservare al testo la sua polisemia e al complesso dell’impresa teorica di Parmenide uno spessore originale2 . 2 Ogni edizione del poema e ogni saggio su Parmenide si intrattengono su questo nodo interpretativo: la sintesi più recente del lungo dibattito si può leggere in L. Couloubaritsis, La pensée de Parménide [si tratta delle terza edizione di Mythe et philosophie chez Parménide], Ousia, Bruxelles 2008, cap. II "Le «Proème» comme producteur de chemins". Molto utile anche l’introduzione (“Parmenides and His Predecessors”) di M.J. Henn al suo Parmenides of Elea: A Verse Translation with Interpretative Essays and Commentary to the Text, Praeger Publishers, Westport 2003, che si apre la propria introduzione sul tema “The Poet as Shaman and Singer of Mysteries in the Homeric Style”, dedicando molto spazio all’analisi della struttura dell’esametro parmenideo. Una riconsiderazione complessiva della poesia del Περὶ φύσεως è proposta da L.A. Wilkinson, Parmenides and To Eon. Reconsidering Muthos and Logos, Continuum International Publishing, London – New York 2009: le pagine 69-79 sono dedicate al problema del proemio. Un’ampia e sostenuta lettura del proemio come chiave per l’interpretazione del poema è oggi proposta in R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, Orizons, Paris 2011. 230 Come di recente ha ricordato Maria Laura Gemelli Marciano3 , il proemio parmenideo non è inutile orpello o artificio letterario: esso è invece fondamentale per comprendere carattere, metodo e finalità del poema. Nel contesto storico-geografico, sociale e religioso in cui si muoveva Parmenide, cantare un’esperienza eccezionale, rappresentare, nel ritmo e nella musicalità proprie delle forme esametriche, un viaggio nell'aldilà, evocando un linguaggio iniziatico e performativo, era cosa ben diversa dall’erudita esercitazione che l’allegoresi di Sesto presuppone: il poeta Parmenide si rivolgeva a un’audience, un pubblico convenuto per ascoltare le parole di una dea e partecipare all’esperienza evocata in versi. È significativo, per la comprensione storica del poema, che del proemio non resti traccia nelle citazioni antiche, che esso sia stato ignorato da coloro (Platone e Aristotele) che hanno contribuito a fissare i contorni della figura di Parmenide per la tradizione successiva. Perché la poesia? Il problema della natura e portata del proemio è strettamente connesso a quello, più generale, della scelta di fondo – da parte di Parmenide - del medium poetico, di cui la narrazione riflette alcuni motivi tradizionali, culturalmente di grande significato teoretico anche nella prospettiva specifica del poema. Ci si riferisce in particolare all’intimo nesso tra poesia, rivelazione e mito, certamente una chiave per decifrare l’impianto creativo del Περὶ φύσεως, in cui si intrecciano racconto, comunicazione divina della «parola» (μῦθος) e «verità» (Ἀληθείη). Rimane ancora molto utile il vecchio aggiornamento, a cura di G. Reale, di E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III: Eleati, La Nuova Italia, Firenze 1967. 3 "Lire du début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques", «Philosophie Antique», 7, 2007 (Présocratiques), pp. 7-37. l'osservazione è alle pp. 11-12. 231 Poesia, mito, verità In un frammento (fr. 12 Bowra) del perduto Inno a Zeus di Pindaro, contemporaneo di Parmenide, noi troviamo una sorta di autointerpretazione mitica del ruolo del poeta e della poesia nella società greca tra VI e V secolo a.C.. Pindaro racconta come, dopo aver ordinato il mondo e il regno degli dei, Zeus avesse loro domandato se, per caso, mancasse ancora qualcosa alla sua fatica: essi, allora, lo avevano pregato di creare alcune divinità per «celebrare con parole e musica quelle grandi opere e l’intero suo ordinamento»4 . A tale scopo, per onorare la bellezza dell’edificio cosmico, e manifestarlo nella sua totalità, Zeus introduce nuove divinità, le Muse: così la sua opera si compie con la nascita della parola, del canto (originariamente identici), espressioni divine che ne rivelano l’essere. Per il grande filologo tedesco Walter Friedrich Otto, il supremo evento del mito è che l’essere delle cose si riveli nella parola con la sua divinità5 : ogni mito genuino si rivolge alla totalità del reale, come uno sguardo complessivo sulla sua manifestazione originaria. In questa prospettiva, l’esperienza del mito è intesa come esperienza, a un tempo, della bellezza e della verità: da cui l’impressione arcaica che il poeta possa avvicinare, più degli altri uomini, l’essere delle cose; che la sua parola possa afferrare la realtà in profondità in forza della sua “ispirazione”. L’invocazione alle Muse dell’antica poesia greca palesa la recettività del poeta: l’ – osserva Otto - non si apre con la superbia (tipicamente moderna) di una coscienza creatrice, ma con la modestia di chi ascolta. È la divinità a cantare, il poeta è solo suo mediatore: in questo senso la poesia è un’ombra dell’essenza del mito. Eppure il poeta (tipicamente per noi il poeta omerico), sebbene non sia riconosciuto autore di ciò che canta, rimane in ogni caso il recettore dello spirito delle Muse: egli si distingue dalla massa degli altri uomini ed è più vicino agli dèi in quanto sua è la voce 4 Citato in W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in Id., Il mito, a cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 43-44. 5 W.F. Otto, Il mito (1955), ivi, p. 60. 232 attraverso cui le Muse si esprimono. Egli è un «maestro di verità» (Detienne), le cui parole proclamano piuttosto che suggerire: per questo poeti come Senofane e Parmenide (che compongono entro la tradizione omerica) rivendicano una condizione privilegiata rispetto a quella dei “mortali”. Donde il carattere spesso esoterico della filosofia antica 6 . Parmenide e la poesia Nella scelta poetica di Parmenide questi elementi, come si avrà opportunità di rilevare, si ricompongono in modo originale, soprattutto nel plasmare l’atteggiamento del destinatario della comunicazione divina: è un fatto, tuttavia, che essi siano presenti nel Περὶ φύσεως, che il mito assuma la forma del manifestarsi di ciò che è originario, di quanto viene altrimenti designato come il divino (τό θεῖον). Significativamente, la θεά introdurrà (B2) l’assiomatica della sua istruzione intorno alla Verità ricorrendo proprio alla formula «e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata» (κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας): il «giovane» (κοῦρος) è esplicitamente sollecitato a «prendersi cura» (κόμισαι) del μῦθος divino, che dischiude la comprensione della realtà. Dei termini greci arcaici per «parola» ritroviamo dunque nel poema: (i) μῦθος (B2.1; B8.1), la forma primitiva per esprimere ciò che è realmente, effettivamente accaduto: la parola che dà notizia del reale, che stabilisce qualcosa, e, in questo senso, è autorevole; (ii) λόγος (B7.5), che ha il valore di di ciò che è stato ponderato, che serve a convincere (donde il valore di «ragione») 7 , della parola ragionevole. In questo senso, in B7.5, la Dea innominata inviterà il κοῦρος a valutare razionalmente (κρῖναι λόγωι, «giudica con il ragionamento») l’argomento proposto. 6 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 29. 7 W.F. Otto, Il mito e la parola, in Id., Il mito, cit., pp. 30-32. 233 Già nel registro verbale è possibile intravedere l’intervento creativo di Parmenide sulla tradizione. Nel rilevare la contrapposizione apparente del poema di Parmenide con la razionalità ionica sul terreno dei contenuti e dello stile, Ruggiu8 ha colto nella ripresa della forma e del metro epico una modalità espressiva appropriata alla parola come μῦθος: il contenuto dell’epica è costituito, insieme, da «le cose che sono, quelle che sono state e quelle che saranno» (τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, Calcante in Iliade I, 70) e τά ἀληθέα (le Muse in Teogonia 28), da intendere come sinonimi. Dal momento che, anche per Parmenide, valore primario è la Verità (Realtà), attribuire a una divinità la rivelazione del contenuto dell’opera sarebbe dunque escamotage espressivo coerente con la tradizione sapienziale arcaica: il disvelarsi del reale si palesa come manifestazione del divino stesso9 . È questo, allora, il motivo che induce all'adozione della forma e del metro epico? Parmenide è ancora persuaso che il discorso cantato come pratica comunicativa garantisca la possibilità di una “comunicazione vera”, di un «autentico contatto» (Vernant) con il divino10? Proprio il proemio, in effetti, sembra giustificare le scelte di Parmenide alla luce dei suoi possibili modelli di riferimento: (i) l’inno alla divinità in funzione di proemio rapsodico (nel campo della poesia epica), ovvero l’invocazione alle Muse in funzione di protasi; (ii) i proemi delle opere di Esiodo, Epimenide e Aristea (nel campo della poesia cosmogonica), che celebrano l’investitura poetica e la rivelazione da parte della divinità11. Non vi è dubbio che, optato per il medium della rivelazione, l’adozione della forma poetica fosse scontata e il metro dell’epica tradizionalmente 8 Parmenide, Poema sulla Natura. I frammenti e le testimonianze indirette, presentazione, traduzione e note a cura di G. Reale, saggio introduttivo e commentario filosofico a cura di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991, pp. 155- 156. 9 Ivi, p. 160. 10 Wilkinson, op. cit., p. 67. 11 Parmenide di Elea, Poema sulla Natura, introduzione, testo, traduzione e note di commento di G. Cerri, BUR, Milano 1999, pp. 109-110. 234 funzionale all’istruzione 12 ; ma è anche vero che la scelta dell’epica avrebbe a suo modo naturalmente comportato quel medium (almeno nella forma dell'ispirazione) tradizionale. Si tratta di due prospettive distinte e complementari, che potremmo così schematicamente caratterizzare: la prima opzione sottolinea l’orizzonte della verità in cui si iscrivono i contenuti del poema, che la divinità garantisce con la propria autorità e autorevolezza; la seconda richiama soprattutto la sua efficacia comunicativa, un aspetto spesso trascurato, ma che di recente ha assunto grande rilievo nella letteratura critica13 . Poesia, educazione e vita Proprio considerando i plausibili modelli che si celano dietro le scelte e i moduli espressivi di Parmenide, non pare azzardato sostenere che il proemio annunci un processo di trasformazione della persona (il κοῦρος istruito dalla Dea), in cui il momento cognitivo tradizionalmente privilegiato dagli interpreti è in realtà funzionale a una modificazione radicale dell’esistenza di colui che è destinato a ricevere la comunicazione divina. Non a caso esso è stato spesso accostato in passato ai miti escatologici di Platone: in particolare il mito conclusivo della Repubblica (mito di Er) e quello centrale del Fedro (mito dell’auriga). Almeno alcuni elementi fanno in questo senso indiscutibilmente riflettere: (i) la ripresa di un motivo, quello del viaggio, centrale non solo nella letteratura omerica ma anche in quella religiosa; (ii) la meta del viaggio: l’incontro con la divinità; (iii) la scenografia cosmica dell’incontro; (iv) le modalità della rivelazione divina. Gli interpreti sostanzialmente concordano nel riconoscere nella scelta parmenidea del metro (esametro) dell’epica 12 Parmenides. A Text with Translation, Commentary and Critical Essays, by L. Tarán, Princeton University Press, Princeton 1965, p. 31. 13 Mi riferisco, in particolare, ai contributi di Chiara Robbiano (2006) e Martina Stemich (2008). 235 un’intenzione didascalica, l’interesse al recupero di uno strumento culturale ed educativo essenziale della tradizione. Possiamo allora considerare tale opzione come un facilitatore per la comunicazione del sapiente: come i poemi epici di Omero ed Esiodo, il poema di Parmenide tratta della verità e offre educazione. Chiara Robbiano ha giustamente rilevato come scrivere in versi fosse la soluzione espressiva più naturale per chi intendesse affrontare una materia del massimo rilievo: evocando alcune categorie epiche familiari al pubblico, era poi possibile rimodellarle in una nuova prospettiva filosofica14. Nel caso di Parmenide si trattava di suscitare aspettative, soprattutto se - ammettendo la circolazione di idee nel complesso del mondo greco, orientale e occidentale - interpretiamo la scelta poetica come alternativa ai modelli in prosa provenienti dalla Ionia. Da un poema in esametri il pubblico poteva aspettarsi: (i) una comunicazione di verità; (ii) la proposta di un modello di comportamento15. A conferma, è significativo il fatto che, nella cultura tra VI e IV secolo a.C., a più riprese, Senofane, Eraclito e Platone abbiano attaccato Omero ed Esiodo, così denunciando l’incidenza (e l’efficacia) dell’epica arcaica su mentalità e costumi. Non va trascurata la possibilità che Parmenide abbia valutato l’impatto “didattico” della performance poetica, la forza comunicativa della recitazione pubblica, caratteristica di un contesto culturale ancora decisamente segnato dalla tradizione orale. Anche in questo senso Parmenide avrebbe potuto sfruttare i vantaggi che garantiva il richiamo alla sapienza del canto poetico omerico ed esiodeo (facilitare diffusione e memorizzazione della propria scrittura, attingere a un repertorio di immagini e analogie di sicuro effetto), con la possibilità, poi, di dar forma – in piena autonomia – a nuovi concetti e formule astratte16 . 14 C. Robbiano, Becoming Being. On Parmenides’ Transformative Philosophy, International Pre-Platonic Studies, Academia Verlag, Sankt Augustin 2006, p. 42. 15 Ibidem. 16 M. Stemich, Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, Ontos Verlag, Frankfurt 2008, pp. 30-31. 236 Della poesia greca arcaica17, il Περὶ φύσεως, nel suo proemio, conserva senz’altro il riferimento paradigmatico al mito come memoria per recuperare creativamente temi e motivi della tradizione in funzione didascalica, insieme al rilievo dell’ispirazione divina (donde l’istituto stesso del proemio, cioè l’abitudine di far cominciare il canto - epico o lirico - con l’invocazione alle Muse o ad altre divinità) e alla (probabile) destinazione performativa pubblica, collegata alla scelta della forma metrica (esametro), secondo le indicazioni interne alla stessa tradizione omerica (l’aedo Demodoco nell’ottavo libro dell’Odissea). Gentili segnala18 come alla fine del VI sec. (504-501) il rapsodo Cineto di Chio fosse il primo a «recitare» Omero a Siracusa (in un’area geografica non remota dalla Magna Grecia di Elea: pare che Parmenide soggiornasse presso la corte di Ierone, che aveva richiamato artisti e intellettuali da tutta la Grecia19), inserendo nell’ordito dei poemi omerici originali versi epici. Non va dimenticato come, in un sistema culturale – quale quello greco arcaico - fondato quasi esclusivamente sull’oralità della comunicazione del messaggio poetico, il cantore epico fosse destinato a trasmettere, attraverso la narrazione, l’enciclopedia del sapere (tecnico, giuridico, scientifico) in cui, per secoli (nel caso dell’epos omerico), si era riconosciuta (e intorno a cui si era venuta organizzando) la società ellenica20. Per la comprensione del testo di Parmenide, che noi oggi leggiamo, è quindi essenziale la contestualizzazione, non solo per le trame teoriche, ma anche per quelle formali: ciò consente - rispetto a quelle arcaiche forme enciclopediche, in cui tutta la saggezza era incorporata nella concretezza della narrazione - di apprezzarne la specifica natura, l'originalità dell’impianto e l’audacia dei suoi assunti (astratti e sistematici). 17 Ricavo questi elementi dal primo capitolo (Oralità e cultura arcaica) di B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Feltrinelli, Milano 2006. 18 Ivi, p. 22. 19 Su questo A. Capizzi, "Quattro ipotesi eleatiche", in «La Parola del Passato», XLIII, 1988, pp. 42-60; riferimento alle pp. 52-53. 20 Gentili, op. cit., p. 69. 237 Non va comunque trascurato il fatto che la scelta espressiva – probabilmente condizionata da esigenze di diffusione e trasmissione (non ultima la stessa memorizzazione) – implicava, in quello sfondo culturale, la dimensione “spettacolare” (recitazione e canto) della sua ricezione21, che Parmenide non poteva ignorare. Questa considerazione, da un mero punto di vista formale, aiuta a comprendere la solennità dell’esordio poetico del Περὶ φύσεως e l’insieme drammatico del proemio (viaggio, difficoltà, incontro con la divinità), così come la sua intenzione di coinvolgere il pubblico destinatario, non solo a livello intellettuale, ma anche emozionale, incoraggiandolo a seguire l’esperienza «trasformativa» del poeta, convertito dal contatto con la verità22 . In questo senso, rispetto alla tradizione, è opportuno osservare come il poema suggerisca: (i) una diversa modalità di approccio alla Verità: nella poesia omerica, la presenza del divino era evocata e invocata attraverso la Musa e i versi originavano dalla «memoria divina» 23; nel poema in generale, e nel proemio soprattutto, l'invocazione è sostituita da un incontro divinamente garantito e da una diretta comunicazione divina, che fanno del poeta qualcosa di più di un semplice tramite ispirato; (ii) una probabile integrazione della dimensione performativa: l'invito alla valutazione razionale (κρῖναι δὲ λόγῳ) fa pensare a una relazione educativa del tipo delineato dal Sofista platonico (237a): come ha di recente sottolineato Passa24, la rievocazione, per bocca dello Straniero di Elea, di una lezione tenuta da Parmenide ai discepoli potrebbe essere indicativa – oltre che dello stesso modello pedagogico dell'Accademia – di un'originale impronta dell'Eleate: Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ 21 Ivi, p. 49. 22 Robbiano, op. cit., p. 49. 23 Wilkinson, op. cit., p. 32. 24 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 25. 238 μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ τέλους τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων Οὐ γὰρ μή ποτε τοῦτο δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήμενος εἶργε νόημα [B7.1-2] Questo discorso ha osato supporre che ciò che non è sia; il falso, infatti, non potrebbe prodursi in altro modo. Il grande Parmenide, tuttavia, figlio mio, a noi che eravamo ancora bambini, cominciando e fino alla fine testimoniava contro questo discorso, ribadendo ogni volta con le sue parole e i suoi versi che: «Questo infatti mai sarà forzato: che siano cose che non sono; Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero». Si tratta di un «fotogramma di interno scolastico»25: la memorizzazione dei contenuti fondamentali (cui la scelta dei versi sarebbe stata funzionale) era affiancata dal commento e dall'argomentazione dettagliata del maestro, che approfondiva e chiariva i temi (comunicando probabilmente informazioni supplementari, non divulgabili all'esterno). Il poema potrebbe essere, almeno in parte, un reperto di tale situazione didattica: donde le sue asperità e l'impressione che fosse probabilmente rivolto a una cerchia ristretta26 . Parmenide poeta È significativo che, in quella che potrebbe essere la più antica allusione a Parmenide, egli sia annoverato tra i «poeti»: 25 Cerri, op. cit., p. 94. 26 Questo rilievo in M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’estce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, pp. 89-90, che accosta in questo senso Parmenide a Eraclito. 239 ἆρα ἔχει ἀλήθειάν τινα ὄψις τε καὶ ἀκοὴ τοῖς ἀνθρώποις, ἢ τά γε τοιαῦτα καὶ οἱ ποιηταὶ ἡμῖν ἀεὶ θρυλοῦσιν, ὅτι οὔτ’ ἀκούομεν ἀκριβὲς οὐδὲν οὔτε ὁρῶμεν; Mi chiedo se vista e udito abbiano una qualche verità per gli uomini, oppure se queste cose stiano proprio come sempre ci ripetono i poeti: che non udiamo né vediamo alcunché di preciso. (Fedone 65b), a dispetto di una tradizione che avrebbe poi, a più riprese, manifestato un certo disappunto di fronte ai versi dell’Eleate: τὰ δ’ Ἐμπεδοκλέους ἔπη καὶ Παρμενίδου καὶ θηριακὰ Νικάνδρου καὶ γνωμολογίαι Θεόγνιδος λόγοι εἰσὶ κιχράμενοι παρὰ ποιητικῆς ὥσπερ ὄχημα τὸ μέτρον καὶ τὸν ὄγκον, ἵνα τὸ πεζὸν διαφύγωσιν. I poemi di Empedocle e Parmenide, le Teriache di Nicandro e le Sentenze di Teognide sono discorsi che, servendosi della poesia come di un veicolo, ne prendono il metro e la dignità, per evitare la prosa [il prosaico]. (Plutarco; DK 28 A15) μέμψαιτο δ’ ἄν τις Ἀρχιλόχου μὲν τὴν ὑπόθεσιν, Παρμενίδου δὲ τὴν στιχοποιίαν [...] Ad Archiloco si potrebbe rimproverare il soggetto, a Parmenide il modo di fare versi […] (Plutarco; DK 28 A16) ὁ δέ γε Π. καίτοι διὰ ποίησιν ἀσαφὴς ὢν ὅμως καὶ αὐτὸς ταῦτα ἐνδεικνύμενός φησιν Parmenide, pur risultando oscuro a causa della poesia, espone e afferma a sua volta le stesse cose. (Proclo; DK 28 A17). La forza del pensiero sarebbe stata, insomma, artificiosamente costretta in una forma espositiva inadeguata, producendo un duplice effetto negativo: l’oscurità dell’espressione e la scadente qualità dei versi. Scontato, per la tradizione platonica, che Parmenide avesse elaborato il proprio contributo indipendentemente dal 240 medium espressivo, cui si sarebbe applicato in un secondo momento, valutandone l’impatto comunicativo: donde i compromessi e le incongruenze cui accenna Proclo: αὐτὸς ὁ Π. ἐν τῆι ποιήσει· καίτοι δι’ αὐτὸ δήπου τὸ ποιητικὸν εἶδος χρῆσθαι μεταφοραῖς ὀνομάτων καὶ σχήμασι καὶ τροπαῖς ὀφείλων ὅμως τὸ ἀκαλλώπιστον καὶ ἰσχνὸν καὶ καθαρὸν εἶδος τῆς ἀπαγγελίας ἠσπάσατο. δηλοῖ δὲ τοῦτο ἐν τοῖς τοιούτοις [B 8, 25. 5. 44. 45] καὶ πᾶν ὅ τι ἄλλο τοιοῦτον· ὥστε μᾶλλον πεζὸν εἶναι δοκεῖν ἢ ποιητικὸν < τὸν > λόγον. Lo stesso Parmenide, nel poema, pur essendo costretto, certamente a causa della forma poetica, a far ricorso a metafore, figure e tropi, privilegiò tuttavia una forma d’esposizione disadorna, controllata e semplice. Mostra ciò in questi versi [B8.25, 5, 44, 45] e in tutti gli altri di questo tenore, così che il suo discorso sembra piuttosto prosa che poesia. (Proclo; DK 28 A18). Sembra rivendicare invece l’originaria e originale intenzione poetica dell’opera parmenidea Genetlio: φυσικοὶ [sc. ὕμνοι] δὲ ὁποίους οἱ περὶ Παρμενίδην καὶ Ἐμπεδοκλέα ἐποίησαν [vgl. 31 A 23]. […] εἰσὶν δὲ τοιοῦτοι, ὅταν Ἀπόλλωνος ὕμνον λέγοντες ἥλιον αὐτὸν εἶναι φάσκωμεν καὶ περὶ τοῦ ἡλίου τῆς φύσεως διαλεγώμεθα καὶ περὶ Ἥρας ὅτι ἀήρ, καὶ Ζεὺς τὸ θερμόν· οἱ γὰρ τοιοῦτοι ὕμνοι φυσιολογικοί. καὶ χρῶνται δὲ τῶι τοιούτωι τρόπωι Π. τε καὶ Ἐμπεδοκλῆς ἀκριβῶς ... Π. μὲν γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς ἐξηγοῦνται, Πλάτων δὲ ἐν βραχυτάτοις ἀναμιμνήισκει. Inni fisici, come quelli composti da Parmenide, Empedocle e dai loro seguaci […] Essi sono tali quando, levando un inno ad Apollo, diciamo che è il sole e discutiamo della natura del sole, e di Era diciamo che è l’aria, di Zeus che è il calore: inni di questo tipo infatti riguardano l’indagine sulla natura. Si servono di questa forma d’espressione Parmenide ed Empedocle in modo rigoroso […] Parmenide ed Empedocle infatti fanno da 241 guida e Platone lo ricorda brevemente. (Genetlio; DK 28 A20). Parmenide ed Empedocle sarebbero stati campioni in un genere, quello dei «poemi fisici» (φυσικοὶ ὕμνοι), vere e proprie «indagini sulla natura» (φυσιολογικοί), riconosciuto nell’antichità (Platone). Simplicio suggerisce, dal canto suo, un ulteriore interessante accostamento: εἰ δ’ ‘ε ὐ κ ύ κ λ ο υ σ φ α ί ρ η ς ἐ ν α λ ί γ κ ι ο ν ὄ γ κ ω ι ’ τὸ ἓν ὄν φησι [Β 8, 43], μὴ θαυμάσηις· διὰ γὰρ τὴν ποίησιν καὶ μυθικοῦ τινος παράπτεται πλάσματος. τί οὖν διέφερε τοῦτο εἰπεῖν ἢ ὡς Ὀρφεὺς [fr. 70, 2 Kern] εἶπεν ‘ὠεὸν ἀργύφεον’; Se [Parmenide] afferma che l’essere uno è «simile a massa di ben rotonda palla» [B8.43], non ci si deve meravigliare: a causa della poesia, infatti, egli ricorre anche a qualche finzione mitica. Che differenza c’è dunque tra questo modo di esprimersi e quello di Orfeo: «uovo d’argento»? (Simplicio; DK 28 A20). La ricerca contemporanea ha documentato la matrice omerica praticamente dell’intero lessico del poema (Coxon27), e rilevato la raffinatezza della sua composizione ritmica e musicale (Henn), a dispetto della complessità della sua materia (rispetto ai precedenti di riferimento, Omero ed Esiodo), rivendicando quindi la dimensione poetica dell’opera di Parmenide e soprattutto la sua formazione di rapsodo (Schwabl28), riconoscendo, in altre parole, che «Parmenide era un bardo omerico, erede dei tesori di secoli di recitazione orale» (Henn29), impegnato a comporre all’interno della tradizione epica e non contro di essa. Parmenide, insomma, era (come Empedocle, probabilmente) in primo luogo un poeta, interessato a sperimentare le potenzialità 27 A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986, pp. 9-13. 28 H. Schwabl, “Hesiod und Parmenides, Zur Formung des parmenideischen Prooimions (28 B1)”, «Reinisches Museum», 106 (1963), pp. 134-142. 29 M.J. Henn, Parmenides of Elea…, cit., p.5. 242 del verso nel campo d’indagine della natura: i modelli epici potrebbero tuttavia non ridursi ai poemi omerici ed esiodei, e comprendere anche (soprattutto per la seconda parte del poema) la produzione orfica, soprattutto teogonica e cosmogonica30, attribuita a Museo, Epimenide e Onomacrito31 . La rivelazione di Parmenide La scelta di una portavoce divina esprimerebbe per alcuni il desiderio di Parmenide di marcare l'oggettività del suo metodo32: se l’esito della ricerca fosse stato avanzato semplicemente come la sua verità, avrebbe finito per riproporsi come un punto di vista, l’opinione di un mortale in concorrenza con le opinioni degli altri (mortali)33. Secondo il modulo epico, invece, il poeta-pensatore non è che portavoce della Dea e della Verità: come il contemporaneo Eraclito rimarcava che: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι non me, ma il logos ascoltando, è saggio convenire che tutto è uno (DK 22 B50), così Parmenide non intende riferire la verità immediatamente a un soggetto, ma alla divinità, per garantirne l’assolutezza34 . 30 Sull’orfismo in generale si vedano ora i numerosi e preziosi saggi contenuti in A. Bernabé y F. Casadesús (coords.), Orfeo y la tradicíon órfica. Un reencuentro, 2 voll., Akal, Madrid 2008. In particolare, nel primo volume A. Bernabé, Caraterísticas de los textos órficos, pp. 241-246; M. Herrero, Tradición órfica y tradición homérica, cit., pp. 247-278. 31 Per questi aspetti R.B. Martínez Nieto, Otros poetas griegos próximos a Orfeo, ivi, pp. 549-576. 32 Tarán, op. cit., p. 31. 33 Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1999 (edizione originale 1996), p. 66. 34 Ivi, p. 65. 243 Questa plausibile spiegazione della cornice religiosa non può tuttavia non tenere conto proprio della natura argomentativa della prima sezione del poema - indicata dalla Dea come «discorso affidabile e pensiero intorno alla Verità» (πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης B8.50-1) - che la stessa Dea evoca come ἔλεγχος (disamina, prova), invitando il κοῦρος a giudicare razionalmente (κρῖναι δὲ λόγῳ): consapevolezza che sembrerebbe contraddire l’urgenza di un pegno divino per il logos proferito. Rivelazione e verità In realtà Parmenide, come Senofane, sembra per lo più aderire alla concezione pessimistica della condizione umana espressa tradizionalmente nella poesia arcaica. Leszl, in proposito, cita il contemporaneo Teognide (vv. 139-41): οὐδέ τωι ἀνθρώπων παραγίνεται, ὅσσα θέληισιν· ἴσχει γὰρ χαλεπῆς πείρατ’ ἀμηχανίης. ἄνθρωποι δὲ μάταια νομίζομεν εἰδότες οὐδέν· θεοὶ δὲ κατὰ σφέτερον πάντα τελοῦσι νόον Nessuno degli uomini ottiene quanto è nei suoi desideri; si scontra infatti con i limiti postigli dalla dura inettitudine. Uomini come siamo, coltiviamo illusioni, senza sapere nulla, mentre gli dei pervengono alla realizzazione di tutto quanto hanno in mente35 . È significativo che proprio dalla poesia Parmenide ricavi i tratti con cui, in B6 e B7, caratterizzerà l’impotenza dei «mortali» (βροτοί): essi sono apostrofati come εἰδότες οὐδέν («che nulla sanno», come in Omero, Teognide, Mimnermo, Semonide); la loro incapacità di realizzare ciò che è nei loro intenti è stigmatizzata 35 W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p. 162. 244 come ἀμηχανίη («impotenza», «inettitudine», come in Teognide e nell’Inno Omerico ad Apollo, vv. 189-193); la loro attitudine cognitiva liquidata come πλακτὸν νόον («mente errante», con paralleli in Archiloco fr. 58)36 . A dispetto di questo quadro, del fatto che l’uomo, con le sole sue forze, non possa pervenire alla conoscenza piena della realtà, il proemio narra come l’intervento e la benevolenza delle divinità consentano – almeno al poeta – di ricevere e partecipare di quel sapere che è appannaggio divino37. Non sorprende che tale rivelazione investa in primo luogo le premesse (B2) della successiva disamina razionale (B6-8), che il kouros è invece sollecitato a valutare, come se ormai, grazie alla comunicazione dei principi, potesse concludere autonomamente; né che, alla luce delle tradizioni evocate nello stesso proemio, essa si sostanzi essenzialmente in termini contemplativi (B3-4), facendo quasi coincidere la percezione intelligente (νοεῖν) con il proprio oggetto (εἶναι) 38 . La specifica cornice letteraria e l’implicito motivo della comunicazione divina sarebbero allora sfruttati, consapevolmente e strumentalmente, allo scopo di certificare verità e disponibilità dei principi dell’argomentazione: Parmenide, insomma, avrebbe attribuito i fondamenti della propria enciclopedia a un’anonima docenza divina, per assicurarne incontestabilità e universalità. Ovvero, come intende Conche, il sapiente-poeta avrebbe conservato, nella finzione della Dea, l’idea tradizionale dell’onniscienza divina, idea di un sapere che tocca la realtà nel suo insieme: avremmo in questo senso, come già nel caso di Senofane, non più una divinità religiosa ma filosofica39 . 36 Ivi, pp. 163-4. 37 Ivi, p. 166. 38 Su questo ancora Leszl, op. cit., p. 168. 39 Conche, op. cit., p. 66. 245 Il problema della verità Nella pratica poetica sembrava dunque risolversi un cruciale problema cognitivo40: dal momento che gli esseri umani, nella loro impotenza, sono soggetti a illusoni, come può il sapiente riconoscere la verità, sottrarsi a quella condizione di diffusa deficienza (cognitiva) e pretendere di sapere? Nella cultura greca arcaica, solo un dio poteva essere fonte di verità, e il linguaggio della comunicazione divina era quello dei versi: Omero ed Esiodo validavano la loro poesia marcando il fatto che essa annunciava la verità, la cui conoscenza (sovrumana) era garantita dalla Musa epica41. In questo senso, il motivo poetico della comunicazione divina è in Parmenide pervasivo, abbracciando entrambe le sezioni del poema42: l’intero campo del sapere è esplicitamente ricondotto alla lezione della Dea, tanto le tesi intorno all’essere, quanto l’enciclopedia del «sistema cosmico» (διάκοσμος), senza alcuno spazio per una piena rivendicazione autoriale da parte del poeta. Se consideriamo la struttura dell'opera delineata in conclusione del proemio, e i passi superstiti della prima sezione, risulta evidente, nella narrazione, come il rilievo della lezione divina sia funzionale alla focalizzazione del problema dell'accesso alla veri- 40 Su questo punto è fondamentale il contributo di G.W. Most, "The poetics of early Greek philosophy", in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge 1999, pp. 332-362. Nello specifico rinvio a p. 353. 41 Ivi, p. 343. 42 Sulla scorta delle indicazioni del testo (DK 28 B8.50-52): ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε […] A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara […] le due sezioni sono tradizionalmente designate come Verità e Opinione. 246 tà43. Veridicità ed essenzialità44, in effetti, erano fondamentali obiettivi poetici che le opere di Omero ed Esiodo si proponevano e rivendicavano (implicitamente o esplicitamente): gli inni teogonici, per esempio, articolavano il pantheon riconducendolo all’origine del cosmo, così assicurando, in forza della rivelazione della Musa, una conoscenza superumana di cose distanti nel tempo e nello spazio45 . Quando le Muse di Esiodo dichiarano: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare – (Teogonia 27-28), l’intenzione non è di mettere in guardia dal contenuto della buona poesia, piuttosto dalla comprensione della maggioranza degli uomini, così scadente da non poter discernere il vero dal falso46. Senofane, probabilmente nello stesso ambiente culturale di Parmenide47, aveva già chiaramente manifestato segni di scetticismo nei confronti del mito e di quella tradizione poetica: πάντα θεοῖσ’ ἀνέθηκαν Ὅμηρός θ’ Ἡσίοδός τε, ὅσσα παρ’ ἀνθρώποισιν ὀνείδεα καὶ ψόγος ἐστίν, κλέπτειν μοιχεύειν τε καὶ ἀλλήλους ἀπατεύειν ogni cosa agli dei attribuirono Omero ed Esiodo, 43 Su questo punto G. Germani, "ΑΛΗΘΕΙΗ in Parmenide", in «La Parola del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 177-206. 44 Most, op. cit., p. 343. 45 K. Algra, "The beginnings of cosmology", in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., pp. 45-65. Il passo cui ci riferiamo è a p. 49. 46 Most, op. cit., p. 343. 47 La tradizione dossografica antica costantemente associa Parmenide a Senofane: tale relazione è stata conservata nella tradizione fino al XX secolo, nel corso del quale essa è risultata profondamente scossa. Con buoni argomenti ha di recente rilanciato la dipendenza di Parmenide dal pensatore di Colofone John Palmer (Plato's Reception of Parmenides, Clarendon Press, Oxford 1999, pp. 186 ss.; Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 324 ss.). 247 quanto presso gli uomini è cosa riprovevole e censurabile: rubare, commettere adulterio e vicendevolmente imbrogliarsi (DK 21 B11) Ὅμηρος δὲ καὶ Ἡσίοδος κατὰ τὸν Κολοφώνιον Ξενοφάνη ὡς πλεῖστ(α) ἐφθέγξαντο θεῶν ἀθεμίστια ἔργα, κλέπτειν μοιχεύειν τε καὶ ἀλλήλους ἀπατεύειν Omero ed Esiodo, secondo Senofane di Colofone: Numerosissime azioni illegittime hanno narrato degli dei: rubare, commettere adulterio e vicendevolmente imbrogliarsi (DK 21 B12). Egli (come Eraclito) prende apertamente posizione contro la falsità dei contenuti di quella poesia, contro la distorsione della corretta concezione del divino: è significativo, in questo senso, che proprio a cavallo tra VI e V secolo a.C. si sviluppi la più importante «misura di recupero»48 a protezione dei poeti: l'interpretazione allegorica. A Teagene di Reggio dovremmo, in effetti, il tentativo di sanare la frattura tra le fonti tradizionali dell'autorità poetica e i più recenti criteri di argomentazione concettuale49 . Certamente la critica di Senofane rischiava di accentuare il divario tra piano umano e piano divino, come emerge da alcuni dei frammenti conservati, rendendo conseguentemente problematico l'accesso alla verità: οὔτοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’ ὑπέδειξαν, ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον non è vero che dal principio tutte le cose gli dei ai mortali svelarono, ma nel tempo, ricercando, essi trovano ciò che è meglio (DK 21 B18) 48 L'espressione è di Most, op. cit., p. 339. 49 Ibidem. Sulla relazione tra Senofane, Paremnide e Teagene si veda A. Capizzi, "Quattro ipotesi eleatiche", in «La Parola del Passato, cit.. 248 καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe, né mai ci sarà sapiente intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo saprebbe: opinione è data su tutte le cose (DK 21 B34). Benché testo e significato dell'ultimo frammento rimangano ancora controversi50, esso sembra anticipare la conclusione scettica per cui non esiste criterio per stabilire una verità evidente e del tutto affidabile. Analogamente si esprimeva, tra i contemporanei di Parmenide, Alcmeone: Ἀλκμαίων Κροτωνιήτης τάδε ἔλεξε Πειρίθου υἱὸς Βροτίνωι καὶ Λέοντι καὶ Βαθύλλωι· περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν σαφήνειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι καὶ τὰ ἑξῆς Alcmeone di Crotone, figlio di Piritoo, ha detto queste cose a Brotino, Leonte e Batillo: sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo trovare degli indizi51 (DK 24 B1). La scelta di Parmenide - di far ruotare intorno a una figura divina la comunicazione del poema - potrebbe allora simboleggiare 50 J.H. Lesher, "Early interest in knowledge", in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., pp. 225-249. Il riferimento a p. 229. 51 Dal passo iniziale del frammento vero e proprio (περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν) la Gemelli Marciano propone di espungere la virgola, offrendo quindi la seguente traduzione: «sulle cose invisibili che riguardano i mortali» ("Lire du début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques", «Philosophie Antique», 7, 2007 [Présocratiques], p. 19). 249 «la ripresa e la soluzione parmenidea del problema della verità»52 . Non va quindi trascurata la possibilità di cogliere, negli echi della poesia religiosa e della stessa poesia esiodea (con la ripresa di elementi cosmologici della Teogonia), la specificità dell'esperienza narrata nel proemio come prefigurazione del complesso dei contenuti dell’opera. Motivi poetici e suggestioni In uno studio molto innovativo per l’attenzione alla forma poetica del Περὶ φύσεως, Mourelatos 53 individuò alcuni motivi 54 dell’epica chiaramente presenti nel poema. Tra questi appaiono di particolare interesse (i) quello del viaggio, certamente il più importante, anche per le possibili implicazioni (in precedenza segnalate) con la poesia religiosa; (ii) quello dell’istruzione, marcata dall’uso della seconda persona nella comunicazione divina, e dal ricorso a formule programmatiche (χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι; μαθήσεαι; κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας; πεύσῃ; εἰδήσεις), memori di Esiodo (Le opere e i giorni) e Omero. Viaggio ed erramento Dei cinque aspetti rilevati55 nella struttura di questo «motivo» (motif) omerico - (i) progresso nel viaggio di ritorno, (ii) regresso ed erramento; (iii) navigazione esperta; (iv) azione folle; (v) ricerca di informazioni sul ritorno da parte dei parenti a casa – i 52 Germani, op. cit., p. 187. 53 A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven – London 1970, pp. 12-14. 54 Non mi addentro nella distinzione, proposta dallo studioso, tra «tema» o «concetto», per cui le pure forme poetiche fungono da veicolo (oggetto della «iconografia»), e «motivo» o «significato complessivo», «valore simbolico» (oggetto della «iconologia»). Ibidem, pp. 11-12. 55 Ivi, p. 18. 250 primi quattro appaiono marcatamente sfruttati nel poema. La compiuta circolarità del viaggio nell'Odissea pone in primo piano il ritorno a casa (νόστος), per cui esiste una specifica impresa di ricerca (νόστον διζήμενος): nel proemio si alluderebbe esplicitamente o implicitamente – a seconda delle interpretazioni – alla stessa situazione (viaggio alla dea e ritorno tra gli uomini). In ogni caso centrali risulterebbero, nell’economia del poema, la conduzione (πομπή) delle guide (divine) di scorta al viaggiatore e – per contrasto – l’erramento (πλάνη) dei «mortali»: analogamente, l’eroe omerico - accorto e istruito dalle divinità - sa di dover osservare un certo comportamento, mentre i suoi compagni, privi di lungimiranza, si rendono colpevoli di azioni irresponsabili, d’ostacolo al viaggio di ritorno56. Così, al kouros la Dea non manca di riferire le coordinate (i «segni», σήματα) della via corretta (B8.1-2: μῦθος ὁδοῖο ὡς ἔστιν), mettendolo in guardia dalle insidie della «abitudine nata dalle molte esperienze» (B7.3: ἔθος πολύπειρον); alla cui deriva, invece, come i compagni di Odisseo, si abbandonano i «mortali che nulla sanno» (B6.4: βροτοὶ εἰδότες οὐδέν), connotati come «uomini a due teste» (δίκρανοι). Ma il motivo del viaggio non riconduce solo al paradigma omerico: è probabile ne esistesse una variante letteraria nella poesia apocalittica 57 , diffusa nei circoli pitagorici, a partire dai Καθαρμοί del leggendario Epimenide sopra ricordato. Non è solo Diels a crederlo; tra gli specialisti del XX secolo, Guthrie58, per esempio, coglie, almeno a livello verbale, echi orfici, che tuttavia non dimostrerebbero altro che il radicamento nella tradizione della poesia più antica e in quella contemporanea (Pindaro, Bacchilide, Simonide), mentre ritiene più consistente la possibilità di una influenza dello sciamanesimo, proprio sulla scorta dei precedenti di Epimenide e altri (Aristea, Abari, Ermotimo). 56 Ivi, pp. 18-21. 57 Uso l’aggettivo – come Diels – nel suo significato etimologico da ἀποκαλύπτω (scoprire, rivelare appunto). 58 W.K.C. Guthrie, A History of Greek Philosophy. II. The Presocratic Tradition from Parmenides to Democritus, C.U.P., Cambridge 1965, pp. 10 ss.. 251 Esperienze dell'altro mondo Come segnalato in nota ai versi del proemio, alcune scelte espressive di Parmenide – per esempio il vocativo κοῦρε (con cui la δαίμων apostrofa il viaggiatore giunto al suo cospetto) e soprattutto la formula εἰδὼς φώς (con cui è indirettamente designato il poeta) – hanno fatto pensare a un esplicito richiamo a modelli misterici, destinati a fortunate riprese in particolare da parte di Platone59 . Rivestono in questo senso un notevole interesse le laminette funerarie classificate come "orfiche" (le più antiche risalenti al VIV secolo a.C.) e altri frammenti riconducibili a quell'ambiente religioso, sia per il motivo del viaggio (per giungere all'Ade: non agile, non lineare; dunque bisognoso di guida) e della connessa esperienza che propongono (il giudizio della anime a opera di Dike), sia per specifici elementi che presuppongono (l'iniziazione) e impongono (la necessità di operare una scelta di fronte a un bivio). Di recente Ferrari è tornato a segnalare come l'itinerario del poeta nel proemio, con la sua destinazione infera, abbia «molto in comune con quegli itinerari iniziatici che i defunti percorrevano nell'oltretomba», seguendo più o meno puntuali istruzioni60 . Non si tratterebbe solo di dettagli di contorno (come segnaliamo in nota) che Parmenide avrebbe recuperato per garantire solennità alla propria composizione, ma di suggestioni che l'avrebbero informata, fornendo il nesso profondo tra il racconto del proemio e il resto del poema, saldando «il tema dell'iniziazione alla fondazione logica del sistema»61 . Così sarebbe possibile ricostruire la topografia del viaggio parmenideo: percorso privilegiato (sotto la conduzione delle EliaEliadi: κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον, v. 5) di un "iniziato" (εἰδὼς φώς) lungo la via che conduce alla porta dell'oltretomba (ὁδός 59 Per questi aspetti è ancora molto utile M.M. Sassi, "Parmenide al bivio. Per un'interpretazione del proemio", «La Parola del Passato», cit., pp. 383-396. 60 F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza dall'Odissea alle lamine misteriche, Utet, Torino 2007, p. 115. 61 Sassi, op. cit., p. 386. 252 πολύφημος δαίμονος, vv. 2-3)62 sorvegliata da Dike, la quale non solo consentirà al poeta l'accesso al mondo dei morti (per testimoniarne), ma soprattutto l'incontro con la δαίμων e, conseguentemente, la sua istruzione. Un tragitto che, a suo tempo, in uno studio pionieristico, Morrison aveva connotato come quello del «poeta-sciamano in cerca di conoscenza»63, accostandolo all'esperienza del platonico Er. In modo sorprendentemente simile, le istruzioni (incise su laminetta aurea) per l'anima del defunto nel sepolcro di Ipponio (circa 400 a.C.) prevedono: ἐπεὶ ἂμ μέλληισι θανεῖσθαι εἰς Ἀΐδαο δόμους εὐήρεας Quando ti toccherà di morire andrai alle case ben costrutte di Ade64 , dove, presso la palude di Mnemosine (Μναμοσύνη λίμνη), l'anima sarebbe stata affrontata e interpellata dai «custodi» (φύλακες): [ h ] οι δέ σε εἰρήσονται ἐν φραςὶ πευκαλίμαισι ὄττι δὴ ἐξερέεις Ἄιδος σκότους ὀλοέεντος che ti chiederanno nel loro denso cuore Cosa vai cercando nelle tenebre di Ade rovinoso65 . Ma le laminette propongono soprattutto un'altra suggestione, che potrebbe emergere in Parmenide (per giungere poi ai miti dell'aldilà platonico) come riflesso di un fondo escatologico comune 66 : la possibilità che una tappa nell'itinerario tracciato da 62 La Sassi (pp. 387-8) ricorda come nel mito oltremondano del Fedone (107d ss.) le anime dei defunti, per coprire il cammino verso l'Ade, abbiano bisogno di δαίμονες che le conducano come ἡγεμόνες. 63 J.D. Morrison, "Parmenides and Er", «Journal of Hellenic Studies», 75, 1955, pp. 59-68. La citazione è a p. 59. 64 G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp. 172-3. 65 Colli, op. cit., pp. 172-3. 66 Sassi, op. cit., pp. 390-1. 253 Parmenide sia costituita dal bivio dell'oltretomba ben attestato nelle laminette (e nei testi platonici): ἔστ’ ἐπὶ δ < ε > ξιὰ κρήνα, πὰρ δ’αὐτὰν ἐστακῦα λευκὰ κυπάρισσος [...] ταύτας τᾶς κρᾶνας μηδὲ σχεδὸν ἐνγύθεν ἔλθηις· πρόσθεν δὲ [ h ] ευρήσεις τᾶς Μναμοσύνας ἀπὸ λίμνας ψυχρὸν ὔδωρ προρέον c'è alla destra una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto [...] A questa fonte non andare neppure troppo vicino; ma di fronte troverai fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine (laminetta di Ipponio) εὑρήσσεις δ’ Ἀίδαο δόμων ἐπ’ ἀριστερὰ κρήνην πὰρ δ’ αὐτῆι λευκὴν ἑστηκυῖαν κυπάρισσον ταύτης τῆς κρήνης μηδὲ σχεδὸν ἐμπελάσειας. εὑρήσεις δ’ ἑτέραν, τῆς Μνημοσύνης ἀπὸ λίμνης ψυχρὸν ὕδωρ προρέον E troverai alla sinistra delle case di Ade una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto: a questa fonte non accostarti neppure, da presso. E ne troverai un'altra, fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine (laminetta di Petelia, circa 350 a.C.) εὑρήσεις Ἀίδαο δόμοις ἐνδέξια κρήνην, πὰρ δ’ αὐτῆι λευκὴν ἑστηκυῖαν κυπάρισσον ταύτης τῆς κρήνης μηδὲ σχεδόθεν πελάσηιςθα. πρόσσω εὑρήσεις τὸ Μνημοσύνης ἀπὸ λίμνης ὕδωρ προ < ρέον > Troverai alla destra delle case di Ade una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto: a quella fonte non accostarti neppure, da presso. E più avanti troverai la fredda acqua che scorre 254 dalla palude di Mnemosine (laminetta di Farsalo, circa 330 a.C.)67 . Così come l'iniziato è preventivamente istruito di fronte all'alternativa delle fonti cui attingere per placare la propria sete, la Dea di Parmenide, conclusa la propria allocuzione introduttiva e richiamata l'attenzione del κοῦρος: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας Orsù, io dirò - e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata (B2.1), evoca (B2.2) l'immagine delle «vie di ricerca», evidentemente biforcate: (i) ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι (B2.3); (ii) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5); per trattenerlo dal tentativo di percorrere la seconda, come invece accade (analogamente alle anime che si gettano verso l'acqua della prima fonte) ai «mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, B6.4)68 . Sono stati compiuti, negli ultimi anni, tentativi per individuare un modello unitario per tutto il materiale funerario di questo tipo (che si riferisce a reperti risalenti ai secoli V-II a.C.), giungendo addirittura a fissare la serie di stazioni che farebbero da sfondo alle istruzioni per le anime dei defunti69. Più prudentemente, riferendosi alle laminette di Ipponio, Petelia, Farsalo e Entella (fine V- fine IV secolo a.C.), Ferrari ha sottolineato come ci si trovi di fronte «a una traccia poetica sostanzialmente unica e unitaria, ma altresì che le rimodulazioni dei vari testimoni risultano a tratti 67 Colli, op. cit., pp. 172-7. 68 Sassi, op. cit., pp. 392-3. 69 Il tentativo più sistematico è quello di A. Bernabé, Poetae epici Graeci. Testimonia et fragmenta, II: Orphicorum et Orphicis similium testimonia et fragmenta, II, K.G. Saur, Münche-Leipzig 2005, p. 13. di ciò dà conto Ferrari in La fonte del cipresso bianco, cit., pp. 115-6. 255 importanti e complesse»70. In ogni caso, un elemento risulta nel nostro contesto significativo: il fatto che nelle laminette (pur recuperate in località diverse e in qualche caso distanti: si va dalla Magna Grecia per le prime due laminette, alla Tessaglia per la terza, alla Sicilia per l'ultima) si faccia «ripetuta menzione di Mnemosine come divinità che dispensa il dono di ricordare»71, e che rivelerebbe l'appartenenza dei defunti a circoli pitagorici, a quella cultura, in altre parole, «che appunto alla memoria assegnava un ruolo cruciale nel processo di ascesi e di perfezionamento della persona»72. Non è un caso che Pugliese Carratelli, editore delle laminette, proponga, in relazione all'ambiente e allo specifico richiamo del proemio di Parmenide a quella temperie, Mnemosine come la δαίμων innominata di Parmenide. Esperienze sciamaniche Abbiamo citato Morrison a proposito del suo accostamento del viaggio di Parmenide al tragitto di un «poeta-sciamano»: la figura dello sciamano - il cui rilievo nell’ambito della cultura arcaica era stato notato, qualche anno prima del contributo di Morrison, da Dodds, in una delle opere più originali sulla civiltà greca73 - è quella di un mediatore tra uomini e dei, che ha la capacità di lasciare in trance il proprio corpo e di viaggiare in cielo o nell’oltretomba, per accompagnare altre anime o ricevere istruzioni mediche o cultuali da una divinità. Egli è spesso poeta o cantore e tipicamente narra in prima persona dei suoi viaggi celesti e delle sue esperienze: il suo viaggio (il mezzo di trasporto è talvolta un carro volante) è difficoltoso e può presentare momenti di erramento prima del desiderato confronto con la divinità. 70 Ivi, p. 119. 71 Ivi, p. 124. 72 Ibidem. 73 E.R. Dodds, I Greci e l’Irrazionale, La Nuova Italia, Firenze 1959 (edizione originale 1951), capitolo V (Gli sciamani e le origini del puritanesimo). 256 Anche Mourelatos 74 riconosce le somiglianze tra l’itinerario del kouros e il complesso di elementi focalizzati da Dodds e ripresi, in relazione a Parmenide, da Guthrie. Se concediamo la presenza di certi tratti sciamanici nella Grecia arcaica, il riferimento, nel proemio, al viaggio del protagonista e alla sua scorta divina (Guthrie parla di «odissea spirituale dello sciamano») avrebbe allora potuto immediatamente evocare, nell’immaginazione di un ascoltatore "iniziato" a tali pratiche, i segni dell’esperienza sciamanica. In questo senso appare ancor più significativo l’accostamento a Odisseo. In particolare, Mourelatos è convinto che, dietro o sotto la poesia di Parmenide, si possa rintracciare, oltre a Omero (e a Esiodo), un consistente corpo di poesia cultuale e profetica del VII-VI secolo a.C.. Il problema in proposito è la mancanza di esemplari per valutarne la reale incidenza, forse più importante di quella omerico-esiodea. È probabile, tuttavia, che l’importanza di questo retroterra dipenda in larga misura da motivi e temi condivisi dall’epica precedente, sebbene impiegati in una nuova prospettiva e con una nuova contestualizzazione. Parmenide avrebbe così usato il complesso del viaggio sciamanico come modello per il suo viaggio speculativo. Nonostante l’assenza di evidenze testuali che autorizzino a parlare di un “motivo” letterario, allusioni al paradigma dell'esperienza sciamanica sarebbero rintracciabili, secondo Kingsley 75 , proprio nel proemio, quasi a inquadrare la successiva dottrina in una cornice sapienziale indiscutibile. Anche per l'autore inglese, infatti, il modo di presentarsi del poeta (come «uomo che sa», εἰδὼς φώς) costituirebbe uno standard nel mondo greco arcaico per indicare l’«iniziato»76, colui che, in virtù delle proprie conoscenze, poteva giungere dove ad altri era proibito. Analogamente l’espressione κοῦρος con cui la Dea si rivolge al poeta denoterebbe una figura al limite (e tramite) tra mondo umano e divino77: l’esperienza descritta, infatti, sarebbe quella di un’eccezionale 74 Op. cit., pp. 44-5. 75 P. Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999. 76 Ivi, p. 62. 77 Ivi, p. 72. 257 κατάβασις, autorizzata da Dike (divinità associata al mondo infero78). Qui è plausibile che Parmenide si rifacesse a modelli letterari, che coniugavano il tema della discesa nell’Ade in quanto luogo della rivelazione (Odissea XI), a un determinato contesto cosmologico (Teogonia 736-774) e a particolari figure di predestinati, come l’eroe Eracle79 o il leggendario poeta Orfeo (in questo senso da leggere, analogamente a Dodds80, come sciamano). A conferma della propria lettura (che in realtà si regge su tradizioni posteriori), Kingsley porta testimonianze ricavate dall’arte vascolare dell’epoca e della regione di Elea, che ritraggono l’incontro di Eracle con Persefone secondo lo schema ripreso da Parmenide, ovvero quello di Orfeo con la stessa dea infera, e la presenza sullo sfondo di Dike81. In questo modo sarebbe attestato, se non un motivo poetico-letterario, almeno un retroterra culturale, tradizionale e locale, in cui il poeta poteva inserire i propri riferimenti, permettendosi l'anonimità della dea82. In effetti, che il ruolo di divina interlocutrice sia ricoperto da Persefone, è suggerito dalla stessa accoglienza del kouros da parte della θεά: non una sorte infausta (la morte?) lo ha allontanato dal mondo degli uomini, ma un destino di conoscenza sotto l’egida della giustizia divina. Come se, appunto, ella fosse preoccupata di rassicurare il poeta circa la sua presenza nel mondo dei morti. D’altra parte, è assai probabile che il poeta si attenesse a norme compositive, ricorrendo a scelte espressive non improvvisate e per lo più funzionali a un determinato obiettivo. Kingsley richiama esemplarmente il ricorso alla ripetizione costante del verbo φέρω nei primi versi, la cui frequenza sarebbe difficilmente tollerabile, da un punto di vista poetico, se non per l’effetto “performativo” (immaginando la recitazione), di incantamento e trasporto. L’attenzione per alcuni dettagli fa inoltre pensare che Parmenide evocasse precisi riferimenti cultuali (se non poetici), così inquadrando la propria rivelazione in uno sfondo comprensibile ai 78 Ivi, pp. 62-3. 79 Ivi, p. 61. 80 Op. cit., pp. 186-7. 81 Op. cit., p. 94. 82 Ivi, p. 97. 258 propri ascoltatori (iniziati): potrebbe dunque non essere casuale il particolare rilievo iniziale del suono («sibilo acuto», σῦριγξ) emesso dall’«asse del carro nei mozzi […] incandescente», dal momento che esso ritorna nella posteriore tradizione dei papiri magici greci, associato proprio al silenzio della «incubazione» e al viaggio cosmico83 . Maria Laura Gemelli Marciano84 ha inoltre richiamato l'attenzione sullo spazio (21 versi) dedicato nel proemio (che consideriamo conservato integralmente) alla descrizione del viaggio e sull’acribia con cui ne viene resa l'esperienza sensoriale (acustica e ottica), nonché la topografia: ricchezza di dettagli che sembra escludere il mero impiego simbolico, tanto più considerando85 la stretta relazione tra suoni («sibilo», σῦριγξ), movimenti rotatori (i «cerchi rotanti» δινωτοῖσιν κύκλοις dei vv. 7-8) – segnali di alterazione dello stato di coscienza - e il manifestarsi delle figure divine86. Indizi che possono autorizzare la lettura del poema come resoconto di un viaggio estatico. Alcuni elementi esteriori concorrono in effetti a collegare Parmenide a questo retroterra apocalittico. Nel 1962 fu ritrovata a Velia (l’antica Elea) un'iscrizione su blocco marmoreo che recita87: Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης φυσικός. Parmenide, figlio di Pireto, è riconosciuto come Ouliades, seguace di Apollo Oulios (venerato nell’area anatolica, da cui provenivano i profughi focesi che fondarono nel VI secolo a.C. Elea), e physikos, a un tempo ricercatore della natura e medico: dal momento che ad Apollo Oulios era riconducibile la tecnica dei guaritori, è possibile che la figura del filosofo fosse ufficialmente associata alla iatromantica (di cui l’archeologia conferma la pratica in Velia), nel solco dello sciamanesimo (Epimenide) attestato dalla tradizione testuale. Nella stessa direzione punta un’altra evidenza dossografica: 83 Ivi, pp. 129-130. 84 Die Vorsokratiker, II, p. 54. 85 Sulla scia dello stesso Kingsley. 86 Gemelli Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II, p. 55. 87 Kingsley, op. cit., pp. 139 ss.. 259 ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ πένητι μέν, καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ πλούτου, καὶ ὑπ’ Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ Ξενοφάνους εἰς ἡσυχίαν προετράπη. Parmenide, come affermò Sozione, ebbe familiarità anche con Aminia, figlio di Diochete, pitagorico, uomo povero, ma nobile e retto, ciò che tanto più ne favorì l’influenza. Quando questi morì, Parmenide, che era di famiglia illustre e ricca, eresse per lui un monumento funebre. Fu proprio Aminia, non Senofane, a volgerlo alla tranquillità di una vita di studio (Diogene Laerzio; DK 28 A1). Il termine ἡσυχία - qui tradotto come «tranquillità di una vita di studio» - avrebbe in realtà un valore molto diverso, soprattutto riferito allo stile di vita esemplare del pitagorico Aminia: qualcuno parla di vita contemplativa, ovvero di vita filosofica, ma letteralmente il significato è quello di «quiete, riposo», «silenzio, immobilità». L’ascetico Aminia sarebbe stato maestro di «incubazione», avrebbe cioè avviato Parmenide alle tecniche di concentrazione già in uso presso i gruppi pitagorici88 . Come ha rilevato la Gemelli Marciano89, l'«incubazione» può fornire la chiave per collegare la iatromantica, riferita all'Eleate dalle evidenze archeologiche, all'attività di legislatore attribuitagli sempre da Diogene Laerzio (sulla scorta di Speusippo): almeno secondo lo schema che Platone ricorda nelle Leggi (624b) in relazione al mitico Minosse, ma che abbiamo ritrovato in Epimenide e che potrebbe emergere anche nel caso di Zaleukos, legislatore di Locri, di cui si sosteneva avesse ricevuto le leggi direttamente dagli dei. Sebbene non sia dato cogliere in quale modo questo insieme di elementi potesse costituire un “motivo” letterario, è possibile ipotizzare una sua codifica in una qualche forma recitativa (come nel 88 Kingsley, op. cit., pp. 179-181. 89 Op. cit., II, p. 45-6. 260 caso delle Purificazioni di Epimenide), cui Parmenide potrebbe essersi ispirato (viaggio, incontro con Giustizia e Verità ecc.), evocando situazioni e particolari significativi in una società ancora legata a quelle pratiche (importate, come crede Kingsley, dalla patria di origine, Focea, sulle coste dell’Asia Minore). La cornice cosmologica: Esiodo Il motivo del viaggio e della sua destinazione divina – con le diverse, possibili suggestioni - risulta comunque proiettato, nel proemio, all’interno di uno sfondo cosmico (parzialmente delineato nelle allusioni del testo) modulato su un terzo grande modello poetico, probabilmente decisivo nell’elaborazione letteraria di Parmenide: la Teogonia di Esiodo. Sulla sua incidenza pochi hanno dubbi, anche quando, come Mourelatos 90 , privilegino il confronto con Omero. Sommariamente, infatti, possiamo rilevare: (i) le analogie tra il proemio del poema e l’inno alle Muse91 della Teogonia; (ii) in particolare la possibile criticità del già citato rilievo delle Muse in Teogonia 27-28: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare -, rispetto al programma didattico proposto in conclusione di B1, con l'opposizione tra verità e incerto opinare umano; (iii) la presenza strutturale di dettagli dello scenario cosmologico dell'opera esiodea nel proemio, oltre alla chiara intenzione cosmogonica (e teogonica) della seconda sezione del poema. 90 Op. cit., p. 33. 91 Su questo, tra gli altri, concordano Leszl, Couloubaritsis, e soprattutto M. Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A New View on Their Cosmologies and on Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974. 261 Quasi Parmenide volesse sovrapporre o contrapporre la propria verità a quella del poeta di Ascra. A livello formale, lo sforzo da parte di Parmenide di utilizzare creativamente il precedente esiodeo appare evidente. Egli si muove in effetti all’interno delle novità da questi introdotte nella tradizione aedica: il riferimento dell’autore a se stesso nell’esordio dell’opera e la funzionalità del proemio rispetto al poema. In relazione all'originalità esiodea del primo aspetto, Arrighetti ha colto, nel modo di proporsi del poeta rispetto alla memoria letteraria, il doppio risvolto della «contrapposizione polemica» e, soprattutto, del «distacco critico», garantito dalla rivelazione delle Muse 92: l’investitura poetica e il dono divino della verità, come proposti in apertura della Teogonia, giustificano la pretesa di una poesia diversa dalla tradizionale, in cui l’autore fondatamente rivendica una visione unitaria del cosmo. D’altra parte, anche la risorsa proemiale è da Esiodo sfruttata in modo peculiare, nella misura in cui essa non si riduce ad artificio estrinseco rispetto al canto poetico vero e proprio, a inno propiziatorio da recuperare nel repertorio di evocazioni dedicate, sul tipo degli inni tramandati come omerici: il nesso tra proemio e poema è, nel caso della Teogonia, molto stretto, sia per il coinvolgimento diretto del poeta e della sua esperienza personale, sia, in particolare, perché tale esperienza illumina la sostanza complessiva dell’opera: «il proemio, con il racconto della epifania delle Muse, costituisce la garanzia del carattere di veridicità del contenuto del poema»93 . A richiamare l’attenzione dell'interprete sul precedente esiodeo sono tuttavia soprattutto alcuni elementi di contenuto, in primo luogo lo scenario complessivo del proemio parmenideo, con un viaggio che conduce, lungo la direttrice del sentiero di Notte e Giorno (il percorso lungo cui essi si alternano), a un imponente portale (a protezione della dimora divina), il quale, aprendosi, rivela un «vuoto enorme» (χάσμ΄ ἀχανὲς), eco delle «porte» (πύλαι) che chiudono (e dischiudono) l’oscuro Tartaro esiodeo: 92 Esiodo, Teogonia, a cura di G. Arrighetti, BUR, Milano 1984, pp. 7-8. 93 Ivi, pp. 129-130. 262 ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ· χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν οὖδας ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα πυλέων ἔντοσθε γένοιτο, ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ θύελλα θυέλλης ἀργαλέη· δεινὸν δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι. τοῦτο τέρας· καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι. τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο πάις ἔχει οὐρανὸν εὐρὺν ἑστηὼς κεφαλῇ τε καὶ ἀκαμάτῃσι χέρεσσιν ἀστεμφέως, ὅθι Νύξ τε καὶ Ἡμέρη ἆσσον ἰοῦσαι ἀλλήλας προσέειπον ἀμειβόμεναι μέγαν οὐδὸν χάλκεον· ἡ μὲν ἔσω καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε ἔρχεται, οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας δόμος ἐντὸς ἐέργει, ἀλλ’ αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα γαῖαν ἐπιστρέφεται, ἡ δ’ αὖ δόμου ἐντὸς ἐοῦσα μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν ἵκηται· ἡ μὲν ἐπιχθονίοισι φάος πολυδερκὲς ἔχουσα, ἡ δ’ Ὕπνον μετὰ χερσί, κασίγνητον Θανάτοιο, Νὺξ ὀλοή, νεφέλῃ κεκαλυμμένη ἠεροειδεῖ. ἔνθα δὲ Νυκτὸς παῖδες ἐρεμνῆς οἰκί’ ἔχουσιν, Ὕπνος καὶ Θάνατος, δεινοὶ θεοί· οὐδέ ποτ’ αὐτοὺς Ἠέλιος φαέθων ἐπιδέρκεται ἀκτίνεσσιν οὐρανὸν εἰσανιὼν οὐδ’ οὐρανόθεν καταβαίνων. τῶν ἕτερος μὲν γῆν τε καὶ εὐρέα νῶτα θαλάσσης ἥσυχος ἀνστρέφεται καὶ μείλιχος ἀνθρώποισι, τοῦ δὲ σιδηρέη μὲν κραδίη, χάλκεον δέ οἱ ἦτορ νηλεὲς ἐν στήθεσσιν· ἔχει δ’ ὃν πρῶτα λάβῃσιν ἀνθρώπων· ἐχθρὸς δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσιν Là della terra nera e del Tartaro oscuro, del mare infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i confini, luoghi penosi e oscuri che anche gli dèi hanno in odio, voragine enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per giungere al fondo a chi passasse dentro le porte, 263 ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta crudele; tremendo anche per dèi immortali è tale prodigio. E di Notte oscura la casa terribile s'inalza, da nuvole livide avvolta. Di fronte a essa il figlio di Iapeto tiene il cielo ampio reggendolo con la testa e con infaticabili braccia, saldo, là dove Notte e Giorno venendo vicini si salutano passando alterni il gran limitare di bronzo, l'uno per scendere dentro, l'altro attraverso la porta esce, né mai entrambi ad un tempo la casa dentro trattiene, ma sempre l'uno fuori della casa la terra percorre e l'altro dentro la casa aspetta l'ora del suo viaggio fin che essa venga; l'uno tenendo per i terrestri la luce che molto vede, l'altra ha Sonno fra le sue mani, fratello di Morte, la Notte funesta, coperta di nube caliginosa. Là hanno dimora i figli di Notte oscura, Sonno e Morte, terribili dèi; né mai loro Sole splendente guarda coi raggi, sia che il cielo ascenda o il cielo discenda. Di essi l'uno la terra e l'ampio dorso del mare Tranquillo percorre e dolce per gli uomini, dell'altra ferreo è il cuore e di bronzo l'animo, spietata nel petto; e tiene per sempre colui che lei prende degli uomini, nemica anche agli dèi immortali.94 (vv. 736-766). Come ci ricorda Privitera95, abbiamo nella cultura greca arcaica due prospettive sull'alternanza di luce e oscurità: una fisica, rintracciabile nell'Odissea, l'altra mitica, presente invece in Esiodo, ma con riscontri anche nell'Iliade. La prima sarebbe "orizzontale", dal momento che i fenomeni coinvolti (il movimento del Sole, nel suo trascorrere celeste da oriente a occidente, e il suo 94 Esiodo, Teogonia, cit., pp. 111-3. 95 G.A. Privitera "La porta della Luce in Parmenide e il viaggio del Sole in Mimnermo", «Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei», s. 9, v. 20, 2009, pp. 447-464. 264 tragitto di ritorno a oriente navigando su Oceano intorno alla Terra) hanno luogo sulla Terra e nel cielo sovrastante. La seconda, al contrario, "verticale", in quanto i fenomeni terrestri e celesti sono radicati nel mondo "infero"96. Non si tratta di prospettive incompatibili, come puntigliosamente dimostra lo studioso: nel caso di Parmenide (come nel precedente di Stesicoro97) registreremmo un originale tentativo di inquadrare il rapporto tra Luce-Sole-Notte entro una cornice cosmica in cui si completano le due prospettive tradizionali98. Nella lettura di Privitera, ciò avrebbe comportato concentrare strutturalmente il baricentro del proemio sul percorso solare, trasferendo la Porta del Giorno e della Notte dall'Ade sulla Terra: sarebbe in questo senso esclusa qualsiasi forma di katabasis verso il regno dei morti. Eppure i versi esiodei, a dispetto delle divergenze che pur ne caratterizzano le interpretazioni cosmologiche 99 , si prestano a suggestioni diverse, proiettando decisamente verso il mondo infero la ripresa proemiale di Parmenide. Dopo la narrazione della Titanomachia (665 ss.), della sconfitta dei Titani (713 ss.) e della loro segregazione in un remoto luogo infero (720 ss.), Esiodo ci informa che sopra quella prigione, nelle profondità sotterranee, si sviluppano le radici del mare e della terra (729): come intendesse garantire sulla sicurezza della detenzione, il poeta fornisce particolari sulle modalità di reclusione dei Titani (immobilizzati da «lacci tremendi» 718), e sulla località di carcerazione («un'oscura regione, all'estremo della terra prodigiosa», cintata tutta intorno e assicurata da portali di bronzo, e guardiani infernali, 731-5). La descrizione del mondo sotterraneo è dunque organicamente inserita nel contesto teogonico, sottolineando la rassicurante distanza infera delle ostili forze titaniche: ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος 96 Ivi, p. 449. 97 Ivi, p. 453. 98 Ibidem. 99 Si vedano, per esempio la discussione specifica in Pellikaan-Engel (op. cit., capp. II-III), ma anche le annotazioni di Arrighetti (op. cit., pp. 151-2). 265 ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ. ἔνθα δὲ μαρμάρεαί τε πύλαι καὶ χάλκεος οὐδός, ἀστεμφὲς ῥίζῃσι διηνεκέεσσιν ἀρηρώς, αὐτοφυής· πρόσθεν δὲ θεῶν ἔκτοσθεν ἁπάντων Τιτῆνες ναίουσι, πέρην χάεος ζοφεροῖο. Là della terra oscura e del Tartaro tenebroso, del mare infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti, sono le scaturigini e i confini, luoghi squallidi e oscuri, che anche gli dèi hanno in odio. Là sono le porte splendenti e la bronzea soglia, inconcussa, su radici infinite commessa, nata spontaneamente; davanti, lontano da tutti gli dèi, i Titani hanno la loro dimora, di là dal caos tenebroso100 (vv. 807-814). In questa sua intenzione, è possibile che Esiodo effettivamente giustapponesse (come vogliono Privitera e Arrighetti) prospettiva orizzontale e verticale, oscillando tra una dislocazione occidentale e una sotterranea dell'«al di là», ma, come ha puntualmente indicato nella sua analisi la Pellikaan-Engel101, va presa seriamente in considerazione l'ipotesi che il poeta alludesse a un quadro cosmologico diverso da quello (sostanzialmente emisferico) della tradizione omerica. La Terra vi comparirebbe come un disco piatto (ancorché ondulato sulle due superfici), immobile, circondato dalla solida, rotante sfera celeste, il cui emisfero sovrastante sarebbe stato designato propriamente come «cielo»; quello sottostante avrebbe invece costituito quella regione infera in cui proiettare la minaccia titanica e localizzare il sistema di tutele contro la sua risorgenza. In questo senso, allora, è possibile che, alla luce del ruolo e del corso cosmico e mitico del Sole, Esiodo incrociasse, rispetto all'esperienza terrestre, il tradizionale orientamento orizzontale (estovest, secondo la direzione quotidiana dell'astro), con la prospet- 100 Teogonia, cit., p. 115. 101 Op. cit.. Si veda in particolare il capitolo II. 266 tiva verticale rappresentata dalle opposte estremità, a ridosso della sfera celeste avvolgente, dell'Olimpo e del Tartaro. Una certa confusione (stridente in qualche dettaglio) si avrebbe semmai, secondo quanto rileva la Pellikaan-Engel102, tra fenomeni (diurni e notturni) e loro personificazione (Giorno e Notte). Così, nel quadro che possiamo ricostruire dai versi citati, all'estremo limite occidentale della Terra, dove Atlante («il figlio di Iapeto») sorregge la sfera celeste (per impedirle di gravare direttamente sulla superficie terrestre e impedire il passaggio del Sole), si incontrano e danno il cambio Giorno e Notte, i quali, alternativamente, discendono verso il mondo infero per soggiornare nella «casa della Notte», e ascendere poi, quando giunge il loro turno, verso il mondo terrestre (che quindi passa regolarmente dal regime diurno a quello notturno). A tale ciclo e struttura cosmici si riferirebbero i versi del proemio: «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» avrebbero la funzione di discriminare i due mondi, attraverso cui si succedono i passaggi delle due divinità, consentendo l'accesso al mondo infero, in cui sarebbe locata «la dimora della Notte» (δώματα Nυκτός). Ad accentuare tale prospettiva "verticale" la possibile associazione tra tale sito e l'accesso all'Ade, proprio come nella poesia esiodea: ἔνθα θεοῦ χθονίου πρόσθεν δόμοι ἠχήεντες ἰφθίμου τ’ Ἀίδεω καὶ ἐπαινῆς Περσεφονείης ἑστᾶσιν Lì davanti del dio degli inferi la casa sonora, del possente Ade e della terribile Persefoneia, s'inalza [...]103 (vv. 767-769a) Sebbene possano essere sollevati dubbi circa l'esatta struttura cosmologica che fa da sfondo al racconto parmenideo, le analogie con il modello esiodeo potrebbero dunque autorizzare l'ipotesi che il superamento della soglia sorvegliata da Dike apra al poeta non genericamente uno spazio oltremondano, ma propriamente la 102 Ivi, p. 38. 103 Teogonia, cit., p. 113. 267 direzione dell’oltretomba, in altre parole del luogo tradizionalmente privilegiato per le rivelazioni. Parmenide e la poesia: conclusioni provvisorie È probabilmente questa la cornice entro cui Parmenide decide di concentrare gli altri elementi della propria creazione, elaborando, consapevolmente e in modo originale, materiali tradizionali, significativi nella comprensione dei contemporanei. Questo non implica che egli abbia semplicemente puntato all’effetto comunicativo, curandosi essenzialmente dell’impatto persuasivo dell’immaginario così plasmato. Accogliendo le suggestioni di Kingsley (e ancora della Gemelli Marciano) circa il radicamento del pensatore all’interno di un sistema di credenze e pratiche ereditate dai costumi e culti del suo popolo, potremmo ipotizzare che l’intenzione di Parmenide fosse quella di veicolare, nelle forme ispirate della tradizionale poesia epica, arricchite dell’eco suggestiva (suoni, movimenti ecc.) di una straordinaria esperienza sciamanica, un nuovo punto di vista, maturato nella ricerca personale e nel confronto con la cultura ionica e pitagorica, e la conseguente condotta di vita. Una prospettiva interpretativa che, a partire dalla centralità dell’elaborazione poetica, impone il problema di determinare il nesso tra gli elementi di immediatezza ed emotività di quello sfondo culturale e l'indiscutibile impianto logico del Περὶ φύσεως. Anticipando le conclusioni delle successive analisi, è da rilevare come la difficoltà dell’interprete, nel caso di Parmenide, risieda proprio nella determinazione della continuità tra esperienze religiose, il cui retroterra emerge nell’espressione poetica, e razionalità scientifica, che prende corpo nelle due sezioni del poema. Le strade per lo più battute nella storia delle interpretazioni sono, in realtà, quelle (maggioritarie) che scorporano i frammenti successivi dal proemio, quasi si trattasse di corpo estraneo all’originale comunicazione parmenidea, ovvero quelle (minorita- 268 rie) che unilateralmente insistono sull’evento rivelativo (e sui suoi contorni), trascurando poi il fatto che il tutto cosmico era l’oggetto di analisi (anche dettagliata) nell’opera, come attestato dalla titolazione tradizionale e, soprattutto, dalla sua consistente seconda sezione. È plausibile, al contrario, che il complesso del proemio prefiguri le tesi del filosofo e che queste non siano estranee a un intento trasformativo (Robbiano), indistricabilmente connesso alle esperienze evocate. In questo senso, si può condividere il suggerimento (Robbiano e Stemich) di cogliere nella sapienza comunicata nel poema essenzialmente uno “stile di vita”, prefigurante l’accezione di filosofia poi affermatasi (secondo la lezione di Hadot104) nel socratismo e soprattutto nella cultura ellenistica. In dissenso da Mourelatos, per il quale, invece, gli imperativi della dea sono tutti rivolti a un’attività di tipo cognitivo, non al bios o al prattein105 . D'altra parte, contestualizzando la lettura del proemio, è prudente rigettare un approccio meramente allegorico, rintracciandovi piuttosto l’espressione di un’esperienza vissuta. Appare fondata l’osservazione di Leszl106, secondo cui un'interpretazione allegorica - come quella fornita da Sesto Empirico - si scontra con il fatto che la pratica dell’allegoresi era, al tempo (fine VI secolo a.C.), solo agli inizi, con Teagene di Reggio (forse, come Parmenide, legato all’ambiente pitagorica107. Possiamo supporre108, allora, che, nella narrazione del viaggio del poeta Parmenide, siano confluiti elementi eterogenei - il resoconto di una genuina esperienza visionaria, allusioni cosmologiche, intenzioni didascaliche: il poeta avrebbe plasmato, nel modulo espressivo più vicino alla sua formazione rapsodica, immagini e contenuti a un tempo adeguati a manifestare le sue conquiste spirituali, ed efficaci per co- 104 P. Hadot, Exercices spirituels et philosophie antique, Albin Michel, Paris 20022 . 105 Op. cit., p. 45. 106 Op. cit., p. 144. 107 Allegoristi dell’età classica, Opere e frammenti, a cura di I. Ramelli, Bompiani, Milano 2007, p. XII. 108 Come fanno lo stesso Leszl, op. cit., p. 145, e Coxon, op. cit., p. 156. 269 involgere (emotivamente e intellettualmente) il pubblico destinatario (plausibilmente un gruppo ristretto di discepoli109). Ciò comportava, naturalmente, anche consapevoli opzioni simboliche, per le quali egli poteva attingere all’immaginario dell’epica e, probabilmente, della stessa poesia apocalittica: il poema appare in effetti concentrato sull’effetto (il mutamento della prospettiva cognitiva e la correlata trasformazione dell’attitudine personale) dell’impatto con la verità, della scoperta del reale assetto del tutto cosmico. Il viaggio e la sua esperienza L’esplicita indicazione di Sesto Empirico ci attesta – come abbiamo riscontrato introduttivamente - la tradizione integrale dell’incipit del poema in quello che è classificato, nella edizione Diels-Kranz, come frammento B1: il privilegio di disporre dell’esordio nella sua originale interezza offre l’opportunità di valutarne costruzione, impronta e ufficio all’interno dell’impresa complessiva di Parmenide. Comunque se ne interpreti il messaggio, è chiaro come il poeta intenda marcare l’eccezionalità dell'esperienza cantata, che – abbiamo sottolineato - non appare mera, scontata formula di indirizzo, sebbene, prendendo in considerazione i contenuti dell’opera conservati nei frammenti successivi, l’aura del mito possa superficialmente risultare stridente con gli incoraggiamenti alla ponderazione razionale (B7 e B8) e con le fatiche argomentative di B8. Come abbiamo già rilevato, è plausibile, infatti, che il preambolo proponesse quella veste proprio in funzione di quei contenuti e degli obiettivi educativi che il filosofo-poeta si prefiggeva. 109 Questa è l'impressione della Gemelli Marciano (M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, pp. 83-114. Il riferimento alle pp. 89-90. 270 Nel segno dell’eccezione Nonostante i particolari sfumati della rappresentazione d’insieme - dettagliata in alcuni passaggi (descrizione del carro e della apertura della porta) e molto indeterminata in altri (tragitto oltre la porta)110 - abbiano dato adito a vari tentativi di contestualizzazione del viaggio, il suo carattere straordinario è segnalato da due momenti ben evidenziati nei versi parmenidei: (i) l’intervento delle Eliadi (Ἡλιάδες κοῦραι) presso Dike, austera (πολύποινος, «che molto punisce») guardiana del portale, per persuaderla a consentire il passaggio del carro che conduce il poeta: le fanciulle devono placarla «con parole compiacenti» (μαλακοῖσι λόγοισιν) e «sapientemente» (ἐπιφράδεως) convincerla a concedere una possibilità evidentemente non garantita ad altri mortali; (ii) la formula di accoglienza della Dea, la quale rileva che: (a) non è stata «Moira infausta» (Μοῖρα κακὴ, destino infausto) a spingere il giovane (κοῦρος) al suo cospetto; (b) la via (ὁδός) per cui è stato guidato è «lontana dal percorso degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου). Incrociando i rilievi, si evince che l’esperienza di cui è protagonista il poeta eccede i limiti dell’umano e che ciò accade secondo un disegno cui concorrono le aspirazioni (θυμός) del filosofo (v. 1): ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι Le cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio potrebbe giungere, e il decisivo ausilio divino (vv. 8b-9a): ὅτε σπερχοίατο πέμπειν Ἡλιάδες κοῦραι mentre si affrettavano a scortar[mi] le fanciulle Eliadi. 110 Leszl, op. cit., p. 141. 271 L’eccezione coinvolge in particolare due aspetti. Il poeta ha chiaramente l’opportunità: (i) di spingersi oltre i confini stabiliti per le ambizioni mortali, e, in tal modo, (ii) di accedere non semplicemente alla rivelazione della verità, ma più esattamente a una lezione articolata, che lo informerà circa (a) la natura della realtà (vv. 28b-29): χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, (b) la natura del comune fraintendimento (v. 30): ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità, (c) fornendo soprattutto (pensando alla struttura del poema), alla luce di quegli errori, gli strumenti corretti di comprensione del mondo della nostra esperienza (vv. 31-2): ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Eppure anche questo imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero realmente, tutte insieme davvero esistenti. A sancire tale eccezione registriamo, insomma, un triplice avallo divino: (i) la scorta delle Eliadi, che si muovono a sostenere e realizzare lo sforzo del poeta\filosofo; (ii) la condiscendenza di Dike, che veglia sulle infrazioni ed è garante dei limiti; 272 (iii) la comunicazione della θεά senza nome - che può offrire la chiave per giungere alla Verità - meta del viaggio cui viene finalizzata l’aspirazione del poeta\filosofo. Il quadro è, nell’insieme, una modulazione di quello arcaico tradizionale: sotto protezione divina al poeta è permesso accostarsi a una condizione sovrumana111, che descriveremmo in termini di ispirazione, illuminazione e rivelazione. In altre parole, il privilegio della conoscenza superiore costituisce una sorta di trascendimento dello status mortale: nel rispetto, tuttavia, dell’indiscutibile primato del divino. Come anticipato nelle pagine precedenti e nelle annotazioni al testo del frammento, le indicazioni del proemio sembrano dislocare tale trascendimento nel mondo infero. In tal senso si può interpretare il riferimento della dea a «Moira infausta» (ovvero «destino infausto») e, soprattutto, alludendo a δώματα Nυκτός, all’abisso del Tartaro descritto meticolosamente da Esiodo (Teogonia 736- 745)112, con la prossimità della «dimora della Notte» (scortata nel suo corso da Sonno e Morte) alla «porta del possente Ade e della terribile Persefoneia» (vv. 758-778). In analoga direzione concorrono vari elementi esteriori (rilievi archeologici113, dati storici114), cui abbiamo sopra accennato, che confermano, nel caso di Parmenide e di Elea, la probabile relazione con il culto di Persefone, che potrebbe dunque essere la θεά, innominata in quanto scontato referente. D’altra parte il viaggio nel regno dei morti, anche senza voler fare eccessivo affidamento sulle credenze sciamaniche, già in Omero (Odissea XI) risultava cruciale per la conoscenza della verità. La stessa figura di Δίκη πολύποινος - l’aggettivo πολύποινος ricorre solo in un altro testo, un poema attribuito a Orfeo (fr. 158 Kern), in cui Dike affianca 111 Leszl, op. cit., p. 167. 112 Cerri, op. cit., p. 173. 113 Kingsley conferma che figurazioni vascolari rappresentano Persefone che accoglie nell’Ade Eracle e Orfeo, stringendo loro la mano destra, proprio come la dea innominata fa con il kouros del proemio. Op. cit., pp. 93-100. 114 Elea era centro di un culto dedicato a Demetra e Persefone (Cerri, op. cit., p. 108). 273 Zeus nell’atto di relegare i Titani nel Tartaro115 - troverebbe in tale scenario la propria naturale collocazione: nell’Ade i morti subiscono il giudizio divino e ricevono, conseguentemente, la punizione delle colpe commesse in vita. La plausibile destinazione individuata per il viaggio del poeta avrebbe, tuttavia, anche un secondo e non meno rilevante risvolto nella prospettiva del poema. Il percorso indicato, infatti, richiama la visione mitica del cosmo espressa in Esiodo e Omero, in cui i confini del mondo coincidono con quelli della terra (la cui superficie è piatta), sui cui limiti estremi poggia il cielo-cupola116: in questo senso, nel caso dell’Odissea, la katabasis non è intesa tanto come discesa sotto la superficie della terra, piuttosto come raggiungimento di un luogo oltre i limiti della superficie terrestre117 . La nozione del limite (e del suo superamento) è poi significativamente evocata dal vettore e dalla scorta, che richiamano l’immagine del carro del Sole e il mito di Fetonte118 . In effetti, la conduzione delle Eliadi (figlie di Helios, il Sole appunto) e il tragitto verso «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων, v. 11), che complessivamente tracciano i contorni celesti, se da un lato sembrano insistere sul punto di vista privilegiato garantito al poeta, dall’altro, indirettamente, attraverso l’implicita rievocazione di Fetonte (fratello delle Eliadi, la cui imperizia nel condurre il carro, sottratto di nascosto al padre Sole, richiese l’intervento riparatore di Zeus), suggeriscono anche l’idea della regolarità e della misura cosmica, rafforzata dalla presenza severa di Dike. Come in Esiodo e in altri pensatori arcaici (Anassimandro e il contemporaneo Eraclito), la processualità della natura – l’alternanza di notte e giorno ai confini del cosmo - si svolge in conformità con le prescrizioni della giustizia119. Al poeta è dunque attribuito – garante Dike – il favore 115 Cerri, op. cit., pp. 104-5. 116 Leszl, op. cit., p. 149. 117 Ivi, p. 144. 118 Benché in genere l’accostamento non sia sfuggito ai commentatori, mi pare particolarmente felice la lettura che ne propone Leszl (p. 147). 119 Ibidem. 274 di seguire il corso del Sole, abbracciando così nel tragitto mitico l’intera realtà cosmica e accedendo ai misteri dell’oltremondo. Al di là dell'esperienza quotidiana L’eccezionalità dell'esperienza del poeta, sottolineata nel suo indirizzo dalla θεά, non sarebbe allora riducibile semplicemente a una discesa (κατάβασις) agli inferi, ovvero a una ascesa (ἀνάβασις) celeste: quanto risulta marcato nei versi del proemio è la distanza della via seguita nel corso del viaggio «dal percorso degli uomini» (ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν, v. 27). La porta del Sole, identificata con la Porta dell’Ade (Iliade VIII, 13- 16; Odissea XXIV, 11-14; Esiodo, Teogonia 740 ss; 744-757; 811-814), è, in effetti, miticamente situata nell’occidente estremo, lontanissima quindi dalle regioni abitate: poggia sulla superficie terrestre, al di sotto della quale si radica nel profondo, mentre i suoi pilastri si elevano tanto da toccare il cielo. Oltre essa l’abisso, il mondo dei morti, il regno di Ade e Persefone120. Come ricorda Cerri, si tratta di una «porta cosmica», sia in quanto discrimina il percorso del sole e quindi giorno e notte, sia in quanto separa il mondo dei vivi e quello dei morti121 . Ciò che, in realtà, viene sottolineato nel resoconto parmenideo non è l’allontanamento dalla terra per pervenire alla porta del cielo, superare i confini del mondo e incontrare, nell’etere celeste, la dea rivelatrice (Mansfeld), né propriamente il viaggio nell’oltretomba (Burkert) ovvero verso il centro del cosmo (Pellikaan-Engel). Il poeta, scortato dalle Eliadi sul carro solare, perviene presso e oltrepassa la «porta cosmica», raggiungendo, dunque, il punto privilegiato che è accesso, a un tempo, all’Ade e al cielo (con la duplice valenza, quindi, di rivelazione e illuminazione). In ogni caso, la tradizionale oscurità dell’Ade appare, per la meta del viaggio, più giustificata nel contesto rispetto alla luce 120 Cerri, op. cit., p. 98. 121 Ivi, p. 99. 275 celeste122: sono le Eliadi a doversi portare «verso la luce», muovendo dalla «dimora della Notte» (dove hanno soggiornato durante la pausa notturna: il loro viaggio comincia, dunque, presumibilmente all’alba), a cui ritornano, con la compagnia del poeta, percorrendo, plausibilmente, il consueto tragitto solare (cioè al tramonto, quando Notte ha nuovamente abbandonato la propria dimora per dar cambio a Giorno). In questo senso, pur ribadendo la convinzione che a Parmenide prema soprattutto evidenziare l’oltrepassammento dell'esperienza quotidiana e la distanza dell’accesso alla Verità rispetto all’ordinario spazio delle relazioni umane, la katabasis certamente offre al poeta un paradigma influente. Al nodo della “direzione” del viaggio è poi legato quello dei suoi tempi. Il poema si apre con il presente: ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι Le cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio potrebbe giungere (v. 1), quasi a marcare un’abitudine123 ovvero, all’interno della narrazione, un elemento di sfondo, indipendente dallo sviluppo del racconto, come i successivi rilievi (sempre riferiti al presente) sulla «strada […] della divinità»: ἣ κατὰ † ... † φέρει εἰδότα φῶτα che porta † ... † l’uomo sapiente (v. 3), sulla struttura della “porta cosmica” e sul ruolo di Dike: ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι κελεύθων, καί σφας ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός· αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται μεγάλοισι θυρέτροις· τῶν δὲ Díkh πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς. Là sono i battenti dei sentieri di Notte e Giorno: architrave e soglia di pietra li incornicia; 122 Ciò a dispetto delle osservazioni di G.A. Privitera, op. cit.. 123 Guthrie, op. cit., p. 7. 276 essi, alti nell’aria, sono agganciati a grande telaio. Dike, che molto castiga, ne detiene le chiavi dall’uso alterno (vv. 11-14). Nel primo caso sarebbe accentuato il tratto sciamanico della figura del poeta, avvezzo a straordinarie escursioni; nel secondo valorizzata, invece, la sua disposizione al sapere, la sua aspirazione (θυμός, desiderio) alla verità124, condizione dell'esperienza di conoscenza annunciata nel poema quanto la successiva rivelazione della Dea. In ogni caso, l’uso del presente comporta che le «cavalle», soggetto della relativa, abbiano una relazione non episodica con il poeta-narratore e dunque siano irriducibili a mero vettore in una esperienza eccezionale, che continuino, cioè, a operare nella contemporaneità, siano parte di un’esperienza di verità che possa ripetersi (a cui altri, al limite, possano essere avviati125). Nel senso allegorico proposto da Coxon126, il poeta è ancora sul carro, con un viaggio ancora davanti a sé, con le cavalle che continuano a essere le sue forze motrici: il viaggio diverrebbe allora figura del conseguimento metodico della filosofia, secondo la lezione ricevuta; le cavalle figura della forza (θυμός) che lo spinge a filosofare. Nel passaggio al secondo verso, al contrario, appare chiara l’intenzione di Parmenide di raccontare, nelle sue sequenze, la vicenda che lo ha visto privilegiato discepolo della Dea: πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι δαίμονος, ἣ κατὰ † ... † φέρει εἰδότα φῶτα· 124 Martina Stemich, nella sua ricerca su Eraclito (Heraklit. Der Werdegang des Weisen, Grüner, Amsterdam 1996, pp. 41 ss.), rintraccia una precondizione filosofica analoga nel frammento DK 22 B18: «Se uno non spera, non potrà trovare l’insperabile, perché esso è difficile da trovare e impervio». 125 In questo senso ingressivo la Stemich (Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, cit., pp. 39-40) interpreta l’intera esperienza del proemio: sebbene il percorso verso la Dea sia già stato compiuto, esso – in quanto motivo connesso a una trasformazione comprensibile solo come sviluppo sistematico – diventerebbe emblematico della graduale approssimazione alla conoscenza ricercata dal filosofo. 126 Coxon, op. cit., p. 14. 277 τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι φέρον ἵπποι ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον [Le cavalle] mi guidavano, dopo che, conducendomi, mi ebbero avviato sulla via ricca di canti della divinità che porta † ... † l’uomo sapiente. Su questa via ero portato, perché su questa via mi portavano molto avvedute cavalle, trainando il carro: fanciulle mostravano la via (vv. 2- 5). L’uso dei tempi verbali impone sia la prospettiva dello sviluppo e della continuità dell’azione nel passato (imperfetto, che, comunque, qualcuno127 interpreta come “imperfetto storico” traducendolo con il presente), sia quella delle sue successive e puntuali sequenze compiute (aoristo), rafforzata, nel verso 2, anche dal ricorso alla congiunzione ἐπεί («dopo che»). L’intero proemio è costruito intorno a questo ordito temporale che, se valorizziamo l’opposizione presente-passato, potrebbe alludere – come intendono Mansfeld128 e Ferrari129 - al presente della condizione sapienziale del poeta, conseguita grazie alla rivelazione della Dea e dunque giustificata dalla narrazione, dal passato. Nel presente della performance recitativa il poeta evoca l’avventura della conoscenza che lo ha visto fortunato protagonista al cospetto della divinità, del cui dono si propone di far partecipi gli altri mortali: il sapiente, l’uomo che sa (εἰδὼς φώς), è tale per essere stato guidato, condotto lungo la «via della divinità» (il genitivo δαίμονος ha valore soggettivo e oggettivo a un tempo: «della divinità» perché a essa appartiene ovvero a essa conduce); il canto poetico documenta quel privilegio. Questa prospettiva temporale, che collegherebbe al presente dei versi 1 e 3 una condizione di conoscenza giustificata dall'e- 127 Conche, op. cit., p. 44.. 128 J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964, pp. 228-229. 129 F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco…, cit., cap. VIII "Il ritorno del «kouros»"; id., Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Aracne, Roma 2010, capitolo V "Il ritorno". 278 sperienza (εἰδώς implica etimologicamente l’esperienza visiva) narrata in quelli successivi 130, può essere messa in discussione partendo dall’uso che, dell'espressione εἰδὼς φώς, si sarebbe fatto, nella ritualità misterica, per indicare l’«iniziato» (analogamente, come sappiamo, potrebbe intendersi anche il ricorso a κοῦρος al v. 24), e che potrebbe dunque designare una minoranza predisposta, per intelligenza e tirocinio, alla scoperta della verità131. Il termine εἰδώς si potrebbe allora riferire alla conoscenza pregressa di Parmenide: in relazione all’obiettivo da raggiungere, ciò garantirebbe un senso anche a θυμός (v. 1), allo slancio dell’animo del poeta verso il contatto con la verità. Nulla vieta, tuttavia, di mantenere distinte le qualità necessarie per accedere alla verità – che il poeta\sapiente avrebbe evocato con il paradigma iniziatico dell’εἰδὼς φώς – dalla piena cognizione di essa, disponibile – all’interno del tradizionale modello oppositivo tra conoscenza umana e conoscenza divina – in virtù dell’eccezionale prerogativa di una rivelazione divina. In tal caso la condizione che consente al poeta di annunciare la verità (presente) è conseguita grazie alla comunicazione divina (passato), in cui si realizza comunque la sua originaria aspirazione. Accentuando (arbitrariamente) la significazione e composizione simbolica nel racconto, si potrebbero identificare due movimenti – quello del poeta sul carro tirato dalle cavalle e quello delle Eliadi che intervengono a scortarlo presso le divinità – come rievocazione della tensione religiosa del κοῦρος verso l’esperienza della rivelazione ovvero figurazione della ricerca di un accesso alla piena conoscenza della realtà. Ancora sul nodo delle divinità Abbiamo già avuto modo di portare l’attenzione – nell’economia complessiva del frammento B1 e nello specifico 130 Si tratta appunto della proposta di Mansfeld, op. cit., pp. 226-7. 131 Cerri, op. cit., pp. 169-170. 279 rilievo dell'eccezionalità dell'esperienza celebratavi – sul ruolo delle figure divine proposte nel proemio: (i) l’incarico di direzione, guida e tutela delle Eliadi; (ii) la funzione di garanzia e sanzione di Dike; (iii) l’ufficio rivelativo della θεά anonima, rispetto a cui, globalmente, nella vicenda cantata, gli altri due risultano subordinati. In un contesto già popolato da molte altre potenziali132 entità divine (Notte, Giorno, Temi, Moira, Verità), il loro rilievo non può essere meramente narrativo, ma, nell'insieme dell'esperienza che il poeta intendeva comunicare, doveva probabilmente celare anche una valenza simbolica. Riprendiamo brevemente la questione. Dike deve essere persuasa dalle Eliadi ad accondiscendere all’eccezione, proprio per consentire la rivelazione: la dea è evocata in una mansione che il pensiero arcaico le riconosce, come «ipostasi mitica della legge della physis» 133, che vincola elementi e fenomeni nell’equilibrio del tutto. È significativo che anche in Eraclito essa si esplichi in relazione al movimento solare e in genere alla regolare alternanza di giorno e notte (che tanto rilievo cosmologico hanno nel proemio): Ἥλιος γὰρ οὐχ ὑπερβήσεται μέτρα· εἰ δὲ μή, Ἐρινύες μιν Δίκης ἐπίκουροι ἐξευρήσουσιν le Erinni che troveranno Helios, qualora egli oltrepassi le sue misure, sono ministre di Dike (DK 22 B94). Incrociando nell’universo mitico la sua figura con quella delle Eliadi (divinità solari dell'illuminazione)134, Parmenide si rifaceva al mito di Fetonte, che esse, in una variante della storia (ripresa in una perduta tragedia eschilea – le Eliadi appunto -, alla cui rappresentazione a Siracusa Parmenide potrebbe aver presenziato135) aiutarono nell’impresa di guidare il carro del Sole. Alla luce di 132 Se se ne accetta la personificazione, giustificata dall’insieme dell’indirizzo e del tono religioso del poema. 133 Cerri, op. cit., pp. 104-5. 134 Come ricorda Cerri, op. cit., p. 173. 135 Capizzi, op. cit, p. 52. 280 questa circostanza, che i versi dell’esordio poetico possono richiamare, Parmenide si proporrebbe come una sorta di nuovo Fetonte, sebbene, nel suo caso, come ricorda la Dea, il viaggio proceda (vv. 26-8) sotto buoni auspici136: di questo le Eliadi devono convincere Dike, perché autorizzi il passaggio lungo la traiettoria solare. Se accettiamo questo accostamento, la divinità allusa nei vv. 2-3 potrebbe essere proprio il Sole: il carro su cui viaggia il poeta potrebbe essere allora il suo, così come la via quella che il Sole percorre, e che conduce ai confini del mondo. Ma l’associazione tra Eliadi e Dike è evocatrice anche in un’altra direzione: abbiamo ricordato come, nella cosmologia mitica esiodea ricostruita puntualmente dalla Pellikaan-Engel, la «dimora della Notte» sia collocata nelle profondità del Tartaro (il mondo infero), in prossimità dell'accesso all'Ade (il mondo dei morti), in una regione in cui hanno le loro radici la terra, il mare, il cielo, abisso senza fine (caos), luogo terrificante anche per gli dei137. In tale dimora soggiornano alternativamente Notte e Giorno: da essa muovono e a essa conducono le Eliadi. Esse, uscite dalla porta cosmica del Giorno e della Notte (su questo punto in Esiodo c'è un'incongruenza: dovrebbero essere due, collocate alle estremità orientali e occidentali), prelevano Parmenide (all’alba: si tolgono i veli notturni) e lo guidano alla stessa porta, alta tra la terra e il cielo, seguendo verso occidente il percorso del Sole. Al di là c’è il mondo infero: il suo vestibolo è a livello della superficie terrestre (descrizione omerica), ma immediatamente dopo si spalanca il baratro immenso. Parmenide ha il privilegio (come iniziato, εἰδὼς φώς) di varcarne, ancora vivo, la soglia, per attingere la conoscenza: Dike è al suo posto, nella misura in cui deve giudicare i requisiti; le Eliadi tutelano il poeta viaggiatore in qualità di patrocinatrici (impiegano parole suasive per ammansire la inflessibile sorvegliante dei confini)138 . Gli elementi che abbiamo riassunto suggeriscono che l’eccezionalità dell’impresa cantata coincida con il massimo pri- 136 Leszl, op. cit., p. 146. 137 Ivi, p. 147. 138 Cerri, op. cit., pp. 106-7. 281 vilegio previsto per un mortale nell’universo mitico: come Odisseo e Orfeo, al poeta è concesso di accedere (anche se non forse propriamente “discendere”) all’Ade, per incontrare la divinità che vi è regina, Persefone. In questo senso, probabilmente, Parmenide insiste inizialmente sull’uso del presente contrastato da quello del passato: per marcare lo straordinario esito della sua esperienza, la cui specifica difficoltà consiste proprio nel ritorno alla luce, tra i vivi, al presente della condizione umana. Prima di concludere su questo punto, è ancora necessario chiarire un aspetto. Abbiamo continuato a interpretare il proemio in un senso prossimo alla sua lettera, come si trattasse del resoconto di un viaggio dal poeta effettivamente compiuto, rigettando, quindi, le letture allegoriche secondo il prototipo proposto dallo stesso Sesto Empirico. Questo non comporta trascurare il valore simbolico delle scelte espressive di Parmenide, evitare di attendere alle implicazioni che certe immagini o situazioni concrete dovevano già avere assunto nella attività poetica all’epoca di Parmenide: la pratica allegorica stava compiendo solo i primi passi, ma è possibile che il simbolismo avesse un peso nella cultura pitagorica cui si dovrebbe, secondo alcuni139, ricondurre la formazione di Parmenide. Il contemporaneo Pindaro, per esempio, nella Olimpica VI, faceva ricorso al motivo del viaggio con intento manifestamente metaforico, sebbene l’accostamento a Parmenide risulti difficile (il viaggio di costui appare ben più complesso). In ogni caso, è forse la natura stessa dell’eccezione evocata a rendere plausibile un’intenzione simbolica del proemio: l'esperienza liminare (un viaggio oltre i confini del mondo) compiuta dall'anima del poeta (spiritualmente), prefigurava, nell'insegnamento della Dea, una vicenda conoscitiva di cui altri avrebbero potuto fruire. Così, sfruttando al massimo l’incidenza dei dettagli concreti della scena cosmica, Parmenide avrebbe, con la propria "odissea", delineato un modello per le avventure dell’anima nel grande mito del Fedro platonico140 . 139 Coxon, op. cit., p. 14. 140 Su questo punto ampia è la convergenza degli interpreti. 282 La sequenza del racconto e il progressivo (non casuale) coinvolgimento di quelle divinità fanno comunque apparire poco convincenti le letture che marcano nel proemio la mera figurazione allegorica di opzioni gnoseologiche o la semplice legittimazione, in chiave di illuminazione superiore, di una proposta filosofica. L’autore, invece, proprio attraverso la narrazione in prima persona del viaggio, ha la possibilità di coinvolgere il suo pubblico in un'esperienza di trasformazione radicale della persona, che richiede l’identificazione con il protagonista (donde l’adozione della prospettiva del viaggiatore)141. È la futura condotta di vita il vero obiettivo delle istruzioni della dea: il viaggio, in tal senso, sarebbe rappresentazione di una forma di κάθαρσις142. Lo sciamanesimo di Parmenide potrebbe leggersi in questa prospettiva: non traduzione poetica di una trance onirica (incubazione), ma assunzione della pervasività emotivo-esistenziale (forse direttamente esperita) di quella prova al servizio di uno sforzo di profondo riorientamento – teorico e pratico – nella realtà quotidiana. Alla concretezza di un fenomeno culturale (la pratica sciamanica), forse radicato nell’ambiente eleatico143, Parmenide associa un percorso di conoscenza, proposto esemplarmente ai propri uditori, in cui la dimensione di estraneazione dalle distorsioni della quotidianità è funzionale a un processo di trasformazione spirituale e a una prassi di vita. Il corso delle Eliadi ai limiti del mondo, la sanzione di Dike e la verità di Persefone scandiscono evidentemente una ricerca destinata a modificare l’intera personalità: in un contesto in cui il sapere salvifico era appannaggio di iniziazioni e incubazioni, il filosofo avrebbe così fatto ricorso, in termini simbolici, all'efficacia coinvolgente (da cui l’attenzione per alcuni 141 La Robbiano (pp. 65 ss.) dedica ampio spazio a questo punto, individuando due elementi che, da un lato, favoriscono l’identificazione tra pubblico e viaggiatore, dall’altro contribuiscono alla costruzione di una nuova attitudine mentale: (i) la focalizzazione e l’invenzione della autobiografia: le strategie dell’Io; (ii) il ritratto e le strategie del tu. 142 Coxon (op. cit., pp. 15-6) parla di katharsis pitagorica. 143 Come confermerebbero i rilievi di Kingsley e le osservazioni della Gemelli Marciano. 283 dettagli riconducibili, secondo Kingsley, all'esperienza dello sciamano) di una forma di ascesi estatico-religiosa. La rivelazione e il suo programma Con il concorso delle Eliadi e la condiscendenza di Dike (guadagnata proprio grazie all’intervento persuasivo delle figlie del Sole), il poeta – superata la porta cosmica in cui si incontrano i sentieri di Giorno e Notte – giunge infine presso la Dea: che ella rappresenti la meta degli sforzi sottolineati nei primi 23 versi, è chiaro nelle parole con cui la stessa θεά accoglie e rincuora («rallegrati!») l’attonito visitatore. Esse rivelano come viaggio e accompagnamento non siano né casuali, né naturali, ma risultato di un disegno: ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα κακὴ προὔπεμπε νέεσθαι τήνδ΄ ὁδόν - ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν -, ἀλλὰ Qémij τε Díkh τε Non Moira infausta, infatti, ti spingeva a percorrere questa via (la quale è in effetti lontana dalla pista degli uomini), ma Temi e Dike (vv. 26-28). Non è stata la morte, un disgraziato destino, a condurre il poeta al cospetto della dea infera, per una via ben lungi dai sentieri comunemente battuti: la rassicurazione divina sottintende che quella distanza dai mortali sia da considerare un privilegio e non un accidente, e che lo straordinario incontro non sia da ascrivere tanto all'iniziativa del protagonista (che è stato piuttosto spinto da Moira) quanto all’eccezionalità della scorta. La «via» (ὁδός) che gli consente di raggiungere la residenza divina (ἡμέτερον δῶ «la nostra casa») – probabilmente la stessa ὁδὸς πολύφημος δαίμονος («via ricca di canti della divinità» vv. 2- 3), lungo la quale le cavalle conducevano il poeta all’esordio: in 284 ogni caso una strada principale, come chiarisce l'indicazione κατ΄ ἀμαξιτὸν («lungo la via maestra») – è percorsa sotto l’egida della giustizia, in compagnia di «immortali guide » (ἀθανάτοισι ἡνιόχοισιν). Le scelte espressive di Parmenide – il vocativo κοῦρε («giovane») e il nominativo in funzione vocativa συνάορος («compagno») – apparentemente descrittive della condizione giovanile del poeta e della sua scorta, potrebbero alludere, in realtà, alla sua dedizione religiosa, sottolinearne l’iniziazione, e dunque legittimarne il privilegio. Imparare tutto L’eccezionalità della situazione si riflette anche nella completa disponibilità della Dea, nella sua accoglienza e nell’informazione successiva: rilevando didascalicamente - secondo il tradizionale paradigma144 oppositivo tra conoscenza umana e conoscenza divina - l’opportunità per il «giovane» di «tutto apprendere» (πάντα πυθέσθαι), ella propone un programma articolato in due momenti, chiaramente scanditi in greco (vv. 29-30) dalle congiunzioni ἠμέν …. ἠδὲ («sia … sia»), in conclusione ulteriormente precisati (v. 31) – ricorrendo alla formula ἀλλ΄ ἔμπης (congiunzione avversativa + avverbio), da rendere come «nondimeno», «eppure» «anche così». L’interpretazione di questo passaggio è molto controversa, ma anche decisiva, dal momento che all'articolazione programmatica presumibilmente corrisponde poi la struttura del poema (cioè la successiva esplicitazione dei contenuti della rivelazione), e dunque dall'interpretazione di quella dipende la comprensione di questo. Il kouros «apprenderà», «imparerà», sarà informato su tutto: ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ 144 Secondo Cerri (p. 182) la fraseologia dell’incontro tra il poeta e la dea riprende tipicamente quella delle scene di incontro tra dei e mortali in Omero. 285 ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità (vv. 29-30). Si tratta dell’opposizione fondamentale, che genera tutti i contenuti del poema: il nucleo essenziale (ἦτορ, «cuore») di Verità (Ἀληθείη), di ogni verità (εὐκυκλέος, «ben rotonda»), la sua necessità immanente (ἀτρεμὲς ἦτορ, letteralmente «cuore che non trema»); le incerte «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξαι), che non sono veramente credibili: esse risultano, letteralmente, inaffidabili, in esse non risiede πίστις ἀληθής («reale fiducia»). La qualificazione umana delle doxai giustifica la loro debolezza, assumendo per scontato che la proposta della Verità sia divina. Il modello è ancora quello di Teogonia vv. 27-28: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare, sebbene in Parmenide l'opposizione tra proferire menzogne (ψεύδεα λέγειν), cioè contraffazioni del genuino stato delle cose, ed esprimere le cose reali (ἀληθέα γηρύσασθαι) sia rimodulata nella tensione tra la salda stabilità nella relazione con la realtà («di Verità il cuore fermo») illustrata dalla Dea, da un lato, e l'incredibilità dei punti di vista mortali, dall'altro. Nel poema non vi è propriamente traccia dell'esplicita e secca contrapposizione verofalso: così l’oscillazione esiodea tra «cose false» (ψεύδεα) e «cose vere» (ἀληθέα) diventa nel contesto parmenideo opposizione determinata oggettivamente da una norma (esplicitata in B2). La divinità di Parmenide è meno volubile delle Muse esiodee: la sua rivelazione è vincolata alla manifestazione della realtà (Verità) e, conseguentemente, alla denuncia dell'origine degli sviamenti umani nelle molteplici opinioni. In questo senso, allora, possiamo leggere la conclusione del programma: 286 ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Eppure anche queste cose imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti (vv. 31-32). Nell’impegno a tutto insegnare, la Dea non si limita – attraverso l'illustrazione della norma di verità – a denunciare l’inattendibilità delle convinzioni umane (come vedremo, rintracciandone la distorsione genetica), ma intende proporre una ricostruzione affidabile (δοκίμως) della totalità degli enti che quelle opinioni travisavano. Il ricorso a δοκίμως suggerisce, nel contesto, l'intenzione della Dea di riconsiderare comunque il materiale delle inverosimili δόξαι βροτῶν, così da fornirne un quadro attendibile (credibile alla luce della verità). Possiamo dunque articolare il programma della Dea in tre momenti145: (i) l’esplicitazione della norma immanente (le «vie di ricerca per pensare»), dell'intima necessità della verità (B2, B6), con la conseguente manifestazione della struttura essenziale della realtà (B8); (ii) la denuncia dell’errore di base delle opinioni dei mortali (B6, B7); (iii) la riformulazione dei contenuti di quelle opinioni (quindi del mondo della esperienza umana) conformemente a quella norma (B9 ss.). Tale scansione ha dunque risconto nella struttura del poema: (a) una prima sezione (primo logos), indicata convenzionalmente come “Verità” (Ἀλήθεια) dalla formula: πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς ἀληθείης («discorso affidabile e pensiero intorno alla verità» B8.50-51), in cui, in successione e strettamente connessi, sono affrontati i momenti (i) e (ii): i principi del corretto ricercare e le origini dell'errore dei «mortali»; 145 Ruggiu, op. cit., p. 196. 287 (b) una seconda sezione (secondo logos, considerevolmente più consistente), convenzionalmente nota come “Opinione” (Δόξα) e nel poema denotata per i suoi contenuti: δόξας βροτείας («opinioni mortali»): in essa si concentrava il punto (iii) del programma, naturalmente più composito (riferendosi al complesso dell'esperienza). Variante di questa prospettiva di lettura è quella di Coxon146 , secondo cui, invece, Parmenide, in conclusione di B1, rievocherebbe le posizione espresse da Senofane e Alcmeone nei passi sopra citati: καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe, né mai ci sarà sapiente intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo saprebbe: opinione è data su tutte le cose (DK 21 B 34). Ἀλκμαίων Κροτωνιήτης τάδε ἔλεξε Πειρίθου υἱὸς Βροτίνωι καὶ Λέοντι καὶ Βαθύλλωι· περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν σαφήνειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι καὶ τὰ ἑξῆς Alcmeone di Crotone, figlio di Piritoo, ha detto queste cose a Brotino, Leonte e Batillo: sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo trovare degli indizi147 (DK 24 B1). 146 Op. cit., p. 169. 147 Dal passo iniziale del frammento vero e proprio (περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν) la Gemelli Marciano propone di espungere la virgola, offrendo quindi la seguente traduzione: «sulle cose invisibili che riguardano i mortali» ("Lire du début…", cit., p. 19). 288 Sarebbe dunque ribadita la contrapposizione omerica tra incerte convinzioni umane (elaborate inferenzialmente nel caso di Alcmeone) e conoscenza divina: Parmenide si limiterebbe semplicemente a riformularla nel senso di un contrasto tra forme cognitive: una affidabile perché in grado di manifestare il reale, l’altra opinabile e convenzionale, espressione di meri punti di vista. Solo riconoscendo l’insufficienza dell'esperienza ordinaria, gli uomini hanno la possibilità della certezza: ciò che Parmenide avrebbe tentato nella seconda parte del poema è appunto una ridefinizione del campo delle doxai in termini non contraddittori. Questa interpretazione si scontra, tuttavia, con una lunga tradizione che attribuisce valore diverso alle parole della Dea, per lo più assimilando i punti (ii) e (iii): alla saldezza (razionale) della verità (i), Parmenide contrapporrebbe l’incertezza (empirica) dell’opinare umano (ii), di cui offrirebbe comunque, a scopo esemplificativo e\o critico, esposizione (o ricostruzione) coerente (iii). Leszl 148 ritiene, in effetti, che la distinzione verità-opinioni, che chiude la comunicazione della dea nel proemio, corrisponda alla distinzione, enunciata dalle Muse esiodee, tra verità e falsità: in entrambi i casi le divinità si rivelano in dominio completo dell’ambito del vero e di quello dell’ingannevole (da Esiodo considerato tale perché simile al vero), sebbene, a differenza delle Muse che si limitano a esporre il vero, la dea di Parmenide espone anche ciò che non è vero, nell’intento di coprire «tutto», di offrire un sapere globale che non ritroviamo in Esiodo. Lo stesso parallelismo con l’inno alle Muse della Teogonia è sfruttato da Mansfeld149, il quale riscontra, nel doppio resoconto prospettato dalla Dea, l’analoga pretesa delle Muse di dire verità e menzogne: in questo modo, evidentemente, tutto quanto si riferisce all’ambito della doxa è stigmatizzato come ingannevole, con il risultato paradossale di ridurre proprio la sezione cosmogonica e teogonica, più vicina al modello divinamente ispirato del poema 148 Op. cit., pp. 153-4. 149 Op. cit., p. 33. 289 esiodeo, a occasione per repertare gli errori dei mortali (sottolineando come τὰ δοκοῦντα dovrebbero essere ma non sono150). Non è da escludere, invece, che proprio il secondo logos rappresentasse il nucleo centrale e originario del progetto di Parmenide, quello in continuità con la riflessione arcaica περὶ φύσεως (donde la titolazione tradizionale), di cui la sezione sulla Doxa riprodurrebbe anche la logica di riduzione di τὰ δοκοῦντα, delle «cose accettate nelle opinioni», a principi, «forme» (μορφαί) nel lessico parmenideo (B8.53); ma che l’elemento di originalità (da cui l’attenzione tra gli antichi e la conservazione nelle testimonianze) fosse costituito dalle premesse ontologiche contenute nel primo logos, che forniscono la cornice e le condizioni di una coerente enciclopedia del mondo naturale, denunciando a un tempo le debolezze delle ricostruzioni alternative151 . 150 Ivi, p. 210. 151 Il dibattito sulla natura della doxa parmenidea è sterminato: a parte il vecchio aggiornamento di G. Reale a E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III: Eleati, cit., la questione è stata sistematicamente ripresa nello specifico da P.A. Meijer, Parmenides Beyond the Gates. The Divine Revelation on Being, Thinking and the Doxa, Brill Academic Publishers, Amsterdam 1997. Molto utili J. Frere, "Parménide et l'ordre du monde: fr. VIII, 50-61", in Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. II Problèmes d'interprétation, Vrin, Paris 1987, pp. 192-212; R. Brague, "La vraisemblance du faux (Parménide, fr. 1, 31-32)", ivi, pp. 44-68; A. Nehamas, «Parmenidean Being/Heraclitean Fire» in Presocratic Philosophy, edited by V. Caston & D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 45-64; H. Granger, "The Cosmology of Mortals", ivi, pp. 101-116; P. Curd, The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998, cap. III: "Doxa and Deception"; le pagine di D.W. Graham, Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton U.P., Princeton 2006 dedicate all'argomento (pp. 169-184). 290 Opinioni: credibili e non Secondo uno dei più accreditati studiosi ed editori contemporanei di Parmenide - Cordero152 - la Dea prospetterebbe, introduttivamente, il contenuto del suo «corso di filosofia» nell’ambizioso riferimento alla totalità delle cose, precisato in due oggetti complementari: (i) il «cuore della verità» e (ii) le «opinioni dei mortali». A completamento del suo programma, ella avrebbe poi illustrato anche un possibile modello per le «opinioni»: la verità è assente dalle opinioni, ma «riconoscere che le opinioni non sono vere è vero»153. Ciò che rende, a nostro avviso, implausibile questa proposta di lettura è soprattutto l’estensione e l’articolazione che supponiamo il secondo logos dovesse avere, configurandosi come poema didascalico, manuale o trattato scientifico, a carattere enciclopedico154. È necessario dunque intendersi preliminarmente sul valore delle opinioni155 . Una prima indicazione ci giunge dalle testimonianze dei lettori antichi: Aristotele, per esempio, osserva: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...] ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν 152 N.-L. Cordero, By Being, It Is. The Thesis of Parmenides, Parmenides Publishing, Las Vegas 2004, p. 30. 153 Ivi, p. 32. 154 G. Cerri, «Testimonianze e frammenti di scienza parmenidea», in Parmenide scienziato?, a cura di L. Rossetti e F. Marcacci, Academia Verlag, Sankt Augustin 2008, p. 80. 155 Torneremo sull'argomento commentando l'ultima parte di B8 e i frammenti del "secondo logos". 291 Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: ritenendo, infatti, che non esista affatto, oltre all’essere, il non-essere, egli crede che, di necessità, l’essere sia uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a tener conto dei fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Aristotele, Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1; DK 28 A24). A sua volta, Teofrasto (secondo quanto attestato da Alessandro di Afrodisia) rileva: Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. Parmenide figlio di Pyres, da Elea […] percorse entrambe le strade. Mostra, infatti, che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la generazione delle cose che sono, non avendo sulle due vie le stesse convinzioni: piuttosto, secondo verità egli sostiene che il tutto è uno e ingenerato e di aspetto sferico; secondo l’opinione dei molti, invece, al fine di spiegare la generazione delle cose che appaiono, pone due principi, fuoco e terra, l'uno come materia, l'altro invece come causa e agente (DK 28 A7). Il problema dei due logoi era già delineato come incrocio tra due forme diverse di esplorazione della realtà, che potremmo sbrigativamente indicare come razionale ed empirica: la seconda parte del poema avrebbe così riproposto un approccio alla physis, dai fenomeni ai loro principi, analogo a quello ionico; la prima 292 parte, originale, avrebbe invece introduttivamente messo a fuoco le implicazioni ontologiche a priori dell’indagine156 . Certamente il programma della Dea prevede un momento critico, che investe indiscutibilmente le «opinioni dei mortali», in cui non risiede «reale credibilità»: individuare la norma di verità comporta necessariamente denunciare l’origine di erronee convinzioni circa il mondo dell’esperienza, senza escludere tuttavia la possibilità che la stessa materia sia passibile di una trattazione diversa, rigorosa e plausibile. Questo il senso della precisazione introdotta dal restrittivo ἀλλ΄ ἔμπης: tra la saldezza della Verità (illustrazione della realtà) annunciata dalla Dea e la (contraddittoria, come vedremo) inconsistenza delle diffuse, illusorie convinzioni umane, si annuncia la possibilità di una credibile (in quanto coerente con i presupposti che fondano la ricerca) ricostruzione dei fenomeni. Benché l’intervento divino sia teso a legittimare la norma di verità (che non può giustificarsi empiricamente), l’impianto educativo del poema, la scelta del kouros e la sollecitazione critica nei suoi confronti sembrerebbero autorizzare un'interpretazione positiva dei versi conclusivi del proemio. Ciò che colpisce, nell’articolazione della lezione divina, è, in ogni caso, soprattutto il punto (iii) del programma, che risulta nel contesto meno scontato: comunque si intenda, infatti, la direzione del viaggio cantato nei versi parmenidei, indiscutibilmente la sua meta è rappresentata dalla rivelazione divina, che presuppone, con l’esito veritativo, l’opposizione tra il sapere che la Dea può manifestare e quello che gli esseri umani possono attingere. Così la compiuta (εὐκυκλέος, «ben rotonda» 157 ), salda consistenza (ἀτρεμὲς ἦτορ, «cuore fermo») di Verità è (naturalmente e tradizionalmente) contrapposta alla debole (οὐκ ἀληθής, «non reale 156 Si tratta di una relazione che potrebbe ancora trovare riscontro nell’organizzazione del poema Sulla natura di Empedocle, nei cui frammenti (DK 31 B8, 9, 11) troviamo l’eco della ontologia di Parmenide chiaramente saldata alla prospettiva di una positiva indagine della physis. 157 Per la lettura che proponiamo, sarebbe più naturale accogliere la variante εὐπειθέος («ben convincente») della versione di Plutarco, Clemente, Sesto Empirico e Diogene Laerzio, prevalentemente accolta dagli editori moderni, di cui diamo notizia in nota al testo greco. 293 [genuina]») «credibilità» (πίστις) riconosciuta alle βροτῶν δόξαι: «nondimeno», a proposito di queste opinioni, il poeta apprenderà, dall’istruzione della Dea, anche come «le cose accolte nelle opinioni» (τὰ δοκοῦντα: il contenuto empirico di tali opinioni) siano da intendere «effettivamente» (δοκίμως: realmente, genuinamente), considerandole «tutte insieme davvero esistenti» (διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα), in altre parole riconducendole rigorosamente alla «via di ricerca» lungo la quale è effettivamente possibile procedere (B2.3). Senza questa precisazione il percorso formativo destinato al kouros sarebbe incompleto: la formula (χρεὼ) che lo introduce sottolinea come esso sia opportuno, adeguato a conseguire una nuova consapevolezza della realtà158. A tale scopo non è sufficiente (almeno non per la formazione del kouros) conoscerne l’essenza e dunque prendere coscienza della genesi delle opinioni erronee: per il poeta, destinato a tornare tra gli uomini e a rivaleggiare con altri presunti sapienti, è necessario saper affrontare i contenuti dell’esperienza umana. Non pare – come invece molti sostengono159 - che la vera novità parmenidea sia rappresentata dal fatto che la Dea offra agli uomini la possibilità di imparare e la verità e le opinioni, se per doxai si intendono quelle illusorie dei mortali: esse saranno sbrigativamente liquidate (B6-7) in conseguenza della enunciazione (B2) dei criteri di verità. Ciò che, invece, risulta originale nella rivelazione della Dea del poema, a dispetto della tradizionale frattura tra sapere umano e sapere divino, è l’ardita combinazione di rigorosa affermazione (B2, B8) di una realtà non immediatamente manifesta all’esperienza umana, e articolata esposizione di un accettabile «ordinamento» (διάκοσμος, B8.60) dei fenomeni naturali. La comunicazione dell’anonima divinità avrebbe insomma abbracciato sia quanto tradizionalmente considerato appannaggio esclusivo del dio (la verità), sia l’oggetto della contemporanea ricerca (περὶ φύσεως ἱστορίη): in questo modo, il poema avrebbe ridefinito, nel suo insieme, il quadro cosmologico (e cosmogonico) della Teogonia esiodea. 158 Robbiano, op. cit., p. 77. 159 Tra gli altri Robbiano, op. cit., pp. 51-2. 294 Verità e opinione Sul programma introdotto dalla dea innominata in conclusione del proemio (vv. 28-32), possiamo ancora osservare come, a livello espressivo, l’articolazione su cui abbiamo insistito emerga chiaramente nelle scelte verbali: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα. Intanto risultano essenziali due verbi - πυθέσθαι e μαθήσεαι – il cui valore è quello di «apprendere per esperienza», «imparare per indagine», ma anche «discernere»: essi possono veicolare, dunque, sia l’idea di ricettività, sia quella di ricerca, perfettamente in contesto laddove la docenza (divina: θεά) guida il processo di apprendimento, marcando a un tempo i temi su cui verterà la lezione impartita (Ἀληθείης ἦτορ; βροτῶν δόξαι; τὰ δοκοῦντα) e l’urgenza di comprensione da parte dell’allievo (κοῦρος). La prima formula didattica sottolinea l’opportunità che «tutto tu apprenda»: come in precedenza rilevato, è netta la costruzione oppositiva dei vv. 29-30, in cui la saldezza della Verità è contrastata esplicitamente dalla incertezza delle «opinioni», e la garanzia di verità del nesso θεά-κοῦρος implicitamente alla inaffidabilità dei «mortali»: la rivelazione del «cuore fermo di Verità ben rotonda» comporterà la contestazione della consistenza delle loro convinzioni. La seconda formula introduce gli ultimi due versi, testualmente molto tormentati: il fatto di ribadire «imparerai» sembra implicare che questa sezione della lezione divina sia ulteriore e autonoma rispetto alla prima opposizione (verità e credenza non vera), sebbene il complemento oggetto - «anche queste cose» - plausibilmente rinvii al contenuto delle «opinioni dei morta- 295 li»160 e soprattutto sia evidente il vincolo lessicale rappresentato dalla comune radice (δοκ) di δόξας, δοκοῦντα e δοκίμως. Come Mourelatos 161 ha chiarito nella sua ricerca, il verbo δοκέω può significare sia (a) «aspettarsi», «pensare», «supporre», sia (b) «sembrare», nel senso (i) di «pensare», ma anche (ii) di «apparire»: presenta dunque a subject-oriented sense e an objectoriented sense. Mentre δόξα e δοκίμως sarebbero riconducibili al primo valore e alla sua «funzione criteriologica», il ricorso al termine δοκοῦντα rivela piuttosto le implicazioni oggettive di (b), nonostante la derivazione da δοκέω lo renda irriducibile a una «funzione fenomenologica» (quella dei derivati di φαίνομαι). In δόξα (opinione-convinzione) e δοκίμως (rendendo l’avverbio come «plausibilmente») troveremmo allora coinvolta l’idea di valutazione e accettazione, di approvazione; di conseguenza in τὰ δοκοῦντα (o τὸ δοκοῦν ὄν, come in Simplicio) «le cose ritenute accettabili» ovvero «le cose come sono accettate». Ma l’avverbio δοκίμως è impiegato dal contemporaneo Eschilo con il valore di «realmente» (Liddell-Scott) e quindi potrebbe a sua volta rinviare all’accezione oggettiva, a una situazione di fatto, a come stanno effettivamente le cose (così lo abbiamo inteso nella nostra traduzione). In ogni caso, le βροτῶν δόξαι - che vengono denunciate come non fededegne - non rappresentano mere impressioni ma punti di vista assunti, condivisi e diffusi, con cui ha evidentemente senso ingaggiare polemica: è alla soggettività di tali punti di vista che viene contrapposta la verità comunicata dalla dea. Gli ultimi due versi del proemio ritornano sulla materia di quelle confuse assunzioni, per riproporla in modo adeguato: in questo caso Parmenide impiega non il termine δόξαι ma τὰ δοκοῦντα: non i punti di vista ma le cose che in essi sono accolte. A τὰ δοκοῦντα collega la complessa (e testualmente controversa) espressione participiale διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα, che abbiamo reso come «tutte insieme davvero esistenti». La scelta appare non 160 In funzione prolettica, Parmenide avrebbe – di norma - dovuto impiegare τάδε, non ταῦτα, che sembra invece riferito a quanto precede. 161 Op. cit., pp. 195 ss.. 296 quella di ricostruire la genesi dell’errore dei mortali, ovvero quella di proporne una versione più coerente, piuttosto quella di mostrare come «le cose accolte nelle opinioni» avrebbero dovuto («era necessario\opportuno», con possibile valore di irrealtà) essere intese nella loro totalità come ὄντα (esistenti), in altre parole considerate alla luce della Verità, ovvero come genuina realtà. La precisazione di Parmenide, con le sue scelte lessicali (δοκοῦντα, ὄντα), e la struttura del poema, con un secondo logos di natura enciclopedica, suggeriscono di considerare positivamente il terzo punto del programma della dea, ben distinto dal secondo (che riceve indiscutibilmente una connotazione negativa), di cui tuttavia sembra condividere due elementi essenziali: (i) il contenuto materiale, costituito dalla pluralità delle cose che accogliamo sulla base della esperienza; (ii) la prospettiva (espressa dall’insistenza sulle forme in δοκ), il punto di vista mortale, che è appunto quello che passa attraverso l’esperienza, ma che, non per questo, deve essere giudicato inaffidabile. La Dea procederà quindi: (i) in primo luogo, a introdurre quella verità di cui è esplicitamente (e tradizionalmente) garante (B2): si tratta delle premesse (B2.3, B2.5) da cui è possibile procedere per manifestare la struttura della realtà (B8); (ii) poi, a stigmatizzare (sbrigativamente), sulla scorta della forma (logica) di quelle premesse (necessità dell’essere e impossibilità del non-essere), l'infondatezza dei comuni assunti circa le cose e il loro divenire; (iii) infine, a illustrare, attraverso una ricostruzione coerente con i parametri veritativi della Dea, l'«ordine del mondo» (διάκοσμος), vero obiettivo dell'opera. In questo modo, il poema contiene, complessivamente, la rivelazione di tutta la Verità: della sua natura intrinseca («cuore fermo»), fraintesa nel comune, superficiale pregiudizio, e della sua adeguata applicazione al campo dell’esperienza umana. Parmenide si riferisce a due ambiti distinti, divino e umano, che nella rivelazione si sovrappongono: la meditazione della «parola» (μῦθος) della Dea, che segnala la traccia che conduce ad Ἀληθείη, 297 assicurerà al κοῦρος la consapevolezza degli errori comuni tra gli uomini e dunque un'avveduta prospettiva sul mondo della sua esperienza. In questo senso, le due sezioni (Verità e Opinione) hanno lo stesso oggetto (non potrebbe essere diversamente per la logica del poema): la realtà, manifestata nella sua unitotalità essenziale dall'intelligenza, e nella pluralità dei processi naturali dall’esperienza. La scansione di tale programma nei moduli della tradizionale istruzione poetica è significativa: lo scarto tra sapere umano e sapere divino, proposto nella cornice dell'eccezionale tragitto ai limiti del cosmo, dove cielo e terra, notte e giorno, mondo dei vivi e mondo dei morti si incontrano, è ribadito non solo nella relazione didascalica tra θεά e κοῦρος, ma anche nella complementarità dei loro due diversi sguardi sulla realtà. Quello della Dea si rivolge impassibile (logicamente coerente e inattaccabile) all’essere, alla totalità razionalmente afferrata nella sua omogeneità e identità ontologica; quello dei mortali è invece condizionato (e per lo più sviato) dal filtro dell’esperienza. Compito del poema condannare le distorsioni e produrre – con la lezione divina – una consapevole mediazione. Per via Prima di concludere l’esame del proemio e dopo averne considerato gli ultimi versi e il programma contenutovi, è opportuno ritornare riassumere i nostri risultati. Parmenide compone nei moduli della tradizione epica, evocandone il rilievo veritativo e educativo e sviluppandone in particolare il tema del viaggio, centrale non solo per l’epica omerica ma anche, in generale, per l’esperienza culturale e religiosa arcaica (sciamanesimo). Modulando tali paradigmi, il poeta insiste sull’eccezionalità della propria esperienza, sia per gli auspici che ne assicurano lo svolgimento, sia per la meta oltremondana, sia, infine, per l’incontro con la dea rivelatrice: ciò comporta, da parte sua, valorizzare, con la lezione divina, anche il percorso del viag- 298 gio, la «via» (ὁδός πολύφημος δαίμονος) che la dea innominata ci informa essere «lontana dalla pista degli uomini. A sancire tale percorso e la legittimità della percorrenza, Parmenide colloca Dike e Temi, giustizia e norma divina: l’accesso alla verità, dunque, non è casuale, accidentale, ma risultato di uno slancio educato (il poeta in apertura evoca la spinta del proprio desiderio, θυμός), forse di una iniziazione (come rivelerebbe, in particolare, l’uso della espressione εἰδὼς φώς). La lezione della Dea non si limita a manifestare la Verità (di cui rileva la saldezza, il nucleo inattaccabile), mediandola a un mortale, ancorché favorito, ma è attenta anche a dar conto del mondo dell’esperienza, delle «convinzioni» umane, sia per denunciarne gli stravolgimenti, sia per offrirne un’illustrazione adeguata, coerente, nei suoi principi esplicativi, con la realtà annunciata (l'essere). I modelli e i temi interessati suggeriscono che la comunicazione di verità, certamente centrale nei frammenti disponibili, non fosse fine a se stessa, ma costituisse l’elemento intorno a cui realizzare un profondo ri-orientamento della esperienza umana e una radicale ri-determinazione del rapporto tra soggetto umano e realtà (come cercheremo di dimostrare in B3 e B8)162 . La formazione alla verità porterà il kouros a vedere il mondo in una prospettiva lontana dalla quotidianità, ma soprattutto a scegliere diversamente dalla società163 . 162 Analizzando il valore di ἀλήθεια nella cultura arcaica, la Stemich (op. cit., pp. 84-6), convinta che in Parmenide non si possa delimitarne nettamente la prospettiva oggettiva (che insiste sul referente, sull’entità data al di fuori dell’individuo) da quella soggettiva (come nelle espressioni dire vero, fare vero, in cui è sottolineata la relazione dell’uomo alla verità), osserva comunque che Parmenide (come già Eraclito) insista piuttosto sulla seconda, ovvero sulla condizione che consente all’uomo di superare il senso comune quotidiano. 163 È significativo che, di recente, oltre a Martina Stemich anche Chiara Robbiano (op. cit., p. 56) abbia richiamato l’attenzione su questo punto: la ἀλήθεια rivelata, prioritaria nel programma educativo della Dea, sarebbe il risultato di un punto di vista (che il kouros deve maturare), e dunque soggettiva, ma, dal momento che esso svela l’essenza della realtà, allo stesso tempo oggettiva. In questo senso il poema riguarderebbe una trasformazione 299 Che si tratti di percorso astrale – quello solare – che conduce alla porta cosmica, chiave di volta non solo dell’alternanza giorno-notte ma anche dell’accessibilità al mondo infero, ovvero di itinerario celeste, verso una trascendenza extra-cosmica (come vuole Mansfeld), o ancora di discesa verso il mondo infero, il viaggio verso la divinità è comunque destinato a un impatto che sarebbe riduttivo considerare esclusivamente sotto il profilo conoscitivo, come per lo più si è fatto nella tradizione. L’evento è decisivo non solo per quello che consentirà di conoscere ma per come consentirà di condursi nell’esistenza: questa è forse la ragione della scelta comunicativa di Parmenide, con le sue potenzialità performative (la recitazione) e le allusioni a esperienze (rivelazioni, illuminazioni ecc.) note soprattutto per la loro incidenza esistenziale. Non a caso, dunque, il poema si apre con riferimenti allo θυμός, all’εἰδὼς φώς, alla accortezza delle cavalle di scorta, e all’egida divina di Temi e Dike, per procedere all’incontro con una dea (che potrebbe essere Persefone) la quale introdurrà la propria rivelazione (B2) con l’evocazione dell’immagine di un bivio, di fronte al quale il kouros è chiamato a scegliere. del punto di vista tale da investire non solo l’oggetto della comprensione, ma anche - alla fine del viaggio - il soggetto ( p. 37). 300 LE VIE E LA VERITÀ [B2] Nonostante i vari problemi di traduzione e interpretazione suscitati dai versi di B2, con certezza possiamo asserirne, come nel caso del precedente B1, la collocazione: all’inizio della prima sezione del poema1 , a ridosso del proemio (se non addirittura in continuità e contiguità con esso). Possiamo inoltre ragionevolmente ritenere che B2 costituisca, con i successivi B3, B6, B72 , un blocco argomentativo continuo: l’introduzione dei presupposti per manifestare (B8) i segni (σήματα), le proprietà della Realtà concepita come un tutto, ovvero di quanto anticipato (B1.29) come Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ («di Verità ben rotonda il cuore fermo»). All’interno di uno schema espositivo che esplicitamente richiama l’attenzione sul rilievo fondativo dei versi B2.2-8 (la Dea, infatti, marca la significatività del proprio μῦθος, sollecitando l’interlocutore a prenderne nota e averne cura), alcuni hanno voluto valorizzare la condizionante presenza dei principi della logica occidentale3 , altri invece vi hanno colto le premesse dell'ontologia4 . Dire, ascoltare La continuità con B1 è segnata proprio dalla modalità direttiva della comunicazione, in cui esortazione e insegnamento marcano lo scarto tra il ruolo della Dea (ἐγὼν ἐρέω, «io dirò») e la ricezione (l’ascolto attento) del poeta (κόμισαι δὲ σύ μῦθον, «e tu abbi cura 1 Ricordiamo che, nella cesura di B8.50-1, la Dea si riferisce a quel che precede come πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης; B2.4 sembra riferirsi alla stessa materia con l'espressione Πειθοῦς κέλευθος. 2 Coxon, op. cit., p. 173: la sequenza proposta è, nella numerazione DK (diversa da quella ricostruita dall’autore), B2, B3, B6, B4, B7. 3 Per esempio Heitsch in Parmenides, Die Fragmente, griechisch-deutsch, herausgegeben, übersetzt und erlaütert von Ernst Heitsch, Sammlung Tusculum, Artemis & Winkler, Zürich 19953 . 4 Per esempio Leszl, op. cit., p. 85. 301 della parola»), destinata, a sua volta, a trasformarsi, attraverso il canto, nella mediazione della verità a un discepolo: il σύ («tu») impiegato dalla divinità è rivolto tanto da questa al poeta, quanto da questi al proprio ascoltatore. La Dea sottolinea: ti dirò e tu ascolta e riferisci. Al poeta, giunto alla meta del viaggio (infero), non sono riservate privilegiate visioni o rivelazioni immediate; lo attendono, invece, parole, di cui si raccomanda l'ascolto5 . La sua ricerca della Verità dovrà dunque muovere da esse: parole con cui la Dea non nomina se stessa, non descrive se stessa o la casa in cui risiede, non designa neppure puntualmente un soggetto6 . Un solo impegno è stato assunto e quindi fa da sfondo alla sua parola: «è necessario che tutto tu apprenda» (χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι). Come sarà sottolineato in altro luogo (B7.5), l’espressione κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας («e tu abbi cura della parola una volta ascoltata») certamente sollecita attenzione per la verità del messaggio (μῦθος), ma implica anche – nella ricezione\cura - la sua valutazione e trasmissione. Sintomatica nel contesto la scelta del termine μῦθος, la «parola» divinamente ispirata del poeta, la parola che veicola, attraverso il poeta, il canto delle Muse, e dunque sancisce, a un tempo, il vincolo di dipendenza del mortale dall’immortale, ma anche l’eccezionale rilievo del poeta, la sua peculiare posizione sociale, la sua σοφίη 7 . 5 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon… cit., pp. 89-90. 6 Ivi, p. 79. 7 Su questo punto in particolare la Wilkinson (pp. 40 ss.), che richiama Senofane, DK 21 B2.11-14: ῥώμης γὰρ ἀμείνων ἀνδρῶν ἠδ’ ἵππων ἡμετέρη σοφίη. ἀλλ’ εἰκῆι μάλα τοῦτο νομίζεται, οὐδὲ δίκαιον προκρίνειν ῥώμην τῆς ἀγαθῆς σοφίης Migliore è infatti della forza di uomini e cavalli la nostra sapienza. Ma si valuta questo in modo veramente dissennato: e invece non è giusto preferire la forza alla buona sapienza. Lo stesso Senofane aveva così introdotto la propria sapienza: 302 Io, tu La polarità comunicativa ἐγώ-σύ introduce anche la dialettica del testo parmenideo: essa, in effetti, sottolinea l’urgenza di illustrare la forza persuasiva del messaggio al destinatario (B2.4: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ: «di Persuasione è il percorso - a Verità infatti si accompagna») e dunque la dimensione argomentativa (che si impone soprattutto in B8). A dispetto del tono e della situazione solenni, è progressivamente sul piano della (co)stringente discussione (ἔλεγχος) che si sviluppa la rivelazione della Dea, quasi assumendo il «tu» come muto interlocutore, di cui B8 sembrerebbe confutare il punto di vista ordinario. In questa prospettiva, la dialettica comunicativa esprime l’intenzione educativa anche nella forma di una lezione sull’uso degli strumenti razionali. B2 proporrebbe allora, in modo originale, le premesse di base della successiva trattazione: Mansfeld, in particolare, ha sostenuto che il ruolo condizionante della divinità e della sua rivelazione si manifesterebbe nei due passaggi introdotti dalle forme verbali in prima persona8 , negli asserti imposti dall’autorità di ἐγώ («io»): εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω […] Orsù, io dirò (B2.1a) χρὴ δὲ πρῶτον μὲν θεὸν ὑμνεῖν εὔφρονας ἄνδρας εὐφήμοις μύθοις καὶ καθαροῖσι λόγοις bisogna che in primo luogo celebrino il dio uomini assennati, con racconti adeguati e puri discorsi (B1.13-14); e: ἀνδρῶν δ’ αἰνεῖν τοῦτον ὃς ἐσθλὰ πιὼν ἀναφαίνει, ὥς οἱ μνημοσύνη καὶ τόνος ἀμφ’ ἀρετῆς da lodare, poi, tra gli uomini, colui che, bevendo, pronuncia belle parole, conformemente a memoria e aspirazione alla virtù (B1.20-1). 8 Op. cit., pp. 61-2. 303 τὴν δή τοι φράζω Proprio questa ti dichiaro (B2.6a). Il primo momento coinciderebbe con l’enunciazione (B2.2) delle «uniche vie di ricerca per pensare» (solo A e B sono «per pensare», A e B sono immediatamente incompatibili), in questi termini (letterali): ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) […] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5). Il secondo con l’asserzione dell'impercorribilità della seconda via: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni (B2.6). Che (i) «è» e «non è» rappresentino alternative incompatibili e che (ii) τό μὴ ἐὸν non sia effettivamente disponibile per un'autentica ricerca, costituirebbero le matrici (garantite dall'iniziativa divina) della successiva discussione, come evidenziato dall'invito all’ascolto9 : il poeta paleserebbe in questo modo sia il proprio proposito argomentativo sia la consapevolezza del suo articolarsi. Anche non condividendo la tesi di Mansfeld, appare comunque indiscutibile l’intenzione di Parmenide di sfruttare la presenza della Dea per muovere da una verità fondamentale. Altri, invece, riconoscendo l’uso didascalico del mito, vi hanno colto la rivendicazione di una verità indiscutibile (che non è mera opinione umana) 10 , ovvero l’espressione della matura consapevolezza dell’oggetto e dei mezzi propri della filosofia11: non sarebbe stato 9 Ivi, p. 86. 10 Conche, op. cit., pp. 79-80. 11 La tesi secondo cui Parmenide sarebbe il primo filosofo ad argomentare, a dare ragioni a supporto della propria posizione, a elaborare consapevolmente 304 più sufficiente enunciare la verità; era necessario assicurarla con la costrizione del logos. Forse, più semplicemente, per il sapiente-poeta, che componeva all'interno di una cultura in cui, in un modo o nell'altro, ogni sapere era radicato nella sfera della comunicazione divina12, era scontato rispettare la convenzione e fondare le premesse dei propri argomenti sulla parola della Dea. Uniche vie di ricerca per pensare All'esortazione di apertura che l’«io» della Dea rivolge al «tu» del poeta (v. 1), invitandolo ad «aver cura di» (κόμισαι) – ovvero «prender nota, meditare e trasmettere» – quanto ella sta per rivelare, fa immediatamente seguito (v. 2), sintatticamente retto dall’impegnativa espressione omerica ἐρέω («dirò, proclamerò»), la prima indicazione concreta sul contenuto della rivelazione: αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι che abbiamo reso come: quali sono le uniche vie di ricerca per pensare. Il verso presenta alcune difficoltà, non indifferenti per l'interpretazione relativa e complessiva. Quale valore riconoscere a ὁδοὶ διζήσιός? Quale a μοῦναι? Come rendere εἰσι? Come νοῆσαι? La Dea, riferendosi a ὁδοὶ διζήσιός, ritorna (dopo averlo già fatto in B1.2, B1.5 e soprattutto B1.26-7) sul tema della via, impiegando un'espressione di nuovo conio, che rientra tuttavia a pieno titolo nel motivo omerico del viaggio13. Il termine parmeni- il proprio ragionamento con metodo, è di Cordero (By Being, It Is, cit., p. 38). 12 Su questo aspetto della cultura greca, è interessante la messa a fuoco di L. Brisson, "Mito e sapere", in Il sapere greco. Dizionario critico, a cura di J. Brunschwig e G.E.R. Lloyd, vol. I, Einaudi, Torino 2005, pp. 49-62. 13 Mourelatos, op. cit., p. 67. 305 deo δίζησις è infatti di derivazione epica, essendo δίζημαι utilizzato in Omero per «ricercare persone o animali perduti» ovvero nel senso lato di «concepire»: esso implica desiderio del e interesse nell’oggetto ricercato (la cui esistenza quindi non sarebbe in discussione). La formula ὁδοὶ διζήσιός alluderebbe allora a un investigare impegnato a raccogliere informazioni che conducano all’oggetto desiderato. È significativo che il contemporaneo Eraclito usi δίζημαι nel senso di ricercare in profondità: χρυσὸν γὰρ οἱ διζήμενοι γῆν πολλὴν ὀρύσσουσι καὶ εὑρίσκουσιν ὀλίγον Quelli che cercano oro rivoltano molta terra, ma trovano poco [oro] (DK 22 B22), marcando la propria direzione d’indagine verso quanto nascosto e inaccessibile ai più: la ricerca della φύσις, in contrapposizione alla πολυμαθία di poeti e sapienti tradizionali. Eraclito, tuttavia, sottopone il verbo a un’ulteriore, originale, torsione: ἐδιζησάμην ἐμεωυτό ho indagato me stesso (DK 22 B101), che Mourelatos14 legge in relazione a: ψυχῆς πείρατα ἰὼν οὐκ ἂν ἐξεύροιο, πᾶσαν ἐπιπορευόμενος ὁδόν· οὕτω βαθὺν λόγον ἔχει i limiti dell’anima non potrai mai trovarli, sebbene tu ti spinga per tutte le strade: tanto profondo è il suo logos (DK 22 B45). L’uso arcaico di δίζημαι sottolinea, insomma, il fatto che si ricerca intorno a qualcosa che non è manifesto o accessibile fin dall’inizio. In questo senso il nesso stabilito nei versi 3-4 tra la prima ὁδός e Ἀληθείη: 14 Mourelatos, op. cit., p. 68. 306 Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ di Persuasione è il percorso - a Verità infatti si accompagna. È necessario un percorso di ricerca per appalesare quanto è immediatamente nascosto: la via conduce alla scoperta della realtà, e in questo senso alla «verità». La verità richiede dunque una specifica ricerca: solo seguendo una «pista» (termini come πάτος, κέλευθος, ἀταρπός sono ricorrenti nei primi due frammenti) non casuale è possibile cogliere ciò che è genuinamente reale. Parmenide sceglie di ricorrere all'espressione «vie di ricerca» proprio per dare risalto al fatto che esse hanno come obiettivo essenziale la realtà (verità)15 . La Dea proclama dunque solennemente: αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι (letteralmente: quali vie uniche di ricerca sono per pensare). La costruzione greca ha autorizzato sia (i) la lettura che insiste sulla concepibilità delle vie (εἰσι νοῆσαι in senso potenziale, da rendere come: «sono possibili da pensare», «possono essere pensate», «sono pensabili/concepibili»), sia (ii) quella che, come pare corretto nel contesto, facendo leva (a) sul valore finaleconsecutivo dell’infinito, (b) sul suo nesso con μοῦναι, e (c) sulla successiva determinazione delle ὁδοί con formule introdotte da ὅπως e ὡς, esprime il lato attivo del pensare (dunque: «quali sono le uniche vie per pensare»), introducendo due modi di pensare («pensare che...»). Qualcuno16 ha ipotizzato che Parmenide intendesse evocare entrambi i valori, intenzionalmente giocando sull’ambiguità (in analogia con le modalità di comunicazione del contemporaneo Eraclito): una chiave interpretativa che potrebbe applicarsi ad altri passaggi del testo. 15 Leszl, op. cit., p. 124. 16 Robbiano, op. cit., pp. 81-2. 307 Ma il testo pone anche il problema della resa di νοῆσαι: generico «pensare», o, secondo l’uso arcaico, «apprendere, conoscere»17? La traduzione in questo caso impone un'opzione interpretativa: «pensare» rischia di risultare troppo indefinito rispetto all'unicità conclamata delle vie, consentendo, per esempio, di ammettere, oltre alle razionalmente legittime, anche «le vie dell’irrazionale» (illuminazioni, rivelazioni, ispirazioni ecc.), illegittime agli occhi della ragione18, come in effetti alcuni frammenti del poema (soprattutto B6 e B7) sembrano suggerire. D’altra parte, si potrebbe obiettare che, rendendo in senso forte νοεῖν con «apprendere\conoscere», come pur giustificato dalla conclusione del proemio19, risulterebbe poi problematica la comprensione della via introdotta in B2.5 (letteralmente): ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι che non è e che è necessario non essere. Di essa, in effetti, la Dea si affretta subito a osservare: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· Proprio questa di dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.6-8); sottolineatura ripresa e accentuata ancora in B8.17-8: ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός 17 Mourelatos, op. cit., p. 70. Tra gli editori contemporanei, anche Heitsch opta per erkennen. Per una discussione aggiornata si veda ora Palmer, op. cit., pp. 69 ss.. 18 Come nel caso di Conche, op. cit., p. 77. 19 Ch.H. Kahn, “The Thesis of Parmenides”, in Id., Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009, pp. 146-147. 308 impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina). Eppure è proprio questa difficoltà a risultare illuminante rispetto alla natura e alla funzione delle «uniche vie di ricerca per pensare» (ὁδοί μοῦναι διζήσιός νοῆσαι): solo la nozione di νοεῖν come pensare del tutto intellettuale, capace di prescindere dalle sembianze sensibili e afferrare ciò che è realmente dato, appare in grado di giustificare l'alternativa (ἡ μὲν... ἡ δὲ...) prospettata nei versi B2.3 e B2.5. Intendendo νοεῖν come un «pensare» generico, si può ridurre il paradosso di una «via di ricerca per pensare» connotata come «sentiero del tutto privo di informazioni» (παναπευθέα ἀταρπόν) e, addirittura, come «impensabile e inesprimibile (ἀνόητον ἀνώνυμον), ricorrendo alla distinzione tra la sua prospettazione a priori e l'effettiva (a posteriori) sua praticabilità. Crediamo, tuttavia, che sia solo la comprensione di νοεῖν secondo la prospettiva omerica (improntata all'analogia con il vedere) di una relazione percettiva immediata con l'oggetto20, a dare senso alla disgiunzione «è»-«non è»: essa allora esprimerà, per quella funzione ricettiva, l'alternativa radicale tra necessità di rivolgersi a una realtà che è, e impossibilità di afferrare ciò che non è. La Dea annuncia nel contesto quali siano le «uniche vie di ricerca per pensare»: tre sono gli elementi da considerare: (i) la ricerca (δίζησις), (ii) i percorsi lungo per cui essa si sviluppa, (iii) la finalità che essa intende realizzare, designata dall'infinito aoristo νοῆσαι: «pensare», svelare la realtà (verità), ovvero, come suggerisce Palmer21, «comprendere», «giungere a comprensione». Il contesto di B2 suggerisce palesemente anche l'obiettivo conclusivo delle ricerca, che traduce in risultato la finalità dell'unico effettivo percorso di ricerca: come abbiamo già osservato, della prima via di ricerca (ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) la Dea sottolinea che (a) è «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), 20 Germani, op. cit., p. 189. 21 Op. cit., pp. 72-3. 309 in quanto (b) «attende alla Verità» (Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ). L'apertura di B6 preciserà (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι è necessario il dire e il pensare che ciò che è è, fissando quindi in quanto espresso da ἐόν l'oggetto specifico di comprensione. D'altra parte, le «vie» annunciate sono «uniche» (μοῦναι) in forza di ciò che esse si propongono di pensare: in B8.16 sinteticamente proposto come ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν («è o non è»), esso è in B2 rinforzato da due formule modali: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) […] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5). Lungo la prima via (per pensare), la ricerca si sviluppa riflettendo a partire dall'immediata evidenza: «è» (ἔστιν), rimanendo saldamente sul terreno dell'«essere» (escludendo cioè la possibilità del «non-essere»). La seconda modalità, invece, prospetta una ricerca che si svolga a partire dalla negazione di quella evidenza: «non è» (οὐκ ἔστιν), pretendendo di svilupparsi conseguentemente sul terreno del «non essere». Delineata come alternativa alla precedente, essa si rivela di fatto impercorribile, dal momento che il pensiero non avrebbe alcunché da afferrarvi e manifestarvi: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo. 310 Per pensare Prima di procedere alla determinazione delle «vie», è opportuno, tuttavia, in relazione al verso 2, soffermarsi ancora sulle implicazioni dell’annuncio della Dea: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω [...] αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι. Comunque si valutino queste parole, è evidente come in esse Parmenide anticipi il senso di un messaggio (divino) che investe indiscutibilmente la dimensione cognitiva del νοεῖν: si tratterà di riassumere, nella schematica astrazione di due forme («vie»), le modalità di fondo del «ricercare», del portare a conoscenza22, discriminandole rispetto all'ampia fenomenologia di tentativi e sviamenti «mortali» (le δόξαι βροτῶν). Se si può riconoscere alla narrazione del proemio anche un'intenzione simbolica, ricordiamo come la θεά, accogliendo il κοῦρος, rilevasse (B1.27): τήνδ΄ ὁδόν [...] γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν. Il filo che lega l’esordio della comunicazione della θεά (B1.24 ss.) alla rivelazione di B2 è costituito dal tema della ὁδός: la Dea dapprima (B1.27) – con riferimento alla via che, grazie all’intervento di eccezionali coadiutrici, ha condotto al suo cospetto - segnala come essa sia «lontana dalla pista degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου); in B2 ella ne rievoca il tema nelle ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός, precisando in modo rigoroso i criteri per valutare la fondatezza di ogni punto di vista. In gioco è esplicitamente (B1.29) la Verità: (i) nella sua “essenza” (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ); (ii) nella sua manifestazione 22 Come ricordato in nota al testo, Kahn (Ch.H. Kahn, “The Thesis of Parmenides”, cit., p. 147) ha sostenuto che δίζησις costituirebbe «equivalente poetico» del termine ionico ἱστορίη («ricerca scientifica»). 311 all’esperienza umana (τὰ δοκοῦντα); (iii) nella sua diffusa distorsione (βροτῶν δόξαι). La realtà da scoprire (Verità) rimane, in effetti, al centro anche di B2, come abbiamo in precedenza sottolineato a proposito della espressione δίζησις e della sua derivazione dall’omerico δίζημαι, alimentando un possibile ulteriore paradosso. Secondo una corrente interpretazione dei primi versi del proemio, la Dea è stata raggiunta a conclusione di un viaggio lungo la «strada ricca di canti» (ἐς ὁδὸν πολύφημον) che conduce «l’uomo che sa»: ella rivela di non essere la fonte diretta da cui attingere la Verità; suo compito è solo quello di indicare il (nuovo) percorso per conseguirla23. È questo decentramento della verità dalla Dea che giustifica, per esempio, la lezione di Untersteiner, il quale fa coincidere la verità con la via stessa. In ogni caso, nell’economia complessiva del testo, il riferimento al νοεῖν – del poeta e del lettore\ascoltatore – è essenziale per coglierne l’intenzione pedagogica. Il discorso si snoderà a partire dalla comprensione delle implicazioni di due enunciati divini, insistendo sulla centralità della relazione tra νοεῖν e εἶναι: tale comprensione risulterà ugualmente vincolante per la Dea e per i «mortali» (manifestando un decisivo, comune denominatore razionale): (i) legittimando, da un lato, il taglio argomentativo di alcuni dei frammenti della prima sezione (segnatamente B8, parzialmente B6) e l’ἔλεγχος adottato dalla divina interlocutrice per istruire il κοῦρος; (ii) contribuendo dall’altro a determinare l’oggetto intorno a cui verte il discorso, indicato dallo stesso Parmenide (nella formula più astratta) come τὸ ἐόν. Le «vie» e i loro problemi: natura e articolazione della ricerca Le «uniche vie di ricerca per pensare», come abbiamo visto, sono proposte letteralmente come: 23 Ruggiu, op. cit., p. 211. 312 ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5) ovvero, volendo risolvere le infinitive in una soggettive esplicite (come appare più naturale): l’una che è e che non è possibile che non sia l’altra che non è e che è necessario che non sia. La nostra preferenza per la resa infinitiva è legata alla possibilità di rimanere più aderenti alla costruzione greca e soprattutto di sfruttarne gioco espressivo e ambiguità. In apparenza, l’alternativa (ἡ μὲν... ἡ δὲ...) reitera – pur senza sovrapposizione, come vedremo - lo schema oppositivo già impiegato dalla Dea nella propria allocuzione di saluto, quando aveva sottolineato al κοῦρος l’esigenza di «tutto» apprendere: ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è vera credibilità (B1.29-30). L'una - l’altra Ammettendo la sostanziale continuità tra B1 e B2, le due opposizioni, cariche di significato in forza delle reciproche introduzioni (nel primo caso - B1.28 – l’urgenza di χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι; nel secondo l’interrogativo implicito in αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι), appaiono evidentemente collegate, 313 anche se non (come vorrebbe qualcuno24) nel senso di una puntuale correlazione. Nel caso di B2, l’opposizione emerge non solo, sul piano espressivo, nella scelta della costruzione (ἡ μὲν ὅπως ... ἡ δ΄ ὡς), ma soprattutto, sul piano logico, nella peculiare costruzione degli enunciati, che possiamo rispettivamente articolare nei due emistichi dei versi 3 e 5, quindi: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν […] (B2.3a) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν […] (B2.5a) καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι (B2.3b) καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5b). Letteralmente dovremmo tradurre, attribuendo (come prevalentemente si fa) a ὅπως e ὡς il valore di congiunzioni (subordinanti) dichiarative (sottintendendo, dunque «che dice» ovvero «che pensa»): l’una [che pensa] che «è»25 […] (B2.3a) l’altra [che pensa] che «non è» […] (B2.5a), e che «non è [possibile] non essere» (B2.3b) e che «è necessario non essere» (B2.5b). L'alternativa più credibile a questa costruzione dichiarativa non pare tanto quella avverbiale discussa da Mourelatos26: l’una come è e come non sia non essere l’altra come non è e come sia necessario non essere, 24 In modo coerente per esempio Cordero. 25 Il virgolettato vuol sottolineare il contenuto dichiarato. 26 Op. cit., pp. 49.51. Untersteiner rende in modo apparentemente analogo, ma in realtà con valore interrogativo: «come una esista e che non è possibile che non esista» (p. LXXXVI). 314 quanto quella proposta da Ferrari27, almeno per quel che concerne la resa di ὅπως e ὡς con «secondo cui», che ben suggerisce l'idea delle diverse prospettive di ricerca. Il rilievo oppositivo delle «vie» può essere rafforzato se – come è possibile e per certi versi naturale nel contesto – B2.3b (καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) è reso con espressione modale; avremmo così: e che: «non è possibile non essere» [ovvero: che non sia] (B2.3b) e che: «è necessario non essere» [ovvero: che non sia] (B2.5b). In questo caso, sarebbe evidente come Parmenide abbia deliberatamente costruito le «vie di ricerca» facendo leva sulle opposizioni «è» – «non è» e «non è [possibile] non essere» - «è necessario non essere»: la Dea – per acclarare αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι - ricorre a due formule coordinate 28 : (i) «[pensare] che A e che B» per la prima via; (ii) «[pensare] che non-A e che non-B» per la seconda. In greco abbiamo: A = ἔστιν; non-A = οὐκ ἔστιν; B = οὐκ ἔστι μὴ εἶναι; non-B = χρεών ἐστι μὴ εἶναι. Nello schema che così si delinea, da un punto di vista logico «non-B» dovrebbe corrispondere alla negazione di «non è possibile non essere» e dunque a «è possibile non essere», non a «è necessario non essere». In questo senso, è stato giustamente osservato (Kahn, Mourelatos, Lloyd, Leszl) che, alla luce della posteriore logica aristotelica, gli enunciati 2.3a e 2.5a sarebbero effettivamente contraddittori29, mentre gli enunciati 2.3b e 2.5b (costruiti sulla opposizione «non è possibile...»-«è necessario...») solo contrari30, e che dunque la formulazione alternativa non sarebbe esaustiva. Eppure nell'insieme appare chiara (Aubenque, 27 Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 135 ss.. 28 Proposta da Cordero, By Being, It Is…, cit., p. 43. 29 Ammettendo, ovviamente, l'identità di soggetto: uno necessariamente vero, l’altro necessariamente falso. 30 Non potrebbero essere, quindi, veri entrambi, ma potrebbero essere entrambi falsi. 315 Heitsch) l’intenzione di Parmenide di esprimersi attraverso alternative esclusive (quindi in termini di espressioni incompatibili)31 . In questo senso la nostra scelta di rendere il testo greco con subordinate implicite: l’una: è e non è possibile non essere l’altra: non è ed è necessario non essere, quasi la Dea puntasse ad associare all’immediato rilievo dello stato d’essere (ἔστιν) la forma infinitiva32 («essere»), in altre parole ad anticipare, nel gioco verbale, i due oggetti al centro della disamina (B3, B4, B6, B7, B8): ἐόν, τό ἐὸν, τό μὴ ἐὸν. Una volta delineata la formulazione oppositiva delle vie d’indagine, due questioni delicate (da un punto di vista interpretativo complessivo) si impongono: a chi o che cosa si riferiscono affermazione e negazione (quale il loro soggetto)? Quale valore (esistenziale, copulativo, veritativo) attribuire al verbo «essere»? È - non è Il primo interrogativo è ovviamente suscitato dall'assenza, in greco, di un soggetto per ἔστιν-οὐκ ἔστιν: dal momento che le principali lingue moderne richiedono che esso sia in qualche modo esplicitato, la traduzione del testo ha sopportato svariati tentativi di completamento: dalla scelta dell'assoluta indeterminatezza33, a quella della forma impersonale34, dal ricorso a pronomi35 31 Si veda la discussione in Cordero, op. cit., p. 71. 32 Heitsch rende ancora più esplicitamente questa situazione: Der eine, (der da lautet) «es ist, und Sein ist notwendig» Der andere, (der da lautet) «es ist nicht, und Nicht-Sein ist notwendig». 33 Tipicamente Calogero. 34 Fränkel. 35 Si tratta della soluzione più frequente. 316 (it, es, on), sostantivi (l’essere36, la via37, la Verità38, il mondo reale39, il corpo40), all'uso di intere formule sottintese - «whatever can be thought and talked about»41 (come viene da alcuni tradotto il primo emistichio di B6.1), «whatever we inquire into»42 . Da un punto di vista filologico l’ipotesi di una lacuna relativa al soggetto - azzardata per esempio da Cornford43 e Loenen44, i quali propongono rispettivamente ἐόν (l'essere) e τι (qualcosa) – appare forzata: i codici conservati di Proclo e Simplicio, infatti, presentano lo stesso identico testo45 e l’operazione sul verso risponde quindi a un'esigenza essenzialmente interpretativa. Parmenide, evidentemente, ha scelto di esprimere i suoi enunciati in questo passaggio del poema senza un soggetto esplicito. Può essere in questo senso provocatorio il suggerimento della Wilkinson, la quale, in considerazione della naturale destinazione recitativa del poema, considera l’assenza di un soggetto definito per ἔστιν come una modalità intenzionale per esaltarne, nella ripetizione, la formula: la sua rarità nella poesia arcaica fa supporre che per l’audience di Parmenide il termine (soprattutto senza soggetto o come soggetto esso stesso) fosse una novità46 . D’altra parte, l’esame del frammento consente di individuare un soggetto implicito: la stessa logica di costruzione delle «vie» comporta, infatti, che, nel momento stesso in cui la Dea sottolinea: 36 Tipicamente Cornford. 37 Untesteiner. 38 Verdenius. 39 Casertano. 40 Burnet. 41 Russell, Owen. 42 Barnes. 43 F.M. Cornford, Plato and Parmenides, Routledge & Kegan Paul, London 1939. 44 J.H.M.M. Loenen, Parmenides, Melissus, Gorgias: A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorcum, Assen 1959. 45 Come osserva Cordero (By Being, It is…, cit., p. 37), è curioso che le citazioni di questi versi (in Proclo e Simplicio) siano posteriori al poema di un millennio. 46 Wilkinson, op. cit., pp. 93 ss.. 317 οὔτε … ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.7-8), conoscibilità ed esprimibilità – negate a τό μὴ ἐὸν - debbano essere riferite a un ancora implicito [τὸ] ἐόν 47, come chiarito in B6.1-2a (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν è necessario il dire e il pensare che ciò che è è; è infatti [possibile] essere, [il] nulla, invece, non è. Se è vero, come segnala Coxon48, che l’omissione del pronome indefinito (denotante «la cosa in questione») come soggetto è ampiamente diffusa nell’epica e nel greco posteriore, nel contesto dell’attuale B2, in altre parole all’esordio della comunicazione divina, è tuttavia assai probabile che Parmenide rinunciasse intenzionalmente al soggetto (per altro non immediatamente desumibile e quindi difficile da sottintendere per l’ascoltatore), insistendo piuttosto sull’impatto espressivo dell’intreccio oppositivo ἔστινοὐκ ἔστιν (con relative formule modali), per (i) catturare progressivamente l’attenzione dell’ascoltatore e (ii) coinvolgerne l’impegno intellettuale, lungo le due vie delineate, nell’enucleazione della verità. Saremmo, in questo senso, in presenza di un’ambiguità ricercata a scopo pedagogico. Se, come per lo più si conviene, l’ordinamento DK dei frammenti della prima parte del poema è relativamente plausibile, allora, da B2 a B8, assisteremmo a una graduale manifestazione del 47 Questo rilievo in R. Mondolfo, “Discussioni su un testo parmenideo (fr. 8.5- 6)”, «Rivista critica di storia della filosofia», 19 (1964), p. 311. Si veda anche Coxon, op. cit., p. 177. 48 Op. cit., p. 175. 318 soggetto sottinteso49 in B2.3: dalla pura affermazione «ἔστιν» si passerebbe, in B6.1, a un soggetto (ἐόν) sotto forma di participio ricavato dallo stesso verbo εἶναι, determinato poi, in B.8, come vera e propria nozione (τὸ ἐόν), con relative proprietà50 . La scelta espressiva di Parmenide (rinunciare a un esplicito soggetto per ἔστιν-οὐκ ἔστιν) – che imbarazza il traduttore moderno, spesso costretto a ricorrere al pronome neutro come mero soggetto grammaticale51 - ha l’effetto di porre in risalto nei versi (per il lettore), ovvero nella recitazione (per l’ascoltatore) l’assolutezza di ἔστιν (οὐκ ἔστιν) 52 , una ricorrenza insistente nel poema53. L'«impertinenza linguistica» di Parmenide54 si sarebbe concentrata deliberatamente su una forma verbale esposta all’ambiguità, per la rottura dello schema sintattico soggettopredicato verbale, e l’uso (di conseguenza incondizionato) della terza persona singolare indicativa (ἔστιν). Con l’effetto di richiamare l’attenzione sull’esperienza del reale55 implicita nel linguaggio ordinario: l'evidenza del puro fatto d’essere56. Come verbo assoluto, senza vincoli grammaticali e logici (soggetto, predicato), ἔστιν esprimerebbe immediatamente lo «stato puro»57 della realtà, 49 Su questa proposta convengono alcuni recenti interpreti: Couloubaritsis, Cassin, Aubenque, Ruggiu. 50 O’Brien, op. cit., p. 164. 51 Che preannuncia il vero (reale) soggetto: Conche, op. cit., p. 79. 52 Grazie al supporto delle formule modali οὐκ ἔστι μὴ εἶναι e χρεών ἐστι μὴ εἶναι. 53 Su questo aspetto, in particolare, Wilkinson, op. cit., p. 94. 54 P. Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical Interpretation, Marquette University Press, Milwaukee (Wisconsin USA) 2007, p. 35: l’enfasi sull’«è» sorgerebbe da una certa awareness of language, e sarebbe in realtà funzionale al rilievo delle implicazioni dell’uso pre-filosofico del verbo «essere». 55 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 89. 56 Convincente per questo aspetto la lettura di Cordero, By Being, It Is, cit., pp. 61 ss.. Va per altro osservato come Parmenide coniughi il rilievo «ἔστιν» con la formula «οὐκ ἔστι μὴ εἶναι», che certamente lo rafforza: è a partire dalla sua assolutezza che si potrà procedere all'estrazione (B6-B8) di un soggetto (con l’introduzione di τὸ ἐόν o εἶναι). 57 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 93. 319 presupposto in ogni affermazione58. Per questo l’aggiunta di un pronome indefinito (qualcosa, τι in greco) tradirebbe (attenuandola) la radicalità dell’indicazione della Dea, che potrebbe piuttosto essere intesa come veicolo dell’originario stupore per, della primitiva attenzione al «fatto d’essere». Nella lettura che proponiamo, infatti, all’immediata rilevanza dell’ἔστιν la Dea farebbe seguire, con una sequenza verbale ad effetto59 , οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, cioè l’estrazione e l’affermazione (attraverso la doppia negazione) di εἶναι. Per quanto si valorizzino le implicazioni linguistiche (come segnalato da Calogero, e da altri poi in vario modo ribadito60), il contesto della dichiarazione della Dea rimane comunque quello della determinazione di «vie di ricerca per pensare», nel senso di percorsi prospettati per giungere a comprensione della realtà: Parmenide intende dunque riferirsi in ultima analisi alla realtà sottesa a quelle espressioni, delineata nella sua assolutezza («non è possibile non essere»). Così, quando afferma (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· è necessario il dire e il pensare che ciò che è è (B6.1a), ἐόν emerge come espressione concettuale, consapevole sviluppo astratto, dell’immediato contenuto di ἔστιν, denotando, a un tempo, la totalità degli enti (di ognuno dei quali si dice che è «ciò 58 In questa prospettiva, è forse ancora utile l'indicazione di Calogero, rilanciata da Giannantoni (G. Giannantoni, "Le due 'vie' di Parmenide", «La Parola del Passato», cit., pp. 207-221), circa la scelta dell'«è» «in quanto puro elemento logico e verbale dell'affermazione» (G. Calogero, Studi sull’eleatismo, La Nuova Italia, Firenze 19772 , pp. 20-2). 59 L’effetto musicale in greco della sequenza verbale in ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι non è facilmente riproducibile in traduzione, mantenendo il valore potenziale di οὐκ ἔστι. 60 Riflessione intorno all’uso della copula (Thanassas, op. cit., p.32; Cerri, op. cit., p. 60), alla sua funzione «speculativa» nel rivelare il predicato essenziale di un soggetto (la copula funzionerebbe da conveyer verso la realtà della cosa: Mourelatos, op. cit., p. 59); riflessione sul fatto che, in greco, il linguaggio quotidiano indica le cose come ὄντα (Cordero, op. cit., p. 60.). 320 che è», ἐόν/ὄν), ma richiama anche la attenzione sull’essere (ἐόν, εἶναι) di quegli enti61 . [Pensare] «che è», [pensare] «che non è» La seconda questione suscitata dalla formulazione delle «vie di ricerca […] per pensare» è relativa al valore da attribuire al verbo «essere» negli enunciati: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5). L'insistenza sull’incrocio oppositivo di ἔστι e εἶναι risalta sia in lettura sia all’ascolto: «è»\«non-è», «non è [possibile] nonessere»-«è necessario non-essere». A partire da questo dato testuale è aperta la discussione tra gli interpreti su come intendere le espressioni verbali. Nella conclusione dell’esame precedente abbiamo posto in relazione l’affermazione di B2.3 con il primo emistichio di B6.1: χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι. All'interno del verso, «essere» (qui nella forma epica ἔμμεναι) è riferito a un esplicito soggetto, il participio ἐόν, con un valore che appare, naturalmente, esistenziale (predicato verbale: «esiste»). Ora, volgendoci 62, senza forzature, a B8, possiamo ulteriormente rilevare due passi chiaramente significativi: 61 Thanassas, op. cit., p. 45. Interessante il rilievo secondo cui l’ἐόν di Parmenide sarebbe in questo senso direttamente comparabile alla espressione aristotelica τὸ ὂν ᾗ ὂν. 62 Seguendo l’esempio di O’Brien, op. cit., pp. 170 ss.. 321 […] ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν che senza nascita è ciò che è e senza morte (B8.3), οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι per questo non incompiuto l’essere è lecito che sia (B8.32). In questi casi si individua ancora esplicitamente il soggetto nel participio ἐόν (B8.3) e nel participio sostantivato63 τὸ ἐόν (B8.32), mentre ἐστιν e εἶναι sono impiegati con valore copulativo64. Più complessa la situazione di B8.5-6: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές· né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.5-6), dove soggetto sottinteso è ἐόν di cui sopra (B8.3), e ἔστιν ha un duplice ruolo: a un tempo valore esistenziale (con l’avverbio: «è ora») e funzione copulativa65 . Se poi guardiamo alla ricostruzione delle premesse dell’argomento della Dea (B8-15-18), dove Parmenide rievoca la κρίσις (decisione) intorno a «è o non è», il senso dell’ἔστιν in B2 si approfondisce: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. […] Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, 63 Che certamente comporta valore esistenziale. 64 In realtà per B8.3 la situazione è più complicata, in quanto il testo greco potrebbe rendersi diversamente: «essendo, è ingenerato e indistruttibile»; «essendo ingenerato, l’essere è anche indistruttibile». 65 O’Brien, op. cit., p. 177. 322 di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale (B8.15-18). La via (ὁδός) che pensa che «non-è [e che è necessario non essere]» è abbandonata, in quanto «impensabile [e] inesprimibile», perché «non genuina» (οὐ ἀληθής). In B2.6-7 si parla di «sentiero del tutto privo di informazioni»: «conoscere ciò che non è» ovvero «indicarlo» «non è in effetti cosa fattibile». L’altra si è invece «deciso» (κέκριται) «sia\esista» (πέλειν) e «sia reale\genuina\vera» (ἐτήτυμον εἶναι). Se in B2, nell’economia della lezione divina, è essenziale soprattutto focalizzare l’attenzione sul valore decisivo della espressione verbale ἔστιν, preparando il terreno alla comprensione delle implicazioni nella formulazione delle «vie», in B8, al contrario, riscontriamo gli effetti della sistematica applicazione alla prima «via», con altrettanto sistematica esclusione della seconda. La prima via per pensare (comprendere) afferma ἔστιν; la seconda lo nega (οὐκ ἔστιν). La prima via completa e assolutizza l’affermazione con la negazione del non-essere (οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), ovvero della possibilità del non-essere. La seconda via assolutizza la negazione affermando la necessità del non-essere (ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι). Con la prima via, attraverso l’esplicito (e incondizionato) rilievo di ἔστιν e dell’impossibilità di μὴ εἶναι, viene implicitamente imposto l’oggetto pienamente positivo della ricerca (ἐόν, εἶναι); con la seconda, che nega quanto la prima afferma, viene, di conseguenza, delineato l’oggetto alternativo, radicalmente negativo, indicato come τό μὴ ἐὸν, dichiarato al v. 7 come oggetto indisponibile alla conoscenza o alla manifestazione. In B6.1-2a: χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν 323 è necessario il dire e il pensare che ciò che è è: poiché è possibile essere, il nulla, invece, non è. con la piena esplicitazione del contenuto delle due vie, avrà poi inizio la disamina critica. Se questa prospettiva è corretta, allora in B2 le formule della pura affermazione (ἔστιν) e della pura negazione (οὐκ ἔστιν) - sostenute dalle relative formule modali, possono generare, in quanto «vie di ricerca» (le sole «per pensare»), due soggetti diversi e due espressioni tautologiche, su cui appunto Parmenide fa leva in B6. La necessità di «dire e pensare» che «ciò che è» (il participio ἐόν) «è, esiste» fonda la propria legittimità sulla duplice premessa: (i) che «essere» (εἶναι) «è possibile» (ἔστι); (ii) che il «nulla» (μηδέν) «non è» (οὐκ ἔστιν). Il comune errore dell’opinare umano si accompagna proprio al fraintendimento della portata di queste tautologie, nella contraddizione generata dall’affermazione incrociata (ancorché solo implicita) di essere e non-essere. Alla luce di questa considerazione – ribadendo quanto sopra a proposito della deliberata opzione parmenidea per forme verbali (ἔστιν - οὐκ ἔστιν), nel contesto immediatamente impersonali (senza soggetto e predicato) e dal valore (esistenziale, copultativo, veritativo) ambiguo – appare insostenibile il tentativo di attribuire τὸ ἐόν come soggetto comune sottinteso (in B2.3 e B2.5). Dalle due formule saranno ricavati due soggetti distinti: uno reale (τὸ ἐόν, appunto, «l’essere»), l’altro fittizio, pura espressione verbale e funzione logica (τό μὴ ἐὸν, «il non-essere», μηδέν il «nulla»), segnavia di una pista che la ragione riconosce subito impraticabile. In questo senso possiamo parlare di due «vie»: (i) una manifesta la «realtà» (Ἀληθείη) di «ciò che è (necessariamente); (ii) l'altra spinge a riconoscere (come evidenzia l'intervento della Dea) l'indisponibilità effettiva di «ciò che non è (necessariamente)», che pertanto andrà sistematicamente escluso dall'orizzonte dell'umano indagare. 324 Non pare che alla seconda delle vie di ricerca si debba attribuire la contraddizione che, invece, viene denunciata nelle «opinioni dei mortali»: condivisibile su questo punto quanto sottolineato da Mansfeld66 . L’identificazione della seconda via con quella del mondo dell’esperienza è errata: ricordiamo come la seconda via è ancora connotata in B8.17-18: τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. [Si è deciso] di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è via genuina). Della via «non è» non si può concepire un contenuto reale: essa è allora ἀνόητον, ma anche ἀνώνυμον (letteralmente «senza nome»: non si può indicare ciò che non è in senso assoluto). Ma sono proprio i «nomi» a caratterizzare il mondo fenomenico, come sottolinea la stessa divinità (B8.38b.41): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. A rimanere «senza nome» è definitivamente ciò che (necessariamente) è nulla, quanto appunto espresso nella formulazione della seconda via, e designato come τό μὴ ἐὸν. Le due enunciazioni divine (affermativa e negativa) – in quanto «vie di ricerca, le uniche per pensare» - devono essere reciprocamente alternative ma in sé incontraddittorie, e tracciare i percorsi (κέλευθος, ἀταρπός) per i quali: (i) generare le nozioni di «essere» e «non-essere»; (ii) valutare, in relazione al coerente ri- 66 Op. cit., p. 55. 325 spetto dell’alternativa concettuale prodottasi, la consistenza dei punti di vista umani. D’altra parte, il motivo dell’intransitabilità della seconda via è non il suo carattere contraddittorio - come accade appunto nel caso della “presunta” via (B6.5-9) che i «mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, «uomini a due teste» - δίκρανοι), si fingono -, ma il fatto che (B2.6-8) «non potresti conoscere ciò che non è, né potresti indicarlo», in quanto «cosa non fattibile». Prospettata (con la negazione οὐκ ἔστιν) come alternativa a ἔστιν, la via che pensa «che non è e che è necessario non essere» è «percorso» (ἀταρπός) assolutamente privo di contenuti, e quindi indicato come τό μὴ ἐὸν. L’unica via, per la piena consistenza dei suoi contenuti, effettivamente accessibile e percorribile «per pensare» (cioè per afferrare la realtà) è, di conseguenza, la prima, il cui soggetto sarà esplicitato come ἐόν (B6.1) ovvero τὸ ἐὸν (B8.32), ma già implicitamente individuabile, nella forma oppositiva di B2, come formula contraddittoria rispetto a τό μὴ ἐὸν. Si è detto67 che l’unico modo per rispettare il valore oppositivo delle vie che la Dea propone è di mantenere lo stesso soggetto per entrambe: abbiamo, però, ipotizzato che la linea di pensiero di Parmenide sia stata in realtà un’altra, che in B2 si lascia intravedere. Attraverso l'asseverazione della tesi «è» (ὅπως ἔστιν), pura espressione dell’immediata esperienza della realtà, coniugata con la contestuale negazione modale dell’antitesi («non è possibile non essere», ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), la divinità pone le premesse per l'estrazione della nozione positiva di τὸ ἐὸν, che indicherà ovviamente ciò che è in senso pieno e necessario, il soggetto ontologico di cui si manifesteranno le proprietà in B8: la prima via è in questa prospettiva «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος). Nei versi 5-8, invece, dall’altrettanto pura negazione (ὡς οὐκ ἔστιν) di quell’originaria esperienza, coniugata con la relativa formula modale («è necessario non essere», ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι), ella ricava la nozione di τό μὴ ἐὸν, marcandone subito l'in- 67 Cordero (pp. 44-5), Ruggiu (p. 221). 326 disponibilità facendo leva su un’ulteriore, immediata evidenza: non è «cosa fattibile» (ἀνυστόν) conoscere e indicare «il nonessere» (τό μὴ ἐὸν). Il percorso di Persuasione La rivelazione divina delle «vie di ricerca» è accompagnata da due rilievi. Relativamente alla via «che è e che non è possibile non essere», la Dea osserva che: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ - di Persuasione è il percorso (a Verità infatti si accompagna) (B2.4), marcando, dunque, con un genitivo a un tempo oggettivo e soggettivo, come il viaggio per tale via conduca a scoprire la realtà (Ἀληθείη): essa appare, allora, come un'istruzione (affermazione d'essere e sistematica esclusione del non-essere) da seguire nell'indagine. Nella stessa prospettiva, le formule modali di B2.3 e B2.5 possono essere intese come ammonimenti divini, affinché siano evitati gli sviamenti tipici dei «mortali che nulla sanno»: il «percorso» (κέλευθος) lungo la ὁδός anticipa effettivamente l’idea della μέθοδος che Platone introduce68, prospettando poi la filosofia (dialettica) come viaggio69 . 68 In Fedone 79e: Πᾶς ἄν μοι δοκεῖ, ἦ δ’ ὅς, συγχωρῆσαι, ὦ Σώκρατες, ἐκ ταύτης τῆς μεθόδου, καὶ ὁ δυσμαθέστατος, ὅτι ὅλῳ καὶ παντὶ ὁμοιότερόν ἐστι ψυχὴ τῷ ἀεὶ ὡσαύτως ἔχοντι μᾶλλον ἢ τῷ μή Mi sembra – disse - che chiunque, Socrate, anche il più tardo, muovendo da questa via [ἐκ ταύτης τῆς μεθόδου], debba convenire che l'anima è, in tutto e per tutto, più simile a ciò che è sempre che a ciò che non lo è. 69 Coxon, op. cit., p. 174. Il passo di Repubblica (532b) è il seguente: 327 L’insistenza sul processo (la via, il percorso) è importante perché sottolinea come la Dea prospetti, nell’immediato, essenzialmente la direzione di una ricerca, aperta al coinvolgimento razionale del κοῦρος. In questo senso, la dimensione della (progressiva) scoperta della realtà autentica (Verità), che culminerà in B8, se da un lato conferma l’associazione (heideggeriana) tra ἀληθείη e disvelamento (non-nascondimento), dall’altro accentua gli aspetti di attivo condizionamento del ricercare, donde il rilievo della “cognizione critica” (B7.5: «giudica con il ragionamento», κρῖναι δὲ λόγῳ) e il ruolo riconosciuto (B3, B4) a νόος e νοεῖν. La realtà (Verità) è obiettivo del percorso di Persuasione (che a Verità, osserva la Dea, «si accompagna», ovvero «tien dietro», ὀπηδεῖ), proposto come oggetto di apprendimento, conoscenza e discorso70: il percorso sarà genuino, vero, nella misura in cui svela la realtà. Che essa (Verità) si manifesti (a colui che ricerca con intelligenza) lungo la via (che pensa o afferma) «che è e che non è [possibile] non essere» è ulteriormente marcato – come abbiamo più volte rilevato – dall'indicazione con cui la Dea stigmatizza l'alternativa, seconda via (B2.6-8): Τί οὖν; οὐ διαλεκτικὴν ταύτην τὴν πορείαν καλεῖς; Ebbene, non è proprio questo itinerario che chiami dialettica? Poche righe sotto (532 d-e), Glaucone invita Socrate a determinare la natura della dialettica: λέγε οὖν τίς ὁ τρόπος τῆς τοῦ διαλέγεσθαι δυνάμεως, καὶ κατὰ ποῖα δὴ εἴδη διέστηκεν, καὶ τίνες αὖ ὁδοί· αὗται γὰρ ἂν ἤδη, ὡς ἔοικεν, αἱ πρὸς αὐτὸ ἄγουσαι εἶεν, οἷ ἀφικομένῳ ὥσπερ ὁδοῦ ἀνάπαυλα ἂν εἴη καὶ τέλος τῆς πορείας Devi dirci allora quale sia il modo della facoltà della dialettica, quali siano le specie in cui è divisa, e quali le vie; queste infatti, come pare, sono le vie che potranno condurre là dove, pervenuti, potrà esservi riposo dal cammino e fine del viaggio. 70 Mourelatos, op. cit., p. 66. 328 τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo. Si tratta di un rilievo decisivo: la divinità mette in gioco l'autorevolezza del proprio “io” (τοι φράζω, «ti dichiaro») per rivelare, della via «che non è e che è necessario non essere», che essa è un «sentiero» (ἀταρπός, tracciato secondario) per cui non si accede alla realtà, lungo il quale non si può fare esperienza o imparare raccogliendo informazioni. Ciò-che-non-è È in questo contesto che la Dea introduce la formula τό μὴ ἐὸν (participio sostantivato). Nella cornice di un processo di indagine che evoca il tradizionale motivo omerico del viaggio71, la precisazione è netta: il ricercatore che pretendesse lasciarsi guidare dall'assunto «non è ed è necessario non essere», non potrebbe propriamente incontrare, né «indicare» (φράζειν) qualcosa. Pensare «che non è e che è necessario non essere» non porta da nessuna parte: nemmeno la guida divina può tracciare concretamente tale via, portando a casa un risultato conoscitivo: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν poiché non potresti conoscere ciò che non è - non è infatti cosa fattibile (B2.7). Possiamo allora, per contrasto, confermare che, lungo la via imboccata seguendo l'assunto «è e non è [possibile] non essere», 71 Mourelatos, op. cit., p. 76. 329 ci si muove verso «ciò-che-è» (verso la realtà-Verità), e che tale percorso può essere compiuto (cioè è «fattibile» - ἀνυστόν – a differenza dell'altro): la guida divina, in effetti, potrà fornire i segni o i criteri della via72 . Dal momento che – come rivela la dea senza nome - non è in assoluto possibile («cosa fattibile») conoscere, ovvero determinare «ciò che (necessariamente) non è», solo la prima via, che pensa e afferma «che è e che non è possibile non essere», che muove dalla evidenza «è», è in grado di manifestare la verità, di estrarre dall’«è» indicazioni positive e ultimative riguardo alla realtà (donde il successivo impiego delle nozioni equivalenti di ἐόν e τὸ ἐὸν). I dati fondamentali su cui il κοῦρος è invitato a riflettere sono dunque: (i) l'esclusività delle vie di ricerca «per pensare [comprendere]» (in questo senso esse sono appunto designate come ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός νοῆσαι: l'infinito «per pensare» ne specifica la natura); (ii) la loro reciproca incompatibilità (sottolineata dal ricorso combinato alla negazione e alle formule modali - su cui ancora tra breve); (iii) l’impercorribilità della seconda via: non è possibile conoscere o indicare «ciò che non è»; (iv) la loro (conseguente) natura ontologica, ovvero, propriamente, il loro annunciare opposti modi d'essere: la modalità dell'essere necessario e quella del necessario non-essere73 . B2 attesta un ricorso precoce al surrogato τό μὴ ἐὸν per «nonessere», probabilmente dandone per scontata l’immediata evidenza per il lettore\ascoltatore. Nella contrapposizione delle vie, ciò induce ad anticipare le formule opposte (ἐόν e τὸ ἐὸν). In questo senso, l’argomentazione di Parmenide appare sollecitata dalla preoccupazione di istituire e fondare la contrapposizione tra τὸ ἐὸν («essere») e τό μὴ ἐὸν («non-essere»)74, marcando (a) la loro reciproca incompatibilità, (b) l’intransitabilità del non-essere, così da 72 Ivi., p. 78. 73 Su questo punto è oggi da valutare quanto scrive Palmer, op. cit., pp. 83 ss.. 74 Leszl, op. cit., p. 105. 330 concludere (letteralmente) nella onto-logia. Ciò comporta riconoscere, con Cordero75, che l'assolutizzazione del concetto di «essere» è ottenuta da Parmenide attraverso la negazione della contraddittoria nozione di «non-essere». Il focus ontologico del poema (sinteticamente ribadito con formula ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν: «è [possibile] infatti essere, il nulla invece non è») è così proposto contestualmente all’unico, fondamentale rilievo sul non-essere: «non è [possibile] non essere». Due formule: «non è possibile non essere», «è necessario non essere» Torniamo allora ancora una volta alla formulazione delle due vie per concentrarci sulla loro struttura formale: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una: è e non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra: non è ed è necessario non essere»(B2.5). La presentazione di ognuna consiste (nella nostra traduzione) in un verbo semplice (enunciato non modale), in forma impersonale, coniugato con un enunciato modale: «è», «non è possibile non essere»; «non è», «è necessario non essere»76 . Ogni verso è articolato in due coppie di emistichi corrispondenti, (a) e (b); la prima coppia (a): ἡ μὲν ὅπως ἔστιν l’una [che pensa] che è, ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν l’altra [che pensa] che non è; 75 Op. cit., pp. 64-5. 76 O’Brien, op. cit., p. 182. 331 la seconda coppia (b): τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι e che non è [possibile] non essere [ovvero: che non è possibile non sia], τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι e che è necessario non essere [ovvero: che è necessario che non sia]. La formula della prima coppia (primo emistichio) propone l'opposizione tra affermazione e negazione: la traduzione, supponendo la dipendenza di ὅπως e ὡς da νοῆσαι («le uniche per pensare: l’una che pensa che …, l’altra che pensa che…») ovvero (come spesso si è fatto) da verba dicendi («l’una che dice che…, l’altra che dice che…»), non presenta particolari problemi di resa – a parte quelli (essenziali) già ricordati, relativi al soggetto inespresso e al valore da attribuire al verbo «essere». Nel caso della seconda coppia (secondo emistichio) si impongono invece difficoltà nella resa dal greco. Il greco οὐκ ἔστι può essere predicato verbale («non esiste», «non c’è»), ovvero, come può apparire naturale alla luce del corrispondente uso dell'espressione χρεών ἐστι («è necessario») in B2.5b, e della (comune) relazione con lo stesso infinito (μὴ εἶναι), può tradursi con epressione modale («non è possibile»). Se, in questo caso, seguendo Aubenque77, interpretiamo la formula modale οὐκ ἔστι come sinonima di ἀδύνατον (impossibile), traspare allora l’intenzione parmenidea di proporre l’alternativa in termini netti: nell’enunciare la tesi della prima via (l’affermazione «è»), Parmenide marca, indirettamente, la sua necessità sottolineando l’impossibilità della antitesi (la negazione «non è»). Quanto affermato nella tesi non può essere negato, non può rovesciarsi nella antitesi: nella argomentazione della Dea, l’affermazione è collegata strettamente alla posizione della necessità logica e della impossibilità logica78. Resa italiana in 77 P. Aubenque, "Syntaxe et Sémantique de l’Être dans le Poème de Parménide", in Études sur Parménide, cit., vol. II, p. 109. 78 Ruggiu, op. cit., p. 218. 332 questo senso più efficace potrebbe essere: «è e non è possibile che non sia». A sua volta la formula della seconda via, οὐκ ἔστιν («non è»), vede accentuata la propria forza di negazione da un’espressione - χρεών ἐστι μὴ εἶναι – che ribadisce l’intensità della antitesi («è necessario che non sia»). L'enunciazione delle vie evidenzia, quindi, per un verso, la loro assolutezza, per altro la loro reciproca incompatibilità. Non si deve tuttavia perdere di vista il fatto che la Dea, nel mettere in guardia il κοῦρος rispetto alla seconda via, si riferisca a essa con l'espressione τό μὴ ἐὸν, stigmatizzando l’impossibilità di afferrarne e determinarne la negatività (οὐ γὰρ ἀνυστόν, «non è infatti cosa fattibile», in cui spicca – come nel termine epico ἀμηχανίη - la strutturale impotenza)79. Le vie non hanno, quindi, una mera consistenza logica, ma finiscono per enucleare due distinte nozioni ontologiche. 79 Ivi., p. 220. 333 PENSARE ED ESSERE [B3] Il frammento (è proprio il caso di usare il termine) ha assunto nel corso dei secoli il valore di sintetica espressione dell’essenza della filosofia di Parmenide1 : esito paradossale dell’elaborazione della tradizione, dal momento che, oggettivamente, esistono difficoltà per la sua contestualizzazione all’interno del poema, e dunque anche per la sua intellezione. A ciò si aggiunga che, da parte degli interpreti, sono talvolta considerati con sospetto contesto e cotesto delle testimonianze di Clemente2 e Plotino3 , che citano il verso parmenideo: anzi, soprattutto a causa della citazione delle Enneadi, quella che appare la traduzione più naturale è stata spes- 1 Tarán, op. cit., p. 41. 2 Il contesto di Clemente riporta: Ἀριστοφάνης ἔφη· δύναται γὰρ ἴσον τῷ δρᾶν τὸ νοεῖν, καὶ πρὸ τούτου ὁ Ἐλεάτης Παρμενίδης· τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστί < ν > τε καὶ εἶναι Aristofane ha detto: «il pensare ha lo stesso potere dell'agire», e prima di lui Parmenide: [B3]. 3 Il contesto di Plotino (Enneadi V, I, 8) è il seguente: οὖν καὶ Παρμενίδης πρότερον τῆς τοιαύτης δόξης καθόσον εἰς ταὐτὸ συνῆγεν ὂν καὶ νοῦν, καὶ τὸ ὂν οὐκ ἐν τοῖς αἰσθητοῖς ἐτίθετο “τ ὸ γ ὰ ρ α ὐ τ ὸ ν ο ε ῖ ν ἐ σ τ ί τ ε κ α ὶ ε ἶ ν α ι ” λέγων. Καὶ ἀ κ ί ν η τ ο ν δὲ λέγει τοῦτο - καίτοι προστιθεὶς τὸ νοεῖν - σωματικὴν πᾶσαν κίνησιν ἐξαίρων ἀπ’ αὐτοῦ, ἵνα μένῃ ὡσαύτως, καὶ ὄ γ κ ῳ σ φ α ί ρ α ς ἀπεικάζων, ὅτι πάντα ἔχει περιειλημμένα καὶ ὅτι τὸ νοεῖν οὐκ ἔξω, ἀλλ’ ἐν ἑαυτῷ Già Parmenide aveva in precedenza aderito a una opinione simile a questa, quando riconduceva a unità essere e pensiero, e non poneva l'essere nell'ambito delle cose sensibili, affermando: [B3]. E dice anche che è immobile, dal momento che – avendo aggiunto il pensare – gli toglie ogni movimento corporeo, affinché rimanga nell'identico stato, definendolo simile alla massa di una palla, in quanto raccoglie tutto in sé e il pensare non gli è esterno ma interno. 334 so rifiutata, a favore di altre meno immediate e più tormentate dal punto di vista grammaticale, in quanto si è intravisto il rischio di fare di Parmenide un neoplatonico ante litteram4 . La collocazione Nel tentativo di offrire contesto e senso al frammento si è per lo più operato in due direzioni, che appaiono legittime: (i) ricondurlo a complemento di B2.7-8 5 e quindi proporlo a sostegno (γάρ) dell'indicazione secondo cui il non-essere non può essere né indicato né conosciuto6 ; (ii) proiettarlo verso B6.1-2 e B8.34-37, come in particolare oggi propone Cordero7 , con argomenti convincenti. B3 e B2 Nel primo caso si insiste soprattutto sulla compatibilità metrica e logica8 con l’ultimo verso di B2: i termini coinvolti – νοεῖν e εἶναι – sono chiaramente correlati nella prospettazione delle due vie («le uniche per pensare»), mentre in B2.7 Parmenide utilizza l’espressione τό γε μὴ ἐὸν per indicare l’oggetto su cui andrebbe a vertere la seconda via: oggetto che non può essere conosciuto e indicato. B3, dunque, non farebbe che esplicitare il nesso identita- 4 O’Brien, op. cit., p. 19. D’altra parte il senso della citazione di Proclo (Theol. plat. I, 66) appare indiscutibile: ταὐτόν ἐστι τὸ νοεῖν καὶ τὸ εἶναι, φησὶν ὁ Παρμενίδης 5 Come fanno – più o meno decisamente – Giannantoni, Ruggiu, Coxon, Sellmer, Heitsch, Gallop, e, in passato, Calogero. Scettici Tarán, Conche, O’Brien. 6 Ruggiu, op. cit., p. 233. Secondo Calogero (p. 19), B3 andrebbe congiunto a B2.8, con l’aggiunta dι ὅσσα νοεῖς φάσθαι: si avrebbe così: «perché pensare è lo stesso che dire che quello che tu pensi esiste». 7 E a suo tempo propose Giorgio Colli. 8 Coxon (p. 180); Sellmer (p. 33); Gallop (p. 8). 335 rio tra εἶναι e νοεῖν: le relative nozioni si implicherebbero inscidibilmente9 . Questa conclusione non è in discussione: essa appare effettivamente il perno della tesi di Parmenide anche in B6.1 e B8.34- 37, sebbene le traduzioni possano diversamente modulare la relazione tra i due termini. In discussione è, invece, il fatto che l’impossibilità di afferrare il nulla (B2.7-8) abbia bisogno della dimostrazione introdotta da γάρ (B3): non è immediatamente chiaro che nel nulla non c’è nulla da conoscere, concepire, pensare10? D’altra parte, l’implicazione tra essere e pensare non sembra, a sua volta, aver bisogno della mediazione di un argomento: è stato giustamente osservato come, nell’uso greco arcaico, il verbo νοεῖν non veicolasse la possibilità di immaginare qualcosa di non esistente, denotando fondamentalmente un atto di riconoscimento immediato11. Concepito in analogia con la percezione sensibile, νοεῖν comportava nell’uso che si pensasse appunto qualcosa di dato indipendentemente dall'attività stessa del pensare, e che il rapporto con l’oggetto fosse del tutto immediato, una sorta di contatto con esso12 . È possibile che la Dea, in B2.7, si limiti a rilevare come τό μὴ ἐὸν non possa essere conosciuto, osservando semplicemente: οὐ γὰρ ἀνυστόν, «non è infatti cosa fattibile», quasi a richiamare un'evidenza, per cui non è necessario ulteriore argomento. A questo corrisponderebbe il rilievo di B3, secondo cui εἶναι si identifica con νοεῖν: leggendo in continuità i due frammenti, non dovremmo riconoscere alla congiunzione γάρ un valore esplicativo, piuttosto intenderne nel contesto la presenza a conferma della tesi di fondo. Dovremmo inoltre, in traduzione, attribuire a νοεῖν non il generico significato di «pensare», ma, come suggerito da vari interpreti, quello specifico di «conoscere» o «comprendere» («capire»13 , «Erkennen» 14 , «Erfassen» 15 o ancora, più debolmente, 9 Heitsch, op. cit., p. 144. 10 Conche, op. cit., p. 87. 11 Guthrie, op. cit., pp. 17-8. 12 Leszl, op. cit., p. 67. 13 Cerri. 336 «conceiving»16). L’uso arcaico di νοεῖν evoca effettivamente funzioni analoghe a quelle del verbo γιγνώσκω (normalmente tradotto con «conoscere»), sebbene suggerisca in primo luogo il riconoscimento, la capacità di penetrazione intellettuale17 . B3, B6.1 e B8.34-7 Anche Cordero ammette che in B2 si stabilisca una relazione tra un oggetto (l’essere), il pensare quell’oggetto e l’esprimerlo in un discorso: i versi B2.7-8 mirerebbero a marcare il carattere assoluto e necessario di tale oggetto, essendo la sua negazione impossibile. Come conseguenza, pensare e parlare non possono fare a meno di questo oggetto18. Ma per lo studioso è rilevante la connessione con B6.1, inteso a dimostrare la necessità di quella relazione: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι·(B6.1a) è necessario dire e pensare che – essendo - è 19; e soprattutto B8.34-7, in cui Parmenide attribuirebbe al pensiero una sola causa20: il fatto d'essere: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. oὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐφ’ [invece di ἐν] ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν·(B8.34-36a) pensare e ciò a causa del quale c’è il pensiero sono la stessa cosa dal momento che senza l'essere, grazie a 21 cui è espresso, 14 Heitsch. 15 Sellmer. 16 Coxon. 17 Leszl, op. cit., p. 68. 18 Cordero, By Being, It Is, cit., p. 83. 19 Usiamo, traducendo in italiano, la versione dello stesso Cordero. 20 Come si vedrà, noi interpretiamo il passo in modo diverso. 21 Cordero utilizza la versione ἐφ’ (invece di ἐν), unanimente attestata nei manoscritti di Proclo. 337 non troverai il pensare22 . Cordero osserva come nei due versi successivi si precisi che «senza l'essere (τὸ ἐόν) […] non troverai il pensare», ciò comportando che τὸ ἐόν designi sinteticamente quanto introdotto come οὕνεκεν ἔστι νόημα («ciò a causa del quale c’è il pensiero»). Senza τὸ ἐόν, νοεῖν risulta privo di fondamento, poiché (γάρ), come osserva Parmenide, c’è solo «l'essere» (B8.36-7)23: οὐδ΄ ἦν γὰρ < ἢ > ἔστιν ἢ ἔσται ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος Né, infatti, esiste, né esisterà altro oltre all’essere. È chiaro come ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν (B8.34) equivalga a τὸ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν (B3) e quindi è plausibile che τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα (B8.34) articoli la formula più secca τε καὶ εἶναι (B3). In forza di questo accostamento, difficile sostenere l’interpretazione idealistica che vorrebbe l’essere dipendente dal pensiero: «senza l'essere» (ἄνευ τοῦ ἐόντος), il pensiero non esiste; ovvero, positivamente, esso esiste solo quando esprime qualcosa su ciò che è24 . Da B2 a B3 Mantenendo aperte le due prospettive e dunque collocando B3 concettualmente tra B2, B6 e B8, il frammento andrebbe tematicamente inquadrato tra l’esclusione della concreta possibilità di riferirsi al nulla nel pensiero e nel discorso (quindi della via «che non è»), la conseguente affermazione della via alternativa alla precedente («che è»), e l’esplicitazione delle sue implicazioni per il pensiero e il linguaggio. L’estrapolazione non consente di stabilire se B3 fosse effettivamente parte di un argomento ovvero, come sopra abbiamo prospettato, semplice precisazione a sostegno della tesi di B2. Certamente in B8 l’implicazione tra pensiero 22 Come per B6.1, traduciamo il testo di Cordero. 23 Cordero, By Being, It Is, cit., p. 85. 24 Ivi, pp. 88-9. 338 (νοεῖν, con il suo specifico valore conoscitivo) e essere è inserita in una cornice argomentativa. Un elemento testuale deve far riflettere l’interprete: Clemente, Plotino e Proclo citano B3 senza collegarlo in alcun modo a B225 . In altre parole, le tre fonti del frammento vi leggono l’asserzione dell’identità di pensare (o conoscere) ed essere, indipendentemente dalla discussione sulle «vie di ricerca»26. Plotino, in particolare, mostra di intendere B3 chiaramente nell’orizzonte di B8, insistendo sulla riduzione a unità di pensiero ed essere e sulla posizione dell’essere al di fuori del campo sensibile («non poneva l’essere nell’ambito delle cose sensibili»), e parafrasando in tal senso proprio B8. Le ricostruzioni peripatetiche (Teofrasto e Eudemo) del logos di Parmenide (secondo Simplicio che riferisce in proposito la testimonianza di Alessandro di Afrodisia) fanno tuttavia intravedere il nesso tra B2 e B3: τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὄν· τὸ οὐκ ὂν οὐδέν· ἓν ἄρα τὸ ὄν ciò che è oltre l’essere, non è; ciò che non è, è nulla; dunque, l’essere è uno (Teofrasto; DK 28 A28) τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὄν, ἀλλὰ καὶ μοναχῶς λέγεται τὸ ὄν· ἓν ἄρα τὸ ὄν ciò che è oltre l’essere, non è; ma l’essere si dice in un solo senso, dunque l’essere è uno (Eudemo; DK 28 A28). Nel citare i versi 3-8 di B2, Simplicio precisa che essi contengono le «premesse» (προτάσεις) del discorso di Parmenide: εἰ δέ τις ἐπιθυμεῖ καὶ αὐτοῦ τοῦ Παρμενίδου ταύτας λέγοντος ἀκοῦσαι τὰς προτάσεις, τὴν μὲν τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὂν καὶ οὐδὲν λέγουσαν, ἥτις ἡ αὐτή ἐστι τῆι τὸ ὂν μοναχῶς λέγεσθαι, εὑρήσει ἐν ἐκείνοις τοῖς ἔπεσιν 25 Un punto richiamato da Mansfeld, op. cit., p. 73. 26 Coxon, op. cit., p. 179. 339 Se invece qualcuno desidera ascoltare da Parmenide stesso queste premesse, quella che dice che ciò che è oltre l’essere non è ed è nulla, che è la stessa di quella che dice che l’essere si dice in un modo solo, le troverà in questi versi [B2.3-8]. Significativamente Diels annota che B3 si connette a questo: in effetti, l’espressione peripatetica τὸ ὂν μοναχῶς λέγεσθαι, che chiaramente Eudemo propone come premessa del sillogismo27 , comporta la determinazione dell’essere come κατὰ τὸν λόγον ἕν («uno secondo il concetto»), versione aristotelica di B3. Come rilevato da Mansfeld28, l’unità concettuale dell’essere funge logicamente da assioma nella ricostruzione peripatetica di B2: un assioma indipendente, implicito, che Aristotele non introduce formalmente nella sua ricostruzione: Παρμενίδης μὲν γὰρ ἔοικε τοῦ κατὰ τὸν λόγον ἑνὸς ἅπτεσθαι […] παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν Parmenide sembra aver inteso l’uno secondo la forma (il concetto) […] Poiché egli ritiene che oltre l’essere non ci sia affatto il non essere, necessariamente deve credere che l’essere sia uno e null’altro (Aristotele, Metafisica I, 5 986 b18, 986 b27; DK 28 A24). La congettura adottata da Mansfeld, per giustificare a un tempo l’uso implicito di B3 come assioma nella tradizione peripatetica, e la sua autonomia da B2 attestata dalla tradizione neoplatonica, è quella di proporlo come modificazione della conclusione dell’argomento di B2, per noi solo implicita29: solo l’essere (ciò che è) vi è allora per pensare e dire. 27 Mansfeld, op. cit., pp. 78-9. 28 Ivi, p. 73. 29 Ivi, pp. 82-4. 340 Solo l’essere può essere oggetto per pensare: con τὸ ἐόν Parmenide avrebbe introdotto qualcosa che manca nella enunciazione della prima premessa (la prima via) del sillogismo di B2 (la cui conclusione, quindi, avrebbe dovuto essere: «solo la prima via – che è e che non è possibile non essere – è per pensare»). L’introduzione del soggetto τὸ ἐόν sarebbe giustificata proprio da B3: nel testo tradito di B2 ci si limita a rilevare l’impossibilità («non è infatti cosa fattibile») di procedere lungo la seconda via, designata dalla espressione τό γε μὴ ἐὸν; B3 potrebbe rinviare immediatamente – come precisazione - alla conclusione formale, in cui essere e pensiero sarebbero stati esplicitamente correlati. La Dea allora sottolineerebbe in B3 quella che dal suo punto di vista è una evidenza: l’identità di essere e pensiero (vi ritornerà in B8.34 ss. con una più articolata riflessione). Essere e pensare Nella nostra traduzione abbiamo scelto di mantenere la struttura sintattica più naturale del verso greco, cercando, allo stesso tempo, di preservarne l’ambiguità: la Dea di Parmenide didascalicamente reitererebbe, in positivo, l’implicito (nei nostri frammenti) risultato dell’argomento delineato in B2: (i) da un lato per marcare il nesso tra νοεῖν e εἶναι e la sua natura intellettuale - così preparando la nota discriminante rispetto all’ἔθος πολύπειρον, all'«abitudine alle molte esperienze» (B7.3); (ii) dall’altro per richiamare l’attenzione del κοῦρος sul contenuto della prima via (altrimenti espresso con ἐόν ovvero τὸ ἐόν). Il pensare è introdotto in B2 come esercizio avulso da riscontri empirici; un’attività in cui si è semplicemente chiamati a riconoscere un'evidenza: che – pur considerando la possibile alternativa – per pensare e conoscere la verità c’è una sola via da percorrere. Nello stesso tempo, l’identità affermata in B3 sottolinea lo stretto rapporto tra il percorso (la sola «via di ricerca» che effettivamente è possibile seguire) e il suo esito: la via è in qualche modo impo- 341 sta dalla realtà stessa (cui si allude forse con l'infinito εἶναι). La via (o il metodo) è concepita come la via del discorso (λόγος) che ha l’essere (ovvero la realtà) come contenuto30 . Quale identità? Nel suo commento Cerri 31 ha segnalato, nell'identificazione dei due verbi, «stranezza apparente» e «sinteticità paradossale»: νοεῖν, infatti, evidenzia un atto della mente (che viene reso come «capire»), εἶναι uno stato delle cose. L’atto intellettivo sarebbe dunque solo l’aspetto soggettivo dell’identità tra due cose (esse sembrano diverse, essendo in realtà la stessa cosa); quell’ identità, invece, l’aspetto oggettivo dell’atto intellettivo. Ruggiu32 sottolinea, da un lato, l’aspetto linguistico dell’identità, la connessione immediata tra termini nel linguaggio ordinario non considerati identici; dall’altro l’aspetto che potremmo definire “dialettico” della relazione: l’identità è anche distinzione e si costituisce come rapporto di reciproca implicazione. Thanassas, infine, rileva come l’identità tra essere e pensiero non sia da intendere in senso matematico: il testo greco con τε καὶ suggerisce un’interazione, una «mutua connessione e reciproca referenza». Nessun pensare senza essere, nessun essere senza pensare33 . Dall’incrocio con B2, B6 e B8 abbiamo ricavato segnali abbastanza definiti circa la relazione cui allude la sintetica formula del frammento: (i) rilevata l’impossibilità di percorrere un corno della disgiunzione tra le vie («è e non è possibile non essere - non è ed è necessario non essere»), in quanto non si può conoscere (γιγνώσκειν) né indicare (φράζειν) «ciò che non è», e (ii) probabilmente integrato il rilievo con la necessaria conclusione positiva circa la effettiva praticabilità della via alternativa (conoscere e indicare ἐόν, «ciò che è»), la Dea (iii) estrae quella che nella sua ot- 30 Leszl, op. cit., p. 64. 31 Op. cit., p.193. 32 Op. cit., pp. 233 ss.. 33 Thanassas, op. cit., p. 39. 342 tica è un’evidenza basilare, implicita nella impostazione di B2, espressa in termini astratti, generali, con due infiniti. Il verbo νοεῖν non è più assunto a designare genericamente un'operazione intellettuale, ma connotato specificamente per veicolare un atto di riconoscimento (che riassuma sostanzialmente lo spettro degli altri due verbi, γιγνώσκειν e φράζειν); εἶναι, impiegato per denotare quanto si ritrova, come suo oggetto necessario, al fondo di un pensare che sia riconoscere-esprimere-indicare: il fatto d’essere. Ma nell’identità accennata da τὸ αὐτό, la Dea non si riferisce semplicemente alla connessione tra pensare e essere, ma soprattutto alla reciproca implicazione: non solo il pensiero deve avere come oggetto ciò che è, ma l’essere deve essere espresso, manifestato nel pensiero. In apertura di una comunicazione di verità, questa osservazione è capitale: pur prospettato (più avanti, in B8.34) come «causa del pensiero» (Cordero), l’essere deve svolgersi completamente davanti al pensiero34, deve essere pensabile (il che non comporta che dipenda dal pensiero). Dal punto di vista della Dea, almeno, nulla, di diritto, sfugge al pensiero: il sapere che la Dea comunica al filosofo (e di cui questi è tramite rispetto ai propri discepoli e al pubblico di ascoltatori\lettori) è un sapere assoluto35 . Ancora su pensare e essere Abbiamo insistito, nel commentare il frammento, sul rilievo della sua collocazione per una corretta attribuzione di significato; in particolare, proponendolo come sentenza con cui la Dea, ellitticamente, svela un principio fondamentale della sua rivelazione, dell’esposizione della Verità. B3 è l’occasione per interrogarsi sul valore di νοεῖν e εἶναι. Abbiamo già colto indicazioni in tal senso: ipotizzando la prossimità testuale e logica di B2 e B3, abbiamo determinato il campo semantico di νοεῖν in relazione a γιγνώσκειν e φράζειν, in- 34 Conche, op. cit., p. 90. 35 Ibidem 343 tendendolo come atto di riconoscimento immediato; in εἶναι abbiamo individuato la forma verbale con cui Parmenide esprime l’evidenza presupposta per ogni attività di pensiero: quanto possiamo indicare come «essere» ovvero il fatto di esistere. Una certa tensione sussiste tra B2 e B3 riguardo al valore di νοεῖν. Mentre in apertura della propria comunicazione la Dea salda l’alternativa delle «vie di ricerca» a νοεῖν (esse, ribadiamolo, sono «le uniche per pensare»), dunque collegando al verbo non solo la via positiva, ma anche quella negativa - non solo quella che avrà il proprio soggetto in τὸ ἐόν (B8.32), ma anche quella che (non) lo trova (B2.7) in τό γε μὴ ἐὸν -, nella formula sintetica del nostro frammento il pensare sembra vincolato all’essere, addirittura si afferma che pensare ed essere sono la stessa cosa. In che senso, allora, è possibile sostenere la relazione tra νοεῖν e la via: «che non è»? Abbiamo già osservato in sede di traduzione come i curatori delle edizioni dei frammenti abbiano spesso optato per determinare νοεῖν in modo da evitare di renderlo genericamente come «pensare»; ma non è facile aggirare la difficoltà, a meno di non decidere di mantenere il valore generico in B2.2 e introdurne uno specifico (comprendere, capire) in B3. Operazione legittima ma un po’ forzata. Secondo Leszl 36 , invece, B2.2 presenterebbe νοεῖν come atto puramente intellettuale (implicitamente da contrapporre all’immediatezza del riscontro sensibile), che coglie l’alternativa delle vie in quanto possibilità del tutto astratte. Tale atto, tuttavia, sarebbe in ultima analisi riconducibile a un caso di intellezione immediata dell’oggetto, consistendo di fatto nel riconoscimento (intuitivo) della validità del principio del terzo escluso. In attesa di trovar sottolineato in B4 un ulteriore, essenziale carattere della facoltà indicata come νοεῖν - la capacità di rendere presente qualcosa che può essere lontano nello spazio e nel tempo -, possiamo provvisoriamente concludere che: 36 Op. cit., p. 69. Leszl intende B2.2 (αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι) come «quali sono le vie di ricerca, le uniche che sono da pensare», quindi attribuendo a noēsai valore passivo. 344 (i) νοεῖν è inizialmente introdotto in relazione alle «due vie di ricerca», come loro finalizzazione («le uniche per pensare») - evidentemente designando un atto di comprensione che dà senso all’indagine -, ovvero, intendendo diversamente il testo greco, come loro condizione di possibilità («le uniche da pensare\pensabili»), quindi accentuandone il significato logico; (ii) νοεῖν – pur non ancora esplicitamente contrapposto ai sensi – riceve una connotazione metaempirica: le vie sono «per pensare», non sono fatte per essere esperite percettivamente; νοεῖν è in grado di evidenziare quanto celato o sfocato nella percezione; (iii) νοεῖν è dunque attività che si spinge oltre l’immediato sensibile, nel nostro contesto probabilmente oltre la complessità dei dati empirici, per ridurli al loro essenziale, al loro comune denominatore (fondamento) ontologico: nello specifico, il fatto d’essere (condizione del pensare stesso) e la nozione (opposta) di τό μὴ ἐὸν. In questo senso è giusto designarne la facoltà come «penetrazione intellettuale»37 . D’altra parte νοεῖν è costantemente riscontrato su εἶναι o termini connessi: le vie sono determinate come «l’una che è (e che non è possibile non essere)», «l’altra che non è (e che è necessario non essere)»; l’oggetto della seconda è ulteriormente ripreso come «ciò che non è»; attraverso la formula τὸ αὐτὸ ἐστίν, νοεῖν è sovrapposto a εἶναι. All’acume e intelligenza di sguardo del νοεῖν corrispondono dunque la profondità e comprensione della nozione di εἶναι, che appare designare, nel contesto, analogamente al termine Ἀληθείη, ciò che genericamente indicheremmo come «la realtà», ciò che accomuna le cose che sono. Nell’uso quotidiano «essere» è sempre oscurato da questa o quella cosa, sempre presupposto in ogni possibile predicazione («è»): il νοεῖν riconosce come proprio oggetto specifico e condizione appunto questo presupposto, questa realtà. 37 Ivi, p. 68. 345 ENTI ED ESSERE [B4] Conservatoci nella sua interezza dalla sola citazione di Clemente di Alessandria, il frammento ha sempre costituito una croce per gli interpreti, divisi sul problema della sua collocazione assoluta e relativa: incerti riguardo alla sua appartenenza alla prima o alla seconda sezione del poema e (ulteriormente) alla sua posizione e funzione all’interno di esse. In proposito abbiamo due proposte estreme: (a) Diels, nella sua edizione del 1897, presentava il nostro testo come primo frammento della prima sezione, collocandolo subito dopo il Proemio (che in quella edizione, tuttavia, includeva anche B7.2-6); (b) Bicknell1 e Hölscher2 , al contrario, lo hanno considerato conclusione dell’opera (collocandolo, quindi, dopo B19)3 , quindi nella seconda sezione. Possiamo considerare intermedie tutte le altre proposte, variamente schierate, che fanno registrare convergenze su un punto da valorizzare, anche perché potrebbe spiegare la oggettiva difficoltà degli interpreti: il ruolo di cerniera di B4. Secondo Ruggiu, per esempio, esso collegherebbe i contenuti propri dell’Opinione (τὰ δοκοῦντα), al tema primario della Verità (τὸ ἐόν), marcando il radicamento del molteplice nell’Essere4 . Che cosa rende di così difficile contestualizzazione, all’interno del poema, i versi del frammento? Che cosa contribuisce al disorientamento degli interpreti – arrivati con Fränkel a negare piena intelligibilità a B4? Si possono agevolmente individuare tre questioni: 1 P.J. Bicknell, “Parmenides' Refutation of Motion and an Implication”, «Phronesis», 1, 1967, pp. 1-6. 2 U. Hölscher, Parmenides von Wesen des Seienden. Die Fragmente, Frankfurt a.M. 1969. 3 In questo sono stati seguiti anche da L. Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia, Bruxelles 1986), il quale, tuttavia, nell'ultima edizione della sua opera (La Pensée de Parménide, Ousia, Bruxelles 2008), ha optato per un inserimento all'interno di B8 (tra i vv. 41 e 42). 4 Op. cit., p. 245. 346 (i) il ruolo del νόος e la probabile valenza gnoseologica del frammento; (ii) il nesso tra ἀπεόντα - παρεόντα e τὸ ἐόν (vv. 1-2) e l’ulteriore implicazione tra gnoseologia e ontologia; (iii) i possibili riferimenti cosmogonici e relativi obiettivi polemici (vv. 3-4). Il noos e il suo operare Per decidere del significato del frammento è importante il contesto della citazione di Clemente Alessandrino (V, 15): ἀλλὰ καὶ Π. ἐν τῶι αὑτοῦ ποιήματι περὶ τῆς ἐλπίδος αἰνισσόμενος τὰ τοιαῦτα λέγει· [B4], ἐπεὶ καὶ ὁ ἐλπίζων καθάπερ ὁ πιστεύων τῶι νῶι ὁρᾶι τὰ νοητὰ καὶ τὰ μέλλοντα. εἰ τοίνυν φαμέν τι εἶναι δίκαιον, φαμὲν δὲ καὶ καλόν, ἀλλὰ καὶ ἀλήθειάν τι λέγομεν· οὐδὲν δὲ πώποτε τῶν τοιούτων τοῖς ὀφθαλμοῖς εἴδομεν, ἀλλ’ ἢ μόνωι τῶι νῶι. Ma anche Parmenide, nel suo poema, alludendo alla speranza, sostiene cose di questo genere: [citazione], in quanto anche colui che spera, come colui che ha fede, con il pensiero vede le cose intelligibili e quelle a venire. Se ora affermiamo che c'è qualcosa di giusto, diciamo anche che c'è qualcosa di bello, ma anche che c'è qualcosa di vero: nessuna di queste cose, tuttavia, mai vediamo con gli occhi, ma solo con il pensiero. L’autore alessandrino sottolinea come quel che Parmenide afferma in B4 alluda enigmaticamente (questo il senso del verbo αἰνίσσομαι: adombrare, alludere per enigmi) alla ἔλπις (e alla πίστις) cristiana: il saper rappresentare (rendere presente) il futuro da parte dell’intelligenza (νόος). In questo senso, Parmenide riconoscerebbe al νόος la capacità di rendere presenti enti assenti e 347 lontani 5 . La prospettiva appare certamente gnoseologica, investendo una facoltà cognitiva che Clemente decisamente caratterizza rispetto all’organo di senso: un «vedere» (εἴδομεν) «con il pensiero» (τῶι νῶι) contrapposto (con l’avversativa) al vedere «con gli occhi» (τοῖς ὀφθαλμοῖς). Ad accentuare l’opposizione troviamo anche l’indicazione di oggetti specifici (τὰ νοητὰ) per l’intelligenza, diversi (significativo l’accostamento a τὰ μέλλοντα, «le cose a venire») da quelli immediatamente colti sensibilmente: si osserva, infatti: οὐδὲν δὲ πώποτε τῶν τοιούτων τοῖς ὀφθαλμοῖς εἴδομεν, ἀλλ’ ἢ μόνωι τῶι νῶι nessuna di queste cose mai vediamo con gli occhi, ma solo con il pensiero. Cose assenti presenti Ora, se passiamo alla citazione, possiamo effettivamente intravedere la ragione del suo recupero da parte di Clemente: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti (B4.1). La Dea, che ha la parola, invita il κοῦρος a osservare e prendere in considerazione come «cose assenti (o lontane)» (ἀπεόντα) possano risultare «al pensiero» (νόῳ) a un tempo «presenti (o prossime)» (παρεόντα). Precisando ulteriormente: οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι non impedirai, infatti che l'essere sia connesso all'essere (B4.2). 5 Per l’analisi della testimonianza di Clemente è essenziale e convincente il contributo di C. Viola, “Aux origines de la gnoséologie: Réflexions sur le sens du fr. IV du Poéme de Parménide », in Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 69-101. 348 È chiaro come la possibilità di pensare (rappresentare) cose assenti o lontane come presenti o prossime passi attraverso la consapevolezza dell’omogeneità di τὸ ἐόν: il νόος raccoglie e supera, nella omogeneità di τὸ ἐόν, le differenze che si impongono sul piano empirico. Il νόος, in questo modo, si impone come uno sguardo altro rispetto a quello dei sensi, in grado di superarne le discriminazioni alla luce di una realtà che solo l’intelligenza stessa dischiude. È indicativo il fatto che Parmenide scelga un verbo – λεῦσσω – etimologicamente legato a λευκός (nel linguaggio omerico «chiaro», «limpido»), che porta con sé dunque l’idea di chiarezza, luminosità, trasparenza6 . Un verbo che può essere direttamente messo in relazione con νόος (νόῳ), per assumere il valore di «chiarire con il pensiero [l'intelligenza]». I primi due versi di B4, quindi, si prestano alla curvatura gnoseologica che il contesto della citazione di Clemente implica, senza tuttavia comportarne necessariamente le opposizioni; senza imporre, in particolare, l’opposizione tra due inconciliabili visioni, sensibile e spirituale, come ha correttamente rilevato la Stemich, sottolineando come in λεῦσσε νόῳ siano a un tempo coinvolti entrambi gli elementi 7 . Possiamo inoltre marcare come il frammento non autorizzi a retroiettare in Parmenide una teoria dei due mondi (sensibile e intelligibile, ovvero presente e futuro), ma semplicemente registri due distinte modalità di guardare alla realtà: l’immediato sguardo sensibile e la più accorta considerazione dell’intelligenza, che ne supera le contraddizioni. Con il risultato (che traspare in B4.1-2) di offrire, della stessa realtà, due prospettive, una soggetta a distorsioni, l’altra corretta (che nell’economia del poema sono accentuate come «opinioni dei mortali» e «Verità»). È nostra convinzione (che presuppone una complessiva interpretazione del pensiero di Parmenide) che proprio da questo frammento possano ricavarsi preziose indicazioni riguardo alla capacità dell’intelligenza di superare la frammentazione del dato 6 Viola, op. cit., p. 80. 7 Stemich, op. cit., p. 178. 349 empirico, raccogliendone pluralità e differenze nella unità e compattezza dell’Essere. L’uso del plurale ἀπεόντα-παρεόντα, quindi del singolare τὸ ἐόν, segnalerebbe appunto come ἀπεόνταπαρεόντα siano (-εόντα), in quanto τὸ ἐόν mantiene l’unità e la compattezza (nell’Essere) di tutti i suoi momenti8 . Elementi che puntano in direzione della seconda sezione del poema. I due versi iniziali autorizzano, dunque, ad associare a νόος (e νοεῖν) due distinte ma coordinate operazioni: (i) superare i vincoli spazio-temporali “presentificando” la pluralità dispersa (spazio-temporalmente), rappresentando presenti «cose assenti»; (ii) cogliere la loro connessione (veicolata dal verbo ἔχεσθαι) in τὸ ἐόν (ovvero il fatto che τὸ ἐόν è connesso a τὸ ἐόν). La seconda operazione è propriamente “ontologica”, nel senso che riconosce e traduce in termini di τὸ ἐόν la molteplicità espressa nei due plurali del primo verso (ἀπεόντα-παρεόντα): la si è voluta leggere anche come un portare le cose lontane-assenti alla presenza dell’essere9 . Lo spessore gnoseologico (ed epistemologico) del passaggio consiste nel fatto che l’oggetto (τὸ ἐόν) cui il νόος è riferito, direttamente10 o indirettamente11, è diverso dagli oggetti molteplici ai sensi (senza tuttavia trasformarsi in una entità che neghi la molteplicità del mondo12): li abbraccia e li raccoglie interamente, senza dislocarsi su un piano di realtà altro. Come nota puntualmente Leszl, ciò fa di νοεῖν un’attività che si spinge oltre l’immediato sensibile, rendendo presente l’assente, senza la sua preliminare evidenza percettiva: un pensare del tutto intellettuale, che ha per oggetto qualcosa che si impone 8 Ruggiu, op. cit., p. 241. 9 Couloubaritsis, Mythe et Philosophie, cit., p. 336. 10 Se accettiamo che ἀποτμήξει sia terza persona singolare dell’indicativo futuro, con νόος appunto soggetto sottinteso del verbo. 11 Nel caso si legga (come facciamo noi, ma di recente anche Palmer e Tonelli) lo stesso verbo in seconda persona singolare futuro indicativo medio, e la Dea quindi si limiti a esortare il κοῦρος a non ostacolare la connessione di τὸ ἐόν. 12 Thanassas, op. cit., p. 43. 350 all’intelligenza13. Non deve però essere trascurato un aspetto del passaggio: il movimento dalla assenza alla presenza rivela che l’uomo è comunque radicato nel mondo, legato allo spazio\tempo14. Così, nel contesto di un discorso che verte sulle «vie di ricerca», che focalizza il «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), non può sfuggire il fatto che il νόος sia connotato dinamicamente, attraverso quel movimento, che porta con sé anche la potenzialità del suo errare15: la sua conoscenza è esposta alla distorsione. È possibile che l’operare del νόος riceva ulteriore significazione dall’accostamento a λεῦσσω, che Omero utilizzava per indicare la capacità di considerare simultaneamente passato e avvenire per comprendere il presente 16. Una capacità associata alla maturità dell’anziano, al suo discernimento rispetto alla precipitazione dei giovani, e che nel poema potrebbe avere un riscontro nella relazione didascalica tra θεά e κοῦρος. «…saldamente presenti» Ritornando sull’apertura di B4, è chiaro che l’uso dell’avverbio βεϐαίως (saldamente) nel primo verso, e l’intero contenuto del secondo contribuiscono a determinare νόος come un pensiero che conduce alla continuità e stabilità dell’essere: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l'essere [ciò che è] sia connesso all'essere (B4.1-2). 13 Op. cit., p. 68. 14 Couloubaritsis, op. cit., p. 340. 15 Viola, op. cit., pp. 94-5. 16 Couloubaritsis, op. cit., pp. 336-7. 351 Effetto dell’operare del νόος è la solidità della connessione degli enti (-εόντα), al di là delle loro coordinate spazio-temporali, e il riconoscimento del loro comune denominatore nell’Essere (τὸ ἐόν). Più precisamente: il νόος è quello sguardo che, da una parte, illumina e unifica ἀπεόντα e παρεόντα (nell’ἐόν), dall’altra si vieta di introdurre discriminazioni (spazio-temporali) in τὸ ἐόν 17. Alla luce di B3, esso aderisce completamente all’ἐόν: l’avverbio βεϐαίως veicolerebbe allora l’idea di stabilità, costanza, caratteristica dell’oggetto (τὸ ἐόν, appunto), ma suggerirebbe pure qualcosa circa l’atteggiamento di chi è sulla strada della verità: la certezza e affidabilità (ricordiamo ἀτρεμὲς ἦτορ di B1.29) di un modo di vedere, corrispondente a un modo d’essere; a un νόος saldo e pieno di fiducia18 . Dal momento che manca una specifica argomentazione a sostegno della affermazione di B4.2, alcuni interpreti (Kirk-Raven, West, Gallop) hanno messo in relazione B4 con B8.22-5: οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος. Τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È perciò tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è. Questa indicazione, concettualmente apprezzabile, non comporta inevitabilmente una presa di posizione sulla collocazione del frammento nel complesso del poema. Non implica, in altre parole, necessariamente la dipendenza di B4 da B8 e dunque a una sua dislocazione nella sezione sulla Doxa (o addirittura all’interno dello stesso B8, dopo i versi 22-5). Forse, accettandone le impli- 17 Viola, op. cit., p. 100. 18 Robbiano, op. cit., p. 130. 352 cazioni cosmologiche, la funzione di B4 potrebbe essere stata prolettica, nella introduzione del discorso della Dea, che poi B8 avrebbe articolato e precisato. È significativo che nella sua prima edizione del poema (1897), come abbiamo sopra ricordato, Diels proponesse l’attuale B4 come B2, dunque all’inizio sostanzialmente della prolusione divina. Rimane comunque l'impressione che il frammento possa aver svolto, nell'economia dell'esposizione divina, un ufficio di raccordo, tra le due sezioni, analogamente a B9. In alternativa, valutando soprattutto il contesto della citazione di Clemente e la sua intenzione di marcare la differenza tra visione percettiva e visione spirituale, e convenendo con Coxon19 che Parmenide non sia in questo frammento interessato alla natura dell’Essere (la cui indivisibilità sarà argomentata proprio in B8.22-5), ma alla natura del νόος come capacità intellettuale, potremmo ipotizzare il posizionamento di B4 in relazione ai rilievi di B6 e B7 sui rischi della «abitudine alle molte esperienze» (ἔθος πολύπειρον). L’espressione kata kosmon e le implicazioni cosmologiche Sono comunque gli ultimi due versi (3-4) del frammento a rappresentare il maggior cruccio per gli interpreti, soprattutto per la determinazione del valore del greco κατὰ κόσμον e del senso della dinamica imperniata intorno ai due participi σκιδνάμενον e συνιστάμενον, che indicano dispersione e raccoglimento. Essi sono riferiti immediatamente a τὸ ἐόν, della cui connessione interna (rilevata dal νόος) costituiscono una alternativa: οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον 19 Op. cit., p. 187. 353 non impedirai, infatti, che l'essere sia connesso all'essere, né disperdendosi completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi (B4.2-4). Parmenide si limita a stigmatizzare la prospettiva di un moto – ordinato (conforme a un ordine) - di disseminazione e concentrazione degli enti, quale potrebbe essere rappresentato dalle cosmogonie ioniche, ovvero, più specificamente si riferisce a un modello, intenzionalmente impiegando il termine κόσμος per designare l’assetto complessivo della realtà? Il noos e il cosmo Che egli possa aver imboccato – tra i primi - questa seconda direzione, è suggerito dai passi paralleli - segnalati dagli editori - in Empedocle (B17.18-21; riferimento già in Clemente) e Anassagora (B8), in cui la dimensione cosmologica è indiscutibilmente centrale, implicando un’ontologia influenzata da Parmenide: πῦρ καὶ ὕδωρ καὶ γαῖα καὶ ἠέρος ἄπλετον ὕψος, Νεῖκός τ’ οὐλόμενον δίχα τῶν, ἀτάλαντον ἁπάντηι, καὶ Φιλότης ἐν τοῖσιν, ἴση μῆκός τε πλάτος τε· τὴν σὺ νόωι δέρκευ, μηδ’ ὄμμασιν ἧσο τεθηπώς Fuoco e Acqua e Terra e l’altezza immensa dell’Aria, e Contesa, disgiunta da essi ma di pari peso, ovunque, e Amore, in essi, uguale in lunghezza e larghezza. Osservala con l’intelligenza, non restare con sguardo stupito (Empedocle; DK 31 B17.18-21). οὐ κεχώρισται ἀλλήλων τὰ ἐν τῶι ἑνὶ κόσμωι οὐδὲ ἀποκέκοπται πελέκει οὔτε τὸ θερμὸν ἀπὸ τοῦ ψυχροῦ οὔτε τὸ ψυχρὸν ἀπὸ τοῦ θερμοῦ Nell’unico universo non si trovano separate le cose, le une dalle altre, e non risultano tagliati a scure né il caldo dal freddo né il freddo dal caldo (Anassagora; DK 59 B8). 354 Nel suo commento a B4, Cerri ha invece richiamato l’attenzione sulla pagina iniziale del trattato Sul cosmo per Alessandro attribuito ad Aristotele (ma più probabilmente di autore genericamente peripatetico20), che contiene passaggi che sembrano effettivamente riecheggiare i versi parmenidei: Πολλάκις μὲν ἔμοιγε θεῖόν τι καὶ δαιμόνιον ὄντως χρῆμα, ὦ Ἀλέξανδρε, ἡ φιλοσοφία ἔδοξεν εἶναι, μάλιστα δὲ ἐν οἷς μόνη διαραμένη πρὸς τὴν τῶν ὄντων θέαν ἐσπούδασε γνῶναι τὴν ἐν αὐτοῖς ἀλήθειαν, καὶ τῶν ἄλλων ταύτης ἀποστάντων διὰ τὸ ὕψος καὶ τὸ μέγεθος, αὕτη τὸ πρᾶγμα οὐκ ἔδεισεν οὐδ’ αὑτὴν τῶν καλλίστων ἀπηξίωσεν, ἀλλὰ καὶ συγγενεστάτην ἑαυτῇ καὶ μάλιστα πρέπουσαν ἐνόμισεν εἶναι τὴν ἐκείνων μάθησιν. Ἐπειδὴ γὰρ οὐχ οἷόν τε ἦν τῷ σώματι εἰς τὸν οὐράνιον ἀφικέσθαι τόπον καὶ τὴν γῆν ἐκλιπόντα τὸν ἱερὸν ἐκεῖνον χῶρον κατοπτεῦσαι, καθάπερ οἱ ἀνόητοί ποτε ἐπενόουν Ἀλῳάδαι, ἡ γοῦν ψυχὴ διὰ φιλοσοφίας, λαβοῦσα ἡγεμόνα τὸν νοῦν, ἐπεραιώθη καὶ ἐξεδήμησεν, ἀκοπίατόν τινα ὁδὸν εὑροῦσα, καὶ τὰ πλεῖστον ἀλλήλων ἀφεστῶτα τοῖς τόποις τῇ διανοίᾳ συνεφόρησε, ῥᾳδίως, οἶμαι, τὰ συγγενῆ γνωρίσασα, καὶ θείῳ ψυχῆς ὄμματι τὰ θεῖα καταλαβομένη, τοῖς τε ἀνθρώποις προφητεύουσα. Τοῦτο δὲ ἔπαθε, καθ’ ὅσον οἷόν τε ἦν, πᾶσιν ἀφθόνως μεταδοῦναι βουληθεῖσα τῶν παρ’ αὑτῇ τιμίων Ho più volte pensato che la filosofia sia cosa veramente divina e sovrumana, o Alessandro, e soprattutto in quell'aspetto per cui essa, da sola, innalzandosi alla contemplazione dei componenti della realtà nella loro totalità, si è impegnata a conoscere la verità che è in essi. E, mentre tutte le altre scienze si tennero lontane da questa verità a motivo della sua altezza e grandezza, la filosofia non temette l'impresa e non si reputò indegna delle cose 20 Rivendica la paternità aristotelica dell’opera G. Reale, A.P. Bos, Il trattato Sul cosmo per Alessandro attribuito ad Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1996. 355 più belle, e, anzi, ritenne che la conoscenza di quelle cose fosse in sommo grado congenere alla propria natura e massimamente conveniente. Infatti, poiché non era possibile col corpo raggiungere i luoghi celesti, lasciare la terra e contemplare quelle sacre regioni, come follemente tentarono gli Aloadi, l'anima, mediante la filosofia, preso l'intelletto come conduttore, varcò il confine e abbandonò l'ambiente che le è familiare, avendo trovato una via che non stanca. E le cose più lontane fra loro nello spazio essa riunì insieme nel pensiero, con facilità, credo, perché riconobbe le cose che le sono congeneri e con il divino occhio dell'anima colse le cose divine, rivelandole poi agli uomini. E questo le accadde perché desiderava, nella misura in cui era possibile, far partecipi senza restrizione tutti gli uomini dei suoi tesori21 . Quello che risulta interessante - in chiave eleatica – è, nei versi empedoclei e nelle righe peripatetiche, il nesso tra lo sguardo del pensiero (νόος, διάνοια) e la dimensione del tutto - le quattro radici in Empedocle, il riferimento agli elementi della totalità nello pseudo-Aristotele; nel frammento anassagoreo, invece, l’uso di κόσμος nel senso evidentemente di universo, complesso del mondo (e non genericamente di ordine), come rivelato dal riferimento ai tradizionali contrari cosmogonici «caldo-freddo», unitamente alla negazione della separazione delle cose nella unità del κόσμος. Lo stesso Empedocle (DK 31 B26.5) impiega κόσμος nella formula εἰς ἕνα κόσμον («in un unico mondo») nell’ambito della descrizione degli effetti cosmogonici dell’alternanza ciclica di Amore e Contesa; mentre in Eraclito (B30: κόσμον τόνδε), il termine è presente in senso già prossimo al valore cosmico, per indicare cioè l’ordine delle cose. L’espressione del pensatore agrigentino «osservala con l'intelligenza» (τὴν σὺ νόωι δέρκευ) sembra effettivamente ricalcare il parmenideo λεῦσσε νόῳ, così come la pseudo-aristotelica «le cose più lontane fra loro nello spazio essa riunì insieme nel pensiero» (τὰ πλεῖστον ἀλλήλων ἀφεστῶτα τοῖς τόποις τῇ διανοίᾳ 21 Ivi, p. 175. 356 συνεφόρησε) richiama complessivamente B4.1 (λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως). L’impressione è che i versi del Περὶ φύσεως, i loro cenni al κόσμος, alle cose lontane e vicine, assenti e presenti, allo sguardo del νόος, fossero chiaramente significativi in prospettiva cosmologica già nel V secolo (Empedocle, Anassagora), a ridosso della sua composizione: forse perché estrapolati dalla sezione cosmologica del poema, forse perché in quel senso andava inteso l’insieme dell’impegno parmenideo (come si evincerebbe in particolare dalla ripresa peripatetica, che risente tuttavia della lezione aristotelica). La possibile (probabile) implicazione cosmica, l’accenno alla dinamica di concentrazione-dispersione (eco plausibile della cosmogonia di Anassimene), e, in relazione a τὸ ἐόν, il rilievo della funzione omogeneizzante del νόος potrebbero suggerire ancora una posizione introduttiva del frammento rispetto alla revisione cosmologica proposta dall’Eleate (sulla scorta della lezione di B8): premessa, dunque, alla vera e propria esposizione fisicocosmologica della seconda sezione. Disperdendosi, concentrandosi I versi 3-4 alludono a qualche specifico precedente cosmologico-cosmogonico, ovvero dobbiamo pensare a un riferimento generico? Gli interpreti sono divisi anche su questo punto: qualcuno, come Coxon22, vi coglie una polemica nei confronti della teoria di una sostanza prima soggetta a condensazione e rarefazione (Anassimene23, pur non escludendo il coinvolgimento polemico di Eraclito DK 22 B9124); altri, come Guthrie25, ritengono Parmenide 22 Op. cit., p. 189. 23 Su questo concordano Reinhardt, Gigon, Albertelli. 24 Il frammento recita: ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι δὶς τῶι αὐτῶι καθ’ Ἡράκλειτον οὐδὲ θνητῆς οὐσίας δὶς ἅψασθαι κατὰ ἕξιν < τῆς αὐτῆς >· ἀλλ’ ὀξύτητι καὶ τάχει μεταβολῆς σκίδνησι καὶ 357 alluda a Eraclito (B91)26; altri ancora, come Conche27, valorizzando l’intenzione ontologica del frammento, dubitano che possa riferirsi a fenomeni di condensazione-rarefazione, giudicando tale lettura “obiettivista”, superficiale e banale. In realtà, se si prende sul serio l’interesse cosmologico del poema di Parmenide, pare corretto individuarne un obiettivo polemico, da cui il filosofo avrebbe preso le distanze: nella logica dell’opera si potrebbe ipotizzare che la riflessione più strettamente ontologica offra gli strumenti concettuali per contestare alternativi modelli esplicativi della natura e fondare una più consapevole e coerente teoria fisica. Schematicamente convincente la lezione di Graham28, il quale, ammiccando a Thomas Kuhn, individua tre “paradigmi” scientifici, successivamente attivi tra VI e V secolo a.C.: (i) quello con cui originariamente si ricercò la scaturigine (φύσις) degli enti, il loro principio (ἀρχή), e si tentò di inquadrare i fenomeni naturali, indicato come Generating Substance Theory (GST); (ii) quello che avrebbe, secondo l’autore, radici nella seconda parte del poema parmenideo e sarebbe poi stato sviluppato, più o meno coerentemente, dai pensatori tradizionalmente designati come “pluralisti” (Empedocle, Anassagora, atomisti), definito come Elemental Substance Theory (EST); πάλιν συνάγει (μᾶλλον δὲ οὐδὲ πάλιν οὐδ’ ὕστερον, ἀλλ’ ἅμα συνίσταται καὶ ἀπολείπει) καὶ πρόσεισι καὶ ἄπεισι Non è possibile scendere due volte nello stesso fiume, secondo Eraclito, né si può toccare due volte una sostanza mortale nell'identico stato; ma, per lo slancio e la velocità del mutamento, si disperde e di nuovo si raccoglie (piuttosto, non di nuovo né dopo, ma a un tempo si riunisce e si separa), viene e va. 25 Op. cit., p. 32. 26 Su questo concordano Diels, Nestle, Cornford, Vlastos, Calogero, Mondolfo. 27 Op. cit., p. 94. 28 D.W. Graham, Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006. 358 (iii) quello espresso pienamente nei frammenti di Diogene di Apollonia, riconosciuto come Material Monism (MM). Il primo corrisponde al programma scientifico ionico, così riassunto per punti29: a) esiste una sostanza originaria da cui tutto il resto è sorto; b) esiste un processo per cui gli elementi costitutivi del cosmo scaturiscono dalla sostanza originaria; c) tali elementi si dispongono negli strati materiali del cosmo; d) le strutture e i materiali del cosmo si stabilizzano nell’ordine che conosciamo; e) emergono gli esseri viventi; f) un’ampia varietà di fenomeni è spiegabile secondo il modello. Rispetto a questo paradigma (modulato da Anassimene nel senso di una vera e propria teoria del mutamento30), Eraclito (cui è dedicata da Graham un’analisi convincente31) avrebbe abbandonato l’idea di primato della «sostanza generatrice» a vantaggio di quella di processo universale, regolato da una legge di scambio di masse elementari (fuoco, terra, acqua). È alla luce di questi precedenti, in particolare dell’impatto della lezione di Eraclito32, che Graham interpreta l’ontologia di Parmenide. La prima parte del Περὶ φύσεως metterebbe in campo tutti gli strumenti concettuali per negare il divenire come generazione dal non-essere e affermare una concezione di «ciò che è» che l’autore ritiene compatibile con il pluralismo di sostanze ingenerate, incorruttibili, omogenee, immutabili e complete (Graham parla di Eleatic Substantialism): la seconda sezione (Doxa) avrebbe quindi proposto una cosmologia basata sulle proprietà focalizzate nella Aletheia, coerente con i principi della metafisica di Parmenide33 . Lasciando per il momento in sospeso altre valutazioni, la collocazione della riflessione dell’Eleate proposta da Graham appare 29 Ivi, pp. 8-9. 30 Ivi, pp. 45-84. La rivalutazione del contributo del “terzo” milesio è uno degli aspetti più interessanti dell’opera. 31 Ivi, pp. 113-147. 32 Ivi, pp. 148-162. 33 Ivi, pp. 182-5. 359 sensata e potrebbe aiutare a leggere correttamente anche il nostro frammento. Da un lato, infatti, i versi attestano un ruolo del νόος chiaramente inteso a ricondurre gli ἀπεόντα alla presenza di τὸ ἐόν, negando quindi lo spazio del non-essere potenzialmente implicito nel movimento assenza-presenza; dall’altro anticipano (ovvero sottintendono) i rilievi di B8 sull’omogeneità dell’essere, per rifiutare quelle proposte esplicative che sembravano comportare, di fatto, accanto all’essere del principio\natura, l’implicita ammissione del non-essere. Anassimene (DK 13 B1), in effetti, sulla base di quanto espone Plutarco, avrebbe sostenuto: τὸ γὰρ συστελλόμενον αὐτῆς καὶ πυκνούμενον ψυχρὸν εἶναί φησι, τὸ δ’ ἀραιὸν καὶ τὸ χ α λ α ρ ὸ ν (οὕτω πως ὀνομάσας καὶ τῶι ῥήματι) θερμόν [Anassimene] dice infatti che la parte dell’aria che si contrae e si condensa è fredda, mentre la parte che è dilatata e “allentata” (è proprio questa l'espressione che usa) è calda […] (DK 13 B1). Eraclito, a sua volta: σκίδνησι καὶ πάλιν συνάγει [...] καὶ πρόσεισι καὶ ἄπεισι […] si disperde e di nuovo si raccoglie […] viene e va (DK 22 B91). Il frammento di Parmenide – un breve passaggio nelle centinaia di versi complessivi del poema – potrebbe dunque essere risultanza di una più o meno esplicita evocazione dei precedenti ionici, per marcare l'originalità del contributo eleatico soprattutto in termini di coerenza – come attesterebbe l’insistenza sul νόος e sul suo operare - con i presupposti taciti nella stessa concezione della realtà della φύσις- ἀρχή ionica. Proprio questa possibile funzione critica farebbe di B4 una sorta di passe-partout per il poema: 360 (i) come controparte gnoseologica dell’argomentazione di B8 e dunque degli effetti paradossali di una coerente riflessione ontologica rispetto ai dati del senso comune; (ii) come trait d'union tra la sezione ontologica e quella cosmologica, a sottolinearne la continuità, cioè nell’ambito di una positiva interpretazione della φύσις sulla scorta della Verità, come vuole Ruggiu34 . 34 Op. cit., p. 251. 361 UN’ESPOSIZIONE CIRCOLARE [B5] Il breve frammento ci è conservato in una citazione di Proclo, che lo connette a B8.25 (ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει, «ciò che è si stringe infatti a ciò che è») e B8.44 (μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ, «a partire dal centro ovunque di ugual consistenza»), riferendolo dunque all’Essere. In realtà, come spesso è stato riconosciuto, è difficile sfuggire all’impressione di una decontestualizzazione disorientante. Se l’indicazione di Proclo può suggerire un suo significato ontologico, in linea, per altro, con la relazione tra νοεῖν e εἶναι che emerge da B3 e la dinamica ἀπεόντα-παρεόντα-τὸ ἐόν di B4, è forte tuttavia tra gli interpreti l’opzione metodologica, che appare in qualche lettura particolarmente convincente1 . Anche nel caso di B5, la questione del suo significato è decisiva per la sua collocazione. Laddove prevalga il rilievo del suo senso ontologico, l’attuale sequenza può essere mantenuta2 . Laddove, al contrario, sia privilegiato il senso metodologico del frammento, il suo posizionamento nell’attuale ordinamento del materiale andrebbe rivisto (come fanno, tra gli altri, Pasquinelli e Coxon), a ridosso di B1 e prima di B2, come preliminare della esposizione divina. Registrata la ricorrenza dell’immagine del cerchio all’interno delle citazioni del poema - la verità «ben rotonda» (B1.29); l'analogia tra τὸ ἐόν e εὐκύκλου σφαίρης ὄγκος («massa di ben rotonda palla», B8.43); il discorso sulla verità indicato come ἀμφὶς Ἀληθείης (B8.51); il concetto di «limite estremo» (πεῖρας πύματον, B8.42) – appare comunque forzata la conclusione di Ruggiu3 , secondo cui B5 esporrebbe la forma nella quale l’Essere esprime la propria natura. Soprattutto se teniamo conto della possibilità che il materiale conservato rappresenti solo una quota minoritaria dei versi del poema integrale. Nell’ambito della comunicazione della Dea, invece, il passo potrebbe essere inteso e marcare lo scarto tra 1 È il caso dell’analisi di Coxon e di quella di Conche. 2 Ovvero, ipotizzando una (improbabile) lacuna in B8 (Cornford), potrebbe essere accettato il suo inserimento tra i due riferimenti di Proclo. 3 Op. cit., p. 253. 362 sapere divino e sapere umano: la necessità di un ordine espositivo rivolto al κοῦρος e la sua indifferenza rispetto alla conoscenza di chi lo propone. Conche4 ha giustamente messo in relazione il frammento con il programma di insegnamento annunciato dalla Dea: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι È necessario che tutto tu apprenda (B1.28). La verità che il κοῦρος apprenderà è la verità del Tutto, un sapere compiuto: i limiti dell’uomo non consentono tuttavia che tale sapere sia acquisito tutto in una volta. È necessario un ordine, corrispondente alle tappe di una ricerca, modalità tipicamente umana di accedere alla conoscenza. Il percorso, la via da seguire (affermazione di una via ed esclusione di un’altra, ecc.) rappresentano un escamotage didattico che ha senso solo per il discepolo, non per la Dea: per lei il punto di partenza e l’ordine di esposizione sono indifferenti. In relazione a una verità definita nel poema εὐκυκλής («ben rotonda»), Cerri valorizza, a sua volta, la prospettiva didascalica del frammento5 , rafforzata dal possibile accostamento a Eraclito (DK 22 B1036 ) e dall’eco nel Sofista platonico (237a7 ): Parmenide implicherebbe una sorta di circolarità della ricerca scientifica e del discorso che la espone8 . 4 Op. cit., p. 98. 5 Pur non escludendo, a priori, la possibilità di un suo coinvolgimento all’interno di una (in vero implausibile) specifica argomentazione geometrica. 6 Il frammento recita: ξυνὸν γὰρ ἀρχὴ καὶ πέρας ἐπὶ κύκλου περιφερείας Comune è, in effetti, nella circonferenza del cerchio il principio e la fine. 7 Il passo è il seguente: Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ τέλους 363 In ogni caso, alla luce della successiva trattazione dell’Essere e del mondo della natura, sembra difficile poter insistere su tale circolarità, come ha opportunamente segnalato Coxon9 : nel primo caso, infatti, lo sviluppo argomentativo procede in una direzione lineare; nel secondo l’esposizione delle «opinioni dei mortali» doveva diffondersi sul piano storico-descrittivo. Né è plausibile che la circolarità indifferente possa riferirsi al complesso delle due esposizioni, dipendendo la comprensione della seconda dalle analisi della prima10. Indifferente e circolare, invece, potrebbe essere considerata la discussione delle possibili vie di ricerca, non necessariamente legata a un ordine di sequenza e in questo senso indifferente rispetto all’argomento da articolare. Come segnala Coxon11, la circolarità di quella preliminare discussione sarebbe contrapposta alla linearità degli argomenti sviluppati lungo la via imboccata verso la Verità (B8). Una variante interessante è quella avanzata da Bicknell12, che abbiamo registrato nelle annotazioni alla traduzione: intendendo ξυνὸν come a basic point, B5 potrebbe essere immediatamente anteposto alla κρίσις di B2, per marcare come a essa l’argomentazione della Dea avrebbe dovuto ripetutamente richiamarsi. τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων [DK 28 B7.1-2] Questo discorso ha osato supporre che sia ciò che non è: il falso, in effetti, non potrebbe generarsi in altro modo. Il grande Parmenide, invece, ragazzo mio, a noi che eravamo ragazzini proprio contro questo discorso testimoniava dall'inizio alla fine, in prosa e in versi, che [citazione B7.1-2]. 8 Cerri, op. cit., p. 202. 9 Op. cit., pp. 171-2. 10 In questo senso non convince il rilievo di Pasquinelli (I presocratici, p. 396) sulla presunta comunanza di tutti i punti del discorso della Dea. 11 Op. cit., pp. 171-2. 12 P.J. Bicknell, “Parmenides, DK 28 B5”, cit., pp. 9-11. 364 ESSERE E NULLA [B6] Il frammento, ricostruito a partire dalle sole sparse citazioni di Simplicio (quindi, come osserva Cordero1 , ricomparso a un millennio dalla stesura del poema), è dallo stesso commentatore per un verso direttamente connesso a B22 , per altro proiettato su B7 e B8: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα· εἰπὼν γὰρ [B6.1b-2] < ἐπάγει > [B6.3-9] μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] Sostiene che le proposizioni contraddittorie non siano a un tempo vere [letteralmente: la contraddizione non sia vera] in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti: dice infatti [citazione B6.1b-2a] e aggiunge [citazione B6.3-9]. (In Aristotelis Physicam 117, 2) Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.] (In Aristotelis Physicam 78, 2). È dunque introduttivamente importante, per una valutazione del senso e della posizione del testo, ricordare che la citazione di Simplicio è intesa a confermare l’uso condizionante del principio di contraddizione3 (donde l’accostamento a B2) come premessa 1 By Being, It Is, cit., p. 90. 2 Simplicio cita B6.1b-9 subito dopo aver citato B2.3-8. 3 In questo senso Simplicio ne confermava l’implicita attribuzione a Parmenide da parte di Aristotele (Metafisica IV, 3 1005 a28-35): 365 che lo stesso Simplicio salda esplicitamente all’argomento ontologico successivo (B8). In effetti, il primo verso e il primo emistichio del secondo sono richiamati dal commentatore, in altro contesto, proprio per marcare il nesso tra pensiero ed essere: ἀλλὰ καὶ τὸ πάντων ἕνα καὶ τὸν αὐτὸν εἶναι λόγον τὸν τοῦ ὄντος ὁ Παρμενίδης φησὶν ἐν τούτοις [B6.1-2a]. εἰ οὖν ὅπερ ἄν τις ἢ εἴπῃ ἢ νοήσῃ τὸ ὄν ἐστι, πάντων εἷς ἔσται λόγος ὁ τοῦ ὄντος Ma che la nozione di tutte le cose sia una e la stessa, quella dell'essere, Parmenide sostiene in questi versi: [B6.1-2a] Se proprio l'essere è ciò di cui è possibile dire e pensare, di tutte le cose vi sarà una sola nozione, quella dell'essere (In Aristotelis Physicam 86, 25-30). Per la sua discussa interpretazione è corretto e inevitabile rinviare al complesso B2-B3, a maggior ragione ipotizzando che gli attuali B4 e B5 siano fuori posto (in particolare che B5 possa precedere immediatamente B2 e B4 trovarsi a cavaliere tra prima e seconda sezione). È possibile, infatti, intravedere nei versi e nel contesto della citazione la centralità del riferimento critico a τό μὴ ὥστ’ ἐπεὶ δῆλον ὅτι ᾗ ὄντα ὑπάρχει πᾶσι (τοῦτο γὰρ αὐτοῖς τὸ κοινόν), τοῦ περὶ τὸ ὂν ᾗ ὂν γνωρίζοντος καὶ περὶ τούτων ἐστὶν ἡ θεωρία. διόπερ οὐθεὶς τῶν κατὰ μέρος ἐπισκοπούντων ἐγχειρεῖ λέγειν τι περὶ αὐτῶν, εἰ ἀληθῆ ἢ μή, οὔτε γεωμέτρης οὔτ’ ἀριθμητικός, ἀλλὰ τῶν φυσικῶν ἔνιοι, εἰκότως τοῦτο δρῶντες· μόνοι γὰρ ᾤοντο περί τε τῆς ὅλης φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος Così, in quanto è chiaro che [gli assiomi] appartengono a tutte le cose in quanto sono (l'essere è infatti ciò che è comune a tutti), è proprio di colui che indaga l'essere in quanto essere anche lo studio di questi [assiomi]. Perciò, nessuno di coloro che si limitano all'indagine di una parte si cura di dire qualcosa di essi, se siano veri o no: non il geometra, né il matematico. Ne parlarono, tuttavia, alcuni dei fisici, e a ragione: credevano in effetti di essere gli unici a ricercare sul complesso della natura e sull'essere. 366 ἐὸν (Simplicio: τὸ μὴ ὂν), formula estratta dalla seconda «via di ricerca» di B2, che evidentemente aveva costituito il preliminare oggetto di discussione nella parte mancante del primo logos della Dea. Come rivela l’ampio dibattito intorno alla traduzione del testo greco e alla sua intellezione, il frammento è decisivo per determinare: (i) la natura delle «vie di ricerca per pensare»; (ii) il numero di tali vie; (iii) l’obiettivo della polemica parmenidea. In particolare, relativamente all’ultimo punto, è dall’Ottocento oggetto di contesa l’attribuzione esatta dei riferimenti a βροτοὶ εἰδότες οὐδέν («mortali che nulla sanno»), δίκρανοι («uomini a due teste»), e ἄκριτα φῦλα («schiere scriteriate»), che molti hanno inteso come allusioni a Eraclito e seguaci, trovando nelle espressioni degli ultimi versi un possibile riscontro verbale (come abbiamo segnalato in nota): οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro (B6.8-9). La natura delle vie Il primo verso e il primo emistichio del secondo, che sembrano fornire nell’insieme un asserto e le condizioni che lo giustificano (come evidenziato dal ricorso all’indicatore di premessa γάρ), introducono il primo problema interpretativo: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν che può rendersi letteralmente come: 367 È necessario il dire e il pensare che ciò che è è; poiché è possibile essere [ovvero, come preferiamo: è possibile infatti essere], il nulla, invece, non è». La nostra traduzione4 ricava due formule modali («è necessario», «è possibile») dal testo greco, che appare invece immediatamente costruito su tre formule tautologiche: ἐὸν ἔμμεναι (letteralmente: «ciò che è [l'essere] è»), ἔστι εἶναι (che si potrebbe rendere letteralmente: «è essere» ovvero «[l']essere è»), μηδὲν οὐκ ἔστιν (letteralmente: «ni-ente non è»). L’essere dell’ente Il primo emistichio è costituito da tre blocchi testuali: (i) l’espressione verbale χρή, che abbiamo reso come «è necessario»: si tratta di una formula con cui la Dea rileva un passaggio significativo della propria comunicazione, proposto come conclusione di un argomento (le premesse introdotte dall'indicatore γάρ); (ii) le due forme verbali all’infinito – λέγειν e νοεῖν – precedute da τό, con valore di articolo sostantivante («il [fatto di] dire», «il [fatto di] pensare»), ovvero, come crede qualcuno, di dimostrativo in funzione prolettica («dire questo e pensare questo: ….»); in ogni caso è evidente che la Dea (Parmenide) coinvolge due verbi particolarmente pregnanti nel contesto della sua rivelazione: νοεῖν richiama immediatamente B3 e B2.2 (νοῆσαι), mentre λέγειν può collegarsi a φράζω (B2.6-8); (iii) l’insieme verbale ἐὸν ἔμμεναι, formato dal participio presente del verbo «essere» (ἐόν, forma ionica di ὂν: «essente», ovvero «ente» o ancora «ciò che è» e quindi anche «essere») e dall’infinito dello stesso verbo (ἔμμεναι nella forma epica), che 4 Per le costruzioni e traduzioni alternative rinviamo alle note testuali al frammento. 368 abbiamo reso, come appare naturale, come proposizione infinitiva (dichiarativa) retta da λέγειν e νοεῖν: si tratta della prima formulazione ambigua (per la multivocità del verbo essere) della tautologia centrale (μηδὲν οὐκ ἔστιν non fa che esprimerla in negativo: da una lato l’«ente» di cui si afferma l’essere, dall’altro il «ni-ente» di cui si nega lo stesso essere). Nel contesto la traduzione proposta appare plausibile, ed evidenzia la difficoltà di interpretazione dell’ultimo blocco: la scelta di Parmenide è chiaramente quella di sfruttare la densità semantica della coppia participio-infinito dello stesso «essere», per marcare l’identità di soggetto e verbo. L’effetto ricercato potrebbe essere quello – su cui giustamente insiste la lettura heideggeriana di Beaufret 5 e Conche 6 - di richiamare l’attenzione sull’εἶναι (ἔμμεναι) dell’ἐόν, sull’essere di ciò che è; ovvero, più semplicemente, sul fatto d’essere, sull'evidenza dell'esistenza. È da tener presente che, in B2.7-8, la Dea aveva denunciato come: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo. B6 si apre appunto sostituendo all’espressione negativa τό μὴ ἐὸν di B2.7 il positivo ἐόν; al rilievo dell’impossibilità di conoscere e indicare (esprimere) «ciò che non è», quello della necessità di dire e pensare l’«essere» dell’ἐόν. Nel passaggio interviene l’importante novità dell’introduzione del soggetto di εἶναι (ἔμμεναι), ἐόν appunto: l’affermazione «è e non è possibile non essere» (B2.3: ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) che caratterizzava il Πειθοῦς κέλευθος, «percorso di Persuasione», trova in B6.1a ἐόν come proprio naturale soggetto di referimento. Nella sequenza B2-B6, possiamo intendere ἐόν come formula concettuale scaturita dalla riflessione sull'espressione della prima via di 5 Parménide, Le poème, présenté par J. Beaufret, cit., p. 81. 6 Op. cit., p. 102. 369 ricerca per pensare7 : formula che manifesta l’essere di ciò di cui si afferma ἐστίν, ovvero come formula sintetica riassumente la totalità delle cose che si manifestano nella esperienza (come ricorda Thanassas8 , è frequente l’uso del plurale ἐόντα nella sezione sulla Alētheia) di cui ἐστίν focalizza il fatto d’essere: ciò che è, l’ente, la “cosa”, «è», esiste. Siamo portati decisamente a credere che, nel contesto, il valore di ἔμμεναι sia esistenziale, pur avendolo reso ambiguamente con «essere». L’uso dell’iniziale χρή – anche senza volergli attribuire il significato forte di necessità logica – è funzionale alla ripresa della conclusione negativa di B2 riguardo a τό μὴ ἐὸν, integrata dal rilievo di B3: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere. Delle «due vie di ricerca» di B2 – le uniche «per pensare» - quella che pensava che «non è» è di fatto indisponibile, perché, come abbiamo ricordato, «ciò che non è» non è conoscibile né esprimibile; questo porta la Dea in B3 a rilevare il nesso tra νοεῖν e εἶναι, tra il pensiero che svela (νοεῖν) e l’unico suo reale oggetto possibile (εἶναι) alla luce dell’iniziale alternativa tra le vie. Nell’apertura di B6, ai due infiniti (λέγειν e νοεῖν) viene esplicitamente attribuito un oggetto: la dichiarativa ἐὸν ἔμμεναι («ciò che è è»). La Dea non si limita in questo modo a riprendere ed esplicitare la propria tesi: sottolinea anche come pensiero e discorso debbano correttamente ammetterla9 . A tale scopo, in B6.1b-2a, ella reitera nella sostanza le risultanze di B2: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν essere, infatti, è possibile, 7 Thanassas, op. cit. p. 45. 8 Ivi, p. 44. B4.1-2, B8.25, B8.47-8. 9 Cordero, op. cit., p. 92. Preferiamo attenuare il carattere di necessità logica che Cordero attribuisce a χρή. 370 il nulla, invece, non è. La formula ἔστι εἶναι può estrarsi positivamente dall'insieme di affermazione e proibizione nella prima «via di ricerca per pensare»: ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι. L'espressione μηδὲν οὐκ ἔστιν, a sua volta, ribadisce l'assolutezza della seconda via: ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι, attribuendo coerentemente a οὐκ ἔστιν un adeguato soggetto logico. La traduzione dei due emistichi e la loro interpretazione sono comunque particolarmente controverse. Essere, non-essere Traducendo letteralmente: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν abbiamo almeno tre possibili costruzioni e relative plausibili soluzioni: (i) intendere il precedente ἐὸν come soggetto del primo emistichio e μηδὲν del secondo: poiché [ovvero: infatti] è essere, il nulla, invece, non è; (ii) intendere ἐὸν come soggetto di entrambi, con μηδὲν predicato (come εἶναι): poiché [ovvero: infatti] è essere, e non è nulla; 371 (iii) intendere εἶναι come soggetto del primo emistichio e μηδὲν del secondo: poiché [ovvero: infatti] l'essere è, il nulla, invece, non è. Nell'ultimo caso, esplicitamente ritroveremmo la disgiunzione ἐστί\οὐκ ἔστι, accompagnata dai due soggetti logici (il primo εἶναι, il secondo μηδέν) che la trasformano in una duplice asserzione tautologica (quindi vera). Per molti versi si tratta della versione più naturale10, ma ha lo svantaggio di non dare del tutto ragione dell’uso di γάρ. Seguendo una affermazione (χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι), esso dovrebbe introdurre le proposizioni in grado di giustificarla: ora la doppia tautologia (si tratta dell’aspetto che rende più perplessi) sembra semplicemente riformulare la dichiarativa (εἶναι funge da soggetto in sostituzione di ἐόν), negando l’essere al soggetto contrario («[il] ni-ente»). La Dea, dunque, sosterrebbe la propria tesi direttamente, marcando la non esistenza del non-essere: oggetto del dire e del pensare non può allora che essere «ciò che è», perché solo «ciò che è [l’essere] è [esiste]». Il vantaggio di questa soluzione è quello di mettere in valore la possibile struttura delle due vie di B2: come abbiamo osservato, la disgiunzione ἐστί\οὐκ ἔστι è riformulata in termini tautologici, dunque investirebbe in realtà due verità, in questo senso proposte come le uniche vie di ricerca per pensare11, una delle quali (sviluppare coerentemente la premessa «che è») feconda, l’altra (sviluppare coerentemente la premessa «che non è») assolutamente improduttiva. Questo spiegherebbe il tono del discorso della Dea, che cambia e si fa sprezzante solo quando denuncia la confusione dei βροτοί che incrociano le due vie: come fa osservare Giorgio 10 Tra l'altro potrebbe essere suffragata dal fatto che due codici (BC) di Simplicio riportano τò εἶναι. 11 In questo senso la lettura della Germani, op. cit., p. 191. 372 Colli12, la via enunciata in B2.5 non era stata rifiutata con disprezzo, perché volgare, come accade invece con quella formulata a partire da B6.4. Le altre due soluzioni, in fondo, non si allontanano concettualmente dalla precedente, trovando comunque nel contesto dei frammenti una loro sensata giustificazione. Nel primo caso («poiché è essere, il nulla, invece, non è») sarebbe messo in valore l'essere di «ciò che è» (ἐόν), dell'ente, ribadendo la non esistenza del nulla, del "ni-ente"; nel secondo (la costruzione appare meno naturale) la Dea otterrebbe lo stesso risultato sottolineando che «ciò che è» è «essere» e non è «nulla». È necessario, è possibile, non è possibile Un’interessante soluzione alternativa alla traduzione letterale è quella proposta da O’Brien: essa, rendendo ἔστι\οὐκ ἔστι con valore potenziale, ricava da B6.1-2a tre espressioni modali: necessità (χρή), possibilità (ἔστι), impossibilità (οὐκ ἔστιν): Il faut dire ceci et penser ceci: l’être est; car il est possible d’être, il n’est pas possible que ce qui n’est rien. Poiché è possibile essere ed è impossibile che il ni-ente sia, dire e pensare (presupposti nel ragionamento) dovranno riconoscere come loro oggetto necessario l’ente. Come ricorda l’autore13, infatti, i candidati a essere oggetto di tali attività sono ἐόν e μηδέν: il primo può esistere, il secondo no. La difficoltà di questa interpretazione è principalmente legata alla lingua greca, in cui ἔστι assume valore potenziale in relazione con un infinito: è dunque legittima la traduzione del secondo emistichio del v.1, problematica la traduzione di B6.2a, nella quale, 12 Gorgia e Parmenide. Lezioni 1965-1967, a cura di E. Colli, su appunti di E. Berti, Adelphi, Milano 2003, p. 175. 13 O’Brien, Études sur Parménide, cit., vol. I, p. 214. 373 non a caso, O’Brien sottintende un infinito (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν < εἶναι >). Anche Mansfeld14 opta per una (diversa15) resa potenziale in entrambi i casi, proprio per garantire la corrispondenza, pur riconoscendo ininfluente la traduzione con valore esistenziale di B6.2a (come abbiamo scelto di fare). Parmenide potrebbe dunque aver derivato, dall’affermazione della possibilità dell’essere e dalla negazione del nulla, la necessità che l'essere sia16 . Resta comunque valida l’obiezione, avanzata da Leszl 17 , per cui, attribuendo alle due ricorrenze di ἔστι valori diversi, verrebbe meno la simmetria e soprattutto l'uniformità nell’impiego del verbo. Le due vie di B2 in B6 In apertura di B6, insomma, la Dea ritorna sull’alternativa delineata in B2, precisandola: sottolinea la necessità (correttezza) del riconoscimento dell’ἐόν come oggetto di λέγειν e νοεῖν, escludendo che μηδέν (τό μὴ ἐὸν di B2.7), teorico contenuto della via di ricerca «non è ed è necessario non essere», esista. In pratica ci troviamo di fronte a una riproposizione in positivo della conclusione di B2. La puntualizzazione riguarda «le uniche vie di ricerca per pensare»: alla pura formulazione oppositiva ὅπως ἔστιν\ὡς οὐκ ἔστιν si sostituiscono le espressioni tautologiche – ἐὸν ἔμμεναι, ἔστι εἶναι, e μηδὲν οὐκ ἔστιν, con l’esplicitazione, dunque, di adeguati soggetti logici. 14 Op. cit., p. 90. 15 Traduce: «denn dieses (das Seiende) kann sein, ein Nichts hingegen kann nicht sein». 16 Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 174) ha osservato come l'affermazione iniziale di B6.1 (ἐὸν ἔμμεναι) sia l'enunciazione della prima via di B2, mentre B6.2 enuncerebbe la seconda. Ciò confermerebbe, secondo Colli, i soggetti delle due vie: «ciò che è», «ciò che non è». Questa lettura fa cogliere un nuovo aspetto: nel frammento 6 ci sarebbe una congiunzione delle due vie. Tra la possibilità che l’essere sia e la necessità che il nulla non sia, dovremmo scegliere la possibilità, che così diventerebbe a sua volta necessità. 17 Op. cit., p. 133. 374 In B2 la Dea aveva prospettato due potenziali percorsi di indagine – gli unici «per pensare»: (i) l'uno, ricercava pensando ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, in pratica sviluppando le implicazioni dell'affermazione di esistenza - «è» - e negando possibilità al non-essere: valorizzando il significato arcaico di νοεῖν (come un vedere che coglie immediatamente il proprio oggetto), si potrebbe sostenere che lungo questa pista di indagine il focus era destinato a concentrarsi assolutamente sull'essere; (ii) l’altro, al contrario, tentava la ricerca imboccando la direzione opposta, pensando cioè ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι, nello sforzo di ricavare le implicazioni della negazione «non è» rinforzata dal vincolo di necessità: in tal modo la seconda «via di ricerca per pensare» tracciava un percorso verso il nulla, subito inibito in quanto in tale direzione non vi era «ni-ente» (μηδὲν) da vedere e riferire. La seconda via poteva essere delineata solo come radicale alternativa alla prima e sostanzialmente per confermarne la necessità: non è possibile νοεῖν, nel senso originario di percezione mentale, se non di ciò che è. La Dea, infatti, aveva immediatamente connotato la prima via come Πειθοῦς κέλευθος, in quanto capace di condurre alla vera realtà (Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ): un convincente chiarimento in merito era giunto però solo nei versi successivi, quando, a proposito della via alternativa, ella aveva ammonito che τό μὴ ἐὸν è indisponibile all’effettiva conoscenza ed espressione. In B2.7 la Dea aveva dunque estratto l'oggetto della seconda via, implicitamente ponendo quello della prima. In B6.1-2a, abbiamo l'indicazione in positivo dell'oggetto della ricerca: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι e l'esplicitazione dei soggetti logici adeguati delle formule delle vie: «ciò che è è» (ovvero «l'essere è») e «il nulla [ovvero, letteralmente: ni-ente] non è». A questa lettura – che ha conseguenze, come vedremo, sull'interpretazione dell’intero frammento - si contrappone in particolare 375 quella di Cordero (ma condivisa da altri), secondo cui nel complesso 6.1b-6.2a si registrerebbe la presentazione della prima via18: «il nulla non esiste» di B6.2a sarebbe una semplice riformulazione di 2.3b: «non è possibile non essere», riferendosi quindi alla prima via19. In questo senso si è orientato di recente anche Palmer20. Alla seconda via, a detta di Cordero, la Dea alluderebbe invece subito dopo, connotando l'indiscriminata combinazione di essere e non-essere: le cose dovrebbero essere e non essere allo stesso tempo, come segnalato da B7.1 (εἶναι μὴ ἐόντα «che esistano cose che non sono»). La struttura argomentativa, tuttavia, suggerisce che quanto «è necessario» riconoscere (dire e pensare) - ἐὸν ἔμμεναι – è la compiuta, esplicita espressione della formula per la prima via; a sua giustificazione sono addotte la possibilità dell'essere e l'inesistenza del nulla. È decisivo soprattutto questo rilievo. In B2.6-8 la Dea aveva infatti sottolineato il nesso tra la seconda via e τό γε μὴ ἐὸν: essa era «sentiero del tutto privo di informazioni» (παναπευθής ἀταρπός) in quanto «ciò che non è» è inconoscibile e indiscernibile. La sua negatività è ora tradotta nella tautologia μηδὲν οὐκ ἔστιν, come elemento dimostrativo per richiamare l’attenzione sulla necessità dell'opposto ἐὸν ἔμμεναι. Il guadagno teorico su B2 riguarda sia la riconsiderazione critica (argomentativa) del Πειθοῦς κέλευθος («percorso di Verità»), inizialmente introdotto in forma direttiva, sia la definizione ufficiale del suo oggetto: ἐόν. Il numero delle vie È indicativa la formula utilizzata per valorizzare l’argomento proposto in apertura di B6: la Dea, infatti, con espressione caratteristica dell’epica omerica ed esiodea, insiste: 18 By Being, It Is, cit., p. 99. 19 Ivi, p. 105. 20 Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 112-3. Palmer offre comunque un'interpretazione diversa delle vie. 376 τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα Queste cose io ti esorto a considerare, che sembra richiamare l’invito iniziale di B2: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας Orsù, io dirò - e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata. Come in quel caso, la Dea sottolinea il rilievo dell’alternativa tra le due vie per la corretta comprensione della realtà: il fraintendimento della loro natura, in effetti, è all’origine della confusione dei «mortali che nulla sanno», come appureremo tra breve. Analogamente, dopo aver presentato la via « è ed è necessario non essere», la Dea si premura di osservare (B2.6): τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν Questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni; in B6.3, allora, ella ribadisce (immediatamente dopo aver affermato che «il nulla invece non è»): πρώτης γάρ σ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < εἴργω > Da questa prima via di ricerca, infatti, ti < tengo lontano >. Questa versione del testo greco, con l’integrazione della lacuna dei codici assunta da Diels (sulla base di una tradizione che risale alla edizione aldina del 1526), è stata vigorosamente avversata da Cordero e abbandonata anche da Nehamas21 (e dalla Curd22), i quali propongono, rispettivamente, di integrare con il verbo ἄρχω-ἄρχομαι (forma media), «cominciare»: 21 A. Nehamas, “On Parmenides’ Three Ways of Inquiry”, «Deucalion», 33-34, 1981, pp. 197-211. 22 Di ciò diamo conto in nota al testo greco. 377 πρώτης γάρ τ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < ἄρξει > since you < will begin > with this first way of investigation, πρώτης γάρ σ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος << ἄρξω > For, first, < I will begin > for you from this way of inquiry. L’esigenza di mettere in discussione la lezione tradizionale, sebbene giustificata da un punto di vista filologico dalla oggettiva corruzione del testo dei manoscritti (con l’ulteriore possibilità che la lacuna si estenda a più versi), è dettata soprattutto dalla incoerenza cui si va incontro interpretando i primi due versi del frammento come ripresa della sola via «che è e che non è possibile non essere», da cui, ovviamente la Dea non potrebbe «trattenere» ovvero «tenere lontano»23, bensì solo «cominciare» o invitare a cominciare. Pur segnalando la lacuna e riconoscendo la coerenza degli argomenti filologici di Cordero, non crediamo necessario integrare secondo la sua lezione 24 , ma offrirla solo come possibilità. L’interpretazione che proponiamo è coerente con la lettura tradizionale, dal momento che consente di riferire il complemento iniziale e il dimostrativo ταύτης alla formula μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν. Essa evocava l'unica indicazione desumibile dalla via di indagine «che non è e che è necessario non essere»: l'oggetto che se ne può estrarre in verità non esiste. È probabile che dopo l'enunciazione delle due vie la Dea avesse condotto la discussione a partire dalla seconda, mettendo in guardia dal suo coinvolgimento: B6 e B7 rappresenterebbero la conclusione di tale disamina, mirata ad affermare la necessità del riconoscimento che ἐὸν ἔμμεναι. In questo 23 Noto, per inciso che, nel caso del verso B6.3, Cordero preferisce la lezione τ’ dei codici BC a quella σ’ (pronome personale) di D (con E e F), di cui si era sottolineata, per la lezione del verso precedente, la bontà. Traducendo con il personale «ti», l’integrazione proposta risulterebbe impraticabile nel caso di Cordero, meno naturale nel caso di Nehamas («comincerò per te»). 24 Che appare comunque plausibile, dal momento che la costruzione ἄρχεσθαι + ἀπό è caratteristica nella letteratura greca arcaica. 378 senso, la seconda via prospetta diventa «prima» nell’ordine espositivo. Da questa prima via di ricerca, poi da quella…. Per chi (come Cordero, come noi e come altri) fa leva su B2 per sostenere un modello duale per le vie parmenidee, B6.4-5 propone una difficoltà, che la soluzione di Cordero e Nehamas effettivamente sembra risolvere, indicando una sequenza nell’esposizione della Dea. Adottando la congettura di Cordero avremmo: πρώτης γάρ τ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < ἄρξει > αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται > con questa prima via di ricerca comincerai, poi con quella che mortali che nulla sanno s’inventano. Una sequenza che potrebbe alludere alle due sezioni del poema, e richiamare B8.50-52, considerato passaggio conclusivo della Alētheia e introduzione alla Doxa: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno alla Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando, che può ingannare. 379 Nella tradizione interpretativa, è stata decisiva (come per altri aspetti) la presa di posizione di Karl Reinhardt25, il quale, dal confronto tra B2 e B6, ricavò l’indicazione di tre vie: (i) quella che affermerebbe «l'essere è» (ricavata da B2); (ii) quella che affermerebbe (a) «l'essere non è» (ricavata da B2) ovvero (b) «il nonessere è» (ricavata da B7.1); (iii) infine quella che affermerebbe «l'essere sia è sia non è» ovvero «sia l'essere sia il non-essere sono». La prima via da evitare (nella lettura tradizionale di Diels di B6.3) sarebbe la seconda via di B2; l’altra via da evitare (B6.4) sarebbe allora una terza via rispetto alle due menzionate in B2: dal momento che essa esplicitamente coinvolge la condizione dei mortali, Reinhardt concludeva che dovesse concernere l’ambito dell'opinione26. È proprio per precisare questo passaggio classico delle interpretazioni parmenidee che il nodo delle vie richiede di essere affrontato e risolto (per quanto è possibile) in questa sede. A noi appaiono indiscutibili alcuni punti: (i) B2 delinea in modo netto una alternativa (ἡ μὲν ὅπως ... ἡ δ΄ ὡς), marcando l’esaustività («le uniche per pensare ») delle «vie di ricerca» prospettate; (ii) B2 offre con «le uniche vie di ricerca per pensare» due direzioni d'indagine lungo le quali dirigersi: (a) la prima muove dall’immediata evidenza: «è» (ἔστιν), estraendone «essere» (εἶναι) e respingendo la possibilità della sua antitesi (οὐκ ἔστι μὴ εἶναι); (b) la seconda dalla connessa negazione: «non è» (οὐκ ἔστιν), marcando la necessità del non-essere (χρεών ἐστι μὴ εἶναι); (iii) lo stesso B2 registra immediatamente l'asimmetria delle due vie indicate: l'indagine, infatti, non potrà in realtà procedere lungo la seconda, in quanto non potrebbe discernervi alcunché: non è possibile conoscere né indicare «ciò che non è»; (iv) le «vie di ricerca per pensare» sono introdotte come vere e proprie premesse della complessiva esposizione della Dea: le sue 25 Nel suo epocale K. Reinhardt, Parmenides und die Geschichte der griechischen Philosophie, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1916. 26 Sulla questione molto chiara la ricostruzione di Leszl, op. cit., pp. 120-1. 380 parole («io dirò - e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata») suggeriscono il rilievo cruciale dell'alternativa per il kouros (e dunque anche per il discepolo, l’ascoltatore e il lettore); (v) difficile quindi ipotizzare che Parmenide attribuisca alla Dea la responsabilità di sostenere come possibile via di indagine («per pensare»!) la tesi contradditoria: οὐκ ἔστιν ἐόν - «via dell'errore», come vorrebbe Cordero27: è vero, piuttosto, che alla seconda via si alluderà (B8.17-8) come οὐ ἀληθής ὁδός («via non genuina»), percorso di indagine che non può concretizzarsi in conoscenza; (vi) dalle due vie, invece, potranno essere estratte due verità basilari per le successive argomentazioni: l'essere è necessariamente, il non-essere non esiste. Mentre si potrà procedere ulteriormente a determinare la prima via (seguendo i σήματα di B8), nulla potrà dirsi di più della seconda, evocata solo per marcare la necessità della direzione d'indagine alternativa. Come segnala la Germani 28 (e, in una prospettiva diversa, Cordero29 ), potrebbe in questo senso non essere casuale l'eco parmenidea della formulazione aristotelica del principio del terzo escluso: τὸ μὲν γὰρ λέγειν τὸ ὂν μὴ εἶναι ἢ τὸ μὴ ὂν εἶναι ψεῦδος, τὸ δὲ τὸ ὂν εἶναι καὶ τὸ μὴ ὂν μὴ εἶναι ἀληθές dire che l'essere non è o che il non essere è è infatti falso; [dire] che l'essere è e il non essere non è è invece vero (Metafisica IV, 7 1011 b26-27). B6.1-2 costituirebbe, quindi, lo sviluppo della conclusione di B2: la Dea, rievocando (implicitamente) l'alternativa tra le vie, afferma la necessità di riconoscere che «ciò che è è» (ἐὸν ἔμμεναι), attraverso il rilievo della possibilità di «essere» (ἔστι 27 By Being, It Is…, cit., p. 73. 28 Op. cit., p. 193. 29 By Being, It Is…, cit., p. 105 nota. 381 εἶναι), e dell’inesistenza del nulla (μηδὲν οὐκ ἔστιν) 30. In B8.15-18 il passaggio sarà richiamato: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale. Il testo è significativo, secondo noi, perché scandisce efficacemente le sequenze del procedimento parmenideo: (a) introduzione (logica: le vie sono per pensare) della disgiunzione «è\non è»; (b) esclusione della via «che non è» in quanto ἀνόητον e ἀνώνυμον (che richiamano le connotazioni di B2.7-8); (c) riconoscimento dell’unica via praticabile per la ricerca: essa esiste è vera\reale (ἐτήτυμον), mentre l’altra non lo è (non è «genuina», ἀληθής), non può costituirsi, per sua natura, come effettivo percorso di ricerca. Liquidata la via ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι in quanto percorso di ricerca impraticabile («il nulla non è»), prima ancora di dedicarsi al sondaggio dell’unica via genuina (ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), la Dea si sofferma sull’erronea «invenzione» dei «mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν), effetto del colpevole misconoscimento delle implicazioni nell’alternativa ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Ancorché prospettata come ὁδὸς διζήσιος, la strada imboccata dai βροτοὶ εἰδότες οὐδέν è chiara- 30 L’argomento sarebbe quindi: (i) ἔστι εἶναι, (ii) μηδὲν οὐκ ἔστιν ® ἐὸν ἔμμεναι. 382 mente caratterizzata, nelle scelte espressive dell’autore, come illusione31 . L’impotenza dei mortali Il registro linguistico all’interno dei frammenti del poema muta sensibilmente, per assumere i toni della risentita disapprovazione: αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται >, δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον e poi da quella che appunto mortali che nulla sanno , uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti guida la mente errante (B6.4-6). Questi versi assumono una grande importanza soprattutto per lo sfondo culturale che sembrano evocare: Gigon, Verdenius, Pasquinelli, Fränkel sottolineano come la terminologia parmenidea, ricavata da formule consolidate dell’epica e della lirica greca arcaica, veicoli un senso tragico dell’esistenza. Non a caso Jaeger32 richiama i versi del Prometeo eschileo (probabilmente di pochi decenni posteriore al poema Sulla natura): λέξω δὲ μέμψιν οὔτιν’ ἀνθρώποις ἔχων, ἀλλ’ ὧν δέδωκ’ εὔνοιαν ἐξηγούμενος· οἳ πρῶτα μὲν βλέποντες ἔβλεπον μάτην, κλύοντες οὐκ ἤκουον, ἀλλ’ ὀνειράτων ἀλίγκιοι μορφαῖσι τὸν μακρὸν βίον ἔφυρον εἰκῆι πάντα 31 Soprattutto se intendiamo il verbo retto da βροτοί come forma di πλάσσομαι, «mi invento» e non di πλάζω «vado errando», come interpreta Diels, seguito da molti altri. 32 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, cit., p. 155. L’autore osserva: «par di sentire l’eco di un’esortazione religiosa». 383 Parlerò senza disprezzo per gli uomini, narrando solo del favore dei miei doni. Dapprima essi, pur avendo occhi, in vano osservavano; avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni simili alle forme, la lunga vita impastavano tutta senza disegno (Eschilo, Prometeo incatenato 445-50). Non vi è dubbio che Parmenide, nei versi di B6, sia impegnato a stigmatizzare una condizione mortale, facendo riecheggiare spunti della tradizione letteraria che si possono ancora riscontare nella produzione filosofica del V secolo in Eraclito ed Empedocle. La ἀμηχανίη segna la costituzione dei βροτοί (ricordiamo che è una divinità a parlare, ribadendo un consolidato stereotipo già impiegato dal poeta nel proemio): l’«impotenza» si traduce in una sorta di paralisi della comprensione, in una confusa percezione della realtà e in un vano orientamento. Proprio come denunciato da Prometeo. Ma, rispetto al luogo comune fissato nel mito, Parmenide pone l’accento sull'incapacità di discriminare tra le due vie, e dunque su un intreccio perverso di essere e non-essere: l’obiettivo polemico appare dunque una falsa interpretazione del mondo reale, dell’esperienza, di cui si sottolineerà l’inconsapevole consolidamento nel linguaggio del sentire comune, in una vera e propria “seconda natura” (ἔθος di B7.3)33 . La Dea riferisce ai «mortali»una prima serie di caratteristiche negative. Li qualifica come εἰδότες οὐδέν, «che nulla sanno», una formula frequentemente impiegata nell’epica e nella lirica per indicare la limitatezza dell’orizzonte umano34 (concentrato sul presente, immemore del passato e ignorante del futuro)35 . Li connota come δίκρανοι, «uomini a due teste», coniando un termine ad hoc per alludere allo specifico deficit di comprensione: la mancata discriminazione tra le due vie comporta che quei mortali guardino contemporaneamente in due direzioni. Attribuisce loro la “finzio- 33 Su questo Ruggiu, op. cit., p. 257. 34 Ivi, p. 259. 35 A questa situazione mortale era stata contrapposta la conoscenza rivendicata in B1.3 (εἰδώς φώς). 384 ne” (πλάσσονται, «si inventano») di una via: invenzione evidentemente frutto della confusione delle «uniche vie di ricerca per pensare». Denuncia la loro ἀμηχανίη, la debolezza per cui la loro mente (νόος) cede all’attrazione del non-essere - alla vertigine del nulla, come si esprime Conche36. In tal modo ella collega a un impulso irrazionale la chiave dell’erranza dei mortali: ἐν αὐτῶν στήθεσιν, «nei loro petti», potrebbe riferirsi a una localizzazione dello θυμός che consenta di differenziarne la funzione rispetto al νόος. Queste determinazioni negative sono ulteriormente accentuate con espressioni che sottolineano la fenomenologia del disorientamento: οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere scriteriate (B6.6-7). I «mortali», dunque, non sono in controllo di sé; il loro atteggiamento ne svela la radicale incomprensione, che si manifesta a tre livelli: (i) nella perdita di contatto con la realtà: gli organi di senso deputati (la vista e l’udito) producono – nel loro caso dei «mortali» – isolamento, distorsione; (ii) nella conseguente tonalità emotiva della sorpresa37, da intendere nel contesto non come positiva apertura alla comprensione, bensì come sintomo della condizione contraria: profonda confusione; (c) nella mancanza di giudizio38, di discernimento (κρίσις, κρινεῖν), con cui spregiativamente la Dea connota le «schiere» (φῦλα) dei βροτοί, cioè la loro massa, il loro insieme indistinto, come confusa è la loro percezione della realtà. 36 Op. cit., p. 108. 37 Con formula omerica (τεθηπότες): in Omero (Odissea XXIII, 105) lo sgomento era attribuito allo θυμός e localizzato «nel petto» (ἐνι στήθεσσι). 38 Si tratta, a nostro avviso, dell’indicazione più importante nell’insieme del frammento. 385 Le due sequenze su cui ci siamo concentrati sono interessanti perché mostrano lo sforzo di Parmenide, per bocca della divinità, di ridefinire lo stereotipo tradizionale della fragilità mortale: così nel poeta-sapiente non troviamo alcuna condanna dell’uomo in quanto tale, semmai, sin dal proemio, il tentativo di individuare la norma razionale che vincoli umano e divino (Untersteiner). In questo senso la posizione di Parmenide appare vicina a quella del contemporaneo Eraclito: τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι, πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται Di questo logos che è sempre gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di udirlo, sia subito dopo averlo udito; sebbene tutto infatti accada secondo questo logos, si mostrano privi di esperienza, mentre si misurano con parole e azioni quali quelle che io presento, analizzando ogni cosa secondo natura e mostrando come è. Ma agli altri uomini rimane celato [sfugge] quello che fanno da svegli [dopo essersi destati], così come sono dimentichi di quello che fanno dormendo (Sesto Empirico; DK 22 B1) ὧι μάλιστα διηνεκῶς ὁμιλοῦσι λόγωι τῶι τὰ ὅλα διοικοῦντι, τούτωι διαφέρονται, καὶ οἷς καθ’ ἡμέραν ἐγκυροῦσι, ταῦτα αὐτοῖς ξένα φαίνεται proprio dal logos con cui hanno sempre costantemente rapporto, essi discordano, e quelle cose in cui si imbattono quotidianamente appaiono loro estranee (Marco Aurelio; DK 22 B72) ἀξύνετοι ἀκούσαντες κωφοῖσιν ἐοίκασι·φάτις αὐτοῖσιν μαρτυρεῖ παρεόντας ἀπεῖναι 386 ascoltando senza comprensione assomigliano a sordi; di loro è testimone il detto: pur presenti sono assenti (Clemente Alessandrino; DK 22 B34) ὁ Ἡ. φησι τ ο ῖ ς ἐ γ ρ η γ ο ρ ό σ ι ν ἕ ν α κ α ὶ κ ο ι ν ὸ ν κ ό σ μ ο ν ε ἶ ν α ι , τῶν δὲ κοιμωμένων ἕκαστον εἰς ἴ δ ι ο ν ἀποστρέφεσθαι E. dice che per coloro che sono desti il mondo è unico e comune, invece ciascuno di coloro che dormono ritorna a un proprio mondo privato (Plutarco; DK 22 B89) ξὺν νόωι λέγοντας ἰσχυρίζεσθαι χρὴ τῶι ξυνῶι πάντων, ὅκωσπερ νόμωι πόλις, καὶ πολὺ ἰσχυροτέρως. τρέφονται γὰρ πάντες οἱ ἀνθρώπειοι νόμοι ὑπὸ ἑνὸς τοῦ θείου· κρατεῖ γὰρ τοσοῦτον ὁκόσον ἐθέλει καὶ ἐξαρκεῖ πᾶσι καὶ περιγίνεται Coloro che vogliono parlare con intendimento devono fondarsi su ciò che a tutti è comune, come la città sulla legge, e ancora più fermamente. Tutte le leggi umane, infatti, si alimentano dell’unica legge divina: poiché quella domina quanto vuole, basta per tutte le cose e avanza (Stobeo; DK 22 B114). Senza voler entrare nel dettaglio dell’interpretazione del pensiero di Eraclito, è sufficiente osservare come nelle citazioni sia marcato l’isolamento del sapiente rispetto alle opinioni condivise dai più: il suo discorso consapevole (λόγος) che annuncia come «tutto» accada secondo il logos (che manifesta dunque la struttura stabile del mutamento) è contrapposto all’incomprensione (mancanza di intelligenza della realtà) degli «altri» (uomini). Le espressioni impiegate denunciano chiaramente una condizione di inversione: pur essendo il logos alla base della realtà (in Eraclito abbiamo una delle prime attestazioni di κόσμος come ordine del mondo) che li circonda, gli «uomini» (ἄνθρωποι) ne ignorano la normatività; essi vivono così non da «desti» (ἐγρήγοροι) in una condizione di torpore, stordimento: una sorta di sonnambulismo. L’adesione al logos è adesione a «ciò che è comune» (τὸ ξυνόν) e quindi sensato, oggettivo, diversamente dall’ottusità della incon- 387 sapevole esperienza quotidiana, che convince falsamente di un mondo frammentario, discontinuo, caotico (il tema dell’estraneità). L’«io» della Dea di Parmenide e l’«io» personale di Eraclito sono – come correttamente segnalato da Conche39 - dalla stessa parte, in quanto «cooperatori del vero»; dall’altra ci sono coloro che non giudicano con la ragione: il segreto dell’erranza dei «mortali» è nel loro stesso pensiero40. A noi pare che lo studioso francese abbia colto nel segno sottolineando come l’espressione ἄκριτα φῦλα evochi l’«uomo collettivo», incapace di assumere la decisione (κρίσις) riguardo alle due vie: in questo senso, analogamente a quanto registriamo nei frammenti dell’Efesio, giudicare con intelligenza è possibile solo all’individuo che si distacchi intellettualmente dalle credenze collettive41 . Una via “inventata” Per riassumere e concludere sulle vie di B6, ribadiamo la convinzione che Parmenide reiteri, in apertura del frammento, l’alternativa di B2, introducendo poi, in relazione a essa, il tema specifico dell’errore di fondo dei «mortali». Il passaggio alla confusa combinazione delle vie è accompagnato nel testo dal recupero del motivo tradizionale dell’impotenza umana (tanto più significativamente in quanto affidato alle parole di una divinità), che viene tuttavia “curvato” per corrispondere alle peculiari esigenze polemiche dell’autore. Il linguaggio parmenideo sembra insistere soprattutto sulla natura illusoria di una ὁδὸς διζήσιος («via di ricerca»), scaturita in realtà dalla presunzione e debolezza cognitiva dei «mortali». In questo senso esso non avalla alcuna “terza via”, non le riconosce alcuna consistenza, nemmeno sul piano strettamente logico: mentre la via che pensa «che non è e che è necessario non essere» si presentava come uno dei corni della alternativa 39 Non a caso editore sia dei frammenti parmenidei, sia di quelli eraclitei! 40 Conche, op. cit., p. 107. 41 Ivi, p. 108. 388 fondamentale e, pur impercorribile, poteva almeno essere prospettata correttamente, questa presunta “terza via” è stigmatizzata come “invenzione” di «coloro che nulla sanno», dunque come logicamente insostenibile. Le due vie di B2 possono essere ritradotte in forma tautologica in apertura di B6: ἐὸν ἔμμεναι e μηδὲν οὐκ ἔστιν; anche per la seconda via, dunque, a dispetto della sua negatività, è possibile, dunque, estrarre un soggetto, ancorché puramente formale (μηδέν, ovvero τό γε μὴ ἐὸν). Dei βροτοὶ εἰδότες οὐδέν - che nel loro scorretto argomentare e confuso parlare “si fingono” un commercio delle due vie alternative - si rileva invece: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa (B6.8-9). È opportuno ricordare che Simplicio cita B6.1b-3 (dopo B2), tralasciando l’esordio del nostro frammento e concentrandosi sulla disgiunzione essere-non essere: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα Sostiene che le proposizioni contraddittorie non siano a un tempo vere [letteralmente: la contraddizione non sia vera] in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti (In Aristotelis Physicam 117, 2). Precisa inoltre: μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι Dopo aver biasimato coloro che congiungono l’essere e il non-essere nell’intelligibile (Simplicio, Phys. 78, 2; DK 28 B6). 389 Pur non concordando con l’analisi specifica di Leszl (vicina a quella di Cordero), mi sembra inoppugnabile la sua osservazione: Simplicio intende rilevare la contraddizione in cui cadono i mortali combinando termini incompatibili (essere e non-essere). Dei «mortali che nulla sanno» la Dea parmenidea denuncia essenzialmente l’incapacità di discriminare πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι («essere e non essere»), ταὐτὸν κοὐ ταὐτόν («la stessa cosa e non la stessa cosa»), che finiscono per essere contraddittoriamente riferiti a ἐόν. Nella loro finzione, secondo la Dea, essi indifferentemente assumono e combinano termini in realtà contraddittori, senza rendersi evidentemente conto della loro incompatibilità: proprio nella contestazione di tale ingiustificata, infondata assunzione, in questo come nei due successivi frammenti, si appalesa l’accanimento verbale di Parmenide. L’obiettivo della polemica Ma chi sono i «mortali» cui si rivolge l’attacco parmenideo? È possibile individuare un obiettivo specifico, ovvero dobbiamo pensare a una generica presa di posizione? Parmenide si limita a marcare la strutturale, originaria impotenza umana (come vuole Reinhardt), magari per legittimare la funzione rivelatrice della divinità (come vuole Mansfeld), oppure dobbiamo intravedere nei versi di B6 (come nei successivi di B7) la condanna di un errore determinato? Più precisamente: le assonanze espressive giustificano il coinvolgimento di Eraclito (e di suoi non meglio precisati seguaci) come oggetto delle critiche (come credono in molti), o dobbiamo piuttosto supporre che Parmenide prenda posizione in generale rispetto allo sfondo complessivo (e grandioso) della sapienza milesia (come sostengono, tra gli altri e in modo diverso, Untersteiner e Gadamer)? In un certo senso, citando a conferma della nostra lettura i frammenti eraclitei, abbiamo indirettamente già preso posizione, almeno rispetto ad alcune posizione consolidate del dibattito interpretativo. 390 Quella che mortali che nulla sanno s’inventano Se da un lato è corretta l’osservazione di Coxon, per cui in B6.4 il complemento pronominale (ἀπὸ τῆς) si riferisce alla ὁδὸς διζήσιος del verso precedente, e dunque a “ricercatori”, è dall’altro possibile che Parmenide abbia colto l’occasione per polemizzare nei confronti di coloro (il greco indica genericamente βροτοί, «mortali») che propongono un punto di vista ordinario, teoreticamente ingenuo, in una veste ispirata o sapienziale. Nel linguaggio della Dea sarebbero allora apostrofati («nulla sanno», εἰδότες οὐδέν) presunti sapienti che esprimono, in verità, solo opinioni volgari. L’errore ascritto – la mancata discriminazione delle due vie di B2 - potrebbe genericamente riferirsi all’incapacità di offrire una coerente (con le «uniche vie di ricerca per pensare») spiegazione dei processi naturali, preoccupazione esplicitata in B8.38-41 e soprattutto nella seconda sezione del poema. Ricordiamo che anche Eraclito ha modo di sviluppare, nei frammenti pervenutici, una polemica analoga: la sua nuova nozione di saggezza da un lato lo spinge a rifiutare i modelli della tradizione, discutendone lo spessore (il caso di Omero) o la competenza (Esiodo), dall’altro a contestare l’enciclopedismo dei contemporanei: τόν τε Ὅμηρον ἔφασκεν ἄξιον ἐκ τῶν ἀγώνων ἐκβάλλεσθαι καὶ ῥαπίζεσθαι καὶ Ἀρχίλοχον ὁμοίως Sosteneva che Omero fosse degno di essere cacciato dagli agoni e frustato e analogamente Archiloco (Diogene Laerzio; DK 22 B42) διδάσκαλος δὲ πλείστων Ἡσίοδος· τοῦτον ἐπίστανται πλεῖστα εἰδέναι, ὅστις ἡμέρην καὶ εὐφρόνην οὐκ ἐγίνωσκεν· ἔστι γὰρ ἕν Maestro dei più è Esiodo – costui credono sapesse una gran quantità di cose, lui che non aveva conoscenza di giorno e notte: sono infatti la stessa cosa (Ippolito; DK 22 B57) 391 πολυμαθίη νόον ἔχειν οὐ διδάσκει· Ἡσίοδον γὰρ ἂν ἐδίδαξε καὶ Πυθαγόρην αὖτίς τε Ξενοφάνεά τε καὶ Ἑκαταῖον l'apprendimento di molte cose non insegna la sapienza, altrimenti l'avrebbe insegnata a Esiodo e Pitagora e ancora a Senofane e Ecateo (Diogene Laerzio; DK 22 B40) Πυθαγόρης Μνησάρχου ἱστορίην ἤσκησεν ἀνθρώπων μάλιστα πάντων καὶ ἐκλεξάμενος ταύτας τὰς συγγραφὰς ἐποιήσατο ἑαυτοῦ σοφίην, πολυμαθίην, κακοτεχνίην. Pitagora, figlio di Mnesarco, esercitò la ricerca più di tutti gli uomini e raccogliendo questi scritti ne produsse la propria sapienza, il saper molte cose, cattiva arte (Diogene Laerzio; DK 22 B129). L’obiettivo, nel caso di Parmenide, potrebbe dunque essere generale, e coinvolgere le alternative al modello di sapienza filosofica che proprio la Dea interveniva a delineare, sollecitando il kouros a meditare le sue parole e a giudicare con intelligenza. Sul terreno filosofico è difficile pensare che le posizioni della tradizione milesia potessero meritare un'attenzione così critica e sprezzante. Il quadro offerto da Parmenide appare per molti versi analogo a quello delineato a Mileto, con la fondamentale differenza che, nel suo caso, non si punta a riscattare l’instabilità del divenire nella permanenza della φύσις-ἀρχή: nel complesso dei frammenti si può cogliere, semmai, la denuncia della debolezza degli schemi interpretativi ionici, come abbiamo già registrato nel commento a B4. Una polemica, aspra nei toni, come quella di B6 e B7 apparirebbe comunque eccessiva se rivolta effettivamente verso la cultura scientifica di Mileto (sempre ammettendo la praticabilità, all’epoca, di confronti del genere). L’impressione è che essa si rivolga piuttosto a una volgare contraffazione del sapere: Conche ha probabilmente ragione a cogliervi un riferimento alla massa di non filosofi, sordi e ciechi quando si tratta di intendere la parola della Dea, la parola della Verità. Anche in questo caso, potrebbe valere l’analogia con Eraclito. 392 Uomini a due teste All’inizio del secolo scorso Döring42 propose di leggere i versi B6.4-9 come polemica antipitagorica: una prospettiva rilanciata dall’adesione di una quota minoritaria degli specialisti (tra i più autorevoli certamente Raven43). Tra gli assunti di Döring44, soprattutto la convinzione che i primi pitagorici asserissero l’esistenza del vuoto, considerato identico al non-essere: posizione che Parmenide avrebbe riaffermato nella sua «terza via», combinando essere e non-essere. Si tratta, evidentemente, di tesi discutibili, che speculano su una materia molto controversa, non solo per le carenze documentarie, ma anche per la complessità di quel movimento culturale, con la sua tendenza a retroiettare verso l’origine conquiste teoriche maturate nel tempo. È vero, d’altra parte, che proprio queste difficoltà non consentono di escludere che Parmenide, sulle cui relazioni con ambienti pitagorici si è molto insistito, potesse attaccarne posizioni specifiche, immediatamente comprensibili nel contesto storico-culturale in cui erano avanzate, a un pubblico essenzialmente di uditori o discepoli. Raven, in particolare, ha ravvisato in B6.4-9 un riferimento al modello dualistico pitagorico45, in cui lo studioso riconosce un'impronta antica, pre-parmenidea. Esso troverebbe espressione nella tavola degli opposti attestata da Aristotele, riconducibile alla originaria opposizione di limite (πέρας) e illimite (ἄπειρον), cooperanti nella generazione di tutti gli enti46 . 42 A. Döring, Geschichte der griechischen Philosophie, vol. I, Leipzig 1903. Dello stesso autore “Das Weltsystem des Parmenides”, «Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik», 104, 1894, pp. 161-177. 43 J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics. An Account of the Interaction between the Two Opposed Schools during the Fifth and Early Fourth Centuries B.C., Cambridge University Press, Cambridge 1948. 44 Si veda Tarán, p. 68. 45 Sebbene nella successiva opera con Kirk tale riferimento cada, a favore della possibilità del tradizionale coinvolgimento di Eraclito. 46 Aristotele, Metafisica, I, 5 986 a17-21: τοῦ δὲ ἀριθμοῦ στοιχεῖα τό τε ἄρτιον καὶ τὸ περιττόν, τούτων δὲ τὸ μὲν πεπερασμένον τὸ δὲ ἄπειρον, τὸ δ’ ἓν ἐξ 393 In questo senso, gli uomini «a due teste» (δίκρανοι) cui allude Parmenide potrebbero essere genericamente pitagorici oppure i pitagorici responsabili dell’elaborazione di quel modello dualistico: la testimonianza aristotelica, infatti, a dispetto dell’accenno a un contributo specifico dedicato all’argomento, rivela, (come nel ricorso all’espressione «i cosiddetti pitagorici», οἱ καλούμενοι Πυθαγόρειοι), incertezze di documentazione e difficoltà di determinazione, ricostruendo un percorso di ricerca (dallo studio matematico all'applicazione dei suoi principi a tutta la realtà) che potrebbe implicare un'evoluzione delle posizioni interne alla scuola. In ogni caso è per noi significativo il riferimento ad Alcmeone (contempoaneo di Parmenide) in relazione alla tavola delle due serie di contrari: ὅνπερ τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων ὁ Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ ἤτοι οὗτος παρ’ ἐκείνων ἢ ἐκεῖνοι παρὰ τούτου παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον· καὶ γὰρ [ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων [ἐπὶ γέροντι Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο [δὲ] παραπλησίως τούτοις· φησὶ γὰρ εἶναι δύο τὰ πολλὰ τῶν ἀνθρωπίνων, λέγων τὰς ἐναντιότητας οὐχ ὥσπερ οὗτοι διωρισμένας ἀλλὰ τὰς τυχούσας [...] In tal modo pare pensasse anche Alcmeone Crotoniate, sia che questi prendesse tale dottrina da quelli, sia quelli da questo; poiché, quanto a età, Alcmeone fiorì quando Pitagora era vecchio, e si espresse in modo molto simile a costoro. Sosteneva, infatti, che la maggior parte delle cose umane sono dualità, pur non determinando, come fanno questi, le opposizioni, ma proponendole a caso [...] (Metafisica I, 5 986a 27-34). ἀμφοτέρων εἶναι τούτων (καὶ γὰρ ἄρτιον εἶναι καὶ περιττόν), τὸν δ’ ἀριθμὸν ἐκ τοῦ ἑνός, ἀριθμοὺς δέ, καθάπερ εἴρηται, τὸν ὅλον οὐρανόν [Essi pongono] come elementi del numero il pari e il dispari; di questi, il primo è illimitato, l'altro limitato. L’Uno deriva da entrambi questi elementi (è, infatti, insieme, e pari e dispari). Dall’Uno, poi, deriva il numero; e i numeri, come s’è detto, costituirebbero l’intero universo. 394 Secondo la Timpanaro Cardini47, dalla testimonianza aristotelica si può concludere che, come alla fisica ionica andava probabilmente ricondotta l'originaria dualità pitagorica (ἄπειρον-πέρας), così alla cultura scientifica milesia dovevano risalire quelle opposizioni (riscontrate poi nella pratica medica) che Alcmeone contribuì a introdurre nell'ambiente pitagorico, dove avrebbero ricevuto una elaborazione sistematica. Insomma, non è da escludere, a livello teorico, che le allusioni critiche dei versi parmenidei possano investire temi e figure di una tradizione che doveva risultare riconoscibile nello humus locale: in un’epoca per la quale è difficile valutare l’incidenza della distanza degli ambienti culturali, non vi è dubbio che appaia plausibile una referenza pitagorica. Sul rapporto con la tradizione pitagorica avremo comunque modo di tornare nel commento a B8. Il percorso torna all'indietro Sin dall’Ottocento (Bernays) è maturata tra un numero consistente di accreditati interpreti (Diels, Kranz, Mondolfo, Guthrie, Tarán, Couloubaritsis, Giannantoni, Cerri, Graham, tra gli altri) la convinzione che il vero obiettivo della polemica di B6.4-9 sia Eraclito (o, in alternativa, suoi presunti seguaci). Si va dalla supposizione motivata da considerazioni di contenuto (Guthrie48), alla lettura sostenuta dall'attenzione per la forma logica dei frammenti (Tarán e Couloubaritsis), alle conclusioni giustificate da assonanze espressive (per esempio Cerri). Sono spesso impiegati, come possibili evidenze testuali, le seguenti citazioni eraclitee: οὐ ξυνιᾶσιν ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῶι ὁμολογέει· παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ τόξου καὶ λύρης 47 Pitagorici antichi, Testimonianze e frammenti, a cura di M. Timpanaro Cardini, Bompiani, Milano 2010 (edizione originale 1958-1964), pp. 134- 135. 48 Op. cit., p. 23. 395 non capiscono che ciò che è differente concorda con se medesimo: armonia di contrari, come l’armonia dell’arco e della lira (Ippolito; DK 22 B51) συνάψιες ὅλα καὶ οὐχ ὅλα, συμφερόμενον διαφερόμενον, συνᾶιδον διᾶιδον, καὶ ἐκ πάντων ἓν καὶ ἐξ ἑνὸς πάντα congiungimenti: intero e non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose (Pseudo-Aristotele [de mundo 5 396 b7]; DK 22 B10) ποταμοῖς τοῖς αὐτοῖς ἐμβαίνομέν τε καὶ οὐκ ἐμβαίνομεν, εἶμέν τε καὶ οὐκ εἶμεν Negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non siamo (Eraclito; DK 22 B49a) ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι δὶς τῶι αὐτῶι non si può discendere due volte nel medesimo fiume (Plutarco; DK 22 B91a). Nel testo di Parmenide si valorizzano per il confronto gli ultimi due versi (per lo più tradotti diversamente49): οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro. 49 La resa italiana più frequente è la seguente: per i quali l’essere e il non essere sono considerati la stessa cosa e non la stessa cosa: di tutte le cose c’è un percorso che torna indietro. 396 Secondo Tarán, la sottolineatura parmenidea riferirebbe a Eraclito (DK 22 B10) l’identità dei contrari come identità-nelladifferenza, secondo un modello del “sì e no”50, che l’Eleate ricondurrebbe all'opposizione fondamentale essere-non essere (per cui appunto «l’essere e il non essere sono considerati la stessa cosa e non la stessa cosa»). In questo senso, secondo Couloubaritsis, l’attacco di Parmenide sarebbe rivolto a una impostazione (quella eraclitea) ancora prossima alla logica ambivalente del mito, in cui la complementarità degli opposti suppone un legame indissociabile. Eppure lo studioso belga, nella modalità eraclitea di pensare gli opposti, riconosce già una presa di distanze da quella ambivalenza, soprattutto per l’introduzione di un’opposizione più inglobante, comune a tutti, quella appunto di essere e non-essere (DK 22 B49a, B91)51. Proprio la rottura radicale di quella logica caratterizzerebbe la κρίσις della Dea parmenidea, discriminante dunque allo stesso tempo anche rispetto alla posizione di Eraclito52 . Ancora di recente, Graham53 ha proposto di leggere l’ontologia parmenidea come reazione prodotta dall’impatto dell’opera di Eraclito, la cui provocazione sarebbe consistita nella esasperazione della polarità presente nel modello ionico, con l’abbandono dell’idea di primato di una «sostanza generatrice» a vantaggio di quella di processo universale, regolato da una legge di scambio di masse elementari (fuoco, terra, acqua). A questi elementi di contenuto o struttura, si aggiunge poi il riscontro di un’eco espressiva eraclitea, quasi Parmenide intendesse colpire un avversario evocandone le parole. Sebbene Tarán, a proposito del conclusivo πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος, metta in guardia dalla tentazione di leggervi un puntuale riferimento alle parole di Eraclito (DK 22 B51)54, altri hanno molto insistito su questo punto: tra i contemporanei, per esempio, Cerri 50 Tarán, op. cit., p. 71. 51 Couloubaritsis, op. cit., p. 199. 52 Ivi, p. 200. 53 Per esempio, sia in Explaining the Cosmos, sia in The Texts of Early Greek Philosophy. 54 Semmai vi si dovrebbe ravvisare la caratterizzazione delle vedute degli assertori dell’identità dei contrari (p. 72). 397 trova conferma in B6.9 di una vera e propria «tecnica della citazione», già emersa nel proemio con la evocazione del mito di Fetonte e delle Eliadi55 . Come Tarán e Couloubaritsis, anche lo studioso italiano marca vicinanza e distanza specifica della posizione di Parmenide rispetto a Eraclito, il quale, pur avendo anticipato la teoria dell'identità nella (apparente) differenza, manifestò nei suoi enunciati paradossali viva consapevolezza della problematicità di tale verità, delle oggettive contraddizioni insite nella realtà naturale e umana 56 . Così non vi è dubbio, secondo Cerri, che siano proprio le formule scelte da Eraclito, del tipo «è e non è», a essere imputate da Parmenide: il filosofo di Efeso avrebbe infatti praticato quella (presunta) “terza via” denunciata dall’Eleate57 . Lo studioso italiano, inoltre, sottolinea come le scelte lessicali di Simplicio, nel citare B6, mostrino come egli avesse inteso che la (presunta) “terza via” del frammento non si riferisse a un ingenuo atteggiamento ordinario della mente umana, ma alla tesi specifica di un indirizzo filosofico: il linguaggio impiegato dal commentatore, infatti, sarebbe quello con cui la tradizione peripatetica connotava inequivocabilmente la dottrina eraclitea58 . Questa osservazione, tuttavia, non comporta alcunché riguardo all'identificazione del referente dell’attacco di Parmenide: tra gli specialisti è noto, infatti, come le ricostruzioni platonica e aristotelica propongano un’anomalia di fondo, che si ritiene effetto dei peculiari canali nella ricezione delle opinioni dei pensatori arcaici. Le prime collezioni delle loro tesi, infatti, sarebbero da attribuirsi, nella seconda metà del V secolo a.C., ai sofisti Ippia59, che avrebbe approntato una selezione per temi, e Gorgia, che invece avrebbe disposto il materiale per contrapposizioni teoriche: è dunque molto probabile che la versione offerta da chi (Platone e 55 Cerri, op. cit., p. 208. 56 Ivi, p. 206. 57 Ibidem. 58 Ivi, p. 208. 59 J. Mansfeld, “Aristotle, Plato and the Preplatonic doxography and chronography”, in G. Cambiano (ed.), Storiografia e dossografia nella filosofia antica, Torino 1986, pp. 1-59. A. Patzer, Der Sophist Hippias als Philosophiehistoriker, Münich 1986. 398 Aristotele appunto) diede inizio alle prime forme di storiografia filosofica risentisse profondamente di quegli schemi riduttivi60 . Mansfeld61 ha marcato come ciò risulti particolarmente evidente proprio nel caso di Eraclito e di Parmenide: del primo sarebbero stati esasperati la dottrina del flusso universale e della diversità (a scapito delle affermazioni su unità e stabilità); del secondo il motivo dell’Uno e dell’immobilità62. In realtà, come abbiamo già avuto modo di rilevare in precedenza, è possibile leggere i frammenti di Eraclito in una prospettiva alternativa, tale da rendere problematici le facili schematizzazioni. L’Efesio, in effetti, proprio nelle citazioni sopra riportate, potrebbe essere impegnato in un'operazione analoga a quella parmenidea: considerare i modelli cosmologici e cosmogonici della prima riflessione ionica e delle teogonie poetico-religiose per estrapolarne gli schemi ricorrenti, sviluppando così la prima indagine sistematica sulle forme della razionalità applicata alla ricerca. Concretamente questo si sarebbe tradotto nel rilievo di tre aspetti essenziali: i) l'universale pervasività del divenire; ii) la forma inerente al divenire; iii) la stabilità persistente nel divenire. Significativa anche l’altra convergenza già segnalata: Eraclito esplicitamente polemizza con alcune figure della tradizione - Omero, Esiodo, Archiloco - e intellettuali contemporanei - Pitagora, Senofane, Ecateo - dalla cui sapienza egli si proponeva, evidentemente, di prendere le distanze, per delinearne, consapevolmente, quasi marcandone la novità, una propria. Eraclito manifesta una verità – relativa alla costituzione del mondo fisico e umano - a cui, pur avendone potenzialmente accesso attraverso esperienza e riflessione, la maggioranza degli uomini - indicata spregiativamente con l’espressione «i molti» (οἱ πολλοὶ) - rimane estranea. In questo senso, analogamente al kouros privilegiato dalla rivelazione della Dea, egli avverte e marca il proprio isolamento, sottolineando lo scarto tra una visione che va 60 Sebbene sia plausibile che Platone e Aristotele (e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo) avessero accesso a un manoscritto dell’intero poema. 61 F. Mansfeld, “Sources”, in A.A. Long (ed.), The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, C.U.P., Cambrdige 199, pp. 22-44. 62 Ivi, p. 27. 399 al fondo delle cose afferrandone la natura e la semplice, superficiale erudizione (πολυμαθίη) o la percezione parziale e distorta che impronta le credenze degli uomini (δοξάσματα). La pluralità delle cose è da lui colta come unitaria connessione cosmica, all’interno di due limiti essenziali: i) il «logos che è sempre» (τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ); ii) la totalità degli enti che «sempre divengono secondo questo logos» (γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε). Eraclito sottolinea il valore di norma del λόγος rispetto a ogni accadere, con allusioni all’unità della legge civile (νόμος) - cui si riconduce la identità della polis - e alla unicità della legge divina (cui si riducono quelle umane), e ne afferma la funzione strutturante all’interno dei singoli enti. Così, con riferimento al λόγος, «tutto è uno» 63, sia nel senso che le cose sono tra loro unitariamente organizzate secondo il suo piano, sia nel senso che nella natura di ogni singola cosa si riflette il suo schema. Il λόγος è la legge che regola il prodursi e il divenire degli enti nel mondo, pur rimanendo natura nascosta allo sguardo superficiale. È in considerazione di questi elementi teorici (al di là dei problemi di cronologia relativa, di non facile risoluzione64) che la supposizione di una polemica specificamente antieraclitea appare esagerata, a meno di non insistere su un atteggiamento in realtà più complesso (come sembrano fare Graham, Cerri e Couloubaritsis). Cerri, per esempio, riconoscendo come a Eraclito sia da attribuire un ruolo decisivo (da «archegeta») nella ricostruzione della dottrina dell’«essere», giustifica l’attacco di Parmenide come effetto dell’irritazione di fronte a un’incongruenza (la combina- 63 DK 22 B50: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι non me ascoltando, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno. 64 Su questo tra gli altri Conche (p. 108) e Colli (p. 178). 400 zione di «è» e «non è»), che rischiava di vanificarne l’intuizione scientifica65 . In questo senso, però, le battute parmenidee sembrano destinate a stigmatizzare un errore ovvero un'incoerenza che il sapiente poteva cogliere non solo nelle espressioni della cultura tradizionale, ma anche nelle posizioni della stessa sapienza ionica. Ipotizzando per le opere degli autori presocratici – come ha fatto di recente Maria Laura Gemelli Marciano66 - un «contesto culturale e pragmatico» molto «concorrenziale», e concedendo quindi una circolazione sufficientemente ampia delle idee nel bacino del Mediterraneo, potremmo attribuire alla polemica parmenidea un riferimento generico e specifico a un tempo: (i) agli ignoranti colpevoli di fondamentali fraintendimenti dei propri dati sensoriali (da cui l’insistenza sull’ottundimento degli organi percettivi: cecità, sordità); (ii) ai poeti responsabili della divulgazione di quel volgare stravolgimento della realtà; (iii) ai pensatori ionici, che non avevano evitato un’ambiguità di fondo, riconoscendo la forza del principio a un elemento a scapito degli altri, concentrando l’essere in un’area della realtà, piuttosto che in un’altra; (iv) al limite allo stesso Eraclito, essenzialmente per le sue provocatorie enunciazioni di un logos che, per altri versi, Parmenide avrebbe dovuto apprezzare: formule in cui, pericolosamente dal punto di vista eleatico, essere e non-essere si trovavano accostati. Al centro dell’attacco dell’Eleate – come confermerà B7 – sono gli “uomini della contraddizione”, coloro che implicano – consapevolmente o meno67 – l’assurdo: «che siano cose che non sono»; in altre parole coloro («schiere senza giudizio») che, affidandosi acriticamente al dato empirico, condizionati dai meccanismi irriflessi dell’abitudine, avanzano una inaccettabile terza via. 65 Cerri, op. cit., p. 209. 66 M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, pp. 83-114. 67 In questo senso la lettura di Gallop (pp. 11-12), che attribuisce alle convinzioni dei mortali riguardo a pluralità e divenire l’«assurda implicazione» che «essere e non-essere sono la stessa cosa e non la stessa cosa». 401 Come osserva Coxon68, la formulazione τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν è da leggere in opposizione alla tesi di B6.1a: χρὴ τὸ λέγειν τε νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι: il verbo νομίζω, con la sua soggettività, è contrastato dai positivi (e oggettivi) λέγειν e νοεῖν. Conche giustamente può marcare come l’espressione «mortali che nulla sanno» si riferisca alla massa di non filosofi, che Parmenide trova sordi e ciechi quando tenta di far intendere la parola della Dea, la parola della Verità69. Né va dimenticato un rilievo di Jaeger: νενόμισται evocherebbe non l’opinione di un uomo o di qualche individuo, ma la communis opinio, «la perversione del nomos dominante (cioè della tradizione)»70 . A questa ignoranza, tuttavia, è possibile fossero associate nella condanna anche quelle espressioni scientifico-filosofiche in cui il discrimine tra «le uniche vie di ricerca per pensare» appariva debole o confuso: un fronte potenzialmente ampio, dai Milesi a Eraclito, passando per i pitagorici, la cui reale presenza polemica è comunque solo ipotetica. 68 Op. cit., p. 185. 69 Op. cit., p. 109. 70 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, cit., p. 170, nota 36. 402 ESPERIENZA, ABITUDINE, GIUDIZIO [B7] Il frammento, ricostruito nel corso delle successive edizioni Diels e Diels-Kranz, è un collage di diverse citazioni: (i) Platone (Sofista 237 a 8-9) e Simplicio (In Aristotelis Physicam 143, 31–144, 1) riportano il secondo emistichio del primo verso e l’intero secondo verso; (ii) Aristotele (Metafisica XIV, 2 1089 a) riproduce l’intero primo verso; (iii) Sesto Empirico (Adversus Mathematicos VII, 111) trascrive i versi 2-6, citandoli di seguito a B1.28-32 e completandoli con B8.1b-2a; (iv) Diogene Laerzio (IX, 22) ci conserva i versi 3-5. Le sovrapposizioni sembrano quindi assicurare la plausibilità dell’attuale ricostruzione e la ragionevole unitarietà del frammento1 , nonché la sua probabile saldatura con B8, in considerazione del fatto che il secondo emistichio dell’ultimo verso di B7 citato da Sesto corrisponde al primo verso della citazione dell’attacco di B8 in Simplicio. Anche da un punto di vista argomentativo appare piuttosto stretto il nesso tra B6, B7 e B82 e la loro dipendenza logica da B2 e B3. Coxon3 ritiene possibile che B7 seguisse B4, a causa dell’uso iniziale del plurale μὴ ἐόντα che richiamerebbe ἀπεόντα-παρεόντα (B4.1). Mansfeld4 - che propone la sequenza di tre blocchi logici (B2-B3, B6-B7, B8) – riconosce la possibilità che B5 si collochi tra il primo e secondo blocco. Rispetto all'attuale ricomposizione del frammento, rimane aperto il problema della (parziale) citazione sestiana in continuità con il proemio (e per questo accolta originariamente da Diels nel primo frammento del poema5 ), cui possiamo aggiungere anche quello linguistico e metrico, ipotizzando l'ulteriore continuità di 1 Tarán, op. cit., p. 76. 2 Mansfeld, op. cit., pp. 91-2. 3 Op. cit., p 189. 4 Op. cit., p. 92. 5 Di recente Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 49 ss.), che è sostanzialmente tornato a riproporre l'originale versione dielsiana. 403 B7.6[a] con B8.1[b]6 . Attribuire l'origine delle difficoltà a una libera citazione antologica da parte di Sesto, ovvero a una sua citazione da antologia poco affidabile7 , non appare del tutto convincente, soprattutto alla luce del fatto che da Sesto abbiamo l'unica citazione dell'intero proemio, con tracce della redazione psilotica originaria (quindi di una tradizione alternativa a quella attica): è possibile, dunque, che «egli disponesse di una buona copia del proemio, derivata verosimilmente da un esemplare di tutto il poema»8 . Nel caso della sua citazione sarebbe semmai da valutare l'intenzione teoretica di fondo: mentre Simplicio esplicitamente si impegnava a documentare passi di un'opera ormai irreperibile, Sesto potrebbe aver consapevolmente "montato" parti del poema originariamente distinte, in funzione di un assunto generale: respingere la validità della sensazione come vero strumento di conoscenza9 . Nonostante perduranti perplessità, negli ultimi decenni la critica si è mostrata tuttavia propensa a riconoscere la fondatezza della ricostruzione di Diels-Kranz anche riguardo al presente frammento. Non è in discussione, in ogni caso, il suo ruolo critico, per noi condizionato dalla ricezione di B6 e dalla soluzione del problema delle “vie”. Una via che è impossibile addomesticare L’attacco del frammento, infatti, ci proietta ancora sulla krisis di B2, ribadita all’inizio di B6: 6 Nella citazione di Sesto, il verso iniziale di B8 costiuisce il secondo emistichio (b) di B7.6a (ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα). Ma la forma tràdita - μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο - è improbabile in epica, dove si troverebbe μοῦνος (in vece di μόνος); d'altra parte, rettificandola, l'intero verso non reggerebbe metricamente. 7 Per esempio Plamer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., p. 380. 8 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 31. 9 Ivi, p. 30. 404 οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα· Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero (B7.1-2). Il senso del primo verso coincide con la reiterazione della condanna della contraddizione, da cui la Dea mette in guardia il kouros, con scelte espressive (ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος, ma anche εἶργε νόημα, se accettiamo l’integrazione Diels per la lacuna di B6.2) che richiamano evidentemente il frammento precedente. Il nume sembra ancora impegnato a denunciare gli «uomini a due teste» (δίκρανοι), uomini della contraddizione appunto, formalizzandone in questo passaggio, nei termini delle «uniche vie di ricerca per pensare» (ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός […] νοῆσαι B2.2), l’assurdità. Un pensare “selvaggio” Due elementi spingono in questa direzione: (i) l’espressione introduttiva (oὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ) secondo cui è inammissibile che «cose che non sono» (μὴ ἐόντα) «sono [esitono]» (εἶναι); (ii) il sostantivo νόημα, che, come vedremo, può essere messo in relazione sia con la formula κρῖναι δὲ λόγῳ, («giudica invece con il ragionamento» ovvero valuta discorsivamente, attraverso l'argomentazione), sia, per contrasto, con ἔθος πολύπειρον, l’«abitudine» nata dalle «molte esperienze». Per quanto riguarda il primo aspetto, la traduzione che abbiamo adottato è sostanzialmente quella tradizionale, che Diels suggerì sulla scorta della lezione platonica e Tarán ha difeso per la sua sensatezza. Da O’Brien e Conche ne è stata proposta una versione più letterale (di cui si è data notizia in nota alla traduzione), che aiuta a comprendere il valore dell’affermazione εἶναι μὴ ἐόντα: «Jamais, en effet, cet énoncé ne sera dompté», «For never shall this [wild saying] be tamed» (O’Brien); «Car jamais ceci se- 405 ra mis sous le joug» (Conche). Ciò che la Dea vuol manifestare è l’insostenibilità, l’illegittimità della tesi che può ricavarsi dalla confusa posizione dei mortali «che nulla sanno». La contraddittoria commistione delle «due vie» (che si fondano sull’immediata evidenza «è» e sulla sua negazione), il mancato apprezzamento della loro disgiunzione, si traducono in una “selvaggia” (bestiale) contaminazione, che è impossibile “domare”, “aggiogare”, ricondurre a norma. Liddell-Scott-Jones propongono per damázw, in questo caso, proprio in relazione a questa attestazione parmenidea, lo specifico valore di «to be proved». La durezza della presa di posizione della Dea, che reitera le formule sprezzanti del frammento precedente, non si giustifica come semplice messa in guardia rispetto alla inconcludenza della “seconda via” (ὡς οὐκ ἔστιν), il cui statuto, ricordiamolo, era stato immediatamente definito in termini inequivocabili10: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.6-8). Ciò che viene stigmatizzato è piuttosto il fraintendimento corrente, consapevole o meno: il nume si riferisce a quelle posizioni che assumono esplicitamente o comunque implicano l’esistenza del non-essere. 10 Insiste su questo punto, in diversi passaggi del capitolo 5 (Parmenides’ Poem), la Wilkinson; in particolare pp. 77-8. 406 Cose che non sono Non è ovviamente sfuggito agli interpreti il fatto che in questi versi Parmenide utilizzi il plurale - εἶναι μὴ ἐόντα (una infinitiva, per altro, con soggetto senza articolo, così da lasciarlo indeterminato). Si è per lo più voluto cogliere in questa scelta un rilievo polemico nei confronti dell'esperienza sensibile11, di una “via” dei sensi che cerca di attribuire esistenza a cose che non esistono. Anzi, secondo Cordero12, la critica delle attestazioni sensibili salderebbe gli ultimi versi di B6 all’intero B7, in un complessivo attacco al πλακτὸς νόος dei mortali. Insomma, l’infinitiva iniziale (εἶναι μὴ ἐόντα), riassumendo B6.8-9, denuncerebbe l’esito di un modo di pensare – quello di «mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν) – condizionato, dalla fiducia nel dato sensibile e dalla guida di un intelletto instabile, a credere che esistano cose che non sono13 . Parmenide avrebbe impiegato il plurale (μή ἐόντα) e non il singolare (μή ἐόν) perché il pensiero "selvaggio" di chi si allontana dalla strada dell’essere è esercitato a partire dalle cose che si presentano nell’esperienza14. In questo passaggio il filosofo non intenderebbe, tuttavia, riferirsi al «non-essere», non sarebbe impegnato a rigettare la seconda via15, ma a rilevare la contraddizione indotta dal fraintendimento dell’esperienza16. L’insistenza su questo punto nei due frammenti che precedono (secondo le ipotesi di ricostruzione cui abbiamo introduttivamente accennato) la lunga analisi della “prima via” in B8.1-49, rivela come esso sia cruciale nella economia del discorso di Parmenide, soprattutto in funzione della seconda sezione del poema. 11 Tarán, op. cit., p. 77. 12 By Being, It Is, cit., p. 129. 13 Ivi, p. 130. 14 Ruggiu, op. cit., p. 263. 15 Come ritengono Cordero e Tarán. 16 Conche, op. cit., p. 117. 407 Una posizione diversa e più specifica in proposito è quella espressa da Coxon17, secondo cui il contesto di B7 sarebbe quello di una critica non genericamente condotta nei confronti dell'esperienza sensibile o del suo fraintendimento, ma delle teorie fisiche precedenti e contemporanee. Ciò sarebbe confermato da Simplicio (In Aristotelis Physicam 650, 11-2), che cita il verso 2 proiettandolo nella discussione aristotelica degli argomenti del V secolo a favore o contro l’esistenza dello spazio vuoto: καὶ τὸ κενὸν οὐκ ἔχει χώραν ἐν τῷ παντελῶς ὄντι, ὥσπερ οὐδὲ τὸ μὴ ὄν non può esservi il vuoto in ciò che è in senso pieno, così come non può esservi il non-essere. Nella sottolineatura parmenidea dell'inesistenza di «cose che non sono», avremmo allora una contestazione delle teorie ioniche (i processi di condensazione-rarefazione cui alluderebbe anche B4, i cui ἀπεόντα-παρεόντα sarebbero evocati appunto da μὴ ἐόντα), e probabilmente delle posizioni di alcuni pitagorici sul vuoto: logicamente B7.1-2 dipenderebbe da B2 e B4, in quanto a essere coinvolta nell’attacco sarebbe appunto la supposizione che esista il vuoto (equiparato al non-essere), condizione per discriminare l’Essere in ἐόντα. In pratica la Dea richiamerebbe il kouros (in questa prospettiva essenziale l’enfasi sul «tu» personale) dalla tentazione di seguire coloro che asseriscono l’esistenza del non-essere (vuoto)18. In effetti, come ci ricorda anche la Wilkinson19, il concetto di «non-essere» sarebbe associato nella riflessione arcaica al termine e alla nozione pitagorica di ἄπειρον (illimitato): come risulta dalla testimonianza aristotelica, i Pitagorici sostenevano che, dall'esterno «illimitato soffio» (ἐκ τοῦ ἀπείρου πνεύματος), il vuoto (τὸ κενόν) fosse penetrato nell'universo (οὐρανός) come «respiro» (πνεῦμα), costituendo lo spazio discriminante e distanziante le cose: 17 Op. cit., p. 189. 18 Ivi, pp. 190-191. 19 Op. cit., p. 101. 408 εἶναι δ’ ἔφασαν καὶ οἱ Πυθαγόρειοι κενόν, καὶ ἐπεισιέναι αὐτὸ τῷ οὐρανῷ ἐκ τοῦ ἀπείρου πνεύματος ὡς ἀναπνέοντι καὶ τὸ κενόν, ὃ διορίζει τὰς φύσεις, ὡς ὄντος τοῦ κενοῦ χωρισμοῦ τινὸς τῶν ἐφεξῆς καὶ [τῆς] διορίσεως· καὶ τοῦτ’ εἶναι πρῶτον ἐν τοῖς ἀριθμοῖς· τὸ γὰρ κενὸν διορίζειν τὴν φύσιν αὐτῶν Anche i Pitagorici affermavano che esistesse il vuoto e che esso dall'illimitato soffio penetrasse nell'universo come se questo respirasse, e che è il vuoto a delimitare le nature, quasi il vuoto fosse una sorta di separatore e divisore delle cose che sono in successione. Questo accade in primo luogo tra i numeri: il vuoto, infatti, distingue la loro natura (Aristotele, Fisica IV, 6 213 b22-27). Come abbiamo osservato commentando B6, l’ipotesi di un confronto con le tesi pitagoriche è suggestiva, anche per l’ambiente culturale cui si rivolgono i versi di Parmenide: le indicazioni di Coxon, in effetti, sono supportate dall’uso di aggettivi come ἔμπλεόν (B8.24) – riferito a ἐόν - ovvero πλέον (B9.3) per «pieno»: Οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. (B8.22-24). Αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, 409 e queste, secondo le rispettive proprietà, a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla. (B9). Nei due diversi contesti – la sezione sulla Verità per B8, e, quasi certamente, quella sulla Opinione, per B9 -, Parmenide associa a ἐόν e πᾶν omogeneità e pienezza, evidenziando, nel secondo caso, l’assenza del nulla. Ciò farebbe supporre implicito il rifiuto del «vuoto» (τὸ κενόν) e la sua identificazione con il nonessere (μηδέν, «nulla» appunto), che solo Melisso avrebbe esplicitamente sostenuto: οὐδὲ κενεόν ἐστιν οὐδέν· τὸ γὰρ κενεὸν οὐδέν ἐστιν· οὐκ ἂν οὖν εἴη τό γε μηδέν Né esiste alcunché di vuoto: il vuoto, infatti, è nulla; e ciò che è nulla non può esistere (DK 30 B7.7). Coxon20 nota come Aristotele – nella discussione sul vuoto commentata da Simplicio (In Aristotelis Physicam 650, 11), cui si riferisce la citazione di B7.2 – coinvolga sul tema, oltre a Leucippo e Democrito, solo i Pitagorici: essi avrebbero appunto attribuito al vuoto una funzione discriminante, all’origine della pluralità (in primo luogo dei numeri). La proposta di Coxon non è, tuttavia, del tutto convincente nello specifico, in quanto non è sufficiente a spiegare il ricorso a μὴ ἐόντα per indicare il vuoto. Forse giustificato per designare i supposti enti molteplici, effetto dell’assunzione del vuoto-nulla, l’uso del plurale – come conferma anche il lessico di Melisso - sembra improprio in riferimento a qualcosa che è in sé indiscriminabile e inconsistente. Appare dunque più probabile che l’apertura dell’attuale B7 riprenda la polemica aperta in B6 contro gli «uomini a due teste», formalizzandola in relazione alla krisis di B2: il γὰρ del primo verso sottolinea una continuità argomentativa che potrebbe trova- 20 Coxon, op. cit., pp. 189-190. 410 re, nella formula contraddittoria εἶναι μὴ ἐόντα, la possibilità di stigmatizzare con rigore l’assurdità implicita nelle assunzioni di βροτοὶ εἰδότες οὐδέν. Forse la lettura di Mansfeld 21 è incauta nell’assumere la validità dell’integrazione εἴργω di Diels per B6.3, ma la proposta complessiva è di grande interesse: i primi due versi di B7 riformulerebbero B6; εἶργε (B7.2) richiamerebbe εἴργω (B6.3), completandone il senso con un chiaro esempio di composizione ad anello. L’attacco ai «mortali che nulla sanno» sarebbe dunque compreso tra il primo richiamo alla disgiunzione fondamentale (B6.1-2: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν) e l’invito a «giudicare con il ragionamento» (κρῖναι δὲ λόγῳ): due modi per evocare la krisis di B2, prima e dopo la descrizione del mondo umano22 . Che siano cose che non sono La Dea mette in guardia il kouros: a dispetto dell’alternativa rappresentata dalle «uniche vie di ricerca per pensare» e dunque contro una coerente considerazione razionale della realtà, si tenta di far accettare l’esistenza di cose che non sono. In gioco è la presunta pluralità di “non-enti” (μὴ ἐόντα) in qualche modo associata, nei versi successivi a ἔθος πολύπειρον, «abitudine alle molte esperienze», un costume mentale scaturito dal commercio quotidiano con il mondo. B4.1-2 può essere su questo di aiuto alla comprensione: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano comunque per la mente saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere. 21 Op. cit., p. 91. 22 Ibidem. 411 Ciò che non è immediatamente percepito è comunque razionalmente raccolto nell’«essere» (τὸ ἐὸν), perché il νόος impedisce di considerare l’essere a “intermittenza”, quasi fosse alternato al non-essere. Sono i sensi ad attestare presenza e assenza immediate degli enti; è l’abitudine a tale oscillante attestazione empirica a tradire la corretta comprensione: una superficiale lettura dei dati empirici spinge a riscontravi la successione di essere (presenza) e non-essere (assenza). I sensi, in verità, non rilevano (né potrebbero) il non-essere, come giustamente ricorda Ruggiu23: essi attestano la presenza di qualcosa, quindi la sua assenza; mai, però, propriamente il nulla. Ciò che la Dea contesta è dunque una superficiale inferenza condotta dai mortali a partire dalla loro esperienza: in Parmenide, come in Eraclito, non è in discussione il valore dei sensi, ma quello dei giudizi dei mortali24 . Ma tu … Leggiamo ancora una volta l’attacco di B7: Οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero (B7.1-2). La Dea esorta il kouros a trattenere il pensiero (εἶργε νόημα) dall'incosciente illusione che esistano cose che non sono (εἶναι μὴ ἐόντα). Ritorna il riferimento alla «via di ricerca» (τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος), che richiama B6.4-5: […] ἀπὸ τῆς [ὁδοῦ διζήσιος], ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν 23 Op. cit., p. 266. 24 Conche, op. cit., p. 122. 412 < πλάσσονται >, δίκρανοι […] da quella [via di ricerca] che mortali che nulla sanno < s’inventano >, uomini a due teste […] Nel frammento precedente si era iniziato a costruire lo stereotipo degli sprovveduti mortali, impaniati nella contraddizione: il loro, in fondo, era solo un “preteso” percorso d’indagine, in realtà forgiato indebitamente (πλάσσονται, «s’inventano»). In B7, invece, si punta su due elementi: (a) la dura presa di posizione (οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ) rispetto alla pretesa che «siano cose che non sono»; (b) l’appello personale (ἀλλὰ σὺ) a trattanersi - evidentemente contrapposto con enfasi agli ἄκριτα φῦλα, alle «schiere scriteriate» (B6.7), impotenti a discriminare essere e non-essere. Questo richiamo personale segue: (i) l’iniziale allocuzione di saluto della dea al kouros (B1.24- 28) con l’illustrazione del suo programma di istruzione (B1.28b: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι); (ii) l’invito ad aver cura della comunicazione introduttiva sulle due vie alternative di ricerca, da cui dipende la possibilità di accedere alla Verità (B2.1: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας); (iii) l’esortazione ad atteggiare coerentemente la propria intelligenza (B4.1 e B6.2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως; τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα); (iv) la dissuasione dalla tentazione irriflessa di adeguarsi a uno stile di pensiero (e comportamento) diffuso ma logicamente contraddittorio (B6.3-4: πρώτης γάρ σ΄25 ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < εἴργω >, αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς...). In B7 registriamo dunque il compimento dello sforzo dissuasivo della dea nei confronti del kouros, esplicitamente sollecitato a marcare il proprio atteggiamento intellettuale rispetto all’«impotenza» dei «mortali», a condividere razionalmente la disamina critica della Dea. La presunta "terza via" è delineata es- 25 Il codice D di Simplicio riporta σ΄ (così come E e F); B e C, invece, τ΄. 413 senzialmente per distogliere da essa: B6 e B7 svolgono, in questo senso, l'ufficio critico di «liberare la mente dell'allievo (e dell'uditorio) da presupposti invalsi e premesse fallaci» per concentrarla sul compito arduo di «riconoscere i segni scaglionati lungo la Via dell'essere»26 . Chiara Robbiano, interessata a valorizzare in chiave performativa l’efficacia comunicazionale del poema, ha sottolineato lo specifico effetto identificativo sull’audience. Essa è stata incoraggiata a immedesimarsi nel destinatario della comunicazione divina: un «uomo che sa» (B1.3), partner degli dei (B1.24) sotto l’egida di Themis e Dikē (B1.28). All’audience è stata prospettata quindi la scelta tra le alternative «per pensare» proposte dalla Dea: la via lungo la quale è lei stessa a condurre alla manifestazione dei «segni» della realtà genuina, e l’altra, da cui ella mette in guardia, dal momento che, come abbiamo sopra ricordato: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις. Ora, le vie dei mortali, nel loro sforzo di comprensione della realtà, implicano il nulla: così in B7.4-5 la Dea metterebbe sull’avviso la propria audience contro il modo comune di guardare alle cose e di esperirle27, insistendo a stigmatizzarne confusione e distorsione. In questo senso, rispetto alla marcata contrapposizione del «tu» ai «mortali» (e alle loro vie confuse), il riferimento della Robbiano allo schema dissuasivo dell’antimodello28: tra B6 e B7 la Dea connoterebbe uno stereotipo negativo (un antimodello, appunto), così da condizionare nella scelta la propria audience interna (il kouros) ed esterna. Imboccare la via sbagliata impliche- 26 Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 48-9. 27 Robbiano, op. cit., p. 97. 28 Secondo la lezione di Ch. Perelman & L. Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation. La nouvelle rhétorique, Paris 1958, §80: le modèle et l’antimodèle. 414 rebbe, infatti, essere assimilati a una tipologia umana con cui nessuno intende identificarsi29 . Da questa via di ricerca… Come abbiamo segnalato in nota, nella testimonianza di Simplicio (forse direttamente dal testo del poema) la «via di ricerca» da cui la Dea inviterebbe a tenersi alla larga (B7.2) sarebbe la seconda di B2 (ὡς οὐκ ἔστιν), diversa da quella evocata in B6.4, inventata da «mortali che nulla sanno»: μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.] (In Aristotelis Physicam 78, 2). Certamente la “seconda via” è coinvolta nel rilievo della Dea, ma non nel senso che a essa immediatamente ci si riferisca: essa, piuttosto, risulta implicata nella posizione espressa dai mortali che combinano indiscriminatamente essere e non-essere. Ed è per questo motivo che B7.1 denuncia l'insostenibile contraddizione: εἶναι μὴ ἐόντα, dove, come abbiamo già segnalato, il neutro plurale plausibilmente si salda alla prospettiva del fraintendimento empirico di cui si renderebbero colpevoli i «mortali». Condividiamo dunque la lettura di B7.2 che Conche30 (e altri) hanno avanzato: la via di ricerca incriminata sarebbe quella che βροτοὶ εἰδότες οὐδέν illusoriamente si forgiano, quella appunto che pretende che i non-enti siano. Si tratta impropriamente di una 29 Robbiano, op. cit., pp. 103-4. 30 Op. cit., p. 120. 415 terza via, illegittima dal punto di vista della Dea: in B2 sono definite le uniche vie legittime da un punto di vista razionale (quello della Dea). Il pensiero e l’abitudine I versi che seguono l’avviso della Dea contribuiscono probabilmente a chiarire l’origine dello sviamento dei «mortali che nulla sanno»: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5). Appena invitato il kouros a trattenere il pensiero (νόημα) dalla fittizia via di indagine lungo la quale si trascinano i (o meglio certi) «mortali», il nume richiama l’attenzione sulle insidie dell’«abitudine» (ἔθος), che allignano nella irriflessa consuetudine quotidiana, con l’effetto di stravolgerne il quadro: i termini in gioco sono appunto (i) ἔθος, che guadagna la sua forza dal contrasto con (ii) νόημα. Il linguaggio dei versi 4-5 riprende chiaramente la fenomenologia degli ἄκριτα φῦλα (B6.7): l’«abitudine» è contrastata con la valutazione intellettuale implicita in νόημα, che può dissolvere le illusorie (perché in sé contraddittorie) certezze empiriche. Costume irriflesso Di quale abitudine si tratta? La Dea la qualifica come πολύπειρον, probabilmente per marcarne l’origine dalle frequenti 416 esperienze, e ne rileva l’azione a un tempo dispotica e insidiosa: evidentemente il quotidiano rapporto sensibile con le cose, quanquando non è guidato dall'intelligenza, può indurre assuefazione e spingere, inconsapevolmente, a ritenere che «siano cose che non sono». La nuova messa in guardia è giustificata dai meccanismi irriflessi che condizionano il nostro orientamento: proprio per questo i sensi non possono essere separati dalla ragione31 . È sufficientemente chiaro che la condanna è rivolta al cattivo uso dei sensi per effetto dell’abitudine e non ai sensi stessi: è infatti marcato nel testo come sia l’ἔθος πολύπειρον a “forzare” (βιάσθω) la percezione. D’altra parte, se la Dea esorta a giudicare con la ragione è perché lungo la via sconsigliata la ragione non è impiegata, sotto l’effetto appunto dell’abitudine32. Costantemente sottoposti a input sensibili che richiederebbero di essere correttamente analizzati, i mortali sviluppano una acritica dimestichezza con le cose, progressivamente avviluppandosi in una spirale di incomprensioni. Eraclito aveva espresso forse lo stesso punto di vista: κακοὶ μάρτυρες ἀνθρώποισιν ὀφθαλμοὶ καὶ ὦτα βαρβάρους ψυχὰς ἐχόντων Cattivi testimoni per gli uomini sono occhi e orecchi, se essi hanno anime barbare [balbettanti] (Sesto Empirico; DK 22 B107). L’Efesio riconosce all’anima una funzione intellettuale – la presenza a sé stessi, la consapevolezza - testimoniata da prontezza di direzione, controllo sui gesti e in genere sul corpo (si vedano, per esempio, i frammenti B85 e B118) – integrata dalla capacità di discernimento, senza la quale, sostiene il filosofo, i sensi sono fuorvianti. I dati sensoriali in sé considerati sono insufficienti, richiedendo il vaglio critico della psychē, proposta come istanza indipendente rispetto alla sensibilità. Interessante, nella prospettiva parmenidea, l’uso dell’aggettivo «barbaro», in cui è stata ravvisata la probabile implicazione linguistica: il termine si riferisce, 31 Ruggiu, op. cit., p. 267. 32 Conche, op. cit., p. 121. 417 infatti, o al balbettare di chi non ha un buon controllo della lingua (gli stranieri) o alla incomprensione di chi non conosce il linguaggio. A sottolineare l’essenziale ruolo dell’anima come facoltà di raccolta, decifrazione e intellezione dei dati empirici. In Parmenide, come in Eraclito, non è in gioco il valore dei sensi, ma quello dei giudizi e del linguaggio dei mortali: i sensi, in effetti, non fanno che attestare presenza e assenza; il resto è frutto del giudizio e del linguaggio umani, che attribuiscono ai dati sensoriali una consistenza ontologica che essi non rivendicano33 . L’erramento dei «mortali» è marcato dalla Dea (come in B6.4-9) come erramento del pensiero, intellettuale: se consideriamo il contesto del suo discorso, assicurato da B1, potremmo convenire con Conche che, se la via della Dea è discosta «dalla pista degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου B1.27), l’abitudine, al contrario, pare proprio trattenere e intrattenere su quel percorso34. In questa prospettiva l’esortazione rivolta al kouros in B7.2 (ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα) può essere letta di nuovo in parallelo con il frammento B1 di Eraclito (già utilizzato nel commento a B6): l’isolamento del sapiente rispetto alle opinioni condivise dagli «altri uomini» (τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους) si rivela nella tensione tra il suo discorso consapevole - che annuncia il dominio del logos su tutta la realtà - e l’incomprensione degli uomini (nei frammenti connotata come torpore, stordimento, una sorta di sonnambulismo) per le cose che li circondano, tanto più grave in quanto essi pure si muovono nell’ambito di quella legge universale e eterna, cui è improntato il divenire di tutti gli enti. Ramnoux35 preferisce allora al termine «abitudine» il termine «costume», per evidenziarne un effetto: esso ci spinge a giudicare come tutti gli altri, ad assumere un punto di visto ordinario, come se il nostro sguardo fosse privo di una propria identità. Per questo, dunque, l’appello personale della Dea al discepolo affinché valuti 33 Ivi, p. 122. 34 Ivi, p. 121. 35 C. Ramnoux, Parménide et ses successeurs immédiats, Monaco, Ed. du Rocher, 1979, p. 111. La referenza è di Conche, op. cit., p. 121. 418 ragionando. Conche 36 ne ricava un'indicazione suggestiva: l’abitudine esercita il suo potere in modo insidioso, facendo leva sulla pressione sociale, con il risultato di alienare il giudizio personale nel giudizio collettivo. La via ordinaria è la via “collettiva” dei mortali; la via della Dea, la via della Verità, è la via “singolare” del kouros37 . Sempre in relazione a Eraclito, ma all’interno del più generale quadro di riferimento della cultura arcaica, Cerri 38 valorizza l’espressione ἔθος πολύπειρον, il «vezzo di molto sapere». I termini πολύπειρος e πολυπειρία (in greco sinonimo di πολυμαθία e ἱστορία) indicherebbero l’attitudine alle molte esperienze, a collezionare notizie, denotando in ultima analisi una forma di cultura nozionistica, nell’antichità attribuita per esempio a Solone39, impartita con la memorizzazione scolastica, che Platone (Leggi 7.811 a-b) esplicitamente condanna (come πολυπειρία e πολυμαθία), ma già duramente stigmatizzata, come in precedenza ricordato, da Eraclito (DK 22 B40; B129). Appoggiandosi a Gemelli Marciano40, anche Chiara Robbiano ha di recente ricordato come nel contesto presocratico (in particolare in Senofane, Eraclito ed Empedocle) sia costante la polemica nei confronti di altri filosofi ma soprattutto di altre autorità in campo culturale e sapienziale. In questo senso sarebbero da leggere le aspre critiche di Parmenide in B7: il riferimento sarebbe alla πολυμαθίη come sapienza tradizionale, che raccoglie e accumula conoscenza intorno a molte cose41 . 36 Che, ricordiamolo, è anche editore di Eraclito. 37 Conche, op. cit., p. 122. 38 Op. cit., pp. 61-2. 39 Il quale (Plutarco, Sol. 2.1) avrebbe compiuto viaggi in giovinezza «a scopo di esperienza molteplice e di indagine conoscitiva». 40 M.L. Gemelli Marciano, “Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires”, cit., pp. 83-114. 41 Robbiano, op. cit., p. 102. 419 Occhio, orecchio e lingua La “forza” della consuetudine è dunque contrastata dalla “persuasività” (B2.4) che caratterizza il viaggio lungo la via autentica42: il logos deve rettificare l’eco confusa della comune ricezione empirica, la cui cifra è, ribadiamolo, essenzialmente la distorsione: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5). Parmenide recupera un motivo tradizionale, che ha riscontri in Omero43 e nei lirici e ritornerà ancora in Empedocle (DK 31 B3), ma soprattutto, come abbiamo già ricordato a proposito di B6.7, in Eschilo: οἳ πρῶτα μὲν βλέποντες ἔβλεπον μάτην, κλύοντες οὐκ ἤκουον, ἀλλ’ ὀνειράτων ἀλίγκιοι μορφαῖσι τὸν μακρὸν βίον ἔφυρον εἰκῆι πάντα Dapprima essi [gli uomini], pur avendo occhi, in vano osservavano; avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni simili alle forme, la lunga vita impastavano tutta senza disegno (Eschilo, Prometeo incatenato 447-50). Couloubaritsis ritiene che i μὴ ἐόντα (analogamente a τὰ δοκοῦντα) sarebbero da identificare con le “cose”, cui Parmenide 42 Coxon, op. cit., p. 191. 43 Coxon (p. 192) sottolinea la risonanza omerica (non l’uso che se ne fa ) dell’intero verso 4. 420 negherebbe lo statuto di essere, attribuendo al commercio quotidiano con esse, all’esperienza multipla, quella violenza sul pensiero che si traduce nella identificazione del reale con il divenire44. In verità, la Dea insegnerebbe che il loro statuto è quello di «nome» (ὄνομα): svuotate di ogni consistenza ontologica, le “cose” sono così destinate a sparire. Secondo l’autore belga, dunque, questa prima forma di “nominalismo” condannerebbe ogni tentativo di attribuire realtà alle cose come «vuoto parlare», «parlare per non dire niente»45 . Noi riteniamo che in B7 Parmenide rilanci la propria denuncia contro il modo comune di guardare alle cose e di esperirle: i mortali implicano il non-essere nel tentativo di comprendere la realtà attraverso il dato sensibile: dunque, per riprendere una osservazione della Robbiano46, la Dea ammonisce la propria audience che quando si coinvolge il non-essere, non si troverà la verità. Per riprendere una formulazione, che ci pare efficace, della Wilkinson47, la Dea «non critica i mortali perché percepiscono in modo scorretto, piuttosto critica i mortali perché nominano in modo scorretto quello che percepiscono»48 . Logos e elenchos Il frammento si chiude con una esortazione notevole: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα Giudica invece con il ragionamento la prova polemica da me enunciata (B7.5-6). L’interesse del passo è legato alla connessione tra vocaboli destinati a diventare tecnici nelle filosofie posteriori - λόγος e 44 Mythe et Philosophie…, cit., p. 201. 45 Ivi, pp. 201-2. 46 Op. cit., p. 97. 47 Op. cit., p. 105. 48 Enfasi dell’autrice. 421 ἔλεγχος: il kouros è invitato a valutare, a sottoporre a scrutinio, con il logos (con il discorso, con l'argomentazione) l’elenchos (qualificato come πολύδηριν, «polemico», ma anche «molto contestato») appena proposto (sulle implicazioni temporali del participio aoristo ῥηθέντα si veda la nota alla traduzione). La Dea, con trasparenza, sollecita il proprio interlocutore a prendere piena coscienza della forza (razionale) della contestazione condotta: (i) ogni distanza (tra umano e divino) è così annullata sul terreno dell’argomentazione: il potere del logos può accomunare docente e discente; (ii) giudicare e discriminare appaiono come operazioni implicanti il logos e riferentesi a una «prova» destinata a contestare: in senso aristotelico, un argomento che intende accertare una contraddizione. Il termine λόγος indicava originariamente l’attività e il risultato del «raccogliere» (λέγειν), donde una prima associazione semantica alla «numerazione» e le successive due linee di sviluppo: (i) «enumerazione» e «racconto» (inteso appunto come raccolta e ordinamento di fatti), quindi «discorso»; (ii) «conteggio, calcolo, stima, ragionamento». Nel nostro contesto, e nella associazione con κρίνω, λόγος è espressione di operatività razionale: argomentazione, riflessione. Nel contemporaneo Eraclito, λόγος risulta polivalente, designando a un tempo il «discorso», la sua espressione scritta, il suo significato; con una forte valenza ontologica, nella misura in cui viene utilizzato per designare la struttura della realtà, la sua misura interna. Secondo Ruggiu49 , anche in Parmenide, come in Eraclito B1, λόγος indicherebbe quella peculiare forma di conoscenza razionale che (analogamente al νόος) consente di penetrare il senso profondo delle cose. A determinarne l’accezione è proprio l’associazione con ἔλεγχος: il valore etimologico originario del verbo ἐλέγχω (da cui discende il sostantivo ἔλεγχος) è «provocare vergogna», una vergogna che scaturisce dalla cattiva figura; collegato a esso è il significato di «smentire una menzogna», riuscire a provare che qualcuno è colpevole di una menzogna. È possibile che in questo 49 Op. cit., p. 267. 422 modo il verbo abbia assunto il senso di «mettere alla prova, verificare, accertare qualcosa». L’espressione πολύδηρις ἔλεγχος sembra dunque riferirsi proprio alla critica, sviluppata tra B6 e B7, nei confronti della presunta sapienza tradizionale, probabilmente delle tesi di pensatori ionici e forse pitagorici. Una vera e propria confutazione, se consideriamo che la polemica è consistita essenzialmente nel denunciare la contraddizione implicita in quelle posizioni. La Dea dapprima (B2.3a; B2.5a) propone l’espressione diretta della semplice e immediata esperienza della realtà, ἔστιν, contrapponendole la negazione (οὐκ ἔστιν): da questa alternativa fondamentale e radicale, può ulteriormente ricavare τό μὴ ἐὸν (B2.7) e τὸ ἐὸν (B42; ἐὸν B6.1) come soggetti (ancorché il primo solo logico, il secondo reale) delle due coerenti «vie per pensare». Quindi, dopo aver riformulato (B6.1-2) in termini tautologici (ἐὸν ἔμμεναι; μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν) il contenuto delle vie, ella si concentra (B6.4-9; B7) sul cortocircuito prodotto nel pensiero (νόος) dei «mortali» dalla loro contraddizione50, cioè dall’incauta contravvenzione delle norme: οὐκ ἔστι μὴ εἶναι (B2.3b); χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5b). In questo senso la «prova» intorno a cui la Dea invita il kouros a meditare è, nella posteriore accezione aristotelica, una «confutazione» (ἔλεγχος), deduzione di una contraddizione (ἀντίφασις), cioè procedimento dialettico per eccellenza 51 . 50 Heitsch, op. cit., p. 161. 51 Su questo si vedano in particolare i contributi di Enrico Berti, ora raccolti in E. Berti, Nuovi studi aristotelici. I – Epistemologia, logica e dialettica, Morcelliana, Brescia 2004. 423 PERCORSI NELL’ESSERE [B8 VV. 1-49] Il frammento B8 ci è interamente conservato da Simplicio, in due passi del suo commento alla Fisica aristotelica, ma brevi citazioni (per lo più di singoli versi) sono riscontrabili nello stesso commentatore, in Platone, Aristotele, Pseudo Aristotele, Aetius, Plutarco, Clemente, Eusebio, Plotino, Teodoreto, Proclo, Ammonio, Filopono, Asclepio, Damascio. La collazione dei codici ha creato, almeno in alcuni casi, non pochi problemi per la ricostruzione del testo originale, con conseguenti, profonde divergenze interpretative, come abbiamo già documentato nelle note. L’acribia nella discussione critica si giustifica per il rilievo del lungo frammento, attestato dalla stessa messe di citazioni e comunque dalla sua eccezionale tradizione (B8 rimane uno dei più lunghi passi superstiti della sapienza greca arcaica): con tutta probabilità in questi versi Simplicio ci ha conservato (consapevole della rarità dell’opera) l’intera comunicazione di verità del poema - dopo le premesse (B2, B3) e un primo esame critico (B6 e B7) - insieme con l’introduzione della sezione convenzionalmente designata come Doxa (che, secondo i calcoli contemporanei, da sola doveva coprire i 2\3 dell’opera): καὶ εἴ τῳ μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος. ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ μετὰ τὴν τοῦ μὴ ὄντος ἀναίρεσιν anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo. Dopo l'esclusione del non essere, le cose stanno così: [B8.1-52] (Simplicio, Commentario alla Fisica 144, 25-29). Nella nostra edizione e nel nostro commento abbiamo deciso di dividere i due segmenti, ma solo per ragioni di omogeneità: abbiamo in altre parole preferito concentrare l’attenzione prima 424 sulla presunta ontologia del poema, per passare poi in modo più sistematico a discuterne i principi interpretativi della natura. La via «che è» e la Verità Diogene Laerzio (IX.22), a proposito delle tesi di Parmenide, afferma: δισσήν τε ἔφη τὴν φιλοσοφίαν, τὴν μὲν κατὰ ἀλήθειαν, τὴν δὲ κατὰ δόξαν Disse che la filosofia si divide in due parti, l’una secondo verità, l’altra secondo opinione. Alla luce di quanto risulta dalla nostra analisi di B1, tale struttura emerge dal programma annunciato dalla Dea in B1.28b ss.: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità. Nondimeno anche questo imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti. Nella prima sezione (dopo il proemio) indicata - per antica consuetudine, sulla scorta di tale programma - come Verità1 , ritroveremmo dunque - concentrato essenzialmente in B8 - l’insegnamento (πυθέσθαι, anche «imparare») del «cuore fermo di 1 E che – ricordiamolo - Parmenide in B2.4 designa come Πειθοῦς κέλευθος - «percorso di Persuasione». 425 Verità ben rotonda» (ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ), correlato alla denuncia (B6, B7 e ancora B8) dell’errore insito nelle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξας). La sezione indicata come Opinione sarebbe (nella nostra interpretazione) da mettere invece in relazione all’ultimo punto del programma: conterrebbe cioè una lezione (μαθήσεαι, «apprenderai») adeguata su τὰ δοκοῦντα, sui contenuti dell’esperienza. È significativo dell'originalità della sezione sulla Verità – soprattutto di B8 - il fatto che le citazioni relative siano più numerose e consistenti. Dei tre blocchi testuali in cui supponiamo fosse articolato il poema – Proemio, Verità, Opinione - l’apertura proemiale, che si prestava all’allegoresi, dovette riscuotere particolare attenzione in età ellenistica: probabilmente da una tradizione stoica dipende, infatti, la sua interpretazione da parte di Sesto Empirico, che è anche l'unico a riprodurne integralmente il testo (forse da fonte non attica2 ). In genere, però, già la produzione del V secolo a.C. attesta l’incidenza del modello argomentativo e della concettualità della Verità, che doveva costituire novità rispetto all'arcaica elaborazione ionica, sebbene, come vedremo, sia molto probabile che i "naturalisti" posteriori, da Empedocle agli atomisti3 , abbiano adottato uno schema interpretativo desunto dalla Opinione. Anche la consistente eco parmenidea in Platone e Aristotele è per lo più riferita alla Verità e solo subordinatamente (so- 2 Secondo Passa (op. cit., p. 31), infatti, Sesto avrebbe utilizzato fonti diverse per il testo del proemio e per la sua parafrasi: nel secondo caso, la fonte potrebbe effettivamente essere stoica; nel primo caso, invece, la tradizione sestana è l'unica a conservare traccia dell'antica redazione psilotica del poema. Passa ne conclude che è plausibile che Sesto disponesse di una buona copia del proemio, derivata verosimilmente da un esemplare dell'intero poema. 3 Alexander Nehamas ("Parmenidean Being/Heraclitean Fire", in Presocratic Philosophy. Essays in Honour of Alexander Mourelatos, edited by V. Caston and D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 51-2) sottolinea come, nonostante i presocratici posteriori avessero mutuato le caratteristiche ontologiche illustrate da Parmenide, nessuno si sentisse in dovere di sostenere l'introduzione di una pluralità di elementi giustificandola argomentativamente. Quasi non ce ne fosse bisogno: un segno, forse, di continuità con il poema. D'altra parte, Melisso, che non attribuisce esplicitamente a Parmenide le proprie posizioni, si impegnò a giustificare il proprio «numerical monism»: un segno, forse, di discontinuità con il poema. 426 prattutto in Aristotele) alla Opinione, cioè a quella che doveva presentarsi come una più tradizionale trattazione peri physeōs. È inoltre interessante osservare come, anche da un punto di vista “musicale”, dell’esperienza di ascolto dell’intero poema, B8 si distacchi dal resto, deviando spesso dalla cadenza del verso omerico: solo nei versi nella terza sezione il linguaggio ritorna alla semantica convenzionale e ordinaria e alle relazioni sintattiche caratteristiche del proemio4 . La reiterazione di ἔστιν (senza soggetto) produce (i) un’interruzione di ritmo (suono) e (ii) una dissociazione di significato5 , come se Parmenide intenzionalmente rompesse la sintassi, le regolari relazioni semantiche e le relazioni logiche o strutturali: sia che il poema si legga in silenzio, sia che si ascolti in lettura, in B2 e B8 “è” (senza soggetto) incombe, con eco amplificata dal ritorno al ritmo poetico consueto nei due terzi finali del discorso della dea6 . La via che è L’attacco del frammento (vv. 1-3a) non sembra lasciare dubbi sul contenuto: μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς… Unica parola ancora, della via che «è», rimane; su questa [via] sono segnali molto numerosi: che... Esplicito il richiamo a B2 (μῦθος; ὁδός) e ai suoi esiti: rimane un’unica parola da ascoltare, dopo che si è riconosciuto l’impraticabilità di alternative. È giunto dunque il momento di in- 4 L.A. Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 107. 5 Ivi, p. 96. 6 Ivi, p. 107. 427 camminarsi lungo la via che appartiene a Πειθώ e Ἀληθείη. Su questo Parmenide è ancora più netto nei vv. 15-18: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale. Nel sottolineare la bontà del proprio argomento, la Dea ricostruisce sinteticamente la ratio per cui μόνος δ΄ ἔτι μῦθος […] λείπεται («unica parola ancora […] rimane» B8.1-2), evocando l’alternativa dilemmatica - ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν (espressione sincopata delle ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός […] νοῆσαι di B2.2) – e la conseguente, necessaria esclusione della via «che non è» (B2.7-8): «non è fattibile» (οὐ ἀνυστόν) conoscere (γνῶναι) e indicare (φράζειν) «ciò che non è» (τό μὴ ἐὸν). In questo senso va intesa la coppia di aggettivi «impensabile» (ἀνόητον) e «indicibile» («senza nome», ἀνώνυμον): la via ὡς οὐκ ἔστιν (τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι) è effettivamente impalpabile (B2.6), «sentiero del tutto privo di informazioni» (παναπευθέα ἀταρπόν). La «decisione» (il «giudizio», κρίσις) è conseguente: come destino («necessità», ἀνάγκη), ricorda la Dea, si è riconosciuto che non si tratta di via «genuina» (οὐ ἀληθής ἔστιν ὁδός), lungo la quale sia realmente possibile inoltrarsi e incontrare qualcosa. All’inizio di B8, delle «uniche vie di ricerca […] per pensare», non rimane quindi che imboccare quella «reale» (ἐτήτυμον), quella, appunto, ὡς ἔστιν (τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι): muoversi sul terreno di «è e non è possibile non essere», rinunciando a dare 428 consistenza a «non-è ed è necessario non essere», garantisce intelligibilità e comprensione della realtà7 . Una sola parola L’eco inziale del μῦθος che la Dea aveva invitato il kouros ad accogliere e conservare - e che dunque propone i tratti di un authoritative speech act (Morgan) – è funzionale alla successiva notifica della vanità del nominare mortale (B8.38b-39): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ Per esso tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, persuasi che fossero reali, ma anche al rilievo della svolta introdotta in conclusione del frammento (vv. 50 ss.), con una formula indicativa: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando, che può ingannare (B8.50-52). La «parola» (il «discorso») di Verità della Dea traccia i contorni della realtà attraverso l’esclusione sistematica di ciò che, nella propria inconsistenza (τό μὴ ἐὸν), si rivela ἀνόητον ἀνώνυμον. Si tratta della rigorosa applicazione argomentativa della formula della prima «via»: 7 Sul rapporto tra il tema della “via” e l’unicità del discorso in apertura di B8 si veda in particolare L. Couloubaritsis, Les multiples chemins de Parménide, in Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 29-30. 429 ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una: è e non è possibile non essere. In questo senso, in B7.5 ella aveva chiaramente esortato a valutare discorsivamente (κρῖναι δὲ λόγῳ) la «prova polemica» (πολύδηριν ἔλεγχον) fornita: donde forse – ipotizzando una sostanziale continuità tra B7 e B8 (come attesterebbero le citazioni e il commento di Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII, 111 e 114) – l’apertura con l’espressione μόνος δ΄ ἔτι μῦθος […] λείπεται. Tale μόνος μῦθος è relativo alla «via: è» (ὁδός ὡς ἔστιν), di cui la Dea informa (vv. 2b-3a): ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄… su questa [via] sono segnali molto numerosi. Il discorso è uno, perché una sola è in effetti la via riconosciuta percorribile; molti i «segni» (σήματα) che consentono di identificarla8 , molti gli argomenti che possono essere addotti per metterla alla prova: di qui il nesso tra πολύδηρις ἔλεγχος, μόνος μῦθος e σήματα. Come rivela il precedente epico del riconoscimento di Odisseo da parte di Penelope, essi, infatti, possono essere usati per provare (sottoporre a elenchos) l’identità di una persona9 . Sarà allora lo stesso intreccio dei «segni» a rivelare unità e omogeneità di τὸ ἐόν e dunque a mostrare l’alterità tra il μῦθος della Dea e i discorsi dei «mortali»: essi ipostatizzano quanto, in vero, è solo «nome»; assumono come evidenza ultimativa la molteplicità di enti, senza ricondurla all’identità dell’«essere». Il μόνος μῦθος che la θεά articola in B8.1-49 corrisponde a quanto annunciato (B2.4) come Πειθοῦς κέλευθος («percorso di Persuasione») in quanto Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ («tien dietro a Verità»): lungo la 8 Secondo gli interessanti rilievi di Robbiano, op. cit., pp. 108-9. 9 Ibidem 430 «via: è e non è possibile non essere» si esprime – non solo per l’autorevolezza dell'indicazione divina, ma per l’intrinseca costruzione razionale – quella πίστις ἀληθής (B8.28) che era stata negata (B1.30) alle «opinioni dei mortali» (ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής, «in cui non è reale credibilità»). Con una differenza significativa: nel proemio il kouros doveva semplicemente registrare un annuncio; la πίστις ἀληθής rappresentava quella credibilità che la Dea disconosceva alle convinzioni correnti. In B8 è lo stesso «convincimento», maturato argomentativamente, a trattenere dalla distorsione tipica dei «mortali che nulla sanno»: considerare (νομίζειν) (B8.27-28): ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής poiché nascita e morte sono state respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare. Analogamente, in B6.4-9 e B7.1-5 la Dea aveva duramente stigmatizzato la confusione teorica corrente, mettendo in guardia il kouros: ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται > […] ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν […] [ti tengo lontano] da quella [via] che appunto mortali che nulla sanno , […] schiere scriteriate, per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa […] οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα· μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. 431 Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero; né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza. In B8.38 ss. è lo stesso μόνος μῦθος (articolato in relazione ai σήματα) a svelare in che cosa effettivamente consista quello stravolgimento: perdere di vista il fatto che, prescindendo dall’unico referente reale (l’essere), i vari nomi con cui designiamo i fenomeni della nostra esperienza sono, in realtà, solo simboli: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, persuasi che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. L’«essere» (τὸ ἐόν), ovvero «ciò che è» (ἐόν), è la sola cosa che possa essere pensata ed espressa nel linguaggio: a qualsiasi cosa i mortali pensino o di qualsiasi cosa i mortali parlino e in qualsiasi modo ne pensino o parlino, essi in realtà pensano o parlano di ciò-che-è 10. Questa è la lezione che si ricava dalla «parola» della Dea: trasfigurazione del linguaggio dell’esperienza, della rappresentazione ingenua, ma anche della (contestata) cosmologia ionica. Una lezione che discende, dunque, dalla krisis (ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν), condotta escludendo τό μὴ ἐὸν: l’unica via praticabile troverà manifestazione rigorosa attraverso i «segnali» che possono identificarla per la ragione. In questa prospettiva i vv. 50-52 marcano effettivamente un passaggio, dal momento che spostano l’attenzione (e l’istruzione) del kouros da quella manifestazione – il «discorso affidabile» (πιστὸν λόγον) che esprime la Verità (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης) – all’ambito delle nostre convinzioni empiriche (τὰ δοκοῦντα 10 R. McKirahan, “Signs and Arguments in Parmenides B8”, cit., p. 205. 432 B1.31), da ridurre a uno schema interpretativo adeguato (χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα B1.32). È la stessa divinità a connotare la propria comunicazione (μῦθος): a rilevarne con formule (κέκριται ὥσπερ ἀνάγκη) la cogenza, la dipendenza dalla κρίσις (ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν),·e, attraverso figure (Δίκη, Ἀνάγκη, Μοῖρα), lo statuto trascendentale. La «parola», infatti, nel suo procedere argomentativo, appalesa, della realtà (τὸ ἐόν), ordine e superiore garanzia: «Giustizia [lo] tiene (ἔχει)», «Necessità potente [lo] tiene (ἔχει)», «Moira (Destino) lo ha costretto (ἐπέδησεν)». La nuova sezione, introdotta al v. 50, è, a sua volta, esplicitamente determinata: è sempre la divinità a sottolinearne la materia diversa – conseguenza dell’adozione di un punto di vista che potremmo definire “umano”: δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε («da questo momento in poi opinioni mortali impara» B8.51-2). Contestualmente, nell’abbandonare la parola garantita e il suo oggetto immutabile (τὸ ἐόν e i suoi σήματα), è la Dea stessa a mettere in guardia sul passaggio dal rigore del «discorso affidabile» (πιστὸν λόγον), del «pensiero intorno alla Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης), alla ricostruzione potenzialmente fuorviante (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων, «ascoltando l’ordine delle mie parole che può ingannare»). Il poeta segnala il cambio di registro anche a livello espressivo, tornando, come abbiamo in precedenza ricordato, alla semantica convenzionale e alle relazioni sintattiche caratteristiche del proemio: in questo senso, rispetto ai versi centrali della Verità, ἀπατηλὸν (passibile di inganno) appare effettivamente l’organizzazione stessa delle parole11 . L’attuale frammento B19 confermerà la natura “umana” della prospettiva (κατὰ δόξαν) adottata, e la sua peculiare costruzione linguistica: οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ 11 L.A. Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 107. 433 Ecco, in questo modo, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito sviluppatesi, avranno fine. A queste cose, invece, un nome gli uomini imposero, distintivo per ciascuna. La via e i suoi «segnali» La Dea si affretta a osservare (B8.2-3), riguardo alla ὁδός (ὡς ἔστιν), come: ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄ su questa [via] sono segnali molto numerosi. Il rilievo è importante perché sottolinea la fondatezza della comunicazione divina, sottraendola all’arbitrio, e la sua intenzione razionale: essa allude a «segni», proprietà, evidentemente da riconoscere come genuini indicatori della realtà, e implicitamente è introdotta la loro discussione. La presenza di «segnavia» lungo un percorso (κέλευθος) è naturale, così come la loro funzione di orientamento: trattandosi di Πειθοῦς κέλευθος, il compito educativo della Dea diventa quello di illustrarli e, così facendo, di sviluppare la conoscenza della via, di guidare alla comprensione dell’essere. I σήματα si riferiscono immediatamente alla ὁδός, non a τὸ ἐόν, ma la loro discussione, il riconoscimento della loro funzione, contribuisce a determinare e far prendere consapevolezza della nozione di τὸ ἐόν: la «via», in effetti, è indicata come ὡς ἔστιν. In questo caso la natura descrittiva dei «segnali» rispetto al percorso di conoscenza si fa ancora più netta. Simplicio (Phys. 78, 11) parla di τὰ τοῦ κυρίως ὄντος σημεῖα, che potremmo tradurre come «connotazioni dell’essere che veramente è». 434 Segnali La Dea ne propone un catalogo, nel seguito utilizzato (anche se non integralmente) per l’analisi: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές che senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme, saldo e senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Dei molti problemi testuali abbiamo dato notizia in nota. Qui interessa tentare di comprendere che cosa i σήματα rappresentino per l’autore. Una prima risposta possiamo ricavare dalla versione che abbiamo proposto (una delle possibili): la via ὡς ἔστιν è tradotta in termini proposizionali, con un soggetto (ἐόν, lo stesso emerso in B6.1) e, apparentemente12, due serie di predicati: (i) ἀγένητον, ἀνώλεθρόν, οὖλον, μουνογενές, ἀτρεμὲς, ἀτέλεστον; (ii) νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές. I «segnali molto numerosi» sulla via ὡς ἔστιν sarebbero dunque caratteristiche che si possono legittimamente riferire a «ciò che è», sulla scorta – come risulterà più chiaramente nel corso della esposizione divina (e come abbiamo anticipato) - della κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Formulando diversamente lo stesso concetto: predicati essenziali di τὸ ἐόν, implicati (e deducibili) dalla 12 Come segnalato in nota, Leszl, Heitsch e di recente Palmer (tra gli altri), fanno iniziare l’analisi dei segni dal v. 5, con ciò considerando gli attributi dei vv. 5-6 già parte della discussione e non propriamente σήματα. 435 stessa nozione di ἔστιν (τε καὶ [...] οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), con esclusione di οὐκ ἔστιν (τε καὶ [...] χρεών ἐστι μὴ εἶναι); attribuiti all’essere, essi ne manifestano la natura. È plausibile nel contesto che la Dea intenda σήματα e ἔλεγχος non disgiuntamente, in altre parole che l’orientamento conoscitivo richieda non semplicemente il catalogo, ma l’argomentazione che lo sostiene. Anzi, dal punto di vista della lezione divina, la valutazione razionale del giovane allievo appare preoccupazione primaria, come marcato in B7.5-6: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα Giudica invece con il ragionamento la prova polemica da me enunciata. I «segnali» potrebbero dunque costituire il materiale concettuale su cui esercitare la razionalità del kouros, con un duplice scopo: (i) fargli prendere confidenza con τὸ ἐόν; (ii) fargli prendere coscienza delle inconsistenze di altre posizioni teoriche (ioniche, forse pitagoriche). Si tratta ovviamente di due risvolti della stessa strategia, nella misura in cui il riconoscimento della natura di «ciò che è» comporta, per un verso, la presa di distanza dalla superficiale lettura del dato sensibile, per altro la contestazione di lezioni concorrenti. Così ritroveremo riaffermato (B8.34-36a) il nesso tra pensiero (addirittura nella formulazione astratta τὸ νοεῖν) e essere: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. Οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν La stessa cosa invero è pensare e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso, troverai il pensare. Un rilievo che ribadisce appunto l’equazione di B3: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere, 436 e soprattutto richiama la funzione “ontologica” del νόος di B4.1-2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere. L’aspetto che appare tuttavia peculiare nella relazione tra σήματα e νοεῖν è il fatto che alcuni dei «segnali» fondamentali siano evidentemente costruiti - sul piano linguistico – con l’uso dell’alfa privativo, mentre su quello argomentativo (attraverso ἔλεγχος, confutazione) tutti siano sostenuti ribaltando il dato di senso comune (nascita e morte, accrescimento e diminuzione, mobilità ecc.). Un risultato che a loro modo anche la sapienza ionica aveva ottenuto, ma, come rivelerebbe la discussione parmenidea, in modo contraddittorio. In questo senso, i σήματα possono essere letti come elementi concettuali espressamente rivolti a contestare i metodi tradizionali di interpretazione dell’universo13. Il catalogo e la relativa discussione investirebbero direttamente alcuni contributi della elaborazione cosmologica arcaica14: (i) il paradigma di fondo della cosmogonia (B8.6-21); (ii) il modello esplicativo per successive differenziazioni – quale è possibile intravedere nelle testimonianze su Anassimandro e Anassimene (B8.22-25); (iii) la riflessione sul mutamento – cui possono ricondursi in parte i frammenti di e le testimonianze su Anassimene e Eraclito (B8.26-31); (iv) il modello biologico di sviluppo dell’universo, che possiamo ritrovare nelle testimonianze su Anassimandro (B8.32-49). È allora possibile che la natura dei σήματα non fosse quella di predicati astratti, concettualmente dedotti dalla nozione di «esse- 13 Robbiano, op. cit., p. 109. 14 Ibidem. 437 re», bensì quella di contrafforti dialettici scaturiti dal confronto con specifiche dottrine, e, in questo senso, storicamente, culturalmente determinati. La loro funzione “segnica” rispetto alla «via» consisterebbe nell’evitare che essa possa essere abbandonata, seguendo il richiamo di assunzioni acritiche ovvero di presunte, scorrette, teorie. Donde l’impronta discutiva e confutatoria dell’analisi di Parmenide. La via, i segnali e la guida D’altra parte è evidente nel testo come la Dea scelga di riferirsi ai «segnali» nel contesto della propria istruzione al kouros, del proprio esercizio di guida. Anzi: ella guida attraverso σήματα, che impegnano razionalmente. La tradizione li conosceva come «segni augurali» che gli indovini dovevano interpretare15, come mezzi di rivelazione di una potenza superiore16. In questo senso il contemporaneo Eraclito evocava lo stesso modello: ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει Il signore, di cui è l'oracolo in Delfi, non dice, non nasconde ma dà un segno (Plutarco; DK 22 B93). Anche la dea di Parmenide invia segnali ai mortali, per far conoscere cose normalmente oltre la loro portata: Robbiano e Cerri hanno probabilmente ragione nel sottolineare come il termine σήματα non si riferisca allora tanto ai predicati enumerati in B8.2- 6, quanto ai successivi argomenti, risultando essenziale nella relazione tra l’umano e il divino il momento dell'interpretazione dei segni per giungere alla verità. In questa prospettiva – come rilevato da Mourelatos17 - σήματα e ὁδός (ὡς ἔστιν) si salderebbero nel motivo della quest: per raggiungere il fine della ricerca è necessa- 15 Cerri, op. cit., p. 219. 16 Mansfeld, op. cit., p. 104. 17 Op. cit., p. 94. 438 rio percorrere la strada «che è»; per fare ciò è necessario tenere d’occhio i segnavia. L’accostamento al modello oracolare - giustificato non solo dalle implicazioni tra σήματα e σημαίνειν, ma pure dal nesso lessicale tra σήματα e σημεῖον, termine per «segno divinatorio» (di qualsiasi tipo), e «responso oracolare» (testo verbale) – è ricco di risvolti significativi nel contesto. Il segno divinatorio, infatti, proviene dalla sfera divina: nel segno la sapienza divina irrompe nell'ambito umano, per condensarsi poi nel responso,: la parola del responso è umana come suono, ma rivela una conoscenza che separa l'uomo dal dio18. Ora, non vi è dubbio che Parmenide rielabori, in forme originali, questi elementi: la rivelazione, lo scarto conoscitivo e il suo rilievo esistenziale, la comunicazione di verità come evento privilegiato. Come ricorda la Robbiano19, la dea di Parmenide evoca un dio che manda segnali ai mortali per far loro conoscere cose normalmente fuori della loro portata: non dobbiamo dimenticare che in Omero la divinazione comporta la conoscenza delle cose che sono, di quelle che saranno e di quelle che sono state in passato: […] τοῖσι δ’ ἀνέστη Κάλχας Θεστορίδης οἰωνοπόλων ὄχ’ ἄριστος, ὃς ᾔδη τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, καὶ νήεσσ’ ἡγήσατ’ Ἀχαιῶν Ἴλιον εἴσω ἣν διὰ μαντοσύνην, τήν οἱ πόρε Φοῖβος Ἀπόλλων Si alzò allora Calcante, figlio di Testore, di gran lunga il migliore degli indovini, il quale conosceva le cose che sono, le cose che saranno, le cose che furono, e aveva guidato le navi degli Achei fino a Ilio grazie all’arte profetica che gli donò Febo Apollo (Iliade I, 68-72). 18 Su questo punto si veda G. Manetti, Le teorie del segno nell'antichità classica, Bompiani, Milano 1987. 19 Op. cit., p. 126. 439 In Parmenide è la divinità stessa a indicare i «segnali» che tracciano la via al pieno dispiegamento della realtà (Verità) nella conoscenza, e a interpretarli per il kouros; è la divinità stessa a tradurre la propria sapienza in immagini e discorsi: essa riassorbe in sé, insieme alla funzione rivelativa, anche quella di μάντις e προφήτης, marcando l’eccezionalità del privilegio concesso. Il «colpo d’occhio [del dio] che conosce ogni cosa» (Pindaro), la visione simultanea di passato, presente e futuro, si presenta nei segni che l’indovino deve riversare in parole (enigmatiche) e l’interprete chiarire per i mortali. In questo senso la divinità di Parmenide ha un ruolo simile a quello delle Muse (le quali garantiscono al poeta la trasposizione della loro sinossi nello sviluppo del canto), ma “laicizzato”: analoga l’intenzione pedagogica, comunque diversamente declinata. La Dea, infatti, propriamente non ispira un canto, piuttosto insegna argomentando; pur marcando lo scarto tra umano e divino, ella comunica razionalmente, insistendo sulla «forza di convinzione» (πίστιος ἰσχύς), sulla «convinzione genuina» (ovvero «reale credibilità», πίστις ἀληθής), per illustrare i σήματα al proprio interlocutore (cui è richiesto di non accogliere supinamente, ma riflettere su quanto comunicato): interpretarli significa, nel nostro contesto, giustificarli razionalmente alla luce dei principi (le «vie») introdotti in B2. Alla ripresa del motivo tradizionale segue, dunque, una sostanziale revisione: è attraverso ἔλεγχος che la Dea sviluppa il tracciato della «via che "è"»; è contestando ed escludendo errate assunzioni di senso comune e contributi teorici concorrenti che ella viene determinandola dialetticamente. È indicativo del retroterra culturale il fatto che Parmenide scelga di proporre in prima istanza un catalogo (memorizzabile) di «segni», quindi un prolungato sforzo argomentativo – un unicum nel panorama della produzione arcaica –, sostenuto da una serie di immagini plastiche (catene, legami, sfera) e figure (divine). Ritroviamo sapientemente intessuti ἔλεγχος, metafora e mito, quasi costituissero ancora tre aspetti inscindibili di una stessa esperienza comunicativa. Segnavia 440 L’attacco di B8 sottolinea dunque una volta di più il ruolo della guida divina e la centralità del tema della via: è la Dea, infatti, a ricordare come rimanga ancora solo la possibilità di un μῦθος; è la Dea ad annunciare i «segnavia» (σήματα) e quindi che il percorso sarà discorsivo. È la Dea, insomma, che non solo anticipa al kouros l’identità della via che resta (ὡς ἔστιν), ma prospetta pure la prova (ἔλεγχος) che il giovane discepolo deve sostenere. Come opportunamente osservato da Coxon20, B8 è introdotto da un resoconto delle evidenze lungo la via, sulla quale, nella narrazione, il kouros deve ancora viaggiare: gli argomenti di B8 valgono quindi come guida (filosofica), grazie a cui è possibile mantenere la direzione e percorrere fino in fondo la «via genuina» (ὁδός ἀληθής), in B2.4 connotata come Πειθοῦς κέλευθος. Come anticipato, Parmenide sembra articolare un doppio registro di evidenze da sottoporre all’attenzione; in effetti il testo recita (vv. 3-6): ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές che senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme, saldo e senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Ne abbiamo sopra estratto due liste di attributi di ἐὸν: (i) ἀγένητον, ἀνώλεθρόν, οὖλον, μουνογενές, ἀτρεμὲς, ἀτέλεστον; (ii) νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές. L’argomento di B8 – pur coinvolgendoli complessivamente – sembra costruito per privilegiare questi enunciati: 20 Op. cit., p. 193. 441 γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος ὄλεθρος è estinta nascita e morte oscura (B8.21) πᾶν ἐστιν ὁμοῖον è tutto omogeneo (B8.22) ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (B8.29-30) οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές non incompiuto l’essere [è] lecito che sia: non è, infatti, manchevole [di alcunché] (B8.32-33). In questo senso appare plausibile la ricostruzione di Mourelatos21 (ripresa di recente anche da Robbiano22), elaborata tenendo conto delle convergenze tra gli interpreti sui seguenti blocchi testuali e relativi sÔmata di riferimento: B8.6-21: ἀγένητον (ingenerato) e ἀνώλεθρόν (imperituro); B8.22-25: συνεχές (continuo) e\o ἀδιαίρετον (indiviso); B8.26-31: ἀκίνητον (immobile, immutabile); B8.32-33: οὐκ ἀτελεύτητον (non incompiuto); B8.42-49: τετελεσμένον (compiuto). Possiamo precisare leggermente questo schema e privilegiare la discussione (ἔλεγχος) di quattro σήματα di base, riferibili, in quanto «segnavia», direttamente a ὁδός (ma, nella nostra traduzione, predicati di τὸ ἐόν), cui è poi possibile ricollegare gli altri: (i) «senza nascita e morte» (ἀγένητον, ἀνώλεθρόν B8.5-21); (ii) «tutto omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον B8.22-25); (iii) «immobile» 21 Op. cit., p. 95. 22 Op. cit., p. 108. 442 (ἀκίνητον B8.26-31); (iv) «compiuto» (οὐκ ἀτελεύτητον, τετελεσμένον B8.32-49). Di recente McKirahan23 ha proposto un elenco più minuzioso, classificando con una più articolata suddivisione in gruppi tutti i predicati: A: ἀγένητον (ingenerato) ἀνώλεθρόν (imperituro) B: οὖλον (intero) τέλειον24 (completo) ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme) συνεχές (che si tiene insieme) C: οὐδέ ποτ΄ ἦν (né un tempo era) οὐδ΄ ἔσται (né sarà) νῦν ἔστιν (è ora) D: ἀκίνητον (immobile) ἔμπεδον (immutabile) E: ἀτρεμὲς (stabile) F: μουνογενές (unico25) ἕν (uno). Nella nostra esposizione seguiremo lo schema di Mourelatos che abbiamo precisato, integrandolo con le osservazioni desumibili dall’elenco di McKirahan. Ingenerato (e imperituro) Il vero e proprio attacco argomentativo del frammento è formulato come interrogazione (vv. 6-7)26: τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso? Come e donde cresciuto? 23 “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008, p. 191. 24 McKirahan legge hdè téleion in vece di ἠδ΄ ἀτέλεστον. 25 Noi abbiamo preferito rendere come «uniforme». 26 Ma alcuni sostengono che l'argomentazione cominci al verso precedente con οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται... 443 L’implicita opzione discutiva impronterà lo sviluppo discorsivo: la Dea non si limiterà a ragionare con il proprio (muto) ascoltatore, ma mimerà un autentico confronto dialettico, attribuendogli le convinzioni teoriche (o di senso comune) che è necessario confutare per dimostrare la propria tesi. Un possibile modello argomentativo I versi 7-15 – nella versione (a dire il vero tormentata) che abbiamo accolto e tradotto27 - possono esemplificare efficacemente la struttura del procedimento razionale di Parmenide: οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι. τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί. οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει· Da ciò che non è non permetterò che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che «non è». Quale bisogno, inoltre, lo avrebbe spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o prima? Così è necessario sia per intero o non sia per nulla. Né mai concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. Per questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. 27 Come risulta dalle annotazioni al testo greco, abbiamo accettato l'emendazione proposta da Karsten della forma ἐκ μὴ ὄντος attestata dai codici, in ἐκ < τοῦ ἐ > όντος. 444 L’argomento – insieme agli interrogativi che lo introducono - ha come soggetto sottinteso (nella nostra traduzione) ἐόν (v. 3): per escluderne generazione (τίνα γένναν αὐτοῦ; - «quale nascita di esso?») e derivazione (πῇ πόθεν αὐξηθέν; - «come e donde cresciuto?»), la Dea non concede: (i) che esso possa nascere (φῦν) «originando dal nulla» (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον) - «da ciò che non è» (ἐκ μὴ ἐόντος); (ii) che esso origini (γίγνεσθαi) «dall’essere» (ἐκ < τοῦ ἐ > όντος). Non rimanendo alternative, ella conclude il proprio ragionamento (a dimostrazione della tesi: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν) appoggiandosi alla superiore garanzia di Dike (il nume tutelare dei limiti e delle prerogative a essi associate), la quale vincola ciò che è a essere ἀγένητον (e ἀνώλεθρόν). La struttura dell’argomento risulterebbe dilemmatica, come segnalato dall'uso di οὔτε (v. 7) e οὐδέ (v. 12): «non è vero questo, e neppure è vero quest’altro», dove «questo» e «quest’altro» rappresentano le uniche due possibilità concepibili in proposito28 , appunto ἐκ μὴ ἐόντος (v. 7) e ἐκ < τοῦ ἐ > όντος (v. 12 emendato). Di questa struttura si trova conferma nello scritto Sul non-essere di Gorgia (versione Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII, 71): καὶ μὴν οὐδὲ γενητὸν εἶναι δύναται τὸ ὄν. εἰ γὰρ γέγονεν, ἤτοι ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος γέγονεν. ἀλλ’ οὔτε ἐκ τοῦ ὄντος γέγονεν· [...] οὔτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος·[...] οὐκ ἄρα οὐδὲ γενητόν ἐστι τὸ ὄν E ancora, l'essere non può neppure essere generato: se è stato generato, infatti, certamente è stato generato o dall'essere o dal non-essere; ma non è stato generato né dall'essere [...] né dal non essere [...]. L'essere, di conseguenza, non è stato generato; 28 Leszl, op. cit., p. 177. 445 e in Aristotele (Fisica I, 8 191 a23 ss.), con chiara allusione anche agli Eleati29: Ὅτι δὲ μοναχῶς οὕτω λύεται καὶ ἡ τῶν ἀρχαίων ἀπορία, λέγωμεν μετὰ ταῦτα. ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei pensatori antichi, lo diremo in quel che segue. Coloro, infatti, che per primi hanno indagato in modo filosofico la realtà e la natura delle cose furono sviati come spinti lungo una via diversa dalla loro inesperienza. Essi sostengono in effetti che degli enti nessuno né si genera né si distrugge: poiché ciò che si genera, necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò che non è, ma è impossibile che ciò accada in entrambi i casi30. L'essere, infatti, non si genera (perché è già) e nulla può generarsi dal non essere, dal momento che qualcosa deve fungere da sostrato. E sviluppandone ulteriormente le conseguenze, affermavano allora che non esiste il molteplice, ma solo l'essere stesso. Lo stesso Simplicio, parafrasando due volte il testo (Phys. 77, 9; 162, 11), offre questo senso: 29 Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy cit., pp. 129-133) ha contestato, con buoni argomenti, che il testo si riferisca esclusivamente agli Eleati. 30 Enfasi nostra. 446 καὶ γὰρ καὶ Παρμενίδης ὅτι ἀγένητον τὸ ὄντως ὂν ἔδειξεν ἐκ τοῦ μήτε ἐξ ὄντος αὐτὸ γίνεσθαι (οὐ γὰρ ἦν τι πρὸ αὐτοῦ ὄν) μήτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος Anche Parmenide infatti sosteneva che l'essere in senso pieno è ingenerato: mostrava che esso non si genera né dall'essere (poiché non c'è qualche essere oltre a esso), né dal non essere (162.11). Accettando questa lezione, ritroveremmo Parmenide impegnato a elaborare una dimostrazione dialettica rigorosa31: (i) gli interrogativi (retorici: τίνα [...] γένναν διζήσεαι αὐτοῦ;) introducono l’ipotesi contraddittoria alla tesi che l’autore intende dimostrare (nella forma gorgiana: εἰ γὰρ γέγονεν), in questo modo delineando la struttura dilemmatica di base: «ciò che è è ingenerato» (ἀγένητον ἐὸν) - «ciò che è è generato» (Gorgia: γενητόν ἐστι τὸ ὄν); (ii) tale ipotesi viene articolata in un nuovo dilemma: nascita e crescita implicano necessariamente un’origine o (a) ἐκ μὴ ἐόντος o (b) ἐκ < τοῦ ἐ > όντος (secondo lo schema citato da Simplicio); (iii) dal momento che entrambe le possibilità sono razionalmente insostenibili, l’ipotesi (nascita e crescita di ciò che è) si rivela infondata, e la sua contraddittoria, la tesi difesa da Parmenide, è dimostrata: «che ciò che è è ingenerato» (ὡς ἀγένητον ἐὸν … ἐστιν). Come abbiamo già segnalato, anche il contesto appare implicitamente dialettico: viene (monologicamente) mimato il dibattito tra un sostenitore (che pone gli interrogativi) e un oppositore (di cui si anticipano le risposte possibili) della tesi di Parmenide. Compito (retorico-persuasivo) della Dea rispetto al kouros (e al pubblico di ascoltatori e lettori di Parmenide) è di illustrare i passaggi della (virtuale) discussione, marcando il nesso tra «forza di 31 Contro questa ricostruzione, che presume l’introduzione (consapevole) di un modello argomentativo dilemmatico da parte dell’autore, può valere l’osservazione di Leszl (p. 178) secondo cui la sequenza di tre argomenti (vv. 7b-9a; vv. 9b-11; vv. 12-13a) rende improbabile una struttura dilemmatica. 447 convinzione» (πίστιος ἰσχύς), «giudizio» (κρίσις), necessità (ὥσπερ ἀνάγκη). Appare trasparente nella confutazione della prima possibilità: οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che non è non permetterò che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che non è il riferimento a B2.7-8 e B6.1: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né indicarlo χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι È necessario il dire e il pensare che ciò che è è. Questo comporta che quanto leggiamo a livello frammentario fosse in realtà organizzato in una costruzione argomentativa complessa, che il discorso della Dea in B8 presuppone (e talvolta richiama esplicitamente): in particolare il μῦθος di B2. Il modello delle «uniche vie di ricerca per pensare» ricavate dall’alternativa «è»-«non-è», il rifiuto del secondo corno sulla scorta della sua inconsistenza (assenza di contenuto da pensare, dire e indicare) e dunque la piena accettazione della prima via di indagine («che è»), insieme alla conseguente esclusione di una effettiva “terza via” (B6.4-5, 8-9; B7.1), consentono a Parmenide di operare di fatto con i principi di non-contraddizione e del «terzo escluso»32: donde l’impossibilità di sostenere che «ciò che è» non sia, ovvero 32 Conche, op. cit., p. 142. 448 ammettere qualcosa che possa comportare che «ciò che è» non sia33 . D’altra parte la pervasiva presenza della Dea - che pone domande e risponde (vv. 6b-7a: τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν;), che sottolinea i passaggi (v. 7b: οὔτ΄... ἐάσω;) e richiama le condizioni (v. 15b: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν...), che complessivamente ribadisce il rigore del procedimento seguito (v. 16b: κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη...) e ne conferma i risultati con il proprio commento (l’inciso ai vv. 17b-18a: οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός) – ci ricorda che il contesto narrativo entro cui si inserisce il ragionamento è comunque quello di una rivelazione. Il fatto che alcune premesse rimangano implicite si giustifica forse proprio con la forma apodittica della comunicazione divina: come osserva Mansfeld34, i «segni» sono ricavati - immediatamente o mediatamente - dalla disgiunzione di B2, le cui premesse sono garantite dal μῦθος della Dea. Questo potrebbe anche spiegare la scelta dell’espressione σήματα, il mezzo di comunicazione di una potenza superiore: Parmenide sceglie di lasciare la «parola» della Dea a fondamento di tutti i processi (e progressi) del pensiero in B835. Ella sollecita l’autonomia del discepolo, ma lo invita a registrare e ad aver cura di un μῦθος contrapposto a quanto comunemente assunto dai «mortali»: il suo ruolo pedagogicamente “eccede” lo stesso esercizio razionale, assicurandone i principi, così come le altre divinità evocate nel frammento (Dike, Ananke, Moira) “trascendono” (garantendolo) τὸ ἐὸν, ciò che, secondo l’istruzione razionale, pretende di dominare – di fronte al pensiero – senza eccezione36 . 33 McKirahan, op. cit., p. 192. 34 Op. cit., pp. 103-4. 35 Mansfeld, op. cit., p. 106. 36 Su questo in particolare la terza edizione dell’opera di Couloubaritsis, più volte citata, Mythe et Philosophie chez Parménide, ora con nuova titolazione: La pensée de Parménide (en appendice traduction du Poème), Éditions Ousia, Bruxelles 2008, per esempio p. 247. 449 Nascita e crescita Abbiamo sottolineato come la prima sezione argomentativa si apra con tre interrogativi, che offrono alla Dea l’opportunità di dimostrare ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν; essi sono così formulati (vv. 6b-7a): τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso? Come e donde cresciuto? È possibile intenderli come introduzione ai tre successivi argomenti: (i) vv. 7b-9a: ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che non è non permetterò che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che non è; (ii) vv. 9b-10: τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; Quale necessità lo avrebbe mai spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o prima? (iii) vv. 12-13a: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né mai concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. 450 Le relative risposte negative sarebbero formulate espressamente ai vv. 13b-15a: τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. Piuttosto che sollevare problemi diversi (ancorché collegati) e rinviare a distinti argomenti, la progressione delle domande, il ricorso a interrogativi retorici (vv. 9-10) e la possibile articolazione dilemmatica sembrano evocare l’incalzare dialettico di un confronto, i cui termini di riferimento – il sostantivo γέννα («nascita», «generazione») e il participio αὐξηθέν («cresciuto», da αὐξάνω, «crescere, incrementare») – puntano direttamente al problema dell’origine, come esplicitamente rivelato dall’uso di due espressioni verbali indicative: ἀρξάμενον (da ἄρχω, «iniziare, cominciare, dare origine», da cui ἀρχή, «principio») e φῦν (da φύω, «generare, produrre», ma anche «sorgere, nascere», da cui φύσις, «natura»). In questo senso le tre formule inquisitive (τίνα γένναν, πῇ αὐξηθέν, πόθεν αὐξηθέν) potrebbero essere assunte come equivalenti: la seconda e la terza, in particolare, come riferentesi alle condizioni necessarie alla nascita: essa è un processo (questo spiega il «come?») che richiede un’origine («donde?»)37. Analogamente gli argomenti possono essere letti come momenti della stessa progressione negativa contro l’ipotesi di γένεσις di τὸ ἐόν: le domande ne articolerebbero le implicazioni per consentire di confutarne più efficacemente le condizioni di possibilità. 37 McKirahan, op. cit., p. 193; Robbiano, p. 112. 451 Nascita e morte oscura Proprio la connessione tra γέννα e φύσις (di cui «nascita» esprimerebbe uno dei significati originari) ha fatto supporre38 che Parmenide nel nostro passo discuta il senso stesso della nozione di φύσις, scomponendola nei suoi originari termini costitutivi, di fatto attaccando la riduzione dell’Essere a φύσις. Obiettivi della confutazione sarebbero, in particolare, Esiodo (il quale aveva posto il problema: chi venne per primo?) e i pensatori ionici (per la ricerca della ἀρχή) 39. Esemplari in questa prospettiva i frammenti di Anassimandro: ἀρχὴn ... τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον ... ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι͵ καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν. principio delle cose che sono è l’infinito ... è secondo necessità che verso le stesse cose, da cui le cose che sono hanno origine, avvenga anche la loro distruzione [ovvero letteralmente: le cose dalle quali invero le cose che sono hanno la loro origine, verso quelle stesse cose avviene la loro distruzione secondo necessità]; esse, infatti, pagano le une alle altre pena e riscatto della colpa, secondo l’ordinamento del tempo (Simplicio; DK 12 B1) ταύτην (sc. φύσιν τινὰ τοῦ ἀ π ε ί ρ ο υ ) ἀίδιον εἶναι καὶ ἀ γ ή ρ ω che essa [una certa natura dell’infinito] è eterna e non invecchia (Hippolitus; DK 12 B2) ἀ θ ά ν α τ ο ν . . καὶ ἀ ν ώ λ ε θ ρ ο ν (τ ὸ ἄ π ε ι ρ ο ν = τὸ θεῖον) immortale .... e indistruttibile ( Aristotele; DK 12 B3). 38 Per esempio a Ruggiu, op. cit., p. 289. 39 Ivi, p. 290. 452 Il frammento B1 ci è conservato nella testimonianza di Simplicio, il quale nel suo commento alla Fisica aristotelica si serve del prezioso contributo di Teofrasto (uno degli ultimi a disporre probabilmente dell’opera del Milesio) nelle sue Opinioni dei fisici: la citazione, che appare sostanzialmente accurata40, è inserita in una presentazione delle opinioni di Anassimandro che è necessario non perdere di vista per intenderne correttamente le parole: [A.] [...] ἀρχήν τε καὶ στοιχεῖον εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον, πρῶτος τοῦτο τοὔνομα κομίσας τῆς ἀρχῆς. λέγει δ’ αὐτὴν μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλο τι τῶν καλουμένων εἶναι στοιχείων, ἀλλ’ ἑτέραν τινὰ φύσιν ἄπειρον, ἐξ ἧς ἅπαντας γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τοὺς ἐν αὐτοῖς κόσμους· ἐξ ὧν δὲ ... τάξιν [B 1], ποιητικωτέροις οὕτως ὀνόμασιν αὐτὰ λέγων. δῆλον δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα μεταβολὴν τῶν τεττάρων στοιχείων οὗτος θεασάμενος οὐκ ἠξίωσεν ἕν τι τούτων ὑποκείμενον ποιῆσαι, ἀλλά τι ἄλλο παρὰ ταῦτα· οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως. [...] dichiarò l’apeiron principio e elemento delle cose che sono, adottando per primo questo nome di “principio”. Egli sostiene, infatti, che esso non sia né acqua né alcun altro di quelli che sono detti elementi, ma che sia una certa altra natura infinita, da cui originano tutti i cieli e i mondi in essi: [B1], parlando di queste cose così in termini piuttosto poetici. È evidente allora che, avendo considerato la reciproca trasformazione dei quattro elementi, non ritenne adeguato porre alcuno di essi come sostrato, ma qualcosa di diverso, al di là di essi. Egli poi non fa discendere la generazione dall'alterazione dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno. [...] (Simplicio; DK 12 A9). 40 Per l’analisi relativa si rinvia al fondamentale contributo di Ch. Kahn, Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis 19943 , in particolare alla prima parte, dedicata alla documentazione dossografica. 453 Dal complesso di testimonianza e citazione possiamo in effetti intravedere nel testo di Anassimandro sei aspetti su cui si sarebbe concentrata la sua indagine: (i) l’ἄπειρον come «principio delle cose che sono» (ἀρχή τῶν ὄντων); (ii) «le cose che sono» (τὰ ὄντα), la totalità degli enti della nostra esperienza41, sottoposti ai processi di generazione (γένεσις) e corruzione (φθορά); (iii) «le cose dalle quali» (ἐξ ὧν) le altre («le cose che sono») hanno origine: nel contesto molto probabile il riferimento agli «elementi» (στοιχεία) – nel linguaggio peripatetico della testimonianza; più plausibile intendere i «contrari» (τὰ ἐναντία) da cui esse si fomerebbero direttamente, come documentato da PseudoPlutarco: φησὶ δὲ τὸ ἐκ τοῦ ἀιδίου γόνιμον θερμοῦ τε καὶ ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι καί τινα ἐκ τούτου φλογὸς σφαῖραν περιφυῆναι τῶι περὶ τὴν γῆν ἀέρι ὡς τῶι δένδρωι φ λ ο ι ό ν [Anassimandro] sostiene anche che ciò che, derivato dall’eterno, è produttivo di caldo e freddo fu separato alla generazione di questo mondo, e da esso una sfera di fiamma si sviluppò intorno all'aria che circonda la terra, come la scorza intorno all'albero (DK 12 A10); (iv) «le cose verso cui» (εἰς ταῦτα) si produce (γίνεσθαι) la corruzione delle altre cose: gli elementi (ovvero i contrari) cui esse si riducono; (v) il come tale processo si sviluppa: «secondo necessità» (κατὰ τὸ χρεών), secondo l’ordine del tempo» (κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν) 42; 41 Su questo punto la nostra interpretazione diverge da quella di Kahn (pp. 180 ss.), che costituisce ancora un riferimento imprescindibile. 454 (vi) il perché, la causa del processo: il costante e compensativo confronto conflittuale tra i contrari (διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας). Da un punto di vista filologico, Kahn43 ha convincentemente insistito sulla probabile genuinità della citazione, rilevando, con riscontri nella letteratura del periodo, le ascendenze ioniche e arcaiche del lessico del frammento: è per noi di particolare interesse la conferma – addirittura nella costruzione sintattica – dell’uso omerico di γένεσις nel senso di «generazione» ma anche di «origine causale» e - accanto alla plausibile autenticità di φθορά (termine non attestato prima di Erodoto e Eschilo), come in Parmenide impiegato nella letteratura ippocratica in contrapposizione a αὔξη («crescita») - la possibilità di τελευτή («morte»), presente, con forme verbali derivate (τελευτᾶν), in Senofane (τελευτᾶι B27) e appunto in Parmenide (τελευτήσουσι B19). Secondo quanto attesta Ippolito: οὗτος ἀρχὴν ἔφη τῶν ὄντων φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου, ἐξ ἧς γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τὸν ἐν αὐτοῖς κόσμον. ταύτην δ’ ἀίδιον εἶναι καὶ ἀγήρω [B 2], ἣν καὶ πάντας περιέχειν τοὺς κόσμους. λέγει δὲ χρόνον ὡς ὡρισμένης τῆς γενέσεως καὶ τῆς οὐσίας καὶ τῆς φθορᾶς [Anassimandro] disse che principio delle cose che sono è una certa natura dell'apeiron, da cui si generano i cieli e l'ordine [il mondo] che è in essi. Essa è eterna e non invecchia, e inoltre circonda tutti i mondi. parla poi del tempo in quanto la generazione, l'esistenza e la dissoluzione risultato ben delimitate (DK 12 A11), 42 Secondo S.A. White ("Thales and the Stars", in Presocratic Philosphy cit., p. 4) l'espressione rifletterebbe le conquiste astronomiche di Talete. Sullo stesso tema l'autore è tornato più diffusamente in "Milesian Measures: Time, Space and Matter", in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy cit., pp. 89-133). 43 Op. cit., pp. 168 ss.. 455 di quella «certa natura dell’infinito» (φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου) Anassimandro avrebbe inoltre sostenuto che (i) è «eterna» (ἀίδιον) e (ii) «non invecchia» (ἀγήρω). Predicati analoghi a quelli - «senza morte» (ἀ θ ά ν α τ ο ν , immortale) e «senza distruzione» (ἀ ν ώ λ ε θ ρ ο ν ) - che Aristotele, riferendosi esplicitamente anche ad Anassimandro, aveva a sua volta citato, nel discutere dell’ἄπειρον come principio: non a caso marcandone il nesso con «il divino» (τὸ θεῖον). Ora, è possibile che Parmenide, nel complesso della sezione B8.6-21, tenesse presenti proprio il modello se non addirittura lo scritto di Anassimandro: le assonanze verbali (ovviamente per quanto la filologia ha potuto ricostruire del testo del Milesio) appaiono esplicite, così come l'esigenza di escludere che (i) «da ciò che non è» (ἐκ μὴ ἐόντος) qualcosa possa «essere cresciuto» (αὐξηθέν) – ovvero che qualcosa possa «nascere» (φῦν) «originando dal nulla» (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον); appare chiaro soprattutto il disegno di sistematica contestazione di nozioni come γένεσις e γέννα (cui si deve aggiungere ὄλεθρος) e dell’idea stessa che (ii) «da ciò che è» (ἐκ < τοῦ ἐ > όντος) possa generarsi «qualcosa accanto [o oltre] a esso» (τι παρ΄ αὐτό). È una evidenza che la Dea, nella propria confutazione, insista sulla γένεσις, senza produrre, in effetti, una specifica argomentazione a supporto dell’incorruttibilità (ἀνώλεθρόν): sebbene poi sottolinei (vv. 14 e 21) di averlo fatto. Dobbiamo concludere44 che Parmenide giudicasse gli argomenti a sostegno di ἀγένητον sufficienti anche per ἀνώλεθρόν (considerando l’affermazione dell’indistruttibilità dell’essere implicita nell’esclusione della sua generabilità45); ovvero che non ritenesse necessario confutare la corruzione in quanto processo analogo, ancorché opposto, al precedente; o ancora che la rubricasse tra le espressioni della via negativa. Significativamente, egli connota ὄλεθρος («morte», distruzione) come ἄπυστος («oscura», oggetto di oblio) come aveva fat- 44 Con McKirahan, op. cit., p. 193. 45 Tarán, op. cit., p. 106. 456 to per la via negativa con παναπευθής («del tutto privo di informazioni» B2.6)46 . D’altra parte, l’idea di forze elementari a un tempo «immortali» e tuttavia generate era parte della tradizionale concezione del mondo omerica ed esiodea (donde il genere teogonico) 47 . Lo schema della testimonianza teofrastea ribadita da Simplicio potrebbe confermarne il residuo nella distinzione anassimandrea tra: (i) «principio» - τὸ ἄπειρον, pensato eterno e stabile, in contrapposizione all’instabilità degli elementi (στοιχεία); (ii) «contrari» (τὰ ἐναντία: di base «caldo» e «freddo») che scaturiscono per «separazione» (ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων), «a causa del movimento eterno» (διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως), e che producono con il proprio conflitto il processo cosmogonico (ovvero, più correttamente, la «cosmo-gono-phthoria»48); (iii) «cose» (τὰ ὄντα) sottoposte alla vicissitudine di generazione e corruzione. Il resoconto della Dea avrebbe dimostrato come, secondo ragione, «ciò-che-è», oltre a implicare la stessa incorruttibilità abitualmente attribuita al divino e a quanto a esso immediatamente connesso (i cieli), escludesse in ogni modo la possibilità stessa di «generazione», nel duplice senso di derivazione da qualcosa di «altro» dall'essere o di produzione di altro essere. Aristotele, i Milesi e Parmenide Possiamo trovare un'eco della discussione arcaica sulla «generazione» nella ricostruzione aristotelica delle origini della filosofia (Metafisica I, 3): a proposito della posizione della «maggioranza di coloro che per primi filosofarono» (τῶν δὴ πρώτων φιλοσοφησάντων οἱ πλεῖστοι), secondo cui «principi di tutte le co- 46 Mourelatos, op. cit., p. 97. 47 Ibidem. 48 A. Laks, Introduction à la «philosophie présocratique», PUF, Paris 2006, p. 10. 457 se» (ἀρχὰς πάντων) sarebbero «solo quelli nella forma di materia» (τὰς ἐν ὕλης εἴδει μόνας), Aristotele osserva: ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono essere elemento e questo principio delle cose, e per questo credono che né si generi né si distrugga alcunché, dal momento che una tale natura si conserva sempre (983 b8- 13). Nello schema interpretativo di Aristotele, dunque, alle origini della tradizione filosofica ritroveremmo, per dar conto del divenire degli enti, l’applicazione di un principio: nulla si genera (dal nulla) e nulla si distrugge (nel nulla). Ciò avrebbe di fatto imposto una forma di «monismo materialistico»49, di riduzione del molteplice empirico all'unità soggiacente del principio materiale. Il movimento dal principio e verso il principio, cioè verso «quella natura che si conserva sempre» (τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης), richiama quasi letteralmente (il complemento di origine è espresso al singolare e non al plurale) il frammento anassimandreo. Più avanti, precisando tale posizione che riconosce «unico il sostrato» (ἓν τὸ ὑποκείμενον), Aristotele si riferisce implicitamente agli Eleati in questi termini: ἀλλ’ ἔνιοί γε τῶν ἓν λεγόντων, ὥσπερ ἡττηθέντες ὑπὸ ταύτης τῆς ζητήσεως, τὸ ἓν ἀκίνητόν φασιν εἶναι καὶ τὴν φύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ γένεσιν καὶ φθοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαῖόν τε καὶ πάντες ὡμολόγησαν) 49 Secondo l'acuta lettura di Graham, Explaining the Cosmos…, cit., pp. 48 ss.. 458 ἀλλὰ καὶ κατὰ τὴν ἄλλην μεταβολὴν πᾶσαν· καὶ τοῦτο αὐτῶν ἴδιόν ἐστιν ma alcuni di quelli che sostengono l’unità, come sopraffatti da una tale ricerca, affermano che l’uno è immobile e così anche l'intera natura, non solo rispetto alla generazione e alla corruzione (questa è infatti convinzione antica, su cui tutti concordavano), ma anche rispetto a ogni altro mutamento: e questo era loro peculiare (984 a29-984 b1). L’inciso nel passo rende ancora più evidente l’assunto aristotelico secondo cui già i primi filosofi accettarono la doxa che è impossibile che qualcosa sia generato da ciò che non è, sviluppando sistemi in coerenza con essa: la peculiarità della posizione eleatica (a Parmenide si accenna esplicitamente due righe sotto) è risultato della “estremizzazione” della stessa doxa adottata dagli Ionici50. In pratica, Aristotele da un lato avalla una sorta di continuità tra la posizione ionica e quella eleatica - nella condivisione del principio esplicativo di fondo, dall’altro rileva lo scarto alla base della deviazione eleatica dall'indagine peri physeōs nella radicalizzazione dell’applicazione di quel principio, che avrebbe condotto alla negazione di ogni forma di divenire e dunque fuori dell’ambito della filosofia della natura. Torneremo più sotto sul modello cosmogonico e cosmologico milesio e sullo schema interpretativo aristotelico. È tuttavia opportuno anticipare come il complesso delle testimonianze (di matrice essenzialmente peripatetica) faccia in realtà intravedere la possibilità di una lettura diversa: dalla natura individuata come origine (ἀρχή) si sarebbero generate, per effetto in ultima analisi del moto intrinseco, alcune realtà elementari indipendenti (connesse ai «contrari»: Pseudo-Plutarco accenna a fuoco, aria e terra), da cui deriverebbe tutto il resto. Un modello pluralistico, che 50 Sulla ricostruzione aristotelica delle origini della filosofia sono molto interessanti le osservazioni di Leszl in W. Leszl, “Aristoteles on the Unity of Presocratic Philosophy. A Contribution to the Reconstruction of the Early Retrospective View of Presocratic Philosophy”, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp. 355-380, in particolare pp. 362 ss.. 459 ancora risentirebbe del politeismo teogonico esiodeo51, e che avrebbe suscitato dunque almeno due ordini di problemi di "second'ordine" (metacosmologici) per la riflessione posteriore: (i) perché una realtà dovrebbe avere una precedenza, un primato (ontologico) sulle altre? (ii) come è possibile che una natura ne produca altre? Da ciò che non è... Tornando ora al testo, per mostrare l’insensatezza degli interrogativi sull’origine di «ciò che è» espressi all’inizio della sezione: τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso? Come e donde cresciuto?, la Dea, come abbiamo già osservato, procede a considerare una prima eventualità: che ἐόν sia scaturito (nato e cresciuto) ἐκ μὴ ἐόντος. Tale possibilità è scartata sulla base di due successive argomentazioni: la prima si richiama alla linea di pensiero sviluppata nei frammenti precedenti: ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che non è non permetterò 51 Su questo schema interpretativo si veda in particolare Graham, Explaining the Cosmos…, cit., capp. 3 e 4. Il tema era già stato affrontato dall'autore in saggi precedenti: per esempio in "Heraclitus' criticism of Ionian philosophy", «Oxford Studies in Ancient Philosophy», 1997, 15, pp. 1-50. A. Nehamas ("Parmenides Being/Heraclitean Fire", in Presocratic Philosophy, cit., pp. 45-64), con qualche distinguo, accetta lo schema proposto da Graham. Elabora un modello analogo S.A. White, “Milesian Measures: Time, Space, and Matter”, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, cit., pp. 112 ss.. 460 che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che «non è». (vv. 7b-9a). Abbiamo sopra rilevato in questo caso la ripresa delle tesi di B2.7-8 e B6.1, e dunque di quanto immediatamente rivelato dalla Dea: (i) esistono solo «due vie di ricerca per pensare» (B2.2); (ii) «una: è» (B2.3), «l’altra: non è» (B2.5); (iii) la seconda è di fatto impercorribile, in quanto παναπευθής ἀταρπός («sentiero del tutto privo di informazioni» B2.6); (iv) è allora necessario che ciò che è sia (cρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι B6.1). Il primo argomento dipende direttamente dall’autorevolezza (e dall’autorità) del μῦθος divino, per escludere, con le sue logiche implicazioni (la formula χρή, con le sue sfumature di cogenza, correttezza e opportunità), un percorso di ricerca che coinvolga la via negativa, cioè comporti concettualmente – a qualunque titolo – il ricorso a «ciò che non è». A questa contestazione fa seguito un secondo, più discusso, argomento (vv. 9b-10): τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; Quale bisogno lo avrebbe mai spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o prima? Come abbiamo segnalato nel commento, il testo greco lascia adito a due possibili interpretazioni. (i) Perché mai, in un momento qualsiasi, «ciò che è» dovrebbe generarsi? Nel «nulla», in effetti, manca una ragione per cui esso debba sorgere. (ii) Per quale circostanza – ammettendo che sia generato - «ciò che è» dovrebbe generarsi in un momento dato piuttosto che in un altro («più tardi piuttosto che prima»)? In realtà - «originando dal nulla» - non c’è ragione per cui un momento debba essere privilegiato rispetto a un altro: non vi è affatto ragione, dunque, per la sua generazione. In entrambi i casi ci troviamo in presenza dell’applicazione del principio di ragione, per cui un evento determinato è necessario 461 che abbia la propria «ragione», cioè la propria causa, in una situazione che possa produrlo (e quindi anche spiegarlo). La più antica, esplicita formulazione del principio è in Leucippo (dalle fonti ellenistiche supposto discepolo di Zenone e dunque considerato vicino alla concettualità eleatica): οὐδὲν χρῆμα μάτην γίνεται, ἀλλὰ πάντα ἐκ λόγου τε καὶ ὑπ’ ἀνάγκης nulla accade invano, ma tutto da ragione e necessità (DK 67 B2). In questo senso, la risposta di Parmenide agli interrogativi sull’origine di «ciò che è» è netta: nel «nulla» non è possibile rintracciare tale causa; non c’è ragione per cui «ciò che è» debba nascere (φῦν) dal nulla. Ma nella seconda interpretazione, al comune terreno rappresentato dal principio di ragione si aggiungerebbe un’ulteriore implicazione: il ricorso consapevole all'indifferenza rispetto al tempo52, per cui nulla si verifica senza che vi sia una ragione sufficiente a spiegare perché è così e non altrimenti. La nascita in un momento piuttosto che in un altro non è casuale, ma conseguenza necessaria di una causa determinata53: (i) affinché «ciò che è» si possa generare, è necessario si generi in un certo momento; (ii) ma, derivando dal nulla, non c’è ragione per cui si generi in un momento piuttosto che in un altro; (iii) non essendoci ragione per cui esso si generi in un qualche momento, esso non potrà mai generarsi. Insomma: deve esserci qualcosa che faccia la differenza: il non-essere non può fare differenza. È qui possibile ancora un’eco di Anassimandro, nel cui scritto sarebbe stata presente una particolare applicazione cosmologica del principio, per giustificare l’immobilità e la centralità della Terra all’interno della sfera celeste: 52 Leszl, op. cit., p. 183. 53 Conche, op, cit., p. 140. 462 τὴν δὲ γῆν εἶναι μετέωρον ὑπὸ μηδενὸς κρατουμένην, μένουσαν δὲ διὰ τὴν ὁμοίαν πάντων ἀπόστασιν La Terra è sospesa, da nulla dominata: rimane nel suo luogo a causa della equidistanza da tutto [da tutti i punti della circonferenza celeste?] (Ippolito; DK 12 A11) μέσην τε τὴν γῆν κεῖσθαι κέντρου τάξιν ἐπέχουσαν la terra giace in mezzo, occupando la posizione centrale (Diogene Laerzio; DK 12 A1) εἰσὶ δέ τινες οἳ διὰ τὴν ὁμοιότητά φασιν αὐτὴν μένειν, ὥσπερ τῶν ἀρχαίων Ἀναξίμανδρος· μᾶλλον μὲν γὰρ οὐθὲν ἄνω ἢ κάτω ἢ εἰς τὰ πλάγια φέρεσθαι προσήκει τὸ ἐπὶ τοῦ μέσου ἱδρυμένον καὶ ὁμοίως πρὸς τὰ ἔσχατα ἔχον· ἅμα δ’ ἀδύνατον εἰς τὸ ἐναντίον ποιεῖσθαι τὴν κίνησιν· ὥστ’ ἐξ ἀνάγκης μένειν vi sono alcuni, come Anassimandro tra gli antichi, che sostengono che essa [la terra] rimanga in posizione a causa della equidistanza: una cosa stabilita al centro, infatti, e equidistante rispetto agli estremi, non conviene si porti verso l’alto piuttosto che verso il basso o orizzontalmente; ma poiché è impossibile muoversi contemporaneamente in direzioni opposte, necessariamente rimane in posizione (Aristotele, De Caelo 295 b11-16; DK 12 A26). Nel caso del Milesio l’indifferenza (e quindi l’assenza di “ragione” per il movimento in una direzione o nell’altra) è espressa in relazione ai limiti celesti; Parmenide l’avrebbe applicata al tempo, nel senso di negare la possibilità che nel nulla si dia ragione per fare differenza, ai fini di un’ipotetica generazione dell’essere, tra un momento e l’altro. Appare tuttavia più plausibile che il filosofo intendesse semplicemente marcare la mancanza di una ragione per cui, «originando dal nulla», «ciò che è» si possa formare in un qualsiasi momento: nella completa negatività del non-essere non può tro- 463 varsi alcuna necessità che possa generarlo, nulla che possa fungere da ragione (causa) per la sua generazione54 . Al termine del secondo argomento, al v.11, abbiamo un rilievo: οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί Così è necessario sia per intero o non sia per nulla. Insistendo sul valore avverbiale di οὕτως, qui non ritroveremmo la conclusione del ragionamento ma solo una sottolineatura importante: «ciò che è» deve essere integralmente ingenerato ovvero assolutamente non essere. In pratica la Dea ribadirebbe l’alternativa fondamentale della propria rivelazione, escludendo che tra le due vie possa darsi una via intermedia e dunque un commercio tra essere e non-essere. Come indicato in nota al testo, McKirahan55 ha riconosciuto al verso una funzione prolettica: segnalerebbe che quanto stabilito è rilevante per la successiva discussione. In effetti, πάμπαν πελέναι appare plausibile parafrasi di «tutto omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον), «tutto pieno d’essere» (πᾶν ἔμπλεόν ἐόντος) - discussi a partire dal v. 22 – piuttosto che di «ingenerato» o «ingenerato e incorruttibile». Se invece, come per lo più si riscontra tra gli interpreti, si attribuisce a οὕτως valore conclusivo («perciò»), il verso risulterebbe comunque anticipare la krisis dei vv. 15-16 («Il giudizio in proposito dipende da ciò: "è" o "non è"»), ribadendo l’assoluta incompatibilità di essere e non-essere e dunque negando un passaggio dal non-essere all’essere (e viceversa): nel contesto questo significa bandire definitivamente la possibilità di generazione «dal nulla», ovvero che ci possa essere una diversità dell’essere nel tempo56. Leszl, in particolare, convinto che l’uso degli avverbi sottolinei nei vv. 9-10 la preoccupazione parmenidea rispetto alla generazione nel tempo, interpreta: «in ogni momento l’essere c’è tutto o non c’è per nulla»57. In questo senso la conclusione – e- 54 Leszl, op. cit., p. 185. 55 Op. cit., p. 194. 56 Leszl, op. cit., pp. 185-186. 57 Ivi, p. 185. 464 scludendo il variare nel tempo di «ciò che è» – effettivamente diventa anche funzionale alla successiva discussione della sua omogeneità. Né mai dall’essere... Accettando l’emendazione di Karsten, i vv. 12-13a risultano: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né mai concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. In pratica, dopo aver eliminato la possibilità di una derivazione di «ciò che è» dal non-essere, la Dea si sbarazza rapidamente anche della possibilità alternativa: che «ciò che è» si generi da altro essere. In che senso, infatti, «qualcosa» (τι) potrebbe «generarsi» (γίγνεσθαί) «dall’essere» (ἐκ < τοῦ ἐ > όντος)? Parmenide assume che la nozione di γένεσις ἐκ < τοῦ ἐ > όντος introduca implicitamente la prospettiva di qualcosa di diverso dall’essere, cioè che «accanto [o oltre] a esso» (παρ΄ αὐτό) possa prodursi altro. È plausibile che anche qui egli si confronti direttamente con la riflessione sull’ἀρχή: nella misura in cui si riconosca l’ἀρχή come «ciò che è» e si tenga fermo il principio di esclusione del nonessere, che cosa potrebbe generarsi «accanto [oltre] a esso»? In pratica ammettere la generazione dall’essere comporterebbe riconoscere che: εἶναι μὴ ἐόντα siano cose che non sono (B7.1). La Dea in proposito può ricorrere a una formula di divieto diversa da quella “personale” utilizzata in B8.7 (ἐάσω ... οὐδὲ «non permetterò che...»): in questo caso la proibizione risulta più astratta, vincolata a una considerazione razionale (οὐδὲ ποτ΄ ... 465 ἐφήσει πίστιος ἰσχύς «Né mai concederà forza di convinzione [certezza]», B8.12), alla linea di pensiero espressa nel testo precedente. Una versione alternativa dell’ultimo argomento è quella tradizionalmente accolta sulla scorta dell’autorevolezza del codice di Simplicio: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né mai dal non essere concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. (B8.12-3) Si tratterebbe di un ulteriore sostegno (il terzo) alla negazione della possibilità di generazione dal nulla, che presenta tuttavia una difficoltà: il riferimento, nel contesto, dell’espressione παρ΄ αὐτό. Coxon58, per esempio, traduce: Nor will the strength of conviction ever impel anything to come to be alongside it from Not-being, riconoscendo a παρ΄ αὐτό valore locativo e riferendolo all’essere. In modo analogo intendono il passo, tra gli altri, Mansfeld59, per sottolineare come ogni origine dal nulla sia impossibile (il nulla è l’assoluto nihil), e Cerri60, che vi intravede addirittura la dimostrazione che l’Essere è οὖλον μουνογενές e ἕν, συνεχές. Altri, come Leszl61 esplicitamente, riferiscono αὐτό a μὴ ἐόντος, e colgono una (nuova) giustificazione del principio di ragione (ex nihilo nihil fit): il non-essere, per la sua negatività, non può essere la causa di qualcosa. Conche62 segnala, in questo caso, come risulti incomprensibile attribuire valore comparativo ad αὐτό («autre chose que lui-mêmê»), dal momento che così la Dea implicherebbe l’esistenza del Non-essere. 58 Op. cit., p. 197. 59 Op. cit., p. 95. 60 Op. cit., p. 224. 61 Op. cit., p. 187. 62 Op. cit., p. 143. 466 Alcuni 63 di coloro che mantengono la lezione dei codici di Simplicio - e quindi non riconoscono struttura dilemmatica all’argomentazione parmenidea, rilevandovi piuttosto tre successive, insistite contestazioni contro la possibilità della genesi e dell’accrescimento dal non-essere - colgono nel passo un riferimento al concetto pitagorico di «vuoto» (= non-essere), così attestato in Aristotele: εἶναι δ’ ἔφασαν καὶ οἱ Πυθαγόρειοι κενόν, καὶ ἐπεισιέναι αὐτὸ τῷ οὐρανῷ ἐκ τοῦ ἀπείρου πνεύματος ὡς ἀναπνέοντι καὶ τὸ κενόν, ὃ διορίζει τὰς φύσεις, ὡς ὄντος τοῦ κενοῦ χωρισμοῦ τινὸς τῶν ἐφεξῆς καὶ [τῆς] διορίσεως· καὶ τοῦτ’ εἶναι πρῶτον ἐν τοῖς ἀριθμοῖς· τὸ γὰρ κενὸν διορίζειν τὴν φύσιν αὐτῶν Anche i Pitagorici affermarono ci fosse il vuoto, e che esso penetrasse, dall’infinito soffio, nel cielo [universo] come se [questo] respirasse, e che fosse il vuoto che delimita le realtà, quasi essendo il vuoto qualcosa di separato delle cose successive e di distinzione; affermarono anche che questo avvenga dapprima nei numeri: il vuoto, infatti, distingue la loro natura (Aristotele, Fisica IV, 6 213 b) οἱ μὲν οὖν Πυθαγόρειοι πότερον οὐ ποιοῦσιν ἢ ποιοῦσι γένεσιν οὐδὲν δεῖ διστάζειν· φανερῶς γὰρ λέγουσιν ὡς τοῦ ἑνὸς συσταθέντος, εἴτ’ ἐξ ἐπιπέδων εἴτ’ ἐκ χροιᾶς εἴτ’ ἐκ σπέρματος εἴτ’ ἐξ ὧν ἀποροῦσιν εἰπεῖν, εὐθὺς τὸ ἔγγιστα τοῦ ἀπείρου ὅτι εἵλκετο καὶ ἐπεραίνετο ὑπὸ τοῦ πέρατος Non si deve allora essere per nulla esitanti circa la questione se i Pitagorici non assumano o assumano la generazione: essi, infatti, affermano chiaramente che, una volta costituito l’uno – sia da superfici, sia da un piano, sia da un seme, sia da cose che sono in difficoltà a indicare – subito la parte prossima dell’infinito fu attirata e delimitata dal limite (Aristotele, Metafisica XIV, 3 1091 a13-18). 63 Cornford, Raven, Untersteiner, Mondolfo, per esempio. 467 Mondolfo64, in particolare, nel complesso della sezione B8.5- 21 non coglie semplicemente la negazione del divenire come processo di generazione e corruzione, in antitesi ai modelli cosmogonico e teogonico, ma l’attacco a una concezione determinata, di cui lo studioso ritiene si possano tracciare i contorni definiti: una dottrina che affermava la molteplicità in connessione con la discontinuità; che introduceva la generazione dell’essere, senza precisarne processo e necessità, e, soprattutto, suscitava il problema dell’inizio, suscettibile di accrescimento in relazione al nonessere. Come risulta appunto dall'attestazione aristotelica, si sarebbe trattato della cosmologia pitagorica, l’evocazione della quale spiegherebbe convincentemente anche la sequenza di interrogativi ai vv. 6-7 e in genere la scelta dei σήματα dell’essere da parte di Parmenide. Pur non escludendo le due possibilità - (i) che la versione dei codici di Simplicio sia quella corretta e (ii) che l’allusione sia effettivamente alla “respirazione cosmica”, che avrebbe lasciato anche altre tracce antiche (in Senofane e Pindaro, secondo Mondolfo65) – l’impressione è che in realtà l’insistenza del poeta sia essenzialmente su γενέσθαι e ὄλλυσθαι e che l’eventuale riferimento dottrinale sia da individuare all’interno di una discussione più ampia, in cui per Parmenide era fondamentale attaccare le posizioni che in qualche misura ancora implicavano γένεσις e ὄλεθρος. In questa prospettiva, l’emendazione che abbiamo accolto e la connessa ricostruzione argomentativa (in cui οὐδέ al v. 12 richiama οὔτε al v. 7) appaiono più convincenti. Sarebbe forse praticabile un’altra strada66 per l’interpretazione di ἐκ μὴ ἐόντος, tuttavia più complessa e meno plausibile: ammettere che l’espressione abbia un senso, nella lettura parmenidea, proprio in relazione alle nozioni di περιέχον, ἄπειρον e ἀρχή, quasi 64 E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte Prima, vol. II: Ionici e Pitagorici, a cura di R. Mondolfo, La Nuova Italia, Firenze 1967, pp. 652-3. 65 Ivi, p. 653. 66 Su questo Conche, op. cit., pp. 143-4. 468 che alle concezioni dei pensatori milesi e pitagorici fosse connaturato il «non-essere». Aristotele è ancora prezioso: διό, καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν per questo diciamo che di esso [riferimento all’ἄπειρον] non c’è principio, ma che esso stesso sembra essere principio di tutte le cose e tutte comprendere [abbracciare] e tutte governare (Fisica IV, 4 203 b10-12; DK 12 A15). Marcando l’origine degli enti nel loro complesso da un ἄπειρον-ἀρχή che è anche περιέχον (avvolge «tutte le cose»), Anassimandro – così come i pensatori che ne ereditarono a vario titolo lo schema cosmogonico - ne avrebbe fatto un “non-ente”, qualcosa di diverso dagli enti di cui sarebbe stato principio. È chiaro, comunque, che in questa accezione l’ἄπειρον-ἀρχή difficilmente avrebbe potuto essere inteso propriamente come nulla e appare dubbia la possibilità che in questo senso Parmenide vi si possa rivolgere polemicamente. Giustizia e le sue catene A questo punto del suo ragionamento - una volta esclusa la possibilità di γένεσις sia dal non-essere sia dall’essere e ribadito che «ciò che non è» non è dicibile e pensabile - la Dea può concludere provvisoriamente (vv. 13-15a): τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. 469 L’interesse del rilievo è legato al fatto che Parmenide sceglie, nel contesto della narrazione avviata con il proemio, all’interno del discorso che la Dea rivolge al proprio interlocutore, e in particolare di un passaggio argomentativo, di riconoscere a Dike – e poi a Ananke e Moira - un ruolo di garanzia: esso si presta a una lettura simbolica, quasi che la citazione della figura (e della funzione) mitica fosse semplice «metafora»67. Così intendono molti interpreti, per i quali i tre numi tradizionali, proprio per il loro intrinseco riferimento al rispetto dei limiti, sottolineerebbero la «ineluttabile legge dell’Essere» 68 : in altre parole, come l’Essere debba sempre essere identico a se stesso. La questione è, in realtà, più complessa, sia dal punto di vista della costruzione del poema, sia da quello delle specifiche implicazioni: (i) Δίκη πολύποινος è elemento strutturale della narrazione: le sono espressamente attribuite una collocazione liminare e, in relazione a essa, una (tradizionale) mansione di sorveglianza; (ii) essa, tuttavia, sin dal proemio, è anche parte dell’azione: persuasa dall’intervento delle Eliadi, Giustizia vien meno al proprio compito di tutela del mondo infero e dei confini, consentendo l’accesso a un mortale; (iii) Θέμις e Δίκη sono espressamente evocate dall'anonima divinità all’esordio del suo discorso: il viaggio del poeta si compie non sotto l’impulso di Μοῖρα κακὴ, ma sotto l’egida della Giustizia. Le figure del mito (Dike, Ananke, Moira), insieme allo schema del «cammino» (ὁδός) - ovvero «pista» (πάτος) o «via» (κέλευθος), costituiscono la struttura portante nell'architettura dell’opera69, elementi di continuità nella sua articolazione, le sue condizioni “trascendentali”: il contesto entro cui le specifiche trattazioni su «ciò che è» e sulla Doxa assumono il proprio senso e statuto. Certamente le tre figure svolgono la propria mansione di 67 Ivi, p. 146. 68 Tarán, op. cit., p. 117. 69 Un aspetto, questo, registrato da Couloubaritsis nelle prime edizioni della sua opera e accentuato nell’ultima edizione, La pensée de Parménide, cit.. 470 garanzia “trascendendo” «ciò che è» (ἐόν), ovvero danno l’impressione, nelle parole della Dea, di sovrintendere (problematicamente) all’Essere dall’esterno70, a dispetto della sua assolutezza. In questa prospettiva, Dike, in particolare, assume nel poema una posizione peculiare: essa protegge τὸ ἐόν da γένεσις e ὄλεθρος avvolgendolo e trattenendolo in catene, in altri termini preservandone il perfetto equilibrio attraverso l’esclusione della coppia oppositiva nascita-morte71. Se nel proemio il suo ruolo era stato, secondo costume, quello di consegna al portale discriminante del mondo infero, di salvaguardia dei confini tra mondo della vita e mondo della morte, nel nostro passo tale connotazione si modifica nel senso che la garanzia passa per la discriminazione tra essere e non-essere, con conseguente immobilizzazione e omogeneizzazione dell’essere stesso: oltre l’essere non si dà un mondo altro. Possiamo solo registrare alcune espressioni indicative: οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (B8.13-15a) κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del laccio [lo] tiene (B8.30-31) Μοῖρ΄ ἐπέδησεν Moira [lo] ha costretto... (B8.37). La Robbiano ha accostato, su questo punto, la posizione di Parmenide a quella di Anassimandro, per cui, come sappiamo, l’ἄπειρον «circonda e governa» ogni cosa: Parmenide, reagendo 70 Robbiano, op. cit., pp. 166-7. 71 Ivi, pp. 174-5. 471 forse a questa soluzione e all’idea pitagorica di confine cosmico, avrebbe introdotto il riferimento a un limite estremo della realtà, sorvegliato da figure di garanzia. A dispetto delle differenze, entrambi gli autori avrebbero inteso marcare immutabilità ed equilibrio dell’universo, che nulla può giungere a turbare dall’esterno. Mentre l’ἄπειρον, tuttavia, appare come ipostatizzazione della causa dell’equilibrio, Dike, Ananke e Moira, pur sovrintendendo all’Essere dall’esterno (come l’ἄπειρον), non hanno consistenza ontologica, ma solo l’ufficio di orientare, guidare la comprensione dell’audience cui il poema si rivolgeva72 . In realtà, il recupero del mito nel contesto, con la sua “eccedenza” rispetto al dato argomentativo, e la conseguente (apparente) «messa in questione» dell’assolutezza dell’essere, potrebbe segnalare, come vuole Couloubaritsis73, la difficoltà di Parmenide a giustificare argomentativamente uno stato limite o ultimo: nell’argomentazione sviluppata, infatti, nulla autorizzerebbe a ricavare non-miticamente la limitazione dell’essere. Il mito, attraverso l’uso che ne fa la dea, supplirebbe a questa mancanza, rivelando che il logos non ha autonomia assoluta: utilizzate per significare l’essere come se lo trascendessero, le figure delle tre divinità tradizionali acquisirebbero così uno statuto trascendentale e sarebbero il segno di un'integrazione, all’interno del poema, tra discorso significante e discorso mitico74 . Giudizio ed essere D’altra parte, che la tutela di Giustizia sia essenzialmente logica si mostra nei vv. 15b-18: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής 72 Ivi, pp. 166-8. 73 Mythe et philosophie…, cit., p. 217. 74 Ivi, p. 250. 472 ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale. Il linguaggio e le immagini insistite - «sciogliendo le catene» (χαλάσασα πέδῃσιν v. 14), «nei vincoli di grandi catene» (μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν v. 26), «nelle catene del vincolo [lo] tiene» (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει v. 31) – puntano, da un lato, direttamente alla pratica razionale della decisione giudiziaria, dall’altro alla conseguente restrizione di libertà: il vincolo che Giustizia impone non è arbitrario; la condizione che essa prescrive è logicamente incontrovertibile, donde la formula «secondo necessità» (ὥσπερ ἀνάγκη). Come abbiamo sopra ricordato, il passaggio evoca sinteticamente le ragioni della scelta dell’ἔστιν: (i) ripresa dell’alternativa tra le formule contraddittorie ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν; (ii) esclusione della via οὐκ ἔστιν: in quanto «non genuina» (οὐ ἀληθής), essa è anche ἀνόητον ἀνώνυμον; (iii) conseguente concentrazione su ἔστιν: «che l’altra esista e sia reale» (τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι). Sulla scorta di premesse individuabili negli esordi della sua comunicazione (B2), e di cui era stato opportunamente segnalato il rilievo, la Dea può ribadire l’impraticabilità del non-essere e delle nozioni che in qualche misura lo implichino, come appunto γενέσθαι e ὄλλυσθαι. Con una precisazione interessante: delineata come alternativa tra formule contraddittorie, ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, in verità la krisis di B2 è tale solo apparentemente, dal momento che - la Dea deve riconoscere - la via οὐκ ἔστιν non è «genuina», è via solo in teoria, in quanto costruita sulla contraddizione con l’unica realtà: ἔστιν. È da escludere, dunque, che la stessa divinità possa in qualche misura servirsene, per esempio nella seconda sezione del poema, come qualche interprete vorrebbe. 473 Essere e tempo I versi che seguono (vv. 19-21) e concludono la prima sezione argomentativa del frammento sono ancora di controversa interpretazione: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι. τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος ὄλεθρος E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come potrebbe essere nato? Se nacque, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere in futuro. Così è estinta nascita e morte oscura. Che la dimensione temporale sia centrale è chiaro nell’uso dei tempi verbali e degli avverbi, così come è esplicita la connessione tra temporalità e γένεσις-ὄλεθρος. Il testo e la sua resa presentano difficoltà, di cui abbiamo dato notizia in nota. A un primo livello di lettura, appare evidente come Parmenide giochi sulla contrapposizione tra forme del verbo «essere» (εἶναι: ἔστι, ἔσεσθαι, τὸ ἐόν, ma anche πέλοι) e forme di «venire a essere» (γίγνεσθαι: γένοιτο, ἔγεντo, γένεσις). La convinzione da veicolare con tale costruzione verbale è che se l’essere (τὸ ἐόν) è coinvolto in processi («nacque» ovvero «dovrà essere [in seguito]»), e dunque diviene, esso propriamente «non è» (ovvero non è sempre allo stesso modo75), così contraddicendo l’immediata evidenza della «via: è» - che comportava l’altrettanto immediata ammissione: «non è possibile non essere» (ἔστι καὶ οὐκ ἔστι μὴ εἶναι). Ciò che è propriamente (τὸ ἐόν) è sempre uguale a se stesso, come suggerisce l’uso (durativo) di ἔστι; ciò che diviene (γένεσις può valere genericamente come «venire a essere»), come tale, è instabile, è e non-è (non è più o non è ancora). Già a livello verbale, dunque, Parmenide intende rilevare la reciproca incompatibilità delle condizioni designate dai due verbi. 75 Leszl, op. cit., p. 190. 474 Se τὸ ἐόν è venuto a essere, è ora diverso da come fu; se verrà a essere in seguito, ora è diverso da ciò che sarà76: il mutamento che implichiamo nelle espressioni temporali è inconciliabile con la natura dell’Essere (ingenerato e immortale). Interpretando, potremmo affermare, con Conche77, che quel che vale per la temporalità degli enti della nostra esperienza irriflessa non vale per l’essere di cui la Dea traccia i contorni: l’essere è «ora», nel senso che è sempre uguale a se stesso. In alternativa, in vece della polarità passato-presente ovvero «venire a essere»-«essere» (εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι), è possibile valorizzare l'implicazione tra «venire a essere» e «non-essere»: ogni venire all'esistenza, in effetti, presuppone sempre - indipendentemente dalla prospettiva temporale (passato remoto o futuro prossimo: εἰ ἔγεντo - εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι) - una non-esistenza (οὐκ ἔστι). In ogni caso, appare a questo punto evidente il nesso dell’argomento nel suo complesso con i vv. 5-6: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Negare il passaggio da non-essere a essere e viceversa – come nei vv. 6-18 – ovvero l’eventualità di un mutamento dell’essere nel tempo, significa riconoscere che «in ogni momento l’essere c’è tutto o non c’è per nulla»78 (ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί v. 11), e dunque collegare il ragionamento che porta a escludere γένεσις e ὄλεθρος al rilievo dell’identità di ciò che è con se stesso e alla problematica caratterizzazione di ἐόν rispetto alla temporalità che ritroviamo nei vv. 5-6. Interessante la ripresa del nesso in Melisso: 76 Tarán, op. cit., p. 105. 77 Op. cit., p. 148 78 Leszl, op. cit., p. 186. 475 ἀεὶ ἦν ὅ τι ἦν καὶ ἀεὶ ἔσται. εἰ γὰρ ἐγένετο, ἀναγκαῖόν ἐστι πρὶν γενέσθαι εἶναι μηδέν· εἰ τοίνυν μηδὲν ἦν, οὐδαμὰ ἂν γένοιτο οὐδὲν ἐκ μηδενός Sempre era ciò che era [qualsiasi cosa era] e sempre sarà. Se, infatti, fosse nato, è necessario che, prima di nascere, non fosse nulla; ora, se non era nulla, in nessun modo nulla potrebbe nascere dal nulla (DK 30 B1) […] εἰ γὰρ ἑτεροιοῦται, ἀνάγκη τὸ ἐὸν μὴ ὁμοῖον εἶναι, ἀλλὰ ἀπόλλυσθαι τὸ πρόσθεν ἐόν, τὸ δὲ οὐκ ἐὸν γίνεσθαι. εἰ τοίνυν τριχὶ μιῆι μυρίοις ἔτεσιν ἑτεροῖον γίνοιτο, ὀλεῖται πᾶν ἐν τῶι παντὶ χρόνωι [...] se diventa altro, infatti, è necessario che l’essere non sia uguale, ma che si distrugga ciò che era prima e si generi ciò che non è. Se allora si alterasse di un solo capello in diecimila anni, si distruggerebbe tutto quanto per tutto il tempo (DK 30 B7, §2) La stessa preoccupazione, di marcare l’indifferenza dell’essere rispetto al tempo, negare, in altre parole, la possibilità che il tempo possa comportare una differenza per l’essere, è espressa chiaramente in termini più lineari e immediati, sottolineando soprattutto la durevole identità temporale dell’essere. In questo senso, la sintetica connotazione melissiana di τὸ ἐὸν - «è eterno, infinito, uno, tutto uguale» (ἀίδιόν ἐστι καὶ ἄπειρον καὶ ἓν καὶ ὅμοιον πᾶν, DK 30 B7, §1) - interpreterebbe la formula parmenidea «è ora tutto insieme, uno, continuo» (νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές), in cui è necessario considerare l’avverbio unitamente agli attributi, per intendere correttamente il primo emistichio del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται. Ciò che la Dea sembra negare è la possibilità di pensare coerentemente: τὸ ἐόν «[in] un tempo [passato] era» ovvero «[in] un tempo [a venire] sarà». Accettando la nostra traduzione, espressioni verbali come «era» e «sarà» sono rifiutate in quanto modificate dall’avverbio ποτε («un tempo, una volta»). Il verso manifesterebbe allora il proprio senso nella contrapposizione tra tempi 476 verbali e forme avverbiali temporali: da un lato «né un tempo era» (οὐδέ ποτ΄ ἦν) e «né [un tempo] sarà» (οὐδ΄ ἔσται), dall’altro «è ora» (νῦν ἔστιν). Le due proposizioni coordinate sono a loro volta subordinate da un nesso causale - «poiché» (ἐπεὶ) – alla terza («è ora tutto insieme, uno, continuo»): in altre parole è il rilievo della completezza, omogeneità e integrità (ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές) di «ciò che è» a escludere qualsiasi forma di discontinuità e dunque di autentica discriminazione temporale. Questa costruzione si rifletterebbe anche nell’argomento complessivo dei vv. 6-21: la Dea dapprima si concentra sull’eventualità che «ciò che è» sia divenuto (nato e cresciuto), quindi (v. 19) considera interrogativamente che τὸ ἐόν possa esistere in futuro: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come potrebbe essere nato? Se è nato, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere in futuro. Se riscontriamo i vv. 5 e 20: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι possiamo notare come la Dea insista a marcare l'incompatibilità tra esistenza passata e\o esistenza futura (che implicano οὐκ ἔστι) e quella condizione presente (νῦν) che si esprime nell’«è»79 e ne riflette il valore «stativo»80 . 79 Ma come insegna Palmer, ἔστιν è forma riassuntiva di ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι; o, come preferiamo, ἔστιν esprime immediatamente l’evidenza, di cui οὐκ ἔστι μὴ εἶναι è contestuale inferenza. 80 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 94. Sulla questione lo studioso italiano richiama i numerosi lavori di Kahn, ora riuniti in Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009. 477 Isolando (e assolutizzando) le espressioni verbali (ἦν, ἔσται, ἔστιν, ἔγεντο, μέλλει ἔσεσθαι), si è avvertito in queste battute il delinearsi di un punto di vista ardito: l’idea dell’eternità come atemporalità, totale estraneità dell’essere al tempo. Valorizzando, invece, le funzioni avverbiali (ποτε, νῦν), è forse più prudente limitarsi a segnalare come – pur sempre all’interno di una prospettiva temporale (che privilegia il presente) – la Dea rifiuti di riconoscere, in relazione a τὸ ἐόν, la validità (sensatezza) del riferimento alle dimensioni temporali del passato e del futuro. L’impressione che Parmenide insista sul presente per sottolineare l'identità dell’essere è rafforzata dalla reiterazione di formule di persistenza (e stabilità) già ricordate: τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει· né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13-15a) κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del laccio [lo] tiene (vv. 30-31), cui possiamo aggiungere quella che è forse la formulazione più pregnante: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30), dove la costruzione verbale (μένον, κεῖται, μένει) e avverbiale (ἔμπεδον ma anche le espressioni ἐν ταὐτῷ, καθ΄ ἑαυτό) segnala nuovamente la preoccupazione di fondo dell’autore circa identità 478 e immutabilità di «ciò che è», e sua estraneità a processi che possano contraddirle. Al v. 21 si conclude il lungo argomento, con l’esplicita esclusione dei due indicatori fondamentali del divenire (e, per quel che abbiamo potuto notare, della temporalità): τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος ὄλεθρος Così è estinta nascita e morte oscura. In entrambi i casi, l’accettazione di un «venire a essere» ovvero di una «distruzione» dell’essere comporterebbe l’implicita ammissione di ciò che non è, il riferimento a un impraticabile passaggio dal o verso il nulla. Comunque sia tradotto il verso (si vedano le annotazioni al testo), sulla scorta delle argomentazioni precedenti, Parmenide chiude la propria esposizione relativamente a un punto essenziale nel quadro della cultura contemporanea: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν che senza nascita è ciò che è e senza morte (v. 3). L’estinzione dei processi veicolati dai termini γένεσις e ὄλεθρος passa attraverso (i) la decisione tra «è» e «non-è», (ii) l’inaccettabilità della loro commistione, (iii) il riconoscimento che il nulla è inindagabile: donde forse la caratterizzazione della morte (distruzione) come ἄπυστος, «inaudita», «inconcepibile». Omogeneo e continuo I vv. 22-25 costituiscono un nuovo blocco a giustificazione dei σήματα: οὖλον (intero), μουνογενές (uniforme), ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme), συνεχές (continuo): οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος. τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. 479 Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È perciò tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è. Impermeabile al non-essere, «ciò che è» non può che essere «omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον letteralmente «tutto uguale»), «pieno» (ἔμπλεόν), «continuo» (ξυνεχὲς): in altre parole, è «tutto» (πᾶν, termine ripetuto tre volte in quattro versi) identico a se stesso (uniforme). In questo senso, esiste indubbiamente, tra questo gruppo di σήματα, il precedente e i successivi, la forte connessione garantita dai versi sopra citati: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30). L’indivisibilità, l’irriducibilità dell’essere seguono alla sua omogeneità, alla sua densità, in ultima analisi al bando della via «non è»: nulla può inframezzarsi a «ciò che è». In poche battute la Dea sottolinea coerentemente tale omogeneità con una serie di espressioni: (i) «non c’è alunché che possa impedirgli di essere continuo»; (ii) «è tutto pieno di ciò che è»; (iii) «è tutto continuo»; (iv) «ciò che è si stringe a ciò che è». Ora, è chiaro che centrale risulta la (ii): πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος; una affermazione che sembra ricavata direttamente dalla enunciazione della tesi di fondo di B2 (ἔστιν τε καὶ [...] οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), esplicitata in B6.1-2a: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν. 480 Dal riconoscimento dell’identità dell’essere con se stesso (ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι), e dal contestuale bando del nulla (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν), seguono sia che «tutto pieno è di ciò che è», sia che nulla «possa impedirgli di essere continuo», e, ulteriormente, le due caratterizzazioni equivalenti del verso finale del passo: «è tutto continuo» e «ciò che è si stringe a ciò che è». Tutto intero, uniforme Parmenide suggerisce compattezza, coesione e identità, in forza di scelte espressive che escludono la possibilità di distinzione, riduzione, separazione: πᾶν ὁμοῖον, συνέχεσθαι, ἔμπλεόν, ξυνεχὲς πᾶν, πελάζει. Le implicazioni materiali e psicologiche della pienezza e dei vincoli evocati sono state messe in valore nell’analisi di Mourelatos81, il quale ha marcato la presenza sullo sfondo di due elementi: (i) la semplicità inqualificata di ciò-che-è; (ii) la negazione di dualismi. Questo consente di collegare il passo in questione con l’iniziale rilievo (v. 4) dell’espressione «tutto intero, uniforme» (οὖλον μουνογενές), che, sempre secondo Mourelatos82, anticiperebbe l’argomento a sostegno dell'indivisibilità, anche grazie all’amplificazione di B8.5b-6a: ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές. Come abbiamo segnalato in nota al testo, per il significato della formula μουνογενές lo studioso richiama un importante precedente esiodeo, che Parmenide avrebbe avuto ben presente e in opposizione al quale avrebbe coniato la propria espressione: Οὐκ ἄρα μοῦνον ἔην Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν εἰσὶ δύω· τὴν μέν κεν ἐπαινήσειε νοήσας, ἣ δ’ ἐπιμωμητή· διὰ δ’ ἄνδιχα θυμὸν ἔχουσιν Non vi era dunque un solo genere di Eris [Contesa], ma sulla terra ce ne sono due: l’una potrebbe onorare chi la comprenda; 81 Op. cit., pp. 111-2. 82 Ivi, p. 95. 481 l’altra è da riprovare; hanno animo diverso e opposto (Le opere e i giorni 11-13). Il segnavia μουνογενές indicherebbe dunque un'identità di genere, di natura, un’uniformità tale da escludere qualsiasi forma di potenziale discriminazione all’interno dell’essere: in questo senso sarebbe impiegato – nel nostro frammento – in antitesi alla dicotomia che il filosofo pone al fondo delle «opinioni mortali» (δόξας βροτείας v. 51), costruite intorno a una coppia di «forme» (μορφὰς δύο v. 53) distinte oppositivamente (τἀντία δ΄ ἐκρίναντο v. 55), e reciprocamente separate (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων vv. 55b-56a). Accettando la lettura di Mourelatos, risulta ancora più evidente il ruolo decisivo della κρίσις richiamata al v. 16: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. È sulla scorta di essa, infatti, che la Dea può marcare l’inesorabile “uni-genericità” (o meglio uniformità) di «ciò che è», escluderne differenziazioni, proporlo come un blocco compatto nell’essere. Concentrandosi su ἔστιν ed escludendo οὐκ ἔστιν, è possibile affermare (di τὸ ἐόν): πᾶν ἐστιν ὁμοῖον. Una piena applicazione della formula della prima via di B2.3: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι. È possibile che l’insistenza su coesione e omogeneità dell’essere riveli ancora un'intenzione polemica nei confronti del modello cosmogonico ionico: come abbiamo già avuto modo di ricordare, le testimonianze su Anassimandro e Anassimene supportano uno schema di base, per cui l’origine del processo di formazione del mondo coinciderebbe con un atto di separazione da uno stato primitivo di indifferenziazione: φησὶ δὲ τὸ ἐκ τοῦ ἀιδίου γόνιμον θερμοῦ τε καὶ ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι [Anassimandro] sostiene che ciò che, derivato dall’eterno, è produttivo di caldo e freddo fu separato alla 482 generazione di questo mondo (Pseudo-Plutarco; DK 12 A10) Ἀ. δὲ Εὐρυστράτου Μιλήσιος, ἑταῖρος γεγονὼς Ἀναξιμάνδρου, μίαν μὲν καὶ αὐτὸς τὴν ὑποκειμένην φύσιν καὶ ἄπειρόν φησιν ὥσπερ ἐκεῖνος, οὐκ ἀόριστον δὲ ὥσπερ ἐκεῖνος, ἀλλὰ ὡρισμένην, ἀέρα λέγων αὐτήν· διαφέρειν δὲ μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας. καὶ ἀραιούμενον μὲν πῦρ γίνεσθαι, πυκνούμενον δὲ ἄνεμον, εἶτα νέφος, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, εἶτα γῆν, εἶτα λίθους, τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων. κίνησιν δὲ καὶ οὗτος ἀίδιον ποιεῖ, δι’ ἣν καὶ τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, discepolo di Anassimandro, afferma, come quello, che unica e infinita è la natura soggiacente, non indefinita, tuttavia - come sosteneva quello - ma determinata, chiamandola aria. Afferma inoltre che essa si differenzia nelle sostanze per rarefazione e condensazione. Rarefacendosi, infatti, diventa fuoco, condensandosi invece vento, poi nuvola, e quando più condensato acqua, poi terra, poi pietre. Tutto il resto deriva da queste cose. Anch’egli pone eterno il movimento per cui si produce il mutamento. (Simplicio; DK 13 A5). Ἀ. δὲ καὶ αὐτὸς ὢν Μιλήσιος, υἱὸς δ’ Εὐρυστράτου, ἀέρα ἄπειρον ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι, ἐξ οὗ τὰ γινόμενα καὶ τὰ γεγονότα καὶ τὰ ἐσόμενα καὶ θεοὺς καὶ θεῖα γίνεσθαι, τὰ δὲ λοιπὰ ἐκ τῶν τούτου ἀπογόνων. (2) τὸ δὲ εἶδος τοῦ ἀέρος τοιοῦτον· ὅταν μὲν ὁμαλώτατος ἦι, ὄψει ἄδηλον, δηλοῦσθαι δὲ τῶι ψυχρῶι καὶ τῶι θερμῶι καὶ τῶι νοτερῶι καὶ τῶι κινουμένωι. κινεῖσθαι δὲ ἀεί· οὐ γὰρ μεταβάλλειν ὅσα μεταβάλλει, εἰ μὴ κινοῖτο. (3) πυκνούμενον γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι· ὅταν γὰρ εἰς τὸ ἀραιότερον διαχυθῆι, πῦρ γίνεσθαι, ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον, ἐξ ἀέρος < δὲ > νέφος ἀποτελεῖσθαι κατὰ τὴν πίλησιν, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, ἐπὶ πλεῖον πυκνωθέντα γῆν καὶ εἰς τὸ 483 μάλιστα πυκνότατον λίθους. ὥστε τὰ κυριώτατα τῆς γενέσεως ἐναντία εἶναι, θερμόν τε καὶ ψυχρόν [...] Anassimene, anche lui milesio, figlio di Euristrato, disse che il principio è aria infinita, da cui si generano le cose che nascono e le cose che sono nate e quelle che nasceranno e gli dei e le cose divine, mentre le altre cose derivano da quanto è da essa prodotto. (2) L’aspetto dell’aria è questo: quando è del tutto uniforme, essa risulta invisibile; si mostra invece con il freddo e il caldo e l’umidità e il movimento. Si muove sempre: le cose che mutano, infatti, non muterebbero, se essa non si muovesse. (3) Quando è condensata e rarefatta, infatti, appare in modo diverso: quando si dirada fino a essere molto rarefatta, diventa fuoco; mentre i venti, a loro volta, sono aria condensata; dall’aria poi, per compressione, si formano le nuvole, e, crescendo ancora la condensazione, l’acqua, e, crescendo di più, la terra, e, crescendo al massimo, le pietre. Così gli elementi fondamentali della generazione sono contrari, il caldo e il freddo (Ippolito; DK 13 A7). La fonte comune di Pseudo-Plutarco, Simplicio e Ippolito è Teofrasto, un teste affidabile: ricorrente - a dispetto della convinzione che di tutto unica sia la scaturigine in una φύσις ἄπειρος - è l’idea che: (i) fondamentale per la cosmogonia sia l’azione dei contrari (Ippolito lo afferma chiaramente: τὰ κυριώτατα τῆς γενέσεως ἐναντία): essa si dispiega, in Anassimandro, a partire da «ciò che è produttivo di», ovvero «ciò che può generare» (γόνιμον) caldo e freddo, ovvero, in Anassimene, dai processi di rarefazione e condensazione; (ii) la separazione del principio generativo degli opposti (γόνιμον), nel primo caso, ovvero la doppia azione esercitata sull’aria, nel secondo, sarebbero a loro volta effetto di un «movimento eterno» (κίνησις ἀίδιος) nella φύσις ἄπειρος, da Simplicio riconosciuto (per entrambi) come causa diretta del «mutamento» (μεταβολή). 484 Il lessico peripatetico delle testimonianze fa intravedere la possibile sovrapposizione di due schemi esplicativi, che potrebbero ambiguamente essere stati compresenti nelle cosmologie (e cosmogonie) ioniche. Il primo – delineato dalle affermazioni di Simplicio su Anassimene secondo cui la «natura soggiacente» (ὑποκειμένη φύσις) «si differenzia nelle sostanze per rarefazione e condensazione» (διαφέρειν δὲ μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας), e confermato da qualche passaggio di Ippolito («condensata e rarefatta, infatti, appare in modo diverso» πυκνούμενον γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι; ovvero «i venti, a loro volta, sono aria condensata» ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον) – è quello che prevale in Aristotele (e che è possibile ritrovare esplicitato in Diogene di Apollonia): la materia originaria ed eterna subisce alterazioni a causa del suo interno moto incessante, presentandosi così in varie forme fenomeniche. In questo schema le «sostanze» della lista proposta83 (fuoco, venti, nuvole, acqua, terra, pietre) non sarebbero realtà indipendenti, ma semplici stadi di passaggio nel ciclo di trasformazione dell’unico principio materiale. Conseguentemente, in questa prospettiva “monistica”, tutte le cose si ridurrebbero ad aria84 . Il secondo è espressamente sottolineato da Simplicio in Anassimandro (citato in precedenza): [...] οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως [...] Egli poi non fa discendere la generazione dall'alterazione dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno (DK 12 A9), 83 Che ha l’aria di essere citazione dall’originale teofrasteo: in questo caso non ritroveremmo una semplice parafrasi, con la proiezione della dottrina peripatetica dei 4 elementi, ma forse il riferimento a un elenco effettivamente anassimeneo. Su questo punto Kahn, Anaximander and the Origins of Greek Science cit., pp. 149-150. 84 Secondo un paradigma riduttivo già presente nel mito greco di Proteo, come segnala Kahn, op. cit., p. 151. 485 ma rilevabile anche nelle testimonianze su Anassimene, dove si marca la generazione di tutte le altre cose da un nucleo di «sostanze» (fuoco, vento, nuvola, acqua, terra, pietre). Secondo questo schema (pluralistico, con probabile eco del politeismo teogonico esiodeo), dal principio materiale (ἀέρα ἄπειρον ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι) si sarebbero generate, come effetto di compressione e rarefazione, alcune realtà elementari indipendenti (le «sostanze» elencate), da cui risulterebbero tutte le altre cose. Una possibile, analoga oscillazione tra i due schemi si lascia cogliere anche nel contemporaneo Eraclito: κόσμον τόνδε, τὸν αὐτὸν ἁπάντων, οὔτε τις θεῶν οὔτε ἀνθρώπων ἐποίησεν, ἀλλ’ ἦν ἀεὶ καὶ ἔστιν καὶ ἔσται πῦρ ἀείζωον, ἁπτόμενον μέτρα καὶ ἀποσβεννύμενον μέτρα Questo mondo ordinato, lo stesso per tutti, nessuno degli dei o degli uomini produsse, ma fu sempre, è e sarà fuoco sempre vivo, che si accende secondo misura e si estingue secondo misura (Clemente Alessandrino; DK 22 B30) πυρός τε ἀνταμοιβὴ τὰ πάντα καὶ πῦρ ἁπάντων ὅκωσπερ χρυσοῦ χρήματα καὶ χρημάτων χρυσός Tutte le cose sono scambio con fuoco e il fuoco scambio con tutte le cose, come i beni sono scambio con oro e l’oro scambio con beni (Plutarco; DK 22 B90) ψυχῆισιν θάνατος ὕδωρ γενέσθαι, ὕδατι δὲ θάνατος γῆν γενέσθαι, ἐκ γῆς δὲ ὕδωρ γίνεται, ἐξ ὕδατος δὲ ψυχή per le anime è morte diventare acqua, per l’acqua, invece, è morte diventare terra, ma dalla terra si genera l’acqua, dall’acqua a sua volta [si genera] l’anima (Clemente Alessandrino; DK 22 B36) ζῆι πῦρ τὸν γῆς θάνατον καὶ ἀὴρ ζῆι τὸν πυρὸς θάνατον, ὕδωρ ζῆι τὸν ἀέρος θάνατον, γῆ τὸν ὕδατος 486 Il fuoco vive la morte della terra e l’aria vive la morte del fuoco, l’acqua vive la morte dell’aria, la terra la morte dell’acqua (Massimo di Tiro; DK 22 B76). Da un lato, soprattutto i primi due frammenti suscitano l’impressione che Eraclito riduca ogni cosa a fuoco, la natura originaria che si cela dietro ogni trasformazione; dall’altro il lessico (γενέσθαι, γίνεται, ζῆι, θάνατος) di B36 e B76 suggerisce l’idea di un ciclo di produzione di elementi, che scaturiscono gli uni dagli altri, senza una reale identità di base85 . I limiti di documentazione (anche nel caso dei frammenti eraclitei) e il lessico e l’impostazione peripatetici delle testimonianze non consentono di stabilire con certezza quale schema fosse effettivamente operante negli autori ionici: in ogni modo è chiaro che, rispetto all’impegno argomentativo di Parmenide, essi potrebbero far sentire la loro presenza da due punti di vista. Intanto, come in precedenza segnalato, nell’insistenza parmenidea sul nesso γένεσις- ὄλεθρος e nell’eco biologica di molti termini ed espressioni ricorrenti nel poema (γενέσθαι, ὄλλυσθαι, γένναν, αὐξηθέν, ἀρξάμενον, φῦν), che potrebbero evocare la centralità della dimensione generativa decisiva nel secondo modello. Un lessico “biologico” è attribuito chiaramente, nelle testimonianze, in particolare ad Anassimandro, come rivelano l’uso del termine γόνιμον per indicare il nucleo originario dei processi reattivi che conducono alla formazione di un mondo (una sorta di base seminale del mondo stesso), e la scelta di un verbo - ἀποκριθῆναι (da ἀποκρίνεσθαι) – che evoca attività di secrezione. L’ἄπειρον stesso sarebbe stato proposto, allora, come fertile, feconda matrice, una sorta di “genitore” (in senso letterale), cui imputare in ultima analisi l’origine. In secondo luogo è evidente, nel poema, la riflessione sulle implicazioni “ontologiche” dei due possibili paradigmi esplicativi che possiamo cogliere nello schema attribuito dalle testimonianze ad Anassimene: (i) esiste una «natura soggiacente» (ὑποκειμένη 85 Graham, Explaining the Cosmos…, cit., pp. 124 ss.. 487 φύσις), «unica e infinita» (μία ἄπειρος), dalla quale, (ii) a causa di «movimento eterno» (κίνησις ἀίδιος), (iii) si produce «il mutamento» (τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι), consistente nel (iv) suo differenziarsi «in sostanze» (διαφέρειν κατὰ τὰς οὐσίας), (v) «da cui» discenderebbero «tutte le altre cose» (τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων). A Parmenide non sarebbero sfuggiti: (a) la difficoltà di coniugare la consistenza d’essere della ὑποκειμένη φύσις, la sua eterna irrequietezza, e la realtà sostanziale delle «altre cose»; (b) il fatto che l’attività discriminante («differenziare», διαφέρειν) riferita alla realtà originaria ne minasse la compattezza (portando con sé la nozione di non-essere); (c) il problema della giustificazione dello stesso processo di generazione dal principio e\o della sua trasformazione. In effetti si tratta delle questioni di fondo che abbiamo ritrovato commentando i primi 25 versi di B8. Immobile e identico È probabile che allo stesso contesto rinviino i versi successivi (26-31), che sottolineano immobilità e immutabilità di ciò che è: αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν ἔστιν ἄναρχον ἄπαυστον, ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής. ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, Inoltre, immobile nei vincoli di grandi catene, è senza inizio e senza fine, poiché nascita e morte sono state respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare. Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste: dal momento che Necessità potente 488 nelle catene del vincolo [lo] tiene, che tutto intorno lo rinserra. L’uso del termine ἀκίνητον non deve ingannare: ciò che è in gioco in questo passaggio non è tanto, nello specifico, il movimento, quanto il mutamento in generale, come suggerito da: (i) accostamento tra ἀκίνητον e altri due aggettivi – «senza inizio» (ἄναρχον) e «senza fine» (ἄπαυστον) – esplicitamente giustificati dalla precedente esclusione di γένεσις e ὄλεθρος; (ii) insistenza su identità durevole, fissità di stato e persistenza di τὸ ἐόν; (iii) variazione nel registro espressivo, con la reiterazione di immagini che suggeriscono certamente anche inabilità al moto, ma, nel contesto, soprattutto impossibilità di sviluppo, di cambiamento della propria situazione. Nell’identica condizione Insomma, Parmenide appare interessato a escludere dall’essere la possibilità di intrinseca motilità (connaturata invece, secondo le testimonianze, alla φύσις milesia) - donde forse l’aggettivo ἀτρεμὲς del v. 4 - e dunque, rispetto allo schema esplicativo che abbiamo riscontrato, di trasformazione (μεταβολή): da un punto di vista linguistico sono dominanti le espressioni che accentuano saldezza («stabilmente dove è persiste» ἔμπεδον αὖθι μένει) e staticità («in se stesso riposa» καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται), figurativamente accompagnate dalla suggestione dei «vincoli di grande catene» (μεγάλων δεσμῶν πείρατα), e del rinserramento dell’essere (τό μιν ἀμφὶς ἐέργει) a opera di «Necessità potente» (κρατερὴ Ἀνάγκη). Come abbiamo segnalato in nota al testo, il passo è ricco di echi letterari e riflette su un nodo (mutamento) ben documentato anche nella cultura filosofica arcaica: - ἀλλ’ ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον οὐ πώποκα, τάδε δ’ ἀεὶ πάρεσθ’ ὁμοῖα διά τε τῶν αὐτῶν ἀεί. 489 - ἀλλὰ λέγεται μὰν Χάος πρᾶτον γενέσθαι τῶν θεῶν. - πῶς δέ κα; μὴ ἔχον γ’ ἀπό τινος μηδ’ ἐς ὅ τι πρᾶτον μόλοι. - οὐκ ἄρ’ ἔμολε πρᾶτον οὐθέν; —οὐδὲ μὰ Δία δεύτερον τῶνδέ γ’ ὧν ἁμὲς νῦν ὧδε λέγομες, ἀλλ’ ἀεὶ τάδ’ ἦς A. Ma sempre gli dei furono presenti e mai vennero meno: queste cose sono sempre uguali e sempre per sé stesse. B. Eppure si dice che Caos primo venne all’essere degli dei. A. Come possibile? Come primo non aveva da cosa derivare né verso cosa procedere. B. Nulla allora procedette per primo? A. Nemmeno per secondo, per Zeus, , almeno delle cose di cui ora stiamo discorrrendo in questo modo, ma esse furono sempre [...]. (Epicarmo; DK 23 B1) [...] — ὧδε νῦν ὅρη καὶ τὸς ἀνθρώπως· ὁ μὲν γὰρ αὔξεθ’, ὁ δέ γα μὰν φθίνει, ἐν μεταλλαγᾶι δὲ πάντες ἐντὶ πάντα τὸν χρόνον. ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει, ἕτερον εἴη κα τόδ’ ἤδη τοῦ παρεξεστακότος [...] [...] Così ora considera anche gli uomini: l’uno cresce, l’altro, invece, deperisce: tutti sono in mutamento durante tutto il tempo. Ora, ciò che muta per natura e non mai nella stessa condizione permane, sarebbe già diverso da quel che era [...] (Epicarmo; DK 23 B2) αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι μίμνει κινούμενος οὐδέν οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι 490 sempre nella stessa condizione permane, e per nulla si muove, né gli si addice spostarsi ora in un luogo ora in un altro (Senofane; DK 21 B26). Le citazioni di Senofane ed Epicarmo attestano, nella elaborazione contemporanea, la preoccupazione per il mutamento in associazione al tempo: tradizionalmente riferite al rapporto tra l’umano e il divino (Epicarmo), esse complessivamente contrastano i processi di crescita e deperimento, l’instabilità sostanziale degli esseri umani, con l’immota identità delle realtà divine («uguali e sempre per sé stesse» ὁμοῖα διά τε τῶν αὐτῶν ἀεί), connotata sia rispetto al tempo («sempre gli dei furono presenti e mai vennero meno», ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον οὐ πώποκα), sia rispetto allo stato («ciò che muta per natura, e mai nella stessa condizione permane», ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει) 86. Significativamente, nel suo breve frammento Senofane sembra giustificare l’immobilità divina con una considerazione di opportunità: «né gli si addice [ἐπιπρέπει] spostarsi ora in un luogo ora in un altro». La Dea di Parmenide, da parte sua, coniuga immobilità, immutabilità e identità sulla base di tre considerazioni: (i) generazione e corruzione sono state allontanate dallo scenario dell’essere con argomento conclusivo («convinzione genuina [le] fece arretrare» ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής): τὸ ἐόν è dunque indiscutibilmente sottratto alla linearità della relazione inizio-fine a causa della contraddizione che essa comporta; è ἄναρχον ἄπαυστον nel senso che non diviene; (ii) ingenerabilità, incorruttibilità, pienezza, omogeneità e continuità (sottolineate nei versi precedenti) pongono l’accento sull’identità di τὸ ἐόν con se stesso: essa appare il nuovo baricentro del discorso divino. La Dea, tuttavia, non propone un argomento a sostegno, né esplicitamente si appoggia al precedente, 86 È da osservare, in particolare, l’uso in entrambi gli autori dell’espressione ἐν ταὐτῶι μένει (in Senofane l’equivalente poetico ἐν ταὐτῶι μίμνει), nella duplice valenza (locativa e di stato) che ritroviamo in Parmenide. 491 limitandosi invece a citare la garanzia della vigilanza di Ἀνάγκη (Necessità-Costrizione) e, per due volte, dei suoi vincoli e catene; (iii) l’immobilità è collegata, attraverso la sottrazione dei processi di generazione e corruzione e il rilievo dell’identità di stato, all’argomento complessivo: il movimento viene assimilato a un mutamento di condizione dell’essere e quindi escluso87 . Non incompiuto... Anche l’argomento a sostegno dell’immutabilità di «ciò che è» dipende dunque, in ultima analisi, dalla κρίσις dei vv. 15-16: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Su quel giudizio, in effetti, poggia saldamente la πίστις ἀληθής che esclude, dall’orizzonte della riflessione sull’essere, γένεσις e ὄλεθρος. Tale immutabilità è, a sua volta, utilizzata (vv. 32-33) come prova a favore della perfezione di τὸ ἐὸν 88: οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο. E per questo non incompiuto l’essere [è] lecito che sia: non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non essere, invece, mancherebbe di tutto. Interessante nel passaggio il fatto che Parmenide ricorra a una congiunzione (οὕνεκεν, «per questo») che riferisce l’affermazione successiva a quel che immediatamente precede: l’argomento si sostiene quindi sia sulla κρίσις e le sue conseguenze, sia sulle immagini di vincoli e catene, immobilizzanti ma anche identitarie. La suggestione divina di Ἀνάγκη opera a garanzia della compiutezza dell’essere, sorvegliandone e salvaguardandone la pienezza (πᾶν ἐστιν ὁμοῖον; πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος). 87 Leszl, op. cit., p. 209. 88 Su questo passaggio P. Curd, Eleatic Arguments, in Methods in Ancient Philosophy, edited by J. Gentzler, Clarendon Press, Oxford 1998, p. 18. 492 La Dea, insomma, annoda immobilità, immutabilità, identità e perfezione: οὐκ ἀτελεύτητον – come οὖλον μουνογενές (intero, uniforme), ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme), συνεχές (continuo, coeso) – discende dal rigetto della via ὡς οὐκ ἔστιν, e rivela dunque un carattere essenziale dell’essere. L’alternativa radicale ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, con l’invito a valutare discorsivamente la robustezza degli argomenti (B7.5) e a concentrarsi su ἔστι e sui suoi «segnali» (B8.1- 2), comporta, infatti, la progressiva sottrazione di ogni negatività che potrebbe attentare all’integrità dell’essere, come manifesto nel v. 33, comunque lo si intenda: (i) l’essere non può essere in difetto in alcun modo (poiché «deve essere per intero o non essere per nulla»); il non-essere, invece, sarebbe totale assenza di realtà; (ii) traducendo diversamente, invece, avremmo: ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο non è, infatti, manchevole [di alcunché]; se non fosse [non-manchevole], invece, mancherebbe di tutto (v. 33); se l’essere fosse in qualche misura o per qualche aspetto carente, porterebbe con sé non-essere e ne sarebbe distrutto, come già marcato (o anticipato) al v. 11: ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί deve essere per intero o non essere per nulla. Se ora consideriamo, nel suo complesso, il nodo di questi versi centrali del frammento, possiamo forse cogliervi una presa di posizione nei confronti delle tesi che avevano delineato a un tempo il primato di un principio e i suoi sviluppi o le sue trasformazioni: che lo avevano considerato divino, attribuendogli eterna durata e vitalità, per garantire gli enti nella loro totalità; proteiforme (l’aria di Anassimene?) per giustificarne le traduzioni fenomeniche; infinitamente fecondo per sostenere gli incessanti processi di generazione e corruzione. 493 Essere e pensiero È appunto nella discussione di questo nodo che Parmenide inserisce (vv. 34-38a) quanto appare come un excursus, oggetto di un articolato dibattito, filologico e interpretativo, cui abbiamo accennato in nota al testo: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν· o;udèn γὰρ < ἢ > ἔστιν ἢ ἔσται ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι La stessa cosa invero è pensare e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso, troverai il pensare. Né, infatti, esiste né esisterà altro oltre all’essere, poiché Moira lo ha costretto a essere intero e immobile. Accettando la nostra traduzione del v. 34, in effetti qui la Dea recupererebbe affermazioni avanzate in precedenza: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere (B3) χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι Dire e pensare: «ciò che è è», è necessario (B6.1a). Ribadendo la connessione, che fa da sfondo a tutta l’esposizione divina, tra νοεῖν e εἶναι - e dunque anche l’impossibilità che «ciò che non è» (μὴ ἐὸν) possa realmente essere oggetto del pensiero89, secondo le indicazioni di B2.7-8: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις 89 Questo è quanto i versi in questione mostrerebbero secondo Curd, Eleatic Arguments, cit., p. 19. 494 poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né indicarlo - l’obiettivo sarebbe quello di escludere che possa darsi per l’intelligenza della realtà oggetto diverso dall’«essere» (ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος), che possa in altre parole essere assunto come realtà quanto si manifesta a livello di senso comune. Questa lettura sembra confermata da quel che segue immediatamente (vv. 38b-41): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò che è] tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. Gli eventi che i «mortali» (βροτοί) registrano quotidianamente e che in modo irriflesso interpretano come fenomeni di mutamento («nascere e morire», «cambiare luogo e mutare luminoso colore») – designandoli, illusi (πεποιθότες) della loro genuina consistenza (ἀληθῆ) - si rivelano, all'intelligenza critica sollecitata dalla Dea, per quello che in verità sono: «nome». Gli uomini, in altre parole, utilizzano una pluralità di espressioni - dalla Dea già esplicitamente proibite: «nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo» - per articolare e cadenzare una realtà che, correttamente valutata, risulta essenzialmente estranea a ogni accadere e mutare. L’unico genuino (vero) oggetto di intelligenza e linguaggio è «ciò-che-è»: indipendentemente da quel che i mortali pretendono di riferire nei loro pensieri e discorsi, ciò cui essi realmente pensano e possono pensare è τὸ ἐὸν 90 . 90 McKirahan, op. cit., p. 202. 495 Prima di tornare a discutere i «segnali» lungo la via ὅπως ἔστιν – in particolare prima di riprendere e ulteriormente determinare il nodo cruciale dell’immobilità, immutabilità e compiutezza dell’essere – la Dea di Parmenide richiama l’attenzione su quanto implicito nelle sue affermazioni iniziali (B2-B3): per un pensare intelligente, capace cioè di afferrare consapevolmente il proprio oggetto, non può darsi altro orizzonte che ἐόν, dal momento che «ciò che non è» (μὴ ἐὸν) è intrinsecamente inconsistente. Molto discussa la formula impiegata (vv. 34-36a): ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν La stessa cosa è pensare e e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso, troverai il pensare. Rispetto ai due enunciati (B3 e B6.1a) sopra ricordati, qui non si tratta semplicemente di un’affermazione di identità (generica) tra pensare ed essere (B3) ovvero di una presa d’atto della necessità per il pensiero di ammettere che «ciò che è è» (B6.1a). Qui la Dea si spinge a delineare a un tempo due relazioni - di identità (ταὐτὸν ἐστὶ) e di dipendenza (espressa da οὕνεκεν, che traduciamo come equivalente a ὅτι «che»91) - i cui membri risultato da un lato νοεῖν, dall’altro appunto «il pensiero» (νόημα) «che "è"». Non c’è altro oltre all’essere, quindi l’essere non può che essere l’oggetto del pensiero: la Dea sottolinea, infatti, come l’essere sia propriamente ciò «in cui» il pensiero è espresso, il campo entro cui necessariamente il pensiero si manifesta. Dal momento che τὸ ἐὸν è in verità il solo contenuto realmente pensato ed espresso nel linguaggio, qualsiasi cosa i mortali pensino o dicano e in qualsiasi modo la pensino o dicano, essi stanno parlando di ciò-che-è 92 . C’è tensione, dunque, tra quanto essi sono «convinti» di nominare e 91 Ma che altri scelgono di rendere come «a causa di». 92 McKirahan, op. cit., p. 205. 496 quanto in realtà essi nominano: sebbene non ne siano consapevoli, ogni nome afferma l’essere. All’orizzonte (trascendentale) dell’essere non può sottrarsi il nominare dei mortali93 . Nel contesto, insomma, a dispetto di una lunga tradizione interpretativa, intenzione della Dea sarebbe non tanto aprire una parentesi per discutere dell'inattendibilità dell’esperienza umana, quanto rilevare l’illusione che altro (dall’essere e dai suoi «segnali») possa essere l’ambito del pensare. In questione sarebbe allora la consistenza del mondo attestato empiricamente, ma non in quanto di per sé illusorio, risultato di un inganno dei sensi, piuttosto perché non inquadrato coerentemente, da un punto di vista logico, nell'unitaria cornice d’essere, e dunque frainteso. In quest'ottica, al linguaggio inadeguato dei mortali è contrapposto il linguaggio della verità dell’essere94 . A chi si riferisce il termine βροτοί? Agli esseri umani in genere, evocando il tradizionale rilievo della loro debolezza cognitiva (rispetto alla conoscenza divina) e dunque accentuando la natura eccezionale dell'esperienza del poeta? Ovvero a un gruppo o a gruppi di sapienti rivali? Osservando le scelte espressive di Parmenide (γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν), potremmo riconoscere sia una generica allusione alle modalità ordinarie di lettura della realtà (cambiamento di luogo, mutamento qualitativo), sia l’accenno a un linguaggio più specifico (nascere e morire, essere e non essere): quello che sopra abbiamo individuato nelle testimonianze relative agli schemi cosmologici (e cosmogonici) milesi e nei frammenti eraclitei. A noi sembra, tuttavia, che questo passo - apparentemente una pausa nella sequenza argomentativa del frammento – faccia emergere un aspetto peculiare dell’approccio di Parmenide, una nuova dimensione speculativa. Ipotizzando che l’Eleate abbia preso le mosse dall’analisi delle implicazioni (ontologiche) di affermazioni relative alla φύσις o all'ἀρχή, denunciando le incongruenze delle lezioni cosmologiche (e cosmogoniche) circolanti, è 93 Ruggiu, op. cit., pp. 307-8. 94 Ibidem. 497 possibile si sia a un certo punto concentrato sulle condizioni di comprensione della realtà (dunque sulla stessa attività di νοεῖν): questione di «secondo livello» 95 (meta-cognitiva), intesa a far prendere consapevolezza, oltre che dei «segni» dell’essere, anche dei presupposti del pensare. L’ontologia che viene delineata traccia così a un tempo i requisiti necessari (stabilità, identità) alla conoscenza: la comprensione (νοεῖν) esige determinate condizioni formali (proprietà) per l’intelligibilità del proprio oggetto; condizioni che Parmenide potrebbe aver fatto emergere nel confronto serrato (meta-critico) con le teorie della natura della tradizione ionica96 . Moira lo ha costretto... Per la terza volta nel frammento, la Dea assicura il proprio ragionamento ricorrendo a un’immagine mitica (e a una formula epica): Moira «ha costretto» (ἐπέδησεν) ἐόν «a essere intero e immobile» (οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι). È in forza di tale “destino” che nulla «esiste o esisterà» (ἔστιν ἢ ἔσται) «oltre all’essere» (πάρεξ τοῦ ἐόντος): ciò, in primo luogo, comporta ancora (come nel caso di Giustizia e Necessità) che la garanzia di Moira risulti formalmente essenziale per affermare integrità, unicità e immutabilità dell’essere (e dunque per sostenere come i «nomi» dei «mortali» si riferiscano in vero sempre e solo all’essere). Ma la superiore tutela di Moira impone, in secondo luogo, anche l’identità di essere e pensiero, nel momento in cui marca, appunto, come non possa esistere ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος («altro oltre all’essere»). In questo senso, rispetto a νοεῖν e ἐόν, essa riveste una funzione “trascendentale”: richiamando implicitamente le immagini dei legami (πείρατα) e delle catene (δεσμοί) ed esplicitamente la fissi- 95 G.E.R. Lloyd usa l’espressione «second’ordine», per esempio nel suo Le pluralisme de la vie intellectuelle avant Platon, in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique?..., cit., p. 44. 96 Graham, Explaining the Cosmos…, cit., p. 166. 498 tà (ἐπέδησεν - ἔμπεδον) dei ceppi (πέδαι), con la figura di Moira la Dea, da un lato, ribadisce la stabilità dell’essere, dall’altro indica in quella invariabilità un carattere fondamentale della conoscenza. Questa connessione tra saldezza di «ciò che è» e costanza del νόημα che la coglie è la stessa allusa in B4.1-2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere. La Dea le contrappone la precarietà tutta umana e artificiale («saranno nome» ὄνομ΄ ἔσται) di quanto (πάντ΄ [...] ὅσσα) «i mortali stabilirono» (βροτοὶ κατέθεντο), lasciandosi poi traviare (πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ). Compiuto e omogeneo I versi (42-49) che concludono la sezione sulla Verità ne riassumono l’ontologia, insistendo particolarmente su compiutezza e omogeneità di «ciò che è», attraverso un ampio ricorso a metafore “spaziali”: αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ. οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ἄσυλον· οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει. Inoltre, dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto da tutte le parti, simile a massa di ben rotonda palla, 499 a partire dal centro ovunque di ugual consistenza: giacché è necessario che esso non sia in qualche misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra. Non vi è, infatti, non essere, che possa impedirgli di giungere a omogeneità, né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è - qui più, lì meno, poiché è tutto inviolabile. A se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane. I versi propongono contestualmente due diverse prospettive: l’accostamento alla «massa di ben rotonda palla» (εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ) presuppone infatti un punto di vista “esterno”, per comunicare un’impressione ottica (“da fuori”) della compatta estensione dell’essere, della sua compiuta integrità; d’altra parte, la sottolineatura dell’equa distribuzione (ἰσοπαλὲς πάντῃ) «a partire dal centro» (μεσσόθεν), manifesta piuttosto un punto di vista “interno” (dal centro alla superficie perimetrale). Complessivamente il testo vuol riproporre ἐόν come totalità piena, densa, uniforme, e a tale scopo fa leva sulla nozione di «limite estremo» (πεῖρας πύματον), di un confine che rende plasticamente l’assoluto discrimine tra ἐόν e μὴ ἐὸν, logicamente essenziale a tutto il ragionamento della Dea. C’è un limite estremo Anche in questo caso – come in altri passaggi del poema – appare evidente il debito nei confronti dell’immaginario epico: ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ· χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν 500 οὖδας ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα πυλέων ἔντοσθε γένοιτο, ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ θύελλα θυέλλης ἀργαλέη· δεινὸν δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι.] [τοῦτο τέρας· καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι Là della terra nera e del Tartaro oscuro, del mare infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i confini, luoghi penosi e oscuri che anche gli dei hanno in odio, voragine enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per giungere al fondo a chi passasse dentro le porte, ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta crudele; tremendo anche per gli dei immortali è tale prodigio. E di Notte oscura la casa terribile s’inalza, da nuvole livide avvolta (Teogonia 736-745. Traduzione di G. Arrighetti). Il passo esiodeo è di un certo rilievo nel nostro contesto, in quanto lega il tema delle «scaturigini» e dei «confini» di tutte le cose (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν) a uno scenario infero in cui è inserito il riferimento alla «casa terribile di Notte oscura» (Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ), probabile prototipo della «dimora della Notte» (δώματα Nυκτός) evocata nel proemio di Parmenide. Né va dimenticato che la Dea promette nel poema «di tutto informare» (B1.28): almeno didascalicamente, l’ottica della sua comunicazione è situata effettivamente al «limite» del dicibile (dell’essere). Agli interpreti non è sfuggito il peso peculiare che nello sviluppo argomentativo di B8 progressivamente assumono le immagini che afferiscono al limite (πεῖρας) vincolante per l’essere: τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13b-15a) 501 ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν immobile nei vincoli di grandi catene (v. 26) ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι poiché Moira lo ha costretto a essere intero e immobile (vv. 37b-38a) κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει dal momento che Necessità potente nelle catene del vincolo [lo] tiene (vv. 30a-31b) ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto (v. 42). Sono i legami variamente evocati a impedire all’essere di essere esposto a generazione e corruzione (ἀγένητον καὶ ἀνώλεθρoν), ovvero al mutamento (ἀκίνητον), e a garantirne integrità (o%ulon μουνογενές) e perfezione (οὐκ ἀτελεύτητον, τετελεσμένον). Come abbiamo in precedenza osservato, significativamente alle immagini di catene e vincoli sono associate figure di garanzia: Giustizia, Necessità, Moira. L’idea è quella di costrizione come destino ovvero legge dell’essere97, ma nel contesto, in relazione al pronunciamento circa l'esistenza di un «confine estremo» (πεῖρας πύματον), all'accostamento al «corpo di una palla ben rotonda» (εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ) e alle altre formule spaziali (πάντοθεν, μεσσόθεν) utilizzate, potremmo trovarci in presenza di una suggestione cosmologica. Secondo Schreckenberg98, l'idea di un estremo vincolo cosmico sarebbe antica e avrebbe avuto origine in ambiente pitagorico, come documenterebbe Aëtius: 97 H. Schreckenberg, "Ananke. Untersuchungen zur Geschichte des Wotgebrauchs", Zetemata 36, München 1964, pp. 75-6. Citato in Robbiano, op. cit., p. 141. 98 Op. cit., pp. 103 ss.. Citato in Robbiano, op. cit., p. 140. 502 Π υ θ α γ ό ρ α ς ἀνάγκην ἔφη περικεῖσθαι τῷ κόσμῳ Pitagora affermò che la necessità circonda il cosmo99 , e confermerebbe la nozione pitagorica di ἄντυξ κόσμου («limite del cosmo»). In effetti, Aëtius attribuisce proprio a Pitagora l'introduzione del termine «cosmo» per indicare il tutto: Π. πρῶτος ὠνόμασε τὴν τῶν ὅλων περιοχὴν κ ό σ μ ο ν ἐκ τῆς ἐν αὐτῶι τάξεως Pitagora per primo chiamò l'insieme di tutte le cose cosmo, per l'ordine che vi regna (DK 14 A21) Ricordiamo, inoltre, come il tema dell’equilibrio del cosmo garantito dal confine cosmico si colleghi ad Anassimandro, del cui principio (l’apeiron) Aristotele afferma: [...] διὸ καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν [...] per questo motivo diciamo che di esso [principio] non vi sia principio, ma che sembra essere esso stesso principio di tutte le altre cose, e comprenderle [abbracciarle] tutte e tutte governarle (DK 12 A15). A suo modo Parmenide avrebbe potuto dunque fare proprio dall'ambiente culturale del tardo VI secolo il motivo dell'immutabilità e della stabilità dell’universo, espresso soprattutto nell'ultimo verso (v. 49) di questa sezione: οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει A se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane. Rispetto alla tradizione, tuttavia, muta profondamente l'ottica adottata: all'interno della sezione sulla Verità, l'Eleate rivolge il proprio sguardo alla realtà cosmica rilevando la dimensione d'es- 99 H. Diels, Doxographi Graeci, De Gruyter, Berlin 1965, 321 b4. 503 sere (ἐόν), rispetto alla quale svaniscono tutti gli elementi di discriminazione spaziale (così come erano stati neutralizzati tutti i riferimenti temporali)100 . Nell'essere si riassumono omogeneamente tutte le cose: «ciò che è si stringe infatti a ciò che è» (v. 25: ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει). In considerazione dell'alternativa radicale «è-non è», «ciò che è» risulta compatto (v. 19: πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος), coeso (v. 25: ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν), compiuto (v. 27: οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι): οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν Non vi è, infatti, non essere, che possa impedirgli di giungere a omogeneità (vv. 46-47a). La proibizione di percorrere la via che pensa «che non è» fa sentire ancora la propria forza coinvolgente, nel determinare i contorni della realtà. In effetti, la recisa affermazione della Dea: «vi è un confine estremo» (πεῖρας πύματον) – sebbene ancora formalmente giustificata, a questo punto, dall'insistenza (mitica e\o metaforica) su vincoli e catene, e dalla sorveglianza dei relativi numi (Dike, Ananke, Moira) - interviene a completare il quadro ontologico, marcando in particolare l'integrità di «ciò che è» come totalità (v. 4: οὖλον μουνογενές; v. 5: ὁμοῦ πᾶν), di cui non a caso si enuncia: «è tutto inviolabile» (πᾶν ἐστιν ἄσυλον). La reiterazione di un avverbio connette inizio e fine del passo: τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν [ciò che è] è compiuto da tutte le parti (vv. 42b-43a) 100 Su questo punto il saggio di M. Kraus, Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht des Parmenides, in Frühgriechisches Denken, a cura di G. Rechenhauer, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005, pp. 252-269, in particolare pp. 260-1 e 267-8. 504 οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει a se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane (v. 49). La compiutezza (in ogni direzione) di «ciò che che è» è sostenuta sulla base della sua "densità" ontologica: οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è - qui più, lì meno (vv. 47b-48a). Nulla può alterarne l'equilibrio, ovvero impedirne l'omogeneità (τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν): affermare l'essere comporta escluderne (con il non-essere) ogni possibile deficienza e dunque equivale ad affermarne eguaglianza, uniformità, totale identità con se stesso, in altre parole la inviolabilità (πᾶν ἐστιν ἄσυλον). Simile a massa... Estremamente controversa a livello interpretativo è la similitudine introdotta dalla Dea all'inizio del nostro passo (ma in conclusione della sua comunicazione di Verità!): εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ simile a massa di ben rotonda palla, a partire dal centro ovunque di ugual consistenza (vv. 43b-44a). Come abbiamo rilevato in nota al testo, tre punti sono criticamente determinanti: (i) il soggetto (sottinteso) della similitudine è ἐόν (con cui concorda ἐναλίγκιον); (ii) ἐναλίγκιον («simile») si riferisce non a «palla» (σφαῖρα) ma a «massa» (ὄγκος); 505 (iii) ἰσοπαλὲς («di ugual consistenza») è attributo del soggetto sottinteso («ciò che è») della affermazione iniziale, non di «massa di ben rotonda palla». Se è da escludere l'equazione tra «ciò che è» e corpo sferico, è difficile tuttavia – proprio in forza dell'eco spaziale di questi versi e dei successivi – sottrarsi all'impressione che Parmenide stia parlando di qualcosa comunque esteso: il tutto indifferenziato e omogeneo di cui si parla potrebbe dunque coincidere con la realtà universale (τὸ πᾶν, come suggerisce Furley101), colta "in quanto essere", in altre parole intuita appunto come ἐόν («ciò che è»), ovvero – più astrattamente – come τὸ ἐόν («l'essere»), con le relative conseguenze logiche. La novità della sezione sulla Verità (che culmina nei versi in esame) sarebbe, allora, non quella di volgersi a una realtà diversa da quella cosmica, ma quella di concentrarsi sul «tutto» (πᾶν, πάντοθεν, πάντῃ) - come già documentato negli autori ionici – in una prospettiva diversa dalla cosmologia milesia: le scelte espressive di Parmenide ci suggeriscono di definirla "ontologica". Essa consiste nel trasfigurare la realtà – la stessa realtà attestata dall’esperienza – alla luce di rigorose esigenze razionali, che la Dea introduce assiomaticamente in B2 e ribadisce in B8.15 (ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν). Parmenide indica questa attitudine con formule che evocano sia l'esame e la fatica argomentativa (B7.5: «valuta con il ragionamento la prova polemica», κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον), sia lo sguardo logicamente educato a evitare la contraddizione (B4.1: la possibile connessione tra λεῦσσε e νόῳ). Il risultato di questa considerazione originale della realtà cosmica è l'abbandono degli schemi esplicativi – cosmologici e cosmogonici – milesi e la riduzione del «tutto» alla compatta uniformità di τὸ ἐόν: nella sua identità logicamente garantita dall’effettiva indisponibilità di μὴ ἐὸν, ogni divenire e ogni discriminazione temporale sono sospesi, nell’eterna, continua gia- 101 D. Furley, The Greek Cosmologists. Volume 1: The formation of the atomic theory and its earliest critics, CUP, Cambridge 1987, p. 54. 506 cenza di «ciò che è» in se stesso (dunque nel presente); analogamente sono superate tutte le distinzioni di luogo, nella sua compiuta, omogenea, coesa estensione. Insomma, del cosmo milesio (e probabilmente pitagorico) sono evaporati i fattori cosmogonici - i contrari, la natura-principio, le masse elementari - ed è rimasto τὸ ἐόν, espressione che solo in questo senso designa qualcosa di astratto, non immediatamente riconducibile ai sensi: un intero indiscriminato102, in cui si riassume la realtà dell'universo, la totalità delle cose considerate appunto come essere103 . Solo in coerenza con l'esigenza di permanenza, stabilità e identità incarnata da questa realtà-verità sarà possibile ripensare il mondo della esperienza. Se è vero che Parmenide non propone nella Via della Verità una propria cosmologia, ne fissa certamente le condizioni di possibilità, come la riflessione posteriore, da Empedocle agli atomisti, avrebbe mostrato. La similitudine con la «massa di ben rotonda palla» è introdotta per illustrare plasticamente un nodo decisivo della esposizione della Dea: ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto da tutte le parti (vv. 42-43a). L'impressione è che Parmenide cerchi di utilizzare l'immagine della massa sferica per confermare l'intuizione della compiuta integrità dell'essere senza ricorrere a una tutela esterna, come avvenuto nei versi precedenti grazie alle figure divine (Dike, Ananke, 102 Kraus (p. 261) evoca in proposito una forma di esperienza immediata descritta da Ernst Mach, in cui l'universo nella sua interezza si sarebbe rivelato come massa indiscriminata e coesa. 103 Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., p. 45) sottolinea in proposito come l'ἐόν di Parmenide sia direttamente comparabile alla espressione aristotelica tò $on *h? $on, in quanto denoterebbe la totalità degli enti (tò $on), richiamando tuttavia l'attenzione (nel secondo $on) sull’Essere di quegli enti. 507 Moira) e ai loro vincoli immobilizzanti, piuttosto attraverso il riferimento al carattere ultimo dell’estremità entro cui l’essere «uniformemente nei limiti rimane» (ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει) 104. Il limite è estremo: come in Esiodo si dà, rispetto all'abisso spalancato (χάος, χάσμ’ ἀχανές), una barriera insormontabile in cui tutte le cose hanno radice (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατα), in Parmenide oltre il confine non c’è nulla, al di qua tutto l’essere, di conseguenza perfetto, compiuto (τετελεσμένον) da ogni parte (πάντοθεν) 105. La similitudine insiste sull’estensione compatta e sulla tensione uniforme: sull’uguale consistenza, dal centro al perimetro della sfera. Mourelatos ha osservato106 come la sfera si prestasse, tra le varie figure, all'estrazione di criteri di completezza, dal momento che è quella che ha estensione sempre «identica con se stessa». Che questi versi (i più citati del poema nell'antichità) fossero destinati a un forte impatto cosmologico, è rivelato soprattutto dalle riprese platoniche: come hanno puntualmente confermato le ricerche di Palmer107, la rappresentazione della grandiosa creazione del cosmo fisico da parte del demiurgo, sulla scorta del modello del vivente intelligibile, nel Timeo platonico propone un’impressionante concentrazione di allusioni (e parole) parmenidee: σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ συγγενές. τῷ δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ ζῷα περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα τὸ περιειληφὸς ἐν αὑτῷ πάντα ὁπόσα σχήματα· διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ πρὸς τὰς τελευτὰς ἴσον ἀπέχον, κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν τε αὐτὸ ἑαυτῷ σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο ἔξωθεν, οὐδ’ 104 Couloubaritsis, Mythe et philosophie cit., p. 249. 105 Ruggiu, op. cit., p. 309. 106 Op. cit., pp. 127-8. 107 J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides, O.U.P., Oxford 1999, pp. 193 ss.. 508 ἀκοῆς, οὐδὲ γὰρ ἀκουστόν· πνεῦμά τε οὐκ ἦν περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς, οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς ἦν ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο, τὴν δὲ πρότερον ἐξικμασμένην ἀποπέμψοι πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ ποθεν—οὐδὲ γὰρ ἦν [...] E gli diede una figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura congeniale al vivente che doveva contenere in sé tutti i viventi non poteva essere che quella che comprendesse in sé tutte le figure possibili; per cui, lo tornì come una sfera, in una forma circolare in ogni parte ugualmente distante dal centro alle estremità, che è la più perfetta di tutte le figure e la più simile a se stessa, giudicando il simile assai più bello del dissimile. E ne rese perfettamente liscio l'intero contorno esterno per molte ragioni. Infatti, non aveva affatto bisogno di occhi, perché nulla era rimasto da vedere all'esterno, né di orecchie, perché nulla era rimasto da sentire; né vi era bisogno di un organo per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori [...] (Timeo 33b-c7)108 . 108 Traduzione da Platone, Timeo, a cura di F. Fronterotta, BUR, Milano 2003. 509 DALL’ESSERE ALLE FORME [B8 VV. 50-61] Sin dalla antichità si è presentato il poema di Parmenide come suddiviso in un proemio e due sezioni, di diversa ampiezza: Verità (o via della Verità) e Opinione (o via della Opinione), secondo lo schema attestato da Diogene Laerzio: δισσήν τε ἔφη τὴν φιλοσοφίαν, τὴν μὲν κατὰ ἀλήθειαν, τὴν δὲ κατὰ δόξαν Disse che la filosofia si divide in due parti, l’una secondo verità, l’altra secondo opinione. (DK 28 A1). È plausibile che Proemio e prima parte complessivamente risultassero marcatamente più brevi rispetto alla seconda, di cui però abbiamo conservati soltanto quaranta versi (dei 150 circa complessivamente superstiti: 32 del solo B1 e 61 di B8!): 1/10, secondo le stime tradizionali, dell’intera sezione, che doveva coprire i 2/3 del poema1 . Su questo elemento strutturale avremo modo di riflettere ancora più avanti. Discorso affidabile e opinioni mortali Gli ultimi 12 versi del frammento 8 DK, conservatici da Simplicio, segnano evidentemente il passaggio tra le due sezioni (Verità e Opinione), come rivela il contesto delle citazioni: συμπληρώσας γὰρ τὸν περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί [vv. 50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv. 50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο, ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ > πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ 1 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 104. 510 ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso infatti il discorso intorno all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione vv. 50-61] (Simplicio, Phys. 38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili, o dalla verità, come lui si esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in cui afferma [citazione vv. 50-52], pone a sua volta i principi elementari delle cose generate, secondo la prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco e terra o denso e raro o identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in precedenza citati, [citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). Pur ipotizzando la posteriorità della suddivisione e sottotitolazione (Verità e Opinione) delle sezioni, non rimangono dubbi circa la funzione di cerniera di questo passo. Il linguaggio peripatetico del commentatore riflette in effetti un'altra celebre testimonianza sulla Doxa parmenidea, proposta nel primo libro della Metafisica aristotelica: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...], ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto, tuttavia, a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi 511 dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Metafisica I, 5 986 b 31- 987 a 2). Verità e opinioni Il testo del frammento è, d'altra parte, a sua volta esplicito nel rilevare la svolta nell'esposizione divina: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando, che può ingannare (vv. 50-52). Da un lato la Dea sottolinea al proprio interlocutore la conclusione della «comunicazione attendibile» (πιστὸν λόγον) e della «riflessione sulla verità» (νόημα ἀμφὶς ἀληθείης) e, insieme, l'introduzione di «punti di vista mortali» (δόξας βροτείας), mettendolo sull'avviso: la costruzione verbale (κόσμον ἐμῶν ἐπέων) potrà risultare fuorviante (ἀπατηλὸν). Dall'altro, è comunque la Dea a tenere lezione (donde l'esortazione al kouros: μάνθανε), e le stesse scelte espressive richiamano puntualmente il programma educativo del prologo del poema. La rivelazione della dea innominata comprevedeva tre momenti distinti (ma concettualmente correlati): (i) l'indiscutibile Verità, (ii) le inaffidabili opinioni dei mortali, (iii) un adeguato resoconto dei contenuti di quelle opinioni, τὰ δοκοῦντα - «le cose accettate nelle opinioni», ovvero «le cose che appaiono». Nostra convinzione è che le premesse di B2 consentano di individuare espressamente in B8.1-49 la trattazione del primo punto, e complessivamente in B6, B7, B8 allusioni al secondo, non fatto oggetto di riscontro puntuale, ma solo genericamente di rilievi di fondo 512 (che poi gli interpreti proiettano in una direzione o nell'altra). Quella che tradizionalmente è chiamata Doxa doveva invece svolgere l'ufficio positivo di rileggere il quadro dell'esperienza in termini compatibili con le indicazioni della Verità: in pratica – secondo il costume dei precedenti ionici – offriva cosmogonia, cosmologia e zoogonia, probabilmente con dovizia di contributi, come risulta limpidamente dalla preziosa testimonianza di Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro. È significativo il fatto che di questo διάκοσμος così poco sia stato conservato: come documenta anche l'urgenza della citazione di B8 da parte di Simplicio, è plausibile che fossero gli elementi più originali del poema – soprattutto premesse ed esposizione della Verità - ad attrarre l'attenzione dei compilatori: καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide 513 sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo (DK 28 A21). La seconda parte, in fondo, rientrava nei canoni della produzione cosmogonico-cosmologica milesia: non è un caso che di essa siano state tramandate, probabilmente, apertura e conclusione. «...l'ordine delle mie parole...» Come abbiamo sottolineato in precedenza, la Dea mette sull'avviso il proprio giovane interlocutore circa il mutamento di registro: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando, che può ingannare (vv. 50-52). Due dati risultano fuori discussione: (i) l'abbandono dell'esposizione della «Verità»; (ii) il passaggio alla considerazione di «punti di vista mortali» (δόξας βροτείας), in altri termini di una prospettiva diversa rispetto a quella divina. Nel contesto della narrazione ciò comporta da parte della Dea – che si rivolge a un essere umano – adeguare il proprio registro espressivo: pur continuando la propria lezione, ella avverte circa il potenziale disturbo (alla corretta intelligenza della realtà) conseguenza dell'adozione di un lessico adeguato a quei punti di vista. Come im precedenza denunciato (B8.38b-42), il linguaggio della pluralità e del divenire è virtualmente foriero di contraddizione e il relativo correlato oggettivo, il mondo delle cose in mutamento, è, dal punto di vista dell’essere, apparenza. Dal momento che – nonostante le denunce di B6, B7 e dello stesso B8 – la 514 Dea insiste perché il kouros apprenda (μάνθανε) quei contenuti, possiamo inferire che la sua esposizione: (a) non si concentrasse su opinioni che il giovane allievo potesse da sé ricavare dall'esperienza; (b) né, diffondendosi (secondo quanto ci attesta Plutarco) sugli aspetti fondamentali della realtà naturale, avallasse opinioni erronee (per circa i 2\3 del poema!); (c) piuttosto riconducesse l'esperienza umana all'interno della cornice della verità. A sostegno di questa lettura possiamo addurre i versi conclusivi del frammento (vv. 60-61): τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti. Si tratta in pratica dell'osservazione finale di un inciso lungo 12 versi, a cavallo tra Verità e Opinione, in cui la Dea (e il poeta attraverso la Dea) offre indicazioni sul passaggio tra le due sezioni. Le scelte lessicali sottolineano che l'esposizione successiva riguarderà l'organizzazione di una pluralità: così al κόσμον ἐμῶν ἐπέων del v. 52 corrisponde, al v. 60 l'espressione διάκοσμον ἐοικότα πάντα. Che si tratti dell'ordine verbale ovvero dell'ordinamento cosmico, è comunque implicito il rinvio a una molteplicità di elementi da sistemare: è possibile che Parmenide giocasse proprio sulla doppia valenza semantica di κόσμος, costrutto, disposizione, ma anche «mondo», accentuando i rischi della costruzione verbale (che può risultare «ingannevole», ἀπατηλόν). L'enunciazione divina è comunque connotata positivamente: il rilievo dei pronomi personali (σοι, ἐγὼ, σε) marca l'impegno e la responsabilità della Dea, nei confronti del kouros, di fornire in ogni modo una ricostruzione almeno relativamente plausibile del quadro complesso dei fenomeni naturali. L'adozione di un'ottica «mortale» implica la dimensione qualitativa dell'esperienza (in questo senso sembrerebbe scontato il ri- 515 chiamo a τὰ δοκοῦντα), come rivelano in particolare le connotazioni delle «due forme» (μορφαί δύο), e dunque l'adeguamento della prospettiva della comunicazione divina: donde l'urgenza di ridefinire i tradizionali strumenti (il modello oppositivo) di illustrazione dei fenomeni naturali, così da evitare le contraddizioni stigmatizzate nei frammenti precedenti. Complessivamente la preoccupazione è quella di fornire una spiegazione del mondo naturale (διάκοσμος) comunque superiore a quella della concorrenza. Rispetto alla sezione sulla Verità, in cui era essenziale determinare, con lo sguardo dell'intelligenza, la compatta fisionomia dell'essere (attraverso i «segni» di B8), l'urgenza avvertita nelle parole della Dea è quella di non abbandonare all'insignificanza il mondo dell'esperienza. Un ordinamento verosimile Può essere utile, per comprendere le movenze intellettuali di Parmenide, richiamare il testo di B4: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον. Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere, né disperdendosi completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi. Se B4, la cui collocazione nel poema rimane molto discussa, mostrava come per il νόος la molteplicità dispersa degli enti (ἀπεόντα) «nel cosmo» (κατὰ κόσμον) si riconducesse alla identità di τὸ ἐὸν, alla sua inscindibile connessione (τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος 516 ἔχεσθαι), a partire dalla conclusione dell'attuale B8, dopo aver illustrato quell’identità in cui tutte le cose si riassumono e averne analizzato le proprietà, la Dea percorre in un certo senso la direzione opposta. Ella indica, infatti, come quella molteplicità che si manifesta all'esperienza, in cui l'intelligenza riconosce l'identità dell'essere, possa essere correttamente intesa nelle sue dinamiche, senza pregiudizio per la realtà annunciata dall'intelligenza. Parmenide non annuncia una distinzione di piani di realtà (anticipando Platone), ma rileva come all'unica realtà si possa guardare nell'ottica immediata dell'esperienza, ovvero attraverso il sondaggio dell'intelligenza, ricavandone due immagini sostanzialmente diverse: nel primo caso il quadro multiforme e plurale di dati mutevoli, nel secondo la sua estrema rarefazione negli attributi di B8.1-49, in cui molteplicità, differenza, movimento ecc. sono evaporati nella compattezza dell'essere. A partire dalle consuetudini empiriche (richiamate in B7.3 nell'espressione ἔθος πολύπειρον, «abitudine alle molte esperienze») si è spinti a considerare reale una molteplicità di enti in divenire, che si rivelano in contraddizione con gli esiti dell'esame cui l'intelligenza sottopone «ciò che è» (ἐὸν). Si tratterebbe, in fondo, di una diversa, più coerente e radicale modulazione del progetto di indagine ionico, almeno dando credito alla interpretazione peripatetica delle origini, con la riduzione di «tutti gli enti» (ἅπαντα τὰ ὄντα) all'unità di una «sostanza soggiacente» (οὐσία ὑπομενούσα), a un tempo «principio» (ἀρχή), «elemento» (στοιχεῖον) e «natura» (φύσις) delle cose (τῶν ὄντων): ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono 517 essere elemento e questo principio delle cose, e per questo credono che nulla né si generi né si distrugga, dal momento che una tale natura si conserva sempre (Aristotele, Metafisica I, 3 983 b8-13). Da un lato Parmenide riconosce nel fatto d'essere la dimensione omogeneizzante che raccoglie a identità gli enti, ricavandone – attraverso l'esclusione del non-essere – le proprietà. Dall'altro, dopo aver denunciato le contraddizioni di fondo che minavano le cosmologie contemporanee, offre nella Doxa una ricostruzione che colloca quanto si manifesta nell'esperienza (τὰ δοκοῦντα) in un sistema esplicativo (διάκοσμος) adeguato (ἐοικότα) – in esplicita coerenza con le indicazioni dei «segni» (σήματα) della via «che è» (ὡς ἔστιν), come evidenzia ancora B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno egualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla, impiegando un lessico che è indiscutibilmente quello della conoscenza e non dell'errore, come conferma B10: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων 518 Conoscerai la natura etereα e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini degli astri. Diagnosi di un errore Dopo aver annunciato il passaggio dalla «riflessione intorno a Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης) alle «opinioni mortali» (δόξας βροτείας) e il mutamento di registro - dalla necessaria enunciazione di «ciò che è è» (χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι, B6.1) all'ascolto dell’«ordine delle mie parole che può ingannare» (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων, B8.52) – la Dea concentra la propria attenzione, con una formula non priva di ambiguità, su uno schema linguistico di cui riscontra e stigmatizza, in un verso dal significato molto discusso, il limite concettuale: μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν - · Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme, delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (B8.53-4). Di che cosa si tratta e a chi è riferita la decisione? Abbiamo indicato in nota al testo le principali opzioni interpretative contemporanee: in estrema sintesi, gli studiosi hanno individuato i destinatari della contestazione o genericamente nei «mortali», intendendo l'universale approccio umano al mondo naturale, o specificamente in una determinata posizione teorica (per lo più nel pitagorismo antico). Ma non appare plausibile che il modello 519 (dualistico) cui la Dea allude possa essere fatto valere in generale per gli esseri umani, né che esso, in particolare, possa univocamente riferirsi alla riflessione cosmologica milesia (sebbene lo schema polare vi svolga un ruolo rilevante). D'altra parte, la scelta di lasciare implicito il riferimento potrebbe spiegarsi – all'interno della cultura aurale in cui matura l'opera di Parmenide – con la possibilità da parte dell'audience di individuare facilmente il soggetto: in questo senso potrebbe considerarsi credibile, a dispetto delle nostre incertezze circa la sua fisionomia antica, la candidatura pitagorica. Riteniamo, in ogni caso, che il poeta intenda contestare non ogni possibile approccio "mortale", ma quello di un certo gruppo di pensatori, da cui evidentemente egli ha interesse a prendere le distanze, per introdurre poi un resoconto «appropriato», in relazione al quale impiega (in B9-10, come abbiamo sopra segnalato) espressioni indiscutibilmente positive, difficilmente riferibili a posizioni giudicate erronee. Due forme e la loro unità L'errore fuorviante (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν: «in ciò sono andati fuori strada» v. 54b) che viene imputato dalla Dea è delineato dapprima in termini formali, distinguendone due momenti per focalizzare esattamente la sua genesi: (a) μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme... (v. 53) (b) τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare] (v. 54a). I due versi, come risulta anche dalla nostra rapida sintesi in nota al testo, sono stati oggetto di tormentate analisi linguistiche, per decidere della costruzione del primo e del significato del se- 520 condo. La nostra traduzione tiene conto delle diverse proposte interpretative (e filologiche), senza pretendere di fare chiarezza: è probabile, come suggerito da Mourelatos2 , che il costrutto verbale fosse intenzionalmente ambiguo, se non addirittura ironico, forse concepito per un efficace attacco ad hominem. La diagnosi ruota intorno al punto (b): la Dea, in altre parole, stando alla nostra ricostruzione del significato dei versi parmenidei, censura (senza addebito esplicito) il mancato riconoscimento dell'unità nelle due «forme» introdotte per dar conto dei fenomeni. Una lettura nell'antichità già proposta da Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας si sono ingannati coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la generazione (Fisica 31.8-9). Per quanto ci è dato ricostruire dallo scarso materiale conservato, nelle battute che segnano il passaggio alla Doxa la Dea si intrattiene dapprima su un errore che evidentemente Parmenide considerava strutturale almeno in certi resoconti cosmologici: ciò per assumerne un modello (pitagorico?), evitandone a un tempo le implicazioni contraddittorie con l'insegnamento della Alētheia. La preoccupazione di rilevare con precisione (ἐν ᾧ, «in ciò...») la natura dell'erranza è probabilmente indice dell'esigenza di procedere comunque con lo schema dualistico, tenendo lontano lo spettro del non-essere. Si spiegherebbe così la cautela della Dea, la sua segnalazione delle potenzialità fuorvianti del proprio discorso sulle «opinioni mortali»: non a caso, dello schema adottato, subito si denuncia un impiego improprio, per poi (B9) marcare la corretta impostazione ontologica: [...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν [...] tutto è pieno egualmente di luce e notte invisibile, 2 Op. cit., pp. 228-9. 521 di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9.3-4). Il riscontro tra il passo conclusivo di B8 e B9 – che doveva seguire dappresso, secondo le indicazioni di Simplicio (contesto di B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν..., «poco dopo aggiunge...») – può autorizzare la lettura di Thanassas, secondo il quale l'aggettivo ἀπατηλὸν andrebbe riferito alle «opinioni dei mortali» criticate in B8.54-9, in stretta relazione con la formula «in questo si sono ingannati» (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν): essa esprimerebbe l’errore delle ingannevoli δόξαι βροτείαι, preparando la correzione della «appropriata» (ἐοικότα) Doxa divina3 . In effetti la Dea così passa a determinare il modello dualistico introdotto al v. 53: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto leggero, a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (vv. 55-59). Rispetto alle precedenti allusioni agli errori dei «mortali», qui indubbiamente la situazione si presenta molto diversa. Confrontiamo, per esempio, questa analisi con la requisitoria contro la ὁδός διζήσιός richiamata ai versi B6.4-9: 3 Op. cit., p. 65. 522 αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν πλάττονται, δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος poi da quella [via] che mortali che nulla sanno s’inventano, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti guida la mente errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere scriteriate, per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro. Nel contesto delle citazioni (DK 28 B6), Simplicio indica l'errore contestato: i «mortali che nulla sanno» hanno trascurato la κρίσις (decisione, scelta) tra τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν, imponendo così di fatto l'identità (εἰς ταὐτὸ συνάγουσι) tra essere e non-essere. Diverso il discorso a proposito delle «opinioni mortali» criticate in B8, ancora secondo Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας si sono ingannati coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la generazione (Fisica 31, 8-9). In questo caso, ciò che viene censurato è sostanzialmente l'errore opposto: il mancato rilievo dell'unità delle «forme» nell'essere. Si può notare, allora, accostando l'attenzione descrittiva di B8.55-59 alla dura requisitoria contro la confusione dei δίκρανοι di B6, come nella conclusione di B8 la Dea manifesti una diversa indulgenza per quelle convinzioni, di cui sembra rilevare pregi e difetti. Ella in pratica parrebbe, a un tempo, insistere sullo schema oppositivo e prendere le distanze, per i criteri ontologici della Alētheia, da una sua specifica applicazione. In questo senso, in parti- 523 colare, l'insistenza su una opposizione i cui membri risultano interamente separati e indipendenti: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων [...] [...] ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία [...] Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri [...] [...] a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte [...]. Diventa allora difficile credere che in B8.60-61, laddove afferma che: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto adeguato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti, la dea si riferisca alle erronee concezioni dei mortali appena determinate 4 , mentre si rafforza l'impressione che il materiale frammentario della Doxa costituisca il residuo di uno sforzo positivo di comprensione del mondo naturale, definitosi proprio in relazione alla revisione di quello schema oppositivo (come confermerebbe B9). 4 Su questo punto in particolare J.H. Lesher, Early interest in knowledge, cit., p. 239. 524 Un modello elementare Abbiamo inizialmente utilizzato il contesto della citazione dei versi conclusivi di B8 da parte di Simplicio per osservare come il commentatore segnalasse il passaggio tra le due sezioni del poema. Ora dobbiamo riprendere quel contesto per determinare il modello proposto nella Doxa: συμπληρώσας γὰρ τὸν περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί [vv. 50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv. 50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο, ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ > πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso infatti il discorso intorno all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione vv. 50-61] (Simplicio, Phys. 38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili, o dalla verità, come lui si esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in cui afferma [citazione vv. 50-52], pone a sua volta i principi elementari delle cose generate, secondo la prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco e terra o denso e raro o identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in precedenza citati, [citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). La Dea prende dunque le mosse da uno schema in cui due μορφαί sono selezionate come «opposti nel corpo» (ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας) e connotate con proprietà reciprocamente ben distinte (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων): i «segni» fisici erano essenziali e funzionali evidentemente alla concreta esplicazione dei fenomeni: τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, 525 ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, [...] [...] ἀτὰρ [...] τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto leggero [...] [...] dall’altra parte [...] le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (vv. 56b-59). Dalla testimonianza aristotelica sappiamo che, tra i primi seguaci di Pitagora, qualcuno produsse un sistema seriale di opposizioni entro cui è possibile riscontrare anche quella sfruttata da Parmenide: ἕτεροι δὲ τῶν αὐτῶν τούτων τὰς ἀρχὰς δέκα λέγουσιν εἶναι τὰς κατὰ συστοιχίαν λεγομένας, πέρας [καὶ] ἄπειρον, περιττὸν [καὶ] ἄρτιον, ἓν [καὶ] πλῆθος, δεξιὸν [καὶ] ἀριστερόν, ἄρρεν [καὶ] θῆλυ, ἠρεμοῦν [καὶ] κινούμενον, εὐθὺ [καὶ] καμπύλον, φῶς [καὶ] σκότος, ἀγαθὸν [καὶ] κακόν, τετράγωνον [καὶ] ἑτερόμηκες· ὅνπερ τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων ὁ Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ ἤτοι οὗτος παρ’ ἐκείνων ἢ ἐκεῖνοι παρὰ τούτου παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον· καὶ γὰρ [ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων [ἐπὶ γέροντι Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο [δὲ] παραπλησίως τούτοις· Altri di questi stessi [Pitagorici] sostengono che i principi sono dieci, disposti in serie di opposti: limite e illimite, dispari e pari, uno e molti, destro e sinistro, maschio e femmina, fermo e mosso, diritto e curvo, luce e tenebra, buono e cattivo, quadrato e rettangolo. Analogamente sembra pensasse Alcmeone, sia che egli recuperasse da loro questa dottrina, sia che quelli la prendessero da lui: Alcmeone, infatti, fiorì quando Pitagora era vecchio e professò una teoria simile alla loro» (Metafisica I, 5 986 a22-31). Non è chiaro da dove Aristotele - che, secondo la tradizione dossografica, avrebbe sviluppato specifiche ricerche sui Pitagorici (Diogene gli attribuisce nel suo elenco delle opere sia un Πρὸς 526 τοὺς Πυθαγορείους sia un Περὶ τῶν Πυθαγορείων) – abbia ricavato quella tavola degli opposti, la cui antichità sarebbe attestata solo dal vago accostamento alle idee del contemporaneo di Parmenide Alcmeone. Gli specialisti sono divisi: Schofield5 ritiene che non ci siano in realtà elementi per stabilirne l'originalità pitagorica, ipotizzando piuttosto una sua dipendenza dal modello parmenideo. Più plausibile allora l'associazione con l'ambiente di Filolao (seconda metà del V secolo a.C.)6 . Ma di recente Kahn7 , pur rilevando nella doppia lista la possibilità di un'eco accademica, osserva come la modalità con cui opposti astratti e concreti, matematici ed estetico-morali sono combinati potrebbe rinviare effettivamente a uno schema arcaico. Essendo implausibile (a causa dell’espliito riferimento a una «decisione»: κατέθεντο ὀνομάζειν) che la fisica dualistica proposta rispecchiasse una prospettiva genericamente umana, e che si riferisse direttamente solo alle cosmologie milesie (in cui il dualismo oppositivo indubbiamente agisce), ammettendo che essa dovesse risultare in ogni caso perspicua agli originari destinatari del poema, la considerazione del contesto geografico e culturale entro cui Parmenide operò, e le tenui indicazioni della tradizione dossografica: di; meno affidabile Giamblico DK 28 A4): Ξενοφάνους δὲ διήκουσε Παρμενίδης Πύρητος Ἐλεάτης (τοῦτον Θεόφραστος ἐν τῆι Ἐπιτομῆι Ἀναξιμάνδρου φησὶν ἀκοῦσαι). ὅμως δ’ οὖν ἀκούσας καὶ Ξενοφάνους οὐκ ἠκολούθησεν αὐτῶι. ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ πένητι μέν, καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ πλούτου, καὶ ὑπ’ 5 Nel suo rifacimento dei capitoli pitagorici di Kirk-Raven (nel capitolo su Filolao): G.S. Kirk, J.E. Raven, M. Schofield, The Presocratic Philosophy, C.U.P., Cambridge 19832 , p. 339. 6 Una indicazione analoga si può ricavare dal saggio di C.A. Huffman, The Pythagorean tradition, in Early Greek Philosophy cit., p. 78 ss.. 7 Ch.H. Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans, Hackett, Indianapolis 2001, pp. 65-6. 527 Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ Ξενοφάνους εἰς ἡσυχίαν προετράπη Parmenide Eleate, figlio di Pireto, fu discepolo di Senofane (Teofrasto nella Epitome dice che costui fu discepolo di Anassimandro). Tuttavia, pur essendo stato discepolo anche di Senofane, non lo seguì. Secondo quanto ha affermato Sozione, egli si associò al pitagorico Aminia, figlio di Diochete, un uomo povero ma di grande valore. Costui preferì seguire, e quando morì, dal momento che Parmenide era di una distinta casata e ricco, gli eresse un monumento funebre. E da Aminia, non da Senofane, egli fu avviato alla tranquillità [della vita contemplativa] (Diogene Laerzio; DK 28 A1) Ζήνωνα καὶ Παρμενίδην τοὺς Ἐλεάτας· καὶ οὗτοι δὲ τῆς Πυθαγορείου ἦσαν διατριβῆς Anche gli eleati Zenone e Parmenide appartenevano alla scuola pitagorica (Giamblico; DK 28 A4), può suggerire l'ipotesi che l'Eleate abbia ricavato da contemporanee correnti pitagoriche lo schema cui sommariamente riferirsi8 . In alternativa, sfruttando il prezioso lavoro di Charles Kahn sull'origine degli "elementi" nel mondo greco arcaico, si potrebbe rintracciare in Parmenide l'eco di una tradizione che aveva fatto di Gaia (γαῖα) e Urano (οὐρανός) i progenitori di tutti gli esseri, come si può ancora cogliere in Esiodo: χαίρετε τέκνα Διός, δότε δ’ ἱμερόεσσαν ἀοιδήν· κλείετε δ’ ἀθανάτων ἱερὸν γένος αἰὲν ἐόντων, οἳ Γῆς ἐξεγένοντο καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος, Νυκτός τε δνοφερῆς, οὕς θ’ ἁλμυρὸς ἔτρεφε Πόντος Salve, figlie di Zeus, datemi l'amabile canto; celebrate la sacra stirpe degli immortali, sempre viventi, 8 Dobbiamo tuttavia ricordare, con Patricia Curd, che non si conosce alcuna cosmogonia presocratica che cominci con Luce e Notte (The Legacy of Parmenides…, cit., p. 117). 528 che da Gaia nacquero e da Urano stellato, da Notte oscura e quelli che nutrì il salso Mare (Teogonia 104-107, traduzione Arrighetti), e più tardi nelle laminette orfiche (V-IV secolo a.C.): ὐιὸς Βαρέας καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono figlio della Greve e di Cielo stellante (laminetta di Ipponio) Γῆς παῖς εἰμι καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono figlio di Terra e Cielo stellante» (laminetta di Petelia)9 . Un’opposizione ricorrente nella cultura arcaica, intrecciata a quella tra regione celeste (οὐρανός), e regione della oscurità (Ade, Notte), in cui, come mostra ancora Kahn10 , αἰθήρ avrebbe poi sostituito οὐρανός, e ἀήρ assorbito i caratteri della oscurità (come rivela, anche etimologicamente, la formula omerica ζόφος ἠερόεις, «oscurità nebbiosa»). In Parmenide, insomma, sarebbe possibile rintracciare un’estrema essenzializzazione e concentrazione del lessico delle teogonie e cosmogonie, nell'alveo della riflessione cosmologica dei Milesi, la quale, in estrema sintesi, aveva ricostruito gli opposti elementari disponendo da un lato caldo, secco, luminoso e raro, dall'altro freddo, umido, oscuro, denso. In questo senso egli avrebbe estratto le sue due serie di proprietà (δυνάμεις) fondamentali: (i) αἰθέριον («etereo»), [ἀραιόν] 11 («rarefatto»), ἤπιον («mite»), μέγ΄ ἐλαφρόν («molto leggero») sono riferiti a φλογὸς πῦρ («fuoco di fiamma»); (ii) ἀδαῆ («oscura») è attributo diretto di núx («notte»), mentre πυκινὸν («denso»), ἐμϐριθές («pesante») concordano con δέμας («corpo»), a sua volta in apposizione a νύξ. 9 Testo greco e traduzione di G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp. 172-175. 10 Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis 1994, p. 152. 11 Secondo alcuni codici di Simplicio. 529 Se consideriamo nel complesso le due liste, e riscontriamo l'incidenza di quelle connotazioni nella tradizione delle opposizioni e degli elementi, non abbiamo in realtà bisogno di coinvolgere indefiniti gruppi pitagorici: di quella tradizione Parmenide avrebbe semplicemente riferito alla polarità πῦρ\νύξ i poteri (δυνάμεις) cosmogonici essenziali, che altri avevano concentrato in sole e terra e che Anassagora fisserà in αἰθήρ e ἀήρ. È significativo che ancora in Empedocle, colui cui generalmente si riconosce l'introduzione del modello elementare (le quattro radici), l'opposizione luce-oscurità giochi un ruolo rilevante: ἀλλ’ ἄγε, τόνδ’ ὀάρων προτέρων ἐπιμάρτυρα δέρκευ, εἴ τι καὶ ἐν προτέροισι λιπόξυλον ἔπλετο μορφῆι, ἠέλιον μὲν λευκὸν ὁρᾶν καὶ θερμὸν ἁπάντηι, ἄμβροτα δ’ ὅσσ’ εἴδει τε καὶ ἀργέτι δεύεται αὐγῆι, ὄμβρον δ’ ἐν πᾶσι δνοφόεντά τε ῥιγαλέον τε· ἐκ δ’ αἴης προρέουσι θελεμνά τε καὶ στερεωπά. Orsù, considera questa attestazione delle cose dette prima, se mai anche nelle cose dette prima è mancato qualcosa alla forma: il sole splendente a vedersi e caldo dappertutto, quante cose imperiture sono immerse nel calore e nella luce irradiante, la pioggia in tutte le cose oscura e gelida; e la terra da cui sorgono cose compatte e solide (DK 30 B21.1-6). In ogni modo, come sappiamo, Parmenide intervenne a correggere quello schema cosmogonico su un punto essenziale: l'assoluta posizione della separazione delle due forme: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων [...] [...] ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία [...] 530 Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri [...] [...] a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte [...] (vv. 55-59a), emendata con la sottolineatura del fatto che esse sono e sono nell'essere: τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν - · delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (v. 54). Complessivamente il recupero e la correzione vanno nella direzione della determinazione di due elementi-principi, qualitativamente connotati in funzione della spiegazione dei fenomeni, di cui si rimarca che non sono frutto di una indebita confusione tra essere e non-essere: in questo senso, come ha rilevato Nehamas12 , essi danno ragione di molteplicità e cambiamento nel mondo sensibile mescolandosi in proporzioni differenti, senza che nessuno dei due si trasformi nell'altro. Identico, non identico Comunque sia stato ricavato, dalla lezione di contemporanei pitagorici, come alcuni credono, ovvero distillando un modello dalla tradizione, come abbiamo ipotizzato, lo schema che Parmenide introduce ai vv. 53 ss. rivela, una volta sottoposto all'esame dei criteri ontologici di B8.1-49, la propria falla. Inquadrate all'interno della fondamentale alternativa «è-non è», le polarità oppositive, nella loro identità con sé stesse (ἑωυτῷ τωὐτόν) e reciproca 12 A. Nehamas, “Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, cit., pp. 61-62. 531 non-identità (τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν), ovvero nella mutua esclusione, appaiono foriere di potenziale contraddizione: donde l'esigenza di denunciare il rischio13 . La situazione appare paradossale, perché da un lato Parmenide, di fronte al compito di spiegare τὰ δοκοῦντα, avrebbe recuperato il dualismo giudicandolo più coerente con i criteri ontologici, rispetto, per esempio, alla cosmologia ionica che cerca di dar ragione dei fenomeni facendo appello alle trasformazioni di un singolo principio di base14; dall'altro, però, avrebbe avvertito l'implicita debolezza del modello. Come abbiamo sopra sottolineato, il lessico dei frammenti superstiti – che è lessico di conoscenza (B10: εἴσῃ «conoscerai», πεύσῃ «apprenderai», εἰδήσεις «conoscerai») - segnala che in qualche modo tale debolezza era stata aggirata. La nostra lettura, tuttavia, non sembra aver superato il paradosso: perché introdurre «due forme» e poi insistere sulla loro unità? Aristotele, come abbiamo inizialmente avuto occasione di ricordare, interpreta a suo modo: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...], ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] 13 In questo senso la Curd riferisce correttamente la natura «enantiomorfa» del modello delineato nei versi conclusivi di B8, ma secondo noi sbaglia ad attribuirlo a Parmenide, il quale, invece, lo propone per sottolinearne il limite. 14 Nehamas, op. cit., pp. 61-62. 532 Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1). Solo per dar ragione dei fenomeni, Parmenide avrebbe recuperato due principi (secondo i precedenti cosmologici) e solo analogicamente avrebbe accostato la loro opposizione a quella di essere e non-essere15: Simplicio ne coglie il senso citando B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν [...] εἰ δὲ "μ η δ ε τ έ ρ ω ι μ έ τ α μ η δ έ ν " καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται e poco dopo ancora [citazione B9]; e se "insieme a nessuna delle due è il nulla", egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono opposti. Il commentatore rileva l'interesse del passo parmenideo nell’esplicitazione del duplice aspetto di φῶς e νύξ: per le loro proprietà costitutive - che condensano le tradizionali opposizioni elementari – e nella misura in cui escludano il nulla, esse possono fungere da ἀρχαὶ. Pur opposte nei loro «segni», entrambe «sono»: «luce è» e «notte è». Insomma, l'Eleate avrebbe conservato un consolidato schema esplicativo del mondo fenomenico, emendandone le implicazioni inaccettabili sul piano ontologico: la mutua esclusione degli opposti doveva evitare la trasformazione dell'uno nell'altro, senza spingersi tuttavia fino alla loro assolutizzazione. Presero la decisione di dar nome... Il passaggio dalla prima alla seconda sezione del poema è sottolineato dalla antitesi tra «pensiero intorno a Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης)·e «opinioni mortali» (δόξας βροτείας): come già 15 Così interpreta Mansfeld, op. cit., pp. 137-139. 533 indicato nei versi che precedono, una componente essenziale dell'opinare umano è riscontrata nel linguaggio, o, meglio, nell'arbitrio delle convenzioni linguistiche. In questo senso era stata netta la presa di posizione di B8.38b-41: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò che è] tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. Alla necessità («unica parola ancora rimane», μόνος δ΄ ἔτι μῦθος λείπεται) con cui, in apertura di B8, si erano imposti la prospettiva della «via che è» (ὁδοῖο ὡς ἔστιν) e il riconoscimento della relativa sequenza di «segni» («su questa [via] sono segnali molto numerosi: che ...», ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς...), la Dea ha modo di contrapporre, introducendo le «opinioni mortali», la decisione di «nominare» (κατέθεντο ὀνομάζειν), ovvero la scelta di «opposti» (ἀντία ἐκρίναντο δέμας) e l'imposizione di «segni» (σήματ΄ ἔθεντο). Non sorprende, dunque, che ella metta sull'avviso il kouros circa le potenzialità fuorvianti dell'espressione di quelle convinzioni umane (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων). Il passaggio fa registrare dunque una significativa svolta nell'atteggiamento intellettuale proposto all'interno dell’esposizione divina. Da una considerazione puramente razionale della realtà, che abbraccia con l'intelligenza il tutto come tale, omogeneizzandolo nell'essere e guadagnandone argomentativamente le proprietà, nella seconda sezione l'attenzione si sposta sul complesso dei fenomeni e quindi non può prescindere dal dato sensibile: questo non comporta comunque una forma di "empirismo", come confermano appunto i rilievi circa la rielaborazione "umana" della Doxa attraverso lo schema degli opposti. La posizione introdotta non è assimilabile a quella stigmatizzata in B7.3- 5a: 534 μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua. L'operazione di riduzione dei fenomeni naturali alla coppia «luce-notte» è certamente altra cosa rispetto alla meccanica e irriflessa assuefazione al dato empirico (ἔθος πολύπειρον), pur avendo di mira la stessa realtà attestata e accettata sulla scorta dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα). La rielaborazione è valorizzata da Parmenide soprattutto nella sua dimensione linguistica e\o categoriale: l'insistenza su formule verbali che implicano valutazione (κατέθεντο, ἐκρίναντο) e disposizione (ἔθεντο) è infatti associata al rilievo del «nominare» (ὀνομάζειν). Così la Dea attribuisce il compito di ordinare il campo dei fenomeni all'umana risorsa del classificare (attraverso i nomi), sebbene ella individui esplicitamente nei nomi l'origine di un potenziale fraintendimento della realtà (come denuncia B8.38b-41). Anche questo contribuisce a spiegare il cambiamento di registro all'interno del poema e il richiamo ai rischi impliciti nella comunicazione della Doxa. Questi rilievi non devono spingere a concludere che il mondo della Doxa sia appunto un mondo puramente "verbale", inconsistente, illusorio: non condividiamo l'opinione di Nehamas, secondo cui la Doxa proporrebbe una descrizione accurata di apparenze, la quale, per quanto accurata, rimarrebbe pur sempre descrizione di apparenze, dunque di un mondo falso16. È vero piuttosto che Parmenide aveva denunciato tale illusione nell'immagine della realtà - in sé contraddittoria – caratteristica di coloro che in B6.4-5 sono apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν e δίκρανοι. La seconda sezione del poema, al contrario, era probabilmente intesa 16 A. Nehamas, “Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, cit., p. 63. 535 come alternativa alle cosmologie ioniche17: una grande sintesi enciclopedica che avrebbe dovuto illustrare la superiorità della sua analisi ontologica. L'orgoglio dell'impresa potrebbe ancora riflettersi nelle battute conclusive del frammento: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto verosimile, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti (vv. 60-61). D'altra parte, se l'intelligenza applicata alla riflessione su «ciò che è», alla totalità dell'essere, manifestava proprietà rigorosamente riconducibili all'alternativa «è»-«non-è», risulta invece evidente, nei versi tràditi della seconda sezione, l'impegno a dare conto dell'impianto della realtà fenomenica, delle strutture portanti del cosmo dell'esperienza umana. L'eco, nelle parole della Dea, del tradizionale motivo dell'opposizione di sapere umano e divino, nonché l'uso di espressioni, come δοκίμως (B1.32, «realmente», ma anche «plausibilmente») e ἐοικότα (B8.60, «appropriato», «adeguato», ma anche «verosimile», «probabile») potrebbero segnalare, da parte di Parmenide, la consapevolezza dei limiti della περὶ φύσεως ἱστορία. Spesso nella letteratura si è, su questo punto, evocato il possibile esempio di Senofane: καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔ τις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται Davvero l'evidente verità nessun uomo la conosce, né mai ci sarà 17 Come ipotizza Graham (Explaining the Cosmos…, cit., p. 184), è forse possibile che la sfida fosse lanciata anche a Esiodo, considerato alla stregua di un cosmologo. 536 chi sappia intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo saprebbe; opinione è data su tutte le cose (DK 21 B34) ταῦτα δεδοξάσθω μὲν ἐοικότα τοῖς ἐτύμοισι Siano queste cose credute simili a cose vere (DK 21 B35) ὁππόσα δὴ θνητοῖσι πεφήνασιν εἰσοράασθαι Tutte le cose che essi [gli dei] hanno mostrato ai mortali perché le osservassero (DK 21 B36) οὔ τοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’ ὑπέδειξαν, ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον Gli dei dall'inizio non hanno rivelato tutte le cose ai mortali, ma nel tempo ricercando essi trovano ciò che è meglio (DK 21 B18). Graham18 ha di recente rilanciato l'accostamento, rilevando come i frammenti di Senofane avrebbero presentato, tra VI e V secolo, qualcosa di simile a uno status quaestionis, una prima meditazione sui limiti della conoscenza del mondo naturale, concludendo che essa non sarebbe sicura. Posizione analoga a quella del giovane contemporaneo Alcmeone: περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι Sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma gli uomini devono imparare per inferenza (DK 24 B1)19 . 18 Explaining the Cosmos…, cit., p. 176. 19 Come abbiamo in precedenza ricordato, del testo greco esiste oggi una versione proposta da M.L. Gemelli Marciano (“Lire du début…, cit., pp. 7- 37), che ha espunto la virgola tra i due complementi iniziali, offrendo quindi un senso profondamente diverso: 537 Il pensatore di Crotone (che Diogene Laerzio vuole discepolo di Pitagora e dunque proveniente dalla stessa area geografica e culturale di Parmenide) avrebbe ripreso la tradizionale opposizione (μὲν θεοὶ ... δὲ ἀνθρώποις) per precisare come gli uomini abbiano solo la possibilità di procedere per evidenze sensibili e relative inferenze. Parmenide potrebbe aver reagito alle provocazioni di Senofane indicando come in realtà fosse possibile una conoscenza dimostrativa sicura di «ciò che è», sforzandosi poi, negli ultimi versi del nostro frammento, di rintracciare delle linee di stabilità che consentissero di riordinare il campo fenomenico alla luce delle indicazioni ontologiche, come rivelerebbero chiaramente i «segni» attribuiti alle due «forme». περὶ τῶν ἀφανέων περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo di trovare degli indizi. 538 LE FORME, L’ESSERE, IL NULLA [B9] Simplicio offre, nel caso di B9, un'indicazione preziosa, ancorché approssimativa, circa la sua collocazione nel poema parmenideo. Afferma infatti il commentatore (contesto DK 28 B9): καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν [citazione B9] εἰ δὲ ‘μ η δ ε τ έ ρ ω ι μ έ τ α μ η δ έ ν ’ καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται e dopo poco aggiunge ancora: [citazione B9]. E se "con nessuna delle due è il nulla", egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono opposti. Dal momento che il rilievo è posto subito dopo la citazione di B8.53-59, è facile concludere che i quattro versi di B9 seguissero dappresso la conclusione di B8, anche se non necessariamente come prosecuzione (come ipotizza Cerri1 ). Appare di conseguenza discutibile la scelta di alcuni editori (Coxon, Collobert) di collocarli dopo B10 e B11 (ovvero di ipotizzare la successione B11- B10-B9, come fa O' Brien), o addirittura, dopo altri intervalli testuali, subito prima di B19 (Mansfeld), nonostante l'evidenza di una relazione tra B9, 10 e 11, come introduzione generale all'esposizione cosmologico-cosmogonica della Doxa. Tutte le cose sono state denominate In effetti, dopo l'esordio di B8.50-61, B9 condivide con B19 l'importante riferimento agli ὀνόματα e all'attività di ὀνομάζειν, che abbiamo visto essere centrale nella costruzione della cosmologia parmenidea. In particolare, nelle prime battute di B9 troviamo un accenno al ruolo d'ordine delle due μορφάι: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς 1 Op. cit., p. 255. 539 Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle (vv. 1-2). Nella dimensione plurale delle cose (πάντα) attestate dall’esperienza e che l'intelligenza ha riassunto nell’omogeneità dell'essere, il compito di φάος καὶ νὺξ è quello di classificare e discriminare: secondo il modello che abbiamo riscontrato nel commento al frammento precedente, lo schema oppositivo distribuisce sul complesso dei fenomeni le «proprietà» (δυνάμεις, «potenze»), i σήματα che accompagnano le due μορφάι, così riordinando, attraverso un'articolazione elementare, il mondo empirico. Dopo aver messo a fuoco la nozione di τò ἐόν, comune denominatore che contraddistingue la realtà, raccogliendo a unità la totalità degli enti, e averne approfondito le implicazioni (alla luce della κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν), Parmenide delinea una strategia conseguente di recupero del cosmo dell’esperienza umana: Luce e Notte dovranno spiegare l'apparire senza che venga ammesso come principio il nulla2 . Alcuni accostamenti verbali manifestano questa operazione. Al verso B8.24b la Dea aveva sottolineato (i): πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος ma tutto pieno è di ciò che è, dopo aver ricordato (ii): οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno (B8.23-24a), e soprattutto (iii): 2 Ruggiu, op.cit., p. 326. 540 οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo (B8.22). A questa rappresentazione della omogeneità e compattezza dell'essere possiamo far corrispondere l'affermazione centrale del nostro frammento: πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile di entrambe alla pari (B9.3-4a), dove l'originario nesso ontologico di totalità e pienezza (πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος) è declinato al duale (πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ νυκτὸς), salvaguardando comunque l'esigenza di uniforme densità e continuità – veicolata in B8 da espressioni come ὁμοῦ πᾶν (B8.5), πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (B8.22), oltre che da συνεχές (B8.6) e συνέχεσθαι (B8.23) e ribadita in B9 dalla formula πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ e dalla precisazione incidentale ἴσων ἀμφοτέρων. Insieme a nessuna delle due è il nulla Ma, al di là di queste convergenze che paiono indiscutibili, il διάκοσμος proposto dalla Dea esplicitamente rileva il dato discriminante rispetto alle narrazioni cosmogoniche, la preoccupazione ontologica essenziale a tutela della fondatezza della ricostruzione: ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9.4). Per quanto orientata a ordinare ciò che è registrato a livello empirico e che τὸ νοεῖν (il pensare) ovvero il νόος (l'intelligenza) o ancora il λόγος (il discorso argomentativo) confermano nell'unità di τò ἐόν, la scelta del modello oppositivo e della relativa disposizione seriale (l'aristotelica συστοιχία) di δυνάμεις (proprietà) riba- 541 disce l'assoluta esclusione del «nulla» (μηδέν). Insomma, il linguaggio della doxa ripropone quello della alētheia, sottolineando, sul terreno dell'apparire, la propria continuità con il νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, quasi che la doxa, nel suo insieme e a dispetto dell'insidia degli ὀνόματα, ne costituisse la diretta prosecuzione3 . Perché, ci si potrebbe chiedere, Parmenide avrebbe dovuto affiancare alla Verità il resoconto plausibile di una realtà già ridotta, nei suoi tratti caratterizzanti, ai σήματα di B8? B9 può contribuire a una risposta, soprattutto considerandone la collocazione a ridosso della dichiarazione conclusiva di B8: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti. L'orizzonte dell'esperienza è ineludibile per un mortale; così l'insegnamento divino della verità è proceduto di pari passo con una puntuale disamina degli errori umani, in larga misura condizionati da scriteriate assunzioni empiriche: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5a). Proprio per la sua ineludibilità, la Dea si impegna a fornire gli strumenti per una ricostruzione adeguata di quell'orizzonte, che ne conservi la fisionomia pluralista e qualitativa, senza contraddire nella sostanza le indicazioni della Verità. B9 si inserisce appunto in questo contesto, con le sue "istruzioni" circa l'ordinamento lin- 3 Ibidem. 542 guistico del mondo dell'esperienza e il suo "riempimento" a opera delle due «forme» nominate, con opportuno esorcismo del «nulla». Una soluzione per garantire in ogni senso la superiorità del discente dalla concorrenza di potenziali resoconti alternativi. In questa prospettiva, la probabile ampia articolazione della Doxa ancora attestata – come sappiamo - da Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro, può far sorgere il sospetto che la relativamente più contenuta trattazione della Verità fosse funzionale al coerente consolidamento della trattazione cosmologica e cosmogonica. Tutto è pieno di luce e notte Se osserviamo la costruzione del frammento, possiamo notare un passaggio significativo per la complessiva interpretazione della Doxa: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται [...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου 543 Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, [...] tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile. La consistenza del mondo della nostra esperienza dipende dalla coerenza della sua costruzione linguistica: dopo (i) aver rifiutato le interpretazioni che pretendevano coniugare essere e nonessere (B6 e B7), (ii) aver individuato un modello (linguistico) di base, imperniato sullo schema polare delle nozioni luce-notte (B8.53-4), (iii) averne rilevato i limiti (B8.55-59), e (iv) bandito esplicitamente l'implicazione del «nulla» (B9.4), Parmenide se ne serve (v) distribuendone le rispettive proprietà su tutte le cose. In altre parole, egli procede a connotare, attraverso gli ὀνόματα delle due μορφάι – e i relativi σήματα -, i vari aspetti fenomenici: la luce è associata a caldo, leggero, raro; la notte a freddo, pesante, denso, come possiamo evincere da B8.56-9 e dallo scolio a B8 di Simplicio: καὶ δὴ καὶ καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί τι ῥησείδιον ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως· ἐ π ὶ τ ῶ ι δ έ ἐ σ τ ι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ τ ὸ φ ά ο ς καὶ τὸ μ α λ θ α κ ὸ ν καὶ τὸ κοῦφον, ἐ π ὶ δ ὲ τ ῶ ι π υ κ ν ῶ ι ὠ ν ό μ α σ τ α ι τὸ ψυχρὸν καὶ τ ὸ ζ ό φ ο ς καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ· tra i versi è riportato un passo in prosa come fosse dello stesso Parmenide; esso afferma: «per questo ciò che è raro è anche caldo, e luce e morbidezza e leggerezza; per la densità invece il freddo è indicato come oscurità, durezza e pesantezza». Quanto è stato denominato conformemente a tale strategia assume lo spessore di un mondo comune, condiviso: non a caso, dopo aver impiegato in premessa l'espressione πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται, al v. 3 la Dea conclude che πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ νυκτὸς. 544 Le due «forme» concorrono alla composizione del mondo: la loro complicità nell'opposizione assicura la stabilità del mondo4 . Il fatto che entrambe siano parte dell'Essere rende possibile una fisica della mescolanza (κρᾶσις) 5 . La κρᾶσις funge così da principio di costituzione di tutte le cose: l'uguaglianza delle due forme e la presenza delle rispettive potenze spiega come ogni cosa sia costituita insieme (anche se non nella stessa misura) di Luce e Notte6 . È tuttavia necessario ricordare – con Conche 7 - che le due μορφάι parmenidee non sono assimilabili agli elementi di Empedocle o degli atomisti: non si tratta di principi eterni e immutabili, ma di «forme» nominate dai mortali, di cui la Dea si serve ad hoc, per una adeguata spiegazione dell'universo delle «opinioni mortali». Ciò deve rendere cauti rispetto a una loro ontologizzazione: nulla ne giustifica l'assolutizzazione al di fuori di questo mondo. 4 Conche, op. cit., p. 201. 5 Ruggiu, op. cit., p. 327. 6 Ivi, p. 328. 7 Op. cit., p. 200. 545 UN GRANDE AFFRESCO COSMICO [B10-11-12- 13] I tre frammenti B10-11-12 sono conservati da due fonti diverse: Clemente Alessandrino (II-III secolo d.C.) e Simplicio (tuttavia B11 in un passo del commento al De caelo, B12 in due passi del commento alla Fisica): solo il secondo ci fornisce, per B12, un’indicazione approssimativa circa la collocazione relativa: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως [...] poco più avanti [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [B12.1-3] [...] Ricordiamo che con analoga approssimazione («poco dopo») era stata introdotta la citazione di B9, il cui testo avrebbe seguito dappresso B8.59. Almeno i versi di B12, dunque, dovevano trovarsi a ridosso di B8 e B9: certamente dopo B8. Il contesto delle altre due citazioni e il loro contenuto concorrono a suggerire una stretta relazione di B12 con B10 e B11, e, ulteriormente, dei tre frammenti con B9, anche se sono state proposte diverse soluzioni circa la loro effettiva sequenza. B13, infine, conservato da varie fonti (Platone, Aristotele, Plutarco, Sesto Empirico, Stobeo, Simplicio), viene citato da Simplicio in stretta connessione con B12. Clemente (autore che rivela dimestichezza con il poema, risultando unica fonte di quasi tutto quello che cita) introduce e accompagna B10 con queste parole: ἀφικόμενος οὖν ἐπὶ τὴν ἀληθῆ μάθησιν ὁ βουλόμενος ἀκουέτω μὲν Παρμενίδου τοῦ Ἐλεάτου ὑπισχνουμένου ‘ε ἴ σ η ι . . . ἄ σ τ ρ ω ν ’ pervenuto alla vera conoscenza [di Cristo], chi vuole ascolti Parmenide di Elea che promette «tu conoscerai ... degli astri». Il commentatore neoplatonico, a sua volta, ci informa che: 546 Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν ἄρξασθαί φησι λέγειν·[citazione B11] καὶ τῶν γινομένων καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν παραδίδωσι. Parmenide intorno alle cose sensibili afferma di aver intenzione di dire [citazione B11] e descrive l'origine delle cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli animali. Evidentemente la funzione dei due testi citati era prolettica rispetto alla vera e propria descrizione cosmogonica e cosmologica: dal momento che Plutarco (Contro Colote 1114b, contesto di DK 28 B10) ci documenta l'articolazione della Doxa parmenidea, utilizzando ancora la sua testimonianza possiamo tracciare una loro plausibile posizione: ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro. Plutarco offre diversi spunti per il nostro orientamento nella seconda parte del poema, suggerendo almeno tre cose fondamentali sulla sua struttura: (i) intanto che la costruzione del «sistema del mondo», annunciata in conclusione di B8, è, per quanto consta all'autore, chiaramente responsabilità di Parmenide: διάκοσμον πεποίηται sottoli- 547 nea l'originalità dell'impresa scientifica. Ciò è ribadito in conclusione: «ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro» (συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν); (ii) poi che la scelta degli elementi (στοιχεῖα) è funzionale al progetto scientifico: la ricognizione cosmologica (διάκοσμον) implica la ricostruzione comogonica; la struttura del cosmo la sua produzione. Con la proposta di due principi il filosofo assicura la spiegazione fenomenica (conclusione di B8 e B9): «mescolando come elementi la luce e la tenebra» (στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν), egli produce il suo διάκοσμος. Da e per mezzo di quegli elementi (ἐκ τούτων [...] καὶ διὰ τούτων) ricava (ἀποτελεῖ) «tutti i fenomeni» (τὰ φαινόμενα πάντα); (iii) infine che il progetto scientifico doveva essere ambizioso, dire «molto» («molte cose», πολλὰ) «sulla Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna»: si tratta evidentemente del tema cui alludono programmaticamente B10-11 e che B12 sviluppa. Doveva poi procedere a delineare l'«origine degli uomini» (γένεσις ἀνθρώπων): ne abbiamo tracce in B13 (e successivi). Potremmo così avere conferma della bontà dell'attuale successione, ovvero supporre una sistemazione leggermente diversa. La natura programmatica di B10 e B11, attestata dalla ricorrenza di formule illocutorie (εἴσῃ, πεύσῃ, εἰδήσεις) che ricorda la protasiinvocazione alle Muse della Teogonia esiodea1 , unitamente alla considerazione che B9 ne costituisce il fondamento (funzione dei principi), potrebbe suggerire una posposizione dello stesso B92 . A ciò osta sostanzialmente l'indicazione (comunque approssimativa) di Simplicio, nel contesto di B9, circa la prossimità della citazione alla conclusione della precedente (B8.53-9). D'altra parte è chiaro come B10 costituisca una sorta di indirizzo della Dea a Parmenide, analogo a quello che chiude il proemio: ci troveremmo in questo senso in presenza di un "secondo" 1 Cerri, op. cit., p. 263. 2 Ruggiu, op. cit., p. 332. 548 proemio3 . B10 e B11 annunciano – Clemente parla di Parmenide «che promette» (ὑπισχνούμενος) - e descrivono sommariamente il programma scientifico (spiegazione cosmogonica e cosmologica) che B12 contribuisce a realizzare. Con B10 e B11 siamo, insomma, ancora al prologo, al profilo preliminare; con B12 alla descrizione dei processi e della struttura del cosmo, che Aëtius e Cicerone (DK 28 A37) ci aiutano a ricostruire. B9, in questo contesto, sembra effettivamente, più che una tessera programmatica vera e propria, un rilievo delle conseguenze immediate, sul piano cosmologico e cosmogonico, dell'opzione per le due «forme» (B8.53-59), e quindi fungere solo in questo senso da cerniera introduttiva. O'Brien4 , in alternativa, vi ha colto, dopo l'annuncio degli argomenti principali (B11) e il passaggio alle «opere» del Sole e della Luna (B10), una precisazione sulla natura delle due «forme», prima dell'introduzione della δαίμων che le «governa» (la sequenza sarebbe dunque: B11-B10-B9- B12). La disposizione proposta da Diels-Kranz appare comunque credibile e soprattutto compatibile con le indicazioni di Simplicio. Conoscere la natura La Dea dunque preannuncia (promette) al proprio discepolo un grandioso disegno scientifico: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. 3 Per questo in passato Bicknell propose di integrare i versi di B10 nel prologo del poema (P.J. Bicknell, «Parmenides, fragment 10», Hermes 95, 1968, pp. 629.631). 4 Études sur Parménide, cit., I, p. 246-7 (in particolare nota 33). 549 Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente Sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della Luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo costrinse a tenere i confini degli astri. La promessa è quella di: (i) far «conoscere» (εἰδέναι) «la natura eterea» (αἰθερίαν φύσιν) e «tutti i segni» (πάντα σήματα) nell'etere; (ii) e le «opere invisibili (distruttive)» (ἔργ΄ ἀίδηλα) del Sole e «ciò da cui» (ὁππόθεν) esse si generarono (ἐξεγένοντο); (iii) far «apprendere» (πεύθεσθαι) «le opere» (ἔργα) della Luna e «la [sua] natura» (φύσιν); (iv) far «conoscere» (εἰδέναι) «il cielo» (οὐρανὸν) «che tiene tutto intorno» (ἀμφὶς ἔχοντα) e «da che cosa» (ἔνθεν) «scaturì» (ἔφυ); (v) far conoscere come Necessità (Ἀνάγκη) «incatenò» (ἐπέδησεν) il cielo a «mantenere nei loro limiti» (πείρατ΄ ἔχειν) gli astri. Il contesto della citazione di B11 (nel commento di Simplicio al De caelo) conferma questo disegno di Parmenide: Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν ἄρξασθαί φησι λέγειν·[citazione B11] καὶ τῶν γινομένων καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν παραδίδωσι. Parmenide intorno alle cose sensibili afferma di aver intenzione di dire [B11] e descrive l'origine delle cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli animali. 550 Conche5 ha osservato, a proposito di questi rilievi, come Simplicio evidenzi l'ampiezza e la verticalità dell'indagine parmenidea, evocando nelle scelte verbali (generazione-corruzione, parti degli animali) i temi poi trattati da Aristotele, e la centralità dei processi naturali nell'esplicazione dei fenomeni: il mondo è opera della natura. D'altra parte non è sfuggita agli studiosi l'eco di questo indirizzo cosmogonico di B10 in Empedocle (DK 31 B38): εἰ δ’ ἄγε τοι λέξω πρῶθ’ † ἥλιον ἀρχήν †, ἐξ ὧν δῆλ’ ἐγένοντο τὰ νῦν ἐσορῶμεν ἅπαντα, γαῖά τε καὶ πόντος πολυκύμων ἠδ’ ὑγρὸς ἀήρ Τιτὰν ἠδ’ αἰθὴρ σφίγγων περὶ κύκλον ἅπαντα. Orsù, ti dirò delle cose prime e ; da cui divenne manifesto tutto quanto ora vediamo, terra e mare dalle molte onde e aria umida e il Titano etere che cinge in cerchio tutte le cose. L'impressione è che Empedocle si sia direttamente ispirato al modello parmenideo introducendo la sezione astronomica del proprio poema 6 . Le opere della natura Di questo programma scientifico (abbiamo già osservato, nel commento di B8.50-61, l'insistenza della Dea sulle formule di conoscenza di B10) sono da notare in particolare: (a) il nesso ribadito tra φύσις e ἔργα, e (b) l'uso di espressioni come ὁππόθεν ἐξεγένοντο (che abbiamo reso come «donde ebbero origine») e l'equivalente ἔνθεν ἔφυ. Al centro della comunicazione della Dea ritroviamo dunque un modello di sapere che si definisce per la capacità di ricostruire la «generazione» dei fenomeni, con l'esplicito accostamento di φύσις e γένεσις: nel contesto il primo termine 5 Op. cit., pp. 210-11. 6 Cerri, op. cit., p. 259. 551 – che abbiamo per lo più tradotto come «natura» - designa appunto ciò che dà origine (φύω, «dare origine»), la cui attività generatrice si traduce in ἔργα. Conoscere la natura significa allora riconoscere i processi di formazione, il manifestarsi dell'origine (φύσις, γένεσις) nei «segni» (σήματα), nei fenomeni celesti; Parmenide evidentemente non allude con φύσις a un’immota identità, a un'essenza che con la propria stabile determinatezza consenta di classificare i fenomeni 7 : in questo senso la formula «donde ebbero origine» (ὁππόθεν ἐξεγένοντο) riprende e rilancia la ricerca milesia dell'ἀρχή8 . Nell'indirizzo della Dea è allora possibile intravedere una doppia direzione di indagine: (i) quella che dai σήματα, dagli ἔργα, dai fenomeni astronomici risale alla natura che li esprime; (ii) quella che dalla φύσις discende ai relativi ἔργα 9 . Nella stessa direzione, precisando il disegno, B11: πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ σελήνη αἰθήρ τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν μένος ὡρμήθησαν γίγνεσθαι. [...] come Terra e Sole e Luna, l'etere comune e la Via Lattea e l'Olimpo estremo e degli astri l'ardente forza ebbero impulso a generarsi. In questo caso, di alcuni elementi essenziali del quadro cosmologico si prospetta la genesi marcandone lo spunto immanente: a conferma del fatto che Parmenide non intende semplicemente descrivere un ordine cosmico, stabilire ruoli e posizioni relative, ma produrre una cosmogonia. La combinazione di ὁρμᾶν e γίγνεσθαι è indicativa della sua nozione di φύσις: essa in ogni fenomeno è la 7 In questa direzione anche la lettura di Conche, op. cit., pp. 204-5. A noi pare, tuttavia, che Parmenide intenda esporre anche la «costituzione» dell'etere o della luna, analizzarne la composizione. 8 Su questo punto si veda Ruggiu, op. cit., pp. 333-5. 9 Ibidem. 552 δύναμις che si esprime in «segni» e «opere». Ovvero, richiamando l'attacco di B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà [δυνάμεις], [sono state attribuite] a queste cose e a quelle (vv.1-2), potremmo concordare con Ruggiu10 che le due «forme» originarie – Luce e Notte – si manifestano come δυνάμεις nella φύσις di ogni cosa: esse, sotto questo profilo, costituirebbero l'unica natura delle cose. Opere invisibili, opere periodiche Quello che, nei versi del poema che ci sono conservati, ancora possiamo "catturare" della grandiosa sintesi cosmologica cui allude Plutarco è lo sforzo di elaborazione cosmogonica. Essa traspare, come abbiamo rilevato, nella insistenza sulla γένεσις, nella centralità del tema della φύσις, ma anche nelle scelte verbali che tendono a marcare - si veda, per esempio, il passaggio dal passato11 di πλῆντο al presente di ἵεται in B12.1-2 - gli effetti durevoli dei processi generativi nella struttura cosmica: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα Quelle più strette [interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive [si riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco. 10 Ibidem. 11 Sia nella forma, da noi accolta, dell'aoristo, sia in quella del perfetto medio (πλῆνται), proposta in alternativa. 553 È infatti probabile che B12 alluda proprio alla formazione e articolazione dello spazio cosmico (come vedremo meglio più avanti), delineando costituzione del centro terrestre del sistema (sfera terrestre e suo interno infuocato), della periferia celeste (sfera solida esterna e sfera ignea interna), e dello spazio intermedio in cui si muovono i corpi celesti. Esplicita in B12.3 è anche l'introduzione della «Dea che tutto governa» (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ) e della sua funzione "copulatrice": ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). Ma che lo sguardo del poeta – nei versi superstiti - non sia rivolto tanto alla contemplazione di un ordine da cui ricavare o in cui riscontrare armonie ed equilibri strutturali, ovvero modelli geometrici, quanto al compiaciuto rilevamento della fecondità, dell'impeto (μένος) generativo che nell'universo manifesta la natura, emerge nei versi in cui la Dea – riferendosi a Sole e Luna – insiste non sulla loro posizione relativa nel sistema o sulla loro relazione reciproca (a Parmenide dobbiamo il riconoscimento della riflessione lunare della luce solare), ma sulle loro «opere», rispettivamente «invisibili» (ovvero «distruttive») e «periodiche», cioè sul loro contributo ai processi cosmici. 554 Il sistema del mondo Articolando il programma scientifico annunciato in B10, B11 si riferisce al «come» (πῶς) Terra, Sole, Luna e etere «ebbero impulso a generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), dunque al processo di formazione del cosmo a partire dalle due potenze originarie. Il legame con B9, infatti, doveva essere molto stretto, perché, come abbiamo già ricordato, la citazione dei primi 3 versi di B12 è registrata nel seguente contesto: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως [...] poco più avanti [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. Se è valida la ricostruzione per lo più accettata, i versi di B12 dovevano seguire di poco B9, e dunque l'introduzione degli elementi materiali (στοιχεία); d'altra parte essere dappresso anche a un primo riferimento alla struttura delle «corone» (στεφάναι) cosmiche, di cui ci dà notizia Aëtius (A37), dal momento che a esse rinviano implicitamente in apertura: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· Quelle più strette [interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive [si riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco; in mezzo a queste la Dea che tutte le cose governa. Corone cosmiche Il processo cui alludono i versi doveva fornire le coordinate essenziali per la comprensione dell'universo parmenideo, relati- 555 vamente alla sua configurazione e composizione. La scarsità (nei numeri e nella consistenza) dei frammenti superstiti, purtroppo, non ci consentono di delinearle se non in modo estremamente approssimativo: così sappiamo (B10.5-7) del «cielo che tutto intorno cinge» (οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα) e di come esso sia stato vincolato da Necessità (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη) «a tenere i confini degli astri» (πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων); B11 conferma la presenza di un «Olimpo estremo» (ὄλυμπος ἔσχατος) – il cielo di cui sopra, umschliessende Firmament come lo definisce Diels12 - e di uno spazio etereo (αἰθήρ τε ξυνὸς), con esso (ma la relazione è indefinita nel testo) nominando Terra (che secondo la tradizione delle testimonianze antiche consideriamo il centro del sistema) e pianeti; B12 poi, come abbiamo ricordato, sintatticamente sembra sottendere il riferimento a una struttura ad «anelli» o «corone» (στεφάναι) concentrici. Un senso complessivo a questi cenni cosmologici riusciamo a garantirlo grazie alla preziosa (quanto discussa) testimonianza di Aëtius, che fornisce, partendo da Teofrasto, il quadro d'insieme entro cui collocarli: Π. στεφάνας εἶναι περιπεπλεγμένας, ἐπαλλήλους, τὴν μὲν ἐκ τοῦ ἀραιοῦ, τὴν δὲ ἐκ τοῦ πυκνοῦ· μικτὰς δὲ ἄλλας ἐκ φωτὸς καὶ σκότους μεταξὺ τούτων. καὶ τὸ περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν, ὑφ’ ὧι πυρώδης στεφάνη, καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης [sc. Στεφάνη]. τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην. καὶ τῆς μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι τὸν ἀέρα διὰ τὴν βιαιοτέραν αὐτῆς ἐξατμισθέντα πίλησιν, τοῦ δὲ πυρὸς ἀναπνοὴν τὸν ἥλιον καὶ τὸν γαλαξίαν κύκλον. συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος καὶ τοῦ πυρός. περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων 12 Parmenides Lehrgedicht, cit., p. 104. 556 τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. Parmenide [afferma che] ci sono corone, l'una intorno all'altra in successione, una costituita dal raro, l'altra dal denso; tra queste ve ne sono altre miste di luce e oscurità. Ciò che tutte le avvolge è solido come un muro, sotto il quale è una corona ignea; solido è anche ciò che è al centro di tutto, intorno al quale è, ancora, una corona ignea13. Delle corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi14 e Necessità. L'aria è secrezione della Terra, evaporata a causa della sua [della Terra] compressione più intensa, e il Sole e la Via Lattea sono esalazioni del fuoco; la Luna mescolanza di entrambi, dell'aria e del fuoco. L'etere poi avvolge tutto dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37). Parmenide avrebbe introdotto una cosmologia fondata sulla nozione di στεφάνη, da intendere probabilmente come «anello» cilindrico (Cicerone traduce coronae similem). Secondo Teofrasto, dunque, il cosmo celeste dell'Eleate era costituito da στεφάναι concentriche, anelli alternativamente di «rado» (ἐκ τοῦ ἀραιοῦ) e 13 Il testo greco καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης sarebbe in realtà interpolato: come sottolinea Franco Ferrari (nel suo recente Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei presocratici, cit., pp. 88-9), στερεόν è infatti una integrazione, e περὶ ὃ un emendamento. Il testo alternativo restaurato sarebbe: καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν περι < ι > όν πάλιν πυρώδης, «e la circonferenza al centro di tutte [le corone] è di nuovo [una corona] ignea». 14 Il greco stabilito da Diels - κληιδοῦχον Δίκην – è emendazione del testo dei manoscritti: κληροῦχον Δίκην, «Giustizia che indirizza le sorti». Simplicio, dopo aver citato B13, osserva in effetti: καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν φησιν, «[Parmenide sostiene che la dea] invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto». 557 di «denso» (ἐκ τοῦ πυκνοῦ), che presentavano quindi la purezza degli elementi-principi. Tra questi (μεταξὺ τούτων) erano poi dislocate altre corone «miste di luce e oscurità» (μικτὰς ἐκ φωτὸς καὶ σκότους), con una evidente corrispondenza nei «segni»: ἐκ τοῦ ἀραιοῦ/ἐκ φωτὸς, ἐκ τοῦ πυκνοῦ/ἐκ σκότους. Il cosmo finito era avvolto da una sfera solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν), secondo quanto indicato in B10.5: οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, altrimenti evocato (B11.2-3) come ὄλυμπος ἔσχατος. L'espressione conclusiva τὰ περίγεια suggerisce che al centro del sistema cosmico si trovasse la Terra, come confermano, sempre sulla scorta di Teofrasto, Diogene Laerzio e Aëtius (DK 28 A1, A44): πρῶτος δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι κεῖσθαι questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma di sfera e giace al centro [dell'universo] Π., Δημόκριτος διὰ τὸ πανταχόθεν ἴσον ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν· διὰ τοῦτο μόνον μὲν κραδαίνεσθαι, μὴ κινεῖσθαι δέ Parmenide e Democrito sostengono che la Terra, essendo a uguale distanza da tutte le parti, rimane in equilibrio, non avendo causa per cui debba inclinare da una parte piuttosto che dall'altra. Per questo trema soltanto e non si muove. La struttura del cosmo Seguendo le indicazioni di Teofrasto riferite da Aëtius, analogamente al centro sferico (τὴν γῆν [...] σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι κεῖσθαι) dobbiamo supporre sferica almeno la solida parete esterna (τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν) del cosmo - «ciò che tutto avvolge» (τὸ περιέχον δὲ πάσας). Qui incontriamo una prima difficoltà: la 558 consistenza attribuita al contenitore cosmico (appunto la parete solida esterna cui allude Aëtius) dovrebbe comportare – per rispettare i σήματα associati alle due μορφάι – la sua natura densa e oscura; d'altra parte Aëtius sottolinea come l'«etere» avvolga tutto «dall'esterno [ovvero dalla posizione superiore]» (περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος). Diels15 identificava tale «muro» (Mauer) con una sfera di pura Notte, esterna a una sfera di puro Fuoco, che complessivamente costituivano la coppia di στεφάναι concentriche periferiche, contrastate, al centro del sistema, da una coppia corrispondente: una sfera esterna di Notte densa (la superficie terrestre) e una interna di puro fuoco (fuoco vulcanico). Di recente Franco Ferrari 16 ha ribadito questo modello, tra l'altro proponendo una revisione del testo greco di Aëtius che rende coerente l'ipotesi di Diels con le indicazioni che giungevano da Teofrasto. Anche Tarán17 sottolinea la corrispondenza tra τὸ περιέχον στερεὸν (A37), οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα (B10) e ὄλυμπος ἔσχατος (B11), riducendolo a una solida sfera di Notte, sebbene poi la sua struttura cosmica diverga in parte da quella dielsiana, per una diversa interpretazione delle στεινότεραι στεφάναι (coincidenti, secondo lo studioso americano, con gli anelli che contengono le stelle). Altri, tuttavia, hanno contestato questa ricostruzione. Coxon18 , per esempio, pur rilevando che la testimonianza di Aëtius appare parafrasi dei versi di B12, e concedendo che l'accostamento al muro di una città (τ ε ί χ ο υ ς δίκην) potrebbe essere stato dello stesso Parmenide (dal momento che ricorre in un contesto pitagorico alla fine di un saggio di Massimo di Tiro, II secolo), denuncia come l'asserzione su τὸ περιέχον στερεὸν risulti fraintendimento di ὄλυμπος ἔσχατος: l'οὐρανὸς di Parmenide non sarebbe dunque solido (cioè composto di Notte), ma etereo, come si ricaverebbe dall'incrocio delle attestazioni di Aëtius e Cicerone: 15 Nella sua edizione del 1897, cit., p. 104. 16 Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 88-90. 17 Op. cit., p. 241. 18 Op. cit., pp. 235-236. 559 περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. L'etere poi avvolge tutto dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37) nam P. quidem commenticium quiddam: coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et > lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum [...] Parmenide elabora qualcosa di fittizio: simile a una corona (egli la chiama στεφάνην), una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli denomina dio [...] (Cicerone; DK 28 A37). L'orbis lucis di Cicerone coinciderebbe con l'αἰθήρ di Aëtius: Parmenide distinguerebbe il fuoco dall'etere: l'etere – secondo Aëtius – costituirebbe in Parmenide la regione estrema dell'universo, governando il cielo delle stelle fisse (οὐρανὸς) 19 . Ruggiu20 interpreta le indicazioni dei frammenti e delle testimonianze in modo analogo. Il termine στεφάνη nel pensiero arcaico designerebbe una formazione di tipo circolare sviluppata intorno a un punto centrale: dal momento che al centro delle στεφάναι in Parmenide sta la Terra, concepita come sferica, la struttura dei cieli sarebbe sferica: la periferia sarebbe occupata da una sfera di fuoco; l'elemento che tutto contiene, ancora igneo, sarebbe della consistenza di un solido muro. D'accordo sostanzialmente Cerri21: nel complesso delle στεφάναι – corone sferiche concentriche – la più esterna, il confine limite dell'universo visibile, sarebbe formata da uno strato di «etere rigido», avvolgente un'altra corona di etere rarefatto e igneo, denominata οὐρανός. 19 Ivi, p. 227. 20 Op. cit., p. 343. 21 Op. cit., p. 266. 560 Parmenide avrebbe previsto, nel suo cosmo, una doppia funzione per il cielo, che ancora può intravedersi nei frammenti: esso è, per un verso, (i) οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, quindi fisicamente limitante, circoscrivente; per altro (ii) vincolante: «Necessità guidando lo vincolò a tenere i confini degli astri» (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων). Il cielo, dunque, è anche legame per tutti gli elementi celesti: gli astri, dislocati sulle στεφάναι, con i rispettivi moti, immersi al suo interno nell'etere (ἐν αἰθέρι) 22 . In effetti risulta evidente, nelle testimonianze, il nesso tra cielo ed etere. Parmenide avrebbe indicato due aree nell'etere celeste: (i) l'etere che si estende tutto intorno al cosmo, libero da astri; (ii) l'etere popolato da astri, condensazioni di fuoco23. A questo alluderebbero le espressioni ἐν τῶι αἰθέρι·e ἐν τῶι πυρώδει di Aëtius A40a: Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι· μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ ο ὐ ρ α ν ὸ ν καλεῖ Parmenide dispone per primo nell'etere Eos, considerato da lui identico a Espero. Dopo quello dispone il Sole, sotto il quale sono gli astri nella zona ignea che chiama cielo. Alla luce delle indicazioni che si possono ricavare dai frammenti e soprattutto da Aëtius, l'etere si estenderebbe tra la fascia più interna del sistema cosmico - densa di «aria» secreta dalla Terra (τῆς μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι τὸν ἀέρα A37) - e la volta esterna (ὄλυμπος ἔσχατος), che tuttavia potrebbe essere stata concepita a sua volta come etere rigido. Il termine οὐρανὸς appare nelle testimonianze di Aëtius con i significati correnti nella tradizione peripatetica (Teofrasto): molto chiaramente la struttura celeste delineata e il lessico adottato riflettono la lezione di Aristotele: 22 Ruggiu, op. cit., p. 336. 23 Conche, op. cit., p. 213. 561 Εἴπωμεν δὲ πρῶτον τί λέγομεν εἶναι τὸν οὐρανὸν καὶ ποσαχῶς, ἵνα μᾶλλον ἡμῖν δῆλον γένηται τὸ ζητούμενον. Ἕνα μὲν οὖν τρόπον οὐρανὸν λέγομεν τὴν οὐσίαν τὴν τῆς ἐσχάτης τοῦ παντὸς περινὸν περιφορᾶς, ἢ σῶμα φυσικὸν τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός· εἰώθαμεν γὰρ τὸ ἔσχατον καὶ τὸ ἄνω μάλιστα καλεῖν οὐρανόν, ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί φαμεν. Ἄλλον δ’ αὖ τρόπον τὸ συνεχὲς σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων· καὶ γὰρ ταῦτα ἐν τῷ οὐρανῷ εἶναί φαμεν. Ἔτι δ’ ἄλλως λέγομεν οὐρανὸν τὸ περιεχόμενον σῶμα ὑπὸ τῆς ἐσχάτης περιφορᾶς· τὸ γὰρ ὅλον καὶ τὸ πᾶν εἰώθαμεν λέγειν οὐρανόν. Τριχῶς δὴ λεγομένου τοῦ οὐρανοῦ, τὸ ὅλον τὸ ὑπὸ τῆς ἐσχάτης περιεχόμενον περιφορᾶς ἐξ ἅπαντος ἀνάγκη συνεστάναι τοῦ φυσικοῦ καὶ τοῦ αἰσθητοῦ σώματος διὰ τὸ μήτ’εἶναι μηδὲν ἔξω σῶμα τοῦ οὐρανοῦ μήτ’ ἐνδέχεσθαι γενέσθαι. Prima dobbiamo dichiarare che cosa diciamo essere il cielo e in quanto modi lo diciamo, perché diventi più chiaro l'oggetto d'indagine. In un senso dunque diciamo cielo la sostanza dell'estrema volta del tutto, cioè il corpo naturale nell'estrema volta del tutto; è appunto la regione estrema e più elevata che siamo soliti chiamare cielo, in cui affermiamo aver sede tutto quanto è divino. In altro senso [diciamo cielo] il corpo contiguo all'estrema volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e alcuni degli astri; anche questi, in effetti, affermiamo essere nel cielo. In un altro senso ancora, diciamo cielo il corpo abbracciato [compreso] dall'estrema volta; siamo soliti, infatti, definire cielo l'universo e il tutto [ovvero: l'intero universo]. Essendo inteso il cielo in questi tre modi, l'intero abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il corpo naturale e sensibile, poiché nessun corpo esiste, 562 né è possibile si generi fuori del cielo (Aristotele, De caelo I, 9 278 a9-25). È plausibile che nella propria sintesi Aristotele tenesse conto anche della cosmologia parmenidea ovvero di un modello analogo o condiviso (pitagorico?) dall'Eleate: in effetti «il corpo naturale nell'estrema volta del tutto» (σῶμα φυσικὸν τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός) richiama sia «il cielo che tutto intorno cinge» (B10.5 οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα) sia l'«Olimpo estremo» (B11.2- 3 ὄλυμπος ἔσχατος), anche per la sua associazione al «divino» (ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί φαμεν). È per altro chiaro che quando Aëtius (A40a) parla di «astri nella zona ignea che [Parmenide] chiama cielo» (ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ ο ὐ ρ α ν ὸ ν καλεῖ) si riferisce a ciò che Aristotele indicava come «il corpo contiguo all'estrema volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e alcuni degli astri» (τὸ συνεχὲς σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων). Interessante il rilievo aristotelico circa l'accezione "cosmica" di οὐρανός: «l'intero abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il corpo naturale e sensibile, poiché nessun corpo esiste, né è possibile si generi fuori del cielo». La tentazione di una lettura "cosmica" di Parmenide B8 è molto forte: la compiutezza dell'essere manifestata dalla sfericità, traduceva in immagine ontologica la perfezione che la doxa poteva riscontrare nell'universo compiuto e intero (τὸ ὅλον καὶ τὸ πᾶν) di cui parla Aristotele. In conclusione non si può dunque non ribadire la difficoltà nella ricostruzione del quadro cosmologico del poema: troppo frammentarie le citazioni e troppo condizionate dal lessico e dalla concettualità della posteriore tradizione le testimonianze. Come abbiamo constatato, sono pochi i dati certi sulla struttura cosmica: (i) la forma complessivamente sferica del centro (Terra) e della periferia (τὸ περιέχον, ovvero ὄλυμπος ἔσχατος, «Olimpo estremo»), pensata come una parete solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν); 563 (ii) l'esistenza di una prima fascia celeste superiore eterea, composta cioè di corone, anelli cilindrici, di puro Fuoco; di una seconda fascia intermedia di corone in cui Fuoco e Notte sono compresenti; di una terza fascia a ridosso della superficie della Terra, corrispondente a una atmosfera aerea prodotta dalle evaporazioni terrestri; (iii) la distribuzione dei corpi celesti tra le prime due fasce (sulla loro disposizione le indicazioni non sono concordi). La δαίμων e il cosmo Il contesto e la citazione di B12, insieme alla relativa testimonianza di Aëtius, pongono un ulteriore problema interpretativo: quello relativo alla posizione e al ruolo della δαίμων che lì viene evocata: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως ‘α ἱ γ ὰ ρ . . . κ υ β ε ρ ν ᾶ ι ’. [...] καὶ ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων σαφῶς παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων· ‘α ἱ δ ’ ἐ π ὶ . . . θ η λ υ τ έ ρ ω ι ’. [...] καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν. poco dopo [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. [...] La causa efficiente non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla generazione, Parmenide ha esposto chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει 564 πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6) τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità (Aëtius; DK 28 A37). Il neoplatonico Anatolio di Laodicea (III secolo d.C.) offre un'ulteriore indicazione: πρὸς τούτοις ἔλεγον περὶ τὸ μέσον τῶν τεσσάρων στοιχείων κεῖσθαί τινα ἑναδικὸν διάπυρον κύβον, οὗ τὴν μεσότητα τῆς θέσεως καὶ Ὅμηρον εἰδέναι [...]. ἐοίκασι δὲ κατά γε τοῦτο κατηκολουθηκέναι τοῖς Πυθαγορικοῖς οἵ τε περὶ Ἐμπεδοκλέα καὶ Παρμενίδην καὶ σχεδὸν οἱ πλεῖστοι τῶν πάλαι σοφῶν, φάμενοι τὴν μοναδικὴν φύσιν ἑστίας τρόπον ἐν μέσωι ἱδρῦσθαι καὶ διὰ τὸ ἰσόρροπον φυλάσσειν τὴν αὐτὴν ἕδραν Oltre a queste cose [i Pitagorici] sostenevano che nel mezzo dei quattro elementi sta un cubo unitario di fuoco, la cui posizione centrale era nota anche a Omero [...]. Sembra che abbiano in questo seguito i Pitagorici i discepoli di Empedocle e Parmenide e per lo più i [lett.: «quasi la maggioranza dei»] sapienti antichi, dal momento che affermano che la natura monadica è posta al centro come focolare [Estia], e che conserva la stessa sede in 565 forza dell'equiposizione [dell'equilibrio rispetto alla perimetro del sistema] (DK 28 A44). Indubbiamente il cosmo parmenideo presenta affinità con quello filolaico, quale possiamo ricostruire da frammenti e testimonianze: ὁ κόσμος εἷς ἐστιν, ἤρξατο δὲ γίγνεσθαι ἀπὸ τοῦ μέσου καὶ ἀπὸ τοῦ μέσου εἰς τὸ ἄνω διὰ τῶν αὐτῶν τοῖς κάτω. ἔστι < γὰρ > τὰ ἄνω τοῦ μέσου ὑπεναντίως κείμενα τοῖς κάτω. τοῖς γὰρ κατωτάτω τὰ μέσα ἐστὶν ὥσπερ τὰ ἀνωτάτω καὶ τὰ ἄλλα ὡσαύτως. πρὸς γὰρ τὸ μέσον κατὰ ταὐτά ἐστιν ἑκάτερα, ὅσα μὴ μετενήνεκται Il cosmo è uno; iniziò a formarsi dal mezzo e dal mezzo verso l'alto, e attraverso gli stessi passaggi verso il basso. Le cose che sono al di sopra del mezzo giacciono in senso opposto a quelle che sono al di sotto. In effetti le cose che sono in mezzo si trovano rispetto a quelle sotto come rispetto a quelle sopra e le altre in modo simile: dal momento che rispetto al mezzo entrambe si trovano nella stessa relazione, solo capovolte (DK 44 B17) Φ. πῦρ ἐν μέσωι περὶ τὸ κέντρον ὅπερ ἑστίαν τοῦ παντὸς καλεῖ [B 7] καὶ Δ ι ὸ ς ο ἶ κ ο ν καὶ μ η τ έ ρ α θ ε ῶ ν β ω μ ό ν τε καὶ σ υ ν ο χ ὴ ν καὶ μ έ τ ρ ο ν φ ύ σ ε ω ς . καὶ πάλιν πῦρ ἕτερον ἀνωτάτω τὸ περιέχον. πρῶτον δ’ εἶναι φύσει τὸ μέσον, περὶ δὲ τοῦτο δέκα σώματα θεῖα χορεύειν, [οὐρανόν] < μετὰ τὴν τῶν ἀπλανῶν σφαῖραν > τοὺς ε πλανήτας, μεθ’ οὓς ἥλιον, ὑφ’ ὧι σελήνην, ὑφ’ ἧι τὴν γῆν, ὑφ’ ἧι τὴν ἀντίχθονα, μεθ’ ἃ σύμπαντα τὸ πῦρ ἑστίας περὶ τὰ κέντρα τάξιν ἐπέχον. τὸ μὲν οὖν ἀνωτάτω μέρος τοῦ περιέχοντος, ἐν ὧι τὴν εἰλικρίνειαν εἶναι τῶν στοιχείων, ὄ λ υ μ π ο ν καλεῖ, τὰ δὲ ὑπὸ τὴν τοῦ ὀλύμπου φοράν, ἐν ὧι τοὺς πέντε πλανήτας μεθ’ ἡλίου καὶ σελήνης τετάχθαι, κ ό σ μ ο ν , τὸ δ’ ὑπὸ τούτοις ὑποσέληνόν τε καὶ περίγειον μέρος, ἐν ὧι τὰ τῆς φιλομεταβόλου γενέσεως, 566 ο ὐ ρ α ν ό ν . καὶ περὶ μὲν τὰ τεταγμένα τῶν μετεώρων γίνεσθαι τὴν σ ο φ ί α ν , περὶ δὲ τῶν γινομένων τὴν ἀταξίαν τὴν ἀ ρ ε τ ή ν , τελείαν μὲν ἐκείνην ἀτελῆ δὲ ταύτην. Filolao definisce il fuoco in mezzo attorno al centro «focolare del tutto [dell'universo]» e «casa di Zeus» e «madre degli dei», «altare» e «vincolo» e «misura della natura»; l'altro fuoco in alto invece «l'involucro». Sostiene che primo per natura sia quello in mezzo, intorno a cui si muovono dieci corpi divini, primo il cielo delle stelle fisse, poi i cinque pianeti, poi il Sole, quindi la Luna, poi la Terra, poi l'Antiterra; dopo queste cose il fuoco del focolare, che risiede intorno al centro. Chiama la parte più alta dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli elementi, «Olimpo»; quella che porta sotto l'Olimpo, in cui sono collocati i 5 pianeti con il Sole e la Luna, «cosmo»; dopo queste, poi, la parte sublunare e circumterrestre, entro cui sono le cose della generazione mutevole, «cielo». E intorno alla disposizione delle cose celesti verte la sapienza, intorno al disordine delle cose in divenire verte la virtù: quella perfetta, questa imperfetta (Aëtius; DK 44 A16). È probabile che alcuni particolari delle concezioni pitagoriche siano stati utilizzati per ricostruire a posteriori il quadro del cosmo parmenideo, sempre che quegli elementi non fossero sullo sfondo della stessa elaborazione eleatica, almeno come tratti consolidati di una tradizione. Aëtius (che si appoggia alla lezione di Teofrasto) riferisce come anche Filolao definisse ὄλυμπος «la parte più alta dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli elementi», distribuendo poi gli astri in due regioni – κόσμος e οὐρανός – compatibilmente con la rappresentazione parmenidea. La citazione filolaica sottolinea la preoccupazione per la struttura sferica, che potrebbe riflettersi nell’insistenza delle testimonianze sul modello arcaico delle «corone», probabilmente di matrice anassimandrea, in Parmenide: al pensatore di Mileto punta anche l'argomento per la centralità della Terra, precoce applicazione del principio di ragion sufficien- 567 te, impiegato da Parmenide anche in sede ontologica, nella sezione sulla Verità (vv. B8.9 ss.): Π., Δημόκριτος διὰ τὸ πανταχόθεν ἴσον ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν· Parmenide e Democrito sostengono che la Terra, essendo a uguale distanza da tutte le parti, rimanga in equilibrio, non avendo causa per cui debba inclinare da una parte piuttosto che dall'altra (Aëtius; DK 28 A44). L'accostamento alla posteriore cosmologia (e cosmogonia) filolaica - in cui si depositava e sistemava plausibilmente la primitiva lezione pitagorica - è utile, tuttavia, soprattutto nella determinazione del ruolo cosmico della δαίμων parmenidea. Simplicio, nelle due citazioni che costituiscono B12, sembra interessato a rilevare come Parmenide postulasse nella sua fisica una potenza distinta dalla forma Fuoco come «causa efficiente» (ποιητικὸν αἴτιον): «la dea che governa tutte le cose». Secondo Coxon24, il rilievo del commentatore sarebbe stato diretto contro il modello interpretativo della doxa proposto da Alessandro sulla scorta di Teofrasto, secondo il quale al Fuoco spettava il ruolo di ποιητικὸν αἴτιον e alla terra (Notte) quello di ὕλη: καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione. D'altra parte in B12 leggiamo che: ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ al centro di queste [corone] la Dea che tutte le cose governa, 24 Op. cit., p. 234. 568 e Aëtius sottolinea come: τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità, mentre Plutarco, citando B13, osserva: διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν Ἔρωτα τῶν Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς ἔργων πρεσβύτατον ἐν τῆι κοσμογονίαι γράφων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν . . . π ά ν τ ω ν ’ «perciò Parmenide mostra Eros come la prima delle opere di Afrodite scrivendo nella cosmogonia [B13]». Le testimonianze e i frammenti superstiti consentono di affermare che effettivamente Parmenide attribuiva alla δαίμων una funzione cosmogonica (πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει, «di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione» B12.4). Evidentemente aperta è invece la questione della sua collocazione cosmologica e della sua identificazione. La dislocazione cosmica della δαίμων L'indicazione di Plutarco è un punto di partenza: oggi si è infatti convinti che Plutarco non solo avesse accesso a una copia del poema di Parmenide, ma potesse attingere a una versione attendibile25. Il passo propone di fatto l'identificazione della δαίμων con Afrodite: Simplicio sottolinea come la dea sia «causa efficiente 25 Su questo punto è molto importante la messa a fuoco di Passa, op. cit, pp. 27- 28. 569 non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla generazione» (ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων); Plutarco fa di Afrodite la generatrice di Eros e dunque nomina la δαίμων. Ovviamente non possiamo stabilire se l'identificazione fosse per lui scontata o solo una speculazione ovvero riscontrata invece nel testo, ma la precisazione: «nella cosmogonia» (ἐν τῆι κοσμογονίαι) - sembra avvalorare l'ultima possibilità. In ogni caso, nella misura in cui B12 assegna alla δαίμων il governo di tutto, B13 sembra suggerire che ciò avvenga attraverso la generazione di Eros e il controllo dell'accoppiamento26 . D'altra parte, poiché la testimonianza di Aëtius colloca la dea al centro degli anelli misti di Notte e Fuoco, assimilandola di fatto a uno di essi, è possibile, incrociando le due testimonianze, ipotizzare che essa coincidesse con un'entità astrale concreta, fonte fisica dell'influenza cosmogonica, Afrodite appunto. Parmenide, il primo a identificare Eos (Ἕως ovvero Fosforo/Φωσφόρος, la stella del mattino) e Espero (Ἕσπερον, la stella della sera): Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι Parmenide per primo pone nell'etere Eos, considerato da lui identico a Espero (DK 28 A40a), potrebbe aver dato per primo il nome di Afrodite all'astro27 . Contro questa identificazione e collocazione si pongono le informazioni che giungono dal contesto delle citazioni di Simplicio, che chiaramente parla a favore della centralità cosmica della δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ: in effetti, l'espressione parmenidea - ἐν δὲ μέσῳ τούτων - con cui essa viene introdotta, è ambigua, potendosi riferire sia al centro delle corone miste (come appare più probabile nel contesto) sia al centro dell'universo. Difficile pensare, tuttavia, che il commentatore, che certamente disponeva di una 26 Cerri, op. cit., pp. 267-268. 27 Ibidem. 570 copia del poema, potesse fraintenderne il testo su questo punto; né la sua indicazione contraddice quella di Plutarco, il quale si limita a identificare la δαίμων come Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς . La testimonianza di Anatolio di Laodicea è dello stesso tenore, marcando in particolare la continuità con le cosmologie e cosmogonie pitagoriche: la «natura monadica» (τὴν μοναδικὴν φύσιν) è posta da Parmenide (ed Empedocle) al centro (ἐν μέσωι) «al modo di un focolare» (ἑστίας τρόπον). I riscontri delle citazioni di Filolao e delle relative testimonianze confermano che nella tradizione pitagorica del V secolo «il fuoco in mezzo attorno al centro» (πῦρ ἐν μέσωι περὶ τὸ κέντρον) coincideva con il divino «focolare del tutto» (ἑστίαν τοῦ παντὸς), ovvero «dimora di Zeus» (Δ ι ὸ ς ο ἶ κ ο ν ) o «madre degli dei» (μ η τ έ ρ α θ ε ῶ ν ), connotazione che ritorna anche negli Inni orfici: [Ἑστία] ἣ μέσον οἶκον ἔχεις πυρὸς ἀενάοιο Hestia [...] che hai dimora al centro del fuoco eterno (Orphica, Hymnii 84.1-2) ἐκ σέο [Ἑστία] δ’ ἀθανάτων τε γένος θνητῶν τ’ ἐλοχεύθη, da te [Hestia] ebbe nascita la stirpe degli immortali e dei mortali (Orphica, Hymnii 27.7)28 , e che ritroviamo nel contesto simpliciano della citazione di B13: ταύτην [δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ] καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων [B13] la [dea che tutto governa] considera causa anche degli dei, affermando [B13]. La collocazione della δαίμων al centro del sistema cosmico, le possibili convergenze con il pitagorismo del V secolo sul motivo della Hestia divina, potrebbero avvalorare il modello cosmologico 28 F. Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 104-5. 571 proposto da Diels, per cui il nucleo centrale dell'universo risulterebbe una sfera di puro Fuoco, circondata dalla superficie terrestre (sfera di pura Notte). Coxon29, rilevando le difficoltà implicite nelle testimonianze di Aëtius e Simplicio, ha sostenuto, sulla scorta di Cicerone (A37), una diversa soluzione circa natura e collocazione della divinità. Come abbiamo già riscontrato, in Cicerone, infatti, la dea appare come «una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo»: coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et > lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum immagina una corona (egli la chiama στεφάνην), cioè una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli denomina dio; incrociando il dato cosmologico con quello fornito da Aëtius: περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. L'etere poi tutto avvolge dall'esterno [dalla posizione superiore] e al di sotto di esso è posto proprio l'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo (Aëtius; DK 28 A37), si potrebbe concludere – come abbiamo visto - che l'orbis lucis (secondo Cicerone, indicata da Parmenide come «dio»), la «corona» ignea e luminosa che abbraccia il cielo, coincida con l'αἰθήρ di Aëtius, che avvolge οὐρανόν. Questa identificazione sarebbe compatibile sia con la tradizione peripatetica (che attribuiva al fuoco il ruolo di principio efficiente), sia con i dati relativi alla tradizione ionica: ἅπαντα γὰρ ἢ ἀρχὴ ἢ ἐξ ἀρχῆς, τοῦ δὲ ἀπείρου οὐκ ἔστιν ἀρχή· εἴη γὰρ ἂν αὐτοῦ πέρας. ἔτι δὲ καὶ ἀγένητον καὶ ἄφθαρτον ὡς ἀρχή τις οὖσα· τό τε γὰρ 29 Op. cit., pp.239 ss.. 572 γενόμενον ἀνάγκη τέλος λαβεῖν, καὶ τελευτὴ πάσης ἐστὶ φθορᾶς. διὸ καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν, ὥς φασιν ὅσοι μὴ ποιοῦσι παρὰ τὸ ἄπειρον ἄλλας αἰτίας οἶον νοῦν ἢ φιλίαν. καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον· ἀ θ ά ν α τ ο ν γὰρ καὶ ἀ ν ώ λ ε θ ρ ο ν , ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν φυσιολόγων Ogni cosa, in effetti, è o principio o [deriva] da principio; dell'apeiron però non v'è principio, dal momento che vi sarebbe un limite di esso [apeiron]. E ancora, esso è ingenerato e incorruttibile, in quanto è un principio: è necessario, infatti, che ciò che è generato abbia una fine, e vi è un termine finale di ogni corruzione. Proprio per questo motivo diciamo che di esso [principio] non vi sia principio, ma che sembra essere esso stesso principio di tutte le altre cose, e comprenderle [abbracciarle] tutte e tutte governarle, come affermano quanti non pongono oltre all'infinito altre cause, per esempio Intelligenza o Amore. E questo è il divino: è infatti senza morte e senza distruzione, come sostengono Anassimandro e la maggioranza degli studiosi della natura. (Aristotele; DK 12 A15) Ἀ. Εὐρυστράτου Μιλήσιος ἀρχὴν τῶν ὄντων ἀέρα ἀπεφήνατο· ἐκ γὰρ τούτου πάντα γίγνεσθαι καὶ εἰς αὐτὸν πάλιν ἀναλύεσθαι. 'οἶον ἡ ψυχή, φησίν, ἡ ἡμετέρα ἀὴρ οὖσα συγκρατεῖ ἡμᾶς, καὶ ὅλον τὸν κόσμον πνεῦμα καὶ ἀὴρ περιέχει' (λέγεται δὲ συνωνύμως ἀὴρ καὶ πνεῦμα). Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, affermò che principio delle cose è l'aria: da essa tutto si genera e in essa di nuovo si risolve. Dice: «come la nostra anima, che è aria, ci governa, così soffio e aria abbracciano l'interno universo» (aria e soffio sono utilizzati come sinonimi) (Aëtius; DK 13 B2) εἶναι γὰρ ἓν τὸ σοφόν, ἐπίστασθαι γνώμην, ὁτέη ἐκυβέρνησε πάντα διὰ πάντων 573 esiste una sola sapienza: riconoscere la ragione, che governa tutto attraverso tutto (Diogene Laerzio; DK 22 B41) [λέγει δὲ καὶ τοῦ κόσμου κρίσιν καὶ πάντων τῶν ἐν αὐτῶι διὰ πυρὸς γίνεσθαι λέγων οὕτως] τὰ δὲ πάντα οἰακίζει Κεραυνός, τουτέστι κατευθύνει, κεραυνὸν τὸ πῦρ λέγων τὸ αἰώνιον. λέγει δὲ καὶ φρόνιμον τοῦτο εἶναι τὸ πῦρ καὶ τῆς διοικήσεως τῶν [ὅλων αἴτιον] [Eraclito sostiene anche che abbia luogo un giudizio sul mondo e su tutto ciò che si trova in esso, attraverso il fuoco, in tal modo:] il fulmine dirige il tutto, ossia [il dio] lo guida [con il fulmine], intendendo con fulmine il fuoco eterno. Dice anche che questo fuoco è dotato di intelligenza, e che esso è [causa] dell'ordinamento [dell'universo] (Ippolito; DK 22 B64). Le assonanze espressive potrebbero avvalorare la convergenza parmenidea sulle posizioni di coloro che, alle origini della speculazione cosmologica, avevano accennato alla divinità della naturaprincipio (καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον), assegnandole anche un compito direttivo sui processi cosmici: «abbracciare e pilotare tutte le cose» (Anassimandro: περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν), ovvero «abbracciare l'universo» (Anassimene: ὅλον τὸν κόσμον περιέχει), in analogia con il controllo dell'anima sulle nostre funzioni vitali (ἡ ψυχή συγκρατεῖ ἡμᾶς). In B12.4, in effetti, ritroviamo il verbo ἄρχει, che, come vuole Coxon30, potrebbe alludere direttamente ad Anassimandro (cui Teofrasto riconosce il merito di aver introdotto il termine tecnico di ἀρχὴ). È tuttavia possibile che la parmenidea δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ, da Plutarco identificata come Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς , sia in realtà solo l'espressione mitica della potenza generatrice cui alluderanno Empedocle e Lucrezio, il quale - ci ricorda Ferrari31 - utilizzava espressioni analoghe a quelle del filosofo greco (quae ... rerum naturam sola gubernas, I.21). A insistere per questa lettura è so- 30 Ivi, p. 242. 31 Ferrari, op. cit., p. 106 nota. 574 prattutto Ruggiu32, per il quale la δαίμων sembra essere la personificazione della stessa forza vivificatrice (mana) presente in tutte le cose: l'impulso immanente alla generazione (B11.3-4 ὡρμήθησαν γίγνεσθαι). Nel senso di una attribuzione ad Afrodite della forza demiurgica è orientato anche il commentatore (IV secolo) della teogonia (V secolo) del papiro Derveni, e conferme ulteriori si potrebbero cogliere nel riferimento alla nascita di Eros, che potrebbe coinvolgere il complesso sfondo delle presunte teogonie orfiche, documentate negli Uccelli (vv. 695-9) di Aristofane. La funzione cosmo-teogonica della δαίμων B12 allude quindi chiaramente a un processo cosmogonico e, in relazione a esso, al ruolo direttivo (κυϐερνᾷ, ἄρχει) della δαίμων, la quale «spinge all'unione» (πέμπουσα μιγῆν)·di «femminile» (θῆλυ) e «maschile» (ἄρσεν): ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). Un ruolo, come sappiamo, ben documentato nel linguaggio peripatetico di Simplicio (contesto B12): 32 Op. cit., p. 344. 575 μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως ‘α ἱ γ ὰ ρ . . . κ υ β ε ρ ν ᾶ ι ’. [...] καὶ ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων σαφῶς παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων· ‘α ἱ δ ’ ἐ π ὶ . . . θ η λ υ τ έ ρ ω ι ’. [...] καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν. poco dopo [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. [...] La causa efficiente non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla generazione, Parmenide ha esposto chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione, e connesso a una (probabilmente correlata) analoga funzione teogonica: ταύτην καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν . . . π ά ν τ ω ν ’ κτλ. καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν φησιν. sostiene che questa stessa [la dea] sia causa anche degli dei, dicendo [B13], e sostiene che invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto (Simplicio; contesto B13). L'indicazione di Simplicio suggerisce una prossimità almeno tematica tra B12 e B13: πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν μητίσατο πάντων… Primo tra gli dei tutti ella concepì Amore, confermata dalla testimonianza di Plutarco (contesto B13): 576 διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν τῶν Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς ἔργων πρεσβύτατον ἐν τῆι κοσμογονίαι γράφων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν . . . π ά ν τ ω ν ’ perciò Parmenide mostra Eros come la prima delle opere di Afrodite scrivendo nella cosmogonia [B13]. Un'ulteriore cerniera tra i due frammenti si può cogliere nel contesto della citazione aristotelica di B13 (Metafisica I, 4 984b23-7): ὑποπτεύσειε δ’ ἄν τις Ἡσίοδον πρῶτον ζητῆσαι τὸ τοιοῦτον, κἂν εἴ τις ἄλλος ἔρωτα ἢ ἐπιθυμίαν ἐν τοῖς οὖσιν ἔθηκεν ὡς ἀρχὴν οἷον καὶ Π.· οὗτος γὰρ κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς γένεσιν ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν μ έ ν , φ η σ ί ν Ἔρωτα … π ά ν τ ω ν ’ [ B 1 3 ] Si potrebbe sospettare che Esiodo per primo abbia ricercato una [causa] del genere, anche se qualcun altro pose negli enti, come principio, amore o desiderio, per esempio Parmenide. Questi, infatti, ricostruendo la genesi del tutto, affermò: [B13]. Ancora utile, sebbene condizionata dall'esplicita liquidazione (e incomprensione) della strategia parmenidea, è anche la testimonianza di Cicerone (DK 28 A37): nam P. quidem commenticium quiddam: coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et > lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum; in quo neque figuram divinam neque sensum quisquam suspicari potest. multaque eiusdem < modi > monstra: quippe qui B e l l u m , qui D i s c o r d i a m , qui C u p i d i t a t e m [B 13] ceteraque generis eiusdem ad deum revocat, quae vel morbo vel somno vel oblivione vel vetustate delentur; eademque de sideribus, quae reprehensa in alio iam in hoc omittantur Parmenide immagina qualcosa di fittizio: una corona (egli la chiama στεφάνην), una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli chiama dio; in cui non si 577 può supporre ci sia figura divina né sensibilità alcuna. Inoltre, indica moltre altre assurdità di tale specie: riferisce infatti dio a Guerra, Discordia, Passione [B13] e tutte le altre cose del genere, le quali sono distrutte o da malattia o dal sonno o dall'oblio o dalla vecchiaia. Le medesime cose sono dette anche degli astri: essendo già state criticate in altro luogo, possiamo ometterle in questo. Quelli che abbiamo elencato sono i testi che complessivamente autorizzano la speculazione sulla cosmo-teogonia parmenidea. Pochi gli elementi sufficientemente certi: (i) la testimonianza di Simplicio – che pone la funzione della δαίμων in relazione diretta con i «due elementi» (περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων) Fuoco e Notte – insiste decisamente sulla divinità come «causa efficiente» (ποιητικὸν αἴτιον) «una e comune» (ἓν κοινὸν), origine di ogni generazione (γένεσις); (ii) la sua causalità efficiente appare come impulso alla mescolanza (πέμπουσα μιγῆν) dei due contrari: la divinità è causa comune in quanto, attraverso la mescolanza delle δυνάμεις di Fuoco e Notte, rende possibile quanto i mortali definiscono generazione e corruzione33; (iii) a nascita e morte allude probabilmente Simplicio quando osserva che «[la dea] invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto» (τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν); allo stesso fenomeno si riferisce Parmenide in B12.4 con l'espressione: πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει di tutte le cose sovrintende al doloroso parto e all'unione. Conche (tra gli altri) si è soffermato34 sull'uso di στυγερός (da στυγέω, «avere in orrore»), che a suo credere rivelerebbe il pessimismo di fondo di Parmenide, portato di una Stimmung riscontrata soprattutto nella poesia arcaica: un pessimismo proiettato nel 33 Ivi, p. 340. 34 Op. cit., pp. 225 ss.. 578 suo caso, rispetto alla poesia, dalla condizione umana al divenire nel suo complesso; (iv) la mescolanza (μῖξις) è ulteriormente connotata come (o almeno accostata a) una forma di unione sessuale: questo spiega probabilmente il ruolo di Eros. Simplicio, infatti, introducendo B13, precisa che la δαίμων è anche «causa degli dei» (θεῶν αἰτία), mentre Aristotele esplicitamente attribuisce al concepimento di Eros una funzione cosmogonica («ricostruendo la genesi del tutto», κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς γένεσιν); (v) a dire di Cicerone, altre figure divine (Guerra, Discordia, Passione) dovevano cooperare all'attività direttiva della δαίμων: evidente l'analogia con le forze cosmogoniche di Empedocle (che, ribadiamo, potrebbe essersi ispirato direttamente al modello parmenideo). In quella che Plutarco chiama κοσμογονία, è possibile dunque che Parmenide impiegasse un doppio registro: l'esposizione propriamente cosmogonica era accompagnata e intrecciata a una versione immediatamente teogonica. Ciò è suggerito, da un lato, dall'uso, in B11.3-4, della formula «ebbero impulso a generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), che sembra implicare una spinta immanente, dall'interno della natura stessa del cosmo, dall'altro, dalla attribuzione aristotelica a Eros di una funzione analoga. Secondo Ruggiu35 l'impulso (cosmogonico) a congiungersi e mescolarsi (e quindi il processo di costituzione delle cose) sarebbe guidato dalla potenza immanente, da quella forza vivificatrice denominata δαίμων (o forse Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς ), di cui Eros (insieme alle altre divinità cui allude Cicerone) sarebbe espressione teogonica e cosmogonica a un tempo, nella misura in cui l'unione sessuale rientra tipicamente nelle forme di congiunzione\mescolamento, essenziali, nello schema parmenideo che prevedeva due principi elementari di base, per produrre generazione e corruzione. Sarebbe, insomma, in vista dell'«odioso parto» e dell'«unione» che la dea avrebbe «concepito» (letteralmente «meditato, pensato») Eros36. Si può dunque osservare ulteriormente che: 35 Op. cit., p. 340. 36 Coxon, op. cit., p. 242. 579 (vi) la δαίμων, di cui si sottolineano, con linguaggio nautico (κυϐερνάω: pilotare, timonare), sia il ruolo di governo, sia l'azione di dare inizio ai processi, sembra dominarli in ultima analisi attraverso il pensiero (μητιάω: meditare, deliberare, ma anche concepire, inventare). A dispetto del contesto e della tradizione teogonica evocata, il poeta intenderebbe così rilevare «un rapporto di pura filiazione concettuale»37 . 37 Cerri, op. cit., p. 273. 580 NOTTE DI LUNA [B14-14A-15-15A] I quattro frammenti sono propriamente delle schegge del testo del poema (B14a, per altro, normalmente non considerato frammento autentico ma imitazione aristotelica), di difficile contestualizzazione, e il cui valore è discusso. È significativo, in particolare, il fatto che B14 e B15 siano citati da Plutarco non per documentare il sistema astronomico di Parmenide, ma, strumentalmente, per illustrare altre relazioni (B14) ovvero (B15) per le implicazioni etiche (obbedienza volontaria a un superiore)1 : οὐδὲ γὰρ ὁ πῦρ μὴ λέγων εἶναι τὸν πεπυρωμένον σίδηρον ἢ τὴν σελήνην ἥλιον, ἀλλὰ κατὰ Παρμενίδην [B14: νυκτιφαὲς περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς] ἀναιρεῖ σιδήρου χρῆσιν ἢ σελήνης φύσιν. nemmeno chi nega che il ferro incandescente sia fuoco o la Luna Sole, ma come Parmenide: «di notte splendente, vagando intorno alla Terra, luce d'altri» – elimina l'uso del ferro o la natura della Luna. τῶν ἐν οὐρανῶι τοσούτων τὸ πλῆθος ὄντων μόνη φωτὸς ἀλλοτρίου δεομένη περίεισι κατὰ Π. αἰεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο. Nell'abbondanza di tali entità nel cielo la sola [Luna] va in giro bisognosa di luce altrui, secondo Parmenide. ...sempre rivolta verso i raggi del sole. Nella tradizione è stato a essi attribuito sostanzialmente un significato poetico e solo subordinatamente astronomico. Si è insistito sulla costruzione ritmica2 ovvero sull'immaginario sentimentale cui ricorre Parmenide: la Luna come donna innamorata rivolta a contemplare il proprio amante (il Sole), illuminata dai suoi sguardi (raggi). Situazione e immagine che Empedocle avrebbe poi puntualmente ripreso, come abbiamo segnalato in nota al testo. 1 Coxon, op. cit., pp. 244-5. 2 Cerri, op. cit., p. 274. 581 Dai pochi versi si possono tuttavia ricavare anche interessanti indicazioni cosmologiche: (i) la conferma della natura circolare del moto di rivoluzione della Luna («vagante intorno alla Terra», περὶ γαῖαν ἀλώμενον); (ii) donde l'inferenza circa la probabile sfericità della stessa, confermata dalle testimonianze teofrastee; (iii) l'attestazione della relazione di dipendenza della luce lunare dalla luce solare (ἀλλότριον φῶς). Su questo punto è necessario precisare che, attraverso Aëtius, siamo informati della origine e composizione di Luna e Sole: Π. τὸν ἥλιον καὶ τὴν σελήνην ἐκ τοῦ γαλαξίου κύκλου ἀποκριθῆναι, τὸν μὲν ἀπὸ τοῦ ἀραιοτέρου μίγματος ὃ δὴ θερμόν, τὴν δὲ ἀπὸ τοῦ πυκνοτέρου ὅπερ ψυχρόν. Parmenide sostiene che il Sole e la Luna si siano formati per distacco dal cerchio della Via Lattea: il primo è costituito dalla mescolanza più rarefatta, che è calda; l'altra dalla più densa, che è fredda (DK 28 A43) συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος καὶ τοῦ πυρός La luna è mescolanza di entrambi, di aria e di fuoco (DK 28 A37) Π. πυρίνην [sc. εἶναι τὴν σελήνην]. Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc. εἶναι τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’ αὐτοῦ φωτίζεται. Θαλῆς πρῶτος ἔφη ὑπὸ τοῦ ἡλίου φωτίζεσθαι. Πυθαγόρας, Παρμ. ... ὁμοίως Parmenide sostiene [che la Luna è] di fuoco. Parmenide sostiene [che la Luna è] simile [per grandezza] al Sole: è in effetti illuminata da esso. Talete per primo disse che [la Luna] è illuminata dal Sole; analogamente Pitagora, Parmenide ...... È la diversa commisurazione degli elementi base, pur derivando Sole e Luna dalla stessa fascia celeste (la Via Lattea), a produrre, nel caso della seconda, effetti fisici (fenomenici) più deboli 582 rispetto a quelli del Sole (giustificandone così la dipendenza): il pallore della Luna è connesso al fatto che il fuoco non riesce a renderla calda e quindi neppure splendente3 . 3 Conche, op. cit., pp. 235-6. 583 IL CORPO E IL PENSIERO [B16] Frammento di interpretazione estremamente controversa, B16 costituisce effettivamente una sfida per il traduttore: accanto ai problemi di determinazione del testo all'interno della tradizione manoscritta, troviamo nello specifico difficoltà per quanto concerne la sua comprensione. In assenza del contesto immediato, infatti, la costruzione sintattica non è del tutto perspicua e univoca, e le possibili, diverse soluzioni producono per lo più significati diversi. Incerta risulta anche la sua collocazione all'interno della struttura del poema. Prevalente è l'orientamento di Diels, che considerò i versi come appartenenti alla sezione sulla Doxa, ma non sono mancate - in passato e tra gli studiosi contemporanei (Mourelatos, Robinson, Stemich, Ferrari) – le proposte di assegnarlo alla sezione sulla Verità, analogamente a B4: per gli uni il frammento esprimerebbe una concezione soggettivistica del comune pensare umano, costantemente condizionato dalla situazione fisiologica dell'individuo pensante; per gli altri, invece, esso affermerebbe la stretta relazione tra pensiero e realtà. L'esame del contesto delle citazioni può aiutare a comprendere il senso dei versi parmenidei e a decidere del suo posizionamento nell'opera. Il contesto peripatetico Abbiamo di B16 due citazioni integrali peripatetiche - in Aristotele (Metafisica IV, 5 1009 b21) e Teofrasto (De sensu 3) – e due parafrasi – Alessandro di Afrodisia e Asclepio nei loro commenti al testo aristotelico. Aristotele Aristotele cita il frammento all'interno di una disamina critica delle dottrine relativistiche di stampo protagoreo (tutte le opinioni sarebbero egualmente vere ed egualmente false), che lo Stagirita 584 fa derivare dalla combinazione di un assunto teorico di fondo e di due assunti specifici. Per quanto riguarda il primo, lo scenario entro cui il filosofo posiziona gli autori citati, egli osserva (a più riprese): ἡ περὶ τὰ φαινόμενα ἀλήθεια ἐνίοις ἐκ τῶν αἰσθητῶν ἐλήλυθεν la verità circa le cose che appaiono ad alcuni è derivata dalle cose sensibili (Metafisica IV, 5 1009 b1) αἴτιον δὲ τῆς δόξης τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι τὰ αἰσθητὰ μόνον causa di questa convinzione per costoro è che essi ricercavano sì la verità intorno agli enti, ma supponendo che gli enti fossero solo quelli sensibili (1010 a1-3). Il discorso aristotelico che coinvolge anche Parmenide verte, dunque, in generale, su una ontologia "materialistica" e sulla conoscenza associata all'esperienza sensibile. Le assunzioni specifiche riguardano invece la sensazione (αἴσθησις): essa è intesa come (i) pensiero (φρόνησις), ovvero (ii) processo di alterazione fisica (ἀλλοίωσις). La citazione di B16 avviene appunto in questo contesto: ὅλως δὲ διὰ τὸ ὑπολαμβάνειν φρόνησιν μὲν τὴν αἴσθησιν, ταύτην δ’ εἶναι ἀλλοίωσιν, τὸ φαινόμενον κατὰ τὴν αἴσθησιν ἐξ ἀνάγκης ἀληθὲς εἶναί φασιν· ἐκ τούτων γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος καὶ τῶν ἄλλων ὡς ἔπος εἰπεῖν ἕκαστος τοιαύταις δόξαις γεγένηνται ἔνοχοι. καὶ γὰρ Ἐμπεδοκλῆς μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν μεταβάλλειν φησὶ τὴν φρόνησιν· “πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἐναύξεται ἀνθρώποισιν.” καὶ ἐν ἑτέροις δὲ λέγει ὅτι “ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν, τόσον ἄρ' σφισιν αἰεὶ | καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο”. καὶ Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται τὸν αὐτὸν τρόπον·[B16] 585 Generalmente, poiché pensano che la sensazione sia pensiero e che sia una alterazione, sostengono che ciò che appare secondo la sensazione di necessità sia vero. È partendo in vero da queste considerazioni che Empedocle, Democrito e, per così dire, ciascuno degli altri [naturalisti] si sono ritrovati soggetti a tali opinioni. Empedocle, infatti, afferma che, mutando la condizione, muti il pensiero: «in relazione alla situazione presente, in vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove dice che: «per quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose diverse». Anche Parmenide si esprime nello stesso modo: [B16]. È interessante notare come Aristotele interpreti Empedocle: Empedocle, infatti, afferma che, mutando la condizione (μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν), muti il pensiero (μεταβάλλειν τὴν φρόνησιν), prima di citarlo (due volte), facendo corrispondere ἕξις e φρόνησις, come, a suo dire, Parmenide avrebbe fatto nei suoi versi: καὶ Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται τὸν αὐτὸν τρόπον anche Parmenide si esprime nello stesso modo. In effetti i primi due versi del frammento parmenideo sono costruiti sulla connessione ὡς.... τὼς: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχει 1 κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι παρίσταται2 come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra molto vaganti, 1 È questa la forma verbale prevalente nei codici: nello stabilire il testo abbiamo accolto tuttavia la lectio difficilior ἔχῃ (congiuntivo). 2 Nella versione greca del frammento abbiamo accolto la versione παρέστηκεν dei codici di Teofrasto. 586 così il pensiero si presenta agli uomini, così che la citazione, nel contesto del discorso aristotelico, suggerisce di riscontrare la correlazione precedente (ἕξιςφρόνησις): si è spinti, insomma a leggere l'espressione ἔχει κρᾶσιν μελέων come corrispettivo di ἕξις, e νόος come corrispettivo di φρόνησις. A ciò va aggiunto che la seconda citazione empedoclea: ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν, τόσον ἄρ' σφισιν αἰεὶ καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο per quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose diverse, richiama, nella formulazione, a sua volta i primi due versi parmenidei, in particolare per l'espressione νόος ἀνθρώποισι παρίσταται, in cui il comune verbo παρίστημι è riferito in un caso a τὸ φρονεῖν nell'altro a νόος. Indubbiamente, anche evitando il commento diretto, Aristotele imponeva di fatto le coordinate di lettura di B16. Al medesimo nodo teorico, lo stesso Aristotele si richiama ancora in De Anima: Ἐπεὶ δὲ δύο διαφοραῖς ὁρίζονται μάλιστα τὴν ψυχήν, κινήσει τε τῇ κατὰ τόπον καὶ τῷ νοεῖν καὶ φρονεῖν καὶ αἰσθάνεσθαι, δοκεῖ δὲ καὶ τὸ νοεῖν καὶ τὸ φρονεῖν ὥσπερ αἰσθάνεσθαί τι εἶναι (ἐν ἀμφοτέροις γὰρ τούτοις κρίνει τι ἡ ψυχὴ καὶ γνωρίζει τῶν ὄντων), καὶ οἵ γε ἀρχαῖοι τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι ταὐτὸν εἶναί φασιν—ὥσπερ καὶ Ἐμπεδοκλῆς εἴρηκε ‘πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἀέξεται ἀνθρώποισιν’ καὶ ἐν ἄλλοις ‘ὅθεν σφίσιν αἰεὶ καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίσταται’, τὸ δ’ αὐτὸ τούτοις βούλεται καὶ τὸ Ὁμήρου ‘τοῖος γὰρ νόος ἐστίν’, πάντες γὰρ οὗτοι τὸ νοεῖν σωματικὸν ὥσπερ τὸ αἰσθάνεσθαι ὑπολαμβάνουσιν, καὶ αἰσθάνεσθαί τε καὶ φρονεῖν τῷ ὁμοίῳ τὸ ὅμοιον, ὥσπερ καὶ ἐν τοῖς κατ’ ἀρχὰς λόγοις διωρίσαμεν 587 L'anima è per lo più definita in base a due elementi: il movimento locale e il pensare, il riflettere e il sentire. Sembra che il pensare e il riflettere siano qualcosa come il sentire (in entrambi i casi, infatti, l'anima discrimina e conosce qualcosa degli enti), e del resto gli antichi sostengono che il pensare e il sentire siano la stessa cosa. Così Empedocle affermò: «in relazione alla situazione presente, in vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove: «per quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose diverse». La stessa cosa intende l'affermazione di Omero: «tale è infatti la mente». Tutti costoro, in effetti, sostengono che il pensare sia qualcosa di corporeo come il sentire, e che sentire e pensare siano del simile attraverso il simile, come abbiamo detto inizialmente nel nostro discorso (De Anima III, 3 427 a17-29). Benché non evocato direttamente, Parmenide rimane coinvolto doppiamente: perché l'equazione aristotelica tra «pensare» e «percepire/sentire» (τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι) è genericamente rivolta agli «antichi» (οἵ ἀρχαῖοι), analogamente alla connotazione conclusiva del pensare come «qualcosa di corporeo come il sentire» (τὸ νοεῖν σωματικὸν ὥσπερ τὸ αἰσθάνεσθαι), attribuita a «tutti costoro» (πάντες οὗτοι, cioè, ancora, «gli antichi»). Significativi il costante riferimento a Empedocle e la citazione omerica (in Metafisica IV, 5 1009 b28-30 si evocava Iliade XXIII, 698), di cui molti studiosi ritrovano eco in B16: τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei (Odissea XVIII, 136-7). Il testo di Omero, in effetti, intende marcare la costitutiva debolezza della comprensione umana e la sua totale dipendenza dall'operare divino. Esso riflette un punto di vista che circolava nella poesia arcaica: il νόος dell'uomo come ἀμήχανος (impotente) rispetto a quello divino. Possiamo rintracciare lo stesso motivo in 588 Archiloco (fr. 68.1-2 Diehl), Simonide (fr. 1.1-5) e Teognide (vv. 1171-4). Teofrasto Secondo Coxon3 , Teofrasto avrebbe avuto chiaramente presenti l'argomento e la citazione del maestro, pur utilizzando il frammento per motivi diversi e ricavandolo da un testo indipendente: non si comprenderebbe altrimenti su quali basi B16 troverebbe collocazione all'interno di una riflessione περὶ αἰσθήσεως (De Sensu) e come potrebbe riferirsi al dibattito sull'origine della sensazione (dal simile o dai contrari), se non appunto per la precedente (incrociata) lettura aristotelica: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν· οἱ μὲν γὰρ τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Πλάτων τῶι ὁμοίωι, οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι. (3) Π. μὲν γὰρ ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν ἀλλὰ μόνον, ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις. ἐὰν γὰρ ὑπεραίρηι τὸ θερμὸν ἢ τὸ ψυχρόν, ἄλλην γίνεσθαι τὴν διάνοιαν, βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν τὴν διὰ τὸ θερμόν· οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ ταύτην δεῖσθαί τινος συμμετρίας· ‘ὡς γὰρ ἑ κ ά σ τ ο τ ε , φησίν, ἔ χ ε ι . . . ν ό η μ α ’ (B 16). τὸ γὰρ αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ λέγει· διὸ καὶ τὴν μνήμην καὶ τὴν λήθην ἀπὸ τούτων γίνεσθαι διὰ τῆς κράσεως· ἂν δ’ ἰσάζωσι τῆι μίξει, πότερον ἔσται φρονεῖν ἢ οὔ, καὶ τίς ἡ διάθεσις, οὐδὲν ἔτι διώρικεν. ὅτι δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν νεκρὸν φωτὸς μὲν καὶ θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν ἔκλειψιν τοῦ πυρός, ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι. καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν. οὕτω μὲν οὖν αὐτὸς ἔοικεν ἀποτέμνεσθαι τῆι φάσει τὰ συμβαίνοντα δυσχερῆ διὰ τὴν ὑπόληψιν. 3 Op. cit., p. 247. 589 Riguardo alla sensazione le opinioni più numerose e diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile, gli altri dal contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci di Anassagora e Eraclito dal contrario... Parmenide, in effetti, nell’insieme non ha precisato alcunché, ma solo che, essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale: qualora infatti prevalga il caldo o il freddo, il pensiero cambia [diventa altro], ma migliore e più puro è comunque quello secondo il caldo. Anche questo, tuttavia, richiede una certa proporzione. [citazione B16]. Parla del percepire e del pensare come della stessa cosa: perciò anche la memoria e l'oblio derivano da queste cose attraverso la mescolanza. Non precisa ulteriormente invece circa l'eventualità che gli elementi siano equivalenti nella mistione: se ci sarà pensiero o no, e quale la sua costituzione. Che egli faccia dipendere la percezione anche dal contrario in sé considerato [cioè dal freddo], è evidente laddove afferma che il morto non percepisce né luce, né caldo, né suono, per la perdita del fuoco, ma che percepisce freddo, silenzio e i contrari. Nel complesso sostiene che tutto l'essere abbia una qualche capacità conoscitiva. Così, dunque, egli sembra eliminare in apparenza le difficoltà che derivano dalla sua teoria. A differenza della discussione aristotelica dei presunti presupposti ontologici materialistici e del conseguente sensismo soggettivistico di marca protagorea, il contesto teofrasteo è quello di un'analisi decisamente gnoseologica. Dobbiamo tuttavia trattenerci dall'intendere il frammento in chiave di gnoseologia generale4 : né Aristotele né Teofrasto utilizzano i termini parmenidei νόος e νόημα, limitandosi a correlare τὸ αἰσθάνεσθαι e τὸ φρονεῖν ovvero i derivati αἴσθησις e φρόνησις. È possibile, dunque, che nessuno dei due intendesse realmente attribuire a Parmenide la riduzione della conoscenza a percezione5 , riferendosi entrambi piuttosto alla sua teoria della conoscenza del mondo sensibile. 4 Cerri, op. cit., pp. 277-8. 5 Coxon, op. cit., p. 251. 590 In ogni caso, Teofrasto introduce il riferimento a Parmenide all'interno dell'esame delle due opinioni prevalenti (secondo lo schema delle testimonianze aristoteliche che doveva già risultare condizionante6 ): la prima novità rispetto all'indicazione del maestro, infatti, interviene proprio su questo punto: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν· οἱ μὲν γὰρ τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Πλάτων τῶι ὁμοίωι, οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι Riguardo alla sensazione le opinioni più numerose e diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile, gli altri dal contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci di Anassagora e Eraclito dal contrario. Parmenide viene classificato tra i sostenitori della derivazione della percezione dall'azione del simile sul simile, sebbene all'inizio della trattazione specifica Teofrasto segnali come: Π. μὲν γὰρ ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν Parmenide, in effetti, nell’insieme non ha precisato alcunché [...]. La seconda novità della testimonianza teofrastea è che, immediatamente di seguito, essa valorizza un particolare trascurato da Aristotele: ἀλλὰ μόνον, ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις [...] ma solo che, essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale. Si tratta probabilmente di un riferimento proprio alla conclusione di B16: 6 Su questo B. Cassin-M. Narcy, "Parménide sophiste. La citation aristotélicienne du fr. XVI", in Études sur Parménide, cit., vol. II, p. 281. 591 τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα ciò che prevale, infatti, è il pensiero. Dal punto di vista di Teofrasto è questa la peculiarità del contributo parmenideo in campo conoscitivo: il principio della dipendenza del pensiero dall'elemento che prevale nella mescolanza. Il terzo rilievo interessante della testimonianza è quello conclusivo: καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν Nel complesso [sostiene] anche che tutto l'essere abbia una qualche capacità conoscitiva. La convinzione espressa potrebbe discendere dai fondamenti della "fisica" parmenidea: i due costitutivi "materiali" (Fuoco e Notte) presenti in tutte le cose hanno «proprietà» (δυνάμεις) per cui funzionano anche come principi di movimento e conoscenza. Possiamo così riassumere le preziose informazioni teofrastee sulle concezioni gnoseologiche di Parmenide: (i) due sono gli elementi coinvolti nella conoscenza (γνῶσις): «il caldo» (τὸ θερμὸν) e «il freddo» (τὸ ψυχρόν); (ii) essa si produce con il prevalere di uno dei due (κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις): a seconda della preponderanza, «il pensiero cambia [diventa altro]» (ἄλλην γίνεσθαι τὴν διάνοιαν); (iii) il pensiero (διάνοια) qualitativamente migliore (βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν) è «quello secondo il caldo» (τὴν διὰ τὸ θερμόν); (iv) «una certa proporzione [degli elementi]» è tuttavia sempre implicata (δεῖσθαί τινος συμμετρίας); (v) percepire e pensare sono considerati la stessa cosa (τὸ αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ); (vi) la percezione è del simile attraverso il simile (evidentemente Teofrasto ha presente una parte del poema per noi perduta): ὅτι δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν νεκρὸν φωτὸς μὲν καὶ θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν 592 ἔκλειψιν τοῦ πυρός, ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι Che egli faccia dipendere la percezione anche dal contrario in sé considerato [cioè dal freddo], è evidente laddove afferma che il morto non percepisce né luce, né caldo, né suono, per la perdita del fuoco, ma che percepisce freddo, silenzio e i contrari; (vii) tutta la realtà è dotata di capacità di conoscere (καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν): è chiaro nel contesto, dove ripetutamente si accenna ai due elementi, che Teofrasto riferisce questa asserzione agli enti sensibili, al mondo fisico. Al centro dell'esposizione della dottrina parmenidea sono comunque i punti (ii) e (iii), che giustificano la citazione di B16: Teofrasto ritrova evidentemente nel poema il rilievo esplicito dell'incidenza della κρᾶσις μελέων sulla qualità del pensiero, ma solo sotto il profilo della prevalenza di uno dei due «elementi» (στοιχεία), sottolineando invece l'assenza in Parmenide di una perspicua considerazione degli effetti dell'eventuale loro equilibrio. L'impressione è che il frammento parmenideo sia impiegato non tanto per sostenere una prospettiva rigorosamente conoscitiva (non per marcare la relazione tra il pensiero e il suo oggetto), quanto piuttosto per rimarcare la relazione psico-fisica che vi è tematizzata7 . Ricostruzione dei vv. 1-2a I primi due versi del frammento sono di interpretazione relativamente più agevole rispetto agli ultimi due: nonostante le divergenze nella ricostruzione sintattica, il senso generale non cambia di molto: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, 7 M. Marcinkowska-Rosół, Die Konzeption des "Noein" bei Parmenides von Elea, De Gruyter, Berlin-New York 2010, p. 181. 593 τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν Come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra molto vaganti, così il pensiero si presenta agli uomini. Come abbiamo segnalato in nota al testo, esistono varie soluzioni per il soggetto del primo verbo (ἔχῃ) e per il suo valore (transitivo, intransitivo). Complessivamente, tuttavia, si conferma un'indicazione fondamentale: la condizione mentale degli uomini è correlata alla loro situazione fisiologica. Negli esseri umani in generale (ἀνθρώποισι), alle variazioni (ὡς ἑκάστοτ’ ἔχῃ) dell'amalgama corporea (κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων), corrisponde il manifestarsi (τὼς παρέστηκεν) del pensiero (ovvero della «mente», νόος). Come abbiamo registrato, è quanto Aristotele rendeva con la correlazione ἕξις-φρόνησις. Si tratta di una tesi di antropologia generale che trova indirettamente conferma nella tradizione dossografica: δύο τε εἶναι στοιχεῖα, πῦρ καὶ γῆν, καὶ τὸ μὲν δημιουργοῦ τάξιν ἔχειν, τὴν δὲ ὕλης. γένεσίν τε ἀνθρώπων ἐξ ἡλίου πρῶτον γενέσθαι· αὐτὸν [?] δὲ ὑπάρχειν τὸ θερμὸν καὶ τὸ ψυχρόν, ἐξ ὧν τὰ πάντα συνεστάναι. καὶ τὴν ψυχὴν καὶ τὸν νοῦν ταὐτὸν εἶναι, καθὰ μέμνηται καὶ Θεόφραστος ἐν τοῖς Φυσικοῖς, πάντων σχεδὸν ἐκτιθέμενος τὰ δόγματα. Disse che due sono gli elementi – fuoco e terra – e che l'uno ha funzione di artefice, l'altro di materia. Disse che la generazione degli uomini deriva in primo luogo dal Sole e che a quello [uomo] spettano come elementi il caldo e il freddo, da cui tutte le cose sono costituite. Disse anche che l'anima e l'intelligenza sono la stessa cosa, come ricorda anche Teofrasto nella sua Fisica, dove espone le dottrine di quasi tutti [i filosofi] (Diogene Laerzio; DK 28A1). Parmenides ex terra et igne [sc. animam esse]. Π. δὲ καὶ Ἵππασος πυρώδη. Π. ἐν ὅλωι τῶι θώρακι τὸ ἡγεμονικόν. Π. καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος 594 ταὐτὸν νοῦν καὶ ψυχήν, καθ’ οὓς οὐδὲν ἂν εἴη ζῶιον ἄλογον κυρίως Parmenide dice che l'anima è costituita di terra e fuoco (Macrobio; DK 28 A45) Parmenide e Ippaso dicono che l'anima è ignea. – Parmenide dice che in tutto il petto ha sede l'egemonico. – Parmenide ed Empedocle e Democrito dicono che l'intelligenza e l'anima sono la stessa cosa; secondo loro nessun animale sarebbe completamente senza ragione (Aëtius; DK 28 A45). Parmenide avrebbe ricondotto rigorosamente ai suoi principi (Fuoco e Notte, ovvero Fuoco e Terra) la natura umana, attribuendo alla loro interazione la stessa attività percettiva e conoscitiva. In particolare, la scelta di κρᾶσις potrebbe rivelare la vicinanza di Parmenide alle scuole mediche (il termine ritorna in Alcmeone ed Empedocle, nonché in Democrito): l'idea trasmessa sarebbe quella del temperamento delle componenti in un'amalgama coesa. Nel testo, comunque, il genitivo μελέων (πολυπλάγκτων) non si riferirebbe (se non indirettamente) agli elementi, ma immediatamente alle «membra» corporee, secondo il costume omerico di designare il complesso fisico con il rinvio alle parti. L'Eleate pare dunque, in primo luogo, attento a rilevare, nella relazione psicofisica, l'interdipendenza tra disciplina delle «membra» e condizione della mente 8 : in tal caso, il tradizionale motivo poetico dell'instabilità ed eteronomia9 della comprensione umana risulterebbe decisamente piegato all'esigenza di marcare non tanto una generica dipendenza del pensiero (νόος) umano dalle circostanze esterne - come nella formula omerica sopra ricordata (ed evocata anche da Aristotele in De Anima): τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra, 8 Su questo M. Stemich, op. cit., pp. 139-142. 9 Riprendo l'espressione da Marcinkowska-Rosół, op. cit., p. 162. 595 quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei, quanto il suo condizionamento da parte del mutevole equilibrio fisiologico corporeo10 . L'attenzione di Parmenide sembrerebbe allora, in secondo luogo, tesa a marcare proprio la mutevolezza, l'instabilità della situazione psico-fisica, come rivelerebbe la scelta dell'avverbio ἑκάστοτε («ogni volta, di volta in volta») e dell'aggettivo composto πολυπλάγκτων («molto vaganti, dai molteplici movimenti, volubili»). Nel complesso, quindi, nella prospettiva antropologica adottata nei versi in esame, non v'è dubbio che sia proposta una concezione del pensare come attività (e del pensiero come prodotto: νόημα) che sopravviene (anche in questo caso la scelta espressiva è indicativa: παρέστηκεν, «si presenta») dall'esterno, dal temperamento cangiante di «membra che molto si agitano» (μελέων πολυπλάγκτων), di cui, insomma, il soggetto non sembra essere in controllo11 . Ricostruzione dei vv. 2b-4 Il frammento prosegue: τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί· τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα perché è precisamente la stessa cosa ciò che pensa negli uomini, la costituzione del [loro] corpo, in tutti e in ciascuno: ciò che prevale, in vero, è il pensiero. 10 Ivi, p. 176. 11 Ivi, pp. 162-3. 596 Si tratta di uno dei passaggi più controversi dell'intero poema sopravvissuto. Nella nostra ricostruzione sintattica del testo greco, la Dea, riferendosi alla propria asserzione secondo cui la qualità del pensiero dipende dal temperamento delle membra (vv. 1-2a), precisa dapprima come ciò accada in virtù del fatto che «ciò che pensa negli uomini» (ὅπερ φρονέει ἀνθρώποισιν) coincide (τὸ αὐτό ἔστιν) con «la costituzione del loro corpo» (μελέων φύσις). La soluzione interpretativa seguita nella traduzione è, nella sostanza, quella proposta originariamente da Diels (1897), che appare, rispetto all'insieme del frammento, la più equilibrata, a dispetto del limite denunciato nella tradizione critica (Fränkel, Hölscher): la costruzione richiesta, con μελέων φύσις come apposizione (con valore esplicativo12), risulta un po' artificiosa13 . A questo chiarimento la Dea fa seguire una puntualizzazione: il pensiero (νόημα, qui da intendere come «contenuto di pensiero») coincide con «ciò che prevale» (τὸ πλέον). Il senso è chiarito nella testimonianza teofrastea, come abbiamo avuto modo di registrare: ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις [...] essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale. Il lessico di Teofrasto è lessico di "conoscenza" (γνῶσις); quello del frammento appare piuttosto lessico di "pensiero" (νόος, νόημα): in assenza del contesto, è la determinazione del pensiero attraverso gli equilibri fisiologici che sembra posta al centro dell'attenzione. La Dea, secondo costume (Omero, Archiloco), informa il κοῦρος, destinatario diretto della comunicazione, circa l'inevitabile condizionamento del pensiero umano: in altre parole, all'interno della complessiva illustrazione della realtà cosmica e 12 Come spiegano nel loro contributo B. Cassin e M. Narcy (p. 290). 13 Per una aggiornata disamina della discussione critica in merito alle possibili soluzioni nella traduzione si veda ora Marcinkowska-Rosół, op. cit., pp. 164 ss.. 597 dei suoi processi di formazione, ella inserisce un resoconto dei meccanismi fisiologici alla base delle attività spirituali. In realtà, la sua è una modalità didascalica per mettere in guardia la propria audience. Soprattutto se consideriamo che, a differenza di quel che accadeva nella rappresentazione omerica che teneva unite dimensione corporea e dimensione spirituale, il ricorrente impiego di νόος, νόημα, νοεῖν (B2, B3, B4, B6, B7, B8) suggerisce, nel caso di Parmenide, una consapevole distinzione delle nozioni di «corpo» (μέλεα) e «spirito/pensiero» (νόος) e la conseguente valutazione delle loro implicazioni reciproche. Il κοῦρος è stato invitato a: (i) sottrarsi al giogo della assuefazione empirica: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5a), (ii) tenersi lontano dalla strada per lo più battuta dai «mortali»: una strada che disorienta, ottundendo i loro sensi e la loro comprensione della realtà: ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται >, δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα da quella [via di ricerca] che appunto mortali che nulla sanno , uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti guida la mente errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere scriteriate (B6.4-5a), 598 (iii) imparare attivamente, giudicando criticamente la comunicazione della Dea: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον Giudica invece con il ragionamento la prova polemica (B7.5b), (iv) riflettere sulla specifica capacità di attualizzazione del pensiero: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti (B4.1), (v) e sulla effettiva natura del suo oggetto: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere (B3). In B16, infine, la Dea esplicitamente ricorda come il prodursi del pensiero sia da inquadrare all'interno di un'ineludibile cornice psico-fisica: averne cognizione e coscienza comporta, in prospettiva, potersene avvantaggiare, garantendo al pensiero le condizioni ideali14. Potrebbe allora non essere casuale la relazione lessicale tra «mente errante» (πλακτὸν νόον, B6.5b-6a): ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον impotenza davvero nei loro petti guida la mente errante, e «membra molto vaganti» (μελέων πολυπλάγκτων, B16): ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra molto vaganti, 14 Così la Stemich, op. cit., pp. 164-5. 599 così il pensiero si presenta agli uomini. Forse proprio il disordine e l'agitazione del corpo, espressi da πολυπλάγκτα μέλεα, possono spiegare la confusione che domina il pensiero dei «mortali». Per converso, possiamo ipotizzare che ai «segni» di stabilità e compattezza del νόημα ἀμφὶς ἀληθείης (B8) dovesse corrispondere il miglior temperamento degli elementi corporei: nella testimonianza teofrastea «il pensiero secondo il caldo» (διάνοια διὰ τὸ θερμόν). Forse l'illustrazione dei meccanismi fisiologici condizionanti aveva (direttamente o indirettamente) la specifica funzione di guidare il kouros a una loro corretta gestione: difficile, infatti, immaginare che il νόημα ἀμφὶς ἀληθείης potesse essere affidato a un accidentale equilibrio psico-fisico, su cui il destinatario non avesse opportunità di controllo15 . Queste supposizioni assumono maggiore consistenza se accettiamo i riscontri giunti dalla ricerca archeologica16, i quali, dopo i ritrovamenti dell'ultimo mezzo secolo, fanno intravedere la possibilità che la «scuola eleatica» fosse qualcosa di molto diverso da un «cenacolo di filosofi razionalisti»17: probabilmente un sodalizio consacrato ad Apollo Οὔλιος (guaritore, risanatore), dunque una scuola di medicina, istituita forse dallo stesso Parmenide, il quale è evocato in un’iscrizione recuperata a Velia (l'odierno sito dell'antica Elea) come Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης φυσικός (Parmenide, figlio di Pyres, medico di Apollo Guaritore). Altre iscrizioni recuperate nello stesso luogo confermano l'esistenza di una tradizione locale di guaritori - apostrofati come Οὖλις ἰατρός φώλαρχος, letteralmente «risanatore medico signore della caverna» -, che onoravano un Οὐλιάδης ἰατρόμαντις, un medico- 15 A meno di non interpretare il discorso della Doxa, come si è fatto tradizionalmente, come una messa in guardia nei confronti di una elaborazione segnata strutturalmente dall'illusione e dall'inganno: abbiamo visto, però, che ci sono motivi per credere che non fosse questa l'intenzione del pensatore di Elea. 16 In precedenza richiamati nel commento al proemio. 17 Passa, op. cit., p. 17. 600 indovino sacerdote di Apollo, da identificare probabilmente con lo stesso Parmenide18 . È possibile, dunque, che egli praticasse un'arte che si collocava tra medicina e mantica vera e propria, ricorrendo al φωλεύειν, cioè a una sorta di "incubazione", analoga alla letargia invernale dell'animale nella tana (φωλεός). Non dovrebbe allora sorprendere il rilievo circa la relazione psico-fisica all'interno della esposizione della Doxa. Il medico-indovino, in effetti, diagnosticava il male in uno stato di trance, decifrando segni e ricavandone indicazioni terapeutiche idonee19. Nel caso dell'«incubazione», l'esperienza avveniva, dopo una adeguata preparazione cultuale, rimanendo immobili in assoluto silenzio, in un luogo consacrato, inaccessibile ai profani: il sonno avrebbe portato con sé il manifestarsi del dio in sogni e visioni, che lo iatromantis poteva interpretare. Parmenide potrebbe aver suggerito al kouros una trasformazione della condizione psicofisica, così da garantire, attraverso il suo controllo, la perfetta amalgama dei dati percettivi, la loro omogenea fusione nel pensare corretto. 18 Per queste notizie Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, cit., pp. 55 ss.; Gemelli-Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II, pp. 42 ss.; Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 141 ss.. 19 Kingsley, op. cit., pp. 120-7. 601 MASCHI E FEMMINE [B17 E B18] I due frammenti (B18 può essere solo impropriamente definito tale) trattano della differenziazione dei sessi (B17) e della trasmissione dei caratteri sessuali (somatici e psichici), delineando un abbozzo di spiegazione embriogenetica. Non a caso sono il risultato di citazioni scientifiche: a Galeno dobbiamo quella di B17, che doveva corroborare la sua opinione circa l'originaria formazione del feto maschile: τὸ μέντοι ἄρρεν ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι τῶν παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν. ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως ἔφη Molti altri tra gli antichi affermarono che il maschio sia concepito nella parte destra dell'utero. Parmenide in effetti dice [B17]. Proprio l'intenzione di confermare le proprie convinzioni biologiche e l'assenza di indicazioni che attestino il rimando diretto al poema hanno fatto avanzare dubbi sull'attendibilità di quella che rimane comunque una "scheggia" testuale1 . A Celio Aureliano (V secolo?), traduttore di opere della tradizione medica greca - in particolare, nel caso specifico, delle due parti del monumentale Περὶ ὀξέων καὶ χρονίων παθῶν (Sulle malattie acute e croniche) di Sorano di Efeso (I-II secolo) - dobbiamo invece la parafrasi in versi che Diels-Kranz hanno classificato come B18. La citazione è proposta nel seguente contesto: Parmenides libris quos d e n a t u r a scripsit, eventu inquit conceptionis molles aliquando seu subactos homines generari. cuius quia graecum est epigramma, et hoc versibus intimabo. latinos enim ut potui simili modo composui, ne linguarum ratio misceretur. ‘f e m i n a . . . s e x u m ’. Parmenide, nei libri Sulla natura, afferma che, secondo le modalità di concezione, si generano talvolta 1 Conche, op. cit., p. 258. 602 uomini molli e sottomessi. Dal momento che il suo testo greco è in versi, lo proporrò io pure in versi: ho composto, infatti, versi latini di tenore analogo, per quanto mi è stato possibile, per non confondere il carattere specifico delle due lingue. [B18] [...]. Celio Aureliano mette dunque sull'avviso: la sua non è citazione letterale, ma traduzione-rielaborazione2 , sebbene, come ha osservato Coxon3 , la facilità con cui si possono volgere in greco i suoi versi latini attesta la loro fedeltà al greco (come segnalato dalla precisazione: «ut potui simili modi»). Per mettere a fuoco il nodo cui i passaggi del poema evocati dalle citazioni si riferivano, sono essenziali le testimonianze di Aëtius e Censorino: Ἀναξαγόρας, Π. τὰ μὲν ἐκ τῶν δεξιῶν [sc. Σπέρματα] καταβάλλεσθαι εἰς τὰ δεξιὰ μέρη τῆς μήτρας, τὰ δ’ ἐκ τῶν ἀριστερῶν εἰς τὰ ἀριστερά. εἰ δ’ ἐναλλαγείη τὰ τῆς καταβολῆς, γίνεσθαι θήλεα igitur semen unde exeat inter sapientiae professores non constat. P. enim tum ex dextris tum e laevis partibus oriri putavit Anassagora e Parmenide sostengono che i semi della parte destra sono gettati nella parte destra dell'utero, quelli della sinistra nella parte sinistra. Se la fecondazione è invertita, si generano femmine. Tra i cultori della sapienza non vi è certezza circa la provenienza del seme [lett.: da dove esca il seme]. Parmenide, infatti, credeva che provenisse ora dalla parte destra, ora dalla parte sinistra (28 DK A53). Evidentemente Parmenide prendeva posizione nel confronto scientifico circa natura e meccanismi del concepimento, e loro effetti sul sesso dell'embrione. In particolare, la testimonianza di Aëtius interviene a integrare e correggere l'indicazione di Galeno. Questi richiama Parmenide come uno dei primi sostenitori della 2 Cerri, op. cit., p. 285. 3 Op. cit., p. 253 603 tesi secondo cui il maschio sarebbe concepito nel lato destro dell'utero: tesi attribuita da Aristotele (De generatione animalium IV, 1 763 b30 ss.) ad Anassagora e «altri fisiologi» (ἕτεροι τῶν φυσιολόγων): φασὶ γὰρ οἱ μὲν ἐν τοῖς σπέρμασιν εἶναι ταύτην τὴν ἐναντίωσιν εὐθύς, οἷον Ἀναξαγόρας καὶ ἕτεροι τῶν φυσιολόγων· γίγνεσθαί τε γὰρ ἐκ τοῦ ἄρρενος τὸ σπέρμα, τὸ δὲ θῆλυ παρέχειν τὸν τόπον, καὶ εἶναι τὸ μὲν ἄρρεν ἐκ τῶν δεξιῶν τὸ δὲ θῆλυ ἐκ τῶν ἀριστερῶν, καὶ τῆς ὑστέρας τὰ μὲν ἄρρενα ἐν τοῖς δεξιοῖς εἶναι τὰ δὲ θήλεα ἐν τοῖς ἀριστεροῖς Alcuni sostengono che tale opposizione si trovi già in origine nei semi, come Anassagora e altri fisiologi. Il seme, infatti, origina dal maschio, la femmina invece fornisce il luogo; e il maschio viene da destra, la femmina da sinistra, e i maschi si formano nelle parti destre dell'utero, le femmine nelle parti sinistre, e associata a quella secondo cui il carattere sessuale preesiste nel seme (fornito esclusivamente dal genitore maschio) al concepimento: il seme che trasmette carattere maschile proviene dalla parte destra, quello che trasmette carattere femminile dalla sinistra. Integrando Galeno, si può fondatamente avanzare l'ipotesi che Parmenide facesse derivare i maschi e le femmine rispettivamente dalla parte destra e dalla parte sinistra dei genitali maschili e femminili. La versione latina di Celio Aureliano aiuta in particolare a chiarire la posizione di Parmenide circa il contributo al concepimento: Femina virque simul Veneris cum germina miscent, Venis informans diverso ex sanguine virtus Temperiem servans bene condita corpora fingit. Quando femmina e maschio mescolano insieme i semi di Venere, la potenza formatrice nelle vene, che [deriva] da sangue opposto, 604 conservando la giusta misura plasma corpi ben fatti (B18.1-3). Il testo (di tenore parmenideo4 ) offre, in effetti, alcune informazioni importanti: (i) i semi originano dal sangue (maschile e femminile); (ii) esistono quindi due tipologie di semi, rispettivamente maschile e femminile: essi sono opposti come il sangue da cui provengono5 («da sangue opposto», diverso ex sanguine); (iii) i due semi, maschile e femminile, cooperano nella riproduzione. Incrociando queste informazioni con i riferimenti delle testimonianze e dei contesti delle citazioni, possiamo così ricostruire la probabile posizione parmenidea sulla relazione genetica dei figli ai genitori6 : entrambi i semi delle parti (genitali) destre generano maschi simili ai padri; entrambi i semi delle parti sinistre generano femmine simili alle madri; negli altri due casi (semi delle parti sinistra e destra, maschile e femminile), maschi simili alle madri o femmine simili ai padri. Parmenide probabilmente riteneva che dalla corretta mescolanza di seme maschile e seme femminile dovesse scaturire un'equilibrata costituzione psico-fisica: le due tipologie di seme, infatti, conferivano specifiche proprietà (virtutes, δυνάμεις), che, mescolandosi i semi, erano destinate a combinarsi in un'unica potenza formatrice (informans virtus). È quanto si ricava dal rilievo in negativo che chiude B18: Nam si virtutes permixto semine pugnent Nec faciant unam permixto in corpore, dirae Nascentem gemino vexabunt semine sexum. Se, infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono e non diventano un'unica potenza nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche 4 Conche, op. cit., p. 262. 5 Ibidem. 6 Coxon, op. cit., p. 253. 605 affliggeranno il sesso nascente con il [loro] duplice seme (B18.4-6), e dal commento di Celio Aureliano alla sua citazione: vult enim seminum praeter materias esse virtutes, quae si se ita miscuerint, ut eiusdem corporis faciant unam, congruam sexui generent voluntatem; si autem permixto semine corporeo virtutes separatae permanserint, utriusque veneris natos adpetentia sequatur Pretende infatti che i semi abbiano, oltre a materia, anche virtù formatrici (virtutes), le quali se si mescolano così da produrre dello stesso corpo una sola virtù, generano carattere (voluntatem) conforme al sesso; nel caso in cui, invece, una volta mescolato il seme corporeo, le virtù siano rimaste separate, deriva ai nati desiderio di entrambi i tipi di amore. Se la misura nella opposizione dei semi fosse stata rispettata (temperiem servans) nella loro mescolanza (permixto semine), si sarebbe realizzata complementarità nelle loro proprietà, garantendo così un'unione equilibrata e armoniosa (unam permixto in corpore). In caso contrario la disarmonia si sarebbe instaurata nei corpi, producendo disagio sessuale e psichico7 : lo sviluppo coerente della personalità sessuale (congruam sexui voluntatem) era funzione dell'armonia dei contrari nella costituzione dell'essere umano. Le presunte tesi biologiche di Parmenide presentano certamente affinità con quanto attestato del pensiero del contemporaneo Alcmeone, nella tradizione dossografica proposto come «discepolo di Pitagora» (Diogene Laerzio; 24 DK A1). Nel frammento B4 del suo Περὶ φύσεως leggiamo infatti: Ἀ. τῆς μὲν ὑγιείας εἶναι συνεκτικὴν τὴν ἰ σ ο ν ο μ ί α ν τῶν δυνάμεων, ὑγροῦ, ξηροῦ, ψυχροῦ, θερμοῦ, πικροῦ, γλυκέος καὶ τῶν λοιπῶν, τὴν δ’ ἐν αὐτοῖς μ ο ν α ρ χ ί α ν νόσου ποιητικήν· φθοροποιὸν γὰρ 7 Ivi, p. 254. 606 ἑκατέρου μοναρχίαν. [...]. τὴν δὲ ὑγείαν τὴν σύμμετρον τῶν ποιῶν κρᾶσιν Ciò che mantiene la salute, afferma Alcmeone, è l'equilibrio di forze: umido, secco, freddo caldo, amaro, dolce e così via; la supremazia di una di esse, invece, è foriera di malattia: micidiale è, in effetti, il predominio di ognuno degli opposti. [...] La salute, invece, è mescolanza misurata delle qualità. Sono evidenti le consonanze lessicali (δυνάμεις, κρᾶσις) ed è probabile l'accordo sulla tesi fondamentale di Alcmeone: che la salute del corpo sia funzione della isonomia degli elementi contrari, e la malattia espressione di uno squilibrio. Le testimonianze accentuano le convergenze anche nello specifico: ex quo parente seminis amplius fuit, eius sexum repraesentari dixit A. Alcmeone afferma che il feto ha il sesso di quello, tra i genitori, il cui seme è stato più abbondante» (Censorino; DK 24 A14). Alcmeone condivideva con Parmenide la convinzione che entrambi i genitori contribuissero con semina (σπέρματα) al concepimento, pur avendo sull'origine dello sperma un'opinione diversa: Ἀ. ἐγκεφάλου μέρος (sc. εἶναι τὸ σπέρμα) Alcmeone sosteneva che [il seme fosse] parte del cervello (Aëtius; DK 24 A13). Mentre Coxon8 nota in questo senso come Parmenide seguisse Alcmeone, Ruggiu9 tende a rovesciare la relazione, convinto che nello specifico l'influenza sia stata esercitata da Parmenide su Alcmeone. La questione è in effetti complessa. È probabile che Alcmeone ricavasse le proprie opposizioni (umido-secco, freddo-caldo, amaro-dolce ecc.) dalla più antica 8 Op. cit., p. 252. 9 Op. cit., p. 366. 607 tradizione ionica, la stessa che dovette ispirare le tavole pitagoriche, ma anche il modello parmenideo: l'orizzonte fisico appare ancora quello delle origini e non va dimenticato che le osservazioni biologiche di Parmenide sono inquadrate all'interno di una complessiva interpretazione del mondo naturale in chiave oppositiva (Fuoco-Notte). Il primo riferimento all'unione sessuale e alla riproduzione che abbiamo registrato nell'analisi dei frammenti (B12) le introduceva direttamente in chiave cosmica: ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ. in mezzo a queste la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). È possibile, come abbiamo in precedenza argomentato, che Parmenide abbia effettivamente elaborato il proprio sistema (διάκοσμος) misurandosi con le proposte pitagoriche proprio sul terreno decisivo della cosmogonia e cosmologia; probabile che ciò sia avvenuto comunque tenendo ben presenti le soluzioni ioniche. Dal momento che le testimonianze, soprattutto i recenti rilievi archeologici, fanno supporre uno specifico interesse medico, non deve sorprendere la possibilità che un confronto sia intervenuto anche in ambito biologico. Il tema dell'opposizionericomposizione degli elementi risulta per altro ricorrente: come sottolineava Maria Timpanaro Cardini a proposito di Alcmeone: come alla fisica ionica si ricollegava probabilmente la primitiva dualità pitagorica ἄπειρον-πέρας [...], così da quella stessa fisica trasse verosimilmente Alcmeone 608 alcune opposizioni [...] le cui potenze egli constatava nella pratica della medicina10 . Su questo sfondo piuttosto sfumato è possibile parlare di comuni obiettivi scientifici nella ricerca di Parmenide e Alcmeone, di convergenze nei risultati, sulla scorta di paradigmi esplicativi condivisi, forse anche pitagorici. A Crotone una fiorente scuola medica preesisteva all'arrivo di Pitagora, a testimoniare l'autonomia dell'indagine e della pratica medica, sebbene poi esse siano documentate anche nell'ambito della tradizione pitagorica antica, a conferma che la medicina fu avvertita come μάθημα essenziale11 . 10 M. Timpanaro Cardini, Pitagorici antichi. Testimonianze e frammenti, Bompiani, Milano 2010 (edizione originale 1958-1964), pp. 134-5. 11 Ivi, p. 133. 609 B19 Il frammento B19 ci è conservato esclusivamente da Simplicio (In Aristotelis de caelo 558), in un contesto particolare (557-8), in cui si susseguono in poche righe tre citazioni del poema parmenideo (B1.28-32, B8.50-53 e appunto B19): οἱ δὲ ἄνδρες ἐκεῖνοι διττὴν ὑπόστασιν ὑπετίθεντο, τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ, ὅπερ οὐκ ἠξίουν καλεῖν ὂν ἁπλῶς, ἀλλὰ δοκοῦν ὄν· διὸ περὶ τὸ ὂν ἀλήθειαν εἶναί φησι, περὶ δὲ τὸ γινόμενον δόξαν. λέγει γοῦν ὁ Παρμενίδης [B1.28-32]. ἀλλὰ καὶ συμπληρώσας τὸν περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγον καὶ μέλλων περὶ τῶν αἰσθητῶν διδάσκειν ἐπήγαγεν [B8.50-53]. παραδοὺς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐπήγαγε πάλιν [B19]. πῶς οὖν τὰ αἰσθητὰ μόνον εἶναι Παρμενίδης ὑπελάμβανεν ὁ περὶ τοῦ νοητοῦ τοιαῦτα φιλοσοφήσας, ἅπερ νῦν περιττόν ἐστι παραγράφειν; πῶς δὲ τὰ τοῖς νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ χωρὶς μὲν τὴν ἕνωσιν τοῦ νοητοῦ καὶ ὄντως ὄντος παραδούς, χωρὶς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐναργῶς καὶ μηδὲ ἀξιῶν τῷ τοῦ ὄντος ὀνόματι τὸ αἰσθητὸν καλεῖν; Quegli uomini [Parmenide, Melisso] posero una duplice ipostasi: quella dell'essere che è veramente, dell'intelligibile, e quella dell'essere che diviene, del sensibile, il quale essi non ritennero opportuno chiamare essere in senso assoluto, ma essere che appare. Per questo afferma[no] che la verità riguarda l'essere, l'opinione il divenire. Parmenide, infatti, dice: [B1.28-32]. Ma anche una volta completato il ragionamento intorno all'essere che è veramente, e sul punto di introdurre [la trattazione sul]l'ordinamento delle cose sensibili, aggiunse: [B8.50- 53]. Dopo aver fornito esposizione sistematica delle cose sensibili, aggiunse ancora: [B19]. Ma come ha potuto Parmenide supporre esistessero solo le cose sensibili, lui che intorno alle cose intelligibili era stato in grado di condurre riflessioni di tale consistenza e mole da non 610 poter ora essere riportate qui? Come ha potuto trasferire le caratteristiche proprie delle cose intelligibili alle cose sensibili, lui che con chiarezza distingue tra l'unità dell'intelligibile e del vero essere e l'ordinamento delle cose sensibili e non ritiene opportuno indicare il sensibile con il nome di essere? Riflettendo sulle indicazioni qui fornite da Simplicio, e incrociandole con le sue stesse citazioni, dovremmo concludere che: (i) il poema si articolava in due sezioni principali, per le quali il commentatore trova conferma in B1.28b-32; (ii) il passaggio tra le due sezioni avviene ai vv. B8.50-53; (iii) il nostro B19 era apposto a compimento di quella che il commentatore designa come διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν (sulla scorta del διάκοσμος di B8.60): ciò non autorizza tuttavia la deduzione che esso chiudesse il poema1 . Ancora sulla doxa parmenidea Il contesto ci fornisce dunque una prospettiva d'insieme - ovviamente quella culturalmente e teoreticamente condizionata dell'intellettuale neoplatonico del VI secolo - sulla struttura del poema. Il proemio, in effetti, avrebbe, secondo Simplicio, delineato nel programma espositivo della Dea (B1.28-32) due ambiti: (i) il primo dedicato al «discorso/ragionamento sul vero essere» (περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγος), in altre parole alla «verità riguardo all'essere» (περὶ τὸ ὂν ἀλήθεια): nel lessico della tradizione platonico-aristotelica si tratta dell'ambito dell'«intelligibile» (τὸ νοητόν), che costituisce l'«essere in senso assoluto» (ὂν ἁπλῶς); (ii) l'altro, relativo all'illustrazione sistematica dell'«ordinamento sensibile» (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν, ma anche περὶ τῶν αἰσθητῶν διδάσκειν), si riferisce all'«essere in divenire» (τὸ γινόμενον), il cui statuto ontologico è quello di «essere che 1 Non tutti concordano su questo punto: Conche (op. cit., p. 265), per esempio, non concede che il frammento – naturale conclusione della cosmologia del poema – ne costituisse anche la vera e propria chiusa. 611 appare» (δοκοῦν ὄν): Simplicio insiste sulla sua natura «sensibile» (τὸ αἰσθητόν), dunque sul suo manifestarsi nell'esperienza. La trattazione specifica è designata – in contrapposizione alla verità che concerne l'essere in senso pieno - come «opinione riguardo all'essere in divenire» (περὶ τὸ γινόμενον δόξα). È chiara, nel contesto del discorso, l'interpretazione di Simplicio dei versi conclusivi (28b-32) del proemio: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα. La struttura effettiva del poema doveva, dopo l'introduzione, prevedere: (i) la rivelazione circa «di Verità ben rotonda il cuore saldo » (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ): si tratta di ciò cui allude Simplicio con περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγος; (ii) la ricostruzione effettiva (δοκίμως) di τὰ δοκοῦντα, delle «cose che appaiono», ovvero delle «cose accettate nelle opinioni», che corrispondono a quanto il commentatore designa come δοκοῦν ὄν: la rivelazione della Dea avrebbe dunque investito anche l'ambito «sensibile», proponendo appunto una διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν. Il contesto delle citazioni fa intravedere come, per Simplicio, l'articolazione del Περὶ φύσεως fosse essenzialmente positiva, non prevedendo una specifica sezione riservata all'esame degli errori umani – alle «opinioni dei mortali, in cui non è reale credibilità» (βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής) -, che doveva invece essere distribuito nelle altre due. Negli interrogativi retorici che seguono la citazione di B19, troviamo conferma di una linea di lettura del poema che, all'interno della tradizione platonica, ha per noi un importante precedente in Plutarco: ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς τὸ προσῆκον εἰς μὲν τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος 612 ἰδέαν τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν. ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεκ< ὲς ἦτορ >’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον, ‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ διὰ τὸ παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι. καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν; οὐκ ἔστιν εἰπεῖν. [Parmenide] non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna conferendo ciò che le è proprio, pone l'intelligibile nella classe dell'uno e dell'essere, definendolo «essere» in quanto eterno e incorruttibile, e ancora uno per uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile invece in quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è possibile vedere: «il cuore preciso della Verità ben convincente», che raggiunge l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e «le opinioni dei mortali in cui non è vera certezza», perché esse sono congiunte con cose che accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze. Come avrebbe potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il sensibile e l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus Colotem 1114 d-e), e nella dossografia peripatetica (Teofrasto): Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. 613 Parmenide figlio di Pyres, da Elea […] percorse entrambe le strade. Mostra, infatti, che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la generazione delle cose che sono, non avendo sulle due vie le stesse convinzioni: piuttosto, secondo verità egli sostiene che il tutto è uno e ingenerato e di aspetto sferico; secondo l’opinione dei molti, invece, al fine di spiegare la generazione delle cose che appaiono, pone due principi, fuoco e terra, l'uno come materia, l'altro invece come causa e agente (DK 28 A7). Ma chiaramente all'origine di questa valutazione delle prospettive (in termini di contenuto e struttura) del poema parmenideo troviamo l'analisi aristotelica: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...] ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1). Possiamo leggere il passo aristotelico proprio come un tentativo di sottrarsi agli schemi della originaria ricezione sofistica (giorgiana in particolare) del pensiero eleatico: Aristotele intende marcare, nello specifico, l'opzione teorica di Parmenide da quella di Melisso, il monismo «rispetto alla definizione (ovvero ragio- 614 ne)» (κατὰ τὸν λόγον) dell'uno, da quello «rispetto alla materia» (κατὰ τὴν ὕλην) dell'altro. Anticipando l'argomento di fondo della polemica plutarchea contro l'epicureo Colote, lo Stagirita poteva sottolineare come «ciò che è» (τὸ ὄν) è «uno» (ἓν) «secondo ragione» (appunto κατὰ τὸν λόγον), «molteplice» (πλείω) «secondo la sensazione» (κατὰ τὴν αἴσθησιν). Si evitava in questo modo di fare di Parmenide il sostenitore di un mero «uno-tutto» ovvero «essere-uno» (ἓν τὸ πᾶν, ἓν τὸ ὄν) - formule cui era stata ridotta l'essenza della filosofia eleatica soprattutto in alcuni dialoghi della maturità di Platone (Teeteto, Parmenide, Sofista, Timeo) 2 – che avrebbero ridotto il mondo molteplice e cangiante dell'esperienza a pura illusione. Come rivela il caso di Colote (e la risposta di Plutarco), si trattava effettivamente di una ricezione diffusa, probabilmente proprio sulla scorta dello schema gorgiano del Π ε ρ ὶ τ ο ῦ μ ὴ ὄ ν τ ο ς ἢ Π ε ρ ὶ φ ύ σ ε ω ς . Ripercorrendo le testimonianze e valutando gli interrogativi retorici che Simplicio faceva seguire alla propria citazione di B19 e dunque al riferimento al complesso della doxa parmenidea, appare giustificata una lettura "costruttiva" della seconda sezione del poema. In Teofrasto e Simplicio – che certamente disponevano di copie diverse del poema, trasmesse da tradizioni testuali almeno parzialmente alternative 3 - si conferma, in particolare, la prospettiva aristotelica di un doppio resoconto della stessa realtà4 : secondo ragione e secondo esperienza. Parmenide, in altre parole, pur avendo coerentemente messo a fuoco i caratteri dell'oggetto dell'intelligenza – e quindi correttamente distinto tra i due ambiti (τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ) -, avrebbe poi mancato di individuarne la specifica realtà intelligibile: come sottolinea Simplicio, egli di fatto «proiettò sugli enti sensibili quanto adeguato agli enti intelligibili» (τὰ τοῖς νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ). 2 Su questo in particolare Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, cit., p. 23. 3 Ivi, pp. 25 ss.. 4 Per questa linea interpretativa si veda J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 32 ss., in particolare pp. 38-41. 615 B19 e la doxa I tre versi del nostro frammento, poco più di una scheggia testuale, ribadiscono sinteticamente i termini della discussione: come abbiamo indicato in nota, la formula οὕτω τοι introduce effettivamente la ricapitolazione del discorso sulle cose «fisiche» considerate nel loro insieme (e ne traggono, in questo senso, la lezione «metafisica»5 ): οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ Ecco, in questo modo, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito sviluppatesi, avranno fine. A queste cose, invece, un nome gli uomini imposero, distintivo per ciascuna. Il punto di vista adottato - κατὰ δόξαν – giustifica l'insistenza sulla dimensione temporale delle forme verbali impiegate: ἔφυ, νυν ἔασι, τελευτήσουσι τραφέντα. Non è difficile intravedere la corrispondente prospettiva del νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, espressa in B8.5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν. Il rilievo del divenire passa, in vero, attraverso scelte espressive ben ponderate: a) il passato espresso con ἔφυ richiama etimologicamente (φύω) la centralità della φύσις (B10) nella ricerca condotta (διάκοσμος) nella seconda sezione del poema; b) il presente connotato avverbialmente (νυν) limpidamente evoca, per contrasto, il νῦν di B8.5, caricandosi, rispetto all'immutabile stabilità di quel contesto, di un senso di precarietà e sfuggente puntualità; c) lo sviluppo, il mutamento e la caducità sono resi come τελευτήσουσι τραφέντα, marcando, insomma, il nesso tra fine e compimento, con la ripresa di una forma verbale – τελευτάω - de- 5 Conche, op. cit., p. 265. 616 rivata da τέλος e τελέω, ma, nuovamente, con un valore diverso rispetto a quello di analoghi derivati in B8 (B8.4: ἀτέλεστον; B8.32: οὐκ ἀτελεύτητον; B8.42: τετελεσμένον): il senso è qui quello di «concludersi in quanto giunto al proprio fine e al proprio compimento»6 . Per la terza volta, dopo B8.38b-41 e B8.53, i versi del poema insistono sullo spessore linguistico della doxa: e ancora, come nei due precedenti, essenzialmente per rilevarne gli effetti distorcenti. L'origine dell'erranza umana, dello sviamento che gli uomini perpetrano e perpetuano nel linguaggio, risiede nell'ordinamento dei contenuti fenomenici all'interno di una determinata cornice linguistica, in cui appare implicita la possibilità di qualcosa di diverso dall'essere stesso7 . Non a caso l'interpretazione κατὰ δόξαν parmenidea si era aperta stabilendo principi (B9) di cui esplicitamente si escludeva la partecipazione al nulla. In questo senso, Ruggiu8 ha colto nel linguaggio di Parmenide - in particolare in questo passaggio - il tentativo di elaborare un lessico più vicino alla verità delle cose; come in B4, dove l'apparire era stato proposto non nei termini ontologici dell'«essere» e del «non-essere», ma in quelli della «presenza» e dell'«assenza». Uno sforzo che ancora ci riporterebbe ad Aristotele, che ne avrebbe colto alcuni aspetti nella sua polemica antieleatica: ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. 6 Ruggiu, op. cit., pp. 370-1. 7 Ivi, p. 370. 8 Ivi, pp. 370-1. 617 Coloro che per primi hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti, dall'inesperienza furono spinti su una via diversa: essi sostengono che delle cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò che si genera origina o da ciò che è o da ciò che non è; ma è impossibile da entrambi i punti di vista. Ciò che è, infatti, non si genera (dal momento che è già); né da ciò che non è è possibile si generi alcunché: è richiesto in effetti qualcosa che funga da sostrato [soggiacia]. Così si spinsero, aggravando le cose, ad affermare che non esistano i molti ma che esista solo l'essere (Fisica I, 8 191 a25 ss.).

 

 

Antonio Capizzi. Keywords: Velia, la scuola di Velia. Zenone, sono/fui, l’adolescenziale, conversazione, calogero, veliatichi, veliadi meleagridi, pandionidi veliatico, eliadico, meleagride, pandionide. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capizzi” – The Swimming-Pool Library.

 

Capocasale (Montemurro). Filosofo. Grice: “You gotta love Capocasale; my favourite is his ‘corso filosofico,’ which the monks rendered as ‘CVRSVS PHILOSOPHICVS,’ almost alla Witters! Capocasale multiplies the principles of reason – I thought there was just one – On top, he uses the trouser-word, ‘vero,’ – so he thinks he is philosophising about the ‘vero principio della ragione,’ or its plural! In fact, he is philosophising about conversational implicature!” Figlio di Lorenzo e Maria Lucca, sin da ragazzino aiuta il padre nel suo mestiere di fabbro ferraio. Nel tempo libero si dedica alla filosofia, mostrando grande attitudine nella filosofia romana antica in particolare. Con la morte del padre, avvenuta quando Capocasale aveva 15 anni, visse tra Corleto Perticara, Stigliano e San Mauro Forte, procurandosi da vivere come insegnante privato, dedicandosi contemporaneamente allo studio della filosofia e del diritto.  Dopo esser stato governatore baronale di Sarconi, incarico ottenuto appena ventenne, lasciò la Basilicata per trasferirsi a Napoli, conseguendo la laurea in giurisprudenza. Dopo gli studi universitari, insegnò filosofia nella scuola dallo stesso fondata a Napoli. Dal 1801 vestì l'abito talare e, dal 1804, fu nominato da Ferdinando IV precettore di logica e di metafisica all'Napoli.  Perse tale incarico con l'arrivo di Giuseppe Bonaparte: sotto il suo governo gli fu concessa solamente la docenza privata. Con la restaurazione, Ferdinando IV lo nominò vescovo di Cassano nel 1816. Capocasale, tuttavia, preferendo l'insegnamento, rinunciò alla carica, così come fece più tardi con l'incarico di pari grado conferitogli per la diocesi di Sora-Aquino-Pontecorvo. Sempre nell'ateneo partenopeo ebbe, dal 1818, la cattedra di diritto di natura e delle genti: i suoi teoremi, di stampo lockiano, ebbero una certa risonanza, tanto da essere citati da filosofi come Francesco Fiorentino, Giovanni Gentile e Eugenio Garin.  Alcuni suoi discepoli divennero importanti personalità culturali del tempo come Francesco Iavarone, Giustino Quadrari, Giuseppe Scorza, Gaetano Arcieri e Giuseppe Mazzarella. Sempre fedele alla monarchia borbonica, si schierò contro le insurrezioni carbonare del 1820. Dal 1822 fu precettore del futuro re delle Due Sicilie: Ferdinando II. Fu inoltre membro di varie Accademie come la Parmense, la Fiorentina, la Cosentina, l'Augusta di Perugia, Aletina e Renia di Bologna, degli Intrepidi di Ferrara, de' Nascenti e degli Assorditi di Urbino, dei Filoponi di Faenza. Altre opere:“Divota novena del gloriosissimo taumaturgo S. Mauro” (Roma); “Esercizio di divozione verso il glorioso confessore S. Rocco” (Napoli); “Cursus philosophicus” (Napoli); “Saggio di politica privata per uso dei giovanetti ricavata dagli scritti dei più sensati pensatori” (Napoli); “Catechismo dell'uomo e del cittadino” (Napoli); “Codice eterno ridotto in sistema secondo i veri principi della ragione e del buon senso” (Napoli); “Saggio di fisica per giovanetti” (Napoli); “Istituzioni elementari di matematica” (Napoli); “Corso filosofico per uso dei giovanetti”.  Dizionario biografico degli italiani -- un filosofo lucano alla corte dei Borboni. Quoniam philosophia est scientia, quae viam ad felicitatem sternit. Ea vero rationis solius ductu cognoscitur, ac demostrationis ope vernm investigat. In vero autem inveniendo methodus utramque facit paginam: patet primum philosophi studium esse debere, intellectum, sive facultatem cogitandi, ad veritatem methodice investigandam, ac diiudicandam aptum reddere, eumque mediis opportunis acuere, vel, si morbo aliquo laboret, salutaribus eidem mederi remediis. Et quia veritas per demonstrationem invenitur, et iudicatur. Demonstratio vero methodo perficitur, ut supra iam dictum est; liquet, ei pecessarium esse, mentem quoque ad demonstrationem, ac methodum adsuefacere, ut in eo habitum adquirat , in quo philosophi scientia consistit. Quamvis vero omnes homines naturali quodam verum cognoscendi, iudicandi, rationes denique conficiendi facultate praediti sint, eaque a multis usu, atque exercitatione ad summum usqne perfectionis gradum sit redacta: quum tamen plurimis erroribus sint obnoxii , nisi facul tatem illam regulis quibusdam certis , at que indubiis dirigant , disciplina aliqua in veniatur , oportet , quae regulas ac prae cepta tradat , quibus naturalis illa cogi tandi vis augeatur, perficiatur , et ad ve ritatis investigationem inoffenso pede dirigatur. Naturalis haec percipiendi , iudicandi , ratio cinandique vis LOGICA NATURALIS appellatur , quae qunn in casuum similium observatione, adeoqne in sola praxi consistat , non solum erroribus est obnoxía sed rerum caussas et rationes ignorans , confusam tantummodo co gnitionem , non vero scientiam producere pol est . Ex quo legitime fluit Logicae artificialis necessitas. Disciplina haec vulgo LOGICA ARTIFI Cialis appellatur, quam definimus per do ctrinam , qua regulae traduntur , quibus, humana mens in cognoscenda , et diiu ; dicanda veritate dirigatur. * * Vocatur haec a ' nonnullis PHILOSOPHIA RATIONALIS, ARS COGITANDI, et kat i Sony LOGICA ; 32 Logicae Prolegomena quae tantum abest , ut essentialiter a Naturali differat , ut sit potius distincta eiusdem explicatio , adeoque tanto illa praestantior % quanto distincta cognitio praestat confusae . Ex quo patet, Philosophum sola Logica natu rali esse non posse contentum , sed ei colen dam esse artificialem . 14 Quandoquidem autem Logica artifi cialis leges explicat naturalem iudicandi fa cultatem dirigentes: sequitur 1 . ut eas ex mentis humanae natura deducat, adeoque 2. mentis operationes prius, carum que naturam distincte explicare; deinde vero eam in veritatis investigatione , atque exa mine veluti manuducere debeat: uno verbo, ut prima theoriam , deinde praxin ostendat. Vltro ergo mihi sese offert genuina Logicae divisio, in THBORETICAM ET PRACTICAM. Atque hinc est, cur opusculum boc in duas partes distribuerimus : in quarum prima de mentis operationibus; in altera de legitimo carum usu , quantum satis erit, tractabimus. Quoniam autem humana mens tria bus modis res cognoscit; vel enim eas tan tummodo percipit , vel de iis iudicium pro fert , vel denique rationes conficit : * de tribus his mentis operationibus priore pår te agemus. Quumque veritates vel per se pateant , vel per rationem et meditationern inveniantur, vel denique ex aliorum scri Prolegomena. ptis hauriantur : inventae vero cum aliis communicentur : de omnibus his parte se cunda nonnulla haud proletaria monebi mus . } Experientia namque constat, nos omnis cognis tionis expertes in mundum prodire ( quidquid pro ideis innatis Platonici , et Cartesiani cla mitent ) , atque primo res simpliciter perei pere , earumque ideas adquirere , deinde bi nas inter se conferre, tandem eas cum aliqua tertia idea comparare, indeque novas verita tes deducere . Mentis actio , qua res aliquas sensibus obvias percipit , aut ab iis abstra hendo novas imagines sibi format, PERCEPTIO , sive idea dicitur : quum hinas ideas invicena confett, IVDICIVM : dum vero eas cum aliis comparat , atque inde novas veritates elicit RATIOCINIŲm nominatur. Nec aliae attente con sideranti mentis operationes occurrere pote runt . Scholion. De Logicae utilitate non est, quod plura dicamus. Quamvis enim quam plurimi eam scriptis suis ad astra tulerint; quisque tainen in se huiusmodi periculum facere poterit : nam qnidquid ex recta ra tione capiet emolumenti , id omne huic disciplinae se debere , aperto cognoscet. Prima mentis hnmanae operatio est SIMPLEX PERCEPTI , sive notio, quam de finimus per simplicem rei alicuius reprae sentationem in mente factam . praesentationem autem intelligunt adcura tiores assimilationem eorum , quae sunt exlra ens , in eodem *** . ** Dici quoque solet idea , conceptus , vel sim ** Per rea plex apprehensio , ut Scholis placuit. Sunt , qui perceptionem ab idea distinguendam pu tant, atque illam esse aiunt , mentis actio nem in obiecto percipiendo ; hanc vero ipsam abiecti imaginem menti percipienti obviam , Sunt , qui eas terminis tantum differre do cent. Quidquid id est , nobis placuit percep tionem cum idea confundere: adeoque nusquain hic de huiusmodi distinctione sermo cadet. Ideam alii definiunl per imaginem menti ob versantcm . Buddeus Phil. instrum . cum observ. alii per exemplar rei in cc gitante. Hollmannus Log. Sed hae , aliaeqne definitiones eodem redeunt. *** Repraesentationis vox absque definitione ad sumi poierat , quum sit cuique nota : sed ut methodici rigoris amatoribus nonnihil daremus eam ita explicavimus , sequuti Baumeisterum Quoniam itaque notio est rei reprae sentatio : in omni autem reprae sentatione duo considerarida veniunt, nem, pe modus repraesentandi , et obiectum , sive res ipsa quae repracscntatur : liquet , in qualibet idea itidem duo animadverti posse , scilicet percipiendi modum , et ob iecta nempe res perceptas ; quorum ille FORMA, haec MATERIA idearum recte di, cuntur . Si ergo ideae ad formam referan tur consideratio illa dicetur FORMALIS; si vero ad nıateriam, OBỊECTIVA, vel Rialis appellabitur , Et quia utroque re spectu ideae inter se differunt : de forma li , ac materiali earum differentia diversis sectionibus agemus. MATE B nos De formali idearum differentia Experi Xperientia abunde constat quaedam ita percipere , ut ca ab aliis in ternoscere possimus, quaedam vero non ita . Repraesentatio illa , quae sufficit ad rem perceptam ab aliis dignoscendam , idea di citur CLARA; OBSCURA contra , quae ad eam discernendam est insufficiens. Vnde idea recte dividitur in claram , et obscuram E. Rosae ideam claram habes , ei eam a lilio , hiacynto , aliisque floribus distinguere scias , et quotiescumque tibi occurrit , eam dem agnoscas ; contra si arborem peregrinam videas , eamque a reliquis plantis discernere nequeas, arboris illius ideam habes obscuram. Huiusmodi sunt ideae infantum recens nato rum , hominum bene potorum , eorumqne , qui lethargo oppressi reperiuntur. CLARITAS enim Physicis est ille lucis effectus, cuius operes externas circa nos positas alias ab aliis distingnere possumus; contra vero OBCVRITAS est claritatis absentia, scilicet tenebra rum eftectus : nam quun tenebrae in lucis privatione consistant , haec vero obiecta exter pa distinguere faciat ; deficiente luce , deficit distinctionis facilitas : adeoque obscuritas in distinguendi impotentia sita est . Quum res existentes innumeris de terminationibus, et circumstantiis involutae observentur , ut infra dicemus ; hae vero, nisi attente consideranti, sensuumqne aciem ad obiecta convertenti , innotescere non possint , ut experientia patet : recte infer tur 1. éo clariorem fieri ideam , quo plu . ra possunt in obiecta distingui ; * adeoque 2. ad claram idean adquirendam requiri sensus cum attentione coniunctos , qua des ficiente , ideas fieri deteriores ** Esenplo sit hono in maxima distantia con stitutus , qnem qui vilet , primo dubius hae ret , utrum corp is quidlibet sit , an vivens ; deinde in obiectum illud oculorun aciem at tente convertens , a motu animal esse compe rit , sed cuiusnam speciei , nescit ; propius ve ro'accedenten , ho nisen distinguit ; tandem ex corporis habiti, facie, aliis que circumstan tiis Titium agnoscit. Vides quan attente spe-. ctator consideraverit, ut Titium cognosceret! Quemadmodun ideae meliores funt , si ex obscuris clarae evadant , ex confusis distin ctae , ex inadaequatis adaequatae: ita deterio res redduntur, si ex claris fiant obscurae ex distinctis confusae ex adaequatis inadaequatae. Quia vero ab attentione penlet cla ritas idearum , eaque gralus ha bet , nec semper , aut in omnibus eadem est : liquet 3. res alias aliis clarius a no 7 38 Logic. Pars 1. bis percipi posse , ideoque obscuritatem dari non modo ABSOLVTAM sed RELATIVAM. Hinc 4. obscuritatis caussam plerumquc in hominibus , raro in re percepta quaeren dam esse ; ac proinde praecipitanter iu dicare illos , qui absolute obscura esse di cunt , quae eorum superant captum : quo ut quae ignorant ( ut Aesopica vul pes ) exsecrentur. * Obscuritas vel absoluta est , vel relativa. Illa habetur quum res percepta ab aliis prorsus internosci' non potest; haec autem , quando rem qampiam aliqui subobscure , quidam clar re , clarius alii percipiunt. Quod quum acci dit , illorum claritas respectu maioris horum claritatis est obscuritas relativa. fit , 21. Quoniam autem ad idearum clarita tem utramque facit paginam attentio , qua deficiente deteriores fiunt: con Sequens est 6. ut obscurae eyadant perce ptiones , si alicui meditationi defisi alia percipiamus, vel 7 si unico actu plura 0 aut animo subiiciamus, 8. denique si ab una perceptione ad aliam celerrime transeamnus. Et quia adfectus attentionem turbant , ut cxperientia docet : infertur 9. menten adfectibus agitatam * ad ideas cla ras vel numquam , vel raro admodum per, venire. Adfectus enim sunt motus quidam vehementiores appetitus sensitivi ex idearum obscuritate , et confusione orti , de quibus abunde in Psy chologia disseremus, adeoque iis praedominan tibus nullae , nisi obscurae confusaeve ideae haberi possunt. Si namque in ideis claritas et distinctio adesset , nullis adfectibus animus ve xaretur. Hinc ergo est , ut a Philosophis ad fectus inter errorum caussas enumerentur. E. xemplo sit homo ira aestuans , qui donec ea agitatur , nec res clare percipere , nec perce ptionum suarum conscius esse potest. Vid . Seneca de Ira Lib. I. cap. 1. et apud Virg. Aen. II. v. 315. Furor , iraque mentem prae cipitant.Vides hinc , obscuritatis caussas easdem esse , quae attentionem turbant vel minuunt : nem pe 1. distractionem , 2. obiectorum multipli citatem , 3. praeproperam festinationem , 4 . denique adfectuum praedominium. Quae omnia mentem frustra fatigant , et ad proficiendum în studiis ineptam reddunt. 22. Sed quia Philosophus non solis stare sensibus; rerum autem latebras et recessus idest caussas et rationes inve stigare debet: per se patet 10. eum claris notionibus adquiescere non pos * adeoque il . in distinctarum et adae quatarum perceptionum statu versari debe re ut infra dicemus. 2 se ; · Clarae namque ideae attento sensuum usu ad 40 Logic. Pars I. quiruntur; sensus autem , ut mox adparebit , res tantummodo exsistentes confuse repraesentant', in quarum cognitione nullum ra tio habet exercitium : nihil ergo Philosophus age Tet ; nec hihim quidem in scientia proficeret si claris dumtaxat ideis contentus rationem ne gligeret, nec in caussarum inve stigatioue adlaboraret. > 2 23. Eadem experientia docet , nos re rum quas clare percipimus , vel notas sive characteres quibus ab aliis discer nuntur , distincte nobis sistere posse , eo rum scilicet ideam claram nabere ; vel characteres illos invicem non posse digno sive ipsos obscure percipere. Re praesentatio clara' notarum obiecti , quod percipimus , idea dicitur DISTINCTA : repraesentatio contra notarum obscura, vo catur idea CONFUSA. Idea clara proin de merito dividitur in distinctam , et con fusan . seere 8 Si quis invidiam novit esse taedium ob alterius felicitatem , illius characteres sibi clare sistit , adeoque invidiae ideam habet distin ctam. Si vero coloris nigri notas distinguere nequeat , licet eum ab aliis coloribus discer nat , ejusdem ideam habet confusam : uti sunt omnes ideae colorum , saporum , sonorum , odo rum , etc. , quorum characteres prorsus igno ramus. Distinctio haec a Cartesio , et Leibnią * E. Cap. I. De Ideis. 41 tio inventa fuit : alii namque grammatica vo cum significatione decepti, ideas claras'ét di stinctas obscuras et confusas 'unum idemque esse docebant. Quum idea distincta sit notio clara notarum ; ad claritatem autem notionum permultum conferat attentio: consequens est 12 ut clarae ideae di stinctae fiant potissimum attentione , qua deficiente , etiamsi distinctae sint , confu sae evadant. Et quia singulae notae peculiaribus gaudent nominibus, qui bus exprimuntur : infertur CRITERIVM ideae distinctae id esse , si cogitala nostra aliis.cxponere, atque con is com municare queainus ; oppositum autem ess : indicium ideae confusae . Hinc 13. idcas confusas aliis referre volentes , objecta , quae confuse percepimus , ipsis ostendere, vel cum alia re , de qua ideam habent claram , comparare debemus. * Res clarior fiet exemplis supra allatis. Qui notionem invidiae habet distinctam , is eam verbis explicare poterit: quod recte ex sequetur , si notas , quib :is a :lfectuš iste ab aliis distinguitur , eau neret. Contra ei , quo modo coloris albi aut rubri nolas proferet , ut cum aliis eius notionenı corninunicet ? Pro cul dubio , ut ab illo intelligatur , colorem illum , aut rem quampiar confuse perceptam, ipsius oculis admovere, vel cum alia re iarna nota conferre oportebit , sicque in altero con fusa quoque idea orietur. Hinc est , ut colo rum ideas coeco nato nullo modo explicarc possimus , isque visu carens nullam , nequi dem obscuram , umquam huiusmodi notionem adquirere queat. ** 25. Porro rei , cuius distinctam habe mus ideam , vel omnes novimus characte res ad eam in statu quolibet agnoscendam sufficientes, et tunc idea distincta erit COMPLETA ; vel quosdam tantum · eosque insufficientes , eaqne INCOMPLETA dicetur . * Idea ergo distincta dispescitur in completam , et incompletam . * Sic invidiae idea iam tradita completa est : adsunt enim notae sufficientes ad eam in statu quolibet internoscendam. Si ve ro hominem cum Platone definires per ani mal bipes implume , notionem haberes incom pletam : * hae namque notae non sufficiunt ad hominem semper ab aliis rebus discernendum , ut ostendit Diogenes Cynicus , dum hanc Pla tonis sententian irridendo improbavit. Nec eam postea coinpletam reddere potuerunt Platonis discipuli , addito latorum unguium charactere : nusquam enim homines a simiis discernere illa nota valebat. Laert. Lib. VI. cap. 2. segm . 40 . ** Licet duo clarissimiViri Leibnitius , et Wol. Cap. 1. de Ideis. 43 fius semper et ubique in eamdem sententiam ierint : in hoc tamen hic ab illo discessit . Quumque Leibnitius omnem ideam distinctam completam esse docuerit : Wolffins contra eam in completam , et incompletam dividi debere , docuit et demonstravit. a * 26. Denique eadem experientia edocti scimus , nos quaedam ita percipere , ut non solum eorumdem characteres singilla tim agnoscamus , sed et novas characte rum notas enumerare queamus ; . quorum dam vero solis distinctis ideis adquiescere . Quum notarum characteristicarum notione gaudemus distincta ; idea totalis erit ADAEQUATA ; quum antem notas neb ; confuse repraesentamus, idea oritur INA DAEQUATA . Quo fit , ut distinctam ideam rursus dividanius in adaequatam , et inadaequatam . * E. g. Si quis invidiae notas rursus evolvat, sciatque taedium esse sensum imperfectionis , et felicitatem determinet per siatum durabilis gaudii : is invidiae idlea adaequata gandebit. Si vero in solis invidiae characteribus ail juie scat : nec ulterius in iis evolvendis progredia tur , tunc ideam habebit inadaequitam . Ob servandum tamen , quod quo novas notas , donec fieri possit , invenire liceat , eo adaequatior evadet notio. * Hanc porro doctrinam Leibnitio debemus , qui eam in Actis Erud. Acad. Lips. ann. 1684. semper 44 Logic. Pars I. p. 437. seqq. proposuit , eumque suo more sequutus est Wolffius Logic. cap. i . f. 9. seqq. * 27. ANALYSIS IDEARUM est formas tio idearum adaequatarum . Quumque idea fiat adequatioi, si novos semper cha racteres invenire liceat : patet 15. eo adaequatiorem fieri notionem , quo longius eius analysis procedere. Quoniam vero ob sensuura limites non possumus plura distincte percipere : infertur 16. nos in notionum analysi" in infinitum progredi non posse : ideoque 18. quum ad notas vel simplices , vel cuique claras perven. tum fuerit uiterius eam instituere prohi bemur. ** * Notionum analysis Medicoruin anatomiae simi lis est. Quemadinodum enim Medici corpus humanum in partes dividunt, easque depuo in alias aliasque particulas resolvunt , donec ad exilissima tandem filamenta perveniant , om nes interim earum connexiones, structuram, et proprictates attente perscrutantes : ita et Phi Josophi idearum noías singillatim perquirunt, easque iterum atque tertio in novas notas mente resolventes , minima quacque adcurate contemplantur. ** Sicuti ergo Medicis , quum ad indivisihiles particulas pervenerint , eas in novas rursus se care non licet : Philosophis etiam ea facultas Cap. I. De Ideis. 45 ademta est in analysi notionum , si vel ad simplicia et indivisibilia , vel ad clara et evi dentia fuerit pervenlum , vel finis obtentus sit , ob quem fuerat analysis instituta. SECTIO II . De obiectiva , sive materiali idearum differentia . 28. Haecaec de divisione idearum formali . Ad , materialem , sive obiectivam quod at tinet , primo res , quas nobis repraesen {are possumus , vel sunt exsistentes , vel proprietates iis communes. Quidquid exsi stit dicitur INDIVIDVVM , sive RES SINGULARIS: individuum autem defiuiri po test id , quod est omnimode determina tum . Repraesentatio ergo individui vo catur idea SINGULARIS sive INDIVI DVALIS. E. g. “Socrates”, “Plato”, Aristoteles, Caius, Titius , haec dumus , haec mensa , hic liber quem legis, sunt individua, quia in unoqucque eorum adsunt tales circumstaniiae et detern ina tiores , ut Socrates sit Socrates , et non Plato , Caius sit praecise Caius , et non alius : ita ut si aliqua earum desit , desinant esse quae prius erant . Hinc individuum idem est cum uno mathemat.co , quod concipitur tanquam 46 Logic. Pars 1. * > individuum in se, et ab aliis separatum . Iu re igitur individuum res singularis ; ideoque eius perceptio singularis pariter adpellatur. 29. Quamvis autem individua sint omni mode determinata hoc est innumeris circumstantiis involuta ( S. 27:), quae efficiunt, ut ea longe inter se differant : 11 bent tamen aliquas determinaliones , in quibus perpetuo conveniunt. ** Harum de terminationum complexus aliam ideam su periorem constituit , quae SPECIES dici. tur. Non iniuria ergo species a recentio . ribus definitur per similitudinem indivi duorum . Determinationis vocabulum , licet barbariem redoleat, iure tamen hic a nobis adhibetur , et quia civitate donatum , et oh termini pu rioris deficientiam . Absque definitione por, ro sumitur utpote experientia seusuque com muni satis notum ; eius vero completam no tionem dabimus in Ontologia , ubi methodici rigoris amatóribus abunde satisfiet. E. g. Socrates , Plato , Caius , Titius , li cet aetate , ingenio , roribus , conditione , habitu , ceterisque inter se multum distent, habent tamen commuue corpus organicum , et animain ratione praeditam . Duae hae de terminationes speciem constituunt , qnae ho m, dicitur. Hinc vides , haec omnia individua in eo siunilia esse , quod sint homincs. Si plurium specierun pariter cir cumstantias consideremus videbimus eas in plurimis toto , ut aiunt , coelo differre ; in aliquibus vero perpetuo similes esse . Atque hae determinaciones , in quibus spe. cies , licet diversissimae , perpetuo conve . niunt , novam ideam , eamque supremam , constituunt , quae GENVS vocatur. Genus ergo recte definitur per similitudinem specierum . E. g . “homo”, “equus”, leo , canis , quantumli bet in tot determinationibus invicem diffe rant , habent tamen in vita et sensione con venientiam. His circumstantiis conflatur genus, cui animalis nomen inditum . Observes ita que , omnes illas species in hoc esse per petuo similes , quod animalia nominentur, adcoque legitimam esse definitionem generis traditam, 31. Quum genus sit similitudo specie rum ( S. 30. ) , idque constituatur a com plexu circumstantiarum , in quibus species perpetuo conveniunt ; in speciebns autem aliae determinationes exsistant , quibus il lae inter se differunt: sequitur 1 , ut non abs se harum proprietatuin di versificantium summa a Philosophis voce tur DIFFERENTIA SPECIFICA * E. g. Invidia et commiseratio id habent commune , quod sint taedium . En genus. In eo ve ro differuut , quod invidia sit taedium ob alte rius felicitatem ; commiseratio vero ob infelici tatem. Id ipsum constituit differentiam specificam. 32. Repraesentatio , quae exhibet pro prietates rebus exsistentibus communes , di citur idea VNIVERSALIS . Et quia notio nes generum et specierum determinationes continent pluribus speciebus vel individuis communes ( SS. 29. 30. ) : infertur 2. i deas generum et specierum esse universa Jes . Rursus quoniam hae ideau couficiun tur , si determinationes aliquas ab aliis se paratas consideremus; unum vero sine altero considerare dicitur AB STRAHERE ; liquido patet 3. ideas uni versales esse quoque ABSTRACTAS. * Hinc est , ut vulgo dicatur , ideas esse vel concretas , in quibus omnes simul adsunt de terminationes ; vel abstractas , quae aliquas tantum exhibent mentis abtractione ab aliis seiunctas: quod idem est , ac si dicas, omnes ideas vel singulares esse , vel universales. 53. Ex dictis porro consequitur 4. ideas universales non exsistere , nisi in singula ribus , nempe speciem ac genus nusquam inveniri , nisi in individuis ; adeoque 5. plus esse in individuis , quam in specie ; plus quoque in speciebus, quam in genere.  Ex quo patet 6. quam scite Logici pro puntiaverint : Notionis extensionem esse in retione inversa comprehensionis. * Regula haec aliter ab aliis enunciatur , sci licet : Ono maiorem habet idea comprehensio nein , eo minorem habet extensionem , ct con tra. Comprehensio dicitur complexus determi dationum , quae ideam aliquam constituunt. Ex tensio vero est consideratio subiectorum , qui bus delerminationes illae tribui possunt. Vid . la Logique, ou l'art de penser. part. 1. chap. 6. Quum ergo individuum omnimodas determina tiones complectatur ( 9. 28. ) , ad unum tantum subiectum extenditur ; genus vero paucissimas comprehendens circumstantias ( 5. 30. ) ad plu rima subiecta referri, nemo non videt. Posita igitur regulae illius veritate, nullo negotio intelligitur 7 . nec ab individuo ad speciem , neque a spe cie ad genus umquam posse duci conclu sionem ; ac proinde 8. non licere generi tribui , quod speciei convenit , aut ab illo removeri , quod huic repugnat ; contra vero 9. a genere ad speciem , atque ab hac ad individuum bene concludi , ideoque 10 . individuo dandum , quod speciei convenit, pariterque speciei tribuendum esse quidquid generi convenire observatur. ** * T.I. C 50 Logic. Pars I. * Et recte ! nam nam in individuo comprehensio maior est , extensio minor , quam in specie, ut et in hac relate ad genus. Quidquid ergo de individuo enunciatur , eius proprietates differentiales ; si ita loqui fas sit, respicit , quae in speciem non ingrediuntur: ac proin de de hac enunciari nequit . Eodem modo , quae de specie dicuntur, differentiam tantum specificam spectant : genus autem proprieta tes multis speciebus communes continet ; adeo que speciei attributa nullo modo cum genere coniungi possunt. Res clarior fiet exemplo. Socrates est individuum , in quo omnimoda invenitur determinatio ; id vero sub hominis specie comprehenditur. De So crate' recte enunciabis , quod fuerit philoso phus , quia attributum hoc ei convenit ob scientiam , qua praeditus erat ( S. 3. 4. ) , quaeque inter Socratis proprielátes individua • les enumeratur. Possesne id de specie , idest de homine pronuntiare ? Minime quidem : in determinationibus enim hominis specificis non scientia, sed scientiae capacitas , nempe ra tio ', invenitur. Contra hanc regulam peccare solent susurrones quidam , qui vitia vel de fectus in aliquo, vel aliquibus individuis for san occurrentia toti speciei , coelui , vel clas si imputare non erubescunt. ** Quum enim genus in specie , species pariter in individuo , contineatur ( §. 23. ) : quidquid generi conyepit , cum specie coniungi ; et quik uid speciei convenit, de individuo quo Cap. I. de Ideis. 51 que enunciari debet aeque, ac ab his removeri quod ab illis discrepat .E. g. Animal sentit , ergo homo sentit : homo est intelligens , quia libet igitur homo intelligens est etc. 35. Res exsistentes rursus vel inira nos sunt vel extra nos. Prioris classis sunt omnes animae actiones ; posterioris vero obiecta quaecumque sensibus nostris obyer santia , vel mutationes in corpore humano ciusque organis supervenientes . SENSV INTERNO percipiuntur, sive REFLEXIONE , hae contra SENSIBVS EXTERNIS. Liquet ergo 10 , ideas omnes singulares sola sensionc adquiri * Illae * Intra nos sunt affectus , et cogilationes vo strae, quae interno sensu , conscientia refle xione ( haec opinia idem significant ) perci piuntur. E. g . si quis tristitiam , vel metum sentiat , ciusque idcam sibi formet , hanc sensu intern :) , sive conscientia , nempe atlen tione ad proprias actiónes adplicatà , adqui sivisse dicitur. Extra nos porro sunt omnia alia obiecta etsistentia sensibus obvia . Sic in deas omnes singulares, quaecumque illae sint, sensibus percipi , nemo ignorat : superfluun enim ' esset id ' exemplis illustrare. ** Cuilibet autem de plebe noturn est , exter sensus quinque numerari , visum nein pe, auditum , olfactnm , gustum , et tactum , nos C 2 52 Logic. Pars 1. iisque totidem organa esse destinata ; visui scilicet cculum , auditui aurem , olfactui na res , gustui linguam , tactui denique specia tim manus , generaliter vero totam corporis humani superficiem . 36. Quum ergo res exsistentes sensibus percipiantur ; ideoque ideae sin gulares sensione adquirantur ; ex singula ribus vero universales sola mentis abstra ctione formentur ( S. 32. ) : liquido infer tuir 11. omnes ideas vel SENSIÚNE, vel ABSTRACTIONE fieri dooque adeo esse ideas adquirendi mcdos. ** * nem * Et hoc est , quod a multis docelur , omnes ideas partim SENSIONE, partim ABSTRACTIONE , partim CONSCIENTIA , vel REFLEXIONE adquiri. Vid . Heinec. Logic. S. 22. Nos enim sensio cum conscientia et reflexione confundi debere , docuimus supra ſ. 35. ** Addunt alii tertium adhuc ideas formandi modum ARBITRARIAM scilicet COMBINATIONEM , veluti quum quis ideam hominis cum idea equi componit , novamque Centauri notionem conficit : cuius census sunt etiam notiones montis aurei , intellectus perfectissimi etc. , quae nihil aliud revera sunt, nisi ice rum prius sensione adquisitarum combinatiores ab intellectu , vel phaniasia in unum redactae, pro quarum veritate generalem tradunt regulam : Si ideae arbitrio coniunctae sibi con tradixerint , impossibiles sunt , adeoque fal sae ( quae alio nomine CHIMERICAE , a Scola sticis ENTIA RATIONIS vocantur ) ; si vero inter se non repugnent , pro possibilibus, adeoque pro veris sunt habendae. TITIAS esse , 37. Ex quibus omnibus plane consequi tur 12. recte adfirmari a Philosophis , i deas omnes ex earum origine vel ADVEN. vel FACTITIAS . * INNA TAE namqne ab omnibus negantur, quid quid de iis praedicent Plato , Cartesius eorumque asseclae , quorum tamen au ctoritas tanta non est, ut eorum insomniis a sanioris Philosophiae cultoribus praebea tur adsensus, ut in Psychologia distinctius adparebit. Per adventitias enim intelligunt notiones sen sique adquisitas ( $. 36. ) : per fictitias vero illas quae vel abstractione vel arbitraria combinatione fiunt. Plato namque animas humanas ab aeterno praeexsistentes posuit singulas singula astra inhabitantes, qnibus Deus monstruvii universi naturam , ac leges frtales edixit : sed quum a diis inferioribus Dei ministris mones 'vocat in corpora fatali necessitate inclusa fuissent eo rum omnium , aeternis ideis prius e rant intuitae, statim ob quos dae. quae in с 3 51 Logic. Pars I. ' Jitas , non nisi longo sensuum usu , àc nedita tione pristipam cognitionem recuperare. Plat. in Timaeo. Hinc vulgatum eius effatum: Stu et discere idem esse , ac reminisci . Cicero Tuscul. quaest. 1. 24. Illas ergo ideas, quas antea habebant , vocavit innatas . Sed quum id purum putumque sit Platonis som nium , nequaquam erimus de eo refutando solliciti . Cartesius hoc nomine donavit facul tatem homini competentem omnia intelligibilia videndi. Tom. I. ep. 99. Respons, ad art. 14: progranm . ann . Sed pèr hanc rectam rationem intelligi , quisque videt, quam proin de ideam adpellare est potentiam cum actu confundere. Cartesiani denique per ideas in natas intellexerunt axiomata quaedam eviden tia , quae ab ipsa cogitaudi facultate ortum ducunt, veluti : totum csse maius qualibet sui parte ; non posse idem simul csse , et non esse ctc. At quis rerum omnium ignarus iguo rat , haec esse pura judicia, quae a termino runi illorum relatione , ac ab ideis totius et partis , exsisteniiue et non exsistentiae, sen su et abstractione prius adquisitis immediate pendent ? Quae quum ita sini , ideas invatas nullo modo dari posse , merito concludimus. 38. Ideae praeterea sunt aliae SIMPLICES , a quibus nihil mente abstrahere pos sumus, ** aliae COMPOSITAE , bus per mentis abstractionem plura divi dere , atque invicem separare licet . ** in qui Ex quo necessaria consequutione conficitur 13. simplices ideas claras esse , at confu sas ; compositas vero etiam distinctas. Tales sunt ideae omnes colorum , sonorum saporum , voluptatis , taedii , quas ideo aliis explicare non possumus , nec illarum chara cteres invicem discernere , ut ita üs'definien dis omnino incapaceś simus. ** Sic in idea mensae cuiusdam separatim con siderare possum matericm , formam , figuram , colorem , magnitudincm , et id genus alia. His addunt aliqui ideas ASSOCIATAS , si ve coniunctas , eas scilicet , quae ita simul a nobis adquisitae sunt , ut quum una nobis occurrit , altera quoque menti obversetur : veluti si rosain olim videns odoris simul no tionem accepi , quotiescumque odorem illum sentio , rosae etiam idea menti fit praesens.Denique quuin vel substantias , vel modos , vel relationes pobis repraesentare queamus , ideae sunt vel SVBSTANTIARVM, vel MODORVM, vel RELATIONVM. Per SVBSTANTIAM intelligimus ens, cui atiributa ei accidentia tan quam subiecto , : veluti inhaerere conci piuntur . . *. , MODI sunt adfectiones , et attributa substantiis inhaerentia , a qui bus + D4 56 Log. Pars I. sola mentis abstractione separantur. RE LATIONVM denique ideae sunt , quarum unius consideratio alterius considerationem includit ita , ut haec sine illa non possit intelligi. *** figura , * Veluti diximus , ut nostram imbecillitatem adivemus : id enim in substantiis creatis lo cum habet , non autem in increata , in qua nulla inter essentiam et attributa , nec inter ipsa attributa realis distinctio dari potest, ut in Theologia naturali demonstratum ibimus. * MODI vero sunt vel INTERNI, si in ipsa substantia. occurrant , ut dimensio , color etc. in corpore ; vel EXTERNI, si in hominis mente sint , et tamen substantiae tribuantur, veluti quum dicimus- virtutem ma sni aeslimatam , quae tamen aestimalio est in hominum opinione. **** Relationes sunt ideae omnes quantitatum , item Patris, Domini, Regis, et cetera id ge pus. Videatur abunde ea in re Clericus in Logic. part. I. cap. 4. § . 2. seqq. , et in Arta Grit. part. 1. cap. Ex quibus plane colligitur 14. nas in substantiis nihil aliud cognoscere, nisi mo dos, ips4s vero substantias prorsus ignora re ; idcoque 15. substantiarum ideas esse in relatione ad mentem nostram omnino sed tantummodo abstractas et confuses, ram intelligibiles ; . quinisomo ló . rerun natu eo magis agaosci, quo plures modi nobis innotescunt; maximam adhiben dam esse cautionem in perpendendis re lationibus , ne vel earum fundamentum non recte considerantes , vel absolute de relativis ideis enunciantes , praecipitantiae errorisque arguamur, * Quantum haec doctrina roboris habeat in se dandis hominum adfectibus , dici profecto, non potest. Exemplo sit is, qui se paupe rem esse dolet , quia divitum opes non ha bet, et id absolute profert. Si vero relationis pondus expendat, observetque alterum omnia bus necessariis rebus egentem : declamare de sinet , quia sibi tantum superflua desunt. Be ne ergo Seneca in Troad . v. 1016. Est mi ser nemo , nisi comparatus, Schol. Explicatis iam notionum diffe rentiis, ad huius doctrinae usuin accedamus, quem paucis , iisque perutilibus , include mus regulis. Quisquis ergo Philosophiae operam navas si solidae cognitionis es cupidus , sequentes animo infigito. CANONES. i . Curato , ut rerum , quas pertra ctare cupis ', claram semper et distin ctam cognitionem adquiras : attentionem proinde , quae ad idearum perfectionem utramque facit paginam , in omni re adhibeto. Quoniam vero Matheseos studium mirifice at tentionem acuit : hinc est , ut hodie studio rum initium a Mathesi capiatur , exemplo Platonis ., qui neminem erudiendum suscipie bat , nisi Geometria instructum . 2. In studendo praeproperam vitato festinationem ; praecipue in primis scien tiarum principiis diu haereto , nec, nisi iisiprobe intelleétis, ad cetera pergito .* * Quantum enim festinatio idearum claritati osobsit, diximus in . 21. adeoque in adole. soentibus naturalis illa festinatio , et praeci pitantia caute est obtundenda , ne superficia rie discant et errores saepe labantur. Vnde VERVLAMIVS opportune docuit : Ius venum ingeniis , non plumas vel alas , sed plumbum el punderą auditinus. Caveio , ne nimia rerun varietate mentem obruas, neve plura semel simul que addiscenda putes . - Panca discito , eaque bune digesta contemplator. * Quum eaim attentio ad plura dividitur, minor fit atque inepia : proindeque ideae deteriores fiant: ita ut de iis perbelle dicat Seneca Ep. 2.: Nusquam est , qui ubique est. Qua de re Plinius VII. ep.9 . praeclaram il lud monitum studiosae iuventuti perutile prae buit : Non multa 7, sed multum . to 3 * AC 4. Priusquam ulterius progrediaris ad idearum tuarum relationem attendi si qua sitt :: ne relativa pro absolu tis accipiens in errores incidas, 5. Mentis solitudinem , animique tran quillitaiem amato ; ne affectibus attentionem iurbes , iran , tristitiam , an liaque pathemata ; adeoque sodalitates , compotationes ., spectacula fugito. ** * Bene monuit Ovidius Tristium l. v . 30. Carmina proveniunt animo dédlicta serenos * Comessationibus enim corporis inertia aus getur , mens obstupescit et habetatur , ani mus ad voluptates inclinatur s spectaculis ve vero attentio distrahitur, i sensimqué a studüs 1 C 6 6o Logic. Pars I. animus avertitur , quo fit , ut aut nullae ad quirantur ideae , vel saltem obscurae, a qui bus errores ortum ducere infra docebimus. aut mie 6. Quae legisti , audivisti > ditatus es , ita familiaria tibi reddito , ut eorum notas aliis indicare queas . Ea proinde vel in chartam coniicito, te ipsum saepe examinaudo , idcarum tuarum distinctionem experitor. ** * vel * Stilum Cicero vocat oplimum , et praest an tissimum dicendi effectorem , et magistrum. De Orat. l. 33. ** Notum est vulgatum illud ; docendo disci mus . Rationem huius canonis invenies supra.  nes , utpote rei immaterialis a stiones, nullo modo sensibus percipiuntur: ea non nisi signis, quae in sensus incur ruot;; abis potefieri possunt. SIGNUM enim est, res quaedam sensibilis quae praeter sui notionem excitat in mente ideam alterius rei, Sed quum ideae ng  ** strae ordinario vel voce, vel scripto patefiant: binc prioris gencris signa VOCES, posterioris TÈRMINI, ntraqne vero VERBA dicuntur. Hinc verba per idearum nostrarum signa recte definiuntur, ut et voces signa quaedam sono articulato prolata, mentis nostrae conceptus indicantia. Signa quidem generatim appellantur, quia praeter soni vel scripturae; nationum nostrarum ideam in audientibus vel legentibus excitant. E. g. Lacrimae sunt signum tristitiae: quia quum hominem videmus lacrimantem, illico eum tristitia adfectum esse cogitamus. Fumus quoque est SIGNVM ignis, quia eo viso non solum fumi, sed ignis etiam notionein ad quirimus. Quae de signorum diversitate Scha Jastici docent  utpote ad rem impertinentia, praetermittimus: astin Ontologia quaedam observatu digna obiter attingemus. Cave tamen credas, voces esse SIGNA conceptuum necessaria. Quum enim eaedem res non iisdem vocibus a diversis gentibus exprimatur: liquet, tas ab hominum ARBITRIO pena der, adeoque esse SIGNA conceptuum arbistraria. Cuique vero notum est, ad sona nar ticulatum sex requiri, nempe PVLMONES, qui follis vice funguntur, ORGANUM VOCIS scilicet trachea, eique apposita larynx cum suis apparatibus; LINGVA, cuius vis Braliones vocem prae ceteris articulatam red dunt; PALATVM, nempe fornicem, ubi lingua stras vid rationes exercet; quatuor DENTES incisores dicti, quibus sibilantes litterae efformantur, et in quos nedum lingua, sed et labia vibrant; ac denique LABIA, quae in se invicem et in dentes, inpingunt, ut fu sjus coram ostendemus. Ex qua definitione patet verba et voces inter se differre: quum verba et iam scripto, voces autem non nisi sono articulato proferri possint. Nos ideo voces adhibere, ut ab aliis intelligamur; proindeque. Iita loquendum, easque vo ces adhibendas esse, ut alii, quibuscum loquimur, mentem nostram intelligere pos sint; adeoque non licere terminis in anibus vet notionem deceptricem continentibus uti; sed tantum ii , qui ali quam notionem habent adlixam; quitinimo, singulis terminis eamdem semper ideam, eamque claram, respondere debere; ideo que cos, qui vel obscuram, vel non semper eamdem exprimunt notionem, om nino esse proscribendos. Alterius vero mentem intelligere dicimur quum, terminis easdem notiones adggimus, quas loquens cum iis coniunxit . mus TERMINUS INANIS dicitur, qui nulla , habet notionem sibi coniunctam: adeoque nis hil, praeter solam soni ideam, excitare potsest: quapropter vocari solet vor mente case' sâ , vel sonus sine menie, a Scholasticis terminius insignificativus. Talis est versus ille, quemia Nimiodo prolatum in infimo Tartari aditu fingit Dyinus Poeta Etruscus: Raphel mai umech zabi alini. Dant. Inf. cant: Quoties autem vocem proferentes, aliquid cogitare videinur, quum tamen nihil cogita puldaunque sententiam cum ea donium ginius: tunc terninus ille NOTIONEM DECEPTRICIM continere dicitur. Huiusmodi sunt casus Epicuri, sensibilitas physica Hel yetii, historia e rationis penu depromta Boulangeri et Rousseau, quorum analysin cora , et in Metaphysica conficiemus. Si nam que vox aliqua vel non eamdem seniper, vel obscuram notionem habeat adfi xam. In primo casu auditor dubius haerebit, quamnam cum ea loquens, coniunxerit ideam, adeoque cui non intelligent. In secundo ves ro, quomodo mentem eius poterit intelligere, qui se non intelligit TERMINVS CLARVS est, qui claram coiitinet notionem, OBSCVRYS, qui eamdem habet obscuram. Terminusi qui eamdem semper exprimit ideam, FIXVS vel DETERMINATV ; qui vero incon der stantem vagunite tabet significatum, VAGVS aut INDETERMINATVS dicitur, Plurės autem termini eandem rem significantes, SYNONYMA, sive termini synonymici. adpellantur, Scolasticis eum adpellare placuit univocum, sive unicam rem indicantem, ut ignis, aqua, A Scholis dicitur “aequivocus”, hoc est plura aeque significans. E. g. Cultus varios habet significatus: saepe enim pro adoratione Deo debita: quandoque pro honore: nonnumquam pro corporis, vel animi decore; non raro quo que pro telluris cultura accipitur, Tales sunt gladius, ensis, qui idem ar morum genus exprimunt. Eos e Scholis qui dam vocant “paronymos”, id quod ad intelligendas barbaras huiusmodi loquutiones breviter adnotavimus. Non heic inquirere licet: utrum in quolibet idiomate revera dentur synonyma? quaestio namque haec ad philologiam pertinent. Philosophia contra in exprimendis animae cogitationibus usum loquendi servat, et colit, quem penes arbitrium est, et ius, et norma loquendi (Horat. De Art. Poet. 8. 27). Terminus CONCRETVS est qui qualitatem expriinit sabiecto inhaerentem, ABSTRACTUS vero qui qualitatem illam a subiecto separatam indicat, Terminus PROPRIVS dicitur, quando rem exprimit, cui significandae est destinatus; IMPROPRIVS vero, sive METAPHORICVS ad rem aliam indicandam transferatur ob quamdam similitudinem . si Sic “pius” est terminus concretus, “pietas” terminus abstractus , Concretus porro a Wolffio dicitur, qui notionem exprimit concretam (sive singularem); abstractus contra, qui ideam continet abstractam (sive universalem ).  Haec autem omnia idem significant. E. g. Vox oculis proprie sumitur, si organum visui destinatuin indicet. Ubi vero Cicero Corinthum Graeciae oculum adpellat, eius uippe ornamentum ac pracsidium: improprie sive metaphorice vocem illam usurpat, Hinc vide , voces improprias esse vagas et indeterminatas. USVS LOQVENDI est significatio vocum in communi sei mone propria . At quoniam in familiari sermone voces aliquae occurrunt quas intelligimus quidem, li, cit ad notiones ipsis adiixas animum non hae voces dicuntur termini FAMILIARES, et ad usum loquendi non advertamus pertinent, Si quis ergo oculi vocem ad significandum organum sensorium visui destinatum usurpet, is loquendi usum servabit. Tales sunt voces omnes, quas frequentissime proferimus, ac memoriae mandavimus: ees enim intelligimus, sed usu et consuetudine adeo familiares evaserunt, ut eas proferentes ad sensum notionesque ipsis adfixas nusquam attendamus. Patet igitur Philosophum servare debere usum loquendi, adeoque terminis claris, fixis, atque in sensu proprio usurpatis ei utendum esse. Quod idem est, ac si dicas a terminis vagis, obscuris, impropriis, et familiaribos esse abstinendum: aliter enim non intelligeretur. Hic porro. Ex pluribus vocibus inter se apte connexis oritur SERMO, sive ORATIO sive PROPOSITIO. Definitur autem sermo per nexium plurium terminorum mentis nostrae conceptıbus exprimendis idoneum . а Logicis dispesci solet in CIVILEM, et TECHNICVII, sive eruditim, quorum ille in vita civili ab omnibus; hic in coinmunicandis ideis ad disciplinas pertinentibus, vocabulorum technicorum pe , ab eruditis adhibetur. Nisi enim ideis nostris explicandis sit idoneus, non sermo, sed confusus inanium vocum cumulus dici poterit. Dicuntur autem verba, vel voces technicae, quae ideas scientificas quibusdam disciplinis peculiares, usu annuente, exprimunt: cuiusmo di non pauca occurrunt in qualibet disciplina. Schol. Quae hactenus de vocibus dicta sunt, inania faere evaderent, nisi doctrinae usum auditoribus nostris ostenderenus. Quae igitur de iis observanda putamus paucis, isque tam familiari quain erudito sermoni inservientibus, complectemur re gylis. Philosophus ergo noster scquentes observet CANONES. Antequam oum aliis congrediaris, tecum attente perpendeto, quid cogites: Cogitationes porro tuas totidem vocibus exprimilo, quot ideas hubes. Quantum adiumenti adfcrat hic canon adolescentibus, ia promtu est. Quun enim fis familiarissima sit inanis illa et garrnia loquacitas, fua fit, at persaepe in te veritatis notam incurant des alimchanab inconsiifera to loquendi puriniz násvatur; facile parei, cur qui cogitationibus suis atteindlit', nulla , nisi benedigestum , emitiere posse verbum . Caveto, ne ideam soni habens, rei quoque notionem habere te credas ; aut voces coniunctas intelligere quas disiunctas intelligis. Falluntur enim persaepe homines , quum ter minos inanes, et notionem deceptricem con. tinentes effutiunt , in quibus solam ideam $ 9 . ni habent, et nihil cogitantes aliquid se cogitare creduat. E. g. Idea materiae et idea cogitationis possibiles sunt, pariterque voces, quibus illae exprimuntur singulae intelliguntur. Coaiunclae vero impossibiles evadunt, atque adeo intelligi nequeunt. Ecquis enim materiam cogitantem exsistere posse imquam probavit ? Vid. Inst. nostr. Meiaph. P. 11. Cap. 4.  eas 3. sum loquendi semper servato, nec novas temere cudito voces: quod si ad id quandoque necessitate cogaris, adcurate definito, ne obscurus fias. In hanc regulam peccatur, si quando vocabula technica, utut civitate donata, furene novitatis amore mutantur; iis novae voces substituuntur, quamvis rem, de qua a gitur, adcurate exprimant. Et si houe termini philosophici, reiecta barbarie, pristinae restituuntur puritati, ea non novatio dicen et proda est, sed renovatio, idest vocum ad pro prium avitumque decus restitutio Peregrina vocabula Latino, vel Italico sermoni ne iminisceto, nisi vel Tocendi, vel amici cuiusdam oblectandi caussa: alias eniin in paedantismum Empinges. Vid. Heineccium in Fundam . Stil. cultior. Id vero egisse Ciceronem ex eiusdem scriptis didacticis, et Epistolis ad Atticum abunde colligitur. Quum eniin paedantismus sit inanis glorio lae cupiditas in minotüs , ineptisque rebus sectandis quaesita; paedagogi vero , a quibus hoc nomen obvenit, id quoque habeant in vitio , qnod singulis verbis latinas interse runt phrases ac textos : ideo hanc notain incurruut quicumque, vel ad ostentandam e ruditionis niultiplicitatem , vel ob nimium tem poribus inserviendi studium , nullum , nisi pe regrino sale conditum , queunt formare ser monem . 5. Si aliis displicere non vis , quoties cumque loqui oportuerit , modesto vultu atque amoeno fuam proferto sententiam: ne docere ex cathodrá potius , quam veruin dicere , videaris. 7Est et haec paedagogorum nota , qui pueris in docendo imponere adsueti, inagisiral e illud supercilium ubique servant , seque invisos au dientibus , maximo veritalis detrimento , red dunt. Vid . Buddei Oratio de bonarum littera rum decrcinento nostra aetate non tenere me tucndo. Dea rei distincia completa verbis expressa dicitur DEFINITIO. Res vero ipsá , sive definitionis obiectum, vocatur DEFINITVM. Ordo igitur po stálat, ut post'ideas earumque signa; bre vein de ddinitionibus tractationem hic sub iungamus, Quid sit idea distincta , et qua ratione ad quiratur , dixiinus supra . seq. De idea completa cousule , quae breviter do cuimus g. 25 ; diffusius enim hic , quae de illa dici merentur , enodabimus.Quemadmodum antem idea voce prolata di citur terminus , isque clarus si claram expri mat notionem; ad exprimendam, vero ideami distinctain , sive ' emuinerando ; il dias characteres , non uno , sed pluribus claris opus est termiuis : ita complexus ille yocum , * Cap. HI. De definitionilus. 71 hoc est idea distincta completa sermone expli cata , definitio dici consuevit; adeoque non abs re tractatus bic doctrinain sequitur ter minorum . 2. eas ** ne 49. Ex qua definitione consequitur 1 . in definitione notas et characteres enume rari oportere , qui sulliciant ad definiturn in statu quolibet agnoscendum, et ab aliis rebus distinguenduin ; notas tales esse debere , ut nulli , nisi so li definito in tota eius extensione , conve niant ; quare 3. merito a Logicis ad firmari , definitionem neque latiorem que angustiorem sno definito , sed ipsi aco, qualem esse debere , ut sibi invicem sub stilui possint. *** * Id autem , per quod res ab aliis rebus distin guitur , eius essentia a Metaphysicis adpellari consuevit : inde ergojest , ut definitionem Lo gici esse dicant orationem , qua rci essentia explicatur. Quia vero per extensionem intelligimus quod cuinque subiectum , cui determinationes ideam aliquam constituentes tribui possunt; perinde est , ac si dicas , definitionis notas tales esse debere , ut omnibus subiectis, spe ciebus nempe , et individuis sub definito con tentis conveniant. Porro inter characteres il los insunt proprietates genericae , et specifi ** Logic. Pars I. *** Si cae , quae integram definili essentiam expo. nunt , et repraesentant. Non iniuria igitur adfirmari solet , definitionem ex genere et differentia specifica constare debere. Si namque definitio talis non sit , ut possit definito substitui , vel ( ut aliis placet ) cam eo reciprocari , vel illo latior , vel angustior erit , adeoque deficiens. Substitutio autem in co consistit, ut definitio pro subiecto , defini tum pro attributo , et contra, adsumi possit. E. g. Spiritus est substantia intellectu et vo luntate praedita : contra vero substantia intel lectu et voluntate praedita dicitur spiritus. 90. Ex eodem quoque fluit 4 in defini tionem ingredi non posse , nisi ea , quae Jei perpetuo et constanter insunt , idest ATTRIBUTA, vel ESSENTIALIA; proin deque 5. locum in ea non habere ACCIDENTIA , seu MODOS. * * Quaenam sint essentialia , et attributa , pate bit in Ontologia. Id unum hic notasse sull ciet , tam essentialia, quam attributa rei cou stanter ac immutabiliter inesse : nam attributa sunt eiusmodi characteres , quorum ratio suf ficiens cur rei insint , in eiusdem essentia et natüra continctur : ut sunt tria latera et tres anguli in triangulo. Quoniam vero definitio est idea rei distincta; haec autem est no  nec tio clara notarum ( 5. 23. ) : sequitur ut ea vocibus claris sit exponenda , obscuri quidquam continentibus; ideoque 7. nec vagis ( $ . 43. ) , nec metaphoricis nec negativis ** terminis in illa sit locus. Imo vero 8. eam in vitio poni perspicuum est , si sit IDENTICA vel CIRCVLVS in definiendo committatur . Si tameu termini definitionem ingredientes ob scuri quid habere videantur , prius adcurate definiantur , ut claritatem adquirant. Sic in vidiae definitionein supra allatam nemini proferre licebit , nisi prius taedii si gnificatus alia definitione sit determinatus. Terminis negativis concipitur definitio > si explicet quid res non sit : ut si dicas , invi dia non est commiseratio. Hinc vides, eam esse vagam et indeterminatam , adeoque defi niti ideane inde oriri confusissim un , quod est contra definitionis indolem: Exceptio tantum datur in rebus contradicto riis nullun inedium adinittentibus , quarum una recte definita , altera negativis terminis explicari potest. Sic ens simplex non immeri to dicitur quod partibus caret , substantia , quae non exsistit in alio , tamquam in subie *** Definitio identica est , quae idlem per idem explicat, cuiusmodi suut nonnullae Scholarum cio etc. definitiones quas confusiones rectius dixeris. Exemplo sit quantitatis definitio ab iis allata per accidens, a quo res dicitur quanta . Quid , quaeso , haec verba significant , nisi quod quantitas sit quantitas ? Cui vero usui definitiones istae esse possint , tironibus ipsis iudicandum relinquimus. **** Circulus enim Geometris est figura plana linea curva in se redeunte terminata : in defi niendo ergo circulus committitur, si in evol vendis definitionis characteribus , eorumque novis definitionibus formandis , in aliquam ipsarum definitum ingrediatur. Tunc enim per definitum explicaretur id , per quod defini lum ipsum explicari deberet; adeoque res re diret ad definitionem idemlicam , quae in vi to posita est . Illa notas et characteres e numerat sufficientes , quibus definitum ab aliis rebus in siatu quocumque discerni possit ; haec autem rei definitae genesin et originem exponit, ** unde et GENETICA dicitur. * Per definitionem nominalem veteres intelligc bant grammaticam vocis explicationem , qua vel radix sive origo nominis investigabatur, et tunc Etymologia dicebatur : vel multiplex eiusdem significatio , eoque casu Homonymia; Cap. III. De definitionibus. 25 vel denique plures voces eumdem sensum ha bentes, et Synonymiae nomine veniebat. Quae enim nobis nominalis est , realis inter illos audiebat. ** Nominalis ergo est definitio spiritus , si eum definiveris per substantiam intellectu et volun tate praeditam : realis autem , si invidiam definias per taedium ob alterius felicitatem : in ea enim eiusdem caussa et origo explica tur. Vides hinc , nominales definitiones esse arbitrarias : reales contra necessarias. > 53. Si vero idea rei distincta quidem sit sed incompleta : tunc non definitio , sed DESCRIPTIO nominatur ; adeoque in descriptione accidentia qnoque locum inve piunt , qnae quum in individuis tantum concreta observentur, hinc est, ut res sin gulares describantur, abstractae vero deti niantur; ** proinde illae Oratorun et Poe tarum hae Philosophorum propriae sint . Descriptio itaque , licet plures enumeret no tas ; quam definitio , eas tamen ad rem in sta tu quolibet agnoscendam exhibet insufficien tes. Tales notae non exsistunt , nisi in rebus singularibus ;, utpote omnimode determinatis: universales namque ab iis mentis abstractione erguntur, paucio resque adeo, ac sufficientes ipsis distinguendis . 76 Logic . pars I. > continent characteres. Inde ergo fit, ut ha definiri possint, illae tantum describi. Intelligitnr hinc: cum generum et specierum definitiones apud Philosophos inveniamus, in dividuorum nihil nisi meras descriptiones Poetis ac Oratoribus familiares , et si ab his definitiones proferri videmus , eas vel incom pletas novimus, vel magno verborum ambitu expressas , ubi accidentia attributis , caussas effectibus permixta observamus , quas tamen Philosopho imitari nefas erit , quippe cui idearum analysis , essentiae rerum investiga. tio , verborum praeterea praecisio in deliciis esse debent. Schol. Superest , ut quae studiosae iu ventuti utilitatem adferre possunt, ea pau eis exponamus regulis huius doctrinae usum continentibus. Philosophiae igitur initiatus, si quid a studiis suis commodi percipere cupit , sequentes animo imbibat CANONES. 1. Definitiones , utpote rei naturam et essentiam explicantés , ciim cura disci to , ' ạtque teneto . ' Iudicium porro cum m moria coniungito : ideoque aliorum definitionibus ne adquiescito ; sed ope rum dato , ut eas intelligas , et ad tru tiram revoces. re Sunt enim, qui soli memoriae consulentes , quidquid in aliorum scriptis repererint, id omne discunt , ac turpe putant ab eo discedere . Hinc fit, ut si memoriae pondus inutile au feras, nihil, praeter arroquarov quoddam , maneat. Homunciones isti memoriae dumtaxat exercendae intenti , iudicii vero prorsus ex pertes , libros quosvis sine delectu memoriae mandare adsueti , innumeris snnt expcsiti er roribus ; quotcnmque eorum oculis subiiciun tur. Ne igitur adolescentes , qui memoriam tantum in Scholis huc usque exercuerunt , eamdem premant viam , sibique pessime cou sulant : visum est , cautionem hanc eo neces sariam , quo prima scientiarum hic funda menta sternuntur , ipsis suggerere et inculca re, ut iudicium excolentes in aliorum senten tiis ad examen rcvocandis , et ad eruendas inde propria meditatione veritates apti red dantur. ver 2. In legendis Auctorum libris , prum phrasiumque lenociniis ne conti eto : sed ut sententiam ipsis subiectam lare , ac distincte intelligas , pro vi ili curato. Ita vitabitur stupida illa aliorum sententiis adquiescendi consuetudo , quae in caussa fuit, ut liberculi aliquot ex transmontanis, transma rinisque regionibus huc appulsi stilo quodam auribus pruriente tot incautos captarint ado D 3 78 Logic. pars. I. lescentes , quos inter crassae incredulitatis te nebras errabundos non sine magno dolore vi demus. Hi namque culpabili ignorantia verbis tantummodo adquiescentes, nec sententias in tellexerunt, nec eas ad trutinam revocare sunt ausi , iudicandi quippe facultate destituti. 3. Rerum, quas nondum distincte in telligis , definitiones proprio marte con ficito , ut ex iteratis' actibus , continua que exercitatione habitum in eo adqui ras. Res quidem non parvi momenti erit, multun que laboris impendendum , pauco forsan aut irrito eventu . Animo tamen non deficiant a : dolescentes : ab exiguis enim initiis maxima procedunt , atque experientia tandem , qui sit huius canonis fructus , addiscent. Poterit autem quisque imitando incipere , experiundo prosequi , ac notionum analysi sednlam na vans operam felici demum exitu proficere. Vi de quae docebimus infra. Caveto, ne res omnes definiri pos. vel debere, credas ; * aut definitio nes verbis diversas re quoque differre putes. ** * Videantur interim a nobis ante dicta G. 27. Gap. III. De definitionibus. 79 ¥ Si namque dantur synonyma , verba nempe et phrases eumdem habentes significatum, quidni definitiones illae verbis diversae synonymicis erunt expressae terminis , adeo que re unum idemque significare poterunt ? 5. Si e Philosopho Orator aliquan dofieri cupis , definitiones pro definitis adhibeto : tunc enim auditorum animos inani verborum ambitu non fatig abis solidaeque doctrinae clarissimum dabis indicium . Exemplo sit elegantissima M. Ant. Mureti pe riodus Part. I. Orat. 1. ubi de laudibus Theo logiae acturus , amplificat syllogismun quam brevissimum has continentem propositiones : Facultas hominem Deo con ugens est omnium praestantissima. Egpyas a eius talis est . Nam si eorum omnium , quae in hac inmensa re rum universitate cernuntur, unumquodque per ficiendi sui desiderio tenetur ; et animus no ster ad similitudinem Divinitatis effictus tan to perfectior est, quanto propius ad illud , a quo ductus et propagatus est , exemplar ac cedit : dubitari profecto non potest , quia ea sit omnium praestantissima facultas , quae , quoad eius fieri potest , cum humanis divi na copulando , mortalitatem nostram , quantum illius imbecillitas patitur, Divinae natura e ar ctissima colligatione devincit. Vides hic Theo D 4 80 Logic. pars 1. logiae definitionem , oratorio licet more pro latam , multum orationi pulchritudinis ac di gnitatis adferre. 6. Definitionem tuam , si ab aliis di stingui exoptas , efformare curato ; id que obtinebis, si intellectuales morales que virtutes tibi comparare studueris. * Hi namque definitionis characteres esse de bent. Quod ni facias in vulgi turba confu sus eris , nomenque tuum in tenebris , ob scurumque manebit ila , ut vel patrio , vel alio adpellativo nomine indigitari debeas. Notional Otionum analysin in adaequatarum idearum formatione consistere , snpra iam ostensum est. Porro in hac o peratione ideam aliquam in partes , sive notas dividi , hasque rursus in alias disper tiri , quisque novit qui earum naturam habet exploratam . Tunc igitur idea illa ut totum consideratur , characteres autem ut eius partes : adeoque non abs re analysis idearum verbis expressa DIVISIO nominatur , * quae recte definitur , quod sit to tius in partes resolutio . * Quum autem in divisione novae notarum de finitiones suppeditentur: iure doctrinam hanc definitionibus subiungimus. 2 55. Quoniam vero quidlibet ut totum considerari potest : variae totius relationes sunt enatae. Et quidem 1. totum essan tiale quod constat ex partibus ad ajus essentiam pertinentibus, 2. totum integra le , compositum nempe ex corporibus , quorum snmma eius integritatem constituit, 3. genus, quod plures species suo ambitu comprehendit , 4. subiectum , quod plura accidentia sustinet , 5. accidens quod pluribus subiectis inhaerere potest, 6. caus sa , quae plures producit 7 effectus, qui a pluribus potet procedere caussis. Quidquid tandem pro ratione obiectorum, circa ' quae versatur in tot partes distribui potest , quot sunt objecta . Inde ergo est , ut va riae a Logicis tradantur divisionis species veluti TOTIVS sive essentialis , sive in tegralis , in suas partes, GENERIS in suas species subordinatas , SVBIECTI in sua Accidentia in suos effectus, EFFECTVS CAVSSAE , ACCIDENTIS in sua snb 7 , D 5 82 Logic. pars 1. iecta , rei in suas caussas , denique caiusvis per sua OBIECTA. Primae classis est haec : Homo dividitur in animam et corpus ; vel as dividitur in duo decim uncias. Secundae : Animal dividitur in hominem , et brutum. Tertiae : Homo est , vel doctus vel indoctus. Quartae : Bonum est. vel animi, vel corporis. Quintae : Philoso phiae dogmata alia intellectuin instruunt, a. lia voluntatem dirigunt. Sextae : Veritatis impugnatio, vel ab ignorantia, vel a malitia procedit. Septimae denique : Philosophia theo retica alia circa res corporeas, alia circa incorporeas et intellectuales versatur. 56. Totum illud , quod in divisionem cadit , DIVISUM ; partes vero , in quas dispertitur , MEMBRĀ DIVIDENTIA no minantur. Sin membra haec in novas rur sus partes resolyamus., SVBDIVISIO di citar. * * E. g. Homo dividitur in partes suas essentia les animam nempe et corpus ; hoc autem in caput , truncum o et artus reliquos. En subdivisionem , 57. Ex membrorum itidem dividentiam numero nova quoque divisionis oritur dif ferentia. Si namque duo fuerint membra Cap. IV. De divisionibus. 83 dichotomia sive DIMEMBRIS ; si tres ? trichotomia seu TRIMEMBRIS ; quatuor tetrachotomia hoc est QVA TRIMEMBRIS divisio, appellabitur . SI Sic bimembris erit divisio lineae in rectam , et curvam , trimembris trianguli in aequila terum , isosceles, et scalenum ; quatrimembris denique parallelogrammi in quadratum , rc ctanguluin , rhombum , et rhomboidem ., 58. Quoniam divisio est totius in par tes resolutio ; totum autem ae quale partibus simul sumtis esse debet : consequens est 1 . ut membra dividentia simul totum adaequare debeant divisum adeoqne nec plus illo, nec minus compre hendant ; * 2. ut non sibi coincidant, sed repugnent, sintque per novas definitiones , easque oppositas , distincta ; ** 3. ut ex ipsa rei dividendae natura petantur , scili cet in tot membra totum dividatur , capax est ; 4. denique ut ad confusio nem vitandam prius idea totalis ab am biguitate liberetur , posteaque divisio insti tuatur . i quot *** * Contra hanc regulam peccant , qui angulum dividunt in rectilineum et curvilineum , vel qui lineam esse aiunt , vel rectam , vel curvam & derari potest: vel mixtam . In primo enim casu membra di videntia simul sunt diviso minora ; in se cundo autem eodem maiora. ** Huic quoque regulae adversantur ii , qui bo. num dividunt in honestum , utile , et iucundum: haec enim membra simul in uno coexistere debent, ut genuinam boni denominationem tue ri possit : adeoque non sunt repugnantia . Peccant etiam ii , qui licet totum in membra opposita distribuant , ea tameu definitionibus non repugnantibus determinant, ut quum cns in simplex et compositum diviserunt, et hoc esse dicunt, quod partibus constat : illud contra definiunt per id , in quo nihil consi *** Repréhensionem ergo .eruditorum merito incurrunt Ramistae , qui tam superstitiose di .chotomiis adhaerent , ut in plura membra totum dividere irreligiosum putent. Nec ali ter iụdicandum est de iis , qui nimiae mem brorum multiplicitatis sunt amatores . Idem enim vitii, inquit Seneca , habet nimia , quod nulla divisió. Ep. 89. 59. Quum autem divisiones et subdi visiones potionum analysin contineant, haec autem in idearum adaequa tarum formatione consistat, ideo que ad maiorem distinctionem in nobis producendam sit comparata : sequitur 5. ut divisionibus aeque , ac subdivisionibus, quae iisdem ' reguntur regulis , omnia vi tentur , quae confusionem adferre possunt; proindeque 6. liquido patet, non licere p? as ter necessitatem subdivisiones multiplicare, ne memoria fatigetur , ac intellectui veių. ti tenebrae offundantur , Schol. Haec de divisione . Ad hujus porro doctrinae usum nunc transeamus quem paucissimis inde nascentibus include mus regulis . Logicae itaque Tiro utilissi mos aeque , ac necessarios hosce discat CANONES, In dividendo subdividendove non aliorum systemata , sed naturam tantum consulito . * Confusionem aeque , ac tae dium vitare curato. * Hoc namque modo nec Ramistarum supersti tiosa restrictio , nec Scholasticorum nimia di visionum membrorumque multiplicatio locum habebit. Natura enim omnium optima, et ad curatissima est magistra. 2. Divisiones ne per saltum facito. * Ordinem ac seriem in unaquaque re ser vato. Dicitur autem civisio per sattum , quae ordi... nem non scrval , et in qua ea , quae in sub divisione cxprirai deberent , comprehendun tur : e.g. si ideam diviseris in claram et ina daequatam , divisionem conficies per saltum; inadaequatam enim quae in subdivisionem ingredi deberet in divisione locum habere observas. Series ergo atque ordo ne pertur betur, quisque in studia incumbens cavere stu deat. CAPVT QUINTVM De iudiciis , et propositionibus , 6o. Hactenus de ideis , earumque ana lysi, quantum instituti brevitas tulit, actum . Eas vero si comparemus , scilicet si duas ideas inter se coniungamus vel separemus, alia mentis oritur operatio , quae IVDI CIVM adpellatur. Est autem iudicium duarum idearum comparatio earumque relationis perceptio. Iudicium porro ver bis expressum dicitur PROPOSITIO vel E NUNCIATIO. ** * E. g . Si ideam spiritus cum idea indestructibi litaiis conferas , videasque unam alteri conve nire , tunc spiritum esse indestructibilem ndi cas : contra , si indestructibilitatis ideam cor Cap. V. De iud . et prop . 87 separas: haec poris notioni non convenire observes ,corpus non esse indestructibile colligis. In primo ca su ideas coniungis ; in altero mentis operatio , qua earum relationem ex pendis, iudicii nomine venit. ** Nonnulli discrimen inter haec duo nomina statuunt: ut prius locum inveniat, si in syllo gismo spectetur ; posterius vero , si extra id inveniatur. Sed in re tam parvi momenti diu immorari, foret ineptum. 61. Quoniam iydicium duas ideas compa rat , et si verbis exprimatur , propositio di citar ( $ . 60. ) ; idearum vero signa sunt voces seu termini: liquet, quam libet enunciationem duobus constare termi nis , quorum ille , cui aliquid convenire vel discrepare ennuciatur, SVBIECTVM ; is vero , qui subiecto tribuitur vel ab eo removetur , ATTRIBVTVM vel PRAEDICATVM nomiuatur , qui duo simul pro positionis EXTREMA dici consueverunt. Quumque eorum nexus verbo substanti vo exprimatur : merito vox illa ex hoc verbo desumta , quae propositionis extrema coniungit , COPVLA vocatur. E. g. In hac propositione, “Deus est aeternus,” Deus est subiectum , quia ipsi tribuitur aeternitas ; aeternus dicitur attributum, quia Deo convenire enunciatur ; vox deniqne “EST”, quae duo haec extrema coniungit, atque unum al teri convenire indicat , copula , hoc est coniunctio , adpellatur. Hinc ergo colligitur, quain cumque propositionem SUBIECTO, COPVLA, et ATTRIBVTO constare debere , ut enunciatio LOGICA PERFECTA dici pos sit. Si namque horum aliquis lateat , CRYPTICA, vel IMPERFECTA dicilur , quia naturalis compositio crypsi aliqua tegitur: id autem accidit, quum verbuin aliquod copulae et attributi vices sustinet e. g. Deus mundum creavit : idem enim esset ac dicere : Deus est Creator mundi. Est et alia propositionum crypticarum species , iu quibus sub uno verbo tota enunciationis latet compositio per ellyp sin eruenda : ut in illis : veni , vidi , vici : hic namque tres iusunt enunciationes ex iis dem verbis repetendae , nempe: “Ego fui-ve nens , ego fui videns , ego fui vinccns.”  QvanVandoquidem in qualibet idearum comparatione sex potissimum con fiderari possunt, scilicet: materia , sive ideae quae comparantur; forma, seu comparatio ipsa ; qualitas comparationis; eiusdem quantitas ; objectum, 6. denique evidentia relationis : ideo sub totidem adspectibus propositiones intueri possumus ; videlicet, ratione MATERIAE, FORMAE, QVALITATIS, QVANTITATIS, OBIECTI, et  EVIDENTIAE. Quamvis autem hunc ordinem divisionis natura suppeditet : liceat nobis in hac tractatione qualitatem ante omnia perpendere , utpote quae in aliis distributionibus usui esse debet; quaque postposita , nonnulla obscuritate laborarent. Propositionis QVALITAS consistit in extremorum combinatione tione. Quum ea coniungimus , scilicet prae vel separa dicatum subiecto convenire enunciamus ADFIRMARE dicimur; NEGARE contra, si illa seiungamus, seu unum ab altero discrepare pronuntiemus. Recte igitur omnis propositio, si qualitatem spectes, dividitur in AIENTEM et NEGANTEM. E. g. Quum dico, “Mundus est contigens”, praedicatum cum subiecto coniungo, adeoque de mundo adfirmo esse contingentem. Quando vero enuncio, “Mundus NON est aeternus”, extrema seiung , idest aeternitatem a mundo removeo et hoc est quod dicitur negare. Ex quo vides, negationem (“NON”) copulae praepositam reddere propositionem negantem: quod si non copulam, sed terininorum ali quem, vel eius partem negatio afficia , non negans, sed INFINITA orietur enunciate. E. g. Marcus Aurelius Romano Imperio pote ral non nocere, quia Philosophus. Distinctio haec aliter ab aliis enunciatur, scilicet in adfirmativam et negativam . Vtrum que apte. 64. Si ad propositionum materiam attendamus, eae sunt vel SIMPLICES, vel COMPOSITAE. SIMPLEX enunciatio dicitur, cuius termini plures non sunt sed unuin habet subiectum , et unum prae dicatum; COMPOSITA vero, quae plura > Cap. V. De iud . et prop 91 continet vel subiecta, vel attributa; eaque est vel EXPLICITA, si compositio sit mania festa, vel IMPLICITA, Scholastico nomine EXPONIBILIS , si compositionem habeat latentem , et paullo obscuriorem. Addunt alii enunciationem COMPLEXAM eamque haberi aiunt , quoties terminus ali . quis propositionem contineat incidentem sibi adnexam , quae , licet ad essentiam proposi tionis non pertineat , ad eam tamen intelli gendam plurimum confert , exprimiturque per pronomen relativum QVI. E. g. Plato , qui divinus fuit dictus , ideas innatas admisit. Propositio illa , qui divinus fuit dictus , in , çidens est. Sed distinctio haec in Logica aut parvi , aut nullius fere est momenti. Simplex ergo erit propositio : Deus est ae. ternus , iten que : aer est gravis. *** In quo vero consistat palens , vel latens compositio , ex sequentibus abande patebit , ubi de explicitarum implicitarum que enuncia tionum speciebus sermo erit. Id porro sedulo observandum , in compositis non unam , sed plures contineri enunciationes , id quod ex earum analysi poterit elucescere. EXPLICITA enunciatio dividitor in CONDITIONALEM; CONIVNСТАМ; DISCRETAM; CAVSSALEM; DISIVNCTAM et RELATAM. Conditionalis, alio nomine hypothetic , est, quae praedicatum habet subiecto tributum sub aliqua conditione: e . g. “Si mundus est ens contingens , non exsistit a se” -- in qua prima pars conditionem , altera propositionem continet. De hac autem observandum. I. conditio existentiam non largitur : visi enim veritatem adquirat , enunciatio vera esse non potest. Sic si dicas, “Si navis ex Asia venerit , centum tibi me daturum promitio”: promissio vera non erit , nisi navis ex Asia redux fuerit ; 2 . conditio impossibilis habet vim negandi. Et -recte : nam conditio impossibilis numquam in exsistentem abire poterit ; adeoque enunciatio nullibi veritatem adquiret. Vnde idem est di cere : si digito Coelun tetigeris , centum ti bi dabo , ac si diceres : numquam tibi dabo centum : conditio namque impossibilis est. Coniuncta , sive copulativa dicitur , in qua termini ita connectuntur, ut de pluribus su biectis idem attributum; vel plura altributa de eodem subiecto enuncientur. E. g. “Iustitia et prudentia sunt virtutes”; “Deus est aeternus et omnipotens”.  Disiuncta, vel disiunctiva est , in qua uni subiecto plura tribuuntur praedicata, vel u Cap. V. De iud. et prop. 93 num attrubutum pluribus subiectis , ut plu ribus unum , vel uni plura conveniant , licet indeterminate. E. g. Aut doctus eris , aut in doctus. Quae de hac observari merentur , con fer in S. 58. cur ( 1 ) Caussalis est , in qua ratio additur , praedicatum subiecto tribuatur. E. g. Vitia nostra , quia amamus , defendimus: Politicas quia prudentiae regulas tradit , sedulo exco lenda, 1 Discreta dicitur , quae duo de eodem s biecto judicia continet qualitate diversa : ut illud Horatii. Coelum , nou animum mutant , qui trans mare currụnt. Item illud Terent. andr. 1. SC. 2 . Davus sum , non Oedipus. Relata , seu relativa est, cuius una pars ab altera vim sunnit, ad eamque refertur  ut il lud Virgilii Georg. II. v . 291. et quantum vertice ad auras Aetherias, tantum radice in Tartara tendit. IMPLICITAE vero species sunt EXCLVSIVA;  EXCEPTIV;  COMPARATA RESTRICTIVA: licet alii quoque inceptivas , desitivas, et 'reduplicativus adiungant. Exclusiva est, in qua sensus duplicatur per particulas exclusivas solum, tantum, dumta xat etc. , estque vel exclusi praedicati, e. g. oculus tantummodo videt. Exceptiva est, in qua particulae exceptivae praeter, nisi, et similes, sensum multiplicant. E. g.: “Omne ens, praeter Deum , est contingens.” Comparata cicitur propositio, vel particu la quaedam comparativa relationem adferat inter subiectum et praedicatum, ita ut ge mipus inde emergat sensus e. g., “ira est amore validior.  Restrictiva denique est, quae multiplicem continet sensum per particulas restrictivas. quatenus , in quantum , quoad etc. geminatum. E. g.: Ilomo , quoad corpus ', est mortalis. INCEPTIVAS vocant, quae actionem aliquam in principio enunciante, ut: successio temporum a creatione incoepi ; DESITIVAS, inquibus ejus cessatio et finis praedicatur, ut: tutela pubertate finitur: REDVPLICACIVAS denique , in quibus subiectum geminalum at liud iudicium continet tacitum. E. g. “Corpus, qua corpus est , a spiritu differt. Sed de his plura coram. Si enunciationis FORMAM spectemus, erit NECESSARIA, CONTINGENS (fortuitam Cicero adpellat), POSSIBILIS, IMPOSSIBILIS: in quibus si necessita , contingentia , possibilitas etc. reticeantur, ABSOLVTAE dicentur ; si vero exprimantur, MENTALES. Necessariam dicimus, cuius extrema ita contiunguntur, ut aliter se habere non possint. E. g. “Circulus est rotundus”. Contingens est, cuius termini nullam neces sariam habent connexionem, sed ita cohaerent, ut aliter esse queant. E. g.: “Crastinus dies erit serenus”.  Possibilem vocamus, in qua attributum sn biecto non repugnat, ut cera liquescit. Impossibilis dicitur proposition, cuius termini inter se repugnant, ut, “Circulus est quadratus”. Ratione OVANTITATIS enunciatio dividitur in VNIVERSALEM, si attri butum subiecto in tota huins 'extensione conveniat; PARTICVLAREM, si ad aliquas tantum species, ant individua in subiecti notione contenta extendatur; denique SINGVLAREM, si individuum subiecto exprimatur, Addunt alii inde finitam, sed eam non esse ab universali dstinctam, infra abunde patebit. in. Alia universalem vocant propositionem, qua ratio sufficiens, cur praedicatum subie cio tribuatur, latet in ipsa subiecti natura, scilicet, si praedicatum sit attributum essentiale subiecti. Ita haec enunciatio, “Homo est libertatis capax”, est universalis tum quia subiectum in tota eius extentione sumitur nullus enim homo invenietur, nullus enim homo invenietur, cui libertate careat; tum quia ratio sufficiens , cur libertas homini trihuitur, latet in ipsa hominis ESSENTIA et natura , hoc est, ut Scolastici aiunt, rationalitate. Signum universitatis in aiente propositione est “OMNIS” (italiano: “ogni”); in negante NVLLVS. Quae de universalitate metaplıysica et morali Philosophi docent, ea hic persequi brevitas non patitur, sed in ipsis praelectionibus aliqua no tabimus. Particularem propositionem alii esse dicunt, in qua ratio sufficiens; cur praedicatum subiecto naturam est repetenda; E. g. “quidam homines sunt crudili”. Vides hic subiectum non in tota sua extensione accipi, sed ad aliqua tantum individua extendi, ita ut ratio sufficiens, cur homini eruditio tribuatur hominis naturam inveniatur, scilicet in studio aique exercitatione. Particularitatis nota est QUIDAM, ALIQVIS; in negante vero additur particula NON.  E. g., Livius Romanorun historiam ad sua usque tempora scripsit. En propositionem singularem : subiectum enim est terminus singularis. 6g. Ex quibus omnibus consequitur v . ad essentiam propositionis universalis non reqniri notam uuiversitatis, sed eam pro lubitu exprinii vel' omitti posse; INDEFINITAM dici propositionen in qua pota reticetur ac proinde recte a Philosoplus adfirmari, propositiones in definitas aequipollere universalibus; qui nimmo, signum universale numquam efficere posse, ut enunciatio talis evadat; falli ergo eos, qui universalem propositio hem defipiunt per eam, cuius subiectum signo aificitur universali; particula rem facile in universalem commutari pos se, si subiecto addatur ratio suficiens, cur ei convcniat allributum, Ecquis enim propositionem hanc: “Omnis homo est doctus”, ideo universalem esse aufirmabit, quia signo universali subiectum adficintur? Hinc si propositionem universalem particularibus , vel particularem universalibus terminis signisque exprimamus a veritate deficiet, ut suo loco dicemus. Sumas e. g. hanc propositionem: “Quidam homo est philosophus”, habes propositionem particularem. Adde snbiecto caussam, cur de homine esse philosophum enunciatur. scilicet scientiam; eamque sequenti modo exprimito: “Omnis homo scientia praeditus est philosophus”, ex particulari in universalem abibit. Mirum quantum transmulalio ist haec in scientiis prodest. Ab ea enim pendet propositiomm analysis; puta earumdem resolutio in hypothesin ct thesin. Nobis in secunda part , ubi de experientia sermo erit , huius modi commutationis usus erit obiter attingen dus. Iuvat hic compendii loco addere , veteres harum propositionum differentiam quatuor vocalibus indicasse: “A”, “E”, “I” et “O”, id quod se quentibus expressere versiculis: Asserit “A”, negat. “E”, verum universaliter ambae. Asserit I , negat O , sed particulariter ambo: De rat. et Syll. S E Ć T10 11. De propositionibus mathematicae methodo inservientibus. Ostrema enunciationum divisio quae earum obiectum, et evidentiam res spicit, ea est, quae in recentioribus Phi osophorum et Mathematicorun scriptis pas sim observatur peculiaribus desiguala nominibus, quaeque a nobis ideo distincte tradenda, quia me!l dun mathematicas in hisce justitutionibus sequi statuimus. Ratione ilaque OBIECTI pto positio est vel THEORETICA, in qua a liquid de subiecto enuncialur, vel PRACTICA, quae aliquid fieri posse aut debere adfirmat. Sic propositio theoretica est haec, “Omnes ro dii eiusdem circuli sunt aequales”. Practica vero: “Quovis centro et intervallo circulus describi potest. Vides hinc, theoreticam propossitionem veritatis alicuius enunciationem; pra cticam vero operationis faciendae expositiouera continere, Quo ad EVIDENTIAM enunciatio vel talis est, ut extremorum nexus per se clare pateat, vel quae demonstratione in digeat. Illa INDEMONSTRABILIS, haec DEMONSTRABILIS dici consuevit. Quibus enodatis, ad peculiaria propositionum nomina explicanda transcamus. Indemonstrabilis ergo est enunciation, “Totum sua parte maius est”. Demonstrabilis . contra haec: “Scientia Philosopho est necessaria”, ea enim ex collatione definitionum scientiae et philosophi debet demonstrari. Propositio indemonstrabilis theoretica dicitur AXIOMA. Si vero practica fuerit, POSTVLATVM vocalır.  E.g. “Totum est aequale omnibus suis partibus simul sumti”. D. de Tschirnausen axioma vocat quamcumque propositionem ab unica definitione immediate deductam ; Euclides au tem illam , quae primo intuitu ab unoquoque perspici potest. Res eo redit , ut axioma vo cemus enunciationem per se claram , adeoque demonstratione non indigentem , sive a defini tione , sive aliunde evideutiam suam repetat: ac proinde nostra definitio utramque amplectitur sententiam , ut diffusius coram ostendemus. ** E. g Quovis centro ac quovis intervallo cir culum describere. Coguita enim circuli defini tione , postulati huius veritasan. scitur, Cap. V. De iud. et prop. IOL Enunciatio theoretica demonstrabilis THEOREMA vocatur; practica contra dicitur PROBLEMA. In Theoremate ergo propositionis veritas ex plurium definitionum collatione demonstrari debet. E. g., “Deus est aeternus” Huius enim demonstratio ex definitionibus Dei , et aeter ni inter se collatis peti debet. Hinc est, ut duabus illud constet partibus , nempe enunciatione, qua veritas șive propositio theoretica enunciatur, et demonstratione, qua ea dein confirmatur : ideoque in fine demonstra tionis addi solet Q. E.'D. , hoc est , “quod erat demonstrandum.” Quum Problema sit propositio practica, pa lam est , illud tribus absolvi, propositione sci licet, quae quid faciendum proponit, solutione, quae modum, quo fieri potest, ostendit, et demonstratione, quae rem bene processis se concludit , addends, “Q. E. F”. idest, “quod erat faciendum”. Sic problema est haec enunciatio : Commiserationem in altero excitare. COROLLARIVM, sive CONSEOTARIVM dicitnr quaevis enunciatio, quae ab alia immediate, et necessariae consequutione oritur. E. g. Cuum demonstraveris propositionem E T. hanc : Nihil est sire ratione sufficiente , per teris inde eruere corollarium; Ergo, id omne, quod ratione sufficiente destituitur, nec est , nec esse potest.  SCHOLION, seu SCHOLIVM, est oratio, qua illustratur quidquid in propositione obscurum videbatur. In eo igitur doctrinae usus exponitur, historia narratur, auctorum sententiae referuntur aliorum obiectiones proponuntur et refelluntur, ce teraque observatu digna enucleantur: ut videre est in omnibus Mathematicorum , et Philosophorum recentium scriptis.  LEMMA est proposititio ex aliena disciplina desumta, quae tamen ad demon strandum aliquid in doctrina , quam tra ctamus in subsidium adhibetur. Ita Aritmetici in costructione quadratornm et cuborum lemmata ab Algebra muluantur, ut est propositio illa : Cuiuscumque numeri bi partiti quadratum aequatur quadratis parti una cum facio dupli partis unius in al teram lucti. um Cap. V. De iud. et prop . 103 S E C T10 lll . De propositionum adfectionibus. HaecAec de enunciationum diversitate. Superest , ut de earum adfectionibus pau ca dicamus , de quibus quamplurima in Scholis praecipiuntur laboris quidem plena, vtilitatis autein expertia. Ad propositionum adfectiones referuntur: OPPOSITIO,  SVBALTERNATIO, CONVERSIO, et AEQVIPOLLENTIA. OPPOSITIO est duarum proposi tionum inter se pugnantium collatio : estque vel CONTRARIA , si earura utra que sit universalis in qua propositio nes ambae possunt esse falsae , sed non ambae verae ; vel CONTRA-DICTORIA, si etiam quantitate differant , *** in qua enunciationum illarum necessario una ve ra esse debet , altera falsa ; vel deni que SVBCONTRARIA , si ambae sint par ticulares , **** in eaque propositiones am bae verae , at non ambae falsae esse possunt. * Sic oppositae sunt hae propositiones : Omnis E 4 spiritus cogitat ; nullus spiritus cogitat: pu. gnant enim inter se , quum de eodem subie cto idem una adfirmet, altera neget. ** E. g. Omnis homo est ratione praeditus : nullus homo est ratione praeditus, quarum una vera est , altera falsa. Possunt tamen da ri casus , in quibus ambae falsae sint , veluti huum unirersaliter enunciatur , quod particu lariter proferri debebat. E. g. Omnis homa est eruditres : nullus homo est eruditus. Om nibus enim tribuere quod quibusdam tan tum convenit , est falsum dicere dicere, ut infra videbimus. *** Ita propositiones : Omnis spiritus cogitats quidain spiritus non cogitat , sunt contradi ctoriae , earum enim una universaliter ait, al. tera particulariter negat. Iure igitur exclusa altera includitur , et contra : nam falsum est a quibusdam removere quod omnibus con renit , vel aliquibus tribuere quod nulli com petit. ***** Talis est sequens oppositio Quidam ko mines sunt divites : quidam homines non sunt divites : Vides hic ambas propositiones veras esse. Quod si dicas : quidam homo est liber : quidam homo non est liber, quum haec falsa sit , altera vera esse debet. Rationem eius re gulae , ne longius provehamur , coram dabi una , mus. 7SVBALTERNATIO est duarum Cap. V. De iud. et prop. 105 propositionum sola quantitate differen tium , sed eosdem terminos habeniium mutua quaedam relatio. Vniversalis enun ciatio SVB-ALTERNANS ; particularis vero SVB-ALTERNATA, a Logicis dici con suevit. * De qua adfectione duo notanda occurrunt : 1. Veritatem subalternantis veritas quoque subalternatae consequi tur , non contra ** . 2 : Falsitas propo sitionis ' subalternatae falsitatem etiam subalternantis arguit , non autem con tra. E. g. Duarum propositionum : , Omnis homo est eruditionis capax ; quidam, homo est eruz ditionis capax , illa subalternans , haec subal ternata dicitur. ** Sic quum ia superaddito exemplo verum sit , omnes homines doctrinae esse capaces , verum quoque erit, quosdam homines doctrinae capa ces esse. Ratio huius regulae est. Contrariae ambae verae esse non possunt ( S. 78. ). Si ergo 'subalternans vera sit; eius contrará falsa erit. Quum autem huic contradıcat subalterna ta , et in contradictoriis necessario una sit , altera falsa ( C. eod. *** ) , liquet subal ternatan necessario verum esse debere ; alias , enim in contradictione falsitas ex utraque par te daretur , quod est absurdu :n. Contra ea si verum est , quosdam hom nºs esse eruditos vera E 5 106 Logica Pars. I. cui quum non certe infertur omnes homines eruditos esse . *** Si namque subalternata est falsa , eius con tradictoria vera erit; sit contraria subalternans , haec non poterit non esse falsa , adeoque subalternae falsitatem necessario sequi. E.g.Falsum est, aliquem spiri tum esse mortalem : falsum qnoque erit, omnem spiritum esse mortalem . At şubalternantis fal sitas non ita subalternatae falsitatem includit. Quum enim in subalternante , utpote univer sali , subiectum in tota sua extensione suma tur ( $. 68. ) , poterit attributum aliquod extra subiecti naturam rationem sui habere sufficientem , adeoque aliquibus tantum spe ciebus , aut individuis conveniens propositio piem efficere particularem ( f. eod. *** ). Fal sa in hoc casu' erit subalternáns , non vero subalternata. Hinc si falsuin est , omnes homi nes ésse doctos, non ita falsum erit , quosdam homines esse doctas. 80. CONVERSIO est mutua extremorum salva enunciationis veritate , substitutio Ea fit tribus modis , scilicet 1. SIMPLICITER , quum eadem qualitas et quantitas manet ; 2. per ACCIDENS , quin quan titas sola mutatur ; 3. denique per CONTRA-POSITIONEM , quum salva pro, positionis quantitate , terminis additur ne galio , qua fit , ut enunciatio lex determi pata in infinitam abeat. Cap. V. De iud. et prop : 107 * Scholerum est ha ec doctrina a nobis recensi ta in gratiam eor um , qui huiusmodi loquite tiones scire cupiu nt ; sed non caret sua uti litate ; imo haud raro est necessaria, Sim plex igitur est conversio : Omnis spiritus est substantia cogitans : omnis substantia cogi tans est spiritus. ** E. g. Omnis doctus est homo , copyertitur per accidens hoc modo : ergo quidam homo est doctus. *** Sic : Quidam homo non est. pius , per con trapositionem convertitur : ergo quoddam non pium est homo. Sed quorsum haec ? ais. Con fer, Dan. Richterum diss. de convcrs. propo • sition. Halae 1740 AEQUIPOLLENTES denique dicun tur enunciationes , quae verbis licet di versae , cumdem tamen sensum habent. * Duae ergo propositiones synonymicis termia nis expressionibusque prolatae aequipollentes sunt, nempe eumdem valorem habentes. Ego Omne animal vivit et sentio : nihil tam ani manti proprium est , quam vita et sensie. Quae de his postremis propositionum adfectionibus laboriosius a Scholasticis traduntur , tempus terendum potius , quam ad rationein excolendam sunt adcommodata. Nobis haec tantum notasse sufficiet. Schol. Quae de iudiciis , ac propositio nibus cupidae iuventuti observanda arbitra. mur , ea paucis exponenda supersunt. Qua propter tironi Philosopho sequentes tenea di sunt CANON ES , 1 , Q Voniam iudicia sunt sapientiae , vel stultitiae fidelia indicia , par cius iudicato ne aliis sis ludibrio teque in errorem temere coniicias. 4 * Sensus namque communis a iudicandi peritia scientiam hominis metiri solet. Ea de re quum de alterius sapientia vel stultitia iudicium proferre volumus eum criterio pollentem pel carentem adpellamus. 2. De nuila re , nisi cuius adaequa tam , aut saltem distinctam habes ideam, iudicium proferto, tuum . Idearum enim confusio praeiudiciorum mater est fera cissima. * Quum enim rerum , de quibus iudicare volu mus , distinctatu vel adaequatam habemus ide am : tunc eas undequaque cognoscimus , re lationesque perpendimus ; adeoque termino rum nexibus optime coguitis , recte iudiça þimus, Cap. V. De ind . et prop. 109 4. In vel tuo i quocumque iudicio vel alieno caussam et rationem atten te perspicito , cur tales ideae tali modo coniungantur vel scparentur , nec alio . * * Etenim infra abunde patebit , verae prope, sitionis criterium esse , si ratio sufficiens ad. sit , cur praedicatum subiecto tribuatur , vel ab eo removeatur. Tali ergo ratione perspem cta , non poterit iudicium non esse verum ; ac proinde errandi metus procul aberit. 4. Praecipitantiam fugito : ideoque in iudicando tardus , in enunciando tardior esto, ne levitalis errorisve arguaris. Me mento Augustini praeclarum illud : ver IA BIS AD LIMAM , SEMEL AD LINGUAM , Ne cit enim , monente Horatio , vox missa Leverti. Notum est responsum illud nescio cui num quam loquuto , ac pro sapiente seinper habi. to , datum , postquam semel toqui voluit : Si tacuisses , Philosophus mansisses. 51. De moribus , et viia hominum num uam iudicato . Nemo enim alterius in er est a Deo constituius: > Hinc sapientissimum illud Servatoris nostri 110 Logica Pars. I. monitom gauctiope muniiuin habemus Matth. VII. 1. Nolite iudicare , ut non iudicemini. Qua vero ratione praeceptum istud homini bus inculeatum sit , ostendemus in Iure Naturae . Quoniam duarum idearum convenien tia , aut discrepantia non semper unica intuitu aguosci potest , adeoque dan tur veritates demonstrabites( s 71. ) ; de monstratio autem ratiociniorum serie absol vitur: ordinis ratio postulat , ut de ratiocinatione verba faciamus. Est vero RATIOCINATIO, sive RATIOCINIVM , actio mentis , qua ex duobus iudiciis no tionein communem habentibus tertium eli citur ; vel practice est duarum idearum cum teriia comparatio', earumque rela tionis. deductio . Ratiocinium porro verbis expressa dicitur SYLLOGISMVS. * Quando igitur mens de veritate iudicii alicu ius nouduin certa , eius extrema , sive ideas confert cum idea aliqua tertia , et ab earum convenientia vel discrepantia , tertium elicit Cap. IV . De rat. et Syll. III iudicinm : tunc ratiocinatur , hoc est rationes conficit , ut veritatem inveniat. E. g. Ut sciat, an aer sit gravis comparat ideam aeris, et ideam gravis ; cum tertia idea corporis , ob servatque , num inter eas adsit convenientia : qua comperta , duas illas ideas inter se quo que convenire concludit hoc modo : Omne corpus est grave : Aer est corpus ; Ergo aer est gravis. En ratiocivium . Quod si verbis exprimatur , erit syllogismus. 83. Experientia teste scimus , duas ide as cum tertia triplici modo comparari pos se : vel enim cum illa conveniunt , vel u na convenit , altera discrepat , vel ambae ab ea discrepant. In primo casu elicitur ter tium iudicium aiens , in secundo negans, in tertio vero nihil exsurgit. Totum ergo ratiocinii pondus duobus his axiomatis con tinetur : nempe 1. Quae conveniunt cum aliquo tertio ea conveniunt inter se : 2. Quorum unum tertio cuidam convenit, alterum autem ab eo discrepat , illa in ter se quoque discrepant * Primum axioma est ratio sufficiens syllogismi aientis ut videre, est in exemplo supra al lato ; alterum negantis : e g . Qui Deo servit non servit Mammonae: sed Christianus Deo. 1. servit: ergo Christianus non servit Mamm onae. Vides hic duaru n idearum Christiani et Mam monae servientis., alteram convenire cnm ter tia Deo serviendi , alteram vero ab ea di screpare : unde infertur a se invicem discrepare. 84. Ex quibus rebus clare consequitur 1. in omni ratiocinatione tres tantummodo ideas esse debere, adeoque 2. in omni syllogismo tres tantuin terminus; * unde 3. si plures ad sint tirinini ; guain tres , syllogisuum es se falsum . ** Quumque tres ideae totidem combinationes adinittant ( per exper. ) : sequitur 4 : ratiocinium tria quoque iudicia continere ; ac proinde 5. syllogismum tres, nec plures , enunciationes admittere) Advertendum hic , tam terminos , quani pro positiones syllogismums, componentes y pecu liaribus a Logicis ' donata fuisse nominibus. Et ut a teruninis incipiamus , praedicatum tertiae propositionis ,, quae principalis dici potest , MATOR adpellatur , subiectum eiusdeni , MINOR ; {erminus vero , qui tertiam ideanı ex . primit , quique rationem continet suffizientem couvenientiae , vel repugnantiae termini ma ioris cum minore, MEDIUS voćatur. E pro, Cap. V. De iud. et prop. 113 > positionibus etiam illa , in qua medius cum maiore confertur, MAIOR, vel PROPOSITIO simpliciter ; illa , in qua medius cum minore comparatur, MINOR vel ASSUMPTIO; ambae vero PRAEMISSAE dicuntur , propositio denique, quam principalem supra, adpellavimus CONCLUSIO COMPLE xto , a Scholasticis CONSEQUENTIA nos minantur. Sic in primo exemplo gravis est terminus maior , aer minor , cor pus est terminus medius , adeoque prima pro positio est maior , altera minor , tertia con clusio . * Solet enim quandoque quartus irreperę ter. minus , et syllogismum corrumpere , idque raro patenter; nam saepius in termino aliquo , vel compositione latet. Fieri hoc potest 1 . per aequivocationem , ut fi terminuin aliquiem yagnum adhibeas in sensu diverso : eg: Vilpes habet qualuorpedes , Herodes est vulpes ; er go Herodes habet quatuor pedes. In quo ob servas vocem vulpes prino proprie ; secundo vero metaphorice suintam ; 3. per supposi tionis mutationem , ut si idem terminus ma terialiter in una , formaliter in premissarum altera sumatır . E. g. Iinne ens est generis neutrius: femina est ens, ergo fernina est ge neris ncutrius , in quo nocens in miori gran . matice ; in minori philosophice anceptum est; 3. per confusionem termini abstracti cum con creto . E.g. Omnis prudentia est habitus bo nus : Titius est prudens: ergo Titius est ha bitus bonus. Tres ergo enuuciationes syllogismi materia dici possunt : forma namque legibus absolvi tur , quas infra 'exibebimus. 85. Quamvis vero ratiocinium tam fa cilis exequutionis primo intuitu videatur : difficilis tamen admodum est termini me dii , qui communis idearum mensura est inventio. Sed ut omois difficultas evanescat, experientiam philosophiae matrem consule re decet. Ea enim duce discimus , mentem postrani in ratiocinando duplieem ingredi viam : vel enim notionum alteram ad pro prium genus , vel speciem revocat , et quid quid his convenit , illi quoque tribuit , vel definitionis characteres evolvit , eosque al . teri convenire observans definic tum quoque coniungit. Duplex ergo est medium inveniendi methodus : altera sub iectum ad genus , vel speciem , sub qua continetur , reducendi, eique tribuendi , vel adimendi quidquid ideae genericae con vepit , vel ab ea discrepat ; altera attributi definitionem cum subiecto comparandi , et ab eorum convenientia vel discrepantia , praedicati quoque cum subiecto coniunctio nem eruendi. cum ea Cap. IV . De rat. et Syll. Exemplo sit sillogismiis supra adductus. Scire cupis , aer sit gravis ? Reduc subiectum sub genere corporis , et vide , utrum huic conveniat gravitas , eam de aere quoque enunciabis , ita ratiocinando. Quodlibet corpus est grave , aer est corpus : ergo aer est gravis. Haec erit prima medium inveniendi methodus. Rursum gravitatis defi nitionem evolve , eiusque characteres , nem pe corporum inferiorum pressionem confer cum aere. Quumque ei conveniant , attribu tum cum subiecto coniunges hoc modo : Quidquid corpora inferiora premit , est grave: Aer premit corpora inferiora : Ergo aer est gravis Habes hic alteram medium inveniendi me thodum . Eodemque modo in aliis ratiociniis investigando procedes : quod si adcurate ser ves , numquam tua te fallet ratiocinatio . 86. Ex hoc principio fluunt sequentes regulae ratiocinii fundamentales. I. Quid quid convenit generi vel speciei , conve nit etiam omnibus speciebus , et indivi duis eorum ambitu conteniis. 2. Quid quid repugnat vel generi specici, repugn it omnibus quoque speciebus , et individuis sub iisdem contentis. * 3. Cui convenit  definitio , convenit pariter definitum : ac proinde 4. a quo discrepat definitto , di screpat etiam definitum . * Vides ergo ideam mediam semel universaliter sumi debere , quia ideam universalem , ge . mus nempe vel speciem , exhibet. Quod si bis particulariter sumeretur , ratiocininm vi tio laboraret , ut infra dicetur. Quumque praedicatum tam latc pateat , quam subiectum cui tribuitur , ut cuique manifestum est : li quet , propositionem , in qua medius vicem praedicati sustinet , particularem esse. Debet ergo medius terminis universaliter sumi in ea propositione , cuius subiectum constituit Et quoniam propositio , in qua subiectum in tota sua extensione sumitur , est universalis: liquido infertur , saltem unam praemissaram esse debere universalem. Variae syllogismorum figurae Scho lasticis fuere in deliciis , quas barbaris ali quot vocabulis , versibusque distinguere consueverunt. Nos , missis futilibus tracla tionibus , regulas quasdam Tironibus ma xime inservituras , quibus syllogismi leges breviter exponuntur , hic subiiciinus , quas. sequcntes exhibent. Cap. IV. De rat. et Syll. 119 CANONES. In syllogismo non plures termini sunto , quamtres. Si quartus irrepserit, vitiosusiesto. Est lex eo magis observanda , quo omnia sophismata , si bene perpendantur, contra illam peccare observamus. Ecquid enim sunt fallaciae tanto labore a Scholis evolutae, an liquitatis , amphboliae , dictionis composi tionis , divisionis , caussae , dicti simpliciter, con e juentis , accidentis , cetera, nisi syllogi smi e quatuor terminis conflati , in quibus quarins cryptice latet ? Veritas hace altcate consideranti baud aegre patescet . Vide quae de quatuor terminis diximus g. Medius terminus numquam conclu sionem ingreditor. Monstruosuin enim es set , caussam in effectus constitutionem immisceri. : * → Intellectus enim in ratiocinando vice Mathe matici fungitur. Quia vero Mathematicus dua rum magnitudinuin aeqnalitatem ex cniusdam tertii adplicatione cognoscit , nec , nisi in comparatione , mensuram adhibet : ita et in tellectus in ratiocinando ex duobus indiciis 118 Logica Pars. I. * tertium ervit , in quod medium comparatio nis ingredi , valde foret absurdum. Vitiosum ergo esset ita raziocinati : Omnis bonus Phi losophus est homo : Titius est bonus Philo sophur : ergo Titius est bonus homo. Medius Damque terminus ex parte in conclusionem irrepsit. 4. Non esto plus minusve in conclu sione, ac fuit in praemissis, ne quatuor inde éxoriantur termini. Si nanque praemissae sunt veluti comparatio nes duarum magnitudinum cụm tertio eisdem adplicato , scilicet mersura : iudicium ex comparatione ipsa procedens , perfecte com parationibus ipsis convenire debet. Quando vero in conclusione plus minusve continetur, quam in praemissis , idem esset , ac si dice res productum maius vel minus esse altero, quod ex iisdem factoribus est ortum Plus cotineret conclusio , si ita diceres: Qui alium l'aesit , puniendus est : Cajus alterum laesit: Cajus ergo morte puniendus est. Minus con tra , si sic ratiocinaris : Qui furium commi sit , restitutioni et poenac subiacet : Titius fur tum commisit : tius restitutioni subiacet. 4. Ex puris particularibus , vel ne gantibus ( praemissis ) nihil sequi , ius estc . Cap. V. De rat. et Syll. 119 * Diximus enim f . 86. * , praemissarum unam saltem esse debere universalem : unde si am hae essent particulares , impingeretur in regulam 1.1 . S. cit.; si vero ambae negantes , tunc duarum idearum neutra cum tertia conveniret , adeoque nihil sequeretur per S. 83. Falsum ergo esset dicere : Quidam bo mines suni doeti : quidam homines sunt in docti : ergo quidam docti sunt indocti. Item Nullus impius salvatur : nullus impius est pius : ergo nullns pius salvatur. 5. Conclusio partem sequatur debilio rem , probe curato , ne in superiora pecces. * Pars debilior est propositio particularis , vel negativa. Si ergo una praemissarum fuerit particularis , conclusio quoque particnlaris , conclusio quoque particularis esse debet , alias plus esset in conclusione , quam in praemissis ; quod est contra regulam 3. : si vero una praemissarum fuerit negans con clusio adfirmans contra regulam 2. In hoc eniin casu extremorum conclusionis unum cum medio convenit , alterum ab eo discre pat ; adeoque ea inter se quoque discrepare concludendum est ; quare conclusio negans esse dcbet. Quae de diversis syllogismorum figuris regulae vulgo traduntur , eae ad rem non faciunt ; ac proinde a nobis tuto prae terinittuntur, 120 Logita Pars. I. CAPVT SEPTIMVM . De aliis ratiocinandi modis. 38. Sunt et aliae ratiocinandi formae , quae licet a syllogismo diversae adpareant syllogismum tamen continent vel 1. CRYPTICVM , vel 2., COMPOSITVM , vel 3. MVLTIPLICEM. De his obiter praesenti ca pite agemus. SYLLOGISMUS CRYPTICVS est , in quo forma ordinaria ( * . 71 * ) quo modolibet périurbatur , aut occultatur. CRYPSIS ergo inducitur i . per ordinis perturbationem , * . 2. per propositionum aequipollentiam per propositionis alicuius omissionem , quo casu dicitur ENTHYMEMA , 4. denum per contractionem. * Ordo perturbatur , ai quando propositiones transponuntnr : ut si prino conclusionen vel minorem , de nde maiorein vel conclusio riem ponas. E. g. Quum ira sit adfectus minor ) , debei omnino compesci (conclusio) ; omnis namque adfectus est compesccn dus ( maior ). ܪ Cap. VII. De aliis rat. " modis. 121 ** E : 8. Adfectus est attentionem turbare . Quum ergo ira sit molus vehementior appe tus sensitivi ': infertur , in iracundo attcntio nem mirifice perturbari. *** ENTHYMEMA igitur est syllogismus dua bus constans propositionibus , quarum prima ANTECEDENS altera dicitur CONSEQUENS. In hac argumentandi forma praemise sarum aliqua reticetur , speciatim vero illa , quae cuique patet , ut : omnis adfectus tur bat attentionem : ergo ira turbat attentionem. Minor deest , utpote quae ab audiente sup pleri potest. Eodem modo et maior retice ri , minor contra exprimi solet : e. g. ir & est adfectus: ergo estcompescenda. SYLLOGISMUS CONTRACTUS dicitur in quo solus maior cum medio termino pro punijatur, relicto iniuore cum omni combi patione. Talis est Cartesii syllogismus. Cogi 10 , ergo sum : ubi eogito est medius , est terminus maior ; adeoque minor , scilicet ego , cum tota propositionum connexione reticetur: integrum enim ratiocinium lioc,mo do exponendum erat: Quid juid cogitat,exsistit ego cogiio : ego igitur exsisto. SYLLOGISMVS COMPOSITVS est , in quo adest aliqua' propositio composiía , estoque vel HYPOTHETICVS ; * vel CO PULATIVUS, ** vel DISIVNCTIVVS , vel tandem ex hoc primoque coalescens, qui proprio nomine vocatur DILEMMA. Tom . I. F . Sun : Hypotheticus , sive conditionalis est , eut ius maior est propositio hypothetica: é g. Si homo est rationalis , sequi tnr , ut sit libertatis capax : atqui est ratio nalis ; ergo est capax liberatis De hoc te nenda regula : Adfirmata conditione, adfir matur conditionatum ; et negato conditionato, negatur conditio. Quum enim in hypothesi contineatur ratio sufficiens veritxtis proposi tionis , adfirmata caussá adfirmatur effectus contra vero negato effectu, eius quoque caus sa negari debet.. ** Copulativus , sive coniunctus est, qui malo. iorem habet duas simul propositiones coniun gentem , et negantein , quarum unam minor adfirmat , alteram conclusio negat. E. g. Non potest anima sinni aeternum vivere , et cum corpore perire , atqni aelernum vivit : ergo non perit cum corpore. ** Disiunctivas est cuius propositio maior est dis iunctiva. E. &. Aut anima cst ens ' simple: aut compositum : sed non est cns compositum , ergo est simplex. Notanda crgo regula : Ad firmato uno disi!ınctionis membro , reliqua negantur ; ct negatis rcliyuis, unuin ad fir tur. Confer tamen quae de disiunctivis pro positionibus diximus. Si ergo in maiori propositio bypothetica cum disiunctiva copuletur , DILEMMA con surgit quod argumentatio bicornis vel crocodilina vocari solet. Id vero definitur : Syllogismus hypotheticus , cuius mai oris ' al 7 Cap. VII. De aliis rat. mo dis. Tera pars est disiunctiva , quae in minore negatur , et in conclusione totum destruitur. E. g. Si ens simplex naturaliter cx alio en te oritur tunc aut ex alio simplici , aut e composito oriri debet : sed neque ex alio ente simplici , neque c composito oriri potest : ergo naturaliter ex alio ente non potest orlum du cere. Mirificum est Dilemma AVGVSTINI Tract. 1. in Joann , quo Arianorum errorem circa Verbi aeternitatem egregie confutarit Huc referenda quae diximus de divisione MVLTIPLICEM SYLLOGISMVM , licet imperfecte exhibent 1. EPICHERE MA , in quo alterutri , vel utrique prae missarum probatio additur ; * 2 PROSYLLOGISMVS , in quo ' prioris syllogismi conclusio posterioris eidem iuncti maiorem constituit POLYSYLLOGISMUS , qui plurium syllogismorum connexionem contínet, e SORITES, qui plures ita connectit propositiones , ut prioris aliribu tudi si ! posterioris subicctum . EPICHEREMA ergo rsl syllogisms . cuius praemissis compendii caussa ralio Quirlitur Exemplum habes iu Cic. pro Sex Rusc. MAI. Vt quis parricidii sit suspectus , is sce lestissimus ét audacissimus sit , oporlei. RATIO est enim crimen horrendum. NIIN . Sex Roscius non est talis PROB. Non est audax , non luxuriosus mon avarus. 124 Loigica Pars. I. CONCL. Non ergo est parricidii suspectus. ** In PROSELLOGISMO itaque duo adsunt syllogismi coniuncti , quorum posterior ma iorem habet in prioris conclusione contentam : quapropter eius minor SVBSVNTA vocatur MAI. Omnis spiritus est ens simplex , MIN . Anima humana est spiritus : CONCL. Ergo anima humana estens simplex. MIN . SVBSVMTA. Atqui ens simplex est indestructibile. CONCL. Ergo anima humana est indestructibilis. Si prosyllogismus uiterius procedat , aliae que minores subsumtae et conclusiones snb inugantnr , dicetur polysyllogismus, hoc est plurium syllogismorum connexio legitime fa cta . Exemplum habebis infra Part. II. Cap.3. Sect. 2. ubi demonstrationis specimen dabimus. SORITES a Cicerone de Divin . Lib II. cap. 4. acervalis dictus , est plurium propos sitionum cumulus ita connexarum , ut unius praedicatum sit alterius subiectum , adeoque tot syllogismos continet , quot sunt propo sitiones , demptis duabus , eodem fere modo, quo polygonum aa Geometris per diagonales in tot triangula resolvi potest , quot sunt la tera demtis duobus. Haec autem argumenta tio nisi cautiones quedam adhibeantur ad fallendum aptior est. Cautiones istae funt. 1 . Nulla praemissarum diibia sit , aut falsa : > 1 Cap. VII. De aliis rał. modis. 123 coram. ex falso enim antecedente non potest verum consequens oriri.2. Non insint in Sorite duae propositiones negantcs. Hoc enim casu in eius resolutione aderit syllogismus ambas praemis sarum negantes habens , quem vitio laborare supra observavimus ( F. 87. can. 4. ) . En Soritis exemplum . Quodlibet corpus est ali quo loco : quod est in uno loco , potest etiam esse in alio : quod potest esse in alio loco , potest rnutare locum : quod potest mutare lo cum , est mobile : ergo quodlibet corpus est mobile. Eius vero analysis rationem reddemus 92. Syllogismo , eiusque speciebus . e diametro opponitur INDVCTIO, quse vere ac proprie dici potest argumentatio a posteriori , quippe quae a singularibus ad particularia , alquc ab bis ad universa lia procedit. Haec autem syllogismo prior est : nam quum ope experientiae praemis sas conficiat , indeque conclusiones eliciat universales , hac vero syllogismi praemissas constituant , utpote qui ab universalibus ad particularia , vel ab his ad singularia gra dum facit : hunc sine illa construi non posse , quisque videt, INDVCTIO itaque est argumentatio , in qua quiquid de singulis speciebus vel individuis speciation praedicatur , generatim quoque de toto genere vel speeie enunciatur ; adeoque in ea tot minores adsunt , quot species vel in F 3 dividua exprimuntnr. E. g. aurum , argentuan orichalcum , cuprum , stannum , plumbun , ferrum , igni inieclun liquefiunt : ergo omne metallum igni ni ectum liquefit. Ad inductio nem ergo duo requiruntur , 1. plena partium enumeratio , 2. ut quod inferioribus tribuitur, ile superiori pariter enuncietur. Si ergo par tes omnes enuncientur , inductio dicelur com pleta , sin aliquae tantum , incompleta erit : si denique una dumtaxat fars proponatur, EXEMPLUM adpellabitur, quod tamen ad oratores non ad Philosophos pertinet , quum sit contra 34. S. n. 6. ** Ex iis enim , quae diximus Cap. 1. , liquet, ideas universales abstractionis ope a singulari bus erui. Eodem modo Par. 11. Cap. 4. Sect. I. ostendemus , indicia universalia a sin gularibus abstrahendo confici. Id vero est , quod Inductionem constituit. Quum autein praemissarum syllogismi saltem una debeat es se universalis, patet , In ductionem syllogismo principia praestruere : adeoque illo priorem esse. Schol. De hụius doctrinae usu tandem pauca delibare juvabit. Quae de universa hac tractatione homini philosopho servanda sunt , qui sequuntur , exponunt. Cap. VII. De aliis rat, modis.127 CANONES, QVandaquidem ratiocinando veritas + vi . innotescit , principia prius con siderato num solida sint et indubia . Propositiones deinde ad trutinam revo cato , ac denique eurum connexionem adcurate perpendilo , ne in quolibet r'a riocinandi modo fallaris: “ . Quum enim syllogismus materia et forma con siet : illan vero propositiones , hanc propo sitionum connexio , lioc est syllogismi "leges constituant; cuiuslibet autem rei bonitas materiae soliditate ac formae aptitudine absolvatur : patet; Philosophum de utraque sollicitum esse debere , ut ratioci . nia sua tulo proferre possit. 2. Quoniam omnis argumentatio ad unum redit syllogismum , id agito , ut huius leges nocturna diurnaque manu verses : alioquin loqui scies , non ratio cinari. Exploratum namque est , quamcumque ar gumentationem syllogismuni esse vel crypti cum ", vel compositum , vel multiplicem: nisi ergo syllogismi probe gnaa rus , nulliusmodi argumenta poterit quisque proferre. Qua de remiramur, viros alioquin F4 doctissimos , et de Philosophia optime atque abunde meritos , syllogismo fuisse adeo in fensos , ut eum inutilem , immo nullins bo ni effectorem esse clamitarint. Infra vero ab unde patebit , scientificam methodum sola syllogismorum concatenatione absolvi : unde evidenter proseguisque deducet , syllogismum homini philosopho esse omnino necessarium Videatur Wolffius in Log. Germ . S. III. seq. , ubi mathematicas demonstrationes absque illo fieri non posse , experiundo ostendit 3. Si cum alio res tibi fuerit , omnia eius argumenta in syllogismos resolvito : tunc enim clare perspicies, cunctane re. cte procedant, an aliquis lateat error , an sub ambagibus fallacia occultetur. Varii namque sunt fallcndi inodi a Scholasti cis magno labore evoluti , qui tamen si ad sillogismum eiusque leges , tamquam ail ly, dium lapidem , exigantur, oppido evanescent, Ut hoc exempli loco addamus , si soriten duas propositiones negantes habentem in syl logismos resolvas : 'nonne statim patescet do lus, quum tres negantes propositiones in ra tiocinio , adeoqoe contra quartam eiusdem " legem peccatum esse , observabis. Praeclaro igitur hoc duce uti nolle idem esset , ac in. ventis frugibus , glandibus vesci. Hucusque usque satis satis.dede mentis mentis ope ope rationibus actum . Quum autem Logicae sit non contentiones nequicquam fovere, sed hominum vitae consulere , atque intel lectum in veritatis investigatione dirigere: doceamus , oportet , qua ratio ne tribus hisce mentis operationibus in cognoscendo diiudicandoque vero recte uti debeamus. Quod ut commodius effici pos sit , pauca quaedam de veritate generatim spectata, eiusque genuina tessera , hic prae mittemus, VERITAS est, vel METAPHYSICA, quum ens aliquod actu exsistens suam habet essentiam ; vel ETHICA quando quilibet sermo interno sensųi , F 5 130 Logica Pars. II. scilicet conscientiae , respondet ; ** vel denique LOGICA , si cogitationes nostrae obiectis suis sint conformes. Quia vero hic cum Metaphysica atque Ethicą nihil no bis est negotii , de veritate logica verba tantummodo faciemus. Metaphysice ergo verum dicitur quidquid om nibus gaudet proprietatibus , quae ad con stituendam eius essentiam sunt necessariae : adeoque huic falsum opponi nequit , qoia es: sentia entis est necessaria et immutabilis ut in Metaphysica fusius docebimus , ac proin de nequit ens exsistere , et sua simul essen . tia carere. Ita aurum est verum aurum , qu pin omnia auri adsunt requisita. At non_da tur, inquies , falsum aurum ? Minime. Tunc enim non aurum , sed cuprum , orichalcum , aliudve , aut e pluribus metallis revera mi xtum erit. Illud autem verum aurum iudica. re , est nubem po lunone amplecti , atque a veritate Logica aberrare. ** Verę loqui dicimur , quum secundum cong scientiam loquimur , idest dicimus quae trinsechs sentimus. Atque ḥaec veritas dicitur moralis sive ethica , cui opponitur falsilo suium , quod est sermo contra concientiam prolatus , de in Moralibus agemus. quo 93. VERITATIS LOGICAE vocabulo itelligimus convenientiam cogitationum no strarum cum rebus ipsis, Quumquç no . De ver. eiusq. crit. 131 stra congitandi facultas tribus tantum mo dis sese exserat , vel in ideis forinandis vel in iudiciis eruendis vel denique in rationibus conficiendis ( S. 15. ) : liquet , logicam veritatem vel in ideis , vel in iu diciis, vel in ratiocinatione reperiri. * Hac definitione veritatem abstracto modo con sideramus : concreto namque definiri posset per cogitationem obiecto suo consentaneam . Porro veritasa Logicis dispescitur in FORMALEM, et OBIECTIVAM . Illa est , cuius obiea ctum extra nos vel non existit vel non tale ut a mente nostra concipitur : quales sunt veritates omnes purae geometricae; haec ve ro , cuius obiectum extra nos realiter exsistit. Ham alii INTERNAM hanc EXTERNAM adpellare consueverunt. Illa est clara , distin cta , et indeficiens , quippe qua mens de se suisque operationibus iudicat , haec vero ob scura, dubia , et fallibilis : non enim per eam, scire possumus , utrum cogitatioues nostrae obiectis suis extra nos positis conveniant necne ? adeoque quum veritatem habemus in ternam , de reali extra nos obiecti exsistentia iudicare non possumus ; quum contra veritatis externae compotes certi simus obiectum in cogitatione exsistens extra eamdem etiam rea liter existere. 96 IDEA VERA dicitur , si quando nca bis rem , uti in seu est , repraesentemus : *verum est lyDICIVM , siconiungenda co 2 F 6 132 pulemus , separanda seinngamus ; 've rum itidem RATIOCINIVŇ , si ' neque in materia , neque in forma peccaverit, * Idea ergo singularis ( $. 28. ) vera est , si quando eius obiectum extra nos realiter exsi stat , eoque modo , quo nobis illud reprae sentamus : vera pariter dici debet idea uni versalis , dum compositio vel abstractio a re rum natura non recedit , ita ut characteres illam comitantes simul in uno inveniri pos sint. Vides hinc , ideas deceptrices , chimae ricas , aliasque obiectis suis nullo modo re spondentes dici non posse veras. Advertas - tamen , absolutam obiecti deficientiam , vel ideae ab eo discrepantiam veritati nocere. Si namque obiectum non sit evidens , nec ideae characteres eum eo conferre queamus ; con tra vero sufficientibus indiciis de eius verita te certi simus : notionem illam deceptricem vel terminum eam exprimentem inanem ad pellare , est contra Logicae regulas , ac pri ma cognitionis humanae principia tnrpissime peccare. In hunc errorem incidunt quicum que de mysteriis Sanctae Religionis sermonem instituentes , aliquam credentibus notam inu rere conantur , quod vocabula mente cassa proferant e id quod alibi diffuse enodabimus. ** Nimirum si de re quapiam aliquid adfirme mus vel negernus, quod adfirmari aut negari oporteret : veluti quum soli spendorem iri, buimus vel tenebras ab removemus ? tunc judícia nostra veritate gaudebunt, f 2 2 eo 2 Cap. I. De ver. eiusq. crit. 133 *** Ratiocinationis , sive syllogismi materiam es se tres illas propositiones , e quibus confla tur ; formam vero leges . ( S. 87. ) expositas, supra docuimus ( 6- 84.** ). Si ergo pro positiones fuerint verae : leges autem adcuras te servatae , ratiocinium non poterit non es se verum : quia , quum qualis est caussa , ta lis esse debeat effectus , non potest ex veris praemissis falsa legitime fluere conclusic. Ex quo liquido colligi potest , eum , qui prae missas concessit, non posse negare conclusio nem ex iis legitimo nexu fluentem . Cave tas men , ne ex conclusione , licet evidenter ex praemissis deducta , de hárum veritate audeas áudicare : potest enim conclusio vera legitime ex falsis ambabus oriri praemissis. Talis es, set sequens syllogismus : Omnis virtus est fugienda : Avaritią est virtus ; Ergo avaritia est fugienda, Vides hic veram conclusionem legitime ex fal sis praemissis deductam . Possesne conclusionis veritate praemissarum quoque veritatem ar 97. Quoniam iudicium verbis expres sumi propositio dicitur ( § . 60. ) : evi dens est. propositionem dici veram , quae adfirmanda adfirmat negandaque ne gat , servata ubique quantitate. * Sed quia non omnium cnunciationum veritas , nec ab omnibus distincte perspicitur : criterium aliquod inveniatur , oportet , ad quod guere? 134 Logica Pars. I1. tamquam ad lydium lapidem , propositio nem quamcuinque exigentes , eius verita tem dignoscere queamus. ** • Veluti quum particulariter enunciatur de su biecto quidquid extra illius naturam ; vel uni versaliter quidquid in eius essentia rationem habet sufficientem . Vid. supra Part. I. Cap. 5. Sect. 1. . 68 . ** Hoc autem criterium exsistere debet quo propositiones veras a falsis , a phanta smatis , realitates ab insomniis discernere pos simus : alias enim homo in perpetua illusia ne versaretur , id quod est Divinae sapientiae, homini, ipsiqne humanae menti iniurium . Quia de te Philosophi omnes in eo consenserunt, li cet in adsignanda illa tessera in contrarias partes opinando ierint, res 98. CRITERIVM VERITATIS est ra tio quaedam sufficiens , per quam intel. ligitur cur praedicatum subiecto tribua tur , vel ab eo removeatur . * Nimirum ut cogitationum nostrarum cum obiectis suis conformitatem perspicere possimus in 93. ), eiusmodi characteres in promtu haberi de bent , quibus attributi cuin subiecto con venientia vel discrepantia ita determinetur, nt mens adquiescat , nec ullus de earum veritate supersit dubitanli locus. ** Qua propter characteres illi REQVISITA ad peritatein recte dicuntur, *** Cap. I. De ver . eiusq. crit. 135 Variae de veritatis criteriis omni aetate fuere Philosophorum opiniones , exceptis Academi cis , üsqne, qui Scepticismum ad furorem usque provehere ausi , atque a Pyrrkone Pyr. rhonistarum nomine insigniti , nihil a nobis vere sciri posse , temerario ausu adfirmarunt, quorum insania comploranda potius esset , quam confutanda. PLATO yeri tesseram es se statuit , evidentiam intelligibilem aeterna rum idearum mentibus participatarum ; EPI CURUS fidem sensuum. ARISTOTELES medium inter hos iter tenens , utramque evi dentiam veri criterium posuit : illam nempe in intelligibilibus ; hanc in iis , quae sensi bus percipiuntur. STOICI , secundum Laer , tium , veri indicinm aibeant comprehensibilcm phantasiam hoc est , evidentiam &maginationum; CARTESIUS cum recentioribus , elaram, et distin ctam perceptionem : in Medit. 4.; MALEBRANCHIUS cam evidentiam , quam inter na animi coactio sequitur , ut ei adsensum denegare nequeamus. Lib .I.de inquir. verit. LEIDNIȚIUS in triplici evia dentia , intellectus , sensus et auctoritatis criterium illud posuit. Quae vero de his ob servari merentur , in ipsis praelectionibus ex ponemus. In hac ergo propositione : Aer est gravis , qualitas attributi, hoc est gravitas, per no tionem aeris determinatur : in hac enim inest ratio sufficiens cur ipsi illam tribuatur. Quum enim aer corpora inferiora premat ; idque > 136 Logica Pars. U. ad costituendam gravitatis notionem requira tur : clare patescit, aerem esse gravem , adeo que propositionem esse veram . Et hoc est, quod Wolffius , criterium verae proposi, tionis ésse determinabilitatem attributi per notionem subiecti. 7 *** E. In hac propositione : Caius est invia dus , requisita ad veritatem sunt invidiae cha racterés alibi enumerati , qni in Caio deprehenduntur , quique rationem con tinent sufficientem , cur Caio to invidum es se tribuatur, Quum igitur veritatis criterium in ratione sulficiente consistat , et a requisitorum collectione constituatur sequitur 1. ut inter veritatis crite ria adnumerari debeant quaecumqne iis de terminationibus praedita sunt , ut a mente, quamvis invita , adsensum extorquere pos sint. At quia experientia quotidiana docet, mentem nostram non convinci , nisi ' sen suun testimonio in rebus sensibilibus, * in tellectus evidentia in intelligibilibus , auctoritatis deuique pondere in iis , quae neque sensu , nec ratione percipi possunt : liquet 2 . criteria illa pro rerum di. versitate tria statuenda #Y *** esse , intellectus sensuum et auctoritatis EVIDENTIAM. nempe , Cap.II. De ver. eiusq. crit. 137 * Per res sensibiles intelligimus non modo cor poreas quae sensibus exsternis , sed et ipsas animae actiones , quae sensu interno perci piuntur. Quum igitur :Naturae sa pientissimus Auctor hominem conscientia , sen suque cum omnibns organis instruxerit , ut : omnium cogitationum suarum obiecta distin gueret , eorumque conscius esset : non ab re vera esse pronuntiamus, quae internus eter nique sensus ita se habere testantur. ** Et quidem omnium axiomatum evidentia a primo cognitionis humanae principio , nempe non posee idem simul esse et non esse , ori ginem suam repetit ; hoc vero principium in timo sensu cunctis innotescit. Quaecumque porro propositiones a veritatibns evidentibus legitimo nexu deducuntur eamdem evidentiam adquirunt, quam illae habebant , id quod ra tione duce ac demonstratioris ope conficitur quibus intellectus convincitur ,et mens adquie scit : evidens ergo est , veritates tam demon strabiles , quam indemonstrabiles ad Logicae reguias cxactas revera exsistere , ab homini bus certo cognosci posse , earumque criterium in intellectus adquiescentia reponi debere nempe ut Malebranchius ait , iu ea 'eviden ' tia , qnae internam producit coactionem , at que a mente adsensum extorquet. Huiusmodi sunt propositiones humanum ca ptum superantes , nobisque ideo imperviae , quae quum ab Ente intelligentissimo tantum agnosci possint , revelatae tandem addiscun tur , fidemque mereatur : quum entis illius perfectiones sint infinitae , nec de illarum 2 I veritate addubitari sinant. Eiusdem commatis sunt facta , sive propositiones singulares , quae in locis temporibusve remotis extiterunt, qnae que nec. sensibus , nec ratione a nobis una quam erui possunt, quidquid contra dicat D. Rousseau Disc. sur l ' inegalité parmi les ho mm . ; sed sensibus olim ab adstantibus coaevis que percepta , ab his vero vel scriptis vel per manus tiadita ad . nos pervenerunt : ct quia narrantium auctoritas suspecta non est , certitudinem , aut saltem probabilitatem in mente producunt. Vides hinc , sententiam nostram in intelli gibilibus rationem, in sensibilibus experien liam , in factis rebusve humanum captum ex superantibus auctoritatem commend.ve ; adec que eamdem asse cuin Cartesiana , Malebran chiana, et Leibnitiana. Sed quia tessera haec certitudinem potius , mentis scilicet nostrae statum , quam rei veritatem respicit , de ea, quam producit , evidentia plura infra , ubi de veritate certa sermo erit , haud spernen da dicemus. Interim confereudus Io.And. Osiander Diss. de Crit. Verit. Tubingae 1748. FALSITAS veritati opposita est di screpantia cogitationum nostrarum ab obiectis. Quumque oppositorum contrariae sint adfectiones , patet , falsitatem vel in ideis, vel in judiciis, vel in ratiociniis reperi ii ; * adeoque FALSITATIS CRITERIVM esse manifestum rationis illius sufficientis defectum . Cap. I. De ver . eiusq. Falsa ergo est idea , quum aliter se habet a re repraesentata ; falsum iudicium aiens . , si quando subiecto non conveniat attributum , negans vero quoties boc illi conveniat ; adeo que falsa propositio , quae neganda adfirmat, adfirmandaque negat , vel quae universaliter enunciat quod particulariter enunciari debe . bat ; falsum denique ratiocinium , quod in materia vel forma peccat : i illa , quando propositiones sunt falsae ; in bac vero , quum syllogismi leges, violatae sunt. ** Propositionis falsae rera tessera est , si non modo desit ratio sufficiens, cur praeuicatum subiecto tribuatur , vel non ; verum adsit rl tio , cur contrariuin enuncietur : tunc enim subiecti notio determinal qualitatem attribu ti oppositi. Porro in ratiociniorum forma fal sitas esse potest vel patens , vel latens . Si vitinn sit manifestum , dicuntur PARALOGISMI ; si vero crypsi aliqua tegatur , vo cantur SOPHISMATA A Scholasticis am bo vocantur FALLACIAE. Paralogismus est sequens: Omne homicidium est vitandum , nullum furtum est homicidium ergo nullum furtum est vitandum. In co enim aperto peccalum est colra Can . 4.6. 87.: me dius enim terminus his particulariter sumtus est. Sophisma contra crii , si sie ratiocinabea ris : Populus ex terra crescit : mulliluilo ko. 140 Logica Pars. II. minum est populus : ergo multitudo hominum ex terra crescit : quatuor namque termini ir repsere per aequivocationem termini populus, qui in maiori arborem , in minori hominum multitudinem siguificat. ** Plurima de fallaciis ad nauseam usque a Scho laflicis tradita invenientur , qui tamen tot tan tisque tractationibus nullum fecerunt operae pretium. Quia vero in huiusmodi failaciis, fi ve dictionis, five (ut ipsi aiunt) extra di ctionem , vitium plerumque latet in quarto termino cryptice tecto : Auditorum nostro rum mentes non ultra fatigabimus : attamen, si sapient , syllogismi leges memoriae inscul pent, et ad terminorum numerum semper animum adverlut. Quibens relligiose servatis, aut nihil scimus , aut numquam , neque de cipi ratiocinando , nec alios deçipere pote runt. Schol. De huius tandem docirinae usu opus cst , ut aliqua addamus. Ea paucis iisquo baud spernendis comprehendemus regulis . Qui ergo Philosophi nomen adse qui cupit , hos probe teneat. Cap . 1. De ver. eiusq. crit. CANONE S. I Dea , quae characteres continet si * bi invicem repugnantes, deceptrix est : imaginaria vero , qua ob similitudinem quampiam nobis fingimus quod non est, ut quasi per imagniem oculis obiectum praesens sistamus. ** * Hae igitur ideae proprie loquendo non falsae, sed potius impossibiles dici possunt , quia nihil sumt: ut ' idea circuli quadrati , ligni ferrei , creaturae infinitue', ec. ** Vocantur istae a Wolffio vicariae realium , quia earum vices gerunt , ut si memoriam ti bi rapraesentes per receptaculum idearumi : licet enim nulla adsit analogia inter spiritum el corpus , atque adeo inter eorum proprie lates : ob similitudinem tamen , quod , sicut in receptaculo plura servamus , quae inde , quum opus fuerit , depromiinus , ila memoria plures ideas , quae tamdiu latuere nobis sug gerit , memória ipsam veluti receptaculum nobis sistinus 2. De eo , cuius clare et distincte ra tionem perspicis sufficientem , tuto adfir mato : negalo vero , quod eidem pari ratione refragari cognoscis. Si eam non adhuc nosti : licet pro incerto haberi 142 Logica Pars. II. ſas sit , ne temere iudicato , donec veri tatis eius , falsitatisve criterio polleas. Hoc quidem modo vitari poterit audax illa in iudicando praecipitaptia , quae incautos maxime adolescentes quamplurimis subjicit erroribus. Hi ramque sola suarum virium praesumtione freti iudicia sua nec rationc ful ciunt, nec ad criterium aliquod exigunt ; quo fit , ut ea praecipitanter nimis prouentiare adsueti , ratione tandem destituantur, et quid quid in buccam venerit effutiant. 5. Si diu in veritate invenienda fru . stra taboraveris , examen reintegrato. Si ne id qutdem profuerit , ne rem pro falsa , aut impossibili venditato , nitam ridiculus sis , qui mentem tuam veri ful sigue mensurani esse existimes. * * Perutilem harc cautionem inculcat Genu eusis noster , quae dici non potest , quanto sit omuibus adiumento. Quum enim obscurilas plerumque sit relativa , eiusque caussa in - bo mirum n.entibus , raro in re percepta , sit quaerenda ( S. 20. ) : nullum est huiusmo di iudicium , quod non ex praecipitantia fluat . Qui enim ita se gerunt, ni mia de in tellectus sui viribus praesamtione laborant, idque agunt , perinde ac si supremum persprie caciae cognitionisge gradum obtineant, cui an tefcratur remo, pauci pares putentnr. In hanc rigrilam offendunt quicumque mundi creatio Cap. II De ign. et er. cor. caus. 143 nem iu tempore , aliasve doctrinas , quas intellectu adsequi nequeunt , proimpossibi libus venditant , ut fusius in Metaphysica docebimns. Id vero quam ridiculum sit , nemo non videt. De ignorantia et errore , eorumque caussis. A Ctio mentis , qua verum ( S. 94. ) agnoscit, resque sibi re praesentat ac percipit , COGNITIO adpellatur. Eius vero absentia dicitur IGNORANTIA, quae definiri pot est per statum mentis cognitione desti tulae . * Sic e g. qui disciplinae alicuius veritates ac praecepta novit , eaque mente tenet , illius cognitione gaudet : contra vero , si ea cogni lione sit 'destitutus , disciplinam illam igno rare diciiur. 103. Experientia quisque sna it aliena doceri potest , hominnm plerosque nihil aut minipium admodum in rebus cogno scere ; plurima quoque nesciri ab iis , qui acriori se praeditos ingenio jactant : cos vero , qui doctissimorum virorum nomine gaudent , quo longius sua sese exserit co gnitio , eo plurima se ignorare comperient. 144 Logic. Pars II. * Ex innumerabili rerum , quae sciri possunt , puniero ingenii cuiuscumque vires superante, domesticaque experientia fluxit mos ille lau dabilis ad utilium rerum cognitionem ani mum adplicandi , neglectis iis , quae ad cu iusqne statum minime pertinentes, inter su ferflua et inuțilia referuntur. Recte namque observaverat Seneca necessaria a nobis igno rari , quia superflua discimus. Id ipsum er go argumento est , homines , postquam ad sublimiorem , ut aiunt, cognitionis apicem pervenerint , quamplurima adhuc habere , quorum nulla se gaudere cognitione animad vertant, illoruinqe esse admodum ignaros. 104. Ex quo patet 1. omnes homines in stalu verae ignorantiae versari , ac ne minem un quani reperiri posse , qui omui moda rerum cognitione praeditum se tuto adfirmet : quapropter oportere 2. ordine na in studiorum curriculo servari , ut primo necessaria * deinde ütilia , postremo iu cunda discantur ; adeoque 3. eruditorum reprchensionem merito incurrere eos , qui neglecta hac methodo ad superfluarum re rum siudiuin animum adplicant , param curantes ea , quae ad interni extervique status suiperfectionem sunt necessaria. Necessaria dicuntur , quae Dei suique cogni tionem spectant , item quae facultatem quam quisque profitetur , postremo quae ad socie tatis commoda promovenda pertinent. Cap. II. De ign. et er. eor. cans. 1.45 ** Suo itaque officio deesset Medicus , si ne glecta medendi arte, eruditioni, hoc est quid quid extra Medicinae ambitum est , operam daret. Ignorantiam quoque suam magis pro moreret Legisperitus , si pro legum codici bus , medicos aliosve sibi inutiles libros evol veret. Alque utinam nostro hoc aevo Lit teratores isti extra aleam aberrantes defide, rarentur ! 105. Ad ignorantiae porro caussas de tegendas nobis lucem quam maximam ail fert experientia. Ea enim duce scimus igno rantain oriri a 1. DEFECTV IDEARVM , non solum in iis rebus , quae nostrum si perant captum , sed etiam in iis , quae iu jus limites von excedunt , 2. MENTIS IMBECILLITATE , sive impotentia co gnoscendi idearum nostrarum relationem , LABORIS IMPATIENTIA, qua fit, ut attentio minuatur, ideaeque fiant deterio res, STVDIORVM CONFVSIONE , MEMORIA vel nimia, vel labili, 6. denique SVBSIDIORVY INOPIA. (t ) Impotentia haec ab idearum mediarum defe ctu pendet : quo fit , ut communi illa defi ciente mensura , nec conferre inter se nolis nec propterea vertalem delegere quaemus. ( ones T. 1.  ** Confusio studiorum habetur , vel quia fine attentione aut ordine fiunt , vel quia plurima eodem tempore cursimque discuntur : ex quo pluribus intentus minor est ad singula sen sus. Hinc nimia illa sciolorum turba , solis frontispiciis praefationibusque furfuroscrum , nostram invasit aetatem, ** Nimia namque memoriae praestantia laboris impatientiam, adeoque ignorantiam parit ; illius vero infidelitas cognitionis defectum au get. Ecqua enim cognitio ei , qui unam al teramve propositionein memoria retinere non valet ? ( + ) Subsidiorum nomine veniunt Magistri, si ve viventes illi sint , sive mortni, scilicet li bri. Ex horum enim defecte lici non po test , quot sublimia vilescant ingenia , quae vel mechanicis adeo artibus, aut otio et libidi ni se addicunt. Elegantissimum est Alciati em blema , quo ingenia ista iuveni euidam com parat , cuius sinistra manus duabus alis in Coclum tollitur , dextera vero ingenti pon dere impedita deorsum fertur. Cujus em blematis dilucidationem reddemus Dolendum autem magnopere est , quod si quando iuvenes isti litterario furfure vix in crustati Rempublicam invadunt , societatis perturbatores , bilingues , susurrones , ad pessima demum et turpissima quaeque , ( si paucos excipias ) parati evadunt. 106. Haec de ignorantia. Quando au tem propositicni verre dissensim , falsae contra adsensum praebemus, tunc ERRA coram Cap. II De ign. et ei. cor. caus. 147 RE dicimur, sive judicia confundere. Qua propter ERROR definiri potest , quod sit confusio iudiciorun . Error autem in iu dicando commissus PRAEIVDICIVM * adpellatur , quod esse dicimus iudicium erroneum praecipitanter et sine maturi tale latum. Dicitur vero praeiudicium , vel quia sanae mentis praevenit iudicium , vel quia praema ture et fine criterio profertur. Talia sunt pleraque vulgi praeiudicia , veluti: discum solis diametrum habere circiter bipalmarein: cometas esse bellorum caussas : et alia eius modi. 107. Quum praejudicium sit iudicium erroneum ; error vero confusio iudiciorun: evidens est s . praeiudicia na sci ex idearum ob curitate et confusione, adeoque 2. eorum originem ab intellectus corruptione unice esse petendam . Equidem sunt plerique , qui praeiudiciorum originem a voluntaté repetunt, eamque pri us emendandam esse aiunt ; ii tamen io to aberrant coelo : voluntariam namque praeiudiciis adhaesionem vel negligen liam animum ab iis liberandi , pro praeiudia ciis venditant . Si vero rem probe per penderint videbunt, ea , quae voluntatis vitia asserunt , ab intellectus vitiis vel imagin natione pendere : et si qui méntem obun brant ad feclus , appetitus quippe sensitiyi * * 7 G 2 148 Logica Pars. It. ** vehementiores molus , non aliunde , quam ah ideis obscuris et confusis ortum trahunt. Qua de re legatur Syrbius in Phil. rat p : 5 . 108. Duo intérim sunt praeiudiciorum genera , AVCTORITATIS scilicet , et NIMIAE CONFIDENTIAE . * Illa sunt , quae nostris viribus parum confisi , nimi aque oscitantia laborantes ab aliorum , quorum apud nos plurimum valet ancio ritas , scriptis vel sententiis kausta adopta mus , eaque pro sanctis habenda puta mus ; hec vero , quae nostris viribus niinium fidentes , quamquam praecipitan ter et sine meditatione prolata . , tainquam vera lamen adsumunus illis firmiter achae remus , et proeiis , veluti pro aris et fo . cis , pugnamus. * Addunt alii praeiudicia AETATIS. At quum illa non sint, nisi opiniones praeconceptae a nutricibus parentibus , atque magistris a teneris , ut aiunt , unguiculis haustae : ea ad auctoritatis praeiudicia referri , nemo non ri det . Illustris VERULAMIUS de augm. scient V. 4. praeiudicia , , quae iilola vocat , in quatuor dividit classes , quarum prima am plectitur idola tribus, scilicet quae in ipsa hamana natura fundata sunt ; altera idola specus , hoc est hypotheses a nobis ipsis provenientes ; tertia i: lola fori , idest prae concept as opiniones , quae ab hominum com mercio mabant ; quarta denique idola the *** Cap. II. de ign. et er. eor. caus. 149 atri , videlicet erronea iudicia , quae ex Phi losophorum sententiis bauriuntur. Quae 0 mnia ad duas , quas retulimus , classes com mode referri possunt , ut coram ostende mus. * Auctoritatis praeiudicia sunt ea , quae a nu tricibus , magistris ( vivis illis mortuisve ) , aut populo haurimus : eiusmodi sunt opinio pes omnes aliquibus civitatibus , familiis , vel.: sectis familiares , quarum cultores illis , tam quam glebae , adscripli , nulloque utentes iu dicio , eas, tamquam oracula , pronuntiant seque inde dimoveri non patiuntur. Curio sissima est Galilaei narratio in Systemate co smico , de viro quodam nobili Peripatheticae philosophiae addicto , qui qunm Venetiis in domo cuiusdam Medici sectionem anatomicam perfici vidisset , in qua maximam nervorum stirpem e cerebro exeuntem , per cervicem transire , per spiralem distendi , ac postea per totum corpus divaricari observasset , nec, nisi tenue filamentum , funiculi instar , ad cor pertingere , a Medico rogatus , adhuc in Aristotelis sententia manere vellet rumque originem a corde repelere? non sine magno adstantium risu respondit : Equide:n ita aperte rem oculis subiecisti, ut nisi tex tus . Aristotelicus aperto nervos corde deducens obstaret , in sententiam tuam per tracturus me fueris. Quis , quaeso , haec au diens a risu ' temperaret ? *** Vocari quoque solent praeiudicia receptae hypotheseos , novitatis , similia : ut sunt sy nervo e G 3 750 Logica Pars 11. MAE , stemata omnia ab eruditis inventa , quibus tam acriter inhaerent , ut uullum sit rationis pondus , quo ab opinione sua dimoveri pa tiantur. 109. De errorum caussis, restat, ut paulo ca addamus, Eae vel REMOTAE sunt quae mentem ad errores ac praeiudicia praeparant et disponunt; vel " PROXI. , quae mentem ipsam ad iudicio rum confusionem impellunt , erroresque producunt. Remotae rursus in generales dividuntur , et speciales . Caussae generales sunt ATTENTIONIS DEFÈCTVS, qui ideas reddit deteriores ADFECTVS , quos attentionem turbare , idearumque obscuritatem parere supra ob. Servavimus, SCIENDI LIBRO ciun ralurali corporis inertia, COMPENDIA et DICTIONARIA disciplinarum, in quibus nulla idearum analysis reperitur MALVS vocabulorum VSVS , quo fit, ut auctorum sensus non intelligatur denique LI BERTAS PHILOSOPHANDI. Praeiudiciorum cnim origo ab idearum ob scuritate repetenda est , idearum vero obscuritatem pariunt attentionis defe clus et adfectus er his ergo caussis praeiudicia nasci , quisque intelligit. Quainvis enim corporis inertia laboris impa Cap. 11. De ign. et er. Cor. caus. ¥ tientiam creet , adeoque ignorantiae tantum Caussa esse possit ( * 105. ) : cum sciendi tamen libidine conjuncta errorum genitrix est: etenim sciendi pruritus efflcit , ut intellectus tali cupiditate ductus intra ignorantiae fuae te niebras consistere nolit , opportunisque prae • diis vacuus ea investiget , quibus par non est , ac proinde in plurimos lahatur errores. ** Libertas enim philosophandi iuxto maior in receptas hypotheses illidit ; nimis autem con etricia in auctoritatis praeiudicia nos urget , sel saltem crassam parit ignorantiam . 110. Speciatim autem AVCTORITA TIS praeiudicia oriuntur harum trium abaliqua EDVCATIONE, scilicet, CONVERSATIONE [conversazione], et CONSVETVDINE; ut et praeiudicia NIMIAE CONFIDENTIAE aa nimia INGENII FIDUCIA. Et ut de educatione quaedam singularia attingamus , id sedulo notandum : praeiu dicia , quae ab ca procedunt , tribus cha racteribus optime distingui, temporis BREVITATE, 2. loci RESTRICTIONE , cognitionis DEFECTV. Qui quidem characteres si desint , propositio non in ter praeiudicia , sed inter veritates com muni hominum consensione probat as est referenda . Quot mala hominibus adferat educatio , vix dici potet. Parentes enim tantum abest , ut puerorum intellectum perficere eorumquemor is mederi curent , ut potius eorum aninum maximis praeiudiciis, anilibus fabeliis , erro neisque opinionibus imbuant. De magistrorum educatione nihil dicemus , ab iis enim quam multa hauriuntur praeiudicia , quum iuvenes in magistrorum verba iurantes quaeuis eo run effata sancta esse putent , ac de illis veluti de Religione , dimicent ! Conversatio cuin libris et eruditis , consuetudo cum po pulo quot foveant errores , quum res sit me ridiana luce clarior , in ea explicanda nihil immorabimur Legatur interim Tullius Tuscul quaest. Lib. III. cap. 1 . Qui nimium suo indulget ingenio , fieri non potest , quin in errores incidat, el pacdın tismum vel contradictionis spirituin induat , quae duo vitia aliorum aversionem odiuinque conciliant. Praeterquam quod novitatis studi um quanta hominibus mala produxerit , ii sciunt, qui Ecclesiae vel litterarum vices er annalibus didicerunt. *** Nimirum educationis praeiudicia tantisper in animo sedent, donec ad maturitatem ra tionisque perfectionem sit perventum ; nou sunt ubique earlem , sed quamvis in cuius cumque Regionis gentibus praeiudicia sedeant, diversa tamen pro educationis morumque di versitate inveniuntur ; rudium tandem von eti am sapientum mentes occupant ita , ut dum illi inter praeconceptas opiniones erroresque iacent , hi eorum insipientiam ac ignorantiam destruere nullo modo valentes vel rideant, vel de ea conquerantur. Cap. II, De ign. ei er. eor. caus. 253 mus Omnes illae , quas recensuimus caussae praeiudiciorum remotae sunt ; pro Xima namque est PRAECIPITANTIA . Quae quum ita sint , optimum , idqne uni cum , ad praeiudicia vitanda remedium est iudicium suspendere, seu DUBITARE : est: enim DUBITATIO « prudens iudicii su spensio. Tanc autem iudicium suspendi quum propositionein aliquam nec adfirmamus neque negamus. * Cave la nen credas , ad praeiudicia vitandą conferre Scepticismum , vel Pyrrhonismum insanam nempe illum de onnibus dubitandi miorem , quo hodiernos incredulitatis fauto . res uii , non sine dolore videmus. Stolidi tas enim , nedum temeritas infanda foret sine sufficienti ratione dubitare. Sobriam quip pe ac prudentem commendamus dubitationem eo fine institutam , ut suspendatur iu licium , donec mens ad ideas distinctas clarasve per veniat. ** Totum hoc de rebus intra rationis fines ex sistentibus , nullaque evidentia suffultis est intelligendum . Etenim quae Divina auctorita te nituntur , aut mathematica gaudent eviden tia de illis dubitare , impium ; de his ve ro , foret adprime stullum . Schol. Espositis mentis humanae imbe . cillitate et vitiis , reliquum est jis praebeanius medelam. Quamvis Feromul, 7 ut aptam ti philosophicarum rerum Magistri , inter quos Nicolaus Malebranchius , et Antonius Genuensis , quamplurima ad id remedia . proposuerint , quibus vel minimum quidem addere , non opis est nostrae ; licebit ta men , ad Auditorum nostrorum instructio nem , si plura n quimus , eadem saltem ab ipsis tradita paucis repetere. Quisquis ergo ignorantiam errorenive yitare cupis , hos menti infigito CANONES. MEREntem sedulo studio attentio ne , meditatione ab obscuritate et confusione liberato. * In hoc enim in . tellectus perfectio sita est, a qua exsu lant ignorantia et praeiudicia . * Ut id consequantur adolescentes , prae ocnlis habeant quae in prima harum Institutionum parte observavimus , ea praecipue , quae de ideis cap. 1. Schol. adnotavimus. 2. Ad studia praeiudiciis liber ac do cilis , uti modo in lucem editis infans, accedito . Magistrum eligito optimum ab eoque necessaria atque utilia disci io , nihil verens ab eius , qui te ad sa pientiam manuducit, prius ore pendere: Cap. II. De ign, et er. eor. caus. 155 ut praecepta demum , quum te ignoran tia deseruerit ad examen revocare possis. * In Magistrorum electione magna cautio adhi benda est : abea namque pendet cognitionum nostraram soliditas et rectitudo. Ad eorum dotes praecipue attendendum , de quibus ideo pauca inferius delibabimus. 3. Methodum ubique atque ordinem cordi habeto. In studiis eapraecedant per quae sequentia intelliguntur. Ex hujus canonis neglectu oritur studiorum confusio , quam ignorantiae caus sam haud postremam esse , experientia sensusque com munis evidenter ostendit Auctoritati nec nihil , nec multum deferto. Nimia namque aliis adhaesio servum pecus ; sensus vero communi ne glectus audacem efficit , omniaque sibi permittentem. 5. De iis , quae vel Divina auctori tate , vel maxima evidentia destituta sunt , prudenter dubitato , donec certus fias. Rectam rationem prius, sensum dein de optimorum communem consulito . Quae captum vero tuum superant ne perqui rito , nisi prius opportunis mediis probę fueris instructus. * G6 156 Logica Pars. II. * Si vero captum humanum superent , ca non investigare omnino , recta ratio docet. 6. Laboris patiens , memoriae ac per spicaciae tuae ne nimis fidens esto . Me mento Poetae illud: ABSQUE LABO RE.NEMO MUSARUM SCANDIT AD ARCEM. Vides hinc , quam immerito a nostrae aetatis adolescentibus voluptati ac vanitati deditis laboremque horrentibus cognitio studiorum que felix exitus expectetur. Compendia et dictionaria , quippe quae nihil solidi profundique continent, ne multum amato . Paucos habeto libros, eosque lectissimos. * Cum lectione me ditationem semper coniungito  Non nostrum est praeceptum , sed Senecae , qui ut facilem Lucilio suo viam ad virtutem aperiret , librorum paucitatem diserte com mendat his verbis : Cum legere non possis quantum habueris , sat est habere quantum legas. Ep. 2. Vide quae diximns Part. I. 8. Poetas caute legito , ne inanibus fabellis animunı imbuas. Populum , utpo te pessimi argumentum , ut anguem fu gito . Senecam audito dicentem : SANA TIMUR , SIMODO SEPAREMUR A ÇOETU, cap. 1. Schol. Cap. II. De ign. et er . cor. caus. 157 Ad poetas quod attinet , eorum lectionem adolescentibus vel omnino interdicendan , vel arctissimis includiendam cancellis cuperernus, quippe qui vivida phanthasia pollentes ima ginationi retinere potius, quam laxare debent habenas : id quod ia legendis Poetis contra evenit. Populi porro damna paucis expressit idem Seneca, quum ait : Inimica est mullorum convcrsatu. Ep. 7. De Veritate ceria , melliisque ad cam perveniendi. $ 12 . sis ad veritatis investigationem gradum faciamus. VERITAS vel CERTA est, si in ea adsint omnia veritatis requisita, ut nulla nobis de illa re maneat suspicio aut dubium , vel PROBABILIS , si propius ad certitudinem acce dat , nempe quum non omnia insunt re quisita . De illa nunc , de hac subsequen ti Capite agemus. CERTITUDO est mentis status veritati adensum ita praebentis ut nulla de opposito adsit sollicitudo Ex consequitur i , ut si quam minima adsit suspicio non certitudo , sed INCERTITUDO vocetur. Et quia non idem est om. nibus mentis status , sequitur 2. eamdem evunciationem uni certam esse posse , al teri incertam . Tandem quoniam quisque mentis suae statum agnoscit , consequens est 3. ut nemo aliorum certitudinis sed suae tantum iudex esse possit. * Quia omne , quod verum est , vel absolute et in se tale est vel in relatione ad mentem , quae non semper terminorum nexum distincte percipit : ideo Philosophi certitudinem divide bant in OBIECTIVAM et FORMALEM , il lamque esse , aiebant , nexum propositionis in trinsecum , hanc mentis nostrae statum respi cere. Nos illam proprie VERITATEM , hanc CERTITUDINEM adpellamus. E. 8. Axioma ; Totum est maius sua parte , si absolute et in se spectetur , VERUM dicitur , si vero ad men tem referatur, CERTUM est , quia talia ad sunt indicia, ut ipsi absque ulla oppositi formi dine adsensuin praestemus. Quoniam indicia ad certitudinem ducentia trium generum esse possunt , sci licet vel absolute infallibilia vel dalis tantum permanentibus caussis naturalibus , vel denique sccundum huinanae prudentiae leges : evidens est 4. triplicem etiam esse certitudinem, METAPHYSICAM nempe yel MATIEMATICAM , quae illis ; PHY. Cap. 111. De veritate certa etc. 159 SICAM , quae istis ; MORALEM tandem , quae his fulcitur indiciis , quaeque alio no mine FIDES HUMANA adpellatur. * Primi generis sunt axiomata, aliaeque pro positiones nullis obnoxiae vicibus ;alterius haec propositio: corpus non suffultum cadt : pos fremi vero haec : Augustus fuit primus Ro manorum Imperator. 115. Experientia abunde constat , men tem nostram non statim , nec semper , quod verum est , certo cognoscere- Via ergo quaedam ipsi monstranda est , qua tuto ad certitudinem perveniat : eaque , pro certitudinis varietate , diversa est ; spe ciatim vero triplex, EXPERIENTIA sci licet, RATIO seu DEMONSTRATIO , et AUCTORITAS , de quibus singillatim , et quantum res ipsa furet , breviter agemus. Uidquid a nobis sciri potest , vel singulare est vel universale ( S. 26. seqq. ) ; itemque vel effectus, vel caussa . Singulares porro ideas sensibus ad quirimus; universales' vero in 160 Logica Pars II. tellectus abtractione conficimus. Rursus quaelibet caussa effecluin salte in natura , praecedit , ut in Metaphysica do. cebimus. Duae igitur cognoscendi viae no bis aperiuntur , altera , quae a singulari bus ad universalia ; itemque ab effectibus ad caussas ascendit , nemp: a sensibus , si ve experientia incipit ; ideoqne dicitur co gnitio a posteriori: altera , quae ab uni versalibus ad particularia , a caussis ad ef fectus rationis ope descendit descendit ,, ac proinde vócatur cogniíio a priori. De illa nunc ; de hac sequenti sectione agemus. Omue itaque , quod experientiae ope scimus, dicitur COGNITIO A POSTERIORI. Est autem EXPERIENTIA cognitio adqui sita ex attentione ad obiecta sensibus obvia, Sic per experieutiam novi'nus aquam made. facere, ignem col fucere , ceram igni admo tam liquefieri , ct id genus alia. 117. Quum experientia sit in rebus sen sibus obviis; sensibus auien percipianlur les exisientes sive indiviadua: patet 1. a uobis res tan tum singulars experimento addisci , * extra eas nsilium alind esse experientiae obiectum , adeoque 3. eam in abstractiş 2 2 . Cap. Ill. de Veritate certa ctc. 161 sensus et universalibus locum non habere, licet haec ab ipsa deriventur. Igi tur 4. qui demonstrationem aliqu am posteriori conficere vult , is casum singu larein , allegare debet, dummodo experien tia non sit cuivis obvia ; 5. denique , ex perientia non datur in iis, quorum n ullam habenius ideam . * Quoniam vero est vel internus , vel externus experientia quoque est vel INTERNA, vel EXTERNA. Illa habetur qnum nobis ipsis attendentes aliquid in anima nostra contingere percipimus : e. g quoties nobis malum aliquod repraesentamus ; toties taedio nos adfici animadvertimus ; haec ve ro , si res in organis nostris mutationem pro ducentes percipimus: ut si manu igui admota, calorem igui inesse observemus. "Experientia rursus dividitur in VVLGAREM , quae mnibus aeque patet , ut calor ignis, et ERVDITAM , quae speciali studio, atque adhi bitis necessariis mediis cooficitur , arleoque so lis innotescit eruditis , ut ' aeris gravitas , elasticitas ctc. 118. Habitus , sive promtitudo aliorum vel propria esperimenta colline andi, et ex iis conlusiones elicianendi, dicitur ARS EXPERIVNDI. Quae quidem ab experientia tam longe distat, quantum ba bitus dfert ab actu. * Non ergo sufficit unam alteramye experientiam peragere , aut aliquot instrumenta s ertractan . 162 Logica Pars II. di peritiam habere , ut experiundi arte prae ditus quis dici possit , sed opus est habitn longa exercitatione adquisito , non solum res experimento subiiciendi , sed propria aliorum que experimenta ad critices regulas exigendi, atque ex iis conclusiones scientificas , sive corolla ria legitimo rationis usu deducendi 119. Quoniam experientia sensibus ni titur; ad sensionem autem duo requiruntur , scilicet mutatio in or ganis sensoriis ab externis obiectis produ cta , et repraesentatio in anima huic obie cto conformis ( ut in Psychologia ostende mus ) : consequens est 6. ut sensus , po sitis ad sentiendam requisitis quam fallant ; * proindeque 7. nos non & sensibus, sed a iudicio , quod ani ma praccipitanter fert super experientia , persaepe falli. Rinc. 8. cautiones quaedam ad errorem hunc vitandum adhibendae > num sunt. et Requisita ad sentiendum tria sunt , orga norum sensoriorum sanitas 2. attentio , 3. justa obiecti distantia. Quotiescumque ve ro de visu agitur , et quartum requisitum adesse debet , nempe èiusdem mcdii in ter obiectum et organum interpositio. Quum enim in visione radii lucis in corporum superficiem incidentes reflectantur , et in acre prius , deinde in oculi humoribus ac lente cristalli ua refracti ad retinam usque pertingaat , u Cap. 111. De Veritatė certa etc. 163 hi motum in nervo optico , quod sensationis caput est , producunt : si partim in aere partim in aqua aliove densiori medio obie clum ponatur , non eadem erit lucis refra ctio , adeoque non idem locus obiecti parti ' bus adsignabitur : unde fit, ut illud fractum vel recurvum adpareat. Si ergo neglecto hoc requisito adparentiam illam pro realitate sumamus , non sensuum , sed judicii defectú id provenire , fatendum est. Cautiones , quas inculcamus sunt 1. ut sior gana sensoria paullo debiliora fuerint, debi tis armentur instrumentis , 2. ut obiecta in iusta ab organis distantia posita attente ob serventur 3. ad tot sensus , ad quot redi gi possunt , redigantur. Si cautiones istae adhibeantur nullus in percipiendis rebus sensibilibus irrepere poterit error : si vero quae dicta sunt probe attendantur , non in surgent amplius difficultates , nec erunt qui vetustissimam cipionis in aqua fracti , turris que emimus rotundae adparentis cantilenam ad nauseam usque repetentes , sensuum fal laciam ulterius inculcare velint. 120. Quia vero per experientiam sin gularia tantum cognoscimus sequitur ut VITIVM SVBREPTIONIS incurrant ii , qui ea , quae minime ex perti sunt , vel quae imaginationi aut ra tiociniis experientia deductis debentur , pro experientia obtrudunt. * Tales sunt , qui pliaenomeni alicuius caussam raperientia constare adserdut. Veluti si quis 164 Logica Pars II. ferrum a magnete altrahi videns , experien. tia compertum esse diçat , ex magnete efflu - via exire ferrurn attrahendi vim habentia , vitium subreptionis incurret. Quum ergo res singulares tantum modo experiamur; earum ve ro repraesentatio dicatur idea singularis: recte infertur 10. notiones expe rientiae ope immediate formatas esse ideas singulares , ut et 11. singularia iudicia ipsis innixa . * Quumque his nova deducta iudicia non nisi ratiocinationis ope eruan tur : evidens est 12. haec nova iu dicia di ci non posse singularia , sed DIANOETICA sive ratiocinantia.Vocantur huiusmodi iudicia INTVITIVA , quia in his , quae in rei cuiusdain notione comprehensa intuemur , eidem tribuimus : ut ignis est rulidus : aqua madefacit. Scholastici ea vocabant discursiva : ratioci nium namque ab iis dicebatur discursus. E. g. ignis est cctivus : vapor est elasticus. Quandoquidem indicia intuitiva conficiuntur tribuendo rei quidquid in ipsi us potione comprehenditur: sequilur . 13. ut ea conficianlur accipiendo rem perceptam pro subiecto, eique tribuen I 22 . Cap. III De Veritate certa ete. 165 do quidquid attente consideranti in ipsa occurrit , vel ab ca removendo quod in aliis , non etiam in illa observatur. * remove * In primo casu habebis iudicium aiens , in secundo negans. E. g. Ignem percipis eique calorein inesse observas . Sume ergo ignem . pro subiecto , calorem pro attributo , et ha bebis iudicium aiens : ignis est calidus. Contra quia alias observasti aquam madefa cere , id vero in igne non intueris : ab igne hoc attributum , eritque indiciun negans : ignis non adefacit. 123. Quemadmodun autem enunciatio . nes particulares in universales comunitari possunt: ita , quamvis notiones et iudicia ab experientia deducta sint singularia, commode tamen in u niversalia transmulari possunt , si regulae sequenies exacte servcolur. 12. Quoniain individua'sunt omnimo de determinata ( $ . 18. , et variis circum stantiis involuta: 14. at tente separari a re percepta debent acci dentia sive modi ab attributis essentialibus, quibus tantumu modo est attendendun : 15. allributa haec essentialia onipibus speciebus vel individuis 166 Logica Pars II. convenientia abstractionis ope retinenda , atque inde notae characteristicae depro mendae sunt , quae ad rem illam ab a liis discernendam sulliciant . Hi quidem ermut characteres definitionis a posteriori ex in dividuis casibus eruendae. 125. Vt antem operatio recte procedat, oportet 16. tot facere iudicia intuitiua quot res ipsa percepta suppeditat , 17. ac cidentia omittere , 18. attributa , quae non seinper eadem sunt , determinationis bus particularibus liberare , ac tandem 19. plura ea in re adducere exempla magna pe sollertia attendere in quibus perpcluo conveniant , aut inter se discrc pent. * E. g. Vt scias quid sit commiseratio , ob serva casum aliquem , in quo videas te , aut alium alterius commiseratione percelli. Ad duc et aliam huius modi speciem , aut plu res etiam , si id res exigat , videtoque cir cumstantias , quae sunt perpetuo similes. Hoc modo in notescet tibi commiserationis idea universalis , cuius notae definitionem suppe ditabunt realem , commiserationem nempe es . se tacdinm ob alterius infelicitateir. Conf Wolfi. Log. Lat. §. 492. 126. Nunc quo modo iudicia universa lia a posteriori coulcianlur , observemus. Cap. III. De Veritate certa etc. 167 Quia ab experientia oriuntur iudicia intuitiva: videatur primum , num praedicatum sit attributum rei perceptae essentiale : quo casu enunciatio erit uni versalis ( $. 68* ). Deinde experientiam multoties repetendo dispiciatur , utjum at tributum illud rei perceptae perpetuo et costanter insit. Quod si non semper illud inveniatur , investiganda est ratio , cur in ea aliquando deprehendatur , eamque biecto addendo , indiciuin enascetur uni versale ( 5. 69. ): * Ita e . g. esperientia novimus , igni semper calorem inesse , ceram autem non seinper es se liquidam . Iudicium ergo ignein esse cali dum erit universale : at non universaliter ius ferre poterimus ceram esse liquidam ;sed opor tet invenire rationem cera aliquando liguescat , quae quun sit in igne , cui tunc admovetur , hac subiecto addita , universalis orietur ennnciatio : cera igni admota li quescit. cur > 1 127. Philosophus interim in rerum ca ussis et rationibus investigandis studiose versatus regulas quasdam sequa tur oportet , ut veriiates ex experientia de ducere queat. llae regulae sunt : 1. Si in obiecto aliquo mutatio observetur , qun ties obiecto alteri iungitur , idquc con 168 Logica Pars I. stanter : tunc hoc esse illius caussano 3 tuto concludi potest. * 2. Si duo vel plura , licet perpetuo , coexsistere wel se mutuo sequi observeniur , sta tim inferre licet , unum esse alterius ca ussam , nisi prius recta rario sic esse convicerit. non * Id clare patet exemplo cerae liquentis igni , aut solis radiis admotae. ** Si ergo bellum simul cum cometa existat , vel eumdem sequatur: praecipitantia erit iu dicare , hunc esse caussam illius. 21 . 128 Ex quibus omn : bus clare deducitur 20 propositiones ex experientia legitime uistitala confectas esse certo veras ; quouicumque sensioni omnibus requisitis in stuctae convenit , pro certo haberi , adeo . que 22. et definitiones experientiae adiu mento legitime efformatas , et 23. axio mata vel postulata ex his de ducta itidem certitudine pollere.  Rationem definivimus per facile tum distincte perspiciendi. Il la ergo utimur si qnando enunciationem , de cuius veritate iudicium ferre volumus , ita cuin aliis connectimus , ut inde ter minorum nexus ctare perspiciatur : id ve . ro est , quod dicimus COGNITIONEM A PRIORI. Connexio isthaec vocatur DEMONSTRATIO , cuius est veritates ex certis principiis per legitimam ratioci nandi seriem eriiere ( š. cod. ) . SERI ES porro RATIOCINÀNDI habetur , si ex pluribus syllogismis invicem connexis conclusio prioris sit praemissa sequentis ut inox adparebit: qni quidem SYLLOGIS MI CONCATENATI dicuntur. 130. Ex quibus nullo negotio sequitue 1. in omni demonstratione duo requiri , nempe principia demonstrandi certa it in : dubia , eorumqne cum conclusione coone xionem . Et quia experientiae rite institu definitiones , axiomata et postulata T. 1. tae , 2 > H 170 Logic . Pars II. certitudine gaudent ( s. 128. ) : infertur 2. ea ad eiusmodi principia esse referen da , proindeque 3. illum adserta sua nou demonstrare , qui ea ex incertis dubiisque principiis deducit. 131. Quia vero duplex cognitio datur , a priori scilicet , sive per rationem ; et a posteriori , seu per expe rientiam: sequitur hiec 4 . duplicem quoque dari demonstrationem, earoque vel A PRIORI confici vel A PO. STERIORI : illam haberi , quando veri tatem aliquam a principiis legitime connexis deducimus , vel effectum per suas caussas probamus ; si quando eam ex experientia reete institu ta , vel caussam per suos effectus demon stramus. ** Quum ergo a priori demonstrare volumus , principia statuamus necesse est , antequam ad syllogismorum concatenationem deveniamus. Id darius fiet exemplo. Ponamus hanc proposi tionem : Deus caret adfectibus. Eam a prio. ri sic demonstrabimus. DEFINITIONES. 1. Deus estens perfectissimun. 2. Intellectus perfectissimus est , qui omnia * hanc vero , sibi distinctissime repraesentat, 3. Appetitus sensitivus est. qui oritur ex idea boni confusa. 4. A'fectus sunt motus vehementiores appe 1. tu sensitivi. Cap . II!. De Veritate certa etc. 1 . ) : sed era mo AXIOMATA. 1. Ens perfectissimum gaudet in tellectu perfectissimo. 2. Distinctissima omnium repraesentatio ex cludit quamcumque idearum confusionem . THEOREMA. Deus caret adfectibus. DEMONSTRATIO . 1. Ens perfectissimum in tellectu gaudet perfectissimo ( ax. Deus cst ens perfectissimum ( def. 1 . ) ; go Deus gaudet intellectu perfectissimo. 2. Quicumque intellectu gaudet perfectissi omnia sibi distinctissime repraesentat. Deus vero gaudet intellectu perfectissimo ( num. 1. ) : onania ergo sibi distinctissime repraesentat. 3. Qui omnia sihi distictissime rapraesentat , ideis caret confusis ( ax. 2. ) : at Deus om niasibi distinctissime repraesentat. ( num . 2 ) : ergo Deus caret ideis confusis. 4. Ab ideis boni confusis oritur appeti !us ser sitivus ( def. ? . ) : quuin ergo Deuts careat idcis confusis ( num .' 3. ) ; liquet , eum care re quoque appetitus sensitivi. 5. Qui appetău caret sensitivo , is caret adfe clibus ( def. 4. ): atqui Deus carct appetitie sensitivo ( num . 4. ) : ergo Deus caret adfe ctibus. Vides hic syllogismorum connexione a principiis ceriis deducta confectam esse demonstratio nem . ** A posteriori demonstratur animae in nobis exsistentia hoc modo. EXPER. Si nobis ipsis attendamus , obserica biinus , aliquid in nobis esse , cuius ope nosa H 2 172 Logic. Pars. II. metipsos ab aliis rebus extra nos positis , inter eas vero alias ab aliis distinguiinus , boc est nostri rerumque extra nos positarum conscii sumus. DEFINITIO . Id. ipsum , quod nobis sui rerumque extra se positarum est conscium , dicitur anima. TIIEOREMA. Exsistit in nobis anima. DEMONSTRATIO. Experientia enim constat , aliquid in nobis esse nostri rerumque extra nos positarum conscium : id ipsiin autem est quod dicitur anima ( per defin. ) : e: c sistit ergo in nobis anima. Demonstratio iterum est , vel D. RECTA sive Ostensiva * vel INDIRE DIRECTA seu apogogica. **. Illa est qua ex notione subiecti colligitur eius nexus cum attributo ; haec autem in qua oppositum tamquam verum assumen tes , conclusionem falsam inde deduci mus , ut propositionis nostrae veritas elucescat. Directa ergo erit demonstratio , si ordinem sequatur hactenus explicatum ( $. 131. , si ve a priori sil , sive a posteriori : ut videre est in superadductis exemplis ( $: 131 " ); ** Indirecta demonstratio vocari quoque solet redactio ad impossibile vel ard absurdum , quia oppositam propositionem ut veram alla sumens , ex ea absurdum aliquod , sive cou clusionem impossibilem, eruit. Talis crit de monstralio scyueas. THEOREMA. Nibil est sine ratione sufficiente. DEMOSTRATIO. Ponamus aliquid esse sine ratione sufficiente. Ratio ergo , cur id sit aut fiat , erit in nihilo : adeoque nihilum ex sistet simul , et non exsistet. Essistet , quia aliter non posset esse caussa alterius : non exsistet , quia aliter non esset nihilum . Quod quum contradictionem involvat , sitque ideo impossibile : ergo nihil est sine ratione suffi ciente. 133. Ex hactenus dictis patet 1. quam cumque propositionem legitime demonstra tam esse certo veram idest certitudine gaudere metaphysica , proindeqne 2. de inonstrationem csse viam ad certitudinem perveniendi praestantissimam . Quumque ex perientiae et demonstraționis excellentiam ostenderimus : ' recie concludi mous 3. veritatem certain dici . dubia ' sensione , vel evidenti principio ni titur , dummodo in demonstrando CIRCU LUS non irrepscrit. In hoc vitiuni incurrunt ii , qui propositio nem probantem demonstrant per propositio nem probandam : quia in tali casu idem per idem demonstratur. Huic adfiuis est illa , quae a Scholasticis adpellari solet PETITIO PRINCIPII , nempe quum principium de monstrandi vel nullum est , vel nulla certi tudine aut ' evidentia gaudet. Huiusmodi sunt pleraeque enunciationes Epicuraeorum , Pla quae in H 3 174 Logic. Pars Ir. quis tonicorum , Stoicorum , aliorumque, de bus in Metaphysica erit disserendi locus. 134. Quoniam autem in detegendis per demonstrationem veritatibus ordo , sive methodus requiritur : ne longius hic pro grediamur , de ea sequenti capite , prout res exegerit , breviter enodateque tracta bimus. R Elite ut de AVCTORI TATE pauca dieamns . Ea non scientiam , ut experientia et rutio ; sed FIDEM parit. Est autem FIDES : ad sensus propositioni datus , alterius te stimonio itinixus. Ex quo patet , rationem fidei sufficientem esse narrantis auctorita tem. Quumque auctoritas vel Divina sit , vel humana : fides quoque in DIVINAM et HVMANAM recte dispertitur. 136. Ex qnibus liquido infertur 1. fidei fundamentum in eo consistere , ut narrans taliasit , qui nec falli nec tallere possit ; ac proinde 2. eo firmiorem esse fidem quo certiores sumus de scientia et veraci tate narrantis. Et quia Deus est omniscius Gap. VI. De Veritate certa 175 et infinite verax , quippe in quem nulla cadere potest ' imperfectio ( per princip ; Theo. nat. ) : evidens est 3. fidem Dic vinam parere certitudinem omni exceptione maiorem ; pariterque 4. Dei loquentis au ctoritatem esse fundamentum veritatis com pletum , omnibusque numeris absolutum ; adeoqu 5. debere nos Deo loquenti ad quiescere , nec umqnam Dei testimonio demonstrationem ullam opponere , utpote vel falsam prorsus , vel indigestam . * Non potest enim certitudo certitudini adver : sari , quia si id esset , tunc contrariarum propositionum utraqua vera esset , adeoque idem simul esset et non esset : quod quum repugnet, non potest ergo fidei Divinae demonstratio ulla obiici. Quumque Dei verbum sit fundamentum veritatis com pletum ( num . 4. f. huius. ) : patet , quam cumque demonstrationem ei adversantem esse falsam. Quandoquidem autem auctoritas humana fidem parit bumanam, et certitudinem moralem : de ea pauca adhuc addenda supersunt. Et primo quidem , quum fundamentum fidei sit opi nio, quam de narrantis scientia bitate habemus; eoque fir mior sit fides , quo certiores sumus de hu et pro H 4 196 Logic. Pars II. jasmodi dotibus ( S. eod. ) : liquet 6. l dem humanam parere in nobis certitudi Nem moralem completam , si non adsit ra tio , cur in narrante aut imperitiain , aut malitiam supponere possimus : veluti si evidentia scientiae probitatisque indicia de derit si nihil emolamenti ex iis , quae narrat , perceperit , si ' parratio rectae ra tioni non repugnet ; si denique pro nar rationis suae veritate dimicaverit , vel per secntionem passus sit. * Deinde quoniam non omnes homines eadem praediti sunt scientia et probitate , nec de his semper certo iudicare possumus , quum id io so la opinione versetur: exsurgit hinc probabi litas, de qua paullo post praecepta dabimus. * Postremâ haec conditio maius certitudini mo rali pondus adiungit: si vero deficiat , liu modo priores adfint circumstantiae , certilu do vim suam non amittit .. Schol. Nunc in eo sumus , ut explica tae doctrinae usum paucis tradamus. Qua propter Philosophus noster hos , qui se quuntur, observet. CANON E S. AMD quidlibet erudite experiundum, nisi necessariis praemunitusa in strumentis me accedito . Si haec desint, Cap. III. De Veritate certa etc. 177 aliorum experimenta consulito , dummo do eorum integritatis scientiaeque con stiterit, atque inde tuas deducito con clusiones. Si per insrumenta liceat , aliorum experimenta ad examen revo cato ut sacriorem eorum ideam ad quiras , caussasque facilius investigare possis . * Et quidem experientia erudita instrumentis opus habet , sine quibus experimenta fieri nequeunt. Si ergo desint , observationes nul lae erunt : ac proinde aliorum experimenta consulenda , praemissis cautionibus , quae de eorum veritate dubitare non sinant. Hinc Physicis admodum necessarius est machina rum instrumentorumque apparatus , ut phaea nomena observari possint , a quibus ad caus sas proximas rationis ope concludendum est. 2. Ne phantasiae partus, aut ratiocim nia ex experimentis deducta pro expe rientia venditato ne subreptionis ar guaris. *. Quidquid enim imaginationi debetur, reale non est, sed phantasticum. At in experientia realis rerum exsistentia observatur ; adeoque qui phantas mata pro rebus obtrudunt , su bripiendo a dsensum extorquere conantur : et tunc evenit , ut cum ratione experientia pu gnare videatue , de quo infra sermo erit . Quod sem el expertus es , ne teme ? depromito , sed experimenta saepius H 5 178 Logic. Pars II. repetens, an costantia sint , observato; nec , nisi certior omnino factus, de iis enunciato . Saepe enim accidit , ut effectus aliqui a cir cumstantiis oriatur accidentalibus , vel caus sae cuidam externae debeantur. Repetenda er go experimenta , ut diiudicari possit, utrum principali , an accessorüs caussis , effectus il le tribuendus sit , adeoque non mirum , si facta semel observatione , effectus productio propriae caussae non tribuatur, 4. Demonstrationes non nisi certis in dubiisque principiis superstruito. Ratio ciniorum catenam ne interrumpito ; sed sequentium veritas ex antecedentibus patefiat. * Eo namque modo habebitur legitima syllo gismorum concatenatio in qua demonstras tionis essentia sita est , ut supra diximus. Ne ciedito , quamcumque enuncia tionis probationem pro demonstratione sumi posse : qaamvis omnis demonstra tio sit probatio. Ex debilibus enim prae inissarum probationibus exilis enervisque exsurgit demonstratio cui nihil potest roboris accedere . * Nimiruni demonstrationis robur a praemis stabilitate , legitimaque connexione procedit , adeoque pro; earum firmitate con clusionis pondus augetur , vel minuitur. sarumriat , 6. Demonstratio , ut certitudinem ра talis esto , quae neque per mate riam , neque per formam ulla possit ra tione convelli . Iunc enim adsensum etiam ab invito , extorquebis. 7. Si metaphysicae certitudini expe rientia adversetur , haecfallax esto. Absurdum namque foret id exsistere , quod rectae rationi repugnat. * Eo namque casu duas habemus 'propositiones inter se contradicentes , alteram singularem , quae quidpiam exsistere pronuntiat , univers salem alteram , quae idem existere posse ne gat ; adeoque duo haec enunciata inter se pugnantia ita comparata sunt, ut quod pri mum sensibus perceptum fuisse ait, illud alte rum solidis rationibus intrinsecus impossibile esse demonstrat. Quum itaque ab impossibi litate ad non exsistentiam conclusio duci pose sit ( per princ, Ontol, ): recte colligitúc, in hac collisione rationem vincere, ac proinde experientiam dici debere fallacem , quippe non experientia , sed subreptionis vitium rea pse adpellanda. Et hoc universali omnium phi losophorum consensione pro inconcusso axiom mate habendum est: ut ita Genuensis noster praecipuum inter suos de veritatis criterio cả nones illum posuerit: Si intellig :bili evidentiae physica adversetur , FALLAX HABETVR PHYSICA , est enim haecminor , cui proii # 6 180 Logica Pars 11. + de vals dicere, quam de intelligibili subdubitan re , quae summa est , acmathematicam parit certitudinem , par est. Cui deinde subiungit : Fingamus ( quaquam id falsum keputo , ma thematica evidentia demonstrari terram mye veri: si qui sensuum evidentiam reponeret , non esset audiendus, nisi matorem minori evi dentiae praeferre velimus. Art. Lozicocrit Lib. IIT. cap. 3. 15. can 1 , Sed quid , in quies , alienam auctoritatem in re tam evi , denti confulere conaris? Nimirum quia canon bic a quibusdam , apud quos Genuensis no stri plurimum valet auctoritas , nigro lapillo notatus est : ut sciant sententiam nostram non singularem aut phantasticam , sed ratio De aç unanimi hominum ratione utentium consensione fultam . cum eius quoque Viri ipsis non suspecti adsertione congruere. 8. Nihil Divinae auctoritatį opponere fas esto, Quum Deum loquutum esse con stal , cuncta silento . Huic metaphisicą, certitudo numquam refragator : sed si per rationem liceat , demonstrationes ad calculum revocato ; * vel si Dei vera bum explicatione egeat , Ecclesiam in , fallibilem eius interpretem con sulit o . * Referentes nồs ad ea , quae diximns, quia demonstratio Dei verbo repugnans fal sa est , dummodo intra rationis fines quaer stip sit rationes ,iterum conficiautur , e de Cap. IX. De. Methodo. 181 monstrationes ad calculum revocentur , ut adpareat, undenam oppositio illa ortum duxe rit, principiisne dubiis et incertis, , an a defectu legitimae connexionis ? * Ratio huius canonis haec est, Onnis lex eiusdem Legislatoris spiritu est explican da Si enim leges humanae difficultate aut: ob scuritate aliqua laborent, earum explic atio et interpretatio tantum a Legislatore , eius que Administris est petenda , non a pri vatis Doctoribus proprio marte cudenda. Quan to magis ergo Divina lex quae verbo Dei con tinetur, ab eo qui eiusdem Dei spiritu gau det est explicanda. Ecclesiam autem Dei spi șitum habere , patet ex ipsis Servatoris no stri verbis Matth. ult , ubi Apostolis ait Ec ce ego vobiscum sum omnibus diebus usque ad consumationem saeculi. Et loan. XVI. 18. Cum , venerit ille Spiritus veritatis ( Pa . raclitus ) , docebit vos omnem veritatem . Quid quid ergo Ecclesia pronuntiat , assistente su premo animarum Pastore Christo , et docente Spiritu Sancto pronuntiat ; adeoque per eana Deus ipse suum interpetatur verbum 182 Logica Pars. Į1. G A PUT QVARTV M De Methodo . 138. Vum in demonstrationibus con clusiones ex certis principiis per legitimam ratiociniorum seriem dedu ci debeant; illa vero series arglimentorum METHODVS dicatur: non abs re brevem hanc de metho do tractationem doctrinae de demonstrationis bus subiungiinus. 139. Quilibet experiundo agnoscere po - test , enunciationis cuiusvis veritatem du plici modo detigi posse , scilicet vel eam dividendo , et ope analyseosed prima simpliciaque principia perveniendo , vel componendo idest , principiis ad conclu siones sensim ac legitimo nexu progre. diupdo . Vnde clare patet , methodum esse vel ANALYTICAM sive divisionis , vel SYNTHETICAM seu compositionis. * Methodus ergo anulytica a principiatis ad principia , synthetica a principiis ad princi piata ( uti Scholae aiunt ) procedit. Dla composita resolvit. haec simplicia componit, Rem exemplis illustrabimus. Ad demqnstran dam enunciationem alibi ( S. 131, ) allatam ? Deus earet adfectibus : analytice ita ratio cinabimur. 1. Quicumque caret appeti tusensitivo , caret @ap. IV . De Methodo, 183 etiam affectibus ( per defin. aff. ) : atqui Deus caret appetitu sensitivo ; ergo Deus caret affectibus. a, Min. prob. Quicumque caret repraesentatio nibus confusis , caret quoque appetitu sensi tivo ( per defin. app. ) : Deus vero caret repraesentationibus confusis, ergo Deus ca. ret appetitu sensitivo . 3 Min prob. Quicumque omnia sibi distinctist sime repracsentat , repraesentationibus caret confusis ( est axioma ) : sed Deus omnia si bi distinctissime repraesentat : caret ergo repraesentationibus confasis. 4. Min . prob . intellectu gaudens perfcctissi mo omnia sibi distinctissime repraesentat ( per defin . intell. Quum igitur Deus gau deat intellectu perfectissimo : omnia sibi distictissime repraesentat 5. Min. prob. Ens perfectissimum intellectu gaudet perfectissimo ( est axioma ) : Deus autem est ens perfectissimum ( per defin. Dei ) : ergo Deus gaudet intellectu perfe ctissimo Eamdem propositionem synthetice demonstravi mus ( $ . 131. * ) . At in gratiam Tironum , quos ad Philosophiam manuducere instituimus , aliam adhuc dabimus demonstrationem , bre vem illam , at mathematico more confectam hoc modo: THEOREMA, Deus caret affectibus . DEMONSTRATIO. Est enim ens perfectism simum (defin. 1. ) , cuius est intcllectu gaudere perfectissimo ( ex 1. ) , qmniaque 184 Logica Pars ir. sibi distinctissime repraesentare ( defin . 2. ) id quod omnimodam ab eo idearum confu şionem excludit ( ax. 2. ), Quum itaque ab idearun confusione pendeat appetitus sen sitivus ( defin. 3. ) ' , cuius vehementiores motus dicuntur affectus ( defin . 3. ) : iure colligitur, Deum omnino affectibus carere. Vides hic , quam bene monuerimus in fine primae partis , maximum atque insignem esse usum syllogismorum in conficiendis mathema ticis demonstrationibus : atque hinc patet , quam inepti ad demonstrandum sint ii , qui syllogisınıim eiusque leges negligunt, et igno rata vituperante 140. Quoniam methodus analytica a dif ficilibus ad facilia , a compositis ad sim. plicia progreditur ( s. 139. ); synthetica vero a principiis ad conclusiones ( S. eod. ) conséquens est 1. ut illa in veritate inve nienda , haec in alios docendo adhibeatur ; * adeoque 2. eruditorum reprehensionem in currant qui ip docendo illam potius, quain hanc sequi amant. Et quia feracior illa est , haec sterilior ** : novit quisque 3. docendi ordinem id exigere , ut post quan auditoribus synthetice veritas fuerit explanata , iisdem "analytice modus . indi cetur , quo fuit ab auctore inventa . Analyticam enim methodum in docendo ad bibere idem esset , aç opposita et difficili ti 9 Cap. IV . De Methodo. 185 rones ducere via , eosque ad veritatem vel numquam , vel raro admodum pervenire ** Feracior quidem est analytien methodus quia singula ad examen revocat , minuta quae que considerat , atque possibiles omnes fin git casus , inde ab hac quasi sylva conserta , enodatis extricatisque ambagibus , ad rem ipsam perveniat ; synthetica vero sterilior , & generalibus namque principiis brevi atque ex pedita via pergit conclusiones. Eadem autem ratione illa difficilior , haec facilior est : adeoqne illa viatori tramitis inscio , qui di vinando et om nia tentando difficiliter quo tedebat pervenit : haec eidem perito similis , qui brevi apertaque via iter conficit , et finem ideo suum cito consequitur, 541. Iam ad melhodi leges , tum utri que communes cum alterotri peculiares , tradendas accedamus. Eas aliquot complc clemur regulis ; quarni quinque genera les , ceterae vero speciales sunt, analyticae praesertim methodo inserviturae. Quicum que igitur veram : methodum in veritatis investigatione cailere cupit , hos rigides servet . 186 Logica Pars. II. CANON E S. I. Q Votiescumque ad demonstrandum accedis , cur ato , ut a facilibus notisque incipias , indeque ad ignota et difficilia gradatim progrediaris. Prin cipia itaque solida , ideasque selig ito medias , atque ea semper cordi habelo * Est haec lex , quam inculcavimus ( $. 130. ) et alibi retulimus. In -singulis ratiocinationis gradibus eamdem semper servato evidentiam , ut altei um ab altero derivari clare sentias. * * Ita vitabitur paedantismus , hoc est inutile illud memoriae pondus iudicio destitutum , et in minimis quibusque sectandis vanam quae ritans gloriolam , de quo vide supra Part. I. Cap . 3. Schol. Can. 4 3. Stilo utitor facili , ac naturali , non oratorio vel ampulloso. Verborum tantum , quantum ideis clare exprimen dis satis est adhibeto : nec , nisi in ideis claris , quidquam tentato. * Verborum enim copia ignorantiae confusioni sve indicium est : quae namque ignoramus vel confuse scimus , ea nimia verborum cir cuitione explicare cogimur. Cap. IV. De Methodo. 187 4. Argumentum pertractanduſ ab am biguitate , si quafuerit , liberato prius ; deinde in tot membra dividito , quot ca pax est : singula attente examinato ac definito : * omnia clarissimis explica to verbis , ac quaestione quam simplicis sime exprimito . * Prae oeulis tamen habeantur , quae de de finitionibus diximus Verba : quce obscuritatis aliquid habent , adcurata definitione dctermina to , in eoque semper sensu adhibeto. * Confer quae diximus SS. 5. 46. De methodo analitica livec habeto : 6. Ad veritatem inveniendam , quae stionemve solvendam , ne nudus princi. piorumque inscius accedito : num sorida cognitione ad id paratus advenias , se dulo perpendito. * Sinamque incapax principiisque destitutus rem aliquam adgrederis , fieri non poterit , quin inepta et ridicula effutias. 7. Quaecumque cum proposita quae stione aliquam habent connexionem di 88 Logica Pars II. ligenter exquirito : omnes possibiles ti bifingito hypotheses : quaecumque ei lu men adferre possunt , ne rciicito sed Omnia simul colligito et comparato. 8. Principia quaeque atque ideas mutuo conferto: omnium relationes perpendito efinesque sectator , eaque , superflua de mendo in parvum referto numerum . Omnia deinde corrigito diuque considera to , ut tibi familiaria fiant. * Speciatim vero principiis diu haereto. Repetitione namque attentio renovatur ius ope ideas meliores fieri docuimus F. 19. Schol. Quas de syudetica methodo tradenda forent , ea partim a nobis incul. cata sunt, partim infra , ubi de modo alios docendi sormo erit , enodabuntur . Si quis autem metho dum hanc callere cupiat, is Christiani Wolf fii tractatum de methodo mathematica , universae Matheseos elementis * praemis-. sibi curet reddere familiare CU sum * Exstant haec 5. voluminibus in 4. excusa Ha lae Magdeburgicae. Cap. V. De Veritete Probabili. GA P VT QUIN T V M De Veritate probabili -542. o 142 Eritatein dici certam mnia adsunt requisita quamcum que oppositi formidinem excludentia , su pra docuimus. At intellectus nostri infirmitas persarpe impedimento est, quo minus nobis illa veritatis indicia pa . teant ita , ut veram absque ulla oppositi suspicione perspiciamus. Hinc ergo est , cur in praesenti capite de probabilitate , quantum satis erit , dicere instituerimus. 143. Est autem PROBABILITAS status mentis ex indiciis insufficientibus verita ti adhaerentis , cum aliqua tamen op positi formidine, PROBABILIS ergo di cilur enunciatio in quc adest ratio in sufficiens , cur praedicatum subiecto tri bu atur. * Ita Cicero pro Milon. cap. 10 probabilibus argumentis probat , Clodium Miloni insidias struxisse. Ait enim : Clodium dixisse , Milo nem esse occidendum ; 2. eum Miloni neces sarium iter Lanuvium facienti obviam ivisse , 3. idque itinere effecisse maxime expedito , et praeter consueludiuem ; 4. servos cu: n les lis ante fundum suum collocasse. Probat id 190 Logica Pars I. esse > in quidem , sed probabiliter , insufficientibus quippe indiciis , adeo ut aliqua adhuc adsit oppositi formido. Ex quibus definitionibus clare de ducitur 1. eo probabiliorem esse proposi tionem , quo plura adsunt veritatis indicia 2. dici vero DVBIAM , si ex alterutra parte aequalia fuerint rationum momenta, adeoque 3. IMPROBABILEM qua paucissima inveniuntur ; quibusque e contrario fortiora indicia opponuntnr ; 4. omne probabile , esse quoque possibile , quamvis 5. non omne possibile dici pro babile possit . * Probabilitas enim supponit possibilitatem : quum enim probabilitas veritatis alicuius exsi sicntiam indicet , exsistere vero nequeat , cui deest possibilitas , liquet, tunc de pro . babilitate qnaestionem institui posse quum rei possibilitas firmata sit: ut ita qui eam esse im possibilem demonstravit , uihil aliud oneris habeat , omnemquede probabilitate contro versiai tollat . Possibilitas autem non infert probabilitatem : nam quum possibile sit , quod non involvit contradictionein ( per princ. Onol. ) , non ideo probabile dici potest , nisi quaedam adsint circumstantiae , quae id revera exsislere evincant. 145. Quia dantur enunciationes probabi les, sillogismus autem propositionibusconstat: liquet 6. Cap. V. De Veritate Probabili. 191 dari quoque syllogismum probabilem . Et quia couclusio sequidebet partem debiliorem; debilior vero est pro positio probabilis , prae certa : consequens est 7. ut conclusio sit probabilis, si alte rutra praemissarum talis sit . Sed quoniam conclusionis vis est aggregatum virium praemissarum (s . 82. seqq . ), infertur 8. ut si utraque praemissarum sit probabilis , conclusionis probabilitas minuatur pro sum ma graduum , quibus illae a certitudine recedunt. * Denique quum demonstra tiones coficiantur ex syllogismis concatena tis , quorum unus ab altero vim sumit: evidens est 9. integram de monstrationem , in qua vel una probabi lis propositio irrepsit , non esse , nisi 7 pro babilen. * Certitudo namque in philosophicis se habet , ut aeqealitas in mathematicis. Sicuti ergo ae qualitatis nulli sunt gradus , ita et certitudi nis. Probabilitas autem maior est vel minor provt minus magisve a certitudine recedit,ut et inaequalitas servata proportione. Ponamus ergo certitudinem constare gradibus 12. Si una prae missarum tantum certa sit , altera duobus gradibus ab ea recedat , habebimus conclu sionem probabilem duobus dumtaxat gradi 192 Logica Pars II. Io bus a certitndine distantem : tunc enim ma ior erit Ei , minor - , quibus addie tis , babetur in conclusione summa = 2. quae duobus tantum gradibus ab unitate , sive certitudine diftat. Ponamus porro prae missarum unam ita probabilem esse , ut duo bus gradibus a cerit udine deficiat , altera ve ro tribus ; habebimus conclusionem sive summam fractorum et E quae quinque gradibus ab uuitate pe a certitudine recedit , quot deerant in am babus praemissis. Dem . 146. His generatim expositis , ad pro babilitatis species transeamus. Probabilitas recie dividitur ib HISTORICAM, PHYSICAM, POLITICAM, PRACTICAM, et HERMENEVTICAM . De singulis pau ca delibabimus. A probabilitate differt OPINIO , quae est propositio insnfficienter probata , scilicet a principiis nondum certis , et precariis dedu cta, quae ideo est mutabilis , ac proinde po test ut plurimum esse falsa : unde opinio di viditer in PROBABILEM , et IMPROBA, BILEM , prout principia sunt prout princi pia sunt probabilia , vel precaria , omni nem pe rationis auxilio destituta. Sap. 7. De Veritate probabili. He completanarratio eae De probabilitate historica. SISTORIA, est factorum fidelis et . Eius au ctores sunt homines : fidem ergo parit hu mapam. Homo vero factum aliquod fideliter et complete narrans , HISTORICUS vel TESTIS dicitur. Sed quia aliorum narrationes neque experientia , nec demonstratione ad examen revocari possunt ob vitae intellectusque nostri brevitatem mentisque imbecillitatem , nec de omnium probitate certo constare potest: quando ` id in sola opinione versetur , non certitudinem , sed probabilitatem in nobis gignunt. Quumque hominum aucto ritate freti adsensun historiae praebeamus : evidens est , historicae probabilitatis funda mentum esse fidem humanam . * Ut autem narratio historia dicatur , dcbet non modo esse fidelis , hoc est res clare , eoque , quo contigerunt, ordine narrare , sed completa etian ', omnia scilicet factorum adiuncta , circumstantias , relationes , caussas ; et fines amplecti.Hinc Cicero Historici perinde, ac Oratoris dotes paucis expressit, nempe talem esse debere ne quid falsi dicere audeat ne quid veri non audeat.Quia fides aliorum testimonio in nititur, estque fundamentum pro babilitatis historicae; homines autem ob ignorantiam malitiamve , aut fal li aut fallere possunt , ut experientia testa tur : consequens est , ut ad adsequendam probabilitatem historicam cautiones quae dam adhibendae sint , quibus testium an ctoritas , factorum genuinitas , natrationuin qucque veritas dignoscatur. eam * Hinc ergo enata est ARS CRITĪCA , sive habitus aliorum auctoritatem ad trutinam re. vocandi , recte adhibendi , factaque scienter ac sine erroris nota dijudicandi:Tapinps 1 namque indicium notat. Et quamvis artis cri ticae officium , vulgarem sequuti opinionem , infra ad solum librorum examen atque in terpretationem restringamus ; non ideo no bilissimam hanc artem cancellis adeo angu stis coarctare volumus ; sed quidquid de usi auctoritatis , rernm gestarum examine ac in dicio dicenda sunt , ea ad artem criticam : pertinere , qnisque sciat : id quod semel pro sem per observandum . 119. Quia ergo in omni narratione tria considerari possunt ; narrans nempe , bar ratiun , et ipsa narratio : hinc est , ut in fide humana ad tria potissimum attendi so leat , scilicet i . ad homines narrantes, ad res narratas , 3. ad modima parran di . * Ab hominibus nunc ordiamur. * Atque in his , quae sequuntur , regulis tam historicam , quam hermeneuticam probabilita tem respicientibus , nedum librorum genui nitatem integritatsmve expendentibus , gene rales totius críticae leges ad singulares spe cies et circumstantias adplicandae consistunt, in quibus addiscendis eo maiorem operam collocare debet , qui philosophi nomen tue ri cupit , quo frequentius in evolvendis li bris , factisque diiudicandis erit ei , re exi gente , versandum, Quoniam hominibus , licet eadem natura , non cadem tamen est perspicacia, mcrumque probitas , nec omnes iisden sensibus eamdein rem percipere possunt (per cxper. ) ; hoinnes autem factum aliquod narrantes testes vocantur 147. ) : patet in quolibet teste tria concia derari posse , scilicet INTELLECTVM, VOLUNTATEM et SENSUS, Si intellectus spectetur , testesa sunt vel PRVDENTES ac PERSPICACES , yet RVDES et IGNARI; si VOLVNTAS ,idem sunt vel NEVTRI PARTI, vel VNITANTVM faventes , itemque vel PROB!, vel IMPROBI; si denique SENSVS, sunt vel I 2 ATI 196 Logica Pars II. OCVLATI, qui factum quod narrant ocu lis perceperunt , vel AVRITI , qui illud ab aliis audiverunt ; et hi denno vel Co AEVI sunt , qui eodem facti tempore vi xerunt , vel RECENTIORES qui id postea ab aliis acceperunt.  Sic Livius inter testes prudentes est referen dus : multo namque po!lebat iudicio. Idem tamen Romariorum parti favebat , quippe Romanus et ipse. Tandem factorum , quae sua aetate evenerunt , testis coaevus , eorum autem , quae ante conditam condendanıve urbem , ac per tot saecula ad sua usqne tem posa accidisse tradebantur , recentior dicen dus est. 152. Ex quibus omnibus patet 1. in fa cti alicuius narratione , quod attentionem iudiciumque requirit , homines prudentes et perspicaces rudioribus ignavisque esse antehabendos ; promiscue vero se habe re in rebus solis sensibus , non etiam iu dicio , indigentibus , dummodo in illis af fectus partiumve studium non metuatur : tunc enim rudiorum testimonium proba bilius erit ; 3. testes neutrales alterutri parti faventibus recie pracferri , nec non 4. oculatos auritis , 5. coaevos recentiori . bus ,  inter auritos autem prudentes ru dioribus , eos tamen , ad quos ex oculato Cap. IV . De Veritate Probalili. 197 nullam esse , fide digno magnaque auctoritate pollente facti fama pervenit , ceteris incerto alio . quin rumore ductis esse anteferendos , ac denique 8. coaevi testimonium plurium contestium narratione augeri , cui nescio quidnam ad probabilitatem ultra deesse possit , 153. Quod altinet ad res ipsas narratas síve facta ; observandumu 9. probabilitatem si circumstantiae adsint sibi invicem repugnantes ;nihil enim impossibi le potest esse probabile ( S. 144. ) ; 10 . nullam quoque esse probabilitatem , si testis unicus factum aliqnod insolitum et mira bile narret : licet 11. probabilius id ha bendum sit , si a pluribus probatae fidei viris unico contesta narretur ; 12. nulla itidem probabilitate gaudere , narrationem, quae claris rationibus -aperto repugnat ; 13. non idem tamen dicendum de ea , quae moribus opinionibusque nostris ad versatur , *** nec 14. si caussa modusque ignoretur , aut vim artemque nostram su peret. Sic pleraque prodigià ab uno Livio narrata nullam merentur fidem , utpote omni proba bilitate destituta : veluti quod scribit Lib. 1. ca. 12. post pugnam Romanorum cum Albanis , Tullo ' Hostrilio Rege 1 factam , I 3 198 Logica Pars. II. in Monte Albano lapidibus pluisse ; vel quando , Tarquinio Prisco regnante , Au guris Attii Nevii cotem novacula discissam refert Lib. I. cap. 25. : id enim mirabile quidem et insolitum , sed a Livio tantum relatum . Qua de re iure idem Historicus de his , fimilibusque factis improbabilibus vocabulo ferunt fidem suam sartam tectam servat , non modo singulorum narratione, sed et in historiae suae proaemio, ubi cas ideo nea adfirmare, nec refellere velle fatetur , ut potc poeticis magis decora fabulis , quam incor. ruptis rerum gestarum monumentis confirm mata . nempe Lu nam ** Huiusmodi sunt fabulae illae , quibus Mu hamedanum scatet Alkorauum , a Muhamede bifarian digito divisam partemque in vestis manicam delapsam iterum in coelum repositam ; palmae eiulatus in eius absentia , et id genus alia. > *** Sunt enim , mores pro regionum ac tem porum varietate , varii. Quidquid ergo mori bus nostris turpe est , fortasse apud alias Gentes honestum erit , et quod nostro sae culo nefas habetur id licitum esse alio : tempore potuit. Quis enim ut cum Cornelio Nepote loquamur , non vitio verteret The bano Epaminondae, saltasse eumcommode scienterque tibiis cantasse ? Et tamen haec aliaque nostris moribus indecora inter eius virtutes commemorantur. Nepos. in Proem. Cap. V. De Veritate probabili. 199 154 Quoad modum narraudi tandem , id sedulo advertendum , facta stilo simplici non oratorio aut poetico , narrari debere. Si itaque simpliciter atque historice nar ratio scripta legatur , maiorem meretur lidem , quam quae poeticis pigmentis aut oratorio fuco lasciviens aures demulcere conatur. SECTIO II. De Probabilitate physica , politica , et practica. 153.TJAEc de fide humana , quam qui ritatis praeiudicio occupatus conseri debet . Ad alteram nunc probabilitatis speciem ac cedamus , nempe PHYSICAM ; quae ha betur , quum ex pluribus phaenomenis ad caussam aliquam physicani concludimus, cui illos tribuimus effectus. Gravesandius eas vocat hypotheses. 8 Probabile est , fluxum maris à lunae solisque attractione pendere: nam ex plurie . bus phaenomenis hanc illius caussam ess posse , compertum est. Ad physicam probabilitatem eruen dam quatuor adhibendae sunt cautiories : 1. ut phaenomenon adstumtum sit certum, eiusque distincta idea , aut clara saltem , habeatur , ne chimaeram pro re , aut nu bem pro Iunone amplectamur ; 2. si phae nomenon illud sit ab alio relatum ad historicae probabilitatis regulas, tamquam ad lydium lapidem , exigatur : 3. eius porro caussae omnes pose sibiles investigentur , et.cum phaenomeno conferantur ; ac denique 4. ex iis una plu resvc adsumantur, quae cum omnibus cir cumstantiis apte conveniant . * Quum autem doctrina haec ad Physicam fa cultatem pertineat : sufficiat de ea quaedam tantum hic notasse : commodius enim in Phi. sica tractabitur. POLITICA probabilitas ea est , qua ex alicujus personae phaenomenis in dolem animi arguimus. ' Quumque in ex propensiopuni signis ad ipsas propen siones concludamus : evidens est tracta tionem hanc ad Ethicam potius , quam ad Logicam pertinere : adeoque non mirum , si eam inoffenso pede oniittamus. ea Ut clarius politica probabilitas intelligi pos sit , sumamus e. g. aliquem , in quo vultus hilaritas, iocandi studium , corporis mobi litas , laboris impatientia , prodigalitas' , in constantia , garrulitas etc. observentur : non ne eum statim voluptati deditum esse con Cap . V. De Veritate probabili. cludes: Haec erit probabilitas politica. Lega tur interim Cl. Heineccii dissertatio : Dein cessu animi indice. Quae de probabilitate PRACTICA dici inerentur , ea fusius persequuti sunt Andreas Rutigerus in Lib. de sensu peri et falsi. III. 8. , et Ludovic. Mart. Kallius in Elementis Logicae probabilium Nos paucis rem expediemus. Eam Rudige rus vocat , qua ex physicis vel moralibus principiis futurum aliquem praedicimus even tum . Quod quum in practica casuum si milium expectatione consistat , eaque ex pectatio vocetur analogia evidens est practicam probabilitatem recte adpellari ARGUMENTUM AB ANALOGIA ; id quod maximo apud Politicos usui esse solet . * * Politici namque in gubernandis rebus publi cis probe versati probabiliter unius aut alterius Regni praedicunt eversionem , propte rea quod aliae res publicae post easdem cir cumstantias subversae sint : adeoque a simi Jium casuum exspectatione practicam eruunt probabilitatem . CA habetur , quum a quibus dam in Auctoris scripto obviis eius sen. surn eruimus . Saepe enim accidit , ut in auctoris alicuius interpretatione quaedam occurrant , quae multiplicem sensum ad mittunt : tunc ex auctoris fine , verborum significatione , locorumque collatione pro babiliter colligitur , quidnam auctor ille voluerit intelligere, idque fit ope ARTIS HERMENEUTICAE, quae definiri potest per habitum Auctorum loca interpretan , di , sive eorum sensum eruendi. SENSUS AUCTORIS est ceptus , quem scriptor vel loquens vult in legentium auditorumve animis per ver ba produci. Auctorem ergo interpretari dicimur , qumun ex legitimis principiis eius sensus investigamus. Et quia ars hermes neutica est facultas auctorum loca inter pretandi; consequens est 1 ., ut eius sit genuinum auctoris sensum erue Te ; adeoque 2. regnlae tradantur , opor tet, quarum ope sensus ille quam proba, bilius investigari possit, соп Cap. v . De Veritate,probabili. 203 Quumque in his regulis totius Hermeneuticae adeoque et Criticae artis leges Auctorum in terpretationem respicientes pofitae fint : non mirum , si a canonibus huic sectioni subii.. ciendis abstineamus , quippe qui superflui omnino forent, et loquacitatem potius , quam logicam praecisionem arguerent. Quoniam Scriptoris sensus perver ba significatur: colligitur in de 3. ut interpres linguam , qua scriptor conceptus suos expressit , eiusque idiotis, mos probe calleat : adeoque patet 4. falli eos , qui linguam illam ignorantes aliorum versionibus translationibusque fidunt ; 5. ut ad scriptoris sectam , finem , affectus,mu nus, aetatem , gentis suae mores ' attendat : unde 6. integrum Auctoris systema prae oculis babeat , ac de eo secu dnm dome sticas notiones , non ex propriis opinioni bus , iudicium ferat ., quid > * Praeclare id monet Clericus Arte Critica Part. Il Sect. 2. cap. 2. $. 7. et 8. Opor tct , inquit Vir eruditissimus , nostrarum opi nionum veluti oblivisci , el quaerere , veteres illi Magistri senserint non quod sentire dcbuisse nobis videniur , ut sape rent. 162. Ex eodem principio fluit 7 inter pretein affectibus , praeconceptisque opinionibns omnino vacuum esse debere ; nee 8. Auctoris verba extra contextum legere aut considerare , sed antecedentia et con sequentia attente conferre : multoque ma gis y. loca parallela auctoris eiusdem sol licite comparare , ut quod obscuritatis ir , repserat , statim evanescat . Quumque ad cognitionis claritatem ac distinctionem om ne momentum ferat attentio ( m. 19. ) : sequitur 10. ut qui librum aliquem probe interpretari vult , eum attente atque ordi ne legat , et codicem habere ' curet quam emendatissimum. ' * Quantum ad librorum interpretationem con ferat editio , ratio in promptu est. Videmus enim , quam multis scateant erroribus edi tiones quaedam ab indoctis ignarisque con fectae typographis , ut Delio saepe notatore opus habeant. "Nitidissimae prae ceteris sunt editiones a Viris claris , qui id oneris susce perunt, effectae, quibus multum iure merita debet Respublica litteraria, Cop. V. De Veritate probabili. Uoniam magno Hermeneuticae adiumento est Ars Critica : non abs re fuerit , pauca de hac illustri arte haud contemnenda degustare. Quam bene de ea meritus sit Vir multiplici eruditione praeditus Ioannes Clericus , communi sa pientum consensu probatur. Nos eius du ctu regulas saltem generales nostris audi toribus trademus ut quantum fieri pote rit , libros genuinos a nothis , integros a corruptis discernere valeant. Res quidem foret laboris plenissima et satis prolixa , si Critices distincte praecepta trade re conaremus. Id adcurate cxsequutus est Clericus , quo'nemo elaboratius eam pertra ctare , operaeque pretium facere posset. Nos autem tironibus scribentes , notiones maxime genericas jis suppeditare adlaboramus ; quia, quum perfectum fuerit ipsorum iudicium , et matura aetas , omnia, quae hoc super argu mento scienda forent , in eodem Clerico legent. ARS CRITICA est habitus libro Fum genuinitatem et integritatem diiudi, 20 Logica Pars I. Candi. * Quae definitio ut intelligatur, oportet claras notiones genuinitatis , et in tegritatis librorum in legentium animis excitare . * Notandum tamen hic Crilices vocabulum strictissimo iure usurpari', regulasque ea in re generales tironibus suppeditari : latiori Damque significatione tam historicam proba bilitatem , quam hermeneuticam amplectitur, de quibus per summa capita praecedentibus sectionibus sermonem instituentes praecepta , yeluti per lancem saluram , ex hibuimus. Earum. LIBER GENUINUS dicitur , qui ab eo , cuius nomen prae se fert ,-. fuit exaratus ; SUPPOSITUS autem , qui ab alio , quam cuius nomine insignitúr , scripius est. * Liber dicitur INTEGER , si tantum contineat , quantum Auctor in eo descripsit , CORRUPTUS vero al quid ab alio additub sit , vel demtum: speciatin Viro si additum INTERPOLATVS ; sin den tuni , MVTILVS appel . latur . si 2 * Dici quoque solet spurius fictus vel fictitius: liniec vocabula ab aliis distinguantur. Sed non est idoneus huic quaestioni locus, Cap. V. De Veritate probabili. 2014 * Huius corruptionis quatuor caussas tradit Clericus: nempe Librarios ( dictantes perin de , ac scribentes ) , Criticos , impostores , tempus. Satis erit haec generatim scire guia singillatim percurrerenon vacat. 166. Criticae leges ab eodein Clerico de cem adisignantur. Eas nos sequentibus ex ponemius regulis , quas philosophus nos ter observabit. Sequantur ergo . CANONES t . " S " ppositum habeto librum , qui in vetuslis codicibus alii tribuitur Auctori ; interpolatum , si in aliis de sideretur, quod in eo reperitur; muti lum denique, si quae in ipso desunt in antiquis codicibus inveniantur. 2. Si a veteribus quaedam a libro ali quo exarata sint , ea vero nunc in li eadem inscriptione. insignito deside rentur : aut alius esto , aili muiilus. Si aliter legantur, suspeciels. Si vero omnia aptu cohaereant , genuinus esto et inte ger , nisi alia adsit ratio dubitandi. 3. Liber , cuius nulla fit inentio in veteribus catalogis , aut a scriptoribus proxime sequentibus , plerumque fictus esto , cut saltem suspectus, . 209 Logica Pars I. > 4. Scriptá a veteribus diserte reiecta, aut in dubium vocata , nequit recentio, rum auctoritas , nisi gravissimis rationi. bus, , pro genuinis admittere. 5. Liber dogmata continens iis con trária , quae scriptor cuius nomen praefert , alibi constanter defendit , ut plurimum aut spurius esto , aut interpo latus. 6. Idem iudicium ferto de eo , in quo personae , facta , uut nomina com memorantur Auctore , cui tribuitur , recentiora . 7. Spurium quoque aut interpolatum iudicato librum in quo controversiae tractantur post Scriptoris tempora na tae , vel adest scriporis imitatio . 8. Talis quoque ut plurimum esto si fabulis scatens , aut ineptus , viro docto minimeque imperito tribuatur. 9. Liber stilo scriptus diverso a stilo Auctoris aut saeculi , in quo ille vixit, spurius esto , eiusque censendus , ius stilo est conformis. In . Vocabula recentiora Auctorem arguunto recentiorem , aut libri interpo Talioncm : in translatione vero , si ni hil est quod sapiet linguam , in qua scripsisse constat Auctorem , cui tribyi: utr , translatio non esto , cu * Cap. V. De Veritatc probabili. 209 * Pluribus hanc doctrinam persequi deberemus, idoneisque illustrare exemplis : sed res est maximi momenti, et nimis implicata , nec in stituti brevitas eam disquisitionem patitur. Quivero plura cupit, adeat Clericum in Ar te Critica , ubi plurima inveniet suo gustui . adcommodata. Id interim notasse sufficiet , in hisce omnibus ad praxin adplicandis ma gna cautione opus, esse ne in praecipitan tiam , adeoque in errores prono cursu la bamur CAPVT SE X T V M. De Veritatis inquisitione. 167. Sendus pecialior Logicae usus nunc evol vendus , nempe PRAXIS , qua mentis nostrae operationes sint in verita tis investigatione dirigendae.Veritas inveni tur vel proprio marte, sive per meditatio nem rite institutam ; vel ab aliis inventa quaeritur et ud trutinam revocatur. Quia vero nec meditationi , nec bonae lectioni par est , qui hasce lautitias nondum degus tavit : Logicae est regulas suppeditare quibus mapuducti adolescentes et recte mea ditari , et libros cum fructu legere dis cant. Quumque nostrum sit auditorum nos trorum utilitati studere : de duobus his veri tatem inveniendi modis hoc capite agemns. MEDEDITATIO est conformis co gitationum nostrarum bonae methodi legibus adplicatio. Meditamur itaque , quum cogitationes nostra's bonae methodi legibus g . 138. seqq. ) ita dirigimus , ut veritates ex veritatibus, co gnitiones ex cognitionibus eruamus. Ex qua definitione sequitur 1 . ait quantum diſfert regula ab eius adplica tione , tantum optima methodus a medi tatione distet , . meditaturus leges quibus bona methodus absolvitur ( S. 141. ), callere debeat ; adeome 3. eo felicius meditetur , quo exactius leges illas esequitur ; nec non 3. aliquarum saltem veritatum debeat es se gnarus , ut ex ijs veritates aljas erue re legitime possit ( S. 167. ) . 5. Tirones ergo , aliique bonae methodi , veritaium que ignari ad meditandum sunt inepti . * Cui enim serei principium deest , nullo mo do seriem ipsam , hoc est veritatum catenam conficere potest. Pari modo qui concatenationis leges ignorat , quantumvis veritatum mente te *} Cap, VI. De Veritat. inquisitione. 211 neat , nec illas recte disponere , nec ordina tam seriem formare valet. 170. Quia ad bonam methodum requi ritur idearum claritas ( 5 141. cap. 3. ); ad claritatem autem confert attentio ( S. 19. ) ;consequens est 6. ut qui feliciter meditari vult , attenitonem praecipue colat ; quin 7. et praeiudiciis liber et 8. certis indubiisqoe principiis ( S. 131 ) praemunitus ad meditandum accedat. Quum que ad principia referantur praecipue de finitiones ( f. eod . ) : recte consequi tur 9. ut res de qua institui vult mcdi . tatio , edcurate definiatur , f . 141. cap. 5. ) , ac inde novis definitionibus omnia dividantur. El * Serventur tamen , quae de definitionibus ( Par. I. Cap. 3. ) , et divisionihu:s ( Cap. 4. ) docuimus , et quomodo definitiones ex ex perientia eruantur. quoniam inter principia etiam axiomata et postulata enumerantur ( S. 130 ), eaque es definitionibus legitimue eruuntur: liquido infertur 10. medita turo innotescere quoque debere modum ex definitionibus axiomata eruendi , * ut om nes principiorum species probe tencat. Quonam autem modo ex unica definitione ar. iomata et postulata formentur, hic adden dum . Tribus quidem modis id effici posse certum est : scilicet PARTIS OMISSIONE , nempe quum genus vel differentiam specificam omittimus. E. g. ab hac definitio ne : Invidia est taedium ob alterius felicita tem , omitte genus , et habebitur axioma: Invidia respicit felicitatem alterius : omitte differentiam , eritque aliud axioma : Invidia est taedium 2. INVERSIONE , si definitio in definiti locum substituatur. E. g. Qui er alterius felicitate taedium percipit est invi. dus 3. CONVERSIONE , si aientes pro positiones in negantes convertamus E. g. Qui ex alterius felicitate non percipit taedium , -non esi invidus ; vel eum , qui non est in vidus , alterius feliciiaiis non taedet. Postu lata eadein ratione conficiuntur , si nempe modus exprimatur , quo quid fieri potest : sed ea melius ex realibus , quam ex nomi nalibus definitionibus deducuntur. Sic ex ea dem definitione habebis postulatum : Invidia excitatur , si invido alterius felicitas reprae sentetur. 172. Praestructis ita principiis , opor tet il . ut ex eorum collatione THEO REMATA , vel PROBLEMATA compo nantur , j 12. et unde consequentiae im mediatae sese offerunt , COROLLARIA deducantur , vel 13. ubi maiori explicatio ni locus erit SCHOLIA subiungantur. De Veritatis Inquisitione. 213 Est enim Theorema propositio theoretica de monstabililis, demonstratio autem ex principiorum collatione conficitur, ut videre est in superioribus Cap 3 . Sect. 2. et Cap. 4. Hoc modo ex principiis ( §. 171. * confectis erui poterit theorema : Invidia oritur ab odio , et similia . Pari mo do quia Problema est propositio practica , eius solutio et demonstratio ex eorumdem principiorum collatione petitur. Ita ex eisdem principiis orietur problema : Juvidiam in altero excitare ; cuius solutio haec erit Invidia ex odio nascitur. Fac er go ut is, in quo invidiam excitare vis , ala terum odio prosequatur , cuius inde felicita tem ei ostende: ex ea namque taedium per cipiet , adeoque in eo invidia excitabitur. Corrollaria vero tam ex indemonstrabilibus, quam ex demonstrabilibus enunciationibus des duci possunt. Sic ex superioribus axiomatis varia oriuntur corollaria , veluti ergo qui tae dii non est capax , invidus esse non potest : item ex postulato: ergo ubi non adest feli citatis repraesentatio, locum non habet invi dia ex secundo item theoremate ergo qui alterum amat , ei non invidet ; atque ita porro . 173. Haec omnia vero praecepta , ut aemoriae infingantur , brevissimis ample temur regulis , quas , qui sequuntur , shibent 214 Logica Pars II. CANONES. ANicquam meditationem instituas, ipsam quantum natura ipsa fert , exa cte dividito . 2. Ex definitionibus axiomata , item postulata deducito , atque ab his per im mediatas consequutiones corollaria con ficito . 3. Plura principia vel antecedentes propositiones mutuo conferto , et sic theoremata vel problemata efformabis , ex quibus , quae haberi poterunt , erues consectaria . 4. Propositiones - inventas bona me thodo legitimoque nexu comparato , et id agito , ut omnia per demonstratio nes apte cohaereant. 1 * Ita novae orientur veritates , novaque semper ratiocinia fluent. Perinde ' vero est , qua met hodo ratiociniorum series in ordinem rediga tur , modo regulae alias ( $. 141. ) propo sitae rite observeutur. Scol. Sint haee satis de meditatione , ei usque legibus , quae numerosias protra here non fert instituti compendium. Qui Cap. YI. Da Veritatis Inquisitione. 115. vero longius et distinctius meditandi re gulas vellet addiscere , ei Baumeisteri dis sertatio de arte meditandi attente legen da foret , eaque in syccuin et sanguinem vertenda . Interim ad auditorum nostrorum instructionem hic brevem subiicere praxin censuimus , quo facilius artem hanc per discere possint. Qua de re eruditissimiVic ri exemplopi addncemus pulcherrimum . Si quis AMICI characteres sit exploratu. rus , absque librornm auxilio , sequentem instituens meditationen , haec habibit. § . I. Ex casuum sin vularium observa tione g . 124. seq . ) critor Amici DEFI TIO : Amicus est persona , quae nos amat, f . II . Ad definitionis porro notas atten dens quisque videt , notionem amoris de. finitione indigere. Eodem igitur modo. hacc noya definitio eraalur. Sic . amare alierum nihil aliud significat , quam ex alterius felicitatc volup'atem percipere. 6. JIÍ. Ex his definitionibus eo , quo diximus , artificio axiomata de dacantur . Et quidem ex prima definitione ( 1. ) fiunt AXIOMATA. 1. Amicus al terum amat. 2. Qui alterum non amat non est amicus.3.Quicumque obligatur ad ali un amandum , ad amicitiam ei praestan 116 Logica Pars 11. dam obligantur.4. Vbi nullus amor , ibi nulla omicitia. 5. Quamdiu durat amor , tamdiu durat amicitia . 6. Qui efficit , ut ab alio ametur , eum sibi red dit amicum. Quidquid amorem in altero excitat amicitiam foret. 8. Quid quid amorem impedit , amicitiam tollit. 5. IV. Ex amoris defimtione ori untur sequentia . 1. Qui alinm amat , ex illius felicitate deleciatur. 2. Quicumque obligatur ad volupiatem ex aiterius fe licitate capiendan , obligatur ad alte rum amandum . 3. Qui iubet , ut volup tatem ex a terius felicitate capiamus , alterum , iubet , ! ť umemus. 4. Quid quid promovet voluptatem , ex alterius felicitate capiendain , promovet amo rem . 5. Qui illum impedit , hunc sis tit . V. Collatis inter se duabus illis de. finitionibus , nascitur. THEOREMA. Amicus alterius feli. citate delectatur. DEMONSTRATIO. Qui alterum a. mat , alterius felicitate delectatur ( s. 1. ) : amicus alteruu amat ( §. III. cud 1. ) ; ergo amicus alte rius felicitaie delectatur. 5. VI . Ex quo inmediata consequutico ne cequentia fluunt, IV. AX Cop. IV . De Veritatis Inquisitione. 217 COROLLARIA. 1. Anicus ergo ex amatae personaefelicitate nullo taedio afficitur. 2. Sed potius ex eius infeli citate taedium sentit. S. VII. In quibus , quum taedii facta sit mentio , perapte addi potest. SCHOLION. Est autem invidus , qui, ex alterius felicitate taedium percipit misericors vero , quem alterius infelici. tatis taedet. $ . VIII . Hinc ergo habentur THEOREMA I. Amicus non est in vidus. DEMONSTR. Invidus enim est , qili ob'alterius felicitatem taedio adficitur ( S. VII. ) : Quod quum in amico non reperiatur: amicus " go non est invidus. THEOREMA. Amicus est mise ' icors. DEMONSTR . Taedium enim percipit x personae amatae infelicitate ) $ . II. or. 2 : ) : quod quum dicatur coinmise atio ( 5. VII. ) : amicus ergo commi eratione tangitur erga personum ama zm . § . IX. Nova rursus inde sequenlur COROLLARIA. 1. Invidus ergo non si bonus amicus. 2. Qui ergo nescit Tom . 1. 218 Logica Pars. Ij. > novae r'e commiserari alterius vices , eumque ab infelicitate , dum potest , non vult eri pere , non se dicat amicum . 6. X. Si meditatio continuetur inde sequentur veritates. Et quidem defi niendo rursus notas voluptatis et felicita tis , maxima enunciationum seges adpare bit. Sint ergo . DEFINITIONES. Voluptas sive delectatio est sensus perfectionis. 2. For licitas est status durabilis gaudii . . XI . Ex quarum prima oriuntur AXIOMAT'A. 1. Delectutio ex aliqua supponit eius bonitatem ac per feciionem , earumque repraesentationem . 2. Quicumque obligatur ad sensum per fectionis in altero promovendum , obli gatur. ad voluptatem in eo excitandum. 3. Oui - iubet primum , praecipit secun dum . § . XII . Ex altera vero fluunt sequentia AXI. 1. Qui alterius felicitate dele ctatur , ex eius statu durabilis gaudii voluptatem capit. 2. Qui alterius statum durabilis gaudii promovet , eius felici tatem promovet. 3. Qui illud iubet , hoc quoque iubet . 4 Quicumque obligatur ad primum , obligatur ad secundum. 1. XIII . Conferantur definitiones cum antecedentibus , indeque nasceutur. Cap. VI. De Veritatis Inquisitione. THEOREMA I. Amicus alterius feli citatem sibi , tamquam bonum , reprae sentat. DEMONSTR. Alterius enim felicita te delectatur ( $ . V. ) : quod quum fie ri nequeat , nisi illam sibi , iamquam bonum , repravsentet. Ergo amicus alterius felicitatem sibi tamquam bonum , repraesentat. THEOREMA II. Amicus delectatur alterius statu durabilis gaudii . DEMONSTR. Quum enim ex alterius felicitate delectetur; felicitas vero sit status durabilis gaudii ( S. X. def. 2. ) : ex hoc patet , amicum, quo que va luptatem percipere, THEOREMA. Amicus alterius gauuium durabile sibi , tamquam bonum repraesentat. DEMONSTR. Eius namque statu de lectatur ( per theor. 2. ) , quod fieri non potest , nisi id , tamquam bonum , sibi repraesentet. Ergo amicus alterius gaudiun durabile si bi , tamquambonum , repraesentat. § . XIV . SCHOLION. His praemissio succurrit lex appetitus , qua anima id , quod sibi , tamquam bonum repraesen tal , adpetit , et promovere studet. Plurimae hinc propositiones de duci poterunt. Et quidem THEOREMA. Amicus alterius felici tatem , idest gaudium durabile , adpe tit , et promovere studet. DEMONSTR. Omne , quod nobis , tamqnam bonum , repraesentamus , ad petimus et promovere studemus ( XIV . ) amicus sibi alterius felicitatem statum que durabilis gaudii , tamquam bonum , repraeseníat: er go ea omnia adpeiit ; et promovere stil det . *. XVI. Ex quo, sponte manant, COROLLARIA. Ergo amicus om nia cavet , quae alterum taedio affi ciunt 2. nec ullam omittit occasionem quai personae amatae iucunditatem et voluptatem promovere possit . S. XVII. Durabilis gaudii porro notio nem evolvendo occurret. DEFINITIO. Durabile gaudium est voluptas eminentior ex possessione ve iarum perfectionum grta . 9. XVI. Ex qua ultro sese off -rt. AXIOMA. Qui alterius gaudium du rabile promovet , eius quoque proinovet perfectiones. Atque inde exurget novum THEOREMA. Amicus alterius per fectiones promovet. DEMONSTR. Eius enim gaudium durabile promovet ( $. XV . ) , quod idem est ac promovere eius perfections.  F. XX. SCHOL. Est autem legis Natu rae iussum : Tuas aliorumque promove to perfectiones . S. XXI. Jude ergo oriuntur. COROLLARIA . 1. Amicus ergo legem Naturae observat 2. Nos ergo obligati sumus ad amicitiam colendam , 3. Adeoque,qui homines sibi reddit ini. micos Naturae legem violat. 4. Vo. luntati ergo Divinae: conveniens est , ut aliis simils amici . etc. Haec brevi meditatione compertae sunt veritates, Quod si modilatio aliquamdiu proferretur , dici non potest , quot novae propositiones exurgerent. Huic autem exer citationi si adolescentes adsueverint , aut nostra nos fallit opivio , aut sine multa lectione , brevi tempore , minimoque la bore Philosophi acutissimi evadent. K 3 2 ? 222 Logica Pars IT S E C T I O. II. De librorum lectione. Q" non 174 Vum intellectus noster arctis simis sit limitibus circumscrip tus , atque adeo veritatibus omnibus pro pria meditatione eruendis incapax :facile est and intelligendnm , cur aliorum scripta le genda sint, ut quae proprio marte possumus, ab alis detecta inueniamus. Sed quia non omnia ab omnibus adcurate scri pta , plerique etiam intellectus voluntatis vitio laborant , ideoque errare possunt: cautio quaedam adhibenda est in legendis eorum libris , ac proinde Lo gicae interest praecepta tradere , quibns in jis ad examen revocandis , dijudicandisqne veritatibus ab aliis inventis aut exaratis mens dirigatur : id quod in praesenti se ctione docendum . 175. LIBER est aut HISTORICVS , aut ŚCIENTIFICVS .Ille , in quo facta, seu enunciationes singulares ; hic , in quo pro positiones universales et dogmata traduntor.* * Hac librorum divisione nulla alia exactior. Quorum eum librorum habemus notitiam , Cap. VI. De Veritatis Inquisitione. 223 nihil , nisi duorum , quae enunciavimus , ar gumentorum alterutrum esse potest obiectum Patet ergo ratio , cur libros omnes in histo ricos , et didacticos sive scientificos distri buerimus. 176. HISTORIA , quum sit rerum quae acciderunt fidelis narratio ( S. 147. ) , facta vero vel Naturae opera , vel Societatem vel fidelium communionem nempe Eccle siam , vel deniqne litterariam Rempublicain spectent , esse potest NATVRALIS , ClVILIS, ECCLESIASTICA, vel LITTERARIA . * Rursus quoniam omnium , aut quo rumdam , vel alicuius ex quatuor illis , fa cta refert , dividitnr in UNIVERSALEM , PARTICULAREM, et SINGULAREM. Jarum prima Naturae opera enumerat , altera hominum vices et facta commemorat , iertia Ecclesiae vicissitudines et annalia narrat , po strema vel disciplinarum et librorum , vel eru ditorum vitas et fata omnia refert. ** Historia Naturalis ergo erit VNIVERSA LIS , si omnia in ea Naturae opera eno dentur ; PARTICVLARIS si alicuius tantum classis, veluti ex Regno vegetabili , fossili, ani mali etc. SINGVLARIS si alicuius tantummo do plantae , lapidis, metalli , aut viventis inventio , usus , incrementum etc, narrentur. K 4 224 Logica Pars II. civili , ecclesiastica , et litteraria , de quibus plura coram 177. Quia libri vel scripta ideo . legun tur ut veritates ab aliis inventae et dete ctae discántur ( 5. 274. ) ; ea vero verbis referta sunt , ut auctoris sensus intelliga. tur ( §. 160. ) , idest eaedem ideae ver bis adsignentur , quas Auctor cum iis con iunxit ( S. eod . ) : per se patet genera lis in legendo servandus. CΑΝΟΝ. IMN legendis , aliorum scriptis curato , uit easdem notiones cum verbis con iungas, quas Auctor voluit iisdem adfigi. 178. Ex quo legitima consequutione na scitur i . in cuiuscumque libri lectione at tendendum esse ad definitiones , quibus sin gularum significatio determinatur , vel and conceptum ab usu loquendi tributum 11s , quae sine definitione adsumuntur. Et quia claras ideas ac distinctas adquirere si ne attentione non possumus ( 9. 19. ) : se quitur 2. ut ad id potissimum requiratur attentio , crebriorque repetitio , in libris praecipue historicis ut facta facilius me inoriae mandentur. * 9 Cap. VI. De Veritatis Inquisitione. 225 * Vide quae de attentione ac repetitione dixi mus in Part. I. cap. 1. Seol. can. ult. 179. Et quoniam in historia tria potis simum spectantur , nempe veritas , ordo ac finis , facile patet 3. in libris histori cis legendis attendi debere ' ad rerum sive factorum veritatem , ad eorum ordinem et legitimam seriem et ad finem an sci licet liber Auctoris scopo respondeat. > * Pro diiudicanda rerum VERITATE, bislo ricae probabilitatis regulae traditae sunt( $ .152. seqq. ). ORDO vero tuin in locorum , tuna in temporis circumstantiis consistit. Eius ergo legiiimitatem quoad loca suppeditat GEO GRAPHIA , circa teinporis autem seriem CHRONOLOGIA. FINIS demum ex üsdem scriptis abunde patebit , adeoque , an ei res pondeant, ex eorum lectione diiudicari pote rit Historiae nituralis finis est obiecta rario ra adcurate describere , phaenomeni alicuius cuncta notatıı digna , partiunqne nexum di stincte exponere ; Civilis est politices civilis que prudentiae regulas exemplis et factis con firmare ; Ecclesiasticae scopus est , statum Ecciesiae , incrementin , in file costantiain , in profligandis erroribus - prudentiam Su premi item Numinis , in ea conservanda au gondaque Providentiam , 2 gelis , ostendere ; Litteraria ? tandeſ , inveniendi arlena , quam EVRISTICAM vocant , aptis aliaque id K 5 226 Logica Pars II : subsidiis , et veritatum a veteribus invenla rum cognitione perficere. Cognito itaque libri scopo , restat ut attente legatur ( S. 178. ) statimque innotescet , utrum suo fini respon deat. 1 180. De librorum scientificorum lectio ne sat erit , si pauca degustemus. Quo niam in scriptis didacticis methodus reqni rit , ut nullus adsumatur terminus , nisi notionem habeat sibi adiunctam , atque ut ea praemittantur , per quae sequentia in telliguntur: consequens est 4 . ut in iis legendis singulae veritates prius in classes dispescantur , ibique videatur utrum ad principia an ad propositiones iu de deductis pertincant ; deinde 5. ad sin gulas voces et notiones jis ab Auctore ad fixas attendatur ; (ac deni que 6. ut legens veritates antecedentes si bi reddat familiares , nedum demonstratio nes in syllogismos resolvat , in quibus vi. deat , si quid doli contineatur. 181. In scriptorum porro didacticorum examine ad eorum dotes potissimum respi ciendum , de quibus sequenti capite age. mus. Id unum porro meminisse juvabit; ad illorum examen conficiendum requiri absolụtam et continuatam libri lectionem , Cap. VII. De l'erit. comm. 227 attenta mque veritatum earumque nexus con templationem : * quae omnia si desint , le ctio dicetur SUPERFICIARIA . * Ad id ergo ineptissimi videntur scioli quidam in sola romanensiiim fabellarum lectione ver sati , qui in dijudicandis per tabernas comoe diis scurrilibus , aut ephemeridibus omnia studia sua contulerunt ; vel adolescentuli vo culis tantum , phrasibusque meinoriae infi gendis adsueti , qui vix e paedagogorum fe rula manum subduxerunt: " Requiritur autem laboris patientia , attentio , mens methodo ac meditationi adsuefacta , non vero in expen ex . dendis rerum corticibus solo sensuum et phan tasiae ductu exercita. OVampdoquidem a Platone * monitum non praeclare , non est no bis solum nati sumus , adeoque nec nobis sed aliorum commoda pro movere debemus : veritates a nobis dete ctas, vel quae ab aliis inven tae nobis ope lectionis innotuerunt, aliis proponere Natura obligamur. Qui vero verbis alium ad ignotarum veri talum cognitionem perducit , is eum Do 5 K 6 228 Logica Pars. Ir. CERE dicitur adeoque DOCTOR CO gnominatur. 7 * Ip Ep. ad Archytam Tarentium . Vid. Cic. de Fin . Lib . II. cap. 14. ** Latius hic patet docendi vocabulum , qu am a Cicerone de Offic. Prooem . usurpatur. Id ve ro ex definitione admodum completa prono , ut aiunt , alveo fluit. Ceterum in hoc usum loquendi sequuti sumus : vulgari namque ser mone tritum est , Magistrorum alios esse vi VOS , alios mortuos , qui Scriptorum vel Auctorum nomine distinguuntur , ita ut libros melonymicę magistros mortuos vulgo appel lent. 183. Et quoniam verba vel voce profe runtur , vel scripto exaranțur ( S. 42. ) : patet , duplicem esse docendi modum , vo ce scilicet , atque scriptis ; adeoque MA GISTRUM dici debere , tam eum qui li þros in lucem edit , quam cum qui in A cademiis iuventutem instruit. Speciatim autem in sequentibus eum , qui scripta didactica ( de quibus hic tantum ser mo est ) conficit, SCRIPTOREM vel AU. CTOREM ; eum vero , qui adolescentes ro ce docet DOCENTEM , DOCTOREM , MAGISTRVM dicemus : idque ad evitan dam confusionem , atque inutilem verborum repetitionem . Sed quia doctrinam hanc in dus as dividere instituimus sectiones , nt de utri Cap. VII. De Verit. commun . 229 se esse usque virtutibus ac vitiis aliqua dicere posse mus : nunc , quae utrique communia sunt , dispiciemus. Ad calcem denique capitis quae dam de discentium dotibus ae naevis com pendii loco addemus. 184. Quia vero docents est , alios ad ignotaruin veritatum cognitiovem prducere; cognitio avlein debet certa et distincta eaque vel a posteriori vel a priori: consegucas esi 1. ut lectores vel auditores de veritatibus certi reddendi sint , adeoque 2 , indiciis sufficientibus at que inf.l.bilibus ad veritatis cognitionem adducendi ( $ . 1 : 4 . ) . quod ut fiat , 0 portet 5. ut docens ab iis intelligatur , ideoque 4. sit perspicuus , ad quod requiritur 5. ut artein , in qua versatur , distincte intelligat * ( $ . 24 ) 6. bonam methodum rigide servet ( . 138. seqq . ) , 7. et si quid implicatum confu suinque occurrat , distincte explicet. > * Criterium enim notionis distinctae est , si cum aliis eam possimus per verba communi Care: nisi ergo distincta artis suae docens cognitione gaudeat , fieri non potest , ut eius praecepta perspicue aliis proponere queat. CONVICTIO est actio , qua al terum de veritate certum reddimus. Quod quum fiat demoustrationis ope ( . 133. ) quisque videt , convictionem sola demon stratione absolvi. * Ex quo liquet 8. do centem alios de veritate , quam docet , debere convincere , ** ac proinde 9. pro babilibus argumentis uti ei non licere : *** nisi res talis sit , ut sola probabilita te cognosci possit . * Quoniam ergo convictio demonstratione ab solvitur demonstratio vero est vel directa vel indirecta , ( 132. ) , vel a priori vel a poste riori ( $. 131. ) : non abs re convictioni ea dem nomina , prout veritates demonstrantur, a Philosophis tributa sunt. ** Vt vero rationis pondus in convincendo ani mum sese insinuet , oportet , ut iHe sit atten tus , in demonstrationibus versatus , et talis ; qui rationum momenta perpendere possit. Quapropter solidis demonstrationibus , non conviciis , irrisionibus , dictisque iniuriam in ferentibus ad veritatem est trahendus. Convi cia nanque odium iramque pariunt, et atten tionem turbant. *** Dici haec solet PERSUASIO , quae quum sit rationibus insufficientibus innixa , convi ctio dici nequit , quippe quae a convictione longe multumque distat. " Hinc vides , convictio sit Philosophcrum propria , perсиг Cap. VII. De Verit. commun. 231 suasio vero Oratorum , qui in investigatione verosimilium argumentorum versantur , quan tum sufficiat ad caussam probabilem redden dam , de quo conferendus est Cicero de In vent. cap. * 186. SOLIDITAS est completa artis, quam profitemur , methodique cognitio, Hinc ergo patet 10 maximam et praeci puam doceotium dotem esse soliditatem , adeoque 11. litteratos superficiarios es se ad scribendum aeque , ac docendum ineptos . * Vitium vero soliditati oppositum in speciali bus tractationibus infra explicabimus. Ad eas itaque progrediamur, SECTIO I. De Librorum dotibus. IBER , in quo veritates continen tur , SCIENTIFICVS dicitur , alio nomine SCRIPTUM DIDACTICVM . Eius dotes sunt SOLIDITAS, PERSPICVITAS, METHODVS, et SVFFICIENTIA. SOLIDITAS consistit in principio rum firmitate , ac deinonstrationum stabi 232 Logica Pars II. bilate . Solidus ergo dicitur liber 1. si eius dim principia certa fuerint atque indubia ( $ . 150. ) , 3. si propositiones singulae rig de sini demonstratae , si bona me thodus in demonstrando adbibita  pec in demonstrando cir culus irrepserit. Si vero bonae methodi leges fuerint negle ctae , tunc liber SVPERFICIARVS dice tur. Huiusmodi vero libris Rempublicam ca rere litterariam , foret maguopere optandum . 189. PERSPICVITAS in verborum pro prietate , iustaque eorum cum ideis pro portione sita est . Verborum PROPRIETAS es'git , ut voces omnis secundum usum loquendi fixo sign ficatu adbibeantur, adcuratisque definitionibus deter spineniar. Iusta verborum cum ideis PROFORTIÓ requirit , ut liber non sit prolixior , nec brevior , quam scopo SIO conveniat. * Quemadmodum enim prolixitas verborum mul titudine mentem obruit : ita et nimia brevi tas Auctoris sensum occultat , adeoque am bae oliscuritatem pariunt, scilicet vitium per spicuitati oppositum Vid. Heinec. Fundam . Stili culiior. Part. S. cap. 2 § . 50. Cap. VII.De Verit. comm un. nexu 190. METHODVS in eo est ut veri tates ex veritatibus et principiata , ut aiunt , ex principiis legitimo et continuo sint deducta , nihilque confusionis vel perturbationis inveniatur ; denique si ea praecesserint , per quae sequentia intel. ligi possunt. SVFFICIENTIA tandem id exigit, ut liber sit COMPLETVS, idest veritates et propositiones exhibeat Auctoris fin i suf ficientes : qui namque finem non ahso lvit , INCOMPLETVS adpellatur. * Longum valde foret , si sufficientiae particu lares characteres , hoc est fines lot tantorum que librorum percurrere vellemus. Sufficiat tamen generales eiusdem notas evolvisse : id enim ex attenta cuinsque libri lectione quisque poterit diiudicare. 192. SYSTEVIA est congeries verita tum inter se connexurum , et a prin cipiis suis legitime deductarum . Et quia id quatuor , quas recensuimus, dotibus absolvitur : hinc est , ut Logici dicant , librum quemcumque scien titicum systematice scribi oportere. * Non omnes tamen qui libros scribunt systema conficere possunt ; sed ii tantum qui veritates a se detectas , et ad eumdem 234 Logica Pars IT. > scopum tendentes in libros referunt. Eorum autem , qui alienis laboribus insudant , alii sunt COMPILATORES , qui aliorum opera hinc inde dispersa colligunt, atque in lucem edunt , mulla ordinis habita ratione ; E PITOMATORES qui brevius aliorum scripta prolixiora componunt. Et hi qui dem reprehensionem numquam , quandoque vero laudem ( illi praecipue ) ab eruditorum universitate reportant. Sunt vero quidam , qui aliorum scripta suffurantes ea typis man dant , impudentique fronte suo nomine inscrie bunt , iique PLAGIARII nuncupantur. De his autem quidnam dicendum , sit , omnes no runt. SECTIO II . De Doctorum virtutibus et vitis. DOCTO OCTOR appellatur , qui alios voce ad rerum ignotarum co gnitionem perducit, vcos de veritatibus , qnas tradit , certos reddit, atque convincit. Eius virtutes partim ab inte !lectu , par tim a natura , partim a voluntate penden tes , sunt quatuor : ab intellectu SOLIDITAS , et in doendo PRUDENTIA ; a na tura DOCENDI DONUM ; a volnntate ve ro AMOR. De singulis pauca disquiremus. Cap. VII. De Verit. Commun. Ex doctoris definitione sequitur 1. ut generales docentis characte res possidere debeat is , qui doctoris munere fungi vult ; adeoque 2. prima et praecipua eius virtus sit SOLIDITAS qua fit 3. ut res abstractas et intellectu difficiles exemplis illustret , at que propositionum omnium sive a se , si ve ab aliis enunciataruin analysin instituat. Nisi enim exemplis ac similitudinibus res dif ficiles illustrentur, aegre ab auditoribus au dietur , quibus abstrahendi ars vel ignota prorsus est , vel laboriosa : adeoque taedium concipientes attentione carebunt nihilque intelligentes doctorem fine suo frustrabunt. 195. Quia vero doctor auditores suos de veritate cerlos reddere debet ( S. 184. ) ; ad certitudinem autem ducit demonstratio: consequens est 5. nt scientia praeditus, verborum facilitate in fructus ct ad rationem de omnibus red dendain promlus esse debeat . Et quia au ditores convincendi sunt, et ad hoc in eis attentio requiritur: patet 6. Doctorem DOCENDI DONO in. signitum esse debere , idest dicendi promti tudine et suavitate , quo deficiente , ad proprium munus obeundum ineptus erit. 236 Logica Pars II. parvum in eo 9 a do * Vt enim auditor sit attentus , cavere debet qui eum docet , ne taedio, eum adficiat. Tae dium autem haud excita bit , si verborum inopia , dicendi infelici tate , animique imbecillitate laboret. Eo nam que casu non modo attentionem minuet sed et illius ludibrio se exponet. Qui ergo se huiusmodi suavitate ac promtitudine senserit destitutum , ei auctores fuerimus , ut cendi munere se abstineat , si operae preti um perdere nolit. 196. Quoniam autem non eadein omni bus est adolescentibus perspicacia , que non tam voce , quam exemplo erudiuntur : liquido infertur 7. ut doctor facoltate gau deat doctrinas ad discentium captum ge niumgne adcommodandi . ac media ad fi nem rite disponendi, nec non 8. in ex sequendis praeceptis auditores manuducat, seque iis pracheat antecessorem : praecipue veio 9. si in moralibus vitaque civili ver setur institutic , animum ipse prius ad vir tutem instruat, ut ad hoc vivum exemplar omnes conformari studeant. * Et hoc est, quod dici soiet PRVDENTIA INDOCENDO. * Si namque docentis actiones a praeceptis dis crepent , nequicquam laborum suorum fru ctum exspectabit , et adolescentes exemplum potius malum , quam bonam vocem sequuti Cap. VII. De verit. commun. 237 nihil , praeter praeceptoris imitationem , prae se ferent : quum bene monuerit Iuvenalis : Omnes duciles sumus pravis ac turpibus imi tandis suos .Postrema doctoris virtus eaque magni momenti, est AMOR erga Quum enim in erudiendis pueris aut ado lescentibus permulta opus sit fidelitate inserviendi promtitudine , patientia patientia , et labore haec auien omma nisi ab iis , qui nos amant , sperare non possumus : recte infertur 10. doctorem sincero audi tores suos amore prosequi; adeoque 11 . et studio ; 7 commoda promoveadi adfcctum esse debere. eorum * Quam necessaria sit haec in doctore virtus , ex sequentibus alimde patebii. Si namque amor deficiat , et studium deerit disceniium utilitati inserviendi : ac proinde pro doctore exsurget mercenarius vel utilitati , vel existi mationi propriae consulens; et tanc nec morun ratio umquam habebitur , et omnes lucri fa cendi artes promovebuntur. Si haec omnia ponantor , habebimns magistrum , vel leo poribus inservientem , in muneris exercitio ne gligentem , timidum , sui dumtaxat studio abreptum , et ad vilissima quaeqne facilem ; vel inaccessibilem , clatum , ' omnia sibi per mitientem , quandoque etiam garrulum , ét e cathedra , tamquam e suggestu , aliorum no mina lacerantem , quo tutius possit de suis virtutibus declamare. 198. Si virtutum quas recensuimus opposita evolvautur , illico doctorum vi tia ad parebunt, quae breviter enumera bimus. Eorum primum et praecipuum est IMPERITIA, idest artis methodique-igno. ratio . Huius effectus sunt 1. obscuritas , qua fit , ut talis doctor terminis inanibus , vagis obscuris , nec recte definitis sit con tentus , resque difficiles exemplis illustrare nequeat : 2. confusio quae methodi negli gentiam , analyseos ignorantiam , ac con vincendi impoientiam parit : 3. docendi ineptitudo ; quum enim ars ignoratur et methodus , deficit prompitudo et suavitas , quibus ducendi donum absolvitur * ( S. 95.) : 4. molesta prolixilas , aut obscurabre vitas ; ignorata namque arte vocabula quoque technica ignorantur, quo fit , ut vel inanibus circumloquutionibus, vel paucis et insufficientibus rei explicandae verbis uta tur: 5. superfluorum tractatio et necessa riorum omissio , quam veram ignorantiae causam esse ait Sencea ( S. 103. * ) : 6. ser monis barbarics , cui proxima est obscuri. tas et taediuin , adeoque ad minuendam ten dit attentionem. Cap. VII. De verit. commun. 239 * Non desunt equidem , qui naturali quodam suavitatis defectu laborantes nec genio , nec captui auditorum se accommodare sciunt , li cet doctissimi sint et omnimoda, eruditione praediti. Naturalis autem haec imbecillitas non inter vitia sed inter defectus est referen da, adeoque imperitia dici neqnit. Quamvis enim huiusmodi doctoribus lepor desit : me diorum tamen excogitatio aliaqne pruden tiae subsidia praesto sunt. Ineptitudinis ergo caussa non alia adsignari debet , quam impe ritia , scilicet soliditatis absentia. > 199. Alterum doctoris vitium a primo oilum ducens est IMPRVDENTIA in do cendo , quae in caussa est , ut auditorum Caplui genioque se adcommodare , atque media ad finem ducentia excogitare , ac proinde animis morbo aliquo laborantibus mederi nesciat. * Quae enim prudentia in imperito ? Imprudentiae quoque debetur illa paedagogo rum imbecillitas , qua inter se invicem de futilibus inoptisque rebus decertantes , vel aliis invidentes discentium animos adversus aemulos stimulanti. et ad pueriles irrisiones dicacitatesque concitant : quo fit , ut ipsi in spretum et abietionem incidant, adolescentes contra pessimos , audaces , ridiculosque mo res induant. 240 Logica Pars II. 200. Ad voluntatis vitia , quae amorem excludunt, referuntur : AMBITIO , si ve nimia gloriae laudisque cupiditas , qua fit , ut vana eruditionis, autº eloquentiae ostentatione , nimioque sermonis fuco di sciplinarum praecepta non explicentur , sed implicentur , propriaeque existimationi potius , quam discentium utilitati doctores consulant. - 3. AVARITIA , quae omnia trabit commodum efficitque , ut sola sit utilitas iusti prope mater et aequi: VOLVPTATIS CONSECTATIO , quae ignaviam , laboris im pa tientiam oilierique neglectum parit , atque soliditatis defecium arguit , quum bene monterit Genuensis .noster : difficile esse reperire hominem vere doctum simul autem et mollem , ad suum > * * * * Inde quoque fluxit Cynicus iile mos , et ef fraenis alios lacerandi consuetndo , quae in caussa fuit , ut de quorumdam adolescentum petnlantia ad satyras proclivium emunctae nae ris homines conquesti · gint : videbant enim pravam consuetudinen a pessimo doctorum exemplo vatan in naturam paullatim ac cor ruptionem abituran Ex codem tandem fons te manat ctiam illa docentium praesumtio , qui , ne discipulus supra magistrum esse vie deatur , vel aliquot sublimiores doctrinas sla Cap. VII. De verit: commun . 241 bi solis reservant , vel sublimia auditornm in genia deprimunt ac despiciunt. Praeterquam quod ambitio in doctoribus novitatis amorem gignit , eosque opinionum singularium et ab surdarum , saepe etiam impietatis studiosos efficit : id quod maximo adolescentihus detri mento est , praecipue quum auctoritatis prae indicium altius in iis radices agat. Vid Hei nec. Ethic. l. 77. ** Quando quis avaritiae studet , non aliorum , sed sua tantum commoda promovet , idque per fas an nefas , nihil sua referre videtur. Hinc auditorum quosdam opibus pellantes , vel praeceptorum gratiam muneribus ementes reliquis praeferunt, eos seorsum instruunt , ac speciali cura in aliquibns reconditis rebus erudiunt, eaque praedilectione prosequuntur , ut se aliorum odio , invidiae vero illos expo nant, adeoque nihil neque hi pro . ficiant. *** Art. Logicocritic. Lib. I. cap. Voluptati nanque dediti plerumque sunt ignavi , desides , et laboris impatientes ; atque inde fit , ut non satis praeparati ad doces dum accedcntes in lycaeo quidquid in buccain vererit effutiant, et quia ex abundantia cor dis , ut Servator ait , os loquitur , bonos persaepe mores verbis factisme corrumpant. Delicatuli isti suat etiam meticulosi , adeoque veritatem , quam alias intrepido vultu , si ri te munere suo fungi vellent , dicere debe ne aliorum indignationen incurruni Tom . I. L neque illi reni , ) 242 Logica Pars II. aut dissimulant , aut tegunt, aut ( quod val de dolendum ) foede corrumpunt. Praeterea in huiusmodi hominibus ridicula quaedam et thrasonica reperitur ambitio , scilicet paedan tismus', quo furentes nusquam , nisi de suis rebus gestis plurima exaggeranti, auditorum , que risui se exponunt. 201 • Superest , ut doctrinae usum do etorumque officia exponamus , ut si qui munus hoc inire cupiunt , bene incipere , feliciusque prosequi possini. Quicunque cr go ad istruendam iuventutem animum ad. pellis , hos diligenter observato : CANON ES. Avditores eligito perspicaces, mui toque supientiae umore Nagrantes. Eo rum porro attentionem excitato sae pius , ac vitia , quibus eos laborare per cipis , prudenter sensimque corrigito. 2. Doctoris munus , nisi solida artis methodique cognitione imbutus , ne te mere suscipito : idque summa fidelitate, prucuttia , ac sincero erga discentes amore absolvito. 3. Adolescentes in moralibus civili Cap. VII. De Verit. comm . 243 busque disciplinis non tam voce , quam exemplis erudito. Evidentissimum numiz que , teste Augustino , docendi genus est subiectio exemplorum . 4. Religionis amorem , morumque in tegritatem in discentibus foveto , neque te illis familiarem nimis reddito , ne , excusso subiectionis fraeno , doctores parvipendentes nihil proficiant, et ad pessima quaeque praecipites ruant. " , SECTIO III . De Discentium dotibus ac naevisn's 202 , Am de dotibus IAm vitiisque discça tium pauca apperidicis loco ad damus. Eorum est de veritatibus certos reddi ; solidache imbui co gnitione, quae non nisi es claris distinctisque oritur notionibus. Ad claras vero ac distinctas ideas adquirendas requiritur attentio et libertas a praeiudiciis : Quidquid ergo attentionem tur bat , vel praeiudicia fovet , ab iis abesse debet . 203. Priina ergo et maxima discentium dos est BONA NENS, DOCILITAS, ATTENTIO sincerus erga stu. dia et docentes AMOR,  LABORIS PATIENTIA et otii fuga , + 6. de. nique ANIMI SOLITUDO . It * Bonae mentis vocabulo intelligimus non mo do naturalem ingenii perspicaciam , cuius de fectus hominem reddit cognitionis incapacem , verum etiam animum bene educatum vcrae que Relligionis amantem : quum Divino oracu lo monituin sit initiuin om nis sapientiae esse timorem Domini.  Hoc est libertas a praeiudiciis ,ut supra di clum est, animique inclinatio ad quaecunque praecepta ediscenda , et ad pra xin adplicanda. ID adeo * Si namque Doctores et studia amemus , his sedulam navamus operam , illosque atter te auscultamus : si vero amor hinc absit , taedium supervenit . , attentio minuitur , que aut parum aut nihil in studiis profie mus. | Laboris enim impatientia ignorantiae cause est , ut dixiinus ; quoniam veri tates vel propria meditatioue vel Aucts rum lectione inveniuntur, medtatio vero perinde ac lectio laborem cai gunt , ut ex superioribus abunde constat. De verit. eomm. 245 # Multitudo namque non modo praeiudicio rum fons est sed at tentionem quoque distrahit aut saltem mi nuit : adeoque solum oportet esse , qui sa pientiae sentit amorem. Ex iisdem principiis sponte manant discentium vitia , qualia sunt 1. Religionis spretus , quem conse quitur voluntaria praeiudiciis adhaesio , 2. mentis hebetudo , 3. attentionis distra ctio , 4. otium et laboris impatientia a dolescenlibus familiarissima , 4. aversio a studiis vel doctoribus , 6. denique spe ctaculorum , multitudinis , et sodalita tum amor , quo fit , ut attentio distraha tur ( $ . 40. Schol. Can. 5. ) , et ad voluptatem inde ac perditionem praccipiti Cursu ruant. Schol. Quae de discentium officiis tra lendae forent regulae, eae ab eadem do trina huc usque exposita facile deduci po erunt. Quapropter hic a canonum addi tione con mode abstinemus. De litterario certamine. zv ERTAMINIS LITTERARII no Emine intelligimus quascumque disputationes, quae pro veritatis disquisitione vel diiudicatione instituuntur. Hae disceptationes similiter vel scriptis , vel vo. ce liont : et quidem SCRIPTO, vel alio rum errores confutamus , vel nosmet ab eorum imputationibus defendimus: VOCE autem rationes utrinque conficiuntur , et ad examen revocantur. Si ergo alterius errores scripto detegantur , actio haec dicilnr CONFITATIO ; si pro positiones ab alterius impugnatione vindicentur, DEFENSIO, si denique coram disce platio instituatur, propio nomine DISPVTATIO adpellatur. De harum qualibet diversis sectionibus agemus qua alium erroris convincimus. Ex qua definitione patet 1. confutantem de Cdium erroris convincimus. Ex bere falsitatem propositionis, quam alter pro vera asseruit demonstrare, idque a priori vel a posteriori, directe aut apogogice indiciis sufficientibus, hoc est principiis demonstrandi certis ei utendum esse. Etquia eadem propositio non potest esse simul vera et falsa (alias in contradictionem inpingeretur ): evidens est. propositio nem legitime denionstratam confutari non posse, adeoque. eius demonstration, nem esse contrariae confutationem. Antequam vero confutatio instituatur opore tet STATVM QVAESTIONIS conficere, idest verum suctoris sensum intelligere, ut propositionem falsam ex ipsius auctoris men le demonstret. Eo enim ipso vitabitur LOGOMACHIA, qua propositio vera impetitur, cuius veritas, licet ab adversario sit cognita, aliis tamen verbis expriiuiiur et impugnatur, adeoquc insurgit quaestio de verbis . Vid . Weienfelsium de logomachiis eruditorum . Si vero indicia fuerint insufficientia, scilicet principia probabilia et precaria, tunc non con L'utilis , sed IMPVGNATIO dicetur. Impugnari tamen potest, nempe dubiis au dificultatibus quisbusdam subiici , ut eius veritas clarius elucescat, nec ulla remaneat op positi suspicio , id quod infra in Seet. 3. docebimus. Quoniam confutatio ost convictio; haec autein requirit , ut con vincendus sit attentus , nec adfectus in eo attentionem turbantes exciteptur : liquido infertur 5. confutantem ea omnia quae attentionem in altero per turbant , atque adfectus excitant , vitare debere ; consequenter 6. a conviciis , ir risionibus, vel consequeniiis periculosis, quae confutandi famam laetlunt , abstinen dum esse. Sunt autem PERICVLOSAE huiusmodi CONSEQVENTIAE , quae non quidem ex genui no Auctoris sensi , sed ex confutantis opi nione eruuntur , quaeque non veritatis de fendendae gratia deducuntur , sed ut adver sarii fama in discrimen vocetur , isque alio rum ludibrio exponatur. Harum porro con sequentiaruin confectores proprio nomine CONSEQVENTIARII vocantur. 208. Qaum ergo consequentiae pericu losae aliorum odium Auctori concilient ( $. 207. * , ) eique invidiam creent : non abs re a Philosophis argumenta ab invi L4 1 + Cap. ult. de titt. cerlamine. 249 * dia fuerunt appellatae. Ex quo patet ARGUMENTUM AB INVIDIA ductum in confutando sollicite esse vitandum ; a deoque 8.non abs re consequentiarios a Wolfio PERSECUTORES cognominari . * Logic. Lat. pag. 752. Idque iure merito . Nam confutator vere dicitur , qui veritatem ab al terius paralogismis vindicare studet. At qui non veritatem , sed adversarii famam perse quitur , nullo inodo confutator dicendus est, sed alterius persecutor, quia id non rationis auxilio , sed invidiae stimulo perficit. Schol. Quoniam itaque in confutante solius veritatis amor exigitur : ut in con futatione nihil vel minimum peccetur , hos qui sequuntur , servare curato . CAN ONE S. I. A, D confutandum solo veritatis a more , non odio adversus alte rum ductus accedito . Adversarium soli dis rationibus non conviciis , dictisve famae nocentibus de errore et falsitate convincito . 2. Si obscuro impropriove stilo ad edəssarius scripsit , ut dictionem corriagat , seque intelligendum praestet , ad wertito. Si quid ab altero in demonstran do peccatum , sive principia falsa sint, sive connexio illegitima , cuncta distincte modesteque patefacito. Demonstrationis rigidus custos principiorum diligens investigator esto , ne tibi ab adversario nota inuratur. E tenim TURPE EST DOCTORI , QUUM CULPA RE DARGUIT IPSUM. DEFENSIO est propositionis ab alterius impugnatione vindi catio . Ex eadem ergo definitione sequitur 1. ut propositio legitime confutata defen din non possit , ut et 2. ad defensionem propositionis sufficiat eius veritatem solide demonstrare , aut 3. si de terminis tan tum quaestio sit , eos adcuratis definitio nibus determinare. Duobus vero modis defensio insti taitur. Vel enim propositionis veritatem ab alterius impugnatione vindicamus , vel Cap . ult. De litt. ccrtumine. 251 impugnantis errores itidem detegimus . Pri mae classis seripla dicuntur APOLOGE TICA ; alterius vero POLEMICA vel E RISTICA. * jin , * Horum quidem scriptorum minorem num rum Respublica optaret litteraria. His nam que nec veritas invenitur , nec ratio perfici tur , sed contentiones animique perturbatio nes aluntur , nulla prorsus utilitate, magno autem Societatis , ac iuventutis studiosae malo. ? 211. Defendenti ergo , ne a recto. aber ret , Sequentes proponimus. , C ANONES. 1 . PhoRopositionem a te légitime demon Stratam , aut notionem cum ver bis rite ' conjunctam ab alterius cuiusvis impugnatione ne defendito. Pro të nam que evidentia pugnabito ? ? 2. Eius , qui te maledictis conviciis que laesit , scriptis modesto respondeto silentio . * la cedendo victor abibis. * Si namque simili stilo , respondeas , nullum operae pretium facies , adversarii petulantiam temeritate lua iustificabis , inque idem vitium incides , quod in alio reprehendis. Quidquid ab altero tibi impugnari sentis , in eo tua versetur defensio. * Si vero argumentis ab invidia periculosis que consequentiis ab aliquo persecutore adfectus fueris , sat est eius malitiam et nocendi studium ostendere teque commiseratione potius , quam ira per citum perhibere. Si ergo deverborum sensu quaestio sit , eum te explicasse sufficiet : si principia impugna tor urgeat eorum certitudinem ostendas oportet : si in demonstrationibus te ar guere velit , earuin legitimam connexiouem prae oculis ponere ; si vero aliqua consequen tia absurda tibi imputetur , aut ipsius conse quentiae veritatem , aut eam ab adversario non recte deductam , demonstrare debebis. Quod si persecutor obscurae famae sit , te tacente veritas ipsa loqietur , tuaque mo destia impudeutem adversarium confusione " obruet. SECTIO III . 7 212. , 18. De Disputatione. A D veritatis tandem disquisitionem accedamus , quae non scripto , sed voce fit , quaeque disputationis no. De litt. certaminemine venit. Est igitur DISPUTATIO -aru ritatis alicuius discussio voce facta. Ea tribus ' personis absolvitur , quarum una propositionem'impugnat , altera eamdem defendit , tertia vero huic suppetias fert. * Adeoque qui veritatem difficultatibus du bisque implicat , OPPONENS ; qui vero eaka ab eiusmodi impugnatione vindicat , DEFENDENS, vel RESPONDENS ; qui deni que huic aliquid adiumenti adfert , PRAESES aupellatur. 1213. Ex qua definitione liquet 1. di- , sputationem esse impugnationem proposi tionis veraen eiusque. defensionem ; ideo que 2. , utramque demonstratione absol vi , ut disputantium alteruter de veri tate convincatur ; quare 3. quidquid ge neratim de convictione dictum, de disputatione etiam intelligatur , prae cipue vero 4. status quaestionis formandus  et 5. oportet , ut lingua loquantur clara et intelligbili, hoc est amboruin captui adcommodata 6. ut u trique nec animus nec lingua deficiat. Su per omnia autem 7 affectibus carcant , odio , praesertim et invidia, Non enim ad rixandum , sed ad disputandum. descendunt. At affectus convicia iniuriasque pariunt , quibus attentio turbatur ( S. 207. ): ac proinde a disputantibus louge debent ab esse , ne ira odiove perciti tantum absit ut veritatem inveniant , ut potius .a convicis ad manus transeánt. Ex eadem definitione fluit 8. di sputantes debere in terminis contradicto . riis versari , hoc est ut idein ab uno a d. firmetur , ab altero negetur'. Et quia idem subiectum in contradictione requiritur; eruitur 9. disputantes debere in terminorum notionibus convenire: quapro pter 10 si verborum sensus- lateat , eorum explicationem a respondente peti posse, ut in claris distinctisque rebus incidat contro versia, ct ' sic logomachiae vitentur. Disputatio vel' ACADEMICA est , vel DIALECTICA. Illa continuato ac paene oratorio dicendi genere , haeć syllo gistico more conficitur . In illa opponens disscrtatione quadam propositionis veritatem impugnat, respondens contra eodemstilo obiectiones diluit , ihesiique defendit ; in hoc vero syllogisniis aliisque ratiocinandi modis chunciationem opponens inpugnat , ' et ex Cap. ult. De litt. certamine. adverso respondens ratio cinia ad trutinam revocans propositiones veras concedit , falsas negat , dubiasque distinguit, eoque progre diuntur , donec ad principia perveniant.Addi potest methodus disputandi SOCRATI CA, quae Opponentis interrogationibus , et Defendentis responsionibus dialogico stilo ab solvitur. Sed quum ea iam pridem ab usu recesserit : ab eius explicatione merito ab stinemus : in ipsis tamen praelectionibus , quae de ill a dicenda forent , paucis expe diemus. Vides ergo methodum Academicam ad eru ditionis et eloquentiae ostentationem in Aca demiis prae se ferendam unice inventam esse. In disputando autem , quum homini pede stanti in uno ñec eruditio , nec verborum copia praesto esse possit , Dialectica metho dus merito praeterenda, Vtcumque vero disputatio instituatur invabit disputantiirin munera paucis expo nére : id quol sequentibus exequemur re gulis. Et primo quidem amborum , dein de opponentis; postremo respondentis mu nia recensebimus . Quisquis ergo ad dis putandum accedis , hos religiose castodito : Phim Rimum omnium controversiae sta tum conjici ! ) . Nihil porro , nisi terminis claris fixisque expressum , in e am incidito . Obscura quaeque explica to . 2. Dispu'ans adfectibus vacuus , veria tatis tantum amans, eiusque invenienda cupidus esto . Cuncta modeste, suaviter , amice proferto . Convicia et dicta mor dacia , velut angiem , fugito. OPPONENTIS hae fere partes sunto . 3. Quacunque meihodo thesin aliquam adoriris , syllogisticam artem cuidi ha beto . Argumentu solida non sophismata ineptasve fallacias, proponito . Conclu sio thesi impugnatae semper e diametro contraria esto 4. Si quid a respondente tibi propo nitur explicandum , explicato : si vero probandum , tamdiu syllogismorum , au xilio probato , donec ad principia per veneris. Ad singula respondentis verba et distinctiones attendito . Si illa obscura sint, illi explicanda dato ; si vero clara , Cap. ult. De litt. certamine. 257 novas exceptiones , prout res tulerit , contra formato. Praecipue videto , si ad versarium ex assertis suis convincere et refutare, proprioque , ut aiunt, gladio iu gulare possis Et hoc est , quod vocari solet ARGVMENTVM AD HOMINEM, de quo tamen videa tur lo. Lockius de intell. bum . IV . 17. , qui eius insufficientiam in vero inveniendo et de bilitatem ostendit. Nos autem tantum in ex ercitationibus litterariis , quae coram fiunt id commendamus: de veri namque investiga tione fusius supra tractavimuis. RESPONDENS demum id sibi negotii sciat praecipue datum. Argumentum opponentis prius repe tito , deinde sedulo perpendito , num de bila gaudeat soliditate . Praenissarum quae tibi dubiae videbuntur , probatio nem postulato . 7. Syllogismum in forma peccantem totum reiicito. Si haec bene processerit materiam ad examen reyocaio. Propo sitiones falsas negato , veras concedito, dubias vero distinguito : sed de omnibus rationem reddere memento., ne ridiculas, evadas . 258 Logic. Pars. ii. Perridicula ergo est illa Scholasticorum regula: Semper nega , numquam concede raro distingue. Si namque casu neges, duo rum alterum exspectare debebis , vel ut ne gationis caussam adferas , vel ut lucem quo que neges meridianam : utrumque homini sen sibili acerbissimum . . 8. Si oppositae propositionis impossi bilitatem demostrare possis ; nihil ultra oneris habebis . Si vero in auctoritate probatio ' versetur : sat erit adversarii te.ctus obscuros claris auctoritatibus re fellere . 9. Caveto, ne propositionem concedas, in qua adversarius struxit insidias : ne cx eius admissione incidas in laqucos. Schol. Ceterum disputandi regulac usu magis ct exercitio , quam praeceptis , ad discuntur ' . Si tamen dicendum quod res est , in huiusmodi litterariis contentionibus von soliditas, sed promtitudo , immo ve ro impudentia valet et veritas amittitur potius , quam invenitur : Qua de re vide inus eruditos doctosque viros raro admodum ad disputandum descendere. Legatur Bud seus Obseru . in Plit. instrum . Pur: III. Cup . 3. g. 11. Giuseppe Capocasale. Keyword, assoc: ‘tears’ are a sign of sadness, but the kind of sign that ideas are related with are arbitrary, not necessarily natural signs. The correlation can be iconic, arbitrary, associative, etc. A sign is not essentially connected with the purpose of communication (smoke means fire). Grice is into ‘communication,’ not signs as such – a theory of communication, not a semeiotic.  Capocasale does not expand on the intricacies of the cocodrile’s tears, because he is not interested, but it woud just take a footnote to his comment on ‘lacrimae’ being a ‘signum’ traestitiae. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capocasale” – The Swimming-Pool Library.

 

Capocci (Viterbo). Filosofo. Grice: “I like Capocci; he was a Griceian; he opposed Aquinas on the dependence of will and intellectus – surely they are independent, and possibly the will is more basic! La ‘volonta,’ as the Italians call it! -- “That’s how I shall call himothers favour “Giacomo da Viterbo.”” Essential Italian philosopher – Di famiglia nobile, studia a Viterbo. His monicker was ‘il dottore speculativo”. Insegna a Napoli. Il suo saggio più conosciuto, “De regimine christiano” Approfondisce i temi della teocrazia, e del potere temporale del cesare e il suo stato. Altre opere: “Quaestiones disputatae de praedicamentis in divinis”. “Summa de peccatorum distinctione” – “there are surely more than seven sins – Multiply sins beyond necessity --. Dizionario Biografico degli Italiani.Vi sono in cui Giacomo viene raffigurato con un'aureola – segno naturale accordo di Peirce del santo.Mariani identified two manuscripts containing a Summa de peccatorum distinctione: Biblioteca Nazionale di Napoli, cod. vii G. 101 and Biblioteca di Montecassino, cod. 743, both of which ascribe the work to James. Ypma does not mention. Summa de peccatorum distinctione Fratris Jacobi de Viterbio Sacrae Theologiae Professoris , Fratrum Eremitarum Sancti Augustini , Archiepiscopi Neapolitani.  D. AMBRASI , La Summa de peccatorum distinctione del b . Giacomo da Viterbo dal ms. VII G 101 ... D. GUTIERREZ , De vita et scriptis Beati Iacobi de Viterbo , “ Analecta Augstiniana ” , XVI , 1937 Lectura super IV libros Sententiarum Quaestiones Parisius disputatae De praedicamentis in divinis Quaestione de animatione caeli Quaestiones disputatae de Verbo Quodlibeta quattuor Abbreviatio In Sententiarum Aegidii Romani De perfectione specierum De regimine christiano Summa de peccatorum distinctione Sermones diversarum rerum Concordantia psalmorum David De confessione De episcopali officio Like many of his contemporaries, James devotes serious attention to determining the status of theology as a science and to specifying its object, or rather, as the scholastics say, its subject. In Quodlibet III, q. 1, he asks whether theology is principally a practical or a speculative science. Unsurprisingly, perhaps, for an Augustinian, James responds that the end of theology resides principally not in knowledge but in the love of God. The love of God, informed by grace, is what distinguishes the way in which Christians worship God from the way in which pagans worship their deities. For philosophers—James has Cicero in mind—religion is a species of justice; worship is owed to God as a sign of submission. For the Christian, by contrast, there can be no worship without an internal affection of the soul, i.e., without love. James allows that there is some recognition of this fact in Book X of the Nicomachean Ethics, for the happy man would not be “most beloved of God,” as Aristotle claims he is, if he did not love God by making him the object of his theorizing. In this sense, it can be said that philosophy as well sees its end as the love of God as its principal subject. But there is a difference, James contends, in the way in which a science based on natural reason aims for the love of God and the way in which sacred science does so: sacred science tends to the love of God in a more perfect way. One way in which James illustrates the difference between both approaches is by contrasting the ways in which God is the “highest” object for metaphysics and for theology. The proper subject of metaphysics is being, not God, although God is the highest being. Theology, on the other hand, views God as its subject and considers being in relation to God. Thus, James concludes, “theology is called divine or of God in a much more excellent and principal way than metaphysics, for metaphysics considers God only in relation to common being, whereas theology considers common being in relation to God” (Quodl. III, q. 1, p. 20, 370–374). Another way in which James illustrates the difference between natural theology and sacred science is by using St. Anselm's distinction between the love of desire (amor concupiscientiae) and the love of friendship (amor amicitiae). The love of desire is the love by which we desire an end; the love of friendship is the love by which we wish someone well. The love of God philosophers have in mind, James contends, is the love of desire; it cannot, by the philosophers' own admission, be the love of friendship, for according to Aristotle, at least in the Magna Moralia, friendship involves a form of community or sharing between the friends that cannot possibly obtain between mere mortals and the gods. Now although James concedes that a “community of life” between God and man cannot be achieved by natural means, it is possible through the gift of grace. The particular friendship grace affords is called charity and it is to the conferring of charity that sacred scripture is principally ordered.Like all scholastics since the early thirteenth century, James subscribes to the distinction between God's ordained power, according to which “he can only do what he preordained he would do according to wisdom and will” (Quodl. I, q. 2, p. 17, 35–37) and his absolute power, according to which he can do whatever is “doable,” i.e., whatever does not imply a contradiction. Problems concerning what God can or cannot do arise only in the latter case. James considers several questions: can God add an infinite number of created species to the species already in existence (Quodl. I, q. 2)? Can he make matter exist without form (Quodl. IV, q. 1)? Can he make an accident subsist without a substrate (Quodl. II, q. 1)? Can he create the seminal reason of a rational soul in matter (Quodl. III, q. 10)? In response to the first question, James explains, following Giles of Rome but against the opinion of Godfrey of Fontaines and Henry of Ghent, that God can by his absolute power add an infinite number of created species ad superius, in the ascending order of perfection, if not in actuality, then at least in potency. God cannot, however, add even one additional species of reality ad inferius, between prime matter and pure nothingness, not because this exceeds his power but because prime matter is contiguous to nothingness and leaves, so to speak, no room for God to exercise his power (Côté 2009). James is more hesitant about the second question. He is sympathetic both to the arguments of those who deny that God can make matter subsist independently of form and to the arguments of those who claim he can. Both positions can reasonably be held, because each argues from a different (and valid) perspective. Proponents of the first position argue from the point of view of reason: because they rightly believe that God cannot make what implies a contradiction, and because they believe (rightly or wrongly) that making matter exist without form does involve a contradiction, they conclude that God cannot make matter exist without form. Proponents of the second group argue from the perspective of God's omnipotence which transcends human reason: because they rightly assume that God's power exceeds human comprehension, they conclude (rightly or wrongly) that making matter exist without form is among those things exceeding human comprehension that God can make come to pass.Another question James considers is whether God can make an accident subsist without a subject or substrate. The question arises only with respect to what he calls “absolute accidents,” namely quantity and quality, as opposed to relational accidents—the remaining categories of accident. God clearly cannot make relational accidents exist without a subject in which they inhere, for this would entail a contradiction. This is so because relations for James, as we will see in section 3.3 below, are modes, not things. What about absolute accidents? As a Catholic theologian, James is committed to the view that some quantities and qualities can subsist without a subject, for instance extension and color, a view for which he attempts to provide a philosophical justification. His position, in a nutshell, is that accidents are capable of existing independently if they are thing-like (dicunt rem). Numbers, place (locus), and time are not thing-like and are thus not capable of independent existence; extension, however, is and so can be made to exist without a subject. The same reasoning applies to quality. This is somewhat surprising, for according to the traditional account of the Eucharist, whereas extension may exist without a subject, the qualities, color, odor, texture, necessarily cannot; they inhere in the extension. James, however, holds that just as God can make thing-like quantities to exist without a subject, so too must he be able to make a thing-like quality exist without the subject in which it inheres. Just which qualities are capable of existing without a subject is determined by whether or not they are “modes of being,” i.e., by whether or not they are relational. This seems to be the case with health and shape: health is a proportion of the humors, and so, relational; likewise, shape is related to parts of quantity, without which, therefore, it cannot exist. Colors and weight, by contrast, are non-relational, according to James, and are thus in principle capable of being made to exist without a subject.The fourth question James considers in relation to God's omnipotence raises the interesting problem of whether the rational soul can come from matter. James proceeds carefully, claiming not to provide a definitive solution but merely to investigate the issue (non determinando sed investigando). The upshot of the investigation is that although there are many good reasons (the soul's immortality, its spirituality and its per se existence) to say that God cannot produce the seminal reason of the rational soul in matter, in the end, James decides, with the help of Augustine, that such a possibility must be open to God. Thus, it is true that in the order which God has de facto instituted, the soul's incorruptibility is repugnant to matter, but this is not so in absolute terms: if God can miraculously cause something to come to existence through generation and confer immortality upon it (James is presumably thinking of the birth of Christ), then he can make it come to pass that souls are produced through generation without being subject to corruption. Likewise, although it appears inconceivable that something material could generate something endowed with per se existence, it is not impossible absolutely speaking: if God can confer separate existence upon an accident—despite the fact that accidents naturally inhere in their substrates—then, in like manner, he can confer separate existence upon a soul, although it has a seminal reason in matter. Scholastics held that because God is the creative cause of all natural beings, he must possess the ideas corresponding to each of his creatures. But because God is eternal and is not subject to change, the ideas must be eternally present in him, although creatures exist for only a finite period of time. This doctrine of course raised many difficulties, which each author addressed with varying degrees of success. One difficulty had to do with reconciling the multiplicity of ideas with God's unity: since there are many species of being, there must be a corresponding number of ideas; but God is one and, hence, cannot contain any multiplicity. Another, directly related, difficulty had to do with the ontological status of ideas: do ideas have any reality apart from God? If one denied them any kind of reality, it was hard to see how they could function as exemplar causes of things; but to attribute full-blown essential reality to them was to run the risk of introducing multiplicity in God. One influential solution to these difficulties was provided by Thomas Aquinas, who argued that divine ideas are nothing else but the diverse ways in which God's essence is capable of being imitated, so that God knows the ideas of things by knowing his essence. Ideas are not distinct from God's essence, though they are distinct from the essences of the things God creates (De veritate, q. 2, a. 3). One can discern two answers to the problem of divine ideas in the works of James of Viterbo. At an early stage of his career, in the Abbreviatio in Sententiarum Aegidii Romani­—assuming one accepts, as seems reasonable, the early dating suggested by Ypma (1975)—James defends a position that is almost identical to that of Thomas Aquinas (Giustiniani 1979). In his Quodlibeta, however, he moves to a position closer to that of Henry of Ghent. In the following I will sketch James' position in the Quodlibeta as it provides the most mature statement of his views. Although James agreed with the notion that ideas are to be viewed as the differing ways in which God can be imitated, he did not think that one could make sense of the claim that God knows other things by cognizing his own essence unless one supposed that the essences of those things preexist in some way (aliquo modo) in God. James' solution is to distinguish two ways in which ideas are in God's intellect. They are in God's intellect, firstly, as identical with it, and, secondly, as distinct from it. The first mode of being is necessary as a means of acknowledging God's unity; but the second mode of being is just as necessary, for, as James puts it (Quodl. I, q. 5, p. 64, 65–67), “if God knows creatures before they exist, even insofar as they are other than him and distinct (from him), that which he knows is a cognized object, which must needs be something; for that which nowise exists and is absolutely nothing cannot be understood.”  But James also thinks that the necessity of positing distinct ideas in God follows from a consideration of God's essence. God enjoys the highest degree of nobility and goodness. His mode of knowledge must be commensurate with his nature. But according to Proclus, an author James is quite fond of quoting, the highest form of knowledge is knowledge through a thing's cause. That means that God knows things through his own essence. However, he does so by knowing his essence as a cause, and that is possible only by knowing “something (aliquid) through a cause, not merely by knowing that which is the cause (i.e., God)”. Although James' insistence on the distinctness of ideas with respect to God's essence is reminiscent of Henry of Ghent's teaching, it is important to note, as has been stressed by M. Gossiaux (2007), that James does not conceive of this distinctness as Henry does. For Henry, ideas possess esse essentiae; James, by contrast, while referring to divine ideas as things (res), is careful to add that they are not things “in the absolute sense but only determinately,” viz., as cognized objects (Quodl. I, q. 5, p. 63, 60). Thus, divine ideas for James possess a lesser degree of distinction from God's essence than do Henry of Ghent's. Nevertheless, because James did consider ideas to be distinct in some sense from God, his position would be viewed by some later authors—e.g., William of Alnwick—as compromising divine unity. The concept of being, all the medievals agreed, is common. What was debated was the nature of the commonness. According to James of Viterbo, all commonness is founded on some agreement, and this agreement can be either merely nominal or grounded in reality. Agreement is nominal when the same name is predicated of wholly different things, without there being any objective basis for the application of the common name; such is the case of equivocal names. Agreement is real in the following two cases: (1) if it is based on some essential resemblance between the many things to which a particular concept applies, in which case the concept applies to these many things by virtue of the self same ratio and is said of them univocally; or (2) if that concept is truly common to the many things of which it is said, although it is not said of them relative to the same nature (ratio), but as prior to one and posterior to the others, insofar as these are related in a certain way to the first. A concept that is predicated of things in this way is said to be analogous, and the agreement displayed by the things to which it applies is said to be an agreement of attribution (convenientia attributionis). James believes that it is according to this sense of analogy that being is said of God and creatures, and of substance and accident (Quaestiones de divinis praedicamentis I, q. 1, p. 25, 674–80). For being is said in a prior sense of God and in a posterior sense of creatures by virtue of a certain relation between the two; likewise, being is said first of substance and secondarily of accidents, on account of the relation of posteriority accidents have to substance. The reason why being is said in a prior sense of God and in a secondary sense of creatures and, hence, the reason why the ‘ratio’ or nature of being is different in the two cases is that being, in God, is “the very thing which God is” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 1, p. 16, 412), whereas created being is only being through something added to it. From this first difference follows a second, namely, that created being is being by virtue of being related to an agent, whereas uncreated being has no relation. These two differences can be summarized by saying that divine being is being through itself (per se), whereas created being is being through another (per aliud) (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 1, p. 16, 425–6). In sum, being is said of God and creature, but according to a different ratio: it is said of God according to the proper and perfect nature of being, but of creatures in a derivative or secondary way.James' most detailed discussion of the distinction between being and essence occurs in the context of a question that asks if creation could be saved if being (esse) and essence were not different (Quodl. I, q. 4). His answer is that although he finds it difficult to see how one could account for creation if being and essence were not really different, he does not believe it is necessary to conceive of the real distinction in the way in which “certain Doctors” do. Which Doctors does he have in mind? In Quodl. I, q. 4, he summarizes the views of three authors: Godfrey of Fontaines, according to whom the distinction is only conceptual (secundum rationem); Henry of Ghent, for whom esse is only intentionally different from essence, a distinction that is less than a real distinction but greater than a rational distinction; and finally, Giles of Rome, for whom esse is one thing (res), and essence another. Thus, James agrees with Giles, and disagrees with Henry and Godfrey, that the distinction between being and essence is real; however, he disagrees with Giles about the proper way of understanding the real distinction.The starting point of his analysis is Anselm's statement in the Monologion that the substantive lux (light), the infinitive lucere (to emit light), and the present participle lucens (emitting light) are related to each other in the same way as essentia (essence), esse (to be), and ens (being). The relation of lucere to lux, he tells us, is the relation of a concrete term to an abstract one. To-emit-light denotes light as an act, just as to-be (esse) denotes essence from the point of view of an act. Now, a concrete term signifies more things than the corresponding abstract term, e.g., esse signifies more things than essence, for essence signifies only the form, whereas esse signifies the form principally and the subject secondarily. By ‘subject’ James means the actually existing thing, which he also calls the aggregate or supposit (Wippel 1981). Esse and essence thus signify the same thing principally, but differ in terms of what they signify secondarily. Although this difference is only conceptual in the case of God, it is real in the case of creatures. It is this difference that explains why one does not predicate to-emit-light (lucere) of light itself (lux) or being of essence: what properly exists is that which has essence, viz., the supposit. Esse denotes essence as existing in a supposit.The kernel of James' solution, then, lies in the distinction between what terms signify primarily and secondarily. To his mind, this is what makes his solution closer in spirit to Giles of Rome than to either Godfrey or Henry, without committing him to a conception of the distinction as rigid as that of Giles. The distinction is real for James, but in a qualified way (Gossiaux 1999). Because identity or difference between things is determined to a greater degree by primary rather than by secondary signification, it follows that essence and existence are primarily and absolutely the same (idem) and conditionally or secondarily distinct. Yet, although the distinction is conditional or secondary, it is nonetheless James devotes five of his Quaestiones de divinis praedicamentis (qq. 11–15), representing some 270 pages of edited text, to the question of relations. It is with a view to providing a proper account of divine relations, he explains, that it is “necessary to examine the nature of relation with such diligence” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 12, 300–301). But before turning to Trinitarian relations, James devotes the whole of q.11 to the status of relations in general. The following account focuses exclusively on q. 11. James in essence adopts Henry of Ghent's “modalist” solution, which was to exercise considerable influence among late thirteenth-century thinkers (Henninger 1989), although he disagrees with Henry about the proper way of understanding what a mode is.The question boils down to whether relations exist in some manner in extra-mental reality or solely through the operation of the intellect, like second intentions (species and genera). Many arguments can be adduced in support of each position, as Simplicius had already shown in his commentary on Aristotle's Categories—a work that would have a decisive influence on James' thought. For instance, in support of the view that relations are not real, one may point out that the intellect is able to apprehend relations between existents and non-existents, e.g., the relation between a father and his deceased son; yet, there cannot be anything real in the relation given that one of the two relata is a non-existent. But if so, then the same must be true of all relations, as the intellectual operation involved is the same in all cases. Another argument concerns the way in which relations come to be and cease to be. This appears to happen without any change taking place in the subject which the relation is said to affect. For instance, a child who has lost his mother is said to be an orphan until the age of eighteen, at which point it ceases to be one, although no change has occurred: “the relation recedes or ceases by reason of the mere passage of time.”But good reasons can also be found in support of the opposing view. For one, Aristotle clearly considers relations to be real, as they constitute one of the ten categories that apply to things outside the soul. Furthermore, according to a view commonly held by the scholastics, the perfection of the universe cannot consist solely of the perfection of the individual things of which it is made; it is also determined by the relations those things have to each other; hence, those relations must be real.The correct solution to the question of whether relations are real or not, James contends, depends on assigning to a given relation no more but no less reality than is fitting to it. Those who rely on arguments such as the first two above to infer that relations are entirely devoid of reality are guilty of assigning relations too little reality; those who appeal to arguments such as the last two, showing that relations are distinct from their subjects in the way in which things are distinct from each other, assign too great a degree of reality to relations. The correct view must lie somewhere in between: relations are real, but are not distinct from their subjects in the way one thing is distinct from another.That they must be real is sufficiently shown by the first Simplician arguments mentioned above, to which James adds some others of his own. However, showing that they are not things is slightly more complicated. James' position, in fact, is that relations are not things “properly and absolutely speaking,” but only “in a certain way according to a less proper way of speaking.” A relation is not a thing in an absolute sense because of the “meekness” of its being, for which reason “it is like a middle point between being and non-being” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 30, 668–9). The reasoning behind this last statement is as follows: the more intrinsic some principle is to a thing, the more that thing is said to be through it; what is maximally intrinsic to a thing is its substance; a thing is therefore maximally said to be on account of its substance. Now a thing's being related to another is, in the constellation of accidents that qualify that thing, what is minimally intrinsic to it and thus farthest from its being, and so closest to non-being. But if relations are not things, at least in the absolute sense, what are they? James answers that they are modes of being of their foundations. “The mode of being of a thing does not differ from the thing in such a way as to constitute another essence or thing. The relation, therefore, is not different from its foundation” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 33, 745–7). Speaking of relations as modes allows us to acknowledge their reality, as attested by experience, without hypostasizing them. A certain number's being equal to another is clearly something distinct from the number itself. The number and its being equal are two “somethings” (aliqua), says James; they are not, however, two things; they are two in the sense that one is a thing (the number) and the other is a mode of being of the number.In making relations modes of being of the foundation, James was clearly taking his cue from Henry of Ghent, who has been called “the chief representative of the modalist theory of relation” (Henninger 1989). For Henry and James, relations are real in the sense that they are distinct from their foundations and belong to extra mental reality. However, James' understanding of the way in which a relation is a mode differs from Henry's. For Henry, a thing's mode is the same thing as its ratio or nature; it is the particular type of being that thing has, what “specifies” it. But according to James' understanding of the term, a mode lies beyond the ratio of a thing, like an accident of that thing (Quaestiones de divinis praedicamentis, p. 34, 767–8). In conclusion, one could say that in his discussion of relations, James was guided by the same motivation as many of his contemporaries, namely securing the objectivity of relations without conferring full-blooded existence upon them. Relations do exhibit some form of being, James believed, but it is a most faint one (debilissimum), the existence of a mode qua accident. James discusses individuation in two places: Quodl. I, q. 21 and Quodl. II, q. 1. I will focus on the first treatment, because it is the lengthier of the two and because the tenor of James' brief remarks on individuation in Quodl. II, q. 1, despite certain similarities with his earlier discussion (Wippel 1994), make it hard to see how they fit into an overall theory of individuation.The question James faces in Quodl. I, q. 21 is a markedly theological one, namely whether, if the soul were to take on other ashes at resurrection, a man would be numerically the same as he was before. In order to answer that question, James tells us, it is first necessary to determine what the cause of numerical unity is in the case of composite beings. There have been numerous answers to that question and James provides a short account of each. Some philosophers have appealed to quantity as the principle of numerical unity; others to matter; others yet to matter as subtending indeterminate dimensions; finally, others have turned to form as the cause of individuation. According to James, each of these answers is part of the correct explanation though it is insufficient if taken on its own. The correct view, according to him, is that form and matter taken together are the principal causes of numerical identity in the composite, with quantity contributing something “in a certain manner.” Form and matter, however, are principal causes in different ways; more precisely, each accounts for a different kind of numerical unity. For by ‘singularity’ we can really mean two distinct things: we can mean the mere fact of something's being singular, or we can point to a thing qua “something complete and perfect within a certain species” (Quodl. I, 21, 227, 134–35). It is matter that accounts for the first kind of singularity, and form for the second. Put otherwise, the kind of unity that accrues to a thing on account of its being a mere singular, results from the concurrence of the “substantial” unity provided by matter and the “accidental” unity provided by quantity. By contrast, the unity that characterizes a thing by virtue of the perfection or completeness it displays is conferred to it by the form, which is the principle of perfection and actuality in composites.Although James thinks he can quite legitimately enlist the support of such prestigious authorities as Aristotle and Averroes in favor of the view that matter and form together are constitutive of a thing's numerical unity, his solution has struck commentators as a somewhat contrived and ad hoc attempt to reach a compromise solution at all costs (Pickavé 2007; Wippel 1994). James, it has been suggested, “seems to be driven by the desire to offer a compromise position with which everyone can to some extent agree” (Pickavé 2007: 55). Such a suggestion does accord with what we know about James' temperament, namely, his dislike of controversy and his tendency, on the whole, to prefer solutions that present a “middle way” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 23, 513; Quodl. II, q. 7, p. 108, 118; De regimine christiano, 210; see also Quodl. II, q. 5, p. 65, 208–209). However, James' professions of moderation must sometimes be taken with a grain of salt, as there are some positions he wants to pass off as moderate that are quite far from being so, as we will see in Section 7 below.The belief that matter contains the ‘seeds’ of all the forms that can possibly accrue to it is one of the hallmarks of James of Viterbo's thought, as is the belief that the soul pre-contains, in the shape of “propensities” (idoneitates), all the sensitive, intellective, and volitional forms it is able to take on. We will look at James' doctrine of propensities in the intellect in Section 5, and his doctrine of propensities in the will in Section 6. In this section, we present James' arguments in favor of seminal reasonsOne important reason for subscribing to the existence of seminal reasons is that the doctrine enjoys the support of Augustine.  Although James is sometimes quite critical of his Augustinian contemporaries, including his predecessor Giles of Rome, he is an unreserved follower of Augustine, especially when it comes to the greater philosophical issues, such as knowledge and natural causation. However, what is particularly interesting about James is the way in which he enlists such decidedly un-Augustinian sources as Aristotle, Averroes, and especially Simplicius in the service of his Augustinian convictions (Côté 2009). James offers a thorough discussion of seminal reasons in Quodl. II, q. 5.   The question he raises there is not so much whether there are seminal reasons, for this is “admitted by all Catholic doctors” (Quodl. II, q. 5, p. 59, 16), but rather, how one is to properly conceive of them. A seminal reason, according to James, has two characteristics: it is (1) an inchoate state of the form to be, and (2) an active principle. Most of the discussion in Quodl. II, q. 5 is devoted to establishing the first point. James thinks that the thesis that forms are present in potency in matter is consonant with the teaching of Aristotle, who, he claims, follows a “middle way” on the issue of generation, eschewing both the position that forms are created, and also Anaxagoras' “hidden-forms hypothesis,” according to which all forms are contained in act in everything. Now to say that forms are present in matter inchoately or in potency, according to James, entails that the potency of matter is something distinct from matter itself. One argument in favor of this thesis is that matter is not corrupted by the taking on of a form: it remains in potency towards other forms. Also, potency is relational, whereas matter is absolute. When James states that matter is distinct from potency he does not mean to say that they are entirely distinct or unconnected, quite the contrary: potency is the potency of matter. However, potency adds three characteristics to the concept of matter. First, it adds the idea of a relation to a form (matter is in potency towards a form); second, it adds the idea that the form to which it is related is a form it lacks; finally, it implies that the form which matter lacks is a form it has the capacity to acquire, for as James explains, one does not say that a stone is in potency toward the power of sight merely because it lacks sight. In order for something to be in potency toward a particular form it must both lack that form and also possess an aptitude to take it on. James neatly summarizes his views in the following passage: “[the potency of matter] denotes a respect of the matter toward the form, attendant upon its lacking that form and having the aptitude to take it on, so that four properties are included in the concept of potency, namely matter, lack of form, aptitude toward the form and a respect toward the form insofar as it is educible by an agent and motor cause” (Quodl. II, q. 5, p. 69, 359 – p. 70, 363). The originality of James' position lies in the way in which he conceives matter's aptitudes. The term “aptitude” has a precise technical meaning, which he fleshes out with the help of Simplicius' commentary on the Categories. It denotes a certain incipient or inchoative state of the form in matter. Potency and act, James tells us, are two states or modes of the same thing, not two distinct things. What exists in the mode of actuality must preexist in the mode of potency, but in an inchoate way. James is aware of the several objections that may be leveled against his conception of aptitudes or propensities. The most serious of these is perhaps the charge that their existence makes generation, i.e., the production of new beings, impossible or useless. James replies by suggesting that those who argue in this fashion misconstrue Aristotle's doctrine of change. For change, according to Averroes' understanding of Aristotle (see Quodl. III, q. 14), does not result from an agent's implanting a form in a receiving subject, for this would imply that forms “migrate” from subject to subject; it results rather from an agent's making that which is in potency to be in act. For this to occur, however, more is required than the mere passive potency of matter: the seminal reason must also be viewed as an active principle. The activity of potency manifests itself in the shape of a natural inclination or tendency to attain its completion.  Generation thus requires two things (besides God's general operative causality): the “transmutative” agency of an extrinsic cause and the intrinsic agency of the formae inchoativum which inclines the potency to attain its completion. James' doctrine of seminal reasons would elicit considerable criticism in the early fourteenth century and beyond (Phelps 1980). The initial reaction came from Dominicans, e.g., Bernard of Auvergne, the author of a series of Impugnationes (i.e., attacks) contra Jacobum de Viterbio, and John of Naples who argued against James' distinction between the potency of matter and potency. But James' theory would also encounter resistance from within the Augustinian Order, e.g., from Alphonsus Vargas of Toledo. James' doctrine of cognition must also be understood in the context of his thoroughgoing Augustinianism and against the backdrop of the late thirteenth-century arguments against Thomistic abstraction theories. According to Thomas Aquinas' theory of knowledge, the agent intellect abstracts a thing's form or essential information from the image or representation of that thing. The outcome of this process was what Aquinas called the intelligible species, which was then taken to “move” the possible intellect to conceptual understanding. However, as thinkers such as Vital du Four and Richard of Middleton were to point out (see the articles by Robert and Noone), the information coming in through the senses is related to a thing's accidental properties, not to its substance. How, then, could abstraction from the senses produce an intelligible species relating to the thing's essence? Although James of Viterbo agreed by and large with the spirit of this objection and believed that the replies by proponents of abstractionism were unsuccessful, he had another reason for rejecting the theory. This was because it implied a view of the intellect which he thought to be profoundly mistaken, namely, the view that there is a real distinction between the agent intellect (which abstracts the species) and the possible intellect (which receives it). If it were truly the case, he reasoned, that one needed to posit a distinct agent intellect because phantasms are only potentially intelligible, then, by the same token, one would have to posit an “agent sense”, because sensibles “are only sensed in potency” (Quodl. I, q. 12, p. 164, 234). But given that no proponent of abstraction admits an agent sense, one should not allow them an agent intellect. Furthermore, if there were an agent intellect distinct from the possible intellect, it would be a natural power of the soul and so would be required for the cognition of all intelligibles, not just a certain class of them. Similarly, qua natural power, its use would be required not only in the present life but also in the afterlife. But of course that would be absurd, as the agent intellect, ex hypothesi, is only necessary to abstract form from matter, something the mind does only when it is joined to a corruptible body. James was well aware that by denying the distinction between the two intellects, he was opposing the consensus view of Aristotle commentators. Indeed, his views seem to run counter to the De anima itself, though, as he would mischievously point out, it was difficult to determine just what Aristotle's doctrine was, so obscure was its formulation (Quodl. I, q. 12, p. 169, 426—170, 439). He replied that what he was denying was not the existence of a “difference” in the soul, but merely that the existence of a difference implied a distinction of powers (Quodl. I, q. 12, p. 170, 440–45). The intellect, he held, was both in act and in potency, active and passive, but one could account for its having these contrary properties without resorting to the two intellect model. This is because intellection is not a transient action (like hitting a ball), requiring an active subject distinct from a passive recipient; rather, it is an immanent action (like shining). James' solution, in other words, was to conceive of the intellect (as indeed the will) as essentially dynamic, as an “incomplete actuality”, its own formal cause, spontaneously tending toward its completion, much in the way seminal reasons tend toward their completing forms—indeed both discussions drew their inspiration from the same source: Simplicius' commentary on Aristotle's analysis of the second species of quality. The intellect was described as a general (innate) propensity made up of a series of more specific (equally innate) propensities, the number of which was a function of the number of different things the intellect is able to know: “The intellective power is a general propensity with respect to all intelligibles, that is, with respect to the actual conforming to all intelligibles. On this general propensity are founded other specific ones, which follow the diversity of intelligibles” (Quodl. VII, q. 7, p. 93, 453–55). Of course, as James readily acknowledged, although the intellect is its own formal cause, it cannot issue forth an act of intellection without some input from the senses. However, the type of causality the senses were viewed as exercising was deemed to be purely “excitatory” or “inclinatory” (Quodl. I, q. 12, p. 175, 613–16), making the senses not the principal but rather an instrumental cause of intellection. In all, three causes account for the operation of the intellect, according to James: 1) God as efficient cause; 2) the soul and its propensities as formal cause, and 3) the object presented by the senses as “excitatory” cause. Although, as we have just seen, James rejected the distinction between the agent and possible intellects, there was another, equally widely-held distinction in the area of psychology that he did maintain, namely the distinction between the soul and its powers.For the purposes of this article, it will suffice to think of the debate regarding the relation of the soul to its powers as being motivated at least in part by the need to provide a coherent understanding of the soul's structure and operations in view of two inconsistent but equally authoritative accounts of the soul's relation to its powers. One was that of Augustine, who had asserted that memory, intelligence, and will (i.e., three powers) were one in substance (De trinitate X, 11), and so believed that the soul was identical with its powers; the other was Aristotle's, who clearly believed in a certain distinction, and whose remarks about natural capacities (dunameis) as belonging to the second species of quality, in Categories c. 8,14–27, and hence to the category of accident, making them distinct from the soul's essence, were commonly applied by the scholastics to the soul's powers. Each view, of course, had its supporters; and, naturally, as was so often the case, attempts were made to find a middle way that would accommodate both positions. During James' tenure as Master at the University of Paris, the majority view was very much that there was a real distinction. It was the view held by many of the scholastics whose teachings he studied most carefully, namely Aquinas, Giles of Rome, and Godfrey of Fontaines. There was, however, a commonly discussed minority position, one that eschewed both real distinction and identity: that of Henry of Ghent. Henry believed that the powers of the soul were “intentionally”, not really, distinct from its essence. James, however, sided with Thomas, Giles, and Godfrey, against Henry (Quodl. II, q. 14, p. 160, 70–71; Quodl. III, q. 5, p. 83, 56—84, 63). His reasoning was as follows. Given that everyone agreed that there was a real distinction between the soul and one of its powers in act (between the soul and, e.g., an occurrent act of willing), then if one denied that there was a real distinction between the soul and its powers, as Henry had, one would be committed to the existence of a real distinction between the power in act (e.g., an occurrent act of willing) and that same power in potency (that is, the will, qua power, as able to produce that act), since the power in act is really the same as the soul. But as we saw in the preceding section, something in potency is not really distinct from that same thing in act. This followed from James' reading of Simplicius' account of qualities in the latter's commentary on Aristotle's Categories. For instance, seminal reasons are not really distinct from the fully-fledged forms that proceed from them, nor are intellective “propensities” really distinct from the fully actualized cognized forms. Hence, James concluded, the powers must be really distinct from the soul's essence. The question of the will's freedom was of paramount importance to the scholastics. Unlike modern thinkers, for whom establishing that the will is free is tantamount to showing that its act falls outside the natural nexus of cause and effect, showing that the will is free, for medieval thinkers, usually involved showing that its act is independent of the apprehension and judgment of the intellect. Although the scholastics generally granted that a voluntary act results from the interplay between will and intellect, most of them preferred to single out one of the two faculties as the principal determinant of free choice. Thus, for Henry of Ghent, the will is the sole cause of its free act (Quodl. I, q. 17), so much so that he tends to relegate the intellect's role to that of a sine qua non cause. For Godfrey of Fontaines, by contrast, it is the intellect that exercises the decisive motion (Quodl. III, q. 16). Although James of Viterbo sometimes claims to want to steer a middle course between Henry and Godfrey (Quodl. II, q. 7), his preferences clearly lie with a position like that of Henry's, as can be gathered from his most detailed treatment of the question in Quodl. I, q. 7. James' thesis in Quodl. I, q. 7 is that the will is a self-mover and that the object grasped by the intellect moves the will only metaphorically. His main challenge is to show is that this position is compatible with the Aristotelian principle that whatever is moved is moved by another. As we saw in the previous section, James believes that the soul is made up of what he calls “aptitudes” or “propensities” (idoneitates), which are the similitudes of all things knowable and desirable, “before [the soul] actually knows or desires them” (Quodl. I, q. 7, p. 91, 407 – p. 92, 408). The pre-existence of such aptitudes implies that the soul is neither a purely passive potency nor made up of fully actualized forms, but rather an “incomplete actuality” or, perhaps more correctly, a set of “incomplete actualities,” which James describes as being “naturally inserted in [the soul], and thus, remaining in it permanently, though sometimes in an imperfect state, sometimes in a state perfected by the act” (Quodl. I, q. 7, p. 92, 419–24). In order to show how this view of the soul is compatible with Aristotle's postulate that every motion requires a mover distinct from the thing moved, James introduces a distinction between two sorts of motion: efficient and formal. Efficient motion occurs when motion is caused by a thing that possesses the complete form of the particular motion caused; formal motion occurs when the moving thing has the incomplete form of the thing moved. Heating is given as an example of the first kind of motion; “gravity” or rather heaviness, i.e., the tendency of heavy bodies to fall, is cited as an example of the second kind of motion. Aristotle's principle applies only to the first kind of motion, James asserts, not the second. Things which possess an incomplete form naturally—i.e., in and of themselves without an external mover—tend to their completion and are prevented from reaching it only by the presence of an external obstacle. For instance, a heavy object naturally tends to move downward and will do so unless it is hindered. Such, mutatis mutandis, is the case of the soul and especially of the will: the will as an incomplete actuality naturally tends to its completion; in that sense, that is, formally but not efficiently, it is self-moved. The difference between it and the heavy object is that whereas the object moves upon the removal of an obstacle, the will requires the presence of an object; it requires, in other words, the intervention of the intellect in order to direct it to a particular object. However, once again, the intellect's action is viewed by James as being merely metaphorical, that is, extrinsic to the will's proper operation. Like Albert the Great and Thomas Aquinas, James of Viterbo holds that the moral virtues, considered as habits, i.e., virtuous dispositions or acts, are connected. In other words, he believes that one cannot have one of the virtues without having the others as well. The virtues he has in mind are what he calls the “purely” moral virtues, that is, courage, justice, and temperance, which he distinguishes from prudence, which is a partly moral, partly intellectual virtue. In his discussion in Quodl. II, q. 17 James begins by granting that the question is difficult and proceeds to expound Aristotle's solution, which he will ultimately adopt. As James sees it, Aristotle proves in Nicomachean Ethics VI the connection of the purely moral virtues by showing their necessary relation to prudence, and this is to show that just as moral virtue cannot be had without prudence, prudence cannot be had without moral virtue. The connection of the purely moral virtues follows from this: they are necessarily connected because (1) each is connected to prudence and (2) prudence is connected to the virtues (Quodl. II, q. 17, p. 187, 436 – p. 188, 441). Since the time of Augustine, theologians had agreed that man needs the gift of grace in order to love God more than himself, and that he cannot do so by natural means. However, in the early thirteenth century, theologians raised the question of whether, at least in his pre-lapsarian state, man did not love God more than himself. That this was in fact the case was the belief of Philip the Chancellor as well as Thomas Aquinas. Other authors, such as Godfrey of Fontaines and Giles of Rome, argued further that to deny man the natural capacity to love God more than himself, while allowing this to happen as a result of grace, was to imply that the operations of grace went counter to the those of nature, which was contrary to the universally accepted axiom that grace perfects nature and does not destroy it. By contrast, James of Viterbo famously argues in Quodl. II, q. 2, against the overwhelming consensus of theologians, that man naturally loves himself more than God. He has two arguments to show this (see Osborne 1999 and 2005 for a detailed commentary). The first is based on the principle that the mode of natural love is commensurate with the mode of being and, hence, of the mode of being one. Now a thing is one with itself by virtue of numerical identity, but it is one with something else by virtue of a certain conformity. For instance Socrates is one with himself by virtue of his being Socrates, but he is one with Plato by virtue of the fact that both share the same form. But the being something has by virtue of numerical identity is “greater” than the being it has by reason of something it shares with another. And given that the species of natural love follows the mode of being, it follows that it is more perfect to love oneself than to love another (Quodl. II, q. 20, p. 206, 148 – p. 149, 165). The second argument attempts to infer the desired thesis from the universally accepted premise that “the love of charity elevates nature” (Quodl. II, q. 20, p. 207, 166–67). This is true both of the love of desire and the love of friendship. In the case of love of desire, grace elevates by acting on the character of love: by natural love of desire we love God as the universal good. Through grace God is loved as the beatifying good. Regarding love of friendship, James explains that God's charity can only elevate nature with respect to its “mode,” that is, with respect to the object loved, by making God, not the self, the object of love. In other words, James is telling us that if we are to take seriously the claim that grace elevates nature, there is only one way in which this can occur, namely by making God, not the self, the object of greatest love, which implies that in his natural state man loves himself more than God. James' opposition to the consensus position on the issue of the love of self vs. the love of God would not go unnoticed. In the years following his death, such authors as Durand of Saint-Pourçain and John of Naples criticized him vigorously and attempted to refute his position (Jeschke 2009). Although James touches briefly on political issues in Quodl. I, q. 17 (see Côté, 2012), his most extensive discussions occur in his celebrated De regimine christiano (On Christian Government), written in 1302 during the bitter conflict pitting Boniface VIII against the king of France Philip IV (the Fair). De regimine christiano is often compared in aim and content with Giles of Rome's De ecclesiastica potestate (On Ecclesiastical Power), which offers one of the most extreme statements of pontifical supremacy in the thirteenth century; indeed, in the words of De regimine's editor, James' goal is “to formulate a theory of papal monarchy that is every bit as imposing and ambitious as that of [Giles]” (De regimine christiano: xxxiv). However, as scholars have also recognized, James shows a greater sensitivity to the distinction between nature and grace than Giles (Arquillière 1926). De regimine christiano is divided into two parts. The first, dealing with the theory of the Church, is of little philosophical interest, save for James' enlisting of Aristotle to show that all human communities, including the Church, are rooted in the “natural inclination of mankind.” The second and longest part is devoted to defining the nature and extent of Christ's and the pope's power. One of James' most characteristic doctrines is found in Book II, chapter 7, where he turns to the question of whether temporal power must be “instituted” by spiritual power, in other words, whether it derives its legitimacy from the spiritual, or possesses a legitimacy of its own. James states outright that spiritual power does institute temporal power, but notes that there have been two views in this regard. Some, e. g., the proponents of the so-called “dualist” position such as John Quidort of Paris, hold that the temporal power derives directly from God and thus in no way needs to be instituted by the spiritual, while others, such as Giles of Rome in De ecclesiastica potestate, contend that the temporal derives wholly from the spiritual and is devoid of any legitimacy whatsoever “unless it is united with spiritual power in the same person or instituted by the spiritual power” (De regimine christiano: 211). James is dissatisfied with both positions and, as he so often does, endeavors to find a “middle way” between them. His solution is to say that the “being” of the temporal power's institution comes both from God—by way of man's natural inclination—in “a material and incomplete sense,” and from the spiritual power by which it is “perfected and formed.” This is a very clever solution. On the one hand, by rooting the temporal power in man's natural inclination, albeit in the imperfect sense just mentioned, James was acknowledging the legitimacy of temporal rule independently of its connection to the spiritual, thus “avoid[ing] the extreme and implausible view of [Giles of Rome]” (Dyson 2009: xxix). On the other hand, making the natural origins of temporal power merely the incomplete matter of its being was a way of stressing its subordination and inferiority to the spiritual order, in keeping with his papalist convictions. Still, James' very choice of analogies to illustrate the relationship between the spiritual and temporal realms showed that his solution lay much closer to the theocratic position espoused by Giles of Rome than his efforts to find a “middle way” would have us believe. Thus, comparing the spiritual power's relation to the temporal in terms of the relation of light to color, he explains that although “color has something of the nature of light, (…) it has such a feeble light that, unless there is present a more excellent light by which it may be formed, not in its own nature but in its power, it cannot move the vision” (De regimine christiano: 211). In other words, James is telling us that although temporal power does originate in man's natural inclinations, it is ineffectual qua power unless it is informed by the spiritual. Bibliography Modern Editions of James' Works Abbreviatio in I Sententiarum Aegidii Romani, dist. 36. Edited by P. Giustiniani, Analecta Augustiniana, 42 (1979): 325–338. De regimine christiano. A Critical Edition and Translation by R.W. Dyson, Leiden: Brill, 2009. Replaces Arquillière's edition (see below for complete reference), as well as Dyson's earlier translation in James of Viterbo, On Christian Government (De regimine christiano). Edited and Translated by R.W. Dyson, Woodbridge: The Boydell Press, 1995. Disputationes de quolibet. Edited by E. Ypma, Würzburg: Augustinus Verlag, vols. I-III, and V, 1968-75. Prima quaestio disputata de Verbo. Edited by C. Scanzillo in “Jacobus de Viterbio OSA: La ‘Prima quaestio disputata de Verbo’ del codice A. 971 delle Biblioteca dell'Archiginnasio di Bologna. Edizione e note,” Asprenas, 19 (1972): 41–61. Quaestiones de divinis praedicamentis, qq. I-X and XI-XVII. Edited by E. Ypma (Corpus Scriptorum Augustianorum, Vol. V, 1–2), Rome, Augustinianum, 1983, 1986; q. XVIII, Augustiniana, 38 (1988): 67–98; q. XIX, Augustiniana, 39 (1989): 154–185; q. XX, Augustiniana, 42 (1992): 351–378; q. XXI, Augustiniana, 44 (1994): 177–208; q. XXII, Augustiniana, 45 (1995): 299–318; q. XXIII, Augustiniana, 46 (1996): 147–76; q. XXIV, Augustiniana, 46 (1997): 339–369; q. XXV,  Augustiniana, 48 (1998): 131–163; q. XXVI, Augustiniana, 49 (1999): 323–336. (Fr. Ypma's declining health and subsequent death in 2007 prevented him from completing the edition of the remaining Quaestiones.) Summa de peccatorum distinctione. Edited by D. Ambrasi, Asprenas, 6 (1959): 189–218. Secondary Literature Ambrasi, D., 1959, “La Summa de peccatorum distinctione del B. Giacomo da Viterbo dal ms. VII G 101 della Biblioteca Nazionale di Napoli,” Asprenas, 6: 47–78, 189–218, 288–308. Anderson, D., 1995, “‘Dominus Ludovicus’ in the Sermons of Jacobus of Viterbo (Arch. S. Pietro D.213),” in Literature and Religion in the Later Middle Ages: Philological Studies in Honor of Siegfried Wenzel, R. Newhauser and J. A. Alford (eds.), Binghamton, N.Y.: Medieval & Renaissance Texts & Studies, pp. 275–295. Arquillière, F.-X., 1926, Le plus ancien traité de l'Église: Jacques de Viterbe ‘De regimine christiano’ (1301–1302). Étude des sources et édition critique, Paris: G. Beauchesne. Bataillon, L. J.,  1989, “Quelques utilisateurs des textes rares de Moerbeke (Philopon, tria Opuscula) et particulièrement Jacques de Viterbe,” in Guillaume de Moerbeke. Recueil d'études à l'occasion du 700e anniversaire de sa mort (1286),  J. Brams et W. Vanhamel (eds.), Leuven: Leuven University Press, pp. 107–112. Beneš, J., 1927, “Valor possibilium apud S. Thomam, Henricum Gandavensem et B. Iacobum de Viterbio,” Divus Thomas (Piacenza) 30: 333–55. Côté, A., 2012,“Le Quodlibet I, question 17 de Jacques de Viterbe: introduction, traduction et notes,” Augustiniana, 62: 45–76. –––, 2010, L'âme, l'intellect, et la volonté, Paris: Librairie Philosophique J. Vrin. Latin text of James of Viterbo's Quod. I, q. 7 (partial), q. 12 (complete), and 13 (complete), with French Translation, Introduction, and notes. –––, 2009a, “Le progrès à l'infini des perfections créées selon Godefroid de Fontaines et Jacques de Viterbe,” in Actualité de l'infinité divine aux XIIIe et XIVe siècles, D. Arbib (ed.) Les Études Philosophiques, 4: 505–530. –––, 2009b, “Simplicius and James of Viterbo on Propensities,” Vivarium, 47: 24–53. Fidel Casado, P., 1951–3, “El pensamiento filosófico del Beato Santiago de Viterbo,” La Ciudad de Dios, 163 (1951): 437–454; 164 (1952): 301–331; 165 (1953): 103–144, 283–302, 489–500. –––, 1967, “Quaestiones de quolibet de Santiago de Viterbo (Quodlibeto I, q. 12),” Archivo Teológico Agustiniano, 2: 109–130. Giustiniani, P., 1979, “Il problema delle idee in Dio secondo Giacomo da Viterbo OESA, con edizione della Distinzione 36 dell'Abbreviato in I Sententiarum Aegidii Romani,” Analecta Augustiniana, 42: 288–342. –––, 1980, “La teologia studiata secondo le 4 cause aristoteliche in un'opera inedita di Giacomo da Viterbo,” Asprenas, 27: 161–188. Gossiaux, M. D., 1999, “James of Viterbo on the Relationship between Essence and Existence,” Augustiniana, 49: 73–107. –––, 2007, “James of Viterbo and the Late Thirteenth-Century Debate Concerning the Reality of the Possibles,” Recherches de Théologie et Philosophie Médiévales, 74 (2): 483–522. Grabmann, M., 1936, “Die Lehre des Jakob von Viterbo (1308) von der Wirklichkeit des göttlichen Seins (Beitrag zum Streit über das Sein Gottes zur Zeit Meister Eckharts),” Mittelalterliches Geistesleben. Abhandlungen zur Geschichte der Scholastik und Mystik, vol. 2, Max Hueber Verlag, Munich: 490–511. Gutiérrez, P. D., 1939, De B. Iacobi Viterbiensis O.E.S.A. Vita, Operibus et Doctrina Theologica, Rome: Analecta Augustiniana. Jeschke, T., 2009, “Über natürliche und übernatürliche Gottesliebe. Durandus und einige Dominikaner gegen Jakob von Viterbo (mit einer Textedition von In III Sententiarum, D. 29, Q. 2 des Petrus de Palude),” Recherches de Théologie et Philosophie Médiévale, 76/1: 111–198. Kent, B., 2001, “Justice, Passion, and Another's Good: Aristotle among the Theologians,” in Nach der Verurteilung von 1277. Philosophie und Theologie an der Universität von Paris im letzten Viertel des 13. Jahrhunderts. Studien und Texte—After the Condemnation of 1277. Philosophy and Theology at the University of Paris in the Last Quarter of the Thirteenth Century. Studies and Texts, Miscellanea Mediaevalia, 28, J. Aertsen, K. Emery, Jr., A. Speer (eds.), Berlin: Walter de Gruyter, pp. 704–718. Libera, A. de, 1994, “D'Avicenne à Averroès, et retour. Sur les sources arabes de la théorie scolastique de l'un transcendental,” Arabic Sciences and Philosophy, 4: 141–179. Mahoney, E. P., 1973, “Themistius and the Agent Intellect in James of Viterbo and other Thirteenth Century Philosophers (Saint Thomas, Siger of Brabant and Henry Bate),” Augustiniana, 23: 422–467. –––, 1980, “Metaphysical Foundations of the Hierarchy of Being according to Some Late Medieval Philosophers,” in Philosophies of Existence: Ancient and Medieval, P. Morewedge (ed.), New York: Fordham University Press, pp. 165–257. –––, 1995, “Duns Scotus and Medieval Discussions of Metaphysical Hierarchy: the Background of Scotus' ‘Essential Order’ in Henry of Ghent, Godfrey of Fontaines and James of Viterbo,” in Via Scoti. Methodologica ad mentem Joannis Duns Scoti. Atti del Congresso scotistico internazionale, Roma, 9–11 marzo 1993, vol. I, L. Sileo (ed.), Rome: PAA-Edizioni Antonianum, pp. 359-374. Noone, T., 2011, “The Problem of the Knowability of Substance: The Discussion from Eustachius of Arras to Vital du Four,” in Philosophy and Theology in the Long Middle Ages: A tribute to S. F. Brown, K. Emery, R. L. Friedman, and A. Speer (eds.), Leiden: Brill. Osborne, T. M., 1999, “James of Viterbo's Rejection of Giles of Rome's Arguments for the Natural Love of God over Self,” Augustiniana, 49: 235–249. –––, 2005, Love of Self and Love of God in Thirteenth-Century Ethics, Notre Dame: University of Notre Dame Press. Phelps, M., 1980, “The Theory of Seminal Reasons in James of Viterbo,” Augustiniana, 30: 271–283. Pickavé, M., 2007, “The Controversy over the Principle of Individuation in Quodlibeta (1277-ca. 1320): A Forest Map,” in Theological Quodlibeta in the Middle Ages. The Fourteenth Century, C. Schabel (ed.) Leiden: Brill, pp. 17–79. Rigobert, M., 1947, Un traité de l'Église au Moyen–Âge. Étude historique et doctrinale du “De regimine christiano”, Albi. Robert, A., 2008, “Scepticisme ou renoncement au dogme? Interpréter l'eucharistie aux XIIIe et XIVe siècles,” χώρα • REAM, 6: 251–288. Ruello, F., 1970, “L'analogie de l'être selon Jacques de Viterbe, Quodlibet I, Quaestio I,” Augustiniana, 20: 145–180. –––, 1974–5, “Les fondements de la liberté humaine selon Jacques de Viterbe, Disputatio prima de Quolibet, q. VII (1293),” Augustiniana, 24: 283–347; 25: 114–142. Rüssmann, H., 1938, Zur Ideenlehre der Hochscholastik, unter besonderer Berücksichtigung des Heinrich von Gent, Gottfried von Fontaines un Jakob von Viterbo, Freiburg: Herder. Scanzillo, C., 1972, “Jacobus de Viterbio OSA: La ‘Prima quaestio disputata de Verbo’ del codice A. 971 delle Biblioteca dell'Archiginnasio di Bologna. Edizione e note,” Asprenas, 19: 25–61. Schönberger, R., 1986, Die Transformation des klassischen Seinsverständnisses. Studien zur Vorgeschichte des neuzeitlichen Seinsbegriffs im Mittelalter, Quellen und Studien zur Geschichte der Philosophie, 21, Berlin-New York, De Gruyter. –––, 1994, Relation als Vergleich. Die Relationstheorie des Johannes Buridan im Kontext seines Denkens und der Scholastik, Leiden: Brill, pp. 132–142. Wéber, E., 1981, “Eckhart et l'ontothéologisme : histoire et conditions d'une rupture,” in Maître Eckhart à Paris. Une critique médiévale de l'ontothéologie. Les Questions parisiennes n° 1 et n° 2 d'Eckhart, Z. Kaluza, A. de Libera, P. Vignaux, E. Wéber, E. Zum Brunn (eds.), Paris: Presses universitaires de France, pp. 21–54. Wippel, J. F., 1974, “The Dating of James of Viterbo's Quodlibet I and Godfrey of Fontaine's Quodlibet VIII,” Augustiniana, 24: 348–386. –––, 1981, “James of Viterbo on the Essence-Existence Relationship (Quodlibet 1, Q. 4), and Godfrey of Fontaines on the Relationship between Nature and Supposit (Quodlibet 7, Q. 5),” in Sprache und Kenntnis im Mittelalter, Miscellanea Mediaevalia, 13, Berlin: De Gruyter, pp. 777–787. –––, 1994, “James of Viterbo (b. ca. 1255; d. 1308),” in Individuation in Scholasticism: The Later Middle Ages and the Counter-Reformation, 1150-1650, J.J.E. Gracia (ed.), Albany: State University of New York Press, pp. 257–269. Ypma, E., 1974, “Recherches sur la carrière scolaire de Jacques de Viterbe,” Augustiniana, 24: 247–282. –––, 1975, “Recherches sur la productivité littéraire de Jacques de Viterbe jusqu'à 1300,” Augustiniana, 25: 223–282. –––, 1980, “La méthode de travail de Jacques de Viterbe. L'analyse d'une question,” Augustiniana, 30: 254–270. –––, 1980, “A propos d'un exposé sur Jacques de Viterbe,” Augustiniana, 30 : 43–45. –––, 1985, “Jacques de Viterbe, témoin valable?,” Recherches de théologie ancienne et médiévale, 52: 232–234. –––, 1987, “Jacques de Viterbe, lecteur attentif de Gilbert de la Porrée,” Recherches de théologie ancienne et médiévale, 54: 257–261. –––, 1991, “La relation est-elle un être réel ou seulement un être de raison d'après Jacques de Viterbe,” in Lectionum Varietates. Hommage à Paul Vignaux (1904–1987), J. Jolivet (ed.), Paris: J. Vrin, pp. 155–162. Zumkeller, A., 1951, “De doctrina sociali scholae Augustininae aevi medii,” Analecta Augustiniana, 22: 57–84. –––, 1964, “Die Augustinerschule des Mittelalters: Vertreter und Philosophisch-Theologische Lehre,”Analecta Augustiniana, 27: 167–262. Giacomo da Viterbo. Capocci. Keywords: peccatum – sin – holiness – aureola segno naturale della santita.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capocci” – The Swimming-Pool Library.

 

Capodilista (Battaglia Terme). Grice: “I like Capodilista – good vintage (literally)! – Capodilista is difficult to comprehend, but when I was struggling to find examples of implicatura due to exploiting ‘be perspicuous,’ he was whom I was thinking! Keywords in his philosophy are ‘il non-detto,’ ‘homos eroticus’ – filosofia dell’espressione – metafisica – equilibrio apolineo-dionisiaco, positive-negativo –“  “Un pensiero perfetto in sé non esiste; un pensiero è perfetto solo nella serie innumerabile dei pensieri che nascono da esso.»  (Quaderni). Appartenente ad una famiglia veneziana di nobili origini, nacque nella villa di famiglia da Angelo Emo e da Emilia dei baroni Barracco. Studia a Roma sotto Gentile. Le sue riflessioni sul nihilismo sono un'anticipazione della filosofia di Heidegger.  Debitore dell'attualismo gentiliano. Partendo da questo, giunse a trasformarlo in una filosofia dove l'atto è la re-figurazione dell'auto-negazione del nulla che comunque conserva una sua funzione positiva così come nela religione romana la morte del corpo ha la funzione di salvezza nella redenzione dello spirito (animo). La forma superiore dello spirito intristisce e cerca invano di uscire da sé per trovare qualcosa che lo salvi. Un'istanza di salvezza che trova senso nella religione romana. Dio espia la sua universalità. Distrugge ogni valore e il proprio, sì che lo sparire, il nascondersi di Dio nella sua espiazione non è altro che la nuova creazione dei valori, e così il ciclo ricomincia. Dio si abolisce col suo stesso realizzarsi. Un altro punto fondamentale di sua filosofia è la figura centrale dell’intersoggetivita., del rapporto concreto particoare, particolarizato, inter-personale contrapposto all’astrazioni di una collettività IMpersonale generalizato (universalita, universabilita, generalita formale, generalita applicazionale, generalita di contenuto --, sia quella esaltata da uno stato etico (la communita, la popolazione, la societa). Una diada conversazionale non può essere un dato. Una diada conversazionale può essere solo un rapposro inter-soggettivo, cioè due resurrezioni. Il filosofo è assillato da questo fondamentale problema. Il problema è questo: di quali fedi si nutre e sussiste il mondo? Quale è la fede autentica che lo sostiene nella vita che gli dà la forza dell'attività e la convinzione di partecipare con la sua vita (o la sua azione o il suo essere) alla immortalità, cioè all'assoluto? La diada conversazionale ha bisogno dell'assoluto (l’universabilita) e pertanto il suo problema è questa partecipazione all'assoluto. Come raggiungerà l'assoluto le due uomini – le due maschi -- della diada conversazionale? Quale sarà la sua fede laica? Non certo quella collettivistica-sociale che ha fatto uso della violenza, la forza, e la autorita illegitima, e ha fallito ma neppure quella etrusca che ha compresso la libertà di coscienza.  I etruschi sono nati sotto il segno dello scandalo. Ma il sacro si è allontanato dalla sua scandalosa azione originaria.  Perché in ogni fede vi è qualcosa di scandaloso e di vergognoso? Perché vi è qualcosa di vergognoso nella verità e nella vita stessa? Forse l'elemento vergognoso è l'intersoggetivita pura attorno a cui verte la fede e che si crea con la sua negazione. L’intersoggetività è sempre nuda e la nudità è scandalosa. I vestiti sono l'uniforme innecessari della società. Invano due maschi credono di distinguersi con le vesti; e credono che le due nudità sia uniformità. Le vesti sono il riconoscimento della società, del sociale. Ma le vesti sarebbero nulla se non fossero animate dalla vita intersoggetiva di due nudità. Le veste sono orgogliose delle due nudità che  socializzanoa. È quindi con la libertà degl’entrambi della diada, con le due nudità, con il rifiuto di ogni veste di uniformità, IM-personalita, ed obbedienza all'autorità ad una dottrina o scuola di mistica pitagorica collettivizzante, che la diada recupera la sua essenza duale intersoggetiva interpersonale particolarizata che si fonda sull'amore -- alta espressione del "singolare duale".  Altre opere: “Il dio negative” (Marsilio, Venezia); “La voce d’Apollo musogete: arte e religione nella Roma antica” (Marsilio, Venezia); “Supremazia e maledizione” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Il mono-teismo demo-cratico” (Mondadori, Milano); “Metafisica” (Bompiani, Milano); Il silenzio (Gallucci, Roma); “La meraviglia del nulla” Dizionario Biografico degli Italiani. Le parole che si riferiscono a dei valori, si svalutano progressivamente come le monete, come, appunto, i valori.  Quando pensiamo troppo profondamente, perdiamo l’uso della parola. La parola si può “usare”, cioè profanare, quando non se ne comprende il significato. Se comprendessimo il significato delle parole, non usciremmo mai più dal silenzio.  La conversazione è pericolosa per un’idea, per uno spirito, per una verità che non resiste alla lieve immediatezza (e cioè rapidità) che è l’anima irriducibile di una conversazione e di una comunicazione tra viventi (e che altro è l’arte?). E così l’idea è pericolosa per una conversazione. Conversazione (espressione, comunicazione ecc.) e idea tentano continuamente di sopraffarsi. Appunto perché l’una non può vivere senza l’altra.  È lecito ad un artista prendere sul serio ciò che scrive? Non decade dalla sua qualità di artista e di creatore per divenire soltanto un credente? Il torto dei romantici è stato principalmente quello di prendersi sul serio; i più antichi scrittori prendevano sul serio il loro argomento, ma sempre conservandosi estranei ad esso; senza considerare la loro soggettività di creatori come l’oggetto stesso della loro creazione. I romantici invece prendevano sul serio se stessi, e ciò li rendeva ridicoli, perché ovviamente non potevano più mantenersi al di sopra del loro argomento. Si dovette, pertanto, da Baudelaire in poi, ricorrere ad una forma di ironia. Ciò che distingue la sfera (moderna) del sacro è la mancanza di ironia; eppure può anche darsi che l’universo che abitiamo sia una forma dell’ironia divina, manifestatasi come creazione. Nella sfera antica del sacro, gli Dei di Democrito e di Epicuro ridevano negli intermundi. La sfera della sacralità antica si differenzia dalla sfera della sacralità moderna appunto perché gli antichi Dei, grazia alla loro pluralità, conoscendosi l’un l’altro, ridevano. Un’ilarità che non si addice a un Dio unico e solitario, ma che potrebbe, se l’Unico non fosse troppo preso da se stesso e dalla sua onnipotenza, tradursi nel termine più moderno di ironia. A noi uomini accade appunto di osservare che l’ironia è il solo modo di distaccarci dalla nostra onnipotenza, di uscire all’esterno della nostra assolutezza.  Le opere d’arte, come tutte le immagini, sono in realtà dei ricordi. Sono la memoria. Noi amiamo un’opera d’arte perché essa è la nostra memoria che si risveglia, che riprende possesso di noi, e del suo universo, cioè di tutto. La memoria talvolta dimentica; ed essa ricorda quando dimentica.  La forma letteraria in cui meglio ci si può esprimere è appunto la lettera (l’epistola). Perché l’altro è sempre presenta mentre scriviamo e abbiamo la facoltà di creare il destinatario. Abbiamo la facoltà di creare un pubblico come destinatario? Se non avessimo la facoltà di creare un destinatario, individuale e universale, non scriveremmo mai. Forse non penseremmo neppure. Nessuno scrive per sé.  L’immagine e la rappresentazione, che dovrebbero essere la fedeltà assoluta delle cose rappresentate, sono allora infedeltà altrettanto assoluta, diversità radicale dal rappresentato? Il rappresentato in quanto oggetto è per definizione diversità assoluta dal soggetto; come allora, con quale sintesi si può superare questo iato? In quanto differenza dal soggetto, l’oggetto ne è la negazione, la pura negazione; e questa negazione, in quanto puramente essa stessa, è soggetto essa medesima, cioè è il soggetto che si nega; è l’atto del soggetto, in quanto questo atto è l’atto del negarsi. Quindi noi siamo la rappresentazione, siamo l’atto in cui tutte le cose sono e vivono, cioè l’attualità, in quanto siamo autonegazione. La negatività è l’universalità dell’atto. (Q. 331, 1970)  L’eco è la voce del nulla, la parola del nulla, appunto perché è esattamente la nostra voce e la nostra parola, obiettivata, ripetuta. L’obiettività è la ripetizione del soggetto che non può mai ripetersi? (Q. 336, 1970)  Tutto ciò che pensiamo o scriviamo è nell’atto stesso una metamorfosi. Il nostro pensiero non ha altro oggetto che il proprio nulla. (Q. 336, 1970)  L’arte dello scrivere è l’arte di far dire alle parole tutte le trasmutazioni che esse contengono e sono – tutta la loro attuale diversità, tutta la negazione che esse sono quando si affermano, e tutta l’affermazione che viene espressa dalla negazione. Mediante la loro trasmutazione, che è l’affermarsi dell’attualità di una negazione (cioè dell’attualità dell’atto che si riconosce come negativo), le parole finiscono per creare un organismo, un organismo di parole, cioè la frase: L’organismo della frase e del verbo che trasforma la negatività della parola in un atto. La parola è la diversità dell’atto. Negarsi e attualità, negarsi e trascendenza e diversità, sono sempre, e sempre attualmente congiunti; perciò la parola contiene il seme della frase, del discorso. (Q. 340, 1971)  Forse il nostro nome è soltanto uno pseudonimo; forse anche i nomi delle cose sono pseudonimi. Ma qual è il vero nome? È più probabile che le cose come crediamo di vederle siano soltanto gli pseudonimi di un nome; e noi stessi e il nostro essere siamo pseudonimi; di un nome che forse non conosceremo mai e che appunto per questo ha una realtà suprema. Una realtà unica. Una sintesi invisibile di realtà e verità. Una realtà che la conoscenza (la scienza) non può dissolvere, analizzare. (Q. 244, 1971)  Gli scritti di aforismi o di idee frammentarie, di epigrammi o di formule, sono i modi di esprimere l’assoluto, o qualche assoluto, qualche verità in forma breve. Ma ognuno di questi frammenti vuole essere l’espressione dell’assoluto, e quindi non può essere frammentario. Frammenti e parti che sono relative all’assoluto, senza esserlo, si trovano nelle opere di una certa ampiezza, ampie come la vita. La vita, essendo universale, può essere plurale. (Q. 347, 1972)  Il Mangiaparole rivista n. 1Il Mangiaparole 6 Mario Gabriele Lo scrivere è una forma silenziosa (fonicamente) del parlare; ma è un parlare che ha il singolare privilegio di non essere interrotto, se non dalla propria coscienza; la coscienza è la madre, l’origine del discorso, ma è anche la coscienza che fa al discorso, cioè a se stessa, le continue obiezioni. La coscienza è il maggiore obiettore di coscienza. La coscienza parla per affermarsi o per smentire? (Q. 347, 1972)  La nostra scrittura è geroglifica come la nostra parola, che non coincide con ciò che vuole esprimere, ma soltanto vi allude simbolicamente; allude a qualcosa di originariamente noto od originariamente ignoto. A qualcosa di diverso. La parola stessa è originariamente diversità. La Parola è diversità da se stessa e perciò coincide con la diversità dell’atto, con la diversità originaria che vuole esprimere? Questa coincidenza era l’ideale, lo scopo, la fede dell’età dell’autocoscienza. L’età dell’autocoscienza e la tirannia; vi è sempre un quid al di là dell’espressione, senza questo quid l’espressione non sarebbe una metamorfosi. La metamorfosi vuole esprimere se stessa con la negazione; noi alludiamo alla diversità con la negazione, con la identificazione. (Q. 355, 1973)  …Noi siamo la verità; è proprio per questo che ci è impossibile conoscerla. la conosciamo quando diventa altro da noi. La conoscenza, l’espressione, la stessa memoria creano l’anteriorità della verità e della sua attualità. Se la verità è un Eden, noi possiamo conoscerla solo quando ne siamo fuori, quando ne siamo espulsi ed esiliati. (Q. 359, 1973)  L’arte dello scrittore consiste nel creare una complicità nel lettore; e di quale colpa diviene complice il lettore? Non lo si è mai saputo. Esistono innumerevoli sistemi di estetica e di spiegazioni complesse e fallaci di un atto che è la semplicità originaria. Una complicità del lettore con l’autore. Il delitto (e il diletto) perfetto. (Q. 370, 1975)  Soltanto l’inesprimibile è degno di un’espressione… (Q. 372, 1975)  La parola è un irrazionale ed è strano che essa esista in un mondo razionale e quantitativo; nel mondo dell’identità. la razionalità è soltanto nel numero; la Parola è divina, anzi la scrittura ha identificato la Parola (il verbo) e la divinità; per gli antichi il numero aveva significati simbolici, cioè spirituali. Oggi il numero privato di ogni significato è identificato dalla sua «posizione» (nello spazio è o sarà il vero successore della parola – ma troverà in se stesso una nuova irrazionalità?) Il numero è la massima razionalità e insieme la massima irrazionalità come serie infinita; non possiamo vivere senza irrazionalità, appunto perché la vita è essa stessa irrazionalità; il numero può vivere? (Q. 372, 1975)  … Noi parliamo, noi scriviamo, senza ricordarci la suprema scadenza del silenzio… (Q. 372, 1975)  L’espressione più perfetta è quella che crea l’inesprimibile… (Q. 381, 1977)  Parola  L’aforisma e l’ironia sono una professione di scetticismo nei confronti della poesia. L’aforisma è la definizione, l’analisi, la spiegazione, la risoluzione in termini umani della lirica; l’ironia è la scoperta dei suoi motivi non lirici: uno sguardo dietro le quinte… (Q. 9, 1921)  Come esprimerò io il mio pensiero, la mia vita, la mia esperienza? Questa dovrebbe essere l’interrogazione da ogni uomo posta a se stesso. Vero è però che in genere l’inesprimibile è ciò che per noi ha più valore e importanza; quello verso cui ci sentiamo più attirati; quello per cui sentiamo come un’antica, istintiva e simpatica affinità e parentela… (Q. 9, 1929)  La quantità di parole inutili che uno scrittore inserisce nel suo scritto è inversamente proporzionale all’importanza dello scrittore stesso. Vi sono scritti in cui nessuna, o quasi, parola può essere tolta senza grave danno per l’opera e per noi; altri in cui si possono togliere tutte… (Q. 14, 1932). Andrea Emo Capodilista. Emo Capodilista. Keywords: I taccuini del barone Capodilista, il taccuino del barone Capodilista. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capodilista” – The Swimming-Pool Library.

 

Capograssi (Sulmona). Grice: “I love Capograssi; at Oxford we’d call him a lawyer, but the Italians call him a philosopher! My favourite of his tracts is his attempts – linked as he was to the Napoli area – Vico relevant! Oddly, he stresses the ‘Catholic,’ or RC, as we say at Oxford, rather than the heathen, pagan, side, of this illustrious philosopher who Strawson – as along indeed with Speranza -- think as the greatest Italian philosopher that ever lived – I mean, what can be more Italian than Vico?!” Si occupa principalmente di filosofia del diritto. Fu membro della Corte costituzionale. Da un'antica famiglia nobile che vi si era trasferita da un comune della provincia di Salerno nel 1319, a seguito del vescovo Andrea. Si laurea a Roma con “Lo stato e la storia", in cui già affiorano le problematiche connesse alle interrelazioni fra individuo, società e stato: problematiche che impegneranno tutta la sua filosofia. Insegna a Sassari, Macerata, Padova, Roma, e Napoli.Nel luglio del 1943 prese parte ai lavori che portarono alla redazione del Codice di Camaldoli.  La sua filosofia si centra nell’esperienza giuridica ed è rivolta alla centralizzazione della volontà del soggetto agente, che si imprime nell'azione stessa, vera fonte di espressione giuridica e di vita. La filosofia dovrebbe quindi occuparsi della vita e dell'azione, avendo a centro della sua speculazione la "persona".  Il suo pensiero si ricollega al personalismo. Il ponere al centro della sua filosofia il rapporto essenziale che intercorre fra il diritto inteso come esigenza giuridica e la vita consente alla filosofia del diritto di superare il campo della tecnica giuridica per pervenire ad una visione organica e totale del reale, cioè a Dio.  Fede e scienza; Lo Stato; Riflessioni sull'autorità; democrazia diretta; Analisi dell'esperienza comune; L’esperienza giuridica; La vita etica; Il problema della scienza del diritto); Incertezze sull'individuo, Milano, Giuffrè).  “Pensieri” sono alcuni scritti vergati su foglietti e conseglla. Nei Pensieri, poi raccolti e pubblicati, si colgono i momenti salienti della sua filosofia. La teoria dei valori. Il personalismo.  Il positivismo giurdico in Italia. Decentramento e autonomie nel pensiero politico europeo.  I sentieri dell'uomo comune. Dizionario biografico degli italiani. Kelsen avrebbe, invece, potuto utilizzare la stessa idea di una Norma Fondamentale come un principio etico-politico costituente. Anzi, proprio perché essa è tale, non si identifica con la pura fatticità della Forza, come, invece, pensa Capograssi. Ed è rivendicando la funzione costituente della Norma Fondamentale che Bobbio può osservare: Il Capograssi sostiene che tutta la costruzione kelseniana è così solida solo perché poggia su alcuni presupposti, e che questi presupposti non sono soltanto delle ipotesi di lavoro utili alla ricerca, ma si fondano su una vera e propria concezione della realtà. E che questa concezione è che il diritto è forza (N. BOBBIO, La teoria pura del diritto ecc., cit., p. 24. Per la posizione di Capograssi si veda: Impressioni su Kelsen tradotto, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», (1952), 4, pp. 767-810, poi in ID., Opere, vol. V, Giuffrè, Milano). Le argomentazioni di Capograssi, secondo Bobbio, rinviano a una concezione giusnaturalistica del diritto che confonde «il criterio di validità e il criterio di giustificazione del diritto», e aggiunge che il Kelsen si limita a dire che il diritto esiste (indipendentemente dal fatto che sia giusto o ingiusto) solo quando la norma, oltre che valida, è anche efficace (il cosiddetto principio di effettività). Non si potrebbe mai trarre dalla concezione kelseniana il principio che il diritto è giusto in quanto è comandato, perché da nessun passo del Kelsen si può trarre la conclusione che il diritto, il quale esiste in quanto è comandato (e fatto valere colla forza), sia anche giusto53. Dunque, l’insoddisfazione di Bobbio per la soluzione kelseniana nasce dal fatto che il giurista viennese lascia aperto il problema del che cosa fondi e legittimi il sistema normativo e l’ordinamento giuridico, con la 50 N. BOBBIO, La teoria pura del diritto e i suoi critici, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», (1954), 8 pp. 356-377, poi ristampato in ID., Studi sulla teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1955, pp. 75-107. Il saggio è ora in ID., Diritto e potere, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1992. Utilizzo quest’ultima edizione. La citazione è alla p. 39. 51 Cfr. N. BOBBIO, MaxWeber e Hans Kelsen, «Sociologia del diritto», (1981) 8, pp. 135- 154, ora in ID., Diritto e potere, cit., pp. 159-177. 52 N. BOBBIO, La teoria pura del diritto ecc., cit., p. 24. Per la posizione di Capograssi si veda: Impressioni su Kelsen tradotto, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», (1952), 4, pp. 767-810, poi in ID., Opere, vol. V, Giuffrè, Milano 1959, pp. 311-356. 53 N. BOBBIO, La teoria pura del diritto, cit., pp. 25-26. 88 ADELINA BISIGNANI conseguenza che la stessa funzione costituente della Norma Fondamentale non viene esplicitata. L’esigenza di superare i limiti teorici di Kelsen non comporta, però, il recupero del giusnaturalismo come ideologia (come idea di una fondazione del diritto su valori assoluti e trascendenti), ma sollecita il pieno recupero di quelle ragioni etiche e sociali che, dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale e dopo l’olocausto, si erano manifestate come una “rinascita del giusnaturalismo”54. Per queste ragioni Bobbio non si lascerà mai tentare dal ridurre lo Stato al suo ordinamento giuridico; a quello Stato-Forza che Capograssi rinfaccia a Kelsen. REFS.: Impressioni su Kelsen. CAPOGRASSI, KELSEN E IL NICHILISMO GIURIDICO. ASPETTI DELLA CRISI DELLA SCIENZA GIURIDICA. Le “Impressioni su Kelsen tradotto” come critica all’astratto formalismo giuridico kelseniano e alla teoria del diritto come “forza e forma”. La “pars destruens” di Capograssi. Capograssi scrisse le “impressioni su Kelsen tradotto” poco dopo la traduzione della teoria generale del diritto e dello stato da Cotta e Treves, edita dalle Edizioni di Comunità. Si tratta di un saggio denso, in cui la prosa capograssiana e la sua cifra stilistica è mossa, libera, sinuosa, andante come sempre, ma particolarmente severa, austera, critica, propositiva, concettualizzante, come dappresso noteremo, sia nella “pars destruens” che nella “pars costruens” del saggio. La pars destruens è chiara e persuasiva. La dottrina kelseniana dello stato e del diritto si pone fuori i reali problemi della scienza giuridica ed una prima immediata impressione ha il lettore, e deve subito dirla, una impressione singolare di riposo. Sarebbe così bello se uno potesse accettare questo pensiero. Come si capisce il successo che ebbe quando nacque, in un’epoca e in un mondo, che ci è ormai così lontano e che era così facile ad accogliere ogni genere di illusioni. Qui non ci sono più problemi. Come per un’operazione di magia i problemi sono spariti. Non ci sono più disordini, incertezze, incoerenze, nel pensiero e nella realtà. Ogni cosa è sistemata ordinata disegnata in una specie di piano regolatore, che smista e distribuisce tutto in compartimenti separati. Se uno potesse accettare. Con tanto più impegno di attenzione il lettore è indotto a leggere.  Il diritto come concepito e teorizzato dal Kelsen è una scienza esangue. Lo notava pure  Pigliaru, in “Persona umana ed ordinamento giuridico” richiamando proprio in nota il pensiero capograssiano testè citato. E’ un diritto scisso dall’essere e dalla storia, fondato su un’astratta idea di dovere contrapposta all’essere, entro una rigida separazione, che Kelsen svolge nell’opera surriferita, ma anche in altri scritti, tra natura (essere) e spirito (devere). Si tratta di un’idea di scienza giuridica totalmente formale, fondata sulla norma giuridica, monade, essenza, fondamento del sistema kelseniano. Il diritto è un ordinamento coercitivo basato sulla validità, cioè la forza vincolante e sull’efficacia cioè l’effettiva applicazione delle norme giuridiche. L’ordinamento giuridico è un sistema di norme connesse fra loro in base al principio che il diritto regola la propria creazione. Lo stato, il potere dello stato, i tre poteri dello stato, gli elementi dello stato, sono soltanto stadi diversi nella creazione dell’ordinamento giuridico. Così come, in questa intelaiatura teoretica, per Kelsen quelle che per lui sono le due fondamentali forme di governo, democrazia ed autocrazia, sono modi diversi di creare l’ordinamento giuridico. Lo stato, entro una simile ed asfittica concezione, è un ordinamento giuridico espressione di norme giuridiche valide ed efficaci, collocate in un sistema giuridico gerarchico, in cui ogni norma trae il fondamento della sua validità dalla norma gerarchicamente superiore e la stessa costituzione è ridotta a norma sulla normazione, sulle procedure di formazione della legge. Capograssi nota opportunamente che lo stato è, altresì, un ordinamento relativamente accentrato, a differenza dell’ordinamento internazionale più decentrato. Un ordinamento che produce diritto e da cui deriva la giurisprudenza normativa, che coincide con un sistema di norme valide, che è l’unico sistema che deve riguardare l’indagine del filosofo della giurisprudenza. Capograssi osserva, inoltre, che in Kelsen il diritto in senso sociologico che descrive l’effettivo comportamento umano che rappresenta il fenomeno del diritto e cerca di predire l’attività degli organi creatori del diritto e specialmente quella dei tribunali e lo stato in senso sociologico riguardano la sfera dell’ efficacia del diritto, delle norme, e sono condizionati dal diritto normative, così come quest’ultimo concerne la sfera della validità delle norme e condiziona la scienza sociologica del diritto. Ma scienza delle norme e scienza dei fatti sono scisse, ciascuna vive di vita propria, sono parallele e non interferenti, sempre rigorosamente distinte ed eterogenee. In questi due mondi così puri l’uno e l’altro, il filosofo si muove con la libera facilità con cui l’uccello vola nell’aria. Di conseguenza, la giurisprudenza normativa non si interseca mai con la giurisprudenza sociologica, il diritto come tecnica della sanzione ed ordinamento coercitivo può rivestire qualsiasi contenuto, in una concezione del dovere assolutamente formale che non ha nemmeno per così dire il contenuto di sé stessa come dovere, perché questo dovere  non ha nulla del dovere reale. E afferma altresì l’insigne autore, citando Bobbio e comparando la teoria generale del Kelsen a quella di Carnelutti, che se la teoria generale è teoria generale del diritto POSITIVO, sicuramente quella del Carnelutti, a differenza di quella del Kelsen, è relativa alla vita stessa della realtà giuridica, perché muove dalla nozione di diritto come composizione di conflitti di interesse. La teoria generale del Kelsen è astratta e resta sulla superficie della norma e della vita dell’esperienza giuridica comunale, perché il sistema gerarchico di norme valide trae il suo fondamento da una norma non da un fatto, da una norma fondamentale, una “Grundnorm”, presupposta ed ipotetica, ricavata con procedimento interpretativo dal filosofo. Quest’ultima pone una data autorità, non si fonda su nessuna norma, è valida» in virtù del suo contenuto e non «perché è stata creata in un certo modo, al pari di una norma di diritto naturale, a prescindere dalla sua validità puramente ipotetica, ed il suo contenuto è il fatto storico particolare qualificato dalla norma fondamentale come il primo fatto produttivo del diritto. La norma fondamentale cioè significa in un certo senso, la trasformazione del potere in diritto. La perfetta separazione della forma dal contenuto, la perfetta indifferenza della forma da qualsiasi contenuto, che è la base di tutto questo sistema, non vale per la norma fondamentale, che da validità a tutte le norme, che si caratterizzano proprio perché il contenuto è per esse indifferente…perché è proprio il contenuto a dare qui validità alla norma fondamentale»[23]. L’«identificazione perfetta» tra diritto e Stato, inoltre, fondata sulla “Grundnorm” e “l’esteriorità” del diritto, osserva il Nostro, deriva da una concezione del diritto «come forza», come «diritto naturale della forza»[24]. E’sistema di «norme sanzionatorie» che, formalmente, sono «un aliquid di stabile di fronte al perpetuo oscillare della forza»[25], ma la cui validità è “emanazione” di una “norma fondamentale”, la quale trae il proprio contenuto dall’ «evento di forza che si è assicurato il potere vale a dire il diritto di riempire le forme vuote delle norme».[26] Questo è il «residuo giusnaturalistico kelseniano»: il «diritto naturale della forza» che fonda il diritto positivo statale. La prosa capograssiana sul punto è vibrante, incisiva: «qui il diritto è forza organizzata, cioè forza e forma; la forza sostiene e riempie la forma, la forma riveste la forza»[27]. La “pars destruens” del saggio in esame giunge al suo acme con una metafora corrosiva: «la rappresentazione del diritto che è in questo libro…richiama la visione di quegli spettri di città e paesi, che i bombardamenti avevano demolito in modo che erano rimasti in piedi muri e travi: non c’era più nulla tranne quel tragico scheletro di case nude e vuote, terribili sotto la luna», «ma che si sarebbe detto di uno di noi che avesse preso quei “cadavera urbium” per città viventi, per le case dove gli uomini vivono? Ci sarebbe stato errore pari a questo? E così accade per il diritto, come è esposto in questo libro»[28]. Il diritto è, in definitiva, confuso dal Kelsen per «eventi di forza», «dispositivi di sanzioni», «sistemi coercitivi». 2. – La “pars costruens” capograssiana ed il richiamo al pensiero del Vico ed alla concezione del “diritto come esperienza” La “pars costruens” dello scritto oggetto delle presenti considerazioni richiama, con riferimenti sintetici ma convincenti, il pensiero del Vico, sempre presente nella riflessione del Capograssi, la storia e lo storicismo, la nozione di esperienza. Capograssi indica come prioritaria la necessità «di non mutilare l’oggetto della scienza del diritto, cioè l’esperienza», «riducendola tutta al cosiddetto valore o alla cosiddetta forma o alla cosiddetta forza», alla «nuda forza» e alla «vuota forma»[29]; la «necessità di vedere l’oggetto, cioè l’esperienza, nella sua integralità vivente, nella sua natura, cioè vichianamente nel modo di nascere perenne e quotidiano del diritto come vita e come esperienza, e quindi con tutto quello per cui nasce, per cui si afferma, per cui si concreta in forme concrete nella realtà»[30]. Al riguardo si accennano idee di grande importanza che hanno più ampi sviluppi nell’opera principale del Nostro, “Il problema della scienza del diritto”: la possibilità della conoscenza della realtà e del diritto si compie «nella comune coscienza umana di colui che osserva e conosce e di colui che opera nella realtà che è osservata e conosciuta. In quanto chi osserva partecipa della stessa vita, degli stessi principi, delle stesse esigenze di chi opera, è il segreto per cui chi osserva riesce a rendersi conto di quello che fa colui che opera»[31]. Ne “Il problema della scienza del diritto” si legge, infatti, ad esempio, che «con tutto il suo lavoro l’intelletto riflesso che si pone come scienza viene faticosamente e lentamente , perché fa il suo cammino momento per momento e tappa per tappa, scoprendo quella che è l’idea viva del diritto, la viene scoprendo traverso tutte le forme concrete e particolari dell’esperienza che essa forma»[32]. E «l’idea viva del diritto» si forma come «parte essenziale dell’esperienza», «momento e parte della vita stessa dell’esperienza» che «conosce sé stessa nella sua effettiva e determinata puntualità e riesce a conservare la realtà di sé stessa nelle sue molteplici e puntuali determinazioni»[33]. Capograssi, inoltre, soffermandosi ulteriormente sull’opera del Kelsen richiama anche «la grande verità vichiana che il mondo storico lo conosciamo perché lo facciamo…»[34]; richiama il monito, proprio del Vico, di non «mettersi fuori dall’umanità…»[35]. E rileva che «se uno si mette al mondo supponendolo già compiuto…e quindi estraneo all’osservatore, necessariamente l’integralità dell’esperienza gli sfugge»[36]. In tal modo l’insigne autore coglie, dunque, il punto di maggiore fragilità dell’impianto teorico del Kelsen, cioè la netta, irriducibile, incolmabile separazione tra la “norma giuridica” e la “coscienza dell’individuo”, tra l’ “oggetto” ed il “soggetto”, tra la «norma estrinseca al soggetto e il soggetto estrinseco alla norma»[37]. La “pars costruens” capograssiana ruota, quindi, intorno al concetto di «unità in perenne movimento che è tutta la natura dell’oggetto» del diritto[38], «l’esperienza nella sua vivente umana unità» che è “falsata” (perché l’ “oggetto” è falsato) dai presupposti e dai postulati della teoria generale del diritto e dello Stato di Hans Kelsen[39]. E l’illustre autore, perciò, individua la «positività del diritto» come «coerenza intrinseca al processo di vita», «coerenza interna e vitale», e non «coerenza formale e artificiale», delle «determinazioni della vita giuridica», che «vivono nel concreto»[40], ricordando un’opera in tal senso significativa, gli “Orientamenti sui principi generali del diritto” del civilista Antonio Cicu. 3. – Sull’attualità del pensiero di Giuseppe Capograssi e su alcuni aspetti significativi dell’attuale crisi della scienza giuridica alla luce di recenti saggi monografici sull’argomento. Per una critica del “nichilismo giuridico” (ontologico) Perché è attuale la critica capograssiana al formalismo giuridico kelseniano? Perché nell’ “ambiguità del diritto contemporaneo”, per riprendere il titolo di un notissimo saggio del grande pensatore abruzzese, del 1953 [41], si parla di frequente di “crisi”, con ciò indicando, per riprendere il linguaggio dello stesso Capograssi, «una situazione che non vorremmo», «un elemento di disapprovazione» ed «un elemento di speranza», il richiamo di una «situazione passata» o «pensata», «che crediamo migliore, vale a dire che preferiremmo»[42]. Ora, tra gli autori che hanno approfondito gli aspetti dell’attuale crisi della scienza giuridica sono di notevole importanza, a parere dello scrivente, tre saggi monografici, il “Diritto senza società” di Pietro Barcellona[43], il “Nichilismo giuridico” (e la più recente opera dello stesso autore, “Il salvagente della forma”) di Natalino Irti[44] ed “Il diritto e il suo limite” di Stefano Rodotà[45]. Ritengo che la sfida più radicale ed invasiva[46], tra le teorie sviluppate in questi saggi, sia quella del “nichilismo giuridico” ( più precisamente del “nichilismo giuridico ontologico”, riprendendo la ricostruzione di una recente monografia di Mario Barcellona, “Critica del nichilismo giuridico”[47], che lo distingue dal “nichilismo giuridico cognitivo” nordamericano) e quest’idea è affermata dall’angolo visuale di chi cerca, come lo stesso Rodotà si propone con lucidità[48], risposte alternative al nichilismo. Il nichilismo, senza voler entrare nel merito di tutti i suoi significati[49], secondo il filosofo Emanale Severino ed il giurista Natalino Irti, significa, in un senso specifico al diritto ed alla tecnica economica, «ricavare le cose dal niente» e «riportarle al niente»[50]. Franco Volpi scrive che esso è «la situazione di disorientamento che subentra una volta che sono venuti meno i riferimenti tradizionali, cioè gli ideali e i valori che rappresentavano la risposta al “perché”e che come tali illuminavano l’agire dell’uomo»[51]; Friedrich Nietzsche ne parlava come «il più inquietante tra tutti gli ospiti»[52]. Sul punto penso al “Dialogo su diritto e tecnica”, scritto in più atti dai due stessi importanti autori surrichiamati, Irti e Severino, in cui l’Irti afferma che «l’unica superstite razionalità riguarda il funzionamento delle procedure generatrici di norme», «la validità non discende più da un contenuto, che sorregga e giustifichi la norma, ma dall’osservanza delle procedure proprie di ciascun ordinamento»[53] ed il Severino ritiene che «la tecnica è destinata a diventare principio ordinatore di ogni materia, la volontà che regola ogni altra volontà»[54], «la “capacità” della tecnica è la potenza effettiva (“potenza attiva” nel linguaggio aristotelico) di realizzare indefinitamente scopi e di soddisfare indefinitamente bisogni»[55]. L’idea di sistema giuridico unitario e di diritto statale «portatore di valori», in un simile orizzonte, è ormai destinato al declino irreversibile, sul viale tramonto. Il diritto della globalizzazione, e questo è il “topos” di crisi più acuta, porta alle estreme conseguenze quella scissione tra “liberalismo” e “liberismo” che Benedetto Croce già tracciava negli anni trenta[56]. Lo stesso Irti scrive che «la tecno-economia non conosce differenze soggettive ma soltanto variazioni di quantità»[57]. Il “diritto globale”, come nota un altro grande giurista, Francesco Galgano, fondato sul principio di effettività e non su quello di legalità, è pienamente funzionale all’ “idea di produzione” che viene dall’economia e, come scrive l’Irti, «caratterizza l’economia globale»[58], i cui spazi sono fluidi e sottratti al controllo giuridico e politico degli Stati nazionali sovrani. E’ in crisi, come opportunamente pone in risalto lo stesso insigne autore ne “Le categorie giuridiche della globalizzazione”, il «dove del diritto», il «dove applicativo», il «dove esecutivo» delle norme, «l’intrinseca ed originaria spazialità del diritto», l’idea di “confine” consustanziale allo Stato nazionale moderno che si afferma con il capitalismo mercantile[59]. Non solo: i ritmi produttivistici della tecnica e della sua volontà di potenza, posti in evidenza e criticati, pur se ritenuti ineluttabili da Emanuele Severino[60], secondo lo stesso Irti «producono un vorticoso succedersi di norme giuridiche…» che «attesta la “nientità” del diritto, i canali delle procedurequesti che potremmo chiamare nomo-dotti, poiché conducono le volontà dalla proposizione alla posizione di norme - sono pronti a ricevere qualsiasi contenuto.Ogni ipotesi può scorrere in essi: la disponibilità ad accogliere qualsiasi contenuto è indifferenza verso tutti i contenuti…»[61]. Per cui, l’attuale crisi del diritto, «nella postmodernità giuridica», è «l’indifferenza contenutistica” che “sospinge verso il culto della forma” e costituisce perciò realizzazione ed inveramento dello “Stufenbau” kelseniano, “capace di tradurre in norma qualsiasi contenuto” (“la Grundnorm di Kelsen – che Severino definirebbe “logos ipotetico”- spiega la validità di qualsiasi ordinamento»[62], è il trionfo del vuoto formalismo giuspositivista che «si svela nelle procedure produttive di norme», nella razionalità tecnica e nell’«autosufficienza della volontà normativa». Al riguardo si deve porre l’accento su un altro notevole autore, di diversa formazione culturale, il filosofo marxista Galvano Della Volpe, che in un saggio dal titolo emblematico, “Antikelsen”, contenuto nel suo volume “Critica dell’ideologia contemporanea”[63], individuava i limiti propri della dottrina del diritto e dello Stato del Maestro di Praga, del Kelsen, proprio riferendosi ad una concezione meramente formale, raffinata e colta espressione di un’idea borghese del diritto, della democrazia e dell’eguaglianza. Ma sono altrettanto importanti le profonde ed intelligenti critiche di Nicola Abbagnano, che ha giustamente parlato del formalismo giuridico nei termini di una dottrina adattabile a qualsiasi regime politico e quindi sprovvista di sostanza, di contenuti[64]. Per tornare all’analisi di alcuni rilevanti aspetti dell’attuale crisi della scienza del diritto, “nichilismo e formalismo” sono i due aspetti pregnanti di un diritto “tecnico”, “autoreferenziale”[65], “senza società”, come scrive Pietro Barcellona[66] realizzazione anche, secondo quest’ultimo autore, delle distorsioni della teoria sistemica di Luhmann[67]. Rodotà nella sua opera summenzionata scrive che «il diritto deve misurarsi con una tecnica di cui è stata da tempo esaltata l’irresistibile potenza, la continua produzione di fini, alla quale sarebbe ormai divenuto impossibile opporsi. Così la tecnica annichilirebbe il diritto, condannato ormai ad una umile funzione servente. Ma questa è una profezia destinata a realizzarsi solo se la politica diviene progressivamente prigioniera di una logica che la induce a delegare alla tecnologia una serie crescente di problemi…e se il diritto, seguendola in questa deriva, accettasse un’espulsione da sé di valori e scopi, determinado quella che Michel Villey ha chiamato una “mutilazione del diritto per ablazione della sua causa finale”»[68]. Per cui viene da chiedersi, in termini comunque molto problematici, se è possibile individuare una via d’uscita al declino dei sistemi giuridici e della certezza del diritto, alla “crisi di razionalità”, per riprendere Habermas, delle società capitalistiche postmoderne, all’oscuramento dei contenuti essenziali degli ordinamenti giuridici democratici, tra cui rientrano, anzitutto, i diritti fondamentali (lo stesso Rodotà ritiene altresì che «la ricostruzione di un fine del diritto intorno ai diritti fondamentali si presenta così come una guida quotidiana, come un test permanente al quale sottoporre anzitutto le scelte giuridicamente rilevanti. E’un impegnativo programma, che mette alla prova politica e diritto. La politica, considerata non più nell’area dell’onnipotenza, ma del rispetto. Il diritto, non più vuoto di fini, ma strettamente vincolato a un sistema di valori, dunque in grado di offrire una guida pur per le scelte tecnologiche»)[69]. Insomma: qual è oggi lo scopo del diritto?[70] Ed in che senso l’antikelsenismo vichiano e personalista di Capograssi[71] è attuale e può costituire, “storicizzato” ed adeguato al “presente storico”, una chiave di lettura delle asimmetrie e degli scompensi dei sistemi giuridici vigenti e degli attuali “usi sociali del diritto”?[72] La critica capograssiana al formalismo costituisce un richiamo al presente. Essa rappresenta una delle più significative alternative teoriche agli esiti del nichilismo formalista; essa, per riprendere le parole del Maestro che ricordiamo, è «sforzo per costruire la storia», per «realizzare la vita nei suoi termini di attualità», e quindi il diritto «nella profonda vita delle sue determinazioni positive»[73]; anche perché il diritto, come scriveva un altro importante giurista, Salvatore Satta, è «dover essere dell’essere» e non «dover essere» contrapposto all’«essere»[74], “Sollen” staccato dal “Sein”. Capograssi ne “L’ambiguità del diritto”[75] propone delle conclusioni dense di speranza, affermando che «quest’epoca…pur muovendosi in un macrocosmo di dimensioni così gigantesche…non fa che mettere al centro di questo mondo e delle sue creazioni niente altro che l’uomo». Ed esse possono essere un’alternativa alla “nientità” del diritto globale contemporaneo ed al liberismo tecnicistico, produttivistico e massificante; al trionfo dell’ «Apparato tecnocratico», di cui parla Severino ne “La filosofia futura”[76], che quasi lascia presagire la «fine della storia» e del «divenire storico» come «farsi dell’esperienza umana» e, per riprendere Jhering, della “lotta per il diritto”[77]. [1] Il presente testo riprende, nelle linee essenziali, la relazione presentata al Convegno di studi internazionale sull’ “Attualità del pensiero di Giuseppe Capograssi”, tenutosi a Sassari tra il 16 ed il 18 novembre 2006, i cui atti sono in corso di pubblicazione con la casa editrice “Il Mulino”. V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”,1952/4, 767-810, ora in ID., Opere, Milano, 1959, V, 313-356. [2] V. H.KELSEN, General theory of law and State (1945), Teoria generale del diritto e dello Stato, tr. it., a cura di S. Cotta e G. Treves, Milano, 1952. [3] V. P. PIOVANI, Introduzione a G.Capograssi, Il problema della scienza del diritto, Milano, 1962, VIII. [4] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 314. Per una differente concezione del diritto critica verso il formalismo gradualista di Hans Kelsen v. G.WINKLER, Teoria del diritto e dottrina della conoscenza.Per una critica della dottrina pura del diritto (1990), tr. it. di A. Carrino, Napoli, 1994, 249 (ove è scritto che «la dottrina pura e generale di Kelsen è stata…, sin dall’inizio, nelle sue premesse epistemologiche e gnoseologiche, priva di fondamenta solide…»); 189 (pagina in cui si afferma che «la dottrina pura del diritto di Kelsen si impiglia inevitabilmente in molteplici dilemmi. Un aspetto di questi dilemmi risiede nel tipo di determinazione dell’oggetto, un altro nella concezione della scienza. Un altro ancora nella ipostatizzazione di un orientamento metodologico che deifica il concetto teoretico del diritto, lo interpreta nel senso della logica formale, lo deforma e lo priva al tempo stesso del suo oggetto empirico»). [5] V. A. PIGLIARU, Persona umana ed ordinamento giuridico, Milano, 1953, 98. Su quest’opera v. G. BIANCO, Prefazione ad Antonio Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico, in “Diritto @ storia”, n. 5, 2006 = http://www.dirittoestoria.it/5/Contributi/Bianco-Pigliaru-persona-umana-ordinamento-giuridico.htm ed in A. PIGLIARU, op.ult.cit., Nuoro, 2008. [6] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, 1984, 35, 121,399. [7] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 30 ss., 111 ss., 125ss. [8] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 18 ss. [9] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 29 ss., 123. [10] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 111ss. e G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 316-317. [11] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 274 ss. [12] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op. cit., 288 ss. [13] V.H.KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 126 ss. Peraltro Kelsen sull’argomento introduce una sua distinzione tra “Costituzione formale” e “Costituzione materiale” specificando che «presupposta la norma fondamentale, la costituzione rappresenta il più alto grado del diritto statale. La costituzione è qui intesa non già in senso formale, bensì in senso materiale. La costituzione in senso formale è un dato documento solenne, un insieme di norme giuridiche che possono venir modificate soltanto se si osservano speciali prescrizioni, la cui funzione è di rendere più difficile la modificazione di tali norme. La costituzione in senso materiale consiste in quelle norme che regolano la creazione delle norme giuridiche generali, ed in particolare la creazione delle leggi formali». Questa distinzione è, ovviamente, eterogenea rispetto al dualismo “Costituzione formaleCostituzione materiale” proposta dai “realisti”, in particolare da Costantino Mortati, Carl Schmitt, Giuseppe Guarino, peraltro con connotazioni peculiari in ciascuno degli autori richiamati. V. in argomento G. Bianco, Quel che resta della Costituzione materiale (tra congetture e confutazioni), in “La Costituzione materiale. Percorsi culturali e attualità di un’idea”, a cura di A. Catelani e S. Labriola, Milano, 2001, 487-502. [14] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 315. [15] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op. cit., 165 ss. [16] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 318. [17] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 319. [18] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 320. [19] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 327, nt. 1. [20] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 322. [21] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 322. [22] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 328. [23] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 328-329. [24] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 331. [25] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 332. [26] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 332. [27] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 333. Ed il nostro aggiunge nella stessa pagina, con il consueto tono intelligente ed appassionato, che «concepito il diritto come forza e come forma, è evidente che l’ordinamento giuridico ha una doppia faccia, la forza, cioè l’efficacia, la forma, cioè la validità. La seconda dipende dalla prima ed è condizionata dalla prima; la prima finchè dura si esprime nella seconda; la validità è l’espressione formale dell’efficacia, e l’efficacia è la realtà sostanziale della validità. Per questo i due diritti in senso normativo e in senso sociologico si rispecchiano e vanno di conserva: sono due facce dello stesso fatto»(p. 333). Dappresso è scritto che «la forza è il principio del diritto; gli interessi, le passioni, le ideologie sono il contenuto; e la forma è la norma come puro dispositivo della sanzione, e l’ordinamento che è il sistema delle norme valide fondato sull’evento di forza che costituisce il contenuto della norma fondamentale. Si può dire, può non chiamare nuda, perché non ha in sé nulla di razionale: forza nuda dall’esterno, poiché s’impone per qualsiasi via e vince se è legittimata, forza nuda dall’interno di sé stessa, perché non è altro che il (preteso) fondo irrazionale e cieco dell’azione umana. Rare volte la concezione del diritto come nuda forza è stata espressa e svolta con più riuscita e più completa coerenza sia in sé sia nel suo naturale esplicarsi e compiersi nelle forme vuote delle norme. Abbiamo qui nella forma più razionale e perfetta il diritto naturale della forza e la sua dogmatica»(p. 335). [28] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 347. [29] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353 e 351. [30] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353. [31] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353. [32] V. G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto (1937), Milano, 1962 (con introduzione di Pietro Piovani), 181. [33] V. G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto, op.cit., 181. [34] V. G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto, op.cit., 353. [35] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 354. [36] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 354. [37] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 354. [38] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 355. [39] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 355. [40] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 356. Molto intense e particolarmente significative sono le vivaci conclusioni del saggio in considerazione: «Quello che è essenziale è questo riportare a questa unità vivente, a questa coerenza intrinseca al processo di vita, proprio le profonde esigenze e funzioni per cui il diritto costituisce un interesse formativo della vita; quel cogliere dall’interno e come componente il diritto tutta la sostanza etica del fenomeno giuridico. Qui il giurista è non il tecnico che fa uno sforza di costruzione puramente formale, per raggiungere una coerenza puramente formale, ma l’uomo, proprio l’uomo nell’alto senso della parola, che cerca di cogliere il diritto nella profonda vita delle sue determinazioni positive e nelle profonde e immutabili connessioni, con i principi e le esigenze costitutive della vita e della coscienza. Qui il giurista è proprio il collaboratore della vita, il collaboratore indispensabile del segreto processo traverso il quale la vita concreta si trasforma in esperienza giuridica, e l’umanità del mondo della storia viene perpetuamente difesa contro la barbarie sempre presente e sempre immanente della forza. E se non è questo, che cosa è il giurista? Che cosa ci sta a fare nella vita? Perché vive?» [41] V. G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto contemporaneo, in AA.VV., La crisi del diritto, Padova, 1953, 13-47, ora in ID., Opere, V, op. cit., 385 ss. [42] V. G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto contemporaneo, op.ult.cit., 387. [43] V. P. BARCELLONA, Diritto senza società, Bari, 2003. [44] V. N. IRTI, Nichilismo giuridico, Bari, 2004; ID., Il salvagente della forma, Bari, 2007. [45] V. S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2006. [46] Sia consentito di rinviare a G. BIANCO, Nichilismo giuridico, in Digesto IV, disc.priv., sez.civ., III vol. di agg., Torino, 2007, 790 ss. [47] V. M. BARCELLONA, Critica del nichilismo giuridico, Torino, 2006, 181 ss. e 287 ss. [48] V. S. RODOTÀ, La vita e le regole, op.ult.cit., 9 ss. Si legge, in particolare, tra i molti spunti presenti nel saggio monografico, che «sullo sfondo scorgiamo la fine di un’epoca nella quale esistevano valori generalmente condivisi, mentre oggi viviamo in un tempo caratterizzato da un politeismo dei valori e da controversie intorno al modo di dare riconoscimento al pluralismo…Si scorge una frontiera mobile, addirittura sfuggente, tra diritto e non diritto…»(p. 16); «il percorso tra diritto e non diritto porta al disvelamento progressivo dell’inadeguatezza della dimensione giuridica tradizionalmente conosciuta rispetto alla vita quotidiana…nello stesso ordine giuridico possono annidarsi i fattori che si oppongono al dispiegarsi della personalità, alla pienezza della vita» (p. 23); «non siamo più di fronte all’astrazione, ma alla cancellazione del soggetto»(p. 25). [49] V.in modo particolare sul punto M. HEIDEGGER, Il nichilismo europeo, tr. it., a cura di F. Volpi, Milano, 2003, 108; F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, frammenti postumi ordinati da P. Gast e E. Forster-Nietzsche, nuova ed. italiana a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Milano, 2005, 7, 8, 17. [50] V. N. IRTI, Atto primo, in N. IRTI-E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, Bari, 2001, 8 ss.; ID., Nichilismo e metodo giuridico, in “Nichilismo giuridico”, op. cit., 7. [51] V. F. VOLPI, Il nichilismo, Bari, 1996, 4. [52] V. F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, op. cit., 7. [53] V. N. IRTI, Atto primo, in N. IRTI-E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, op. cit., 8. [54] V. E. SEVERINO, Atto primo, in op. ult. cit., 27. [55] V. E. SEVERINO, Atto primo, in op. ult. cit., 28-29. [56] Su cui v. B. CROCE, Liberismo e liberalismo, in “Elementi di politica”(1925), Bari, 1974, 69 ss. v. al riguardo N. IRTI, Il diritto e gli scopi, in “Esercizi di lettura sul nichilismo giuridico”, op. cit., 115 ss. Sull’argomento v. pure le riflessioni contenute in B. LEONI, Conversazione su Einaudi e Croce, in ID., Il pensiero politico moderno e contemporaneo, a cura di A. Masala e con introduzionedi L.M. Bassani, Macerata, 2008, 337-374. [57] V. N. IRTI, La rivolta delle differenze, in “Esercizi di lettura sul nichilismo giuridico”, in Nichilismo giuridico, op. cit., 144. [58] V. N. IRTI, Nichilismo e formalismo nella modernità giuridica, in Nichilismo giuridico, op.ult.cit., 25. Sul pensiero del Galgano v. ID., Lex mercatoria, Bologna, 2001, 234 ss. [59] V. N. IRTI, Le categorie giuridiche della globalizzazione, in Norme e luoghi. Problemi di geodiritto, Bari, 2006 (2a ed.), 143 ss., 144. [60] v. tra i molti scritti dell’illustre filosofo Id., La filosofia futura, Milano, 2006, p.150sgg.; Id., Destino della necessità, Milano, 1980, p.41sgg.; Id., Essenza del nichilismo, Brescia, 1972, p.227sgg. [61] V. N. IRTI, Atto secondo, in E. SEVERINO-N. IRTI, Dialogo su diritto e tecnica, op. cit., 45-46. [62] V. N. IRTI, Atto primo, in op.ult.cit., 8. [63] V. G. DELLA VOLPE, Antikelsen, in ID., Critica dell’ideologia contemporanea, Roma, 1967, 91-100. [64] V. N. ABBAGNANO, Stato, in Id., Dizionario di filosofia, Torino, 1983 (2a ed.), 835. [65] V. P. BARCELLONA, Diritto senza società, op. cit., 87 ss. e 151 ss. [66] V. P. BARCELLONA, Diritto senza società, op. ult. cit., 9 ss., 11, in cui si legge che l’epoca della globalizzazione «appare essenzialmente come definitivo tramonto della società come istituzione (come tecnica organizzativa), attraverso la quale si realizza la mediazione tra l’istanza di libertà e l’ordine prodotto dall’autogoverno della società, e come fine della storia intesa come metamorfosi dell’orizzonte di senso entro il quale si sviluppa la dialettica sociale…I concetti di Stato nazionale, che aveva rappresentato la forma dell’organizzazione sociale, e di sovranità, che aveva individuato nella democrazia, come governo di popolo, la base di ogni ordinamento, sono inutilizzabili per descrivere e comprendere le forme della globalizzazione». [67] V. P. BARCELLONA, op. ult. cit., 151 ss., ove si afferma che nella teoria surrichiamata «il sistema può fare a meno delle intenzioni e dei progetti, della volontà e della coscienza e, in definitiva, degli uomini in carne ed ossa. Perché il suo destino si compie nella perfetta circolarità della riproduzione auto-referenziale e auto-riflessiva dei suoi “dispositivi” e della sua logica. Luhmann ha scoperto il segreto del moto perpetuo e per questo la sua teoria è ormai il nucleo vero di tutte le rappresentazioni della modernità…»(p. 152). V. al riguardo N. LUHMANN, La differenziazione del diritto (1981), tr. it., Bologna, 1990, 61 ss. [68] V. S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, op. cit., 35-36. [69] V. S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, op. cit., 37. [70] Su cui v. in generale le classiche pagine di RUDOLF VON JHERING, Lo scopo del diritto, tr. it., con introduzione di M.G. Losano, Torino, 1972, 6, in cui è scritto che «lo scopo è il creatore di tutto il diritto; non esiste alcuna norma giuridica che non debba la sua origine ad uno scopo; cioè ad un motivo pratico». Sul tema è stato opportunamente notato che «là dove si parla di scopo…si allude a processi intenzionali, consapevoli, voluti» (R. RACINARO, Presentazione di “La lotta per il diritto” di R.von Jhering, tr. it., Milano, 1989, XX). [71] Sull’attualità del pensiero del Capograssi v. anche il paragrafo quarto di G. BIANCO, Nichilismo giuridico, op. cit., 790 ss. [72] Al riguardo v. la ricostruzione contenuta in S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, op.cit., 9 ss. [73] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 356. [74] Sul tema v. S. SATTA, Norma, diritto, giurisdizione, in “Studi in memoria di Carlo Esposito”, III, Padova, 1973, 1623 ss., 1629; ID., Il giurista Capograssi, in “Raccolta di scritti in onore di Arturo Carlo Jemolo”, Milano, 1963, IV, 589 e ora in ID., Soliloqui e colloqui d’un giurista, Padova, 1968, 433 ss. Sull’argomento sia consentito rinviare, per una più articolata ed ampia trattazione, a G. BIANCO, Crisi dello Stato e del diritto in Salvatore Satta, in “Clio”, n.4/2003, 703 ss., 709 e 711. [75] V. G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto contemporaneo, op. cit., 415. [76] V. E. SEVERINO, La filosofia futura, op.cit., 150 ss., 155-156 (pagine nelle quali si afferma che «la volontà che nell’Apparato si vuole sempre più potente e decide in questa direzione, in ogni momento del suo sviluppo decide innanzitutto di eseguire quell’insieme determinato di azioni che in quel momento aumentano determinatamente la sua potenza. In quantoè questa decisione, la volontà è quindi certa dell’accadimento di tali azioni e pertanto è certa di esistere nel futuro in cui tali azioni sono compiute. Ma la volontà che si vuole sempre più potente non è solo questa certezza di esistere in quel momento del futuro in cui la sua potenza riceve un incremento determinato: è anche la certezza che in ogni momento futuro essa sarà il tentativo di aumentare la propria potenza e cioè di trasformare ogni stato dell’essere. E’ certa del proprio tentativo. Decide che, in ogni momento del futuro in cui essa si troverà esistente, tenterà di aumentare la propria potenza», pur non essendo «certa che il divenire sia eterno» perché «la volontà che si vuole sempre più potente riconosce la possibilità del proprio annientamento»). [77] V. R. VON JHERING, La lotta per il diritto, op. cit., 71 sgg. Sostiene l’Insigne giurista che “il diritto ci presenta, pertanto, nel suo movimento storico, il quadro del tentare, del combattere, del lottare, in breve dello sforzo faticoso…il diritto come concetto rivolto a uno scopo, posto nel mezzo dell’ingranaggio caotico di scopi, aspirazioni, interessi umani, è costretto incessantemente a tastare, saggiare per trovare la via giusta, e, quando l’ha trovata, ad atterrare ancora innanzi tutto l’opposizione, che gliela preclude” (pp. 91-92). Giuseepe Capograssi. Keywords: positivismo, positivismo giuridico, H. L. A. Hart, Kelsen, il concetto di stato, stato come forza, stato come autorita, Capograssi contro Bobbio. La critica di Bobbio a Capograssi, essere/devere – Capograssi/Hart – Capograssi e il fascismo – in concetto di stato come medimen – kelsen, positivismo giuridico – l’esperienza giuridica, azione giuridica, due tipi d’obbedenza: formale (vacua) e materiale (intenzione inclusa), intenzione, agire, vita etica, intersoggetivita, soggeto, individuo, interpersonalismo, l’interpersonalismo di Capograssi – Aligheri, Leopardi, Zibaldone, Rosmini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capograssi” – The Swimming-Pool Library.

 

Caporali: Grice: “You gotta (as we say at Berkeley) love (as we say at Berkeley) Caporali – typically Italian he dedicates his life to philosophise on Pythagoras (or Pitagora, as he prefers) just because he is ‘italico,’ or ‘Italiano,’ with the capital I that was then in fashion!” Grice: “What I like about Caporali is that, unlike the 98% of Italian philosoophers, he detests German philosophy, as represented by Muri – “See how clear the religion of the Italian anti-clerics is compared to the German obscurity of Muri!’ And right he is, too!”   -- Grice: “For the Oxonians I always recommend his “epitome di filosofia italiana,’ which, I subtitle it as “From Pythagoras to Pythagoras, and back!” – His three-part tract on Pythagoras (Natura, Uomo, Other) is fascinating – especially the other – he also philosophised on ‘scienza nuova.’” --   Enrico Caporali (Como), filosofo. Laureatosi in giurisprudenza all'Padova, studiò anche storia e geografia presso l'ateneo bolognese, così come approcciò, sia Italia che all'estero, le scienze naturali e la matematica.  Nel corso dei suoi viaggi si avvicinò al movimento metodista, tanto che nel 1875 a Milano, dove l'anno prima aveva dato alle stampe la Geografia enciclopedica, ne ricevette l'ordinazione a evangelista, mentre quella a diacono la ricevette a Terni nel 1879. E, non a caso, Caporali è stato segnalato fra le menti più eccelse dell'evangelicismo.  Dal 1876 a Perugia, e poi come ministro a Todi dalla fine del 1881, finì per distaccarsi dal movimento metodista. È in quel contesto che diede vita alla rivista La nuova scienza, uscita in 6 volumi tra il 1882 e il 1896. La notorietà che ne conseguì gli portò l'offerta di reggere come titolare, su indicazione di Nicola Fornelli, la cattedra di filosofia all'Bologna, che tuttavia Caporali rifiutò.  Dal 1905 riprese e approfondì le questioni filosofiche, studiando, in particolare, la dottrina di Pitagora, che avrebbe ricondotto, da nazionalista qual era, ad una tradizione italica e latina, in funzione anti-straniera. Secondo Caporali, la formulazione pitagorica del numero reale consentiva di riconoscere la relazione dell'espressione della coscienza e della volontà umane con i problemi della vita.  Opere principali Geografia enciclopedica rispondente al bisogno degl'italiani ordinata alfabeticamente, Politti, Milano 1873. Epitome di Filosofia italica della nuova scienza. Vademecum delle persone colte che vogliono diventare filosoficamente italiane, Tip. dell'Umbria, Spoleto 1911; La natura secondo Pitagora, Atanor, Todi 1914; L'uomo secondo Pitagora, Atanor, Todi 1915; Il pitagorismo confrontato con le altre scuole, Atanor, Todi 1916; La Chiara religione degli anticlericali italiani con la nebbiosa tedesca di Romolo Murri (della pubblica opinione moderatore), Tip. Tuderte, Todi 1916. Note  L'Enciclopedia Italiana, vedi , indica il 1841 come anno di nascita.  V. Vinay, Luigi Desanctis, Claudiana, Torino 1965240.  In tal senso B. Croce, Pescasseroli, Laterza, Bari 192255, che lo cita con i filosofi protestanti Taglialatela e Mazzarella.  G.B. Furiozzi, Enrico Caporali tra politica, religione e filosofia, in Idem, Dal Risorgimento all'Italia liberale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997,  125–136. R. Mariani, Del sommo filosofo pitagorico Enrico Caporali da Como (1838-1918): da Pitagora ad Alberto Einstein, Domini, Perugia 1955. Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Enrico Caporali  M.C.C., «CAPORALI, Enrico», in Enciclopedia Italiana, I Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1938. Luca Pilone, «Enrico Caporali», in Dizionario biografico dei protestanti in Italia, Società di studi valdesi, sito studivaldesi.org. Filosofia Filosofo del XIX secoloFilosofi italiani Professore1838 1918 Como TodiScrittori italiani del XX secoloPersonalità del protestantesimo.  LA NUOVA SCIENZA di ENRICO CAPORALI Alcuni pedanti, non intendendo la sacra scienza dei Numeri, o dei Principii Universali, che Pitagora fece il centro del suo sistema, attribuirono a questo grande Maestro teorie confuse e assurde. Così gli studiosi, i quali non seppero discernere il pensiero Pitagorico dalle aggiunte e dalle non scientifiche interpretazioni che ne fnrono fatte dopo Pitagora, supposero che la radice e i rampolli della Antiquissima Italicorum Sapientia fossero ormai disseccati, e trascurarono l'Italo Maestro per andare ad abbeverarsi a fonti straniere. Con tutta fede dunque, e sicuro di fare opera veramente italiana, il Prof. Enrico Caporali, più di trentacinque anni fa, si ritirò nella misteriosa solitudine della sua villa presso Todi per dedicarsi tutto alla restaurazione del Pitagorismo tra il plauso e l'ammirazione dei migliori pensatori nostrani e stranieri. Redasse allora la Nuova Scienza e in seguito pubblicò altre opere fra le quali i volumi della Sapienza Italica presso questa Casa Editrice. La quale, avendo ora rilevato dall'eredità giacente dell'illu stre estinto, quel che rimaneva della sua prima opera suddetta, la presenta agli studiosi. La Nuova Scienza è composta di 25 spessi fascicoli in-8°, e va dal 1884 al 1892. Restano quarantasette copie dell'Obera completa e si vendono al prezzo di L. 125 ognuna. Si vendono anche separatamente alcuni fascicoli che possediamo in maggior numero, al prezzo di L. 5 ciascuno. Diamo qui i titoli delle principali dissertazioni contenute nella detta opera La Nuova Scienza: L'odierno pensiero Italiani (dal 1° al 12° fascic.) — La Formula Pitagorica della Cosmica Evoluzione ;dal 1° al 23°) — L'Evoluzione anticlericale Germanica nella dispera zione (7°) — L'Evoluzione anticl. germ. negli errori finalisti (10°) — L'Evoluzione malin tesa e la sua negazione (dal 13° al 18°) — // Monismo Pitagorico antico (21°) — Perpetua voce umana— Commedia degli Spiriti (id.) — La psicogenia pitagorica di M. F. Pauthan (12°) — La sostanza impasticciata del Prof. Dal Pozzo (23°) — // principio Eraclitico con frontato col Pitagorico (22°) — // Pitagorismo di Giordano Bruno (23°) — La formula Pitagorica dell'Evoluzione Sociale (24° e 25°). O. La Sapienza Italica mmfà i opera insigne del filosofo nella quale facendo rivivere il Pitagorismo alfa luce dello scibile moderno sì mira alla restaurazione della nazionale *coltura Casa Editrice " Atanòr „ - Todi 1914  La Natura secondo Pitagora ossia La progressiva concentrazione e sistemazione delle unità senzienti. Tov ò\ov oòpavóv àp|iovóav sivat xat àpt&fiov. Tutto l'iTiiiverso è numero e armonia. Pitagora. Oùx' fircstpog èaxl [isxa^oXr] où5s(iia oì)xs auvsx^SNiente può cambiare nell'indeterminato e nel continuo. Aristotele (Phys. Vili. - 8).  La Sapienza Italica i La Natura secondo Pitagora opera insigne del filosofo Enrico Caporali il - nella quale facendo rivivere il Pitagorismo alla luce dello scibile moderno si mira alla restaurazione della nazionale coltura Con cenni storici su Pitagora e la sua Scuola Casa Editrice " Atanòr „ - Todi 1914 3244 PROPRIETÀ LETTERARIA Tutti i diritti riservati per tutti i paesi compresi la Russia, la Svezia e la Norvegia MI STORICI SO PITAGORA E LA SUA SCUOLA Pitagora, secondo Teopompo, Aristossene e Aristarco (citato da Clemente), era figlio di un gioiel- liere etrusco, che mercanteggiava in Oriente, e di una donna greca chiamata Partenide. Nacque venticinque secoli fa, 587 anni avanti Gesù Cristo in Samo. La Pitonessa di Delfo, consultata mentre Partenide era incinta, aveva detto : « Avrai un figlio che sarà utile a tutti gli uomini, in tutti i tempi». Pitagora, fin dalla sua prima gioventù avido di scienza, seguì le lezioni di Ermodamate a Samo e quelle di Ferecide a Siro, poi visitò in Mileto Talete, l'iniziatore della filosofia greca, e per suo consiglio viaggiò in Egitto. A Memfi, presentato a quei sacerdoti d'Iside dal Faraone Amasis, al quale, dicesi, era stato raccomandato da Policrate il tiranno di Samo, fu da essi ricevuto nel loro tempio e iniziato alle loro dottrine segrete. Così, durante gli anni di questa sua iniziazione, egli potè bene internarsi in esse, e principalmente versarsi con ardore in quella sacra scienza dei Numeri, o dei Principii Universali, che egli fece di poi il centro del suo sistema e formidò in un modo originale. Egli arrivò agli alti gradi del tempio, ma, essendo avvenuta in — 6 — questa epoca una ribellione in Egitto, dopo aver assistito al saccheggio dei santuarii e allo scempio compiuto su le opere millenarie dalle orde della plebe, fu condotto, secondo alcuni, insieme con altri adepti a Babilonia. A Babilonia accrebbe il suo sapere ed ebbe rivelati gli arcani dell'antica sapienza Caldea. Da qui ritornò alla sua isola, che un usurpatore straniero, dissoluto e crudele, ora tiranneggiava ; e volle subito fuggirne. Venne in Grecia e quindi nella Magna Grecia, ove si stabilì a Cotrone, nel Golfo di Taranto, che era, con Sibari, la città più fiorente d' Italia. Ora egli che aveva attinto a sì pure fonti di sa- pere e acquistato grande esperienza della vita, nauseato dalla indisciplinatezza delle democrazie, dalla insipienza dei filosofi, dall' ignoranza dei sacerdoti, dalla dissolutezza che veniva a diffondersi, ebbe vi- sione di un rinnovamento da effettuare fra gli uo- mini. Onde stabilì di fondare una scuola di scienza e di vita dalla quale uscissero, non dei politicanti e dei sofisti, ma dei giovani dall'animo nel vero senso della parola virile, e che dovesse essere il nucleo, come il punto di partenza per la trasformazione graduale dell'organamento politico della Città, in cor- rispondenza al suo ideale filosofico, secondo il quale, affinchè lo Stato fosse ordinato armonicamente, do- vevasi conciliare il principio elettivo con un reggimento della cosa pubblica costituito per la selezione dell'intelligenza e della virtù. Sorse dunque a Cotrone il più grande istituto pe- dagogico di quei tempi, che è pur da considerarsi come il più nobile tentativo d'iniziazione laica che sia stato mai impreso ; e in breve ebbe a fiorire in tal modo che, non solo nella Magna Grecia, come — 7 — a Metaponto, a Taranto, e più tardi a Eraclea, furono stabilite filiali, ma anche in altre parti d'Italia e principalmente in Etruria, la sacra terra donde il Maestro era oriundo. Egli si circondò di scelti discepoli, maschi e femmine, e tutti sedusse, poiché avviluppò di grazia Vausterità dei suoi insegnamenti. Essi dovevano le- varsi all'alba, adorare Dio, seguendo una dorica danza, quando il Sole appariva su l'orizzonte, passeggiare nel parco dell' istituto dopo le abluzioni di rigore, recarsi nel tempio di Apollo in silenzio, affinchè l'anima, così nella sua verginità, si raccogliesse all'inizio del giorno. Indi, in ampie sale, venivano istruiti nella matematica, nell'astronomia, nella medicina e nelle scienze naturali, o nella politica, nella morale e nella religione, secondo le classi o gradi d'iniziazione, e in altre ore nella musica istrumentale e corale. A mezzogiorno, dopo la pre ghiera agli Dei, si faceva un pasto frugale di pane, mele, noci e olive, e quindi si andava allo stadio per gli esercizi ginnastici, che tutti, fuor che la lotta e il pugilato, erano tenuti in onore. Poi si discuteva di amministrazione della città, di morale e di 'po- litica generale, e in fine si andava a cena, dove si mangiava anche carne in piccola quantità e si beveva vino, sedendo intorno a ogni tavolo in numero di dieci, poiché dieci è il numero perfetto. Durante la cena, uno dei più giovani faceva una lettura ad alta voce, e questa lettura era seguita da libere obie- zioni e discussioni ; poi si ricordavano le regole dell' Istituto, e, cantando un inno alle Muse, si andava a letto. Il vestito di tutti i discepoli era di bisso, a forma egiziana o etnisca. Le fanciulle con vesti bianche egualmente di bisso, strette leggiadramente al corpo, — 8 — e con la fronte recinta di una bendella di porpora, erano anch'esse con ogni cura istruite, ma non partecipavano alle lezioni del mattino, ne agli esercizi ginnastici con i giovanetti, ne ai dibattiti e alle deliberazioni della sera. Il grande Pitagora a sessantanni si trovava ancora nella pienezza delle sue forze. Fra le fanciulle dell'Istituto ve riera una di meravigliosa bel- lezza, chiamata Teano. Teano fu compresa di grande amore per il Maestro e non volle tener celata a lui la sua passione. Egli che fino a quel giorno, come tutti gli adepti, aveva rinunciato alla donna per darsi tutto all'opera sua, fu singolarmente colpito dalla purezza di lei, e non pose indugio a sposarla, giacche in questo caso l'amore giustificava il matrimonio, com'egli aveva sempre insegnato. La splendida Teano entrò in breve completamente nel pensiero del suo maestro e marito ; e divenne abilissima nell' insegnare alle giovinette dell'Istituto. Ella ebbe due figli, Arimneste e Telangete, e una figlia, Damo o Mia. Arimneste fu autore di prose e poesie morali, Telangete divenne più tardi il maestro di Empedocle e a lui trasmise i secreti della dottrina. Mia andò sposa al più celebre degli atleti, Milone di Crotone. Dall'Istituto pitagorico uscirono geometri, medici, artisti, amministratori ed uomini politici ragguardevoli, che portarono, sotto certi aspetti, la Magna Grecia al disopra della Grecia. Non si concedeva di entrare nell' Istituto a giovani di famiglie non onorate o di costumi cattivi. Fa per avere rifiutato un certo Cilone, giovane ricchissimo, il quale desiderava di far parte dell'Istituto, che Pitagora venne una sera assalito mentre stava in casa di Milone e di sua figlia Mia. E, cogliendo — 9 — pretesto dal voto contrario che Pitagora aveva dato sulla distribuzione delle terre di Sibari, che i Crotoniati avevano conquistate, il suo nemico Olone indusse la plebaglia a dare l'assalto all'Istituto, uccidendo e ferendo molti giovani alunni. Allora Pitagora che aveva già ottani' anni, si rifugiò negli istituti filiali di Locri, di Taramto e di Metaponto, morendo in quest'ultimo nel 497 cioè dieci anni dopo. Pitagora non credeva nella metempsicosi, ma sol- tanto nella immortalità dell'anima razionale. Però permise che la metempsicosi dei Misteri Orfici fosse presentata al popolo come opportuna per spronare alla virtù ed impedire la delinquenza. Infatti egli non ha collegato in nessun modo la metempsicosi al suo sistema filosofico. Egli si sforzava sempre di liberare gli schiavi e di dare agli umili cittadini il sentimento della dignità morale, e diceva che la virtù non è perfetta se non è accompagnata dalla fede in Dio, perchè l'ordine universale si regge sulla mente divina ordinatrice e perchè Dio solo può dare alla morale sanzioni efficaci. Diogene Laerzio narra che Pitagora scrisse tre libri, uno sulla Educazione, uno sulla Politica ed il terzo più importante sulla Natura: ma andarono tutti e tre perduti e ne rimangono soltanto i frammenti citati da Aristotele e da altri filosofi posteriori. Fra i discepoli di Pitagora si distinsero Archita di Taranto, Timeo di Locri, Ocello di Lucania, Ecfanto di Siracusa, Filolao, Eudossio, Alcmeone, Epicarmo ed Hipparco. Quando Platone viaggiò nella Magna Grecia, fu Archita di Taranto che gì' insegnò la dottrina del Numerante : ma Platone la guastò nell' intrecciarla alla sua teoria delle Idee Eterne ossia concetti gè- — 10 — nerali delle cose ch'egli supponeva esistere da se, indipendenti e separati dalle cose. In una scuola Pitagorica di Agrigento sorse Empedocle, nato quindici anni dopo la morte di Pitagora, il quale abbracciò con ardore lo studio della Natura comune ai Pitagorici, ma mentre egli osser- vava da vicino una eruzione del vulcano Etna soc- combette asfissiato nel 425. Nella scuola Pitagorica di Siracusa brillò poi Archimede, il fondatore della idrostatica, il quale scoprì anche la quadratura della parabola, oggi an- cora ammirata dai Matematici. Ma qual era il carattere del sapere Pitagorico? Pitagora fu Venciclopedista del suo tempo: fondò la Filosofia Italica, ben diversa dalla Greca. Come fa notare il prof. Zeller (nella sua introduzione ai cinque volumi di Storia della Filosofia Greca) gli errori di Platone e di Aristotele erano quelli del popolo greco, troppo idealista e portato a giudicare le cose con la fantasia, ed a studiare poco la Natura. Erano artisti e poeti e non scienziati: appena avevano fatto delle osservazioni superficiali, volavano a stabilire delle massime generali. Invece Pitagora era in stretto senso uno scienziato, un appassionato scrutatore della Natura, sicché potè fondare il Naturalismo Italiano. Diede per primo il nome alla filosofia, come lo diede al mondo, chiamandolo Cosmo, che vuol dire Ordine, vale a dire che porta in se la gran Legge della tendenza di tutti gli elementi a formare più alta Unità: in modo che ogni particella sta in ar- monia col Tutto ed è fatta da una forza numerante. L'Universo, secondo Pitagora, è la manifestazione della Energia divina, che si contrappone i punti di forza o Atomi, i quali, derivando da una potentis- — 11 — sima Unità, tendono a riunirsi ed a ritornare alla Unità primitiva, sicché^ tutte le cose si fanno dal di dentro al di fuori. E un Monismo del Noumenon vivente in ogni individuo, che fa i fenomeni della Sensazione e del Moto. Gli Organismi sono governati dal Sentimento, trovando piacere neWassurgere a più alta Unità, e dolore nello scomporsi. Anche la Natura inorganica sente e vuole il suo sviluppo, il suo godimento, benché non sia provvista di nervi: ma è da essa e dalla sua rudimentale sensazione e vo- lontà, che a poco a poco, attraverso la evoluzione delle attrazioni molecolari chimiche dei colloidi, si vanno formando, per successiva divisione del lavoro, gli or- gani ed i nervi. Egli precisò con ripetuti esperimenti il rapporto fra la lunghezza, il diametro e la tensione delle corde sonore e la qualità dei suoni ; indovinò per il primo che la terra è sferica e gira attorno al sole, che le stelle sono altrettanti soli in movimento ; scoprì il teorema sulle proprietà del quadrato della ipotenusa nel triangolo rettangolo ; calcolò la teoria degli iso- perimetri, dimostrando non commensurabile il rapporto fra la diagonale ed un lato del quadrato ; in- trodusse nelVaritmetica il sistema decimale, e nella musica l'ottava, la quarta e la quinta. Il filosofo Lucio {in Plutarco Symp. VIII. 7) narra che gli Etruschi, che stimavano Pitagora quanto i Greci, osservavano i simboli di Pitagora. Ad un acuto osservatore come Pitagora non poteva sfuggire la legge di attrazione e coesione che forma e tiene assieme tutti i corpi gazosi, liquidi e Egli ne supponeva la causa nella tendenza di tutti gli elementi a riunirsi ed a formare più alta Unità, ed invano i fisici moderni ne cercarono la — 12 — causa in pretese pressioni dell'etere cosmico. Più tardi Empedocle di Agrigento la chiamò poeticamente Amore Universale, contraponendovi l'odio o repulsione, che avviene contro tutto ciò che disturba il piacere dell'unione. Empedocle pensò la Naturaorganica, piante ed animali, come un processo di crescente unificazione e sistemazione (benché non conoscesse la cellula) e la malattia e la morte come un processo di dissoluzione delle particelle senzienti. L'Essere non è per Empedocle in continuo flusso, il diventare non è un formarsi di cose nuove (come pretendeva Eraclito d'Efeso che nella Grecia orientale emulava Pitagora), ma è l'unirsi delle particelle, lo ascendere a pnu alta Unità, il formarsi dai molti l'Uno: mentre il morire discioglie la Unità nella Molteplicità. Era bene istruito del pensiero pitagorico Anassagora, il primo greco che separò lo spirito dalla materia, e che suppose le anime degli animali e degli uomini come formate di Omeomerie, specie di Numeranti, che separano, distinguono, scelgono, conoscono le cose utili e respingono le inutili al bene dell'individuo e della specie. Ma i suoi discepoli Socrate e Platone intesero poco il Pitagorismo, in modo che dopo Anassagora la filosofìa Greca si allontanò dalla Italica. Pitagora fu il genio tutelare del pensiero laico Italiano, e ^diede sempre il midollo alla coltura nazionale. E grazie a Pitagora che nell'antichità e nel Medio Evo l'Italia non fu una provincia della filosofia greca. E grazie a Pitagora che un po' alla volta fu sorpassato il Platonismo e fu vinto l'Aristotelismo. Nel Rinascimento con le invasioni dei bar- bari si oscurò ogni luce di pensiero, ma la idea pitagorica tornò a brillare per la prima e a dare — 13 — impulso alla nuova filosofia italiana grazie al car- dinale Nicolò di Cuza, nato a Treviri, ina educato in Italia. Egli nel 1440 scrisse: «Ratio est men- « sura quae omnia in multitudinem, magnitudinem- « que resolvit. Mens est viva mensura quae mensu- « rando alia, sui capacitatem atiingit » . La mente è la unità che si esplica nella diversità. Essa discerne confrontando e misurando. L' investigazione della Natura, che era stata lo scopo principale delle Scuole Pitagoriche venne pro- mossa dall'Accademia di Cosenza (a 40 miglia da Cotrone) fondata nel 1500 dal Parrasio - dalla quale sorse Bernardino Telesio che scrisse: « Della natura delle cose secondo i propri principii » -, dall'apertura in Padova nel 1644 del primo Orto Botanico, dalla Aliatisi botanica iniziata nei giardini di Alfonso aVEsie, dalle Accademie dei Lincei a Roma, del Cimento a Firenze, dei Segreti a Napoli con G. B. Porta, le quali servirono di stimolo e di esempio ai popoli di oltralpe per la fondazione delle loro Accademie Maggiori. Giordano Bruno sostenne poi contro gli Aristotelici che gli elementi medesimi della natura si ritro- vano in terra e in cielo, indovinò la trasformazione degli organi animali secondo l'uso che se ne fa, notò che la Unità domina nell'uomo e che alla sua Monade centrale convergono quelle periferiche del corpo, sicché l'organismo è come un dispiegarsi del- l'anima. Lontano dalla luce del Pitagorismo, Cartesio trasse per alcuni anni in errore col definire la Materia come Res extensa, confondendola con lo Spazio, fantasticandola come piena di vortici, credendola sostanziale. Ma la verità Pitagorica della Attrazione fu dimostrata da Newton e il newtoniano Boscovich 14 concepì gli Atomi come punti di forza. Ad essa furono poi aggiunte l'attrazione molecolare chimica, elettrica e magnetica, le quali diedero ragione agli antichi Pitagorici e ad Empedocle. Nel libro che segue noi supponiamo che Pitagora siasi istruito dello scibile moderno, e consideriamo la Natura dal punto di vista pitagorico, che è il più fecondo per intenderne le leggi. La Nafta secondo Pilajora La progressiva concentrazione e sistemazioni delie unità senzienti.Noi fondiamo la filosofìa sopra la totalità del- l'Esperienza, ossia stiamo sempre sulla base dei fatti, come li prende, li elabora e li interpreta il nostro stromento del conoscere (lì. Nessuno vorrà ammettere che una volta non ci fosse niente: e che dal Niente venisse fuori l'Essere. Ex nihilo nihil. UHegelismo, che, invece di stare ai fatti, fonda la filosofìa sui Concetti, e quindi prende il Concetto del Nulla come equipollente a quello del- VEssere li ha sposati per farne uscire il Diventare: ma per noi il Nulla è un vero Niente e lo la- sciamo nei cervelli che lo pensano come reale. Dunque un Essere vi è sempre stato. Che questo essere eterno fosse molteplice, nes- suno che guardi il mondo e conosca la Unità delle forze fisiche che si manifesta, non solo sulla (1) Non bisogna esagerare il bisogno di gnoseologia al punto di farla precedere ad ogni studio filosofico. Di gnoseologia parleremo nel Volume L' uomo secondo Pitagora di prossima pubblicazione. Coloro che non vogliono filo- sofare senza prima determinare i confini della ragione, somigliano a colui che non vuol entrare nell'acqua, se prima non ha imparato a nuotare. — 18 — Terra, ma in tutti i 50 milioni di stelle visibili nelle notti serene (anche in quelle più lontane la cui luce impiega più di diecimila anni per ar- rivarci, quando si studiano colFanalisi spettrale) nessuno potrà affermarlo. Dunque YEssere eterno era Uno. Che cosa era questo Essere uno eterno ? Ardigò dice che era la Sostanza Psicofisica, ossia psiche (unità), e poi forza materiale (molteplicità). E così può essere. Nel voi. IV. delle sue opere (pag. 270) egli ci dice che questo primo Essere ha cominciato a sdoppiarsi in Spazio e Tempo, per poter fare la esteriorità, ossia il Mondo: ed aggiunge che lo spazio era allora convertibile nel tempo e viceversa, senza dirci a quanti anni, mesi, giorni ed ore corrisponda un determinato spazio. Noi c'inchi- niamo al prof. Ardigò per questa bella trovata, la più positiva e la più radicale della sua filosofìa, così immaginosa, che la bellissima Cerezada, per divertire il potente sultano Sciariar nelle Mille ed una notte, non avrebbe saputo inventare. Il male si è che (se fosse vera la convertibilità dello spazio nel tempo e viceversa), sarebbe impossibile la Natura. Il Senatore B. Croce poi, di natura non ne vuol sapere affatto e nel gennaio 1909 scrisse nella sua Critica che la filosofia può abolire la natura (1). Questa è fatta di sensazioni, di senti- menti, di volontà, di movimenti, dei quali è dif- (1) S'intende che egli non pretende di abolire la Natura, bensì, come dice a pag. 75, il concetto di Natura. E la filosofia ha da essere tutta dello spirito, senza impicciarsi di Natura. — 19 — fìcile formarsi concetti esatti, e si richiede, per intenderla, uno studio vastissimo e profondo. Sarebbe comodissimo di risparmiarlo. Le scienze naturali, dice il Croce, sono fatte con concetti sbagliati, e la pratica che ne consegue, è fatta di volere e di azione, ossia di soggetto fatto oggetto. Sia come ipostasi della scienza, sia come forma pratica dello spirito, che diventa volontà ed azione, e quindi oggetto, è meglio tagliar corto, e considerare come abolito il Concetto della Natura. Fino ad ora nessun filosofo, neppur Hegel, ha potuto ^fare a meno di tentare una Filosofìa della Natura. E vero che sarebbe stato prudente abolirla, come la volpe dichiarava non matura quell'uva, alla quale non poteva arrivare. Se vi è un lettore inimicato contro la Natura, potrà con essa conciliarsi in questo Libro, nel quale cercheremo di penetrare appunto nella Natura. Avvertiamo che V Essere eterno ed uno ha dovuto essere attivo sempre, estrinsecandosi (poiché essere vuol dire essere attivo) pensando prima i due sistemi di punti e di istanti (lo Spazio ed il Tempo) e poi contrapponendosi i punti di energia. Dunque il nostro studio deve cominciare da queste estrinsecazioni primissime dell'Essere Eterno; vale a dire la matematica in spazio e tempo, e la fisica in atomi eterei ed atomi ponderali.  CAPITOLO I. La prima estrinsecazione dell' Essere Divino (Spazio e Tempo) La fisiologia dei sensi ha mostrato come dal tatto, dalla vista, dal senso muscolare sorga in noi l'idea dello spazio e le condizioni in cui questa intuizione si forma ancora nei bambini. Questa esperienza è sempre diretta dalla Unità di coscienza. Altro è la intuizione di spazio e il concetto dello spazio, ed altro è lo Spazio, ossia il fondo eterno. Se un centimetro quadrato contiene 1.000.000 di punti, mezzo centimetro quadrato dovrebbe con- tenerne mezzo milione. Ma non si può ficcarvene dentro altri milioni allo infinito ; altrimenti i punti si toccano e diventano di due o tre un punto solo. Chi nega la realtà dello spazio, nega la realtà del mondo, che è tutto esteriorità. Se fosse puramente nostro subbiettivo e continuo, non vi sarebbero punti fissi, uno fuori dell'altro, non vi sarebbe alcun luogo; quindi il moto, cioè il passaggio di un corpo da un luogo ad un altro, non avrebbe realtà. Zenone di Elea infatti negava la realtà del moto, perchè lo riteneva continuo, come spazio e tempo, e diceva che, se il veloce Achille sta un passo dietro la tartaruga, non la potrà mai raggiungere. — 22 — Ma quando si considera lo spazio come un si- stema bene connesso di punti pensati dall'Essere Divino e quindi reali, e il tempo come un seguito di istanti, divisi da minimi intervalli, allora si ca- pisce che il moto reale è possibile, perchè il corpo che si muove va a scatti, cessando di essere nel punto dove era, per cominciare ad essere laddove non era. Altrimenti un corpo in moto non sarebbe in nessun luogo. Celere è il moto i cui intervalli o riposi sono brevi. Lento è quel moto i cui in- tervalli sono meno brevi. Lo spazio ed il tempo non hanno energia motrice, ma non sono nulli ed hanno una realtà numerica. E siccome il Numero è la realtà maggiore della Logica, come dimostra Hegel, così la loro realtà è certa (1). Kant suppose che noi creassimo lo spazio ed il tempo, ossia che fossero come occhiali colorati o nostre intuizioni che ci obbligassero a vedere e toccare le cose esteriori in un modo subbiettivo della nostra coscienza. Ipotesi resa impossibile oggidì, giacche le fotografìe e le fonografìe ci di- mostrano che le macchine fotografiche vedono le cose come noi e notano così le divisioni dello spazio come noi, e le macchine fonografiche dividono il tempo come i nostri orecchi, riproducendo le vibrazioni fonografate e quindi i suoni. È vero che riconosciamo dapprima lo spazio ed il tempo em- (1) Lo spazio, il tempo, gli atomi, sono la molteplicità del mondo che non può essere fatta se non da una Unità spirituale. Se tutte le cose hanno relazioni numeriche tra loro, la sostanza comune numerica dello spazio, del tempo e delle minime unità atomiche, va considerata nella Unità Cosmica.piricamente : e che per i bambini non sono altro che forme della distanza degli oggetti voluti e del moto necessario per raggiungerli. Più della vista e del tatto è il senso muscolare, ossia il senso dinamico della forza ricevuta e spesa, il senso del moto, e della resistenza, che ci dà lo spazio ed il tempo: è questo il primo senso a comparire nella evoluzione animale e nel feto. La realtà dello spazio è il da mihi ubi constitam della filosofìa scientifica. Nella « Teoria del cielo » Kant riconobbe la realtà dello spazio, e lo disse un assoluto, indi- pendente dalla materia, anzi base della possibilità di sviluppo delle forze, eterno, infinito, vuoto: e aggiungeva « dubito che se ne sia mai data una « definizione adeguata. Le determinazioni dello « spazio non sono conseguenze del posto che oc- « cupano reciprocamente gli atomi, ma queste sono « conseguenze dello spazio, e le diversità nei corpi si « riferiscono sempre allo spazio assoluto, che non è « oggetto di sensazione, ma è una idea fondamen- « tale, la quale rende possibile tutte le altre. Di « modo che non si può percepire un corpo se non in « relazioni spaziali con altri corpi » . Più tardi però Kant concepì spazio e tempo come forme subiettive della visione e dell' intelletto, con le quali noi mettiamo ordine nei fenomeni e fu in questa stra- nezza seguito dallo Schopenhauer. Non però dagli altri maggiori pensatori della Germania, non da Jacóbi, da Schelling, da Hegel, da Herbart, da Beneke, da Schleiermacher, da Bitter, da Weisse, da Ueberweg, da Wundt, da Hartmann, da Zeller, da Trendelenburg, da Lazarus) da Dilhring, da Baumann. Il danese Kromann ed altri provarono che le difficoltà che Kant trovava nello spazio obbiettivo, rimangono anche se lo spazio fosse meramente subbiettivo. Alcuni matematici, come Riemann, credettero che, oltre al nostro, vi fosse uno spazio a molte dimensioni. Ma, se lo spazio avesse più di tre dimensioni (larghezza, lunghezza e profondità), tutti i corpi varerebbero di massa e di volume. Ogni azione a distanza ritornerebbe sopra se stessa. La gravitazione sarebbe proporzionale inversamente del cubo, e non già del quadrato della distanza, come dimostrò A. Wiessner. Le leggi di gravità stabilite dal genio di Isacco Newton ci provano che lo spazio a tre dimensioni è il solo reale; giacche la irradiazione degli atomi si ripartisce sulla periferia interna delle sfere; appunto per il rapporto inverso del quadrato della distanza. E se lo spazio avesse due sole dimensioni, si ripartirebbe sulla periferia interna dei circoli. In altre ipotesi la gravitazione sarebbe in rapporto inverso di ogni altra funzione delle distanze. — Anche i tre assi perpendicolari dei cristalli ed altre leggi fisiche, ci provano che lo spazio reale ha tre sole dimensioni. E lo dimostra anche il chiaris- simo professore Federico Enriquez trattando della Geometria non Euclidea e non Archimedea nei suoi « Problemi della scienza » Bologna 1905. La realtà dello spazio assoluto a tre dimensioni, è tanto sicura, che il maggior fisico del nostro tempo sir W. Thomson (creato poi Lord Kelvin), mostrò che si deve prenderlo per base di tutte le misure (1). (1) Abbiamo riassunto le ragioni e le proposte del Thomson nel volume quarto della nostra Nuova Scienza pa- gina 81 a 84. — 25 — La realtà del tempo poi che (come dice Neioton) « fhixus mutari nequit, equabiliter fhlit » è dimostrata vera da molte leggi. Se non vi fosse un centro immobile nell'Universo, tutta la meccanica serebbe fallace. Se non fosse reale il Moto assoluto, addio astronomia. Tutto cangia o di luogo, o di forma, o di qualità, e nessun cangiamento può av- venire se il tempo non fosse una realtà. Si potrebbe dubitare della realtà del tempo soltanto se niente si cambiasse. Non sono inerti spazio e tempo, perchè assoggettano, come sistemi inalterabili di punti e di istanti , a regole certe i moti, le azioni e le resistenze. Lo spazio ed il tempo sono così obbiettivi come subiettivi, sono i due Oceani della possibile espansione di qualsiasi energia. Il fondo eterno non può essere che uno. Lo implica la interazione delle forze ; lo implica il coesistere di un numero enorme di scopi e di azioni e di moti che si incontrano e lottano fra loro senza confusione. Se non vi fosse la sistemazione dei punti di spazio e degli istanti di tempo, sistemazione che è tutta dovuta alla Unità Reale eterna {Numerorum Fons di Giordano Bruno) discontinuando il tempo e lo spazio, il Moto che è l'espansione della Energia in questi due Oceani, non avrebbe mai precisione ; anzi non sarebbe possibile. La possibilità dei coesistenti (spazio) e dei successivi (tempo) rende facile l'azione dei punti di forza. — Spazio e Tempo esistono per se come sistemi di termini puntuali indivisibili (1) e tra i termini puntuali ci (lì Una superfìcie è definita lunghezza e larghezza, senza profondità. Una linea lunghezza, senza larghezza, ne profondità. Un punto, ciò che manca di larghezza, di — 26 — sono intervalli infinitesimi, ma non nulli. Se fos- sero nulli non sarebbe possibile il moto e specialmente il moto curvilineo, die si calcola col diffe- renziale. Infatti una curva cambia continuamente di direzione, con grandezze infinitesime, che cre- scono o diminuiscono. Il differenziale è un valore che limita e non una grandezza numerata. Per variare la direzione in una curva qualsiasi, vi è bi- sogno di un nuovo impulso, sia pure infinitesimo, ma non nullo. Possiamo pensare come infiniti lo spazio ed il tempo, ma lo infinito non è mai una realtà. La loro connessione e tale che sembrano continui e si trattano come tali; nondimeno i punti dello spazio e gl'istanti del tempo sono realmente fuori gli uni degli altri e quindi numerabili, senza tener conto degl' intervalli infinitesimi (1). Ogni punto è numelunghezza e di profondità. Se i punti, le linee, le superficie non avessero per limiti dei punti indivisibili, questi limiti sarebbero composti di molte parti, di cui nessuna sarebbe l' ultima ; non vi sarebbe alcuna figura definita, non vi sarebbe linea lunga e linea corta perchè tutte sarebbero composte di parti infinite, mentre in realtà la linea corta è quella composta di minor numero di punti. Ecco la realtà dello spazio: sta nell'essere numerabile. Il tempo poi è composto di istanti indivisibili, perchè se non si potesse arrivare alla fine della sua divisione, vi sarebbe un numero infinito di istanti (ossia di elementi del tempo) contemporaneamente. Locchè è assurdo. Il tempo è fatto dalla Unità cosmica e intuito dalla nostra Unità intima e non è un concetto empirico. Senza l'Unità in- tima non riveleremmo il Moto e il cambiamento delle cose tutte, come lo rilevano anche gli animali, perchè non si confronta se non vi è l' Uno vivente. Gli istanti sono reali e numerabili e fanno la realtà del Tempo. (1) Contro questi intervalli Pascal diceva che i punti dello spazio o si toccano interamente e allora invece di — 27 — rato, ogni istante del pari, sono tutti diversi e discernibili, hanno tutti una esistenza separata e permettono di evitare la confusione nel Cosmo e nella Scienza. Cartesio rinnovò la geometria cambiando la qualità, ossia la forma dei corpi, in quantità; riducendo la forma alla posizione e determinando la posizione con le linee coordinate potè sostituire alla misura diretta la indiretta e trovare le quadrature, le cubature ecc. Egli applicò l'al- gebra alla geometria, osservando che ogni spazio chiuso può determinarsi dalla lunghezza delle li- nee perpendicolari abbassate su due linee rette o su tre piani che si taglino nello stesso punto ad angolo retto. Così le linee e le superfìcie curve possono determinarsi dalle loro equazioni, in cui le relazioni variabili sono combinate con quantità costanti, ed i numeri servono a constatare le proprietà dello spazio. Il che sarebbe impossibile se lo spazio non fosse realmente composto di punti separati indivisibili. Inversamente, le proprietà dello spazio, può dirsi che dipendano dalle proprietà del numero; sicché lo spazio si risolve in un sistema di numeri, pensato dalla Unità suprema del Cosmo. Galilei scoprendo le leggi d' inerzia, scoprì an- che la necessità del moto assoluto, almeno nel calcolo, e quindi del Tempo assoluto. — Kuno Fischer ha dimostrato (contro Trendelenburg) che il moto è preceduto e spiegato dal tempo e non gedue sono uno : o si toccano soltanto in parte e allora sono divisibili. E sbagliava, perchè non sono circoli, ma punti e non hanno parti, ma essendo fuori l'uno dell'altro non si toccano. L'estensione dello spazio deriva appunto da questo, che non si toccano.nera né il concetto ne la intuizione pura del Tempo. Nei suoi « Philosophiae naturalis Principia » , 1714, (Def. Vili) Newton scrive : «Eadem est Buratto seu perseverantia rerum, sive motus sint celeres, sive tardi, sive nulli » . Il tempo sarebbe il medesimo anche se l' Universo e i suoi , moti fossero affatto diversi da quelli che sono. È un pensiero della Eagione eterna di cui Descartes (Lettera a Vatier nov. 1643) scriveva : « Tempus non est affectio rerum sed modus cogitandi » . Aristotile. Phys. IV. 10 chiama àpi&iioc, x^viqaeos ossia numero del moto. 11 tempo è eguale da per tutto e questa sua ubi- quità non permette di prenderlo per una linea, benché sugli orologi e nelle clessidre lo si misuri sopra una linea. Newton dice che il tempo è un sistema d' istanti che non dipende dalla nostra coscienza. Ogni fi- nalità si appoggia sulla idea del tempo, senza la quale niente si farebbe, non potendo aspettarsi effetto alcuno dalle proprie azioni. La legge d' inerzia prova che il moto è assoluto come lo spazio ed il tempo. Essa è dimostrata vera da tutte le esperienze (benché sia impossibile la esperienza fondamentale perché stiamo in un pianeta del sistema solare e non nel centro universale). Essa prova la realtà dello spazio e del tempo e la loro uniformità. Che lo spazio ed il tempo per noi sieno concetti a priori o sieno in- tuizioni, poco importa. Quello che importa di sa- pere è quello che sono in se stessi. Sono due sistemi di punti e di istanti separati e discernibili, perchè numerati. La realtà che hanno è minima, mancando di energia, ma se non vi fosse, si avrebbe il caos e la indeterminazione. Spinoza diceva: « Quo plus realitatis aut Esse unaquaeque res habet, eo plura attributa ei competunt » e questi due sistemi di punti e d'istanti non hanno altro attributo che l'ordine, il mimerò, la realtà dell' Essere puro, del Numero. Lo esigono la Meccanica, l' Astronomia e tutte le scienze esatte. Al principio delle cose non vi poteva mai essere (come supposero parecchi Metafìsici, ed anche YArdigò) Vessere indeterminato. Come prova il grande matematico Cantor, lo spazio ed il tempo sono due oceani di punti e di istanti nei quali anzitutto si estrinseca l'Essere Uno Reale. Il Numero è così alla genesi di ogni possibile energia. Pitagora, dando al Mondo il nome di xoajjto? (ossia ordine) comprese che il generatore dell'ordine era il Numero. E Leibnitz scrisse che « omnibus ex nihilo ducendis sufficit unum » . La seconda estrinsecazione dell' Essere Primo (Atomi eterei e ponderali) Come non sono continui lo spazio ed il tempo, così non è continua la Materia (come crede Ardigò)1 e se lo fosse, non opporrebbe resistenza, come dimostrarono Poisson e Cauchy. La forma sferica non basterebbe all'equilibrio di un corpo di materia continua ; una siffatta materia si dissi- perebbe nello spazio: sarebbe una specie di atmo- — 30 — sfera diffusa allo infinito, con strati concentrici, sempre più rarefatti. Parti di numero indeterminato, mai non potrebbero fare un tutto di numero determinato, come dimostrò fin dal 1844 Saint-Venant. Nella « Révue du mois » 1906, Jean Perrin provò la discontinuità della materia con la radioattività e con altri fatti. Ciò che è sostanziale non può concepirsi come indeterminato o indefinito, quindi l' indistinto di Ardigò è un concetto inapplicabile in fìsica. Tutte le leggi fisiche e chi- miche ci provano concordi che gli atomi serbano sempre proporzioni definite nello scambiare le loro forze (attrazione, calorici specifici, equivalenti elettrici e chimici, ecc.). Il Secchi ( « Unità nelle forze fìsiche » ) fa os- servare che teoricamente l'equivalente definito e multiplo esige che la materia sia composta di centri distinti e semplici. Questo lo aveva già in- tuito Pitagora, quando distinse nettamente il nu- merato o numero concettuale dalla Unità Reale o sostanziale : e fu svolto il suo pensiero da Ecfante di Siracusa, il quale mostrò che le Unità reali erano Atomi, intendendoli come unità immateriali, esistenti a se, come punti di energia propria se- movente, prevenendo così le obbiezioni degli Eleatici contro la possibilità del moto. Spazio e tempo sono le condizioni numeriche nelle quali ci si presentano la materia e il moto nelle esperienze di forza, mentre l'energia atomica, come vedremo, sente e vuole e fa il moto opponendo alle forze incidenti la forza propria della impenetrabilità. L' Essere atomico non si lascia annichilire. Il dire che persiste la forza, la volontà, ossia una attività, una realtà indeterminata, è vago e per nulla scientifico, se non si dice che è la me- — 31 — desima in quantità. Bisogna dire che quello che persiste è Vertergià, la Unità Reale. Il carattere distintivo della scienza italica fu di eliminare l'in- determinato, e di cercare il concreto misurabile. Il Moto non è altro che un rapporto di spazio e di tempo e non ha esistenza in se stesso. La realtà sta nell' Atomo senziente e volente. Lo ammise il Taine nel 1892 e lo aveva, dodici anni prima, ammesso anche Herbert Spencer scrivendo nella Revue Philosophique de la France « La forza « cosmica non può somigliare alla nostra : ma sic- « come la genera, devono essere modi diversi della « stessa energia. Il potere manifestato in tutte le « cose è alla fine quello che in noi scaturisce sotto «forma di coscienza. La materia vive in ogni « Atomo per se stessa. Questo centro, questa Unità « interiore di tutte le cose e inaccessibile alla nostra « coscienza : le scienze studiano i loro fenomeni « e non la realtà conscia che li fa. Ma siccome « noi dobbiamo sempre pensare la manifestazione « esterna nei termini della Energia intima, così, « (conclude l'eminente filosofo inglese) si arriva « ad un concetto psichico degli Àtomi » . Quando si dice che gli atomi sentono un tantino, è inutile spiegare che non si parla dei nostri sensi, che sono frutto di lunghissima evoluzione, nella quale gradualmente si sono accmnunati il sentire ed il volere di milioni di Atomi, dividendosi il la- voro fisiologico, e formando così organi perfezionati. Ma si intende che gli Atomi debbano avere il solo senso dinamico (o della forza fondamentale che tende a formare più alta unità). Infatti la coe- sione è universale e non è mai un moto, ne fatta da moti esterni. E se viene disturbata, fa il moto termico o calorico e la elettricità dinamica. In al- — 32 — tre parole si parla di quella sensazione primitiva minima dell' Èssere in se, dalla quale derivano tutte le altre più complicate e più raffinate della chimica e della biologia. Quando la violenza del verito fa accavallare le onde del mare, un buon Capitano (come ce lo de- scrive l'ammiraglio francese Cloué) fa portare in- torno i sacchi di telaforte, pieni di stoppa imbevuta di olio di pesce, di foche o di marsuini, fa forare con aghi da vele i sacchi, legandoli alla poppa o alla prora, non mai più vicini di dieci metri fra loro. Ogni ora escono da tutti i sacchi da due a tre litri di olio, formando quasi una strada piana, larga 50 a 80 metri, che manda lembi di olio fino a 400 o 500 metri ai due lati della nave. Questa pellicola di olio che si diffonde sul mare e calma le onde furiose, non può mai essere piegata dal vento, per quanto sia veemente. Eppure questa pellicola ha lo spessore di i /QQ , 0QQ di millimetro (poco più delle bolle di acqua saponata), e basta a far cambiare la direzione alle molecole dell'acqua che arrivano con impeto. E perchè ? Unicamente per la forza di coesione delle minime molecole dell'olio. Il Cloué ha avuto più di duecento rapporti concludenti da varie società di salvataggio, da molti capitani di lungo corso, che attra- versano periodicamente 1' Oceano Atlantico. La coesione è dunque una gran forza, se in una pellicola poco più grossa della bolla di sapone può arrestare i marosi in burrasca ! ! Ed è una forza indipendente da qualsiasi altra, che non deriva da cause meccaniche, ma unicamente dalla sensazione dinamica, dal piacere di unirsi delle molecole di olio. — 33 — L'atomo di una goccia di acqua non vede, non ode, non ha ne palato, ne olfatto, ne udito, né vista, ne tatto; ma ha bensì il senso rudimentale, dal quale (con lunga evoluzione) uscì il tatto chi- mico e quello delle cellule degli organismi inferiori. E quando milioni di atomi fanno la goccia di acqua senza esserci costretti da alcun moto, da nessuna pressione di etere (come fu constatato), la fanno godendo, altrimenti non la farebbero. Il maggior neocritico tedesco, il Wundt, con- cepiva gli atomi come volontà elementari, come es- seri attivi che sentono (benché più semplicemente di noi) : e li aveva concepiti così anche Antonio Rosmini, come si vedrà nel terzo Volume. Materia inerte non esiste che in apparenza. « Instar arcus tensi, qui non indigent stimulo alieno, sed sola suòlatione impedimenti» diceva Leibnitz. La Materia è un Concetto vuoto di una cosa che la Scolastica credeva sostanziale, che non ha qualità propria, ma si supponeva servisse di base alle forze, le quali sarebbero state (secondo gli scolastici) meri accidenti : mentre sono le vere realtà. La Materia (dice il senatore A. Righi) ha per proprietà distintiva Vinerzia ; e gli elettroni (o atomi veri), benché non sieno materiali, perchè le loro masse crescono colla velocità (Moderna Teoria dei fenomeni fisici, 1907, pag. 234), la mostrano in molti casi, quando stanno fermi, come punti di forza disposti simmetricamente intorno ad un centro positivo ; ma in moltissimi casi non la mostrano, cambiando il modo di sentire e di volere. La cosa reale non può essere che un sistema di punti di energia senziente. Anche nell'urto meccanico, il corpo urtato si muove per una intiina reazione, ossia perchè le molecole ritornano al posto in cui trovavano la coesione gradita. Nessuno misura la Materia se non come peso, massa o volume: di cui i primi due si risolvono in forze e il terzo in spazio occupato dalle forze. Gli atomi sono punti, ma fanno la massa e la densità, perchè vi è fra loro dello spazio, anche nei liquidi e nei solidi: ciascuno esiste in sé, e persistendo in relazioni diverse, si sviluppa in molteplice. La causa del moto è sempre intima, nella sensazione delle forze. Gli atomi veri che il prof. Stones ha chiamato Elettroni, non sono estesi, perchè, se fossero estesi, sarebbero divisibili: ma sono punti di energia, che irradiano nell'Etere il quale è pure discontinuo e (secondo Helm e Vogt) darebbe origine agli Elettroni. Invece di Materia, si dica dunque Corpo, vale a dire complesso di energie: e si lasci la Materia alla scienza morta di Aristotile e degli scolastici medioevali e moderni. L' Energia di qualsiasi specie si trasforma con- servando il suo valore numerico : ogni Energia è potenziale rispetto a quella in cui si trasforma. L'Energia è sempre misurabile ed è l'unica che ci interessa. Si compra la materia come la- boratorio di energia. L'Elettrica ha un valore commerciale, dunque è realissima, benché la parte materiale degli impianti elettrici non si alteri, né diminuisca col consumo. Sembra che il calore sia energia cinetica, ma non si può trovare la sua potenziale, se non è nel disturbo della coesione, che è un modo di avvicinarsi godendo l'armonia. Nessuno sa se la Elettricità sia energia cinetica oppure Energia potenziale: non è fatta dal mo- — 35 — vimento dagli atomi complessi di Thomson, ma soltanto dal moto degli Elettroni. Questi sono punti di forza senza nucleo materiale, senza caput mor- tuum che li porti, come la terra va attorno al sole senza essere portata dall'Elefante o dalla tartaruga degli Indiani. « Omnis Ens, aut in se, aut in alio est » diceva Spinoza e gli Atomi sono in se, elementi psichici che non si lasciano distruggere e se disturbati reagiscono. Lotze osserva che la reazione non è mai simile all'azione, ne Veffetto somiglia alla causa, almeno nella qualità. Chi è colpito si difende in modo diverso (Microcosmos I 165 a 168). E Lasson filosofo di non minor valore del Lotze, aggiunge : « Non esistono cose meramente oggettive, passive, esterne» . Una energia reale (osserva Guyau) deve avere un modo interno di essere: un appetito, una sensazione rudimentale. Così pensarono eminenti fisici (oltre ai filosofi), quali furono : G. Bruno, Leibnitz, Kant, Boscowich, Maupertius, Cauchy, Moigno, Ampère, Faraday, Tyndall, Zóllner, Fechner, Wundt, Haeckel, Delboeuf, Cournot, Cope, Vacherot, Fouillée, Preyer, Ostwald, Mach (1). Nella sua « Mechanik in ihrer Entwickelung » ossia « La meccanica nel suo sviluppo, il Mach scriveva che « La mitologia Meccanica è sbagliata. (1) Il Marchesini e gli altri discepoli di Ardigò credono che gli Atomi siano materiali e si affannano a combattere la falange dei, veri pensatori di cui qui abbiamo dato alcuni nomi. E giusto però osservare che hanno male inteso Ardigò, il quale scrisse che « la Materia è Pensiero ». S'intende non dei sassi, né dell'uomo, ma della Sostanza Psicofìsica, di quella divinità inconscia dello Schelling ch'egli chiamò V Indistinto. - 36 - « La nostra fame non è molto diversa dal bisogno « di combinarsi delle molecole. La nostra Volontà « non è molto diversa dalla pressione del tetto « sulle pareti di una casa » . E Kromann, filosofo di Copenhagen (Unsere Natur Erkentniss) osserva : « se l'Atomo fosse ma- « teriale, non opererebbe se non nel posto ove si « trova, non irradierebbe energia termica o elet- « trica ; anzi non si continuerebbe il moto dopo « V urto, se non per alcuni istanti, e andrebbe « estinguendosi per l'attrito. Avviene l'opposto : « dunque l'Atomo è Energia psichica » . Il considerare la Fisica come una estensione della Meccanica va bene fino ad un certo punto, per la comodità dello studio esteriore, ma la filo- sofia non è limitata dagli orizzonti della Materia estesa e cerca la realtà intima che fa le forze originali. Bisogna evitare di fare della scolastica positivista una Metafisica di Materia, di Forza, di Massa, di Moto, di finzioni logiche, che si pigliano per reali quanto più sono lontane dalla realtà, mentre sono meri simboli, meri concetti astratti. I fatti reali di coesione, di solidarietà dell'etere e dell'aria, senza la quale non vedremmo la luce, non ci arriverebbero ne luce, ne suoni, ci con- vincono che sotto le astrazioni della scolastica materialista, ci sono le realtà psichiche indivi- duali minime. L'Etere cosmico forma un tutto solidale ed elastico, è quindi composto di tanti punti di forza che reagiscono. Quando questi punti di forza si scindono in due elettricità, l'una positiva al centro e l'altra, composta di elettroni negativi, alla periferia, fanno gli atomi ponderali, che ten- — 37 — dono ad unirsi, se vicini, con la coesione, e se lontani colla gravitazione, in ragione inversa del quadrato della distanza. L'etere è il mezzo che porta istantaneamente l'attrazione da un punto al- l'altro, per quanto sia lontano, Coesione e gravitazione, ossia le forze attrattive, ci indicano che la prima tendenza intima degli atomi è quella di formare più alta unità (1) anzi ce lo indica già la costituzione degli atomi sferici in due specie di elettricità, il cui centro è positivo e la periferia è negativa, ossia composta di elettroni negativi (2). La massa è il numero degli atomi di un corpo, il peso è invece relativo al corpo celeste sul quale si sta; cosicché un corpo pesante un chilogramma sulla Terra, peserebbe sul Sole 28 chili, su Marte 4 /2 chilo, sulla Luna 37 centigrammi. Ma il platino pesa 80 volte il sughero di egual volume in qualunque posto si trovi. Le prime forze dunque sono di elettricità statica. Quando questa è disturbata, ne segue un moto disordinato e dispersivo che si dice calorico e sembra spiacevole, perchè appunto è disordinato e ogni corpo cerca di rigettarlo sui vicini e si di- sperde. Questa è la seconda forza fondamentale della Natura. Ed è sempre un eccitamento a ri- (1) Ben inteso che l'attrazione o coesione incomincia a una distanza minima sì ma non quasi nulla, perchè quel punto che si dice atomo non può essere annichilito. (2) Nella nostra Nuova Scienza abbiamo lungamente mostrato che i tentativi di Lesage, Secchi, Isenkrahe ed altri di spiegare la coesione e la gravitazione per pres- sione dell'Etere, erano falliti; e di questa opinione sono tutti i maggiori fisici, fra cui l'eminente prof. Augusto Righi. 3 — 38 — tornare all'armonia facendo la elettricità dinamica, ossia quelle correnti che divennero nella moderna industria mezzi di grande efficacia. Già nei vecchi esperimenti di Siebeck e di Nobili il calorico si trasformava in elettrico contrasto. Che dal calo- rico (moto disordinato) gli atomi appena lo possono, passino all' elettricità ed al magnetismo (moti ordinati e piacevoli), venne recentemente dimostrato dai professori Ettingshausen e Nernst, mettendo in un campo magnetico una piastra di bismuto, perpendicolarmente alle linee di forza: poi riscaldando la piastra da una parte, si vede dall'altra parte sorgere una corrente galvanica. Una data quantità di energia termica è sempre equivalente ad una determinata quantità di ener- gia elettrica (2) qualunque sia la sua temperatura; si ottiene sempre lo stesso valore trasformando una nell'altra. L' Elettricità che non si manifesta in tensione (statica) si manifesta in corrente (di- namica) o in rotazione (magnetica) o irradiando e vibrando. Le proprietà di isolare o di condurre la elettricità dipendono dall'aggregazione molecolare, p. es. il Carbonio nel diamante isola, nella grafite conduce; i corpi a molecole bene orientate si elettrizzano bene scaldandosi poco (come l'ambra, la ceralacca, il vetro); ma i metalli composti di atomi neutri, avendo le molecole male (1) Avendo Carnot provato che il calorico non si con- verte in lavoro meccanico se non quando passa dai corpi caldi ai freddi, Thomson ne dedusse che una parte sempre maggiore della Energia convertita in calorico si disperde nel cielo e il lavoro scema : così alcuni credono che l'ener- gia dopo molti milioni di secoli si estinguerà ; ma questo sarebbe già raggiunto (se fosse vero), perchè l'Universo non ha avuto principio nella sua energia potenziale. — 39 — orientate, si lasciano molto riscaldare con lo sfre- gamento senza elettrizzarsi, sono elettropositivi, e si possono jonizzare con poca energia. Un corpo carico di elettrico, sebbene isolato, produce nei vicini uno stato elettrico di specie opposta (negativa o positiva) in ragione inversa della distanza. Con una macchina di induzione si elettrizzano migliaia di cilindri di latta. La elettricità è un contrasto di correnti bipartite e non si ricompone se non allora che la positiva è posta in contatto improvviso colla negativa. Niente passa dal corpo inducente al corpo indotto; ma gli atomi di questo assumono la corrente, senza che l'e- tere frapposto si elettrizzi ne si polarizzi - e questo ci prova che non è l'etere che fa la elettricità. La fisica nuovissima fa oggi sugli elettroni ossia sugli atomi elettrici ricerche perseveranti. Studiando la conduttibilità della Elettricità attraverso i li- quidi ed i gas, si vide che era costituita da Elettroni, ossia da Atomi elettrici, rispetto ai quali le cariche sono multiple, come numeri interi di atomi elettrici. Helmholtz l'aveva intuito e Lorentz lo dimostrò. Lodge e Righi trovarono che l'Etere è elettri- cità di forza minima ed il principio di ogni materia, ha una massa ed una forza viva, che dal punto centrale dell' Atomo fa i vortici elettrici, l'atomo vorti- coso di sir William Thomson (lord Kelvin) il quale conteggiò il numero degli Atomi minimi (Elettroni). Gli Elettroni sono emessi con enorme velocità dal catodo, nei tubi a vuoto (raggi catodici) e dal radio (raggi beta). Questi risultano da cariche elettriche in moto rapido assai e sono deviati dalle calamite (1). fi) Kauffmann : La costituzione dell'Elettrone, 1906. - Annalen der Physik, quarta serie, voi. 19. - 40 — Il prof. Abraham di Gottinga nel 1902 ha cal- colato la massa apparente dell'Elettrone per le diverse velocità, supponendo che abbia causa elet- tromagnetica e che l'Elettrone sia sferico e rigido. Kauffmann confermò che non vi è nocciuolo materiale nell'Elettrone. Un magnete, ossia una pietra di ferro sulla quale si scaricò probabilmente il fulmine e nella quale le due elettricità restano separate ed in contrasto continuo, attrae il ferro, come tutti sanno. Il magnete non attrae cei*to per la pressione dell'etere, che si esercita su tutti i corpi. Dopo il ferro, il nikel e il cobalto sono i metalli più magnetizzabili: un pezzo di acciaio che subisca un forte sfregamento con un magnete, diventa un magnete e serve a fare altri magneti. I gas e le materie contenute nelle fiamme sono magnetizzabili e di- vidono le fiamme in due corni. Jonizzare vuol dire separare da un atomo neutro alcuni suoi elettroni negativi: e si fa facilmente nei metalli, composti di atomi neutri. Si jonizza sia col gran calore, sia con urti violenti che scal- dano molto, sia coi raggi catodici, di Rontgen o di Becquerel. Un filo arroventato jonizza il gas che lo tocca, ed i gas delle fiamme sono tutti for- temente jonizzati e ridotti ai più semplici elementi Uberi. Le scariche elettriche sono fatte dai joni dei gas, urtati violentemente, scomposti in elet- troni negativi. La luce deriva da vibrazioni elettriche trasversali e perpendicolari ai raggi da destra e da si- nistra. Se la destrogira o la levogira ritarda, non danno più una riga sola nello spettro, ma due. I raggi scoperti nel 1895 da Rontgen che partono dai catodi ossia dai poli negativi in sfere di gas rarefatti, hanno onde quindici volte più corte di quelle della luce del sole, e non si vedono, ma fotografano e non si rifrangono, non sono carichi di elettricità come i raggi catodici ; ma fanno sor- gere l'elettricità nei corpi conduttori. I raggi scoperti da Becquerel nel 1897 non partono da sfere di gas rarefatti, ma da corpi estratti dalla pecliblenda (q sono i seguenti: radio, uranio, torio, bario, attimo) vengono emessi anche nel vuoto ed a temperatura glaciale e sono di tre specie: alfa, beta e gamma. Gli alfa sono fatti da joni positivi e deviabili e jonizzano i gas che urtano. I beta più forti anche nel fotografare, si comportano come raggi catodici e deviano in senso opposto agli alfa. I gamma sono più veloci e più penetranti degli alfa e dei beta. Trasformano l'ossigeno in ozono, il fosforo bruno in rosso. Non derivano da scomposizione chimica, ma da emissione di elettroni. Arrestano le scintille di , una fortissima macchina elettrica, perchè egualizzano le elettri- cità accumulate, e le scaricano da se. I raggi Rontgen sono esplosioni elettriche (materia radiante di Crookes, il quarto stato di Faraday) e scompongono gli atomi dei gas nei loro Elettroni negativi. Traversano i corpi opachi, fanno vedere le ossa e le palle di fucile rimaste nelle ferite. I raggi Becquerel dei corpi radio attivi permettono di scoprire in un miscuglio di gas elementi in proporzioni assai più piccole di quelli indicati dallo spettroscopio. Intorno agli Elettroni negativi l'Etere è teso in lunghezza e premuto dalle parti trasversalmente. Le linee di forza magnetica sono cerchi perpendicolari alla trajettoria centrale. Una corrente elet- trica è un flusso di Elettroni negativi equidistanti: se il moto non è uniforme si ha Vinduzione, come dice Righi - (La moderna teoria dei fenomeni fi- sici, 1907, Bologna, p. 257). Le aurore boreali e le corone dipendono dal magnetizzarsi della luce. La efficacia della elet- tricità e del magnetismo diminuisce col quadrato della distanza. Scaricando una corrente elettrica sopra un disco di vetro, la positiva fa raggi diritti, mentre la negativa fa delle ramificazioni si- mili alla radice di una pianta. R. Hertz trovò che l'elettricità si propaga con onde dell'Etere cosmico che nel suo oscillatore erano ridotte a 6 centimetri, ma colle bottiglie di Leyda superano 300 metri e nelle macchine dei telegrafi senza fili arrivano a 7000 dalla stazione di Coltano. — Le onde di Hertz dipendono da esplosioni per urto (1). La elettrolisi è la scomposizione in joni degli elementi delle molecole: p. es. il sale di cucina sotto l'azione di una pila e di due elettrodi, si di- vide in joni di Jodio positivi che vanno al polo negativo, o Catodo, e in joni di Cloro, negativi, che vanno al polo positivo o Ànodo. E l'acqua si scompone in ossigeno, che va al polo positivo, o Anodo, ed in idrogeno, che va al polo negativo o Catodo. Sulla elettrolisi si fondano gli accumulatori, o casse cariche di elettricità, ottenuta separando il (1) Le scariche oscillanti, come quelle fatte negli Oscillatori di Marconi sono prodotte da molti alternati passaggi, da una serie rapida di flussi che, urtando violente- mente l'Etere, vi fanno delle onde concentriche assai lunghe. Il ricevitore o coherer alternando lo stato magnetico permette di far segnali. — 43 — piombo dall'ossido di piombo (che si adoperano per muovere i tram elettrici). La genesi degli elementi ossia delle varie specie di Atomi fu studiata dal Crookes in Inghilterra, dal Mendelejew in Russia e da altri (1). Dalla in- focata nebulosa, per la irradiazione del calorico, e l'abbassarsi della temperatura, si formarono dapprima i 14 elementi leggeri (2) e poi, per successivi raffreddamenti, anche gli elementi pesanti fino all'Uranio che pesa 240 volte l'Idrogeno. Ogni elemento leggero diventò capolista di un gruppo, per successive differenziazioni e complicazioni. — Raffreddandosi le stelle, la elettricità ci va for- mando nuovi elementi e si complica la loro strut- tura. Così nelle stelle bianche non vi è che Idrogeno, e poco Magnesio. Nelle stelle gialle, come il sole, vi sono i metalli: ma non ancora i metalloidi. Nelle stelle rosse che si raffreddano poi, come Ercole, ci sono metalloidi, e i metalli sono (1) Tutti sanno che la piccolezza delle molecole è estrema. Gli Elettroni non sono che punti di forza. Si può assottigliare l'oro in lamine di cinque milionesimi di millimetro. Certi infusori provvisti di organi hanno un diametro minore di un millesimo di millimetro. (2) Idrogeno, Litio, G-lucinio, Boro, Carbonio, Azoto, Ossigeno, Fluoro, lodo, Magnesio, Alluminio, Silicio, Fosforo, Solfo disposti in due serie : la elettrizzata positivamente e la elettrizzata negativamente, ciascuna di 7 ele- menti. (Per gli elementi seguenti vedi Wendt, Evolution der Elemente, 1891, Berlino). L'analisi spettrale datante linee quanti sono gli elementi che compongono i corpi incandescenti. Nei laboratorii chimici è difficile superare 2.400 gradi centigradi, tuttavia gli atomi di idrogeno vibrano del pari nelle stelle, nel sole, nelle nebulose o in un tubo di Geissler riscaldato, perchè danno lo stesso spettro. tutti combinati. Ma ad altissima temperatura gli elementi si dissociano, perchè gli Elementi non sono gli Elettroni o Atomi veri, ma sono atomi composti vorticosi, che Thomson mostrò essere circolari, non tagliabili che vibrano quando sono urtati. Dissociando gli elementi, diventano radioattivi, come dicemmo sopra, e la dissociazione può arri- vare a tale energia che, col disgregare un soldo di rame, si avrebbe forza bastante per far muovere un treno di centinaia di quintali. Il prof. Ramsay vide il radio trasformarsi con- tinuamente in elio. Le cinque leggi principali della fìsica pura mostrano la Unità ideale e reale di azione e sono : Inerzia, Indipendenza delle Forze, Eguaglianza fra Azione e Reazione, Conservazione della Materia e Conservazione della Forza potenziale (non della manifestata). Del resto il principio di conservazione della Energia, ha valore per i fatti osservati ; ma è inesatto l'applicarlo agli altri. Tutti i fatti meccanici, sono nello stesso tempo fatti elettrici o chimici. La meccanica ne coglie un solo aspetto : risolvere il mondo in figure è una mitologia. Le forze interne sono le essenziali, sono psichiche. Il nostro Giambattista Vico diceva che il conato o virtus movendi è fatto dall'appetito, dal desiderio. Del resto tutte le spiegazioni meccaniche, quando escono dal problema dei tre corpi, ossia cercano di determinare le variabili che preponderano, di tro- vare le relazioni funzionali tra loro, per predire lo stato futuro di un sistema di corpi, non danno mai la certezza e sono soltanto approssimative. Se si considerano sistemi isolati come conservativi, vi s' introducono delle variabili, riguardandoli 45 come porzioni di un sistema conservativo più ampio : ma gli attriti, le viscosità e le complicazioni dei moti di altri corpi, e sopratutto le rotazioni, rendono la soluzione impossibile: come ben dice E. Picard (La mécanique classique, 1906). Laplace, invece di supporre che l' impulso fosse proporzionale alla velocità, ritenne che fosse una funzione della velocità e variasse con la velocità, come si è trovato poi per gli Elettroni, le cui masse crescono con la velocità, per cui non sono materiali. Così bisogna abbandonare le equazioni differenziali e cercare le equazioni funzionali, se si vuol prevedere l'avvenire di un sistema di corpi. I corpi non sistemati o che sono in moto lento, sono soggetti a cambiare direzione e velocità, se vengono urtati. Non è l'urto, ne la pressione che si converte in calore : bensì l'urto eccita le forze- interne a difendersi con moto rapido irregolare che dilata e si disperde. Se si urtano due palle lanciate una contro l'altra, le forze che risultano sono momenti eguali, ma opposti : così che entra nel corpo urtato la sola differenza. II moto che segue all'urto non avviene mica per una infusione di moto come suppongono gl'ingenui : ma esso si verifica sempre per la solidale elasticità delle molecole, che ritornano al loro stato abituale di coesione, come ha dimostrato fin dal 1887 Todhunier (nella sua bella Theory of Elasticity). Fin qui abbiamo considerato la Materia nel minimo, ossia nei suoi Atomi eterei e ponderali, cercando (per quanto era possibile) le sue forze intime. Se ora la consideriamo nel massimo, dobbiamo riconoscere che l'Universo non può essere infinito, — 46 — come è sempre ripetuto nella filosofia del prof. Ardigòy ne in massa, ne in energia potenziale, perchè allora, come ha provato l'astronomo Olbers, il centro di gravità sarebbe in ogni punto del mondo e la meccanica e l'astronomia se ne andrebbero a rotoli: ed anche perchè, come notava Angelo Secchi (Le stelle, pag. 334 a 336) se il mondo fosse infinito e popolato di infinite stelle, la vòlta celeste ci comparirebbe lucida come il sole in tutta la sua estensione. Chi avesse occhi sarebbe subito accecato, ma nessun occhio avrebbe potuto nem- meno formarsi. Zollner credeva che l'Universo finito evaporerebbe nello spazio : ma questo è impossibile, perche, alla temperatura di 270 gradi sotto zero, (che è quella della Via Lattea) e tanto meno ai freddi maggiori delle regioni più lontane della Via Lattea, nessun corpo può svaporare. Le forze della Materia sono anzitutto attrattive, e di queste parleremo nel seguente Capitolo. Le ripulsive sono quelle della impenetrabilità, del calorico, dell'elettricità che abbia eguale dire- zione e le esplosive dei composti chimici in cui entri l'azoto e delle cariche elettriche. Derivano dal disturbo del godimento che è caratteristico delle forze attrattive. La solidarietà degli Atomi in generale Coi principii delle scienze fìsiche insegnati da Cartesio in poi, non si è riusciti mai a spiegare l'attrazione e la coesione, che tengono insieme tutti i corpi e sono le prime forze iniziali (1). Quanto tendano a stare insieme gli Atomi Eterei lo prova la flessibilità ed elasticità dell'Etere. Quanto tendano a stare congiunti gli Atomi ponderali, ognuno lo vede nelle goccie di acqua, nelle colle, nei cementi, nei marmi, nei legni duri, nei corami, nelle corde di canapa, nei diamanti,. in molti metalli e specialmente nei fili di ferro : anzi in tutti i corpi liquidi o solidi compreso il proprio. Al di là di una piccola frazione di millimetro, la coesione diminuisce e si estingue e su- bentra l'attrazione in ragione inversa del quadrato della distanza, perchè gli Atomi irradiano sopra superfìcie tanto più grandi quanto più sono lontane. Newton e Faraday hanno intavolato bene il problema dell'Attrazione Universale. Ma gli Empirici,, ed anche il gesuita padre Secchi (che non era punto filosofo, e credeva come tutti i Tomisti, nel Motore immobile divino) lo hanno oscurato. (1) L'amore degli animali e anche dell'uomo è la su- blimazione di quella tendenza fondamentale che tiene as- sieme tutti i corpi del mondo. — 48 — Newton per un quarto di secolo ci meditò so- pra (1) e stabilì due punti vale a dire che l'agente della gravitazione non può essere meccanico (nella Prefazione ai suoi Principii 1713), e che l'agente immateriale muove. Dunque è la unità energica psichica degli Atomi ponderali, che trasmette per l'Etere la tendenza a congiungersi. Quando questa calma, istantanea irradiazione arriva ad altri Atomi ponderali è sentita, ed avviene la attrazione reciproca. Faraday commentando (nel Philosophical Magazine, 1884, pag. 143 del Volume XXIV), scriveva « Nella gravitazione la forza va per l' Etere alle « maggiori distanze, partendo dai punti Atomi di « Boscovich. Ogni Atomo irradia dal suo centro a « tutto il sistema solare » . Newton non ammise che la gravitazione fosse dovuta ad una causa immateriale (che sarebbe la psichica Unità reale degli Atomi) perchè come fi- sico diceva « hypothesis non fìngo » ma non lo escluse e lo lasciò pensare al lettore. Egli vide bene fin dal principio e concluse definitivamente nel 1681 che ogni teoria meccanica sulla gravità non si può sostenere mai, perchè non si propaga, non si al- tera, non devia per l'interporsi di qualsiasi so- (1) Newton studiò la ipotetica pressione dell' Etere per spiegare la gravitazione fin dal 1675, e ne scrisse una Memoria che lesse alla Royal Society. Ma nel 1686 di- chiarò in una Lettera ad Halley che tale ipotesi non aveva il minimo fondamento. Sfortunatamente per loro e per la scienza fìsica alcuni Empirici ed anche il padre Secchi nei due ultimi secoli perdettero il tempo nel tentare di scoprire come V Etere facesse tale pressione, che già il genio di Newton, dopo maturo esame, aveva trovata impossibile. — 49 — stanza gazosa, liquida o solida, non prende mai la direzione di una risultante, non si rinette, non si rifrange, non si trasforma come la luce, non può essere un moto, ne derivare da un moto, è istantanea. I tentativi di Lesage, di Schramm e di Secchi di far derivare la coesione e la gravità dal flusso e dalla pressione dell'Etere, per quanto ingegnosi, rimasero così imbrogliati da difficoltà enormi che non persuasero alcun filosofo. Arago in Francia, Maxwell in Inghilterra ed altri grandi fisici li dimostrarono inani. Clerk Maxwell ne enumerò così gli assurdi: 1 . — Eichiedono un punto motore che agisca fuori e al di là dell'Universo. 2. — Esigono che la materia sia ora creata ed ora annullata, giacche ora la forza è esaurita ed ora acquista una enorme velocità. 3. — Riducono la gravità, che è forza perenne in- distruttibile, ad un semplice effetto di di- verse forze che ci sono ignote. 4. — Implicano la esistenza di capitali strabocchevoli di energia nell' Etere, capitali che nes- suno ci ha trovati. 5. — Se fossero vere, farebbero andare in frantumi varie volte al giorno tutti i sistemi solari. II padre Secchi altro non fece che generalizzare per isbaglio un caso speciale di Poinsot (N. Scienza,. IV voi., 282 e seg.) (1). (1) È molto deplorevole che alcuni giovani, unicamente^ mossi dall'orrore per la psiche e per ogni interiorità (senza- badare che essi sentono, vogliono e pensano) e volendo spie- gare tutto il mondo con la esteriorità, ossia meccanicamente, sprechino oggi il loro ingegno nel cercare a quali squili- — 50 — Newton (nell' Ottica) dichiarò assurdo che la gra- vitazione fosse proprietà dovuta a moto di materia. Il suo concetto si trova nei Principia (alla fine del libro) dove suppone che la forza psichica degli atomi faccia la gravità; benché, come dice- vamo or ora, seguisse la regola del suo tempo, fondata sul pregiudizio di Cartesio che la Materia nulla avesse di psichico, che « in Philosophia experimentali hypotheses locum non habent » „ — Egli veramente non arrivava fino a supporre che gli atomi avessero un germe di sensazione, ma cre- deva in uno spirito pervadente gli atomi, e lasciò (come Cartesio) la materia inerte passiva, mossa dallo spirito divino. Fu Voltaire che presentò alla Francia il Newton della gravitazione universale, considerata come una brìi dell'etere possano attribuirsi la coesione e la gravita- zione ; dando prova unicamente della insolubilità del pro- blema. Fra questi va notato l'egregio ingegnere M. Barbèra nel suo libro «L'Etere e la materia ponderale» uscito a Torino sulla fine del 1902, nel quale, in meno di 140 pa- gine fa 1400 ipotesi : ma nella Prefazione del quale egli ha però il buon senso di confessare che il meccanismo di ogni fenomeno fisico « rimane affatto misterioso, e che i risultati della ricerca di esso sono quasi sempre concezioni stranissime ed assurde, ma spera nondimeno che non sieno dannose ». Dal momento cbe fu riconosciuto da eminenti fisici, fra cui in Italia da Righi ed altri, cbe gli Elettroni (elementi degli Atomi) non hanno nucleo materiale, sarebbe meglio fare a meno di scervellarsi per restare materialisti, limi- tandosi a dire : « Sic volo, sic jubeo : sit prò ratione vo- luntas ». Se non è assurdo cbe io, cbe sono composto di Atomi, senta, non sarà assurdo cbe un atomo abbia un germe di sensazione gradita, nella Coesione. proprietà della Materia, e divulgò quello che Newton dichiarò assurdo, vale a dire che la materia agisse dove non era. Ma Voltaire non era che un letterato. Nella evoluzione fìsica in grandi masse, come nella evoluzione chimica in piccole masse, più o meno lentamente, le parti si rendono solidali nella sensazione rudimentale dinamica (o della forza): perciò tutti i corpi (siano allo stato gasoso, liquido o solido), sono elastici. Alla superfìcie di una massa liquida, per 10 a 12 milionesimi di millimetro, la coesione è massima. Alla profondità doppia è diminuita di 3/4 . Rucker nel 1885 con esperimenti ottici elettrici confermò questi risultati. Quincke nel 1887 ha analizzato le pellicole liquide che bagnano i solidi e disse che a meno di 25 milionesimi di millimetro incomincia la coesione per le molecole dell'ac- qua. Nelle bolle di sapone la pellicola è costante, se lo spessore eccede cinque soli milionesimi di millimetro, e torna a crescere, se lo spessore viene ridotto ad un milionesimo. Un liquido è formato da diversi strati, cosicché due porzioni di acqua si attraggono quanto più stanno alla superfìcie: alla distanza di un dieci- milionesimo di millimetro si attraggono con una forza massima. Thomson nel 1886 disse che l'at- trazione capillare non è altro che l'attrazione Newtoniana resa più intensa per le molecole mobilissime che fanno il liquido. La forza di coesione è tanta da resistere a grossi pesi. Da oltre un secolo Barton prese molti cubi di rame aventi le loro superfìcie ben levigate e liscie, li mise sul tavolo uno sopra l'altro e vide che, prendendo in mano il più alto, gli restavano attaccati tutti i sottoposti. — 52 — I fenomeni della capillarità nei tubi stretti sono ben conosciuti da tutti. Centinaia di esperimenti svariati della solidarietà furono fatti da Plateau (Statique expérimentale et théorique des liquides soumis aux seules forces moléculaires). Facendo ca- dere a goccie certi olii sopra l'acqua, si distendono come piani : mentre le goccie di altri olii cadendo si dispongono in forma di lenti più o meno convesse. La coesione delle molecole di olio è tanta che i marinai calmano le onde furiose del mare vicino alla loro nave col versarvi sopra un sottile strato di olio nel modo indicato nel Capitolo precedente. La natura numerica della coesione si può in- vestigare pigliando certe soluzioni, fortemente colorate, di permanganato di potassa e facendone cadere alcune goccie sull'acqua, a minima distanza da questa, e lentamente. Si vedrà che la sostanza colorata, nel suo discendere e nel modificare l'as- sociazione molecolare assume la forma di anelli vorticosi, cinti da una pellicola, che, sempre più assottigliandosi, si rompe : ed ogni frammento degli anelli maggiori, discendendo, assume subito la forma di minore anello vorticoso e via di se- guito, dando una figura di polipo che genera sempre nuovi e minori anellini vorticosi fino a che diviene invisibile. — Con una goccia di inchiostro il fenomeno succede lo stesso ma con tanta velocità che riesce impossibile di studiarlo. Gli anelli vorticosi sono sempre fatti in questo esperimento dalla forza di coesione in lotta col peso : prova che molti atomi simili sempre tendono ad unirsi e uniti una volta stentano a disunirsi, e che l'unità domina i molti. Per quanto siano caldi i liquidi riescono a for- mare delle goccie. L'astronomo Young (Il Sole, — 63 — p. 220) dice che il Sole (che sembra sia in gran parte gazoso) deve formare la sua fotosfera con goccioline di metalli. Non vi è corpo gazoso che non possa gustare la coesione. Infatti Cailletet e Wriblowcki, con macchine possenti, sono riusciti a rendere liquidi quasi tutti i gas. La teoria cinetica dei gas di Clausius, Joule e Maxwell non si regge più, perchè gli urti obliqui farebbero roteare le molecole, il moto di traslazione si rallenterebbe e cesserebbe, e perchè la legge di Mariotte e Gaylussac (essere a temperatura costante il volume di un gas in ragione inversa della pressione) non si verifica che poche volte, come provò Regnatili: anzi Hirn variò a piacere la temperatura senza che cambiasse la resistenza (1). Clausius cre- dette che le molecole dei gas corressero senza vi- brare e spiegava così la discontinuità degli spettri dei gas, dei liquidi e dei solidi. Ma recentemente vari fisici hanno attribuito gli spettri lineari dei gas alla piccolezza delle loro molecole, invece che alla fantasticata loro corsa vertiginosa, e fu tolto al Clausius l'ultimo suo rifugio che era lo spettroscopio. Venne allora Hirn a provare che, se le molecole dei gas corressero in linea retta, non vibre- rebbero e non potrebbero mai dare un suono. Il suono ci prova che i gas hanno le loro parti solidali e sistemate, come una corda tesa vibra ; ma se non è tesa, non vibra più. Per vibrare occorre (1) Tait nel suo bel libro Heat, nell'ultimo Capitolo indicava fin dal 1884 le gravissime difficoltà che presen- tava l' ipotesi cinetica dei gas del Clausius, che venne accettata per alcuni anni provvisoriamente. 4 che le molecole ritornino allo stato di prima. L'aria vibra (come le lamine sonore di Chladni e di Savart perchè è elastica e solidale. D'altronde se l'aria fosse costituita al modo escogitato dal Clausius, essa non si alzerebbe più di dodici chilometri, secondo Hirn, mentre si eleva a cento e più. Bisogna anche pensare che tutti i corpi premuti si riscaldano e così si riscaldano anche le onde di aria vibrante. Se non si riscaldasse, dice Hirn, il suono si propagherebbe in un minuto secondo a 288 metri, mentre si propaga a 340, perchè il suono passa da onda ad onda più calda. Il prof. Hirn conclude che gli atomi dei gas non corrono, non si urtano, ma formano un sistema elastico solidale, che deriva dalla stessa tendenza intima che fa la coesione dei solidi, dei liquidi e la gravitazione. La facilità con cui si mescolano i gas, le leggi della pressione, si spiegano senza bisogno che cor- rano molti chilometri al minuto e senza che su- biscano tanti urti. — Il Sisifismo di Clausius può essere eliminato. La solidarietà non è un moto, è uno stato psichico, in cui si forma un essere collettivo, una grande unità. E il godimento è evidente in un esperimento che tutti possono fare, mettendo dei cavalierini di carta sopra due o più corde vibranti vicine e lontane. Quando due corde danno il medesimo suono, appena si tocca coll'archetto una corda, si vede che dall'altra i cavalierini saltano via, anche se la corda è lontana molti metri. Mentre, se non danno il medesimo suono, anche se sono avvicinate quasi a toccarsi, i cavalierini delle corde non toccate rimangono fermi ed indifferenti. Dunque l'aria è solidale, di una solidarietà così intima da far vibrare tutto ciò che vibra nel medesimo tempo e non ciò che vibra in altri tempi. Così se abbiamo due coristi eguali, battendone uno, suona anche l'altro; se ne abbiamo cento o mille, tutti vibrano del pari. Il rinforzo di un suono avviene sempre quando, in vicinanza del corpo so- noro, ce ne sono altri che dieno lo stesso suono. I fabbricatori di stromenti musicali applicano con- tinuamente questa legge, che prova la solidarietà degli Atomi anche allo stato gasoso. Questa solidarietà è evidente non soltanto fra gli Atomi ponderali allo stato solido, liquido e gasoso. ma anche fra gli Atomi eterei, che sono infinitamente più piccoli degli Atomi ponderali. Locke (nel suo Saggio sull'umano intelletto, II, 23) fece notare quanto sia stupido cercar di spiegare la Coesione degli Atomi ponderali inventando una pressione dell'Etere, perchè gli Atomi dell'Etere che sono coerenti e solidali fra loro, esigerebbero per spiegare questa pressione un secondo Etere che premesse il primo e questo esigerebbe un terzo etere e via di seguito all'infinito. Sopra un'onda di luce rossa stanno 200 Atomi Eterei. Faraday provò che il mezzo etereo è elastico, col mostrare che le sue linee di forza si curvano. Hirn ne dedusse che gli Atomi Eterei sono solidali e formano un tutto elastico persino nelle suddivisioni infinitesime. Se l'Etere fosse in flusso continuo, se fosse di densità variabilissima come supponeva il padre Secchi per poter darsi l'aria di spiegare la coesione, non potrebbe mai trasmettere la luce con tanta regolarità e delicatezza. Questo è evidente se si riflette un poco. Secondo Lorentz l'Etere deve — 56 — essere in stato di relativa quiete e di solidarietà nel suo complesso, per permettere il moto della Elettricità e della Luce. Senza questa solidarietà non avremmo la luce del sole e delle stelle, come senza la solidarietà dell'aria non avremmo il suono : quindi non si sarebbero formati ne occhi, ne orecchi ; ed è alla solidarietà dell' Etere e dei gas che dobbiamo la civiltà ed i maggiori piaceri della parola e dell'arti belle. Alla stessa solidarietà dobbiamo le onde scoperte dal prof. Hertz assai grandi, sulle quali si fondano i telegrafi senza fili. Quando la coesione degli atomi e la loro solida- rietà vengono disturbate, sorge il moto irregolare del calorico, che allontana gli atomi gli uni dagli altri, dilata i corpi, liquefa i solidi, volatilizza i li- quidi, disperde e non si concentra mai. Hirn schiacciando il piombo (senza accrescerne la densità) provò che il calore deriva dal disturbo della coe- sione e che è un moto degli atomi e non delle molecole. Ben a ragione dunque il fondatore della ter- modinamica Mayer diceva che la coesione e l'at- trazione non sono moti, ma tengono della natura della sensazione, sicché la Materia bruta inorganica ha un senso di solidarietà innegabile e l' Unità do- mina la moltiplicità, il molteplice tende ad unirsi e di questa tendenza sono visibili gli effetti in tutta quanta la fìsica. Fra le soluzioni separate da membrane permeabili ha luogo sempre uno scambio, nel quale la più densa assume più che non ceda e la meno densa perde più che non acquisti; fatto che prova la tendenza ad associarsi di tutti gli atomi. Il disturbo dell'armonia fa l'allontanamento degli atomi, la dilatazione dei corpi, la disgregazione. — 57 — La tendenza all'armonia fa i contrasti elettrici della luce, la solidarità dell'Etere e dei gas, la coesione dei liquidi e dei solidi, e l' attrazione dei corpi lontani. Così si manifesta nella fisica la tendenza a for- mare più alta Unità, che si accentra poi e si rende manifesta nella Chimica, e, ancor meglio, nella Biologia e nell'Amore delle Piante e degli Animali, sempre per cause intime e non mai per le forze incidenti dell'Ambiente. Nel succitato libro sul Calore il Prof. Tait di- ceva bene: senza moto non vi è Calore, ma non ne segue che il Calorico sia un moto: come senza Fosforo non vi è Pensiero; ma non ne segue che il Pensiero sia Fosforo. Il Moto che fa la gravitazione, il Calorico e 1' Elettricità, ossia le forze fondamentali dell'Universo, deve essere fatto dalla sensazione rudimentale degli atomi e deve essere una manifestazione della loro volontà primitiva. Come dicea Herbert Spencer: gli specialisti stu- dino pure i fenomeni fisici come meri movimenti; ma la filosofìa badi alla realtà conscia, ossia alla Unità interna di tutte le cose. (Vedi sopra Cap. II, pag. 20) (1). Siamo coerenti e riconosciamo che la (1) Lo stesso Ardìgò scrisse, come Schelling, che la Materia è una forma del Pensiero (e doveva dire non del Pensiero, ma della sensazione della Volontà), ma in tutto il suo sistema non seppe spiegarlo e adottò la fisica che attribuisce agli urti delle forze incidenti ogni fenomeno. Newton aveva ben capito che della materia si poteva affermare una forza sola generalissima, cioè la resistenza, scrivendo nei suoi Principia Definitio IIIa : « Materiae « vis insita est potentia resistendi ». Egli aveva pure compreso che l'aria e l'etere erano elastici fé quindi solidali) scrivendo nella sua Ottica (Questione XVIII) che l'aere è assai più elastico e più attivo dell'Aria. 58 vera filosofìa della Natura non può bandire la psiche dalla fisica, ma può andare sotto la scorza delle cose e indovinare la loro intimità. I filosofi che dicessero che noi fin qui abbiamo fatto della fìsica e non della filosofia, mostrerebbero corto intelletto; perchè abbiamo stabilito e provato che la Materia sente e che è tutta solidale. E nei seguenti Capitoli lo vedremo ancor meglio. CAPITOLO IV. La solidarietà geometrica cristallina Il materiale dei cristalli è chimico : ossia fatto da molecole ; ma la costruzione è fisica, e conserva le proprietà fìsiche delle molecole, orientandole secondo le direzioni dei tre assi; e specialmente il calorico, la elettricità e la luce. Chi non ammette la psiche nella Materia e si affanna a spiegare la coesione delle molecole di una goccia di acqua, inventando la assurda pressione dell'Etere, ha bisogno poi di tutt' altra pressione, per spiegare la formazione di un cristallo e deve fare mille ipotesi di un Etere più schiacciante (1). (1) L'Illustre Presidente della Società Geologica Inglese, il prof. Judd diceva che « Each minerai like each plant, or animai, possess its own individuality ». Le forze a tergo, gli urti, le pressioni non spiegherebbero mai la gran varietà di strutture che presentano i cristalli (Sulla formazione dei cristalli parlammo nella nostra Nuova Scienza, voi. IV. pag. 479 a 481 e in altri siti). La coesione geometrica cristallina indica chiaramente la tendenza a godere la Eleatica quiete fra i contrasti elettrici. Evers disse che la preparazione biotica è evidente nei cristalli; è l'alba della vita che si chiude fra le pareti ; è una vita modesta, casalinga, incipiente, quella che si rappiatta fra i tre assi di coesione geometrica e mantiene le loro pareti. Le molecole allo stato liquido, quando si abbassa la temperatura (se trovano la calma e le soluzioni necessarie) tendono a cristallizzarsi. E, dalla vescicola centrale che fa il cristallo, gli Atomi della soluzione vanno disponendosi in tre assi perpendicolari (i quali rivelano che sono tre e non più le dimensioni dello spazio reale, come nel Capitolo I fu detto). E prendendo le forme di tetraedri, di prismi, a base triangolare o parallelopipedi (1) non le prendono per quelle forze esterne a cui lo Spencer e VArdigò ricorrono, e che non possono riunire altro che detriti, arena, polveri e spazzature : le prendono per la tendenza delle Unità interne a formare, unite coi simili, dei sistemi di equilibrio stabile di godimento durevole, fra i contrasti elettrici. Il punto centrale dove si intersecano i tre assi rimane indifferente fra le polarità. Scaldando un (1) Ai sistemi cubico, prismatico, romboidale ecc. si aggiungano le strutture lamellari dei marmi, la granulare del gres, la ramificata delle miche, del bismuto, del cobalto grigio, la capillare dell'asbesto, dell'amianto, quella a pagliette o lamine sottilissime degli scbisti. In qualunque forma gli spigoli opposti si modificano insieme. Il clivaggio o spaccatura produce polveri della forma medesima a quella di ogni cristallo. Soltanto il granato e lo smeraldo si rompono in frammenti irregolari. cristallo, l'asse dominante si dilata per primo e maggiormente ; il polo positivo si riscalda, il negativo si raffredda. Le proprietà ottiche variano secondo che la luce segue l'asse principale o gli assi secondari. Nei cristalli della neve cinque o sei aghi diacciati a forma di stella formano l'ossatura. Tra questi gli aghetti trasversali formano un ricamo regolare. Si crede che le forme dei cristalli sieno, se non eguali, almeno analoghe a quelle delle molecole della medesima sostanza; perciò l'acqua, avendo le molecole semplicissime, di quasi nove decimi di ossigeno e poco più di un decimo di idrogeno, cristallizza in forma di aghi. Non cristallizzano i Colloidi, perchè le loro particelle o molecole sono in moto irregolare e senza centro, e si ritengono essere reti di cristalli filiformi, entro le quali si organizzano gruppetti di molecole che tendono ad una elasticità variabile : però si induriscono facilmente in colle, in pelli, in unghie, in corna. Nella parte non cri- stallina, non filiforme dei colloidi, ossia nella parte elastica, la tendenza alla vita è di un altro genere (gomma, amido, colla, destrina, tannino, albumina ecc.) diverso dal cristallino, ma non an- cora cellulare. Lo stato colloidale si verifica anche nell'argilla ed in qualche metallo. Le sostanze amorfe sembrano gelatine compatte, come il vetro, il quale, benché assai duro, è elastico, probabilmente per la gelatina inserita nella rete dei minimi filetti cristallini di silice, dai quali derivano le sue proprietà ottiche di trasparenza. — 61 — Nelle vere gelatine le parti molli si ingrossano nell'acqua, assorbendola per endosmosi. Nelle roccie cristalline vi sono molti cristalli. I metalli sono miscugli di cristalli e di sostanze amorfe, che non lasciano passare la luce e la as- sorbono o la riflettono. Per lo più le terre sono metalli ossidati. L'interna struttura dei cristalli non è in generale omogenea: essi sono divisi in magazzini, che contengono acido carbonico, ed alcuni liquidi ed hanno delle vescicole che si muovono da se. I cristalli si formano subito nell'acqua ipersaturata, quando vi sia un minimo frammento della loro specie. Il Thoulet professore di mineralogia a Nancy col signor Germez, preparavano, ad esempio, soluzioni ipersaturate contenenti del borace ottaedrico a 5 equivalenti di acqua, e del borace rombico a 10 equivalenti di acqua e poi vi immergevano corpi di diversa qualità senza che il liquido perdesse la sua purezza. Ma appena si poneva nella prima un minimo frammento di bo- race ottaedrico e nella seconda un minimo poliedro di borace rombico, la vita cristallina si cominciava, la temperatura si elevava, ed in pochi minuti tutto quanto il borace disciolto veniva cristallizzato. Sicché si può dire che ogni cristallo imita il tipo della sua famiglia. Nessun cristallo scende verso gli inferiori ; tutti cercano di innalzarsi, di ascen- dere a più alta Unità. E se non arrivano ad imitare le forme superiori, vi si avvicinano. Così il feldspato potassico triclinico si trasforma in monoclinico, l'assofìlite monoclinica diventa tetra- gona ecc. ecc. (Vedi Nuova Scienza, Voi. II, p. 94). II principio della inerzia o della eredità, lotta an- che nei cristalli, come nelle cellule, col principio — 62 — della variazione, secondo le circostanze valutate dalla Natura che si fa ossia dall'intima Unità. Soltanto la formazione e lo adattamento e perfezionamento dei cristalli sono molto più lenti e la loro vita è molto più semplice di quella delle cellule. Link vide che il principio di ciascun cristallo che si forma in una soluzione ipersaturata, sta in una vescicola più ipersaturata nella quale le molecole si concentrano meglio. Attorno alla vescicola si formano globuliti, mentre fanno i tre assi e le figure geometriche, rivestendosi di pareti. Dalla molecola integrante di Hauy, alla molecola fìsica di Delafosse, alla maglia cristallina di Bravais, si elevano, mediante il polimorfismo, a forme più complesse. I cristalli mutilati, se hanno la soluzione conveniente, si rifanno e si ripresentano intieri. Anche adulti, essi variano per la pressione, il calore, la luce, e sentono ogni variazione del- l'ambiente. Ma sempre e tutti si fanno dal di dentro al di fuori per virtù propria, per la tendenza ad unirsi ed a godere e non per le forze incidenti dall'ambiente, come pretende il falso Positivismo di Ardigò. La durezza, la conduttibilità del calorico e delle elettricità, la fosforescenza ed altre proprietà di- pendono dalla simmetria con cui sono disposte le molecole del cristallo. La opacità dei cristalli deriva da squilibri termici, da incipienti efflore- scenze e da disgregamenti molecolari. I minerali giovani sono molto diversi dagli antichi. La Petrografia è la Paleontologia dei Minerali. — 63 - I cambiamenti vitali delle rocce provengono dalia- tendenza di quello che è instabile a divenire stabile. Judd ha visto che esiste una perfetta gradazione fra le roccie cristalline (granito, diorite, gabbro), i tipi vulcanici (riobiti, basalti) ed i vetri vulcanici. La temperatura delle lave uscenti dai vulcani è di 2,000 gradi centigradi. Alla superfìcie si raffreddano, nell' interno restano semiliquide e vi- scose, solidificandosi mano mano che corrono giù per il declivio del monte, in masse vitree oscuredi cui la metà è silice (combinata sotto forma di sili- cati coll'allumina, col ferro, colla calce, colla magnesia, con la potassa, colla soda). Queste masse vitree mostrano al microscopio milioni di cristallini inci- pienti chiamati microliti. Ve ne sono anche di più grossi, formati nell' interno del vulcano, prima di essere eruttati, ma rotti dal magma infocato. Alcuni geologi scozzesi, inglesi e francesi ten- tarono di riprodurre artificialmente, da un secolo in qua, tali eruzioni vulcaniche. Daubrée, Fouqué, M. Levy scaldando i minerali al bianco abbagliante, abbassandone poco a poco la temperatura al rosso aranciato (punto a cui si fonde l'acciaio), alzando allora il crogiuolo sul forno e riducendo la temperatura al rosso ciliegio (punto a cui si fonde il rame) e ritirando poi dal forno, lasciarono tempo sufficiente alle molecole di cristallizzarsi (1) in serie. Ed ottennero in tal (1) A rinforzare quanto nella Introduzione dicevamosulla Unità della Natura, parliamo qualche minuto dei Cristalli formati fuori della nostra Terra. Chi guarda una Meteorite entrare nella nostra Atmosfera, a 60 chilometri di altezza, accendersi, correre 30 chi- modo la leucotefrite del Vesuvio, la onte dei Pirenei, i Basalti e molte altre roocie, della cui ori- gine ignea non si era ancora ben certi. Le più difficili ad ottenersi sono le roccie primitive acide che racchiudono quarzo, mica ed ortosi. Si è tentato recentemente di esperimentare i miscugli di detriti organici nella formazione dei Cristalli e si sono ottenuti degli accentramenti misti di forme nuove. Un sale in soluzione amorfa omogenea diede al prof, von Schrón di Napoli delle petrocellule che si riprodussero per endogenesi. Il prof. Dubois di Lione, depose sul brodo di gelatina dei cristalli di cloruro, di bario e di radio, e ne fece sorgere muffe e granulazioni pseudovegetali, che si dupli- carono. Hennequey di Parigi le disorganizzò presentandole al radio. lometri al secondo e talvolta il doppio, chi ascolta le de- tonazioni che ne succedono, crederebbe che si fondano. Invece alle volte si rompono, ma rimangono solidi e freddi nel loro interno. La più grossa cadde a S. Caterina nel Brasile e pesa 250 quintali : in termine medio non vanno oltre mezzo quintale. Tre quarti cadono nei mari; delle altre ben poche in terre coltivate. Le meteoriti ci mettono nella condizione di un generale che riesce ad impadronirsi di qualche prigioniero, e lo interroga su tutto quello che si è fatto nel cielo, perchè ogni minerale testimonia delle circostanze in cui nacque. Ebbene, questi avanzi condensati delle nebulose, hanno gli elementi delle primitive roccie Terrestri. Vi si trovano delle specie mineralogiche identiche, che possiedono i medesimi angoli, le stesse faccie nei loro cristalli, e sono spesso associate nel medesimo modo. La silice o acido silicico (tanto energico nelle temperature elevate), ci testimonia l'alto calore in cui furono generate le Meteoriti. Il Peridoto (il quale si forma allor- ché nelle officine viene ossidato il silicio) lo si trova an- Nel 1904 BurTce mettendo sopra uno strato gelatinoso del cloruro o bromuro di radio, guadagnò i primi Radichi, o microbi del radio, in uno, due o tre giorni. Crescevano fino ad Vìooo ^ m^~ limetro, mai di più, avevano nuclei oscuri, si segmentavano e si scioglievano nell'acqua. Il radioli distruggeva e finivano col cristallizzarsi. Ben si vede nella materia inorganica una ten- denza ad unificarsi sempre maggiore. Essa assuma aspetti diversi (come li abbiamo ora indicati) nei colloidi, nelle gelatine, nei vetri, nei metalli, nei cristalli : sempre la intima unità generatrice della forma cristallina, che dalla vescicola centrale dispone le molecole in contrasti elettrici, o della forma colloi- dale che fra le reti cristalline dà origine a gruppi elastici, o della forma pseudocellulare che fa muffe e granulazioni nei miscugli di detriti organici coi minerali, va assurgendo ad armonie speciali. che nelle meteoriti e nelle roccie profonde del nostro globo e può dirsi la scoria universale. La contestura soprafina delle Meteoriti rassomiglia a quella della neve, ed è do- vuta all' immediato passaggio del vapore di acqua allo stato solido. Come la neve, e malgrado la loro tendenza ad una cristallizzazione nettamente geometrica, le combinazioni silicato delle Meteoriti presentano cristallini confusi e minutissimi. Il silicio che sulla Terra ha bruciato, formando l'acido silicico, deve essere stato causa di un gran riscaldamento degli astri quando si combinò con l'ossigeno. Cuocendo il ferro fuso, per trasformarlo in ferro malleabile od in acciaio, l'ossigeno dell'aria brucia il carbonio ed il silicio ed una parte del ferro, producendo una scoria nera che contiene un Peridoto a base di ferro che ha V identica chimica costituzione e la medesima forma cristallina del Peridoto magnetico delle Meteoriti conser- vate nei principali Musei. Sono frammenti di vecchi corpi celesti, errabondi fra i sistemi stellari. — 66 — Sono le forme primitive, spesso non ancora ben -definite della vita, la quale diventerà poi libera e forte nell'accentramento Cellulare e più che mai nell'Organico. Ogni forza attrattiva della Natura è ministra di ordine, che parte dalle Unità senzienti, le quali non sono essenze incaliginate di una filosofìa nebulosa, non sono Concetti antitetici da conciliare, uè Indistinti che si vadano distinguendo colla di- visione delle forze come nello Hegelismo e nell'^lr- digoismo, ma sono intime cause di fenomeni e di atti della Natura che si fa coadunando, anno- dando, stringendo, godendo. Non è un lume pallido ed intermittente quello che mandano i mille fatti fin qui accennati della coesione e della solidarietà, ma diventa, raffron- tato con altri della Chimica, un cardine di principii naturali, dei quali la scienza del pensiero è tenuta a fare indagini nuove. Non si dirà, speriamo, che in queste pagine abbiamo fatto della cristallografìa, perchè nelle descrizioni e nelle misure degli angoli di questa non siamo entrati (e di goniometri e di polariscopi non abbiamo fatto alcun cenno); abbiamo soltanto passato in rivista le diverse tendenze della materia che si crede morta, stupida ed inerte alla finalità del piacere, all'esercizio sempre più elevato •e complicato della coesione geometrica. L'ascesa alle chimiche combinazioni La combinazione chimica è un perfezionamento notevole e graduale della Coesione. Diciamo graduale perchè prima si fa coi simili e poscia impara a sposarsi con altri elementi. Così l'ossigeno libero, il cloro libero, lo idrogeno libero, lo azoto libero, il silicio libero sono sempre appaiati in molecole di due atomi. Che l'energia chimica non derivi dagli urti di particelle solide o liquide è dimostrato dal fatto che la energia di qualsiasi elemento non sta in proporzione delle masse, e che i loro equivalenti meccanici sono enormi. Ad esempio se si combi- nano per formare 36,5 di acido cloridrico, un gramma di idrogeno con 35,5 di cloro, svolgono tanto calore da innalzare di un grado la temperatura di venticinque chilogrammi di acqua (come osserva Stallo). Non è certo per cause meccaniche che V azoto (il quale forma quasi quattro quinti dell'aria) resta sempre il più inerte ed il più indifferente di tutti gli elementi, non entra in alcuna combinazione se non vi è spinto dalla elettricità. Ed è sempre pronto ad uscirne, abbandonando i compagni. Non è per cause meccaniche che V Ossigeno si combina con quasi tutti gli elementi con grande facilità od ardore. Unito con poco più di un decimo di idrogeno fa l'acqua, così benefica in tutta — 68 — la natura. Ma unito coi metalli fa gli ossidi e le terre. Unito con corpi combustibili brucia, fa la fiamma del legno, delle candele, dell'olio, ecc. e forma e conserva e rinnova i corpi organici. Unito coll'azoto fa gli esplosivi, i cui atomi si spaccano, slanciano i projetti con velocità di chilometri per minuto secondo (2 la polvere di fucile, 7 ad 8 la nitro manite). Non è per cause meccaniche che il Carbonio e sempre un elemento di accentrazione, il quale con l'ossigeno, l'idrogeno e l'azoto serve a comporre i corpi organici, che vogliono continuamente scambiare i loro elementi. Non è per cause meccaniche che tutti gli ele- menti i quali si trovano in equilibrio instabile si combinano con ardore. La polvere da fuoco alla prima scintilla svolge un grande volume di gas acido carbonico, grazie all'azoto indifferente ed inerte, per cui l'ossigeno ed il carbonio si trovano in equilibrio instabile. E più ancora nella nitro- glicerina e nella dinamite. Non e per cause meccaniche che le combinazioni chimiche cambiano profondamente il modo di sentire e di operare dei loro elementi. Chi ravviserebbe nel sale di cucina, bianco, cristallino i suoi due componenti, vale a dire il cloro (gas giallo attivissimo) ed il sodio (metallo argenteo leggerissimo). Chi riconoscerebbe nell'acqua, composta per quasi nove decimi di ossigeno comburente, con oltre un decimo di idrogeno, combustibile, i suoi elementi ? Chi troverebbe nel quarzo che cri- stallizza in aghi esagoni trasparenti, il silicio nerastro ed il gas ossigeno che lo hanno formato? ~L'Ardigoismo venga un po' qui col suo Indistinto, col suo incrociarsi delle famose linee del tempo e dello spazio, e con la sua legge di formazione, dividendo la linea e suddividendo all' infinito. Non è,'col dividere, ma coll'unire che si trova piacere e si fa l'evoluzione. Lo Hegelismo spieghi un po' col processo antitetico dei suoi concetti universali e concreti queste combinazioni chimiche ed i loro effetti, dovuti evidentemente a modi diversi di sentire e di volere. Non è per cause meccaniche che le sostanze iso- mere, vale a dire composte della stessa qualità e del medesimo numero di Atomi, hanno spesso un modo diverso di sentire e di operare. Ad esempio il fosforo bianco è velenoso; ma, scaldato nel vuoto, fa il fosforo rosso, che è innocuo. Il cianato di ammoniaca è velenoso, mentre non lo è l'urea. Sono Isomeri molte glucosi e saccarosi, l'amido, il legno e la destrina. Se le cause meccaniche facessero le combinazioni chimiche, la atomicità o valenza degli ele- menti (che si può chiamare la loro dose di energia) avrebbe una legge invariabile. Questa fu supposta quando nel 1855 il compianto senatore Cannizzaro (allora professore a Pisa) provò che non esiste contraddizione fra la legge di Avogadro che determina il peso delle molecole e quella di Dulong e Petit che determina il peso degli Atomi. Ma la ipotesi svanì ben presto (1). (1) L'idrogeno ed il cloro valgono 1, l'ossigeno 2, l'azoto 3, il carbonio 4, e pochi elementi hanno una valenza superiore. Infatti il carbonio si combina con 4 atomi di idrogeno e con 4 di cloro, o con 3 di idrogeno ed 1 di cloro, o con 3 di cloro ed 1 d' idrogeno. Invece 2 atomi di ossigeno, che è bivalente, si combinano con 1 atomo di carbonio. Nelle sostituzioni la valenza ha importanza, p. es. 1 di azoto che è trivalente, può surro- Anche i pronubi delle nozze (che sono in generale il calorico e la elettricità) non danno il modo di predire le combinazioni. Quelle che si fanno sviluppando calorico, dette esotermiche, hanno meno energia della somma dei loro componenti, essendo rimaste esauste. Quelle invece che si fanno convertendo subito il calorico in elettricità, senza perdita, dette Endotermiche, hanno energia maggiore della somma dei loro elementi. Armstrong considera la chimica affinità come una Elettrolisi rovesciata, in cui l'azione è eguale alla reazione. L' intimo fattore delle formazioni chimiche pare sia la tendenza a formare più alta Unità: infatti garsi a 3 di idrogeno, oppure a 1 di idrogeno e 1 di ossi- geno. Se uno di carbonio sposa 3 atomi di idrogeno non è saturato, e può appetirne e guadagnarne un altro di cloro o di idrogeno. Sempre univalenti sono idrogeno, cloro, argento, ed i metalli alcalini terrosi. La valenza è di 1, 3, 5, 7 in alcuni gruppi, di 2, 4, 6, 8 in altri. Una combinazione non saturata serve di radicale per nuove combinazioni. La ipotesi delle leggi di Atomicità o Valenza svanì quando si vide che l'ossigeno non è sempre bivalente e si fa valere come tetravalente quando vuol combinarsi con elementi più pesanti e che l'azoto non è sempre trivalente, perchè nella Urea 2 atomi di azoto ne sposano 1 di car- bonio ed invertendo l'urea in cianato di ammoniaca la diversità aumenta con 4 di idrogeno. E si vide pure che il ferro vale 2 nel bicloruro e vale 4 nel bisolfuro; si as- sodò che il solfo, il selenio ed il tellurio valgono 2 con l'idrogeno e 4 negli acidi anidri e nelle anidridi, e si constatò che l'azoto ed il fosforo che in generale sono tri- valenti, in alcuni casi si fanno valere come 5. Anche il Carbonio che vale 4, quando fa l'ossido di carbonio, di- venta soltanto bivalente. i fermenti o catalizzatori le accelerano. La meccanica chimica è fondata sulle leggi di Newton che non sono meccaniche. I composti binari della chimica organica (idrogeni carburati), i composti ternari (alcool, olii, grassi, acidi) ed anche i quaternari (amidi, ligneo, aldeidi, destrine, gomme, gelatine, albumine) esi- gono lungo tempo per formarsi, moltissime essendo le loro molecole. Quando un tipo è formato, questo si ripete e si sviluppa in una lunga serie: p. es. il tipo dell' idrato di potassa, o quello dell' ammoniaca. Quando si presenta un tipo di formazione superiore, è imitato e moltiplicato. E questo prova il principio pitagorico dell'ascesa a più alta Unità per godere, insito in tutti gli Atomi. Se non si frappongono ostacoli, la moltiplicazione dell'azione chimica è continua. Così nelle fabbriche di acido solforico, pochissimo biossido di azoto basta a provocare l'unione dell' ossigeno dell' aria con grandi quantità di acido solforoso. Come è naturale le combinazioni chimiche du- rano e resistono quanto più sono semplici. Fra i minerali, i protossidi, le terre e gli alcali. Resistono meno i deutossidi, i tritossidi ed i perossidi nei quali 2, 3, 4 Atomi di ossigeno stanno congiunti ad un Atomo di metallo o di altro elemento. I sali poi, che sono composti di 5 o più Atomi, non resistono al forte calore : meno che mai i sali doppi. Appena 30 o 40 gradi centigradi bastano per danneggiare i composti organici, come è noto a chiunque : e per poco che si vada oltre i quaranta si distruggono. — 72 — La vita non sta mai nelle sostanze chimiche, ma nella morfologia, ossia nella capacità unitaria di fare funzioni ed organi, scambiando e dominando le sostanze chimiche. Perciò i chimici non arriveranno mai a fare nei loro laboratori nna cellula. Nondimeno l'analisi e la sintesi degli elementi organici si è ottenuta da mezzo secolo in qua sempre meglio, nelle sostanze meno essenziali alla vita. Berthelot sperava di arrivare a formare gli zuccheri. E. Fischer ottenne le sostanze zuccherine naturali semplici. Nessuno arrivò ancora a fare le albumine. Hegel definiva la vita e V idea arrivata alla esi- stenza immediata » ; sicché le forze fìsiche avrebbero, secondo Hegel, soltanto una esistenza mediata, ossia non esistono in se: non sentono, non sof- frono, non godono. Ma allora sarebbero esseri puramente passivi e quindi non esseri. L'Unità assimilafrice cellulare L'acqua alla sua superficie, di 1 /25000 di milli- metro, tende a colloidare. E sotto una atmosfera gravida di carbonio, e dopo che un vulcano abbia versato solfo e fosforo, nel periodo geologico Laurenziano, sembra che alcuni Atomi isolati di car- bonio si sieno combinati con l'ossigeno, con l'idro- geno dell'acqua e con un po' di azoto dell'aria, per formare i primi biomori o granuli invisibili, - 73 — i quali poi diedero origine al bioplasma reticolato, visibile eoi microscopio. Dal bioplasma si formarono i plastiduli ed i citodi che si sono concentrati in cellule. Concentrazione mille volte disfatta e mille volte rifatta forse, secondo le intemperie. Grazie alla intima tendenza delle molecole di formare più alta unità, e di accrescere e rendere durevole il godimento, acquistando capacità di fare moti volontari, tale concentrazione ha finito per durare. Da queste prime Cellule è uscita tutta quanta la Natura organica sopra la Terra. La forma sferica persistette poi in tutta la flora e la fauna allora quando, abbondando gli alimenti, si moltiplicarono rapidamente e si concatenarono, formando colonie di cellule. L'acqua rimane, anche negli organismi superiori, l'elemento necessario ed universale, perchè tutte le reazioni chimiche vitali avven- gono in essa, essendo essa composta, per quasi nove decimi, di ossigeno. L'acqua discioglie e mette in circolazione ed in conflitto le sostanze di ogni organismo, essa dissolve i sali in acidi ed in basi libere, come lo farebbe un forte riscaldamento, perchè libera il suo calorico la- tente (Gautier). E quando l'uomo stesso sente diffondersi sostanze inette alla vita, bevendo ac- qua si prepara ad eliminarle. — I sali, e specialmente il marino, o cloruro di sodio, rialzano lo scambio vitale, penetrando da per tutto, per la piccolezza delle loro molecole e determinando la solubilità o insolubilità di molte so- stanze proteiche. L'agente della vita non è una pretesa forza vitale staccata dagli Atomi; ma è Velevazione delle — 74 — Unità atomiche ad Unità più alta e a godimenti maggiori (1). Se si guardano le cellule dal punto di vista della Unità formatrice si intendono e si penetra nella causa che è la Natura che si fa; mentre, se si guardano dal punto di vista del molteplice materiale, non si hanno che dei frammenti slegati ed inerti. Delle prime cellule viventi ci può dare un'idea oggidì il protoplasma o parte sempre giovine delle piante. La cellula si forma unificando e restando una nella varietà. Infatti le molecole binarie, ter- narie o quaternarie della sostanza proteina del protoplasma (per la instabilità dell'azoto), sentono le variazioni di temperatura, e le vibrazioni elettriche e luminose, come la coesione e l'attrazione molecolare. Il protoplasma delle piante è colloide, viscoso, non traversa mai le membrane per diffusione, ed è formato da due o più sostanze albuminoidi (2), con acqua e sali. Non si scioglie nell'acqua, ma ne assorbe moltissima, e senza essa non vive. Si muove sempre ed ha granuli (3) che vanno alle pareti della cellula a prendere aria ossigenata (1) A questo innalzamento giovano molto gli accelera- menti dei processi chimici che sono cagionati per Catalisi, ossia per la presenza di una minima quantità del prodotto della combinazione bramata, che ecciti al piacere della sensazione superiore. (2) Una molecola di albumina ha 72 Atomi di carbonio al centro, che trattengono in un solo sistema sociale pa- recchie centinaia di Atomi di idrogeno, di ossigeno e di azoto. (3) Questi granuli sono per lo più di materie proteiche, però ve ne sono di grasse e di minerali — 75 — e luce ed a nutrirsi di polveri e fanno appendici come amebi, variando la vita a seconda delle cir- costanze, finché queste non sono troppo avverse. Nei nostri laboratorii si studiano le combinazioni in proporzioni costanti delle sostanze non più viventi, perchè le viventi variano troppo le loro combinazioni per essere osservate con sicu- rezza. Con l'acido acetico si scioglie il protoplasma delle cellule, ma non il loro nucleo. Il protopla- sma staccato dalla sua colonia è sempre morto, ed assorbe indifferentemente tutte le sostanze, anche il cloruro di sodio ed il nitrato di potassa. Ma quando è vivente, respinge queste e tutte le sostanze nocive, e non assorbe se non quelle che può assimilare, provando così che la Unità interna fa la vita, e che la struttura materiale, ossia la Natura fatta ne dipende. Infatti il protoplasma perde ogni irritabilità e vitalità se viene sottoposto all'azione dell'etere e del cloroformio, come se fosse un animale. Del protoplasma quattro quinti sono acqua, un quinto è formato dalla materia granulosa vitale della quale ora parleremo. Questa massa granulosa è sempre molle ed estensibile, ma non è densa se non attorno al nucleo. Ogni varietà di granuli si assimila le materie opportune. Senza sensazioni gradevoli o spiacenti, senza figurazioni non si sarebbero mai fatte le cellule del protoplasma. La funzione precede la struttura; ma il protoplasma rimane sempre allo stato ameboide. Una macchina a vapore è fatta dal di fuori, unendo pezzo a pezzo, come l'uccello fa il suo nido e il castoro la sua capanna; se viene guastata, non — 76 — si accomoda da se, non si provvede da se di ac- qua e di carbone, ed è indifferente se invece di carbone si ponga materia non combustibile sotto la caldaia, e se dentro questa si metta dell'arena invece di acqua, e se invece di vapori arrivi ghiaccio nel suo distributore. Ma il protoplasma si fa da sé stesso, come una società cooperativa, dal di dentro, per slancio delle energie chimiche, intente ad accrescere le loro sensazioni rudimentali di os- sidazione. Perciò è pronto a riparare una ferita, un danno. Non vi è una forza vitale particolare: ina tutte le forze fisiche e chimiche cooperano nell'ascesa alla Unità Cellulare. 1j assimilazione è una prima funzione delle Unità confrontanti, e sta nel fare (come lo dice il nome), simili alla propria cellula le sostanze diverse che incontra. L'azoto non serve se non come elemento indifferente, dando agli elementi attivi (carbonio, ossigeno, idrogeno e sali) la facilità di scomporsi e di ricomporsi, onde cambiare le molecole inerti e semplici in molecole operose e composte, ascen- dendo (se l'ambiente è favorevole) a maggior pia- cere di vivere. La cellula scompone le materie incontrate, trat- tenendo quelle che può appropriarsi, dando loro il SUO tipo, e respingendo od escretando le altre, conservandosi nella sua forma e nella sua chimica composizione, nella sua armonia, come un Tutto bene sistemato. Il protoplasma è una continua affermazione dell'Unità reale, ossia dell'Essere Uno, per se. Quando una cellula è ben nodrita e si gonfia, la Unità formatrice si raddoppia, divide le sue molecole in due segmenti, che diventano ciascuno eguale alla cellula madre, e così di seguito. Ogni cellula ha il suo nucleo, distinto dai granuli microscopici che lo attorniano. Il nucleo (nel quale ci è sempre un po' di fo- sforo) è una minima cellula interna centrale, con sugo alcalino e molti granuli, di cui il maggiore si dice nucleolo. Nella segmentazione (chiamata Cariocinesi) vi è un centro-soma, ossia corpo centrale, che fa un citoplasma (rete di fili colorati che contengono il protoplasma). Dal centro-soma cominciano, nel momento della segmentazione, i due Astri (Aster) o centri di fibre diramate verso la periferia e contenenti, nella loro rete, materie contrattili e sostanze nutrienti. Ingrossandosi queste, e formando un solco, la cellula madre si divide in due parti. Non vi sono genitori ne figli, ma la Unità del Tutto che determina le parti, si ripete vitalmente migliaia e milioni di volte. Questo processo di segmentazione continua nella nutrizione delle piante e degli animali. La Unità cellulare è una legge sociale, che si conserva in tutte le cellule derivate, con la stessa forza assimilatrice. La spiegazione meccanica qui è, non solo impotente, ma diventa assurda; giacche tutti sanno che dall' 1 al 2 non vi è frazione che possa condurre 1 +- V2 + 7^ -b 78 4- 716 ecc. ecc. Ed anche coi Differenziali, non si è mai trovata la costante degli Integrali. L'agente della Cariocinesi è la Unità sociale ereditata, il tipo assimilato?^ che sa conservare la sua identità in tutte le cellule che ne derivano, distinguendosi sempre dall'ambiente. Chi volesse vedere la vita incipiente non ha che a passeggiare lungo gli stagni. — 78 — Se si raccoglie in uno stagno una goccia di acqua, e se la si osserva col microscopio, si ve- dranno cellule non protoplasmiche, ma separate le une dalle altre; cioè Amebi privi di colore, che si muovono con lentezza e si nutrono di pol- vere vegetale, facendo una lunga digestione e rigettando il soverchio. I più sviluppati sono la Terricola, la Guttata, ed il Limax. Benché gli Amebi e le Molière non abbiano struttura, hanno sensazioni e volontà e rispondono agli eccitamenti. Guardando col microscopio la materia granulosa delle muffe, degli Amebi, non presenta cel- lule : è un plasma semifluido con granuli che as- similano e si nutrono. In questi, come in molti altri esempi, risulta chiaro che non è il tessuto che fa la vita dal di fuori al di dentilo; ma all'opposto, la vita, che è tendenza all'unità superiore e al piacere, funzionando dal di dentro al di fuori fa poco a poco le strutture. Il prof. Verwoorn studiò le cellule dei Protozoari, prima che divengano animali o piante, e vide che sentono gli eccitamenti, si nutrono, as- similano, escretano, si adattano all'ambiente, ed accumulano energia chimica. Cercano di acquistare materiali per rendersi indipendenti (ecco il principio della vita, l'opposto dello Ardigojano che fa sorgere gli individui per le forze incidenti dello ambiente) per rendersi indipendenti nel nutrirsi, nel respirare e nel lottare. Esse manifestano la facoltà di discernere quello che è utile da quello che è dannoso nel sistema di armonia che si ven- gono formando, in cui trovano piacere (1). (1) Nessuna bestia mangia erbe velenose. — 79 — Nella putrefazione della carne, nascono in un paio di giorni innumerevoli bacteri, i quali nel giorno seguente fanno cigli e flagelli, ed arrivano alla lungezza di i j iQQ o 2/ l00 di pollice; poi si gonfiano e seminano un liquido da cui nascono punti vivi, che diventano granuli e germinano i figli per segmentazione. In alcuni infusori il protoplasma si differenzia in parte contrattile e sensibile e parte digerente, che trasforma in clorofilla. In essi si vede la ge- nesi dei due regni animale e vegetale. Quando la parte nutritiva di una massa di cellule prevale sulla contrattile, sensibile, la vita ameboide si ri- trae in pochi punti e si rivivifica solamente nella stagione degli amori. Gli esseri inferiori assumono, a seconda dell'ambiente, il carattere vegetale o iL carattere animale. Ad es. le Euglene, benché provvedute di bocca e di apparato digerente, si nutrono come vegetali, prevalendo in esse la clorofilla. — I Protozoari o Protofiti non sono organismi, perchè cambiano di struttura: ma sentono il calore, la luce, l' umidità, il contatto, e si nutrono, si moltiplicano. Alcuni tastano, gustano, nuotano, vi- vono in società e spiegano i loro pseudopodi, ten- dono ad impadronirsi dei frammenti vegetali che trovano vicini. Sono i viventi più piccoli e più allegri e non hanno struttura visibile. I preludi delle azioni vitali sono per lo piùfatti dai fermenti. I fermenti, figurati o no, aiutano l'assimilazione nelle piante e negli animali, come Catalizzatori, accelerando o ritardando le reazioni, senza prendervi alle volte parte attiva,, come fa la polvere di platino nella fabbricazione dell'acido solforico. — 80 — I fermenti aerobi respirano l'ossigeno dell'aria. I fermenti anaerobi pigliano l'ossigeno senza contatto con l'aria, cercandolo nei liquidi dove si trovano. Ogni fermento è una vitalizzazione od unificazione (animale o vegetale) di succhi, e l'agente che li fa può essere solubile, ossia senza forma organica, ma la sua solubilità è però soltanto apparente. Ve ne sono in ogni protoplasma vivente; ce ne sono dei digestivi, degli idratanti, che sa- ponificano i grassi (come la steapsina) degli ossi- danti (come la laccasi) dei coagulanti (come la caseasi), degl' invertivi (sucrosi) che, se affondati nel glucosio, scompongono lo zucchero per cavarne l'ossigeno, sia nel mosto, sia nei frutti carnosi; se ne trovano anche nei germogli del grano e della barbabietola. Il fermento lattico inacidisce lo zucchero del latte; il mycoderma aceti ossida il vino e l'alcool, il mycoderma vini cambia l'al- -cool in acqua e acido carbonico, alcune muffe di- struggono aerobicamente lo zucchero e la celluiosi. Il lievito di birra, secondo le circostanze, è aerobio o anaerobio. Invece il butirico e la maggior parte dei bacteri sono anaerobi ; tolgono l'os- sigeno agli zuccheri ed agli amidi e fanno all'oscuro la loro sostanza albuminoide. Quasi tutte le terre contengono fermenti, i quali trasformano l'azoto dei concimi animali in azoto nitrico. Le terre di leguminose sono abitate da colonie di bacteri sopra le radici e nel 1886 furono descritte da parecchi biologi. Nel 1906 l'inglese Bootmley ha scoperto il modo di modificarli e di renderli adattabili anche ad altre piante coltivate, sicché ogni coltura diventerebbe capace di ingras- sare la terra da se, senza sfruttarla mai, come fanno adesso le lupinelle, i trifogli e le erbe me- — 81 — diche, utilizzando tutto lo azoto che fa quattro quinti dell'aria e sotto l'azione della elettricità investela terra arativa e fino ad oggi andava perduto. Si intravvede così la possibilità di rendere facile la coltura intensiva anche nelle terre inferiori. I batteri di radici non somigliano affatto a quelli di cui parleremo nel Capitolo seguente, ne a quelli di cui fu detto nella pagina precedente. Nei diversi modi di essere, di sentire, di operare delle Cellule, vi sono tre fatti che altamente interessano la filosofia, vale a dire il Dominio del nucleo sopra le parti circostanti, la Segmentazione che è chiamata anche Cariocinesi, e VAssimilazione, Il dominio del nucleo ci prova che le unità delle molecole e dei biomori accentrano il loro senso* rudimentale, facendo delle moltissime piccole Unità solidali, una Unità centrale. La segmentazione prova che questo governo centrale non riesce a dominare un molteplice maggiore, per cui allorché questo supera il numero di Atomi governabili, la solidarietà si divide in due cellule. Jj Assimilazione dimostra che la Unità centrale così formata, rende gli Atomi nuovi inesperti,, (che entrano con gli alimenti), solidali degli Atomi vecchi non soltanto, ma che li sa ridurre (come lo dice il nome) simili ai precedenti facendo le medesime chimiche combinazioni; e rigettando le materie inette ad essere vivificate. Ecco il vero principio della vita. Questa tendenza, differenziata in apposite funzioni, per diverse specie di cibi, formerà poi, negli organismi superiori, le-' funzioni digestive. Fatti che non si spiegano certo con le sole forze chimiche, e tanto meno con le sole forze — 82 — incidenti dell'ambiente, al modo Ardigojano ; ossia dal di fuori al di dentro; ma che sorgono dalla forza unitaria del piacere. E sono dovuti al grande progresso che ha ot- tenuto nella cellula la originaria tendenza a più alta Unità, e ad accumimare stabilmente il sentire e il volere degli atomi. Così avviene anche nelle società umane : p. es. la Repubblica Portoghese non fu fatta nell'Ottobre 1910 da forze incidenti, venute dal di fuori al modo Ardigojano per caso; ma dalla tendenza -a godere la libertà ed a governare dei cittadini più istruiti, irradiando dall'Accademia a tutta la Nazione la volontà e la forza che rovesciò la .Monarchia clericale dei Braganza. CAPITOLO VII. Come le Unità Cellulari si accentrano nelle Piante per godere l'amore Nelle grandi associazioni di cellule, le varie parti hanno sensazioni assai diverse, perchè la Unità generale del Collettivismo dà a ciascuna parte funzioni specifiche, e quindi si vanno for- mando differenti strutture. Però la chimica composizione è presso a poco la medesima. Questa è una prova palmare che le diverse tendenze e funzioni non dipendono da cause materiali. Ogni cellula dell'organismo (oltre la funzione nutritiva e la facoltà di segmentarsi in due) ha — 83 — una funzione sociale, che le viene imposta dalla collettività nell'atto della segmentazione. In generale le piante sono fatte da idrati di carbonio (amido, zucchero, grassi, albumine e clorofille). L' amido diventa celluiosi e legno, e nutre le piante dietro la luce che passa per le parti verdi o clorofille. Anassagora ed Empedocle insegnarono per i primi che le piante crescono per appetizione (éTuifruiila) e che la vita incomincia sentendo pia- cere o dolore. In generale le piante sono colonie o collettivi- smi di amebi protoplasmici che, facendo prevalere la parte nutritiva sulla semovente, si sono fatte delle costruzioni sufficienti a ricoverarli moltiplicati, per godere gli alimenti, l'aria, l'acqua, e la comodità di copularsi senza essere disturbati. In- vece di essere fatte dall'ambiente (come pretende lo Ardigoismo), cercarono fino dall'inizio di premunirsi e difendersi contro il medesimo. La natura che si fa cerca sempre di rendersi indipendente dall'ambiente. Noi vediamo le sole costruzioni e non i microscopici costruttori. Questi differenziano una parte del protoplasma in piccoli dischi di clorofilla con pigmento colo- rato in verde, per impedire la soverchia ossidazione dei carbonati e per moderare la propria respirazione dell'ossigeno. Della clorofilla due terzi sono carbonio, un sesto è ossigeno, 1' 11 °/ idrogeno, il B °/ azoto. Essa respira in modo contrario della parte animale delle piante, cioè assorbe il gas acido carbonico, ed emette l'ossigeno, e serve a proteggere gli amebi. Senza la clorofilla il protoplasma animale non resisterebbe al sole e si dissolverebbe sotto la pioggia. Le cellule o dischi verdi sovrapposte sopra le coste dei mari, fecero le Alghe ora in linee semplici, ora a lamine, ed ora a rami. Si ingrandirono, riunendo le tre dimensioni, e si ingrossa- rono, mentre il protoplasma animale ascendeva e le soluzioni saline col gas acido carbonico penetravano per endosmosi attraverso le membrane di celluiosi. Il protoplasma animale andava intanto concentrando il senso della coesione e delle chimiche combinazioni in modo sempre più perfetto, ed ar- rivava così a fare dei punti sintetici di amore ossia delle spore incipienti. Il diletto dell'unione si affinò e le colonie vegetali crebbero d' importanza. Come diremo nel Capitolo XIII, non si può chiamare memoria la riproduzione del collettivismo vegetale, perchè è piuttosto una legge sociale diventata meccanismo, come nella cellula la segmentazione in due cellule riproduce raddoppiata la cellula prima, per un modo di associarsi divenuto abituale a tutte. Le prime specie vegetali andarono così formandosi dal di dentro al di fuori. Alcune specie di Alghe crebbero fino a cento metri. E nelle prime Epoche Geologiche non vi furono altri vegetali che questi. Tutti sanno che le Epoche Geologiche anteriori alla Quaternaria, in cui noi viviamo, furono quattro, e che si dividono ciascuna in tre Periodi. Forse non tutti sanno che, ritenendo che, per i detriti delle roccie e le terre portate dai fiumi, il fondo del mare si alzi di un millimetro al se- colo (in termine medio) e misurando lo spessore — 85 — dei sedimenti sottomarini che, per le sollevazioni delle Catene montuose (1) vennero in parte portati alla luce dalla prima Epoca in poi, si calcola che sono passati 40 milioni di anni divisi così: PERIODI Nell'Epoca Primitiva o Arcaica Laurenziano — 10 Milioni di anni Cambrico — 6 » > Siluriano — 7 » » Neil' Epoca Primaria o Paleozoica Devoniano Carbonifero Permiano 12 Neil' Epoca Secondaria o Mesozoica Trias Giurese Cretaceo Neil' Epoca Terziaria o Ceiiozoica ) Eocene Miocene Pliocene (1) Una volta il sollevamento delle Catene montuose veniva attribuito a spinte verticali date dal magma centrale dal sotto in su. Elia de Beaumont, Machperson, Suess, Lapparent e molti altri, fra cui Federico Sacco, professore di Paleontologia nella Università di Torino, dimostrarono che deve attribuirsi invece al raffreddamento del globo, che obbligò la prima crosta a corrugarsi, facendo delle catene montuose per la j^ressione laterale. Ripetendosi la causa, si formarono molte catene parallele una sotto l'altra come nelle Alpi, nell'Himalaya, nelle Cordigliere delle Ande e nelle Montagne Rocciose : oppure 6 — 86 — In tutto 40 o 41 milioni di anni dopo le roccie primitive della scorza terrestre, e prima del periodo in cui viviamo (1). Quando le acque si ritiravano per l' innalzamento graduale di qualche costa, poco a poco le Alghe mandarono al fondo alcune appendici, che si tra- sformarono in radici. In pari tempo si andarono complicando e perfezionando gli organi della nutrizione, della re- spirazione e di difesa. Questi progressi furono lenti e graduali e sempre la Natura che si fa restò la parte minima, mentre la Natura fatta o meccanismo fu la parte una a distanza dall'altra in linee arcuate o diritte. E lungo queste Catene si sprofondarono i mari, il cui fondo, alle volte, veniva poi sollevato in parte. I vulcani trovansi sopra le linee soggette a movimenti più pronunciati. I terremoti avvengono dove il corrugarsi continua. L'eminente geologo prof. F. Sacco ha in molte memorie chiarito queste ed altre leggi di orogenia, e specialmente nell' « Essai sur l'Orogénie de la Terre», 1895, Turin. Clausen. Egli segue la nostra filosofìa pitagorica e desi- dera che essa venga accolta dalla maggioranza degli scienziati - anzi crede che questo dovrà verificarsi in un tempo più o meno prossimo. (1) Si crede che soltanto al principio dell'Epoca Terziaria cominciassero i ghiacci ai poli e sopra le più alte catene di montagne, ossia un milione di anni fa, dice il Falsan « La période glaciaire », pag. 221. Sicché per 30 milioni di anni la nostra Terra potè svi- luppare una vegetazione di paesi caldi. Ma i ghiacci si estesero in Europa soltanto quando il Sahara diventò un mare e quando cambiò il corso del Gulf Stream dell'Atlantico. E il clima mite nostro ritornò al disseccarsi del mare sahariano e al modificarsi della cor- rente calda dell'Atlantico dalle Canarie alla Norvegia ed all'America. — 87 — massima della vegetazione. Però la minima parte della Natura che si fa bastava a fare l'Evoluzione ed a dare origine a migliaia di specie diverse, sempre più rigogliose. Ancora oggi nelle Alghe Desmidie, nelle Diatomee, nelle Spirogire, tutte Alghe unicellulari e microscopiche, la copula è di semplice condensazione, e il protoplasma viene scambiato sotto la vecchia scorza e le fa ringiovanire. Per dare un' idea del numero immenso di queste semplici Alghe basterà dire che la scorza silicea delle Diatomee (numerosissime in tutte le acque dolci e salate del mondo), forma quella terra fina detta tripoli che serve a pulire i metalli. Benché una goccia di acqua contenga delle migliaia di* queste minime Alghe, pure il loro numero è così grande, che ne sono formati degli strati estesis- simi prima della Epoca Terziaria. Nelle Alghe composte di molte cellule si formarono le prime spore come centri dell'Amore. La filosofìa ha trascurato finora lo studio delle prime manifestazioni dell'amore, che tanti insegnamenti racchiudono. Le zoospore, animaletti microscopici, riuniscono in se la energia morfologica delle piante primitive, che non è Memoria come pretendeva Federico Deipino « La psicologia dell'avvenire » , ma è una legge sociale la cui sintesi s'impone nel protoplasma animale delle piante. Nelle più semplici Alghe Porfirie, le spore cadute si muovono strisciando come gli Amebi. In altre Alghe esse si riuniscono in gruppi di cellule ovoidi, con delle appendici vibranti, le quali, col fissarsi in terra e col segmentarsi, produssero i primi talli germinanti. Molte Alghe per le inondazioni morirono nella melma; ma dai loro frammenti privi di clorofilla, uscirono i Funghi composti di filamenti ramificati. Da quelle poi che erano più putrefatte si crede che siensi formati i Bacteri, i quali rimasero sempre minutissimi, ma si moltiplicarono assai, re- stando innocui finche vivevano all'aria (1). Nelle Alghe superiori cominciò la divisione delle spore in femmine ed in maschi. I due sessi si as- sociarono per fare gli Sporangi od Oogoni capaci di germinare. Nei posti dove le Alghe erano prossime ai Funghi si unirono con questi per formare i Licheni. Ma i Funghi ed i Licheni (essendosi dati a vita parassita) rimasero piccoli e deboli. Le Alghe Characee popolarono le acque dolci e gli stagni. (1) È noto che quando i Bacteri penetrano nel sangue di un animale ferito, avendo bisogno di ossigeno, ne alterano il sangue, producendo una malattia contagiosa. Sopra di essi venne studiato il processo di evoluzione con facilità, perchè ve ne sono di quelli che in due ore si raddoppiano, sicché in pochi anni si possono ottenere molte migliaia di generazioni. E così si vide che era possibile col variare la loro ali- mentazione e l'ambiente e di rendere innocue le specie più virulenti. Pasteur li coltivava nel brodo, che presto si altera e non si coagula che a 0° gradi. Roberto Koch di Berlino li coltivò nella gelatina, che si solidifica a 16 gradi centigradi e quindi nel clima di Berlino permette quasi tutto l'anno (meno il breve estate) di fissare i bacteri sopra una lastra di vetro in un sottile strato di gelatina e di osservarli col microscopio fornito del così detto « Mare di luce Abbe ». Il Koch arrivò così a scoprire i bacilli della tisi, del colera, della febbre gialla, della peste ; riformò la teoria Le Fucacee furono le più diffuse nei mari e formarono delle masse estese dette Sargassi. Al- cune Alghe come la Macrocystis arrivarono alla lunghezza di centinaia di metri. Le Alghe dei terreni che andavano asciugandosi, rese robuste, aspirando bene l'ossigeno, si trasfor- marono poco a poco in Muscinee o Muschi non più alte di mezzo metro. Nei Muschi acrocarpi le piante femmine producono degli archegoni o sacchetti in cui si sviluppa l'oosfera che, fecondata, fa l'uovo che germinerà, mentre le piante maschie fanno le anleridie o sacchetti dai quali scappano gli anterozoidi, che vanno a fecondare le oosfere delle sorelle. Dalle Muscinee vennero le Epatiche piene di spore, anch'esse per lo più divise in piante maschie con anteridie e piante femmine con gli archegoni, piene di acido malico, che attrae i maschi. delle infezioni ed ebbe numerosi discepoli, fra cui il nostro Gosio professore a Roma. Anche la muffa delle cantine (Pennicillum glaucum) le cui spore sono tanto minute che girano nell'aria, messa nel sangue di un animale senz'altro muore; ma, se viene coltivata ed abituata poco alla volta a stare nel sangue caldo, può far morire un coniglio in due giorni. I Bacteri sono a milioni nei paesi tropicali e in certi paesi sono cospersi o influiti da corpi radioattivi tanto da^ far luccicare le acque del mare. Se ne raccolgono molti di questi innocenti bacteri per farne in Germania delle lam- pade a luse verdastra-azzurra, le cui onde sono molto brevi, e si conservano senza rinnovare l'aria per parecchi mesi, permettendo di leggere i giornali di notte e di fare qua- lunque lavoro. Invece nei paesi assai freddi i Bacteri mancano, o sono pochi. Per questa ragione la carne degli animali uccisi si conserva benissimo nelle terre polari, giacche la causa della putrefazione delle carni non è il calore, ma sta nei Bacteri. Le proporzioni crebbero nelle Felci e nelle Preste. I vasi interni lunghi si moltiplicarono, per mandare in alto i succhi nutrienti e per formare edifìci e magazzini dove albergare e gustare la vita e l'amore, formando dei 'protalli. Alle Felci aventi spore, seguirono i protalli a Félce, con generazione alternante : l'una intenta ad accrescere la nutrizione, riproducendosi senza nozze; l'altra a gustare l'amore ed a migliorare la morfologia, mediante la riproduzione sessuale. Nella Età paleozoica le Crittogame avevano raggiunto proporzioni colossali anche ai poli : ma oggi si sono ristrette alle regioni tropicali. Nelle Preste dove i maschi erano separati dalle femmine, intorno al tallo permanente, ne sorsero altri più piccoli, a formare lo sporogono nelle Ofioglossee. Lo sporogono o sporangio, diventò il più gradito convegno di spore dei due sessi, e servì alla evo- luzione morfologica delle specie superiori, fino alle Fanerogame del nostro tempo. Dal periodo Devoniano al Permiano la vegetazione fu superba in Crittogame ed in Gimnosperme, soprattutto in Pini, mentre nessuna Angiosperma era ancor nata. Le Crittogame e Gimnosperme si svilupparono per milioni di anni e lasciarono, laddove si sono fossilizzate, il Carbon fossile, che contiene quattro quinti di Carbonio puro. Si restrinsero dopo il periodo Permiano e allora prevalsero le Conifere e le Cicadee. Nel Trias co- minciarono le Angiosperme. Dopo il periodo giurese prevalsero le Fanerogame, che prima erano piccole, e crebbero in al- tezza. — 91 — Fin dalle prime Ofioglossee il tallo dell'amore si era impiccolito e fatto incoloro e sotterraneo, e si moltiplicarono gli sporogoni o sporangi : il tallo poi fu ridotto quasi a nulla nelle Rizocarpee, mentre lo sporogono dominando si divise in spore maschie e spore femmine nei Licopodi. Finalmente nelle Fanerogame (Gimno ed Angiospermé) lo spo- rogono nascose il tallo facendo spore maschili o polline e spore femmine od ondi. Il protoplasma maschio non si organizzò più in corpuscoli, ma attraversò per endosmosi le pareti del tubo pollinico e andò ad impregnare i corpuscoli dell'ar- chegono. Le foglie dello sporogono furono trasfor- mate per la festa dell'amore in variopinti e vellutati petali, stami e pistilli, emulando le spighe a sporangio floreale delle Crittogame. Nelle Gimnosperme (conifere e cicadee) la macrospora, ossia il sacchetto embrionale contenuto nell'ovulo (macrosporangio) diede luogo ad un piccolo protallo che rimase nel- l'ovulo e ad un endosperma con archegoni, che il polline andò a fecondare; dopo di che YOosporo potè fare il granulo del seme. Il polline è un surrogato dell'anterozoide delle Crittogame e non ha l'aspetto di ainebo, ma ne ha la virtù, senza sforzare le piante a perdere la vigoria nutritiva; è un perfezionamento che fa godere l'amore senza perdere la robustezza. In questa lunga evoluzione degli organi sessuali riesce evidente che la psicogenia è fatta dalla sen- sazione piacevole e che la somagenia non è altro che un risultato della psicogenia ripetuta con per- severanza. La Natura che si faceva nelle foreste era la parte minima, ma era piena di vita allegra. Nelle antere, nei pistilli dei fiori è evidente la vita animale : sono relativamente caldi e respirano - 92 — più ossigeno che il resto della pianta. Uovulo ha molte cellule irritabili, il cui nucleo si segmenta e fanno il sacco embrionale, composto di due cellule che ricevono il polline, e sono nodrite dalle vicine : una di esse farà il germe con due cotile- doni che diverranno la radichetta e la piumetta. Nella Fanerogame la riproduzione è assicurata in tutte le parti giovani. I Protonti tendevano a fare un protallo sessuale permanente: ma non vi riuscirono: e già nelle Crittogame superiori e nelle Gimnosperme il protallo sessuale era stremato. L' indirizzo assunto dalla maggior parte delle specie vegetali fu quello invece di fare degli sprorogoni perpetui, nei quali per spore e per germorgli si gode una riproduzione più diffusa, benché i germogli non si stac- chino dalla pianta madre, come facevano le spore delle Felci. — Rosai, Viti, Ciliegi, Peri, Meli, Spine e migliaia di altre specie meno comuni nel clima temperato, si moltiplicano per germogli, quanto per semi - perchè spore o germogli di spore sono quasi dapertutto. In generale nelle piante attuali prevale la generazione agamica o la sessuale ; ed è rara la generazione alternante (fuorché nelle Conifere-vascolari). Nelle Fanerogame le parti giovani hanno sempre spore e possono germogliare ; tutti sanno che nelle Begonie persino ogni foglia fa germogli avventizi, capaci di produrre una pianta perfetta. Nelle Fanerogame il nodo del picciuolo delle fo- glie parte dal centro del midollo e dà la morfologia e la chimica delle parti che ne derivano, poco meno dei fiori. I fiori degli alberi corrispondono alle Meduse ed ai Polipi idroidi e si individualizzano, mentre i nodi e le foglie si riproducono senza nozze. — 93 — Nelle miriadi di specie erbose ci sono individui agami alla radice, e nel fusto : mentre in cima al fusto sorgono individui fiori. Il fusto risulta dai fusticini posti a capo uno dell'altro, tutti con ra- dichette, con fibre, con vasi, con trachee. Mirabile composizione, formata lentamente nell'ascesa a più alta unità del collettivismo di ogni specie. Nelle Piante (come negli Animali) il fattore delle maggiori trasformazioni fu l'Amore. L'ambiente, il clima, l'uso e il non uso degli organi influirono meno della sintesi goduta nei piaceri intimi della Natura che si fa liberamente. Dorhn variando Fambiente, vide che gli organi restavano a lungo i medesimi, ma le funzioni variavano subito ; poco a poco la funzione che era secondaria, diventava primaria, modificando in alcune generazioni tutta la struttura. Ed oggi il De Vries attribuisce la evoluzione delle piante a rapide mutazioni. La maggior cernita sta nelle mutazioni del si- stema riproduttivo, più che nell'adattamento al- l'ambiente: perciò la prima cura dei giardinieri (come degli allevatori del bestiame) è d' impedire Vincrociamento coi tipi vecchi e di somministrare all' individuo che si vuol variare una forte nutrizione. L'Embriogenìà, origine dell'individuo organico, è un raccorcio della Filogenìa, origine della specie, anche fra le piante. Nelle Fanerogame si tro- vano reminiscenze delle Thallofiti, delle Muscinee e delle Crittogame. Dove la pianta ha vita più attiva è aerobia ed animale, come nel seme che germina, nella gemma che si sviluppa, nella foglia che cresce, nel fiore che matura: e consumano molto ossigeno riscal- dandosi. I fiori assorbono in 24 ore tanto ossigeno quanto l'uomo (a parità di volume). — 94 — Le parti più vive sono sempre più azotater giacche l'azoto, essendo indifferente ed instabile, favorisce la decomposizione e la ricomposizione delle molecole a seconda dei bisogni. Queste parti sono le più calde e le più zoidi; però la parte animale delle piante resta sempre minima, benché diffusa. Le piante più attive, come la sensitiva, si affaticano e poi dormono. La Dionea chiude le foglie e stringe gli insetti in trappola. La Drosera segrega in pari tempo un vischio che li uccide e li digerisce. Sono le piante più azotate di tutte. — In tre piante insettivore fu scoperto nel 1900 da Huberland un vero organo del tatto, sopratutto nella Mimosa pudica. Nel 1904 Kollwitz vide il principio di una struttura nervosa anche in altre piante. F. Hook attribuisce alle piante anche sentimenti e volizioni (1). La lenta Evoluzione delle varie specie di piante compiuta in milioni di anni nelle Epoche geologiche indicate fin qui, smentisce affatto gì' influssi delle idee- eterne del Platonismo e dello Hegelismo e più ancora la pretesa formazione naturale dell'Ardigoismo, che avverrebbe per lo incrocio della linea del tempo nei punti dove si tagliano le tre linee fra loro perpendicolari dello spazio e prova la verità del Pitagorismo, dimostrando che le piante si sono formate per sensazione e volontà, cercando ed ottenendo il godimento e la moltiplicazionedelie spore e dei germi di riproduzione. In generale le radici sono coperte di uno strato di cellule piene di aperture, le quali (quanto più si trovano verso la punta), assorbono per endo- (1) Sind Pflanzen und Thiere beseelt? 1906, Lipsia. smosi i succhi minerali disciolti. L'acqua passa più presto del fluido denso che empie le cellule e dietro essa i succhi minerali e sopratutto la soda vicino al mare e in terra ferma soda, potassa, calce, silice e talvolta il ferro. Darwin as- somigliava le radici a talpe, che volessero andare a cercare il cibo sotterra e col muso procurassero di stendersi nel terreno umido e grasso, evitando i sassi e all'occorrenza sciogliendoli nell'acqua un po' alla volta. Alcune arrivano, perseverando, a sciogliere marmi e silicati. Il moto di circumnutazione di queste radici sembra fatto dalla intelligenza, per evitare o superare gli ostacoli; poco sopra delle punte vi sono dei peli, che assorbono sempre succhi minerali. Nei fusti e nelle foglie il protoplasma fa un moto di circumnutazione che si alza la sera e si abbassa la mattina, ed è forte sotto i tropici* giovando a diminuire l'irradiazione notturna. L'energia della pianta viene dalla combustione in piccola parte, ma assai più dal sole ; perchè i suoi cibi sono inossidabili ed inerti come lo sono l'acqua, l'acido carbonico, i nitrati ed alcuni sali e quindi incombustibili. Ma la luce fa operare la clorofilla, che aspirando il gas acido carbonico, lo scompone e rigettando l'ossigeno (1) mette il carbonio in grado di far zucchero, amido, grassi e albumine, e anzitutto l'amido (C6 H10 O 5 ) e la glucosi (C6 H12 O 6 ); poi anche molecole azotate, (1) Di notte la pianta vive come un animale assorbendo cioè l'ossigeno ed emettendo carbonio. Una foglia, re- stando all'oscuro, prende in un giorno circa 8 volte il suo volume di ossigeno, mentre l'uomo ne prende 14 vo- lumi ed un passero 200 a 260. pigliando l'azoto dalla terra e non dall'aria, ossia pigliandolo dai nitrati. Con questi elementi saturati incombustibili la pianta fa molecole combustibili non saturate e cariche di energia. Lo sviluppo della clorofilla comincia nei punti gialli dei cotiledoni chiamati leuciti, che alla luce fanno diventare verde il loro pigmento. Sono glomeruli che dal calore del sole e dalla luce assumono l'energia termico-elettrica, trasformandola in energia chimica che assorbe il carbonio. Ogni specie ha una clorofilla apposita, e ad esempio negli spinacci è fatta di C 40 H62 A2 O 4 , nella erba medica G 42 H63 A2 O 4 . Nelle piante acotile- doni è ancora assai diversa. Assorbendo il carbonio, i glomeruli verdi formano le aldeidi, gli zuccheri, gli amidi, i corpi grassi, il tannino e le materie albuminoidi, con un lungo e fecondo lavorìo. Negli albuminoidi, oltre al carbonio e agli elementi dell'acqua e dell'aria, entra sempre qualche po' di solfo e alle volte anche di fosforo: elementi accentratori, che vedremo cre- scere negli animali e di cui vi sono traccie già nei nuclei delle cellule degli amebi e del protoplasma. L'acqua col carbonio fa l'aldeide più semplice, il quale polirnerizzando fa lo zucchero. I fermenti della cellula, sotto la luce del sole fanno nelle foglie zucchero ed amido. Tenuto al- l'oscuro l'amido si cangia in celluiosi o mucilaggine. La celluiosi è una sostanza idrocarbonata insolubile negli acidi e nelle basi (che sotto l'in- fluenza degli alcali può tornare amido) con cui si fanno le parti più solide delle piante C 12 H10 O i0 . Le piante prendendo l'azoto non dall'aria, ma dalla terra, riducono i nitrati ad acido cianidrico. — 97 — Nelle sementi a lungo private di qualsiasi umidità i gruppi di cristalli poliedrici delle aldeidi, gruppi (che si chiamano i miceli) si toccano. Mase penetra l'acqua, si rianimano ossigenandosi, e, se la temperatura è dolce, germogliano. Mettendo del grano di frumento nell'acqua te- pida, non si cambia il suo amido finche non germina. Ma appena principia a germogliare, l'amido si idrata e si trasforma in glucosi. Ed ora veniamo alle analogie interne fra le piante e gli animali. Il liquido assorbito dai succhi digestivi in cui le radici hanno trasformato i sali ed altre sostanze minerali ascende nel fusto, sciogliendo alcune so- stanze che trova nel passaggio e diventa linfa. Quanto più questa ascende, tanto più diviene densa. Essa forma dei canali o arterie capillari, nei quali scorre, attratta dalle gemme sbocciate sul fusto, ed arriva agli stomi, ossia alle bocche delle foglie, dove si ossigena, evaporando l'acqua. Da queste foglie il succhio ridiscende sotto la corteccia, divenuto latice (piccolo sangue, di cui la parte essenziale si coagula, come il sangue ani- male). Come latice empie i canali laticiferi ramificati dal parenchima, e fa, nelle fibre allungate, il così detto Libro. Il latice è pieno di granuli vitali, che, come i globuli del sangue, circolano e depongono il nutrimento nelle varie parti, fino alle radici e nel midollo, formando quel deposito di materie nutritive che sta fra il legno e la corteccia delle piante dicotiledoni, chiamato Cambio. Nelle piante monocotiledoni mancano le gemme laterali, e le fibre del libro ed i vasi laticiferi sono contenuti nei fasci fibrosi vascolari arcuati — 98 — sparsi nel fusto. E perciò nelle monocotiledoni il cambio si deposita in masse sparse. La gemma terminale unica di queste Monocotiledoni approfitta del succhio elaborato dalle foglie precedenti ; e così avviene anche nelle Acotiledoni vascolari. I vasetti laticiferi abbondano presso le ghiandole e sopratutto in quelle della resina e delle gomme sotto la corteccia. Vere ghiandole sotto l'epidermide sono quelle dell'arando, del mirto, della ruta, che secernono olii volatili. Le ghiandole interne ed opache son fatte da peli gonfiati, come nelle ortiche. Le materie resinose, la cera impermeabile all'acqua sono vernici utilissime, le quali moderano la evaporazione, e non sono escre- menti. Così nei pini, nei pioppi, nei castagni d'India. Nel Chili e nel Perù quasi tutti gli arboscelli hanno il trasudamento resinoso, perchè il clima è asciutto e senza di esso svaporerebbero troppo i succhi : la polvere di cera segregata da peli glandulosi copre le foglie dei cavoli ed altre specie, le prugne, le uve, ed altri frutti. Molte piante sommerse nell'acqua si rivestono di uno strato vischioso che impedisce all'acqua di macerarle. Le resine e le gomme non sono escrezioni: lo sono invece quelle •che escono nelle radici dai fiocchi gelatinosi. F. Loed (The dinamics of living matter, 1906, .New-York) considera ogni organismo come una macchina chimica, di colloidi; ma non può spiegare l'assimilazione e la morfologia senza Vunità senziente collettiva, che provvede ad ogni bisogno interno ed esterno delU piante. Le albumine vegetali sono eguali a quelle animali. Tutte si coagulano a caldo, tutte reagiscono del pari agli acidi, alle basi ed ai sali. — 99 — Le globuline vegetali o Edestine, sono fatte per metà di carbonio, per un quinto di azoto, per quasi un quarto di ossigeno: il resto è idrogeno, con pochissimo solfo. I bacteri che (come dicevasi nel Cap. VI) in- grassano le piante sono fatti di una globulina so- lubile nell'acqua chiamata myco-proteina. Le caseine vegetali (tutte insolubili nell'acqua) fanno il glutine e sono affini alle legumine estratte dai legumi. II protoplasma è alcalino, ma il liquido che lo circonda è acido trasparente. Le fibrille vive pulsano, e nei vacuoli si depongono sali, acidi, zuccheri, grassi, amidi, tutti len- tamente segregati. Le glucosi formate nelle foglie di un albero, scendendo nel cambio sotto la corteccia del fusto, e poi nelle radici, perdono la loro acqua, e vanno depositando l'amido insolubile e la celluiosi. Rie- scono polimerizzando a fare alcuni principii aro- matici. Una parte importante l'hanno i fermenti. Dove la pianta cresce presto, lo si deve a fermenti ossi- danti detti ossidasi. Ossidando molto le aldeidi si ottengono gli acidi. Nelle sementi del papavero, del ricino, della canapa, del fico, del lino, della veccia, del granturco, ci sono le steapsine che sa- ponificano i corpi grassi ed idratano. Nel latice della pianta a lacca del Giappone ed in molti Funghi vi è la laccasi, fermento che provoca la ossidazione dei tessuti ed agisce sui germogli e fu trovato anche nella Dahlia e nella Barbabietola. Wiirtz trovò la papeina, fortissimo fermento in altre specie vegetali. Vedremo negli Animali quante funzioni vengano attivate dai fermenti. I fenomeni vitali aerobi, distruggono nelle piante, come negli animali, i grassi, gl'idrati di carbonio, con lenta combustione, che riscalda alquanto le cellule. Da per tutto dove si moltiplicano le cellule in- terne e si organizzano, vi è combustione e riscal- damento, emettendo gas acido-carbonico ed acqua, precisamente come si verifica in un animale. Le diverse funzioni interne delle piante che abbiamo indicate sono dunque analoghe a quelle di certi animali inferiori (meno la clorofilla o parte verde). Non siamo entrati nella Botanica descrittiva, limitandoci ad investigare la Natura che si fa delle Piante, le cause intime della loro formazione ed evoluzione. I Botanici si arrestano quasi sempre alla Natura fatta delle Piante e trascurano la Natura che si fa. Questa invece interessa altamente la Filosofìa della Natura, perchè presenta una serie ricchissima di fatti, che ci convincono che la parte materiale dei Vegetali è la persistenza ereditata dei movimenti funzionali che, molte volte ripetuti, diventarono strutture ed organi. Dalla psiche del Proto- plasma, non già dall'Inconscio Indistinto, né dal caso, uscirono tutte le funzioni : e tutte le forme mirabili della vegetazione universale, le cui centinaia di migliaia di specie abbelliscono la faccia della Terra. Tutto si è fatto dal di dentro al di fuori, all'opposto di quanto insegna VArdigoismo. « E questo fia suggel ch'ogni uomo sganni ». Origine psichica delle specie animali Ogni forza nella sua intimità, lo abbiamo visto fin qui nella Natura inferiore, è sentire e volere: sentire il contatto delle cose esteriori portate nella propria unità; e poi volere l'allontanamento di ciò che fa male e l'avvicinamento di ciò che fa bene : e giova a sviluppare la propria vita ed a renderla indipendente. Quindi ogni forza organica ha la sua finalità, benché si manifesti come Materia. La Natura che si fa era, ed è ancor sempre nelle specie vegetali ed animali sentire, desiderare e volere. Il sentire precede il desiderio, il volere e il muoversi lo seguono. Negli animali più che nelle piante si manifesta la causa evolvente, cioè la tendenza di elevarsi a sensazioni più armoniche, ad unità più complesse, operando e dominando in relazione. « Et mihi res, non me rebus submittere amor ». Orazio. Nel processo chimico la distruzione provoca a rimettersi; nel processo morfologico la Vita è la evoluzione a forma più alta, e più sicura di dominare gli ostacoli. Se fosse un mero processo chimico di combustione, si potrebbe mantenere la vita nei membri mutilati degli animali superiori, di cui si può conservare per alcune ore la digestione, la respirazione, la circolazione del sangue e la secrezione delle ghiandole. — 102 — La formazione lenta e perseverante degli Organismi per fuggire il dolore e procurarsi il piacere è universale. Essa fa le funzioni e le consolida in organi, dapprima deboli e semplici, poi, con l'esercizio, vieppiù complicati e robusti. La funzione è la distribuzione della forza che un organismo oppone a quanto inceppa il suo libero sviluppo, ossia lo sviluppo del piacere. Il materialista crede che le Turbellarie non re- spirano, perchè prive di branchie, che i Polipi non sentono, perchè non hanno nervi, che gli Insetti non hanno circolazione perchè non hanno arterie, né vene; ossia credono che la funzione dipenda dall'organo, il quale organo poi si sarebbe fatto miracolosamente per virtù dell'ambiente. Invece secondo Schelling, Hartmann si sarebbe fatto per virtù dell'Inconscio, Indistinto, Infinito, secondo Ardigò da tutti e due. Ma il zoologo filosofo sa che le funzioni prive di organi si compiono meno bene, ma si compiono : e che ci vuole molto tempo a fare gli or- gani. La vita intensa non si manifesta se non quando le materie azotate si scompongono, per ricomporsi con atti Unitari Morfologici, che ordi- nano le funzioni e formano poco alla volta gli organi. Le correnti interne delle Monere fanno le prime appendici e la contrattibilità: esse non hanno ah tro organo della volontà che i così detti falsi piedi, formati dal loro protoplasma esterno viscoso : e quando hanno finito di muoversi, li ritraggono nella massa comune. I cigli permanenti principiano negli Actiniferi ed irradiano da un centro. Nelle specie superiori degli Infiisorii (1) si riuniscono in una coda, detta flagello (anche le spore delle Alghe verdi hanno cigli vibratili). Le larve dei Celenterati ne sono coperte. Engelmann distinse i moti degli Amebi, che sono sarcodici o ad appendici brevi, o fila- mentosi, dai moti oscillanti dei Bacteri. Gli animali sono in generale assai più azotati delle piante; e quindi di composizione più instabile, più facile ad adattarsi alle nuove circostanze e tendenti a dominarle. La loro psicogenia fa la somagenia più presto che nei vegetali. Dalla gelatina che è Valfa delle materie proteiche, essi arrivano in poco volgere di tempo a far Valbumina che ne è Vomega. L'albumina, con 14 elementi diversi, forma molecole composte di centinaia di Atomi, la cui struttura si presta alle più diverse funzioni, grazie alle isomerie, per le quali (con l'aumento di Atomi della medesima specie nella stessa molecola (polimerie) oppure con la metameria (che lascia lo stesso numero di Atomi di ogni specie, cangiandone soltanto la disposizione) si ottengono nuovi adattamenti all'ambiente e nuove forze per svilupparsi (2). (1) Fin dal 1848 il prof. Ehrenberg di Berlino scoprì 400 specie di Infusori microscopici che vivono in diversi strati dell'atmosfera, ed altre centinaia se ne scopersero poi, di una piccolezza tale da essere invisibili, nella pioggia, nella nebbia, nella neve, nel mare, negli stagni. La vita ani- male pullula dapertutto dove vi è ossigeno, anche in forme minutissime. Ci sono animaletti che si muovono con molta alacrità, sanno evitare gli ostacoli che si oppongono al loro corso : i grossi vanno a caccia dei piccoli. Se ne sviluppano molti nelle infusioni fredde o macerazioni vegetali. (2) Queste materie proteiche vengono nei Laboratori delle Università, cimentate con l'idrato di barite, con poco risul- tato, perchè l'albumina morta non è più capace di nulla. La sintesi piacevole o dolorosa guida l'animale a fare le funzioni più adatte, trovando mezzi migliori, e respingendo, abbandonando i meno utili per nutrirsi, per respirare, per muoversi e per riprodursi. L'organo deriva dalla funzione, la quale (come dicevamo) si compie anche se gli organi sono di- fettosi o mancano del tutto, benché allora si compia meno bene. Così distrutti i reni, l'urea viene estratta dal sangue nella superficie mucosa dell' in- testino. Quando una funzione comincia a localizzarsi, è sempre confidata ad un vecchio organo leggermente modificato. La Natura che si fa, tende sopratutto a modificare opportunamente la Morfologia. La formazione degli organi di relazione e so- pratutto degli organi dei sensi, ci mostra che una continua crescente attenzione a determinati scopi fu rivolta dai più semplici animali. Le successive accumulazioni di energia e di abilità acquisita, benché piccole negl'individui, da- vano una grande somma, dopo una lunga serie di generazioni, con la legge ben nota della diminuzione del lavoro biologico generale a vantaggio di un organo particolare. Furono certamente figurate con perseveranza le varie maniere di difesa che si fecero animali di scarsa intelligenza. Quando un atto nuovo, per speciale combinazione, è trovato utile, i più stu- pidi animali arrivano a farne una funzione, e ri- petendola per varie generazioni in favorevoli cir- costanze un organo efficace. Così i Bagni in ori- gine segregavano un liquido viscoso per farsene bozzoli ; ma discendendo dalle frasche mentre il vento li gettava sui rami prossimi, videro che ri- - 105 — tornando più volte al primo ramo ed incrociando i fili, pigliavano mosche, finche impararono a far reti geometriche, che all'aria si induriscono. Alcune Formiche, il Bombardiere, alcuni Scarafaggi videro che getti e spruzzi loro servivano ad allontanare i nemici e ne appresero l'arte. La Seppia imparò ad intorbidare le acque. Le Torpedini del Mediterraneo, i Siluri del Nilo e del Senegal, il Gimnoto dell' Orenoco ed altri Pesci, con apparati nervosi pieni di cellule prismatiche di gelatina, si fecero delle batterie elettriche con le quali danno scosse violenti a chi li insegue. In un Vademecum destinato alle persone colte in generale, per far meglio intendere la multiforme attività della psiche, che va facendo e moltiplicando ogni specie, ci sembrò utile di dare alcuni esempi caratteristici. Se una divinità inconscia presiedesse alla evoluzione degli organismi o se questi fossero fatti dalle forze incidenti dell'ambiente (che YArdigò, seguendo lo Spencer, crede tanto influenti), non sarebbe vero il fatto osservabile in tutti gli ani- mali e nell'uomo stesso, che le funzioni fatte con coscienza e ripetute, rendono i moti più facili e più coordinati, omettendo gli inutili, per insistere sugli utili, con teleologia sempre più chiaroveggente, interna dell'animale e non esterna dell' Inconscio cosmologico universale. Quando la funzione, ripetuta per alcune generazioni, ha formato sarcodi, muscoli, nervi e moti riflessi, cessa il lavoro di convergenza che atten- deva ad un determinato progresso morfologico : la coscienza se ne ritira, dirigendosi a soddisfare nuovi bisogni; ma la coscienza e la convergenza ritornano sopra quei punti, quando cambiano le — 106 — circostanze, e l'animale tituba sul da farsi, e deve fare nuovi movimenti e quando impara un mestiere. La convergenza assomma le Unità senzienti come un fiume assomma le acque di tutta una valle. La convergenza della Natura che si fa, trova i moti migliori e li combina. La Natura fatta delle cellule associate per fare i moti nuovi, dopo averli imparati, li continua come una macchina, come i soldati, dopo aver imparato l'esercizio dagli uffi- ciali, li continuano da se soli e li ripetono centinaia di volte facilmente. E questo meccanismo si fa poco a poco, perchè, con la semplice ripetizione di un movimento, l'ani- male, sente fortificarsi i muscoli che contrae, le ossa sulle quali i muscoli si inseriscono, ed i centri nervosi che li eccitano. Un animale superiore racchiude in se milioni di sensazioni delle sue cellule dei suoi organi, che egli, nella sua vita conscia generale, non avverte. Se le sentisse sarebbe confuso, come un generale condannato ad udire i discorsi dei suoi gregari. La cenestesia o sentimento comune, accentra le Unità organiche e fa la sensazione interna sintetica, che ^impone di esercitare o di trascurare le funzioni. È un tatto interno, che sente la vita scorrere nei visceri, nelle membrane mucose, nelle ghiandole, nei muscoli, nelle arterie, nei polmoni, nelle articolazioni, nei nervi: è, come vedremo nel Capitolo XIV, la base dell'anima giacche ne fa i sentimenti, le sensazioni, i ricordi e le voli- zioni : base psichica, che viene dalle singole unità delle cellule e degli organi e non dall'ambiente, ne dall'Inconscio, Infinito, Indistinto. L'eredità ci dà gli organi, senza che il neonato sappia ancora farli funzionare : la coscienza degli antenati li ha fatti poco a poco, ma facilmente l'animale diventando adulto impara ad usarli. La funzione va presto nell'animale nato da poco, da se come un meccanismo : senza nuove aggiunte: finché non cambino le circostanze e non sorgano ostacoli impreveduti. Per modificare le funzioni ci vuole la coscienza, l'attenzione, la Natura che si fa, la sìntesi chiaroveggente, gaudente o sofferente. Essa per fare dei cambiamenti minimi esige un grande lavoro, come osserva il Pouchet, mentre il lavoro della psiche inconscia, passiva, che va come un meccanismo, ossia della Natura fatta, non spende energia visibile, perchè si fa per con- vergenze particolari, minute e locali, senza cercare nuove combinazioni. I vantaggi acquisiti da poco tempo, si perdono, se non sono conservati e rafforzati coll'esercizio, e se la Volontà li abbandona, gli organi si atrofizzano. La selezione fatale per la sopravivenza dei più adatti a vivere in un determinato ambiente (the sunnvance of the fittest) propugnata da Carlo Darwin esigerebbe molti più milioni di anni di quelli che attesta la stratificazione dei sedimenti geologici. Quindi bisogna con Naegeli dare molto maggiore importanza alle cause intime, alla Unità noumenica, ossia non fenomenica, la quale sentendo, desiderando, volendo, cambia le funzioni e le perfeziona. Romanes ha mostrato che VAmore ha separato le specie animali, perchè, fra certe famiglie si stringevano alleanze, che escludevano gli altri, e — 108 — le isolava; cosicché alla fine, le nozze con altre famiglie restavano sterili. Infatti la prima cura degli allevatori è eli impedire l' incrociamento delle nuove varietà coi vecchi tipi. — La figurazione amorosa, separando ed isolando, fece e fa le specie nuove. La umana imaginazione è una piccola parte delle combinazioni di imagini e di sen- sazioni che ebbero gli Animali, e sopratutto di quelle relative al miglioramento delle proprie condizioni e dei propri organi ed alle scelte sessuali. Sembra che le modificazioni degli animali su- periori sieno avvenute bruscamente, nell'ovario o nella prima fase dell'embrione, quando erano state lungamente richieste dalle circostanze e vi- vamente figurate e bramate dai genitori. L' imaginazione della madre ha la più grande influenza sull'Embrione, non soltanto nel concepirlo, ma anche quando si va svolgendo nel ventre, come lo provano tanti fatti di cui alcuni ne ci- teremo in seguito (molti somigliano a mostruosità). Ohi guarda le miriadi di specie minute resta meravigliato di vedere come siensi fornite di organi così diversi, così opportuni per la vita, nelle fo- reste, sui monti, sul mare, sulle acque dolci, correnti o stagnanti. Gli Insetti che volano hanno valvole pulsanti sparse in tutto il corpo e perfino nelle zampe, ed un intricato sistema di vasi e di tubetti secretori che fanno sughi gastrici e in al- cune specie (numerosissime sulle rive del fiume Orenoco in America) veleni per i nemici. GÌ' Insetti hanno foggiate le membra loro a mille usi per afferrare o masticare i cibi, per succhiare od incidere le piante e le carni (mandibole, palpi labiali, proboscidi, trombe, lancette). Alcune specie, come VElater tropicale e le nostre Lucciole, sono fosforescenti e la fosforescenza è dominata dalla loro volontà. Il verme di acqua dolce fa le branchie dalla pelle; il Crostaceo phyllopodo le fa dalle zampe. Nel Gambero gli anelli sono assai diversi : gli uni portano antenne, i seguenti mascelle, zampe e l'addome. E tra le zampe, ve ne sono di ambulanti, di prensili, di respiranti e di natanti. Tutti conoscono molte specie di Molluschi, le quali si fecero un mantello, emettendo, a lamine di carbonato di calce, una Conchiglia del colore del mantello, piccola casa portatile. Così gli Uccelli fanno le uova con guscio calcare. In generale le parti mediane cambiano difficil- mente. Invece le estremità vennero adattate fa- cilmente in tutta la Fauna ai nuovi bisogni, quando duravano per varie generazioni. Il graduale innalzarsi (con sentimento, desiderio e volontà) delle specie animali, fu studiato da C. Darwin e da Haeckel e tenteremo di darne le linee principali (per quanto si può in un paio di pagine), onde mostrare l'efficacia delle leggi generali di evoluzione sopra esposte. Haeckel, con mente scrutatrice e geniale ha li- brato i fenomeni della Embriologia e le testimonianze della Paleontologia, dando un quadro approssimativo della generale evoluzione morfologica dalle prime colonie di cellule. Dai Polipi idroidi derivano le Meduse e stac- candosi, formando la testa, gli Anellidi. Gli Articolati (Anellidi, Miriapodi, Insetti, Ragni e Crostacei) saldarono i loro muscoli ai tegumenti esteriori, che in principio erano semplici indurimenti della pelle e poi si coprirono di chitina. — 110 — Come dagli Articolati venissero i Molluschi non è deciso, vi sono due spiegazioni. (Vedi Capitolo XIII). Dai Molluschi si staccarono i Tunicati, animali assai piccoli, per la tunica a sacco, nella quale chiusero le branchie, gl'intestini, il cuore, ed i vasi sanguigni (Ascidìe, Bifore, .Pirosome, ecc. a generazione alternante. Si crede che dai Tunicati, per mezzo dei Cordati e dello Amphioxus (che non ha ancora cervello) sieno derivati i primi Pesci, alcune specie dei quali sono prive di ossa ed hanno soltanto cartilagini ancora oggidì. Tutti i Pesci hanno un cuore, che corrisponde alla metà del nostro, e sangue freddo: tutti hanno molte dita per nuotare. Se ne staccarono i Dispneusti, nel periodo Devoniano, i quali resero la loro vescica natatoria capace di funzionare come polmoni, entrando per molte ore al giorno nelle foreste prossime al mare. Per cacciare animaletti vivi i Dispneusti ridussero a poche le dita e le accorciarono. Dai Dispneusti provennero gli Amfibi, i quali nascendo respirano ancora con le branchie, ma nella età adulta respirano coi soli polmoni, abituandosi a vivere sulla terra. Essi ridussero a 5 sole le dita di ogni membro e queste rimasero poi 5 in tutti i Vertebrati, compreso YUomo. Le Rane inghiottiscono l'aria per la bocca. Perdendo affatto la respirazione bronchiale, complicando il cuore, ed acquistando quella membrana detta Amnio che riveste il feto e li fece chiamare Amnioti, si formarono dai più elevati Amfibi gli Stegocefali, che divennero padri dei Rettili. Come le più energiche forze plutoniche erano necessarie per dare origine ai basalti ed alle altre Ili roccie ignee della prima scorza terrestre, così le forze organiche più energiche erano necessarie a dare i primi abbozzi della Flora e della Fauna. E le Unità intime confrontanti in tanto carbonio e calore, come ne avevano i mari nell'epoca Primaria o Secondaria, dovevano aver maggiore facilità di oggi nel cambiare e scegliere le forme fondamentali. Perciò si trovano fino dalla Età Mesozoica i tipi fondamentali delle varie specie già pronunciati. Nel periodo Siluriano, ossia nell'Epoca Arcaica (subito dopo il Cambrico), vi erano già Molluschi superiori ed anche Pesci. 1 Pesci Ganoidi del Si- luriano avevano un sistema nervoso dorsale, di molto superiore a quello radiato o bilaterale o centrale dei Molluschi. Questo ci prova che, fino dall'origine, vi erano diversi tipi fondamentali e che non è vera la Evoluzione sopra una sola linea. Nel periodo Cambrico, vi erano già Crostacei di forme gigantesche. Dal Cambrico al Devoniano, abbondarono le Trilobiti (1), che sembrano essere stati i primi Crostacei, tanto numerosi da formare coi loro scheletri dei depositi estesissimi, ma estinte dopo il periodo Devoniano. Si moltiplicarono gli Amfibi e i Rettili. Alla fine di questo periodo si alzarono le piante terrestri e formarono grandi foreste che crebbero poi nel periodo Carbonifero. Nel Devoniano erano Felci arboree colossali, Si- gillane e Lepidodentri) tutte Crittogame, mentre nelle acque si moltiplicarono i Molluschi, i Cro- (1) H. E. Ziegler : «Die Descendenz Theorie in der Zoologie », 1902, Iena. -Piate: « Das Darwinistische Prinzip der Selection», 1905, Lipsia. — 112 — stacci, i Zoofiti, i Pesci. Parecchi degli Amfibi e dei Rettili raggiunsero dimensioni assai notevoli. Alcuni Lepidodentri erano alti 30 metri e il loro tronco aveva un diametro di 3 a 4 metri, che si trovano spesso nei sedimenti di quel periodo. Le Sigillarle erano anche più alte, fino a 40 metri, con tronchi enormi e cicatrici alla base delle loro lunghe e durissime foglie; bastino questi esempi per mostrare in quale magnifica vegetazione si movessero quei grossi e feroci Vertebrati. Dal Trias al periodo Permiano, Amfibi e Rettili divennero padroni delle terre boscose e delle ac- que dolci. Il sangue restava freddo, e si mescolava nel cuore, il venoso con lo arterioso, senza passare per i polmoni. I più grossi furono gli Ictiosauri, carnivori per lo più, a lingua secca, con pochissimo senso del gusto. Nel periodo Cretaceo, dalle Lucertole derivarono i Fisomorfi e gli Ofidi o Serpenti, perdendo per inerzia ed atrofìa le membra, e facendosi ad ogni vertebra una costola, perchè vivevano sempre sdraiati e si limitavano a poltrire e strisciare (1) nel fango e fra le alte erbe. Gli Amfibi antichi erano coperti di squame, mentre i viventi sono ignudi avendo degenerato. Invece i Rettili antichi erano nudi, per lo più, e i viventi arrivarono ad agguerrirsi con squame e con corazze. (1) L'apparato velenoso delle Serpi sta nelle ghiandole salivari, che in parte secernono materia gialla velenosa, che passa poi per i denti forati superiori, mentre la bestia afferra la vittima ( Vipera, Aspide, Sonagli, Crotalo o Tri- gonocefalo, Najadi). Dai Rettili ai staccarono i Draghi, piccole lucertole che rivolsero una parte delle costole a destra e a sinistra per sostenere due prolungamenti della pelle che, senza permettere loro di volare, gio- vavano però a sostenerli come paracadute nel sal- tare da un albero ad un altro lontano alcuni metri. Essi non stanno quasi mai per terra, ma vi- vono sulle cime degli alberi o si gettano nelle acque in cui nuotano con grande facilità, per prendere gl'insetti che mangiano. Ve ne sono molte specie ancor oggi nell'India orientale e nelle Isole della Sonda. Furono questi i primi Rettili che riuscirono a rendere caldo il loro sangue. Pare che anche i Dinosauri ed i Plesiosauri avessero il sangue caldo ; essi vivevano nell'acqua ed erano provvisti di grossa coda, di natatoie potenti, avevano un collo serpentino assai lungo, per lanciare la testa sopra le prede, e sbranarle coi loro formidabili denti. Formati nel periodo Giurese si estinsero nell'Epoca Terziaria. Erano lunghi da 4 a 6 metri. Fra le specie affini ai Draghi e ai Dinosauri o Plesiosauri ve ne furono al principio dell'Epoca Terziaria di quelle più piccole, che diedero ori- gine agli Uccelli, diventando bipedi. A quelli che si appoggiavano sulle gambe di dietro, si allargarono le membra anteriori, che si coprirono di piume, per far salti e volate ed in- nalzarsi sulle Piante. Il passaggio dai Rettili agli Uccelli si vede nel periodo Giurese nello Hesperornis senza ali, che viveva nell'acqua e mangiava pesce, nello Ictyomis della Creta Americana e nell: " Archaeopterix di Germania: tutti avevano denti e coda da Rettili. An- oor oggi gli embrioni degli Uccelli sembrano Rettili, come le Rane neonate paiono Pesci. Nei Pesci come nei Rettili e così negli Uccelli il cervello manca di circonvoluzioni. Manca pure ad essi la vescica, e l'orina sbocca in un prolungamento del retto, detto cloaca. I polmoni degli Uccelli continuano in tutto il corpo, con le cel- lule membranose, perfino nelle ossa, per il grande esercizio della respirazione che fanno volando. Lo sterno è grande e solido, dovendo sostenere le ali. Per cercare sementi ed Insetti o Vermi ridussero la faccia a due mascelle, formando il becco, ren- dendo così impossibile la masticazione; per cui in pari tempo modificarono l'apparato digestivo, incominciando a digerire nel ventricolo succenturiato, per continuare poi nel ventriglio, dove si forma il chilo. Neil' Epoca Terziaria le specie degli Uccelli si moltiplicarono assai ed arrivarono a proporzioni enormi. Alcune di queste poco o nulla volavano come YEpyornis del Madagascar, oggi estinto, che era alto 4 metri, i Dinorni della Nuova Zelanda alti 2 metri e mezzo, lo Struzzo dell'Africa e dell' India, alto anche più e più grosso, ma che non vola più e corre fornito di cosce grosse come quelle di un uomo, colle sue gambe alte 130 cent, più del cavallo. Vive in truppe e mangia erbe; oggi si alleva con profìtto. Gli sono omologhi ed analoghi, ina un po' meno alti, il Casoar nell'isole della Sonda, lo Emù dell'Australia, il Nandù del- l'Argentina. Gli uccelli rapaci non raggiunsero mai quelle dimensioni: VAquila dell'Europa e dell'Asia, il Condor delle Ande non superano quasi mai il metro in lunghezza. Essi rappresentano nell'aria quella caccia fe- roce che è stata continua sulla terra e nell'acqua, caccia clie si esercita sempre contro altre specie. Fra i membri di una famiglia, fra quelli di una società animale, regnano l'amore o l'amicizia, e vi sono esempi numerosi di abnegazione e di sacrificio. Il numero delle specie di animali che vivono di erbe supera quello delle specie che vivono di carni, come il numero delle tribù selvaggie pacifiche, supera quello dei selvaggi feroci, e quello degli uomini civili e laboriosi supera quello dei delinquenti. E bisogna guardare all' origine dell' egoismo feroce. Come nella Fisica e nella Chimica le forze fondamentali ed universali sono le attrattive, e sol- tanto quando l'armonia e l'esistenza è minacciata sorgono le ripulsioni, così, quando le specie animali imparano a far caccia e guerra, è per lo più quando sono minacciate nel pacifico possesso dei loro mezzi di vivere, quando non trovano da sfa- marsi (1). I primi Mammiferi furono i Sauro-mammoli ed i Monotremi nel Trias e ne vennero 3400 specie, (1) Gli animali domestici ben trattati restano come fanciulli affezionati, mentre quelli maltrattati perdono la natura pacifica ereditata. All'opposto gli animali di specie feroce sono più o meno adatti a diventare domestici. Così si fa con gli orsi nelle locande del gran Parco Nazionale del Yellowstone negli Stati Uniti, così si fa con gli alligatori ed i coccodrilli negli Stati meridionali di quella grande Repubblica, i quali ornai nel Mississipi si allevano per venderli come carne da macello. delle quali metà sono già estinte. Il periodo glaciale le obbligò a surrogare alle squame i peli, mandando molto sangue alla pelle a formarvi le ghiandole pilifere per ripararsi dal freddo; così si fecero anche le lane delle pecore. Meno gli Equidi e le Antilopi, che impararono a correre più veloci, gli Ungulati, che tanto si erano moltiplicati, furono tutti mangiati dai Carnivori, derivati nel periodo Eocene dai Marsupiali, Laddove la persecuzione dei carnivori era più minacciosa, i Cetacei, che erano e sono ancora Mammiferi {Balene, Delfini) ed i Pinnipedi (Foche) si salvarono nel mare, lasciando inerti le membra posteriori, svilupparono in natatoie le membra anteriori ; ingrossarono la musculatura della coda ed impararono ad allargare sempre più la bocca, per ingoiare molti pesciolini ad una volta. Invece sui grassi pascoli del Miocene e del Plio- cene dove i Carnivori non penetravano, i Ruminanti, riposando quando erano satolli, digerendo lentamente, si fecero quattro stomachi, risalendo i cibi dal pansé nella bocca per essere macinati, e tornare poi nel secondo stomaco {cuffia) e nel terzo (centopelli) e passare finalmente nel caglio che termina la digestione. I più grossi Mammiferi furono i Mammuti della Russia. Per prendere i cibi nelle paludi, per bere, per sollevare qualsiasi piccolo oggetto, gli Elefanti prolungarono il naso in proboscide, onde restare comodamente piantati sulle grossissime gambe poco pieghevoli. Per scavar la terra le Talpe cambiarono le zampe anteriori in uncini e zappe ; per mangiare le foglie più alte delle Palme le Giraffe allungarono molto — 117 — il collo ; per nutrirsi di mosche e di farfalle not- turne il Pipistrello distese sopra le membra anteriori un mantello, facendo crescere sulle 5 dita assai lunghe una membrana che serve come di ali; ed anche il Pesce Dattilottero allargò le natatoie del petto e le allungò in ali. Per difendersi, i Ruminanti si fecero spuntare sulla testa le corna ; per arrampicarsi sugli alberi le Scimmie cambiarono le zampe in mani; per armarsi di sassi e di bastoni con le mani alcune di esse si abituarono a stare dritte sulle membra posteriori e ne vennero i nostri piedi, e quell'af- flusso di sangue al cervello durante la gestazione del feto, che aumentò l'intelligenza. Studiando le differenze fra Scimmie ed Uomini il prof. Keit trovò che 312 caratteri morfologici sono propri di questi ; 186 sono comuni all'Uomo ed al Gibbone, 272 all'Orangutano, 385 al Gorilla e 396 allo Scimpanzè. Selenica mostrò che la embriogenià umana somiglia moltissimo a quella di queste specie. Certo è che l'embrione nostro diventa successivamente in nove mesi : Monerula, Morula, Blastosfera, Gastrula, Cordoniano, Acranio, Ictioide, Àmnioto, Mammifero placentato e Primate, giacche la Ontogenia o evoluzione dell'individuo è un raccorciamento della Filogenia o evoluzione della specie. Il posto relativo delle parti negli animali di un medesimo tipo non cambia mai ; benché se ne foggino stromenti tanto diversi (come ne abbiamo indicati parecchi) a seconda della loro volontà. Bisogna ben distinguere la Omologia o somiglianza delle forme, dalla Analogia o somiglianza delle funzioni, giacche la modificazione degli organi — 118 — per farli servire a funzioni nuove è stata assai frequente in tutti i tipi. Vi sono specie fluttuanti per i molti incroci (cani, sorci, uomini ecc.). Il sentire-volere ha fatto tutte le specie estinte o viventi, compendiando le anteriori. Quindi con perseverante volontà l'uomo può perfezionare il sistema nervoso, il cervello sopratutto, il sistema vasomotore, il muscolare, il cuore, i polmoni. Tutte le volte che i figli tendono al medesimo scopo dei genitori, rinforzano la Natura che si fa e perfezionano il corpo, facendo ereditare capacità fisiche ed intellettuali migliori. Vi sono famiglie di atleti, di Boxers, di ballerine, e famiglie di pittori, di musici e di scienziati. La Civiltà è una gara continua nel far atten- zione a nuovi oggetti, un eccitamento perenne ad osservare, a pensare, e quindi a sviluppare gli strati corticali del cerebro. L' Inconscio è sempre un risultato della perse- veranza del Conscio nell'attivare nuove funzioni. Ne abbiamo addotte in prova centinaia di fatti, mentre nessun fatto può addursi per dimostrare che dall' Inconscio esca il Conscio. Ex nihilo nihil. Ciò nullameno Schelling nel 1799 diede all'In- conscio la parte di fare l'Ordine nel mondo, ed Ardigò lo riprodusse. « Die Materie ist erstarrte Intelligenz, disse Schelling, la materia è pensiero congelato » . Ed Ardigò Voi. IV, p. 269 « Il contenuto di ciò che si dice Materia, non è altro che lo stesso Pensiero del quale è una forma » . «L'Infinito inconscio fa l'Ordine nel mondo» disse Schelling. Ed Ardigò lo riprodusse, II, 235.  « La Unità ordinatrice dello Indistinto assoluto fa la Natura » , p. 247. « Tutto risulta da urti : lavoro meccanico : ma in fondo vi è una razionalità sapientissima » , p. 249. « L' Indistinto Universale, per cui tutto è uno, è la causa dell'ordine » , p. 250. « L'ordine nel caso, e il caso nell'ordine : ecco la ragione della distinzione o formazione naturale », p. 129. «Lo Indistinto è Infinito, ed è l'ambiente che sta sotto ad ogni distinto » , p. 183. E Ardigò conchiude che 1' Indistinto assoluto esclu- de il sopranaturale. E fa alcune osservazioni al padre Secchi, cercando di provare che la Natura è infinita e che l'Ordine viene da questa Infinità. Però noi abbiamo dimostrato nei primi Capitoli di questo Libro che l'Infinito non è mai una realtà, che non vi può essere materia continua, che il mondo non può essere infinito. Dalla falsa premessa che il mondo è infinito, non si può tirar fuori l'ordine; e dal cambiare il sopra naturale in sotto naturale non si può tirar fuori nulla, perchè l'effetto è lo stesso, che venga dal di sotto o dal di sopra, V Indistinto è la causa dell'ordine. Però VArdigò si contradice volendo parere positivista. Ed a tal uopo scrive, p. 249 : « La Intelligenza viene dopo e non prima dell'ordine e ne è un effetto » . I suoi discepoli poi ripetono sempre questa seconda parte, e non la prima schellinghiana, del loro maestro : Marchesini ( « Vita e pensiero di Ardigò » , 1907, p. 338), scrive : «L'umano pensiero si è formato per la continuazione di accidentalità infinite, succedentesi ed aggiuntesi a caso, le une alle altre » . E a pag. 259 ci dà questa bella genesi degli Uccelli : « La specie della Gallina è un apparato — 120 — « fisiologico riuscito, per aggiunte e modificazioni « casuali, occasionate dalle azioni e reazioni del- « Vambiente » . Qui dunque lo Indistinto Inconscio, razionalità sapientissima, non fa più nulla: è il caso, è l'ac- cidente che fa tutto. E il ritmo che è la semplice ripetizione di un moto ad intervalli eguali, viene ad aiutare il caso. L' Indistinto a che cosa è ridotto ? Si vuol ne- gare che venga da Schelling, da Hegel, da Hart- mann. Si vuol tirarlo fuori dal nostro sentire: « Potendo invertire le sensazioni che fanno il Me « da quelle del Mondo o Non Me, dice il Mar- « chesini (pag. 308 a 312) si scopre che la sen- « sazione in se stessa è indifferente ad essere « oggetto o soggetto, ed abbiamo così lo Indi- « stinto sottostante ad ogni distinto. Indistinto po- « sitivo trovato per induzione. « Via i misteri della divinità, avanti la conti- « nuità funzionale della Natura infinita, che si « manifesta come Materia, come Spirito. La espone rienza della nostra sensazione ci dà il sottostante « indistinto » . È questo il Positivismo radicale delVArdigò. È facile osservare che questo sforzo di far apparire come Positivo lo Indistinto Inconscio è impotente, perchè nessuno ha mai avuto una sensazione che sia sensazione di nulla, vuota ed indistinta, indifferentemente Oggetto o Soggetto : nessuno invertisce il proprio Io nelle cose o le cose nel proprio Io. Ne Ardigò, ne alcun suo discepolo ha mai ten- tato di spiegare l'ordine e la formazione delle specie vegetali ed animali, fuorché con trovate come quella della gallina or menzionata. La me- schinità dell' Ardigoismo si vede dai suoi frutti. L'oscillare continuo fra il Positivismo e l'Indistinto Infinito ha costretto VArdigò a continue contraddizioni ed oscurità. La verità è che la Natura che si fa, più o meno conscia e libera, ha fatto nella lunga evoluzione le varie specie animali, organizzando la psiche inconscia o passiva Natura fatta che va per necessità come un Meccanismo. Non andiamo a cercare la causa delle varie specie animali nelle stelle, nelle nebulose, nello ambiente infinito di Ardigò, nel caso e simili; siamo un po' più modesti e positivi, e cerchiamola in quella Unità intima che ha fatto le cellule ed i primi viventi, e che sentiamo capace di modificarci e di svilupparci ancora. Questo è il vero Positivismo armonico, pitagorico, Italico (1). CAPITOLO IX. Come la psiche fa la vita interna sana Fa sorridere il vedere Marchesini (nella sua- « Crisi del positivismo » ) stentar tanto a far venir fuori la sensazione dai corpi inorganici e il pensiero dagli animali, mentre Ardigò d'accordo con (1) Non è una divinità inconsapevole, inconscia, che rivolge l'attenzione a determinati scopi al disopra o al disotto degli animali lasciandoli inerti materie, che si muovano senza sapere perchè. Ma sono gli animali stessi che senza aspettare il caso, come la gallina sopralodata, desiderano ed ottengono col perseverare il proprio sviluppo. lo Schelling (nel Voi. IV sul compito della filo- sofia) scriveva che la Materia è una forma del Pensiero: e negli altri Volumi insistè sulla unità del Pensiero con la Materia. Per quanto cerchi di far prevalere nelle dot- trine contradittorie del suo maestro la parte positivista sulla parte schellinghiana panteista, pure egli è costretto a dire, p. 250: «L'Indistinto è « la nebulosa verso il sistema solare, è l' Embrione rispetto all'animale adulto. 253: L'In- « distinto è la realtà unica fondamentale della « Unità e molteplicità della Natura. 254 : la realtà «della psiche e della materia insieme. 260: L'or- « dine si spiega per le due leggi dell' Indistinto « e del ritmo. Per l'Indistinto ogni accidentalità « è subordinata all'ordine universale. Per il ritmo « vi è ordine e numero (tautologia). 296 : A sostrato « dei due mondi psichico e fisico sta l'Indistinto psi- « cofisico che ne è la ragione esplicativa (mentre « Ardigò diceva che l' Indistinto non si può spie- « gare, perchè spiegare vuol dire distinguere e « questo è l'art. 6 del suo Catechismo). 331 : Il « che cosa sia non si rivela che sentendolo e si « risolve nel Divenire che è VEssenza dell'Essere « (frase presa da Hegel). E il divenire è per noi « ed in noi necessariamente sensazione » . Marchesini non ha capito che, se il divenire è sensazione per noi, lo sarà anche per gli animali, le piante, le cellule e le molecole. Quando Ardigò fu accusato di aver preso il suo Indistinto dall'Omogeneo dello Spencer ebbe facile la risposta. — Io non l'ho preso (come Spencer) dalla fisiologia, ma l' ho preso dal ^pensiero filosofico, e poteva aggiungere tedesco. E in- fatti il Panteismo di Schelling ed egli non ha — 123 — mai negato di averlo preso dalla Germania: fu sempre studioso assai della filosofia tedesca, citò nella Psicologia molti autori tedeschi, per cento pagine, e quando fu accusato di essere Metafìsico, si schermì evasivamente (come diremo nel nostro III Volume). Se prendiamo V Indistinto deìYArdigò non verniciato di Positivismo,. non mascherato dal manto di pontefice dell'Ateismo Italiano, vedremo che è una nebbia panteistica, che (a quanto egli dice) contiene in sé la ragione della differenziazione e della continuità fra i differenziati. Infatti il suo discepolo G. Marchesini sostiene che la gran legge di formazione delle cose è questa: che una linea si suddivida in punti infiniti (pag. 115). Certo la linea è continua e contiene in se i punti. Ed è tutto. Questa è la sua gran spiegazione. Chi non se ne contenta, non ha capito come si sono fatte le piante, le bestie, gli uomini e pretende troppo dall'Ardigoismo. Ora questo Indistinto nebuloso e vago non ha fatto, secondo noi, veramente niente. Tutto era preciso e numerato fin dalle prime nebulose e dall'Etere. Quelle che hanno fatto l'ordine della flora e della fauna sono le Unità viventi, distin- tissime e precisissime della Natura che si fa, che cerca di aumentare la sensazione piacevole e di evitare la dolorosa, formando le più utili funzioni (e con la loro ripetizione, gli organi), della di- gestione, della respirazione, della sanguificazione o Ematosi, dell'assimilazione, della generazione. Per poco che noi penetriamo nella genesi della vita interna, potremo ben convincerci, sulla base dei fatti. Digerire vuol dire scomporre, macerare, idroliz- zare le materie ingerite e poi combinarle con le proprie sostanze. Arthus (Nature des Enzymes, 1896) suppone che i fermenti sieno sostanze non materiali, formate dalla Unità generale dell'organismo. Nei Protozoi comincia a separarsi la funzione digestiva dalla motrice. Nei Celenterati si può già distinguere 1' Entoderma che modificando gli ali- menti accumula energia, dall' Ectoderma che fa tentacoli. Gl'Infusori hanno bocca, faringe e ca- vità digestiva protoplasmica. Ma nei Polizoari YEntoderma diventa un canale alimentare, che si divide in esofago, stomaco ed intestino. Nelle Ascidie il sugo nutriente si separa dalle feci. In principio il fegato, il pancreas, sono semplici cellule escrementizie biliari: poi si riuniscono in sacchetti con piccoli canali ramificati. A misura che l'assimilazione si afferma, vengono segregandosi gli Enzimi o succhi digerenti come nelle Salpe. Le ghiandole segreganti crescono negli Aneh lidi (1), negli Echinodermi, negli Artropodi, e nei Molluschi: questi ultimi hanno un vero fegato. I Crostacei si sono già formato un fegato di cellule peptiche ed epatiche. In tutte le cellule delle ghiandole, che ricevono dalla unità generale dell' organismo la funzione di secernere, si compie un delicato lavoro di scelte feconde, e finiscono alcuni nervettini (i quali provengono negli animali superiori, sia dal gran simpatico, sia dal sistema cerebro-spinale). (1) Meno nella Tenia ed in altri parassiti. Il corpo della Tenia riceve dapertutto gli alimenti, senza farsi un apparato circolatorio, ne digestivo. Tutte le sue cellule si nutrono e respirano. Sono questi nervettini che dirigono la funzione speciale del secernere. E non hanno bisogno di essere animati dallo Inconscio di Schelling e di Hartmann ne dallo Infinito sottonaturale che, se- condo Ardigò, è la causa dell'ordine. Il parenchima (o epitelio ghiandolare) attrae dapprima dal sangue l' acqua ed i principi in essa disciolti : la ghiandola, che era pallida, si ar- rossa, e si riscalda, elaborando sotto l'azione del sentire - desiderare - volere, mediante i nervettini, il suo secreto, traendo dal sangue, che filtra at- traverso ai capillari ed ai tubi porosi, la sostanza specifica. Le ghiandole sono i chimici o farmacisti del collettivismo organico. Il tessuto retico- lare delle ghiandole è privo di fibre. Mettendo della pepsina e dell'acido lattico con- tenuto nel sugo gastrigo in un bicchiere, si può fare una digestione artificiale. Ma non si può nei laboratori chimici far nascere il sugo gastrico. Per farlo è necessaria la sintesi organica, non fatta per accidente ad uso Marchesini, ma per godere la vita. Tutte le secrezioni sono finaliste, tutte si compiono per atto unitario sintetico, così quella del sugo gastrigo, come quella della saliva, della bile, della milza, o dei reni. E una finalità fatta poco alla volta, non venuta giù dall'Indistinto Infinito di Ardigò, provando e riprovando, insistendo sulle sensazioni piacevoli ed evitando quelle che dispiacciono. Per eredità della specie la digestione si fa anche nell'embrione, che non è ancora provvisto di nervi. Negli animali superiori la digestione rende i cibi capaci di essere assorbiti dalla mucosa inte- stinale ed assimilati nel sangue e nei tessuti. — 126 — Gli animali, mangiando vegetali, ne desumono Carbonio, Azoto, Solfo, Idrogeno, Ossigeno, che sono pronti nelle albumine e nei grassi. Se gii animali dovessero prendersi l'azoto ed il zolfo fuori delle albumine vegetali, morirebbero : perchè essi non possono cavarli dalla terra, ne dall'aria, come fanno le piante. La maggiore vitalità e mobilità ottenuta dagli animali, dipende non già dall'Indistinto della teo- logia germanica o dell'Ardigoismo, ma dalla facilità di alimentarsi mangiando i vegetali, perchè le Unità senzienti formano più presto e più gagliarda la unità organica dell'Animale. Il riassorbimento del chilo nell' intestino, è fatto dalle cellule epiteliali (che tappezzano la parete interna dell'intestino) che assumono il cibo per contrazione attiva, come fanno gli Amebi ed i Rizopodi. Una parte più vitale l'hanno le cellule linfatiche, le quali emigrano dal tessuto adenoide, vanno fra le cellule epiteliali fino alla superficie dell'intestino, per ghermire le gocciole di grasso, e non lasciano passare veleni. Va notato che le sostanze alimentari solubili nell' acqua, non scendono mai dall' intestino al cuore per il condotto toracico, ma per la vena porta e per il fegato (che le assimila prima che entrino nel sangue). Le cellule linfatiche assu- mono sole il peptone disciolto nell'acqua. Le sostanze velenose ingoiate si fermano tutte nella bile. La linfa empie gli interstizi fra i tessuti ed i vasi linfatici ed è un complesso di trasudati non utilizzati, composto di plasma liquido e di corpuscoli, granuli o globuletti bianchi (circa 8.000 per millimetro cubico), e goccie di grasso. Quando ar- rivano nel sangue questi globuletti, diventano globuli bianchi (più grossi), e poi rossi. Nella linfa vi sono già gli elementi chimici del sangue (acqua, siero, albumina, fibrina, grassi, e specialmente 1' acido butirico, cholesterina, glucosio, leucina, urea, sali, carbonati e fosfati). Ma la linfa (che aumenta sempre durante la digestione), si coagula più lentamente del sangue ed è meno alcalina. Contraendosi ritmicamente il cuore, il sangue inturgidisce le arterie formando il polso. I globuli rossi trasfusi in animali di altra specie si combattono e si uccidono a vicenda, non già perchè abbiano una diversa composizione chimica, ina perchè è diversa la loro sintesi, ossia l'impulso loro dato dalla Unità generale organica, il che prova ad un tempo la individualità dei globuli rossi, e la psiche passiva loro imposta dall'Unità generale (1). Le unità dei globuli rossi debbono adunque es- sere formate da elementi morfologici vitalissimi. Sono clorotici coloro, i cui globuli rossi sono piccoli (una metà od un terzo del giusto), hanno cuore piccolo e vasi troppo stretti. — Nelle morti apparenti, il sangue non è morto. Se si fa entrare per due terzi nelle carni un ago pulito, dopo un'ora, se il sangue vive, l'ago si può ritirare an- cora pulito : ma se il sangue è morto, l'ago sarà arrugginito. — L'asfissia uccide i globuli rossi e (1) Va notato che (come provarono Friedental ed altri), il sangue di un uomo si può mescolare senza recare grave danno alla salute col sangue dello scimpanzè e viceversa, mentre non sopporta la mescolanza con altre specie ani- mali, locchè prova una certa consanguineità fra questo troglodite dell'Africa e l'uomo. — 128 — l'ossido di carbonio uccide la emoglobina del san- gue ed i tessuti. La formazione del cuore non si spiega senza sintesi morfologica dell 1 Unità confrontante perchè nessuna persistenza della forza può formare ventricoli ed orecchiette, arterie e vene contemporaneamente. Ci vogliono figurazioni e moti sintetici mirabilmente accordati in tutta la lenta formazione della specie, che viene accorciata nel feto. Così la formazione del cuore insegna quanto sia falso at- tribuire l'evoluzione alle forze esterne, come fanno il Positivismo e \Ardigoismo. Bisogna penetrare nella intima compagine degli Organismi animali per vedere la sintesi organica nella sua formazione sotto l' impulso del Noumenon e della Volontà. L'assimilazione collettiva non dipende dalle materie che furono mangiate, come si credeva dai naturalisti tedeschi mezzo secolo fa, che scrissero Der Mann ist was er isst, ossia l'uomo è quello che egli mangia. Che una donna mangi fratti o legumi, carne o formaggio, uova o patate, pasticci dolci o erbe condite, le materie albuminoidi di questi alimenti si trasformano nel suo sangue in serina, fibrinogene e globulina, nei suoi muscoli in muscolina, nelle sue mammelle in caseina, nelle sue ossa in osseina, nel tessuto congiuntivo in congiuntina, ed in elastina: tutte sostanze chimiche fra loro differenti. La chi- mica organica ha ornai assicurato queste leggi (dice Gautier). Se la Evoluzione si facesse dal di fuori al di dentro (come pretende Ardigò) non vi sarebbe ne digestione, ne assimilazione. Perchè le stesse albuminoidi, tratte da cibi molto diversi fra loro, si trasformano nelle varie — 129 — parti del corpo in sostanze chimiche così adatte a sviluppare o il sangue, o i muscoli, o le ghiandole, o le ossa, o il tessuto congiuntivo ? forse per le accidentalità del Marchesini? venute non si sa da qual corpo estraneo ? forse per l' Infinito causa dell'ordine o per l'Indistinto sottostante ad ogni distinto, il quale non ha altra legge di formazione se non la divisione della linea in parti infinite? Dividere non è fare nuove sostanze chimiche. Dividere e suddividere, distinguere e sotto di- stinguere non è fare da artista morfologo. Dunque bisogna riconoscere che la Unità or- ganica intima, il Noumenon reale, che cerca il piacere e fugge il dolore esercitando le funzioni essenziali del digerire, del far sangue, della assi- milazione, organizza le materie in modo da mantenere e sviluppare il proprio piacere ossia la propria Vita, combina le molecole in guisa da dar loro efficacia, e esercitando la funzione si fa la compagine fisiologica, adatta a lottare contro le dif- ficoltà ed a rendersi indipendente dall'ambiente. Non è dividere e distinguere: è piuttosto co- struire, riunire, combinare, disegnare nuove forme, nuovi sistemi di forze: è unificare, in una paro] a r e quindi godere la varietà nella Unità. La legge della Natura è l'ascesa a più alta Unità e non la divisione e suddivisione di un Indistinto in pezzettini. Per la stessa forza di assimilazione, l'animale trasforma gli idrati di carbonio che mangia in glicogene nel fegato, in glicosi nel chilo e nel sangue, in inosite ed acido lattico nei muscoli, in lat- tina nelle mammelle, in tunicina nella pelle dei Tunicati, sempre sotto la influenza del sistema nervoso, che sente il dolore e il piacere. — 130 — Lo stesso dicasi dei grassi. Qualsiasi cibo prenda un animale, egli farà (senza aiuto dello Inconscio Indistinto sopra o sotto naturale) nelle cellule adi- pose della pelle butirina ed oleina, nel tessuto cel- lulare del ventre stearina oleina e palmitina ; nelle mammelle butirina e margarina ; nelle api farà della cera, e via dicendo. Eppure nel chilo, nei gangli del mesentere, vi sono sostanze omogenee: ma questi grassi, quando .sono arrivati nei diversi organi, si differenziano assai, ossia si specificano in sostanze nuove. L'assimilazione non. è una scelta dei materiali portati dal sangue. È piuttosto una metamorfosi operata da ogni cellula, sotto la influenza del si- stema nervoso, ordinato dalla Unità organica del- l'animale, dando origine, col medesimo chilo e con lo stesso sangue a nuove sostanze, le quali nel sangue e nel chilo non esistevano. Anzi l'assimilazione complessiva, sotto la in- fluenza del sistema nervoso, allorché l' animale non riceve più grassi, né principi amilacei, lo rende capace di formarsi le sostanze occorrenti, traendole dai suoi propri albuminoidi, idratandoli, ossidandoli ed arrivando a farsi nella milza la Emoglobina o materia rossa del sangue, la quale pesa il doppio della albumina, ed è assai più complicata delle albuminoidi mangiate. Tra i fattori dell'Ordine secondo VArdigoismo primeggiava dal 1870 in poi l'Indistinto, pallida luna, la cui luce rifletteva il sole dell'Inconscio di Schelling. Degenerando (per la sua intrinseca contraddizione di essere in fondo panteismo germanico e di voler parere ateismo positivista) ha finito col ridurre lo Indistinto ad una astrazione dalla sensazione indifferente tra soggetto ed oggetto, tra spirito e materia, e a renderlo così impotente a fare l'Ordine come da pag. 308 a 312 ci diceva, nel suo tentativo di popolarizzare l'Ardigoismo, il Marchesini (vedi sopra). Restarono così a far l'ordine in generale e Vor- dine biotico in particolare il caso ed il ritmo. Ma il ritmo non è altro che la ripetizione ad intervalli dello stesso moto e non può fare del nuovo, e il caso è antiscientifico. Così VArdigoismo per la sua intrinseca contraddizione ed oscurità e per la sua ostinata trascuranza di studiare la natura vegetale ed animale e le leggi di tutti gli organismi, va isterilendosi in una ontologia e fraseologia d'indistinto, d'infinito, e di casi. Perciò gli scienziati Biologi Italiani che non seguono il Pitagorismo oggi si sono dati alla fi- losofia dell' Inconscio di Schelling e di Hartmann (Die Philosophie des Unbewussten, 2 voi.) altri- menti, per fare codazzo al rispettabile prof. Ardigò, sarebbero stati condotti a dare di ogni or- ganismo una origine del tutto casuale, come quella insegnata dal Marchesini (vedi sopra) (1). Ad ogni modo, se VIndistinto che sta sotto ad ogni distinto è (come credeva VArdigò) un pensiero, ci si dica se questo pensiero che opera sotto, en- tra davvero nélVanimale e lo fa sentire, volere, godere o soffrire. Se sì, allora è inutile l' Inconscio e si viene nel nostro Positivismo Pitagorico bruniano, ossia nella filosofìa Italica. (1) Si legga la splendida Conferenza tenuta nell'Acca- demia dei Lincei dall'illustre fisiologo prof. Giulio Fano di Firenze dinanzi a S. M. il Re nel 1910. — 132 — Se no, allora l'animale resta un trastullo della divinità. E nello Ardigoismo (che nega la unità intima di ogni organismo) se non si ricorre al- l'Indistinto Inconscio divino, manca ogni principio informatore, e la gallina e l'uomo stesso (compreso il prof. Ardigò) diventano prodotti del caso cieco e sterile. Nel delicatissimo lavorìo che prepara i succhi nutritivi, si manifesta la vita sintetica della Unità organica generale, che determina le funzioni di ciascuna ghiandola. I globuli bianchi sono preparati dal fegato e dalla milza, la quale può dirsi una doppia ghiandola linfatica, sierosa, chiusa, piena di vasi sottili, intrecciati in fitta rete, specialmente nei corpuscoli del Malpighi. Dal fegato, dalla milza, dal chilo, dalla linfa, escono i globuli rossi nuotando nel siero senza imbeversene, contrattili, e si chiamano Ematite, Il plasma in cui le Ematie sono sospese contiene la fibrina (che manca nel siero) e risulta dallo sdoppiamento del fibrinogene. La trama delle Ematie o globuli rossi è fatta da un albuminoide ferruginoso detto Emoglobina, da globulina, lecitina, cholesterina e sali minerali, per assimilazione sintetica senza che intervenga nessun Inconscio Infinito. Di pari passo con la funzione circolatoria procede quella di respirazione, che rinnova ad ogni istante il sangue venoso a contatto con l'ossigeno. La pelle, fatta di tessuto connettivo molle, non contrattile (ossia privo di muscoli) ma indurito all'aria, emette sempre vapore acqueo, gas acido carbonico, ed un po' di azoto, assorbe ossigeno, e fa, negli animali inferiori, quello che nei superiori è affidato alle branchie ed ai polmoni. La funzione respiratoria si svolge lentamente come la digestiva e la circolatoria. Nei Vermi marini le branchie sono foglietti di vasi capillari. Nei Vermi superiori ed in alcuni Crostacei sono a fasci di fili od a pennacchi. Nei Molluschi maggiori e nei Pesci diventano interne, quasi fogli di un libro. 'NegYInsetti le trachee conducono l'aria dapertutto e così anche in alcuni Ragni e negli Uccelli. Negli animali superiori, poi si sono formati quei milioni di alveoli o sacchetti polmonari, fatti di fibre muscolari liscie che nell'uomo presentano all'aria penetrata nei polmoni la superfìcie di una sala (circa 200 metri quadrati) dove il sangue venoso cambia la sua emoglobina in Oxy-emoglobina. Secondo Smith un uomo sdraiato prende un litro di aria nel medesimo tempo in cui un uomo seduto ne piglia 1.18, ed un uomo in piedi 1.33, chi cammina lento 1.90, chi va presto 4, chi corre 7 litri. La funzione respiratoria tra le vitali è quella che si può aumentare e perfezionare con maggiore facilità. In ogni organismo, oltre gli atti vitali, vi sono quelli non vitali. Ogni cellula fa prima le sostanze azotate, poi le non azotate, cioè i corpi grassi, la saccarosi, l'amido, la inosite, il glicogene. Il sangue si depura per atto vitale nei reni, che spremono fuori dal sangue la orina. Ma non è per atto vitale (bensì per forze chi- miche soltanto), che le albuminoidi coli' idratarsi si cambiano in creatina, lisatina, urea ed acido lattico. E per forze chimiche soltanto che la urea fa il carbonato di ammoniaca. — 134 — Il sangue sano contiene mezzo grammo per litro di acido urico che si idrata e si ossida e si elimina nei sani allo stato di urea, di acido os- salico e di acido carbonico. Tutte le perdite di carbonio, che è l'elemento accentratore, si fanno per atti non morfologici, non vitali, non diretti dalla Unità organica generale, appena l'ascesa a più alta unità, ossia al piacere di vivere, si rallenta in qualche parte. Queste perdite avvengono disassimilandosi, idra- tandosi, e facendo i rifiuti da espellere. Le funzioni principali della vita interna sana e specialmente l'assimilatrice sono sempre fatte dalla Psiche poco a poco e diventano abituali, regolari, quanto più sono ripetute di generazione in generazione e quanto più la specie ha imparato a rendersi indipendente dall'ambiente, ed anzi padrona dell'ambiente nel trovare abbondanti cibi, aria ed acqua salubri e nel perfezionare la facoltà di vitalizzare il chilo, la linfa, ed il sangue. CAPITOLO X. Come la Psiche fa le guarigioni. Come le malattie mentali derivano per lo più da disturbi o da irregolarità della convergenza nervosa che fa l'Unità conscia generale, la Per cezione e la Memoria, così le malattie del corpo dipendono spesso da disturbi e da irregolarità nella irrigazione sanguigna. I vasetti capillari sono lunghi nell'uomo 500 volte più delle arterie e delle vene non capillari. Ogni capillare è composto di cellule fusiformi con un nucleo in cui arriva il nervettino vaso- motore. Ogni organo può rendere indipendente dalla circolazione generale la sua particolare. Vi sono due provenienze dei nervettini vasomotori: quelli che dipendono dal gran simpatico, nelle emozioni si restringono e quindi rallentano il corso del sangue; quelli invece che dipendono dal sistema cerebro-spinale, si allargano, accele- rando il corso del sangue. Nell'uomo sano, bene equilibrato, queste due azioni si alternano e si combinano in guisa da mantenere l'armonia fra tutte le funzioni. Nell'uomo immorale si disturbano a vicenda. I delinquenti ed i pazzi sono più o meno inetti a regolare i vasomotori: ora la reazione è scarsa ed ora è eccessiva. La sfiducia e l' inquietudine guastano le ghiandole e l'assimilazione, e quindi anche la ematosi o sanguificazione e il sistema nervoso, ossia le vie per le quali corrono la sensibilità e la volontà. Queste sono prove palmari che gli animali si fanno dal di dentro al di fuori e sono sempre sintetizzati dalla propria unità generale. I sentimenti di fiducia e di bontà sono i migliori per regolare la Ematosi e quindi la nutrizione di tutti i tessuti. La psicogenia fa la somagenia, ossia la psiche fa il corpo. I vasomotori sono i primi ministri della natura che si fa col sentimento. La immoralità ed il vizio si traducono in una natura che si fa morbosa. I capillari venosi, col sangue reso inetto, per avere deposto, nel tessuto che irriga, gli elementi — 136 — dei quali ha bisogno (1) portano verso le uscite anche i veleni prodotti dalla fatica o ponogeni (dal greco nóvoc, fatica) che sono l'acido lattico ed i leucomani, i quali impediscono di rimanere attivi. La circolazione nutritiva della notte rifa le forze esaurite nel lavoro diurno. I vasi capillari asportano per i reni, per i polmoni e per la pelle i veleni ponogeni. I vasomotori regolano sempre la produzione del calore animale. Si restringono se fa freddo, si dilatano se fa caldo per far sudare e svaporare. Per molte ragioni adunque, guastare i vasomotori è guastare la salute ; e la Unità disordinata da desideri immorali e da passioni li guasta. La febbre è fatta dal sistema nervoso del gran simpatico irritando i nervettini vasomotori ed il cuore, e le arterie ; alza la temperatura da due a sette gradi sopra la normale, e stanca i muscoli. È una reazione naturale che eccita gli organi ad eliminare le cause di malattia esterne ed interne e specialmente le alterazioni del sangue: perciò questa reazione salutare (a parità di cause) è maggiore nei fanciulli e minore nei vecchi. La reazione salutare è sempre più benefica quanto più vi è fede, speranza e piacere e non avviene o resta debole e fiacca in chi ha sfiducia o paura. Del resto gli animali tengono nella loro milza un serbatoio di fagoceti. La milza fa (oltre ai globuli bianchi e rossi della linfa e del sangue) anche i così detti Lenii) Anche calce e fosfati per darli alle cellule del periosto e per rendere possibile la formazione e lo induri- mento delle ossa, quanto più i muscoli vi si appoggiano. coceti o Fagoceti che sono amebi atti a fare il tes- suto congiuntivo attorno alle ferite ed a guarirle, cacciando via le infezioni. Infatti gli animali privati della milza soffrono di infiammazioni. Nelle infiammazioni essudative i Leucoceti cor- rono verso la parte che trovasi minacciata, come i medici corrono agli ammalati. La infiammazione in generale come la febbre è un processo salutare. Non è un processo fisico chimico, ma è una reazione di queste guardie sanitarie benefiche che si chiamano Fagoceti o Leucoceti. I quali corrono a prendere quella parte dei tessuti che si è guastata per portarla fuori verso le uscite. Nelle malattie acute scendono a milioni a purificare i tessuti, ed agguerriscono il corpo a procedere sicuro tra le insidie dell'ambiente ed a rendersene indipendenti, all'opposto di quanto pretende YArdigoismo. E sono sempre diretti dalla Unità generale dell'organismo e non dall'Inconscio Infinito sopra o sotto naturale. Grazie alla polizia sagace che viene esercitata dai Leucoceti, nelle orine dei malati si trovano leucomani basiche dannosissime. Ma la psiche riesce diffi- cilmente ad impedire il moltiplicarsi dei bacilli. Moltissime malattie sono formate dal moltiplicarsi dei Bacteri e specialmente le contagiose : I microbi anaerobi fanno escrezioni velenose che il prof. Selmi ha chiamate dal greco Ptomaine. Sono malattie ve- nute dall'esterno, che poco dipendono da disturbi della irrigazione sanguigna. Sono regali dell'ambiente, che fanno ammalare e mai guarire. Un'altra causa di gravi morbi è l'eccesso del mangiare e del bere liquori e vini alcoolizzati, che produce una combustione vitale non completa, arrivando a quadruplicare l'acido urico. L'inazione, l'inerzia, produce gli stessi effetti della fatica eccessiva, cioè acido urico, che si depone nelle giunture, perchè l'ossigeno del san- gue stenta molto ad ossidare le cellule organiche. Le malattie per combustione incompleta producono erpeti alla pelle, depositi artritici presso le ossa, guasti epatici ed ingrossamenti del fe- gato, nefriti e litiasi: e cagionano le così dette diatesi braditrofiche, ossia malattie croniche per rallentamento della nutrizione. Poco a poco, col massaggio e la ginnastica, la psiche può libe- rarsene. Tutti conoscono la riparazione dei tessuti che si opera rimarginando le ferite con tessuti nuovi e simili, anche il nervoso. L' uomo può riprodurre il cristallino dell'occhio (se non era stata levata la capsula), può rinsaldare le ossa rotte, e rifarne la parte che manca (se è rimasto il periosto). Gli animali inferiori riparano anche più presto. Tagliando la zampa ad un Tritone, i Leucoceti gli fanno un tessuto embrionale con vasi e pelle. Tagliandogli la coda può rifare le cellule grigie del midollo, i gangli nervosi ed i muscoli. Se una impressione morbosa ha cagionato una negmasia che ostruisca i vasi dei tessuti, si fa una neomembrana, detta Essudato, in cui si or- ganizzano nuovi vasetti capillari, che riassorbono il male, per espellerlo nel torrente della circola- zione. Se l'Essudato è soverchio, e non può essere -assorbito, si liquefa, si cambia in pus, e va verso le cavità sierose o verso la pelle. Se un corpo straniero è penetrato nell' organismo, provoca una acuta negmasia, con suppurazione per espellerlo ; se poi il corpo estraneo è penetrato nelle parti profonde, dalle quali non si può mandarlo via, viene circondato da vasetti capillari nuovi, che formano una membrana di rivestimento o cisto, isolandolo per proteggere i tessuti. Anche nei tumori del fegato formati da entozoari, avviene lo incistimento con membrane apposite. I tumori fibrosi dell' utero si empiono di concrezioni calcari che loro impediscono di cre- scere. I flemmoni acuti della fossa iliaca dell'ovario e degli annessi dell' utero vanno nella vescica e negli intestini, cercando l'uscita. Se un'arteria o una vena si chiude, si organizza una vascolarità collaterale. Se entrano a piccole dosi delle sostanze vele- nose, la Unità organica fa poco a poco i contraveleni. L'animale vaccinato con le antitossine, diventa immune, anche con dosi di un cinquemilionesimo di grammo (1). (1) Due o tre secoli fa quando moltissimi contadini inglesi andarono a lavorare nelle fabbriche, la tisi fece strage. Nel secolo decimonono i loro organismi in poche generazioni divennero resistenti ed oggi la mortalità per tisi è inferiore in Inghilterra a quella di ogni altro paese, perchè, come dimostrò il prof. Sanarelli della Università di Bologna, gli organismi (quando se ne lasci il tempo oc- corrente) tendono ad immunizzarsi. Così nelle Pelli Eosse e fra i Negri, i germi della tisi portati dagli Europei fecero morire a centinaia, perchè i loro organismi non erano abituati a lottare ed a vincere i bacilli di Koch. Tra gli emigranti Italiani che andarono a stare nelle città industriose dell'America soccombettero alla tisi quelli che provenivano da provincie Abruzzesi, Calabresi dove la tisi è rara, mentre quelli venuti dalla Lombardia o dalla Liguria dove è frequente hanno resi- stito assai meglio.Le malattie croniche sono per lo più cattive abitudini della natura che si faceva, ossia meccanismi formati da errori e trascuranza dell'Unità di coscienza. Creighton (Inconscious Memory in di- sease, 1886, London) attribuisce alle cattive abitu- dini dei tessuti certi moti riflessi patologici, ed a quelle dei tessuti certe febbri persistenti, certe affezioni cutanee ed anche catarri cronici. Quando la legge sociale morbosa si è radicata, si forma una diatesi, che viene ereditata. Ma l'esercizio muscolare e il sudore guariscono un po' alla volta anche queste, e la Unità generale invita l'animale a far moto celere per sudare. Il sudore (che traspira per la secrezione dell'acido lattico, dovuta all'aumento della innervazione e della circolazione, al riscaldarsi del sangue che corre verso la pelle per raffreddarsi) è il caccia- mali per eccellenza, portando via ogni acidità e lasciando l'organismo alcalino e sano. Quante guarigioni ha fatto il sudore! Il maggior vantaggio dell'esercizio muscolare (sia fatto per lavoro professionale, o sia fatto per sport), sta nell' accelerare la circolazione sanguigna, e quindi lo scambio dei materiali inetti coi vitali, giacche in un muscolo che lavora passa 9 volte più sangue che in un muscolo che riposa, mentre si rende più. facile la innervazione e la dilatazione dei vasi. E siccome l'esercizio muscolare è sempre re- golato dalla coscienza dell'individuo, ognuno ha il mezzo più sicuro per guarire dai suoi mali. Il movimento non è necessario solamente al- l'apparato circolatorio, respiratorio e al digestivo; ma a tutti gli altri apparati semplici e locali. Lo stato liscio delle cartilagini, la secrezione regolare del liquido sinoviale, la flessibilità dei ligamenti, tutte le condizioni anatomiche, indi- spensabili al funzionare di un'articolazione, spariscono man mano che si sta fermi, arrivando ad ossificare le fibre dei ligamenti, a fare delle ossa vicine un solo osso ; mentre chi molto si muove conserva benissimo le giunture e moltiplica le fibre ligamentose. I muscoli stessi che, nella inazione si ritraggono, e perdono ogni elasticità, l'acquistano a misura che vengono esercitati. Però va notato che il moto non è mai un tocca e sana, un rimedio istantaneo, e produce le sue modificazioni salutari soltanto un po' per giorno, sicché tardano per settimane e per mesi a manifestarsi pienamente, dovendosi colla nostra natura che si fa, formare una natura fatta, cioè un meccanismo che vada poi da se solo, salubremente, regolarmente. Un poeta inglese disse: Mentre sei nella tua casa di carne muoviti; ci sarà tempo di riposare poi nella casa di creta. Gli Inglesi se lo ripetono e nella età matura non poltriscono, ma accrescono gli esercizi. Il football da ottobre ad aprile è frequentato assai in tutti i prati che rompono la monotonia dei sobborghi di Londra. Si corre, si salta, si danno pugni non solo i diritti ma anche gli storpi. E in pari tempo si con- serva la tranquillità dell'animo, la fiducia e l'al- legria. In America, Mistress Mary Eddy Baker ha fondato una religione che chiamò « Christian Scientism » , ha i suoi templi in Boston ed altre città e diffonde la fiducia nella salute; guarisce anche realmente molti mali e mantiene migliaia — 142 — di Ladies Cureers (1). A questo proposito non è inutile di ricordare che in tutte le religioni si sono curate le malattie con la fiducia e che a Cachemire, nella moschea maggiore, si conser- vano tre peli della barba di Maometto i quali ogni anno fanno delle cure mirabili. E chi se ne potrà meravigliare, se pensa che in tutti gli atomi e specialmente in quelli che appartengono ad un organismo, nel quale hanno accomunato il sentire ed il volere per un certo tempo, vi è un unanime accordo nelVassurgere a vita più intensa e ad unità più alta? Accordo delle Unità molecolari cellulari ben inteso, senza che venga giù dal Cielo Infinito di Ardigò, dalla sotto natura o dalla sopra natura, alcuna di quelle cause alle quali VArdigoismo attribuisce l'ordine. Si promuove la guarigione col crederci e col volerla. Spesso gli organismi inferiori che parevano morti, ma dei quali non si era guastata la morfologia, risorgono (come lo descrisse fin dal 1860 il Pouchet nelle sue « Récherches et expériences sur les animaux résuscitants » ). Egli fece risusci- tare fino a dieci volte dei Rotiferi disseccati col tornare a bagnarli. E così pure fece rivivere degli Ostracodi e dei Radiati, delle ova di Apus, e delle Anguillide. Gli atomi di ossigeno, di idrogeno, di carbonio, e d'azoto, si elevano nella mor- (1) Educate nel « Theological Metaphysical and Psychological College » di Boston. Il Finot nella sua Revue disse che la volontà ha sopra l'organismo la potenza di ringiovanirlo, guarirlo, raffor- zarlo. E consiglia di svolgere tutte le forze con fiducia ottimista, preparandosi robusta salute e vita lunga. fologia cellulare che trovano, rifacendo la Unità generale degli animali che sembravano rigidi. Perfino dei Vertebrati offrirono non dubbi esempi di risurrezione. Certe Rane chiuse da secoli fra le roccie appena ebbero l'aria si mossero. Certi Pesci agghiacciati dai crudi inverni, quando ri- sentivano l'aria e l'acqua tepida, poco a poco ricominciavano lo scambio col mondo esterno e ritornavano sani. Qui non ci entra affatto l'Ipnotismo. Gli organismi si sono fatti un po' alla volta per il piacere; e se la morfologia non è guastata, appena il piacere ridiventa possibile {perchè ritorna la umidità od il calore che mancavano)y ritorna la vita. Sopratutto nelle malattie che dipendono da stasi sanguigne e in molte altre, la Psiche guarisce agevolmente. In quanti sono i morbi che affliggono l'uomo poi, i bravi medici cercano sempre di inspirare fiducia e coraggio, ben conoscendo che questi hanno maggiore efficacia della Farmacopea. Non mancheremo, terminando questi cenni sulla guarigione, di osservare che la Natura che si fa per guarire, non è solamente la Unità generale dell'organismo; ma che vi concorrono le Unità dei singoli organi, essendo tutti intenti, anche quelli della psiche passiva diventata meccanismo, a conservare e ristabilire la salute. Come la Psiche fa il Sistema Nervoso. Le due funzioni del sentire e del muoversi, quando furono ripetute, depositano nelle vie per- corse delle sostanze più instabili, che sono deli- catissime e dalle quali si formano i nervi e servono col semplice rivolgersi delle loro molecole, a tra- smettere sensazioni e volontà. Il sistema nervoso è assai rudimentale nei Celenterati, nei Polipi e Acalefi, come le Meduse, nelle Pholades (molluschi inferiori). Diventa visibile nei Vermi inferiori, e cresce bene nei Crostacei, nei Ragni e negl' Insetti, con- centrandosi in fili bianchi formati da molti fasci e formando dei gangli o gruppi. I gangli si avvicinano specialmente nel torace e nella testa. Nei Molluschi Cefalopodi i gangli si accostano tanto da formare una sola massa attraversata dallo eso- fago. Negli Scorpioni vi è quasi un piccolo cervello in due lobi, poco separato dal grosso ganglio del petto. Le larve degli Insetti sembrano Vermi, e con- servano come i Vermi la catena dei gangli : ma nella metamorfosi il sistema nervoso si concentra in una massa, tripartita in testa, torace ed addome. I Tunicati e YAmphioxus sviluppano meglio il sistema dorsale ed il cervello ; e nei Pesci inferiori questo si divide in midollo allungato o cervelletto, cervello medio (di lobi ottici e tubercolari) e cervello anteriore, in due emisferi, che ingrandiscono poi nei Vertebrati superiori. Sotto queste cinque forme (la diffusa dei Protozoari, la disseminata dei Radiati inferiori, la ra- diata delle Meduse e degli Echinodermi, la bilaterale ventrale dei Vermi, degli Artropodi e di alcuni Molluschi e la mediana dorsale dei Tunicati e dei Vertebrati), la composizione della sostanza nervosa si perfeziona gradualmente e arriva nei Primati e nell' Uomo ad avere molta lecitina, che è la sostanza la più instabile e la più adatta a ricevere impressioni. I fili nervosi fanno cilindrassi, chiusi in fo- dere di Keratina e dal neurilemma. Della sostanza nervosa tre quarti sono acqua, il quarto che resta solido è per metà di albumina e gelatina, e per l'altra metà di lecitina, cholesterina, e di altre sostanze grasse e di fosfati. I fosfati predominano nelle cellule grigie, che stanno alla fine di ogni nervo sensibile ed al principio di ogni nervo motore, ed hanno l'ufficio di ricevimento o di trasmissione dei dispacci. Nelle cellule grigie quasi nove decimi è acqua,, il 12 °/ è solido. La sostanza bianca che arriva nei gangli e nel cervello non ha che il cilindrasse e la myelina, senza fodere ; è acida, con poca lecitina. La lecitina si compone di molto carbonio, ed ossigeno, con qualche grasso, con neurina ed acidi fosforici. La convergenza che fa sorgere la Unità intima generale dell'organismo va sempre a finire nelle cellule grigie. La Natura che si fa, col ripetere i moti, li fa andare con crescente facilità, finche di- ventano moti riflessi, ossia Natura fatta. Nell'uomo il centro moderatore degli atti riflessi della spina dorsale sta nel cervello, dietro ai tubercoli quadrigemini. Vi sono nel cervello molti altri riflessi, grazie ai quali vengono imparati i mestieri e si arriva a parlare presto. Tutti gli atti riflessi si compiono senza V imagine} e non vengono impediti dal cloroformio (1), mentre gli atti volontari non solo, ma anche gli abituali, e quindi di psiche passiva, ma recente, in- dividuale, non ereditata (come lo scrivere, il nuotare, la scherma, ecc.), esigono V imagine e sono arrestati dal cloroformio. — Nella scherma si fanno per abitudine istintivamente delle celerissime parate opportune che, pensandoci avrebbero voluto dieci volte più tempo, e queste, come i mestieri imparati da lungo tempo da operai provetti, sono impossibili sotto l'azione del cloroformio. Ma i veri atti riflessi ereditari non soffrono per il cloroformio (2) e predominano in tutta l' infanzia e l'adolescenza ed anche negli adulti nelle funzioni interne, quali sono il deglutire, i moti peristaltici degli intestini, l'animazione dei globuli rossi, il ritmo della respirazione, la contra- zione dei muscoli, la defecazione, il parto, la regolazione del corso del sangue che fanno i minutissimi nervettini vasomotori. (1) L'imperatore Commodo dava nel circo al popolo Romano lo spettacolo di parecchi struzzi che, presa la corsa, erano decapitati col lanciare frecce a falce al loro collo : essi compivano gli altri tre quarti della corsa nell'anfiteatro, per puri atti riflessi della loro spina dorsale. (2) Gli anestesici, cioè gli Eteri ed il Cloroformio, sono volatili ed il loro effetto è passeggero. — I nervi motori si avvelenano col curaro, i sensibili colla stricnina, e questi, essendo contripeti, basta avvelenarne uno per ucci- dere l'animale. I muscoli si avvelenano col cianuro di potassio. — 147 — Nei moti riflessi abbiamo la prova evidente che il Conscio fa l'Inconscio. Questi moti riflessi sono stati una volta imparati dalla psiche attiva dei genitori, giacche l'In- conscio non può fare mai il Conscio. Ex nihilo nihil. E dalla unità generale di coscienza dell'or- ganismo animale deriva la combinazione di tutti gli scopi assunti nella evoluzione, che esprimono lunghe serie di atti compiuti per godere la vita, e deriva pure la prevalenza nell'uomo dei nervi sensibili sui nervi motori (1). La maggior parte dei moti riflessi dipende dal sistema del gran simpatico, che va dal midollo allungato al petto ed al ventre ed a tutte le ghiandole. Dipende pure in parte dal medio simpatico detto anche nervo vago, o pneumogastrico, che regola i moti del cuore. Il midollo allungato o bulbo, regola la respirazione, la deglutizione, e la voce (nodo vitale). Il nervo splanchico può inibire l'intestino tenue. Il moto del cuore e quello degl' intestini è fatto dai gangli delle loro pareti. Gli altri moti riflessi dipendono dal si- stema rachidiano della spina dorsale, in cui, in- trecciandosi i due sistemi nervosi (del cerebro e del gran simpatico), vi sono quattro colonne : due dei nervi sensibili e due dei nervi motori. Anche le cellule grigie sono doppie. (1) Sherrington mostrò nel 1906 (The integrative action of the nervous system. New York) che i riflessi maggiori sono composti di riflessi semplici e successivi, sopra una serie combinata di archi riflessi, divisi ciascuno in metà efferente e metà afferente ; ossia partendo dalle cellule grigie ed andando al muscolo o alla ghiandola. Il nervo conduttore è fatto di neuroni che si toccano, ma non sono mai continui. — 148 — Nel cervello la sostanza grigia trovasi alla periferia, sotto la corteccia nelle circonvoluzioni e supera la metà, e la bianca con poca grigia sta nel centro; ma nel midollo la disposizione è in gran parte contraria, ossia la bianca sta alla periferia e la grigia nel centro. Però questa si con- tinua nella grigia del cervello fino allo strato ot- tico e al corpo striato, dove si agglomera nel mezzo del cervello. Le cellule grigie sono moltipolari, ossia hanno molti poli o prolungamenti e sono alcaline. Quando una sensazione colpisce una cellula grigia, segue l'assimilazione nuova. Il nervo in riposo è alcalino: lavorando diventa acido e le sue sostanze più vitali cominciando a guastarsi, fanno la cholesterina. Alla filosofìa importa molto la distinzione fra la Natura che si fa ed i moti riflessi, e tra la scomposizione e la ricomposizione delle cellule grigie. Herzen credeva che si avesse coscienza quando le cellule grigie si disintegrano; ma appena si di- sintegrano la convergenza nervosa che fa la co- scienza le reintegra, con una nuova figurazione. Allora alla negazione di ciò che sembrava male fondato, ossia alla imagine difettosa, succede l'af- fermazione di quello che dall'animale o dall'uomo è ritenuto vero, utile o bello, una imagine cor- retta o nuova. Per sistemare il nuovo, occorre prima disgregare la formazione erronea. Ritorneremo a parlare della Natura che si fa sotto quattro nuovi diversi aspetti nel Cap. XII sui Muscoli, nel Cap. XIII sulla Psiche generatrice, nel XIV sul Sentimento e nel XV sulla Volontà. Insistiamo sopra questi rapporti, perchè la Natura che si fa è conscia: mentre la Natura fatta è necessitata e va come un meccanismo, come quegli struzzi privati della testa, che l'Imperatore Commodo dava in ispettacolo ai Romani. (Vedi sopra, la noterella pag. 146). Come il midollo spinale ha quattro colonne, due dei nervi sensibili e due dei nervi motori, così il cervello ha quattro parti, di cui le due anteriori piò. alte giudicano e muovono in quei centri che il prof. Flechsig chiamò i quattro centri spirituali; dopo che le due posteriori e più basse hanno sentito in quei centri che lo stesso fisiologo ha chiamati i cinque centri sensitivi. La massa delle cellule grigie nel cervello alto è distribuita intorno sotto le meningi in 9 strati doppi sottili. Ha circa mezzo miliardo di cellule, ciascuna delle quali mediante 4 fili comunica con le vicine e con la sostanza bianca e grigia, che sta al centro del cervello. I cervelli sono magazzini d'imagini che con- servano nelle cellule grigie le più minute divi- sioni dello spazio e del tempo di quello che si è veduto, toccato ed udito. La convergenza dei nervi per l'attenzione, si porta appunto sopra quelle cellule grigie, dove si fa la percezione o che dopo fatta questa, in- teressano per ravvivare nella memoria alcune determinate imagini. II punto focale della convergenza generale è la vera Unità dell'organismo, e fa l' Io che gode, soffre e pensa: e al di là, subito al di là di questo punto focale, una minutissima divergenza delle stesse linee arrivate colla Convergenza, lascia sul piano delle cellule grigie l'imagine di quello che si è percepito e che si può in seguito rammentare, ritornando a convergervi le forze. Io. Il punto focale della convergenza adunque è mobile, si forma a seconda dei bisogni di questa o di quella parte. Le cellule grigie dove si riuniscono le imagini fatte nel cervello basso o strato ottico, stanno negli strati corticali interni, mentre nei seguenti, fino alle meningi le cellule grigie diventano sempre più piccole e contengono probabilmente gli estratti dei simboli delle imagini. Quando si pensa le cellule grigie cerebrali si consumano e si rinnovano cinque volte più presto di quando non si pensa. Quando si fanno le percezioni o le astrazioni o si correggono gli errori, si fanno nuove forme nelle cellule grigie corticali. Mentre quando non si pensa, il rinnovamento delle cellule grigie av- viene poco a poco per semplice nutrizione e scambio di materiali, senza cambiare le forme delle impressioni ricevute o dei segni astratti, i quali ultimi però rimangono sempre in stretta relazione con le imagini materiali, ossia con le minime suddivisioni dello spazio e del tempo delle cose vedute, toccate ed udite, ecc. Meno precise sono le imagini prodotte dai sensi dell'odorato e del palato, anzi non sono imagini, ma reazioni sentite pensando ai cibi e ai fiori o ad altre cose odorate. Precisissime sono invece quelle del senso muscolare, che sono sempre collegate con quelle delle cose vedute, toccate od udite. La Energia pensante ha le stesse origini della Energia fisiologica e chimica e risulta dalla Convergenza che percepisce, ricorda, rammenta o combina le imagini confrontando e giudicando. Dunque il Pensiero è un lavoro che distrugge la sostanza nervosa più delicata, come il lavoro dei muscoli consuma gli zuccheri ed i grassi che sono nascosti nella carne contrattile. Il Pensiero ha il suo equivalente meccanico, ma è impossibile sta- bilire quanto sia, per la difficoltà dell'esperimento. Il cervello anteriore regola le correnti nervose di tutto il corpo. Il cervelletto regola il senso muscolare ed il tatto, ed un poco anche l'udito, e ne partono i cordoni posteriori del midollo. Per agire il cervello abbisogna di sangue arte- rioso e ci arriva da due parti. Quella meringe che avvolge gli strati corticali ed è chiamata la pia madre, riceve un gruppo di arterie per il cervello alto, ed un altro per il cervello basso e posteriore. La rete chiamata nevroglie, sotto le meningi, protegge i nove strati doppi di cellule grigie, del cervello alto, i cui vasetti capillari venosi portano via i solfati ed i fosfati consumati nel pensare. Se si arresta la irrorazione arteriosa del cervello, avvengono svenimenti, sincopi, vertigini o colpi apopletici. Se la normale contrazione dei vasetti capillari, per causa di qualsiasi sentimento, cessa ad un tratto, si dilatano le arterie della faccia umana, che arrossisce. Basteranno questi pochi cenni, per intendere quanto diremo sul Pensiero nel Volume Secondo «L'Uomo secondo Pitagora». Il cervello umano pesa un solo quarantesimo del corpo, ma riceve un sesto del nostro sangue per le due arterie carotidi e le due vertebrali. Il cervello sta al peso del corpo come 1 a 5600 nei Pesci (che sono i più stupidi fra i Vertebrati), come 1 a 1300 nei Rettili, come 1 a 212 negli Uccelli, come 1 a 186 nei Mammiferi; numeri soltanto approssimativi e presi in termine medio fra le varie specie di ogni ordine. Un cavallo che pesa come sette uomini ha due libbre di cervello. Un uomo ne ha quattro libbre. Dunque, relativamente, l'uomo ha quattordici volte più cervello e più pensiero del cavallo. Come la Psiche fa il Sistema Muscolare Nei precedenti Capitoli abbiamo veduto il progresso graduale mirabile della Natura che si fa. In questo vedremo come ordina i moti. La Volontà si manifesta senza aver ancora al- cun organo negli amebi e nei nostri globuli bianchi, il cui protoplasma contrattile si compone di albumina coagulabile e di sostanze proteiche non solubili. Il protoplasma contrattile degli Embrioni degli animali inferiori vi somiglia assai. Tutti i muscoli cominciano nel feto allo stato di sarcodi amorfi: i nervi li fanno diventar muscoli. Il primo muscolo a formarsi, e V ultimo a morire, è quello che governa la circolazione del san- gue e non si arresta mai : è il cuore. Al momento in cui dal sarcode si sviluppa in un uccello il muscolo che pulsa (fra le ore 26 e 30 dalla incubazione della gallina), i suoi movimenti sono rari e poco percettibili. Poco a poco si ac- celerano e si pronunciano : ed allora si formano i vasi, pei quali si caccia il sangue (arterie) e quelli per cui ritorna (vene) ed un'area vascolare provvisoria, una vescicola che si allunga in ventricolo di sopra e in orecchietta di sotto: diventa un cuore di pesce. Poi si contorce, mentre il ventricolo va sotto, la orecchietta va sopra e diventa cuore di rettile con tre cavità. Finalmente fa la quarta ca- vità e si completa come cuore di uccello o di mammifero. Come avviene la contrazione dei muscoli ? Avviene grazie a molecole di protoplasma assai grosse, chiamate sarcous, che mutano forma con grande facilità, essendo molto eccitabili e gonfiandosi col prendere il liquido ad esse vicino. Naturalmente nel gonfiarsi si avvicinano e costringono così le fibrille intrapposte a contrarsi, come ha dimostrato il prof. Arndt (Psychiatrie). Il sangue porta continuamente ai muscoli car- bonio, sotto forma di grassi e di zuccheri (che sono ambedue ossidi di carbonio). Il muscolo contraendosi non consuma la propria sostanza, ma si bruciano questi materiali portati dal sangue arterioso ; anzitutto i ternari o idrocarbonati, cioè i grassi ed i zuccheri; e poi in grado minore i quaternari cioè gli azotati (1). E la combustione non avviene (1) I prodotti della combustione completa dei ternari sono l'acido carbonico e l'acqua, e il prodotto della combustione completa dei quaternari è l'urea. Ma se la combustione fu incompleta, il prodotto dei ternari è l'acido lattico, e quello dei quaternari o azotati è l'acido urico, la creatina e la creatinina, cause di grassezza, di artrite, di gotta, di renella, di calcoli orinari e di nefrite. se non allora che la Volontà fa contrarre i muscoli gonfiando i sarcous. Il gonfiamento dei piccoli in- visibili sarcous produce quello dei muscoli visibili. Dunque la Psiche, che ha fatto i muscoli, è quella che li fa contrarre. La combustione dei grassi e zuccheri è la principale sorgente del calore animale. La contrazione è atto vitale psichico della Unità intima volente, esercitata nella syntonina di cui fanno parte i sarcous. Invece la elasticità, per cui le fibre muscolari ritornano ad allungarsi dopo che erano contratte, è una proprietà fìsica della fodera delle fibre muscolari detta sarcolemma. L' Unità intima col ripetere i moti, li fa diventare abituali ed atti riflessi. Il plasma muscolare dei sarcous, detto myosina o syntonina, che sta fra le fibre, si coagula come il sangue. I muscoli viventi sono elastici, mentre i morti sono rigidi. Un muscolo affaticato non si contrae più. Ma se la Volontà è forte, ed esercitata, bastano 2 minuti per riattivare tutti i muscoli. I boxers inglesi ogni 3 minuti di lotta ne prendono 2 di riposo e così continuano per parecchie ore. Ogni 3 minuti l' Unità intima raccoglie la sua energia per tornare a gonfiare i sarcous. II sistema muscolare è una batteria di archi intrecciati ; ma chi lancia la freccia è la Volontà, forza unitaria più delicata. Due uomini della stessa musculatura, lavorano molto diversamente, secondo la loro volontà. La differenza può andare dall'uno al dieci. Quando i nervi eccitano i muscoli a contrarsi, il sangue ci corre per avidità dell' influsso nervoso — 155 — dal quale furono fatti, essendo il sistema muscolare una continuazione dei nervi motori. E va notato che lo stesso nervo motore può contrarre il muscolo e può anche inibire il movimento, secondo che comanda la Unità intima, per il bene del Collet- tivismo organico. Il nervo motore comincia a deperire nella cel- lula grigia cerebrale, perchè la volontà è centri- fuga; mentre i nervi sensibili cominciano e deperiscono a partire dalla periferia, essendo emissari del cervello, che devono prendere le impressioni dell'ambiente. Perciò le sensazioni si diffondono ; mentre il nervo motore muove un solo muscolo. I muscoli sono un po' innervati continuamente, quanto maggiore è la Energia della Natura che si fa ; e sono quindi elastici, perchè gli estensori ed i Settori si equilibrano. Marey dice che, se i muscoli non fossero elastici, dovrebbero fare un lavoro decuplo, con un risultato ridotto al decimo. La loro elasticità si può far crescere con la Volontà e con l'esercizio, fino al punto da eseguire facilmente quei lavori di equilibrismo, di acrobatismo, di ballo o di operazioni manuali difficili in alcune professioni, che si ammirano. La Natura fatta della Volontà si può vedere sui corpi delle persone addestrate da lungo tempo alle ginnastiche: ed è un complesso di vasomotori, di nervettini del senso muscolare, di arterie, di vene, di muscoli collegati, che permettono di fare con prontezza movimenti impossibili a chi non è esperto, sempre diretti dalla Unità intima Volente. Quando danno spettacolo di sé le ballerine, gli atleti, gli acrobati, gli equilibristi, questa Natura fatta è già divenuta un Meccanismo. Allora i prò- — 156 — tagonisti, stanno attenti con la Natura che si fa soltanto alle nuove circostanze che si presentano nei loro compagni o nel pubblico. (Vedi Zucca, Acrobatica ed atletica, 1902). I corpi di essi sono continuamente addestrati ad innervare le spalle, i fianchi, le braccia, le gambe ed il ventre: e sono incomparabilmente più elastici di quelli di chi fa vita sedentaria. I muscoli hanno dei nervettini sensibili nelle loro fibre, che danno il senso muscolare, col quale noi proporzioniamo tutto quello che facciamo. Le isteriche anestesiche possono fare dei lavori di ago e di ricamo delicati, con la sola sensibilità muscolare. Il senso muscolare è il primo ministro della Volontà. Fra i muscoli bisogna distinguere quelli a fibre striate da quelli a fibre liscie. Le fibre liscie (lunghe cellule nucleate) stanno nell'uretere, nella vescica, nelle ghiandole, nello stomaco, nell'intestino, sempre alcaline e si con- traggono ad ogni improvvisa emozione, avendo nervetti vasomotori assai delicati che vengono dal gran simpatico, per atti riflessi. Dipendono dal gran simpatico anche i muscoli che fanno rigettare gli alimenti dannosi (contraendo l'addome ed il diafragma più dello stomaco). I più utili ad esercitarsi per sviluppare la salute sono i muscoli psoailiaci del retro venfre, vicini alla colonna dorsale, che sono i più ricchi di arterie, ed i più prossimi agi' intestini. Piacere e dolore crescono con le fibre striate. I più dipendenti dal^ cervello sono quelli della laringe. E evidente la Natura numerica della Unità in- tima quando cantano Uccelli, Scimmie ed Uomini, perchè, senza una interna ed elevata capacità di proporzionare la lunghezza delle corde vocali, rie- sce impossibile di emettere i suoni voluti. A tal uopo la struttura fatta dalla Volontà di cantare deve essere diventata un Meccanismo. Nell'uomo la laringe ha due corde che fanno le note basse, vi- brando in tutta la loro lunghezza. La glottide le ravvicina per farne vibrare una parte soltanto, a misura che il suono si vuol fare più acuto. Finite le note di petto, la sola parte che vibra dà un falsetto, perchè manca l'aria. Per fare le note gravi la faringe si contrae, la epiglottide si alza. Un tenore, un baritono, un basso profondo, un soprano, col muscolo tiroide (se hanno una Natura fatta esercitata) possono, senza preamboli, emettere quella Nota che desiderano. Basterebbe osservare questa facoltà di proporzionare i movimenti muscolari ed emettere le varie Note per far diventare pitagorico chiunque vi rifletta. Abbiamo indicato alcuni fatti della fisiologia utili a dar fondamento alla filosofia della vita. Il Pitagorismo esclude l'indeterminato e vuole che tutto sia definito se è possibile matematicamente, giacche la matematica è l'ossatura delle forze fìsiche, chimiche e biotiche come disse il Galilei. In fisiologia questa ossatura è determinata dalla Natura che si fa della Unità organica distinta e precisa, che numera col numero reale (e non col concettuale) intenta ad esercitare le funzioni es- senziali: digerire, respirare, sanguifìcare. assimilare e generare, attenta a cercare il piacere e fuggire il dolore, bramosa di ascendere a più alta unità e di affermarsi. Più che in tutti gli altri muscoli, in quelli della laringe, i nervi nel farli, nell' intrecciarli, nell'educarli, misurano col Numero reale. Della Parola diremo nel Yol. II. La Psiche generatrice Vedemmo ette gli organismi sono associazioni collettivismi di cellule, formati sentendo, desi- derando e volendo. Fra il sentire e il volere, vi è di mezzo non già il Concetto Hegeliano, ne lo Indistinto Ardigojano, ma una figurazione dell'atto necessario per svilupparsi. Ripetendo quell'atto, la Natura che si fa lo cambia in Natura fatta poco a poco. All'individuo bastano pochi giorni per fare un'abitudine : alla specie abbisognano molte generazioni. Le abitudini di due o tre generazioni non divengono Natura fatta della specie, ma quelle conti- nuate da molte generazioni rendono durevole la modificazione. Nel Oap. sul sistema nervoso abbiamo distinto gli atti riflessi che sono di natura fatta individuale o di poche generazioni, da quelli di molte generazioni, che si compiono senza avere la imagine e non vengono impediti dal cloroformio. Le parti più antiche, cioè i tessuti epiteliali, sono quelle che resistono più di tutte agli anestesici. 1 muscoli resistono meno assai dei tessuti epiteliali, ma continuano ad essere irritabili se non sopravvengono gravi guasti nell'organismo generale. Meno dei muscoli resistono gl'intestini, le ghiandole, il senso nutritivo, il senso respiratorio, il senso erotico. Invece la sensibilità conscia è subito abolita, appena vengono somministrati Etere o Cloroformio. Gli atti della sensibilità conscia progrediscono poco a poco e sono essi che fanno i piccoli perfezionamenti degli organi digestivi, dei respiratori, della circolazione, delle secrezioni, della sen- sazione e della locomozione clie vanno complicando e perfezionando gli organismi, facendoli passare dallo stato di Protozoari a quello di Animali più evoluti. La Natura fatta acquisita è una consuetudiner una legge, un esercito addestrato in modo diverso e proprio di ciascuna specie, in cui si riflettono tutte le sensazioni, tutte le volizioni, tutti i coefficienti del passato : cosicché ogni dettaglio nelle forme e nelle funzioni di un animale, ha avuto la sua causa intima. Questa legge di evoluzione si riproduce rac- corciata nel seme, nell'embrione, nel suo modo di crescere e di fruttificare — il che si esprime dicendo che la filogenia (origine della specie) si ricapitola nella ontogenia (origine dell'individuo). Quindi bisogna precisare che non è una memoria, come la chiamano molti naturalisti poco filosofi, quella che fa uscire dal seme l'una o l'altra pianta, e dal seme di un animale l'uno o l'altro tipo zoologico. Non è una Memoria,, ma è una Legge, una forma di moto, una psiche obbediente, passiva, inconscia nel suo complesso. Da molte uova di pesci e di uccelli di specie diversa, escono pesci ed uccelli assai diversi. Da spermatozoidi e da ovuli di Rettili, di Quadrupedi, di Primati, di Uomini, escono Vertebrati assai differenti, senza che la psiche sociale inconscia, nel ricapitolare la lunga evoluzione della specie,. mostri mai una libertà di volere, un qualsiasi arbitrio. Tutto va meccanicamente, necessariamente ; ed anche le mostruosità, le forme terato- logiche hanno sempre cause straordinarie di di- sordine. I moti una volta imparati vanno senza imagine, sono ornai voluti fortemente, organizzati, diventati meccanici : camminando non pensiamo al moto delle gambe. Non si può chiamare Memoria se non quella dell'Individuo, al quale ricorda le sue percezioni, i suoi atti. Non si può avere Memoria senza possedere il sistema nervoso e specialmente la so- stanza grigia, in cui deporre e conservare le inda- gini. Hering professore a Vienna è stato il primo a chiamare erroneamente Memoria questa Legge o statuto sociale, progressivo delle specie che si -evolgono. Nella sua Dissertazione all'Accademia Viennese 1870 disse che la Memoria è una funzione generale della natura organica, e questa parola male applicata ha generato poi molta con- fusione così in zoologia, come in fisiologia ed in psicologia. La Legge o statuto sociale organico procede sicura fintanto che l'ambiente non sia troppo av- verso. E intimamente connessa con la Unità che la figurò. Le filosofìe straniere non spiegano il mistero della vita. Lo Inconscio di Ed. Hartmann come può far tante meraviglie nella sua inconsapevolezza? A che servirebbero il dolore ed il piacere degli organismi, se questi sentimenti non governassero la loro vita e la loro evoluzione e tutto fosse operato da una divinità inconscia? Tanto più che nello Inconscio di Hartmann la Volontà lotta sempre con l'Idea.  In realtà non vi è affatto questa pretesa lotta; anzi non vi è neppure l'Idea: ma fra il Sentire e il Volere vi è la figurazione del moto che può giovare, figurazione che non si può chiamare Idea, Concetto o Pensiero. Le altre scuole non facendo la distinzione fondamentale fra la Natura che si fa, libera, e la na- tura fatta, necessitata restano impotenti nei problemi essenziali della vita e dimenticano la Unità intima che dà il piacere di vivere, fattore primo ed essenziale. Piacere che è più che mai sentito e goduto nell'Amore, quando tutte le psichi degli organi si fondono in una grande unità, ed è sentita colla figurazione delle forme teleologiche del sistema di forze proprio di ogni specie, ossia della legge o statuto sociale dell'organismo. Un sentimento finalista, prepara in questa figurazione le generazioni future. La sintesi del collettivismo organico, agognata e goduta con sentimento, figurazione e volontà, è la causa della Eredità e somiglianza dei figli agli antenati, salvo quelle piccole modificazioni che furono vivamente bramate. I passi più notevoli nella bellezza e nell'utilità della struttura, si preparano a lungo e si fanno prontamente nella sintesi Erotica, e nell'Embrione quando il Collettivismo organico è vivamente sintetizzato. Platone vedeva il divino nell'Amore ses- suale, perchè (egli diceva) prende tutta l'idea della specie, e la realizza. Possiamo dire che è la tra- smissione della Legge sociale del Collettivismo. La forza di ogni cellula dell'organismo, con- verge e concentra sopra poche cellule tale funzione, sia che si faccia per germinazione, sia che si faccia per fusione di nuclei germinativi sessuali. Dapprima il piacere di congiungersi si compie senza sessi, ringiovanendo i nuclei delle cellule, per semplice fusione, come nei Ciliati, nei Rizoidi e nei Magellati. Le cause meccaniche non bastano per aggruppare intorno ad un progenitore, per riproduzione senza nozze, individui primordiali, per formare un individuo superiore, e tanto meno a dar ra- gione delle forme seriate, ossia disposte in serie, e meno che mai a spiegare la differenziazione autonoma. Sono necessarie le cause interne vitali (sensazione, desiderio, figurazione, volontà) a trasfor- mare gli organi. Ci vuole poi gran concentrazione morfologica per moltiplicare l' individuo e fare le -colonie. E gli animali inferiori stentano tanto a fare tale concentrazione, che la prole resta impotente a diventare adulta in breve tempo, ma gli embrioni gradatamente si sviluppano fino a divenire adulti. Negli organismi inferiori {Celenterati, Crinoidi, Vermi e Crostacei inferiori) l'uovo non produce quasi mai un organismo uguale al genitore: ma sviluppa un essere embrionale, che ri- corda il primo individuo delle colonie lineari (Idromeduse) od il centro dei Corollari, e degli Echinodermi, che crescono a raggi (Radiati). Quando si muove, diviene un primo anello, che ne germina dei successivi, ai quali servirà poi di testa nei Vermi {Trochosphera) e negli Articolati (Nauplius). Nell'Idra di acqua dolce non vi sono che quattro o cinque individui in colonia, ma nei Polipi idrati sono migliaia. La Medusa in colonia non fa uova: ma quelle •che si isolano nuotando per godere le nozze, le — 163 — fanno. Un siconoforo è una federazione fluttuante di Meduse, divise in prensori, locomotori, riproduttori e nutrici. I Polipi del Corallo formano grandi co- lonie ; ma anche fra essi vi è VAnemone che vive isolato. Nei Briozoari e nei Tunicati si vede sempre il rampollo, come nei Celenterati. Nei Vermi, negli Artropodi non si vede; ma sono formati essi pure da meridi (ossia parti), derivate rampollando le une dalle altre. Negli Anellidi la bocca e gli organi dei sensi stanno nella sola testa, ma ogni anello ha le proprie gambe, il proprio canale digestivo, il suo ganglio nervoso, e i suoi vasi saguigni, il suo sistema riproduttore. Se si separano, fanno la generazione alternante, ora a gemme, ora ad uova, come le Salpe, nuotatrici, tunicate, le une grosse come aranci e dedite all'amore, le altre piccolissime, associate in catene fosforescenti. Così lo Sciphystoma, alterna le funzioni riproduttive, in modo che il sessuato fa le uova, ma non le vede nascere, e le nutrici allevano le larve nate dalle uova. I Vermi si distendono con nuovi anelli sopra una linea lunga e diritta. Ma in alcuni la progressione si fece per asse trasversale, obbligando ad accentrare e differenziare, portando al centro gli organi di nutrizione e di circolazione, e ne vennero i Molluschi, cancellando i segmenti; eppoi si fecero la conchiglia, per ripararsi dai ne- mici (come pensano Perrier e Gegenbaur). Però nella loro Embriogenià, non mostrano mai di es- sere segmentati, e possono anche non essere derivati dai Vermi, come pensano Rabl e Cattaneo. La facoltà di rigenerare le meridi o parti ta- gliate è evidente nell'Idra e nella Stella di mare, come nelle Piante. I Crostacei derivano in gene- — 164 — rale da specie che avevano venti segmenti. Il Pe- neonauplio aumenta gradatamente i suoi segmenti, mentre il gambero ha 21 segmenti fin dalla nascita. Le larve degli insetti sono Embrioni nati avanti tempo, ma capaci di svilupparsi con l'aiuto di nutrici, ed anche senza di esse, quasi sempre con Metamorfosi, come nel Baco da seta. Questo ani- maletto, finche mangia sul gelso, non ha sessi: farà le ghiandole sessuali quando sarà crisalide e farfalla, giacche la Muta o Metamorfosi è sem- pre una crisi di maturità genitale. E per godere l'amore che si chiudono ed elaborano i germi della loro Unità più alta. Gli Artropodi fanno diverse mute, rigettando il guscio. Il bruco, con bocca masticante, diventa farfalla, con bocca da succhiare. Il verme bianco diviene scarafaggio senza mutar bocca. Nelle Api, nelle Vespe, nelle Pidci, nei Lepidotteri, e nei molti Vermi inferiori, si osserva la partenogenesi. La partenogenesi artificiale è sempre impossibile senza le forze che accumulano le ener- gie delle precedenti generazioni (1). La concentrazione erotica arriva a perfezionarsi negli spermatozoidi e negli ovidi. I sessi si svolgono in ghiandole ermafrodite, nelle quali il di fuori è maschile, il di dentro è femminile. Se prevale l'assimilazione si ha la femmina: se prevale l'azione si avrà il maschio. (Vedi: Thomson Geddes: Evolution of sex. 1890, Londra). (1) Nella « Biologia taurinensis » di A. Gìglio 1906, il prof. A. Ceconi dice che chi vuol spiegare fisicamente la vita, prende sempre per isbaglio delle analogie parziali, come se avessero valore totale. — 165 — L'ovulo nasce nella donna dall'epitelio dell'ovario, che è uno dei tessuti più bassi, e più antichi dell'organismo. Anche gli spermatozoidi nascono dal tessuto epiteliale dell' uomo. L' uovo fecondato del maschio non si sviluppa in modo molto diverso dalle uova partogenetiche. Loeb e il prof. Delage della Sorbona 1906, trovarono il modo (con so- luzioni saline e semidolci miste a tannino), di pro- vocare la fecondazione artificiale delle uova di al- cuni minuti animaletti marini, alternando la coa- gulazione (con acidi) e la liquefazione (con alcali) delle albumine dell'uovo. L' uovo femmina ha molto citoplasma ed un pronucleo privo di corpo centrale. Il maschio ha un centrosoma, un pronucleo, e quasi nessun ci- toplasma. Il centrosoma maschio si biparte fecondando la femmina. Ogni organismo superiore esce da uno sper- matozoide che, nel suo mezzo milione di cel- lule, riunisce l'idea vitale da svolgere, ossia la psiche passiva degli antenati, in sintesi morfologica, che incomincia il suo impulso nell'astro del coito. Lo Spermatozoide e quasi uguale in tutte le specie superiori, ma ben diversa è la psiche passiva che riceve dai genitori. Entrando nell'ovulo lo irradia e lo vivifica, e ben presto la cellula uovo principia a segmentarsi ed a sviluppare (con struttura semifluida) l'embrione, dotato di una psiche passiva uguale a quella dei genitori. L'ovulo prodotto in una delle vescicole dette di Qraaf, quando è maturo, riceve molto sangue, gonfiandosi e rompe il follicolo, andando nelle trombe falloppiane, facendo mestruare la scimmia e la donna (non i quadrupedi). 11 L'uovo dei mammiferi è piccolissimo, ha quattro parti, cioè la vitellina, o zona pellucida esterna, il vitello pieno di granuli, e fra queste la vesci- cola germinativa di Purkinje e quella embrionale di Balbiani. Nelle uova degli Uccelli vi è di più l'albume ed il guscio calcare, dovendo essere nutrito e riparato fuori dell'alvo materno, covato tre settimane, mentre nei mammiferi l' uovo prende i materiali nutrienti dalla placenta (che nella donna è una, nelle pecore e nelle vacche sono parecchie). Il testicolo è fatto da molti tubetti stretti e lunghi contorti, che sboccano nel canale eiaculatorio : in ogni tubetto si formano strati di cellule di cui le più centrali allungano una coda e divengono così Spermatozoidi. Brown Séquard iniettando sotto la pelle dei neurastenici l'estratto dei testicoli di giovani animali fatto a freddo, ne guarì molti. La spermina iniettata sotto la pelle è tonica per due settimane e non fa mai male. Lo sperma contiene un numero enorme di sper- matozoidi ed uscendo si accompagna al liquido delle ghiandole del canale eiaculatore, al fluido delle ghiandolette del prostata ed a quello delle ghiandolette Cooper dell'uretra. Evaporato, lo sperma cristallizza alla superfìcie il fosfato di spermina. Gli acidi estinguono i movimenti degli spermatozoidi, gli alcalini a 35 gradi li conservano. La testa dello spermatozoide è ricchissima di acido nucleinico, il corpo è fatto da materie albuminoidi con lecitina e ce- rebrina, e il 5 °/ di fosfati (1). La Psiche ge- (1) Hofmeister vide che le protamine sembrano fatte dal trasformarsi delle proteine nel dar vita a spermatozoidi. Infatti nel Salinone, il testicolo cresce a spese della — 167 — neratrice è affidata a questi elementi chimici, in- vestiti dalla Volontà o Legge o Statuto sociale ereditario. Quando corre molto sangue all'utero fecondato, incomincia alle mammelle la secrezione de] latte, umore albuminoso pieno di globuli bianchi e di cellule nucleate dolci, che dopo il parto diventa un composto di caseina, di lactosi, di sostanze grasse neutre e di sali. Siccome il sangue non contiene caseina, ne zucchero di latte, così è certo che vengono segregate nelle mammelle che gonfiano i loro acini. La caseosi emulsionata ed i globuli butirici rendono opaco il latte. Nei giorni della mestruazione il latte si altera : ma presto ritorna normale. Che cosa avviene nell'utero a cui corre il sangue dopo la fecondazione dell'ovulo? Il suo nucleo, come quello di tutte le cellule nella cariocinesi (di cui parlammo nal Cap. VI) fa una segmentazione che si moltiplica, finche si forma la così detta Morula ; un assieme di palline come mora di gelso. Là si sgomitolano le membra venture dell'uomo. Nel centro della Morula si apre una cavità, in cui corre un liquido che gonfia e spinge le pareti, formando la Blastosfera. Questa va pigliando la musculatura del corpo, intanto che gli animali non mangiano. — Secondo Bang, invece di protamine vi sono istoni negli spermatozoidi in via di formazione e questi si sviluppano più tardi in protamine e proteine, che for- mano le teste degli spermatozoidi. Del resto la composizione chimica importa poco, poiché è la sintesi morfologica di tutto il collettivismo organico che dà la vita agli spermatozoidi come agli ovuli. Questa sintesi è del tutto psichica, come è evidente. forma di un ferro di cavallo, detta Gastrula, ed ha di dentro VEntoderma e di fuori VEsoderma. Neil' Entoderma (che diventa poi il canal digestivo) si fa un terzo foglio cioè il Mesoderma in- vaginando : il Mesoderma svolge il cuore ed i vasi sanguigni. L'Esoderma si sviluppa in sistema ner- voso muscolare, con un primo tubo di nervettini liquidi viscosi; e questo tubo farà la spina dorsale ed il cranio. La legge o statuto sociale è così divisa in tre dipartimenti. L'Embrione è un corpicino animato dalla legge intima ereditaria, che riproduce gli antenati, fa- cendo ogni giorno crescere la sensazione ed il moto del feto. La Unità che diventa organica svolge la legge sociale formata nell'atto della fecondazione: è V anima che fa il corpo, dal di dentro al di fuori, come dal di dentro al di fuori si è fatta la specie. Lo studio degli embrioni e dei feti presenta molte difficoltà per determinare nella Ontogenia la Filogenia, ossia per scoprire la genesi della specie, perchè l'acceleramento embriogenico modifica nel feto gli organi ed anche perchè si esige un magazzino di materie nutrienti che altera le forme, come dice il Perrier (Philosophie zoologique). In uno stesso gruppo zoologico la nascita avviene in stadi diversi; alle volte si saltano delle fasi, o le cavità e gli organi che esse contengono si costituiscono diversamente. La funzione generativa conferma adunque tutte le leggi di formazione delle specie animali che si sono esposte nei capitoli precedenti. La Unità infima nel Sentimento Il sentimento è il Governo del collettivismo organico, ed è piacevole o doloroso. Esige più tempo delle sensazioni. La sensibilità organica (che Rosmini chiama il sentimento fondamentale della vita animale, tenendone gran conto, a differenza di tutti gli altri Metafisici) detta in greco Cenestesia, in tedesco Gemeingefiihl, o tatto interno di tutti i muscoli, nervi, della circolazione sanguigna, delle funzioni digestive, della respirazione, delle secrezioni ghiandolari, del senso erotico, abituata da milioni di anni ad unificare il suo tatto interno ed il piacere della vita e della salute, è il fondamento delle tendenze individuali e del carattere: ed è ereditata come psiche passiva, che può fare l'attiva convergendo nella Unità. Il carattere viene dal complesso di tutte le cel- lule nervose, mentre l' intelletto viene da una piccola parte di esse. Nelle malattie la cenestesia è dolorosa quanto più vengono disturbate o minacciate le funzioni essenziali. Nella convalescenza è piacevole, quando si va guarendo ed eliminando le ultime stasi sanguigne; nella salute si gode fa- cendo una ginnastica, aumentando la circolazione del sangue, la respirazione e la innervazione delle membra. Dicemmo che il sentimento esige più tempo delle sensazioni, non però più di due se- — 170 — condi minuti, dopo l'eccitamento ; tempo necessario per fare il bilancio dei vari organi e sapere se l'organismo guadagna o perde. Sono confronti fatti dalla Unità generale, in cui il Numero concettuale non entra mai, relativi all'ambiente, alla nutrizione, alla salute o malattia, all'età ed alle forze dell'in- dividuo ; sono dunque calcoli dell' Unità numerante intima. Il tempo è abbreviato assai nelle gravi ferite. Le sensazioni sono reazioni localizzate nei sensi speciali dalla cenestesia: ed avvengono in generale in 2 centesimi di minuto secondo dopo l'ec- citamento. La differenza del tempo dal sentimento alle sensazioni può dunque arrivare al centuplo. Ogni sentimento eccita il cervello e qualche gruppo di ghiandole. Nella paura quelle degl'intestini, nella collera quelle del fegato, nelle in- quietudini i reni e la vescica depuratori del san- gue ; nel dispiacere e nel dolore le lagrimali. Nei sentimenti che deprimono, il cuore si ral- lenta e nel primo istante si arresta. In quelli stellici il cuore batte più celere e le arterie si al- largano, il cuore si vuota più facilmente, nelle emozioni liete, e più difficilmente nelle emozioni tristi, per cui il popolo attribuisce i sentimenti al cuore. I sentimenti di piacere e dolore, salute o malattia, coraggio o paura, simpatia od antipatia esprimono il rapporto in cui stiamo con le cose e in massima parte dipendono dal sistema nervoso del gran simpatico, operando sui nervettini vasomotori. Essi promuovono la Evoluzione destando i desideri e facendo la convergenza sulle sensazioni e sulle imagini che più giovano a preparare il proprio vantaggio. Esprimono a fondo la Unità numerante, perchè consistono dal principio alla fine in confronti di proporzioni (benché fatti senza Numero astratto) e sono comuni agli animali ed all' uomo. Le scelte fatte fra le varie vie, i cibi, le bevande, le azioni di ogni specie, i diversi modi di condursi, le risoluzioni importanti prese d' improvviso e anche le meditate sono suggerite dal sentimento e fatte con lampi di attenzione. Sotto l'azione del sentimento il sistema vaso- motore modifica la digestione e la secrezione della saliva, dei reni, delle lagrime, del latte (1) ecc. Il piacere ed il dolore sono i due modi sostanziali dell'essere noumenico, dell'Intensivo conti- nuo nella sua intima forza : Varmonia che fa espandere le Energie, la disarmonia che le co- costringe a soffrire e ad estinguersi. Ogni piacere aumenta la forza muscolare ; prova che ogni energia vuole ascendere. La felicità corporea sta nell' accumulare forza nervosa; è salute il condensarla ed è vizio il dissiparla. Il piacere, in chi non degenera, è una continua nascita ed è quindi ascendente in ogni specie, in ogni individuo che progredisce. Ogni Io sorge in condizioni diverse dagli altri, e (come diceva Góihè) chi gode meno è chi scimiotta i godimenti degli altri. Ogni uomo intelligente è originale nel modo di godere. Ogni acquisto di nuova sensazione armonica fa piacere più assai che la ripetizione delle co- (1) La gioia aumenta la secrezione del latte, la paura la diminuisce e l'arresta. La vacca e la capra munte da mano straniera non danno latte. — 172 — nosciute e già provate : e questo è lo stimolo che fa ascendere i piaceri e specialmente quelli artistici. Ogni allargamento del dominio sopra le cose è piacevole, ogni restrizione ed asservimento è doloroso. L'ambizione di promovere il bene comune è sempre piacevole e non è vero quel che disse Bahnsen (nella sua Charactérologie) che sia mossa dall'egoismo. La gioia giova molto al cuore, ai vasomotori, allo stomaco, al fegato, a tutto il sistema nervoso e ghiandolare. L'amor sessuale aumenta molto la circolazione del sangue, la respirazione, il godimento del tatto, del senso muscolare. Ogni espansione di vitalità e di forza, che non esaurisca, fa bene: rende l'occhio più vivo, il cuore batte più celere, le narici si allargano, la respirazione si fa più frequente e profonda, i muscoli si alzano, il sugo gastrico corre allo stomaco, la saliva alla bocca, tutto il corpo aumenta la Cenestesia, non soltanto nei piaceri corporei della tavola, dell'alcova, della ginnastica, ma anche negl'intellettuali, come la contemplazione di un ca- polavoro dell'arte, di un bel paesaggio alpestre, di un progetto industriale promettente, o l'ascol- tazione di una musica che gradevolmente ci molce l'orecchio (1). Le teorie che fanno derivare i sentimenti benevoli dalla esperienza, dalla utilità sono superflue e false. L'amore infatti pervade tutto l'uni- verso e dà maggiore piacere che la malizia ed il calcolo egoistico, anche ai più vili animali. (1) Nei piaceri intellettuali l'aumento della circolazione, della innervazione è minore in paragone con i piaceri del corpo. Le carezze eccitano piacevolmente i vasomotori ed il gran simpatico, aumentano la vitalità, specialmente se sono variate di modo e di posto. La emozione tenera (da non confondersi con l'erotica) aumenta le secrezioni, la circolazione, la re- spirazione, e la vita e dà un piacere calmo e durevole. La gioia se è forte può far piangere per la pressione sanguigna degli occhi. Anche il pianto cagionato da dolore aumenta la circolazione del sangue ed è un mezzo indiretto per cacciar via le imagini tristi. La simpatia deriva da sinergìa di moti, da ammirazione per la bellezza, la bravura e la bontà (1) per cui si entra nel modo di sentire dell'ammirato e la Unità intima dell'ammiratore si mette all'uni- sono con quella di colui che lo incanta. La collera e la gioia aumentano la innervazione dei muscoli, dilatando i vasi, mentre la paura e la melanconia abbassano V innervazione e restrin- gono i vasi. La paura fa impallidire perchè re- stringe i vasomotori, raffredda il corpo, rilascia gli sfinteri, peggiora le malattie. Il terrore inibisce ed arresta il cuore. La melanconia è l'atonia di spirito deprimente, è un rinunciamento ad ogni convergenza, e se dura a lungo, sconcerta ogni funzione vitale e si co- munica altrui, come gli altri sentimenti. Il disgusto deriva dal palato e dall'odorato, che sono legati al pneumogastrico, promovendo moti ri- (1) Ed è comune anche fra gli animali. Si sono visti vertebrati di varie specie rifiutare il cibo e morire d'ina- zione per aver perduto l'amante, cani desolati per la morte del loro padrone, e persino oche ed anitre zoppe sostenute amorosamente nel camminare da amanti e da sorelle. flessi intestinali e del canale digestivo e quindi nausea e vomito. Paura e disgusto hanno un fondo comune, cioè la tendenza a fuggire e a respingere: sono movimenti di avversione. La collera astenica è penosa, la stenica non lo è, perchè lotta sperando di vincere e di farsi giustizia. Quando si intellettualizza, genera l'in- vidia, e il risentimento, composti dallo istinto ag- gressivo e del calcolo che inibisce ed arresta gl'impulsi distruttivi, per evitare le vendette e le pene sociali o religiose. I sentimenti malvagi che hanno le varie specie di delinquenti non vanno ascritti a necessità ere- ditata (benché si erediti il carattere) ma assai più a cattivi esempi ed a seduzioni nuove. Esagerando le ipotesi di Ferraz, Destine, Morel, Lubbock, corredandole di un gran numero di osser- vazioni personali sui delinquenti e sui pazzi, so- vente male applicate, Cesare Lombroso ha insegnato e fatto credere a moltissimi italiani viventi che i selvaggi sieno fatalmente malvagi e che i nostri delinquenti sieno uomini che ritornano allo stato dei loro antenati selvaggi. Però non è così ; se vi sono e vi furono popolazioni selvaggie feroci, ve ne sono e ve ne furono molte pacifiche e buone. La guerra fra tribù e tribù, fra popolo e popolo va ascritta più che a nativa malvagità, alla debolezza del pensiero ed alla incapacità di estendere il proprio ideale sociale al di là di certi limiti, di fiumi, di monti, di laghi, di mari o di razza o di abitudini di lavoro. Infatti (come osserva l'eminente economista prof. Achille Loria) , i delinquenti convicts, deportati dalla Grande Brettagna, nell'Australia si trasformarono in una sola generazione in gentiluomini e diedero impulso alla stupenda democrazia del « Common Wealih of Australia » dove due città più popolose di Roma e di Napoli (Sidney e Melbourne) ed altre parecchie accentrano istituti di beneficenza ed hanno meno delinquenti della madre patria. Non è il corpo che fa l'anima : ma è l'anima che fa il corpo. I sentimenti si comunicano facilmente : chi è triste rende tristi i suoi confabulatori, chi è al- legro tiene allegra la brigata, un buon libro fa buoni i lettori, unibro cattivo li corrompe: le carceri, il domicilio coatto sono semenzai di delinquenti, ad onta di tutte le conformazioni dei cranii e di ossa e di altri dettagli morfologici che il Lombroso ha descritto con tanta diligenza. Queste conformazioni non sono la causa, ma Veffetto degli animi pravi. La delinquenza, quando non sia passionale, è un vile mestiere che ha rischi come alcuni mestieri onesti, e che si sceglie a piacere o per suggestione, per imitazione, come gli altri, che forma le sue abitudini e adatta i suoi organi e perciò finisce per modificare la fìsonomia e per abbrutire anche l'aspetto. Ma in principio della loro- carriera molti delinquenti sembrano, a guardarli,, simili agli onesti. Si dimentica che la Natura fatta del delinquente è un'abitudine, un meccanismo fabbricato poco a poco dalla Natura che si faceva e che il primo indizio fisico del disordine del carattere non è il cranio, ne l'orecchio ad ansa, ma è il disordine del sistema vasomotore, per cui la reazione ora è ec- cessiva, ora insufficiente e manca l'equilibrio, la. facoltà di calcolar bene le conseguenze dei propri atti e di moderarsi. Il valentissimo propagatore delle idee Lombrosiane, l'eminente penalista prof. Enrico Ferri, le rese più dannose colla sua dottrina fatalista, at- tribuendo le passioni perverse ed ogni delitto ad una malattia, di cui l'uomo è irresponsabile ed insegnando che il criminale non va dispregiato più che non si disprezzino i pazzi e gli appestati. La nuova scuola penale, quando guarda l'albero genealogico di un delinquente dà la parte del leone ai parenti malsani e quella del lepre ai parenti sani. Eppure il Maudsley (Crime et folie, p. 255) dice che allorquando il cervello ha principiato a degenerare, l'uomo può prevenire o con- tenere la pazzia o il delitto con lo sviluppare il controllo della volontà e col proporsi un alto scopo. Non è la morfologia, ne l'atavismo che fa i cri- minosi, ma l'educazione data al popolo dai cattivi Governi. Nel Veneto la delinquenza è la minima d' Italia perchè l'Austria amministrava onesta- mente, come la Repubblica Veneta. Invece nel Lazio dove l' ipocrisia era obbligatoria prima del 1847, dovendo ogni cittadino comunicarsi a Pasqua, e dove non vi era giustizia, tutto si con- cedeva per favore a chi obbediva e serviva al clero ; in Sicilia, dove la polizia dei Borboni stava agli ordini dei Feudatari, e l'autorità sembrava disonesta e nemica del popolo (il Colajanni assi- cura che facilmente ancor oggi si depone e si giura il falso in giudizio) ; nel Napoletano, dove a questi mali si aggiungevano i cattivi esempi, venuti dalle alte classi, la delinquenza è massima. Bisogna badare alle fonti dalle quali provengono i germi di degenerazione delle idee e dei sentimenti. A guastare le idee provvede fra noi una filosofìa balorda, a guastare i sentimenti provvedono i teatrali dibattimenti nelle Corti di Assise e le cronache giudiziarie dei periodici, la pornografìa, le carceri, il domicilio coatto ecc. Le missioni cristiane in Africa ed in Oceania riuscirono a convertire a buoni costumi milioni di uomini che il Lombroso riteneva inconvertibili. Tutta la storia ci testimonia che, quando le classi diri- genti erano morali, lo diventavano anche i popolani e viceversa. I sacerdoti ed i feudatari malvagi hanno diffuso la diffidenza e la ferocia. L'eroismo e l'esal- tazione, quanto il panico e la paura, e i sentimenti di odio e di vendetta, passano dai caratteri forti ai deboli, come provarono il prof. Sigitele ed altri. Chi non ha conosciuto l'ardore di sacrificio dei Mille ? Chi non sa quanto gli occhi dolci, ma al bisogno fulminei, di G. Garibaldi valessero ad in- fiammare i giovani? Chi non ha respirato l'ideale della patria libera quando era serva? Come avvenne la comunicazione dell'eroismo, allorché Medici ed i suoi trecento, difendendo il Vascello, versarono il miglior sangue come un sol uomo? Dunque i sentimenti, buoni o cattivi, si comunicano. Il sentimento religioso, come lo ispirano i sa- cerdoti, colla paura dell'inferno, può trovarsi negli animali domestici verso i loro padroni. Ardigò e Trezza lo intesero così basso. Certe specie di scimmie fanno atti di ammirazione e di adorazione al levarsi del sole e seppelliscono i loro morti. Il sentimento religioso (come lo dice il nome) è quello che fa sentire la parentela che abbiamo con tutte le cose, con tutti gli esseri, e la derivazione dalla conscia Unità del Cosmo. Ma non si è sviluppato se non molto tardi nella storia. Vico e Comte sbagliarono supponendo che la prima età fosse quella degli Dei. Era piuttosto consacrata al culto dei defunti e delle forze naturali. I selvaggi primitivi credevano che la Natura fosse un seguito di fatti causati dagli spiriti incorporati nel sole, nelle stelle, nella luna, nei monti, nei numi, nei mari, nelle piante, negli animali e persino nelle rupi. Tiele provò che tutte le religioni più antiche cominciarono dall'adorazione delle forze naturali e dal culto degli antenati, dei genii protettori, o dei genii malvagi che mettevano paura. Lo spiritismo odierno ci mostra con quale fa- cilità uomini anche istruiti, ma inetti a pensare, si danno a credere alla esistenza di spiriti invisibili ed alla loro influenza. E infatti, in moltissime tribù selvagge, divengono sacerdoti o maghi coloro che possono ipnotizzarsi ed entrare in estasi, costringendo i de- moni a desistere dai loro perfidi propositi, ed invocando l'aiuto dei buoni genii. Le tribù tu- ramene dell'Asia centrale e settentrionale e quelle di varie parti dell'Africa credevano tutte che, per- dendo la coscienza e lasciandosi ispirare dalle potenze occulte si trovasse il rimedio ad ogni male. Del resto gli Dei dei popoli selvaggi, anche se più evoluti, operano sempre come uomini, capaci d'ira e di vendetta. L'origine dei miti sta nella combinazione d'idee che è propria dei selvaggi, per cui si rassomigliano le leggende dei Greci, dei Celti, dei Lapponi, degli Eschimesi, degli Iro- >ehesi, dei Cafri e dei Boscimani, come li ha confrontati fra loro Andrea Lang. Il progresso mitologico consisteva nel conside- rare come astratti, vecchi e privi di attività gli Dei di prima e come realissimi quelli immaginati dopo. Così al Cielo e Terra dei Turanici, gli Ari opposero Varuna o Ritam che fa l'ordine; ma poi Varuna tramontò e si fece annanzi Indra il dio della luce. Allora la religione ascende di grado e diviene più razionale ed intima. Si fanno sagrine! e scongiuri magici, nel mentre si prega come persona a persona e già nei più antichi inni Vedici, Varuna è invocato a perdonare i peccati. La lode della divinità si accende per la speranza nella vittoria dei propri fini individuali o sociali : e per conseguirla si viene accentuando la potenza e la generosità del Dio ; gli si fanno offerte, sagrine!, gli si erigono templi, si stabilisce un culto. Il Cielo degli Indiani è anche il Dyaus Patir, il Padre celeste; il Tien dei Cinesi è il padre degli Dei e della Natura simbolo del maggior Dio; in Egitto il sole unificava gli dei locali primitivi, e così fra i Summeri e Accadi sull' Eufrate e fra i primi Semiti. Il culto del sole prevalse fra i Malesi, i Baici, primi immigranti nella China, e nei Sinto del Giappone, ed anche nel Messico e nel Perù, quando passarono in America la magìa e l'astro- logia dell'Asia. Ra, Dio del sole, ispira a Tot o Ermete i quarantadue libri sacri degli Egiziani, che insegna- vano la eternità della vita e del pensiero. Il Dio accadico del fuoco, Kebir, si fuse col Dio iranico del fuoco e col Bel, Dio del sole. Nell'India andò perduto il carattere personale del Dyaus Patir degli Ari primitivi e si pensò Brama come spirito assoluto, volontà impersonale che fa la Maya o illusione del mondo. — 180 — Invece nell'Iran (Sogdiana, Battriana) fu concepito un Dualismo del Dio buono Ahura Mazda o Yaruna contro Arimane capo dei demoni. L'idea di un regno di Dio in cui tutti sono solidali e il merito di alcuni si estende a tutti i fedeli è di Zoroastro. Dalla piccola città di Ur, dove fio- riva una delle scuole teologiche di Zoroastro uscì Abramo, capostipite degli Ebrei che conservarono il dualismo iranico, di angeli e demoni. Il riformatore dell'India si limitò a predicare l' eguaglianza, la grazia eguale per tutti, anche per le donne, gli schiavi, i criminali, abbattendo le Caste. Secondo Badda la convinzione di essere peccatori ed il pentimento rigenerano, e si prova col lenire i dolori degli uomini e degli animali, liberandosi dalla Maya o illusione del mondo. Il riformatore della Palestina Gesù fu il maggior genio del sentimento e rese la religione un affrancamento dalla necessità, una viva fiducia nell'Essere trascendente, una speranza di vita celestiale, che contrasta coi bassi ideali di ric- chezza e di potenza dei sacerdoti del suo tempo e di quelli del nostro. I suoi discepoli avrebbero dovuto essere focolari di rinnovamento della coscienza morale, centri degli assetati di giustizia, intenti a diffondere luce ed amore; quindi non potevano abbracciar mai la universalità di un popolo. Il Cristianesimo non si limita, come il Buddismo, a svincolare da ciò che è illusione, interesse, va- nità e superbia; ma contempla il sole della vita nella sua unità ed onnipotenza. Consiste essenzialmente nella comunicazione dei sentimenti di amore, di abnegazione, di fede, spe- ranza, che aveva Gesù. E stupido quindi l'abbassare Gesù a livello di profeti volgari. Per operare il bene, per muovere gli uomini all'altruismo, alla solidarietà, si esige un centro, un faro, un modello, il maggior genio del sentimento. Risuscitò l'Italia, da Arnaldo di Brescia a Dante (Vedi Gebhart, «L'Italie mystique», 1890), dandole il sentimento profondo che i preti non conoscevano. Risuscitò l' Europa, per mezzo della Riforma e della Rivoluzione francese, che rovesciò quella che Voltaire chiamava l' Infame, dando al popolo per lievito : Liberté, Egalité, Fraternité. E sempre sarà necessario, più dei geni della scienza, delle arti belle, della politica, il genio del sentimento, centro motore dell' umanità buona, perchè i sentimenti non s'insegnano, non s'imparano da pochi, ma si comunicano a tutti.  La Unità Numerante nella Volontà Se il Sentimento è il Governo di ogni Collet- tivismo organico animale, la Volontà è il suo ministro esecutore ed ha per ufficiali i nervi motori e per soldati i muscoli. Nell'uomo, dal sostrato frontale parte l'ordine, e per il fascio piramidale va alle circonvoluzioni motrici e per il centro ovale arriva alla capsula interna che penetra nel corpo striato. I corpi striati (sul dinanzi del cervello basso, nel corno maggiore), sono grossi come due uova 12 di tacchino e rossi, formati di cellule grandi grigie poligone. Ogni corpo striato dirige i movimenti del lato opposto. Al corpo striato seguono il peduncolo cerebrale ed il bulbo, e nel midollo spinale fa agire i nervi motori ed i muscoli. L'esercizio muscolare volontario è sempre preceduto dalla attività del cervello e del cervelletto, posto in azione dalla Volontà: Questo fattore psichico è il yero motore dei muscoli (1). I moti riflessi sono effetto della Volontà degli antenati diventata meccanismo. I più invariabili dipendono dalla spina dorsale. I riflessi cerebrali si adattano a complicate reazioni. I sensori motori vengono dal bulbo, dai corpi striati e dagli strati ottici. Ferrier (The functions of the Brain, p. 287), vide che i centri inibitori impediscono la distra- zione. Il moto inibito si disperde in gesti a metà, ed in disturbi viscerali. Se un moto riflesso non si compie, è sempre segno che venne contrariato per inibizione, voluta dai lobi frontali. Un ragazzo che impara a scrivere muove la faccia, le gambe, finche poco a poco si riduce a muovere solamente gli occhi e la mano. Sempre gli animali sostituiscono alla diffusione illimitata inutile, una diffusione ristretta e limi- tata al movimento che serve al loro scopo, e fin qui è Natura che si fa con attenzione. In seguito, (1) La Volontà non può essere Elettricità: come di- cemmo sopra, perchè va infinitamente più lenta ; è tutta psichica, e può così bene contrarre, come rilasciare i vari muscoli. Essa spende la forza nervosa accumulata e chiama sangue arterioso a vivificare i muscoli che lavorano. quanto più si ripete, tanto più si moltiplicano le fibrille, i vasi capillari, e si consolida in moto riflesso, ossia in meccanismo di Natura fatta. Abbiamo esposto la graduale formazione del meccanismo nei Capitoli XI sul sistema nervoso, XII sul sistema muscolare, XIII sulla Psiche generatrice, e altrove sotto diversi punti di vista, perchè la Natura che si fa va sempre distinta dalla Natura fatta che è necessitata. Non manca, anche ai più semplici animali, la libertà di volere nella Natura che si fa. La Necessità regna in tutta la Natura fatta, che è la parte massima, mentre la Natura che si fa è la parte minima, ma è libera. Gli atti volontari liberi sono assai pochi al paragone degli atti che si fanno per abitudine e per moti riflessi, anche nell'uomo educato. Un moto che si fa per abitudine esige ancora l'imagine: mentre un moto riflesso, che è ereditato, non ha più bisogno della imagine, e si compie macchinalmente. Ogni organismo esprime quello che gli antenati hanno voluto per il proprio bene, e l'istinto è una combinazione di processi appetitivi e di atti riflessi. Maudsley (Body and Will) dice che l'energia volontaria registra le sue esperienze modificando la struttura nervosa, acquistando nuova potenzialità, tanto nell' operare certi atti, quanto nello inibire quelli che sarebbero abituali. Nella proporzione che si arresta la tendenza a diffondere il movimento delle membra, la co- scienza si va concentrando in un modo specialmente voluto. Tutte le specie animali si sono svi- luppate coordinando e subordinando i moti secondo che erano utili e piacevoli. E quanto più questi movimenti venivano ripetuti, tanto più diventavano facili, finche si resero moti riflessi irresi- Questa genesi della Natura che si fa e della Natura fatta è di grande luce nella scienza e nella vita pratica. Ma nelle filosofie dialettiche dello Hegelismo e dell1 Ardigoismo che negano l'indivi- duo e riducono la coscienza ad un'astrazione, ri- sultato del processo di antitesi dei concetti per l'uno, e risultato delle forze incidenti dell'ambiente per l'altro, è ignorata. Anzi YArdigò confonde insieme sentire, volere e pensare negando sempre il soggetto che pensa e vuole. Nelle sue Opere, Voi. I, p. 141 a 185 egli scrive che il soggetto è un concetto astratto. « La coscienza non è altro, egli dice, che l' insieme delle rappresentazioni o esterne (dalle quali si astrae il il concetto di materia) o interne (dalle quali si astrae il concetto di spirito o di anima) (pag. 145). Il riferimento delle sensazioni al soggetto pensante ed agli oggetti esteriori, non ha luogo per intui- zione immediata: ma è un puro effetto di esperienza, per la quale ne facciamo poco a poco l'abitudine (pag. 149). Dunque non vi sono schemi a priori dell'intelligenza: non vi sono elementi primitivi; ma sono tutti, anche il Me, prodotti da abitudine empirica (pag. 150). La coscienza è un risultato delle forze incidenti {pag. 151). Non è vero che il fenomeno non si possa pensare senza il soggetto relativo. Il Soggetto è un concetto al quale si può arrivare, ma non un dato, dal quale si debba partire. Il Soggetto dei fenomeni psicologici non è altro che un astratto che si chiama Anima, è in- stabile, e segue le variazioni logiche per le quali passa l' induzione, dopo lo esame dei fatti » (pagina 163). « Non vi è differenza radicale fra Sentìmento, Volontà e Pensiero : Gli atti volontari altro non sono che sensazioni e sono riferiti all'anima per errore (pag. 180). Le facoltà rappresentative, affet- tive e volitive, sono solamente combinazioni variate dei medesimi elementi di sensazione, come altret- tante parole formate col medesimo alfabeto (pagina 181). Le cognizioni, gli affetti, i sentimenti, i voleri, sono tutte sensazioni o ricordanze di sen- sazioni, e dipendono dall'organismo » . Così l' Italia non si faceva dal di dentro al di fuori, da un eroe ai suoi compagni garibaldini e alle masse : no, erano gli effetti inconsci dell'ambiente che spingevano Garibaldi a Calalafìmi a rispondere a Bixio : « Non ci ritiriamo : qui si fa l' Italia o si muore » . E dall'ambiente che i martiri e gli eroi antichi e moderni attinsero il coraggio e l' entusiasmo : risultati delle forze incidenti, sentire, pensare, volere : tutto è uguale per Ardigò, ò]xbu xà Travia. Ogni uomo ha i suoi doveri: e se li segue è come una nave che va al porto, per forza propria, avendo buon capitano, buona bussola, buona macchina, buone vele, e questo è l'uomo pitagorico bruniano. Mentre, se non li segue, somiglia ad una nave che non sa andare in porto se non per caso, e che, quando i venti sono contrari, ed i marosi minacciano, si lascia travolgere dalle forze inci- denti, come un trastullo. E questo è l' uomo Ardigotico. Ardigò ha negato la Coscienza, il Soggetto, e la Natura che si fa. Ed in questo egli non ha fatto altro che seguire il Positivismo anglo-fran cese e contraddire al suo pensiero fondamentale dello Indistinto che sta sotto ad ogni distinto e che somiglia allo Inconscio di Schelling. L'armonia fra la filosofia di Schelling e quella di Feuerbach e di Spencer non è stata trovata à&WArdigò: né poteva trovarla. Il disaccordo è evidente nella teoria della Volontà. Chi è che vuole quello che fac- ciamo noi ? Se è l'ambiente non siamo noi. Se noi andiamo contro l'ambiente (e lo fanno tutti gli animali) siamo snaturati, delinquenti che vanno contro il loro papà l'Indistinto. Così il Signor Ardigò non è più Ardigò: e una eco della gente che lo circonda. Il prof. Giuseppe Sergi poi, nella sua « Psychologie physiologique » 1888, fa derivare gli atti volontari dai moti riflessi/ e tratta della prima differenza tra la volizione e l'atto riflesso, nel sospendere dopo l'eccitamento il moto, per cer- care una via nuova e arrivare così all'atto spontaneo, il quale, deriverebbe dall'attività automatica (sic) degli elementi nervosi e muscolari. È inutile proseguire. Intelligenti pauca. Il confusionismo è madornale. Gli atti riflessi non si sa- rebbero mai formati, se non fossero stati voluti e ripetutamente voluti dagli antenati degli ani- mali che oggi ne sono forniti. Se la Volontà uscisse dai moti inflessi, sarebbe perfettamente inutile, essendo meccanismi che vanno per necessità. Grazie a queste false ed assurde teorie, oggi nell'antica patria del diritto (che era tutto fondato sulla libertà), si crede che l'uomo sia schiavo delle proprie passioni: e la scuola Lombrosiana, attribuendo i delitti, le malattie mentali e anche il genio alla epilessia larvata, è ^esagerata a tal punto che il Morselli scrisse nella Cronaca d'arte di Milano che, con tali teorie, si può giungere a chiamare l'uomo un animale epilettico. La nostra dottrina della Natura che si fa e della Natura fatta fu, non solo adottata da valenti professori Italiani di filosofia del diritto, ma approvata anche all'estero e specialmente dallo eminente magistrato e pensatore francese Tarde, il quale la segnalò nella Reme Philosophique come «profonde et habituelle distinction » . Essa concilia in modo strettamente scientifico il sentimento della libertà, i bisogni della giurisprudenza, della politica, della morale, con le esigenze del Determinismo ; ed è tutta fondata sui fatti. Altri due illustri filosofi francesi più del Tarde espliciti amici della nostra Nuova scienza cioè B. Perez, «Le caractère de l'Enfant à l'homme», 1892, e Fr. Paulhan, « Les caractères » , 1894, opposero egregiamente i padroni di se stessi, ossia gli uo- mini riflessivi, che sanno sistematicamente inibire i movimenti superflui o dannosi, agi' incoerenti, agl'impulsivi, ai suggestionabili, ai deboli, ai di- stratti, agli storditi, ai frivoli, insomma a coloro che si lasciano imporre dalla società e trastullare dalle forze incidenti (agli uomini ardigotici). Sono questi i mezzi caratteri o i senza carattere, assai numerosi nelle grandi agglomerazioni umane. Però i veri caratteri si possono ridurre a tre, cioè quelli in cui predomina V intelligenza, che sono pochissimi, calcolatori, i quali nulla lasciano al caso ; i sentimentali che vivono sopratutto nella loro intimità, suscettibili, meditativi; e i volitivi che vivono molto all'esterno, nell'azione, audaci ed ottimisti (1). (1) Tutti sanno che gli antichi Greci distinguevano quattro temperamenti e li dicevano base di quattro ca- ratteri: il sanguigno leggero, versatile, corrisponde ai 1 veri caratteri sono unificati e stabili, durevoli, cambiano poco e difficilmente (1). Le divisioni fon- damentali dei caratteri sono date adunque nella distinzione delle tre facoltà psichiche : sentimento, pensiero e volontà. Se fosse lecito trovare qualche analogia nel mondo fisico si potrebbe osservare che gli uomini nei quali prevale il sentimento corrispondono al Carbonio (elemento accentratoro); quelli nei quali è maggiore la volontà all' Ossigeno, (elemento che si combina cogli altri più facilmente) ; quelli senza carattere o di semicarattere all' Azoto (elemento in- differente ed inerte); quelli finalmente che pen- sano più di tutti, non hanno naturalmente corri- spondenza nella natura bruta; corrispondenze che forse hanno poco valore. I grandi capitani, come Napoleone, i grandi uomini di Stato, i maggiori industriali sanno mezzi caratteri, tipi misti; il melanconico che Lotze chiamò sentimentale, esitante e profondo; il collerico che ha molta imaginazione e passioni intense, corrisponde ai volitivi; e il flemmatico o linfatico molle, di poca imaginazione, freddo, agisce lentamente, corrisponde ai senza carattere. Cabanis vi aggiunse il nervoso, che è una varietà del sentimentale, e il muscolare che è una varietà del volitivo. B. Perez classifica, osservando i moti, in vivi, lenti, ardenti, e tipi misti. F. Paulhan osservando la legge di associazione delle idee, ossia l'attitudine di ogni ele- mento, desiderio, idea a suscitarne altri, per uno scopo comune. Veggasi pure Janet, « Des caractères dans la sante et dans la maladie ». (1) Le conversioni sincere come quella di S. Paolo, di Lutero, Agostino ecc. lasciavano stare il fondo del carattere, mutandone solamente l' indirizzo e gli scopi. I can- giamenti di carattere dovuti a malattie od a ferite della testa non sono conversioni ma caratteri nuovi, dipendenti da organismo modificato. combinare questi caratteri, in modo da trarne il maggior frutto per la guerra, la politica e gli affari: e se mancano il carbonio o l'ossigeno, Velemento indifferente mette in equilibrio instabile alcune società, alcune burocrazie, alcuni organismi, che guidati da mano più sapiente prospererebbero. Il Volere fa tutti i moti. La volontà è la finalità resa causale, giacche al sentimento ed al giudizio fa seguire l'atto di difesa e di sviluppo. Maine de Biran vide che il tipo su cui percepiamo le cause esterne è la nostra volontà, poiché essere vuol dire sentire, volere, agire, ed infatti Schopenhauer concepì il mondo come fatto da Volontà cieca. Ed il viennese professore Stricker, che meglio degli altri pensatori lo interpreta, os- serva che la Volontà è la vera causa (Ursache, Urquelle), che essa è il tipo della forza universale. Con l'esperimento si provoca, a nostro piacere, un fenomeno, e si riconosce il modo di agire delle energie cimentate : assimilando le forze della natura alla volontà nostra. iSTon è tanto il succedersi co- stante dei fenomeni, che ci assicura sulla vera causa, quanto il cooperarvi col nostro senso muscolare e con la nostra Volontà. Siamo costretti a considerare ogni moto come causato e trasferito da una Volontà, da una forza simile alla nostra Volontà. Huxley e Dubois Reymond credevano che ci fosse un abisso fra la volontà e il moto, fra la psicosi e la neurosi. Però l'abisso non vi è punto ,se si pensa che l'Intensivo continuo della coscienza volente è il centro attivo del moto centrifugo. E la Volontà è misurante in tutto quello che si fa, anche in una carezza ad un bimbo: se non misurasse, invece di fare una carezza darebbe uno schiaffo e per farsi la barba si taglierebbe la pelle: ne cucire, ne scrivere, ne disegnare, né lottare e tirar di scherma, ne eseguire qualsiasi lavoro si potrebbe se la Volontà col senso muscolare non fosse misurante e non sapesse continuamente proporzionare i movimenti. La volontà che misura senza numero concettuale è sopratutto evidente nelle partite di boxe, dove la direzione e la veemenza dei colpi sono calcolate ad ogni istante con colpo d'occhio si- curo nei minimi atteggiamenti. Spettacolo interessante la ginnastica; e specialmente una partita di boxe. Johnson campione della razza negra del Texas e Jeffries campione della razza bianca dell'Ohio, nel luglio 1910 presso la Università di Reno, città universitaria del Nevada, mostrarono tutte le risorse della Volontà più esercitata a forza di pugni: e vinse il Negro, benché meno alto e meno robusto. La Volontà non sta punto in proporzione della intelligenza. I Batraci sono meno intelligenti dei Rettili, ma non meno risoluti. Fra i Mammiferi, che superano per intelletto gli altri Vertebrati, la Volontà è sovente inferiore a quella dei Rettili, e gli Uccelli spesso fra i tropici si lasciano affascinare. Certi serpenti affascinano uccelli, scimmie, conigli, col solo guardarli concentrando la loro Volontà. Mentre i piccoli animali che vor- rebbero divorare stanno sugli alberi, il serpente che sta per terra, li aspetta, li attrae: ed essi si sentono paralizzati, e mezzi morti di paura: fin- che vanno nella bocca del tiranno, per un ipnotismo che li conquide a far loro rinunciare alla propria volontà, alla distanza di alcuni metri, e mentre potrebbero ancora scappare volando o sal- tando altrove (1). Torneremo sulla fascinazione nel Voi. II: L'uomo secondo Pitagora, Cap. IX. Spesso un uomo d' ingegno ha volontà mediocre \ ma viceversa grandi passioni, desideri violenti sor- gono non di rado in uomini di cervello debole. Oltre ai mille modi di esercitare la Volontà nel lavoro e nella lotta per la vita, vi è la scarica leggiera e piacevole del Riso, che non ha alcuno scopo di utilità conoscitiva, ne economica, ne estetica, ma si fa spontaneamente, come esplosione di libertà, quando ci colpisce qualche contrasto improvviso di idee che si escludono, o qualche notizia gradita che promette lo sviluppo del be- nessere nostro o dei nostri cari o quando si fa un giuoco ginnastico divertente, o quando ci minaccia chi non può misurarsi con noi. Si comincia col sorriso, che increspa le labbra e mostra i dentini delle Delle donne; si accresce facendo brillare gli occhi e mostrando (come disse il Fiorenzuola), l'anima nel suo splendore, si arriva a scuotere piacevolmente il petto e il diaframma^ ad abbracciare i vicini ed a saltare. Il giudizio muove il riso : ma è la volontà che scarica la forza nervosa. Un giovanetto che studia Tlnglese, p. es., e pronuncia Shakespeare ora come Schiacciaspie, ora come l' immortale Scappavia, desta l' ilarità irresistibile ; ridono anche le scimmie. (1) Per suicidarsi ci vuole, oltre ad una forte volontà, un giudizio sentimentale sul minore dei mali inevitabili : giudizio che in generale manca agli animali. Però gli scorpioni, se messi vicino al fuoco, si suicidano, alzando la coda e cacciando il loro dardo avvelenato nel mezzo della testa. Il riso è sempre giovevole: allarga il torace, fa emettere il gas acido carbonico, ed aspirare os- sigeno, vivifica il sangue, abbassa il diafragma, dilata i polmoni ed i vasomotori, rischiara le idee, dà innervazione a tutto il corpo. È una esplosione di libertà, di superiorità, di vittoria, ed è probabile che nella civiltà possa generalizzarsi. Certo negli uomini poco civili è più raro, e negli ani- mali inferiori ai quadrumeni manca. Schopenhauer scrisse che gli uomini volgari si annoiano stando soli, perchè non hanno la potenza di ridere da sé. La umanità nel ridere dimostra che è libera, e gode ogni qualvolta s'innalza sopra l'ambiente, e si svincola da ogni ostacolo, da ogni ceppo, da ogni meschinità. INDICE Cenni storici su Pitagora e la sua Scuola . . Pag. 5 Introduzione » 17 Capitolo I. - La prima estrinsecazione del- l'Essere Divino (Spazio e Tempo) » 21 Id. IL - La seconda estrinsecazione del- l'Essere Primo (Atomi eterei e ponderali) » 29 Id. III. - La solidarietà degli Atomi in generale » 47 Id. IV. - La solidarietà geometrica cri- stallina » 58 Id. V. - L'ascesa alle chimiche combinazioni » 67 Id. VI. - L'Unità assimilatrice cellu- lare » 72- Id. VII. - Come le Unità cellulari si ac- centrano nelle Piante per godere l'amore » -82 Id. Vili. - Origine psichica delle specie animali » 101 Id. IX. - Come la Psiche fa la vita in- terna sana » 121 — 194 — Capitolo X. - Come la Psiche fa le guarigioni Pag. 134 Id. XI. - Come la Psiche fa il Sistema Nervoso » 144 Id. XII. - Come la Psiche fa il Sistema Muscolare » 152 Id. XTTI. - La Psiche generatrice ... » 158 Id. XIV. - La Unità intima nel Senti- mento » 169 Id. XV. - La Unità Numerante nella Volontà . » 181 ^  LBOL'20 SAN TOMASO D'AQUINO Della Pietra filosofale e dell'Arte dell'Alchimia, con una Introduzione L. 3,- MARCO SAUNIER La Leggenda dei Simboli filosofici, religiosi e massonici . . . . L. 6,- ERMETE TRIMEGISTO Il Pimandro e altri Scritti Ermetici, tradotti dal greco per il D.r Bonanni, con una Introduzione L. 3,- CIRO ALVI L'Arcobaleno L. 3,50 Frate Elia » 2,— Vangelo (II) di Cagliostro, con una Introduzione di Pericle Maruzzi L. 3, — Prossimamente : Gr. Uebini - Arte Umbra. L. Fumi - Eretici e ribelli nell'Umbria. Dr. Keller - Le basi spirituali della Massoneria e la yita pubblica. Enrico Caporali. Keywords: l’implicatura di Pitagora – pitagorismo – neo-pitagorismo – epigrafe sulla lapide di Caporali a Todi – Caporali – il mito di pitagora – la mistica di pitagora – scuola di mistica pitagorica – reincarnazione – concetto di metempsicosi – filosofia italica – pitagorismo nella Roma antica – Pitagora e Platone – Pitagora ed Aristotele -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caporali” – The Swimming-Pool Library.

 

Cappelletti: Grice: “I like Cappelletti – and so does he! He is into what he calls, in Latin, to show off, ‘philosophia anthropologica,’ which is MY thing – I mean, one can explore the philosophy of ‘life’ (bios) per se, and Aristotle on the ‘entelechia’ of a vegetable, but vegetable implicatures are boring (to us); the idea of ‘psychology’ features large, and also ‘vita.’ When Cicero dealt with Aristotle’s philosophy of life (zoe, bios, psyche) he found himself in trouble: vita, anima – And then came Ficino and Pico! Cappelletti knows it all, and it shows!” --  Vincenzo Cappelletti (Roma ), filosofo.  Dopo gli studi liceali classici, si laurea prima in medicina poi in filosofia. Nel 1967, consegue la libera docenza in storia della scienza che, dal 1968 al 1971, insegna, per incarico, all'Perugia, quindi, dal 1972, all'Roma La Sapienza dove, nel 1980, consegue l'ordinariato; ha successivamente insegnato la stessa disciplina all'Università Roma Tre fino al 2002, quando è andato in quiescenza.  Nel 1956, inizia a collaborare con l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana di Roma, fino a diventarne, nel 1969, vicedirettore generale, quindi, l'anno successivo, direttore generale, carica che manterrà fino al 1992. Questo periodo, vedrà una progressiva affermazione sia in campo nazionale che internazionale dell'Istituto, con un forte incremento nella produzione delle opere nonché l'apertura di nuovi ed innovativi progetti editoriali.  Dal 1992 al 2002, è vicepresidente e direttore scientifico dell'Enciclopedia Italiana, carica rivestita negli anni trenta da Giovanni Gentile, poi da Gaetano De Sanctis, quindi da Aldo Ferrabino di cui Cappelletti sarà appunto collaboratore negli anni 50'. Già condirettore della rivista di storia della scienza Physis (dal 1991) e degli Archives Internationales d'Histoire des Sciences, dirige, dal 1956, Il Veltro. Rivista della civiltà italiana (da lui fondata assieme a Aldo Ferrabino), nonché presiede la casa editrice Studium. È anche socio storico dei "Martedì Letterari".  Dal 1970 al , è presidente della Domus Galilaeana di Pisa e, dal 1989 al 1997, dell'Académie Internationale d'Histoire des Sciences. Dal 1999, è presidente della Società Italiana di Storia della Scienza (presidente onorario dal ) e, dal 1997 al , dell'Istituto Accademico di Roma. Inoltre, dal 2001 al 2005, è commissario straordinario dell'Istituto Italiano di Studi Germanici, quindi presidente dal 2006 al , promuovendone il passaggio da istituzione culturale a ente di ricerca. Presiede inoltre, dal 1988, la Società Europea di Cultura, fra gli anni 80' e 90' il Centro Italiano di Sessuologia (CIS), la Fondazione Nazionale "C. Collodi" dal 1989, il Consorzio BAICR-Sistema Cultura (Biblioteche e Archivi Istituti Culturali di Roma) dal 1991, la Fondazione FUCI dal 1996 al .  Dottore honoris causa dell'El Salvador e di Moron-Buenos Aires, è stato socio straniero dell’Accademia delle Scienze di Bucarest. Nel 1991, riceve il Premio internazionale Montaigne per le scienze umane. Medaglia d'oro al merito accademico, è insignito, nel 2003, della medaglia Koiré dell'Académie Internationale d'Histoire des Sciences e, per due volte, della medaglia d'oro al merito della cultura italiana, sia per gli sviluppi dell'Enciclopedia Italiana che per la promozione degli studi di storia della scienza.  La sua attività scientifica ha riguardato inizialmente la storia e l'epistemologia delle scienze biologiche nella Germania dell'Ottocento, quindi le teorie psicoanalitiche, in particolare la psicoanalisi freudiana e la psicologia analitica, nei loro rapporti con le altre discipline socio-umanistiche, fra cui l'antropologia, la politica e la filosofia. Ha anche curato collectanee su aspetti del pensiero nonché le opere di alcuni scienziati del Settecento e dell'Ottocento, fra cui Giovanni Battista Morgagni, Emil Du Bois-Reymond, Rudolf Virchow, Hermann von Helmholtz. Quindi, dopo aver ulteriormente approfondito gli aspetti storiografici e metodologici delle scienze esatte e naturali, i suoi interessi di ricerca si sono rivolti verso la filosofia e la sociologia delle scienze, analizzando, sia dal punto di vista storiografico che epistemologico, i rapporti storico-dialettici fra scienza e società, con particolare riguardo alle scienze umane.  Pubblicazioni principali Emil Du Bois-ReymondI sette enigmi del mondo , Firenze, Tip. L'impronta, 1957. Atomi e vita, Bologna, Edizioni Cappelli, 1958. Entelechìa. Saggi sulle dottrine biologiche del secolo XIX, Firenze, G.C. Sansoni, 1965. Opere di Hermann von Helmholtz , Torino, UTET, 1967 (2ª ed., 1995). Rudolf VirchowVecchio e nuovo vitalismo , Roma-bari, Editori Laterza, 1969. L'interpretazione dei fenomeni della vita , Bologna, Società editrice il Mulino, 1972. Emil Du Bois-ReymondI confini della conoscenza della natura , Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 1973. Freud. Struttura della metapsicologia, Roma-Bari, Editori Laterza, 1973. Epistemologia, metodologia clinica e storia della scienza medica (), 5 voll. (IV e V curati da V. Cappelletti e Dario Antiseri, 1982), Roma, Arti grafiche E. Cossidente, 1977-82. La scienza tra storia e società, Roma, Edizioni Studium, 1978. Saggi di storia del pensiero scientifico dedicati a Valerio Tonini , Roma, Casa Editrice Jouvence, 1983. Antropologia dei valori e critica del marxismo , Roma, PWPA-Edizioni dell'Accademia, 1984. Alle origini della "philosophia anthropologica", Napoli, Guida editori, 1985. De sedibus, et causis. Morgagni nel centenario (curato assieme a Federico Di Trocchio), Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1986. L'Enciclopedia Italiana per l'Europa: le nuove opere Treccani, Roma, Quaderni de Il Veltro, 1992. Le scienze umane nella cultura e nella società odierne , Edizioni Studium, 1993. Etnia e Stato, localismo e universalismo , Roma, Edizioni Studium, 1995. Introduzione a Freud, Roma-Bari, Editori Laterza, 1997 (2ª ed., 2000; 3ª ed. ampliata, ). Filosofia come scienza rigorosa. Edmund Husserl a centocinquant'anni dalla nascita (con Renato Cristin), Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino Editore, . L'Università e la sua riforma (curato assieme a Giuseppe Bertagna), Roma, Edizioni Studium, . Natura e pensiero. Percorsi storico-filosofici, Roma, Aracne Editrice, . Onorificenze Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte — Roma, 28 novembre 1992 Note  Notizie bio-bibliografiche sull'autore si trovano in V. Cappelletti, Natura e pensiero. Percorsi storico-filosofici, Aracne Editrice, Roma, , Introduzione di G. Cimino ( 9-48), Appendice ( 247-252).  Cfr. V. Cappelletti, "Attualità della storiografia scientifica", in:  La storiografia della scienza: metodi e prospettive, Quaderni di storia e critica della scienza, N. 5, Domus Galilaeana (Pisa), CLUEB, Bologna, 1975,  315-329.  La maggior parte delle notizie biografiche qui riportate, sono tratte dalla biografia dell'autore scritta da G. Cimino per l'Enciclopedia Italiana (cfr. sezioni "" e "").  Istituto Italiano di Studi germaniciHome page  Società europea di CulturaHome page  Guido Cimino, CAPPELLETTI, Vincenzo, in Enciclopedia Italiana, V Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1991, vincenzo-cappelletti. Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Vincenzo Cappelletti  Vincenzo Cappelletti, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   italiana di Vincenzo Cappelletti, su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com.  Registrazioni di Vincenzo Cappelletti, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Vincenzo Cappelletti: La nascita della Psicoanalisi. Aforismi, storia del termine inconscio, documento video, Rai Scuola.Filosofia Filosofo del XX secoloStorici della scienza italiani 1930  2 agosto 21 maggio Roma Roma.  Il termine entelechia (entelechìa, dal greco ἐντελέχεια) è stato coniato da Aristotele per designare la sua particolare concezione filosofica di una realtà che ha iscritta in se stessa la meta finale verso cui tende ad evolversi.   La crescita di una pianta, con cui essa tende a realizzare la propria entelechia. È infatti composto dai vocaboli en + telos, che in greco significano «dentro» e «scopo», a significare una sorta di «finalità interiore».  Aristotele parla di entelechia in contrapposizione alla teoria platonica delle idee, per sostenere come ogni ente si sviluppi a partire da una causa finale interna ad esso, e non da ragioni ideali esterne come affermava invece Platone che le situava nel cielo iperuranio. Entelechia è quindi la tensione di un organismo a realizzare se stesso secondo leggi proprie, passando dalla potenza all'atto.[1]  È noto infatti come, secondo Aristotele, il divenire si possa considerare pienamente spiegato quando se ne individuino le sue quattro cause: Causa Materiale, Causa Formale, Causa Efficiente e Causa Finale. Per designare il compimento del fine Aristotele usò appunto il termine entelechia che indica lo stato di perfezione, di qualcosa che ha raggiunto il suo fine. I neoplatonici si avvicinarono in parte alla concezione aristotelica secondo cui la forma di un corpo doveva essere anche immanente ad esso e non solo platonicamente trascendente, tuttavia trovarono riduttiva l'identificazione dell'anima con l'entelechia, essendo l'anima per costoro qualcosa di anteriore al corpo e comunque autonomo rispetto ad esso. Una sintesi tra la concezione aristotelica e quella neoplatonica si trova in Campanella, per il quale la natura è un complesso di realtà viventi, ognuna animata e tendente al proprio fine, ma d'altra parte tutte unificate e armoniosamente dirette verso una meta comune da una stessa universale Anima del mondo.  Anche Leibniz conciliò l'entelechia aristotelica con la visione neoplatonica, facendone una proprietà essenziale della monade, cioè di ogni "centro di energia", capace di svilupparsi autonomamente verso la propria meta o destino: ogni monade non riceve alcun impulso dall'esterno, ma tutte insieme formano un complesso unitario, retto al suo interno da un'armonia prestabilita da Dio, Monade suprema. Esse sono infatti coordinate al pari di tanti orologi, funzionanti per conto proprio ma sincronizzati tra di loro.  Goethe in seguito designò come entelechia l'archetipo della pianta, cioè il modello ideale di ogni tipo vegetale che si estrinseca in maniera tangibile nelle sue fasi di sviluppo esteriore, adattandosi di volta in volta alle differenti condizioni ambientali in cui si imbatte. Nel Novecento il termine entelechia è stato riproposto dal filosofo e biologo Hans Driesch per designare la forza vitale da lui ritenuta immanente agli embrioni e responsabile del loro sviluppo, in opposizione alle teorie meccaniciste che li consideravano alla stregua di «macchine». Aristotele ne parlava infatti come di qualcosa che ha la «vita in potenza» (De Anima, II, 412, a27-b1). ^ Così Plotino in Enneadi, IV, 7, 8. ^ Goethe, La metamorfosi delle piante (1790). ^ Sul concetto di entelechia in Goethe, cfr. il saggio di Giorgio Dolfini, L'entelechia di Faust, Olschki, 1983. ^ Dizionario di filosofia Treccani. Voci correlate Aristotele Monade Collegamenti esterni (EN) Entelechia, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata (EN) Entelechia, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata Controllo di autorità. GND (DE) 4356679-0 Filosofia Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di filosofia Categorie: AristoteleConcetti filosofici greciNeoplatonismoStoria della scienza. entelechia Termine usato da Aristotele in contrapposto a «potenza» (δύναμις), per designare la realtà che ha raggiunto il pieno grado del suo sviluppo. Il termine fu ripreso da G. Leibniz per indicare la monade, in quanto ha in sé il perfetto fine organico del suo sviluppo.  Nel campo delle scienze biologiche il termine è stato usato per definire il principio dirigente dello sviluppo di ogni organismo. In questa accezione il termine e. fu ripreso da H. Driesch, che nella sua dottrina neovitalistica ammise l’esistenza di un principio organico individuale avente in sé l’idea della realtà perfetta, cioè dell’organismo completamente sviluppato.Vincenzo Cappelletti. Keywords: entelechia – vita – filosofia della vita – Grice, “Philosophy of Life” – Aristotle on entelechia – storia della scienza – storia dela psicologia filosofica --. Il concetto di entelechia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cappelletti” – The Swimming-Pool Library.

 

Capra (Nicosia). Filosofo. Grice: “Plato, who never fought, thought the soul was in the brain; Aristotle, who taught Alexander, and knew of Alcebiades, a warrior, was aware of the sinews of the body; he thinks the ‘anima’ was in the heart – ‘enthymema’ – Ryle laughed at them all, stupidly. The issue is VERY subtle – And Marcello Capra explores the conceptual intricacies of applying a spatial concept (like ‘sedis,’ the most general spatial concept, actually) to ‘anima’ – And the good thing is that he philosophised with his companion while they did peripatetics along the valley of the river in Nicosia!” “Why is it that philosophers always have to self-segregate; people spoke derogatorily of the Oxford School of Ordinary Language Philosophy, but there were THREE schools: mine, Witters’s followers’s, and Ryleans – and each could not stand the other! Well, Capra, bored of Palermo, founds in Nicosia his own academy – At Oxford we had unfortunately to SHARE the town, if not the gown!” – Studia a Padova sotto Montano e Falloppio – un ginecologo. Tornato a Nicosia, fonda una scuola, societa, gruppo di gioco, o club di filosofia. In seguito, si trasferì prima a Palermo e poi a Messina. Divenne assistente di Giovanni D'Austria e medico della flotta del suo 'Impero per cui partecipa alla battaglia di Lepanto. Tornato in Sicilia, su incarica del vice-ré Don Diego Enriquez de Gusman studia l'epidemia di peste   e descrisse i risultati dei suoi studi in un volume dal titolo De morbi pandemici causis, symptomatibus et curatione, pubblicato a Messina. Scrisse anche un volume sulle proprietà mediche della scorzonera. Pubblica a Palermo saggi filosofichi. Un saggio filosofico e di dedicato alla sede corporea dell'anima e considera i principi di Aristotele e i quesiti di Galeno. Per Aristotele, contro Platone, la sede corporea dell’animo e nel cuore; per Platone alla testa!Altro saggio tratta dell'immortalità dell'animo alla luce della psicologia filosofica funzionalista di Pitagora, Aristotele, Pitagora, ed Epicuro. Di Marcello Capra non si conoscono esattamente il luogo e la data precisa della morte.  Uomini illustri della Sicilia. Dizionario biografico degli italiani. l'immortalità dell ' animo umano è considerata come incerta. Ma ciò sia detro di passaggio ; che noi non vogliamo , ne dobbiam difendere l'Immortalità dell ? animo Umano con tanto pericolo. E a chi domandi , l'immortalità dell'animo è vita futura ? rispondiamo , esser futura la sanzione. ftante la lor confufione coll'anima universale diffusa in tutta la mole corporea · Onde opponendo quegli Antichi l'immortalità dell'animo alla mortalità del corpo , mostravano , che questa immortalità intendeano , come una permanenza eterna. La sola immortalità, dunque, alla quale si possa pen​sare, e alla quale effettivamente si è sempre pensato, affermando l'immortalità dello spirito, è la immortalità dell'Io trascendentale; non quella, in cui si è fantasti​camente irretita la mitica. L'uomo adunque , come egli è creato in mezzo fra l ' Angelo , e la bestia , cosi alcuna cosa comunica con gli Angeli , cioè l'immortalità dello spirito , e in alcune cose comunica con le beftie , cioè la . mortalità della carne insino , che la carne ... Sulla sede dell’anima e della mente. De Sede Animae et Mentis ad Aristotelis praecepta adversus Galenum. Primò igicur notandum , quando de Sede Animæ rationalis disputamus , per Sedem strictè nos non intelligere firum , qui exigit distinctionem seu divisionem partium in loco , folisque competit corporibus , sed , ut Scholastici nuncupant ... Dialogus de instrumento philosophiae. Publication: Messanae : ex typographia Fausti Bufalini, Marcelli Caprae , ... de Immortalitate rationalis animae juxta principia Aristot . adversus Epicurum , Lucretium et Pithagoricos quaesitum . — Panormi , apud J. F. ... De Immortalitate rationalis animae juxta principia Aristot. adversus Epicurum, Lucretium et Pithagoricos quaesitum  il Capra, nicosioto , il quale nel 1589 inandava fuori due Quesili, l'uno De sede animae et mentis ad Ari stotelis praecepta , adversus Galenum , l'altro De Immortalitate A nimae rationalis , justa principia Aristotelis, adversus Epicurum , Lucretium , et Pythagoricos; Caprae Marcelli, nicosiensis , De sede animae et mentis ad Aristoteles praecepta , adversus Galenum , Quaesitum. Panormi 1580 in 4 . De immortalitate animae rationalis , iuxta principia Ari stotelis, adversus Epicurum , Lucretium , et Pythagoricos, Quae situm. Ibi 1589 in 4 . Qualche relazione con quest'Istituto devono aver avuto le opere pubblicate dal Capra in quel torno di tempo , come : De sede animae et mentis ad Aristotelis praecepta , adversum Galenum . Quaesitum ( Panor . , 1859 ) ; — De immortalitate. Capra, filosofo siciliano originario di Nicosia, può essere considerato un altro esponente non secondario della quaestio che interessa la sede dell’anima (o animo) razionale. Studia a Padova sotto Monte e Falloppia, esperienza questa da cui aveva mutuato l’interesse, tutto padovano, per i problemi di fisiologia generale e psicologia. Per un’introduzione alla non vasta biografia di Capra, si vedano PITRÉ e GARIN, GLIOZZI e DOLLO --. Nel “De sede animae et mentis ad Aristotelis principia adversus Galenum (Palermo) dedicato al viceré don Diego Enriquez de Guzmán, conte d’Alvadeliste. Infatti, Capra dà ampio saggio delle sue attitudini filosofiche in campo medico, prende le difese della psicologia aristotelica. Per Capra la quaestio de sede animae si presenta immediatamente duplice. In un senso, infatti, la questione riguarda l’anima come principio di fisiologia generale e soggetto quindi a generazione e corruzione (quaesitum de sede animae). Dall’altro, invece, riguarda un principio immateriale, immortale ed eterno (quaesitum de sede mentis). Disputaturus (ut ad peripateticum pertinet) de animae sede. quoniam una aeterna, ut in nostro quaesito demonstravimus: altera mortalis. Quibus non eodem modo sedes convenit. Propterea ut lucidior sit explicatio agam primo de sede animae quae interitui est obnoxia. Mox agam de sede mentis: hoc est illius partis quae venit deforis, et post corporis dissolutionem remanet superstes. Quanto all’impostazione, il saggio si presenta come una serrata fila di quaestiones e responsiones secondo l’uso scolastico, mentre l’obiettivo polemico è rappresentato dalla tesi galenica dell’estensione e dislocazione reale dei principi psichici nel corpo. Capra distingue anzitutto tra “principato” (principatum) ed “estensione” (extensio) dell’anima. Il principato riguarda l’organo che per primo si attiva, si modifica o cessa di funzionare in determinate condizioni. L’estensione, invece, ha a che fare con la reale presenza dell’anima nelle strutture materiali. In quest’ultimo senso si hanno due alternative: o l’anima si trova ad essere suddivisa in più parti del corpo, oppure si trova tutta insieme in una sola di esse. Entrambe le opzioni vengono però respinte, anche con argomentazioni tratte da esperimenti anatomici. In generale l’estensione dell’anima viene negata poiché, in ossequio al dettato aristotelico che vuole l’anima forma del corpo organico, la sede dell’anima deve essere considerata il corpo nella sua interezza -- principatum consideramus; cum obtinet in aliqua corporis particula. At si consideramus extensionem, ea est ubique. Obiectio Et quoniam ad huc quispiam instare posset per ea quae retuli in praecedenti quaesito. Nam per ligamenta conspicimus privari membra sensu et motu. Quod non contingeret si anima per totum corpus esset extensa. Hinc Aristotelem aliquando videtur asserere animam esse in spiritu. Responsio Dicendum est quod solum ex eis colligimus principatum, et insuper colligimus spiritum esse id principium, per quod anima iungitur corpori, et obit munera sua. Non autem accipimus eam non esse extensam, quia reiicienda est sententia Galeni qui cum censeat animam mortalem esse temperamentum; cum inquit, septimo de placitis Hyppocratis, et Platonis vegetalem esse temperamentum epatis. Vitalem vero temperamentum cordis. Nam si id esset, tunc non ubi vitalis esset anima, ibi reperiretur vegetalis. Nec essent extensae per universum corpus. Cum itaque animae non conveniat sedes ut corpori, nec ita si una corporis parte et non alia. Est enim in toto corpore: et dum quaerimus sedem animae tamquam formae, dicere debemus totum corpus esse animae sedem. Quanto all’estensione del principato in cui essa si manifesta, invece, si tratta di un’estensione per accidens, che spetta realmente forse solamente ai vegetali e ad alcune specie di insetti. Per questa via, distingue quindi l’estensione spaziale dalla divisione concettuale. La prima compete all’anima in quanto soggetta alle forme materiali di cui si serve. La seconda rappresenta la molteplicità delle sue funzioni come espressioni di un'unica attività. Gli esperimenti sulla legatura dei nervi dimostrerebbero in tal senso che qualsiasi organo, separato dalla sua connessione con il cuore, diviene torpido o mal funzionante. Et authoritatibus, et rationibus confirmare possumus. Et primo nos conspiciamus quod si a corde ad reliquas particulas claudatur iter, aliae partes vitae privantur: nam et motu et sensu distincte conspiciuntur. Ut in obstructionibus, in epilepsia, in ligationibus servare licet. Id minime eveniret si anima esset tota in quavis parte. Ma essi, secondo Capra, evidenziano anche come l’anima abbia la tendenza a ricostituire spontaneamente quella totalità che viene interrotta o sopressa con le operazioni di legamento o incisione, in ciò dimostrando la sua dipendenza da un principio unico. L’anima, benché estesa nella sua totalità in tutto il corpo ed ogni sua parte in ogni parte di quello, differisce in questo dalle altre forme materiali che, quando viene divisa, essa recupera la totalità che tuttavia non è una totalità di estensione. E ciò avviene in quanto essa possiede un principio dal quale dipende. E per questo Aristotele afferma che l’anima è una in atto, e molteplice in potenza. Inoltre è estesa in modo tale da interessare allo stesso modo ogni parte del corpo e da adattarsi alle forme inferiori, ma in modo consequenziale e seguendo un certo ordine, poiché tali forme si osservano nel cuore, e poi negli altri organi, o in ciò che fa le veci del cuore. Tutte queste cose sono note per il fatto che dimostrano come l’anima sia forma necessariamente estesa e divisibile. Così, dunque, l’anima è estesa in relazione all’estensione del corpo, ed è divisibile, dipendendo tuttavia dal cuore quanto a sviluppo e conservazione, tramite gli spiriti e le parti più sottili del sangue. Qui si può separare l’anima in motore e mobile a motivo delle diverse parti, e lo stesso si può fare distinguendo gli spiriti e le specie dell’anima in rapporto al corpo misto. In primo luogo, dunque, l’anima dipende dagli spiriti e dalle parti più sottili del sangue che traggono origine dal cuore, il quale si dice essere la sede dell’anima. Anima ut extensa est tota in toto, et pars in parte. In hoc differt ab aliis formis materialibus. Quod quando dividitur post divisionem recipit totalitatem. Non tamen totalitatem extensionis. Et id evenit. Quoniam habet unum principium a quo pendet. Et ideo Aristoteles inquit, quod est una actu, plures potestate. Insuper ita extensa quod aeque Item respicit omnem corporis partem et convenit formis infra animam, sed cum dependentia, et ordine aliquo. Quia Item considerantur in corde, mox in aliis, vel in eo quod cordis gerit vicem. Haec omnia ex eo sunt nota, quod ostendunt animam esse formam tunc necessario extensam, et divisibilem. Sic itaque anima extensa ad extensionem corporis, et divisibilis, pendens tamen infieri, et inconservari a corde, mediantibus spiritibus, et subtilioribus partibus sanguinis. Hinc animam secari in motorem, et mobile ob varias partes: et spiritus distinctionem, et animae diversitatem ad formam misti. Primum itaque anima innititur spiritibus, et tenuioribus partibus, et a corde originem ducunt, quod dicitur esse sedes animae. L’estensione corporea compete dunque all’anima in virtù di un organo principale, il cuore, e quindi di organi secondari dei quali per accidens condivide la corporeità, mentre substantialiter l’anima si comporta come la fiamma che, seppure divisa in molte parti, resta sempre ed essenzialmente una. In questo senso la sede dell’anima è l’organo mediante il quale l’anima si unisce primariamente al corpo ed è dunque l’organo che per primo nasce e per ultimo cessa di vivere. Rispetto ad esso il cervello si presenta quasi excrementum et pondus iners. Per rintracciare l’origine del principio fisiologico e la sua sede, Capra fa affidamento alla dinamica del calore innato -- Ea est censenda animae sedes quae origo, et principium est huius caloris. Sine quo anima nec esse, nec operari valet. Sed huiuscemodi est cor: ut experientia docet, et omnes affirmant. Immo Hyppocrates ait animam spirituum seu calorem esse -- laddove infatti ha origine il calore naturale – egli argomenta – ha origine anche l’anima quae educitur primo de potentia materiae. Ma, calore e vita hanno origine dal cuore e si diffondono attraverso gli spiriti ed il sangue a tutto il corpo: a quanti dicono che gli spiriti siano sede dell’anima si deve rispondere che è necessario considerare il calore come sede. Infatti gli spiriti sono necessari in quanto il calore naturale è un certo tipo di spirito, giacché nello spirito si conserva il calore, la cui origine non è né il fegato né il cervello, ma il cuore, che è la sua origine precipua. E se anche alcuni anatomisti hanno attribuito l’origine degli spiriti alla pulsazione, si sono sbagliati ed hanno fatto affidamento su di una falsa esperienza. Infatti, il cuore è l’origine del calore e lì, nelle parti più sottili del sangue, debbono avere origine gli spiriti; non certo dall’aria che viene attratta. Perciò si deve ritenere che la sede dell’anima sia quella che possa adattarsi a ciascun singolo vivente. Ma ciò che si adatta ad ogni singolo vivente è il cuore. Ad id quod dicunt de spiritibus occurrendum est: quia nos calore considerare debemus. Nam spiritus necessarii sunt: quoniam calor naturalis quidam spiritus est. Cum in spiritu servatur calor. Non epar non cerebrum est origo. origo itaque praecipua cor est. Et si Anatomici nonnulli pulsui. Id tribuerunt. Falluntur, et falsitate experientia nituntur. Nam caloris origo cor est, et ibi spiritus extenuissimis partibus sanguinis gigni debent: non autem ex attracto aere. Propterea ea est censenda animae sedes. Quae singulis viventibus convenire valeat. At singulis convenit cor. Stabilendo dunque il cuore quale sede dell’anima, prosegue Capra, si riuscirà facilmente a giustificare i fenomeni di accrescimento, moto, ostruzione o legatura dei nervi. A questo punto, però, l’autore è costretto a fare i conti con la tradizione prettamente medica che si richiamava a Galeno ed agli esperimenti relativi alla separazione dei principi fisiologici nel corpo, ad iniziare dal movimento dimostrato dal cervello relativamente alla sistole ed alla diastole, affermato dai medici ed accettato con grande riluttanza da Capra. Et cum cor primo movetur vere potest esse principium motus aliorum: nam et si moveatur per sistolem et diastolem: cerebrum a nullo movetur motu, et anima per motum maxime diiudicatur. Non enim censendum est ut falso putant nonnulli Anatomici medici, quod cerebrum quoque movetur per sistolem et diastolem: quoniam si id conspicitur in cerebro id convenit ob arterias per cerebrum distributes. Nel ritenere che il cervello sia importante tanto quanto il cuore medici falluntur, scrive il medico siciliano, ribadendo le classiche motivazioni aristoteliche, esposte da noi nel capitolo secondo, per cui il cervello è di per se stesso insensibile, freddo ed immobile. Ma ciò ancora non basta. Poiché, come già visto, gli esperimenti di legatura ed ostruzione delle arterie hanno secondo Capra il solo scopo di dimostrare che, separati dall’attività di infusione di calore e vita propria del cuore, tutti gli altri organi vengono privati delle proprie funzioni, non può far altro che dichiarare false la maggior parte delle dimostrazioni anatomiche ottenute mediante legamento: Gli anatomisti inoltre legano un cane, e danno ordine di tagliare velocissimamente il torace. Quindi legano quattro vasi del cuore e lo asportano, dopo di che sciolgono il cane, che grida e corre. Questo genere di scappatoie non hanno alcun valore: ed in primo luogo perché le esperienze che costoro riferiscono sono decisamente incerte, e forse in gran parte false. Talvolta, infatti, gli uomini vivono anche dopo che sia stata asportata loro una parte di cervello, e si sono visti spesso animali camminare anche senza testa. Inoltre, una volta formato il cuore, le forme che plasmano l’embrione esistono prima che il cervello sia formato e l’embrione già sente, e se lo si punge si contrae, cosa questa, invece, che ancora non accade al cervello. Insuper Anatomici quidam canem ligant, et secare iubent citissime toracem. Mox ligant quatuor vasa cordis. Et cor eximunt, deinde solvunt canem qui vociferat, et currit. Evasiones hae nullae sunt: et primo quae ab eis referuntur valde sunt dubia, et fortasse magna ex parte falsa. Vivunt enim nonnunquam homines quibus aliquid cerebri detractum fuit. Et avulso capite saepe progredi conspecta sunt animalia. Insuper informationes embrionis genito corde ante quam sit cerebrum productum, sentit embrio et si pungitur contrahitur. Non tamen adhuc cerebrum habet. Dunque, in sede fisiologica, l’instrumentum commune communi sedi resta il cuore, da cui hanno origine tutte le concoctiones e quindi tutti i temperamenti; attraverso di esso, inoltre, un’anima immateriale si unisce (copulatur) con le funzioni vitali dell’organismo attivando in successione tutte le altre: secondo Capra, infatti, gli esperimenti di legamento indicano che ciascun organo, interrotta la via che lo collega agli spiriti prodotti dal cuore, cessa pian piano la propria attività peculiar. Questa strenua difesa del cardiocentrismo aristotelico in pieno Cinquecento può sembrare arretrata rispetto al clima costituitosi sul finire del secolo intorno all’intepretazione anatomica del Quod animi mores, e soprattutto del De placitis, ma si ricollega di fatto anche a sviluppi successivi, quali quelli di Rudio e Cremonini, in cui il primato del cuore non necessariamente implica una svalutazione delle funzioni del cervello. Ed, in effetti, l’importanza del cervello come sede del pensiero verrà in parte recuperata nella sezione conclusiva dell’opuscolo, De sede mentis. Se la concezione galenica relativa alla localizzazione delle funzioni psichiche si è rivelata fallace sia in generale -- l’essenza dell’anima è infatti indivisibile --, sia nello specifico -- la sede da cui si sviluppa la totalità delle funzioni organiche è il cuore, non il cervello -- non può tuttavia negare che gli esperimenti galenici dimostrano come il cervello debba essere considerato sede almeno di alcune delle operazioni dell’anima razionale. Anche in questo caso, tuttavia, parlare di sede è improprio, poiché la mente è, in quanto tale, immateriale e ad essa non conviene quindi alcuna sede. In ogni caso, prove a favore della localizzazione cerebrale esistono anche secondo Capra e possono essere articolate almeno secondo quattro ordini di ragioni: 1. il pensiero richiede l’ausilio di phantasmata che si producono nel cervello; il ribollire o fervor degli spiriti nel cuore non sempre è causa di un processo analogo nel cervello; accade invece che, se si è preoccupati o agitati – pur restando inalterata la fisiologia cerebrale – gli spiriti fervano nel cuore a motivo della preoccupazione. De sede animae et mentis (Palermo)   negli accessi febbrili non si verificano danni alla ragione, a meno che il calore non raggiunga la sede del capo (ovvero l’interno di esso); le funzioni dell’intelletto subiscono mutamenti in relazione alle lesioni del capo o alla corretta conformazione dello stesso. Per le ragioni esposte, dunque, la soluzione fornita da Capra è quella di postulare una duplice unione tra anima e corpo; una secondo natura (coppulatio et sede naturalis), la cui sede interessa il cuore in qualità di organo principale dell’organismo; l’altra secondo la natura dell’operazione (“coppulatio et sede operationis”), che avviene in un organo di per sé secondario come il cervello, nel quale hanno sede tuttavia le operazioni della phantasia e dunque, metonimicamente, dell’intelletto: Ma avviandomi alla soluzione della questione, si deve considerare che chiunque dei Peripatetici ritenga l’anima soggetta nella sua interezza a nascita e morte, come Alessandro di Afrodisia, dovrebbe affermare in modo assoluto che la sede dell’intera anima sia il cuore. E perciò Alessandro, fondandosi sulle proprie premesse, asserì proprio questo. Coloro che, al contrario, affermano che la mente è eterna, ritengono che essa si unisca a noi in modo duplice (duplici coppulatione): una per natura, l’altra per operazione e che quest’ultima avviene nel cervello, dato che il cervello è sede della mente. Se dunque affermiamo che all’anima si addice una duplice unione con il corpo, resta provato anche che, in duplice modo, all’anima spetta una sede, l’una per natura, l’altra per operazione. Per natura la mente si unisce all’anima soprattutto in quel luogo in cui vengono portate a compimento le azioni <che sono proprie di essa>, ed in questo senso saranno vere queste conclusioni,vale a dire:  conclusione. Alla mente non spetta una sede. Questa conclusione risulta vera per la ragione già esposta che la mente non dipende dal corpo o da una sua parte, né richiede un organo particolare. conclusione. Il cervello è sede della mente. Questa conclusione risulta vera non in ragione della dipendenza, ma in ragione dell’operazione: nel cervello infatti vengono portate a termine le operazioni dell’immaginazione, facoltà che è ministra dell’intelletto. conclusione. Il cuore è sede della mente. Questa conclusion risulta verà in ragione dell’unione dell’intelletto con noi stessi, che si chiama unione per natura. 4. conclusione. Il cuore è la sede principale dell’anima. Sede cioè della facoltà animale. Il cervello è sede dell’anima in quanto operante e delle sue operazioni. 6. conclusione. Sede dell’anima sono gli spiriti, dal momento che essi sono come il veicolo delle facoltà ed il loro strumento comune. conclusione. L’intera specie umana è sede della mente, in particolare, però, l’uomo in quanto sapiente. 8. conclusione. Sede della mente è la facoltà immaginativa. conclusione. Il cuore è essenzialmente ed intrinsecamente membro più importante del cervello. conclusione. Il cervello è membro divinissimo in modo accidentale ed estrinseco. conclusione. Ma poiché ciò che è eterno ha necessità di unirsi a ciò che è eterno, si deve dire che Dio è sede della mente, perché solamente in lui troviamo il riposo ed il fine ultimo sovrannaturale. Sed me conferens ad quaesiti dissolutionem considerandum. Quod quicunque ex Peripateticis animam omnem ortui atque interitui obnoxiam esse afferunt, veluti censuit Alexander. Absolute dicere deberent totius animae sedem esse cor. Et ideo Alexander innixus suis fundamentis id asseruit. Qui vero contra. Aeternam dicunt esse Mentem. Isti censent. Quod ut duplici coppulatione nobis iungitur. Una per naturam. Altera per operationem nobis coppularetur. Quoniam ea efficitur in cerebro tunc dicendum. Quod cererbum est sedes Mentis. Si vero ei duplicem asserimus convenire coppulationem; tunc duplici quoque modo probatum est ei sedem convenire. Unam per naturam. Alteram per operationem. Per naturam iungitur animae. Eo praesertim loco ubi opera perficiuntur, et ad hunc sensum erunt istae conclusiones verae, Videlicet. Conclusio. Menti non convenit sedes. Haec vera est ea ratione qua diximus. quod mens a corpore, vel corporis partibus non dependet, nec organo particulari eget. Conclusio. Cerebrum est sedes mentis. Haec est vera non ratione dependentiae sed ratione operationis. Nam in cerebro perficiuntur opera imaginativae. Haec autem est ministra intellectus. 3. Conclusio. Cor est sedes mentis. Haec est vera ratione coppulationis intellectus nobiscum quae nuncupatur coppulatio per naturam. Conclusio. Cor est praecipua animae sedes. Sedes inquam virtutis. Conclusio. Cererbum est sede. Operantis animae, et operationum. Conclusio. Animae sedes sunt spiritus. Cum sint quasi vehiculum facultatum, eiusque commune instrumentum. Conclusio. Tota humana species est sedes mentis. Proprie tamen homo sapiens. Conclusio. Imaginativa est sedes mentis. Conclusio. Cor essentialiter, et intrinsece est praestantius membrum quam cererbum. Conclusio. Cerebrum accidentaliter, et extrinsece est divinissimum membrum. Conclusio. Sed cum aeternum aeterno coppulari debeat dicendum. Deum esse sedem mentis. Quoniam in eo solo conquiescimus et in ultimo fine supernaturali. Per infinita saecula saeculorum. Amen. Nella serie di conclusioni che chiudono l’opuscolo, alcuni storiografi ottocenteschi hanno voluto scorgere una dichiarazione di averroismo. Sembra tuttavia difficile distinguere la presunta influenza averroistica da una sincera e piena dichiarazione di fede. Con il De sede animae et mentis Capra si assiste al tentativo di riportare il problema della localizzazione psichica ad un unico centro funzionale, il cuore, di contro al poli-centrismo galenico. Ma l’operazione – di per sé condotta in osservanza del più rigido aristotelismo – sembra destinata a fallire, poiché la duplice unione con il corpo (“duplex coppulatio”) cui va soggetta l’anima ripropone in realtà il dual-ismo galenico tra funzioni che si svolgono al di sotto e al di sopra della rete mirabile, quasi posta, quest’ultima, a suggello visibile della differenza che intercorre tra operazioni puramente mentali o psicichee ed operazioni lato sensu “fisiologiche”. Il suo contributo è interessante, semmai, dal punto di vista dell’interpretazione che egli fornisce agli esperimenti galenici circa la legatura di nervi e vasi, come pure delle contro-prove empiriche che adduce a sostegno della propria tesi. In effetti, in Capra è soprattutto l’idea che il principio psichico, inteso quale principio basilare della “vita”, debba avere un centro a tenere banco nella discussione, discussione che pure non può fare a meno di costanti appelli agli Anatomici, e quindi alla tradizione medica del proprio tempo. È comunque sullo stesso piano – l’intepretazione di esperimenti che nel loro orizzonte osservativo si coordinano tutti intorno alla lettura del De placitis Hippocratis et Platonis, e quindi del Quod animi mores – che si muove anche la critica antigalenica mossa da Bernardino Telesio nel Quod animal universum. Marcello Capra. Keywords: animo, spirito, l’immortalita dell’animo, l’immortalita dello spirito, incorporeita dell’animo, incorporeita dello spirito, Method in philosophical psychology, psychic versus psychological, functionalism, manifestation in behaviour – body/soul – corpore animo – hylemorphismo, life, soul – Aristotle on soul and life – zoon, vita, anima – Galeno poli-centrismo – Aristotle monism, dualismo.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capra” – The Swimming-Pool Library.

 

Capua (Bagnoli Irpino). Filosofo. Grice: “I like Capua – from the middle of nowhere – Lago Laceno – he founds an “Accademia degl’Investiganti” in Capri! To philosophise!” Vestigia lustrat, i.e. even in dreams the hound follows the trace of the hare!” -- Impegnato nella ricerca e nella sperimentazione, in antitesi ai vecchi capiscuola come Aristotele, Ippocrate, Galeno ed altri, fu a capo di un'accademia dal nome gli "Investiganti".  Pubblicò il "Parere", sostenendo le idee di chi opponeva la ricerca medica e scientifica al sapere della tradizione. Nacque a Villa Capua, in Via Carpine, da Cesare e Giovanna Bruno. Nonostante la famiglia fosse facoltosa, non gli venne assegnato un precettore che lo seguisse negli studi oltre le basi grammaticali. Ad ogni modo, si dedica con passione, sin da giovanissimo, all'approfondimento del latino, del greco e della retorica. Persi entrambi i genitori e dovette cominciare a provvedere da sé alla sua educazione. Trasferitosi a Napoli per seguire la sorella, frequenta la scuola dei padri della Compagnia di Gesù. Impara le Istituzioni di Giustiniano, leggendo al tempo stesso anche le osservazioni di Giacomo Cuiacio, testi che segnarono profondamente la sua formazione, come è evidente in vari passaggi del suo "Parere" e nelle sue "Lezioni intorno alla natura delle mofete". Si laurea  e fa ritorno a Bagnoli, con l’intenzione di approfondire le sue conoscenze naturali ed anatomiche, effettuando osservazioni dirette su animali vivi sezionati e con il supporto di testi reperiti a Napoli. Proprio in quegli anni prese forma il suo pensiero critico circa l'inadeguatezza del metodo della filosofia. Degli anni di ritiro a Bagnoli non abbiamo ulteriori notizie biografiche. Amenta, autore di una sua biografia, ci riferisce anche di una certa attività letteraria, collocabile in questo periodo, di cui, tuttavia, non ci è giunta testimonianza. I suoi testi furono rubati mentre era in viaggio verso Napoli.  Si trasferì definitivamente in Napoli. Probabilmente il suo trasferimento fu favorito dalla presenza a Napoli di Cornelio, suo amico, il quale vantava una lunga preparazione alla scuola galileiana e indirizza Di Capua alla ricerca scientifica nella linea segnata da Galilei e da Cartesio, protagonisti della rivoluzione che la filosofia sperimentale portava all'interno di una cultura legata al passato e in cui vigeva la legge dell'"ipse dixit". Sulla scia di questo fervore intellettuale, fonda insieme a Cornelio, e Borelli Gl’Investiganti, gruppo di gioco filosofica di neta ispirazione anti0aristotelica.  La sua casa fu spesso luogo, ad ogni modo, di incontri tra gli intellettuali napoletani che facevano capo agl’Investiganti. Ottenne il riconoscimento dal Principe Francesco Carafa, di essere iscritto all'Arcadia di Roma, con il nome di Alessi Cillenio. Tale riconoscimento scaturisce dalla fama e dall'operosità scientifica che ottenne non solo a Napoli, ma in tutta Italia. A causa del suo ruolo di spicco all'interno dell'Accademia e della pubblicazione della sua opera più celebre, il "Parere", e coinvolto nel processo agl’ateisti che fu da molti visto come un processo indetto dal tribunale dell'Inquisizione per contrastare il diffondersi delle nuove idee in ambito scientifico e filosofico. Il processo era ancora aperto quando morì. Fu un professionista scrupoloso e un illustre innovatore scientifico nello scenario culturale napoletano della seconda metà del Seicento. Egli dimostrò notevole interesse per le dispute galileiane e i processi contro lo scienziato pisano, che in quegli anni erano al centro delle cronache del mondo politico, religioso e scientifico. In quel periodo Di Capua era anche interessato al pensiero di Bruno, Campanella e Porta, ma soprattutto era affascinato dalle novità scientifiche a cui lo introdusse il suo amico Cornelio, riguardanti i libri e le pubblicazioni dei principali scienziati e filosofi italiani ed europei come Francesco Bacone, Cartesio, William Harvey, Thomas Hobbes, Pierre Gassendi, Daniel Samert, Hooke, Willis, Boyle.  Tra Cornelio e Di Capua sorse una solida amicizia basata su ideali comuni: entrambi non condividevano né l'autoritarismo aristotelico né le vecchie teorie di Ippocrate e di Galeno. Dello stesso pensiero era Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679), medico fisico e matematico, ammiratore, anche lui, del metodo di Galileo. Infatti lo sperimentalismo galileiano, basilare nell'attività dell'Accademia del Cimento, influenzò e si congiunse con l'attivismo speculativo degli Investiganti napoletani.  L'ambiente culturale napoletano era dunque vivo e attivo e le librerie di via San Biagio dei Librai divennero centri di raduno intellettuale, in cui si discuteva sulle novità di fisica, astronomia, filosofia e medicina. Di Capua, ancora prima della fondazione dell'Accademia degli Investiganti, aveva già incominciato a contribuire al risorgere della cultura napoletana, partecipando attivamente alle riunioni e ai circoli culturali sorti a Napoli nella seconda metà del Seicento, tra cui quello fondato da Camillo Colonna. In un’ottica del tutto contrastante alla Controriforma della Chiesa cattolica che da circa cinquanta anni aveva preso piede, Napoli diventa il centro della vita letteraria e delle attività scientifico filosofiche, spostando l'attenzione da Firenze a Napoli: si passa dal Cimento e dai Lincei agli Investiganti, dalle Accademie fiorentine e romane a quella napoletana.  Si forma quindi in questa “nuova” Napoli, sotto lo stimolo, l'esempio e l'amicizia di Cornelio e Borelli, i quali, durante i loro viaggi, erano stati illuminati dall’ “Accademie des Sciences” di Parigi e la “Royal Society” di Londra. È in questo contesto culturale che ‘Il Parere” richiama l’attenzione di Redi. Lui e Redi erano entrambi scienziati, intellettuali, accaniti osservatori della natura; tutti e due seguivano il metodo sperimentale secondo lo spirito galileiano. Redi scrisse a Di Capua una lettera dopo aver letto le sue "Lezioni sulla natura delle mofete", in cui gli manifesta tutta la sua stima e ammirazione. Redi fu il primo ad effettuare ricerche sul cancro e sulla parassitologia.  L’ammirazione che provava nei confronti del Di Capua era la dimostrazione che quest’ultimo era inserito nell'élite culturale italiana del tempo, anche al di fuori del circuito napoletano, fino al punto che la Regina Maria Cristina di Svezia si interessò vivamente a lui e alle sue idee, comunicandogli il desiderio di conoscere con maggiore chiarezza ed approfondimenti il suo parere sullo stato dell’incertezza della medicina. Scrisse allora i “Tre Ragionamenti sull'Incertezza dei Medicamenti”.  Nelle sue pubblicazioni non fa menzione di Vico, suo devoto alunno, probabilmente in quanto al momento della sua morte il Vico aveva soltanto 25 anni. Quindi non aveva avuto modo di intuire le capacità intellettuali di Vico, il suo genio raziocinante di storico e di filosofo. Certamente Vico fu influenzato dalle idee e dalle teorie di Di Capua, che affiorano in alcune orazioni giovanili vichiane (il concetto della divinità presente in tutta la natura). Vico, di natura solitaria, fu molto sensibile alle novità scientifiche e filosofiche del tempo, partecipa al movimento culturale napoletano e frequenta la casa Di Capua, che considerava il suo ideale maestro. Capua, Cornelio, Andrea, e Borelli fondano a Napoli “Gli’Investiganti”insieme ad altre illustri personalità del mondo scientifico filosofico napoletano. Gl’Investiganti sorgeno in uno scenario di fervore intellettuale nuovo, dall'esigenza, quindi, di allontanarsi dalla filosofia aristotelica e dalle teorie di Ippocrate e di Galeno, per abbracciare le nuove teorie rivoluzionarie. Il motto degl’Investiganti e una citazione di Lucrezio: "vestigia lustrat" seguito dall'immagine di un cane che segue le tracce e fiuta le impronte, rappresentando a pieno lo sforzo degl’nvestiganti nella ricerca delle cause alla base dei fenomeni naturali.  L'Accademia fu chiusa per la peste nel 1656. Venne riaperta dal marchese Andrea Conclubet, spinta da una nuova energia vitale: superare l'arretratezza culturale del paese per mettersi al passo con gli altri Stati europei. Gli investiganti si riunivano ogni 20 giorni e non si limitavano alla discussione dei vari argomenti, ma anche alla sperimentazione proprio come gli accademici della Royal Society di Londra e del Cimento. Alla riapertura dell'Accademia, quindi, le prime lezioni furono tenute dal Di Capua su argomenti di natura scientifica. Altre lezioni ebbero come argomento l'anima, la fisiologia e l'embriologia. Si eseguirono anche esperimenti di fisica, meccanica e idromeccanica in situ, cioè nei luoghi dove certi fenomeni si verificavano (per esempio nella grotta del cane di Pozzuoli, nota per i fenomeni mefitici). Le nuove teorie degli Investiganti determinarono una reazione nel mondo del conservatorismo gesuitico, che sfociò nella fondazione di un'Accademia antagonista: l'"Accademia dei Discordanti", guidata dai famosi medici Carlo Pignatari e Tozzi. Quest'ultimo fu primo medico del Regno di Napoli, professore alla Sapienza e in seguito alla morte di Malpighi gli venne affidata la carica di archiatra pontificio. Da allora i contrasti tra le due Accademie si moltiplicarono a tal punto che il viceré Pedro Antonio de Aragón dispose di chiudere entrambe le Accademie. In seguito riapre una sua scuola, dando prova della sua convinzione sulla fondatezza delle sue teorie e sul desiderio di trasmettere queste verità agli alunni. Questo periodo rappresenta un momento di massima notorietà del pensiero culturale a capo di Di Capua, tanto che, il viceré spagnolo Ferdinando Gioacchino Faiardo indisse un congresso, in cui diversi medici dovettero esprimere il proprio parere per ciò che concerne lo stato delle teorie medico scientifiche oggetto di disputa. Fu così che, in occasione del convegno, Dcompose il suo "Parere Divisato in otto ragionamenti..", che ottenne notevoli riconoscimenti oscurando il conservatorismo cattolico dei suoi detrattori. Nonostante il Seicento, secolo del barocco, avesse come personaggio di spicco a Napoli Giambattista Marino, ritenuto dai suoi contemporanei un genio poetico di grandezza insuperabile, si dichiara nettamente anti-marinista, in quanto la sua mentalità era di natura critica, analitica e scientifica. Si forma nel pieno delle dispute letterarie tra marinisti e tradizionalisti di stampo petrarchista. In quell'epoca predomina il trecentismo linguistico, perorato da Bembo e codificato dalla Crusca, che Salviati detta e di cui nel solo Seicento esistevano ben 3 edizioni. La notorietà, l'autorità, il peso culturale di questo nuovo dogma della lingua italiana ebbe una notevole presa su Capua grazie anche alla sua predilezione per la poesia di Petrarca. Poiché i petrarchisti sono considerati “antiquari” dai marinisti, lui stesso venne etichettato come un antiquario, in quanto purista linguistico e seguace della tradizione dei dettami della Crusca. Di fatto, tuttavia, egli sosteneva principi rivoluzionari di scienza, seppur mediati da un linguaggio ormai arcaico. Tuttavia a Napoli, nella seconda metà del Seicento, si afferma intorno a lui un movimento puristico, a tendenza arcaicizzante che esercitò il suo influsso anche su Vico. Questo sottolinea il suo aspetto conservatore, riferito esclusivamente al linguaggio da lui usato, tipico del purismo letterario petrarchesco. In contrasto con questo atteggiamento letterario antiquario, fu senza dubbio un rivoluzionario in ambito scientifico nello scenario culturale napoletano. La sua produzione filosofica è, dunque, caratterizzata nel complesso da una forte contraddizione tra il nuovo del suo pensiero scientifico ed il vecchio o antico della lingua da lui scelta.  La sua oè costituita da duemila sonetti, due tragedie ("Il martirio di Santa Tecla" e "Il martirio di Santa Caterina"), alcune commedie, una favola a sfondo idilliaco e altri scritti filosofici vari.  Di questa produzione non abbiamo testimonianza a causa del furto subito da lui in viaggio verso Napoli. I sonetti, tanto nella forma quanto nel contenuto, sono di imitazione petrarchesca. La stesura di questi ultimi, inoltre, è collocabile al periodo dell'adolescenza e, pur non potendolo affermare con certezza, è lecito intuire che la sua cosiddetta produzione non abbia potuto assurgere ad alte cime, considerata anche la sua indole disposta più allo studio dei fenomeni e al razionalismo che all'aspetto psicologico o ai fattori emotivi. Le opere drammatiche sono, al contrario, ispirate al modello di Porta. Il Parere divisato in otto ragionamenti è indubbiamente la sua opera più importante, pubblicata a Napoli, ristampata con le Lezioni intorno alle mofete. In questo testo parte dalla pretesa di dimostrare quanto vana, quanto priva di ogni salda dottrina fosse la filosofia di Aristotele, rivendicando un rinnovamento culturale , un bisogno di liberarsi dagli eccessi del potere politico ed ideologico di alcune posizioni. Proprio a causa di questo spirito di rivolta rintracciabile nel testo fu intentato un processo contro lui da parte dei Gesuiti, capitanati da Benedictis, che si svolse a Napoli. Nel Parere, tuttavia, più che negare il pensiero di Aristotele nel campo della conoscenza, intende contestare l'atteggiamento di coloro che ne avevano adottato in maniera eccessivamente pedissequa il metodo. La posizione da lui presa è tutta in favore della rivalutazione delle scienze e di un approccio nei confronti di queste che non sia statico, bensì critico anche nei confronti della tradizione. La medicina in particolare è una scienza che non può fondarsi, a suo parere, su nozioni incontestabili, ma deve piuttosto essere costantemente messa in discussione, pur mantenendosi nei limiti dell'esperienza e della debole ragione. Nell'opera, comprensiva di otto ragionamenti, viene anche delineata la figura ideale del "buon filosofo", il quale deve essere allo stesso tempo anche amante della filosofia e buon conoscitore della geometria. Agli otto ragionamenti aggiunse un'appendice al "Parere": "L’incertezza". In entrambe le opere Di Capua finisce con il constatare lo stato dubbioso tanto della conoscenza e come proprio il loro caratteristico elemento di imprevedibilità, anche in quanto soggette agli elementi umani, rendano impossibile una conoscenza del tutto obiettiva. Le Lezioni sulla natura delle mofete riprendeno i concetti già esposti nel "Parere" sull'aria, concepita come anima dell'universo. Anche nella descrizione e nello studio delle mofete, fenomeni naturali caratterizzati dall'uscita di anidride carbonica, vapore acqueo e altri gas da terreni di origine vulcanica, rivela le sue attitudini alla razionalità, alla dimostrazione obiettiva di ogni evento fisico, sostenendo come la conoscenza di un fenomeno debba essere fondata sul metodo sperimentale. Altra opera pubblicata a Napoli e una biografia del condottiero Andrea Cantelmo, il quale milita nell'esercito di Ferdinando II D'Austria e a cui veniva attribuita l'invenzione delle mine volanti e di un tipo di pistola a ripetizione con 25 colpi. La biografia diventa il pretesto per l'autore per far affiorare la sua concezione sull'individuo, sull'uomo, sui giochi della fortuna, sulla dialettica tra gli avvenimenti storici riguardanti l'uomo come personalità unica ed individuale e l'intreccio dello svolgimento degli eventi. Generoso De Rogatis, Cenni biografici degli uomini illustri di Bagnoli Irpina. Carmine Jannaco Martino Capucci, Storia letteraria d'Italia (F. Vallardi, Milano, Piccin nuova libraria, Padova); .  Mario Puppo, Discussioni linguistiche del Seicento, UTET, Torino). “Parere del signor Lionardo di Capoa divisato in otto ragionamenti, ne' quali partitamente narrandosi l'origine, e'l progresso della medicina, chiaramente l'incertezza della medesima si fa manifesta” (Antonio Bulifon, Napoli); Niccolò Amenta, Vita di Lionardo Di Capua, Venezia). Niccolò Amenta, Vita di Lionardo di Capoa detto fra gli Arcadi Alcesto Cilleneo” (Venezia). Nicola Badaloni, Introduzione a Giambattista Vico , Laterza, Roma; Bari); Cotugno, La sorte di Giambattista Vico e le polemiche scientifiche e letter. dalla fine del XVII alla metà del XVIII secolo, Tip. del R. Ospizio V. E., Giovinazzo. Salvo Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento, D'Anna editore, Messina-Firenze); Walter Maturi, Fausto Nicolini, La giovinezza di Gian Battista Vico; saggio biografico, Napoli); Camillo Minieri Riccio, Cenno storico delle Accademie fiorite nella città di Napoli, Bologna); Luciano Osbat, L'Inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti, Edizioni di storia e letteratura, Roma); Amedeo Quondam, "Minima dandreiana: prima ricognizione sul testo delle "risposte" di F. d'Andrea a Benedetto Aletino" in Rivista storica italiana, Napoli); Gabriele Reppucci, Saggio monografico su Capua, scienziato-medico-filosofo bagnolese (Circolo Sociale "Leonardo di Capua", Bagnoli Irpino). Dizionario Biografico degli italiani. Vico, Autobiografia, a cura di B. Croce Bari (Edizioni Pauline, Milano). Lionardo Di Capoa's Parere is just that: an opinion in response to a specific request by the Viceroy and the Consiglio Collaterale in 1678 put to a group of prominent Neapolitans for counsel on a legal regulatory policy. Di Capoa's attack on Aristotelian discursive modes seems simple, ordinary Aristotle-bashing. Di Capoa maintains a theoretical investment in the anima: this is not a recuperation, or a conscious continuation, of Aristotle on Di Capoa's part. Di Capoa wishes then, to protect medicine not only from mechanical applications of logical techniques, but also from premature, reductionist applications of beast/machine metaphors. Di Capoa wishes then, to protect medicine not only from mechanical applications of logical techniques, but also from premature, reductionist applications of beast/machine metaphors. Aristotle offers a 'biological concept of the soul' as the 'first actuality of life', the principle of life.  IL PARERE DEL SIGNOR LIONARDO DI CAPOA divisato in otto ragionamenti, ne’ quali partitamente narrando l’origine, e'l progrello della filosofia, chiaramente l'incertezza della medefima ſi fa manifefta . SOMA I N N POLI Å Per Antonio Bulifon MDCLXXXI. Columa de Superiori. 1” All'Illuſtriſſimo, ed Eccellentiſſimo Sig. LCTEA IL SIGNOR D. FRANCESCO CARRAFA Principe di Belvedere, Marcheſe d'Anzi , &c. On avendo io coſa , Eccellentiſsimo Signor mio , che m'abbia in più pre gio di quel che fo la padronanza voſtra , cerco per quanto poſso , di farla paleſe a ciaſcuno : ficome altri fa il poſſedimento delle coſe più care, e prezioſe, ch' egli s’abbia , o per ſua induſtria , o per fortuna ac quiſtate . Ho penſato dunque , che a ciò fare io non potrei avere migliore opportunità di queſta , che mi porge il preſente libro , che per mia gran vençura eſſendomi capitato alle mani, ho preſo a far iſtampa re, s'io il mettesli fuori ſotto ilnomevoſtro, La ſcrit tura veramente a giudicio di Voi medeſimo, e d'ogn altr'huomo intendente è tale , che agevolmente poſ ſo da lei promettertii il fine , che m'ho propoſto ;im perciocchè ben toſto n'andrà ella per le mani delle perſone di miglior giudicio nelle buone letiere , sì per per ta cognizione , che s'ha dell'autore dilei , doa vunque ha di quelli , che ſe ne dilectano , sì perch' ella il vale , per l'eloquenza , e doctrina, di che ſi ve de ripiena : oltre all'autorità , e fama, che le ſi accre fcerà dall'iſteſso nome voſtro ch'ella porta ſeco . Poichè posſiam dire, che poche ſono quelle parti d' Europa, ove non s'abbia conrezza diVoi, e delle voſtre egregie qualità , o per la fama, o per la pre ſenza di Voi; ma che quaſi tuttele havete cerche colle lunghe , e laudevoli peregrinazioni, le quali in quella guiſa , che da Voi ſono ſtate fatte,ſidebbono riporre fra quegli ſtudj , con che vi ſiete ſempre in gegnato , e v'è venuto fatto d'aprirvi la ſtrada allº intera cognizione delle umane cofe , e d'accreſcere con le doti dell'animo , e dell'ingegno lo fplendore ch'avete ereditato da'voſtri maggiori . Oltre a ciò non doveva queſta ſcrittura venirne fuori ſotto al. tro nome , che'l voſtro : mentre , e la ſtima, che Voi fate dell'autore di eſsa , e l'affezione , che gli porta te , ficome fare ancora a ogn'altro huomo lettera to , e l'antica dimeſtichezza, ch'egli ha con eſſo Voi il richiedeano . Ricevete dunque ilpreſente dono , ch'io vifo di queſto libro , o per più vero dire , della picciola parte , ch'io ho in quello , per l'opera da me polta in farlo ſtampare , con l'uſata voſtra uma nità in ſegno dell'oſſervanza,ch'io viporto . E pre go Iddio , ch'avanzi in bene ogni voſtro deſiderio; e alla buona Voſtra mercè umilmente mi raccomando. Di V. E , Vmiliſs. Servidore. Giacomo Raillar D. Carlo Buragna ; a'Lettori. E Gli sono già alcuni meſi paſati,che d'ordine del Signor Vicerè fu tenuto conſiglio da alcuni Medici di metter qualche compenſo agli abuſi , ed errori , che tutta via ſi commettono nel medicare . Edopo qualche ragio namenti intorno a cotal biſogna avuti , diviſarono eglino , che per potere con piis loro acconcio eſaminar le ragioni , eipareri propoſti , e da proporſi , ciaſcuno doveſſe mettere in iſcritto il fuo. Perchèconvenne al Sig. Lionardo di Capocs, che fu uno de’chiamati a queſta adunanza ſcrivere il parer ſuo intorno a cotal materia ; e parendo a lui, che ciò non fi poteffe fare acconciamente, senza conſiderare innanzi tratto , e riandar con diligenza la natura della coſa , che s'aveva a trattare , cioè della medicinz : sì il fece egli con tanta dottrina , elo quenza , ed erudizione, che , ejfendo il ſuoſcritto venuto al le mani d'alcuni huomini letterati , e altri amici di lui, par ve loro dettato più toſto per l'univerfalità di coloro , che fi dilettano delle bettere piie eſquiſite , che per haverfi egli awe rimanere fra i termini d'una picciola , e privata compagnia: comechè l'autore di quello non s'aveffe nello ſcrivere propoſto altro fine , che di ſoddisfare al carico da quella impoſtogli.Sti marono dunque coſtoro , che foſſe una tale ſcrittura dameia ter in luce per mezzo delle ſtampe : e tanto fecero ,che alla per fine perſuaſero il Signor Lionardo a farne loro copia , e a con tentarſi, che ſi stampaſealmen queſta delle molte, e diverſe opere fue, ch' egli tieneappreffo di fe. E in ciò non pure eb bero eglino riguardo al piacere, che ſarannoper prender i doe tine i curioſi della lettura di queſto fcritto , ma all'utile an che ne può riſultare a ogni forte di perſone , e Spezial mente agli avveduti, e giudiciofi ragguardatori delle cofe . Poichè , vedendo eglino la varietà delle opinioni, edelle Seite, e le diverſe , eSpelle volte contrarie guiſe di medicare , che fra i medici ditempo in tempofonvenute sì , anche ſenza entrar coʻfiloſofanti in più ſottili Speculazioni , potranno age volmente accorgerſi, con quanta ragione altri Àfaccia a cre Bere D 1 grand 4 derë , o voglia dare a vedere, che una profeffione perfefef ſa cosè dubbiofa , e incerta , habbia in ſe dottrina , o principi, ſu i quali altri pola porre alcuno ſtabile fondamento;e quan to fa pericoloſa coſa il vederſi nelle mani di coloro , che così fi dannoad intendere, espezialmente dove ne va la ſanità , e la vita . Oltre a queſto , chi non vede di quanto frutto può rium Scire queſto ſcritto a'giovani, che danno opera alla medicina ? mentre dalla fola lettura di lui potranno efi per avventura apparar più di ciò , che alla cognizione della natura di lei s'appartiene, che non farebbono col rivolgere tutt'ora i volumi de'più riputati, e folennimaeſtri di quella : e accorger fi a un'ora qual via nell'impreſa del medicare ſi vuol tener da colui , che laſciate andarele giunterie, e le ciance , intende Secondochè la condizined'untal meſtiere comporta , faronore a fe , e giovamento agli infermialla ſua cura commeſſi . Ne meno faranno efli, e ciaſcun'altro, che attende a’migliori ljudj, per vedere apertamente quanti , e nella medicina, e nell'altre Scienze ci sono ſtati, e fono di quelli , che fi vanno ſtillando il cervello pur dietro a quello, che o norciès o pure non ſi ritro va ; e, come dile il noſtro Dante, Trattando l'ombre , come coſa falda . Maſenza, che Io mi diſtenda più oltre in voler dimoſtrares chente, e quale , e quanto profittevole , e dotta fi fia queſta ſcrittura , a ſufficienza il lettore ſol potrà egli vedere di ſe: e come anche non eſſendo ella fata dettata a fine d'averſe a divolgare , non per queſto rimane, ch'ella non corriſponda al la fama dell'ciutore di efsa , e all'opinione , che portanodi lui gli huomini più intendenti, e giudiciof . Sta ſano . EMINENTISSIMO SIGNORE A I Ntonio Bulifon eſpone a V. Em. come deſidera darë alle ſtampe un libro intitolato Parere del Signor Lionardo di Capoa , intorno alle coſe della medicina , per ciò ſupplica V. Em .commetterne la reviſione a chi me glio parerà all’Enı.V.ut Deus, & c. N Congregatione habita coram Eminentiſſimo Domino Cardinali Caracciolo Archiepiſcopo Neapolitano ſub die 3. O &tobris 1679. fuit dictum , quod R.P.Franciſcus Verciulli Soc. Ieſu revideat , & in ſcriptis referat eidem Congregationis. MENATTVS VIC. GEN. Iofeph Imp. Soc. Iefu Theol.Eminentiſs. EMINENTISSIMO SIGNORE O letto per comandamento di V. Emin. il libro del Si gnor Lionardo di Capoa : intitolato Parere intor noalla medicina , ne vi ho ritrovato coſa alcuna con traria alla dottrina della Fede , overo a' buoni coſtumi . Per queſto lo giudico degno di ſtapa, per pubblica utilità , e per ammaeſtramento degl' ingegni curioſi di recondita , e fruttuoſa filoſofia . 13. di Aprile 1680. HE Dell'Em. V. Antico, umilifs. Servo Franceſco Verciulli della Comp.di Giesi . N Eminentiſs. Dom . Cardinali Caracciolo Archiepiſcopo Neapolitano fuit dictum , quod ſtante relatione (upra ſcripti Reviſoris , imprimatur MEN ATTVS VI C. GEN. 1 Iofeph Imp. Soc. Ieſu Theol. Eminentifs. 1 ECCELLENTISSIMO SIGNORE A Ntonio Bulifon eſponea V. E. come deſidera dare alle ſtampe uno ſcritto intitolato Parere del sig. Lionardo diCapoa , intorno alle coſe della medicina, perciò ſupplica V.E.commetterne la reviſione a chi meglio parerà a V.E. ut Deus, & c . Magnificus Michael Biancardi videat , &inferiptis referai. CARRILLO REG. CALA REG. SORIA REG. Proviſum per Suam Excell. Neap. dic 4. Aprilis 1680. Maſtellonus. ECCELLENTISSIMO SIGNORE PA Er obedire a'comandidi V. E. ho letto il libro intitola to Parere del sig. Lionardo di Capoa,intorno alle cose della inedicina , e perchè in eſſo non ho ritrovato coſa contraddicciite alle Regie giuriſdizioni, giudico poterli dare alle ſtampe,fe cosi reſterà V.E. ſervita . In Nap. 16. Maggio 1680 DiV.E. Devotifs. Servidore ! Michele Biancardi Viſa ſupraſcripta relatione , iinprimatur, & in publicatione fervetur Regia Pragmatica CARRILLO REG. CALA REG. SORIA REG. Maſtellonus RA: RAGIONAMENTO PRI M O, 8CMA 220 GLI non hàveramente impreſa , o Signo ri, che più ragguardevole comparir faccia la maeſtà d'un prudente, e valoroſo Prin cipe , quanto l'adoperar sì col ſenno , e colla mano , che i Popoli alla ſua cura commeſſi non vengano da ſtraniero ferro aſſaliti, o ſenza vendetta miſeramente oltraggiati. Ma non è opera per mio avviſo men laudevole , e generoſa il render loro poi ſicuri da gl'inganni de’dimeſtici nimici;i quali al lora più gravemente nuocer ſogliono ,quando ſotto il vela mo della benivolenza,edella carità aftutiffimamente ſi cuo prono; e ch’infingendoſi tutti umani, e compaſſionevoli al l'altrui fciagure, tendon poi loro sì inſidioſilacciuoli, che rade volte ,o non mai ſenza mortale offeſa ſchifar ſi poſſo no . E nel vero, che monterebbe eglimai l'uſcir talvo , e ſicuro da' manifeſti riſchi della guerra ad huom , che poi nella tranquillità della pace,in tanto più acerbi,quanto più naſcoſi pericoli inavvedutamente cader doveſſe ? Anzi queſti di tanta maggior compalfione degno ſarebbe, quáto più gravi , e più dure , e lagrimevoli da giudicar ſono le А ſven Ragionameñto Primo ſventure di quella nave, che ſcampata da più alti mari , giunta poi in bocca del porto miſerabilmente virompe . Perchè non mai a baſtanza potrà commendarſi il pietoſo , e faggio avvedimento - del noſtro Eccellentiſſimo Signor Vicerè ; il quale auendo con maraviglioſa , e incredibile felicità il primo ottimamente compiuto ; e reſi vani gl'in tendimenti , e gli sforzi di quelle armate, che ſuperbe, e crudeli infeſtando i mari , e le terre , ad ogn'or di ſangue , e di fuoco ne minacciavano ; e ſgombrate ſimigliantemen te le fchiere de gli sbanditi, e de gliſcherani, che le ſtrade tutte, ei contadi ſcorrendo il noftro Regno malmenavano; ora con ogni ſtudio , e diligenza và riparando, che non ſia mo aman ſalva nell'avere,e nella perſona miſerabilmente oltraggiati per lomal'uſo della Medicina. La quale per ciocchè a ciaſcun forſe abbiſogna, ſicome ove ſia infra’li miti mantenuta della ſperienza , e della noſtra comeche debil ragione, eſſer puote per avventura di qualche giova mcnto al comune : così allo incontro s'egli mai avvien, che fi torca à ſiniſtro cammino , affai più delle malattie mede fime dannofa fi ſperimenta, e nocevole al genere umano . Nè prima alla notizia di lui gl’infelici avvenimenti d'alcu ni infermi fon pervenuti, per li quali le Chimiche medici ne forte s’accagionavano, ch'eglitantoſto ne impone, che per noi con minuta diligenza li cerchi ogni modo più op portuno da potervi dar riparo : e inſieme di preſcrivere a Medici, ove faccia meſtiere , certe , ſicure , e falde regole nel loro operare. Ma io quantunque voltemeco penſando riguardo quan te , e quali ſian le malagevolezze d’un tale affare , tante fra me mcdeſimo confuſo oltre modo, e fofpeſo rimango;per ciocchè, o che ficome in tutt'altre biſogne di gran conſide razione interviene, o che natura di tal'arte nol patiſca, du ro molto , e malagevol ſembra il dar legge alle coſe a quel la appartenenti . Perchè amerci più toſto ſenz'altro fare , tacendo di non darmene briga , ſe non fapelli, ch’in sì fat ta maniera contravvcrrei a ' comandamenti di colui , icui senni ,non che le richicke debbo di preſente , ſenza replica alcu Del Sig.Lionardodi Capoa. 3 alcuna , e con ſomma venerazione ſeguire ; da' quali ſol moſſo , ed anche dal giovamento, ch'alla mia patria ne po trebbe forſe avvenire, volentieri, e di grado mi vilaſcierò entrare . Ed acciocchè ogni diliberazione , o partito, ch'intorno a ciò ſia da prendere, a vano , ed inutil fine affatto non rie ſca , tutte le forze del mio deboliflimo intendimento im piegherovvi ; diviſando in prima le malagevolezze , in cui di leggier s'avvengono non che Principi, o Maeſtrati ; ma Medici ancora , comechè faggi , e intendentiſſimi in dare ſtabili , e certe leggi alla Medicina ; eſſendo fommamente una tal'arte di ſua natura incerta , e dubbitoſa, ed incoſtan te . Indi poi pian piano , e con diſcreto avviſo più adden tro facendoci,ilmodo proporremo , col quale quanto law natura della coſa comporti, un buon Medico , ed un mi glior Chimico far ſi poſſa. Ne altro provvediméto intorno a ciò al preſente mi ſovviene, che valevole , ed a propoſito ſia per riparare alle perpetue , e quaſi fatali calamità della Medicina. E per cominciare dalle memorie più antiche , laſciando da parte ftare quanto poco duraſſe in India, in Babilonia , edin Afiria quel lor diviſo di dover allogure gl'infermi nelle più uſate contrade e della Terra, perche fuffer cura ti da’ viandanti; nell'Egitto là , dove l'arti tutte, e i più no bili ſtudj nacquero in prima , e fiorirono , ſolamente a’Rè , ed a' Sacerdoti , ed a pochi Baroni d'alto affare ilmedicar gl'infermi era conceduto ; onde da Manetone fra' Medici d'altiffimo fapere annoverati furono Antotide ſecondo Rè della prima dinaſtia de'Tiniti, il quale laſciò ſcritti alquan ti libri di notomia : e Tofortro Rè della terza dinaſtia , la qual’era de'Menfitani . Ma poi tratto tratto cotal meſtiere con tutti s'accomunò , eziandio colla minuta plebe; e tan to il numero de' Medici s'accrebbe , che ben per ciaſcun male era il particolar Medico ſtabilito , che ad altro malo re non dovea por mano , come ne dà teftimonianza Erodo. to della Greca Iſtoria padre , con queſte parole : ; dè intpoxaj A κατα : 1 2 I Strab. lib . 3.8 . 16. Ragionamento Primo κατι δέ σφι δέδασε μιής νούσου έκασG- ιησος, και ου πλεόνων» παντού δ ' ιητών επί σλέα.οι μενεγαρ οφθαλμών Ιητοί κατεσέασι, οι δε κεφαλής , οι δε όδόντων, οι δε τών και νηδήν , οι δε των αφανέων νούσων, cioc fala Medicina appo loro divifaeflendo per ogni malore, e nongià per più il ſuo Medico : Ondetuttoilpaeſe vien da Medicin gombro ,perocchè altri curano gli occhi, altri il capo , altri i denti , altri le parti del ventre , e altri i mali interni , e na Scofi . Rimaſa poi in man ſolamente delle private perſones non ſi può creder di leggieri , quanto cadendo dal ſuo pri mo ſplendore l'Egiziaca medicina cangiolli per l'infingar dia, ed ignoranza de' novelli Medici, iquali eran di così poco talento , che come dice ilteſtè mentovato Erodoto, i primi della Corte del gran Rè della Perſia , allorche a co ſtui gli ſi era dislogato ilpiè, non pur no’l ſepper guarire , ma coʻloro argomenti a peſſimo ſtato il riduſlero . Perchè ſicome ſenza fallo è da credere , fù a’Medici , come narra Diodoro, nell'Egitto per legge vietato il traviar da’coman damenti degli antichi Maeſtri , a' quali ſe alcun contrave gnendo interveniva , che piggiorato ne foſſe lo infermo , n'era perciò acerbamente punito ,xq'v Teis ex tās iegãs 616nou νόμοις αναγινοσκουμένοις ακολουθήσαντες αδυνατήσωσι σώσαι τον κά. μνοντα ,αθώοι παντός εγκλήματG- απολυόνται.εαν δε παρά το γεραμ μένα ποιήσωσι, θανάτου κρίσιν υπομένεσιν. Εnel vero fu non po ca fortuna di Galieno (per tacere al preſente d'Ippocrate, e d'altri) il non eſſer egli nato à que'tempi,ed in quc'paeſi; perocchè non così agevolmente n'avrebbe ſchivata la pe na, ſe quaſi ad onta della reverenda autorità di tal legge oso pur dire quette parole: ου γαρΙπποκράτης μόνον , αλακαν τοϊς άλλους παλαιούς, ουχ απλώς οίς αν είσαι τίς αυτών πυρεύω βασανίζω δε και αυτός τη τεπείρα , και ταλόγω. ciοε , πότερον αληθές εςιν , ή fèuda ö yayçá Daci , Io ciò offervo non ſolamente negli ſcritti d'Ippocrate, ma in tutt'aliri libri de gli antichi; che non così di leggieri foglio commendare ciò che ciaſcun di loro ne aveſſe laſciato ſcritto ;maprima il vò ben’io ejjaminando colla Sperienza, e colla ragione,ſe vero, o falfo fifia ;ſe pure egli, che valente maeſtro di loica era , per iſchermirfi non aveſſe tali chioſe fatte in su gli ſcritti de gli antichi, e tanto i lor Del Sig.Lionardo di Capoa. 3 . i lor ſentimenti ſtravolti, ed avviluppati , finche paruti fof ſer conformi a ciò che più gli era a grado. Coſtuina , che più di ogni altra han poi ſeguita, e ſeguono tuttavia i Me dici, che gli vanno appreffo , i quali in tal guiſa i ſuoi detti sformano , ed anche que’d'Ippocrate, che ſovente fan ve duta di dir tutt'altro di ciò che da prima ſi propoſero . E forſe gli Egizziaci medeſimi con iſchernire la lor legge anch'eſſi vezzatamente cotal arte operavano ſecondo il proverbio : fatta la legge , penſata lamalizia . E a tanto giunſe per avventura la lor traſcutata arditezza , che ſo vente vegnendo toſto alle purgagioni , e per lo più con in felice avveniméto per ripararvi traſandata la prima legge una nuova ne publicarono, ſecondochè ne narri Ariſtotele con quette parole: Εν Αιγύπτω μετα την πταήμερον κινείν έξεσι τοις Ιατζούς, έαν δε πρότερον επί τω αυτε" κινδύνω , eler lecito a' Medici muovere ſolamente dopo il quarto giorno , che fe'l voglion far. prima, lo ſi facciano a lor pericolo .La qual mellonaggines non ritrovò gran fatto , ch'io mi creda , ricevitori , ſe mai avviſarono quanto di leggier poſſano avvenir que’mali, a ? quali fa meſtieri d'eſtremi medicamenti anche nel primie ro giorno, e toſto che ſi fan manifeſti. Ma o quanto da nul la ſtato ſarebbe quel Medico , che procurato aveſſe l'altrui ſalute a coſto della propria vita, Eda tali ſconvenevolezze avendo per avventura riguar doi Greci, i quali come nell'arti , c nelle ſcienze, così nel la prudenza civile ogni altra nazione ſi laſciarono ſenza contraſto addietro : non mai dar vollono determinate leggi alla Medicina, ed a que', che la eſercitavano; amando me glio , che ne'liniſtri avvenimenti de gli infermiper colpa ' de’Medici n'aveſſercoſtoro in condegna pena la ſola infa mia portata : και πιο σιμον γαρ ιητικής μούνης έν τήσι πόλεσιν ουδέν 60315042 Tinio a'došíns , la quale a coloro, cui preme l'animo cu ra di vero onore, più ch'ogni altro fupplicio grave riuſcir fuole, e nojofa. La qual coſtuma ſi vede manifeſta da File, mone, ovc dice : Μόνω. 2 Ippocrate , 6 Ragionamento Primo 1 111 Μόνω διατάω τούτο και συνηγόρω Εξεσιν αποκτείναν μεν , αποθνήσκαν δε μη . Cioè a dire , al Medico ſolamente, ed al giudice fi permet te uccidere a man ſalva le genti . Piacque ciò anche all'al to ingegno del divino Platone , laſciando egli così nella ſua Republica ordinato : Aniuna pena fia ,che foggiaccia il Medicó, s'alcun infermo da lui curato contro ſua voglia fia che ne muojaιατρών δε περιπτάντων αν ο θεραπευόμενων υπ'αυτών τε arvoſi xabago's tsw na odvopov . Dal cui divilo non punto ſi di lungo Luciano , ove diſſe : L'arte della Medicina quanto di maggior pregio è degna , e più dell'altre alla vita giovevole, tanto i ſuoimaeſtri debbono più godere di libertà' ; e convene volcoſa è , che goda di qualcheprivilegio, nè fia giamai liga ta , o foggiogata da potenza veruna una dottrina confecrata agl'Iddij,e diporto degli uominipiù ſcienziati,nè vegna alla dura ſervitù delle leggiſottomeffa , e al timore , e alle pene acTribunali . π δε της ιατζικής όσω σεμνότερόν έσι και τώ βίω Χρησι μώτερον τοσέτω και ελευθεριώτερον είναι προσήκει τοϊς χρωμένοις , και πνα πονομείων έχειν την τέχνην δίκαιον τηεξεσία της χρήσεως , αναγκάζεσθαι δε μηδεν , μήδε ποσάττεσθαι , πράγμα ιερον και θεών παίδευμα και ανθρώ πων.σοφών επιτήδευμα.μήδ ' υπο δελείαν γενέσθαι νόμου μήδ' υπο φόβος και auweiar dixæsnetw . E cõciofoſſecoſa , che frà Greci gli Ate nieli ſolamente vietaſſero alle donne , e a'ſervi lo ſtudio del la medicina ; non è però gran fatto da lodare , per non dir che molto da biaſimar ſia un cotale ſtatuto ; perciocchè,co me più avanti diraſli , lo intendimento di valoroſe donne contro al loro avviſo s'è moſtro più fiate valevole a viril mente imprendere i più alti ſtudj; ed a ' ſervi ancora conce dette la natura più volte animo , e ingegno alla libertà fi loſofica acconcio : perchè a ragione non guariappreſſo fù rivocato : rapportando Igino : Obſtetricibus neceffitatis , honeſtatis gratia ufus medicina tandem ab Athenienſibus con ceffus fuit . E molto meno dovrem noi credere , che rima neſſe in piè la beſſagine di Seleuco , che tal potremoſenza fallo quella ſua legge chiamare , colla quale non altrimen te , che ſe veleno ſtato foſſe proibì il ber vino ſotto capi tal pena a tutti gli ammalati Locreſi, ſalvo ſe prima non ne ayer 1 DelSig. Lionardo di Capoa. aveffero da loro Medici la licenza ottenuta. 3 Ens Aoxgüv των Επιζεφυρίων νοσών έπεν οίνον α'κρατον μη προσάξαν7G- ταθεραπεύ αντG ,εί και περιεσώθη θάνατG- ή ζημία ήν άντώ, οπ μη προσαχθέν από o'Se triev. La Romana Republica , che non pur nel governo militare , ma nel politico ancora avanzò di gran lunga le greche tutte, e lebarbare nazioni, giudicò convenevol com fa il non commetter ſenza freno alla balia deMedici la cu sa della vita de gli uomini ; e perciò preſe per partito, che Aquilio Tribuno della plebe, non so ſe Gallo , o altro e' ſi fofíe,con un plebiſcito , il qual fu poi annoverato infra le leggi di Roma,qualche penaa'loro fallimenti iinponeffe , per la qual’accorti divenuti foſſero , e cauti nell'operare . Non per tanto dimcno è da credere che legge tale, o ple biſcito , che ſi foſſe , non mai ſi metteſſe in ufo , ch'altrimen te avrebbe avuto il torto Plinio di ſclamare in sì fatta gui. fa contra’Medici. + Nulla præterea lex punit inſcitiam capitalem , nullum exemplum vindiétæ : indi ſoggiugnere : difcunt periculis noſtris, experimenta per murtes agunt: ed in fin conchiudere : Medicoque tantum hominem occidiſe fumma impunitas eft. Ma vi ha di vantaggio ſecondo il me delimo Autore tranfit convitium , &intemperantia culpa tur , ultroque qui periere argauntur . E perciò immagino , ch'in compilando i Digeſti per commandamento di Giuſti niano a bello ſtudio traſandaffero que celebri Legiſtila fentenza troppo dura nelvero, e crudele di Paolo ſopra la legge Cornelia de Sicariis . S Si ex eo medicamine, quodad falutem homini , vel ad remedium datum erat homoperierit, is qui dederit ahoneftior fuerit, in inſulam deportatur, humi lior autem capite punitur . La quale a giudicio di quella grand'animadella civil ragione GiacomoCujacio, alla già detta legge Cornelia non può propiamente ridurſi; peroc chè dice egli il Medico ſanandi,non nocendi animodedit. Ed avvegnacchè i medeſimi Legiſti nelle Hituta , e ne’Di gefti vi rigiſtraffero non ſolamente il già detto capo della legge Aquilia , ma ancora le ſeguenti parole d'V Ipiano , SicutiMedico imputari eventusmortalitatis non debet , itad quod * Elannt. lib 2.9.cap.z. lib.recept.lent. 6 Cuias.in Ang Corn de Sioar. 8' Ragionamento Primo tores quodper imperitiam commifitimputari ei debet, ebo pretextu fragilitatis humanadeliétum decipientis in periculo homines innoxium eſſe non debet. Nientedimeno o di rado, o non mai certamente fur meſſi in uſo cotali ſtatuti, avvegnachè non ſolamente Plinio, ma molti, e molti anche dopo lui le que. rele medeſime replicando con più vive doglianze l'acca gionaſſero ; infra’quali il dottiſſimo Agnolo Poliziano in una ſua piſtola al Leoniceno così ſcrive, indolui rurſus ge neris humani vicem , quod in fegraſari tamdiu impune tri ſtem hanc inſcitiam patiatur, atque ab ijs interdum vitæ fpem pretio emat, unde mors certifima proficifcatur ,e'l Vives co sì grida : Errata illius (del Medico ei favellando) impung funt:immomercede compenſantur, e Battiſta da Mantova: His etfi tenebraspalpant eſt facta poteſtas Excruciandi ægros, homineſqueimpune necandi. E un Satirico Italiano ſcherzando col titolo del Dottor dice a queſto propoſito medeſimo del Medico: Mapoichè un tal ci può donar la morte Senza punizione, e ſenzapena Forzaè, che sì gentil titol riporte E'l noſtro Accademico in quel ſuo vaghiſſimo dialogo , hoc tamen ipfo -ſecuri , dice parimente deMedici, quod nulla fit lex,quæ puniat infcitiam capitalem : immo vero cum mercede gratia referatur, ed altrove: Carnifici medicus par eſt: nam cædit vterque Impune: &merces cædis utrique datur . E un'altro Autore: Si quæcamque ſuaplectuntur crimina lege Quas Medici maneant modo veſira piacula pænas ? Quiplerumque ipſo facitis medicamine morbum, Etdiro ante diem ægrotos demittitis orco . ? Scilicet hoc vobis indulſit opinio rerum Vna potens. Clades inferre impune per Orbem Mercedemque alieno obitu , laudemque parare. Edavvegnachè Maſlimino condennaſſe nella perſona tutti ſuoi Medici , perche non gli aveſſero o ſaldate affatto le piaghe, o alleggiato il dolore , nondimeno l'eſfemplo d'un tal DelSig.Lionardo di Capoa. 9 tal tiranno non può dar vigore a leggeniuna ; e fu queſta non men, che tutt'altre ſue crudeltà biaſimata da gli ſcrit tori del ſuo ſecolo , ſicome anche Aleſsádromeritevolme te riportò titolo di crudele, per haver fatto ingiuſtamente ammazzar Glaucia Medico , per ſoſpetto, ch'egli aveache colui poco faggiamente aveſſe curato il ſuo cariſlino Éfc ſtione. Comeallo incontro grandemente vien commenda ta la clemenza, e umanità di Dario Iſtaſpe Redella Perſia, il quale i Medici già alla morte dannati , perchèlui aveſſer malamente cnrato , volentier permiſe , che liberaci foſſero da Democide illuſtre Medico da Cotrone . Ma non però creda alcuno , aver iMedici per traſcutaggine de’reggi menti una tal libertà guadagnata ; anzi egli è ſomma nc ceſſità del comune, e quaſi arte di buon governo; perocchè ſarebbeli quaſi affatto ſpenta , e com’Io avviſo annullata fin la memoria del meſtier della Medicina, ſe contro aʼme dicanti con rigor di giuſtizia ſi procedefle. Ed in vero qnal huomo mai, ſe non ſe ſommainente ſciocco, e ſcimunito, o temerario aſſai avrebbe vanamente logorato il tempo , e le fatiche dietro ad un'arte ( ſe pur arte poſſiamo chiamar la Medicina , non avendo quella niuna certa , e filla regola nelle ſue operazioni ) quanto a ſe ſpiacevolc,e malagevo liſſima a conſeguire , e ne gli avvenimenti dubitoſa aſſai? E dicola ſpiacevole, perocchè qualmaggior noja, e ſpiaci mento , che quel di colui , che continuo ha da bazzicar co? malati, e veder ſempre , & udire l'altrui miſerie ſenza aver talora opportuno argomento da riſanarli ? Ed è anche malagevole ad imprendere , e incerta ſempre negli avve. nimenti : imperocchè nella cura delle malattie non meil dell'avvedutezza del Medico il caſo ancora, e la fortuna vi fan la lor parte '; perchè ſurſe quel volgar detto: Fa meſtieri il Medico ejjer forto benigna coſtellazion nato . Ed o quanto aſſai ſoyente avviene , che contro ad ogni avviſo umano , ficome ſcriſſe Celſo , etiam Spes fruſtratur : & moritur aliquis , de quo Medicus fecurus primòfuit. Ed : Ippocrato medeſimo avvegnacchè altiſſimoMedico , & avvedutiſſimo B giu 7 Plutarcom: 11 / a ? ! . 10 Ragionamento Primo giudicato , purconfeffa se da tal meſtiere ancor più di bia limo, che di lode aver’acquiſtato. r fywye doréw pasiove uspelo Morgíny topov xexangãoBan Thin Tégun.E quinci è, che duracoſa, o malagevoliſſima, o impoſſibile ſempre mai è'l ravviſare ſe le cattive uſcite de' mali da dapocaggine de' Medici più toſto avvengano , o da natura delmale , o da altra interna cagione , in cuiſenno alcuno , ne umano provvedimento giammai non vaglia. Incertiſſimi ſempremai, ed oſcuri gli uſcimenti delle malattie ſi ſono ,maſſimamente delle acute, ſecondo il ſentimento d'Ippocrate ; perchèdiceva anche Celſo: Neque ignorare oportet in acutis morbis fallacesma gis effe notas falutis ,& mortis. Senza che ſoglionſi ne'cor pi degli animali ingenerare, e talvolta anche di preſente , iveleni per ſubitana, o precipitazione , o coagulazione ; e può anche huomo, che non altri, ma Apollo, ed Eſculapio medeſimogiudicherebber faniſſimo,aver dentro enfiature, o altri nafcofi malori , che quando egli men ſi crede ſian , valevoli ad irreparabil morte condurlo ; e ciò anche nel tempo ſteſſo , che li s'appreſtano i medicamenti; perchè a torto poi i rimedjmedeſimi, e non il malore accagionatine vengono. Ed oltre a ciò poſſono alcuni medicamenti, che buoni, e giovevoli alla ſalute degli huomini ſi giudicano , tal curbamento dentro cagionare , che l'ammalato le new muoja avanti , che noi col noſtro corto intendimento pof fiamo ne pur badarvi : 8 Quæque medendi caufa repertow ſunt ( comene fà teſtimonianza Celſo ) nonnunquam in pejus aliquod convertuntur , neque id evitare humana imbe. cillitas in tanta varietate corporum poteft . Perchè non ſarà egli colpa de'Medici l'avertalvolta piggiorato co’ſuoi me dicaméti lo infermo; ne in ciò le leggi potranno giámai coſa del mondo determinare . Ma su concedaſi , pure , che per legge ſia a' Medici l'uſo del medicar preſcritto : come mai potrebber coloro eſſer caſtigati ſe la travalicaſſero ? o co me mai potrebbe porſi in chiaro il delitto , acciocchè poi ſecondo il diritto delle leggi vi ſi procedefle ? E chi baſte volmente non sa quanto i Medici tutti ſian contrarj di ſet te, s lib.z.cap.6. DelSig. Lionardo di Capoa. IT ) te, e diſcordanti ſempre ne’loro ſentimenti ? Perche oda paleſe nimiſtà , o dacoperta invidia, il che è peggio, ſempre ſtuzzicati, o tratti dall'amore e dalla benivoglienza de’lo ro parziali, traſandata la verità delle coſe rappreſentano al Giudice tutt'altro , che di giuſtizia dovrebbero ,e dannoli a divedere, come ſuol dirlila Luna nel pozzo, ſecondo il lor diſiderio ; ſenza che il timor della pena , in cui potrebbe di leggieri incorrer il Medico, ſempre ſoſpeſo, e inviluppa to il terrebbe in prender partito anche quando faceſſe me ſtiere dipiù efficacemente operare ; ed egli timido , econ fuſo per non porre a riſchio la ſua perſona nelle piu gravi malattie ſcioperato, e colle mani penzoloni ſe ne ſtarebbe; o pure per non partirſi dal comun ſentimento del vulgo , comechè falſo , e almal contrario, talvolta vani, e perico lofi rimedi uſerebbe . Coſa , chepiù ch'altrui a'Medici de Principi , come avvisò il Cardano , avvenir ſuole ; i quali per tema non pur dell'infamia , ma di mal maggiore ſi ten gono di adoperar grandi, e non uſati medicamenti. Ne ſam rà quì fuor di propoſito l'apportare un'eſemplo del meſtier della guerra,da quel della Medicina non guari in verità per l'incertezza de'ſucceſſi lontano . Compativano anzi che nò i Romani Maeſtrati gli erroride' Capitani de’loro eſer citi;e ben ſi vede a quale altezza ne montafſe perciò lo im perio di Roma, come all'incontro sa ciaſcuno a qual miſe rabil fine ſi conduceſſero i Cartagineſi per operar ſempre mai ilcontrario . E più vicin deʼnoſtri tempi ben lo mani feſtarono i Viniziani con loro gravoſiſsimo danno, e quaſi con la caduta univerſale del lor comune, quando ingiuſta mente per la ſua tracotanza decapitarono il Carmagnuo la; perchè poi ſmagato il Liviano, e ſecondando il fenti mento de’malcauti provveditori,ne perdette la giornata di Vicenza , e miſerabilmente con tutto l'eſercito ne reſtò tagliato, e ſconfitto . E forſe la morte data al Vitelli fu an che una delle principali cagioni , onde i Fiorentini traditi dal Baglione,la libertà poi miſeramente ne perderono. E ben potrebbe qui alcuno non ſenza qualche ragione andare ſpiando,che la legge Aquilia, cometutt'altre leggi B 2 de' 12 Ragionamento Primo 1 ! de’Romani da noi teſtè rapportate, nõ già per li valétiMea dici oMetodici , o Empirici, o Razionali ſtare foſſer fatte, ma ſolamente pe’ſoli popoleſchi Empirici,e volgari; eſſen do comunal ufo appo coloro di non ſolamente con nome di Medico i volgari Empiricichiamare , ma quegli ancora, che di caſtrare i fanciullieran uſi ;come agevolmente ſi può ne'Digeſti, e nel Codice così di Teodofio, come diGiuſti niano comprendere . E certamente in coſtoro ſolamente da credere , ch'aveſſe luogo l'ignoranza dell'arte ; per ca gion della quale furono in Romacontro a' Medici ordina te le leggi. Ma sì fatta razza di medicanti ben ne do vrebbe eſſere acerbamente punita: intramettendoſi teme rariamente in meſtier di tanta conſiderazione , quanto è il mcdicare; e ordinando alla cieca rimedi di riſchio sù la vi ta de gli ammalati. Perchè ſtimo ben fatto aſſai, ch'in mol te parti dell'Europa , venga loro ſotto graviſſime pene if medicare interdetto ; avvegnacchè poi cotali divieti poco, o nulla fian melli in uſo . E ben d'eſſo loro a gran ragione dice Anneo deRoberticiocchè degliStrolaghi diſſe in pri maTacito : Genus hominumpotentibus infidum , Sperantibus fallax : quod in Civitate noſtra vetabitur femper ; & retine bitur: Se non ſe troppo fcarſo èil paragon del Roberti ; che i cattivelli degli Strolaghi altro no fanno,che con lor cian cie tenere a bada le brigate de' curioſi con paſcer loro di vaniſſime ſperanze; e gli Empirici volgari co'lor vani ſegre ti , e con lor ciarle , o rattengono gli ammalati , che non prédano rimedj da'buoni Medici,ondepoi ſe ne muojano: o pure con lor nocevolifumi medicamenti eglino medeſimi gli uccidono. E giuſtamente per avventura furon prima digradati , c poi nella perſona condenvati que' viliſimi paltonieri nel reame di Francia , ch’in vece diguarireil Rè Carlo Seſto , preſſo a morte coʻlor medicamenti , e quaſi a perduta ſpe ranza ilcondufſero . Ma egli fu per mio avviſo poco ſag. gio, cavveduto quel valoroſo Re arriſchiando in mano di giuntatori , e pancaccieri la propia vita; e ben come da pri ma li s’offerſero di voler riparare a'ſuoi malori , così do 1 veali Del Sig.Lionardo di Capod. 13 veali toſto e ſenza niuna pruova fare , o aſpettar di lor pro meſſe :del temerario, e folle ardimento punire. Se pure non fu malavoglienza , edaſtio de’maligni Medici di que’tem pi,che fe si malcapitare que'cattivelli, Ma come potevan giammaicon ſalde, e durevoli leggi ſtabilir la Medicina, oi Popoli , o i Maeſtrati , i quali po co , o nulla per la più parte di quella s'intendevano ; le a tanto non poteronmaii più ſaggi, e avveduti Medici per venire, li quali per lungo ſtudio, ed eſercizio molto adden tro in quella ſentivano ? Inventore per quel che fi creda , o almeno antichiſſiino ſcrittore fu della medicina Eſcula pio , e come ne da teſtimonianza Ippocrate , o chiunque altro fi foſſe l'autor della piſtola a Democrito, molte re gole all'eſercizio del medicare egli preſcriffe : ma ben to fto non buone conoſcendole parecchj ſaviſſimamente diſ fenne; quròs , dice e' parlando d’Eſculapio , è moois deepcóunge καθάπες ημίν αι των ξυγκαφέων βίβλοι Perchè può dirſi col toſcano lirico , che Solchi onde, in rena fondi, e ſcriva in vento colui , che dietro lo ſtabilimento di sì fatte regole s'affati ca, e a cuic.iglia di chiarirfene cercherò per quanto io pof ſa di inoſtrargliene con ordinato diviſamento le cagioni. La medicina tanto , e tanto oggimai creſciuta, e avanza ta, che ben di maggioranza co’più illuſtri , e più nobili ſtu dj gareggiar ſi vede, e colla ſua giuridizione fin détro i più rimoſſi,ed vltimiconfinidella natura s'innoltra : pure fra gli anguſti limiti di pochiſſime piante ſi vide in prima riſtret ta, come avviſa per tacer d'altri l'antico chioſatore d'Ome ro vidpxxia inteixen év GOTÁVOLS ñ ; e'l nostro Seneca : Medicina quondam paucarum fuit fcientia herbarum ; anzi in quel dolce, e ſovr'ogn'altro avventuroſo tempo Quando era cibo il latte Del pargoletto Mondo, e culla il boſco. col ſolo digiuno gli huomini ſi medicavano, 9 E pur viuean que'primi huomini allora, Elefebbriſcacciar, quando l'aiuto Non 9 Ercol.Bentiv.Satir, 3 . 14 Ragionamento Primo Non davan l'erbe, ne'lfapere ancora, o perchèpoco loro abbiſognaſſe la medicina, come avviſa altresì Seneca : Firmis adhuc, folidiſquecorporibus, & facili cibo,nec per artem , voluptatemq; corrupto: o perchèficome à tutt'altre coſe di quaggiù è dato , eziandio alle più grandi, da deboliſſimi principj dovea la medicina trarre l'origine; que’medicamenti uſando gli huomini allora, che loro, o dal caſo , o da bruti animali , o dalla propia induſtria venian manifeſti . 10 Perchè ragionevolmente credeſi, che Age nore , e Chirone tenuti per alcuni ipiù antichi di tutti i Medici,coll'uſo delle ſole piāte medicaſſero. Túcsospeli Aynuo είδη,Μάγνητες δέ Χείρωνα τοϊς πρώτους ματςεύσαι λεγομένοις απαρχας κα μίζουσι.ρίζαι γάρ εισι και βόταναι δι' ών ιώντι τες κάμνον ζεις.Ε di Chi rone ritrovatore del Panace Chironio : πρώτην μεν χείρων G- επαλθέα ρίζαν ελέσθαι κενταύρου χρονίδαο φερώνυμον, ήν ποτε χώρων πολίω εν νιφόεντι κικών εφράσσατο δείρη narra 11 Euſtazio , ch'eſſendo egli nella mano ferito , oco me vuole Plinio, nel piede ritrovaſſe la medicina dell'erbe, χείρωνα γάρ φασι σώθενζ ποπτην χώρακαι την δια βοτανών επινοήσασθαι ixreixn\v: e per tacer di Mercurio ,ilquale inſegnò come can ta Omero l'uſo ad Vliſſe dell'erba Moli Ως α'eg φωνήσας πάρε φάρμακον Α'ργαφόντης Εκ γαίης έρύσαςκαι μιν φύσιν αυτού έδειξεν e ſi pare, che medicaſſero altresì non con altro , che colle fole piante Ercole, onde traſſe il nome il Panace Erculeo; e Ilide e Oſiride, e Apollo, e Arabo , e Cadmo, e Bacco per opera del quale come dice Plutarco, si ritrova primieramente, e monta in pregio il vino , medicamen to poderoſo , e ſoave, e venne anchepaleſata al mondo la gran virtù dell'edera , la quale maraviglioſamente riparar ſuole i danni , che provenir poſſono dal vino ſtrabocche γolmète ufato , ο ΔιόνυσG- και μόνον τώ τον οίνον ευρώνιχυρόα τον φάρ μακον και η διεν,ίατρος ένομίσθη μέτσι, αλα και το τον κιτζόν ανπταπό μενον μάλισα τη δυνάμει πεος τον οίνον ας πμην προαγαγών και τεφανά . σθαι διδάξαι τα βακχένοντας , ως ήταν υπότα οϊνα ανιόντο , τα κιλά κα ποσβεννύνθG- την μέθην τη ψυχρότητ: δηλοί δε και των ονοματώ, ένια την Σ 10 Trif.appo Plur. u lib.i'lliad Del Sig . Lionardo di Capoa. Is 2 την πιο ταύ πολυπραγμοσύνην. Le fole erbe dovettero pari méte adoperarc Eſculapio inventore del Panace Aſclepio , col quale egli,comecāta Nicádro guarì lola figlio d'Ificle: a's" χει και πίνακες φλεγυήϊον όρρατε πρώτο παιήων μέλανG- ποταμε " παρg χάλG- αμερσεν αμφιτζυωνιάδαο θέρων, ΙφλίκλεG- έργG έντε συν ηρακλή κακήν έπυράκτεν ύδρην e che come avviſa il ſuo chioſatore ſolea nclle cure de gli altri fuoi inferimi anche adoperare . δ Ασκληπιον τέτω λέγεται Ιατεύσαι όσις ήν της κορωνίδα της θυγατςός τ8 φλεγύο παιήων só coxnýma. ed Amitaone, e Melampo , il quale come ſi legge in Dioſcoride dell'elleboro ſerviſſi nel curar le fi gliuole di Preto Rè de gli Argivi. Mercun Qutisaitór @ toe's Afolty Osya tegas Hayelous év ained, cioè coll'ellebero xa Jogou weó tos ĉ beeg Tolcay , e Podalirio, e Macaone non d'altro , che d'erbe fi valfer pe' feriti dell'oſte greca , e prima della guerra Trojana Medea , come narra Diodoro coller be guarì le ferite di Giaſone,di Laerte,d’Atalanta, e di Te fpiade. Ιάσονα και Λαέρτην, έπ δε Αταλάντης, και τους Θεσπιάδας προσα γορευομένους· τούτοις μεν ουν φασίν υπο της Μηδείας εν ολίγαις ημέραις Tori písars Borzívass DeexWeu Iñvou . E Trifone appo Plutarco in nalza , e loda ſommamente gli antichi nneisy xexenuefuésmo' Qurwv ixrçıxß. Quindi provati più volte , e riprovati poi i lor medicamenti , dieder la prima bozza all'arte del medicare, como cantù Manilio : Per varios caſus artem experientia fecit Exemplo monftrante viam . Macome pochi , e ſemplici erano in prima i medicamenti, poche, e ſemplici altresì eſſer dovettero allora le regole della medicina: quindi per gli errori, ne'quali puotè age volmente incorrere la ſperiêza,abbiſognò ,che cotali rego le,comechè pochiſſime,pure talvolta mutafler faccia ,cam biandoſi tuttavia , è migliorandofi i primi medicamenti. Così cominciò la medicina ſu'l bel principio a far manifeſta la ſua incoſtanza . Ma non guari così ella in man delle ſemplici perſone riſtette , che tratto tratto non vi poneſſer mano anche i filoſofanti; i quali è da credere, che da prima da 16 Ragionamento Primo da ſola curioſità, e diſiderio d'inveſtigar la cagione de'me ? dicamenti tratti vi cifoſſero ; ma pian piano vie piu avan zandoviſi,ericoncentrandoviſi,giunſero poi a tale,che bia ſimando , comeincoſtante, e pericoloſa l'antica ſemplicità del medicare, le prime fondamenta gittarono della razio nal medicina ; comeche Euſtazio ne faccia Podalirio il primiero inventore , ed egli ſembri per quelche ne narri Eriſimaco appo Platone, ch’un tanto onore al ſuo padre Eſculapio ſi debba attribuire : onuéte? Quiséger G Astana's ( ως φασιν διδε οι ποιητα, και εγω πείθομαι )συνέςησε την ημετέραν τέχνην . ή τεν ιατζική (ώσπερ λέγω ) πάσα δια το θεε τε του κυβερνάται.Ε pri ma aveaegli detto:έπισήμη των τε' σώματG-ερωτικών προς πλησμο νην και κένωσιν , και ο διαγιγνώσκων εν τα' τους τον καλόν τε και αίρον έρω το , 8'τός εςιν ο ιατρικώτιτς- και ο μεταβάλειν ποιών ώστε αντί το ' ετέρα έρωτG- τον έτερον κτησάσθαι : και οίς μη ένεστιν έρως δει δ'εγγενέσθαι,έπισα μενG- εμποιήσαι , και εν όντα εξελεϊν , αγαθός αν είη δημιουργός : δεί γαρ δη τα έχθισα όντα εν τωσώματι , φίλα οΐόντ είναι ποιείν , και έραν αλήλων , έξι δε έχθισα , τα εναντιώτατα ψυχρoνθερμώ,πικρον γλυκεί , ξηρονυγρό πάνω τα τοιαύα τούτοις έπιςηθείς έρωτα εμποιήσω και ομόνοιαν . Ma non per tanto non ceſſarono,mavie più moltiplicarono le ſue muitazioni e le ſue incertezze : e come varj erano , e diſcordanti quei , chela cſercitayano, così varia ella ne divenne, equaſi in inille parti diviſa. Ma pur ſi manteneva intanto con iſtrettiſſimo legam alla filoſofia la razionalıncdicina congiunta ; intanto che da'più ſaggi, e prudenti ſtimatori delle coſe , come Celſo avviſa, parte di quella veniva concordevolmente giudic.ee ta: eral parve che ſe ne ſteſs’ella fino all'età di Erodico, detto da alcunimalamente Prodico . Or coſtui come rio traceiar ſi puote da quel che ne narr. Platone nel Ginna fio , di cui egli era Mactro, cpriino miniſtro , cagionevole divenuto della perſona, per lo biſogno, che gliene faceva , a coltivarla medicina con tutto l'aniino , e conogni ſtudio maggiore ſi volſe; e quella alla Ginnaſtica congiugnendo, e preſcrivendole alquante regole da lui per via della ra gione, e della ſperienza daprima ritrovate, li parve,ch'an zi d'ogni altro qualche forma d’arte a darle incominciaſſe. E illo DelSig.Lionardo di Capoa . 17 E allora venne ella pian piano a perderdella filoſofia l'an tica uſata dimeſtichezza : comechè Celſo, ed altri portino opinione eſſer ciò per opera d'Ippocrate primieramente avvenuto . E da Erodico ſembra eglipoi, ch'il reſtì da noi mentovato Ippocrate ſuo ícolare , ed Eurifonte , e altri il coſtume di trattar ſeparatamente dallafiloſofia le coſe alla medicina appartenenti apprelo aveſſero . Ed avvegnachè ad alcuniciò ſembraſſe ben fatto affaire digran giovamen to alla medicina ; non però di menomolto manifeſto egli ſi potrà comprendere per colui , ch'alla verità delle core voglia ben profondamente guardare, cſſergliene anziche no graviſſimo nocimento ſeguito. Imperciocchè quindi i filoſofanri niuna curanon dandoſi di por mano alla media cina , e quinci i Medici delle biſogne di quella groſamen te diviſando , per poco di razional non le rimare , altro che'l nome. E giunſe a tale sì biaſımevol coſtume, ch’in di fenderlo tuttavia i lor poſteri pertinacemente s'affaticava no : e oſtinati in su la credenzi coglievan pruova da farlo a credere alle genti . E Galieno pure osò dir d'Ippocrate , aver lui certamente gran ſenno fatto in non inframetterſi giammai di volere ſicome ſi fè poi da Platone , inveſtigar la natura , e la generazione delle qualità di que'loro quat tro primi corpi, ondegiudicano ciaſcuna coſa , ela malli ... turta del mondo cſſer compoſta, e ordinata; dicendo, un cotalbriga a'filoſofanti ſpezialmente , e non già a'Medici appartenerſi; i quali ogniloro uficio han baſtantemente , compiuto,toſto che a ſapere aggiungono la ſanità de'corpi dal temperamento , o dalla meſcolanza del caldo , e del freddo , e dell'umido , e del ſecco ingenerarſi,ſenza più ol tre curioſamente ſpiarne. Ma qual di queſta giammai po trebbe alla medicina coſa più offendevole , c più dannoſa immaginarſi? Così per lungo uſo ne' Medici , che razionali appellar ſi facevano l'amor della fapienza tratto tratto mancando , più fiere aflaise più crudeli le conteſe della malandata mc dicina rappiccaronſi; perciocchè ove in prima i ſentimenti gli uni de gli altri per vaghezza ſolaméte della verità con C trila 18 Ragionamento Primo traſtar ſolevano , allora affondati tutti nelle fazioni, e oſti nati ne gli appoſtamenti, non rifinarono di piatire , e riot tare, e carminarſi l'un l'altro, e proverbiare; intanto che ne meno i primi maeſtri, e ritrovatori dell'arte ne fur ſalvi, Apollo giudicato Iddio della medicina , era allora poco a capital dalla fciocca gétese volgare torma de Medici tenu to , rimproverandoli apertamente eſſer luiciarlone , e mil lantatore; e ſovra tutto d'ingratitudine anche il cacciarono; perciocchè avendo egli dall'altrui urmanità , e corteſia law medicina apprefa,tutto ſuperbo poise gonfio ſe n'andavas come s'egli, e no altri dapprima per propria induftria ritra vata l'aveffe. Anzi perchè egli in maggior pregio ,e gloria formontar ne doveſſe incominciò lo ſcaltcrito ,e fagace pá cacciere,avédone appreſa l'arte da Glauco, ch'era un volpā vecchio, a cicciar carore,e far l'indovinello ,aprēdo la ſtra da alle frodi, e aſtuzie da trccellar le genti. Proverbiò altri Eſculapio anch'egli Dio della medicina,perchè egli bergol foſſe , è di poca fermezza in mcdicando ;e non poche be ſtemmic ancora li furono ſcagliate per la ſua ingordilimizu avarizia: imperciocchè egli in priina d'ogni altro , ficome narrano, 12 l'arte ragguardevole, e ſacrosāta della medicina in profan’uſo rivolgendo, tratto da vil guadagnos2 prezzo medicando a un'infermoPrincipe vendèinfinito teſoro al quante poche erbe, e radici, perchè giuſtamente eglimeri tóne poi cffer fulmimato ,ed arſo daGiove;e laſcionne a'pe fteri un così ſeoncio , e così abbominevole eſemplo . E ol tre a ciò dicono ,ch'egli in far l'indovino, el malioſo , ci tutt'altre giunterie, e frafche il ſuo padre Apollo digran lunga avanzaſſe, perchè poi funne ſovraſtante a gli augurj, e all'arte divinatoria per ciaſcun creduto. E côtro di lui di vantaggio aggiungono aver lui con mille modi , e artifici fconvenevoli dato a divedere altrui, ficome fè ſuo pa dre , che anche i cadaveri ſapeſſe egli in bella vita riporre; e che in sì fatta gaiſa il titolo di divino fecleratamento d'accattar fi proccuraffe . Ma per recarvi le molte parole in una , e'conchiudono alla perfine, ch'Apollo poco,onul la Pindaro, Del Sig.Lionardodi Capoa : 19 la di medicina s'intendeſſe : e molto meno ne ſapeſſe il ſuo figliuolo Eſculapio ; perciocchè sfidandoſi colui di poter nell'arte propia il figliuot compiutamente ammaeſtrares, fotto la diſciplina di Chirone fegliele lungamente impren dere. 13 E coſtui dopo cotanto ludio , e tempo, che logo rovvi, tanto ne venne in ſuſo , che per guarire un menomo dolor di denti fu a riſchio di perdervi il ſuo buon nome; e le ftanco alla perfine con una preſta diliberazione per torli d'addoſſo una cotal ſeccaggine a viva forza no'l cavava , fuora al malato chi sà che gliene farebbe ſeguito ? E'l ſuo gran Maeſtro Chirone non che altri , ma ſe medeſimo cu far non valſe , allor che a caſo da Ercole ferito preſe per partito di far larga rinuncia della vita , e dell'immortalità 2 Prometeo , e così uſcir valoroſamente fuor d'ogni impac cio . 13 E ben da ciò fi può apertamente comprendere , re vere foſſero quelle tanto maraviglioſo , e tanto impareg giabili pruove , che di lor falfamente la menzoniera anti chità và millantando . Così per avventura gli aftioſi con tradittori di que'primi maeſtri favellano : c Io ancora a vo lerne dire al preſente ciò, che me ne paia , non mi ſembra gran fatto da porre in dubbio eſfer que’ primi ritrovatori della medicina appo'Greci poco in quella cercamente pro firtati; ſe nc'ſecoli appreſſo ancora , quando colletà in cia lcuno ſtudio , carte avanzavaſi ilmondo, meno ſaviamente coloro diviſandone, moſtraron'altresì d'aſſai poco ſaperne. E quantunque eglino in tanto buon nome , e pregio per tutto ne montaſſero; non però di meno non dobbiamo noi dalla noſtra credenza rimanerci ; giudicando nelle prime bozze dell'arti al ſemplice, e creſcente mondo eſſer ſem brati maraviglioſi, e divini ritrovati le prime opere della medicina. E fu ciò più che a tutt'altri inventori, agevol molto a’Medici ; perciocchè ogni lor grave fallimento , ed errore in medicando, eſſendo, come diſle colui, naſcoſto in fieme coʻgli ucciſi da loro forterra ; e allo incontro appa rendo folaméte di quà le loro comechè menomiſſime pruo ve ne'vivi da loro riſanati, ſenza troppa invidia poteronfi C 2 age 13 Apollodoro . RagionamentoPrimo agevolmente acquiſtar loda , e pregio immortale . Senzaa chè nelle più ribalde, e cattive perſone certamente ciò avviene ; le quali ſicome aſute , e malizioſe ſi van procac ciando per tutto favorevoli , e parteggianti ; e dalla vera fapienzalontane non laſciano qualunque froda , 0 giunte ria , onde preſſo la minuta bruzzaglia delpopolo diventi no ragguardevoli. Perchè è certamente da giudicare eſſere ftati coſtoro , di cui cotanto buccinavaſi, aſtutiſſimi giunta tori , e ramanzieri. Nè Io ho in animo di recarvene qui molti eſempli,chea gran dovizia potrei ritrarre dalle anti che , e dalle moderne memorie ; ſolamente non laſcerò di rapportarc ,effer'antica fama,che Acrone d’Agrigéto aveſ ſe una volta damortifera peſtilenza liberata la Città d'A . tene colle grandi luminarie , e fuochi , cheper entro vi fè accendere. Ma ſe ciò da fuoco avvenir poſſa , non che da altro ,da gli occhi noſtri propjcertamente ce ne habbiamo potuto ricredere.Narrali il medeſimo aver fatto a’ſuoi tépi İppocrate . E Toſſare ancora dopo morte acquiſtonne e Itatue, e ſacrifici, ed altri onori divini; perciocchè, come narra Luciano, in tempo che Atene era più che mai dalla fogadella peſtilenza malmenatas e tutto che dipopolata , e ſgombra , diceſi eſſer apparſo colui ad Architele moglie d'un cotal huomo dell'Areopago ,e averle ſicuramente det to , che ſe gli Atenicli fpargeſſero le ſtrade tutte divino, di preſente farebbcſi attutata la peltilenza ; e ciò facendo co loro , dilubito , conforme colui loro promeſſo aveva,ne fur del tutto rimofti , δπι της ελάδα κατά τον λοιμον την μέγαν έδοξεν και Αρχιτέλος γυνή Αρεοπαγίτε ανδρος επιφάνια τώ λοιμώ έχόμενοι, ή τας σενωπες δίνω παλά ράνωσι τέτε συχνάκις γενόμενον ( 8 ' γαρ ημίλη σαν Αθηναίοι οι ακούσαντες ) έπαυσε μηκέτι λοιμώξειν αυτούς. Or qui io amereil'uſato ſuo avvedimento in Luciano , il quale ſcioccamente ſe'l crede, e va fantaſticando , ciò eſſer potu to avvenire da vapori del vino , i quali trameſtati all'aria Paveſſero purgata , e dilibera da gli aliti peſtilenzioſi, che l'infcrtavano .Madominc ſe coteſte peſtilenze non manca rono, fe no ſe dopo lungo ſterminio ,c mortalità delle genti, allorchc ſtanco rimafeli il male ; perchè dovrem noi dire eller BIBLIOTICA NA effer ciò avvenuto per opera de’vani, e poco giovevoli ar gomenti , e non più toſto per isfogamento , c periſtracce del malore? Cosi certamento è da giudicare, che gliaſtuti, e molto ſcalteriti giuntatori conofcendo il male effer già nel calo, e nel menomamento,per procacciarſi loda, e pre gio immmortale vezzatamente v'aveſſero poſto conſiglio; acciocchè poi l'opera delſalvamento foſſe più coſto a loro , che alla natura del male attribuita . Artificio ,che tutto dì ſi ſperimenta ne'Medici ancora de’noſtri tempi. Ma in qual to ad Eſculapio ben può egli rimanerſene có quella gloria, che per eſſer egliſtato il primo Maeſtro del mondo in civar déti,glivien ragionevolméteattribuita dal romano Orato re, quádo che diceÆfculapius : primus dentis evulfionem in venit:concioffiecoſachè le cure per lui fatte sì rare,e si ma raviglioſe elle ci vengano in tante , e si diverſe guiſe nar rate , ch'elle come avvisò ſaggiamente Seſto Empirico ſon per ciò da dire del tutto favoloſe , wwóJeon gas éautois yolañ λαμβάνοντες οι ιπεικοί ή ορχηγών ημών και επιςήμης Ασκληπιον κεκε » egυνώ.θα λέγεσιν εκ νεκέμνοι τω ψύσματι, ενώ και ποικίλως αυτό μεG anárixa. Narra Steficoro effer Eſculapio alla ſua maggior gloria formontato per aver riſuſcitati co'fuoj inedicamenti alquanti di coloro ch'in Tebe crano trapaſſati; ma Polian to dice ellerli Eſculapio refo ragguardevole per eſsere ſta ti di ſua mano riſanati alquanti per iſdegno di Giunone impazzati . E Parraſio racconta eſser fui ſopra tutto ſtato commendato peraver da morte ricolto Tindaro. E Maſta filo vuole, chcil ſuo maggior pregio foſſe ſtato ľaver ri congiunto , e riſuſcitato Ippolito ſquarciato in cento brini da fpaurati corſieri .Ma Filarco rapporta tutto il ſuo buon nome, e onore dalla viſta ritornata a figliaoli di Fineo aver avuto dirivo. E Teleffarco finalmentcrafferma efser lui ag giunto infra ' Dij,perciocchè tentato aveva di riſuſcitar da morte Driσne. ΣτησίχορG» μεν εν Εριφύλη ειπων , όπ πινας των επι Θήβαις πεσόντων και ανισά . ΠολύανθG-δε ο Κυρηναίς , εν τω πρί των Ασκληπιαδών γενέσεως. ότι τάς Προύσε θυγατέρας κατα χόλον Ηράς εμ μανάς γενομένας ιάσατο .Παρράσιο- δε , δια το νεκρόν Τυνδάρεω ανα · τηςαι.Σλάφυλφ δε εν τω περί Αρκάδων , όπ Ιππόλνιου έτράπευσε φέ EMANUEL BLI UBIO EMANUE BOMA govca 22 Ragionamento Primo 1 γονία εκ Τροιζήνα- και καλα τις παραδεδομένας κατ' αυ78 ° έν τοϊς τραγωδε μένος φήμες . ΦύλαρχG- δε , εν τη εννάτη για το της Φινέως υους των φλωθένας απκαςήσαι χαριζόμενον αυτών τη μηρή Κλεοπάτρα τη Ερεχθέως . Τελέσαρχος δε και εν τω Αργολικώ, και ότι Ωρίωνα επεβαλέτο avasãows, Ma quali artificj e' non tcntò per eſser tenuto di ligente, e ſcorto nel medicare ancora che ſchifi, e abbomi nevoli fuſſero ? Egli volle ( liçome narra Cclio Rodigino , c venne in ciò Eſculapio da Ippocrate imitato sallaggiar fin le feccie degl'inferni, coinc ſe ciò necellario ancor foſse a rintraciar le cagioni delle malattie, perchè poi da Ariſtos fane nel Pluto proverbioſamente oxaloDeéy @ ne fu chiama to , e Noipiù acconciamente potremmo à lui dire col no ftro Azzio Sincero . Efe idem poteris Merdicus, &Medicus; Ma ſopra tutto giovaron lommámente ad E/culapio gl’in dovinelli, le malie,gli oracoli, i ſacrificj, gli agurj, e altre,e altre molte ſorti di ſuperſtizioni, e d'altre fraſche ,e giunte rie , ch'egliuſava ; ficcando carote alla ſciocca gentane , c tenendo in sù la gruccia con ſuoi cicalamenti gl'infermi. Cola la quale ſi coſtumava allora da chiunque voleva con qualche lode eſſercitar la medicina. E per tacer di Medea, c d'altri molti, Melampo con sì fatti artificj, e fanfaluche , oltre alla fama grande , che gliene ſeguì, di povero conta dino , ch'egli era , inſieme con ſuo fratello divennero ric chiſſimi Principi , e ſovrani Signori delle due parti delRe gnodiPreto , e mariti delle figliuole di lui da sè riſanaten, le quali chiamavanſi per quel che ne dica Apollodoro, Li ſippe, e lfianaſſa; ma ſecondo Eliano Elea, e Celene; e che o per lo troppo uſo del vino , o per opera della Reina di Cipri impazzare andavan paſcendo brancoloni, e muge ghiando coinc vacche per le valli della Morea , e d'altri paeſi intieme con lor ſorella Ifinoc , la qual prima di eſser medicata ſe ne morì : delle quali narra Virgilio nella Bu. colica: Pretides impleruntfalfis mugitibus agros; At non tamturpes pecudum tamen ulla fecuta eft Concubitus ; quamvis collo timuiffe: aratrum , Et 1 Del Sig. Lionardo di Capoa. 23 Et fæpè in levi quæfiffet cornuafronte. E che per opera di Melampo poi poſeſi conſiglio al lor fu rore,e furono ricoverate a ſanità coll'elleboro nero, come vuol Dioſcoride ; avvegnachè Galien giudichi , e con più falda ragione ,eſsere ſtatolelleboro bianco,che ciò opera to aveſse . Il qualmedicamento apparò in prima Melampo dalle pecore,come vuol Teofraſto , o più toſto dalle capre, ch'e'guardava ,come ſcrive Plinio; le qualicon paſcer l'el leboro ſi purgavano . Comechè alcuni portinoopinione eſser da Melampo l'impazzate donzelle guarite non già coll’elleboro , ma con latte di capre paſciute in prima di quello ; e altripur vogliano eſser non già quel Melampo caprajo , che loro il ſenno ricoverato aveſse ; ma un'altro Melampo detto l'indovino : E Polianto ciò ad Eſculapio attribuiſce , ſicome narra Seſto Empirico , ed Eudoilo appo Stefano antichiſſimo Geografo : Ma che che ſia di ciò, non è da dubitare, che Melampo dopo lunghe cerimo nie, e facrifici ,e ſuperſtizioni volle, che imprima le impaz zate Donzelle fi lavaſſero in quella famoſa fonte d'Arca dia chiamata Clitorio ; perciocchè in memoria di ciò vi ſi leggevano in un marmo que' belliſſimiverfi rapportati da Iſogono antichiſſimo Scrittore dell'acque. Αγρότα συν ποίμνεις το μεσημβρινόν ήν σε βαρύνη Δύψος αν εσχατιας κλείτορG- ερχόμενον , Της μέν από κρήνης αρύσαι πόμα , και παρα νύμφαις Υδριάσι σήσον παν το σόν αιπόλιον . Αλα συ μήτ' επί λετρα Gάλης κρόα μη σε και αύρη Πημένη θερμής εντός εάνια μέθης . Φεύγε δ' εμην πηγήν μισάμπελον ενθου μελάμπες ΛεσαμενΘ- λύασης ποιτίδας αργαλίης Távla xabaqueor fxoļev daóx gupov súr’ ár át' deyes συρεα τρηχείης ήλυθεν αρχαδίης.. Perchè poi ſurfe conteſa infra gli Scrittori di giudicar di verſamente quella cura : e altri dicono eſſere ftato il ſacri ficio ſolamente, e'l bagno: altri l'elleboro; ma certamenre per quel che per noiavviſar fi poffa, egli ſi pare , ch'amena due i medicamenti vi fuffer da Melampo adoperati; perchè Pittagora così dice appreffo Ovidio: . Clito 24 Ragionamento Primo Clitorio quicumquefitim de fontelevarit ; Vina fugit: gaudetquemerisabſtemius undis , Seavis eft in aqua calido contraria vine : Sive, quod indigena memorant, Amithaone natus, Prætidas attonitas poftquam per carmen , &herbas Eripuit furijs ;purgamina mentis in illas Mifit aquas; odiumquemeri permanfitin undis. Al qual coſtuine avendo per avventura riguardo l'Omero Ferrareſe volleche Aſtolfo faceſſe lavar più volte in mare il ſuo forſennato Orlando pria che gli da se bere il licores avuto in Ciclo per guarirlo: 1.0 fà lavare Aſtolfo ſette volte , E ſette volte ſott'acqua l'attuffa Si che dal viſo , e da le membra folte Lava la brutta ruggine , e la muffa. Ma non ſi contentava già disì fatti artificj ſoli Melampo, ma a render più ragguardevoli,e famoſe le ſue cure ſi van tava anche come ſcorgerſi puote in Sinelio 14 di ſapere in terpetrare i ſogni , e ſi valca oltre a ciò degli augurj, e da va ad intendere a tutti che gli aveſſe Apollo inſegnata l'ar te dell'indovinare , e che avendoſi egli allevate in caſa al quáte bilce, quelle poi dormendoſi egli nel più alto filézio della notte gli haveſſero leccare l'orecchie, ond'egli ſubita mére p paura deſtatoſi havelle inteſo preſlo all'alba chiara mente i linguaggi tutti degli uccelli, os, parlando di Melāpo dice Apollodoro, επί των χωρίων διατελών ,ε'σης πτό τε οικήσεως αυτού δρυός,έν και φωλεος όφεων υπήρχεν αποκλεινανίων των θεραπόντων τους όφας,τα μη ερπετα ξύλα συμφορήσαςέκαυσε τους και τ όφεων νερατους έθρε . ψενοι δε γενόμμoι τέλιου σειράντες αυτώ κοιμωμδύω τώμων εξ εκατέρω : ma's exca's Txis gaca sesi exclougor . o de avasara moi gerópfu were δεης των υπερπτπρίων ορνέων τις φωνας συνία . και παρ' εκείνων μανθεί vwv, niuna arte dunque gianmaiebbe , per quanto lo mi creda, tanto commercio colle menzogne , e colle frodi , e colle ſuperſtizioni, quanto il meſtier della medicina. La qual cola così manifeſta ſi pare a chiunque ſia di quella mezzanamente inteſo, che non abbiſogna al preſente, ch'io 14 lib.3 . di van Del Sig.Lionardo di Capod. 25 di vantaggio mi v'affacichi. Non però di meno non laſce ? rò d'accennare le ſtrane, e ridevoli cerimonie, ch'adopera vano gli antichi in raccorre le piáte, acciocchè poi più ma raviglioſi, eragguardevoli dalla ſcimunita gente giudicati foſſero i lor medicamenti. Non poteaſi la Peonia coglier di giorno ; perciocchè dubitavano non v'aveſſero a perder di preſente la viſta,ſe da qualche ghiandaja vi foſsero in colti. Colui, che cavar voleva la Mandragola, conveniva, che ben ſi guardaſse dal verto contrario : e prima dicavar la formavale con un coltello incorno tre cerchi: e in divel lendola poi tener ſi voleva la faccia volta verſo Occiden te : e mentre divellcvaſi faceva di meitieri, ch’un'altro le andaſse intorno faltando, e ſghignazzando, e dicendo non foquali parole ſconce, e laſcive , come racconta Teofraſto con quette parole . Περιγράφειν δε και τον μανδραγόρgν εις τάς ξίφα: τέμνειν δε πεός εσπέραν βλέπονται τον δε έτερον κύκλω περιορ - χεΐσθαι , και λέγειν ώς πλείσα πτρια φροδισίων τέτο δεόμοιον έoικε των περί τξ κυμίνε λεγομλύω κατι την βλασφημίαν όταν σπείρεσ . Le Quali poida Plinio nel ſuo volgar cavate non fur così intiera mente rapportate . Cavent, dice egli, effofuri contrariun ventum , & tribus circulis ante gladio circumfcribunt:poftea fodiunt ad Occaſum ſpectantes. Mach afsai maggiori cerimonie cavavaſi preſso gli anti chi la Baara, la qual vogliono aicuni, che altro certamente non foſse, che la Mandragola medeſima. Eglino in prima le gittavan ſopra del ſangue metruo , o dell'urina delles donne , quindi cavandole intorno alla barba la terra liga vanla cautamente dietro un cane ; il qual poi chiamato dal padrone in correndo la ſtrappava di terra , e di preſente ne moriya. Cosìda Giuſeppe Ebreo vien narrato a dágay γος δε και κατά την άρκτου περιεχέσης την πόλιν βαάρας ονομάζεται τόπος φία σε ρίζαν ομωνύμως λεγομένην αυτώ αύτη φλογί μεν την χροιαν έoικε , περί δε τοις εσπέρας σέλας απασρέπτεσα τους δε επιεσε και βε λομένοις λαβείν αυτήν εκ έσιν ευχείρώτος αλ' υποφεύγει και επόπρον ί' Edi quell'altro delmedeſimo Ariſtotile , che il tralaſciar da parte i ſenfi per laſciarne cie camente alla ragione guidare, d'aſſai debolezza d'ingegno ar gomento ſia ? O forſe non fu egli del medelimo ſentimento anche Galieno ? ecco le ſue parole : coloro tutti da giudicar fono , anzi forſennati, che ſavj, i qaali potendo le coſe pie namente comprendere , ed apparar da' ſenſi, voglion pures che da apprender fieno dalle ſoledimoſtrazioni . Ealtrove il medeſimo autore: è dottrina da tiranno , e piena di confu fioni , e di contefe quella di coloro , che ſolamente agli altrui detti s'appoggiano. E di grazia leggan pure una volta il me deſimo fentiinento nel loro Avicenna ; e ſe non altro , va dano, e sì l'apparino dal Principe de' Teologi , Giovanni Scoto 54 Ragionamento Primo Scoto , ove dice , che tutti coloro, che'a' ſenſinon voglio no dar fede , degni giuſtamente ſieno delle fiamme. E ſap piano di vantaggio, che chiunque abbia qualche ſcintilluz za di ragione , diqualunquc Serta egli ſi ſia , debba pure con quel gran lume della Galienica, e dell'Ippocritica medicina Niccolò Leoniceno dire : non debemus profecto de Situere ita nosmet ipfos, ut aliorumfemper veſtigia fequentes, nihil ita per nosmet ipfos decernamus. Hoc enim verè effet alienis oculis videre , alienis auribus audire , alienis naribus odorare , aliena ſapere intelligentia : ac nibil nos aliud quam lapides effe ftatuere, fi omnia alienisaffertionibus committe remus , nihilque à nobis ipfis diſcutiendum putaremus . E queſta pertinacia medeſima un'altro parzial di Galic no ( 1) oltremodo tacciādo,prende a narrare un piacevoliſ fimo avvenimento; cioè, che un pubblico lettore uſato lun , go tempo , ed invecchiato in ſu'libri d'Ariſtotile , abbatté. doſi per avventura un giorno in una notomia , e veggendo manifeſtamente la vena cava dalle innumerabili fila , ora dici , chę ſon nel fegato la ſua originç trarre , tutto ingom, bro , e pien di maraviglia , Come chi mai avf4 incredibil vide, confeſsò , che nel vero per quel, che gliene moſtraffero i fenfi la vena cava diramar dovelle dal fegato ; ma non per ciò egli credédo a' fenfi contraddir doveffe al ſuo maeſtro Ariſtotile , il quale tutte le vene nell'huomo aver principio dal cuore, coitantemente afferma; perocchè,diceva egli, più agevole allai eſſere , i noſtri ſenſi talvolta ingannarſi, che il grande , e fourano Ariſtotile in errore alcuno giammai eſſere caduto . E più avanti cbbe di male la ſua oſtinazio ne,chę vegnendo per alcun diinoftro in brigata d'huomi ni letterari,eſſere intorno al cuore alquanta lugna , la qua le a ficvol lumicino di candela liquefacevali, con tutto ciò per difender oſtinatamente il ſuo Ariſtotile, negante law medeſima coſa , osù pur dire , che quel dalui veduto non era miga graſcio . Maaſai per certo piacevole egli ſi è ciò , che a tal pro poſito anche narra il chiariſlimo Redi, che un ' profondo 1 1??30 , ( 1 ) Santoro. DelSig. Lionardo di Capoa mac ro in iſcriteura peripatetica , perchè non veniſſe egli coſtretto a confeſſar per vere le ſtelle , ed altre nuove core dal gran Galilei in Cielo ravviſato , ricusò l'ajuto dell'oc chiale ; e ch’un altro più teſtereccio non volle mai degnar di vedere aprir da lui una di quelle picciole rane , che per le polveroſe ſtrade in tempo diſtato ſpicciano , per non eller altresì coſtretto a confeſſare , ch'elleno non s'ingene rino nello ſtante dell'incorporamento della gocciola con 1.2 polvere. Maove Io ferbero di narrare i piati, e le conteſe, che nella medicina del nobiliſſimo medico Proſpero Mar ziano in Roma s'accrebbero ? il quale di non volgare dot trina , e di faggio avvedimento fornito , quanto avea dita lento, ed'induſtria, tutto glorioſamente in iſpicgare la doc trina d'Ippocrate impiegando, diè manifeſtamente a vede re , che allai ſovente Galieno,o non aveſſe compreſo,o non avelle comprender voluto il vero ſentimento di quelgran vecchio . E ciò anche Pier Caſtelli narrando dice, che Ga lieno così parimente foſseſi adoperato in iſpicgar del divi no Platone i dottilimi ſentimenti : Galenus , vel non intel . kexit, vel intelligere noluit Hippocratem , & Platonem , ut ſua extarent. Quindida'rimproveri , e da’mordimenti dilui difende il laviffimo vecchio , ſpezialmente intorno alle c.2 gioni delle febbri, coſtantemente affermando , non ſola mente Ippocrate non avere a ' febbricitanti giammai pre ſcritto il lalaro , ſe non ſe ove caſo di grande infiammagio ne d'entro richieſto l'avelse : il che già prima di lui piena mente Girolamo Cardano avviſato avea; anzi per ſentimé to d'Ippocrate vudl , che la febbre una di quelle cagioni ſia, che il ſegrare affatto abborriſcono . E queſte , ed altre buone dottrine il valent:huomo del Marziano faggiamente manifcftando , ravvivò con eſle la caduta , c quali eftinta ferta del ſuo caro Ippocrate . Ma non ſolo come fin ora abbia dimenticato una dona na , la qual comechè tale , pur merita d'eſsere in iſchiera de' più nobili letterati annoverata . Io dico la Signoras D. Oliva Sabuco: Co Ragionamento Primo 1 Coſtei gl'ingegnifemminili , egli uſi Tutti Sprezzo fin da l'etade acerba : A’ lavori d'Aracne , a l'ago , a' fufi Inchinar non degnò la manſuperba: Ed eſsendo ella di valore, c d'ingegno più che maſchile abbondevolmente fornita , animoſamente fi iniſe col cere vello , e con l'animo ad inveſtigar le coſe naturali; e più ol tre avanzandoſi, ed in biſogne di maggior utile , e prò la mente rivolgendo , acciocchè le Spagne, e'l mondo tutto qualche concio ne traeſsero, ad un nuovo , ed ingegnoſif fimo diviſo dimedicina diè maraviglioſamente principio . Ella così all’Auguſtiſſimo Monarca Filippo Secondo d'e terna ,e glorioſa memoria in una lettera ſcrivédo,iſuoi pre gi manifeſta. Reſulta muy clara y evidenteměte, como reſul ta la luz del Sol, eſtar errada la medicina antigua que ſe lee yeſtudia en ſus fundamentos principales, por no aver enten dido ni alcançado los Filofofos antiguos y Medicos, ſu natu raleza propria, dondeſe funday tiene ſu origen la Medicina. Delo qual no ſolamente losſabios y ChriſtianosMedicospue den ſer juezes, pero aun tambien los de alto juyzio de otras facultades , y qualquier hombre abil yde buen juyzio. E quin di poco appreffo : y el que no la entendiere ni cumprehendie re , dexela para los orros y para los venideros , o crea a law eſperiencia, y no a ella , pues mi pericion es juſta, queſeprue ve efta miſecta un año,pueshan provadola medicina de Hip pocrates y Galeno dos mil años , y enella han hallado tan poco effecto y fines tan inciertos , comoſe vee claro cada dia , y so vido enelgran catarrotavardete , viruelas, y en peftes paf Sadas , y otras muchas enfermedades dondeno tieneeffetto al guno , pues de mil no viven tres todoel curſo de la vidabaſta la muerte natural : y todos los de mas mueren muerte violen ta de enfermedad , fin aprovechar nadaſu medicina anti gua . E nel dialogo della vera medicina : Nomepodreys negar (Señor Doctor ) que la medicina eſcrita que ufays eſta incier. ta , varia y falta y que ju fin , y efeto fale incierto , falfu y dudoſo,como vemos claramente ellasde m34s artes iener füis 1 1 fines Del Sig.Lionardo di Capo a. 57 20$ fines y efetosciertos , y verdaderos fin variacion , ni engažo, comola Aritmetica, Geometria, Musica, Astrologia, y las de mas , que a quel fin , y bien que prometen , lo cumplen, y fale cierto ſiempre y verdadero. Todo lo qualbien vers que falta en la medicina ,pues eſta tanengañoſa , incierta; yva ria :luego claro eſta que eſta arte tiene algunafalta en las raga zes , y fundamentos ,pues no echa el fruto, conforme a lo quc promete, que muchas vezes esperamos lindas māçanas echa eſcaramujos agallas y niſpolas :lo qual al buen juyzio pondra en duda, y dira por ventura, Eſte aunquepaſtor trae , razon , que los antiguos tambien fucron ombres como eſte. E più ſotto ſeguendoil medeſimo ſentimento ſoggiunge: No nze podeys negar ,Señor Doctor , la incoſtancia, y quantas ve zes fuemudada la medicina , y que eſtuvo vedadamucho tič po en Roma , y que muchos ſabios mo le han dado credito , ni ſe han querido curar con medico por las cauſas que tengo dichas, que ſon degran eficacia . Ylos Sarracenos, y los del Reyno de la China, no admiten inedicos , j' ay mas gente que en Eſpaña . Y eſosmiſmos autores antiguos , graves le ponen gran dificultad , diziendo , que la vida esbreve, y el arte es largo , el juyzio difficultoſo , la eſperiencia engañoſa , & c. I dixo Hippocrates : que perfecta yacabada certinidad de la medicina no ſe alcanca , y no me podeys negar , Señor Do Etor que fueron hombres, cimo noſotros: y que ſus dichos , no forçaron a la naturaleza del hombre, a que ella fueffe lo quc ellos dezian , que ella ſe quedo en lo queera , y ſu dicho no la mudo , y pudieron errar como hombres,pues tantas vezes fue frrada y mudada , como lo podeys veren Plinio , donde dize que ninguna de las artes fuemasincuſtante ,y mudable, que la medicina : y que cada dia ſe mude. Più oltre crapaffala signora D. Oliva , i cui fourani pre gi nou è mio diviſo al preſente raccorre , ed annoverare , che troppo a lungo ne verrei . E baſterammi accennar ſo lamente molte coſe averſi alcuni de'più rinomati autori in veſtite , inillantando falſamente, ſe eſſere ſtati i primi a mani feſtarle , come intorno all'ordimento , che tien la natura in compartire alle parti de'corpi animati il nutriinento, che H cla 58 Ragionamento Primo ellämolto avanti ravvitate appieno , e glorioſamente già paleſate ne'luoi libri l'avea . Surſe dopo coſtei nella noſtra Italia un novello Siſtema di razional medicina, e fu gentil trovato diquel celebre filoſofante , e maeſtro in divinità Tomaſſo Campanella . Non miſe egli già le mani all' opere della medicina : ma pure ſpiar volle di quella i più ripoſti arcani ; e comeage vol fu al ſuo pellegrino intendimento lo ſceverar la ſua fi loſofia dalla volgare , che nelle ſcuole comunemente inſe gnavafi , così potè ancheordinar con belle dottrine un'al tro trovato dirazional medicina , e quindi ancor ne ſegui rono molti, e varj rimeſcolamenti, e conteſe nell'arte. Ma i ſegni, e le coſtoro mete , o quanto trapaſsò gene roſo a’giorni noſtri il grand'Ermete della balla Germania , Giovan Battiſta Elmonte , che con più alti apparecchi , e colla mente di più nobili arredi fornitas tentò Ia grand'im preſa , onde vie più s'accrebboro i contraſti , e le miſchie . Coſtui a ſingolar acutezza d'ingegno, cãdidezza accoppia do di non volgari coſtumi, rivolto curioſamente alla Spa girica , intorno allo ſcioglimento de’naturali corpi tutto dieſſi, e ne a fatica,ne a ſpeſe giammai perdonando, tant'ol. tre avanzoſi, che laſciandoli dietro l'orme glorioſe dal Pa racelſo ſegnate s nórimai ſi riſtette', fino a tanto, che ull maraviglioſo , e non più udito liſtema di razional medicina egli giunſe felicemente a formare . E a qucſta medeſima guiſa veduto abbiamo a ' di noſtri per lo ſentiero dell'immortalità, e della gloria avviarſi a gran paſſi co'l ſuo novello ſiſtema di razional medicina il celebre Tomaſſo Vilfis ; ne di leggieripuò crederſi, qua to egli con ogni ſtudio maggiore proccuraffe d'ammannar tutto ciò , ch'avvisò dovergli farluogo a sì nobil lavoro : e con qnale sforzo, con qnai ſudori, con quali vigilie egli s'adoperaſe per condurlo allo intero ſuo compimento. Ma non vi durarono minor fatica", ne minore induſtria adope rarono per fomigliante impreſa , e’l Silvio , celebre per lo innumerabile drappellode Fuoi ſeguacije'l Gliffonio ,e l'El vezio , e'l Meſfonieri; e'l Travaginis , ed altri illuſtri l'ette rati Del Sig.Lionardodi Capoa . 59 rati dell'età noftra , a molti de'quali, che che ſtata ne forte la cagione, non è venuto fatto di poter mettere fuorii loro concetti. Taccio al preſente di que'valent' huomini, che tuttavia ſudano all'opera , e colla ſcorta de’moderni trova ti della notomia , e della moderna filoſofia naturale, ſpera no, quando che ſia divenire a capo de’lor generoſi diſegna menti dietro a yarj ſiſtemi di razional medicina. E taccio altresì di coloro, che ſottilmente van tutto di diviſando (i ſtemi di ſperimentale, e di metodica medicina , ma dall'an tica gran fatto varia , ediſcordante , Ma o quantoperciò più le têzoni de Medicine ſiano acceſe con porre ſottoſo pra , ed avviluppar la medicina tutta , non fa meſtierial preſente narrare , ſe tutto dì co’propj occhj apertamente il veggiamo. Perchè ſe a'dì noftri l'eloquentiſſimo Plinio vi vo fosse, griderebbe dicerto più che mai con quelle ſue adirate parole: mutatur ars quotidie toties intarpollis, & in geniorum flatu impellimur , non già di que’della Grecia ora Icioperata , e incodardita ſotto'l giogo della barbarie ; ma di que'celebratiſſimi dell'Inghilterra, e d'altre Provincie , da lui ne’tempi ſuoi barbare giudicate , Malo ormai giunto mi veggioal più copioſo ſtormo de medici,in tante ſchiere , e tazioni partita , e quaſi ſtraccia ta veggendo la medicina, che ormai per ingegno umanono fi può più avanti partire. F ſon coſtoro que'cutti,che nondi Greco , o di Latino, o di Barbaro, o d'altro ſtrano ſcrittone , modernoso anticoch’e'ſiaſi,ſeguirvogliono la peſta ,ed a gli altrui ſentimenti ſempre ligarſi; ma liberi affatto , e ſciolti gir con iſpedito voloi valtiſſimi Regni della natura fcorré do ; quindi cozzando contro i più duri, cd oftinati malori con quell'armi , ch'a coſto delle propie fatiche s'acquiſta rono ,nonpreſe , o tolte da gli arſenali altrui , ed alla cic ca adoperate , fanno con glorioſe impreſe render eterni , e illuſtri i lor nomi. Così nulla altrui credendo , ſalvo ſelor non venga da propj ſenſi, o da certiſſima ſperienza appro vato , tutcoyogliono ſpiare , a tutto penetrare, e tutto ſot tilmente con occhio curioſo eſaminare ;ne per iſmaltire hā no altre ragioni, che quelle ſolamente,ch'all'avvedutezza H 2 del 80 Ragionamento Primo delloro intendimento confannoſi . Ed eſſendo a tutte ſet te contrari, e a niun de'ſertegiantiaffatto nimici, giurano che in queſta guiſa,più che altri oftinataméte fi faccia, l'or me d'Ippocrate , e di Galieno vengano ſopratutto a ſegui tare . E perciocchèlo giudico , che aſſai monti al noſtro intendimento il vedere, ſe una tal libertà , debba loro eſa fere permeſfa: priegovi o Signori, poichè a baſtanza par mi d'aver ragionato, nella vegnenteaſsemblea ad udir loro ragioni. RA 81 RAGIONAMENTO SECONDO, 322 ) EBBO per ſoddisfare all'obbligazion del la mia promeſsa diviſarvi oggi,o Signori, le ragioni di quei filoſofanti , che alla li bertà de'loro ingegni alcun freno di fer vitù generoſamente ſdegnando , voglion gir liberi a lor talento fpaziando pe' vaſti, e ſiniſurati campi della Natura . Ma conciosſiecofachè el le fien molte , e molte , e tutte di gran lieva ,io non ſo qual prima mi debba dire , quafdopo ; ſenzachè a me non fu conceſſa in ſorte larga vena diben parfare , perchè con purgato ſtile ſpianandole ( e quale alla lor dignità per av ventura ſi converrebbe ) la for ſaldezza , e valore veniffer per voi più chiaramente compreſi. Ma forſe hanno elle an cora ciòdi vantaggio , che rôzzamente accennatc poffano, e pregio , e commendazione non ordinaria da voi merite volmente ricevere . E per venirne omaia capo, parmi che alcuno autor di quelle a queſta guiſa d'eſſo loro parlamen , tando potrebbe imprenderne il filo . Egli non alzò certamente natura con ſingolar vantaggio fovra tutt'altri animali all'huomo inverlo il Ciclo la fronte ; di sì 68 Ragionamento Secondo di sì generoſi , e ſublimi, e liberi ſpiriti abbondantemente fregiandolo , perchè egli poi qual paluſtre mergo , raden do lempre maiil ſuolo , non avelle ardimento di battere generoſamente in alto le penne, per potere da ſe medeſi mo ſpiare, e inveſtigare quelle si varie, e sì ſtrane apparen ze , onde bello ſi rende , ed ammirabile l’Vniverlo ; ma acciocchè largamente per tutto ſpaziandoli , il tutto e'cer chi, il tutto e'ravviſi,il tutto e' pienamente comprenda , non già nelle copie incerte , e ragionevolmente d'error ſo ſpette , manel primo , c vero loro originale . Così quell' Aquila deGreci filoſofanti glorioſamente adoperando, con felice., e ſpeditiffimo volo Proceſſit longè flammantia mænia mundi, Atque omneimmenfum peragravit mente ,animoque. E pure ad onta d'una sì provveduta madre, v'hà chi a dáni, ed a rovina diſe , e de gli altri Segnò le mete , e'n troppo brevi chioſtri L'ardir riſtrinfe de l'ingegno umano , facendo sì , che i troppo creduli, e ſciocchi poſteri ad altro non badaffero , ch'a leggere, c rileggere, e tutto dì di chio ſe , e di coinenti gli arzigogolise le fanfaiuche d'un mondo tutto fantaſtico caricare . Quicfto non volle già,che faceſſe in modo alcuno il giovinetto Lidia , quel gran maeſtro della greca filoſofia Antiltene : quando di nuovo libro , di nuoyo ſtile , ditavolette nuove a doverſi fornir gl’impoſe ', fe filoſofar con ello lui voleſſe ; e ciò , perchè egli compré deſfe , che le coſe ,che per lui , da regiſtrar foſfero , eſfer quelle non doveano , che già da altrui ſcritte in prima , diviſate ſi erano .. Eciò anche molto innanzi ad Antiſtene inſegnò quell'antichiſſimo Savio , che primadi tutt'altri, Filoſofia chiamò con nome degno, quando a ' luoiſcolari diceva , non doverſi da loro nella , popolare ſtradaconfuſamente co'l volgo ignorante cammi nare . Equeſta libertà nelle ſcienze ciaſcun'altro de più ce lebri , e rinominaci filoſofi comunemente ancor richieſe : c da più illufri medici, e per valor d'ingegno , e per opera di mano eccel'éti faclia Grecia futta oltre modo abbrac ciata. Del Sig. Lionardo di Capoa. 69 ciata . La cui altezza d'animo ſaggiamente imitar volle il famoſiſſimo medico , e filoſofo Claudio Galieno , ficome in più luoghi ne da pienamente teſtimoniāza nelle ſue ope re, o quand'egli oltremodo uccella , e berteggia i tenacif ſimi ſeguaci d'Eraſiſtrato ,i quali a' detti di lui , come agli oracoli d'Iddio riverenti s'acchetano,faldiſſime, ed infalli bili verità , ſempre mai giudicandole, o quando coſtante mente afferma eſſer egli d'ingegno rintuzzato affatto , ed abbattuto lo farſene ſcioccamente a’derti, ed alle ſenten ze , cd a'giudicj altrui , non volendo coſa alcuna bilancia re , ne punto a lor paſſare innanzi: o quando altrove iſtan cemente priega , e ſcongiura i parteggianti tutti a por giù la ſcabbia , e'l furore , e la ſtolta follia delle ſette : 0 quin do adiratamente grida effer dura , e malagevole impreſa a ridur coloro alla ſtradadella verità , i quali già ſotto il ſera vilgingo di qualche ſchiera ſottomeſſi fi fieno . Quindi la ra gion recandone ſaggiamente ſoggiugne, che le falſe opinio niingombrando gli animidegli buomini, non folamente fordi, ma ciechi ancora renderglifogliano, intanto che ſcorger affat to non posſano ciò , che altri di neceſſità rimira . O quando altrove proteſta , eſſer egli un male da non potere in verű modo guarire,la folle , e ſciocchiffima caponeria di cotali parreggianti; e di qualunque ſcabbia più dura affai, e ma ſagevole a trarre : e che cotali uccellacci non che fappian , giammai nulla di buono , anzi ne men d'appararlo ſi ſtudj no : o quando ſtizzoſamente ſclama, amarpiù toſto, coloro, cfer della patria , che della propriafetta traditori , e rubelli. Et o piaceſſe pure al Cielo , che coralidetti non ſi vedeſ fero a giornate dall’oſtinatiffima pertinacia di coſtoro av verativolendo : più toſto manifeſtamente uccidere i miſeri infermi , che ſpiccarſi punto daʼnocevoliſentimenti de’loro amati Maeſtri . Ma perchè dobbiam mai ſempre noi con follc oſtinazio ne laſciarci trarre afreverendiſlimo parer degli antichi? for ſe non ſono ſtate lor molte coſe a grado , ch'a noi ſpiace voli ora ſono , ed affatto nojofes Cosi 64 Ragionamento Secondo 1 Cosi la gente prima,chegià viſe Nel mundo ancoraſemplice, ed infante Stimò dolce bevanda , e dolce cibo L'acqua , e le ghiande, ed orl'acqua, ele ghiande Sono cibo , e bevanda d'animali , Or che s'è poſto in ufoilgrano, e l'uva , O forſe alcuna coſa , ch'al lor cortiſlino intendimento vera parve, ora falliſiima manifeftaméte p opera degli ingegnoſi moderninon ſi è ſcorta ? Così ſon veriſſiine prove de’mo derni notomiſti il ritrovato dell'aggiramento dei ſangue, delle vene lattec, edel códotto del Virſungo ,e del ſaccolat to, e de'vali acquoſi, e degli uſi delle glādole, e d'altre par ti, e altri infinici nuovitrovati ,che crollano, c ſcovolgono,e da’fondamenti abbattono , cd atterrano ogni razional ſi Atema d'antica medicina . O forſe farà egli colpa degli in nocenti moderni l'effer' eglino nați dopo gli antichi auto rir ma ſe ciò è fallo , e colpa , certamente commiſerla in prima coloro , i quali da' ſentimenti de' loro più antichi maeſtri tralignando , e nuove ſchiere di filoſofia , c di me, dicina anmutinando , ofarono in prima novelli ſcolari ri bellarc a'loro antichi maeſtri, e darne nocevole cſemplo di si follo , e temerario ardiinento . Imperciocchè ognianți co a'tempi ſuoi fu moderno ; perchè figgiamente il Princi pe Claudio Ceſare apppreſſo Tacito ebbe a dire : quæ nunc vetuftifſima creduntur nova fuere : inveterafcet feculum no firum, & quod hodie exemplis tuemur , inter exempla erit, (1 ) cd a queita medeſima cagione avendo riguardo un mo derno Poeta contro que' , che per eller egli moderno biafi mavano il Paracelſo , in ſomigliante guiſa conchiude , Qui nova damnatis , veteres damnetis oportet ; Aut iſta nihil eft in novitate novi Saran dunque acerbamente da vituperar Platone , Antiſte nc , Eſchine, ed altrifamoſiſſimiingegni, i quali poſto in non cale le vecchic ſcuole , che allora nella Grecia fioriva . no , a quella di Socrate , che nuova era , per imprender fi loſofia coraggioſamente ſe'n girono ? anzi ne furon perciò foin ( 1 ) Etienne Paſquier . 1 1 Del Sig. Lionardo di Capoa 05 sómamente da cómnendare. E nuove altresi furono le ſcuole di Platone:e pure Ariſtotile,e Senocrate,e Speuſippo,ed al tri molti cotăto tépo v’uſarono; 11e alcuno ebbe perciò giá mai ardiméto alcuno di biaſimargli . E dalla novella ſcuola d'Ariſtotile in tanta gloria mótò Teofraſto per l'uſarvicon tinuo , che uguale , e forſe al inaeſtro ſuperior ne divenne; perchè dal padredegli ſtoici filoſofanti Zenone , funne poi grandemente lodato. E nuova anche fu la ſcuola di Zenga ne , e nuova quella d'Ariſtippo , e quella di Fedcne, equel. la di Euclide daMogara . Così anche fur nuove le ſcuole d'Eubolide , d'Epicuro , di Menedemo , d’Arcuila , e d'al tri molti maeſtri di filoſofia , e pure per huoinini illuftri,ed egregj, alle vecchie , e famoſe ſcuole degli antichi filoſofan ti furono antipoſte , riportandone ſempre mai buon nome, e fama non ordinaria dicandidi, e veritieri ſcrittori di que tempi . E perchè nó ſarà lecito anche a noi tralaſciando le vecchie ſcuole ad una novella indirizzarci, e maſſimamen te in quelle coſe , ove già i manifeftiffimi errori degli anti chi maeſtri abbiam compreſi ? E forſe ſarebbe a tanta altezza pervenuta la nobiliffima arte della pittura , ſe gli antichi maeſtri paghi ſolamente della rozžillima imitazione del vecchio Filocle,nö ſi foſſero ſtudiati di vantaggio con la loro induſtria di limarla : e col tirar ſolamente le linee dell'ombre de'corpi aveſſero così alla groffa ſchizzate ſempre le lor confuſe, e diſtinate figu re ? O forſe fu egli troppo ardimentoſa tracotanza dell'in gegnoſo Cleofante , odi Parrafio , o di Polignoto , o di Zeuſi, o d'Ag laufone , o del vaghiſfimo Apelle il dar loro più vivi i colori,e più regolati i diſegni,e più ſquiſite le om bre , onde poi vive , e perfettiſlime riſaltando,n'aveffero ,e gli augelli , e i deſtrieri, ei cani , ei maeſtri medeſimidell arte glorioſamente ad ingannare ? così anche i noſtri avan zandoſi di mano in mano l'un l'altro a'tempi di Dante Ali ghicri, Credette Cimabue ne la pittura Tener lo campo, ed or ha Giotto il grido; Si cbe la fama di colui ofcurawi I Quin 86 Ragionamento Secondo Quindi fu il famolo dipintor di Madonna Laura Mae Itro Simone cotanto commendato dal Divino Petrarca, ed altri famoſiſſimi dipintori. Ma ſopratutti ſi tolſero il van to , ed al preſente s'ammirano comemiracoli dell'arte l'o pere maraviglioſe di Rafaello , e di Tiziano , e di quel grande Michel più che mortale Angel divino. Necertamente potrebbe la Grecia gir ſuperba, e altiera della ſonora tromba del grand'Omero,del grave coturno di Sofocle della ſublime lira di Pindaro, e de' ſouviſlimi verſi d'Anacreonte , di Teocrito , e di tant'altri illuſtri , c nobili Poeti ; o Roma de' ſuoiLucrezj , de’ Virgilj , de’ Catulli , de' Properzj, de' Tibulli , degli Orazj . Ne la Spagna ammirerebbe l'altiſſiino canto del Camoes, e le colte rime del Garzilaflo . Ne goderebbe la Francia l'ornato ſtile del dottiſſimo Ronzardo , e del Bert: ſſo. Ne il noſtro più ,che tutt'altri, dolce,vago,e bello Idioma, vātar potrebbe il divi no cato dell'incóparabile Torquato Taſſo ,di Giovani della Caſa , o la maraviglioſa evidenza dell'Arioſto , e dell'Ali ghicri,o la dolciſſima muſa del Petrarca,del Bébo,dell’Ala māni, del Triſlino, delMolza,del Guidiccione ,del Taffo Pa dre,del Guarini,di Galeazzo di Tarſia ,edi altri,ed altri no bili ſpiriti,che di valor colla ſuperba grecia gioſtrano ,o pur la vincono , ſe coſtoro tuttida'veſtigj de'rozzi antichi non aveſſero oſato d'allontanarſi; il perchè faggiamente ebbe a dire Iſocrate:yeggiamo noi l'arti,e tute'altre coſe eſſer van taggiate , e creſciute non già per coloro , che le comunali, e uſitate ritennero , ma per coloro , che d'ammendarle , e torne via glierrori , e migliorarle preſero ardimento: ta's επιδόσεις δρώμεν γινομένας, και των τεχνών , και των άλλων απάντων , και δια της εμμένονάς τοϊς καθεξώσιν , αλα δια τηςεπανορθένας, και τολμώνας «ί τι κινείν των μη καλώς εχόντων . Ε fe cio fi vedea giornates anche in quelle arti avvenire, nelle quali pare , che omai poco, o nulla fi poffa più oltre andare , e pure non vi ha altra ſtrada d'avanzarli a maggior perfezione, che del mai ſempre nuove coſe inveſtigare: perchè non ſi dourà an che ciò alla filoſofia , ed alla medicina permettere ? malli mamcn DelSig.Lionardo di Capoa . 67 mamente , che il campo di eſſe è queſto si vafto , e grandif ſimo teatro dell'univerſo, nel quale ad ore , ed a moinenti apparir tutto dinuove , e nuove coſe fi veggiono , da te nervi i più ſublimi, e pellegrini ingegni mai ſempre img piegati . Multa dies , variufque labor mutabilis ævi Rettulit in melius; ſenzachè certiſlima coſa è , che'l mondo più ſempre mai col tempo invecchiando ,dinuovi , ed utili ritrovati per la noſtra ſperienza di mano in mano i ſecoli arricchiſce . Co sì noi veramente ſiam da dirci vecchi , e gli antichi, i quali nel vecchio mondo ſiam nati , e non que’tali , che nelmo do infante, e giovane,men di noi ſperimentando conobbe ro . Anzi coloro , che per innanzi naſceranno , più di noi ſaran vecchj , ed antichi, e conſeguentemente d'eſſer più di noi dotti, e ſperimentati , e diquant'altri per l'addietro mai furono , auran cagione . Ed a propoſito di ciò ſovven gonmi quelle belliſſime parole del gran Baccone da Vero lánio: de antiquitate autě(dice egliopinio ,quam homines de ipfa fovent,negligens omnino eft, ex vix verbo ipfi congrua : Níundi enımſenium, & grandavitas pro antiquitate vere habendafunt;quæ temporibus noftris tribui debent,non junio ri ætati mundi, qualis apud antiquos fuit. Illa enim ætas re Spectu noftri antiqua, &major ; reſpectu mundi ipfius,nova , minor fuit.Atque revera quemadmodum majorem rerum humanarum notitiam , á maturius judicium , ab homine fene expectamus , quam à juvene-propter experientiam , & rerü , quas vidit , & audivit, & cogitavit, varietatem , copia eodem modo, do à noftra etate (fi vires ſuas nuffet , & expe riri , &intendere vellet)majora multo , quam à prifcis tem puribus expectari par eft ; utpote ætate mundi grundiore, infinitis experimentis, & obſervationibus aucta, & cumulata . E in verità , chi ha mai tante , e si diverſe maraviglie in Cielo , e in terra , e nell'acqua, e negli augelli, e ne’peſci, e ne' bruci animali, e nelle piante ſcovrir potuto , dove turto di attenti , ed intricati gli ingegni tutti de' più ſottili I 2 filo 88 Ragionamento Seconda filoſofanti viſi aminirano, ſe non ſe la noſtra età , cioè a dire il mondo vecchin, il quale ne va nuove maraviglie di giornata in giornata rappreſentado; intanto , che ora d'ogni tempo quafi n'è lecito a dire. quod optanti divum promittere nomo Auderet , folvenda dies en attulit ultro . Oltre a ciò gli antichi ſavj, ſicome i confini delle loro co trade appena s'argomentarono di paſſare , così altii ani mali,altre piante,ed altri minerali fuori di quelle non iſpiar mai, ne conobbero , e ſe ne rimaſero alla ſemplice relazio ne de'marinari , c d'altre perſone idiote , e volgari , dalle quali ingannati,ne ſcriſſero poi tante incredibili bugie . E chi potrebbe mai tener le rila in leggendo ciò , che Erodo to favoleggiò dell'incenſo, dicendo, che gli Arabiil colga no profumando in prima l'arbore con iſtorace : iinperocchè fra irami di quello s'appiattano folti (tuoli di ſerpentelli coll'ali di variati colori : τον μέν γε λιβανωτον συλλέγεστ , την σύeακα θυμιών της . E non guari apprefio,τα γαρ δένδρεα Gύτα του λιβανωτοφόρ , όφιες υπόθεροι και μικροί τα μεγάθεα, ποικίλοι τα είδεα , Qurárrs01 , Trnýber mondo, me ei sér d por exasov . E del Laudano ,affer: mò eſſer quello odorifero , e dilettevole a fiutare , e pur na ſcere in luoghi puzzolenti , e ſpiacevoli; e che ritrovaſi ſu le barbe de'becchi a guiſa di muffi, che naſce da' legni pu tridi: έν γαρ δυσοδμοταίω γινόμενον,ευωδέ αλόν εσ • των γας αιγών των τζάγων εν τοίπ πώγωσε ευρίσκεται έγινόμενον , οιται γλοιός από και o'rins . Ma Rufo da Efeſo dice , alle barbe delle capre ap piccarſi il L.audano allor che le frodi del Ciſto van ghiot tamente paſcendo Αλο δε πε κατι γαίαν έρέμβων λήθανον εύροις Αιγών αμφί γένια • το γας καθύμιον αιξε Κισσε ανθήενθG- επέδμεναι άκρα πίτηλα Τον δ' από λαχνήεν7G- ανεπλήσθησαν αλοιφής Λίγες υπαί λασίασε γενίασε πλευρά τε πάνω . E forſe il medeſimo volle dire Erodoto. E ſimilniente fi pare , che credeſſe Dioſcoride colà, ove ſcriſle parlando del Ciſto : Imperocchè pafcédo le ſue frõde i becchi, e le capre lor fu la barba, e ſu'l vello dell’anche s'appiaitriccia quella tena DelSig.Lionardo di Capoa. 69 tenace graffezza , onde poi pettinandola la raccolgono i Paſtori, e colata non altrimenti, che ſi faccia del miele, e ne forman paſtelli, e la ripongono . Sonyi alcri, che tirando, e sbattendo certe corde ſopra queſti arboſcelli raſchiano poi la graſſezza , chevi s’appicca, c fannone paſtelli, e a quefta guifa la riferbano:τα φύλα γας αυτού νεμόμεναι αι αίγες και οι τεάγοι ή λιπαρίαν αναλαμβάνει το πώγωνα γνωρίμως • και τους μερούς πτοσπλαήoμένην δια το τυγχάνειν ιξώδη• ην αφαιρώντες ύλίζει, και απο τίθενζι αναπλάοσοντες μαγίδας · ένιοι δε και χοινία επισύρεσι τοις θάμνοις , και το πζοσπλασθεν αυτοίς λίπG- αποξύσαν τις αναπλάσει: Il medeſimo dir vollc Plinio , ma in traslatido le parole di Dioſcoride poco bene peravventura intendendo la parola Jauvois, e l'altra unigovor ſcriſſe : Sunt qui herbam in Cypro , ex qua id fiat,ledam appellent : etenim illi ledanum vocant : hu jus pingueinfidere:itaque attractis funiculis herbam eam con volvi, atqueita offas fieri.Vidiede ancora inciera credenza Galieno , quando dice gevers auto del laudano, favellan do ) κατά τα γένεια των τάγων έν πτ χωeίοις επιγίγνεώι: e Paulo da Egina λάδανον από τον κίσε τού λάδανος λεγόμενον γίνεθαινεμόμεναι γαρ αυ τον αι αίγες , εν τοίς πώγωσι , και τοϊς μηρούς αυτών και λιπαρώτε ρον , και οπώδες πόας αφαιρούνι . Éd Eichio λάδανον το με απο των πωγώνων των αιγών , και τάγων Ma à chi cgli non ſembrerà incredibile ciò ches del Malabatro narrano Diofcoride, e Plinio , pur troppo groſſi nell'informarſi , e nelcreder leggieri. Eftima il pri mo naſcer quello nelle lacune a guila di lente paluſtre ; e'l ſecondo no’l fa punto diverſo dalle foglie del Nar do Indiano; e pur ſappiamoeſſer foglia di ben grande , co ſpazioſo albore , non già paludoſo , ma ſalvatico , emon tano . Io non farò menzione delle tante , e tante inyeriſi. mili bugie, ch'cglino medefimi, e Teofraſto della cotanto celebrata ( piganardi inventarono . Ne mi fermcrò a ſpia nare i fallimenti di Dioſcoride colà ove diffe , che le radici del gégiovo fié così picciole,come quelle del Cipero; è co me ciò,che buccinavaſi appo gli antichi dell’ambra gialla moſtri anch'e' di credere , cioè,che il liquor d'amendue i pioppi preſſo le rive del Po in diſtillando da tali alberi fi rap 7ο RagionamentoSecondo rapprenda in ambra, ſeguendo in ciò la volgar fama de'ma fonieri Poeti, i quali fan che l'ambra ſia il doloroſo umore, che per gli occhj fuor verſarono le pie , e addolorate ſorel le, che dell'acerbo caſo del lor Fetonte dogliendoſi furono in quegli alberi ſtranamente converſe , onde poi Fluunt lacryme : ſtellataque fole rigefcunt De Ramis electra novis : qua lucidus amnis Excipit , du nurubus mitiit geſianda larinis. Ma non men piacevoli a udir ſono i falli del ſovraca cennato Erodoto dietro al raccoglimento della caſſia, e del cinnamomo. Credette egli con altri antichi, e la lor creden za gli Arabi, c molti de'noſtri follemente ſeguirono , que Ite effer due piante fra eſſe lordifferenti; e vuol egli , che la callia naſca in una palude non guari profonda ,per entro , e d'intorno alla quale ſoggiornano alcune fierucole alate fimili a' vipiſtrelli, che mandan fuori orribili ſtrida, e ſono di gran forza , e vigore ; ma gli Arabi per iſchermirli da' yelenoſi lor morſi, in cogliendola ſi cuoprono il volto , e'l corpo tutto ,da gli occhi in fuora ,di cuoja ,e d'altre pelligec colefue parole : επταν καζδήσωνοι Βύρσησι δέρμασι άλoισι πάν το σώμα, και το πόσωπον , πλην αυτών των οφθαλμών έρχονται επί την καασίην • η δε έν λίμνη φύεται ου βαθέη , σιρι δε αυτήν, και εν αυτή αυ . λίζεται κού θηeία ερωτι , της νυκτίρια ποστίκελα μάλιστα και και τί . SUYE δεινον και ες αλκήν άλκιμα • τα δη απαμυνομένες από των ópfamutów . E quale aggiraméto di ſtrano cervello ſi pare ciò , che leggeli rapportato da Teofraſto, che i rami della caſſia P cſfer nervoſi non poffano ſcortecciarſi , ma tagliinſi in pic cioli pezzetti , i quali ſicuciono dentro a’pclli di bovi pur mo ſcorticati , perchè i vermicelli , che nel corromperſi del legno s'ingenerano ,roſicchiádone la midolla, inutile laſcia no la corteccia intera , mercè l'amarezza , e l'acrimonia del fuo odore , την δε κασταν φασι τας μέν ραβδες παχυτέρας έχαν, ινώδης δε σφόδρα , και ουκ είναι τριφλοίσα , χρήσιμον δε ταύτην τον φλοι δν· αν ουν τέμνωσε πως ραδες και κατακόπαν ως διδακτυλα το μήκG-, ή μικρά μάζω ταύταδ' άς νεόδωρον βρείνον καταρραΠεαν · ατ ' εκ ταύτης, και των ξύλον σκυμένων, σκουλήκια γίνεσθαι , από μια ξύλον κατεσθίει • τα φλοιού δε ουχ απεπειι , δια την πικρότητας και δριμύτητα 7ης οσμής , 1e O 1 1 quali parole cosìtraslatò Plinio con l'uláta eleganza:Con fecant furculos longitudinebinum cubitorum , mox præſuunt recentibus coriis quadrupedum ob id interemptarum ,ut ijs pu trefcentibus vermiculi lignum erodunt, & excavent corticem tutum amaritudine . Ma che direm noi delle lunghe dice rie del Cinnamomo appo Erodoto più incredibili delle ciance del verace Turpino preſſo del Bojardo, e del l'Arioſto . Il Cinnamomo , dice Erodoto che non ci fia manifeſto ove , e'n qual modo naſca , ſe non che pro babilmente ſi crede ingenerarſi in que'paeli, ove Bacco fu nutricato , e le feſtuchedi eſſo eſſer quindi da certi grandi uccellacci traſportate in alcune ſcoſceſc, einacceſſibili mo. tagne per fabbricarvi inidi,contro a’quali han gli Arabi ritrovato un ſottil modo : cglino tagliano in pezzi, e con quidono le membra di boyi, d'aſini, e d'altri giumenti, e quelli appreſan quanto è poſſibile a’nidi, e quindi ſi dipar tono ; gli uccelli intanto calan giù , e preſo della carne la ripongon entro a’lor nidi , i quali non valevoli a ſoſtener tanto peſo caggiono a terra , e gli Arabi allora ne fan race colta :όκα με γας γίνει αι , και ήτις μιν γή ή τσέφεσα έστ , έκ έχεσι - πών, πλην όπλόγω άκόπ χρεώμενοι , εν πίστ δε χωeίοισι φασί πνες αυ η φύεσθαι εν τοϊσι ο Διόνυσος εξάφη • όρνιθας δε λέγεσαι μεγάλες φορέ eaν ταύται το κάρφεα, τα ήμεϊς , απο Φοινίκων μαθόνης , κινναμωμον καλέομεν · φορέειν δε τους όρνιθας ές νεοσιας πεπλασμίνας πηλό πέος αποκρήμνοισι ούρεσι , ένθα πόσβασην ανθρώπω ουδεμίην άνοι : πεος ών δή ταύα τους Αραβίους σοφίζεσθαι τάδε · βοών π και όνων των απαγινο . μένων, και των άλλων υποζυγίων τα μέλια διαμόνας ως μέγια και κομί ζειν ες Gύτα τα χωρία και σφεα θένας άγχου των νεο Αστέων απαλάασε . « θαι έκας αυτέων• τας δε όρνιθαςκατο πετυμένος και αυτών τα μέλεια των υποζυγίων αναφορέαν επι τας νεοσπαστας δε ου δυναμίνας ίσχειν,καταρρής γνυσθαι γαρεπί γήν, τους δε επόντους συλλέγαν ούτω με πκινναμωμον. Ma fe quefto fembra fogno d'infermi, ben fola di Ro manzi ſarà, ſenza fallo , quel convenente d’Ariſtotile in torno al medeſimo fatto ,dove e' narra, ch’un uccello detto in Arabia Cinnamomo (comechè appreſlo Plinio chiami fi Cinnamologo) vada cogliendo i fuſcelli della canella, e fe · ue fabbrichi il nido ſu le cimede gli alberi , onde pofcia gli Secondo Regionamento ܐܶܡ gli Arabi con faette di piombo lo ſcroſtano , e caduto giù in terra l'adunano φαστ δε ο κινναμωμον όρνεον είναι οι εκ των το . πων εκείνων , ¢ το καλούμενον κινναμωμον φέρων πεθέν τούτο το ορειον, και την νεολίαν εξ αυτού ποιείσθαινεολεύα δεφ' υψηλού δένδρετε εν τοις θαλ. λοϊς των δένδρων, αλλά τους εγχωρίες μόλιόδον προς τοις οισοίς πέοσαρ των τας , τοξεύοντας καζβάλειν τε ού7ω συνάγειν , έκ του φουτου το κινναμωμον : elmedefimo vien confermato da Antigono, ov ” codices λέγαν δέ τινας τε το κιννάμωμον όρνεον είναι , και αρώμα & φί. ραν , και τους νεοφίας εκ τούτου ποιείσθαινεοτεύειν δ' εφ ' υψήλων δένδρων τ' α Gάτων , 7ους δε εγχωρίες μόλιόδον τοϊς δίπϊς προτιθών ας τοξεύαν , και κα - αρρηγνύειν τας νεολίας . E non molto diffimile e cio , che ne vien creduto da molti altri antichi appo Teofraſto: néger aus δέ πς και μύθος υπέρ αυτού · φύεσθαι μεν γάρ φασιν εν φάραγξιν , εν ταύζις δ ' όφης αναι πολλές δήγμα θανάσιμον έχοντας : πεος ούς φραξάμενοι τας χώρας,και τες πόδας , καταβαίνεσι, και συλλέγεσιν,είθ' ό'ταν εξενέγκωσιδιε λόντες βίαμέρη διακληράν τει πεος τον ήλιον Ma ſe mai mi foffe in animod'annoverare gli errori tut ti , ne'quali caddero gli antichi per eſſer eglino maldelle ftraniere faccende informati:Io direi come Plinio follemé. te dica, che'l Cinnamomo naſca nell'Etiopia , ed indi aſſai più vaneggiãdo ſoggiúga,che gli Eriopi il coprano da que de'proſſimani paeli;e che giungendo poiegli al colmo del le vanezze, apertamëte contraddicendoſi, non ſi vergogni d'affermare , ch'eglino ſe'l portino per alti mari con lun ghe , e pericoloſe navigazioni, ove non giova governo de nocchieri , ne vela , o remi,inafol l'umano ardire, e la for tuna gli regga . Direi come in alcuni antichi Greci comentarj leggaſi , che'l Cinnamomo col ſolo toccaméto ,l'acque bogliéti rin freſchi , e meſſo ne'bagni, i ferventi loro vapori in un bel freſco tramuti ;e che tutti gli animali di putredine nati,am 2nazzi:ότι ζέοντος φασή του εν λέβητα ύδατος είπες θίγοι μόνον η κιννα. μωμον ευθυς καταψύχειν το ύδως και και λετάω έπεισενεχθέν διαπύρω μετα ποιεϊν τον εν τώ αίρι φλεγμον εις ψυχρότειν , και αφανισικήν των εκ φθο ράς πνος ζωογονουμένων την φύσινέχαν.Direi di vantaggio , co medel pepe favoleggiado Dioſcoride ne narri , naſcer quel lo in India da un coral arbuſcello , che produce un frutto 1Ο Del Sig.Lionardo di Capoa. 73" lungo , ſicome baccello , il qual chiam ali pepelungo : den tro del quale dice ritrovarſi alcune granella non guari dau quelle del migliodiſſomiglianti; e che queſto ſia il perfer to pepe;imperocchè aprédoſi col tépo n'eſcon fuora i raci moli carichi di granella , ficome gli veggiamo; e queſti anzi d'effer venutia maturezza colti, fāno il pepe biaco , e'l nero poi dice egli conciosſiecofachè ſia maturo, eſſer odorifero ,e dilettevole al guſto più che'l bianco ; il quale perciocchè a debita maturezza non è pervenuto , non è cotanto perfetto . Πέπερ , δέρδρον 15ηρείται φύομεναι εν ενδία βραχύ καρπον δε ανίησι , κα . &ρχας με πξομήκηκα θάπερ λοβούς όπες επί μακρόν πέπερι: έχον τα ένο (λεις ) κέγχρω παραπλήσιον και το μέλι έσεσθαι και τέλειον πέ. περι . όπερκαλα τους οικείας καιρούς αναπλoύμνον βότρυς ανίησε κόκκινο φέροντας οί'ες ίσ μου και τους δε, και ομφακώδες και οι τινες εισι το λευκόν πε . περι , epoco appreffo:το δε μέλαν ήδιον και δριμύτερον του λευλου , φύσιμώτερον· και μάλλον δια 10' ναι ώριμον αρωματίζον• εύχρησότερόν τη εις τας αρτύσπις· το δε λευκών και ομφακίζον ασθενέτρον των πτοειρημέ . ng IWY , Ma troppo lūga materia da ſtancarne nell'impreſo arin farebbe il volere ad uno ad uno tutt'altri lor fallimenti annoverare . Perdoniam pure a gli antichi ogni lor negli genza , ſenulla ſeppero , over nulla curarono del muſchio , dell'ambra grigia ,del zibetto, della noce moſcada,de'ga rofani e d'altri, ed altri aromati. Non fia lor colpa, ma del la fola fortuna , il non aver eſſi avuto contezza niuna della Mecciocana , della Contrerba, del Saſſafras, del Cafè , del Legno Guajacosdel Balſamo del Perù, dell'Erba Te,dellas Salſa , della China , e d'altri quaſi innumerabili ſtranieri ſemplici, che al preſente ſon così manifeſti, e conti , che van per le bocche, e per le mani d'ogn’uno . Mache più: laſciam pur, che gli antichi ordiſcan degli animali le più incredibili fole , che peravventura cader potrebbono in penſamento umano : 0 pure avendole da altrui udito , co me ſe da propj occhj ſtate foſſer vedute , sì le abbinn per vere , e le rapportino . Laſciam , che creda Anafſagora appo Ariſtotile , che i Corvi uſin per bocca colle lor fem . K 74 Ragionamento Secondo 1 minc , e dea cagione dicantare a colui :. CorueSalutator, quare fellator baberis. E trapaſſiam fotto ſilenzio ciò che infinſero agli antichi della Catapleba , di cui Plinio, e Solino fan parole, e Sor gona appellafi appo Ateneo , la qual vogliono,che talma lìa dal ſolo ſguardo diffonda, che immantinente l'animal rimirato , ſtupido,ed inſenſato divega,e poco ftante fi muo ja ; il che vagamente deſcriſſe in quc'verli il Petrarca. Ne l'eſtremo occidente V na fera è ſoave , e queta tanto , Che nulla più . Mapianto E doglia , e morte dentro a gli occhi porta Neprendiam briga d'annoverar ciò che favoleggiarono Megaſtene , Daimaco , Nearco , Ariſtea , Onoficrito, Te fia , ed altri appo Erodoto , Strabone , Diodoro , Plinio , e Gellio degli huomini, che in Oriente preſſo il Gange naſcono ſenza bocca, e ſol Gi paſcon d'odore : degli huo mini , che in India appo i Nomadi vivono ſenza naſo : de gli altri, ch’appo i Troglodici ſon ſenza capo , e collo, ed han gli occhj ſu la ſpalla :d'altri , che han faccia di cane, e latrano , e di tant'altri di fimil figura , a quei , che la ma ga Alcina in guardia al ſuo palaggio teneva . Non fu veduta mai piùſtrana torma , Più moſtruoſi volti , e peggio fatti . Alcun dal collo in giù d'huomini ban forma , Col viſo altri diſcimie , altri di gatti . Stampa no alcun co’piè caprigni l'orma: E traſandiam Platone , che verace credette quella bugiar da fama de'Poeti , che i Cigoi preſſo l'eſtreno for giorno mandin fuori più bello, e più ſoave il canto; e non ci fer miamo a ſtacciar la cagione, che di tal fatto ne arreca táto ſottile, che da per ſe la ſcavezza, cioè, che eſſi cantano pe'l gran contento , che prendono del preſto ritorno , cli’al lo ro Apollo a far hanno . E con queſto diPlatone,laſciamo impunito anche il fallo d'Ariſtotile, qualor prende licenza di dir , che nell'Africa molti ne furveduti da’marinari, che buſamente , e doloroſamente cantavano ; eſſendo in veri tà Del Sig.Lionardodi Capoa. 75 tà il lor căto un'imporcuno gridare ,comedioche ſalvati che,anzi che no.Ne prendiam niuna cura diripigliar Teo fraſto ſeguito da Celſo , da Solino , e da altri, perchè po co , o nulla ſagace ſcriveſſe del Cainelconte', ch'egli il 'a ria ſi viva:così d'affermarlo niuno ſcrupolo non avendone, come ſe ſtati foſſero un di quei Poeti , che coll ulata lor licenza cantarono, ſicome Ovidio , Id quoquequod ventis Animal nutritur , & aura El'Alciato Semper hiat,ſemper tenuem qua vefcitur auram Reciprocat Cameleon . O di caffar quegli, che vollero ,eſſere it Camelconto della grandezzadelCoccodrillo , ſe pure non fu queſto , crrore di Plinio ;imperocchè tutto ciò che narra delCameleonte , dice d'averlo tolto di peſo a Democrito , che un libro in tiero ne fcrife , ρve dicendo και το μέγεθος ομοιον είναι τώ κροκο dergoe, ' non badò punto , che nel Ionico linguaggio , nel qual Democrito favellava ,la parola xpowodeina , val quel la Lucertola , che appo gli Atenieſi , e gli altri Greci dice fi sæūgos, ficome fanno gli ſtudioſi di tal linguaggio . Elaſciamo ſtare ciò , che gli antichi, a'quali ſi parve , che deffer credenza Varrone , Plinio , Solino , Columel la , Marziano Capella , e Servio follemente vaneggiaro che alcune cavalle ſu'l Tago ſieno ingravidate dal vento , e moran fuori polledrivelociſſimi al corſo . Co per vero dir non men fantaſtica del Pegaſeo di Bellero fonte , o dell'Ippogrifo d'Aſtolfo , e ben degna , che ne freggino i lor Poemicoloro, cui a par de'pittori è cócedu to di poter tutro ardicainente attentare . E sì cantar puo. tè Omero de'Cavalli del fuo Achille , Εάνθαν και Βαλίον ,τωάμα ποιηση πελέσθην , Tες έτεκε Ζεφύρω άνεμω άρπια Ποδάργη . E ſimilmente Virgilio Ore omnes verſa in Zephyrūſtant rupibus altis Exceptante; leves auras, á fæpefine ullis Conjugiis , ventogravide, mirabile dicru ! E Silio Italico delo lociſfimo Peloro no , fa K 2 Nu 76 Ragionamento Secondo Nullus erat pater ad Zephyri nova flamina campis Vectonum eductum genitrix effuderai Harpe E dell'Aquilino il noſtro ammirabil Torquato , Queſti ſu'lTago nacque , ove talora L'avida madre del guerrero armento Quando l'almaſtagion , che n'innamora , Nel cor le inftiga il naturaltalento , Volta l'aperta bocca incontra l'ora , Raccoglie i ſemidel fecondo vento , E de'tepidi fiati( o maraviglia! ) Cupidamente ella concepe , e figlia . E finalmente perdoniamo agli antichi ciò che ſognarono de'Pigmei , della Fenice , del Centauro , dell'Aquila, del I.eone , del Coccodrillo , della Salamandra , della Pirau ſta , della Remola , del Cavallo marino , del Baſiliſco ,del l'Elefante , de'Satiri, degli Ipogrifi , de'Ciclopi , delle Si rene ; e tant'altri errori , ne' quali non pur degli animali , ma de’minerali altresì in trattando incorſero, i quali di bé groffi volumi, non che di brevi dicerie ſarebber lunga ma teria , ſol che a noi ſi conceda picciola ,e ben dovuta rin chieſta , il poter da’lor falli ritrarci , uſcir da’lor rei inſe gnamenti, non coſto iinboccarne loro ſtrane ſentenze , e per ſeguir la verità tutti lor falſi rapporti porre in no cale ; a noi, cui tutto il mondo, è già quaſi omai ſcorto , e mercè la diligenzza delle lunghe pellegrinazioni, non pur ſap piamo i luoghi , i portamenti, i coſtumi degli abitatori : ma di che animali qualche ſi ſia paeſe venga fornito , quali piante germogli , quai minerali produca . E non v'ha ge te nel vero sì barbara , e feroce , la quale , o per avventu ra , o da neceſſità coſtretta non abbia a pro del comune qualche commendevol rimedio ritrovato , il quale ad al tre più umane , e ben coſtumare nazioninon è occorſo . E ben ciò a pruova ſappiamo ; imperocchè ne per lunghe vi gilie , ne per iſparti ſudori di'ſavj greci , o daʼnoſtri fi po tè ritrovar mai rimedio tanto valevole a domar la ferocia delle febbri , quanto è quella maravigliofa corteccia ,inſe gnatane da' barbari abitatori del Perù e Eto quanto se quan . DelSig. Lionardo di Capoa 77 quanto egli ora ammirerebbe per Dio queſta fortunata , e prodigioſa fecondità , e con qual leggiadria , ed altezza di ſtile egli anche per celebrarla ſarebbe,il ſublime poeta filoſofante Lucrezio , ſe dique' pochiſſimi trovati del ſuo ſecolo così maraviglioſamente preſe a cantare : quædam nunc artes expoliuntur : Nunc etiam augeſcunt : nunc addita navigiis funt Multa : modoorganici melicos peperere fonores. Denique natura hac rerum ratioque reperta eft Nuper , & hanc primus cumprimis ipſe repertus Nunc ego fum in patrias, qui poſſim vertere voces. Deh ſi paragonino p Dio le ſtorie della natura di quc fto noſtro ſecolo non ancor finito , con tutte l'antiche , e veggaſi ſe più fecondo di maraviglioſi trovati fia queſto poco di tempo, che itati non ſiano per addietro tanti , tanti altri ſecoli paſſati. Si paragonino pur le perſone, ci medici, e i filoſofinti antichi, emodernifi bilancino . Ma che dico Io deMedici, e filoſofanti moderni ? baſta ſolo un ſol filoſofo , l'ingegnoſiſſimo Galileo , per tacer di Re nato , del Gaſſendo , dell’Obbes , del lungio , e di tant’al tri , ad oſcurare , cſommerger affatto la gloria di tutta quanta l'antichità . Orche direbbe Plinio il giovine in rimirar tanti belliſſi mi , e nuovi trovati dell'età noſtra ? ſe de’tempi ſuoi, che pur ne furono affatto ſterili , ed infecondi, così ebbe a di re : Sum ex illis fateor , qui mirer antiquos ; non tamen , ut quidam temporum noftrorum ingenia deſpicio. Neque enim quafilaxa , & effeta natura elt , ut nihil jam laudabile riat . Ma ſu concedaſı pure ciò , che a niun modo conce der mai certamente ſi dee , cioè a dire , che alla antichità ſolamente abbiamo a ſtarcene ; come mai potrà egli ſenza guida di boſſolo il corſo della ſua nave reggere il nocchie. ro?come ravviſar l'aſtronomo le nuove ftelle ſenza il nuo vo occhialone? come abbatter le ſchiere nimiche, o rintuz zarne gli affalti il Capitano ſenza gli archibugj, e l'arti glierie, e ſenz'altri moderni ritrovati da guerra ? Che farà il filoſofo , e'l medico ſenza il microſcopio ? Quanto ri pa mar 78 Ragionamento Secondo 1 2 2 ! 1 1 . 1 1 marrà a ſuper della Terra al Geografo , ſenza le novelle ; tavole dell'America ? in quaiviluppi , cgarbugli, e con fuſioni troverrebberſi mai gli Stronomisi quali a far prova aveſſero del Siſtema di Tolomeo infino a’di noſtri, quafi comunemente per tutti ricevuto ? Non s'addofferebbero le ſghignazzate , e le riſa anche del popolo minuto , e de più ſemplicifanciulli , s'eglino mai a negare ardiſſero lo innumerabili ſtelle della via lattea ? o faceſſer veduta di non iſcorger in faccia al Sole le macchie? oi compagni di Saturno ,ch'alcuniorecchj, altri anella , ed altri manichi chiamano, o le nuove ſtelle Medicee , o lo ſcambiar della faccia di Venere , o'l dimorar più in là delle lunari regio nile Comece , o le montuoſità della Luna ; o l'aggirarſi di Venere , di Mercurio , di Giove, e di Marte intorno al So le ? E con qual fronte ofercbbero i filoſofi ora difender l'incorruttibilità de'corpi celeſtiali, la faldezza de' Cieli , la sfera del fuoco , e tanti , e tant'altri ſogni d'ozioſi cer velli ? E come ardirebbero i medici ſenza i novelli trovati della notomia morta , e della notomia vitale ad impren der eure ſenza manifeſtiſſimo riſchio de'mileri ammalati ? Ed o quanto,e quanto mal conſigliati ſarebber quegli in fermi, chenelle lormani li porrebbono; edo quanto in názi tratto ſarebbe il migliore ad arriſchiar la vita più to ſto in man d'avveduto, e ſaggio Empirico , il cui meſtiere, comechè manchevole , tuttavia a pericolo d'errare aſſai men ſoggiacer ſi vede , che la falſa razional medicina daw Galieno in guiſa tale abborrira , e biaſimata , che ezian dio contro le regole dialettiche egligiudica eſfer coſa iin poſſibile poterfi mai da’ falli principjdi quella altre con cluſioni, cheſempre falſe , cavarc . Ma laſciando ciò al preſente , che troppo larga materia da diſcorrer ſarebbe, dico, che un talmio diviſo di dover ſi ſemprcmai al miglior di ciaſcuno , o antico , o moderno autorch'egli diafi , appigliare, ne a ' ſentimenti d'alcuno tenacemente ligarli , ſenzachèè egli ragionevole aſſai, e conveniéte, fù di vataggio da tutti gli ſcrittori di maggior lieva abbracciato , e da' più ſavj filoſofancije da ſacriTeo . 1 logi Del Sig. Lionardo di Capoa. 79 logi comunemente leguito , e fommamente da ciaſcun commendato. Odafi di grazia fra’primi quel Principe de Lirici, e de'Satirici Poeti Latini,checol ſuaviſſimo ſuo me. tro i rigidiprecetti dell'Epicurea , c della Stoica filoſofia addolcendo , così ne canta Quod verü ,atque decens,curo, di rogo &omnis in hoc să . Condo , &compono,quod mox deprumere poffim . Ac ne forte roges quo me duce , quo lare tuter : Nullius addictus jurare in verba magiftri, Quo me cunque rapit tempeſtas , deferor hofpes ; Nunc agilis fio , & verfor civilibusundis ; Virtutis vere cuſtos , rigiduſque ſatelles : Nunc in Ariſtippi furtim præcepta relabor's Et mihi res , non me rebus ſubmittcre conur. Equel , ch'altrove eglimedeſimamente va diviſando. .., Quodfitam Gracisnovitas inviſa fuiſſet Quameſt nobis , quid nunc effet vetus ? aut quid habcret. Quod legeretztereretque viciſim publicusuſus ? Odafi Quintiliano : neque id ftatim legenti perſuaſum fit, omnia , quæmagni autoresdixerunt , utique efleperfecta ; e recando « gli di ciò la ragione, ſoggiunge: nam , & labun tur aliquando , & oneri cedunt , & indulgent ingeniorum , fuorum voluptati : nec intendunt animum : Odali il Roma no Oratore : non tam autores in diſputando, quam rationis momenta quærenda funt ,quin etiam abeft iis qui dicere van lunt , plerumque eorum autoritas , quife docere profitentur : definunt enim fuum judicium adhibere , atque id habent ra tum quod ab eo , quem probant judicatum vident. Indi tra paſſando a condennare il vituperevole coſtume de' Pitta gorici , a'quali per certa, ed infallibil ragione l'autorità fo Jamente del Reverendo lor maeſtro baſtava : conchiude : tantum opinio præjudicata poterat , ut etiam fine ratione va leret authoritas . Odali oltre a' già rapportati autori più fiace il medeſimo avviſo dalla ſaggia mente di Platone, ac comandatone ſpecialmente nel Critone , ove diffe : 10 ſon di sì fatta natura , che a niun'altro mai mi ſon condot to a preſtar fede, ſalvo, che a quella ragione , che più vol te da go Ragionamento Primo te da me diligentemente ſtacciata , e diflaminarā alla fine ho ritrovato eſſer l'ottima : as iywa õ jóvov vũ , anc ' wy de Tolos 1G- , οΐG τωνεμών μηδενί άλω πάθεσθαι, ή τώ λόγω , δς αν μοι λογιζα Hér w Gea Tigos Paívntou , Odaſi il famoſo Ariſtotile, ilquale , avendo a trattar certa quiſtione, ove le faceva uopo per la verità d'impugnar le determinazioni de'ſuoi amici,veg gendoſi quaſi allo ſtrettojo, pur ſaggiamente diliberando, cbbe a dire,più umana coſa eſſere il preporre la verità agli amici αμφοίν γαρ όνπιν φίλων , όστον πτοπμαν την αλήθειαν , e pri ma auea egli detro a pro della verità , far meſtiere , maffi mamente al filoſofo , diſtrugger le ſue proprie credenze ; ma odaſi quella maraviglioſa , e divina ſentenza ch'egli medeſimodal Fedone del ſuo maeſtro apprefe, e pur da tut ti coloro , che Ariſtotelici, o Ippocratici , o Galieniſti in torto chiamar ſi fanno , vien comunemente traſandata,an zi affitto ſpregiata : Amico Socrate, Amico Platone, ma più amnica la verità ; la qual diviſando, esfigurando queſti Iciocconi indegniſſimi del nome di vero filoſofante , foven temente dir ſogliono : eſſi amar meglio di ſcioccheggiar con Ariſtotile , Ippocrate , e Galieno che con altri laggia mente diſcorrere . E ben di quella più amico ſoventemo ftroſli il medeſimo lor Ariſtotile, ſe migliaja di yolte ripre ſe,e biaſimòTalete , Pittagora , Parmenide , Anafſiman dro , Anaſlimene , Meliſſo , Democrito , Anaffagora , cd altri molti , che prima di luieran lodevolmente feduti fra filoſofica famiglia ; e ne meno per riverenza talor ſi ritena ne , chea'medeſimi ſuoi maeſtri Socrate , e Platone il fi inigliante non faceſſe, i quali manifeſtamente alle volte bialima , e riprende ; e forſe ſe ſua malavoglienza , ed ill vidia non foſſe, potrebbeſi ancor credere , che egli per ſo lo zelo della verità così loro villaneggiaſſe, e carminaſſe , chiamandogli talora, e ſcempiati, ed ebbri , e farnetici , e ſciocconi, e ſtolti , e ſcimuniti , e non farebbe per avven tura gran ſenno , che ſon pur coloro gran maeſtri in filoſo fia , e danon così gravemente mordere . Ma queſta cotai ſentenza ebbero in bocca poi tutti i ſuoi più celebri diſcepoli, e ſeguaci, Licome ſcorger.age. 2 vol DelSig. Lionardo di Capoa 80 volmente e'ſi puote , in Teofraſto , in Ermia, in Iſtracone, iu Ariſtoſſeno , in Ipparco , ed in altri molti, i quali ſi vide ro mai ſempre antiporre la verità , ſe mai lor ſi parve d'a verla rinvenuta , almedeſimolor maeſtro , e duce Ariſtote le , non che ad altri filoſofanti; e'l ripigliano liberamente e ſenza ritegno,qualora in qualche fàllo il tolgono; e queſta medeſima ſentenza, dipoi han comunemente avvuta fiffa inmente tuttii moderni riformatori della filoſofia , a’quali tanto , e sì fattamente piacque ad ogn'orapreporre la veri tà ad Ariſtotele , che allora con ſignoria da tiranno in tutte le ſcuole del mondo regnava, ed a guiſa di celeſtial nume per ciaſcun riverivali, checon eroica fortezza, e con in vincibile , e veramente filoſofica coſtanza , nulla curanda che perciò ne foſſero eglino mai ſempre , e proverbiati , e deriſi,il ripreſero ſoventemente , e lo dimentirono di non , pochi ſuoi falli. Ma odaſi omaiquell'altra non men famoſa ſentenza, la ) quale à Socrate ſuo maeſtro è da Platone attribuita rávws γαρ και 1ειο σκεπτέον ός τις αυτο είπεν, αλα πότερον αληθές λέγεται η ου , Non già chi abbia detta la coſa , ma s’eidica , o non dica il vero ,doverſi conſiderare . Ne in ciò punto è da tralaſciare il celebre latino Stoico; il quale al ſuo Lucilio in una piſtola, così favella: Epicurus, inquis , dixit : quid tibi cum alieno? quod verum eſt, meum eft: indi egli foggiugne con quelle veramente memorabili parole: Perfeverabo Epicurum tibi ingerere, utifti qui in e verba jurant , nec quid dicatur æftimant, fed à quo fciant, quæ optima ſunt eſſe communia . Ne meno è da notare as noſtro propoſito ciò che altrove parimenteegli dice contro i miſerevoli parteggianti: qui alium fequitur , nihil inve nit , immonequequerit; e ciò , che altrove ancora : Non ergo fequor priores ? faciofed ; permitto mihi, bu invenire ali quid , mutare, nec fervio illis fed , aſſentior, e ciò, che un' altra fiata egli così proteſta : Qui ante nos ifta noverunt,non domini noftri , fed duces funt. Ne è da paſſar ſotto filézio quel belliſſimo detto di Por frio το αληθεύειν και μόνον δύναταιτους ανθρώσες ποιάν Θεό Παραλεσίες, L. caya 82 Ragionamento Secondo 1 cavato nel ſuo volgare dal beato Girolaino con queſte vo ci . Poft Deum ,veritatem colendam , quæ fola bomines Deo proximos facit . E ſe tanto può far la verità , dove più riporrem noi l'a nimo , a qual'altro fine indirizzerem noi i noſtri ſtudj,dure rem noſtre fatiche , ſpargerem noftri ſudori, vegghierem le gelide, e ſerene notti, ſe non perla verità ? Eccovi, ecco vi o Signori il vero ſentiero dell'immortalità , e della glo ria. Ecco quel ſentiero, che ſegnarono i barbari daprima, indi i Greci, ed ultimamente i moderni noſtri filoſófanti , che in tanto pregio ,e tanta fama glorioſamente falirono ; e perchè crederem noi, che l'antica età aveſſe , e Talete , e Anaffimenc, e Senofane , e Anafſimandro , e Pittagora , ed Empedocle, e Leucippo , e Democrito , ed Eraclito, ed Anaſlagora, e Socrate , e Platone, ed Ariſtotele , ed Epi curo , e Zenone , e tanti , e tant'altri filoſofi d'immortal fa ma degni: e ſi pregin parimente , e lidian yanto i noſtri ſex coli d'aver recati almondo il Cardinal Cuſano , e' Co pernico , el Patrici , e'l Teleſio , el Ramo , e'l Do nio , e Ticone, e'l Cheplero, e'l Bruni, e'l Gilberti, e'l Montagna , e'l Merſenni, e'l Baſſoni, e'l Galilei , e lo Sti gliola , e'lCampanella , e'l Verulamio, e Renato , e'l Gaf fendi , e'l lungio , e'lConte Digbi , e'l Oggelandio , e'l Boile , e’l Borrelli , e'l Maignano, e'l Robervallio , e'l Mal pighi, e'l Redi , e lo Stenone , e'l Ricci ,e l'Vliva , e'l Por zio , e ' Bellini, e'l Marchetti , e'l Montanari, e queſti,che ſommamente fregian la noſtra patria Tomaſſo Cornelio Gio: Battiſta Capucci , e D. Carlo Buragna, dicui ben to ſto s'ammireranno gl'ingegnoſi filoſofici trovamenti, ed al tri incomparabili eroi, che con gloriofiffima gara lundcl l'altro fe'n vanno per le vaſtiſſime regioni della natura, fu perbi ,e alti voli lpiegando: fe non perchè tutti coltoro va ghilimioltremodo di ſpiar la ſola verità,non vollero giá mai ſtarſene a niuno , ne a' derti di niuno traportar cieca mente ſi laſciarono . E viuran ſeipremai pe'l contrario ſenza fama , e ſenza lode appo i faggi, e prudenti ſtimato ri delle coſc tutticoloro , che toglier non vogliono una sì 1 com .-s 1 Del Sig. Lionardodi Capoa. 83 commendevole, e neceflaria libertà ; anzi ſovente in tai fal. limenti dalla lor cieca oſtinazione ſon tratti, che ne ſenza riſa rimembrare, ne ſenza nota d'obbrobrio , e di vitupero nominar unque ſi poſſono. E io comechè ſopra ciò diviſar lungamente potrei , e di sì fatti errori quaſi infinito numero rapportarvene,purnon dimeno rimarrommene per modeſtia ; c fie baſtante il ri duryi amemoria , ſol ciò, che d'un ' oſtinato , e duriſſimo Peripatetico narra il Sagredi appreſſo quell'altiſſimo filo ſofante,ch'oggi l'Italia tutta onora più che altri già non fe la ſua Grecia . Mi troyai, dic'egliga caſa un Medico molto „ ſtimato in Vinegia , dove alcuni p loro ſtudio ,e altri per » curioſità convenivano talvolta a vederqualche taglio di „ notomia per mano d'uno , non men dotto , che diligen te , e pratico notomiſta; ed accadde quel giorno , chę ſi andava ritrovando l'origine , e naſcimento de'ner » vi , ſopra di che è famoſa controverſia infra' medici „ Galienifti, e Peripatetici ; c moſtrando il notomiſta , co » me partendoſi dal cervello , e paſſando per la nuca il gra » diſſimo ceppo de' nervi , s'andava poi diftendendo per es la ſpinalc , diramandoſi per tutto il corpo : eche ſolo un fil ſottiliflimo , come di refe n'arrivava alcuore : voltofi 5 ad un gentil'huomo , ch'egli conoſceva per filoſofo Pee ripatetico , e per la preſenza del quale egli avea cons iftraordinaria diligenza ſcoverto, e moſtrato il tutto,gli „ addomandò , s'egli reſtava ben pago , e ſicuro, l'origine de'nervi venir dalcervello , e non dal cuore : al quale il „, filoſofo dopo eſſere ſtato alquanto ſopra diſc , riſpoſe : voi m'avete fatto veder queſta coſa talmente aperta , e ſenſata , the quando il teſto d'Ariſtotele non foſſe in chiaro , ch'apertamente dice i nervi naſcere dal cuore, biſognerebbe per forza confeſſarla per vera . Ragione. volmente adunque potè cantando eſclamar colui. Sæpe graves, magnoſque viros , famaqueverendos , Errare , & labi contingit , plurima fecum Ingenia in tenebras cunfuerunt nominis alti Autores , uticonnivent , deducere eajdım , 1. Ta . 2 84 Ragionamento Secondo Tantum exemplavalent , adeo eſt imitabilis error. Fin quìha potuto trarmi con convenevol diſdegno dive dere in tanti errori i miſerelli parteggianti vitupcrofamen ce cadere . Ma vegnamo a moſtrar ora, ſicome già propo nevam di fare,quanto i Sacri Teologi la libertà , che noi commendiamo, eglino altresì , ed approvino , e lodino . E chi baſtantemente mai rapportarpotrebbe,con quan co fervore s'attraverſi a coloro che la libertà degli Scritto ri intendonodi riſtrignere, quel ſottiliſſimo fra gli Scolaſti ci Teologi Durando ? Egli con chiare , ed efficaci ragioni manifeftaméte il ci va dimoſtrado con dire che ſe mai noi dovremo agli altrui detti acchetare ( il che non ſi deca niú modo concedere ) chi così temerario , e così folle farà ,the più toſto a’Pagani , e perfidi gentili fede preftar vorrà , che a’ facri , e piiſcrittori , e Padri di Chieſa Santa da divin lu me illuftratis e pure Agoſtino proteſta di non voler'egli già , ch'a'ſuoi detti dar s'abbia ferma credenza : ma che ciaſcuno in prima ben bene gli diſamini , & abburatti, e ſe veri non gli pajano ſenz'altro alcun riguardo gli rifiuti to Ito , e rigetti ;indi le parole medeſime di Agoſtino recate avendo così fieramento ſcagliandoſi contro alcuni barbaf fori , che vogliono impor meta alla libertà degli altrui in gegni, e ridurli al durofervaggio di qualche fi fia ſcrittore, e che altro , eſclama egli , è ciò per Dio, ſe non che un vo lere quel tale ſcrittore antipurre a'Dottori di Santa Chieſa ? fe non che un chiudere il varco a color ,che vanno in traccia della verità ?Se non che un far argine a quei , che s'inviano pe'lſentiero della ſapienza : ſe non cheun'ammorzar violen temente , non che oſcurare il chiariſſimolume della ragione . Così quel gran Dottor della Chieſa , non men d'ammira bil ſantità , che di profonda ſcienza dotato, ſcrivendo al Gran Girolamo, lume maggiore della Criſtiana Religio ne , dopo avergli detto , ch'egli dava intera , e ferma credenza a'libri ſolamente della ſacra Scrittura , ed agli autori di quella , degli altri in sì fatta guiſa egli favella : Alios autem omnes ita lego , ut quantalibet San &titate do Etrinaqueprecellant , non ideo verum putem , quia ipfi itas Jenſe is DelSig:Lionardo di Capoa . 85 fenferint,fed quia mibi, vel per illos authenticos autores ,vel probabili ratione , quod à vero non devient perſuadcre po tuerunt . Ma prima di S. Agoſtino quel criſtiano Tullio, Lattan zio Firiniano,avendo iſentimenti medeſimi con eloquenza; ed efficacia non ordinaria manifeſtati,ſiegue a dir poi, ch' ogni ſapienza da ſe caccian via coloro ,che ſenza diſcreto giudicio ,i trovati degliantichiapprovano , e a guiſa di pe corelle dietro a quelli ſi laſciano ciecamente trarre ; per ciocchè : ficome egli ſoggiugne : Hoc eos fallit , quod maa jorum nomine pofito non putant fieripulje , utaut ipſi plus fa piant , quia minores vocantur , aut illi deſipuerint , quia majores nominantur: cd alla fine così gridando ei conchiu de : Quid ergo impedit , quin ab ipfis fumamus exemplum , at quomodo illi , quifalſa inveneruntpofteris tradiderunt, fic nos , qui verum invenimus poſteris meliora tradamus . Or dunque , fe tanta libertà ſi tolgono i Sacri Teologi , che talor dove ragion ripugna contraſtano ferventemente a'lo ro maeſtri , ed a’Dottorimedelimidi Chieſa Santa , ere tāta libertà richiedeſi a'filoſofanti a poter ſaggiamente in veſtigar la natura delle coſe ; quanta crederem noi ch’ab. biſognardebbaaʼmedici . Anzi coſtoro di tutt'altri certa mente maggior la debbon godere ſenza alcun paragone ; imperocchè ſei filoſofi volendo pur ſtrettamente appiccar ſi ad alcuno , altro per avventura non fanno, che con in gannar ſe medeſimitrarli alcun'altro dietro ſenza nocimé to alcuno , che all'altrui vita ſeguir ne poſſa: i Medici per lo contrario , con laſciarſi a'lormaeſtri ingannare , non di naſconder ſolamente altrui le verità naturali ,non di ficcar carote al baſſo vulgo ſolamente ſi ſtudiano , ma oltre a ciò da'vani,e ſtoltiloro aggiramenti,offeles c per lo più mor talijanzi ſterminje rovinc cagionarſitutto di crudeliſſima mente veggiamo . E pure i mediciduri , e oſtinati dietro al lor Galieno le veſtigie di lui , nõ già la verità ,vā ricercă do ; e come ſaggiamente notò l'avveduciſſimo Signor di Montagna: On ne demande pas fiGalien a rien diet qui vail le:mais s'il a diet ainſin,ou autrement. Esì gli antichi am, . 1 mae 86 Ragionamento Secondo maeſtramenti, anzi gli antichierrori ſempremai ſeguir vom gliono ; e mi ricorda a tal propoſito , che ritrovandomi in brigata di curioſi, e dotti amici a caſa il noſtro Severino quivi da un diligente notomiſta Daueſe ne fur moſtre le vene acquoſe in un cane da lui aperto ; ma immantinente levolli ſuſo un teſtereccio Galieniſta (il qualeſimili trova ti prendendo a gabbo poc'anzi avea detto effer eglino ar zigogoli di moderni ingegni per far contraſto al for ſaggio Galieno ) e contro al buon notomiſta in ceffo rabbuffato , c adattandoſi gli occhiali al naſo ſtizzoſamente ſcaglioſli con un preſto argumenter contra : ne era inai egli per rifi pare , ſe oltre alle riſa de'circo tantichetamente , e in vo ce piena di carità , e di modeſtia, non gli aveſſe il prudente Notomiſta replicato , ſe non valere ſtar su le difeſe , mu eſſer pienamente pagodi ciò , che gliocchi, e le man pro pie le facevan chiaramente vedere . O ſtrana , o incredi bil pertinacia de parteggianiMedici, voler eſſere anzi cic chi , e ſordi, e tradir ſe medeſimi, ei malati, che ponen do giù la dura , e pertinace loro oſtinazione ricrederſi de' manifeſti errori de’loro macſori: anzi porre in oblio l'uma nità , e'lnatural conoſcimento , e lume, per gire così loro inconſideratamente appreſſo , Come le pecurelleeſcon del chiuso Ad una , a due, a tre : e l'altrefanno Timidetteatterrandol'occhio , e'l muſo ; E ciò che fa la prima , e l'altre fanno , Addo andoſi a lei s’ella s'arreſta, Semplici, e quete , e lo perchè non ſanno Ma chczben ſo lo , che per la più parte ciò fanno coſto ro , non peraltro , ſe non ſe ſolamente per torſi da doſo la troppo nel vero gravoſa , e malagevolc briga d'inveſtigar con iſtenti, e ſudori la naſcoſa , ed a’lor m.cítri non cono ſciuta verità ; e perciò fan veduta d'eſſer ſaggia elczione di ragionevole genio, quella , che certamentealtro non è , che dapocaggined'intelletto groſſo , e tondo ; e sì la loro ignoranza, e la loro pecoraggine cercan di ricoprire, onde poi d'aſtio , c d'invidia fremēdo, per dar quanto (torpo per lo DelSig.Lionardo diCapoa. 87 loro ſi poſſa alla gloria de moderni ſcrittori, quella degli antichi mai sëpre d'innalzar fi argomentano; del quale ma ligno, e biafimevole artificio , forte lagnádoſi Marziale col ſuo Regolo così canta : Eifequid hoc dicam vivis, quod fama negatur Et ſua quod rarus tempora leltor amet. Hifuntinvidia nimirum Regule mores Præferat antiquos ſemper,utilla nuvis. Nono Signori, che non ſon già queſti i veri ſentieri,per cuine’tempiantichi s'avvivono , ed Ippocrate , e Diocle, e Pliſtonico , e Praſlagora , ed Erofilo , e Filotimo , e Cri fippo , ed Eraſiſtrato , ed Aſclepiade, per tacer d'altri , es d'altri famoſi razionali medici antichi. Così anche a'tem pi noſtri ſi ſon vedutimontar feliceméte al titolo de'ſaggi, e'l Valentino , c'l Paracelſo, e'l Quercetano ,e l'Elmonte, e'l Villis , e'l Silvio, e tant'altri avvedutiffimi medici moderni . Non è giàtale crederemio Galienifti, non è già tale il ſentiero del voſtro Galieno ; (gannatevi pure una volta , e ſe non altrui , credetelo a lui medeſimo, che oltre a quel , che n’abbiam di ſopra rapportato , egli più ch'altrove af faichiaramente quivi l'afferma, ove diſe medeſimo narra , che egliavea per coſtumedi chiamar ſervi tutti coloro , i qualidaIppocrate, e da Praffagora , o da chiunque altro fi foſſe predevano il nome, e che da tutti egli uſava di mai fempre fcegliere il migliore : ήρετο πνα των εμών φίλων από ποί και έην αιρέσεως • ακούσας δ'όπ δούλες ονομάζω τους εαυτός αναγο ρεύσανας ιπποκρατείας, και πραξαγορίες , η όλως από πνος άνδρας , εκ λίγοιμι δε τα παρ' εκάσες καλά, δεύτερον ήρετο , ίνα μάλιση των πα hasūv in aivoso: ma che ? un'altra fiata lo ſteſſo voftro Galie no non dice, che a manifestiſſimo riſchio d'incorrer in nons pochi erroricoluis'eſpone, che fermamente ſecondar ſem premai vuole i ſentimenti , che il maeſtro della ſua fettan come falde, ed infallibili verità gli diviſa ? conciosſiecofa chèſecconc una certiMima ragione di ini medeſimo colle ſue propie parole ) Χαλεπόν γαρ ανθρωπιν όν % μη διαμαρτάνειν εν πολ . λοίς: τα μεν όλως αγνοήσαν τα , τα δε κακώς κρίναντα , τα δε αμελί segov ypay ar to ,cioè : egli è malagevol molto , o pure impoſſi bile, 88 Ragionamento Secondo bile cheunoseſſendo buomo,in tante, e si diverſe coſe ialor non s'aggiri, alcune affatto non ſappiendo,enon conoſcendo,e d'al tre malgiudicando , e d' altre alla fine con poca cura, ed avo vedutezza favellando. Fin quì Galieno , il cui faggio av viſo non ſolocome mai pofla per Galieniſta alcun traſan darſi , o manifeſtamente diſpregiarli; e pure egliè tale, che più , che a tutt'altri, dovrebbe eſſer a cuore a'Galieniſti , i quali lodovrebbon prontamente ſeguire , ſe non mai per altro , almeno per darne a divedere, ch'elli veramente há bo in quel pregio , ed in quella ſtima , che tutto dì millan tano , il lormaeſtro , il lor principe Galieno ; altrimente vero dirà Paganino Gaudenzio, il quale queſto graviſſimo fallo loro rimproverando, prorompe in queſte parole , Ga Lenum voce tenus extollunt, re ipſa autem deferunt , atque contemnunt . Tanto dice o Signoriilſaggio , e ben conſigliato rino vatore della vera filoſofia , e medicina , e con ragioni, e con teſtimonianze forſe di maggior lieva più oltre proce derebbe , s'egli non avviſaffe , che il rimanente ben pote te voi, come ſavj,per voi medeſimi pienamente compren dere; onde con quelle divine parole, le quali già lo inge gnoſiſlimo Teleſio ſotto l'effigie della Verità giuſtamente ( culſe Móva pod pina , cioè a dire Sola coſtei a me amica ; e con quelle parole , che replicar così ſovente il Paracelſo folea : Alterius non fis, qui ſuuseffe poteft, ê ſe ne rimane Ma io aggiugnerò di vantaggio , coſa , che per avven tura a primafaccia ella creduta nó mifie, e pur ella è vera, e pur ella è certa : ne loolerei dirla, ſe non ilperaſli farve la toccar con mani , cioè , che poco men , che tutti i più celebri , e più ſtimati parteggianti di Galieno da chiarore di verità talvolta illuminatihan fatto come propj i medeſi miſentimenti , e quaſi tutti tanto nel filoſofare , quanto al fatto del medicare foglion ſovente dall'orme di Galieno, e d'Ippocrate medeſimo partirſi, alcuni liberamente ciò có deſfando, altri poidiſimulando la coſa , e'l contrario tutto con Del Sig. Lionardo di Capoa. 89 con fatti adoperando, di ciò ,che ſempremai con parole proteſtar ſogliono . E percominciar dalle Spagne , acciocchè per noi in si lungo narramento con qualche ordine ſi proceda , Tomaſo Rodrigo Viega,infra gli altri Spagnuoli nobiliſſimo inter petre di Galieno, ſcuſandoſi una volta di aver contra a’sé. timenti del ſuo maeſtro diviſato, di cui allora appunto egli ſtava il libro delle differenze delle febbri comentando,co si ebbe a dire : Eſſer egli da credere , che noi non pur fiam nati ad interpetrare gli altrui detti, ma altresì a diſami nargli ben bene, più pregiandola forza della ragione, che l'autorità de'maeſtri ; ed ove ſiam da neceſſità coſtretti, li beramente da lor ci dipartiamo , perchè dalla verità non venghiamo a dilungarne ; e quindi a poco paſſando a di ſaminar le ſue dottrine , il toglie in non pochi falli,de'qua li ſuoi avviſi ſommamente egli pregiandoſi, alla fine con chiude : quæ animadverſiones liberum animum oftendunt,com uni veritati vacantem . Nequi rapporterò lo altre ſue parole intorno al mede fimno ſentimento , che troppo lungo ne verrebbe il mio di. ſcorſo ; ma non laſcerò lo già di dire , come forte per lui ſi ripigli , l'haver Galieno la reſpirazione al cervello aterie buita,ſognandoviſi per ſoſtener sì folle opinione , unamé brana non mai per niun Notomiſta ravviſata. Ne men ta cerò , come chioſando egli quel luogo, ove Galien con feſla apertamenteeſſerſi eglimededelimo ingannato in giudicandod'un ſuo propio male , contro luiprorompa in queſte parole: Galenus qui in propriis malis cæcutivit, quid in alienis faceret ? Ma chi potrebbe mai il famofiffiino Galieniſta Frances ſco Vallelio séza taccia di traſcuraggine intorno a ciò tra laſciare ? cgli avvedutiffimo ne'luoilentimenti , non pure il ſuo maeſtro Galieno , e'l ſuo divino Ippocrate nelle co ſe di maggior confiderazione arditamente abbandona , fi come nelpurgare , e nel cavar ſangue , quantunque quafi con argani, e con lieve, co tutte ſue forze a ſentimentiluoi di traſcinargli ſi affatichi ; ma in un particolar luo libbri M cino 90 RagionamentoSecondo 1 cino alcuni detti del ſuo Galieno rapportar volle, coranto fra ſe contrarj , e diſcordi , ch’in niun modo , ſecondo lui , difender mai , o riconciar baſtantemente fi poſſono ; la qual coſa prima di luiaveaſiancor tolta a fare quell'altro dotto compilator di Galieno Andrea Laguna. Così anco ra dal giogo degli antichi due Greci maeſtri ſi ſon talvolta ſcolli,, e ſtrappati , e per altre ſtrade liberamente avviati il Lemoſio, il Mercato , ilMena , il Segarra , il Peramati , il Pereira , e'l Mattamoros. Ma ciò far ſi vide più di tutt'al tri Spagnuoli, e con maggior nerbo, l'avvedutiſſimo Pier Garlia nobiliſſimo profeſſor di medicina nell'Accademic Compluteſe ; la qualcoſa così egli faggiamente proteſtā do , dice , che altri non prenda maraviglia, ſe di quelle co ſe , ch'e' rapporta , alcune n’abbia colte altrui variamen te diſaminandole, e ſe inolte ſien nuove, e nonmaidaglian tichi pria dette, ne pubblicate in alcun modo: quàm( ſog giugnendo ) in rebus ad examen revocandis non authorita tes ,sed rationum momenta conſtet preponderare , indeque , vetus verbum : Amicus Plato , fed magis amica veritas,oy tum babuiſe . E per far motto intorno a sì fatta maniera , ancor de Medici di Valenza , i quali sì con Ippocrate, e con Galicno ſtar ſogliono ſtrettamente confederati , che anzi a ſommo fallo li recherebbon , che no, il dilungarſi in un ſol minuto punto dalle loro dottrine . Pure il Pereda fuo chioſatore forte fi briga diſcuſar Michel Paſcali cele bre ſcrittor di pratica Valenziano, perchè queſto poco ti? lor ſiaſi curato delparere di quegli antichi maeſtri, così dicendo ; cum bic vir doctus ſcripſerit tempore quo multæ falf & barbarorum ſententiæ vigebant, veritates Galeni,quas modo multorum auctorum lectione habemuserantocculte. Ma che forſe il Pereda in quelle ſteſſe ſue chioſc , ove a fuo potcre egli crede di rimettere il Paſcali nella diritta ſtra da , non ne torce ancor'egli , e non una , o due , ma più, e più fiate ? certo , che sì ; imperocchè in trattando delle febbri ardenti, così ne ragiona: Cum vero in hac febre non apparent figna fanguinis, non eft neceſſaria ſanguinis miſſio , fed purgatio bilis, neque inomni putrida febri ſecandaeſt ve 14 , ut 1 DelSig.Lionardo di Capoa . 91 na , ut multi recentiores medici cum Galeno X1. Meth . vo. lunt . Or ecco , come da Galieno ribellando il ſuo giura to campione , e lotto le bandiere del barbaro , e miſcredé te Avicenna fuggendoſi,arditamente gli fà teſta , e cerca , di mandare a terra una dellebaſtie più celebridella Galie nica medicina, fondata in ſu quella univerſal ſentenza,che veruna eccezione non patiſce , cotanto replicata da Ga lieno, e celebrata da’ſeguaci di lui: xala ,soy eli cw , ws dignton, φλέβα τέμνειν ου μόνον εν τοίς συνόχοις πυρετούς , αλα και τοις άλλοις απαστ τοϊς επί σήψ « χυμούς , όταν γε ήτοι τα τ ηλικίας , ή τα τ δυνά pescos pead montées : Egli è coſa falutevoliſſima , ficome io hogià detto , ilcavarſangue , non folo nelle finoche , ma eziandio in tutt'altre febbri, che daputridi umori fon cagionate , fol, che l'età , o be forzeno'l vietino . E comechè li forzi egli di ceſſare la fellonia , con dir , che Galieno non faccia men zion del falaſſo altrimenti nella terzana ſemplice, ed altri moltiſſimi eſempli vada ei rapportando : queſto però è un volere ſaldar la piaga con pannicelli caldi, direbbe lo’nfa rinato della Cruſca, ed un'aggiugner colpa a colpa, fallo 2 fallo , in modotale , Che non l'avria Demoſtene difeſo ; imperocchè vien'egliin sì fatta guiſa ad accufare il maeſtro di contradizione, o di poca fermezza almeno , il che affai monta in faccende di così gran rilievo.Ne men moſtra ,che molto fedel ſia di Galieno il Pereda, colà ove dice: Mul ti fequutiGalenum lib.VI.derat. vict. in morb. acut. in by dropeanafarca ex fuppreſiunemenfium , d hemorrhoidibus, autalia plethoricaaffectione orto ,quando incipit fecant ve nam, quod difficillimum nobis videtur,immo falfum , quia in hydrope jecur maxime refrigeratū eſt, do funguinis misfio ex accidéti refrigerat.E finalmétericordevole d'eſſer filoſofo, d'esſer medico, d'eſſer libero, a viſo aperto dice altra volta il Pereda , favellando d'un luogo d'Ippocrate malamente, ſecondo lui da Galieno ſpiegato ; quem locūzignofcant mihi ejus manes , Galenusnon recte explicuit . Stefano Roderi go da Caſtello , Portogheſe,celebre lettor nella famoſilli M 2 ma ſcuo 92 Ragionamento Secondo ma ſcuola di Piſa , nei libro de Meteoris microcoſmi, ove ſommaméte proneggia d'effer medico , e filoſofante libe ro , dapoi ch'egli ha commendaro Ariſtotile , che ne ha laſciaci credi del ſuo libero filoſofare , forte ſgridando co loro , che voglion ſempremai gir carpone collo inge gno , e farti ſervi d'altrui , così favella : fed quotus quiſ que eft, qui hanclibertatem velit ? Proh dolor , ingewa phi lofophia ſervos parit: ed altrove : ego vero quid antiquiores fenferint parü ſollicitus , &nulli ſedia addictus.E poco ap preſſo:Neotericorú inventa, fi qua mihi arrident, amplector, quæ difplicēt relinquo.Chiama egli più d'una fiata Galieno negligente , duro , oſtinato , caparbio , protcryo , e catti vo filoſofante; e cotanto allontanoſſi dalla dottrina di Ga lieno il Roderico nel menzionato volume , che vennnea formare un novello ſiſtema di razional medicina . Il celebre fra'GalieniſtiSpagnuoli Andrea Santacroce , quante volte, e quante all'opinion di Galieno, e d'altri an tichi , o non bada , o non cura , o talora lc fpregia ? Noil dic'egli una volta : mihi fufpe &ta eft Galeni doctrina ; ed al tra volta motteggia il medeſimo, perch'e'malaméte ſpiega un teſto d'Ippocrate có dire:frigida explicativ; ed altra fia ta ripigliádo có viſo d'armi Galieno,nó dice, ch'egli a tor to ofa cacciare Ippocrate , come colui , che non intera mente aveſſe aflegnate le cagioni della debolezza delles forze nelle malactie : eccone le ſue parole : Hippocrates elio modo , & forfan clariori caufas debilitatis nobis propo fuit , quamvis Galenus illumfine ullo fundamento repreben dere aggrediatur . Ma quale oggidiaperto campo, e libe ro nello Spagne tutte a' medici lia dato da potere agiata mente perciafcuna fetta ſcorrerc, affai fie manifesto a chi pon mente alle parole framezzate nell'opera del medico della Regal caſa Gaſpar Bravo , valoroſo , e forte cam pione della doctrina diGalieno : e fono le ſeguenti : liens Non eft conformatum à natura , ut fit receptaculum bumoris melancholici redeuntis è jecore , quod Galenus , & reliqui dugmarici antiqui illi ſubſcribentesfinem pracipuum quare fuerit lien à natura conformatum ignorarunt; quod Galenus in ina Del Sig.Lionardodi Capoa. 93 in infantis anatomes non potuit circulationem fanguinis , cu motum percipere. E in priina , di Galieno medeſimo avea già detto :fiabſolute velit interdicerefanguinis miſionem in pueris, non ftandum ejus doctrine . Senzachè volen tier coſtui ad alcuni novelli trovati dà piena credenza , fi come all'aggirarli del ſangue , ed alle vene latree, e ad al tri molci diviſi moderni ; perchè ragionando d'Arveo, così manifeſtanente dice : quod Haruei doctrina, ſi vera,non ob ftat , quod nova , ab illo noviter dicta , quia in naturali busnon tam quis dixit , quam quid dixit examinandun. O faggia veramente, e prudentiſſima ſentenza, e degna d'un vero filoſofo , degna d'un vero medico , degna d'uns vero , ed avveduto diſcepolo d'Ippocrate, e di Galieno ! E che direm noi o Signori dell'Accademie tutte delle Spagne, da quella di Valenza in fuori, la qual ſola , eco ſtantemente di non dipartirſi giammai in coſa niuna dal ſuo Ippocrate, e Galieno ſi da vanto ? Coſtoro certamen te han ſeguito ſempre , cſeguon tuttavia per ſolo titolo i medeſimi Greci maeſtri ; ma in verità quanto poi da loro nell'adoperare dilunghinſi , non ſi può egli bastantemente narrare . Eben'avviſollo una volta il teſte mentovato Ga lieniſta Andrea Santacroce , il qual dopo aver due luoghi delluo Galieno recati, ove coluidice, che ne’troppo fred di , o nc'troppo caldi tépi non ſi debba a niun partito cavar ſangue , avvegnachè grave , e di riſchio ſia la malattia ,e l'infermo freſco , e giovine , c ben’atante della perſonas foggiugne inanifeſtamente poi : certe qui hæc legit,quomo dotempore Eſtivo, &in ifta tam calida Matriti regione,pre cipue hoc anno, tam audacter mittit fanguinem ? quid mira quod multi interierint , ut dicitGalenus? fed quid mirum fi tantum aberrent multi , ut mittantſanguinem folius refri, gerationis gratia ? Malaſciādoci omai addietro le Spagne,valichiamo pu ., rca ragionar della Frácia, nella quale avvegnachè la oſti natiſfiina ſcuola di Parigi aveſſe col Quercetano tutt'altri Chimiciperſeguitati , e banditi , non fù ella poi così fal dase coſtante , che non abbandonate talvolta , ed aper tamen 94 Ragionamento Secondo tamente non rintuzzaſſe la ſcuola d'Ippocrate , e di Galie no ; imperciocchè da’ſentimenti di coſtoro , quanto al fat to delle purgagioni, e del ſegnare , e d'alcune altre core di lieva alla medicina appartenenti, tanto , e si fattamen te fi dipartono , e s'allontanano , che più non farebbero p avventura i medeſimi liberi , o vaghi mcdicanti ; il che pienamente ſi può per ciaſcun comprenderedall'opere de più famoſi medici di coral nazione. Ne permio avviſo è da logorar punto di tempo in far parole del famoſiſſimo Rondelezj; eſlendo purtroppo manifeſta la libertà , con cui egli imprende a vagliare, ed a riprovar l'antiche opinioni, e produrre in mezzo, e ſtabilir le novelle, dal propio inge gnioritrovate. No meno è gran fatto da prender cura di porre in chiaro quanto il dottiflimo Valerioia îi moftraſſe ſempremai fido amatore , e difenſor della verità ,le cuilo di di celebrare , ed innalzar fino alle ſtelle non è mai ſtan ca la ſua eloquentiffima penna ; oltremodo commendan do altresì Galieno , perciocchè ancor'egli per amor della verità avelle più fiate fronteggiato il venerando macſtro Ippocrate ; eſſendo egliciò ben conoſciuto a chiunque l'o pere diluiabbia rivolte . E oltre a ciò quanto il medeſi mo Valeriola ſenza alcun ritegno ove gli ſia in concio ad Ippocrate , Ariſtotile , e Galieno faccia contraſto ; palesí do ſenza riſpetto , quanto ſoventemente,l'un detto diGiz lieno l'altro annulli , ſpezialmente colà , ove ſi briga di vo lere ſpianar la facoltà dell'orzo, o dove ragiona filoſofan , do dell'amaro ſapore , e tutt'altri fallimenti di lui, qualo ra gli vengan conoſciuti, non laſcia con generoſa libertà di ſvelargli, e ripigliargli. Ma non potrei tacer'io dell'elegantiſſimo Fernelio , il quale , comeche foſſe motteggiato dall'Italico Galieno Aleflandro Maſſaria con quelle pungenti parole : fummus cum ratione hic vir ſuo libro titulum inferipfit , Ferneliime dicina ; namque fi totam illius inftitutionem , omniaque dig mata diligenter animadvertas,ea majoriex parte juntite ejus propria, epeculiaria , ut prope fint nullius alierius:pur decegli, non ſolo gran lume della riſtorata cloqueaza Ro mila , 1 DelSig.Lionardo di Capoa. 98 mana, ma ſovrano pregio dell'arte della medicina eſtimar fi ; perchè credendolo proverbiare il Maſſaria , il vennes anzi a commendare , che nò ; imperciocchè , fe ad altro , ch’a ricercar nuove coſe , e per alcun'altro non mai prima tocche ebbe il Fernelio l'animo tutto , e'l penſier rivolto , per certo , che egli fi fe in tal guiſa conoſcere per degno imitatore , anzi einolo d'Ippocrate, e di Galieno. Ma forſe il Maſſaria non riguardò punto a quelle parole , le qualiil Fernelio ,antiveggendo ,che delle ſue novità ſareb be per alcun da eſſer tacciato ,nelprincipio del ſuo vaghiſ ſimo volume laſciò ſcritte ; la dove egli con sì efficaci , e convincenti ragioni, econ sì maraviglioſa facondia , la fua cauſa difende , che più non farebber per avventura , o'l fottiliſſimo Demoſtene, o l'eloquentiſimo Tullio; le qua li per eſſere ſoverchiamente lunghe qui io non rapporto; ma non gia tacerò lo quell'ultime ſue parole , colle quali maravigliando egli de famoſi trovati dell'età fua , così al tamente favella :nihilvere docto illifeculo debet hæc invi dere . Dicendi ratio , fummaqueeloquentia nunc paffim flo refcit, philofophiæ genus omne excolitur :m :ufici , geometra, fabri, pictores , architecti ,fculptores,aliiquc artifices innu merificmentis aciem extulerunt , ut artes quique ſuas pre claris, magnificiſque operibus exornarint, quevetuſtioribus illis uno omnium ore celebratis nihilcedant. Neque inven tis folum ornamenta, e incrementa adjunxit temporum ex curfio , fed &artes novasprotulit,ad quas priorum nunquã, velingenium , vel induſtria penetraverat . Quindi ſieguo egli a raccontar delle bombarde, delle ſtampe , delle bof fole da navigare , e d'altri maraviglioſi ritrovati de'tempi addietro ; e intorno al navigare ſi vanta ſommamente d'a vervi anch'egli fatta la ſua parte. Mao quanto più il benz parlante Fernelio com menderebbe la noſtra età , fe vedeſſe a' dì noftri di nuove , e più maraviglioſe pro ve la fperienza accreſciuta, e ſempremai ritrovarſi da gli ingegnoſi moderni , o le carrette a vela , o le trombe parlanti , o le lanterne magiche , o i teleſcopj, oimicro ſcopi , o le tante , e tante , e sì maraviglioſeforti d'oriuo J ligo 96 Ragionamento Secondo li, o i varj, e varj, e non mai poſti più in opera ſpecchi co cavi,che repentemente liquefanno anchei metalli più du. ri: o le Pitture, che apparir fíno a’riguardáti, Protei di mil le forme le colorite telc : o con qual arte da guerra infra brieve ſpazio di tempo in terra ſi gettino le Cittadelle , ultimo rifugio de’vinti , & ultimo ſtento de’vincitori : e co me dall'acceſe bombarde li mandi ſoccorſo alle caden ti fortezze , traendo argomento di ſalute da’medelimi ſtrumenti d'offcfe: 0 come a diſpetto quaſi della natura ſi poſla forc'acqua francamente navigare . E come egli au rebbe aggrottate per iſtupor le ciglia in avviſando altreer ranti , ed altre fille non mai più vedute Itelle , ed altri , ed aleri movimenti, oltre a quegli già per l'addietro conoſciu ti nel Ciclo dagli antichi. E che aurebbe egli detto dell' Elatere dell'Aria, de' Barometri, delle Termometre , e degli ſtrumenti del vuoto , in cui non rimane ne men pic cio iſlimoacomo d'aria ? Eche de’nuovi, e maraviglioſi uſi della calamita ? e che del trasfonderli del ſangue e di cotant'altre prlove , che commendevol tanto rendono, e amipirabile l'età noftra . Certainente con maggior mara viglia egli ſclimato aurebbe , e con onta pur degli inutili e pecoroni parreggianti : fi omnem laborem pofteri collocaf-, fent , ut eas folum artes, diſciplinas exædificarent , qua rum fundamenta priores jecerant , nunquam tam multa di fciplinarum copia creviſet. Si qua in veterum mentem non venerant, juniores non aperuiſſent, neque illorum induftriam fuis vigiliis excitafent: nova ingeniorum lumina minime lucefcerent . Ma e'l Fernclio , e tutt'altri autori Franceſchi prima di lui , quanto al filoſofar liberamente poſſon ceder tutti la maggioranza a Lorenzo Giuberti nobilillimo lettore nell’Academia di Mompelieri ; il quale dopo ellerli oltre modo lagnato de gravioltraggj , che per opera d'Ariſtote le han villanamente molti degli antichi ſavi patiti , haven do colui si fittamente i lor ſentimenti inviluppati , e {tra yolri , che s'eglino pur ci ritornaſſero , non più , comopro pi lor parti ravviſur certamente gli potrebbero: indico 4 1 1 4 silog. Del Sig.Lionardo di Capoa 97 sì loggiugne. Hinc res eò miferia tandem reducta fuit , ut quum maximophilofophurum damno aliorum commentaria periiſſent ,in iis nullo refragante poſteritas tenaciffime inhee Jerit, ea tantum vera eſe ſibi perſuadens , quæ fine contro verſia proponerentur. Quindi egli con animo libero , e fin loſofico, dinon dover ſenza minuta conſiderazione laſciar fi trarre a gli altrui pareri,manifeſtamente proteſta : avve . gnachè ſian quelli pure diGalieno medeſimo, dicuiegli così dice . Hec dum animadverto,non poffum non illius quo que dicta exactiusperpendere , de pleriſque dubitare : ut diligentiore facta inquifitione veritastandem ( abfit invidia dicto ) eluceſcat. La qual faggia libertà , dice egli, da cia ſcun doverſi ſommamente ſeguire,tra per l'utilità , che ol tremodo ſe ne ritragge , e per l'autorità de'letterati più prodi , ed in iſcienze più valoroſi , che ſempre glorioſamé te l'han ſeguita ; de'quali egli fa un brieve, ma ſcelto ca talogo,arrollandovi anche in fine l'avvedutiſſimo Gugliel mo Rondelezj , e ſommamente commendandolo. Ma non ſolamente Lorenzo Giuberti nel ſoftener la fin loſofica libertà moſtrar volle la ſua maraviglioſa coſtan ża , anzi non pago di ſe medeſimo d'imprimere, e propag ginar sì nobili ſentiméti anchenegli animi de' ſuoi ſcolari ſommamente ſtudiosſi . Perchè un diloro ebbe già quell'e legantiſſima orazione , che oggidi ancora vien da'curioſi con maraviglia guardata; e nella quale dopo aver colui có forti, e valevoli prove ſaggiamente la ſua ragion difeſa , la gran forza ſpiegando della verità , dice , quella ſola la greca filoſofia a cotant'altezza aver potuta condurre,e por l'ultima mano alla latina eloquenza : e da quella ſola ani cora eſſer la Criſtiana Religione introdotta , e ſeminata in Europa: e cô la verità medeſima aver fatto capo a Socrate ache Platone; e côtro Platone poi eſſerſi armato Ariſtotele; e nell'Italia gran tratto dagli Aſiatici aver ſeparato Cice rone . E fu opera anche della verità il replicare appreffoi Criſtiani Paolo a Pietro , e opporſi Agoſtino a Cipriano ; e altri molti eſſerſi per ſola vaghezza di quella l'un l'altro perſeguitati. Quindi rivolgendo il ſuo ragionamento a’ri N gidi, 1 1 98 Ragionamento Secondo gidi, e ſuperſtizioli barbafforidi quella ſcuola rancida , che più le viete anticaglie degli ſtolidi maeſtri, chela nuova , e pur mo nata verità ſcioccamente pregiano così ſoggiugne . Et paganorum quorundam ( cioè a dire d'Ippocrate , e di Galieno ) memoriam ſuperſtitiosè coletis ? eorum nomina tam aniliterperhorrefcetis , ut à falfifſimis quorundam decretisnon poffe quemquamfine nefario ſcelere deficere judicetis ? Ma non comporta il tempo , che più avanti lo ne rapporti , comeche per tutto quel libbricino vaghiſſime, ed ingegnofiffime coſe ſparſe vi lieno : ed a cui caglia di leggerlo forſe non rincreſcerà . Di tanta, e sì valevol forza fur le perſuaſioni, e l'au corità de'due valentiffimi maeſtri , cioè del Rondelezine del Giuberti , che traendoſi dietro già tutta la ſtudioſa gioventù di Mompelieri , da indi in poi in quella famofiffi ma Accademia fempre la libertà del ben filoſofare è cam. peggiata . Ne con più ardente , e con più vigoroſo ſtile altra ſcuola di Francia armolli mai a far teſta a quella di Parigi a pro della Chimica, e del Quercetano , quanto la famofiflima ſcuola di Mompelieri : da cui ſon ſempre uſci ti , ed eſcon tuttavia valorofi germogli . Che più ? egli è táto non chebiaſimevole,ma impoſſibi le a fofferire la fervitù delle Sette agli ſtudioſi ingegni Franceſchi, che non che altri , macoloro , i quali la liber tà in altrui ſommamente riprendono , come il Silvio , l'Ol Jerio , il Doreto , eiduo Riolani , lor fa meſtieri , ch'a ' giurati maeſtri , o di naſcoſto ſi ſottraggano , o manifeſta mente ribellino . Anzi (chi il crederebbe !) anche colui , ch’a difeſa di Galieno contro il Vefalio sì fieramente ar moſſi , voi m’intendete o Signori , io dico il rabbioſo An drea di Lorenzo , udite come pur ebbe a dire : Ego enim hactenus is fui ,qui nullius jurare in verba magiſtri aſſuevi, multa prioribus ſeculisincognita , & diligenti noftra ubfer vatione animadverſa in apertam lucem profero . Mala Lamagna , quantunque foſſe ſtata il Teatro ,ovej con Paracelſo da prima , e poſcia con gli ſcolari di lui ten zonaſſero i più oſtinati difenſori degli antichi maeſtri : es quan Del Sig .Lionardodi Capoa. 99 quantunque ſurti vi foſſero , ed in quel meſcolamentoal ſchermo del lor Galieno.v'aveſſer fatta puntaglia il Fuſio , il Platero , il Cratone , ed altri acerbiffimi,e valorofi Gas lieniſti : nonpertanto ſono ſtati i Tedeſchi, de France fchi medeſini nel filoſofar ſemprese nel medicare aſſai più liberi,licome ne dan piena teſtimonianza Giorgio Agrico la , come colui , che in trattando delle coſe minerali tante, e tante fiare va ripigliando gli antichi maeſtri , e Taddeo Duni , il quale , tutto cheGalienifta, pur contro.il mede fimo ſuo maeſtro Galieno , un libro partitamente compo ſe , ove nel procmio così apertamente dice: Galenusquis dem amicus eft, & fcriptor antiquus, & illuftris., vene randus : veritas tamen , & antiquior , & illuftrior , dve. neranda magis.. E che direm noi di Geremia Triverio ,di Felice Plateri, di Corrado Geſncro , di Martin Rollando , e d'altri aſſai, ma più di tutt'altri di Mattia Vnſeri.il qua le al ſuo Galieno apertamente ribellandoſi infra l'altre una volta dice con efficaciſſime ragioni aver lui dimoſtro ,andar Galieno follemente errato nel filoſofare delle cagioni del. l'Epilellia : e che de' ſuoi falli eredierano rinaſi gli oſti nati ſuoi ſeguaci, negli animi de'qualila falla dottrina del lormaeſtro così tenacemente ſi trovava radicata , ut ( per dirla colle ſue propie parole ) Scirrum quamvis durum cia tius digeras , quain inveteratam hanc opinionem àpuero con ceptam , ipfis è mente eripias . Ma quel che maggiormente recar dee eglimaraviglia fiè, che imedeſiminimici,e per fecutori del Paracelſo , eziandio i più fieri, ed acerbi anch'eglino talvolta dalla loro annodata congiura mani feſtamente fi partono, come Felice Plateri , Tomaſo Era fto ,Giovan Cratone,GaſparreOfmanno ,nimico il più im placabile, che mai Chimici aveſſero ilqual tutt'altri medi ci, anche di ſua ſchiera, intinto biaſimò, e ſquarciò , che afpriſfimamente da due diſcepoli di Galieno anche funne ripreſo : l'un de'quali , che fù Daniello Orſtio , così pro verbiando il motteggia : ad Hoffmanni modum , qui inftar anys rixoſe heroes medicos paſſim fcurrilitertraducit; e l'al tro , che è Riollano il figlio , ſdegnato oltremodo, di lui N 2 ſcri Tôo Ragionamento Secondo ferive : Hoffmannusnimis liberè, & licentiosè caftigat omnes Medicos , utfolusſibiſapere videatur. Mainfra gli altri partiſſene ancora Rinieri Solenandri filoſofo , e medico digran pregio, il quale coll' armi , dal medeſimo Galieno un tempo adoperate , coraggioſaméte diféde la ſua ragione ; e dopo d'aver acculato Galieno de' falli p lui comeſſi nel libro de’séplici medicaméti,così con tro di lui , e degli altri antichi maeſtri ſaggiamente ragio na . Si in his medicina partibus , in quibus plus externi ſon Jus , experientia valet , quam judicium , & ratio , tantū deliquerunt majores noftri, quid credere debemusfactum ef feincæteris omnibus , quæ fola ratio, & ingenii ac umen af Sequi, eperſuadere poteft ? E che direbbe ora il Solenan dri , ſe vedeſſe di già fatto palele al mondo , quanto G2 lieno, e altri Antichi,della verità andaſſero lungamente er rati, in filoſofando dietro le parti tutte della medicina? Ma non v'ha infra tutti i Tedeſchi Galieniſti, che de’detti del lor maeſtro Galieno sì poco conto faccia, quanto , ſecon do , ch'io mi creda , quel tanto celebrato ſeguace di lui Daniel Sennerto ;del quale perciocchè e' fa moſtra in ogni luogo d'eſſer libero, no fà meſtieri al preséte ch'io sétéza alcuna ne rechi. Tanto ſolamente apporterovvene ciò, che egli in difeſa di ſe ad Antonio Guntero ragiona . Semper novum ( dice egli) Suſpectum fuit , antiquum vero lauda tum ; fed an jure ſemper , dubito; nam , quod nobis antiqui, olim novum fuit : ideoque non tempore , fed rationibus opi niones affirmandæ funt , eæque veriſimehabende , quæ cum natura , qua antiquiſſima eft', confentiunt . E poco avă ti : multa adhuc in natura reſtant explicanda; & plurimas in ea ita obſcura ſunt , ut magni etiam viripleraque vix de finire aufi fint . Ma non hà egliper mio avviſo animo me no nobile , e generoſo del Sennerti , il famoſo Galienilta Ollandeſe Giovan Antonio Lindeni intorno al giudicar li beramente , e fecondo ragione,la verità delle coſe , ſenza eſfer di vaſallaggio alcuno. Coſtui infra gli altri ſuoi li beri , e memorabili conſigli, una fiata ragionando di Ga lieno , e avviſando in quante beſtemmie , cd empiezze foffe DelSig.Lionardo di Capoa. ΤΟΥ foſſe coluinelle ſue dottrine ſtrabocchevolmente caduto così eſclama : Quid eft abnegare Deum , fi hoc non eft ? fi enim iſta non poteſt , ne quidem Deus eſt ? alla fine contro i parteggianti di lui ſtizzoſamente prorompe: &hic eſt illes homo ,cui non aſſurrexiſe grandenefas eft ? cuique contra dixiſſe mortale peccatum eft ? E altra volta così del ſuo mae ftro Galieno ragionando : Galenus ( diſſe ) magnus eſt, & fuit , &erit ; non tantus tamen , quem patiar libertati med fibulam imponere in iis , qua meliori ratione, atqueexperiêm tia certiore habeo comprobata. Ne men del Lindeni maa gnanimo , e libero fu quell'altro Galieniſta parimente Ol landeſe Zaccaria Silvio ; intanto che non laſciandoſi tra ſcinare ,ma ſolamente condurre a reverendi ſentimenti del maeſtro , ritroſo , e reſtio, ſovente a quelli ricalcitra ;e tra viando dagli antichi ſentieri , per nuove, e non uſate vie s'argomenta talvolta , comechè poco felicemente , d'ag giugnere alla verità . Priorum veſtigia (dice egli) omnia premere, & eaděſemper inculcare ridiculū eft.E no guari ap preſſo : Pigri eft ingenii contentum effeiis, quæfunt ab aliis inventa , fiquidem mentis acrimoni: nihilnon humanarum rerum ſubjicitur . Perciocchè ficome egli medeſimo ra giona , non è la medicina , o la filoſofia così ſtretta , così anguſta , e di sì poca ſpazioſità , che di preſente dagli an tichi primi macſtri ſi foſſe potuta ingoinbrar tutta, ſenza laſciarne ſpanna altrui ; ne così manifeſta , e ſviluppata, iz ciaſcuno è la verità delle coſe chei primicri inveſtigatori di quella aveſſero avuto ventura di prenderla liberamen te ſenza gli argomenti di cotante ſperienze; e giugnendo primieri alla gloria vincerla ſolamente della mano ; veri tas , fù ſentenza di lui , in multo altiorem demerfa puteum eft, quam utpaucis inde extrahi poſſit feculis . Énel mede fimo ſentimento fu certamente ciaſcun'altro medico , fi loſofante di Ollanda ; c Io ne potreiquì rapportare infini te teſtimonianze , ſe non che io temo per avventura di ſo verchiamente ſtuccarvi colla mia lunghezza. Ma non poſſo perciò tralaſciare a dire dell'ingegnoſo filoſofante, e medico de'ſuoitempi Giacomo Bacchio ; il qual veggens е doſi 102 Ragionamento Secondo doſi da' ſentimenti, e dalla ragione perſuaſo ,anzicoſtret to , e vinto a confeſſar l'aggiramento del ſangue, niente curando,ch'una tal dottrina non l'aveſſc egli apparata da' volumi degli antichi maeſtri, sì volentieri la ricevette , e intanto l'abbracciò , che conchiuſe alla fine doverſi quella in diſpetto degli oſtinati Galieniſti tutti ſeguire,ſe ben l'or dine tutto dell'antica medicina aveffe foſſopra a ſconvol gerſi , e andarne a fondo; perciocchè ſecondo un sì nuovo diviſo in aſſai coſe fi riformerebbe la medicina , e in mi glior filo certamente ſi metterebbe . Sic contingit , oſſer vò egli , concefo , ftatutoque ſanguinis circulatorio motu ,in numera veteris doctrina fiatuta inverti ; unde totus docendi ordo turbatus præpoſtere , & fine certa methodo, & doétrina omnino confuſe inſtituitur , addiſcitur; quam pofitioni bus cashenatim cohærentibus , &certo ordine inſtructis ſia biliri decer . Ma che direm poi del medicar della Lamagna, il quale , da queldella Francia poco certamente s'allontana ? ſe non fe i Tedeſchi aſſai più de Franceſchidi ſegnar ſi ritengo no ; e intanto l'abborriſcono , e ne ſon ritrofi , che deter minatamente giudicano, i Salaſli mai ſempre eſer danne voli , e ſconcj, e ſe non altro alla per fine menomandone gli ſpiriti , raccorciarne miſerabilmente la vita . No lo mi prenderò quì punto briga in provarvi quanto i Tedeſchi ſien filoſofi , emedicidabbene , e amatori della verità , no appiccandoſi oſtinati, e provani a Setta niuna ; ed egli ſiè ben manifeſto a ciaſcuno , non più fortemente altronde che dalla Lamagna eſſere ſtato dimentito , e ricreduto più fiate de'ſuoi errori Galieno . Ma non men libera dell'altre nazioni fu la gran Bretta gna in non yolermai tenacemente appiccarſi a' ſentiinenti d'Ippocrate, e di Galieno , o d'altri antichi medici, ſenza in prima lungamente abburattargli, e porgli allo ſquitti no delle ſperienze , e delle ragioni. E ciò agevolmente potrà comprendere chiunque prenderaſli briga tanto qua to di rivoltarci tarlati, e polveroſi volumi dell'antico Ric cardo , o di Giubetto , o di quelGiovanni, che ſopra tutti 1 inani DelSig.Lionardo di Capoa 103 ز manifeſtò i ſuoi laudevoli, e generoſiſentimenti in quel li bro mandato fuora da lui , ſotto nome di Roſa Anglicana ; e da cotant'altri antichi Inghileſi, a' quali , comeduchi,e maeſtri del filoſofare , e dell'opere di medicina , piacque anzi gli Arabi dottori, che i Greci maeſtri nelle loro ſcuo le ſeguitare . E più allor crebbe , e avanzoſſi nell'Inghil terra la libertà del medicare, quando pofta giù la ruggine di que'rozzi ſecoli, più preſſo a'tempi noſtri,per opera de gļItaliani maeſtri, rinacquero quivi le lungamente ſepolte greche , elatine lettere ; perciocchè allorcertamente con maggior ſenno , e avvedimento ſi puotè per valenti lette rati gareggiar vicendevolmente per la verità; e crebbe tă to poi nella famoſa penna del Primeroſio , dell'Igmoro , e d'altri valenti Galieniſti Inghilefi la libertà delloſcrivere nella medicina , che ſoverchio ſarebbe il raccontarlo. Pu re non mi terrò di ſommamente commendar quelle famo ſe ſcuole ,onde ſi moſſe da prima l'incontraſtabile difeſa a pro dellaggiramento del ſangue , la qual sì forte , e valo . roſamente Fiaccò le corna del ſoverchio orgoglio al gonfio , e folle Pariſano , che vergognato , e ontoſool tremodo divenutone, non osò il cattivello per innanzi far ne più motto . Ma chi mai pareggiar potrebbe il valore del grãde Ar veo ? ilqual ſgombrate da ſe tutte paffioni di Sette , e di nimiſtà , intanto avvantaggioſſi colla ſua laudevole liber tà ne'ſentimentipiù veri delle coſe , che nelle ſue glorioſe . opere così par , che ſaggiamente ragioni : Io miſon forte fovente meco medeſimo maravigliato di coloro , anzi tal volta hogli preſo a gabbo , i quali follemente s'avviſano aver l'operc d'Ariſtotile , o di Galieno , o d'altro più cele bre maeſtro cotanta perfezione , e compimento, che nulla certamente lor poffa aggiugnerſi più di vantaggio . Non è la natura delle coſe cotanto aprima faccia manifeſta che compiutamente per huom’poſſa prenderſi, ſenza ben cutca in prima diſtintamente ſpiarla . Ella ha i fuoi ſegreti na ſcondigli, a'quali non può certamente aggiugnerſi, ſenza la 104 Ragionamento Secondo la guida di lei medeſima: e ciò , che in alcune coſe confu ſamente, e inviluppatamente n'accenna , altrove poi reſa . ne fedeliſſima interpetre , più diſtintamente , e manifeſta mente n’eſpone. Perchè ſenza dubbio mal potrà giugnes re a diterminar coſa del mondo intorno all'uſo , o alme ftier delle parti del corpo umano , chiunque in prima non n'abbia ben preſo argomento da ciaſcun ' altro bruto ani male , e'l ſito diligentemente , e la fabbrica , eicongiunti vaſi , e altri accidenti di quelli , e delle lor parti conoſciu to , e l'uſo loro per pruova ſaputo . Et putabimus, dirolla pure colle ſue propie parole , nihil prorſus commodi ab his auxiliisfcientiarum nobis accedere ; verum omnem plane fa pientiam à primis ftatimfeculis abforptam fuiſe ? Ignavia profeéto hæc noftre, haud naturæ culpa eſt . Ma che non di ce egli, e quali ſaldiſſiine ragioni non apporta in concio a' ſuoi liberi ſentimenti , o nella famoſiſfima lettera dirizza ta al Collegio di Londra , o nel proemio del libro della generazion deglianimali ? Pudeat, udite , come all'alta impreſa del liberamente filoſofare ne ſtuzzichi , e ne ſpro ni il magnanimo amator della verità : pudeat itaque in hoc nature campo tam ſpacioſo, tam .admirabili, promifique majora femper perſolvente,aliorum fcriptis credere ; incerta indè problemata videre ; &ſpinofas, captioſaſque diſputa tiunculas nectere . Natura ipſa adeunda eft; & ſemita quă nobis monſtrat infiftendum . Ma dalle nazioni ſtraniere , paſſiamo omai a narrar del. la noſtra vaghiſſima Italia , pregio delle più belle lettere, e ricovero ditutte ſcienze ; la qual certamente , intorno alla medicina, oltre a gli Abbanije i Niccoli, c i Gentili , e i Dini, ei Tomalli, e i Taddei, e i Ferrari, e gli Vghi, e i Girardi , e i Platearj, e i Turiſani,e i Salvatichije i Giacomi da Forli, e i Mattei da Grado , e gli Arduini , e i Montagnani, gli Arcolani, c i Zerbi, ei Savanaroli , e cento , c millal tri avvedutiſſimi ſeguaci dell'Arabeſchedottrine : hebbe anche Aleſſandro de Benedetti, e Matteo Curzio , eGio van Manardi , e Giovan Battiſta Montani, e Antonio Mu fa Brafavolo , c Nicolò I.coniccni, per tacer d'altri molti, a’quali DelSig. Lionardo di Capoa: 105 a' quali più di ciaſcun'altro per avventura piacque le doe trine d'Ippocrate, e di Galieno fominamente ſeguire . E pur veggiam talvolta effer coſtoro manifeitamente , trali gnati dalle reverede dottrine de’lor carimaeſtri , e in mol te , emolte coſe , che a grado lor non furono , avvegna chè di non poca conſiderazione,loro apertamente contra-. ſtare . Ne reco Io già al preſente per teſtimonio del mio ragionaméto Gabriel Fallopio, ne il Trincavelli, ne il Mer curiale,ne Ercole di Saſſonia ,ne Girolamo Capodivaccas ne Orazio degli Eugenj,ne Ceſare Magati,ne altri , e altri avvedutiſlimi medici, e filoſofi commendati ne’loro tempi, c pregiati allai . Solamente ricorderò le glorie del famo fiflimo Giovanni Argenterio , e cotant'altri loro valoroſi ſeguaci , e imitatori; i quali traſandate le leggi, e le ſtret tiifime mere degli antichi maeſtri, ſcorſero liberamente perlo gran campo della medicina , ſenza appiccarſi molto tenacemente, ad Ippocrate , o a Galicno ,comechè Ippo cratici , e Galieniſti eglino li foſſero . Ma cometutt'altri , e in dottrina , cin chiarezza di fama avanza di gran lun ga queltanto valoroſo , ed eccellente ſcrittore Girolamo Cardano , così a niuno certamente egli cedede Galieniſti medici Italiani nella gloria del liberainente filoſofare.Egli a niun pregio tenendo maeſtro alcuno , ſolamente s'affa . tica , e ſi ſtudia per la verità, e non ha quaſi facciuola nel le ſue opere , ove egli non ſi vegga oftinatamente conten dere col ſuo Galieno , prendendo cagione tratto tratto d ' accoccargliela , e manifeſtamente biaſimarlo, intorno alla maniera del ſuo filoſofare , e del ſuo ſcrivere , e del porre in opera il ſuo furbeſco meſtiere ; infra le quali non mi par da dover tralaſciare quel che in un de'ſuoi libri , di lui narra , dicendo eſſere ſtato colui prima Cerulico: e che in ciò pure non molto tempo , e ſtudio logorato v’aveffe,ac ciocchè al colino di tal meſtiere ne foſſe dovuto formota re . E delinedeſimoGalieno altra volta forte biaſimando ſi, dice ſoiainente eſſere ſtata cagion di cotanti ſuoi errori, e fallil'effer egli riſtato in sù gli arzigogoli dello ſpecula re , ſcnza diſcender giammai all'operare , e ſenza far prìo O va del 106 Ragionamentosecondo 1 va delle ſue mal credute dottrine : Caufa errorum in medi cina eft , quod quicontemplantur, non medentur, ut Galenus, Paulus , & c Princeps , & hodie omnes medicine profeſores; ideo ( avvertimento ben degno da dover far faldiffima im preſſione ne’noſtri medici) loco regularum , &dogmatum fcribuntfomnia. Mayperchèa far parole del Cardano ci ſiam condotti , e'nó mipare di dover tacere, quáto nella ſchicttezza,e bo tà dell'animo, e nell'amor della verità egli lungamenteve Galieno medeſimo,non che altri ſi laſciaſſe addietro ; per ciocchè biaſimando oltremodo la malvagità , e la caſtro naggine de' teſtereccj , émalandati parteggianti de' ſuci tempi ,infra l'altre , cosi una volta ſtizzoſamente gli pun ge , egli beffeggia . Demiror , dice egli , credulitatem , de mentiam , & impietatem medicorum noftræ ætatis , quorum aliqui eo deveniunt , ut cbliti omnis humanitatis , maline perdere homines , utferviant pertinaciæ , quam revocari, a eosſervare. E oltre a ciò vaegli conſiderādo intanto giu gner l'oſtinazione, e l'affetto degli accieciti parteggianti, che riguardando alle dottrine de’loro cari maeſtri, non che a capital niuno la verità teneſſero , anzi l'anime loro medeſimc non curando , foventi fiate il diritto delle divi ne leggi, e delle naturali traſandano: cdeo ſectis , grida egli pictoſamente piagnendo , addicti ſunt , at nec immor talitatis aninorum ,nec præceptorum philofophiæ reſpectus ul lus eos teneat . Machirccherammi amcinoria tutti gl'infelici, e com paſionevoli avvenimenti, i quali dalla mellonaggine,dalla pertinacia , dall'ambizione,dall'avarizia, e dalla malvagi tà de'cattivi parteggianti tratto tratto ſeguir ſogliono, che egli lungamente va diviſando : Eglino ſempre oſtinati ncl le loro fanciullaggini, non che foſſer giammai da tanto , che guarir ſapefiero alcuna malattia diconſiderazione;an zi fovenci volte si , e tanto operano colle loro trappole , che ne tolgono la voita aʼmedici più valoroſi. E ſon pur così ribaldi, e ſcellerati , che sfregiando colle loro opere il digniffimo nome di Criſtiano , e laſciata affatto la pietà, cla ! Del Sig.Lionardodi Capod. 101 e la carità unico patrimonio de'ſeguaci di Criſto ,tuttiaya: ri , e ambizioſi,ſi veggono,ſolamenteiricchi, ei nobili am. malati viſitare , e i poveri, e miſerabili, dalla fortuna ab. bandonati,dopoaverglilungaméte ſpolpati, o affatto non curare , o ſe pur vi vanno frettoloſi, e ſuperbi, come vili giumenti, o come altri bruti animali crudelmente trattar gli . Del quale graviſſimo misfatto certamente la cagioa ne ſi è il lor Maeſtro Galieno , da cui eglino tutto apparā doprendono ancora ad eſſer oltremodo ambizioſi, e avari. Hujus tanti mali, ſono le parole propie del Cardano , au tor fuitnofter Galenus, qui nil ubique jactat, niſi proceres , atque Imperatores ; quum tam juveniseffet, ut ambitione, inani nomine potius, quamartis peritia eis innotuerit. Nc oltre a ciò tace il Cardano l'aſture frodi di que'Vol poni maeſtri , i quali a perpetuar la lor tirannia,agl’ingan ni , alle millanterie , alle beffe , all'aſtuzie , aile giglioffe rie gl’innocenti ſcolari tratto tratto avvezzavano . E di tanti misfatti , e ſcelleratezze'non laſcia d'accagionarne ſopratutto le perſone nobili , e d'alto affare , i quali per ciocche delle coſe del mondo , e della natura poco, o nulla ſi conoſcono , non laſciano a ciò porre acconcio compen ſo, ficome certamente dovrebbono ; anzi intanto giugne la lor biaſimevole dappocaggine, chc in luogo di ricercar ne'medici profonda dottrina , buoni coſtumi, intendimen to di linguaggi, avvedimento grande , ſcienze alla medi cina appartenenti, pierà de gl'inferini, antivedimento del Je future cole, ſperienza delle cure malagevoli , conoſci mento delle matematiche, ripoſo di mente , amor di glo ria , che naſca dal ben operare , diſpregio d'altre coſe ſol lazzevoli , e ardente diſiderio d'apparare ; vi richiedeva no orrevoli veſtimenta , aſpetto grazioſo , viſo piacevole, adulazion di parole , abbondanza d'ammalati illuſtri , e grandi,magnificenza di ricchezze, e cento, e mille altre ſo miglianti vanità. E ben gli parve , che meritevolment , coſtoro ne portaffer poi la debita penitenza , omorendo ne loro i più cari parenti, o ſtandone eglino medelimi ſem premai ſparuti, c triſtınzuoli , e cagionevoli aſſai dell i per 0 2 108 Ragionamento Secondo perſona : diuturno cruciatu protractorum per longumtempus morborum : per rapportarvi omai alcune altre delle ſue pa role medesime,che mi ſovvengono: preterea fiderationum , debilitatum ,quæ poft fanationem illis relinquuntur ; avs vegnachè affatto non ſi vedeſſe Gir del pari la pena colpeccato, mal capitandone non pur eſli,magl’innocentiloro figliuo li , e amici . Ma troppo piacevol coſa è a ſentire ciò , che finalmente egli contro i medici de'ſuoi tempi narra , i quali baldanzoſi , e tronfi liberamente ſcorrendo a lor talento per tutto , e abborrando, e malmenando la medicina, co ( trignevano alla fine i cattivelli infermi, che male a lor uopo nelle lormanicapitavano , a pagare a ingordiſino prezzo i rimedj, e talora anche la morte ; facendo eglino ancora forſe la lor mano negli ſtrabbocchevoli guadagni degli ſpeziali.. Ma, che direm noi di Giulio Ceſare della Scala digniſ fimo medico de'ſuoitempi . Egli comechè fieriſlimo ne mico foſſe del Cardano , e s'argomentaſſe a ſpada tratta dirimbeccarlo quaſi in ogni parola; intanto , che ne pur la loro oſtinatiſſima nimiſtà Ha diſciolto colei , ch'il tutto ſolve . Atque ut etiam nunc poſt cineres , dice coll' uſata elegan za il noſtro Severino.ſtridēt in ævum ab ipfis exaratæ chara te ; non però di meno , ove ſol ſi tratta della libertà della filoſofia , e di non laſciarſi dictro gli antichi ciecamente traſcorrere , allorcertamente poſto giù lo ſdegno , e’lli vidore ſon tutti di convegna a ritrarſi di parteggiare , e far capo oſtinatamente alle ſette . Errata majorum , diſſe generoſamente una volta Giulio Ceſare della Scala , diſi mulanda non funt , ne eo ipfo pofteritati imponamus .E benſi valſe egli del ſuo avviſo , quádo cruccioſamente diile d'Ip pocrate al Cardano : Tueris , atque profiteris nefandum illud Hippocratis deliramentum , à quo non abfunt Galeni trepidationes, animam nihil aliud eſſe, quam cæleſte calidum: avvegnachè ſenza ragione alcuna aveſſe egli rimprovera to una volta a Galieno una sìfitta libertà , e ſtizzoſamé 1 te bia . Del Sig. Lionardo di Capoa. 109 te biaſimatolo d'aver egli ſovente contraſtato il reverendo Ariſtotele;come ſe graviſſimo fallo , c ſcelleratczza ciò ſi foſſe: Galenus avidiſſimus ,dice egli , carpendi longe de meliorem ; in quella guiſa appunto , che quel nobile Ga lieniſta Giulio Aleſſandrinovoleva , che ſolamente all'Ar genterio foſle vietato il por mano all'opere degli Antichi per ammendarne gli errori ; della qual coſa , non ſenza gran ragione per avventura forte fi biaſimail Solenandri , così rimproverandogli: Verum fateris,antiquiores fcripto res erraſſe, concedifque aliis omnibus , qui funt ingenio , em judicio aliquo prediti, ut poffint ea reprehendere , quæ ma lè funtdieta , &meliora tradere : foli Argenteriohanc li centiam adimis . Ma prima delCardano , e di Giulio Ceſare della Scala, per ripigliare ilfil del noſtro ragionamento, grandiſſimali bertà ufar ſi vide , e nelfiloſofare , e nello ſcrivere un'ala tro valent'huomo nelle inatematiche , e nella filoſofia , e nella medicina aſlai bene fcorto , ed cſercitato ; perchè meritonne d'eſſer'altamente pregiato , e onorato da quel generoſo favoreggiatore , e intendente delle buone lette re Lione il Decimo , Sommo Pontefice . E fu coſtuiGio vanni da Bagnuolo, il qual non mica pago nelle ſcuole d' averdato ſaggio del ſuomagnanimo, e nobile ſpirito , no curante l'altrui autorità in non poche concluſioni: e aven do fuor dell'uſo comune mandata avanti la Chimica: coſa a que’tempirariſima, maſlimamente in Italia : volle in cc minciando un capo diquel libro, ch'egli fa dell'ecliſſe del la Luna , più manifcftamente proteſarlo , portando ſenti menti veramente da filoſofo ragguardevole , e di gran lie va . Quoniam noſtri antiqui progenitores , dice egli ,fcien tiarum inventores , rationibus , experimentis, comperie runt ſcientias ; veriphilofophantes ipfos imitando conari de berent no perfiftere inventis,fed nova nature ſecreta venari. Maquel famofiffimo medico, e filoſofo , e pocta de Verona Girolamo Fracaſtoro , avvegnachè da' ſervili fen timenti delle ſcuole ingombro troppo commendaſſe il fuo maeſtro Galieno , e molto a capitale il teneſſe ; non però dime 110 Ragionamento Secondo di meno , reſo talvolta avveduto dalla verità, non ſi tiene, ove gli venga in concio, d'aſpramente riinbeccarlo, e qua. to al fatto de’giorni critici rinfacciargli ch'egli pur troppo ſcioccamente ponendo in non cale gl'inſegnamenti de’alo ſofi, a'vani preſtigj degli ſtrolaghi ſia ricorſo . E oltre a ciò nelmedicare ,e nel filoſofare da'diviſamentidi lui ſi di lunga; come agevolmente ſi può veder ne'ſuoi libri della fimpatia, e antipatia delle coſe, e della contagione , eins altri luoghi ; ma ſopratutti nel ſuo divin poema della Sifi lide , per cui huom certamente crede , lui all'altezza del gran Marone eſſer’aggiunto , e che tutt'altri poeti felice mente G laſci addietro . Nel qual poemacontro l'opinion del ſuo Galieno va egli cantando , l'aria ſola di tutte coſe eller principio , così manifeſtamente raffermando: Aër quippe pater rerum eft, &originisauctor. E prima egli così del naſcimento delle coſe avea diviſato : Principio quæque in terris, quæque æthere in alto : Atque mari in magno natura educit in auras , Cuncta quidem nec forte una , nec legibus iiſdem Proveniunt, sed enim, quorumprimordia constant Epaucis,crebro ac paſſim pars magna creantur : Rarius aſt alia apparent, non niſi certis Temporibufve , locifve , quibus violentior ortus, Et longefita principia: ac nonnulla prius, quam Erumpant tenebris , &opaco carcere noctis , Milletrahuntannos ,fpatiofaque ſecula poſcunt Tanta vicoëuntgenitaliaſemina in unum . Quindi con l'uſata ſua eloquenza della cagion de'mali di viſando, cosiegli canta Ergo &morborum quoniam non omnibus una Nafcendi eft ratio , facilispars maxima viſu eft, Et faciles ortus babet , &primordia praſto. Rarius emergunt alii , poft tempore longo Difficiles cauſas , & inextricabile fatum , Et feropotuere altas ſuperare tenebras. Ne men del Fracaſtoro al ſottiliſſimo Andrea Cefalpi. ni piacque ſommamente levarſi ſuſo contro il ſuo maeſtro Galie DelSig.Lionardo di Capod. ilt * Galieno, e iſeguaci di lui , prendendola oſtinatamente a favor d'Ariſtotele , e de'Peripateticiin ciò , che da coloro dipartonſ i Galieniſti ; ſenzachè egli è pur troppo mani feſto a ciaſcuno eſſere ſtato primiero il Cefalpinia ſcoprir glorioſamente al mondo l'aggiramento del ſangue:tutto , che parer poſla ciò, che moltoprima di lui aveſſe fatto Pla tone con quelle parole: Μέγιστν δε όταν α'μαι καθαρά συγκερασθείσα , το τών ινών γένος , εκ της εαυτών διαφορή τάξεως . αι διεσπάρησαν εις αίμα , να συμμέ Πρως λειότητος ίχοι και πάχους , και μήτε δια θερμότη ως υγρών εκ μανού του σώματG- εκρέσι , μήτ' αυ πυκνοτέρον δυσκίνητον ον, μόλις axaspécouto iv Cais Preti,che ſuonano in noſtra lingua : E maf. fimamente quando ( la bile )col puro ſanguemeſcolata,difor dina quella ſpezie di fibre ,le quali ſono ſparſe per lo ſangue, acciò ſia in eſlo una mezzanitate tra'l groſo, e'lſottile:per chè mediante ilcalore non iſcorra per lo corpo ,ficome ogni li quida cofa fcurre perun corporaro, neſia troppo groſo , e difficile a ſcorrere , sì, che appena poipoteſſe andare , eritor nare per le vene . Ma non poco certamente e' ſiparc, che Santorio Santori, famoſo, e raggaardevol medico de'ſuoi tempi profittafleſi in liberamente ſcrivere , non avendo ri guardo a ſetta niuna , per aver eglicol Sarpi , e col Gali Jei un tempo ufato ; i cui ſentiméti vollc cgli in molti luo ghide'ſuoi ſcritti, come ſuoi propj diviſamenti manifeſta re , e ſpezialmente in quel libro cotanto per ciaſcun com mendato, della Staticamedicina , comcchè il più delle vol te male egli apprendendo le commendevoli dottrine di que’valent'huomini, e alle ſue volgari ſconciamente me ſcolandole , fe ne faceſſero le ſcherne gli accorti lettori. Maciò da parte al preſente laſciando , non ſi può egli di leggier narrare, quanto da lui carminati, e proverbiati du ramente foſſero i parteggianti tutti medici , e filoſofi ; e quantunque volte gli vien fatto loro l'accocca , rapportão do in ſuo pro varie, e molte autorità d'Ariſtotele, e di Ga lieno ; di cui ſeguendo la traccia arditamente ofa afferma re,alquanti Aforiſmi d'Ippocrate ritrovarſi talora dalla verità non poco lontani : e molti, e molti errori ne'moder ni, e 112 Ragionamento Secondo - { ni , e negli antichi ſcrittori dimedicinaegli ravviſa: e non pochi anche ne ritrova in Galieno. Così eglibiaſimando, e maladicendo oltremodo la follia, ſicome e'dice , di pa recchj ſcuole dell'Europa , dice , che in quelle ſcioccamé te maggior credenza preſtar ſogliaſi all’orrevole autorità d'Ariſtotele, d'Ippocrate, o di Galieno , che a' ſentimenti noſtri medefimi; e pur dice cgli Ariſtotele medeſimo, Galieno di comun conſentimento più volte affermare, ef ſer anzi alla ſperienza , e a' ſentimenti, che all'altrui auto rità da dar fede. E poichè in concio al ſuo ragionamento più luoghi di Galieno egli rapporta , così alla per fine con chiude: Quare quum Galenus,neque meus fueritaffinis, confanguineus , aut majorum meorum avunculus , quod ſciã , neque in Sanctorum catalogo fit collocatus, quiafflatusdi vinitate fuerit loquutus , non video cur omnes non poffint honorificè , fi fenfibusudverſetur, eum relinquere. Neè da tralaſciare al preſente di narrare ancora del fa moſiſſimo Andrea Mattioli , il qual comeche parzialiſſimo del ſuo Galieno , purc in più luoghi, della verità reſo ay veduto , dice manifeſtamente , eſſerſi colui in leggendo Dioſcoride aggirato ,e ſovente non averne parola inteſo ; e una volta infra l'altre non puotè ritenerſi di non iſtizzo ſamente gridare : videtur Galenus non folum plurimum à Diofcoridis fententia ,ac hiſtoria aberraſſe , fedetiam à ra tione ipfa , acveritatelongè fane abeffe . E oltre a ciò dice eſſere ſtato Galieno di poco ſenno ,ein molti luoghima nifeſtamente contradirli; ed eſſer egli ſtato nato a’ Poeti , c troppo di leggieri alle loro vanillime fa vole aver preſtato fede, non altrimente , che ſe ſtate foſſe ro incontraſtabili verità da raffermar con tutti i ſacramen ti del mondo . Ma il dottiſſimo Proſpero Alpini in tutti que'ſuoi libri della metodica medicina , avvegnachè ancor egli di parte Galieniſta pur altro certamente non fa, ſe non ſe difendere i metodicida’mordimenti del ſuo Galieno , e d'altri R.2 zionali medici ; e ſpezialmente ove Galieno così ſconcia mente carica di bialimi, e di maladicenze Attalo famoſif troppo affezio fimo DelSig.Lionardo di Capoa 113 Timomedico metodico , dicendo , che per opera di lui for fe ftato ucciſo Teagene filoſofo cinico . Ma quanto poco capital faceſſe di Galieno, e d'altri razionali medici il nar rato Attalo , ſi può agevolmente comprendere dall'acerba riſpoſta da lui data a Galieno ;la qual coſtuipoſcia,come ſua sóma lode foſse , volle nell'opere ſue laſciare ſciocca mente regiſtrate . E forſe fuella più ancor pugnereccia, e di piggior talento , che egli ne racconta . Eche direm noi del valoroſo Girolamo dall'Acquape dente digniſſimomaeſtro del grand’Arveo ? Quante fiate ) egli, comechè Galieniſta, pur da’ſentimentidiGalieno ra gionevolmente ſi diparte ? Quante ,e quante fiate grave mente il proverbia , e riprende di ſciocchezza, ed'igno ranza ? Pure infra cotanti biaſimi, e rimprocci , ch'Io per brevità tralaſcio , recheronne al preſente uno , che val per cutti , lagnandoſi egli forte del tempo , ch'avendone tolte tutte le bell'opere degli antichi filoſofánti, ne abbia ſola mente laſciate quelle d'Ariſtotele , e diGalieno , como ſchiuma de libri , e viliſfimo fondaccio di tutte le buone dottrine ; eſſendo coloro in molte , e molte coſe ſempre mai fallati ; e ſpezialmente taccia Galieno diquella folle ſua opinione intorno alla formazion della viſta . E intanto è vero ciò , che noi raccontiamo , eſſerſi i va lenti Galieniſti pur talvolta per vaghezza della verità al lor maeſtro Galieno ribellati , che maraviglia è a narrar come Aleſſandro Maſſaria,cotanto oſtinato, e leal parteg. giante di Galieno , pur’una fiata ponendolo in non cale, aveſſe oſato cavar ſangue nella diſſenteria , comechè cer caſſe poi a ſua poſta didarne a vedere con fievoliſſime ra gioni, eſſer ciò anche ſecondo il ſentimento del ſuo G2 lieno ; e'l celebre Settala ancor' cglicotanto fedel ſegua ce del medeſimo , pure l'aveſſe fronteggiato , e ripigliato , 12, ove egli ragiona delle cagioni del color glauco degli occhj ; ed ove dice , che l'acque de'pozzi non fiano ,me appajano fredde l'eſtate più , che in altri tempi; percioc. che ſi toccano colle mani calde; e che l'inverno al contra rio ne pajano calde , perocchè ſi toccano colle mani food P dc. . 114 Ragionamento Secondo 1 1 1 de. Ma quel , ch'è più da conſiderare ſi è ,ch'egli in un'in ? tero libro riprova l'antico , e praticato uſo di medicar le ferite , appigliandoſi ad un nuovo modo da Ippocrate, e da Galieno non mai conoſciuto , non che adoperato . Ma troppa gran briga fermamente lo mi prenderei , ſe recar qui ora voleſsi ciò, che ad uno ad uno tutti gli ec cellenti, e famofi ſcrittori Italiani lungamente ne diviſino . Chiudaſi adunque sì nobil corona colle parole del ſotti liffimo Pier Caſtelli, il quale una fiata infra l'altre contro cotali pecoroni da greggia maggiormente ſdegnato , così proruppe : An omnia novit folus Galenus ? an nihilreliquit pofteris inveſtigandum ? Quo merito infudit illi uni Deus (quod alteri nulli) totam , perfectam , &integram medici nafcientiam ,nihil nobis reliquens ? e dopò molte graviſſime parole , che egli apporta a queſto propoſito , così alla fine conclude : Patet boc , quia poft Galenum tanta medicinefa Eta eſt additio , ut triplo auctam dicere poflimus. E si nobil costume di liberamente filoſofare in medi cina,ben da molte , e molte fcritture publicate in iftampa , apertamente ſi ſcorge, ch’abbian ſeguito a gara l'Accade mie , ond'è sì abbondevole , ctanto fi pregia tutto il bel paeſe, Ch’Appennin parte , e'l mar circonda, e l'Alpe. Ma io tralaſciando a bello fludio tutt'altre parti , ragio nerò ſolamente della nobili : lima noftra Città , delle Sirene , e delle Muſe amenillima ſtanza , che non pur nella gloria delle lettere , ma in ogni altra a niuna delle più celebri , cd illuſtridell'Vniverſo riman certamente feconda . E laſciā do di favellar del Belli , del Bozzayotra , del Tucca , e d' altri , e d'altri lettori diminor grido oſtinatiſſimi ſeguaci, e parziali d'Avicenna : come potrò mai lo pienamente nar rare co quanta maraviglia udiſfer già legger le noſtre ſcuo le il teſte da noi mentovato Argenterio ; al cui ſottile in gegno , ed avveduto giudicio ,non miga, come altri per av vétura coftumano ,baltādo il copiare , e l'appropiarſi l'al trui viete dottrine ; ma volendo egli diſaminare , e far pro va delle coſe della medicina ne’libri già ſcritte, il diſcreto, e av Del Sig. Lionardo di Capoa 115 e avveduto , e giuſto Giudiceſtudiavaſi d’aſſomigliare ; il qual non a tutti pienamente dà fede,maaltri approva, al tri traſanda , altri manifeſtamente rifiuta, ficome appunto ragion chiede; ficome avviſa quel ſuo difenditore . Su mus omnes in arte noſtra tanquam in fenatu conſtituti, in quo non ut pedariiftatim pedibus in aliorum fententiam ire debe mus , fed ut prudentes Senatores viderequid conveniat ; at que ita ingenue proferrede rebus , quod rationi confonum ar bitramur. E ben per ciaſcuno il finiſſimo , ed eccellente giudicio dell'Argenterio intorno al noſtro propoſito potrà agevolmente da queſte parole di lui ravviſarſi . Non tam Servili, dice eglifimus , animo , ut omnia veterumplacita , oraculorum inftar indiſcriminatim veneremur , vel tam ab jecto , ut pofteris omnem , meliora excogitandi occafionem prareptam , ac præciſam effe arbitremur ; quafi vero non idő nuncſit , quod olim Cælum, eadem terra , idēgenerandimo dus : eadem denique, & facilior etiam , quam aliis fueritdin cendi , inveniendique ratio . Ma certamente non men dell’Argenterio ſdegnarono con filoſofica libertà altri Na poletani lettori aſſai, di lcgarſı-a' ſentimenti d'Ippocrate , o di Galieno: avvegnachè per ceſſar forſe l'invidia della ribaldaglia del volgo , con parole alcuni di eſſi il diſfimu laſſero , facendo ſempremai veduta di abbracciar , e di ri tener tenacemente tutto ciò , che inſegnato viene per Ip pocrate , c per Galieno . Infra'quali Filippo Ingrafiagavi do oltremodo , e curioſo di conoſcer la vera fabbrica del corpo umano, ebbe ventura d'abbatterſi il primonelle veſi chette ſeminali,non più per addietro da alcun degli antichi medici ravviſate ; ed infra l'altre coſe ebbe ardimento, nc d'Ippocrate , ne di Galieno punto curando , di purgare cziandio nelvigor delle malattie . Così anche gencrofa mente ſi ſottrailero alle ſchiere de parteggianti Bernardi no Longo , Paolo Monaco , e Giovanni Antonio Piſani : un diſcepolo de'quali ( 1) in una apologia in difeſa diſe , e de'ſuoi maeſtri compoſta,volle, che per ciaſcun ſi leggeſſe: femper licuit omnibus literarum profefforibus non folum con P 2 ( 1 ) Ferdinando Caſſani, t tra 116 Ragionamento Seconda tra recentiores medicos , & Philofophos ,ſed etiam contra Gao lenum ipfum , &Platonem , alioſque illuſtresfcriptores dice re , fi quando ratio dictaverit . Seguiron poi con la mede fima libertà ſempre Girolamo Polverini, Quinzio Buon giovanni , e Latino Tancredi,huomo, come dice Sertorio Quattromani, di molte lettere , e di molto giudicio , e gran difenſore della dottrina del Telefio . S'allontanò altresìda gli antichi talora ſalvo Sclani , e Mario Zuccari, il qual co sì forte , e vigoroſamente riprende Galieno nel giudicio che colui diè intorno alla malattia d'Erofonte : ed altrove sì ardicamente , che nulla più , e come ſuol dirſi, a ſpada tratta prende a difender il coſtume de’Napoletani , intor no al cibar gl'infermi, contro i più valoroſi Campioni, ch' aveſſer mai le dottrine d'Ippocrate, e di Galieno ritenute. Ed a' di noſtri abbiamo pur veduto Giovan Battiſta Ma fulli , Antonio Santorelli , e Girolamo Fortunato , il qual tutto ciò , che nell'opere d'Ippocrate , e di Galien fi riſer ba , sì fattamente per le maniavci , che non v'era forſe parola , di cui improviſo domandarone non gli veniſſe to ito a memoria ; e nondimeno tanto , e sì fovente ove gli pareva , cheragione il richiedeſſe , coſtumava egli a rim beccar l'antiche , e comuni opinioni , che per tanto a' Ga lieniſti tutti n'era in uggia , e crepacuiore: e ſofina , e cavil Joſo ſempre chiamavanlo . Ma ben comprendelí l'animo fuo libero , dal libro , ch'e' compoſe de’principi delle coſc naturali , ed in quello ancora de ſenſi ,il quale egli ſotto nomc d'un ſuo ſcolare mandò fuora . E dietro alle ſue ver ftigie poi non guari lontano andar mirammo Onofrio del Riccio , huomo veramente per vivezza d'ingegno , e per dabbenagginc d'animo , tenuto fommamente caro dalla Città tutta . Ma perchè addietro laſcio ora Io Paolo Emilio Ferrilli della nuova , e della vecchia medicina parimente inteſo , e di ciaſcuna di effe egualmente libero profefforc ?il qual da' fuoi lunghi viaggi , e pellegrinazioni tante, e sì fatte forti di nobili, e cari medicamenti alla patria riportò , che ben volentieri a pro di ciaſcuno le botteghe tutte degli ſpeziali 1 1 * cor Del Sig. Lionardo di Capoa. 117 corteſeméte arricchiune. E dove lo trapaſſo ſotto ſilenzio ingratamente aſcoſo il piùſovrano pregio , che aveſſer mai le noſtre ſcuole , il dottiſſimo Marco Aurelio Severino , il qual non ſolo , ſe miglior Chimico , o medico, e ſe più va lorofo in fiſica , o in cirugia, e ' li foſſe . Egli animoſamen te ſeguédo l'orme del famoſo Giulio Azzolini ſuo maeſtro : anzi oltre affai più gittandoſi , in favellando , ed in iſcrivé docon filoſofica libertà ripigliò Galieno , e gli altri anti chi , e nelle noſtre ſcuole tante fiare , e tante fè conmae ftra mano chiaramente vedere paleſi, e manifcfti agli oc chj di tutti i ſolennillimi falli, che iGreci , egli Arabi , ei Latini lor ſeguaci nel notomizare i corpi aveano in prima commeſli. A bello ſtudio poi non fò lo aleuna menzione quì di Baſtian Bartoli , non avendo huom , che non ſappia , che tra'vantaggi fuoi maggiori ei ripoſe il goder mai ſem pre , e valerſi d'una sóma libertà nel filofofare , colla quale egli conſumò l'impreſa d'un novello filtema di medicina. Ma che tanto infra i lettori Napoletani andarmipiù rav . volgendo , ſe tutti i maeſtri delle noſtre ſcuole da Diego Raguſi in fuora , che ſaldi , & interi i ſensimenti d'Ippo crate mai ſempre ſeguir volte, il qual pure, così in queſto, come in altro non ſi vide ſecondar nella ſteſſa maniera poi Popinion di Galieno , in ciaſcun tempo conformaronſi se pre con l'uſo del noſtro comun medicare il quale quanto dalla dottrina se da' ſentimenti d'Ippocrate , cdiGalieno s'allontani , avvegnachè il contrario comunemente fi giu dichi , agevolmente può da ciaſcun ravviſarſi . Ed Io ,per chè di più non mipermette il tempo , daronne al preſente qualche breviſſimo ſaggio . E percominciar con qualche ordinato diviſamento , manifeſta coſa è , che gli argome ti maggiori , de'quali fornir ſi vuole la medicina , s'ella mai di giugner intende al ſuo laudevot fine d'approdare il genere umano, per comun ſentimento di tutti più ſaggiIp pocratici , e Galieniſti ,a tre capi quali tutti, principalmen te fi riſtringano , nella Dieta , nella Cirugia, e in quel,ch' appreffo iGreci chiamaf; Φαρμακευσης . Intorno alla Dieta quanto da' due Greci Mae ſtri 118 Ragionamento Secondo 1 ſtri i Napoletani medici fian diſcordanti , dicalo ir mia vece quel famoſo Galieniſta Melaneſe Lodovico Set tala , (1 ) fuerunt , dice egli,quiprimis tribusfaltem diebus, aut inedia , aut tenuiffimo vietu laborantes exficcabant , pro grelu autem temporis cibos tum in forma, tum in quantita te adaugebant ,quos Galenus in lib. method. med. pluribus in locis exagitabat. Hanc cibandi rationem fervare intelli go Hiſpanos medicos, Neapolitanos. Narra egli minuta mente il modo daʼnoſtri Napoletani tenuto nel cibare gľ infermi; indi poichiaramente dimoſtra eſſer ciò affatto con trario agli inſegnamenti d'Ippocrate, e di Galieno ; la qual coſa aſſai già prima del Settala avea un de'famoſi maeſtri del paſſato ſecolo , Paolo Tucca avviſato ,così nel la ſua pratica del medicar Napoletano dicendo,fciendum , quod longediftat modus dietandi Hippocratis, Galeni, & Avicenna , ab eo quem obſervamusdiebusnoftris. Illi enim principes voluerunt in febrium principio craſſiusfore reficien dum : in ftatu vero , aut nihil offerendum , aut tenuiſine dietandum . Nos vero quaſi oppoſitum obfervantes in ftatu reſumptive , in principio autem alternative cibamus. Ma da Paolo Tucca in poi non può di leggier crederſi quanto vie più da Ippocrate , e Galicno in cibar gl'infermi ſianli i noftri medici dilungati, e ciò fu cagione di quella famo fiffima difeſa , che ancora va per le mani de’letterati , fatta a pro di Giacomo Bonaventura medico di Cleméte VIII. contro Mario Zuccaro, già in queſto noſtro ſtudio lettore per Maſſenzo Piccini da Lecce. Ma non che nella quantità , e nel tempo co'due Greci maeſtri i Napoletanimedicimanifeftamente conſentano , anzi nel modo ancora , e nella qualità de'cibi ſopratutto da color fi partono , di tutt'altrevivande nutrendo gli in fermi , che diquelle , che da’lor venerandi maeſtri ne fuz rono in prima ne’loro libri diviſate.E dove di grazia ſono ora l'acque melate , e l'orzate, e altri ſomiglianti beverag gj, cotanto da'Greci commendati, certamente in lor luogo i brodi di polli , e le peſte carnidelle galline nella noſtra Cit 1 (1) In comment.in problemat. Ariftot. Del Sig.Lionardodi Capoa. 119 ye Città ſi coſtumano.L'orzata , dice una volta Ippocrate ( 1) di ragion mi pare, ch’alle vivāde di fermēto ſia da antiporre, e lodo coloro , i quali l'antipongono. Iltocáva refü šv douée oefãs ποκεκείσθαι των σιτηρών γευμάτων εν τετέοισι τοϊσι νοσήμασι και εποι vÉo To's asforgivavtas . Ed altra volta dice , eſſer l'orzata oltremodo valevole ad umettare , e perciò a' febbricitanti recar grandiſſimo giovamento;a’quali ſecondo i fentimen ti di lui medeſimo, l'umettativo cibo è sépremai convene vole ed allo incótro le carni tutte nocevoli.E l'altro Greco maeſtro Galieno ( 2) oltremodo berteggia, c proverbia Pe trona,aſpraméte rimproverādogli, che agliammalati ſuoi có lor no poco nociimento concedeſſe le carni. Perchè ma nifeſtamente ſi comprende, i Napoletani medici irrorno al nutricar gl'infermi , anzigli ammaeſtramenti di Petronas , che que' d'Ippocrate (3) o di Galieno (4) feguire . Così è da dir, che le brodadelle galline non ſian da dare agl'in fermi di febbre, conciosſiecoſachè quelle al parer d'Ippocrate , e di Galienio abbian certamento vigor di ritenere, e di ſtrignere , dove l'orzata, ſecondo i ſentimenti di coloro, è mollificativa , e mezzanamente umoroſa ,ne punto riſtri gnente , perchèqueſta , c non quelle a ' febbricitanti ra gionevolmente dar ſi vuole . Ma che direi noi del vino , che da’Napoletanimedici , non altrimente , che ſe toſſico foffe ,a ' febbricitanti ſi victa ? e di Galieno fir pur dato ad un'ammalato di febbre acuta , e come egli ne narra, di cal do , e ſecco temperamento ; anziegli manifeſtamentene conſiglia , e ne conforta , che inzuppandovi il pane ſi dia , mangiare a'febbricitanti , anche talvolta nel comincia mento delribrezzo . Ne è già mio intendimento al preſente di dar giudicio fopra si futre quiſtioni, o ſopra tutt'altre , ch'io qui rap porti ; ma ben ſolamente dico, ſembrarmi agevol molen , e piano il coſtumedel cibar Napoletano ; e che null'altro , che dappoc.iggine, e vaghezza di riſparmiar fatica l'abbia in pri (1) lppocr . nel lib.i.della dieta (2) nel com . 1. fop. il 2.11b.della diesa ne'male Atw8. (3 ) nel s . della dieta. (4) nel 1.lib . della facoltà de'med.Jemplo I20 Ragionamento Secondo in prima a'neghittoti Cittadiniportato , traſandandoſi co sì pian piano, ed abbandonandoſi quel d'Ippocrate , e di Galieno, che malagevole affai, ed intralciato a’beſci uc celloni medici delbarbaro ſecolo ſembrava. Iinpercioc chè , licome il primo de'Greci maeſtri dice , ( 1 ) e l'altro il conferma ( 2 ) eragione il richiede , dee il ſaggio ,ed avve duto medico in prima ben avviſare quanto egli per durare il mal Gia ,ed in ciò gli argomēti tutti del ſuo ſottiliſſimo in tendimento adoperare. Il che quanto ſia malagevole a certamente comprendere , ſenza reſtarne talvolta da' ſuoi avviſi ingannato , ciaſcun da per se baſtantemente , ſenza ch'io divantaggio gliele inſegni potrà ravviſare . E ciò ri chieſero ne'medicique’due maeſtri, acciocchè nelle brevi malattie debba ſempre con iſtrettiſſimo cibo nutricarſi l'a malato , e nelle men brevi non così coſto da prima gli fi menomi a ſpiluzzico , onde poi nel maggior avanzo del male ne venga debole , e ſpoſato , e ſenza poterſi con ar gomenti ajutare; ma pian piano riſtrignendogliele, poffin poi il medico nel colmo della malattia maggiormen te ſcarſeggiando , poco , o nulla concedergliene . Intorno poi alla Cirugia cgli è duro molto a credere , quanto da ſentimenti d'Ippocrite , e di Galieno , il medicar di Na poli ſia lontano. E laſciando da parte ſtare come quì ſu bitamente, e ſenza conſiderazion niuna in ciaſcuna febbre fi coſtumi cavar ſangue,contro il proponimento d'Ippocra te , anzidi tutt'altri medici del ſuo tempo , o più antichi , i quali , ficome narra il Cardano:in febribusnon folebant mit tere fanguinem ,etiam ardentifimis; ora cavaſi a giorna te il ſanguenella noſtra Città, non ſolamente a’vecchi, e deboli , ma eziandio a'bambini di latte , e talora anche a' ſoſpettidileggeriſſimi mali; quando tutto il contrario di ce Ippocrate : Τα δ' οξέα πάθεα , φλεβοτομήσεις, ήν εαυρον φαί γηται το νούσημα, και οι έχοντες ακμάζωπ τη ηλικία, και ρωμη πανή aúrtorw . Ma negli acuti malori cavarſangue fi dee ove fire grande il male , e l'infermo giovane fia ,e ben gagliardı, e vi goroſo. Il che richiede anco in molti , e molti luoghi Ga ( 1 ) ippocrate nit lib . 1.degli Aforij.nell' A or.7.8.9.10 . ( 2 ) Gal.nel Com . * lieno DelSig.Lionardo di Capoa. IZI lieno ( 1) in un fra glialtri dicendo : si péya zo voonud reordea κoίημεν ειναι και η παρον ήδη θεoρoίημεν , ή αρχόμενον επισκεψάμενοι την ρώμην της δυνάμεως έξελούντος του λόγε μόνατα παιδια .. Dunque ſe noi temiamo non avvegna qualche gran malattia, oſe pre Jente quella già ,o pure in ſu'l cominciar fia ,avědo ben prima le forzedell'infermoconſiderate,aprirem poſcia la vena :So lamente da queſto divifamento i fanciulli riſerbădone. E po ſcia egli medeſimo l'età preſcrive., ove da prima i fanciul li ſegnare fi poſſano , dicendo (2 ) , che non ſi debba no aprir le vene a' fanciulli , intin , che giungano all anno quattordiceſimo . E altrove ( 3 ) anche dice , che ſe le forze di colui , che ammalerà di febbre per putrefa zion d'umore,nel lor vigor dureranno , toito come coinin cierà ella a farſi vedere gli ſi converrà cavar ſangue : ſolo , che non abbia crudità nello ſtomaco , e l'età 'l conſentiſca, e le forze ſien robuſte ; perciocchè altrimenti aon gli fi dee in modo alcuno aprir la vena. E quindi poco appreſſo ma nifeſtamente ſoggiugno : che ſe l'infermo farà bambino , o non giunto ancora all'anno quattordiceſimo,non gli fica coſa delmondo ſangue. Ne ſon da tralaſciare quel l'altre parole del medeſimo Galieno ; le quali molto al no ſtro propoſito ſi confanno:ove ſpiegando tutto ciò , ch’al falaffo richiedefi cosi dice : ( 4 ) δεύτερG- σκοπός της φλεβότα μίας εςιν , ει ακμάζει καλά την ηλικίαν οκάμνων» ούτε γαρ παίς , ούτε γέ έων , φέρει την φλεβοτομίαν , ουδ ' αν μέγα νόσημα νοσώσιν. La fecd da cofaze che ſi richiedenel dover trar ſangue fiè,cheguardar fi deeſelámalato ſia giovane perciocchène i făciutli,ne i vec chiSoſtēgono ilfalaſſo,avvegnachèpur gravefase di riſchio la malattia , che loro dea noja : E tralaſciando di rapportare al triluoghi , ove ſempre il medeſimo, e'grida , e ripete, di rem ſolamente de'tempi , ch'egli giudica al ſalaiſo oppor tuni: mentre che in Napoli , ſenza alcun riguardo alle troppo freddo, o troppo calde ſtagioni avere , cavaſi co munemente in ogni tempo ſangue da Galieniſti, a' troppo .crcduli , e mal conſigliati infermi; i quali iinınaginano,an Q zi fer ( 1 ) Gal.della maniera del curare col falafo. ( 2 ) aelmed.luogo ( 3 ) nel mes. ( 4) nel.com.ſop.illib d'ippocr.della Dieta. vi per . 122 RagionamentoSecondo zi fermamente credono venir medicati ſecondo le regole di Galieno , e d'Ippocrate. E pure i noſtri medici nulla ba dano a’rigoroſi divieti di coloro , e maſſimamente di Gaa lieno (1) il qual vuole , che oltremodo ſi debba dal medi. co aver riguardo al temperamento dell'aria ,ch'ella non ſia eſtremaméte calda , e ſecca, ſicome è infra'l tépo del naſci méto del cance dell'Arturo ;e ravviſa egli , che tutti colo rosa'quali i medici nulla alle ſtagioni badado, traſfer fuora del ſangue , irreparabilmente morirono . Così vuol Ga lieno ancora che nelrigor del verno,ſia molto da temere il falaſſo, e dice effer manifeſta coſa , che da ciò molti, e gra vi pericoli ſeguir ne poffano . E perciocchè egli ſtima va eſſer ciò coſa di grandiſſima conſiderazione , dopo tan to , e tanto manifeſtarlaci , di nuovo con queſte parole la ci perfuade:( 2 ) πτoσθήσω δε ένεκα του μηδεν λείπειν , τον από του περιέχον ημάς αέρG- σκοπών , όταν η θερμος ικανώς και ξηρος , ως διαφορεΐσθαι ταχέως υπο του που το σώμα τηνικαύζ γαρ αφισάμεθα της φλεβοτομίας 4 και μέγα το νόσημα , και ακμάζων ο άνθρωπG- άη - Ma acciochè nulla vi manchi , aggiugnerò quell'altra coſa , alla quale è di meſtieri averminutoriguardo,cioèa dire l'a ria , che ne circonda : e guardare s’ella fia sformatamente calda, e fecca , intanto , che molto ne venga a ſvaporare , ed sfalare il corpo ; imperciocchè allora di ſegnar ci rimarremo: comechè graviſſima ſia la malattia , e l'huom per tofa , e robuſto . Ma no meno i Napoletani medici nel trar fangue avvifan punto ſe la compleſſion del corpo ſia fie vole , o vizzi , graffa , o ſcialba, nelle qualiſecondo il lor Galieno , avvegnachè grave infermità il richicgga,o nien te certamente , o molto poco fangue è da trarre ; ma nien te in verità poi ne ſecchereccidella ſtate . Ma egli è omailuogo da tralaſciar per iſtrettezza di té po altre condizioniper Ippocrate, e per Galieno , al ſalaſ ſo richieſte , alle quali o poco , o nulla mai i Napoletani medici riguardar fogliono.Finalmente trapaſſando al ter zo ftruméto della medicina chiamato da Greci Maguáxeu ois dimoſtrerem brevemente, come ne precedenti abbiam ( 1 ) nel 1.lib.dell'arte curat. A Glaucone. ( 2 ) nel com. 4. fop. il lib. della Dieta. altro vigo mani DelSig.Lionardo di Capoa. 123 manifeſtato, quanto i Napoletani medici in adoperarlo ſom gliano da Ippocrate , cda Galieno allontanarſi . Eglino in priina molti , e molti medicamenti coſtumano , che da Ippocrate , e da Galieno ne inen per nome conoſciuti già mai furono ; ficome ſenza dubbio veruno son la Callia , i Tamarindi, il Riobarbaro , la Siena , la Scialappa,ilMec ciocano la Gottagomma , la China , la Salſa,ed altri aſſai , che per eſſer ben conoſciuti, e per non recarvi noja al pre fence tralaſcio . Le compoſizioni poi deʼmedicamenti nelle noſtre bot teghe introdotte, ſono il più ,o dagli Arabi tratte , o da gli Ermetici filoſofanti; ina quel, ch'è di maggior conſdera zione nell'uſo de medicamenti puganti ſi è , che i noſtri medici Napoletani,laſciati da parte , ed abbandonati af fatto i due Greci maeſtri,van per diverſe tracce cammina do , ſenza ritegno, o ſcrupolo niuno di purgar audaciſfima mente in ognitempo , in ogni diſpoſizione di ſtagione , in ogni età dell'infermo, e in ogni ſtato di malattia:e purga do eziandio i corpi ſani, con far credere alla ſemplice , e credula gente , che cosìvoglia Ippocrate , e che così co mandi Galieno ; imperocchè ingeneranſi continuamen re in noi vizioſi eſcrementi, da dover con gli argomenti delle purgagion continuo anche vuotare . La qual nuova coſtuma, quanto da Ippocrate , quanto da Galieno ſia ri provata ben ſi comprende da ciò , che Ippocrate una vol ta dice: φυλάσσεσθαι δε χρή μάλιστα τας μεσολας των ωρέων τας μεγίτας και μήτε φάμακον διδόναι εκόντος.Βifogna minutamire ri guardare alle grandi mutazioni de'tēpijacciocchè in quello no s'appreftino di leggieremedicamenti agl'infermi. E'l medeſi moIppocrate nó guari appreſſo , cosi parimétedice : jiti κινδυνόλαι ηλίκ τζοπαί αμφότεροι, και μάλλον θεριναί • και ισημερινα νομιζόμεναι είναι αμφόπραικαι μάλλον δε αι μετοπωριναί • δά δε και των άτρων στις επιταλας φυλάσσεσθαι , και μάλιστα τα κυνός· έπειά αρκλέρη, και επί πληϊάδων δύσει • τε γαρ νοστύμα μάλιστα εν ταύτησα τησαν ημίρηση κρίνεται και τα μου απο φθίνει , τα δε λήγα , τα δε άλα πάνω jebésalom és ÉTELOV GÒ Qu, weg,étépnu xatásamov • Pericolofifuno amē, Q.2 due i ' 124 Ragionamento Secondo 1 1 due iSolſtizi ; eſpezialmente quel della ſtate; pericoloſo ale tresì l'uno, e l'altro equinozio ; ma quel maggiormente dell' Autunno . E biſogna ancora aver riguardo al naſcimento delle ſtelle,mafimamentedella Canicola ; quindi altramon . sar dell'Artaro, e delle Pleiadi; imperciocchè le malattie in queſtigiorni più, che in altriſi giudicano: altre morte recan do , ed altreſvanendo, o d'uno in altroftato facendo paſſag gio . E Galieno in altro luogovuole , che anche a ' tempi troppo caldi , o troppo freddipormente ſi debb.2 ; che lè'l temperamento della ſtagione, o del luogo ſarà qual'eſſer dee’del tutto ce ne terremo; ma ſe talnon è , purgheremo sì bene , ma molto meno di quel che faremmo, qualora ne l'un , ne l'altro il ci vietaffe . E del tempo della ſtate egli dice (1) confermando il detto d'Ippocrate , che ne'gior ni caniculari, cd avanti di quelli, malagevole , e danno ſo ſie l'uſo de'medicamenti purganti . E parimente in un' altro luogo ( 2 ) egli dice , che coloro , i quali, o per crudi tà, o per altra qualunque cagione accolgono abbondanzas di non cotto umore , oche più dell'uſato averanno gonfio, il ventre , e'l corpo tutto ingroſſato , non ſofferiſcono pur gagioni. Egli vuole altresì Galieno , che que'febbricicá ti, i quali abbondano d'umori crudi , che moleſtan loro lo ſtomaco , non ſi debban ne ſegnare ne purgare : A niun di coſtoro , ſono le ſue propie parole , e' fi fuole trar ſangue giammai , chenon gliene provengagraviſſimo danno,e come chè a lor faccia meſtieri la vacuazione, nonpoſſono nientedi meno eglino tollerare, ne le purgagioni, ne i Sala, fe fenza queſto ſincopizzanti pur fono : (3) éx' Sevd's twv Toroutwv cipecto της αφαίρεσης άνευ μεγίσης έωθε γίγνεσθε βλάβης· και τσι δέονται γε κενώσεως • αλ ' έτη φλεβοτομίαν , έτε κάθαρσιν φίρεσιν εύγε , και καρλς Tobrwv étaipuns ougróMorlar. Ed un'altra fiata egli medefimo dice, la ſoſtanza de' fanciulli infra l'altre tutte agevoliſſi mainente digerirſi , e diſliparſi; eſſendo ella ſopra tutte maggiorméte abbõdevole d'umore,comechè meno fredda ella fia : ma però men di purgagione aver biſogno, perchè da ſe medeſima ella vuotar li ſuole . Ed altrove ancora ma 1 (1) nel 14.lib . del metod. (2 )nelmetod,allib.9 .(3) nel met, al lib.12. 1 nife Del Sig.Lionardodi Capod. 125 nifeſtamente inſegna,che'l vuotare i ſoperchj umori, che nel corpo continuo ne s'ingenerano , non è di giovamento alcuno alla gente ; anzi le alcuno per temna, che l'abbon danza degli cſcrementinon gli noccia , voleſſeſi avvezza. re a purgarſi una , o due volte il meſe , oltre al manifeſto nocimento , che gliene fiegue, prenderanne il corpo una dannevole , e peſſima uſanza . Ma ſopratutto , quanto al purgar gli umori nelle malattie , i quali abbian dicocimi to biſogno , da’ſentimenti d'Ippocrate , e di Galieno ina nifeſtamente ſi partono i noſtri medici ; quantunque a tut ta lor poſſa con belle parole di dare a divedere altrui il contrario ſempre s'argomentino . Ne lo prenderom mi troppa briga di dimoſtrar ciò con lunghe , e ben’ordi nate ragioni;ma baſtcrammi ſolamente le parole d'Ippo crate , edi Galicno rapportare , acciocchè da quelle per ciaſcun comprender baſtevolmente ſi poffa , quanto nella crudità degli umori, onde cagionaſı il male,da coſtoro sé pre i medicamenti purgativi vietar fi fogliano, ſalvo,che radiſſime volte , e nel principio di quellemalattie , che có enfiamento cominciano . Ilmaeſtro di Galieno , e de' Ga lienifti, per quel ch'eglino tutto dì dicano,fipare , che ne ſuoi Aforiſmi , ne’qualibrievemente , quanto mai di buo no, o ſcritto, o oſſervato negli anni tutti della ſua vita egli mai aveſſe riſtringa , una cotal co ? a con una general pro poſizionenediffiniſce ; colla quale quanto altrove ne dice tutto conformaſi , anzi quindicome conſeguenza ſi cava ; la qual coſa è sì chiara , e manifefta , che di vantaggio più manifeſtar non ſi può; perchè a confeſſarla per verail me deſimo Vittorio Trincavelli,non che altri funne coſtretto , oftinatiſſimo diféditore della cótraria fentéza.Egli aduque ( 1) così dice ; ab hoc aphoriſmo cæteri omnes , qui huc fpe ctant , tanquam corollaria deducti ſunt : ed oltre a ciò ſog giugne : ita ut nullam aliam exceptionem admittat, niß eam quam ipfe expreffit : quum morbusturget. Ed è l'Afo riſmo, il qual da Galieno,oracolo fù chiamato una volta, cosi ( 2) Le materie cotte purgare , e muover fi debbono; mas, non ( 1 ) del confer.la fan.nellib. 4. (2) nell'afor. 22. dellib . 1. - 126 Ragionamento Secondo 1 . non già le crude ; nemica nel cominciamento; ſe nonſe allor , che turgidefono,malepiù volte turgide non ſono : Témava Pago μακεύειν, και κινέαν , μη ωμα, μηδε εν αρκήσιν , ήν μη οργά • τα δε πλά sve oux ogy : Intorno alla qual voce opgør mi par doverſi cô . fiderare , che in queſto luogo appreiſo Ippocrate altro non dinoti , che diſiderar ferventisſimamente , e con impazien za ; ed avvegnachè non men dell'animate, che delle inani mate coſe dir ſi ſoglia , tuttavia più acconciamente agli animali ella conviene , ſecondo il ſentimento di Galieno,il qual forſe da Ariſtorile ( 1 ) appreſo l'avea . E diceſi di quegli animali ,che tratti da iinpetuoſa foga di libidine ſtā no in ſucchio , e come diſſe Virgilio In furias , ignemque ruunt: quindi preſeli la metafora degli umori nel corpo uma no , i quali avidi di fcappar fuora,ſtrabocchevolmente , e con impeto , diparte in parte ſi muovono , non laſciando aver punto di ſoſta al povero ammalato . Ma noi , avve. gnachè diſcorrimento , o foga più ſaggiamente da dir ſia , o enfiamento , o pure con nuova voce alla noſtra lingua Turgenza , o Turgidezza: dal gonfiare , o ſia enfiare,e dal turgere diciamo ad imitazione dique'valent’huomini, che nel latino linguaggio‘l'opere d'Ippocrate , e di Galieno traportando,preſero la voce turgere : onde poi novellame re ne diramaron quell'altra Turgentia , ad orecchio latino de'buonitempinon mai più per quel,che mi paja per l'ad dietro udita : gonfie , e turgide parimente chiamiamo, quelle materic , che a si fatto movimento ſoggiacciono ;ed in verità gli umori , che’n tal guiſa ſi muovono, ſi formen tano , ſi rarefanno, egonfiano. Ma alla coſa ritornádo: queſto Aforiſmo appunto cófer mafi per quell'altro ( 2 ) Nel cominciamento delle acute ma lattie di rado lepurgative medicine da uſar ſono : e ciò con diſcreta avvedutezza ſide'fare : iv Toirov ožico maderav énezaéxus εν αρκήσι τησι φαρμακείοσι χρέεσθαι , και τούτο πξοεξευκρινήσαν τις sterkev. Per la qualcoſa avendo egli in priina avviſato , che folamente quegli ammalati da purgar fieno , ne' quali liu mate ( 1 ) nel lib.o dell'iſtoria degli animali : ( 2 ) nel 1.degl' Aforiſmi. ( Del Sig . Lionardodi Capoa. 127 materia , onde il mal s'ingenera , ben cotta , e digerita ſia , fe pur quella non turge , è che rade volte ciò avviene; e ritrovandoli nel cominciamento di tutte le malattie mai ſempre cruda,e non digerita la materia: fiegue di neceſſità, che rade volte in ſu'l cominciar delle malattie, fieno gl’in fermi da purgare. Ed è pur piacciuto ad Ippocrate , ſcar ſo altrove di parole , enegli aforiſmi ſenza fallo ſcarſiſsi mo , e riſtretto , oltre ad ogni ſuo coſtume quivi la mede fima coſa avvedutamente ridire,acciocchè per tutti i me dici l'importanza di sì grave precetto avviſar ſi debba , ed apprender quanto quello lor faccia di meſtieri, e di riſchio fia a travalicare . Etali Aforiſmi con avvedutezza non or dinaria chioſando poi Galieno ,oltremodo ciò ne impone , e ne accomanda: e sempre, che egli di tal biſogna impren de a dire , toſto a quelli ne rimanda,comea faviſſīme nor me , che il tutto intorno a tal materia perfettamente con tengano . Ed avendo in un'altro Aforiſmo Ippocrate parimente detto ; ne'mali oltremodo acutifon da purgare il medeſimo giornogli ammalati, ſe vi è gonfiamento ; concioſiecofachè allora l'indugiare è dannoſo affai( 1) Papuaxetes , év toñosning οξέσιν , ήν οργα, αυθημερον• χρονίζαν γαρ εν τοϊσι τοιούτοισιν , κακον Galieno però vuole , ed eſpreſſamente n'impone , che an che in queſto caſo dell'enfiamento , il che molto di rado 'avvenir fuole , vi s’abbia in prima ben bene a riguardarc, e penſare , cioè con tal riguardo,e ritegno adoperare , che nulla più : ne meno ove fia enfiamento purgando, ſe il cor po valcvol non fià a ſoſtenere il purgamento ; perchè aj tal propofito Galieno dife ( 1 ) ώς τ' ευλόγως ολιγάκις εν τοις οξίσιν νοσήμασι κατ' αρχάς γενήσεξι ημϊν χρώα φαρμάκων , τω μήτε πολάκις οργάν εν αρχή τους λυπούνας ,μήτε , ά και του υπάρχει και του κοσουνίG- αν επιληδεία προς την κάθαρσιν όντG- , αλα μηδέ καιρών ημίν παρέχοντG- επιτήδειον παρασκευάσαι. Per la qual cofa nelle acute malattie ragionevolmente operando, di rado , nel prin cipio impiegheremo noi purgative medicine ; concioffiecoſachè gli afflittivi umori , nel principio le più volte, ſtuzzicati non fieno , (1 ) nel lib.di que'che convien purgare . 128 Ragionamento Secondo fieno , e potrebbe intervenire altresì , che ove eglino fienosi fattamente ſtuzzicati , allor non foſelo infering a fojtener la purgagione adatto . E più addietro , de' medelimi umo. ri favellando avendetto: τους ούν τοιούτος εκκενούν πξοσήκες , τε τέσι τους εν κινήσει , και φορά, και ρύσι • τους δε καθ' έν πμόριονεσηεγμέ νς,ούτ' άλω πνι βοηθήματα χρή κινείν, ούτε φαρμακεύειν , πζίν εφθή . ναι : τηνικαύτα γας και την φύσιν έξομεν βοηθούσαν . Αdunque con venevol coſa è , che cotali umuri ſtando in continuo moto, e diſcorrimento , e fluffo, fi vuotino ; ma que' , che in qual che luogo del corpo giä ſi ſon fermati, ne con argomento alcu no , ne con purgativa medicina damuoverfono, anzi che fieno ben digeriti ; imperocchè allora anche la natura dello infermoalla purgagione fauorevole auremo. Ma il principio delmale , ficome ne inſegna Galieno , prendeſitalora per lo primo aſfalimento , o quando da prima comincia a chiocciar l'ammalato ; altre volte anche inſino a’tre primi giorni ; e aſſai ſovente per tutto quello ſpazio di tempo ,nel quale niuno affatto , o troppo debi le , e oſcuro ſegnal di cocimento ſi pare . E'l gravamento , o accreſcimento del male liè , quando manifeſtamente il cociinento , o pur ſegnia ciù contrarj ſi ſcorgono ; e dura finattanto , che alla dovuta perfezione il cocimento ridu caſi ; per la qual cofa allora maggiormente le moleſtie , e le noje degli ammalatiad accreſcer ſi vengono . Ma il gó fiamento avviene, o toſto, che alcuno ad ammalar comin cia , o non molto indiappreſſo , cioè nel primo, o nel ſeco do giorno , ſicomc par , che in più d'un luogo avviſi Ga licno . Ma ritornando al tempo delle purgagioni : ſo ben’In , non eſſer paruto ſaggio a Galieno il diviſo di colui, che volle,non doverſi porger giammai le purgagioni, anzi de' primi tre giorni : ma ſi ben dopo il quarto , a coloro , che patiſcono ſcorrimento di ventre ; il qual parere egli ri provando, conchiude così dicendo : Egli adunque è di meſtiere, che non già dopo il terzo giorno fi pergano imedica menti , ma ficomediceapertamente l'aforiſmo( 1) Negli acu. 11 111.1 (7) L’Aforij.24.ditlib.i. ' DelSig.Lionardo di Capoa. 129 - ti malori di rado,e nelprincipio dobbiam delle purgagioni va lerci. E perciò ci biſogna diffinir la coſa giuſta la mente de gii aforiſmi, ed inveſtigar ove abbiamo a purgare in fulprin cipio, ed ove abbiamo ad attendere il cocimento del males. Imperocchè fe alcun determinerà ſolamente nel principio , o non iſtabilirà alcuna delle parti , rimarràſenza fallo ingan κato . πτοσήκεν ουν ούχ ως πανώ μεία τας ταϊς, αλ' ώσπερ ο αφορισ μός εςι τοϊος • έν τοϊς οξέσι πτέθεσιν ολιγάκις , και εν αρχίσει τησι φαρμα κίησι χρέεσθε , και χρή καλα τους αφορισμους διορίζεσθαί τε και σκέλεσθε, πότε κατ' αρχάς έξι χρησέον τη φαρμακείη , και πότετην πέψιν αναμείναν . τιτε νοσήματος. έαν δε πς ήτοι κατ' αρχάς είπoι απλώς , και μη διορισάμε . ν ©· , εκάτερον σφάλετε: Adunque per Imanifefto fentimento d'Ippocrate , c di Galieno , di rado nel cominciamento delle acute malattie da inuover ſono gli umori, e nell'avā zo non mai , ma ſolamente,facendo di meſtiere, nello ſce mo del male . E ben ſaggiamente troppo , ſecondo che ad huom paja , in tal biſogno ſpeſe più lunghe parole l'av vedutiſſimo Ippocrate più , e più volte i medeſimi ſen timenti divilaudonc ; imperocchè egli avviſava graviſ ſimno danno dal muover gli umori crudi dover certamente ſeguire . Perchè altrove favellando egli di que' , che pur gano nel principio dell'infiammagioni: il che Galieno nel comento vuol , ciic s'intenda anche , di que' tutt'altri mali , chedagli umori procedono :dice , che per coſtoro nulla dal luogo offeſo certamente ſi vuota , non mai cedé do alla forza del medicamento , ciò che ancora è crudo ma per lo medicamento debilitanſi, e ſciolgonſi più coſto quelle coſe , che ſane eſſendo , al inal contraſtano , per chè infievolitone il corpo , agevolmente farà dal mal ſo verchiato, ed abbattuto : ne potràricoverarſi più mai per argomento alcuno » ο κόστ δε τα φλεγμαίνον εν αρχή νόσωνευ θέως επιχορέασι λύειν φαρμακη και του με ξυνεταμένου , και φλεγ μαίνοντG- έδεν αφαιρέσον • γαρ ενδιδοί ώμον εον το παθG- , τα δε αντί . χον% τω νεσήματα και υγιεινα ξυντήκασιν ασθενές- δε του σώματG- κνο μένα το νούσημα επικρα ]έι · οκόταν δε ονούσημα επικρατήση του σώ μας το τοιόνδε ανιάτως έχα. Ma ſe ciò per buona ventura dell' ammalato pur non R gliene 139 Ragionamento Secondo 3 gliene liegue , non per tanto certiſſimi danni, ed irrepara bili avvenir gliene debbono; e ſe non altro , certamente gliene andrà alla lunga il male , e ſconvolgeraſli il giudi cio , che ſopra quello da dar era ; ſicome non una, ma più fiate Ippocrate ,e Galieno ( 1) pienamente ne dimoſtrarono. Ora quì , chi non iſcorge allai chiaro , che minorar ſecon do Ippocrate , e Galieno non mai li puote la cruda mate ria , come beſtialmente ſi perfuadono i noſtri mcdici; i qua li tentan ciò fare colle ininoranti , che lor dicono,medici. ne . Ma comechè in ciò grandiſſima arte , emalizia ado perar ſogliano coloro , che ſon di contrario ſentimento , p coprire , e naſcondere al Mondo, la manifeſta lor ribellio nca’maeſtri ; pur non fanno sì fare , che da ciaſcun non li conoſca , e non ſi ſcopra la ragia , onde ne reſtin poi vergognoſamente dinnentiti , e convinti; così ſciocche ſon le chioſe , eicomenti , co' quali ſi ſtudiano a tutta lor poſſa d'inviluppare , e travolgere gli apportati Aforiſ mi , e con lor ciance far calandrini , non ſolo la volgare , e cieca gente , Cheficrede ogni coſa, che l'è detto : ma col volgo ancora que'letterati , che poco , o nulla a sì filtre coſe ,avvegnachè digrandiſſima conliderazione , ſo glion badare . E certamente non poſſo non maravigliarmi forte della lor tracotanza : ſe così poco, o nulla eli riguar dando alla ſtima di sìvenerandi maeſtri , ad ogn'ora così vituperevolmente gli beffano . Perciocchè volendo coſto ro, che nella copia grande , nella malizia , e nella ſorti gliezza degli uniori, e ſomigliantemente ne'caſi di confi derazione, o per riguardo della dignità della parte offeſa, o della gravezza del male , o della grandezza delle cagio ni , o del pericolo imminente , o per altre ragioni ſia das purgar l'ammalato , tutto che la materia cruda lia , e non pur nel principio , ma nell'aumento , e nel vigore delma le : o ciechi affatto , e diflennati ; e pure ſcioccamente ma lizioſi, e maligni apertamente a tutti ſi fan vedere, non ſolo, perchè vengono ad accagionar di ſoppiatto , ſe non (1) nel lib.4. della dies. p.44 . di mal Del Sig.Lionardodi Capoa 131 di malvagità, di traſcuraggine almeno , i lor maeſtri ; poi chè in materia di tanta conſiderazione , ne Ippocrate , nes Galieno di cotalicaſi han fatto menzione alcuna , comes certamente doveano; ma anco , perchè, o non avviſano , o fingono dinon avvederſi , che poco men , che ſempre ; o una , o più delle coſe per lor dette, ne'mali acuti ſi trova no . Laonde , ſe tale veramente , qual per loro fi finge, li foſſe ſtata veramente opinione d'Ippocrate , e diGalicno, aurebbon elli in verità tutto il contrario dovuto dire: cioè, che no miga già di rado,come dicono, ma ſovétiſſimamen te , o poco men , che ſempre nel principio degli acuti ma li ſi debba purgare , e che nell'aumento , e nel vigore di ef fi ciò anche ſi debba eſeguire . Ma pure per iſchermirli da cotal colpo s'argomentan coſtoro di traſcinare a'lor ſentimentiqualche ſentenza de'loro maeſtri: da cui tutt'altro certamente ſi compren de , che qucl, ch'elli intendono . Ne dovea in buona veri tà Ippocrate , ſe pure frenetico, e mentecatto egli del tut to non era , in que'luoghi , ove del gonfiaincnto ſolamente fe menzione , non annoverarvi ancora quell' altre condi zioni , per le qualis’aveſſe parimente a purgar la materia, non anche al debito cocimento pervenuta . Che ſe non è da dire , lui quivi averle per balordaggine dimenticate , masſimamente negli aforiſmi, ove tutto il ſuo ſtudio,e tut ta l'avvedutezza maggiore egli logorò , perchè per ogni parte perfetta l'opera riuſcir doveſſe , biſogna di neceſlicà conchiudere,talenon eſſer mai ſtato il ſentimento di lui , cioè a dire, che gli umori non cotti, anche ove gonfiamé to non foſſe , a purgar s’aveſſero • E Galieno, che così abbondatisſimo di parole egli ſi fu, che anche in coſe di niun momento vanamente alla lunga ſcialacquolle, come poi vogliam dire , che in materia di tanto affare, oltre al ſuo natural coſtumeaveſſe affatto ri ſparmiate. E certamente non ſi dee in niun modo crede re , ch'egli così traſcurato ſi foſſe , che quivi ancor nons v'aveſſe fatta la ſua diceria , fe ftato foſſe meſtieri , diviſan done a ſuo modo quáto n’abbiſognaffe in que'caſi'la pur R 2 gage 4 132 Ragionamento Secondo ga , e quanto ſtrabocchevoldanno , e nocimento, traſan dandola,per ſeguir ne foſſe al malato . Ma certamente no fu tale il ſuo ſentimento , ficome cotefti diffeonati ſquali modei vogliono follemente darne a divederc. E ben avvi faronlo anche molti valentisſimi Galicniſti , cosìdel paſſa to , come del preſente ſecolo; masſimaméte Giulio Ceſare Claudino,avvegnachè del purgare ainicisſimo, pur nõ po cédolo ricoprire apertisſimainete cõfeffollo ,dicédo : Equia dem fic exiſtimo valdè efe probabile, mentem efe Galeni, a Hippocratis, cruda materia nunquam efſeexhibendum phare macum excepto uno turgentia caſu . E di lui molto innanzi Giovan Manardi, che per conoſcerſi bene della greca fa vella , e perciò più leal interpetre de’veri ſentimenti d'Ip pocrate eſſendo ,così delle purgagioni nel principio delle malattie , ebbe a dire . Et licet Hippocrates dicat buc raro faciendum , nos rationibus adductismoti, crebrius id face re poſſumus , debemus. E de’noſtrimedici replicar po trebbe Aleſſandro Maſſaria ciò , che del Manardi e di tute' altri del ſentimento di lui già diſſe . Hippocrates ducet,ra roin morbisacutis effe medicamenta adminiſtranda: contra non defunt Manardus, &alii ,ſidiis placet , Heroes , qui audent affeverare, illa effe crebrius, immo Semper admini ſtrandas. Ma omai s'è táto oltre in diſpetto di Galieno, e d'Ippo crate l'uſanza di purgar la materia cruda pian piano avan zata , che ove in prima non altri medicamenti ſi metteva no in opera , che piacevoli, e deboli , ne più , che una , o pur due volte : ora a gran dovizia grandi ,ed efficaciſſime purgagioni cosìcompoſte ,come ſeinplici, da'noſtri Galie niſti largamente diviſanſı; e ſe pur talvolta , o per tema , che n'abbiano gl'infermi, o per altra cagione , alquan to più lievi , e deboli loro le impongono , nondimeno , o con accreſcerne la quantità , o con meſcolarvi per entro alero in ggior medicamento , o collo ſpeſſo reiterar delle medicine coſtringono maggiormente a vuotarſi il corpo con dannograviffimo, e irreparabil riſchio degli ammala ti ; fe puread Ippocrate preſtar fede noi vogliamo ; il qual fico Del Sig.Lionardo di Capoa 133 ficome di ſopra è detto , tante , e tante fiate manifeſtol loci : e Galicno medeſimamente , il quale oltre a ciò av vifa , che 3Gν αρχηταί η νόσημα των εκκρινομένων αδέν έκκρίνε. αι τίωικανά τα λόγω της φύσεως , αλ' έσιν άπαντα συμπτώμα των εν τω σώματι παρά φύσιν , διαθέσεων • ν ώ γας χρόνω βαρύνεται με υπό των νοσωδών αιτίων η φύσις , απεψία δ ' ες των χυμών , εν τέλω κενέσθαι τη χρησώς αδύνατον • πτοηγάσθαι μεν Κρή πέψιν, ακολα θησαι δε διάκρισιν , 49' εξής κένωσαν την αγαθή γένηται κρίσης. Cioc. quando alcun male comincia , ſe cofa maiavvien, cheppura ghi, allor certamentenon purgheraftſecondonatura , ma ciò Farafficontro le diſpoſizioni diquella; imperocchè ,'quando la natura vien aggravata dalle cagioni delle malattie , ma fon crudi gli umori , allora impoſſibil coſaè, che alcuna eva cuazionefelicemente rieſca ,concioffiecofachèfadi meſtieriche in prima il cucimento , quindi lo fceveramento , e finalmente l'evacuazion ſi faccia , perche ſia buono il giudicio. E fomi gliantemente in quel luogo ove dice.Per la qual coſa effen. dovi nelcominciamento delle malattie sēpremaiſegni dicru . dità , ſemprealtresi nocevol ſarà , e darnofa l'evacnazione di si fatti umori : ώς τ' εα ειδη κατα την αρχήν τα νοσήματος απε . ψίας εσιν αι σημάα , μοχθηρα δια παντός έσαι των τοιέτων χυμών ή xívwos : E quindi, per tacer altri luoghi, ſi ſcorge quan to vadano errati , così coloro , che follemente immagina no non aver vietate altrimenti quelle purgative medicine , cheminorantieſſi chiamano, no Ippocrate , ne Galieno nella crudezza degli umori : comequegli altri ancora , che ofano affermare , che Ippocrate, e Galieno, non per al tro vietafler le purgagioni , che per non eſſer note loro, ſe non che quelle purgative medicine , che violenti ſono nell'operare ; il che però eſſer molto , e molto dal veroló tano chiaramente ogn’huom vede ; imperocchè per tacer del latte rappreſo , dicuicosì ſovente Ippocrate ſi valles certiſſima coſa è , che gli antichi ebbero contezza della Mercorella ( la quale per poco val quanto la Siena) dell'E pittiino , della Fumaria , dello Goico , del Polipodio , dell'Agarico, il quale per Galicno malamente venne ſti mato radice , comeche fungo egli veramente ſia , e d'al tre , e 134 Ragionamento Secondo 1 tre,e d'altrebenigne purgative medicine. Ne è daracer qui, cheGalieno dice a Glaucone, che dar egli debba l’Aſsézio, leggeriſſimo, ſenza fallo, medicamento, nelle terzane, allo ra quando apparir ſi veggano i ſegni del cocimento . Ga lien parimente viera, cheſi deanell'infiammagioni interne la Iera di Temiſone, leggeriſſima medicina , ſe non che quando la materia ſarà al cuocimento pervenuta; ed avve gnachè alcuna delle accennate medicine lenitiva ſolamen te fia, nondimeno , come la ſperienza , ne inſegna data in quantità grande divien purgativa. In quanto all'Epit timo , ed alPolipodio , Galien dice chiaramente eſserel Jeno benigne medicine,e che moderatamente purgano ( 1) E quanto è a me , Io porto fermiſſima opinione, che lo pocrate , e Galieno aveſsero dalle continue, e diligenti of fervazionide'Sacerdotidell'Egitto un tal parere appreſo ; e perciò eſſer'avvenuto , che così ſtabilmente poſcia l'avel fer ſempremai conſervato ; eche dall'Egitto le sì fatte of ſervazioni quel gran padre della filoſofia , e medicina Ita liana,Pittagora,in prima aveſse nella Grecia recate ; quel Pittagora lo dico, di cui altri ella non vide, da Democrito in fuori , che il pareggiaſse, non che con lui poteſse entra re in gaggio, o'l ſuperaſse giammai . Ma che Pittagora , foſse di tal ſentimento , egli li par manifeſto per quel che nc fia ſcritto in quel celebre Dialogo , che della natura dell'univerſo compoſe il divino Platone, la ove Timco no biliſſimo Pittagorico introduce delle purgagioni in ſimil guiſa a favellare. La terza ſpecie del commovimento ſuol riuſcir , ma non però ſempre giovevole ad huom , che da grave neceſſità vi ſia tratto ; ne altrimenti da chi ſia di ſana mente è da uſare, cioè quella forte di medicina purgativa; * imperciocchè que’mali,che no ſono guari pericololi , non ſono da ſtuzzicar con purgagioni ; concioffiecoſachè la di ſpoſizione di ciaſcun male fie ſomigliante alla natura degli animali : c certamente la coſtituzion dicoſtoro è talmente ordinata , che generalmente ha i termini della vita già ſta biliti , e qualunque animale ci naſce , con fatale , e deter mina ( 1 ) nelmerodal.lib.13.6.15. DelSig.Lionardo di Capoa 135 minato ſpazio ncmena egli i ſuoi giorni: trattone fuora quelle paffioni , che di neceſſità avvengono; imperocchè i triangoli dal naſcimento di ciaſcú d'eſso loro tal virtù ſor tiſcono , che ſol yale a mantenere il loro ordinamento per infino ad un certo tempo , oltre al quale a niuno è conce duto dipoter più avanti allungar la ſua vita . Lamede ſima diſpoſizione adunque è data alle malattie , e ſe altri colle purgagioni contro al fatal tempo ſconccralla , al lora di piccioli,grandi , e di pochi , molti diverranno ; il perchè col regolamento del vitto le sì fatte malattie ſon da correggere , e rintuzzare , per quanto a ciaſcun veriì , ad huopo ; ne il durevol male con medicamenti irritar fi dee : Πίτον δε αδG- κινήσεως και σφόδρα ποπ αναγκαζο μένω χρήσιμον , άλως δε ουδαμώς τα νούν έχοντι προσδεκτέον , το της φαρμακευτικής καθάρσεως γιγνόμενον ιατρικών • τα γαρ νοσήμα όσα μη μεγάλος έχει κινδύνες , ουκ ερεθισέον φαρμακείαις · πα σα γαρ ξύτα στις νόσων , όσον πνα τη των ζώων φύσει ποσέρικε και γαρ η τούλων ξύ. νοδG- έχασα πάγμένες του βίον γίγνει χρόνος , του ο γένες ξύμ . παν G καθ ' αυτό το ζώον ειμαρμένον έχον έκαςον, τον βίον , φύει χωρίς των εξ ανάγκης παθημάτων • το γαρ τσίγωνα ευθυς καρχας εκάσων δύναμιν έχον & ξυνίσταται μέχρι πνος χρόνε δυνατού εξαρκών , ου βίον ούκ αν ποτέ τις ας το περgν έπ βιώη» τόπος ουν αυτης και της πε και τα νοσήμα ξυάσεως ήν • όταν τις παρα την ειμαρμένην του κράνε φθείρη φαρμακίαις , άμα εκ μικρών μεγάλα , και πολλα εξ ολίγων νοσήμα τα φιλί έγνεσθαι· διο παιδαγωγών δεά διαίταις πάντα τα τοιαύται καθ , όσον αν και τα αλή » αλ ' ου φαρμακεύοντας κακον δύσκολον ερεθιστον , Ma diſcédédo a qualche particolarmalattia ,egliè da ſapere che fu ſentimento diGalieno, che in quelle febbri, che portan ſeco i flulli da purgar giāmai,ne da ſegnar fia l'am malato, quantunque ben fi pareſſe , che la materia per la ſoccorrenza uſcita , non foſſe ella alla debita purgabaſtá te , o altro vi foffe da dover cacciar fuora nell'ammalato ; ſoggiugnendo manifeſtamente Galieno al ſuo Glaucone , eſſervi ſtatialcuni , che ſcioccamente in sì fatto caſo ab bian condotti, preſſo che a gli ultimi sfinimenti, gl'infer mi . Mai noſtri mediciavvegnachè d'eſſer di Galien fede liſſimi ſeguaci ſommamente di pregino, pure i ſaldiſſimi ann 0ae 136 'Ragionamento Secondo maeſtramenti di lui affatto traſcurando , a lor talento , e purgano , e ſegnano in ſomiglianti caſi, nulla guardando a’riſchj, che , ſecondo egli avviſa , ſeguir ſovente ne pof ſono . Così ſomigliantemete Galieno nelle febbriſincopa li (p tacer della diffenteria)vieta in tutto il falaſſo , e le pur gagioni'; e pur coſtoro arditamente contro i ſentimenti * del lor maeſtro tutto dì ve l'adoperano . Così anche nel la puntura quando appajano gli ſputi del ſangue,e nel do lor delle coſtole , vieta apertamente Ippocrate l'aprir la vena, ſe pure nel dolor delle coſtole qualche manifefto ſe gno d'infiammagionenell'interiora non appaja . Ma cote iti diſcreti diviſamenti del loro Ippocrate non altrimente , che vaniſſime fuperftizioni fi foſſero diſpregiando i noſtri Ippocratici medici, baſta ſolamente loro in tali avvenime ti , che col dolor vi ravviſin la febbre, che come in prima poffono, cosìin diſpetto d'Ippocratc ,e di chiunque ad Ip pocrate crede, per iſvenare i miſeri cattivelli arruotano barbaramente le lanciuole , direbbe Proſpero Marziano per avventura . Ma dove laſciato avea lo il purgar le dó ne levate appena del parto , e non paſſati ancora i termi ni fatali aſſegnati apertamente da Ippocrate a ciò conve nevolmente operare ? E dove nelle lunghe malattie , nelle quali la materia ha maggiormente di cocimento biſogno , ne fegnal d'enfiamento eſſer mai vi puote, il purgar de’no Itri medici contro i manifefti divieti d'Ippocrate , e di Ga lieno:E dove il cibare a roveſcio gli ammalatise non guar dar punto all'età de'fanciulli, e de’vecchi , o alle ſtagioni dell'anno , e cento e mille altre coſe di grandiſſima confi derazione , ovemanifeſtamente da’lormaeſtri ſi partono ? Troppo largo campo o Signori da valicare aurei , s’lole voleſti fil filo tutte narrare: ne per poco di venirne a capo Io ſpererei, Ma come ciò avvenuto ſia , che in tante coſe , e malli mamente nel purgare , c nel trar ſangue dal loro Ippocra te , e Galieno i noſtri Galieniſti partiti fi fiano : e che ezian dio que' che han riſtorata la lor medicina, e ſottrattala al l'arabeſca rozzezza , pure travalicando i lor diviſi abbia no in Del Sig.Lionardodi Capoa . 137 no in ciò manifeſtamente fallato ; lo ciò giudico avvenirc, perchè gli ammalati , e i lor parenti, efamigliari ſian ſem pre deſideroſi oltremodo di rimedj, e ſpezialmente di quei, che per manifeſta vacuazione adoperar fi veggono ; come fe da quelli il lor ſalvamento , e non più toſto la lor morte dependa . Perchè nelle malattie , e maſſimamente nelle più gravi, e nel vigore , e accreſcimento di quelle , ove l'intermo maggiormente languiſca, per non moſtrarſi i me dici ſcioperati ſenza ajutarli con argomento niuno , fi va gliono di cotali medicine , e talor vi ſono dagli ammalati medeſimi, o da congiuntidi coloro contro lorvoglia i me dici menati ; perchè altrimenti a color non ſarebbon a grado. E quinci anche è , che alcuno de’moderni intro duttori di nuovi ſiſtemidi medicina ,abbian ritenuti in par te sì fatti modi di inedicare : non perchè egli veramente crcda , che ſien valevoli conſigli, da riſtorare ammalati ; ma perchè egli avviſa in tal errore eſſer già foinmerſa , ed incallita la gente, che ſe altriméti adoperaſe,niuno certa o pochiſſimi ammalati da medicar gli giugne rebbono. Adunque manifeftamente da ciò , che detto è compré der ſi puote , che purtroppo grandemente nel medicare , da Ippocrate, e daGalieno i Napoletanimedici ſi diparto no , e s'allontanano ; emolto più aſſai di quel, che'l Paracelſo , e l'Elmonte ſteſſo , e altri moderni ſpargirici, o altri , ch'elli fieno, per avventura ſi facciano . Mafi laſci ad altri la briga di ciò conſiderare: baſti a noi il ſapere,co . me ancora da ciaſcun Galieniſta Napoletano ſi viene con fatti a commendar ciò , che con parole da alcuni di loro manifeſtamente ſi biaſima ; e come ancor' eglino laſcia no il loro Ippocrate, ed il loro Galieno , ove lor venga in talento : e che tutti igualmente abbandonando l'an tiche ſtrade più ch'alle cieche autorità de' creduti maeſtri , alla ragion ne laſcianio guidare. E perciò per Dio ceſſino coſtoro d'abbajare addoſſo a’moderni medi canti , e di mordere , e di lacerar tutto dìla loro lode vole libertà , ne mai più per innanzicon uggia , e crepa mente > S CUO 138 •Ragionamento Secondo cuore ſi ſtudjno di contradiarla , e di metterla in fondo ; poichè, come per addietro ſi è fatto per noi manifeſto, da' più ſublimi ingegni,che ſtati fieno in ciaſcun tempo s'è ab bracciata , e mantenuta da' più nobili ſcrittori, edalle più illuſtri Accademic , e Scuole dell'Italia , della Lamagna , della Francia , dell'Inghilterra , della Svezia , della D2 nia , della Polonia, e da tutt'altre parti del mondo glorio famentc ſeguita. Ma riſerb.andomi di ciò favellare a miglior huopo, ri tornerò pure a'piati ,ed alle conteſe deimedici; onde già mi partii. E quantunque fin'ora per me molte narrate ne ſieno , pur molte ancora , e quaſi infinite a raccontar ne rimangono; le quali poichè mi pare d'aver oggi ragionato a baſtanza , e già il ſole comincia a gir ſotto , riſerberolle. alla ſeguente aſſemblea . RA 139 j: Milli RAGIONAMENTO T E R Z O Beda Vantunque volte meco ſteſſo penſando rammento quel tranquillo , e feliciſſimo ſecolo , che meritevolmente dell'oro per ciaſcuno vien detto : tante a biaſi mar la preſente , e miſerevol noſtra età; quaſi di forza ſon tratto . Non pure , perchè a quella la terra dall'aratro non ancor tocca , tutto ciò , che al mantenimento di noſtra vita abbiſogna abbondantemente produceva ; ed ora a romper zolle col Vomere , e col Raſtro , a ſveller pru ni c ſtecchi anza , e ſuda , e talora anche in darno il Bi folco ; ne perchè allora , e nuvoli , e nebbie ,e tempefte ', c turbini non intorbidavano , ficome or fanno , i lucidi ſereni dell'aria ; ne perchè l'eſecrabil fama dell'oro, non ancor ſignoreggiava il mondo : reſo ora ſcellerato, e crude le, poichè fol vince l'oro , e regna l'oro ; ne per tant'al tri privilegj , che diquella s'annoverano , de'quali altro che un'intenſo deliderio , ch'il cuore acerbamente ne pun ga a noi non n'è rimaſo ; ma ſi bene perciocchè , e liti , e S 2 pia 2 1:40 Ragionamento Terzo piati , econtefe , ed armi,eguerre non allignarono . No arruotava le zanne a mordere il cinghiale ; non digrigna va i denti il maſtino ;non rabbuffava il doſlo il Lionefra ; l'erbe , e fiori s’appiattava ſenza veleno l'angue . Ma che è ciò ? l'huomo , l'huomo di tutt'altri animali duca , e ſigno re non fabbricò nave , ch'apportaſſe guerra agli altrui li di , non forbì , non arruotòferro periſvenar l'altrui petto : non aſſordò l'orecchie con iſtrepito ditrombe , di corni, o di bellicofi tamburi ; vivea ciaſcun ficuro ſenza il riparo di murate Città . Ed a'dinoftri , che più fi tenta , che più fi machina , ove più fi bada , fe non ſe a' nuovi ordigni da guerra , perchèl'un Principe, l'altro abatta; l'una Repub blica , l'altra eſpugni; l'una Signoria, l'altra atterri; l'una Città , l'altra ſtermini; l'un nimico, l'altro affondi; ſi com batte nelle campagne , ſi combatte nelle Città , s'armas contro l'un l'altro amico,'e fin dentro il nario albergo con l'un, l'altro fratello, anzi il padre co'l figlio calora conten de; va in ſomma il mondotutto in conteſe , e benchè tar dis pure è gionto agli antipodi il furore dell'armi. M2 egliè pur vero , chele diſcordie abbian per qualche tempo auuto fine , ne in ogni tempo le porte di Giano ſieno ſtate sbarrate . Ma quel, che pür troppo è da maravigliare , è ciò , che lo ne’paſſati ragionamenti v'ho detto , e debbo nel preſente ſeguire ; egli cono le tante , e tanto invilup patecontefe de’medici. Queſte non han mai ſofta , quefte non han inai line ; e comeche moltisſime ve n’abbia fin or diviſate , pur altre aflai a narrar ne rimangono ; le qua li lo fon ora perdiviſarvibrievemente , e darvia diveder , che tutte quante dall'incertezza dell'arte abbiano origine; la quale perchè più chiaramente per voi ſi comprenda,dirò brievemente altresì,chente mi paja delle ſette de'medici. E perchè fi comprenda , quanto queſt'arte fia ſempre mai nemica naturalmente di pace: ne baſterà per avventi ra il riguardar ſolamente al cófuſiſſimo drappello de'Ga lieniſti, che co’lor diverſi, confuſi, e ritorti ſentimenti ban turbati i mari Con menti avverſe, ed intelletti vaghi, Non 1 Del Sig.Lionardodi Capoa. 141 Non per ſaper , ma per contender chiari . Eper la verità delle loro ſtrane , e ſtravolte opinioni da . to brigando romoreggiano , che poco men fanno per av ventura l'onde torbide, e fonanti del noſtro Tirreno qual ora nelle più atroci tempeſte giungono furioſe a riverfar G ſu i lidi. Magna mentis admiratione diftrahor , dper surbor ( dicea di loro appunto favellando Giovanni da Sa lisberia ) quod a fe ipfo tanto verborum conflictu, &collifio ne rationum defiliunt, &difcordant. Neancor paghi del le lor lunghe e, oſtinate conteſe aggiugnendo ſempre pia tiapiati, quiſtioni a quiſtioni , ne preſero anche in preſto dalla brigante filoſofia , altri più inviluppati , e nodofi , da fare ſtancar inutilmente per un'intero ſecolo i più riottoſi dicitori del mondo . Perchè riſtucco , ecrannojato l'avve durisſimo Lodovico Vives , così (clamando proruppe. Ex fcholaftica illa phyfice exercitatione ingentem , ácopiofifſimă difputandi materiam in hanc quoque artem, tanquam plar ftris invexerunt, de intentione, & remilline formarum, de raritate, & denfitate departibus proportionalibus, de inſtáribus: ea que nec funt, nec unquam evenient ventilantes fua fomnia ; defertapugna cum morbis interea loci premen tibus , atque occidentibus . Ea res fecunda , e infinita non aliterquam bydra quædam diutiſſimèremurata eft ingenia, cum fructu aliis vacatura. Videre eft cavillariones a, trj. cas Iacobi Forlivienſis, nec minus fpinofas, nec minus inu tiles , quam Suiceticas: nec prolixitate, cu moleftia cedentes. E Gregorio Giraldi huom di rara , e di ſquiſita letteratu ra , così de’diſcordanti pareri,che a danno altruiportano , e mettono in campo i medici , fe vagamente parole . Nec minus quoquo medici noſtro periculo de medēdi ratione ejuſq; partibus difenſere, aliis alia fubindeapprobantibus , ut no ftra etiam hac ætate tanta fit inter medicos diſſimilitudo , ut corumaliqui vena inciſiunem omnino prohibeant, alii ad eam aperiendam potius exclamext. E per recarne brievemente un faggio , eglino intorno aº principj delle coſe naturali contender fieramente ſogliono: ne ſi può di leggier credere quante diverſe , e confuſisſime opi 142 Ragionamento Terzo opinioni ciaſcun di loro ne porti . Dicono alcuni ritrovar fi veramente , e formalmente gli clementi ne'miſti: altri in contria opinion tratti ,ſolamente in virtù, ed in potenza. Vogliono coſtoro , ſecondo ilſentimento del lor maeſtro , effer le qualità formevere degli elementi, e de'milti : co loro tutte le forme eſſerveriſſime ſoſtanze giudicano. S'ay vilan molti collor Galieno , amendue le qualità nel lor fommo grado eſler igualmente negli elementi ; altri una in più alto , e altra in più baſſo grado ne allogano ; quin di infra coſtoro altra nuova quiſtion forge, ſe colle più fie voli qualità degli elementi le côtrarie accoppiar ſi ſoglia no . Ma ſe le dette qualità ſien tutte , come dicon poſiti ve , e vere : 0 pure alcune di loro ſolamente privazioni di quelle , lungamente affai ſi contraſta ora eziandio in fra’ Galienifti medici. Ed oltre a ciò giudicano alcuni,in qua lunque,comechè picciolisſima particella deʼmiſti , formal mente avervi parti corriſpondenti a ciaſcuno degli elemé. ti ; altri ſono dicontrario parere . Ma chi potrebbe mai intorno a ciò rapportar tutte le antiche, e le moderneopi nioni ? ſenzachè non ſon minorile conteſe , s'egli ſia pur vero , che vi ſia temperamento ; ſe quello veramente ſia l'anima medeſima dell'huomo, come cmpiamente avviſoſ ſi Galieno , o pure altro , che quella ; ſe ſia da porre il ſo ſtanzial temperamento ; e ſe quel poſto , del qualitativo in nulla differente egli ſia . Oltre a ciò quante le differen ze deil'uno , e dell'altro teinperamento ſi ſieno ; ſe il qua litativo ſolamente nella proporzicn delle quattro prime qualità riſieda , o pure in altra qualità da quelle riſurtu . Ma troppo a lungo ne verrei, ſe tutte diſtintamente nar rar volesſi intorno a sì fatta materia , le zuffe , e le conte ſe de’alieniſti filoſofanti. O forſe almen , ſe in tutt'al tro ſi rodon l'un l'altro il baſto, faranno a buon concio ra nodati , e concordi in render ragione dell'eſiſtenza de’lor quattro elementi nella natura ? Anzi in ciò più che altrove gareggiano in rintuzzarſi , rifiutando altri ciò, che altri ne dice , e tutti l'un l'altro oſtinatamente carminandofi ; an zi fra cllo loro Vopiſco Fortunata Pemplio dopo averne molte I DelSig.Lionardo di Capou . 143 . molte , e molte ragioni recate ,e tutte rifiutate,ultimame. te con tali parole i ſuoi propj ſentimenti ne paleſa. Sed hæc omnia quăfint imbecillia quilibet videt.Quapropter aliorum etiam qui hactenus id ipfum conati ſunt argumentis penficum latis ,puto non poffe vera, & efficaci rationeprobari, ejetan tum , veleffe debuifle quatuor elementa , ſed id ita effe, nos accredere Ariſtoteli toti omnium fcientiarum fapientia lumi ni . Concluſione indegniſſima nel vero non pur di lui : ma di qualunque più cattivello ſcolaretto , che per filoſofante ſi voglia fare acredere; c ne verrebbe ſicuramente cgli dal ſuo Ariſtotele , c dal ſuo Galicno ſchernito , e forſe da lor nc torrebbe in capo del ſer Meſtola, e delgocciolone , le il ſecodo ne meno ad Ippocrate vuol dar fede ſenza il pc gno in mano delle ragioni , el primo allega l'autorità nel l'ultimo luogo dopo tutt'altre pruove , con ciò manifeſta mente inſegnando , che non miga delle autorità , ma delle ragioni lo intelletto ſolamente debba eſſer pago. Ma pu re Iddio voleſſe ,che aſſai non vi foſſero a’dì uoſtri, di quel li , i quali ſecondo il ſentimento del Pemplio , non alla migliore, ma alla maggior parte degli ſcrittori voglion gir dietro ,pecorum ritu ,perdirlo colle parole di Seneca , non qua eundum eft , fed qua itur . Cattivelli di loro, che tratti dalla bordaglia de letterati,immaginano , che allora ſien da lor meſſi in ſu’l filo del vero ſapere, qualora da lo ro forſe più, che da ogn'altra coſa del mondo, ne fon di ſtornati, e danneggiati così , come cantò il Bembo nello ſuc diviniſſime ſtanze : Sicome nuoce al gregge ſemplicetto La ſcorta fua quandell'eſce diſtrada , Che tutto errandopoi convien,che vada . Ed’o ſe mai eglino fi riducellero alla memoria la ſentenza del teſte da noi citato filoſofo , Argumentum peſſimi turba eft. E quell'altre parole del medeſimo,non eadem hic,cioè nel filoſofare, quam in reliquis peregrinationibus condicio eft in illis comprehenfus aliquis limes , interrogati incola non patiuntur errare : at hæc tritiſima quaquevia, &celeberri ma maxime decipis : certamente infomiglianti falli ſcimu. niti , 14 Ragionamento Terzo niti , ch'elli ſono , non fi laſcerebbono traſcinare. Ma egli però giova credere, che il Pemplio non già da fenno, ma per irrifion parlaffe , ed ironia , ' fe poi ſenza al cun rimordimento , e fenza ſcrupolo averne di temerità, in trattando delle qualità,paleſemente delle dottrine d'Ari ftotele , e di Galieno famoſtra di non curare . Malaſcian do da parte ſtare tutt'altre quiſtioni, nelle quali inveſchia ti, e impaſtojati i Galieniſti tutti ſtralciar mainon ſi poſe fono , ficome ſon quelle intorno a' principj dello ingene. rarſi dell'huomo , al caldo natio, all'umido , che dicon ra dicale, all'eſiſtenza , alla natura , e al numero degli ſpiriti ; e ſomigliantemente intorno all'inviluppatiſime, e tutto che innumerabili quiſtioni della natura , del numero, del luogo , della diſtinzione delle potenze, e ſpezialmente in torno a quelle coſe , onde il chilo , e'l ſangue, e gli altri umori s'ingenerano ; o pure in trattar del polſo , dell'arte rie , e del movimento del cuore : ed onde i ſentimenti nc végano, e formiſi il moto.Chimai baftevol ſarebbea por gli d'accordo intorno a quella cotanto celebre , e faniores conteſa , e di tanta conſiderazione in medicina , ſe la bi le , la flemma , ela malinconia ftian di fatto , o pure in po tenza nella maſſa , come dicono,del ſangue ? Il che in buo ſentimento viene a dire , fe veramente vi lieno , o no; im perciocchè certamente nulla monta il potervi eſſere , ac ciocchè ſi dica,che vi ficno ;ficome direbbeſi altresì , che nel ſangue vi ſieno in potenza , e carne , e vermini , e cene to , e mille altre coſe , chequivi ingenerar ſi poſſono . Ma a cui caglia di vedere un confuſiſſimo rimeſcolamento di diverſe , e ſtrane opinioni , riguardi digrazia a' Galienilti medici intorno al diviſar della natura , delle differenze, e delle cagioni delle materie delle febbri, e de'luoghi, ove s'ingenerano ; riguardi all'opere de’loro antichi, e moder ni maeſtri : e poi, ſe potrà, ridicamiquando mai potreb be alcuno ſcalappiar dall'intralciato , e confufiffimo labi rinto di tanti , e sì fatti riboboli, e indovinelli; e guari pu re a quali debolillime fila aſſai ſovente la medicina di Galicno s'attenga , Tralaſcio pure le lunghe , ed inviluf pate 1 1 DelSig. Lionardo di Capoa 145 pate quiſtioni intorno all'apopleſſia, al catarro, al letargo, alla mattezza ,alla malinconia, a' capogirli, al mal caduco, alla peſtiléza,almalfrāceſco, eda täi'altre dubbioſe cotro verlie , che non ſarebbe per avventura minore impreſa il raccorle quì tutte, che l'arene del mare, e le ſtelle del Cie to minutamente annoverare . E comechè per queſto capo incerta , e confuſa , e inviluppata la medicina de' Galieni fti oltremodo ſi ſcorga , e perciò inucile , e nocevole ad adoperare:non peròdi meno non è ella intorno alle mag giori biſognedell'huomo incerta maggiormente, ed in tralciata, cioè a dire intorno alla dieta : i fini, e le condi zioni del trar fangue : la natura , la facoltà , gli effettia e'l modo dell'adoperar de’medicamcnti : quando , ed in qua’rempi del male ſien da dar le purgagioni: ed altre , ed altre infinite quiſtioni,delle quali queſte,ch'io ho quì bric vemente raccolte , una menomiſſima particella ſi fono , e certamente lo m'avviſo , ch’in leggendolei curioſi da non poca inaraviglia ſien ſoprapreſi; anzi forte ſoſpirerano , s ſdegneranſi , veggendo a quante controverſie,a quanti ſo fiſini, a quanti pericoli per lor ſi faccia foggiacere il bene ftare , e la vita deglihuomini. E chicon occhio aſciutto può rimirar il crudeliffimo ſterminio , che fan tutt'ora de gli ammalati di febbre maligna, per non ſaper di quella , cofa del mondo? Eglino piatiſcono in prima delle cagioni di fuora , chenti , e quali elle fiano , e d'onde naſcano , come operino , e muovano il male ; quindi intorno a quel. le d'entro combattono , ſe fien verainente qualità : efe tali, naſcoſc più toſto , o manifeſte , o pur ſe da loverchio di putrefazione avvengano , o da tutta la ſoſtanza più to ſto gualta ; e corrotta ; e oltre a ciò in quali luoghi elle fi covino , diverſamente contraſtano . Così mordendoſi l'un l'altro , e piatcndo , niun l'imbrocca , e tutti a malpartito menano gli ammalati ; volendo altri i falaſſi , ed altri vie tandogli, ed altri una fol volta permettendogli , chi ſcar ſamente , cchi fino a trar loro tutto il ſangue , chi dalle venc delle braccia , e chi da quello de piedi , e chi anches da quelle parti , delle quali è bello il cacere , con appic T carvi 140 · Ragionamento Terzo carvi le mignatte; altri a tutti coſtoro cótraſtando voglió , che dalla buccia ſolamente per coppette fi tragga . Alcu ni vengon toſto alle purgagioni, altri aſpettan qualche de boliſſimo ſegnal di cocimento ;ed altri, o nel principio pur gar logliono , ove turgide lien le materie , il che di rado . avvenir ſuole, o pure inſino allo ſcemo del male s'indugia no . Molti poi nel purgare , de’violenti medicamenti fer vir ſi fogliono ,molti de'mezzani, ç moltide’deboli , e be nigni n'adoperano : e parecchi ancora con lenitivi rimedi folamente medicar s'argomentano. V'ha chi purga una ſol volta , e chi più volte in ogni tempo , e ſtato del mal lo coſtuma . V'ha alcuni , che come il mal comincia , cosi toſto con le purgagioni v'accorrono ; ma dopo i trè dì af fatto le victano ; e dicoſtoro altri di vomitive, alori di sé plici purgative medicine ſervir ſi fogliono. Alcuni ne'pri migiornidel male a' rimedj , che chiaman veſcicanti , gli infermi condannano ; altri vuol, che in prima purgati , e ſegnati color fieno ; echi in un luogo, e chi in un'altro cô -sì fatti rimedj marchiar gli vogliono , togliendo loro così manifeſtamente le forze , e crucciandogli , e dando loro vigilie , e dolori, e forſe con riſchio di gangrene,di piaghe nelle reni , e nella veſcica, di malagevolezze d'orina ,e d'altri malori , che ne foguono . Ne mancano eziandio infra'Galieniſti medici alcuni più rinominati , che per be nevoglienza al lor maeſtro Galicno , cd Ippocrate , o per chè così veramente lor paja,cotal ritrovato come peſtilen zioſo ; e ficriſlino, e di barbara gente, e crudele , oleremo do vituperino, e danninozil quale non a confortar vaglia, ed ajutare il cocimento , ma ſolamente a fraſtornarlo , ed indugiarlo , con accreſcer le cagioni ad un'ora , e gli effet tidel male , e con piagar , ed infiammar malamente ſpeſſo ſpeſſo le reni , e la veſcica, e far talora gli addolorati lan guenti di puro fpafimo miſerabilmente morire . E v'ha , eziandio di coloro , che non d'altri rimedi, che de ſolian sidoti nelle maligne febbri ſervir fi fogliono; ed intorno a queſti ancora diverſamente piariſcono . E forſe faran mai per riconciarſi, e porſi d'accordo infra qualche ſpazio di + tein DelSig.Lionardo di Capoa 147 tempo le lor conteie ? e le loro incertezze appianate , fari per porſi fuora, quando che ſia un più ſtabile , e veriſimile fifteina di medicina? anzi per quanto ne poſſiam conghier turare eglivie piů a giornate s'accreſcerannoi piati , e le conteſe , e ſempre più confuſo , e incerto , e pericoloſo il lor meſtier diverráne. E nel vero,chi mai potrebbe deci derle ? non le autorità , non le ragioni , non l'eſperienze ; imperciocchè , così gli uni , come gli altri, di loro eſperi menci egualmente fan moſtra , e pompa ; morendo vera mcnte , e guarendo così degli uni , come degli altri , i malati . Per amendue le parti poi lor ragioni ſi produco no in mezo; equinci , e quindi ogni conteſa ha ancora i fuoi parziali . Ne v'ha cagionealcuna , per la qual mag giormente attenerci dobbiamo a Giovan Manardi,ad Er cole Saſſonia , ad Orazio degli Eugenj , che d'altra parte più coſto ad Aleſſandro Maſſaria ,ed a Fabio Paccio , eze Pietro Salio, o a Girolamo Cardano preſtar fede, conciofa fiecoſachè tutti egualmente ficn di pregio, e lieva nella Gia lienica medicina , ed egualmente di maggioranza gareg giar îi veggino . Perchènon ebbero certamente il torto , per quelch’lo ini creda ', a dir quc' valene' huomini:non . polje comprehendi patere ex eorum qui de his diſputarunt di fcordia ; ciim de ifta re , neque inter ſapientia profeſſores , neque inter ipfos medicos conveniat. Ma poiche Io in par te vi ho diviſato a’quali tempeſtoſe procelle di litigj ediconteſe la medicina tutta ſoggiaccia , diſconveneyol coſa non farà ', ch'Io mi ſtudi per avventura , e mi argome ti di recarvene brievemente la cagione . Alcuni ſciocca . mente fi perſuadono ciò ſolamente per colpa deʼmedici avvenire , i quali oltremodo d'onor deſideroſi,ed avariſfi mi del denajo , e naturalmente ancora riottofi , e ſuperbi, ſi graffjno ſeipremai , e ſimalmenino ; cercando a ſpada tratta ciaſcuno , ove a lui venga in concio, altrui travaglia re , e neinichevolmente affitto atterrare . Così vengono a partirſi in fazioni, e ſempremai a premerſi,e tenzonare , non altrimenti , che tutt'altri macftri di cialcun'altro me ſtier fi facciano; perchè faggiamente diffe Eriodo وا T 2 Ka? 148 RagionamentoTerzo 1 Και κεραμεύς κεραμά κοτέα , και τέκτονι τέκτων Και ωχός πτωχώ φθανέα , και αοιδος αοιδώ . Che in lingua noſtra riſuona Al fabbro , è'l fabbro in odia : e'l vafellajo Non puòſoffrir compagno : arde diſdegno Contro un mendico l'altro : el’un cantore Contro l'altro cantor di rabbia freme. Malo per me fermamente credo , che alcra di ciò ne ſia la cagione : e che non tanto per uggia , e mal talento deʼme dici, quanto per mancamento dell'arte medeſima così in certa,e intralciata ,e dubbioſa no poſſan goder mai, ne pa ce ' , ne ripoſo que', che l'eſercitano.Negià in tante, e tan te diverſità di ſentiméti ciafcun'altro meſtiere partir fi fuo le , in quante la medicina ſi parte , ſe già non foſſe , che la filoſofia , e tutte quelle ſcienze , c'han colla filoſofia qual che attacco , o dependenza , alle inedeſime tempeſte del la medeſima ſoggiacer ſi veggono ; nelle quali malagevol molto , e difficile è lo inveſtigar la verità , licome confeſſa no que'filoſofi , e medici medeſimi, che d'haver preſte loa lor pruove , e dimoſtrazioni falſamente ſi pregiano , Nemailetto di ſelva allor , che priva L'arbor difoglie il venta,ha tante fronde quante , e quante diverſe , e diſcordevoli fette ha l'anti ca , e la moderna filoſofia ; o in ciaſcuna ſetta di quelle's quante, e quanto diverſe infra loro fian de parteggiatilo pinioni. Così de'Peripatetici ſolamente , chi non sa quam to li premano , e li rintuzzino iGreci ,egli Arabi , eiLa tini Maeſtri ? quorum fudium , dice un di loro, perpetuum ,ut contradicant, ab aliis femperdiffentiant . Ed a cui non ſon manifeſte le continue , ed oftinate contefe delle dire Peripatetiche ſchiere ancora,che nominali chiamano, creali ? E a tanto giunſe la lor riottoſa oſtinazione , che poco fallò , ch'un dì in Parigi venendo alle mani , nó iſve gliaſſero nella Francia una nuova , e fanguinofa guerra ci yile . Ed infra i Reali medefimi chi potrebbemai, co’TO miſti gli Scottiſti rappartumare? e chi co’Tomiſti i Tomi fti medelimi:econ gli Scottiſti gli Scottiſti ? ma per noi 3 di DelSig.Lionardo di Capoa 149 dipartirci della noſtra medicina, in queſta altro non è egli per certo di tante , e tante diſcordie cagione , ſe non ſe la medeſima malagevolezza del rinvenir la verità delle coſe naturali . E ciò ben’avvisò Galieno medeſimo, ove quel, le parole di Ippocrate va in prima chiosãdo xehosganemi il giudicio difficile : ο λόγG- δ'αν ηκρίσης άη , το κρίνεσθαι παρ' αυτό τα ποιητία .χαλεπος και δυσθήρατός εσιν όγε αληθής , ως δηλόι και το πλήθG- των κατα την ιατρικής τέχνης αιρέσεων •ου γαρ αν άπερ οίον τ' ήν ραδίως ευρεθήναι το αληθές , ας τοσούτον ήκον αντιλογίας αλήλοις οι ζητήσαντες αυτό τοιούτοι τε και τοσούτοι γενόμενοι . 11 giudicio , dice egli , fi è la ragion medeſima : poichèper quella le coſe , che da far fono , fon giudicate. E certamente egli è difficil molto , e malagevole , a rinvenire, Io dico il giudicio vero , il qual manifeſtamente ravvifarfo fà dalla diverfità delle fetre della medicina. Concioffiecofachè le agevol foſſe il xin venir la verità , non ſi ſarebber tanti , e tanti valent'huomi ni , che per imprenderla con ogniſudio ſi ſono affaticati, in colante ſette partiti . Fin qui l'avveduto Greco.Manoi più avanti procedendo ci avviſizmo , il rinvenir la verità effer certamente molto più malagevole , o piùardua imprefa aſſai di quel', che s'immagini , e dica Galieno . Ad inve Aigar di ciò la ragione convien ridurci amemoria , che noi non men , che gli altri animali , poveri , e mudi affatto di qualunque , comechèmenoma contezza delle coſe,naſcii mo ; verità così chiara , e conoſciuta per ognuno, che non le fa d'alcuna pruova meſtiere , e molto ben ad ogniora Iz ravviſiano, e Platone ſteſſo venne coſtretto a confeſſar fa , avvegnachè altra volta faccia ſembiante di tener con truia opinione , dicendo , che'l noſtro apparare altro in vero egli non ſia , ſe non , che un rammentarci quelle co ſe appunto nredelune , che già noi prima di naſcere ſape vaino ; ed imperciò tutte le notizie ſenza fallo conviene , che da noi ſteſſi l'appariamo; ma come, e da cui,non èma lagevol troppo per avventura ad inveſtigare. L'animanoſtra , alla quale , come a parte più nobile , e più principale dell'umana compoſizione, ſolamente con. viene l'apprender le coſe ; ondefolea ſaggiamente Epicar modi 150 Ragionamento Terzo mo dire: la mente vede, la mente ode, l'altre coſe tutte fon forde , e cieche ; l'anima noſtra lo dico , comechè in corporca forma , ed inviſibile ella fia , in sì fatta guiſa no dimeno unita , ed avviticchiata , per così dire, ella al cor po ſi ritrova,che ſe queſto dalle ſenſibili coſe di fuora toc co , emoflo ad eſſer mai viene , varj , e varj penſamenti in effa egli è valevole a ingenerare ; c ciò avvicne qualunque ora elleno toccano ,e muovono le fibre de’ncryi , le quali a guiſa di fila ſottiliflime di ſeta trapunte in ricamato pan 10, {parce per tutto ilcorpo ravviſanſi, e che queſte poi avvalorate da un diſcorrente , e ſottil licore , gli avvti mo viinenti alla prima loro origine riportano nel cerebro principal ſedia dell'anima , ove quella il comprende, o per me dire ſente . E le fibre poi col venir variamen te premute da quelle parti del corpo , che ſi chiamano organide'ſenſi, ecoltorcerſi, e col piegarſi in varie, ed in varie maniere sì , e tal mutamento ricevono ne pori, enel ſito delle lor particelle , che da loro , e dalla diverſità de li ſenſibili oggetti di fuora la diverſità del comprendera , o fia de'ſenſi,ncll'animna procede . Quinci ſcorger ſi puore , chei ſenſi ſono quelli , per li quali non altrimenti , che per le fineſtre liz luce , entrano nell'anima le prime contezze delle coſe, e da queſte ella poi altre , ed altre contezze col mezo del diſcorſo tracndo , tratto tratto ſe ne viene ad arricchire ; ma come, e dove ſi riſerbino l'acquiſtato notizie , e come l'anima l'abbia più , o meno pronte, quae do valer ſe ne vuole , e come per ſe ſteſſe talora all'anima firappreſentino , è malagevoliſſimo ad inveſtigare ; ne queſto propoſito più che tanto appartiene forſe a noi il fa perlo . Ed al ſentir dell'anima ritornando, lo dico libera mente , e confeſſo , che i ſenſi nc ſe medelimi , ne l'anima mentir non poſſono gianmai; inperocchè i ſenſi le im preſſioni degli eſterni ſenſibili oggetti mai ſempre tali all' anima rappreſentano , quali eſſi appunto le ricevono, fen za curare, o prenderſi d'altro brigi. Verità , la quale non ſo lo come de'peripatetici le ſcuole col maeſtro Ariſtotile abbiano ofato negare;cocioffiecofachè ſe nella maniera , la qui Del Sig.Lionardodi Capoa. 151 quale effi fingono andaſſe la faccenda, ogni fabbrica di no Itro diſcorſo certamente a terra ne verrebbe, come faggia mente avviſa quellaltilimo filoſofante , e poeta latino: .. Vt in fabrica ſipravaſt regula prima:“ Normaque fi fallax rectis regionibus exit: Et libella aliqua fi exparte claudicat hilum : Omniamendose fieri :atque obſtipa neceſ umft: Prava : cubantia : prona : Supina: atq; obfona tecta Iam ruere ut quædam videantur velle: ruantq; Prodita judiciis fallacibusomniaprimis. E ſe i ſenſi mai poteſſero una ſol volta , o ſe , o altri ingão Nare , ſi toglierebbe via certamente dal mondo ogni con tezza , ogni giudicio , ogni fede ; e non per altro in vero gli antichi Padri della Chieſa così acerbamente ripigliaro no i filoſofanti d'una sì erronica , e ſciocca dottrina : Re cita Ioannis teftimonium , dice Tertulliano , quod audivi. mus ; quod vidimus oculis noſtris , quod perfpeximus, ma nus noftræ contrectaverunt de verbo vitè falfa utique teſta -tio fi oculorum , aurium , & manuum fenfusnatura mer titur . Ma a chi mai ricorrer ſi dovrebbe per conoſcer, ed ammendare i fallimenti di ciaſcun ſenſo ? ad altro forſe ? certamente no; imperocchè dell'uno non meno l'altro ſen ſo farà ſoſpetto difalſità , e d'errore; ſi chiederà forſe aju to agli altri ſenſi tutti : manon ſono queſt'altri ancora ſom ſpetti di falſità ? o ſia una , o ſieno più le perſone , che ne deano teſtimonianza , nulla importa,fe di eſſe tutte è dub biofa , ed incerta la fede . O forſe, come Ariſtotele ſi per Snade , gli errori de'ſenſiconoſcerà la ragione ? ma come potrà cio mai eſſa fare , fe per avvederti dell'error d'un ſenſo , ad ammendarlo , dineceſſità le fa meſtieri fervirſi dell'opera d'un'altro ſenſo , e di notizie , e di regole col me. zo de'ſenfi parimente avvte . A queſte, e ſimili malagevo lezze ponendo mente peravventura Ariſtotele , ne aven do altro rifugio dice, che ben può la fagione giudicare del l'error d'un ſenſo colla ſcorta d'un'altro ſenſo , il quale abbia però più ben fatto , e ſquiſito l'organo ; e fi ſerve egli per ciò dimoſtrare dell'eſemplo dell'anello , il quale mello و IS2 RagionamentoTero meſlo ſenza frámettervi ſpazio notabile ditempo, or nel l'uno , or nell'altro dito della inano appare al ſenſo del tatto non uno , ma due eſſer gli anelli ; il quale per error del tatto vien ſecondo lui avvertito , ed ainmendato dalla ragione col cõſeglio del ſenſo della viſta: l'organo del qua le è più eccellente di quello del tatto . Ma a chi per Dio un sì fatto riparo vano non ſembra; poichè quancunque l'eccellenza dell'organo perfetta aſſai , e compiuta ſia , nó ſarà mai valevole ad operare, che quel ſenſo non men degli alori non vada ingannato . E per valermi del medeſimo p · lui rapportato eſemplo del ſenſo della viſta, non s'inganna queſti , ſecondo cheporta opinione il medeſimo Ariſtote. le , ne'colori dell'Iride , e delcollo della colomba; anzi ſe poteſſero mai i ſenſi ad alcuna forte d'errore ſoggiacere , fi ritroverebbe per tale , che ben ſottilmente vi badaſſe, affii più agevolmente ad errare il ſenſo della viſta , che tutt'al tri ſentimentiincorrere . Ma lo forte mi maraviglio poi , come non avviſaffe Ariſtotele , che ſoventemente l'errore del ſenſo , che ha più eccellente l'organo , da un'altro fen fo , di cui l'organo è aſſaimeno ſquiſito conoſcaſi , e cor reggafi; comeincontrarſuole nelremo dentro dell'acqua, ove l'organo della viſta dal toccamento vien ricreduto, e ciò lo dico favellando fecondo i ſuoi medelimi ſentimenti. E alla fine domáderei ad Ariſtotele, ſe i ſenſi de'quali egli intende doverſi la ragione ſervire per riprovar altri ſenti menti , ſieno anch'eglino tali , e ſe tali pur ſono , perchè cglino ancora non potranno eſſer fall? adunque mai potrà giudicar la ragione appiccata allc lor pruove , c certamen te mal può convincer perſona di falſità quel Giudice , al quale convenga dineceſſità valerſi di teſtimoni ſoſpetti. E a ciò riguardando forſe Ariſtotele con la ſua uſata poca fermezza in alcun luogo dice , i ſenli non potere in modo alcuno errare, cche ſia debolezza d'intelletto i ſenſi per la ragione laſciare. Ma quantunque non poſſano iſenſi , ne ſe , ne altri in gannare , non però di meno poſſono molto bene allo in telletto , cui propianente il giudicar s'appartiene , effer 1 cagio Del Sig.LionardodiCapod. 153 cagione d'errore , e d'abbagliamento ; ecomechè poffafig avventura l'inganno , o l'errore ſchivare col non precipi tar coſto ,e inconſiderataméte il giudicio, ma ſoſpedédolo, e ritenédolo finattanto che fiarrivi a quell'evidéza de’sē timenti , tanto , e tanto celebrata per Epicuro : tutta fia ta ,perciocchè ne in tutticorpi,ne in ciaſcuna particella di quelli, tra per la lor picciolezza , e per altro impedimento egli non è a'ſenſid'internarſi , e di profondarſi conceduto, e quando ben loro ciò venga permeſſo , ne men altro egli no certamente comprender ne potráno ſe non ſecotali im preſſioni ſolaméte,che da quelliricevono , pchè no già mi ga i corpi, ma qualche operazione ſolamēte de'corpi vien loro ad eſſer manifefta ; ma la ragion poiè quella chedal le varie , e varie operazioni de'corpi , varie , e varie core alla natura lor pertinenti imprende ad inveſtigare. Ma pera ciocchè dell'operazioni medeſime, che per li ſentiinenti s'avviſano , varie , e diverſe eſſer poſſono le cagioni , e nel trarne argomento vezzoſa talora , e ingannevole loro ſi fa davanti Falfa di verità ſembianza , e larvä, agevolmente la ragion vi s'inganna, giudicando fallaces mente ,da tale cagione un'effetto naſcere,che da altra cer tamente avviene ; e come già cantò l'Ennio noftro Ita liano : Veramentepiù volte appajon coſe, Che danno a dubitar falſa matera Per le vere cagion , che ſono afcoſe, così s’alcun dicelle, che l'oriuolo collo ſtelo , e colmare tello tratti da contrapeſi,e da ruote,n'additi l'ore del giore no , vero per avventura egli direbbe ; ma non mai potreb be certaméte affermarlo,potendo altri ed altri ſtrumentila medeſimacoſa operare . Perchè ciaſcun fillogiſmo, che intorno alle coſe naturali formaſi,probabile ſolamente ef ſer può , non già dimoſtrativo , ſe pur toglier non nevo gliamo alquanti ben pochi, che da quegli effetti ſi dedu cono , i quali d'una ſola , e certa cagione poſſono avveni re ; ſicome per avventura farebbe il dire, dover eſſer ne V ceſke 154 Ragionamento Terzo ceſſariamente corpo ciò , che gli organi de'ſentimenti ne muove ; concioſliecoſachè la coſa, che muove, a ciò fare è ben di meſtier , che tocchi; e'l toccamento , ſalvo che da corpo ,non ſi può incontrare: perchè ſaggiaméte Lucrezio: Tangere , vel tangi , niſi corpus, nullapoteſt res. Così ancora , che'l corpo mentre egli è dimenſionato poſſa in parti parimente dimenſionate eſſer diviſo . Che tra uno, &altro corpo eſſer nó pofta altro di divario,ſalvo , che nella grandezza , nella figura , nel moviinento, nel l'eſſer diviſo in parti, o non divifo, e nell'aver le parti ol tre alle già dette vario il ſito, e l'ordine tra di eflo loro ;co ciofliecoſachè altro di queſto non poffa, ne al corpo, ne al le parti , nelle qualiil corpo ſia diviſo , avvenire . E però è da dire , la diverſità , che così grande eſſer noi veggia mone'corpi dell'univerſo , altronde certamente non pro cedere , che dalle coſe già dette , che'l calore , la freddez za , la ſaldezza , il diſcorrimento , icolori, ei ſapori tutti , cd altre ſomigliantiqualità , le quali a noi parc , che nc corpi dell'univerſo ſieno jaltro verainente non ſieno , ſe non ſe ,o l'accennate coſe : ſe veramente elleno ne'corpi ſono : e ſe ſono in noi, cffetti di quelle , o per me' dire de' corpi per quellemodificati . Maqueiti ,e ſomiglianti argomenti ſon così pochi , e generali, che per lor non ſi può al vero conoſcimento di quelle particolari cagioni pervenire , ove ſenza fallo, del 12 natural filoſofia il pregio tutto è ripoſto . E ciò sì bene fu conoſciuto al principe di tutti greci filoſofanti Demo crito , ed a molti ancorde’ſavjantichi, che perciò in ap portando le cagioni delle naturali apparenze, delle fole probabili ragioni s'appagavano; e ſaggiamente il Padre de Criſtianifiloſofi Agoſtino il Santo ebbe a dire:latet ve rit atis quærenda modus; e'l gran Galileo de Galilei , che tanto abbiun veduto a’dì noſtri gir dentro alle ſecrete coſe delle ſcienze, che al parer del dottiſſimo Obbes : Primus aperuitvobis Phyfica univerſaportamprimam : pur dir ſo leva eſſer pochiuimicoloro , che qualche particella di filo fofia ſi ſappiano , e Iddio ſolamente ſaperla tutta , eche quan Del Sig.Lionardo di Capod. 155. * quanto più in perfezione monterà la filoſofia , tantomeno merà il novero di quelle concluſioni, che da quella dimo ſtrar ſi fogliono. E'l celebratiffino fondator della peripa tetica ſcuola , avvegnachè talvolta d'altro ſentir faccia veduta , pur tanta forza ha la verità , che gli potè purc al la fine una volta trar di bocca , e far apertamente confer fare , eſſer la noſtra mente alle coſe più manifeſte della na tura , qual'occhio di notturno augello a'rai delSole ; e 'altrove , che diquelle coſe , che ſono a’noftri ſentimenti naſcoſe allor baſtevolmente d'aver ragionato penſar dob biamo , quandoſecondo il diritto della ragione provevol mente , come eller poffino ne ragioniamo. E quel Fio rentin filoſofo , c poeta fa , che ſecondo il ſentimento del la ſua peripatetica ſcuola la ſua Bice gli dica , e facciagli a ſapere . dietro a’ſenle Vedi, che la ragion ha corte l'ali . E innanzi parimente avcagli colei detto : Erra l'opinione de'mortali Ove chiave di ſenſo non differra . Ma non penſaron mai, licome far certamente doveano , o pure il naſcoſero , e Dante , ed Ariſtotele, le naturalico ſe eller a' ſentimenti, non perla lontananza ſolamente de gli oggetti, ma per altro ancora vietate , e che noicolsé ſo non già le coſe , ma ciò , che in noi le coſe operino ſo lamente comprendiamo. Verità aſſai ben penctrata da quegli antichi ſavj , che diſſero appo Aulo Gellio : (1)om xes omnino res, que fenfushominum movent são osis , cioè a dire , come egli ſpiega : nibil eje quicquam quod ex fefe conſtet , ncc quod habeat vim propriam naturam ; fed om nia prorſum ad aliquid referri:taliaque videri effe,qualis fit. eorum ſpecies, dum videntur: qualiaque apud fenfusnoftros, quopervenerunt creantur,non apud fefe, unde profeeta sunt. Ma a che più da filoſofi ,eda’Poeti mendicar teſtimonian zein coſa cotanto manifeſta , la qual dalla verità medeſi ma ne fu ſpiegata per bocca del ſapientiſſimo Re Salamo V 2 ( 1 ) lib.iLcap.i . ne : 0 m I56 Ragionamento Terzo ! ne : Omnibus, quæ fiunt fubfole hanc occupationem pesſimam dedit Deus filiis hominum , ut occuparentur in ea . Intellexi quod omnium operumDei nullam poffit homo invenire ration nem eorum quæ fiunt ſubfole , & quanto plus laboraverit ad quærendum tantò minus inveniet . Etiam fi dixeritſapiens ſe ea noſſe ,non poterit reperire. Or qual contezza dunque aver mai potrà la incdicina intorno alle coſe a ſe appartenenti,ſe quelle medeſime fo no , ove s'intralcia , e s'inviluppa maggiormente la filoſo fia ? Ne in ciò la medicina , dalla filoſofia è differente , re non fe quella in più largo campo forſe va ſpaziando, e nel la contemplazion ſolamente , o ſemplice diſcorſo s'acche ta : e queſta ha per ſuo fine, e berſaglio il porre in opera• Perchè ſicome la filoſofia , la medicina ancora di pochili me coſe naturali conoſcer douraſi , e quelle forſe poco, o nulla al medicar ſaranno acconce : intanto , che non ſap piendole non è gran fatto per huom da curarlene. Ma per diſcendere in qualche particolarità,e far quãto più ſi pof fa una tal verità manifeſta : non vi par’egli , o Signori , che alla medicina ſovra tutt'altre cofe farebbe di meſtierc,che gutte le parti liquidc, e ſalde del corpo umano, e l'aficio le facoltà, e la natura ne foſſero interamente manifcfte? or dove mai ne fa ſcorta la coſtruttura dello ſtomaco , degli inteſtini , del fegato , della milza, delle reni, della veſcica, del pulmone , del cuore , delle glandule , le quali ſparte per tutto il corpo poco men che innumerabili fono , ele più di effe di canta picciolezza,che fenza l'ajuto del micro fcopio non ſi poſſon raffigurare , per tacer d'altre , e d'al tre parti ; e quantunque a tal ſegno di perfezione eller giunta a'dì noſtri veggiamo la notomia , che nulla più : nientedimeno non ſi è egli potuto , ne men ſi potrà giam mai camminar ſicuro , ne determinare , ſe non ſe pochiſſi me coſe intorno all'ammirabile magiſtero de' corpi degli animalized agli uficj,ed alle operazioni delle parti di quel li.Ed a dir liberaméte il vero , licome avvenir noi parimen te veggiamo , in tutt'altre partidella filoſofia , e della me dicina dopo tante induſtrie, e fatiche durate, e dopo tan . ti ſparti ! Del Sig.Lionardodi Capoa. 157 ti ſparti ſudori per cotanti valent’huomini,altro alla firms non ſi è arrivato a ſapere,ſe non fe altrimente in verità an dar le coſe di quel , che s'avviſavano , e davano a noia divedere gli antichi; e comechè gliocchi de’modernino tomiſti dal microcoſpio avvalorati poco men che lincei fie divenuti , eche eziandio colla ſcorta dell'avveduto Bilſio apparato abbiano a fchivare alcuni intoppi aʼnotoiniſti de' vivi animali , per l'addietro inſuperabili ; impertanto non poſsono in modoalcuno nelle menomiſfime particelle pe netrare , le quali ſe non vengono ben ſottilmente avviſa te , e ad unaad una diligentemente conſiderate , Io non ſo in qual modo ſaper fi pofsa la fabbricazione,e la coſtruttu ra delle parti maggiori, che ſenza fallo di quelle compo fte, e formate ſono . Perchè egli avvien ſovente ,dover noi in sì fatte bifogne camminare al bujo , attenendone ſola mente a troppo deboli , e incerte conghietture , e per cal. laje inviluppate andando . La inalagevolezza inedeſimi, anzi maggiore vienſi ad incontrar poi negli uficj e nell'o perazioni dieſſe parti ; e quel configlio, che porger ne puote in sì fatte traverſie il vital notomiſta , fia pur detto con pacedel Valentino , del Paracelſo , c dell'Elmonte , quantunque grande , ofere ognicredere egli ſi paja , e che torno d'ogni briga magnificamente ne prometta , fovente ſuole, per la malagevolezza eſtremadella coſt, ſcarſo , e debole molto riuſcire , e talvolta anche in tutto inutile ; il che da non altro certamente naſce , ſe non ſe dalla troppo fquiſita, e dilicata finezza del lavorio de ' corpi degli ani mali . Ma della fabbrica del cervello cotanto intralciata,e ma ravigliofa , Dio buono, che han potuto giammai, o gli an richi, oimoderni Notomiſti di certo raccorre ? non è ſta ta egli ogni lor fatica inutil ſempre,e vana , facendovi ma la pruova la loro induſtria , e’l loro ſtudio ? Egli ſono le fi bre , che'lcervello compongono , così minute, e ſpeſſe , e ſottili , e sì la for teſſitura , e reticulazione è dilicata , e la lor ſoſtanza molle , che a volerle ben partire fenza riſchio di romperle , o di perderle , inalagevole anzi impoſſibile : ogni 158 Ragionamento Terzo ) ogni impreſa rieſce . E sì, e tanto egli è ſpinoſa , ed intri cata, che'l gran Renato delle Carte reſtādovici anche egli tutto inviluppato , e preſo, ragionevolméte quell' huom, ch'egli compoſe per molti valenc'huomini vēne propiamé te idcale, e ſuo luomo appellato . Ma ſe tanto avvien del. le parti grandi del corpo perciaſcun vedute , che farà cgli da dir poi delle picciole , inolte , e inolte delle quali ha forſe la natura a nobiliffmi uficj, ed operazioni deputate ? eci ha alcune di eſſe parti cotanto menome , e ſottili , che non ha mano cosìſcaltra , ed avveduta , che poſſa ſperar di venire a capo di dividerle co'l ferro giammai. E altre vi fono più ſottili aſſaile quali appena per la lor sóma piccio lezza ſi poſſono col più fino , eſottile microſcopio ravvi fare ; E di queſte ancora vi ſono altreminori , e quaſime nomillime linee , nelle quali inutile ſi prova ogni arte , vano ogni ſtrumento per ravviſarle . Ma chi mai potrà le particelle del ſangue darne piena mente ad intendere , le quali ogni chimico ritrovamento per farne notomia vincono ? Chiquelle del ſugo nutritivo , della linfa , del licor pancreatico , dell'orina,del fiele ,del la mucilaggine, che veſte le membrane, detta dal Paracel . ſo finovia , e d'altre , e d'altre diſcorrenti ſoſtáze del cor po delle qualiinfin’ad ora nulla ſe ne fa , ne ſe ne potrà giammai per avventura per huom ſapere, comechè ſcorto, e diligente nel meſtier del far notomie egli fia . E chi finalmente aggiugnerà a capire , ſe non ſe per in certe , e fallabili conghietture , o la grandezza, o la figu ra , o'l lito, o'l movimento di quegli inviſibili corpicciuoli, che ogni inenoma particella delle falde , e delle liquide parti del corpo dell'animale compongovo ? E ſe ciò all'u mano ingegno è naſcoſo , come potrà egli mai paſſar oltre a-ſpiarne le facoltà, gli uficj, e l'operazioni , e tute'altre biſogne , che di neceſſità all'economia degli animali s'ap. partengono . E come ravviſar mai potrafli , da chi , ed in qual manie ra s'ingencri il Chilo , e comc, e per chi a cambiar ſi ven ga in ſangue , e coine il ſangue ad ogni ora in tante, e tan te mae DelSig.Lionardo di Capoa 159 te maniere ſi muova, e mai ſempre caldo ſe ne ſtea, e ten ga in vita i membri tutti dell'animale , e come ſi faccia il ſenſo, e'l moto: e cante, e tante altre operazioni,le quali non ſappiêdoſi, ne men certamente conoſcer fi potrebbono gli ſtravolgimēti di eſſe,cioè a dire le malattie e queſte igno rādoſi,come poi ſi potranritrovar certieſicuri argomenti da riſanarle ? Ma per darvi anco qualche ſaggio dell'incer rezza degli antivedimenti de'medici , ſe non ſi fa , ne può ſaperſi giammai coſa , che certa , e ſicura ſia dell'orina , e de polli ,chi può indovinarmai, per Dio , non che ſalda mente ſapere, tutte quelle cagioni , per le quali eglino , malimamente ipolli, anche in un momento ſpeſſo ſpeſſo variando, così ſtranamente ſi cambjno ? che direm poi de gli altri ſegnali della medicina , onde argomentar parimé. te ſogliono imedici le malattie , e le cagioni di eſſe non meno de’polſi, e dell'orina , anzi aſſai più di queſti talora incerti , e fallaci ? Certamente non mai potrà compren derſi perloro la qualità del inalore , e la cagione argomé tare. Ed ebbero ſenz'altro il torto di sì fatti ſegnali cotá to millantare i greci maeſtri, ſpezialmente Galieno, come ſi può ſcorgere , per tacer d'altre ſue opere , in quellibro, ch'egli a Poftumo intorno a tal materia ne ſcriſſe; che lo per me credo , che quelle , che a forec loro ne riuſcirono , certamēte colcarbon bianco ſi ſarebbon potute ſegnare . De'cibi , e de’medicainenti, e delle loro facoltà , e valore nulla certamentenemen potrà ſaperſi, nonſolo per defimi, ma per quel, che poſſano nel corpo umano opera re . E comechè i Chimici più che tutt'altri d'aver delle già dette coſe più pieno conoſcimento giuſtamente vantar potrebbono ; pure quel che ne fanno riſpetto a quel che rimarrebbea fapere è poco , anzi nulla . E ſon di vantag gio tutte le pruove non altro , che probabili , e poco ſalde conghietture ; perciocchè , non ſolamente imcitrui(liami pur lecito al preſente uſar termini dell'arte ) ma l'aria an cora , e'l fuoco , e ivaſi, e tutt'altri ſtrumenti , che vi s'a doperano, ragionevolmente d'errore , e d'inganno pofſon render ſoſpetta ognilor più diligente , e accorta notomia, ſe me 1 con 160 RagionamentoTerzo ne ſeco conmeſcola per entro a'corpi, che ſi dividono qualche lor particella , che magagni , emuti la lor compleſſione i E mallimamente l'aria, in cui tanti,e sì diverſi corpicciuo li diſcorrono ; i quali dalla terra , e anche altronde melli fuora , e infra quelle monome particelle del corpo diviſo per avventura meſcolandoſi , agevolmente le potranno in altre cambiare. E'l fuoco d'altra parte introducendovial cune di quelle particelle , licvi , e ſottili , che rubate ad altri corpi ſuol con leco ſempreportare ; o pur portando per li pori del vaſo le medelime particelle delcor po del quale ſi fa notomia , e maſsimamente le più nobili, ele più operative , che in eſſo dimorano : comechè la boca ca del vaſo ſia bene, e come dicono, ermeticainente turata ; o purcolla ſua forza nel digeſtire , e nel formentare , e nel lo ſceverare,ch'egli fà le particelle del corpo , del qual li fa notomia , diſponendo altramente quelle , e altramente meſcolandole , e dando lor movimento , per nulla dirdel. la grandezza , e della figura loro per eſſo diverſamente cambiate . Perchè fe tante , e tante cagioni poſſono alla fotomia delle coſe intervenire,come potrà egli mai ilChi mico notomiſta co'ſuoi argomenti vantuti dipienamente , conoſcerle : Anzi tanto egli ne ſaprà meno, quanto mag giormente faticandovil'havrà guaſte, e ſconce. Adunque ſe vaniancora , e infruttuoſigli avviſi , e gli argomēti de'più intimifamigliaridella natura ci rieſcono; e ſe nulla approda la più diligente , e ſottil notomia delle coſe a ſpogliar dalle dubbietà , e dalle incertezze la noſtra Medicina : Io per mè non ſaprei qual conſiglio prender mi doveſſi a dichiarirla dalle ſue nubi . Ne è da tralaſciare a queſto propoſito quanto agio s’a veſler preſo i Medici filoſofantidall'incertezze della me, dicina a ragionar ſovente , e piatir nelle ſcuole or d'una , or d'altra parte, più per vaghezza d'ingegno, che per amor della verità , difendendo tutte opinioni, ed ove lor con cio vi ene , giudicando non altrimenti che quel ſottiliſſimo filoſofante Pittagora faceaveder della filoſofia de omni re pervalermi delle parole di Seneca ) in utramque partem diſpu 1 1 Del Sig.Lionardodi Capoa . 101 difputaripoleexaquo.Perchè nõ è da maravigliare, ſe Dica nilio Egeo prendendo a difender cento contrarie opinioni in altrettanti capi partite , diede a diveder manifeſtamente l'incertezza di cotal arte . Il primo capo delle ſue conte ſe ſiè,che egualméte dal padre,e dalla madre fiinādi fuo ra il ſeme a ingenerar gli animali. Il ſecondo , che non d'ambedue ſi mandi. Il terzo, che ſi mandi da tutto'l cor po . Il quarto , che iteſticoli ſolamente v’abbian parte . Il quinto , che'l cibo nello ſtomaco per opera del calor ſi (maltiſca. Il ſeſto , cheno . Il ſettimo, che ciò ſia per lo ſuo sfacimento , e ſtritolamento . L'ottavo , che no . Il nono ,che ſia dalnativo fpirital calore . Il decimo , che no . L'undecimo , che per lo corrompiincnto del cibo fia . Il duodecimo , che no. Il tredecimo , che avvegna per propietà de' ſughi. Il quartodecino, che no . Il quinde cimo , che il calor natio a qualità s'appartegna. Il ſede cimo , che no . Il diciaſettefiino, che per lo calore avve gna la digeſtion de'cibi. Il diciaotteſimo, che no . Il di ciannoveſimo , che la diſtribuzion de'cibi lia per attraimé. to di calore . Il venteſimo , che no . Il ventuneſimo , che dagli ſpiriti la digeſtion ſi faccia . Ilventidueſimo, che no . Il ventitreeſimo cheper opera dell'arterie ſi digeſtiſca Il ventiquattreſimo, che no . Il venticinqueſimo, che ciò ſia permancamento a vuoto accompagnato . Il venteſimo feſto , che non per ogni mancamento eglilia . Il venzette. fimo, cheil glauco degli occhi per mancanza d'alimento al condotto viſivo s’ingeneri. Il ventotteſimo, che no. Il ventinoveſimo , che quel naſca per diſcorrimento di fan , gue nelcondotto vilivo . Il trenteſimo , che no . Il tren tuneſimo , che dalla graſſezza degli umori , e dalla eſala zione ſi faccian gli occhi glauchi. Il trentadueſimo, che no , Il trentatreeſimo , che la freneſia dal diſtendimento delle membrane del cerebro , e dal corrompimento del ſangue fi cagioni . Il trentaquattreſimo,cheno . Il trentacinque fimo , che per ſoverchianza di calore ella non avvegna . Il trentelimo fcfto, che no . Il trenzetteſimo, che per infiam magione ella ſia . Il trentottelimo , cheno . Il trentano X volimo, : 162 Ragionamento Tero 1 1 velimo, che da infiammagione ſi cagioniillecargo. Il qua ranteſimo, che no . Il quarantuncfimo, che per diſtendi mento , e per corruzione egli ſia . Il quarantadueſimo che non già per ſoverchianza , ma per la qualità dell'eſa lazione avvegna. Il quarantatreeſimo che la fames e la fere ſia di tutto il corpo . Il quarantaquattreſimo, che, dallo ſtonxaco folamente provenga. Il quarantacinqueſia mo , che ſia ſol nel penſiero , e nell'immaginazione . !! quarantefimo feſto , che la ſete per diſſeccamento s'accen da . Il quaranzetteſimo,cheno . Il quarantotteſino, che nello ſtomaco due diverſe operazioni ſi facciano . Il qua rantanoveſimo , che no . Il cinquanteſimo , chedalla pelli cella dentro dal cerebro traggano il lor principio i nervi . Il cinquantunelino , che'l traggan da quella di fuora . Il cinquantadueſimo, che le parganti medicine operino per lo corpo fpargendoſi. Il cinquantatreeſimo, che colloro fcorriincnto folamente , ſenza fpargerſi vuotino . Il cin quantaquattreſimo , che da uſar fieno purganti medica nienti. Ilcinquantaciirquelimo, che no.Il cinquantefimo fefto ,cheda ſegnar fia . Il cinquāzettefimo , cheno . Ilcin quattrotteſimo,che ſia da dare a febbricoli il vino. Il cinquá sanoveſimo,che no . Il ſeſsãtefimo,che adoperar debbano il bagno. Il ſeſsātnneſimo che no.Il feſtancaduelimo,che nell' accreſcimento de’nrali fia da far if crifteo agl'infermi. Il fola sātatreclimo che no.Il feſsátaquattrefimo, che in ſu’l prin cipio delle malattie fan da uſar leunzioni. Il ſeſsátacinque fimo,che no.I)fefsātefimo fefto ,che nella teſta poſſanoado perarſi i cataplaſini. Il fellazettelimo , che no ; ma ſola mente vi li debbano porre coſe odorifere . Il feflantotteli mo,effer giovevoli quelle coſe , che muovono a vomito . Il fefsancanoveſimo , che no . IHfettantcfimo , che dal cuor fi dirami al corpo ilſangue . Il fettantunelimo , che no . Il ſettantadueliino,che gli fpiriti dal cuorfi mandiitos ne dall'arterie ſien tratti . Il fettantatreeſimo , che no . Il fettátaquattreſimo,che da per ſe il cuor ſi muova.Il ſettan tacinquefimo , che no . Il ſettantelimo ſeſto , che l'arterie per lor natura ſieno ſtanza del ſangue . Il ſettanzetteſimo , che 1 Del Sig. Lionardo di Capoa 163 che no. Il ſettantotteſimo, che tuttii vali che ſopraſtano, e gonfiano , fieno ſemplici. Il ſettancanoveſinio , che i ricettacoli ſieno invoglie inteſſure. L'ottantelimo, che per mezzo de'nervifacciali il ſentimiento , el moto . Lottan tuneſimo , che no . L'ottantadueſimo, che'lcuor fia prin cipio delle vene. L'ottantatreeſimo,che no. L'ottantaquat trelimo, che ſia il fegato . L'ottatacinqueſimo , che no . L'ottanteſimo ſeſto che ſia il ventricolo . L'ottázetteſimo, che no . L'ottantottelimo, che tutti i ricettacoli ſi dirani no dalle pellicelle, che veſtono il cerebro. L'ottantanoveli mo , cheno . Il nonanteſimo , che'l pulmore ſia priucipio dell'arterie . Il nonantunefiino , che no . Il nonantaduefi ſimo , che quell'arteria , la quale ſta preſſo alla ſpina , ſia di tutt'altre arteric capo. Il nonantatreeſimo , che no . I nonantaquattreſimo , chedal cuor naſcano tutte larteric . Il nonantacinqueſimo, cheno . 11 nonanteſimo feſto , che dalla membrana del cerebro traggano i nervi origine, non già dal cuore . Il nonanzcttcrimo , che no . Il nonantot tcfimo , che non nel cuore , ma nella teſta la potenza it tellettuale dimori . Il novantanoveſimo , che nelcuore . Il centeſimo , che nel ventricino del cerebro ella ſia . Ma di cotante rivolture , e mutamenti d'opinioni, e di ſentimenti certamente egli non è da maravigliare, ſe tanto forſe avrebbe ancor fatto Galienomedeſimo , ove in con cio gli foſſe venuto . E di ciò egli ſteſſo ne' ſuoi libri ſi vā millantando ſommamente di poter improvviſo cial cuna ſerta dc'medici de' ſuoi tempi a buona ragion difen dere . Perchè ſe dir non vogliamo , eſser egliſtato Galie no un riottofo giuntatore , o berlingatore ſofiſta , che co' ſuoi fiſicoſi aggiramenti per diritto , e a torto il tutto a di fender togliendo , uccellar n'aveſſe voluto, convien di ne ceflità affermare , ciaſcuna ſetta de'ſuoitempi anche ſeco do il ſentimento di lui eſsere Itata igualmente ragionevo le ; e conſeguentemente a niuna certezza eſſer la medi cina appoggiata . EccmechèGalieno ciò dimenticando vanti fovente di poter far pruova de'luoi detti, avendo sé pre in lor concio nuove diinoſtrazioni ; non però di meno X 2 (il ci ta , 7 164 Ragionamento Terzo il dirò pur con buonapace di lui) le ſue millanterie row vente ſogliono in vaniſimo vento riuſcire. Anzi egli me deſimo dimentendoſi talvolta , e in più luoghi contaſtan doſi, ne fà della fua beſsaggine , e della fua poca fermez za avvedere . Quid enim , dice di lui ſtizzoſamente gridan do il Giuberti , quid enim in Galeni fcriptis frequentiusoc currit , quàm ipſumplerumque videre, quod alibimultis ra tionibus fueraidemolitus,id conſtantiſime afferere ? ERi nieri de'Solenandriznon men delGiubcrti della dottrina di Galieno intendentiſſimo, così parimente avviſollo . Gale nus , quiuberrimo ingenio fuit , ca oratione liberali ferè prodigus , innumeros propè confcripfit libros: in quibus rerü, &dogmatum multitudine plurima ſuntdiſcrepantia , nec fo bi ipfis conſentientia ; quafi quis attentè cum judicio legit ,fi quis diligenter in unum colligit , ingens chaos agnoſcit. Ma lo dirò di vantaggio ( il che non mi ſarebbe per av ventura peralcun creduto, ſe con l'autorità del medeſimo Galicno Io non gliene facelli certa , e ben falda pruova ) che ſe ancor la medicina foffe dattanto , che a ſaper dicer to molte , e molte di quelle coſc aggiugneſſe , le quali per addietro dicemmo eſſer di quelle ,chein quiſtion cadono tutto'l giorno , e più altre affai: ne meno alla ſicura nell’o perar ſarebbe ; abbiſognado a tale effetto, ſecondo Galie no , che molto bene in prima la propria natura , e com plexió di colui ſi conoſceſse, il quale ſarebbe da medicare. il che ſecondo, che cgli medeſimo apertamente confeſſa , non ſi può per partito alcuno baſtevolmente giammairav viſare , Ma ſe sì poco da noi in medicina per la ſua dubbiezza è da avere a capitale la ragione, non però dimeno e'non creda alcuno , che ſicura nc fia la ſperienza ;anzi per mag giormente incerta, e dubbioſa più avanti per noi ſarà mo Itrata . Perchè ſeguiranne poi ſicuramente , che non purla sagione dalla ſperienza accompagnata,valevol ſia a render certa , elicura la medicina ; concioffiecofachè verifimile a veriſimile accozzádo ; e no certo a non certo, e per lunghi argométise pruove che vi ſi aggiugono, non potrà mai, che I cer DelSig. Lionardo di Capoa 105 .1 } certa , e incontratabil fia , ſicuramente riſorgerne. Magià ſi è per queſte , e per altre coſe addietro diviſa te veduto a baſtanza , e con quanta diligenza per noi li è potuto la varietà delle ſette della medicina, e le diverſe ; e ſoventi fiate contrarie inaniere del medicare , e la varieră dell'opinioni , che fra’mnedicanti di tempo in tempo ſono venute in sù , non da altro, che dalla grandiſſima incertez za dell'arte pervenire ; egli forza fit, ch'al preſente fati gi per noi ſi duri in eſatninar le letto della medicina come già proponemmo , ed intorno a quelle i noſtri fenti menti ſpiegare ; quantunque a chi attentamente voleſse alle parole, che fino adora di tutta la medicina breveme te abbiam fitto , riguardare, non farebbe forſe meſtieri più diſtintamente diviſargliene , potendoſi ognuno a ſuffi cienza accorgere , ſe giammai un'arte così dubbiola , in coſtante , ed incerta poſſa avere in ſe dottrina , o principi tali , che su vi poſſa huom porrealcuno ſtabile fondamen to , e ſicuro . Ma per dar cominciainento dalla volgare Empirica , chiamata imperfetta , è ella certamente la più copioſa, c abbondevol di ſeguaci, che tutt'altre ſchieredi medicina unite inſieme, e rannodate fi vantino giamnsai d'arrollare ; infanto , che dir potrei, come ad altro pro polito il noſtro lirico, Non ba tanti animili il far fra l'onde, Ne lafsio fupra'lcerchio de la lung Vide mai tante ſtelle alcuna notte , Ne tanti augeili albergan per ti boſchi, Ne tant’erbe ebbe maicampo,nepiaggia . Onde ebbe ragionevol cagion di dubitare colui , ſe più coſtoro ſi foſſero , o l'infinita ſchiera degli ſciocchi; ne ba fa tutti interamente a comprendere quel volgar diſtico, Fingitfemedicumquiſquis idiota profanus, Iudæus .... hiſtrio , rafor , anns. E ben diſſe il Carlectone : Medicos ſe fingunt quoque Rizo tomi , Seplaſarii , fordidi Balneatores,triobolares Phleboto matores,fpurcidici Lenones,indo&tiparochiaram Sacrificuli, favella egli de’miniſtri della falla ſciſmatica Chieſa In 1 3 ghi 166 Ragionamento Terzo ghileſe , de'quali fa parole altresì , e forte ſi duole il Pri meroſio ) Chymiſte carboniperdes , audaculi Edentato res, impudentiſſimi V romantes , veteratores Fatidici , lj bidinoja obſtetrices 231Sádes, a pre cæteris omnibus perfi da illa , ingratifimaque impoſtorum gens , Pharmacopo le ; qui ſuntin Rep. agrorum pernicies,reimedicècalamitas, & Libitin & præſides . Che più , fe toccar quaſi co’mani l'innuincrabil torina di sì farti medici al Duca Nicolò da Ferrara il motteggevol Gonnella , allor , che nel novero di coloro , oltre allamaggiorparte della Città, il medeſimo Duca arrollando ripole ; ed egli era così celebre , e ftima to tanto in quella Città la volgare Empirica, che molti , e molti de'Razionali inedici oltreinodo godeano di militar ſotto le ſue inſegne . Maper Ferrara medicando quanti Veggo andar io , che barbagianni funo Ridicoli , ineſperti , ed ignoranti : Che non ftudiar d10 anni , fur a ſuono Digran campana alzati al dottorato Per amicizia o per promeſſo dono : Che ne Ariſtotel mailejer,ne Plato, Ne Avicenna , o Galien , ma due ricette, E le regole appena del Donato. Ma ciò permio avviſo , non altronde certamentewviene, che da una tal naturale inchinazione, che ſempremai inver la medicina par che tuttiegualmente abbiamo , e del co prender quanto quella ne abbia ad ogn’or luogo tra per noi medeſimi, e per gli amici , e per tutt'altre perſone del mondo . E perciocchè ad interamente apprenderla, e ado perarla , qual veramente fi conviene , di grandiflima fiti ca , e di ſudore non ordinarione fa meſtiere , ciaſcuno, co me il meglio puote malmenandola , ed abborrandola , in pochi giorni l'appara , e ſenza troppo diſagio la mette iz opera . E in vero cotalforte di medicina è molto agevole a imprendere , e ſovente dinon poco pregio , eguadagno Suol eller cagione ; perchè parecchj diigraziati,cuile robe o per nanfragj, o per fallimenti mancarono, o a giuochi, 4 o dic DelSig.Lionardo di Capoa 167 o dietro a feminine diinondo , o nelle follie dell'Alchimia vanainente fcialacquaronle , ſtenchi alla fine ,eigannati ri courar ſoyére al ſicuro porto d'una tal medicina ſi veggo no . Ed ora mi ſovviene di quel gran miniſtro di ſtato , il quale avédo perduti có la grazia del ſuo Principe ache tut ti gli avanzi delle ſue miſere fortune, diedeli ultimamente lo Igraziato a compor ballotte da medicina , e ſpacciarles a prezzo,qual vilisſimo pancacciere, ſoſtentando così l'in felice ſua vecchiaja. Ma non fa meſtier , che intorno a coſtoro lo troppa brin ga mi prenda in manifeſtar le lor beſsaggini, e i loro erro ri ; che purtroppo chiaramente per ciaicun ti conoſce quanto eglino ſempremai ciecamente medichino , ed ari fchio , ed a ventura ; non ſappiendo talora ne men groſsa mente , econfuſamente i ſegnali delle inalacrie , non che la natura di quelle ; perchè convien poi loro nel diviſare, e adoperarc i medicamenti andar ſempre atatone , con af pettarne , timoroli, gli avvenimenti. Maggior fatica fen za fallo rimane in dar giudicio della perfetta Einpirica ; la qual per le ſue regolate maniere di adoperare , nelle qualianifeftamente ſi ſcorge aver qualche ſcintilluzza di ragione ,puofſi in certo inodło covenevolméteRazionale Empirica chiamare ; conciolliecoſachè la perfetta Empi rica inedicina ſopra uma falrima baſe aver ſembri le ſue fondamenta, che è la fperienza , non folamente per la baſ. fa gente, ma per gl’ifteli medici raziunali cotanto ſtimata , e a capital tenuta : che apertamente talora, e in ifcritto , e in voce una delle due colonne della medicina chiamarla fogliono ; eſſendo l'altra , fecondo lor ſentimenti la ragio ne . Anzi huomini chiarillimi diqueſta medeſima ſembra glia de'Razionali cotáto agli Empirici nemica (tra’quali fur Eraclide da Taranto medico , e filoſofo di sì gran fapere, ecosì nell'arte eſercitato , che agevolmente e' li puotè ad ogni più eccellére medico greco paragonare) abbadonādo la lor fetta Razionale e laſciate affatto le ragioni alla fola ſperiéza degliEmpirici ricoverati alla fine ſi rifuggirono ;ed altri comechè perſeverino nella ſetta de'Razionali,pur ma nifc 168 Ragionamento Terzo niſeſtanente confeilano eſſer ſoventi volte da antiporre la ſperienza alla ragione ; e dicono , che ove d'una parte la ragione , e d'altra la ſperienza il contrario ne perſuadono , che allora il medico laſciar debba affatto la ragione , e la ſperienza ſolamente ſeguire. Ed infra filoſofi di grido Ari ftotele apertamenteconfeffa , all'arti tutte aſſai più di con cio , e d’utile la fperienza recare , che la ragione , e che'l medico maggiorinente in pregio ſormonti nel far pruova continuo degli ammalati, checon beccarſi tutto giorno il cervello ne’libri . E quel ſcrittore , che col ſuo acu tilimo intendimento ſi ſeppe così addentro innoltrare ne gli affari del mondo , avvisò , la medicina non eller altro , che ſperienza fatta dagli antichi medici ,fopra la quale fosi dano i medici preſenti i loro giudicj; ma prima dilui avea detto Quintiliano,medicina ex obfervasione falubrium ,atq ; his contrariorum reperta eft , & ut quibufdam placet,tota co hat experimentis ; nondimeno l'Empirica medicina , non che abbia giammai nulla di certo , anzi ſoventi volte in graviffimi errori traſcorrer ſuole , laſciandoſi oltre al dove. re alla ſola ſperienza ciecanente guidare ; la qual come Ippocrate grandiffimo ſperimentatore avviſa , ſovente è fallace,e vana . E in vero ſe la ſperienza è ricordo di quel le coſe,le quali più d'una volta ſtate ſono oſſervate , chi oſerà mai certamente affermare , che ciò che più volte av venne , debba poi altre , cd altre volte ſomigliantemente avvenire ? Certamente niuno , ſe non colui ſolamente , che inveſtigatane la cagione , onde quelle volte già que gli effetti avvennero,delle ſeguenti riuſcite ragionevoli ar gométi potrà cavarc; delle quali cagioni , ſe le medeſime ſaranno , certamente nc ſeguiranno i medeſimi effetti , ma ſe peravventura non ſaran deffe,o quanto diverſi,e varjef. ferti uſcir ne potranno; ſenzachè la medeſima cagione per la diverſità delle molte circoſtanze , che l'accompagnano , non ſempre ſuole i inedeſimi effetti produrre , ina diver ſi , ſecondo la diverſità delle perſone , de'luoghi, c d'altre coſe , che vi concorrono , Alche ficome in tutte ſcienze è ſommainente da riguardare , così non è da traſcurar punto DelSig.Lionardo diCapoa. 169 1 I punto in medicina: nella quale avviſaſi a giornate , noul ſempre i medeſimi mali dallemedeſime cagioni avvenire : non ſempre congiurar le medeſime circoſtanze in mante ner le medeſimemalattie : e finalmente non ſempre que, mali , che i medefimi eſſer ſembrano , effer veramente ta li, quali ſi pajano ; concioſliecoſachè i ſegni tutti e gli in dizj, pe'qualicomprender ſi poſſono,ingannevoliſovente, e fallaci fieno , facendo veduta d'eſſer manifeſtamented un male , il qual poi tutt'altro ſarà di quel , che noi alla prima faccia argomentiamo. Ma ne meno giudicar puoſ, fi con piena certezza , ſe ſia ſtata opera del medicamento il migliorare,e'l guarirc dello infermo ; imperciocchè tal volta dalla ſola natura del malato , o del male ſuole ava venire ; ed altri pur follemente immaginerà , eſſere dal ſuo medicamento ſolamente ſeguito . E allora più mala gevol ciò, e intralciato ſi rende, quando all'ammalato più d'un rimedio ſi porge ; perciocchè allora non può age. volmente imbroccarſi, qual di que’tanti medicamenti ab bia per avventura all'inferno approdato. Ma tacciaſi al preſente di ciò , che di leggier forſe po trebbeſi ſchivare , comealtresì è da tacer della credenza , la qual ſenza manifeſto riſchio d'errore non ſi può piena mente alle ſtorie degli ſcrittori preſtare : coſa la qual già tanto contra gli Empirici rimproverarſuole Galieno . Ne meno faticheremo in dir cola alcuna intorno al paſſag gio , che da parte a parte far fogliono gli Empirici , e dal la ben compoſta analogia di male in male ; che ben ciaſ cuno a prim'occhio potrà agevolmente comprendere,quã. to ftrabocchevole, e inviluppata ſia la lor dottrina , e d'e videntiſſimi riſchj tutta ripiena . Manon fia forſe fuor di propoſito il rapportare al preſente ciò che della ſperienza un graviſſimo autore , e più , che altri per avventura in quella eſercitato ne manifeſta dicendo ,eſſer la ſperienza in man del medico , non altrimenti , che il cuor di bella donna in mano di fido amante; il quale, quádo più immagi na di tenerlo ſtretto allora quello in altrui inani ſe n'è vo lato . Verità anchemolto ben conoſciuta all'avvedutiſſi. Y moje 170 Ragionamento Terzo mo , e faviſſimo ſperimentator de’noftri tempi Franceſco Redi; il quale ſcrive trovargiornalmente, che le ſperien ze più malagevoli, e più fallaci lien quelle, le quali intor no alle coſe medicinali fi fanno . Ma volete voi , ch'lo brievemente vidia a diyedere quanto vana , e fallace ſia nella medicina la ſperienza ? Ella non ha mai potuto ne pur una delle famoſe quiſtioni appianare, che mai ſempre le penne de'medici tengono affaticate . Ma riguardando i maeſtri, e fondacori della Metodica medicina all'incertezza dell'Empirica : e d'altra parte av viſando quanto la Razionale in ſu le fanfaluche degli ar gomenti, e delle ſofiſticherie vanamente s'aggiri : vollero ſolamente a certe poche coſe veriffime, e manifeſte del tutto appiccarfi, e quivi l'arte tutta della lor medicina piantare. Eglino a due foli generi i mali tutti del mondo riſtringono : uno de'quali diſcorrente , e l'altro ſtretto chiamano . Naſce il diſcorrente allora, quando i pori del corpo fon ſoverchiamente allargati , e fatti maggiori aſſai di quelli, che in prima erano ; o quando altri nuovamen te accreſciuti glie ne ſono; e lo ſtretto allo incontro è quż do le parti oleremodo ſtrette infra loro , e congiunte lì ſo no , perchètalora , o più abbondevolmente , o più di ra do li vuota il corpo . Quinci eglino due forme di manife fti indizj di ciò , che far li dee argomentar fogliono : una di ſtrignere , ed una di allargare : e queſte chiaman comu nità curative , e quelle paſſive; aggiugnendovi di vantag gio le comunità temporali, cioè a dire il principio , l'avā zamento, il vigore, e lo ſcemo della malattia . E percioc chè il male talvolta d'amendue le prime comunità con polto effer ſoglia , cioè diſcorrente inſieme, e ſtretto : vo gliono allora i metodici , doverſi la cura alla maggiore , e più ragguardevol parte ſolamente indirizzare . E tanto baſtial preſente aver de’loro principj accennato ; chi più addentro ne vuol ſpiare,leggane più diſtintamente in Ga lieno , e Proſpero Alpini , il qualcon lunga fatica accolſe inſieme, e ragunò tutti gli avanzi dell'antica Metodica medicina , e di difender quella con cutta forza oſtinata medite i DelSig. Lionardodi Capoa 171 ſenza troppa mente ſi ſtudia ; ma non puote però per fatica, che v'ado: peri far sì,che non rieſca malagevoltroppo,ed intralcia to a' curioſi l'apprenderne intera la dottrina ; concioſie coſachè alcune coſe , poco forſe bene, e fedelmente egli rapporti; ed in altre faccia meſtiere andar pur tentone , ed alla cieca . Ma lo quanto è a me , voglio al preſente più di Galie no medeſimo eſſer liberale a'Signori Metodici , e conce der loro di vantaggio molte, emolte di quelle coſe , che fatica durare , agevolmente negar loro po trei . Sien pure , com'eglino s'avviſano , le comunità cut te manifeſte , e piane , e a quelle nulla mai oppor ſi poſſa: or come, e in qual modo baſterà ciò ſapere per prender aº mali conſiglio , ſenza più oltre ricercare argomenti a ciò opportuniz ma eglino nel medicare ſi laſcian pure allora ciecamente trarre alla ſperienza ; adunque eglino anco ra in ſembraglia de’Razionali, e degli Empirici andando alla ventura , e facendo argomento dall' incertezza degli avvenimenti , manifeſtamente talora inceſpando traripa no . Ma ciò traſandando,ſia pur da curar malattia di ſtret tezza , come di poftema , o d'altro ſomigliante malore , che di allargamento abbia biſogno : manifeſta coſa è,che la materia ingozzata , e rattenuta in qualche luogo della perſona;cotal ſtrettezza cagioni ; ed acciocchè poſſa li beramente far punta , ed uſcir fuora, conviene in primas, che la durezza liſciolga , ed ammolliſca: ed altro s'impré da con argomenti a ciò fare valevoli, & opportuni . Or come potrà mai ciò ſeguirc, ſe non ſi ravvili in prima , di qual natura ſia la materia indurata, acciocchè poi libera mente il ſuo vero , ed acconcio rimedio trovare , ed adato tar viſi poſſa : O forſe ciò , che ſcioglie una ſoſtanza,co sì ſomigliantemente tutt'altre ſcioglier puote? anzi talora in contrario da quello indurar le veggiamo, Limus, ut hic durefcit, bæc ut cera liquefcit V no, eodemque igne: Ed ecco brievemente abbattuta a terra l'evidenza de Metodici ; ecco , che pur convien loro entro i confini de? 1 1 Y 2 Ra 172 Ragionamento Terzo Razionali medici alla fine ricoverare . Ne più intorno alla lor dottrina impiegherovvial preſente parola . Ma delle ſchiere Razionali degli antichi Greci così ſcarſe rimaſe ſono appreflo noile memorie , che non v'ha luogo alcuno di diviſarne, non che d'abburattarle , o per avventura riprovarle; anzi ne men ſaper certamente por ſiamo , chi mai ſtato fi foſle il primiero tra'Greci , cui foſ ſe venuto fatto di dar principio alla Razional medicina , e ciò chealtrove andato ſe n'è per noi ricercando , non li è potuto ancora così rinvenire , che foſſe valevole a to gliere ogni dubbietà . Ma non è egli però da porre in for ſe , ove ſottilmente la coſa ſia riguardata, che la Razional medicina da tempi aſſai più lõtani di quel, che per avven tura comunemente s'eſtima, tragga la ſua origine ; e forſe forſe ella è sì antica , che non pur ne convien dire , ch'af fai prima della volgare Empirica ella naſceffe , ma chel Empirica volgare ſia della Razionale , anzi, che no giove nil parto , e creatura ;la qual coſa in sì fatta guiſa leggier mente noitoccheremo . Quelle coſe onde diſcacciar ſi ſogliono talora da' corpi le malattie , e che rimedj comunemente ſi chiamano, con vien dineceſſità , che tutte da ſe ſteſſo l'huomo le im prenda ( non avendo altri ch'inſegnar gliele poſſa ) natu ralmente , da alquante poche in fuora ſi alla medicina non fanno , le quali gli vengono da' bruti animali dimoſtre ; ma può tali medicamenti l'huomo ap prendere , o a caſo in effi abbattendoſi ; o col diſcorſo in veſtigandogli. E concioffiecoſachèrariſien quei rimedi, che a caſo ritrovar ſi poſſano ; nc ſembri veriſimil punto , che le tante erbe , e radici, onde negli antichiſſimi tempi, non pur le ferite , ma gl'interni malori altresì medicavan ſi , veniſſero a ſorte lor conoſciute ; rimane adunque, che per la più parte dalla ragione i medicamêti ftati fieno ſco verti . Ma come que'primi rozzi huomini per queſta via aveſſero potuto rinvenir le sì varie virtù de'medicamen ti , non è coſa molto malagevole per avventura ad inveſti gare,ſopratutto cui voglia pormente a'bruti , e andar mi > che nulla qua nutamen DelSig.Lionardo di Capoa. 173 nutamente ſpiando come tutto di s'adoperino in ritrovar le medicine perloro malattie . I brutistutto che d'anima ragionevole privi, pur nondimeno oltre a' ſenſi , ſi trova no di tutto ciò , che a lor fa meſtiere a comprendere le ; coſe neceſſarie al proprio mantenimento, baſtantemente provveduti ,anziabbondevolmente dalla larga , e prodi ga mano della natura arricchiti . Vengono talora agli animali le medicine dal caſo di moſtre , comedel Dittamo , erba crinita , e di purpureo fiore , avvenir ſuole , eſca oltremnodo gradita , e foave al palato delle capre ; onde ſoventi fiate ſavoroſamente la paſcono ; e ravviſando elleno , che ſe mai ferite vengano da' cacciatori dopo haverla poc'anzi paſciuta ,dalla fe . rita , allora Volontario per fe loftralſe'n eſce, ſi riſtagna di preſente il ſangue , e ractamente ſe ne fugge il dolore : ad ogni ora poi,che ferite ſi ſentono, a paſcerlo frettoloſe ſe ne corrono ; e per queſta da noi menzionata ſtrada , e non già per quella del ſognato , e favoloſo iſtin > to , . maſtra natura alle montane Capre ne inſegna la virtù celata Qualor vengon percole , e lor rimane Nel fianco affilala faetta alata ; e a queſto medeſimo modo fors'anche addottrinati De la Scimmia il Leon languente, ed egro Avidamente cerca il feropaſto; E beve il Pardo de la Capra il ſangue, Epafcei ramofcei d'oliva il Cervo; perocchè eſſendone cibati a caſo , allora , che infermi fi ritrovavano , giovevoli aſsai ſperimentarongli : E ſomi gliantemente altresì La teſtuggine allor , che'l fero tofco De la ſerpe l'ancide , e dentro ſerpė Il paſciuto velen falute , , e vita Dall'Origano cerca , e non indarno. Opera ſomigliantemente del caſo , e' certamente ſema bra, i 174 Ragionamento Terzo bra ,ſe per qualche male infaſtiditi,dalcibo aftenendoſi gli animali avviſan riuſcir cotale aſtinenza loro giovevole, c perciò per innanzi per ſimili cagioni ſi rimangono di ci barſi . Ma con più ſottil modo, e più fagacemente ven gono gli opportuni medicamenti di vantaggio lor cono ſciuti ; comene'lupi ,ne'gatti , e ne' cani, per tacer d'al tri , manifeſtamenie ſcorger ne lece, allora , che ſenten doſi eſſi aggravare , e moleſtar lo ſtomaco pe'l guaſto , e corrotto cibo , ed avviſando , che alcune erbe , le quali talora forſe loro punſero il muſo , poſſano , ſtuzzicando le parti interne,provocar di leggieri il vomito; di quelle op portunamente ſi vagliono . Chiunque andaſle poi con qualche minuta diligenza , e ſollecitudinc ricercando , ravviſerebbe per avventura,che ove il gran fattore della natura ha della ragionevole ani ma privi i bruti animali, abbia nondimeno lor dato forſe alcun ſentimento de’noſtri più dilicato , e perſpicace , valevole più agevolmente a comprendere ogni menoma impreſſione, che lor da ſenſibilioggetti ſi venga a fare, on de poſſano la lor vita acconciamente regolare ; ma ſe tal ſentimento poi, cone ſovente avvenir egli ſuole , diritta mente non gliſcorge , elli ne argomento alcuno hanno di riparare a'lor mali, ne fanno, ne poſſono dalle mortali di ſavventure in modoniuno ſchermirſi;perchè veggiam tut to dì le capre , le pecore, le vacche, i cavalli , ed altri ani mali infermar gravemente ; e ſpeſſe volte per aver palaiu to erbe nocevoli, e velenoſe ; il che quando mai altra ra gion no'l dimoſtraſse, nc dà chiaramente a divedere , non ritrovarſi veramente negli animali quel maraviglioſo , ed inverifimilc iſtinto, che cosi inagnificamente lor s’attribui ſce percoloro , che non ſi avanzan più oltre nel filoſofare , che nella prima ſola corteccia delle coſe . Or ſe tanto a’ bruti animaliè conceduto , che poſſan talora con qualche dilicato ſentimento, e con rozzo, ed imperfetto modo in veſtigare , o pure rinvenir qualche ombra di Razional medicina ; come non aurà potuto l'huomo , ſoura loro d'anima fpirituale, e ragionevole, e immortal dotato come 1 dico Del Sig. Lionardo di Capoa 175 : dico non avrà potuto ſino a’ primi tempi , e col naſcente mondo, col diſcorſo i medicamenti ricercare , e ritrovare ? ſenzachè fa meſtier certamente all'huomo, ſe ſcovrir pure egli vuole la naſcoſa virtù medicinale o di pianta , o d'ani male , o di vegetabile alcuno , prender in duce , e in iſcor ta la ragione; imperocchè l'huomo non gode di quella feli cità in guatando le coſe , che grande a maraviglia aver- , fi ſcorge ne'bruti; ne'quali, coine di ſopra dicevamo , o liau per le ſvariate diſpoſizioni degli organi, o ſia pure, che'l di Icorſo rechi qualche impedimento alſentire, Dove manca ragione ilfenfu abbonda. E in confermazione di quanto lo dico, s'egli ſi riandaſſero, comechè leggiermente l'antiche memoric, ſi ravviſerebbe apertamente , che a'primi maeſtri della medicina convenne valerſi della ragione per inveſtigare, e rinvenire i medica menti. E percominciar da’ Cineſi : Popoli ſenza fallo di tutt'altri più antichi:leggeſi ne' loro annali, che'l grans, monarcaCinnungo ,il quale ſuccedette a Fojo che no guari dopo il diluvio refle l'imperio della Cina, c che quivi prin cipe de' medici , e inventore della medicina vien comune mentetenuto, ritrovaſſe perpruova fatta in ſe medeſimo la virtù di molte , emolte radici , e piante, abili non ineno produrre, che a diſcacciare lemalattie; ech'egli ne compo neſſe varj, e varj libri, de'quali infino ad ora li ſon valuti , e fi vagliono anche oggidi i Cineſi medici con felicità non or dinaria nel medicare. Or non sebra mica egli credibile che a caſola prima fiata e' poteſſe Cinnungo pormano a quel la tal pianta , o radice per farne la pruova? Ma è veriſimil molto, che foſpinto e'veniſſe a ciò fare da qualche ragione; altrimenti non ne ſarebbe egli giammai potuto venir a ca po; tanto più, che Cinnúgo, ſicomeivi è furna, nell'anguſto { pazio d'un anno ſolo inveſtigò ,e rinvenne ben ſeſſanta ve lenoſi ſemplici, caltrettanti falutevoli,e abili a rintuzzare, e a vincere illoro veleno;e contale , e tanto avvedimento econ ſucceſſi così fortunati egli vi ſi adoperava, che comu neinente buccinavaſi eſſere i luoi occhj vie più aſſai di que' del lupo ccrviero acuti , c penetranti. E più chiaro molto rio 170 Ragionamento Terzo ciò che lo ora dico ſi ſcorgerebbe per avventura , ſe colui che ſi diè cura, e impiegò il ſuo ingegno a traslatare in la. tino idioma le croniche de'Cineſi,il medeſimo fatto aveſſe de'volumi della lormedicina . Ma più certo ſi rende , che que'primi Cineſi medici , da ragione ſcorti, aveſſer rivolto l'animo ad inveſtigare i medicamenti ,daciò ch'eglino a queſt'opera fare, ancor della Chimica valuti commodamé te fi foffero. Per la qual ragione creder pariméte ſi dee, che que', che nell'Egitto la medicina trovarono , i quali altresì della chimica ſcorti furono, e inteſi:parimente ſi foſſero del diſcorſo valuri : non riſtandoſi in ciò, che dal ſolo caſo lor ſi parava davanti.E per dir qualche coſa anche della Scitia, la quale non ſoggetta allo imperio d'altra nazione, conten de d'antichità (comeper Trogo Pompeo narraſi) coll’Egit to medeſimo ; tutto che da Erodoto un tal vanto alla Fri gia s'attribuiſca ;della Scitia lo dico, chi mai recar potrebbe in dubbio, che i primi medici per via della ragione rinve niſſero i medicamenti: ſe in Prometeo , dal quale, ebbe il ſuo primo cominciamento la medicina degli Sciti, accom pagnata mai ſempre ſi vide la medicina, colla filoſofia; e fe non aveſſero alla ragion poſto mente, come mai que’primi medici dell'Arabia ravviſar potevano la puzza del bitume, e delle barbe de'becchi dar cõpéſo alle infermità cagiona te a que'popoli dalla ſoverchiaza degli odori ſoavi . Ne meno in verità nella Fenicia i nepoti diScdoc, i quali, co me narraſi per Sáconiato ,o lia Filalete, appo Euſebio ritro varono primieraméte, qual ſorte d'erbe, oqual maniera di cã to valevol.fi foſſe adomar queſta,o quella malattia, ſenza l'ajuto d'una profodiſfına natural filoſofia ciò inveſtigar mai poterono.I Druidi poi dellaGallia , nõ meno in filoſofia , che in medicina ſcarti,che infra l'altre medicine adoperavano, quel ,che dica Plinio , il fūmo della ſelaginc al mal degli oc chj.no avrebbon fenza fallo mai a caſo ardendo la ſelagine Sperimétar potuto agli occhi giovevole ilſuo fumo:ma pri ma di ciò fare cóvié dire ,ch'eglino aveſſero in prima alla na tura dalla ſelagine,e del ſuo voláte ſale poſto mente. E p fa vellar della Grecia , da qualche ragione moſli furono Chi rone Del Sig.Lionardodi Capoa. 177 rone , Eſculapio , Ercole , Melampo , ed Achille a valerli primieramente della Centaurea , dell'Aſclepio , dell'Era clio , dell’Achillea , piante che non poteva certamente il caſo loro porle davanti, per effere elle amariſſime, e non mai per huom veruno , in cibo uſate . E ſe mai eglino vo lendole ferite turare,di qualch'erba ſi yalſero, la qual ven . ne sì factamente la ſua virtù a ſcoprire: comepotea mai ciò avvenire delle radici, malimamente , che alcune di loro convien che con zappe , o marre dalla terra a viva forza li ſuellano ; e parea vana affatto una tal fatica, quando coll erbe più agevolmente, ed aflaimeglio all'aperte piaghe approdar ſi potea . Fu dunque l'eſperienza dalla ragion ; preceduta ; ed ebbe il corto Quintiliano affermando il contrario colà ove difle :Vulnusdeligavitaliquis , ante quam hèc ars effet , & febrem quiete , eo abftinentia , non quia rationem videbat :fed quia id valetudo coëgerat,mis tigavit. E come mai fu egli poſſibile , che Melampo , il quale parve , che nella greca medicina introduceſte l'uſo de'mi nerali ,rinveniſſe a caſo effer la ruggine del ferro giovevo le alla ſterilità . Ma ſe razionali furono avvegnachè roz zi , ed imperfetti quegli antichisſimimaeſtri , ed invento . ri della medicina,convenevole certamente egli ſembra .' che qualche coſa anche di loro da dir ſia . E daremoa tal diviſamento da'Cineſi principio . Coa me, e quanto oltre nelle coſe della natura filoſofando s'a vanzaſſero i Cinefi, il grande teſtè di noi mentovata lin peradorc Cinnungo , e gli altri primi medici della Cina , Io porto per me ferma opinione , che penetrar non ſi pof ſa per huom giammai; concioſsiecorachè i libri poco mé, che tutti furono al niente dalle voraci fiamme condotti, gia ſon due mila anni traſcorſi, per ordine dell'Imperado re Cino , il quale rizzò incontro a’ Tartari quelle ma. raviglioſe mura , e delle lettere implacabil nimico maisé pre moſtrosſi; avviſando faggiamente, che'l troppo ſtudio di quelle , rendea gli animi ſnervati, ed imbelli, ediſadar tia difender la patria dagli allalti nimici; e ſe alcuni pure Z de 178 Ragionamento Terzo 1 de’più antichi tuttavia per avventura ſalvınerimaſero.no vi avendo ora chi intender poſſa que’miſterioſi caratteri, ne’quali ſcritti furono , è tanto , comeſe ſmarriti anch'e glino , ed abbruciati fi foſſero . Ma da qualche veſtigio , che tuttavia ne rimane , ſi ſcorge apertamente , che i Ci neſi nella geometria , nella filoſofia , e nell'altre ſcienze molto furono addottrinati , e ſi valſero della Chimica , e conobbero ,un ſolo eſſere il principio delle coſe naturali; e fer ſecondi principj le cinque ſoſtanze dette da loro me tallo , legno , acqua , fuoco , e terra ; ma diverſi da que' corpi, che comunemente con tal nome ſi chiamano, e non disſimili per avventura da' principj de' noftri Chi mici . Ma ſi par certamente , che Cinnungo non molto nella filoſofia , e nella medicina avanzaffeli ; mal potendo per opera d'un ſol huomo sì grand'impreſa , c di tanta lievas in un tratto naſcere , e ricevere l'ultimo ſuo compimen to ; masſimamente alla medicina richiedendofi molto re po, e che molti, e niolti huomini a tal lavoro s'adoperino, acciocchè a qualche ſtato di perfezione , e di eccellenza pervenga . Ma chi no ſarà periſcorgere anco a prima viſta poi qua to fien favoloſe , ed inverilimili quelle pruove,chedi Cin nungo ſi narrano , che egli faceſſe in ſe ſteſſo lo eſperimen so delle piante nocevoli , e rift orative , e che nello ſpazio sì breved'una ſola giornata , tante ne provaſse, e ne ripro vaffc ; il che fa chiaramente conoſcere , quanto la medici na , ſe acquiſtar vuole eſtimazione , in tutti i tempi , cd in ructii luoghi abbia in coſtume di porre in opera le men zogne , ele millanterie . Quáto poi valeſſero gli antichi medici Cineſi nella Chi mica , chi potrà mai indovinare fi la ſolo , che eglino s' ingegnarono di trovar medicine , non ſolo acconce agua rir le malattie : ma anche valevoli negli huomioi ad eter nar la vita ; e comediRaimondo, d'Arnaldo da Villanova millantano i frati della Roſea Croce , che vivi anche oggi ſien o , che vadano ſempremaiper lo mondo vagando; co sì fin 1 ! Del Sig.Lionardodi Capox . 179 . sì fingono ,e danno ora ad intenderei moderni Cineli Chi mici , eſser molti , e molti di quegli antichiſapienti, che , fattafi colla gran medicina immortali , dimorino nelle cia me degli altisſiini monti , e quindi vadano , anzi volino dove lor più ſia a grado , ed anche in Cielo, Sciolti da tutte qualitati umane, Ma più , che tutt'altri ſi laſciarono nella Cina da' Chia mici ingannare i troppo ſemplici Imperadori;e narraſi,che da lor perſuaſo l'Inperadore luoo a comporla medicinas da poter divenire immortale, faceſse fabbricar un pala gio di cedro , di cipreſso,di canfora, e d'altri legni odori feri, che'l loro odore lūgia inolte miglia facea ſentirſi.Al zò nel palagio una torre dibronzo altisſima nella cui vce ta eravi una conca parimente di bronzo , formara a guiſe d'unamano , nella quale ogni mattina avcaſi a raccorres. purisſima la celeſte rugiada: ove macerar pofcia fi dovea no le perle , ed altre peregrine, e rare coſe , delle quali compor li doveva quel prezioſo , e divino medicamento , che facea l'immortalità conſeguirea qualunque adoper2= valo . Ed anche a’giorni noftri ſi veggon per tutti i reami diquel vaſtisų moimperia , andar ad ogn'ora vagabon deggiando , in grandisſimonumero i Chimici; i quali in fingendoſi dicſer nati più e più ſecoli addietro , vendon altrui la medicina , che fà gli huomini immortali, e tra per le loro trappole , e per lo deſiderio , che è in ciaſcheduno di conſeguir l'immortalità , ritrovano , e più tra’letterati che tra gli altri , chilorpreſta credenza . Ma laſciando sì fatte memorie da parte ſare , ſi ſcorge quáto ben forniti foſſero de'rimedi efficaci gli antichi Ci ucfi , dalle maraviglioſe cure , che con eſli tuttavia fanno i moderni medici . Solamente potrebbeſilevare incontro taluno,dicendo che non ſiano giunti a ſaper quanto dilet. tevol ſia ilber freddo, ne mai habbia meſſo in uſo i ſalalli; ma tali appoſizioni recar potrebbonſi eglino a ſomma lo da ; imperocchè col ber caldo ſi ſono i Cineſi ſottratti al nale della pietra , alle podagre , e ad altre atrociffime malattie , che così frequenti , ed abbondevoli ſono fra z 2 noi 180 Ragionamento Terzo . 1 1 3 noi . E quanto al non trar ſangue, oltre al novero de’gre ei , e de’noftri medicanti, che ſeguono il medeſimo iſtitu to: la ben lunga preſcrizione di quaranta, e più ſecoli , ne? quali han potuto guarir feliciffimamente, ed in iſpazio al ſai brieve le malattie , non gli rende degni , non dico di ſcuſa , ma d'altiſſima loda ? eda ciò vorrei, che poneſſer mente tutti coloro, che così di leggieri ſi laſciano a' medi ci trar ſangue. I moderni Cineſi medici non altrimenti , che gli antichi già fi faceſſero, de’ſemi , delle frondi , delle corteccie d'alcune piante ſi vagliono, e d'alcune pictre al tresì , e ſerban libri, ove ſon figurate l'immagini di tali piante , e pietre , e le loro virtù narrate ne’precetti, e nelle regolemedicinali,non guarida noi eglino ne van lontani . Preſcrivono a’loro infermi sì rigoroſe diete , che alle volte laſcian paſſar fino a venti dà fenza dar loro altro cibo , che certo ſugo dipere , tre , o quattro fiate il giorno , e ber quãto acqua richieggiono; e sì molte graviilime malattie a buonoje perfetto ſtato riducono. Immagina alcuno , che tal dieta non potrebbe fofferirſi da'noſtri huomini; ma quanto egli vada errato,ilpuò far vedere l'eſſere ſtata in uſo appo gli antichiſſimi greci , e l'eſſere i Cineſi di noi più teneri, e dilicati aſſai.Ma che che ſia di queſte,van tutto dì i Cineſi compilando libride'ſegni,delle cagioni, e degli effetti de' mali,da’quali,non avendo nella Cina ſcuole di medicina, e da' proprj lor padri i Cineſi la ſogliono apparare • Di. cono tutti , che i Cineſi medici ſono séza alcun paragone aſſai più de’noftri,valenti in guarire i mali; ma nondimeno ancora ivi colla medicina s'accompagna l'inganno, e l'ar tificio ; ed eſſendo eglino intendenti molto de'polli, tutta via per parere in ciò da più affai , s'interrégono fin’a mez ' ora , fingendo d'oſſervar minutamente le lor mutazioni in toccandogli , e danno a diveder dapoi , che con una tal diligenza eſſi aggiungano a ſapere d'ogni varia , e più oc culta interna diſpoſizione , e diqualunque più ſtrana mas, lattia la natura , e la vera cagione . Ma è per mio avviſo il pregio maggiore della lor medi cina l'aver certi argomenti da poter talora porre utile cos pen . DelSiy.Lionardo di Capoa ISI penſo alle più gravi malattie . Vlano frequentemente la prezioſa radice, detta da loro Ginſen , dalla quale ſové te ſi veggon guarir gl'infermi , eziandio morienti, e però una libra di eſa , non val meno di tre libre d'argento . Nil la io dico dell'erba Te , percioccliè ella ſi adopera tutto dì anche ora appo noi : comcchè non ſi veggian quì d'cila que’maraviglici effetti , che narraſi ſoler nella Cina mo ſtrare, o ch'ella colla navigazion così lunga perda per lo maggior parte quel, che chiamar fogliono i Chimici vola tile Alcali , e con eſſo inſieme poco men , che tutta la ſui virtù , o qualunque altra ſiane la c.igione. Eavvegnachè alcuni de’noftri ſcrittori ſi ſieno ſtudiati di tor via altrui ogni buona opinione , che di tal erba portavano ,dicendo, ch'ella ſoglia talor cagionare Apoplesſia a cui ſovente l'u fi ; non però dimeno noi ben ſappiamo per pruova , cſſer ciò falſo; e ſe egli è incontrato , che alcuno avendola ado perata fia caduto in Apopleſſia , certamente non vi ha avu to ella parte niuna . Egli è vero però , che talerba ſoglia apportar qualche moleſtia, ſe ſi prenda allor, che nello ſto maco non ben digeſto il cibo ſia , e di ſoverchio acetofo : il che adoperar ſuole altresì il Cafè , ela Cicolata ; alla , qual coſa riparare ottimo rimedio è il digiuno . Ma io no voglio laſciar di dire con queſta opportunità, che in luogo dell'erba Te lo ſoglio ſověte imporre a'malati qualch'er ba noftrale , cos lor giovamento non ordinario :e che gli Ollandeſi portano nella Cina le frondi della Salvia involte a guiſa della Te, e per una libra di frondi di Salvia tre tan te ne riportano di Te; cotanto le ſtraniere coſe più in pre gio delle propie dagli huomini tengonſi . Ma avvegnachènella Cina i medici, quanto alfatto del medicare fien così fortunati, comediviſato abbiamo: non dimeno avuti vi ſono in pochisſimo pregio ,c ſtima. E quinci avvien poi , che tutti coloro , i quali ſien d'alto in gegno , e di ſaggio avvedimento dalla natura forniti,nul. la badandoviaila , moral filoſofia ſtudioſamente ſi volga no , onde a'primi onori del regno agevolmente poi pervé gono.E ciò permio avviſo è Itata una delle principalica, 1 { gioni 182 Ragionamento Terzo 1 1 ! doti , gioni , per la quale de'buoni libri dell'antica medicina , e della natural filoſofia pochi rottami ſi trovino , e che a? di noſtri ogni ſtudio di natural filoſofia tralandiſi. Ma per trapaſſare all’Egiziaca medicina; quanto chia ri,erinominati al inondo , ſe'n viſſero già lungamente per fama , quegli avveduti , e ſapientisſimifiloſofi, i quali la medicina ritrovarono primieramente , e ſtabilirono il Egitto : altrettanto certamente ſono oggi in lunga dimé cicáza ſepolti, e ſol ſervono all'umana cupidigia per pruos va della leggerezza , e della fragiltà della gloria monda na ; perciocchè eziandio di coloro , iquali ebbero già vé tura d'eſſer collocati infra’Dei immortali, non è a noine meno il vero nome pervenir potuto . Caſtigo ben douuto all'invidia ,cd alla tracotanza di quei Principi , e Sacer , i quali ſotto pene gravisſime a tutti l'apparare , e l'eſercitar la medicina victarono; e per maggiormente na ſconderla , e invilupparla con cnimmi,econ caratteri da lor ſolamente compreſi,ſempremai di ricoprirne i miſteri ſommamente ſi ſtudiarono . Perchè io giudico , che po co , o nulla della medicina Egiziaca apprender certamen te poteſsero que'curioſisſimi valent'huomini Greci, i qua li tratti dal deſiderio d'appararla inſieme colla inacemati ca , e colla filoſofia naturale , e altre buone arti nell'Egit to pellegrinarono ; ed in quel tempo appunto per lor di ( grazia vi giunſero, che caduta ivi affatto dal ſuo ſplendo re la medicina, ed empirica volgar tutta divenuta , comun nemcnte da' medici ſcimuniti , e balordi ſi malmenava ; ed i ſacerdoti l'antiche note più non intendeano , o ſe pu re qualche coſa ne penetravano,ſommamente avari delle loro dottrine , tenevanſi d'inſegnarle altrui , e masſima mente a' foreſtieri ; del che manifeſtisfima tcftimonianza è il leggere ciò che della ſtrologia avvisò Luciano , quan do e' diſſe , che i Greci niente di eſsa affatto dagli Egizi n'aveano mai apparato . Eλήνες δε ούτε παρ' Αιθίοπων,ούτε παρ' Aiguntów césporogins ma ei ou fèy óxx gav . Senzachè, ſe a Greci al trôde venuta foſse la medicina ,certamente ella non ſareb be tanto indugiaca ad allignarvi , e di veniryi a tanto ſtato 1 1 1 di glo Del Sig.Lionardo di Capoa. 183 di gloria , a quanto ella poi in proceſſo di tempo creſcen do aggiunſe. E comechè per oltraggio de'ſecoli niunas certezza a noi dell’Egiziaca medicina ſia pervenuta ;pur potrebbeſi ragionevolmente argomentare , eſſere ſtata quella a grandiflima altezza da' Re , e da' Sacerdoti del l'Egitto condotta , da ciò, che ne ragiona Omero colà ove narra , che la moglie di Tono Re dell'Egitto diede la can to celebrata Nepente ad Elena . Ενθ' αύτ ' αλ' ενόησ’ Ελένη Διος εκγεγαλα , Αυίκ' άρ' ας οίνον βάλε φάρμακον ένθεν έπιναν Νηπενθέςτ'αχολόν τε, κακών επίληθον απάντων . ος το καταβρόξειεν επην κρητήρι μιγείη , Ούκ άν εφημέριος γε βάλοι και δάκρυ παρειών , ουδ ' ά οι κατατεθναίη μήτης τε , πα ής τε , Ουδ' ή οι πιοπάροιθεν αδελφεόν, και φίλον τον Χαλκώ δηγόων , όδ' οφθαλμοίσιν δρώτα . Τοϊα Διός θυγάτης έχε φάρμακα μηπόενα Β'θλα ταοι Πολύδαμνα πόρην Θώνος παρξί κοιτς . Onde a la bella , e vaga Elena, figlia Del ſommo Giove,allbor nuovopenſiero Venne ne l'alma , che nel vino infuſe Ch'efibevean 'un prezioſo , alme Liquur , che toſto ogni dolor diſcaccia Da l'almaoppreſſa , e l'iraſpegne, ed indi Induce dolce , e graziojo oblio Di tutti i mali ; onde ſe alcun guſtoffe Di tal bevanda nella tazza miſta Non potria mai per tutto un giorno intero Sparger dagli occhi per le guance l'onde Del pianto ; o d'attriftarſi ;ancorchè morti Davanti aveſſe i cari madre , e padre ; Nefe con gli occhi propri anco vedele, Troncar col ferro l'infelici membra , Del frate amato , o del fuo dolce figlio . Cosifatti i liquori erano , e i ſughi De l'alma figlia del gran Giove eterno ; Cb'erano utili, e buoni, a lei dati Polia 184 Ragionamento Terzo Polidanna gli avea di ToneSpoſa . Il qual medicamento , qualcertamente fi foſſe in que' te pi malagevol molto è ora ad inveſtigare ; ne comporta il mio ſcarſo ragionamento , che lungamente lo ne favelli, ne che fra sì varie , e cotante opinioni inutilmente lo mº aggiri , mentre altri vogliono , non altro eſſere la Nepēte, che una ſemplice, e cruda erba infuſa nel vino ; altri allo incontro medicina artificioſamente preparata , chi dice d'uno , echi di più ſemplici compoſtage lavorata . Io giu dico , ne forſe da' limiti della ragione gran tratto queſto mio ſentimento s'allontana , chela Nepente opera foffe della Chimica; imperocchè sì piacevole ed efficace,e pre zioſo medicaméro, qual ne vien dagli antichi narrato , al tro cercaméte non ſembra chedi que', che tutto dà i noſtri Chimici metton fuora nelle loro botteghe . E fu nel vero la Chimica nell'Egitto antichiſſima ; pcrciocchè Vulcano figliuol di Nilo guardiano dell'Egitto,Opi, e Fia da' ter razzani anche chianato,daprima il fuoco, e l'uſo di quel lo ritrovò , e diè principio egli altresì all'arti tutte , che del fuoco ſi ſervono ; il cheoltre a Zezze moderno , e ſti mato da alcuni poco veritiere ſcrittore , il qual dice . Πύρ , και τέχνας δε ύκ πυρος οπό σας tutti i Tcologi,ei Filoſofi antichi di comun ſentimento af fermano ; 'e Vulcano altresì , ſecondo Ariſtotele , e So zione appreffo DiogeneLaerzio , inveſtigò da prima i prin cipj della natural filoſofia;perchè potrebbeſi danoi a buo na ragione affermare , aver lui per dover più acconciamé te farc , e rinvenir ne'corpi diſciolti , eminuzzati, i primi lor componenti , adoperato da prima il fuoco , e sì fatta niente dato alla Chimica rozzamente principio . E quin ci nacque per avventura la favola dell'adulterio di Marte, e di Venere da Vulcano a gli altri Dii paleſato ; con la qualc ne vollono per mio avviſo dare a divedere quegli antichi filoſofanti, qualche gran miſtero della Chimic'arte eſſere ſtato da Vulcano primieramenre trovato , e dalui poſcia a’Re,ea Sacerdotidimoſtro.Ma laſciando a'Chimi ci tut Del Sig.LionardodiCapod. 185 ci tutto ciò, che dietro a tal fatto potrebbeſi più profon damente eſaminare . lo dico , che non ha dubbio veruno avere gli Egizi Sacerdoti per la lor medicina tratto gran , pro dalla Chimica ; imperocchè ella venne a tale , cheti to altamente ne puotè favellare il dolciſſimo Iſocrate con queſte parole : gli Egizi Sacerdoti per guarire il corpo dalle malattie ritrovarono la medicina; non già quella , che ſi valede’ınedicamenti pericoloſi, ma ſi bene quell'al tra , che potendoſi colla medeſima ſicurtà adoperare , che gli ordinarj cibi d'ogni giorno ; recar ſuole poi tanti, e ta li giovamenti, che gli fa vivere ſani lunghisſimo tempo : Ιατρικήν εξεύρον επικερίαν , και διακεκινδυνευμένοις φαρμάκοις χρω - μένην : αλα τοιέτοις , α τίω μεασφάλμαν έχ ομοίαν τη τροφή τη καθ' ημέραν : τας δε ωφελείας τηλικαύτας , ωπ εκείνες ομολογεμένως ogcevozallos ng Harga61w télys civos. Magran pezza avanti Iſo crate , e nel tempo appunto , che in Egitto fioriva la ve ra medicina , avea detto Omero , dell'Egitto favellando, Ιητςος δε έκασΘ-έπιαμενΘ-. περί πάντων Αν θρώπων . cioè, ficome volgarizza il Baccelli: Ivi ciaſcuno è melico perfetto, F più ,ch'gn 'altro ajui perito, e fuggio. Poichè in verità ciò che ſconciamente dell'Egiziaca me dicina vien narraco per Diodoro , quand'e'dice : gli Egi zj non aver meſſo maialtra forte di rimedio in uſo , fe non fe criſtci folamente , purgative medicine , c digiuni, e vo mitivi : τας δε νόσους περκαταλαμβανόμενα και θεραπεύει το σώμα . τα κλυσμοϊς , και ποτίμοις τε καθαρτηρίοις και νησείαις και εμέ. τους και ενίοτε μου καθ' εκάτην ημέραν, ενίοτε δε τάς ή παρgς ημέρας dia menortes .e'debbeſi ſolaincnte di quc'tempi prendere,nc' quali la medicina da'Re , c da' Sacerdoti, in mano della più minuta bordaglia del popolo eraſi vergognoſamente invilita , eſſendo già caduta dal ſuo primo ſplendore, ed in iſtato di miſerevole ignoranza ridotta ; ſicome avviſaſi da quelle leggi, da noi nel primo ragionamento recate , che il mediconon aveſſeſi giammaia dipartir dagli ammae ſtramenti degli antichi, ne foſſe lecito porger a’malati al; A a cun -186 Ragionamento Terzo cun medicamentoprima del quarto giorno , ſe non ſe a ri ſchio della propia perſona del medico . Al che forſe po nendo mente il Corringio, e non diſtinguendo i tempi, af ſolutamente ebbe a dire , la medicina degli Egizi eſſere ſtaca rozza aſſaige materiale . Ma ſe perciò dal Borric chio egli meritevolmente ne venne biafimato , egli fareb be certamente aſſai più da biaſimar Galieno , il qual ne gar non potendo, che gli Egizi prima de Greci avefler contezza de'medicamenti , pure osò dire eſſere ſtato il lo ro conoſcimento affai groſſo , e rozzo , e che con l'agio di aprire i cadaveri p imbalſamargli ritrovato aveſſero mol te coſe alla notomia dell'huomo pertinéti. Ed era tanto in: Egitto la medicina caduta,e avvallata allor;che quel pae ſe da’Perſianiſoggiogato venne , e domato in guerra , che i ſuoimedicipiù celebri , e più valorofi , quali effer do veano ſenza fallo que" , che medicavano il Re,furono vin ti agevoliſſimamente da Greci, i quali ancora erano roz zi , enovizi nell'arte . Caduto poil'Egitto ſotto l'Imperio d'Aleſſandro , l'Egi ziaca medicina , ruinà anch'ella , e tracollò sì facramente, che i medeſimi Egizi da’Grecimaeſtri poi l'apparavano.. E infino alla cadura del Romano Imperio in Aleſſandria le ſcuole di varie ſette de' medicanti Greci in grande ſtato , edorrevole durarono ; e tratto tratto poi crebbero in tanta fama di dottrina , che a Galieno , come egli me delimo ne da teſtimonianza ,non increbbe d'andarvi per udir Nemeſiano, famofiflimo infra’diſcepoli di Quinto ,che di Galien medeſimo era ſtaro maeſtro ; e ſi mantennero le ſcuole d'Aleſſandria in ranta grandezza , e ſplendore lun go ſpazio di tempo intanto , che, come narra Ammiano Marcellino,baſtava in que'tempi, chehuomo aveſſe ftu diato in medicina in Aleſſandria per eſſer in pregio poi di valentiſſimo medico tcnuto . Narrali per Damaſcio nella vita d'Iſidoro , i fatti egregi di Giacomo medico Aleſſandrino, per li quali meritò egli, che gli ſi ergeſſero ſtatue in parecchi luoghi, e ſpezial mente in Atene . Coſtui quarant'anni continui logorò fa cendo DelSig. Lionardo di Capok 187 cendo eſperienze , e dopo aver tutto il mondo traverſato cſercendo ſempre la medicina , ed inſegnandola al figlio , che ſeco conduceva: pervenuto poi in Coſtantinopoli,tro vò quivi medici, che poco , o nulla di medicina ſappien . do , non con la ſperienza , come doveano , ma congli al trui detti medicavano a ritroſo , anzi ( conciamente mal megavano i caccivelli infermi; maGiacomoin medican do, cosi egli, come il figlio ſervivaſi delle purgagioni, e debagni,non traendo a niuno mai ſaugue. E quanto al fatto della Cirugia , oglino ſolean molto di rado porre in opera il ferro, e'l fuoco ; ma le maligne piaghe con la fola dieta curavano. Eben coſtoro amendue farebbero da ri putar degni di molta loda , ſe non foſſero ſtati ſuperſtizio fi , e idolatri , come par,che dica Fozio , comechè un an rico autore appo Suida affermi , Giacomo eſſere ſtato Criſtiano ; maavviſa il dottiflimo Iſacco Cauſaboni, che Fozio ciò aveſſe derto di Giaccmo , moſſo ſolamente da coloro , che'l credeano mago ,per le maraviglioſe cure , ch'ei facea . Dice di più Damaſcio , che diſcepolo di Giacomo fù Aſclepiodoto , il qual di muſico , ch'egli era in prima,li fè medico , e infra breve tempo cotanto in ſapere vantag gioſli , che in molte coſc , emolte , ſi laſciò dietro il me delimo ſuo maeſtro . Fu coſtui gran matematico , c'l più eccellente infra tutti i filoſofanti de' ſuoi tempi , comeche di coranto intendimento non foſſe , che poteſse i miſteri d'Orfco, e de’lavj Caldej penetrare. Egli de' medici de ſuoi tempi avea ſolamente in pregio Giacomo ſuo Mae ftro , e degli antichi, Ippocrate , Sorano , Cilice , e Mal leoco . Perchè ſembra , ch'egli, e Giacomo ſuo maeſtro foſſero ſtati metodici ; e quinci ſi ſcorge,ch'a'que'tempi vi cran de'valenr'huomini , che in niun pregio avcano Ga lieno . Rinovò Aſclepiodoro felicemente l'uſo dell'Elleboro bianco , già lungo tempo traſandato , e ne vinſe incura bili malori. Entrò egli nella famoſa mofeta di lerapoli,e ſe ne uſcì ſalvo , ponendoſi al naſo , e alla bocca la veltes Аа 2 ripie 188 Ragionamento Terzo ripiegata sì fattamente , che racchiuder vi poteſse qual che particella d'aria , onde egli agevolmente reſpirar do veſse ; quindi accoppiando inſieme varj minerali,con ma. raviglioſo artificio una ſomigliante mofeta ne compoſe. Ciò , che di vantaggio di lui narra Damaſcio per non recarvi tedio al preſente tralaſcio . Tanto vo dire,che de' medici d'Aleſsandria altro non raccontandoſi, ſi vede,che poco alla fama riſponder dovea il loro valore . Ne pur nell'Egitto la greca medicina nel ſuo buon nome lungo tempo durò ; perciocchè di mano in mano piggiorando magagnoli, finche tolto al Romano Imperio per opera de' capitani d'Omare l’Egitto, e venuto in mano de Saracenia poco a poco vi fi ſpenſe la greca medicina, ed in ſuo luogo un'imperfetta volgare Empirica vi rimaſe;alla quale ſucce dette poi , e fin’ora vi regna un'ombra di Razionale, o per ine’dire , di Metodica mcdicina aſsai rozza, e ſciocca, iil una, o in duc cotali coſe appiccata , e ſtabilita , le quali ſembrano a que’maeſtri ſcimmioni , cvidenti principi, fondamenta di quella , c non altrimenti che ſe foſscro già al tempo d'Erodoto . Egli ha ora in Egitto un'infinita fchiera di medicanti barattieri , i quali per pochi bajocchi ottenuta licenza di medicare dall'Alimbali , over princi pe de'medici, deſtinato , ed eletto a quell'uficio per denaro dal Barsa del Cairo , o che ſappia egli , o non ſappia di me dicina,medicano , una o più fortidi malattie , comc più lo ro in concio viene ; c giudicano eglino , due ſole eſser lo cagioni di cutti mali yil caldo , e'l freddo; ed eſsendo l’E gitto grandemente al callo ſottopoſto , immaginano qui vi follemnente , che tutte le malattie , o procedan dal cal do , o fian da ftrabocchevole caldo almeno accompa gnate ; perchè giudicando, che l’un contrario ſi ſpegna per Taltro , ſeryonli mai ſempre di rimedj acconci , ſecondo la loro opinione , e valevoli a rinfreſcare . Perchè traggon · largamente ſangue in tutte le empleſſioni , in tutte l'età , in tutte le ſtagioni dell'anno , ed a tutti infermi , e dan be re acqua agghiacciata ; il che «i ! anto fuor d'ogni ragione la fascia , non ha cercamente huomo di sì mezzano inten dimen DelSig. Lionardo di Capoa 189 dimento , che di leggieri avviſar no'l poſsa ; ſenzachè i cauterj , e le ſcarificazioni, che crudelisſimamente, e fen za riguardo alcuno anche nelle più menome malattie ſo gliono adoperare , tolgono affitto loro ogni buon nome ; intanto , che affatto contrarj a quegli antichi mediciſein brano , i quali avean piacevoli argomenti folamente il uſo . Ma ritornando alla medicina degli antichisſimi Egizzi, certamente lo non ſo , come iſcuſar ſi poſsa quel graviſſi mo fallo , nel quale que'Re, e Sacerdoti incorſero in te nendo cotanto a riguardo l'eſercizio della medicina; il că po della quale è così vaſto , e così malagevole, cheappe na , che più , e più persone colle lunghe eſperienze , e col le ragioui una menoma parte oggi coltivar ne poſsano . Ma no meno da biaſimar íono gli Egizi medici, per aver oglino primieramente colla vanità della divinatoria fero logia , corrotta , e magagnata la medicina, ſe pure è de preſtar credenza alle parole di Giulio Firmico : Nekepfo egli dice , Ægypri jufiifimus Imperator, a Aſtrologus val de bonus , per ipfos Decanos omnia vitia , valetudineſques collegit , oftendens quam valetudinem Decanus efficeret, quia natura alia vincitur , quia Deum frequenter alius Deus vincit , ex contrariis ideonaturis , contrariiſque pote ftatibusgumnium ægritudinum medelas divinæ rationisma gifteriis invenit . Triginta ſex itaque Decani omnem Zo diaci poffident circulum , ac per duodecim fignorum numeri ifte Deorum numerus , ideft decanurum dividitur . Se poi dagli antichi medici cra ſtato introdotta nell’E gitto quell'uſanza , che nel tempo d'Erodoto , nel quale fenza fallo la buona medicina iyi affatto era mancata, fer bavali , clic per tre giorni di ciaſcun meſe dell'anno gli huomini per conſervarli fani ſi purgavano col vomito , e ſi Ιανοvg!'inteftini τόπω δε ζόης τοιώδε διαχρέωνται : συρμαΐζεσαι σάς ημέρας επεξής μηνός εκάσg , εμέτοισι θηρώμενοι την υγίειην , και κλύσμασι, νομίζονες απο τών τξεφόνων στίων πάσας τας νούσος τοϊσι ανθρώποισι γίνεσθαι . loper me non credo,come si poſſa generalmere favel lan 190 RagionamentoTerzo 1 lando , comeche rieſca calor peravventura giovevole , tal coſtume in tutto lodare ; conciolliecoſachè coll'uſare il yomito , ei medicamenti, lo ſtomaco, e gl'inteftini a poco a poco s'indebiliſcono , e fi ſconvolgono notabilmente , e alconciano oltremodo le lor commeſſure, c li vuotano in ſieme con i cattivi umori le mucilagini , che veſtono , e difendono le loro membrane , ed altre , ed altre ſoſtanze non ſolo utili , ma ſommamente ancora all'economia , all' operazioni , ed alla vita degli animali neceſsarie, non che gioveyoli. Altro non rimane a dire dell'Egiziaca medi cina , ſe non chenon coſtumò ella ne meno allora quando era caduta dal ſuo primiero ſtato , per quel, che ſe ne ſap pia , di trarre mai ſangue : comechè comunemente credam ſi, che dall'Ippopotamo , o ſia cavallo di fiume, in Egitto da prima i medici l'apprendeſsero; perciocchè egli,come Diodoro racconta,nel fondo del Nilo quivi dimora , oco. me Ammian Marcellino , fra'canneci delle rive di quel 1o . Ma Prometeo , o pure Magog , onde ebbero la prima origine gli Sciti arricchìpreſso quelli la medicina, per ſua opera primieramente ritrovata , dinoli, e molti nobili , cgiovevoli medicaméri, co’quali ebbe egli fortuna dico si felicemente eſercitarla,ch'egli ragionevolmente ſi vanta appreſso il ſublime poera Eſchilo , ch'egli medicava me [ colando inſieme medicine acconce, ed atce a domar le malattie , con guarir tutti coloro , che così malamente ſi ritrovavano ridotti , che non ſi cran pocuti per niun riine dio in prima riſanare , e che prima , che a lui veniſse fatto di ritrovarle, e di porle in opera , non vi avea rimedio al cuno per le malattie To pelice régason , & nis vóm glori, Ουκ ήν αλεξημ’ δεν έδε Βρωμον, ρύ χρυσόν , και δε πιςον , αλα φαρμάκων Χρία κατέσκέλoντo πείν έγω σφίσιν Εδάξα κegίσεις ηπίων ακεσμάτων Αις τας απάσας εξαμάζονται νόσος , Ma di lui ancor ragionevolmente dottar ſi potrebbe,nó egli 1 Del Sig.LionardodiCapoa. 191 egli aveffe dato alla ſua medicina principio con iſcioglie re i corpi più duri , quali ſono i mecalli, per opera dei fuo co : mentre è coſtante fama appo l'ancichità , ch'egli pri ma di tutti da varie, e varie minicre ritraele i metallico me ſi può da que'verli vedere, Χαλκόν , σίδηρον , άργυρον, χρυσύνη της Φησεν αν πάροιθω εξεύρειν έμού . E conciofoffe coſa , che atanta impreſa gli faceſſe cer tamente meſtieri riguardar ſottilmente ancora al fuoco , e in diverſi gradi partirlo , e perciocchèegli peravventura , del calor del Sole ſervisſi : finſero , ch'egli affole il fuoco imbofaco aveſle . Ma tafciam di ciò , a' Chimici il penſie ro , come anche di fpiegar l'allegoria dell'effer Prometeo al raffo legato per comandamento diGiove; il che cicga remente vien nel fuo idioma da Eſchilo medeſimo narra to , ed è nel noſtro tale il ſenſo , Gia fiam giunti,o Vulcan , ne'vaflicamping E nelle folitadini deferte Per dove a Scitia valle; a te s'aſpetta i decreti adempir delGenitore ; Equeſto audace all'alte eccelſe rupi Con lacci indiſolubil didiamante Legar fra i duri faffi . Eito fplendore Del foco onnipotente , onde tu altero N'andavigià , furotti, damortali Dono nefeo : dritroi , che d'un sal fallo Pagbiagli Dei la meritata pent's ondiegti a venerar l'alto potere Di Giove, e l'huomo almeno amare apprenda. lo perme immagino , che Promeceo , o che'l caſo il por: taile , o da qualche ragione ſoſpinto accendeffè il fuoco con i raggi del ſole , e che da queſto traerſe origine la fa voka accennata . Mache che fia di ciò , li diede Prome teo ad intcrpetrarc i ſogni, e diceſi, ch'ei trovaſſe gli au gurj: Teórus di nous isoleradio il che fa vedere , che in fin al ſuo primo cominciamento la f media 192 Ragionamento Terzo 1 medicina ſempremaiaccompagnoli coll’arti ſuperſtizio : ſe , e vane . Ma come poi gli Scici della medicina di Pro meteo ſi valeſſero , Io non ne ſaprei dir altro , ſalvo , cho eglino ſi ſervivano delle purgagioni , e della dieta nel cu rare le malattie , come appo Plutarco riferiſce Talete την δίαιταν αυτή & τον καθαρμον ο χρώνται Σκύθαι περί τους κάμ νοντας και αφθόνως , και προθύμως παραδέδωκε Ma trapaſſando ora alla Fenicia :ebbe ella ne'primi tem pi huomini d'acutiſſimo, e maraviglioſo intendimento , e ſopratütro aſſai vaghi d'inveſtigar le biſogne del mondo , si fattamente , che prima di ciaſcun'altra nazione ebbero ardimento di condurfi per nuovi mari ( fabbricando ad ogni ora nuove Città , e popolandole di gente douunque capitavano ) a lontani, e per addietro non conoſciuti paeſi d'Africa , e d’Aſia , e d'Europa , perchè creduto venne, che i Fenici foſſero i primi, che ſolcaſſero co’legni il mare: onde diſſe Tibullo . * Prima ratem ventis credere docta Tyros. Perchègiudicar dobbiamo, eſſere ſtati i Fenici, abi. li ſoprammodo a imprender colle ſpeculazioni, e colles ſperienze la medicina , e che però ella nella Fenicii , fe condochè la natura d'un talc affare comporta , alcolmo della perfezioneaggiugneſſe . E di vero convennc , cho gni ſua parte arricchita , ed illuſtrata veniſſe dal profondo fapere di Cadino , come colui , che dopo diverſe,c glorio ſe vittorie dell'Africa avute , come canta Nonno nel poema dc'fatti dfBacco , edificò cento Città . • ... Λιβυσίδι ΚαδμG- αρούρη Δομήσας πολέων εκατονταδα , δωκε δεκάτη Δύσβαζα λαϊνέοις υφούμενα τύχεα πύργοις e ſpezialmente la famoſa di Tebe, ove egli regnar poi do veva . Quindi egli ſpogliando dell'antica rozzezza , c pe coraggine la grecia , le diedeinſieme con tante , e tante doctrine molti vocaboli , e le lettere ancora , e l'umanità. Il chei medeſimi Greci apertainente confeſſano , dicendo Erodoto >, per tacer di Filoſtrato , d'Ateneo , e di Diogene Laerzio , chei Fenici, che vennero con Cadmo, conmol te al . . DelSig.Lionardo di Capoa 193 te altre dottrine , le lettere , che prima non vi erano , in Grecia introduffero: ως δε Φοίνικες ούτοι ως συν Κάδμω απικό. μενοι , εσήγαγαν διδασκάλια είς τους Ελληνας, και δη , και γράμματα ουκ toy a aliv eranos . Conoſceſi anche manifeftamenre in ciò , che nella Fenicia la vera natural filoſofia allora regnavas la quale, come Strabone ,e Poſſidonio appo Seſto Empiri co raccontano, da Moſco Fenice , Leucippo da prima apparò . Ma più che altro , l'eccellenza della medicina de Fenicj ne da manifeſtamente a divedere, l'aver ella pe netrar ſaputo , come ſi poſſa col canto domar la ferocia delle malattic ; al che certamente imprendere ben ſalda, e ſottil filoſofia loro abbiſognava , eun'avvedimento non . miga ordinario , e volgare; eſſendo loro neceſſario dilige temente inveſtigare la materia del ſuono , qual veramen te ella lia , ſe l'aria , o ſe pure qualche ſpezial ſoſtanza,che nell'aria fi crovi , e le figure , e la grandezza delle parti celle , che la compongono ; e come la lingua , che forma il canto per via di miſure , e di convenenza , or fortemen te , or pianamente , or velocemente , or tardamente la muova ; e coine sì fatto movimento or s’uniſca , or fi di funiſca , or creſca , or manchi , or fi rifletta , or s’attuti ; come intorno intorno egli così velocemete liſpáda;e co. me all'orecchio finalmente pervenuta la ſonora ſoſtanza , o penetri i poridel timpano, e per li tortuoſi ſentieri del laberinto , e della chiocciola aggitandoſi, a percooter rat ta ſe'n vada ne'nervi dell’udico , o pure le ſue particelle dieno il lor movinento al timpano , e'l timpano le com munichialle particelle dell'aria , qual falfamente inn.itu chiamaſi , e queſte poi alla membrana, che veſte la chioc ciola il compartano . Ma ſopratutto inveſtigar loro cer tamente ancora conveniva , come le fibre de nervi dell'u dito , rappreſentando fedelmente all'anima lc vare, e va rie maniere, colle quali elleno tocche , e percofie furo no , facciano sì , ch'ella la sì varia , e táta diverſità deluo ni ne venga ad imprendere ; e come l'anima poi da una ſorte di ſuono noja , e da un'altra diletto tragga ; e come da ciò s'ingenerino in eſſa amore , odio , ira , timore , ed Bb altre, 194 Ragionamento Terza 1 altre , ed altre paſſioni ; e come queſte finalinente , o cre ſcendo, o ceſando il movimentodel ſangue , e dell'altre diſcorrenti ſoſtanze del corpo , o allargando , o riſtrignen do , o chiudendo i pori delle parti ſalde, fi rendan valevo li , come d'ingenerare , così anco di menomare , c di eſtin guere parecchie malattie . Mache che ſia del filoſofar, ch'eglino ſi faceſſero intor no a tal facenda, quáto giugner poſta la forza del căto tut to dì ne' bambini a noſtre caſe oggi'l veggiamo ; a ' qu ali per lo ſolo canto, avvegnachè non ancora i ſentimenti del le voci pienamente comprendano , s’alleggiano i dolori,e talvolta affatto ancor fi tolgono , e ſi ſeccan ſu le pupille le lagrime,luſingādogli pianaméte alla quiere il sono;e vede ſi talora huomo pe'lcāto aſsõnare, in cui vana ache la virtù dell'oppio ſperimétata ſi era.Il che ne può far fede vero efa fer potuto ciò,che d'Aſclepiade ſi legge cioè ch'egli la rab bioſa furia del ribellante vulgo colla muſica , ecol ſuono eſtingucſse . Mapoimaggiore senza filo ſi prova la virtù del căto,ove ſia chiintéda la ſignificāza delle parole ,come quelle , che ancora per ſe ſtelle fole, gli affettinell'animo, valevolia deſtar ſono . Onde non ſenza maraviglia lo lege go in Diodoro , che la muſica dagli Egiziachi, non ſolo inutile , ma nocevole anzi che no venille ſtiinata , Tu'vuge σακην νομίζεσιν , ου μόνον άχρηστν υπάρχειν, αλα, και βλαβεραν, ecio che Eforo appreſſo Polibio dice : la muſica eſſere ſtata ri trovata per ingannare gli huomini : ettes , ¿ ' atémy, aggona πία παρεισήχθαι τους ανθρώποις . Perché non eeglia mio cre dere affatto inveriſimile, che Damone co'l căto aveſſe té perar potuto , e raffrenar le menti offuſcate , ed alterate dall'ebbrezza . E ciò , che narrafi di Terpandro , e d'A rione , ch'aveſſer col canto riſanati gli abitatori di I.esbo; chc di graviſſiine malattie moleſtati, ed oppreffi langui vano ; e di Pittagora ciò , che ne narra Eutimio,che a ſuon di cornamuſa aveſſe ad un giovine tutto infiammato d'a moroſo foco , l'ardentiſſime fiamme amoroſe ſmorzate , ad un'altro, che infuriato correva col ferro ignudo, lo sfre nato orgoglio arreſtato ; e di Timoteo , che con furioſo canto Del Sig.Lionardodi Capoa. 195 canto iſtigaſſe Aleſſandro Macedone a prender l'ar : me ; ma addolciando le note sì adoperaffe, che le poneſſe giù di bel nuovo ; e di Aſclepiade , che le impazzate men ti, e da furor turbate , aveſſe con ſoave melodia in iſtato di ſanità ridotte ; e del medeſimo, che a ſuon di tromba a’ fordi renduto aveſſe l'udito . Ma non così di leggieri pe I ) ſembra ,che preſtar ſi poſſa fede a Marziano Capella , il quale afferma,eſſere ſtate guarite le piaghe perla muſi ca ; ed à ciò , che diceli d'Itinenia Tebano, che col canto guariſſe la ſciatica, comechè li fien fovente vedute per im provviſo timore , e le podagre, e le quartane febbri dipre ſente fanate . Ma che Talere poi colla ſoavità della Ce tera la peſtilenza aveſſe fugar potutz , coſa ſembra affatto lontana dalla verità . · Ma il valor della muſica ben venne conoſciuto a tutte quelle nazioni, che in mezo alle battaglie vollono i ſuo ni , e l'armonie framettere ; come quelle , che troppo va levoli lor lembravano a trarre gli animi de'combattenti, e colle varie note ſvolgergli, ove più l'era a grado ; e talora incoraggiargli a più pericoloſe impreſe . E sìi Geti uſa rono le Cetere , e le Siringhe : i Creteſi ', le Lire : i Lidi ed i Lacedemonj gli Auli,a ſuon de'quali pria di comin ciare la miſchia , di cantare un melos qucſti eran uſi, che Embetterio appellarono. E gli Arcadi p incoraggiare la lor giovētù ad altiſſime impreſe, e per addolciar la rozzezza de’ioro animi,cagionata dall'aſprezza dell'aria ,, con ogni ſtudio ferventemente alla mulica s'impiegavano ; e l'eſſer ne ignoranti aurebbonſi a fommo ſcorno recato ; onde diffe Polibio, che fin dalla tenera fanciullezza s’avvezavan gli Arcadi a cantar Inni, e Perni , i quali ſecondo il patrio coſtume erano indirizzati a lodare gli Eroi, e gli Dei della Patria ; e altri ufici della lor inuſica va il medelimo Polibio lungamente diviſando ; e ne fa anco parola Atenco .. Vennero, ma non guari feliceméte i Fenici da’mcdicanti dell'altre nazioni imitati , i quali le maraviglioſe pruove, che per coſtoro col canto facevanſi ſcorgendo , e non ſap piendone la cagione, ne per iſtudio c'huom vi mertelle Bb giam 2 196 Ragionamento Terzo 1 7 1 giammai penetrar potendola, li fecero a credere , che l'ar monia tucti mali diſcacciar poteſse ; anzi vi ebbe di van taggio chi ſconciamente filoſofando immaginò , non ſo lamente ſopra gli animali, maaltresì ſopra l'infenſate co ſe quella ſignoreggiare , e fin ſopra i Cieli , e nel baſso in ferno diſtenderſi. E perciò vollono , che colà giuſo nell abiſso calando Orfeo, co'l ſuon della ſua Cetera ſtrozzal ſe ſu le fauci di Cerbero i latrati , che uſo era contro a ' paſsaggieri con crudel rabbia di mandar fuori: raffermal ſe l'orgoglio delle furie ſmanianti: e l'anime tutte perdue te , aveſler dall'acerbe lor pene alcuna triegua: ne lacera te p allor foſsero dagli Avoltoj a brano a brano le viſce re a Tizio , ne le membra a Siſifo dal grayoſo ſaſso sfra cellare ; ne per ſete delle vicine acque, e per fame delle vedute poma arrabbiaſse Tantalo . E tutti quanti in ső ma l'inceſsabili torméti col ſuon della ſua lira in quel paſ ſaggio ſgombraſse; anzi colla dolce armonia sì poteſse fa re , e tanto , che dagli infernali Dei a'regni della luce law ſua cara Euridice otteneſse di riportare ; il che vagamen . te deſcriſse l'ingegnoſo latino poeta. T alia dicentem , nervofque ad verba moventem , Exangues flebant animæ,nec Tantalus undam Capravit refugam : ſtupuitq; Ixionis orbis. Nec carpere jecur volucres urniſque vacarunt Belides: inque tuofedifti Siſyphe ſaxo. Tum primum lacrymis vibarum carmine, fama ef Eumenidum maduiſſe genas : nec regia conjux Suſtinet oranti , nec qui regit ima , negare : E per tal cagione altresì,ad imitazione di Teocrito , Virgi lio introduce Alfefibeo a dire Carmina , vel Calo poſuntdeducere lunam . Carminibus Circe focius mutavit V lalei Frigidus in pratis cantando rumpitur anguis : Eplamedeſima cagione pariméte quel noſtro Poeta puo tè far dire alla Ninfa , dicui narrò Ricciardetto aRu. giero: Dal Giella Luna al mio cantar difcende , S'ago DelSig.Lionardo di Capoa. 197, . S'agghiaccia il foco , e l'aria fifa dura , Ed bo talor con ſemplici parole Moffa la terra , ed ho fermato il ſole . Ma cotanto oltre portofſi la ſomma ſmcmoraggine di quegli ſciocchi imitatori de'Fenici, che non ſolamente nel canto , manelle parole ſole ancora una tanta virtù, ed ef ficacia conſiſter crederono , e di quelle in medicando fer vivanſi : onde fi legge in Omero ,che colle parole ſtagnals ſero il ſangue delle ferite d’Vliſse i figli d'Autolico, Τονμάρ Αυτολύκου παίδες φίλοι αμφεπένοντο, Ω'πιλήν δ ' ο'δυσπG- αμύμονG- αναθέριο Δήσανέπιαμόνως • επαοιδη δ' αίμα κελαινόν Εχεθος: cioè , Mad' Aurolico i figli eſtrema cura si preſer del divino Vliſſe , e prima Congrand'arte legaron la ferita Tenendo ilſangue , che già fuor n'uſcia Conparole d'incanto entro le vene . Ma non ſolo i greci, maanche i noſtri poeti, per cacer de’latini , ſecondando i ſentimenti del vulgo ciò ſcriſſero , infra' quali il Taſso padre finge , che la donzella della fa ta Silvana medicaſse colle parole quell'Inghileſe Cava liere gravemente per man d'Alidoro ferito , cosìdicendo: E con la forçade'magici incanti Fe in lui tornar la virtù già ſmarrita, Se ricourati i vaghiSpirti erranti , Gli fanò in breve tempo ogni ferita . E dicono altri ſcrittori aſsai, che operino ciò anche le parole in tutt'altre malattie : infra’quali Vindiciano: Namque eft res certa Carmen ab occultis tribuens miracula verbis : e priina di lui Quinto Sereno: Multaquepræterea verborum monftrafilebo; Nam febrem vario depelli carmine polle Vana fuperftitio credit , tremuleque parentes. La qual beſſaggine è durata fempremai, edura tuttavia nel 198 Ragionamento Termo nel mondo , attenendoſi a cotali fraiche , e novelle'; non ſolo la ſcempiata plebe , maancora quei , che tra’letterati tengono qualche luogo; e nel paſſato ſecolo il Perrino,fa mofiflimo Peripatetico , per tacer d'altri di minor liéva , con vaniſſimi ſofiſmi, diſoſtener sì fatte pecoraggini fol lemente argomentoſſi, cercando di dare a divedere,che le parole naturalmente ciò poſſano operare; anzi di vantag gioancor giudicano , che le parole eziandio ſcritte , e ad doffo portate , non ſolo a guarire i mali , e le febbri, ma anche a render yani i colpi delle ſpade, e delle palle degli archibuſi ſommamenteapprodino. Onde poi prendono i noſtri Poeti a favoleggiar de’loro Cavalieri crranti , co me di Ferraù narra l'Arioſto: Ch'habbiate ſignor mio già intefo eftimo, Che Ferraùper tutto era fatato , Fuorche là dovel'alimentoprimo Piglia’lbambin nel ventre ancor ferrato. E del ſuo valorofifſimo Orlando : Era egualmente il Principe d'Anglante Tuttofatato , furrche in una parte : Ferito eller pote a fotto le piante: Ma le guardòcon ogni ſtudio sed arte . Duro era il reſto lor ,come diamante ( Sela famadal ver nonſi diparte ) E l'uno , e l'altro andòpiùper ornato , Che per biſogno a le battaglie armato . Ma più ridevole in vero, e ſtrana allai, èpreſſo il Bojardo , e l'Arioſto , la novella d'Orillo , il quale ingaggiato a bàttagiia con Grifone , ed Aquilante ſu le ſponde del Ni lo , non mai da que’prodi campioni potea trarſi di vita : imperocchè per virtù diparole ,e d'incanto , egli era sì fattamente ciurmato , che dopo eſſere ſminuzzato , e tri tato, di nuovo, que'minuzzoli da per ſe acozzandoſi , -ri tornava , ſicomeprima a vivere , e a combattere ; onde cantò il Bojardo Segli tagliafſi il collo , il petto ,e l'anca Piùminuto il tritaſi, che'l panico, 6 Mai DelSig.Lionardo di Capoa. 199 Mainonſarà dello Spiritoprivo, Spezzato in mille parti torna vivo. Famoſa ſenza fallo , e chiara al mondo fe la medicina de Traci il valencillimo medico , e filoſofante Orfeo , come colui , che per teltimonianza di Clemente Aleſſandrino nelle ſecrete coſe della natura fi fè addétro aſſai ; e fu il pri mo, checurioſamente, per quel che ſi ſappia , dell'erbé ſcriſfe : primus, dice Plinio , omnium , quos memoria novit Orpheus de herbis aliqua prodidit . Compoſe egli ancora alcuni libri della natural filoſofia, delle gemme, del ſito delle fibre , e un libro ſe'l ver dice Galieno della compoſia zione degli antidoti, e molti , e molte altri libri di coſe naturali ; ſenzachè non ſi può egli di leggier credere, in quanto pregio avuto egli foſſe tra per la dolciſſimaarmo nia del ſuo canto , e per altre ſue rare dottrine , maſlima mente della politica , di cui ſecondamente che ne raccon ta Pauſania , fù egli un gran maeſtro , molte , e molte di di quelle coſe inſegnando , le quali alla vita, e al regime to degli huomini abbiſognano. E anche fu egli pregiato molto , e tenuto a capitale per le molte , e valevoli medi cine a corali malattic non men del corpo , che dell'animo dalui ne'ſuoi infermi felicemente adoperato. E comechè favoloſo affatto , e vano fia ciò , che vien narraro di ſua moglie Euridice,da luicol canto riſuſcitata : non però di meno vogliono molti antichi ſcrittori , che Orfeo la riſa naſſe , preſſo a morte ridotta dal morſo d'una ſerpc, e che poſcia ella ſe ne moriſſe per colpadel medeſimo Orfeo .Ma ſe foſſe veramente d’Orfeo quel poema dell’Argonautica, che la bugiarda Grecia ſotto il ſuo nome divulgò , dottar non ſi potrebbe , che egli non foſſe ſtato della Chimica molto , e molto avviſato , mentre ſi deſcrive in quel libro minutisſimainente ciò, che ſi richiede per lo gran magiſte ro , che deſcritto era , come ſi finge nel libro , che Orfeo con gli altri argonauti a Colco conquiſtarono. E quinci certamente ſi pare poi, che i poeti prendelſer l'occaſione di finger quel celebre favoloſo racconto del Vello dell'o ro:, il quale , come dicono lo ſcoliaſte d'Apollonio ,e Sui da, e 200 Ragionamento Terzo da , e Varino Favorino , altro veramente ei non era , che una pelle , nella quale l'artificiofa maniera da cambiar in oro qualunque altro demetallideſcritta leggevaſi. Ma le tante arti , e ſpezialmente la muſica,e la poeſia ; nelle quali dilettavali aſſai Orteo , e l'eſſer egli ſtato , CO me Simplicio riferiſce,autore, ed inventore deltaco , e no per altro, che per iſcuſarſi, e riveſciar ſopra la di lui inevi. tabile neceſſità quelle morti, che per ſua colpa a'poveri in fermi avvenivano , mi dan per avventura giuſta cagione di dubitare, non egli foſſe ſtato nella filoſofia,e nellamedi cina da mé, che altri credevalo ;ne tāta loda meritar dovel ſe , quanta in prima guadagnoli nel creſcere dell'arti ap preſſo i troppo ſemplici , enon eſperti antichi, iquali pa ghi ſolainente delle primeapparenze delle coſe , nonnes venivano troppo addétro a penetrare le cagioni;comeche Pittagora ſtudiato oltreinodo ſi foſſe delle doctrine di lui apparare , e diſcerner ſuoi librilegittimi da non veri,ſico me non pochiſcrittori teſtimoniano, e ſpezialmente Siria no , il quale di moſtrare a' fentiinenti d'Orfco que'diPi tagora , e di Platone concordevoli argomentolli. E più avanti è da dottar della ſua dottrina , e valoria ; percioc chè non è egli vero ciò , che il ſemplice vulgo parimento di lui credeva , efſer le ſue azioni , ed andamenti tutti con una coral gravità di coſtumi, e lantità di vita ſempremai ſtati accompagnati ; conciofoſſe coſa , che egli dimoltes malvage uſanze , c cattive vezze la Grecia cutra gualta, e corrotta aveſſe : Sacra Liberi Patris , dice Lattanzio , pri mus Orpheusinduxit in Greciam , primufque celebravit in monte Bootie Thebis , ubi Liber natus eft. E di vantaggio ſcrive di lui Ovidio : Ille etiam Tbracum populis fuitauthor amores In teneros vertiſe mares : Ma la medicina de Traciin fama,edonor maggiorinen te poi crebbe per opera di Zamolſide, non meno ſaggio , che valoroſo lor Principe, da alcuni fallamente appo Ero doto creduto ſervo , e diſcepolo di Pittagora . Ma della medicina di Zamollide altro noi non abbiano, ſe non quel poco DelSig. LionardodiCapoa 201 poco che appo Platone ſe nelegge,cioè,nó poterſi medicar gli occhj ſenza la teſta ,ne la teſta ſenza tuttoilcorpo, ne il corpo ſenza l'anima. E queſta dicca Zamolſide eſser la ra gione, perchè molte malattie de'corpi fieno naſcoſe a'me dici Greci , a’quali non è manifeſto dove primjeramente faccia meſtieri applicar la medicina, cioè al tutto , il qua le non iſtando bene , è imposſibile , che qualunque ſuas parte ſe ne ſtea bene;cócioſliecoſachè,ficomc egli dicevil ', ciaſcun noftro bene , o male dall'anima noftra ne diſcenda al corpo , e da quello conſeguentemente a ciaſcuna parte di ſe, e perciò agli occhj ſi partiſca ; e però giudicava in prima eſſer l'anima ſopratutto da medicarc ; acciocchè bé poi ne ſteſſc la teſta , e tutto il corpo .Mal'anima egli volc va , appo Platone,che da medicar foſsc có incanci; e queſti diceva eſserci buoni ſermoni , e indirizzamenti, i quali certamente fan pro a render l'huomo temperaro , e ſigno reggiante l'impeto de'ſenſi alla ragione rubelli ; e quindi 1.2 ſanità al capo , e a tutto il rimanente del corpo agevol mente poicompartirſi: ecco le ſue parole sa's dº itu'sa's Guo ας , τες λόγες είναι τις καλές • εκ δε των τοιέτων λόγων εν αις ψυχαίς σοφροσύνην εγγίγνεσθαι ,ής εγγενομένης , και παρέσης ράδιον ήδη είναι την υγίειαν , και τη κεφαλή, και το άλω σώμαπ πορίζων , Ma non facea meſtieri certamente di molto ftudio , e di molta acutezza d'intendimento a porre in aja sì fatti di viſamenti , che poſsono di leggieri cadere in mente anche alle più idiote perlone . Nevero egli ſi ritrova , che le malattie tutte del corpo , dall'anima dependano , o ſem - prc , chepatiſce una parte , debba neceſsariamente patir il tutto , o'lmal delia parte da tutto il corpo, o da qualche parte principale di quelle dependere; perciocchè ben può eſser tutto il rimanente del corpo, ſano , & una , o altra parte ſolamente magagnata . È ciò avvenir tutto dì live de ,maſſimamente nelle ferite, ed epfiamenti, che colme dicar la parte offeſa ſola, ſenza badar ad altro , quella feli cemente ſi riſana ; e ciò conferma l'eſemplo del fatto a'no ſtri tempi avvenuto , dicolui , che portar non potendo il troppo acerbo dolore , che per la podagra pativa in un de Сс diti 1 2 202 RagionamentoTerzo diti del ſuo piè , venne a tanta diſperazione, che preſo un coltello, troncoſselo , ne più mai in altro luogo poi venne gli la podagra . Macon gran prontezza venne abbracciata , e con gra disſima ſuperſtizione oſservata sìfatta guiſa di medicare da'Greci medici razionali ; e di quella tuttavia ſivaglio no i noſtri medici ancora , tra per far pompa di quel ſape. re , ch'effi non hanno , ed ancora per menar la cura alla lunga ; ma ſopratutto per non aver rimedio opportuno al male ; e di cotali ſorti di medicine ſi ſervono , le quali al la malattia punto non s'appartengono ; e nondimeno egli no millantando dicono uſarle opportunamente: acciocchè prima il tutto , e le parti principali medicate ſieno ; e quin di all'offeſa parte fi venga a dar riparo ; e immaginando follemente ancora , che ciò far conaltro argomento non ſi poffa , i lor ſalalli , e le ſtomachevoli purgagioni, che fono i maggiori ricoveri della loro ignoranza , mettono di preſente in opera,co imporgli largamente ovunque più loro aggrada , fino a far infralir gli ſpiriti , e preffo , che amorte giugner i malati; ma ben ſovente incontrar ſuole, che da qualche femminella , o altro menomo Empirico ' , cui il vero rimedio ſia conoſciuto , di sì fatte lor cianceri mangan beffati , e ricreduti . Ma per altro poi molto manifeſto fiſcorge, che in Za mollide aſſai più che'l ſapere,parte v’ebbero l'aſtuzic,ele frodi, delle quali niun forſe di lui meglio ſi ſeppe a'luoi tempi valere . Fabbricò egli un belliſſimo palagio ( co me narra Erodoto , comeche Strabone altrimentijl fatto deſcriv2 ) nel quale convitava a mangiare la gente più principale , e lor perfuadeva , che ne eſſo , ne alcun di co loro , che gli tenean compagnia giammai morirebbe; ma inſieme con eſo lui dopo il trapallamento della preſentes vita , eterna beatitudine goderebbono. Edificò egli un ' altro palagio ſotto terra, la dove egli infingendoſi mor to ſtette celatamente tre anni ; nel qual tempo con pieto fi ſoſpiri, ed amare lagrimc doloroſamente fu pianto da que'popoli; ed uſciione poſcia diè a diyedere, ch'egliera in vi DelSig. Lionardo diCapoa 203 ciò , in vita ritornato ; e queſto , ed altro egli ebbe agio di fa . re , perch'era in grandiſſima gloria ſalito , tra per la medi cina , e tra per eller qnci popoli groſſi , e materiali ſoprá modo ; intanto , chenon ſolo diedero intera credenza a che detto aveya : ma ancora dopo mortc in cotanta , maraviglia fu tenuto , che venne da loro per Dio adora to ; ed a’teinpi di Erodoto eglino ancora avevano in co ſtume di madargli uno ambaſciadore con una nave di cin que hucmini: aʼquali era impoſto , che giunti ad un ſoli tario , ed ermo luogo,prendeſſero per lo piede il detto am baſciadore, e lo ſoſpingelſer ſu in modo tal , ch'eglive niſo a cader giù loura tre lance a tal effetto acconce ; il quale fe immantenente ſe ne moriva , eran ſicuri , che Za molde favorevol farebbe ſtato alle lor dimande ; ma ſe per avventura morto non foſſe , n'era accagionato , coine indegno dell'ambaſceria , e reo , e perfido huomo era ap pellato; ed un'altro ambaſciadore a queſt'opera fare eleg gevano , al quale le medeſime ambaſciate imponevano Quefta fortuna medeſima appretſo lui participarono i ſuoi fcaltriti diſcepoli, come quei, che poteron dare agevol mente a divedere a quc'ſemplici popoli , che valevoli foſ ſero coʻloro argomenti a dare altrui quella immortalitá che per ſe medeſimi conſeguir non potevano. Ma Bacco, ſapientiſſimo, e valoroſiſſimo Principe de' popoli Affirj, della medicina de' quali ora lo intendo di ragionare , avendo in pochiſſimo tempo a forza d'ar me vinta l’Iberia , e la Libia , e l'Oriente tutto , e più, e più volte calcate colle vittorioſe piante l'arene dell’O ceano , e fin l'ultime regioni della terra penetrate , e po ſtevi per eternamemoria de'ſuoi trionfi quelle due famo ſe colonne: così ragguardevole, e glorioſo in tutto'lmon do divenuto,pur ebbe in cotanto pregio la medicina , che non già monarca , e conquiſtator delmondo, ma medico ſolamente volle elles chiamato . E nel vero così magnifi che, c gloriofe furle fue impreſe , che per tacer de Fenicja ftudiaronli i Greci millantatori colle loro uſate menzogne di Cadmo al nipote , huom di loro nazione propiamente Сс 2 inve 204 Ragionamento Terzo 1 1 inveſtirle ; ma ſi ben non ſeppero con loro novelle la coſa comporre , che non ſene doveſſe manifeſtamente avvede. re ciaſcun , che de'tempi di coloro faceſſe ragione ; per ciocchè egli è coſa manifeſta , che molto tempo addietro a Cadmomedeſimo, non che a ſuo nipote, ci foſse Bacco vivuto , ſecondamente che s'avviſa in Euripide , introdu cente nella Bacchide Cadmo a comındare il culto di Bac co , fol perchè egli antico fi foſse : Πατος παραδοχας, άσθ' ομήλικα , χρόνων Κεκτήμεθ' , έδεις αντο καβάλει λόγG-. Ed Ateneo ,graviſſimo ſcrittore, ſomiglianteméte dice,far fi menzione di Bacco nella lapida del ſepolcro di Nino , il qual viſſe certamente ſeicento anni prima de'tépi di Cad mo ; ſenzachè appo Filoſtrato affermano in verità gl'In diani , eſſer Bacco , non dalla Grecia , comealtri crede , ma dall’Affiria nelle loro contrade capitato. La maggior opera, che Bacco in medicina faceſse, ſem bra ſenzafallo il ritrovamento del vino . E ciò fù per av ventura , che adoperando cgli il ſugo dell'uva per cotal fua biſogna a caſoqualche parte nelvaſo avanzata ne for ſe,la qual poi bollendo,e formétandoſi in vino fi cambial fe: e diciò avvedutofi egli , a bello ſtudio poi la colaj provaſse , eriprovaſse, finchè avviſandolo alla fine così ſpiritofo , e giovevole al genere umano l'adoperaſſe in prima nelle malattie, quindi ancora agli huomini ſani lar gamente il concedeſse . Ma forſe egli , ſecondochè lo immagino , per via della Chimica ritrovollo ; la qual , ficome in Egitto , così anche doveva allora in quelle con trade ſommamente adoperarſi. E veramente ſolo a'Chi miciconviene col digeſtimento , e formentazione neʼlu ghi vegetabili ſuegliar gli ſpiriti, i quali pigri in prima, e quaſi addormentari in quelli dimoravano . E potrebbe eſser’anche , che Bacco apparato l'aveſse in ciò , che lo frutte , da ſe medeſimeforinentar fi ſogliono , el ſapore e l'altre qualità convencvoli al vino acquiſtare; avvenen . do ciò per opera de'movevoli ſommamente , & acuti cor picciuoli , i quali dall'aria intorno lor communicandoſi, e ajuta Del Sig .Lionardodi Capoa. 205 ajutati da cotali atometti di quelli , onde il fuoco s’ingco nera,che continuo portan ſeco ,e che in que'corpi trovano, fuiluppano tratto tratto, e ſciolgono quella nobiliſsima foſtanza , ch'anima del vino può dirſi , e da' Chimici , che colla diſtillazione ſoglion dal vino ſepararla,acquarzente, e ſpirito di vino ſi chiama. Ma comechè del ritrovamento del vino ſe ne debba veramente l'onore al noſtro comun padre Noè ; impertá to è da credere, eſſer' il modo di fare il vino da lui già ri trovato ,per travalicamento di tempo , ſmarrito : cche Bacco poi da capo il rinveniſſe . lo fo , che alcuni favo leggiando voglion con lor novelle darnc a divedere ,eſſere ſtata una medeſima perſona Noè , e Bacco ; ma ciò trala fcio , per non effer egli in modo alcuno da credere ; per ciocchè per quel , che comprender ſi poſſa dalle ſagre car te , non guerreggiò giammai Noè , ne altra impreſa fece , che ſpezialmente a Bacco s'attribuiſca . E molto meno è da preſtar credenza al Voſſio padre , il quale a deboliſſime fondamenta appoggiato , giudica , non altri eſſere ſtato Bacco , che'l ſanto Moisè ; perciocchè Moisè non fu mai in India a guerreggiare , non chepunto ta foggiogaſſe. Ma ciò non appartenendo punto al noſtro propoſito dico, che ciò , che ſifacefle in inedicando Bacco , e quali altrimedi camienti egli adoperaſle , e come co'l vino guariſse i mala ti , e coll'edera poi a'nocimenti del vino e' riparaffe , non ; ne abbiamo al preſente,per quel ch’lo ſappia, contezza alcuna . E avvegnachè valentisſimomedicante e' li foſſe, c imperciò dall'oracolo il dator della vita chiamato , non però di meno eſſendo egli avido di loda , e vanaglorioſo aflai, pur comegli altri per maggiormente cfſer tenuto a capitale , vollemueſtrevolmente render più maraviglioſe le ſue cure , con far veduta , che qualche coſa ſopranatu rale anchev'aveſse ; perchè ſerviſſi delle divinazioni e de facrifici, i quali tra per queſto , e per la ſperanza di veni re anch'egli dopo mortequal Dio dagli huomini celebra . to , nell'Alliria , e ne'paeſi dalui ſoggiogati , in primaj introduſſe. 200 Ragionamento Terzo 1 Ante tuos ortus ar& fine honore fuerunt Liber , & in gelidis berba reperta focis . Te memorant Gange, totoque Oriente ſubalty Primitias magnofepofuiße lovi . Cinnama tu primus, captivaque thura dediſti , Deque triumphato viſceratoſta bove. Ma trapaſſando dalla medicina degli Affirj a quella de gli Arabi , ſe rozza veramente , e ſciocca oltremodo ne gli antichi tempiquella fi foſſe ,o ſe talpur ſi pareſc,ben G ravviſa in ciò , che da Agatorchide per teſtimonianza di Strabone, e di Diodoro , che da lui tolfer di peſo ciò , chc ſcriſſer delle coſe degli Arabi, narrato ne viene . Do po aver detto Agatoichide, che nell'Arabia per la trop pa fragranzia,e acutezza, che ivi fentivaſi degli odori del le loro piante , diffolvendoſi , e dilatandoſi tratto tratto la teſſitura delle membra di quegli abitatori, divenivano i cattivelli in fierisſime cagioni , e malattie . Soggiugne egli poi , che a quelle co'l fumo, ccolla puzza delle bar bc de'becchi , e del bitume davan riparo : da#reouév8 rõrúa ματG- υπ ' ακράτε , και μη τικής δυνάμεως , και την συμμετρον πύκνω. σαν επιπλεονεξίσης, ωπάγαν ας έκλυσαν ισχύ την .Ρcrche fembra ad alcuni , che a ciò fare ſoſpinti foſſer gli Arabi medican ti da quel volgar ſentimento , che l’un contrario , per l'al tro curarſi debba . Ma che che ſia della verità di ciò ,tan to , e tanto oggi meſſa in dubbio da’moderni medici : di co , che ſe rimedio pur quellera , certamente era cgli più acconcio a conſervare , e difendere da quelle malattie i pericolanti paeſani , che le già appiccate ceffare. Ne è pū. to vero ciò, che il dottiſlimo Salmafio giudica , esſere ſta ta queſta in Arabia una cotal ſorte di metodica medicina ; perciocchè i Razionalimedici ancora ſi prendon guardia di non laſciar di ſoverchio turati , o ſpalancati i pori degli animali , e oltre al convencvole ſtemperati. Maccrtamē te è da dire , che eſſendo ora cosi odorifera di ſpezierie l'Arabia , quale in quegli antichissimi tempi ſi era:ne per ciò cagionandoſi quivisì fatte malattie , fieno affatto fa volore, e vane cotali no c!le di que'tcmpi; o alti vode,che dagli Del Sig.Lionardodi Capod. 207 dagli odori foſſe ciò avvenuto. Ne poſto in ciò della tram { curaggine di Strabonc , e di Diodoro forte non maravi gliarmi,i quali non ſi dieron mai cura di ravviſare un cotal farfallonenegli antichi, e pure nc'loro tépi affai ben cono ſciuta ſi era l'Arabia.Ma nella Grecia da chi , e in qual té po da prima ritrovata ſi foſſe la medicina , Io quanto a me confeſſo affatto non ſapere ; nondimeno farei d'opiniones molto tempo avanti di quel , che comunemente ſi giudi ca , quivi eſſere ſtata quella ritrovata : e ben priina aſſai , che Cadmo le priine lettere vi recaffe ; perciocchè per le gravi , e crudeli malattie , che continuo quella infeltava no , ſommaméte allora faceva la medicina alla Grecia me ſtieri . Il che fu anche cagione , perchè con tanto ſtudio, e in tanto novero i Greci tutti allora alla medicina s'impie gaſſero; e non fu egli al mondo ,per quanto ſi poſſa in iſto ric avviſare , nazione alcuna , che cotanto vis'inviluppal ſe , quanto la Greca . Perchè ſembrami egli certamente imposſibile , che nelle tenebre di tanti , e tanti paſsati ſe coli , e da poche, e non ordinate memorie , che appena ai noſtra notizia fien pervenute, ſi poſſa in alcun modo inve ſtigar la verità di cotali coſe ; ſenzachè fon le loro ſtories tutte ſofperte di falſità , e millantatrici, ccon l'uſate lor favole , e novelle ſempremai meſcolate;imperciocchè, co me avviſa Giuſeppe Ebreo: non avēdo avuto i Greci ſcrit ture pubbliche , nelle quali fedelmente ficonfervaſsero fe . memorie delle coſe avvenute , oguiſcrittore poteva ,come più gliera a grado narrar le coſe,ſenza aver timore di po ter mai eſser colso in fallo ', e convinto di bugia . Arro ge , che i Greci , come afferma Dione , erano così avvez zi al piacere , che ſtimavan vere tutte le coſe , che narrate foffero con eleganza di ſtile ; il che poi cagionava, che gli ſcrittori d'altro cura non ſi deſsero , chedivagamente, ed ornatamente ſcrivere , fenza durar fatica nell'inveſtigar la verità de' fatti ; anzialcuni ſovente ſi ſtudiavano , meſco . lando a bello ſtudio menzogne coll’iſtorie , di fare altrui delle loro ſtrabocchevoli impreſe maravigliare ; e altri fi adoperavano in ben comporre , e inviluppar le coſe per coglier 1 1 208 Ragionamento Ter 70 6 1 coglier poicagione di trarre a ſua patria ciò , che di ma. gnifico , e di pregiato andaſſe attorno . Così il comun der Greci le glorioſe geſte in medicina d'Oſiri Egizio , perta cer d'altre ſue impreſe , che non fanno al preſente a noſtro propoſito , al ſuo Apollo figliuol di Latona mentendo at tribuì; e'l figliuol di Semele reſe chiaro , e illuſtre co' fat ri di Bacco Afirio . Così ancora quanto di grande , e di glorioſo in medicina operaſle Tofortride, inſieme coʻl ſuo medeſimo ſoprannome al ſuo Eſculapio falſamente attri buì; laſciando così in tanti volumi , e confuſioni il pren . derſi cura gli ſcrittori di rapportare il tempo , in cui par citamente quegli antichi medici Greci viſſero , de'quali ancora a' noftri tempi ne ſon giunte qualche contezze,che malagevole , anzi impoſſibile egli ſembra ad huom lo ſvi lupparſene . Ma io in quanto potrò per fornire il mio di viſo , faronne una breve , comechè confuſa accolta , eſc condochè alla memoria a mano a mano mi ſovverrà , ter rò ragionamento di ciaſcuno . E prima di tutt'altri mi convien narrar di Peone tenuto in sì gran maraviglia appreſſo gli antichi per la ſua impareggiabil’arte del medicare , che ragionevolmente giudicarono , aver lui meritato d'eſſer medico diGiove, e cotanto lafsù pregiato , e tenuto a capitale, che più dicia fcun'altro Dio preſſo a quello orrevolmente ſi ſedeſſe;nar, rando di lui Omero . Παρ δε διά κρονίωνι καθέζείο κύδει γαίων , e'l medeſimo poeta nell'Odiſſea avea detto , i medici del l'Egitto eſſere eccellenti per eſſer della ſchiatta di Peone : Tlainavos dirigevédans . Il che ci può far credere , che Peone foſſe Egizio , e non Greco di nazione , ma inſieme con gli altri , che teſtè dicemmo agli Egizi da'Greci rubbato ; e intanto crebbe nella Grecia la fama di Peone , che ciaſcun medico dopo di lui giudicava , ſe eſser ſommamentelti mato , e commendato, ſe col ſuo nome chiamar ſi faceſse; anzile mani inedeſime de'valenti medici da Galjeno, c da altri ſcrittori vennerdette pconie ; e peonie parimente fi diſsero l'erbe più giovevoli,ed efficaci ad uſo di medicina; perchè cantò il Poeta Et ful 4 - Del Sig.Lionardo di Capoa 209 fuperas Cali veniſe sub auras Peoniisrevocatum herbis , cioè a dire , come avviſa Servio , à Peone Dcorum medico Vsò Peone in medicando le ferice, piacevoli, e dolci mc dicamenti, co’quali curò egli Plutone, per le mani d'Er cole grayemente ferito : Τα δ ' επι Παιήων οδυνηφα φάρμακα πέσων, Η'κέσατ' Dalla qual cura ſi può agevolmente avviſare, eſsere ſta to Peone appreſso gli antichi in maggior pregio aſs :ri del medeſimo Apollo : comechè alcuni vanamente giudichi no , la modelima perſona eſſer Peonc , ed Apollo . Ma ciò quanto ſia lontano dal vero manifeſtamente in ciò ſi conoſce , che Omero nel ſuo maggior poema , di Peone, e d'Apollo , come di due diverſe perſone ſeinpremai farvel 1.1. Ne è punto da dar credenza al chioſator di Nicandro, che vuole,Peoneeſſere ſtato il medeſimo , ch'Eſculapio ; nel quale crrore cadde poſcia Artemidoro ,quando diſse : Slautwv gas ó Arxassatoo's heyeces: imperciocchè nc' tempi d' Omicro , Eſculapio non era ancora deificato ; trattando Omero comc huono Eſculapio allora quando e' dice , in favellando di Macaone, che egli era figlio d'Eſculapio ec cellentiſſimo medico : Φώτ' Α ' σκληπιά υον αμύμον G- ιητήρG- , Maciò laſciando al preséte, e ritornando al noſtro pro poſito della medicina , dico , che di Peone non s'hà ine moria , ch'Iomiſappia , niuna , fuor ſolamente della Peo nia : Vetuftifima ,narra Plinio , inventio paoniæ eft , no menque authoris retinet. MaIo quanto a me giudico, non cffer lui ſtato cotanto valoroſo medico, qual per avventu ra lo ci danno a credere i troppo rozzi antichi; percioc chè altro delle ſue pruqve non abbiaino, che l'aver lui una fola ferita ſaldaca . Perchèè cgli a buona ragion da crede re , che Peone per dovere a cotanta gloria , quanta egli acquiſtonne , condurſi, tutti i buoni, c malvagj contigli adoperati y’aveſe,facendoſembiante alla ſciocca , e fem , D d plice 210 Ragionamento Terzo plice gente,con ſuefruſche,di tar lemaraviglic . E per av ventura egli ſi fu il primo, che ne fe credere cotáte ſcioc chezze della ſua peonia: dicendo,dover'huom quella in lis la notte cogliere, per non eſſer dalle ghiandaje veduto ,le quali ſtandole continuo a guardia, crocchiando , e volan do accorron coſto a bezzicar gli occhi di chi la ſvelle ; ſen zachè dicono correr colui manifeſto pericolo di cicpargli gl'inteſtini , ſe digiorno la coglie . Novella ſecondochè giudica Plinio , a bello ſtudio ordinata, e compoſta per dar maggiormente ammirazione alla coſa . Ma non che ciò ſia vero , anzi le virtù tante della Peonia cotanto dagli ſcrittoricommendate , e da Peone forſe da prima a quella attribuite , ora in verità tutto vane , e falſe ſperimentate fi ſono : ne ad alcun lieto finc giammai riuſcir ſi veggono . Perchè colſer cagionc alcunidi dubitare , non forſe que Ita noftra Peonia altra fi foſſe , che quella cotanto tenuta in pregio dagli antichi , e adoperata in diverſe lor malat tie. È altri giudicano effer veramente quella ; ma per conſervarli nelle ſue virtù vogliono , che ſia in certi tem pi ſolamente , e ſotto cotal coſtellazione da raccoglicre . Ne è da tacere in queſto propoſito , quanto arditamente uccellar ne voglia Galieno , il quale afferma aver lui me delimo ſperimentato , che la radice della Peonia appicca ta al collo de fanciulli, c quivi da lor tenuta , non ſolaine se glidifenda dal mal caduco , ma anche quando già pre ſi ne ſono, facciagli di preſente rinvenire. Malaſciando al preſente Pconc , e trapaſſando a dir d' Apollo , creduto comunemente Dio della medicina : egli è da ſapere , che molti Apelli già furono in Grecia , e cctante, e sì diverſe , e dal vero lótane ſono quelle coſe , che per gli ſcrittoridilor ſi narrano , che ſarebbe certa mente un logorar fuor di propoſito il tempo , il venirle qui ad una ad una a raccontare. Solaméte dirò del figliuol di Latona quelle poche , e confuſe memorie alla ſua me dicina pertinenti , che per quanto lo ſappia a' noſtri tem pi pervenute ſono . E in prima , quantunque Apollo al cuna erba ritrovaſſe ad uſo di medicina , quale è quella per 1 Del Sig.Lionardo di Capoa. 211 percid detta Apollinare, che è una cotal ſpezie di Solatro; Apollo hanc berbam ,dice diquella Apuleo, fertur inveniffe, da Aſclepio dediffe,&apollinaris nomen impofuiſſe ; inper tanto non è perciò egli da eſſerne cotantoonorato col rag guardevol titolo di Dio della medicina , ficome dal vula go , or follemente ſi giudica ; perciocchè in quel medeſi mo tempo , ch'e'fioriva , molto d'altra parte in medicina vantaggiavaſi Chirone ; il qual certamente in ciò cotanto di lui fu maggiore , ch'egli inedefino conoſcendolo tale , volle, ch’Eſculapio ſuo figlio per maggiormére profittar vi, da Chircne la medicinaapparaſſe , come da maeſtro di ſe più valoroſo aflai . Senzachè narra Igino,cſſere ſtato Apollo il primicro ſolamente a ritrovar la inedicina degli occhj , non di tutt'altre malattie del corpo umano. Ele disse d’Apollo, Callımaco, che da lui primieramente gli huomini apparato avevano a cellare i pericoli della mor t : Κάνε δε θυμαι και μάντιες : έκ δε νυ Φοίβε , Iyisod dedeany , ardermoor Java Toio : ſeguì in ciò certainentc egli la comun credenza della gente volgare , non badando punto alla verità del fatto. Ma ſia pur ciò , comeſi voglia : lo quanto a me immagi gino , che Apollo , o avendo egli col ſuo ſtudio , e colla ſua diligenza rinvenuta cotal medicina a’malori degli oc chi giovevole , o pur da qualche vegliarda appreſa aven dola , a quella adoperare con ogni ſuo ſtudio continua mente intendeſſe; e comechè in quella parte reſo fi foſ ſe ragguardevol molto alla gente di que'tempi, non pe rò di meno egli è da dire , nel rimanéte eſſer lui ſtato mol to rozzo , e dappoco in medicina , e'l ſaper ſuo manche vole affai; ajutandoci a ciò giudicare la comun mellonag gine di que’tempi, e maſſimamente nella Grecia nell'arti più ragguardevoli. E che cotal foſſe ſtato anch'egli Apol lo , in ciò certamente ravviſar fi potrebbe , ch'egli poco alla ſua ſcienza fidando per dovere aggiugnere a gloria di valoroſo , quella parte della medicina a imprender ſi dic de , la quale intorno agli antivedimenti s'adopera;quindi D d 2 росо 2 IZ Ragionamento Terzo poco in quella ancor profittando,peraltre ſtrade ſconce, e ſuperſtizioſe argomentofli di venire a capo de' ſuoi avviſi, apparando dal vecchio Pane l'arte ſcaltrita , cingannevo le del vaticinare . Quindi andato in Delfo , la dove Te. mide dava le riſpoſte, e avendo quivi la ſerpe ingannevol mento ucciſi , la quale gli vietava l'entrata nell'aperturu dell'oracolo , ingombrollo di preſente , e cominciovvi in un tratto maeſtrevolinente a profetizzare; ſcrivendo di ciò Apollodoro quette perole: Απόλλων δε την μαντικήν μαθών παρα του Πανός , του Διός Θυμάρεως ήκεν ας Δελφούς χρησμωδούσης το σε Θέμιδα • ως δε ο φρερών το μαντίον Πύθων ώρις εκώλυεν αυτόν παρελθείν εις το χάσμα και του τον ανελών , το μανλείον παραλαμβάνει . E queſto vien altresì conferinato di Strabonc, il quale meglio ſembra per mio avviſo , che abbia ſaputo la coſi . Dice egli ch'effedo ſtato Apollo ammaeſtrato nell'arte de' vaticinj da Pane , che diede le leggi agli Arcadi , ſe n'an daffela dove la Notte,e la Dea Temide davan le riſpoſte, ed ammazzato il tiranno di quel luogo chiamato Pitone, ribaldo , e terribile huomo,che per la ſua grandearroganza dicevali se zw ,cioè Dragone,preſidéte allora della menſa de’ vaticinj, ſe ne impadroniſſe , e celebrar vi faceſſe gli ſpettacoli . Coſtuma poi ſeguita per tanti ſecoli da que gliempi , c fugaciſuoi facerdoti, e miniſtri , i quali imi tando in ciò il loro aſtuto maeſtro , vezzatamente davanj le riſpoſte inviluppate d’enimmi, e diriboboli, intanto , chequalunque caſo poi n'incontraſſe, ſipotea ben dire , eller quello verainente ſecondo il lor divino predicimen to ſeguito . Nc in ciò punto meno ſcaltriti, c maliziofi fi rono dopo Apollo gli altri medici, col tener macítrevol mente mai ſempre i cattivelli malati a bada, e ragionando ſemprea riguardo , c con duplicità , delle lor malattie,per dover ſempre poi indovinare, a qualunque fine il mal ne siulciffe . E quelle fi fur larti, onde in tanta fama, e pregio 2p preſo il vulgo montò Apollo , che guadagnoſsene il titolo k ! maggior medicante del mondo,anzidi Dio della me sna. Misi, e tanto non potè egli con fue afuzicado 1 Del Sig.Lionardo di Capoa. 213 perare , che di più intendenti, ed avveduti huomini non foſſe ignorante , e poco del meſtier della medicina confa pevole reputato . Ne per pruova altro che talcertamen te potevano giudicarlo , riguardando tutto giorno per mā, di lui, e di Diuna ſua ſorell.2 ( la qual medica ancor ella , ritrovò , e diede ilnomeall'Artemiſia) morirſi a centina. ja i miſeri malati , ſenza mai guarirfene niuno . Infra’qua li furono i figli della ſventurata Niobe ; di chic eila cotan to dolor preſe, che mancandole ad un tratto i ſentimenti, e riſtretti in ſe gli ſpiriti , ſenza alcun motto fare, chiuſei le pugna, pirò ; perchè poi preſer cagione i Poetidi favo leggiare , ch'in fafso ella cambiata ſi foſſe . E quinci nac que poi , ch'eziandio dopo che furono Apollo , e Diana nel numero degli Dei allogati ,credevaſi comuneméte, che tutti quegli infermi , che capitavan niale delle lor malat tie , ſe femmine follero , perman di Diana , e ſe huomini, per man d’Apollo moriſscro ; perchè Omero, Ε'λθων αργυρότοξ - Απόλλων Αρτέμιδι ξυν και οίς άγανούς βελέσουτ κατέκτεινε . E’l medeſimo poeta finge , ch’Apollo mandaſſe la pe ſtilenza nel campo greco ; ne per altro , al creder di Por firio furono poſtele ſaette nelle mani d'Apollo , é ne ven ne giudicato Dio infernale . Qual ſi foſſe egli poi ne'co ftumi , il taccio ; eſsendo pur troppo manifeſte a ciaſcuno le ſue infamie , e ciò che avveniffe alcattivel di Giacinto , per fua mano , e a Lino . Tanto mipar , chedebba lo ac cennare ciò , che alnoſtro propofito ſi conviene , cioè, ch ' cgli avvili da prima , e profanò il ſanto meſtier della me dicina , inſegnandola ad Enone in pagamento d'averle tolta a viva forza la verginità , e l'onore ; perchè ella co sì preſso Ovidio fi vanta , Me fide conſpicuus Troje muwitor amavit Ille med fpolium virginitatis habet ; Id quoqueiaétando : rupi tamen ante capillos, Öraque ſuntdigitis afpera facta meis. Nec pretium ſtuprigemmas , aurumque popofcit; Turpiter ingenuum munera corpus emunt . IR . L : 214 Ragionamento Terzo ! Ipfe ratas dignam medicas mihi tradidit artes, Admiſisque meis ad fua dona manus . Quècunque herba potens ad opem ,radixque medendi Veilis in toto nafcitur orbe ,mea ef . Ma trapaſsando a Melampo : grande nel vero , e non ordinario fu il pregio , che guadagnoſli oglicolla me dicina , mentre oltre alle figlie di Preto , egli guarà an cora della ſterilità , per quel , che nc narri Euſtazio , Ifi cle , colla ruggine del ferro ; comechè ſecondo l'ufan za comune de'medici , maſſimamente di que' tempi, per più ragguardevole render l'opera , facefle egli veduta ,do po aver ſacrificato un bue agli uccelli , con diſtribuire a ciaſcuno di eſſi la ſua parte , ch'un avoltojo alla fine croc chiando gli rivclaſſe , che la ſpada , colla quale Iflaco té tò d'uccider lficle , e da quello affiſſa ad un pero ſelvaggio, l'aveſſe reſo infecondo. Ma ben fi pare, che Melampo foſſe di non mezzano intendimento fornito , e che egli for ſe il primo , che cominciato aveſſe a medicar nella Grecia co’minerali . Perchè agevolmente porraſſi argomentare ', l'uſo di quelli eſſere ſtato antichiſſimo nel mondo : comc che per loro poca uſanza, maffimamente eſſendo ſtati ado perati ſempre da medici ſolamente diprima lieva , detto fia , che l'antica medicina nell'erbe ſolamente confiftelſe . Ma come ciò avvenir poſla , che la ruggine del ferro ab bia virtù ditor via la ſterilità dall' huomo , e di diſporlo a potere acconciamente ingenerare , egli non è certamen ce troppo malagevole, ad avviſare a chiunque ben fappia, onde provenir ſoglia cocal vizio nel corpo umano; per. ciocchè ſuol'egli naſcere talvolta dalla ſoperchievole ace toſità de'lughi : alla quale ammendare fa certamente gra diſſimo proil ferro , e maſſimamente la ſua ruggine ; la quale oltre che non ſuole alle viſcere quella gran moleſtia cagionare , che la limatura diquello talvolta apporta , el la preparata dagli aliti acetoli del nitro , e del fal ma rino , che continuo per l'aria diſcorrono , i qual eſsendo più ſottili affai di quelli fpiriti, che per arte li fanno , più cfficace , e profitcevole ſi rende di quella ruggine , che per ! man Del Sig.Lionardodi Capoa. 215 man de'Chimici maeſtri li lavoraziinperciocchè è più accô . ia a meſcolarſi colle ſottiliflime , e acute particelle , che travagliano le viſcere . E di ciò fenne più volte pruova quel celebre Franceſco medicante Riverio il vecchio . Ma ſoſpettar p avvétura alcú potrebbe,che o nell'Egit to , o nella Fenicia in ſicmecoll'uſo delle purgagioni una tal medicina Melampo da, priina appreſa avelle ; percioc chè, focondamente chenarra Erodoto , egli dell'Egitto alla Grecia , inlieincco'ſacrifici di Bacco , molte , e molte novelle ufanze reco: Εγώ με νύν φημί Μελάμποδα γενόμενον άν δes oφoν , μαντικήντα έωυτή συσή σαι , και πυθόμμoν απ’ ΑΙ' γύπτου άλα και πολλά απηγήσασθαι Ε΄ληση , και τα περί τον Διόνυσον ολίγα αυ των πειραλάξανά . Tanto , e tanto oltre portoſli nell'arte col ſuo altiſſimo intendimento Chirone , che non ſolo all'indebolite parti del corpo , come Maſſimo Tirio racconta , con efficaci ar gomenti la ſm.rrrita ſanità egli ſi vedea tutto di rivocare's m.i agli animi ancora utiliſime medicine appreſtava . Ne ſolo fu cgli ( per quel , che n'avviſi Stafilo ) eccellente in filoſofia , e in aſtronomia ; ma valſe ancora affai nella mu fica , e in modo , che ſeppe, come il medeſimo Stafilo , e Boezio narrano , parecchjinfcrinità coll’arinonia della ſua cetera guarire;e fu cotanto vago di ſpiare i ſegreti del la medicina , che in volontario eſilio lungi dalle Cittàan doffene aid abitar nelle ſelve , per poter ivi a più bell'agio la natura , e le complellioni dell'erbe inveſtigare ; nel che s'adoperò egli si bene , che inventor della inedicina dell' erbe ne venne comunemente tenuto: e da altri inventor di tutta quanta la micdicina fu detto ; e in cotanta fama , e grido crebbe , che non iſdegnarono ( come narran Filo ftrato , e Zezze) per appararnela medicina, d'abitar con e To lui entro la grotta del moute Pelio ,oye egli ſtanziava, Telamone , Peleo , ed Achille , e Giaſone , ed Ariſteo , ed Ercole , c Teleo , ed altri : huomini di gran pro , eva lore ; i quali , coine laſciò ſcritto Maffino Tirio , egli in continue fatiche d'ogni ſorte eſercitando , e nelle cacce , e nel corſo , facendo loro giacer nella nuda terra , e per 216 Ragionamento Terzo e per burrari , e per aſpre vic affaticandogli, e dando lor fcrini cibi mangiare, e ber ſemplici acque di fiume, ad un perfettisſimo ſtato di ſanità riduccvagli ; e doppia utiliti da tali ſuoi diviſamenti traevan quei grand'huomini ; per. ciocchè non pure il modo di ſe medelimi regolare, ma di curar áltri ad un ora apparavano . Neè da tacere, che pcr più profittar egli con maggior copie di ſperienze , media car ſoleva anche i bruti animali ; anzi cgli li fu il primo a ciò fare ; e imperò venne Itimato figliuol d'un cavallo.Ne per mio avviſo è vero, che alla Cirugia , comealtri ſi dan no a c.edere, e ' ſolamente daſic opera; avendo egli , coine narra Apollodoro , relicuita la viſta a Fenice , il qual fu poi un de ' compagni d'Achille nella guerra Trojana : cù . το υπ του πατρός έτυφλώθη καίGψευσαμένης φθο, Κλυτίας και του πα τζος παλακίδος . Πηλεύς δε αυτον προς χείρωνα κομίσας υπ' εκείνα θε egπευβέντα τας όψεις , βασιλέα κατέςησ: Δολόπων. ΕPindaro an cora par , che voglia dire, che Chirone ogni forte d'inter mità aveſſe mcdicato ;poichèdeſiderava ,ch'egli tornaiſe in vita , acciocchè aveſſe potuto render la ſanità all'infermo Ierone , perciocchè egli pativa del mal della pietra , co me dice un'antico Scoliaſte di Pindaro , o di fcbbre, com' altri vogliono. Ηθελον χώρωνα κε φιλυρίδας , et Κρεαν του3 αμετέρας από γλάς - σας κοινον εύξαθαι έπες , ζώειν τον απικόμδυον , Io vorrei ch'il Filliride. Chirone, ( Se tanto defiar lice a chiſpera ) Tornaſea reſpirar l'aure del giorno: cpoco appreffo ,, « δε σώφρων αντιξον έναιεν έπ Χείρων , και 1ι οι φίλον εν θυμώ μελιγαρυες ύμνοι αμέτεροι τίθεν , ατήρα του κέν μιν πίθον , και νυν έσλοίππα αέάν ανδράσι θερμάν νουσών , Or Del Sig.Lionardo diCapoa 217 Or ſe ne l'antro fuo foſe Chirone E che queſt'Inno mio gli foſe grato , Saria mia voglia inteſa A dirle fol tua medica arte adopragi: Onde i mali , ch'induce Eſtremo caldo, bai didomar valore. Diceſi che Chirone tanto valeſſe nella Cirugia , che'l antiche ulcerazioni, e malagevoli a guarire, da luipoichia mate foſſero chironic , o perchè lorluogo aveſſe il valor di Chirone , come vogliono Euſtazio , e Paulo da Egina, o ch'egli foſſe ſtato il primo , che sì fatte piaghe aveſſe riſa-. nate, com'eſtima Galieno . Ma io , ch'alla fama comun degli ſcrittori non così di leggierimilaſcio trarre , a cona feſſar il vero , aſſai dappoco , e rozzo parmi, chefoſſe ſta to Chirone anche in Cirugia ; perciocchè egli l'uſo del ta ſto , e le maniere da faſciar le ferite affatto non ſapeva . Perchè ragionevolmente immagina alcuno, che chironic fi dican le piaghemalagevoli a guarire , perchè Chironie prima di tutti foſſe ſtato ad averle ; e sì fattamente , che vano riuſcì tutto il ſuo ſtudio , e ſapere , nó che a guarirle, ma ad alleggiare almeno il dolore acerbiſsimo , che quel le gli cagionavano ; intanto che a morte poi ne divenne ; comeche alcuni dicano , ch'egli da ſaetta folgore ucciſo morille . Ma vengaſi ora alla medicina d'Eſculapio cotanto fa moſa , enegli antichiſecoli celebrata . Tiene Eſculapio , per comun conſentimento degli ſcrittori, il più orrevol grado in medicina , che inedico giammai aveſſe ; intanto che meritonne quel famoſo Inno del maggior poeta de' Greci. Di lui varie coſe , e di gran lieva ſi narrano, le quali traſandando lo , alcune diquelle, che alla medicina s'ap partengono ſol brievemente dironne .Già dicevam di lui, eſſer fama, che primad'ogn'altro metteſſe fuora alquante regole di medicina; manon ſembrandole poi all'eſperien za , e alla ragion conformi, alcune correſlene., altre di sfenne affatto , el contrario ne preſcriſſe'; e forſe quelle ch'e'laſciò dopo morte , cancellate in tutto , ed annullate Еe avreb 218 RagionamentoTerzio avrebbe , ſe di ciò tare gli foſse avanzato tempo . Credeſi dalla più parte degli ſcrittori, ch'egli a veſse folamente inteſo alla Cirugia , ne d'altre parti di medicina fi foſse giammai intramelso .Ma ſe vogliam prcfar credenza ad Erodoto, o qual che ſiaſi colui cheſcriſsc il libro detto in troduzione, overo , il medico: egli è da dir, che di cia ſcuna parte della medicina egli pienamente ſi conoſceſse ; perciocchè quivi leggeſi, ch’Eſculapio fu quello il qualow ritrovò la perfetta, e in tutte ſueparti compiuta medicina; e Pindaro parimente dice, ch'a lui accorrevano per curar (i non ſolasiente i feriti , ma i febbricitanti ancora , c que ch'entro d'altre malattie erano magagnati: τους με ών όσοι μόλον αυτοφύτων έλκέων ξυνάονες , και πολιώ χαλκώ μίλη πτωμένοι , ή χερμάδι τηλεβόλω , À Deenvã Avei nego tórefwoodśuas , και Xepewo , aurons amor , áa λοίων αχίων εξαγεν • τους με μαλακαίς επαοιδαίς αμφίπων , τους δε προσανία πί νοντας , ή γύoις περιάπων πάντοθεν * φάρμακα και τους δε τοματς έπασιν ορθούς . Quindi veniano a lui le ſchierea volo De’languenti infeliciegri mortali , O traejjero in fen fiftola ,o piaga , O dapietre , odaferro aſpra ferita , O pur nafceffeil duolo , Da'diſcordi fra lor femivitali , Ogni dolor , ogni tormento appaga : Porge con molli incanti a queſti aita , Ed a quei con bevande il malor toglie Per un farmacod'erbe inſieme aduna, Per altro acque raccoglie. A chi con tagli induſtri, e Cirugia , Drie 1 1 1 Del Sig.Lionardodi Capoa. 219 Drizza le membra , e fero duol travia , E prima l'aveva chiamato difcacciatordi tutti mali Ασκλαπιών άρω παντοδαπών αλεκ' ήετανούσων. Ffculapio s'appella , Sourano Eroe diſanità perfetta, Có'ogni morbo da lbson caccia , e ſaettai Egli non ſembra veriſimile adunque ciò , che dice P12 tone, ch’Eſculapio traſcurato aveſſe quella parte della me dicina , la quale ſuole il cibo agl'infermi diviſare. Ma fo pra qualifondamenta egli appoggiato aveſe il ſiſtema del la ſua medicina, egli è malagevol molto ad inveſtigare ; perciocchè nc libro alcuno dilui c'è pervenuto, ne ſenten zaveruna ſua appo altri ſcrittori ſi ritrova. Tanto ne vie ve accennato appreffo Platone,ch'egli inſegnato n'aveſse esſer.nel corponoftro molte, e molte coſe infra lor nimi. chevoli , e tenzonanti; e di loro abbiſognar,che'lmedico diſcreto ne rintuzzi, e raccheti le contele , e vadale pian piano co’ſuoiargomentirappaciando ; e queſte diſcordá ti coſe vuol egli , che ficno il freddo, e'l caldo : l’amaro , e'l dolce : il fecco , e l'umido , e altre sì fatte. Ma ſe altro di ciò non ritrovò in medicina Eſculapio , certamente è da dir , che troppo ftrabocchevoli le lodi immeritevolmé te gli addoffaſſe il buon Erodoto ; -e ben ne potrebbe egli a buon concio eſſercontento di meno ; imperocchè, non che egli l'intero compimento aveſſe giammai dato alla medicina , come Erodoto immagina, anzine men la pri mabozza , per que , che fi ſappia , certamente le dicde.' E che mai potrà il medico ritrarre dal ſapere, che s'abbia no le diſcordanti parti ad accordare , o che queſte nel cor po umano ſi trovino , ſe poi più avanti non ſappia minuta mente , ove elle fiano allogate, ove ſia il dolce, ove lama ro ', ondeil freddo , onde il caldo -s'ingeneri, onde la lor nimiſtà provenga , in che la lor natura conſiſta , con quali argomenti poſſan porſi d'accordo , come vuotarli , qualo ra lien di foverchio rigoglioſe , e ſtrabocchevoli, o am mendarſi qualora piggiorino ,o porger loro ſoccorſo qua Ee 2 lora 220 Ragionamento Terzo lora infievoliſcano ; che per altro quel , che ſappiamo averne diviſaro il grandiſſimo Eſculapio , ad ogni huom di contado agevolmente potrebbe occorrere,ed eſſer ma nifeſto . Affai rozza dunque, e imperfetta oltremodo fu ſenza fallo d'Eſculapio la medicina , ne sì grandi , e rag . guardevoli furono i ſuoi trovati,come huomdice ; e ſc cgli oltre all'accennate coſeritrovò qualch'erba, anche i ruſti ci , ei bruti molte, e molte n’han ſapute ritrovare;nę grād' acutezza d'ingegno per ritrovar il taſto , oʻl modo di fa ſciar le ferite abbiſognava , o per trar fuora i denti dalla bocca , che lo perme non vo torgli queſt'altra gloria , co mechè Cicerone ad un'altro Eſculapio l'attribuiſca colà ove dice . Aeſculapiorum primus Apollinis , quem Arcades volunt,qui ſpecilluminveniſe, primuſque vulnus obligaviſ fe dicitur . SecundusſecundiMercurii frater : is fulmin percujus dicitur humatus effe Cynoſuris. Tertius Arſippine Arſinoe :qui primus purgationem alui , dentiſque evulfio nem , ut ferunt , invenit . Ne ſembra punto vero quel ,che Diodoro dice d'Eſculapio ,ch'egliparecchjinfermi co'ſuoi argomenti guariſse; onde fe poifavoleggiare altrui,ch'e gli aveſſe richiamati anche in vita i morti; imperocchè Strabone , graviſſimo autore , e degno ſenza fallo , che gli ficreda aſſai più che a Diodoro, chiaramente dice, che lo gni furono d'huominiozioſi, e ſcioperati, quali certame te i Greci ſi furono , le cure tutte ad Eſculapio attribuite. E Celſo in lode d'Eſculapio altro non ſeppe dire, ſe non fe , cſſer lui ſtato ricevuto nel numero degli Dei , perchè l'arte della medicina aſſai rozza,e materiale in que'tempi, aveſſe alquato dalla ſua groſſezza forbita : quoniam adhuc rudem , a vulgarem , dic'egli, parlando d’Eſculapio , banc fcientiam paulòfubtilius excoluit , in Deorum numero rece ptuseſt. Convenne adunque certamente , ch’Eſculapio có l'uſate frodide’medici la ſua grandiſſima debolezza ap piattata tenelse ; imperciocchè cgli,come Pindaro dice, li valle dell'incantagioni; ma più nc ſi fa manifeſto in ciò che San Cirillo ne ſcrive, ch'egli intento oltremodo alle guadagnerie, continuó con giunterie , ed altri rei artifici an . DelSig. Lionardo di Capoa 22 1 > andato ſe ne foſseper io inondo diſcorrendo ( il che mol to ajutar ſuole i medici , ad acquiſtar fama, e pregio ) offerendo liberamente a ciaſcun , che biſogno n'avel ſe il ſuo meſtiere e dove che giugneva prometten do le maraviglie . Così egli vanagloriando per tutto, ſe non huono mortale , ma celeſtiale Dio eſser diceva , e millantaya temerariainente il ſuo valor diſtenderſi fino a riſucitare i morti . Le quali arti , e giunterie , acciocchè poteſse a fine più acconciamente condurre, ſi pensò egli , che l'iſpida , e folta barba nudrendo , e laſciandola a gui ſa dicaprone lunga ſcédergiuſo dal méto al petto avreb be più di leggieri alle ſue trappole trovato crcdito . E sì il fece egli, e con tanto vantaggio adoperovvili , che ſervì d'eſemplo a tutti i medici appreſso . Il che diede forſe cagione a Luciano di far dire da Momo ad Apollo , ch'egli non operaſse come fanciullo , ma favellaſse ani moſamente, é diceſse luo parere, ne fi vergognaſse ad ar ringare per non aver barba; perchè era ſuo figliuolo Eſcu lapio , il qual così grande , e lunga , e folta l'aveva üst menn μaegκιεύε πεος ήμας , αλα λέγε θαρρών ήδη τα δοκάνα , μη αιδε . σθεις , αγένειο» ών δημηγορήτις , και αυ% βαθυπώγωνα , και ευγέ ναον έτως τον έχων τον Ασκληπιόν Vì ha chi vuole , ch’Eſculapio a quella guiſa appunto , che a'noſtriciurm.dori veggiam fare , portaſse ſecole ſerpi : e che per riſparmio camminaſse a piedi : e che que ſta ſia la vera cagione perchè alle ſue ſtatue, o ritratti ſipo neſse in mano la ſerpe , e'l baſtone ; ſopra le quali coſe poi ſognate ſi ſono tante , e tante fraſche di allegorie per gli ſcrittori , chemolto lunghe, c nojoſe farebbono a rac contare . Ma vie più dopo inorte crebbe in fama , edono re Eſculapio , tanto era folle , e cieca allor la gentilità : perchè glivénero alzati in diverſe parti delmodo,e parte, e per materia ricchiffimi tépj, co maraviglioſe ,e belle ſtatue dimarino , d'avorio, d'argento , e d'oro, e medaglie infini te furon ſtampate colla ſua effigie ; e sì , e tanta era la fede, che aveyano gli huomini in lui,che i ſuoi tempj ſempremai ſi vedevan pieni d'infermi, trattivi d'ogni parte ; i quali # di 222 Ragionamento Terzo 2 di notte, edi giorno quiviil ſuo ajuto aſpettando ſe ne gia cevano;e per tacer d'altri, abbiam di ciòmeinoria nel Cure culione di Plauto , dove del ruffiano dice Fedromo a Pa linuro : Id eo fit,quia hic leno ægrotus incubat In Aeſculapii fano ; e così ſtandoimalati,venivan loro i facerdoti malizioſi , fcaltriti , facendo veduta dinulla ſaper dimedicina , o del male , che coloro avevano ; quindi appreffati all'oracolo fingevan ch’Eſculapio rivelato loro aveſe il medicamento all'orecchio. Talorapareva,ch’Eſculapio medeſimo all'infer mo in ſogno additaſse il rimedio ;c ciò per avventura avve niva tra per lo aver lui guatato ffaméte il giorno la ſtatua d'Eſculapio , c per li lunghi ragionamenti , che dietro a tal materia coʻminiſtri dei tempio avevan forſe tenuti , i quali avevangli per avventura le maraviglioſe cure d'E fculapio narrate vero per aver inteſo quel rimedio fterfo da'incdici ,o da’altri . Ma pur v'aveva fra' Gentili huomini di ſcalcrito intendimento , chea ciò niuna credé za preſtavano , come Filoſtrato narra di Filemone;al qua le avêdo in ſogno detto Eſculapio ,che s'egli voleva guari re dalla podagra, conveniva, che ſi afteneiſe dal bere fred do , egli deſto poi la vegnente inattina diſle ad Eſculapio proverbiandolo , c che altro rimedio o valent' huomo a nreſti tu dato , le medicar avelli voluto un bue ? E ſe mai interveniva , che alcuno ( o che'l rimedio , o ch'altro ca gioné ne foſſe ) guariſſe , oltra’doni , che coluiagli altari offeriva , toſto alle mura un'effigiata tavoletta , a perpetua memoria della ricevuta ſanità appendevaſi a gloria d'E ſculapio ; perchè poi ſe ne traſcriſfero nc'libri de' medici parecchj rimedj ; c delle dette già tavolette , anche a' di noſtri ſe ne vede alcuni ; delle quali per eſemplo vi ridur rò a memoria quella pietra , in cui fu regiſtrato , che di ſperato da tutti Giuliano per unvomito di ſangue,eſſendo ricorſo all'oracolo, n'ebbe riſpoſta , che veniffe , e da tro altari piglialle pinocchie di quelli per tre giorni con inic le mangiaſſe; ed in tal modo liberato colui, lefe le grazie al Del Sig.Lionardo di Capoa. 223 alla prefenza di tutto il popolo , αίμα αναφέροντα Ιαλιανώ , απηλπισμλύω υπο παντός ανθρώπε εχρημάτσεν ο θεός ελθών, καιεκ τα Βιβώνκαι άραι κόκκος προβύλες και φαγών μετα μέλιτG- επι της ημέ . φας , και εσώθη , και ελθών δημοσία ηυχαρίσησεν έμπροσθεν τε δήμε. Ma trapallando alla medicina d'Ercole;ſe Ercole come fu in medicina , foſſe così ſtato valoroſo Ne l'ardue impreſe del ſanguigno Marte , non avrebbe certamente ripieno il mondo delle ſue mara viglioſe prodezze , ne ſtancate di tanti , e tanti ſcrittori le penne per celebrarle . Ma ciò non ſi dee punto a neglige za attribuire , o a poco intendimento , ch'egli avuto avef ſe ; perciocchè logorò egli gran tempo , egran fatica ad imprender la medicina ; e fu sì profondo , ed acuto il ſuo intendiinento , ch'ei ſi fu il primiero a comprendere , che per ta fimilitudine , la quale i Chimici chiaman ſegiratu , ra , ravviſar ſi poteſſe la complesſion delle piante'; e per uſo propio ſe nevalſe allor,che preſso a morte ferito dal l'Idra , ricorſe per guarire alla Dragontea , la quale coll? Idra ha alquanta ſomiglianza; quantunque egli poiso per tener ciò altrui naſcofo , o per più ragguardevol renderli appreſso la gente , o per altra cagion , che ſi fofse , infin . geffe ciò dalla riſpoſta dell'oracolo aver apparato : il qua le l'aveſse impoſto , ch'egli ſi inetreſse in camino verſo la dove naſce il ſole ; perciocchè quivi al valicar d'una rivie ra aurebbe ritrovata un'erba ſomigliante all'Idra ,colla quale lc ferite da’morfi dell'Idra fatregli poi egli aurebbe ſicuramente potuto medicare , eguarire . Io non ſo , ſe collo intendimento G foſse Ercole tanto avanti portato , che foſse giunto a penetrar , che la Dragontea col ſuo fab volatile acuciſſiino , del quale eila oltremodo è abbon devole, forza aveſse di ammendare l'acetoſità , in che co filte il guarir delle piaghe ; ma la medicina non era allora tanto oltre paſsata , che aveſse potuto sì fatte ſottigliez ze ſcoprire . E queſta, e non altra dovette eſsere la cagio NC , per la quale Ercole non potè nella medicina sì eccel lente divenire , e che guarir non poteſse egli le piaghe al fuo maeſtro Chirone , comechè gli veniſse fatto di guarir lamo 1 224 Ragionamento Terző la moglied'Achille preſso a morte ridotta ; onde poi Eu ripide finſe nell'Alceſte , averla lui da morte riſucitata : E queſto è quanto Io ho potuto raccogliere della medici na d'Ercole Tebano fra le tante,e tante varietà degli ſcrit ti , iquali così di lui confuſamente ſcrivono , che nulla più ; dicendo Varrone , eſsere ſtati quarantadue famoſi huomini di tal nomé; altri dodici , altri tre , altri due, e Ci cerone ſei ;ed evvi ancora , chi porta opinione , non eſser mai ſtato sì fatto huomo al mondo . Ma della medicina d'Ariſteo figliuol d'Apollo , o pur di Giove , come altri giudica , non ne vengono ſcritte , per quanto lo ſappia , ſe non certe poche , e confuſe memorie ; ſolamente ſap piamo da Cicerone , e dallo Scoliaſte d’Ariſtofane, che Ariſteo aveſse ritrovato il modo di far l'olio , il miele , e'l Gifo.ΆρσαίG- δε ο Απόλλων G και Κυρήνης πτώτην την εργασίαν τα σπλ . φίον εξεύρεν , ώσπερ , και το μέλλG- . Infegno parirnente Ariteo meſcolare il vino col miele, per quel che dica Plinio : Ari Seusprimus omnium in eademgente,melmiſcuiſe vino fua vitate præcipua utriuſque natura ſponte provenientis: e non fi dee tacere ciò , che d'Ariſteo dice Giuſtino : Arifteum in Arcadia lase regnaffe, eamque primum , apum , á mellis ufum , &lactis , &coagulihominibus tradidiffe , folftitia . leſque ortus, do federum primum inveniſe. Ma quantun que il filfio , e'l miele, e l'olio, i quali Ariſteo non fola mente ritrovò, ma prima di tutti inſegnonne agli altri me dici la virtù , e la maniera, colla quale adoperar fi doveſ ſero , abbiano recato gran giovamento al mondo;non pe rò di meno s'altro di ciò non fece Ariſteo , non sò locome ei ſi poſsa infra gli altri eccellenti medici annoveraré; m2 pure fu egli di tanto avvedimento fornito , che ſeppe con l'uſate giunterie ,e menzogne riparare alle diffalte del ſuo poco ſapere ; e raccontaſi di lui da Teofraſto , da Apollo nio , da Cicerone , da Germanico, e da Igino, che eſſendo l'iſola di Ceo dal rabbioſo furor della canicola gravemés te percoffa , sì che feccavan le biade , e gli huomini mi ſeramenre morivano , eche avendo Ariſtco al ſuo padru Apollo domandato , come ſi poteſſe a tanta calamità ri para 1 Del Sig.Lionardo di Capoa 225. parare, n'aveſſe rilpoita,che proccuraffè egli prima di pure garcon vittime , e ſacrificj l’Ilola , la qual era così atro ceméte punica o aver dato ella ricovero agli ucciditori d ' Icario ; e quindi pregaffe Nettuno,ſicome Germanico Cé fare riferiſce, coinechè Teofraſto , ed Apollonio Rodio cd Igino dicano aver riſpoſto Apollo, che pregar egli doveſse Giove,ch’allo ſpuntar della Canicola faceſſe per quaranta giorni,ſoavi venti ſpirare, che queſti agli ardori di cotale Hella aurebber dato agevolmente compenſo ; cd avendo ciò egli puntalmente cſeguito ,ſpiraſſero i promeſli venti, e. ceſſalsero di preſente i danni tutti dal ſoverchiante caldo w ?quell'Iſola cagionati ; perchè ne venne egli poi Giove Ariſtço , ed Apollo Agreo chiamato , e frale ſtelle in Cie: { o collocato . Or chiper Dio non ravviſa, che una cotat folenne giuntcria imboccaffe Ariſtco a quel rozziſſimo po polazzo , ſappiendo di certo , che il naſcimento delle cas nicola gli ulti venti preceder fogliono , cd accomp2 guare? Venue fomimamente commendato Achille dalla ſonora cróba del greco pocta per le maraviglioſe prodezze da lui nella guerra Trojana operate;ne altro quaſi in tutta l'Ilia de raccontaſi , che l'invincibil fortezza d'un tanto Eroe ; ne in quel divino pocma ſenza lunga maraviglia legger fi pofiono le ſanguinoſe battaglie , ele ragguardevoli im preſe d'Achillc.Ma doveva egliper mio avviſo da non mi nor pocta d'Omero eſſer altrettanto commendato per la contezza, e perl'eſercizio cli'egli ebbedella medicina e con tanta maggior ragione , quanto più generoſo , e più magnifico ſenza fallo è il dare , che'l torre altrui la vita . E ben'egli conobbe di quanta loda meritevole e ſe ne rés deſſe , che però appo Stazio egli vantoſfi eſſergli ſtata in fra l'altre coſe la medicina ancora da Chirone fuo Avolo inſegnata . Quin etiam ſuccos ,atque auxiliantia morbis Gramina, quo nimius ftaretmedicamineſanguis: Quid faciat fomxos , quid hiantia vulnera claudat, Queferrocohibenda lues , que caderes herbis Edocuit. Ff Fu 1 226 Ragionamento Terzio Fu cgli tanto ſtimato nel greco campo, in medicina,ch' Euripilo gravemente ferito , volle effer ſolamente da Pa troclo medicato , perchè eglifoſse compagno d'Achille , c'l vero modo di medicar le ferite n'aveſse apparato ; Νίζ υδαπ λιαρώ , επί δήπια φαρμακα πασσε Ε'εθλα , τα σπ ποπ φασίν Αχιλήφ»δεδιδάχθαι . Ma ſopratutto vien commendato Achille per aver co noſciute le cagionidella peſtilenza , che allor travagliava ſommamente il campo greco ; e per aver anco ritrovato il Millefoglio,per lui detto Achilleasil quale anche a' dì no ftri molto giovevole alle ferite , e ad altri parecchj malili ſperimenta ; e ſomigliantemente per aver riſanato Telefo, nella cura del quale adoperò egli la ruggine della mede fima lancia, colla quale ferito cgli prima l'aveva : Eft , rubigo ipfa , ſcrivePlinio , in remediis, cific Telephum pro diturfanaſeAchilles , five id area , fiveferrea cufpide feo cit ; ed in un'altro luogo il medeſimo Plinio dice : arugi nem inveniſe , utiliſimam emplaftris , ideoque pingitur ex cuſpide decutiens eam gladio in vulnus Telephi ; avvegna chè altri vogliano averlo egli con l'Achillea guarito ,ed al tri, con l'Achillea , ccon la ruggine del ferro . Perchè moſtra, ch'egli fu il ſecondo , cheſi fappia infra'greci me dici, che i minerali adoperati aveſſe in medicina. Ma po trebbe per avventura alcun ſoſpettare , e con qualchera gione, non egli applicua aveſſe la ruggine del ferro alla Jancia imbagnata in fangue d'Euripilo , non già alla feri ta di lui ; e che gli ſcrittori, i quali la biſogna pienamente non coinprendevano,contentati ſi foſſero ſolamente di di re , che l'atta d'Achille modelima faceva, e riſanava le feri te . Il che ſe vero foſſe , non moderno ritrovato , ma ben molto antico da dir ſarebbe la cura , che chiaman ſimpa tica nclle ferite . Dice Plutarco , che Achille intendente foſſe del modo di guarir colla dieta , e ch'egli trovaſſe con ragione, che i corpi, i quali avvezzi in prima alle fatichc, in proceſſo di tempo poi le laſciano , e li ripoſano , toſto triſtanzuoli, e cagionevoli, e languidi di compleſſione divengono ; e pe 1 rò di Del Sig.Lionardo di Capoa. 227 1 rò dice che egli ſoleva far paſcere a cavalli che avevā ma gagnati i piedi per l'intermeſſo eſercizio , l'appio rimedio grāde a tal male.Macon pace pur di Plutarco, Io non ſo , che gran coſa queſta fi ſia ; ne per eſſa , ne per l'altre di lui narrate coſe ſi può dire in verità , che Achille gran medi co ſtato e’ſi foſſe. In quáto poi alla cura ſimpatica delle ferite: lo p me la ſtimo favoloſa invētione del Valentini; e forte mi maravi glio, che tanti , e tanti valent'huomini vi fi lieno oltremodo affaticati, in contendendo alcuni cheper ſopranatural po tenza doveſſe quella intervenire; e altri ciò coſtantemente negando ; e cercando d'inveſtigarne altronde la vera ca gione ; ma , ne queſti, ne quelli avviſano , chele ferite tal volta ,eziandio più gravicpericoloſe ſenza rimedio alcuno guariſcono; perchè non ſi può trarre argomento niuno dal. la lor guarigione a pro della ſimpatica medicina . Io non ſaprei ridire ſe Palamede inventore di cotante ; coſe , ch'abbiſognano alla vita degli huomini aveſſe anco ra in medicina qualche bella curioſità rinvenuta; avvegna diochè ſia molto veriſimile, ch'egli ciò facerſe, come colui, che di natura era molto acconcio a filoſofare; in tanto , che ne venne appellato noivoo PG , cioè a dire il ſavio di tutto, come leggeli in molti verſi fatti in ſua loda ; quantunque Omero non faccia di Palamede menzione alcuna , o per invidia , che gli aveſſe, perchèegli era miglior poeta di ſe, o pure per renderſi grato a ſucceſſori d'Agamennone, ili tra'l quale, e Palamede fu mortal nimiſtà ; impertanto li ſcorge manifeſtamente in altri ſcrittori più degni di fede aſſaidi Omero , eſſere veramente ſtato Palamede il più fa vio di guerra di tutti greci,e in prodezza non puntominor d'Achille . Madi ciò ch'operaffe in medicina Palamede', altro non ne abbiamo,ſe non ſe ciò che ne racconta Filo { trato ; il quale l'introduce una volta a dire, che a chiunque voglia preſervarſi dalla pefte , faccia meſtierimangiar po co , e affaticarſi molto , e che così egli avvezzati aveſſe a viv ere i ſuoi ſoldati; perchè poi la crudel peſtilenza da Po to nella Città dell’Elleſponto , ed in Troja appiccata , aw ni un de’greci noja mai diede ; comechè eglino fi foſſero in Ef 2 perti 228 Ragionamento Terzo peſtilenzioſi luoghiaccampati. Ma quanto cotali avver . timenti lontani dal vero ſieno, non ha tra noi,chi non l'ab bia non ha guari pienamente ſperimentato ; e però di più dirne al preſente mirimarrò . La medicina di Patroclo compagno d'Achillo , e di Po dalirio , e Macaone figliuoli d'Eſculapio , che ſerbaraſſi eterna , ed immortale nella memoria degli huomini mercè del ſovrano poeta greco , che ſi diè cura di cele brarla : ſembra ad alcuno , che ſolamente nelle ferite s'a doperaſſe ; e veramente a riparar i dannidellapeſtilenza , che nel greco campo faceva fieramente ſentirti,non ſi leg. ge in Omero , che in coſa alcuna, o Podalirio, o Macaone, o Patrocło mai s'adoperaſſero : avvegnachè la cura de’ga voccioli , e d'altre enfiature, che ſuolo cotal morbo cagio nare , alla Cirugia dirittamente s'appartenga; la qual coſa vien raffermata ancheda Celſo , allor che facendo men zione di Podalirio , e di Macaone, dice : Homerus non in peftilentia , neque in variis generibusmorborum aliquid at tuliſe auxilii , fed vulneribus tantummodo ferro , & medi camentis mederi ſolitos elle propoſuit. Ma con pace pur di Celſo, dall'aver ciò taciuto Omero non ſi può certamente argomentare eller loro ſolamente ſtati cerufici; e fe noi medicaron la peſte,forſe ciò fecer eglino per non tracollar dal loro buon nome in medicar quel morbo , cui non v'ha rimedio alcuno , e che l'antichità credeva,che ſolamente gli Dii poteſſero riſanare; ne ha ſembianza alcuna divero, ch’Eſculapio lor padre,emaeſtro la Cirugia ſola loro infc gnaffe ; ſenzachè(comeavviſa Eulazio ) Podalirio , non ſolamente curò diverſe infermità : ma prima di tutti, come egli dice, gittò le fondamenta della razional medicina. Ma a quale ſtato di perfezione la medicina per Podalirio Macaone , e per Patroclo uſata montafle, dal poema mag giore d'Omero ſi può agevolmente comprendere . Primie. ramente ſolevano in medicando ſucciartalora eglino colle labbra il ſangue delle ferite ; e'a tal modo Macaone medi car ſi vide a Menelao la piaga fattagli da Pandaro, Aύ πιο επα δεν έλκG- ' έμπιστ πικρος οιτς Αίμ' εκμυζήσας επ' άρ' ήπια φάρμακα είδως Πασσα . Sem . ,per DelSig.Lionardo di Capoa. 229 Sembrare egli potrebbe per avventura ad alcımno il ciò fa re vano , ed inutile , anzi per l'umidità della ſaliva alles ferite anche nocevole ciò li pare , ſenzachè è ſtomachevol coſa , e pur troppo alla dignità de'medici ſconvenevole Nero io , comeil primo Baron dell'oſte greca , e nipote diGiovediſavanzando dal ſuo pregio, inchinar ſi poteſse ad una sì vile , e vituperevole opera . Non ſolo permet teyan poi coſtoroa'feriti mollidi fudore , edi ſangue, pu re allora uſciti dalla battaglia, lo ſtarſene giacédo all'om bra , ed al frelco ventilar de’zefiri per riſtorar dolcemente la ſtanchezza ; ma lo ſteſso medicante Macaone dopo ch ? egli fu ferito ciò fece : οίδε έδρώαπεψύχοντο χιτώνων Irávte ne Ti Tvorni zaregi og ános. Ma quanto polfa nuocere il vento ad huomini anchei faniqualor eglino molli di ſudore fiano ,non che a’feritija ? quali feoza fallo per lo minor danno inacerbir puore les piaghe, non è chi noʻl fappia . Ponevano altresi medica do alla groffa, entro le ferite,radici d'erbe crude , e ſem plici fenza eller punto confattese preparate ad uſo de’me: dicamenti: επί δε ρίζαν βαλε πικρών χερσι διατρέψας. Ma inolto più ſciocchi, e più rozzi furono i loro divi famenti intorno al regolainento del vitto degl'infermi ; eglino cibavangli di groſse cipolle , e di miele κρόμμυρν ποτώ όψον, Η δε μέλι χλωρον παρ' δ' άλφιτα ιερά ακτήν. edavan loro berc il loro ufato contadineſco Ciceone ; bem veraggio il qual di farina, e di cacio di capra, e di più grá di , e poderoſi vini delle Smirre componeyaſi Πινέμαι δ' εκέλευσεν επαρ' όπλισε κυκεώ . E queſte fono le care , e falucevoli vivande, e beverage gj , che la belliſſima Ecamede concubina dell'antico Nem ftore dava loro ; i quali non iſcherni, ne rifiutò il medefi mo Macaone,ſenza conſiderare , ne pure un menomori ſchio d’infiammagione, che agevolméte ſeguir ne poteva Ma 1 230 Ragionamento Terzo Ma ben ſo lo , che di fomiglianticoſe , ed in pro, ed in contro diſputando, veriſimilmente dir ſi potrebbe, che no già eglino ſomigliantiguiſe di sì reo , eſconcio medicar praticafsero ; ma che Omero a ſuo talento le finga , poco eſsendo della verità informato ; che ſe ciò vero foſse , lo non ſo come infra gli altri cotanti pregj inveſtir ſi potreb be ad Omero l'eſser lui ſtato di tutte ſcienze, più di qua lunquc altro maeſtro ,affai ben conoſciuto; nihil unquam . ceciniſe , dice Pier Laſena , quod nun prudenter excogita tum ,ex induſtria diſpoſitum , &in alicujus rei utile dixeris documentnm . Potrebbe anche dirſi, eſsere il Ciceone di que' tempi valevole , a ſtagnar il ſangue delle ferite , o pure a ſciorlo , ove egli fia rappreſo , e corrotto ; avve gnachè Platone dica eſser molto nocevole cotal beverag . gio a’malacije oltre all'infimagione,che apporta, ingene rare anche non poca flemma;e per avventura con più falda ragione potrebbeſi delle cipolle dire , che per lo lorotale aguto , oltre allo ſcioglimento del ſangue potrebber'an che difender le ferite dall'accroſità , da cui certamente la febbre , e'l dolore , e lamarcia ,e l'infiammagione,e tutt' altro male a'feriti avviene . E ſe pure coloro uſava no con ſemplici radici , e crude, medicar le ferite , ciò era, perciocchè eglino ben’avviſavano eſserl'erbe cotanto più giovevoli , e vigoroſe , quanto più ſemplicemente ne ſon dalla natura ſomminiſtrate, e che col tanto confarle, e ma cerarle , e logorarle ad ufo delle noſtre medicine, manchi alla fine, e ſvaniſca ognilorvigore; fe pure nonvogliamo dire , eſsere ſtate di tanta virtù , e di si ſaldo giovamento da’ medici ſperimentate, che ſenza confettarſi punto,o sé. za contiglio dimeſcolamento niuno le più gravi ferite ma raviglioſamente ſaldavano ; ne a ciò foſse itato anco me. ſtieriregolamento alcuno di mangiare , o di bere: per ciocchè egli narrafi per coſa certa ,che a' tempi più a noi vicini, il Paracelſo,per lo gran valore de'ſuoi medicaméti, poco , o nulla a ciò badando laſciaſse che a lor talento fi nutricaſser gliufermi, facendogli talora ſeco a deſco lie tamente federe , mangiando in brigata ; ſenzachè Platon dice, DelSig. Lionardo di Capoa 231 dice, che per eſſer quegliantichi aſſai regolati nel mangia re , e pel bere , non avevan poi gl'infermi biſogno , che regola alcuna intorno a ciò la preſcrivelſe ; e finalmente l'uſo di ſucciar le ferite, non eſsere fuor di ragione ; impe rocchè cotal medicamento molto fa pro a riparare al gua ftamento del ſangue , traendol fuora delle ferite, e difen dendolo col fuo ſale dall'acetofità , per cui elleno marci ſcono ; perchè cotal medicamento a'di noſtri ancora co munemente l'uſiano e, per pruova tutto di ſperimentia mo eſser giovevole a'feriti , e utile aſsai ; ficome anche ſi può ſcorger ne'cani : da’quali per avventura Podalirio , e Macaone , oi loro più antichimacſtri ildovettero da prie ma appararc ; perchè ſe veggiamo, che cotanto approda a'feriti, perchè ſarà egli da biaſimare ?Maper me non cre do, che si facce difeſe loro facciā luogo; imperocchè Ome ro tutto che la incdicina ignoraſse , deſcriſse nientedime no le coſe, o coine di altri ſcrittori venivan narrate, o dal la famaerano rapportate , maſlinamente dove cgli non aveva cagione alcuna d'allòtanarſi dalla verità, o per ren der più vago , c più inır.zviglioſo il ſuo poem 1,0 per altra cagione ; ne punto vale l'eſemplo del Paracelſo , imperoc che , ſe pur è vera la ſtoria , il Paracelſo fi ſerviva di bala ſamisì prezioſi, e valevoli a guarir le ferite , che non fa ceva loro d'alero meſtieri. Ma in quanto al Ciceone ; egli è una bevanda in verità sì ſconcia , e mal fatta , che ſenza fallo non può ella altro inai , che nocuinentu agli huomini ſani , non che agl'infer mi apportare , che che ſi credan Plutarco , ed Ateneo , i qualinon avviſarono la ſtrana, e nocevole formentazio ne , che'l cacio , il vino , e la farina inſieme meſcolati far poſsono nelle vifcere . Vltimamente , le radici , e l'erbe non preparate , maffimamente l'Achillea , e l’Ariſtologia , colle quali molti antichi ſcrittori ſi credono , che Podali rio , Macaone, e Patroclo medicaſsero , abbondevoli ſo no d'umore acquoſo , e non ben digeſto , il quale oltre che infievoliſce il ſolfo , e l'alcaliloro volatile , in cui law vir 232 Ragionamento Terza virtù conſiſte , per ſc iteſso altresì egli è ſommamente alle ferite nocevole . ... In quanto poi al lavar , come è già detto con l'acqua ſemplice le ferite , non è vero'ciò , che alcunidicono, che ciò eglino-faceffero per iſtagnar di preſente il ſangue;men cre ciò non ſolamente non licſprime da Omero , appo il quale ſi ſuol fermare il ſanguecon l'incantagioni ; ina di ce eglichiaramente , che l'acqua , colla quale le ferite li lavavano era calda, e perù più acconcia aſſai ad aprire, che a riſtrignere; al che avendo per avventura riguardo il lati no poeta,con l'acqua allora allora tratta dal Tevere fin ge , che'l ſuo Mezenzio ſi lavaſſe le piaghe . Interea Genitor Tyberini ad fluminis undam Vulnera ficcabat lymphis , corpuſque levabat . Nove , aphyſice , dice ſu queſto il chioſatore Servio, nan cum aqua omnia infundătur,hic aitficcari vulnus ab aqua , Oratio vera eft ,quia fluxussăguinis aquarü frigorecôtines Yur.Ma Servio freddamente troppo,per mio avviſo ſcuſa il ſuo Virgilio d'una sì ſtravolta maniera di favellare : ma un tal modo di mcdicar le ferite , con l'acqua lavandole , tut to che ricevuto ,ed uſato anche dopo grăde ſpazio di tem po da’Latini, e da'Greci , onde dice Silio purgat vulnera lympha: anzi ſin’al paſſato ſecolo da molti Ceruſici anche coſtuma to, quáto lia nocevole ravviſar puollo facilmente ciaſche duno,che punto abbia d'incendimento ;laonde con più lag gio avviſo da’moderni medicanti leferite col vino , o col l'acquarzente , ovc,lor huopo ciò lor faccia , vengon lä vate . Maquantunquc sì malamente medicaſſero Podalia rio , e Macaone , venncro non ſolo vivi, ma anco dopo morte in sì gran pregio tenuti , che furonodi ſtatuc, di té pj , e facrificionorati . Quelle coſe poi , che di Podalirio narra aver letto in al cuni antichilibri Celio Rodigino , elle fon tutte, per quel ch'io micrcda novellette da Romanzi ; ciò Zono ,degli avendo rotto in invar preilo la Caria, fu ſottratto al perico lo da 0 ! Del Sig.LionardodiCapoa. 233 lo da un'avvenente paftore,e lu’l lido corteſemente accol to ; e che poi; il Re di quel paeſe avendone coutezza avu ta , per luimandato aveſſe perchè medicaſſe una ſua fis gliuola, che dalla vetta d'una torre era giuſo caduta ; cui egli facendo crar ſangue da amendue le braccia , e con al tri rimedi aveſſe in buona ſanità rimeſſa ; di che il padre oltremodo contento magnificamente della Provincia del Cherſoneſo dotatala , data gliele aveſſe per moglie; e che Podalirio nel Cherſoneſo födate aveſſedue belle, ed egre gic Città , una col nome della moglie Cirene , e l'altra col nome di quel Paſtore chiamandone. Convenevol coſa ſtata ſarebbe, che noi ſecondo lo in cominciato aringo ordinatamente procedendo , avellimo molto addietro fatto parole di Teſco , di Giaſone , di Pe. lco , di Telamone , e del ſuo figliuolo Teucro , e d'Erobo te : ora concioſliecoſachè ſcarliflime memorie di loro fien no a noi pervenute, n'è convenuto tacergli ; e perciò pal farem ſomigliantcméte ſotto filenzio,'e Nicomaco , c Gor gaſo figlidiMacaone, e d'Anticlea , i quali ſuccedettero al regno di Diocle loro Avolo materno , e come nar ra Paufania , lolevano gl'infermi corteſemente curare , e maſſimamente le dislogate oſla , o membra in buon concio rimettere ; onde per grado, gran tratto ne furono come Dij da’poſteri venerati . Ne meno terrò lo ragiona mcnto diSoſtrato ,di Dardano , di Cleomitide , di Teo doro , di Criſime , dc'quali oltre aʼnomni, nulla affatto noi non poſſiamo fpere. Ma prima ch'a' più baſſi , e più vicini tempi facciamo paſsaggio,n’è paruto bene il doverci alquanto intertenere a ragionare di quel ſiſtema , del quale Ippocrate fa parole nel libro della vecchia medicina;ritrovato ,comepar ch'ca. gli porti opinione, da’primi inventori dell'arte. Or dice Ip pocrate,che quegli átichisſimi e ſagaci inveſtigatori della medicina,faggiamere avviſaſſero ,che ne il caldo,ne il fred do , ne l'umido , nc'l fecco , ne altra ſomigliante coſa all' huomo foſſe d'alcun nocumento gianımai; ma di sì fatte coſe il fomino , o l'ecceſso , che vogliam dire , il qual per Gg ſover 234 Ragionamento Terzo ſoverchio di vigore , non poſſa eſſer dalla natura ſoprava zato , ſia agli animali d'offeſa, e didannaggio cagione; U queſto proccuravano có ogni ſtudio di reprimere,o tor via ; il quale ecceſſo dicevan' eſſi avvenire , qualora l'amaro , amariſſimo : il dolce , dolciſſimo : l'acetofo , acetofilimo divenga ;mentre portavano opinione, l'Amaro , il Dolce; il Salſo , l'Acetoſo , il Diſcorrente , l’Acerbo , e altre infi nite coſe di varie, e molte virtù fornite, dovere eſſere di ne ceflità nell'huomo, sì veramente , che fteano frá eſlo lor meſcolate , e confuſe, e l'una temperata dall'altra ; che foj mai avvien ch'alcuna di eſſe da tutt'altre appartandoſi , così ſceveratamente ſe ne ſtca , allor fallendo al diritto or dinamento del corpo umano cominci a farſi con mole ftia ſentire , e grave offeſa recare. De' cibi buoni, ed offendevoli, eglino ſomigliantemé te diſcorrevano :dicendo cheil Pane, o altri cibi, onde 1 huom niun male non pruova,ſia dall'accennate coſe , e ſa pori acconciamente temperato, e che quegli , onde alcun danno riceve , abbiſogni ch'una delle già dette coſe ab bia ſoverchiamente d'aſſai. Più avanti volevan'effi , che il caldo , e'l freddo men di tutte le già dette coſe fieno operativi ; cd ove rimeſcolici inſiemeneſteano niun danno giammai non facciano ; ma quantunque volte ſi leparino ,e che o riprezzo , o furiofa febbre perciò hucm ne patiſca l'altro contrario imman tinente accorrendovi , e la furia del tiranneggiante nimico affrenando, toſto venga l'infermo d'ogni affanno a liberar fi . Il che ſe pur non li vede nelle ardēti febbri,nelle infiá magion de'polmoni, ed in altre gravi malattie avvenire , dicevan'eglino , che in sì fatti cali non già dal folo caldo , ma inſieme colcaldo dall'amaro, e dall'acetoſo, o da altra fimil coſa la febbre veniffe generata . Finalmente tutto ciò , ch'Ippocrate dietro a tal materia fiegne a narrare , e come egli prenda a ripigliar coloro che dipartendoſi da queſti diviſamenti,le cagioni di tutti i ma li all'umido , al ſecco , al freddo , al caldo fi ftudiavano d ' attribuire,per eſſer molto lungo , e forſe di poco momen to, lo Del Sig.Lionardo diCapoa 235 to , lo tralaſcio diriferire . Ma quanto al fatto del teſte da noi rapportato ſiſtema, egli ne ſembra per le parole del medeſimo Ippocrate, che Apollo , o Chirone , o Eſculapio , i quali è fama d'aver primieramente la medicina inventata, ſtati ne ſiano gli au tori. E quanto ad Eſculapio , comechè contuſamente ne faccia parole Platone , e a guiſa d'huom , che di dubbia , coſa favelli, par che dir voglia , ch'egli in tal modo fi loſofaſſe , ed è veriſimil molto , che dal ſuo maeſtro Chi, rone , o dialcun'altro egli appreſo l'aveſſe : e Chirone da alcun'altro fimilméte di lui più antico : eche poi avendolo Eſculapio altrui inſegnato tratto tratto infino a' tempi d ' Ippocrate per altri andatoſi foſſe avanzando ,e a quelter mine condotto , ſicome egli il riferiſce ; ma egli è nondi meno per mio avviſo , aſſai manchevole , e ſcempiato , ne Ippocrate interamente , e qualli converrebbe il rapporta; si che ne laſcia cagion di dabitare, che ne men'egli il con tenuto di tal fiſtemi capiſſe . Ne ſembra impertanto, che non già di ſoli medici; madi filoſofanti , e medici inſie me , o di ſoli filoſofanti ſia tal lavoro; e per una tal breve, e confuſa notizia , che può averſene, pur manifeſtamente ſi ſcorge , che non mai dovette cader in penſiero a que gli antichi medici, e filoſofi , che di quattro corpi, che ſon comunemente Elementi chiamati , tutto l'Vniverſo com pongali, i quali diquelle , che prime qualità le ſcuole , appellano forinati, con altre , che ſeconde nominano ac cozzati, i tanto varj corpi miſti vengano a ingenerare; m2 che quaſi infinite particelle di figura diverſe ,in varie gui le ora accoppiandoſi, or ſeparandoſi,tuttele coſe faceſſe ro ; o per me'dire , e più ſecondo la loro opinione , da tale accozzamento , o ſceveramento tutte le coſe ſi faceffcro in varie guiſe ſenſibili ; e che , ne generazione, ne corrompi mento v'abbia in Natura giammai, ficome dice chiaramé. te nel libro della Dieta il medeſimo Ippocrate ; ma che ogni coſa , che dinuovo ſimanifeſta , pureravi innázi . Il qual modo di filoſofare , ſe non è appunto il medeſimo có quel di Anaſlagora , certamente da quello non è guari di verſo . G g 2 La 236 Ragionamento Terzo La maniera del medicare di quegli antichiſſimi medici autori di sì fatto ſiſtema , viene apertamente accennata da Ippocrate quando dice , ch'eglino davano .opera a tor via dall'huomo tutto ciò , ch'eſſendo della ſua natura via più valevole , e no'l potendoella vincere , offefa ne rim.z. ne ; come l'amariſfimo , il dolciſſimo , e altre ſomiglianti teſtè mentovatecoſe; le medicine poi a vuotarle voleva no eglino, che ſi daſſero nel tempo opportuno a ciò fare , cioè allor,che per eſſer elleno al dovuto cocimento perve nute , era ceffato il lor impeto , e mitigato il furore; d'on de fi cava , che quegli avvedutiffimihuomini non adope ravan le purgagioni, ſalvo che nella declinazione del nia le ; e chiaramente dice ſecondando i lor ſentimenti Ippo crate , che allor , che nell'huomo ſomınamente creſce la collera , in tutto quel tempo , ch'ella ſi trova ſtemperara ; cruday e ſincera per arte niuna ſi poſsono , ne il dolore, ne la febbre , che da leicagionanſi mitigare , non che eſtin guere. Macon quali argomenti eglino cercato aveſsero di cuocere , e diridurre al lor primicro ftato le nocevoli materie,Ippocrate non ne tien ragionamento; folamente fi pare , per quanto raccoglier fi pofsa dagli altri ſuoi libri, e dalle parole , che reftè abbiam noi recate,che eglino in ciò non ſi valeſsero de'falasſi . Ritrovò a'noftri vicini tempi un sì facro fiftema , oltre al Paralcelſo , al Severino , ed al Quercetano altri , eal. tri doctisſimi ricevitori ; i quali colle tante , e rante cu rioſe , e ſottili dottrine , che viaggiunſero ſommamente il nobilitarono , e lo fecero altro in verità parere da quel lo , che così rozzamente defcritto nel libro della vecchia medicina ſcorgeſi ; ma non poterono nientedimeno que' valentisſimi huomini , per quanto mai s'affaticaſſero, e che poneſsero ancora in opera per ciò più acconciainente fare la vital notomia , ritrovar argomento giammai , che effi cacemente provar poteſſe , che nell'huomo , ed in altri corpitante, e tante varietà innumerabili ſi trovino di coſe ; laonde degni certamente diſcufa mi pajono que'primi au tori del ſiſtensa ,fe ne meno eglino non le vennero in quel il a Del Sig.Lionardo di Capoa. 237 li a dimoſtrare ; ed in verità lo per me crcdo , che ne me no eglino non aveſſer potuto ciò fare giammai ; imperoc chè ſe ſono , come esſi vogliono , in minutisſime particel le diviſe , e l'une coll'altre meſcolate , e confuſe , necon i ſentimenti ſi arrivano a comprendere , ne effetti poſſono produrre , da’quali argomentar ſi poſlá lor ritrovarſi at tualmente nell'huomo , ed in altri corpi , e ſe mai pure in eſso loro talvolta feorganfialcune delle dette ſoftanze di quando in quando venir ſuſo, non ſi può ſapere certa mente ſe vi erano in primanaſcoſe , o le pure elleno da' primi lor femi di nuovo fiſiono ingenerate. Orper diffalta di queſte certezze,non farà egli manche vole, e ſcépiata quella medicina, che preſupponendole, ſu vi s'appoggia ? Ed oltre a ciò fe prima diligentemente non inveſtigheraſſi, e giugneraſſi a faper qualſia la natura dell' acerbo, delPacecoſo , e d'altre ſimili coſe , qual contezza de’loro effettipotrà averli, o del loro operare, e delle ma lattic , e della virtù deʼmedicamenti , e del modo d'ufar gli . E forte aggiroffi Ippocrate , ſofifti tutti que' fapien tìſliini filoſofi , emedici nominando,i quali volevan,che il medico foſſe pienamente di tutti gli affari della natura in formato , e intefo minutamente di tutto ciò, onde l'huomo compongali , e quanto al ſuo mirabiłmagiſtero concorra . E parvc al buon huono , che il conoſcimento di ciò antaa più alla pittura , che alla medicina s'apparteneſſe ; e ba it are al medico ſol tanto , ch'egli conoſca l'huomo in ri guardo al mangiare , e al bere, che gli convicne . Ma quefto medelimo chi non vede , che non mai poſſa fa perfi, fe la natura dell'huomo in prima , e poi di tutti i cia bi, e beveraggi, e d'altre, e d'altre coſe e non iſcorgaſi. Io nóho preſo a vagliar ciòsche dicefi pariméte,che qua Jora popera del ſolo caldo ſeparato dal freddo fi cagionano le malattie, il freddo v'accorra a dar riparo; che ſomigliati fraſchenõ maiimmagino ,che foſſero ufcite di bocca dique' valoroſi átichi;ne fo Io,comeIppocrate fe l'abbia maiim maginar potute. Aurebbono bēdovuto dire eglino , o eſſer mol 238 Ragionamento Terzo altra opera , greca , molto, e molto agevolea ritrovare il rimedio, ſe le malac tie dalcaldo , o dal freddo ſolo avveniſſero , avendo noi pronti ſempre tra le mani quegli argomenti, iquali, o ſcal dare , o raffreddarne poſſono; o pure, che il loverchievol caldo , in perdendo le particelle , che fanno il moto , les quali sfumano velocemente , ove non v'abbia coſa , che vaglia a intertenerle,coſto s'ammorti,e venga meno.E ſo migliáteméte eglino ácora dir potevano delfreddo fover chievole ,che tor ſi poſſa agevolméte via incótanéte ſenza che della ſola continua formentazione del ſangue. E tanto baſti del più antico ſiſtema della medicina , ficome a noi ne giova credere, al preſente aver detto ; onde come d'abbondevole , e larga fonte tanti, e vari ruſcelletri poi d'altri ſiſtemi di razional medicina tratto tratto li diram irono : chenon pur la grecia tuttav , ma alere barbareſche, e più rimöte nazioni allagarono. E primieramente quel ſe ne vide uſcir fuori, di cui ſicome noi teſtè dicevamo fa Ippocrate mézione ; il quale dell'u mido , del ſecco , del caldo , del freddo nel filoſofare ſi valſe ; e quell'altro purdalmedeſimo Ippocrate accenna to , di coloro , i quali più ſottilmente le coſe fin da’loro primiprincipj fil filo d'inveſtigare li ſtudiavano ; ed altri , ed altri Siſtemi ancor covenne,che a que'répi ſi adaffer tut tavia mettendo fuora per que' filoſofi, che in molte , e varie ſchiere eran partiti; alcuni de’quali, come addietro accennammo, ciò fecero per avventura ſol per render pa ga la lor curioſità , e per vaghezza di ſpiarei ſegretidella natura ; ed altri per intendere oltre al filoſofare , anches all'opera della medicina , fino a’tempi d'Erodico , oveda prima ad alcun ſembra che dalla filoſofia indegnamente divorzio faceſſe la medicina ; le pure alai molto prima, e per opera d'altri ciò non avvenne , e ben’ Ippocrate nel libro della natura dell'huomo, oltre a'già narrati,di quegli altri Siſtemi ta menzione, formati da que'medici ,che volevano , o dal ſangue , o dalla collera, o dalla flemma elfer formato l'huomo , Ma 1 DelSig. Lionardo di Capoa 239 Ma tempo ſarebbe omai di patrare ad altro ; más poichè non è queſt'opera da dover fornire in brieve ſpa zio di tempo : ed lo tanto oltre mi ritrovo col mio fa-. vellar traſcorſo , che già omai è l'umid'ombra della not te ſopravenuta , egli fie convenevole, che ad un'altra ada nanza l'eſaminamento degli altri ſiſtemi di medicina lo ri ſerbi. KK KE UP) RA: 240 All RAGIONAMENTO QV A RT 0. 22 S E quelle gravi , ed acerbe quercle , che veggiam tutto di metterſi fuora dalle pé ne di tanti, e tanti ſcrittori contro le bar bareſche armate , perchè coile più bello meinorie della famoſaGrecia abbia quel le i più prezioſi libri della medicina cru delinente malmenatic diſtrutti: vorrem noi dirittamente guardare, ritroverein per mio avviſo eſſer quelle in veri tà poco ragionevoli , cmenche giuſte doglianze ; iinpe l'occhè ſe gli ſmarriti libri della greca medicina eran fimi glianti a queſti, che a noſtre mani ſon pervenuti , fideu certamente ſtimare alſai ben lieve la lor perdita , ne da do Ierſene gran fatto , anzi da non mettere in conto ; mare pure quelli di maggior lieva ſi erano , e più vera , e fotril doctrina contenenti , bcn'a torto , s'io pur non vado erra to , oiGoti, o gli Alani, o gli Vnni , o iBulgari, o i Sa raceni di sì grā misfatto accagionanſi; imperchè di coſtoro certaméte niuno giunſe giamai a depre.larc,ed a ſignoreg giare la Grecia tutta ; c quãdo ultimaméte il Turcheſco fu rore ſurſe ſtruggédola , ed ingiuſtaméte uſurpádola , cd oc cuparl Del Sig .Lionardo di Capoa. 241 cupandola inleme colla Città , ſede, e capo dell'Orientale , Imperio , allora preſſo che tuttii libri , che vi avevano della greca nazione,mercè all'induſtria degli Italiani huo mini nelle noſtre contrade vennero traſportati; ſenzachè v'han pure molte Iſole greche, ch'all'Ottomano giogono ſottomeſse dell'antica libertà anche a' di noſtri ſi godo no . La vera cagion dunque della perdita de' più beilibri non purdella medicina , ma delle più nobili arti , e delle più ſovrane ſcienze,non già alla furia dell'armi , o delle fiamme nemiche : non già alla rabbia del tempo di tutte l'umane coſe fiera divoratrice ; ma recheſi ad altrettanto più cruda, quanto men furioſa , e mentemuta cagione.Diec tracollo , chi'l crederebbe ! dier tracollo dal lor primo ſplendore le lettere , non per altro , ſe non ſe per manca mento, e per colpa de'letterati medeſimi; c donde atten devan ſoftegno , e riſtoro , quindi ſterminio elleno ebbe ro , c ſtruggimento ; conciofoſse coſa ,che , ficome talora in bello , e ſpazioſo campo di grano ſoglion naſcer avene , logli , ed erbe ſterili , e dannoſo , e ſoffocarlo , cosìſur ſero tratto tratto nella Grecia fra quell'anime grandi , es valenti , che del vero ſapere eran ſolamente paghe, alqua ti huomini di ſtolido , ed ottuſo intendimento , i quali da vaghezza tratti divano onore , e di popoleſca fama, ogni loro ftudio ponendo in farſi tener alla minuta plebe ſapie ti ſol dieder opera ; e tutti intelero a certe vane ombre di dortrine ; e perciò laſciando in abbandonamento i buoni libri a conſumar dalla polvere, e a roſicchiar dalle tarme, ſol cura ſi diedero di riſerbare , e di tramandare a' po fteri que’libri , che con pompa , cd arringo di belle parole facevan veduta d'inſegnar tutto quando poco , o niente in lor v'era di pregio ; e delle lodi di sì fatti volumi,aven do eſſi riempiute le carte , la troppo credula , anzi cieca , pofterità , come prezioſi teſori gli ha ricevuti , e ſempre mai venerati. Mai voſtri ingegni, o Signori,per cui veggio omai ſcorgerci da miglior lume la verità : mi danno ani mo ch’lo proſeguendo la incominciata tela de’varj ſiſtemi de'Greci medici, vi faccia ſcorgere ad un'ora per la più Hh par 242 Ragionamento Quarto parte falſe eſſere quelle eccelléti prerogative, che di mol ti ſcrittori va buccinando da per tutto immeritevolmente la fama. La medicina di Erodico ,la quale quatūque in vitupere vol guiſa per Platoneſtata foſſe trattata: no però di meno dal gétilillimo ſuo ftilc ella vene sõmaméte nobilitata ,ere ſa immortale, per fatica , che vi ſi duri , Io non ſo vede re , come ſi poſſa giammai ad eſaminazione acconciamen te ridurre,poichè d'efla sì poche, e cófuſe memorie avázate ne fono,che appena ne ſi aprirà capo da potere alcun degli argomentiond'ogli fabbricolla indovinare ; impertanto a volerne dir ciò che per noi fi può , rammentomi, che Platon riferiſce, Erodico eſſere ſtato miglior maeſtro d'in ſegnare, come gl'infermi eſercitar doveſſero le membra, e ſtropicciarle , ed ugnerle , e regolatamente prendere il ci bo , chedi giovevoli , ed efficaci medicamenti a coloro preſcrivere;perchè e'ne viene dal medeſimo Platone affai Íconciamente vituperato ; dicendo , ch'egliin sì fatta gui fa non diſtruggeva altrimenti le malattie , ma le complcf fioni ſolo a poter quelle lungamente foſtenere ajutava ; ond' egli paſsò ad affermare la medicina d'Erodico eſſer arte da Pedagogo ;imperocchè ficome da coftoro i fanciul lini, così da quella i mali reggevāli; mache di ciò Erodico la dovuru pena aveſſe meritevolmente pagata ; imperoc chè della ſua inutil medicina , penofa , e cagionevolvita traſſe continuo , e ad una lunga , e ftentata morte ſempre diſpofta,perocchè da una nojofiffima, e mortal malattia preſo , egli per trovarqualche argomento da ſoftenerla , tutto nello fludio della medicina s’involſe , traſandando tutt'altre biſogne , e ſolo a ciò di forza intendendo , altro non gliene avvenne , ſe non ch'egliebbe a viver si parca mente , e regolato, che ſe mai dall'uſato cibo ſi dipartiva, toſto ritornava ad ammalare , e più che prima cagionevo le diveniva ; e a queſta guiſa reſo a ſe medeſimo inutile, e grave peſo , viſſe infino all'ultima vecchiczza ; ove di que favita rinereſcédogliil morirc, ſdegnofaméte fi dipartio.E alla finc Platone motteggiandolo conchiude , che una ec cellen Del Sig.Lionardo di Capoa 243 cellente , e ragguardevol palma e' riportaſſe dall'arte ſua, e talc , qual veramente gliſi conveniva , come a colui , il qual non ſapeva , ch'Eſculapio una cotal guiſa di medica re a' pofteri non aveſſe inſegnata, non già perchè non gli foſſe aliai bé conoſciuta : ma ſi bene perocchè egli ſcorge va,che in una bé ordinata Città a ciaſcun debba eſſere l'o . pera ſua convcncvole aſſegnata , alla qual fornire doven do intendere , mal potevagli ozio lungo avanzare , du potere a ſtéto da una tal medicina attender prò , o riſtoro ; coſa , la quale certamente ridevole ella ſembra ſe vien el la mai negli arteficiconfiderata . Reca Platon l'eſemplo d'un legnajuolo , il quale ſe mai, come porta la ſua diſ grazia ritrovali preſo da grave malattia , egli toſto inan dando per lo medico, da lui richiede , che diviſandoglial cuna purgativa , o pur vomichevole medicina , o col fer ro proccuri toſto di torgli ogni inale , e ogni ſeccagin da doſſo ;ma ſe allora il medico ſolpreſcrivcſſoglilungadieta, e altri così fatti riguardi , certamente , che colui gli re plicherebbe, non eſſer miga ſuo intendimento di menar il can per l'aja , e foggiacere a una sì nojoſa, e miſerevol vi ta ; e così datogli dipreſente il congedo coll'uſata libertà ſe ne rimarrebbe ; e ſemai avveniſſe per forte , ch'egli guariffe , ſi viverebbe per innanzi felice ; ma ſe il corpo no potendo al mal far contratto ſe ne moriſſe, almen verrebb’ egli ad eſſere da tante noje ſviluppato . E dopo queſti ra gionamenti Platone apertamente una tal medicina caccia via dalla ſua repubblica , come dannoſa , e tale , che i ſuoi cittadini non meno alle lor private biſogne , ch'a quelle del comune verrebbe a fraſtornare, e ritorre. D'una tal materia ſi legge una lettera dello Speroni , con la quale egli va dimoſtrado con vani ſofiſmi,la vita ſobria eſfer no cevole uzi che no; infra l'altre coſe dicendo , la vita ſo bria non poterſi appellar ſana, eſſendo la ſanità un'acci dente , che coll’inferinità , ch'è il ſuo contrario via ſi cac cia del ſuo ſoggetto ; perchè ſe nella vita ſobria non può effer inferinità , non può eſſer (anità vera; c ſe tinto , e non più fi mangia , quanto baſta al vivere noi ne coin H h 2 bar 1 244 RagionamentoQuarto batteremo, ne cămineremo,ne falteremo giámai, ne potre mo ciò fare , perchè non averemo le forze,mangiando fo lamente per vivere , il che ſarebbe un gran difetto nell huomo . Oltre a ciò e' dice, che come la mano ſtorpiata , non è mano , perchè no può come mano operare,così la ſo bria vita no è vita,ma meza morte, perchè no opera quan to , e come dee l'huomo operare.Dice parimente egli che il morir per riſoluzione ſia la peggior guiſa di morte, che poſſa fare l'huomo :perchè queſto è inorir di fame ; della qualmorte parlando Omero in perſona de'compagni d'V Jiffe l'abborriſce infinitamente : ed elegge più coſto lo an negarſi , che'lmorir di fame į ne peraltro Dante biafi matanto i Piſani, che per aver fatto morir di fame il Con te Vgolino ,benchè foſſe traditore della Patria . Con chiude egli alla fine , che chi è ſobrio nel cibo faria huopo cffer ſobrio in molt'altre coſe : peſare il vino, e'l pane, nu merare l'ore: farebbe luogo ancora pefare i peſieri, lo ſcri vere , il leggere', e ſimili cofe , che impediſcono la dige ſtione : numerare i palli, e le parole , che ajutano la dige ſtione : non dormir ſe non tante ore il dì , e tante la notte . Ma il chiariſſimo Signor Luigi Cornaro , a cui era in dirizzata la lettera ; col ſuo proprio cſemplo fe veder ma nifcſtamente quanto ciò vano , e fuor di ragion fia : impe socchè egli colla rigorofa dieta lano , c vigorofo , e bene atante della perſona anche nella cadente età ſi mantenne , e viſſe oltr'a cent'annipronto ſempremai , e col ſenno , e colla mano alle biſogne tutte della ſua patria ;comechè ca gionevole aſſai di compleſſione e'li foſse in prima ſtato ncl Ja ſua giovanezza , ca molti, e graviſſimimali ſoggetto ; intanto , che comunemente da'medici dopo varj , e diverſi argomenti indarno adoperativi , diſperato ſovente di ſuas ſalure ſtato ne foſſe . Ma quanto vane ,quanto deboli , e fanciullefche fien le ragioni, con che Platone s'argomenta d'abbatter Erodi co ,e come ſcioccamente la dappocaggine d'Eſculapio , e de figliuoli di lui egli di ſcuſare s'ingegni : Io non pren derommi al preſente briga di dimoſtrarlo , potendo ciaſcũ 1 da per Del Sig.Lionardo di Capoa. 245 da per fe a prima veduta baſtantemente comprenderlo . Macome non ſi può in modo niuno negare, che quel me dico , il quale aveſse per le mani ſicura ,ed efficacemedici na , che ſenza indugio poteſse un grave male di prefence guarire , non dovrebbe certamentead altri medicamenti aſpettarſi; nondimeno non ſo lo fe Eſculapio , cotanto da Platone commendato, aveſse pronta ſempremai unas cotal medicina non che a tutti mali acconcia , ma ſola mente alle ferire ; eſsendo rade molto cotali forti di me dicamenti , e radiſsimi coloro , che alcun certamente ne ſappiano ; perchè lopratutto fa meſtieri, che'l medico per ogni via ſappia all'infermo ſoccorrere, eſe non può riſa, narlo,poſsa almeno tantoſto indugiar la fua morte , tem poreggiando , e ſcherinendolo a ſuo potere . Perchè fom mamente egli è da lodare il ſaggio avviſamento d'Erodi co , il quale molto bene a pruova ſcorgendo quanto poco a capitale da tener foſse l'operazion de’medicamenti, diede opera più che altro a quelle coſe , che ſe non ſono ditroppo vaglia , s'annoverano fenza fallo infra le meno incerte dellamedicina . Ecertamente per quelle uſare no fi corre pericolo niuno da’malati , e poca , e niuna fatica . s'imprende a porle in opera . MadalPaverle Erodico dalla ginnaſtica portatealla me dicina,quanta lode egli per ciò ne meriti , Galieno mede. fimo il confeſsa ; il qual nondimeno una tanta lode ad Ip pocrate attribuiſce . Io per me ſtupiſco della fcimunita tricotanza di tal’huomo che avendo letto più volte i dia loghi della repubblica di Platone , e recatone nel fuo li bro pur qualche luogo, ardiſca pure d'affermare , che Platone in ciò ſolamente la cattiva ginnaſtica biaſimaſſers la quale ſi predeva cura di difpor gli Atleti ad eſser valo roſi , ed abili a loro eſercizj . E certamente ſe quellibro di Platone ſinarrito per ayventura ſi fofse , ciafcun farga mente le ſciocchezze di Galieno crederebbefi . E come voleva Platone biaſimar la ginnaſtica, che per Galien cat tiva dicefi , s'egli nella ſua Città ordina , che s'edifichiil ginnaſio , e diſegna con molte parole la contrada acconcia per i 246 Ragionamento Quarto per quello , e vi ricerca in iſpezialità copia d'acquc cor renti , così per derivarla in uſo de' caldi bagni , coine per irrigare il terreno , e render vago , eadorno il luogo ; ſen zachè no mai ſtanco ſi moſtra Platone in tutte le ſue ope re di celebrare il ginnaſio , e quegli eſercizi , che ivi fico ftumavano di fare : come ſommamente utilia conſervar la ſanità ; e fra l'altre egli ebbe a dire una volta, eſsere ma lagevol molto il ritrovare diſciplina miglior di quella, la quale fin’alla ſua età in lunghiſſimo ſpazio di tempo s'era ritrovata ; cioè della muſica , che all'animo , e della gin naſtica , che al corpo appartiene. Ma laſciando ciò da par te ſtare , egli va grandemente per mio avviſo errato Pla tone nell'affermare, che que'buoni antichi medici non cu raſsero il regolaricibi a'malati , e che ciò eglino faceſse ro , non peraltro , ſe non perchè non avevali a que’tempi di ciò punto biſogno, perchè agli antichi , i qualimaisé. pre regolaramente vivevano, non faceva poſcia inferman doſi huopo diregola alcuna di medico ; concioffiecofachè le tante , e tante förti di malattie , che fra gli antichi ſové teniente ſi vedevano , faccian’aperta , e fedele teſtimonia za del contrario . Ma quantunque vero foſſe ciò ,che Pla tone immagina della ſobrietà grande degli antichi huo mini , pure altri cibi a'lani,ed altri a'malati convengono; e quelmedico , il quale cibaſse l'infermo come fano , e'l ſano come infermo ugualmente nel certo all'uno , ed all l'altro nocerebbe . Egli poi non ha dubbio alcuno , che'l regolar i cibi foſse la prima coſa certamente , che s'ado peraſse in medicina ; anzi da ciò venne ſuſo primieramé ce la medicina ; e prima , che foſsero i medici , i medelimi infermi da per ſe il ritrovarono ; e illuſtri.fimo in queſto affare è il luogo di Celſo; il quale ci giova quì tutto rec.le re , comemolto al noſtro propoſito faccente: Ægrorums, dice egli, qui fine medicis erant , alios propter aviditatem primisdiebusprotinuscibum affumpfiffe , alius propter faſti dium ahſtinuile, levatumque magis eorum morbum effe , qui abſtinuerant : itemquealios inipfa febre aliquid ediſ Te , alios paulò ante eam , alios poft remiffionem ejus , optime dein Del Sig. Lionardo di Capoa 247 ! deinde his ceflife , quipoft finem febris id fecerint . Eadeque ratione alios inter principia protinus ufos effe cibo ple viore , alios exiguo , graviureſque eos factos qui fe imple rent. Hæc, ſimiliaque quum quotidie inciderent , diligentes homines notaje: quæ plerumquemelius refponderent ,dein deægrotantibusea præcipere cæpiſſe :fic medicinam ortam-, ſubinde aliorumſalute ,aliorum interitu pernicioſa diſcer nentem à ſalutaribus, Ma intorno al cibari malati, certiſſima coſa egli ſi è, che gli antichi medici gră pezza affai prima d'Ippocratemol . te coſe , e molte diviſarono, come ſi può agevolmente ve dere nel libro della vecchia medicina , ed in altre opere d ' Ippocrate medeſimo , onde parimente ravviſar fi puote quanto errato vada Galieno, il quale di ciò far yolle il buo Ippocrate autore. Ma , che che ſia di tali faccende, terri bile allai ſembrami nel vero la cenſura , con la quale Ip pocrate, non avendo veruno riguardo alla venerazion do vuta al maeſtro Erodico , fconciamente il riprende,e vitu pera ; dicendo, ch'egli togliere la vita a tutti que'cattivel li febbricitanti , ch'e' medicava colle fatiche , e co' fummi. caldi , che loro imponeva; e ne reca egli di ciò la ragione, dicendo cfler a' febbricitanti il pareggiare, il correre,e gli ftrofinamenti , eifomenti oltreinodo contrari .Aggiugne Galieno a ciò che dice lppocrate , che Erodico in ciò fa re, ne anche alla ſperiéza guidar certaméte e'li faceſſe ,non volendo niuna ragion delmondo , che'l male col male, la fatica colla fatica , il ſimile col liinile da medicar ſia ; an zi e'dice , che gli argomenti tutti adoperati per Erodico nelle febbri , valevoli più toſto ſiano ad accreſcere sfor matamente il calore , che a toglierlo . Ma certamente no molta fatica aurebber egli durata i ſeguaci d'Erodico in rimboccare Ippocrate , e Galieno ,dicendo ,che Erodico, come buon medico razionale non già alle febbri, ma alla cagione di quelle riguardar doveva,alla qual togliere cer tamente quemedeſimiargomenti fi convengono, i quali egli adoperava , avvegnachè in prima ſe ne creſca talottas la febbre per qualche poco ſpazio di tempo ; ma poi ſen za fala 248 Ragionamento Quarto za fallo rimoſſane la cagione del tutto ſi ſpegne ; ſenza chè ben potrebbono di vantaggio aggiugnere , il medeſi mo appunto farſi da Ippocrate , e da Galieno : i quali con fregamenti , e con dare a {piluzzico , e a riguardo il cibo medicar parimente ſogliono i febbricitanti . Ne qui deb befi tacere , ſcorgerſi da ciò chiaramente eſſere antichiſ ſimo coſtume de'medici biaſimare in altri , come manche voli , e malfatte anchequelle coſe , che eglino medeſimi in ſomiglianti caſi operar tuttavia ſogliono. Ne poffo sé. za maraviglia riguardare alla gran tracotanza di Galieno, il quale così aſprainenre riprende il diviſamento d'Erodico ſenza punto penſare , che ello ancora alcune febbri linco pali co'fregamenti, e col digiuno curar foglia ; perchè egli vien forte ripigliato dal Tralliano , il quale rintuzza lo , c percuotelo , e con maggior ragione per avventura , con quell'arme medeſime, che Galieno aveva contro Ero dico adoperace. Vltimamente ſe un ſomigliante coll'alcro da curar ſia , coloro ſe'l veggano , i quali comeche con parole il biaſimino , purcon fatti talvolta il ſogliono ado. perare : ſolamente lo avviſo , che Ippocrate medeſimoma nifeftaméte afferma, che'l yomito col vomito ſi cefla ,e che col limile il ſimile ſi cura . Quinci ſcorger ſi puote , chcgli huomini tutti,e più che altriimedici, Togliono di leggieri nell'arti, chedi nuovo imprendono ad eſercitare , valerſi di quelle coſe, alle qua li per qualche ſpazio di tempo diedero in prima opera ; e percið Erodico per mio avviſo ſi ſerviva così ſpeſſo degli Itropicciamentiin medicando gl'infermi, e d'altre opere , ch'erano in uſo nel ginnaſio , di cui egli aveva avuto la cu ra ; così veggiam que' ,che, o d'Aſtrologi, o d'Alchimi ſti divengono medici , non preſcriver rimedio alcuno , che non ſe ne fian colle ſtelle , eco'fornelli conſigliati; ma no penſi però alcuno , che'l maeſtro , o preferto del Gimnaſio aveſſe cura di far ſtropicciare , o d’ugnere que' ch'eran deſtinati alle lutte , al corſo , e agli altri gilochi , che ſi fa cevano nel Gimnaſio ; ma il ſuo uficio ſi era il comandar nel Ginnaio , e conliſteva nella ſupreina autorità di quello p li vile Del Sig.Lionardo di Capoa. 249 li varjufici a quella ſottopoſti, e per le ipeſe , che per l'e ſercitazioni facevan meſtieri ; edun taluficio era in sì grá pregio,edonore tenuto,che nó foleva darſi,ſe non ſe a'più nobili , o ben’agiati huomini del paeſe; c durò lungamen te tal uſanza sì fattamente ,che i medeſimi Romani Im peradori talvolta non iſdegnarono in volendo favoreggiar qualche Città amica, e qualche popolo a loro affeziona to , infra i titoli , egli onori degli altri maeſtrati, d'accet tar anche quello di prefetto , o maeſtro del Ginnaſio . Ma non men della medicina montò in grandiſſimo pre gio , e venerazion l’arte ginnaſtica , la qual fu cotanto ce lebrata a que'rempi dalle dotte penne de ſagaciflimiſcrit tori , che nulla più ; d'alcun de'quali con ſomma lode fa menzion Galieno, appo il quale leggefi di vantaggio ,che non ſolamente eglino contendevano co’più chiari , ed il luftri medici razionali, ma che quegli fteffi , chenel Gin naſio bazzicavano proverbiar ſolevano Ippocrate ,che egli temerariamente inipreſo aveſſe ad inſegnar un'arte , dicui cgli era affatto ignorante , e digiuno . Ma ritornando ad Erodico , chc che ſi dica di lui Platone , non ſi fermò egli nelle coſe ſole della ginnaſtica ncll'eſercitar la medicina , ma ſi valſe d'altri , e d'altri rimedj, de' quali altri medici dopo lui parimente fi valſero : come ſi può vedere in Ce lio Aureliano , il quale in facendo parole della ſciatica , delle medicine d'Erodico così dicc : Herodicus igitur, ut Aſclepiades memorat , ventrisadhibet purgationem , atque pofl cenam vomitus , quifunt implebiles potius quam ficcabi les: tum vaporationibus tepidis aceti decocti exhalatione con fectis utitur , vel aqua marina , admifta thalsa herba,atq ; biljopo, & his fimilibus, veficis bubulis repletis corpus va purandum probat, vel aliis quibufque majoribus inflatis tu mentia loca pulſari jubet , e tanto baſti della medicina d’E rodico avere accennato. Eurifonte celebre medicante dell'antichiſſima ſcuola di Gnido , il quale ,come riferiſce Sorano inſieme con Ippo crate medicò Perdicca Rè della Macedonia , dalle poche memorie , che n'abbiamo, non ſi può ſcorgere in qual ma I i niera 250 Ragionamento Quarto 1 niera egli medicaffe , ene meno come egli in medicina fi loſofato aveſſe ; e delle ſentenze Gnidie, dicui voglion ch ' egli li foſſe l'autore, ne reca tanto poco Ippocrate , il qua le fi diè cura di eſaminarle , ch' Io per me non ho che di viſarne . Egli vien rapportato da Ippocrate , che i compi latori di quel libro aſſai minutamente, ed a ſpiluzzico avel ſer raccolto , e diviſato tutte quelle coſe , che avvenir ſo gliono agl'infermi in ogni lor malattia ; ma non è per ſuo avviſo da far gran fatto ſtiina della coſtoro induſtria , come quella, ch'aſſai leggiera , ed agevole impreſa è a chiunque neprenda cura , quantúque niente informato di medicina egli ſia : baſtado ſol,che dallo infermo della nojoſa iſtoria della propia malattia pienamente véga avviſato.Ma lo ,có buona pace d'Ippocrate , ſono in contrario parere; e lem brami, che gran ſenno faccian que’medici , e fieno ſom mamente da commendare , qualora ſi danno ſomiglianti brighe; imperocchè,non di ſole ciance,madicoſe in qual chemodo rilevāti ſi vedrebbon ripiene le ſcritture de’me dici . Ma che è ciò , che ſoggiugne poſcia Ippocrate, che egli fia queſto un peſo da tutte braccia , ne v'abbiſogni in tendimento di medicina ? E chi non vede quanto dalvero manifeſtamente il ſuo parer li diparta? da che a ſimili rac conti fa luogo comprender le variazioni de' polli, e altre biſogne ſola medici conoſciute; edo che vaghe novelluz ze da riftuccar la pazienza di ciaſcuno ſarebbon le imper tinenti ciuffole , ed anfanie , che talor foglion narrare a ' medici gl'inferini, fe quelle appunto aveſſero a deſcriver ſi poi ! e ſe per alcun, ſicome affai ſovente avvenir veggia mo , foffe offeſo il cervello , che domine potrà unqua ridir dirittamente giammai de'ſuoi travagli l'infermo ? nondi. meno, quantunque una tal impreſa lia aſſai propia del me dico , lo giudico , che ſe altri vi ponetle mano , chemedi co non foffe,peraltro riguardo maggior utile ſe ne ritrar. rebbe ; iinpcroccliè nurrerebbe egli ſemplicemente come và la biſogna ſenza giugnervi nulla di ſuo , ove da ' medici mercè dell'ufire loro aliuzie , tra per ridur'la cagion d'o gni avvenimento de'ma i alle lor concepute opinioni,o per altrid 1 DelSig. Lionardo di Capoa 291 alera cagione,cofa ,che ſoſpetta di falſicà,cd'errore non ſia non pongono in iſcrittura giámai . Soggiugne Ippocrate, che di quelle coſe , delle quali dee aver contezza ilmedi co per propia fua induſtria , oltr'a quelle , che poſſon ſa perſi dalla bocca dello infermo , molte ne tacquero que gli ſcrittori; e ch'egli di quelle notizie , che s'acquiſtano per opera della conghicttura, e che pertinenti ſono al mo do , col quale curar fi dee ciaſcuna malattia , non s'app.2 ga affatto di ciò , che color ne dicono ; e quinci ſi pare, ch ' Eurifonte medico razionalc ſtato ſi foſſe , e che , ſecondo i ſentimenti d'Ippocrate medeſimo ſuo emulo, aveſſe ſcrit to affai bene in medicina : nientedimeno, per quel che Ip pocrate parimenteriferiſca , chiaramente ſi ſcorge,che co sì Eurifonte , come que' della ſua ſcuola di Gnido ben molto poco valfero nella medicina ; imperocchè nel medi car le malattie, toltene l’acute, fi valevano ſolaméte dell'e Jarerio,del latte, e del fiero; e veramente intorno a ciò IP pocrate a gran ragione ne ripiglia l'autore di quel libro ſoggiugnendo, che ſarebbe degno di gran lode l'adoperar pochi medicamenti,ſe quelli buoni li foffero e conveniffe ro veramente a que’mali , a'qualieglino gli preſcrivono; ma che altrimenti vada la biſogna . Vengono in ciò i medicanti da Gnido imitati da parec chj de'moderni medici , i quali ſi tengon le mani a cintola ne'mali lunghi, ed allo incontro poi nellacute malattica non dan mai foſta a' poveri infermi , travagliandogli ad ogn'ora con importuniffimi rimedj , la dove dovrebbono ſenza fallo il contrario operare ; concioſliecofachè il ma de , il quale qualche ſpazio di tempo dur.2 ,renda aſſai age vole al medico il potere inveſtigarne, e rinvenirne il rime dio ; il che nc'mali acuti malagevolmente riuſcir puote , i quali per ſe ſteſſi , o bene , o male finiſcono in brieve. Ma nondimeno egli è ſommo artificio di medico il medi car sì fatti mali con molti rimedj: imperocchè ſe l'infermo guariſce, il vulgo ignorante agevolméte crede eſſer ciò per opera avvenuto di alcuno di que'tanci rimedi , che gli furono dal medico preſcritti : non avviſando , che celeres, ! I i 2 & acu 252 Ragionamento Quarto 1 cu acutæ pafſiones, etiam fponte folvuntur , &nunc fortuna, nuncnatura favente, come laggiamente Celio Aureliano avvila ; e ſe purl'infermomai vienea capitar male, tutta via della ſua induſtria ognuno contento , ed appagato li tiene , inmaginando , che egli non abbia laſciata coſa p riſanarlo. Ma che che ſia di ciù ne'mali lunghi,ove nel vero l'imprendimento, e l'opera del buon medico maggiorme te ſi richiede , perciocchè, ficome avviſa il medeſimo Ce lio , neque natura , neque fortuna folvuntur , ſi portò pelli maméte, per avviſo d'Ippocrate,Eurifóte;maſe crediamo a Celio Aureliano, nelmedeſimo fallo incorſero parimen te con Ippocrate ſteſſo tutt'altri greci medici , che furono prima di Temilone. Ma ricornando ad Eurifonte , Io non ſo, s'egli, o pure alcri compilando la ſeconda volta il libro delle ſentenze Gnidie,maggiormente , come porta opinione Ippocrates, il perfezionaffe: parte delle coſe, che in prima vi li legge vano , come chioſa Galieno , affatto togliendo , e parte in altro cambiando ; effetti, come altrove abbiamo pa rimente avviſato ,che provenir ſogliono dall'incertezza della medicina ; e queſto è quanto laſciò ſcritto Ippocra te della medicina d’Eurifonte . Si valſe cgli , come Ce Jio Aureliano dice , di qualche medicamento d'Erodico , e ſcriſſe per quel che narri Galieno, di notonia,e di quel le inedicine ,che ſi poſſono in luogo d'altre , che mancal ſero porre in opera . Ma trapaſſando ora alla medicina d'Ippocrate, egli cer tamente oltrealcrcder di ciaſcuno malagevole mi ſembra a diviſarne ora i miei ſentimenti ; perciocchè di que’libri, che ſotto il ſuo nome ſi leggono, ne pure a teinpo dell'an tico ſcrittore , che ne racconta la vita , dar fermo , e ſicu ro giudicio ſe ne poteva . Ma che unque diciò ſia ,manife ſta coſa è , che parecchi dell'opere dilui per travalicamé to di tempo ſmarrironſi , ed altre manchcvoli in parte , tronche li riinaſero ; ed in altre ancora molto, e molto co ſe , o da ſuoi ſcolari, o da altri aggiunte furono ; noiz però di meno c'fi pare ad alcuno che , coll'efler perdute l l'ope 1 Del Sig.Lionardo di Capoa. 253 -- Popere d'Eraliſtrato, di Diocle d'Aſclepiade,e d'altri buoni medici antichi, in queſte ſolaméte, che ſotto nome d'Ippo crate ne rimaſero, oggi ſia quaſi tuttoquáto di buono v'ab bia infra'Greci di medicina,cópreſo; impertanto moſtrano manifeftaméte, che non riſpondono a quel gran nome,che da alcun medico greco in prima , e poi da altri anchenon medici ſenza troppo ben'eſaminar la coſa ,egli n'ha ripor tato ; ne lo ſo permevedere , come ſi poteſſer mai, nu Platone , ne Ariſtotcle approfittarli per efle tanto quanto nella filoſofia naturale , come Galieno , e altri medici ſo gliono ad ogn'ora millancare . Ma chi per Dio paſſerà sé . za riſa la beſtaggine di Macrobio , il qual poco di sì fatte coſe conoſciuto , e nõ avédo forſe mai letti i librid'Ippocra te, follemére cómendandolo , gli attribuiſce ciò che a Dio ſolamente conviene, dicendo: Hippocrates qui eam fallere, quam falli neſcius. Nulla poi dico diGalieno ,il quales tutto che non ſi vegga mai pago di lodare Ippocrate , con dire una fiata infra l'altre ,che le ſentenze dilui tutte ve riffime fieno , Ta' ti Ittasaxegéros dogueala mutu le árugega tab iar e che la parola d'Ippocrate fi: come la voce d'Iddio: Notip Des our nj In Toregros réžis:impertātono approva egli poi co* fatti ciò, che dicecolle parole: imperocchèmolte,emolte fiate apertamente dalla ſua dottrina s'allontana ; anzi tal volta dimenticando quanto aveva detto in ſua lode , for te il proverbia, e'l biaſima, come altrove dimoſtrato ab biamo . Mai più ſapienti,cd ayveduti tra gli antichi ſcrit tori , quali furono ſenza fallo i Setteggianti, e queich'eb ber più valore, e più nome tra ’ loro ſeguaci, in pochillimo pregio tennero Ippocrate : come ſi può agevolmente ve dere in Celio Aureliano; ed Aſclepiade chiamar ſolevala medicina d'Ippocrate Meditazione della morte . Ma noi non badando a'cicalecci di niuno , diciamo primicramente , ch'egli ſi pare certamente , che Ippocra te aveſſe in qualche grado avuto quel natural talento, che alla medicina richiedeli; e che ſi foſse altresì cgli ſtato un' huomo infin da’primi anninello ſtudio , e nell'eſercizio di ella continuamente involto ; e comechè non ben intelo ſcor 254 Ragionamento Quarto I ſcorgeli ſovente delle coſe , ſembra pure , ch'egli ciò che ſi conoſceva in medicina in que'rozzi tempi, ne’libri degli antichi letto , & veduto egli aveſſe; e chi ben vi affiserà la mente ravviſerà nelle ſue opere affai più manifeſte le fondamenta delle varie , e diverſe ſette della medicina, di quel , che già follemente millantando Plutarco ne ſcriſſe , d'avere i principj tutti delle ſchiere de'filoſofi ne' Poemi d'Omero pienamente rinvenuti ; perchè fi dee ‘ certamente credere,o cheIppocrate impiegato tutto nell'uſo delme dicare non aveſſe avutomaitempo d'inveſtigare , e deter minare ciò chepiù vero gli foſſe paruto in medicina:o che pure avendo egli coſa per coſa minutamente ſtacciata , ed abburattata, ftanco alla finc,manifeftaméte avviſato aver ſe non eſſer più da appiccarſi ad uno , che ad un'altro fi ſtema di medicina,per la loro egual dubbietà ;e quinci egli poi di varj , e tra effo loro contrarj ſentimenti da' capi di diverſe ſette appreſi i ſuoi ſcritti riempic ; e per tacer d'al tro per ciaſcun ſi ravviſa aver Ippocrate nel libro della natura umana impreſo a parlare d'uno ſpezial fiſtema di medicina , ed'un altro nel libro della vecchia medicina , e d'un'altro nel libro degli fpiriti, e d'un'altro ultimamen te nel libro della dieta , comechè qucftie'confonda con gli altri ſiſtemi da lui poco ben'inteſi , e ſpezialmente con quello della vecchia medicina ; il quale ultimo ad alcuno ſembra , che intorno a tal materia .e ' compoſto aveſſe ; e viene ſcioccamente da molti creduto non già ď Ippocrate , ma di Democrito ; ma certamente fuor d'ogni ragione ; perciocchè in altra più nobile , e più ſottil ma niera quel ſublime filoſofante compoſto l'avrebbe . Ma che che di ciò ſia,per tornare a quelchereſtè dicevamo, pié d'incertezze , e tcmpellante : Ippocrate , par che talvolta alla ſperienza , ed alla ragione il tutto raſſegni; ed altre yolte ſembra, ch'egli alla ſperienza ſolamente s'attenga ; e da ciò moſſi negli antichitempi alcuni , come narra Ga ļieno , ed alcuni altri della noſtra età, infra'quali è il Mon tano , preſero cagionedi piatire, fe Ippocrate in medicina da parte empirica , o da parte razionalc veramente tenuto ha Del Sig. Lionardo di Capoa 25.5 ! + haveſſe ; ma non poteva certamente egli,comechènon foſe ſe di molto grande intendimento fornito, nel maneggiar tutto dila medicina non avvederſi della poca fermezza e della molta dubbierà di quella . Ma per altro poi, quan to Ippocratemancaffe di quell'intendimento , che a gran filoſofante , emedico , qual vien' egli comunemente te nuto appartienfi:ſcorger fi può chiaramente in tutte le ſue opere, e particolarmente nel libro della vecchia medicina; nel quale avendo egli avviſato eſſer da filoſofare in medi cina in quella guiſa appunto , che cgli quivi ſecondo i fen timenti de'più antichimaeſtri diviſa, da chiunque al vero, e perfetto conoſciinento di quella aggiugnere intenda:ed oltre a ciò , che la medicina non foſſe ella ancor tutta a ' ſuoi tempi ritrovata , ma unamenoma ſola parte di quel la, e che molto ancor ne reſtaffe per innanzi a ſcoprire; egli nondimeno, ne molto , ne poco vi s'affutico ; anzi andò dietro ad altri, ed altri ſiſtemi di medicina a guiſa di cieco , che séza guida alcuna vada caſtoni, ed attenědoſi a ciò che , incontra , or per una , or per altra ſtradì errando , ſenza mai venire a capo del ſuo cammino;la qual verità ben vé ne dului me.Iclimo conoſciuta , e finceramente paleſata nella piſtola ( ſe alori ſecondo i ſuoi ſentimenti in nom :) fuo , pur non la finale ) che egli ſcrive a Deinocrito ; over apertimente dice ſeno eſſere ancora pervenuto a quel le gno nell'arte , che diviſato ſi aveva , avvegnachè negli an ni molto , e molto avanzato, e nell'uſo del inedicare con tinuanente logorato fi foſſe . Map far pienamérc vedere,e toccar co muni quáto po co in filoſofia avázato fi foſſe Ippocrate, egli ſi convégono ad uno ad uno elaininarle fondamenta de'varj ſuoi, e co tanto infra loro diſcordanci ſiſtemi di medicina ; coinechè ciò per avventura ſoverchio giudicar ſi potrebbe; percioc chè tali , e tante ſono le dippocaggini di lui , e le ſcioco chezze de'ſuoi ſentimenti , che tolto per qualunque mez zano intendimento ſenza troppa firtica avviſar li potreb bono ; il che egli ancor conoſcendo , e reſtandovi alla fine inviluppato , e contuſo , in njun di quelli riſtr fermame te ſi > 256 Ragionamento Quarto te fi volle , dottando, e tempellando ſempremai di ciaſcu no. E conciofoſſe coſa, che del Giſtema della vecchia me dicina altrove baſtevolmente detto ſia', cominceremo al preſenteda quello , che nel libro della dieta con lungo , e magnifico apparecchiamento di parole egli neporge. Pri mieramente in quel libro e'nedice ſecondo il ſentimento , ch'egli altrove rifiutato avea dique'valent'huomini da lui contro ogni ragionechiamati ſofiſti, che chiunque a ſcri ver imprenda della dieta all'huom pertinente , egli con venga in primain prima aver piena ,e perfetta contezza della natura dell'huomo, e di qualiprincipj egli da prima compoſto foſſe : e oltre a ciò ſpiar minutamente , e com prendere quali di que'principj in lui maggiormente s'avã taggino . Sentimento quanto ſaldo , evero , e che non ha di pruova alcunabiſogno , altrettanto volgare , e agevole a penſare; perchè eglimoſtra ,che Ippocrate non abbia per quello , ſe pure è ſuo , cotanto merito appo i medici dovuto acquiſtare ; non peròdi meno lo ſcaltrito temen do negato non gli foſſe sì bel diviſaméto ,ne vuol far pruo va , ſo giugnendo , che ciò non fi ſappiendo , mal ſi po trebbe cibo ,che profittevole abbia ad eſſere , ad huom ’ ragionevolmente diviſare. Indi foggiugne convenire an cora aʼmedici la compleſſion di tutti cibi , e vivande, che noi uſiano eſſer conoſciuta ;e ſopra ciò con lunga,ed inutil diceria grā pezza cgli di provar s’affatica,comcchè di pruo va niuna ciò abbia punto biſogno.E quindi il ſuo ragiona mento cominciando intorno a principj delle coſe della natura , in sì fatta gniſa ne parla. Così l'huomo, come tutt'altri animali di due principj so compoſti, i quali comechè diverſi ficno quanto alle lor facultà , all'uſo nondimeno ſon concordevoli , e acconci; ciò ſono l'acqua , e'l fuoco ; i quali amendue non meno a tutt'altre coſe , che l'uno all'altro ſcambicvolmente ba fano ; ina ciaſcuno per fe a ſe inedefimo , ne ad altra coſa del mondo non baſta ; e la virtù , e la forza di ciaſcun di effi è tale cheper lo fuocoli muove ciaſcuna coſa qualun qne clia lia , c in qualunque luogo dimori : e per l'acqua Con DelSig.Lionardo di Capoa 257 convenevolmente ella ſi nutrica , e creſce . Ma in conti nui piati, e battaglie elliftando ſempremai fi contraſta no , e ſi vincono ; non però sì fattamente , ch'alcun d'eſli cotanto abbattuto , eſpoſſato ne rimanga , che niente più di vigore,o di forza non gli avanzi; perciocchè ove il fuo co preſſo all'eſtremo dell'acqua ſtrabocchevolmēte è per venuto , toſto il debito nutrimento gli manca; perchè egli volgeli colà , ove nutricar ſi poſſa ; e l'acqua d'altra parte quando all'eſtremità del fuoco è aggiunta riman priva di inovimento , e nulla vale ; perchè vien toſto dallo ſcorre te fuoco in nutrimento cambiata . E imperciò nel conti nuo lor tempellaméto niun di loro sì pienamente può ſo verchiar l'altro , che affatto l'uccida ; ma amendue vengo no in sì fatta guiſa ſcambievolmente a ſoſtenerſi, che egli no ſolamente baſtevoli ad ogni coſa rieſcono per doverla in qualunque modo comporre. Orchi domine cotáto ſarà di cieca paſſionc ingombro , che non iſcorga pienamente quanto vani , e ridevoli ſieno i diviſamenti d'Ippocrate intorno a ' ſuoi principj . Vn ſol principio , dice egli ,non baſta ; ma baſterà egli , che sì il dica ? anzi vi ſarà chi vi replichi , uno eſſer ſufficientiſfi mo , ove le parti, che il compongono di diverfa figura fie no, e diverſamente fieno allogato , e infra loro compoſte, e ſi muovano : perchè poidi yarie facce le coſe tutte del mondo compor debbano ; ſenzachè ſe principj delle coſe vuole egli , che ſieno il fuoco , e l'acqua, perchè egli non ne ſpiega lor natura ? ne baſta in ciò ſolamente dire eller il fuoco valevole a dare il movimento ; perciocchè ben do veva egli più avanti ragionando ſpiar la cagione del movi mento delfuoco , e ricercarminutamente diche egliſia compoſto , e chedifferente il faccia dall'acqua : e queſte coſe ritrovate riporle poi per principj delle coſe , come quelle , onde tuce'altre vengono ingenerate: e non già il fuoco , e l'acqua , che non ſon primieri nell'ingenerare . Ma mentre egli con l'uſata ſua traſcuraggine di ciò niuna briga ſi prende , certamente dall'acqua , e dal fuoco in quella guiſa , ch'e' ne favella , nc huomo, ne altro animal K k niu i 258 Ragionamento Quarto 1 niuno coinpiuto , ne coſa altra delinondo non ſe ne potrå comporre giammai ; econtraſtino pure , e ſi meſcolino quanto ſi vogliano l'acqua , e'l fuoco tra cſſo loro , che poche coſe infra lor diverſe riuſcir ne dovranno : licorne di due lole lettere dell’Abici non poſſono per rimeſcola mento comporſi , fuor ſolamente , che due fillabe : conie da A , ed L : di cui altro , che LA , ed AL non può for marfi. Macome potran mai riſtrignerſi cotanto , eammaſlarla le particelle dell'acqua , che formar ſe ne poſſano , ecar ne , e oſſa , e nervi, e cotant'altre fulde , e dure parti d'a nimali , e d'altre coſe del inondo ? Ne ciò può adoperarli punto dal fuoco ; perciocchè egli nell'acqua altro far non può, che le particelle diquella col ſuo movimento , che chiaman dilatante , ſempre partire , e ſceverare , licome noicontinuo incontrar veggiamo : perchè l'acqua vie più liquida , c diſcorrente , e rada ne diviene , non che s'am maſſi, e fi riſtrigna in coſe falde , e dure . E alla fine ell2 dal fuoco cotanto menoma , e faccil diventa , che ſe non , d'aria , d'un corpo all'aria ſomigliante , certamente ella prende forma ; ſenzachè l'acquanon può per troppo ſpa zio di tempo ritencre il fuoco , e convien ſe calda ſi vuol mantenere, che continuo altronde quello le venga ſom miniſtrato . Ma che'l fuoco ,come s'avviſa Ippocrate , dall' acqua nutrito fia , e perchè l'un l'altro vincer non poſla , ſciocco troppo lo mi terrei , ſe perder tempo lo voleli in rifiutarlo . Vuole oltre a ciò Ippocrate , che l'acqua fia fredda, ed umida,e'l fuoco caldo, c ſecco : e che'l fuoco riceva dall'ac qua l'umidità , e l'acqua vicendevolmente dal fuocolas ſecchezzaze che così eglino l'un nell'altro adoperando,le tante , e tanto varie forme, e generazioni di ſemi, eda nimali vengano a produrre : e cotanto diverſe infra loro , che ne quanto all'apparenza , ne quanto alla lor virtù hā nulla di ſomigliante ; perciocchè non iſtando giámai l'ac qua , e'l fuoco nello ſtato medeſimo : e ſempreinai cam biandoli , e diſcorrendo , forza è , che le coſe , che da lor 1 : fife Del Sig.Lionardodi Capoa. 259 fi ſeparano , eli producono ,diſſimiglianti oltremodo rie ? fciano . E certamente , com'e' diviſa, niuna coſa del mon do non muore , nc ſi fa quel che in prima non erazma me ſcolate inſieme, e partite ſi cambiano le coſe : come chè giudichi alcuno , che da Pluto per accreſcimento tratto venga alla luce, e ſi crii : e altro incontrario ,che dal la luce per iſcemamento a Pluto giunto ſi diſtruggage dice poi,che nó ha dubbio veruno , che fia più toſto da preſtar fede agli occhi , ch’alle opinioni , o pareri degli huomini. Reca eglipoi di ciò la pruova , dicendo animali ef ſer queſtie, quelli , e non eſſer miga poſſibile, ch'uno ani mal ſi conſumi , non con tutti : conciolliecoſachè chi po tri mai diſtruggerlo ? ne può ingenerarli giammai quel che non è , non avendovicofa alcuna ,che non ſia , onde poſſa ingenerarſi;mabé s'accreſcono tutte coſe,e li meno mano a soma grādezza,e picciolezza in quanto egli ſi può: e quinci s'ingenera, e muore alcuna coſa. Indi egli ſpiega in grazia del Vulgo , che lo ingenerarſi, e'l corróperli del le coſe altro non ſia , che'l meſcolamento , e lo ſcevera mento . Ma più avanti facendoſi dice , che lo ingenerarſi, e'lcorromperli la medeſima coſa ſieno : e'l medeſimo pa rimente il meſcolamento , e lo ſceveramento : e che lo i13 generarſi altro che il mefcolamento non fia : el corrom perſi , e'l menomare altro non fit , che lo fceveramento : e che ciaſcınıa coſa ſia la medeſima , che l'altra : e tutte lien uno ; e in queſte sì fatte coſedice egli l'uſanza eſſer con traria alla natura ; ma ſpartamente ciaſcuna cofa , o ſia di vina , o umana ,ſufo , e giuſo vicendevolmente, giorno, e notte , più , o meno traſcorrere. Indi fiegue egli a di se il fuoco, e l'acqua hanno avvicinamento ; il Sole l'hà lunghiſſimo , e breviſſimo ; di nuovo queſti , e noi qucfti ; la luce a Giove , le tenebre a Pluto : la lu ce a Pluto , e le tenebre a Giove avvicinanſi, ecam ' bianſi quelle quà, e quelte là;d'ogni tempo paffano quello coſe di queſte,e queſte di quelle ; ne fi lanno quel che el leno medeſime fi facciano , comeche faccian veduta di fa . perlo :ne ciò , che veggono,conoſcono , ma in tutto ciò Kk 2 ogni 260 Ragionamento Quarto 1 . ogni coſa loro per divina neceſſità avviene, così in quel le coſe , che vogliono , comein quelle , che non voglio no , perciocchè accozzandoſi , e partendofi quelle quà,e queſte là , fra eſſo loro avviluppate , e confuſe , ciaſcuna il preſcritto fato adempie. Or chi ſarà così da paſſione accięcato , e imbard.ato , che manifeftamente non ravviſi in ciò , che rapportato nº abbiamo , effer egli una ſtrania cervelliera , e poco men , che ſpiritata colui, che ſognandolo lo ſcriſſe Ė non fico prende chiaro in cotanti aggiramenti, ed arzigogoli, che Ippocrate parla aſſai di ciò ,che meno intende ? e che nő ſolo coll'oſcurità delle parole vuol naſcădere la ſua dap pocaggine , e ignoranza ; ma anche farne cotanti Calan drini :e tenendo lo ſciocco vulgo in parole , il qual fem premai coſtuma di pregiare aſſai più ciò che non gli èma nifeſto , darne conmaraviglia a divedere ch'egli delle co ſe della natura oltremodo conoſciuto ſia . Egli è ben ve ro, che molti anche di coloro, i quali letterati ſtimanſi,há creduto , o moſtrato di credere , che in queſti riboboli , cd enimmi d'Ippocrate , e in altri ancora, che largamen te ſon ſeminati entro i libri tutti della dicta, e in quel del la vecchia medicina , edell'alimento , ch'egli tutti i più naſcoſi , e pregiati miſteri della medicina , e della filoſo fia abbia deſcritti; e non ha guari che'l Tacchenio nel ſuo Ippocrate chimico ſi è ſtudiato con queſto libro di darne a divedere eſſere ſtato Ippocrate un valentiſſimo chimi co . Ma ritornando a ciò , che diciavamo, lo m'avviſo , che Ippocrate ciò trovaſſe ſcritto in qualche libro d'alcú di quelli antichi filoſofi, i quali ſolevano cosi vezzatamé te favellare :e che poco cgli incédédoiſentiméti di coloro, così ſconcj, e guaſti l'abbia portati , in quella guiſa,che fileggono ; e tanto più , chemoſtra ,ch'egli confonda in ſieme, e meſcoli due ſiſtemi di medicina, e di filoſofia fra ello loro contrarj ; da che egli dopo aver portati que? due primieri principj delle coſe, avvedutofi forſe, che non baſtavano , parla poi non altrimenti , che ſtabilito aveſſe in prima , che ciaſcuna coſa in ciafcuna coſa ſia , nel . Del Sig.Lionardodi Capoa. 201 nella maniera appunto, che ſi accennò nella cenſura del libro della vecchia medicina; perciocchè e' dice, che nul la ci s'ingenera di nuovo , ma sì ſi meſcolano inſieme le parti, e compongono le coſe,e lefan grandi,ne alcuna co fa li muore al poſtutto , mà ſparpagliandoſi, e dividendo ſi vien meno . Coſa, la quale non può intenderſi in verű modo di ciò , ch'aveva egli in prima detto ; perciocchè ſe l'acqua , e'l fuoco i principj ſono dell'huomo , meſcolan doſi queſti , e accozzandoli a formar l'huomo, non ſe ne potrà certamente altro naſcondere , che l'acqua , e'l fuo co medeſimo,prendendo ſembianza delle parti dell’huo mo , com'e' dice ; ma non già le parti dell'huomo, ciò ſo no carne , offa , nervi, e altri membri di quello, eſſendo ci in prima , comechè appiattate , e naſcoſe , nel meſcola mento dell'acqua , e del fuoco ci ſi laſcino poi di preſen te vedere ; ne partendoſi poi l'acqua dal fuoco, e guaſtā doſi il lavorio dell'huomo non diverrà ne la carne ,ne l'ol fo così menoma , e tritolata , che non ſi parrà ; ma tutta la carne , e tutto l'oſſo diverrà acqua , e fuoco : e queſti che in prima non apparivano , manifeitamente nelloro .ſcioglimento poi ſi vedranno . Si pare adunque,ch'e ' vo glia dire eſſer nell'acqua le particelle , chc chiaman ſimi lari, ma così menome, e ſottili, che non ſi poſſan per huom ravviſare : le quali poi rannodate, o ſciolte dal fuo co , compongano, e guaſtino le coſe . Ma ſe pur queſto cgli volle intendere , comepotrà mai il fuoco le particel le dell'acqua colla ſua forza annodare, ſe il movimento è dilatativo, come dicono , e ſempremai ſcioglie, e parte ? Convenivaadunque , che Ippocrate altre, ed altre ragio ni ne recaſſe , le quali ciò poteſſer operare . Ma concedaſi ciò pure a lui : non perciò l'acqua,c’lfuoco , ma le par ticelle ſimilari ſarebbon da dir principi delle coſe. Ma cadendogli dalla memoria ciò ,che poco anzi egli detto aveva, ricorre di nuovo all'acqua , eal fuoco : e in favellando dell'anima dell'huomo,non mçno ſciocco ,che empio , e miſcredentc,dice quella ancora, come tutt'altre coſe , eſfer d'acqua , e difuoco compoſta . E tante, e tali ſono 262 Ragionamento Quarto 1 4 ſono le ſue ſcempiezze, e mellonaggini neʼlibri della die ta , che lungo ſarebbe ad una ad una narrarle . Ma trapaſſando all'altre ſueopere , contende il Vale riola , e con luianche ſi conforma il Cardano , non eſſer d'Ippocrate illibro intitolato mei quoär , overo degli ſpia riti groiſi, o vizioſi : peralcuneſciocche , e falſe dottri ne , che in quello s'avviſano , e altre ancora contrarie a quelle , che in altri ſuoi volumi egli divisò , Ma fe tale oppofizione aveſſe luogo , converrebbe certamente con dannar come non ſue l'opere tutte , che ſotto il fuo nome fi leggono ; perchè è da dire , che poco ragionevolmente aveſſe perciò cotal libro ilValeriola colto a lppocrate;ma Galieno , comeche in quel libro vi ſien diviſamenti poco a' ſuoi pareri conformi, non però di meno riconoſcendo lo egli d'Ippocrate , il reca ſovente in concio di qualche ſuo ſentimento . Sembra certamente il libro miglior per avventura di tutt'altri,chc intorno a ſomigliante materia aveſſe mai compoſto l'autore ; imperciocchè ha egli ordi ne , e qualche forte di chiarezza : e moſtra fovente , che l'autore intenda bene ciò, che ſi dica . Vuole egli in eſſo darne a divedere , che tutti mali , che n'avvenge:10 , da una ſola cagione ſi dirivino ; comeche per li diverſi luo ghidelcorpo , ove n'aggravano, diſſomiglianti affai ne ſembrino . Tutti corpi , eglidice , così dell'Iruomo,come d'altri animali,del cibo ,dello fpirito , edel bere ſi loſten tano . Gli ſpiriti, che ſono entro il corpo , vengono da Ippocrate chiamati quoca: e quello, che è fuora del cor po aveõua cioè : a dire , aria . L'aria fecondo Ippocrate ha grandiſſima parte fra le coſe , che accaſcano alcorpo : ed è donna , e lignora del tutto . Indi egli lungamente fopra quella ragionando , dice delle fue gran virtù , ed opere , Itabilendo in prima qualche ſentenza ; la quale preſe 2 gabbo dal Valeriola n'è moſtra a' di noſtri per ve re dalle maravigliore , c fommamente comincndevoli of fervazioni de’noftri moderni . Dice egli , che tutto ciò she fra’l Cielo , ela terra s'interponeſia , da ſpirito ingôn bro : e che lo ſpirito cagioni il verno , e la ſtate : e che'l cor DelSig. Lionardo di Capoa 263 1 corſo della Luna , e delle Stelle per lo īpirito facciali : e che lo ſpirito alimenti ilfuoco , intanto che ſenza quello non poſſa il fuoco più vivere : c che l'aria ſottil perpe tua purimente perpetuo mantenga il corſo del Sole . E oltre a ciò avviſa Ippocrate ritrovarſi achcin mare lo ſpio rico ; perciocchè ſe quelnon vi foſſe , dice egli , che i pe ſci non potrebbono in niun modo vivere ; concioſliecola chè non participerebbono dello ſpirito dell'acqua traen dolo . Aggiugne di vantaggio effer la terra fondamento dell'aria,c queſta veicolo della terra: ne aver coſa niuna al mondo vuota di quella : e quella ſolamente eſſer cagione a noi della vita , e diciaſcuna malattia , che n'avviene ; intanto che avendone meno infra bricve ſpazio di tempo ciaſcun ſi muore ; perciocchè ben può ciaſcuno ſenza ci bo , o beveraggio alcuno viver qualche giorno: ma non già ſenza ſpirito ; e ben poſſiamo poſando ceſar di tutte noſtre operazioni , comechè menome, e brievi elle ſieno; ma non già del reſpirarc . E quinci egli vuol trar conſe guenza , eſſer molto ragionevole, che ficome la morte , così anche le malattie tutte dallo ſpirito n'avvengano , e che quello calor compreſo , e putrefatto da altre cagioni diſcorrendone per lo corpo n'offenda . Quindi egli co minciando dalle febbri và diviſando , ficome ciaſcun ma le dallo ſpirito ſi formi : e tutti minutamente gli anno vera . Ma un sì fatto liſteina , perchè ingegnoſo fia , e conte gna in se qualche coſa di ragionevole, non però di meno , generalmente ragionando , falſo affatto , e inveriſimiles eſſer fi ſcorge; concioſliecoſachè quantunque grande fia il biſogno , chedell'aria abbiamo, non è perciò quel a ſo la , che ne mantiene , e ne nutrica : ma l'acqua ancora al noſtro vivere è neceſſaria , e altre molte coſe , così den tro , come fuora del corpo ; le quali , o mancando , oſo verchiando , o alterandoſi, non men dell'aria medeſima cſfer poſſono a noi cagion di malattie . Nemeno al preſente è da tacere , come cotal ſiſtema di medicina s'appoggi a'divilainenti , i quali non cheda Ippo 264 Ragionamento Quarto Ippocrate foſſer provati , anzi dalvero talora manifeſta mente appajon lontani . E comechèalcuni di loro ne sém brino aver qualche ſembianza divero ; non però di meno fon da lui con parole non propie , e ambigue a bello ſtu dio inviluppati , e adombrati ; acciocchè aggiugnendo noi con malagevolezza, e fatica a ritrovarne il coltrutto , da quelli poi prendeſimo argomento di giudicar talijan zi maggiori gli altri ſuoi ſentimenti ſciocchi, e vani , com poſtida lui per uccellarne maggiormente . Ma ſe lo ſpirito,ſecondochèIppocrate così liberamen te afferma , è colui , che ſignoreggia , e governa ciaſcuna coſa del mondo , e che la vita , e la morte ne porge : per chènon iſpiega egli poi , ficome certamente fargli con veniva , come, e con quali artificj tante maraviglie quel lo adoperi ? e perchènon ragiona della natura di quello , e diquell'altre ſoſtanze , che , come e' dice , imbrattan dolo, e inſuccidandolo cotanto a noinocevole , e peſti lenzioſo il rendono ? E per avventura gran ſenno egli fe a non addoſſarſi cotanta briga; perchè è da dire , che ciò egli non ſappiendo, non potrà certamente mai la natura , e la generazion delle malattie per sì fatta ſtrada incoglie re ; e ſeguentemente gli argomenti ancora , come a quel le da proveder ſia non ſaprà. E quinci avvien poi , che ne men di que’mali, cheper compreſſion dell'aria vera mente n'avvengono, no mai egli coſa alcuna di ſaldo rap porta; perciocchè non ſappiendo egli la natura dique'cor picciuoli,da cui compreſso lo ſpirito quella generazion di febbre cagiona , la quale , com'eglidice, è tutta comune, e appellati peſte : ſenza dubbio non giugnerà egli giam mai a penetrare gli effetti tutti , che da quelle diverſame te provengono, e le varie maniere , colle quali ciaſcuno animale offendono. E ſe egli non cura d'inveſtigare altre si quali ſoſtanze ſieno quelle, che s'accompagnano collo ſpirito allor che racchiuſo entro noi ne muove la colica ,o altri ſomiglianti mali , come ne potrà egli mai compiuta mente ragionare : o donde trarrà egli gli argomenti da porvi ragionevol conſiglio ? Ma 1 Del Sig. Lionardo diCapoa 205 Ma ſe le ſoſtanze , che collo ſpirito -meſcolanſi , ſon ca gion di cotante malattie , come potralli eglia buona ragić dire , che lo ſpirito medeſimo, enon più toſto quelle ciò adoperino ? perchè è da dire , che ſtabilendo Ippocrate it ſuo ſiſtemà, alla prima v'abbia dato di becco , e vi ſia infe liceinente fdrucciolato , dicendo eſſer l'aria cagion del. le noſtre malattie , e non più toſto le varie , e diverſe for ſtanze , che per quella diſcorrono , e collaria inſieme en trano ne'noſtri corpi: quali ſono molti ſemi, e animaletti, chę ſovente fi ravviſano , così nelſangue , come nell'altre parti liquidedi noie, le rendono mal'acconcc ad adem piere i loro uficj: e fermandoſi talora o nel cuore , o nell? altre parti ſalde del noſtro corpo in molte, e molte manie re le moleſtano ; ſenzachè ſon nell'aria varie , e varieme nomiſſime altre ſuſtáze da'vegetali, e da’ıninerali corpia quella mandate : alcune delle quali, quando di ſoverchio vi diſcorrono , fannofi anoi per opera dell'odorato ſentirez e l'avvedutiſſimo Elmonte intorno a ciò narra chente , es quali ritrovate egli n'aveſſe una volta in una tela ſtata al quanto appiccata al merlo d'un'alta torre ; perchè egli for: te fi maraviglia,come noi che continuo le beviamo, lunga mente viver poſſiamo ſenza nocimento alcuno; ma non aya visò egli eſſer ancora nell'aria molte , e molt'altre ſoſtanze a noi giovevoli,le quali certamentepoſſona'dannidi quel le riparare . Ora in queſte,e in ſomigliati oſſervazioni cõveniva, che il buono Ippocrare tutto il ſuo ſtudio impiegafle,ricercan do diligentemente le vere cagioni della peſtilenza, accioc che prender vi dovelle convenevol riparo : e non fare il pancacciere con lunghe dicerie , e vane , e inutili fraſche tenendone a bada in quel ſuo fainoſiſſimo libretto,ove egli lungamente ragiona degli ſpiriti. Ma lalciãdo alpreséte ciò da parte ſtare,quáto Ippocra te manchevole, e difettoſo ſia ſtato in queſto ſuo nuovo ſi ſtema di medicina, ſi può agevolmente conoſcerc in ciò , che cgli della febbre và diviſando . Dice egli, che allor che diſoverchio empieli il corpo di cibi, ingencranfi in 1. 1 130i 266 :: Ragionamento Quarto noi grandi ventolit , le quali non potendoper lo ventre di ſotto uſcire per ritrovarlo chiuſo , ruggiando per ic bu della diſcorrono all'altre parti del corpo , maſlimamente a quelle, ove ſerbaſi il langue , e sì l'infreddano , e'l fanno intriſire . Or come domine potrà mai dentro de' ſuoi vaſi infreddare il săgue plo ſpirito che è nelle viſcere ? ma egli ingannofi forſe Ippocrate avviſando il ſanguc tratto dalle . vene, il qual per l'aria di fuora divicn freddo . Ma che che ſia di ciò, davcva ben egliconſiderare non potcrne in mo do alcuno raffreddare il ſangue dentro alle vene l'aria , in che di verno crudo , e rabbruzzata dalle nevi , comeche continuo ne circondi, e continuo da noi fi reſpiri. Erra ancora grandemente Ippocrate in dicendo , che'l ſangue dall'orrore , e dal treinore fopravegnenté intimo rito ſi rifugga alle parti più calde del corpo : ove poi ſi ri ſcaldi, e ſiraccenda per maniera tale, che anche l'aria me delima, che prima infreddato l'aveva,nc divenga calda; e sì amendue ftraboccheyolmente affocati riſcaldino cutto il corpo, e'l faccia febbricoſo . E certaméte in ciò egli ragio nando, molto ſconciamente s'ingāna;perciocchè,le, come egli confeffa , il caldo tutto al corpo dal fangue fi cagio. na,come potrà mai infreddato il ſangue niuna parte del corpo rimaner calda ; anzi treinerà egli per tutto, e diver rà ghiaccio , come cantò l'antichiſſimo fiorentin Poeta. Qual'è colui, c'ha sì preſſo il riprezzo De la quartana , c'ba già l'unghiaſmarte, E triema tutto purguardando il rezzo . Ma, ſicome egli s'avviſa , rimangano pur calde l'altre parti del corpo , nedall'infreddardel ſangue fi mortifichi no ; non mai tanto però faran vive , e affocate , che vale voli ſiano a raccender l'agghiacciato ſangue, e ſvegliare in quello un sì rabbioſocalore,qual ſenza fallo è quel del la febbre . Ma troppo nojolo lo nc verrei , ſe tutti minutamente raccontar voleſſi gli errori d'Ippocrate intorno a sì fatto ſia ſtema ; perchè rimanendomi al preſente di più ragionarne trapaſſerò a quell'altro ſuo ſiſtema di medicina cotanto ICITU 1 1 1 Del Sig. Lionardodi Capo a. 287 eenuto in pregio , e commendaco dal luo chiòfator Galie no , che nulla più : di cui cotanti filoſofi, e medici in ragioz nando , e in iſcrivendo ſi ſon valuti , e tuttavia li vaglionoj che ſembra omai ſconvenevoliſſimo , e indicibil fallo il mu* farvi contro , non che manifeſtamente abburattarlo . E queſto ſi è il diviſamento , ch'e'fa nel libro della natura umana ; il qual libro non può recarſi ir dubbio,che-d'Ip pocrate verainente non ſia , in ciò che , come faggiamente avviſa , e argomenta Gilieno della teſtinonianza di quel lo ſerviſſi più volte Platonc ; e ben può per quello chiun que n’abbia talento agevolmentecomprendere ,fin’a quá to d'Ippocrate ſi ſtendeſſe l'intendimenco , ela valoria, co sì nell'inveſtigar le coſe della natura, come in altre, ed ala tre coſe alla medicina pertinenti ; e coincchè per Galien ſi contenda eſſere ſtato verannénre Ippocrate il pri:11 ) ittle tore , e inventore d'un sì fatto ſiſtemi; noa però dimeno per teſtimonianza delmedeſimo Ippocratc apertimento ciò eſſer fa ſo s'avviſa ; concioſliecoſachè rapportandolo egli nel libro della vecchia medicina manifeſtamente na ragiona , come di dottrina da altri già prima di lui ricrova ta , einſegnata;anzi nel medeſimo libro della natura un la 112 agevolmente per ciaſcun ſi può comprendere , che Ip pocratc,non come di ſuo propio diviſamento ne ragionin . Miche che fadi ciò tralaſciandolo digiudicar noi al pre ſente , darem cominciamento dal titolo dellibro così an pio , e inagnifico , che nulla più ; e certamente cilcuno abbattédoſi nella prima faccia nel libro deci puoi cvJpurs, ſcaglierebbeſi tolto a leggerlo, e a volerne imprender con ingordigia tutto ciò , ch'e defidera : giudicando , ch'un si valentemedico , e filosofantc, qual Ippocrate comuneiné te ſtimaſi , verainente trattata l'aveſic , licomealla propo fta materia ſi conveniva : cche,comegià Marco Tullio del divino Democrito , il quale nel cominciuniento d’un ſuo libro ſcritto aveir , b.ec loquarde univerſis , ebbe a dire nit excipit de quo non profiteatur , così d'aſpettar foile d'Ippo crate, chenulla già quivi tralaſciato aveſſe di quanto alla natura umana s'appartiene. Ma tolto egli del.no avviſo LI 2 folier 268 Ragionamento Quarto [ chernixo , e beffato rimarrebbeli,vedendo in quante brico vi parole fuggendo Ippocrate traſcorra tolto una così ma lagevole , e così vaſta matcria ; e ciò , che è affatto impor tevole in lui, che cotanto nella brevità dilettoſli , egli è il libro più ricco aſſai di parole , che dicoſe ; anzi di poco falla , che tutto parole egli non ſia : e quelle pochiſſime coſe , che vi ſono , così ſconce, e ſenza ragione ſi portanto , opure con cosi vani,e fanciulleſchi ſofiſmiintralciate, che nulla di ſaldo vi ſi può per huom giammai apprendere. Egli dice primieramente Ippocrate con lungo aggira mento di ciarlc , che alcuni giudicavano eſſer l'huomo ſo lamente una coſa ; ma , che coſtoro tuttimal certainente comprendevan quello , di cui favelſavano, e che perciò di verfâmente l'andavano ſpiegando ; concioſlīccofachè quá tunque ciaſcun di loro concordevolmente diceffe, tutte co ſe , che ci ſono eſſer una , e queſta medeſima effer una a tutte; non però di meno diſcordavā poi oltremodo inſieme in dando a quella nome ; perciocchè altri dicevano eſſer aria , altri fuoco , altri acqua , e altri terra . Soggiugne egli poi , che ciafcun di coſtoro recava teſtimonianze , e ſe gni , ma di niuna lieva, in concio del fuo ſentimento; e che tenendo tutti la medeſima opinione , e contradiandoſi nel le parole , davan manifeſtamente a divedere, che niun di Loro ſapea veramente la coſa ; e che ciò parimente ſi ſcor geva ili vedendo tutti coſtoro nel lor continuo piacire, che tratto tratto facevano , non mai per tre fiare continové riu fcir dalla battaglia i medelimi: maoruno, or altro eſfer il vincitore , ſecondamente che ben parlante egliera , edat popolo tenuto in pregio . Conchiude alla fine Ippocrate , chuom , che di coſe vere, e da ſe ben conoſciute faceſſe pa role , ſempremai dalle conteſe con vittoria uſcirebbe ; o che ſembra a lui , che coſtoro piatiſfer con parole più per iſocmypiczzi , che per altro ; perciocchè tutti alla per fine convenivano infra loro nel ſentimento di Mcliffo . Ma Galicno chiofando queſto luogo d'Ippocrate, con ' gran pompa di parole forte fi maraviglia , una sì fciocca credenza eller caduta nell'aniino di que'filoſofanti, i qua live Del Sig .Lionardodi Capoa: 269 Si venivano in sì fatta guiſa a coglier via la contemplazioni delle coſc naturali, mindando a fondo la vera filoſofia. Ma ftiaſene pur con pace Galieno : non ſembra per Dio , che con sì fatto cominciamento prometter ne voglia Ippocra te un trattato beir lungo della materias ch'egli imprender a ragionare , e quale appunto quella richiede ? mapoinon trapaſſando oltre a divifarne, par che ne vogliamanifeſta mente uccellare , laſciandone affatto digiu ni della mate ria , ne inſegnandone coſa alcuna di lieva . Ma ſi per doni queſto pure a Ippocrate : qual ſi foſſe veramente las ſentenza di que’valent’huoinini, Io nonmidarò al prelen te curz niuna d'inveſtigare ; tanto accennerò , che eglino tutti una medeſima coſa dicevano : e cheniun di loro giu dicava , che o l'acqua , o la terra , o l'arir , o'l fuoco foſſe principio delle coſe dell'Vniverſo :ne di ciò mai fu conteſa infra loro , comeſcioccamente giudicano Ippocrate, e Ga licno ; ma ſolainente eglito piativano, e andavan confide rando di qual faccia veſtiſſe l'univerſo da prima , allor,che fu fatto ilmondo ,ſe d’acqua , o di fuoco , o d'aria , o di terra . Ne laſcerò d'accennare quanto vana', e ridevole fia la ragioneper Ippocrate recata ; concioſſiccofachè chiſa rà colui, che manifeſtamente non ſappia,che nel piatir de? letterati huomini , maſſimamente appreſſo il vulgo , non mai vincer foglia colui ' , che ſa ben la coſa, e che dice vero : ma colui, che meglio con vaghe' , e ben ordinate dicerie Ja fa colorare : eche il più delle volte nelle conreſe ne ha ſempre la miglior parte l'ignorante , e'l ſofiſta ,come ilme deſimo Ippocrate ancor rafferma ? Macome que’valent" huomini porevan mai eſſer d'accordo colla ſentēza di Me liffo , il qualnon diterminò mai il principio delle coſe nx turali , fe eglino , comc Ippocrate racconta , il ditermina vino Ma che che ſia di ciò , Io per me immagino, che te neſſer veramente eglino la ſentenza di Meliſſo , come Ip pocrate dice' ; ma ſe ciò era , a torto certamente da lui fur biaſimati : dicendo egli, che coloro determinato aveſſero il principio delle coſc qualli foſſe , con chiamarlo o arias , o acqua ,o fuoco , o terra ; ſe pure non vogliam dire , che -- Ip 270 Ragionamento Quarta Ippocrate veramente non intendeſſe ciò che que’valent huomini fi diceſfero , it che fe ben li conſidera , il fue vellare , che in tutto il ſuo libro ne fa Ippocrate, ſembra nel vero più ragionevole . Fin qui e' fi pare , cheIppocra te abbia de'filoſofanci ſoli favellato : ora ſe'n viene egli a’ medici , e dice , che alcuni diloro affermavano non alira cola , che ſangue eſſer l'huomo; altri eller quello ſolamen tecollera : ed altri ſolamente flemına ; perchè dice egli che coſtoro imitavaro que’hiloſofi dalui in prima raccon tati , tenendo uno eſſere il principio dell'huomo, e chia mandolo col nome, che più lor veniva a grado, o di colle ra , o diflemma, o di ſangue , e che quello dalcaldo,e dal freddo a cambiar fi venga in ſembiante , ed in virtù , e di venga, e amaro , e dolce , e bianco e nera , cd ogn'altra.com fa . Soggiugne indiappreſſo Ippocrate , che molti, emol ti così dicevano , e che altri , ed altri dicevan parimente coſe da queſto non guari lontane. Or quinci ſi vede chia ramente chenei ,cqualiſi foſféro anche ne tempi d'Ippa crate infraʼmedici le conteſe ; perchèmoſtra veramente , che da ſe ſteffa la medicina altro non ſia , ch'un fertiliffi mo campo , che litigj,piati, e diſcordio ad ogn'ora pro duca . Ma riprova Ippocrate si fatte opinioni con quell'argo mcnto cotanto per Galienu ammirato , e celebrato , che nulla più : ſe una coſa fola , dice egli , l'huomo ſi foſſe non verrebbe certaméte eglimzi a dolerſi:imperchè nó aureb be egli donde venir gli potefíe il dolore , per eſſer ogni coſa una ſola coſa ; e fe pure l'huom mai li doleffe , convera rebbe ſenza fallo , che uno ſi forre il rimedio , coʻl quale egli guarir doveſſe ; ma in farti va altrimenti la biſogna. Micomechè nella prima vista ogn’un ch’abbia punto d' intendimento avveder ſi poſa della vanità di sì fatto argn mento , pure ne farem noi qualche parola'; ma veggiani prima ſe contro coloro , a'quali par propiamente indiriz zato , coſa alcuna egli conchiuda. lo permeavviſo , che que'buoni medici nulla curar fi dovettero mai di sì tutte ciuffole , ed anfanie , imperciocchè eglino tenevano , che 1 1 1 o '! 10 Del Sig.Lionardo di Capoa. 271 o'l fangue, o la collera , o la flemma ſia quelprincipio prof fimo, cioè donde iminediatamente s’ingeneri l'huomo:ma che ciaſcun di eſli venga poicompoſto da quell'altro pri mo principio , del quale l'altre coſe del mondo tutto fatte ſono; e che queſto foſſe ſtato lor ſentimento ſcorger fi puo te chiaramente dalle parole , chc Ippocrate medeſimo di lor riferiſce allor ch'e'dice , che eſi volevano , che o dal ſangue , o dalla collera , o dalla flemma ſi-cagioni l'amaro, e'l dolce , e tutte altre coſe , che nell'huomo li ravviſano ; or comenon può agevolmente l'huomo,tutto che di ſana gue ſolo formato e' li foffe , ayer cagione di dolore dall'a . maro , dal falſo , dall'acetoſo je da altre , e altre coſe, co mechè eſſe dal ſoloſangue ſi foſſero ingenerate ?ora a que. fte tante cagioni de’dolori non fa egli meſtieri, che con più d'uno rimedio li ripari : e ſe in ſentenza di que'valent'huo mini nelle vene altro non è , ſalvo che o ſolo ſangue , o ſo la flemma, o ſola collera : potrannocertamente rondime no nelle vene ſteſſe , o dal fangue ſolo , o pur dalla flem ma ; o dalla collera . , ed oltre a ciò nello ſtomaco da'cibi molte, e molte coſe parimente di diverſa natura ,contrarie ; e moleſte all'huomoingenerarfi , che potranno ſenza fallo elfer cagioni di dolori , e di varie ; e varie generazioni di malattie, le quali certamente con altrettante medicine di fcacciar ſi convengono . Egli doveva adunque provar Ippocrate primicramentes che dal ſolo ſangue , o dalla ſola flemma, o dalla collera , fola,nientealtro ,che o ſangue, o flemma , o collera inge: nerar fi poffa; il chein niun modo fa egli , e ne men fare veramente il potea : concioffiecofachè favellando ſecondo i medeſimi ſentimenti d'Ippocrate aurebbon potuto dire que'medici , il ſangue, la flemma,e la collerà eſſer non ſemplici, ma compoſte coſe di que'quattro corpi , che Ip pocrate vuole , che ſiano i primi principj; e come tali ben poter eglino in varie , e varie forme cambiarſi; ed in vero fe le varie , e varie ſoſtanze onde l'huom ſi nutrica , come dovetter fenza fallo conoſcer que'valent'huomini, non ſo : no di ſangue formate , e d'eſſe nondimeno s'ingenera il să gue r . 272 RagionamentoQuarto gue, convien neceffariamente dire , che varie , e varic coſe che ne meno han ſomiglianza niuna col ſangue , fi pof fan dal ſangue parimente ingenerare ; e cosi ſomigliante mente della collcra , e dellaflemma aurebbon potuto co loro filoſofare , Ma aurebbe poi per avventura riſpoſto un di que'filo ſofi, che Ippocrate s'avviſa parimente colla ſua ragione di riprovare , chel'aria ſola col riſtrignerſi , e coll'allargarſi , e con altri , e altri movimenti delle ſue particelle valevole fi renda a ingenerare , e ſangue , e carne, e oſſa , e nervi, c altre , e altre parti cosìſalde , come diſcorrenti dell'huo mo, e che ſimiglianteméte coʻmedefimi ſuoi vari moviine ti cagionar poſſa mole’altre generazioni di varie altre lo ftanze, onde ricever poi debba l'huomo non una, ma più, e più cagioni di dolori , e di malattie , alle quali faccian , meſtiericotantialtri medicamenti per ſuperarle. Ma cer tamente Meliſso , e gli altri buoni filofofanti, i quali fole lemente ſi fa a credereGalieno ch'abbia Ippocrate vinti, direbbono , che non ſolo veramente uno ſia il principio.di tutte coſe , cioè il corpo : ma che ſe uno il principio non foſſe, non ci ſarebbe ne dolore , ne malattia , ne rimedio alcuno giammai , e che a fare diverſità di inali, e di rime dj altro non vi ſirichiegga, che l'eſſer quell'uno corpo di verſamente ſtritolato , e partito : lecui ſottiliflime particel le di tante, e sì varie figure compoſte, ſolamente in ciò dif feriſcano . Mimaraviglio poi oltremodo di Galieno , il qualnon s'avvede,ciò che impugna Ippocrate eſſer crede za d'Ippocrate medeſimo ; ma ciò che nedee recar vcra mente più maraviglia , ſi è ch ' una tal opinione dallo ſteſ ſo Galieno vien tenuta in tutte le ſue opere, e particolar méte nelle chioſe di queſto medeſimo libro.Ma Ippocrate dopo aver recata la ſúdetta ragione folleméte dice,checo lui ilquale porta opinione , che l'buomo ſia ſolo ſangue , debba mo& rar , che'l ſangue non muti ſpezie, ne ſi cábj in varie , e varie maniere,c allegnare almeno un'ora ſola dell' anno , o qualche età dell' huomo , nella quale non altro che ſangue in eſſo lui fi ravviſi, e ſimilmente dice egli degli altri . Del Sig.Lionardo di Capoa 273 aleri . Ma perdonifi ad Ippocrate il non oſſervar lui l'ordi nato diviſamento nel favellare , avendolo egli ſempremai per coſtume : Io l'addimando in prima , perchè ſecondo lui la collera , il ſangue, e la flemma, e la malinconia nel comporre varie , e varie parti dell'huomo, poterono sì be no cambiar natura : e cambiar non potralla ciaſcuna di lo ro ſeparatamente ? e s'egli riſpondeſſe , che non già col cambiar natura , macol ſolo meſcolamento quelle parti formarono , lo gli ritorno a dire, che non mai col ſolo meſcolamento quattro corpi a far mai valevoli ſaranno tá ta , c tanta varietà dicoſe ; e addurrei per eſemplo , che quattro lettere dell'alfabeto col ſolo meſcolarſi pochiſſi me ſillabe arrivano a formare . Ma ſe que’mcdici diceſſe ro eſser un di que'loro umori compoſto de quattro corpi d'Ippocrate , come potrebbe mai Ippocrate quelli impu gnare ? ciò, che promette poi Ippocrate di fiar vedere, che quelle coſe , delle quali egli compone l'huomo ſi trovino mai ſempre nell'huomo medeſimo : Io per me non ſo , co me ſarà egli ciò mai per moſtrare ? Contende parimento Ippocrate non poterſi farla generazione da un ſolo princi pio; recando perragione , che un ſolo principio non poſsa meſcolarſi . Ma chiaramente ſi dimoſtra ciò che in pri ma lo avviſai, Ippocrate non miga comprenderei veri se timenti di que'filoſofi; concioffiecoſachè un principio , il quale abbia particelle diverſe tra di loro per figura , per grandezza , e per movimento , con meſcolarſi clieno infra loro in varie, e varic guiſe,valevole egli è certaméte ad in gencrar tutte coſe . Per far pruova poi maggiormente della ſua ragione ſog giugne Ippocrate : ſe ne meno il caldo , il freddo ,e l'umi do , e'l ſecco ,fe temperati eglino non ſono ,non baſtano a far la generazione , come aurà mai vigor di farla un ſol principio : Io per me non ſo , che ſorte d'argomentar ſi ſia queſta d'Ippocrate ; doveva certamente egli , il che mai no adempie , provare in prima con efficaci ragioni, che di quclle quattro coſe il tutto s’ingencri ; e poi addurle per elemplo. E nel certo egli non ha dubbio, che a lui avreb M m bon 274 Ragionamento Quarto 1 · bon riſpoſto quei filoſofi , che clleno , comeche ten perate ſi fingano , non poſsano in niun modo ciò fare, un principio ſolo a tanto bene valevol' eſsere : ficomenes terra ,ne acqua,ne pietra, ne aria, ne altre, e altre coſe mol te poſsono formare una ſpada, un'elmo,una corazza , e tanti , e tanti iſtrumenti da guerra, che'l ſolo ferro può fa re : imperocchè il ferro ſolo è quello, il quale ricever puo te le diſpoſizioni neceſsarie a formargli, non altrimenti il corpo , il quale in particelle , o ſia già diviſo , o divider ſi poſsa , le quali ricever poſsano parimente varie , e varie grandezze , fito ,figure , eordine, può ogni coſa produrre , ne que quattro corpi d'Ippocratenel modo, che egli va filoſofando , potranno mai ne anco un menomiſlimo gra nello di ſenape giammai ingcnerare . Ma non altrimenti , che s'egliavuta già aveſse la vitto ria , faccendo gran gallorìa trionfa il buono Ippocrate di quegli antichi maeſtri, e dando a lor la ſentenzia finale co tro , determina temerariamente la quiſtione con dire , che eſſendo la natura dell'huomo , e dell'altre coſe chente , e quale egli ha diviſato , non uno ſia l'huomo: ma che ogn' una delle coſe , che lo ingenerano abbia una cal virtù, che al corpo ella ha dato . Magodaſi pure Ippocrate della ſua vittoria , e ne riceva l'applauſo da Galieno , il quale non per altro certamente fa ſembiante di farne cotanta ſtima , ſe non ſe per acquiſtar fede alle ſue opinioni ; qual coſtu maegli parimente negli altri autori tener ſempremai ſcor geſi , delle teſtimonianze de'quali ſe mai egli a ſuo pro fi vale commendagli , che nulla più ; ma ove poi cofa inſe gnino alle ſue opinioni contraria , non ha villania , che ſi diceſſe mai a triſto huomo , che lornon dica . Ma ripi gliando il noſtro diſcorſo , vuol egli intendere certamente per le teſtè menzionate parole, che que' quattro ſuoi corpi ritengano il calore , la fredezza , la ſiccità , e l'umidità nel corpo per loro ingenerato . Ma cotante altre , che nell’ huomo ravviſanſı donde cglino naſcono ? Dirà egli dall' accénate quattro qualità;ma ſe altri ciò negaſſe,come glie le neghiamo noi , come il proverebbe mai? Ma così ſcon ciaméte diſcorre Ippocrate p no aver voluto mai volger 1 . ſiad Del Sig.Lionardo di Capoa. 275 fi ad inveſtigar la natura di quelle ſue quattro qualità ; il che certamente al filoſofo, e al medico far ſi conviene,mal. Gimamente ove imprenda a trattare della natura dell'huo mo : e dall'aver ciò traſandato Ippocrate , avvien , ch'egli forte aggirandoſi immagini potere il leggiero , e diſcorré te caldo quelle coſe operare ,che a ſpiritual ſoſtanza ſola mente convengono. Ma laſciam noi a miglior huopo il diviſar di ſomigliante biſogna: ſoggiugne appreſſo Ippo cratc con lungo giro d'ozioſe ciance , che in diſtruggendo fi l'umancompoſto , tutti e quattro i già detti corpi ſce verandoſi, alla lor primiera natura ritornino ; e ciò vuoľ anch'egli,chenel disfacimento di qualunque altra coſawa avvegna . Ma le egli ficomea caſo , in fretta , e ſenza niu no avviſo ſomiglianti coſe afferma, così foſſe andato a poco a poco con ſagace diſcernimento diſaminandole , lo porto opinione, che in cotanti errori non ſi ſarebbe lalciaa to così agevolmente traſcorrere; perciocchè oltre alla Chi mica arte,altro ancora ne rende ſicuri , che quelle ſoſtanze in cui nel lor disfacimento ſi riſolvono i corpi,ſiano non , miga ſemplici, ficomee'vuole , ma compoſte. Paffa più oltre Ippocrate coll'impreſo ordine a dir, che nel corpo umano viſia il Sangue , la Flemma, la Collera gialla, enera,iquali umori ove ſiano con quell'ordinamen to , che ſi convenga, l’huom viva in ſanità :mafe'l contrario avvenga e' toſto ammali . S'affatica egli con lunghe dice ric di moſtrar , come poffan que' quattro umori tutte le malattie ingenerare :maciò fa egli troppo groſſamente , e generalmente ne'dubbj maggiori tacitamente paſſandoſe ne ; e dopo queſto torna di bel nuovo alla canzone dell' uccellino, che ſian quattro gl'umori de'corpi degli anima li , di natura , e di nome fra effo lor differenti ; la qual di verſità immagina egli di ſtabilire, e poter ſaggiainente ar. gomentare dalla diverſità de'colori, e dalla diffomiglian za del tatto , che ſecondo lui vi s'avviſa . Ma s'aveſſc egli mai poſto mente a cotante coſe ; ch'avendo un medeſimo colore fon di natura poi diverſiſſime, e al contrario ad al tre , ch'avendo una medeſima natura han colori aſſai di M m - 2 ver 276 Ragionamento Quarto 1 verſi , ſicome le Fraghe , le Ciriegie , le Azzaruole , le Corniuole , eľVve , e i Fichi , certamente , del ſuo ab baglio ſi ſarebbe avveduto . E più avanti dovea fomiglia temente avviſare , che v’abbian parecchi, e parecchj altre coſe, che per poco artificio variando grandeméte nel colo rela medelima natura pur ſerbano;licome della Cera, dell' Ambra gialla,dell'Inceſo,delCorallo,del corno delCervio avvenire a giornate ſperimentiamo;evidétiſlimo argomen to , che i vari colori non ſian buoni, e fedeli teſtimonjdel la varietà della natura delle coſe . Ne la ragione il con trario ne addita ; imperocchè la varietà de'colori, non al tronde avviene falvo che dal variamento del ſito , o della diſpoſizione della ſuperficie de'corpi, la qual diverſamen te i luminoſi raggi riflette. Ma che domine cadde cgli in mente ad Ippocrate allor che diſſe , che dalla varietà del toccamento , poſſano iva rjumori diſcernergli E quale è mai quel divario, che mer cè della mano poſſa avviſarfi , ſe tutti egualmente caldi fi ſperimentano , tutti egualmente nelle vene , e nell'artcrie so diſcorréti. E da cotali lor vaſi uſciti eglino p la più par te e'li rapprendono , e in una maſſa s’uniſcono , nella quale, poco , oniun divario per lo toccamento può ſcorgerſi E ſe più avanti facendociconſidereremo l'altra ragion pre ſa dalla varictà del calore , dell'umidità , della ſiccità , no aurem di forza a confeffar , ch'ella più frivola aſsai, eri devol fia delle prime , e che moſtri ben’appieno quanto egli sbalcſtrato in filoſofando Ippocrate vanamente s'ag giri? concioſiecofachè, ſe negli umori non v'ha ficcità , come potrebbeſi dalla ficcità la lor differenza conoſcerſi ? e ſe l'umidor del corpo altro non è , ſe non che la ſua di ſcorréza, c'l poterſi agevoliéte ad altro corpo appiccare, ficome conſentir ſi dee da chiunque voglia Tanamente fi loſofure , egli dourà concederſi , che tutti gli umori del corpo umano egualmente fian umidi , dache tutti s'ap piccano parimente alcorpo tangente , e tutti parimente ſon diſcorréti,e quanto al calore détro al corpo, tutti ſono egualmente caldi , e fuor di quello tutti fimilmente dalla circon Del Sig. Lionardo di Capoa 277 circonſtante aria raffreddati vengono, o riſcaldati . Ma più avanti: ſe gli umori nel corpo umano ſognati da Ippocrate , ſicome e vuole veramente ſi foſſero , e alcun di elli , o calorc,o freddo eccitaffe , impertanto no potrebbe dirſi effer cotale umore,o freddo , o caldo : imperocchè ſe o ſpina , o chiodo , o altra pugnente , o doloroſa materia in alcuna parte del noſtro corpo violentemente ſi ficcarella ſuol poco ſtante , e freddi riprezzi , e ardenti febbri ecci tare ; e pur la ſpina , il chiodonon per tanto , o freddi, o caldi potrà dirſi,chefiano . Finalmente ſi sforza Ippocrate queſta varietà d'umori di Atabilire con conghietture tratte dalle purgative medicine. Se medicina purgante la flemma , dice egli , ad huom da raſli giammai , certamente fi vuoterà la flemma, e così pa rimente ſiegue a dire dell’una,e dell'altra collera; e ſoggiu gne appreſſo : veggiam noi per ogni ſcalfittura uſcir fuora il ſangue, e ciò in qualunque tempo , o d'eſtate , o d'inver no, o digiorno , o di notte ; ma ſe alcun primieramente riſpondeffe ad Ippocrate , come per tacer de’noſtri, già fe rono i più valenti , e più celebri fra gli antichi medici,non avervi medicina , che vaglia a vuotar determinato umore , che mai incontro gli ſi potrebbbc per lui replicare? E a yo ler dire il vero, lo ſtimo da non dover mettere in forſe, che Ippocrate niuna notizia aveſſe delmodo, comeoperano le purganti medicine ; che ſe mai di quello ſi foſſe alquan to inteſo , forſe non gli ſarebbono dalla penna uſcite cotante fraſche , e novelluzze ; ne ftillato s'aurebbe il cervello per dimoſtrar gli errori in cui credette eſſere tutti coloro chediſſero uno eſſer l'huomo,e non già dal guazza buglio di sì diverfi umori compoſto : c pur egli non giunſe mai la mente di que'valent’huomini ſanamente a compren dere , come chiaro dal medeſimo ſuo diviſamento ſi fior ge . Credettero , dice Ippocrate , coloro uno effer l'huo mo; perciocchè vedevano per le purganti medicine morir ſene alcuni con vuotarſi un ſolo umore ; perchè ſtimavano altro non eſſer l'huomo , che quel folo umore; ed altresì dallo ſcorgere ſolamente ſangue nfcir a' decapitati,non ef fer al 278 Ragionamento Quarto 4 fer altro l'huomo,che ſangue; e per la medeſima cagione non mancò chi diceſſe eſſere il ſangue l'anima umana . Or contro ad eſſi la vuole Ippocrate , e immagina di gettare a terra tutti i loro argomenti, e opinioni , dicendo non mai alcuno eſſer morto colla vacuazione d'un ſolo umore, ſenza tutt'altri eſsere inſiemcmente ſcappati fuora ; e vuol che quantunque volte huom prendendo medicina purgante la collera ſe ne muoja , vomiti primicramente la collera , ap preſſo la flemma, indi la malinconia , e finalmente il ſan gue di forza ancordalla purgazione ſia tratto fuori , e ſo migliante avvenga nell'altre purganti medicine . Ma chi quinci non iſcorgerebbe, che Ippocrate, o voleſſe altrui uccellare , o ſcriver ciò che prima gli cadeſſe in penſiero , fenza prenderſi briga di narrar gli avvenimenti diquegl'in fermi, cheper virtù delle purganti medicine forſe a gior nate gli morivano nelle mani;e perciò anche aveſſe a sì gra zioſa favoletta aggiunta una più vana ragione , cioè , che il medicamento entrato in corpo vada da prima movendo , e cacciando fuora quell'umor, che ha porianza di trar fuo ra . Aggiugne per iſpianar la materia,l'eſemplo delle pian te, le quali dic'egli ; dalla terra per lor nutriméto traggono varj ſughi dolci,acetoſi, e falli ; c ſomigliantemente po tranno le purganti medicine trarre da tutto il corpo uma no i varj uinori, ma coll'ordinamento , che teſtè accenna vamo : cioè , che la medicina purgante la flemma debba vuotar prima la flemma, e poi gli altri umori , e finalmen te il ſangue , e cosìſimilmente tutt'altre ; ma dagli ſcan naci prima il ſangue , poi la flemma , e appreſſo la collera eſca fuori. Ma con tale eſemplo delle piante, non che non agevoli egli l'intelligenza de'ſuoi trovati, ma vie più l'in garbuglia , e ravviluppa ; concioffiecoſachè non mai può ſembrar vero, cui voglia la coſa pe'l ſuo verſo guardare che le piante ſenza uncini avere , o mani , e ſenza poter dar di grappo poſſano trar ſugo dalla terra , o altro , che lor bi fogni; elleno ſi nutriſcono della terra , macon altro ma giſtero di quel che troppo groſſamente immaginò il buon Ippocrate . Evvi nelle piante una fotcililina , e volantes ſoltan DelSig. Lionardo di Capoa 279 ſoſtanza ſomigliante molto allo ſpirito del ſangue degli animali , la quale ſtando in continuo movimento diforme cazione, la picciola pianticella sbucciando ſcappa fuori, e framiſchiaſi colla terra proffimana alle radici ; or tra per lo movimento d'eſſa , e per quello , checontinuo dal Sol ri ceve la terra , e damolt'altri minuti corpi , che perla lor focofa, e attiva natura , a guiſa di tanti ſpiritelli l'agitano ,e la commuovono , molte parti d'eſſa in ſu vengon fofpinte in licve alito aſſottigliate, le quali di leggier poſſono i pic cioli pori delle radici, in cui s'abbattono penetrare , e fic candofi elleno in così farti buchi vengonoa cambiar figu ra , e da'formenti digeſtivi delle medeſime piante altro va riamento ricevono si, che pian piano vengono la pianti cella ad accreſcere , in lei traſmutandofi ;ne queſta trasfor mazione è maligevol molto a comprendere, anziin molte frutta può agevolmente oſſervarſi ; pongaſi mente alle me lagrane , che a volerle aſſaggiare ritroveralli , che le ſue fibre portano a' granelli un amarisſimoſugo , il quale , o dolce , o alquanto agro divien nella carne d'eſlo granello, ma nell'oſſo inſipido , e ſcipito ; e ſimilmente avviſeremo altresì in quelle frutta , che colte da propj alberi , e ripo ſte ſoglion venire a inaturezza : alcunide’quali eſſendoin prima amari divengon poi dolci , e ſaporofi, ficome ſono le ſorba , le neſpole , e le melegrane medeſime. Non fa dunque luogo di traimento veruno alle piante , acciocchè fi nutrichino ; il qual traimento da filoſofi è ſtato meſſo nella natura , comechè di ciò alcuna pruova giammai non aveſſero:ne ſo lo pchè vogliano farci a credere,ch'un ſimile abbia a trar l'altro fimile séza adoperarvi altro , cheſimpa tia, la quale altro noè, che un bel vocabolo. Nóv'ha adun que medicina al modo, che vuoti il tale,o'l tal determinato umore ; ne mai vero diſſe chiunque affermò aver ciò offer vato : ma le purganti medicine ciò che nelle viſcere ritro vano, formentano, e rendon mordace, e fangli cambiar na túra ; e quinci avvien,che ciò che ſi vuota appaja di diver fi colori , e prenda una puzza ſimile a'cadaveri sper , eſſer le purgativemedicine si ſtimolofe , che aprono ledelicate boc 280 Ragionamento Quarto boccuzze de'vaſi facendo , da eſſe uicir fuori il ſugo in ef ſo lor contenuto , e corrompendolo ; e conſiſtendo la virtù delle purganti medicine ne'lali , chein eſſe ſono, in quelle foſtāze elle più operano, e la efficacia lor dimoſtrano mag giormente ove i ſali più preſtamente diſſolvonſi ; e quinci avvien , che le fecce, che per eſſe ſi vuotano liquide diven gono , e diſcorrenti. Finalmente lo immagino , che non mai veduto avelle Ippocrate ſcanar Porco njuno ,e che ſe pur cgli guatato mai aveſſe immolar vittime negli altari , aveſse avuti gli occhi di glauco,o di nero colore tu le pupille ripieni,õde la gialla, e nera collera nel lor ſangue diveder raffembrogli. Scorſe egli per avventura alcuna fiata, Io bé glicle cóſento ,ad huo dopo aver preſo vomitiva,o altra ſimigliante medicina,get tar perla bocca fuori inſipido,amaro, acetoſo, biáco,o gial lo uinore, ma non giunſe a conſiderar tanto che baſti,cioè che i sì fatti umori s'ingenerano nello ſtomaco de'corpi c.2 gionevoli , e infermicci, e chenon ſi ravviſano nelle venc , ne pur quand'huomo inferma. Ne deve egli così toſto ob bliar ciò , che altrove più d'una fiata racconta , altri ſughi aver egli oſſervato recere , c per ſotto altrui cacciar fuori certi altri umori , i quali eglinondimeno vuol , che nelle vene non abbian luogo ; sì cheanche ſecondo lui , non è fano diſcorſo , ne concludente argométo a provar gli umo ri eſſervinelle vene , perchè ſi vuotano colle purgagioni. Ma a che domine dovrà egli tanta fatica logorar tanto tempo indarno , ſtillarli sì fattamente il cervello , e porger cagione a' poſteri di ricercar ſempremai Duovi ſofiſmi per iſtabilir la ſua ſentenza in materia, che con un foi fifo gua tuento potea ben coſto determinare ? Ecco come una ri cevuta opinione ne fa velo alla mente,si ch'ella obblia ſo vente i più piani ſentieri della verità . Orlo , direi ad Ip pocrate , e a tutti quanti i ſeguaci di lui, traggaſi ad huom fano il ſangue , cd aſsaggiſi , chee' non ritroveralli ne af ſai ne poco amaro ; oue è dunque la collera? e non ſarà l'a cctoſo , oveè la malinconia ? Replicheran per avventura, che'l miſchiaméto, ela cõfuſione di sì fatti umori fraſtorni DelSig.Lionardo di Capoa . 281 tal diſcerniméto al palato ; ma ſe a giuſta porzion di ſangue poche gocciole d'acetoſo liquore,o picciola quãtità di fiele ſi meſcoli, e ſi dibaſti in modo, che daper tutto ſi ſparga ,e fi confonda,noi proverem nel ſangue,e l'acetoſo, e l'amaro ſapore:adunque ſe nõ vi ſi aſſaggiavano in prima , novi do vevan eſſere . Più avanti veggiam ſe ſceverandoſi i diverſi liquori, che nel raffreddato ságue ſi ſcorgono ſi poſſano av viſare i quattro umori d'Ippocrate;egli è ver,che nel ſangue ſia un liquore acquoſo ,in su'l quale vogliono i ſeguaci d'Ip pocrate, che nuoti la collera,ingannati da un certo giallor, che vi ravviſano, e'l rimanente ſia tutto ſiero ; ma s'egli ciò vero foffe , abbiſognerebbe , che la ſuperficie del detto li quore amareggiaffc ;il che no mai veggiamo avvenire.Se poi tutto il ſiero ſitragga via dal ſangue, rimarrà una materias rappreſa , la qualroffa nel ſommo,e nera apparirà nel fon do ; ma non miga egli è vero , ficome per coloro ſi eſtima che quella , ch'è in fondo del vaſo ſia la malinconia , 1013 efſendo ella di niun modo aceroſa , ma del ſapor medeſimo della roſſa; ſenzachè fe tal fanguigna maſſa foſfopra ſia ro veſciata , la roffa parte in nera , e la nera ſcambieraſli in rof. fa ; il che avvien dall'aria , la qual movendo le particello ; della fuperficie del ſangue , le fa così roffe, e di più allegro color dell'altre apparire. Ma oltre alle già dette coſe , due altre ſoſtanze nel rapa preſo ſangue ſi ſcorgono; una dellequalicſſendo diſcorre te , e bianca , ne fa chiaro veder , ch'ella fia chilo , in fan gue non ancor traſınutato : l'altra gaglioſa,e tenace , di cui ne fa purmenzione Ippocrate ; e perciocch'ella è deſtinata a nutrir le parti tutte del corpo, da' moderni ſugo nutriti vo acconciamente vien detto; e queſto ſugo va col ſieroſo migliantemente miſchiato ; e agevolmente la coinprenderà chiunque ponendo il vaſo del detto fiero ſu le lente bragie nie farà tutto l'acquoſo unore agiatamente eſalare . Nefi nalmente voglio laſciar d'avviſare , che in quelle febbri, le quali per parere d'Ippocrate ſon dalla bile prodotte, non , mai ritroveralli il ſangue d'alcun'amaro ſapore , nepur quella parte , che vi va a nuoto ; ne in quell'altre , che per Nn avvi 282 Ragionamento Quarto avviſo di lui dalla malinconia provengono , il ſangue ſenti rà miga dell'acetoſo ; ne men quella parte d'ello che , nera appariſce; ſicome ſenza durarvi molta fatica potea chiarir fene Ippocrate , ſe pur ſicome non ebbe a ſchifo le ſtoma chevoli fecce degl'infermi aſſaggiare,così la pūta della fin gua in cotai parti del ságuedegnato aveſſe d'intignere, qua lora veniva tratto agli ammalati di terzan2,0 quartana;e ſe a coſtoro egli non ne traeva , in altre opportunità potea farne eſperimento . E più di lui era debito di Galieno tal fatto , nie dovea a chiuſi occhj in biſogna di cotanto rilievo preſtar fede ad Ippocrate . Ma Io non poflo non ammirar quì quelle anime grandi, le quali a torto accagiona Ippocrate , perchè elle dicano , effer flemma l'huomo ; perchè avendo nel ſangueſcorta quella bianca ſoſtanza ch’appella flemma Ippocrate, giun ſero a comprendere , di quella effer formato l'huomoje ve ramente di quella vié la parte materiale del ſeine formata , di quella il latte , diquella tutt'altre parti del corpo uma no nutricanſi. Ma ad Ippocrate ritornando : tralafciò egli in queſto luogo di far parole della più nobil parte del ſan gue , dico della parte ſpiritofa ; quantunque altrove oſeu ramente ne faccia motto , e ſenza penetrare , o diſaminar tanto che bafti la ſua natura ; e moftra , che la riponeſe fra le ſoſtanze diſcorrenti non umide , licome è l'aere,e non già fra le umide , com'è l'aqua : il cui ſembiante più coſto par, che ritiga lo ſpirito del fangue ;il che no dovea trapal farſi tacitamēte da Ippocrate;e doveaegli por mēte altresì a cotāte altre umide ſoſtanze dell'huomo, e diſaminar così di effe , come delle parti ſolide , la natura , gli uficj,e le ope razioni ; le quali ignorand'egli nulla viene a ſaper della na tura di quello , la quale altrui pretende d'inſegnare, ne può ſiſtem.2 alcuno ne meno manchevole , e ſcempio ftabi fire di razional medicina . Ma il buono Ippocratc , come ſe taſe uficio aveſſe inte ramente compiuto , e come ſe quanto avea diviſato foffes incontraſtabile , e fermo , paſſa più avanti nel fuo libro a nar DelSig.Lionardodi Capoa. 283 narrare, che l'inverno s'avanza nell'huom la flemma,come quella, che più d'altri umori a cotale ſtagion confaffi,eſſen do più di tutt'altri fredda; la qual coſa egli vuol ritrarre non altronde , che dal toccamento ; ed afferma coſtante mente , cha la fiemma,del ſangue , e della collera ſempre ha'l tocco più freddo ; la qual coſa però quanto ſia falſa è teſte per noi detto. Fa egli , che l'inverno abbondi più ch ' altro tempo la flemma; perocchè in più larga copia ne veg giam per le bocche , per le narici degli animali uſcir fuori; e per l'enfiature , e altri mali dalla flemma cagionati , che ſovente in quella ſtagione afcir ſogliono agli huomini . Ma ſe l'inverno, ficomealtroveafferına Ippocrate più che mai le viſcere , ele interiora ſon riſcaldate , non ſo lo come poſs'egli argomentar ch'abbiano allora a ingenerare abbó dante copia di flemma, poſto che la flemma foſſe da an noverare infra gli umori; e flemma foſſe ciò, che per la boce ca ſi ſpurga, e per le narici , e ch'ella produceſſe que'mali, che freddi s'appellano . Ma più avāti al diviſamento d'Ippocrate fa la continua cſperienza contraſto , e ſcorgeſi, che l'eſtate , ſe avviene ad huom qualche catarro , qualunque ne ſia la cagione, e' ſcaricherà per le narici , e per la bocca le flemme, ch'e'di ce, in tanta copia, cheſtimeraſli colui non aver altro inca po , ne in corpo , ſalvo che flemma. Ora Ippocrate a voler faggiamente diſcorrere , dovea bé avviſar, che l'inverno per lo freddo riſtrigonfi i pori della' noſtra pelle : il perchè non potendo per eſli uſcirne cosi ah bondantemente quella ſoſtanza , che in ſottile alito ,altro tempo ſvaporar ne ſuole , vienaa rapprenderli in flemma, edella natura per più larghe ſtrade ſivuota. La Primavera vuol , che ancor ſian copioſe le flemme ; ma collo ſcemamento del freddo comincino pian piano w ſcemarli, e'n loro veceil ſanguigno umor vada creſcendo . Ma feper opinion di lui anche la primavera le vilcere lon cal:liffim , chefanno in corpo le fléme , e chi loro da luo go ? Ma la ragio , che ne reca per l'avanzaméro del ſangue, cui no fem ! rerebbe dimoſtrazion di ſcrupoloſo Geometras Nn 2 ܐܐ 284 Ragionamento Quarto : la Primavera dic'egliè calda, ed umida,e caldo , ed umido è altresì il ságue:adúquc alla primavera cofaſſi. Ma pur noi veggiamo,che a quel tempo ilſiero alquáto più copioſo di venga , anziche no , ſe a quel tempo ſon più abbondanti le urine, e oltremodo patiſcono gli Idropici , in lor ſover chiando sformatamente le acque. E che abbiam noi a dir degli altri argométi, ond'egli ſi sforza Ippocrate di confer mare tal ſoperchiamento di ſanguenella già detta ſtagione: in cui , dic'egli , fogliono avvenir diffenterie , e vacuazion di ſangue per le narici , ed è il ſangue più caldo , e roſſo , che mai ? Certamente come altre fiate abbiam detto ; im perocchè la diſſenteria non puòdal ſangue avvenire,il qual giuſta i ſentimenti d'Ippocrate è umor piacevole , e dolce anzi che no ; e più toſto la malinconia, e la collera dovreb bon eſserne accagionate , le quali eſsendo aſpre , e ſtimo Joſe avrebbon a rodere le inteſtina , e farne uſcir fuori il fangue. Rimarrebbono altre leggiere coſe a diſaminare in que fto libro d'Ippocrate dietro tal materia de'quattro umori, le quali da lui coll'uſato ſcioperìo , e groſſezza fi trattano, e altre coſe degne da avvertire occorrerebbono per avven tura a chiunque con minuta diligenza l'andaſse rivolgen do, ch'Io per fretta non ho curato d'oſservare . E baſtami d'averne fol tanto confuſamente rapportato, perchèfi ſcor ga qual foſse la traccia da Ippocrate temtita nel filoſofare dietro le biſogne della medicina ; e ch'egli andato foſse nolto lungi dal vero , ne mai imbroccato aveſse al legno . Ma ſe pure a lui non venne fatto di poter con pruove fta bilire i quattro primi corpi,no è da prenderne maraviglia : imperocchène iné v'aggiuſe Ariſtotele ;il quale,e pl'altez za dell'intédiméco, e per le notizie di varie coſe,digrā lūga gli ſi dee antiporre,che che ſe ne dica in contrarioGalieno ; e veramente le ragioni per colui rapportate eſſer frivole , e di niun valore, non che da altri,mada'medefimi Peripatetici vien conſentito ; ma che chc ſia di ciò , non avendo Ippo crate potirto giámai provar ne l'eſiſtenza de'primi quattro corpi ſemplici, ne de'quattro umori , tutto il ſiſtema deila ſun Del Sig.Lionardo di Capoa. 285 - ſuamedicina,chelu vi fő:la,cõvié,che crolli ad ogni leggier foffio , e cada giù in terra. Maben s'avvide Ippocrate della debolezza de' ſuoi ſiſtemi; onde o di rado, o non mai in al tri ſuoi libri volle valerſene , e particolarmente in quei de gli Aforiſmi;i quali non voglio lo traſandar ſotto lilenzio, poichè da molti ſono avuti in sì gran pregio appo Suida , che loro non già inortal coſa , ma opera di ſouraumano in gegno raſſembra, non altrimenti, che dell'Alcorano ſi fac ciano i melenli ſeguaci di Macometto . E per lo meno cre de altri , che non maisì grand'impreſa fu da un’huomo ſo lo compiuta ; c anche coſtor ſon partiti, alcuni credendo , ch'egli da varj ſcrittori gli aveſſe raccolti ; c altri , ch'e' la veſſe copiatidalle tavolette affilfe nel tempio d'Eſculapio . E certamente ſe mai vero foſſe , che Ippocrate , come An drea antichillimo autor riferifce , miſe a fiamme, ed a fuo co quella cotanto celebre libreria di Gnido , egli ſarebbe da fufpicare, che nõ pur gli Aforiſmi,maquát’opere van del fuo nome intitolate,ſtate folero altrui fatiche, ed ei per ac cattarne reputazione, come propie le aveſſe divolgate. Ma avend' egli per avventura poco ſanamente le opinioni di quegli autori compreſe,sì malamente compilare le aveſſe ; e quinci ſia altresì avvenuto , che tante varie , e diſcordan ti dottrine , e opinioni per entro vi ſi ritrovino ; e perciò ſia indarno gettata la fatica di coloro , che di accordarle tanto lungamente ſi ſtudiano ; a ciaſcun de'quali potrebbe ram mentarſi l'avviſo di Franceſco Ottomanno : Vercor ne ple rumque in iis , qui confultò inter fe diffentiunt conciliandis nimium ingenioſi eſe velimus. Ma che che ſia di ciò , lo per me ſon ſicuro, che agevolmente accorgerafli , cui caglia di chiarirſene , non effer degni di cotante lodi gli Aforiſmi d'Ippocrate , quante d’uma cieca, e comun fama ne han ri cevuti ; e perciò nella ſchiera de poco accorti foſſe il noſtro Petrarca ,ovein favellando di biſogna a lui poco conoſciu ta ebbe a dire: E quel di Coo , che fe vie miglior l'opra , Seben intefi foller gli Aforiſmi. Sicome del poco lor valore s'avvider tutti que’medici,che infra 286 Ragionamento Quarto 1 nfra i Greci ebbero inaggiore ſtıma,e rinomea ;i quali non men , che di tutte altre opere d'Ippocrate , tenner pochiſſi mo , o niun conto degli Aforilmi; la qualcoſa ſi ſcorge rebbe manifeſtamente da noi,ſe ſpente non foſſero ,e ſmar rite tutte loro ſcritture ; ma nondimeno può argomentar ſi ſenza rimanerne in forſc , dalle reliquie , chene' libri di Galieno , e di Celio Aureliano , a ' dinoſtriſe ne riſerba no ; e per quelle poche memorie , ch'abbiam di Giuliano eccellentiſſimo filoſofo , e medico , quantunque il con trario ſis forzi dimoſtrarGalieno . Ma ſe ancor foſsero in piè que’libri, che ilmedeſimoGiuliano compilò contro gli Aforiſmi, o ſe foſſero almen rimaſe le chioſe , che ſu d'er ſi fe Lico , il quale ſi diede cura d'andargli un per uno mi nutamente , e ſenzariguardo alcuno diłaminando, chente, e quali eſſi ſiano apparirebbe chiaro , comechè io non mi dalli briga di favellarne ; ma poichè così va la biſogna: di co, che molti degli Aforiſmi liano così generali, che per la medicina poco , o niun pro trar ſe ne poſla ; e di leggier ſi potrebbono ad ogn'altra materia acconciamēte adattare; il che ha porto occaſione di occupar certi sfaccédati cervelli a travorgergli con pochisſimo ſtorciméto alla politica , alla milizia , e ad altre arti , e diſcipline ; altri ve ne hanno co tenenti sì groſſo, e materialinotizie , che ad ogn ' huom di 'contado aſsai meglio ſon conoſciute ; altri , come avviſa il Santoro , non li poſson mai recare ad effetto ſenza molto ritegno , e ſenza l'indirizzamento delle regole dell'arte ;di fetto , ſenza fallo ,gravisſimo ad autor, che imprenda a pre. ſcriver certe regole , e leggi in qualunque arte , emaſlima mente in medicina ; e altri v'han cui facendo biſogno di pruove , fur da lui tralaſciati ſenza alcuna ragione ; e ſe pu re alcuna fiata vi rapporta qualche argomento , ritroveral fi eſſer poco ſaldo , o inefficace ; anzi loventi fiate ridevo le, e frivolo ; altri ſe ne ritrovano ,la cui dottrina, o aper tamente, o per poco che ſi vada diſaminando , falſa , e fal lace ſi ſcorge. Altri finalmente per entro a quel libro ve n'han sì confuſi , e oſcuri ,e impigliati, ch'a volervi per in tendergli qualunque più grave farica durare, non ſe ne ri trar Del Sig.Lionardodi Capod . 287 trarrà coſa , che monti un frullo . Ma l'oſcurità è vizio si ordinario d'Ippocrate , che ne men Galieno cotanto di co lui parziale potè contenerſi sì, che non ne faceſſe motto , a non ne lo proverbiaſſe , e ſcherniffe più fiate. Ma fe è vizio , ed error grave l'oſcurità in qualunque materia , egli è ſenza fallo graviſſimo , ove ſi tratti dimc. dicina ; arte malagevoliſſima per ſe ſteſſa , e in cui l'crrare potrebb’eſſer di graviſſimi danni , e nocumenti cagione ; if perchè non ſon da intendere quelle ſcuſe , che dell'oſcurità d'Ippocrate voglion farſi per alcuni , dicendo ch'egli a ſtu dio voleſſe sì fattamente ſcrivere le ſue opere , e maſſima mente gli Aforiſmi, acciocchè sì prezioſiteſorinon iſtaffe ro ſenza riſerbo ; ma quafi ſotto bel velo ricoverti , e aſco ſi; imperocchè lo primieramente non ſo intendere qualſia mai quell'altezza di dottrine, che nella medicina d'Ippo. crate ſia ripoſta , ne fin'ora v'è ſtato chi abbia potuto fco vrirla ; anzi è avvenuto a coloro, che troppo v'han durato fatica a interpretrarla , quel che accader ſuole ſoventeagli Alchimiſti, che in vece di divenir dovizioſi d'oro , e d'arie tutto il for picciolo capitale ſcialacquano . Ma fe Ip pocrate voleva aſconder la ſua dottrina,sì che da altri non mai fi riſapeſſe, potea con un più bello , e fottil modo ben farlo , cioè rimanendoſene in pace , ſenza ſehiccherarle carte , o por tanticervelli a partito per intender la ſua mé te , con si grave riſchio de' poveri ammalati . Or veggafi di vantaggio quanto egli foffe dabbene , equanto oſſerva tor dell'impromeſſe,e facraméti ,co’quali dichiarò di voler a'ſuoi ſcolari tutta quanta la medicina perfettamente inſe gnare ; e certamente ſe non altro lor comunicò di ciò che ne'ſuoi libri , e particolarmente in que' degli Aforiſmi la fciò regiſtrato , e in quella sì confuſa maniera , que' catti velli l'olio , e la fpeſa indarno vi dovettero logorare. Ma il bujo di quella favella, ſe mal puofli fofferire altrove,cer tamente nell'opere degli Aforiſmi, ove principalmente egli vuol dar leggi , e regole di ciò , che fi dce nell'arte eſe guire , è tanto biafimevole , e ſconcia , che nulla più ; e ſe Principe mai , o Repubblica in dettando leggi , e ftatuti ſi valeſ. to , 288 Ragionamento Quarto valeſſe dello ſtile degli Aforiſmi d'Ippocrate, in quali tea nebre , in quai garbugli, in quali intrighi, in quantipiati , o conteſe ſe ne viverebbe quella malnata Città , quellas infelice provincia? S'attēta altri di ſcuſare Ippocrate col precetto d'Orazio Quicquid precipies eſto brevis,utcito dicta Recipiant animidociles , teneantquefideles. Ma per coſtui non badoſli , a quel,che poco avanti dal medeſimo Poeta fu ſcritto : Decipimurſpecie recti : brevis effe laboro Obfcurusfio : Ne potè ciòdiſſimulare, comeche parzialisſimo d'Ippoa crate , per tacer d'altri chioſatori, il Signor della Sciam bre , sì chenon aveſſe arditamente a dire d'Ariſtotele , ed' Ippocrate , e de'loro eſpoſitori favellando : ita perplexe, & obfcurè uterque locutus eſt, ut ad ſingula verbaceſpitandum illis fuerit,antequam tantis tenebris lucem aliquam afferro potuerint . E quantunque egli appreſſo imprenda a farne ſcuſa, indi a poco ſoggiugnendo: Atque id ſaneHippocrates quadam neceffitate impulſus præftitit in Aphoriſmis : cùm enim ad pauca quædam capita vaſtam , & immenfam artem contrahereftatuiffet, ne trunca, manca redderetur, necef fe illi fuit ſuh unoquoque plura præcepta recondere , quàm quæ verbis deſignarentur: &fingulos Aphoriſmos prêter id , quod exprefsè docent, proponere , ut figna , du notas , quibus aliarum rerumeadem ſpectantium recordatio excitaretur: no però dimeno lo perme non ſo ſe venga sì fattamente ad iſcuſarſipiù tolto , o ad accagionarli Ippocrate ; imperoc chè qualbiſogna , o diſtretta lo sforzò mai a favellar di tut to , e'l tutto avviluppare, ed entrar nell'aringo ditanti , e sì diſgiunti ragionamenti per diviſar pochiſſimecoſe , c di niun rilievo ? E qual lode è mai d'uno ſcrittore l'accennar ſotto velame d'oſcurillime parole una cofa , e laſciarnu cento , e mille , cuiabbiſognerebbe , che dall'intendiinen to del diſcreto lerrore fi ſuppliſſero; il che ſe mai il letto re far poteſſe da ſe medeſimo , a che affaticarſi in sicer carle fu le altrui ſcritture con ſuo diſtento . Ma ſe pur po telle Del Sig.Lionardo di Capoa 289 teſse Ippocrate ritrovar qualche perdono persì fatte ſcule in alcunadelle ſue opere, chi mai potrebbe ſofferir quelli oſcurità , che per tacer d'altri ſi ravviſa nc' libri della Die ta , degli umori, degli alimenti , in cui ebbe a dire quel celebre galieniſta Antonio Fracanziano ſuo chioſatore , Hippocrates anigmaticè , dw obfcurè adeo loquitur , ut divi nandum magis quandoque , quam afferendumquid voluerit: orin quegli certamente le ſottili difeſe del Signor dellau Sciambre non poſſono a niun modo aver luogo . Egli adú que nc fa meſtieri di dire a voler ſchiettamente la verità có. feffare , che l'oſcurità d'Ippocrate avvenga dal rozzo , e oſcuro conoſcinicnto , ch'ebbe di quelle coſe , che a ſpia nare egli impreſe; e perciò con oſcure , c affai brevi parole cerchi toſto sbrigarſene , come fan coloro, che di future, e loro ignote coſe ragionano.Ma pur troppo bene è riuſci ta ad Ippocrate, e d'onde biaſimo e' meritava, e vitupero, quindi gli avvenne lode , e commendazione dalla voigare ſchiera de'letterati; i quali ciò che meno intendono , comes cofa maggior de’loro ingegni vie più commendano ; e per ciò è avvenuto , che sì folta turba de'chioſatori abbia in darno tanta fatica durata,per volerdimoſtrare,ch'altiſlima dottrina ſotto l'ombra di quel favellar ſi naſconda; e dico indarno : imperocchè a gente di ſano intendimento quelle cotante lor novelluzze malagevoliſſimamente iinboccar poſſono ; eſſendomanifeſto , che ove Ippocrate favella di coſe, ch'egli intenda ,e ſappia, ſicome quando narra avve nimenti , e iſtorie di malattie, o fa parole di qualche parte di notomia , ch'egli avea oſſervata, non torbido , e confuſo ſtile;ma cõchiaro ,e intelligibil ragionaje ſe ben ſempremai ſparge per entro a tai ragionamenti qualche antica , e vieta, e poco inteſa parola : impertanto non può renderli tutto il favellar sì avviluppato, che in fine la ſua mente non fi com- ' prenda . Egli è adunque oſcuro , ove di ciò che non inten de , imprende a favellare. Ma per non iltar quaſi ſempre in ſu l'ali , c diſcender omaia qualche particolarità : lo dico , che il primo, ove procura di ſcorgerne la medicina , come poſta lu la vet Oo t2 290 Ragionamento Quarto 1 1 ta d'un erta , e lunga , e ſtraripevol roccia ,' oue mat puofli, tra per la brevità della vita ,ei molti , e gravi peri coli , che vi s’incontrano per huom pervenire ; e tale,e tan to , che vale a torre il pregio a quanti e'ne ſoggiugne;im perocchè ſe cotante malagevolezze ha la medicina per fe medelima , ei, che dovea far altro , fe non ſe a tutto sforzo . agevolarne il ſentiero ? e pur coʻſuoi Aforiſmi il varco sì fattamente impruna , che ove huom dietro a lui mettaſi in cammino,a diftento fenza offefa potrà ritrarne il piede.Do vea ben avviſar Ippocrate , chela brevità, ove l'oſcurità non iſchifi, quanto ſcema allo ſcrittor di fatica , al lettore altrettanto ne aggiugne . E nel vero chi potrebbe confide rar quanto ftento dovettero durar tutti coloro , che prima di Galieno ſi dieder briga d'interpetrar l'opere d'Ippocra te ; e pur nientedimeno non uſciron dal laberinto , come vuol Galieno; il qual ſoggiugne lui aver primieramente porto il filo da poterlo ſpiar tutto , e ritornare in ſalvamé to ; quantunque v'há chi non gliele vuol credere , e affer ma coſtantemente ch'egli vi ſia rimalo avvolpacchiato,co me tutt'aleri ; e ne ci reca la ragion dicendo , che ſe vera mente per Galieno foſſero ſtati compreſi i ſentimenti d'Ip pocrate , cotante quiſtioni , e piati dopo lui non ſarebboe no inſurti , per indovinar , che diavol d'inſegnamenti ſian que' d'Ippocrate ,maſſimamente negli Aforiſmi. Orail té. po , che in ván fi logora in sì fatti litigj,nó ſarebbe meglio, e con maggior pro nell'inveſtigar tante coſe, che fann'huo po allame licina , opportunamente impiegato ? Ma nella feconda parte di queſto primoAforiſmo, poi chè tanto gli è a cuore la brevità , a che perder parole per dire,che , acciocchè il medico adempier poffa felicemente il ſuo uficio , abbiſogni che vi concorrano l'opere dello in fermo , de’famigliari, e tutt'altre eſteriori coſe al biſogno fian preſte ? O utiliſſimo , o raro , e non mai caduto in mé. te umana conſiglio del diviniflimo Ippocrate ! e Monna Berta , e Monna Nonna ſomigliantemente non l'averebbe ſaputo ? Ma il ſecondo Aforiſmo, per la cui eſpoſizione veggiam venire fino a villane parole i Chioſatori, e alqua 1 le più Del Sig.Lionardo di Capoa 2.91 1 le più coſto con aringo d'ornate ciance , che con faldezze di dottrina , cerca difar riparo Galieno a petto degli argo menti , che incontro gli avventa Giuliano : non contien al tro certamente , ſalvo che unadottrina molto volgare, tanto baſſa , ch’un Maeſtro Simone, non che altri G verge gnerebbe d'averla meſſa in dozzina , maſſimamente ſules prima fronte d'un libro di tanta eſpettazione ; ella è tales : le vacuazioni , che per vomito , o di ſotto ſpotaneamente avvengono , ſe fian tali, quali eſſer denno , giovano , e age volmente ſi collerano ; e ſe ilvuotamento de’vaſi tal lia,qual çiler dee , giova , e ſi tollera . Orlaſciando da parte ftare, che con chiarezza , e brevità maggiore potea cotal diviſa mento ſpiegarſi, per avventura dicendo , cheſe l'arte , o la natura vuoterà ciò che pecca nel corpo , fie di giovamento l'evacuazione: lo quì chiederci, chemifoſſe moftro , ove ſia l'altiſſima ſapienza, ove il ſottile intendimento del Prin cipe , e dell'inventore , come Galien lo dice , della razio nal medicina Ippocrate ; adunque in faccenda di cotanta lieva haſſi a giudicar degli eventi : A che dunque vagliol tanti ſiſtemi di razional medicina , sì lungamente, eintan ti libri da lui regiſtrati? A che giova l'aver eglicotanto ra gionato degli uinori, e dell'altre cagioni delle malattie , e delle altre coſe confacenti alla medicina,ſe al miglior huo po non gli vagliono un frullo ,egli abbiſogna , ch'a ſuomal grado ,alla fallace empirica abbia ricorſo . Ma più oltre: onde fe meſtieri ad Ippocrate dirigiſtrar tale avvertimento nel divin volume degli Aforiſmi, ſe non v'ha perſona così ſcicmpiata tra'l vulgo , che molto bene non ſappia , che al lor , chenon reca moleſtia allo infermo, e ch'egli ſe n’ap profitta , che tale qual eller deeſiaſi la vacuatione; ma do vea certamente , &aurebbe fatto il meglio,avviſare Ippo crate , che quantunque non ne tragga alcun diſagio l'infer mo , e che imınantinente dopo la vacuazioncegli guariſca, avvenir può talora , che l'umor vuotato non ſia tale , quale vacuar ſi dec ;imperciocchè ben potrebbe egli di leggieri avvenire , che dopo la vacuazione di qualche materia , la quale niente aveſſe che fare colmale , riſtoraſleli l'infermo Oo 2 per -- 292 Ragionamento Quarto per qualche vacuazione inſenſibile di ciò , che cagiona il male,fattanel medeſimo tempo. Nedee ciò recar maravi glia , ſe talora ne’più gravi , e pericolofi malori , quanto più rigoglioſi,cotanto menome, e fottili ſono la cagioni, che l'adoperano ; e ben ſovente avviene fenfibilc vacuazione per opera di quelmovimento ,cheſi fa nel corpo nello ſcio glierli , e nell'ufcir fuora , e nel mutar faccia , fito, o movi mento que corpicciuoli , onde il mal ſi cagiona : a pruova conoſcendoſi , che huom ſuda , vomita , e manda fuori per altre parti quantità d'umori , e ſi ſgrava immantinente dal male ; che ſe non uſciſſe allora o pietra , o altro , che'l ca gionaſſe , ogn’un di certo giudicherebbe, che per la vacua zion di quelle materie foffe l'infermo riſanato. In confer mazion di ciò che lo dico, in quci , che ſon morſi dalle vi pere noi veggiamotutto di dopo preſi gli antidoti vacuarſi per vomito , e per ſudore gran copia dimaterie nel tempo medeſiino , che guariſcono ; e pure quelle non han coſa del mondo che fare col veleno della vipera , il quale in altro non conſiſte , che in una piccioliſſima, e poco men ch'insé fibile ſoſtanza , la quale rappigliandone il ſangue nelle ve ne toſto n’uccide . Ma che non veggiamotutto di nelle poſteme; e nelle ferite , ed in altre ſorti di malattie vuotar fi copia d'umori ad eſſe non pertinenti,c guarire , ma per al tra cagione,gl'infermid e quinci poiinginn.icii medici con falaſli , e purgagioni , ed Jorinojoſi , cimportuni rimedj i loro infermi crudelmente ſogliono malmenare ; giudican do così imitar l'opere della natura ; e per aver talvolta av viſto , che qualche febbre , o altro male ſi ſia diminuito dopo un grand'uſcimento di ſangue : comandan poi , che nelle febbri ſi tragga langue. Ne per altro parimente,nulla curando l'avviſo d'Ippocrate, e di Galieno,ſi vagliono del le purgigioni nel principio , nell'accreſcimento ,e nel vigo re delle malattic , ſe non ſe dall'aver eglino veduto , come chè radillime volte , che dopo eſſerſi vacuata qualche ma teria in que’rempi lia migliorato , e riſanato qualche infer mo ; e queſto è quello , s'io non vado errato , che dovca norar Ippocrate negli aforiſmi. Ma ne meno ſempre che quel DelSig. Lionardo di Capoa 293 qnelle materie ſi vuotano , quali appunto da vuotar ſono, ciò vien lievemente comportato dall'infermo ; concioffie coſachè molte volte elleno tra per la loro mordacità, e per la delicatezza della parte , per la quale ſi vuotano , e per altre cagioni ancora recar ſogliono noja grande agl'infer mi ; come Ippocrate medeſimo ſe ſteſſo dimenticando al trove avviſa ; ma non ſenza ragione Giuliano prover bia , e ripiglia Ippocrate dicendo , ch'egli incominciando queſto aforiſmo afferma come vera una propoſizione non miga per lui provata , ne dimoſtrata in prima, cioè , che naſcan le malattie dalla foprabbondanza ſolamente , o dal cambiamento degli umori in altra qualità di quella , che in prima aveano , la qualvien da'medici, corrottela , chiama ta ; ch'egli però giudica ,che ove non ſi ſcorga legno di cor rottela d'umori,che la ſoperchianza ſia de’inali cagione . Coſa , la quale foggiugne Giuliano , in modo veruno in tender noir fi puote , ne è vera : imperocchè fe ciò foſſe , eglinon ha dubbio , che tutte in fermità agevolmente gua rir potrebbonſi : ne fi vedrebbe giammai lunghezza di ina lattia : e una ſola la maniera di tutte curarle certamente fac rebbe ; imperocchè ciaſcun potrebbe agevolmente qualo ra a grado gli foſse , effendo ciò in ſua mano , comeilmal l'affale , così toſto ripararvignon gli biſognando a ciò altro , falvo che fa ſola vacuazione , la quale in qualunque tein po porre ſi può in opera col ſegnare , ſe'l male ſarà cagio . nato dal ſangue , e fe dalla flemma , e dalla collera ,condar loro acconce medicine. Riſponde Galieno all'argomento di Giuliano con dire , che allora oltragli umori, abbia an cora nelle parti falde del corpo qualche vizio ; perchè va cuito l'umore dura ancora il male; ma ſe nel inale ,ficome Ippocrate ſuppone, tengono gráī parte gli umori, dovrebbe almeno tanto quanto fcemarlo il vuotamento di quelli ; il che certamente non avviene ; anzi Galieno medeſimo ri portando in ciò molte fperienze , coſtantemeure altrove il niega . Ma come allor, che fon crudele materienel princi pio de’mali ,quando le parti ſalde non ſon potute ancora contaminar da eſſe , le vacuazioni riefcono nocevoli , non che 1 294 Ragionamento Quarto che infruttuoſe : e allo incontro poi, licomecon Ippocrao te afferma Galieno , elle giovano affai,e colgono via il ma lenel loro ſcemo, quando non può eſſere , che non ſiano rimaſte offeſe gravemente, e contaminate le partiſalde , le quali in tutto il tempo delmale in varieguiſe moleſtate , e ſconce ne vennero ? adunque direbbe Giuliano, non avran nulla che fare con quelle malattie le diſcorrenti ſoſtāze del corpo ; e allor , che li veggono dopo la vacuazion di qual che umoré ceſſar le malattie, ciò non avvien certamente per la vacuazione,comeIppocrate afferma. Ma par egli certa mente , che Ippocratemedefimo non troppo fitidi in ciò della ſua dottrina ; imperocchè avviſa egli poi nell'ultima parte dell'aforiſmo, che convengafi aver riguardo al paeſe, alla ſtagione , e alle mulattie, e all'età, ove da far Giala va cuazione . Ma per tacer della ſtagione , dell'età , e del paeſe , onde niuna certezza trar ſi puote , con qual argo mento in tata incertezza delle coſe dell'arte potrà mai rin venire il inedico fe fia , e qualſia quella parte diſcorrente , che cagioni l'infermità ? Credeſi la collera cagionar la ter zana : la malinconia , la quartana : e pure queſte alla va cuazione , che penſan fare i medici di tali umori , non ce dono :'maſivincono ſenza vacuazion’alcuna colla ſcorza del Perù , e con altre molte sì fatte medicine. Il terzo Aforiſmo per mio avviſo parve al Paracelſo co tener dottrina di sì poca conſiderazione , che egli lo tra sformò sì , che in tutto è diverſo da quello d'Ippocrate;ma ſe cosi debbonſi chiofare, e interpetrare i detti degli auto ri , egli ſe'l veda · Dice Ippocrate, lo ſtato degli Atleti, i quali ſian pervenuti al ſommo della bontà eſſer pericoloſo; imperocchè non potendo poſare,ne vantaggiarli in meglio, convien , che vada al peggio; e che però dipreſente huopo faccia vuotargli . Primicramente la ragion d'Ippocrate, la quale ha dato cagione di quiſtionar canto , e d'aggirarſi fra vani argomenti al Forli alSermoneta , e ad altri ozioſi cervelli, è troppo rozza nel vero ., e materiale , e più li ſten de aſſai di ciò , che Ippocrate s'avviſa ; imperocchè perpe tuamente ſe la detta ragione aveſſe luogo , sìfatte perſone dovreb Del Sig.LionardodiCapoa. 295 dovrebbono andaralpeggio ; il che falſo ſi ſperimenta ; e ben ſi conoſcerebbe apertamétc per ciaſcuno la falſità del la menzionataragione d'Ippocrate , s'egli come far dovea, l'aveſſe con più parole ſpiegata , comepofcia fecero i ſuoi chioſatori , dicendo , che non poffan mantenerſi nello ſta-, to preſente , nepofare : perchè continuamente cibandoſi sì fatti huomini, e ingenerandoſi in loro il chilo , e'l fangue , c queſto ad ogni ora diſtribuendoli per le parci del corpo , ne potendoſi a quello unire per non eſſervi luogose peròſo verchiandos debba di neceſſità cambiar in peſſimo il lorot timo ſtato . Ma non poſer mente coſtoro alla copia grande. del ſangue, e delPaltre tuţte diſcorrenti parti , e ſalde del. le loro foſtanze , checontinuamente G dileguano, e per sé.. fibili,e p cieche ſtrade efco fuora da'corpi degli huomini p . la continua formentazione di quello , che in aliti lotciliſi- . mi mai ſempre gli va ſciogliendo ; e quanto più abbonde vole , e di buona condizione è il ſangue, tanto più egli è vigoroſo , e valevole ne'ſuoimovimenti, e nell'altre ſue operazioni ; e quindi ſcorgonſimolcijemolti dicotali huo mini ftar bene lungo tempo : e comechènondimeno qual-, che volta coſtoro pur ne pericolino, ciò non èmiga già per la ragione per Ippocrate apportata; maperchè venendo ta lora oltre al dovere per qualche cagione di fuora a muo- , verfi , e a rarificarſi ſoverchiamente il ſangue, ſi rompono ivaſi, che'l contengono : 0 pure quello diſcorrendo in co pia grande nelle parti falde delcorpo , cdivi fermatofi, or una , or un'altra ſorte di mali , e talvolta con impedir affar to la circolazione del ſangue repétina morte alcresì cagio na ; e ciò è quanto dovea il noſtro buon Ippocrate avvi fare . Appreffo fålla egli gravemente , ſenza dubbio , in tacendo come, e in qual maniera s'abbia negli Atleti a tor. via la pienezza; ſe colle vacuazioni , o pur colla dicta ; s'egli quì intende di quella vacuazione, che ſi fa colla die. ta , comedicono i chioſatori di queſto aforiſmo,dovea pur certamente egli avviſare quando ciò far convenga colla ſc. la dieta , e quando altrimenti e in sì fatta maniera non in fruttuoſi affacco ,e vani farebbono ſta i per avventura i ſu : i avvertimenti . Im 296 Ragionamento Quarto Imprende poi ne ſeguenti aforiſmiinfino al venteſimo a far paroleIppocrate dietro al cibar degl'infermi ; e come chè in lor ſi contenga qualche utile avvertimento, pur col Puſato ſuo modo intrigato del favellare , confonde quelle materie , che meſtier fenza fallo gli facea illuſtrare ; eſſen do nel vero la maniera del cibar gl'infermi una delle coſe più neceſſarie a ſapere in medicina ; eavendo in quegli aforiſmi alcune regole , alle quali fa meſtieri d ' eccezione , le dovea egli almeno accennare ; ed era aſſai più neceſſario l'inſegnar ciò , che le tant' altre bazzicatu re , in cui inutilmente di certo ſpende egli tante parole das vegghia , come quello, che agevolmente lapute ſono,e co noſciute per ogn’uno. E in verità, chi è , che non ſappia eziandio fra quelli, che non mai ſtudiarono in medicina , che ne'mali lunghi s'abbian’a mantener le forze dello in fermo, e conſeguentemente, che dar non gli ſi debba a ſpi luzzico il cibo , ma un poco più largamente x Chiè , che non conoſca , che nell'acceſſioni della febbre , non ſi debba a niun modo cibare il malato ? ma sì general legge dover cgli riſtrigaendo avviſar , ch'alcuna fata anche ciò far colz venga . Nel duodecimo aforiſmo fi da briga , e ragionevolme te nel vero Ippocrate, di narrac i ſegnali delle durate delle malattie ; ma in materia di sì gran lieva, e onde , com'e gli medeſimo avviſa, depende il diritto regolaméto del nu tricar gl'infermi,ſecondo il ſuo coſtume, ofcuro , e intral Lito favella , e con poche parole ſi toglie dal doffo ogni ſeccaggine ; tralaſciando non per ſuo mal talento , ma per ſuo poco ſapere di far motto de'polſi. E quanto al fat to deglieſempli , egli è molto ſcarſo : recandone un ſolo della pleureſi, e nemeno in quella fi trova ſempre eſſer ve che apparendo nel cominciamento di quella lo ſputo , il male abbia poco a durare . Va errato parimente Ippo crate in dar intera credenza a ſudori , alle fecce , e ſpezial mente all'orina ; la quale per tralaſciar altre ragioninon tutta li ſepara dal ſangue ;maparte di eſſa trapelando dal ſacco latteo per una breviſſima ſtrada tragittaſi alle reni ; e ro , come Del Sig. Lionardo di Capoa. 297 comechè una sì fatta ſtrada ignoraffe Ippocrate, dovca pur cgli por mente ad alcuni beveraggi , che appena tranghiot titi , di preſente ſi orinano : e agli ſparagi , al Terebinto, e ad altre coſe , che ſenza toccar punto il ſangue alterano sé, fibilmente l'orina . Nel tredecimo aforiſmo dice Ippocrate , cheivecchi portano agevolmenteil digiuno ; e quindi paſſa a far paro le dell'altre età . Ma queſto è un'errormaſchio ; imperoc chè dal continuo ſperimento ne fi fa chiaro , ch'a’vecchi tra per la lor debolczza ,e perchè poco nutrimento traggo no da'cibi, aſſai ſpeſſo faccia meſtier riſtorarſi . E verilimo troviain noi l'avviſo di Celſo : inediam facillimè fuftinet media etates , minus juvenes , minimè pueri, & fenectutes confećti. Vien poil'Aforiſmodecimoquarto, il qual tanto ammi rar ſi ſuoledaʼnoſtri medici , cioè , che coloro , i quali cre ſcono , abbiano in copia grandeil caldo innato, e che per ciò faccia lor meſtiere abbondevol cibo , alorimenti il cor po ſi conſumi . Ma non avviſano coſtoro , che alcuni peſci creſcono oltremodo , e non che eglino caldi fieno , anzi só freddi si fattamente , che lc loro interiora agghiacciate,no altrimenti che neve li ſentono : come avviſa de’luccj del la nuova Francia il Padre Giuſeppe Breſſani : ho aperto (dic' egli) il luccio ancor vivo , e trovato il freddo del ſuo ſtomaco, quafi inſopportabile alla mia maro. Altra coſa adunque co vien certamente dire, che ſia quella , per la cui opera ben ,' digeſtendoſiicibi , e altra cagion concorrendovi creſcano glianimali; e a quella in prima dovea por mente Ippocra te , e poi diterminare ; ma eglia ciò non badando , indias poco ſiegue a dire nell'altro aforiſino , che di verno , o di primavera fiano le viſcere per natura caldiſſime , ei louni lunghiſſini ; e perciò in quelle ſtagioni più largo cibo dar ſi debba ;concioliecofachè l'innato calore allor creſca , cui maggior cibo certamente abbiſogna , e che di tal coſa nes fan pruova l'età , egli Atleti. Ma che fan qui tantc parole a ſpiegar una sì breve ſen tenza : ecco l'uſata felicità del ſuo breviffimo ſtile ; ma ab biz Рp 298 Ragionamento Quarto I biaſi pur ciò per niente , egli non è tuttoda trafandar fotro ſilenzio , che quantunquevero in tutti huomini , per tacer d'altri animali, ciò che diceIppocrate ſi ſperimentaſſe, che diverno , e di primavera affai meglio fmaltiſcanſi i cibi : la ragione nondimeno , che di ciò e' ne reca è falſa ; concior fiecofachè falfo apertamente ſia , che nelle menzionatcſta gioni caldiſſime fiano leviſcere degli animali; e perchè ciò vero fofle , nemen nulla montcrebbe : non facendoſi altri méte dal calore la digeſtione de'cibi: ficome ne ſiamo omai tanto accertati , chenon fa luogo, che lo vi ſpenda parola. Perchè in van brigafi Galieno di recare in concio d'Ippo crate le ragioni fanciulleſched'Ariſtotele , che le viſcere di verno caldiffime fiano, perchè il caldo, come ſenſo egliavel fe , e del circoſtante freddo ſentiſſe l'offeſe , alle più naſco fe interiora ſi rifugga ; e certamentecotal ſciocca filoſofia , che i luoghi ſotterra caldi ſiano di verno , e freddi di ſtate , per lo Termofcopio falſa apertamente ravvifaſi , comeché tali pajano a noi , che di ſtate caldi, e di verno freddi v’en triamo dentro . Ma avvegnachè a pro d'Ippocrate dir potrebbeſi , che di verno per eſſer chiuli i poridegli animali ſi venga aritener quella ſoſtanza , che di ſtate eſce fuori , la quale da al ſan gue col movimento il calore : non però di meno , come fiè accennato , manifcſtamente in noi ſtesſi ravviliamo le parti dentro del noſtro corpo tutte , non altrimenti, che quelle di fuora , effer più affai calde di ſtato , che diverno; ne per altro nella detta ſtagione così volentieri acque freſche, e altri raffreddari liquori beviamo ; ne Ippocrate medefimo oferebbe ciò negare ; il quale dice altrove , che di verno s' ingenera la flemma, ſecondo luifreddiflimo umore , eche avvengano lunghe , e cagionate da tardi , lenti , e freddi umori le malattie . Ma Galieno volendo le parti del ſuo maeſtro difendere , immagina sì fatta malagevolezzaceſare, con dire , che di ftate ſian calde , maggiormentc che diverno le viſcere , di quel caldo , ch'egli avveniticcio , e foreſtiere chiama ,ma non già miga deicaldo innato . Chiama egli caldo innato una i 1 1 DelSig.Lionardo di Capoa . 299 remo . una aerea acquoſa ſoſtanza d'un calor mite, e ſoave inſieme con gli animali nata , e avveniticcio allo incontro poi chia ma un caldo terreo mordace affocato ; e di queſto egli di ce nell'infelice difeſa del precedente aforiſmo d'Ippocrate contra Lico, che abbondevoli fiano maggiormente i giova ni , e di quello i fanciulli. Ma quanto ciò poco , anzi nulla approdi a difefa d'Ippocrate, noi or brievemenre dimoſtre Primieramente convien ſapere, che'l calore negli anima li naſce tutto dal ſangue ; perclié folea dire l'Arveo , altro non eſſere il caldo innato , che'l ſanguemedeſimo: folusnē pefanguis eft calidum innatum , ſeu primo natus calor ani. malis, uti ex obſervationibus noſtris circa generationem ani. malium , præfertim pulli in ovo luculenter conftat : utentia , multiplicare fit fupervacuum . Argomento manifeſtiſimo è di ciò , ch'io dico lo ſcorgere , ch'abbandonata dal ſangue qualunque parte dell'animale , immantenente ogni calor viene ella a perdere : e ſe mai eſce dall'animale tutto fuori il ſangue , ben toſto dal cuore , dalle vene , dall'arterie , da altre parti falde tutto il calor fi diparte. Vano , e falſo adunque è ciò, che con Ariſtotelecomunemente dir ſi ſuo le , il cuore effer fonte del calore : ne ſo lo vedere , come in sì fatta opinione compiaceſſeſi quel grandiſſimo filoſo fante Renato delle Carte ; imperocchè agevolmente egli avviſar potea il cuore noneſſer più caldo , che l'altre vilce re deglianimali. Ma fe'l ſangue ( e ciò avviſa infra gli al tri il noſtro Ippocrate ) per ſe ſteſſo non è caldo , convien! inveſtigare , onde il calore in prima gli avvenga,e la cagio ne per la quale caldo mai ſempre nell'arterie , e nelle vene quello mantieneſi . Credettero alcuni degli antichi, che'l fangue ſi riſcaldi , e caldo continuamente ſi mantenga , perlo movimento , che dal cuore , o dall'arterie egli conti nuo riceve ; ma non baſta certamente un si debile movie, mento a ingenerar nel ſangue sì gran calore ; anzi prima che'l cuore , e che l'arterie ſi faccian vedere nell'huomo , caldo vi ſi ſperimenta il ſangue ; ne meno a ciò baſtevole è certamente il ſuo perpetuo muoverſiin giro ; ma chiunque P p 2 pon 300 Ragionamento Quarto pon mente alla materia , onde ingeneraſi il ſangue, più age? volmente peravventura inveſtigar ne potrà la cagione. E gli faſſi séza dubbio il sāgue del Chilo, e'l Chilo s'inge nera d'erbe , e di frutta , e di carni, che altresì dell'erbe, e del le frutta vennero fatte , e ingenerate ; or sì fatte vegetabili ſostanze, come ancora le minerali,per la formentazione ſo la divengon calde sì factamente , che ſenza aver d'altro bi ſogno., mentre dura la forinentazione, dura parimente in loro più , o meno il calore ; cofa,la quale nel mofto, c in al tri ſomiglianti fughi da chiunque mente vi pone ad ogni ora ravviſar eglifi puote ; ma d'altra affai più nobile , e più maraviglioſa maniera certamente e' ſi pare quella formen tazione,che faffi nel fangue , la quale in parte è ſomiglian te a quella , che avvenir ſcorgeſi alle diſcorrenti ſoſtanze minerali ; onde avviene che lo ſpirito ,che per chimica ma no dal ſangue li trae, ſia gran fatto diffimile da quello che ſi tragge dal vino e da altri ſughi formientati vegetabili trar fi ſuole . Ma come veramente una tanta opera nel ſangue fi faccia , e qual ne ſia la cagione, non mi par tempo oppor tuno a conghietturare ; e baſti per ora ſolamente ſapere, la formentazioneeſſer quella , la quale diliberando nel fan , gue i ſemi del fuoco da que'ritegni , per li quali non pote vano eglino muoverſi di quel moto mai ſempre dilatante propio delfuoco , v'ingenera, e vi mantiene continuo il ca lore;ma nel ſangue poi(o in altro ſugo al fangue equivale te )de’peſci, o d'altri ſomigliáti animali, no mai calor fi rav vila; cõcioffiecofachè i femi del fuoco in lor fieno , o molto pochi, o in sì fatta guiſa con altri, & altri ſemi di varie altre coſe avviluppati,che mal ſi poſſono eglino per lo movime to della formétazione,conechè grāde e’lia agevolınéte ſvi luppare . Ma che che fja di ciò, uno ſolo è certamente per manevole negli animali il calore , il quale , or naturale , or non naturale porrà dirſi, fecondochè convenevole , o non convencvole e farà alla natura di quelli . Ma fe'l ſangue concinuo va cõſumandoſi cô ingenerarſene ſempre mainuo vo, intanto ,che dopo qualche giorno non ne riman più goc cia alcuna del vecchio, certamente convien dire ch'appena ne'fan DelSig.Lionardo di Capoa. 301 ne fanciullinon inolto guari dopo i loro naſciinenti il caldo innato ritrovar puoſſi; ed ecco, s'io pur non m'inganno, ca duti, e ſparti a terra fin dalle fondamenta i maggiori argo menti in difeſa della doctrina d'Ippocrate , portati per Ga licno . Ma per ritornare al noſtro propoſito : di ſtate pllo calore dell'aria circonſtante , la qual continuamente dagli huomi niper la reſpirazione li bee , e per le ſoſtanze del volante . ſalc , che'n quella , più , che in altra ſtagione nell'aria ſi ri trovano , sformatamente la formentazione del ſangue , e in eſſo in prima , e poi nelle viſcere divien più grande,e pa riinente ilcalore ; allo incontro poi il verno, mancando all' aria que'ſali, e tra per queſto , e per la ſua freddezza ſi di minuiſce colla formentazione, così nel ſangue,come nelle viſcere neceſſariamente il calore ; ne per altra cagione nel le parti di Settentrione il ſangue , e le viſcere , maſſimame te di verno non molto calde ſcorgonſi ncgli animali, e in alcuni di eſli mancar affatto ſi ravviſa ogni fcintilluzza di calore,sì fattamente , che per ogn’uno trapaſſati ſi ſtimereb bono ; ne pare dalla verità lontano ciò che de' Lucumori narra Sigiſmondo Libero : Dicono che agli kuominidi Lucu morie : coſa mirabile , e incredibile , e che ha più della favo la , che del verifimile : fuole intervenire , chequelli per ciaſ cun'anno , cioè a' ventiſette del meſedi Novembre , nel qual giorno appreffo de', Ruteni è la feſta di S. Giorgio , muojano,6 chepoi nella ſeguenteprimavera a'ventiquattro d'Aprile al la fimilitudine delle ranocchie di nuovo riſuſcitino . Ma che che faſi di quelli : lo dico , che ſe Ippocrate , e Galieno aveſſer voluto veramente filoſofare , avrebber per avven tura ritrovato la vera ragione , per la quale di verno , e di primavera i cibi meglio aſſai fi digeſtiſcano, eſſere ſolo per chè a que’tempi quella nobiliſima ſoſtanza, la quale fico municâ dal ſangue allo ſtomaco , e fa la digeſtione,affai più vigoroſa, e forte fia, che di ſtate non è, in cui per lo calore oltremodo in quello accreſciuto ſi diſlipa , e fi dilegua ; cf fendo ella , comechè accender non fi poffa , vie più dello {pirito delvino volante , e ſottile ; e per mancamento d'u pa co 302 Ragionamento Quarto na cotal ſoſtanza ſenza fallo avviene , che gli huomini, co mechèpiù caldi , men gagliardi ſi ſentano , e atanti della perſona . Ma nc .men ſe ſi concedeſſe a Galieno , che v'abbian ve ramente due ſorti di caldo negli animali , ſarebbe ciò pun-, to per giovare ad Ippocrate ; concioſliecoſachè , o innato , o avveniticcio che'l caldo fi concepiſca, purchè e' s'avanzi .nell'animale , conſumerà ſenza fallo il corpo diquello ; la onde ſe fi ammette la ragion da Ippocrate nel precedente aforiſmo recata , converrà certamente dire , ch'a' giovani più ch'a' fanciulli , e che di ſtate più che di verno abbon devol cibo faccia meſtiere ; ma ciò Ippocrate , e Galieno fe'l vedano , che per altro poiifanciulli più largamente eſ ſer denno cibati ; sì perchè abbiſogna lor copia di materia per creſcere , sì perchè la lor ſoſtanza più agevolmente fi dillipa; e quantunque di ſtate abbian più biſogno di riſtoro , e dicibo gli animali , nondimeno non molto bene, e per fettamente in quel tempo facendofi la digeſtione , convien che parchi ſiano alquanto eglino nel cibarſi. Ma lo laſcia to aveva di rammentarvi , che Ippocrate medeſimo rifiuta incautamente ciò, che Galien delle due ſorti di caldo, a pro di lui dice; imperocchè Ippocrate reca l'eſemplo degli atle ti, in cui certamente il caldo avveniticcio , è quel che ſovrabbonda ; tralaſcio ciò che dice parimente Ippocrates, cheivecchj per avere ſcarſità di calore , non ainmalino co sì , come i giovani difebbri acute; co che pare, che ne me no il calor de'febbricoſi , ſecondo Ippocrate, differiſca dal l'innato , ſalvo che per gradi . Maper mio avviſo la colpa tutta non è miga già diGalieno, ma d'Ippocratc ; imperoc chè egli,comechè no'l dica apertamente , ſuppone le due ſorti di caldo ; perchè nel medegmo aforiſmo a ſe medeli mo e'viene a contraddire . Nell'aforiſmo ſedecimo fi dice, chci cibi umidiconven gono a 'febbricitanti tutti. Ma a color , che patiſcon coti diane febbri, o terzane, diquelle chechiamāli( purie , i qua per tutto il corſo del male tengono lo ſtomaco , e l'altres viſcere ripiened'acquoſe , ed unnidiſſime ſoſtanze , lo per me li Del Sig. Lionardodi Capoa 303 me non sò , comegli umidi cibi poſſan unqueinai approda re. Lafciando egli poi di favellar più de'cibi , fa ſtrano pal faggio Ippocrate alle medicine purgative ; foggiugnendo nell'aforiſmo venteſimo, che quelle coſe , le quali o figiu dicano , o giudicate interamente già ſono , non ſi debbano muovere, e ne con medicine , ne con altro irritare , ma lila fcin così ſtare ; ſentenza, la quale con altre de' libri degli aforiſmi volle Ippocrate , che ſi leggeſſe nel libro degli umori , ed in altre ſue opere , e contiene ſenza fallo uil, atiliffimo avvertimento ;mapotea certamente Ippocrate far di meno ditorſi una sì tatta briga , cotanto ella è chia ra, e manifeſta coſa ; e nel vero chi ignorar mai potrebbe , avvegnachè non inai ſtudiato abbia in medicina , che ad huom perfettamente guarito della malattia , non che lava cuazione, che potrebbe di nuovo ſcopigliare il ſano ordi namento del corpo , ma niuna altra forte di rimedio non faccia meſtiere ? Ma forſe ſcorger dovette Ippocrate, che i medici de'ſuoi tempi, non altrimenti che li facciano og. gidì que' de’noftri , o poco , o nalla vi badavano ; e ciò per mioavviſo avviene , perchè di lor natura i medici avidi ſon mai ſempre di far coli, chepaja al vulgo grande ; come è il vuotar con ſalafli , e con purgative medicine ; e van cer cando ogniora qualche apparente cagione di poter ciò egli no fare ;eforſe che'l medeſimo Ippocrate non gliele porge allor ch'e ' dice in un'altro aforiſmo, che ciò che rimane dopole malattie foglia dinuovo ingenerarle ? ma chi ben riguarda la coſa , apertainente ſcorge, che non ſolamente in ciò ,che accénato abbiamo,maquaſi in tutte altre materie ritrovano i medici ciò, che lor fa inefticre, nell'opere d'Ip pocrate ; e queſta certamente è la cagione , per cuida'no Atri Setteggianti ſia Ippocrate in qualche pregio tenuto. Ma che che lia di ciò , dovea annoverar Ippocrate minutamen te i ſegni , per li quali ravviſar poſſa il medico , che'l male interamente lia andato via ; c que'ch'egli altrove , e Galić nelle chioſe brievemére produce in mezzo ,quáto ſianofal laci ognun per ſe ſteſſo conoſcer puote . Doveva pariméte Ippocrate ſpiegar diligenteméte,che ſia ciò che rimane do po le A 304 Ragionamento Quarto po lemalattic ; es aitro e' non dice, niente certamenteegli inſegna , chenon ſia a tutti ben noto . Dice indi nell'aforiſmo venteſimo primo Ippocrate, che ciò che vuotar fi dee ,per le ſtrade, onde ha egli cominciato ad uſcir fuori, e per li convenevoli luoghi convenga vuo tarlo . Qui il gran macſtro delle più aſcoſe materie dell'ar te , non fi dipartendo dall'uſato ſuo coſtume , imprende ad inſegnare faccenda, eziádio alle madrine manifefta; e non fa menzione di niuno di quegli avvertimenti, i quali dovca egli negli aforiſmicertamente regiſtrare ; cioè quali vera mente li licno que'luoghi, ch'egliappella convenevoli, come talora tra per la delicatezza d'alcune parti , e per le mordacità de’lughi , o per altra cagione convenga al me dico altrimenti operare di quel ,che li faccia la natura. Vien poſcia quell’Aforiſmo altrove da noi recaro , che contiene nel vero un'ammaeſtramento molto , e molto ne ceffario a ſaperſi dal medico intorno al tempo delle purgam gioni nelle malattie ; ma da’ſeguaci d'Ippocrate , e diGa licno , come abbiam dimoſtrato,in niunconto tenuto . Mów la colpa , s'Io pur non vado errato , in gran parte ſi dec ad Ippocrate attribuire, ilquale dovea certamente ſcriver co ſa di sì gran momento d'altra miglior forma,e produrre in mezzo le ragioni, e le ſperienze, che fanno al propoſito , e poſſono la verità dalui inſegnata appieno aʼmedici perſua dere. Ma il buono Ippocrate ciò traſandando logora il té po in narrar altre inutili novelluzze ; anzi con recar egli quell'altro Aforiſmo :nel cominciamento de’mali , ſe pu re ti pare, che s'abbia a muovere, tu muoverai: séza giugner altro, comecertamente dovea eglifare,da cagione di por re in dubbietà ciò che prima avea egli inſegnato . Nell’Aforiſmo ventitreeſimo ripete Ippocrate vanamé te ciò ch'egli altre fiate avea detto;ma ciò ch'e'poſcia v'ag giugne , egli è certamente un'avviſo così fuor di ragione , che giuſtamente da più avveduri medicanti , comechè per altro ſuoi parziali,vien traſandato ; cioè che vuotar fi deb ba fin’allo sfinimento , ſe mai ne ficcia inelticri, purchè pof ſa comportarlo l'infermo. Maquinon ha dubbio nuno , che Del Sig.Lionardodi Capoa. 305 che Ippocrate dato c'non abbia il cervello a rimpedulare; imperciocchè non ſi rammenta , che poco addietro corali vuotamenti avea egli oltremodo biafiinati, ſaggiamente ſti mádogli di grādilimo riſchio; quantunque egli in ſe ritor nato altrove poidi nuovo gli rifiuti.Ma più v'è di male , che Ippocrate no fa parola niuna diqual vuotaméto intēder vo glia ; ſe di quel , che per li ſalaſli , come ſpiega Filoteo , o pure diquel, che per le purgagioni s'adopera; come rac coglier fi può da ciò , che in prima egli ha detto ; o diquel che fafli , e per gli uni , e per l'altre ,comevuol Galieno , il quale ſcioccamente approva nelle chioſe la menzionata , dottrina dell'Aforiſmo, Ma ſe mai d'un sì grave fallo ſcu ſazion ritrovar poteſſe Ippocrate , e vero foſſe ancora in qualche malattia haver luogo sì fatte eſtreme,e mortali va cuazioni, Io ſaper vorrei da lui,comemai cotali purgagioni s'abbiano a porre in opera sì , che o giúgano appunto allo sfinimento,o no’ltrapaffino anche di molto; perciocchè con graviſſimo riſchio del povero infermo sì fattamente ancora operar potrebbono, che colle liquide ſoſtanze curte ſi vuo caſſero päriméte le falde,anzil'anima ácora, e 12 vita ;séza chè p cercana (periéza abbiamo, che debile, e ſpoſfata puc gativa medicina ralormolto vuoti , e groſſo calice d'ama riſſimo , e violentiſſimo beveraggio nulla non operi, ſecon dochè 'l corpo, più, o menvi & ritrova adatto ;perchè trop po pericoloſo nel vero riuſcirebbe a porre in opera l'avviſo d'Ippocrate , ponendoci a troppo ſtretto riſchio d'ammaz zar l'infermo, o di nulla giovarlo . Ma poſto , che ciò che inſegna Ippocrate ſi poreifc dal medico ſicuramente legui re, qual pro per Dio a’milerellilanguéti mai ne avverrebbe, ſe di neceſſità le più nobili, e utili foſtāze del corpo s'avreb bono ad un'ora a vuotare? e quì ci accade d'avviſar la ſcioc ca pecoraggine d'alcuni medicāti de'noſtri tempi, i quali no avendo ardimento d'imnitar Ippocrate , e Galieno nel ſe gnare fino allo sfinimento , l'imitano poi nell'uſare violen tillime, e nocevoliſſimepurgagioni: follemente immagi nando ,nel far grandemente vuotare , tutto il ſapere, e'l va lore del medico , e l'eccellenza dellamedicina confiftere ; e RI pure 306 Ragionamento Quarto - pure il medeſimo lormaeſtro Ippocrate apertamente avvi ſa,che non miga per la quantità s'abbiano a ſtimare le pur gagioni , ma per la qualità degli umori,che ſi vuotano.Ma trapaſſando al ſeguente Aforiſmo:ciò che ſi dice in quello , giàvenne detto in prima nell'Aforiſmo ventidueſimo; per chè chiaramente ſi vede , che Ippocrate follemente riſpar miando le parole nel biſogno maggiore , le conſuma poi , ove non fa meſtieri ; ma non una , o due fiate egli in ciò ſi vede fallare ; e ſimigliantemente ciò , che ſi dice nell'ulti mo aforiſmo, fù detto già nel ſecondo ;perchè egli vien giu dicato ragionevolmente vano , e ſoverchio da Galieno ,che che fi dicano in contrario gli altri chioſacori :onde non è da farne più motto . Egli era sì agevole impreſa ad Ippocrate il dettar aforif mi , che lo immagino , che egli dormendo ancora ne com poneſle; imperocchè non ſolamente in queſta , ma in cuce ' altre ſue opere gliva egli ſeminando; e quelche più dej recar maraviglia ſiè , che ne reca alcuniegli ſovente , che colla materia , la qual ſi tratta non han punto che fare; ma quando di ciò lo vado ricercando la cagione, ritrovo da al tro una sì fatta agevolezza non procedere, ſe non fe dal ſuo poco intendimento , e dal non diſaminar lui bene le coſe ; perchè fi verifica in Ippocrate quel faggio avviſo d'Ariſto tele , che coloro, che a poche coſe riguardano agevolmea te diterminano ; e quindi avviene , ch'egli tratto tratto diſguiſato , econfuſo non ſerba ordine, o maniera alcuna , a guiſa de’noſtri Romanzatori , i quali di palo in fraſca ſem pre faltando, quando men s'aſpetra, rompendo il fil del ra gionamento ci laſciano , e d'alcro imprendono a ragionare. Malafciam Bradamante , e non v'increfca V dir , che così reſti in quell'incanto, Che quandoſarà il tempo , ch'ella n'eſca La farò ufcire, c Ruggier' altrettanto, Come raccende il guſto il mutare efca , Così mipar , che la mia iſtoria quanto Or quà ; or là più variata ſia , Mero a chi l'udirà nojoſafia. Così Del Sig.Lionardo di Capoa 307 2 L Così il noſtro Ippocrate ora laſciando di favellar delle purgagioni,nelſecodo libro a far parole del ſonno trapaſſa, dieědo : il ſonno ove in alcuna malattia fia tormentoſo ne addita quella eſſer mortifera ; ma ſe ſarà egli giovevole,ne fa avviſati non eſſer mortale . Egli l'ha indovinato certamente alla prima ; e non veg giam noi tutto di trap.affar molti, emolti, che tempo del male piacevol ſonno agiatamente ſopiva : e allo incontro rimaner in vita altri , che nelle loro malattie da funcſtif limiſogni,o da altro aſpramente fur dormendo travagliatis Or non avvien quaſi ſempre nell'avanzamento dell’avute malattie , che gli infermi più moleſtia in ſonno , ch'in veg . ghiando patiſcono ? e purnondimeno eſli per la più parte riſanano ; oltr’a ciò le terzane , e tutt'altre febbri intermit centi fogliono il più delle volte con faſtidioſi ſonni gli am , malati sformatamente annojare : e pur le sì fatte,ſecondol' avviſo del medeſimo Ippocrate,non fon di riſchio veruno; e quantunque ,per parere diGalieno, Ippocrate non intenda , di favellar de fonnida tali febbri avvegnenti, pur nondi meno era il diritto ch'egli l'aveffe apertamente ſpiegato, ne miga alla diſcrezion de'chioſatori , o de' lettori laſciato. Nel ſecondo Aforiſmo afferma Ippocrate , che ſe'l ſon no la farnetichezza raccheta , vada ben la biſogna . Ma che è ciò per Dio , ch'egli dice ; Io vo conceder , che talor vaglia , ne vi ha chi il nieghi , ch'un placido, e ſoave ſonno valevole ſia una ſinaniante farnetichezza ad attutare : eche aver fano l'intelletto ſia coſa non che buona, maottima ; ma ſe un sì fatto giovamento s'aveſſe altronde, che dal sô no , domine ſe ſarebbe male ? e ſe ſarebbe ancor bene,ab biſognava certamente Ippocrate dir nell' Aforiſmo : buona coſa è , che i farnetici dal lor farneticare riſanino ; e five drebbe ſenza fallo regiſtrata una dottrina nel divino volu medegli Aforiſmi da fare ſcorno alla concluſione di quel ſovrano collegio de’medicanti, la ove tutti conchiuſcro, che Mecenase non aveva ſonno , E queſt'era cagion,che non dormiva ”. Ma quanto meglio avrebbe fatto Ippocrate , e quanto Q92 con 308 Ragionamento Quarto 2 $ con avanzaméto della medicina ſpeto avrebbe egli il tem po, ſe in vece delle sì fatte novelluzze aveſſe impreſo a rac corre , e a dimoſtrarne di quanto riſtoramento ne fia il ſon none come allettar fi poffa a recarne quelle tante utilità ,on de ragionevolmente ilParacelſo ebbe a gridare : fomnus Jant um arcanum eft in medicina ut libenter ab aliquo fcire velim , abfit difto error , an , & qua medicina fit, quæ in omnibus morbis, tampræfens, & repentinumfit auxilium , adeoque corpori , acfanitati condueat æquè ac fomnus. Co sì col grave fafcio di penſieri ſogliono i malati laſciar an che i più oſtinati dolori della perſona, allorche luſingando loro le pupille il ſonno dolcemente gli abbandona in fule piume; laonde non ſenza qualche ragione l'autore dell'in no ad Orfeo attribuito,chiama il ſonno Re degli huomini, c degli dei Somnequies rerum ,placidifſime fomne Deorum , Paxanimi , quem cura fugit,tu pectora duris, Feſa minifteriis mulces , reparaſque labori . Canta Ovidio ; e Seneca Tuque à domitor Somne malorum , requiesanimi, Pars humanamelior vitae E'I Caſa O ſonno, o dela queta umida ombrofa Noite placido figlio , o de’mortali Egri conforto, oblio dolce de'mali Si gravi , ond'è la vita aſpra , e nojosa E'lTallo Padre Orche m'arde l'a febbre gorche'l vigore Vital m'invola il duolo acerbo , e rio , Col ramo: molle dell'onde d'obblio Torrai laluce agli occhi, ame l'ardore ; ne altro rimedio ritrovò Erminia ( appo il maggiore deno Itri Poeti ) .a? ſuoi dolori,che'l ſonno Cibo non prendegià , che de'ſuoi mali Solo fi paſce, e för di pianto ha fete ; Ma'l funno, che de'miſeri mortali E' coiſko dolce obblio poſa, e quiet thing Son . DelSig. Lionardodi Capoa 309 Sopš coʻfenfi i ſuoidolori , e l'ali Diffefe fuura lerplacide , e chete . Ma comechè ciò fia vero , pocomontava a noi certame te il faperlo , fe non fappiamo inſieme chenti , e quali ſiano irimedj daciò operare;perchèdovea certamente Ippocra te diviſare inſieme degli argomenti , onde a’malati ſi può chiamare il ſonno ; e comechèoſtinato ingannarlo : e non folamente dire cheil ſonno approdi a corali infermi. Ma forſe lo vado errato ; perciocchè non fo com'egli il pur rivelò af fuo Signor de la Sciambre , e fe , che colui n'in fegnaffe i ſentimenti di lui, o per fua dappocaggine, o per la ſua natural mutolezza in prima naſcoſi : conciofoffe co fa , che chioſandocolui queſto ſecondolibro, ſcritto aveffe: nel titolo : nova ratioexplanandi aphoriſmos Hippocratis , per quam uſusaphoriſmorum ab Hippocrate intenti, nec ta. mea conſcriptireperiuntur . Econ queſte magnifiche pro. meſſe venendo egli poi al poſtro Aforiſmo , dice per fenté za d'Ippocrate : ad praxim revocabitur hæc prognofis, ſiis ejufmodi effe&tibus appoſitis remediis fomnus concilietur . Ma prima,chc a lui ne diè la curaIppocrate alParacelſo d'avvi ſarlo , il quale nelle chioſe del derro Aforiſmo diſſe : Som nifera quomodocunqueea vocentur àquolibetmedico fummo perè conſideranda Junt ; fomnusenim medicina ef ſuperans omnia arcana gemmarum ', cu lapillorum pretioforum . Qui Natura Arcantfomniferumexconvenienti effentia desīte ptum ,rectè applicare novit,is magni apud ægrotosfaciendus eff . Non igitur folum defomnisnaturalibusHippocrates bic loquitur ,fed oportet ut euminrelligatis , fcut medicum ex pertum , qui ex fpiritu medicina locutus eft , non ut Humori Ba, qui ignorat quid fit fomniferum ,fed ut artifex . Mache mivo Io più nel farnerico degli Aforiſmi d'Ippocrate lun gamente avvolgendo , i quali di sì picciola levatura ſono , quára per noifin'ora s'è accénata. Vegga pur chiunquecó animo tranquillo , e ripofato , e veramente da filoſofo daw niuna paſſione imbardaro , e'sì gli giudichi cutti , e ſottil mente gliſtacci, cheſenza troppa fatica logorarviagevol mente ritroverà eſſer i rimanenti tutti della medeſima va glia 310 Ragionamento Quarto 1 9 1 glia diquelli, che fin quì diviſati abbiamo :eche malamē: te allogata abbian l'opera in affibbiarvi tante chioſe , eco mentiſopra,i noſtri medici, mallimamente il narrato Signor della Sciambre , il quale lo non sò con qual arte s’indovis ni , e a noivoglia comunicar corteſemente ciò che Ippo crate avea intenzione di dire , e'l racque ſolamente per ri ſerbare al ſuo valoroſo ſegretario la gloria d'una sì magui. fica impreſa . Ma ſe bene Ippocrate detto veramente aveſ ſe ciò che il Signor della Sciábre diviſa , e pretende aver il maeſtro a bello ſtudio tacciuto , gran coſa pur cgli non fa rebbe , come ſi può ſcorgere nelle ſue chiole . Ma incom portabile certamente, e' mi pareil Signor de la Sciambre, Aon ſolamente, perchè in ogniaforíſino coſtantemente egli afferma queſto , o quell'altro aver Ippocrate avuto in men te di dire,ma eziandio, perchè talora in materie chiariffime ci vuol'egli far vedere per roſſo il giallo , ficome quando p ſoftenerche'l , ſuo modo di medicare non travii dagl'inſe gnamenti d'Ippocrate , vuol farne a credere colui aver avu to in animo , che ancora fuori del gonfiamento le crude materie vuotar fi debbano ; error,che in verità non mai gli porè cadere a niun modo in penſiero . Or ſe la potente faſcinazione dellepaſſioni non aveſſe magagnate le menti de'chiofatori , eglino ſiſarebbono , fe lo diritto eſtimo, da per ſe del poco , 0 niun valore del volume degli Aforiſmi agevolmente avveduti, almen per quelli che perentro ma nifeſtamente falfi vi s'avviſano ; intanto , che ne meno il tanto parzial d'Ippocrate Galieno , e altri ſeguaci di quel lo gli han voluti torre a difendere . Ma comechè cotanto imbardato fi moftri Galieno delle dottrine d'Ippoctate pur egli falſo a cento , c mille pruove confeſſa apertamente ayer lui ritrovato quell’Aforiſmo, il qual dice , che ſe mai la rete efca del ventre fuori, abbia di neceſſità a infracidire. Machi falſo parimente non ravviſa quell'altro , ove inten de Ippocrate didarne certi ſegnali da conoſcer le donne in cinte , dicendo ; ſe conoſcer tu vorrai quando la femmina gravida ſia , innanzich'ella vada a coricarſi, dalle bere la mulla, e s'ella ſarà moleftata da’dolori del ventre, di certo, che DelSig.Lionardo di Capoa 311 che ſarà gravida: ſe nulla ſentirà ella nonaverà concetto.E fe l'aforiſmo è falſo , abbiſogna anche dir , che in vano ſi becchiil cervello Galieno per recare la cagione, perchè abbia a farſi dopo il definare cotal operazione ; è falſo diſ fe Avicenna,chedell'error dell’Aforiſmo in parte s'avvide , che tal fatto avvenga a quelle donne, che non hanno in co ftumetal beveraggio ; imperocchè a quelle donne, le qua li per addietro non mai l'aſſaggiarono , o gravide , o non , gravide , che ſiano elleno , foglia talora la mulla dolori di ventre cagionare : il che avviene ancora dalla mulla com, poſta coll'acqua piovana , della quale alcuni immaginano aver Ippocrate favellato. Falſo pariméte ſcorgeſi l’Aforiſ mo , che mortale ſia a donna gravida ogni acuta malattia . L'Aforiſmo , di cui meritevolmente dice il Santoro : ne , mofana mentis defenderet hunc aphoriſmum : cioè, che co loro , de'quali l'orina è fabbionoſa abbian la pietra nella veſcica, che che a difeſa d'Ippocrate il Zecchi ſi dica , egli è così apertamente falfo , che Ippocrate medeſimo altrove lo rifiuta , e ripiglia fortemente alcuni antichi medici , che ciò dicevano · Galieno ancora avvifa la ſua falſità , e dice eſſer errore d'Ippocrate , o dc'copiſti, e che l'Aforiſmo do vea dire , o nella veſcica , o nelle reni ; ma con cutta que fta aggiunta di Galieno , falſo altresì tutto di egli ſi ſperi menta.e Girolamo Cardano nelle chiofe,dice lui ſteſſo per lo ſpazio di trenta anni aver avuto l'orina ſabbionoſa , ſen za aver avuta mai menoma pietra , o nelle reni , o nella ve fcica . Soggiugne oltre a ciò , che di dieci perſone appena che una additar ſe ne poſſa , che non abbia l'orine ſabbjo noſe : e pure rari fon coloro , che han pietre nelle reni , e radiſſimi coloro, che l'han nella veſcica . E oltre a ciò egli racconta , che gli Spagnuoli poco men che tutti fan l'orina ſabbionofa , e nondimeno pochiſſimi vi ſono infra loro, che patifcano il mal della pietra . Ma non menofalſo è quello altro aforiſmo ,che'n bocca de’medici tutto di eſſer veggia mo,cioè,che que'febbricofi,i quali fan corbida l'orina , qua le è quella de giumenti, o hanno attualmente , o auranno di preſente dolor nel capo . E quell'altro , che a coloro , a ’ qua 312 RagionamentoQuarto quali nelle febbri ogoigiorno viene il rigore , ogni giorno le febbri ſi tolgano. E quell'altro , di cui Giulio Ceſare della Scala , così a Girolamo Cardano ragiona : nequemés ægrotat , ut falfo voluit Hippocrates , cum dolorem , quo cru ciamur non ſentimus: comechè non vera ſi trovi la ragione , checolui poi ne recà ſoggiugnendo :fed quoniam dolentem ad locum fubfidii ergo diſtracti ſpiritus non repreſentantur, imaginationi. E quegl’aicri, ch' alle femmine, alle quali corrono imeſtrui,e agli Eunuchi,non mai vegna loro la po dagra . Maquale ſciocca femminella nõ riderà ſtrabocche volmcntc in udendo quell'aforiſmo , che i malchi per lo più s'ingenerino nella parte deſtra della donna , e le fem mine nella ſiniſtra ? E di quell'altro , che ſe la donna aura conceputo maſchio , ſi vedrà ben colorita in volto ; mares avrà conceputa femmina , farà pallida ; e di quell'altro : ſe una donna non ſarà gravida, e vuoi ſapere ſe concepirà ,co prila bene con panni, e di ſotto adopera ſuffumigji e feľo dore per entro il corpo vedrai, che vada alla bocca , e alle nari , ſappi, che per ſe ella non è ſterile . Taccio altri , altri aforiſini intorno alla medicinal materia, che fan vede re , che Ippocrate poco avea che fare certamente quando fcriveva un tal libro , ſe vi pone sì fatte fraſche , che ſe ben vere elle foſſero, non però di meno non ſono tali, che debu ban regiſtrarſi in un'opera nella quale intende Ippocrate inſegnare le più ſegrete coſe dell'arte. Ma ad altro facendo paſſaggio: già noi veduto abbiamo quanto poco Ippocrate intelo foffe della natura delle co fe pertinenti alla medicina ; ma ſpezialmente anche ſi pa che niente fi fu egli certamente ſcorto della ſto ria delle parti del corpo umano , e degli ufici di quel lc , e del modo , col quale adoperano , come ogn'un può ſcorgere in tutti i ſuoi libri , che non fa meſtieri, ch’lo ne faccia parola . Solamente narrerò, come per ſaggio dell' altre coſe , ſicome intorno a ciò filoſofi egli una fiata , di cendo , che quelle parti , che ſono ampie nel ventre, e ftret te nella bocca , com'è la veſcica , il capo , e lå matrice, ſon fatte per attrarre, eche apcrtamente queſte sformatamen re , 1 1 1 . te tras 1 i DelSig.Lionardo di Capoa. 31 ; te traggono , e ſon pieni degli attratti umori ; ene reca per ragione il vederſische colla bocca aperta nulla ſi trae , e che fporgendoſi in fuori poi, e ſtrignendoſi le labbra , e adata tandovi una fiſtola ,ſi trae agevolmente ciò che ſi vuole , e che le ventoſe , le quali ſogliono appiccarſi per attrar re dalla carne , ſiano ampie nel ventre, e ſtrette verſo la bocca; ccco le fue parole : Το μειο ελκύσει εφ' εαυτό, και έπεσα σας υγρότη εκ τέ άλε σώματG- , πότερον τα κοίλα π , και εκπτ . παμύα, ή του στρεά της και τρο/γύλα, και του κοίλα τε, και ές στνον εξ ευρές . συνη μία , δύναιτ' αν μάλιστα , οίμαι μύτσι τα τοιαύτα εις ενόςσυγγ μένα εκ κοίλε ε , και ευρίG-' καζ μανθάνειν δε δεί αυτα έξωθεν εκ τω. φανερών • τέτο με γαρ,τησόματι κεχίωώς , υγρόν δεν αναστάσεις προσμελήναςδε , και συσείλας και πιέσεις τε τα χίλεα · έτι τε αύλον ποθέ. μυς , ρηιδίως αναστάσεις αν ό , τι θέλας • τούτο δε, αί στκύαι ποζαλό μίμαι εξ ευρές ως πνώτερον ενενωμέναι πες τούτη τεχνέαται , προς το έλκαν από της σαρκος , και επιστά αλλά και πολ α τοιούτοςοπα · των δ ' έσω του ανθρώπς φύσης, χήμα τοιούτον• κυρίς τε , και κεφαλή , και υπέ es γυναιξί - και φανερώς αύτο μάλιαάλκει και πλήρεςέπν επαρκτα υγρό Tuloi aici . Non occorre , che Io mi dia briga in diſaminar si fatte fanfáluche , potendo ogn'ın per ſe medeſimo ravvi fare, ſolamente in udirle ſoluna fiata, che contengono più errori , che parole . Egli vuole , che la veſcica tragga l’o . rina ; il che tanto è , quanto s’un diceffe,che'l letto del ma re tragga l'acqua da'fiumi;e'l medeſimo dir ſi puote del ca po , e della matrice . Ben ſi pare poi , ch'egli ignorimolte di quelle ſtrade, per le quali le diſcorrentiſoſtanze ſi por tano in diverſe parti del corpo. Ma egli è diſadatto l'eséplo della bocca, e delle ventoſe, comechè egli pur ſi cõcedeſſe , ch’elleno adoperaffero per traimento , ficome fin ' a' dìno ſtri han follemente creduto , e inſegnato le ſcuole ; ma qual maraviglia , che ciò Ippocrate aveſſe affermato , s'cgli ſcriſ ſe ancora nel libro della natura del fanciullo, che lo ſpirito caldo tragga a ſe lo ſpirito freddo , e ſe ne nutrichi : Távce δε , σκόσα θερμαίνεταικαι πνεύμαέχει το δε πνεύμα ρήγνυσι , ποιέει οι οδον αυτ έωυτώ , και χωρέσα έξω · αυτό δε το θερμαινόμενον έλκα ες έωυτο αύθις έτερον πνεύμα,ψυχρόν δια της βαγής , αφ' και τρέφεται. Νce vero cioche diccAndrea diLorézc, cheIppocrate ſapeſſe títo dinotomia Rr quan Ι 314 Ragionamento Quarto 1 quanto gli faceva luogo per la medicina; concioſliecolache dubitar non ſi poſſa ,che molte, e molte coſe di notomia , che neceſſarie séza fallo ſono alla medicina razionale ,igno te affatto gli foſſero ; imperocchè, per tacer d'altro,cgli è certamente neceſſario a quella il conofeer chenti, e quali fieno i movimenti dell'arterie , le itrade del chilo, l'aggira mento del ſangue , la fabbrica , e gli ufici delle giandole, e altre , e altre molte coſe , delle qnaliniuna conrezza ebbe egli giammai ; nondimeno avvegnachè queſte, e altre co Scaffai, pertinenti alla medicina ignoraffe Ippocrate , non ſi può negare , cheegli molto nous'avanzaffe ſopra tutti gli altri medici de'ſuoitempi, per quel , che noi fappiamo , il che da altro certamente non nacque , che dal talento natu Tale , che egli ebbe adatto aſſai al ineſtier della medicina, il quale ajutò egli , e accrebbe ſommamente in coltivan do oltremodo quella parte alla medicina , molto neceſ faria , qual è ſenza fallo l'offervazione ; e nel vero Ippocra te fu un curioſo oſſervatore ; perchè ebbe a dire di lui Ga lieno , ch'egli affai più coſe colla ſperienza , che colla ra gione conoſceſſe; e il meglio certamére avrebbe fatto egli, le trafandate tutte altre biſogne, a queſta ſola inteſo ſem pre aveſſe ; e ſenza ad altro inframmetterſi aveſſe folamen te narrata la nuda, e femplice ſtoria intorno agl'infermi da lui medicati ; ma nondimeno non ſi ſcorge aver egli tanti felicità nell’ofſervazioni Ippocrate , che, o per poca dili genza , o per alcro , che ſi fia egli ſovente non inciampizma quel , ch'è peggio, anche talora in coſe agevoli molto ad offervare e fallare ſcioccamente ſi vedese ciò ch ' e'nenar ra , ne men per avventura il direbbe un rozzo, ed ineſperto huomo dicontado . Ma in quella parte poi della medicina , ch'alla dieta ap partiene egli li portò nel vero così bene Ippocrate, che niu na cofa par che glimanchi; e di certo e' ne meriterebbe una grandiſſima loda , ſe queſto medeſimo non faceſſe aperta mente conoſcere , ch'egli ſtato foſſe molto manchevole , e difettoſo in quel, che più propio , e neceſario egli è in me dicina, e in cui conſiſte , ed è riporta l'eccellenza, anzi l'cf fere Del Sig.Lionardo di Capoa. 315 1 ſere tutto del medico ; cioè nella concezza de'inedicamen ti : maſſimamente di quelli , che tali veramente ſono , e che da’moderni , ſpecifici chiamanſi ; i quali ſenza cagionar ne vacuazione , ne movimento altro niuno han virtù d'eſtin guere il male , e riſtorar l'infermo ; ina comechè in ciò affai mancaffe Ippocrate, purebbe egli tanto intendimento,che ne'mali acuti della ſola dieta per lo più ſi valſe , rade volte adoperando i vuotamenti, come colui, che ben conoſceva, ch'eziandio con yuotare gran quantità d'umori , le malat tie per lo più ſi mantengano nel loro vigore. Ma che poco foſte inteſo de medicamentiſpecifici Ippocrate, ſipareaper, tamente da chiunque ſi da cura di legger i libri degli Epi demj , ne'quali ſi veggon le malattie ne'terminiloro fatali , o in bene,o in male eſſere oftinatamente terminate; c alcu . na fin’al centeſimo giorno eſſer durata . Si ſcorge ancora ciò nelle medicine , le quali egli adopera , come quelle che pericoloſe ſono , e poco efficaci, come ſono infra l'altre ch' Io taccio , comea tutti conoſciute, le cantarelle , di cui egli ſi vale temerariamente in verità nell'Idropiſia ,e in altri ma li dando cinque di effe , e togliendone ſcioccamente il ca po , i piedi, e l'ali, che potrebbono in parte rintuzzare il lor veleno ; e racconta Galicno, ch’un medico per ciò aver yo luto fare aveffe ucciſo miſerevolmente un'infermo; ma tã. to e' ſi compiacque di sì beſtial medicamento Ippocrate , che con peffimo conſiglio e' vuol , che le cantarelle ſi met tano entro la matrice per vuotarla de’malvagi umori ; ove pone egli in opera ancora l'Aglio, il Pepe, e la Sandaraca, la quale,comemoſtra il Mattioli , è una ſpezie d'orpimen to velenoſo corroſivo , cd altre, ed altre cauterizzāti medi cine ; il che volendo ſcioccamente un medico de’noſtri tem pi parzial molto d'Ippocrate una fiata iinitare , riduſſea , pèſſimo ſtato una povera inferma.Neper altro,che p máca méto ď' efficaci medicine nell'interne infiamagioni ſegnar ſuole Ippocrate fin allo sfinimento ; c quel che ſi è il peg gio , e Galieno malagevolmente il comporta contro le ſue medeſime regole,nella pleureſi,ſe nelle parti interiori ſi ſtea da il dolore , ſolve egli il ventre coll’elleboro, e col peplio, Rr 2 Ma و 310 Ragionamento Onarto Ma chi voleſſe annoverar le mal preparate , violcntise veler noſe oltremodo , c ſtrabbocchevoli medicinc,che ſuol por re in opera Ippocrate , elle ſon tali, chei medeſimi ſuoi fee guaci meritevolmente l'han poſte in miſuſo . Ne per al tro parimente egliconfiglia, che la febbre non s’abbia a mi tigare nella punta, per fette giorni, e ſi debba dar largamé, te bere,o aceto co mniele , o aceto con acqua: Ineueſten we xex άσθαι ή πυρετόν μη παύεινέστα ημερέων ποτέ δε χρήσθω,ή οξυμε aixpýtw ,vi šče xzi üfatı:oltre a ciò ſoggiugne egli poco ap preſſo,che nel quinto , e nel ſettimo giorno ſi debbano por re in opera gagliardiflimemedicine da ſpurgare ben bene il petto ,acciocchèil ſettimo giorno menmoleſto all'infermo poi fi faccia fentire : και έτι τή αίματη , και την έκτη ισχυροτύτοιστ χρέεσθαι τσιστν επαναχρεμπτηeίοισι φαρμάκοισι , ως την εβδόμην δια jnásoe spegno dydyn . Ma da queſto ,e dal non eſſer ben lui ſcor to dell'altre coſe della medicina naſce il peſſimo conſiglio , ch'egli da al medico :che non avédo egli contezza del male adoperar debbamedicine,manon molto gagliarde ; e ſe co un tal argométo ſcemerà il male,gli addicerà,che curar e'l debba coll'aſciugare ; ma ſe'l male non ne ſcemerà , e ne di verri piti graveil citrario fardovrafi: Τών νουσημάτων ,ών μη επί 5ηταί τις , φάρμακον είσαι μη ισχυρό ,. ήν δε ράων γένηται , δίδεικται «δος , εύπεπιέον έσιν ισχνάναντα • ήν δε μη ραων ή , άλλα χαλεπώτερον Xu tavavila . Dalle quali parole, e da quel che indi appreſſo edice apertamente ſi ravviſa aver Ippocrate voluto in tendere , che il medico ,non ſappiendo qual male l'infermo paciſca,fi vaglia delle purgative medicine ; e che altro per Dio avrebbe mai potuto Maeſtro Simone nello ſtudio di -Bologna a'ſuoi ſcolari infegnare Magli ſcherzi laſciádo , intorno a ciò certaměte parmi più faggio aſſai il coſiglio d ' Avicenna, il quale vuole,che il medico no conoſcêdo ilma Ic , altro farnon debba , ſalvo che preſcrivere all'infermo una rigoroſa dieta , e intáto ſtar cauto , cariguardo per po, ter quello per qualche ſegnal fotcilmente avviſare . Ma della fuadebolezza ben avvedutofi Ippocrate , per guadagnarſi il buon nome, ſeguendo egli il coſtume degli alori medici, cheabbiamonarraci , coll'arti, e colle giun, 1 terie Del Sig.Lionardodi Capoa. 317 terie ricoprir cercolla , perchè diede opera grande agli arr tivedimenti , e ne ſcriſſe molti libri; ne per altro cgli com pole ancora illibro degli inſogni; opera ridevole allai nel vero, la qual ſembraverainente fatta per huon , che lo gnando færnetichi ; perchè mi maraviglio forte della follia di Giulio Ceſare della Scala , che ſi diè briga d ' appiccar gli sù un comento . Divulgò altresì Ippocrate per la me deſima cagione quel celebre ſuo ridevole giuramento , in cui no lo lo fe più ammirar ſi debba la ſua ſciépiezza , o law fua malizia . Quelle cofe , ch'e' giura Io non le reco ; ma ben può ſcorger ciaſcuno ,che elle vi ſono poſte tutte per farlo credere huomopio , e divoro , non altrimenti , che Ser Ciappelletto per la ſua falſa confeſſione. Ma nientedi meno non furono baſtevolitanti se sivarj artificj , ch'egli non cadeſſe dalſuo buon nome , e che , come egli mede fimo confefſiz , più biaſimo affai,che gloria dal mcdicare e ’ no riportaſſe;ilche non ſolamente gli avvenne,permio av viſo , dal non aver lui avuto niuna contezza di nobili , e va loroſe medicine, per le quali egli in pregio montaffe,e l'ac quiſtata gloria e' non perdeffe , qualora in qualche finiſtro accidéte in medicãdo incorreſſe; ma ancora dal coprendere aſſai bene Ippocratc , ammacſtrato dalle ſue continue of ſervazioni , i viluppi , e l'incertezze della ſua arte , e qua to poco ſia il frutto , o'l giovamento , che poſſa da'ſuoi ar gomenti huom ritrarre ; perchè egli ſcarſo anzi che no mai ſempre fu d'imporre ne'mali acuti que'rimedi chegrā di chiamanſi da'Greci; temendo oltremodo di ciò, che age volmente ſeguirne poteſſe ; ne coſtumava egli , come ab biam veduto , trar ſangue nelle febbri, ſe non fe quando ſcorgevale da grandi, e interne infiammagioni accompa gnate : ne purgar coſtumava, ſe non ſe molto di rado, e nel cominciamento ſolo de'mali acuti; perchè n'era talora ol tremodo biaſimato dalle genti minute , le quali giudica vano , comechè grave foffe , e di riſchio il male , eſſerne nondimeno piggiorato l'infermo , ſolamente per la tra . ſcuraggine, e manchevolezza del medico che non ci avel ſe al tempo con valevoli purgagioni, e con replicati falafi fat 318 Ragionamento Quarto 2 fatto riparo ; ſıcome la ſciocca rubaldaglia deʼmedici allor forſe avea per coſtume; i quali in ſomiglianti malattie mol ti , e varj medicamenti ,ficome egli narra , adoperavano , non altrimenti, ch'or ſi facciano poco men , che tutti i Ga lieniſtide’noftritempi. Cosìnella paſſata ctà videroi no. ftriantichi con biaſimi di traſcuragginc indegnamente ol traggiato , o proverbiato maiſempre Proſpero Marziano, e prima di lui anche GirolamoCardano;i quali ſaggi,e avve duriſſimieſsédo in gir dietro ad Ippocrate le medeſinc tac cc del lor maeſtro agevolmére ſi guadagnarono.E a' tempi noftri abbiamo pure uditi i brôtolaméti, erimproccjcutto di ſcagliati a Paulo Emilio Ferrillo , per eſſer lui nelle febbri dal preſcrivere le purgagioni ritroſo ; e indi a poco acerba mente cffer proverbiato Diego Raguſi , perciocchè nel ſegnare, e nell'uſare le purgative medicine fedelisſimo ſe guace d'Ippocrate, e del Marziano ſi dimoſtrava , ne mo riva giammai infermo, chenon ne veniffe loro rimprove rata la dappocaggine , e traſcuratezza d'aver colui ſenza gli acconcj medicamenti miſeramente laſciato morire. Com tanto il non operare ſecondo la folle opinione del cieco vulgo , grave crrore , e biaſımevole ſempremai fi giudi ca e; maggiormente allor, che no li ficgue ciò, che comu mente dalla traccia de' menovili maeſtri coſtumar ſi ſuole , 1 1 RA 319 1 1 RAGIONAMENTO QVINTO, des S É ſtanco, c anſante pellegrino , cui lunga, e faticoſa ſtrada ancor rimane, acciocchè pofla gli ſmarriti ſpiriti rivocando, al fine diterminato agiatamente pervenire,or in ombroſa felva al canto di piacevole uſi gnuolo s’arreſta ,or indilettevol poggiore fpirãdo fi ſiede,or lūgo la riva d'un qualche fuggére, e chia risſimo fiumicello ſi slaccia or in un pratello di freſchiſ fima, e minatiffimaerba ripieno , e di vaghi fiori,dolceme te ripoſa; e ſe Natura rizzare, e ſparger volles come huom crede, in mezzo agli fpaziofi campidel inare tante , e tante Iſole , acciocchè quando a'Soli più tiepidi s'accolgono ,ri trovaſſero agios e poſa ne'loro lunghiſſimi voli le varies tormedegli uccelli; ragionevolmente dobbiam noi, o Sig. poichè sì dura, e malagevole imprefa di dover ragionādo traſcorrere le ſcuole de più famoſi medici abbia già comin ciata ragionevolméte dico dobbiam noi talora interrāpédo i noſtri lúghi ragionaméti préder nuova lena; e táto più , che vie più ſghembo , e inviluppato ſentiero di quello, chedie tro n'abbiam laſciato , orci ſi fa innanzi ; imperocchè ab } bia 320 Ragionamento Quinto biano , ficome avere potutofin'ora comprendere, piena mentediinoſtro ,ſe'l mio avviſo non m'inganna , a quanto mal riuſciſſe a coranti valene'huomini il volere alcun fifte ma di razional medicina ſtabilire; e fornigliante di molt’al. tri appreſſo andrein diviſando ;avvegnachèa trattar dico ſtoro aſſai più grandemalagevolezza s'incontri ; imperoc chè di loro opere nulla a' noſtri tempi non ſe ne ſerba , e quelle poche, e intralciate memorie , che di eſſe abbia mo, maffimamente appo Galieno, o poco, o nulla n’appro dado a farne diviſar di loro dottrine ; imperciocchè quel buon huomo , tra perchè non l'intendeva , e anche , perchè vezzatamente ſtudiavali d'oſcurare , e porre a fondo ogni lor fama, e gride , cosìſconce,o travolte le ci narra talora, che a gran pena illor intendimento ſe ne può ritrarre , Ma comunque ſia la biſogna, Iomiargomenterò ſecondo mia poffa d'illuſtrar quanto poſſibil fia i loro ſentimenti e la lor dottrina ſtacciando , ſeguitar la coſtuma del noſtro im preſo diviſamento . E tralaſciando quì in primadi far parole d'Apollonio ,di Diſippo , e d'alcun' altri ſcolari d'Ippocrate:i quali per va rj , e diverſi ſentieri avviandoſi , a varie, e diverſe altre ſet te di medicina dicder principio: come di quelli,de qualial tro non ho che dire , ſe non che alcuni di loro vennero ini vituperevolguiſa crattatida Eraſiſtrato : darem comincia mento dal famoſo Diocle . Dico adunque , ch'e' fi puòbé ammirare , e commendare la ſua grandiflima corteſia , o umanità veramente ſingulare, colla quale , come teſtimo nia Galieno,uſar ſolea con gl'infermi ; ma tion già la ſua dottrina , eſſendo molto rare quelle notizie , che a noiper venute ne ſono ; ſi legge nientedimeno ancor oggi una ſua cpiftola del inodo del conſervar la ſanità , dove permio av viſo non ha coſa per cui meriti egli quelle ſomme lodiche dagli ſcrittori, e particolarmente da Galicno sfoggiataméte inveſtire gli vengono; nesébra punto chesì fatta piſtola Gia degna di quel ſapientiffimo Principe , al quale ella è fcrit ta ; vi ſi ſcorge tuttavia , che Diocleera aſſai vago dell'A ſtronomia , e che ben poco egli gradiva le compoſte medi cine Del Sig. Lionardo di Capoa 321 را cine , e che non moito gli erano a cuore le purgagioni. Per quel poi, che di lui vada dicendo Galieno , egli ha Dio cle per fondamenta del ſuo ſiſtema il caldo , e'l freddo , e'l fecco , e l'umido ; de'quali i due primi,agenti, e gli altri pa zienti e' vuol , che fieno . Dottrine , che quanto dal vero modo di filufofare vadan lontane, altra fiata avendone lo fatto ſermone , non fa lungo, ch'al prefente più il dimoſtri; ma comechè Diocle d'altiſimo intendimento , e ben acco cio al filoſofare ſi foſſe , non però di meno , o per manca mento di maeſtro , o di guida , ch'al diritto fentiero l'avel fe fcorto , o per altro , che ciò operato aveſfe ;ſconciamente laſciandoſi trarre a’hiſicofi impigli della dialettica , sì , e tal mente bambo , e ſcempiato ne divenne , ch'oltre a' già detti crrori, impreſe a foftenere , non eſſer altrimenti il ſu dore, vuotamento naturale;e quantunque a Galieno ſem braſſer molto probabili fue ragioni , nondimeno da colui, come troppo durauna talopinione, e come ripugnante , e contraria all'evidenza de'ſenſi vien forte bialimata , e rifill tata . Ma quanto molto poco in filoſofando in medicina egli s'avanzaffe Diocle , chiaramente il ci da egli medefi mo a conoſcere, quando favella della malattia ipocondria ca , di cui un libro ben'intero e compofe , il quale ſcëpia to , emancheyolc ftimnafi per Galieno ; ma che che nedica colui , degno certamenteini pare di grandiflima foda quel libro ; imperocchè ci fa vedere il fuo componitore eſſerfi molto ben avveduto della incertezza della medicina , da che tutto ſoſpettofos e rentonc e' ſempre ſe'n va in con ghietturando le cagioni delle maraviglioſe , e ſtrane appa senze di quel male. Dice infra l'altre coſe in quel ſuo libro Diocle,doverſi fo ſpettare in coloro, che ſon travagliati da’mali ipocondria ci , non quelle venc , che ricevono l'alimento dal ventrico lo , abbian aſſai più calore del convenevole , e'l ſangue in effo loro ſia più groſſo aſſai divenuto ; concioliecoſachè cerca coſa ſia le menzionate vene eſſere in quelli oppilate i edice ciò argomentarſi dall'alimento , ch'al corpo accon ciamente non ſi diſtribuiſce , e nel ventricolo, indigeſto ri Sf inane ; 322 RagionamentoQuinto mane ; quando davanti per li meati ſi ricevea ,e per la mag gior parte con agevolezza s'avvallava al ventre , come dal vomito poi manifeſtamente s'avviſa , quandoil giorno ap preſſo così guaſto ſi rece , per non eſſerſi diſtribuito al cor po il cibo ; mache'l calore in sì fatti infermi fiz più del na turale ſoverchievole , agevolmente fi ravviſi , così dall'in focamento , che a loro avviene , come da quelle coſe ,che anche lor li danno ; imperocchè giovevoli eglino ſperimé tano i cibi freddi, i quali ſogliono certamente rintuzzare , e fpegner in parte il calore: τες δε φυσώδεις καλεμόες , υπολαμ . βάνειν δεί πλέον έχειν το θερμόν του ποσήκοντG- εν ταις Φλεψί Gίς εκ της γασρος την κοφίω δεχομλύαις · και το αίμα πεπαχιώθαι τούτων δηλοί γαρ ότι μου έσι έμφeαξις περί ανώς τις φλέβες τω μηκαταδέ χεθα το σώμα την τοπίω · αλ' εν τη γασρί διαμένειν ακατέργασον» πρό τερον των πόρων τοίχων αναλαμβανόντων , τα δε πελα αποκρινάντων ας τω κάτω κοιλίαν και το τη δευτεραία εμών αυτες έχ υπαγόνων ας το σώ. μα των στίων · ότι δε το θερμόν πλέον εα του καιτου φύσιν» μόλις αν της κατανοήσσεν, έκ τε των καυμάτων των γινομένων αυτούς , και της ποσ φοράς • φαίνονlαι γαρ υπό των ψυχρών όφελούμενοι σιτίων•ταδε πιανα το θερμόν καταψύχων , και μαραίνουν σωθεν . Soggiugnc indi appreſſo Diocle , che affermino al cuni eſfer infiammata in sì fatto male la bocca dello ſto . maco , la qual s'uniſce con gl'inteſtini, e per la infiamma gione quella parimente oppilarſi, e vietar , che i cibi non calino giù agl’inteſtininel tempo opportuno , e ſtabilito ; perchè dimorando i cibi poi,oltre alconvenevole nello ſto maco,cagionino igonfiamenti, e'l calore, e l'altre coſe tur te , che menzionate per lui in prismafi fono : Λέγεσι δε πνες επι των τοιούλων παθών ή σόμα της γασρος το συνεχές των εντέρω φλεγμαί ΥΑν , δια δε την φλεγμονίω έμπε πξάχθαι , και κωλύειν καταβαίνουν τα σιτία ας το έντερον τοϊς τεταγμένοι χρόνοις· τούτα δε γιγνομένα , πλείονα χρόνο του δέον- έντή γατε μένονά , τους πάγκες παρασκευάζει,και τα καύμαζ, και τ' άλατα πποειρημένα , Egli vien Diocle ripigliato da Galieno , perchè infra le tante coſe , ch'egli in mezzo produce , del timore , c della triſtezza , che propie ſono delmale ipocondriico , e'punto non favelli , ma Galien medeſimo diciò poi lo ſcuſa , fog giugnendo dallo ſteſso nome del male farli ciò manifeſto , imper DelSig.Lionardodi Capok 323 impertanto Diocle non averne fatto menzione; ma nondi meno a Galieno non diſpiace la maniera del filoſofa te di Diocle intorno a ciò ;maſolamente forte fi maravi glia , dicendo eſſer una quiſtione degna da fare , perchè non abbia Diocle recata la cagione, per la quale in sì fat to male venga la mente offeſa:masì fatta quiſtione, s'egli vi aveſſe poſto bé méte, nó gli era molto agevole a folvere; imperocchè ragionevolmente nel vero non volle darſi bri ga niuna Diocle di produrre in mezzo coſa ,qualegli non avea avuta fortuna d'inveſtigare: nel che avrebbe certame, te il meglio fatto ad imitarlo Galieno , il quale così ſcon ciaméte ebbediciò a filoſofare, che meritòd'efferne acerba mére proverbiato,e deriſo da’luoi medeſimi parziali. Ma noi laſciādo da parte ſtare Galieno,diciamono molto bene nel vero aver de'maliipocondriaci filoſofato Diocle; cõciof ficcofachè in priina , per tacer d'altro ,non continuo ſi avviſi ſmoderato calore nello ſtomaco , o nelle parti vicine , ma talora fredde ſenſibilmente ſi ſcorgano in coloro , che pa ciſcono sì fatto male ; perchè convicn certamente giudica re , che'l calore quandunquc in lor ſi trovijalcro non ſia, ſal vo che un effetto del male medeſimo; la qual certezza fal fa apertamente ne fa conoſcere l'opinion teſtè rapportatas da Diocle, di coloro iquali ſtimavano cóſiſter sì fatto ma le in una infiammagione, o altro ſimile della bocca del Pi loro . Gli argomenti poi , che reca Diocle per far pruova della ſua opinione quanto deboli fieno , e fallaci, non fa meſtieri, ch'lo dica ; concioltecofachè ogn’un per ſe ſteſ ſoconoſcerpuò , che da cibi, chefreddi egli appella ,ſovés te ſaccrefca oltremodo ilmale, comechè talora ſembrich ' cglino lo mitighino in qualche parte, col rintuzzar la mor dacità de'ſughi secol reprimere la ſtrabocchevol lor fora mentazione . Chi poi ben riguarda alla fabbrica, call'ufi cio delle vene , le quali picciole nelle loro boccucce ſi van tratto tratto allargando , perchè acconce, e valevoli firé dono a ricevere più agevolmenteil ſangue , s'avvede inco tanente quanto dal ver ſi diparta la ſentenza di Diocle,co tanto cómendara , e tenuta in pregio dal vulgo de medici , SI 2 che 324 Ragionamento Quinto le che le vene meſeraiche ſi poſſano oppilare . Ma fievolej molto certamente ſi pare l'argomento, onde provar imma gina Diocle eſſer negli ipocondriaci le vene meſeraiches: oppilate , perchè l'alimento al corpo in lor non fi diſtribui ſca: imperocchè dovea Diocle conſiderare , che non diſtria buendofi l'alimento al corpo dell'animale,non guari dité. po egli in vita durar potrebbe , e chemolti,e molti ipocó driaci, anche forti talora, e vigoroſi fin’all'ultima vecchiz ja veggionſi tutto dì pervenire ; falſo adunque ſi è ciò chè di loro va filoſofando Diocle ; ſenzachè ben chiaro ognun vede la parte più ſottile dell'alimento,qual è quella la qua. P le vene meſeraiche,com'egli ſtima al corpo li diſtribui fce, continuo trapelare, e diſcorrere agl'inteſtini, avvegna chè la parte di luipiù groſſa nello ſtomaco rimanga . Mavi dovea altresì por mente , e inveſtigar Diocle , onde avve gna , che'l cibo nello ſtomaco degli ipocondriaci,indigeſto rimanendo ,non n’eſca fuori nel tempo uſato ; ma certamé te s'egli innoltrato ſi foſſe nella ſpeculazione delle coſe 112 turali,ne avrebbe di leggieri ritrovata per avventura la ca gione ; e tanto più , che pur egli avviſa nello ſtomaco degli ipocondriaci la pontica , e ſtitica acetoſità , la quale non permettendo , che'l cibo ben ſi digeſtilca,increſpa ,e ſtrigne la bocca del Piloro, per inodo, che dallo ſtomaco non pof ſano nel tempodovuto calari cibi agl'intcftini . Ma laſcia do di ciò più favellare : non ineno e' ſi ſcorge il modo del filoſofare in conghietturando di Diocle, da ciò,ch'egli dice : appo Plutarca: επι δε τοϊς φαινομένοις δοαται ο πυρετόςεπιγενόμG" nečuvala , noi Prey Movad,sy 6x6õves , cioè : le cose , le quali a noi manifeſtamēte fi fă vedere,additano le nafcofe : poichè ſi vede la febbre,colleferite,colle infiammagioni, e cõ i gavoccioli ac compagnarſi ; dal che certamente egli vuol cavare Diocle , che in quelle febbri, nelle quali nulla appare di fuori del le menzionate coſe , ficno entro al corpo elleno, o altro fimile , che colla febbre parimente s'accompagni. E rav viſaſi eziandio la maniera del filoſofare di Diocle allor che appo il medeſimo Plutarco va inveſtigando le cagioni, per le quali i maſchij ſtendi ſono.4.0 disocyóvoustousaideges ,na es' Del Sig.Lionardo diCapoa. 325 Θα το μήθ' όλως εύνες σπέρμα πιοΐεσθαι,ή παeg το έλαήoν του δέοντG . και παρά το άγονον είναι το σπέρμα , ή καλα παράλυσιν των μορίον , κατα λοξότη του καυλού μη δυναμένε τον γόνον ευθυβολεϊν,ή περί το ασύμ Mergov tæv porów.alo's Tajvané saory oñs peýrsas. Ma oltraciò ſappia di Diocle aver lui, contro quel , che avca inſegnato Ippo crate negli aforiſmi avviſato, l'itterizia , d'ognitempo,ch' ella ſopravegna alla febbre eſſer giovcvole ; al che cgli poi aggiugner volle, che ſopravegnendo all'itterizia la febbre, mortifera coſa quella ſia: arquatum morbum , ſono parole di Celſo , Hippocrates ait, fi poft feptimum diem febricitante agrofupervenit, tutum effe, mollibus tantummodoprecordiis fübftantibus ; Diocles ex toto , fi poft febrem oritur,etiam pro defe , fi pofthanc febris, occidere. Ma non meno dell'afo riſmo d'Ippocrate la ſentenza di Diocle falſa cutto di fi ſperimenta . Coltivò egli poigrandemente la notomia , ma come qucl rozzo ſuo ſecolo comportava , poco felicemente nel vero ; non però di meno cgli in ciò è da commendare ;m2 séza fallo poi a ſommo onore attribuir gli ſi dee, l'eſſer lui ſtato il primo, ch'aveſſe ofrto pubblicar con un libro partia colare al mondo le coſe , ch'egli avviſate avea nel far no tomia degli animali. Ma procedendo più oltre ci ſi fa davanti l'altro famoſo Principe deʼRazionali inedici Pralfagora, cotanto celebras to , c in pregio tenuto da Galieno , il quale diſſe eller lui ſtato in tutte le parti della medicina eccellentiſſimo , e in tendentiſfimo di tutte le più ſottili (peculazioni delle coſe naturali . Ma di queſt'huomo non è per mio avviſo da far giudicio diverſo da quel , che di Diocle noi teltè fas ; cemmo ; poichè iinitando in ciò Diocle, portò Praffagora, altresì opinione dalle quattro primieramente comuni qui lità appellate dirivar tutte l'operazioni della natura ; e con queſta credenza camminando avanti , di neceilità dovette , da uno in altro crror tratto inceſpicare. Oltra ciò viens forte Praſlagora biaſimato da Galieno, perchè egli ſcrivel fe con tanta oſcuritàche ſembrano fc fue ſentenze enigmi da tener mai ſempre in biltento il lettore . Ma con pace. pur ! 326 Ragionamento Quinto pur di Galieno,Io non giudico queſt'errore cotanto propio di Praſſagora, che non ne ſia ſopratutto da cacciar lamedia cina medeſima , per la grandifinna incertezza di quel la ; onde imaeſtri più accorti , e malizioſi , per non farſi torre in fallo foglion sì facramente ſcrivere chenon ſi pof fa per niuno ne’lor veri ſentimenti penetrare. Ma impertáto fallò grádeméte Praſſagora,e lervi di pel fimo eſemplo agli altri Razionali medici , che dopo lui furono , e particolarmente a Galieno, in voler con ſue ciar le farne calandrini, ecercare di render poſſibile l'impoſſi bile , cioè certa , l'incertezza della razional medicina . Vien biaſimato anche Prafſagora da Galieno , ch'aven do egli in prima detto , che gli umori non ſi contengano al trimenti dentro l'arterie , cerchi nondimeno egli poi d'in ſegnare , e minutamente additando vada , come per opera del toccamento avviſar, eglinon ſi poſſa quali umori fia-. no quelli , che nell' arterie ſi naſcondono ; ma lo immi gino, che in ciò non ſi contraddiceſſe altrimenti Pralſago 11 , come dice Galieno , ma ch'aveſse egliportato opinio che allor , che l'huomo è rano non abbia alcro nell'ar terie , che ſangue, ma che infermando egli poi altri umari ancor vi diſcorrano ; ne potea egli in verità altrimenti di rc , s'egli pur non era affatto di ſenno fuori . Che ſia vero quanto lo dico ,apertamente ſi ſcorge in ciò , che il mede fimo Galieno di lui riferiſce , cioè ch'egli ne men nelle ve ne credea che vi ſieno gli umori. Ma errò certamente , e in iſconcia guiſa Praſsagora , in portando opinione l'arterie cambiarli finalmente in nervi ; avvegnadiochè difender s'ingegnino giuſta ogni lor pof ſa si ſtrana, e dal vero apertamente lontana opinioncscome favorevole al lor Ariſtotele , il Cefalpino , il Reuſnero , e'l Marziano ; ma di non poco biaſimo degno ſi rende appo molti antichi ſcrittori Praſsagora per lo ſtrano , e crudel modo, col quale egli intende, che s'abbia a medicar l’lleo, volendo egli infra gli altri rimcdi,che all'infermo fi faccia vomitare , e dopo il vomito gli li tragga il ſangue , emol to forte gli ſi premano collc mani , il ventre , e gliinteſtini, cal nes Del Sig. Lionardo di Capoa 327 e alla per fine poi col ferro ſi taglino ; ond'ebbe a dire ra gionevolmente Celio Aureliano : quo probatur magnificam mortem Praxagoram magis quam curationem voluife fcri bere; ſenzachè vié egli tacciato dal medeſimo Celio, ch'e'li yaleſse anche nel curarlo degli ſconcj rimedi d'Ippocrate : Aliquos etiã poft vomitum phlebotomat,&vento perpodicem replet , ut Hippocrates . Item libris de caufis , atquepaſſio nibus ,& curationibus vinum dulce dari jubet , d rurſum Hippocratis ordinem ſequitur congerens omnia peccata . Macon qual eccellenza di dottrina , e con qual artificio pervenir aveffe potuto al principato della razional medici na il celebratiſſimo diſcepolo di Praſſagora, Pliſtonico , chi farà mai che poſſa ſpiegarlo fra le sì ſcarſe memo rie , che di lui ne ſon rimaſe ? Io permeſolamente, e ap pena ne lo quanto per Galicno all'avviluppata, eſcarfamé te ſe ne racconta: e gli ſi afcrive ciò a ſomma losa,cioè che raffermaſſe egli quanto in prima diviſato avea Ippocrate de’quattro umori; la qual coſa ſe tale è veramente, qual ſi jarra egli , ne fa apertamente vedere , quíto troppo grofa ſolanaméte foffe căminato Pliſtonico in filoſofando; ina no dimeno pur ſembra , che qualche ſcintilluzza di lume in quelle folte tenebre, e oſcure egliſcorgeſſe allor , chej porta opinione , che le digeriſca il cibo nello ſtomaco putrefacendoſi ; il che nel vero fu aſſai ad inveſtigar ma lagevole a lui , che non avea contezza niuna di Chi mica, e veramente il cibo nello ſtomaco non maiſi ſcioglie, e muta natura , fe non vi concorre l'opera d'una pronta , c velociffima filoſofica putrefazione. Scriffe Pliftonico della materia de'medicamenti , macom'egliin ciò li portafle al cri.per meve'ldica . Ma trapaſſando ad altri, Io non potrei dire,ne'l mio det to ritroverebbe agevolmente crcdéza, in qual pregio ſovra tutt'altri Principi della Razional medicina il grand'Erofilo s'avázaſſe.E certamente degli ſtudi della notomia egli mol to ſi conobbe , e gli poſſon ceder ſenza contraſto la maggio ranza non pur Galicno, ficome giudica dirittamente il Vera ma quant'altri notomiſti prima, e dopo lui nella Grc 1 fatio , cii 328 Ragionamento Quinto cia tutta fiorirono . E quanto alla dialettica, egli cotanto lungamente divifonnes e tanto minutamente , che il vulgo ſciocco dalle tante fraſche delle quiſtioni , delle diftinzio ni ,e diffinizioni, e argomentioffuſcato,comeſe da ſovrano nume ftate fofſer dettate, le dottrine di lui celebraya oltre modo , e riveriya . Ma il tanto ſtudio della dialettica do vert'eſſere alla ſetta d'Erofilo dinon picciol damnaggio ; e quinci forſe avvenne , che molti , o sfidando d'intender pienamente le tante ſottigliezze di lui, e altri a niun pre gio , comevani, e inutili arzigogoli avendole , ad altre ſcuole ſi rivolgeſſero. Ma impertanto la ſua dottrina ritro vò inolti , e gravi ſeguaci , e fù aflai commendara ; anzi narra Strabone,che infin nella Frigia v'era a'ſuoi tempi una famola ſcuola della dottrina d'Erofilo . Or Io, quantunque a voler dire il vero eſtimi, che gran pro alla notomia abbia apportato Erofilo , nondimeno fembramifarfallon da Ro . manzo quel del Falloppio : Contradicere Herophilo in Ana tomicis,eſt contradicere Evangelio .Ma ebbe Erofilo per co ſtume di paleſar séza riguardo niuno ciò che a fui veraméte parea delle coſese cotraddiſſe quando egli ſtimava, che ine ſtier ve ne foffe , a tutti gli antichi , non la perdonando ne meno al ſuo divin Maeſtro Praſagora . Fuegli molto prati co nella materia demedicamenti,e fcrille parecchi volumi del modo , come ſe nc debbano imedici valere ; il che fu gli agevole affai, avendo egli logorato tutti i giorni della ſua vita in far prove, e fperienze;per le quali non ſi può ne gare , ch'e'non merti grandiſſima loda; comechè non cſen do a noi pervenute , niuna utilità del mondo abbian potu to recarci . Ebbe vétura Erofilo d'abbatterſi nelle vene fartee ;ma egli traſcurato , sì bella opportunità laſciofſi uſcir delle mani, non dandoſi cura d'ilveſtigarne il lor proceſſo , e l'uſo ; ma di cotal negligenza è fomigliantemente da accagionar Ga lieno , e tutti quegli altri notomiſti , chedopolui anche ſe ne rimarono . Non molto diffimile dal fallo d'Erofilo fi fu quello del noſtro Bartolomeo di Euſtachio, il quale avendo sitrovato il canal pettorale , non ſi diè briga d'altro, e la 1 fcion Del Sig. Lionardo di Capoa. +329 fcionne il penſiero al Pecchetti, a cui meritevolmente la gloria tutta di così gran fatto ſi dee. Ma ritornando ad Erofilo: non fu egli nel vero molto fe lice in ritrovar coſe grandi , e maraviglioſe, o molto com mendevoli in ſagaceNotomilta ; avvegnachè tutto dì ta gliar ſoleſſe non ſolamente i cadaveri, ma eziandio vivi gli huomini. Scelleratezza tanto crudele, tanto infame, e vi tuperevole, e degna d'eterno biaſimo,che val ſolo ad oſcu rar ogni ſuo pregio , e a far conoſcere al niondo ad un'ora, quanto la fierezza de'medici, il diritto delle naturali, del le divine , e delle umane leggitraſandando , oltre palli law crudeltà d'ogni più fiero tiranno ; perchè a gran ragione certamente ebbe a gridare il gran Padre Tertulliano : He rophilus ille medicus , aut lanius , quifeptingentos exſecuit , ut naturam ſcrutaretur , qui homines odit , ut noſlet. Man prima di lui Cornelio Cello, dopo aver detto ,ch'Erofilo, ed Eraſiſtrato aveano alle lor notomie vivi gli huominide ſtinati, cosi ách'egli un cosìabbominevol misfatto deteſta: crudele vivorum hominum alvum , atque præcordia incidi , & falutishumanæ præfidem artem , nonfolumpeftem alicui , fed hanc etiam atrociffimam inferre . Sopra tutto s'affaticò Erofilo nella materia de polſi, la quale,valendoſi egli della muſica, cercò d'illuſtrare, e di ti durre a perfezione, per modo, che nulla vi ſi aveſſe di vātag gio a diſiderare ; ma tanto , e tanto egli vi ebbe a ſofiſtica re , che meritevolmente forſe perGalieno ,e per altri ne venne più d'una volta ripreſo , e proverbiato ;mad'altra parte per altriſommamente commendato , come ſi può ve. dere in Plinio . Arteriarü pulfus in cacumine maxime merebro rū evidens in modulos certos,legeſq; metricas, per atates , fta bilis , aut citatus , aut tardus defcriptus ab Herophilo medici na vate miranda arte . E queſto accrebbe in modo la ſua fama , e buon nome , che nulla più ; promettendoſi cgli , e dando altrui ad intendere, che col mezo de'polli , com' ab biamo con Galieno accennato , poſſanſi avviſare ancor les coſc impoſſibili a conoſcere; come ne’barbari ſecoli comu liemere li vider poſcia farei medici coll'orinc , colle quali fa Tt cean 330 Ragionamento Quinto 1 cean veduta diconoscere pienamente lo ſtato de'malati , e de’lani; di che ancor qualche veſtigio tuttavia nella noſtra Italia , e altrove ne rimane . Mache / a'tempi noſtri in va rie .guiſe noipur veggiamo da qualche medico ſcaltrito porre in uſo si fatte frodi, e riportarne ſempremai premj, e laudi non ordinarie. Ne è da maravigliare ; perciocchè il mondo gode in tal guila d'effer ſemprcmai uccellato ; il che apertamente ſi fa vedere dalla grande ſtima , chevien fatta della Srologia , e della Gabbala , e d'altre arti vane , e ſu perſtizioſe ; e tanto prevalſe, e montò in pregio con fomi glianti artificila gloria d'Erofilo , che di baſſo, e rintuzza to intendimento' , e come della ſua dottrina incapaci venis van giudicati coloro , che ſi dipartivano dalla ſua ſcuola ; perchè diſſe Plinio di lui favellando : nimiam propter ſubti bitatem defertus: e della ſua ſetta facendo parole : deſerta hac Secta eft , quoniam neceffe erat in ea literas ſcire. S'af faticò parimente Erofilo , come Galien riferiſce, in inve itigar la natura dell'erbe ; e dir ſolea , non haver così gra ve, e pericoloſa malattia ,che non ſi poteſſe coll’erbe curare ; ma non però di meno il valor di molte di quellenou effer conoſciuto , e alcune di loro gran virtù avere ' , le qua li tutto dìda noi fi calpeſtano : inde plerofque, fono parole. di Plinio, ita video exiſtimare , nihil non herbarum vi effici poffe , fed plurimarum vires effeincognitas , quorum innume 70 fuitHerophilus claras medicina , à quoferunt dictü quaf dam fortaſſis,etiam calcatas prodeffe. Solea far altresi grá diffima ſtima Erofilo dell'Elleboro ; il quale, come altrove vien ſcritto dal medeſimo Plinio, veniva pareggiato da lui ad un fortiſſimo Capitano ; perchèturbate egli avendo en tro il corpo tutte le coſe ,foffe poi il primoa uſcirne: elleború fortiſſimi Ducis fimilitudini aquabat ; concitatis enim intus omnibus,ipfum in primis exire.Mada ciò apertamente ſcor geſi, che poca , o niuna contezza aveſſe Erofilo di quelle nobiliſſime medicine , le quali ſenza recar moleftia , e dan no niuno ſon valevoli a domar le più gravoſe , e feroci ma lattie: e ch'egli altresì ignoraſſe ilmodo , per lo quale la fciandogli intera la parte giovevolemedicinale,ſi toglie all '. Elle Del Sig.Lionardo diCapoa. 331 Elleboro la velenofa ; ſenzachè non è miga vero ciò ch'e . gli trancaméteafferma , che l'Elleboro fia il primo ad uſci re ; imperocchè talora non li diparte dallo ſtomaco , e dall altre viſcere allo ſtomaco proſſimane,ſe nõfe ha fatto vuo far egli all'infermo in prima quanto di cattivo , e di buono nel ſuo corpo ſi ritrovava. Non è ſtato adűque in medicina il valor d'Erofilo così grande , quale il ci narra millantan do la fama , Ma doveva Io certamente aſſai prima far parole di Me necrate da Siracuſa; il quale col fuo ſtrano modo di filoſo fare, e di medicare rinnovar volle l'antico uſo di Apollo, e d'Eſculapio , facendoſi venerar come un Dio. Ma a bello ſtudio venne da me tralaſciato , per non haver Io potuto p quanto lo mi vi fia affaticato , niuna contezza aver mai dėl ſuo liſtema; ritrovo ſolamente di lui , ch'egli ſcriſſe , per quel,che ne narri Galieno , un libro de'medicamenti , de quali egli molti da ſe ſteſſo trovò , Fu egli Meneçrate così ſuperbo , ambizioſo , e vano, che non volle egli giammai denajo , o altro premio dagſinfer mi di mal caduco , che guarivano per le ſue mani ; folo ri. chicdea , che eglino ſuoi ſervi fi doveſſero confeſſare, e che col nome di Giove l'aveſſero a chiamare , e come Gio ve il doveſſero onorarc.Solea egli ſpeſſo in mezzo a coloro , traveſtiti, chi da Ercole , chi da Apollo , chi da Eſcula pio , chi da altro Dio minore , a guiſa di Giove con coro na d'oro in teſta , colla veſte di porpora , e collo ſcettro in mano farſi in pubblico vedere , 1.a qual si ſciocca traco tanza imitar volle Ottaviano Ceſare , quando, come rac conra Suetonio , con gli abiti d'Apollo fra huomini, e fra donne rappreſentanti Dij , e Dec, e'feder yolle in un ſono tuofo convito ; Cum primum iftorum conduxit menfa choragum , $exque Deus vidit Mallia , exque deas; Impia dum Phabi Cafar mendacialudit, Dum nova divorum cænat adultera : Omnia fe à terris, tunc Numina declinarunt, Fugit auratos luppiter ipfe thronos , Tt 2 1 Ma 332 Ragionamento Quinto . ! Mapiacevole egli è a udire ciò che avvennea Menecran te con Filippo Rè diMacedonia , comechè Plutarco dicas con Ageſilao Rè di Sparta; ſcriſſe a Filippo egli in sì fatta guifa Φιλίπσω Μενεκράτης ο Ζεύς εν πτά θαν: maFilippo trattado lo da pazzo, qual egli veraméte era, così gli riſpoſe : dínia πος Μενεκμάτα υγιαίνειν συμβελεύω σοι ποσάγαν σεαυτόν επί τοϊςκα στο Ανήκυραν τόποις · ηνίδετο δε άeg δια τούτωνόππαραφρονώο ανήρ . Vna volta anche il medeſimoRè invitò Menecrate a deſinar ſeco,egli fe porre un deſco da parte, facédoglidar cótinua méte incenſo, in tépo,che gli altri convitati in altra tavolas allegramente ciurmavanſi , e facevan gozzoviglia. Mene crate nel principio fommamente godeva dell'onore fattogli dal Rè , come å un Dio; ma poichè gli ſopravenne la fame, e gli fè vedere , ch'egli era huono, comegli altri , fi parcì dolendofi , e lagnandofi fortemente della beffa fattagli dal Rè . Mi ſi fan davanti ora Neſiteo, Filotimo, Eudemo, e M2 rino , i quali comechè ſommamente cominendati, e in pre gio avuti foſſero da Galieno , è da dir nondimeno , che no troppo bene filoſofaſſero cglino in medicina , c che molto poco altresì valeſſero in notomia ; ficome da qualche lor ſentimento rapportato dalmedeſimo Galicno, apertamen tc per ognun ravviſar ſi puotc . Maintra le ſette più chiare , e più famoſe , che nell'air tiche ſcuole già s'inſegnavano della razional medicina ( ſe cgli s'ha riguardo alcorſo non mai interrotto Per volger d'anni , oper girar di luftri) che nelle Città , e nelle Provincie più nobili s ove la greca fapienza era in pregio , glorioſamente fiorirono : o le pur fi mira all'onore , alla fama, e al numero ragguardevole de lor maeſtri, niuna certamente , s'Io pur non vado errato egliſembra , che agguagliar fi poffa , non che antiporre a quella , che da Crilippo in prima ritrovata , indi per opera di Medio, e d'Ariſtogene celebri tra' ſuoi ſcolari,maſopra tutto per Eraſiſtrato ſommamente accreſciuta ne vennc , e ftabilit2. Quinci ſi può agevolmente conghietturare ché te , e quale egli ſtato ſi foſſe il fapcre, l'avvedimento, law fpe . d 0 0 1 1 1 DelSig. Lionardo di Capoa. 333 i 1 ſperienza , e l'induſtria d'Erafiltrato , che di Criſippo,d'A riſtogene, e di Medio nulla v’abbiam che dire ; ma ciò più aſſai in verità argomentarlece da quelle pochiſſiine coſes comechè tronche , e ſmozzicate, Che fan col duro tempo afpro conflitto, che di lui nell'altrui opere , e più che in altre , in quelle de ſuoi einuli tuttavia ſi leggono ; nelle quali pariinente egli moſtrò quanto , e quanto oltre condotto fi foffe per le più dure , c ſpinoſe malagevolezze dell'arte ; intanto che ad acquiſtar meritamente e' ne venne la Signoria curta della medicina ; e non ſenza ragione certamente venncgià da al cuni valent'huominicreduto , ch'egli laſciato di gran lun ga s'aveſse addietro nonch’altri, Apollo, Eſculapio ,e Peo ne medeſimo. Così egli da Appiano Aleſsandrino ,venne appellato meetóvuje @u ,c Galieno parimé : e con orreuoli, e riverēti maniere trattandolo, 11011 iſdegnò di ragguagliarlo ad Ippocrate ; chiamando egli l'uno , e l'altro : iv dožoTátis iørção. E avvegnadiochè pure alcuna fiara moſſo , o dal zelo della verità , o dall'invidia , o dall'emulazione, o daw troppo altieris e ſuperbi portamenti de'parreggiatiei ſegua ci di lui, ſconciamenre egli lo biaſimise prendaa gabbole ſue opinioni ; nientedimeno in tanto pregio , e in sì gran , yenerazione ebbe Galieno la dottrina d'Eraliftraro , ches prender volle fatica di commentarmolte delle ſue opere : e di lui favella più d'una fiara con molto riguardo, e onor di parole ; e mi ricorda , ch'una volta infra l'altre togliendo egli ad impugnar una ſua opinione, ſcuſando quali il ſuo troppo ardimento con eſo luicosì ne favella : Si compiac cia di grazia Eraſiſtrato , che in quella guiſa appunto,e col la medeſimalibertà lo tratri lui , e le ſue quam le egli trattar mai ſempre ebbe in coſtume Ippocrate , ela doctrina di quello . Ne fi dee anche aſcrivere a poca lodo d'Eraſiſtraco , ch'egli, comenarra Galieno , ſi foſſe ſtato il primo autore , e introduttore della vera arte ginnaſtica , e che per opera del ſuo ſenno, e della ſuamano in piede ſi ri metteſſe ; anzi ſi ritornaſſe in vita la notomia, la quale per infingardia degli antichi medici già affacco caduta, e ſpen ta fe ne giacea . Ma 1 opere , colla ! 334 Ragionamento Quarto < + 1 Ma qual maniera egli tenelle Eraliitrato nell'inveſtigare le cagioni in ſeno della natura appiattate, e naſcoſe , e quai foſſero i ſuoi ſentimentiintorno a ' principi delle coſe ſenfi bili , malagevole molto egli è ad avviſare ; impertanto ſi ſcorge apertiſſimamente , ch’Eraſiſtraço era affai libero nel filoſofare , e oltremodo ſchiyo , anzi nimico di far pompa appo il vulgo di mentito , e apparente ſapere ; onde mai non ſi vide ricovrar egli alla franchigia tanto da’ſofiſti uſi ta , e praticata , delle facoltà , e d'altre fimili vanillime novelle , e ciance , le quali non altro in verità , che Nomije fenza ſoggetto Įdolifono, nelle malagevoli , e inviluppate tenzoni della filoſofia , e della medicina ; nella qualcoſa ,comechè ne doveſſe Era fiftrato con ogni ragione , s'Io pur diritto eſtimo , ſomma lode ritrarre , malignamente troppo in verità , e a gran for to funne ripreſo , e vituperato da Galieno ; il quale oltre a ciò ardiſce anchetemerariamente a vituperarlo , e a biafi marlo, perchè ſempremai moſtrato ſi foſſe ſul filoſofeggia re , duro, e implacabile avverſario dell'opinioni d'Ariſtote le , nulla curando , che ſuo avolo ſtato e' fi foſse ; col qua le , e coʻPeripatetici in una ſola coſa convenne, ciò fu nell' affermar coſtantemente, che per la natura niéte a caſo mai vegna fatto , e poſto in opera.. Ma non rammentò Galieno , che Ariſtotele , ed Erafi Atrato convengono bene inſieme anche nel dire , che le re ni, e la milza non fervano a coſa niuna ; ma della milza . prima di tutti ſcriſſe colui ad Ippocrațe, parlando della na tura dell'huomo, παλίων απέναντι £'δα , πάγμα μηδέν αιτίμο». Furicevuta una tal opinione da Rufo da Efeſo , il quale dif ſe,che la milza foſse anánt , ni avevéeyn ,mano già da’ſco Jari d'Eraſiſtrato , come que’ , che diſsero , che la milza preparaſse al fegato il ſugo da generare buon ſangue , tör το σπλάγχνον περπαρασκευάζειν το ήπατπ τ έκ ή σιτίων χυμόν ής α' Mateu xensă girsar , Ma benchè Erafiltrato sì grande , e sì valent'huomo ſi foſſe , e che tanto dalla natura foſſe favo. reggiato , e di rari doni , ç maraviglioſi arricchito, c per ső mo sforzo di ſtudio molto avanti fontille nelle coſe dellam! natu 1 DelSig.Lionardo di Capoa 335 matura , e che colla altezza del fuo anino ſtudiato fi folle di aggiugnere anche talora fin la dove forſe non potè per addietro pervenire altro intendimento mortale : e coll'e ftremo diſua poſſa di formareſi foſſe argomentato il fiſte ma della ſua razional medicina ſommamente perfecto , e compiuto ; nientedimeno più d'una fiata dal diritto ſentier della verità inolto , e molto lungi ſi trova; e ſi leggon di lui alcune ſtrane, e ſconce opinioni, comeche in alcune a cor to accagionato talora e' ne vegna da Galieno' , e in alcun con aſſai fievoli , evane ragioni riprovato ; il che ravviſa no talvolta , e ſono coſtretti a confeſſare i medeſimiGalie niſti ancora Ma nientedimeno a grandiſſima ragion certamente vien da Galieno aſpramente ripigliato Erafiftrato per aver dct to egli, che nell'arcerie nello ſtato naturale dell'huomo no v'abbia ſangue , ma ſolo ſpirito vitale, ſecondo lui :e fpiri to' animale ſecondo Criſippo ſuo maeſtro ; coſa', della qua le , così evidentemente ne appare il contrario , che forte mimaraviglio , comeGalieno quantunque abbondevole d'ozio , e di ciance aveſse potuto darſi briga di compilare un libro intero per impugnarlo . Ma, o Quanto è'l poter d'una preſcritta ufaniza ! equanto dileggieri un’huompaſſionato in gravi falli quaſi inavveduramente traſcorre . I ſeguaci d'Eraſiſtrato per niu na ragionedel mondo , neper evidenza de'ſenſi , che loro apertamente additaffe il contrario, abbandonar mainon vollero i ſentimenti del lormaeſtro"; il quale non altrime ti , che ſe Dio ſtato foſse', ſe preſtar lece in ciò fede a Ga lieno ſolevan eglino ammirare', e venerare ; avendo per vero , e ſaldo, e indubitato ogni ſuo qualunque detto. Ma ritornando a noſtra materia ; egli è da creder , che dall'o pinion , che reſtè abbiā noi rapportata , prendeſse cagione d'inſegnar poi Eraſiſtrato , altro non eſser la febbre , che un movimento inuſitato del ſangue , che dalle vene, dove naturalmente riſiede , all'arterie tragittiſi: e cheſicome al lor , che non ſoffiano i venti , pofa abbonacciato , E nelſuo letto il marfenz'onda giace ; ma 330 Ragionamento Quinto ma ſoffiando poi fortemente Oſtro o, Aquilone enfia , ed eſce fuori impetuoſo , e rapido dall'uſate ſue ſpon de, e inonda , ed allaga le piagge tuttc , c le campagne vici ne ; così anche , fe non v'ha coſa , che l'agiti, o'lcommuo va, dimori placido il ſangue nelle vene:maſe per ſoverchia abbondanza gonfio , o per altra cagione ſoſpinto , e agita to mai venga , sboccando ſubito dalle vene , ratto all'arte rie diſcorra, e ſe quindi dallo ſpirito , che in eſso dimora ſia altrove riſpinto , vada a fermarſi , e ſtagni in quelle cic che ſtrade , dove terminano l'arterie ; e quivi riſtrignen doſi, crappigliandoſi, formerà l'infiainmagione; e la feb . bre ; ecco le ſue parole rapportate da Plutarco:Nuperds isi zí. νημα αίματG- παρεπιπλωκός ας του τα πνεύματG- αγγείο απιοαιρέτως γινόμενον • καθάπερ γαρ επί της θαλάττης , αν μηδέν αυτήν κινη ήρες μί , ανέμε δε έμπνέοντG- βιαία παρά φύσιν , τότε εξ όλης κυκλεται. ούτω και εν τω σώματι , όταν κινηθήτο αίμα και τότε εμπίπτει μες στο αγγα των πνευμάτων , πυρέμενον δε θερμαίνει το όλον σώμα . Αrtifciofotis trovato nel vero , ma che appoggiato in aſsai poco falde fó damenta non può far , cheda ſe ſteſso non crolli, e rovini. Manon laſcerò già lo quì di narrare ciò che immagina . alcuno , ch'altri ſi foſsero intorno a ciò iyeri ſentimenti d ' Eraſiſtrato , e chemal'inteſi , e peggio ſpiegati a noiſien pervenuti; e tanto più , che come Galienoavviſa,Eraſiſtra to a ſtudio oſcuro alle volte Con giri diparole obblique incerte recar ſuole le ſue opinioni ; e che perlo ſpirito egli abbia ? intender voluto un ſangue ſottiliſſiino ,e di quelle particel le , onde ſi forman l'etere , e l'aere per la più parte ripicno. Macheche ſia di queſto , certamente ſi deecgli credere, ch ? a niuna guiſa mai avrebbe Erafiltrato dato fuori così inve riſimili, e vane fanfaluche, ſea lui foſse pervenuta qualche menoma contezza del vero movimento del ſangue; e pure egli vi fu molto da preſso : imperocchè ravviso , e conob be , che dalle vene all'arterie, comechè vi lien le ſtrade, na turalmente non ſi tragitti il ſangue ; il che diede poſcia ca gione a Galieno d'affermare, che l'arterie traggano il ſan gue dalle vene . Qui riſtette, ne paſsò più avanti Eraſiſtra to, con Del Sig. Lionardo di Capod. 337 -- to ; comechè la ſua gran virtù molto bene il valeſſe , merce che non già alla Grecia , ina alla noſtra Italia era la glo ria riſerbata dello ſcoprire l'aggiramento del ſangue . Oltre a ciò ſi pare ,che ſommaméte lodar ſi debba Eraliftra 10 , perchè al ſuo grande avvedimento , e induſtria aſcon der no li potè il ſugo nutritivo ma: pur fallò egli in immagi nando , che quel ſolamente ſerviſſe a nutricare i nervi , ſe è vero ciò che ne narra Galieno . Conobbe ancora Erafiftrato le vene lattee; niétedimeno rinvenir non ne ſeppe l'uſo ; s'accorſe egli anche , ed è egli non picciolo ſuo vanto , che'l reſpirare non diedes già a noi natura , comeimmaginò con Ippocrate , Diocle, e Ariſtotele , Perchè'l caldo delcor temprato fia . Ma non potè penetrar egli nientedimenoil vero ,'e propio uſo della reſpirazione: e perchè alcuni animali fieno ſtati formati sì , che debbano reſpirare ; imperocchè contendes Erafiltraco , che la reſpirazione ad altro non vaglia , fe non fe a poterempier d'aere Parterie ; coſa, che da per fe appar dal vero così apertamente lontana ,cheimutilmente colle fue ciance Galieno impréde a dimoſtrarla alțresì tale.Mafe Eraſiſtrato aveſſe avviſato, che il sague,tutto che no appaja di coſe diffimiglievoli eſſer cópofto, pur contenga molte , e molte parti dinatura diverſisſime avrebbe potuto agevol mente ſpiegare, qual ſia la neceſſità dell'aere , e della refpi razione neglianimali; imperocchè avviene , che nel ſepa rarli dalſangue la parte più ſottile , e per così dire , ſpirito ſa , ſi faccia anche neceſſariamente ſeparazione di varie al tre parti groſſe ;come nella formentazione del moſto , e d'al tre liquide foſtanze chiaranxente ravviſaſi ; queſte groffe porzioni, forza è , che s'abbattano, ſeparate cheelleno ſo no , o nell'acre , o in altro corpo ſimile , il quale contenga pori acconci a riceverle , e che ricevutele , ſia valevole a tragittarle fuori de'vafi:a quella guiſa appunto , che al ráno s'appaltano le lordure, le quali imbrattano il panno, e che col ráno ſe ne van via; e ſe perdiſgrazia dell'animale qual che tratto di tempo , quancunque aſſai menomo , non fao V u cel 338 Ragionamento Quinto ceſſe nel ſangue una cal purificazione, intoppando agevol mente negli anguſti vaſi dieſſo colle craffe porzioni ſepa rate i ſottiliſſimi formentāti corpicciuoli,ſarebbono queſti incontanente coſtretti ad abbandonare il movimento loro dılacante; e ſeoltre a'formentanti corpicciuoli aurà nel são gue abbondanza di ſoſtanze d'altro genere, ma altresì vo lanti , tra le quali viliano in copia grande i ſemi del fuoco, così queſti , come quelle non incontreranno molta diffi coltà a liberarſi da' ritegni ; e ſe vi ſi aggiugnerà qualche altra circonſtanza , onde , e l'uno , e l'altro movimento , e di formentazione, e dicalore rieſca grande , e notabilmée te impetuoſo , allora cgli grande oltremodo converrà ch ' avvegna la ſeparazione : per lo che non baſtando . dilatare , il ſangue dalle groſſe, c importune porzioni quell'aere,che inceſſantemente negli animali per li pori trapela , abbiſo gna , che altra aria mediante la reſpirazione fi beva ; e di quì ravviſato ſenza fallo avrebbe Eraſiſtrato , che parecchi animali no poſſano vivere colla ſola traſpirazione, maloro faccia huopo pariméte della reſpirazione; e ſe'l moviméto formentante non ſarà molto grande , ne verrà da notabile, calore accompagnato , allor l'animale avrà di pochiſſimo aere biſogno , e baſteragliquello , che, o colla ſola traſpi sazione , o con qualche forte ancora di imperfetta reſpira zione ſuccerà ;e p cal cagione poſſono détro alle acque vie vere i peſci; imperocchè nell'acque, benchè aere non vi ſia almeno che ſenſibile appaja , vi ſono impertanto parecchi, e parecchj aliti , i quali cosìdalla terra , come altronde gli vengono ad ogn'ora ſomminiſtrati; e trapelando queſtinel corpo de'peſci, adempiono il medeſimo uficio dell'aere col riportarvi quelle ſoſtanze, che , o nel fangue, o ne'liquori al ſangue equivalenti impedir potrebbono la formentazio ne, col mettergli giù nell'acqua , acciocchè l'acqua ſe n’ abbia a ſcaricare, comunicandola all'aere più vicino; il che ſe mai lor viene impedito , rimangono i peſci poco ftanto privi di vita . Nell'uovo poi , e nell'utero eſſendo i mo vimenti dell'animale non molto grandi , e maſſimamente fra queſti il formentante, ed eſſendo anche oltremodo mol lise DelSig. Lionardo di Capoa 339 li ; e pieghevoli , e poroſi i ſuoi vali , può baſtar ſolamente quell'aere,che per li pori vi trapela; e ſe mai dal freddo , o da altra cagione vegan chiuſi i pori,nõ entrādovi più l'aria, ceſſa nell'uovo , e nell'utero la formentazione del ſangue, e ſe ne muore l'animale ; ſenzachè non è di picciolo mo mento a mantener il debile moto formentativo nell'anima le racchiuſonell’vuovo ,ilpicciolo ,e rimeſso eſteriore caldo, che o dalla chioccia,o dalla fornace , o dal fime gli vié comum nicato ; e come tutto dì veggiamo,nc'vaſi ermeticaméte fi gillati, il calore del bagno,o del fime è valevole a far sì, che non ſi attuti , anzi duri , e fi accreſca nc'liquori la formen tazione . Aggiugneſi , che mal ſi può render volante quel la nobiliſſima ſoſtanza , la quale continuamente a vivificar le parti dell'animale dal ſangue lor ſi communica,ſenza l'ac re, in cui mai ſempre troyanſi quc'volanti corpicciuoli, che ajutano la formentazione . Ma laſciando queſto ſtare al preſente , forſe noi cammi namo dietro la guida d'un cieco ; e altra peravventura ſa rà la vera opinione d'Eraſiſtrato , la quale a dir il vero vien portata in sì fatta maniera da Galieno , che ſembra ch'egli, o non l'aveſſe inteſa , o non l'aveſſe voluta intendere, come fa anch'egli nel rapportare quellaltre opinioni d'Eraſiſtra to intorno alla cagione ,per la quale ſe ne muojan gli ani mali nelle mofete . Vuole Eraſiſtrato , per quel che ne nar ri Galieno , che ſe ne muojan gli animali nelle mofete , e nelle ſtanze chiuſe , einfette o dagli alitidella calce, o dal fummo de carboni , per ritrovarli in sì fatti luoghi l'aere ad un tal grado ſommo di tenuità ridotto , chene fi riceva dall'arterie , ne ricevuto per eſſe ſi poſſa ritenere; ma con grandiflima facilità fe n'eſca fuori; laonde per mancamen to di ſpirito egli ſe ne muoja neceſſariamente l'animales . Prende a gabbo una tal ſentenza Galieno , e dice , che do vea dire più toſto Eraſiſtrato ,che ficome nel pane , ne’logu mi , e in altre ſomiglianti vivande fi ritrova una qualità as noi contraria , così ancora una sì fatta diſpoſizione d'ae re ſia bcnigna , e amica agli ſpiriti , e un'altra maligna , es nimica . Vu 2 M2 340 RagionamentoQuinto 1 ! . Ma nondimeno conobbe chiaramente Galieno la vani rà del ſuo ragionamento ; onde vien coſtretto a confeſſare d'eſſergli di ciò naſcoſa la vera cagione; come ſi può vedere nel libro dell'utilità della reſpirazione ; ma che che ſia di Galieno , lo ammiro grandemente l'acutezza dell'ingegno d'Eraſiſtrato , e'l ſuo modo non guari lontano dal vero filo fofare intorno a tal faccenda;e forſe la fua opinione ſe ſi va fottilmente vagliando non ſi ritroverà tale , quale la s'im magina, o la fi dipigne Galieno ; il quale a dir il vero ſem brami troppo groſſo in ciòse materiale,anzi che no , facen dofi egliacredere, che Eraſiſtrato da lui medeſimo in sigra pregio avuto aveſſe ſognar mai potuto che Paer pregno del fummo de carbonizfia del puro aere piu tenue, e più ſottile. Ma lo per me porto fermiſlina opinione ,chc Eraſiſtrato aveſſe fatto differéza tra fúmo e acre, come da ognun falfi fra l'aere, e l'acqua;e che non altro per tenue aveſſe egliin tendervoluto , che picciolo , o poco : imperocchè la p.2 rola asfilos, della quale e' li valſe , ſecondochè dice Galie no ſteſſo , non ſolamente ſuol eſfer preſa da'Greci antichi a fignificare quel che noi Italiani diciamo foteile , e che da' Jatini ſi dice tenuis ;ma ancora per dinotare,come ſi può ve derein Ariſtotele , e in qualch'altro autore di que' tempi , quel, che i latini chiamano , cxiguus , e noi picciolo , o po co diciamo . Or chidomine non fa , che la dove è aſſai de ſo il fummosivi ſi ritrovi in meno quãtità l'aere? Conferma fi ciò che lo dico dalle ſteſſe ragioni d'Eraliſtratos per Ga lieno recate; imperocchè ſe l'aere delle mofetc, e di sì fat si luoghi egli foffe tal veramente , qual Galien dice ch’af fermiErafiltrato , ch'egli ſia , cioè troppo ſottile :con gran di ſlīmaagevolezza ſenza fallo penetrar egli potrebbe alles art erie ; concioſliecoſachè le ſoltanze diſcorrenti tutte , qu anto più ſottili ſono , tanto più convenga , che compo he , e formate licno di minutiffime penetrevoli particelle ; lao nde ſcimunito affatto ſarebbe Eraſiſtrato in dicédo,che per eſſer l'aere delle mofete troppo ſottile, tragittar egli no lip offa volentieri alle arterie ; ma entrarvi poi allo incon tro . DelSig. Lionardo di Capoa 341 tro malagevolmente vi potrà l'aere qualora eſſendo egli pochiſfimo venga con copia grande di denfe , e groſſe fo ſtanze accompagnato . Ma non ſi ſarebbe vanamente nel vero aggirato infra tante ciuffole , e anfanie Erafiltrato , ro con diligenza degna d'un sì grande filoſofante aveſſe poſta ben mente alla natura delle mofete ; perchè agevolmente aurebbe per avventura rinvenuta la vera cagione , per liza quale in quellamuojono glianimalisin iſcorgédo la mofe ta eſſer una diſcorréte ſoftāza più groſſa, e grieve affai dell? aria; e comechè nõ umida, in altro poi non guari dall'acqux disſomigliāte;e gli aliti della mofeta unirſi nella guiſa me deſima appunto ,che veggiam infieme unirki i zampillidel le acque, e mátenerf nelle cocavità nõ meno ſtrettamente uniti infieme , e congiunti , che que' dell'acqua nelle fon tane fi facciano ; e non altrimenti che l'acqua incontrando declivo il terreno, correr alla in giù la mofeta . Errò pari mente Eraſı trato la dove c'credette eller la carne non al. tro, ch'un accozzaméto di ſangue rappigliatose raſſodato , da che la carne è veramente un compoſto di picciole, c mi nute fibre ; e di fibre parimenté vengon formate le piccio liffime glandolette , che ſparſe perentro , e ſeminate vifo no ; c quantunque la carne del fegato , e della milza paja , nella prima viſta una mafſa di ſangue , pur nondimeno tal non ritroveralla chiunque mettédola in acqua a macerare, faccia , che ſe ne ſepari quel ſangue , che vi ftà meſcolato ; che allora manifeſtamente delle già dettc fibre tutta appa rirà ella refuta. Ma paſſando ad altro , che in Erafiſtrato lo ho ritro vato ; egli mi ſembra , che ſi foſſe in qualche ſembian za di verità incontrato in diviſando delle febbri , in quella guiſa , che s'è da noiaccennata ; non conſiſtendo verame te in altro la natura della febbre , ſe non ſe in un tal certo movimento non ordinario , e non naturale del ſangue ; ma non prende egli a ſpiegar mai poſcia , anzine men cura, per quelche fappiamo per bocca di Galieno, d'andar inveſti gando , come a razionalmedico fa meſtieri, le cagioni,on de ciò poſſa avvenire ; il che avrebbe potuto fareegli age vol 342 Ragionamento Quinta 1 volmenteper avventura,ſe li foſſe innoltrato maggiormen te nella filoſofia ; ne gli mancò , al mio credere , ingegno , ne animo ad una tanc'impreſa acconcio ; ma gli vennero meno gli ſtrumenti, i quali la ſola Chimica da lui nonco noſciuta ſomminiſtrar gli potea Ma che cheſia di questo , non potè celarſi all'acutezza del ſuo intendimento, che la digeſtion del cibo non ſi fà al trimenti dal calore ; ma inveſtigar nondimeno , e rinvenis non ſeppe egli mai que' ſottiliſſimi vapori nel ſangue, onde il cibo ſidivide , e li rompe in minutiſſime parti nello ſto maco ; e comeche conoſceſſe ben egli ancora il ſangue non eſſer da ſecaldo , non potè egli nondimeno però penetrar mai, onde , e come il ſangue caldo diveniffe , e fi conſer vaſſe negli animali . Maper far qualche parola dietro all' eſercizio del ſuo meſtiere : egli maneggiò l'arte Eraſiſtrato così magnificamente , che niun'altro tanto mai più ,ne pri ma , ne poi, per quello , che noi ſappiamo sì ragguardevol mente la ritenne. Ma egli non ha però dubbio niuno,che col profondo ſapere , colla gran fua diligenza , e induſtria gli s'accompagnaſſe proſperevole anche la fortuna: la qua le al maggior huopo nonmancò di favoreggiarlo , avendo egli dalla vicina morte ſottratto , e penetratane la cagione a tutti naſcoſa della graviſſima malatcia del regal giovanet to Antioco figliuolodi Seleuco,il quale in ſua lode così fa , vella appo il noſtro loyrano lirico E ſe non foſe la diſcreta aita Del fiſico gentil , che ben s'accorſe, L'età fua ſul fiorire era finita, Or chi è per Dio , che apertamente non conoſca aver avu to in ciò grandiſſima parte la fortuna . E non potea egli agevolmente ingannarviſi Eraſiſtrato , e in vece dell'oro, delle dignità ſupreme, degli onori, e della gloria immor tale , ch'e'guadagnonne , obbrobrio , e vituperio eterno riportarne ? Ma in ciò imitar lo volle anzi emularlo Galie no, le pur è vero il ſuo magnifico racconto allorche e' ſco verſe quella Romana femmina eſſer preſa forte dell'amor di Pilade ballerino ; c comechè egli vanti aver in ciò ſupe lato Del Sig.Lionardodi Capoa. 343 . rato il medeſimo Erafiftrato , ſe pur tale appunto andò law biſogna , qual egli la narra, non però di meno per eſſere fata colei viliſſimadonnicciuola , non ne riportò Galieno , ſe non quella gloria, ch'egli a ſe medeſimo attribuiſce , in iſcrivendo a Poſtumo talconvenente . Ma per toccar qualche coſa intorno alla maniera del medicare tenuta da Erafiltrato,fi pare ,ch'egli nonmolto ſi Je i Salopsi ſoddisfece , ne troppo ſi valſe delle purgagioni : delle quali affatto ſi tenne egli nelle febbri ; e dar ſolamente le ſolea in altre malattie , che'lrichiedeario ; ſi portava egli sì fattamente con gli infermi,che ſenza lor molta moleſtia, e riſchio alcuno recare , e ſenza porgerne loro cagione , fol con iſtrettamente cibargli , felicemente conſeguire ſperava ciò che altri dalle purgagioni, e da’ ſalaſli attendeano. Ma nonmeno Eraſiſtrato, di quel che Criſippo ſuo maes ftro s'aveſſe già adoperato , ftudioſſi egli ancora di ridurre alla ſua antica ſemplicità innocentee, inerme la greca me dicina ; vietando ſeveramente i ſalafi, i quali s'erano a po co a poco in tutte le ſette della medicina introdotti ; per chè ſi vede chente , e quale e' fi foſſe il valore , e quanto grande l'animo di Criſippo , e d'Eraliſtrato , i quali ebbero ardimento primieramente di far fronte all'oſtinata bruzza glia del vulgo, e rincuzzare una già quaſi preſcritta uſanza nella medicina . Ma le ragioni delle quali eglino fi valſe ro a ciò perſuadere,vengon deliderate da Galieno; ne accé na egli una ſola d'Eraſiſtrato : la quale ſiè , che nel ribut tamento del ſangue non ſi dee ſegnare, acciocchè per lo mancamento di eſſo non vegna poi coſtretto il medico a cibare fuor di tempo l'infermo ; e in ciò loda grandemente egli Criſippo ſuo maeſtro , il qual dice , che in ciò ebbe ri guardo,non ſolo alpreſente , ma all'imminente male anco ra ; concioſſiecoſachè al ributcamento del ſangue agevol mente ſeguir ne ſoglia l'infiammagione, in cuiilcibare ric fce ſenza fallo molto, e molto pericoloſo a' poveri infermi; ed egli è forteda temere, che chiunque dopo l'etſer legna zo dee portar la famc gran tempo , non vegna a mancare; indi poſcia ſoggiugne , che per sì fatta maniera adoperan doni 344 · Ragionamento Quarto doſi nel medicare Crilippo , n'acquiitaſſe lode , e gloria immortale . Mas'altra ragione di ciò ne recalle Erafiſtrato , Io no'l ſaprei diterminare ; non potendoſi preſtar fede in si fatta materia a Galieno ; cercando egli , come avviſa eziandio alcun de'ſuoi più parziali ſeguaci , a diritto , e a roveſcio il meglio ch'e'potea d’avvallar la gloria , e la famad'Erafi ſtrato ; c anche talora tentando a forza di ſofiſmi, e dica lunnia (trappargli di mano la ſignoria della medicina. Recar ſi veggiono in mezzo da Galieno alcune frivolei ragioni de'parteggianti d'Eraſiftrato ; ma da Galieno me. delino per avventura fognate . Maegli ſi dee fermamen te credere , che non poteano mai, ne Criſippo , ne Erafi . ſtrato , ne Medio , ne Ariftogene bandire , introdurre , mantenere in piede poi una maniera sì da quella diverſa ch'era comunemente in uſo , ſenza farne ben prima pruos va con qualcheprobabili ragioni, colle quali moſtraffera eſſere ſtati a ciò fare tratti di peceſſità , e non da vaghezza alcuna ; ne poteano altrimenti facendo difenderſi ne'lini ftri avvenimenti delle malattie ; e forſe Criſippo , o pure Erafiltrato qualche libro particolare ne compofe non per venuto alle mani di Galieno; il quale dice chiaramente una volta , che l'opere di Criſippo crano molto vicine a ſmar richi , e ad eſſer ſommerſe in perpetuadimenticanza . Ma quando primieramente cominciato foſle nella Gre cia un sì crudel coſtume d'aprir col ferro , o col morſo di velenoſi vermini le vene , e colla luſinghevole ſperanza di fottrarla a' preſenti, o a'ſopravegnenti mali,impoverir dell? unico ſuo ſoſtentamento la vita , egli è coſa malagevolen aſſai nel certo ,anzi per avventura impoſſibile a diſtinguere; folamente,che non ſi poſſa porre in dubbio e' mi pare ,che'l crar ſaugue,nemolto nepoco , ne'primni antichillimi tempi della medicina appoi Greci in uſo niuno noirera ; ne Ome ro , il qual non iſdegna con abbaſſarſi alle più menome par ticolarità delle coſe porre in non cale la dignità, e la gran dezza , e magnificenza convenevole all'eroico poeta , livi de giammai far mézione alcuna del ſegnare nella cura del le fe . DelSig. Lionardodi Capoa 345 : le ferite di Marte , diMenelao , d'Euripilo , e di Macaone; perchè , per tacer d'Achille , e di Patroclo , ne Podalirio ne Macaone, eſſendo favoloſo ciò che di lai narrali intorno a tal convenente per Celio Rodigino , ne Chironę lor maeſtro , ne Eſculapio lor padre , ne Apollo lor avolo , ne Peone medico di Giove conobbero , e.miſero mai in uſo i ſalafli, e ne meno fi fa fe'l fegnare,da loro mcdelimi i Gre ci trovaſſero , o pur da altri popoli l'apprendeſſero;macer tamente ciò non poterono iGrecidagli Egizaj antichi ap parare , i quali per teſtimonianza di Socrate ,da noi altro ve apportata,non ſi valfero mai di rimedi pericoloſi; ne ore no da’moderni: imperciocchè coſtoro , come avviſa Dio doro , altra ſorte dirinedj non ebber mai in uſo , fuoriſo Jamente , che criſtei , digiuni, purgative medicinc,e vomi tive . E ſi pare , che dagli Egizzj nell'altenerſi oglino mai ſempre da’lalaſli veniſſero imitati i fapiéciflimi popoli Chi neli, nel cui paeſe, che poco cede in grandezza all'Europa, ma l'avanza di gran lunga nel numero degli abitatori,non di vide mai , comedicemmonoi già , trar ſangue in infer mità vcruna; il cui eſemplo han ſeguito quei della Coccin cina, del Giappone,e tutti quegli altri popoli porti in quell' eſtremo tratto della terra , che bagnata viene dall'Oceano orientale ; e in modo tale abborriſcono i Cineſi medici i falali , che ne i Saraceni , allora quando i Tartari occupa rono quell' imperio , neinoſtrive l'han mai potuti intro durre . ? Ma che che ſia di queſto , chi poſe in uſo primiero il trar ſangue , Io immagino , che fi movcffe , e ſpinto vi . foffe , non già come immaginò Plinio ( ſeguito in ciò fol lemente dalMontano, e dal Vonio) dall'eſemplo del caval lo del fiume ; non eſſendo miga vero ciò , che ſe neraccon ta, come. Avempalace Arabomedico avvisò; ma dallo ſcor gere forſe , che dopo qualche ſpontaneo uſcimento di fan gue,o dalle narici , o da altra parte ſi vedea cedere in qual che parte il malc e sì crebbe l'uſo del ſegnare nella Grc cia , checonvenne , che Ippocrate, c.prima gli altri più ani tichi landaſſero a poco a poco riſtrignendo , sfidando per It' ! 346 RagionamentoQuinto d ſe per avventura di torlo via affatto Ma non ſarà forſe fuor del noſtro propofito a rap portare ora alcuna delle tante ragioni , colle quali po trebbeſijs’Io pur non vado errato , sì fatta opinione difen dere . La vita degli animali ( dico ora vita , largamente parlando x quello , ſenza cui al corpo, comechè compiuto, e ſufficientemente organizzato; non può l'anima accoppiar ſi , o ſtar tantoquantoin lui ) egli ſembra , che in altro ve ramente non confifta , che nel ſangue, o in qualche altro- li quore alſangue equivalente , che in alcuni animali in vece di quello (i mira . Coſa , la quale non può punto dottarſi da chiunque avviſa, che collo ſcemo del ſangue fcemaſi agli aniinali anche manifeſtamente la vita ; perchè ſe non per forte diſtretta , e neceſſità quello non li convience vuotar negli animali . Ma delle due maniere , colle quali il ſangue menomac puoſli , ciòſono , ocom trarlo fuora a viva forza da'vafi , che'l contengono , o con dar ſtrettamé te', e a riguardo il cibo ; il trarlo certamente è quello , il qual reca nocimento , e danno maggiore , e più gli animam li affraliſce ; concioſliecoſachèfgorgando il ſangue , con quello inſiemene ſvaporano quelleſottiliſſime volanti ſo ſtanze: per le quali , e del chilo s'ingenera il ſangue, cin , priina de'cibi s'ingenera il chilo ; ne può il ſangue mantc werſi nel ſuo ſtato, nevivificare le parci dell'animale, ſenza loro ; il che apertamente da chiunque mente vi ponga; po tendoſi di leggieri avvilare, non fa luogo, ch'Io ne faccia parole . Quinci chiaramente ſi vede, c'l confeffa il medeſimo Ga lieno , che potendofi, qualor ne faccia meſtieri, acconcia mente coldigiuno menomare il ſangue , non fia ciò da fare in modo alcuno coltrarlo fuor delie vene,maſſimaméteove ègrade malattia ;imperocchè quelle nobiliflime foſtāze ,che detro abbiamo effer nelſangue , ajutano oltreinodo gl’in fermia ſtar vigoroſi della perſona ſenza eſſere diſvenuti, affranti dal male, e giovano affai al mantenimento di quel li , cafar laro ricoverar la ſalute ; perchè quanto più gra voſe , e di riſchio ſono le malattie, più nocevole certamen te è Del Sig.Lionardo di Capoa. 347 O te è il erar fangue, e men fi eonviene . Malaſciandoda parte ſtare ciò che berlingando diceſi Galieno intorno al dovere fcemareil fangue , onde preſeg cagione i ſuoi ſeguaci di continuo aggirarli infra vane , e inutili contefe : certa coſa è, che'l ſangue può eſſer nocevo le agli animali , o per ſoverchio di rigoglio , e d'abbondan za, per cui o di preſente cagionar puofli in quelligrave ma latcia , o perchè egli è sì , e talmente piggiorato in tutto, in parte , che traligni dalla ſua natura, e non ſi conformica quella dell'animale:0 pure perchèegli inſieme e malvagio , e ſoprabbondevole s'avviſa. Ora in tutti , etre queſti caſi certiſſima coſa è , che'l ſegnare è fommamente nocevole E per cominciar dal ſoverchio del sāgue, chi negherà quel lo non eller mica vizio nella perſona: ficome anche vizio egli non è nella vita civile l'effer riccamöte fornito a denari, o d'altro,che meſtier faccia ad huomo per bene, e agiatame te vivere . E apertamente avviſafi, che coloro , che fom mamente in ſangue abbondano , ſon più d'aleri forci , e be atanti della perſona. Ma ficome la copia delle ricchezze , comechè buona coſa quanto a ſe , pure ad uſo cattivo da gli huomini adoperandori, ſuol di gravidanni talora eſſer cagione: così anche l'abbondanza del ſangue , avvegna chè buona , e laudevole fia ,può talora nuocere , ſeconda mente che per noi ſopra il fecondo aforiſmo del primo li bro d'Ippocrate già fu accennató . Orrel foverchio del ſangue può táto nella perſona adou perare , che ragionevolmente ne debba temere il medico , poco ſenno ſenza fallo farà di lui a volervi riparar col fa Jaffo : potendo ben eglicon imporre ſtretto digiuno ciò ac conciamente fornire . E ſe'l male è già fufficientemente appiccato , ne di quello il ſangue punto più s'inframerre ; che monterà egli attutar la canapa , acciocchè la girandola già preſa di foco non ſi conſumi? o pur che monterà egli ſpuntar la ſpada , perchè la ferita fattane fi ſaldi? E ſe pur dura oſtinato il ſangue a tener mano al male , oglirecas qualche impedimento alla cura di quello , può bene il me dico avveduto ſenza ricorrere al pericoloſo partito della X X 2 1 : { so 348 Ragionamento Quinto laſſo , con imporre all'infermo , che più o meno fi riman ga da' cibi : o più , o'meno , ſicomcli conviene , menomar lo . Nein ciò è da riguardare a ciò che in contrario ſi dice Galieno , cioè , ch'alcuni corpi v’abbia , i quali non così agevolmente potľano il digiuno comportare, per eſſer egli no caldi, e ſecchi in compleſſione,e come e' dice, collerici ; '. concioſliecofachè, per tacere, che ritrovar non ſi poſſa mai ficcità ove ſia gran ſangue, maſſimamente laudevole,e buo no , qual G ſuppone : e che la collcra non s'inframetta pun . to nelle vene , nelle quali, come altrove diviſato abbiamo, ne meno in que'mali, che ſecondo effo Galieno dalla col lera avvengono , nelle vene ſi trova : e che in sì fatti corpi non poſſa eſſer troppo abbondevole il ſangue per lo ſmalti mento , che continuo di quello falli : può bene il medico co medicine , che attutino la collera , e con beveraggi , che non facciano ſe non ſe pochiſſimo ſangue, acconciamente a ciò dar riparo ; ſenzachè in cotali corpi, i quali oltremo do abbondan di collera ,ſicome faggiamente avviſano Ip pocrate , e Avicenna ,ſon pericoloſi iſalasſi ; e ſe ciò fonte, c'huom collera aveſse nelle vene , impoſibil certamente egli ſarebbe , che non n'aveſſe ancor nello ſtomaco : nel qual caſo ne men Galieno medeſimo ardirebbe a trar ſan . guc agli infermi , per qualunque gran male cglino aver ſero , Ma ſe'lſangue è malvagio , o cgli è per ſe ſteſſo tale , o pur altronde la reezza gli vien comunicata. Se altronde gli vien comunicata , non che giovi mai il falaſſo , anzi egli è ſommamente nocevole ; imperciocchè , non che per lo trar del ſangue ſi ſcemi mai il mále,anzi ne monterà egli maggiormente , c più fiero , e rigoglioſo diverranne , ufcé do inſieme col ſangue quelle nobilisſime ſoſtanze , che di cemmo : le quali poſſono , e nel ſangue , e in quella parte, ond’al ſangue diſcorre il male, rintuzzarne l'impero :e ſcio gliendo , e aminendandocacciar via dal corpo per cieche , o per ſenſibili ſtrade quel caccivo ſugo, onde cotanto attri ſtivali il ſangue . Echi voleſse ammendare il ſangue coil cavarne dalle vene , farebbe come colui che con trarre ac, qua * DelSig.Lionardo di Capoa. 349 qua da un lago , in cuicontinuo acqua ſalmaſtra, o dall'int. teriora della terra ,o altronde trapeli, voleſſe quelle addol cire . Ma ſe'l ſangue per ſe ſteſſo è cattivo , con trarne parte , non mé cal rimane, qualſe vin ravvolto, o aguzzo emend.:re ſperaſſe mai ſcimunito contadino, con trarne dalla botte al quáti maſtelli ; ſenzachè l'infermo , perdendo anchequel le menzionate fpiritualı ſoſtanze , le quali ſole poſſono i difetti del ſangue ainmcndare , il nuovo ſangue , cheper quelle s'ingenera , e'l chilo diverranno mai ſempre pig giori . E quinci apertamente avviſar puofli, che ne merz faccia luogo il ſegnare , quando il ſangue nella perſona ab bondevole inſieme , e viziofo ritrovali . Ma per farci più addentro nella preſente quiſtione : l'al terazione , o'l cambiamento del ſangue , o egli è in tut to effo , o pure in qualche una , o più delle ſue parti, ość. fibili , o inſenſibili ch'elle ſiano ſi trova ; oveche ſi covi il difetto ,certaméte inutile affatto, e dáncvole ſarebbe il crar lo ; concioffiecoſachè il l'angue in guiſa meſcolato per lo continuo movimento della tormentazione , e confuſo ne vali ſi ritrova , , che non men della parte vizioſa di quello, la buona ancora col ſalaſſo fuori ne ſcorga; perchè queſta, debile , e infiebolita rimaſa , meno certamente potrà rin tuzzare , e ammendare l'avanzo della cattiva . Ma potrebbe per avventura alcun dire , incontrar tal volta ne'malati, che il ſangue loro ſia tutto buono: ma che ſol qualche ſoſtanza di qualità cattiva , o dentro a’ vaſi in generata, o altronde in quelli venuta,come vermini, e altre fomiglianti ſtrane coſe, chenel ſangue talora anche d'huo mini ſani ſi ſcorgono , renda quello vizioſo; e allora col fa laſlo ſi poſſon molto bene quelle vuotare ; ne per altra ra gione alcune malattie ſcemanſi talora , o affatto li ſpegno no per uſcimento di ſangue dalle nari, o da altra parte del la perſona . Io certamente , ſe ciò foſſe vero , a sì fatto argomento non ſaprei lo che riſpondermi : e non che a ſegnare diſtor nerei i noſtri medici , anzi a ciò ſommamente confortar gli deurei 350 Ragionamento Quinto devrei ; ma in verità altrimenti va la biſogna; perciocchè, o che nel ságue la vizioſa foſtáza s'ingeneri , o che altróde a quello avvegna,no guaridopo il ſuomagagnaméto tra plo moviméto in giro del ſangue ,e per quel della formentazio ne , convien , che quella sì, eralmente ſi meſcoli, e li ri volga inſieme con quello , che è buono , che ſe di tutti , e due non ſi ſgoccino interamente i vaſi , certamente non ſe ne potrà egli giammai tutto il malvagio ſpiccare. Anzico me in tutt'altri vuotamenti avviene , anche in quelli, chej per più larga bocca ſi fanno , certana coſa è , che allora il fangue piùpuro, e più ſottile più agevolmente ne ſpiccia fuora, rimanendo ſempre quaſi inorchia in fondo ilmalv.2 gio ; ſenzachè può talvolta ne pori de'vaſi sì facramente fare inframeſfa la cattiva ſoſtanza , che per trarne tutto il ſangue ne mencertamente quindi ſpiccar ſi potrebbe . Ma ſerbiſi pure ella ſolamente nel ſangue , e per lo cotinuo ri volgimento di quello ella ancora ſimuova : certamente il caſo ſolo operar potrebbe, che in paſſando per lo ſpiraglio della vena , trattadalla foga del ſangue ancor ella per la medeſima ſtrada fuora ne ſgorgaſſe . Ma certamente il co trario tutto di avvenir veggiamo , maſſimamente nel velen della vipera: il qual penetrato una volta entro il ſangue,no ſi può quindi per ſalaſſi ritrarre giammai , ſe non ſe quando di preſente ſi taglia l'offeſa parte ; perciocchè allora non penetrato ancor molto addentro il veleno , inſieme col fan gue fe n'elce fuora . Ne dee ſempre il medico avveduto prender guardia d' imitar co' ſuoi argomenti in ogni coſa la natura ; concioſ fiecorachè non può egli ſapere comc , quando , e perchè quella opcri. Avvien talora , che s’alleggj, o affatto ſpe gnaſi qualche malattia dopo uſcimento di ſangue;percioc chè nel tempo medeſimo incontra per avventura, che la ca gion vera del male, la qual nó avea coſa che fare col sāgue, come altrove è detto , ſi è tolta via . Talora la cagion del malce nel ſangue : ma dalle partiſalde nel tépo medefimo dell'ufciméto , o poco avanti, e prima,che mclcolată fi fof ſe con tutto il ſangue, a quello mandata ; e talora, perchè nel 4 1 1 3 1 DelSig.Lionardo di Capou. 351 Ael medeſimo tempo ella del ſangue ſi è partita : e giunta... alle boccucce de'vali colla ſua mordacità le ſtimola,leapre , e inſieme col fangue n'eſce fuora . Or fe poteſſe il medico mai per ſenno avviſar sì fatte coſe; forfe ſarebbegli permel ſo talvolta il ſegnare; ma perciocchè egli èmalagevole al fai, anzi impoßībile a comprenderle , impoſſibile altresì ſi rendea lui la pericoloſa impreſa di poter col ſalaſſo vin cer le malattie . Perchè quando egli follemente s'arriſchia ad adoperarlo , ſi pone inmano della fortuna:e'l nocimen to , e'l danno è ſicuro , e'l giovamento molto incerto , che ne poffa all'infermo ſeguire ; e maggiormente che rariſſi me fiate ciò che lo hodetto incontrar fi vede.Perchè ſcioc chi ſon da ripurar ſenza fallo coloro, che da quelle pochiſ. fiine volte , che felicemente per opera della natura ciò av. vcnire ſcorgono gvoglion , che parimente dall'arte ſempre mai ſeguir debbawo Mafe nel fangue farà per avventura in parte ſcema to il movimento in giro , o quel della formentazione , allora ccrcamente, non che rieſca giovevole , ma dannoſo olcremodo ſi ſperimenta il Talaſſo ; imperciocchè per quello fcemandoli quelle parti, onde al ſangue cagionanſi eſimo vimenti , diverranno eglino ſenza fallo minori;ma le i movimenti faran creſciuti , comechè fembri , che per ſegnare debban ceflare , fcemandoſiquelle ſoſtanze nel la perſona , onde effi' movimenti procedono : non però di meno rimanendo in piede la cagione non naturale , per cui il' moviméto in giro, e quel della formentazione nelſangue accreſciuto ſi era , nonſolamentevano ſarà il falaſſo , ma altresì ſommamente nocevole; perciocchè con quello fi vé gono a tor via dal fangue le ſoſtanze ſpirituali , le quali ſo le poſlon vincere, e ſgombrare la cagione non naturale,per cui que’movimenti oltre al dovere , sformatamente accre fciuti ſi erano ; ſenzachè in que'movimenti sì factamente avanzati , ſi fà grandiſſima perdita di Sangue : e poco , o nulla fi dee cibar l'infermo; perchèfe vorreio a quello col ſalaſſo ancora torre il ſangue, egli correrà certamente grá diſſimo pericolo della vita. Ma 352 Ragionamento Quinto Ma ſe'l ſangue li ferma in qualche parte falda del corpo, come veggiamonelle infiammagioni avvenire , allora non è da ſcemare il ſangue co'ſalaſli : ma sì ſi dee prender guar dia , che ſi toglian via le cagioni, onde quello a fermarſi quivi fu coſtretto se ciò non ſolamente , perchè il ſangue allor dalla febbre , che s'accompagna coll'infiammagione, grandemente ſcemaſi , e perchè poco, o nulla ſidee l'infer mo cibare : ma ancora , perchè quantunque ſe ne traggu daʼvafi,quel,che rimane,ſi fermerà pure Oſtinato quivi,e tā to più ,quáto ſarà facto men vigoroſo il ſangue a più oltre pasſare;come veggiamo ne'mali della gola , e della pleureli avvenire ; ę fcorto manifeſtamente ſi è allor che ſpina , o al tra fomigliante coſa ſi ficca nella carne , che con quantun que ſangue trarre , non ſi può far sì, che non vi accorra in fiammagione : evi ſi ripara ſolamente con trarne la ſpinews ſenzachè col ſalaſſo dipartédoſi dal corpo ciò che ſcioglier puote il ſangue rattenuto nella parte offefa , ne viene av montaremaggiormente il male . Neha luogo niuno certa mente quì , o la derivazione , o la rivulſione , che chia mano i medici , percui eglino tutto dì ſono a zuffc , eacă teſe in volendo riconciliare alcuni luoghi d'Ippocrate , e di Galieno : i quali variamente ne favellano; imperciocchè movendo di continuo il ſangue in giro, da qualunque par te egli ſi tragga , ſempre ne liegue il medeſiino : c niente ri lieva quantunque l'arterie ſi ſegnaſſero; imperciocchè vuo. tandoſi l'una parte del ſangue da'vaſi colla lanciuola, inco tanente nuovo ſangue dall'altra vi diſcorre : ficome in fiue micello avviene, le cuiacque per varj ravvolgimenti ricor rando a guiſa diconfuſo labirinto s'incontrano : E mentr’ei vien ,se , che ritorna , affronta , E comechè i moderni per no li dipartire in medicando da gli uſi comuni, ſi ſtudjno, e s'affarichino dicoglier pruove ; no però di meno apertaméte ſi vede cheindarno li beccano i geti; per maniera,che un di loro ebbe manifeftaméte a co feffare, che in ciò deſli ſtare alla ſola ſperienza; comcchè al cuni più ſaggi,e avveduti affermino le ſperiēze tutte recate dagli Del Sig. LionardodiCapoa 353 dagli antichi a queſto propofito eſſer fallaci, e vane.Perchè ragionevolmére temevano i più famoſi Galienifti, che fiori vano a que'tempi che da prima ſparſeſi la circolazion del ſangue ,no ſe n'aveſse a travolger tutto, e andar a foqqua dro l'uſo del medicare comunemente ricevuto ; e queſta fi fu una delle cagioni, perchè un sì lodevol ritrovato tanto lor rincreſceſse .; el principal.degli argomenti, che contro a ciò giammai fi ftudiaffero di fare il Riolano , il Primero fio , il Pariſano ,e altri ſi fu, che come narra l'Arveo: ftão se circuitu phlebotomia nonrevelli; quit ſanguisnibilominus parti affetteimpellatur . Ma comechènó ſapeſſe l'avvedu tisſimoGio:Battiſta Elmonte dell'aggirainento del ſangue, pure ebbe egli tanto d'intendimento ,chegiunſea conoſcer ja vanità della revulſionc ,, .e della dirivizionc ,allor che iit facendo paroic della punta c'diſle: Quam circumfpečte ſunt Scholæ in fermocinalibus , &artificialibus : que in natura nil nifi ludicra ſunt! Quoniam etiamfi vena cubiti ufque in cavam totum depleat cruorem : do hecconſequutive èvena azygos cruorem extrahat ; fcire tamen deberent ſcholæftatim poft, totumiterum cruorem æqualiter in venas reftitui : adeò licet.vena cubiti tatapoffetevacuari ( quodnunquam ) tamé mox iterum totus cruor equareturper totum venarum cótex tum . Vnde manifeſtum fit vanas efle revulfionis , deri vationis nanias : quippe quibus conceſſis adhuc non nifi pro paucula mora inſervirent intenţiopi , Perchè ad alcuna delle dette ragioni, per tacer della ſperienza , riguardando per avventura quegli antichiſſimi medici della Grecia , i quali prima d'Ippocrate fiorirono , ma in quel tempo , che'l ſegnare era già nella Grecia in trodotto , furono così ritroſi , e guardinghi in crar ſangue: ne mai oſarono ſegnar nelle febbri, anche ardentiflime.Ne Ippocrate medeſimo, come ſi vede nc’libride'luoghi dell' huomo , e in altre ſue opere , fegnò giammai nelle febbri , ſe non folamente in quelle , che da grande infiammagione dentro cagionanſi; e in alcuni mali vuole egli di ſtrettamen te , che da ſegnar ſia con tal convegna , che non vi ſia feb bre ; e avviſa egli oltre a ciò una fiata , che dopo lungo uſci Y y nicht 354 Ragionamento Quinto 1 1 1 1 1 mento di ſangue dalla matrice d'una donna , le ſopraven ne la febbre : coſa ,la qual veggiamoanchenoi più d'una volta avvenire . Ne è punto vero ciò che dice Galicno , che Ippocrate porti opinione , che in tutte acute , egrandi malattie ſia datrar ſangue;concioſliece ſachè in quel luogo per noigià recato , in cui ſi conrende da Galieno', che ciò egli affermi , egli nel vero non di tutti mali acuti vuol che s'intenda , ma di que'ſolamente , de'quali egli quivi ragio na , sì veramente , che ſien grandi; e imperò vípoſe la par ticella deg che i Latini dicono fed , o pure verùm , e noi diciamo ma: della qual particella Galieno in ſu quel luogo non fa menzione alcuna , e artaramente la tace per poter quello recare a ſuo concio ; perchè i ſeguaci d'Ippocrate forte ne'l tacciano, dicendo , ch'egli falſato aveſſe il teſto d'Ippocrate . Ne è da tacere quanto Galien ſi maravigli , perchè una cal ſentenza non ſia ſtata poſta da Ippocrate negli aforiſmi; e perchè egli altresì non abbia detto , che ne'mali grandi anche non acutiſi debba trar fangue. Ma ne men da’Galieniſti medeſimi viene ricevuto e ap provato il lor macſtro Galieno in quel ſuo famoſo decco : che in tutte febbri ottima coſa ſia a trar ſangue , non fola mente in quelle , ch'egli chiama finoche , ma in quelle an. cora,che da putrefcenza d'umori fon cagionate . E nel ve o eglino in ciò gran ſenno fanno a laſciar da parte la reve renda autorità del lor maeſtro , e ſtar guardinghi , e ritroſi di cavar ſangue in tutte ſorte di febbri; anzi licome eglino nella quartana , e nella terzana ſemplice di ſegnar ſi guar dano ,così nelle altre ancora ſe sbandeggiaſſero affatto i ſa laſli , o quanto miglioriſarebbon da eſler giudicati, e più aſſennati aſſai del lor medeſimo maeſtro ; concioliecolachè nelle febbri maſſimamente acute , e più in quelle , che ſino che chiama Galieno, per la ſtrabocchevole formentazione, e per lo troppo riſcaldamento del langue, cotato egli liſce ma, e s'affraliſce , e s'infieboliſce la perſona, che pericolo ſo alfai, e nocevole riuſcirebbegli ilfalaſſo ;ſenzachè dal la ſcarſezza del cibo ancora , e per lo poco ſmaltimento di quello s’aſſottigliano sì fattitebbricoli, e quali a buccia eſtreina dimagrano. Ma . Del Sig.Lionardo di Capoa. 355 Ma avvegnapure , che con ſegnare rinfreſcaſſeli veram mente il fangue, ilche in cotalifebbri non ſi ſcorge, ſe non fe di rado , eperpochiſſimo ſpazio di tempo avvenire, ri furgendo teſteſo vie più che mai impetuoſo, e fervente il calore ; non però,dimeno aſſai ſciocchezza certamente fa rebbe a volerper poco rinfreſcamento pericolar graveme te la perſona , e manifeſtamente porla a riſchio dimorte ; perciocchèſovepti volteincontra , che dopo il falaſſo vol gendofi a maligna la febbre., più coſto n'uccida. E fe pur vogliam rinfreſcare il ſoverchio calor ne'malati: che non cercar di ſcemarlo con argomenci acconcj, ſenza metterci al pericoloſo partico de ſalaſſis che non cercar rimedj da to glier la cagione ,onde nel ſangue colla formentazione il ca lore ſtrabocchevolmente ècreſciuto , laſciando in lui quel la vital ſoſtanza, che ſola puòl'infermo ne' ſuoi mali aju tare ? Ma ſopratutto certamente vorrei Io domādare ad Ippo. crate , e Galieno , perchè eglino diſideravan , che ſi traef fe ſangue fin’allo sfinimento dello infermo nelle febbri ca gionate da grandi infiammagioni dentro, maſſimamente.ne' mali della gola , e della punta? perciocchè in quelli , fico me il inedeſimo Galieno inſegna , ogni ſperanza di riſto ramento nelvigor.dello infermo allagaſi; ilqual ceſſando molti ſe ne veggion miſeramente morire , eziandio nel di .chino del male , non avendo in lor virtù, perla fiebolezza , da poter il puzzo già cotto , e digeſtito ſpurgare. Ma ſe Galieno non vuole,che ſi tragga ſangue a'fanciul li prima del quatroidecimo anno per qualunque graviſſimo male elli abbiano , non per altro certamente , ſe non ſe per la grandiſſima inſenſibil vacuazione , che continuo coloro fanno : perchè farà eglida trar ſangue nelle febbri , malli anamente sipoche, e in quelle dell'interne infiamagioni,per cui l'inſenſibil vacuazione , che fasſi negli infermi è ſenzaw paragone affai maggior di quella de'fanciulli ? Ma per avventura egli non fu Galieno così amico di ſe gnare., comeſi fanno a credere i ſuoi Galieriſti ; e forſe più per oggia , e diſpecto , ch'egli aveva nella nimica ſerta di Y y a d'Era 356 RagionamentoQuinto 1 Eraliftrato , cotanto egli commendò i ſalali, che per ra . gion , che veramente ve'l traeſſe ; perchè con tante leggi, ' e convegne , e riguardi egli ne riſtrigne l'uſo , che certa mente delle diecivolte , che i noſtri Galieniſti ſegnano , ſe bé li mir231on ne ſaran due per avventura ſecondo il vero ſentimento del lor maeſtro Galieno adoperate ; e rariſſiine volte certamente quelle ſarebbono , che ſegnar ſi dovreb be ſecondo il lor Galicno ; ma eglino credendo d'adoperar bene nelle malattie , con porre ayanti un sì gran rincdio,e sì giovevole, qual e' dicono; non curano di trarre a' mini feltisſimo riſchio i malati, ordinando largamente i falasſi in ogni malattia ſenza riſpetco alcuno, anche contro i divi lamenti del lor medeſimo maeſtro . E comechè Galieno , come teſtè diciavano , n'aveſſe una volta inſegnato , che ottimo ſia a ſegnare in tutte ſorte di febbri,pur quando poi più minutamente nevuol divifare raccontando ad una ad una al ſuo Glaucone le maniere di toglier via le febbri , quaſi dimentico del falaſſo no nefà motto niuno nella cu ra della ſemplice terzana la qual ſecondo lui muove dapll treſcenza d'umori ; e nella cura della terzana baltarda egli dubitoſo, e in nube ne favella , tempellando nel ſuo ani mo tra'l ſoſpetto , e la paura di non offender con sì fatto medicamento gl'infermi. Perchè ragionevolmente il Ro rario di ciò avveduto, forte proverbiandolo diinunifeſta contraddizione nc'ſuoi ſentimenti l'accagiona: quum aliud videatur proponere in univerſali methodo , ficome e' dicu , quàmin particulari exequatur . Ma non che Galieno die fcendendo al particolare, a ciò che prima accennato ave va in univerſale, minutamente fi conformi; anzi cotanto fciocco , ebalordo egli è nelle ſue regole , come già diviſa to abbiamo , che in preſcrivendole in univerfale , fache ſo vente l'una all'altra contraſti, e vicendevolmente fi com battano . Così nel libro del modo di medicar per via di fa lasſi,contro il rapportato duo diviſamento dice : lo dimos ftrerò in queſto libro , che non che a ciaſcuno convenevol fia il falaſſo , anziche ne men coloro , ch'abbondan oltre fiodo ia langue , fian da ſegnare , ſe prima manifeſtamente non DelSig. Lionardo di Capoa 357 fa non ſappiafi. di qual natura fia l'abbondanza del lor fan gue : e quale lo ſtato dello infermo, e gli anni, e'l luogo , e la ſtagione , e la complesſion dell'aria ſia : e chenti, e quali fegniabbia egli patito' o patiſca nelcorſo della fua ma lattia; per ciaſcuna delle quali convenienze dice egli di do verne inaniteſtamente dimoſtrare , che molti ſenza graviſ fimo for dáno ſegnar non ſi poffano . Ecco le ſue parole : Εγω επιδείξω κατατον εξής λόγον , και μόνον άπαντας και δεομένες φλεβοτομίας , αλ' εδέ τες πληθωρικές αυτούς , εαν μη πεότερον αυτό το πλή θG- , οποίον πτην φύσιν εα διορίστι μετα τούτα την έξιν του κάμνονlG Xoxíarte , xai megy, noi xwegen wij , satíscos , @osc te thonyera , sche όσα περεστ τω κάμνονασυμπώμας καθ' έκασον γαρ τούτωνεπιδείξω πολ . λους μη φέρον ως αβλαβώς την φλεβοτομίαν . Ωltre acio avendo Galieno nel libro cótro di Eraſiftrato , e altrove inſegnato , che del ſoverchio ſangue trar G debba copioſamente infino allo sfinimento ; nel quarto libro poi del inetodo eglicer tamcnre in miglior ſenno rinvenuto affermanon cffer il ſo verchio ſangue indizio del ſalaffo ; perciocchè ſe huom ſa no sformatamente in ſangue abbonda , non è egli si toſto da ſegrare : ma sì fi dee con purgagioni, e con menomargli il cibo , c con iftropicciamenti e, altri rimedj ajirtare. Co sì anche egli inſegna nell'undecimo del ſuo metodo , che nella febbre ſinoca no debba il medico troppa copia di sã gre allo infermo trarre : acciocchè il debito alimento alles parti rimanga , ne fia ſtretto l'infermo per ricoverar le ſinarrite forze a doverſi troppo ghiottamente nutricare ; non però di meno egli medeſimo altrove dice ſe aver nella febbre finoca fino allo sfinimento ſegnato . Ma più che in ogn'altronel nono libro del metodo moſtra affai ma nifeftaméte Galieno quáto egli ondeggiáre, e dubbioſo in torno al ſegnar fia ; conciosſiecofachè egli quivi dica do verſi trar ſangue di preſente a'malati di febbre finoca ſenza punto por cura che fia ilfeſto , o'l decimo giorno , o altro giorno critico : e ciò diſtrettamente egli comanda ſenza ri fpecto alcuno . Matoſto poi rivolgendoſi,indi a poco ſog. giugne , che ſe peravventura da altri medici , o dagli asli ſtenti , o dal malato medeſimo ti verrà ciò vietato , allor tu : debbi - 358 Ragionamento Quinta debbj imporgli beveraggi d'acquafredda ,e agghiacciata potendoli ciò ſicuramente adempiere ſenza nocimento al. cuno dello infermo; e ſe ciò pure ſicuramente adoperarnon ſi puote , allor comanda,che il medico ſi debba ad altri ri. medj rivolgere forſe più accoci di queſti. Dal quale diviſa méto manifeftaméte s'avviſa quáto poco fperava Galieno nel falaſſo a dover guarir la febbre ſinocajāzi qnāto egli no men del ſalaſſo temeva anche dell'acqua fredda: la qual ſe .condo lui ſmaga la perſona , affieboliſce le membra, e ren de crudi gli umori, e ſveglia tremori , e dibattimenti nel corpo , e cagiona nonpocamalagevolezza nel reſpirare . E ſe con molta ragione egli ebbe nel libro primo del metodo a coinmendare oltremodo gli antichi medici ; i qualicosì ritroſi, e guardinghi erano in permettere agli in . fermi vino,o acqua, o altro rinfreſcamento della loro ſete ; che non altrimenti, che i rigorofi Capitani a’ſoldati comā dino , o i Principia i lor popoli, cosi eglino in ciò ſtretta mente ubbidir ſi facevano da' loro infermi: certamente Galieno , ſc avelle creduto eſſer neceſario il falaſſo a cota li febbri, avrebbe egli il ſuo medico conligliato ,che ripu gnando altri medici, o gli aſſiſtenti, o l'infermo medeſimo, di quello ſi rimaneſſe ; maſe più a capital ſenza fallo auuto l'aveſſe, egli ſaldo, e oſtinato nelſuo proponimento avrebe be pur confortato ilſuo medico a doverlo metter avanti, o pure d’abbádonardi preſente la cura dello infermo; ficome altrove in ciò che conoſce neceſſario al ſalvamento de'ma lati, più volte il ſuo medico diſtrettamente egli ammo niſce Mache direm noi quanto egli generalmente poca ftima faccia de Calaſſic poco in lor lifidi? maſſimamétein quelli bro , quando contro ad Eraſiſtrato maggiormente aiz zato , e riſcaldato vuol provar quanto ſia convenevole , neceſſario a'malari il ſegnare ;allora nel maggior caldo del la pugna , quali ſchivando la propoſta , che cotanto in pri ma avea preſa per la punta , li rivolge contro coloro ,i qua li giovani, e mal pratici in medicare, temerariamente ove non ſi conviene adoperano il Calaſſo ; e sì cutta la colpa ri yerla 1 Del Sig .Lionardo di Capoa. 359 1 verſa ſopra coloro, i quali quantunque nel cominciamento del male traggan ſangue', dice nondimeno,cheper lor dap pocaggine ſpeſſo gravemente pericolano gl'infermi; per chè conchiude egli diſiderar più toſto , che cotali nuovi uc celloni non s'infrámettano dibiſogna così pericoloſa ,e più toſto per ſalvamento demalatiſe ne rimangano . Mamol to aftuto , e malizioſo ch'egli è , ſe per prender riparo di cotanti mal capitati infermi per lo ſalaito , n'accagiona la tracotanza , e la befraggine de'giovani e mal praticime dici : come ciò colpa foſſe dell'età di coforo , e non più to fto del medeſimo medicamento ; perciocchè egli dice' , e manifeſtamente confeffa, maggiore aſſai eſſere il numero di que’malati, che per malamence ſegnarſi ſi morirono , che , di coloro , a'quali tratta non fu mai goccia di ſangue. Eal la per fine egli conchiude, che gran danno , e nocimento agl'infermi apportano que'medici, che giudicano nel co minciamento di tutte tebbri doverſi crar ſangue. Ma che che ſia dell'opinione diGalieno,la continua ſpe rienza di ciò baſtantemente ammaeſtrar ne puote : e ſe li beri d'ogni neo di paſſione negli uſcimenti delle malattie riguardiamo, ben coinprender pofliamo quelle per ſalaſli non eſſer mai ſcemare, le per avventura giunte non ſienoa' termini loro facali se da ſe ſono ſenza argomento alcunori ſtate ; ma non così negli altri rimedi, i qualivantar poſſo no di riparar veramente alle malattie , e cacciarle fuora dalla perſona per lor virtù , e giovamento ; ficome nelle terzana , e nella quartana avviſar puoſli: le quali non cede do a’ſalalli ; o alle purgagioni, pur dalla ſcorza del Perù só vinte , e fignoreggiate ; perciocchè quella ſolamente è ri medio acconcio loro ,e non già il falaſſo, o la purgagione,le quali coſe più coſto offédono ,che giovano in corali malat tie.Nein ciò voglio lo diftédermi al preſente,co farne lun ghe pruove: ſolamente rapporterò l'avvenimento del Sere niſlimo Cardinal Infante;al quale comechè per li tanti ſa laffi non foſſe rimaſta gocciola difangue nella perſona,pur. dura , e oſtinata la ſua febbre non ceſsò mai , ne rifinò, fin chè cacciollo diqueſta mortal vita . Anno 1641 Noven bris 300 Ragionamento Quinto bris diſſectum fuit curpus Principis FerdinandiHiſpaniarum Regis fratrisCard . Toletani, qui 89.diebus tertiana febri agitatus obiit ætatis 32.annorum . Etenim fublatis cordes bepate, cu pulmone , adeoque difettis venis ,arteriis, vix cochlear cruoris in cavuum thoracis confiuxit ; planè nimiru hepar oftendit exangue: cor verò inſtar crumena flaccidum : biduo enim ante mortem plus ediffet ,fi ipfi conceffum fuiffet , Fuit enim per venæ feitiones , purgationes, hirudineſque ità exhauftus , ut dixi; non definebat tamen tertiana fuum sypă Servare. Ne muove punto ciò , che ſi porta per Galieno , ſe pur cgliè vero , di quelmalato difebbre ſinoca, che ſegnato da lui fino allo sfinimento ſi guarì ; concioffiecoſachè veg. giam noi molti, e molti guarir turto dì da și facte febbri ſenza verſargoccia di ſangue ; ed'altra parte infiniti anche ſono coloro ,come teſtimonia il medeſimo Galieno , i qua li fino allo sfinimento ſegnati G morirono; e coloro ancora, i quali a peſſimo ſtato della lor ſalute ne giunſero : e coloro , i quali anche per teſtimonianza del medeſimo Galieno ,co loro grandiſſimo riſchio ,dopo ſegnati fino allo sfinimento , affieboliti , e raffreddati di tutta lor perſona n'ebbero ſudo ri grandiffimi, e ſoccorrenze, comechè poi loro ne folie ccffata la febbre. Ne di ciò è punto da maravigliare; con cioſliceofachè tra per lo perdimento del ſangue,e degli ſpi riti s'agitino , e ſi perturbino sì fattamente le parti (alde, e diſcorrenti della perſona , che per lo ftrabocchevol rime ſcolamento ſe ne viene a fommuovere,e disſipare la cagione della lor malattia : e sì rimangono liberi , e lani di preſente co non poca maraviglia de’inedeſimi medicanti. Così veg giamo per ira , o per timore, o per altra grave , e ſubitana paffione le gotte , e le quartane , e altre dure , e pertinaci malattie eſſer di preſente riſtate. Quinci manifeſtamente ſi comprende , ſciocchi oltremo do , e ſcimuniti eſſer coloro , i quali per picciol ſalaffo per fuadonſi aggiugnere a ciò , chè Galieno con largamen te trar ſangue fino allo sfinimento aggiugner fi crede va ; perciocchè coſtoro per non porſi a riſchio d'ammaz zare Del Sig.Lionardodi Capoa : 361 1 zare i malati nonolano loro con iftrabocchevolmente rea gnargli torre affatto le forze,e sì porli in bilico della lor vie ta ; ma si mezzanamente ſegnandogli certamente non po tranno mai muover a rimeſcolamento le parti falde', e di fcorrenti del corpo , onde taloramaraviglioſamente,come chê con non poco riſchio della perſona , ſi riftanno le ma. lartie ; perchè da’loro falaffi altro certamente ſperar non ſi può , che certisſimo danno, e nocimento ſenza ſperanza di riſtoramento alcuno ne'malati . E fenza fallo gran ſenno fanno coloro , che ne più , ne meno ſegnano , pereſſer i ſa lasfi ne'malati, o gravemente dannofi , e di riſchio , o affat to inutili . E a ciò riguardando i più pratici , e vecchi nel meſtier deilamedicina,ritrofi oltremodo , e guardinghi ſo 110 nel fegnare : ficome Raſi, e altri valeuti medici nell'ulti- , ma lor vecchiaja dalle continue pruove addottrinati, nois mai ; ſe non molto di rado , e con grandisſimo riguardo ſi videro adoperare i ſalasſi. Mainoitri medici , comechè di ciò pure fien ſufficientemente ſgannati , e ricreduti , pure per non metter affatto in miſaſo l'antichisſima coſtuma de ſalasſi , e si laſciare anche in ciò la medicina del lor mac. ſtro Galicno , così ſcarſamente, e a biſtento ſegnano , ch'o ve gli antichi medici largaméte traevano il fangue a libbre , coſtoro ſolamente il traggono a pochisſime once; ritenen do così ſolamente in nome , e per veduta l'eſler Galieniſti in trar ſangue , quando in verità non ſono. Ma per ritornare allamedicina d' Eraſiſtrato , egli fem bra, per quel che nemoftriGalieno , che della materia de medicamenti egli ſi foſse allai ben conoſciuto ; e viencegli oltrcmodo da Galien celebrato : perciocchè pellegrinando egli, e non avendo una fiata in acconcio una ſua medicina per lo ſtomaco , ponetie ſaggiamente in opera alcuni ſughi d'erbe,le quali quivi abbondanteméte erano;eGalien pari mente di luiracconta , che trovandoſi cgli medeſimo un giorno infermo in contado, e abbiſognandogli al ſuoma lc il paſtello d'Androne, ne potendolo quivi avere, in luq go di quello aſſai felicemente adoperò il ſugo del Rovo ; c ſoggiugne Galieno , chee'non venne Eraliſirato a ciò fa Z Z 1 1010 362 Ragionamento Quinto re ſoſpinto altrimenti, o perſuaſo', come millantavano Sea rapione , e Menodoto, dal paſſaggio, o argomento dal fi mile al fimile , non avendolomiglianza niuna tra'l paſtello d'Androne, e'l ſugo del Rovo,madalla general contezza , la qual egli avea della facoltà de'ſemplici ; per la cui' mea deſima ſcorta,ad emulazioned'Eraſiſtrato ritrovò poiGa lieno parimente quel medicamento , che'l fa tanto ſtraboce chevolmére pavoneggiare,cioè il ſugo delle noci.Or penſa te voi che ſchiamazzio avrebbe farto egli, e qual loda avrebbea ſe ', e ad Erafiltrato attribuita Galieno , ſe qual che menoma delle chimiche medicine aveſſer potuto mai eglino rinvenire . Ma ne Eraſiſtrato , ne Galieno ſeppero mai' , che nel ſugo del Rovo , e delle noci viabbia un ſale adatto a ſciogliere molte, e molte di quelle materie , onde ingenerar fi loglion le poſteme; e che non ſolo i fughi già detti ſono riſtrignitivi,mavalevoli anche a fare cambiar na tura a quelle acetoſe ſoſtanze', oude s'ingenerano l'infiam magioni . E quinci ſi ſcorge apertamente , chevada errata in ciò la medicina razionale antica , la qual ſi crede , uſana do medicamenti sì fatti nel primo cominciamento dell'in fiammagioni, porre in opera coſe , che di ripercuotere, o di riſtrignere ſolamente abbian valore. Maritornando a noſtro propoſito : bé potea anche effer agevolmente vero ciò che diceano que’gran lumi dell'em pirica medicina , Serapione , e Menodoto , che da qualche ſomiglianza no penetrata da Galieno tra'l Rovo,c'l paſtel lo d'Androne indotto ſtato foſſe Erafiſtrato a ciò fare ; e in verità tra'l Rovo , e la Galla ,per tacer del vitriolo , onde vien formato il paſtello d'Androne, potea non che Eraſi ſtrato , ma huom di mezzano intendimento di leggieri av viſare eſſer non poca lomniglianza . Maquanto sì fatta ſo miglianza poſſa ingannare , non ſi richiede gran forza di loica a farlo vedere ; e ſe , come pare a Galicno , Eraſiſtra to avea una general contezza de’medicamenti per quella acquiſtata , certamente egli l'avea per iſperienza , o da fe , o da altri fatra , la quale agevolmente può eſſer fallace : 0 pure per via di ragioni non meno della ſperienza ſoſpettes d'er 1 1 1 Del Sig.Lionardo diCapoa . 363 d'errori, e d'inganno.; perchè in un punto cosi principale manchevole , difettoſo , e incerto il fiftemadella razional medicina d'Eraſſtratoanche ritro.yafi. Ma trapaſſando ad altri : Io non ſaprei dire s'empirico e ſi foſſe , opur razionale quel famoſo medicante Petronas, il quale dopo Ippocrate , maprima d'Erafiftrato ebbe ad introdurre un iſtrano , e non più veduto , o intero modo di medicar le febbri . Solea coprir egli i febbricoſi di tanti pannilani,che loro ſi yeniffe a creſcere olcremodo il caldo, e la ſece; matantoſto, che incominciava il febbril caldo as ſcemare, ei facea loro pienetazze trangugiare di freſc'.ac qua , il ſudore aſpettandone; il quale ſe non compariva, di nuovo tacealorbere nuovaacqua, e proccurava ch'eglino vomitaſſero ; riſtata poi la febbre , gli cibava di carne di porco arroſta , econcedea loro liberamente il vino ; maſe la febbre non ſi partiva , facea bere agli ammalati acquad calda, e fale per render lubrico il corpo; e in queſto tutti igrantrovati della ſua medicina eran ripoſti. Mamipare da non dover logorare indarno il temponella cenſura d'un sì fatto modo di medicare ; e comechè in alcune fortidi febbri , e in qualche huomo gagliardo , e ben atante della perſona non foſſe per avventura fuor di ragione il farlo tuttavia in tutte ſorti di febbri, in tutte perſone, egli fem bra certamére una ſciocchezza non punto diverſa da quel la d'alcuni medici de'noftri tempi: i quali non con altro che .colle purgagioni , e co'ſalali immaginano ciaſcuna gene razion dimalattic rilanare . E più ragionevole certamente egli ſembra la manicra del medicare alcune febbri, dagli Albaneſi uſara ; i quali nel cominciamento di quelle foglion dare all'infermo vin generoſomeſcolato.con iſpezierie, fimile al vino ippocra tico , e al vin brugiato degli Inghileſi. Ma quino ſi può certaméte lodare il cófiglio diCornelio Celſo, che nelle febbri lente tratto tratto fidebbail corpo imbagnar con acqua fredda meſcolata con olio ; che in tal guiſa egli credette , che ſi verrebbe a riſvegliar il riprezzo, e conſeguentemente anche il calore, ondeagevolmente ne Z 2 2 po 364 Ragionamento Quinto potrebbel'ammalato guarire : fæpe igitur, egli ſcrive , et aquafrigida , cui oleam foc adječium, corpus ejus pertractan-, dumeft ; quoniam interdum fic evenit , ut horror oriatur, ds . fiat initium quoddam novi motus , exque eo , quum magis corpus incaluit ,fequatur etiam remiffio. Ma quantunque alcuna fiata a ciſo poſſa il fatto nella guiſa da lui deſcritta accadere , ed agli ammalati alcun pro avvenire ; pur non dimeno ſenza manifeſto riſchio non va la biſogna ; impe rocchè ſe altrimenti riuſcirà , n'andrà ſenza fallo da male in peggio l'infermo. E quinci fi ſcorge con quanta ragio ne abbian laſciato i Galieniſti il pericoloſo modo, col qual guarito aver fi gloriava la febbre finoca Galieno , confar uſcire il ſangue dalle vene per via del falaſſo , fino allo sfi nimento dello infermo ; da chefacendoſi gran movimento nel corpo fogliono i ſudori copioſiſſimi,e l'uſcite del corpo , e'l vomito anche talora , come avviſa il medeſimo Galicno, avvenire ; per li quali , e per le quali o ſperano , che debba mancare affatto ,oin parte la febbre . Ma in vano certa mente eglino poi attendono tal opera da’lor piccioli ſalallı; al che non dovette aver riguardo Avicenna,la ove diſſe el fer meglio affai accreſcere il numero, che la quantità de’la laffi ; cioè più cofto in più volte il ſangue , che tutto inſie metrarlo fuori , Ma per più d'una pruova avviſando il grand'Atenco , fra quante traverſe , fra quanti viluppi , fra quante incertezze vacillanti s'andaſſer ad ogn'ora aggirando le varie , e tra effo loro diſcordanti dottrine, che per le fcuole più cele bri della razional medicina nellaGrecia s'inſegnavano,im preſe anch'egli una fabbrica di novello fiſtema di medici na ; perchè tutte le forze del fuo acutiffimo intendimento egli vi poſe in opera ; c tanto in ciò fare ebbe ſeconda las fortuna, che da molti valent’huomini vennero a gara le ſue opinioni ricevute , e approvate ; e per tutto quel tempo , che le lettere fiorirono nella Grecia , e nel Romano impe. rio , celebre fi manterne la ſua Setta , e in buon nome, las qua le ſpirituale venne chiamata ; imperocchè una fortiliſ ſin a fpiritual ſoſtanza clla immaginava ; la qual per tutti i 1 corpi Del Sig.Lionardo di Capoa 365 corpidell'Vniverſo diſcorrendo mai ſempre, e penetrando, non meno il grande , che'l picciol mondo regger doveſſe ; é dove ella non foſſe primjeramente offeſa ,non poteaſi, fe condo il ſuo ſentimento , male alcuno ingenerarſi; il qual diviſaméto ſi parve egli, che’n parte adombrar voleße Vir gilio in prima dicendo . Principio cælum , duterram ,campofque liquentes, Lucentemque globum Luna, Titaniaque aſtra Spiritus intusalit :totamque infufa per artus Mens agitat molem , & magno fecorpore mifcet. E poi Torquato Taſſo Ele menzogue antiche Di chifiloſofando , e menie , e Spirto Dieda queſta mondana , ed ampia mole ? Il qualper entr'a lei trapaſa, e ſpira ; Com'a lor parve , e'l Cielo , e l'ima terra , E laſpera delſollucente, e vaga , E’l globo de la Luna , e l'auree ſtelle , E de l'aria , e del mare i larghi campi Nutre , e miſto al gran corpo in varj modi, Move agitando le diverſemembra ? Ebbe la ſetta fpirituale oltre ad Ateneo, e a Criſippo fuoi principi , e alMagno , ad Agatino, ad Erodoto , altri , e al tri valentiffimi huomini, che colle loro opere univerſalmé te avute a grado ,ſommamente la nobilitarono , e l'illuſtra rono ; e fra gli altri Archigene:il quale , tra per lo medica che felicemente mai ſempre fece , e per li tanti doctiſ ſimilibri , ch'e' diede fuora, ne'quali non laſciò cofa , ne grande , ne piccola, che trattata diligentemente per luino foſſe nella medicina , non ha che cedere a niuno , ch'abbia o prima , o dopo lui ſcritto , e medicato infra'Greci ; im pertanto per la ſoverchia applicazione alla loica , onde a gran ragione talora vien Archigene accagionato da Galie no : e per valerſieglino della filoſofia degli ſtoici, i manca mentidella quale altrove da Noi fien conti , difettoſo , e fallace moltoegli riuſcì il loro fiſtema di medicina razio nale . Oltre re , 366 Ragionamento Quinto Oltre a queſto e'miſembra , che riprovino eglino me deſimi il loro ſiſtema ; imperocchè in medicando le malat tie , poco , anzinulla a sì fatto Spirito badar fogliono ; con che danno a divedere non altro eſſer queſto loro ſpirito , ſalvo che un gentil trovato per fare parer maraviglioſa al vulgo la lor medicina. Doveano adunque eglino provar in prima con ſaldiđimi argométi eſſervi un cotale ſpirito; indi diligentemente inveſtigare , chente ,equal li fia la ſua nas tura , cioè qual figura qual , grandezza, equal movimento abbiano le particelle , che'l compongono, e come egli fac cia le ſue operazioni nelcorpo umano , e come nell'inge nerarſi le malattie egli offeſo vegna ; e in qual guiſa dar li pofla a'ſuoi diſordinamenti compenſo .. Poco men che crucciato ſi maraviglia Plinio , in pone do egli mente alle ſtravaganti pur troppo, e maraviglioſes felicità nelvero d'Aſclepiade ;huomo com'e'dice , quan to al naſcimento , di condizionemolto vile , e di maſtro di ritorica ch'egli era in prima , perciocchè aſſai poco gli fruttava , in un tratto medico divenuto . E sì , e tanto egli adoperò , che nuova ſembianza in breviſſimo tempo ve ſtir facendo alla medicina , a rimaner ne veonero l'antiche regnanti ſette ſconvolte tutte , e poco men, che affatto op preſe, e abbattute ; ed egli folo vincitore,e trionfante de gli altri medici , a guiſa di perpetuo dittatore nella Città donna,e capo del mondo , ne ordinò a ſuo talento , e ne diſpoſe le leggi: ſupremo, e aſſoluto arbitro , della vi ta , e della morte diquelpopolo , nelle cui mani ſtava la morte , cla vita d'ogn’uno ripoſta . Ma fermamente egli fi dee credere , che a tanta grandezza perveniſſe Aſclepia de , non tanto com’alcuno immagina, ch'egli ottimo e pro to parlatore ſi foſſe , quanto che colſenno, e col valor no punto ordinario viſi portaffe , comechè la fortuna anch'el la vi concorreſſe con qualche gran fatto ; quale appunto di fu quello , che vien narrato dallo ſteſſo Plinio ; ch'eſſendo ſi un giorno egli a caſo incontrato in un miſerello , che per morto era portato alla ſepoltura , facendolo egli a caſa rie tornare , con valevoli argomenti in perfetta ſanità il rimiſe . Eben 1 DelSig.Lionardo di Capoa. 367 . túrós , E ben palesò egli al mondo la grandezza del ſuo animo' , e la ſingolar fua prudenza: allor , che prevedendo la fa tal rovina del gran Re di Ponco Mitridate , generoſamente diſprezzando la gran ſomma dell'oro da colui per amba fciadori offertagli, ricusò d'andare alla ſua corte . Malale tezza del ſuo acutifſimo intendimento appieno benmoſtra no quelle, che delle tante , e tante ſue opereſcarſiſſimes particelle a noi ſono rimaſe ; nelle quali ſi vede apertainéa te , che non iſchivando egli mafagevolezza niuna, ne ſi fermardo nella prima buccia delle coſe , s'ingegnava ſeco do ogni ſua poſſa d'internarſi nc più ripoſti ſecreti della na Primieramente vuol egli Aſclepiade , che non già per caſo, ma di neceſſità , e per l'indirizzamento della natura ognicoſa avvegna nell'Vniverſo : e che fa natura altro ve ramente non ſia , che'l corpo medeſino , o'l ſuo moto : per la cui perpetua, e iron mai ſtanca opera i corpicciuoli, i qua li cosìpiccinli ſono, ch'alla menteſola permeſſo viene co prendergli , veloci , e ratti , e con volante foga fra' effo lo ro incontrandoſi , e con vicendevoli percoffe , l'un coll'al tro cozzando , e forte battendoſi , fi vengano a ſminuzza rc , e a dividere in minutilíme, e innumerabili ſchegge ; le quali con diverſi movimenti andando l'una verſo l'altra , e inſiemeaccoppiandoſi, e congiugnendoſi , prive d'ogni qualità , col moro , col numero , colla grandezza , collow figura , e coll'ordine le coſe , e l'apparenze tutte ſenſibili producano;ne eſſere fuor di ragione,egli poiſoggiugne ,che ſien privi diqualità i corpicciuoli ; concioſliecoſachè altro dal tutto , altro dalle parti ne ſegua; l'argento è bianco, ma nera è la ſua radicura ; il corno ènegro , mala ſua polvere è bianca ; ma dovetre dir egli ancora , che le qualità altro non fieno , o per me'dire altro non le faccia apparire , che'l concorrimento , la figura , e’l fito , e la grandezza , e l'or dine , e'l moto di que'corpicelli; perchè allor che concor rono inſieme piccioliſſimi corpicelli , o ſperali, o piramida li , e con dilatante moto velociſſimamente ver noi fi lancia no , a formar ne vengono quel ſentimento , che dicalore ſi chiaina. Di 368 Ragionamento Quinto Dice oltre a ciò Aſclepiade,chenell'accozzarſi inſieme, appigliandoſi le particelle , o ſchegge ſuddette nel formar le membra degli animali , vi laſciano molti , e molti ſpazj vuoti, per opera delſolo intendimento compreſi , varj di grandezza , e di figura ; i qualiſe aperti fi mantengono al tragitto de ſughi, ſi mantiene l'animale ſano , callo incon tro , ſe impediti fono per la dimora de'corpicelli ,a far li vê gono ſecondo la varietà delle parti , e degli ſpazj, varie, e diverſe le malattie ; ma non però già tutte malattie, ſecon do Aſclepiade , avvengono per la dimora de'corpicciuoli, fe non ſe alquante ſolamente , come la freneſia , il lecargo , le puinte , e lefebbri grandi ; ma altre poi avvengono per ſoverchio aprimento : e s'ingenerano per la curbazione de ſughi , e degli ſpiriti, per la quale ſtrabocchevolmente s’al. largano gliſpazj, come nella fame canina , e nella fover , chia magrezza ſi vede : 0 nuovi ſpazj a viva forza in non , convenevoli luoghi ſi aprono , come nell'Idropiſia acca de , Vuole oltre a ciò Aſclepiade, che non iftiano le cagioni operatrici de’mali ne'liquidi corpi ripofte ; ma nel vero al tro quelle non eſſerç , ſe non ſe le cagioni antecedenti . Si ride egli di quel grande ſchiamazzio , che fanno i medici in. torno a'giorni critici ; portando opinione , che d'ogni tem po , com'egli avea avviſato , poſſano creſcere , e ſcemare, o ſpegnerſi affatto le malattie . Ma per accénar qualche coſa intorno all'altre parti del la medicina d'Aſclepiade: egliamo di condurre iſuoi infer mial deſiderato fine della ſalute, con moleſtargli il men , ch'c'potea; avendo ſempre in bocca quelle celebri ſue pa role , che vengon per Cornelio Cello rapportate: tutè,citò, jucundè ;perchè cra egli nimiciſſimo di que'medicamenti, che così ſovente , e per lo più fuor di teinpo venivan da al tri medici adoperaticon incerțillima ſperanza d'avere a re , care qualche giovamento agl'infermi ; e allo incontro con ſeguirne loro licuriſſimo , e pronto il danno , ela nojx;per chè chiamar egli folea la medicina degli antichi , medita zion della morte; e molto ben’ayyisādo l'accortiſſimo huo . 110 , e DelSig.Lionardo di Capoa. 309 mo , e di sì fatte coſe aſſai intendente , quanto poco atten der fi poteſſe dal'incertezza della medicina , e dalla fiebo lezza de'ſemplici , o compoſti medicamenti, che in que' tempi erano in uſo , nel ſapere ben regolar la vita col ci bo , coll'eſercitar le mébra,e altresì fatte piacevoli cole , poco men che tutto il sómo del ben medicar ripofc. E nel vero ciò non fe già egli , come huom crede , da neceſſità alcuno ſtretto ,per no aver contezza, ne men mezzanamite de’rimedj; anzi egli ſi fu della materia de’medicamenti co sì ſemplici, come compoſti sì ben conoſciuto , che ſicoine Galien dice , egregiamente cgli ne ſcriſſe : e molti, e molti medicamenti di ſuo ingegno egli ritrovò , e poſe primiera mente in uſo , e ne compoſe un particolarlibro; i qualime dicamenti, non che da altri foffer mai tacciati , anzida’ine deſimi ſuoi emuli , e avverſarj commendatioltremodo , e fovente adoperatifurono ; infra’quali ſi ammira per Galic no quel celebre impiaſtro per le piaghe, che non ſi dee ri muovere, ſe non ſe dopo tre giornizonde fi pare,che Aſcle piade apriſſe la ſtrada alnuovo modo in queſto ſecolo in trodotto di medicar le ferite . Oltre a ciò abborrì egli ſoprammodo le purgagioni; ma fivalſe de criſtei . Danrò ancora, come racconta Plutarco, ivomiti, che troppo frequentemente allora erano in ufo, e che a' tempi noſtri ancora fi uſano da alcuni i quali per dir la colle parole di Cornelio Celſo : quotidiè ejiciendo, vo randi facultatem moliuntur: ma non già egli il tolſe affatto dalla medicina,anzivuol'egli, che nelle terzane ſi proccu ri il vomito ; del quale , com'c'medeſimo narrazli ſervìnel curar quella nobile femmina di Samotracia . Ne ſi dee qui tacere , che ſi pare,ch'Aſclepiade vicino ftato foſſe ad aver contezza dell'elatere dell'aria , come ravviſar ſi puote dal le ſeguenti parole di Plutarco , avvegnachè coſtuimoſtrino aver ogni particolarità compreſa de ſentimétid'Aſclepiade: υπομιμνήσκα δε αυπ επι της κλεψύδρας Ασκληπιάδης και τον με πνεύμα να χώνης δίκην συνίσησεν , αιτίαν δε της αναπνοής την εν τω θώρακι λεία μέρειαν υπο τίθεται • πεος ήν τον έξωθεν αερα ράν , τε και φέρεσθαι παχυμε . ρη άνε πάλιν δε αποθεϊσθαι ,μηκέπτε θώρακG- οί'ε πόντος μήτ' έπεισ A23 370 Ragionamento Quinto 1 re δέχεσθαι , μήθ' υπρεϊν • υπολειπομένα δέ τιν G- εν τω θώρακι λελομερές dei begyiQ ( šgaię o nav ixreiveron ) neos Tšto nánar có trw umojéves βαρύτης του εκτός αντεπεισφέρεται αυτοι δε ταϊς σκύις ασικάζα: την δε και προαίρεσιν αναπνοήν γίνεσθαί φησι συναγομένων των εν τω πνεύ μονι λελοτάτων πόρων,και των βρογχίων πνεμένων » τη γας ημετέρα G. &υπακούει πιοαιρέσει . · Machi potrebbe mainarrar tutt'altri diviſamenti, e opi nioni, le quali fallo Iddio , come riferite vengono ; e per la più parte da chi punto non l'intendea ; e talor anche da al cuni per vggia , e mal talento a ſtudio guaſte , e travolte . Il che oltremodo malagevole rende la cenſura del ſiſtema della ſua medicina ; pur lo brievemente ne dirò in qualche coſa il mio ſentimento . E primjeramente parmi, ch'aveſſe errato aſſai ſconcia mente Aſclepiade nella notomia; portando egli opinione con Ariſtotele , ed Eraſiſtrato , che le reni non abbiano al cuna operazione: echeciò , che ſi bee , ſciolto in vapori ſe'n vada nella veſcica,dove poſcia li ftipi in orina ; delche meritevolmente vien egli ripigliato da Galieno ; comechè a gran torto dal medeſimo venga poi biaſimato , perchè c' non fi vaglia della facoltà ſeparatrice, che vuol dire in buo ſenſo , perchè egli non ſi metta a filoſofare con ciance, e anfanie . Ma fuor d'ogni ragione,e a corto non meno sfac ciatamente fi accagiona per Galieno Aſclepiade , dicendo, che contro l'evidenza de'ſenſi egli aveſſe negato, che quel le coſe ,le qualiognun vede , che vanno verſo quelle,dalle quali ſi crcde eſſer elleno tratte ,veramente vi vadano;che certamente non potea egli sì milenſo , e ſciocco eſſere un tanto huomo , Negò ben'egli la facoltà attrattiva , e co'buoni filoſofan ti ſtimò eſſere per lo lume della ragione manifeftiffimo,che ne ſomiglianza mai , ne facoltà , ne altra coſa del mondo potrebbe far sì, che un corpo moveſſe altro corpo ſenza toccarlo , o per ſe ſteſſo , o per altro corpo da ſe parimente tocco , e moſſo ; poichè a trarre a ſe un corpo lontano fa certamente meſtiere uncino , o fune , o altro ſomigliante appiccatojo, che'l prenda. Ma * I 1 DelSig.Lionardo di Capoa. 371 Ma non poſſo lo laſciar di forte non ridire , quantunque volte rammento quella ragione , colla quale Galieno con tro Aſclepiade ,ed Eraſiſtrato , e altri buoni filoſofantiſen za vederne altro ,fermanente credette , ſe averela virtù at trattiva già faldamente provata ; dic'egli,che per induſtria d'alcuniladroncelli, i quali poneano vaſi di creta pieni d' acqua nelle carrette del grano, quello ne creſceva manife ftaméte dipeſo ;coſa la quale avvenir nó potea,fecondochè cgli ſtima , ſe'l grano non aveſſe la virtù attrattiva; concio foſſecoſa che eſſendo egli diſcorſo per tutte fette di medi cina rinvenir non aveſſe mai potuto ragione alcuna , che in ciò punto l'appagaſſe . Quinci ſi pare ,che meritevolinen te il Veſſalio avendo anch'egli avvifata un'altra cotal ra gione a queſta poco, o nulla diſſimile , prorompeſſe in sì fatte parole motteggiã do i libri della dimoſtrazione di Ga licno :profeito ſiGaleni libri de demöftratione , cjufmodi crebris Scatent demonſtrationibus,que ipfi & fimodo aufim proloqui) non infrequens , ac poriſfimum in quamplurimumGalenusex celluit anatome ſunt , non eſt ut eos libros tantopere expecte mus . Ma laſciando ad altri più di noi ozioſi ſopra ciò fa vellare, certamente venner conoſciute molte , e molte coſe di notomia per Aſclepiade , che avrebbono fenza fallo po tuto render chiaro , e ragguardevole oltremodo il ſuo ſite ma : comechè paruto fo fe , ch'egli aveſſe portata opinio ne , che'l nutrimento alle parti non diſcorreſſe per quel cá mino , che co'nunemente per ciaſcun ſi credea ; impertanto immaginò egli , di ſottiliſſimo vapore in guiſa portarſi per tutte parti dei corpo il cibo crudo ; ma non diſse perchè, e comeſi ſmaltiſca nello ſtomaco per renderſi valevole a pe netrare in quegli anguſtiſſimi ſpazj da lui immaginati. Ad imitazione poid'Aſclepiadevolle l'Ofmanno, che in forma di vapore il chilo dalle vene , e dalle arterie miſeraiche tratto veniſse . Ma prima d’Aſclepiade pare che Eraclito , Ariſtotele, ed Eralitrato aveſser detto , che in guiſa della ruggiada il chilo , e l'alimento per lo corpo ſi ſpargeſse. Ma laſciando di favcllar di queſte coſe , nelle quali, non ſolo Aſclepiade, ma tutt'altri Greci andarono errati; egli Aaa 2 è ben 372 Ragionamento Quinto èben 1 cerco , che dovea minutamente Aſclepiade per dar l'ultimo compimento alla ſua dotcrina più avanti diſami nando riconoſcere , chenti , equali, e dove veramente fof ſero nelle membradeglianimali gli ſpazi, e la grandezza, e la figurą , e'l fito , e l'ordine , e'lmovimento di quei cor picelli, i quali o affatto , o in parte turandogli , o più del convenevole dilatandogli , o altri nuovi ſpazj formando ſien poi cagione, ſecondochè egli vuole d'ingenerare i mali negli huomini ; perchè fa meſtieri aver piena contezza di tutti corpicelli, onde le parti diſcorrenti, e falde vengan compoſte ; e ciò non ſappiendoſi,malagevolmente potralli, come a razional medico fi convienc , alcun ſicuro , e certo rimedio per ragion ritrovare . Dove poicgli dice farſi la freneſia , il letargo , la punta, ele febbri da'corpicelli , chenegli ſpazj inframelli dimora no , perchè egli non ſoggiugne ( o forſe no'l ſappiam noi s'egli il Gfacefle ) quale quegli abbian grandezza, e figu ra e, come ſeano compoſti, e accozzati infra loro que'pic cioli buchi ? e avvegna pure ,ch'egli accennalle avvenir la contina dal rattenimento de corpicelligrandi, la terzanz de'piccioli , e la quartana de’menomi: non è però queſto ſuo parere ſaldamente raſſodato dalle ragioni, ch'egli rap porta ; anzi pajon'elle molto leggieri : e ſono queſte , che i corpicelli grādi più agevolmére gli ſpazj riemoiano ; e più agevolméte gli ſgõbrino ,e i piccioli meno;ma ſe la biſogna pur così andaſſe.com'e'diviſando ne ragiona,queſta contez za fola al medico razionale non baſterebbe al ſuo intendi. mento fornire ; ma di ſaper anche il movimento , la figura, el ſito di quelli farebbe a lui meſtieri , ficome poco 'addie tro noi dicevamo ; e ſe impoſſibile per avventura una sì fąt ta impreſa pare che ſia da poterſi per intelletto umano co durre a capo , yana ſenza dubbio ricſce ogni induſtria, ogni argomento d'Aſclepiade, o di qualunque altro ingegno , che di ſtabilir ſetta veruna di razional medicina preſuma ), E avvegnachè Aſclepiade , come detto abbiamo aſſai ben inteſo fi foſſe della materia de'medicamenti, a modo che , comeperGalieno ſi narra , egli ſolo , e Dioſcoride d'ogni ſorta 1 DelSig. Lionardodi Capor 373 Torta dimedicamenti,cosìdell'erbe,come degli arbori,deld le frutta ,de' ſughi , de' liquori , e d'altre , e altre coſc fof ſero pienamente informati : nientedimeno , ſe le pruover che intorno alla loro natura , e al loro operare egli nellas ſua opera recò , ancora di leggeſſero , ſi troverebbono, per quel che ſi è accennato , ſolamente probabili, o forſe po co falde ragioni ;e meſtier certamente farebbe ad Aſcle piade , alla fola ſperienza , non men che altro più vile Em. pirico ricorrere . Ma ben ciò conobbe egli , ne'l diffimulò punto , e confeſsò apertamente , altro la medicina non ef fere , ch'una cotal ſemplice conghiettura ; onde ebbe a dire Plinio , ch'egli : medicinam ad caufas reuocando conjectur.i fecit : o come legge Giacopo Dalecampj : conjecturalem fecit. Nel curar le febbri terzane,e quartane egli ſembra ,che non molco bene ( comechè'l contrario dica Cornelio Cel ſo)faceſſe in laſciando la coſtuma di Cleofanto antichillimo medico , ilquale alquanto ſpazio avanti al cominciar della febbre uſava dare aglinfermi il vino , e bagnar loro con acqua calda la teſta ; ove in inolte altre coſe i coſtui avviſi era uſo di ſeguitare . Vuolanche Aſclepiade, chenon ſi tragga mai ſangue , fuor ſolamente ne'dolori ; e ciò perchè facendof queſti da’ grandi corpicelli nelle parti ſalde fermati, c rattenuti , ſe condo il ſuo ſentimento, gli pare , che ſi poſſan trar fuora dagli ſpazj per opera del ſalaiſo. Maegli ſenz'altro fallò; sì perchè i piccioliflimi, e velo ciſſimicorpicelli ,che formano il fuoco , cagionar ſoglio no il dolore : come anche perchè converrebbe per la me deſima ſua ragione trar ſangue nella contina ; il che da lui inceſſantemente ſi nicga;ſenzachè,ſe com'egli immagina , i corpicelli fermati negli ſpazj ſono cagione de'mali,e queſti tutti nelle parti ſalde conſiſtono : e le liquide , benchè fuor di modo abbondino ne'vaſi , non ne ſono cagioni vere , e preſenti , ma ſolo antecedenti: che monterà egli il trar fuo ra mai le parti liquide de’vaſi per la cura de dolori Mache che ſia di ciò , egli non mi par, che ſi poſſa punto dubitare, chc 374 RagionamentoQuinto 1 } che profondiffimi fi foſſero i ſentimenti d'Aſclepiade,e che cgli, il quale tra'greci medicimaggiore, e più alta contez za ebbe delle cole della natura e ſolo ardì a ſpiar tutto , e a ſcriver tutto , ciaſcun maeſtro più valoroſo ", e più rino mato in medicina a molto ſpazio dietro ſi laſcj; perchè fai meſtieri dire , che grandiflimo danno per la perdita dello ſue opere fia alla medicina, calla filoſofia ſeguito , Quinci ſi vede , che ſcarſemolto, per non dir altro, ſem bran le lodi ,colle quali Plinio volle onorare Aſclepiadeo Afclepiadi Prufienfi, condita nova feéta ,fpretis legatis, doo pollicitationibus Mithridatis Regis reperta ratione,qua vinü agris medetur,relato è funere homine , ofervato ,ſed ma xime/ponfione falta cum fortuna , ne medicus crederetur fi unquam invalidus ullo modofuiſſet ipfe , & victor fuprema in ſenecta lapſu ſcalară exanimatus eſ. Ma laſciando Aſclepiade,che pur troppo n’abbiam dete to , e trapaſſando ad altri ſetteggianti medici; qual e ſi foſſe veramente il ſiſtema della medicina del famofiffimo Antonio Muſa, lo non poſſo ne meno immaginare, non che diviſare; e fe'l favore , e l'autorità d'Ottavio Ceſare potè farlo prevalere a tutt'alori di que'tempi: non per tanto fù cgli da tátoge baſtevole a mantenerne vive le memorie ap po i pofteri. Potrebbe di leggieri eſſere , ch'egli per mag giormentepareggiar Temiſone ſuo maeſtro , fifoffe fatto di qualche nuova forte di metodica medicina inventore . Veggiam di lui ſolamente alcune forme , o ricette di co pofizion di medicamenti aſſai volgari , e di molta poca co ſiderazione , dalle quali nulla comprender puoſſi dalla maniera per lui tenuta nel medicare Ottavio ,tutta travolta da quella di Cimolio ; perciocchè Ottavio , licome narra Suetonio, quia calida curari non poterat, frigidis curari coa &tus authore Antonio Muſa. Perchè potrebbe ragionevol mente dubitare alcuno, non egli empirico foſſe ſtato di ſet ta ; ma per avventura a ciò fare da qualche apparente ra gione egli fu moſſo . Neciò è nuovo, che i razionali ſiva gliano di tal regola ; poichè il fece Ippocrate ancora ; co mechè egli poi moſtri , ch'aveſſe altro in animo, con inſe gna 3 Del Sig.Lionardo di Capoa. 375 gnare una fiata il contrario, la ove diſſe,che chiunque ope ra con ragione , avvegnachè ſenza profitto , e infelicemen te fi faccia , dee coſtantemente camminare per la ſteſſa ſtra da : návraisatakóyov meséori ,xai pen'govojévwv * xara'dégor ,designer swßaives , i inapoy, pérovt QuTð dóžavo iš devās, il che da cao gione a molti medici di pericolar ſovente i loro infermi; i quali veggendoapertamente , che a mal fine rieſcon pure le lor cure, non per tanto ſe ne riniangono, o ad altro divi ſo volgono i loro intendimenti , con graviffimo dan no de' cattivelli . E mi ricorda in acconcio di ciò aver letto in un coral autore ', che avendogli ſcritto un ſuo ſcolare , che avea egli per più d'una pruova cono ſciuto , che'l ſegnare in alcune febbri ', che allora la Città di Vinegia fieramente malmenavano , conduceva a ficura morte gl'infermi : impertanto ſe n'era egli rimaſo cô nolto giovamento di quelli : egli replicogli una gran vit lania , chiainandolo ſciocco empirico, biaſimando il ſuo fa lutevol diviſo , non altrimenti , che ſe colui aveſſe una gra ve ſcelleratezza comeſſo; e diſſegli ſpacciatamente, che tor naſſe al falaſſo di prima , nulla curando, che gl'intermi per ciò fare certamente fe ne moriſfero ; e in ciò rammentogli la teftè apportata dottrina d'Ippocrate; non avviſando ,che comechè verilimo ſia il detto d'Ippocrate , nientedimeno è ragionevolmente da ſoſpettare non ſia manchevole, e fal lace la ragione , allor che non le riſponde l'uſcimento . E chi ſa poi tra le tante incertezze dell'arte , qual ſia la vera, e legittima ragione ? ma come ſaggiamente avviſa Galie no,non è peſo da tutte braccia , ne opera d'huom di poca dottrina il ciò poter ben avviſare . Egli li fu Antonio Muſa , per quel che s'argomenti dal ſoprannome impoſtogli, d'ingegno aſſai nobile, ed elegá te ; ne per altro Euripide nel Palamede chiamò colui col medeſimo ſoprannome: εκτάνετ' εκτάνετε ταν πάνσοφον , μεν ουδέν αλγύνεσαν αηδόνα μούσαν . M2 376 Ragionamento Quinto Maqual fi foſſe veramente l'eleganzadell'ingegno d'An conio Muſa, manifeſtamente ſcorger ſi può da quelvaghiſ, fimoEpigrammadi Virgilio . Cuivenus ante alios Divi, Divumqueforores Cuneta ,nequeindigno Mufa dedere bona . Caneta quibus gaudetPhabus ,chorus ipſeq; Phabi Doctior o quiste Mufa fuiſse poteſt? O quis se in terrisloquitur jucundior uno , Clejo nam certè candida non loquitur . Sivalſe Antonio Muſadella carne delle vipere, enedam va mangiare con non poco giovamento a coloro che da in fanabili piaghe languivano: i quali maraviglioſamente con incredibil velocità , ſe'l ver dice Plinio , ne guariyano. Io yo meco diviſando ,che'lMuſa aveſſe ciò appreſo dal vale tiſſimo tra'greci mediciCratero, cotāto daCicerone in iſcri védo ad Attico ,celebrato ;dicui narra Porfirio che riſanato aveſſe un miſerello ſchiavo , cui in iſtrana guiſa dall of Ia la pelle ſpiccavaſı , fol coldargli mangiar vipere prepa rate a guifa di pefci: Kegπρούτου ικττού οικέτης ξένων περιπεσών νο τήματα , των σαρκών απόφασιν λαβεσών εκ των οδών, τοίς μου ωφέλι ούδέν , ιχθύω- δε κόπο ίχα εκευασθένη , και βρωθένπδιεσώθη της σαρκός συγ 2014 nbbons . Ma ſopra ogn'altro medicainento ſi ſervì Anto nio Muſa de bagnidell'acqua fredda ; e egli, e'l ſuo fratel do Euforbo medico di Giuba RediMauritania ne introdur fc primiero l'uſosappo il quale in sì grande ſtima Euforbo crâ, che zvédo egli ritrovata un'erbamedicinale,volle,che colnome d'Euforbo foſſe chiamata . Mail Muſa folea ba gnare i ſuoi inferini prima nell'acque calde,voladosper mio avviſo , aprir loro in prima bene i pori, acciocchè le fredde poimegliovi poteſſero penetrare; quindi entroall' acque fredde gli laſciava agghiacciare.Del qual modo di medica se così narra Orazio nelle ſue piſtole,dimádádo Numonio Valla , ſe in Salerno , e in Velia foſſe così fredda l'aria ,che dimorandovi egli poteſſegli giovare a'ſuoi mali; percioc. chè il ſuo medico Antonio muſa , freddiſſima gliele richies deva per dover prendervi i bagni freddi . Aua DelSig. LionardodiCapoa 377. ? Quæ fit hyems Velie ,quodCalum Vala Salerni, Quorum hominum regio , &qualis via.( nam mihiBajas Mufa fupervacuasAntonius, &tamen illis Mefacit inviſum : gelida cumperluur unda Per medium frigus; ſanè myrteia relinqui, Dictaque ceſsantem nervis elidere morbum Sulfura contemni , vicus gemit , invidus ægris : Quicaput, & ftomachum fupponerefontibusaudent Clufinis, Gabiosquepetunt, & frigida rura. Ma certamente ebbegran ventura il Muſa , che dopo l'el ferſi bagnato in sì fatta guiſa Ottavio , guariſi d'una gra villima inalattia ; comechè dica Plinio , che ciò foſſe avve nuto per opera delle lattughe,delle quali egli cibavalo co tro il parere di Cimolio ; perchè fu queſti della caſa di Ot tavio ſcacciato fuora ; indi cominciarono i Romani ad uſar ſovente nelle lor menſe le lattughe , che per averle anche fuor di teinpo , riſerbavanle nell'oſſimele. Per la qual cura Antonio Muſa in sì rilevato ſtato montonne , e in cotanto credito , cheoltre alle ricchezze , agli onori, e a'privilegi, che per ſe non ſolo , ma per tutti altresì i medici ottenne, l'adulatore Senato rizzogli una ſtatua di bronzo nel ſegno d'Eſculapio , come ne da teſtimonianza Suèronio : Medico Antonio Mufa , cujus opera ex ancipiti morbo convaluerunt , ſtatuam , çre collaro juxta fignum Eſculapii ftatuerunt . E fe'l mio avviſo non m'inganna , d'oro gliele avrebbe certa mente rizzata , ſe più coſto Ottavio morto ne foſſe;percioc chè non bene allora ſtabilita ancora la tirannide , n'avreb be per avventura la libertà egli ricupcrata ; e veramente ſe la fortuna fecondato aveſſe il diſiderio de'Romani, non ſa . rebbe riſtato per lui di far co'ſuoi bagni ciò che Bruto , ne Caffio , ne Seſto Pompeo , ne Marc'Antonio con tanta oſte per mare , e per terra non avean potuto adoperare . E bé ſi vide quanto nocevole e' foſſe il modo del medicare del Muſa , quando da lui in sì fatta guiſa trattato, come narra Dion Callio , ſe ne morì Marcello ; perchè di preſente e'per denne !, gloria , che guadagnata s’avea ; non ſi dee imper 1.2 . P ; CXLV2Livi , come o telo 378 Ragionamento Quinto poteva nel Dione dicc, che allora buccinayaſî,che eglicon que' ſconci rimedj lo faceſſe a bello ſtudio morire ; anzi morilli Mar. cello in Baja , come teſtimonia Properzio , il quale viſse a que'tempi His preſſus Stygiasvultum demiſit in undas Errat, in veftro fpiritusille lacu . Neſembramiveriſimile ciò , che ne va conghietturando quel ſottiliſſimo inveſtigatore, e d'ogni rara dottrina ſovra no maeſtro Giuſeppe della Scala , facendoſi egli a credere, che Properzio cosìvezzatamente la biſogna rivolgeſſe per ‘iſcagionar Livia , e fargliene ſervigio ; 'perciocchè allor ſu ſpicavaſi, che in ciò ella certamente aveſſe tenuto mano;vo luit , ſono ſue parole , gratificari ei , que de ejus morte ſu Specta fuitLivi& Aguftę. Ein vero non ha dubbio alcuno, che per machinazione di Livia no meno morir le acque di Baja Marcello ,che in quelle di Stabia , la dove alriferir di Servio egli moriſli; e ficome immagina il mede Simo Giuſeppe,la ſua morte avvenne nell'acque acetoſe di quella fonte , che a tempo di Plinio chiamavali di Medio. Io porto opinione,che'lMufa bagnaffe più d'una fiata Mar cello nell'acque calde di Baja, e poi,com'e’avea per coſtu me, nelle fredde il poneſſe , e che alla fine nell'acquecalde colui abbandonaffe la vita ; ne dal narrainento di Properzio argomentar fi puote : Marcellum in aquis Bajanis fulz merſum interije : coine va interpetrando lo Scaligero;im perocchè altro nő,è il ſentiméto di Properzio, fe no ſe Mar cello effer morto per quell’acque,colle quali,eſsédo egli si tiſicuzzo , e triſtanzuolo, e col Toverchio lor calore, o rõpe dogli qualche interno tumore , il ſoffogallero : o di ſover chio creſcendo il moviméto del ſangue li diffipaſſero le ſot tiliffime particelle, dalle quali depéde.la vita negli animali, onde repétemente egli mādafle fuori l'anima;coli, la quale eziādio ad altri è avvenuta; ne veraméte fi puote sõmerge re niuno in que’bagni, ſe a viva forza altri non ve l’affoghi; onde maggiormente avrebbe dato cagione alle genti diſu ſpectare non ciò foſſe per opera di Livia avvenuto ; e ca to balti del Muſa aver fin'ora accennato . Ma paſſiam oltre a dir DelSig.Lionardo di Capoa. 379 a dir di Clinia da Marſiglia . Fu la guiſa del coſtui medica. re nel vero ſtranamolco ,e ſuperſtizioſa : imperocchè infi gnevaſi egli di non darmaia malato niuno ,o cibo , o medi cina , fuor ſolamente , che in certi puntiaſtrologici di fito , o dicongiunzioni della luna , o d'altri corpi celefti : e bert gli approdarono sì fatte malizie ; poichè montò in sì buon nome, e fama appo i Romani,che oltremodoricco in brie, ve tempo ne divenne ;delle quali ricchezze, parte cgli co funionne largamente per cinger di novelle mura la propia patria , e parte alla medeſima ne fe dono , acciocchèpoter Le riſtorar quelle , quando huopo ciò lor foſſe . Ma lo non prenderò a dar giudicio dietro il fiſterna del la ſua medicina , non avendene niuna certa , e ſicura con tezza; ma mi darò briga di far paleſe la ſciocchezza di lui, conoſcendoſi molto bene da chiunque abbià fior d'inten dimento non eſſer altro la ſtrologia da lui in medicãdo ado perata , ch'un ſottile , e malizioſo ritrovamento per paſcer divanc ciance , e promeſſe le troppo credule perſone . Ma forſe , come i Romani ſi ſervirono degliauguri ſecondochè la neceſſità il richiedea : ne folean giámai darcominciamé to all'impreſe , ne trar fuora gli cſerciti , ne far giornate , nc alcuna coſa di confiderazione , o civile , o militare ado perare , ne mai ſarebbon andati a gucreggiare , ſe prima non perſuadevano a l'ofte , che gli augurj avean promeſſo loro la vittoria , affinchè i Coldati maggiormente incorag . giati prédeſſero ſperanza divincere : dalla quale ſperanza ſpeſſo certamente naſce la vittoria : così Clinia valevali della ſtrologia, acciocchè gl'infermi deſſero piena fede alle medicine loro preſcritte ; e forſe ſe ne valſe altresì egli per iſchivare, quádo più in cõcio gli era di preſcrivere qualche medicina , la quale da lui non convenevole al male foſſe ftata ſtimata ;ma dalla minuta gente giovevole , e neceſſaria giudicata ; valevaſi dico della ſtrologia appunto a quella guiſa, che coll' artificio degli Auguri i Capitani Romani fi rimanevano dal coinbattere,quando giudicavano non do ver la battaglia a lieto fine dover per loro riuſcire. Il ſiſtemadimedicina di Carmide conyenne ſenza fallo , Bbb 2 che 380 Ragionamento Quinto cono . 1 che foſſe non meno fciocco ,che ſtrano, come quello, che poſti in non cale , e dannati, e vituperati, i diviſamenti di tutti gli altri medicijalle più rigide ſtagionidell'anno glin fermi, avvegnachè vecchi nell'acque gelide fommergeva; iinpertanto ritrovò gran ricevitori,come Plinio ed altri di Ma per venire allamedicina di Galieno , vana per avvé tura , eſoverchia giudicherà alcuno la mia fatica in abbu rattarla ; imperciocchè chiunque avvedutamente v'affiſe rà lo ſguardo , ben toſto ſcorgerà i mancamenti , e i difetti di quella : i quali non tanto dalla natura medeſima della medicina , quanto dal ſiniſtro modo del filoſofar di Galie no naſcer fiveggono ;. il quale avvedutiſſimo in fuggire il ranno caldo di ſpiegar diſtintamente le particolarità della medicina , ch'e'medefimoconfeſſa , e proteſta eſſer tanto a ' medici neceffarie : a bello ſtudio par , che riltando in s l'ali , o dando lunghe , e inutili aggiratc , a quelle ſpiegar ne giammai ſcender non voglia. Perchè luo mal grado gli è pur di meſtiere d'abbatterſi,e d'impaſtojarſi ne'mede fimigruppi, e nodi, ove parimente i Metodici, e gli Empi rici tutti s'impigliano . Così con le medeſime ſue pruove, con che egli lorcerca d'abbattere, gli ſi ſcagliano pur con tra i ſuoi nimici;e dicendo , ch'egli inneſta in ſu'lſecco , or dinando falſamente il ſuo liſtema, e ponendo a ſuo talento i fondamentialla medicina , niegano conſtantemente gli eleincnti', e gli minori , e l'altre coſe cutre '; ove egli coil poco ſode , ed efficacipruove la gran machina della ſua medicina pianta, ed appoggia. Ma lo ciò al preſente trala fciando , renderommi lecito di brevemente accennare, che di Galieno la medicina non ifpieghi punto il vero , e fiſio comodo come naſcano , o naſcer poſſano le quattro fue prime qualità ,ma ſolamente le ponga già nate ; ne men , quella tanto quanto ne diviſa,in qualcoſa il lor eſser conſi ita ; perchè poi valeyol non è a manifeſtar la maniera del loro operare , ne quant’oltre la lor forza fi ſtenda , ne pur gli effetti che per lc , o per accidente da lor fortiſcono . Ma come egli maile natura delle qualità ſpiegar potea, ſe la > natu Del Sig . Lionardodi Capoa 381 natura della materia , dalla quale quelle dirivano ed in cui, coine e' medeſimo dice, e naſcono, e muojono, giámai inve Aigar egli non cura; il che quanto monti , agevolmente da ciò potrà comprenderli , che traſandato il conoſcimento delle qualità l'economia degli animali , ne la natura delle malattie , ne le cagioni diquelle , ne i medicamenti mede fimi non ſi potranno in modo veruno comprendere . Per chè non ſarà medico, che abbattendoſi in qualità di ſover chio rigoglioſe , o manchevoli di ciò cheal corpo richieg gafi, poſsa mai,la ragione adoperando alla debita propor zione ad agguaglianza ammendandole riporle ; e ne men per la medeſima cagione provar egli mai non ſi potrà , in che conſiſta la árminatío , o nimiſti , che tra loro eſser fi dice ; perchè anche ne fiegue , che non ſi ſappiano , ne convenevolméte ſi poſſano perGalicno ľaltre qualità ſpie gare , che ſeconde chiamanli ,e che egli pocoriguardando a ciò che gli antichi nel lib.della vecchia medicina ne nar rano , giudica , che cheno non pofsan cola alcuna opcrare; € pure avviſar egli poteva, che l'acetofo, per eſemplo,avve gnachè freddo , o caldo , o temperato, pur nelle ferite meſ lo , dolore , e infiammagione apporti ;e che non altrimenti , che dal caldo , dallacetoſo anche l'acetoſo s'ingeneri ; e ſe Pamaro fembra a lui effetto del caldo, il caldo eziandio na fca dall' amaro Macertamente ſe Galieno aveſſe bene avviſata la natura delle prime qualità, iion avrebbe giamai fopra quelle il fiſtema della medicinapiantato ; concioſſie coſachè ben egli compreſo avrebbe non eſser quelle baſtá ti a ſpiegar tutto ciò , che nella naturä vedeſi . Perchèi più ſcorti tra ſeguaci di ſua ſchiera, ove s’abbattono a diviſar delle coſe della natura , fono ftretti ricorrere alla propria foſtanza , o pur alla forina eſsenziale , all'amiſtà , o alla ni miſtàgalla fimigliáza, o diſimiglianza tra le coſc , e alle qua lità naſcoſe; che è tanto quanto a dire a cagioni, delle qua li nulla non ſi ſa, ne ſaper fi puote . Quindi: per racer del Fernelio, e del Severino: il ſottilif fimo Andrea Libavio amico per altro di Galieno, colſe ca gione di dire: in magneticis, quum omnia elementa excufse runt, 1 382 Ragionamento Quinto . ränt, elementarii medici nibil inveniunt,nec de proprio ſubje cto virtutis , nec de caufa prima. Mala vero funt princi. pia artis ea , qua inexplicatam tādem relinquüt quæſtionem . Talia verofuntelementa Galenicorum : ex quibus non potes demonſtrare rationem facti offis , carnis , fuccini,magnetis , & cetera ſecundum formam eſsentialem . E Daniel Senner ti, pertacer d'altri aſsai, cosi diſse:ubicumque pluribus eçdē affectiones , & qualitates infunt , per commune quoddams principum infint neceſse eſt ;ſicut omnia ſunt gravia pro pier terram , calida propter ignem . At colores,odores , Sapores efse progosov , fimilia alia , mineralibus, metallis , gema mis , lapidibus ,plantis , animalibus infunt . Ergo per com mune aliquod principium , & ſubjectum infunt. At tale prin cipium non funt elementa : nullam enim hatent ad tales qua litates producendas potentiam . Ergo alia principia unde fluant inquirenda funt. Ed una tal neceſſità molto bene avviſando molti degli antichi, e poco men , che tutti imo derni Galieniſti, ſe maicoſa alcuna malagevole , ed oſcura intorno all'economia degli animali a ſpiegare imprendono, o ſcorger intendono la natura ,e la cagione di qualche ſtra na , c non conoſciuta malattia , allora abbandonato affac to il lor maeſtro Galjeno , e poſta in non cale ogni ſua dot trina , ed ogni diviſamento della ſua razionale , e vana mie dicina , a’nuovi ſiſtemi de'Chimici filoſofanti toſto s’appi gliano , E ben di ciò avvideſi anch'egli Galieno ; e rimirando alla manchevolezza,e dappocaggine delle ſue fondamen ta, dopo aver più , e più fiate diſegnato , le facoltà non có fiftere in altro , che nel temperamento, o meſchianza delle quattro primnequalità , avviſando alla perfine mal poterli con quello l'opere della facultà baſtantemente ſpiegare , così ſcagionandoſi apertamente confeſsa, che eſso per non ſaper la natura della cagion factrice , la chiama facoltà , o potenza; c però dice eſser nelle vene una certa potenza da ingenerare il ſangue, e nello ſtomaco un vigor di cuocere', e nel cuor di palpitare ; e in tutt'altre parti del corpo eſser anche una tal potenza d'adoperar quelle coſe , chcin eſse ſi fan . 1 1 4 DelSig.Lionardo di Capoa. 383 fi fanno . Con cheGalicno apertamente confeſſa cgli me defimo, le facoltà , che coſa mai elle ſi ſiano, affatto non ſa pere ; e ſolamente così per via di ragionamento chiamarle. Ma non fi potrebbono con parole ſpiegare, tante elleno, e tante ſono , quelle fiate , che per Galien ſi ricorre ad una cagione , la qual eglimedeſimo , non ardiſce, o corporca, o incorporea determinare ; e che egli ignorando , che coſa ſia veramente , inſieme col vulgo coſtumacol nome di Na tur'a appellarla . E ridevole veramente ſi è la maniera,col la quale egli una fiata imprende a ſpiegar ,come le partide gli animalifacciano le loro operazioni;dice egli , che ſico me al comandamento di Vulcano , ſecondo finge Omern, i mantici da ſe ſteſſi mandavan fuori, o'più , o neno il fiato ; e le dózelle d'oro da ſe ſi muoveano ; cosinel corpo degli animali niuna coſa eſſer immobile , ed ozioſa ; imperocchè dal ſupremo facitore alcune divine virtù ſono ſtate impreſ fe alle parti di quelli , sì che le vene non ſolo il nutrimento dello ſtomaco deducono : ma l'attraggono , e lo preparano al fegato ; ilquale così preparato da' ſuoi ſervi ricevendo lo , gli da l'ultima perfezione di ſangue : müstepOuengo εποίησεν αυτοκίνητα τουτου Ηφαίςκαι δημιουργήμα , και τας μια φύσας ευθύς άμα τα κελεύσαι τον δεσπότην, παντοίων, εύκρηκτον αύτμηνεξανι είσας : τοις δε θεραπείνας εκάνας τας χρυσας ομοίως αυτά τώ δημιουργώ κινουμένας εξ αυτών ούτω μοι και συνοεί κατά το του ζώου σώμα μηδέν αρ . γον μήτ' ακίνητον, άλα πάντα μεία της πεσούσης καζασκευής βίας τινας αυτοϊς δυνάμεις τουδημιουργού χαρισαμύου,κοή, τας μέν φλέβας, ου πα eaγούσας μόνον την τξοφήν εκ της γασφος , ' έλκούσας άμα και πιο παρασκευαζούσας το ήπατι τον ομοιόταν εκείνων τόπον , ως αν και eαπλησίας αυτώ φύσεωςυπαρχού σας , και την πξώην βλάσησεν, εξεκεί YOU MEWCimpéva . Ed è anche manchevole la medicina di Ga lieno, per non faperſi in quella il meſtiere, e l'uficio di mol e molte parti del corpo ; perchè malamente l'economia degli animali , ed ondenaſcan le malattie , ei luoghi , e le cagioni, e gli effetti di quelli vi ſi potrà convenevolmente ſpiare. Concioffiecofachè Galieno medeſimo principe, e titrovator di quella , non ebbe ne men ventura di ravviſar baſtan te , j 384 ' Ragionamento Quinto baſtantemente la coſtruttura , e gli ufici delle parti dalı conoſciute;non che d'abbatterſi mainel: canale del Ver ſungio, o nelle vereacquoſe , o nelle vene lattee , o in alą tre , cd altre infinite coie da’moderni deſcritte . Ne ſeppe cgli ne men per ombra il vero movimento del cuore , e dei fingue : ritrovato , del quale ſecondo l'avviſo dell'inge. gnoſilliino Renato, nullum majus, & utilius in medicina eft. Ne del vero cammin del chilo ſeppe boccata; le quali due coſe ſole di tanto pregio , e di tanta conſiderazione parve l'o al nobiliſſimo filoſofante Pietro Gaſſendo , che meritc volméte egli chiamarle ſoleai due poli della medicina; e de queſti due trovati, che l'un l'altro conferma maggiormen te , craſſoda, egli ſommo contento prender ſoleva , quindi fperando, che'la medicina , quando che fosſe, aveſſe avuto a ritrovar qualche coſa diſaldo a pro degli huomini; malli. mamente in quella parte , in cui dall'economia degli ani maliella s’argomenta di riſtorar la perduta ſanità ; almen finattanto, che novello lume lo dimoſtraffe l’orſa;imperoc chè della volgar medicina, che tutta ſi briga in diſaminar le qualità , ed in aggiugner ciance a ciance, eglicēto niun non facea : Ma perciocchè queſta ſarebbe opera da trattar con maggior agio , e tempo in un'intero volume , laſcerolla al preſente, riſtrignendomi ſolamente in un capo, ch'a dover lo quì brievemente accennar mi tira . · La maggiore, c principal parte , e pił d'altra alcuna nel meltier della medicina neceffaria,ſenza alcun dubbio quel la fiè , che alla materia de'cibi, e de'medicamenti s'appar: tiene ; or queſta nella medicina di Galieno è certamente tutta impirica;conſeguentemente a tutte quelle jacertezze, e a tutti quegli errori , e falli ſottopoſta , che Galicno me deſimo, ei ſuoi ſeguaci tanto , e sì factamente negli Impiri ci dannano , erimordono . Ed è ciò dicanta conſiderazio ne , e rilievo , che in utili a baſtanza , c infruttuofe, e vane le contezze cutte della medicina , ſe mai clla in altre parti alcuna n’aveſc, render puote : le qualitutte ad altro non fono indirizzate , che a diviſare , & proporre agli ammalati i cibi, siinçlicamen :1 , 3 ? fu conced.fipreselierelli 13,45's DelSig.Lionardo di Capoa. 385 ra , medicina di Galieno s'abbia certa, e ſicura contezza dell'ea conomia delcorpo umano , della cagione , e della natura de’mali, e d'altre ſomiglianti coſe molte a ciò pertinenti, ed acconce:qual pro giammai peropera di tali notizie dal la razional medicinapotrà ritrarſi ? certamente per quel che Io micreda , niuno , ſe non ſi prenda inſieme a diviſar con efficaci , e ben certe ragioni, come,e qual ſorte di me dicamenti , e dicibida dar ſiano agli ammalati. E ciò cos me mai vorráno i Galieniſti convenevolmére porre in ope, ſenza in prima pieno , e faggio conoſcimento dellana, tura , e della propietà di quelli avere ? Ma queſto per lor non avendofi, avvegnachè d'eſfer razionali millantino,cm pirica certamente , e incerta farà da dire la lor medicina ; per tal modo , che non ne potrà ſe non-ſelargamente il no. bile , e laudeyol titolo dell'Arte meritare . Ed interviene nella medicina ciò che ſi vede anche nella Loica avvenire; che per una menoma particella , che nella definizione , o nel partimento , o nel fillogiſmo dubbiofa fia , ed incerta, toſto dubbioſo , e incerto il tutto anche diviene ; e per una pic cioliſſima taccherella ſi sfregia . Senzachè la medicina in tanto è arte , e conſeguenteinente certa , in quanto ella ha ficuri, e certimezzi, quali ſono ſenza fallo i inedicamenti, ei cibi, per ritrarre il ſuo bramato, ed aſpettato fine della ſalute degli huomini . Adunque non eſſendo queſti certi , ç ſicuri, conſeguentemente non ſarà da dir veramente arte la lor medicina . Perchè poi veggiamo iGalieniſti medici, quanto più avveduti , e più dorti eglino ſono , tanto più dubbiofi, e tertennanti ſempremai medicare ; ne dalla lor doctrina , e diligenza mai nulla di certo promettere. Nequáto in fin quì ho detto ha biſogno alcuno di pruo va ; imperocchè manifeftiffima coſa è , che Galieno mede ſimo, non che altri , con iſchiettezza veramenteda filoſo fo , e degna di lui , molte , e molte fiate apertamente il co felli ; ed una infra l'altre mordendo , e biaſimando alcuni medici de'ſuoi tempi , che troppo arditamente ſtudiavanſi di inveſtigare per via di ragione da’ſoli effetti la natura, e la proprictà de’medicamenti; dicendo : non laſciaremoin Сcc . tanto, 380 Ragionamento Quinto tanto, paffar ſenza gaſtigo la ſoverchia tracotáza di coloro, i quali dalla coſtruttura, e dal colore , e dall'odore, e dal fa pore , e dalpeſo , e dalla leggerezza di ciaſcuna coſa del modo,la di lei propria virtù diſpiar s'argométano . Quindi appreſſo ſoggiugne , che tutta la ragione d'eſaminare , e giudicar bene la biſogna nella ſperienza ſopra tutto confi iter debbia , avvegnachè v'abbia aſſai de’medici, chequel la traſandata, ſolamente in avviſar ſe vermiglia, o di buono odor la roſa ſia vanamente s'indugj . Ed a ciò anche riguar dando di Galieno il fedeliſſimo interpetre, Vallelio, così al la fine prorompe . Modoillud unum ftatuimus nullum effe certum argumenti locum ad inveniendum , rei cujuſpiam temperamentum ex ſecundis qualitatibus ; fed ex modo , quo nos afficiunt ſolum ; ita ut in hac doctrina nullum locum ra tio kabeat , fed tota fit empirica . Con la qual ſentenzas certamente egli abbatte infin da' fondamenti, cmanda au terra la medicina tutta del ſuo maeſtro , e ſpezialmente ciò che egli medeſimo nelle ſue côtroverſie avea in prima infra l'altre sbracciate arditamete millantato : Poj]Galenum non amplius interpollis ars fuit ,fed perpetuo eadem veris de monftrationibus confirmata . Ma certamente s'egli riſuſci taffe a' tempi noſtri il Valleſio, rimarrebbeſi per innanzidi gracchiar più del ſuo divino Galieno; e ricreduto a’moder ni ritrovati, non più di colui vanterebbe : nihil ti ejus in ventis adhuc eſse additum : quoniam hic author nihil , quod ad artis attinet conſtitutionem non reliquit inventum , quod pofteriſuperadderent. E tanto più, che il Valleſio fu ſempre amiciſſiino della verità : poichè , per tacer d'altro , non ſi ritien per quella di rimproverare a Ippocrate medeſimo.co. tanto da lui ſtimato , il non ſaper punto di Loica; e più ma nifeſto ſi vede nel fin delle ſue fatiche intorno alla ſacra fi loſofia , ove infra l'altre coſe accreſcendo il numero degli elementi dice , che quelli non ſiano ſtati mai , ne fuora del corpo miſto eſſer poffano: i quali ( ſon ſue parole ) actu qui. dem nullibi, potentia vero in omnibus miſtis eſse dicimus. E ben’egli avvedutoſi de’vaneggiamenti, e degli errori di Ariſtotele , ſpezialmente intorno alla materia prima , dice . mani Del Sig.Lionardo di Capoa. 387 manifeſtamente , e confeſſa , che quella Aggira, ed avviluppa il capo agli huomini. Ma laſciando queſto ſtare al preſente , dirò coſa non da trapaſſar forſe ſenza qualche ammirazione ; anche il mede fimo Galieno, nonche altri s'avvide eller tutta la ſua razio nal dottriaa non altro, che vaneggiamenti , cd inutili ciar le ; poichè avendo egli ſognato , che ſarebbon guariti due infermi , ſe lor tratto fi foſſe dall'arterie della inan deſtra copioſo il ſangue , ei prontamente gliele craſſe , e tutt'altri ſuoi ſtudj,ſpeculazioni, e fatiche in non cale ponendo , fe guì l'indirizzamento d'un vanillimo ſogno ;e certamente un tal fatto appo me non ritroverebbe niuna fede , ſe Galieno medeſimono’l confeſſaſſe ; ed Io il ridirovvi colle parole di lui ; πξοτζαπείς υπό τήνων όνειρά τον δυοϊν εναργώς μοι γενομένον , ήκον επι την εν τω μείζξυ λιχανού τε και μεγάλου δακτύλου της δεξιάς χει ρος αρτηρίαν, επέτρεψα ερείν , άχρις αν αυτομάτως παύσηται το αίμα , κελεύσαντG- ούτω τε ονείρατG- ερρύη μεν εν εδ' όλη λίτζα • παραχρή μα δεσπεύσατο χρόνιον άλγημα κατ' εκείνο μάλισα το μέρG- ερείδον ένθα συμβάλα τα διαφράγματι το ή παρ' εμοί μεν ουν τούτο συνέβη νέω την • ηλικίαν όντι • θεραπευτής δε του θεού εν περγαμω χρονίου πλευράς αλ γήματG- απηλλάγη δι ’ αρτηριοτομίας,εν άκρα και τη χaei γενομένης και εξ ονείρα G- επι τούτο ελθών και αυτος. Ho lo tralaſciato a bello ſtudio di riferir poi ad uno ad uno , come fanno il Veſſalio ,ed altri,ed altri notomiſti,tan ti , e tanti errori , che nel deſcriver le parti del corpo uma no preſi furono per Galicno : per non recarvi consì lungo racconto più di noja , che per avventura non ſi conviene . Ne menomiho preſo briga d'avviſarciò ,che a ciaſcuno è manifeſto , che l'opere di Galieno ſenza alcun paragone ſian più di vane ciance , che di coſe ripiene ; sì che quantū Andrea Lacuna l'accorciaffe , a più picciol volume po tca ſenza fallo riſtrignerle . Ne meno ho curato accennar come coſa a tutti nota , chc la dottrina inſegnata da Ga lieno , per la più parte ſia colta di pelo ad altri ſcrittori; e tal volta male da lui inteſa , c peggio ſpiegata . Ho trala ſciato altresì per la medeſima ragione , di narrar come Ga lien poco intendente fi paja delic ſentenze di Democrito, Ссс 2 di que 1 388 Ragionamento Quinto di Placone , e d'Ariſtotele , e come al roveſcio anch'egli ſovente ſpiegar fi vegga i ſentimenti d'Epicuro;comechè da un particolar maeſtro n'aveſſe egli la filoſofia epicurea ap parata ; il che ſovente anche egli fa dell'opinioni d'Eralia Itrato , d’Aſclepiade , e d'altri Setteggianti; avvegnachè eº millanti, che di tutte ſette e' ſtato foſſe nella ſua giovanez za da più celebri maeſtri di quelle addoctrinato . Ho tra laſciato anche di far parola dello ſconcio modo del filofo fare , che mai fempreGalieno adopera , non iſccndendo mai alle particolarità delle coſe ; e ſe talor e'fi pare , che viſcenda , il fà per modotale,che'l traſcurarlo ſenza fallo farebbe menmale . E nelvero chi è , che non conoſca,co me per lui ſcioccamente ſi filoſofi dietro agli clementi , a' temperamenti, agli ſpiriti', al caldo innato agliumori; la natura delle quali coſe non mai filoſoficamente egli ſpiega; ne mai pruova , ſe non ſe con ſole parole la lor eliſtenza ? Chi non fa poi, come egli ſcorriamente favelli dell'inge ncrazione, del naſcimento, del creſcimento dell'huomo, e come follemente e' ragioni dell'ingenerazionedelchilo , e del ſangue , della natura , e degli uficj , delle parti, e di tut te altre coſe all’huomo appartenenti ? Chi è per Dio , che non iſcorga , com'egli facendofimenare per la barba dagli ſtrolaghi, vanamente favolegojde giorni critici , e com'e . gli oltremodo vancggj in facendo parole della materia del la natura , delle cagioni , e deglicfetti delle febbri , e d'al tri mali, e particolarmente dell’Apopleſſia ,e dell'Epilcilia . dicendo egli , amendue queſti mali avvenire per l'oppila zione de’ventricoli del cervello fatta da freddo , groſo , e tenace umore ; recandone per ragione , che di preſenta faccianſi, e di preſente finiſcano ; o eſſendogli caduto dal la memoria, o ponendo in non cale d'aver lui altra fiata ,più al vero conformandofi, argomentato il palpitar del cuore di botto ingenerandoſi, e di botto riſtando ; di neceſſità ca gionarſi da ſoſtanza aerea , e ſottile ; ſenzachè ſe ver folle , com’ei dice, dall'intera oppilazion de’ventricoli del cervel lo l'Apoplefia , e dalla non intera l’Epileſia ingenerarſi , converrebbe chemai ſempre dall’Epileſſia cominciaſſe l'A popiel DelSig. Lionardo di Capoa 389 ra , poplellia : e che queſta in quella mai ſempre terminalſe ; il che non ſi avviſa , ſe non ſe di rado ; ma ciò fa vedere le gran traſcuraggine di Galieno nelle coſe della medicina , che non curoffi mai di aprir cadaveri ; perciocchè aurebbe rinvenuto in alcuno oppilati i ventricoli del cervello , il quale no foſſe morto d'apoplesſia,o d'epileſſia;ed altri eſſer morto di sì fatti mali , ſenza tenere ne' ventricoli del cer vello umore niuno. Laonde potrebbe a Galieno addattarſi molto bene quelcelebre detto d'Ariſtotele :87 @ gu dangrasa γα, αλα μαντεύεται το συμβησόμενον εκ τείκότων , και προλαμβάνει και ως ουτως έχον και πειν γινόμενον ούτως . Or non fi coglie da ciò che è detto , che Galieno della coſtruttura delle parti del cervello , e del loro uficio non ſapeffe boccata? il che da egli anche chiaramenre ad inten dere , allor , ch'ci fa parole degli altri mali della teſta ; ed ora mi ſovviene ,come follemente ei filoſofi dietro alla pau ed alla triſtizia de'malinconici , in così dicendo : ficome le tenebre eſteriori apportano ſpavento a quegli huomini , cheaudaci , o fapienti non ſono , così la malinconia col fuo colore offuſcando , ed ottenebrando la ſedia dell'anima , le reca timore ; ne' qualiderti è certamente da ammirare , che ſié più errori che parole; e moſtrafi chiaraméte per eſli, che Galieno niéte foſſe della natura dell'anima, edi quella delle qualità intcſo :eche nó ſapeſſe, che coſa foſſe la luce , che coſa foſſe il colore , ne come le ſenſibilità, e l'immagi nazionc , o'l diſcorſo in noi fi facciano ; perchè ragione volmente nel vero , comechè non a baſtanza ne vien egli per Averroe proverbiato , e deriſo . Or come per Dio huom , che ſuperficialmente filoſofu della natura , e delle cagioni delle malattie , mai può in medicando della ragione valerſi ? .e certamente , per ta cer d'altro , a Galicno ne meno una terzana ſemplice gli verrà mai fatto poter con ragione operando ſecondo i ſuoi diviſamenti medicare ; imperocchèquantunquegli ſi con ceda eſſer vero ciò ch'e' finge della terzana , cioè , che ſi cagioni la terzana dalla collera , la quale fuor delle vene s'imputridiſca:e s'abbia p cofa provata,e vera la ſua rego la, che 390 Ragionamento Quinto la , che curar ſi debba per li contrarj ; le Galien non fa la natura della collera , come potrà ſaper mai come s’impu tridiſca , e che imputridir la faccia,e come per la putreſce za vi s'accenda , e ſi comunichi al corpo il calore: e d'onde egli potrà coglier gli argomenti ad inveſtigare ciò che all' altro ſia contrario ? lo ſo ben, ch'e' dice la collera eller un umor caldo , e ſecco,corriſpondente all'elemento del fuo co ; ma s'ei non fa qual ſia la natura del calore , e della ſic cità , e del fuoco ,certamente nulla ei non ſaprà della colle ra , ne comprender mai potrà , come ella , e per chi s'im putridiſca , e come ella cagioni la febbre , e comea ciò ſi poffa dar compenſo . Certamente meglio partito egli avrebbe preſo , ſe della ſola impirica valuto li foſſe ;la qua le , ſecondo quel , ch'eglimedeſimoafferma, è aſſai mens fallace della falfa razionale , Ne meno lo dirò , ch'ebbeGalíeno avvegnachè compi laſſe tutto Dioſcoride,diſagio di buoni , ed efficaci medica menti : c che egli la più gran parte delle compoſte medici nedegli altri inedicimeſcolò nelle ſue opere: e che adope raffe ogni maggior diligenza, per apparar rimedj , ricercă dogli eziandio infra altri ſetteggianti , e cra’volgari impiri ci ; perchè diſperato egli anco di ciò , fu coſtretto ne'falar fi, nelle purgative medicine , e nella dieta , e ne'giornicri sici tutte ſue ſperanze riporre. Or ſe a queſte,e ad altre cole, che ſe Io voleli ad una ad una narrare per ora non ne verrei a capo , aveſſe avuto Gi rolamo Cardano riguardo , certamente e non avrebbe fra quei ſuoi dodici più ſottili ingegni del modo meſſo Galie no in iſchiera , nc mai ſi ſarebbe laſciato traſcorrer dalla penna ultimus fubtilitate ſed clariſimus arte Galenus metho dis , pulſibus, atque diſsectionibus. Ma quanto a queſt'ul tima parte,ben qual ſi foſſe Galieno , il riconobbe , e l'ad ditò il Veffalio , che più del Cardano ne fudi gran lungu informato . De' poiſi poi,che coſa potea indovinarne mai colui , che per iſpiegarne la cagione , alla facoltà ricorſe , ne punto ſeppe de’movimenti del ſangue ? Ma nella loica , quanto egli poco valce , il dica Aver roc, i 1 DelSig. Lionardo di Capoa 391 tropo ſtudio . roc , il dican aldri, che tanti errori gli ſcoprirono in doſſo . Ma queſto è il veleno di tutte ſue opere , il della loica : e fe Galien conobbeſi bene della loica, ficome pare al Cardino, che monta ciò , s'egli non ſapea ,ne pro to avea fra le mani ciò ch'avea eglicolla loica a diviſare ? e tanto baſti avere al preſente della medicina di Galien fiz vellato ; e dicoloro , che dopo lui vennero , paſſeremo omai a far brievemente parole, comechè novelliſiſtemino ritrovaſſer eglino di medicina . Furono di così poco taléto que' che dopo Galieno ſcriſ ſero in medicina, che non ſoppero altro , che le coſe mede fime dagli antichi già dette , malamente per lor compreſe , e peggio rapportate , compilare ; anzi in ciò pur cotanto bambi, e goccioloni diinoſtrarõſi,che tralaſciando perdap pocaggine le migliori , ſolaméte alla ſchiuma inteſero; per chè Giuliano Cefare avendo commeſſo ad Oribaſio , che di tutti antichi libri di medicina il più bel fiore coglieſe ', mal puotè vedere il ſuo deſiderio a nobil fine códotto; per ciocchè colui non altro che di fraſche, e di novelle,e di va niſſiine anfanie ſolamente fe faſcio . Ma dovea purGiulia no , ſe filoſofante era , qual ſi ſtudiava di far vedere ad al trui , avviſar ben cgli eſſer queſta d'altri omeri loma , che dello ſciocco berlingatore d'Oribafio ; ne alcuna coſa di pregio certamente atrendere da quegli infeliciſſimi tempi potcaſi, ove i medici anche eglino nelle loro dottrine reſi ſervi,parean ſol nati a ſeguir prontamente i fallimenti, e gli errori de'ſecoli traſandati , edi queimaeſtri, i quali ſicome da ciò che addietro da noi è detto ſi può agevolmente ri trarre , anzi alle ciance , e alle lunghe dicerie , che alle fal de operazioni avean l'animotutto , e'l penſiero rivolto . E sì , e tanto queſta ſconcia , e biaſimevol coſtuma crebbe, e diſcorſeper tutto a que' tempi, che i medeſimi impirici , ancora,laſciando da parte le loro pruove , e le ſperienze , tutti nelle ciuffole , e ne'ben compoſti cicalamenti ancor ella s'impigliarono; perchè meritevolmére Galieno una fiata fi biaſimava di quel valentiffimo medico di tal ſetta , ch'avef fe voluto logorar la ſua induſtria , e'l tempo in contraſtare ! ic 392 Ragionamento Quinto le ſette razionali ; perchè in iſperimentare , e in medicare folamente adoperandoſi maggior frutto certamente confe guito n'avrebbe . E fe gran ſenno quell'altro dottiſſimo impirico , ch'or mi ricorda eſſere dalmedeſimo Galieno co loda mézionato : il quale a un inferino, che avea dato orecs chic ad una lunghiſſima diceria tenuta dietro alle cagioni , alla natura , a’ſegni , e a’rimedj della ſua malattia per un ciarlatore razionale , così diſſe; Io per me non ſaprei io, ond'è , che tu più coſto debbi attenerti alle vane ciance di coſtui , che alle tante , e tante pruove fatte permefin'ora ; dal che moſſo lo infermo , diede di botto comıniato al van ſofiſta , e nelle mani dello ſperimentato impirico rimiſeſi . Ma certamente cotanto ciarlare , e anfaneggiare appararo no gli antichi incdicanti greci dal ſoverchio ſtudio della loica ;avvegnachè per quella intorno alrimanéte,anzigua fti che addottrinati ftati foſſero in avviſar le cagioni, e vere ragioni delle coſe: cotanto ſconcia, e travolta l'adoperava no . E forſe in ciò potrebbon ritrovar pietà , non che per dono , ſe già l'oſtinazione, e la fracotanza d'alquanti di lo ro non foſſe giunta a tale , che per fermo eglino ebbero , e per coſtante , così veramente andar le biſogne della natų. ra, come eglino le îi davano ad intendere , Ritroſi ancora ſi parvero , e negligenti affai i Greci mę, dici nell'inveſtigar le parti così diſcorrenti , come faldede gli animali ; e poco o nulla s’affaticarono per iſpiarne l'e , conomnia , e l'ingenerazioni , e gliavanzamenti delle ma lattie ; ma ſour'ogn'altra coſa ſi vider traſcurati in raccon tar la ſtoria de'medicamenti , la quale così dubbia , incer ta , e favoloſa eſſer s'avviſa, come ſe a ſtudio di tal formar la ſtato foſſe il lor principale intendimento; tante, e sì ſpeſ ſe fraſche , e novelle ſi troyano colla verità in quella me ſcolare , e confuſe , E ben ſi ſcorge ciò dalla raccolta, che ne fe il noſtro Plinio; ina foyra tutto dal volume di Diofco ride , il qual da varjantichi autoriritraendo le virtù de'mc dicamenti ſenz'avviſar ſe vere , o falſe elle fi foſſero , di tut te pienamente fece faſtello ; e tali vengono poi per Galic no, per Oribalio , per Paplo , per Aczio , per Simon Seti trat DelSig.Lionardo di Capoa 393 tiatto tratto deſcritte, quali appunto.le.laſciò Dioſcoride regiſtrate; ſe non ſe ſcioccamente (forſe per far ſembiante, che da coloro erano ſtate le coſe affai minuramente difa minare ) in qual grado il ſemplice, o caldo o freddo ,o.umis do , oſecco egli.fi foffe v'aggiunſero .. Ma ſe talora in qualche menomiſlima parte vien per lo ro mai Dioſcoride ripigliato , certamente il fanno dove e * no'l merita ; ficoinc allo.incontro il commendano , dove no'l vale . Ne lo ciò dico per diftorre imedici dalla lettu ra di Dioſcoride , ch'egliè anzi permio avviſo il volume di lui la miglior' opera di quante della medicina de' Greci alle noſtre mani ne lian pervenute : ma perchè eglino vi ſia cauri , guardinghi, e ſenza rigoroia efaininazione alle cofe per lui riferite alla rinfuſa non dian intera credenza . E quinciancor manifeftamente s'avviſa , che non che nulle giovaffe.a'Greci la Razional traccia a difcernere le facoltà de'medicamenti, anziella di vantaggio loro oltremodo nocque ; perciocchè più veritieri aflai trovanfi i rapporti delle virtù de’ſemplici appo i barbareſchi popoli, privi, digiuni di lettere, che nelle limite , e ben culte ſtorie loro . Io tralaſcio di far parole de’medicamenti compoſti de’Gre ci, che afai chiaro fi pare , quantodalla fortuna, dal caſo, anzi che daila ben regolata loro ragione ne vengano di viſati; mal porendofi dirittamente accozzare , e comporre infieme imedicamenti femplicida colui , che di quellinon fia pienamente informato . E ben s'avvidero i Greci ine dicanti più ſagaci ,.e più ſtimari della . poco lieta uſcita de' loro medicamenti; perchè andando per innanzi maggior mente a riguardo: folamente nel preſcrivere fobrio , e ben regolato vivere , l'arte tutra,e'l ſommodel medicare ripo fero ; e sì , e tanto-in.ciò furono ritenuti , e rigorofi, ch'a molti infermi più giorni ogni cibo vierano , cad altri la fo la mulla permettevano. Poco accorti in mole'altre coſe li videro i Greci medici ; perciocchè per iſpiarequanto lor foſſe ſtato poſſibile deca gioni delle malattie di tanti infermimorti nelle lor mani no fi diedero maicuca d'aprire icadaveri; avvegnachè una tal Did dili . 394 Ragionamento Quinto diligézainutile altrui poſſa sebrare,eflendo malagevol mol to lo inveſtigare ſe ciò che guaſto nelle interiora ſi ritrova , più toſto ſia effetto ,che cagion delmale ; pur nondimeno alcuna fiata potrebbeperavventura a qualcheutilità riuſci re . Ma quelche più rilieva, ne meno fcriſſero i Grecile ſtorie de'mali , ſe però non le ci ha tolte la lunghezza del tempo ; e quelle poche, chenoi ne abbiam focco nome da Ippocrate , elleno ſon cosi rozze, ed imperfette , che r.2- ' gionevolmente huom favoloſe le crede . Perchè non è po co da lodare il diviſo di que'moderni , che ſi ſono attentati di ſcriverle , comeche Pabbian poſcia meſſo infelicemente in opera , o perchè lor venne in talento di raccontar le ma raviglie , ſicome fece Amato nelle ſue ſtorie :0 pure, perchè dalla faſcinazione delle ſette adombrati', vider le coſe al trimenti diquel ch'elle erano ; ſe pur non ſon elli imalizio fi , che le coſe ſempre aroveſcio , e travolte ne vogliono da re a divedere ; ſicome alcuni di loro cento, e mille fperien ze, matutte falſe , per difender le loro opinioni tutto di van recando . Egli furon poi i Greci cosi per vaghezza brigāti, eriot tofi che , tal ſovente videli , nonche ad altri ,ma a ſe me d'elimi far contraſto ; ſe bene in ciò non tanto eglino ſono da accagionare, quanto i viluppi , e le malagevolezze di quell'arte , che eglino cotanto con biftentis e vigilie , e fudori ſtudiaronſi d'illuſtrare , emaggiormente offuſcaro no ; perchè non ſenza rifa da huom di ſano intendimento leggerafſí la millanteria di Pelope Maeſtro di Galieno , il qual vantava di ciaſcuna coſa di medicina ſaper la vera ; incontraſtabil cagione . E già parmi leggiermente avet cocca, e traſcorſa tutta la medicina de'Greci;e quantunque non abbia lo fatra ſpezial menzione d’Areteo , il cuili bro per avventura ſembra ſcritto con diligenza maggior di quanti ne fon rimaſi interi della medicina deGreci,e con filoſofica libertà; pur non è da maravigliarvene, perciocchè egli contien le dottrine medeſime da noi più fiate diſami nate , e riprovate . Finalmente ſi conoſce , che non hanno gran coſa i Greci in medicina adoperato ; imperocchè les aveffer 1 1 Del Sig.Lionardodi Capoa . 395 aveſfer qualche coſa di pro eglino mai rinvenuto , certame te qualche veſtigio appo gli autori , chealle noſtre mani so pervenuti,ne apparirebbe. Ma chedovrem noi dire della Arabeſca medicina ella fu tanto nel paſſato ſecolo abburattata , e premuta,che par che d'altra eſaminazione non le faccia più meſtiere . E ciò maggiormente , che dagli Arabi fu maiſempre il filoſofar in inedicina di Galieno ſuperſtizioſamente ſeguito; del cui mancamento molte coſe abbiam noiragionato . Ma egli è in iſtato più miſerevole la loro ſcuola , che dove alcunas volta Ippocrate , e Galieno non dipartendoſi dalla ragio ne il ver dicono , ella ſconciamente gli abbandona . Nel rimanente poi, e ſpezialmente nella materia de ſemplici: di leggieri immaginar nonpuoſli, quanto ſciocchi ſi ſiano i diviſamenti degli Arabi;imperocchèbaſtava lor ſolamente aver letto , o pur udito, che per Galicno una coſa ſi affer maſſe, che immantinente per vera la credevano.Perchè poi gli Arabi ignorarono la greca favella , l'un ſemplice , e l'un malore per l'altro ſpeſſe fiate colfero in iſcambio; e de’libri della natomia de'greci molte coſe , emolte non inteſero ; ma gran male queſto non ſarebbe ſtato per avventura , fe di vantaggio qualche lor ſogno non ci aveſſer frāmeſſo . Ed anvegnachè fra’medicamenti dagli Arabi ritrovati ve ne abbia forſe saluno , che a que' de Greci prevaglia . , niente dimeno nulla ,.o poco ciò monta riſpetto al grave, e incom parabil danno , ch'apportarono gli Arabial mondo colla ver introdotto l'uſo del zucchero , per cui ſi fono sbandeg giate perpetuamente le Sape , le Mulſe, gli Offimeli ſem plici, e compoíti, e in tante guiſe formati; e ſono a lor ſuc ceduti con graviſſiino danno degl'infermi,i ſciroppi ; con cioliecoſachè ſotto il doice del zucchero ,un enordaciſſimo, e pungentiffimo fale ſi naſconda, valevole colla ſua morda cità a ingenerarferventiſſimo caldo ; ed egli oltre a ciò ab bonda il zucchero d'una cotal tenacità oppilante , e perciò alle viſcere nocevole oltremodo , e nimici; della quale il miele è affatto privo , mercè , che le apiil rendon volatile , Ddd 2 e fot 1 390 RagionamentoQuinto é fottile , e penetrante e, quaſi ad una celeſtial quinteffens za il riducono ; perchè facendo nelle viſcere il miele poca dimora, poca, o niuna offeſa può certamenteil ſuo fale re carne , che men acuto anche , e mordace del ſale del zuc chero ſi ſperimenta . Maſenza più diftendermi in queſto , ayendovifaſtiditi pur troppo , lo fo quì fine al mio ragio mare . RA : 397 RAGIONAMENTO SE S TO, vele Icome al partir della fredda ſtagione, dal grave peſo delle neviſgombra la terra , tutta lieta: , e feſteggiante ringiovaniſce , e allo ſpirar de'tiepidi zeffiretti laſciando ležiarſe, e ſquallide ſpoglie; di vaghi fio ri, e di fronzute piante fi riveſte ; e fiabe belliſce : cosìparimente;o Signori ,le ſcienze , e le più no bili artiscellati ifuriofi diſcorrimenti de'barbari, che mala mentemalmenare l'aveano , cominciarono aʼnoſtri più yi cini tempiper l'Italica induſtria tratto tratto a farſi vedere, a poco a poco riacquiſtando l'antico', e forſe altro più rag guardevole ſplendore.Già la Greca, e la Latina favella ,d'o, gni ſcienza antichemadri , riſurte fiorivano ; già la Poeſia ', egli ſtudjtutti del ben parlare erano in ſu'l far frutto ; ne l'Archițettura più , 12.Muſica ,o la Pittura , o ciaſcuna altra arte abbattutalanguiva ; ma pur la medicina ſola;e la Filoſofia nel comun ſollevamento , in vil ſervaggio vivens do ſe ne giacevano oppreffe , efgombinate dal barbareſco giogo d'Ariſtotele, e di Galieno; quando piacque finalme. te a colui, che impoſe a tutte umane coſe aver fine, che fi levala 299 Ragionamento Sesto 3 1 Ievaffer fuſo alquantianimigrandi , e generoli, quali NOR G fperavano, e non poteano per huom mai immaginarſi, ch , avallar doveſſerola ſignoria di coloro , e la medicina , e la filoſofia alla primieralibertà, e al perduto pregio riporres O ſpiriti veramente generoſi, e da elſer commendati per quantoil mondo durerà ; i quali ardirono prima di far ri paro all'impetuoſo torrente dell'abuſo comune ; e ad op porſi sforzatamente all'univerſalconſentimento delle gen ti . Maggior gloria certamente fu di coſtoro , i quali furo no i primi a rompere il guado a sì ardua impreſa , e arice ver a battaglia affrontata i pertinaci ſeguitatori di Galieno: che di coloro , i quali in prima ſetteggiando a lor talento , nel confuſo rimeſcolamento della medicina s'argomenta rono di trarla moltitudine ancor libera a’lor ſentimenti; c . s'eglino , i quali riduſſero la medicina a qualche più toſto apparente,ch'eſiſtente ſtato di perfezione , ed i primi ri trovatori di quella in cima d'altiſſima gloria aſcefero,e for montarono : che farà da dir di coſtoro , i quali, non che ab battuti e'fi foſſero in terren ſoluto ,e d'ogni erbaccia purga to : anzi cotanto duro , e mafagevole , e ſpiuoſo il ritrova rono , che ben convenne loro in prima durar lunga fatiga a liberarlo da’bronchi, e da'pruni, c da’ravvolti ſterpi,che l'ingrombavano,anziche vi poteſſero granello riporre. Ne ſembra certamente cotanto malagevolel'introdurre da pri ma alcuna coſtuma infra le rozze genti : quanto egli è du To , e quaſi impoſſibile , allor che quelle già auſare viſono, e tutto che indurate ,a far loro cambiar uſanza , ericre derle , e ſgannarle de loro errori; perchè è da dire , ches molto maggior vanto foſſe deʼriſtoratori della guaſta, e mal menata medicina a rimetter fe medeſimi in prima, e poi gli altri al diritto ſentiero : che non fu di coloro , i quali non incontrarono malagevolezza niuna d'invecchiata , cpre ſcritta uſanza da ſuperare . Ma ciò al preſente laſciando , trapaſſeremo a narrar de'noſtrivaloroſi moderni, ſecondo il noſtro diviſamento ; e diremo chente , e quali ſiano le loro opinioni intorno alle coſe più ragguardevoli della me dicina . 1 + 1 Egli Del Sig.LionardodiCapoa. 399 Egli fembracertamente , che prima diciaſcun'altro l'al cilimo Chimico , e filoſofante Bafilio Valentino , monaco diS.Benedetto: fatto capo a' ſuoi tempi nella Lamagna co tro la ſignoreggiante medicina di Galieno, e quella degli Arabi, perpiù d'una prưova conobbe a deboliſme fonda menta quelle attenerſi , e in ſü’l ſecco ſenza fallo effer in peſtate;concioffiecoſachèprive di ragioni,e manchevoliol tremodo d'efficaci medicamenti végano alla per fine ſtret re a riporre tutta loro ſperanza di vincer le pertinaci,e gra vi malattie nella ſola natura : comcchè co ' falalli ,e colle purgagioni , e con altriſconcj, e violenti rimedi render la ſogliono ſovente ſpoſfata, e poco acconciza fofferir la vio lenza del male . Perchè argomentoſſi dicomporrenuove forti di medicamenti profittevoli a malati ſenza riſchio di piggiorar loro con quelli di nulla la conpleſſione. E con ciofoſſecofa,che eglivalentiſſimo Chimico foſſe , e molto in folver icorpi maſſimamente minerali affaticafléfi , diede egli cominciamento a quel ſuo famoſiſſimo ſiſtema di medicina , chepoicompiuto,e perfezionato venne da Teo fraſto Paracelſo . Ma comechè ponga egli per fondamen to della fua medicina que’tre principi , de'quali anche ſer veli il Paracelſo : çiò ſono zolfo , ſale , e mercurio ; non però di meno diſcorda egli non poco dal Paracelſo in ciò , che egli giudica corali principj ingenerarſi dagli elementi . Nel qualſuo ſentimento certamente egli non poco falla , laſciandoli ſcioccamente menare alla piena del folle vulgo in ſupporregli elementi ; perciocchè ben doveva egli avvi ſare , quelli ſolamente eſſer nel cervello d'Ariſtotele , e di Galieno : e che tutti loro argomenti, malimamente quel lo , che ſembra aver qualche ſembianza di vero , cioè , che icorpi tutti in iſciogliendoſi , a quelli come aloro primi componenti ritornino , ſiano yani, e fallaci; alla qualcoſa fare bédovevalo ajutare lanotomia vitale;mal'aver lui uſa . to qualche tempo nelle ſcuole in ciò pur dovette abbaci narlo . Adunque egli giudica , che tutte coſe abbian lor materia , e lor forma, onde poi prenda dirivo ciaſcuna lo ro operazione : e che queſta dalle ſtelle venga ingenerata,e dagli 400 Ragionamento Seſto 1 1 dagli elementi formata , e da’tre principj ſolfo , fale , e mer curio prodotta , e perfezionata ; ma pur.dice egli una fiaca l'acqua eſſer la primamateria ditutte le coſe ; que, ſon fue parole , exficcatione ignis , & aëris in terram formata eft . Oltre a ciò egli afferma, in ciaſcuna coſa dimorar cotali fpi riti vivificanti operativi , i quali G nutrichino, e fi foftenti no de'corpi, ne'quali albergano: che in queſti ſpiritila vir tù , e la forza d'effi corpi ſpezialmente conſiſta ; ma come chè queſte, e altre fraſche aſſaiintorno alla natura di sì fat ti ſpiriti egli vada ſcrivendo , pur ſi potrebbono le ſue parole intendere allegoricamente , e con ſentimento forſe da non diſpregiarſi: ſe non ſe moſtra manifeſtamente così in: ciò , comein altri ſuoi divifamenti eſſere ſtato lui molto [um perſtizioſo , e vano nel ſuo filoſofare . Perchè o colpa foſſe de'tempi , o altro, che il ſi faceſſe, comechè egli intenden tiffimo foſſe ſtato della vital notomia , e che con quella ma raviglioſe coſe aſſaioperate aveſſe , avviſando ſottilmente i più naſcoſi ſegreti della natura ; non però di meno non ſe ne ſeppeegli sì ben ſervire , che penetrare aveſſe potutoi veri principj,onde le operazioni, e gliefferci de vegetabi li , degli animali , e de'minerali procedono . Mapure egli , come non poco arricchita aveſſe de' ſuoi comiendevoli ritrovati , e di ſottiliffimi divifamenti la me dicina , e che ſaggiamente giudichi infra l'altre coſe , che dal lavorio delle chiniche preparazioni de' corpi naturali ne lieguano,naſcere il certo conoſcimento di cotal arte;im pertāto.egli manifeftamête avviſando l'incertezza di qucl la , ne conſiglia , econforta a riguardar ſempre all'uſcimen to de’rimedj; perciocchè dal nocimento , e dall'utile , che quelli recano a'malati, può il medico avveduto prender có figlio , ſe debba più per innanzi adoperargli. o nulla , quanto al fatto del medicare, il Va lentino delle chimiche operazioni fi valſe; imperocchè qua tunque belli , e grandi, e copiofi medicamenti gli venine ro , mercè la chimica conoſciuti ; la cui vircù egii profone damente ſpiò: e più avanti facendoſi giugneſſea penetrar la propietà de' tre principi nondimeno non tols'egli a {pie 1 Ma poco , gi!re Del Sig. Lionardo di Capoa 401 gare, come da quelli s'ingenerino , el guariſcano i mali. La quale imprela certamente fu dopo luidal Paracelſo , ſe non compiutamente fornita , a grande ſtato condotta ; av vegnachè il Valentino non tralaſciaſſe affatto di metternes fuora da quando in quando qualche profittevole ammae ſtramento ; ſicomeè quello chea’mali ch’abbian fatto cal lo , e di ſoverchio ſi fian radicati in corpo , ſolo le fifle me dicine approdar poſſano , ficome quelle , che fin dalle ra dici gli sbarbano; le non fiſſe ſaggiamente a quell'acques piovane aſſomigliando , le quali toſto diſcorrendo per le Atrade , non penetrano per fonghe, o per foſſati fin nelles viſcere della terra . Siinigliante è quell'altro ſuo avviſo , che Come d'affe ftraechiodo con chiodo, così l'un ſimile vaglia l'altro a curare ; allegandonc l'eſem plo del veleno , il quale non altrimenti che la calamita ſi faccia il ferro , tragge , ed aſſorbiſce l'altro veleno ; ed in veggendo egli , che l'acqua arzente guariſce la Riſipola , immaginò, che il caldo di quella l'interior calore di queſta attraeſe . Ma da queſto diviſamento può ciaſcuno far con , ghiettura , ch'egli entrato ne’valti regni della natura , qui vi poi li ſmarriſfe , ne fructo, e pro che dovea ne riportaſ ſe ; imperocchè s'egli ſi foſſe dirittamente appoſto , avreb be detto , che ingenerandoſi la Riſipola dall'acetoſità , gli Alcali volanti dello ſpirito del vino ciò adoperino ; il che ben ebbe inteſo il Paracelſo, onde potè cotant'erbe di ſimi li alcali volanti ripiene,valevoli a far contraſto all'acetoſità delle ferute agevolmente rinvenire , e compornc tanti be veraggi , che vulnerarj ſon detri. Maciò , ch'è di maggior conſiderazione , cgli non curò mai il Valentino d'inveſtigare ( il che forſe a lui non guari malagevole ſtato ſarebbe) la figura , e tutt'altre proprietà di quelle particelle , onde i tre principj ſono formati , eco me , ed onde le loro operazioni avvengano; in tal guiſa avrebbe egli potuto felicementenella filoſofia innolcrādoſi ſcorgere , come il ſuo Vulcano fia conoſcitore , egiudica tore ditutte le coſe ne’ere principj ſolvendole , ficome e'di Eec CC CON 402 Ragionamento Sefto 1 ce con quelle parole , che dal tedeſco idiomanel latino così furono dalChercringio portate; Quum Chalybs durif fimusfilice duro ſolidoque percutirur , ignis ignem excitat , commotione vehementi , & - accenſione eliciente occultum ful phur, fiveignis occultus manifeftatur.commotione ifta vehe menti , eper aërem accenditur , ita ut verè , & efficaciter ardeat ; fali maner: in cinere , &mercurius inde fe proripit una cum ſulphure ardente . Ma ſe mai avutoegli aveſſe pie na contezzadella naturadel fuoco ,di cuipoteva informar ſi dalle continue operazioni, che gli ſe ne parávano innanzi agli occhj;séza fallo ,egli in sifatramaniera none avreb be ragionato .. E ſe in cocal guiſa foſſe andato confidcrara mente negli alti miſterj della natura innoltrandoſi , NTOI farebbe ſtato da cotanta maraviglia ſoprapreſo per lo con tinuo ſcambiamento delvino in aceto . Ne ſarebbe egli ſta to nelle ſue opinioni cotanto bergolo , e poco ſtabile ;:fe forſe ciò non avvenne in lui dall'accorgimento , ch'eglieb be del noſtro corto intendimento , e dalle malagcvofezze in cuici avvegniamnoi fovente in filoſofando . Il perchè preſe ad eſclamare una fiata . Bone Deus !'natura à nobis bominibus quodammodo indignatur tota: pervideri ! cum vi tri noftratempus conftitueris adeobreve , & cu verus omnia judex multa refervaveris tibi in creaturis; que non ſcientiæ , fed admirationi noftræ reliquiſti. Ma tempo è omai di venire a Teofraſto Paracelſo ; ne già m'invicrò lo per la ſtrada dall'Eraſto , dal Cortino , dal Riolano padre , e da altri famoſi Galieniſti calcata ; i quali a biaſimar in lui ciò,che eglino medeſimi non comprende vano fi miſero , porgendo giufta cagione ał gran Ticone di dire: Paracelſus pluribus oppugnatus quam intellectus ; e lor fatica impiegando intorno a materie bazzeſche,e gher minelle s'ardirono a rimbcccar quelle ragioni , che già più fortunatamente avea il Paracelſo contro illoro Ariſtotele , e'llor Galicno adoperate : intorno a' quali ſoleva il Para celſo dire , che con una ſola ſperienza arebbe cento ſuppo fte dimoſtrazioni d'Ariſtotele abbattute, e mandate a ter ra ; ma rimarrò ſolamente pago di toccar pochiſſime coſe 1 di mio Del Sig.LionardodiCapoa. 403 di mio talento , e ſpezialmente quelle , ſopra le quali il di ftema tutto di lui vien piantato .. Lamedicina del Paracelſo , quantunqueragionevolme te a chi può dar di queſte coſe perfettogiudicio molto più veriſimile dell'altre razionali fi paja , e che tanto ne' pro fondi miſteri della natura innoltrata , e profondata lilia , cheminutamente ragguardar poſſa a quelle minuzie , per le quali ſolamente l'arti alla debita perfezione montarpor fano : ediſceſa ſi veggia più di tutt'altre medicine, ad ogni menomillunaparticella diſtintamente Itacciare : coſa , la quale già tanto da Galieno fu nella medicina fofpirata ; e quantunque nel diviſarle cagioni ,e la natura delle målar tie , e diciù , ch'a quelle , ed all'economia degli animali s'appartenga , valentiſſimo egli fia : edil ſuo autore abbia trovati , e poſtiglorioſamente in uforimedj valevoli, ed ac concj a riſanare ancheque’mali giudicati per addiecro infia nabili dagli antichi ; e quantınque alcuno dir giuſtamen te vaglia , aver lui aſſai più di lume , e di vantaggio , e d'ui tile recato al mondo co'foli ſuoi libri del Tartaro , che co® loro infiniti , e voluminoſi libri di medicina tutt'altri fcric tori , così Greci , come Latini inſieme s'ayefſer mai fac to ; non però di meno chiunque con occhio filoſofico , e fpaffionato ben ſotcilmente vi badalſe,agevolmente ravvi far potrebbe la dottrina per lei inſegnata eſſer alquanto manchevole , ed intralciata , e le ſue saccherelle, comechè minori forſe dell'altre, avere anch'ella . E tutto ciò certamente avviene tra per la natura della medicina, impoſſibile a comprendere ad intendiméto uma no , come di ſopra baſtantemente è detto ; ed ancora per chè il Paracelſo a tante , e sì diverſe , e ſtranemaraviglie da lui nuovamente nella natura offervate, a guiſa d'occhio da troppa luce abbagliato , Che dal troppo veder men'alto intende, tutto vinto , e tremolante più oltre non osò guatare : ſule prime ſoglie della natura riſterteſi, ove maggiormente a fpiarla per tutto inuoltrar fi dovea ; così Nun altrimenti ſtupido fiturba Ece 2 Il 1 404 Ragionamento Seſto 1 1 Il montanaro , e rimirando ammuta, Quando rozzo , e ſalvatico s'inurba. Perchènon men , cheGalieno già de'ſuoi principj s’aveffe fatto: grazioſamente immaginandoſi la natura della corpo rea ſoſtanza , e delle quattro primjere da lui dette Relol lacee qualità : ene men inveſtigando onde avvenir poſfa , ch'elleno sì poco valevoli ſiano nel corpo umano ad opera re , e cheniuna parte abbiano nelle gravi inalattie ; e per altre,ed altre ragioni,nelle medeſime tacce delle quali ac cagionali Galieno poco meno incorrer fi vede. Così il Pate racelſo intorno a'ſuoi principj non miga già, ſicomea buo.si filoſofíte covenivaſi,riguardò alla natura , o alla proprietà , o a’modi del loro operare;ſenza le quali contezze non può certamente , ſe non murarſi a ſecco, e poco durevol ſiſtema di razional medicina in piè rizzarſi . Ma acciocchè quanto Io dico più apertamente ſcorger ſi poſſa , convien la coſaw più minutamente diſaminare . Queſta grandiſſimamaſſa dellVniverſo e' fi pare , che da Teofraſto Paracelſo venga in due globi partita: uno al to , che due elementiin ſe contiene , ciò ſono il fuoco , Paria : e un'altro più baſſo, che ſomigliante due altrine ha, e ſono l'acqua , e la terra . I quali quattro Elementi chia manfi ancora da lui vacuitadi;perciocchè vuoti d'ogni cor po eglino ſono:altrimenti no potrebbono da' corpi agevol mente efſer ingombri. Sono adunque gli elementi incorpo rei,cioè a dire privi d'ognicorporea diméfone. Ma in que Ha vacuità dice egli , chela luce , e le ſeminali ragioni di tutte cole dal loprano Facitore meſſe furono , allorches quello, di nulla criò da prima l'Univerſo; quindi v'aggiun ſe le ſembianze , e le coperte propie de corpi, le qualiallor che quelli veſtono , varie , e diverſe coſe ci producono. Per quel, che ſi poſſadall'opere del Paracelſo argomentare : i principi primi delle coſe fon di due inaniere; perciocchè, o ſono principj propiamente tali , o alcuni di que', ch'elemé ti comunemente diconſi . Gli elementi ſono due , uno è fecco , il qual terra dannata , e cenere , carena anche tal volta chiamaſi: l'altro è umido , il qual flemmafi dice . La Del Sig.Lionardo di Capoa 405 La terra dannata non ha virtù alcuna , ſalvo che d'aſſor bere, e impiaſtrica,come dicono ; e la flemma parimente al tro non adopera , che ammollare , e inumidire ; perchè ſon dette principi paſſivi . Ma non ſolamente la ficcità , e l'umidore, giudica il Pa racelſo , che in nulla s'adoperino in queſta maſſa mondiale; ma quell'altre dire qualità ancora ,che dalle ſcuole agli ele menti s'attribuifcono , dice egli ad altro non ſervire , fuor folamente, che a riſcaldare,o a raffreddare; perchè da lui , tutte , e quattro chiamanſi Relollacee, cioè a dire ſeioperd te , e ozioſe ; perciocchè non hanno elleno virtù alcuna ſe minale . Nelche ſi pare, che il Paracelſo imitare abbia vo Juto Ariftotele, ilquale vuol , che i ſemi tucti ſian d’unco tal calore forniti, propiamente celeſte, e diverſo affatto dal calore elementare. Perchè è da dire , che fecondamente chè giudica il Paracelſo , le quattro volgari qualità altro non adoperino , che cccitare, e riſvegliare le féminali virtù nc'corpi,ove clle ſono. Ma i principj propiamente tali , che attivi egli chiama ; ſono anchetre , fecondo lui ; ciò ſono il Sale , il Solfo , e'l Mercurio . Egli è il ſale una ſoſtanza ſalda , ſavorofa , la , qual disfaſli , e ſolveſi volentieriper acqua,e per caldo derato fi ſecca , e li raſſoda : e per ſoverchio fuoco ſi fonde. Il ſolfo è un corpo liquido, untuoſo , agevole ad accender fi . E dalſale vengon tutti ſapori alle coſe : e per lo ſolfo gli odori in quelle fpirano . Ma il Mercurio è un coralli quore fottiliſſimo , echiariſſimo , il quale per la ſua ſottie gliezza in tutto penetrando , agevolmente ſi diſperde , ei fvaniſce. Or sì fatti principi giuſta i ſentimenti del Paracelſo abbi fognan tutti neceſſariamente a comporre , egenerare cia fcuna coſa del mondo; perciocchè il ſale è il fondamento di tutta la faldezza de'corpi ; e non potendoſi il fale meſcola re , s'egli in primanon li ſolve in minutiſſime particelle , fa meſtieri della fleminaa ciò adoperare . Ma la flemma non può meſcolarli col fale per cóporre i corpi,ſenza l'ajuto del ſolfo ; il qual parimente per la ſua untuoſità non potendo mo : ſi age 406 Ragionamento Sefto fi agevolmente partire, ficomefi conviene, abbiſogna dell' acqua; la qualcompreſa, e impregnata del ſale ſciolto , fonde il ſolfo , e maggiormente disfallo , acciocchè poſla diſcorrere , e meſcolarſi acconciamente a formarle coſe del mondo . Vien poiil mercurio , il quale a guiſa d'anima nel corpo , per cutto penetra , e diſcorre ; ma in niunama niera potrà certamente ingenerarſi fermo, e ben faldo cor po , ſe per la terra dannata in prima non ſi ſuccia , es’at trae la ſoverchia acqua , chesformatamentel'ammolla: per la qual terra finalmente alla debita perfezione, e all'ultimo for compimentole maſſe tutte de corpidivengono . Per le quali coſe dimoſtrandone il Paracelſo, che diſtruggendofi qualunque corpo , in queſte cinque ſoſtanze folamente fi lolva : e contendendo, che cotaliſoſtanze non poſſano cer tamente per cola del mondo in altro giammai cambiarli , o folverſi : egli inſiemeraffermail ſuo diviſamento , e abbat te ſenza fallol'opinione d'Ariſtotele , e di Galicno intorno a’loro priini quattro elementi. E sì avendo ben tutto ciò che fa meſtieri alla natura de’principi, queſte ſole ſue ſoftá ze , e non altre dice il Paracelſo eſſeri veri principi delle core . Ma Io per manifeſtare il mio parere intorno a cotal di viſo del Paracelſo , non vo'ora opporgli , che y’abbia alcu ni corpi , i quali , come affermal'Elmonte , e altri valoroſi maeſtri in Chimica , non ſi poſſano maidisfare , o fciorre nelle loktanze da lui avviſate ; ficome certamente è l'oro , e'l mercurio volgare;perciocchèegli agevolmente riſponder potrebbe, ſe aver bene cotali corpi ſoluti ; comcchè ciò 2 coloro malagevol fia, ſenza il vero artificio adoperare. Ne meno dirò , che cotali ſoſtanze s’ingenerino di nuovo allor che disfannoſi i corpi : e che prima in quelli in niun modo alliguavano ; perciocchè potrebbe egli ancor dire, che'lle gno per qualche ſpazio di tempo macerato nell'acqua , le poi ſi brucia, non dimoſtra nulla di ſale: ſegno manifeſtif fimo, che'l ſale allor, che in bruciandofi il legno nonmace rato ſi pare , era in priina nellegno : e che dal legno l'ac qua n’avea tratto colſuo maccramento il ſale ; anzi dirà il Para . Del Sig. Lionardodi Capoa. 407 Paracelſo eſſer alcuni corpi, ne'quali ſenza artificio alcuno , e ſenza ſolverſi v'appajano manifeſtamente cotali principi, ſicome nelle ſugne , e in altri corpi grafli', e uotuolije nelle ulive anche non ſolute il ſolfo-apertamente li ſcorge ; per ciocchè in quello ſommamente abbondano ; ne a trar da quelli il ſolfo fa luogo lungo ftudio di chimica , o ben fati colo favorio di diligentemaeſtro ; che poſfiamo dire eſſer il ſolfo quivi tratto per l'artificio del fuoco, e in canta abbon danzaefferſi di preſente ingenerato . Nepuò il fuoco , per direvole , e gagliardo , ch'egli fiaſi ciò adoperare; percioc chè dalla terra dannata', o dalla flemma, ove fólfo ,ne mer . curio, ne fale non alligna , non ſi potrà per opera difuo co , orlalaro chimico ſtrumento trarne goccia giammai. Tralaſcerò pure di dire collElmonte , che dall'arena; dalla ſelce , non maiſolfo , o mercurio ſi può trarre ; per ciocchè riſpõderebbe il Paracelſo in cotalicorpieſſer quel le ſoſtanze cotanto ſcarſe , e poche , che nel volerle diſa minare ſi difperdono . Ne recherò , che per far pruova diciò l'Elmonte con ſuo ſottiliffimo artificio ſciolle in un purisſimo ſale l'arene , e le pietre : le quali s'avvisò egli no aver perciò perduto nulla del loro primjero peſo ; percioc chè fa pochiilimaquantità delſolfo , edelmercurio ſvapo raci,quello cotanto poco fa menomare,che malagevolmen te fi pud per huomo avviſare ; ſenzachè ben può penetrar qualche coſa in eſſi corpi, quando ſolvonfi,la quale riſtorar poſla il perdimento delle ſoſtanze , che ne ſvaporano . Ne dirò pur coll'Elmonte , ſcambiarſi infra loid vicen devolmente corali principj; conciofoſſecofa , che egli con maraviglioſo artificio ſcambiato aveſſe il ſale in olio , e l'o lio poi tramutato in acqua ; perciocchè non così agevol mente il Paracelſo avrebbegli in ciò preſtato tede , fe pri ma con gli occhj propj non l'aveſſe veduto . E medeſima menteciò riſponderebbe il Paracelſo a quell'altra novella dell'Elmonte , ove egli vantaſi da ſedici once di gromma di vino aver tratto per diſtilazione un'oncia d'acqua , due once , e mezza di ſale , e dodici d'olio , perchè egli n’argo menta poi contro al Paracelſo , che l'olio ſi ſia nuovamente dal 408 Ragionamento Sefto , dal Cale acetoſo della gromma ingenerato; conciofoſſecofa , che ſe tanta quantità d'olio ſtata in prima vi foſſe ,ſarebbe & a più d'un ſegno certamente manifeſtaţa. Ė alla per fine laſceròmolti, e molti altriargomenti da rintuzzare il ſiſtema del Paracelſo , e i ſuoi principj : ficome quelli , a' quali cgli agevolmente riparar potrebbe . Sola mente dirò , che quantunque lo ſcioglimento ottimo mnez zo fia da dovereavviſarei principi delle coſe ; non però di meno tra per la ſcarſezza degli ſtruinenti, e di tutto ciò ,ch ' a perfettamente fornirlo ſi conviene, e ancora per lamala gevolezza dellavorio , ſi rende quaſi egli impoſſibile ; ſen zachè nello ſcioglimento delle coſe,moltec molte lor por zioni delle più ſottili, e però forſe più operative fa mestier, che ſvaporino , e ſi diſperdano prima di potereſſer avviſa te ; c altre comechè pur virimangano , nondimeno per la loro picciolczza non si poſſan comprendere , non che per altra notomia più ſottile diſaminare. Ma ſopra qualunque altro argomento , che ſoſpetti rens de i principi delParacelſo quello ſiè,che colle ſuddette ſue cinque ſoſtanze egli non iſpiega, ne ſpiegar certamente po tea , come da loro le ſenſibili qualità ad ognun conoſciu te , e quelle , ch'egli chiama Cherionie s’ingenerino ,eco me operino , ſe pure il fanno ; ne è maraviglia , che'l Para celſo ciò non abbia adempier potuto : da che egli non ſa qual ſia la lor natura ; ne certamente ſaperla , anzine meno inveſtigarla egli giammai poteva , non ſappiendo la natura della ſoſtanza ,onde quelle produconſi. Perchè egli fa meſtier confeſſare , che la medicina del Paracelſo manche vole nella ſua maggior parte ſi ſia. E ſe egli cotanto valoroſo ſi foſſe ſtato in iſcienza , qual veramente giudicavaſi , dovea ben'egli in avviſando , che co'ſuoi principj non ſi potea render ragione dell'apparenze delle coſe , prender quinci cagione di ſoſpettarenon certa mente altri foffero i veri principj di quellc , e quindi forte ſtudiarſi d'inveſtigargli ; perciocchè ſe a ciò aveſſe porav ventura egli indugiato ; ſenza fallo avviſato avrebbe, le varie , e diverſe figure delle menomiſſime particelle eſſer de'ſuoi DelSig.Lionardo di Capoa 409 de' ſuoi principj cagione ; perchè agevolmenteargomentar n'avrebbepotuto come, e perchè quelli operaffero : eche non eglino , ma il corpo medeſimo in varie , e diverſe brice fgrecolatose partito, forſe delle coſe del mondo il vero prin cipio, onde poi ciaſcuna operazione di quelle prendeſſera dice , e cominciamento . Ma intorno alla maniera dei medicare del Paracelſo , ſe credenza preſtar ſi deve a que’libri , che ſotto ſuo nome vanno , èda dire , chemolto vaga , e in coſtante ella ſi foſ fe , e di pochiſſima fermezza . Il che altronde certamente non nacque , ſe non fe dall'avvederſi , ch'egli fe in medicão do , dell'incertezza grande dell'arte ; non però di meno egli pur convien confeffare , niuno ,per quel che ſi ſappia , aver avuto corante , e cotanto efficaci, evalevoli medicine a fgombrar le più pertinaci, e diſperate malattie , quanto il Paracelſo ; e sì ſaggiamente ſeppele egli a tempo adope rare , che non fu certamente infra gli antichi medico co tanto valoroſo , e avveduto , ch'a molto ſpazio , così nell' uno , come nell'altro non gliandaſic dietro . Perchè in tā to pregio , e rinomèa montonne egli preſſo le genti, che non huomo mortale tanto , o quanto della medicina cono ſciuto ,ma non altrimenti che dal Cielo per ſalvamento del genere umanomandato comunemente giudicavanlo . Ne v'increſca al preſente aſcoltarne anche da altri le lo di , ancorachè alcuni di loro per uggia , e mal talento con biechi occhj il guardaſſero . Ecco il doctiſſimo Spondano, il qual ſovente lumc, e occhio della Germania folea chia marlo , così di luifcrive : creditur habuiſse præftantiffimum illud vellus aureum , quod Iafon apud Colchos conquifivit : ( Intelligunt me qui Suidam legerunt) quo defperatos mor bos fanavit ; ande magietiam opinionem apud quofdam cele bres viros , quod magis miror , eft confequutus . E prima dello Spondano , Corrado Geſneri, comeche parzial di Galieno , e di lui per invidia inimico , pur dalla verità ſtret to ebbe a dire : audio multos paffim ab eo in morbis deſpera tis curatos : & ulcera maligna ab eo feliciter ſanata . E al trove egli n'avea detto : Paracelſus noftra memoria mugus Fff FJOR 410 RagionamentoSefto ( nondubito.quin hoc nomen magis fanèintelligas', ut apud Perfas ufurpatum fuit) admirabilis homo, notusamicis qui. bufdam meis; à vicinis noftris Helvetiis oriundus , perva. gatus magnam Orbispartem : chimica arte y qaamipfe puto ſpagiricamvocat, excellentisfimus omnium , ita utper eam metalla immutaret . E'l dottisſimo Geometra, e filoſofo Pietro Ramo di lui parlando fcrive:in intima natura viſce ra ficpenitus introivit , metallorum , ſtirpiumque vires, facultates tàmincredibili ingenii acumine exploravit,acper vidit , ad morbos defperatosi, & hominum opinione infana biles, percurandum,ut cum Teofraſto nataprimum medicina, perfett'aque. videatur . Madel ſuo incóparabilvalore; e delle maraviglie adope. xate da lui in medicina;piena teſtimoniāza ne rende la Città tutta , e la dottiſſima Accademia di Balilea, e'l Comun di Norimberga, ove egli per tante maravigliole ſue pruove ragguardevol molto , e famoſo divenne: intanto che ragio nevolmente ftipiditone il Zemeo avvedueisfiino ſcrittor de'ſuoi tempi,cosìdi lui dice : Apud Germanos: nunc Thea phraſtus quidam vir adolefcens'exiſtit, cui parem Orbis.non fert :doctioremme legiſememor non ſum .. E Melchiorre, Adamo dilui pur raccontando dice: eum ingenio acutisfimo, acferè divino fuiſſepreditum : din univerſa philofophia tàm ardur , tum arcana', abdita eruiſse mortalium nemi nem : lepra , podagra, hydrope,aliiſqueinfanabilibus malis, defperatis mulios liberaſse: &quotidie per duas horas Ba flee tum aétiuamtumcontemplativam philofophiam fumma diligentia , magnoque auditorum fructu eſseinterpretatum doctrină ,quam non ex Hippocrate , fed experientia aſsegur sus erat. E'l Barthio pur di lui dice: Ego de Theopbralo pre clarèfentio : admiranda praffitit; ſed qui cum perfectè intel ligat , & quæ ipfe fecit faciat, nondum audivi. Ę France fco Oporino fuo famigliare, per veduta anche di lui racco ta : pari induſtria novi ipſum leprofos , bydropicos , e pilepti cos , podagricos , morbo venereo infectos , aliofque innume ros infirmos gratis fanare . Id quod Galenici Doctores non fine notabili dedecore non potuerunt imitari ; unde in ma gnum DelSig.Lionardodi Capoa. 411 gnum apud quoslibèt.contemptum inciderunt. E'l me delimo Oporino in quella lettera appunto , ove fraſtorna to dagli emuli dilui , e fommoſſoanch'egli in truppa , a rabbioſa monte mälmenarlo , infra le tante , e tantc menzogne , e cacce , che per isfregiarlo farnesicando ſi fogna ( del che gravemente poi pencilſı , ſicomene narra Michel Toſite ) pur non potè tanto diffimulare , che apertamente talvolta non confeffaſſe eſſere il Paracelſo valentiffiino medico , aver prontamentetra le mani mirabilem faciendi medicinä in omni morborum genere promptitudinem , felicitatem , Quindi di luinarrando foggiugne , che in curandis vulne ribus, etiam deploratiffimis miracula edidit , nulla victus præfcripta , aut obſervata ratione . E de'ſuoi mirabili , e valevoli argomenti maravigliato: laudano fuo , dice , ita gloriabatur , ut non dubitarit affirmare ejus folius ufu ses mortuis vivas reddere pole; idque aliquoties , dum apud ipfum fui, ipfe declaravir. Macelebre ſopra tutte fiè la teſtiinonianza , che fe del le maraviglioſe cure del Paracelſo il SereniſſimoArciveſco vo di Salburgo, il quale dopo averlo altamente anorato in vita , e faccigli in morte famofiflimi eſcqui : volle , che nel Ja lapida del fuo ſepolcro fi leggerle queſto orrevole ſopra ſcritto ; Conditur hic Philippus Teophraſtusinfignis medicine doctor, quidira illa vulnera Lepram ,podagram ,Hydropem , aliaque infanabilia corporis.contagia, mirifica arte fubftulis , ac bona fua in pauperesdiftribuenda , callosandaque curavit. Ma:2pertamente tutto dì ſi ſperimenta il valor di qual che medicina del Paracelſo , comeche delle men nobiliel la li fia , alla contezza noſtra pervenuta ; perchè tutto dà i più valenti Chimici ſtudianti per rinvenirne alere nelle ſue opere . Ma delle medicinedelParacelſo aſſai bene ſcorro Giovan Battiſta Elmonte, tuttochè ſuo emulo , ebbe a dio re eller quelle così rare , e prezioſe , che meritevolmente il gloriofo ſoprannome di Monarca degli arcani ne avelle egli riportato . Maavvegna pure, checotanto valorolo foſſe ſtato il P.2 racclſo in medicina , qual noiraccontato abbiamo; non per Fff 2 rò di 412 Ragionamento Seſto rò di meno non ſempre ſi veggono i rimedi di lui a liero ffa ne riuſcire : e ciò maggiormente teſtimonia la non macura morte,che fopravennegli a mezzo il corſo della fua vita , cioè a dire nell'anno quaranſetteſimo; dalla quale nó li po tè egli per argomento niuno fchermire : comechè cotanti diſperati infermi dall'orlo della ſepoltura ſottratti aveſſe, e quaſi di mano a morte sforzaraméte ritolti; e pur egliavea detto in prima: nullus morbus fuo medicamine defituitur . Che ſe'l maggior medicante del mondo non potè ceſsar la violenza del ſuo fato , e adoperarsì co'ſuoi valevoli , co prezioſi medicamenti,che la ſua vita a'più vecchi anni ſi ri ſerbaſſe , che dovrem noi ſperar mai di certo dalla medici na , attenendoci a rimedjdeboli , eſpoſſati , per falvainen to delle noſtre vite ? Ma egli ſcagionando in ciò l'incertez za grandiſſima dell'arte , che pur troppo avveduto ſe n'eray e roveſciandone follemente la cagione a'forcunoſi fati, dice che in baha di quelli ſia l'uſcimento de’rimedj interamente ripoſto ; perciocchè da quellola vita , e la morte noſtra de pende ; quod autem , dice egli , parlando dell'incertezza de' medicamenti, ium medicine , tum his atentes perfæpè à fa talibusgravius vexentur , &cuentum conditioni medicina AC curſuinatura adverfum omnino experiantur;ideo nobis fa Gere debet , ut inde diſcamus nimis obftixatam de hac fragili vita fiduciam ,ac fpem deponere . Etfi enim nocentia fimul omnia , &medicinarum fimulomnium virtutes , morbo rum genuinascaufas ; ac bis oppofit& remedia debita plenè teneamus: nibilominus tamen hancconfidentiam incumbes fan tum infringit facilè , ftatum formum omnem deftruit ; cui nos non modo non obluétari quicquam poſsumus , ſed fatali bus caufs nofmet nudos totos potiøs objicimus, utpote que nos in folidum mortalesfaciani , noftraque molimina infrin , gant, & providentiam noftram , ac confilia univerſa ever Ma de'medicamenti di lui cotanto poco approfittar ne poſſiamo , che comechè egli valentiſſimo medico , e filorow fante ftato foſſe , pur le ſue opere in gran parte inutili, infruttuoſe ne rieſcono ; cotanto piatto , e imbacuccato tant . egli 1 Del Sig.Lionardodi Capoa. 413 egli ſi fu ne'ſuoi ſentimenti ,ch'a ben rugumargli malage voliſſimamente ſe ne può cavar nulla di buono . Eoche foſſe ſtata invidia aʼmedeſimi ſuoi ſeguaci , o altro ch'a ciò far lo ſpigneſſe ,dique'ſuoi maraviglioſi medicamenti, on de cotanta fama egli accattofſi , pochi egli ne volle inſe gnare :. e que'pochi cotanto monchi, e oſcuri ne fcriffe , che ben ne laſciò nel farnetico di doyerne inveftigar con lunga fatica la traccia ; de'quali egli medeſimo favellanda , dice : in quibus afsequendis paucisfimi fcopum contingent . , Perchè alcuni inviluppativiſi ſconciamente vi favellarono , togliendo in cambiouna coſa per altra , e sì con quelli pig giorando gl'infermi delle loro malattie , e ſovente anche uccidendogli . Vuole egli, che ciaſcuna malattia , toltenc quelle , che richiedono la mano del medico per dover curarſi, e quelle ancora , che dalle ſole qualità relolacce avvengono , le quali ſenza argomento alcuno d'arte ſi guariſcono , dalle impurità ſemplici del ſale , o del mercurio , o del ſolfo , o da tutte queſte foſtanze so da parte di eſſe s'ingeneri no . Ma comechèegli cotanto danno ne dica da quelle av venirne: ſe noi non ſappiamo , ne egli punto ne ſpiega qual ſia veramente la natura loro , ne anche certainente avviſar poſſiamodi che forte d'impurità quelle loro fiano, accioc chè acconciamente alle malattie da quello inoſſe riparar posſiamo . Le medicine , dice il Paracelſo, effer debbono ſomigliá ti al inale , ch'è da curare ; perciocchè quantunque ognun fappia , che le malattie fian contrarie alla ſanità delle gen ti , e che perciò vincer ſi debbano con argomenti contrar alla lor natura ; non però di meno le medicine , le quali G convengono alle malattie eſſer debbono pure della mede fima lor generazione ; perciocchè altrimenti mala pruovan vi farebbono a raccattar la ſanità . Quinci ſi è, che'l Para celſo dopo aver avviſato tre eſſer i generi delle malattie , così dica : caveat itaque medicus ne arbores duas in unams curam inferat :fed teneat regulas,morbis mercurialibus dan dum ejſe mercurium : morbis falinis,falem :morbisfulphureis, ful 414 Ragionamento Sesto ſulphur ; unicuilibet nimirum morbo fuum appropriatum ficut convenit . Ma in buona fe , che ha egli che fare la ſomiglianza con la cura delle malattie? Perchè ebbe egli la ragione l'Elmo te di forte biaſimarnelo : igroravit bonus ille vir , quod ifta non fintagentia fufficienter ad fanationem requifita . Ne ciò è ſempre vero , che le coſe più agevolmente poſſano alle ſomiglianti penetrare , cmeſcolarſi inſieme; ecome il me deſimo Paracelſo diffe:quodlibet fuumfimile comprebendere. fuum fimile,non diverſum ; perciocchè avviſiamo noi tutto giorno in molte , e molte coſe il contrario avvenire . Ele pur talvolta incontra , che s'accozzino , certamente per al tracagione egli s'adoperajāzicotáto ciò è falſo ,che per co trario alcuno dir potrebbe più p diverſità, che p ſomiglia za inſieme le coſe accozzarſi: ficome i corpiconcavi ſono , i quali ſtrettiſſimaméte a’ritõdi s’uniſcono ;nei corpi ſpea rali , o ritondi , comechè fomigliantiſſimi infra lorofiano, poffono in alcun modo convenirſi : avvegnachè pur ſi con vegnanoi quadrati. Perchè dica pure a ſuo seno il Paracel fo :Scorpio ſcorpionem curat , realgar ſuŭ realgar, mercurius fuummercurium , meliſir fuam melilă; che ditanta mara viglia non ſarà certamente cagione la ſomigliáza;anzitute' altro di quello , che egli va diviſando ; perciocchè, per ta cer dell'altre coſe , nello ſcorpione i pori auſati per lungo tempo a ritenere in ſe quel ſuo veleno , e acconcj anche a riceverlo , più agevolmente il ricevono dalla ferita , ch'egli fa nella carne d'alcuno , che non poſſon riceverlo l'altre parti ſane vicine diquella ; perchè movendo per la forme tazione le particelle delveleno nella fcrita , volentiericol loro diſcorrimento nello ſcorpione paffano, e a riccrti me deſimi, onde uſcirono, fi ritornano . E queſte ſono le con tezze ,che deve avere il medico avveduto per doverpren . der argomento da porre avantile fue medicine, e non già le ſomiglianze , o altre fraſche , le quali agevolmente poſ fono ingannarlo , e mettere per la mala via iwiſeri infermi. Che ſe noiveggiamo alla giornata a' mali del ſale aceroſo porfi conſiglio collaflomma , e colla terra dannata, e altri, Catri Del Sig. Lionardodi Capoa. 415 $ 1 e altri mali guarirli con diſſomiglianti rimedi, perchè do vrem noidire,che la ſomiglianza fola poffá diſmalare i cat tivelli infermi, e nello ſtato ſalutevole del primiero vigore riporgli ? Maſu riccvaſi pure',comevera,la regola del Pa . racelſo intorno a'generi de'medicamenti, e ſia pur la fomi glianza da ſeguire in medicando ; come potrà mai il media co avveduto avviſare qual forte di ſale, o di mercurio , o di folfo daelegger ſia per riſtorar de’ſuoi mali l'infermo , feu prima egli pienamente no coprenda la gencrazion di quel ſi , ch'a ciò il conduffero . Conviene adunque al medico fa pere quali ſien quelle particelle , che forman l'apparenza dell'aceroſità nel fal dell'aceto's quali l'amaritudine nel ſal della coloquintida , ſc ragionevolmente egli proceder vuo Ic nel ſuo meſtiere. · Ma fe'l Paracelſo ebbe la medicina univerſale , come è coſtante famaaverla lui apparata nel fuo lungo pellegri naggio , non facea meſtieri ſapere; o'avvifar niuna disì fata re coſe , ne'curar di vene łatice , o di acquoſe, ne della doc cia del Virfungo , o della circulazion del ſangueso dal tri , e d'altrimoderniritrovati : comeche ſembri aldortifia mo Vitiſchio aver parte luidi queſte coſe felicemente avvi fate . E cócioſliecofachè l'univerfal medicina ſenza riguar dare a età o oa compleſſione , o ad altra coſa del mondo , igualméte torte malattie vanti di guarire;Io non ſo lorper chè il Paracelfo a si fåtte fraſche foſſelli: attenuto , ſe egli diquella erisì ben fornito ; perciocchè quella diceni eller ſomigliante albalſamo naturale, e perciò valevole a invi gorirlo , e ajutario sì fattamente , ch'egline ſolva , vinci, e diſtrugga le cinture ſeminali di qualunque ſorte zonda l'e malattie curte prendon dirivo . Diceſi balſamo naturale dal Paracelfo' una coral ſpiriz tuale ſoſtanza di principi puriſſimi compoſta , e participan te della natura celeſtiale : onde ella è quafi incorporea ye incorruttibile ; adunque corale eller conviene l'univerſal medicina, e che ſia partecipe di tuttiprincipj , acciocchè in ciaſcuna malattia approdar poffa . Ma certamente non che il Paracelſo cotal medicina avuta aveſſe giammai , anzie egli 416 Ragionamento Seſto egli fola il creder , che quella ci ſia , o pofla mai eſſere :av : vegna pure , chealquanti medicamenti di lui fieno ſtati va levoli a ſgomberar molte , e diverſe generazioni di graviſ fime malattie . Ma egli tante,e tante ſortidi medicine ado però nelle ſue cure , e argomentoffi dicomporre , e lavora te con ſuo gran biſtento , e noja degl'infermi, che certa mente a cið recar non s'avrebbe dovuto , ſe quella ſua uni verſal medicina conoſciuta aveſſe; ſenzachèegli , ſe non voleva pur logorarla nelle cure baſſe , e menovili, ſarebbe fene almen ſervito perſe medeſimo, allorche da graviſſi ma malattia ſorpreſo anzi tempo morilli , e prima d'aggiu gnere all'anno cinquanteſimo della ſua vita. Ma ſe eglifof fefi pur nella filoſofia tanto, o quanto innoltrato , no avreb be sì fatte millanterie ſcagliate del ſuo valore , e della vir tù della ſua univerſal medicina . Ne meno egli certamente detto avrebbe , che l'huomo per la ſola immaginazione va levol ſia anche fuora del corpo a far le maraviglie , cche i caratteri , e le immagini ſcolpite nelle piaſtre , e porta te adoſſo poteſſero ſchermir le genti dalle inalattie, e libe rarle da quelle ; ne farebbeli follemente ſognato , che'l ſole fo ne'corpi degli animaliſidiſtilli , ſi fublimi, ſi riverberi, fi calcini , e ſi fonda : onde poi mettan fuora varie, e diver fe forte di malattie : e che'l ſale , e'l mercurio in noi ſimi gliante ſi diſtillino , fi ſublimino , e ficalcinino cagionando le malattie : è che'l mercurio aſſottigliato oltremodo per la ſoverchia circulazione ſia cagione delle ſubitane morti , e repentine:e che noi puntalmente n'aſſomigliamo all'univer fo , e neſiamo vere imınagini in ciaſcuna noſtra parte : e che i tre principj in noi cotante generazioni di malattie prodı cano , quante ci ha coſe create : e tante , e tant'altre ciuffo le , e aggiramenti , che ſe tutti fil filo gli vorrei narrare,non così agevolmente ne verrei a capo . E tutto ciò a lui avvē ne per diſagio di profonda filoſofia. Ma per avventura egli non fu cotanto ſciocco , qualnoi giudichiamo dalle man chezze dell'opere fue; perciocchè quelle da' ſuoi malevoli per uggia , c per diſpetto cosìdiſguiſate , e travolte furo no con torne alcune ſentenze per entro , e altrs, o ſciocche, o fans 1 1 Del Sig. Lionardo di Capos 417 o fanciulleſche, o empie vezzataméte frapporrvi,che omai tralignano dallo ſplendor d’un tant'huomo, enon ſembran più ſue. E alcune ancora affatto non ſon fue , licome il medeſimo Oporino , che così fellonoſamente rubbellogli ſi , manifeſtamente rafferma; perchè non dovrebbeſi certa mente coglier cagione per quelle d'accoccaglierla , c dir glicne male ; ſenzachè manifeſta coſa è , che quelle , che ragionevolmente ſon da credere opere ſue , vennero perla più parte ſolamente dalai diſegnate , ne più poi per innan zi rivedute ; perciocchè egli dal ſuo focoſo , e diſcorrevo {e ingegno traportato inteſe ſolamente in prima a ritrovar le coſe , e quali dal profondo della natura cavarle , con in tendimento poi di più minutamente a ſuo bell'agio quelle ſtacciare ,.e diſaminare, per poter metter avanti con eterna fama del fuo valore quelſuolodevoliſſimo ſiſtema, che im preſe a diſegnare; e per avventura ſarebbegli venuto fatto , s'a ciò tempo aveſſe avuto ; ma la morte, ch'improvviſo gli fopravvenne, fe riuſcire a vuoto i ſuoi diſegnamenti, e non laſciogli agio di fornirgli ; perchè rotto a mezzo della fa rica ilſuo lavorìo,cosìmonco , e diviſato rimaſe , qualnoi veggiamo. Ed è anche opinione d'alcuni , che le menzio oate ſue opere foſfono componimenti de'ſuoi ſcolari ; per ciocchè egli uſava folamente a boce inſegnar loro i ſuoi ſentimenti, ſecondo la coſtuma di quc'rempi ; e quelli poi gli cópilavano in iſcrittura, molte coſe giugnendovi dellor capriccio ,e molte non ben copreſe travolgendo a lor talen to in tutt'altro , cheegli li voleva dire . E ciò tanto più ne ſi fa manifeſto , quanto in eſli ſuoi libri più fiate le medeſi me ſue coſe ſon ripetite , ſecondochè da diverli ſuoi ſcolari furono accolte ; anzi dal loro natio tedeſco linguaggio nel Jatino idioina ſcioccamente traportate da perſone diciò poco , o nulla intendenti , così confuſe , c inviluppate di vennero , che malagevolmente ne vien fatto ad avviſarne , iveri ſentiméti dell'Autore; col qualdifetto aggiūta anche l'ofcurezza , ch'egli a bello ſtudio argomentolli frapporvi, certamente oſcuriſſimi , e malagevoli oltremodo quelli ne, rieſcono ; conciofoſſecoſa,cheartatamente il Paracelſo co Ggg sì piat 418 Ragionamento Seſto sì piatto , e imbaccuccato ne' ſuoi ſentimenti con nubi di riboboli, e d'enimmi i ſacroſanti miſterj:della natura avef ſe coperti,per far quelli ſolamente , e con lunga fatica agli huomini dotti , e di maggiore intendimento comprendere, enaſcondergli alla minuta: bcuzzaglia:delle genti, o comes diſſe il Berni Alle brigate goffe, agli animali; Che con la viſta non pafsan gli occhiali. Ilche ſenza fallo infra gli altri fu dalBorricchio avviſaperchè egli dice : ne Eleufina ſacra.profanè Viiverſi pro fituerent: gnarus , id factiraſse Egyptias, & Pythago ne affeclas ſacheche la di ciò, non ſono impertanto da ſpregiare i ſuoi diviſamenti intorno alle coſe della medicina; percioc chè per tacer de’ſuoi medicamenti, de' quali ſe vier mai quella priva, poco men , che come corpo morto ſenza vita rimane : non può certamente eſſere ne filoſofo , nemedico valoroſo colui che non ſappia appieno ciò ,che dellecoſe della natura:glorioſamente.Paracelſo n’abbia diviſato .. Fra Tomaſſo Campanella , comechè d'acutiffiino inten dimento, e libero filoſofante e' ſi foſſe , pur sì fattamente tratto tratto favella delle cofe naturali , cheben ne da.aw divedere quanto più agevole impreſa ſia lo ſchivar quegli errori', ove gli altri incorli ſono , che il ritrovar la verità . Nocquegli più che altro ſommaméte in ben filoſofare nel lamedicina,l'averlui-troppa credenza. voluto preſtare alle opinionidel Teleſio ſuo maeſtro , per tacer della ſtrologia, e d'altre vane ciurmerie ,c.indovinelli, ove egli fanciulle ſcamente dilettavaſi ; e l'averfi dato follemente a credere, che cotali.coſe, o enti favoloſi da lui ſolamente immagi nati abbian parte nelle cofe della natura ; perchè non è da maravigliare ſe'l ſiſtema della medicina , dalui fabbri cato , manchevole oltremodo , e difettuoſo riuſciffe . Al la qual coſa fu egli anche cagione il non aver lui eſercitato gianmai cotal meſtiere: ficome anche nocque a Cornelio Celſo ; perciocchè aflai per avventura ſarebbonfi vantag. giati, ſe per pruova ſperimentato aveſſero i lor diviſamenti. Ma Del Sig. Lionardodi Capoa 419 Ma ſopra tuttonocqueal Campanella il no eſſerfi eglipũ to conoſciuto di nocomia ; perchè egli poi traſcorfe in co tanti errori, e aggiramenti , dicendo il fegato efferfonte , c origine del ſangue e la milza del fiele : e che tutto dal cervello provenga: Organum fpiritus, dice egli , cor Jan guinis jecur ,fplen fellis , & alia aliorum ; omnia autemiſta cerebrocauſsam habent ;arteria vocalis manifeftè ex.com pite oritur , ubi et ftipitem amplisfimum haber:igitur& alia; Junt enim ejufdem fubftantia , d originis . Etanti, e tantal. tri falli egli preſe nella notomia anche in coſe manifeſtiffi me, e a ciaſcunconoſciute,che ragionevolmente di lui cb be a dire ilLindeno : Quid horum eft , quod fenfus teftis omni exceptione major manifefta fallitatis etiam Anatomi corumpueris damnate.convincit? Ma non però di meno fep pebenegliil Campanella da quel gran Padre di Chicas Santa,GiovanniCrifoftomo appararc , che'l nutrimento p una cotal cortiliffima foftanza ; la quale ſpirito appella Cri foſtomo, dal cervello infieme colfenfo , e col movimento all'altre membra degli animali fi difpenfi;comechèpai egli di ciò dimenticato,altramente favelli.. : Ma che direm nai del fiſtema di lui , della nuova arte di medicare,ch'egli ne compone ? Vuole eglicol Telefio il caldo ſolamente, e'/freddo effer primi principj di tutte co fe , i quali egli chiamaagenti: e l'umidità , e la ſiccità ef fer ſolamente diſpoſizioni della materia , ceffetti di quelli; intanto che la materia delcaldo aflottigliata divenga umi da : e ſi rondafecca , ingroffata dal freddo . Ne l'umido có altro può accompagnarfi, fuor folamente che col caldo : nè'l ſecco con altro , che col freddo; perciocchè ſel'umido s'accompagnerebbe col freddo : 04 fecco col caldo , dice eghi, che ſarebbon da quelli toſto diſtrutti . Anzi dice egli, che'l caldo fia cagione dell'umido.: e'l freddo del ſecco ; perciocchè il caldo ſolve le coſe , e le allarga , e l'aſſorti glia : e'l freddo per contrario le indura , le ſtrigne , e le co ftipa. E queſti due principj dice egli effer foſtanze , o for me eſſenziali , de quali accozzate alle lor materie formino il Cielo , c la Terra; perchè anche due, e non quattro vuo Ggg 2 le cgli, 420 Ragionamento Seſto fe egli, che ſian da dire gli elementi. E le forme dice efier nuovamente introdotte nelle coſe dalla potenza della na tura agente , non già dal feo della materia cavate. Maquel,che più è ridevole in lui ſi è ,chc dice egli eſſer : altri principj incorporei, che régan parte nel componiméto delle colc ; daʼqualivuol egli , che prenda dirivo ciaſcunas operazione la qualda'volgarifiloſofanti alle qualità occul te delle coſe s'attribuiſce . E queſti principj incorporei , o primalità , ch'egli chiama, vuol egli , cheſiano lapotenza, la ſapienza , e l'amore ; onde ciaſcuna coſa voglia , poffaw , e conoſca:onde anche quella prenda naturalmente ſenſo della propia conſervazione . Ma quanto poco vero fia sì fatto diviſamento de’princi pj della natura ,non fa meſtier , ch'lo ſpieghi; potendo cia fcuno per fe agevolmente avviſare, non ſolamente il caldo, e'l freddo effer nella natura , ma altre , e altre coſe diver filime da quelle ; ſenzachè non ifpiegando il Campanella la natura del caldo , e del freddo in che veramente conſiſtay mal può inveſtigar poi , non che dichiarare , fe quelli vera mente operino , e come; imperciocchè ſovente egliſoftá ze chiamandole,par che ne voglia certamente uccclare ; poichè egli medeſimo dice, la materia ſola eſſer propiamé te ſoſtanza, e non altro ; perchè manifeſtamente s'avviſa , che il Campanella nel primo ſuo filoſofare, e in ſu la ſoglia appunto di quello ſconciamente fdrucciolando cadele : e grandiſſimo tratto dalla vera ſtrada della filoſofia forvia to erraſſe ; perchè poicertierrori, e aggiramenti gliene ſeguirono, che nulla più ; prendendo egli in cambio della mido il diſcorrente , che è ſuo genere, e non iſpiegando la natura di quello , ne del ſecco , o del dolce ,, o dell'amaro , o di tuce'altre ſenſibili qualitadi . Negran fatto v’abbiſo gna a dimentirlo delle operazioni de'ſuoi principj;percioc chè per ciaſcun , che riguardiall'acqua , che per lo freddo congelata fi rarifica , agevolmente ſi può avviſare , che non feiapre il freddo condenſi le coſe . Mache è ciò ch'egli di ce , che le coſe inanimate abbian ſenſo certamente a ciò cre 1 . 1 DelSig.Lionardo di Capoa. 421 1 credere, per tutti gli argomenti del mondo, ne egli,ne il Tea lefio , ne l'Elmente ,che in ciò volle ſeguirgli, m’indurreb bono . Ma ſpiegar poi non può egli in modo quelle ſue prima lità , c'huom finte da lui non le creda , e aver la loro eſiſté za tutta nel cervello ſolo dell'autore; perchè non sà cgli dir neanchecome vengan quelle a incorporarſi nelle coſe ſen fibili dell'univerſo ,eda far tutte quelle maraviglioſe ope razioni , che da lor procedere tutto dinoi veggiamo . Ma per darci ad intendere , che le coſe tutte abbian ſenſo , do vea certainente egli prima farci vedere in quelle gli orga ni , i quali render le poſſano del ſenſo capaci. Vuole il Campanella ,che l'huomo ſi componga del fal do , dell'umido , dello ſpirito , e dell'anima ; e che la ſal dezza dalla denſità naſca , e queſta dallo ſpeſſo , e fulto ac eozzamento delle parti ſi componga ; perchè dice egli, che le coſe condenſe , e falde , sì attamente, che di vantaggio più riſtrigner non fi poſſono reſiſtano al toccamento,e fem brin dure.E d'altra parte dice naſcer l'umidezza per diſa gio di parti;e per alkargamento diquelle che ſon diradate,e folute , dice eglieffer la ſpiritualità : la qual non che reſiſta al toccamento , anziella dileguiſ immantinente ,e fugge da ognjintoppo . Ma purdice egli alcune volte gli ſpiriti operar faldamé te per l'unione non già corporale , ma ſicomeeglichiama, affettiva :dalla quale invigoriti incontro la forza, che lor fatta viene , riſcuotonſi quelli , e combattendo diſcacciano ciò , cheloro è d'impedimento . Soggiugne il Campanella , ch’alle parti ſaldefaccia me ftier dell'umide per dover nutricarſi delle parti di quelles più groſſe , e per non dover ſeccarſi, erõperſi :e per cõrra rio l'umide delle falde abbiſognare, come divafo , o di ri cetto , che loro dia luogo ,e le ſoſtenga . Ma agli ſpiriti,di ec egli , far luogo le parti umide ,acciocchè dalla lotti gliezza diquelleſi nutrichino : e le falde ancora, acciocchè appiccati quivi dimorino , e non ſi portin via ; e per con trario l'umore abbiſognare dello ſpirito , acciocchè quello pre 422 Ragionamento Sefto premendo il cibo , e traendone il fucco , il formi: e ſomi gliante , acciocchè per quello ſi riſcaldi , e diſcorra ; e al ſaldo ancora convenirli loſpirito , acciocchè per quello ſo ſtener fi poffa, e muoverſiovein concio gli venga. E alla perfine dice egli che l'anima abbia ancor ella biſognodello ſpirito , acciocchè per opera di quello itu dioſamente muova il corpo , e la ſcienza delle coſe natu rali apprenda ; perciocchè l'anima da'corporei oggettief ſer non può mofla,ſe nonſe permezzo dello Ipirito : dalle cui paflioni ella vien rattenuta , o reſa prontaalle ſue ope fazioni. Ma lo ſpirito allo incontro haegli ancor biſogno dell'anima in quanto egli è umano: e acciocchè maggior. mente egli perfecco ſi renda nelle ſue primalità, e più valo roſo nelle ſue operazioni, e più ragionevole nel reggimen to delcorpo . Main quanto eglièanimale,1100 chemeſtier gli faccia l'anima, anzi egli fortemente contro quella com batte , maggior capital facendo degli agj propj di ſe , e del fuo corpo,che de celeſtialidell'anima. Adunque dice egli, effer corali vicende fommamente neceſſarie a ben viverle genti ; che le alcuna per mala ventura in quelle traſandaffe, toſto le malattie mettan fuora : le quali ſciogliendo l'uma na compoſizione, ne diſpongono alla morte. Ma quali ragioni adopererò lo per mádare a terra si fat to fiftema , e rintuzzare il diviſamento del Campanella ? Egli non ha dubbio veruno , che nella maggior parte di quello cotanto egli dalla natura s'allontani , e trafandi,che ſenza ch'Io l'accenni agevolmente ciaſcuno per ſe medefi mo il può avviſare. Ma s'egli pure fondar voleva ſiſtema di razional medicina , conveniva in prima molto bene la natura del corpo inveſtigare , e di ciò che a quello avvenir poffa : ficome fecero quegli antichi greci filoſofanti, i quali egli follemente in quella piſtola ,ch'egli ſcrive al Gaffendi forte biaſima, e riprende. La qual coſa egli certamente nonfacendo, comechè egli col ſuo acuto intendiméto mol ti , emolci errori di Galieno , e de ſeguacidi lui ſcoperti aveffe : pure per manchezza non poco danno gliene ſeguì ; perciocchè egli così poco acconciamente della natura del le m2 Del Sig . Lionardodi Capoa. 427 fc malattie , e delle cagioni,e de'ſegni e delle cure di quel le imprende a ragionare , che ineritevolmente ne fu ſghi» gnato , e carminato da tuttimedicide'ſuoi tempi;non pe rò dimeno fra cotante fue ſconcezze famoſa: ſenza fallo fi è quella ſentenza, ch'cgli reca intorno alla natura dellow febbre : ne ſaper puoffi, ſe egli dáll'Elmonte, o pur l'El , monte da lui tolia l'aveſſe ; imperocchè ſcriſſero coſtoro nelmedeſimo tempo ; ma ad amcnduc n'avez dato forfe cagione disì. Fattamente filoſofar della febbre Roderigo Veig... Io la rapporteròcolle proprie parole del Cápanel la : Febris , dice egli , eft fpontanea .extraordinaria fpiritas agitatio , inflammatioque ad pugnam contra irritantem mora bificam cauſam : quam fic.calefacit, agitar, digerisque, red ditque expulfioniapsan , vel extinétioni', velmeliorationi . Macomechè la febbre tutto ciò faceffe , nonperò di meno offendendo ella ſoprammodo le operazioni, è ella cert2 ; mente da dir malattia ; ſenzachè Io non ſolo , come lo ſpi rito poſſa aver ſentimenti : e non altrimenti, che s'egli ani mal foſſe , quando gli metra bene , riſcuotaſi, e s'apparec chj di combattere contro ciò che'l molefta , e gli reca in toppoalle ſue operazioni . Cofia , la quale delcervellodel Campanella fofamëte,e:dell'Elmonte immaginar ſi poteva: Ma intorno a medicamenti, eglivuole ,che la cura quan to a ſeda far ſia perli contrari: ma per accidente talora dal le cofe comigliantiancor ſi elegga ; e alcuna fiata gli uni ,ė gli altri meſcolando compor fi convenga , acciocchè il foa migliante appiccandoſi alfomiglianteaſe l'attragga;quin . di il contrario combatrendolo il difçacci . Orcome egli fti ma le genti disi groffa paſta , che ne vuol far Calandrinis dandone a divedere sì fatre favole x Reca égli in pruova il fapone : fiquidem, dice , Sapone ex oleo , cinere , da calces confefto maculas olei ex panno extrabimus: oleo invitantej oleum , & alliciente : cinere , calce fimul expellentibus, Quare , ſoggiugne poi , maculas vini ex calce , di vino fa . pone confecto educes; fihanc nofti magiam . Ma doveva av viſar pure il Campanella , non già per la fomiglianza , che pulla opera , l'olio con l'olio fi meſcola , el vino col vino ; i mil 424 Ragionamento Sesto 1 1 ma per la figura , e per la diſpoſizione delle loro particel le ; e doveva egli pure inveftigar la cagione , per la quale la cenere , ela calcina radendo l'olio della veſte,allettaco . come egli dice , dall´altro olio , quello ne portin via ; per-. ciocchè ſe a ciò egli badato avrebbe , ben ſarebbeſi accor. to coral purgamento altronde non naſcere, che dalla figu ra delle particelle de'ſali di quelli , i qualiſe mai loro ven gono colti , la calcina , ne la cenere , ne anche il ſapone , che di lor fi lavora , non ſaranno d'efficacia alcuna ; ſenza . chè fe per fomiglianza è , che l'olio del ſapone attragga l'olio dalle veſti , e con la ſua amicizia ne lo ſpegoli , e dia vella:qual ſomiglianza giammai ritroverà il ſapone in curtº altre macchie de' panni lini , che così gli imbianca so puc Laſciando il ſapone, qual ſomiglianza avrà egli il bucato con quelle : 0'1 fummo del ſolfo colle macchie de'veli? cer tamente non altra , che quella ,che ha la granata colla ſpaz zatura della caſa , o l'erpice , elamarra colle zolle. Soggiugneil Campanella, che quando ſi vuol preſcrive re purgativa medicina , ineſcolar ſi debbano talora i ſimili co’contrarj , appunto come il ſapone da lui diviſato;accioca chè i ſimili ateraggano'a ſe gli umori, ei contrari poi ſcac ciandogli fuora gli purghino . E quinci , dice egli, nella compoſizion dell'utriaca ſi meſcola la carne della vipera, acciocchè dal veleno di quella il veleno s'attragga , e dagli aromati poi ſi diſcaccj. Ma alla Croce di Dio , chi non ſa, o chinon ha per pruova avviſato ,che la carne della vipera non ſia veleno ? Perchè falſo , e vano eſſendo affatto il ſuo diviſamento intorno alle compoſizioni de’medicamenti: come , e quando de ſomiglianti ,ede'contrarj, o ſemplici, o meſcolatinelle cure delle malattie ſervir nc convengu : a'conſigli di lui certamente in niun modo attener nedob biamo , fe a liero fine delideriamo i noſtri medicamentido ver riuſcire . Fu egli ancora cotanto poco fcorto della natura de' me dicamenti , che per tacer d'altri falli in ciò da lui preſi ,dif ſe egli , che le coſe fredde non ſi convengano puntoal le cargo: perciocchè eſtinguino gli ſpiriti ; e pure il caltoreo, il 90 : Del Sig.Lionardo diCapoa. 425 il quale è argomento acconcio aſſai ad affrenar la violenza di quel folto , che cagiona il letargo , avvalora gli fpiriti. Dice egli ancora , che l'antimonio crudo gagliardiffimaw medicina ſia . Mapiù ſconciamente egli trafanda in pre ſtando fede alle fraſche del Maeſtro Agoſtino del Roſli in quella ricetta , in cui colui dice , che ſi tragga il mercurio dell'argento , e che quello ſi meſcoli, e s'uniſca con l'arien to vivo volgare per dover lavorarne il precipitato da cura re il mal franceſe. Ma ridevole ſopra tutto ſi è quel ſuo di viſo di dover colle ventoſe d'oro trarre il inercurio dall'of ſa degl'infermi:fi Hydrargyrus,dice egli, offa penetrarit,nec expellipoffit , cucurbitulisex auro confectis facilè educitur, tractione vacui; Sympathia fimulnaturarum . Ma comechè in molte , e molte coſe , ficome accennato abbiamo falli il ſiſtema del Campanella , e ſia ſopra de boliſſime fondamenta murato ; impertanto non è affatto da ſpregiare quel ſuo libro della medicina ; perciocchè può egli a chi ſaggiamente l'adoperi non poco giovamento recare ; eſſendo nel vero egli ſtato un de' maggiori inge gni e più valoroſi , che la noſtra Italia, e'l noſtro ſecolo ab . bia alleyati. Ma Roderigo Caſtello anch'egli della debolezza della medicina di Gilicno reſo avveduto,imprende forte a com batterla , e mandarla al ſuolo ; e proteſtando di dovere gli inſegnamenti del ſuo Ippocrate ſeguitare, ſi biaſima oltre modo delle dottrine d'Ariſtotele , e di Galieno , e diſtinta mente egli i loro falli ſcoprendo va dagli antichi Greci filo fofanti ad accattar contezze di buona medicina ; ma non gli venne cotanto fatto , chenon deſſe anch'egli in iſconcj, e biaſimevoli errori , giudicando follemente in prima eſle re gli atomi delle prime qualità forniti ; quindi in tanti , e sì grandi vaneggiamentie' traſcorre,che lungo ſarebbe quì ad uno ad unoannoverargli. Ma ſopra tutto fi ftudia egli di darne a divedere ciò che il Paracelſo prima di lui inſegna to n’aves : cioè a dire , che il mondo picciolo ritenga in fer tutte le parti , e tutte l'apparenze , che nel mondo grande ſi veggono. E mentre egli da ciaſcuno qualche ſentiinento Hhh imbo 1 426 Ragionamento Sefto 1 1 imbolando s'argomenta da cotanti meſcolamenti ſconcj, e mal conformi far forgere un nuovo ſiſtema di medicina propio di ſe , filoſofandoora col Paracelſo , e ora con Ga lieno , avviluppa il tutto , e comediſſe colui, Confunde le dueleggi a ſe mal note. Ma egli convien ora far parole dell'ingegnoſiſſimo ſiſte ma di medicina diGiovan Battiſta Elmonte ; il quale,a vo lerne liberamente dir ciò che me ne paja, aſſai più felice lun go tratto fu in abbattere, e ſpiantare gli altrui edifici,che in fondare , e in iftabilir fermamente i ſuoi, comechèdimol ti, e molti nobili, e utiliſſimi ritrovati venifle fatto alla ſua induſtria d'arricchir la medicina . Il materiale principio di tutte le coſe ſenſibili dell'univerſo , appo l'Elmonte,è l'ac qua , non intervenendo nella compoſizione de'corpi miſti altramente l'aria , ne il fuoco , come quello , che non è ſo ftanża , ne accidente , ma morte delle coſe; argomen taſi provar una cotal fua opinione , con dire , che ciaſcuno corpo del mondo poſſa ſempre che ſi voglia in ſale căbiar fi ; e'l ſale poi per opera del circolato del Paracelſo, in ac qua d'altrettanto peſo ridurſi . Oltre a queſto dice l'Elmo te l'acqua eſſer ſempliciſſima, e benchè contenga ella in qualche modo il ſale, il mercurio , e'l ſolfo,i quali da quel la per natura' , e per arte ſeparare giammai non ſi ponno;ne ſono veramente ſale , folfo , e mercurio , come tali da eſſo appellati, per eſſer a quelli ſimili, e per non ſapergli altri menti ſpiegare; no vuolc egli però, che l'acqua di ſolfo , di fale , e di mercurio coinpoſta venga . Ma che che ſia dicið egli ſcorgeſi apertamente , che l'Elmonte non manifeftis pūto , come far ſenza falloe'douea, che coſa l'acqua vera mente fiafi ; ne fpiega di qual natura fornita l'aveſle L'alta cagion , che da principio diede A le coſe create ordine, eftato; anzi egli manifeſtamente confeſſando di non ſaperne boc cata, conforta , e rimuove chiunque d'imprender la natura dell'acqua s’affatica: così di quella dicendo , Quis unquam mortalium novit quid fit aqua ? qua tamen creatorum eft maximè obvia , aperta ,viſibilis,atranslucida ? tantum enim deea Del Sig.LionardodiCapoa. 427 de ea fcit rufticus, vel idiota quantum philofophus:něpè æquam liter illam concipiunt per obſervationem fenfuum : quod fit .corpusgrave , liquidum , humidum ,digitocedens , fluidum , amotoque digito ſerecludéns, calorisſuſceptivum ,attenuabia le in vaporem :nemo tamē novit internam aquaquidditatem , vel quare liquida fit,anhumida. Ma in vero egli ha il corto l’Elmonte a ragionar sì fatra mente dell'acqua ; imperocchè s'egli così ſolamente di.com loroſchiamazzatoaveſſei quali a coſto dicicalecci apprefa fo il volgo,il nobile , e laudevol titolo di filoſofanti compe rar ſi vogliono,vero per avventura egli detto avrebbe ; im perciocchè affermado eglino l'acqua eſſer un tal corpo dal la natura compoſto ,e meſcolato d'atto , e di potenza , ei freddo, e umido , ne ſpiegundo poi qual ſia l'atto , per lo quale l'acqua a partir ſi viene da cuce'altre coſe , che acqua non ſono, e in che conſiſta la potenza , e come ſi maturi nell'atto , e venga a perfezione , sì che acqua , se non altra coſa più coſto quella divenga : ne diviſando , che coſa las freddezza fia , ed onde avvegna il diſcorrimento , ne per qualcagione alcuni de'corpi liquidi , e corſoj, umoroſi an. cor ſiano , ed altri no:nulla certamente vengono ad inſe ghare intorno all'acqua , ne più di ciò che'l popolazzo mi nuto ſenza il lor diviſamento ne ſappia . Ma fe l’Elmonte aveſſe mai ben fiſamente riguardato 2 * dialogi di Platone, e a que'pochi mnaraviglioſi avanzi del le divine opere , ch'ancor fi riſerbano di Democrito , o al diviſar degli altribuoni filoſofanti : o pur s'egli, ficome conveniva , dagli effetti rapportati, di penetrar poipiù ad dentro nelle cagioni di quelle ſottilmente ſtudiato ſifoffe : o alla natura de' corpi diſcorrenti aveſſe poſto mente : Io ſon ben certo , che in cotal guila dell'acqua egli ragiona. to non avrebbe: e altro certamente egli principio di tutte coſe naturali, che quella ,la cui natura di non ſaper libe raméte cõfeffa,determinato avrebbe;perciocchèconvenen do tuor d'ogni dubbio all'acqua il diſcorrimento , a queſta guiſa poteva ben egli riuſcir nella più ſicura ſtrada da avvi. far la natura di quella . E certamente in ciò , che ſi apro Hhh 2 no, e 42.8 Ragionamento Sefto ño , e ſi fendono agevolmente i corpi diſcorrenti, e da cida ſcuna parte anchemenomiſſima, in ogni tempo ſon pene trabili : e dallo ſpargerſi di quelli, e diſcorrer liberamente per tutto : e dal riempiere gli ſpazj , e adattarſi agevolme te alla figura del vuoro, che ingombrano, intanto che al tra forma non hanno fuor ſolamente quella , che loro da vali, che gli contengono, e chediſcorrer non gli lafciano , vien preſcritta : e dall'avviſare , che ogni particella loro participando delle medeſime propietà di eſli, diſcorrentes anch'ella fia : ottimamente raccoglier egli poteva dovere eſſer icorpi diſcorrenti compoſti di menome particelle, i1f ſenſibili , e tra eſſo loro in atto partite , e fpiccate per un.. cotal movimento continuo , che non mai le laſcia appicca re , e congiugnerſi inſieme. La qualcoſa egli avviſando agevolmente fatto gli veniva di poter la natura dell'acqua apparare , e si riparare all'ignoranza , ch'egli di se medeſi mo ne confeffa ; concioffiecoſachè eſſendo l'acqua oltre modo diſcorrente , egli è da dir che ſia un'accoglimento di menome , e inſenſibili particelle , le quali sì fattamente fixo no accozzate ,eammaſſate inſieme, che ſembrino a'noſtri ſentimenti una ſola coſa : avvegnachè in atto elle ſiano fe parate, e partite ,intanto che inſieme non maiforte fi ſtrin gano , ne meno per alcuno de’loro lati : e ſeguentemente continuo ſi muovano . E ſcorto egli avrebbe altresì noi avvenir loro sì fatto movimento dal caldo ; concioffiecofa chè l'acque , comechè fredde elle fiano, e poco mé che ag ghiacciate: non però di meno non ſono elle meno diſcor rentije-ſdrucciolevoli delle calde,ſe non già ſiano in ghiac. cioammaſſate;perchè avrebbe eglicertamente detto che'l movimento , checosì l'acqua ſciolta ritiene , abbia le par cicelle ſue , o da ſe medeſimo, o altronde che dal caldo a : quelle comunicate ;: perciocchè l'acqua , almeno perquel che noi avviſiamo , cede cheta al toccamento , e da luo go a ’ ſaldi corpi ſenza vederſi. ella punto muovere : e di lataſi a'raggi della luce : e riceve entro di ſe particelle di ſale marino, e d'altri corpi cheper la ſomiglianza , che hā no con quello, parimente eſſi vengono ſali appellati : avve gna 1 3 DelSig.Lionardo di Capoa 429 1 gnachè muovēdo in noi molre,e diverſe varietà di ſentime ti nell'organo del guſto , convengano eſſer diverſamente foggiati ; i quali corpi penetrando per mezzo effe particel le , ingombrano gli ſpazj piccioliſſimi tramezzati: o pure ingombrano gli angolije i cătoncelli che quelle colle for fi gure formano, intanto che vi ſi poſſano acconciamente le diverfe figure delle particelle faline allogare . E moltise molti d'effi tramezzamentiper tal maniera compoſti , e or dinari ſono , che agevolmente per entro , e ſenza niun rite gno diſcorrer vi poſfä fa luce. E oltre a ciò riguardando l'Elmõte all'operazioni dell'acqua, avviſato ben'egli avreb be eſſer quella un di que' corpi diſcorrenti , ch'agevolme te a'ſaldicorpi s'appiccano , i quali tanto , o quanto fier poroſi: e che fi fpargano ſopra tutti quelli, e penetrino lo ro dentro , c talotta anche in parte , o in tutto gli ſolvano ; perchè comunemente diceſi l'acqua eſſer umida. E come chè egli nc ſembrieſſer l'acqua tenera oltremodo , e molo le; non però di meno egli alquanto d'aſprezza avviſato an che v'avrebbe, avvegnachè dipoco momento elia fia :non iſpiccadofi l'acqua agevolméte da'corpi ſaldi sì, e talmen te,che quelliaffatto sgocciolati nerimągano; e quincianch ' egli comprender avrebbe potutonó effer le particelle dellº acquada tutte parti cotanto terſe; e liſciatesquali per av vécura iminagina ilDeſcartes.Alle quali coſe tutte ſe l’El mõte ben fiſamente riguardato aveſſe, certamente egli ar gomentata n'aurebbe la figura d'effe particelle , ficome ferono già ne’primi tempi Pittagora, Timco , Platone , altri, i quali la immaginarono icafoedrica: 0 pure ſicome de’giorni noftri l'accennato Deſcartes, il quale giudicata l'ha cilindrica , e pieghevole, e guizzante a guifr d'anguil le : 0 ficome l'incomparabil filoſofante Gio : Alfonſo Bor relli , il qual.cosi'ne favella: lanugo quedam tenuis , &de bilis inveſtiens.quodlibet aqua minimum , ſcilicet concipide bet interna , & individua qualibet aquæparticula , ſolidad's &dura : cujus figura octaedra . E avvifato ancora l'Elmon te avrebbe eſſer le particelle dell'acqua d'una medeſimas foggia infra loro , o almeno poco diſſomiglianci ; la qual for 1 1 430 Ragionamento Sefto forma loro , o affatto non ſi può in altra cambiarc, o egli è cotanto malagevole , che grandillima fatica meſtier vi fa rebbe a ciò operare ; ne fino a'tempi noſtri ciò ad alcuno è venuto fatto , ne mai, per quanto Io poſſa comprendere , certamente verrà per innanzi:acciocchèin altra figura l'ac qua ſi tramuti . E ciò egli anche avviſa l’Elmonte, e vera mente per ognun yedeſi, che non riceva l'acqua fcambia mento alcuno ſenſibile:avvegnadio che a qualunque ingiu ria ella ſi eſponga ., o di caldo , o di freddo,o di altra imma ginabile qualità ; ſe non ſe riſerbandone ſolamente quella , che ella in agghiacciando riceve , o riducendoſi in vapore; per le qualiè coſa manifeſta , e all'Elmonte ben conoſciu che non già la figura delle particelle dell'acqua , ma il ſito ſolamente , e'l movimento di quelle ficam bia.Maſenza far tante parole , l'acqua racchiuſa entro una guaſtadetta ermeticamente , come ſi dice , ſuggellata das Criſtofano Clavio , la quale dopo cotant'anni nel Collegio Romano della Compagnia di Giesù dimoſtraſi: ella s'avvi ſa non punto dall'eſſer ſuo naturale mutata ; e altre acque ancora per più ,e più ſecoli intere,elane pariméte li fon mā tenute séza ricevere oltraggio veruno dal tépo ; perchè ſen za fallo è da dire eſſer quelle di tempera dura , emalage vole aſſai a ſolverſi, dall'onnipotente facitore da prima fabbricate : Adunqueragionevolmente può dirſi dell’El. monte , che de'principi delle coſe naturali Nonpinſe l'occhio infino alla prima onda. E per avventura dobbiam noi confeffare , il medeſimo all’Elinonte eſſergià intervenuto, che in prima di lui al Pa racelſo fortito era : che ove maggiormente egli ſciarpillar figli occhi perpiù veder conveniva,quivi tralandındo,più , ch'altrove ſerrati gli aveſſe ; ed avvegnachè di ſottiliſimo intendimento , emaraviglioſo foſſeſi l'Elmonte,pure abba gliato al troppo luine della natura per troppo veder rintuz zato ſi fofle și come ilſol, cheſi cela egli ſteſſo Per troppa luce , quando il caldo ha roſe Le temperanze de'vapori Speli: c firta Del Sig.Lionardodi Capoa. 431 1 e fatto groſſo dall'abbondantiſſimapiena de curioſi:fegreti di quella Quaſi torrente ,ch'alta vena preme foverchiando il letto , ed allagando le prode;pertroppo ri goglio diſperſo ſi foſſe . E quinci certamente viene , che nello ſpiegar l'economia degli animali, qualche fiata ricorre ancoregli alle facoltà, nonmeno ,cheGalieno fi aveſſe fatto ; ne di ciò pago pro duce egli in mezzo alcuni ſtrani arzigogoli, e nuovighiri bizzi del ſuo cervello :altri ne toglic in preſto dal Paracel fo , come gli Archei, i Blas' , i Magnali;e quelFormento , il quale per dirlo colle ſue ſteſſe parole , eft ens creatum form male, quod neque fubftantia , neque accidensfed , neutrum » per motum lucis ignis magnalisformarum conditumàmundi principio in locis fue monarchia , ut femina preparet;exiſtat , a precedat; con che' , e con altre molte fue fantaſie, le qua li lo per non rediarvinon ridico , da apertamente a divedere l'Elmonte, ch'egli non già nel mondo noftro , di cui tutto di nuove, c nuove maraviglie egli ſcopriva ,main un mon do da lui immaginato filoſofava. Tanto , e tanto poi egli involto fi fu nella notomia vita le , ch'egli traſcurò la morta , ne di queſta ſeppe altro di quel, che n'era ſtato già ſcritto ; perchè alcuniaffatto non ſeppe', ed altri, poco curioſo non curò de’modernitrovati; i qualimolto approdato avrebbono; rendendo ad un'ora più credibili , e manifeſte alcunedelle ſue opinioni; perchè sé bra ' , che forſe non abbia tutto il torto a morderlo, e biaſſa marlo il Gliſſonio , quando così di lui diſſe ; hic auctor , utu eunque acerrimi ingenii ,in eo fuitminus felix , quod .veteri placitis rariffime aſsétitur,& vix,nifi in iis rebus,in quibus il li ex certisſimis, demonftratis neotericorum obſervationibus manifeſte coarguuntur Ma ſe dalla maniera del medicare argomentar lece il va lor de’ſiſtemi della medicina, certamente in ciò quello dell' Elmonte tutt'altria molto ſpazio ſilaſcia addietro . Per ciocchè oltre alla contezza delle buone , e valevoli medi cine , , ch'egli ebbe pronte così ſempre fra le mani, cotan to egli 432 Ragionamento Seſto . co egli vanraggioſli negli ſtudi del ſuo meſtiere, e di si acum to intendimento fu , ch'avviſando i graviflimi danni , che per li ſalaſſi , e per.le purgagionipoſſono intervenire : e'l veleno , che per entro quelle ſi naſconde: così nimico ne fu , e così ritroſo d'adoperarle, che come confeſſa Andrea Cel lario , comechè Galieniſta ', baud paucis medicam artem profitentibus oculos aperuit . Ne laſcioſſi in ciò menare alla piena del ſecolo ,oalla famoſiſſima rinomea del Paracel lo , che non aveffe egli ſolamente intefo quelle medicine , operare, le quali ſenza recar moleftia , o noja alcuna allo in. fermo , fan vuotare ſolamente ciò che cagiona il male.Per chè egliin cotanto pregio,e onor crebbeneadoperando ciò anche nelle più gravi , e pericoloſe malattie , che daGalie niſti medeſiıni, non che da altri, ne venne ſommamente commendato , e quaſia miracolo tenuto . Così infra gli altri Andrea Cellario in facendo parole di lui , e del Paracelſo nel terzo tomo dei fuo Atlante celeſte , Chymicarum ,dice ,operationum adjumento admiranda hatte nus præftiterunt , ac talia medicamenta produxerunt quæin morbis illis natura humana penetrantibus arêtius , altius fe infinuantibus , & remediis à natura productis cedere ne Sciis , primas terent, &vulgaria medicamina longe ſuperăta E per tacer di Daniello Orftio , Nicolò Franchimorc famo fillimo maeſtro infra'Galieniſti nell'Accademia di Praga, in una piſtola mandata all'Arciveſcovo di Colonia,dilui di ce: Helmont pater tanti fiebat Bruxellis , ut non niſi deſperati ad illum quafi ad ſacram anchoram confugerent: quorum non exiguum numerum ab orcifaucibus eripiebat; enon ceſſaro no i rabbioſinimici d'orrevolmente commendarnelo , ſtret ti a ciò dalle maraviglioſe cure di lui,per tacer de’liberi mc dicáti Frāceſco Glišonio, cd Olao Borrichio , che nó ſi veg gion mai ſtanchi di ſommamentelodarlo . Ma cotantielo gj pur nulla fono in riſpetto di ciò, ch’in ſua loda vantano i più nobili filoſofanti del noſtro ſecolo , ciò ſono il Gallen do , elBoile , ed altrimolci di non poco pregio . Ma doler ne dobbiamo eternaméte dell'Elinõte,come di quello , che niuna delle ſue nobili, e prezioſe incdicinema 1 wife DelSig. Lionardo diCapod 433 wifeſtar ci abbia voluto , e quancunque ilParacelfo nie al tri valenci Chimicigliene aveſſero dato eſemplo ; non do vea pure egli , che sì corteſe , umano , e compallionevole dell'altrui miſerie unquemai moſtroflisin ciòimitargli. Ne da coſa , che di tanto pro era al mondo rutro ,dovea diftos lui , lamalignità d'alcunimedicanti, i qualificome uſura parono ingiuſtamente gran parte de' ſuoitrovati ſenza fag di lui menzione, così parimente avrebbon fatto delle ſues medicine . Ma ſe egli più lungamente l'Elmonte viſſuto foſſe , con dar compimento alla ſua maggior opera, che la cera , ed imperfetra in man del ſuo figlio rimafe , avrebbes forſe di sì fátti medicamenti alquanto più apertamente fas vellato , Ma affai più tardi certamente di quel, che fi richiedev. per avventura miſeſi in alletto Pier Giovan Fabbri a dar cominciamento all'opera del ſuo novello ſiſtema della ra zional medicinazimperocchè egli da prima dietro la vanità dell'Alchimia per convertire in oroi più vili metalli conſu . mò lungo tempo , ed appreſſo trapaſsò ben ſei luftti medi. cando altrui, ſicome egli ſteſſo confcſſa , ſenza alcun fruta to mai ritrarne ; ne maigli venne fatto di ritrovare in tutto quanto quel tempo medicina , chevalevole a domarfolie le malattie ; e quantunque egli dì , e norte ſtudiato avelle attentamente ne’libri d'Ippocrate,e di Galieno, e molti cu daveri aperti d'huomini , e di bruti, per inveſtigar l'efficie ti , e le materiali cagioni dc’mali: non mai potè giugnere a ravviſare i luoghi de' putridi umori, ne in parte veruna di ſano , o d'inferm'huomo, o la collera, o la flemma, o la malinconia putrefacte ſcorger giammai. Il perchè pres'e gli per partito , di voler,laſciando le altrui autorità a nons calere,per ſe medeſimo metterſi ne'più cupi pelaghi della filoſofia navigando ; e poi i ſuoitrovati al giudicio de'fa vj , e diſcreti eſtimatori delle coſe rimettere, così dicen do : Si rationes mea , cu experientia non optimę videan tur , trutinentur , &ponderentur diſquiſitione naturali, ut Aquid falſi continere videanturrejiciantur omnino , Celia minentur prorſus à fcholis : quod fi vero probe experiantur lii quid 1 1 434 * Ragionamento Sefto 1 quid ni. amplexabuntur ,tutabuntur . Primieramente avviſa il Fabbrila materia , onde fon le Senſibilicoſeformate efferpalpabile , viſibile , e falda na giddiſtinguerſi dalla forma, la quale fecodo luisaltro no es cheuna propriedeionatæ , virtùnella materia,laquale poits chè è ufcica fuori sidiſtingueda lei ,come dalla ſua cagio nel'effetto . Ondeagevolmente può ſcorgerſi,che ſefalſe andato il Fabbriin si fatca guiſa piùavantifiloſofando, faa rebbe egli per avventura a qualche buon terminepervenu po : ma egli appenamefſoli in camino , ſmarrì il diritto fen : tiero .. Immaginò il Fabbri la prina materia non eſſer.al extocheil fale dell’Vniverſo nelquale il folfo ilmercurio, ed'un'altro ſale ſi contêga : e credette ', che queſto medeſir no áveffe voluto dire Ariſtotele, la dove della priina mate ria cosiofcuramente favella . Vuoldivantaggio egli, chę tutte le coſe , omallimamente l'huomo abbiano dentro di ſe un tale fpirito volanto oleremodo , e diſcorrente , di cui tutteleſueparticompoſtebeno, ed'onde tutte l'operazioni della vita , e tutte quelle coſe avvengano , che ſi oſſervano nellemalattie . Queſto ſpirito , dic' egli , che nel fegato e alquantogre /fo : ma più ſottile nel cuore e ſottiliffimondi seżvello ; naſcere:ad un parto colfeme, e nel'naſcere venir dalle ftelle arricchito della luce , la quale ſecondo lui èlau farma eſſenzialc , non ſolo dello ſpirito , ma di tutt'altres coſe del mondo ... Stimapariméte il Fabbri:altro veraméte non effer. Ja na tura, falvochelaluce' , e che dallaluce ilmovimento, e la quiete a'corpitutti dell'univerſo dirivi, e ſecondo più , o meno , che lo spirito participidella luce , tanto più , o me, noegli nelle ſue operazionivigoroſo, e potente divenga , Immaginaancora ilFabbricheentrije penetri l'anima dell? huomo allo ſpirito , e che lo ſpirito poia tutte le parti del ſuo corpo l'anima uniſcaaMa:Io pur troppo lūgone diver , reiſe volcliquitute'altri ſtrani ſuoi diviſaméti narrarvijne midarò impaccio di contraſtarglije gittarglia terra aduna ad uro ', facendomia credere , che ciaſcun da per ſe in ſen dendogliraccontare,o.in legendogli ſia per accorgerſi coſto del 1 $ . DelSie. Lionardodi Capod della lorvanica . E cerramenteſe alcuna coſav'hadibuone no nel Fabbri yella è colta di peſo.al Paracelſo, all’Elmon të, e ad altri valorofi Chimici: marelle eſſendo poi da lui có altre volgariopinioniaccozzato vengono a perder tāto del lor valore , che ſembrano prezioſegemme dal vil fangoia cretate . Or quantoal fatto del medicare e'non ha dubbio, ch'al ſai dappoco ſi dimoſtraſſe il Fabbris imperocchè tralaſcian , doda parte tutt'altre mal fatte fue cure: nella peripneu . monia vuolegli, ch'abbondantemente abbia da principio a trarſi ſangueallo infermo , c poi collc viole ; e collo fpiri to del vitriolos o con altri simili argomenti abbia z rinfre fčatli quel caldo , che collo ſpirito della vita di foverchio nc'polmoni ribolla : ed il feguente giorno coll'antimonio ábbia aprocacciarfegli il vomito , acciocchè con tal move mento venga ad aprirli alcunapoftema , ove vi ſia . Ein tãto fi cibi l'infermo d'orzate colſal della prunella, e collo { pirito del vitriolo.Orchi mai divifar potrebbe più folli di vifaméti di queſti e ben per'talie'medeſimo gli conobbes poichè altrove confeſſa , che le più valevoli medicine alla peripneumoniafianla verga del Toro ,e'lſangue dell'Irco . E certamente dagli acetoſi medicamenti , che altro maiſe non ſe grave danno avvenirpotrebbe a coloro , che di pe ripneumonia patiſcono; la qualgiuſta i fencimenti del Fab bri,dall'acetolità s'ingenera ; e oltre aciòcol purgare l'in fermo con sìpotente vomitivo, poich'egli è divenuto fpof fáto , e fievole per l'antecedente falaſſo , qualpro ſe nepos trebbe per lui fperare? mafopra tutto dal trar fangue, qual buono avvenimento ne potremo giammai attendere ? Ed o quanto fe più ſenno il Fabbri , allorche dall'Elmonte ay viſato ,de'ſalaffi altrove in altra guiſa favellando, ne diffes : MirorParifienfium medicorumpertinacitatem , curationem febrium , & ferèmorborum omnium in fanguinismisſione lar . ga , ocopiofa collocantium : cum fepe fæpius caulja moru. borum , & potisfimumfebrium tam continuarum , intermite sentium non refedeat in fanguine , imovirtus s proprietas: lii curana Ragionamento Seffo . curandi morborum omniü in fanguine collocetur ,cum arcbeūs visalis fanitatis economus , & morborum amniumcuratorin fanguine refideat: ea fublata ,dlarga manu effufo effundan, tur etiam unacumſanguine vitalisſpiritus, undevires tola luntur , di diffunduntur, &perinde tota rotius corporis nad Cura debilis admodum fit, do curatio etiam morborum omniū , que ab ipſa naturadependetevaneſcit;ita ut loco illius fubfc quaturmors ; aut incurabilismorbus, E quinciſcorger li puote altresìchiaramente,quáro bere gol fi foſſe ,e incoſtante ne'ſuoipareri il Fabbri , e quanto malagevole ; c dura impreſa lia lo ſcaricarſi delle falle opi nioni fin dalla prima giovanezza concette , e per vere al. cun tempoi fermamente credute ; il che nella ſtoria della cure da luifatte più chiaramente ſi ſcorge ;nella quale fto ria , e nel divilainento altresì delle chimiche medicine po trebbe da luiper avventuralealcămaggiore, epiù ſincerità d'animo ricercarfi ; maciò traſändando, quanto al ſuo liſte maſo replicherò , licome poco addietro accennava , che troppo vacillante, e caduco e'fia ,eche il Fabbri poco , o niente non badando ad inveltigar la natura de'ſuoi primi principj,forz'è,ch'egli abbia a rimanerſene fenza poter mai de’loro effetti aſſegnar la vera cagione . - Ma la SignoraD. Oliva Sambuco, della quale lodovea molto addietro , l'ordine de'tempi ( erbando , far parolesar vegnachè ſtudiata ſi foſſe continuo di ſvilupparli dagli er: rori de’mueſtri , e delle dottrine già da loro imbevute : pur tanto non potè ella dimenticarle', che non vi frameſchiaffe qualche ſentimento di quelli talvolta entro al ſuo ſiſtema Svétura nella quale i più famoſi filoſofanti veggőfiancora incorrere ; perchè la ſua medicina non altrimenti, che quel le deglialtri razionali, è manchevole , e difertuofa ; edan co tale ventura certamente le avvenne , per non aver ellow avuta cortezza della chimica .Ma nocquenon poco a'ſuoi divifamenti l'aver ella più di quel , che fi dovea,preſtata ... credenza alle parole di Platone ; et non eſſerfi a que’rem pi aperca ancor la {trada della vera filofofia . Im. Del Sig . LionardodiCapod. 737 Immagina la Signora D.Oliva effer l'huomo ana travol ta pianta , le cui radici fian nel cervello , onde un bianco fugo dipartendoſi ſe'n vada il tronco , i rami, è tutto il ri manence a mutrire , tal ſugo bianco vuol che ſia freddo , umido ; mache nel fegato facendoſi roſſo : caldo, e umido altresìdivenga; e che nel cuor finalmente ſcambiato in să gue , in caldo , e fecco fi muri . Il calor del cuore crede ela la , che ſerva all'huomo , come it caldo del ſole alle pian te ; e che'l bianco fugo faccia l'uficio de quattro elementis fcorrere dal cerebro cotal ſugo per la pelle, per li nervize per le dilicate pellicelle , o membrane, che vogliam dire, delle vene :mapoiin roſſo , e ſanguigno umor convertitos per altre vie , cioè per le vene, e per le arterie ritornare . Or queſto fugo ove ſia malignato ,fuor delle proprie vie sboce cando per tutt'altre parti del corpo ſconvenevolmente an dar penetrando , contro il provveduto ordinamento della natura . Tutto adunque il Florido ,e vigoroſo ſtato di queſtº arbore , vuolella , chedalle radici , cioè a dire dal cerebro avvenga : la dove fc quella , che pia madre fi appella , la dura madre toccando, ftiano ambedue ſollevate, e diſteſes e quali alcranio appiccare, allorvederſiverdeggiante , e fiorita tutta la pianta : ma ſe mai divengan vizze , o alqua to s'abbaffino , fanguire parimenre lei; e quando finalmen te la pia madre ſia dalla dura totalmente ſtaccata allor non poter avere a niun modo più vita . Con queſto trovato , o purcon queſta ſomiglianza dell'arbore , vaella tutti i con . venenti della vita , e della morte , e della generazione , u della corruttura dell'huomo , e de rimedi, e delle malatı tie acconciamente fpiegando. Tali ſono i divilamenti dietro alla medicina della Signo ra D. Oliva ; i quali comeche pajanoin gran parte dal vc to lontani, purealcuni di loro ſon tali , che non poffeno . fenza lunghi encomj, enon ordinaria maraviglia guardar fi; edIomifarò lecito d'arrogare a sì valoroſa donnaquel che già della poereſſa Sulpizix diſfè Giulio Ceſare della Scala :ut tamlaudabilis heroina ratio habeatur non anime objicere ei iudicii ſeveritatem : Ma 738 Ragionamento Sesto Ma crapaſsado al ſiſtemadella medicina di Tomaſo Vil lifio ; egli ſipare, ch'in fula foglia appunto diquello con ciamente fdrucciolandovaneggj. Imperocchèavendoegli Popinion d'Ariſtotele rifiutata intorno a' principj delle cos fe , ficome troppo groſſa , e ſciocca : e quella di Democri to , e d'Epicuro , ficomefoverchiamente ſottile , e da’ſenli lontana : alla perfinc egli alnuovo diviſainenco de'Chimi ci tutto s'appoggia , e vuolche ciaſcunacoſa di ſpirito (co sì chiama egli ilmercurio ) .di ſale , di ſolfo , d'acqua , e di terra formata ſia ; perciocchè in quelli ciaſcun corpo ſenga bilmente ſi riſolva . E con quelto cinque ſoſtanze , in ciò , che elleno ne'corpi compoſtihanmovimento e proporziou ne , ſi ſtudiacgli , e s'affatica di dar ragione dell'apparen ze cutre della natura , e ſpezialmente diquelle,ch'alla mc dicina s'appartengono. E comechè egli apertamente con felli cotali ſoſtanze non eſſer ſemplici , ma comporte, e me ſcolate ; pur tutto il ſuo diviſamento quì egli fermando,no fi prendepiù avanti briga di ſpiar di cheforte priacipj fora fono quelli, onde le ſue prime cinque ſoſtanze ſon compo fte ; anzi egli dice , che non avendoviragionc , o ſtrada al cuna da potergli avviſare , ſciocchezza ſia l'entrar nel fara netico didoverciò fornire:e qualunque coſa ſe ne dica eller più coſto un grazioſo diviſamento , e voler giudicarc allas ventura , ea riſchio delle.cofe del mondo , che conſaldez za di buona filoſofia ragionarne. Ma quantochè egli con ciò di ſcagionar la ſua dappocaggine s'argomenti, imper: tanto maggiormente in altri, e altri ſuoi divifamenci egli s'accagiona; perciocchèa chiben vi ponga menre, tuttoil fuo filoſofare , avvegnachè egli contro i buoni filoſofi fa vellando , dica procudere,autfomniare philofophiam me nola le, lubens profiteor; altro nel vero egli non è , ch'un andare alla cieca, e taftonc,ſenza certezza alcuna . Ma ciò laſcia do ſtare , o non s'avvede egli , o s'infigne di non accorgerſi in dicendo chelo ſpirito una coral ſoſtanza fortidiguna, ë voláte Gia; che spiegar uc doveva come cotal ſostanza s'av valli , e fi deprima, c come poi ſi cſalti , e come con gli al tri principj ſi meſcoli : c comc ammendi, e affreni i ftraboc chero 1 9 Del Sig.Lionardodi Capon . 439 chevoli diſordinamentidel ſolfo', e del ſale : é comequela to tante , e tant'altre operazioni faccia , le quali egligliat tribuiſce . Certamente non mai egli ſaper potrà diche. for te particelle quelle: fiano , ondela ſottigliezza dello ſpirito diriva ; e colcoccare , che colmuovere ora in uno , oras ialtro modofogliono negli altri corpioperare . Eben'e gli dovera ( ficomca buon filoſofante ſi conviene, ilqual fondar voglia ſiſtema di cazionalmedicina) dalle appareze degli effetti la natura delle loro cagioniinveſtigare : cav vifare , chenon puòlo ſpirito effer diſcorrevole , ſe di pre fente nonceda atutti corpi ſaldi , che perentrovi paſlino je perchèeglièda dire', cheloſpirito ſia in molte , e moltes particelle diviſo : le quali continuo movendo infra loro sé.. pre ſeparate ftiano ;ne lo ſpirito,foctile,c volante efferpuðn e per cutto perretrare , ſe le ſue particelle picciolitime non fono , esì fåttamente foggiate , che molti gomiti 20 angoli, non abbiano . Neper darragione dell'opere del ſolfo giova ſapere eſ fer quello , licomc egli dice , di coſtruttura alquauto più groffa', emaggioredi quella dello ſpirito ; e che da quello nafca il calore , cla varietà de'cofori , e degli odori alle co fe , e l'a lor bruttezza , e bellezza : c per la più parte la di verſità de' ſapori ; perciocchè quantımqne tutto ciò vero fi foffe ,cheegli ſenza niuna pruova farne grazioſamente , afferma, ben potevaeglidall'apparenze,che dal fólfo vega giamo , argomentar, che le particelle diquello comeche, in continuo movimento anch'elle fteano;ficome quelle dela 16 fpirito e fiano peròmeno pulite , e ſdrucciolantii, calia quanto' famoſc . E què è danocare , come il Villiſio vada divifando dellacomplellion del fuoco ; egli dopoaver ava vifato effer quello ſomigliantiſſimo alla materia prima de Peripatetici , in ciò che in tutto partire in niuna dice quel, lb allignare, così poi faggiamente ſi ſpiega:Ignis exfuina tura nullibi exiſtentiam , ac certum durationis modum obtin net . Quindifoggiugne : formaignir omninòdepēdet à para siculisfulphureis infubjecto quopiam agglomeratis.y - cona fërrimerumpentibus a quodque ignis nihil fit aliud , quam ejuſmo 440 Ragionamento Sefa 1 1 . 1 + ejufmodiparticularum impetuofius concitarum motus , deras ptio.Ma s'egliaveſſe mai poſtomente alle particelledel fol fo, le qualieſſendo di neceſlità ramoſe, per la loro figuras non così acconce ſono a muover velocemento, e a penetrar ne'corpi più duri , e fpeffi , ficome far veggiamo al fuoco : il qual perciò dice Democrico aver gli atomi ſuoi ritondi : non avrebbe certamente eglicosì di quello filoſofato . Ma Signori ancor Io immaginava una volta cosi andac la biſogna del fuoco, qualla giudica il Villiſio: e acciocchè ceſſar poteſli le malagevolezze propoſte , mecomedeſimo penſava doverſi i ramidel ſolfo piegare in ingenerando il fuoco , e in ſe medeſimi ravvolti formar cotante ſperette , acciocchè agevolmente muovere , e penetrar poteſſero; ma meglio poi il mio divilamento vagliando , ricreduto , igannato inutaiparere . Convien dunque dire , chele pare ticelle componenti il folto diduefogge ſiano, una ramoſa, e un'altra ritonda. E cosìſomigliante doveva egli delle particelle de'fali filoſofare , e ſpiar le vere cagioni dell'o perazioni di quelli,e di que’loro ftati, ch'egli chiamafram fionis, volatizationis,& fluoris:quali egli ſpiega co ſole pa role ſenza recarne giovamēto alcuno. E certaméte non per altro ciò egli adopera, cheper non curar d'inveſtigare la na túra , e la propietà de'componenti di quelli . E doveva bé egli quanto più ciò era malagevole a fornire , cotanto mag giormente argomentarſi perogni ſtrada diaggiugnere infin dove colla mano, ecol ſenno arrivarpoteffe: e cið mallima mente egli col conſiglio dell'incomparabile Boile , edal. tri valorofiffimi filoſofanci fornirpoteva ; ma egli per cele far farica non volle di cotante biſogne imbrigarſi: perchè poi diſguiſata , e ſconcia la ſua filoſofia ne divenne . Eles non da altro , almeno dagli effetti de'ſali,ch'e' continuo da vanti agli occhi avevasben egli in ciò , che quelli folvonli nell'acqua, e a temperato fuoco ſeccanfi , ca gagliardo fi fondono avviſar poteva la natura delle loro particelle, e di quelle di tutt'altre generazioni de' ſali: e ancora in ciò che quelli,davolanti divengono fiſſi , e da fiffi di nuovo volar ti . E Gimigliante da ciò ben'egli inveſtigar poteva in che con ! 1 1 1 + 0 Del Sig.Lionardodi Capoa. 441 1 convengano le particelleinfra loro , le qualicotante gener razionidifali compongono ; e in ciò ancora , che i volanti ſali agevolmente le loro propierà lafciano , divenendo da aſpri, e amari , e acetofi: dolci , e foavis e per contrario da dolci,e ſoavi:acetofi,e aſpri, e amari; e alla per fine inciò , che i ſali di qualúque ſorte ſiano, ftranaméte cambiadoli, e laſciádo illoro natie ſapore, e ditutt'altre propietadiſpo gliádoſisin ſalfezza ſolamēte ſi rivolgano ;perciocchè da ciò tutco ben'egli argométar poteva eſſer i ſali compoſti dipar ticelle acconce a cambiar figura : 0 pure non eſſer quelle in loro d'una medeſima forma, madivarie , e diverſe figuu te foggiate. Quindi oltre paſſando avviſare' poteya' , iſali acetofi, in ciò che recano acerbiflimi dolori, eſfer d'acutif fimc particelle compoſti : e l'altre generazioni de' fali cſfer più , o meno di quelleforniti , ſecondainenteche più o me no il palato nepungono. E così anche dell'acqua, e della terra dannata certame te a lui faceva meſtierdi filoſofare , ſe aggiugner voleva al ragguardevol nome di buon filoſofante . E comechè negat non fi poffa che per la maggior parte riuſcir ſogliano gli ar gomenti tanto , o quanto probabili folamente , e ragione. voli ſenza ſaldezza alcunadicerta verità ; non però dime. no egli è il migliore affai, ſtudiarſi, e affaticarſi per via di conghietture ,ed'argomenti d'aggiugnere a ciò , cheper noi non ſappiamo: checosì ſenza nulla imbrigarfi d'inve ftigarne , laſciarlo vergognoſamente in non calere pernou Ara dappocaggine: Ne lo al preſente midarò briga d'eſaminare il poco lo devolfiloſofare del Villiſio intorno alla formentazione, al ſangue , alle orine ,alle febbri, e ad altre malattie; percioc chè ognuno agevolmente veder può , che non è altrimenti ſaldo filoſofare il ſuo , ma ſolamente ragionarea riſchio, e a voto ſenza fondamento alcuno ; e ben potrebbe per buo monegarſi poco men ch'ogni coſa , ch'egli afferma , ſenza timore d'eſſer dalle ſue anfanie, e da'ſuoi aggiramenti rim beccato . Ma non però di meno montò egli in qualche buo nome dei ſuo meſtiere, per eſſere Atato egli molto avventu Kkk raro 442 Ragionamento Seſto 1 rato ne’luoi emoli; perciocchè de’ſuoi tempi abbatteſt in tal , che nulla ſappiédo delle coſe della natura, volle ſcioc camente e con fanciulleſchi argomenti carminarlo ; per chè non durò molta fatica il dottiſiino Lovero ſuo ſegua ce' , non tanto d'inframmetterſi della difeſa di lui , quanto per ricredere , e rintuzzare la tracotata beffaggine dello ſciocco Galieniſta ; e nel vero ſe filoſofo ſtato foſſe il Mea La, avrebbe egli minutamente ciò che lo ho accennato del la medicina delVilliſio in prima detto . Ma nella notomia il Villifio fu molto ſcorto, e avveduto, intanto che non v'ha notomiſta alcuno, che meglio di lui, e più ſottilmente le parti del cervello ſpiare aveſſe;ma da cià altro certamente noi raccoglier non poſſiamo , che la pro poſta da noi cotante fiate dimoſtrata ,ora maggiorméteper fuadere : cioè a dire che vano , e inutil ſia il diviſar di me. dicina razionale : ne medico poter giainmai in quella tane to , o quanto vantaggiarſiz.conciolliccoſachè dalla lunghif fima , e inolto ſcorta diſaminazione , ch'egli fa dell'uficio delle parti del cervello , non altro certamente ora ne ſap piamo,chequello , che in prima fapevamo :: cioè a dire nulla di certo . Quanto alla maniera del medicare fu egli ſenza fallo ſciocco ,, e infelice aſſai ; perciocchè dopo aver appreſa , ed eſercitata la medicina a quella guiſa , che in Inghilterra comunemente coſtumavali :volendo egli filoſofare ſopra quella , ſi perſuaſe , che le continue ſperienze , così.dover fi medicare additato aveſſero ; perchè non guari egli lontan facendofia'comunali rimedi, nel ſuo ſiſtema,ſtudiof ſi di darne a credere eller quellii veri argomenti da raccato tarne la ſanità , ricoprendo con sì fattoavviſola ſua beſſage gine, c non rinvenendo nulla per giovamento de'cattivelli, inferini'. Anzi vi fu di peggio nella ſua medicina , che non che valevole argomento egli mai ritrovato aveſſe : anzi in qualche biſognatalvolta , ove i volgarimedici bene ado peravano , egli diverſamente ſentendo dipartiſlene. Ma prima difar parola della maniera del ſuo medicare , egli conviene avviſare, cſſer poco ragionevole ciò che 1 1 d egli Del Sig.Lionardo diCapoa. 443 egli giudica, cioè, che la febbre finoca puerida,ficome egli dice , per eſſenza ſempremaiſia : e che la pleureſi , la peri pneumonia , l'infiammagion della gola , e altri fomiglianti mali ſiano effetti, e non cagioni della febbre ; conciollie cofachè ciò manifeftamenteripugnar ſi vegga all'evidenza: avviſandoſi fempremai tratto tratto avanzarſi , e ſcemarla febbre , ſicome Icema , o creſce l'enfiagione ; anzi talora prima d'apparir la febbre: il dolore , c l'enfiagione appa fiſcono : e cominciandoſi poi la ſoſtanza ivi cntro racchiu fa'a formentare , e a comunicarſi al ſangue , e far ſaccajan comincia altresì la febbre . Ma più manifeſto ciò s'avviſa nelle ferite , e allor che qualche ſcheggia , o ſpina, o altrás ſomigliante coſa nella-carne ſi ficca ;perciocchè ivi a poco accendefi la febbre nella piaga ſolaméte, enelle parti prof ſimane , e talor anche pertutto il corpoſi fpande ; e leav vien , che le fibre alcuna fiata enfino , ciò nulla rilievaan dover far pruova del ſuo diviſamento ; perciocchè quella medeſima cnfiagioneſarà anch'ella cagion della febbre, no già effetto , ſicome immagina il Villilio ; concioſliecoſachè manifeſtamente s'avviſi in sì fatte eiffiagioni rattenerſi il ſangue , e dal ſuo uficio rifturfi; perchè poi naíce la febbre; ne ciò potrebbe in piun côto negare il Villifio, confeſsado egli medeſimo quefta verità : Ab ejuſmodi tumore,dice egli dellenfiamento delle fibre, calor, e dolor in parte intendű . tur : fanguis in motu ſuo magis perturbatur : adeoque febris accenfa plus aggravatur. Ma non men vano , e falſo è ciò ch'egli giudica dell'ingencrazionedelle febbri, che chir mano intermittenti; la quaic opinione potrei lo agevolme te rifiutare :ma perciocchè egli è manifeſta aſſai la ſua fal lanza , e per non dilungarmitroppo me ne rimango.Sola mente dico ciò lui fare perpoternella cura delle febbrila biaſimevol coftuma de ſalafi ritenere ; nella qual certame te cotanto egli è più de'Galieniſti medeſimi tracotato , che ovei più avvedutifra loro nella terzana intermittétenõ ar diſcono a trar sāgue, egli pur vuol, che trar fi debba, accioce chè col ſuo mcnomamēto il sāgue fi rinfranchi, e ſi rinfre ſchi , e mcnos'accenda , e più liberamente ſenza riſchio ď K k k incen 1 2 1 444 Ragionamento Seſto incendimento diſcorrer poſſa , e riandar perla perſona .Ma ſe aveffe avviſato il Villiſio le terzane intermittenti divenir talora per li falalli contine , certamente cgli non avrebbe così follcmente ragionato. M2 apertamente ſi vede, ch'egli dictro alla bruzzagliai de’volgari medicanti , più negli effetti de’mali , che nelles cagioni di quelli s'indugia . E per favellar con lui, ſecon do iſuoi medeſimi ſentimenti , ſe la terzana s'ingenera, per ciocchè il facgue ſtrabocchevolmente mordace , e punge te,non intride, e matura toſto il ſucco nutritivo : mala maggior parte di quello in una cotal materia nitro - ſulfurca corrompendo muta : come potrafli ella maiper lalafo am mendare, ſe il ſangue , che riman nella perſona , anch ' egli mordace , e pungente vi rimane ? certainente egli ancora , ſe non ſi addolcia , farà valevole a corromperc, e guaſtare il ſucco nutritivo , e ingenerar la febbre ; anzi tanto mag giormente , quanto per lo ſuo fcemo, più debole , e fpoſfato diviene a rintuzzar quella mordacità, che'l corrompe,me nomandoſi in lui quella nobiliſſima ſoſtanza ,che ſolamente poteva nel ſuo intero affinamento ritornarlo ; perchè poi il ſangue, che di nuovo s’ingenera , diverrà ſenza fallo pig. giore : e non ben digeftédoſi il cibo, il ſucco nutritivo yer rà anche a ingenerarſi cattivo : e manterrannc quel calo re , checol ſalaſſo iinmagina di ſcemare il Villiſio;ſenzachè è egli inolto di riſchio il ſegnar nella terzana ; perciocchè tra per lo cibo , che dentro dallo ſtomaco de’inalaci ſi cor rompe,e per lo sfoggiato calore,ch'allottigliando, e diradi. la collcra nel ſuovalo avvić,chequella nello ſtomaco ſi tra sfonda , e cotanto mal cagioni : ſicome a quel giovinetto nobile intervenne , di cui narra il medeſimo Villiſio ,che no oſtante la cardialgia avendolo cgli fitco ſegnare, piggioró ne sì fatcamente , chequali ne fu per debolezzamorto , gliene ſeguirono fieriſſimivomiti ,e ſpalime , c rivolgime ci d'inceſtini : ne alleggioll in lui il dolore, ſe non ſe nel de clinamento del male . Vuole ancora il Villiſio , che trarſi debba fangue nello febbri, ch'egli chiama efiimcre, e nella finoca putrida , ac cioc Del Sig. Lionardodi Capoa 445 ciocchè perlo falaſſo diradandoſi il ſangue fia ventato : e le particelle calde di quello per affoltata non ſi accendano; ſi . coinc adoperar veggiamo a contadini, i quali rivolgendo, e ſcioperando il fieno difoverchio riſcaldato, fannogli pré dere rinfreſcamento . Ma egli è certamente ſogno del Vil lilio , che liquorsche continuo muova , e diſcorra , ficome il ſangue , abbia quelle particelle , ch'egliſcioccamente chiama calde , le quali poſſano ſtare ammonzicchiate,e af faſtcllate , ficome ficno in palco , maſſimainente , che pic cioliflime , e ritonde quelle fono , e ſi muovon rapidiſſim.2 mente allor che fanno il calore ; perchè malagevolmente ſtar poſſono inſieme, ſe da qualche materia viſcoſa, e tenz ce non ſianoben prima appiccate. Perchè è da dire , che fconcio , e ridevole oltrcmodo ſia il paragon del fieno dal Villiſio apportato ,in cui lo ſtrignimento premendone il fucco cagiona la formentazione , e'l riſcaldamento . Maw oquanto meglio egli avrebbe adoperato , ſe non già con falalli , ma con rimcdj acconcja ciò fare , ſicomealtrove per noi è detto , ſi foſſe argomentato di ſventolare il ſangue , edirinfreſcarlo . Ma egli più oltre traſandando vuol che da ſegnar fiano anche i fanciulli : quandoil medeſimo Ga lieno , che de ſalaſli fu cotanto amico, e altri antichi medi cistutti ad una giudicano efſer quelli ſommamente a' fan ciulli dannevoli , e da fuggire . E avvegnadiochè egli molce novelle ne racconti d'alcuni febbricoli da lui felice mente col fataſſo guariti ; non però di meno , ficome egli medeſimo teftimonia, non pochi ancora ne poſe per la ma la via ; ne è da credere , che coloro che ne camparono ,fof fcro da falaſiajutati : anzi per qualche altro argomento, o cagion da’lui non conoſciuta celsò loro la febbre : e fuma raviglia , che infermo, chenon potè reſiſtere alla febbre ', aveſſe poi la febbre inſieme, e'l mal del falaſſo contraftato. Che ſe veggiuno noi alcuni avvelenati ſenza cóſiglio niu no campare, e altri cadere ftraboccati da alto ſenzafiaccar fi il collo : ele ſcoppiate delle bombarde alcuna volta non colpire , perchè dobbiam noi dire i ſalali ſolamente, per chè talvolta non ammazzino , non effer mali ? Ma ben disi tra 440 Ragionamento Sefto 8 1 Travolto diviſamento portonne egli la pena il Villiſio ; per ciocchè co'ſuoicari ſalasſi-egli-medeſimo s'ucciſe . Ma gľ Inghilefi , huominicotanto pertraffichi , e per uſanze co noſciuti di tutte coftume della maggior parte del mondo , Io non sò lo come ſi laſcino ciecaméte portare alle beſlag gini de’loro medici , e non più toſto rimirino alle varie , ¿ diverſe nazioni, colle quali eglino uſano , che ſenza laper mai di lanciuole , o dimignatte , e ſenza 'logorar goccia di ſangue ſtan bene delle perſone: e ſe pure infermano , altri argomenti coſtumano a raccattar la ſanità , che i nocevoli ſalaffi. E per non andar ricercando detl’Indie , e d'altres a noi rinnotiſfime partijagevolméte ciò potrebbono avviſa re da’Mori: i quali, ſicome teſtimonia quel gran Maeſtro in divinità Tomaſſo Campanella, le malattie tutte col ſolo di giuno , e colle unzioni, e co ' tropicciamenti curama. Ma non meno ſciocco, e poco avveduto nelie purgagio niegli ſi fu il Vihiſio ; concioffiecofachè egli talora ſenza riguardare al tempo delmale toſto le purgative medicine,e le vomitative impor foglia, con graviffimo danno degli in ferini; e ciò egli vuole anche dove la febbreſia grande , d'accendimento dentro agevolmente temer fi poſſa. Ma quanto poco fermo e' ſi foſſe nelle ſue regole il Vil lifio , manifeſtamente egli medeſimo il ci da a divedere, al for che dopo averdiviſato ſecondo fua poſſa a che debba il medico riguardare per dovere acconciamente i ſalaſſi , e le purganti medicine adoperare , maſſimamente nelle feb bri peſtilenzioſe , e maligne : alla per fine avviſando egli la vanità de'ſuoi diviſaınenti, e dimentito della certezza della medicina razionale , non altrimenti , che ſe volgare impi rico e' fi foffe , conſiglia imedicifuoi ſeguaci, che ſi laſci. no ſolamente in ciò alla ſperienza guidare . In his cafibus , ſon fue parole, prater medicicujuſque privatum judiciums; experientia potiffimam mededi rationem fuppeditat ; cã enim hæ febres primo graffantur,finguli ferèfingula tētăt remedia : diex eorum fuccesſibus una collatis facilè edifcitur , qua li demum methodo innitendum erit , donec ultimo crebro ten tamine , feu tranſeuntiuin veftigiis via quafi regia , « Lata Del Sig .Lionardo di Capoa 447 ád bujuſmodi affectuum rationem texitur, variiſque obſerva tionibus , monitiſquemunita , Or quinci manifeſtainente comprēder puoſli quanto po co egli affidato nel fuo fiſtema di medicina, il tutto nel ſens; no , e nell'intendimento de'mediciavveduti roveſciaſſe, giu dicando non eſſer rimedio cotanto certo , di cui noi poffil mo vivere a ſicuranza. Ma non ſi dec egli nondimeno privar della meritata lo de il Villiſio , per eſſes e' ſtato certamente il primiero tra' Chimicimedicanti,ch'abbia avuto ardimento , rendendo giuſta ogniſua poſſa cagioni veriſimili di tutte le coſe , di fabbricar un ordinato ſiſtema di medicina razionale, e ſopra tutto per quelbel libro , ch'ei compoſe della Farmaceutica razionale ; ove egli s'ingegna di dar ragione dell'operazio ni tutte , che ſi fanno ne'corpi umani dalle medicine. Ma non già egli però, come par,chemillanti con queſte paroleg. Spartam hanc fcilicet operationis pharmaceutice Ætiologiam , prius fere intactam , fi nunc temere agreflus, non dignefatis abfoluero , veniam utcunque merebor , quia terram non modo: incognitam ,fed , GvaldeSalebrofam ,&quafi labyrintheam peragrare. incumbebat , fù’l priino aqueſta opera ; poichè il Paracelſo , e l'Elmonte , ſopra i diviſamenti de'quali áp-, poggia tutta la ſua machina il Villiſio , ne trattarono , tut tochè non ordinatamente aſſai n'aveffero eglino favellato Ma ne a queſti , nc al Villiſio , per non aver eglino conſide rata innanzi tratto , e riandata con diligenza la natura del la coſa , cioè que’principi primi , ondederivano immedia tamente le operazioni de'medicamenti, riuſcì il-finir una sì commendevoleimpreſa , con quellafelicità , che le avca no eglino dato principio. Malaſciando dipiù ragionar del Villiſio, e del ſuo liſte ma, a quel di Franceſco delle Boe Silvio trapaſſeremo;egli fin da primi anni il Silvio , licome di lui narra Luca: Schache negli ſtudi d'Ariſtotele , e di Galieno involto, do po lungo tempo a ciò logorato, veggendo alla fine , la Chi mica di que' tempi a grandiſſima altezza ſormontata per le maraviglioſe cure dell'incomparabile Giovan Batrifta El mon 448 Ragionamento Sefto monte , di cui ſopra è detto , a quella apparare con tutto il ſuo intendimento , e con non ordinaria fatica ſi rivolſe; e conoſciuti i grandillimi errori, e ſconcezze delle volgári dottrine , per non dovervender la ſua ſcienza a minuto, ne? più ſaldi ſtudi delle buone arti sì , e tanto innoltroffi , cher grandiſſimo, e famoſo ne divenne: e di molte , e laudcvoli conoſcenze arricchito miſeſi a diſcorrere pergli ſtrabocche voli campi della medicina. Ma ſicome ardito ,e poco cſper co Nocchiere , avvegnachè di ſarte , di - gomene , di ve le , di boffolo , e di tutto ciò , ch'a ben corredata nave fac cia meſtiere , ſufficientemente ſia fornito : impertanto per nuovi , e nonconoſciuti mari navigando, no ſappiendo egli poi ben quelli adoperare , miſerevolmente inghiottito vi muore ; così il Silvio , comechè dibuona filoſofia,per quel ch'e' medeſimo dice : e di non ordinaria medicina fornito , non però dimeno non ſappiendo egli quelle adoperare,ſcó- - ciamente fallovvi , e quaſi nocchier mal pratico negli alti maroſi del ſuo meſtiere appena ſciogliendo, fortunolamen te annego . Ma potrebbe alcun recare in dubbio , ſe ſcor ro in filoſofia si bene il Silvio si foffe veramente itato , co me eglinevuoi dare a divedere ; e nelvero per quel che comprender poſſiamo dalle fue opere , egli ſembra, che no molto addentro e' la ſpiaſſe , comechè una fiata dalla ra dezza , che adopera il fuoco ne'corpi,cgli argomēri le parci celle di quello effer piramidali; non però di meno egli po co conoſcendoſi eſſer profittato nella buona filoſofia , co mechè ,i per quel, ch'e'nedica , trentatrè anni continuo in appararla e' ci aveſſe logorati , proteſtando le ſue dappocaggini , manifeſtamente dice : optabile foret naturalium rerum principia vera , eorundemque numerum certum , qualitates legitimas via,methodoq ; mathematicis demõltrari. Ma nella medicina razionale più alquanto egli ardimé toſo , volle il ſuo ſiſtema diviſarne , dicendo tre umori prin cipali eſſer ne'corpi degli animali: cioè il ſucco pancreatico, la collera , e la flemma; i quali nel ſottile inteſtino adunā. doli inſieme, e meſcolandoli, quell'umor poicompongano, che da lui è detto triumvirale ; che il ſucco pancreatico di 1 1 1 2 0 1.111 DelSigLionardo diCapoa. 449 ſangue , edi ſpiriti animali dentro al pancrea s'ingenere quindi agli inteſtini per la celebre 'doccia del Virfungio diſcorra ; chela collera ſi formi di ſangue dentro alla ve ſcica del fiele ; e che ſia ella abbondevole aſſai diſale ama ro , e volante , e comee'dice, liffiviale , da poča acqua foo Luto : in cui alquanto d'olio, e di volante ſpirito anche s'av viſi; che la flemma ſi crii della ſaliva , la qualdegli ſpiriti animali , e della più ſalda , e tenace parte del ſangue com pofta , dalle glandole delle maſcelle per le docce , che falia vali diconft, alla bocca trapeli , e continuo tranghiorten doſi dentro allo ſtomaco diſcenda : e quivi le ſue tuniches ainmorbidando digeſtiſca i cibi; quindiallinteſtino fottilc pianamente trapelando ivi s'accolga,c per la più gran par te dimori . Venir la flemma di molta acqua, e di poco fpi rito aceroſo , e volante se dipochiſſimo olio, e ſale lillavia le compoſta ; perchèin quella una gran virtù formentantea ritrovarſi; il ſucco pancreatico ingenerarſi degli ſpiriti ani mali, e del ſanguenel pancrea: e che fia eglialquanto ace toſo : ne dalla flemmadiffomigliante , ſe non ſe più alqua to ſottile ; che ſi tragittiegli perlo canal del Virſungio al fotcile inteſtino , la dovenel meſcolarſi ch'egli fa colla collera , perla contraria diſpoſizione dell'amaro di quella , edell'acetofodi eſſo,a riſvegliàr fi venga un cotal bollimé to , per lo quale la parte più groſſa , e limacciola ſi ſeparije queſta giù per gl'inteſtini s'avvalli : e quella per le venes lattce diſcorrendo al cuore aggiugna ; e la flemma anco ra nel fuo ribolliméto fi ſolva: e che la parte ſua più diſcor rente , e ſottile inſieme colla maggior parte della collora, e del fucco pancreatico traſcorrano parimente al cuore : ove la fermezza, e’lcompimento deano al ſangue; e'l lor rima nente diſcendendo giù per gl’inteſtini groili , e alle fecces! meſcolandoſi , quelle maggiormente colorate , e tenaci ré. dere , Cosìavendo formato con queſti tre ſoli umori il fi ftema tutto della ſua medicina il Silvio , dal guaſtamento, e perturbazione di effi vuol , che tutte le febbri dirivino ; concioſliecoſachè ritrovandoſi talvolta per qualche cagio ne il pancrea oppilaco , quivi il pancreatico fucco oltre all' LII uſa : 450 RagionamentoSefto ùfaço dimorando , maggiormente acetoſo divenga , e mor: dace ; perchè egli poi faccia negl'inteſtini un bollimento grande, c ſtrabocchevole aſſai più dell'uſato : e naſcerne la febbre , qualdicono intermittente . E ſe quella parte della collora , della flemma , c del ſucco pancreatico , la quale al cuor ſi tragetta , non ſia ben condizionata, ella nel deltro ventricolo di quello un'altro diverſo ribolliméto riſ veglj , e le contine febbri cagioni . Ma troppo lungo fa rebbe il voler qui raccontare comedal rimeſcolamento di tutti , e tre queſtiumori vuole il Silvio , che ciafcuna maa , lattia ne*corpi umani s'ingeneri. Io non ſaprei lo di leggier narrare quante miſchie, quan te conteſe , eriotte abbia riſvegliate infra' medici un cosi ftrano ſiſtema , così vivendo il Silvio , come anche dopo ſua morte ; ma lo diciò non curando al preſente , folamente per quanto a mio propoſito s'appartiene , dico eſſer vera mente ingegnoſo , claudevoleil diviſamento del Silvio , e quale appunto a un cotanto valent'huomo conveniya ; ma perciocchè egli tutto grazioſamente afferma ſenza nium pruova fare delle ſue ſtranezze farà quello da dircertamēte una ben compoſta novella per tener a bada con ſue ciarle l'ignoranza del vulgo, e preffo quello accattar titolo di va lorofo filoſofante ;machi ſpia più addentro , non veggen do comepoffano effer tali quei tre umori, quali e' glide fcrive , ecome poffano aver poſlanza di cagionare i bolli menti , e le febbri, e tutt'altre malattie, che egli racconti, poco certamente a capitale il ciene . Anzi radillime volte nella flemma, e nel ſucco pancreatico l'acetofità egli avvi far ſi puore; ſenzachè nel pancrea non ſi è giammai per al cuno acetofità , ne poca , nemolta avvifara: e pure dovreb be ad ognora quella trovarviſi, le nel Pancrea s’ingeneraf fe , e s'accoglieffe veramenteil fucco acetofo ; perchè ra de volte ancora quel bollimento , ch'egli immagina ,negli inteſtini da quelli riſvegliar puoſli ; anzi è egli imposſibi le , che per l'acetoſità il bollimento avvegna : ficome per pruova veggiamo , che il liquor del fiele collo ſpirito del vitriolo, o delſale , o con altro acetoſo umore meſcolato ri bolla: DelSig. Lionardodi Capoa 451 bolla : che che in contrario fi dica Olaaldo Crollio , da cui peravventura ciò apparò il Silvio : il qual contendendo co tro la manifeſta ſperienza , ne vuol dare adivedere , chelo ſpirito del vitriolo a ſtomaco , cheabboudi in collera ,bol Jimento cagioni. Maſenza fallo egli di gran lunga s'aggi , 1.3 il Silvio a dir , che gli ſpiriti animali ſiano aceroſi ; per ciocchè, fe ciò foffe , inervicontinudrattratti , e in malei Itato ne ſarebbono : ſappicndo ben ciaſcuno , che l'acctori tà , ſicomc (triguente , e lazza, e pugnereccia , a’nerviol tremodo contraria , e nimica fia . Ma chela ſaliva allo ſmaltimento de'cibinelnostro ſton macobaltevol fia , comechè ella pur gli ſia diqualche gio vamento , chiunque al maraviglioſo artificio del digeſtimé. to non abbia poſtomente, potrà folamente crederlo . E ſopra tutto è da maravigliare di ciò ch'e dice delle febbri intermittenti ; perciocchè ſe quelle dall'acetofità fi cagionalſero, ſenza dubbiogl'Ipocondriaciad ognorafi vch drebbono , e terzane , e quartane patire; poichè in loro fo pra tutti il ſucco delPancrea , ficome anche il medeſimo Silvio confefla , oltremodo acetoſo s'avviſa . Ma riſerbando a più agiato tempo sifatte conſiderazio ni : ciò che toglie maggiormente l'eſſere razionalmedico al Silvio , e'l fiſtemadilui manda a terra , fiè , che egli trasa dando le fondamenta , a niuna cura prende l'inveſtigar la natura di quelle prime ſoſtanze de Chimici, ſule quali egli fonda la fua medicina. Mache che Gadella ſua filoſofia , il modo certamente del ſuo medicare , comechèpovero , e manchevole degli arcani dell'Elmonte , e del Paracelſo , non poco dee effer commendato ; perciocchè egli usò le volgarichimicheme. dicine , e masſimamente l'alloppiate connon ordinaria fe licità ,, e pregiodel ſuo nome ; fe non ſe quanto egli preſtò alle purgagioni troppa credenza : ele pole talora in opera , ove in tutto , e pertutto diſconvenivano : avvegnachè pur guardingo, e ritrofo alquantoegli ſtato ne foſſe . E come chè cgli dicoloro , che così volonteroſi ſono a ſegnare, só mamente ſi biaſimaffe, non però di meno per non dipartir LIT 2 ſi dall' 452 3. Ragionamento Sesto folo può contrariare almale . Oltre a queſto la formentl fidall'uſo comune , andò a bello ſtudio accattando cagioni di ſegnare ancornelle febbriintermittenti: ove egli affer ma non aver luogo niuno il fataſlo.Immagina poi egli , che faccia luogo il ſegnare nelle febbri finoche,acciocchèilsā gue ſtrabocchevolmente radificato non rompa i vaſi ,o fac cia qualche altro gran male ; non avviſando , che con altri ficuriargomenti , quandociòpur s'aveſſea temere , dar vi fi può compenſo , ſenza tor via , col trar ſangue, ciò che zione,tutto che grande, nel fangue,non li dee con -iſpogliar lo della ſua vital ſoſtanza impedire, poichè per quella ſteſ ſa formentazione, grande eccitandoſi , o fenfibile , o inſen fibile vacủazione , fi difcaccian fuori del corpo le cagioni delle malattie , il che s'impediſce certamente col ſegnare. Dopo il Silvio ,mi ſi fa davanti Lazaro Meffonieri, il qua le troppo libero , coltre alconvenevole ardito , imprende a determinar delle più ardue', epiù ripoſte quiſtioni, di cui piatiſfer mai con lungo ſtudio ifilolofanti . Primieramente egli ſtabiliſce effer principidelle coſe il mercurio , il fales , e'l folfo , e dice quefti , licome in cotante arche , o matrici contenerſi negli elementi ; i quali ſecondo l'avviſo di lui, fon quattro :cioè il fuoco, efficiente cagion di tutte altre coſe , in cui niun principio egli v'alloga ; l'aere , in cui ri fiede il mercurio ;l'acqua , ove ſtanzia il fale ; e la terra in cui dimora il ſolfo . Il fuoco ond'ogni altro elemental mo to deriva , vien dal folto ajutato , ed eccitato dal mercu rio ; e ſue proprietà ſono il dar movimento al mercurio , il riſplendere , il riſcaldare , l'attrarre a fc le cofe oleaginoſe, e Peſſere attutato dall'acqua ; l'aria colfuo mercurio fa fare a ſegno il fuoco ; il mercurio è un certo ſpirito aeree , il qual coagula l'acqua , e'l fal volante rappiglia , e che afo fai bene col fuo ſal fiſſo s’uniſce ,ed al ſolfo cótraſta .Dimo ra ilmercurio ne'luoghi piùdalle vie del ſole rimoti, fico me ſono amendue i poli;l'acqua tiene una ftrettiſſima ami, ſtà col ſale , e nimiſtà grande allo incontro poi colſolfo . La terra opprimeilfuoco, e quanto ella è del ſolfo amica, altrettanto ſi moſtra nimica del fale . Indi Del Sig.Lionardo di Capod . 453 , 0 Indideltemperamento il Meſonieri vegnendo a favel lare , così ne divifa : il temperamento è un'armonia delles quattro prime qualità, avvegnente dalmeſcolamento de gli clementi, e de’naturali principj:( Delle qualità , che gli elementi compongono , due ne ſono attive , e due paſſive: attive ſono il calore , e la freddezza , paflive l'umidità , e la ſiccità . Tre coſe vihan nell'univerſo manifeſtamente calde , il ſole nelmondo celeſte , il fuoco nel mondo ele, mentale , e lo ſpirito vitale nelmondo animale , e tre allo incontro manifeſtamente fredde , la Luna , il mercurio , lo ſpirito animale . Alcune ſtelle divantaggio vi han nelmo do celeſte ,dilornatura calde , e altre freddo , ma occulta mente ; e altresì nel mondo elementale altre coſe calde fredde , macelatamente , o accidentalmente ſi trovano : umidifſime ſoſtanze fon da per ſe l'acqua, e l'olio ; ſecchiſ fime la terra , e'l fale . Maicorpimiſti divengono umidi,o ſecchi , allor che conalcuna delle già dette coſe 's accop piano . Le ſeconde qualità daglielementi, e da principi naturali variamente fra eſfo loro meſcolati dirivano . I 12 pori ditutte coſe naſcon dal ſale, gli odori dal folfo , lam durezza dalla terra , e dal fale : la mollezza , e tenerezza , dall'acqua. Ed ecco in brevei lunghi diviſamenti del Mel fonieri ridotti:ne'quali egli nel vero indarno tenta diridur re in un corpo folo , membra cotanto fra effo lor diſcorda ti, che non poffono a niuna guiſa acconciarfi. E quinci ſcorger puoli, che quantunque egli molto ſtelle in fu l'av vifo pernon laſciarſi trarre, e cader col yulgo de filoſofan ti in errore; pur nondimeno non potè affatto obliar le ſcon ce , e falſe opinioni , che cotanto tempo han tenuto maga gnate le ſcuole; le quali ' , come faggiamente,il Verulamio avviſa : Elementorum commentum , quod avide à medicis acceptum , quatuor complexionum , quatuor humorum, qua juor primarum qualitatum conjugationes poft fe traxit , tan quam malignum aliquod , infauftum fidus infinitam , & medicine ,nec non compluribus mechanicis rebusfterilitatem attuliſje, Maciò che egli poivi aggiugne del ſuo il Meſfonieri, in tut 454 Ragionamento Sefto curto ,e pertutto inverigmile fembri ; ficomcè il dir; che il mercurio freddiffima, emobiliffimafortazaſi ſia ;e che ſte colà ne paeſi al polo vicinijed alorcedaltre sì fatte fanfalu che', che lo non mi do briga diriferire , per non logorare fuor di propoſito il tempo . Mada tanti , e sì varj,e sìftra ni ſuoi arzigogoli, nonmai vien fatto alMeſfooieri di co glier coſa che vaglia a dar ragione di quelle apparenze,ché tutto dì nel grande, e nel picciolo li fan vedere.i ': Vuole oltre a queſto il Meffonieri, che di tutte l'azioni del noſtro corpo ſien cagione gli ſpiriti animali, e vitali; lo fpirito animale, dic'egli,è della natura del mercurio , aereos freddiffimo , e dalcervello perlinervi, e perle membrane penetra, e fa il ſentimento , ed ogn'altra azione animales; fi nutriſce della ſalſa , e acquola parte del ſangue ; lo ſpiri to vitale è della natura del fuoco, ed egli è il primo a muo vere , e a far impeto nel corpo, e a ſuegliar lo ſpirito anima lé , il quale da per ſeimmobile,e privo di ſentimento farebo be ; tragittaſi dal cuore perle vene , e per le arterie infieme col ſangue, e forma i dibattimenti de'polli. Nell'uniones d'amendue queſti ſpiriti conſiſte la vita dell'huomo, e nella ſeparazione, perlo coptrário ,la morte . Maconcedaſi, che dal ver lontano non ſia ciò, che divi ſa il Meffonieri,vorrei fapere, onde argomenti egli eſſere lo ſpirito animale freddiffimo, ed immobile, e participar del la natura di quel mercurio aereo da lui ſognato , e paſcerfin. enudricarſi del fale foluto dall'acquoſa parte del ſangue ; e come parimenté egli provar poſſa aver lo ſpirito vitale na tura di fuoco , e dar lui il moto , e'l vigore allo ſpirito ani male . Ma formentandoſi continuo il ſangue nel corpo dell'huomo , e comunicando egli ſempremai più , ome no calore a cucce le parti delcorpo , come , e dove por trà mai l'animale ípirito olcremodo freddo , e inmo bile ingenerarſi ? Coavien parimcnte poi , che'l Mcf ſonieri ci additi il modo , col quale s’uniſcano fralo ro , el diſuniſcano si farciſpiriti ; e altresì , che ſaper egli cifaccia , onde avvenga ,che'l caldo eſtremo dello ſpirito yitale non difrugga, e diſlipi lo ſpirito animale ; ccoine al lo in DelSig. Lionardo di Capoa. 455 lo incontro l'ecceſſivo freddo dello ſpirito animale non am morzi , ed eſtingua lo ſpirito vitale . Laſcio di narrare,quanto il Meffonieri nell'aſſegnare gli uficj alle parti del corpo umano , vada ſovente errato ; e quanto egli poco felicemente lt vaglia (non riconoſcendo Je tali ) d'alcune falſe opinioni di Galieno ; ma accennerò fol tanto ciò che follemente va diviſando dietro allo in generarſi delle malattie: dicendo , che qualor l'azione dell' animale , o del vitale ſpirito ſia impedita , gli huominiven gano damaloritravagliati ; sì che le malattie propriamen te favellando fien tutte negli ſpiriti, e meno propriamente poi negli humori, e nelle altre parti delcorpo ; e la cura delle malattie tutte in altro non conſiſtere , ſalvo che in tor via quelle cofe , che impediſcono l'azioni degli ſpiriti je conchiuder , che tutto ciò con cinque generazioni ſole di medicamenti fare agevolmente ſi poſſa. Ma a queſti , cad altri diviſamenti, ch'egli poſcia produ ce in mezzo in facendo parole delle particolari malattie,no fa certamente luogo d'argomenti per moſtrargli fall . Fi, nalmente la maniera delmedicare del Meſfonieriaſſai roz za nel vero , e materiale effer ſi vede . Ma poichè da uno in un altro ſiſtema paſſando fin quì lią giunti lo non voglio trafandar tacitaméte Franceſco Mea. ra celebre medicante nell'Ibernia . Fu coſtui della ſchiera deGalieniſtiin prima : ma avviſando egli poi quanto all'o pera del medicinare mal veniffero ad huopo le vane ciance di Galieno , impreſe a metter fuori un'altro ſiſtema di ra zional medicina ; nel quale egli fu tutto inteſo ad accozza. re inſieme le dottrine di Galieno con quelle di Paracelſo, in quella ftrana guiſa appunto , che pittor farebbe, ſe mai te Ita umana fopra un collo di cavallo tutto coperto di penne di varj, augelli e dipigner voleſſe . Forte egli rimproccia tutti coloro che ichimici principj ofano dinegare: cô que fte parole . Et miror profecto qua fronte quiſquam experien tia Scientia omnis , & cognitionis inventrici) repugnare prefumat , nifi pro ratione fufficiat , multos pudere , cos pige me quiequam denovo admittere , quod confirmat& eorum upi niuni 456 Ragionamento Sefto nioni adverfetur , à quo ne látum quidem unguem recedere Suftinent , ne prius non recte fapuille videantur: multos taria ta cum fatuitate , ne dicam Idololatria, Hippocratem , Ari ftotelem ; aGalenum venerari videas ,utquicquid ab illis non dictum , non dicendum , quicquid abillis incognitum , no cognofcendum putent; e molto appreffo fi briga in moſtrar , che in natura v'abbiano sì fatti principj; sì veramente però, che non debba a crederſi , che ſian primi ; imperocchèegli vuole , che della materia ,della forma, e della privazione i quattro elementiſi formino , c'di queſti facciali il ſale , il ſolfo , e'l mercurio , che ſon terzi principi; i quali finalmél te col vario accozzamento loro , quanto v'hanell'univerſo coinpongano , Ed ecco , ſecondo lui , onde formanſi le parti ſalde, e di. ſcorrenti del corpo umano: e particolarmēte i quattro umo ri di Galieno ; ne’quali , allor , che il ſale , il ſolfo, e'l mer curio ſtan così bene adattati , che non vengano fra ello lo ro a tetizone , n'avviene la ſanità , e per contrario lemalat tie . Diviſa egli , ſecondo l'avviſo dechimici, lungamente de'ſali ; dicendo , che altri ſe ne ravviſano nella flenna ſas lata , come è il fal comune , e'l ſalgemma; altri nella flem ma acetofa , e in cerca fpecie di malinconia parimente acç. tofa , come è il ſale armoniaco ; e così ancora diſcorre ra gionando degli altri ſali , che ſono negli altri umori . Vna sì fatta dottrina fu introdotta primieramente nelle fcuole per alcuni ſeguaci del Paracelſo;immaginado eglino con ciòfare ,che celtaſſero le perſecuzioni chelor faceano i Galieniſtis ma lor non venne fatto il diſegno ; anzi , come in tute gare civili avvenir ſuole, cui non voglia ad alcuna delle fazioni attenerſi, eglino divennero d'ambedue le par ti nimici ; e come alga , o ondamarina , che da'contrarjvé . ti ſia , or quinci , orquindi agitati, così l'opinioni di coſto ro furono da'Paraceláſti, e daGalieniſticótraſtate . Il per chè anche noi ſenza quì intertenerci immaginamo, che da quel , che di Galieno , e di Paracelſo addietro abbiam di: viſato , rimanga ilſiſtema del Meara baſtantemente impu gnato ; imperocchè, ſe ne con gli elementi , ne co’principi chi Del Sig.Lionardo di Capoa 457 1 1 chimici poſſono i varj avvenimenti del corpo umano fpię garfi : di ſeguente è da dir , che ove ancor vero foſſe (il che non potrebbe a niun modo concederſi)che i princpj chimi ci daglielementi ſi formino, ne men coſa , che monti una frullo Gi farebbe mai a pro della medicina ſcoperta. Quanto nocimto recar poſſa a ben filoſofare il non eſser l'huomo'da prima indirizzato per diritta via , il ci fa mani feftaméte vedere Frāceſco Gliſſonio ;il quale comechè d'ala tiffimo intendimento fornito , e nella notomia , e in alte cofe alla medicina appartenenti oltremodo avanzato fi foſ: fe ; impertanto non ſeppe egli sì , e tanco ſchivare le ſcom ee opinioni nella gioventù appreſe , che intriſo alquanto, e guaſto non ne rimaneſle. E ben ne diè egli manifcfti ſegni nel ſuo ſiſtema di razional medicina , allor che veriſſimo giudicando il diviſamétode'Chimici dictro a’principj del le coſe naturali ,vuol , che il mercurio , o ſia lo ſpirito , e l'olio , c'l ſale , ela flemma , e'l capo morto , o terra dan nata fian l’ultime particelle, nelle quali le coſe o per ingen gno , o per induſtria umana folver li poſſano. Ma dicia avendo lo altrovci miei ſentimenti paleſati, qon fa luogo al preſente , che lo di vantaggio ncragioni. Credeegli accordar queſte cinque ſoltanze con gli ele menti d'Ariftotele, dicendo l'elemento del fuoco allo ſpiri to riſpondere , e quello dell'aria all'olio , e quel dell'acquz alla flemma , a quel della terra alla terra dannata, e allale. Ma in buona fe ,Signori ,chi non avviſa , che'l fuoco non abbia punto che fare col mercurio il quale comechè foco siliflimo ſia , e che le particelle , che'l compongono lian , piccioliffime', nonſono però elle tali, che tutte quelle ope razioni, chedalfuoco naſcer veggiamo, adoperar poſla ao . E ne men certamente l'olio potrà mai quella attegné. za coll'aria avere , la qual peravventura immagina il Glif fonio ; perciocchè l'aria , comechè diſcorrevole , c vagas oltremodo ſia , non è perciò umida, ne ad accenderſi,o bru , ciare acconcia , Ma avvegnachè l'acqua alla flemma ſia pure in qualche parte conforme: che compenſo prenderà egli il Gliſſonio a voler duc diverſillims cofs , quali ſono il Mmm file, 1 4384 Ragionamento Seſto . slaai Cáte jela terra dannata , porre d'accorto , e far ch'una coſt fola , e un ſolo elemento elle fiano E fe pur v'ha infra loro qualche attegnenza , nondimeno fallò egli no poco Ari ſtotele a porre quattro , e non più toſto cinque elementi, e principj delle coſe ; perchè ſcompigliata', e ſconvolta ner diviene oltremodo la filoſofia d'Ariftotcle : la qual folle mente il Gliſſonio con quella del Paracelſo ſi ſtudia di ri conciare . Ma ſufficienti non parendo si fatti principj al Gliſſonio a falvar l'apparenze della natura, egli in luogo di ſpiar ſottile mente,ſicome far doveva,i vcri principj onde fiicópongono quelli , al Paracello , e all'Elmonte per dappocaggine ſi ri fugge, e togliendo da foro ciò , cheeſli degli Archei mil lantando dicono : e giugnédovi di vantaggio molte altres fraſche del ſuo , ſcioccamente con si fatti ripari di riſtorar la ſua cadente Gloſofia s'argomenta : dandone apertamente a divedere con quanto poco ſenno imbolato egli aveſſe il piggior di que’libri di que'valent huomini','tralandando d ? altra parte coranti buoni , e pregiatiſſimi diviſamemi , chę coloro in altre coſe,e fpezialmente intorno alla via da do ver curar gl'infermi han laſciati Almondo , che giacea pien d'alto errore.". Dice adunque il Gliffonio eſſer l'Archeo un cotale ſpi rito reggicore , il qual negli ſpiriti di qualunque coſa,il.ca lor vitale , e attuale riſvegli: e muova, e rilievi tutte le cor loro facoltà natūrali : e altri ſoſtegna : e ciaſcuna natural parte dal corrompimento difenda : tenendola buona fperā. zagli fpiriti , iquali egli in feſta , e lietamente fa vivere . Quindi il Gliffonio le varie generazioni degli Archei di ftintamente va rapportando , ein prima quella dell'Archeo dell'uovo»; il qual primieramente eglidice , che habbia lo fpirito ſuo innato, il quale a tutt'altri elementi dell'uovo fi gnoreggi ; e oltre a ciò contenga ancora , ma ſol virtualmé te l'infiuffo vitale , e animale , e che fia ancora delle tre prime facoltà naturali fornito, le quali egli percipientes, appetente, e movente chiama , da una ſpezial diſpoſizione circonſcricte , c terminate . La facoltà percipiente , dicu , egli, DelSig :Lionardo diCapoa. 459 egli , che l'Idea dell'uovo , e quella ancor dell'animale dam ingenerarhi, o della pianta in ſe comprenda; imperciocchè l'Archeodi quelli , non ſolamente ſemedeſimo,e gli effer, ti , i quali egli può produrre , conoſce; ma l'idea ancora dell'animale, o della pianta ravviſa ; ſappiendo oltre a ciò il modo' ancora , e l'ordineditutta ſua formazione, e qual fa tempo acconcio a mandır avanti le ſue operazioni. La diſpoſizione della facoltà appetente compréde in ſe l'amor della natura rappreſentata per l'idea ,e una cotal brama di quella limitata , sìche ſoſpeſa reſti laſua potenza infino al sempo opportuno . E ultimamente, la diſpoſizione della faç coltà movēte porta con ſçco la ſua virtù formatrice, euna tanta operazione valevole , e acconcia , maches'indugi all'opportunità dell'attualeformentazione. Oltre a ciò vuole egli , che l'Archeo nell'uovo anche dopo l'eſſer fuoriquello uſcito dall'ovaja,ligato alquáto ję pigro nerimanga ; perciocchè le ſenza il conſiglio della chioccią , o d'altro ſomigliante ajuto la formentazion dello animale rentaſſc , ad infelice fine ogniſuo ſtudio riuſcireb be . Quindi egli alquante propoſizioni pertinenti alla na. tura di quello va ſpiegando, facendoſi a credere ſe averba ftantemente ogni ſuo diviſamento ſpiegato per gli avvifi dell'ingegnoſo Malpighinell'uovo. L'Archeo, dice egli,di tutto il corpo già formato è di tre maniere: naturale , vita le , e animale ; il primo in due ſole coſe è differente da quel ch'egli è già ſtato nell'uovo : l'una fiè , che egli in quello avca già ſolamente la forza d'operare: e poi nel corpo for mato, in atto già opera ; e l'altra ſi è, che al preſente egli in un caſamento già fabbricato abita , e dimora : al quale in , acto egli fignoreggia . Ha cgli due miniſtri generaliſciò for no l'Archeo vitale, e l'Archeo animale ; e oltre a coſtoro di diverfi altri particolari miniſtri egli è fornito , quali ſono ſenza dubbio gli Archei del fegato , de’polmoni, del ven tricolo , della matrice , e d'altre parti del corpo a qualche uficio dalla natura dell'animal ſorteggiate . L'Archeo vi tale , licoine il ſole è di tutto ciò, che la terra produce prin çipal cagione , così eglią tutte parti del corpo l'effetto iq Mmm 2 flui 460 Ragionamento Sejto fluiſce , comechè da le ſolo niuna coſa egli ſpecificar polfa. L'Archeo animale agli ſpiriti animali tutti è ſopraftante , i quali nel ſucco nutritivo abitano , e dimorano. E dalla perturbazione , e rimeſcolamento di coteſti Archei vuole egli , chele malattie tutte ne avvengano . Ma egli ſarebbe un logorar vanamente le parole , ſe fil filo annoverarc Io vorrei i diviſamenti tutti del Gliffonio intorno agli Archei . Dirò ſolamente apparer manifeſto , ch'egli in luogo di ſpiegar , ſicome egli intende, la natura degli Archei, il che traſandato a ſtudio venne dall’Elmon te , vie più oſcura , e inviluppata la rende . E doveva pure cgli avviſare , che di quelle cofe , che nonci ſono , ne eſſer poſſono , quantomaggiormente ſe ne favella , tanto men ſe i nedice ;ne ſi può ſenza maraviglia conſiderare, come uns sì ſottile, e avveduto notomiſta, qualſenza fallo ſi è il Glif ſonio , eſſendoſi ſottilmente argomentato d'inveſtigar con fua fatica anche le più merome bazzecole da altri poco curate , foffe poi sì vocolo , e traſcurato in ciò , che folle mente ammannare aveſſe potuto cotante ciuffole,e giunte rie , non meno a' ſentimenti, che alla ragion lontane. Ma non tanto del Gliffonio , quanto di tutti quali i va Ient huominiun tal fallo ſi è ſtato ; i qualiper aver più mi nutamente le maraviglioſe operazioni della naturaavviſa tc , diffidando per for manchezza d'inveſtirne le cagioni corporali, e far che da quelle tutte dipender poteffero ,fi rifuggirono a sì fatte fraîche , e ne compoſero cagioni fia tc , e favoloſe, onde natura . Diſdegnofa fen 'duole, e fene'ricbiama. Maſopra tutti in ciò è certamente da biaſimare il fallo del Gliffonio ; il qual manifeſtamente affermando , fe cfſer pago , e contento a ' principj chimici , e a que primicorpi , che coloro chiamano componenti , avvegnachè egli con felli poterſi più olere coll'intendimento procedere traſcor : se egli poi ſconciamente a favolar degli Archei , e sicon fondere , e invituppar la fua filoſofia con arzigogoli, non men vani , e ridevoli di quelli de'folleggianti peripatetici Ma DelSig.Lionardo di Capoa 401 Ma che è ciò , ch'egli dice de’pori di noitra buccia,negan do affatto quegli eſſerci mai ? c pur dice egli, che perquel la ſottiliſſimeloftanze fuor del noſtro corpo continuo tra pelino . La qual coſa nel vero cotanto ridevole fiè, quan to le pruove ancora ridevoli ſi ſono , leqnali egli ſciocca mente a ciò raffermar va cogliendo . Ma chi non iſmaſcel berebbe delle riſa in avviſare i forciliſfimi argomenti , co' quali ſi ſtudia , e s’affatica il Voffio giovane di fare in ciò le fue parti ? Tralaſcio a bello ſtudio , comeche aſſai vi ſarebbe da di re , ciò che egliintorno alle maniere di ſeparar le parti de corpimiſti ragiona · Solamente accennerò quanto egli di que’ſcioglimenti diviſa , i quali , ficome egli dice, avvengo no per congregationem , vel attractionem magneticam , fi ve fimilarem . E in prima va egli rapportando quelcomun proverbio: che'l ſomigliáte del ſuo fomigliante goduzquint di egli loggiugne , che ſicome gli animali dilettanli oltre modo di quelli della tor generazionc, così anche eſſer ra gionevole ad argomentardelle coſe, che nonabbiano ani ma; imperciocchè ciafcuna coſa del mondo per narurat tz Jento la confervazion di se difidera,la quale da’ſomiglianti avviene : e fugge il ſuo diſtruggimento', il quale per li ſuoi contrarj le incontra . Finalmente cglicoichiude: ex dictis conftat , quod per attractionem fimilarem , five magneticam intelligam.nempe alle &tationem , five incitamentum , quo cora pus naturale ad aliud fui fimile fertur. Ma qual coſa in buona fe più ſciocca, e ridevole può per travolto , e ſcempiatocervello immaginarfi giammaisquí to queſta del Gliffonio , il quale a cutte inſenſate foſtanze il conofcimento , e'l poterf a fua balìa muovere actribui ſce ? certamente fe di baona ragione voleva egli filoſofare, dovea pure avvifare ,che le cofe , che ſtanchete , e fenzów movimento , ſe già non fono animate, tali ſempre fe ne ſtao no , infin che per urto da altricorpi tocche, e fofpinte di fuo luogo non partano .Eſe non piace pure al Gliſſonio ciò , che naturalmente filoſofando ragionan que' valent' huomini , de qualiegli l'opinion rapporsa incorno all'an dar 402 Ragionamento Sefto 1 ! 1 1 i 1 dar del ferro alla calamita , doyea ben egli alcra più ragio nevol inaniera inveſtigare , onde ciò ayviene . Ma direbbő per avventura coloro iquali follemente avviſa il Gliſſonio aver con ſue ragioni abbattuti, infra l'altre coſe eller nella calamita una tale ordinanza di pori dirittamente dall'aſſe , il qual dicon magnetico , del quale eſcan continuo fuora particelle ſottiliſſime , e ſpiritali aſſai: e che ſian nel ferro i pori pieni di particellemagnetiche travoltę infra loro , inviluppate per maniera, che entrandovi le ſottiligime para ticelle fpiritali , che efcon fuora della calamita , faccian , l'uficio della formentazione riſvegliando in quelle il movi mento ; le quali poi movendo verſo il polo magnetico, dis rizzino , ci fianchidel ferro forte percuotano : e sì quello co’loro colpi innanzi {pingano ; ma nella calamita -ancora farſi un cotal rimeſcolamento di particelle ſpiritali , le qua. li urtano in eſſa , e ancor la ſpingono intanto , chevicende volmente incontro moyendo dagl' innumerabili corpice ciuoli d'entro ſoſpinti, corrano a cozzarſi. Ne ciò deves punto recár maraviglia , che la calamita ancorada ſua parte fi muoya , comeche più tarda, e lenta i perciocchè ſe nel acqua il ferro , e la calamita ſi pongano,da qualche legno o altrá ſomigliante leggiera ſoſtanza ſoſtenuti , intanto che ſopránocanti poſſano andarea gall.2 , ſcorgefi toſto il ferro notar verſo la calamita , e la calamita d'altra parte verſo il ferro . E ſe ciò pure non ſoddisfaceſſe al Gliſſonio a voler cotanta maraviglia ſpiegare , dovrebbeegli in alera, e altra maniera-la cagione di quella inveſtigare. Maad altro fac cendo paſſaggio, èegli ſommamente damaravigliar della troppo ſcimunita ſchiettezza del Gliſſonio ; perciocchè có tro i propjſentimenti talvolta alle comuni opinioni del vul. go laiciali ſcioccamente traportare : ficome,per tacer d'al tro, manifeſto avviſaſi in ciò che egli de'quattro volgari umori va ragionando; cioè;che con util grande della media cina un tal diviſamento rinvenuto foſſe : e che ragionevol mente damedici feguir debbafi , ficome loro molto pro fittevole , e acconcio a dover porre in opera le purgagioni, e altre ſorte di votamenti ; eche Galien d'altri diviſamengi degli DelSig. Lionardodi Capoa 403 1 degli umori infrămetterſi non volle , ficome poco utili alla medicina. Madi ciò egli toſto pētuto dice eſſervi un quin to umore, cioè a dire il ſucco nutricāte , il qual giudica egli effer soinmamente a ſaperſi neceſſario ,no che utile a chibe neje lodevolmente apparar voglia la medicina; e pure il fuo Galien di quello nulla ragiona, ne moftra certamente pun to ſaperſene. Ne è vero ciò, che egli millanta di Galieno, eſſer quello non poco commendevole per avere cotal divi ſamento da primaritrovato ; concioſliecoſachè poſto che loda pur nedoveſſe all'inventor ſeguire , certiſſima cofa . ſia , che la dottrina de’quattro umori molte centinaja d'an ni, anzi che Galien naſceſſe divulgata già foſſe nelle ſcuo le della medicina . Ma ſe il Gliſſonio intéder vuole di que. gli uinori, che in varie , e varie parti del corpo fan dimora, non mica già quattro , ne cinque, ma molti, e molti egli no ſono, de' quali alcuno non ſi è forſe ancora ſcoverto . Nelle vene, e nelle arterie poi non trovarſi queſti quattro umori, ſi è moſtro già ; ed i più ſcorti,e celebri fra'Galienia ftimedeſimil'han conoſciuto . Vn divifamento poi quaľ è quel di Galieno dietro agli umori, che non ſi da niuna cu . ra d'inveſtigar la natura delle coſe , non ſolamente utile niuno , ma danno graviſſimo alla medicina ha recato Maquanto al medicare , comechè ſcorto molto , eave veduto egli ſi moſtri il Gliffonio in conſiderando una fiata , che'l trar fangue nella Rachitide niun giovaméto rechi allo infermo;nonperò di meno non ardiſce eglia riprovare una sì biaſimcvolcoſtuma dagl'Impirici in Inghilterra , ficome cgli afferma , introdotta . Non propone egli medicamen to , che volgar non ſia; ne contento d'un ſol medicamento , molti e molti inutilmente nemeſcola inſieme non men che gli altri medicanti ſi facciano ;e in ciò ,per cacer d'altro, da egli manifeſtamente a divedere quanto mal fornito'lia d'efficaci, e valevoli medicine . E ciò baſti avere al preſen té del ſiſtema del Gliffonio accennato ; il qual per altro è certamente non poco da commendare ; maſſimamente per la ſomma, e maraviglioſa diligenza , e ſollecitudine da lui pſara nelle coſe dellanoromine Ma 464 Ragionamento Sefto Ma di troppo lungo tempo abbilognerei , fe lo voleli eſaminare i fiſtemi cutti dellamedicina dell'Ogelande, del Regio, del Moebbio , del Carlettone, delBartoli , e d'altri ſcrittori . A baſtanza potrà ciaſcuno in leggêdo le loro ope re da ſe fteſſo accorgerſi, che il più di loro poveri d'intendi mento , e ſcarſi di partito per quanto facica vi duraſſero ,ra de fiate han potuto dar paſſo ſenza la ſcorta d'altri ſetteg gianti,l'opinioni de'quali tutto cheda loroſtravolte,abbia mo noi a ſufficienza conſiderate ,e riandate ; e altri di loro , fra'quali il Tacchenio ,il Travagino,il Sualve,ilFlúdize'l Fo lio fon così groſſi , e materiali ne'loro diviſamenti, che non fa huopo ,che ſe ne abbia a far menzione alcuna particola re : Adunque chiaramente conoſccſi, che da que primi tempi, che ebbecominciamento la razional medicina lino a giorni noſtri,per quanta induſtria, e diligenza , che da'fi lolofanti antichi , emoderni vi ſi fia adoperata , e per qua te coſe per la morta , e per la vital notomia liaoſi nelle ani. mali , nelle minerali, e nelle vegetali ſoſtanze novellamen te ſcoverte , e per quantepruove , e ſperienze da'ſaggi, u avveduti medicanti in sì lungo proceſſo dicempo nelle cus te delle malattic fieno adoperace , non ſe n'è potuto giam mai rierar nulla di ſaldo a ſtabilir per cercano conoſcimer to, e per vera ragione dottrina niuna . Ma non dee ciò re car maraviglia a cui tanto , o quanto alle ragioni pongas mente ; per le quali , s’Io pur non vado errato,apercamen-, te conoſceſi quanto ad huom’malagevole , anzi impoffibile affatto riefca lo ftabilir luftema alcuno di razionalmedicin na; e ſe pure dalle preterite.coſe giudicar delli di quelle , che debbono avvenire, per tanti,e canti, che infelicemente, vi ſon naufragaci non mai ſi vedrà capitarne a ſalvamento ſeggettante alcuno; e ficome... Chi folca il lido perde l'opra , e'l tempo, così avverrà certamente a ciaſcun' altro , che tenterà una ſimile impreſa 3 ne potrafli così nel filolofare in medicina , comenell'adoperarla prometter ficuramente d'aggiugnere a ſaper la natura de'mali,e come, e perchè ne noftri corpi s'ingenerino, e come riparar vi ſi polia . Anzi, o infeliciflia condizione di noi mortali ! nel continuo ſu buglio, DelSig.Lionardo di Capoa. 405 buglio , e rimeſcolamento dellamedicinaper fatica , e di ligenza , che adoperata viſia , chi mai fin'ora avviſare ha potuto , che coſa ſia un piccioliſſimo catarro , che ne mo- . leſti? e . venne queſta veritàmolti, e molti ſecoli avanti co noſciuta per tacerdi Pitagora)da Empedocle ,da Acrone,da altri antichi filoſofáci:e da Platone, il quale della incertezza della medicina favellado ebbe a dire ήν δε καλούσε μενΙατζικής βοήθεια δε πε και αύτη χεδόν όσον ώρεψύχα καύμαπ ακαϊρα , και πάση τοίς τοιούτοις ληίζονταιτην των ζώον φύσιν , ευδοκιμον δε ουδέν τούτων είς αφίαντην αληθειάτην άμεσα γαρδόξοις φφάται τοπιζόμα. Venne altresìconoſciutaqueſta verità, oltre a Seſto Empirico , da Cornelio Celſo :allorche diſſe della medicina favellando : eft enim bęc ars conjecturalis ,neq ;ei refpondent,non folum có . jecture ſed nec etiã experientię per ; nulla diredel Cardi- : nal Cuſano, e d'aleri moderni. E a ciò ſenza fallo riguar dádo i più ſaggi, e ſcienziati popoli della Grecia, quali ve ramente fur gli Acenieſi: allor che maggiormente in Aten ne fioriva la filoſofia , e le buone letterc , traſcurarono la medicina , no facendone niun capitale , come ſi può vede re nel Pluto d'Ariſtofane Ούκούν ιατρον εισαγωγών έχρήν τινο Tis dñi iarsós ész vũv šv tñ wóriet ; .. Ούπ γας ο μιθος ουδέν έσ' , ούθ ' η τέχνη . . E dietro agli Atenieſi anche iRomani; i quali avveduti, c ſagaci in yotar dalla Grecia il copioſo teſoro di tutte le buone arti , e ſcienze, la medicina ſolamente d'imprender non curarono ; anzi dice Plinio : Populus Romanus neque 46- ; cipiendis artibus lentus : medicinæ etiam amicus: donec ex pertam damnavit ; e dagli Eccleſiaſtici ſcrittori vien anco l'uſo di sì fatto meſtiere ſommamente abborrito , e danna to; infra'quali il Balſamone Patriarca d'Antiochia così dela; le manchevolezze di quello avveduto, ne manifeſta: avve-, gnachè la medicina pur quella veramente fia, che produces © riſerba la ſalute ſecondo lo intendimento de laggi: non dimeno non può ella al ſuo fine aggiugnere; ed Arnobio;, Medici curătanimal humi natū , ut confisú fcientia veritate; fed in arte ſuſpicabilipofitum , conjecturarum eſtimationi bus nutans ; e'l medelimo ne ſcrive llidoro Pcluſiost : clo Nnn niin 1 406 Ragionamento Sesto migliantemente con molra vaghezza Stefano Veſcovo di Tornaja : Hippocratisin ebo Galeni diſcipulos , ut mihi confu lant conſulo : incerta famper ab iis oracula deportans, qui in vafevitreo coloris, & fubftantiæ peccata diſcernunt . Perchè 9. Chieſa , come l'apportaro Patriarca Balfamone ne nar ra,Puro, e'l meſtiet del medicare a fuoi Cherici interdiſſe : adunque , egli dice , non è certamente ragionevole , che il Sacerdote , oʻI Diacono , o altro qualunque Cherico tra fcurando un minifterio irrepréfibile, che già impreſe y oraw s'impieghi ad er meſtice mutevole, edubbioſo , e alfai fo vente fallace . E S. Bernardo volle, chei fuoi MonacidiS. Naftagia nelle loro malattie non fi ſerviſler: punto de' me dici ; al che riguardando per avventura Franceſco Petrarca huom di ſaldo, e intero giudicio,ſcrivédo a un ſuo amicogli diede queſto ſalutevol conſiglio : Nulla eft rectior ad falute via ,quă medico caruifje . E certamente, molto ben per mio avviſo venne conoſciuto al Petrarca ,quel che dopo lui avvi sò l'avvedutiſſimo Franceſco Berni , 2.4 . La medicina como fue erbe , e coſe diri Che fa ? caccia carote a tutti mali ..'.... Infin che l'huom perſempre fa ripoſe. Queſtofece ella al figlio d'un gran Rede noftri tempi ; il qualeavvedutofi de vaneggiamentidella medicina , alla fine fece boto scomedarra Giorgio Orni : Si Deus aliam prolem largiatur , nullo se ampliusmedico ufurum . E per ciò oltremodo fu ſaggio l'avvifo diquel profodo cd ampio pelago d'ogni più rara , ed antica doctrina Giuſeppe della Scála, il quale ricusò ,come narra Daniele Einlio ,ognicoſi glio de'medicāti nell'ultima fua inferinità ; ptaceredi quel gran filoſofante Franceſe; il qualecoll'altezza del ſuo inté. dimentoporè montar ſu la vetta del più belſapere; Io di co Michel diMontagna , che nelle ſue infermità rifiutò sê premai l'operade’medicanti : defichepoſcia valevoliflime's ragioni e' ci reca ne'ſuoibelliſſimi volumi. Neparmi qui da dovere trapaſſar lottó filenzio quel convenente di Do menico Sala , celebre lector di medicina nella famofiffima ſcuola di Padová ; il quale canto non potè tenerli, che alla fine , un giorno non apriffe a' fuoi fcolári quel che e' del la Del Sig.LionardadiCapoa. 467 la medicina ſentiva , inqueſta difinizione: Medicina ef ars * illudendimundum , &à qua totus mundusdelufus eft. La qual definizione porſe cagione a Rafael Carrara di chiarir, ſi affatto della vanità d'effa , di tralaſciarne l'eſercizio , e di cantare in quel ſuo giocoſo ſonetto Ben diſe quel grand'huom lettor primero Nela Città d'Antenore fondata , La medicina deve eſſer chiamaja Arte da mincbionar il mondo intero. Ma chealtrondegir richiedendoteſtimonianze di colo ro , che a faccia ſcoverta abbia la medicina guarata . Non folea Mario Zuccaro (a ciaſcun di noi ben conoſciuto ) no ſolea , dico , ſovente dire a' ſuoi ſcolari : miferi , ed infer lici noi , félmondo arrivale a faper maile,debolezze nofire , che ne meno ne poffiam promettere colla noſtra médicina d'a yere a guarir un picciolo carbõcello,certamēte chene cõverreh be apparar altro meſtiere ? E quinciè avvenuto poi,c'huomi ni d'acuto intédiméto , e di ſano giudicio, e di profondo fą. pere , e di nobil'animo forniti ,pulla abbian curato d’eſer citarla; infra i quali per tacer.canţi antichi diligenti inve ſtigatoridelle coſe , ſavj interpetri della natura , ed altri huomini inſigni dc'tempi noftri , lol faro menzione del no ſtro Col’Antonio Stigliola , riſtoratore della Pitagorica filoſofia : e di Gio; Alfonſo Borrelli chiaro , ed eccellente in ogni ſcienza . Anzi quinciè egli avvenuto , che i medeſimi razionali medici,i quali moſtrano che più diciaſcun'altro tengono a gran capitale la mcdicina , l'abbjan , nel maggior hyopo mcNain son çalere . Intorno allaqual coſa miricorda d'un medico infra’più venerandi di queſta noftra Città,ch'eſſen do non ha guari dell'ultimo ſuo male infermato, e vani veg gédo riųſcire,e ſenza pro gli argométituttidella ſua medi cina , diſperato alla fine miſeſi in mano d'un famoſo fpe -ziale ; ed eſſendoſicolui una volta rimaſodi viſitarlo, egli impaziente entro una carrozza fattoſi, un picciolo in atc raſſo allogare , comepotè il , inen male ; alla bottega delo ſpeziale andollene a richiamarſi agram ente della graſcura tezza dilui; cd avendogli par iſcurarſi colui detto : A voi Nnni 2 1012 468 Ragionamento Sefto 4 non fa meſtieri la mia opera , imperocchè quando vi foffe in grado porreſte avereil Sig. tale ( così un principaliffimo medico nominandogli, e di'lui amiciſimo) allora tutto crucciato l'infermo ripigliollo dicendo, io vo'da voi ſola mente effer medicato; e ſareiben folle , ſe volelli mettere in balia delle ciarle di lui la cura di mia ſalute . E dalla medelima incertezza della medicina avvien,che P lo più i medici, ſe'l vero avviſanomolti,e graviſſimi autori Sien così ingorda , e sì crudelcanaglia ; poichè non potêdo mercè della lor opera promettere alcu na coſa dicerto , abbiſogna loro , che alle giunterie , e alle frodi abbian ricorſo peraccattar lode,ed eſtimazione. Ne fon elleno mica nuove le loro aſtuzie : ma fino a'tempi di Galieno , per tacer de’più antichi , eran ſommamente in vi gore.E cui non è noto quel celebre diviſamento di Galicno, tolto per la più parte da Ippocrate, ov'egli mette nella via chi che ſi voglia , acciocchè buon medico divenga: in que. fta guiſa ? In primad'ogni altra cofa è da diviſar delle viſi tazioni de' medici ; perciocchè alcuniinfermi rade , e altri ſpeſſe volte deſiderano eſſer viſitati.Non dec egli il medico ove il malato riposādo dimora étrar facédo romore co'pie di , ſicome fanno alcuni; o alzando di ſoverchio la voce : acciocchè ſvegliato colui non abbia a lagnarli , che gli ſia rotto in teſta il ſonno . Ma i ragionamenti de'medici in al cuni ſono ſciocchi , e ſenza ſenno , ſicome per rapporto di Bacchio, d'un cotal Callinatte racconta Zeuſi: il quale ef fendo da un infermo domandato ,' ſe di ſua malattia morir doveffe , rifpofe con quelle parole , ει μή σε λητωκαλλίταις γά yato , e ad un altro infermo ſomigliantemente riſpoſe: Κατθανε και ΠάτροκλG- όπερ στο πολών αμάνων. Morio Patroclo ancor di tepiù degno. Oltre a queſto dee effer il medico affettatuzzo della per ſona , e grazioſo in entrando , e in ſedendoſi , acciocchè nó gli ſiano fatte le ſcherne ; ma non cotanto tronfio , e traco tato , ina mezzanamente grave , ſe non ſe per avventura amaffe meglio l'infermo vederlo alquanto modeſto , e umi le , o di ſoverchio altazzoſo . E ſomigliante dobbiam noi dire de’veſtimenti del medico , i quali ancoramezzanamé te deb 7 Del Sig.Lionardodi Capaa: 469 te debbono eſſer foggiati, ne cotanto ricchi, e nobili, che troppo tracorato il dimoftrino : ne cotanto ofcuri , eruſti cani, che il facciano poco a capital tenere dove egli ufaw ; ſe non ſe ancora agli infermi, otroppo ornati otroppo vie li piaceffero . Così anchela tonditura de'capelli eſfer dee a grado degliinferini, i quali egli medica ; perciocchè ins corte d'Antonino padredi Commodo,ciaſcun famiglio per imitar la coſtuma dello Imperadore , fino alla cuticagnato , devafi ; perchè Lucio chiamavagli tutti Mimi; e per con trario i famigli di Lucio lūghe,e belle chiome nudrivano. I medici ancora aver debbono l'unghie nette , e ben forbice; e fe per avventura putiffe loro il fiato , o le dicella , o tutta la perſona,a modo di becco , fpiacevole odore gittaſſe , fi debbon eglino d'odoriferi unguenti , od’acque nanfe for nire , prima che ad altri medicar fi preparino . Ma purvoleſſe Iddio , che queſti, e non altri foſſero i lo ro artificj; eglino di vantaggio ricorrono alle frodi, alle in vidie , alle maladizionije ed altre illecite ſtrade, acciocchè fopra gli altri avanzarfi poffano , e maggiormentein pre gio , e ſtima ſorinontare . Così vedeli , che un medicobia fima ; e danna i medicamenti dell'altro ; tutto che que'me deſimi ſiano , ch'egli appunto diviſati n'avrebbe , s’a lui foffe toccata in prima la volta. Al quale , ed anche pega gior misfatto non vergognoſli Aſclepiade di confortare i fuoi ſcolari , fe vogliam dar fede a Celio Aureliano che'l rapportascosìdilui dicendo . Primo etenim invidiosè jubet fi qua ante ipſum medicus adhibuit , repudianda . At fi non adbibuerit ,tuncprobanda , tanquamlegitimaputans ut hæc aliis adhibentibus noceant, ipfomedeantur . Earrab, biato ſeguace & Afclepiade moſtrolli il famoſo Gabriel Zerbi , allor , cheſcriffe : Medicus aliorum remedia ne lave det ,utſupra vulgaresfapere videatur ; e l'aſtioſo Teſſalo fpinſe l'Imperador Nerone a diſpregiar tutt'altri : rabies quadă ,comenarra Plinio, in omnisævi medicos perorans . E d'un tal medico ne narra il giuriſconſulto Alfeno : medicus libertus , quod pataret , fi libertiſui medicinam nonfacerevt, multo plures imperansesſibi habiturum , poftulabat , ut feques rentur 470. Ragionamento Sefto rentur fet ; netie opus facereni , Ed'un altro medico narra Calliodoro , che delbarbaro Tiranno Teodorico un sì fat, to privilegio iinpetraffe : inter faburis magiftros folusbabea, ris eximius : & omnesjudicio quo cedant , qui fe ambitiones maruzcontentionis.excruciant; eſto arbiterartis egregie ,e04 rumquediſtingue confli& us , quos judicare folusfolebat affe Etus. Or li potea penſarmai ſcimunitaggine maggiore di queſto maeſtro Scimmione? Egli aveva a ſedere a ſcrannaa giudicar le più intratriate quiftionidella natura, come ſe la medicina forſe arte da mattonar le ſtrade, a da far bambuc cj ; o comeſemonna Natura ſtata foſſe una maſſaja fante, ſcá, preſta a ſeguire icomandamenti del Sere . Ne è da die favolofa affatto la novella di que’medici , che per uggia ze mal talento guaſtarono , e atterrarono diſpetroſamente ; bagni di Pozzuoli ; e di que'ribaldi ancora , che il mede fimo ferono alle pregiatiſime acque medicinali della valle d'Anfánto , di cui ancor vive la famaappreſo que delpae ſe Irpino . Perchè ragionevolmente forte l'avvedutiſfuno Pietro d'Aponamorde, e sfregia il medico , chiamandolo talora : Invidie pelagus, derrationis organum , ambitionis perforatam clepſydram ;aliena veritatis contradictorem gar . rulum , propriæ ignorantia conftantiffimum defenforem , & inexcufabilem ægrorü neglecturē:c ancor faggiamente avvila il Magati colà ove fi lagna, che'l ſuo govello modo dime dicare non avrebbe trovato gran fatto ricevitori: da che no- sébrava di molto pro.aʼmedici,i qualimzi ſempre fono alla propia utilicà,e al vil guadagno intefi;foggiugnédocgli: denociniis, atque affentationibus , ut potentium gratia uti ad queftum poffint, facram medicinam fædare,c libiitfis æter nas infamiæ notasinurere nihili faciunt . E Giulio Celules della Scala nella fua poetica , de’medici parlando : turban, dice, videmus à primis literarü rudimentis continuo ſe ipſam eo fenomine venditantem , invidam , maledicam ; cbtrecta tricem ; novam ſpeciem cynicorum yavaram , temulentamus Supinam , ignavam fimul,asq ; ignaram . E GirolamoCar dano di finiſſimo giudicio ; e più che altri del meſtier della "incdicina intcndcnte , vuol ; che da eſa neceflarianente 5 avve Del Sig. Lionardo di Capoa 471 avvegna ,che taliticnoquei, chefeſercitaiio : medicina ! facit , ſono le ſue parole ,nonreruin memoris , fed verborü :1 callidos y verſatiles ingenio ;inuidos avaros ; idolofos , las boriofos , non ingeniofos , de minime graves s opus enim coni rúm , d exercitatio minusquam liberalis eft : e altrove pa rimente de medici avea detto: funt autem improbi fermèi omnes noftra ætate , adeò ut nihil pejus excogitari poffit . Perchè gli ftrolaghiallogando la medicina conſervatrices ſotto labalia del Toro , e di Venere , onde huom fi consi dace, per quel che eſſi dicono,ad ogni force d'impudicizitz e di diſonore : c la medicina curativa ſotto quella diMarte, edello Scorpione, fer gran fenno a dovere sì fatti fregj in veſtire, come ne diviſa il mentóvato Conciliatore ; il qua-> le ſoggiúgne , chedalle ſtelle medefime , onde venir ſuole l'eccellenza de’medici nel for meſtiere, vēga anche loro la malvagità de'coſtumi; perchè finalmente ei conchiude,um", eccellente , e perfetto médico nonpoter eſfere ſe non fer fcellerato huomo , e malvagio ; ed avvegáachè vani, efol li fien ſempremai da giudicare i cicaleccj.delfa ftrologia : è nondimenodacredere , chegl’intendenti dell'arte,ciò cut to a bella poſta fingeffero per adattár le coſtellazioni a quelle coſe , chetuttogiorno nel meſtier della medicina', e ne’profeſſori diquella s'offervano's Má chi mai ilmaltalento , e l'uggia demedicinarrar ba ftantemente potrebbe, e come ſtizzoſamente l'un l'altro tutt'ora ſi carminano , efimalmenano . Egli è coſa pur manifeſti a ciaſcuno l'avere gli aſtioſi medicidi Danimarca tracollato dalla grazia del loro Rè it benigniffimo ,e inge gnofifſimo Ticone della perduta ftronomia famoſiſſimo ri. ſtoratore , intanto , chegliene fư tolta l'Iſola , e la Rocca d'Vraniburgo , di cui egli era Signore : e sité tanto mara vigliofe operazioni', é ordignidella ſtronómia , ele nobi lißime chimiche fucine rovinarono , che appená oggi,non ſenza lagrime, fe neriſerba la memoria : E l'ombra foldi si gran corpo appare. Ma ſcelleraggine così grande di tradir nemichevolmente la patria , ſpogliandola di quello fplendentiffimo lume , non pur 1 472 Ragionamento Seſto $ . pur delSettentrione,madel mondo tutto , onde foſſe sõi moſſa a commetterla la cagneſcatabbia di que'ribaldi me dici, da cheIo non potrei ſenza lagrime narrarlo , dicalo in mia vece Pier Gaſſendi : Erant in his medici quidam , qui videntes non modo exDania , fed ex regionibus etiam cete ris maximam egrorum turbam ad Tychonem confugere, cu Spagyrica illiusremedia , quę quibuslibet gratis largiebatur expertifeliciter , ac morborumetiam valgo habitorum infa nabilium levamen fentire , livore inſigni cxardefcebant, cu quapotenant apud quoslibet,procereſquepotisſimum , quibus preftabant operam ,ipfius nomen traducebant, E o quanti ale tri eſempli della coſtoro invidia rapportar potrei, ſe non che troppo ne ſarei per andare alla lunga. Apollo crudca liſſimamente ucciſe il celebre medicante , e , pocta Lino , la qui inorte pianſero eziandio le genti barbare ; per lo che gli Egizi una flebile canzone ſopra tal convenente com poſero , appellato in lor lingua Emaneco , ci Greci Lino, la chiamarono . Ippocrate , comeſcrive Andrea antichiſe funo medico , inſidioſamente brụciò la nobile, e ricchiffima Libreria diGnido ; e quindi egli poi per tcina fuggiſli . A Quinto , medico famofiffimo , dice Galicno , fu meſtieri gombcrar Roma di prelente, per ceſſarele ribalderic d'al tri medici . E in Roina pure attoſſicato da’rivali luentura.. tamente moriffi un grandisſimo medico , come narra Gin lieno , ilquale anco di ſe narra , che egli fieramente perſe guitato yenne da parteggiantimedici di quel tempo. E per nulla dir quì delle occulte inſidie , c machinazioni, e delle trappole , e frodi ordinate dagli Arabi medicanti inverſo Avicenna , Avanzavarre , e Raſi : quai vili trattamenti nó fi ferono poi a Raimodo Lullio, ad Arnoldo da Villanova , a Pier d'Abbano , c ad altri molti letterati di vaglia, perli maligni medici di que' tempi? il dicano pure le fughe, gli elilj, le prigionie ; per tacer delle ſatire, dell'invettive del le falſità , delle tradigioni, onde que’valent huomini có punti oltremodo , e travagliati ne vennero; imperocchè di sì fatto memorie per la tralcutaggine degli ſcrittori di que tempi De Del Sig .Lionardodi Capod. 473 1 Debil aura di fama appena giugne. E laſciando da parte ftare, come coſa dinon tanto rilie ? vo , quanto i limiti dell'oneſtade oltre paſſafle in favellan do, é in iſcrivendo Maeſtro Gio : della Penna , ( chea 'di ſuoi con aura di grido popolare in queſta noſtra Città eſer citar fi vide la medicina , contro Maeſtro Frāceſco Zannel li; egli è ben certo , che più d'un buonno ſcienziato , e il. luſtre trafſe già a fondo l'ardente , e peftifera invidia di Maeſtro Dino dal Garbo medico Fiorentino . Ma quandº altri , e quanti nobili e illuſtri medici, oltre al Veſalio a mal partito menòla velenoſarabbia, e le cupide ambizioſe voglie di meſſer Giacomo Silvio ! collacui eſtrema aya rizia ſcherzando quelgran Poeta Scozzeſe finſe , che ſcola piti foſſero nella lapida della ſua ſepoltura i ſeguenti verke Sylvius bic fitus eft , gratis,qui nil dedis unquam , Mortuus , & gratis quod legis ifta,doles. Ma quali onteper Dio, o quali ingiurienon ſoftenner que! virtuoſi,che con eſfolui cócorrevano alla cura degl'infermi, dallamaladizione , e dall'altezzola , e sfrenata tracotanza delGalieniſta ineffer Frăceſco Rabalefio così reoze malva gio huomo,che d'accordo col Marotto motteggevol Poeta egliosò di gittar le prime födaméta dell'ercſia nella Frácia ? e da Michel Servetto , la cuiempietà era inteſa a rinovellar gli errori di Paolo da Samoſata , e di Marcello Ancirano : e dall'empia , e ſopraſtante arroganza di Giorgio Biandra ti , e di Franceſco Stancato pur esli Galieniſti;per opera di cui ribellando ſi fottraffe alla cattolica fede il giovanetto Principe Giovanni Sepuſio , e quindi ſen ? vennead infeſtar dell'Arianeſimo colla più parte dell'Ongaria la nobilisſima Proviácia tutta della Tranſilvania . E che non fe contro i poverimediciſuoi emoli la barbara fierezza di Giacomo da Carpi; il quale rinovando la lagrimevol carnificina d'E raſiſtrato , e d'Erofilo ,osò , come narra Paolo Giovio, far notomia , non già d'un reo alla morte condennato , come i già detti due Greci facevano , ma vie più ſpietatamente d'un innocente infermo alla ſua cura commeſſo . E per far omai paſſaggio a coſe più note , e men forſe moleſte : che Ooo non + 474 Ragionamento Sejto non oſarono , che non imprefero , che non machinarono a danni del Paracelſo i Galieniſti medici della Germania ? Necertamente è da credere il Paracelſo averſi lui ſteſſo tal briga adoſſo recata perricredere , e rintuzzare il lor rives ritisſimo Ser Galieno : conciosficcoſächè così fieramentes ancora eglino perſeguitarono , e malmenarono Lionardo Fuſio , Giovan Cratone , e Andrea Mattioli ; il quale con meche Italiano , e di patria. Sanefe, con eſfo foro dimora. va; e altri' , e altrimedici,purGalieniftige della formede , fima banda parzionali; e fomigliáte ferono i Galieniſti me dici Italiani a Gio: Battiſta Montano, a Girolamo Fracaſto . ro , ea Matteo Curzio , comechè queſti tutti afpada tratta la dottrina di Galieno difendeffero : e nel medeſimotempo eglino unitamente contro Giovanni Argenterio diGalien nimicocongiurarono . Nedi coralrabbia innocenti ſi ſer barono quegli altri pur Italianimedici ,che ſtizzoſamente & 'avventarono contro il dottiſſimo Girolamo Cardano. Ne dágli Italiani altresì, c daʼFranceſimedici tralaſcioffi quá lunque ſtrada d'oſcurarc , e deſtinguere quel chiariffimo lume dell'eloquenza e d'ognidottrina incendétifſimo Gilt , lio Ceſare della Scala ;'eche non tentarono imaeſtridella famoſt ſcuola diMöpelieri per abbattere il celebraciſſimo Rondelezj, e'l Giuberti, la cuiimpareggiabile , e non or dinaria dottrina ſopra tutt'altre ſcuole d'Europa di gran lunga poggiar gli facea?Ne tono nuove le rabbioſe invidie, el'affrontarebattaglie d'e’medici di Parigi controil Quer eetano ', il Torqueto , il Baucineto , l'Arveto , il Libaviowe tiaſcun'altro Chimico di que'tempi, da noi in parteancor più addietro accennate . È chinon falacruccioſa invetti va compoſta in Parigi da Germano Cortin contro i Para eelliſti fornita dicalunnie'ye di fofiſmi tutti fanciulleſchi , fenza fermezza:niuna didimoſtramento ? Matroppo lungo ne verreišs’Io diſtintamente narrar vo leffi le travaglie ; e le noje;che nella Lamagna ,nella Dania , nella Franciada’rabbioſi rivali fofferirono Pier Severino , Michel Tofſite , Bernardo Perotti , Girardo Dornei,Mar tino Rolando,, Oſualdo Crollio , ealtri infinitimedici doro tillin Del Sig.Lionardodi Capod 475 1 tiffimi, e avveduti affai ; i quali ſempre , o nella fama, a nell'avere, o nella perſonalungamente fur'oltraggiati. E fenza andar mendicando eſempli di fuora , laſciando das parte ftare le non meritare perſecuzioni del noſtro Antonio Altomari,abbiam purnoi con gli occhi, o congli orecchi baſtantemente per addietro compreſo la rabbia de'medici nella noſtra Città contro il Ferrillo , e lo Schipani, e'l For tunato , e'l Ricci, per tacer d'altri, e malmenato da rabbio . filime trafitture d'invidia il Macaone delle noſtre contrade Marc Aurelio Severini ( le cui doctiflime opere in molte , varie lingue traportate non mai per tempo diincaricate la ranno) così egliperaccuſad'invidiofi rivali,ſenza riguardo alcuno averli a'meritidella fua perſona, fu prima incarcerz to , e poſcia toltoglilo ſpedale ove eglia cocantiſpacciati infermi già la ſalute maraviglioſamente avea riportata , alla fine de' ſuoi beni ſpogliato , Ma delle malvagità de'. medici, quali coſe tralaſcerò lo , o quali ne ridiro ? E pero chè non fo lo côte ad una ad una le ingiufte uccifioni , che medici innocentiffimi há per altio d'altri medici miſcrevol mente patito : fra le quali mi rammenta prima di tutt'altre quella ſpietatiſlimaal celebre Virsūgio data da quell'infa me medico Scozzeſe,nó peraltra cagione, come ſcrive Giz no Leoniceno , ſe non ſe, per dirlo colle parole di lui: ob con munem in praxi novatam operam , &à Virſungio non teme re traduct am tăta in virum honeſtisſimum flagravitinvidia . Ma in paragone di tutte queſte, lagrimevole oltremodo è la narrazione del gloriogfimo martire, che ora beato gode nella preſenza di Dio,Pantaleonc : a cui tanto , e si fatta -mente porè l'invidia de’mcdici , che accuſacolo all' Impe cradore di Roma Maffimiano , non mai fi: rimaſero , finchè " non videro per man del manigoldo dal buſto l'onorata te Ita ſpiccarſi. Mache dalla medicina medelma avvenga, che i medici fian così ,comeabbiam diviſato malvagi,polliam farne più chiaro argométo ,perciocchè eglino no pur nelle noſtre par ti , dove parch'abbiſogni più d'un artificio ne'medici: ma anche la dove gli huomini ſon grosſige materiali, anzi che Ooo 110 , 1 2 477 Ragionamento Sefto no , ufano altresìi medici malizie; ed inganni per accie ditarſi nelfor meſtiere. E per tacer d'altre parti: nell'Ia die Orientali , come riferiſce Francefco Silvio , Solent muka ti medici ad febrium variarum curationem acus aureas lone gas , ac tenuisſimas in varias corporis partesintrudere, atq ; ita putant febres miraculofe curare; e nel Tapui danno a di vedere a' cattivelli infermi, che la cagion di lor malattie fian certe pietre , o animali , o ſterpi, o coſe fimili , le qua li e'dicon , che gliele traggon dicorpo a forza di medicine, e vomitivi ; e in tal guifa fi fanno a credere per grandiflimi bacalari ; e in tanta reputazione ne montano, che anche i Re loro invidiandofa , voglion effer diloro ſchiera . Nel ta muova Francia poi , ficome teſtimonia il Padre Brel fani, i medici danno ad intendere a que’popoli, che tutti i medicamenti infallibilmente le infermità guariſcano : ed ove no’l facciano dicon'eſfer il mal ſovranaturale , a cui ſovranatural rimediofaccia meſtiere; e tali aggiungono ef fere per la più parte le vomitive medicine, e só quei volpo . ni sì deſtri , checol vomito vi meſcolan di botto , ſenza che altri lor tolga in fallo , o ciocchetta di capelli, o pietra, o legno, o altro ſimile; il qual ſenza durar molta fatica per fuadono altrui eſler la malefica fættura , la quale anche ta tor fan veduta di cavarlz fuori colla pūca d'un coltello , che tengono infra le dita , o altrove naſcofo ; e ſe poiavviens, che piggioril'infermo, cglino ſoggiugnendo , che il mal d' un altro Demonio fifaccia, il rimedio replicano ; e quando finalmente lo infermo fe ne muoja , ſi fan loro ſcuſe , con dir , ch'il Demonio ,che l'uccide, è del lor più potente ; c in cal guiſa quei ghiottoncelli queſte, e millalcre novelluzze da ridere a quegli imboccano . Or ſe la medicina è tales, che da per fe delle frodi , e degli ingamni abbiſogna , deb bonſi ſtimare certamente oltremodo felici que'popoli, che cosi zorîchi, c barbarida noi vengon detti ; .poichè a loro è conceduto privilegio sì grande di non avere a provar l'o pera dicoſtoro . Felicisſimi furono adunque i terreni del · la Libia y dell'Arcadia , e d'altre fimili Regioni , in cui si dannofa gente allignar per alcun tempo non ſi vide : fe. 1 1 ! + licil Del Sig.LionardodiCapoa 477 licisſimo per fei ſecoli il Popolo Romano , il cui fenno che pote da debolisſimi iniz; ſollevare alla ſignoria del mondo la fua Repubblica,faggiaméteper lo detto ſpazio di tempo vietò affatto l'uſo de'medici. Felicisſima in ciò la gente del contado , che il lor conſiglio non curando,della vita allus ga il dubbio corſo ; onde dieron cagione ad Ercole Bentis voglio di cantare in loro loda Però ſaggioilvillan , chiam'io ,che quando Égli ba la febbre,che più arde se bolle Non va cura di medico cercando; Ma nelgran parafiſmo il fiaſco tolle De l'acqua,.e tanto bee chepoi diviens Diſalubre ſudor fovente molle : Overa l'ombra de la viti amene Il Settembre o l'Agofto a luva mezzo A fare il corpo lubrico fen ' viene; E la manna , el Riobarbarodiſprezza, La piumangbiunti , il ſervizial , la curi , Che tolgon l'appetito , e la fortezza, DifeLafcia diſporre a la natura : Che ſe dato è diſopra,chetu mora , Non ti guarrà dieta ,o lunga cura. E più avanti E narraci un villan nofiro canutog Ch'altro nonmangia , cheformaggio,mentre Ha febbre ; emai non hamedico-auuto. E nonvoglio ( foggiunse egbi) che m'entre Nojofo, e diſpiacevoleGriflero, Neamara medicina in queſto ventre, Ede la febbre nel'ardor più foera Votai fovente in vece di ſillopa Di moſto un capacisſimo bicchiero. E forſe ,che farà queſto qualchenovellar dipocca , o da orator menſonieros Michel diMontagna filoſofante ,un de più grandi', che peravventura abbia avuto la Francia , o fommamente veridico ,non cinarr'egli, che in un villaggio , ove inai non vi bazzicavaalcun medico ,conmiglior ſanità, chial 778 Ragionamento Sejko 1 ch'altrove vivevafi? Maſenza entrare in alcie provincicis ciò non veggiamoa pruova rutto dìnell'Italia echiepper Dio di noiche , non ſappia ciò , che molt'anni avveniffe in quella terra , chenon avendo mai per addietro ravviſata faccia dimedicoil Signor di effa immaginandofarle ungrá pro un ve n'introduſe, ilquale co'falaslijpurgagioni, cve Icicanti, e altri rimedj, ivi non primanominati , non che praticati, ſeppe sì ben pelarla , ch'eravicino ad eſſer vo ta d'abitatori: ed avvedutiſene i vafſalli ,a guiſa di cani mordenti ſi ferono a doffo al padrone, e lo sforzarono ad mandarne via il medico . Manon ſo come caduto dalla . memoria mi'era ciò che al noſtro propofita avviſano il fan moſisſimo Adriano Turnebo, huomio di fingolar giudicio , e di chiara fede: Animadversi , ſctive , in dyfenteriæ popu • larimorbo , in vicis de pagis , qui medicina non utuntur , mortuos , aut nullos ,aut paucos : in quibufdamurbibus plu . rimos elatus à medicis maximofumptu :e Pier Gaffendi huo mo inſignede'tempi noftri : ex iis ; qui medicas adhibent, aliquiſanantur, aliqui moriuntur ;pari modo aliqui Sanar jur, aliqui moriunturex iis qui non adhiberi: avvegnachè eglipoinell'ultimaſua infermità per non diſpiacere aʼme dicanti ſuoi amici ciò traſandandoſi facefle da loro con re plicati ſalasſi uccidere ; e quel celebre medicante Lazaro Meſfonieri ache dice: multi fineullis auxiliis fpontè fanátur. in agris, & pauperes medicis deftituti . Malaſciando que ſto ſtare al preſente, tra per la dubbiezza dell'arte , tra per la varietà delle opinionidelle ſette; e per la nequizia ; e malvagità degli artefici fu egli ſempreragion di ſaggio , e avveduto governo il non darloro orecchja determinar fol lemente coſa alcuna in medicina ; e infra tanti ſubugli di ſchiere , e fazioni non ſi yide mai faggio Principe , o ben , ordinato reggimento vietar a mediconiuno, che con paro le , e con fattinon paleſaſſe iſuoi liberi ſentimenti. Così con loro ragioni non poteronmai o Erafiftrato ſommamé te caro al Re Antioco , o Aſclepiade amato aſſai, e tenuto in pregio dal gran Pompeo , o Antonio Mofaonorato , e careggiato da Ottaviano Ceſare , o Vezio valente adul tero DelSig.Lionardo diCapoa. 479. 1 tero dell'Imperadrice Meſſalinamoglie di Claudio , o l'am, inicislimo dell'Imperador Nerone , Teffalo , far sì, che a medici di contrarie fette gi per comandamento de loro Principi foſſe il medicar vietato e in lor diſpetto liberer fempremai fr tennero le fchierenemiche . Cosi fempremai in Romàse in tutt'altre parti delmondo , nomeno i Razio nali, che i Metodici, e gl'Impirici liberaméte il lormeſtie re eſercitavano , ciaſcun di loro ugualmente il privilegio della cittadinanza di Romagodendo . E dopo le rovines dell'Impero Romano noir ſi videinfragli Arabimedico vā caggiato ſopra altri : ne a'feguaci d'Avicennafu maiper opera de ſeguaci diRaſi', o d Avenzoárre il medicarvieta4 to. Ne infra''noftri ancora, comeche cotanto l'Arabeſche dottrineper tutto ſormontalfero , comeaddietro è narrato , non però di menonon poterono far sì , che affatto abbats tutane foſſe la ſchiera de’lornimicisſimi Galieniſti ;ned'al tra parte poreron mai coſtoro dallor buornome pūto far gli cadere; e avvegnache con ſátire , einvettive lungamen te piatifféro ; nondiineno di nulla mai', o reggimento , o maeſtrato , o Signoria vi s'inframmiſe, ne Principe', che faggio, oavveduto foffe's colle maia parteggiarncalcunod Ein vero , non Sommo Pontefice , o Re delle Spagne, o Imperadore;o Re della Francia, o dell'Inghilterra; o della Suezia ,o della Dania; o altro Principe;oRepubblica mai; ch ," Io ſappia, ſi legge nelle ſtorie, che voluto aveſſe prēder bri gadellegare; o dellediffenzionide’medici. Ne il Re della Francia soi.parlamenti diquella ',e ſpezialmente queldi Parigi, città in cui fivide lapiù lunga', e la piùfieracon tefa infra i medici Chimici' , e Galieniſti; avvegnachèmols to ſtimolato ne foſſedalla ſcuola di Parigi , volle mai inan dare avanti i decreti diquella , nulla curandole ciarle di PierGregorio da Tolofa ( il qual ſe tanto nella filoſofia ,e negli altri buoni ſtudi del Lullio foſſefi innoltrato ,quan to nella Loica di lui s'avantaggiò , certamentenon aureb be egliuna sivergognoſa briga impreſa ) diedeagio a ' Pas racelfifti di liberamente ſempremedicare ;e ad ontapure del Galieniſta Riolanoilvecchio, edi cute'altri nimici , tư di 480 Ragionamento Seſto di quel gran Principe ſempre in grazia il dottiffimo Giu ſeppe Quercetano medico , e conſiglier dilui: e come egli certamente il valeva , ne fu da lui ſommamente onorato ; e quantunque perquella ſcuola infra l'altre chimiche medi cine foffe affatto vietato il dover dare l'antimonio per en tro : pure non che tal divieto aveſſe avuto effetto alcuno, a i Miniftri del Parlaméto Paveſſer mai co' loro arrefti raffer maco , anzi l'ancimonio per ciaſcun medico liberamente adoperavaſi ,comechè nelle cure delle medeſime perſones reali. Ei Miniftri, e ireggimenti tutti de’noftri Invitriffa mi Redelle Spagne , così ne'paeſi balli , come in tuce'altres Provincie della loro Monarchia ſempre hapermeſſo ,le tur tavia permettono l'uſo libero del medicare a' ſeguaci del Paracelfo, e dell'Elmonte , e del Silvione del Villifio , fen-) za ritegno alcuno ; ſpregiando ſempremai, e rifiutando de maladizioni, ei rapporti de Galieniſti . Che ſe mai Prins cipe , o Maestrato inframmetter tałora s'ha voluto , e por mano in affare pertinente alla medicina,e alcuna ſua cola , comechè menoma a certa , e determinata legge ligare , bea fiè veduto perpruova , che ogni loro ſtatuto , a ſconcio , e non laudevolefine ſempremai è riuſcito ; come ſi vide av venire , oltre a quel, che è detto , allor , che perconſiglio de Napoletanimedici venne perla Prammatica del 15620 Puſo della manna sforzata , qual dicono , come velenoſo vietato ; la quale fa meſtiere rivocarla nel 1573. con per metterſi çſprettamente l'uſo della manna dell’Orno , e del Fraſſino , che poco prima era ſtata ſeveramente proibita . E no poffo no arroſsare in leggere que'rimproveri fatti dal Clufio , e dalMattioli , il quale in cotalguiſa favella : Er . rano non poco i medici Napoletani co’loro Protomedici; i qua li fanno proibire ſotto graviſſime pene , che non ſi debba ven . der la manna, che riſuda dalla ſcorza del frasſino , e dell'ora 10 , la qual chiamanomanna sforzata, immaginandofis cle nonſia buona acofaveruna , imperocchè queſta, oltre che pur ga ſenzamoleftia alcuna , e daffi ficuramente alle donne gra videin ogni tempo della gravidezza , è fantiffima , ed eccel, Lentisfima medicina nelle petecchie , e febbri maligné, e pelli, lenzia DeSig. Lionardo di Capod 487 : Jenziali,eſſendo che il fraſſino ha manifeſta virtù controtua ti velewi ; però laſcimo omai iProtomedici Napoletani di peria reguitar coloro, che cavano lamanna dalfrasſino , e non pris vino gli huomini dicosì prezioſo medicamento non conoſciuto da loro , febene viforopiù propinqui di Noi. E ben ſi vede altresì in quanti errori ſieno ircorſi alcuni Giudici in laſciandola guidare a' ſentimenti d'alcuni medi ci: che ben lungo catalogo recar ne potrei. Macontente rommi al preſente di mentovarne ſolamente un'eſemplo di non poca conſiderazione , che facendoſi troppo ſemplice mente alcuni Dottori di legge a credere, i bambini nati di otto meſi non potere naturalmente vivere, come avviſavali Ippocrate , del quale il loro Bartolo portando opinione i diviſamenti della natura cſfer non guari diffimili alle leggi umane , dice : ftandum eft libris Hippocratis tanquam ad théticis : giudicarono quelle eſſere vere ſconciature, e das dover eſſere d'ogni eredità incapaci ; nel quale errore laſciaronſi traportare l'Alciato , e'l Cujacio , e altri au tori di lieva in legge . Perchè il noſtro Matteo degli Af flicti ne rapporta una deciſione ; ove in modo giudicoſlinel noſtro tribunale per haver data intera credenza a' medici , che dal Caranza dottor di legge ſpagnuolo ne fu ripigliato con queſte parole : venit improbandum judicium Protomedi ci Ferdinandi Regis primi Neapolis , & aliorum quos Affli Etus decif. 236. num.4, valentisfimos Philofophos appellat : eorumque ductu Sacrum Confilium Neapolitanum octavo mē fenatum materna fucceffionis incapacem declaraffe afferit; ut meritò decifionem iftam , d predictorum judicium impugna verit Boërius dec. 220.in fine,neque enim ita magnifacien dum eft judicium illud Confiliis philofophorum , medicorü relatorum ab Afflicto fup.ut ab eo quiſquam non malit diſce dere , quam à veritate . Maciò ſopra tutto ſi ſcorge da quel,che narra quell'av veduto ,e giudicioſo ragguardator delle coſc Giacomo Tua no; dice egli, che d'ordine d'Errigo Quarto Re di Frácia, il gran Lemoſiniere , e altri ſuoi famigliari, che co'i may giori valent’hu onini di ciaſcun meſtiere tenner conſiglio ppp i dair 482 Ragionamento Sesto 1 3 di dar compenſo agli abuli della famoſa accademia di Pa . rigi , e che infra l'altre leggi , e ſtatuti diviſarono delle bi. fogne della medicina : ordinando, che i medici di quella ſcuola doveſſero legger l'opere d'Ippocrate , e ogni ſua opinione puntualmente ſeguire :medicos ſono , parole del, to ſtatuto, rapportate dal Tuano, ut leges fibi prafcriptas tee neant , divinum Hippocratem diligenter legant, præcepta ejus religiosèfervent . Empiricam caveant , neque ea ullo modo utantur . Ma cotale ſtatuto non potè giamınai eſſer poſto in opera ; e in vero , ſeque’valent’huomini aveſſero innan zi tratto conſiderata , e riandata cotal biſogna, e riguarda to alla varietà delle ſette , e delle opinioni , e all'incertez za di tal profeſſione, non avrebbono così ſciocco divieto mandaco fuora . E tanto più , che que' inedici , che con figliarono una cal legge , ne prima , ne poi i diviſamen ti d'Ippocrate oſſervarono ; e in iſpezialità nel purgare , e nel ſegnare ,come nel ſecondo ragionamento avviſam mo ; ſenzachè il non valerſi dell'empirica medicina è contro l'ammaeſtramento del medeſimo Ippocrate ; e an zi tutti medici vengono di neceſſità aſtretti a yalerſi delle impirica, come da quel ch'è detto agevolmente coglier fi puore ; perchè gli ſteſſi riformatori convenne certamen te , che alcuna fiato, per non dir altro, veniſſero con em piriche medicine curati , ſpezialmente ſe furono morſi da can rabbioſo , o daſcorpioni, o da altri velenoſi animali . E già parmi o Signori, ſe'l mio avviſo non m'ingannnas che per quel che da noifin qui ragionato foſſe de tantidi vieri della medicina , che ſaldinon nai ſono fungo tempo durati : delle diverle , e ſoventi fiate contrarie guiſe di me dicare , e dalle si varic , e tante opinioni, che fra i medici di tempo intépo ſono venute inſư, impoſſibili a porſi mai im alcun patto d'accordo: dalla lunga incertezza disì dubbio fo , ed inviluppato meſtiere , il quale non ha in ſe dottrina , o principj , ſui quali huomo unquemai poſta porre alcun menomo fondamento : e dal maltalento demediciinvidio fise maligni, affai manifefte fi pajano le grandi malagevo lezze , acui s'avvengono tutti coloro ,che d'ordinar lebis fogne 1 DelSig.Lionardo di Capoa. 483 + ſogne della medicinafi danno alcuna cura . E perciò lag . gio ſembrami lavviſo di quella Città , o di que'Regni , ch' avendo forſe a pruova legià dette verità conoſciute , non vogliono in alcun modo prenderfene briga , ſeguendo in queſta guiſa la coſtuma dell'accorto poeta , il quale , coine Orazio faggiamente avviſa , que Deſperat tractata nitefcere poffe, relinquit . Talfu il fano conſiglio del Signor Duca diMedinaceliVi cerè nella Cicilia ; il qual non che andar voleſſe a ſeconda di coſtoro , anzi prendendole a gabbo , ſcheroù le ambizio ſe,e avare bramedi Filippo Ingraſſia Protomedico di quell' Iſola ; il quale a diritto , ed a roveſcio volcva i maliſcalche ſoggetti alla ſua giuriſdizion ridurre; perchè pubblicò unu libro, ove ingegnofli di far chiaro (ne v'ebbe per avventura a durare la maggior fatica del modo) che la medicina degli huomini,edelle beſtie in nulla foffero fra ello lor differéti, * e che fra medico , e maliſcalco altro di divario non v'abbia, che ſolamente nel pome . Ma lo finalmente non lo fe altri poſla più a propoſito metterci innnanzi agli occhj l’infelice fine, a cui pervengono tutte le ordinazioni in affári di mc dicina ; e ſpezialmente quelle che fatte ſono a richieſta , o a conſiglio de'inedici , quanto Trajano Boccalini : allor che narra , aver Apollo per ſecondar le perſuaſioni d'Ippocrate tenuto a conſiglio alquantimedici ,a cagion di voler ripa rare ad alcuni diſordini ch'avvenivano nel medicare : ma per l'ordinazioni di tali riformatori, non pure no iſcemaro no in alcun patto , ma vie più moltiplicarono le malattie ; e le morti giunſero a tale , ch'egli rimaſe forte maravigliato: ( ſon parole del Boccalini) ch'una diliberazione fatta con ze lo di tăta carità aveſſe potuto fortire il fine infelice d'una tan to calamitofa confuſione; onde bruttamente da Ippocrate chia mandoſi offeſo , eſchernito , che ſotto zelo d'apparente carità verſo il benpubblico , con quel pernizioſoricordo aveſſe volu to aprirſiſtrada all'eſercizio della ſua ambizione: inpubblica udienza , con indignazionegrande disfece il collegio, con ani Ppp 2 mo dia 484 Ragionamento Sefta mo diliberatififimo di far contro Ippocrate qualche notabile rifentimento". Orecco le riufcite di que'riſolvimenti, ches goglion prenderſi d'un arte cosìfallace, e manchevole, Eche ix ſuobaso mai por ha certezzha 1 RAS 485 . RAGIONAMENTO SET TIM Or 220 Bbiam finora fufficientemente diviſato , o Signori; delle dubbietà ,.e incortezze del la medicina ,malagevoliaffaiperhuomo, anzi impoſſibili a ſuperare :'infra le quali ondeggiandociaſcuno continuo s'aggirai; non altrimenti , che picciola , e malforni ta barca irr tempeſtoſo pelago dimare da'fortunoſi ventije dalflottar dell'onde dibattuta', e percoffa'traballa ; o mal pratico viandante il qualecoleo da oſcura'norte,in folta , non conoſciuta ſelva ;per travolti-bronchi , e fterpi andan do, quafiin cófuſo-laberinto s'aggiri, séza potermai riuſci re a dritto ſentiero, ch'a falvamento il conduca'. Perchè non potendoſi in così intralciato meftiere via , o modo al cunoavviſare , convienr'certamente , che'l tutto a poſta, e ad abitrio didifcreto , e'ayveduto medico fi rimetta. Aduna que avendo ilmedicoperle maniun sì grave affare, chento ſenzafallo è dagiudicar la vita , e la ſanitàdi ciaſcuno ,dse egliconogni ſollecitudine,e con ogniarte ingegnarſi di far: giovamentoagl'infermi commeſt alla cura dilui , al mio gliormodo cheſi poſſa ; çfecondochè la condizione d'un sal 486 Ragionamento Settimo tal meſtiere comporta . E (come a coloro, cherompon per tempeſta in mare , i qualiad ogni picciol cravicello , o pan chettirgi appigliano,così parimente dee il medico negl'ince : uob; maroſi della ſua profeſſione valerſi di que’tutti i Jabuli argomenti , che gli li fanno avanti; an corchè non ben ſicuro egli ſia ,che con quelli sì degna im preſa poſſa ridurre a quel fine, al quale l'avrà indirizzita . E quinci ſi è, che quantunque poco ,o niuna certanza recar poſlano al ſuo meſtiere le corezze,che per le cofe,o vedute, olette, o perlo imperfetto, emāchevole umano modo dific loſofare s'acqui &ano; egliimpertanto deein tutte quante Je coſe alla medicina perrigenti eſerbene ſcorto , e cono ſciuto , chiunque voglia con qualche profitto , e laudevol mente cſercitarla ; perchè fa meſtiere , che lo attenendo le promeſſe già fatte in ſu’l principio di queſti ragionamenti, vegga minutamente chente , e quali coſe a fare un buon medico , e perfetto,in quanto ſi poſſa umanamente, c quan to la condizione d'una tal biſogna comporti, ſi riclrieggia no e per tutti diviſatamente diſcorra. Egli ſembra certamente che non vada err ato Ippocra te , o chiunqueegli (i foſſe l'autor del libro dell'arte, quan do dice , ch'a coloro , che vogliono all'altezza della medi cina mόrare faccia meftieri φύσεG-, διδασκαλίας, τόσο ευφυές , tendopatíns,Qinomovins,xpóvx,cioènatura acconciaze nobilize vira tuoficoſtumi , e luogo allo ſtudiarconvenevole , e buon alleva mentoinfin da fanciullezza , einduſtria, e tempo. Richiedeſi in prima natural genio , ſecondo lui; conciolo fiecofachè mancando talvolta, vano affatto , e inutile ogni ftudio , e ogni diligenza riuſcirebbe. Ne è vera l'opinione del vulgo, cheſolo alla poeſia vuolch’abbiſogni quella na , turale inclinazione , dache alla medicina apparare , e tute? altre ſcienze ancora convien favorevole averla ; vero fem premai ciò che dice il noſtro Dante ſperimentandoſi: Sempre natura,ſefortuna trova Diſcorde aſe , cum'ogn'altra ſemente Fuor di ſua region fa mala prova ; Eſe'l mondo la giù ponce mente Al fondamento ,che Natura pone, Seguen . Del Sig .Lionardodi Capoa . 487 Seguendo lui auria buona la gente. Ma voi torcete a la religione Tal chefu natoa cignerſi la ſpada, E fare Re ditalcb'è dafermone Onde la traccia voſtra è fuor di ſtrada. Ma più ch'a tutt'altri meſtieri, alla medicina natural ta lento richiederſi, egli ſi porrà chiaro a chiunque badar vo glia,ch’afmedico talora improvviſo , ſenza aver potuto in prima dello infermo , o della natura di lui molto diſtinta contezza , o eſperimento , convenga diviſar me dicamentijanzi che dal malore iľvigore almalato ſia colto, o le forze ; eďove ancor queſte ſiano all'ultimo ſcemo per venute,no perciò sbigottire allora, ma prendendo cuore, e ardire a novelle cure lollevare lo intendimento . Alla qual coſa fare , chi non avviſa , che fano giudicio , e ſpedito in gegno, e natural ſagacità v’abbiſogni, c tale appunto qual fa meſtiere per avventura a'gra Capitani, e a'comandatori diguerra . E mi ricorda a tal propoſito , che il Signor di Molluch chiariſſimo capitano dir Tolea , ch ' ove il general della battaglia , iit veggendo rotte le ſue ſquadre', e ſcon fitto l'eſercito ,egli , o da vergognago da timore oppreſſo , il ſenno , e l'ardir non perdeſſe ad'un ora , ſempremai buo na ſperanza gli rimarrebbe da poter raccozzare i ſparpa gliati, e fuggitiviſoldati , e incoraggiargli di bel nuovo a fronteggiar l'ofte vittorioſa . Ma potrebbealcun dire,che natura perapparar medicina punto non abbia luogo; o che fe per appararla vi pur biſogni, certamente cotale inchina. zione, eabilità ciaſcun di noi egualmente l'abbia ; impc rocchè, direbb’cgli , quantunque lo ſappia molti, e molti eſſer coloro , che per naturaľripugnanza di genio , o d'ate titudine in altre arti , appena aſſaggiatele , dalla impreſa fi fian riſtati: pur d'uno normi ricorda', ch'avendo l'a nimo alla medicina rivolto , non ne fia medico poſciano e'n buono ſtato divenuto . Eforſe ciò avviene , perchè eſ fendo la medicina al mondo rominamente neceſſaria per riparare a cotante malattie' , il ſommoProvveditores n'ab bïaciaſcun baſtevolmente d'attitudine fornito per apparar lized eſſerne da tanto ; ma a ciò ſi riſponde i ſovrani conli gli 488 RagionamentoSettimo 1 . 6 gli dell'eterno facitore dell'univerſo non eſſer dato di po tere ſpiare al corto intender noftro , come temerariamente altri pur s'attenta di fare : ma ſe a qualche conghiettura ne fi daiſe mai luogo, lo direi che anziperchèdi ſommo pro, c di gran pregio èla medicina, perciò non eſſer peſo di tut tebraccia, ma di pochisfime; ſicome avvien delle coſe più perfette, le quali ſono altresì più rare . Maintorno abuonicoſtumi,che fiorir debbo in colui che d'eſſer medico intéda, fu egli queſto sétiméto del méziona to autore,ſeguito comuneméteda tutti;anziGalieno mede fimo in un luogo dice ,cbe colui, ch'èxibaldo, e di mala co ſciéza no puòmainegli Studi d'un tal meſtiere vataggiarſi . Ne lo ſtenderommi al preſente in ragionar del.conoſci. mento delle lingue; imperocchè della Greca, della Latina, e forfe acor dell'Arabeſca ,e dcHa Tedeſca egli è allai chia ro ,che p iſtudiar ne’libri in quelle cópoſti,bone,e interame te delle medeſimedobbiamo eſſere inteſe: anzi il dottiffimo Samuel Bocciardi porta opinione chesõmaméteal medico ſia neceffaria la lingua Ebraica. Eforſe anche con qualche ſoverchio di diligenza per lo riſchio , chedal non pienamen té intenderle ne può ſeguire ; il che avviſando l'avvedutiſ fimo Arnaldo da Villanova ſtrettamente ne l'accomandò; cne lo diè per regola nell'apparar medicina, con queſte parole : Notitia nominum prodeft ad doctrinam . Et nulla profeéto ars , curiofius , cautius vigilantius homini diſcenda , traétanda, meditanda eft , quammedicina , qua nulla eft pe riculofior: quippe quum in ea verſetur falushominum , vi ta ; per tacer della Loica, che richiede Galieno nel medico; il troppo ſtudio della quale nuoce , non ch'altro , a chiun que veramente approfittar ſi voglia nella filoſofia , eſpe zialmente nella medicina,poichè eſſendo l'intelletto avvez zo a quelle coſe finte , non fa poſcia dipartirſene allor, che delle vere , e ſenſibili ſoſtanze imprendea filoſofare ; onde faggiamente quella grand’alına del ſaggio Galileo folea paragonare i Loici agli artefici degli ſtrumenti muſia cali , i quali tutto dimaneggiandogli, non ſanno poi quan doloro biſogna, ſe non ſe rozzamente valerience Ma ş DelSig.Lionardo di Capoa. 489 1 Ma la norma ſicura de'perferri, e dimoſtrativi fillogiſmi ſolamente dalla Geometria ci ſi porge : e malamente al ſi curo fornito loico , e conſeguentemente buon medico ſarà colui, a cui per le mani gcoinetriche dimoſtrazioni tutt'orx non ſono . E certamente avea la ragione , l'autor della pi ftola a Teſſalo di tanto iſtantemente quello confortare , e fpignere allo ſtudio della Geometria , e dell'Arilmetica : poichè la notizia di cotali ſcienze, oltre agli altri concj,che arrecar ſuole , dice egli: tlu fug'us o &uréple FE xxA THA Qvyesépleas a & ti tò év inagixí óvño Jou răvő mi yeusercioè ,apporta chiarezza, e fortigliezza nell'intendimento , acciocchè poffa ben rintraca: ciar tutte quelle coſe, che all'uſo della medicina abbiſognano. E diſtintamente poi va dimoſtrando di quanco pro fia ad un medico faper Geometria , affermando ancora lommamen te giovevole , e neceſſaria eſſere a ben comprendere le deslogate offa , e l'altre biſogno nella medicina . Mamol to avanti avrebbe egli certaméte della Geometria detto : ſe oltre a ciò ſaputo aveſſe,che séza quella, poco, o nulla inté der ſi può delmovimento de'muſcoli, e de’mali della viſta, e d'altre belliſſime dottrine molto alla notizia dell'ordina mento del corpo umano utili , e neceſſarie . Ma fe ( come più avanti dimoſtreremo) giammai non può eſſer medico , chifiloſofo in priina non fia : c per apparar filoſofia , la Geo metria è ſommamente di meſtiere;egli è pur manifeſto ,che il medico debba efter Geometra . Ne può punto dubitara ſi il convenir cotanto a ' filoſofila Geometria; concioſſicco ſachè abbiamo nelle ſtorie , che gli antichi filoſofanti , tan to biſognevole ſtimaſſero la Geometria nelle loro ſcuole , che no volcan ,cheniuno in quelle entraſſe ,ſe prima inGeo metria ſtudiato pienamente non aveſſe . E'l gran Galileo de’ Galilei , grandiſſimo maeſtro di coloro , ch’alla vera , e dalda filoſofix attendono , diſſe ; In un vaſto volume farfe ne'lafiloſofia tutta deſcritta : e quello eſserne ſempreinnanzi agli occhi aperto , cioè a dir l'univerfo ; ma non mai poterviſe leggere , fc in prima la lingua , e i caratteri , co' quali egliè Scritto, perfetiamente non s'apparino. Egli è ſcritto , dics in lingua matematica , e i caratteri ſono triangoli , cerchi , - Q29 altre 490 Ragionamento Settimo 1 > altrefiguregeometriche,sēza i qualimezziè impoffibile adin të der umanamenteparola : ſenza queſti, è un'aggirarſi vana . měte per un'ofcuro laberinto. Comendaſi adunque oltremo do il ſaggio conſiglio dell'avvedutiſſimo Cardano , il qual mi ricorda , ch'avrebbe voluto , che niuno in medicina non ſi foſſe mai convertato , il quale , mathematicas perfecte no calleret, per dirlo colle ſue parole ; del che recandone la ragione, ſoggiugne : Nam his folum , nec fallere , nec falli contingit; unde qui in illis peritusfuerit ,non eſt veriſimile in propria arte velle ſuperioribus , &fuis, ac fibi ipſi impo were . Ma oltre alla Loica, e Geometria, la Stronomia , la Mu fica , e altri nobili, e liberali ſtudj in un perfetto medico Galieno richiede ; e della Muſica favellando Tomaſſo Cá panella dice :medicusnon ignoret , qui foni, quos motus in ( piritu ,adquas bonas operationes excitět,ut medicinales fint;i quali ſtudj,ſecodo lo ſteſſo Galieno, il primo luogo appreſſo Mercurio ingombrano ; e con molte , e ben compoſte pa role l'utilità , che da quelli ſi trae , va egli ne'ſuoi ſcrit ti diviſando , e quanto egli avanzato ſe ne foſſe ; ſenzachè, dic'egli , ſe il medico , non è di ſtronomia intendente , gran tratto ei ſi dilungherà da’ſentimenti d'Ippocrate , il qual non pur conforta i medici tutti ad appararla, ma molte co ſe ha egli ne'ſuoi libri ſcritte , le quali ſenza ſaper di ſtro nomia , impoflibil certamente fie , che per huomo s'inten dano. Ma nel vero lo non ſaprei mai comprendere , come ben ſi poſſa medicare , ſenza ſapere, il naſcimento , e loco caſo delle ſtelle, e la varietà de climi,e altre ſomiglianti co le , neceſſarie al meſtier della medicina , le quali tutte la ftronomia ne inſegna . Eragionevolmente tutti coloro ch ' un tale ſtudio , come vano , e inutile a'medici biaſimano , punge , e proverbia il buon Franceſco Vallefio , dicen do , che la ſtronomia vien da alcuni giudicata coſa alla medicina affatto inutile , non per altra cagione, ſe non per chè poſſano in cotal guiſa ſchifare lo ſvergognamento, che dal non ſaperla gliene naſcerebbe . Perchè il non mai aba Aan 1 1 Del Sig.Lionardo di Capoa 497 1 1 ſtanza lodato Ipparco aſſomigliava ilmedico ignorante di ſtronomia ad occhio privo della viſiva potenza; e'l famo fiſſimo infra gli ArabiAlbumazar,dice chela ſcienza delle ſtelle a quella della medicina , principio , eguida ſia. Ma fe la Stronomia richiedefi a'medici, non men di quella certamente fa loro meſtieri il ſaper le ſtorie delle coſe, che avvengono al mondo; concioffiecofachè oltre al ſaper di quelle , i principi, egli avanzamenti delle piſto lenze , e d'altre aſſai malattie , manifeftamente talvolta an che comprendonſi le cagioni de’malije i rimedj , ch'a quel li talvolta hanno approdato , e ciò, che per pruova ha noc .ciuto , e giovato agli huomini : e aſſai pienamente ſi com prende quanto dalla lezion di Tucidide aveſſe Galieno tratto di profitto , e altri aſſai medici di gran lieva, e malli manente da quello artificioſo narramento di lui della fie ra , e lunga peſtilenza del Peloponneſo , traportato poi co tanta eleganza, e così ben da Lucrezio nel luo natio idio mi . Ma ſopra tutto ſenza dubbio la natural filoſofia al medico ſi richiede ; imperciocchè , fe perfettamente egli ſaper dee la natura , è l'economia tutta del corpo uma no , le cagioni, così d'entro , come di fuora delle malat tie , le qualità , e le coinpleſſioni dell'aria , delle acque,de' vegetali, degli animali ,e de’minerali turti: conſeguente méte egli ďee ſtudiare in filoſofia,nó come dicono, di primº occhio , e diſcorrendo : ma in quella con ogni intendimen to , e ſtudio involgerſi , e riconcentrarſi, e in apprenderla , pienamente con ogni sforzo , e con ogni opera affaticarſi . Perchè il Paracello chiamar folea la filoſofia madre, e fon damento della medicina ; e Ariſtotele n'impone , che il me dico cominciar debba , ove il filoſofo finiſca; che altro non vuol dir, per mio avviſo, che il medico dal filoſofo non dif feriſca , ſalvo che nell'operare : e che la medicina altro no fia , ch'una operatrice filoſofia . Folle adunque , e danne vole oltremodo è da giudicar certamente il conſiglio d'A vicenna : che il medico ſenza più avanti ricercare , appa gar ſi debba a' detti de filoſofiintorno alle coſe naturali; Raq 2 ne lo 492 Ragionamento Strimo ne logorar punto di tépo in abburattargli,e far pruova del la verità ; concioffiecoſachè il medico in eſaminandogli no che dall'arte ſua fi diparta giammai , come ſcioccamente s'avviſa Avicenna , anzi allor maggiormente vi s'interna , e profonda , e più maturamente l'apprende. E bene imma gino lo , che a ciò riguardando eſfo Avicenna , avviſaffe pienamente il biaſimo grande , che di tal conſiglio guada gnare egli medeſimo ſi poteva i perchè altro non te in tue to il corſo della ſua vita ',' che attentamente ſpeculare , e contemplar le coſe della natura . Miglior ſenza fallo fu l'avviſo di Galieno , il qual ſopra ciò ben’un libro inte . ro compoſe con queſto titolo densos iarbós, og QorbootG.per * chè e' medeſimo dille altrove , il medicare una piaga non, effer impreſa da tutte braccia , ma di color ſolamente che le coſe tutte della natura hanno davanti agli occhi . Ma dove lo traſandava il buono Ippocrate : il qual giudicò fi loſofia , e medicina eſſer compagne ſtrette , e ſorelle ,giua te , ed avviticchiate ; e ſimigliantemente Cornelio Celſo afferma , amendue coſtoro d'un medeſimo parto eſſer nate, così ſcrivendo : Primomedendifcientia pars fapientia habe batur ; ut &morborum curatio , dow rerum nature contempla tio fub iiſdem auctoribus nata fit ;c di ciò ne apporta ragio ne: fcilicet his hanc maximè requirentibus, qui corporum fuo rum robora inquieta cogitatione , nocturnaque vigilia mi nuerant . Ideoque multos ex Sapientia profeſsoribus peritos ejus fuiffe accepimus. E egli è pur troppo manifeſto ,quan to Pittagora , Empedocle , e Democrito , e Platonc , e altri grandiſſimi filoſofi più di qualunque altro Greco nel le ſecrete coſe della natura innoltrati, più di tutt'altri me dici della Grecia ancor s'avanzaſſero ; ſenzachè i fonda tori , e i Principi di ciaſcuna ſcuola di medicina , eziandio della Metodica, e della Impirica , eilor più rinomati ſe guaci , tutti concordementenegliſtudi della natural filoſo fia s'eſercitarono . Perchè il fimile certamente ciaſcun al tro mcdico de’tempi noſtri dovrà fare; e di lor direbbeſi po ſcia con quelle voci d'Ippocrate innsós gap Quómo , iostec , cioè a dire : il medico filoſofo è ſomigliante a un Dio . E 1 1 quan 1 1 ! DelSig.Lionardo di Capoa. 493 > quantunque ,come ſopra abbiamodimoſtro , aſſai poco al baſſo , e loſco intender noſtro nelle coſe naturali di ſaper ſia conceduto ; nondimeno queſto ſteſſo ci da a divedere effer neceſſario al medico lo ſtudio della filoſofia, acciò egli pof fa agevolmente accorgerſi , non aver la medicina certezza alcuna ; e a queſto avendo certamente riguardo , diceva Cornelio Celfo : natura rerum contemplativ , quamvis non faciat medicum aptiorem , tamen medicine reddit perfectum . Oltre alla naturalfiloſofia, la morale ancora a'medici ſi conviene ; concioſGecofaché , ſe come di ſopra è detto per ſentimento d'Ippocrate , di buoni , e laudevoli coſtumief ſer dee fregiato il medico, Io non ſaprei già , come a tal pre gio mai aggiugner poteſſe colui , che coile natural filoſofia la moraleancora non accoppj; ſenzachè la moral filoſofia è quella , cha per oggetto Panino dell'huomo , e in quello ſuol riconoſcere i malori,e lecagioni,e gli effetti di quelli,e darvi baſtante compenſo , ed efficace ajuto . Orcome po trà il medico adoperando il ſuo meſtiere, con valevoli me dicamenti fanar gli ammalati del corpo , ſe in prima le ma lattie dell'animo loro non toglie ? cioè a dire , ſe non fa di filoſofia morale a Imperciocchè i mali tutti del corpo , come da prima, e principalcagione , da alcuna paſſion dell'ani mo ſovente naſcer ſogliono , la qual certamente ne cono fcerc , ne rimuover potrà il medico giãmai , fe dalla moral filoſofia no ſia fcorto. Tanta enim ,dice Sinforiano Cãpegio , per tacer altri , eſt animi , &corporis neceffitudo , ut ſua om nia bona, ac mala , velint nolint, invicem communicent. Per chè della nostra anima facendo parole cantò il Guarino . Qwell’immortal, che null'ha di terreno A terrenidifetti ancor foggiace. E Platone nel Carmide lungaméte ciò va diviſando; la qual coſa ancora , ficome teltimonia Ippocrate avea in coſtu me di fare Eſculapio s il quale appreſa certamente l'a vea da Chirone ſuo maeſtro : e ſe pure dopo ſi è co minciato a feparare l’un meſtier dall'altro , non èmara viglia , dice Malfmo Tirio : perciocchè la medeſima artu di curare il corpo , così in fc ftella diviſa , e lacera ſi vede, : chic 494 Ragionamento Settimo che altri ha cura dimedicar ſolamente gli occhi , altri law veſcica , e altri altra parte del corpo . Ma con quanto di fcadimento , c danno dell'arte , e de’maeſtri di quella , per nulla dir de’poveri infermi, ciò avveniffe ,che partite , e ſceverate queſte due profeſſioni abbiano i medici, ſolamen te inteſi a curare il corpo , ſenza badar punto alle malattie dentro , lo dicano tante , c tante malvagità , e ribalderie operate daʼmedici , come di ſopra dicemmo ; concieſlico fachè non ſon per altra cagione i biaſimi tutti a' medici, e alla medicina medeſima proceduti,che dall'aver clli traſcua rata l'arte dirender ſe medeſimi in prima, e poi gli alţri tute si della verità , della giuſtizia , e dell'oneſtà lodeyoli ama, tori . Ne per altro chiama Ippocrate, per mio avviſo , il medico filoſofo ſomigliante a un Dio , fe non perchè dal medico filoſofo non ſia da ſcompagnar cotal parte cotan 10 eziandio giovevole , e neceſſaria alla medicina . Per chè guardando a tutto ciò Galieno , cercò di riparar ſe condo ſua poſla a tanto diſordinamento , e di riunir di nuovo , e rannodar la medicina colla morale filoſofia: onde compoſe quel libro , ove e' moſtra, comes’abbiano a cono ſcere,per doverſi guarire,i difetti dell'animo; e quell'altro, del ravviſare , e del medicare dell'anime le malattie . Ebé chiaramente ſi vede quanto in ciò, che inſegna altrui e' me defimo profittaſle ; concioſſiccoſachè, come di ſe medeſimo egli narra , era egli avvezzo a ſoffrire , e a portarein pace i caſi.umani, e d'animo grande , e immobile , ne ſi crolla va punto agli urti di rea fortuna: ne perdita di beni , o altra maggiore ſventura era per farlo ſmagare:ne movealo onor di gloria , o burbanza divana ambizione , o qualunqne altra coſa maggiormente al mondo ſi pregia .. Mail medico avendo a guwar le malattie de' corpi uma ni, ea provvedere a quelle, che ſono a venire,non ha dub bio alcuno , che ſopra tutto egli della natura del corpo umano aſſai pienamente dee eſſere doctrinato , e di quelle coſeancora , che riſtorare il poſſano dalle cagioni, ovale. volmente ceſfarle . Or chiunque voglia,per quanto glifia dalla debolezza dell'umano intendimento conceduto , per veni. DelSig. Lionardo di Capon 495 venire a qualcheconoſciméto della natura del corpo uma no , gli conviene in prima il ſito , la figura, l'ordinamento, e la grandezza ,e l'uficio delic parti di quello diligétemente inveſtigare : alla qual coſa manifeſto è , che ſenza l'ajuto della notomia egli aggiugner non poffa : perchè della me dicina folea dir faggiamente Cello : incidere mortuorum corpora difcentibus neceffarium . La qual neceſſità inolto bé gli antichi medici conſiderando , come pienamente nete ſtimonia Galieno , a ufare i noromici ſegamenti fin da fan ciullezza diligentemente s'avezzano . E oltre a ciò egli dee bene inveſtigare , e con ogni ſtudio maggiore andar rintracciando la propietà, o la natura dell'Erera ,dell'aria , dell'acqua, della terra , della Luna , del Sole , e di tutt'al tri Pianeti del Cielo ; da'quali corpi tutti continuo fotti liffime , e non vedute ſoſtanze ſgorgano, quali a pro , e qua li a dannodell'umane vite . Quindi s'andrà egli pian piano innoltrando a ricercar le naſcoſe virtù de'minerali , de've gerali, e degli animali tutti , oide il cibo , e imedicamenti per gli huoinini ſi coinpongono . Cola,la quale cotanto al medico è neceſſaria , che d'effa ſola ſi vanta Apollo preſſo l'ingegnoſo Poeta latino Inventum medicina meum eſt : opifexque per orbem Dicor : &herbarum fubješta potentia nobis . E'I Mantovano Omeroper unico fregio del ſuo lodato Medico riconoſce Scire poteftates herbarum, ufumque medendi. E l'altiſſimo Toſcano Poeta E già l'antico Erotimo , chenacque In riva al Pò , s'adopra in ſuaſalute : Il qual de l'erbe , e de le nobil'acque Ben conoſceva ogniuſo , ogni virtute . Intorno alla qual coſa folea ben dir Oribaſio , che fenza un tal conoſcimento non fi poſſa dirittamente mádare ava ti la medicina έχ οίόν τε είναι χωρίς ταύτης ιατρεύαν όρθώς. Ε gia molto prima di lui la notizia de'ſemplici in più luoghi de' ſuoi libri affai avea accomādara Galieno, i quali paſſo pal ſo potrannoſi da’curiofi ſcolari vedere : e ame baſterà al preſen 490 Ragionamento Settimo 1 1 preſente per raccorciar la lunghezza in così chiara materia d'apportare un ſolo , over'dice : chiunque nel medicare vorrà da tutte parti eſſer ajutato,egli coviene in prima eſser molto bene ſcorto , e auſato nelle piante, e negli aniinalise ne'metallize in ciaſcun'altra cofa terreſtra, delle quali ſervir noi ci ſogliamo ad uſo di medicamenti, e infra quelle , le più eſquiſite ſceglier ſappia ; concioffiecoſachè non eſſen do egli in sì fatte coſe dottrinato , ſe mai oferà un talme Aiere imprendere , ſappiendo , ſolamente in ciarle la nor na del medicare,non mai ſaprà adoperar coſa degna di me dico , Quinci ſi pare quanto errino i medici , comequelli, che pongono queſta parte , cotanto alla medicina necella ria ,in mano degli ſpeziali; concioſſiccoſachè, come avvi fa il doctiſſimo Fabio Colonna : in quo ille medebitur medi. cusiſilocis contingat pharmacopolis carentibus, artem exerce re ? an ne verbis ? c più avanti trapaſſa l'avvedutiſlimo Pier Caſtelli a minacciarne i mali , che di cotal traſcuraggine agevoliſſimamente ne poſſono ſeguire: medicus , dice egli , neſcit quod agro præfcribit: Pharmacopæus ignorat preſcri ptum medicementum : Rufficus herbarius , qui fæpèlegere ne fcit , &à nemine doceripoteft , cafu colligit fimplicia: &hoc modopreparatamedicine rarò fanitatem , fepiffimemortem afferunt , ignorantiæ finem ; e quàforſe egli li parrà ad alcu chc per troppo afpri, e faticoſi ſentieri avendo il me dico condotto, omai delle tante , e tante malagevolezzo , che noi diviſate gli abbiamo , ſenza altra fatica durare ſia per venire a capo . Ma egli va alcrimenti la biſogna, rima nendo ancora dopo tanti viaggi nuovi altri pachi lontani troppo , e non conoſciutia piè volgare : oye fra bålzi, e di rupi, per iſcoſceſi , e avviluppati ſenticri con gran ſudore , e biftento giugner ſi dee . Egli è il vero , che giunto poi quivi , trova ben cento , e mille vaghezze allettaprici , luſinghiere . Già parę di udirvi dire concordemente , che lo voglia favellar della Chimica , nella qual ſi comprende tutto il bello , tutto il vago , tutto il maravi glioſo , che può mai operar la natura,o l'ingegno umano. Ne 10 , zia 2 Del Sig.Lionardo di Capoa. 497, Ne Io fe cento bocche ,, e lingue cento Avesſi, e ferrea lena , e ferrea voce , alcuna menoma parte de' pregj di sì iluſtre , e glorioſo me ftiere potrei narrare.Ditelo intáto voi in mia vece, o arti il luftrio, rare fcienze, o nobilisſimi ſtudi di quella figliuoli'; voi dilettoſe , giovevoli , e neceſſarie al gencre umano arti dell'agricoltura , del fabbricare , del navigare, della mili della ſcultura , della pittura , della filoſofia, della me dicina : voi facendo teſtimonianza della grandezza , e dellº eccellenza della Chimica ,narrate pure, come da effa -i vo ftri natali , il voſtro accreſcimento , ilvoſtro ſplendor trac fte : dite come a'voſtri intendimentiporſe la materia , age volò l'opera : Netacete pure , o ultime pruove' dell'uma na induſtria , gloriofiffime memorie dell'antichità d'Egittor prezioſo nepente commendato dalla ſonora troba de gra deOmero , che co’ſentimenti inſieme i dolori , e gli affan ni de’greci Campioni potcſti aſſonnare; ricchiſſime coppes allanſonti; e voi cento ,e cento altre Egizie maraviglie , che tolte a noi dal teinpo , appena chi vi preſti fede ritro vare interamente potere. Voi ſuperbe piramidi di Mem fi , voi effigiati obeliſchi di Tebe ,che all'eternità confc crati Roder non può del tempo invidalima, fare pur chiara l'eccellenza della Chimica ; e ne'metalli, e nelle gemme , cnegli artificioſi ordigni da quella portivi raccotate i ſuoi pregj,e le fue glorie eternaméte innalzate . Ne mé taccia il tépo quanto a capital tenuta foſſe la chini ca dagli antichi,chegiudicando Diocleziano baftar quella ſola agli Eğizj per frõteggiare, e mandar giù le glorietutte del Romano Imperio, comenarra colui appo Suida,diedes alle fiame tutti i volumi di sì nobil meſtiere, va reixnucios χρυσού , και αργύρε τους παλαιούς γεγραμμένα βιβλια διερευνησαμG έκαυσε και προς το μηκέτι πλούτον Αίγυπλίοις, έκ τ τοιαύτης προσγίνεσθαι τέχνης , μηδέ χρημάτων αυτουςβαρβούν ας πρεσία του λοιπού Ρωμαί oss auliceiv . Ma quanto la Chimica faccia meſtieri alla medicina, da ciò pienamente ſi può ravviſare , che ſenza quella non può Rrr vale. 498 Ragionamento Settima valevolinente operare , ne è da dir arte ſicuramente la mes dicina ; perciocchè , fe come abbiamo di ſopra lunga mentedivifaro , in cicchi , e confufilimi laberinti: invi luppata la medicina , nulla mai dicerto fermamenteriſer ba, non v'ha più valevol lucerna , o più ſicura guida da poter giugnere a qualche veriſimil conoſcenza delle coſe , che la vera , echimicąſperienza . Enel vero , che giove rebbe mai al medico il ſapere ad una ad'una le partitutte annoverare , e ſcernere del corpo umano , ſe.poi della nas tura , e del miniſtero diquelle digiuno. ſi foffe..? certo , che nulla ; licome nulla ancor monterebbe , che notii fiini glifoſſero i ſemplici tutti , eivegetali , e gli aniinali, ei minerali , ſenza ſapere lui la propietà', e l'efficacia di quelli . Perchè a inveſtigar la propietà, e Puficio delle par ti del corpo umano lungamente affaticandoſi gli antichi fi loſofanti , fenza la traccia della chimica a poco felice fine le loro opere riuſcir fi videro : e ciò , tra perchè iſegui ,į le conghietture , onde di prenderle immaginarono , poco men che ſempre fallaci , evane fi erano : e ancora perchè parecchj di coloro , il tutto a quelle ,, che chiaman prime qualità diridurre s'ingegnarono, dovēdoſi per loro più to fto altre , edaltre qualità ſpiarc ,dalle quali molto più,che dalle prime , le operazionidelcorpo umano, come è detto , dipendono. Matroppo malagevoli alcune di quelle fono , e ad intendimento umano moltonaſcoſe ; così ayviluppatou fono , e infra lor intralciate le particelle cutte , onde s'in generano :: 0 per la troppa debilezza de'lor movimenti , o per la picciolezza;,.e cenuità di quelle , o per altre fomi gliati cagioniagli organi de’noftri ſentiméti celandoſi,non ne laſciano alla verità pienamente penetrare; Namneque pulueris interdum ſentimusadhæfum Corpore , nec membris incuffam fidere cretam , Nec nebulam noctu , neque araneitenuiafila Obvia fentimusquandoobretimur euntes . Così ancor vanamente ſtudiandoſi gli antichi filoſofanti di comprender la natura , e la propietà dell'aere , dell'ac que , della terra , delle piante , degli animali, e de' mine rali, DelSig. Lionardo di Capoa 497 rali , in non pochi errori inavvedutamente incorſero:; maw pur della loro dappocaggine ricreduti Ippocrate , Teofra 1to ,, Diofcoride, e altri famoſi antichi filoſofanti , sfidan doſi di poter quella con piena, e perfetta ragionegiam mai ſcoprire , ſenza più addentro vanamente innoltrarſi in fu la lola corteccia ſi riſtarono ., quel ſolamente ſcrivendo ne , che per lungapruova già ſperimentato :n'avevano . H che diè cagiondi iclamare a quel gran lume della filoſofia , edell'eloquenza Romana : mirari licet, quæ fint animad venfa à medicis herbarum genera , qua radicum ad morſus beſtiarum , ad oculorum morbus , ad vulnera ; quorun uim , aique naturam ratio nuſquam explicavit : utilitate, con ars eft, &inuentor probatues, &indi a poco ſoggiugne:quod ſcămone & radix ad purgandum ,quod ariſtolochia ad morfus ferpentum poffit , videmus, quod fatis eft; cur posſit,nefcimus. E comeche altri filoſofanti , emedicidi grido, dallapore , dall'odore , e daaltre ſimiglianti qualità d'inveſtigar ſi ſtu diaſſero , come, o caldi , o freddi, o ſecchiidetti ſemplici foſſero , onde poila virtù di radificare , o di ſtrignere , o di riſtorare , o d'altro argomentar poteſſero : inutilenondime no,e vano ſempre da'brioni filofotanti il loro ſtudio fu giu dicato ; e'l medeſimo Galicno , non che altri dice, queſta eſſere una ſtrada , oltre ad ogni creder dubbievole., c falla ce; ſenzachè ben rade voltc dal caldo , dal freddo , dall'u ! mido , o dal ſecco -naíce: ma vifan la più parte l'amaro , e l'acetofo , ed altre fomiglianti qualità , che ſeconde chia mano . Oltre a ciò , v'ha parecchi de'ſemplici,chène odo re alcuno , ne ſaporc, ne altra manifeſta qualità avendo, só poi di grandiſfime virtù , eziandio belzoardiche , e veleno ſe dotati. E chi mai colla ſola guida de' ſenti potrebbe av viſar , che l'acqua ftigia , che in niuna ſenſibil qualità dall acqua comunale differente fi ſcorge , cosi peſtilenzioſa, en mortal poi ſia ? Solola Chimica con ſue pruove faccendio manifeſti i naſcoſi veleni di quella potrebbe avátiagli occhi di ciaſcuno quegli acutiſſimi ſali porre,che già valevoli furo nel fior degli ani, e'nel caldo delle vittorie a roder crudelmé te al grande Aleſſandro le viſcere ed ogni altra coſa conſu R.15 2 mano , 500 Ragionamento Settima mano , fuor ſolamente l'unghie degli aſimi, come dice Plu tarco : e.de'cavalli avea detto Pauſania ,, Trogo , e Curzio; ed Eliano delle Corna degli aſini della Scitia ; e di quelle delle muledice Plinio:ungulas tătùmmularum repertas, ne que aliam materiā, quæ non proderetur à venena ſtygis agudo E Vitruvio : conſervare antë eam , &continere nihil aliud po teſt nifi mulina ungula . Machi potrebbe mai credere , cheſotto la dolcezza del miele , e dei zucchero cotanto piacevoli alguſto,e ſoavi, a covino poi alcuni ſpiriti pungenti, e roditori non molto dall'acqua forte, e dall'acqua.regia diſſomiglianei ? delle quali gli acutiſſimi ſpiriti net vitriolo , nel nitro , nell' allu me , e nel ſal comune s'appiattano ; e che nel ſolfo diqua , lunque ſapore ignudo , c digiuno dimori un ſale oltremo do acecolo , c roditore ; e che nell'olio delle ulive due fali fi ragunino , uno acutiſſimo , c aſſai valovole a rodere , e l'altro ſoprammodo piacevole , e ſoave ; e che l'acqua pu ra , e ſchietta , che continuo ſi beve , e ſembra al guſto co tanto inſipida , ritengi un fale sì fattamenteacuto , e pene trevole , che ben balta egliſolo in minutiſſime particelle a fminuzzare , e ſtricolare quel duriſſimo metallo , ch'alle fiąmme, ed a'fuochi punto non cede ; echenelle viole, nel ke lattughe , nelle roſe , ne'papaveri ,, e in altre ſimiglianti ierbe , e fiori, giudicati anzi freddi che no dagli erranti medici, un cotalc ſpirito-affocato , ed ardente mícoſo li ftia , dallo ſpirito del vino non punto diſſomigliante . Vanillimi adunque, e fallaci i ſentieri ſono , ch’a ravviſar le qualità de'ſemplici gli antichimedici s'impreſero : e per giugnere alyero conoſcimento delle coſe, cgliè di meſtiere,che pré- . diamo ad avviarci Per ſentier nuovi a nullo anco dimoſtri: cioè (viſcerando , e minutamente partendo ciaſcun corpo per opera della vitaf notomia , la quale Sempre a vincer ſe beffa oprando intefa noi veggiamo oggidi a sì bello ſtato eſſer condotta . E quanto sì nobilc,e glorioſo meſtiere per aggiugnere a'no Itri intcadimenti aveſſe luogo , ben conobbelo il curiofiſla mo Ga . Del Sig.Lionardo di Capoa. for mo Galieno , allor che con ogni sforzo la natura dell'accto ftudiandoſi d'inveſtigare, lungamente indarno diſiderando fi , così ebbe a dire : In queſta coſa Io non ſon per tentar tutte le ſtrade , e tenterò di far ogni pruova , acciocchè poftafi qualchearte , oqualche ingegnoritrovare , col qua le ſeparar ſi poſſano le parti contrarie nell'aceto , ſicomeſuol farſi nel latte . Macertomala pruova vi fe egli Galieno,na giugnendo a ciò, che per ogni menomo ſcolaretto dell'ar te agevolisſimamente s'adopera . Or quat maraviglia fa rebbe all'orgogliofoGalieno ,c quáto da inenoora li ftime rebbe', fe nel meſtier della medicina dopo tantiſtudj,e tan ti fudori daun giovane Chimico frvedeſſe a lungo ſpazio avanzare? nonpur ſappiendo coſtoro in due diverſe ſoltan zel'aceto partire, il che grandisſimo vantaggio reputave Galieno , main altre , ed altre molte quello agevolmente freverare: le quali ſottopoſte poi al ſottile,e profondo eſa minamento de filaſofi , con dar probabile,e verifimile con tezza delle lor varie ; e diverſe propietà , le tante , e tanto maraviglioſe operazionidell'aceto ne vengono a manife ftare . Oltre a ciò lo immagino altresì , che s'egli aveſſes mai il curioſisſimo Galieno qualchemenomacontezza del la Chimica , comeche rozza; e imperfetta aver potut ? , 11011 đì -ſarebbe certainéte maieglimaravigliato , come ſotto una sì grande virtù di riſtrignere , quanta è nel vitriolostanto, tanto calorc covar fr poteffc .- Imperocchè egli con far di quello notomia agevolmente ,el’una, e l'altra ſoſtanza ri. trovata v'avrebbe, onde poi d'amendue gli effetcidi riſcal dare inſieme , e di riſtrignere pienamente n’avrebbe la ca gion compreſa . Efeaveſſemaidiviſar voluto come il me deſimo ſpirito del vitriolo dueeffetti in - fra le contrariope rar mai poteſſe , ſciogliendo aleuni corpi caldiſſimi, e rap prendendo d'altra parte alcuni liquidi , e fortili, e.volanti troppo , ch'a qualunque oſtinato ghiaccio ligar non lila fciano: 0 como manchevole , e imperfetto il ſuo filoſofar. .conoſciuto avrebbe . Or di queſta nobilisſima arte non meno per avventura, che già ſi ſtimaſſe anticamente il pe netrar la, dove F101 902 RagionamentoSettimo Fuor d'incognito fonte il nila muove , tra per le tenebre folte disì antica età , e maggiormente per la non poca cura , che ebbero ſempre i ſuoi maeſtri di ferbarla a bello ſtudio naſcoſa a' più altiingegni;o punto no iſcrivendone, o ſcrivendone purcon ritegno , e riguardo , accennandola con ignoti geroglifici,c.con intralciati eniin . mi , e con oſcure allegorie , e favoloſi racconti inviluppan dola :malagevolemolto,e confuſo per certo , e poco mē,che impoſſibile rendeſi a volerne il ſuo primo incominciamento rapportare; cofa,la quale in tutt'altre biſogne di conſidera zione avvenir fimigliāteméte ſi vede. Ma che che di ciò Gia, .che di sì nobil ritrovato deali la gloria all'antica Paleſtina , o pure alla Fenicia ,o all'Egitto , o alla China , o a qualū quealtra parce forſe più ragionevolmente la contraſta: egli è coſa ben certa,e ben da ſe medeſima appare eller la Chi mica antichiſſima, e da’più rimoti tempi eller ritrovata nel mondo , avvegnachè alcuni non affatto il concedano; e Sao muelBocciardi dica : novum effe inventum della Chimica favellando , nec illius quenquam meminiffe ante Iulium Firs micum ; il che pienamente teſtimoniano Euſebio ,e Zoſimo; e Suida , c ſpezialmente il Firmico , il quale tutto che fio tilſe a'répi di Coſtantino , pure traſſe le ſueſcritture , come ei medelimo ne narra, dall'opere antichiſſime de'Caldei, es degli Egizj; onde dice il teſtè menzionato Euſebio , che aveffe la Chimica apparata Democrito:Aquóxer Qu Abdueírris φύσικο- φιλόσοφG- ήκμασεν εν Αιγύπου μυηθας υπο Οσάνς του Μήδε σαν λέντG- έν Αίγυπω πα αξε τών τηνικαύζ Βαπλίων Περσών άρχων 7 εν Αι. γύπω ιερών εν τω ιερώτΜέμφεως συν άλοις ιερεύσι και φιλοσόφους , εν οίς ήν και Μαρία της εβραία σοφή. Και Παμμένης συνέγραψε περί χρυσού , αργύρα , και λίθων , και περφύρgς λοξώς' . ομοίως δε και Μαρία εσ ηγέθε σαν παρ' ο'τανε , ως πολσίς και σοφούς αινίγμασι κρύψαντες την τέχνην . Μa che Democrito ſapeſſe la chimica , ſi può apertamente ve dere in quel che dice di luiSencca in una ſua piſtola : exce dit porro vobiseundem Democritum invenifle, quemadmodūs decoétus calculus in fmaragdum converteretur, qua hodieque coétura inventi lapides coctiles colorantur ; le quali parole di Seneca fan.conoſccre quanto vada.crrato Giuſeppe della Sca DelSig. Lionardo di Capox For conto Scala ; in facendoſi a credere non avere ſcritto altrimenti Euſebio , che Democrito nell'Egitto foſſe ſtato in Chimie ca addourinato ,ma aveſſe ne'libri d'Euſebio un tal racco to, aggiunto , untal Pandoro monaco; e comcchè ſi conce deſſe a Samuel Bocciardi, Oſtane non eſſere ſtato giammai in Egitto , e ch'eglimorto {ifoffe gran pezza innanzi, che colà andaſſe Democrito ; impertanto qualch' altro di cotal nomepotrebbe effere ch’aveſſe qualche operazione chimi ca a Democrito inſegnata. Ma ſe pure Euſebio errato aver ſenel nome , da ciò non puòargomentarſi eflerturto il rac Ma ben l'antichità della chimica affai: appieno dimoArano le fabbriche degli iſtrumenti dell'agricoltura , las qual ſenza dubbio, niuno colmondo medeſimo nacque adi un'ora :: e'l modo di coporre il pane, o dipremerdåll'uva, od'altre frutte il vino , e l'artificio veramente maraviglioſo di fabbricare i vetri , e diformar le gemme, e'l meſtier del la milizia , e d'altre antichisfimearti giovevoli non poco , e neceſſarie al genere umano ; le quali ſenza la Chimica non fi poteron mai certamente ritrovare.. Edella ſua antichif lima lega collamedicinaben ſi può ravviſar qualche veſti gio appreſſo Teofraſto , ed altri antichi ſcrittori: e da qualche medicamento ancora delle volgari botteghe ſi può co prendere non eſſer sì nuova cotal arte , e da’moderni inge gni ritrovata . Mache che ſia di ciò: egliè certamente l'uo. ficio , o'l meftier dell'arte chimica di ſciorre i corpi unici, e di congiugnere inſieme i diviſi .. E quantunque ella ſia uns fpezial arte , che da ſe medeſima reggafi, ne le faccia ne ftieri, o la medicina, o alcra arte , di cui dipender debba; non però di meno per li molti , é diverſi fini , in cui gli ar tefici le loro chimiche operazioni talora indirizzar ſoglio . no , ella infra varie altre arti ſovente s'acconta ;, ma in tre ſpezie principalınente è partita . La primaſiè, che ſolve, ed uniſce tutti metalli imperfetti p condurgli a quellaper fezione ( come coloro s'avviſano j che l'oro in ſe contiene:e queſta vien chiamata da’Greci aepurunanida , La ſeconda ſi è la filoſofia ,per la quale sì fatte operazioni s'indiţizzano a fin 1 dico 04 Ragionamento Serrimo di conoſcere , e ravviſare la natura , e la propietà delle co fe a' ſenſi ſottopoſte . La terza- ſi è la medica , che il mede fimoſimigliantemente adopera per iſpiare; e conoſcerpie namente la patura de corpiumani, e- giudicar delle ſanità, e delle malattie , e dell'arie , e dell'acque, e demedicamć ti , e di tutt'altre coſe schad huomo faccian meſtieri: e an cora acciocchè i medicamenti per quella ſoavi, e grazioſi fi rendano , e di maggior efficacia ,e ſicurtà per noi ſi ſpe rimentino : e ſi poſſa ad un'ora più felicemente il veroje conyenevole loro uſo inſegnare. Comunque però ſi dica no , o ſi faccian gli artefici, egli è ben chiaro -effer la Chimi ca una cotal arte da per ſe fola; colla quale tanto ha che far la medicina, quanto delle matematiche , o d'altri ſtudij e virtù certamente s’inframinette ; ſe non ſe per avventura dobbiam dire ,che maggiore , e più manifeſta utilità recau alla medicinata Chimica , che tull'altri ſtudi di ſopra ac cennati unitiinſieme, e rannodati ſi facciano . Perchè come medico Chimico -ſuolchiamarſi dal volgo colui , che del la Chinica tanto quanto per lamedicina ſi ſerve , così ſo migliantemente o ſtronomico , o geometra , o muſioo chia mar colui-fi vorrebbe, che per maggior profitto inmedici na trarre , di sì fatti ſtudi picnamente fi conoſce . Ma noi nondimeno del comuni favellare l'ulo ſeguendo, chimnico medico , o chimico filoſofante-colui chiameremo , che del la chinica arte , o per medicare , o per filoſofare quando meſtier gli faccia ſervir Si fuole . Madall'uficio , edal fin della Chimica chiaro'fimiglia temente ſi comprende quanto quclla ne vaglia, e n'ajusi,a1 ži ſicuramente détro alle ſecrete coſe della natura metter ne poſſa . E ſe veriſſimo cgli mai ſeinpre ſi crede , ch'allej naſcoſe coſe Non trova ingegno-umano aperto il varco : chi può mai porre in dubbio , che lo ſcioglimento de'corpi naturali - il più ſcuro, e'l più agevol modofia da pervenirea qualche conoſcimento dique’principj, onde compoſti, e formati i naturali corpi ſono : come appunto dallo ſciogli incnto dc'corpi artificioſi, comed'orioli; o d'altri ſimiglia . ti in Del Sig .Lionardo di Capoa SOS و ti ingegni fi vengon toſto a ravviſar le parti, che quei comº ponevano; il che ben conoſcédo i primi padri,e maeſtri del la natural filoſofia , Pittagora , Parmenide , Anaſimandro , Democrito , e altri ſaggj filoſofanti dalle continue conſide razioni , che attentamente ſempre facevano nello ſciogli mento delle coſe , che daʼnoſtri ſentimentiſi comprendo no le quali noi diciam corpi naturali,di quelle iprimi prin cipj inveſtigar mai ſempre ſi ſtudiarono . Ne d'altro argo méto fervifli Ippocrate a forınar l'opinione de'quattro pri mielementi , ſe non ſe di quello della reſoluziou del corpo umano ; nella qual coſa egli fu poi da Ariſtotele ſeguito : dicendo , nella carne ,nel legno, ed in altri ſimiglianti cor pi contenerſi virtualmente il fuoco ,e la terra , poichè aper tamente ſe ne ſeparano; ma nel fuoco poi noneſſervi altri menti legno , ne carne , ne in atto , ne in potenza ; imper ciocchè le vi foffero , certamente ſe ne ſeparerebbono . E tal ſentimento dalla torma tutta de’lor feguaci vić abbracó ciato ; a'quali ſeinbra aver aſſai bene ſtabiliti i quattro pri mi clementi , con dire , in bruciandoſi una pianta aver vi, oltre al fuoco la cenere , che è terra , e'l fumino, che è aria : e la groinma , la qual riſudando n’addita non mancar vi anche dell'acqua . Ma quanto ſpoſata , e fievole una sì fatta pruova fia ,ben pienaméte il coprede ogni meromo ſcolaretto in chimnica , cui troppo ben ſi manifeſta il macaméto , e i difetti di cota le ſcioglimento ; concioſliecofachè in ardendoſi sì fatti corpi,molte , e varic favoleſche, oltre a quelle , che per la picciolezza in conto verun çavviſar non ſi poſſono , aperta mente per l'aria ſparpagliar-ne veggiamo : ne è da dire la cenere , il fummo, la fiamma, e l'umidore eller corpi ſem plici , e non compoſti, che queſti ancora ove più minu tainente fi folvano , e inſino a primi ſenſibili componenti fi partano , ravviſanfi compoſti di particelle di natura , en d'operazione diverſi, come quelle , che contengono un'ac qua ſemplice , ed infipida , ſenza altra virtù , falvo che d'u mettare: e un'olio puro, ed acceſibile,e uno ſpirito ſottile, e penetrante, e un ſal volante, che ha in ſe, non micno il ſapo Sss re, che 1 506 Ragionamento Settimo le che la virtù tutta del legno : le ceneri altresì fon com poſte di ſoſtanze diſſimili, ciò ſono un ſale fiffo acconcio a fonderſi nel fuoco , ed a ſcioglierſi nell'umido , ed una ter ra priva di ſapore , e di efficacia. E corale ſcioglimento no come il volgare degli antichi in pochi corpi ſi può dimo ſtrare , ma col conſiglio della chimica , poco men , che in tutti corpinaturali adattar puoſli ; oltre a ciò poi più addé troil chimico facendoſi argomentar potrà i ſapori di tutte coſe dal ſal venire in quelle contenuto , egli odori dal ſol, fo , e dal mercurio la penetrazione ; e per tacer d'altro,più oltre ancora procedendo ritroverà , che i ſemi del liquido , e ſottiliſſimo fuoco nel ſolfo alberghino ; o che ſian quellia guiſa d'acutiſſime piramidette , o dipiccioliſfimi globi : e che il ſolfo ſia d'uncinute particelle , e aggavignate com poſto . E così pian piano ricercando la figura delle parti celle del fale , è degli altri chimici principj trapaſſerà a {piegare con probabili conghietture tutte le operazioni di quelli. Così pariinéte dalle chimiche oſſervazioni avviſato , po trà chiche ſia inveſtigare ,come far ſi poſſano le piovese i grā . dini : come s'ingenerinoi tuoni,i lápise le ſaette :come dalla forza delle folgori fi dileguise fi föda il ferro della ſpada,rie manédo illeſa la guaina : come piovano foventi fiate pietre, ſangue , elatte , e come alla fine ſi formino le ſtelle caden o; le cagionidelle qualicole , e altre molte , potemo ogo gi col giovamento della chimica , non ſolo aſſai veriſimile mente conghietturare , ma coll'opere, e coll'eſercizio prat tico imitare ; imperocchè fifaccia dell'oro una polvere nel la fornace chimica ; che dagli effetti oro fulminante appel laſi , la quale acceſa , fa non folo lo ſtrepito , e lo ſtroſcia del tuono , ma anche ilcolpo , e la violenza della faeţea ; il che fa altresì quella polvere da ' chimici parimente ri trovata , la qual tonante chiamano . Così parimente raccoglieſi dall'evaporazioni dell'acque piovane eſtives , un ſale , chemeſcolato con egaal porzione di ſalnitro ,e có una particella di ſolfo fa an coral meſcolamento , che ac celo li fonde in pietra . Ma di troppo più tempo avrei bi fogno Del Sig.Lionardo di Capoa. 807 fogno ſe voleffi Io far parole ditutte altre maraviglie dela le quali le cagioni naſcoſe per addietro , e inviluppare agli intendimenti de’noftrimaggiori ora per argomenro delle chimiche ſperienze ne fi rendono in qualche maniera pia ne , e manifeſte . Perchè non è forſe dadubitare , che ſe l'arte Chimica pervenuta foſſe a notizia degli antichi greci filoſofanti, non avrebber certaméte coloro nelle loro ſcuo le huom ricevuto , che prima in quella non foſſe alcun té po uſato , e ben lungo vantaggio tratto n’aveſſe ; e per mio avviſo con maggior ragionedi quella , onde Platone, e se nocrate volean , che nel filoſofare non foffero ammelli com loro , che della Geometria digiuni foffero , come teſtimo : niano Laerzio , Suida , ed altri; perchè nella fronte dell'an drone dell'Accademia quelle famoſeparole ſcolpite legge váli oudéis ayemjétentos sioitw . Concioffiecofachè la chimica fola il più certo , e ſicuro fenticro lia,da condurre alla na tural filoſofia ; edella ſola porger ne fappia le chiavi, con cui quelle ſalde ,e diamantine porte differrar in qualche modo ſi poffano , ove i più cari, e ricchi tefori deita natu ra fon riſerbati : perchè a ciò riguardando non ebbe il cor to certamente il famoſiſſimo Meſue di chiamare per van. taggio , e per eccellenza floſofi, e ſapienti coloro , che del la Chimicaconvenevolmente s'intendono. Ma per diſcendere al più particolar giovamento , che della Chimica raccor fucle la medicina : Io dico primiera mente, ch'a bene ſpiarla natura de’viventi, e ſpezialmente delcorpo umano, e la ſua ben regolata economia ,la chimi ca lommamente abbia luogo , e la ſua vital notomia ; im perciocchè ſiafi pure coll’opere della morta notomia a mol te, emolte coſe aggiunto , le quali gli antichi ſapicaci ravviſar non poterono ; e lungo tratto vi crrarono : e ſap piaſi pure per quella il vero movimento del cuore , e del ſangue : e che il ſangue non s'ingeneri nel fegato , o nelle vene , fecondochè con molti altri , così antichi , comemo derni porta opinion Galieno : ne men nel cuore,ſicome im » magina Aristotele : c ſappiaſi anche , che il chilo tragittiſi non per le vene miſeraiche , ficome vollono gli antichi me Sss dici ; 508 RagionamentoStrimo dici; maper le vene lattee al ſacco latteo; onde poi meſco laro col ſangue trapaſſa al cuore : e ſappiaſi eziandio , che vi ha le vene acquofe: c come, e per quali ſtrade l'orina per le reni trapelando alla veſcica s'ayvalli : ecento , e mille altri moderni trovati degli ingegnofi notomiſti de’noftri tempi , de qualierano affatto digiune Legentiantiche ne l'antico errore; anzi concedaſi altresì volentieri ( il che non mai sì di leg gieri conceder dovremmo ) che la notomia già all'ultima mano ſia giunta ; e che de'tempi noſtri ſe ne ſappia quanto mai per tutti i ſecoli ſe ne potrà per innanzi ſcoprire , o fa pere :non per tanto non potrà di tutto concio ſervire al me. dico per farlo a quella perfezion ſormontare, che al ſuo meſtier.Sirichiede ; anzidopo tante , e tante fatiche ſaprà cgli ſolamente una vaga, c dilettevole ſtoria delle parti del corpo umano : utiliſſima certamente , anzi neceſſaria a do ver ſapere ; ma non baſtevole già, ne meno a poter in par te fondare , e mandare avanti una verifimile razionalme dicina : per la quale fa meſtieri ſaper le cagioni dentro , ele probabili ragioni delle coſe , non già la ſola ſtoria, e'l ſem plice racconto di quelle . Ne da dir egli è ſaper pienamen te l'economia del corpo umano quel medico , il quale non potrà render ragione della natura della generazione , del movimento delcuore, del ſangue, del chilo , degli umori acquoſi, e d'altre parti così correnti, come ſaldodelcorpo umano , c della propietà ,e operazione di ciaſcuna di quel le ; le quali coſe inveſtigare impoffibile certamente è ſenza dovere a chimici ſcioglimenti ricorrere ; per virtù de'quali Avicenna d'inveſtigare ſtudiosſi l'umidore dell'oſſa , e de' peli : ed affermò,cheavendo egli ſtillato nella boccia parti eguali d'offa , e di peli , uſcì dell'offa maggiore abbon danza d'acqua, e d'olio, e minor di feccia: perchè dic'egli, che l'oſſa più umide , c più ſuccoſe fieno. Ma no pure a ben filoſofare i Chiinici dello ſcioglimēto de corpiſervir fi debbono,ma co argométo ácora ditutt'al tre operazioni dell'arte,bé poſſono veriſimilmente ſpiegare, come tanta varieti di cibi nella ſoſtanza, e nel colore dilli mili DelSig.Lionardodi Capoa. 509 mili ſi traſmuti ſoventi fiate in un bianchillimo , & unifor me licore , che chilo appellaſı ; come poſcia il candore del chilo in ſanguinoſa roffezza ſi trasformi; e donde il cuore abbia il ſuo movimento , e'l ſuo calore , cioè aſſomigliana do la concozion de'cibial diſcioglimento , over disfacimé to decorpiſolidi , in virtù di convenienti liquori ; la gene razione della bianchezza nel chilo , e del roſſore nel fan gue , alla trasformazionedel colore nel latte vergine , e nell'eſſenza del fatirione , e altre ſimili coſe ; la continua produzione del calore nel cuore , e nel ſangue : al fervore , che per la formētazione s'ingenera ne’liquori de' corpi ve . getabili . E cotanto montano per mio avviſo sì fatticono ſcimenti, che ſenza quelli nonſi può coſa del mondo intor , no alle malattie , a’lor effetti, e cagionigiammai diviſare; ne in altre faccendo delcorpo umano , coſa alcuna di con ſiderazione potrà per huom maidirſi , fe minutamente les dette coſe , e molte , e molt'altre per virtù della Chimica in prima diligentemente non s'inveftighino , le quali tutte lungo ſarebbe al preſente volerle quìfil filo narrare . Ma non men utile , non men giovevole, e neceſſaria cgli è certamente ancora al medico l'arte de Chimici,colla qua le egliponendo ad una rigoroſa , e ſottile eſaminazione l'aria , le terre , l'acqua , le piante , e gli animali , eimine rali corpi , attentamente poine ſpia , e ne conghiettura la natura di ciaſcuna coſa ; e di qualunque lor menoma parti cella le propietà , elevirtù , ele maniere tutte dell'adope rare con probabili, e ſimili conghietture ravviſa . E nel vc ro queſto , che ciaſcun di noi , e tutt'altri corpi di quà giù ſempremai circonda , penctra , avviva, emantiene, valtiſ fimo, e diſcorrente , e lieve , e ſereno , e ſottiliſſimo cor po dell' aria : la quale l'acutiſfimno infra gli antichi Ita liani noſtri Timeo di ſgretolate , e minucillime particel le di ben venti facce compone, non è egligià miga ſem , plice corpo , come il volgo follemente s'avviſa ;ma di varie, e diverſe ſoſtanze compoſto inſieme , emeſcolato . Sorgo no queſte dalla baſſa terra talora , edall'acque , che quella , irrigano, e forſe anche dalla luna, dal ſole, c da altri corpi fupe. l 5102 Ragionamento Settima faperiori vi piovono ; per li qualil'aria, o più , o menoalla reſpirazione, e agli altri biſogni degli animali acconcia fi rende, poichè nelle cimedegli altiſimi monti , ove non giungono l'eſalazioni dell'acqua , e della terra , gli animali fi foffogano ; perchè poi in coloro in varie guiſe le malattie naſcer veggiamo; perchè canrò Virgilio ſubito cùm tabida membris Corrupto cæli tractu , miſerandaque venit Arboribufque ,fatiſque lues,lethiferannus. Ma tali particelle meſcolate inſieme , e nell'aria coufuſe aſſai malagevolmente per certo , aozi in niun modo ravvi-, far ſi poſſono , ſe non ſi partan prima', ſolvendoſi ciaſcu na di loro ne' ſuoi primi componenti . Il che con ma raviglioſo artificio da alcun de'più eſercitati, e più intens denti Chimici felicemente operar ſi ſuole: e ben ſi ſcorges omai a tal ſegno la coſtoro induſtria avanzata, che per ope: ra del famoſo Drebellj,parche vi ſi fia già ritrovato perre ftituirlo all'aere, qualora ne veniſſe egli privo ,quelnobilif ſimo eliſlire, che giuſta i ſentimenti di Paracello vita infó de a quanto Qui nel mondotra noiſimuove , & fpira ; che perciò egli vitale l'appellasper cui l'aere non ſolamente agli animali ,maalle piante cziandio oltremodo neceffaria eller li conoſce ; e ben di eſſo felicemente avvaler ſi vide to ſteſſo Drebelli, allorche egliquella maraviglioſa bar chetta da lui fatta a richicſta del Re Giacomo della Gran Brettagna con iftupor di tutti ſotto acquanel Tamigi fena vigare ; coméchè il detto eliſfire altro ancor faccia , cioè folvå , e precipiti giù quelle ſoſtanze nell'aere , che'l ren dono mai atco alla relpirazione . Ma l'acqua, la quale per bevanda, e per altri infiniti ug è cotanto biſognevole, quantunque chiariſſima, e traſpa rente , c pura a tutta poffa fi ſcelga , eli proccuri ; e che al fapore , all'odore , e alla leggerezza, ea tutt'altri ſesnali ſempliciſſimo corpo in prima neſembri; pur riandata poi, oltre a diverſe foſtanze, che meſcolare vi ſi trovano , ſe ne cava ancora un tal ſaie sì fattamente acuto , e pugnereccio , che DelSig . Lionardo di Capoa JEI che di nulla ha che cedere in forza aque'ſali ,onde per l'ac qúa regia quel duriſſimo metallo fi ſcioglie , comediſopra accennammo, che a qualunque violenza di fuoco, ſaldo , e oftinatiſſimo mai ſempre contraſta ; perchè è dacredere nó bene operar coloro , che il diſtillar acqua per limbicchi di metallo , e maffimamente di piomboagli ſpeziali permet tono ; conciosſiecofachè roſicchiato alquanto dallamorda cità di quel fale il piombo, e trameſtandoſi l'uno all'altro , vengonoinſieme a corrompere,e meſcolare; e guaſtar ma lamente la ſoſtanza diquell'acqua , che ftillaſi:e allora veg giamo coforarſi a poco a pocol'acqua , e a guiſa di latte biancheggiare , quando diſtillata a campana di piombo có altra femplice , e non diſtillara acqua ſimefcola ; ilche fag giamente avvifarono già i dottiſſimi Accademici del Cinně 80. Ma che che fia di ciò , oltre al ſale , il ſolfo altresì , e'l mercurio , e la flemma, ela terra dannata ritrovò nell'ace qua il dottismo medico , e chimico filoſofante Borricchio . E che diremonoi de ſemidi tantis e tanti vegetali semine rali, e animali, cheper la glorioſisſima induſtria d'alcunº altro Chimico nell'acqua ancor ſi avviſano : il che diede per avventura cagione agli Egizzjdi giudicarla primera , e univerfal materia ditutte coſecreate , da'quali tolſe Ome ro a dire : Ωκεανόν πθεών γίνεσαν και η μητέρα τηθε ePautore di que' verſi attribuici ad Orfeo Ωκεανόόσπερ γένεσις παντεσσι τέτυκάι . Ωκεανών πεώτG» , καλιρρόσυ ήρξαι γάμοια oʻpos saoryvártee góptopýtoege TyIwTHEY, E’I noſtro poeta , per tacer Virgilio , Catullo , ed altri, ſe . condo il medeſimo ſentimento avendo egli al fuo Filagli teo fatto ragionare in prima della terra, Pur non è ella il gran principio immenſo, Ilgranprincipiodele coſeeterno, Benchèmadre fichiami, e velta : & vanti La reggia , ei figli ſuoidivize giganti, fa poi, che coluiſoggiunga: Mafo degna di fede ,èfama antica L'O ! ST2 RagionamentoSettimo . L'Ocean de le coſe.è vecchio padre. Il qual ſentimento fu anche di Talerc Mileſio , il qual ncl. la ſcuola de ſapienticosì preſſo Auſonio va dicendo Milefius Thales , aquam qui principem Rebus creandis dixi. E ciò dal vedere egli , come fasſi a credere Ariftotele , effer umido , così il ſeme , onde s'ingenera l'animale, come il cibo del qual ſi nutrica : e dal credere, come riferiſce Plutarco , il ſole , e le ſtelle da'vaporidell'acqua nutrirſi, o dall'avviſare ch'ogni qualunque coſa dall'acqua nafca , ed in ella diffolvafi, comc racconta Euſebio . Malo immagi. no , che Talete non già principio delle coſe abbia voluto eſſer l'acqua , ma giudicato aveſſe aver d'acqua in primas avuta ſembianza e, forma quella materia , onde poiſecon do il ſuo avviſo i corpi tutti ſenſibili del mondo si formaro no; ciò parimente ravviſar ſi puote dallo ſcoliaſte d'Efiodo , allor che dice , il caos d'Eliodo , altro non eſſere, che l'ac qua . Ma non men dell'acqua , e dell'aria ſi dee ancora prender cura delle terre , c con attentisſima eſaminazione conſide rarle , ove certamente infra tante , e tant'altre ſoſtanze,che Vallignano foglion diverſe , e varie ſorti di minerali' ritro varſidagli ; aliti de'quali reſa talora peftilenzioſa, e corrot ta l'aria , o l'acqua , o le piante, o le frutca , nuove , edi verfe guiſe di malattie ſovente cagionano: ne altronde, per quel che già Io ini creda , quelle gravisſime febbricomor tal riſchio degli ammalati in cotali ſtagioni dell'anno accé der fi fogliono, che per cambiamento d'aria avvenir comu nemente fi giudicano , ſe non ſe da sì fatti aliti, e ſuapora menti de'minerali, che pervenendo al noſtro corpo , e dall' aria , ed all'acqua , e da' cibi quivi racchiuſi , e ingozzati, ſcoppiano poi per la loro abbondanza, e ſoverchio vigore in ardentisſime malattie ; imperoccliè in quelle ſtagioni il fervor del fole facendo venir ſu gli alitį arſenicali, vitrio lati. , nitrofi , e ſulfurei dalle occulte miniere della terra , rende l'aria dannoſa, e nociva alla unana ſalute ; concioſ fiecolachè in ponçido noi mente alle chimiche operazioni e 1 o ray 1 Del Sig. Lionardo di Capoa 513 2 ravvifarido , come alcuneſoſtanze , le quali comechè ſc parate ſi prendano ſenza alcun nocumento per la bocca, im pertanto confuſe formano un mortifero veleno , come nel ſolimato ſi vede , del quale ogni qualunque menoma parti cella mortalmente offende, potrasſi agevolmente conoſce re, come reſpirādofi ne'viaggi ora aliti mercuriali, o a'mer curiali equivalenti, ed ora ſalini , pofſa produrſi nel cor. po noſtro una ſoſtanza non guari disſimile al ſolimato ed indi poi quelle mortali infermità di cambiamento da ria appellate agevolmente s'ingenerino . E ciò vien conferinato dalla ſperienza, come quella , che ci dimoſtra, ivi avvenir le malattie di cambiamenti d'aria , ove ravviſa fi maggior varietà diminerali , ed ove il calor del ſole per cuota maggiormente ; ne da altro , che da aliti velenoli, e nocevoli de'minerali da crederè, che s'accendano ancora quell'altre febbri non men malvagc, e non men peſtilenzio ſe delle prime, che avventandoſi tratto tratto con lor vio lenza alle Città, e a' contadi , e a’villaggi tutti, fogliono così infra breve ſpazio di tempo impoverir d'abitatori le contrade . Ed abbiam noi pure con gli occhi proprivedu to quanti , e quanti da sì fatte cagioni nella noſtra Città miſerabilmente morti ſiano, e ſpezialmente ne'meſi addie tro, quando crudelmente diſcorrendo in alcuni luoghi la peſtilenzial febbre, laſciò vuoto , e diſpopolato il Borgo Sant'Antonio , ed altre terre ,non ſolo della Campagna Fe lice , ma d'altre Provincie ancora del Regno noſtro . Ed è egli neceſſaria ancora ſoprammodo a'mcdici la chi mica acciocchè eglino con l'ajutodi quella valevoli a ſpiar la natura , e la propietà de'cibi, e de'ſemplici medicamen ti render ſi poſſano ; conciosſiecofachè quantunquc vero egli foſſe ciò che Galieno medeſimo coſtantemente niega's c rifiuta ;che i ſapori , e gli odori, ed altre ſoiniglianti qua lità, certi , e ſicuri ſegnali della natura de'cibije deʼmedica menti ſiano, pure perciocchè gli organi de’noſtri ſentimen ti di sì ſottiltempera, c di sì acuto intendimento non ſono , che poſlan ſempremzi ben comprendergli , egli ne fw certamente meſtieri per iſcorta de'ſenſi rintuzzatil'Ermeti Ttt C2010 5.14 Ragionamento Settimo ca notomia , la quale partendo i corpi , ed eſaltandone le qualità ( per ſervirmi d'una voce dell'arte ) quelle poi ma nifeſte a'curioſi, e ſenſibili maggiormente offerir poffa . E quale avviſo potrebbe mai per huom' prenderfi dal ſolo fpiamento de ſenſi intorno a que'cibi,e a que'medicaméti : che pur ven'hà molti : edanche intorno a que'veleni, che privi affatto ,e ignudi d'odore ,e di ſapore,e d'altre ſimigliá ți qualità , di tanto vigore , e di sì inaraviglioſa efficacia ſi conoſcon poiper pruova , qualia danno , c quali a prode gli huomini , chc nulla più ? E quale argomento prenderem noi dal ſapor di quelle coſe, che di ſoave dolcezza maſche. rate in prima , come già altra volta abbiam detto, ne lufin gano il palato , e la lingua , e poi tranguggiate , nello lo maco formentandoſi, le viſcere, cgl'inteſtini crudelmeute , n'offendono ? Coſa ,la quale nel zucchero, e nel mele , e in ciaſcun'altra ſimigliante coſa manifeſtamente fi ſperiméra, Che dolce al guſto , a la ſaluteè rea ; perchè facendo le beffe a' volgari medici il motteggevol Berni, così proverbioſamente ne favella: Il melperchèmangiato altrui diſtempre, E’n collera ſi volti ; a cui l'amaro Danno coſtor , che fan tutte le tempre: Queſto ſecreto così degno , e raro Maſtro Simon ftudiandoil Porcografo Scoperſe a Brun , che gli fu già si caro. Or fa tu l'argomento o Babualo , Edì , fe'l mele in cullera ſi volta , Segno è , che d'amarezza non è caſo. Ma comechè così alla ſcoperta n'ingannino i ſentimenti ilmele , e'lzucchero con far veduta d'eſſer cotanto dolci, foavi ; pure de’lor falli agguati ne fan pienamente avveduti le chimiche machinazioni, con darnemanifeſtamentea di vedere, nel zucchero, e nel mele un ſale acutiffimo naſcon derſi, nonmolto a quel dell'acqua forte , e dello ſpirito del nitro dicimile : Quis mellis dulcedinem nefcit? dice Pier Severino : nibilominusin tanta dulcedine latent Spiritus illi acutisfimi , qui ubi exaltantur , & ad extremitatem ducun :: tur, Del Sig.Lionardodi Capoa. 515 tur,venenatā perniciē represētāt.Eprima dilui Baſilio Vale. tini già detto aveva:jā vero ex illo fuavisfimiq ;faporismeile Corroſivă peffimü, atq ; præfens venenum præpararipoteft. Or va medico ingannato , e ſciocco , e giudica pur dalle qua lità , ch'a prima faccia viſcorgi,le cofe della natura ; con danna la rigidezza nel ſal comune per la rabbiofa ſete , ch ' accenderſi da quello sformatamente rimiri: ch'ad ontz pur della tua mellonaggine han ſaputo i Chimici un fales aceroſo rinvenirvi ad attitare anche agl'Idropici più ane lanti la fete . E che direm poi del pepe , che così mordace; e pungente , puré un dolciſimo, e ſoaviffimo fale in ſe na fconde ? E che d'altre , e d'altre pruove infinite , che per interamente fpiegarle vi vorrebbono lunghi volumi , non che piccoli diſcorſi di ragionamenti ? Sarà dunque da con. chiudere , che noi per quanto con tutta noftra poffa a ſpia: rei ſegreti delle coſe del mondo ci adoperiamo , pur nonui ne poſſiamo fe nonſolamentele priincbucce comprendere; perchè ſe chimica mano non le parge , c riſolve , e diſtinta mente elaminandone le parti , le naſcoſe interiora di qucl le non ci addita , e le operazioni, e'l convenevol modo di farlo , certamente chiunque ciò follemente intende Ne l'onde folca , é ne l'arene femina. Eben di ciò fe manifeſta pruova il Cardano ,che col lim. bicco , e colla Chimica giunſe a ciò che comprender mai non poterono , o Ariſtotele , o Galieno ; e ciò fu , che nó fappiendo coſtoro la cagione , perchè cotanto noccia il vi no ,maſſimamente generoſo , e pretto a colui, che paciſca di mal caduco,egli ſolamente colla ſcorta della Chimica potè a fuo credere affai veriſimile ritrovarla:hoc verò dico ( sõ ſue parole) nõ cõvelli puerosà vini potu ob caliditatem ;quum neq; pipere,neq;aliis aromatibus id eveniat: neq ;quod fithumidū; nă vel noeft, vel lac longè humidius, à quo tamen non convel tuntur . Caufsa ergo eft aqua ardens , quæ in illo continetur : que quum latuerit Ariftotelem ; & Galenum, meritò in Aris fotele admirationis cauffam præbuit , in Galeno multa perpe tam commentandi; eftautem abundantior , quo vinum craf Ttt . 2 pius eft. . 116 Ragionamento Settimo 1 : 1 2 fius eſt . Ma ſe'l Cardano ſtato e’li foffe meglio inteſo nelle faccende della chimica , aurebbe certamente una aſſai più veriſimile cagione di ciò nel vino ſcorta , e avviſata : im perocchè oltre allo ſpirito ardente , che giova anzi che no al mal caduco , evvi un ſal fiffo acetoſo nemiciſſimo delle parti tutte nervoſe , del qual aſſai più , che dello ſpirito ardente egli è il vino groſſo abbondevole , e copioſo . Ma intorno alle fattezze , così dentro , come fuori delle coſe, giovevoli oltremodo a raffigurarne anche le vir tù dc'ſemplici , non comporta al preſente la ſtrettezza del tempo , ch’lo tanto quanto ne ragioni;le quali per non dir d'altri vedeſi aver tolte dal Paracelſo , e da altrichimici au tori, comechè di lor non faccia punto mézione,e averle de ſcritte nella ſua Pitognomica il noſtro curiofiffino , emol to de’ſegreti della natura intédente Gio : Battiſta dalla por, ta . Maniuno certamente ha , che con maggior diligenzas per quel che me ne paja , e più felicemente ne tratti (per ta cer del Crollio, e del Quercetano) quáto Federigo Elvezio , E coinechè noi fin qui de'ſemplici medicaméti detto ab kiamo , non però di meno è da credere la Chimica a'com poſti, clavoratimaggiormente abbiſognare . Furon que fi ingegnoſi trovati del mondo già adulto ; imperciocchè negliannidell'oro , e nella felice etade , quando i pomi , e le ghiande Eran del corpo umanlodevolpaſto : nelle ſemplici piante la germogliante medicina ſolamentes confifteva ; e allora non men che le ſchiette vivande , i me dicamenti ancora Vſar le fortunate antichegenti; ma creſciuta poi oltremodo col tempo , e comprenden doſi dagli huomini eſſer nclle piante qualche parte inutile per avventura, c qualch'altra forſe nocevole, eglino di par tir l'une dall'altre per lor biſogne avvedutamente propoſe ro ; quindi tra perchè non ſi fapeva , o non ſi potea purlaw parte nociva , è inutile dalla buona ſeparare , e anche per chè così diviſe, debile molto , e sforzata la parte medicinal He rimaneva, qualch'altra pianta forſe ſaggiamente v’ag 1 4 giun Del Sig .Lionardodi Capoa . 517 1 giunſero valevole ariſtorare i mancamenti, e i difetti del la prima , é a far sì, che quella nulla , o poco nocer potef fe ; anzi ſe pur Pabbiſognaſſe , quindi la ſua virtù notabile mente avanzar nedovefle . Così tratto tratto cominciaro no nel mondo a comporſiinſieme , e meſcolarſi i medica menti ; e ſarebbe pure aſſai bene potuta riſtare in tale fta to la biſogna , ſe già tanti , e tanti indiſcreti , e ſmo dati medicinon aveſſer quindi preſo agio di ſtrabocchevol mente ſcompigliare, e confonder la medicina tota , con ac cozzare inſieme ; e meſcolar cotanti medicamenti per ren der la medicina , o più malagevole , o di maggiorpregio al mondo ; e componendo inſieme una lunga ſchiera di cento ſemplici medicamcnti, ne formarono talora uirconfuſo , e inviluppatiſſimo guazzabuglio . Cofa , la quale ſommoſſe i più faggi, e avveduti medici, ed inveſtigatori della natu ra a lūghisſime quercle,come d'Erafiftrato narra Plutarco con quette parole: Ερgσίστρατοδιέλεγχε την ατοπίαν, και περιεργίας με μεζλικα , και βοτανικα , και θηeμακα, και τα από γής , και θαλάθης εις Te Quroovyzeegwúras oxandryce Citocécouvlas iv mitocrívy , og díxua , και εν ύδρελαίω τηνιατζικην απολιπε . ΜαEragrafo biamo ol tremodo l'indiſcrezione , e la curiofità di coloro , che i minera Li infieme , e le piante , e gli animali, e ciò che mena laterra , o naſce in marein unomeſcolarono; che più fennd af'ai avreb ber fatto , fe daparte laſciate cotantecoje folamente co’farri , colle zucche , e coll'Idreleo aveſſer l'arte della medicina ter minaia. E l'avvedutiffimo, e bé parlante Plinio.fraudes ho minum ,&ingeniorum capture officinas invenere ifas , in quibus ſua' cuique homini venalis promittitur vita . E chi non maraviglierebbeſi di tante , e tante coſe , ch'a com por la Triaca , o'l Mitridate, concorrer debbono , dan ftancare i ſpeziali ,non che a raccorle,maſolamente in leg . gendone le ricette/ Theriace, diſſe altrove il medeſimo Pli nio , vocatur excogitara compofitio luxuriæ ; fit ex rebus ex ternis , quum tot remedia dederit natura , quę fingula ſuffi, cerent. Mithridaticum antidotum ex rebus quinquaginta quatuor componitur , interin nullo pondere equali , & qua . rundam rerum fexagefima denarii unjus imperata . Que Deo 518 Ragionamento Settimo Deorumperfidiam iftammonftrante ? hominum enim fubtilin tas tanta effe non potuit . E avvegnachè cotali medicamen ti fiao poi nell'opera buoni, ed efficaci riuſciti, non ne ſom però mai da troppo commendare i primilor ritrovatorizim perciocchè nel comporgli da prima , e nel lavorargli non con avveduto , e ſano giudicio certamente adoperarono , ma a riſchio , e a caſo alcune di quelle coſe togliendo ( che pure alcune vi ſon ſoverchie ſenza pro niuno, c viſi potreb . bono anche dell'altre , e forſe con maggior ſenno , più ef ficaci aggiugnere)il tutto e nella ſceltage nel povero ,e nels la quantità di ciaſcuna ciecamente alla ventura riniſero , non guardando minutamente comeſi richiedeva , al valor di quelle , ne punto efaminandole . Impreſa per molti ca pi malagevol troppo , e quaſi ad huom diſperata; ſenzachè nel meſcolarſi ,nel diſporſi, e nel formentarſi inſieme i sé plici,varj , ediverſi mutamenti ſovence avvenir ne foglio 110 ; iqualicertamente non è da dire , ch'aveſſer mai que primi ritrovatori di quelli pienamente avviſar potuto. Per chè comenell'incendio di Corinto quel ricco metallo co tanto dalle ſtorie celebrato nella fortunofa meſcolanza di altri metalli alla vçntura formofli , così nõ meno il caſo an cora ha parimente portato , ch'il Mitridate , la Triaca, o s'altra v'ha fomigliante compoſizione , giovevoli, ed effica ci rimedi per molte , e graviſſime malattie fortunoſamente fian divenuti. Ma che che di ciò ſia , manifeſta coſa è poterſi molto be De l'antico ufo rinovando , colle ſole piante medicare ; la qual forte di medicina, dirò con Adriano Turnebo ,huom di varia , ed eſquiſita letteratura : fortaffe ad morborum fani taiem efficacioreft ,quam illa confuforum miſcellanea compo fitis ; magno mortalium , & difpendio , & damnointroducta. £ noi per tacer de' bruti animali , che felicemente ad ogn ora l'adoperano il veggiamo pur fare alla giornata a parec chj de'noſtri contadini, ne ha guari,cheil Caritrero, famo filimo medico Tedeſco , con ufar medicando le ſemplici piante , non ordinaria lodå guadagnoſli ; e i popoli inge gnofillimi del Braſile ,iſicome riferilce Guglielmo Pifone , medi DelSig.Lionardo diCapoa. $19 medicamentis fimplicibus utuntur, noftraque derident , quia compofira ; e degli abitacori del Mellico , Fra Martino Igna zio ne' ſuoi viaggj , così dice : los Indios fon grandesberbo-, larios , ycuran fempre con ellas , demanera , che cafi non hay enfermedad para la qual no ſepan remedio , y le den :ya eſtacaufa viven muyfanos , y cafi per maravillamueron, que noſea quando el humido radical ſe conſuma : ed in quel va ito , e quaſi immenſo tratto dipaefe della China , comete ſtimonia il Padre Matteo Riccio , fi è medicato permolti, e molti ſecoli , e ſi medica tuttavia , ed aſſai felicemente coll uſo delle folc erbe . E certamente come la natura delle ſchiette, e non meſcolate vivandeoltreinodo ſi dilecta , Nam varieres Vt noceant homini credas , memor illius eſcę , Que fimplex vlim tibi federit ; at fimulaffis Miſcueris elixa , fimulconchylia turdis ; Dulciafe in bilem vertent ,ftomacboque tumultum Lenta feret pituita : vides ut pallidus omni Cæna deſurgat dubia ? quin corpus onuftum Heſternis vitiis animum quoque pregravatuna Atque affigit humo divineparticulam aura. Così anche ſchietti , e non compoſti medicamenti per riſtorarſi richiede ; perchè Plinio : non fecit , diffe , ceraia , malagmata, emplaftra , collyria , antidotaparens illa , ac di vina rerum artifex : officinarum hæc , imo veriusavaritia commenta funt. Pure , poichè la coſtuma de’meſcolati, co me de'ſemplici medicamenti, è tanto oggidà nel modo avā zata , che per legge è quafi da ciaſcun ricevuta, e ſi veggo. no sì fatti rimedinelle botteghedegli ſpezialicötinuamen te a calca difpenfare : convenevol cofa egli certamente , anzi neceffaria mi pare , dovere il medico degli unis e degli altri piena , e ficura contezza avere ; e oltre a ciò nelle ma niere del lavorare i compoſti medicamenti eſſer ottiinamé te ammaeſtrato . E certamente , o quanto farebbe egliil migliore , ſe il medico medeſimo i rimedj, che diviſa , po • neſſe in opera , e non ci foſſero ſpeziali, i quali tri per l'in gordigia del danajo , e per la loro ignoranza il tutto traſcu rata : 520 Ragionamento Settimo 1 1 ratamente abborracciaffero ; o almeno lavoraffcro imedici qualche medicamento dimaggior conſiderazione , laſcian-, do ſolamente in man degli ſpeziali i più volgari , e meno vili: come già coſtumavano (ſecondo il narrar di Galieno ) Archigene, Andromaco , Apollonio , Critone, Pacchio ,e altri famoſiffimi medici antichi; i quali non iſdegnarono ď. ufar ſovente un così giovevole , e aobil meſtiere ; an , zi lo ſteſſo Galieno vantaſi oltremodo d'aver lui mede fimoa ſue mani la triaca lavorata; avyegnachè di que’tein pi , come e'medeſimo ne fa teſtimonianza , e molto addie- : tro ancora , il meſtier delmedico da quello dello ſpeziale diviſo anche trovaffefi,come avvifa infra gli altri Plinioidid cEdo, che alcunimedici de'ſuoi tépi no li davan cura niuna dicoporre imedicaméti,gefepropriú,ſono ſue parole ,medie cine ſolebat:ene'répia noi più vicini ebberoi medici ancora le lorbotteghe;avvegnachè conventati, e onorati molto ſi foffero , e in quelle alcuni medicamenti ad uſo di vende re riſerbaroro : come dal Decameron delBoccaccio nel la novella del Maeſtro Simone agevolmente ſi può cópren dere ; a cui Bruno dicea : e ſappiate , che quelle camere ſono nonmenoodorifere che fienoi boffoli delleſpeziedella bottega voftra , quando voi fate peftare il comino. El Fernelio, ed altri famofiffimi medicihan coſtumato pure di comporno alcuno s perchè l'avvedutiſlimo Orazio Eugenj loda foin mamente coloro , che imedicamenti pe’loro ammalatian ſue mani lavorano . Ne dovrebbe ilmedico certamente vergognarſi a pur farlo 3 perciocchè,comedice Primeroſio , remedia abfque medico curant,non autem medicus abſque re mediis ; præftantior igitur medico erit remediorum natura : quare ea præparare , &componere medicum non dedecet, qui naturæ tantum miniſter eft. E nel vero egli è queſo un meſtier sì nobile , e lodevole , che non che i filoſofi di mag gior lieva , e ſpezialmente Ariſtotele l'abborriſſero , e l'a veſſero in diſpregio , anzi i Principi d'alto affarc ſovente l'adoperarono, e'l tennero a conto. Or ſe il medico medeſimo a pro de'ſuoi infermi lavorar dee DelSig. Lionardo di Capoa ser deeimedicamenti ,e ſconvenevol coſa non è a ſalvamento degli huomini l'adoperarviſi ; come potrà giammai , quan tunque faggio , e avveduto egli ſia ', porre in opera, e com porre i più malagevoli rimcdj, ſenza avere in prima bene , uſate, e ſperimentate lungo tempo le maniere , e gli artifi cj , co’quali ſi compongono ? iinperciocchè l'efficacia , e'l valor di quelli dal niodo dell'apparecchiargliin gran parte depende. O come potrà mai pienamente diviſar de'ſempli ci , de'inodi , co'quali tra loro quelli accozzar ſi debbono, e tramcſtare ? perchè Giacomo Silvio intendentisſimo di cotali affari vuol, che chiunque a bene imprender l'arte della medicina indirizzar ſi voglia,debba alinen per lo ſpa zio di quattro anni avercontinuo in prima uſato , ebazzi cato con gli ſpeziali nelle botteghe loro ; & quidem exifti mo , dice anche Pier Caſtelli , oprimum medicum hujus fu cultatis debere effe expertiſſimum : alioquin fore , utfere fem . per in præfcribendis medicamentis compofitis erret. Mari tornando , onde partiti eravamo: ch’al inedico faccia biſo gnola Chimica , quanto al fatto delle compoſte medicine, egli non è da porre in forſe ; poichè ſi ſcorge omai di per; tutto eſſer in uſo le chimichemedicine; perchè ſe'l medico non aurà piena corezza delle faccéde pertinenti a coral ar re , come potrà inai quando meſtier glie ne ficcia , o colle fue propic manicomporle , o adoperarle, o conoſcere al meno , c riparare aldanno , che quelle aveſſero per avven tura cagionato ; o ſe forſe da altri medici diviſati foffero , raffermare i loro sériinéti, o rintuzzargli,ſecodo egligiudi chcrà , che ſi convegna per lo miglior dell'ammalato. E nel vero come potrà mai adoperar medicinenti un medico , ſe non ſe intendentistimo della natura , e delle propietà delle parti, chic’lcompongono , e degli effetti ancora , e del mo do del loro operare ? E come potrà mai egli ſaggiamente ordinargli ad argomento d'una , o d'altra malattia ; e divi . farle ſtagioni, e itempi , in che fan da dire , c alle conj: pleſſionidegl'infermi, e all'età ragionevolmente adattaro gli ? o comcpotrà mai loro ordinare il inodo di prenderglis e diviſarne la quantità : 0 temendo di qualche riſchio rin Vuu tuiz 522 Ragionamento Settimo tuzzarne, e attutarne la troppa violenza , o contro quella agli ammalati di qualche yalevole ajuto di preſente ſoccor rere ; o toglier lenoje, ei fastidi , che ſovente ingenerar ſo gliono ? Non è certamente cosìagevole , ſecondo i ſenti menti del medeſimo Galieno, il poter medicamenti adope rare a colui , cui conoſciuta in priina , e manifeſta molto bé non ſia la virtù di quelli, e la forza per la quale gli effetti n ' avvengono . Or che di grazia avrebbe detto Galieno , re : qualche contezza pur delle chimiche medicine , comechè leggeriffima, gli foſſe all'orecchio pervenuta ? Certamente conſiderando egli le ſtrane maniere , e malagevoli del loro operare, ayrebbe ne' medici ricercato ſtudio , cavvedia mento maggiore ; e non che piane ,e facili , e ſenza trop po riguardo giudicate l'avrebbe , ma pericoloſiſſime a ſpe rimentare , e da troppo più, ch'a popolar medico non lico viene. Or vadano pure coteſti medici di cromba marina, e colla ſola doctrina del lor macſtro Galieno a far pruova de'chimici medicamenti a coſto della vita dc'inileri amma lati ſcioccaméte s'attentino,che vedran pure a funeſto, e la grimeyol fine le loro mal ardite follie sépremai riuſcire;im , perciocchè ne dalle ſcritture di Galieno, o d'Ippocrateme defimo, ne da altri lor ſeguaci , che della chimica medici na nulla certamente s'inteſero , comprender mai potranno coſa alcuna intorno a'chimici medicamenti ; ne dalle rego le , che già coloro ne laſciarono fi può trarre argomento 2 comporne alcuno; ſo per quelle le propietà de'inedicamé timedefimi della lor comunal medicina, nc anche avviſar fi poſſono: perciocchè , ficome è detto , in quelli ancora il chiariſſimo lume della Chimica ne fa meſtieri .Ne quelno biliſſimo pronipote del gran Re di Damaſco , Giovanni fi gliuol di Melue nella chimica medicina, e in quella di Ga lieno , maſſimamente intorno alle purgagioni eſercitato , n' avrebbe mai conſigliato , cſfer ſempre da leggere , e ſtudiar ne’libri de'fapienti ( cosìchiama egli per eccellenza i chi mici) s'aveſſe giudicato averfi ciò potuto baſtevolmente in que' diGalieno, c dc ſuoi ſeguaci apparare :netanti , etā ti valentillimi Galicniſti avrebber poi il conſiglio di Meſue qual DelSig.Lionardo di Capoa. 523 qual legge ſeguito c, con molta fatica ne'volumi, e nelles fucinc de'Chimici lungamente ſudatinon ſarebbono . E licomc ad huom poco giova l'eſſere nell'antico meſtier dell'armi baſtevolmére eſercitato , ſe poi ad abbatter Roc che, e Caſtella ,e ſorprender Città:dimine, d'archibugj , di bombe , d'artiglierie , e d'altri nuovi , emoderni ſtru menti , ed ordigrida guerra dalui per addietro nô mai più veduti, o ſperimentati, ſervir ſi vuole; ma conviene in pri mache da nuovo maeſtro , e intendentiſiino di quelli pic namente apprefi gli abbia,e come,e quando , o per offefa, periſcherno da adoperar ſiano : così nulla ancora a'medici approda il ſaper coloro compiutamente quanto mnai nell’ : antica , e volgare fcuola diGalieno apparar ſi poſſa, ſe mai chimici medicamenti uſar ſaggiamente intendono ; ma egli fa di meſtieri, che ben anche in prima da Chimico macſtro apprcli gli abbia, e la maniera d'adoperargli, e l'arte di bé comporgli pienamente abbia apparata; imperciocchè fe così sfornito dell'arte , e ſconſigliato ſi vorrà ad impreſa çotanto matta , e malagevole arriſchiare, certo mala pruo va vi farà il ſuo orgoglio ; e rimettendo il medicamento al Izventura , e alla cieca andando , a manifeſto , e certiſlimo pericolo la ſua fama iuliemc, e'l falvamento dell'anmala to alla fuacura commeſſo porrà . Così quella famoſa ſci mitarra diquell'invittillimo Eroe Georgio Caſtriota , la cúi memoria ancor teme, e trema l'infedel popolo ſaracino, diceſi , che in man di Macometto Re de’Turchi le ſue glo rioliflime pruove laſciate aveſſe : ita plerique medicine, dice a noltro concio Teodoro Chercringio , chymice præſertim , aut mortue ,aut (quod deplorandum magis) mortisfæpè cauf ſefunt, quando non animantur periti Doétorismanu, qui no verit eas tempore, &loco adminiſtrare . Così anche dopo l'infelici pruove per lui fatte nella gioſtra, Colui ch'indoffo il non fuo cuojo haveva, Come l'afino già queldel leone, il viliſfimo Martano , lo dico,ritornato in Damaſco fu qui vilungamente ſcherno delle femmine , e de'fanciulli. Ma tanto più da piangercè , comechèdirifi ancor degna ia ,la Vull liioc 524 -Ragionamento Settimo ſciòcca tracotanza dicoſtoro ', quanto in malamente uſan do le chimiche medicine , quantunquc ſicure , e piacevoli quelle ſieno , pur n’ammazzano crudelmente gli ammalati. Così il dotto Galieniſta per altro , e avveduto molto To waffo Eraſto collo ſpirito del vitriolo un cattivello infer mo empiamente a morte conduſſe per no aver lui nel fuo maeſtro Galieno la natura , e l'uſo di cotal medicamento apparato ; che ſe egli dal Severino , dal Penoto , dal Dor neo, o da altro profeffor della Chimica medicina;da lui cos tanto biaſimatas appreſo aveſſe , e pienamente conoſciuto come , o quando lo ſpirito del vitriolo da dar ſia , certame tc eglicotanto misfatto comıneſſo non avrebbe. 's E forſe , che nel medeſimo fallo appunto dell'Eraſto no ſi è quì bruttamente cader veduto non ha guari un credu to , e molto ſtimato Galienifta , il qual collo ſpirito fimi gliantemente del vitriolo un miſerabile infermo, cui, per troppo ghiottamente eſſerſi riempiuto di freddi, e aceto ſi liquori , fi era riſerrato il perto , infelicemente ſtrago Jandolo licciſe ? E piaceſſe pure al Cielo , che per l'abuſo di sì fatto mc dicamento non fi vedeſſero tutto giorno miſerabilmente molte , e molte perſone morire . Egli è coſa troppo mani fefta , ſe pur merita fede la ſtoria rapportata dal Checher manni, di quell'Elettor Paladino, cui per l'uſo dello ſpirito del vitriolo l'interiora tutto guaſtc , e roſe ritrovaronfi. Ne giova punto a cellare il pericolo de'ſuoi peftilenzioſi effet zi l'adoperarlo con ritegno , e riguardo, e ſcarſamente uſar lo , teinperandolo anche talvolta con acqua , o altriſomi glianti liquori; concioſiecoſachè dato più , e più volte co minciapianamente ad operare , ea poco a poco rodendo , infin le tuniche del ventricolo , ſpietatamente alla per fine conſuma, c divora . Così talvolta al continuo ftillar d'ofti nata goccia mancano finalmente i duri macigni. Et leviter quamvis quod crebro tunditur ietu , Vincitur in longo ſpacio tandem , atque labafcit. E pur lo ſpirico del vitriolo per altro cosìbenigno,e pia cevole ſi ſperimenta , che ben felicemente a'fanciulli anco :. ra da Del Sig .LionardodiCapoa 525 1 ra dacolui , che cautamente ſervir ſe ne ſappia fuol darli . ? E ſe'l vitriolo baltevole a guarir la quarta parte de'rnali da quel grand'huomo in medicina Teofraſto Paracelſo vienu giudicato ,ben da colui ancora il ſuo ſpirito vien fomma mente lodato con chiamarlo quartampharmacopolii partēs & lapidem angularem in officinis pharmacopoeorum ; avve gnachè cotefto ſpirito , che comunalmente nelle botteghe degli ſpeziali per ciaſcun fi diſpenſa , non fia veramente quellofpiritodi vitriolo cotanto da Chimici commêdato na altro più groffo , e di minor virtù , e giovamento di fuello . : ! is Ma per ritornare a' grofliffimi errori , ne'qualiper nons aper di Chimica fogliono i medici, comechè faggj , e av veduti, talvolta ſmucciare , egliè pur manifeſto a ciaſcun quanto fcioccamente , e fanciulleſcamente dell'antimonio il dottiſſimo infra’ſeguaci di Galieno , Mercuriale favelli. E chi non iſcoppierebbe delle rifa in conſiderando la mel ionaggine di quel famoſiſſimo Gåſieniſta , e cotanto nella lottrina del fuo maeſtro eſercitato , Aleſſandro Maffaria ? vvegnachè più toſto da pianger fiat , che da ridere la com fioro ignoranza per li ſconcj avvenimenti , e funeſti, che ne fuguono . Egliadunque intorno al medeſimo antimonio dopo averne cosìinfelicemente favellato , venendone all' lifo del darlo , e diviſando in che quantità da dar fia ,in und fua cotal ſciocca ricetta ,cosi ragiona: Recipe antimonii pre parati 8.3. Orchi Domine giammai il fentimento compré der ne potrebbe ſenza andar dalle gabbolc a ricercar ſe de fiori , o del gruogo , o del vetro , o d'altre, e d'altre molte medicine , che foglion farſi dell'antiinonio , abbia intender voluto ? Ecco appreſſo il nottro Antonio Santorelli nella volgar dottrina de Greci, e degli Arabi maeſtri famoſifli moſcrittore, diviſar dell'acqua arzente in una delle fue opere così ſcioccamente, che nulla più . Ecco il dottiſſimo Galieniſta Giovanni Eurnio così traſcurato in favellar del fale del vitriolo vomitivo , cheda piacevoliſſimo chequel, loè , facendolo fomigliante nella violenza all'ariento vivo precipitato , ed al vetro dell'antimonio , lo riftrigne , eris fpar ' 526 Ragionamento Settimo . ſparmia a nôn darlo all’ammalatosſe non nella quantità ſo la di due minutiſſime granella digrano . Ecco d'altra parte il più illuſtre , e famoſo medico de'ſuoi tempi Guglielmo Rondelezji doftar forte , e temere , non la raſchiatura del dente del Cignale rattenga talvolta nelmal della punta lo fputo;nel qualviluppo certamente egli involto non fareb be , ſe nella maniera del filoſofar de chimici in medicina baftevolmente avanzato fi foffe ; concioffiecoſachè cota li rimedi per lo loro Alcali volante mai ſempre operiuo ; il qualpenetrando , e trameſtandoſi colfale aceroſo, che nel le vene , e nella punta s'accoglie , eſciogliendo le dutez ze dell'apoſtema, agevolmëte quindi per ogni via così aper ta , come occulta ,non che per quella ſola dello ſputo,ne fa ſpiccar fuora la inateria tutta inſaccata . E ſe cotal via di filoſofare quell'altro famoſiſſimo Medico Prevozio te nutå aveſſe ,certamente, che ne anche eglicosì ſcioccamé te temuito ayrebbe di dar nelle febbri maligne agli ainma latiil.corno del cervio . Ma come , o in qual guiſa a sì no bilmente filoſofar'nelle maraviglioſe operazioni della chi mica potrebbon mai indirizzarſi i tondi , c goccioloniGa lieniſti, ſe nelle coſe più piane , e più manifeſte di quellow , anche v'ha infra loro chi Come notturno augel nemico alſole cieco affatto ', e rintuzzato d’intendimento vive ? Egli non può narrarſi certamente ſenza ſmaſcellar delle riſa la peco raggive di quel famoſo conventato Galieniſta nell’Acade mia diGroninga, il qual troppo fanciulleſcamente giudica va lo ſcoppio , c'l tuono dell'oro fulminante per opera de ' Diavoli avvenire : e ciò turto pauroſo attendeva, non altri menti , che il Macſtro Simon fi faceſſe , quando ſu la beſtia imperverſata, e nabiffante inyer la Conteſſa di Civillari ini corſo andava . Nuper aurum fulminansracconta il Chippe ro , cujus fi granum unum , aut duo carbone defuper lentè ac cendas , bombardam minorem fonitu aquat,ſi non antecellit; ut meritoridenda fie Freitagii focordia ;&contradicendi ftu dium ; dum tale quid fieripofle naturaliter denegat , ctſi oma ninò effectus evidentia cuvincatur, ad Dæmones hujus cauſ; fam Del Sig.Lionardo di Capoa. 527 fam refert : dignum certè hac patella operculum , & hoc philos fopho hæcphilofophia. , Egli è dunque da conchiudere eſſer la chimica ſomma mente neceſſaria alla medicina tra per li medeſimi volgari medicamenti de'Galienifti, e più aſſai per quelli, che di el fa Chimica ſon propi , e che per opera diquella , e de' ſuoi ftrumenti ſolamente ſi compongono ; e maggiormente in quelli l'arte ſottiliſſima della Chimica fi conviene; che co me è già detto , così pericoloſi ſono ,e da temere inmaneg giarſiper le ſtrane, e non ordinarie maniere del loro opera re . E concioſliecoſachè v'abbia cotali rimedj non iſcorti alla lingua, e alle nare , e d'ogni ſenſibile qualità affatto ignudi , che per regole d'ordinaria medicina non può la lor natura agevolmente comprenderſi: egli è di ineſtieri certa mente per non fallar nell'avviſargli, alla chinica notomia ſopratutto ricorrere;ſenzachè havvi alcuni particolari me dicamenti , detti ſpecifici , i quali convien fenza fallo , ch'a chiuſi occhi , e ſcioccamente lavori , e maneggi chiunque del meſtiere , c del modo del filoſofar de Chimici non è bé dottrinato , e intendente affui ; perciocchè sì fatte ricettev: nella pratica della medicina , così brevis ce ſecche , ecalor confule , e incerte ne'buoni ſcrittori ſi trovano , che per im broccarnela quantità , o'l tempo , o la maniera d'uſarle , o le malattie , nelle quali da adoperar ſono, malagevole cer tanente ſarà ad intendimento umano; ed è ſolo de' Chi miciragionevolmente , e ſenza fofpetro alcuno l'adoperar lc , e ſervirſenic calora , dove lor faccia meſtieri, con effer in prima fotcilmente filoſofando nella lor natura ben penetra ti ; e per quel che permeſſo ad huom ſia , con aver le loro qualità baſtevolmente compreſc . Cofa , la quale quanto monti a dover ceſare i riſchjge i danni, cheda sì fatti me dicamenti naſcer poſſono , pur troppo è a ciaſcun manife fta . Ne è già punto maraviglia , ſe gli arditi , e poco avve duti Galieniſti ſcioccamente inframmertédoviſi,la lor par te ancor vifanno : ſe come è detto , anche nell'adoperare i . Jor medeſimi medicamenci van carponi, e brancolando per l'incertezza,quaſi ciechi al bujo ; e in quelli maſſimamente , a’qua 528 Ragionamento Settimo < aquali dan nomedi virtù occulta , cioè a dire di ragion no conoſciuta , e non punto da lor compreſa , credendo così la lor groffezza , e laloro ſciocca pecoraggine coprire. Ma d'altra parte i chimici medici filoſofanti innoltrandoſi quá to per huon ſi puote nella contezza demedicamenti,eco noſcendo aſſai veriſimilmére la natura dc'mali, e le cagioni, onde avvengono , ſicome con avveduto , e probabile divi famento fortilmente ragionar ne ſanno , così con loro no bili , ed efficaci argomenti digran vantaggio riparando ſo-, vente al genere uinano , degni d'immortal gloria , ed'eter na fama ſirendono ..., mily Magià baſtevolmente dimoſtrato quáto a color, che me. dicare intendono faccia meſtier: la Chimica : a divilar de' chimici medicamenti , e quanto ſovente ne lian neceſſari. trapaſſeremo. Ma comechè lo di ciò fivellar per comuns giovamento m'ingegnj, e ne renda maggiormente avvedu-. ti gli huomini delmondo , pur dubito , non alcuni dannā- ) do ,ebiaſimando sì fatti rimedj inalgrado per avventura me ne fappiano . Dunque dirà taluno, queſt' altra nuova ſorte dipeſtilenza all'uman genere mancava ? e non baſta va forſe a impoverir di gente le provincie, e i Regni, il vuo tar di quel prezioſo liquore,a cui s'attiene la noſtra vita, per , ogni menomacagion le vene ; e co'duri cauterj, e con crui deli veſcicanti , e altriricroyati di barbare , e ſtrane nazioni martoriar miſerabilmente le genti:e a toglier alle parti più ſodedel corpo umano il debito nutrimento , e la virtù di ravvivarlo , e di riſtorarlo alle liquide : uſar le ſcamonces , gli elaterj , le colloquintide , ilatirj , i pepli, gli Elleborin , iTurbitti , iMezerj, le ſquame del raine, le pietre lazule , e tante , e tant'altre forţi di nocevolislimi veleoi più ches , di riſtorativi argomenti dell'antica volgar medicina , ſe non vi congiuravano ancora a noſtro comun danno i potentiffi mi precipitati , i mercurj divita , 0 Alcarotti , come altri gli chiama, i verri , i fiori, e altri cento violentiffimi vomi tivi tratti dell'antimonio ,del vitriolo , del mercurio , o d'al tro qualunque più peſtilenzioſo minerale ? Deh piaceſſo pure al grande Iddio , che, o non mai uel mondo foſſeliin he trodora ( DelSig.Lionardo di Capoa. 529 trodotta la medicina; o almen , che non inai ella ſtata ſi for ſe colla ſpagirica arte accoppiata , e delle nuove , e ſtrane fortide'medicamentidiquella dannevolmente accreſciuta : che mé malcerto ne farebbe dalle malattie medeſime inter venuto di quel, che tutto dì oggi per mā de’medici miſera bilmente proviamo. Or s'accreſcano pure a ſtruggimento, e ſterminio delle noſtre vite nuovi, e muovi ſtrumenti di mora te ; e gl'ingegniumani s'aſſottiglino,e s'affannino , e ſudina a gara per imprédere un'eſercizio così in fauſtojcosì crudele, che nemeno a'ſuoimedeſimi artefici ſuol perdonare, che im appreſsãdoſi ſolamëte a'fornelli no debban ſovente correr manifeſto pericolo delle perſone. Così morifli ancor gio vane il Tedeſco Teofraſto , non già da’maligni Galieniſtip invidia atroflicato , ficomecomunemente per tutto allor buccinavaſi,ma al parer dell'Elmonte ,buo giudice in sì fata te coſe ,da’medeſimi minerali ; che continuamente e' manego giava ; dal cui nocevole , e peſtilezioſo fummo l'Elmon te medeſimo confeſla ſe eſſere ſtato più fiate in grandiſſimi riſchj della vita condotto . Così anche a ' tempi noftrive duto abbiamo quel cattivello nella ſtrada delle Campane dagli ſpiriti del nitro , e del vitriolo , e da altri minerali do po continuo tremore , ch'e' n'apprefe , e dopo lunghe , e gravi malattie miſerabilmente alla fine morirſi . Orqual danno dovrà egli intervenirne a colui , che quaſi cibi inno centivolentier gliſi tracanna , fe cotanto nocevole , e dan noſo è l'avergli ſolamente davanti Ripone tra' ſuoi egregi vanti la Chimica di ſapere oltremodo i medicamenti delle parti inutili , e nocevoli ſpogliare , e di rendergli benigni aſſai, ed efficaci ; ma per tacere , che alcuni di quelli ( e'l confeflano comechè mal volétieri i loro artefici medeſimi) deboli , e ſpotſati, e di niun momento dal ſuo maneggiar diventano , parecchi , e parecchj ( coſa la quale certamé te è peggio aſſai , e dura oltremodo a ſofferire ) di mezza Haméte nocevoli, che in prima erano , o pur tali ſi dimoſtra vano , rendegli la chimica col preparargli non altrimenti , che imedeſimipiù fieri toſſichi, crudeliffimi, e micidiali . Dica pur queſta nobiliflima Città : quanti, e quanti nel 1 Xxx ten 530 Ragionamento Settimo tempo della paſſata peſtilenza con dolori acerbiffimi di vi. ſcere n'aveſſe fatti morire quel velenofiffimo ariento vivo precipitato , ch'angelica polvere allora chiamavano , pro poſto allordal Protomedico di que'tépi a comun ſalvamé. to degli ammalati,e co pubblico editto diyolgato colle ſtá pe. E ragionevolmente per avventura dubitonne alcuno , ſe più huomini allora per la potentisſima violenza di quet medicamento , o per la medeſima peſtilenza mancaliero . Edo quanti, e quanti alla giornata veggonfi privi di vi ta , o cagionevoli reſi della perſona per opera di chimici ri medj, de’quali la maggior parte conſiſte in lavorare i mine sali;i quali dalla noſtra natura affatto rimosſi ,altro mai, che dolori, noje , malattie , e morti recarnon poſſono . Odafi per Dio ciò , che di coteſti Chimici , e della loro ſcuola di dica ildoctisſimo Erafto , l'eloquentisſimo Cortino , il ſot tilisſimo Riolano il padre , e la ſcuola famoſisſima tutta di Parigi. Odaſi come con ſaldisſimeragioni nuovamente gli rintuzzi , e mandi giù l'acutisſimo peripatetico filoſofo, e Galieniſta Ermanno Corringio ; e ſopratutto ſi riguardi a ciò , che dalle genti pe’mal capitati infermicontro a'chi ci medicamenti tutt'or querelando ſi dica , e le beſtemmie atroci, che per tutto contro lor ſi ſcagliano . Deh sbandi ſcafi per Dio da queſta Città, sì nocevole , c dannoſo me ftiere , e con rigoroſisſimi divieti ſi mandin fuora delle bota teghe degli ſpeziali, e da tutt'altri luoghi le chimiche me dicine. Ne già mé ſaggj nel vero , e avveduti eſfer dobbiam noi de'medici Melaneli, che il dannevole uſo dell'Alcarot to vietarono ; e ſe ſono , e con ogniragione , da' noſtri fta tuti proibiti gli uſi degli archibugetti e degli ſtili , e d'altre ſomiglianti arme,come nocevoli algenere umano , quan. tunque tal volta a ſchermo dell'onore , e della perſona pur buone fiano ; perchè non ſaran da yietar poi medicine sì fie re , emaligne,che ſe mai pure di recar qualche giovamento fan ſembiante , allor più crudelmente inſidiar la vita fi fpe rimentano . Sono o Signori, sì fatte querele , e rimproccj in grā par te per opera dc'malvagj Galieniſti contro la Chimica, ei ſuoi DelSig.Lionardo di Capoa. 530 ſuoi medicamenti fovente adoperari ; i quali gittando la polvere innanzi agli occhi della balſa,minuta,e troppo cre dula gēte , fan loro a vedere che ichimici medicamenti più ch’altri ammazzar fogliano , e che tutto il malc, che nel cu rare altrui intervenir ſuole , da color ſolamente avvegnavi perchè la ſciocca torma del popolo da for moſſa lamente volmente gli biaſima ; e con torti , evani giudizj ſovra i chimici, i misfatti de'Galieniſti medeſimi, o le violenze del male empiamente riverla; E parla più di quel , che meno intende. Ed è egli certamente cotal diſavventura a tutt'altri me. dici ancor comune d'eſſer sépremai accagionati della mor te degl'infermi : non moritur æger fine infamia medici: diſse Plinio e pural tépo dilui, o no v'era , o no avea púto che fır nelle noſtre contrade, o in quelle de Greci,colla medicina la Chimica . Così non giugnendo i medicamenti a rintúż zar la violenza del inale , ed eſſendone diterminata alla per fine la meta della noſtra vita', è certamente da dire có quel valent'huomo, che nella medicina tutt'altro avvenir ſoglia, che in ciaſcun'altro meſtier ſi coſtumi; perocchè dove i mã. camenti degli Artefici a'difetti dell'arte comunalméte s'im putano , ſolamente in medicina il mancamento dell'arte aʼmedici cattivelli ſovente fi riverſa ; e fon talvolta inde gnamente accagionatidi ciò , che per argomento umano imposſibile ad operare . Perchè certamente intorno a ' misfatti de’medici da prudente huomo , e aſſennato non è da preſtare agevolmente fede a’rapportati masſimamente da altri medici per malavoglienza , o per nimiſtà , ficome di ſopra baſtantemente diviſato abbiamo con l'eſemplo d ' Aſclepiade; eſſendo pur troppo vero quel detto di Curzio: iai diverſis rebus id folet fieri ,ut alius in alium culpam refe rat . Ne già è mio intendimento , che di cocal quereia al cun de'noltri medici al preſente fi punga , come a ſe pro piamente inveſtita ; perciocchè lo quì in general ragionare intendo del cattivo coſtume d'alcuni medici ; cben ſo , che così quì, comealtrove v'ha de'medici dabbene , c onorati affai, e di qualunque gran loda dignisſimi : avregnachè Xxx 02 532 Ragionamento Settimo 1 1 1 1 1 talvolta pur alcun di loro daʼfalſi rapporti ingannato, NÓIL . già per altio , e permalayoglienza, maper troppa ſua dab benaggine vi falli . Pur male a noſtr’huopo comincia tal volta leggeriſſimavoce , non ſo donde , o falſa , o vera, ch' ella fiali , che roſto per tutto ſi buccina, c s'accreſce:intan to, che agevoliſſimamente dalla bafla plebe , e dalle troppo credulaperſone vi ſi preſta fede; i quali non che vogliano ſottilmente caminar comela biſogna paſſata ſia , anzi tal volta ſenza ſaper come , o quando, c da chi cominciata ſia , volentier la s'inghiottono : & fepè etiam quod falſo creditu eft , veri vicem obtinuit . Perchè poiveggiamo della mor te di taluno accagionarſene medico , che non che viſitato giammai l'aveſſe ; anzi ne men chi colui foffe, o dove ſi foſſe dimorato per avventura fapeva; pure comechè a sì fatta diſavvetura ciaſcunmedico ſoggiaccia,nó però di meno ſo pra tutt'altripar ch'a’miſerichimici maggiorméteella con traſti, quantunque certamente maggiori, e più gravi dan ni da'volgari medicamenti alla giornata avvenir veggiamo, che da’Chimici ; e pure quelli ſovente alla gravezza incon traftabile del male, non alla dappocaggine del medico ac tribuir ſi fogliono: dove di queſtinel contrario, laſciata dw parte qualunque altra cagione , folamente i chimici medi camenti s'infamano ; maſtimamente per coloro , i quali nul la fappiendone , come di nuove , e non conoſciute coſe ſo ſpettando, ſempre ne temono ; follemento mai ſempre,e in tutte le faccéde vera ſtimado quella séréza di Cornelio Ta cito :fuper omnibus negotiis melius,atq ;rectius olim provisü :et quæ cuvertuntur in deterius mutari. Ed è pur da aggiugnere a ciò quell'altra cagione che per opera de’malvagi, e invi dioſi Galieniſti s'accrefcon mai ſempre i timori della ſcioc ca plebe , intanto che ne men poſſono ficuramente i chimi ci medicide' più volgari, e comunali medicamenti talor fer virſi ; che pur diquelli il vulgo ignorante teme ; dove d'al tra parte fe dalla greggia de creduti Galieniſtichimiche medicine , comechè violenti, e pericoloſe loro fien porte ' , tantoſto alla cieca , e ſenza tema alcuna le fi tracannano , volendo pertinacemente anzi che a'chimici,ne'loromedeſig 1 mi me DelSig. Lionardo di Capoa 533 mi medicaméti, ſtarſene agli ſtrani, e talora ſciocchi Galie niſti, cui ne men per nomequelli conoſciutiſono : non che ne ſapeſſer mai le qualità , e glieffetti , che ne'corpi umani quelli adoperar ſogliono . Non niego però , che tal malavventura ne' Chimici di non eſſer agevolmente creduti , eglino medeſimi talvolta la ſi procaccino , quando o per ſoverchio dicompasſione , che han de’miſeri ammalati, o per vaghezza di dover gưa rire gli abbandonati da'Galieniſti , ambizioſi s'inframmer tono di medicare i diſperati, e voglion quaſi dall'orlo del feretro trarre i morci.È la ſciocca géte n’aſpetta pur le ſtra vaganze, quaſi foſſe propio de Chimicil'adoperare i mira coli; quando forfe i Galieniſti non han faputo per poco co figlio la creſcente malattia attutare , con dar loro al tempo iconvenevoli medicamenti; perciocchè Principiisobſta : ferò medicina paratur, Quum malaper longas invaluere moras. Anzi con avere i Galieniſti medicati talvolta a roveſcio , e alla cieca gli ammalati , malignamente poi, ea gran tor to ne vien ripreſo,e cacciato il Chimico ,e i fuoi rimedi bia fimati . E a tal fegno pure giugner veggiamo la iniquitoſa malizia d'alcun medico , che di quel medeſimo infermo, cl egli ſpacciato in prima , e già laſciato aveva , attribuiſce poi difpertoſamente altruila morte, e i chimici medicamé te di colui empiamente n'accagiona. Così non vergognof fi il Foreſto a ſcriver purc , che colgruogo di Marte un co tal’Empirico ammazzato aveſſe un'ammalato tutto mar cio , e corrorto , e com'egli medefimo narra , già moribon do , e fpirante. E piaceſſe pure a Iddio ,che non foſſe giūrå a tāto l'affocata malavogliéza di sì fatti ſquafimodei , che già reputādofia vergogna il falvaméto ,che allo infermo da loro ſpacciato avvenir puore per cófiglio de'chimici, e già temédone gli avāzi,nó prédeſſero alcuna briga di far pruo va delle loro bugie, con dar qualche ftorpio a’riſtoramenti dello infermoze ſe pure in lor diſpetto neguariſce l'āmala to,nó folaméte delmedico, che'l fanò, madi lui medeſimo capitali nimici rimangono; ficome di quel Cote diffe quel motteggevol Satirico Italiano : Ha 534 Ragionamento Settimo Ha buon ز occhio , buon vifo ; buon parlare , Bella lingua , buon / puto , e buon toffire ; Queſti fon ſegni , che non vuol morire; Maimedici lo voglion 'ammazzare: Perchè non ci ſarebbe il loro onore , S'egli ufciffe lor vivodalle mani , Avendo detto , egli è Spacciato , e more. Ma come teftè ragionavamo con la lor ſoverchia pictà in voler curare infermidiniuna ſperanza , danno agio i Chi mici a i ſoffiamenti degli invidiofi Galieniſti, e cadono tal volta dal buo nomedivaléti medici. Ne certaméte p altro Ippocrate vieta aʼmedicanti il dover por mano agli infermi difperati; e quell'altro famoſo ſcrittore Arabo ne conſiglia a non doverci arriſchiare a prender cura di malagevoli , sfidate malattie , ſe non vogliamo pure guadagnar titolo di cattivi medici ; e anche avviſa Cello , prudentis hominis eft, eum , qui fervari nonpoteſt , non attingere : nec fubire.fufpia cionem ejus, ut occifi, quem forsipfius peremit . E a ciò an che riguardado Galieno parimente ne conſiglia a dover la fciare alſolo predicimento cotali infermi, ſenza dar loro niuna ſorte dimedicaméto , per no logorare indarno.i rime. dj,e fargli infam uea torto preſſo il vulgo, õde poi ſi laſcian via, quando forſe ad altri ammalati di minor riſchio giove voli ſono . E nella medeſiına guiſa Aleſſandro de Benedet ti : prudentis medici, dice, ef ,inſanabiles, &defperatos mor bos nun curare ;ne hominem occidiſſe , quifua forte interitu rus erat , exiſtimetur . E che direm noi di que'chimici medicamenti , che talor de perſone ſi lavorano, e ſi diſpenſano, che dichimica , ne dimedicina ne ſan boccata? Enel vero eglitāto omai è cre ſciuto l'abuſo delfabbricare malamente , anzi abborrare i rimedjchimici , cheda'Ciurmadori , e da Cerretani , edas viliflime femminelle uſar pubblicamente ſi veggono , e ven dong a macco in ſu le panche, e per le fiere abbondanteme te li ſpacciano , e ben ſovente fi comprano anche dagli ſpe ziali , e da’medici per diſpenſargli poi a 'loro ammalati;šć zachè da Galieniſti medeſimi calor s'imprendono , e teme ruri . 1 . DelSig. Lionardo di Capoa. 535 rariaméte dagli ſciocchiffimi uccelloni yeggőli ordinare , e lavorare alla cieca . Navem agere ignarusnavis timer: abrotanum ager Non audet,nifi quididicit dare.Quodmedicorum eft Promittuntmedici;tractant fabrilia fabri. E s'attendono purecoteſti medici di tromba marina de' noſtri tempi a maneggiar biſogne di cotanta conſiderazio ne , e di cotanto riſchio : certamente ſe ad infelice fine poi rieſcono , e veggonfiatcriſtar le caſe , e le famiglie , non gli innocenti rimedi biaſimar ſe ne vogliono , ma color ſola doperano ; non altrimenti , che ſe ſpada , o archibuſo daw furioſa mano moſſo fia , non n'è lo ſtrumento da accagionas. re , ma la follia ſolamente dello ſcherano . Ne ſan coſtoro quanto ſenno abbiſogni in medicare , e ſpezialmente con argomenti chimici, a cuicertamente di maggiore avvedi mento e di più ſaldo giudicio fa luogo; che le malamente s'adoperano , maſſimamente le purganti medicine, ove il medico non abbia in dandole riguardo al tempo , lità del male , all'età dello infermo, o alla natura di lui, o alla ſtagione dell'anno, certamente colui mal ne capiterà : Temporibus medicina valet: data tempore profunt, Et data non apto tempore vina nocent ; Quin etiam accendas vitia , irriseſque vetando, Temporibusfinon aggrediareſuis . E o quanti per Dio ſe neſon veduti e fe ne veggono tut tavia correr pericolo, e morirne talvolta anche col medica mento in corpo per traſeutaggine , e colpa de’ſoli medici ignorāti,e ſciocchi? Quante volte per beſſaggine degli ſcé pj Galieniſti ſono ſtate biaſimate le manne , le roſe , le caſ. fie , e anche l'aloé , di cui non ſi trova al comun parere mę. dicamento più innocente , e benigno ? E ſe alcun prende rebbe cura di guarire ammalato, ſe egli nel cominciar d'in terna infiammagione, o nell'acerefciinento , e nel vigor di quella deſſegli ſcioccamente a tracanar chimica purgagio ne , qual colpa poi ſarebbe egli dell'arte , ſe coluimalamé te adoperandola l'ammalato n'uccideffc ? Certamente niu . najper . alla qua : 536 Ragionamento Settimo 1 na ;perciocchè come Ippocrate medeſimo , e Galieno di viſano, anche le lor purgative medicine allora ſon peſtilen zioſe , e da non uſarſi ; perchè a' mali precipitoſi,e ftraboc chevolmente imperverſiti non ha certamente la medicina più ſicuro conſiglio, che il guadagnar tempo con iſchermi readagio , e tenere a bada la foga del male , ſenza voler glili alla rincontra oſtinatamente opporre có purgative me dicine, masſimamente gagliarde ; che alla zuffa,che in un medeſimo tempo due si oſtinati,esì poffenti nimici dentro dall'ammalato farebbono, certamente egli n'andrebbe cof peggio :neq ;ulla alia fpes,diffe avveducillimaméte Cello , ir malis magnis eft ,quã utimpetum morbi trahendo aliquis effum giat , porrigaturque in id tempus, quod curationi locum pre Stet :così parlavano que'buoniantichi, che ne'ſalafli, e nel le purgative medicineſolaméte credeano eſſer ripoſte le cu re de'più gravi malori; ma i moderni da'chimici addottri nati bé fanno co'rimedj valevoli, e generoſi,ına che non of fendono punto lo infermo, eche in ogni tempo ſicuriffima mente ſi poſſono adoperare darvi compenſo , ſenza ſtarſe neſcioperati, e neghittofi ad afpettare il ſoccorſo , che non è dalla natura forſe per venir giammai . Ma ciò da parte laſciando noi pur troppo veduto abbiamo nelle febbriche delpaſſato anno han malmenato , e quaſi abbattuto il Bor go Sant'Antonio ,e altri luoghi vicini, effer così malaméte riuſcite le purgagioni, e altri ſomigliāti rimedi;perchè a grā ventura recaronſi poique' poveri infermi , che non ebber agio di comperarſi la morte a contanti ne'medicamenti,che uſavanſi; e ſtando alla bada ſolamente della natura,così sé. za rimedj la lor vita ſerbaronſi . E per cacer d'altri, il me deſimo anche eſſeravvenuto novellamente in Francia, rac conta l'Autor della giunta all'oſſervazioni di Lazaro Ri yerj. - Éfe egli è dannevole oltremodo , e di riſchio lo - Atuzzi cargli umori crudi , e non debitamente maturati, certamé te il medico ne farebbe da biaſimare , non l'arte, ſe contro i giuftiffimi divieti d'Ippocrate , e di Galieno s'inframmet . teſſe di purgare ammalato , in cui fian crudi gli umori ſex 2 :2 en Del Sig.Lionardo di Capoa . 537 za enfiamento alcuno : in morbis quoquenihil eft magis peri culofum , quam immatura medicina,comechè non medican-. te , avviso Seneca ; perchè ſeguendo i ſentimenti de' ſuoi maeſtri avvedutiſſimaméte in queſto capo Aleſſandro Maf ſaria, danna, e sbandiſcenelle febbril'uſo dell'Antimonio, come nocevole oltremodo agli ammalati: e allora, egli di ce maggiormente farſi a conoſcere il danno , che dalle purgagioni, oltre al convencvol tempodate ne fiegue,qua do più gravoſo , e di maggior riſchio fiè il male ; concior fiecofachè nelle lievi malattie , che molto non piggiorano dal ſuo naturale ſtato l'inferino , poco nocimento ricever, certo egli ne foglia ; perciocchè o ſe n'allunga il male,ficc me Ippocrate,e Galieno diviſano, o pursì poco cagionevol della perſona coluinerimane , che nulla il medico quan tunque accorto , ed eſercitato Gali , comprender mai ne puote . A torto anche vien biaſimata la Chimica d'adoperar fo laniente i minerali; e ben detto è a baſtanza contro la ſci munitaggine di alcuni,quanto ricca, e abbondevole di ine dicamenti ella ſia; c nel vero, ne l’Ericina ebbe mai,o l'Ar denna , o s'altra al mondo è più vaſta , e più folta ſelva,tã ti alberi , tante belve , quanto ricca, e abbondante è la chi. mica di cofe a’luoi medicaméti accóce;e prédöli a loro uſo, non ſolamente i minerali dalla terra ,madagli animali anco ra , e dalle piante abbondantemente i rimedi ſi formano ; perchè troppo ſcarſa , e mendica pur ſarebbe da dire la rapportata ſomiglianza ; perciocchè quanto cuopre il Cies : lo , abbraccia l'aerc , nutrica la terra , e'lmarchiude, tutto alla Chimica giuridizion ſoggiace : e'l meno di che ella s'inframmette ſono i minerali; concioſliecofachè non abbia ſolamente in fua balia i falnitriji ſalicomunisi vitrioli, i fer ri , i rami, e gli argenti , c gli ori , e le gemme, comcchè di queſt'ultime coſe ſolamente i perfettiſſini Chimici, o icat tivi , non già i inczzani ſervir li fogliano;ma e radici anco ra , c tronchi, e frondi , e ſughi di cento , e mille infra lo ro diverſiffime piante , e anche tutte parti ſalde , e diſcor renti di tanti , e sì varj animali,di cui la Chimica i ſuoi me Yyy dica 538 RagionamentoSettimo dicamenti in sìvarie , e tante guife ordina , e lavora. : Ne perchè la chimica medicina ne' minerali talora s'a doperi ,e s'affarichi, è per huom da tacciarne : anzi fom mamente da efferne commendata lo la giudico; concioffie coſachè non ſono i minerali altrimenti , comealcun di loro follemente ſognoſli , veleni, e toſſichi:anzi non poco in vero molti e molti diesſi all'umangenere giovano,e approdano; e ciò a tutti buoni ſcrittori aſſai manifeſto egli fi è , anche antichi , che liberamente , e fenza niun ſoſpettomettevan gli in opera , e così fchietti , comecon altre coſe meſcolati l'uſavano ; il che ſenza troppa fatica durare agevolmente moſtrar potrei : maſſimamente, cheper tutti manifeftamé te ſi ſa quanto Ippocrate della ſquama del rame fovente fi ſerviſle ; e Dioſcoride no conſiglia , e conforta a dar per bocca liberamente il vitriolo: e ne'tempi antichi anche s'a doperava il mercurio : e ancora a' dì noftri nella colica , e ne'vermi , e in altri ſimiglianti mali ordinaſi da tutti medi ci, anche a'fanciulli del lactime, ſenza ſofpetto dinocimé to alcuno ;e ſe fra’minerali v'han di que' , che velenofi fo no , ve n'haparimente di queſti, ed in maggior copia fra' vegetabili . Maſe egli avvien mai pure , che alquanti deʼnedicame ei de'Chimici,compoſti divengano fpoffati, e debili , egli ciò non dee a colpa della chimica aſcriverſi:ma de’poco av veduti artefici , e de’medici, i quali intendenti non ſono delle chimiche preparazioni, e ravviſar non ſanno quai mea dicamenti ſenza alcun preparamento fiano da porre in ope ra , e quali gli richicggano . E ſe divantaggio i Chimici da'vclenofi, emicidiali ſemplici ſoglion trarre ſalucevoliſ fimi antidoti , ciò loro a fomma gloria dee riputarſi, che ciaſcun di loro fuor d'ogn’uſo Pieghi natura ad opre altere , e frane. E ſe'l precipitato , e'l ſolimato , che potentiſſimi veleni ſono , cavanfi dalmercurio , e da altri minerali, non ne ſon però quelli da biaſimare , ne i chimici medeſimi , che gli compongono ; concioffiecofachè anche l'oppio , e altres molte comunali medicine , avvegnachè rieſcan poi vele nofc Del Sig.Lionardo di Capoa 539 noſeall'opera, pur da ſemplici non mica velenoſi compon ganſi, ne perciò tanto quanto ilor fabbricatori ſe n'acca gionino : e ne balti ſolo al preſente fapere , che ciò non , lia ſpezial biaſimo della Chimica ; e ſe da quella i pre cipitati, ci ſolimati fabbricaronſi al mondo , no fu già ,per chè s'aveſſer quelli ad operar mai ad uſo alcuno dimedici na , ma per altre, e altre biſogne; ne perſona ſe non priva affatto d'intendimento per dover medicar giammai gli la vorò ;perchè ſe quel temerario Bacalare aveſſe púto in chi mica ſtudiato, non avrebbe egli giammai ardito ad impor re agli infermi per coſa delmondo il precipitato , il qual da tucci buoni ſcrittori vien daʼmedicaméti sbadito, come ma nifeftiſfimo veleno;e ſpezialmére dal Quercctauo,có queſte parole:precipitatú in aqua furti à nobis omninò improbatar: 0 có quell'altre,ch'e' ſoggiugne:hæc, & fimilia effe Empiricorii fecreta , quæbuccinatorum inftar pro maximismyfteriis pro mulgant. Ne perchè i minerali lian da noſtra natura citra : nci , e rimoſi, dovrà ciò darne punto di briga; e ſe pur co tal ragione aveſſe luogo , dovrebbervi eſſer a parte anche i Galiçniſti in rintuzzarla, i quali non men deChimicime defimila pietra lazula ,e l'oro , el’ematite , ci giacimi , e'l bolarmcnico, e le pietre giudaichc, c altre, e altre ſomiglia. ti medicine lovente adoperano . Ma lo per non darmene troppa briga ſervisõini al preſente di quelle parole del Tā .chio là dove d'un cotal balordo , che con ſimiglianti fanfa luche ftuzzicavalo così cgli al ſuo Oiſtio ſcrive : oppugnant, dice egli,medicamenta ex metallis parata , ideo quia non iis alamurfed ; nec cornu cervi nos alit,neque uniones, aliaque pleraque . Quænos alunt impura ſuntimnia , do quefacilē mutationem ſuſcipiunt ,fed quotidie agunt in balſamum na turæ , cum corrumpendo in fenium ; labefactatis viribus noftri corporis facile illareficiuntur vegetabilibus ; fed fixio illa in fixa; mineralia figuntſpiritus , purificant , & exaltant. E prima di lui Avdrea de'Mattioli , così del biſogno de’mi nerali ne ſcriſſe : ibi tum alibi , tã in chronicis morbis eſt ani: madvertendum , ubi tota malafanguinea in univerſo vena rum ambitu corrupta eft , & referta multorum morborum fe Yуу 2 mina 540 Ragionamento Settimo minariis , tunc ii inquam morbi citra metallica devinci vix pollunt; avvegnachè egli poi faggiamente ne configli a non dovere i Chimici medicamenti adoperare colui che di chi mica pienamente non ſi conoſca ; il che noi baſtantemente altrove dicemmo . At qui, dice egli , ejufmodi morbos ci tra ſcientiam res metallicas tractandi aggrediuntur , ii ple rumque re infecta cummagno dedecore , & fui, &artis me dicine defiftunt. Ma ſopratutto baſti recar qui le parole di GiacomoPrimeroſio Galieniſta di primo grido: Cauffa eft, egli dice,cur plurimi Chymica hec reformidēt;quia creduntur ſcilicet sti metallicis . Et fanè certum eft plurimos Nebulones, qui hoc pallio technas ſuastegunt , metallicis fæpè , &malè præparatis , & malèadhibitis uti ; verum ut jamfupra dixi mus , eadem eft materia , & fubjeétum uperationis Pharma copæi utriuſque tàm Chimici , quàm vulgaris ; neque minus vegetabilibus utitur Chymicus, quàm qui dicitur Galenicusze non guari appreffo foggiugne . Nonne maximè probanda eft ars illa , qua fi quandoiis utitur, variè, &eleganter pre parata ,non integra exhibet ? Ne meno è da dire, che perchè i foro fummi ſian peſtile zioſi, e nocevoli liano anch'eglino tali i minerali; percioc chè apertiffimamente veggiamo ſenza punto di danno il falnitro, e'l vitriolo , elfal comune alla giornata ufarli , e'l fal comune maſſimamente in tutte vivande da ciaſcun porſi; i cui fumıni certamente , come que d'altri,e d'altri minerali, nocevolilfinni fono . Pure non è coſa cotanto utile , e gio vevole al genere umano , che nonnepoiſa talvolta anches nuoceren Nilprodeft, quod non læderepoffit idem . Igne quid utilius ? fi quis tamen urere tecta Cæperit , audaces inftruit igne manus. Eripit interdum , modo dat medicina falutem . Le ragioni poi, e le teſtimonianze dell'Eraſto , del Riola no, e d'altri sì fatti Galieniſti han canto dello ſceno ,che da lor medeſime a baſtanza ſi rifiutano ; e comechè per mani feſta, coftinata malavoglienza fianfi queſti ftudiati dimor der la Chimica , e ſozzainente lacerarla , e quaſi metterla 1 in fon Del Sig .Lionardodi Capoa 541 1 in fondo ; pure non han potuto far sì , che ſtretti talvolta dalla propia coſciēza, o dalle nimiche ragioni abbattutis no l'abbianomanifeſtamente approvata. Così l’Eraſto medelia mo, che moſtroffi più ch'altro Galieniſta acerbo, e fiero ni mico della chimica, purnel proemio di quell'operc,ch'eico tro il Paracelſo fcriffe,nó potè no commendarla ;e la ſcuola tutta di Parigi pur la permette,e l'adopera,ficome raccota il Riolano; il qual comechè nimico a ſpada tratta le fi dimo ſtraſſe, pur delle chimiche medicine,comeãcorfece l'Eraſto , ſerviſſzavvegnachè talora p loro ſcimunitaggine ad infeli cc fine gli uſciſſero . Ma côtro a’piacitori, e a'maladicéti Ga lieniſti adoperarono gloriofaméte le péne a ſchermo della chimica nelle loro dottisſime Apologie il regio Protomedi co Torqueto , e l'Arueto , e'l Baucinero celebri e famoſiſſimi maeſtri in medicina: e oltre ad infiniti altri il famoſo , e ben parlante Libavio nella ſua Alchiinia trionfante ,di cuicon ) aringa di lode diſſe il Caſtelli: Alchimie dignitatem adeo re Kituit Libavius contra fcholă Parifiensë ,ut nihil amplius addi polje videatur ; ma ſopra tutti imalzi, e difende la chimica il ſottiliſſimo Borricchio , non men celebre , che dotto let tor di quella , nella famoſa reale Accademia d’Afnia; il qual sì fattamente rimbeccale ciance del Corringio , che nulla più . Ma quanto poco ſenno aveſſer facto i medici meſaneſi in proibendo l'uſo dell'Alcarotto, apertamente ſi vede dalla poca ſtima in cui vennetenuto il loro divieto ; poichè non men ,che prima in Melano, e altrove le genti tutte l'adope rarono ; e oltre alla gloria molte ricchezze guadagnoſſi Vittorio Algoreto per sì fatto medicamento, il quale altro * non è , che il mercurio di vita;comechè p naſcõder sì caro fegreto il nieghino gli eredi del medeſimo Algoreti; e forte mi maraviglio , che alQuercetano , sì bene ſcorto nelle chimiche operazioni, e che tutto dì l'avea fra le mani, non veniſſe fatto ciò ravviſare . Ed è egli pregiato l’Alca . rotto , eziandio daʼmedici volgari , e Galieniſti, e per buo na , e giovevol medicina per tutto ſtimato ; ma pur ſi vuos le 112 342 Ragionamento Settimo le in ufarlo aver riguardo a' tempi,alla quantità,e agli ama · malati ; ne fi dee prendere ſenza conſiglio di medici faggi in chimica , e conoſciuti affai; perciocchè ſe da perſone dappocomallavorato folle , o foſſe pur ſenza riguardo at cuno preſo , certamente nuocer potrebbe , e a riſchio della perſona talvolta ancorcondurre; ſicome non ha guari, ava venne a un Barone d'alto affare , il qual per conſiglio d'un corale ſciocco,e temerario Galienifta avendone trangugis to ſoverchiamente , con acerbiffimi dolori, feno'l receva di preſente , certamente nemoriva . Ma di ciò ſenza dubbio , non n'è dabiaſimare il medicamento, ma la follia più coſto del medico , cheoltre al dover l'iinpone; e più quella dell' ammalato, che alla cieca , e ſenza riguardo alcuno ſe'l tra caima . E ben ſarebbe il migliore, ſe laſciando da parte i volgariGalicniſti sì fatti medicamenti,non s'inframmettel ſero púto di ciò, che non ſanno ; e come cantò colui Velperfectèartem diſcant , vel non medeantur; Namfialiæ peccant artes ,tolerabile ceriè eft: Hæc vero nifi fit perfecta , eft plenapericli , Et fævit,tanquam occulta , aique domeſtica peſtis. Ma noi luiluppati dasì fatte conteſe, trapaſſereino intanto a far qualche parola dell'antimonio, come di quello , ch'al noftro parlamento diede in prima cagione, L'ancimonio , che da alcunicertamente non fuor d'ogni ragione chiamato viene colonna, e baſe della medicina,egli sébra nel vero una corale ſtrana ; e nuova ſorte di minerale di variege fra loro diverſe parti copoſta, e si lazza,e acerba , che ragionevolmére alle poma anzi che mature fiano è raf ſomigliata;imperciocchè tra per la troppo meſcolanza , che in ſe ritiene, e per l'inegual proporzione delle parti,che'l co pongono , non eſſendo potuto alla debita maturità , e per fezion di inccallo pervenire , così trameltato, e inal com poſto ſe ne giace . La ſua ſtrana natura ', c le ſuc maravi gliole qualità malagevolmenteravviſar ſi poſſono, non che per huom narrare; concioliecofachè quaſi Proteo de'minc rali in facendoſi dilui notomia , in tante , e sì fatte guiſc fi ſcambi, e traſmutische inviluppativi i più famoſi maeſtri della 1 Del Sig.Lionardodi Capos. 543, ikclla chimica, dopo molci, e diverfi argomenti , e ſperien ze , ſtupidi alla per fine, e d'ogni loro avviſo ricreduti ſi ri mangono . Ma perquanto col noſtro intendimento com prender ne poſſiano , due forri di zolfo par che abbia nellº Antimonio : l’una fiffa , e pura oltremodo, in cui le ţinture tutte,e i ſemi de'metalli e ſpezialmente dell'oro ſi rinvégo ao: pchè daalcuni degli ſpagirici filaſofati,matrice de'me talli vié chiamato l'Antimonio; l'altra fiè di zolfo dalla sé biáza del comun zolfo poco o nulla diverſa ; perciocchè no filla , mainquieta y e volante, e oltremodo vaga ella è;per chè potentiſſimage:ſoperchievole nelleſue operazioni viene da ciaſcun giudicara. Havvioltre a ciò un cal mercurio me, tallico indigcfto , il qual corto più , che ſe mercurio vivo non foſſe , della natura del piombo alquanto ritiene ;e as queſta parte , che certamente è la maggiore nell'ancimonio , alori la violenza attribuiſcono , e'l poter , ch'egli ha nell'o perare ; anche havvi alcune parti arſenicali, in cui ſecondo. chè altri ne dicano, il ſuo veleno veramente ſi ſerba; c per fine havvi nell'Antimonio una cotal ſoſtanza groffase terre ftra , la qual della ſua matrice ſommamente participando , con quella inſieme,e con ſue particelle congiugoc,emelco la le parti arſenicali, e quelle del primo zolfo, c delmercu rio indigeſto, e del ſale ancora di natura vitriolato , che pur ven’ha : a cuila malvagità tutta , e'l veleno altri aſſegnò , che tanto all'uſo , e all'operazione ſconcio lo rende. Ma l'Antimonio crudo non inuove punto vomito , ne tanco , o quanto a colui , che'l prenda offender ſuole ; perchè ne Galieno medeſimo , ne Dioſcoride , ne altri buoni Autori de'ſecoli addietro l'allogară mai infra’veleni, o nel catalogo delle vomitive medicine l'ānoverarono anzi Diofcoride medeſimo ne conſiglia , e conforta a toglier via la poſſanza vomitiva dell'Elacerio , con meſcolarvi deutro dell’Antimonio ,e così temperandolo ammendarlo; percioc chè ſenza dubbio ha l'Elarerio più del veleno , che del me dicamento , ſe violento , e rigoglioſo il ſenciamo , che se vorrai purgare , ſono le parole di Dioſcoride, ove egli nar ra dell'Elaterio , meſcolavi altrettanto di ſale ed'Antimonio, 444 - 544 Ragionamento Settimo 1 quanto farà meſtieri ,laſciandoall'altrui diſcrezione il divri Jarne la doſe : seisn &è mois diam vooõoty aj di autoữ xabagors . ei pea ούν θέλεις κα το κοιλίαν καθαίρειν , διπλάσιον αλών, μίξας , και είμ plaws over gewoon e Il che eglicertamentefatto non avrebbe, s'aveſſe mai , comechè leggiermente , ſoſpettato, non forte velenoſo , enocevole l'antimonio . Nicolò Mirelio poi , it qual con accuratezza non ordinaria accolſe inſieme le ri cette più nobili de’medicamenti, ch'adoperaſſer mai ne’té pi antichi ipiù famoſi medici Greci, annovera l'antimonio infra iſemplici dell’Antidoto ,ch'egli del Gengiovo chiana. E Baſilio Valentini narra , ch'a' ſuoi tempi dell’antimonio ingraſſavanſi i porci : e nell’Efemeridi, o giornalieri dell'In ghilterra abbiamo , che tutto dì oggi i porci, le vacche, ci cavalli ſe n'ingraſſano,al peſo d'unadráma,e anche di mez za oncia per volta prendendone ; e in molte contrade del noſtro Regno coſtumaſ a prender l’Antimonio dalle donne gravide in quantità d'unanocciuola , ſenza danno, o noci mento niuno , e'l chiamano volgarmente allegra cuo ré ; e nella inedeſima noſtra Città in molte malattie uſali a ber l'acqua dell'antimonio con grandiſſimno gio vamento degli ammalati; e nella Francia , e anche altrove, l'Antimonio crudo , ſicome per M. de la Febure di ciò pie namente inteſo ſi racconta , fe donne tout les jours tout crud par la bouche fansaucun accident , emeſmes aux enfans à la mammelle: e que de plus on le met boüillir juſques au poids d'une demie livre dans les decoctions contre la verolle , &qu'on le met de meſmes en infufion à froid dans de l'eau pour ouvrir le ventre gepour ofter les obſtructions des viſce 1 5 Ma ſciolte da quegli intoppi , c da'legami , chea freno, e a bada la lor violenza tenevano le nocevoli particelle dell'antimonio , o ſaligne , o ſulfuree, o mercuriali, o arſe nicali , ch'elle ſieno (perciocchè grandisſime quiſtioni , ei contefe intorno a ciò infra'Chimici filoſofanti tutt'or vifo no ) non ſi può di leggier credere quantenoje , e ſconcisſi mi danni quelle recar ſogliano ,con fondere, e diſtruggere, e liquefar non ſolamente le parti umide, ma le falde anco ra del DelSig.Lionardo di Capoa. 545 ra del corpo umano'; riſvegliando anche vomitiimpetuofif fimi, e purgando per baffo ,finattanto ,che colvigor talvol ta lo ſpirito , e la vita miſeramente ne manchi. Ma tacer non fi dee, che ritrovali talora in qualche miniera , Anti monio , cheſenza niuna preparazione voiniti, e fluffi ſoglia cagionare ; ſenzáchè'talora nello ſtomaco di colui , che'l prende , può eſſer coſa , che ſciolga da’legami lalparte ve Jenofa, perchè l'antimonio d'ogni miniera , parimente può ciò fare ; e quel'è la cagione , che ſpinge alcuni autori a fa vellar così variamente della facoltà dell'antimonio crudo : Ma che che ſia di ciò , ſe per opera , e argomento d'avve dutiffimo maeſtro reprimuto alquanto, e rintuzzato il loc nocevoliſſimo veleno neſia , certamente allora valevole e Pantimonio a vincere, e ſgomberare ogni peſtilenzioſo ma lore , ove a tempo , e acconciamente , e con riguardo per huom ſi dea ; concioffiecofachè non ſolamente egli ne pur ghi , cvuoti dentro , ma ſovente ancora diſſolva , e miglio ri , e ſgomberi ciò che nel corpo di maligno , e cattivo così nelle falde , come nelle diſcorrenti parti peravventura ritrova; il che certamente a niuna altra forte di medicamé to , o purganre , o vomitivo , ch'egli fia agevolmente ſi co cede. Nec conftat , dice il Zuelfero, ex vegetabilibus unicũ emeticum , grad nainore cum periculoexhiberi pifit , quàm aniimonium dextere , ac debitè præparatum ; nunquam enim tormina ventris , convulhones , hypercatharſin , fluxumque nimium colliquativumcauffabit , etiam fi frigida ſuperbiba tur . E egli però quelta malagevoliſſima impreſa ,e difficil molto , p mio avviſo , anzi impoſſibile affatto ad artificio umano ; perciocchè la parte velenoſa nell’Antimonio ſi è quella , che muovelo ſtomaco a recere, e ſcioglie il ventre: la qual certamente quantunque volte vi rimane, non ſi può in modo alcuno accutare , che a qualche perſona alla fine,o in qualche tempo non abbia gravemente a nuocere . Nej per altroʻi Chimici autori ora in biaſimo, or in lode de'varj apparecchiamenti dell'antimonio purgante , o vomitivo fa vellar ſempre ſogliono, ſe non fe per lo grare , e ftraboc chevol riſchio, che agevolmente vi ſi corre . E quel ſapie Z zz tilfimo 544 Ragionamento Settimo tiſſimo nuomo nella Chimicafiloſofia, e nella medicina pas rimente ſublime, e ſingolare Giovan Battiſta Elinonte ſolea dire: Antimonium ,quandiu vomitum , aut fedes movet , mercurius revivificaripoteft , venena funt: non boni virirea media . Soglioſi dell'antimonio ſublimare i fiori;e ſi fôde egli an che in vetro , e in regolo ; e'l mercurio di vita , e'l gruogo ancor ſe ne forma : purganti inſieme , e vomitive me dicine . E per cominciar dal vetro , il qual comechè in viſta di nulla ſi paja dall'ordinario vetro differente ; pure comunicar ſuole minutiſſime , e però inſenſibili , e cieche particelle velenoſe al vino, o ad altro ſomigliante liquore , in cui per qualche ſpazio di tempo ſia dimorato . Egli è il vetro dell'Antimonio commendato aſſai da quel nobiliffi mo Vicerè dell'Olſazia Enrico Ranzovio , Strolago infie me , e medico famofiflimo, e Guerriero, e Poeta ; e dalGeri neri ſomigliantemente , e dall'Andernachi, e dal Langio , e dal Mattioli è ſommamente lodato . Ma Pietro Severini d'altra parte grandiſſimo maeſtro in Chimica , e in medici na , forte il biaſima , e danna ; dicendo , che avvegnachè in quello cotanto fuoco trapaſfato ſia , non ſe n'è però il buon giamai dalcattivo potuto ſeparare.E de'ſuoi ſentimenti an cora ſi fan feguaci altri , ed altri famoſi medici , e chimici con apportarne molti eſempli d'infelicisſimi avvenimenti . Vitrum antimonii , dice Giuſeppe Quercetani , quo bodie multi imperiti maximo cum damuo utuntur , perniciofum eft medicamentum ; quod ſwoarſenicali fpiritu facultatem irri tandoexpultricem , perſuperiora , einferiora magna cum perturbatione ducat , evacuetque; quod ego probare nullo mom do poffum . Dal che moſſo Duncano Borrero anch'egli ri fiutandolo , affatto dalla medicina il bandiſce , dicendo : Vitrum hic antimonii fciens omitto , tanquam pernicioſum medicamentum ; e'l dortisſimo medico , e Chimico Teodo ro Cherchringio parimente del vetro dell'antimonio dice , che comechè alcun guarito pur ne ſia , non eft tanti ifta for . tuita quorundam fanitas, ut propterea , vel unius hominis vita exponendafit periculo . Vidienim quum ager tantùm femiun . DelSig.Lionardo diCapoa. $47 Jemiunciam fumpfiſjes infafionis , eum poft ingenies vomitus, & fupercatharticasvacuationes ,fubito efflare animă. Ata binc ille lachryma , hinc clamoresifti contra Chymicos inſur gunt ; tanquamfiarti imputanda effet aliquorum Pſeudochya micorum impia temeritas, quorum nihil refert quotfuneribus impleant domos ; modo unus; alterve fanatuseorum ebuccines fama, &illi audiant magni Doctorės , emungantque rufticis pecuniam . Ma avvegnachè egli medeſimo una cotaltem pera , ecorrezione del vetro dell'antimonio rapporti, la qualdice egliefſer ſicurisſima, e séza riſchio alcuno in ado perarlı ; purecomeegli biaſima ſommamente', e riprova quella ; che dal Ranzovio , e dal Mattioli , e da altri uſa vali, così verrà un tempo chi da qualche finiftro avve nimento moffo , dannerà , e riproverà anche la ſua . Mi Ιο quanto a me intorno a' vetri dell'antimonio non fa prei certamente che dirmene ; non avédo mai fatta pruo. va di quell'avvertimento del Rolfincio , ove c'dice : quane do coctio inſtituitur , favellando del vetro dell'antimonio col vino bollico , fupernatan'scuticula arſenicalis aufertur ;" E foglion certamente sì fatti veli naſcer da'ſali, comenel bollir del ranno manifeftainente oiſervali; perchè ſomiglia temente potrebbe dall’Alcali ingenerarſi il velo nel vetro dell'antimonio , e non dall'arſenico , ficome il Rolfincios avviſa . Ma che che di ciò ſia , in biſogna dicotanta confi derazione , lo conſiglierei i lavoranti ad eſſer anzi ſover chianente ſcrupololi, che no , e a ſeguire il conſiglio del Rolfincio , e a dubitare non forſe così foſſe , come cgli dices - Defiori dell'antimonio dal Zappata , e da altri cotanto commendati ,così il teſtèmentovato Quercetano favella : Antimonii vitrum idem ferociterpræfat ,quod ejus flos;idq; obe Spiritum quendam album , & arſenicalem ipfi infitum quě nec à floribusego exulare exiſtimem ; quippe quos adeo afro citer corpus concutere , ac devexare foleant tìm vomitu, tùm dejectionibus , ut res non caréat periculo. E con lui anche ac cordãdofi Baſilio Valentini,dice pariinente i fiori dell'anti monio effer nacevolisſimi, e velenoſi . Z z z M2 Ragionamento Settimo Mai Regolo anche dagli antichimedici imperocchè coa hoſciuto, ne fáno ſpezialmézione Dioſcoride,e Plinio (av , vegnachè vi fallaſſero no poco in giudicar, che quello altro non foſſe, che Antimonio in piombo cambiato ) è da’buoni Chimici avviſato per medicaméto violentisſimo ancora,ed oltremodo di riſchio . E ciò anche a' Galieniſti medeſimi fu purtroppo conoſciuto ; infra’quali il Priineroſio ,così dan nandolo nefavella ; omnem retinet antimonii malignitatem , qua antea fub terreo excremento sopita latebat : edindi ap preſſo : fed quum omnes pravas, e horrendas antimonii vi res adhuc posfideat , poculum indè confeftum perniciofiffi mum effe neceffe eft ; ideo puriores Chymici hoc ab ufæ me dico amninò ablegarunt. Ed un della ſcuola di Lazaro Ri verj parlando del Regolo , così per ſentiméto del fuo mae ftro ne ragiona : Calix chymicus toties in obſervationibus no Bris nominatus , communiterque adeo omnibus confectus non eft , ut nonnulli arbitrabantur, & arbitrantur ex regulo An timonii vulgaris . Exregulo quidem eft :fed tertii gradus , qui longè differt àvulgari ; quamvis etiam multi boc utan zur non finepericulo bibentium . Ma il gruogo de metalli, col cui uſo cotanto avantaggiar fi potèl'imperial medico Martin Rollando, e in tanto ono re , e ricchezze formontare, è così chiamato dal Querceta no , perchè ſecondochè egli ne dica , dell'antimonio tutti metalli s'ingenerano , e fpezialmente l'oro , l'argento , e'l piombo: egli è comunalmente da’buoni ſcrittori il mens violento , e men pericoloſo infra le vomitive medicine an rimoniali giudicato.Ma perocchè l'Alcali del nitro nőben ? anche tutta la parte velenofa dell'antimonio ha tolta e pur gata, o p me dirc legata :la qual certaméteè quella cheare . cer muove , ben li può di eſſo dire , che comechè per ope ra d'eccellente , e ſperimentata mano nel meſtier della chi mica temperato fi foffe , pure pofftan dire che L'ira s'intiepidi , ma non s'eftinfo perchè ſoſpettar fempre dee l'accorto , e prudentemedia co , non ne ll'adoperarfi ,alcun ſiniſtro avvenimento ne ſe gua ; perci occhè pure , comechè di rado fortir ne fogliono , Ed 1 Del Sig.Lionardo di Capoa 649 Ed havvi un'altra malagevolezza nel gruogo , imposſibil quafi a ſuperare ; perocchè quantunque con la medeſimas proporzione del nitro , e dell'antiinonio diſpoſto fia , c quá ¢unque con tutte le medeſime circonſtanze lavorato į pure, talvolta più ;o men vigoroſo ſortir ſuole , e sì da ſe mede fimo differente , che in dubbio ſempre, e in timore delle ſue ſtrane qualità ne tiene, ne per accorto , e ſperimentato che l'Artefice fia , potrà maicome , o perchè ciò avvegna baſtantemente comprendere; ſenzachè cotalimedicamen ti recar fogliono talora uſcite copioſisſimedi ſangue, o la egli , perchè fi rompa qualche apoſtema dentro dall'huo mo,e con quello alcun vaſo grande ancora’del corpo : o che tra per la violenza del vomito , e quella del medicamento alcun altro ſe n'apra , e ſi roinpano, e ſquarcino l'interiora: oche partendofi dalle viſcere , e dibucciandofi la mucilag gine , la quale infra gli altri ſuoi ufi, a guiſa di veſte copré dole , difenderale dagli oltraggj de’ſali acuti , e pugnerec cj, o d'altre ſoſtanze, quelle ignude,e ſcoperte rimanendo, dal medicamento s'offendano : e rodanſi anche dalla me deſima violenza del medicaméto gli orli de’vaſi delſangue; i quali aperti, eſquarciati, comechè picciolisſimi , pure così numeroſi quivi ſono che ſgorgar oc può in ranta copia il fangue, quanto n'uſcirebbe per avventura dal rompime to di qualche vaſo ben grande . E comechè di ciò n'abbia parecchi eſempli; masſimamente nella noſtra Città ; purs baſterammi al presēte rapportarquì una ofſervazione dell' avvedutis ſimno Vartone recata dal Gliffonio con queſte pa role : Huc referamus hiſtoriam , quam mihi communicavit clarisfimus V varton, mulieris cujuſdam , quæ à fumptu pharm macoafperiore in enormem fanguinis vomitum inciderat,cui, que ventriculum poft obitum vocatusaperuerat . Nulla com paruit vena , fivèrupta , five exefa; cæterùm in cavitate ventriculi adhuc nonnihil fanguinis reftitit ; fiquidem multò maximam ejus partem ante obitum rejecerat. Fortè dum mi ratur unde ea fanguinis copia promanaret , dorfo .cultri inte riorem tunicam , ut penitiusreminfpiceret deterfit : boc facto innumera fanguinis pūčtula in ſuperficie deterfafenfimcomo pare Ragionamento Settimo parebant ; ipfa quoque funica quaficutis derafa: cuticules 1 . E che diremo noi de'copiofiffimi ſudorifreddi , e viſcoſi, ch'uſcir fogliono dagli ammalati per opera dell'antimonio sì fattamente lavorato i Certamente cotali ſudori,che chia man diaforeticizangofce,e noje , e ſvenimentirecar foglio no , e talora anche con toglier agl'infermi miſerabilmente la vita ; avvegnachè cotali effetti non dall' antimonio fo . lamente , madalle manne ancora , e dalle roſe avvenir fo gliano , ed eziandio da altremedicine , che per comun conſentimento più ſicure , e piacevoli, e innocenti tenu te fono : memini non defuiffe, dice il Libavio , qui Caffia fumpta omnia pateretur , que illi ,qui venenum hauferuns. Nedi ciò è daprender maraviglia; perciocchèil medeſimo veleno , che è nell'antimonio , è anche nella Callia , non che nella manna , e nelle roſe , e in altre ſomiglianti media cine ; perchèſoverchiamente preſe, o fuor del convenevol temporecar ſogliono talora gli effetti medeſimi dell' anti monio . Neq ;enim ,dice il medeſimoLibavio ,in favellando pur della Caſſià ,parum acrem inde elicimus liquorem : tur batorem nimirumillum alui . E finalmente il mercurio di vita è egli vero, e legitimo parto dell'Antimonio , non men di quel, cheſiali il gruogo; comechè il Billicchio vanamente li perſuada eſſer quello operadel mercurio , non dell'antimonio . Ma egli è ſenza dubbio men temperato , emen gaſtigato del gruogo ; e fe guentemente maggiorinoje , e moleſtie recar ſuolea'corpi umani per la parte maligna , e velenofa, che in eſſo preva le ; perchè men certamente agli ammalatidar ſe ne vuole ; che non ſi dà del gruogo. Ecomechè be fi poſſa in eſſo co tal vizio perarte.correggere , e ammendare , e più forfes chc da'volgari maettri non ſi coſtuma; tuttavia per quanto diligentemente per huomo lavorato ſia , temer fempre , e fofpettarne dobbiamo ; ſenzachè il mercurio divita, come Cutt'altre medicine d'antimonio vomitive, ſovente imediči da' loro avvifi ingannar ſuole , o nulla, o ſoverchiamente operando. M.2 Del Sig .Lionardo di Capoa 151 Ma non perchè dannoſi talora , e pericoloſi ad uſare co tali medicamenti ſiano , ſi vuol perciò dalla medicina l'uſo dell'antimonio affatto sbandire ; conciofliecoſachè ben an che fabbricar ſe ne potranno nobilisfini rimedj dadover darſi ſenza tema di nocimento niuno anche a’vecehj e a'bā. bini , e alle donne groſſe , ficome agevolmente compren der ſi può dall'opere del Valentini , delParacelfo, e dell? Elinonte . E comechè non ſia impreſa da tutti il compor cotali poderoſi medicamenti , ma innocenti però , e piace. voli e di qualunque veleno difarmaci;non però di meno sér za troppafatica durarc potrannoſi agevolmentelavorarda chiunque mezzanamente uſato ſia nella Chimica , que'po chi inedicamenti , che vanno attorno ; come il belzoardico minerale , l'antimonio diaforetico , e altre ſomigliantime dicine , nelle quali comechè attutato affatto ,e ſpento il ves Jen ſia , pur sifattamente ligato ſe ne giace, Ch'a guiſa di leon quando fopofa : non ſogliono , anzi non poffono perpoter ch'elle abbiano, colle lor pungentiffime particelle offender giammai , ne ad huomonocimento alcuno apportare ; non altrimenti, che innocenti anche in alcuni legni , e nellolio , e nella pietra focaja que piccioliſſimicorpicciuoli ſi giacciano ,de'quali il concorſo , il movimento , la figura, l'ordine, e'l ſito formano il fuoco . Eben diſs’Io non effer anche nell'antimonio dia foretico eſtinta , e fmorzata affatto la ferocia; concioffieco ſachè fondédoſi quello inkegolo,cagagliardiffima forza di fuoco ſtaccadoſi allora gli alcali,o pur cábiádo sebianza , i quali il vigor del veleno affrenavano,e'ltenevano a badari ſvegliaſi di nuovo, e riforge la fua primiera,e natia fierezza . Quinci ſi vede,quanto dal ver fi diparta il Villiſio , il qual vuole , che l'antimonio diaforetico , altro non ſia , ch'unw ſemplice terra dannata, e che come tale ad altro e' non và glia, ch'ad aſforbire, ea dar luogo nelle ſue vacuità a que' fali acuti,chefogliono travagliar le viſcere: e che egli non abbia niuna facoltà diaforetica; ma ſe al Villifio foſſe ved nuto fatto d'avviſare i maraviglioſi effetti dell'antimonio diaforetico , certamente in altra maniera n'aurebbe favel la + RagionamentoSettima Lato,comeche Pantimonio diaforetico ſi ſia veduto nellofte : maco d'alcuno non men ,che la polvere di Sicilia , detta del Chiaramonte , e altre terre ſimiglianti,per la gran forza de faliivi dimorāti talora impietrarſi ; il che però da béiſcor to chimico ſcanfare aſſai bene ſi puote. Maciò laſciando di parte ſtare : e'manifeſtamente fi comprende eſſer nell'anti monio la parte velenola fiſſa ; e forſe arſenicale,e non come altri vanamenté s'avviſa , volante, e vaga . Ma ſe ciò è ve ro , potrebbono per avventura ritrovarſi nelle viſcere delle ammalato ſughi così potenti , che colla loro efficacia vale . voli foſſero ad operar quivi tutto ciò, che far ſuole violen tiſfimo fuoco ne'fornelli, ſciogliendo nell'antimonio diafo retico gli alcali , e riſvegliando la parte arſenicale ad ope rar dentro le viſcere la ſua uſata peſtilenza : e allora chin? aflicurerà dell’acerbiffime noje, e dolori , e ſtracciamenti di viſcere , che recar ſuol l’antimonio , non altrimenti che ad uſo de'fiori, o di vetro lavorato ſia . Così ſperimentiamo talora,che lo ſchietto , ed innoccnte mercurio , meſcolato dentro dall'huomo ,coll'acetoſo ſale , che vi ritrova , gua ftali agevolmente , es’aguzza, a guiſa di violentisſimo pre cipitato; intanto chei medeſimi effetti di quello crudelmé te adopera ; e ciò manifeſtamente ſi può comprendere dal le pillole del Barbaroſſa ,e da’fumi, e dalle unzioni , e da al tre ſoinigliantimedicine . Ma poſto che lavorato per ogni verſo l'antimonio sépre nocevole , e velepoſo all'uman genere rieſca , non ſono però da biaſimare cento ,e mille altri medicamenti chimici giovevoli affai, e falutevoli ſommamente ſperimentati.Ma qualunque pur fieno i violenti rimedi della Chimica medi cina , maggiori nondimeno , e più peſtilenzioſi aſſai ne ha ſempre la volgar de Galieniſti , ſecondo il ſentimento cos mune di loro medeſimi: Magis igitur familiare eſe medicis (dice il Primeroſio ) qui Galenici dicuntur, ideft qui veterē Sequunturdiſciplinam ,validisfimis. uti medicamentis, quæ Chymici,aut raròin ufum adhibent , autſaltem melius pre parata . Nec verum eft à Chymicis omnia valentisfimo ignis calore præparari ; fapillimè mitiffimus calor adhibetur . Sed pre 4 Del Sig.Lionardodi Capoa . 553 : præterea ipſe Galenus docet igne valido pharmaca plurimai acrimoniam , mordacitatem omnem deponere . Etcertum eft , egli poi ſopraggiugnc,arte hac fpagirica ditta , & fero ciſſima medicamenta edomari, & plurima alias venenata ademptis deleteriis partibus evadere cardiaca . Perchè an che ſecondo i ſentimenţi d'un sì nobile , e valoroſo Galie niſta , e d'altri affai,ch'Io non rapporto pernon tediarvi, gli ellebori, le colloquintide, gli elaterj , le ſcamionee , e al tri non pochi violentiſſimi medicamêti diſegnatine dall'an tica gróffal medicina , i quali già ella più forſe ad offende reinteſa , che a riparare all'umana ſalute,fin da barbaré có trade a carisſimo prezzocomprando recati avea, ora incr cè ſolaméte della Chimica raddolcito il natio amarore , e pofta giù l’nfata fierezza, Ambrofios præbent fuccosoblita nocendi. Aft ego, dice quel fedeliſſimo ſegretario della natura cotan te volte da noi , coniechè non mai a baſtanza commendato Gio: Battiſta Elmonte : aft ego volens paterno animo corri gere furiofam medicaminum vim , intelligo rerum vires pri ftinas manere debere , infui radicem introverti , vel fub ſui fimplicitate transformari in dotes illas ibidem latitantes clanculum fub cuftode veneno : vel de novo partas ratione additaperfectionis. Quopacto colocynthislaxativam ,atque deletericam qualitatem introvertit ; emergitque ex imo vis. reſolutiva , morborů chronicorum curatrix egregia . Id enim Paracelſus in tintura Lilii antimonii cum laude attentavit ; filuit tamen, vel neſcivit fieri idimin omnibus prorſus anima tium , &vegetabilium venenis per falem ſuum circulatums: Siquidem omne venenum ipforum perit,fi in entia prima re dierint. E queſto è appunto quel veramente maraviglioſo artificio , di cui favellando Giovan da Bagnolo una volta diſſe : Generata naturalia inferiora loco durioris compaginis conflata , & alta magnifactione , propter duritiem nequeant abhominum mentibus diruiabſque magnorum philofophorum artificio . Perchè ritornando al propoſto di prima, è da co chiudere , utilisſime molto , e neceſſaric al genere umano Аааа effor Ragionamento Settimo 1 eller lechimiche medicine. E nel vero có quali valevoliar gometi poreron mai cotanti miracoli operare, eguarir ma li giudicati per addietro indomabili, e sfidanzati, l'Elmon , te , e'l Paracelſo , ſe non fe per opera delle chimiche loro medicine ? Eglino certamente con queſto meſtier poteronſi guadagnare il glorioſo titolo de'inaggiori medici del mon do : e per queſto ſentiero in tanta altezza di pregia monto il Paracelſo, che ragionevolmente meritonne il famoſo no medimonarca della medicina . Ma oltre a ciò ſono i Chimici intendentiſlimi de'ſempli, ci, e della lor natura : e ben ſanno ſciogliergli a tempo cô trarne la parte inutile, e nocevole , e ſerbar folamente pus ra , e intera la medicinale: ne loro punto naſcoſi ſono i gra. di , e le qualità del fuoco , e gli ſtrumenti tutti , egli ordi gni acconci a lavorare , e'l tempo , e l'altre circonſtanze a ciò confacenti oſſervano . Quindi dal loro faggio , e avve durisſimo operare forgon poi tantiprezioſisſimi medicamé, ti : e fanno dal vino , e di altri vegetabili , e viventi, e miş nerali corpicavar ricchisſimielisliri, e olj,e tiņture , e fali, ed eſſenze , e ſpiriti ſottilisſiini oltremodo , e ſommamente penetranti, e valevoli a riſtorare , eadar dipreſente ripa ro alla mancante vita ; e a richianare addietro i ſpirie ei vaghi, e fuggitivi negli sfinimenti , e nelle ſincopi, e ne più gravi, e mortali malori ; in cui convien di preſente con prelto , c valevole argomento ſoccorrere . Nea ciò fare al tro che la Chimica efficacisſimamedicina è valevole , cbi ftāte; perciocchè a’ınali gravoli, e non agevoli ad effer vinci fembran certamente bazzicature i volgari, e comunali rią medj; ne a tuto ſenzadubbio le più ſquiſite ricette di Ga, lieno poſlono aggiugnere. Inde illa , gridaforte ſtupidito il principe degli ſpagnuoliGalienilti LodovicoMercati,pro dierant miracula in diuturnis malis,quaprofunda ele ſolens, diſtillatorum aque ardentis, quinie eflentia, auripotabi. lis , fi ſcuſi nel Mercati , ignorante dell'arte , la follia del preſtar credenza all'oro potabile: e la manchevole ragione, ch'egli reca de’mąraviglioſi effetti delle chimiche medici, ne , così ſoggiugnendo , Chymica enim arte fumma compan ratur Del Sig. Lionardodi Capoa. 555 : ratur miſtis tenuitas , quæ duplieiter malis peritioribus profi cit , quia cedit ad imum , radiceſque mali penitus evellit, do quia cum toto affecto luco penitusconverfatur, &mifcetur; ità ut facilealteret , &devincat. E quindi ancor moſſo quel gran inaeſtro in divinità , e in ragion civile Martin del Rio, comechè egli per altro non ſappiendo bé la coſa , creda col Mercati , econ altri mal pratici del meſtiere ; che ſia vera mente oro potabile quel liquore che alcuni chimici ſoglio no chiamartale : ſommamentela Chimica loda , e innalza, ei ſuoi valevoli medicamenti commenda. Quam ego arré, dice egli della Chimica , qua medicine adminiculatur janë laudo, &venerur , ut phyſiologie fatum præftantifimum , in ventricem auri porabilis , reinonminusutilis adſanandum , quàm ad alendum , ac quoad fieripoteſvitam prorogardam . Ma che cerco lo co raccor tutti quegli autori,chelodanole chimiche medicinezánoverar col poetasqual degl'alti boſelti a terra caggia Numero delle ſparſe aride frodi? trapaſſero dunque a diviſardell'altro capo propoſto, cioè a dire a clti lavorare , e compor le chimiche medicine fi convenga. - E in prima dico , che chiunquc lavorar chimici medica menti intenda , e meſtier di tuo riſchio , è di tanta confi derazione imprender voglia , egli della chimica filofofia , è della medicina ancora intendentisſiino eller debbà, eco noſcer appieno , e comprender lanatura , e gli effetti di ciò che s'abbia a comporre; concioſliecoſachè quantunque di tutto il chimico filoſofo aver piena contezza poſa', e cia ſcun medicamento ottimamente comprendere, pure ſenza lungo , e avvedutiflimo guatamento delle coſe,e ſenza ofat la medicina , mal fenza dubbio i ſuoi medicamenti faprà fabbricare . E ciò bene avviſando il Valentini , e’l Para celſo , e l'Elmõtese'l Quercetano , e'l Dornei, e'l Penoto; e'l Severini , e'l Crollio, etutt'altri famoſimedici Chimici, no ofarono mai confidare, fe non ſe allemedeſimelor manile compoſizione delle lor medicine ; anzi que' due gran lumi della Chimica medicina , il Paracelſo , e l'Elmonce foven te d'alcuni lor famigliariforte fi biaſimano ', ch’ardiſſerò a comporre' , e difpenfarc i Chimici inedicamenticon gravey Аааа 2 dan 55.6 Ragionamento Settimo danno , e riſchio deglinfermi, e con non poca taccia della Chimica . Ne per altro in vero in tanta infainia ,e ſcherno cadde cotal meſtiere , e tuttavia ſi biafima, e fi vitupera dalle genti , quanto , che i ſuoi graviſſimimedicamentiin man tutt'ora di ſciocchiſſime, e temerarie perſone ſon mal menari. Perchè meritainente idetti valent'huomini, e altri Chimici aſſainon laſcian maidi continuo conſigliare ,econ fortare i medici a non commetter traſcuratamête all'altrui cura , e talento i ragguardevoli lor medicamenti ; dicendo alcuni di eſſo loro , coluiſolamente effer vero medico , che a ſue propie mani le ſue medicine ſi lavori. Quo circa illum demum cum Crollio , dice Criſtoforo Glucradt , verè genui num elle medicum cenfemus , qui medicamenta debitè cogni ta , non ratione , ut rationalesmedicifaciunt, fed propriaſua manupreparare , & à veneno, & feculentiis ſuis feparares repurgare, &ad puram fimplicitatem reducere didicit; eaque imperito non committere coguo ; e prima di lui n'avea recata la cagione il Penoto , facilius eſt , R. fcribere, do ad im peritum coquumablegare agrotum, quàm in ipſa naturę pe netralia carbonibus , cineribuſque ſordidum ingredi,& pro mereindè magno fudore, quod ipſe egro exhibeat. E ſe'l lavo rio de' grandi antidoti licome , avviſa Galieno, propiamé tc al medico s'appartiene : perchè narrali, ch’i Romani Im peradori nel comporla triaca il ſervigio de’baſſi ſpeziali ri fiutando, a valorofi medici ſolamente il commetteſſero :Io non lo comead altrui , chc a medico il lavorar le Chiniche medicine impor ſi debba ; perciocchè molte , e molte di quelle di maggior vigore , ed efficacia fornite ſono ; perchè certamente maggiore avvedutezza , e intendiméto richieg gono , che la triaca medeſima,o qualunquealtro più famo jo antidoto , che gliantichi medici componeffer inai; eres la lor compoſizione malne ſortiſce , aſſai più certamente ne può di danno , e di nocimento avvenire ; imperciocchè molti, e molti de chimicimedicamenti ſon così dilicati , e pericoloſi in lavorarſi , cheper ogni menomo fallo , o tra ſcutaggine , che vi ſi commetta , graviſſima certamente , e mortal rovina ne può ſeguire . Perchè l'incomparabile Res nato Del.Sig. Lionardo di Capoa 557 : nato delle Carte così alla Principeffa Palatina ſua diſcepola ſcrivendo ragiona : Caurè etiam fecit celfitudo ſua , quod non luerit Chymicis remediis uti ; nàm quantumvis longa expe rientia illorum vires comprobatę fuerint , tamen , vel minima in eorum preparatione , etiam quum optimè fieri creduntur , variatio, poteft illorum qualitates ità immutare, ut non re media fint , fed venena; ſenzachè, ſe'l medico non vorrà pu re apparare a fabbricare,e comporre le chimiche medicine, come egli potrà mai i diverſize iſtrani mutamenti avviſare , che alcune di quelle , eziandio ottimamente compofte , e apparecchiate far fogliono ? come afficurarſi mai delle pe ricoloſe qualità dell'antimonio diaforetico ? il qual ſecondo gli avviſi dell'avvedutiſſimo Zuelfero , quocunque modo fe và cum folo nitro , aut addito etiam tartaro præparatum fit , traétu temporis aëri expoſirum pravam , da quaſ maligram induit naturam , fumptumqueintrà corpus , cordis anguſtias, lipothymias , vomitufque , & fimilia prava ſymptomata pro creat . Come potrà egli mai d'altri medicamenti comedel gruogo del metallo , comprenderla vera , e giuſta quanti tà , ch’ad ammalato ſia da dare ? la qual certamente non da altro li miſura , e conoſce, ſe non ſe dal ſaper l'operazione dell'Alcali, che in ſu le parti arſenicali dell'Antimonio più, o meno è fatta : e quella ſenza dubbio comprender non fi può , fuor ſolamente per iſperienza , e per pruova, con far ne ſaggio in darlo ſcarſamente agli ammalati , e con rite gno in prim ? : quindi a poco a poco andarlo accreſcendo finattanto ch’alla ſua convenevol quantità giuſtamente ſi pervéga : oltre a queſto havviancora alcune virtù di medi camenti , che come di ſopradetto è, avvegnachè nella me deſimacompoſizione , e qualità de'ſemplici, cnelmedeſi mo tempo,e gradidi fuoco lavorate ſiano , pur diverſame te o più , o men vigoroſe , e valevoli ſortir ſogliono ; in torno alla qual coſa non è tempo ora acconcio a filoſo fare,comechè molto da dir vi ſarebbe ; ma pur come potrà egli tante, e sì fatte ſorti di lavorj comprendere,ſenza aver le in prima ne'fornelli, e con fottiliſſimoocchio ſpiate ? co me poi diviſarne agli ammalati i medicamenti, lenza pun to conoſcergli ? Ma 558 Ragionamento Settimo Maperciocchè infinitirimcdj a'medici pur s'apparten gono , iquali eglino nonpotrebbono certamente tutti fora nire feinza tralaſciar le viſite più neceſſarie degli ammalati; o altre lor bifogne : dico , chenon haluogo al medico cur ti rimedj a ſue man lavorare , ma que' ſolamente , che di maggior conſiderazione , e di maggior riſchio agl'infermi fono ; commettendo ſolainencei medicamcnti piùmenovi li, e più ſicuria ' pubblici, e fedeliſpeziali, da lui per pruo va già in primaconoſciuti dattanco ; eſſendovi anche egli talvolta in fu'llavorio per maggior ſicurezza , quando la biſogna peravventura il richiedeſſe . Ma convienmiritor : nar addietro ; imperocchè caduto dalla mente miera di ri ferire a fuo luogo, quanto la Chimicas'appartenga fapere, a coloro , che ben intender vogliano gli ſcritti demedici; certamente non che altri, ma i libri medefimi de' Galieniſti la richieggono.E nel vero chi mai potrebbe séza riſchio di groſiſſimi falli,malfornito a tal meſtiere,pormano a'volu: mi d'Arnaldo, o d'altri antichi, e moderni Galieniſti ? E ' no è peravvétura purtroppo manifeſto,quáti falli preli abbia no i troppo séplici , e feiocchiGalieniſti in iſpor l’opere di qualche autore per non eſſerſi da loro laputo diChimica perchè ragionevolmente Giovani da Bagnuolo, Galieniſta medico , e chimico eccellentisſimo, cosi querelandofi ſcla ma: Hoc voluit Ioannes Damafcenus in herbarum decoctio nibus ; diſtillationibus , quamvis corruptê, di impiè intel bigatur abignorantibus diftillaturiam artem ,nefciétibus evela bereelementa à fimplicibus , tantum affumuns aquam endi: viæ primam ,oprojiciunt aërem , ignem ; non fpretos à doctis medicis benèintelligentibus naturæ principia , & fecres ta : à doctisſimo viro Ioannéa Rupe feiffa : hoc voluit in selligere Ben Cene in tertio lib.fen. 20. cap. 18. de fingular. med . ad augendum coitum , ubi toquitur de commiſtione falis Strucorum cum vitellis ovorum , &patentiffimum eft falem no poffe confici , nifi perdiſtillationem ; ducum prima aqua dif folvere cinerem , abluere primam aquam , terram albifi cando , ut docent fapientes . Ma prima di lui ciò ravviſato avea Antonio de Ferrariſuo maeſtro , c compatriota'nelle fue 1 Del Sig.LianardodiCapoa. 159 fue chiofe ſopra la cantica d'Avicenna. Vadiinoſtrando egli poi quanto lia meſtier la Chimica a 'medici per ben in tender gli Autori , con produrre in mezzo molti , emol ci altriluoghid'Avicenna male iſpoſtiso mal preſi daʼmedi ci , per non conoſcerli di chimica ; e centoaltri ne potreme míonoi quì ſomigliantemente annoverare , ſe dal tempo ne foſſe permeſſo . Maperchè ho laſciato lo anche di rammo tare la Chimica efferoltremodo neceſſaria aʼmediciper po ter ben conoſcere , e ravviſare tante , e sì fatte guiſe dime dicamenti , che fabbricar tutto giorno, edifpenſar da mol ti, e molti artefici fi fogliono / intorno aquali i ſemplici Galieniſti in nulla fappiendoſi delle lor vircùconoſcere , ſom vente a' rapporti de’medeſimi componitori diaeceſſità les ne ſtanno digiuni affatto , e privi ritrovandoſi di qualunque contezza dichimica; ſenza la quale comporcocali medica, menti , ne in quali forti di malattie , in qual' età, in quales ftagione convenevolmente da uſar fieno, appieno compré der potráno :cõciofſiccofachè cotali ricette fovéte appreſſo i buoni autori s'incontrino , i quali appena ſi pare,che l'ab . biano ne'lor volumi groſſamente accennate , non che par . titamente ſpiegate , e deſcritte , coprendo a bello ſtudio , e inviluppando imiſterjpiù pregiati, e più profondi dellar te , per non logorargli yanamente infra le genti volgari ,cu dibaſſo intendimento . E quinci poi ingannati da’loro fal fi avviſi impongono vapamente agli ammalati alcunisime dj , che chiaman prezioſi; facendoſi a crederc , che fien tali, quando veramente fon viliffime bazzicature , e fanfaluche di niun pregio; fe non vezzatamentele impongono per aver parte poiall'ingordiffime baratterie degli ſpeziali. Ma coſtuma fu mai ſempre de' medici il dar a divedereu effer di pregio grande i loro medicamenti; ficomc per ta cer di Pallada, teſtimonia Sereno Samonico : Multos pratereamedici componere fuccos Afuerunt ; preciofa tamen quum veneris emptum . Falleris,fruftraque immenſa numifmatafundeso E per non dir nulla del file dell'oro , che cotanto alcuni ſopranmodo millantano : come potrà egli un buon medico diſpor 560 Ragionamento Settimo diſporſi mai ad ordinare al ſuo ámalato beveraggio di quel che chiamāſale d'argēto,ſenza pūto le qualità diquello fa pere ? Oh ſep chimica conoſceſſero i Galieniſti giámai,che cofa ſia quel malvagio medicamento , certamente non ne ſarebbono cotanto a'ſuoi infermiliberali , perciocchè non è egli , ne eſſer può giammai ſal d'argento ; ma sbriciolati, e ſottiliſſimi ſcamuzzoli del medefimo metallo uniti inſie me , e rappreſi dalle particelle di quegli eſaltati fali acuti, e peſtilenzioſi , onde già roſi , e ſgretolati furono; perchè cer tamente la medeſima qualità riſerbar debbono di que' fali, e'l'medeſimo effetto peravventura adopererebbono, che dal vitriol del rame far fi ſuole ; perchè Giuſeppe Don zelli nell'arte della Chimica conoſciuto aſſai , così ne dice: Quanto al mioſentimentoſtimo vanità le virtù , cheſipredia canodel ſald'argento ; e credo, che abbia indebolite più bor fe, che corroborati cervelli . Anzi tanto più velenoſo,e mal vagio cotal ſale fi è , quanto più del vitriolo del rame, o ď altro peſtilenzioſo veleno rode,e morde le viſcere, e ſpie tatamente ſtracciandole ſtrabocchevolmente ne muove a recere gli inteſtini, e l'anima; perchè con dolori acerbillimi correr ne potremmo anche mortal pericolo, ſe non che co tanto poco dar ſe ne ſuole, che agevolmente , o la natura medeſima , o altri medicamentiviriparano. E’lmedeſimoancora da dir ſarebbe dell'olio dell'oro , e dell'oro , che chiaman potabile , del qual certamente niun mai ſervir dovrebbeſi , ſe non aveſſe egli in prima per più d'una pruova baſtantemente compreſo non poterli quello in niun modo ne'primicri ſembianti ritornare , e prender di nuovo forma di metallo ,laſciato avēdo affatto d'eſſer tale . La qual coſa da quel grā maeſtro dell'arte Elmõte ben con . ſigliata ne fu allor , che diſſe : ne metallicum ullum arcanu intra corpus accipiatis , nifi prius redditum fit volatile , din nullum metallum reduci poffit. Eche direm noidelle tinture de coralli , delle perle,del le quint'effenze, che millantar fogliono,degli ſmeraldi,de zaffiri, e de’rubini , cd'altre ſomiglianti gemme, le quali veramente,ne filoſofiche tinture, nc eſſenze non ſono con cior Del Sig.Lionardo di Capoa sor ciosfecofachè a farle tali , egli convenga in prima ſcioglier filoſoficamente que'corpine'primicris loro principj collo pera , e col conſiglio degli Alchaeft, e d'altri ſomiglianti li quori: le qualicoſe altro veramente non ſono , ſecondo il ſentimento d'alcuni valent' huomini, che Sogni d'infermi, e fole di Romanzi; e nõ men vane, e bugiarde, che l'eroiche sbracciate del Rc Artù , e lemillanterie di Lancillotto , di Triſtano , ed'altri crranti Cavalieri,che dimenzogneempion carte . E ſepur vere coſe , e non vanisſime dicerie elle fono , ficome al quanti guari autori han voluto pur credere , cgli però ſo 110 sì inviluppate ; e cieche , e rimoſſe dal noſtro intendi mento , chemalagevoliſſimamente per huom ſe ne potreb beorma rinvenire; così, ſe pur lealmente ne diviſano i mae Itri, e Senatori della Chimica Repubblica, come il Valen tini, il Paracelſo , l’Elmonte , e altri, l'han ſapute co' loro riboboli , ed cninmisì bene avvolgere , e intralciare , che impoſſibile omai ne ſembra l'impreſa. Perchè lo ſciogli incnto , che comunemente far pe veggiamo , altro certa mente non è , ch'un minuto ſtrirolamento , o ſceveraniento delle parti , fatto , come è detto ,da’ſaliacuti elaltati ,e per ciò ſoinmamente velenoſi , i quali meſcolativi per entro , e forte appiccativi non ſe ne potrebbono per tutte le bucate del mondo toglier giammai; ſenzachè i bricioli dell'oro , o delle gemme,o d'altra ſomigliante coía dura, ſcioltije ſgre tolati, e a que’ſali appiccati , ceſano , e fraſtornano l'ope razioni degli Alcali ; intanto che non potendogli quelli da tutre parti inſiemeunire, no rieſcono valevoli ad iſpogliar glidella lor natia acrimonia,con rendergli ottuſi affatto , e rintuzzati delle lor ſottiliſſime punte ; ficoinenel tartaro vitriolato far ſogliono, ove sì fatto intertenimento non hí 110. E ſe i fali pur non vi rimancſſcro , ma per opera d'ec cellente , e ſaggio maeſtro già tutti interamente ne goin beraſſero , certamente iminuzzoli dc'corpicciuoli ſciolti, c sbriciolati non reggerebber pure a galla nuorando in ſu i pori delle umide ſoſtanze , ma tantoſto in fondo al valo sõ. mergerebbonſi; ne meno ſcioglicrebbonſipunto per gli Bbbb wwin 502 Ragionamento Settimo umidi aliti nel deliquio ; come gli intendenti del meſtier fa vellano . E di ciò ben fi può far manifeſta pruova,conme ſcolarvi dentro l'Alcali del tartaro ; concioffiecofachè bcn allor di preſente fi vegga l'argento , e l'oro, e le gem me calar giù , e far toſtofondaccio : comechè alcuni cotali paltonieri , e giuntatori de’noftriſecoli pur ſi ſtudjno di di moftrarne il contrario : circumfuranei fallaces ,come dice il grand'Elmonte ,qui aurum , & argentum furripientes aliud in borum locum fuppofuere ; incontro a’quali giuntatori al trove riſerberommia ragionare . Ma de' lavoratori di sì fatti medicaméti,così dice lo ſteſ fo Elmonte , huomo per univerſal conſentimento di tutti letterati intendentiffimo di ciò giudicato . Pudendam pa riter deploro fimplicitatem illorum , qui foliatum aurum , gē maſquecontufas hominibusmagnaſpepropinant,magno ven dentesfuam ignorantiamfinondolum ; quafi ftomachusinde, welminimum expectetfubfidium . Subtilior , ideoque magis condolendus efterror eorum , quiaurum , argentum ,coralia , perlas, atque fimilia per liquores acidos corrodunt, atque dif folvere videntur;putantque hoc pacto intra venas admiffum iri , verè ſuasproprietates nobiſcum communicatura .Nefciät enim , ah neſciunt acidum venis hoſtile ; ideoque peregrina diſſolventiúfuperata , & tranſmutata aciditate,ejufmodi me talla ,& lapides pulveré effesatante; qui utcunquein tenuiffi mum pollinemfit redaétus,nihil tamen à ſtomacho conficitur, aut nobisfuas vires partitur. Ed Angelo Sala nel meſtier della Chimica ofercitato affai , e ferino , e veritiero ſcritto Te : omnes illi , ſclama , qui talibus portentofis promifis, quo rum ne minimum re ipfa præftare pofunt, multum gloriantur, Banquam.agyrta , &impoftores babendi funt; licet ab aliqui bus , intendendo egli di coloro appunto , de' quali noi ra gionato abbiamo : ſciocchi,e ignoranti della Chimica, qui facilè vanis perſuafionibus ducuntur , tanquam profundi ar. canorum naturæ fcrutatores fufcipiantur,magniquefiant, da contra ab iiſdem ingenuisfine oſtentatione quantum in artis poteſtate eft exhibentes negligantur. E prima di ciò avea egli detto : meritò fufpeéti habentur , qui primam dari materia philo Del Sig. Lionardodi Capoa 563 philofophorum tùm ad quorumcunque morborum curationem , tùmadmetallorum tranfmutationem , multis , jiſque ad oſtë tationem , & fraudem comparanis rationibus probare conan tur . Qui ex auro , quod necfummaignis violentia , autul lo corroſivo cogi poteft , ut vim fuam metallicam exuat , se liquorempotabilemverum fine peregrina miſtura conficere poffe jactitant . Qui non folùm colorem , innatam tin &tu ram ex omnibus metallis , lapidibus presiofos , fed etiam fpi ritus , olea , & ſales non minus , ac exvegetabilibus fe fepa rare poffe profitentur: Qui ex.talco , corpore illu metallico , & incombuſtibili , balſamicum , &temperatumliquorem ad per petuam faciei venuftatem promittunt. Qui veram tincturam coraliurum ejufdem cumipfis coraliis coloris , faporis, &tem peramenti , majoris tamen virtutis ad Epilepſie, & Melan cholie curationem vendunt; du ex ipfis margaritis talē quin tamellentiam ,quæ humidum radicale confumptum meliusquá ullumaliud fimplex ,aut compofitumreftituat. E quancunque gli acuti lali ſoglian talor raddolcirli al quanto, o per me'dir mitigarhi accozzádoſi in modo co'mi nuzzoli demetalliſciolti, che le lor fottiliffimepunteaca biar fito ne vengano, come nel vitriolodel ferro agevolmé te fi può vedere; non,però di meno il più delle volte il con trario n'avviene; perciocchè le punte delle particelle, che compongono i fali, accozzandoſi talvolta con gli sbricio latiminuzzi de’metalli , vengon si fartamente a ſchierarſi , e comporſi, ch’a guiſa di pungentiſſime ricciaje , od’aſpri riccj fieramente aguzzandoſi, ed arruffandoſinefquarcia no le viſcere ', e con mortali punzecchiamenti talor n’ucci dono ; ficomealla giornata nel ſoliinato , e nel precipitato , e achenell'oro ſciolto p l'acqua regia avvenir veggiamo. Perchè l'avvedutiflimo Chimico Ofualdo Crollio , dicoral oro favellando, dannandone ſommamente l'uſo,non datur, dice , illo nocentius toxicum . Ed io porto pur ferma opi nione, che da sì fatti medicamenti , ſe non ſi deſſero tanto miſuratamente , e a ſpiluzzico , non nien gravi , e manifeſti danni ſeguirebbono , che dal ſolimato , e dal precipitato avvenir ſogliono ; perchè non ardirebbono imedici ſcioc Bbbb 2 chi, c 564 RagionamentoSettimo chi , e ignoranti , ſe nella chimica eſercitati foffero , cotali medicamenti , anzinocevoliſſimiveleni , a'loro ammalati per cagion veruna imporre ; e comprenderebbon pure che corali, che chiaman riſtorativi, in luogo di dovere agli in fermi sfidati lc ſmarrite forze ravvivare , inaggiormente gliele abbattono . E ſappiano pure , che ſecondochè nes dicano i più veritieri Chimici, più agevole aſſai è a fabbri car di nuovo l'oro , che'l già fatto diſtruggere. Ne è dacredere , che quell'olio d'oro tanto celebre , e famoſo in Portogallo , curi, e ſaldi le ferite con altro , ches co'ſali roditori , ed acuti dell'acqua regia , che if diffolve ; perciocchè corrugando quelli, e riſtrignendo i vaſi acquo fi del noſtro corpo, nó fanno alla ferita umore alcuno trape lare ; perchè gli ſpiriti de ſali frizzanti, e lazzi la virtù dell' olio dell'oro , o ſia egli oro potabile, è certamente da attri buire ; che per altro, ficome diceva colui, l'oro sì fattamé. te ſciolto troppo ſpoſfato , e di niun momento ſenza il fal roditore egli riuſcirebbe: ma affai a ingordo pregio paghe rebbeſi quel poco d'utile , che rade volte ricever fe ne ſuo le , ſe paragonafial riſchio , in cui la vita del malato mani feftamente incorre . Ne altrimenti è da credere degli ap parecchiamentidelle perle , de’coralli , e dellc gemme ; perocchè , come di ſopra detto è , sì fattamente nel loro Atritolamento gli acuti fali vi s’appiccano , che per quindi torgli vano affatto , e inutile ogniſtudio riuſcirebbc .' Emi ricorda pure eſſer capitato una volta alle mani del Donzel li un talmagiſtero di ſmeraldi, che manifeſtamente di que' ſali , onde compoſto era , putiva; e quelvalent'huomoall ? aperto riſchio della perfona colui ſottraffe , che di preſente predere il doveva. Perchè i buoniChimicisépre dal far co tali apparecchiamenti ſono ſtati oltremodo guardinghi ; e'l Gluctradio medeſimo ne'cométi, ch'ei fe in fu'l libro delſuo Beguino , forte gli biaſima, e danna . Anzi quantunque il Cratone nel meſtier di cotali medicine ragionevolméte da ſeguitar non fia ; non però di meno in ciò , chcnarra delle perle , egli ſenza dubbio ſembra dir vero . Acetum radi catum , ſon ſue parolefua , acrimonia , & vi corroſiva, atq; caufti. DelSig. Lionardo di Capoa. 585 cauſtica non modo margaritas , verum alia etiam diſolvere ; &in cinerem quafi redigere , atque quemadmodum Chymiſte loquuntur, calcinare polje nemini dubium eft . Huc autem no eft fpiritum margaritarum elicere, fed totam earumfubftan . tiam corrumpere. D.Vaoylelius ſenior mihi narravit Epiſco pumn Vratislavienſem Gaſparem Logum , magiſterium hocper larumperſuaſum à fratrefepèporrectum à Paracelfifta quo dam ebibife, atque eo demortuo tunicas ventriculi nigras, egy corruptas apparuiſe. Eodem eventu ufam effe Marchionis Iohannis conjugem , in qua ventriculi tunicæ planè fuerunt erofa . E ciò certamente avvenir debbe dal non aver ſapu to il componitore di quellavorjo qual cofa apprèffo'l Para cello ſia veramente l'aceto radicato, e dall'averſi egli ſervi to in luogo di quello d'un cotal liquore minerale oltre modo acuto , e roditore . E quantunque diciò per avven tura non ſi poſſa ne'magiſterj delle perle , e decorallifac ti per opera d'alcuni piacevoli fali, o liquori vegetabili dottare,tuttavia comechè ſi cõfacciaio a qualche āmalato , pure in molte,e molte malattie comuneméte ſi dánano ;per chè in luogo d'abbeverarſi di quel ſale acetoſo , che nelle noſtre viſcere calor ritrovano, accreſcendolo maggiormen te , le cagionidelle inalattie ne multiplicano. Ma chi baſtevole ſarebbe giammai a raccontar le frodi, c le baratteric , che in sì fatte materie tutto giorno com metter fi fogliono ? Ed è egli recente ancor la memoria in queſtaCittà di quel Polacco, chevedeva a carisſimo prez zo lo ſpirito del nitro per l'Alcacſt; e di quel gran Barbar ſoro Ciciliano , ilquale con ſue ciarle , e giunterie molti, e molti ne preſe faccendo Calandrini gli huomini, e dando a diveder loro l'elitropia fu per lo mugnone , vendendo, e di fpenſando la tintura del verderame per quella degli ſme raldi , c'l biſmuto calcinato con acqua forte , e ſciolto , co me dicono , per deliquio , in luogo di veraciſſimo latte di perle; e f quel che minor male certamente era ) Peliſſire di propierà per balſamo di Criſto , e la cintura del Chermes per quella de'coralli. Così bé ſapea falſeggiar sì fatte ma raviglie, come colui, cui fa dire il noſtro Dante la giu nella : deci 566 Ragionamento Settimo --- . decima bolgia dello Inferno : Sì vedrai ch'Io fon l'ombra di Capocchio , Che falfaili metalli con Alchimia : E ten deiricordar ſeben , t'adocchio, Com'Iofui dinatura buona foimia . E non ha guari di tempo ; cheda qualche malvagio fpe? ziale comunemente vendevali ( edimedici pur l'imponeva no a'loro infermi ſotto nome d’eſtratto di caffia ) la caffia medeſima, ineſcolatovi dentro gutgummi: e queſto mede fimo pure meſcolar ſoleva nell'eſtratto del Rabarbaro per renderlo maggiormente efficace , e vigoroſo , con quel dá no, e nocimento de’miſeri ammalati,che immaginar poſfia mo ; e gli ſcimuniti, e balordi medici ignoranti affatto dela la Chimica, ingaonacine reſtavano,giudicando ſcioccamé te maggiorſempre , e più vigoroſa negli eſtratti l'efficacia dellemedicine dover riuſcire . E ſomigliantemente dall'ignoranza della chimica anco ra avviene , che i baccelloni , e ſemplici medici credendo di foverchio agli Artefici, veggonfi tutto dì mandar fuora varie , e diverſe moſtruoſe, e ridevoliricette di medicines, le quali o non inai fi videro al mondo , o folamente ne’libri di poco pregio , o dalle bocche , o dalle penne di chi trop po lor crede furono appreſe; ma quanti danni ne fian ſegui ti a’poveri infermi , chi potràmairaccontare :Dirò lo fola mente , ch'un celebre Galieniſta de'noftri tempi per aver lerro forle egli il Tirocinio delBeguino , o altro ſomiglia te libro di Chimica , ftimandofi egli già gran maeſtro in quella , preſe ardire d'ordinare a una cattivellainferma lo fpirito del nitro volgare fchietto ; e comechè lo ſpeziale tá to quanto intendente della biſogna a tutta ſua poſſa il con traſtafle , pur colei preſolo , dopo acerbilliini dolori nabif fando , e rabbiando fe ne morì. Ma di sì ſciocche , e irra gionevoli ricette ben ne potrei Io un lungo catalogo qui diviſare , ſe non che per troppa modeſtia me ne taccio ; temendo non diciò ſe n'adiraſſe alcuno , come di fallo per avventura da ſe maffimamente commeflo ; ſenzachè v'ha perſona, ch’avendonc finora un lunghisſimo ordine intel R 1 iuto , Del Sig.Lionardodi Capoa. 507 ne , futo, infra non lungo tempo forſe divolgandolo, farà intors, no aciò la vaghezza de'curioſi interamente paga . E dall'ignoranza della Chimica medefinamente avvic che tutto di daʼmedici il ſale del vitriolo ordinar ſi co ftumi ; il che certamente non avverrebbe , fe ſapeſſefi qua to eglioltremodo malagevol fia il comporlo ; e che gli ſpe ziali in vece del ſale del vitriolo , dar fogliano il vitriolo medeſimo bianco , o pure il vitriolo riprodotto dal capo : morto , ſicome dicono ; il quale talvolta aſſai più del vetro medeſiino , e de'fiori dell'Antimonio violento ſuol riuſcire; cagionando acerbillimi dolori nelle viſcere , e talora anche manifeftamcnte uccidendo . Così non ha guari di tempo per pochi granelli di cſſo moriſli in Caſtel nuovomiſerabil mente rabbiando Gio :Battiſtade'Benedetti ftrolago di gra grido . Ma i noſtri ſciocchi, e baccelloni medici immagi nando di porre in opera un benigniſſimo, e piacevol medi camento, in luogo di quello un crudelifimo, c micidial ve leno ne vengono talvolta ad ordinare . E ſon' anchei medicinegli ſpiriti de'corpi vegetabili da? mueftridiſtillatori, ſommamente beffati ; perciocchè colo ro cavar gli ſogliono per limbicchi di rame con gravilli mo danno di colui , che prender gli dec ; conciolliecoſa chè la flemma di que' corpi formentati, gravida di quel ſale acetoſo , che non mai partir ſe ne può , trae ſoven te qualche nocevol particella della campana , e con la ſua mordacità tanto quanto la rode , e la ſminuzza. Quinci poi a poco a poco, ne l’huom ſe nc può in prima avvedere,[con volge , e morde le viſcere , e diſtempera il corpo, cagione vole oltremodo , e difettoſa l'economia di quello renden do . Ma veggo Signori che s’lo diſtintaméte narrar vi volei gli errori tutti ne' quali incorrono i medici p nó ſaper pūto di chimica troppo lūgo, e ſtucchevole ne diverrebbe il mio ragionaméto; perchè ritornando di nuovo ad avvercirglin confortargli, e ſcongiurarglia non inframmetterſi d'impre ſa di tanto riſchio , fe pienamente non ne fan riuſcire, dico di nuovo , che laſcjno da parte ſtare le pericoloſisſime me dici. 5:08 RagionamentoSettimo : dicine della Chimica , e ſolo alle lor menovili, ccomunali attendano : Ludere qui neſcit campeftribus abftinet armis; Indoctuſque pila , diſcive , trochive quieſcit , Ne ſpiſſa riſum tollant impunècorona. E perchè dirò lo non reſterà anche un medico della Chi mica ignorante d'ordinarchimichemedicine?masſimamé re , che non ne fieguono le ſcherne di lui , ma la morte de gli infermi; perchè a ragion lagnavaſi il Sennerti d'alcuni maeſtriScimmionide'ſuoi tempi , i quali, com'egli dice , quum rerum Chymicarum planè ignari fint ,ne tamen Chymi cis aliqua ex parte inferiores videantur, chymica medicame ta , quorum vires , & præparationis modum ignorant , fatis periculosè ufurpant . Or che direbbe egli , s'ancor vivendo vedeſſe la tracotanza del noſtro ſecolo , e ſcorgeſſe pures in queſta noftra Città , in queſto Regno non eſſere ſpeziale anzi no eller barbiere , non eſſer cerrerano,non doniccico : 1a , che non componga Chimicimedicamenti:non effermc dico , che non gli ordini , appena che ne ſappia il noine, o bene , o malc , in tutte ſortidimalattie ? Anzi , che direb be egli pure , ſe vedeſſe cotali Squaſimodei de'noftri tempi andar tronfj, e pettoruti biaſimando la Chimica in cotali, che forſe ſaggiamente , e con prudenza l'adoperano, quan do eglino ignoranti , e non punto intendenti di quella più ch' alcun' altro poi follemente delle chimiche medicinc fi ſervono ? E comechècotalimaeſtri zucche al vento diſa per tutto miliantino ; pur nulla conoſcendoſidella vecchia, e della nuova medicina, abborrano, e meſcolano alla groſ ſa il tutto , con danno , e rovina di chilor crede. Ma per favellare appunto de'tempi noſtri, dice l'avve. dutisſimo, eingegnoſisſimo Roberto Boile,Obfervo noviſ fimis annis Chymiam ceptam efe (uti meretur) à viris doctis, quiprius eamfpreverant , excoli ; ejuſquefcientiam à pluri bus , qui ipfam nunquam coluerunt, arrogari,ne eam ignora. re exiſtimentur . Vndè faftum quodplures Chymicorum de rebus philofophicis notiones fumptæ fint pro conceſis , atque in uſum verſa ; & fic ab eximiis admodum ſcriptoribus,tiim phyſi Del Sig.Lionardodi Capoa: 150g phyſicis , tùm medicis adopsate . E finalmente anche ſe alla medicina non foſſe meſtier la chimica , a che ragunarſi a giornate tāti parlamenti, e tante ſcuole di Chiinica nella Germania, nellaFrácia, nell'Inghil terra , e in altri molti famoſisſimiluoghi d'Europa ? A che tanti valentisſimi medici ( de'quali alquanti più famoſi Ga dieniſti per brevità ſolamente rapporterò ) avrebber durate tante fatiche, ſparſi tanti ſudori, vegghiate tante notti per imprenderla , per appararla ? E per racer d'Avicenna , di Rali, di Meſue, d'Abulcafi , e d'altri famoſi medici Arabi, e ſomigliantemente di Ramondo Lulli , d’Arnaldo da Vil lanova , e d'altri di que'barbari, e infelici tempi: quanto ſudor vi ſparſero Giovanni da Bagnuolo,Gio :Battiſta Món tano : Giacomo Silvio grandiffimo parteggiano diGalieno , Giovan Fernelio , Corrado Geſneri, Teodoro Zuingero , Andrea de'Mattioli,Gio : Giacomo Veccheri , Gabriel Fal loppio , Felice de' Platteri , Martin Rollando , Anſelmo Boezio , Girolamo Cardano , Giulio Cefare della Scala , Gregorio, e Daniello Orftio , Pietro Caſtelli, Marco Aure lio Severini , Daniel Sennerti , Girolamo de'Roſli, Andrea Cefalpini, e Giovanni Eurnio, e Giovan Cratonc ? il qual, come alcun'altro deʼmentovati, comeche con ogni sforzo in prima ſtudiato li foſſe di contraſtare , e abbatter la Chi mica , pure alla per fine tratto dalla verità volle appararla , e ſeguirla ; e introduſſe in Vienna , com ' egli narra , nel la Corte Imperiale molti ſalutevoli , e nobili medicamē. ti ; perchè poi ne fu da altri medici fieramente perſeguita to , e biaſimato . Ed egli ſembra certamente ſventura ſin golar della Chimica , fe pur egli non è anche di tutt' altre cofe grandi , e magnifiche : poichè non s'arri fchia alcun giammai a tacciar coſa , di che pienamente non ſappia , e non ne ſia in prima a baſtanza informato :ma folo la Chimica fi biaſima , e s'accagiona da chi men n'in-. tende; e giugne a tanto l'invidia,e la malavoglienza de'bef fardi, che con arrabbiati morſi fan lacerare empiamente un meſtier ,dicui appena fanno il nome . : Machi baſterebbe giammai ad annoverar tutti coloro , Сccc chc 570 Ragionamento Settimo che le chimiche medicine adoperano ? certamente non è medico a'tempi noſtri , ch'abbia fior di ſenno , che per be ne ciò fare , con ogni ſtudio diligenteméte nó appari la chi mica ; e ſi è ciò ſolaméte vantaggio della noſtra ctà , o della noftra fioritiffima Italia nella quale anche a'tempiaddietro la Chimica da tutte genti,che tanto quáto n’ebber contez za avidiſſimamente fu ricevuta . E Pier Caſtelli ad un co tal meſtolone, che inutile, e ſoverchia a'medici giudicava fa , fciat,diſſe , in Germaniamedicină exercere Chymiæ igna rum non poffe , &vixin Gallia , & in Italia ; e'l teſtè men tovato Daniello Orſtio : encomia Chymie non opus eft , ut hic recenfeam : quia verum eft, quod habet alicubi Heur nius : ceſpitat, jam profecto fine hacarte medicina . E prima dicoſtoro avea già detto il Mattioli : medicum abſolutum effe non poſſe ; immo nec mediocrem quidem , qui in Chymica non fit exercitatus: nella qual ſentenza fu dopo ancora Da niel Sennerti , e in varj altri luoghi l'accennato Caſtelli , tant'altri valenti ſcrittori, Ch'a nominar perduta opra ſarebbe. Ho traſandato a bello ſtudio di avviſare quanto l'uſo della Chimica ſi diſtenda nella maggior parte dell'arti più curio fe, e più utili al genere umano : imperocchè l'acqueodori fere, gli olj , tanta varietà di liſcj, che lavoranſi per orname to delle donne, le gioje artificiali, che dalla Chimica, qua fi emula della natura produconſi , la varietà de'colori , che formanſi per uſo della pittura , le paſte da indorare , e lac que da partire i metalli , che continuamente adoperanſi dagli Orafi , tutti ſono effetti, coperazionidella Chimica; delle quali la ſola operazione della menzionata acqua da partire i metalli, diè cagione di tanta maraviglia a quel grā lume delle buone lettere Budeo , che nel terzo libro de Af se , ebbe a dire : hujus eft id artificium , ut vi aqua medicata , quam Chryſulcam appellant,quantulamcunqueauri partem argento , aut cuivis metallo illitam , aut confufam ,nullo di Spendio abſtrabat , ita ut inauraturis nibil jam depereat mă do , niſi quod ufu interteritur . Res omnino fupenda auri ar gentiquequotamcunque portionem ex ære eximere , etiã, quod magis Del Sig. Lionardo di Capoa 571 magis mireris manente vafculi forma quaſa interdum , a inani , veluti quadam idea à materia abſtracta . E l’Alciato ammirò pariinente la medeſima acqua in chiolando il teſto della legge Idem Pomponius , S. fed fi D. de rei vind . nella quale ſi dice , che'l rame miſchiato con argento non può ſepararſi,e però nõ vi può aver luogo la vindicazione, qual dicono: onde e' ſcriſſe potuit hæc sētētia Vlpiani têpore obſer vari , hodie forte aliud erit, etenim inventa eſt ars,qua Chry ſulcæ aqua viaurum à quocunque alio metallo fepararipoteft, cujus rei quamvis pauci ſintartifices , vixque finguli in ma gnis Civitatibus, cum tamen ſeparatio fieri poffit, apparèt non effe fuprafcripta rationi hodie locum . Ma cotali brighe a'cervelli più ozioſi de' noſtri laſciana do :poichè la chimica eſſer così giovevole, e oltremodo ne cellaria alla medicina baltevolmente è detto, trapaſſeremo ora a diviſare delle ſtrade , perle quali aggiugner ſi poſſa alla contezza di sì nobil meſtiere . Primieramente colui che nel faticoſo meſtier della Chimica eſercitar ſi voglia , conviene, che non ſolo , comc Teobaldo avviſa, ſia nel latino idioma ben addottrinato : ma d'altri, e d'altri ancora egli abbia conoſcimento :concioffiecoſachè in molte lingue del la Chimica i volumi ſiano ſcritti , e con tanti eniminio eri boboli inviluppati, come altrovc dicemmo,che ben richie dono ſottiliſſimi, c.alti cervelli per iſpiegargli : Ea fuit om nium hactenus invidia , dice di lor querelandoli Geremia Bartio , idque præpofterum occultandi ftudium , ac labor , ut non tantum à fe inventa artificia ſpagyrica , tanquam eleuf , na facra celarint: ſed veterum etiam arcana , fimpliciori , apertiorique orationis genere propalata, impofioria perplexi tate, do notarum hieroglyphicarum obſcuritate , in tenebras ipfis Cimmeriis , & Ægyptiis denfiores conjecerint . E oltre a queſto deeil Chimicoper lo ſciogliméto e per l'inneſtamé. to de’naturali corpi aver diligentemente ſtudiato in fiſica , e conſeguentemente in Geometria , e in tutte altre ſcienze ad imprender filica ſommamente neceſſarie ; ſenza le qua li mal certamente può egli il ſuo intendimento fornire,quáa tuinqueavveduto fit , e valoroſo aſſai: così quel famolin C cc c 2 mo me . 572 Ragionamento Settimo mo medico ; e chimico Arnaldo da Villanova: quicunque ad hancfcientiam vultpervenire , &non eſs philofophus, fa tuus eft ; per tacere il Morieno , e altri . Maconviene oltrº a ciò ,che per internarſi nelle cupe , e profonde ſpecula zioni della natura , ne' tre vaftiffimi reami di quella con ra pidiffimo ingegno traſcorra , e molto in eſli ſpii, molto co prenda , e avviſi tutte quelle coſe, ch'e' continuo aver dee tra le mani, e vada pure per inveſtigare nuove coſe ; cer cando per lande , e per valli, e per colli , e per fiumi, e per nuovi mari Fior varj, e varie piante , erbe diverſe, c oltr'a ciò augelli , e peſci, e altri infiniti animali, e minic re , e gemme , e altre , e altre fatiche a sì lungo meſtiere appartenenti volentieri imprenda , come già fecero que chiarisſimi lumi dell'arteRamondo Lullio, e Teofraſto Pa racelſo . Oltr’a ciò egli è di meſtieri al chimico eſſer otti mamente avviſato della natura , e delle qualità di tutti gli ordigni , e ſtrumenti del meſtiere , e ſopratutto del fuoco ; € fottilmente anche comprendere checo’ſemi di quello sé premai ſi vengono ad accoppiarealquãte particelle, o fali gne , o d'altre ſorte di quelle coſe , che ſi lavorano ; perchè poi vengono oltremodo a variarſene gli effetti, e l'opera zioni delle chimiche medicine. Macertamente Nõ è pareggio da picciola barca , e troppo fuor dimiſura n’allungherei il ragionamento ,fee tutto ciò,ch'ad un perfetto Chimico abbiſogna recar quà partitamente lo vi volesſi; ſolamente non laſcerò di nuovo d'avviſar coſa importantisſima a mio credere a cal meſtie re : ed è, che il voler da’ſoli libridegli autorila chimica ap parare , è impreſa oltremodo malagevole,e dura affai,mal ſimamente a colui,cheper la filoſofia , e per la medicina ſervir ſe ne yuole . La qualcoſa, ſicome dicemmo,ſopra tutto naſce dall'aver quella gli avveduti ſcrittori a bello Audio con enimmi,e viluppi intralciata ; e ciò fanno per . non manifeſtare a tutta gente i ſegreti più profondi dell'ar te ; nella qual cofa adoperano certamente gran ſenno , ſe guitando i conſigli degli antichisſimi padri dell'arte gli Ege. Del Sig.Lionardodi Capoa. 573 Egéziaci ſapientiperciocchè ; , come cancò quel giocondo ſatirico Fiorentino nel ſuo Orlando rifatto, Le cofe belle prezioſe , e care , Saporite , foavi, e delicate Scoverie in man non fi debbon portare , Perchè da'porci non ſiano imbrattate. Perchè poi molti , e molti , che ſi ſono affaticati, e s'af fatican tuttavia di ſpiegare gli aſcoſi ſentimenti de’Chimi ci maeſtri , ne rimangono certamente di gran lunga ingan nati , e ſovente ancora ne' loro errori traggonnon volendo coloro , che creduli troppo preſtan lor fede; masſimamen te nelle bifogne di maggior conſiderazione della medicina, come fon quelle intorno alle qualiora noi ragioniamo. E quel , che maggiorméte accreſce la malagevolezza fiè,che fpesſiſlime fiate , quandofan ſembianza di parlar manife ſtamente , e alla ſcoperta ſenza aggiramenti di parole , al lor maggiormente n’inviluppano . Omnium rerum , avvi fa il gran Claudio Salmaſio , quæ ad hanc fcientiam perti nent vocabula , ab ufu , & confuetudine communifubmoveritt auctores fui, &peculiarem fibi dialectum vindicarunt , fa lis myſtis tanti arcani intelle &tam . Fornaculam fortem , ve caminum , in quo argentum ,& aurum fundebatur,quod ore hiāti, &patulo effet.E fu ancora conoſciuto dal ſapiêtisſimo Boile,dicédo egli quelle parole.Hæcpropterea adjicio , quod qui vel ullatenus in rebus Chymicis eft verfatus, non poteft no ex obſcuro corum ambiguo , & ferè ænigmatico tradendi, que docere præſe ferunt ,modo percipere ; ipfis. confilium non effe , st intelligantur ,nifi à filiis artis (utvocant , nec vel ab iis quidemfine difficultate, & incerti ſucceffusexperimentis;adeo ut eorum nonnulli vix unquam tàm candide loquantur, quă guando trita inter ipforum fententia utuntnr : ubi palàm la quuti fumus, ibi nihil diximus . E’l dottiſſimo Samuel Boc ciardi in favellado della chimica, ars enim ipſa tam eft abdi ta , ut in ejus cognitione adipiſcenda oleum , & operam miſe rè perdant pleriquemortalium . Et qui adeptos ſe putāt quaſ cæteris hanc gloriã inviderët,tot verborü involucris,atq; am bagibus artis arcana obtegunt;ut videant , ideo folü fcripfiffe 574 Ragionamento Settimo ut nõ intelligerent ? E peraddurre di ciò un ſolo efemplo , chi non crederebbe interamente al Beguino , ea tant'altri moderni autori eſſere lo ſpirito del nitro diſtillato coi bo lo , quelmedeſimoappunto , che gli antichi Chimiciin , molte malattie di darper bocca uſavano ? Epur la biſogna non va così; perciocchè quel degli antichi d'altra ,e più sé plice maniera componevali; e lo ſpirito rapportato dal Be guino , non ſolamentenon giova , anzi n'offende notabil mente le viſcere ; perchè molti della lor perſona mal capi tati ne ſono , per avere i medici ſoverchiamente al Beguino preſtato credenza ; come dicemmo teſtè di quella cattivel. la inferma : ecento , e mille altri eſempli addur ſe ne po trebbono . E quinci avvien poi , che non ſi veggono a’dì noſtri quelle maraviglioſe cure , che ſi leggono già per iná degli antichi Chimici eſſer fatte;avvegna pure,che que'me deſimi lor medicamenti ne’loro ſcritti ſi ritrovino, ma sì in viluppati , e alla groſſa diſegnati , che inal certamente per huom ſi poſſono adoperare . E a ciò ben dovea riguarda re Pier Caſtelli, che troppo mal conſigliato , il libro de mendaciis Chymicorum , con ſua poca loda compoſe . Or veggali di grazia chente , e quali fian le malage volezze ; le quali intorno a un sì faticoſo meſtier s'in contrano , e come ſe ne poffa in ſoli due meſi huom mai ſuis luppare , ficome non meno ſciocco , che malizioſo fi ſtudia di darnea divedere, il Billicchio ; quando egli ſotto gli ann maeſtramenti di Angelo Sala per imprender quel poco, ch' ei ne feppe , tanto tempo infelicemente logorovvi. E concioſliecoſachè cotalarte più operativa , che ſpecu lativa fia : egli è di meſtieri all'avveduto Chimico ,anzi coll' uſo , e colla ſperienza , che col rivolger de’libri appararla ; perchè poco ragionevolmente colui i ſuoi ſcolari confor taya , dicendo Vos exemplaria Gebri Nocturna verſate manu , verfate diurna ; perciocchè quantunque in ſui libri diGebro , e d'altri fa. moſi Chimici molto li poffa apparare, non però di meno ſe non ſi pruova col fuoco : econ altri chimici ſtrumenti ,ciò, che Del Sig. Lionardo di Capoa che ne'libri ' de’valét'huomini ſi legge indarno di pienamen te ſaperlo vantar huom puore; perchè il Chimico prudéte, e avveduto è da dir , che più co'carboni , e co'fornelli che coʻlibri uſar debbia ; ne per altro certamente detto viene il chimico, filoſofo pe'l fuocò . E comechè dura oltremo , do , e malagevole talcoſaneſembri, pure chiunque d'in tendere a sì glorioſo ſtudio preſume, ſappia innanzi tratto , ché Της δ' αρετής ιδρώG θεοί πτοπίροιθεν έθηκαν Α'θάνατοι, μακρος δε και όρθιG- ομG-επ' αυτίω , Και τζηχυς το πρώτον:επήν δ' εις άκρονίκητα , Ρηϊδίη δ'ήπατοι πέλα χαλεπήπτε εούσα . Innanzi a la virtù poſto i ſudori Hannoglieterni , & immortali Dü : Aleiper lungo, ed erto calle vaſſi , Che duro inprima appar , ma quando alfommo Si giugne , agevol èquel , ch'aſpro apparve; ma per paſſar ad altro non fa certamente meſtiere , ch'Io avvili, potendofi agevolmente da quel ch'è detto cogliere, che dee colui , che pretende avanzarſi in medicina ſtudiar in tutte le ſette di quella ; ne in meſtier di tanta conſide. razione , quant'è la ſalute , e la vita degli huomini haw egli a riſparmiar fatica in rivoltar qualunque libro , ne ar roffarfi di ſpiarne da qualunque perſona, per appararne co ſa di comun giovamento, e di qualche pro-alla inedicina ; perciocchè ſicome avviſa l'intendentiſſimo Plinio : nullus adeò malus liber eft , ex quo non quidpiam utilitatis erui pof fit . E Giuſeppe della Scala : ego ſum is, qui ab omnibus di Scere volo,neque tam malum librumeffeputo , ex quo non alia quem fruitum colligere poffim . Ne è perſona cotanto ſcioca ca , e balorda , da cui talvolta non poſſaſi apparare qualche coſa , eſſendo vero il detto d'Eſchilo πελάκι του και μωρος ανήρ κα @ καίρον είπε , che per tacere altri , il Padre della giocoſa poeſia toſcana nell'Orlando rifatto , così gentilmente cantando ſpiegò Haqualche volta un Ortolanparlato, Cofe molto a propoſito a la gente. Ma 1970 Ragionamento Settimo Maparticolarmente de’medici favellando ſcriſſe a tal pro , poſito Conſalvodi Toledo famoſo medico de'ſuoi tempi, e Arciveſcovo di Lione : prudens le&tor , vel auditor , omnes libenter audit , omnia legit : non fcripturam , non perfonam , non doctrinam Spernit :ab omnibus indifferenter , quod fibi deeffe videtur querit , non quantum fciat,fed quantum igno ret , confiderat . E'l Quercetano anch'egli dice, ch'un co tale ſconoſciuto contadino tolſe d'addoſſo d'un gran per ſonaggio la ſeccaggine d'un moleftiffimo capogirlo , cui no aveapotuto porre alcun compenſo , e vani erano riuſcitii molti , e varj conſigli de' valentiſſimimedici . E fenza dia partirſi da queſta noſtra Città, egli è gran tempo , ch'ado perar folevanſi dalla gente volgare efficaciffimi rimedi per li bozzoli della gola , e perle ſcrofole ; e al mal della pun ta guarire alcuniuſavanocon feliciſſime riuſcite ,aftenendo ſi da’ falafli , l'olio del lino , l'olio dell'olive , il ſangue del becco , il ſalnitro , l'incenſo, la pece, la raſchiatura delde te del Cinghiale , i fiori del papavere roſli , la calce, il gen giovo , e'l zafferano ; nella colica la cenere d'alcuni legni, nella riſipola il ſangue della lepre , il ranno , e l'acqua del vitriolo , e della calce, e altrimolti medicamenti , che non fa meſtieri, ch'lo quì rapporti;il perchè ſembra degno, an zi di commendazione, che no l'avviſo del Paracelſo , il qua le vuole, che'l medico non ſempre debba uſare co'letterati, e bazzicar nelle ſcuole , come ſe da lor ſolamente, e non altronde ancora s'apparaſſe tutto ciò , ch’alla medicina ri chiedefi ; ma gli convenga anche girne dalle vecchiarelle , dalle zingane ,da'ciurmadori, e da’vecchj , e ſperimentati contadini; dalle cui ſcuole talvolta apprenderanne aſſai più , ch’altrove per avventura non farebbe ; e quinci fi coglie , the'l medico , non menche del chimico è detto , debba an dar ſe poſſibil fia ,per dirla co'verſi del poeta Peregrinando da'piùfreddi cerchi Del noſtro mondo a gli Etiopi acceſi. E queſto ancora , acciocchè egli avviſar poſſa la varietà, o la natura delle terre , delle minicre,dell’acque , degliani mali , dell'aria , delle ſtagioni , de'coſtumi , de'cibi, delle bcyan DelSig. Lionardo di Capoa. 577 bevande , delle medicine , delle malattie , e delle maniere di ciaſchedun paeſe . Ma con tutto , che tanto, e tanto af faticato egli s'abbia il medico per apprender le contezze già dette,no dee ftimar già ſe eſſere al fommo grado della medicina pervenuto : concioffiecofachè ne men vero ſia ciò che l'Elmonte dice , che in tutta l'Europa appena un ſolo medico ſi trovi :imperocchè queſto ſteſſo ne'maggiori bi ſogni troveraſſi dal ſuo ſaper ingannato; come ſi vide , per tacer del Paracelſo , nell'Elmonte medeſimo , che forſe quell'uno ſi era, il quale non potè ſe medeſimo del mal del la punta guarire;e pure di queſto male,e de'ſuoirimedj egli più d'ogn'altro medico ragionevolmente filoſofaro avea . Ma laſciando ciò daparte ſtare , mi par tempo omai , che veggiamo , quali efſer debbano i maeſtri, i quali introdur poſlano lo ſcolare al conoſcimento di táte ſcienze, quali ab biamo avviſato ellerneceſſarie alla medicina . E conciofi ſiecoſachè di ſopra ſia per noi detto , infra l'altre coſe al medico la notizia dell'erbc ſommamente abbiſognare ; conveniente coſa mi parrebbe , acciocchè gli ſcolari in ciò avanzar ſi poteſſero , d'un compiuto , eperfetto giardin de femplici lenoſtre ſcuole ornare, e quivi un'eſpertiſimo er bolajo ritenere , il quale gliele doveſſe ad una ad una ad ditare , con iſpiegar loro la natura , i nomi, e gli effetti di quelle ; acciocchè avveduramente poi ciaſcuno uſar le do velle . E ciò tanto monta al comun deila medicina , che ragionevolmére il Caſtellicosì ne ſcriſſe : ficutmedicus fim plicium ignarus non eft bonus medicus, ita Academia , quæ horto fimplicium publico caret , non eft perfecta Academiae. E poco addietro egli medeſimo avea molti , e molti danni annoverati , che per non eſſer nelle ſcuole della medicina il giardino de'ſemplici, avvenirnefogliono . E certamente niun maiſaprebbe , comechè ſagace , cavveduto molto ſi foffe , giugner al vero conoſcimento de ſemplici alla me dicina appartenenti , ſenza aver huom , che d'efli affai pie namente informato innanzi tratto diligentemente gliele inſegnale. La qual coſa fu da Galieno avviſata , allorche dilic , parlando de'ſemplici : Convien certamente , che non Dddd nina , 578 Ragionamento Settimo una , o due , o tre volte,ma tratto tratto gli vada minutame te offervando con qualche'maeſtro , il qualgliele additi ,come bocca gliele inſegni. E altrove : Quinci immagino i giovani valorofi eller non pocoſpronatia comprender la materia de medicamenti ; eglino medeſimi non una , o due , e tre fiates ma ſoventi volte ravviſandola ; concioficofachè la vera co tezza delle coſe apparenti coldiligente gratamento de ſenfi ap prender fi foglia . Ed altrove ancora biaſimando coloro, i quali di ſapere per veduta le coſe lordiſegnate non curano : diſſe :Sonocoſtoro fomigliantiffimi a Banditori, i qualii ſe gnali tutti , e i marchi d'unoſchiavofuggitivo , comeche mai non l'abbian veduto , a ſuon di tromba vanpubblicando; im perciocchè apparando ciò eglino daaltrui , comecanzone il vă per tutto poirecitando ; che ſe per avventura intervenije , cbe il pubblicato a bando loro dinanzi capitale, eglino certa menteper tutto ciò no'lravviſerebbono . E ciò tanto mag giormente avviene , quanto ,che da’libri ſolamente degli Icrittori non ſi poſſono agevofmente apprendere, tra perlaz traſcuraggine di coloro nel dipignergli, e diſegnargli,e per le contele , ch'intorno a quelli ſovente infra ſe hanno go anche pe’molti, e moltinomi, che i ſemplici hanno , chia mandoſi diverſamente da ciafcuno . Coſa , la qual cotanto fe ſudare , e affaticare il doctiſſimo Ruellj; perciocchè , co mc egli dice : in berbulæ cujufdam facie repreſentanda , no tas tam variè delineant, utquidvisaliud potius, quam ſtir pemipfam demonftrare videantur : aut cerie eandem multi plici prorſus effigie : quæ antalis ufquam effe poffit pleriqaw omnes dubitant. Quare me tantorum impulit virorumdift fidium , per vaftas ire regionum multarum ſolitudines , invia montium juga peragrare, lacus inacceffos Inftrare , abditas terra fibras fcrutari, hiantes vallium ſequi ſpecus, vel cum corpufculi bajus periculo præcipitia nonnunquam tentare , ut inſpectu eriam , ne dum cognitione res ipfas comprehenderem . E ciò certamente fu non poca fatica d'un tanto valenthuo mo, e convenevole a ciaſcuno , ch'a sì fatro meſtiere in tender preſuma .Se non ſe noi in ciò riſparmiar ne potrem ino , con apparar quì in un ben fornito giardino tutte l'era be da ! DelSig. Lionardo di Capoa. 579 . be da confarſi ad ulo di medicina, ſenza andarle raccoglie do con tanto ſconcio , e riſchio delle noſtre perſone. Ag. giungafi a ciò , ch'abbiamo detto che l'orto de'ſemplici tão to più nelle noſtre ſcuole , ed entro queſta medeſima noſtra Città biſognevoi ne fia , quanto che, come ben Dioſcorido avviſa ad acquiſtar pienamente cotali conoſcenze ne con vegna , e nel tempo ,che germogliano , e nel tempo , che creſcono , e nel tempo , che languiſcono le piante diligen temente confiderare : τον δε βελόμενον εν τούτοις εμπειρίαν έχεις deti na to ye try agtsQuñ Erasnov ix tūs gãsexuá(over, aig ade Ogexedeafso παρτυγχάνειν • ούτεγαν ότι βλάση εν πτυχηχώς μόνον δύναται το ακ μαζον γνωρίσει ούτε έωes κως το ακμάζονα και το αρτοφυές επιγνώναι .. Perchè a ciò riguardādo ilComū di Piſa,di Perugia, di Bo. logna , di Mompelicri, di Parigi, e d'altre molte Città d'Eu ropa,hánocógrádiſſima loda nelle loro ſcuole i séplicitut tiin ragguardevoli giardini piātati.Maſopra tutti in ciò s'a váza il famoſiflimo , e comendevole Orto di Padova find a ducento anni addietro di tutti i più ſtrani, e ſconoſciuti sé plici, ch'a medicina ficcian meſtieri compiutamente forni to ; del qual mai ſempre han tenuto cura huomini in tal meſtiere , e in tutt'altre parti di medicina intendentiflimi : ficome certamente fu Luigi Mondelli , Luigi dell' Anguil Jara , Melchior Guilandini , Giacomo Antonio Cortufio , Proſpero Alpino , Giovan Prevozi, il Cavalier Veslinci Giovanni Rodio , ed altri molti per le lor famoſe opere in iſtampa pubblicate almondo chiariſſimi. Ne certamente con táto ſtudio ciò fatto avrebbono que fapientiflimi huomini, cotanta ſpeſa , e tempo logorandovi, fe a più d'una pruova il grá biſogno di sì fatto giardino pie namente avviſato non aveſſero ; il qual ſenzadubbio più, ch'altrove , in queſta noſtra Città , in queſte noſtre ſcuole apertamente ſi ſcorge, non avendovi ne pur uno mezzana mente inteſo de’ſemplici, a cui per una, comechè non mol to ſtrana , e ſconoſciuta pianta ricorrer ſi poſſa ; da poi che la paffata piſtolenza tutti gliene tolſe . Intanto , che l'av vedutiſlimo Giuſeppe Donzelli , che in ciò pochi ebbe a ſc pari , infra i ſemplici, de'quali in una cotal bottegaalai fi Dddd 2 1110 580 Ragionamento Settimo -mofaa compor s’avea la Triaca , fei, o ſette adulterini un giorno riconobbene . Or che della noſtra Città, e delle no ftre ſcuole quel famofo ſcrittor direbbe, che sì ebbe a ſcla mare ? Conveniens in omnibus V niverſitatibushurtus fimpli ciumpublicus non folum ad warięweden perfectionem Academia, &ut diſeantjuniores medici , atque Pharmacopei,feu ad ur bis ornamentum , decus , fed quod maximum , quod optă dum , ad civium ſalutem neceſſarius omninò eft. Quot nãq; quafo errata à pharmacopæis in fimplicium delectu committi tur ? quot agri indè necantur ? E cócioſliecoſachè ſia dimoſtro ſopra più ,e più altre con tezze a un medico abbiſognare; e ſpezialméte lo ſtudio del le lingue , farebbe meſtiere introdurre ne'noſtri ftudj, mae Ari di lingua greca; perciocchè séza quella malagevolmére potrà ne’libri degli antichi huom vātaggiarſi;eſlendo quel li in greca favella compoſti; e comechè nel latino traporta ti già tutti or ne ſiano ; non però di meno molte fiate i vol garizzatori non a baſtanza eſſendo , o della materia, o del la lingua intendenti , in non pochi errori ſono incorſi; e per tacer d'altri , o quante , e quante fiatc vien ripigliato da' Galieniſti, e tolto in fallo ſconciamente Avicenna peraver Jui troppo di leggieri preftato fede a coloro , che nell'ara beſco idioma avevano i greci autori traslatati.E certamen te qual inai Xi!rem noi per ficuro, e fedel traslatatore,ſe an che Plinio , anzi il inedefino Cicerone,che così pratico fu della greca favella , pur malamente alcune delle greche pa role nel latino trafportando,da molti avvedutiſſimi ſcritto ri ne vien forte accagionato ? Ma meſtier anche farebbe ri ſtorar la vuota ſcuola della filoſofia , ein man de'medici ri porla , come già prima coſtumavaſi. Ma della notomia lo non ſo che dir mi debba ; certiſtima coſa eſſendo , che do po Marco Aurelio Severini le noſtre ſcuole mai non abbia no Notomiſta avuto ; ſenzachè il medeſimo Marc Aurelio , o perchè di fcco cotal biſogna le riſpondeffe ,o che gli fta tuti, no’l richiedefſono, pochiſſima cura ei ſe ne dava. Egli, silo non vado errato , una faccenda di tanta conſiderazio ne , e di tanta lieva si dovrebbe eſſer ordinata , che un di ligen Del Sig. Lionardo di Capoa 181 ligéte notomiſta alle ſcuole s'introducefle , e facédofi ada giare di tutto ciò che biſogno a lui fia,un giorno alınen pec ogni ſettimana la notomia diqualche particolar membro d'animal faceffe ; perciocchè in sì fatta guiſa non ha dub bio , che a'giovani, perchè perfetti notomiſti diveniſſero , agevole ſtrada fi ſcoprirebbe. Non fo poi lo fe ben fitro vino inſieme unite le due cattedre della notomia , e della cirugia, e come di due peſi cotanto gravi un medeſimo let tore acconciamente ſcaricar fi poſſa; perchè loderei , che queſte due ſcuole amendue di ſomma conſiderazione, e d' igual fatica ſi partiſsero , e dibuona ragione da due valen ti maeſtri ſi reggeffero. E fomigliantemete anche direi del. le matematiche, le quali cotanto biſognevoli fono al co mune , che non ſolamente per la medicina, e per la filoſofia fan meſtieri , ma per l'arti della guerra ancora , c per la na vigazione , e per le mercatanzic , e per tutto il civil con mercio . Ma oltre a tutte queſte ſcuole, che noi abbiamo dovrebbeſila ſcuola della Chiinica imporre ; la quale per quel,chie già ne fia baſtantemente per noidetto , così gio vevole , e neceffaria è al genere umano, ne da'folilibriſen za la guida d'un buono , & cccellente maeſtro apparar mai baſtantemente ſi puote ; e non ha il torto l'avvedutisſimo , ed aſſai ben conoſciuto di sì fatte coſe Monſignor Giovan ni Cianpoli, a vituperare , e biaſimare la dappocaggine delle ſcuole p no avervi la chimica introdotta; ma ſpezial méte al noſtro ſtudio la ſcuola della chimica fa meſtiere : avédoſi a far notomia dell'acquc minerali di Pozzuoli, e d ' Iſchia , alle quali i noſtri medici ſenza eſſer della lor natura conoſciuti grå novero d'ammalati poco faggiamente códá nano; quátúque talvolta non pocx ſciagura necoglieſſe ad alcuno; alcheanche por mére dovea il noſtro Capaccio , quãdo diſſe : Medici hoc têpore ( Sed quis medicus? quiGaleni tantum methodum legerit?qui impunè homines occidit ? ) cum mihil reliqui habeant medendis corporibus , vel cum re ipfa . ignorent , quo morbigenere ægri fins affecti, ad aquas Baja. nas eos rejiciunt , quas nemini unquam prodeffe cognovi. No. vi tamen ftolidos noftræ ætatis homines , quificaci eò profici Scan ' 582 RagionamentoSettimo fcantur , jam ſe videre , caciores indè reverſicontendunt . E certamente una cotal biſogna a comun giovamento fornir fi dovrebbe ; perciocchè non abbiam noi fin'ora ſcrittor di lieva avuto, ilqualdiſtintamente eſaminate l'abbia , come chè il Iaſolino ſcriva eſſerſi valuto dell'opera d'un certo Chimico per eſaminare i bagni d'Iſchia ; dal quale ingan nato, follemente credette eſſer non ſo quali miniere di fo le , e diluna in quelle acque. Ma per accennar qualche coſa dell'altre parti della mea dicina : Io richiederei , che i Lettori di ella , oltre alle yolgari opinioni d'Ippocrate , e diGalieno ſpiegar dover fero tutt'altre ſentenze degli antichi , e moderni autori,ac ciocchè gli ſcolari, ſicomeGalieno , c altri famoſi valend huominigià ferono , di tutto ciò chenella medicina ſi trat: ta,appieno inforınar ſi poſſano ; e ſe bene sì fatte contezze di poco, o niun momento fieno alla medicina, avendo noi a fufficienza dimoſtrato eſſer quella per ſe ſteſſa incerta, e fallace , e che niuna ſetta di quella abbia in ſe dottrina , che vi ſi poſſa per huom alcuno ſtabile fondamento porre , ne coſa di certo mai determinare ; impertanto potranno agevolmente ayviſare i giovani in ponendo mente alla va rietà delle ſecte , e dell'opinioni , e alle varie , e ſoventi fia te contrarie maniere di medicare , che fra i medici ditem ро in tempo ſono venyte in ſu , qual via nel meſtier del me 'dicare debban genere , Ne in queſta guiſa alcun contraſto allo ſtatuto del noſtro Regno mai fi farebbe , ficome alcuni daquelle parole : li bros authenticos tam Hippocratis, quamGaleni in fcholis da Geant : vorrebbono argomentare, c ftabilire; e che altro, che la dottrina d'Ippocrate,e di Galieno nons’avelſe a inſegna: re ; cócioſliecofachè col dipartirli talvolta da Galicno ,i sé timenti di Galieno medeſimomaggiormente fifoguano; ne potrà a buona ragionechiamarli ſeguace di Galieno colui, il quale non faccia , come Galieno adoperò , ſcegliendo datutti libri il migliore , ſicome a ciò fare egli i ſuoi ſcola . w inſtantemente conforta . Solo - nó laſcerò d'avvertire ſo pra l'accennato ſtatuto , ſecondo le fpoſizioni d'alcuni, che 11012 DelSig. Lionardo diCapoa 583 sion vietò la legge per quelle parole,il ſeguire , einſegnare ; ancoraaltri nonininori autori; coſtumando le leggi, qua do vogliono riſerbare , e vietar tutt'altre coſe, diſegnarle con quelle particelle duntaxat, tantummodo , folum , che i Dottori chiamano taſſative ; ſenzachè, ſe colla mente del Legislatore vogliam noi ſporre la legge, come ragio , nevolmente è da fare , certamente non che lo ſpiegare an , che altri nomen famoſi autori vietato ne fia , anzi egli n'è apertamente conceſſo , o per medire impoſto ; conciollie cofachè l'intendimento del legislatore in ordinando una si fatta legge ,, altro certainente ſtato non ſia , ſecondo che da quella ſi puòcomprendere, ſe non ſe di formare un , perfetto ge valentemedico ; il quale, conte già abbiam di moſtrato ,cal divenir non potrebbe , s'egli di tutto ciò che fin'ora in medicina è ſcritto piena contezza non abbia . E. certamente ſe l'Imperador Federicoamici!limo , e bene in formato delle buone lettere' , che fe lo ſtatuto , e Pier delle Vigne,per quanto cõportaffer que'barbari tempi, ſciéziato huomo , che ſcriſfelo , econrpilollo , aveſſer mai potuto di tantie sinobili ritrovati, e dottrine de" novelli medici , e filoſofanti alcuna concezza avere , eglino ſenza dubbio non pure permeſſo ,ma commendato anche avrebbono ,che nelle ſcuole a pro del Comune ſpoſti, einſegnati ſi foffero. E tanto più del noſtro avviſo ora noici rendiam ſicuri, qua to che riguardando alla volgar coſtuma di quel barbaro , e rozzo ſecolo, veggiamo apertamente, che corale ſtatuto, o no mandolfi mai di que’tempiad effetto ;o pur ſe andò avā ti , fu preſo ſempre in quelmedeſimo ſentimento, nel quale ora noi lo ſpiegamo; inperciocchè in Padova , e altrove la dottrina degli Arabiallor pubblicamente ſi ſponeva; e ab biamo, chepiù che d'Ippocrate ,e di Galieno,i medicaméti di Ralis,d'Avicena ,c di Meſueallor ſi coſtumavano ; anzi in queſte noſtre ſcuole medeſime,laſciati da parce i Greci maeſtri , con comandamento đe’noftri maeſtrati il trattato delle febbri d'Avicenna allor leggevaſi,per racer del nono di Rafi: cum publico bujus almeCivitatis juſu ordinariams Avicennale &turam de febribushoc anno interpretarer, fcrifle già 584 Ragionamento Settimo 1 gia Paolo Tucca , famoſo maeſtro in medicina di queſta noſtra Città . Ne altre doitrine in vero , o diviſamenti,ſe nó que'degliArabi,quà sépre ſono ſtati ſeguitati in medicá do , licome già baſtantemente per noi ſi diffe; e tuttaviade' noftri cempi ancor ſeglionfi ; ſegnal certiſſimo , che i me deſimi ancora ne ſiano ſtati ſempre nelle ſcuole de maeſtri inſegnati. Ne Giovanni degli Argentieri, oftinatiſlimo nimico di Galicno , e de'Galieniſti tucci,havrebbe quì midi potuto liberamente mandar giù le loro doterine , aper tamente cozzandovi , ſe per legge ne foſſe ſtato impo ſto a dover āzi Ippocrate, c Galieno,che la verità medeli ma , e la ſperienza ſeguire . E che direm noi di cotanti al tri autori, che da ſentimenti di Galieno traſandando , ove la verità il richiedeva apertamente il contraſtarono ? certa mére male a lor huopo táta tracotáza impreſſa avrebbono , ſe contro i divieti imperiali altronde , che da Ippocrate , e da Galieno raccolta l'arte faticoſisſima della medicina nel - le ſcuole inſegnata aveſſero.E lo mi fo a credere,che tāto ito doposì fatto ſtatuto ,comeche foſſer preſi a leggerfi i di ſegnati autori, pur tutt'altro chequelli ſpiegar dovevanſi;ne in modo alcuno da’ſentiméti di coloro la medicina tutta di pēder poteva: poichè allora pochisſime opere d'Ippocratese di Galieno dall'arabeſco nel latin linguaggio ſconce,e gua íte , e tutte piene di barbarie erano traportate: e l'opere d'Ippocrate poco certamente a capital tenute furono dagli Arabi ; de'quali la doctrina allora per tutto trionfando fio riva ; intanto , che Avicenna per comun yoce era principe della medicina chiamaco . E tanto parmial preſente della traccia , che tener debbano nell'inſegnare i pubblici mae ſtri della medicina aver baſtantemente accennato . Ma lo ben m'accorgo, che alpreſente ne verrebbe a huopo, chu attenédo le promeſſe già fatte, diviſar de’mnaeſtri della filo Cofia , comeanch'esſidebbiano eſſer liberi, e non appiccar- , fi all'altrui autorità nell'inſegnare ; ma di ciò nel ſeguente ragionamento farem parole , 1 RA 585 VAN RAGIONAMENTO O T TA V O E VLT I M O. Rai più illuftri, è più glorioſi pregidi que ſta oltre ad ogn'altra d'Italia,belliſſima,e amena Città,è da giudicare : p mio avviſo laver ella ſempremai, o prodotti, o al tronde a lei venuti corteſeinente accolti , % 9 e albergati pellegrini ingegni, e ſaggi , ſcorti, e liberi nello inveſtigare i ripoſti, e profondimiſte rj della natura . E nel vero per non far parole de' più anti chi tempi , chi è di voi , che non ſappia, che quìBernardi no Teleſio, cui diede ilcuore innanzi ad ogn'altro di fron teggiare i maggiori tiranni della filoſofia, che quella avea no a vile , e duriſſimo fervaggio miſeramente condotta, co poſe, e diè fuora que ſuoipregiatiſſimilibri della natura delle coſe ? Chi è di voi che non ſappia, che quì pariméte poi Sertorio Quattrománi, Aſcanio Perfio, L.atino Tácredi, Tomaſo Cápanella,Vincézo,c Giovan Battiſta della Por ta, Col’Antonio Stigliola,Frāceſco Muti,e altri, e altri egre gj filoſofanti ſcosſero virilmente il giogo impoſto alle ſcuo. le dell'autorità degli antichi mnaeſtri , della quale dubitar Еесс PU 380 Ragionamento Ottavo punto non che farle alcuncontraſto avrebbe il coinune cõ lentimento delle genti a ſomma ſcempiezza recato ? Vlti mamente , chi è divoi , che non ſappia , e che non abbia co’propi occhjveduto, che quì cbbe cominciamentoquel la nonmai baftevolmente commendata accademia, che de. gl'inveſtiganti appellofli , ſol perchè era intendiméto di lei, poftergata ogni qualunque autorità d'huomo mortale , alla ſcorta della ſperienza ſolamente , e del ragionevol diſcorſo andar dictro per iſpiar le cagioni de'naturali avvenimentia Echi giammai potrebbe colle dovute lodi tutti i nobili fpi riti , che in tal famoſa aſſemblea felicemente filoſofar fi vi dero rammentare? Ella ricoveroſſi , come voi ben ſapete , ſotto la protezion di D. Andrea Concubletti già Marche fe d'Arena, ch'ebbe l'animo intefo a vincer la virtù de’luoi maggiori, i quali fur ſempremai larghiſſimi favoreggiato ri delle lettere più eſquiſite; e annoverò ella fra'ſuoipiù ca si un Monfignor Caramuele , un Daniello Spinola,un Frá ceſco , e Gennaro d’Andrea, un Gio: Battiſta Capucci , un Luc' Antonio Porzio , un D.Michele Gentile , un To maffo Cornelio , e altri , e altri curiofi , e ſagaci interpreti della natura , che collor fenno, e ftadio ,e gloriofe fatiche generoſamente s'oppofero all'impetuofo torrente delPabu fo , chegià ſtabilito , e accreſciuto diforze dal conſentimen to deglihuomini,e dallautorità che gli avea data il tempo , alvero, e alla ragione ſovraftar avviſavanſi ; huomini vera mente d’immortal gloria degni, e certamente da commen dare, e da avere in pregio vie più di que' primi, che alla fi Jofofia diedero operá, ecominciamento ; conciofficcoíachè; fe eglino difcorrendo regolatamente, e oſſervando con dili genza saperfono la ftrada alla contezza delle coſe naturali, altro veramente noh fecero , ſaluo chc fecondare quef rego lamento, per lo quale caminar fogliono l'arti, e le fcienze , e l'altre coſe tutte di quaggiù, le quali cominciando da roz zi, e baffi principi, dal cattivo, e men buono, al buono, indi al migliore e alla fine a qualche ſtato di perfezione aggiuo gono; ne a queſta opera fare altra malagevolezza s’incontra di quella dell'applicazione,e della fatica,ſenza le quali non è da Del Sig.Lionardodi Capoa : 587 è dato agli huomini acquiſtare utile, o onore veruno. Ma ove p rammendare ciò che p fatal legge delle coſe umane, o per altro accidente fia venuto una fiata in dichinamento , e corruttura, primieramente hanſi a ſuperare i gravi impedi menti del mal abito già fatto per lo conſentimento della moltitudine, e per la lunghezza del tempo fortemente ra : dicato negli animi; e dopoauer ciò operato durar fi debbom no parimente le medeſime fatiche , ſe non maggiori, che durarono que'primi autori , e padri della filoſofia; perchè non è lingua,non è penna,che gli poſſa a baſtanzacommen dare. Maio perchè tante volte pazientemente avete degna to d'aſcoltarmi,o Signori,in queſto ultimo mio ragionamen to, che dovrò fare , ſe non ſe incoraggiarviad una sì bella impreſa di liberamente filoſofare, e diviſarvi altresì quanto di liberi filoſofanti, e maeſtri le noſtre ſcuole abbiſognino ; ne a ciò fare veruna induſtria , veruno ſtudio , veruna fati ca reputerò vana , e inutile : imperocchè ove ſia ſeguito il mio avviſo., ſpero , che a voi ſomma gloria alcomun ſom mo pro , camefelice termine di queſte poche fatiche , che per altrui utilità ho durate, ſia per ſeguirnezeper dare omai comincianento ,dico , ch'egli ſembrerebbe ad alcuni ben fatto aſſai , che s'aveſſe a rinovellare l'antico , e ormai per lungo ſpazio in tralaſciato uſo di ſporre a parola p parola il teſto d'Ariſtotele. E quancunque il miglior partito ſareb be,intorno a ciò imitando le più famoſe ſcuole d'Europa ,ri pigliare l'antichiſfima traccia già tenuta da’ Greci nello in ſegnare , Oye poi queſta non li voleſſe ſeguire , certamente giudicherei il men male , che ſi faceſſer le chioſe in ſu'l già detto teſto d'Ariſtotele; imperocchè in sì fatta maniera grande ſcemo ne verrebbe il numero innumerabile di quel le quiſtioni , in cui, e'l tempo,e'l cervello, non men de’mac ſtri,vilogorano tutto di milerevolmente gli ſcolari; sì ve ramente , che poi i maeſtri a quella guila , e con quella li bertà l'opere d’Ariſtotele aveſſero a trattare, colla quales cgli quelle di Platone, e d'altri antichi trattar ſolea . E co me a ſuo eſemplo fecero poi delle ſue mcdefime Tcofraſto, Ermia , Filopono , caltri , e altri ſuoi più nobili ſeguacije Ессе 2 clio 588 Ragionamento Ottavô chioſatori , cioè a dir, ch'egli s'aveſſe minutamente a cri vellare ogni fuo detto , diſaininar a fpiluzzico ogni ſua ra gione , econ nuovi,ė nuovi ſaggi provare, e riprovare ogni fperienza, ch'egli aver fatto teſtimonia nelle coſe della na tura ; e ficomene'miſterjdalla Divina eterna fapienza , che ne ingannar ſi plote, ne ingannare altrui a noi già rivelati, nő dobbiamo più oltre inveſtigare ; così nelle dottrine in. fegnatene da’šiloſofi,e particolarmente dallo Stagirita,egli fi dee ſempreinai ſtare in ſu l'avviſo,ed aprir , come fuol dir fi , mille occhi , e mille , per veder ſe ciò ,che egli nel ſuo indice ne ſcriſſe ficonformi coll'ampio , e immenſo volun medell'Vniverfo . Ma perchè chiaro appaja , e ſi poſſa quaſi diſli toccar cô mani quáto mal ſicurain quallivoglia materia ſia la dottri na d'Ariſtotele ,ne daremo ora , comechè breve , qualche faggio ; e primieramente in que ſentimenti , che da criſtia no orecchio fenz'orrore no potrebbongiammai udirſizcioè, che l'eterno Dio non ſia il gran fattore dell'Vniverſo, e de gli huomini : ne di noi punto fi brighi , ne con noi voglia , o poſſa uſare in alcunaguiſa , ne in ſonno , ne in vegghia: e ch'egli non ſia colui , ond'ogni bene avvenga. Che la per fertabeatitudine fol nella preſente vita neli conceda , ſen za alcun godimento nellaltra poterfi ſperare . Che la det ta beatitudine nella fola virtù non confifta : ma le fac cia meſtiere de'beni della fortuna : dipartendoſi dal parcr del ſuo Macſtro Platone ( cotanto commendato dal gran Padre Agoſtino ) colà ove diſſe , cſſere la perfetta beatitu dine non altrocheil godimento di Dio. Che buona ſia l'é pia legge di Minoffe ,il quale volca, chelecito foffe il pec car cótra a natura , acciocchè nó creſceffe oltre al cõvene vole il numero de'cittadini. Che gli huomini abbian la vera fapienza : burlandoſi di Simonide, che detto avea effer Dio folamente il ſapiente ; e ftizzandoſi contro Platone , ches ſcriſſe eſſere l'umana ſapienza vile , e bazzeſca . Che igio , vani debbano fraftornarhi , comcincapaci, dalle morali dio fcipline . Che la modeſtia non fia virtù : nc virtù di fortez za ſia il ſofferir pazientemente le ingiuric , la povertà , gli 1 efilj, DelSig.Lionarda di Capoa. 189 efilj , la morte , o altri infortunj : le quali coſe , come em pie la medefima gentilità condannerebbe, che fortiſſimi sé, za contraſto ſtimò Meltiade nel ſoſtener la prigionia,Temi ftocle l'eſilio , Socrate la morte . Ma che direm poi di quel ſuo ſentimento dietro all'eters nità del mondo,tante , e tante volte da lui ridetto , e pro varo, facendo contro il vero arme i ſofiſmi?Che dell'empie fuc beſtemmie intorno alla natura del grande Iddio , il qua le ſcioccamente egli chiama (wor , cioè a dire animale . E a lui di vantaggio egli l'onnipotenza , ela providenza , elas libertà dell'operare empiamente toglie ; oltre a ciò non potendo talor la fuafolle , e pertinace miſcredenza celare , apertamente dice eſſere la religione un politico ritrovato da tener a freno le genti , e che la dignità del Sacerdozio debba compartirli a' ſoldati veterani. E che diremo intor no alle pene, e premj , che dila ſi danno ſecondo l'operes che di quà per noi fatte fono : E che direm’anche dello in ferno , il qual egli dice effer certamente novella da vegliar de ; morendocon noi l'anime ancora , ne altra coſa di noi reſtando dopo morte , fe non ſe il freddo cadavero , ſenza , fentimento niuno ? e tali alla per finc Ariſtotele ne trattadig come Se fate foſſim’anime di ferpi . Ma non verrei mai a fine , ſe tutte quì diſtintamente re car lo voleſſi le fue empie , e peſtilenzioſe doctrine , dalle quali contaminato il miſcredente Arabo chioſacore in's prima ; e poi altristolſero l'occaſione di comporre , e di co pilare quell'infame libro,de'tre ſeduttori del mondo. Quin ci apertamente fi pare con qualita ragione detto aveſſe già Lattanzio Firmiano : Deum non colit, nec curat omninò Ari Hoteles : e prima di lui il grande Origene nel libro , cli’ei ſcriſſe cótro Celſo Epicureo,avea già detto eſſere Ariſtote le piggiore aſſai d'Epicuro ; e dipiù biaſima Origene mole? altre malvagità,e ſcelleratezze inAriſtotele,e la peripateti ci ſcuola tutta ne taccia ; e'l beato Serafino da Fermo , e S. Vincenzo Ferreri abboininando , e maladicendo la dottri na d'Ariſtotele, e quella d'Averroe ſuo ſeguace ſoleva.gri dare i4 590 Ragionamento Ottaud dareeffer quellephialas ire Dei projectas fuper aquasfapië tiæ chriſtiane , unde facte furtamare, ficut abfynthium ; per chè anche la venerabile ſua ordine avca ſeveramente proi. bito a’ſuoi frati il leggere l'opere d'Ariſtotele . E ben ſi paa re , cometeſtimoniano Laerzio Diogene , Ammonio , Cle mente d’Aleſſandria , e altri , ch'Ariſtotele rivolto fi foſſes agli ſtudidella filoſofia per ordinazione di quel Diavolo , che ſotto il mérito nome d'Apolline già dar ſoleya le riſpo Ite in Delfo ;ne altra cagione ritrova San Girolamo alla Arriana ereſia , che dottrine d'Ariſtotele : Arriana berefis argumentationum rivos , de Ariſtotelæo forte mutuatur : fic enim Arrianos inperfidiam iviſse cognovimus,dum Chri Si generationem putant ufufaculialligandam , relinquunt Apoftolum , fequuntur Ariſtotelem , E S. Baſilio il magno ſchermendo , e vituperando oltremodo l'Ereſiarca Euno mio dice , che coll'armi d'Ariſtarele tentava egli d'abbat tere , e diſtruggere Criſto ; e ſpezialmente in un luogo, ov? egli dice : deh laſcia forſennato il malvagio , e danneyole gærrir d'Ariſcotele: laſcia io c'avverto quel velenoſo, e pe ſtilenzial ſuo favellare intorno alla natura dell'anima : è in tutto caccia via da te quelle ſue mondane ſentenze, copi nioni . Or ſe nelle coſe , che abbiam noi di certo , come loni quelle della noſtra ſanta Fede , così manifeſtamente Ari ſtotele graſandò ; certamente dovremmo noi anche nell'al tre tenerlo ſoſpetto , e dubitarne continuo degli uſati ſuoi crrorijanzi dovremmo pure giudicar falſo apertamente tut te quelle ſue premeſſe , dalle quali egli pervia di neceffarie cõſeguéze ſuol cavare gli ſciocchiſſimi ſuoi falli intorno alla noftra sáta Fede.E veraméte il ſiſtema in ſu'l quale egli ap. poggia , o tutta , o la maggior parte della ſua vana filoſo fia,egliè l'eternità della materia, del movimento, del mon do , delle intelligenze : la neceſſità di Dio nell'operarc,e la virtù finita di lui : e altri , e altri ſentimenti a queſti fomi glianti. Ma che dire noi di quelle coſe d’Ariſtotele,le quali quã tunque per la noſtra S. Fede non fi determinino,pur la Ipe 1 ricn DelSig . Lionardo di Capoa اور rienza così manifeftamente ora a noile dimoſtra , che nulla più èda dubitarne ? O forſe negando noi fede agli occhi noſtri medeſimi, e dimentendone i ſentimenti , e le dimo ſtranze , crederem noi oſtinatamente ad Ariſtotele , e non ne prenderem pure faggio da altri più avveduti, e men cre. duli ſcrittori i quali in buona verità affermino ſe avere fpe rimentato tutt'altro di ciò , cheAriſtotele nefcrive : Adun que perchè credere noi,che l'arco celeſte nó poffa maggior d'un mezzo cerchio apparere , quando contro l'avviſo d'A : riftotele, Franceſco Pico della Mirandola , il Campanella , il Gaſſendi , il Blancani , ed altri molti maggiore affai l'of ſervarono ? Anzi Io l'ho purriguardato , che non ſol mag giore, del mezzo cerchio apparir foglia , ma talvolta anco ra in un cerchio compiuto , e intero , dove il Sol fia alto , e l'huom da qualche monte aſſai rilevato ilriguardi. E dell' arco celeſte lunare,perchè'giudicherem noi eſſer quello co tanto malagevole aformarſi, che ne' plenilunj ſolamente apparer radiſfime volte ne foglia : anzi le egh è pur vero (perciocchè vien comunemente giudicato, maffimamente da Alberto Magno per una delle più favolofe novelle d'A riſtotele ) cgli dovrebbe pur più ſovente apparere , che non Polervòcolui in due fole volte per lo lunghiffimo ſpazio di cinquant'anni ; quafi egli in ciaſcuna notte dicotanto tem po ſenza prender mai ſonno foſſe ſtato ſempre a bada al ſe reno per riguardarlo ; non altrimenti che Fra Puccio ftayaſi digiuno orádo alle ſtelle , mentre la fua donna rinchiuſa có colui troppo alla ſcapeſtrata ruzz.ava . Ma degli errori d'A riſtorelein si fatte materie ne diſcorrono appieno il Tele fio , il Campanella , ed altri eccellenti autori. Ma che direm noi della proporzione, e convenenza,che infra fe hanno nel mondo peripatetico quaſi in ben librata bilancia in andar ſu le coſe leggiere , e giù le gravi? E la fciando per ora ad Ariſtotcle il creder, ch'ei fa fuor d'ogni ragione effere la leggerezza non men che la gravezza me delima , qualità delle coſe : e come poi per ſua dappocag gine lafciando di ſpiegare d'amédue la natura ad altro tra paſli: dirò ſolamente della ſua fciocchilimatracotanza il non 592 Ragionamento Ottavi -- -- non volere far pruova di ciò , che ſogna , che una pietra di mille libre fcenda mille volte più preſto , ch'un altra d'una libra ; potendo con durar poca fatica ,ravviſare , che que due mobili , tutto che tanto diſuguali di peſo , diſcendano però eguali in velocità . E chedirem noi intorno aciò , che Ariſtotele vaneggia do ne vuol dare a divedere delle coſe , che poſte in acqua , o ſcendano giù , o galleggino ? e come egli tratto dalla ſuaſciocca maniera del filoſofare , vuol,che peropera della larghezza, o ſtrettezza della figura, o fendan l'acqua,o nuo tino a galla coſe più gravi aſſai dell'acqua medeſima , non riguardando egli punto alle vere cagioni, che in ciò con venir poſſano . Intorno alla qualcoſa così ſmentito , eri creduto ne fu egli dal noſtro ſottiliſſimo Galilei , che nutta più ne ſarebbe il favellarne. Ma che direm noi dell'acque del mare? onde egli appre . ſe il noſtro Ariſtotele eſſer quelle più dolci aſſai, e men fan late nel fondo ,che di ſopra li ſieno ? Ahi quanto cauti gli huomini efer denno Preſso a color ,che non veggon pur l'opra; Ma per entro i penfier miran col fenno. Così traſcurati , e bambi ſi ſon laſciati trarre a ' ſuoi ſco cj , e difettoſi fillogiſmi i poco avveduti ,e troppo creduli ſuoi ſeguaci, che nulla curandodi vederlo per pruova,giu rano , ch'egli ſia infallibile verità : quum hoc , dice Giulio Ceſare dalla Scala , pro comperto ,veroque habeatur, in fun do maris aquas dulces effe. Ma Franceſco Patrizio huomo di maraviglioſo ſapere , e di non ordinario avvedimento così operando pur con tutte diligêze diviſarene dallo Sca ligero , ritrovando alla per fine il contrario , ne ſcrive: quñi mare ftaretplacidiffimum , nec itineris tantillum navis confi ceret , nullo Spirante vento experiri libuit , vafe cattitering ejufmodi, quale ipſe deſcribit , funi longiffimo alligato , quem nautæ fcandalium vocant , & altero leviore funiculo operculo accommodato , ita ut attractus illud aperire poſſet . Itaques manibus propriis utrumquefunem in mare demifimus : vas cafu plumbo pilotico fenfim ad fundumpervenit altiffimum , ſcili DelSig. Lionardodi Capoa 593 fcilicet CXLVII.: quum fenfiterramtenere , minorem funem traxi , operculum referavi. Extraximus opertum mari ple. num , falfo , amaroque , baud majorefalfedine , vel minore quàmquod in ſuperficie pofitum vafe alio guftabamuscompa rando . Ma finalmēte intorno a ciò n'ha rimoſſa ogni dub biezza il chiariſſimo Boile , il qual dice , che non ſolo i tuf fatori moderni inghileſi han fempremai aſſaggiata l'ac qua nel fondo del mare ſalſa, non men, che quella diſopra ; anzi dipiù in cerci luoghi della zona corrida ritrovato no una fiata nel fondo del mare pezzolinidiſale , e ſe ne ſervirono a lor agio per condir le vivande i peſcatori. Nó diffimile altresì da queſto dell'acqua ſalſa è quel, che Ari {totele apporta ne’libri delle ſue metcore, intorno al vino ; affermando con franchezza grande, che i vapori del vino ſi vengano a cambiare in acqua toſto che ſi riſtringano . Ne men groffa di queſta è quell'altra ridevol balordag gine del noſtro natural filoſofante,intorno al rame ; la qual parimente nelle ſue meteore volle, che ſi leggeſſe;cioè, che'l ramenon ſi poſſa per coſa del inondo įn altro color tignere. E quinci veggafi pure quanto male a lor huopo i filoſofi nan turali non ſappian di Chimica. E che direm noi intorno a’mari , i quali dice Ariſtotele eſſer molti , e molti , che non ſi congiungano inſieme, trat tone ſolamente il mar roſſo; il qualſecondo il ſuo avviſe , p piccioliſſime focinell'Oceano Atlático entrar ſi vede Nar ra ancora egli , e follemente giudica i Beti, e la Dannoja naſcer da’monti Pirenei ; e nel Parapamiffo l.2 lor prima fő te avere il Battro , el Coaſpe , e l'Indo , e l’Araſle , cche da queſto poi li venga eglia diramareil Tapai. Coſe tutte manifeſtamente falle , e impoſſibili;concioſliecoſachè fap pia ben ciaſcuno tanto quãto di ciò intendente , che'l Coal pe per la Perſia diſcorra , e di la dalla Perſia il Battro allin Battriana Provincia dea nome , e l'Indo naſca nell'Indiwi perchè non è da credere , che fiumi diſcorrenti in Provin cie cotanto infra fé lontane , e rimoſſe , in un modelimo luogo tutti , e da una medeſiına fonte ſorgano ; c'l Tanai ſa ben ciaſcuno , che naſca ne'inonti Rifci. Ma di più dice Ffff Ari 594 Ragionamento Ottavo 1 Ariſtotele , che nella Liguria un fiume grandiflimo ; e non minor del Po s'inghiotta tutto , e fi divori dalla terra , e quindi dinuovo poi rinaſcendo diſcorra altrove . Ma in corno al primo naſcimento de'fiumitutti ,egli molto ſcioc camente parlando dice , che ciaſcun fi formi, es’ingeneri negli altiſſimi monti dal vaporoſo aere per virtù del freddo a viva forza riſtretto , e condenſo , e diſtillante continuo in acqua nelle naſcoſe caverne , e nelle picciole buche della terra ; e quindi poi fa che prendano perpetuo movimento con una cotal gravezza , la quale perrocce, e per burrati , eper lande, e pervalli faccendo l'acqua diſcorrere , eca dere La fa inquieta , inftabile, e vagante . Nel qual modo follemente filoſofando fa egli nafcer non folamente piccioli fiumicelli , e fonti, e poveri rivi , ma no ne ferba anche i più ſuperbi, e vaſti fiumi del mondo. La qual coſa quanto ſia ſciocca , e da ridere , ben può comprenderlo chiunque ha favilfuzza d'intendiinento, fen za ch’lo più ne dica . Eche direm noi di quella così ſmiſu . sata , e incredibile altezza del monte Caucaſos Baja , ch'avanza inver quante novelle , Quante mai differ favole , ecarote Stando alfuoco a filar le vecchiarelle. Eglimillantando delle cime di quello dice , che fino alla terza parte della notte ſian dalfole illuminate ; che fatta ne la ragione ſecondochène ſcrive il ſottiliſſimo Peripate tico filofofante Giacomo Mazzoni , farebbe il monte dal tezza almen di ſettant'otto miglia noſtre Italiane per linea perpendicolare ; c quì non può non gridar eoli : papa in quos aculeos imprudens me conjeci! rident enim hoc Ariſtotelis dictum Mathematici; putant enim eum pueriliter lapfum efle. Cæterum ego dico eum ſequutum effe famam . La quale ſču fa del Mazzoni Io non lo ſe maggiormente debba fcagio nare , o tacciare il noſtro veritiero , e accortiſſimo Filoſofo. Ma d'altra parte Giuſeppe Blancani famoſifſimo Matema tico , cercando a biftento di menomar cotanta altezza del Mazzoni, la riſtrigne ſolamente a miglia cinquantadue ; qua DelSig.Lionardo di Capoa. 509 quia tamen , ſoggiugne poi, adhuo omnem veritatem nimium exfuperat ; e biaſimandoſi forte della ſcuſa del Mazzonifa piertiores judicent , dice , num recte philofophus, cujus eſiree condita , &abditadocere, excufetur ,fedicatur eum popula . rem famamfequutum effe. Ma fe falla così ſconciamente Ariſtotele in narrando con ſe falſe per vere , non meno errar ſuole egli talora in rifiu . tar come mentite , e falſe quelle, che manifeftamente ſon vere . Così egli nega efſer il vero ciò che cutto dà ſperimé €2 avvenire nelle contrade della Paleſtina, e propriamente in quel miſerabil luogo , in cui già cadde Fiamma dal Cielo in dilatate faldea E di natura vendicò t'offeſe Sovra le genti, in maloprar sì falde. Fu già terra feconda,almopaeſe; Hor acque for bituminofe , e calde, E fteril lago, e quanto ei volge, e gira, Compreſs'èl'aria , egrave il lezzo fpira. Di quel fetidohumorgiammainon beve L'affaticato peregrina, e laſo, Non greggia, non armento:e cofa greve , (Benchefia gravepur, qual ferro;of affo ,) Sornuota quaſi abete,od orno leve: L'huom non s'attuffa mai, ne giugneal baſſo. Cosìagevole egli è Ariſtotele a negare , e ad affermare a fuo talento tutto ciò , ch'e' vuole , fenza aver riguardo niuno alla verità . E volle Ariſtotele anche oſtinaramente contendere , e negare contro l'avviſo di molti valent'huo mini, fotto la torrida Zona la terra eſſer abitabile. Ma che direm Noi della Galaſſia , o vogliam dire cerchio di lat te , il quale fecondo Ariſtotele è un incendio perpetuo bruciate nella region dell'aria per l'eſalazioni, che dal le baſſe valli , e dagli alci monti vi manda continuo la cerra ; errore così grande , che anche i più cari ſeguaci di lui ſe n'avvidero , e apertamente ne'l ripigliarono ; in torno alla qual coſa , ſon veramente degne da notar quel le parole d'Olimpiodoro avvedutiſſimo ſuo interpetre, colle Ffff 2 quali 1 596 Ragionamento Ottava quali egli comincia a chioſar quel luogo : il Reo ( dic' egli, fervendoſi del volgar detto ) è di miglior condizione dell attore ; concioffiecoſachè allegando tutti gli antichi filoſo fanti nel ciel la Galaffia , ſolamente Ariſtotele portando falſa opinione, nell'aria ła pone ; perchè il Campanella eb be a dire:hancfententiam nemo fequacum ſectatur , nifi ftul si quidam :fra' quali non vergognoſli di porre il ſuo nome CeſareCremonini:mathematica ,et rationis expertes;e Aver roe , il quale così a capital tiene la reverenda autorità del ſuo caro Ariſtotele , che tranguggiar volentieri fi fuole tutte ſuc bagatelle, e ſue bugie, quantunque groſſe,e fmi ſurate elle fieno, pur ciò non potè a niun inodo inghiottire . Ma che direbbono a’giorni noſtri il Cremonini , e gli altri oſtinati fuoi ſeguaci , fe mercè del Teleſcopio guataſfero quelle tanto picciole ſtellucce , ch’ammucchiare inſieme , e riſtrette laſsù formano la Galaſſia , edi quà ne fembrano per la lor picciolezza una confufa liſta appena di mal di ſtinto ſplendore; il chefenza conſiglio del Teleſcopio be conobbe il fottiliſſimo Democrito , allor che , come Plu tarco , e Macrobio teſtimoniano ,difſe eſfer la faſcia del latte non altro,che moltitudine di ſtelle fiffe in quella parte tan to picciole,e non vedute diſtintamente a noi per la lor pic ciolezza , non già perchè allumate non fian dal ſole per lo tramezzamento della terra , come falſamyente ne vuol dar a diveder Ariſtotele ch'abbia detto Democrito , per avval lare il buon nome di quello, con accagionarlo d'un mani feftisſimo errore . Ma chi non fa quanto egli fiafi apertaméte aggirato Aristotele intorno al luogo, e alla generazion delle stelle comete , e quanto fanciulleſcamente e'ne diviſi ; e già n'è prie troppo a ciaſcun manifefta la verità , avendone sì ben fa vellato il noſtro Ipparco ( che tal meritamente dal Gaſſer di vien chiamato Ticone ) e l'ingegnofisſimo Chepleri, e cotant'altri moderni Aſtronomi, e filoſofanti, i quali n’hā così dimentito , e ricreduto Ariſtotele, chenulla più. E che direm noi intorno all'incorruttibiltà,come dicono del Cie lo , intorno alla natura del ſole , e dell'altre ſtelle ? E che direm Del Sig.Lionardo di Capaa 597 direm noi della favoloſa novella della sfera del fuoco? Ne. mi farò ora a voler dir della Terra, la qual ne’libri del Cie lo avendo Ariſtotele poſta ritonda , pure ſpagato , dice ne’ libri delle meteore,ch'ella inverſo Settentrione , alquanto più rilevata , e alta filia . Nedi ciò anche contento , ne’li bri medeſimi delle meteore , come ſe caduto gli foffe della memoria , ciò, che non guari addietro n'avea ſcritto, portas opinione eſſer la terra , non già ritonda ,ma da due lati pia na a guiſa ditamburo ,o di cilindro , o dirottame di colom na : ftando ella , ſon ſue parole , non altrimenti,che tamburo ; perciocchètale è lafigura della terra : equantunque ſi paja ch'eifavelli della terra abitabile , di queſta anche aveans favellato gli antichi filoſofi , i quali egli biaſima travolgen do i lor ſentiméti;mache che ſia di ciò, falfo pariméte ſi è , la terra abitabile efſer a guiſa di tamburo; ondeebbe a di re il Tallo , comechè peripatetico e' fi foffe : Tal che nonſembra l'habitata terra Timpano più ,come affermando inſegna Il gran Maeſtro di color ,chefanno. Ma delle contradizioni, e mutamenti d'Ariſtotele ,i que. li quafi in ogni carta delle ſue opere s’incontrano , lun gofarebbe ora a dire ; le quali così manifeſte , e così ſpeſ fe ne'ſuoi libri ſono , chei inedeſimiſuoi parziali non oſan negarle . E conciosſiecofachè molti famoſi ſcrittori s'ab biano preſo briga di fcoprirgliele , tralaſcerò lo al preſen te di più divifarne . Solamente non vo lafciar di trarne a noſtro concio , cheAriſtotele avvegnachè tutt'altro inoſtrar volefle,filoſofar folea non meno incerto e dubbioſo , che il luo maeſtro Platone , e Socrate ſi aveſſer già fatto ; e feco dochè più in concio gli rendevali ſerviva delle opinioni al trui ; e quelle , e queſte , or abbracciando , or rifiutan do a ſuo talento , non altrimenti che noi nelle varie ſta gioni dell'anno de' noſtri veſtimenti facciamo . E certa mente lo direi co'l dottisſimo Ramo,la filoſofia d'Ariſtotele da quelle vane ciance in fuora , che dir ſi poſſono propia mente ſue , eſfer una confufa meſcolanza de ſentimene ti degli antichi ſoventemente da lui non troppo bene capi 598 Ragionamento Ottavo 1 2 4 . 4 capiti , e malamente ſpiegati; ficome in più luoghi delle ſue opere manifeſtamente fi fcorge. Collecta femel iftafunt, dite l'accennato Ramo, de multis , magnis infinitorum authorum ; & operum vigiliis ; recognita nufquam funt . E piaceſſe pureal Cielo , ch’a’tempi noftridurati pur foſſero imalandati libri di quegli antichivalent'huomini,che più agevolmente ſenza fallo ne ſarebbe creduta cotanta verità, E quinciſi pare , con quanta ragione detto aveſſe l'iſtorico Timeo appo Suida , eſſer Ariſtotele ditardo , ed ottuſo in tendimero: Tίμαι φησιν κατ ' Αριστοτέλες ,είναι αυτονευσχερή,θρα συν , πιοπιτή,αλ' ου σοφισών,όψιμαθή.μισον υπάρχοντας το πολυήμητου ιαπιείον αποκεκλεικόG , και στις πασαν αυλήν , και σκηνήν έμπισηδηκόα . Timeo diſse contr’Ariftotele , efser lui impronto , orgoglioſo , rintuzzato d'intendimēto,eda ciaſcuno odiato: il qual con ſue maladizionifi fe ftrada in tutte le corti , e per ogni ſcena pro verbiava ; che che ſi dica il Cauſabono: il qualpoco, o nul la inteſo di sì fatte faccende dice , in favellando di Timeo , falfifima enim omniaquæcunq; dedivino viro epitimæus ifte nugatuseft. E le inai ſidee dar alcun luogo alle conghiet ture , più balordo , e ſciocco eſſer veramente ſtaro di quel, chc Timco , ed Eliano ancora ne raccontano e ſembra cer tamente Ariſtotele ;perciocchèegli ben vent'anni conſumo nella feuola di Platone,e periſtudio,e ſudor , ch'e'vi logo raffe ,nó potè mai avāzarne più che forſe ſi ſarebbe approfit tato il più minutoícolaretto. E ciò maggiormente ſilaſcia credere dall'aver lui molto ſcioccaméte apprefe alcune sé téze del ſuo maeſtro, e molto ſtorpiatele , e malmenatelei. Ma di ciò forte altrove più agiatamente diremo . E ritor: nando ora a ciò , che propoſto avevamo, cioè a rapportar come ſconciamente Ariſtotele cerca talora di contraſtare , ed abbattere gli altrui veri ſentimenti: maraviglioſo certa mente , e degno aſſai da notarſi e' miſembra qucl, che egli dice del ragnolo : ed è,che avendo già detto in prima De mocrito , che le ſottiliſſime fila , onde ilragnatelo con arti icioſo lavorio teſſer ſuole maraviglioſamente le fuc tele , egli dentro le ſue viſcere le ingenerise per lo fondo le trag ga per quella parte ch'è bello il tacere ;levofli incótanente fuſo 3 4 DelSig.Lionardo di Capoa. 199 ر fuſo Ariſtotele , e opponendoli orgogliolamente a un tan to huomo, diſſe , che Democrito in ciò manifeftamente fal lava , e che le fila forminſi dal ragnatelo per tutte parti del ſuo corpo , a guiſa di corteccia , o di lanugine, chetut ta gli vadano coprendo la buccia ; o non altrimenti che s? avventino le penne dell'Itrice : ου διμύανται δ ' αφιέναι οι αράχναι το αράχνιον , ευθύς γεννώμενον , ουδ' έσωθεν , ως αν περιθωμα , καθάπερ φησί ΔημόκριτGάλ ’ από του σώματG- οίον φλοιόν, ή του βάλον τοίς Dertiv,oi'or ai uspiges : cioè i ragnateli nati appena mādan fuq ri le fila ,non già dalleparti dentro aguiſa di fecce d'anima li, come falfamente immagina Democrito , madalleparti di fuori, aguiſa d'una ſcorza, opur di quegli animali , che ſono gliano, Jaettano i peli, come è l'Iſtrice, Ma quì non ſi può ſenza maraviglia coſiderare la traſcu raggine ,e lentezza de’poco curioſi peripateticisi quali se zabadar puntoalla verità del fatto ,confarne pruova han cosìvergognoſamente ſeguito il parere d’Ariſtotele, laſcia do daparte quello di Democrico ;ilquale tutto il corſo del la ſua vita , che fu affai ben lungo, in far eſperienze avea logorato ; e tanto più degni di biafimo ſi rendono , quanto che l'impreſa non richiedeva cotanto fenno , e avvedimen to , o fatica per venirne a capo : che ben ancora le feminel le delcontado, e imuratori, e gli ſpazzacamini avveder ſe ne poſſuno , allor, che ne’lor piccioli abituri veggono fa re il tombo agl'induſtriofi ragnuoli, per inteſſer le ragne alle moſche. Ma fu egli certaméte cagioned'un sì folle errore l' aver eſli dato intera credenza ad Ariſtotele.E nel vero , chi mai ſoſpettar avrebbe potuto , eſſere ſtato Ariſtotele così fciocco , e ardimentoſo nel ſuo lcrivere , che manifeſtame te aveffe voluto contraddire al divino Democrito ſenza aver lui in prima ſottilmente conſiderata la biſogna, e ſpe rimentata per più d'una pruova co’propi occhj . la ſua ragio ne ; maſſimamente,che a doverne far ſaggio non gli era me ftieri inviar mefli ad Aleſsandro, e farli venir dalla Media, o dall'Ircania, c dalle più rimoſſe contrade dell'Indie nuo ve, e non più conoſciute belve ; che ben poteva egli nella camminata della ſua caſa propia veder ne*cáconi i ragnuoli filare; Coo Ragionamento Ottaud ; filare;pchèvalſe tátol'autorità d'Ariſtotele,che in coſa co tāto manifeſta ſe ne ſarebbe per avvétura ancoroggi ſepol tala verità, avédo ad Ariſtotelecreduto l'Aldovrádi,e cota. ti altri famoſi ſcrittori,ſe la ſperienza nõ aveſſe nõ ha guari moſtro pienamente aver Democrito la ragione, peropera del curiofiflimo Giuſeppe Blancani in prima, e poi di Tom maſo Moufeto : acceptomanu bacillo Araneum quendam :dia ce il Blancani : ex iis , quicirculares telas , quas nonnulli , & quidem aptè labyrinthos appellant, ingenio utique mathe matico contexunt ,fic adii , ut Araneuspro arbitrio ſuper bar cillum liberè inambularet ; dum ipſe interim curiofius illums obfervarem quanam videlicet ex parte filum foras ederet : cum ecce tibiaraneus experienti mibi ultro favensfefe exba culo demiſit, ita tamen ut ex filo fuoin aëre fufpenfus rema neret : cum primum obferuo ipſum inverſum , hoc eſt capice deorſum , ventre ſurſum pendere ; ut autem acutius cerne rem eum opacecuidam rei oppofui , ne pre nimia luce tenuiffi mum aranei filum aciem oculorum effugeret ; quo facto cla riſfimè videbam filum ſeceſſu Aranei prodire . Mamolti ſe coli prima del Blancani avea ciò parimente ravviſato il ſa gaciſſimo Plinio ; mane a Plinio , ne al Blancani volle pre ítar credenza il Vosſio padre : così poco acconcio egli eb be l'intendimento a diviſar delle cole della natura . Ma poichè deʼragnateli facciam parole,non tralaſcerò di conſi derare quanto dietro al partorire di quegli il noſtro Ariſto tele vanamente anco s'aggiri , dicendo partorire i ragnoli cotali vermicelli vivi , e non già le uova , come alcuni im maginano ; ma quanto ciò ſia dalvero lontano , dicalo in miz vece il diligentisſimo Redi; il quale narra, che per tut te diligenze, ch'egli ulate v’aveſſe , non avea mai veder po tuto ne’ragnateli ſe non l'ovare, e dalle lor uova poi nalce . re i piccioli ragnolini ; Ma non meno è da notare ilgravif fimo fallo d'Ariſtotele intorno al Canclo in dicendo efferli ingannati coloro , tra'quali fu Erodoto , che diceano il Ca melo aver più di quattro ginocchjie pur chiaramente ſcor geli, il Camelo, comc Erodoto dicea,aver ſei ginocchji e le cotāto intorno a coinunali e ben conoſciuti aniinali ſcioc chinen DelSig.Lionardo di Capca. 661 ) و : camente Ariftotele travede che dovrem noi credere di que's più rimoſſi alle noſtre contrade , e meno uſati,de quali egli nátrâ cotante ſtrane , e incredibili novelle , e più affai , che me diceffe mai fra Cipolla a que’ſemplicicontadini da Cero taldo ? Narra egli del Lione Ariſtotele, che non abbia mi dolle alcune nell'offa maggiori del ſuo corpo; ma che ſola mente in alcune delle picciole, cioè delle gambe ne abbia, avvegnachè sì ſottili , e poche quelle ſiano , che par,che af fatto eglinon ne aveſſe ; onde egli avviſa poi naſcere l'in vincibil fortezza del Lione. Ma quanto ciò falfo fia , non pure per Ateneo , che forte ne ’ ripiglia , ne ſi fa chiaro ;ma dopo lui ancora più apertamente fu dimoſtrato dal chiarif fimo Borricchio ; il quale aperti due gran lioni in Afnias , reggia di Danimarca ,vide egli avere in molte delle loroof ſa copia grandiſſima di midollc; e prima del Borricchio fu ravviſato in queſta noftra patria in un Lione del Signor D.Tiberio Carrafa , Principe di Biſignano: il quale fu tro vato parimente pieno di midolle ; e quinci apertamente fcorgeſi, quanto a torto ſiano accagionati, e biaſimati da’ critici ſeguaci d'Ariſtotele il noſtro dotiſfimo Stazio ,paver lui poſto in bocca ad Achillo que'verli nec ullis Vberius fatiaffe famem , sedſpiſſa Leonum Viſcera ſemianimefque libens traxiffe medullas: et gran Lodovico Arioſto , quando fa egli, che la maga Melilla affacciandoti nella forma d'Atlante , all'effeminato Ruggicri così dica : Dimidolle già d'Orſi , e di Lioni Ti porſi.io dunque li primi aiimenti; perciocchè dicono non aver midolle i Lioni ; il che an che credendo ad Ariſtotele il Mazzoni , ricorre per difen der l'Arioſto , giuſta il ſuo coſtumein quella ſua infelice di feſa di Dante, a ſottigliezze così vane , e puerili , ch' egli ſteſſo vien aſtretto a chiamarle altrove ſofiſtiche , e cavillo fe : Ma non meno ſciocco è quell'altro crror d'Ariſtotele , diccndo egli aver i Lioni così dure , e falde l'offa , che fre gandoſi inſieme, agevolmente ſe ne tragga il fuoco ; non altri oli 12 ull Do le Gggg 602 Ragionamento Ottavo altrimenti , che avvenir loglia nella pictra focaja . Ma ciò manifeſtamente fperimentoſli falſo in que' menzionatiLio ni d'Afnia , i quali comechè fortis e gagliarde l'offa avelle ro , non però di meno per diligenza , chevi fi adoperaffe , non ſe ne potè trar mai picciolisluna ſcintilla di fuoco ;, fen zachèſe ciò pur foſſe vero ,non ne dovea però cavare Aria ftotele per via d'argomento l'invincibil durezza di cotali offa ; concioſliecofachè anco in fregandoſi due tron molto dure , e pieghevoli canne d'India , o due molliflimc ferole , o altri simili legniaccender ſi foglia il fuoco anzicorpi, che fian talmente duri,che in fregandoſi no li roinpano in qual che parte, non poſſono accender in niuna maniera il fuoco . Dice oltre a ciò Ariſtotele, eſfer l'olla del collo del Lione, comeanche quelle del Lupo non rotte , e partite , ficome tutt'altri animali le hanno , e poi per opera de’nodi con giunte ; ma tutte intere , e diſtefe in ſu lo ſchenale sì fat taméte , che in niun modo ſi poffan piegare; ma in ciò, oltre a Giulio Ceſare dellaScala ritrovollo in fallo ed apertame . te lo convinſe di bugiardo , il Borricchio ; dicendo, per ve duta fermamente di que’Lioni,quorum colla vertebris ſuis, & articulis pulcherrimè diſtincta erant . Finalmente afferma Ariſtotele eller l'orina del Lione di ſconcio , e ſpiacevolisſimo'odore; ondeavvien poi , dice egli, che i cani fiutar fogliono gli alberi, perciocchè il Lio AC, come il cane appoggia una delle coſce al pedal dell'al bero , quando e' vuole ſtallare ; c più appreffo ſoggiugne: e lafcia il Lionegrave , e iníopportabil puzzo negli avan zi de cibi , ch'egli divorar ſuole ; e ciò avvenir Ariſtore Je ſoggiugne dal peſſimofiato , che il Lione fpira; percioc che , come e narra , le interiora oltremodo putono al Lio ne . Coſa , la quale manifeſtamente da a divedere nõ aver mai Ariſtotele alcũ Lione aperto , o teſtè occiſo ,veduto.Ma troppo lúgo ne diverrei, fe tutt'altre novelle d'Ariſtotele in torno alLionerecarlo què voleſli; pchè tacerò acheciò, che: Ariſtotele fognò del Camclo ; immaginado egli ſu'l dolfo di quello ungrá gobbo ;non avvisādo, il Camelo no averlo maggiore deporci,e de'canize che quella eminéza,la quale nel DelSig.Lionardo di Capoa. 603 nel Camelo ſi ſcorge fia formata da'peli ; c ciò , che e' fogaz del Camaleõte,dicédo no averil Camaleõte ſangue , ſe no ſe vicino al cuore; ed eſſerdi carne prive le ſuemaſcello; e'l principio della coda. Ne addurrò per la medeſima ra gione i ſuoi ragionamenti dietro al Coccodrillo alle Aqui le , e ad altri molti animali, che manifeftamente per prud va ora falſiffimi eſſere fi ſcorgono ;e tuttavia da'famoſi ſcrit tori de’tempi noftri ne fon notati; me ſolamente è qucftas ventura del noſtro ſecolo ; imperocchè nc'traſandati tempi ancora v’hebbe degli affennati, e diligenti ſcrittori , i quali de'ſuoi groſi, e infiniti falli intorno alla ſtoria degli animali manifeſtamente Ariſtotele dimentirono ; ed Afinio Pollione, quel famofiffimo, e ſaggio oratore rivale di Mar co Tullio Cicerone , incontro a’lunghi volumi d'Ariſtotele ben diece libri compoſe della natura degli animali ; il qual fe pur egli affatto non era ſenza giudicio, e ſcimunito , ben è da credere , che con chiare, ſalde, e ragionevoli fpcricn že n’aveſſe fgannati, e ricreduti de' grandisſimi crrori prefi in quc'libri per Ariſtotcle : c più veritieramente narrata la natura, o le factezze di corali animalida lui ben conoſciu ti ; ma la rubberia del tempo netolle cotali fatiche. Ebé s'avvide ancheAteneo dell'infinite bugie narrate da Ari ftotele; ond’ebbe a dire ; con qual cura , ö diligenza , potè mai egligiugnere a fapere , che coſa fi facciano i peſci nel ma re , come dormano , e qual ſia il lor vitto ,o qual Proteo , o qual Nereo uſcito fuori del pelago alla riva andò araggua . gliargliene . Come gli porè effer noto lo spazio della vitae dell' Api, e delle Moſche ; ove mai potè vedere un' edere nata da corni d'un cervio ; e dopo aver narrato queſte , e cent'altre novelluzze da ridere , e da tenere a bada la bruz zaglia deʼlettori , dette da Ariſtorele in fu la ſtoria degli animali , riſtucco alla per fine di più annoverarne , trala fcio 1o, dic'egli , di narrar molte coſe,e multe,nelle quali ma nifeftamente lo fpeziale , cioè Ariftotele fi vede avere ſconcia mente delirato . Ma quanto al fatto della ſtoria degli ani mali , Io porto fermislima opinione, non effer vero ciò che narran dilui alcuni , e che buccinavaſigià ( ficome riferiſce Gggg 2 Arc 604 Ragionamento Ottavo . Atenco) nella ſua patria Stagira; cioè , ch'egli avuto aveſſe Ariſtotele dalla liberalità del Magno Aleſſandro , per po refla più acconciamente fornire ottocento talenti , che ſo condo la ragion del dottisſimo Budeo giungono alla ſom ma di quattrocento ottantamila ſcudi de’noftri tempi: e che per una sì glorioſa , e mirabil opera gli foſſer deſtinati , co me narra Plinio :aliquot millia hominum in totius Afic,Gree ciæque tractu parere juffa,omnium ,quos venatus,piſcatuſque slebant ,quibufque vivaria , armenta , piſcine , aviaria in cura erant , ne quid ufquam gentium ignoraretur ab ea quospercontando quinquaginta fermèvolumina de animali bus condidit. E’n queſto parer ini conferma in prima la va rietà degli ſcrittori in narrar queſto fatto ; imperocchè Elia no ſagaciffimo ſcrittore, e raro nell'inveſtigar le greche an tichità , dice , che la ſomma de’danari, non già da Alellar dro , ma da Filippo ad Ariſtotele foſſe ſtata donata . Co fazla quale affatto inverifimil ſi pare ; conciosliecoſachè a Filippo tra per le continue guerre , ch'e' fece in Grecia , e perle grandi impreſe , ch'e' diſegnava contro la poderoſif kima Monarchia Perſiana , gli faceva meſtiere, anzi d'accu mudar danari, che di ſpendergli,e ſcialacquargli in peſchie rejo vivaj , in uccellami , in cacciagioni , o ſomiglianci co fe. Aleſſandro poi ,priina d'incominciar la guerra contro Dario , ad altro certamente dovette badar , ch'a ſomigliã ti ſcacciapenſieri ; fcozachè non avea sì gran dominio daw poter ſeguire ciò,chc Plinio millanta ; manel tempo della guerra, oltrechè la cura dell'armi era valevole a fraſtornar gli ogn'altra impreſa egli di più era allor divenuto si nimi co d'Ariftotele , che per fargli onta, e diſpetto ,mnādò Am baſciadori , e doni a Senocrate ſucceſſor di Platone , e fie ro emulo d'Ariftotele . E dirò ancora , che ſe mai Ariſto tele ebbe parte ne’teſorid Aleffudro , in tutto altro certa mente l'aveffe inveſtico , che in acquiſtar notizia , e contez za delle coſe della natura . Neglimancò agio da farlozim perocchè egli era , come ne da teſtimonianza Tineo :760578 γαςείμαργον, έψαρτυτήν , επ σάμα φερόμενον εν πάσιν: cioè gram paraſito , e divorator delle più ghiotte vivande , ne fi ritene va di DelSig. Lionardo di Capoa gos va difvögliarſi di qualunque cibo. E in oltre non gli mann cò quel pizzicore , per cuii giovani male il loro avere ſpé, dendo , le più fiate miſeramente ne capitano ; e tinto s'in veſchiò nella pania , che per amor venne in furore, e matto ; e come narra Laerzio ,sì fortemente innamoroſli della con cubina d'Ermia , che a leicosì immolò , come a Cerere Eleuſina folean già fare gli Atenieſi ; e per tali cagionia tal ſegno di miſeria pervenne, che alla fine riduſſeli vergo , gnoſamente a tradir la patria a’Macedoni : poi tolſe a fare il foldato ,ove ne meno eſſendoviſi niente avantaggiato, vode le far borrega di ſpeziale; e anche per civanzarſi nonver gognavafi di vender quell'olio, ove in prima bagnandoſi avea depoſto le ſozzure tutte del corpo ; e con fimili ſtiti. chezze s’avvisò di dar compenfo per avventura agli ſcia facquamenti di quella prodigalità , con cui difperfe,e con fumò tutto il paterno retaggio . Io adunque mi fo a cres dere , ch'egli non nai vedefle notomie di morti , non ches di vivi animali ; e che folamente ne ſcriveſſe per udito yes per ciò , che ne’libri degli antichi fconciaméte forſe appre lo n'aveva , o immaginato . Perchèpoi così alla rimpazza ta confonde , é meſcola il tutto , ragionando de' nervi , es delle vene , cheben'a lui fi potrebbe adattare quel verſo di Orazio Delphinum ſylvis appingit,fluctibus apram . Così cgli follemente immagina naſcer i nervi ,e le venej tutte dalcuore ; il qual dice ſolamente eſſer quello , onde il ſenſo , ei movimenti negli animali fi facciano ; ne ad al tro fervire il cervello , fuor folamente , che ad alleggiare, e temperare l'abbondevol caldo del cuore . E ſomiglianti altre balordaggini , e fcipitezze narra : anzi maggiori affaiz in ſomma intorno alla fabbrica , diſpoſizione , ed ufici del le parti del corpo umano tanti,e tanti falli commiſe ,che ben potè dir Ateneo : coſe tali ſcriffe Ariftotele , parlando della ſtoria degli animali , 'che come dice il Comico , daglá ufcempiati ,e pecoroni quaſi a fravaganza ,quaſi a miracoloſ gredoro. E ben fi parc , che Galicno medeſimo foffeſi con lui portato modeftamente , anzi che no, allor che diſſe po + 1 CO Aria 806 Ragionamento Ottavo 1 1 4 co Ariſtotele conotcerti di notomia . E ben’a noftr'huopo di que' ſettanta libri, i quali, ſecondochè Antigono ne ſcriva, Ariſtotele intorno agli animali compoſe , ſolamen te que’pochi ſe ne leggono , che il tempone laſciò ; per ciocchè maggiori cagioni di fallare i ſuoi favorevoli avrebbono; fi enim ,dice ſaggiamente il Borrichio,compen dii peccata numerari vix poffunt, illa operis totius modo ex tarent , effent fortaſſis innumerabilia . E queſte adunque só ic gran pruove dell'ingegno maraviglioſo del divino Ari ftotcle queſte le riuſcite delle tante ſpeſe , del tanto aju to,ch'egli ebbedalla liberalità del grand'Aleſſandro? que Ite le ripoſte notizie, ch'egli acquiſtò dalle tante fatiches da lui durare ? Ma ſenza venir tinto buccinato , fenza tan ti ſoccorſi, e ajuti, o quant'oltre, non dirò Democrito, no dirò Eraſiſtrato ,non dirò Erofilo ,non dirò altri antichi, ma un folo Arveo ne'confini d'un Iſola riſtrerto, o quant'oltre avanzoſli , sì chemeritevolmente , e ne ſtupiſce l'aman ſa pere , e l'amira il preſente ſecolo , el celebrerà il futuro , Ma che direi noi intorno all'altre coſe della natura , cu gencralınére in tutta la filoſofia naturale ? Eglicosì ſciocco , e gocciolonc fu Ariſtotele , che diffidandoſi di parteggiar lo in ogni ſuo fallo,iſuoi medefimi ſeguaci,talor vergogno ſamente l'abbandonarono . E per nulla dir de' Greci ; o d' Avicenna , d’Algazele , e d'altri Arabi filoſofanti,qualno ftro buon peripatetico per Dio fu così teſo, e oſtinato ,che talor da lui apertamente non fi partiſſe ? cper tacer d'altri, ilBeato Alberto , lume della Criſtiana ſapienza , e della venerabile Ordine de'Domenicani , avendo l'opere d'Ari ftotele ſpiegate , niuna delle ſueopinioni approvar volle; anzi così proteftando i ſuoi ſentimenti alla per fin conchiu de: in his nihil dixi ſecundum opinionem meam propriam , fed juxta pofitiones peripateticorum ; & ideo illos laudet , velre prehendat, non me.E quel gran maeſtro in divinità e in peri patetica filoſofia Benedetto Pereira della Compagnia di Giesù , il quale in quel ſuo libro de rerum naturaliums, principiis , dopoaver largamente conſiderati i poco fermi argomenti, c fillogiſmi , con cui le coſe dubbic , e incertes . fievo Del Sig.Lionarda diCapaa. 607 fievolinente egli tratta, cosi:della ſua natural filoſofia dice: doctrinam rerum naturalium , quam nobis fcriptam reliquit Ariſtoteles , fi quis velitbeneſentire , propriè loqui, nous poteft dici abfolutè ,din totum ſcientia ; perciocchè riguar dando alle fondamenta di quella, e ravviſandole ,che falſe, e che dubbie, e malamente con falde, c naturali ragioni raf fermate, ficome il medeſimo Ariſtotele teſtimonia, dicendo eſſer quelle ſolamente dialettiche : ragionevolmente poi e': ne tragge, e conchiude alla fine: quum igitur phyſica Arifto telis fit falfa pars , pars autem topica tantum probabilia .. contineat, non poteft dici abfolutè, & in totum fcientia . Ma acciocchè perciaſcuno ſcorger (ipoffa , quanto inu tile , quanto vana, quáto priva d'ogni falda dottrina egli ſi fia la filofofia d'Ariſtotele , conviene innanzi tratto da più alto principio imprender la cola . Dico adunque , che per due ſtrade ayviar fi foleano coloro, che agognavano alla ſublime altezza della natural filoſofia pervenire ; una , ches quantunque falli , è nondimeno agevole , e piana, echiun que per quella prende il camino , non fida cura veruna di cſaminare, e riandare minutamente le coſe naturali, ma sē . preinai fe ne ſta fu l'univerſalità de'termini , e de' vocaboli, quali a ragionar di tutte apparenze della natura ſenza du rar molta fatica adattar ſi poſſono ; e comechèſembri, che tutto dicano , che tutto ſpianino :impertanto , altro non ſo no veramente eglino,ſalvo che vanillime ciance,fra le qua li non altrimenti che ſi faceffero un tempo , ſe'l ver dice l' Arioſto , que’franceſchi, e faraceni cavalieri nel palagio in cantato d'Atlute aggirar tutto dì veggiamo confuſi gl'in cauti, e poco avveduti, fenza mai venir a capo d'alcuna ve rità ; ma l'altra ſtrada, quanto più erta,ſtraripevole,e ardua, altrettanto nel vero è più nobile , e più gloriofa . Queſtas calcar generofamente li videro i diligenti inveſtigatori del le coſc , ei ſavj interpetridella natura ; i quali diſcorrendo regolatamente , ed offervando con diligenza , guatavano quaſi a ſpiluzzico le coſe naturali. Dopo queſti incomin ciarono a poco a poco ne'tempi ſeguenti gli altri a traviac da queſto diritto ſenticro , ed a tenere la falfa ſtrada ;o che ſe'l 608 Ragionamento Ottavo fe'l faceſſero perdebolezza d'ingegno, o per non durar fiatica,o p vana ambizione di farſi capi più tolto in quel cores rotto modo, che eſſer ſeguaci degli altri nella vera, c legit tima maniera di filoſofare . E fu tanta certamente loro ſchiera , e sì copioſa, che ben pochi ne rimaſero nell' arin go del buono filoſofare ; di cui potrebbe ben dirdi Pochi fon , perchè rara è vera gloria : i quali per quelche già da quelle ſcarle memorie , che noi rabbiamo comprender fi poffa, furono Anafſagora,Empe docle , Leucippo , cd altri pochi, Che colle dita annoverar fi ponno; perchè ragionevolmente ebbe a dire quel ſatirico : Rari philofophi: numerus vix efttotidem ,quod Thebarum porta , vel divitis oftia Nili. Ma ſopra tutti l'incomparabile Democrito adeguando il tutto col ſuo vaftiliſimo ingegno (ini giova dirlo colle pa role di Petronio Arbitro ) etatem inter experimenta con fumpfit ; e con principj veramente naturali, cioè a dir ſenli bili ,così maraviglioſamente ragionò di ciaſcuna coświ ch’alla natura appartener fi poffe , che a gran ragione nel vero Seneca dopo averlo detto antiquorum omnium fubtilif fimum ,antiſtitem literarum.ſapientiæ caput: a chiamar l'ebbe lingua della natura ; perchè non guari dopo venendo Pla tone, e diffidandoſi di poterlo col ſuo ingegno ragguaglia re, per uggia , e per invidia volle rabbioſamente dareallo fiamme tutte le divine opere di lui ; poſe in non calere co tal vero , e lodevol modo diſpecular diritcamente le coſe della natura, e con univerſali , c apparenti ragioni avvilup pò il cutto . La qual maniera difiloſofare, concioffiecofa chè agevol foffe , fu poi ſeguita,e abbracciata da ciaſcuno, rimanendo quaſi morta,e ſpenta la natural filoſofia ; ſe non ſe dopo la morte d'Ariſtotele levoſſi ſuſo il ſaggio Epi curo, ecol ſuo avvedutiſſimo ingegno ripreſe, e riſtorò la morta filoſofia , e la fece di nuovo fiorir ne' ſuoi doctiſſimi orti , ove rinaſcendo viffe , e morio . Perchè non ebbe il torto per avventura Dionigi d'Alicarnaſſo in chiamando il filoſofofar di quei tempi un vano berlingare , e cinguettar dives Del Sig.Lionardodi Capoa. 609 di vegliardi ozioſi , e ſcioperati , a ' giovani ignoranți. E Cleante ancora faggiamente ebbe a dire , che gli antichi aveſſero nelle coſe filoſofato ,ei moderni ſolamente in pa role . Qualdunquefia maraviglia , ſe così mal concia , malmenata la filoſofia , non potea vantaggiarli nella Grecia . Perchè ragionevolmente diſſe quell'Egeziaco San cerdote nel Timeo, chei Greci eran ſempre giovaniſlimi,e fanciulli: emlwes del muides is ' , gépur di enlew oux iso , certè ha bent, dice Franceſco Baccone , id quod puerorum eft , ut ad garriendum prompti fint; generare autem nonpoffint. Così perduta , e ſpenta la buona filoſofia , poco a capi tal tenendoſi i libri diquella , nc punto per huom riſerban doſi , o traſcrivendoſi, avvennc, che infra breve ſpazio di tempo con comune ſcoſcio delle buone lettere, affatto fi perderono ; rimanendo ſolamente que’libri de' yani çiarla tori, che al guaſto , e corrotto ſecolo erano in pregio ; ne? quali poteſe ben paſcerfi ,e nutricar l'ambizioſa vanità de Greci. Ea tanta caduta della buona filoſofia s'aggiunſes poi l'allagamento de'Barbari nell' Imperio Romano, nel quale andandone a ruba ogni coſa, que'pochi libri , che pur v'erano rimaſi, fi perderonſi,; e come dice il teſtè rap porcaco Bacconc , doctrina humana velut naufragium per . pefa eft; & philofophia Ariftotelis , o Platonis tanquam , tabula ex materia leviori , minus ſolida per fluctus tem porum fervatæ ſunt. I qualilibri dapoi imbolati, lo non ſo come , dagli Arabi ſi tramandarono inſiemecolla ſerya, e apparente filoſofia, come altra volta fu detto alle noſtre contrade ; e queſta è quella filoſofia ,che infino a' dì noftri con tanta loda è ſtata ſempremai ſeguita , e tuttavia nelle Icuole comunemente s'inſegna : e a cui dicevam , che già poneſſe le prime fondamenta Platone; il quale avvegna chè ravviſaſle il yero , e diritto modo difiloſofare: percioc chè difficil molto , e malagevole gli ſembrava a ſeguirlo , lalciofſi talora anch'egli portare alla corrente de' ſofiſmi Ma non però di meno non laſciò talvolta il vero modo di filoſofare ; comeagevolmente egli ravviſar fi puote ne'ſuoi Dialoghi , e malimamente in quello , ch'egli intitola il Ti Hhhh . . meo, 610 Ragionamento Ottavo meo , o della natura . Perchè ben ſi pare , ch'egli ſaggia mente foſſeli attentato di gir anche per quel medeſimo sé tiero , per cui già Democrito , e gli altri primipadri, e ve rije ſovrani maeſtri della filoſofia avviatiſi erano ;ma come sébra ad Ariſtotele, no ſegui egli troppo felicemente l'im preſo aringo, e di gran lunga a Democrito addietro reſtoffi. Πλάτων μεν , fono parole d'Ariftotele, περί γενέσεως έσκέψατο,28 φθοράς όπως υπάρχει τοϊς πάγμαστεκαι σερί γενέσεως ού πάσης , αλλα της ή στοιχείων πώςδε σάρκες, ή όσα και η άλων και των τοιούτων , ουδεν·έτι , ουδε . περι αλοιώσεως, ουδε περί αυξήσεως, ένα τρόπον υπάρχει τους πράγμα στν · όλο- δε παρα τα έπιπολής περί ουδενός ουδείς επίσησεν , έξω Δημα reíte ;cioè Platone cöfiderò la fula generazione e'l corrõpimēta delle coſe;ne già di tutte,ma degli elemêtifolamēte; trabaſcia doariguardare , come formifla carne , el'offa, e gli altrifo miglianti corpi; ne demutamenti , o come s'accreſcano,o pig giorino cotai corpi feceparola alcuna. Finalmëte nonfu niuno , fe non ſe alla rimpazzata ,e lentaměte, che ragionaſſe mai de' mutamēti delle coſe,da Democrito in fuora .Ecomechè que Ito riprédiméto fatto da Ariſtotele al ſuo maeſtro egli sébrë all'intendentiſſimo Patrizio un manifeſto , e falfſſimo appo ſtamento , e maladizione dell'invidia dilui; pur non ha tut to il corto Ariſtotele in così fattamente ragionare ; imper ciocchè quantūque Platone in molti luoghi delle ſue ope re baſtantemento favellato aveſſe della generazion delle pictre , de'venti, delle gragnuole , de’nuvoli,del criſtallo , della neve , della rugiada ,delvino, dell'olio , e d'altri fi ghi: e ſomigliantemente filoſofato de ſapori, degli odoris e de'colori delle coſe , e detto altresì de’mutamenti e degli accreſcimenti di quelle ; e quantunque anche ſpezial mé. zione aveſſe fatta della carne , e dell’oſsa , ecome quelles s'ingenerino; pur no così addētro innoltroſi ne'ſuoi ragio namenti,che toccato aveſse diſtintamente, come con que? ſuoi quattro corpi fi doveſſono mai formar cotante coſe ; perchèparve,ch'egliaveſse cominciato a filoſofar colmo do vero , che ſi conveniva ; ma poifmagato a mezzo corſo foſſe ricoverato all'apparente . E queſto è quel , che vuole dir di lui Ariſtotele, biafimatone a torto dal Patrizio nella dife . DASig. Lionardo di Capoa OIT difeſa del ſuo Platone . Ma fu egli anche Platone traſcu rato a ſpiegar comeſi doveſſero partire, o accozzar que fuoi primi corpi , pereffer valevoli a produrre negli organi de' noftriſentimenti gli odori , e i ſapori, e i colori delle coſe ; perchè ragionevolmente ſoggiugne Ariſtotele , niun maeſtro in filoſofia , fuor ſolamente Democrito , aver ad dentro ſpiato fino agli ultimi fondi i principj delle coſe . E ciò agevolmente fi può comprendere dallemedeſime paro le di Platone; il qual così nel ſuo Timeo dice: To dº osoīvowle φησιν ώδε γίώ διατρήσας καθαρgν , και λείαν ανεφύρgσε, και έδευσε μυε λώ , και μετα τούτη άς πύρ αυτο εν τίθησι μετ' εκείνο δε εις ύδωρ βάλει και πα Αιν δε εις σύρ,αύθις τι εις ύδωρ"μεταφέρον δ ' ούτως πολάκις εις εκάτερονυπ ' se je Dowăsnutev dzepyáo mo. L'offo vēne formato in queſta guiſa; minuzzădo in prima la terra pura , é netta,meſcolalla , e inu midilla colle midolla ;quindila poſe nel fuoco;quindiattuffolla nell'acqua;quindidinuovo la poſe nel fuoco;e cosìriponendola molte frate or nel fuoco , or nell'acqua , sì, e tanto fece , che dell'acqua, e del fuocoquello alla per fin venne a ingene. rarfi . Or chi domine , non direbbe con Ariſtotele , eſſer que. Ito filoſofare alla groſſa colle fole parole , ſenza veder più in là , che la ſola buccia delle coſe perciocchè ſe la terra , come vuol Platone , era pura , e ſchietta , non era , meſtier certamente di sbriciarla ; che ſe i cubi, de' quali, ſecondo lui, ella è formata , così ammaſſati, e riſtretti ſta vano , che ſegnale alcun di partiinento non avevano , già quelli veritieramente non eran mica da dir cubi ; e ſeguen temcntc non era dadir terra quella , ma una cotal maſſa , che tritata , e minuzzata così ſe ne poteva formar terra , come acqua, comeanche qualunque altra coſa del mondo, ſecondo le particelle ,in cui partir ſi poteva . Perchè me ftier certamente non era d'accattare altronde fuoco , o ac qua per lavorar quaſi in fucina , temperando l'oſſo,ſe tutto abbondevolmente in ſe aveva . E ſe i cubi eran partiti , e affacciati nella lor debita figura , che coſa mai potea cosi divili, e sbriciolati tenergli non il vuoto,che perlui coſta - tcinente ſi niega ; non altra diſcorrente ſoſtanza , e irrego Hhla h 2 lar un 0121 Ragionamento Ottavo Jarmente figurata ; imperocchè ne diquattro foli corpiscos meegli vuole verrebbono a comporſi le coſe cutte del mo . do ; ne la terra pura farebbe, e da niun'altra coſa non tra meſtata . O forſe i già detti cubi poteva il ſolo moto tener diviſi ? nia dovendo ciaſcun di loromuoverſi,ed eſſer d'ogni banda ſceverato oltre molte altre inconvenienze , n'occor re queſta, che non già un corpo ſaldo , ficomeè la terra : main diſcorrente verrebbero a comporre. E lomigliāte anchea queſta maniera di filoſofare fu quel diviſamento del medeſimo Placone intorno alla generazion . della carne , e de' nervi;ch'egli narra nel medeſimo Dialo go del Timeo ; il qualccrtamente non è altro , che una va ga , e ben compoſta diceria ; che con vane parole allettan do i ſemplici , e poco intendenti delle coſe naturali , fa, ch egli faccia ritratto di gran filoſofante Al vulgo ignaro, & a l'inferme menti. Perchè non haegli il torto Ariftotele in dir ,che il ſuo mae ftro non trapalli più , che la prima buccia delle coſe in filo fofando , e nons'immerga troppo ne'naſcondigli più ſco noſciuti della natura . Di più , dice Ariftotele , e libera mente confeffa , che ſciogliere i corpi fino alla lor ſuperfi cie , come fa Placone , ſia coſa affatto ſconvenevole ; per ciocchè dalle ſuperficie non ſi poffono generar qualità , altra cofa , ſe non folamente corpi faldi ; il chepuò ben far Democrito co’fuoi acomi. E non molto dopo ſoggiugne : Democrito fembra aver certamente ſpecolata con propia, e convenevol ragione la natura delle coſe . E comechè in parte ingannaſſefi Ariſtotele in ciò dicendo ; perciocchè bé fi ſpiega nelTimeo , come talora il caldo s'ingeneri ſenza ricorrere alla ſuperficie : non però di meno ha egli per al tro non poca ragione in biaſimarne il ſuo maeſtro, ſembraa do a ciaſcun ' ch’abbia ſenno , ſoverchio alfai , e ſconvene vole quello ſcioglimento de corpiinfino alla ſuperficie . E noi , le il tempo ce'l concedeffe, ne ragioneremmo per av, ventura più alfai , e forſe altrove ne diremo ; ma non è al preſente da traſandar , che ſei quattro corpi di Platone poſſono più ſottilmente ſtricolarli , e minuzzarſi in altre fi gure 1 1 Del Sig. LionardodiCapoa 013 1 ' 2 gure', come ſi pare,ch'egli in qualche fuogo de'ſuoi ſcritti accennar voglia ; vano certamente , e foverchio è a dire , che que'cotali corpicciuoli colle lor figure , e facce dean cominciamento alle coſe tutte del mondo ; e non più tolto un ſolo corpo , il qual poi in molti corpicciuoli di moka te , e varie figure partito foſſe . Ma fe pur vogliams contendere , che ne ftritolar , ne partire in modo niu no que' corpi li poſſano , lo .non fo come quattro cor pi ſolamente a formar tante , e tante diverſe coſe , che noi ci veggiamo , baſtanti pur ſiano . Ne meno fo lo certa mente comprendere , come poffan que'quattro corpi cial cun luogo affatto ingombrare. Il che anche avvisò Ariſto tele; comechè egli troppo fanciullefcamente in ciò fallaffe, portando opinione , che le piramidi foffer valevoli a riem piere ciaſcuno ſpazio ; nel qual manifefto errore ſmuccian do poi incorfero dietro a luituttiſuoi interpetri, e feguaci; e ne fur forte biaſimati dal P. Giuſeppe Blancani , e prima di lui da Gio: Battiſta de' Benedetti e dall'impareggiabil Geometra Franceſco Maurolico. Ma in cotanti fdruccioli, e malagevolezze abbattendo fi l'avvedutisſimo Platone , riſtando in fu le primeormes del ſuo ſpeculare,non ebbe ardimento d'innoltrarſi d'avā . taggio ne'maraviglioſi ſegreti della natura;e quaſi nocchier rotto per tempeſta in mare, che lentamente vada ridendo i più ſicuri lidi , non s'arriſchio d'ingaggiarſimaggiormen te nell'aſprezze del filoſofare , e folo andò pian piano, e có ritegno palpando le prime facce delle coſe . Ne ciò ba Stando a renderlo ſicuro da' pericoli , non volendo ne ans che affermare alcuna , comechè leggeriffima cofa , feces quaſi in iſcena comparir perſonaggi a favellar diverfaméter ciaſcú ſecodo il ſuo ſentiméto , delle coſe del mondo,e for mò Dialoghi,e ragionamenti in nome altrui per ceſſare i m ordimenti delle varie ſcuole della filoſofia . Ma lo ſcal trito , e fagace Ariſtotele all' apparence filoſofia con ogni sforzo , e con tutto lo ſtudio del ſuo ingegno riyol gendoſi , cercò artificioſamente la coſa naſcondere : e tanto operò , che venne in grado di primo filoſofante del mon 614 Ragionamento Ottauo mondo appreſſo il vulgo;ma qualeſi foffe il ſuoartificio lo brevemente vi dimoſtrerò . Compofe egli quel libro cotão to pregiato da' ſuoiparziali, nel quale delle ſole cores aſtratte impreſe a favellare : e ad eſemplo degli antichi, or di Teologia, or di ſapienza , or diprima filoſofia altiera mente chiamollo ; i quali titoli fur tutti poi da' ſuoi inter petri nel ſolo titolo della Metafiſica cambiati . Intorno al qual libro ſarebbe molto da dire ;ma chi pur n'è vago di qualche contezza , vegga Franceſco Patrizio, e MarioNi zolio , e Pietro Ramo ilquale con l'uſata ſua libertà ,e di ligenza eſaminandolo , trovollo alla fine non eſſer altro , che la medeſima loica d'Ariſtotele , con diverſe parole , e nuovo ordine travolta : e una ſconcia , emalcompoſta me ſcolanza , e guazzabuglio di ſoli vocaboli; perchè manifc ftamente avvedutofene Nicolò da Damaſco , il cui faggio intendimento iguale a quel di Teofraſto , o d'Ariſtotele medeſimo fureputato , comechèegli de'parteggianti d'A riſtotele , c Peripatetico ſi foffe: pur giudicollo inucile af fatto alconoſcimento delle coſe ; e de'medeſimi ſenti menti fu anche Plutarco . Ma che che di ciò ſia , immagi nò Ariſtotele aver baſtantemente con cotal libro dato a divedere , ch'egli aveſſe diſtintainente diviſato delle coſe univerſali, e ſtratte , per non doverle poi meſcolar colle fi fiche , come avean fatto gli antichi,i quali perciò ne furda lui gravemente biaſimati,e ripreſi: comechè a torto, fico mei medeſimi ſuoi peripatetici confeſſano . Ma poco cer tamente in ciò approdogli la ſua ſcalterita avvedutezza ; perciocchè non è huomo tanto quanto intendente delle coſe del mondo,ch'abbattendoſi ne' libri della ſua natural filoſofia non s'avviſi tantoſto a’primi foglieffer quella tutta apparente , e ideale , ne ſerbare in fe coſa alcuna di ſaldo. Pur piacque oltremodo a no pochi sì fatto modo di ſchera zar filoſofando, parendo egli vago aſsai , e ingegnoſoallas ſembraglia de'giovani ; i quali s'avviſavano concotali va ni , e folli diviſamenti, e millanterie già pienamente ſaper tutto , quando per avventura non ſapevan nulla.E la ſcioc ca torma del popolo vi pur correva , maravigliando ſom mamen Del Sig.LionardodiCapoa. 818 mamente di cotanti termini ſtratti , e fantaſtichi, comes nuovi , e non ancor comprehi dagli ſcolari di baſſo inten dimento , e da dover richieder più profonda , e ſottil dot trina , checoloro non aveano ; Semper enimſtolidi magis admirantur, amantq ; Inverfis qua fub verbis latitantia cernunt. E per maggiormente farci veder la luna, come ſuoldir fi, nel pozzo, cominciò eglimalizioſamente a voler ragio nare di coſe naturali; e in ogni ſuo capo imprende a dir có qualche menoma faldezza di vera filoſofia; ma toſto ricor re agli uſati fofifmi,non iſpiegando mai nulla di vero ,ne manifeſtando qual foffe la natura delle coſe, di cui egli fa vella ; ne come di nuovo naſcano , o yengan meno , ne co me patiſcano, o operino nel mondo . Al che riguardando infra gli altri Plutarco, comechè egli non fofse cotanto ſao gace, pur delle vane ciace di lui avveduto; l'allogò di gran lunga dietro al divino Democritose co-maggior ragione in vero di quella pla qualeAriſtotele al fuo maeſtro Platone medeſimaméte Democrito átepofto avea. Ne in ciò cota to teneri , .e parzionali d'Ariſtotele i moderni filoſofanti fono , che reſi talvolta avveduri de'ſuoi trafandamentisan che i pià cari ſeguaci di lui, forte non l'accagionino: e infra gli altri quell'avvedutisſimo fuo Chioſatore , il Padre Ni colò Cabbei; il quale,comechè peripatetico di gran rino meanpur volle apertamétemanifeſtarlo in chiosådo le me teore del ſuomaeſtro.Quia iſte Philofophus ( dice ) maximè pollebat ingenio metaphyfico , edapprimè ei arridebatphilofo pbariper metapbyficasabſtractiones : ubi adres phyſicas de venitur , quia ad hos ingenio fuo nonferebatur, ingenii vires nonacuit ; ed in un altro luogo : Ariſtoteles magismetaphy ficis obſervationibus affuetus , quam phyficis obfervatur. E finalmente egli conchiude : fed fenties in rebusphyſicis Ari Stotelem non potuiſje metamſapientiæ attingere. Enelvero chi ſarà maicolui , che riſtucco forte , e faſtie dito delle ſue vane dicerie no'l biaſimi , e rimproveri, rin venendo in lui più , e maggiori tacce affai', che non vi rava viſa il Cabbei? Egli primieramente togliendo ad imitazio ne d'O 616 Ragionamento Ottavo ned'Ocello Lucano(ſe pur egli è l'autore di quel libro ,che gli viene attribuito ) e diPlatone, oſia di Timeo, a fabbri. car la grandiſſima maſſa dell’Vniverſo tutta fantaſtica, tut ta metafiſica , e apparente , prele per principi delle coſe sé. fibili , e vere , terminitutticonfuli, e generali , e da' noftri sétiméti affatto rimoſſi;del che forteegli è da accagionare ; mallimamente , ch'egli medeſimo avvisò pur una fiata , do ver delle coſe ſenſibili effer ſenſibili parimente i principj ; e ciò cotanto egli giudicò vero , che preſene ſconciamente a carminare gli antichifiloſofapti. Egli ſono i principi , onde Ariſtocele vuole , che forma te le coſe tutte ſenſibili ſi foſſero , così larghi, e lontani, che ben yi ſi poſſono agevolmente ricoverare curci que'fiſici principi , che varic, e diverſe ſchiere de'filoſofanti,così an tiche, comemoderne alle coſe naturali impongono . E ciò ben ne diedea conoſcere il famoſo ChenelmoDigbinobi lillimo filoſofante del noſtro ſecolo , allor che con lodevo le artificio volendo prender gli oſtinati ; e provani peripa terici, fece ſembiante d'effer anch'cgli cocale . Il qual arti ficio dopo il Digbi , molci valenc'huomini d'uſare anche ſi Audiarono . Ma laſciando ciò al preſente ſtare , non iſpie gando mai Ariſtotele ciò , che in fiſica ſia quello , a cuive ramente poſſa adattarſi quella generale , e confuſa ſua difi zione della materia , e della forma:nulla certamente ad in ſegnare e' viene . E nel vero , chemonta per Dio a ſapere, che ciò che di nuovo in queſto vaſto teatro del mondo ap pariſce , e s'ingenera, e li forma, non era in prima tale, po tendo eſservi ? ed ecco la gran maraviglia , naſcoſa in prima a tutt'altri antichi filoſofanti, che egli con tante bel faggini millantando innalza , chiamandola privazione; più ragionevolinente forſe da Platone detta occaſione, e non principio delle coſe . Ma che direm noi degli altri due non men ridevoli principi delle coſe , cioè a dir materia , e forma , ſopra le quali fondamenta egli la generazion tutta dell'univerſo va fabbricando ? Poveri filoſofanti antichi; voi per iftudio , e ſudori non ſapeſte trovar diviſamenti sì bclli ; Ariſtotele ſolo ſeppela nateria delle coſe cſser po 1 tel  tenza , overo in potenza a divenir tali coſe , e la forma alla per fineeſſer un cotal-atto , che dandoalla materia perfe zione , la mandi avanti , e la faccia eſfer propiamente tale . E queſto è quel, che con tanti riboboli , e aggiramenti , e lunghe dicerie eglide’principj delle coſe ragiona . Ma per Dio , ſe non fi fa in che conſiſta la fiſica natura della mate ria , cioè a dire iti cui cada cal potenza a divenir quefta , o quell'altra coſa ., come potrà mai ſaperſi poi la fiſica natura della forma , e ciò che abbia afarſi , acciocchè la materia imprender poffa o queſta , o quell'altra diterminata coro per informarſi ? e ſe queſte pur non ſi fanno , comepotrā . mai ſaperſi le qualità , l'opere , e le paſſioni delle coſe., come, e che, c perchè l'operazioni ſortiſcano ? Se a giovane , il quale apparar voleſſe a fabbricar glio riuoli ,dopo molte , e molte vaneciance e' diceffe per fine il maeſtro : attendi figlio , e nota ben tutte mie parole , ch' Jo brievemente ora intendo di manifeftarti il maraviglioſo modo da compor gli oriuoli : egli primieramente convienu ſapere., che l'oriuolo fabbricaſ d'una cotal coſa , che non è mica già oriuolo ; perchè ſe oriuolo ella già foſse , non potrebbe divenir oriuolo ;ma agevolmente ella può venir oriuolo per.coſa acconcia a farla co effetto coral divenire: certamente ,che udédo cotali novelle lo ſcolare, e avveden doſi d'eſler uccellato , Goaffe direbbe, maeſtro voi dite bene; ina quel che lo volea ſapere Io ,era qual coſa è quel 12 cotal materia , che voi dite non eſser mica oriuolo, ina agevole a venir tale ; e quali ſono quelle coſe , per le qua lidivien tale ; ma non ritraendone alla fin riſpoſta , fe pri mieramente di faſso, o di legno ,o di ferro,od'altro l'oriuol fi debba comporre ; e poi con quai mezzi , e lavorj ſi fac ciz, ſchernito , ed ingannato il ' laſcerebbe colla ſua mala ventura . Or così appunto ſcherniſce , e beffil Ariſtotcle . i luoi peripatetici. Ma Eudemo un de’più cari, e più famoſi ſcolari d'Aristotele , ponendo in non cale l'autorità del maeſtro , çome in altre coſe già fatto aveva , diſse la materia delle natura li coſe eſser vero , c propiamente corpo ; la qual ſentenzas fu poifermamenteabbracciata da quel famoſo , e ſortii pe Iiii 018 Ragionamento Ottavo 1 ripatetico noſtro ItalianoAndrea Ceſalpini.Ma comechè il Cefalpini in ciò moltoſi ſtudiaſſe , pur non ritrovandolive Itigio alcuno dell'opere d'Eudemo, ove appiccar fi potef fe , reſtò di farſi più avanti , e l'impreſa in ſu'l buono abbadono . Nemenopotè ſeguirſi il diviſo d'Averroe intorno a cotal biſogna ; il qual diſſe doverſi aſſegnare alla materia , comeaccidentile dimenſioniincerte, e indeterminate; per chè non potendoſi a niun partito ſcufare ciò , che dice Ariſtotele intorno alla materia ', ne men riparando in par te gli errori di lui , con iſtorcere , e piegar le fue parole in altri , e diverſi ſentimenti, ragionevolmente il bialima , e'l proverbia il dottiſſimo greco Padre S. Baſilio Magno,dice do : ſe la materia d'Ariſtotele eſsendo incorporea non è , ne: che, ne qualc , ne quanto, ſarà certamente ella , come S .. Giuſtino parimente conchiudc, unacoſa.finta : cioè a dire: una fantaſima, una chimera. Ma avviſando pure Ariſtotele , che in sì fatta maniera fia. fofofandode primiprincipjdelle coſe; perdeva affatto il no me di natural filoſofante, ricorre finalmente', ma troppo tardi a coſe ſenſibili ; e pone egli i quattro volgari elemen ti , come ſecondi principj decorpidiquaggiù; ma non ave do ſpiegata la fiſica natura della materia, e della forma,on de fecondo lui compoſtivengono gli elementi, no può ſpie gare ( come avea fatto in prima Empedoclc , Tinco;e Plizo tone, componendogli dipicciolillimi corpicciuoli) natu ralmente procedendo , la vera eſſenza diquelli ; perchè gli va diſegnando', e deſcrivendo colle lor qualità ; maegli poi , come a natural filoſofo conveniva fare , le nature del le qualità non infegna; anzinepure dar briga ſi vuole d'in veſtigarle ; ed appenadeſcrive , rozzamente narrando al cunipochi loro effetti aperti , e manifeſtiad ognuno ; ed'in quegli anche talora sì ſconciamente e'fallar ſuole', che nul fa più ; ficomeallor , che francamente egli afferma, che'l freddo uniſca tutte le coſe diqualunque genere elle ſi lie no ; e pur dovea egli avviſare , che'l freddo ralora coniſce. mare il movimento all' acqua , chenon le facea calare a fondo , ſepara quelle coſe , che non convengono nella gra. vità, Del Sig.Lionardo.di Capoa : 619 vità , e.che di diverſo genere ſono . Così parimente erra Ariſtotele allor chedice , il caldo fceverar le coſe , che di diverſo genere ſono,, da quelle , che convengono inſieme nel genere medeſiino ; imperocchè uficio del fuoco ſia col fuo rapidiſſimomovimento di ſceverar l'unedall'altre, cut te le coſe ,, che ſiano di qualunque genere , comechè talo ra ( il che ingannòAriſtotele )ritrovandoſi rimoſſo il cal do , non vieri, che le coſe più gravi calando più giù ſi ſepa rino dalle men gravi . Manon meno fallar {i vede Ariſto tele allor che egli imprendendo a narrar la natura dell'us mido , definiſce contro a'ſuoimedeſiınidiviſamenti la ſpe zie colla definizione del genere; dicendo : ma l'umido è quello , che dileggieri ricevendol'altrui termini, non può in ſe ſteſso.contenerſi: uygóv dè , tè dóessevoixdin õp.com evőeisov or. E no ha dubbio , che una coral definizione non avvegua al di fcorrente , di cuiegli è ſpezie l'umido.; poichè il diſcorren te altro non ſignifica , ſe non ſe quel.corpo, il quale diſcor re , s'inſinua , e penetra agevolmente , compreſo cede's e non fa reſiſtenza ; perchè non eſſendo da ſe terminato prende dileggieril'altrui termine . Ma l'umido , oltre a queſto s'avviticchia in sì fatta guiſa a ' corpi ſaldi,che:ſi ré de ſenſibile ; laonde altro.nonè , ſe non che una ſpecie di diſcorrente . E fe l'umido pure è tale , quale il ci.deſcrive Ariſtotele, certamente egli non dovrebbeſi poſcia dirſi fec , .co.il fuoco.con Ariſtotele , maumido; anzi umidiflimo con Bernardino Teleſio , ed Antonio Perſio converrebbe chia marſi . Ne vale a pro d'Ariſtotele ciò che dice Giacomo Zabarella , l'umido convenire in qualche guiſa al fuoco , no già per ſe , eſſendo il fuoco ſecco per fe, ma per accidente : cioè ricevere agevolméte il fuoco il termine altrui,non già per la ſiccità : non convenendo il ciò fare a tutti i corpi fece chi : ma per la tenuità delle parti di quello ; anzi contra ſtando la ficcità del fuoco a quel corpo, che terminar lo yo leſſe , avvien , ch'egli non riceva così agevolmente, come i corpi umidi far fogliono , il termine altrui . Ma ſc noi il contrario ſperimentiamo di ciò , che dice il Zabarella , adattandoſi aſſai più dell'acqua , cdell'aere il Iiii fuo ز 2 620) Ragionamento Ottavo fuoco a quel termine , che da altri corpi preſcritto'gli vie ne : oltre ad ogn'altro elemento umido dovrà dirſi il fuoco; che non per altro nel vero Ariſtotele, e i ſuoi ſeguaci affer inano cfler aſſai più dell'acqua , e fominaméte umida l'aria , perchè ſe la ſomma umidità conviene al fuoco , egli non aurà certamente parte niuna in quello la ſiccità ; laonde ne anche per accidente il fuoco potrà ſecco mai dirſi. Enel vero la narrazione del fecco da Ariſtotele rapportata,in cui egli in vece del ſecco par che deſcriva il corpo ſaldo, in di cendo , il ſecco eſſer quello , che ſi contiene agevolmente da ſe ſteffo , c malagevolmente prende l'altrui termine : Engordà , no evóerson pèr cireiw opw , duodessor dè , egli non può con venire in modo veruno al fuoco . Or come adunque il Za barella oſa affermare , che'l fuoco fia per ſe ſecco ? Oltre a ciò,ſe'l fuoco è per ſe tenue , ſarà anche per fe umido i e ſe il tenue, per quel, che ne dica Ariſtotele ,è ſpecie dell'u mido , e’l fuoco non ſolamente da per ſe è tenue , ma nella tenuità l'aria , non che gli altri elementi,vince d'aſſai; con verrà ſenza fallo confeſſare giuſta la dottrina d'Ariſtotele , per fe ,e vie più d'ogn'altro elemento eſſer umido il fuoco . Ma vorrei faper quì da Giacomo Zabarella , e da Ar cangeloMercenario , che volle darſi ſpezialmente una si fatta briga: onde , e come potraſli giugnere mai a ſaperes che'l fuoco fia ſecco forſe daglieffetti ? ma ond'è, che il folc , per tacer d'altri, giuſta il ſentimento d'Ariſtotele non è altrimenti caldo , comechè produca calore ? ſenzachè il fuoco, come afferma Ariſtotele medeſimo,ſovente ingenc rar ſuole l'umidità ; come nel ghiaccio , ne'metalli , einu altre coſe molte ſcorger e' li puote; e ſe ogni qualunque corpo , o pure i più di eſſi ,fi poſſono fondere in vetro , chi ardirà di dire , che'l fuoco non ſia valevole a inge nerar l'umidità > E fe mai tutte le coſe , o la maggior parte di eſſe in vetro per ſua opera fi cambiaffcro , non di rebbe ciaſcheduno , che'l fuoco le rendeſſe umide primadi fermarle in vetro ? oltre a ciò allora quando l'acqua, ſecon, do Ariſtotele immagina , vien dal fuoco cambiata in aria, certamente quella maggior umidi à , per cui aria l'acqua divie Del Sig.Lionardo di Capoa. 621 diviene, in lei s'ingenera dal fuoco . Ma forſe ſarà ſecco il fuoco , perchè, come fcioccamente ſi da egli ad intendere un barbaro autore, ſi ſente da noi ſecco ? Ma dal noſtro sé. ſo apertamente ſi ſcorge, che il fuoco ha tutte le propietà agli umidicorpi da Ariſtotele attribuito. Ma forſe per fi nirla argomentar fi potrà la ſiccità del fuoco dal ſuo calo re ; ma eſſendo propio del calore , comc Ariſtotele dice , il rarificare , certamente da ciò umido più coſto , che fecco dovrebbe il fuoco argomentarfi. Dice altri , Ariſtotele non l'umido , ma il diſcorrente aver definito ; e che fi legge umido nelle fue opere , per colpa di coloro che dallaGreca nella Latina favella trasla tarono i ſuoi libri ; poichè eſſendoſi valuto e’della parola sygov nella menzionata definizione , che appo iGreci ora ſignificar vuole qualſifia corpo difcorrére, or fi riſtrigne ad aſprinier ſolo quel , che tra corpi diſcorrenti tien vigore do umidire, e chehumidum , vien detto da’latini . Eglino non bene intendendo i ſentimenti d'Ariſtotele , immaginaro no aver fui l'umido definito ;perchè foggiūgono poi: a torto anche vien accagionato Ariftorele d'incoſtanza , e di co traddizione ; perchè d' talora dica ,Pacqua eſfer più umida dell'aere, e talora affermi (il che una fiata ſembrò pazzia a Galieno ) l'aria eſſer più umida dell'acqua. Ma quanto poco , anzi nulla rilievi a pro d'Ariſtotete ciò , che fingono coſtoro , chiarainente ſi conofce ; imperocchè Ariſtotele in coſa appartenente a' fondamenti della ſua filoſofia non dovea ſervirfi di vocaboli ambigui, e dubbiofi; e ſe non v'erano i propj nella fua lingua , il che appena mi ſi laſcia credere , che aveſſe potuto avvenire , eſſendo ella così ric ca , e copiofa divoci , non gli avrebbon mancati modi , e vie di chiaramente fpiegare ciò che cgli dovea dire. Ne li può Ariftotele ſcufaredelle contraddizioni;impe rocchè , per tacer d'altro , dice egli una volta , che la tera ra ſi trovi in tutti i miſti , perchè i corpimiſti, fpezialmen te i più grandiper lo più nel luogo propio della terra ſi tro vano; ma Pacqua, perchè fa ellameſticre a terminare i cor pi compofti, effere lei ſola di que’ſemplici corpi , che ter mina 622 RagionamentoOttavo minare dileggieri dale poſſonoyn rifugão ivendéggumasaza έκαςον είναι μάλιστακαι και πλείστον έντων οικείων τόπω·ύδωρ δε δια το δείν μεν δελζεται το σύνθε % και μόνον δε είναι των απλών ευόμισαν το ύδως. Dal le quali parole chiaramente fi coglie., che o abbia Ariſtote . le definir voluto l'umido , o pure il diſcorrente ; attribuen-. do egli all'acqua, come propia dote , e non comunea verun altro elemento il potere agevolmēte da ſe terminare; il che certaméte contro quel,ch'altre volte detto egli avea , viene a determinare l'acqua ſola, eſcludendone l'aria , eller o umida , o diſcorrente , M ,a nella ragione , che Ariftotele di ciò indi a poco rapporta , ſi vale ſenzafallo della parola vypov a denotar l'umido ; e dice eſſer quello , il quale ha , forza dicontenere , riſtrignere , e coaglutinare la terra ,la quale ſenza l'acqua verrebbe a diſſiparl .; perchè eſſer :cgli .conchiude , l'acqua parimente neceſſaria alla compoſizio. ne de'miſti , con queſte parole: én dè ry Tosningav ávev Tš vggs μη δύναθα συμμένειν . άλα τούτ' είναι τοσυνέχον ή γαρ εξαιρεθείη - λέως εξ αυτής το υγρόν διαπίστοι αν• Ovc fcοrgerfi puote, che alla terra ancora convenga la definizione dell'umido data per Ariſtotele; nell'opinione del quale ſi pare , che a niuno degli elementi convenga la definizione,ch'egli del ſecco rapporta ; ma di ciò ad altri laſciando il diviſare , es Jaſciando ad altri eziádio la briga di moſtrare, ch'Ariſtore le dagli effetti ſtelli,comechè pochi ch'egli rapporta nelles incnzionate definizioni,potca agevolmente cogliere la na tura di ciò ch'egli dice freddo , e umido : caldo , e ſecco : e così poi far anco di que' , che chiama lor differenze; accen però ſolamente ch’Ariſtotele alior che fa parole del tenue , in dicendo , che il tenue compoſto fia di picciolo parti,per che ricampie το δε λεπον αναπληρικόν(λεπτομερές γαρ και το μικρομε. pès avænangıxóv.)noſtra ſeguir l'opinione di Democrito e che nella guiſa , che detto abbiamo,filoſofare, comechè rozza mente e ſi vede del tenue ; il che dovea certamente c'fare, anche dell'altre qualità . Ma vediamo ora come Ariſtotcle a ſpiegar infelicemen te imprenda la natura del movimento , in cui non ha dub bio , che conllte cutta la nzural filoſofia . Primieramente cyli cgligiúdica eſfer ilmovimento un cotal genere ,il qualej comprenda l'alterazione, l'accreſcimento, la diminuzione, la generazione , e’Imovimento , che chiaman locale . In di diſegna, e definiſce ilmovimento nel primo, e nel ſeco do capitolo della fiſica , in cotal guila : rov Suv áués.Övr. ÉVTE . dexaci , ģTovorov , cioè endelechia di quella coſa , la quale è inpotenza , in quanto ella è tale ; ed altrove : aivos, évtené.. geta toī XIVSTOU , xuvytor, cioè , il movimento egli ſi è endelechia della coſa , la quale tien potenza a muoverſi, in quanto ella tien la detta potenza . Orchi domine non comprende ſe eſ ſer beffato , e uccellato da: Ariſtotele ?maſſimamente , che: egli medeſimo inſegna dover eſſerela definizione più mani feſta , e più conoſciuta affiidella coſa, che ſi definiſce;per chè diceGiovanniMagiro , famoſo peripatetico , eſſere cotal definizione biafimevole', e vizioſa : atque ob eam.cau-. fäm in nonnullorum reprehenfiones incurrit . Ma. Simplicio nondimeno dice', effer quella ſommamente artificioſa , e quaſi divina ; ſpiegandoli , emanifeſtandoſi con eſlå in una certa maniera maravigliofamente la natura del movimen to . MaCicerone , e Porfirio affermano ', effer quella voce ŁYTENÉXAtjun vago , e artificioſo ritrovato d'Ariſforele , per uccellar le genti ; e nel vero di cotal voce ſoven ti fiate ſervisſi Ariſtotele , non ſolamente per ifpiegare il moviinento , ma l'anima ancora , e quella ſua nuova mtura: anzi ilmedeſimoIddio ( coſe ſenza fillo fra eſfo lo ro aſſai diverfe ) con talnomee' ſcioccamente chiama. Per chè ben diffe l'avvedutisſimo Ramo : Entelechiæ fue Ariſtoteles nimium conceſſit nimium indulſit. Ma ſu conceda fiad Ariſtotele così bel diviſo, ne s'atté ti aſcun di privarlo della ſua endelechia ; e reſti a quellas comedice motteggevolmente il medeſimo autore , inveſti to in dore il rcametutto della filoſofia; e che più ? 'perdonili anche a lui ' , che contro le regole della dialettica con voci equivocoſe , e oſcure le definizioni formar fi poſſano :'ela vocc iv terémax",prendaſi pure nella definizion del moto ,non già per perfezione acquiſtata , e compita , mache tuttavia fi vadi acquiſtando , comepar che e' voglia : o per me”di re, per 1 624 Ragionamento Ottavo 1 re,per la ſtrada p la quale la perfezione s'acquiſti; la qua le ſtrada certamente anch'ella in qualche modo è perfezio ne ; perchè meritevolmente è da chiamar con nome di at to della coſa , comechè imperfetto ; la qual li è in poten za a mandarſi all'atto perfetto , cioè a dir alla forma , in quanto alla materia la coſa è in potenza,cioè a dire in qua to può ella effettualmente imprenderla . Or dove eglino ſono , dove conſiſtono quelle tante , e sì ſtrane maraviglie, millantate da Simplicio? Quid dignum tanto feretbic promiffor hiatu ? Parturient montes , naſcetur ridiculus mus . Apporta Ariſtotele per ifpiegar maggiormente la coſa , l'eſemplo dei rame, il quale comechè poffa divenire ſtatua , nondiincno quel movimento , col quale egli poi vienead acquiſtar la perfezione , e la forma di {tatua, non appartic ne punto al rame , in quanto , ch'egli è rame , ina folame te in quanto egli può divenire , o eflere ftatua xaaxos, dice egli,κίνησίς έσιν ου γαρ το αυτό το χαλκώείναι, και διωάμει τινί κινητώ, έπει & αυτον ω απλώς , και κατα τον λόγον , ω αν και του χαλκού , και ganzes , ÉV TERÉNHO , xívyos, Mache montano alla filoſofia si fatri ravvolgimentidiyaneparole , echiè per Dio , cheno ravviſi,e non ſappia, appartener propriamente al muro, che può eſſer bianco , la ſtrada,o'l mezzo di dover eſſer tale, in quanto cgli eſſer vi poſſa > Chi ciò mai ardà a negare ? Ma dell'atto , e della potenza , non ſolamente ſervir ſi voller Ariſtotele per iſporre, e ſpiegare la nariua del movimento ; anzi in molte, emolte altre opportunità egli sì fattamente gli ripete,che ragionevolmente infaſtidito Bernardino Te. lelio ebbe a dire : Magnos mehercule Ariſtoteles, ut ingenuè fatetur ipſe , actus potentiave diſtinctioni gratias debet ;cu jus nimirum upe ex anguftiis quibuſvis evadere nibildefpe rat ; il che parimente venne avviſato da Antonio Perfio . E nel vero Ariſtotele ſpelle volte ſi ſerve dell'atto , e della potenza per rattoppare , e rabberciar le ſue Idruſcite does trine; e certamente quelle duc voci il traggono da’più ma lagevoli ,e intralciati laberinti della națural filoſofia. Ma ſe finalmente definir mai voleſs Ariſtotele quel mo vimen DelSig. Lionardo di Capoa. 625 vimento , che chiaman locale , certamente egli converreba be ricorrere alla general definizione del moviméto, có giu gnervi d'avantaggio qualche diviſamēto proprio del moto locale . La qual coſa : ſecondo lui,non ſarebbe molto ma lagevole a fornire ; comeeper raffermar la ſua ingegnoſif lima definizione del movimento ne fa pruova nell'altera zione , così definendola : l'alterazione , è atto di quella coſa , la quale ſi può alterare , in quanto ch'ella alterar fi puote : αλλοίωσης μεν γαρ , και του αυλοιωτού ή αλοιωτών , εντελέχω . Adunque così ancora andrebbe, ſecondo Ariſtotele,nelmo vimento del luogo la definizione : egli è il movimento del luogo, endelechia , cioè atto della coſa , che ſi può lotal méte muovere, in quáto ella ſi può localmente muovere; la qual definizione,ſe accóciaméte ſpiegherebbe la natura del movimento locale , dicalo in mia vece il medeſimo Ariſto tele , che in trattando del moto locale , a valer non ſe n'ebe be . Matacer non fi dee certamente quì , che Pier Ramo avviſando non dovere effer il genere d'una coſa , genere anche delle ſpecie di quella , perciocchè troppo rimoſſo, e lontano le ſarebbe: preſe agio di gravemente punger Ari ftotele collarori di lui medeſimo, così dicendo: Hic ende lechia rurſusnon imperfecta ,fed abfoluta exprimitur; &ta mrenfo genus effet motus, non poſsetefseproximum genus cui libet motusfpeciei. Ma chi poi voleſſe eſaminare, e riandare le altre definizioni d'Ariſtotele , rinverrebbe veriſſimo sé. za fallo l'avviſo di Lodovico Vives ; il quale, comechè non fi vegga mai pago di lodarlo , impertanto ebbe a dire: Ari Stoteles eſt in definiendo vafer , occultus adeo, ut pleraquefine idcircò in ejus philofophia incerta , da perplexa , parum etiam vera ; dum magis curat quem in modum reprehenfionem ex cludat , quàm ut afserat verum . E perciò funneanche da Attico , eda Temiſtio alla ſeppia aſſomigliato . Ma tanto e tanto Ariſtotele dell'oſcurezzaſi compiacque , e così ſo vente in iſcrivendo uſolla , ch’ebbe a dir di lui ragionevol mente nel vero il P. Elizzaldi : Summa laus Ariſtotelis ob fcuritas fuit . E quantunque Ammonio s'attenti di ſcuſa re Ariſtotele , dicendo Ariſtotele eſsere ſtato oſcuro a bel Kkkk lo ſtu 626 Ragionamento Ottavo rezza , lo ſtudio , non per altro , ſe non ſe per iſpaventar coll'oſcu ed eſcludere dagliſtudi della filoſofia , e dalla lezio de'ſuoi libri gli huomini d'ottuſo , e baſſo intendimento ; il che ſi pare , che'l medeſimo Ariſtotele dir voleſle in quel la lettera , fe pur fu ſua , e non da' ſuoi ſeguaci finta , ch'e gli ſcritta l'aveſſe ad Aleſſandro , che da Aulo Gellio venne nella latina lingua traslatata s'ngoja nixovs libros , quos edi tos quereris , non perinde, ut arcana abfcondiros,neque editos ſcito effe , neque non editos ; quoniam iis ſolis , qui nos au diunt , cognobiles erunt ; impertanto sì malamente venne fatto ad Ariſtotele d'aſcădere la vera cagione del ſuo ſcri yere così oſcuramente , che fu ravviſata da ognuno in gui ſa , che non poſſon far dimeno i medeſimi peripatetici ta Jora di non confeſſarla apertamente; e per tacer di Simplią cio , diTemiſtio , e d'altri molti: l'autor della cenſura de'libri d'Ariſtotele dopo averlo ſtrabocchevolmente commenda to , alla fine purdice in facendo parole delle ſue oſcurez ze : Accedebatad hæc ingenium viri te&tum , & callidums, &metuens reprehenfionis , quod inhibebat eum ne proferret interdum aperte , quæ fentiret ; inde tam multa per ejus ope ra obſcura , & ambigua . Ma laſciando ciò ſtare alpreſente, nomeno che nella definitione,egliſi ſcorge eſſer Ariſtotele infelice nella diviſione del moto.Vuolegli,comeè detto ,ſei eſſere le ſpezie del moto : cioè generazione, corruttura,al terazione,accreſcimento ,diminuimiento , e moto locale; ma a chiunque bene , e ſottilmente la coſa ragguarda , niuna altra forte di movimento ſi fu avanti nella natura , ſe non ſe locale ; e nel vero tutte le ſpecie addotteperperAriſtotele, altro non ſono ,ſalvo che movimenti locali ; e ſi pare ,che'l medeſimo Ariſtotele ciò anche confelli ; concioſliecoſachè dica egli una volta , che'l moto locale ſia il primo de’moti, eche niuna delle p lui mézionate ſpezie del moto ſi poſſa no ritrovar " inquemai diſcopagnate dalmoto locale; ed uną altra fiata apertamente affermi, che il ſolo moto locale ſia quello , che dir ſidebba propriamente moto . Divide Ari ſtotele primieramente ilmoto locale in ſemplice, e miſto; ſemplice chiama egli quel movimento , il quale è ſempre mai Del Sig .Lionardodi Capoa. 027 mai uniforme,e fimile a ſe medeſimo. Il moto semplice è di due maniere, retto ,e circolare ;cöcioffiecoſache di due mas niere ſiano le grádezze séplicirerte pariméte,e circolari; la qual ragione ,quáto frivola,quanro yana fazlaſciù a voi a conſiderare , Il moto çircolare , il quale ſolamentegiuſta il ſuo avvilo, è perfetto , e regolare ; vuole Ariſtotele eller quello , che fi få intorno almezzo; ma il retto allo incon tro eſſer quello , che faffi in ſuſo , ed alla in giù , Mataçé do , che avviſar dovea Ariſtotele que’movimenti , ch'egli immagina farſi intorno al çētro della terra, non eſſer altra mente circolari ' , ma ellittici , follemente nel yero egli fi da ad intendere avermoto ſemplice nell'univerſo , che retto non ſia; imperocchè qualunque corpo , cheſi muove convien certamente , che ſe'n vada ad occupare il luogo a ſe più vicino ; perchè ſarà mai ſempre ogni ſuo moto ret to , e formerà mai ſempre col muoverſi linee rette ; laonde i moti obbliqui tutti,cácora que’che circolari ſi chiamano, altro non ſono, che moltiſſimi, e poço men chę infinitimo vimenti retri; i quali ad ogn' ora facendo angoli, a formar vengono moltiſlime, e poco men , che infinite linee rette ; laonde niun moto del mondo farà circolare ; imperciocchè niun moto, che in giro fi faccia mantener il corpo maiſemi pre potrà dal centro ugualmente lontano ; il che richiede Ariſtotels nel inoto circolare . E quinci ſcorgeragevolme. te li puorc , quanto dal ver ſi diparta ciò che appreſo Ari ftorelc diviſa, poço faggiamente, confondendo i membri della diviſione , dicendoil moto ſemplice eller di tre ma niere : l'una di quello , che ſi fa intorno al mezzo , o lia centro : l'altra diquello , che ſi fa dal mezzo ; e l'altra di quel, che ſi fa almezzo ; ma degna ſenza fallo è d'aſcol tarſi con grandiſſime riſa la cagion ,che di sì fatta diviſio ne cgli reca,françamëte affermando tre eſſer i ſemplici mos vimenti ; concioſliecofachè abbiano i corpi tre dimenſioni, Quinci li coglie eller falſa , e vana del pari la menzionata diviſione del moto d'Ariſtotele ; enon aver moto veruno nell'univerſo , che compoſto eſſendo del retto , e del circo Jare, miſto con Ariſtotele dir veramente ſi poſſa. K k k k Ma a è 2 028 Ragionamenta Ottavo Ma trapaſſando a quella diviſione del moto , così cele bre ne’libri d'Ariſtotele , in naturale , e violento :veramen te in iſpiegare i membri di quella oltremodo vario , ed in conſtante e ' li moſtra ; perciocchè una fiara dice , il moto violento eſſer quello ch'altrõde vien comunicato ; il che ſe vero fofſe , vana ſarebbe la fua diviſione; imperocchè ogni moto , giuſta Ariſtotele , altronde procede; e un'altra vole ta poi, no badado a ciò che prima avea detto,egli afferming comechè da altri cagionato effer poffa , trondimeno alcun movimento eſſer naturale . Vltimamente Ariſtotele vuole , che quel moto djr ſi debba violento , il quale venga cagio nato da eſterna cagione in un corpo , che il ripugni; maſe il moto altro veramente egli non è , fe non cambiamento di luogo , e al corpo non meno è natural queſto , che quell altro luogo : certamente al corpo niun moto ſarà mai vio lento ; e ogni qualunquemoto , che nell'univerſo ſi faccia , dovrà dirfi naturale . Ne la terra , o altro corpo dique'che chiamanli gravi da ſe , comeinſieme col vulgo immagina Ariſtotele gripugna il ſalir in alto , quantunque ſi paja a noi, che non veggiamo que' corpi , che la ſpingono giù , e fan ch'ella ripugni il ſalire . Non ſembra finalmente conforme a quel ſuo famofo detto , ch'ogni coſa , che ſi muove , per alrri ſi muova , la diviſione,ch’Ariſtotele reca del movime to , in quel , che vien fatto da fe, e propio chiamato , e in quel, che da altri faſli , e per accidenteè detto . Ma una cotal diviſione mi fa ſovvenir , come ſconciamente fallò Ariſtotele nel dire , che'l generante muova ancor quando è lontano ; anzi ancor quando più non è ; e che le ſue intel ligenze muovano moralmente ; il che ancora di colui che'l tutto muove empiaméte oſa egli affermare; che tanto egli è nel vero , quanto dire, che le intelligenze muovano non movendo le ſpere celeſti dalui ſognate . Ma dovea Ariſto tele avviſare, chela maniera dell'operare del Sovrano Mo narca dell’Vniverſo è molto lontana , e differéte da quella, che'l più acuto umano intendimento poſſa vnquemai im-, maginare ;e comeegli già traſſe dal nulla le corporee ſoftá ze colla fola volőtà , colla quale potè dar loro il moro anzi gliele . DelSig. Lionardo diCapoa 629 gliele diede ſenza fargli puntomeſtier di toccamento veru no ; e che Iddio ancora fa , che gli Angioli parimentes. comeche inviſibili fpiriti,pofanomuovere, avvegnachè nă tocchino le corporee ſoftanze ; e laſciando di riferire , che dican di ciò Guglielmo da Parigi, l’Aureolo , e altrimae Ari in divinità , iquali non fi prendon briga più che tanto di venir a' particolari : Io vado conghietturando, che: dar poſſano il moviméto gli Angioli a ' corpi,in quella gui ſa per avventura , colla quale fuole l'anima ragionevolea allor che muove il ſuo corpo ; la quale certamente altro nā fa allorche muove qualche membro , ſalvo che dar altra determinazione per opera della volontà a que' rapidiffimi movimenti di que’minutiſſimicorpicciuoli , che continuo dal fangue vengon per l'arterie a'nervi compartiti. Argo mentali eſser vero ciò dall'oſservare , che ficome ſcema , o creſce in cotalicorpicciuoli il movimento , così più o me no all'anima di muovere le mébra del noſtro corpo vié per meſso ; non altriméti forſe l'Angelo, comechè non ſia lor forma , come è l'anima del corpo , muoveicorpi determi nando altrimentii moti de'piccioliſſimi corpicciuoli,ch'en tro lor fono , o pure que' dell'aria , o dell'etere , che gli penetra ,e gli circonda; e'n quella guiſa , che'l vento soľ acqua muover logliono le piume, e le frondi, faccian ancor cglino cambiar luogo a queſto , e a quel corpo ; ed eſsen do il moto delle particelle , che l'etere compongono , rapi diſſimo:può l’Angela determinandolo condurre in brevif fimo tempo da un luogo a un'altro ,comechè lontaniffimos icorpi . Ma laſciando queſta curioſa digreſſione a ' facri Teologi, e al noſtro Ariſtotele ritornando , lo dico ,che no men , che s'aveſse fatto del moto , ſcioccamente falla in di viſando del luogo : imperocchè egli dice eſsere il luogo quella immaginata ſuperficie delcorpo , ove la coſa allo gata ſia ; la quale opinione , comechè egli la toglieſse di peſo comealcun giudica daPlatone, o da Archita,dal quale tolſe anche quella fconcia diviſione dell'ente cotanto da Lorenzo della Valle , e da altri deriſa , pure egli sì disfor mata la ci reca , che nel vero ſembra , che più toſto egli ab . + bia 630 Ragionamento Ottavo bia ſecondarvoluto l'opinionedelvulgo , il quale non fa diſtinguere il vaſo dal luogo: che adombrar i ſentimenti di que'valent'huomini; e sì ſciocca , c irragionevole parves una sì fatta opinione a Filopono, per tacer d'altri Peripa tetici, che acerbamente ne ripigliò il maeſtro ; e nel yero ſe'l luogo , comeragion perſuade , e Ariſtotele medelimo inſegna , appartiene a qualſifia minima particella del corpo locato , dovrà ſenza fallo il luogo aver parimente riſpetto a qualunquc minima particella del corpo locato,e farli da quella ingombrare dimaniera ; che a tutto il corpo locato corriſponda tutto il luogo , ea qualunque minima particel la del corpo corriſponda ugual minimaparticella di luogó. Conie potrà mai dunque conſiſtere la natura delluogo nels la ſuperficie più vicina del corpo contiguo , la quale a cir condare , e ad abbracciar viene il corpo locato , ed è affat to fuora di tutte le particelle di eſſo corpo; perchène ſegui rebbe , chemoyendoſi un corpo, non ſi moverebbono tut te le parti di eſſo , per tacer d'altre ; e d'altre ſconvenevo lezze a'peripatetici medefimimolto ben conoſciute . Ma per nulla dir di ciò , che dice Ariſtotele del tempo , il qual ſe la mente noftra non ſi deſfe brigadi partire, e di numerar il movimento ; in niun modo ſecondo lui ci ſarebbe : chen ti,per Dio ſono i diviſamenci d'Ariſtotele, dietro allana tura , e alla propietà del corpo? E laſciando ciò ad altri cô ſiderare , accennerò ſolo quanto egli vanamente s'aggiri in yolendo filoſofar , oltre alle qualità menzionate , della ra rità , e della denfità prime, comedicç'una volta ditutte ale tre qualità del corpo,Si fa egli follemente a credere , mora ſo da leggeriſſime ragioni , poter un corpo rarificandoſi in grandire , e ſenza giunta d'altro corpo ingombrare mag gior luogo , di quel che prima egli ingombrava, e maggior di fe divenire;e allo incontro poi ſenza eſſer in nulla ſcema 10 , e ſenza entrar l'une delle ſue particelle entro l'altre,po tercondéſandoſiingombrar il corpo minore ſpazio di quel, che prima egli ingombrava, e divenir minore di quel ches prima egliera , Machi potrà mai ridire, come ſconciamē. te egli poi favelli della luce , come de' colori, come de? ( 1 pori, DelSig. Lionardo di Capoa 631 pori , come degli odori, comedell'altre ſenſibili qualità. : Ma non è mio intendimento di volervi quì ad uno ad uno tutti i fallimenti d'Ariſtotele narrare; che ſe un tal filo pré delli di ragionare , certamente non ne verrei mai a capo; c nel vero ov'egli follemente non aggiroffi in filoſofando di que'corpi,ch'egli chiamaſemplicide’miſti, edelle lor qua lità? E quanto ſpiacevoli in verità ad udire ſon que’lunghi, e fuor di propoſito diviſamenti, ch'egli fa del Cielo , dell'a . nima , e delle ſue operazioni , dell' aere , de' venti , delle piove , de'fulmini , dellaneve, del tremuoto , dell'altera zione, dell'accreſcimento, della diminuzione delmeſcola mento , della generazione, della corruttura, c d'altre coſe naturali non iſpiegate certamente da lui naturalmente , fi come facea meſtieri : chenti , ſono le diviſioni , chenti, gli argomenti, in che fu egli sì infelice , che ne meno eb be ventura di poter le più vere propoſizioni provare. Ma ſopratutto in Ariſtotele mi par da notare , ch'egli in tutte le ſue opere ſi ſtudia colla ſua loica d'avviluppar mai ſem pre la verità , e di crollare , e mandar a terra i buoni, e veri ſentimenti de' più celebrifiloſofanti; perchè da Santo Am brogio venn'egli chiamato :ftudiofus impugnāde veritatis ;ç molto avātidi lui per le medeſime ragioni l'antichiſſimoPa dre Tertulliano avea detto la dialettica d'Ariſtotele:artificē Aruendi , &deftruendi verfipellem in fcientiis coactam in co jecturis duram , in argumentis operatoriam contentionum ', moleftam etiam fibi ipfiomnia tractantem , ne quid omnino tractaverit . Ma non ſo come fuggito mi era dalla memoria ciò che Io avea determinato di dirvi del bel diviſamento , ch ' Ari ſtocele fa delmondo . Afferma egli il mondo di neceſſità eſſer perfetto , avendo egli larghezza , lunghezza, eſpel ſezza ;dalle quali dimenſioni in fuora , altra grandezzaw , non v'abbia , dache queſte tre ſole ſon tutte le coſe; e ove fiano due , allora non diciamo tutti,ma ambodue,& aggiu gnendo a tre , allora in prima diciam tutti ; il che effer di sì fatta maniera , la natura il ci inſegni, ece l'additi: c.chę per tal cagione,ci ſoggiugne cotal numero uſavali ne'ſacri ficj; nel che Ariſtotele fra tantiaggiramenti avviluppofli , non per altro , ſalvo che per iſpiegar alcuni ſencimenti de Pittagorici, da lui malamente inteſi. Quindi apertamé te appare, quantograndefata ſi dia la cracotanza di quel miſcredente Arabo Vano immaginator d'ombre, e di fole : d'Averroe in dico , il quale privo affatto d'intendimento ärdì a dire eſſer Ariſtotele la norma, el'idea a noi prepoſta dalla naturaper maraviglia di tutti iſecoli , e per addicar ne l'ultimo sforzo , e l'intero compimento d'ogni umanaj perfezione: e che egli venne a noi conceduto dall'eterna providenza per noſtro ajuto ; nelle cuiopere non s'è potu to per lo travalicamento di quindici ſecoli error alcuno ri trovare ; e in fine ch'a miracolo Natura il fece , e poi ruppe la ſtampa ; anzi tanto s'avanzò oltre la follia d'Averroe, che diffe , fe ad Ariftotele folo voler dare intera credenza infra tutti gli altri huomini del mondo; e ne meno eccettuonne il fantili. mo Profeta Moisè , qualor difle aver Moisè dette molte coſe , ma niuna provata; al che aggiugner volle, per tacer d'altro , quell'altra beſtemmia ; che coloro , i quali affer mano Iddio ritrovarſi per tutto , ſian fanciulli, e che di ſtruggano , e mandino a terra l'ordine tntto delle cagioni naturali. MacomechèAverroe foſſe di sì ottuſo , e ballo intendimento : impertanto valſe tanto la ſua autorità appo gli Arabi, che vennero a gara da tutti abbracciare, e come verità infallibili credute furono le dottrine d'Ariſtotele ; laõde cõvēnè aʼnoſtri Teologi, p.poter cõvincere i ſeguaci di Macometto ,quella dottrina,che appo loro era in pregio, ed iſtima apparare ; e introdurre nelle ſcuole la filoſofia di Ariſtotele , o pure quella , che ſi contiene ne' libri , che ſi leggon ſotto il ſuo nome; căcioffiecoſachè dietro a tal con venente gran piari fieno infra gli ſcrittori . E veramente alcune di quelle non pajono d'Ariſtotele , come p teſtimo niāze di Tullio ,di Laerzio, di Suida, e d'altri antichi ſcrit tori,e di Mario Nizolio , e di Frāceſco Patrizi, e d'altri mo derni autori fi può affermare ; nondimeno però nei , co une que me que', cheveggiamo concordevolmente in tutte quell opere , che portano in fronte il nome d'Ariſtotele, da libri neobanuárwv in fuori , l'iſteſſo modo di filoſofare : portiai moopinionceſfer tutte d'Ariſtotele, o pure da qualche ſuo ſcolare ſcritte ſecondo i diviſamenti del maeſtro : Mala ſciando ciò ſtare al preſente , chiaro da quel che ſi è fin'o ra detto fivede , non eſſere conſentimento comune degli huomini in eleggere Ariftotele per primicro filoſofante ; perciocchè nel lungo travalicamento di cotanti anni, dopo le prime voci del ſuo nome, forte vanamente infra gli Araa bi per dappocagine, e ſciempiezza del loro intendimento , gli altri tutti corſero lor dietro Qualcapra all'altra perſentiero alpeftro : non con fermo , e ragionevole avviſo, perchè non eſſendo vi elezione d'animo faggio , e avveduto , è da dir con Bac cone , coitio , non confenfus; e come dice il Ciampoli , copia comune , non già opinione comune. E nel vero ponendo in no cale l'originale, ad altro non badarono le ſcuole, ſe non ſe a far copie continue di quelle ſconce ; e mat fatte copie del lor primiero maeſtro Ariſtotele : cd a ciò anche fare i ſemplici,e rozzi ſcolari coſtrignendo ;perchè non ſenza ca gione fu detto dc' peripatetici da Lorenzo della Valle , il quale veramente fu ilprimo , che liberò la filoſofia da quel cieco ,e miſero fervaggio,in cui miſerevolmére giaceva fot topoſta :Pudet referre apud quofdam elle morem initiandi di fcipulos, &jurejurando adigendi , nunquam ſe Ariſtoteli re pugnaturos : genus hominum fuperftitiofum , atque vecors , defe ipfo malè meritum ; cum ſe facultate fraudent indagă då veritatis ; quos fi reprehendere jure optimo poſſumus, quod hanc ſibi legem impofuerunt , qua tandem infectatione caſti. gare debemus, fi hanc legem in alios transferunt; ſenzachèno dee giudicarſi opinion comune in filoſofia quella, che nella fchiera de volgari filoſofi ſoli , avvegnachè innumerabi le, alligna; ma più dalla qualità degli avveduti ragguarda tori delle coſe , che dalla copioſa ſembraglia del popolo è da ſtimare ; perciocchè , come teſtimonia il Romino Ora tore , la filoſofia , dipochigiudicatori s'appaga , cabello L111 ftudio ſchifa la moltitudine a lei ſoſpetta, e odioſa: eft phia lofophia paucis contenta judicibus , multitudinemque conful ty fugiens, eique ipfi , & fufpe ta , & invifa ; eragionevol mente in verità ; imperocchè, come ſaggiamente avviſa il Baccone : nihil multis placet , nifi imaginationem feriat, auf intelleétum vulgarium rationum nodis adftringat;perchè dir ſoleva Ariſtotele folamente in favellando la parte maggio re , ma nel giudicar poi la minor parte doverfimai ſempre {eguire . Ma ciò , che de' Peripatetici abbiam noi ſin ora diviſato , deſli ſenza fallo anche dire degli altri parteggian çi; de'quali tutti ebbe a dire quel valent'huomo , noneſſer credenza infra’filoſofi così ſtrana, e rimoſſa dalla ragione , che non abbia ritrovati i ſuoi difenſori. E sì abbondevole fu nel vero la greca filoſofia di sì fatte ſconce , e inveriſi mili opinioni , che non ſenza cagione fu detto da Varrone nemo ægrotus quicquamfomniat Tam infandum , quod nonaliquis dicat philofophus. ma prima potrei col Poetacotar nella diſerta piaggia l'are nege nel mar turbato l'onde,che gire ad uno ad uno anno verando degli antichi filoſofi i fallimenti; de quali più forſe ne ſarebbon conoſciuti , ſe a noi foſſero pervenute tutt'altre opere di coloro , dicui Già lunga notte involve i nomi, e l'opre. Maavendovi, come di ſopra avviſammo , infra' greci me. dici alcunivalentiſſimi maeſtri, i quali ſi valſero dell'opi nioni di Zenone , e d'Epicuro in filoſofando delle coſedel la medicina , nõ farà per avventura fuor del noſtro propo fito il brievemente accennare i miei ſentimenti intorno al la ſtoica, ed epicurea filoſofia . E per cominciar dalla ſtoi ca : grande certamente ſi fu la follia di Zenonedella ſetta ſtoica primo maeſtro , e fondatore , il quale avendo ben potuto fcorgere quanto ſi foffe oltre avanzato ſopra tutti i greci filoſofantiDemocrito nella vera ſtrada del filoſofa re , volle nondimeno più coſto gir dietro alla traccia di co loro , che apertamente avean da quella traviato ; e Com ? mechè men vaneggiante affai d'Ariſtotele Zenon fi mo Atri in iſpiegar le coſe della natura , non però di meno egli Del Sig.Lionardo di Capoa. 838 egli ancora nelle maggiori ſtrette fuolentrar nel pecoreci cio , ſenza divifar nulla di ſaldo. Così in ragionando delo la mareria la delcrive largaméte con termini (tratti e genes rali,come appūto diviſato in prima n'avea Pittagora, e Pla . tone,e Ariſtotele; della qual coſa ragionevolmēte ne fu egli force biaſimato da Seſto Empirico; eavvegnapure,ch'egli cófesſaſſe eſſer vero corpo la materia, e chiamaſſe la forma nõ cagione , ma parte delle coſe:nondimeno non iſpiegando appreſſo , che coſa veramente la formalia , e in che conſi ſta la natura del corpo , e come formar variamente fi poffa, e ne meno ſcendendo poialparticolar delle qualità, mani feſtando , e dichiarando chente fia la lor natura , ecomes ingenerino : è da dir, che neile medeſime ſconvenevolezze egli ancorcada, nelle quali già in prima detto abbiamo eſ. ſer Platone , e Ariſtotele vergognoſamente caduci . Ma non ſembra vero ciò che Cicerone , e altri fcrittori riferiſcono di Zenone , che egli aveſſe per efficiente cagio . ne conoſciuto il ſolo fuoco; imperocchè egli coinpone le coſe de’quattro volgari elementi; e alle loro qualità attri buiſce, o tutte , olamaggior parte dell'operazioni natura. li , comech'egli in ciò poco felicemente s'adoperi, per nốt aver inveſtigato in prima , come certamente conveniva, la propietà diquelli; e quinci avvien poi;che Zenone di quel le , che ſeconde qualità chiamanſi, così confuſamente an che favelli, comeſipuò vedere allor ch'egli dice , eſſer i colori le primediſpoſizioni della materia . Dice ben egli Zenone , che ſon due i primi principi delle coſe : paſ ſivo l'uno , cioè la materia , ſoſtanza ſecondo lui priva di qualità : Paltro attivo , quale ingenera ogni coſa, e vienda lui col nome d'Iddio, e di natura chiamato; e queſto vuol Zenone , ch'altro non fia , ſe nõ ſe un ſottiliffimo fuoco do. tato di ragione , e di ſapienza , il quale per tutto diſcorra , il tutto abbraccj,il tutto penetri ; e che dalle varie , c varie materie in cui egli ſi trovi,varj,e varj nomi poſcia egli rice va.Ma quanto ciò ſia lõtano dalla ragione, nofa certamen. te meſtieri, ch' lo duri fatica per darlovi a divedere . E Lill 2 nel 636 Ragionamento Ottavo nel vero ſe mai Zenone argomentato ſi foffe d'inveſtigar , comeché rozzamente la natura del fuoco ,non avrebbe po tutomai concepirnella ſua mente così folle , e pazza opi nione ; anzi ne men avrebbe egli detto eſſer l'anime noſtre, caldi, e ſottiliſſimi fpiriti, tratti, come rapporta Seneca : ex illisfempiternis ignibus ,quæſidera , acflellas vocamus, , veluti ſcintillas quafdam afrorum interris defiliiffe , atque alieno loco exiife . Concioffiecofachè il fuoco, il quale al cro non è ſe non fe un'adunamento di piccioliffimi corpic ciuoli , o sferici, o piramidali,non pofſa ne ſentire , ne in tendere, ne far niun'altra operazione , che l'anima far ſuo. le ; perchè non avrebbe poi anco detto Zenone l'anime ef fer mortali, e quelle dappoco , e baffe , qualieſſere giudica l'animne degli ſciocchi , e ignoranti Cbe viſſer fenza fama, e ſenza lodo col corpo infieme attutarſi , emorire ; e quelle de’dotti fo lamente che , fon più vigoroſe, dover durare ciaſcuna ſe condo il fuo potere , come fiaccole acceſe in tenacemate ria fino all'ultimo ſcoſcio del mondo : fi ut fapientibus pla cet , dicea Tacito di Zenone , e degli ſtoici , non cam corpo re extinguuntur magnæ animæ ; il qual luogo chioſando il dottiſſimo Lipfio : nota, dice, magnas arimas;minutæ igitur, & fatuæ pereunt ,aut non diu manent . La quale opinione motteggiando l'eloquentiſfimo Romano: Stoici, dice, uſu ram nobis largiuntar tanquam cornicibus : dia manſuros ajūt animos , ſemper negant. E quinci follemente temevano gli Stoici ilmorir ſommerfi neĪPacque ; imperocchè ſtimava no , che l'aniine , come quelle , ch'eran di fuoco,veniſſero cſtinte dall'acque . Ma cotal crcdenza ella mi ſembra , che molto più antica di Zenone ſtata fi foſſe ; imperocchè non per altro certamente quel grand'Eroe , d'Aſia ter rore , e'l fagace Vliſe , e'l fortiffimo Duca Trojano moſtra no aver cotanto in orrore il morir affogati nell'acque : ingemit Æneas , dice Servio , non propter mortem , fed pro ptermortisgenus; grave eft enim fecundum Homerum perire naufragio , quia anima eft ignea &, extingui videtur in ma ri contrario elemento.Ma piacevole è nel vero a udire il di via DelSig. Lionardodi Capoa 037 viſamento's ch'eglifa Zenone , intorno alla generazion del mondo ; dice egli, che Iddio ſtava primieramente in ſe ſtel ſo raccolto , il che non ſo lo, come poſſa dirſi mai del fuo € 0 ; e che indi poi la materia tutta in aria prima, e l'aria ape preffo in acqua cambiafle ; e che ficomenel ventre della femmina fi contiene il ſeme, così ſteſſe parimente nell'ae : qua una materia abile a ingenerar tutte le coſe ; e che pri mieramente ingeneraſſe Iddio diquella materia i quattro elementi , cioè il fuoco , l'acqua, l'aria, e la terra ; e poidi queſti,tuttii corpi miſti formati veniffero . Il fuoco ſecon do Zenone è caldo , e l'acqua è liquida, l'aria è fredda, e la terra è arida ; ma l'ordine col quale , c lic ſtelle , e gli altri ragguardevolicorpi dell'univerſo s’ingeneraſſero; vie ne ſpiegato da Zenone in sì fatta guiſa . Afferma egli, che nel ſupremo luogo foſſe collocato quelfuoco , il quale per la gran fua: ſottigliezza vien detto ctere ; e che in lui pri micramente naſceſfero le ſtelle fiſſe ; indi appreſſo l'ervanti, indi appreſſo l'aria., indi appreffo l'acqua ; e ultimamente la terra , la quale ſta in mezzo collocata; mafolte ben fa rei Io a logorar il tempo nel racconto di queſte , e altre sì fatte empiezze , che ci vuol dare ad intendere Zenone . Ma non meno ſtoltamente erra Zenolie in ſecondando i fentimenti d'Omero', togliendo non ſolo la libertà dell’o perare agli huomini; ına ſottoponendo alla violenza delFa to il: mcdeſimo Iddio ; perchè cantò Lucano, per tacer Se neca , Fileinone , e Manilio : Sive parensrerum , quum primum informia regna , Materiamq; rudem flamma cedente recepit Tinxit in æternum caufsas, quæcunéta coërcent; Se quoque Lege tenens , & fecula jufa ferentem Fatorum immoto divifit limite mundum . E prima di Lucano , quel greco poeta, così traslatato da Cicerone : Quod fore paratum eft ,id fummum exfuperat lovem ; perchè dicono non poter nulla Iddio contro la violenza del Fato ; ne lui medeſimo poter iftorcere; o piegar l'opere de gli eterni provvedimenti; laonde ſccodo i ſentimenti di Ze none 638 Ragionamento Ottavo 1 nonediſse Seneca,o qualūquefi ful'autor di quella tragedia Non illa Deovertiſe, licet Que nexa ſuis currunt cauſſis . E a ciò ponendo mente Luciano , piacevolmente deriden do,come è fua usāza, gli Stoici, fa ,che l'orgoglioſo Ciniſco ſeguace di Zenone,tratto da cotali ſentiměti, temerariamć. te diſpregjGiove , e gli Dii tutti , non temendo punto del le ſue folgori, ſe dal fato non gli erano deſtinate ; poichè gli Diitutti, e Giovemedeſimo erano al fato ſoggetti; u che così gli Dii come gli huomini erano ſervi delleParche; ne potere far coſa del mondogli Dii, per menoma ,ch'ella ſi foſſe , che dalle Parche non foſſe in prima ordinata , e lun gamente compoſta . Perchè altro gli Dii non effer, che mi niſtri , e ſergentidelle Parche , o per mc' dire ſtrumenti di quelle , come la ſcure , e'l trivello . E con queſte ſtoiche beſtemmie fa ch'egli ſi rida di Giove ; il quale oleremodo fi vanta di quella famoſa catena delle coſe del modo appreſ ſo Omero . Il medeſimo Stoico poi giudica appo lo fteſſo Luciano eſſer anzile Parchemedeſime, che Giove da pre gare , ſe lc Parche per prieghi pur ſi moveſſero ; poichè al le Parche , e non a Giove l'imperio tutto del mondo , c'1 primo reggimento de' fatiè da attribuire . Mano è da in tralaſciar,ch'avviſando anche l'aſtutiſlimo Macometto ,per nulla dir di Lutero , e di Calvino , eſſer corale opinione molto in concio a'ſuoi fatti , preſela , ed inſegnolla nel ſuo Alcorano , acciocchè preſti maiſempre, e arditi i ſuoi po. poli , ponendo giù ogni timor della morte, a magnanime,e pericoloſe impreſe prontamente s’eſponeſſero; perchè a co tal credenza riguardando il Taffo , pole in bocca al valo roſo Rede'Turchi , Solimano , Giriſ pur Fortuna O buona , orea , com'è laſsù preſcritto. Ma non meno ſciocca èquell'altra credenza di Zenone intorno a ' peccati, ch'egli follemente vuole, che tutti ſiano uguali, e che ne più , ne meno falli colui , che ſpogli cru delmente della vita il ſuo propio padre , di colui , che allor , che ciò far non convenga ammazzi un bruto anima le . E . DeSig . Lionardo di Capoa 639 te : Equell'altra intorùo al ſuo ſapiente;il qual'eglivuole , chenon altrimenti, che ſe la filoſofia l'aveſſe dell'umana natura poſto in bando ,no’l muova amore ,non ira,non odio, non timore , ne qualúque altra più violéta paſſione . Senti menti in verità , per dirla coll'Arioſto, Convenientia un huomfatto diſtucco ; ed Io per me non ſo come s'aveſſe giammai potuto fognar - Zenone una sì fatta novella , ch'un huomopoffa viver nel mondo libero , e Sciolto da tutte qualitati umane . Manon queſti ſolamente ſono ,ma altri, e altri i falli che Zenone , e iſuoi Stoici prendono , alla noſtra fede , ed alla natura ſteſſa ripugnanti; perchè non pocomimaraviglio , come cotato preſſo alcuno ſiano commendate , e in pregio tenute quelle memorie,chedi loro rimágono ; e ſpezialmé te l'opere di Seneca ; imperciocchè non è punto , com 'egli follemente s'avviſano le genti , quell’ aſtuto Stoico , re ligioſo , e dabbene ; concioffiecoſâche , ſe ben fifamente vi fibadi , in altro non s'argomentiSeneca ne'ſuoi libri, ch'a toglier dal mondo ogni coſtuma dipietà , e direligione ; comechè faccia ſembiante nelle ſue dottrine, di'rigorofilli mo Anacoreta , e poco men , che di perfettiſſimo Criſtia no ; e a prima faccia appaja , qual farſi vedervolle anche il fuo maeſtro Zenone , Virtutis verd cuſtos , rigidus que ſatelles. Ma ritornando a Zenone , egliſi parve, che talora Ze. none fi foſſe avvicinato al ſegno in filofofando delle coſe naturali ; come quando egli per iſpiegar la maniera , nella quale faſli la viſta , diſſe l'occhio valerſi della aria teſa , co med'un baſtoneper conoſcer le coſe viſibili; del quale esé. plo fi valſe poi così a propofito Renato delle Carte . Com nobbe ancora Zenone , comeche a durar non viaveffe mols ta fatica ,, effer il ſole più grande della terra. Argomentò al. tresì egli da' ſuoi effetti non eſser altro il ſole , ſe non le fuoco ; ma da quelli certamente avviſar non ſi puote , come egli immagina' , eſser quel fuoco , ond' è forma to il ſole ,ſincero , e puriſſimo. Ma non ha dubbio ,che Zeno 640 Ragionamento Ottavo . Zenone s'ingannò grandemente , immaginando participar la luna aſsai più dell'altre erranti ſtelle , della natura della terra : per eſserella più di eſso loro alla terra vicina ; im perciocchè non ha che far con ciò punto la vicinanza, e nó v'ha ragion alcuna , la quale perſuader ci poſsa , che la lu na differiſca púto dagli altri pianeti; e oltre a ciò mal inten dendo Zenone la ſentenza degli antichi filoſofi , i quali di cevano comunicarfra di eſso loro inſieme p via di piccio liſſimi corpicciuoli dall'une all'altre continuo mandati , le ſtelle erranti , e fiſse , e la terra : afferma , che le ftelle , co me quelle , ch'animaliſono , dal mondodi quaggiù riceva no il loro alimento ; e venir il ſole nutricato dal mare , la luña dall'acque dolci , e l'altre Atelle dalla terra ; m2 perta cer d'altri difetti della filoſofia di Zenone, in ciò ſopra tut to fu egli oltremodo manchevole , checoltivò molto più di quel , che certamente a natural filofofo fi conveniva , gli ftudi della Loica , onde conveme, che i ſeguacidilui , for ſe aſsai più di que'priini peripatetici,nelle inutili fortigliez ze dialettiche intrigati , vennero ragionevolmente da Ga lieno contenzioſi chiamati; e quinciavvenne, ch'eglino no poterono gran fatto vantaggiarſi nello ſpecular le coſe della natura ; onde ebbe a dire il medeſimo Galieno , che gli Stoici nelle inutili coſe erano alsai eſercitati , ma rozzi poi allo incontro in quelle di momento,e poco eſperti ſi dimo Atravano . Malaſciando Zenone , trapaſseremo a ragionar d'Epicuro .. Primieramente per mio avviſo mai fi par certaméte, che convengano ad Epicuro quelle ſtrabocchevoli lodi , che , da pallionati luoi ſeguaci , c ſpezialmente da Lucrezio gli vengono attribuite icon dire jufra l'altre millanterie , ch' Epicuro non huom mortale , ma Iddio ſi foſse;e ch'egli pri ma di tutt'altri rinveniſse la vera ſapienza ; e chc Epicuro anche fi foſse Quel , che i termini tolfe al vaſto mondo, Le fiammeggiantimura a terraſparſe, E'l vano immenfo col penſier traſcorſe. Imperocchè , per tralaſciar ch’Epicuro altro in verità nõ facer 1 Del Sig. Lionardodi Capoa. 041 faceffe , che traſcrivere le ſentenze di Democrito : i falli menti del quale non maiegli diſcoverſe, non che rammen daſſe : anzi ſe mai egli da’ſentiméti di Democrito ſi diparti , incorſe in graviſfimi falli . E gliporrò opinione Epicuro , che da una infinita , ed immenſa corporea ſoſtanza , qual ſecondo lui altro non è , ſe non ſe un radunamento d'infiniti corpicciuoli di varie , ¢ varie grandezze , e figure , e da uno ſpazio parimente im menfo, qual'egli vuoro d'ogni corpo eſſer crede ,fia copoſte l'univerfose che fenza regolaméto d'intelligenza veruna, a caſo , ed a ventura , dalmoto, dall'accozzaméto,e dall'or dinamento , ſolo di que'corpicciuoline fian nati ,non ſola mente queſto , in cuinoiabitiamo , ma più , e più mondi , Aggiunſe egli al diritto movimento de corpicciuoli ( che apparò da Democrito) di ſuo altresi quell'altro moto pie gato,ed obbliquo, acciocchè dalle varie maniere di quello poteſſero cotante coſe ingenerarſene : e cocal movimento torto , eglidiffe naſcer dalla chinacura de' corpicciuoli , quali movendo per diritto , ed in altri corpiceiuoli incop pando , neceflariamente doveſſero in iftrigando piegarlize non men dell'altre coſe del mondo empiamente eſtimò Epicuro eſſer compoſte le noſtre anime , come dice Lu crezio Corporibus parvis, do levibus,atq; ratundis . Ma fe noi riguardiamo , non ſolaméte alla diverſità del le coſe del mondo , ma anche alla lor vaghezzase perfezio ne, e come nulla non vi ſtia a bada , ma all'acconcio fine venga mai ſempre convenevolmente dirizzata : non può in niun modo da ciaſcun comprenderli , come a riſchio , per caſo , ſenza ſottiliffima macaria di gran maeſtro debba effer formata ; e per non trarre argomenti dalle ſtelle , dad ſole, dall'huomo e da altre ,e altre opere maggiori d'Iddio , mi contenterò ſolo di far parole di alcuni piccioli animales ti , come ſono le moíche , le zanzare , le formiche , l'Api, gli Acari , c altei afſai cotanto menomi, e ſottili, ch’appe col microſcopio , tanto quanto , cavviſar li poſſono ; e pu re fono in loro da ammirar, ſomipamente quelle picciolilli M in m in me par 642 Ragionamento Ottavo 1 me particelle , così ben compoſto , e formate , come nella notomia degli huomini medeſimi, e d'altri animali più grā di fi veggono . Sono que'corpicciuoli anch'eglino forniti de’lor membri; ne mancan lornella teſta i piccioliſſimi oc chiolini, e negli occhi le palpebre, e le tuniche, e tutto ciò, ch’ad occhio ben compoſto per rimirar fi conviene ; e nel capo è anche loro il cervello , le glandole , le membrane ', ei ſottiliſſiminerbolini ; da' quali il poco ſugo nutritivo al rimanente del corpicciuolo ti dirama, e comparte . E che dirò lo dello ſtomaco , delcuore , e d'altri fomiglianti me bricelli ? che dell'offa , e delle vene , e dell'arterie , e del facco latteo , e de'vaſi acquoſi, e di cotante altre menomif fime particelle , chente , e quali a ben fornito corpo ſi ri chieggiono ? e che delle loro piccioliſſime anime, le quali anch'elle nel reggimento tutto del corpo dimorano , e ri fvegliano i ſentimenti, e fá chc muovano i membriceili alle fue opazioni:e céto, emillaltri maraviglioſi effetti in quel lo adoperano ?Ma ſopra tutto è da por menteal loro indu ftrioro ingegno ; e per non dire al preſente dell'api, è da maravigliar ſommamente dell'induſtre , e faticoſa formica, Che'l vitto onde fi pafca alfreddo verno Ripon la ſtate , ebenchè lunge ancora Sian difagion moleſta i giorni algenti, Neghittofa non ceffa ,e non s'allenta La negra turba ,, anzi ſe freſsa avvezza Ne le fatiche , e per gli adufti campi Fervel'opra nonmen , che l'ore,e'lgiorno , Fin ch’abbia ne fuoi ſpecchiil gran ripoſto . E avendo forſe quella per pruova appreſo effer la ſementa , onde poſcia germoglian le piáte, no altro, che le piáteme de lime dentro della buccia raccolte , e riſtrette , per ceſſar l'aſprezza del verno : come apertamente col microſcopio noiveggiamo : avvedutamente per non farle ſorgere a più piacevol ftagione Ela con l'unghie propie , incide, eſega I carifratti, e inumiditi al ſole Gli aſciuga, e ſecca , el bel tempo fereno Spias DelSig.Lionardo di Capoa. 643 Spiando già prevede i lieti giorni. Talche quand'ella i grani a'raggi eſpone Pioggia nonſtilla da lofcure nubi, Ediſerenità l'indicio è certo . Quinci ripor ne le ſuecelle anguſte L'aſciutta meffe , e poi la ſerba , e parte Cuſtode , e diſpenziera. E’ntenta a l'opre E nonfol mentre ilſoleaccende icampi, Ma le fatiche ſuenotturne ancora Dal Ciel rimira la rotonda luna: E quelle più ſerene , e calde nutti Tolte al dolce ripoſo , al queto ſonno Aggiugneal travagliar continuo, e lungo . Ne è da traſandare ciò che delle formiche oervò Clea te . Vide egli un giorno alquáte formichetrar dal lor for micajo il cadavero d'una formica , e portarlo a un'altro vi cin formicajo ; e quivi giunte uſcirne;come chiamate,alerc formiche , e andar loro incontro , e accontarſi quaſi ragio nando di lor bifogne ; e indi a poco ritornarſene quelle ch? erano uſcite nella lor buca, e di nuovo quindiriuſcire ,e ri trovar le foreſtiere ,come rientrate foffero nella buca a re car l'imbaſciata di quelle alle lor compagne ; è conſiglia teſi del cadavere della lor compagna foſfer poi ritornate a patteggiarne la riſcoſſa : e ciò due , o tre fiate facendo , alla fine dopo cotante aggirare , quaſi eſſendo di convegna de loro piaci, andaronoalla buca , e fi recarono loro un verme per taglia della morta fórmica, il qual prendendoli quelle di fuora , e laſciando il patteggiato cadavere , n'andar via ; ed elle raddoſsãdoſi il cadavere ritornarono nella lor tana, quaſi per dover quello ſotterrare . Néminormaraviglia è ciò che Io un giorno fattomi per diporto ad una fineſtra di mia cafi oſſervai. Era in quella una formica , la qual ripoſtali in guato , non altrimenti , chei'ragnuoli ſi faccia no , preſe per lo piede unamoſca , la qual forte dibatten dofi , e ſcooendoſi, indarno di fuggir slargomentava ; ma pur la piccioliſſima formica non potendo portarſela, o uc ciderlai, ſtrettamente fiffa la riteneva, fiache giuntavi a ca Mmmm 2 ſo un ' 644 Ragionamento Ottavo :: ſo un'altra formica partiffi.di preſente , e ricornò con alire formiche a condurli a forza la prcda dentro dal lor formi cajo . Ma perchène G faccia maggiorméte manifeſto ,qua to ſtolta fia ', cd'irragionevole la menzionata opinione d'E picuro ,e quanto fia grave l'ingiuria , che per quella vien fatta all'autore dellanatura, egli ne fameâiere,che alqua to più di ciò, che per avventura abbiſognerebbe in diſami narla c'intertegniamo. Dico adunque , che una ſoſtanza fia quella , onde cotanti aſpetti , e sì diverſe ſembianze di coſe n'appajono in queſto gran Teatro dell'univerſo , eſle re egli ſtato parere , in cui non pur Democrico ed Epicu ro:mailmedeſimo Ariſtotele ( il qual più ,.chalari fa ve duta diportarne contrariaopinione,dicomun conſentimé to convengono . E tanto par che coſtui voleſse dire colà : nell'ottavo libro della metafiſica : ove feriſse eſsere una , medefima coſa l'ultima materia , e laforma; e fimilmente non eſser differenci nelfubbietto la materiais e la privazio . ne( del chc.a torto altrove egliavevaripigliato Platone ) e che ſolo l'incelletto fra:cſso lor le diſtinguaje nel ſecondo della fiſica ; ſcrivendo , che la forma non maipoſsa dalla , materia fceverarfi , ſe non ſe in mente noftra ,ficome a niū modo può fepararſi la ſchiacciatura dal naſo ;:e nel ſecon do dell'anima: ove avvifa vano eſsere l'inveſtigar, ſe l'ani ma ſia altra cofa dakcorpo diverſa ;ſicome non è da elami. nare , fe la figura , che imprende la cera, fia da quella di itinaa . E finalıncnte il medeſimo par che confermis quan do ſpeſso ſpeſso va affermando , la forma eſser quiddità della coſa; che a ſua favella vuol dire la formaeſser perfe zione dellamateria,la qualiove capace diperfezione,mām. deria s'appella :ovegià perfetta conſideriſi,forma:fi-dice. Ne altriméti in verità creder poteva: chiin Dio, nelibertà, ne cnnipotenza riconoſceva;ondepotuto aveſse dal niente criando le forme ( le quali ſe-veramente altro foſser , che ka materia , folla creationepotrebbe dar loro Peſsere, che che in contrario nedicano i peripatetici ) e afuo talento la materia informarne. -Mache queſta ſoſtanza , di cui ragioniamo,altro,non ſia che : Del Sig.Liarcardo do Capoa 45 che corpo inminutisme particelle di grandezza , difigura; di fito , di moto , e d'ordine diverſe ,sbriciolaco', e diviſo, fuinſegnamêto che da Fenicjappreſero i primi Greci filor fofanti scomechè Democrico , più ch'altri, in primachia ramente diviſato l'aveſse . Maqueſta ſentenza medefima ne fa vedere eſserci ne ceſsario un'infinita onnipotenza , e ſapienza valevole a dir ſporre , e ordinare in tante guiſe , e comunicare ivarſ mo vimenti alla già dettämateria . E ciò ben conobbe da pri ma , per quel ch’lo ſappia , il fapientiflimo Greco Filolo . fante Talete Milefio ; e confeſsollo manifeftamente , di cendo appreſso Cicerone: Aquam efse initium rerum :Derim autem eam mentem , quæ ex aqua cuneta fingerei . E da lui l'appreſero poi Ippone, e Ippia ,.e cotant'altri antichi filo fofi , i quali tutti concordevolmente giudicarono eſserci unamentc,o una fapienza infinitajlaqualpartédo ,e fceve rando queſta maſsa comune , e ordinandola, c movendola, doveſse cambiarla in cotante guiſe , quali noiveggiamo.E cotalmente vollè anche il grande Anafsagora , che dalla materia lua ſimilare , comedicono g.componcise ciaſcunai coſa del mondo : comcchè a torto poinefoſse egliprover biato , e biaſimato oltremodo da Ariſtotele , cola ove diſ ſe , ch’Anaſsagora d'un sè fatto ritrovato ſi foſse voluto: ſcioccamente ſervire , per dar ragione dell'apparenze nas turali : non altrimenti , che ſervir fi fogliono i tragici Poc tidelle loro machine piſciorre i nodi più inviluppati del le favole ; edelimedeſimo ſentimento di Talete furonoan che Platone , o Timeo'; ed è da credere pure , che dal fon datore dell'Italiana filoſofia, Pittagora , e damolt’altri fa * mofi , .e ſaggj filoſofanti ſtata foſse in prima inſegnata . Ma però tutti i sì fatti filoſofanti ad un tratto ſtrabocchevol mente fallarono in negando oftinatamente eſser cotal fox ftanza uſcita dalle mani onnipotenti dell'Eterno Fattore, dicendo eſser quella ſempremaiſtata ererna . E forſe non guari illoro errore fu avāzato da quel d'Epicuro ,o di De mocrito ;i quali ciò checoloro alla mente operatrice afcrifo ſero , attribuirono al caſo ; imperocchè la divina , ed eter 1 li e ne be 12 2 na on 646 Ragionamento Ottavo 1 na onnipotenza eltimarono deboliífimo artefice cheſol yao leſſe della già eliftéte materia varie machinazioni formar ne ; e così attribuendole il poco : ilmolto , anzi il tutto negaronle , com'è il poter criare dal niente ; perchè dicono follemente, che'l ſovrano Facitore in fabbricando il mon do , tutta la materia nell'opera conſumaſſe ; e quinci avve niſſe poi , che un ſolo e'ne formafle . Ma ritornando ad Epicuro : non ci dee rucar maraviglia, s'egli sì ſconciarné te dell'onnipotenzadel grande Iddio favellaffe ; imperoc chè egli nonmeno ſciocco , che empio , immagino Iddio eſſer un'animale di ſembiante umano , come quello , ch'è più bello di tutt'altri;ma nondimeno ſtimò noneſſer Iddio corpo altrimenti , ina quafi corpo : ne aver Iddio ſangue , maquaſiſangue : Dice Epicuro ,oltre a ciò , che gli Dii ſian vaghi , adorni, e riſplendenti, e che le membra fieno umane; ma chenon abbian però uficio niuno ; e che l'al bergo degli Diilia in quello ſpazio , che vuoto rimane in fra que’tanti , e tantimondi per luifognati. Toglie affat to Epicuro empiainente poi la giuſtizia ,e la provedenza di vina; e afferma, che Iddio non cura punto di Noi, Nec bene pro meritis capitur,nec tangitur.ira; i ! e riinettendo Epicuro il tutto nelle mani della volubile , ei cieca fortuna ,con iſcioccaggine , e ſcempiezza eſtrema le attribuiſce De la terra , e del Ciel lo ſcettro,e'l regno. Ma'laſciando di più diviſar di queſte , e d'altre fimili em piczze d'Epicuro , ad ogn’un conoſciute : Io non ſo per me. come difender mai fi poſſa di’kuoi ſeguaci ciò che Epicuro dice de'ſuoi atoini, chenon poffin dividerſi'; imperocchè , quantunqué menomiſfimi; oltre adogni umana credenzali concepiſcano , ben potranno dividerſi da uno , o da più ato mi, ch'a guiſa di piramide acuti, meno di loro piccioli fia no ; ne fa punto luogo il dire , che non avendo nell'atomo vuoto alcuno , 110'l poſſan penetrare altri atomi, ne fender lo , ne dividerlo in parti;concioſliecofachè:ben potrà quell atomo, chefendere , e partire ilvoglia , con replicati colpi a poco a poco penetrarlo , e dividerlo , ma ſi può creder 1 1 1 1 imper DelSig.Lionardo di Capoa . 647 inipertanto , che ſia queſta una quiſtione vana , e che o no mai ; o rariſſime fiate avvenir poffa , che un'atomo per al tro ſi fenda , e ſi divida ; concioſſiecoſachè quantunque li tenti di fare la diviſione di qualche atomo, che in corpo faldo ſi trovi, non potendo'effer maiqueiľatomoaffatto có gli altri atomi avviticchiato , e congiunto , ſicome a chiun quedirittamente ragguarda la cofa , egli è manifeſto : gli riuſcirà aſſai più agevole in ricevendo i colpi cedere , e diſ giugnerſi dagli altri atomi compagni , a fe vicini, che'l romperhi .S'argomenta eſſer vero ciò che lo immagino ,dal vedere , che alcuni corpi faldiſfimi ſi ritrovano , i quali per qualunque forza , che l'arte , o la natura viadoperi, non ſi pofſon giammai in altri cambiare; il che altronde certamé te naſcer eglinon puote, fe no ſe dall'eſſer que’corpicciuo li tutti, che gli compongono nella figura , e'nella grandez Za non guari diſſimili infra effo loro , e dal non venir que gli mai rotti , e in particelle diviſi . Ma non mi par , che lo clebba logorar il tempo in rifiutar l'opinione del Vacuod Epicuro, apertamente perognuno ifcorgendofi falfa ; co mechè valentiſſimi filoſofi cerchino pure farla apparer vera ; poichè per tacer altri imbratti, concedendoſi ilva. cuo,converrebbe , cheli toccaſſero , e non fi toccaſſero l'u nos e Paltro di que'corpi,infra’quali fi fingeffe inframmeſ fo il vuoto . Oltre a queſto , fe infiniti gli atomiſono , ſe condo Epicuro : faran ſenza fallo ripieni di corpi tutti gli fpazj ;ne vi avrà ſpazio vuoto alcuno nell'univerſo ; in cui, comechè iinmenfo egli il faccia : Io non veggio lo , come infiniti corpi , e ſpazio vuoto infinito immaginar mai poteſ fe Epicuro . Ma non in ciò ſolamente fallar ſi vede Epicuro : maal tri , e altri errori ancor egli commettc;infra i quali mi par certamente degno oltremodo da ridere quel, ch'egli,non già per aver troppo creduto a’ſeñfi , come Cartefio crede , maperfuafo da troppo fievoli argomenti, afferma,poter ef ſere il ſole o tanto , o poco più , o poco meno grande di quel , ch'a noi ſi faccia vedere; ne men certamente rideyo le ſi è ciò , che Epicuro immagina della figura della terra , del -0 vo 1 i 648 Ragionamento Ottavo - del naſcimento , e aell'occaſo dellole , della luna, e dell'al tre erranti , e fiſſe ſtelle:: degli Idoli, o ſian ſimulacri, che ci s'appreſentan, ſecondo egli penſa , allorche noi veggia mo , e immaginiamo, le coſe ;matroppo.tedioſo diverrei, s'ogni fallimento d'Epicuro voleffi lo quì riferire : maſſi mamentequei , ne qualierrò egli inſiemecon gli altri filo fofanti della Grecia; perchè ragionevolmente forſe dir di tutti fi potrebbe ciò che d’Ariftotele , e di Platone dicea S. Giuſtino, con quelle parole : ſe l'invenzione della veri sà , come d'accordo ciaſcua vuole , è ilfine della filoſofia , Io non lo come coſtoro , i quali nonebber niuna-contezza della verità, fi debban veramente chiamarfiloſofi.E ragio nevolmente ancora S. Clemente d'Aleſſandria afferma che la greca filoſofia , a riſchio , e per ventura , come alcuni vogliono , ſuole rinvenir la verità; e ſe pur talvolta la ritro va:allora pur la prende lievemente , e alla sfuggita ,ſenza troppo minutamenteconſiderarla ; e come altri poicredo no , crae ella ſua origine dal Diavolo ; edopo altri biafimi, conchiude egli alla fine , efſer tutti rubaidi,e huomini ſcel leratiſſimi coloro , i quali appo i Grecicol nome di filoſo fanti ſi chiamavano . Ma certamente troppo a lungo , e più diquel ,che al fi 1o del noſtro ragionamento forſe conveniva ſon traſcorſo a favellar dell'antiche filoſofie ;ma non ſi dee impertanto pe rò inutile , e ſoverchio ciò reputare; poichè un de' più ma lagevoli,e de'meno forſe conoſciuti impedimenti,ch’abbia arreſtato il corſo della filoſofia , Ga ſtato quello dell'averſe fatto a credere gli huomini, chei greci filoſofiaveſſero fco perto , e compreſo tutto ciò , chenel vaſtiſlimo reame del la natura ſcoprire, ecomprender li yola per intendimento umano ; ne per aloro certa.nente , che per una tal folle cre denza egli è avvenuto,che quel tempo,checertaméte ſpé dercucco di dovea in inveſtigar con eſperienze, e con ragio ni le coſe naturali , fi fia vanamente ſpeſoin andar cercan do quali ſiano ſtati iveri ſentimenci, o di queſto ,o di quel to zuore ; perchè dicea il Signor di Montagna: car les opin mions des bommes font , recevesà la fuitte des creances an cien Del Sig. Lionardo di Capoa 649 outil ciennes , par authoritè , &à credit, commeſi c'eſtoit religion Lloy.On reçoit comme unjargon ce qui eneſtcommunement tenu :on reçoit cette veritè , avec tout for baſtiment , de ato telage d'arguments, odepreuves , comme un corps ferme ; ſolide , qu'on n'esbranle plus , qu'on ne juge plus . Au contraire, chacun à qui mieuxmieux , va plaſtrani , &con fortant cette creance receuë , de tout ce que peut fa raiſon in qui eft un útilſoupple, contournable, & accommodableà tous te figure. Ainf je remplit le monde , feconfit enfadeze ; den menfogne . Ce qui faict qu'on ne doubte de guere des choſes, c'eſt que les comunes impreſſions onne les efl ayeja mais, on n ' en fondepoint lepied , où gitlafaute, älafois bleſſe : on ne debat, que ſur les branches : onne demande pas fi cela eſt vray , mais s'il a eſte cinſin ou ainfin entendu E quinci derivar anche ſuole quella gran malagevolez za avviſata da Galieno , la quale ſi ſperimenta da chiun que vuoi ritrarre i ciechi parteggianti dal torto loro , e fal hace camino; e nel vero cotanto danno apportar fogliono le falſe apprefe opinioni, che eziandio a coloro, che mene daci han ſcoverti , e ravviſati gli autori di quelle,non per mettontalora , che fiyantaggin nella buona filoſofia s co me apertamente ſcorger ſi puote in Pier Ramo , ed in al tri molti si quali, quantunque aveſsero ben conoſciute le ſconvenevolezze della filoſofia d'Ariſtotele , non poterono alla buona ſtrada giammai pervenire : ne in cotonjuno for trarſi dalla maniera del filoſofare d'Ariſtotele;ę ciò perche, çome avviſa Renato: opinionibus ejus jam imbuti fuerant in juventute, quia ea fola infcholis docentur; adeoq; illis præoc cupatusfuit ipforum animus , ut ad verorum principiorumid Hotitiam pervenire non potuerint . Anzi Ariſtotele medeſimo , leggendo i volumidegli an tichi filoſofi , concepctie alcuno di que'ſentimenti onde , inavvedutamente poi traſcorſe in cotanti crrori. Così logo gendo egli in Ocello Lucano il melc cffer dolcc ,perché ca gioni in noi ſentimenti di dolcezza , tratto anch'egli dall' altrui errore , !! c a ciò punto badando, non dubitò di fer mamcareil medelino narrare , giudicando la dolcezza,co Nnnn me rute 1 650 Ragionamento Ottavo me tutt'altre qualità veramente nelle coſe , e non ne’ſenti menti confiftere . Che fe egliaveffe: avvilato , il medeſimo cibo ſenza punto dimutamento ad un palato, dolce ,e foa ve : a un'altro poi amaro , e diſpiacevole parere , come la colloquintida amariſſima a noi,dolce oltremodo a’topi, e ſoave li fa ſentire : certamente egli non così improvviſo avrebbe raffermata cofa non vera; e avrebbepur dubitato, non forſe ne' cibi foſſer corali particelle , dital forma , e così ordinate , e moſſe ,, che in diverſi palati, or di dol cezza , or d'amarezza faceſſer ſeinbiante . Enella medeli, ma maniera cento, e mille altre ſciocchiſſime opinionid'A. riſtotele potrei lo quì rapportare , le quali appreſe egli da. gli antichi filoſofanti . Ne ciò è maraviglia ; perciocchè p iſtudio , e fatica , che vi ſi logori' , non ſi poſſono così affac to sbarbicare dalla mentei già allignati ſentimenti,e ban deggiargli affatto che non ritornino talvolta, quando men ſi temano . Cosi avvien appunto ad una botte , o altro va ſo guaſto putente di vin ravvolto', o -inagrito , la quale av vegnachè forte fi’rada , eſilavi: non però dimeno non ſi puòella cotanto per diligenza purgare', che non ne prenda anche il nuovo vin',che vi ſi pone, e dibreve anch'egli non dia la volta , concioſliecoſachè quantunque bennetto , e forbito fipaja ilvalo', pur ne'ſuoi pori minutiſſime particel te ancora ſi naſcondono , le quali ſpiccatene da quelle del nuovo vino , o altro ſomigliante liquore , che vi ſi pone , trameſtandofi loro , agevolmente vi nuotano per entro , per opera della fermentazione poi creſcono",intanto , che infra brieve ſpazio di tempo tutto il corrompono . Così avvenir ſuole nell'anima,la quale priva , e ſpogliata affat to delle antiche notizic,da ſe medeliina in filoſofído nuo ve notizie proccuri in luogo dell'antiche introdurre ; eri porre ; poichè le nuove ſpezialmente , ſea ciò ſpinte ſono da quelmovimento , chenello ſpeculare neceſſariamente ſi fa , eccitano , per qualche ſomiglianza , che è tra loro , alcuna dell'antiche, che a caſo rimaſta , ma celata viftia; dalla quale poi sēzamolta malagevolezza infecte elle ne riman gono . Eco Del Sig.Lionardodi Capoa : 651 E comechè ciò baſtantemente , per quel ch'Io micredaj a ciaſcun lia manifeſto , pur d'avantaggio ne può eſſer chiar ro per ciò , che nella memoria artificiale fortir ne ſuole Sogliono coloro , che all'arte ,veramente maraviglioſa del ricordarſi ſtudioſamente intédono,d'alcuniſpeziali luoghi valerſi quali ſiá loro sépre ſenza fatica niuna nella memo ria, come uſati, e domeſticiaffai , e oltre a ciò ſiano in qualche guiſa ſomiglianti, o uguali alle coſe che ſi voglio no ricordare ; acciocchè quando poi fia meſtieri, nel fuo proprio luogociaſcuna coſa appiccata, dipreſente rinven gano ; e le coſe già alla memoria preſenti,loro facciano ve nire avanti le lontane. Delche certamente ne fa manifeſta pruovà ciò che ſovente noi ſperimentiamo; che in ragio nando d'arca , o di forziere , che in noſtra caſa ſia , ne fov viene tolto di libro, o di veſtimento ,o d'altra coſa ripoſtavi; eda divifamenti de palagj,o delle terre , ſubito ne ſi rap preſentan coloro, ch’ividimorano, o che da prima gli fab bricarono , o che un tempo ancor vi ſono dimorati: Cosi anche un'amico né fa rimcmbrar d'altro amico: e anche de nimici di ciaſcuno , io nominandolo ne ſovviene . Perchè al noſtro amorofo M.Franceſco Petrarca , il ſolomovimé. to dell'aura , dolcemente faceva venire avanti madonna Laura , eltempo ch'e' da primamirandola ſe n'innamoro: L'aura ferens , che fra verdi fronde Mormorando a ferir nel volto viemme Fammiriſouvenirquard'amor diemme Le prime piaghe sì dolci je profonde; E'l bel viſo veder , ch'altri m'aſconde, Che ſdeguo, o geloſia celato temme. Ma veggio , e per avventura con qualchevoftra noja eſ . fermi troppo dilungato in ragionando, e affai più certamë te di quel, cheaveva lo già propoſto di fare; non per tan to prima d'imporre a’miei ragionamenti fine , mi convienu tirar la coſa un poco più avanti. Dico adunque , che non giová punto ,cheſieno ben inteſi gli fcolariin filoſofia » in chimica , in medicina , e in tutte altre coſe, che diſopra diviſammo al medico far meltieri, ſe finiti i loro ſtudi egli Nnnn : 2 no per 052 Ragionamento Ottavo ao per convenevole ſpazio di tempo non ufino qualche ſpedale, con por mente ivi alle malattie , e alle maniere , che vengon tenute nel medicarle; e qual pro ,e qual danno ricevan daʼmedicamentiglinfermi; ed egli è coſa nel vero queſta così rilevante , che non ſi dovrebbe certamente co ventar mai fcolare , il quale con fedi autentiche , e con te ſtimonj non provaſſe aver lui in ciò fare tutta la ſua indu ftria, e diligenza adoperata. Sidovrebbe oltre a ciò prima di conventarlo ftrettaméte eſaminar lo ſcolare per limae ftri delle ſcuole , a ciò deſtinati, in tutte le coſe all'arte ap partenenti, e ſpezialmente nella chimica ; la qual cotanto dicemmo effer a' medici neceſſaria , e di tanto riſchio a co loro , chepienamente non la poſſeggono; e a ciò certamen te con ogni rigore , ligati con facramenti , econ pene do vrebbono intendere imaeſtri,oltrea queſto de coſtumian cora dello fcolare converrebbe , che minutamente fi ricer caſſe , acciò per ogni capo s'eleggeſſero medici, quali gli abbiam noi giuſta ogninoſtra pofſa al prefente diviſati; e sì forfe per innanzi cefferebbono, quanto l'incertezza di co tal meſtiere comporta , i fallimenti de'medici: e'l co mune in qualche parte ſe ne riſtorerebbe ; ne da altro cer tamente naſce , ſe non fe dal non uſarhi queſte diligenze nell'accademie, allor che vi ficonventáno gli ſcolari , che così fortemente vengano elleno talora biaſimate :approba jiones,dice il Primeroſio , fapienterà majoribus inftitutæ,ele gantes ſunt quidem , & neceffaria , fed deberent diligentius obſervari . At jam omnia negliguntur , nam quibuslibet guantumvis ſeiolis gradus exbibetur doctoratus unde ft, utex quibuſdam Academiisredeant ductores parum da fti , nihil minus , quam apti ad medicinam , aut docendam , aut faciendam . Ne perciò giudico lo convenevole , come alcuni vogliono , che i medici giovani, ſpezialmente que', che in Salerno furono conventati , fian di nuovo daeſami nare ; imperciocchè baſtar dee quell'eſaminazione , allas quale eſli foggiacquero prima d'eſser conventati , accioc chè fenz'altra pruova tare del lor ſapere poſsano per innan zi liberamente medicare . Nealoriinenti volle il Re Rug gieci Normanno , ove per legge comandò non poterſi il peri Del Sig. Lionardo di Capoa 653 pericoloſo meſtier della medicina uſare ſenza ſpezial lice za de' regjminiſtri a ciò deſtinati ; e l'Imperador Federi go pur v'aggiunfo , chei medici del ragguirdevol Colle gio diSalerno doveſſero effer teſtiinong, che colui , che aw medicare inprenda, da tanto ſia ; perciocchè parlando de gli Impirici , folamente i conventati manifeſtamente ne ri ferbarono ; ne vollono eſſere da eſaminar coloro , a’quali la cura d'efaninare altrui era per lor commeſſa. Così An drea d'Iſernia ſpiegando que’capitoli dice delle bollettes delle licenze : Doctor medicinæ practicabitfine literis , quia fuitexaminatus , quando fuit doctoratus , &approbatus; for cut ibi diximus de Advocatis.. E Matteo degli Afflitti. pa. rimente dice efferſi ciò mai fempre oſſervato , che iconvé tati di Napoli, o di Salerno fenz'altra bolletta , per tutto il noſtro Regno , poſlan liberamente andarmedicando :ne altrimenti effer mai avvenuto : eft fciendum ,dice l’Afflitti, quod à tanto tempore , in cujus contrarium memoria hominio non-exiſtit,nunquam fuit fervatum , quod magiftri medicine approbati in Collegio medicorum Salerni, vel Neapolis ha beat quarere literas Officialium Regis, vellicentiam à Rege , vel vicerege medieandi in Regno. Perchè ſarebbe molto ſco cio il mādarſi ciò avanti ; e larebbe certamente un togliere l'autorità a'noftri Collegj di più conventar perſona in me dicina ; cioè a dire , di dar licenza di liberamente me dicare ; ſenzachè non ſapreiIo certamente , quali medici farebbon da eſaminare ; perciocchè egualmente i giovani , ei vecchi, anzi maggiormente nel vero i vecchj ne han data cagione di farne richiedere a parlamento . Ma come potrebbon le ſecrete eſaminazioni a buó fine giammai riu . fcire , fe per averle conoſciute ſcempie ', e manchevoli , i Principi, e le Comunità ne’loro reggimenti han,, per mio avviſo le pubbliche eſaminazioniinſtituite . Sogliono re carſi per eſemplo coloro , che queſta novella eſaminazione de’mediciintrodur vogliono , i legiſti ; i quali da non mol to tempo in qua ſogliono eſſer eſaminati, quantunque co ventati :maben dovrebbono avvertire , che gli Avvocati non mai vollono ſoggiacere atale eſaminamento : eleggen ; do an 654 Ragionamento Ottavo doanzi d'abbadonare il meſtiere, quátūquel'eſaminazione aveſse a farſi da'ſupremi miniſtri, e in alfai orrevol maniera; e fol rimaſe,che coloro ragionevolméte nel vero vi foggia ceffero , a'quali , o alcun governo , o altro onore s’aggiu gneſſc. Ne mégiudico Io ragionevole quel diviſo di dover eſa minarſi almeno i noſtri medici in Chiinica ; da che la Chi mica cotanto neceſſaria alla medicina eſfer narramıno;per ciocchè da cotali eſaminazioni grandi ſconcj certamen te al noſtro comun ne feguirebbono , per molte , e mol te cagioni , le quali lo taccio al preſente per eſſer ciò ba ftantemente, a ciaſcun manifeſto ; ſenzachè i vecchj anco ra , anzi con maggior ragione , che i giovani , farebbon da eſaminare ; richiedendoſi.comunemente a ciaſcun medico la chimica , ed eſsendo aſſai meglio i giovani , che i vecchi medici inteſi di quella. Ma de’volgari impirici farebbe da prendere, ſe pur si potesse, strettiſſima cura, acciocchè per lordappocaggine al cun nocimento al noſtro comune non ſiegua ; e comechè intorno a coſtoro baſtantemente di ſopra la detto , pure fi dee por mente a ciò ch'avviſa Galieno , allor ch'eglidice, che il curar qualunque, avvegnachè leggeriſſimomale, d' altri non ſia , ſe non ſe ſolamente di coloro, i quali di tutta la medicina pienamente fian inteſi; concioſliecorachè uns male foglia ſovente con altro male eſſer congiunto ; e ſo glian talora , o per.cagion delle medicine, o peraltro sì fat to accidente ſopragiugnere : cheda colui , ch'un ſol medi camento ſappia , non ſi poſſa dar compenſo. Oltre a que fto , nel conoſcerſi delle malattie , aſai ſovente glimpirici s'ingannano: togliendo in cambio ſcioccamente una per al tra , e contrarj rimed, talora imponiendo ; nella qual mala ventura , comedicemmo, cadono talora , anche i più ſcie ziati medici per la dubbiezzade'ſegnali. Perchè ſarebbe certamente il migliore victar a coteſti volgari Empirici il medicare;e miglior séza fallo ſarebbe ſtato il provvedime to del Senato di Parigi, fe del tutto aveſſe agli Empirici il medicar proibito , e non permeſſo loro il farlo lol coll'ap prova Del Sig.Lionardo di Capoa 051 poter mc provagione,e licenza de’dotti medici;ed ebbe il torto di la gnarſi di loro Anneo Roberto dicendo , che all’onta di tut te le proibizioni eglino il capo alzaſſero ; imperciocchè no mai aſſolutaméte allo incotro furon: proibiti,ſë ſotto condi. zion ſi permiſero,perchè daʼmedicijnõoſtante il gran male , ch'ei fanno di leggieri ottengono la licenza del dicarc. Ma tacer non fi dec ciò, che degl'impirici racconta Giacomo Silvio : in montepeſſulano's clarifima, & antia quiſſima medicinæ academia , fi quis borum nebulonum feme: dicummentiatur , mox raptus in afinumftrigofum , fiin venitur fcabidum , ſublimistollitur , averfus, urbe tota cir. cumducitur,Scommatisundique incefitur , conſpuitur,pulfa; tur, laceratur, fordibusomnis generis conſpurcatur; ceu olim Sacra illa mafilienfium vittima :poftremo expiata urbe ejici tur , illuc nunquam rediturus, niſi malo ſuomaximo. Magià baſtantemente ſecondo noſtra possa avendo de medici ragionato, trapaſſeremo a diviſare al preſente de gli Speziali ,i quali debbon lavorare i medicamenti; maffia mamente chimici ; il quale fu il ſecondo capo , onde mofle il noſtro ragionamento. Veggiam dunque brevemente , quali coſe, e quante abbiſognino a colui che voglia van taggiarſi in sìnobilmeſtiere . Immagina il volgo, che age volitima faccenda fia a ſaper fabbricare imedicaméti; per chè in man di perſone di poco ſapere , edipoca licva ado perar ſi rimira . Mio quanto di lungo certamente coſtoro ingannati ci vivono! imperciocchè atal meſtier richiedonſi poco men , che tutte altre códizioni,ch'a coloro ſon d'huo po ) che il rimanente tutto della medicina apparar bene, e lodevolmente intendono; e ciò ſenza , che lo troppa fati ca vi duri, agevolmente ſi può comprendere per coloro che alle biſogne tutte d'una cotalarte fiſamente riguardano. Ma concioſliecolachè i guaſti, e biaſimevoli coſtumi del ſe colo ciò non comportino ' , dovrebbe almen chi deſidera una tanta impreſa leguire,oltre alla ſua natura, e a'genero fi, c lodevolicoſtumi,eſſer mezzanamente, per tacer dell' Araba , almeno della latina , c della greca lingua inteſo , per dover poi intendere i varj, e diverſi ſcrittori, che nell' una, e nell'altra lingua materie a ciò appartenenti deſcri vono. Appresso egliè dimeſtieri aver continuo tra le ma ni pronta , e apparecchiata la conoſcenza , non folamente di que’vegetabili,o minerali, o animali, che maneggiar fo vente coſtuma , ma di quelli ancora , che nelle ſtrane, enon ordinarie compoſizioni de’medicamenti gli poteſſero tale ra dal medico venirimpofte . Dovrebbe oltre a ciò eſler pienamente informato degli ſtrumenti tutti, e ordigni dell' arte, e delle convenenze, e proporzioni ancora , che alcu ni di quelli han co’ſemplici , de' quali egli nel ſuo lavorio ſervir li dee . Ma ſopra tutto convien , che la propietà , e la natura del fuoco egli perfettamente ſappia ; acciocchè poi comprender appieno ,e ravviſar poſſa quelle alterazio ni , che indi le medicinali compoſizioni ricever fogliano ; alla qual coſa certamente aggiugner non potrà colui, che non prenderà per guida, e per iſcorta la Chimica ; ſenza la quale Io non veggio , come bene , e lodevolmente per huố li poſſa un sì malagevole meſticre adoperare ; ſenzachè migliore aſſai, e di maggior giovamento all'uman genere farebbe , ficome altrove abbiam detro, ſe da ſoli medici i medicamenti li lavoraffero ; perciocchè, quanto a me , lo non ſo a niyn modo comprendere , comemai perfettamen te fabbricargli colui poſsa , il qual non abbia in prima le manicre tutte del loro operare con gli occhj propi piena mente conoſciure. Perchè dovrebbono finalmente gli ſpe ziali , oltre alle ſopradetre coſe , avere in prima tanto qua to ſtudiato in medicina , ed in qualche ſpedale co ' pro pj occhj all' operazioni de’medicamenti riguardato . E ſcorgendofi omai in tutte botteghe di ſpeziali aver non poca quantità di chimici medicamenti, non ſi dovrà più avanti dubitare, convenir lo ſpeziale almen per queſto ca po eſser della Chimiea baftevolmente inteſo , e ſperto , In quanto alle Chimiche medicine poi, comcchè per noi fia ſtato di ſopra baſtantemente raffermato , che il fabbri. carle propiamente appartenga a medici; non però di meno da cheimedici, o non vogliono per lor tracoranza , o non fanno , o non poſsono invilupparvili,lo aſsai ben giudiche ici , Del Sig. Lionardodi Capoa. 057 rei , ch' a' ſoli speziali, e a tali , quali noi diviſamino ſe ne commetteſse ſtrettamente la cura ; ne altra privata perſoni s'inframmetteſse di lavorarne alcuna ; male compoſizioni de'più pericoloſi, e rilevanti medicamenti, o da medici lo li, come dicemmo lavorar ſi dovrebbero , o almen dagli ſpeziali in preſenza de'medici . Ne è da dir con alcuni, po terſi alle ſconvenevolezze tutte ripararare colla ſola eſa minazione, che delle medicine chimiche fi' faceſse allor che ſiviſitano , come dir ſi ſuole , le ſpezierie ; concioffie coſachè vana ſenza dubbio , e inutile cotal eſaminazione riuſcircbhe: per non poterſi mai , per ſogno niuno, lorvir tù , e lor forza baſtantemente avviſare . Echi mai ne' bof foli delle botteghe , la bontà, e finezza del mercurio di vi ta, dell'antimonio diaforetico, delbelzoardico minerale , e d'altri , e d'altri sì fatti medicamenti d'odore , e di ſapore affatto privi,per pruova de’ſentimenti avviſar mai ſapreb be , e l'eccellenza , e la perfezione ridirne, ſenza eſsey irl prima cgli ſtato preſente al lor lavorio E tanto queſta ma iagevolezza dell'indovinare i chimici medicamenti anche per li macſtri di quelli è grande , che cziandio de'più me nomi,e comunalinon ſi può nulla di certo fovétemente di viſare; ſicome que'ſali, che fiffi diconſi ci danno apertamen te a divedere ; imperocchè i fali fiſi , per nulla dire del fa pore , che in tutti il medeſinio appare ,ne alle varie manie re , chcin criſtallizandofi, per valermi d'una parola dell' arte , ſoglion figurarſi: ne a' varj colori ,de'quali veſtono il precipitato colcotare , ne ad altro ſegnale può niuno macſtro , comęchè ſperto , e ſaggio in chimica, certamente ravviſare, e ſicuramente de terminare di qual pianta , di qual animale ſieno ; conciofficcofachè parecchj ſali di diverliſt me piante fra eſſo loro ,prender ſogliano in criſtallizandoſi la medeſima figura , e del color medeſimo veſtir anche ſo gliano il colcotare ; ma onde ciò avvegna , non fa iuogo ora , che lo imprenda ad inveſtigare , eſſendo oltre traſcor ſo tanto co’miei ragionamenti, che mi convien riſerbare , più d'una coſa al nostro proposito appartenente, ad altra, Oooo più agiata opportunità ; la quale ſe miverrà mai, come pero, diviferonne forſe pienamente, e di vantaggio in uno ſpezial libro , il quale lo ora ſto intero a comporre. Alcesto Cilleneo (arcade). Lionardo di Capoa. Leonardo di Capua. Keywords: Aristotele, filosofia, ragione debole, La Crusca, comunicazione, platone. Incertezza, investigare, gl’investigante, vestigia lustrat. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capua” – The Swimming-Pool Library.

 

Carabellese (Molfetta). Filosofo. Grice: “I love Carabellese; his masterpiece is ‘the rock and the sand,’ which reminds me of Tuke’s Cornwall! – Tuke captured some dialectic on the sand and rocks, which I’m sure were common in Ostia, too, back in the day! Carabellese speaks of a ‘semiotic scandal’ so it all connects with my pragmatics of dialectics or conversation.” Studia a Napoli e Roma. Insegna a Palermo e a Roma.A partire da una critica ferrata alla dottrina cartesiana (Le obbiezioni al cartesianesimo; il metodo, l’idea, la dualita; Il circolo vizioso in Cartesio) porta a compimento studi critici su diversi autori, tra i quali spiccano Kant e  Rosmini. Elabora la dottrina dell'ontologismo critico, in cui l'essere non è mero oggetto della coscienza ma è a essa intrinseco come fondamento irriducibile, cioè essere-di-coscienza, che in ultima istanza altri non è che Dio (che, come già asseriva Vico, "è" e non "esiste").  Difese l'oggettività essenziale dell'essere e la filosofia, non come sapere specialistico trincerato, ma come operatrice per l'umanità tutta così che la coscienza filosofica esplica quella teoria che nel diversificarsi concreto della spiritualità risulta necessariamente implicita. E allora lo sforzo della filosofia non potrà mai, quindi, essere compiuto atto seppure la teoria si attui sempre in una pratica, che è l'altro termine del concreto. Insomma Carabellese difese la filosofia come ascesa teoretico-razionale a realtà teologiche, o come sentiero che volge al fondamento comune della vita politica e che alla politica rimane irriducibile. Altre opere: Critica del concreto; Il problema della filosofia da Kant a Fichte; Il problema teologico come filosofia; L'idealismo italiano; L'idea politica d'Italia; Da Cartesio a Rosmini. Fondazione storica dell'ontologismo critico. L'essere e la manifestazione. L'essere e la manifestazione: Dialettica della Forme. L'essere. Filosofo della coscienza concreta, Ravenna, Edizioni del Girasole. La sabbia e la roccia: l'ontologia critica di Pantaleo Carabellese. Il problema dell'io in Carabellese. Metafisica in Pantaleo Carabellese. Kant e Carabellese.  Dizionario Biografico degli Italiani. Autolimitazione della metafisica critica? Momenti della recezione italiana di Fichte con particolare riferimento all'ontologismo critico di Carabellese. E anche per lui lo gnoseologismo era il fraintendimento della vera scoperta di Kant , ed era all ' origine della moderna ... intesa come « scoperta » deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il Semerari chiama « lo scandalo ...seDalla filosofia intesa come « scoperta » deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il Semerari chiama “lo scandalo linguistico,” cioè la terminologia dell ' Ontocoscienzialismo , a prima vista sconcertante. See also the important chapter " Lo scandalo linguistico , " in G. Semerari , La sabbia e la roccia. Merleau - Ponty , Sens et non - sens , Paris , Nagel , 1948 ; It . trans . by P. Caruso , Senso e non senso , Milan , Il Saggiatore. La ontologia di Carabellese, così, si prospetta come una ontologia della coscienza assiologica e semantica, ossia come una critica antinaturalistica e antipsiscologistica dei valori e dei significati dell’essere»42. L’importanza del lavoro filosofico carabellesiano, secondo Semerari, consiste nell’esigenza radicale di lavorare alle radici del linguaggio filosofico, di andare al di là della storia già fatta, come scrive Semerari citando Carabellese43, scendendo sino ai suoi presupposti: ciò significa portandosi al grado zero della parola per reinventare il linguaggio filosofico e le connessioni che in esso si sono stabilite lungo la sua storia, a partire dalla cosa stessa, ossia dall’essere in cui la coscienza è già implicata. Scrive Semerari: «Sotto questo riguardo non si può trascurare la convergenza con la ontologia critica di quella parte della filosofia linguistica contemporanea per la quale, al limite tra fenomenologia, esistenzialismo e analitica, porre la questione del linguaggio è portarsi al grado zero della parola, al silenzio come radice di ogni possibilità linguistica, fare giudice della critica del linguaggio, com’è stato suggestivamente detto, la ‘coscienza silenziosa’. singolari di Coscienza si costituiscono come soggetti pensanti in comunicazione tra loro. L’alterità dell’altro io presuppone l’identità dell’io che lo esperisce come altro. Reciprocamente la coscienza della propria identità egologica richiede il rapporto di alterità come intrinseco all’essere stesso dell’io. L’alterità sempre afferma chi dice io, il quale ciò dicendo, anche trascendentalmente si distingue, senza per questo separarsi assolutamente, da un chi che riconosce di fronte a sé [...]. Con questo chi egli afferma una relazione reciproca con la quale attua l’egoità. Soggettività ed egoità pura sono sempre pura alterità»19. L’alterità di ciascun io è, come scrive Carabellese, «l’insondabile residuo di meità intraducibile in esperienza dell’altro. Ma questa intraducibilità, che è il limite che la meità ha nell’esperienza, non prova che l’alterità sia soltanto di esperienza e non pura, ma prova, precisamente, il contrario, e cioè che, a fondamento dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura come schietta egoità»42. Alterità e non assolutezza dell’io L’Essere di coscienza richiede la compattezza non la relazione fra Oggetto universale, Dio, e soggettività molteplice. La relazione è fra i soggetti: infatti, l’io come uno esistente, implica necessariamente l’altro, che è sempre un altro io, sottolinea il Carabellese. Diversamente l’io assoluto fichtiano, dilaga nella coscienza, identificandosi con essa, riducendo l’oggettività a negazione; ma resta così l’io nella sua solitudine e, senza l’altro, cade nel nulla del non pensare. L’io fichtiano, nell’interpretazione del Carabellese, elimina gli altri io dalla coscienza, assolutizzandosi, ma in tal modo perde la meità, approdando all’Unico, che egli vede come una nuova forma di eleatismo8. Il Carabellese sottolinea che se non è da percorrere l’identificazione dell’io con la coscienza, tuttavia questo non conduce alla cancellazione della meità; invece, pensare l’immediata appartenenza del me all’essere di coscienza, non assolutizzando il me, apre ad intendere gli altri. Non l’annullamento del me costituisce la base per la relazione responsabile in sede etica (Lévinas), ma proprio partendo dal me, per il Carabellese si giunge agli altri come altri “di” me, esistenti nella loro singolarità, non si giunge agli altri “da” me. Il me esistente nella purezza dell’Essere di coscienza apriori di cui parla il Carabellese, in primo luogo non si identifica con il corpo, in quanto quest’ultimo trova il suo limite nell’altro corpo e, più in generale nell’altra cosa: «Io, come innegabile esigenza di coscienza non sono, o se volete, non sono affatto corpo. pur mio. Ora la differenza fra me, che pur sono uno esistente, e il mio corpo, che anch’esso è uno, sta proprio (non se ne può trovar altra) nel limite, che il mio corpo trova negli altri corpi, e che io non trovo, se non voglio cadere nell’assurdo di ritenere me il mio corpo» Carabellese rifiuta l’ipotesi materialistica, perché se l’io si identificasse con il corpo non potrebbe affermare nemmeno la propria corporeità, ossia che il corpo è suo. Nella concezione materialistica l’io si identifica con il corpo che diventa la radice dell’opposizione con gli altri. Se si realizzasse questa identificazione in realtà si avrebbe la soppressione dell’io come uno di coscienza, e anche gli altri non sarebbero più altri uno di coscienza. Il nulla del non pensare si porrebbe contraddittoriamente come l’essere. Anche la concezione spiritualistica che intende l’io come spirito finito, ha come esito la riduzione dell’io a corpo, perché sostenere la limitatezza dello spirito implica sottoporlo al limite, come il corpo, eliminando così il me. Anche se Fichte ha evitato la riduzione dell’io al corpo, non ha tuttavia salvato la meità identificando l’io con la coscienza. Infatti nell’io empirico il me è sostanzialmente ridotto a corpo, a non-io. Solo l’Io, unico, assoluto pone se stesso. In Hegel, poi, ogni residuo di meità è tolta nel Soggetto assoluto. L’io perciò è spirito infinito, ma da questo non deriva per il Carabellese che venga eliminata la distinzione dell’io dal tu nella coscienza, ossia che vengano tolti gli altri, con il rischio di tornare a Fichte. Per il filosofo italiano «togliere il limite è affermare gli altri», non annullarli; infatti, per giungere alla negazione dell’altro, o degli altri, «bisogna prima ammettere – osserva il Carabellese – che gli altri, in quanto tali, escludano l’uno di tale essere, e che l’uno esclude gli altri; bisogna cioè cominciare proprio con l’opporre ad uno gli altri dall’uno, ritenendoli diversi ed opposti a questo e cioè col presupporre che uno (io) sia la coscienza, e gli altri no, e perciò siano non io, non coscienza. Cioè bisogna cominciare col presupporre la empirica limitazione dei corpi, la quale appunto, nella identificazione di me col corpo mio, fa ritenere me, col mio corpo, coscienza e gli altri, che col loro corpo limitano il corpo mio, non coscienza»11. Già ne Il problema teologico come filosofia il Carabellese afferma, polemizzando con Fichte, che la molteplicità soggettiva non è semplicemente empirica, ma pura, condizione trascendentale della “concretezza”; la singolarità non è solitudine, ma relazione reciproca nel pensare, sentire, agire l’Universale/Dio. L’io esistente, singolare, è uno, e come tale è ciascuno, essenzialmente altro. «Il singolare è quell’uno, di cui si sa l’alterità, ed è perciò ogni uno, ciascuno, unusquisque. Uno che non sia ciascuno, non è uno. E, ancora più incisivamente: «Io sono altro: solo così “sum qui sum”» L’altro, spirito infinito come l’io, per il Carabellese non è esteriore, né eterogeneo rispetto al me, non si risolve in una identificazione con l’oggetto realisticamente inteso. Nell’ultimo sistema il Carabellese sostiene l’“identità” dei soggetti pensanti, portando alle estreme conseguenze la determinazione dell’omogeneità, senza però indicare come possano differenziarsi i soggetti l’uno dall’altro. Il rischio dell’annullamento dell’alterità, pur se non voluto, è evidente; infatti per spiegare il darsi della molteplicità soggettiva egli parla di alterazione, come moltiplicazione infinita riferendola però non all’uno, al soggetto, ma all’Unico, ossia all’essenza divina, al che. Tuttavia, se la moltiplicazionealterazione è riferita dal Carabellese all’Unico, non all’uno: allora l’altro, è un altro uno, ossia un altro soggetto, oppure un impossibile altro Unico? Ed essendo l’Unico non soggettivo, come possono derivarne i soggetti? In realtà possiamo muovere anche al Carabellese l’osservazione di involgersi in una sorta di circolo fra Dio e io, in quanto se da un lato Dio è la qualità infinita di cui l’io è terminazione, moltiplicazione/alterazione, nello stesso tempo a Dio, in quanto non soggettivo, sono necessari i soggetti pensanti. L’uno di cui parla il Carabellese è l’io che immediatamente si intuisce singolare, e che altrettanto immediatamente avverte l’alterità: «Uno che non sia ciascuno, non è uno», afferma eloquentemente. Egli sente il pericolo di ricondurre e ridurre la meità ad una ciascunità di identici, perdendo l’originalità e l’inconfondibilità di ciascuno nei confronti degli altri. Tuttavia per il Carabellese invece proprio il recupero dell’altro consente la realizzazione di sé. Ma, se si andasse più profondo in questo amor di me spirituale, che è, o dovrebbe essere, l’amor proprio, se si sviluppasse ciò a cui esso mi costringe, si vedrebbe, che, se io veramente voglio dare una positività a questa negazione del “non tu”, se non voglio divenire un puro e semplice “non” devo considerare me come uno tale che possa e debba riversare l’amor di me uno in altro uno, che è uno come me, cioè devo riconoscere l’unità, che sono io, nell’alterità. L’amor mio proprio, che non voglia essere soltanto amor del mio corpo, è proprio amor dell’altro. L’amor proprio spirituale non mi costringe alla assolutezza (unicità e incondizionatezza) della mia unità, ma proprio alla sua alterità: l’amore è sempre amore di altro: è la grande scoperta di Cristo»15. La struttura dell’essere di coscienza apriori richiede l’alterità e Dio o, in altri. termini, l’uno molteplice e l’Unico: in tal modo è la stessa struttura coscienziale a dare fondamento alla carità. L’amor proprio e l’originalità di ciascuno si afferma e realizza nella relazione e nel riconoscimento degli altri: «Io facendo dagli altri riconoscere me tra essi, e riconoscendo me come altro, non tolgo ma affermo la mia originalità»16. Per il Carabellese l’amor di sé ha insita l’esigenza della relazione con l’altro; solamente chi concepisce l’io come l’Unico chiuso in se stesso, privo di meità e di relazione, il solo, parla di offesa dell’amor proprio, ma in realtà non si avvede che quell’Unico non è più nemmeno soggetto. Tuttavia i problemi restano: la relazione con l’altro identico rischia di essere più un narcisistico rispecchiamento, che una vera relazione, più una sorta di moltiplicazione dell’Unico, un suo reiterarsi che il faticoso cammino del riconoscersi. Fra i soggetti nella loro purezza, per cui sono infinitamente penetrativi e interi nella loro relazione, l’identità è già data immediatamente: ma allora non si comprendono gli erramenti, le lotte e gli scontri a livello empirico. L’altro per il Carabellese è un altro me, non la negazione del me. Ineludibile il riferimento al Parmenide platonico e all’opposizione che Platone pone tra uno e altri. Per il Carabellese, sulla base dell’essere di coscienza, tale opposizione non si dà; alla domanda del Socrate platonico su quel che siano gli altri, quando io sia, si può rispondere, che essi, non sono altri dall’uno ma altri uno, sono perciò altri “me”. Il Carabellese individua la causa della “cacciata” degli altri dalla coscienza nella erronea identificazione della coscienza concreta con l’io: per tale scambio l’io annulla la “qualità” di cui insieme agli altri è individuazione senza esaurirla. Nello stesso tempo si annulla la “quantità” pura, restando il solo, che cade nell’assurdo di non essere né soggetto, né oggetto. L’io infinitamente aperto, illimitato, identico, intero pur se nell’essenziale relazione, di cui parla il Carabellese è apriori, non si identifica con il singolo uomo vivente, limitato nello spazio e nel tempo: essere condizionato e limitata persona dell’esperienza, presuppone essere soggetto incondizionato e illimitato nell’essere di coscienza puro. Sembra presentarsi una scissione fra il soggetto in quanto pensante e l’uomo vivente spazio-temporalmente, fra “miglior coscienza” e “coscienza empirica”, per utilizzare in chiave euristica espressioni del giovane Schopenhauer, che riflette sulla duplicità della coscienza, non facendo ancora riferimento alla volontà come principio metafisico. Però proprio il pensare, da lui inteso in senso ampio come intendere, sentire e volere che si esplicano nell’attività spirituale umana, esige il livello della purezza coscienziale. Come abbiamo visto in precedenza, per il Carabellese l’assolutizzazione della. Cfr. A. Schopenhauer, La dottrina dell’idea, antologia a cura di E. Mirri, Armando, Roma. dimensione spazio-temporale, ossia del limite, condurrebbe all’annullamento dell’attività spirituale umana. Il Carabellese non intende semplicemente opporre la propria concezione a quella fichtiana, ma intende condurne all’estremo le conseguenze, ipotizzando una sorta di esperimento mentale. Infatti, se l’Io si ritenesse assoluto e si arrogasse il diritto di sopprimere il tu, riducendolo soltanto a sua esperienza, allora «rimarrebbe sì, solo Io, ma solo in quanto avrebbe soppresso il tu e quindi anche l’esperienza, che egli ne ha: non ci sarebbero più i tu, che egli dovrebbe dimostrare essere soltanto io empirici: gli altri non sarebbero empirici, non ci sarebbero. Or senza i tu (altri) ci sarei ancora io (uno)?»18. In realtà, per il Carabellese c’è un'unica soluzione, che esclude la fine tragica della disputa: «Non c’è dunque altra via d’uscita da esso, se non quella che io non mi contenti di ricambiare la tuità, ma gli ricambi proprio la meità, riconosca in lui non un tu posto da me (Fichte) ma un altro io, e perciò mentre gli riconosco la meità, che egli non mi riconosce, gli contesto il diritto di trasformarsi in Io assoluto, mostrandogli che così egli sopprime se stesso come io, e nega l’assoluto facendolo, lui, sapere e parlare come Io»19. Dio, ossia l’Unico, non è soggetto, ma come qualità infinita, costituisce l’essenza di cui i molti soggetti sono individuazione o moltiplicazione, con tutti i problemi che ne conseguono20, compreso il possibile l’esito fichtiano. Secondo il Carabellese si può dire che «sono l’identico io proprio perché siamo due»: se fosse eliminato il tu come altro me, riducendolo ad esperienza, sarebbe eliminato anche quel consentire in cui consiste la stessa esperienza. Non solo l’esperienza richiede la dimensione comunitaria, ma in generale il pensare, che è essenzialmente un convenire, un cum-sapere21 l’Universale, Dio. Quel cum non è un'aggiunta irrilevante, in quanto la dimensione intersoggettiva, comunitaria, è essenziale a tutte le forma dell’attività spirituale umana. «Ci sarà – afferma il Carabellese –, anzi c’è senza dubbio, quella empirica alterità, nella quale ciascuno di noi presenta all’altro un insondabile residuo di meità intraducibile in esperienza dell’altro, ma questa intraducibilità, che è il limite che la meità ha nella esperienza, non prova che l’alterità sia soltanto di esperienza e non pura, ma prova precisamente, il contrario, e cioè che, a fondamento dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura come schietta egoità, prova che il limite empirico, che separa me da te, persone viventi, non è la stessa alterazione pura di noi altri due, ciascuno singolare; io, alterazione pura, per la quale ciascuno, con la propria unità è immesso nell’altro uno, Cfr. F. Valori, Il problema dell’io in Pantaleo Carabellese. Cfr. in proposito P. Carabellese, La coscienza. immissione, senza della quale è assurdo non solo l’innegabile consentimento ma anche la divergenza di noi nell’alterità nostra; consentimento, e divergenza, per i quali noi, ciascuno come altro, siamo tanti soggetti dell’Unico, che è immanente a noi molti»22. La differenza fra le egoità si dà solo a livello empirico, a livello trascendentale e metafisico i soggetti sono identici, interi23 e, nello stesso tempo infinitamente penetrativi24. Pantaleo Carbellese. Keywords: lo scandalo del significato, io/tu, Husserl, intersoggetivita, razionalita strategica, razionalita comunicativa, complessita intensionale, il significato, i significati, l’insieme, la comunita, il noi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carabellese” – The Swimming-Pool Library.

 

Caracciolo (San Pietro di Morubio). Filosofo. Grice: “I like Caracciolo – at Harvard, I joked on Schlipp, and stated that Heidegger was then the greatest (grossest, in German) living philosopher – as he then was, living --. Caracciolo has dedicated his life to translate Heidegger’s ‘Dutch’ mannerism into the ‘volgare’: and now I have concluded that Heidegger is perhaps the grossest dead philosopher – “in cammino verso il linguaggio: il dire originario” –“.  Grice: “Note that Caracciolo’s ‘cammino’ translates Heidegger’s ‘weg’ – my ‘way’ of words – but for Heidegger is ‘way to’ (weg zur) – as it should!” cf. Speranza, “in cammino verso la conversazione” – versus “il cammino della convresazione’ –“ Grice: “Note that in Italian, unlike German, you drop the otiose ‘the’ of ‘way – “Nel cammino” is o-kay, but “in cammino” is the choice by Caracciolo!” – cf. Aligheri, ‘nel cammino’ OF his life, towards heaven, or paradise, that is.” Studia a Verona e Pavia. Fa la conoscenza di Olivelli, con il quale collaborò alla stesura dei Quaderni del ribelle. Olivelli divenne uno dei più noti martiri della Resistenza e a lui Caracciolo dedica un saggio, “Teresio Olivelli: biografia di un martire” (Brescia). Insegna a Pavia, Lodi, Brescia, e Genova. La sua filosofia si sviluppa inizialmente all'interno della tradizione crociana, ma poi acquisisce tratti più originali a contatto con Jaspers, Löwith e Heidegger. In cammino verso il Linguaggio. Di particolare interesse e importanza sono i suoi studi sul nichilismo a partire da Leopardi e sulla dimensione religiosa dell'esistenza. Nella sua riflessione egli ha pure mostrato una forte attenzione per il rapporto tra pensiero e poesia, tra pensiero e musica. Altre opere: “L'estetica di Benedetto Croce nel suo svolgimento e nei suoi limiti (Torino); L'estetica e la religione di Croce (Arona); Estetica (Brescia); Etica e trascendenza, Brescia); Arte e pensiero nelle loro istanze metafisiche. I problemi della "Critica del giudizio", Milano); Studi kantiani, Napoli); La persona e il tempo, Arona; Saggi filosofici, Genova); Studi jaspersiani, Milano); La religione come struttura e come modo autonomo della coscienza, Milano); Arte e linguaggio, Milano); Religione ed eticità, Napoli); Löwith, Napoli); Nichilismo, Napoli); Nichilismo ed etica, Genova); Studi heideggeriani, Genova); Nulla religioso e imperativo dell'eterno, Genova); Politica e autobiografia, Brescia); Leopardi e il nichilismo, Milano); La virtù e il corso del mondo (Alessandria); L'assolutezza del Cristianesimo e la storia delle religioni, Napoli); Filosofia della religione; In cammino verso il Linguaggio; Theophania. Lo spirito della religione antica. Filosofia umana. Esistenza e Trascendenza. Lo spazio della trascendenza. La prospettiva estetica ed etico-religiosa. Caracciolo. Sentieri del suo filosofare. Unterwegs zur Sprache. In cammino verso il linguaggio. F.-W. von Herrmann, Die Sprache. Il Linguaggio. Die Sprache im Gedicht. Il linguaggio nella poesia. Eine Erörterung von Georg Trakls Gedicht. Aus einem Gespräch von der Sprache. Zwischen einem Japaner und einem Fragenden. Das Wesen der Sprache. L’essenza del linguaggio. Das Wort. La parola. Il verbo. Der Weg zur Sprache. In cammino verso il linguaggio. Essere e tempo. La riflessione esplicita sul linguaggio. ζῷον λόγον ἔχον. Ermeneutica e metodo storico-ermeneutico. Il ‘non’ come fondamento. Più in alto della realtà sta la possibilità. La Kehre. L’essere: un problema che rimane problema. Poesia. L'arte come messa in opera della verità. Hӧlderlin. Il tempo della povertà. Il pensiero come Kehre. In cammino verso il silenzio. La differenza e il fondamento. In cammino verso il linguaggio: il dire originario. In cammino verso il linguaggio: il suono del silenzio. “Heidegger is the greatest living philosopher”.  Martin Heidegger In cammino verso il linguaggio Curatore: A. Caracciolo Mursia Editore 2014 Pagine: 222 13 maggio 2015 Nel 1959 Heidegger scrisse In cammino verso il linguaggio. Ci sono alcune cose interessanti e volevo proporvele questa sera. Innanzi tutto l’esordio in cui è molto chiaro e molto deciso dice: L’uomo parla, noi parliamo nella veglia e nel sonno, parliamo sempre anche quando non proferiamo parola ma ascoltiamo o leggiamo soltanto perfino quando neppure ascoltiamo o leggiamo ma ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell’ozio, in un modo o nell’altro parliamo ininterrottamente, parliamo perché il parlare ci è connaturato. Il parlare non nasce da un particolare atto di volontà, si dice che l’uomo è per natura parlante, e vale per acquisito, che l’uomo a differenza della pianta e dell’animale è l’essere vivente capace di parola, dicendo questo non si intende affermare soltanto che l’uomo possiede accanto ad altre capacità anche quella del parlare, si intende dire che proprio il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. L’uomo è uomo in quanto parla, è la lezione di Wilhelm Von Humboldt, resta però da riflettere che cosa significhi “l’Uomo”. Ora considera una poesia di Carl Kraus: Quando la neve cade alla finestra a lungo risuona la campana della sera, per molti la tavola è pronta, la casa è tutta in ordine. Alcuni nel loro errare giungono alla porta per oscuri sentieri, aureo fiorisce l’albero delle grazie, la fresca linfa della terra, silenzioso entra il viandante, il dolore ha pietrificato la soglia, là risplende in pura luce, sopra la tavola, pane e vino. La sua ferita piena di grazie lenisce la dolce forza dell’amore “o nuda sofferenza dell’uomo” colui che muto ha lottato con gli angeli. Ve l’ho letta visto che ne parla, che cosa “chiama” la prima strofa? Perché lui dice che il linguaggio è qualcosa che “chiama” le cose letteralmente dice “il linguaggio parla” ma come parla? Dove ci è dato cogliere questo suo parlare? questo già è interessante perché non è l’uomo, ma è il linguaggio che parla, dice: innanzi tutto in una parola già detta, in questa infatti il parlare si è già realizzato, il parlare non finisce in ciò che è stato detto. Qui sentirete a breve echeggiare anche molte cose di Lacan e di altri. In ciò che è stato detto il parlare resta custodito, in ciò che è stato detto il parlare riunisce il modo del suo perdurare, è ciò che grazie ad esso perdura, il suo perdurare, la sua essenza, ma per lo più, e troppo spesso, ciò che è stato detto noi lo incontriamo soltanto come il passato del parlare. // Lui considera la prima strofa e dice: che cosa “chiama” la prima strofa? Chiama cose, dice loro di venire, dove? Non certo qui, nel senso di farsi presenti fra ciò che è presente, sicché per esempio la tavola di cui parla Kraus venga a collocarsi fra le file di poltrone da loro occupate, il luogo  2 dell’arrivo che è con-chiamato nella chiamata, è una presenza serbata intatta nella sua natura di assenza, è questo il luogo in cui quel nominante chiamare dice alle cose di venire, in una assenza, poi preciserà fra breve il chiamare è un invitare tenete conto che sta dicendo della parola è l’invito alle cose ad essere veramente tali per gli uomini, la “caduta della neve” (qui cita un’altra strofa di Kraus) porta gli uomini sotto il cielo che si oscura inoltrandosi nella notte, il suonare della “campana della sera” li porta come mortali di fronte al divino, “casa” e “tavola” vincolano i mortali alla terra, le cose che la poesia nomina in tal modo “chiamate”, adunano presso di sé cielo e terra, i mortali e i divini, i quattro “cielo, terra, i mortali e i divini” costituiscono nel loro relazionarsi una unità originaria, le cose trattengono presso di sé il quadrato dei “quattro”, in questo adunare e trattenere consiste l’esser cosa delle cose, l’unitario quadrato di cielo e terra, mortali e divini, immanente all’essenza delle cose in quanto cose, noi lo chiamiamo “il mondo”. La poesia nominando le cose le chiama in tale loro essenza, queste nel loro essere e operare come cose dispiegano il mondo, nel mondo esse stanno e in questo loro stare nel mondo è la realtà e la loro durata, le cose in quanto sono e operano come tali portano a compimento il mondo. Nel tedesco antico “portare a compimento” si dice “bern, bären” donde i termini “gebären” “generare” e “Gebärde” “gesto”, quanto mettono in atto la loro essenza le cose sono cose, in quanto mettono in atto la loro essenza esse generano il mondo. La prima strofa chiama le cose al loro esser tali, dice loro di venire, tal dire chiamando le cose le chiama presso, le invita, al tempo stesso sospinge verso le cose, affida queste al mondo da cui si manifestano, per questo la prima strofa nomina non soltanto cose ma insieme il mondo, chiama i molti che come mortali fanno parte del quadrato del mondo, le cose condizionano i mortali ciò a questo punto significa: le cose visitano di volta in volta i mortali sempre e solo insieme col mondo. La prima strofa parla nell’atto che dice alle cose di venire, la seconda strofa parla in modo diverso dalla prima eccetera … qual è la questione qui? Importante perché ci sta dicendo che c’è il mondo che è fatto di che cosa? “dei, mortali, cielo, terra”, il mondo è ciò per cui le cose sono quelle che sono, adesso ve la dico in modo molto più semplice e capirete subito: “le cose” sono gli enti, il “mondo” è l’Essere. In questa posizione sta dicendo che senza il mondo cioè senza l’“Essere”, che poi questo mondo, lui è preciso qui quando dice “la caduta della neve” per esempio nel verso “porta gli uomini sotto il cielo che si oscura inoltrandosi nella notte e il suonare della campana della sera li porta come mortali di fronte al divino” cioè queste parole costruiscono la scena entro la quale la “cosa” può apparire, come se fosse, adesso preciseremo meglio, come se la “cosa” fosse una sorta di significante, adesso sto un po’ stravolgendo ma per farvi capire, il “mondo” il significato, senza significante non c’è significato e viceversa, il significato cioè ciò che questa “cosa”, questa parola produce, se lui nomina il “suonare della campana” è chiaro che questo suonare della campana evoca qualcosa, evoca il divino, evoca la religione, evoca tantissime cose, adesso lui ne cita solo una, ma potrebbero essere sterminate ed è all’interno di questo che l’ente compare, Intervento: come se le cose potessero apparire solo in questa scena che è il “mondo”… Esattamente, però senza gli enti il mondo non c’è … Intervento: il mondo è la totalità degli enti? Sì, esattamente, poi: Come il chiamare che nomina la cose chiama presso e rimanda lontano, così il dire che nomina il “mondo” è invito a questo a farsi vicino e al tempo stesso lontano. Cosa vuole dire che “chiama presso e rimanda lontano” questo “chiamare”? le chiama le cose parlando, io chiamo le cose quindi è come se me le avvicinassi ma mentre avvicino queste cose, queste cose si allontanano anche, si allontanano perché di cosa sono fatte? Intervento: c’è sempre quell’assenza di prima … Sì, queste parole sono assenti, nel senso che non sono lì in quanto tali, sono lì sempre in quanto riferite al mondo ecco: esso, il chiamare, affida il mondo alle cose e insieme accoglie e custodisce le cose nello splendore del mondo, il mondo concede alle cose la loro essenza. Quindi è questo mondo, questa scena, io adesso uso dei termini che lui non usa ma solo per rendere le cose più semplici, è questo “mondo” che dà alle cose la loro essenza, qui sembra essere ancora platonico, questo mondo  3 potrebbe essere pensato come il mondo delle idee ed è questo mondo delle idee che da alle cose, agli aggeggi la loro essenza. Le cose d’altra parte fanno essere il mondo, il mondo consente le cose. Il parlare delle prime due strofe parla nell’atto che sollecita le cose a venire verso il mondo e il mondo verso le cose- tenete sempre conto che sta descrivendo cosa fa il linguaggio: neppure però costituiscono soltanto una coppia, mondo e cose non sono infatti realtà che stiano l’una accanto all’altra, esse si compenetrano vicendevolmente, compenetrandosi i due passano attraverso una linea mediana, in questo si costituisce la loro unità, per tale unità sono intimi linea mediana e l’intimità, per indicare tale linea la lingua tedesca usa il termine “das …” il “fra” “fra mezzo” la lingua latina dice “inter”, all’“inter” latino corrisponde il tedesco “unter”. Intimità di mondo e cosa non è fusione - ora cominciate a pensare a queste due cose “mondo e cosa” come significato e significante e adesso vi dirò perché non è una fusione fra le due cose, pensate a De Saussure, L’intimità di mondo e cosa regna soltanto dove mondo e cosa nettamente si distinguono e restano distinti, nella linea che è a mezzo tra i due, nel fra mezzo di mondo e cosa, nel loro “inter”, questo “unter, domina lo stacco. ora adesso non so se è già il caso di dire qua, ecco qui comincia con la questione della “differenza”: L’intimità di mondo e cosa è nello stacco, “Schied” “del frammezzo” e nella “dif-ferenza” “Unter Schied”, il termine “differenza” è qui sottratto all’uso corrente e consueto non indica un concetto generico nella cui area rientrino molteplici specie di differenza, la “dif-ferenza” di cui qui si parla esiste solo come quest’una e unica, la dif-ferenza regge, non però con essa identificandosi, quella linea mediana nel modo e nella relazione alla quale, e grazie alla quale, mondo e cose trovano la loro unità, l’intimità della dif-ferenza è l’elemento unificante della diafora, di ciò che differenziando porta e compone, la dif-ferenza porta il mondo al suo esser mondo, porta le cose al suo esser cose, portandoli a compimento li porta l’un verso l’altro. Il termine “dif-ferenza” non indica per ciò più una distinzione posta tra oggetti del pensiero presentativo – Oggetti del pensiero presentativo sono quelli che il pensiero mostra, presenta – né la differenza è solo una relazione oggettivamente esistente tra mondo e cosa, che il pensiero presentativo venendovisi a imbattere possa constatare, né la differenza è comunque relazione tra mondo e cosa destinata ad essere in un ulteriore momento negata e trascesa – cioè non può togliersi – la differenza di mondo e cosa fa che le cose emergano come quelle che generano il mondo, fa che il mondo emerga come quello che consente le cose. La dif-ferenza è la dimensione in quanto misura nella sua interezza facendo essere nella sua propria essenza lo spazio di mondo e cosa, la differenza come linea mediana di mondo e cose rappresenta generandola la misura in cui mondo e cosa realizzano la loro essenza, nel nominare che chiama “cosa” e “mondo” quel che è propriamente nominato è la dif-ferenza. – A questo punto è ovvio che ciascuno di voi ha pensato necessariamente a Derrida, il quale Derrida ha preso a man bassa da Heidegger ma tra breve sarà ancora più evidente, lui, Derrida ha preso Heidegger e lo ha riletto con De Saussure dice: “Questo chiamare” ricordate prima ha detto del chiamare: Questo chiamare è l’essenza del parlare, la dif-ferenza è la chiamata dalla quale soltanto ogni “chiamare” è esso stesso chiamato, alla quale pertanto ogni possibile “chiamare” appartiene. // Il linguaggio parla in quanto suono nella “quiete” (adesso dirà che cosa intende) la quiete acquieta, (ovviamente) portando mondo e cose alla loro essenza, il fondare e comporre mondo e cose nel modo dell’acquietamento è l’evento della dif-ferenza, il linguaggio, il suono della quiete è in quanto “la dif-ferenza”, è come farsi evento, l’essere del linguaggio è l’evenire della dif-ferenza. Il suono della quiete non è nulla di umano, certo l’uomo è nella sua essenza parlante, il termine “parlante” significa qui che emerge ed è fatto se stesso dal parlare del linguaggio. (lui è preciso su questo cioè non è l’uomo che parla, è il linguaggio che parla, e il linguaggio non è un ente, non è un oggetto al pari degli altri, infatti quando la logica parla di “linguaggio oggetto” compie un abominio per Heidegger, perché il linguaggio non è un oggetto, mai può essere oggetto dunque: In forza di tale evenire l’uomo nell’atto che è dalla lingua portato a se stesso, alla sua propria essenza continua ad appartenere all’essenza del linguaggio, al suono della quiete (cioè è l’uomo che appartiene all’essenza del linguaggio non viceversa) tale evento (il suono della quiete) si realizza in quanto l’essenza del linguaggio (il suono della quiete) si avvale del parlare dei mortali per essere dai mortali percepita come appunto “suono della quiete”, solo in quanto  4 gli uomini rientrano nel dominio del suono della quiete, i mortali sono a loro modo capaci di un parlare attuantesi in suoni. Il parlare dei mortali è un “nominante chiamare”, (questo è fondamentale in Heidegger lo ripeto “il parlare è un nominante chiamare”) è invito alle cose e al mondo farsi presso muovendo dalla semplicità della differenza. La pura del parlare mortale è la parola della poesia, l’autentica poesia non è mai un modo più elevato della lingua quotidiana vero è piuttosto il contrario, che cioè il parlare quotidiano è una poesia dimenticata come logorata nella quale a stento è dato ancora percepire il suono di un autentico chiamare. Ecco la questione che sta ponendo è esattamente quella che pone Derrida, questo suono, questo suono silenzioso che non si sente ma che tuttavia è ciò che costituisce la condizione della parola che chiama, beh è ciò che Derrida ha elaborato come “differance”, lui usa per indicare questo suono che non c’è, usa questo esempio, lui scrive in francese “difference” in francese si scrive così, però a “difference” sostituisce alla e una a, scrivendo quindi “differance” che in francese è scorretto perché si scrive “difference”, però dice anche cambiando la e con la a, il suono della parola in francese “differance” non cambia, è esattamente lo stesso cioè questa e non si sente, che metta la e o metta la a, è uguale, non si sente, cioè quella cosa che lui chiama la “differance” è esattamente questo suono muto, che tuttavia è quella cosa che consente alla parola di essere tale e cioè di, mettiamola così, lui, forse dovrei aggiungere qualcosa, lui, Derrida muove a queste considerazioni partendo da De Saussure, dal segno di De Saussure “significante/significato” e quindi ciò che dice è che questa barra è quella che divide il significante dal significato ma è quella che compone il segno, senza questa barra che distingue il significante dal significato il segno non c’è, però questa barra si scrive, si mette il trattino, come faceva De Saussure, ma non c’è, non suona né nel significante né nel significato ecco questa barra è la “dif-ferance”, è quella cosa che non compare, che non ha suono però è la condizione perché il segno sia segno, cioè perché la parola sia la parola è indeterminabile cioè questo suono di cui parla qui Heidegger il “suono della quiete” è questo suono, senza questo “cosa e mondo”, adesso la dico in modo molto rozzo ma si sovrapporrebbero l’uno altro, l’ente, cesserebbe di essere tale perché l’ente è tale perché inserito all’interno del mondo, e il mondo è tale perché esiste un ente che lo pone in essere, esattamente come il significante e il significato. Heidegger non parla né di significante né di significato, non gliene importa assolutamente nulla, per lui il mondo è l’essere, è l’esserci “Dasein”. Ciò che a noi interessa invece è intendere come anche in Heidegger si siano poste delle questioni molto precise intorno al linguaggio, soprattutto rispetto al fatto che il linguaggio non è un oggetto, non è una proprietà dell’uomo, non è una sua facoltà tra altre, ma è il linguaggio che parla, ricordate la famosa asserzione di Lacan quando dice “ça parle” cioè qualcosa parla, viene da qui ovviamente, è stato Heidegger a porre la questione in termini precisi, tali per cui ha preso atto del fatto che il linguaggio non è una proprietà, è questo che dice, non è una proprietà, non è un ente, non è qualcosa di cui gli umani dispongano ma è il linguaggio che parla. Che significa questo per quanto ci riguarda? Significa una cosa importante: è il linguaggio a parlare e a costruire l’uomo, e anche le cose, perché Heidegger dice che le chiama, le chiama alla presenza, però di fatto il linguaggio è quella struttura, come andiamo dicendo da tempo, senza la quale non sarebbe possibile per gli umani il dirsi tali, non sarebbe possibile costruire nessun pensiero, nulla. Quindi lui dice che il linguaggio “chiama le cose”, sì, le chiama nel senso che le crea, le produce letteralmente, e in effetti non lo dice, forse lo usa da qualche parte, non usa la parola “costruire” ma in ogni caso ciò che sta dicendo è che il linguaggio è quella cosa che in un certo senso, adesso permettetemi di dire questa cosa che ad Heidegger non piacerebbe, ma “preesiste” l’uomo in un certo senso, “preesiste” tra virgolette, perché è come se il linguaggio fosse da sempre lì, è questo mondo all’interno del quale qualche cosa può apparire. Ed è una posizione molto interessante che per altro moltissimi hanno ripreso, tutti coloro che si sono minimamente interrogati intorno al linguaggio in qualche modo hanno tenuto conto di queste asserzioni di Heidegger, questo testo è celeberrimo “In cammino verso il linguaggio”  5 Intervento: scusi, dicendo appunto dell’uomo e del linguaggio, non dice che il linguaggio “costruisce” o “inventa” l’uomo, ma dice che il linguaggio fa qualsiasi cosa, però non è giunto a dire che l’uomo non esisterebbe in quanto uomo, se non ci fosse il linguaggio? Nel senso che mantiene l’uomo un’entità che parla, che dice delle cose, o no? Dice in modo molto chiaro: Il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo, Dice ancora: La parola è cenno e non segno, nel senso di semplice denotazione la logica ma anche la linguistica ha sempre considerato la parola come un segno denotante qualche cosa, un segno linguistico che denota un aggeggio qualunque, lui dice che la parola è cenno, accennare a qualche cosa, alludere a qualche cosa, riferirsi indirettamente a qualche cosa, come dire lasciare che questa cosa appaia senza una determinazione precisa, cioè senza una denotazione, la denotazione appunto “de nota”, la denotazione dice qual è il significato di una cosa, ricordate la differenza fra denotazione e connotazione? Dicendo che la parola è cenno, qua nella parte in cui fa questo dialogo ipotetico con un giapponese, è come dire che la parola indica qualche cosa ma che è al di là della parola, la parola è un cenno in quanto indica il mondo all’interno del quale questa parola è inserita, ma lo accenna, non lo determina, non lo può determinare … Intervento: lo potrebbe determinare l’esserci, “Dasein”? è l’“esserci” nel mondo che determina la cosa, ovviamente di volta in volta … Sì, Heidegger oscilla però in genere tende a considerare che l’essere non può stare senza l’ente, altre volte invece sembra dire che, così notava Severino, che l’Essere possa darsi senza l’ente, cosa abbastanza improbabile, è come dire “un significante senza un significato” che cos’è? È niente. Intervento: non ho capito: che l’ente possa esserci senza l’essere, significante senza significato? Heidegger dice che l’ente e l’essere non possono darsi l’uno senza l’altro, così come, stavo dicendo, allo stesso modo come il significante e il significato non possono darsi l’uno senza l’altro. In questo senso dicevo, allora qui si riferisce a “Sein und Zeit”: Si trattava e si tratta, era ed è, di evidenziare l’essere dell’essente, certamente non più alla maniera della metafisica ma in modo che l’essere stesso si manifesti, l’essere stesso, ciò significa la presenza di ciò che può farsi presente, (la “presenza di ciò che può farsi presente”) vale a dire la differenza dei due momenti sulla base dell’unità, è questa differenza che esige l’uomo per la sua propria essenza … che è come dire cioè l’essere stesso, a questo punto se lui lo pone come la differenza dei due momenti “cosa/mondo” sulla base dell’unità, sulla base del fatto che sono inscindibili, dice che allora: è questa differenza che esige l’uomo per la sua propria essenza cioè questa differenza tra il fatto che mondo e cosa pur essendo assolutamente inscindibili sono tuttavia separati, è da lì che l’uomo trae la sua essenza, dal fatto che il significante e il significato cioè ogni parola che dice mostra si presentifica qualche cosa, nel senso che chiama qualche cosa ma mentre chiama la cosa, chiama anche il mondo all’interno del quale questa cosa è inserita e senza il quale mondo non esisterebbe neppure … Intervento: è molto vicino alla semiotica, in fondo parla di connessioni … Tutti coloro che si sono addentrati in queste questioni, e questa è un’altra cosa che forse compare in ciò che vado dicendo ultimamente, si sono trovati a interrogare questioni molto simili, perché quando si incomincia a riflettere sul modo in cui funziona il linguaggio è inevitabile accorgersi che la parola è all’interno di qualche cosa, per Heidegger è il mondo, per Greimas non è più il mondo ma un contesto di segni all’interno del quale il nucleo segnico acquista un significato, per la psicanalisi è la parola che non si può intendere se a questa parola non vengono associati tramite associazioni libere le connessioni alle quali è agganciata. Modi di interrogare una questione che sono sì differenti però incontrano molto spesso quasi una stessa direzione da seguire, quasi gli stessi elementi Intervento: però l’uomo incontrando il mondo lo simbolizza nella parola? Può accadere certo, siamo però già verso Lacan (lo evoca) sì evocandolo può anche simbolizzarlo, se vuole, non è proibito. Ecco qui parla del “non pensato” sempre riferendosi indirettamente alla differenza perché è l’impensato, non si può pensare la differenza in quanto tale, così come non può  6 neanche dirsi perché non c’è ma pur non essendoci in quanto ente costituisce, come dice Heidegger quel suono muto che tuttavia è ciò che consente a questi due elementi la cosa e il mondo di stare distinti ma al tempo stesso uniti. Intervento: … non avevo conosciuto Heidegger su questo aspetto. All’Università … Su alcune cosa ha riflettuto attentamente, soprattutto intorno al linguaggio qui incomincia a parlarne in modo abbastanza esplicito già nel suo primo scritto “Essere e tempo” poi mano a mano riflettendo intorno all’Essere si accorge che una riflessione intorno all’Essere comporta una riflessione intorno al linguaggio necessariamente (…) Il parlare inteso nella sua pienezza significante trascende sempre la dimensione puramente fisico sensibile del suono ovviamente il parlare non è soltanto il suono ma il linguaggio come significato fattosi suono o segno scritto è qualcosa di essenzialmente soprasensibile, qualcosa che perennemente oltrepassa il puramente sensibile, il linguaggio così inteso è per sua costitutiva natura metafisico.) È la metafisica che rappresenta, badate bene: si parla, si rappresenta, se si rappresenta si compie un’operazione metafisica. Poi sul volere sapere: Il voler sapere e l’avida richiesta di spiegazioni non portano mai a un interrogare pensante, nel volere sapere si cela già sempre la presunzione di un auto coscienza che si appella a una ragione auto fondata e alla sua razionalità, il volere sapere non vuole che si stia in ascolto di fronte a ciò che è degno di essere pensato … Intervento: è una forma di controllo Esattamente, e poi c’è la seconda parte di cui ci occuperemo nel prosieguo perché ciò che stiamo facendo è straordinariamente vicino a ciò che qui Heidegger ci sta dicendo, lui non ha dubbi sul fatto che l’uomo è quello che è, perché c’è il linguaggio, non ha nessun dubbio lo pone proprio nelle prime pagine il che comporta ovviamente delle implicazioni, perché se l’uomo non è se non nel linguaggio allora, dice lui giustamente, occorre porsi in ascolto del linguaggio, che non significa ascoltare quello che qualcuno dice, ma porsi in ascolto del linguaggio e porsi in ascolto della domanda che c’è nel linguaggio, nella chiamata che il linguaggio è, il linguaggio è un chiamare le cose e fra le cose, chiama anche l’uomo nonostante che sia l’uomo la condizione perché ci sia questa chiamata. Questa è una questione sempre presente in Heidegger, infatti è stato accusato di “umanismo”, “accusato” tra virgolette, mentre lui si è sempre difeso da questo, la sua non è una posizione esistenzialista, ha dovuto attraversare l’esistenzialismo perché l’unico esistente è l’uomo, questo accendisigari per Heidegger non esiste, c’è, ma non esiste, solo gli umani esistono cioè soltanto coloro che sono in condizioni di porre la domanda, questo aggeggio, questo accendino non fa nessuna domanda. Per Heidegger l’uomo è il portatore in un certo senso del linguaggio, forse non necessariamente l’unico, però a quanto ci consta per il momento si, e questo, sempre per Heidegger, è fondamentale perché l’uomo può trarre la verità, cioè la verità sull’essere e quindi il fatto che l’essere non sia nient’altro che l’esserci dell’uomo in quanto progetto ciascuna volta, solamente nel dialogo. Nel dialogo tra umani ovviamente, ma un dialogo dove le cose si interrogano, dove si mantiene aperta la domanda non la chicchera, il parlare per il sentito dire, il sentito dire vuole dire anche averlo letto da qualche parte, ma non averlo interrogato in modo autentico. Interrogare in modo autentico e lasciarsi interrogare dalla cosa: una qualunque cosa pone delle questioni, per esempio “che cos’è?” o quando mi trovo all’interno di un progetto su come posso utilizzare quella certa cosa, pone comunque sempre delle domande, l’uomo è sempre all’interno di questo domandare, continuamente. Questo è il domandare autentico, quello che si lascia interrogare da ciò che sta dicendo, da ciò che sta facendo, le cose che sta incontrando, non da colui che invece si precipita a dare la risposta o come dicevo prima ha la fretta di sapere tutto dimenticandosi della domanda. Nella parte successiva ci saranno delle cose molto interessanti da dire. per esempio sulla poesia che per lui è importante perché la poesia accenna, e in questo accennare lascia che la parola chiami le cose, senza fermarle, senza bloccarle, senza mortificarle ma le lascia essere, lasciar essere questo è sempre stato fondamentale per Heidegger.  7 20 maggio 2015 Heidegger prosegue: La ricerca scientifica e filosofica mira da qualche tempo (siamo nel ‘59) in modo sempre più deciso a costruire ciò che viene chiamato “metalinguaggio” (qui ce l’ha con i filosofi analitici) giustamente pertanto la filosofia scientifica che si prefigge di costruire tale super linguaggio, intende se stessa come metalinguistica. Metalinguistica suona come metafisica, non soltanto suona “come” ma è, la metalinguistica è infatti la metafisica della totale trasformazione tecnica di ogni lingua in semplice strumento interplanetario di informazione, metalinguaggio e sputnik, metalinguistica e tecnica missilistica sono la stessa cosa. // (Poi cita una poesia, una poesia di Stefan George, il titolo è Das Wort (la parola). Meraviglia di lontano o sogno io portai al lembo estremo della mia terra e attesi fino a che la grigia Norna (Norna è la dea del fato, del destino) il nome trovò nella sua fonte, meraviglia o sogno potei allora afferrare consistente e forte ed ora fiorisce e splende per tutta la marca. (la marca è un territorio di confine) Un giorno giunsi colà dopo un viaggio felice con un gioiello ricco e fine, ella cercò a lungo e al fine mi annunciò “qui nulla di eguale dorme sul fondo”, al che esso sfuggì alla mia mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro, così io appresi triste la rinuncia: “nessuna cosa è dove la parola manca”. Un numero infinito di persone considera non di meno anche questa cosa dello sputnik un prodigio, questa “cosa” che gira vertiginosamente in uno spazio del mondo ove non è mondo, e per molti essa era ed è tutt’ora un sogno, prodigio e sogno della tecnica moderna, la quale dovrebbe essere la meno disposta a riconoscere valido il pensiero che sia la parola a procurare alle cose la loro esistenza, non le parole ma le azioni contano nei calcoli dell’ossessivo calcolare planetario, lasciamo la fretta del pensare, non è proprio anche questa “cosa” quel che essa è, e così come essa è, in nome del suo nome? Certamente. /…/ Se l’affrettare nel senso del massimo potenziamento tecnico della velocità, di quella velocità nel cui spazio temporale soltanto le macchine e i congegni moderni possono essere quello che sono, (questi marchingegni sono quelli che sono perché esiste la velocità cioè esiste il concetto di velocità) se l’affrettare dunque, non avesse parlato all’uomo e non l’avesse posto sotto il suo comando, (sta parlando della tecnica ovviamente) questo comando non avesse spinto e disposto l’uomo alla fretta, se la parola di un tale disporre non avesse parlato non ci sarebbe nessuno sputnik, nessuna cosa è là dove la parola manca. La parola del linguaggio e il suo rapporto con la cosa, con qualunque cosa che è sotto il riguardo dell’essere e il modo di essere della cosa stessa resta un enigma. (l’enigma sarebbe il rapporto fra la parola e la cosa, ecco già questo dice delle cose perché nessuna cosa è dove la parola manca, beh la dice già lunga sul fatto che se non c’è la parola, se manca la parola non c’è nessuna cosa, non c’è nulla. Questo Heidegger l’aveva inteso molto bene ovviamente, non è un caso che riprenda questa poesia di Stefan George) Dice poi: l’ultimo verso infatti appunto “nessuna cosa è dove la parola manca” in tedesco “Kein ding ist wo das Wort gebricht” l’ultimo verso potrebbe allora avere anche un significato diverso da quello di un asserzione e costatazione volta nella forma del discorso indiretto che dice “nessuna cosa è dove la parola manca”, quel che segue i due punti, dopo la parola “rinuncia” (perché ci sono due punti dopo “così io presi triste la rinuncia: nessuna cosa è dove la parola manca”) non indica ciò cui si rinuncia, ma indica l’ambito entro cui la rinuncia deve immettersi, indica il comando a consentire e accordarsi al rapporto fra parola e cosa ora esperito, (“ora” esperito nel momento in cui si dice allora si esperisce la cosa, allora c’è la cosa, e la cosa è quello che è) ciò di cui il poeta ha preso la rinuncia è la sua precedente opinione nei riguardi del rapporto fra cosa e parola, rinuncia concerne il rapporto poetico con la parola a lui fino a quel momento consueto, la rinuncia è la disposizione a un rapporto diverso, nel verso “Kein ding sei wo das Wort gebricht” “sai” non sarebbe allora sul piano grammaticale un congiuntivo (“sai” vuol dire “sia”, l’indicativo è “ist”) al posto dell’indicativo “ist” bensì una forma dell’imperativo, un ordine cui il poeta obbedisce per rispettarlo anche in futuro, nel verso “nessuna cosa “sia” laddove la parola manca”, il “sia” significherebbe allora “non considerare d’ora in poi una cosa come esistente dove la parola manca” (è un imperativo categorico” e non so per quale via mi ha evocato le parole di Parmenide “sulla via del non essere non ti ci incamminerai, ma seguirai la via dell’Essere.” Con quel “sia” inteso come  8 comando, il poeta si dispone ad accettare quella rinuncia per cui egli abbandona la convinzione che qualcosa esista, già esista, anche quando la parola manca. (Non c’è già la cosa) Che significa rinuncia? La parola “Verzicht” Rientra nell’aria del verbo “verzeihen”; una locuzione antica dice “Sich eines Dinges verzeihen”, e significa “abbandonare qualcosa” “rinunciarvi”. Zeihen corrisponde al latino dicere, all’antico alto tedesco “sagan” (il sagen del tedesco moderno), da cui “saga”. La rinuncia è un Entsagen, letteralmente un “disdire”. Nella sua rinuncia il poeta dice “no” al suo precedente rapporto con la parola, questo soltanto? No. Nell’atto in cui rifiuta qualcosa, già gli è stato destinata una chiamata alla quale egli non si sottrae più. (nella sua rinuncia, dice, rinuncia soltanto all’idea che qualcosa ci sia anche senza la parola? già questa è una bella rinuncia. Rinuncia di fronte a ciò che incontro, a pensare che questa cosa che incontro sia già lì prima che io la dica, prima della parola, non che io la dica propriamente, però aggiunge no, non è proprio così, ciò a cui non si sottrae è ciò che gli è stato destinato “una chiamata alla quale egli non si sottrae più”. Chi lo chiama a quella maniera, se non la parola?) In termini più chiari il poeta ha capito che solo la parola fa sì che la parola appaia e sia pertanto presente come quella cosa che è, la rinuncia che il poeta apprende è della natura di quella compiuta rinuncia alla quale soltanto è dato attingere ciò che da lungo nascosto è propriamente già destinato. Il poeta esperisce la sua vocazione di poeta come una chiamata alla parola, ma cosa raggiunge il poeta? Non una semplice nozione, seguendo questa chiamata, egli giunge nel rapporto della parola con la cosa, questo rapporto non è però una relazione fra la cosa da una parte e la parola dall’altra (qui c’è la parola e lì c’è l’ente e la relazione è in mezzo) la parola stessa è il rapporto che via via incorpora e trattiene in sé la cosa, in modo che essa è una cosa. Sulle prime e per lungo tratto pare che alla fonte del linguaggio (poi dirà che è la parola la fonte dell’Essere) il poeta abbia bisogno di portare soltanto le meraviglie che lo incantano (qui sta sempre commentando la poesia di George) e i sogni che lo estasiano, pare che le parole che a quella fonte egli va, con non incrinata fiducia, a cercare siano solo quelle che convengono a quanto di meraviglia e sogno ha preso corpo nella sua fantasia, prima di allora il poeta, confermato in questo dalla felice riuscita delle sue precedenti composizioni poetiche, era dell’opinione (qui sta parlando di George) dell’opinione che le cose poetiche meraviglia e sogni avessero già, da e per sé, garanzia di esistenza (come ciascuno pensa) e che tutto consistesse poi nel saper trovare per esse anche la parola atta ad esprimerle e rappresentarle. (non è questo il pensiero comune?) Sulle prime e a lungo è parso che le parole fossero come pigli che afferrano ciò che già esiste, ed è per sé esistente considerato, e ad esso danno consistenza ed espressione portandolo così a bellezza. (qui ripete ancora una parte della poesia): Qui meraviglia e sogni, là nomi che afferrano gli uni e gli altri fusi in uno e la poesia era nata, tutto fuso insieme, bastava essa a quello che è il compito del poeta dar vita a ciò che permane, perché duri e sia? Ad un certo punto giunge però Stefan, per Stefan George il momento nel quale il poetare che fino allora gli era stato consueto, quel poetare sicuro di sé viene bruscamente meno riportandogli alla mente la parola di Hölderlin, ma ciò che permane fondano i poeti, infatti un giorno il poeta arriva il viaggio per di più è stato buono e anche per questo egli è pieno di speranza, dalla dea del destino carica d’anni e chiede il nome per il gioiello ricco e fine che porta sulla mano (questo gioiello ricco e fine è la parola) solo che lei chiede il nome della parola (e questo crea qualche problema) questo non è meraviglia di lontano e neppure sogno, la dea cerca a lungo ma invano, alla fine gli annuncia “nulla d’eguale dorme qui sul fondo” (non c’è la parola per dire la parola, “nulla d’eguale” cioè nulla che sia come il gioiello ricco e fine che gli sta sulla mano) la parola capace di far essere quel gioiello che sta semplicemente lì sulla mano quello che esso è, una tale parola dovrebbe scaturire da quella sicura custodia che riposa nella quiete di un sonno profondo, soltanto una parola veniente di lì potrebbe portare e fermare il gioiello nella ricchezza e gentilezza del suo semplice essere. (Ripete le parole del poeta) “Nulla di eguale dorme qui sul fondo” a tal dire esso sfuggì alla mia mano (questo gioiello) e mai più la mia terra ebbe il tesoro. Il fine ricco gioiello che era lì sulla mano non giunge all’essere di una cosa, non diventa tesoro cioè ricchezza custodita nella poesia di quella terra, il poeta non precisa la natura del gioiello che non poté divenire tesoro della sua terra ma che gli donò tuttavia l’esperienza del  9 linguaggio, l’occasione di apprendere quella rinuncia nella quale l’abdicazione corrisponde, da parte del rapporto fra parola e cosa, l’assenso a un disvelamento, l’oggetto ricco e fine è cosa diversa dalla meraviglia di lontano oppure sogno, se poi la parola canta il cammino poetico proposto proprio di Stefan George è lecito pensare che nel gioiello sia adombrata la delicata ricchezza della semplicità che nell’ultimo periodo della sua attività si presenta al poeta come ciò che deve essere detto “la parola della parola”. Qui Heidegger affronta una questione, poi diremo mano a mano, e se la porta appresso perché ovviamente non ha soluzione cioè quella parola che è all’origine della parola, e la Norna, la dea del destino, del fato glielo dice qui “sul fondo non giace nulla di simile”, non c’è, non c’è il fine, il limite del linguaggio, il punto da cui comincia. Certo che non c’è, Heidegger poi lo allude, lo allude nel dire autentico del poeta e il dire autentico del poeta è quello che ovviamente nel pensiero di Heidegger è quello che lascia dire l’Essere, lo lascia apparire, lo disvela, l’ἀλήθεια. Però ciò che qui il poeta cerca di fatto è la parola della parola, cioè l’essenza propriamente della parola, ma qui si scontra contro un qualche cosa che non c’è perché è la parola che dà l’essenza alle cose, dà l’Essere alle cose, e quindi ci vorrebbe un altro Essere che dia Essere all’Essere della parola, la cosa non avrebbe più senso. Heidegger lo pone come una sorta di enigma, però di fatto non possiamo parlare di enigma quanto piuttosto del tentativo di dare anche alla parola o meglio di trasformare la parola in ente, lui dirà tra un po’ che la parola non è un ente al pari di qualunque altro, è un'altra cosa, è ciò che da l’accesso all’ente, infatti lo dice utilizzando la poesia “nulla è là dove la parola manca”, se nulla è là dove la parola manca è ovvio che anche la parola potrebbe essere intesa come ente, ma a questo punto la cosa non funziona più. L’apparire di qualche cosa che è il λόγος, lo vedremo più avanti, λόγος non inteso come il discorso, il racconto, la ragione, nulla di tutto ciò, il λόγος è una delle forme dell’Essere per Heidegger, è questo logos che consente l’apertura cioè il linguaggio consente l’aprirsi della parola che nomina qualche cosa, nel momento in cui nomina qualche cosa questa cosa è. C’è. Intervento: la parola è ciò che differenzia l’istinto dalla pulsione … Intervento: l’uomo, diciamo, arrivando a possedere la parola nominando gli oggetti, qualificandosi come possessore della parola, identificandosi come ciò che padroneggia la realtà, come il bambino che si distacca dall’uniforme primordiale sia come essere sociale, essere sociale organizza la società che si differenzia dal gruppo indistinto dall’orda primitiva, o comunque dai gruppi degli animali … Intervento: dal branco degli animali, esattamente grazie, ecco possedendo la parola ecco io la intenderei così … Heidegger ha un’opinione differente, perché dice: “quando poniamo una domanda al linguaggio, una domanda sulla sua essenza, già del linguaggio deve esserci stato fatto dono, non possiamo chiederci qualcosa sul linguaggio se già non possediamo il linguaggio, se vogliamo porre una domanda sull’essenza, sull’essenza cioè del linguaggio allora anche del significato di “essenza” ci deve essere già stato fatto dono, domanda “a” e domanda “su” presuppongono qui, come sempre, che ciò cui e su cui va la domanda abbia già fatto giungere la parola sollecitatrice, ogni posizione di domanda è possibile solo in quanto ciò che si fa problema ha già iniziato a parlare e a dire di se stesso. // (cita ancora la frase: nessuna cosa è dove la parola manca) Accenna al rapporto tra parola e cosa prospettando il modo che la parola stessa risulti il rapporto, in quanto essa trae all’essere (la parola) e mantiene nell’essere ogni cosa (qualunque essa sia), senza la parola che si identifica con la forza del rapporto, il complesso delle cose, il mondo, sprofonda nel buio insieme all’io che porta all’estremo lembo della propria terra, alla fonte dei nomi ciò che ha incontrato di meraviglia e di sogno. Perché quel che ci interessa è un’esperienza, un essere in cammino, noi oggi in questa lezione che segna il passaggio tra la prima e la terza conferenza (in genere la seconda fa questo, il passaggio fra la prima e la terza) rifletteremo sul cammino, è necessaria al riguardo un’osservazione preliminare dato che la maggior parte di loro si occupa in prevalenza di ricerca scientifica, (il pubblico che aveva)nelle scienze la via al sapere va sotto il nome di metodo, “metodo” “μετα ὁδός” “attraverso il cammino” “lungo il cammino”, il metodo non è specie nella scienza moderna un puro strumento al servizio della scienza  10 anzi al contrario è il metodo che ha assunto a proprio servizio la scienza. Questo fatto è stato visto in tutta la sua portata per la prima volta da Nietzsche, che così ne parla nelle annotazioni che seguono, queste fanno parte del corpus degli inediti pubblicato postumo dal titolo “Der Wille zur Macht” “La volontà di potenza”. La prima dice “ciò che caratterizza il nostro XIX secolo non è la vittoria della scienza ma la vittoria del metodo scientifico sulla scienza”. L’altra notazione incomincia con la proposizione “Le idee più importanti furono trovate per ultime, ma le idee più importanti sono i metodi” in realtà anche Nietzsche è giunto assai tardi a scoprire questo rapporto tra metodo e scienza e precisamente l’ultimo anno della sua lucidità mentale nel 1888 a Torino. Nelle scienze non solo il tema viene posto dal metodo ma viene immesso nel metodo e vi resta sottoposto, la corsa folle, che oggi trascina le scienze verso mete che esse stesse ignorano, ha la sua forza propulsiva nel potenziamento e nel progressivo assoggettamento alla tecnica del metodo e delle possibilità a questo intrinseche, nel metodo è tutta la potenza del sapere, il tema rientra nel metodo. Bene vi lascio riflettere su queste questioni, mercoledì prossimo riprendiamo questo testo. 27 maggio 2015 Vi rileggo la poesia di Stefan George perché la riprende si chiama “La parola”, Das Wort: Meraviglia di lontano o sogno io portai al lembo estremo della mia terra e attesi fino a che la grigia Norna il nome trovò nella sua fonte, meraviglia o sogno potei allora afferrare consistente e forte ed ora fiorisce e splende per tutta la marca. Un giorno giunsi colà dopo viaggio felice con un gioiello ricco e fine, ella cercò a lungo e alfine mi annunciò “qui nulla d’eguale dorme sul fondo”. Al che esso sfuggì alla mia mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro, così io appresi triste la rinuncia “nessuna cosa è dove la parola manca”. C’è da dire qui che la questione che sta ponendo questa poesia è interessante perché di fatto sta chiedendo alla Norna di fornirgli, dicevamo l’altra volta, la parola della parola, e cioè un qualche cosa che è fuori della parola e che dovrebbe garantire l’essere della parola. Ovviamente cercare la parola fuori dalla parola è un problema, tant’è che la Norna, saggia, dice “qui nulla d’eguale dorme sul fondo” e allora lui ha appreso la rinuncia: non troverà mai qualche cosa che da fuori della parola possa garantire la parola… Intervento: sarebbe il significato del significato? Non esattamente, perché il significato del significato è ancora un altro significato, quindi un altro termine, un altro elemento linguistico, qui cerca invece proprio la garanzia, cioè il qualche cosa che è fuori dal linguaggio e che dia alla parola la sua consistenza. “Nessuna cosa è dove la parola manca” accenna al rapporto tra parola e cosa, prospettandolo in modo che la parola stessa risulti il rapporto, in quanto essa trae all’essere e mantiene nell’essere ogni cosa, qualunque essa sia. // Infatti fra le primissime cose cui diede voce il pensiero occidentale rientra il rapporto tra cosa e parola e precisamente nella figura del rapporto tra essere e dire, questo rapporto sorprende il pensiero in modo così subitaneo e sconvolgente da dirsi in una sola parola, esso suona “λόγος”, ma ancora più sconcertante è per noi il fatto che in tutto questo non si fa un’esperienza pensante del linguaggio, nel senso cioè che il linguaggio stesso in base a quel rapporto giunga propriamente a dirsi. Cioè sta dicendo che il linguaggio non “si dice” nel senso che non c’è modo di aggirare il linguaggio, di uscire dal linguaggio e poi di lì parlare del linguaggio sapendo di che cosa si sta parlando, non c’è uscita dal linguaggio Se sempre il linguaggio ricusa, in questo senso, la sua essenza (cioè non dice mai che cosa realmente è, perché appunto dovrebbe uscire fuori dalla parola) allora questo rifiuto fa parte dell’essenza del linguaggio (il rifiuto della Norna). Il linguaggio non solo si trattiene così in se stesso nel nostro corrente parlarlo, ma trattenendosi esso in sé, con la sua origine nega la sua essenza a quel pensiero presentativo nel quale comunemente ci muoviamo, per questo non possiamo nemmeno più dire che l’essenza del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza (come diceva prima) a meno che la parola “linguaggio” non indichi nel secondo caso qualcosa d’altro che cioè quel rifiuto dell’essenza del linguaggio a dirsi, proprio esso, parla. (In altri termini sta dicendo che il linguaggio non dice se  11 stesso, si trattiene dal dire di se stesso nell’accezione che indicavo prima, e cioè come se volesse parlare da fuori il linguaggio per dire che cos’è esattamente il linguaggio, si trattiene dal fare questo. Heidegger dice che non possiamo nemmeno più dire che l’“essenza del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza” come diceva prima e cioè che l’essenza del linguaggio, ciò che è più proprio al linguaggio è il linguaggio dell’essenza, il linguaggio dell’essenza è quel linguaggio che parla di ciò che è proprio, a meno che, dice, questo linguaggio non lo si intenda nelle due cose in modo differente e cioè nel secondo caso intendendo che è proprio lui che parla e cioè il linguaggio dell’essenza è ciò che parla continuamente, il linguaggio dell’essenza vale a dire sarebbe, per dirla con Heidegger, il “dire originario”, quel dire cioè che muove nel momento in cui è qualcosa, qualcosa appare e questo dire lascia che ciò che appare interroghi, ciò che si dice, a questo punto, il “λόγος” ciò che fa esistere le cose, a questo punto è lui, è soltanto lui che parla. Qui c’è adesso forse qualcosa che è ancora più chiaro, dice:) “Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca”. Così suona la rinuncia del poeta e noi abbiamo aggiunto che qui viene in evidenza il rapporto fra cosa e parola. (Il rapporto tra cosa e parola è importante perché è ciò che la metafisica ha sempre cercato di stabilire con certezza, lì c’è la parola e lì c’è la cosa, però è un problema come dicevamo la volta scorsa, è la questione tipica della metafisica e cioè il problema del “terzo uomo” come diceva già Aristotele, cioè c’è un terzo elemento che deve fare da tramite tra i due, il problema è che questo terzo elemento che deve consentire il bloccarsi di questa relazione tra cosa e parola, anziché compiere questo rinvia la cosa all’infinito, perché poi dopo il “terzo uomo” c’è il quarto, c’è il quinto c’è il sesto e così via all’infinito e quindi non raggiungerà mai la cosa): Abbiamo anche detto che “cosa” (lui lo mette tra virgolette) indica qui ogni possibile essente quale ne sia il modo d’essere. (cioè qualunque cosa) Abbiamo detto ancora riguardo alla parola, che questa non solo sta in rapporto con la cosa ma porta la cosa che di volta in volta nomina, la cosa in quanto essente che è e tale, “è”(tra virgolette) in questo reggendola, trattenendola, dandole per così dire il sostentamento a essere cosa, questo sarebbe il parlare autentico (la parola che fa essere ciò che dice, nel momento in cui dice le cose è in quel momento che esistono, che sono quello che sono. È questo che sta dicendo. Conseguentemente abbiamo detto che la parola non si limita ad essere in rapporto con la cosa ma che la parola stessa è ciò che porta e serba la cosa come cosa. (che è ancora di più che “la parola stessa è la cosa”, perché la parola è ciò che porta e “mantiene” e fa perdurare la cosa in quanto cosa, dice che la “parola in quanto ciò che porta e serba è il rapporto stesso”. Qui badate bene che dice “è il rapporto stesso” anzi l’ha già detto varie volte, come dire che questo rapporto tra parola e cosa è la parola stessa, quindi non c’è più la parola e la cosa ma c’è una relazione tra parola e cosa, nel senso che la parola rende la cosa quella che è, e solo la parola può farlo, cioè il λόγος, e questo è la parola. Qui si potrebbe anche fare un accenno alla questione della metafisica, così come trascorre da Platone fino a Heidegger, non è altro che lo spostare una cosa presente a una cosa che presente non è, e che deve dare il senso, il significato a ciò che è presente, da qui tutte le distinzioni dalle più antiche alle più recenti: “sensibile – ultrasensibile”, “immanente – trascendente”, “significante – significato”, “enunciazione – enunciato”, l’ultimo in ordine di tempo: “conscio – inconscio”. Per questo dico che tutta questa struttura è metafisica, è metafisica sempre in questa accezione ovviamente, cioè ciò che questo significato di “metafisica” che, come dicevo, trascorre da Platone fino ad Heidegger, indica che ciascuna volta in cui qualche cosa deve la sua esistenza, la sua essenza, il suo significato, a qualche cos’altro, questa è una struttura metafisica. Che ha degli effetti ovviamente, perché comporta la supposizione che una certa cosa sia quello che è in base a quell’altra, quindi quell’altra dà alla prima il suo significato, lo ferma, lo blocca e che quindi questo secondo elemento costituisca l’essenza, potremmo quasi dire, del primo, bloccandolo nel significato, ciò che potrebbe, dico “potrebbe”, consentire un passo fuori, ammesso che sia possibile, dalla metafisica. È da considerare che invece ciò che dà il significato al primo elemento costituisca anche questo un elemento che trae il proprio significato da altro, poi da altro, poi da altro ancora e così via all’infinito, a questo punto non c’è la possibilità di bloccare un significato  12 ovviamente, ma questo significato, come ci dice la semiotica, non è altro che un rinvio continuo, infatti, a quella serie di contrapposizioni potremmo anche aggiungere quella di Greimas, cioè i sememi danno un senso ai semi nucleari ché da solo, di per sé, il sema nucleare non significa niente. Ora è chiaro che è il linguaggio che è strutturato così, per questo da tempo sto dicendo che la metafisica illustra il modo in cui il linguaggio funziona, né più né meno, per cui non hanno neanche tutti i torti i metafisici a dire che non c’è uscita dalla metafisica. Posta in questi termini in effetti non c’è uscita dalla metafisica, e neanche attraverso la via immaginata da Heidegger ovviamente): La “parola per la parola” non è dato trovarla là dove il destino dona il linguaggio (cioè se c’è il linguaggio allora la parola per la parola non c’è, una parola che dica la parola in modo definitivo, l’ultima parola sulla parola, non c’è, non si trova perché c’è il linguaggio, il linguaggio che nomina e fa essere, quindi non c’è), linguaggio che nomina e fa essere per l’essente, non c’è la parola che dica l’essenza del linguaggio, perché questa sia e come essente splenda e fiorisca la parola per la parola un tesoro certamente ma un tesoro non conquistabile per la terra del poeta, e per il pensiero? Può il pensiero? Quando il pensiero cerca di meditare la parola poetica (cioè la parola autentica per Heidegger) questo si rivela: la parola, il dire non ha essere. Il nostro modo corrente di concepire si ribella quando gli si propone un pensiero così audace. Scritte o parlate ognuno pur vede e sente delle parole, esse sono. Possono essere come cose, realtà afferrabili dai nostri sensi, basta solo per far l’esempio più banale aprire un dizionario è pieno di “cose” stampate, certamente puri vocaboli, non una sola parola, poiché la parola grazie alla quale i vocaboli si fanno parola, un dizionario non è in grado né di captarla né di custodirla, dove dobbiamo andare a cercare la parola? dove il dire? Dall’esperienza poetica della parola ci viene un cenno che può essere di grande aiuto: la parola non è cosa, nulla di essente, invece noi abbiamo cognizione delle cose quando per esse c’è a disposizione la parola allora la cosa è. Ma qual è la natura di questo “è”, “la cosa è” ? e questo “è” è anch’esso una cosa sovrapposta a un’altra, messale su come un cappuccio, noi non troviamo mai questo “è” come cosa sopra altra cosa, per questo “è” la situazione è la stessa che per la parola, questo “è” non fa parte delle cose che sono più di quanto non lo faccia la parola. (sta dicendo che la parola non è, nel senso dell’Essere, cioè come lo intende la filosofia comunemente, e cioè come ente, qui allude al fatto che la parola non sia determinabile, così come lo è per esempio un vocabolo, un lessema, quindi intende con parola ovviamente un’altra cosa.) Improvvisamente ci risvegliamo dalla sonnolenza di un pensare frettoloso, e scorgiamo qualcosa di diverso in ciò che l’esperienza del linguaggio dice, riguardo alla parola gioca il rapporto fra questo “è” che per sé non è, e la parola che si trova nella stessa situazione che cioè non è nulla che sia, (qui sta cercando di complicare le cose, adesso vediamo se) né l’“è” nella parola hanno l’essenza della cosa, (l’abbiamo detto prima: non sono enti) l’Essere né ha il rapporto con l’“è” la parola al quale è affidato il compito di concedere via, via un “è”, (sta dicendo che né questo è, quando diciamo che “la parola è qualcosa”, questo “è” per lui costituisce un problema, diciamo “la parola è”, “è” cosa? infatti né l’“è” né la parola in questa frase hanno l’essenza della cosa, cioè non hanno l’Essere) né ha (soggetto l’Essere) il rapporto fra l’“è” e la parola, ciò non di meno, né l’“è”, né la parola e il dire di questa, possono venire cacciati nel vuoto del niente (non sono niente, qualcosa pur sono) Che indica l’esperienza poetica della parola quando il pensiero riflette su di essa? Essa rimanda a quel degno d’essere pensato, pensare il quale si pone al pensiero fino dai tempi più antichi e anche se in modo velato come suo proprio compito, esso rimanda a quello di cui in tedesco può dirsi “es gibt senza che possa dirsi “ist” cioè è, “gibt” “esso dà” “si offre”, di ciò di cui può dirsi “est gibt” fa parte anche la parola (adesso incomincia a intravedersi che cosa intende con quello che sta dicendo “la parola non è, propriamente, ma è ciò che si dà, ciò che si offre”.)forse non solo anche, ma prima di ogni altra cosa, in modo tale che nella parola e nella sua essenza si cela quello che “gibt” appunto “dà”, nella parola si cela quello che essa stessa da. Della parola pensando con rigore non dovremmo mai dire “es ist” cioè “essa è” ma “es gibt”, ciò non nel senso di quando si dice “es gibt Worte” “qualcosa dà la parola” ma nel senso che la parola stessa dà, non è qualcosa che dà la parola ma è la parola che dà, la parola: la datrice. Ma che dà la parola?  13 secondo l’esperienza poetica e la tradizione più antica del pensiero la parola dà: l’Essere (ecco perché prima diceva che la parola non è l’Essere, la parola dà l’Essere) Ma se così stanno le cose allora in quel “es, das gibt” “esso, il dare” noi dovremmo pensando cercare la parola come ciò stesso che dà e mai è dato. La parola “es gibt” si trova in tedesco usata in molteplici modi, si dice per esempio “es gibt an der sonningen Halde Erdbeeren” “ci sono fragole sul pendio soleggiato”, “là ci sono le fragole”, nella nostra riflessione “es gibt” è usato diversamente non “des gibt …” “si dà la parola” ma “es das Word gibt…” cioè “essa la parola dà”. Quando Freud dice “Wo es war, soll Ich werden” questo “es” può essere inteso benissimo come “qualcosa” “là dove qualcosa era occorre che io avvenga” è una delle traduzioni che sono state fatte di questa frase. Così dilegua completamente lo spettro dell’“es” davanti al quale molti e a ragione trovano sconcerto, ma ciò che è degno di essere pensato resta, si fa anzi evidente, questa realtà semplice e inafferrabile che noi indichiamo con l’espressione “es, das word, gibt” si rivela come ciò che propriamente è degno di essere pensato e cioè che “essa” la parola da, per la determinazione di questo mancano ancora da per tutto i termini di misura forse il poeta li conosce ma il suo poetare ha appreso la rinuncia e tuttavia con la rinuncia nulla ha perduto (la rinuncia era quella del poeta di avere quella parola che dice la parola stessa, a questo rinuncia perché la Norna dice che non ce l’ha) il gioiello però gli sfugge certamente ma sfugge nella forma comportata dall’esser per esso negata la parola (questo gioiello sfugge, ma sfugge in che senso? Sfugge perché gli sfugge la parola per dirlo) Negare è trattenere ma qui appunto si rivela l’aspetto sorprendente del potere proprio della parola, il gioiello (che è la parola) non si dissolve affatto nell’inerte insignificanza del niente, (qui si riferisce a quando prima diceva, che la parola non è Essere, non ha l’Essere) la parola non sprofonda nella banale incapacità di dire (non è che la parola non può dirsi perché non siamo capaci a dirla, dice:) no, il poeta non abdica alla parola tuttavia il gioiello si sottrae nel mistero che riempie di stupore … per questo il poeta come dicono i versi introduttivi al canto medita anche più di prima, compone ancora, compone cioè un dire e in forma anche diversa da quella di prima. (ecco qui dicendo che non è la parola che si dà, ma è la parola che dà, ovviamente pone la parola come già aveva fatto in precedenza come λόγος in quanto Essere, nell’accezione che indica Heidegger ovviamente, cioè di “Dasein” “esserci”) Se però l’affinità tra poetare e pensare è quella del dire, allora siamo portati a supporre che l’evento domini come quel dire originario con il quale il linguaggio ci dice della sua essenza, il suo dire non si perde nel vuoto esso ha già sempre raggiunto il segno, che altro è questo segno se non l’uomo? Che l’uomo è uomo solo se ha risposto affermativamente alla parola del linguaggio, se è assunto nel linguaggio perché lo parli (ovviamente, questo dicevo è importante perché la presenza dell’uomo è ciò che fa, per Heidegger, la possibilità stessa dell’esserci, “esserci” riguarda l’esistente, l’esistente è l’uomo. Per questo si trova a dire molto spesso che l’Essere è il dialogo da uomo a uomo, perché la parola abita l’uomo. Anche le nuove teorie cioè i metodi della misurazione dello spazio e del tempo, la teoria della relatività e dei quanti e la fisica nucleare, non hanno cambiato in nulla il carattere parametrico di spazio e tempo (in tutte queste discipline i concetti di spazio e tempo sono sempre esattamente gli stessi, quelli per esempio di Anassagora) e nemmeno sono in grado di produrre un simile cambiamento, se ne fossero capaci ne verrebbe a crollare l’intero apparato della moderna scienza tecnica della natura. (perché non avrebbe più questi parametri sui quali è stata costruita ogni cosa) Tutto parla contro, in primo luogo la caccia alla formula fisica capace di interpretare il cosmo in termini matematici, la famosa teoria del “Tutto”, sennonché ciò che spinge al perseguimento affannoso di tale formula non è primariamente la passione personale dei ricercatori, ché questi si trovano ad essere quel che sono in forza di un esigenza prepotente che coinvolge e domina il pensiero moderno nella sua globalità, fisica e responsabilità, “bello!” e nella difficile situazione di oggi importante, ma resta una partita doppia dietro la quale si cela un passivo che non può essere sanato né da parte della scienza, né da parte della morale, sempre poi che sanabile sia. (Naturalmente poi qual è questo passivo che rimane? La dico così brutalmente “è il non sapere ciò che stanno facendo”, con tutto ciò che questo comporta ovviamente, poi ecco l’ultimo capitoletto si chiama “la parola”. Qui fa delle domande, tre domande) : (Ripete di nuovo il verso  14 finale “Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca) Si è tentati di trasformare il verso finale in un’asserzione “Nessuna cosa è dove la parola manca” dove qualcosa “es gebrit” “manca” cioè c’è una frattura, un danno, “recar danno a una cosa” vuol dire sottrarle qualcosa, farle mancare qualcosa, non c’è cosa dove la parola manca, solo quando c’è la parola per dirla la cosa è, (allora ecco le tre domande): 1) Che è la parola per avere tale potere? 2) Che è la cosa per avere bisogno della parola per essere? 3) Che significa qui “essere”, dal momento che appare come un dono conferito alla cosa dalla parola? (qui riassume in una parola tutto ciò che ha detto nel libro praticamente. Cioè l’Essere stesso appare come “un dono conferito alla cosa dalla parola”, qui è chiarissimo … Intervento: risponde alle domande poi, perché qui è un po’ antropocentrico? Si può dire anche di Heidegger che sia antropocentrico, anche se a lui non sarebbe piaciuto, infatti per lui l’uomo è oggetto di interesse, cioè l’esistenzialismo, solo perché si accorge che l’esistenza dell’uomo è la condizione per potere fare un discorso sull’Essere, cioè dice che non c’è l’Essere senza l’uomo, cioè senza colui che parla, senza colui che fa essere le cose.) Il primo verso della poesia dà la risposta “meraviglia di lontano o sogno” “nomi” per quello di cui al poeta giunge notizia di lontano come di cosa meravigliosa o per quello che lo visita nel sogno, l’uno e l’altro sono considerati dal poeta senza ombra di dubbio come realtà reali, come qualcosa che è, realtà che egli tuttavia non vuole tenere per sé ma vuole rappresentare, per questo occorrono i nomi. Tali nomi sono parole per mezzo delle quali ciò che già è e per tale è tenuto, assume così consistente concretezza che da quel momento splende e fiorisce e così facendo esercita tutta la regione e il dominio che è proprio della bellezza … i “nomi” sono le parole che rappresentano (Qui si può intendere in due modi, perché “i nomi sono le parole che rappresentano” può intendersi sia in questo modo e cioè che i nomi sono parole che rappresentano qualche cos’altro, ma anche che “i nomi rappresentano altre parole”. I nomi sono le parole che rappresentano parole rappresentanti altre cose, oppure i nomi sono le parole che rappresentano, sono le parole stesse che rappresentano i nomi,) Essi (i nomi) propongono all’immaginazione ciò che già è, grazie alla loro virtù rappresentativa i nomi testimoniano il loro decisivo dominio sulle cose, è l’esigenza stessa dei nomi che porta il poeta a poetare, per raggiungerli egli deve prima giungere con i viaggi là dove … Sono due casi, nel primo caso potremmo dire che “nomina sunt consequentia rerum” nel secondo “nomina non sunt consequentia rerum” “i nomi sono la conseguenza delle cose” nel secondo “i nomi non sono la conseguenza delle cose”. I nomi che la fonte custodisce (qui si riferisce sempre alla poesia di Stefan George) sono come qualcosa che dorme, che ha bisogno solo di essere destato per servire come rappresentazione delle cose, nomi e parole sono come un solido patrimonio finalizzato alle cose, che poi viene utilizzato per rappresentarle, sennonché la fonte, alla quale fino a quel momento il dire poetico ha attinto le parole cioè i nomi che rappresentano la realtà, non dona più nulla. Quale esperienza fa qui il poeta? Soltanto quella che quando si tratta del gioiello portato sulla mano il nome non si trova? (il gioiello è sempre la parola) soltanto quella che ora il gioiello deve sì restare senza nome, ma può tuttavia restare sulla mano del poeta? No, altro accade e ha dello sconcertante, ma sconcertante non è né il fatto che manca il nome, né il fatto che il gioiello scompare con il mancare della parola, è quindi la parola che trattiene il gioiello nel suo essere presente: (cioè la parola trattiene se stessa) la parola, nient’altro che la parola lo prende e lo porta a tale esser presente e in questo lo serba, la parola presenta improvvisamente un altro più alto potere, non è più solo la presa sulla realtà, come presenza già colta dall’immaginazione, quella presa che consiste nel dare un nome, non è soltanto mezzo per rappresentare ciò che sta dinnanzi, al contrario (qui veniamo alla questione) è la parola che conferisce la presenza cioè l’Essere, nel quale qualcosa si manifesta come essente, quest’altro potere della parola trae su di sé l’attenzione del poeta in modo brusco e improvviso, al tempo stesso però la parola che ha quel potere manca, perciò il gioiello dilegua, non per questo si dissolve nel nulla, resta un tesoro che poi il poeta non potrà mai custodire nella sua terra, (che cosa si dilegua, che cosa manca? Qui non siamo nella questione della “mancanza a essere”, siamo al fatto che ciò che manca è quella parola che da fuori del linguaggio finalmente dica che cos’è veramente la parola. Il nome che si dà alla parola è un’altra parola, non è qualcosa che da fuori  15 dovrebbe garantire che sia esattamente quella cosa. E qui insiste sul fatto che la parola fa sì che la cosa sia, cosa tutt’altro che irrilevante) Il tesoro e la terra del poeta mai giunge a possedere, è la parola per l’essenza del linguaggio, la potenza e la vita della parola scorta d’improvviso (qual è la potenza della parola? il fatto di fare essere le cose) il suo essere e operare vorrebbe pervenire alla parola, alla sua propria parola ma la parola, per l’essenza della parola, non viene concessa. La parola che dica che cosa veramente è, è questo che non viene concesso, è questo che manca, in questo senso diceva. L’ultimo capitoletto “In cammino verso il linguaggio” che poi dà il nome al testo. Ecco qui parla dell’¡λήθεια: il testo di Aristotele evidenzia con un dire chiaro e sobrio quella classica struttura in cui si cela l’essenza del linguaggio inteso come parlare, le lettere indicano i suoni, i suoni indicano le affezioni dell’anima, le affezioni indicano le cose che colpiscono l’anima, il “mostrare” “das Zeigen” è quello che costituisce e regge l’intera impalcatura, in modo vario, velando e disvelando, esso il mostrare, porta qualcosa ad apparire, fa che ciò che appare sia avvertito e ciò che viene avvertito sia considerato (cioè esista) quando riflettiamo sul linguaggio in quanto linguaggio già abbiamo abbandonato il modo di procedere rimasto finora consueto nella riflessione sul linguaggio. Non possiamo più andare alla ricerca di concetti generali come “energia” “attività” “lavoro” “forza spirituale” “visione del mondo”, espressione sotto i quali condurre il linguaggio come un caso particolare di tale generalità. Anziché spiegare il linguaggio come questa o quest’altra cosa fuggendone in tal modo lontano, il cammino verso il linguaggio vorrebbe fare esperire il linguaggio come linguaggio, nell’essenza del linguaggio, il linguaggio è sì compreso, ma afferrato per mezzo di altro da esso è il famoso metalinguaggio (di cui diceva prima il metalinguaggio come metafisica) se volgiamo invece l’attenzione unicamente al linguaggio come linguaggio, questo pretende allora da noi che mettiamo finalmente in evidenza tutto quello che fa parte del linguaggio in quanto linguaggio (è quello che ho cercato di fare in questi anni intendendo che cosa fa funzionare il linguaggio) Nel parlare rientrano i parlanti, ma il rapporto tra parlanti e parlare non è riducibile a quello tra causa ed effetto (se no sarebbe come dire che qualcosa dà la parola, mentre lui è stato preciso, “è la parola che dà”, ma cosa dà? Le cose, l’Essere.) I parlanti trovano piuttosto nel parlare il loro essere presenti, presenti a che? A ciò con cui parlano, presso cui dimorano in quanto realtà che sempre già li riguarda, è quanto dire “gli altri, le cose, tutto ciò che fa che queste siano cose, queste precise cose e quelli gli altri quei concreti altri” (questo fa la parola, fa esistere tutte queste cose qui) A tutto questo ora in un modo, ora in un altro già sempre è andato l’appello del parlare. // Ma come sono pensati il parlare e il “parlato”, nel breve racconto che si è precedentemente fatto del linguaggio? Essi si rivelano già come ciò per cui e in cui qualcosa si fa parola, giunge a farsi evidente in quanto qualcosa è detto. Dire e parlare non sono la stessa cosa, uno può parlare, parla senza fine, e tutto quel parlare non dice nulla, un altro invece tace, non parla e può col suo non parlare dire molto, ma che significa dire, “sagen” in tedesco? Per esperire questo è necessario attenersi a ciò che la lingua tedesca già costringe a pensare con la parola “sagen”. “Sagan” significa “mostrare” “far che qualcosa appaia” “si veda” “si senta” // Ciò che fa essere il linguaggio come linguaggio è il dire originario “die saghe” in quanto “mostrare” “die Zeige”, il mostrare proprio di questo non si basa su un qualche segno ma tutti i segni traggono origine da un mostrare nel cui ambito e per i cui fini soltanto acquistano la possibilità di essere segni. (Ma non sta proprio in questo mostrare, nel fatto che tutti i segni traggono origine da un mostrare che si impianta la metafisica stessa, la sua stessa possibilità? Ma ne riparleremo perché è una questione tutt’altro che semplice) // (siamo alla fine volevo riprendere le tre domande che faceva prima, adesso possiamo rispondere a ciò che si è domandato): Il dire originario è mostrare, in tutto ciò (ricordate: il dire originario è mostrare. Questo è il dire originario per Heidegger) in tutto ciò che ci volge la parola, che ci tocca come oggetto di parola o parola, che ci si partecipa, che in quanto non detto è in attesa di noi, non solo ma in quello stesso parlare, che noi veniamo mettendo in atto, che è operante il mostrare sempre e comunque, in virtù di questo che ciò che è presente appare, ciò che è assente dispare. Questo (è sempre il dire originario il soggetto) dischiude ciò che è presente nel suo esser presente (che sembra una ripetizione inutile “dischiude il suo essere presente nel suo essere  16 presente” ma il fatto che qualcosa sia presente per Heidegger non è così automatico, occorre qualcosa che dischiuda, apra l’orizzonte entro il quale qualche cosa può essere presente, non basta che sia presente perché che sia presente da sé non significa niente se non c’è il linguaggio che fa essere presente.) il dire originario domina compone in unità la libera distesa di quella radura … da dove viene il mostrare? La domanda vuol sapere troppo e troppo in fretta (non è che possiamo sapere tutto subito) gioverà accontentarsi di osservare la natura e l’origine del moto presente nel mostrare, non è necessaria qui una lunga ricerca è sufficiente l’intuizione repentina, non obliabile e perciò sempre nuova, di ciò che, sì, è a noi familiare, ma che noi tuttavia lungi dal riconoscere nel modo che ci conviene neppure cerchiamo di conoscere, questa realtà sconosciuta e non di meno familiare da cui ogni mostrare del dire originario trae il proprio moto, è per ogni essere presente ed essere assente l’alba di quel mattino nel quale soltanto può trovare inizio la vicenda del giorno e della notte. Alba che insieme l’ora prima e l’ora più remota tale realtà appena ci è dato nominarla, essa è l’“ort” che non tollera “Er-örterung”. Il tempo che non concede di essere raggiunto perché è luogo di tutti i luoghi e di tutti gli spazi del gioco del tempo, noi la chiameremo con una parola antica e diremo: ciò che muove nel mostrare del dire originario è lo “Eignen”. Lo Eignen adduce ciò che è presente e assente in quello che gli è proprio, cosicché emergendone la cosa presente e assente, si rivela nella sua vera identità e resta se stessa. // Il linguaggio non si irrigidisce in se stesso nel senso di un narcisismo di tutto dimentico tranne che di sé, come sarebbe potuto apparire, (eventualmente) come dire originario il linguaggio è il mostrare appropriante, che appunto prescinde da sé per dischiudere così per mostrare la possibilità di rilevarsi nella figura che gli è propria, (cioè il linguaggio consente alla cosa di mostrarsi e permette anche alla cosa di mostrarsi per quello che è. Il linguaggio è questa possibilità delle cose di essere quelle che sono. Ma non toglie alle cose il fatto che sono quelle che sono.) Il linguaggio che parla dicendosi cura che il nostro parlare, ascoltare il dire che non ha suono, corrisponda a quel che esso (linguaggio) viene dicendo, in tal modo anche il silenzio che non di rado si pone a fondamento del linguaggio, come sua scaturigine, è già un corrispondere (corrispondere alla chiamata del dire, ovviamente, cioè del λόγος. La conclusione sarà a questo punto la risposta a quelle tre domande.) Poiché noi uomini, per essere quelli che siamo, restiamo immessi nel linguaggio, né mai possiamo uscirne e posarci a un punto da cui ci sia dato circoscriverlo con lo sguardo, noi vediamo il linguaggio sempre solo in quanto il linguaggio stesso già si è affissato su di noi (appoggiato su di noi, fissato su di noi) ci ha appropriato a sé, il fatto che del linguaggio ci è precluso il sapere, (perché per sapere sul linguaggio bisognerebbe uscire dal linguaggio e tutte queste storie) il sapere inteso secondo la concezione tradizionale fondata sull’idea che conoscere sia rappresentare, non è certamente un difetto bensì il privilegio grazie al quale siamo eletti e attratti in una sfera superiore, in quella in cui noi assunti a portare a parole il linguaggio dimoriamo come immortali insomma siamo fortunati ad essere parlanti. Allora le tre domande alle quali potete, a questo punto, rispondere voi stessi: Che è la parola per avere tanto potere? È l’Essere è il logos. Perché la parola ha tanto potere? Perché è ciò che in quanto Essere è ciò che consente alle cose di apparire, ma che è la cosa per avere bisogno della parola per essere? La parola ha bisogno della parola per essere la cosa, e quindi è quella cosa che diventa cosa soltanto se la parola la fa essere cosa. Terza domanda: che significa qui Essere dal momento che appare come un dono conferito alla cosa dalla parola? che significa qui Essere? Λόγος, nient’altro che λόγος e bell’è fatto. Ecco, io vi ho fatto considerare queste cose perché non è tanto il fatto del contenuto delle affermazioni di Heidegger quanto il modo in cui approccia la questione del linguaggio, in un modo che lui direbbe “non presentativo” cioè non mostra, non dice che cos’è il linguaggio come fa la linguistica, come fa la filosofia del linguaggio, come fa la filosofia in generale approcciando il linguaggio come ente, perché sta qui la differenza ontologica: ente/Essere. Il linguaggio è Essere non è ente. Sono considerazioni interessanti che possono portare ad altre considerazioni, possono aprire altre vie, per questo motivo vi ho letto alcune cose di questo testo di Martin Heidegger. 

No comments:

Post a Comment