Cantoni (Milano).
Filosofo. Grice: “You gotta love Cantoni; I call him the Italian Hampshire! Cantoni
philosophises on ‘anthropology’ and he has not the least interest in past
philosophies, -- only contemporary! – Oddly, he reclaimed the good use of
‘primitive,’ meaning ‘originary,’ and he has philosophised on pleasure and
com-placent – also on ‘seduction,’ and eros. It is most interesting that he
reclaimed the concept of ‘umano,’ when dealing with anthropology, as he
considers the ‘disumano’, and the ‘crisi dell’uomo,’ and also the ‘desagio
dell’uomo’ – He has philosophised on the complex concept of the ‘tragic’ alla
Nietzsche – and he dared translate my métier and Fichte’s bestimmung as ‘la
missione dell’uomo’! – Like other Italian philosophers they joke at trouser
words and he has philosophised on ‘what Socrates actually said’! My favourite
is his treatise on Remo and Romolo in ‘mito e storia’. In opposizione alla
tradizione storicista, idealistica crociana si occupa di cultura e storia
usando contaminazioni sociologiche e antropologiche. Per queste aperture venne
considerato uno dei maggiori promotori dell'antropologia culturale in Italia.
Nel solco del maestro Banfi e uno dei maggiori esponenti della "Scuola di
Milano". Oltre ai numerosi volumi pubblicati fonda le riviste Studi
filosofici e Il pensiero critico. Fu allievo di Banfi, amico di Sereni e Formaggio.
Nella cerchia di amicizie di Banfi conobbe Antonia Pozzi che di lui si innamorò
di amore non corrisposto. In una lettera a Sereni ella scrisse: «[…] Non
riesco nemmeno a trarre un senso da tutti questi giorni che abbiamo vissuto
insieme: sono qui, in questa pausa di solitudine, come un po' d'acqua ferma per
un attimo sopra un masso sporgente in mezzo alla cascata, che aspetta di
precipitare ancora. Vivo come se un torrente mi attraversasse; tutto ha un
senso di così immediata fine, e è sogno che sa d'esser sogno, eppure mi strappa
con così violente braccia via dalla realtà. […] Sempre così smisuratamente perduta
ai margini della vita reale: difficilmente la vita reale mi avrà e se mi avrà
sarà la fine di tutto quello che c'è di meno banale in me. Forse davvero il mio
destino sarà di scrivere dei bei libri per i bambini che non avrò avuti. Povero
Manzi: senza saper niente, mi chiamava Tonia Kröger. E questi tuoi occhi che
sono tutto un mondo, con già scritta la tua data di morte […] Un'ora sola in
cui si guardi in silenzio è tanto più vasta di tutte le possibili vite […]»
Cantoni define come "primitivo" quel pensiero sincretico che non
distingueva nettamente tra mito e realtà tra affezione e razionalità. In questo
senso "primitivo" assume una valenza psicologica più che antropologica.
Il pensiero mitico, scrive in "Pensiero dei primitivi, preludio ad
un'antropologia", non è "arbitrario e caotico", ma pervaso di
una razionalità, una razionalità fusa in un crogiuolo affettivo. Yna delle
differenze fondamentali tra il pensiero moderno e quello primitivo consiste nel
fatto che il pensiero moderno ha una chiara coscienza della relazione e
dell'intreccio delle varie forme culturali tra loro e può sempre transitare da
una all'altra quando lo voglia; mentre noi sappiamo, ad esempio, che v'è un
conflitto tra la scienza e la religione, l'arte e la morale, il sogno e la realtà,
il pensiero logico e la creazione mitica, i primitivi mantengono tutte queste
forme su di un piano indistinto per cui fondono e confondono ciò che noi non
sempre distinguiamo, ma possiamo pur sempre distinguere. Questa mancanza di
distinzioni nette è uno dei caratteri più salienti della mentalità primitive.
Quindi sogno e realtà trapassano uno nell'altro e costituiscono nella loro
saldatura un continuum omogeneo. Si ocupa occupò con prefazioni, traduzioni, curatele e
altro di Kierkegaard, Dostoevskij, Nietzsche, Kafka, Spinoza, Fichte, Renan,
Hartmann, Huxley, Balzac, Jaspers, Banfi, Durkheim, Sofocle e Musil.
Altre opere: “Il pensiero dei primitivi, Milano: Garzanti); Estetica ed etica
nel pensiero di Kierkegaard, Milano: Denti); Crisi dell'uomo: il pensiero di
Dostoevskij, Milano: Mondadori, 1948, n. ed. Milano: Il Saggiatore); La
coscienza inquieta: Soren Kierkegaard, Milano: Mondadori, 1949; n. ed. Milano:
Il Saggiatore, 1976 Mito e storia, Milano: Mondadori); La vita quotidiana:
ragguagli dell'epoca, Milano: Mondadori, 1955 (articoli apparsi su
"Epoca" 1950-54); n. ed. Milano: Il Saggiatore); La coscienza mitica,
Milano: Universitarie, 1957 (lezioni dell'anno accademico 1956-57) Umano e
disumano, Milano: IEI); Il pensiero dei primitivi, Milano: La goliardica, 1959
Il tragico come problema filosofico, Milano: La goliardica); La crisi dei
valori e la filosofia contemporanea: con appendice sullo storicismo, Milano: La
goliardica); Filosofia del mito, Milano: La goliardica); Il problema
antropologico nella filosofia contemporanea, Milano: La goliardica, 1963
Tragico e senso comune, Cremona: Mangiarotti, 1963 Società e cultura, Milano:
La goliardica, 1964 Filosofie della storia e senso della vita, Milano: La
goliardica, 1965 Scienze umane e antropologia filosofica, Milano: La
goliardica, 1966 Illusione e pregiudizio: l'uomo etnocentrico, Milano: Il
Saggiatore, 1967, 1970 Storicismo e scienze dell'uomo, Milano: La goliardica,
1967 Personalità, anomia e sistema sociale, Milano: La goliardica); Che cosa ha
veramente detto Kafka, Roma: Ubaldini); Il significato del tragico, Milano: La
goliardica, 1970 Introduzione alle scienze umane, Milano: La goliardica); Che
cosa ha detto veramente Hartmann, Roma: Ubaldini, 1972 Robert Musil e la crisi
dell'uomo europeo, Milano: La goliardica, 1972; n. ed. Milano: Cuem); Persona,
cultura e società nelle scienze umane, Milano: Cisalpino-Goliardica); Antropologia
quotidiana, Milano: Rizzoli); Il senso del tragico e il piacere, prefazione di
Nicola Abbagnano, Milano: Editoriale nuova, 1978 Franz Kafka e il disagio
dell'uomo contemporaneo, con una nota di Carlo Montaleone , Milano: Unicopli). Attiva tra 1950 ed il 1962 e edita
dall'Istituto Editoriale Italiano
Lettere d'amore di Antonia Pozzi Archiviato il 12 dicembre 2008 in . il
17 dicembre 2008 Carlo Montaleone,
Cultura a Milano nel dopoguerra. Filosofia e engagement in Remo Cantoni,
Torino: Bollati Boringhieri, 1996
8833909689 Caterina Genna, «Il pensiero critico» di Remo Cantoni,
Firenze: Le Lettere, 2008 8860871603
Massimiliano Cappuccio e Alessandro Sardi , Remo Cantoni, Milano: Cuem,
2007 9788860011381 Clementina Gily Reda,
L'antropologia filosofica di Remo Cantoni. Miti come arabeschi, Fondazione Ugo
Spirito, 2008 8886225091 Antonia Pozzi Antonio Banfi Scuola di Milano
Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Remo Cantoni Collabora a
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Cantoni sito di Antonia Pozzi, su
antoniapozzi. Filosofia Letteratura
Letteratura Università Università
Filosofo del XX secoloAccademici italiani Professore1914 1978 14 ottobre 3
febbraio Milano MilanoStudenti dell'Università degli Studi di MilanoProfessori
dell'Università degli Studi di CagliariProfessori della SapienzaRomaProfessori
dell'Università degli Studi di PaviaProfessori dell'Università degli Studi di
MilanoFondatori di riviste italianeDirettori di periodici italiani. Remo
Cantoni. Keywords: Carlo Cantoni, filosofo, Remo Cantoni filosofo, mito e
storia, implicatura mitica, la morte di Remo, prejudices and predilections,
umano, preludio a un’antropologia, il primitivo. Il mito di Remo. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cantoni” – The Swimming-Pool Library.
Capitini (Perugia).
Filosofo. Grice: “I love Capitini: his idea (or ‘paradigma,’ as he prefers,
echoing Plato and Kuhn) of ‘compresenza conversazionale’ is genial and
Griceian! Capitini abbreviates all my pragmatics in the ‘tu’ – or ‘noi,’ – “I
am born when I say ‘thou’’ – translated alla Buber – what more conversationally
implicaturish can THEE be? (I’m using West-Country puritan patois!”). Fu uno
tra i primi in Italia a cogliere e a teorizzare il pensiero nonviolento
gandhiano, al punto da essere chiamato il Gandhi italiano. Nato in
una famiglia modesta, Capitini si dedica dapprima agli studi tecnici, per
necessità economiche e, in seguito, a quelli letterari, come autodidatta. La
madre lavora come sarta e il padre era impiegato comunale, custode del
campanile municipale di Perugia. Ritenuto inabile al servizio militare per
ragioni di salute, non partecipa alla Prima guerra mondiale. Dopo gli studi
della scuola tecnica e dell'istituto per ragionieri, dai diciannove ai ventuno
anni si dedica alla lettura dei classici latini e greci, studiando da
autodidatta anche dodici ore al giorno, dando così inizio al suo ininterrotto
lavoro di approfondimento interiore e filosofico. In questi anni legge
autori e libri molto diversi tra loro, su cui forma la propria cultura
letteraria e filosofica: D'Annunzio, Marinetti, Boine, Slataper, Jahier,
Ibsen, Leopardi, Manzoni, la Bibbia, Gobetti, Michelstaedter, Kant, Kierkegaard
(profondamente influenzato dal Vangelo), Francesco d'Assisi, Mazzini, Tolstoj e
Gandhi. In questo periodo aderisce quindi al pensiero nonviolento del politico
indiano. Nel 1924 vince una borsa di studio presso la Scuola Normale
Superiore di Pisa, nel curriculum universitario di Lettere e Filosofia. Capitini
critica aspramente il Concordato con la Chiesa cattolica, da lui giudicato una
"merce di scambio" per ottenere da Pio XI e dalle gerarchie
ecclesiali un atteggiamento "morbido" nei confronti del fascismo. In
uno dei suoi libri arriva ad affermare che «...se c'è una cosa che noi dobbiamo
al periodo fascista è di aver chiarito per sempre che la religione è una cosa
diversa dall'istituzione». Nel 1930 viene nominato segretario della
Normale di Pisa. Durante il periodo trascorso a Pisa, Capitini matura la scelta
del vegetarianismo come conseguenza della scelta di non uccidere, e ogni suo
pasto alla mensa della Normale diventa un comizio efficace e silenzioso,
un'affermazione della nonviolenza in opposizione alla violenza del regime
fascista. Insieme a Claudio Baglietto, suo compagno di studi, promuove
tra gli studenti della Scuola Normale riunioni serali dove diffonde e discute
scritti sulla nonviolenza e la nonmenzogna. Allorché Baglietto, recatosi
all'estero con una borsa di studio, rifiuta di tornare in Italia in quanto
obiettore di coscienza al servizio militare, scoppia lo scandalo e il direttore
della Scuola Normale Giovanni Gentile, per reazione, chiede a Capitini
l'iscrizione al partito fascista. Capitini rifiuta e Gentile ne decide il
licenziamento. Sergio Romano scriverà: «Gentile e Capitini si separarono
poco tempo dopo nella sala delle adunanze del palazzo dei Cavalieri. Il filosofo
disse di sperare che "le future esperienze gli facessero vedere la vita e
la realtà delle cose sotto un aspetto diverso"; e Capitini rispose che non
poteva fare altro che "contraccambiare l'augurio". Fu certamente
una rottura. Ma non appena il giovane pacifista uscì dalla sala, il filosofo si
voltò verso Francesco Arnaldi, che aveva assistito a questo scambio di battute,
e disse "Abbiamo fatto bene a mandarlo via perché, oltre tutto, è un
galantuomo".» Benedetto Croce; in riferimento a lui Capitini
scriverà: «dal Croce può venire il servizio ai valori. Il Croce è
greco-europeo, perché la civiltà europea porta al suo sommo l'affermazione dei
valori». A questo punto Capitini torna a Perugia nella casa paterna, vivendo di
lezioni private. Nel periodo di tempo tra il 1933 e il 1934 compie frequenti
viaggi a Roma, Firenze, Bologna, Torino e Milano per incontrare numerosi amici
antifascisti e intessere in questo modo una fitta rete di contatti.
Nell'autunno del 1936 a Firenze, a casa di Luigi Russo, ha modo di conoscere
Benedetto Croce, a cui consegna un pacco di dattiloscritti che Croce apprezza e
fa pubblicare nel gennaio dell'anno seguente presso l'editore Laterza di Bari
con il titolo Elementi di un'esperienza religiosa. In poco tempo gli Elementi
diventano uno tra i principali riferimenti letterari della gioventù
antifascista. Giovanni Gentile negli anni trenta, ai tempi del
direttorato alla Normale In seguito alla larga diffusione del suo libro,
Capitini promuove assieme a Guido Calogero un movimento culturale che negli
anni successivi cercherà di trasformare in un progetto politico atto a
realizzare le idee di libertà individuale e di uguaglianza sociale contenute
negli "Elementi". Nasce così il Movimento Liberalsocialista, in un
anno segnato dall'assassinio dei Fratelli Rosselli, dalla morte di Antonio
Gramsci e da una forte ondata di violenza repressiva contro l'opposizione
antifascista. Alle attività del movimento collaborano, tra gli altri, Ugo La
Malfa, Giorgio Amendola, Norberto Bobbio e Pietro Ingrao. Nel febbraio
1942 la polizia fascista effettua una retata nel corso di una riunione del
gruppo dirigente liberalsocialista, in seguito alla quale Capitini e gli altri
partecipanti alla riunione vengono rinchiusi nel carcere fiorentino delle Murate.
Dopo quattro mesi Capitini viene rilasciato, grazie alla sua fama di
"religioso". «Quale tremenda accusa contro la religione, se il potere
ha più paura dei rivoluzionari che dei religiosi», commenterà più tardi.
Nel giugno 1942 nasce il Partito d'Azione, la cui dirigenza proviene
direttamente dalle file del liberalsocialismo. Capitini rifiuta di aderire a
qualsiasi partito, poiché a suo giudizio «... il rinnovamento è più che
politico, e la crisi odierna è anche crisi dell'assolutizzazione della politica
e dell'economia». Per il suo rifiuto di collocarsi all'interno delle logiche
dei partiti, Capitini rimane escluso sia dal Comitato di Liberazione Nazionale,
sia dalla Costituente, pur avendo lui dato un'impronta indelebile alla nascita
della Repubblica con il suo lavoro culturale, politico, filosofico e religioso
di opposizione morale al fascismo. Nel maggio 1943 Capitini viene
nuovamente arrestato e rinchiuso, questa volta, nel carcere di Perugia; viene
definitivamente liberato col 25 luglio. Capitini tra gli anni '30 e
'40 Il Centro di Orientamento Sociale (COS) Nel 1944 Capitini cerca di
realizzare un primo esperimento di democrazia diretta e di decentralizzazione
del potere, fondando a Perugia il primo Centro di Orientamento Sociale, un
ambiente progettuale e uno spazio politico aperto alla libera partecipazione
dei cittadini, uno «...spazio nonviolento, ragionante, non menzognero», secondo
la definizione data dallo stesso Capitini. Durante le riunioni del COS i
problemi di gestione delle risorse pubbliche vengono discussi liberamente
assieme agli amministratori locali, invitati a partecipare al
dibattito per rendere conto del loro operato e per recepire le proposte
dell'assemblea, con l'obiettivo di far diventare "tutti amministratori e tutti
controllati". A Partire da Perugia, i COS si moltiplicano in diverse città
d'Italia: Ferrara, Firenze, Bologna, Lucca, Arezzo, Ancona, Assisi, Gubbio,
Foligno, Teramo, Napoli e in moltissimi altri luoghi. Aldo Capitini
nel 1929 I Centri di Orientamento Sociale si sono diffusi sul territorio
nazionale, scontrandosi tuttavia con l'indifferenza della Sinistra e con
l'aperta ostilità della Democrazia Cristiana, che impediscono l'affermazione su
scala nazionale dell'autogoverno e della decentralizzazione del potere sperimentati
con successo nelle riunioni dei COS. Nel secondo dopoguerra Capitini
diventa rettore dell'Università per stranieri di Perugia (come Commissario, dal
1944 al 1946), un incarico che sarà costretto ad abbandonare a causa delle
fortissime pressioni della locale Chiesa cattolica. Si trasferisce a Pisa, dove
ricopre il ruolo di docente incaricato di Filosofia morale presso l'università
degli Studi. Parallelamente all'attività didattica, politica e
pedagogica, Capitini prosegue la sua attività di ricerca spirituale e
religiosa, promuovendo nel 1947 il Movimento di religione insieme a Ferdinando
Tartaglia, singolare figura di sacerdote scomunicato ed audace teologo, che
però se ne allontanerà nel 1949. Negli anni che vanno dal 1946 al 1948 il
Movimento di religione organizza una serie di convegni con cadenza trimestrale,
che culminano con il "Primo congresso per la riforma religiosa" (Roma
13/15 ottobre 1948). Nel 1948 il giovane Pietro Pinna, dopo aver
ascoltato Capitini in un convegno promosso a Ferrara dal Movimento di
religione, matura la sua scelta di obiezione di coscienza: è il primo obiettore
del dopoguerra. Pinna è processato dal tribunale militare di Torino il 30
agosto 1949 e a nulla serve la testimonianza a suo favore di Aldo Capitini. Pinna
subisce una serie di processi, condanne e carcerazioni, fino al definitivo
congedo per una presunta "nevrosi cardiaca". Agli inizi degli anni 60
si dimetterà dal suo impiego in banca per raggiungere Danilo Dolci in Sicilia e
dopo un anno si trasferirà a Perugia per diventare il più stretto collaboratore
di Capitini. Dopo l'arresto di Pinna, Capitini promuove una serie di
attività per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza, convocando a Roma
nel 1950 il primo convegno italiano sul tema. Il Centro di Orientamento
Religioso (COR) Un primo piano di Aldo Capitini (ca. 1960) Nel 1952, in
occasione del quarto anniversario dell'uccisione di Gandhi, Capitini promuove
un convegno internazionale e fonda il primo Centro per la nonviolenza. Sempre
nel 1952 Capitini affianca ai Centri di Orientamento Sociale il Centro di
Orientamento Religioso (COR), fondato a Perugia con Emma Thomas (una quacchera
inglese di ottant'anni). Il COR è uno spazio aperto, in cui trova espressione
la religiosità e la fede di tutte le persone, i movimenti e i gruppi che non
trovavano posto nel Cattolicesimo preconciliare. Lo scopo dei COR era quello di
favorire la conoscenza delle religioni diverse dalla cattolica, e di stimolare
i cattolici stessi ad un approccio più critico e impegnato alle questioni
religiose. La Chiesa locale vieta la frequentazione del Centro di
Orientamento Religioso, e quando nel 1955 Capitini pubblica Religione Aperta il
libro viene immediatamente inserito nell'Indice dei libri proibiti. Nonostante
l'ostracismo delle alte gerarchie ecclesiali, Capitini stabilisce ugualmente
degli efficaci rapporti di collaborazione con alcuni cattolici come Don Lorenzo
Milani e Don Primo Mazzolari. Capitini organizza a Perugia un convegno su
La nonviolenza riguardo al mondo animale e vegetale e, insieme a Edmondo
Marcucciautore di Che cos'è il vegetarismo e, al pari di Capitini, mai iscritto
al partito fascistafonda la prima organizzazione nazionale di coordinamento
delle tematiche del vegetarianismo, la "Società vegetariana italiana".
La polemica tra Capitini e la Chiesa Cattolica continua anche dopo il Concilio
Vaticano II, con la pubblicazione del libro Severità religiosa per il Concilio.
A partire dal 1956 Capitini insegna all'Cagliari come docente ordinario di Pedagogia
e nel 1965 ottiene un definitivo trasferimento a Perugia. Nel marzo 1959 è tra
i fondatori dell'ADESSPI, l'Associazione di Difesa e Sviluppo della Scuola
Pubblica in Italia. Capitini arriva a chiedere al proprio vescovo di non essere
più annoverato nella Chiesa, lui profondamente religioso, della quale non
condivideva più i metodi e le idee. La prima Bandiera della
pace Bandiera della pace portata da Capitini nella prima marcia
Perugia-Assisi, attualmente custodita presso la Biblioteca San Matteo degli
Armeni del comune di Perugia. Domenica 24 settembre 1961 Capitini organizza la
Marcia per la Pace e la fratellanza dei popoli, un corteo nonviolento che si
snoda per le strade che da Perugia portano verso Assisi, una marcia tuttora
proposta in media ogni due/tre anni dalle associazioni e dai movimenti per la
pace. In questa occasione viene per la prima volta utilizzata la Bandiera della
pace, simbolo dell'opposizione nonviolenta a tutte le guerre. Capitini descrive
l'esperienza della marcia nel libro Opposizione e liberazione: «Aver mostrato
che il pacifismo, che la nonviolenza, non sono inerte e passiva accettazione
dei mali esistenti, ma sono attivi e in lotta, con un proprio metodo che non
lascia un momento di sosta nelle solidarietà che suscita e nelle noncollaborazioni,
nelle proteste, nelle denunce aperte, è un grande risultato della Marcia».
Aderiscono molte personalità, tra cui lo scrittore Italo Calvino. L'impegno di
Capitini per la pace infranazionale e internazionale (con particolare
attenzione al pericolo atomico) lo coinvolse sempre più in una collaborazione
con Norberto Bobbio, il quale raccoglierà tali riflessioni nell'opera Il
problema della guerra e le vie della pace. Negli ultimi anni della sua
vita Capitini fonda e dirige un periodico intitolato Il potere di tutti,
sviluppando i principi di quella che lui definì "omnicrazia", la
gestione diffusa e delocalizzata del potere da lui contrapposta al centralismo
dei partiti. In questi anni Capitini promuove anche il Movimento nonviolento per
la Pace e il mensile "Azione nonviolenta", l'organo di stampa del
movimento, che attualmente viene pubblicato a Verona. Dedito
completamente al suo lavoro di divulgatore della nonviolenza, Capitini non si
sposò mai, per scelta, in modo da poter dedicare tutte le proprie energie alla
sua attività. Il 19 ottobre 1968 Aldo Capitini muore circondato da amici
e allievi, dopo aver subìto un intervento chirurgico che consuma le sue ultime
energie. Il 21 ottobre il leader socialista Pietro Nenni scrive una nota sul suo
diario: «È morto il prof. Aldo Capitini. Era una eccezionale figura di
studioso. Fautore della nonviolenza, era disponibile per ogni causa di libertà
e di giustizia. (...) Mi dice Pietro Longo che a Perugia era isolato e
considerato stravagante. C'è sempre una punta di stravaganza ad andare contro
corrente, e Aldo Capitini era andato contro corrente all'epoca del fascismo e
nuovamente nell'epoca post-fascista. Forse troppo per una sola vita umana, ma
bello». È sepolto a Perugia nella tomba di amici del C.O.R., insieme a Emma
Thomas. Il pensiero Religione e laicità Il Mahatma Gandhi Aldo
Capitini aveva l'abitudine di definirsi un "religioso laico". Egli
accomunava la religione alla morale in quanto essa critica la realtà e la
spinge al cambiamentoin positivo. Quella di Capitini era un'opposizione
religiosa al fascismo. Il sentimento religioso, inoltre, nasce nei momenti
di difficoltà e sofferenza, in particolare nel rapporto individuale con la
morte. L'idea di laicità nasceva dal distacco di Capitini dalla Chiesa
cattolica, complice del regime: egli sosteneva che col Concordato del 1929 la
Chiesa avesse legittimato il potere di Mussolini, dimenticando le violenze
squadriste e, in tal modo, lo sostenesse garantendo la sua moralità di fronte
alla maggior parte della popolazione che riponeva fiducia nell'istituzione
religiosa. Capitini è molto distante dalla religione istituzionalizzata. Dio,
come Ente, non esiste per Capitini: per evitare ogni equivoco e marcare la
distanza della sua concezione religiosa da quella corrente, Capitini preferirà
parlare di compresenza piuttosto che di Dio; per la stessa ragione, per
indicare la vita religiosa così intesa non parla di fede, ma riprende da
Michelstaedter il termine persuasione. Capitini si dichiara
post-cristianoevidente anche dal suo "sbattezzo"e non cattolico, ma
ama e si ispira alle figure religiose. Ogni figura con una profonda credenza,
anche laica, è per lui un "religioso". Egli nega con decisione la
divinità di Gesù Cristo: convinzione senza la quale non si può essere
cristiani. Contesta, come Tolstoj, tutti gli aspetti leggendari e non
dimostrabili dei Vangeli, compresa la Risurrezione. Ciò che apprezza sono le
Beatitudini, il modello spirituale di un agire verso gli ultimi. Gesù ha
insegnato dove può giungere una coscienza religiosa, è stato più di un uomo:
"fu anche lui, come tutti, un essere con certi limiti; ma d'altra parte fu
in lui, come in ogni altro essere, la qualità della coscienza che va oltre i
limiti, che è in lui come in un mendicante" scrive negli Elementi.
L'imitazione di Cristo secondo Capitini non è altro che realizzazione della
propria realtà umana. Si potrebbe ugualmente parlare di una imitazione del
Buddha, di Francesco d'Assisi, di Gandhi, di Tolstoj e molti altri.
Persuasione, apertura, compresenza, omnicrazia Col termine
"persuasione", ripreso da Carlo Michelstaedter e da Gandhi, Capitini
indicava la fede, sia in senso laico sia religioso, la profonda credenza in
determinati valori ed assunti, e tramite essa, la capacità di persuadere gli
altri della bontà del proprio ideale. Il professor Aldo Capitini
negli anni '60 L'apertura è l'opposto della chiusura conservatrice ed
autoritaria del fascismo, e l'elevazione dell'anima verso l'alto e verso
Dio. Un concetto chiave nella filosofia capitiniana era la compresenza di
tutti gli esseri, dei morti e dei viventi, legati tra loro ad un livello
trascendente, uniti e compartecipi nella creazione di valori. Nella vita
sociale e politica la compresenza si traduce in omnicrazia, o governo di tutti,
un processo in cui la popolazione tutta prende parte attiva alle decisioni e
alla gestione della cosa pubblica. La nonviolenza e il liberalsocialismo
Non può mancare il concetto di nonviolenza, un ideale nobile, sinonimo di
amore, coerenza di mezzi e fini, la forza in grado di sconfiggere il fascismo,
che non è solo un regime, ma anche un modo di essere violento e
autoritario. Il liberalsocialismo di Capitini e di Guido Calogero si
sviluppa in modo autonomo dal socialismo liberale di Carlo Rosselli. Si forma
infatti in un periodo posteriore, quando il regime fascista è vicino al
collasso, nell'ambiente dei giovani crociani che hanno studiato ed insegnato
alla Normale di Pisa, mentre il pensiero di Rosselli, che lo precede
temporalmente, essendosi forgiato nel fuoco della lotta antifascista, in Italia
e in Europa, già a partire dagli anni Venti, si iscrive in modo diretto nella
tradizione socialista. Capitini per liberalismo intende il libero sviluppo
personale, la libera ricerca spirituale e la produzione di valori. Il
socialismo è invece nei suoi intendimenti la realizzazione nel lavoro,
l'assistenza fraterna dell'umanità lavoratrice soggetto corale della storia.
Anche se «...il socialismo liberale di Rosselli […] è una delle eresie del
socialismo, mentre il liberalsocialismo è un'eresia del liberalismo» (M. Delle
Piane), si può affermare tuttavia che entrambi condividessero la critica ai
totalitarismi,sia di destra che di sinistra, una visione laica della politica e
l'obiettivo di una profonda riforma morale e sociale dell'Italia distrutta
dalla guerra. L'educazione e la civiltà L'educazione
"profetica" è quella di colui che, con uno sguardo al futuro, è
capace di criticare la realtà sulla base di valori morali, anche a costo di
sembrare fuori dal suo tempo. Con l'espressione "civiltà
pompeiana-americana" intende biasimare la mentalità materialista che vede
nel lusso e nel possesso la realizzazione delle persone. Il "tempo
aperto" è il tempo libero che ognuno potrebbe destinare alla discussione,
alla socializzazione, al raccoglimento, all'elevazione spirituale. Ad Aldo
Capitini sono intitolate strade in molte città di Italia: Perugia, Firenze,
Roma, Pisa, Milano, ecc Riconoscimenti Ad Aldo Capitini sono oggi
intitolati un Istituto di istruzione tecnica economica e tecnologica, un centro
congressi a Perugia, un'Aula magna all'interno dell'Cagliari, presso la Facoltà
di Studi umanistici. Altre opere: “Esperienza religiosa” Laterza, Bari); “Vita
religiosa, Cappelli, Bologna); “Atti della presenza aperta, Sansoni, Firenze);
“Saggio sul soggetto della storia, La Nuova Italia, Firenze); “Esistenza e
presenza del soggetto in Atti del Congresso internazionale di Filosofia (II ),
Castellani, Milano); “La realtà di tutti, Arti Grafiche Tornar, Pisa); “Italia
nonviolenta, Libreria Internazionale di Avanguardia, Bologna); “Nuova socialità
e riforma religiosa, Einaudi, Torino); “L'atto di educare, La Nuova Italia,
Firenze); “Religione aperta, Guanda, Modena); “Colloquio corale, Pacini
Mariotti, Pisa); “Discuto la religione di Pio XII, Parenti, Firenze); “Aggiunta
religiosa all'opposizione, Parenti, Firenze); "Danilo Dolci", Piero Lacaita
Editore, Manduria); “Battezzati non credenti, Parenti, Firenze); “Antifascismo
tra i giovani, Celebes editore, Trapani); “La compresenza dei morti e dei
viventi, Saggiatore, Premio Viareggio Speciale); “Le tecniche della
nonviolenza, Feltrinelli, Milano (rist. Linea D'Ombra, Milano 1989; rist.
Edizioni dell'asino, Roma); “Educazione aperta” La Nuova Italia, Firenze); “Il
potere di tutti, introduzione di N. Bobbio, prefazione diPinna, La Nuova
Italia, Firenze); “Scritti sulla nonviolenza, L. Schippa, Protagon, Perugia); “Scritti
filosofici e religiosi, M. Martini, Protagon, Perugia); “Il potere di tutti, 2
ed. riveduta e corretta, Guerra Edizioni, Perugia); “Opposizione e liberazione:
una vita nella nonviolenza, Piergiorgio Giacché, Napoli, L'ancora del
Mediterraneo. Le ragioni della nonviolenza. Antologia degli scritti, Mario
Martini, ETS, Pisa scheda; Lettere; "Epistolario di Aldo Capitini, 1"con
Walter Binni, L. Binni e L. Giuliani, Carocci, Roma (intr.di M. Martini).
Lettere, "Epistolario di Aldo Capitini, 2"con Danilo Dolci, G. Barone
e S. Mazzi, Carocci, Roma); La religione dell'educazione: scritti pedagogici,
Piergiorgio Giacché, La meridiana, Molfetta); Lettere 1936-1968,
"Epistolario di Aldo Capitini, 3"con Guido Calogero, Th. Casadei e G.
Moscati, Carocci, Roma. L'atto di
educare, M. Pomi, Armando editore, Roma.
Lettere, "Epistolario di Aldo Capitini, 4"con Edmondo
Marcucci, A. Martellini, Carocci, Roma.
Religione Aperta, M.Martini, Laterza, Roma-Bari. Lettere 1937-1968, "Epistolario di Aldo
Capitini, 5"con Norberto BobbioPolito, Carocci, Roma. Lettere familiari, "Epistolario di Aldo
Capitini, 6"M. Soccio, Carocci, Roma.
Un'alta passione, un'alta visione. Scritti politici 1935-1968L. Binni e
M. Rossi, Il Ponte Editore, Firenze.
Attraverso due terzi del secolo, Omnicrazia: il potere di tuttiL. Binni
e M. Rossi, Il Ponte Editore, Firenze.
La mia nascita è quando dico un tu, quaderno per la ricercaLanfranco
Binni e Marcello Rossi, Il Ponte Editore, Firenze. Antifascismo tra i giovani, collana «Opere di
Aldo Capitini», Il Ponte Editore, coedizione con Fondo Walter Binni e
Fondazione Centro studi Aldo Capitini, Firenze.
Nuova socialità e riforma religiosa, collana «Opere di Aldo Capitini»,
Il Ponte Editore, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi
Aldo Capitini, Firenze. La compresenza
dei morti e dei viventi, collana «Opere di Aldo Capitini», Il Ponte Editore,
coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi Aldo Capitini,
Firenze. Educazione aperta collana
«Opere di Aldo Capitini», Il Ponte ditore, Voll. 1-2, coedizione con Fondo
Walter Binni e Fondazione Centro studi Aldo Capitini, Firenze. Note Incontro con il "Gandhi" italiano,
La Stampa, 22 giugno 1968; Il Gandhi Italiano, Panorama, Tale soprannome è
condiviso con altri, come Danilo Dolci e Franco Corbelli Capitini ricorderà: «Gentile era impaziente
che io sistemassi le cose e me ne andassi, perché ero divenuto di colpo
vegetariano (per la convinzione che esitando davanti all'uccisione degli
animali, gli italianiche Mussolini stava portando alla guerraesitassero ancor
di più davanti all'uccisione di esseri umani): e a Gentile infastidiva che io,
mangiando a tavola con gli studenti, come continuavo a fare, fossi di scandalo
con la mia novità». (citato in Lorenzo Guadagnucci, Restiamo animali, Milano,
Terre di mezzo) Sergio Romano, Aldo
Capitini e il pacifismo alla Scuola Normale, Corriere della Sera, 4 luglio
2006. l'8 febbraio 18 giugno ).
Aldo Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Il Saggiatore,
Milano, 1966131. Da Le lettere di
religione Archiviato il 26 novembre in .
su aldocapitini Edmondo Marcucci, Che
cos'è il vegetarismo?, Società vegetariana italiana, 1953. Giulio Angioni, Tutti dicono Sardegna,
Cagliari, Edes, 1990, 3049 Dal sito del
COS fondato da Capitini[collegamento interrotto] Testimonianza di Luciano Capitini, figlio del
cugino di primo grado Piero, il parente più stretto di Capitini Antonio
Vigilante, Religione e nonviolenza in Aldo Capitini. Martini Mario, Aldo Capitini e le possibilità
religiose della laicità, Nuova antologia : 608, 2262, 2, , Firenze (FI): Le
Monnier, . Nel 1938 aveva reso visita a Piero Martinetti, ritiratosi
nella sua villa di Spineto a Castellamonte, con le cui concezioni religiose
aveva una grande sintonia. Per un
approfondimento, vedi i seguenti testi: G. Calogero, Difesa del
liberalsocialismo, Marzorati, Milano, 1972; M. Bovero, V. Mura, F. Sbarberi , I
dilemmi del liberalsocialismo, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1994; A.
Capitini, Liberalsocialismo, e/o, Roma, 1996 (che raccoglie una serie di
scritti apparsi fra il '37 e il '49).
Premio letterario Viareggio-Rèpaci, su premioletterarioviareggiorepaci.
9 agosto . Piero Craveri, CAPITINI,
Aldo, in Dizionario biografico degli italiani,
18, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1975. 26 maggio . Norberto Bobbio, La filosofia di Aldo
Capitini, Religione e politica in Aldo Capitini, in Id., Maestri e compagni, Firenze,
Passigli Editori, Antonio Areddu, La via italiana al gandhismo in “Il
Manifesto”, Antonio Areddu, Non violenza e utopia. Aldo Capitini ed Ernst
Bloch, in “Behemoth”, trimestrale di cultura politica, a. 1988, 4, fasc.1-2. Giacomo Zanga, Aldo Capitini. La
sua vita, il suo pensiero, Torino, Bresci Editore, 1988. Marco Capanna,
Speranze, Rizzoli, Mario Martini,
L'etica della nonviolenza e l'aggiunta religiosa, in "Il Ponte",
Mario Martini, Capitini ispiratore di Bucchi. La sintesi di pensiero del
Colloquio corale, in "Esercizi Musica e spettacolo", nn. 16-17,
1997-98. Antonio Vigilante, La realtà liberata. Escatologia e nonviolenza in
Capitini, Foggia, Edizioni del Rosone, 1999. Mario Martini, I limiti della
democrazia e l'aggiunta religiosa all'opposizione, in G. B. Furiozzi , Aldo
Capitini tra socialismo e liberalismo, Milano, Franco Angeli, 2001. Pietro
Polito, L'eresia di Aldo Capitini, prefazione di N. Bobbio, Aosta, Stylos,
2001. Giuseppe Moscati, La presenza alla persona nell'etica di Aldo Capitini:
considerazioni in alcuni scritti minori, in "Kykeion", n. 7, Firenze,
University Press, 2002. Tuscano, Pasquale, Poetica e poesia di Aldo Capitini,
Critica letteraria. N. 4, 2008, Napoli: Loffredo Editore, 2008. Mario Martini,
Mazzini, Capitini, Gandhi: una religione umanitaria per la democrazia, in
"Il Pensiero Mazziniano", Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta.
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edizioni, 2003. Mario Martini, Laicità religione nonviolenza, in M. Soccio ,
Convertirsi alla nonviolenza?, Verona, Il Segno dei Gabrielli, 2003. Mario
Martini, Religiosità, ateismo e laicità: la religione aperta, in D. Tessore ,
L'evoluzione della religiosità nell'Italia multiculturale, Roma, Settimo
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profetico ed educazione in Aldo Capitini. Prospettive filosofiche, religiose e
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2005. Massimo Pomi, Al servizio dell'impossibile. Un profilo pedagogico di Aldo
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categoria religiosa, in "Itinerari" (seconda serie), XLVIII, 3, 2009.
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italiano", Padova , 169–188 Mario
Martini, Capitini oltre il quarantennio della sua scomparsa. Una rassegna, in
"Quaderni dell'Associazione Diomede", n. 2, . Mario Martini,
Capitini, maestro di rigore intellettuale e politico, in "Il Ponte",
nn. 7-8, . Mario Martini, Aldo Capitini e le possibilità religiose della
laicità, in "Nuova Antologia", aprile-giugno . Gian Biagio Furiozzi,
Aldo Capitini e Giacomo Matteotti, Nuova antologia. APR. GIU., 2009. Gabriele
Rigano, Religione aperta e pensiero nonviolento: Aldo Capitini tra Francesco
d'Assisi e Gandhi, Mondo contemporaneo: rivista di storia: 2, (Milano: Franco Angeli). Polito, Pietro,
editor; Impagliazzo, Pina, editor, Norberto Bobbio: testimonianze e ricordi su
Aldo Capitini, Nuova antologia: 607, 2260,
(Firenze (FI): Le Monnier). Mario Martini, Aldo Capitini e le possibilità
religiose della laicità, Nuova antologia: 608, 2262, 2, (Firenze (FI): Le Monnier). Aldo Capitini
(Lanfranco Binni e Marcelo Rossi), Numero speciale di “Il Ponte” n.4,
luglio-agosto . Danilo Dolci Pietro
Pinna Guido Calogero Mahatma Gandhi Nonviolenza Alberto L'Abate Altri progetti
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line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Aldo Capitini, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Aldo Capitini, su sapere, De
Agostini. Opere di Aldo Capitini, .
Associazione "Amici di Aldo Capitini", su citinv. Puntata de
"La grande storia", su rai. 3 ottobre
7 marzo ). Tesi di laurea: Guido Calogero, Aldo Capitini, Norberto
BobbioTre idee di democrazia per tre proposte di pace, su peacelink.
PredecessoreRettore dell'Università per Stranieri di PerugiaSuccessore Astorre
Lupattelli19441946 commissarioCarlo Sforza Filosofia Politica Politica Filosofo del XX secoloPolitici
italiani del XX secoloAntifascisti italiani 1899 1968 23 dicembre 19 ottobre
Perugia PerugiaAccademici italiani del XX secoloAttivisti italianiEducatori
italianiNonviolenzaPacifistiPersone legate alla Resistenza italianaPoeti italiani
del XX secoloPolitici del Partito d'AzioneSostenitori del vegetarianismoTeorici
dei diritti animali. Aldo Capitini. Keywords: il noi, l’io, il tu, un tu, la
compresenza conversazionale – il noi conversazionale – il noi duale – la diada
conversazionale – diada e compresenza – “io” e “non-io” – io e tu – Hegel. Du,
Thou, I and Thou, Buber, The ‘we’, -- the dual ‘us’ – both, entrambi noi. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Capitini” – The Swimming-Pool Library.
Capizzi (Genova).
Filosofo. Grice: “You gotta love Capizzi; he is the type of philosophical
intellectual we do not have at Oxford, where it is clever to be dumb! Capizzi
knows almost everything! His ‘Parmenids’s door’ is genial – and so is his
philosophy on Roman philosophy (‘il colosso romano,’ ‘Catone,’ ‘Roma madre,’
‘Roma e Sparta,’) – but my favourite is his tract on conversational implicature
which he entitles, in a most Italianate manner, ‘Per l’attualismo del dialogo’.”
Insegna a Villa Mirafiore, Roma. Si contraddistinse per l'accurato studio
storico e filologico dei filosofi italici (Velia, Crotone, Girgentu, Roma).
Contesta radicalmente le ricostruzioni ottocentesche del pensiero occidentale
del VI e V secolo a.C., che attribuiscono validità storica alle interpretazioni
di Aristotele e alla dossografia dipendente da Teofrasto. A questo scopo
collabora con il circolo urbinate di Gentili nello sforzo di inserire i
sapienti italici nelle tematiche concernenti le città, il pubblico, il
committente, l'evoluzione delle strutture sociali, il trapasso dalla tradizione
orale alla società della scrittura. Si forma alla scuola di Carabellese.
Ben presto entra nei circoli degli studiosi che gravitavano intorno ai filosofi
Spirito e Calogero. Insegna a Frosinone e Roma. Si evidenziandosi per
l'originalità delle vedute e la radicalità del temperamento. Coltiva due
interessi paralleli. Uno, da storico, per la sapienza italica arcaica,
che lo portò a contestare la narrazione dei italici fatta da Aristotele.
Questi, secondo lui, scrisse per esigenze di insegnamento del proprio pensiero
nell'ambito del Liceo, e non con lo scopo di ricostruire quanto realmente
accaduto. Dopo di lui, per un colossale equivoco, Teofrasto, i grammatici
alessandrini, Hegel, Eduard Zeller, Gomperz e Burnet protrassero una
sistematica falsificazione. Riprese, per contro, la lezione di Diels,
Reinhardt, Cherniss, McDiarmid e Kirk, i quali dimostrarono che Aristotele ha
avuto solo interessi speculativi. Aristotele, come tutti i filosofi, parla
sempre e soltanto del suo tempo, della cultura del suo tempo, dei problemi del
suo tempo. Approfondendo gli studi di Calogero sul “pre-logismo” italico, di Detienne
sul mito antropomorfico, di Havelock sulla diffusione della filosofia e di Colli
sulla sapienza pre-filosofica, fu il primo storico di formazione filosofica a
scoprire l'importanza della dimensione politica negli enigmatici frammenti dei
sapienti italici. Ritenne che, ogni volta che si studiano filosofi italici,
occorra privilegiare il rapporto tra ogni singolo autore e la sua singola
città: Velia, Crotone, Roma, Girgentu. L'altro interesse, preminentemente
teoretico, si svolse sui temi dell'attualismo, che tenta di superare
liberandolo dal presupposto interioristico e cogitativistico e proponendo di
passare alla interosggetivita della comunicazione, in particolare a quella
comunicazione protesa verso una risposta futura che è il dialogo o la
conversazione. Intransigente oppositore dell’assoluto hegeliano, nei sui saggi
di maggior rilievo filosofico, distinse la filosofia in "comica" e
"tragica". Per filosofia comica intende quella che presuppone una
struttura unitaria a priori della realtà, che pertanto analizza cose come
l'essere, l'uomo, la conoscenza, la ragione, che ignora i modi di essere delle singole
diada conversazionale, i tipi di uomo, i modi di conoscere legati ai modi di
vivere, le ragioni dei singoli gruppi esistenti in vari luoghi e in vari
momenti. L'altra filosofia, ampiamente minoritaria e controcorrente, è quella
che presuppone la pluralità delle culture, dei costumi, dei pensieri, e che,
avendo a che fare, nei vari momenti storici, con incontri e scontri di alcune
culture, alcuni costumi e alcuni pensieri, entra nell'età adulta del dilemma
tragico, della scelta tra due opzioni contrarie le quali, in assoluto, non
rappresentano il bene o il male, ma ciascuna il bene in un determinato sentire
che spesso coincide con il male di un sentire opposto. Altre opere: “Protagora.
Le testimonianze e i frammenti); “Il libero arbitrio”; “Per un attualismo del
dialogo”; “Dall'ateismo all'umanismo: correnti incredule del dopoguerra e loro
prospettive dialogiche”); “Socrate e i personaggi filosofi di Platone: uno
studio sulle strutture della testimonianza platonica e un'edizione delle
testimonianze contenute nei dialoghi, Roma); “Impegno e disponibilità: la
doppia morale degli intellettuali di oggi); “I Presocratici. Antologia di testi,
Firenze, La Nuova Italia); “Introduzione a Velia”, Roma-Bari, Laterza); “La
porta a Velia: per una lettura del poema”; “I Sofisti. Antologia di testi,
Firenze, La Nuova Italia); “Sinfonia patriarcale. Storia antologica dela
filosofia maschile” Roma, Savelli editore); “La radice ideologica del fascismo:
il mito della libertà” (Roma, Savelli); “Socrate. Antologia di testi, Firenze,
La Nuova Italia); “Eraclito e la sua leggenda. Proposta di una diversa lettura
dei frammenti); “La repubblica cosmica. Appunti per una storia non-peripatetica
della nascita della filosofia” (Roma, Edizioni dell'Ateneo); Platone e il suo
tempo, Roma, Edizioni dell'Ateneo); Forme del sapere nei presocratici, Roma,
Edizioni dell'Ateneo); L'uomo a due anime. Il comico-tragico adolescenziale”
)Firenze, La Nuova Italia); Il tragico in filosofia, Roma, Edizioni
dell'Ateneo); I sofisti ad Atene. L'uscita retorica dal dilemma tragico” (Bari,
Levante Editori); “Paradigma, mito, scienza” (Gruppo editoriale
internazionale); “Platone nel suo tempo. L'infanzia della filosofia e i suoi
pedagoghi”; “Corpo ed anima”, “Veleatismo”; Il 'mito di Protagora' e la polemica
sulla democrazia”; "A proposito di Parmenide e di Socrate demistificati",
in Il demistificatore"; "I italici furono ‘filosofi’? L’origine dello
specifico filosofico"; "Tracce di una polemica sulla scrittura in
Eraclito e Parmenide", "Cerchie e polemiche filosofiche del V
secolo", in Storia e civiltà dei Greci,
III, Milano) "Veliadi Eliadi Meleagridi Pandionidi: la metafora
mitica in Parmenide" "Eraclito e Parmenide, un tipico luogo
comune"; "Parmenide", "Eschilo e Parmenide", "Sono/fui; sum-fui: oysia/physis;
eimi/phyo: due concetti”; "Mente elevata e mente profonda" in Il Sublime: contributi per la storia di
un'idea (Napoli); "Trasposizione
del lessico omerico in Parmenide ed Empedocle", in "Quattro ipotesi veleatiche/eleatiche",
"Di Pitodoro, di Omar, di Don Ferrante e anche degli aristotelici
attuali", Platone, Protagora, Firenze, La Nuova Italia.Partecipa con una
delegazione di professori ad un'assemblea a Roma. La discussione si fa animata
soprattutto con Rosario Romeo, professore di Storia Moderna, che prima lo
accusa di fiancheggiare gli "squadristi rossi" e poi lo schiaffeggia.
Gli Indiani metropolitani rincorrono Romeo al grido di "Compagno Capizzi,
te lo giuriamo, ogni Romeo preso te lo schiaffeggiamo" In actual fact,
Odysseus and the charioteer are complete opposites.4 Antonio Capizzi thinks
that the journey is through the streets of Velia, out of the northern gates of
the city and down to the inlet where the Velians moored their ships.5 This ...
I Romani , nel cui alfabeto figurava la V , non ebbero problemi di
trascrizione : influenzati probabilmente dalla Velia o Veliae del Palatino24 ,
modificarono in tal senso il Vele ... Dichtersprache und geistige Tradition des
44 ANTONIO CAPIZZI. studi sul pensiero greco Antonio Capizzi. QUATTRO IPOTESI
ELEATICHE 1 . Elea : nascita di un nome In epoca romana la città di Parmenide e
di Zenone era detta Velia o Veliae dagli scrittori latini ( a partire da
Cicerone ) , Eléa da quelli..
Antonio Capizzi , La porta di Parmenide . Due saggi per una nuova
lettura del poema ( = Filologia e Critica 14 ) . Edizioni dell ' Ateneo , Rom
1975 . 125 S . Diese Arbeit hat zwei Kapitel , die mit „ Il proemio di P . e
gli scavi di Velia “ bzw Giovanni Casertano Antonio Capizzi. Tuttavia ,
Alcmeone fu ... 132 ; V. Catalano , ' L'Asklepeion di Velia ' , estratto dagli
Annali del Pontificio Istituto Superiore di Scienze e Lettere « Santa Chiara »
, Napoli 1965-66 , pagg . 289-301 , a pag la homoiòtes e l'atrékeia ,
proponendosi di trasformare Velia ( prima aggregato di corn , di villaggi
autonomi ) in una polis compatta e stabile . L'uomo ... IL CARTESIO DI GIANNONE
*Un grande storico della filosofia 130 ANTONIO CAPIZZI Antonio Capizzi , La
porta di Parmenide . ... une interprétation nouvelle de certains passages du
poème de Parménide , en particulier des fragments 1 et 6 , à la lumière des
fouilles de Velia - ' Eléa commencées en 1962 par Mario Napolil'uscita retorica
dal dilemma tragico Antonio Capizzi. feste quinquennali Zenone ricomparve in
città , e il ... 183 E - 184 A. 5 E. Pozzi PAOLINI , Problemi della monetazione
di Velia nel V secolo a . C. , « La parola del passato » 25,1970 , pp .... e
ritiene l'argomento c irrilevante in quanto Parmenide poteva essersi ispirato
alla Velia reale anche in una metafora ( p . ... che si preoccupa di riu- --
nire una città sotto una costituzione aristocratica , omogenea e 402 ANTONIO
CAPIZZI. proposta di una diversa lettura dei frammenti Antonio Capizzi ... del
corpo sociale , doveva conoscere bene anche quei gruppi di cittadini che
usavano la scrittura nelle loro ricerche scientifiche , come la scuola medico -
astronomica di Velia . 1 tra le vie e le porte di Velia , recentemente
dissepolte ; e i " mortali ignoranti ” del fr . 6 tra i nemici non
metafisici , ma politici , che insidiavano la libertà della polis velina .
Antonio Capizzi , incaricato di filosofia teoretica presso l'Università di ... un
superdio – chi siede di fronte a te e ogni moeclittico è già il proemio : di
recente Antonio Capizzi ( La porta di ... ( RODOLFO MACCHIONI Velia , e Renzo
Vitali ( Una ricostruzione del Jodi ) . poema , Faenza 1978 ) una allegorica e
...
da dove nasce l’idea di un ciclo di convegni sulla figura di
Parmenide proprio qui dove Parmenide è vissuto? Mi pare di non potermela cavare
con due parole appena. Consideri solo questo, che i riflettori su Elea/Velia si
accesero nel 1964, quando Mario Napoli pervenne a identificare la strada e la
porta dette “di Parmenide” e, contemporaneamente, Marcello Gigante pubblicò
sulla rivista La Parola de Passato una breve nota, «Parmenide Uliade», che
attirava l’attenzione su due iscrizioni anch’esse emerse grazie agli scavi
condotti dal Prof. Napoli. Si gettarono allora le premesse per una progressiva
riscoperta della patria di Parmenide e Zenone, e l’emozione dei primi
visitatori colti venne alimentata dalla memorabile foga con cui, intorno al
1970, Antonio Capizzi si dedicò a proclamare che non può capire Parmenide chi
non ha visto gli scavi. La scoperta del sistema viario che collegava il
quartiere meridionale con quello settentrionale, di cui fanno parte la Porta
Rosa e la cosiddetta Porta arcaica, con il conseguente disvelamento della
topografia del sito, hanno stimolato lo studioso di filosofia antica Antonio
Capizzi, a una rilettura affascinante,[6] ma non universalmente accettata,[7]
del proemio Parmenideo al poema in versi Peri Physeos (Sulla
Natura). Antonio Capizzi, La porta di Parmenide, Roma, 1975 e, dello
stesso autore, Introduzione a Parmenide, Bari, 1975. PARMENIDE SULLA
NATURA Introduzione, traduzione, note e commento a cura di Dario Zucchello
PREMESSA Il lavoro qui proposto è il risultato di anni di confronto con il
testo e la letteratura parmenidei, sollecitato dalla discussione con l’amico
Livio Rossetti, cui sono riconoscente per stimoli, idee ed esempio, e alla cui
vivacità e intelligenza d’approccio alla cultura preplatonica sono debitore di
non pochi elementi di riflessione. Per rintracciare nel tempo le origini di
questo specifico interesse eleatico, devo invece risalire agli anni universitari
pisani, alle lezioni di Giorgio Colli, nel periodo in cui i volumi della
Sapienza greca stavano vedendo la luce presso l’editore Adelphi: il primo
impatto con il pensatore di Elea avvenne infatti nei riferimenti alla
discussione intorno alla natura della dialettica arcaica e all’origine della
filosofia, nonché attraverso la lettura del Parmenide platonico, proprio in
occasione di un corso seguito, tra gli altri, anche da due affermati studiosi e
recenti editori dell’opera del sapiente di Elea: Angelo Tonelli e Riccardo Di
Giuseppe. Prima dell’impegnativo lavoro di esegesi che ha richiesto una
paziente frequentazione delle interpretazioni classiche e contemporanee, la mia
fatica (la fatica di chi non ha ricevuto un’educazione filologica) si è concentrata
sulla restituzione di un testo greco che tenesse conto dei contributi originali
degli editori più recenti, conservando tuttavia, a dispetto delle molte
suggestioni, una coerenza complessiva. La traduzione non ha alcuna pretesa di
conservare le qualità letterarie del verso epico, puntando piuttosto alla
massima prossimità possibile ai termini e alla costruzione dei versi stessi. Il
mio sforzo non attende quindi riconoscimenti per originalità ed efficacia nella
resa del testo parmenideo: esso ha puntato piuttosto, sin dall’inizio, a
ricostruire la fi- sionomia di un’opera complessa, cercando di strapparla alle
ipoteche metafisiche da cui è stata spesso condizionata la lettura. Ho già
avuto modo di proporre le mie idee sulla posizione del poema nel quadro della
storia della sapienza arcaica in due saggi stesi in parallelo alla composizione
della presente edizione: Parmenide e la tradizione del pensiero greco arcaico
(ovvero, della sua eccentricità), in Il quinto secolo. Studi di filosofia
antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S. Giombini e F. Marcacci,
Aguaplano, Perugia 2011; Parmenide e la περὶ φύσεως ἱστορία, in Elementi
eleatici, a cura di I. Pozzoni, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2012. Il lettore
troverà nel commento ai frammenti e nella introduzione generale un’ampia difesa
della lettura “cosmologica“ del poema, ma, allo stesso tempo, attenzione per le
tracce delle interazioni di Parmenide con la cultura del suo tempo: un campo
d’indagine che ritengo ancora del tutto aperto a nuove suggestioni. Nel
presentare il risultato del mio lavoro mi sia concesso ringraziare i miei
anziani genitori per il sostegno che non mi hanno fatto mai mancare e che ha
reso possibile le mie ricerche e i mei studi, e Umbi e Gigì per la loro
pazienza. Nonostante tutto. A loro questa fatica è dedicata. Dario Zucchello
Como, febbraio 2014 4 INTRODUZIONE IL POEMA E IL SUO TEMA Secondo quanto ci
attesta Diogene Laerzio (II-III secolo), Parmenide sarebbe autore di un'unica
opera: οἱ δὲ [sc. κατέλιπον] ἀνὰ ἓν σύγγραμμα· Μέλισσος, Π., Ἀναξαγόρας altri –
Melisso, Parmenide e Anassagora – [lasciarono] un unico scritto (DK 28 A13), un
poema in esametri, cui la tradizione posteriore attribuisce la titolazione di
Περὶ φύσεως: ἢ ὅτι Περὶ φύσεως ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ Μέλισσος καὶ Π. ...
καὶ μέντοι οὐ περὶ τῶν ὑπὲρ φύσιν μόνον, ἀλλὰ καὶ περὶ τῶν φυσικῶν ἐν αὐτοῖς τοῖς
συγγράμμασι διελέγοντο καὶ διὰ τοῦτο ἴσως οὐ παρηιτοῦντο Περὶ φύσεως ἐπιγράφειν
Sia Melisso sia Parmenide intitolarono i loro scritti Sulla natura .... E certo
in questi scritti trattano non solo di ciò che è oltre la natura, ma anche
delle cose naturali e per questo probabilmente non disdegnarono di intitolarli
Sulla natura (Simplicio; DK 28 A14). 5 L'indagine περὶ φύσεως Che in effetti
tale intestazione potesse risalire a Parmenide è stato sostenuto da Guthrie1 ,
sulla scorta della parodia che ne avrebbe fatto Gorgia con il suo Περὶ τοῦ μὴ ὄντος
ἢ περὶ φύσεως, anche se è comune la convinzione che, prima dei sofisti, la
designazione di un testo avvenisse attraverso la citazione dell’incipit (che
doveva risultare particolarmente incisivo), con l'indicazione del contenuto,
preceduta dal nome dell'autore (sulla prima riga del testo, analogamente a
quanto registriamo nel caso di Erodoto)2 . Il trattato ippocratico Sull'antica
medicina riferisce la formula indentificativa περὶ φύσεως almeno ai testi della
metà del V secolo a.C.: Ἐμπεδοκλῆς ἢ ἄλλοι οἳ περὶ φύσιος γεγράφασιν Empedocle
e gli altri che scrissero sulla natura (De prisca medicina cap. 20). È opinione
ampiamente condivisa che essa abbia funzionato, a posteriori, da etichetta per
classificare una certa tipologia di scritti, manifestandone il tema: in questa
direzione è possibile che, in particolare, la Συναγωγή di Ippia abbia
contribuito a fissare un certo numero di categorie storiografiche tradizionali,
tra cui appunto la nozione unificante di φύσις, la denominazione Περὶ φύσεως,
il termine generico φυσιόλογος3 . Si tratta, infatti, di uno dei primi4 sforzi
"dossografici", un'opera (molto utilizzata da Platone e Aristotele)
intesa a selezionare, raccogliere, mettere in relazione e commentare gli
enunciati trovati in ogni genere testuale (poetico e 1 W.K.C. Guthrie, The
Sophists, C.U.P., Cambridge 1971, p. 194. 2 G. Naddaf, The Greek Concept of
Nature, SUNY Press, New York 2005, p. 16; W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo,
Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi
di Pisa, Pisa 1994, p. 12. 3 J.-F. Balaudé, Hippias le passeur, in La
costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M.
Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, p. 296. 4 Gorgia ne avrebbe portato
avanti uno analogo, ma connotato più in senso critico, per sottolineare gli
insolubili contrasti tra filosofie. Gorgia avrebbe influenzato direttamente Isocrate,
Platone e lo stesso Aristotele. 6 in prosa), di ogni epoca, per coglierne
convergenze e stabilire linee di continuità 5 . In ogni caso, al di là della
discussione sull'attendibilità storica di quel titolo per le opere del V secolo
a.C., non è contestato il fatto che tra V e IV secolo a.C. fosse individuabile
un gruppo di autori περὶ φύσεως, impegnato, in altre parole, in ricerche sulla
natura delle cose: sebbene risulti problematico accertare se coloro che
chiamiamo «filosofi presocratici» fossero consapevoli di contribuire a una
specifica impresa culturale (sottolineandola nell'intestazione o incipit dei
propri contributi), è tuttavia difficile negare che, almeno tra i contemporanei
di Platone, si fosse diffusa la convinzione dell'esistenza di una tradizione di
ricerca sulla natura (φυσιολογία), iniziata con Talete e conclusasi con
Socrate6 . L'espressione περὶ φύσεως A quali contenuti ci si intendeva riferire
con l'etichetta περὶ φύσεως? Quale significato è da attribuire a tale
espressione? Secondo Naddaf7 , che al problema ha dedicato un'ampia indagine,
con ἱστορία περὶ φύσεως si doveva intendere una storia dell'universo, dalle
origini alla presente condizione: una storia che abbracciava nel suo insieme lo
sviluppo del mondo (naturale e umano), dall'inizio alla fine. In effetti,
origini e sviluppo sono etimologicamente implicati in φύσις: nella forma
attiva-transitiva φύω, il radicale del sostantivo significa «crescere,
produrre, generare»; in quella mediopassiva-intransitiva φύομαι, invece,
«crescere, originare, nascere». La prima occorrenza del termine φύσις, nel
libro X dell'Odissea (303), si registra nell'ambito delle istruzioni (da parte
di Hermes all'eroe) per la preparazione di una «pozione efficace» (φάρμακον 5
Balaudé, op. cit., p. 291. 6 W. Leszl, Aristoteles on the Unity of Presocratic
Philosophy. A Contribution to the Reconstruction of the Early Retrospective
View of Presocratic Philosophy, in La costruzione del discorso filosofico
nell’età dei Presocratici, cit., p. 357. 7 Op. cit., pp. 28-29. 7 ἐσθλόν)
contro gli effetti delle «pozioni velenose» (φάρμακα λύγρα) di Circe: Odisseo
racconta come Hermes, estratta dalla terra (ἐκ γαίης ἐρύσας) una pianta
medicamentosa (μῶλυ), ne illustrasse la «natura» (καί μοι φύσιν αὐτοῦ ἔδειξε).
Per un verso, in quel contesto, φύσις può apparire immediatamente sinonimo di εἶδος,
μορφή, φύη, termini (ricorrenti in Omero) indicanti la «forma»: è per altro
evidente, tuttavia, che quanto Hermes rivela non riguarda semplicemente
l'aspetto esteriore, identificativo della pianta, piuttosto le sue effettive
qualità e la costituzione interna da cui esse discendono. In particolare Hermes
si riferisce alla radice, nera, da cui cresce il fiore dal colore opposto,
bianco: utilizza il termine, quindi, per denotare non tanto la forma
fenomenica, né propriamente quella che potremmo anacronisticamente definire
l'essenza della pianta, quanto la sua origine (la radice), differente da quel
che appare (il fiore, che ne è comunque sviluppo). In questo senso il termine
φύσις occorre nelle più antiche citazioni della sapienza greca: τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’
ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ
πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι,
πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν
διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες
ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται Di questo logos che è sempre
gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di udirlo, sia subito dopo
averlo udito; sebbene tutto infatti accada secondo questo logos, si mostrano
privi di esperienza, mentre si misurano con parole e azioni quali quelle che io
presento, analizzando ogni cosa secondo natura e mostrando come è. Ma agli altri
uomini rimane celato [sfugge] quello che fanno da svegli [dopo essersi
destati], così come sono dimentichi di quello che fanno dormendo (Sesto
Empirico; DK 22 B1) φύσις δὲ καθ’ Ἡράκλειτον κρύπτεσθαι φιλεῖ 8 la natura,
secondo Eraclito, ama [è solita] nascondersi (Temistio; DK 22 B123). Sebbene
nell'incipit dello scritto di Eraclito l'espressione κατὰ φύσιν sia per lo più
resa dagli interpreti moderni intendendo φύσις come «natura, essenza»,
incrociando i due frammenti eraclitei è inevitabile pensare al passo omerico
sull'erba moly: l'«origine» che si cela dietro il fenomeno8 . In questa
accezione la φύσις – secondo l'Efesio – «ama nascondersi». Kahn9 ha marcato,
invece, come la formula del frammento B1 di Eraclito attesti già un uso
"tecnico" del termine nel linguaggio contemporaneo, per designare il
«carattere essenziale» di una cosa, unitamente al processo da cui scaturirebbe:
la comprensione della «natura» di una cosa passerebbe attraverso la
ricostruzione del suo processo di sviluppo. Analogamente Naddaf valorizza la
dimensione dinamica implicita in φύσις: «la costituzione reale di una cosa così
come si realizza – dall'inizio alla fine – con tutte le sue proprietà»10 . Il
modello nella tradizione medica Se ora torniamo al trattato ippocratico sull'Antica
medicina, da cui abbiamo tratto conferma dell'esistenza (almeno alla metà di V
secolo a.C.) di una produzione a posteriori classificata come περὶ φύσιος,
possiamo evincere dal contesto alcuni elementi del modello: Λέγουσι δέ τινες καὶ
ἰητροὶ καὶ σοφισταὶ ὡς οὐκ ἔνι δυνατὸν ἰητρικὴν εἰδέναι ὅστις μὴ οἶδεν ὅ τί ἐστιν
ἄνθρωπος·ἀλλὰ τοῦτο δεῖ καταμαθεῖν τὸν μέλλοντα ὀρθῶς θεραπεύσειν τοὺς ἀνθρώπους.
Τείνει δὲ αὐτέοισιν ὁ λόγος ἐς φιλοσοφίην, καθάπερ Ἐμπεδοκλῆς ἢ ἄλλοι οἳ 8 M.L.
Gemelli Marciano, Lire du début. Quelques observations sur les incipit des
présocratiques, «Philosophie Antique», 7, 2007 (Présocratiques), pp. 16-17. 9
Ch.H. Kahn, Anaximander and The Origins of Greek Cosmology, Hackett Publishing
Company, Indianapolis 1994 (edizione originale 1960), pp. 201-202. 10 Naddaf,
op. cit., p. 15. 9 περὶ φύσιος γεγράφασιν ἐξ ἀρχῆς ὅ τί ἐστιν ἄνθρωπος, καὶ ὅπως
ἐγένετο πρῶτον καὶ ὅπως ξυνεπάγη. Ἐγὼ δὲ τουτέων μὲν ὅσα τινὶ εἴρηται σοφιστῇ ἢ
ἰητρῷ, ἢ γέγραπται περὶ φύσιος, ἧσσον νομίζω τῇ ἰητρικῇ τέχνῃ προσήκειν ἢ τῇ
γραφικῇ. Νομίζω δὲ περὶ φύσιος γνῶναί τι σαφὲς οὐδαμόθεν ἄλλοθεν εἶναι ἢ ἐξ ἰητρικῆς.
Alcuni medici e sapienti [sofisti] sostengono che nessuno possa conoscere la
medica a meno di non sapere che cosa sia l'uomo, ma che ciò debba conoscere
colui che intenda curare correttamente gli uomini. Il loro discorso verte
dunque sulla filosofia, proprio come nel caso di Empedocle o degli altri che
scrissero sulla natura: che cosa sia dal principio l'uomo, come sia stato
dapprima generato e come costituito. Io ritengo che quanto è stato scritto da
medici e filosofi sulla natura abbia più a che fare con il disegno che con la
medicina. Ritengo che in nessun altro modo si possa conoscere qualcosa di
chiaro sulla natura se non attraverso la medicina (De prisca medicina cap. 20).
L'autore, evidentemente polemico, marca in effetti lo scarto tra indagine
medica e indagine περὶ φύσιος: nell'apertura dell'opera aveva contrapposto
all'approccio di coloro che ricorrevano a postulazioni e ipotesi (ὑποθέμενοι) –
cioè speculazioni - per l'indagine dei fenomeni celesti e terrestri (περὶ τῶν
μετεώρων ἢ τῶν ὑπὸ γῆν), il principio e il metodo (ἀρχὴ καὶ ὁδὸς) della
medicina, in altre parole le «scoperte» (τὰ εὑρημένα) avvenute nel corso del
tempo e l'osservazione11. Per avere un'idea più precisa dell'impostazione
alternativa che egli andava criticando, possiamo leggere un altro trattato
ippocratico – il De carnibus – il cui estensore sottolinea di prendere le mosse
da convinzioni condivise (κοινῇσι γνώμῃσι): Περὶ δὲ τῶν μετεώρων οὐδὲ δέομαι
λέγειν, ἢν μὴ τοσοῦτον ἐς ἄνθρωπον ἀποδείξω καὶ τὰ ἄλλα ζῶα, ὁκόσα ἔφυ καὶ ἐγένετο,
καὶ ὅ τι ψυχή ἐστιν, καὶ ὅ τι τὸ ὑγιαίνειν, 11 Naddaf, op. cit., pp. 24-25. 10
καὶ ὅ τι τὸ κάμνειν, καὶ ὅ τι τὸ ἐν ἀνθρώπῳ κακὸν καὶ ἀγαθὸν, καὶ ὅθεν ἀποθνήσκει.
Non devo parlare di questioni celesti se non per quanto necessario a mostrare,
rispetto all'uomo e a tutti gli altri viventi, come si sono generati e
sviluppati, che cosa sia l'anima, che cosa la salute e la malattia, che cosa
sia cattivo e buono nell'uomo, e perché muoia (De carnibus 1). Il passo rivela
quelle che dovevano essere le comuni assunzioni (le ὑποθέσεις contro cui
polemizza l'Antica medicina) nella tradizione della ἱστορία περὶ φύσεως: lo
schema adottato è infatti il seguente: (i) originaria caoticità e indistinzione
di tutte le cose; (ii) processo di discriminazione degli elementi (etere, aria,
terra); (iii) formazione dei corpi. Centrale risulta il parallelo tra
formazione dei viventi e formazione del cosmo che deve aver effettivamente
costituito un asse portante nella cultura arcaica, sin dalla produzione
teogonica. Ciò risulta confermato dall'autore anonimo del De diaeta: Φημὶ δὲ δεῖν
τὸν μέλλοντα ὀρθῶς ξυγγράφειν περὶ διαίτης ἀνθρωπίνης πρῶτον μὲν γνῶναι καὶ
διαγνῶναι· γνῶναι μὲν ἀπὸ τίνων συνέστηκεν ἐξ ἀρχῆς, διαγνῶναι δὲ ὑπὸ τίνων μερῶν
κεκράτηται· εἴ τε γὰρ τὴν ἐξ ἀρχῆς σύστασιν μὴ γνώσεται, ἀδύνατος ἔσται τὰ ὑπ’ ἐκείνων
γιγνόμενα γνῶναι· εἴ τε μὴ γνώσεται τὸ ἐπικρατέον ἐν τῷ σώματι, οὐχ ἱκανὸς ἔσται
τὰ ξυμφέροντα τῷ ἀνθρώπῳ προσενεγκεῖν Affermo che colui che intenda scrivere
correttamente sul regime di vita dell'uomo deve prima conoscere e riconoscere
la natura di tutto l'uomo: conoscere allora da quali cose è composto dal
principio, riconoscere da quali parti è governato. Se non conosce infatti
quella composizione originaria, sarà incapace di conoscere quanto da essa
generato; se poi non conosce quel che prevale nel corpo, non sarà in grado di
prescrivere all'uomo il trattamento adeguato (De diaeta I, 2) Conoscere «la
natura di tutto l'uomo» (παντὸς φύσιν ἀνθρώπου) è condizione del corretto
intervento medico: ciò implica eviden- 11 temente conoscere (i) quanto
costituisce originariamente l'uomo (ἀπὸ τίνων συνέστηκεν ἐξ ἀρχῆς), per
rintracciarne e riconoscerne gli effetti (τὰ ὑπ’ ἐκείνων γιγνόμενα), e (ii) le
componenti che lo governano (ὑπὸ τίνων μερῶν κεκράτηται). Conoscere la natura
comporta, insomma, risalire alla composizione originaria e al successivo
processo. Significativamente questa riduzione al principio riconduce «tutte le
cose» a due elementi originari, fuoco e acqua: Ξυνίσταται μὲν οὖν τὰ ζῶα τά τε ἄλλα
πάντα καὶ ὁ ἄνθρωπος ἀπὸ δυοῖν, διαφόροιν μὲν τὴν δύναμιν, συμφόροιν δὲ τὴν χρῆσιν,
πυρὸς λέγω καὶ ὕδατος I viventi e tutte le altre cose e anche l'uomo sono
composti da due elementi, l'uno ha il potere di differenziare, l'altro il
temperamento che combina: intendo il fuoco e l'acqua (De diaeta I, 3)
L'analogia tra formazione biologica dell'individuo umano (nel senso
dell'odierna embriologia) e processi di strutturazione dell'universo
(cosmogonia), è un dato riscontrato anche nelle testimonianze relative ad
Anassimandro e autori pitagorici, oltre che nei precedenti mitici 12 :
l'antropologia non poteva prescindere dalla antropogonia, come la cosmologia
dalla cosmogonia. Altre tracce antiche del modello Se queste indicazioni -
ricavate dalla letteratura scientifica risalente plausibilmente al V-IV secolo
a.C. – consentono di farsi un'idea circa la ricezione antica della περὶ φύσεως ἱστορία
e dunque dell'argomento cui i pensatori arcaici avevano dedicato le loro opere,
alle origini della letteratura filosofica, prima che il modello si affermasse e
consolidasse definitivamente nella narrazione peripatetica, un primo abbozzo ne
era stato tracciato in un celebre passo del Fedone platonico: 12 Naddaf, op.
cit., pp. 22-23. 12 ἐγὼ γάρ, ἔφη, ὦ Κέβης, νέος ὢν θαυμαστῶς ὡς ἐπεθύμησα
ταύτης τῆς σοφίας ἣν δὴ καλοῦσι περὶ φύσεως ἱστορίαν· ὑπερήφανος γάρ μοι ἐδόκει
εἶναι, εἰδέναι τὰς αἰτίας ἑκάστου, διὰ τί γίγνεται ἕκαστον καὶ διὰ τί ἀπόλλυται
καὶ διὰ τί ἔστι Io, Cebete, da giovane ero straordinariamente affascinato da
quella sapienza che chiamano indagine sulla natura. Mi sembrava fosse magnifico
conoscere le cause di ogni cosa, perché ogni cosa si generi, perché si corrompa
e perché esista (96a). Il filosofo racconta la storia della fascinazione
esercitata (non è chiaro se effettivamente sul protagonista Socrate o sullo
stesso autore) da una forma di sapere – evidentemente già riconoscibile e
dunque assestato, come rivela la formula impiegata («che chiamano», ἣν δὴ καλοῦσι)
- in grado di rispondere agli interrogativi sulla generazione e corruzione, e
così di dar ragione dell'esistenza di ciascuna cosa. Anticipando lo schema del
primo libro della Metafisica aristotelica, Platone disegna una storia della sapienza
incentrata sull'efficacia della esplicazione causale, nella quale intende
marcare la svolta radicale rappresentata dalla propria «seconda navigazione»
(δεύτερος πλοῦς): il filosofo non discute la necessità di ricondurre le cose
alla loro ragion d’essere; contesta invece la riduzione limitata all’orizzonte
delle cause fisiche, per Platone insufficienti a dar adeguatamente conto del
perché della disposizione del tutto. È probabile che, pur attingendo a raccolte
dossografiche organizzate in ambito sofistico, egli ne adottasse il materiale
in modo creativo, allo scopo di giustificare e valorizzare una prospettiva
filosofica peculiare13 . Un'ulteriore attestazione dell'originaria accezione
dell'espressione περὶ φύσεως ἱστορία ritroviamo, tra i contemporanei di
Platone, nel riscontro accidentale di un non-specialista come Senofonte: 13 M.
Adomenas, Plato, Presocratics and the Question of Intellectual Genre, in La
costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, cit., p. 344. 13
οὐδεὶς δὲ πώποτε Σωκράτους οὐδὲν ἀσεβὲς οὐδὲ ἀνόσιον οὔτε πράττοντος εἶδεν οὔτε
λέγοντος ἤκουσεν. οὐδὲ γὰρ περὶ τῆς τῶν πάντων φύσεως, ᾗπερ τῶν ἄλλων οἱ πλεῖστοι,
διελέγετο σκοπῶν ὅπως ὁ καλούμενος ὑπὸ τῶν σοφιστῶν κόσμος ἔχει καὶ τίσιν ἀνάγκαις
ἕκαστα γίγνεται τῶν οὐρανίων Ma nessuno mai vide o sentì Socrate fare o dire
alcunché di irreligioso o empio. Egli infatti non si interessava della natura
di tutte le cose, alla maniera della maggior parte degli altri, indagando come
è fatto ciò che i sapienti chiamano "cosmo" e per quali necessità si
produca ciascuno dei fenomeni celesti (Senofonte, Memorabili I, 1, 11). Non
solo appare assodata - a livello di opinione diffusa - (i) la sostanziale
equivalenza tra sapienza e ricerca «sulla natura di tutte le cose» (περὶ τῆς τῶν
πάντων φύσεως), ma anche (ii) la funzionalità di cosmogonia e cosmologia (ὅπως
[...] κόσμος ἔχει), e ulteriormente (iii) l'attenzione per la spiegazione di
fenomeni specifici (ὅπως [...] τίσιν ἀνάγκαις ἕκαστα γίγνεται τῶν οὐρανίων).
Una "istantanea" che aiuta a fissare, dall'esterno, i caratteri del
naturalismo presocratico è infine costituita dal frammento dell’Antiope di
Euripide (fr. 910 Nauck)14: ὄλβιος ὅστις τῆς ἱστορίας ἔσχε μάθησιν, μήτε πολιτῶν
ἐπὶ πημοσύνην μήτ’ εἰς ἀδίκους πράξεις ὁρμῶν, ἀλλ’ ἀθανάτου καθορῶν φύσεως
κόσμον ἀγήρων, πῇ τε συνέστη καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως. τοῖς δὲ τοιούτοις οὐδέποτ’ αἰσχρῶν
ἔργων μελέδημα προσίζει 14 A. Laks, «Philosophes Présocratiques». Remarque sur
la construction d’une catégorie de l’historiographie philosophique, in A. Laks
et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is
Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve
d’Ascq (Nord) 2002, p. 20. 14 Beato è colui che alla ricerca ha dedicato la sua
vita; egli né i suoi concittadini danneggerà né contro di loro compirà atti
malvagi, ma, osservando della immortale natura l'ordine che non invecchia,
ricercherà da quale origine fu composto e in che modo. Tali individui non
saranno mai coinvolti in atti turpi. In questo caso, addirittura, abbiamo il
privilegio di veder sottolineato dal poeta il nesso tra contemplazione (καθορᾶν)
dell'«ordine che non invecchia» (κόσμον ἀγήρων) della «natura immortale» (ἀθανάτου
φύσεως) e ricostruzione delle sue modalità di formazione. A dispetto degli
aggettivi coinvolti - ἀθάνατος e ἀγήρως (di uso omerico ed esiodeo) –
evidentemente il κόσμος oggetto d'attenzione – l'ordinamento attuale dei
fenomeni – è percepito come il risultato di un processo di composizione (πῇ τε
συνέστη καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως), e il suo studio non può prescindere dall'indagine
(speculativa) sulle sue tappe. Il modello peripatetico Della περὶ φύσεως ἱστορία
la storiografia peripatetica ha certamente fissato il canone interpretativo che
ha pesato su tutta la tradizione: nella ricostruzione aristotelica delle
origini della filosofia, infatti, si attribuisce alla «maggioranza di coloro
che per primi filosofarono» (τῶν δὴ πρώτων φιλοσοφησάντων οἱ πλεῖστοι) la
convinzione che «principi di tutte le cose» (ἀρχὰς πάντων) fossero «solo quelli
nella forma di materia» (τὰς ἐν ὕλης εἴδει μόνας), così argomentando: ἐξ οὗ γὰρ
ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον,
τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ
ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται
οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης 15 ciò da cui, infatti,
tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si generano e
verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza, per altro
invece mutando nelle affezioni, questo sostengono essere elemento e questo
principio delle cose, e per questo credono che né si generi né si distrugga
alcunché, dal momento che una tale natura si conserva sempre. (Metafisica I, 3
983 b8-13) Nella lettura di Aristotele, la specificità del contributo dei
«primi filosofi» risiederebbe nella riduzione degli enti (ἅπαντα τὰ ὄντα)
soggetti a divenire alla stabilità della φύσις soggiacente, ovvero, come lo
stesso Aristotele precisa: ὥσπερ φασὶν οἱ μίαν τινὰ φύσιν εἶναι λέγοντες τὸ πᾶν,
οἷον ὕδωρ ἢ πῦρ ἢ τὸ μεταξὺ τούτων come affermano coloro che sostengono che il
tutto [l'universo] è una certa, unica natura, quale l'acqua o il fuoco o
qualcosa di intermedio (Fisica I, 6 189 b2), all'unità di una sostanza
materiale originaria, «elemento» (στοιχεῖον) e «principio» (ἀρχή) delle cose (τῶν
ὄντων). Il quadro si definisce ulteriormente nella ricostruzione che Teofrasto
propone delle origini in Anassimandro: [A.] [...] ἀρχήν τε καὶ στοιχεῖον εἴρηκε
τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον, πρῶτος τοῦτο τοὔνομα κομίσας τῆς ἀρχῆς. λέγει δ’ αὐτὴν
μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλο τι τῶν καλουμένων εἶναι στοιχείων, ἀλλ’ ἑτέραν τινὰ φύσιν ἄπειρον,
ἐξ ἧς ἅπαντας γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τοὺς ἐν αὐτοῖς κόσμους· ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς
ἐστι τοῖς οὖσι͵ καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ
δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν [B 1],
ποιητικωτέροις οὕτως ὀνόμασιν αὐτὰ λέγων. δῆλον δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα μεταβολὴν
τῶν τεττάρων στοιχείων οὗτος θεασάμενος οὐκ ἠξίωσεν ἕν τι τούτων ὑποκείμενον
ποιῆσαι, ἀλλά τι ἄλλο παρὰ ταῦτα· οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν
γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ 16 ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως.
[...] Anassimandro [...] affermò l’infinito principio e elemento delle cose che
sono, adottando per primo questo nome di “principio”. Egli sostiene, infatti,
che esso non sia né acqua né alcun altro di quelli che sono detti elementi, ma
che sia una certa altra natura infinita, da cui originano tutti i cieli e i
mondi in essi: «è secondo necessità che verso le stesse cose, da cui le cose
che sono hanno origine, avvenga anche la loro distruzione; esse, infatti,
pagano la pena e reciprocamente il riscatto della colpa, secondo l’ordine del
tempo» [B1]. Così si esprime in termini molto poetici. È evidente allora che,
avendo considerato la reciproca trasformazione dei quattro elementi, non
ritenne adeguato porre alcuno di essi come sostrato, preferendo piuttosto
qualcos’altro al di là di essi. Egli poi non fa discendere la generazione dalla
alterazione dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del
movimento eterno [...] (Simplicio; DK 12 A9). Senza scendere nel dettaglio
dell'analisi, la testimonianza e la citazione lasciano intravedere chiaramente
alcuni punti su cui si sarebbe concentrata l'indagine del Milesio: (i)
l'individuazione di un principio-origine delle cose (ἀρχή τῶν ὄντων) sottoposte
a generazione (γένεσις) e corruzione (φθορά); (ii) la formazione – nel
linguaggio peripatetico della testimonianza - degli «elementi» (στοιχεία),
costitutivi materiali da cui (ἐξ ὧν, «dalle quali cose») le cose hanno la loro
generazione, e verso cui (εἰς ταῦτα, «verso quelle stesse cose») si produce (γίνεσθαι)
la loro corruzione; (iii) le modalità del processo dalla natura originaria,
attraverso gli elementi, agli enti: «secondo necessità» (κατὰ τὸ χρεών),
secondo l’ordine del tempo» (κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν); (iv) il perché, la
causa del processo: il costante e compensativo confronto conflittuale tra i contrari
(διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας). Le osservazioni di
Teofrasto documentano quindi, agli albori dell'indagine περὶ φύσεως,
un'attenzione che non si esaurisce nella determinazione della materia
originaria (secondo l'interpretazione 17 di Burnet15), ma si rivolge almeno
anche ai processi di formazione delle «cose che sono» (come pensava Jaeger,
accostando φύσις e γένεσις 16 ). Complessivamente ciò doveva conferire alla
ricerca quella caratteristica impronta speculativa da cui l'autore dell'Antica
medicina prendeva le distanze. Che l'interesse non dovesse comunque risolversi
in una mera dimensione archeologica e abbracciare invece anche i risultati dei
processi, e dunque l'ordinamento dei fenomeni, è suggerito da varie fonti.
Aristotele, per esempio, marca in modo sufficientemente netto il focus
cosmologico: οἱ μὲν οὖν ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι φιλοσοφήσαντες περὶ φύσεως περὶ τῆς ὑλικῆς
ἀρχῆς καὶ τῆς τοιαύτης αἰτίας ἐσκόπουν, τίς καὶ ποία τις, καὶ πῶς ἐκ ταύτης
γίνεται τὸ ὅλον, καὶ τίνος κινοῦντος, οἷον νείκους ἢ φιλίας ἢ νοῦ ἢ τοῦ αὐτομάτου,
τῆς δ’ ὑποκειμένης ὕλης τοιάνδε τινὰ φύσιν ἐχούσης ἐξ ἀνάγκης, οἷον τοῦ μὲν πυρὸς
θερμήν, τῆς δὲ γῆς ψυχράν, καὶ τοῦ μὲν κούφην, τῆς δὲ βαρεῖαν. Οὕτως γὰρ καὶ τὸν
κόσμον γεννῶσιν. Gli antichi, che per primi filosofarono intorno alla natura,
indagarono, circa il principio materiale e la causa siffatta, che cosa e quale
fosse, e in che modo da questa si generasse l'intero, e da che cosa il
movimento, ad esempio dall'odio o dall'amore, o dall'intelletto, o dal caso,
poiché la materia sostrato ha una certa siffatta natura per necessità, ad
esempio calda quella del fuoco, fredda quella della terra, una leggera, l'altra
pesante; in questo modo, infatti generano anche il cosmo. (Aristotele, Le parti
degli animali, 640 b4-12. Traduzione di A. Carbone, BUR Rizzoli, Milano 2002).
La ricerca περὶ φύσεως degli «antichi primi filosofi» (ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι
φιλοσοφήσαντες) sarebbe stata variamente modulata intorno a: 15 J. Burnet,
Early Greek Philosophy, Black, London 19203 , pp. 11-12. 16 W. Jaeger, La
teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze 1961, p. 32. 18
(i) natura e proprietà del «principio materiale» (περὶ τῆς ὑλικῆς ἀρχῆς); (ii)
individuazione della causa del movimento (καὶ τίνος κινοῦντος); (iii) modalità
di generazione dell'«intero» (πῶς ἐκ ταύτης γίνεται τὸ ὅλον) ovvero del «cosmo»
(τὸν κόσμον γεννῶσιν). Parmenide e la φύσις Tornando ora alla titolazione del
Poema parmenideo, le testimonianze di coloro che hanno contribuito a
trasmetterne citazioni – sopra tutti Sesto Empirico e Simplicio (il secondo
molto probabilmente disponeva di copia dell'opera, il primo plausibilmente) –
sono univoche nell'attribuirgli l'intestazione Περὶ φύσεως. Abbiamo già letto
le affermazioni di Simplicio (ἢ ὅτι Περὶ φύσεως ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ
Μέλισσος καὶ Π.), in linea con quelle di Sesto: ὁ δὲ γνώριμος αὐτοῦ Παρμενίδης
[...] ἐναρχόμενος γοῦν τοῦ Περὶ φύσεως γράφει τοῦτον τὸν τρόπον «Il discepolo
di lui (= Senofane), Parmenide [...] iniziando appunto il Peri physeōs scrive
in questo modo […]» (Adv. Math. VII, 111). Si tratta ora di capire entro quali
schemi avvenisse la ricezione dell'opera e del pensiero di Parmenide nella
tradizione περὶ φύσεως. Parmenide nella περὶ φύσεως ἱστορία Prescindendo dagli
inquadramenti della produzione per noi frammentaria di Gorgia e Ippia, alla
collocazione e al ruolo di Parmenide nel quadro della sapienza antica pensò per
primo Platone. Delineando in un lungo passo del Sofista (242 b6-251 a4), che
costituisce indubbiamente l'antecedente diretto della disamina 19 dossografica
aristotelica, il panorama delle teorie dell’essere, egli introduce di fatto
alcune categorie destinate a grande fortuna storiografica: l'occasione è
fornita proprio da un rilievo su Parmenide: Εὐκόλως μοι δοκεῖ Παρμενίδης ἡμῖν
διειλέχθαι καὶ πᾶς ὅστις πώποτε ἐπὶ κρίσιν ὥρμησε τοῦ τὰ ὄντα διορίσασθαι πόσα
τε καὶ ποῖά ἐστιν Mi sembra che con leggerezza si siano rivolti a noi Parmenide
e tutti coloro che a un certo punto si sono impegnati a determinare gli enti: quanti
e quali enti esistano (242 c4-6). L’opposizione tra pensatori pluralisti e
unitari, e la «battaglia di giganti» (γιγαντομαχία) tra coloro che riducono
«tutto a corpo» (εἰς σῶμα πάντα) e coloro che, al contrario, pongono l'essere
(οὐσία) «nelle idee» (ἐν εἴδεσιν), sono fatte scaturire proprio dai problemi
(πόσα τε καὶ ποῖά ἐστιν, «quanti e quali enti esistano») sollevati (anche) dal
Poema. L'ottica "ontologica" adottata non può nascondere, nel
contesto, il riferimento all'indagine περὶ φύσεως, e, in particolare,
l'equivalenza tra ὄντα e ἄρχαί17: Μῦθόν τινα ἕκαστος φαίνεταί μοι διηγεῖσθαι
παισὶν ὡς οὖσιν ἡμῖν, ὁ μὲν ὡς τρία τὰ ὄντα, πολεμεῖ δὲ ἀλλήλοις ἐνίοτε αὐτῶν ἄττα
πῃ, τοτὲ δὲ καὶ φίλα γιγνόμενα γάμους τε καὶ τόκους καὶ τροφὰς τῶν ἐκγόνων
παρέχεται· δύο δὲ ἕτερος εἰπών, ὑγρὸν καὶ ξηρὸν ἢ θερμὸν καὶ ψυχρόν, συνοικίζει
τε αὐτὰ καὶ ἐκδίδωσι Mi sembra che ognuno racconti una storia, come fossimo
bambini: l'uno [racconta] che gli esseri sono tre, alcuni di essi talvolta sono
in qualche modo in lotta reciproca, talvolta al contrario, diventano amici, si
sposano, fanno figli e procurano nutrimento alla progenie; un altro, invece,
sostiene che [gli esseri] sono due - umido 17 Su questo punto N.L. Cordero nel
suo commento a Platon, Le Sophiste, traduction et presentation par N.L.
Cordero, Flammarion, Paris 1993, p. 240; J. Palmer, Plato's Reception of
Parmenides, Clarendon Press, Oxford 1999, p. 190. 20 e secco ovvero caldo e
freddo -, li fa convivere e li unisce in matrimonio (242 c8-d4). È appunto
all'interno di questo ampio disegno di ricostruzione della tradizione di
pensiero precedente che Platone fa della «stirpe eleatica» (Ἐλεατικὸν ἔθνος) 18
il prototipo del “monismo”. È chiaro nel contesto come esso sia, tuttavia, da
intendere non ingenuamente - non come se esistesse una sola cosa -, ma in
riferimento alla discussione sulla realtà fondamentale: alcuni pongono tre
principi, altri due, gli Eleati uno solo: τὸ δὲ παρ’ ἡμῖν Ἐλεατικὸν ἔθνος, ἀπὸ
Ξενοφάνους τε καὶ ἔτι πρόσθεν ἀρξάμενον, ὡς ἑνὸς ὄντος τῶν πάντων καλουμένων οὕτω
διεξέρχεται τοῖς μύθοις da noi la stirpe eleatica - che ha avuto inizio da
Senofane e anche prima – riferisce le proprie storie secondo cui ciò che è
chiamato "tutto" [tutte le cose] non è che un solo essere (Sofista
242 d5-6). Nell'intenzione di Platone, ricondurre l'eleatismo a Senofane era
probabilmente funzionale alla sua collocazione entro un dibattito culturalmente
definito19: nella prospettiva di questa ricerca, in particolare, risulta
significativa la scelta di non isolare il contributo di Parmenide dallo sfondo
d'indagine sui principi (τὰ ὄντα διορίσασθαι). In termini analoghi il Parmenide
(180a) delinea le posizioni di Parmenide e Zenone: σὺ μὲν γὰρ ἐν τοῖς ποιήμασιν
ἓν φῂς εἶναι τὸ πᾶν, καὶ τούτων τεκμήρια παρέχῃ καλῶς τε καὶ εὖ· ὅδε δὲ αὖ οὐ
πολλά φησιν εἶναι, τεκμήρια δὲ καὶ αὐτὸς πάμπολλα καὶ παμμεγέθη παρέχεται. τὸ οὖν
τὸν μὲν ἓν φάναι, τὸν δὲ μὴ 18 È probabile che la genealogia sfumata del gruppo
eleatico (ἀπὸ Ξενοφάνους τε καὶ ἔτι πρόσθεν ἀρξάμενον) fosse motivata dall'intenzione
di accentuare la "profondità" (l'antichità) della dottrina di
Parmenide in direzione delle origini. Su questo il commento di F. Fronterotta
in Platone, Sofista, a cura di F. Fronterotta, BUR Rizzoli, Milano 2007, p.
341-342. 19 Palmer, op. cit., pp. 191-192. 21 πολλά, καὶ οὕτως ἑκάτερον λέγειν ὥστε
μηδὲν τῶν αὐτῶν εἰρηκέναι δοκεῖν σχεδόν τι λέγοντας ταὐτά Tu [Parmenide],
infatti, nel tuo poema affermi che il tutto [l'universo] è uno, e porti prove
di ciò in modo brillante ed efficace; questi [Zenone], invece, sostiene che i
molti non esistono, e anche lui porta prove molto numerose e consistenti. Il
primo dice quindi che esiste l'uno, l'altro che i molti non esistono: così
ciascuno parla in modo che sembri che non sosteniate alcunché di simile, mentre
in realtà affermate le stesse cose, mentre il Teeteto (180e) sottolinea la
continuità tra Parmenide e Melisso: καὶ ἄλλα ὅσα Μέλισσοί τε καὶ Παρμενίδαι ἐναντιούμενοι
πᾶσι τούτοις διισχυρίζονται, ὡς ἕν τε πάντα ἐστὶ καὶ ἕστηκεν αὐτὸ ἐν αὑτῷ οὐκ ἔχον
χώραν ἐν ᾗ κινεῖται e le altre [dottrine] che i vari Melissi e Parmenidi
propongono con convinzione, opponendosi a tutti costoro [i sostenitori della
dottrina del flusso universale], secondo cui tutte le cose sono uno e questo
rimane stabile in se stesso, non avendo luogo in cui muoversi. Ciò che questi
passi confermano è – almeno nell’elaborazione della maturità di Platone20 - la
riduzione della dottrina eleatica alla formula ἓν τὸ πᾶν (ovvero ἕν πάντα), con
un’implicita valenza cosmologica che si affaccia, oltre che in Parmenide
(180a), nel Sofista (244e): Εἰ τοίνυν ὅλον ἐστίν, ὥσπερ καὶ Παρμενίδης λέγει,
πάντοθεν εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε
τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ, 20 Sulle fasi della
ricezione platonica di Parmenide è oggi fondamentale J. Palmer, Plato's
Reception of Parmenides, cit.. 22 τοιοῦτόν γε ὂν τὸ ὂν μέσον τε καὶ ἔσχατα ἔχει,
ταῦτα δὲ ἔχον πᾶσα ἀνάγκη μέρη ἔχειν Se allora è un intero, come sostiene anche
Parmenide: «da tutte le parti simile a massa di ben rotonda palla, a partire
dal centro ovunque di ugual consistenza: è necessario infatti che esso non sia
in qualche misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o
dall’altra», essendo tale ciò che è avrà un centro e dei limiti estremi, e,
avendoli, necessariamente avrà parti, e che il Timeo sembra esplicitare21,
riferendo l'opera di produzione del cosmo da parte del demiurgo: σχῆμα δὲ ἔδωκεν
αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ συγγενές. τῷ δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ ζῷα περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ
πρέπον ἂν εἴη σχῆμα τὸ περιειληφὸς ἐν αὑτῷ πάντα ὁπόσα σχήματα· διὸ καὶ
σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ πρὸς τὰς τελευτὰς ἴσον ἀπέχον, κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο,
πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν τε αὐτὸ ἑαυτῷ σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον
ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων
τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο ἔξωθεν, οὐδ’ ἀκοῆς, οὐδὲ γὰρ
ἀκουστόν· πνεῦμά τε οὐκ ἦν περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς, οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς ἦν
ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο, τὴν δὲ πρότερον ἐξικμασμένην ἀποπέμψοι
πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ ποθεν - οὐδὲ γὰρ ἦν - αὐτὸ γὰρ ἑαυτῷ
τροφὴν τὴν ἑαυτοῦ φθίσιν παρέχον καὶ πάντα ἐν ἑαυτῷ καὶ ὑφ’ ἑαυτοῦ πάσχον καὶ
δρῶν ἐκ τέχνης γέγονεν E gli diede una figura a sé congeniale e congenere. Ma
la figura congeniale al vivente che doveva contenere in sé 21 Secondo le
indicazioni di Palmer (op. cit., pp. 193 ss.) sulla concentrazione di termini
parmenidei nel dialogo. 23 tutti i viventi non poteva essere che quella che
comprendesse in sé tutte le figure possibili; per cui, lo tornì come una sfera,
in una forma circolare in ogni parte ugualmente distante dal centro alle
estremità, che è la più perfetta di tutte le figure e la più simile a se
stessa, giudicando il simile assai più bello del dissimile. E ne rese
perfettamente liscio l'intero contorno esterno per molte ragioni. Infatti, non
aveva bisogno di occhi, perché nulla era rimasto da vedere all'esterno, né di
orecchie, perché nulla era rimasto da sentire; né vi era intorno aria, che
dovesse essere respirata, né aveva bisogno di un organo per ricevere in sé il
nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo averlo assimilato. Nulla, del
resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso aggiungersi da nessuna parte,
perché nulla vi era al di fuori; infatti, è stato prodotto in modo da offrire a
se stesso, come nutrimento, la propria corruzione e da avere in sé e da sé ogni
azione e ogni passione (33 b-c)22 . Indizi lessicali che invitano a supporre
che Platone vedesse nell'Essere di Parmenide una sorta di entità cosmica23,
nell'interpretazione platonica modellata secondo il precedente della divinità
cosmica di Senofane24. Come ha prospettato Brisson25, la stessa discussione del
Parmenide potrebbe essere imperniata sull'alternativa: (a) tutte le cose
(l'universo) costituiscono una realtà unica (ἓν εἶναι τὸ πᾶν) – come sarebbe
stato affermato da Parmenide; la molteplicità degli enti è solo apparente, dal
momento che la loro pluralità reale condurrebbe a paradossi: in questo senso «i
molti non esistono» (οὐ πολλά εἶναι) - secondo quanto argomentato da Zenone; 22
Platone, Timeo, introduzione, traduzione e note di F. Fronterotta, BUR Rizzoli,
Milano 2003. 23 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di
lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 24. 24 Su questo punto Palmer, op. cit.,
pp. 193 ss.. 25 L. Brisson, Introduction a Platon, Parménide, présentation et
traduction par L. Brisson, Flammarion, Paris 1994, pp. 20-21. 24 (b) esistono
realmente molteplici realtà sensibili, esse sono componenti dell'universo a
loro volta costituite da componenti elementari26 . Eccentricità di Parmenide
nella περὶ φύσεως ἱστορία Nel terzo capitolo del primo libro della Metafisica,
Aristotele, riprende uno schema platonico, contrapponendo «coloro [...] che
sostennero che uno solo è il sostrato» (οἱ [...] ἓν φάσκοντες εἶναι τὸ ὑποκείμενον)
a «coloro che ammettono più principi» (τοῖς δὲ δὴ πλείω ποιοῦσι), ribadendone
poi (nel quinto capitolo) le implicazioni cosmologiche, in conclusione della
discussione sui Pitagorici: τῶν μὲν οὖν παλαιῶν καὶ πλείω λεγόντων τὰ στοιχεῖα
τῆς φύσεως ἐκ τούτων ἱκανόν ἐστι θεωρῆσαι τὴν διάνοιαν· εἰσὶ δέ τινες οἳ περὶ
τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως ἀπεφήναντο, τρόπον δὲ οὐ τὸν αὐτὸν πάντες οὔτε
τοῦ καλῶς οὔτε τοῦ κατὰ τὴν φύσιν. Da queste cose è possibile intendere a
sufficienza il pensiero degli antichi che sostenevano la pluralità di elementi
della natura. Ci sono poi coloro che parlarono del tutto [dell'universo] come
di un'unica natura, ma non tutti allo stesso modo, né per convenienza né per
conformità alla natura (986 b8-12). Evidentemente in relazione a Parmenide e ai
suoi seguaci, Aristotele osserva: εἰς μὲν οὖν τὴν νῦν σκέψιν τῶν αἰτίων οὐδαμῶς
συναρμόττει περὶ αὐτῶν ὁ λόγος (οὐ γὰρ ὥσπερ ἔνιοι τῶν φυσιολόγων ἓν ὑποθέμενοι
τὸ ὂν ὅμως γεννῶσιν ὡς ἐξ ὕλης τοῦ ἑνός, ἀλλ’ ἕτερον τρόπον οὗτοι λέγουσιν· ἐκεῖνοι
μὲν γὰρ προστιθέασι κίνησιν, γεννῶντές γε τὸ 26 Ivi, p. 21. 25 πᾶν, οὗτοι δὲ ἀκίνητον
εἶναί φασιν)· οὐ μὴν ἀλλὰ τοσοῦτόν γε οἰκεῖόν ἐστι τῇ νῦν σκέψει. Una
discussione intorno a costoro esula dall’esame attuale delle cause: essi,
infatti, non parlano come alcuni dei naturalisti, i quali, posto l’essere come
uno, fanno comunque nascere [le cose] dall’uno come da materia; essi parlano,
invece, in altro modo. Mentre quelli, in effetti, aggiungono il movimento,
facendo nascere il tutto [l’universo], questi, al contrario, sostengono che [il
tutto] sia immobile. Almeno quanto [segue], tuttavia, è appropriato alla
presente ricerca (986 b12-18). Nell'ambito di una indagine sulle cause e sui
principi primi, il confronto con le dottrine eleatiche non avrebbe dovuto
trovare spazio: in questo senso è marcata una radicale differenza rispetto alla
ricerca dei «naturalisti» (ἔνιοι τῶν φυσιολόγων). Essendosi espressi «sull'universo
[sul tutto] come fosse un'unica natura [realtà]» (περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης
φύσεως), «immobile» (ἀκίνητον) e immutabile, gli Eleati, in effetti, lo avevano
pensato incausato27 . In De Caelo si sottolinea ulteriormente la peculiare
posizione di Parmenide e Melisso: Οἱ μὲν οὖν πρότερον φιλοσοφήσαντες περὶ τῆς ἀληθείας
καὶ πρὸς οὓς νῦν λέγομεν ἡμεῖς λόγους καὶ πρὸς ἀλλήλους διηνέχθησαν. Οἱ μὲν γὰρ
αὐτῶν ὅλως ἀνεῖλον γένεσιν καὶ φθοράν· οὐθὲν γὰρ οὔτε γίγνεσθαί φασιν οὔτε
φθείρεσθαι τῶν ὄντων, ἀλλὰ μόνον δοκεῖν ἡμῖν, οἷον οἱ περὶ Μέλισσόν τε καὶ
Παρμενίδην, οὕς, εἰ καὶ τἆλλα λέγουσι καλῶς, ἀλλ’ οὐ φυσικῶς γε δεῖ νομίσαι
λέγειν· τὸ γὰρ εἶναι ἄττα τῶν ὄντων ἀγένητα καὶ ὅλως ἀκίνητα μᾶλλόν ἐστιν ἑτέρας
καὶ προτέρας ἢ τῆς φυσικῆς σκέψεως. Ἐκεῖνοι δὲ διὰ τὸ μηθὲν μὲν ἄλλο παρὰ τὴν τῶν
αἰσθητῶν οὐσίαν ὑπολαμβάνειν εἶναι, τοιαύτας δέ τινας νοῆσαι πρῶτοι φύσεις, εἴπερ
ἔσται τις γνῶσις ἢ φρόνησις, οὕτω μετήνεγκαν ἐπὶ ταῦτα τοὺς ἐκεῖθεν λόγους 27
Perplessità analoghe sono espresse e discusse da Aristotele nei primi capitoli
della Fisica (I, 2 e 3). 26 Coloro dunque che dapprima filosofarono intorno
alla verità sono stati in disaccordo sia rispetto ai discorsi che noi
proponiamo, sia reciprocamente. Gli uni, infatti, eliminarono completamente
generazione e corruzione: sostengono in vero che nessuna delle cose che sono si
generi o si corrompa, ma semplicemente che ciò sembra a noi. Così i seguaci di
Melisso e Parmenide, i quali, anche se si esprimono adeguatamente sulle altre
cose, tuttavia non si deve credere che parlino da un punto di vista fisico, dal
momento che l'essere alcuni degli enti ingenerati e completamente immobili è
proprio piuttosto di un'indagine diversa e prima rispetto a quella fisica.
Costoro, invece, da un lato non ritenevano esistesse altro oltre la sostanza
dei sensibili, dall'altro per primi pensarono delle nature di tale specie, se
doveva esserci una qualche forma di conoscenza o intelligenza: così
trasferirono su questi enti [sensibili] i ragionamenti riferiti a
quell'ambito»(Aristotele, De Caelo III, 1 298 b12-24). Alludendo esplicitamente
a Melisso e Parmenide, Aristotele ne disloca il contributo rispetto a una
ricerca incardinata sulla ricostruzione dei processi di «generazione e
corruzione» (γένεσις καὶ φθορά): considerare gli enti «ingenerati» (ἀγένητα) e
«completamente immobili» (ὅλως ἀκίνητα) è proprio «di un'indagine diversa e
prima rispetto a quella fisica» (μᾶλλόν ἐστιν ἑτέρας καὶ προτέρας ἢ τῆς φυσικῆς
σκέψεως). Eppure l'analisi della Metafisica rivela come, secondo Aristotele, l’eleatismo
presentasse al proprio interno incrinature e fratture che l'appiattimento
operato dalla dossografia sofistica doveva aver coperto o trascurato28. Nel
primo libro (Ι, 3 984 a27-b4) – dopo aver discusso «l'opinione circa la natura»
(περὶ τῆς φύσεως ἡ δόξα) dei pensatori orientati a ricercare la causa prima
(περὶ τῆς πρώτης αἰτίας) in ambito materiale (di cui Talete sarebbe stato «i-
28 J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, OUP, Oxford 2009, p. 35
giustamente sottolinea come i raggruppamenti operati da Gorgia nel suo Sulla
natura o sul non essere avessero incoraggiato l'assimilazione
"riduttiva" di Parmenide e Melisso. Aristotele avrebbe avuto il
merito di recuperare le differenze tra le relative posizioni. 27 niziatore», ἀρχηγὸς)
– lo Stagirita marca una discontinuità nel contributo di Parmenide, capace di
individuare la causa specifica del mutamento (τῆς μεταβολῆς αἴτιον): οἱ μὲν οὖν
πάμπαν ἐξ ἀρχῆς ἁψάμενοι τῆς μεθόδου τῆς τοιαύτης καὶ ἓν φάσκοντες εἶναι τὸ ὑποκείμενον
οὐθὲν ἐδυσχέραναν ἑαυτοῖς, ἀλλ’ ἔνιοί γε τῶν ἓν λεγόντων, ὥσπερ ἡττηθέντες ὑπὸ
ταύτης τῆς ζητήσεως, τὸ ἓν ἀκίνητόν φασιν εἶναι καὶ τὴν φύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ
γένεσιν καὶ φθοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαῖόν τε καὶ πάντες ὡμολόγησαν) ἀλλὰ καὶ
κατὰ τὴν ἄλλην μετα βολὴν πᾶσαν· καὶ τοῦτο αὐτῶν ἴδιόν ἐστιν. τῶν μὲν οὖν ἓν
φασκόντων εἶναι τὸ πᾶν οὐθενὶ συνέβη τὴν τοιαύτην συνιδεῖν αἰτίαν πλὴν εἰ ἄρα
Παρμενίδῃ, καὶ τούτῳ κατὰ τοσοῦτον ὅσον οὐ μόνον ἓν ἀλλὰ καὶ δύο πως τίθησιν αἰτίας
εἶναι· Coloro, dunque, che fin dall’inizio aderirono completamente a tale
tipologia di ricerca e sostennero che uno solo è il sostrato, non si resero
conto di questa difficoltà, ma alcuni di coloro che affermano tale unicità,
quasi sopraffatti da questa ricerca, sostengono che l’uno è immobile e che lo è
anche la natura nel suo complesso, non solo rispetto a generazione e corruzione
- questa è, infatti, [convinzione] antica, su cui tutti concordavano -, ma
anche rispetto a ogni altro genere di mutamento. Questa è loro peculiarità. A
nessuno, pertanto, di coloro che affermarono che il tutto [l’universo] è uno è
capitato di scoprire tale tipologia di causa, tranne, forse, a Parmenide, e a
costui nella misura in cui pone non solo l’uno, ma anche che le cause sono in
un certo modo due. È significativo che, illustrando queste affermazioni di
Aristotele nel proprio commento (in Metaphys. Ι, 3 984 b3), Alessandro di
Afrodisia citi Teofrasto: τούτωι δὲ ἐπιγενόμενος Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης (λέγει δὲ
[καὶ] Ξενοφάνην) ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται
καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ 28 ἀμφοτέρων
δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων,
κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς,
πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. Venuto dopo costui (si
riferisce a Senofane), Parmenide - figlio di Pyres, da Elea - percorse entrambe
le strade. Dichiara infatti che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la
generazione degli enti, pur non affrontando entrambe allo stesso modo:
piuttosto sostenendo, secondo verità, che il tutto è uno e ingenerato e di
aspetto sferico; ponendo invece, secondo l’opinione dei molti – allo scopo di
spiegare la generazione dei fenomeni [delle cose che appaiono] - che i principi
siano due, fuoco e terra, l'una come materia, l'altro come causa e agente (DK
28 A7). Condizionata dalla stessa ricezione schematica, in entrambi i casi la
valutazione del contributo di Parmenide è chiaramente orientata dalla prospettiva
della περὶ φύσεως ἱστορία: non solo per l'attenzione alla «natura nel suo
complesso» (τὴν φύσιν ὅλην), al «tutto uno» (ἓν τὸ πᾶν), ma soprattutto per
l'evidenza della «ricerca dell'altro principio» (τὸ τὴν ἑτέραν ἀρχὴν ζητεῖν),
cioè del «principio del movimento» (ἡ ἀρχὴ τῆς κινήσεως), per «spiegare la
produzione dei fenomeni» (εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων). In questo
senso Teofrasto poteva proporre Parmenide al centro di una delle due serie di
pensatori affrontati sistematicamente: quella che collegava i primi a «rivelare
ai Greci l’indagine intorno alla natura» (τὴν περὶ φύσεως ἱστορίαν τοῖς Ἕλλησιν
ἐκφῆναι) 29 agli atomisti30 . 29 G. Colli, La sapienza greca, Vol. II, Milano
1978, Adelphi, p. 247. Teofrasto, in effetti, prospetta Parmenide discepolo di
Senofane - come riferiscono Diogene Laerzio (IX, 21, DK 28 A1), e i
commentatori aristotelici Alessandro e Simplicio (DK 28 A7) - e di Anassimandro
(secondo quanto attesta sempre Diogene Laerzio), associandolo poi a Empedocle -
«ammiratore» (ζηλωτής) e «imitatore» (μιμητής) di Parmenide (DK 28 A9) - e
Leucippo - «unito a Parmenide nella filosofia» (κοινωνήσας Παρμενίδηι τῆς
φιλοσοφίας, DK 28 A8). 29 Per quanto possa apparire inverosimile da un punto di
vista cronologico, l’accostamento ad Anassimandro non è tuttavia sorprendente31
e rivela il modus operandi di Teofrasto nelle sue ricostruzioni: egli insegue
le tracce di problemi che sarebbero giunti ad adeguata formulazione solo
successivamente, cogliendone lo sviluppo attraverso la connessione tra le
principali personalità (per altro all’interno di rigide categorie
aristoteliche)32. In questa prospettiva, allora, Parmenide, come abbiamo sopra
registrato, avrebbe compiuto quanto da Anassimandro solo impostato: non si
sarebbe limitato a mantenere la prospettiva del divenire distinta da quella del
sostrato materiale, ma ne avrebbe anche individuato chiaramente i principi
diversi33 . Un secondo elemento di discontinuità all'interno dell'eleatismo è
da Aristotele individuato nella concezione dell'unità dell'universo (περὶ τοῦ
παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως), di cui si sottolineano le ricadute interessanti
anche «sull'indagine in corso intorno alle cause» (εἰς τὴν νῦν σκέψιν τῶν αἰτίων).
Parmenide, infatti, avrebbe inteso l’uno «secondo la nozione [forma]» (κατὰ τὸν
λόγον), ovvero come unità finita (essendo la finitezza espressione di
determinatezza); Melisso, da parte sua, «secondo la materia» (κατὰ τὴν ὕλην),
come unità indeterminata e quindi infinita. Senofane - «il primo tra costoro a
essere partigiano dell'Uno» (πρῶτος τούτων ἑνίσας) e per ciò ancora una volta
riconosciuto maestro di Parmenide – si sarebbe invece limitato, volgendosi
«all'universo nel suo 30 L’altra doveva raccogliere Anassimandro, Anassimene,
Anassagora, Archelao, Empedocle, Diogene di Apollonia. Determinante il ruolo
riconosciuto complessivamente ad Anassimandro. 31 Nella ricerca contemporanea è
stata sottolineata la dipendenza della cosmologia del poema Sulla natura dalla
cosmologia e cosmogonia attribuite al Milesio: si veda in particolare Naddaf,
op. cit., p. 138. D’altra parte, a dispetto di singoli elementi di convergenza,
David Furley ha opportunamente marcato la distanza tra «the centrifocal
universe» del poema e quello «lineare» delle cosmologie milesie (D. Furley, The
Greek Cosmologists.Volume I: The formation of the atomic theory and its
earliest critics, C.U.P., Cambridge 1987, pp. 53 ss.). 32 Un’ampia discussione
della storiografia teofrastea sui presocratici si trova in G. Colli, La natura
ama nascondersi. Physis kruptesthai philei, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano
1998, cap. II (Storicismo peripatetico). 33 G. Colli, La sapienza greca, Vol.
II, cit., p. 327. 30 insieme» (εἰς τὸν ὅλον οὐρανὸν), ad affermarne la divinità
(τὸ ἓν εἶναί φησι τὸν θεόν). Ribadendo un giudizio di valore già espresso nel
Teeteto platonico (183e), lo Stagirita registra l'acutezza del contributo di
Parmenide, a dispetto della sua eccentricità rispetto al focus
"aitiologico". Messi da parte Melisso e Senofane come «un po’ troppo
grossolani» (μικρὸν ἀγροικότεροι), egli infatti sottolinea: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον
βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν
οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν (περὶ οὗ σαφέστερον ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν),
ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον
πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς
πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν
τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche
modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre
all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di
necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e
assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione,
pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia
fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il
non-essere (986 b27-987 a1). Nella ricostruzione aristotelica due sarebbero i
cardini della dottrina parmenidea: (i) la convinzione circa l'unità dell'essere
(ἓν οἴεται εἶναι) - da un punto di vista razionale (κατὰ τὸν λόγον) necessaria
(ἐξ ἀνάγκης), imposta dalla disgiunzione e mutua esclusione tra essere e
non-essere: «non esiste ciò che non è al di là di ciò che è» (παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ
μὴ ὂν οὐθὲν εἶναι); (ii) la presa d'atto dell'evidenza fenomenica: così,
secondo noi, è da intendere l'espressione greca ἀναγκαζόμενος ἀκολουθεῖν τοῖς
31 φαινομένοις (letteralmente «costretto a essere guidato dai fenomeni [cose
che appaiono]»). Proprio l'ineludibile rilievo empirico della molteplicità
(πλείω κατὰ τὴν αἴσθησιν) avrebbe imposto un nuovo campo d'indagine, inducendo
Parmenide a introdurre «due cause e due principi» (δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς),
ciò legittimando la sua rilevanza per la discussione aristotelica. Si tratta di
una lettura che trova conferma nella dossografia successiva, anche in un
autore, Plutarco, che attingeva probabilmente a una tradizione accademica,
relativamente autonoma rispetto alla linea teofrastea: ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν
φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς τὸ προσῆκον εἰς μὲν τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος ἰδέαν
τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ
τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν.
ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεκ < ὲς ἦτορ
>’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον, ‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς
οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ (Parmen. B 1, 29. 30) διὰ τὸ παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ
πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι. καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν
καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν; οὐκ ἔστιν εἰπεῖν. [Parmenide]
non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna conferendo ciò che le è
proprio, pone l'intelligibile nella classe dell'uno e dell'essere, definendolo
"essere" in quanto eterno e incorruttibile, e ancora uno per
uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile invece in
quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è possibile
vedere: «il cuore preciso della Verità ben convincente», che raggiunge
l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e «le opinioni dei
mortali in cui non è vera certezza» [B1.29-30], perché esse sono congiunte con
cose che accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze. Come
avrebbe potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il
sensibile e 32 l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus
Colotem 1114 d-e). Le osservazioni di Plutarco sono particolarmente
significative perché intervengono a correggere l'interpretazione
"melissiana" di Parmenide (proposta da Colote), secondo cui «Parmenide
cancella ogni cosa postulando l'essere uno» (πάντ’ ἀναιρεῖν τῷ ἓν ὂν ὑποτίθεσθαι
τὸν Παρμενίδην): è appunto contro questo fraintendimento che il platonico
attribuisce anacronisticamente all'Eleate l'articolazione della realtà in
«intelligibile» (τὸ νοητόν) e «sensibile» (τὸ αἰσθητόν), avendo in precedenza
ricordato lo sforzo del Poema di produrre un «sistema del mondo» (διάκοσμον),
in conformità con quanto ci si poteva attendere da un «naturalista arcaico» (ὡς
ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι): ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς
τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ·
καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ
γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ
συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito
anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa
derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti
molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta anche
dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come
si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno
scritto proprio – non distruzione di un altro (Adversus Colotem 1114b, DK 28
B10). Questa testimonianza rafforza la convinzione che - sia per la tradizione
dossografica antica, sia per la posteriore (in gran parte però dipendente da
quella) - il tema del Poema parmenideo fosse anche la φύσις (nel senso sopra
sommariamente ricostruito), seb- 33 bene se ne registrasse la
"eccentricità" 34 e quindi la problematica riducibilità al paradigma
della περὶ φύσεως ἱστορία. Tra ricerca περὶ φύσεως e ricerca περὶ τῆς ἀληθείας
Aristotele, introducendo l’indagine «sull’essere in quanto essere» (περὶ τὸ ὂν ᾗ
ὂν), su ciò che appartiene «a tutte le cose in quanto enti» (ᾗ ὄντα ὑπάρχει πᾶσι),
la differenzia rispetto a ricerche più specifiche: ciò che la connota è,
infatti, accanto alla eziologia propria di ogni sapere, l'apertura alla
totalità della realtà. Riguardo alla περὶ φύσεως ἱστορία, tuttavia, la sua
posizione è più sfumata: l'originale speculazione sull’«essere in quanto
essere» è proposta, infatti, in continuità con la precedente tradizione: ἐπεὶ δὲ
τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας αἰτίας ζητοῦμεν, δῆλον ὡς φύσεώς τινος αὐτὰς ἀναγκαῖον
εἶναι καθ’ αὑτήν. εἰ οὖν καὶ οἱ τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων ζητοῦντες ταύτας τὰς ἀρχὰς
ἐζήτουν, ἀνάγκη καὶ τὰ στοιχεῖα τοῦ ὄντος εἶναι μὴ κατὰ συμβεβηκὸς ἀλλ’ ᾗ ὄν·
διὸ καὶ ἡμῖν τοῦ ὄντος ᾗ ὂν τὰς πρώτας αἰτίας ληπτέον Dal momento che
ricerchiamo i principi e le cause supreme, è evidente come esse riguardino
necessariamente una certa natura [realtà] in quanto tale. Se dunque coloro che
ricercano gli elementi delle cose ricercavano questi principi, è necessario che
fossero anche gli elementi dell'essere non per accidente ma in quanto essere.
Per questo motivo dobbiamo comprendere le cause prime dell'essere in quanto
essere» (Metafisica IV, 1 1003 a26-32). «Gli elementi costitutivi delle cose
che sono» (τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων) – nella misura in cui sono intesi come
principi di tutte – 34 Ci siamo occupati di questo aspetto in Parmenide e la
tradizione del pensiero greco arcaico (ovvero della sua eccentricità), in Il
quinto secolo. Studi di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di
S. Giombini e F. Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011, pp. 165-178. 34 risultano
in effetti «elementi dell'essere in quanto tale» (τὰ στοιχεῖα τοῦ ὄντος ᾗ ὄν),
costitutivi di tutto ciò che è. In questo senso la cifra sapienziale comune
alla «scienza dell'essere in quanto essere» (ἐπιστήμη ἣ θεωρεῖ τὸ ὂν ᾗ ὂν) e
all'indagine dei φυσικοί è data, in definitiva, dalla convergente modalità di
realizzazione: «ricercare i principi e le cause prime» (τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας
αἰτίας ζητεῖν) della realtà. Più avanti nello stesso libro, infatti, Aristotele
rileva come «alcuni dei fisici» (τῶν φυσικῶν ἔνιοι) si fossero mostrati
evidentemente consapevoli di «ricercare sulla natura [realtà] nella sua
interezza e sull’essere» (περί τε τῆς ὅλης φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος,
Metafisica IV, 3 1005 a32- 33), intendendo quindi la «natura» come una totalità
omogenea (dal punto di vista dell'essere), cui ineriscono determinate proprietà
riconducibili a principi universali. Ritenendo così che φύσις e τὸ ὂν
coincidessero, che la φύσις cioè costituisse «tutta la realtà», quei «fisici»
avrebbero manifestato interesse per gli «assiomi» (ἀξιώματα), i principi più
generali di tutti, quelli che «appartengono a tutti gli enti» (ἅπασι ὑπάρχει τοῖς
οὖσιν), la cui discussione non è di competenza dello specialista (che si limita
ad applicarli) ma appunto della «ricerca del filosofo» (τῆς τοῦ φιλοσόφου
[σκέψεως]). Il riferimento è indeterminato ed è stato precisato in modo diverso
dagli interpreti: noi riteniamo che esso coinvolga direttamente Eraclito (per
la riflessione sul logos) e in particolare Parmenide, soprattutto in
considerazione del lessico dei frammenti B2 e B8. Un lessico che effettivamente
sembra istituire la riflessione ontologica, sia con l'analisi dei «segni»
(σήματα), delle proprietà che manifestano τὸ ἐόν, sia con l'insistenza sulla
reciproca implicazione di verità ed essere. Natura, essere, verità Lo
Stagirita, in effetti, rilegge la tradizione anche alla luce di un'intenzione
veritativa di fondo: 35 ὅμως δὲ παραλάβωμεν καὶ τοὺς πρότερον ἡμῶν εἰς ἐπίσκεψιν
τῶν ὄντων ἐλθόντας καὶ φιλοσοφήσαντας περὶ τῆς ἀληθείας consideriamo comunque
anche coloro che prima di noi hanno proceduto alla ricerca intorno agli enti e
hanno filosofato intorno alla verità (Metafisica I, 3 983 b1), Espressioni come
«coloro che dapprima filosofarono intorno alla verità» (οἱ μὲν οὖν πρότερον
φιλοσοφήσαντες περὶ τῆς ἀληθείας, De Caelo III, 1 298 b12), ovvero che
«indagarono la verità intorno agli enti» (περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν,
Metafisica IV, 5 1010 a1), rivelano come Aristotele intendesse l'indagine sulla
natura come indagine sulla verità, la prima comportando una presa di posizione
circa ciò che è Realtà 35. In questo senso i primi filosofi avevano contribuito
«all’indagine sugli enti» (εἰς ἐπίσκεψιν τῶν ὄντων): in quanto convinti che la
natura fosse la realtà fondamentale, ricercando «sulla natura [realtà] nella
sua interezza» (περί τε τῆς ὅλης φύσεως) essi avevano offerto anche riflessioni
«sull’essere» (περὶ τοῦ ὄντος): ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν
καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας,
καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι
γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον
εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν
γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’
εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Coloro che per primi hanno ricercato
secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti, furono sviati
come su una certa altra strada, sospinti dall'inesperienza: essi sostennero che
delle cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò che si genera
origina o da ciò che è o da ciò che non è; ma ciò è 35 W. Leszl, Parmenide e
l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università
degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p. 16. 36 impossibile da entrambi i punti di
vista. Ciò che è, infatti, non si genera (dal momento che è già); né da ciò che
non è è possibile si generi alcunché: è richiesto in effetti qualcosa che funga
da sostrato. E aggravando in questo modo la conseguenza immediata, affermarono
che non esistano i molti ma che esista solo l'essere stesso (Fisica I, 8 191
a25 ss.). Il passo è di grande interesse: nell'ambito di una discussione sui
principi (il primo libro della Fisica compare nei cataloghi antichi come Περὶ ἀρχῶν),
Aristotele (i) intende la riflessione dei primi filosofi (οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι)
come indagine a un tempo sulla natura e sulla verità (ζητοῦντες τὴν ἀλήθειαν καὶ
τὴν φύσιν τῶν ὄντων), e (ii) attribuisce il loro "sviamento", la loro
erranza, a una precoce analisi ontologica condotta con imperizia (ὑπὸ ἀπειρίας).
Benché spesso riferita dai commentatori specificamente agli Eleati, la
difficoltà segnalata potrebbe intendersi rivolta a coloro che avevano operato
la riduzione a elementi base (questo appare il significato nel contesto di τὰ ὄντα)
36. In tal caso Aristotele riconoscerebbe all'indagine dei «fisici» un filo
conduttore ontologico, che in Parmenide sarebbe stato pienamente esplicitato. È
significativo che dalle intestazioni attribuite (probabilmente sin dall'antichità
37) alle opere di Melisso e Gorgia (di una generazione posteriore a quella di
Parmenide) emergesse già la consapevolezza dell'inadeguatezza del tradizionale
repertorio Περὶ φύσεως, con la proposta di Περὶ φύσεως ἢ περὶ τοῦ ὄντος, nel
primo caso, e Περὶ τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ φύσεως nel secondo; e che in ambi- 36 Su
questo in particolare Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit.,
pp. 130 ss.. 37 È tradizionalmente riconosciuto che l'intenzione dello scritto
gorgiano era di ribaltare le tesi eleatiche (per esempio, W.K.C. Guthrie, The
Sophists, C.U.P., Cambridge 1971, pp. 270-271). I due resoconti dell'opera –
quello di Sesto Empirico (che ci fornisce anche la titolazione completa) e
quello dell'Anonimo del De Melisso, Xenophane et Gorgia (forse I secolo d.C.) –
potrebbero dipendere da Teofrasto ed essere stati semplicemente elaborati in
modo diverso. In alternativa, per la seconda redazione, si è supposta la mano
di un peripatetico antico (si veda la nota di M. Untersteiner in Sofisti,
Testimonianze e frammenti, a cura di M. Untersteiner, con la collaborazione di
A. Battegazzore, Bompiani, Milano 2009, p. 234). 37 to sofistico proliferassero
opere sulla «Verità» (Περὶ τῆς ἀληθείας e Ἀλήθεια sono le titolazioni
attribuite alle opere principali rispettivamente di Antifonte e di Protagora).
Aristotele, in ogni caso, con la formula «indagine sulla verità» intende
un’indagine sulla realtà genuina, tesa ad accertare quale essa sia, spingendosi
oltre le apparenze che la occultano38. Illuminante un passo di De generatione
et corruptione: Ἐκ μὲν οὖν τούτων τῶν λόγων, ὑπερβάντες τὴν αἴσθησιν καὶ
παριδόντες αὐτὴν ὡς τῷ λόγῳ δέον ἀκολουθεῖν, ἓν καὶ ἀκίνητον τὸ πᾶν εἶναί φασι
καὶ ἄπειρον ἔνιοι· τὸ γὰρ πέρας περαίνειν ἂν πρὸς τὸ κενόν. Οἱ μὲν οὖν οὕτως καὶ
διὰ ταύτας τὰς αἰτίας ἀπεφήναντο περὶ τῆς ἀληθείας· ἐπεὶ δὲ ἐπὶ μὲν τῶν λόγων
δοκεῖ ταῦτα συμβαίνειν, ἐπὶ δὲ τῶν πραγμάτων μανίᾳ παραπλήσιον εἶναι τὸ
δοξάζειν οὕτως A partire dunque da questi ragionamenti, e spingendosi oltre la
sensazione e ignorandola, dal momento che si dovrebbe seguire il ragionamento,
alcuni dicono che il tutto [l'universo] è uno, immobile e infinito: il limite,
infatti, confinerebbe con il vuoto. Costoro, dunque, in questo modo e per
queste ragioni si sono espressi sulla verità: ora, alla luce dei ragionamenti
sembra che queste cose accadano così; alla luce dei fatti, invece, il pensare
così sembra quasi follia (Aristotele, De generatione et corruptione I, 8 325
a13ss.). Qui Aristotele stigmatizza, per la sua paradossalità (sintomatico il
riferimento alla «follia»), una forma di «razionalismo eleatico» 39 che, nel
riferimento all'infinito, appare sostanzialmente melissiano40: il contributo
all'indagine sulla verità scaturisce da una 38 Leszl, op. cit., p. 17. 39 Così
Migliori, Aristotele, La generazione e la corruzione, traduzione, introduzione
e commento di M. Migliori, Loffredo Editore, Napoli 1976, p. 200. 40 Non è un
caso che Reale abbia accolto le prime righe del passo aristotelico come un vero
e proprio frammento di Melisso: Melisso, Testimonianze e frammenti, traduzione,
introduzione e commento di G. Reale, Firenze 1970, La Nuova Italia, pp. 98-104.
38 ricerca volta alla comprensione della realtà naturale nel suo insieme (τὸ πᾶν).
Una ricerca, dunque, a un tempo "ontologica" ed "epistemologica"
(in senso lato), nella misura in cui la determinazione della realtà genuina
dipende da considerazioni di ordine gnoseologico (delineate nella
contrapposizione ἐπὶ μὲν τῶν λόγων - ἐπὶ δὲ τῶν πραγμάτων). Ora, nei frammenti
parmenidei non mancano indizi (come rivelano le letture antiche) della
possibilità che l'espressione τὸ ἐόν («ciò che è» ovvero «l'essere»), di cui si
definiscono proprietà strutturali - «senza nascita» (ἀγένητον) «senza morte» (ἀνώλεθρον),
«tutto intero» (οὖλον), «uniforme» (μουνογενές), «saldo» (ἀτρεμές) (B8.4-5) –
si riferisca a quel che Aristotele indica come τὸ πᾶν, il Tutto
dell’universo41: Parmenide, nel suo sforzo di evitare le incongruenze colte
nelle coeve indagini sull'origine e sulla struttura del mondo naturale42,
avrebbe trasfigurato lo spazio cosmico nel compiuto, omogeneo, immutabile campo
dell’«essere», così spingendo la filosofia naturale ai limiti di logica e
metafisica43. Né, d'altra parte, mancano tracce di una trattazione περὶ τῆς ἀληθείας44:
la prima sezione del Poema si apre e si chiude con chiare menzioni della Verità
– intesa come la Realtà oggetto dell'esposizione stessa, mentre l'impianto
dicotomico dell'opera tràdita riflette la tensione tra il resoconto genuino di
quella realtà e una sua accettabile ricostruzione a partire dall'esperienza che
gli uomini ne hanno. 41 Interpreta in questo senso D. Furley, The Greek
Cosmologists, cit., p. 54. Conche – in Parménide, Le Poéme: Fragments, texte
grec, traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1996,
p. 182 – osserva come l’essere abbia a che fare con il Tutto, con l’insieme di
ciò che è, e sia dunque coestensivo al mondo. Una prospettiva analoga a quella
che proponiamo è espressa da M. Kraus, "Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht
des Parmenides", in G. Rechenauer (Hg.), Frügriechisches Denken,
Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005, pp. 252-269. Di particolare rilievo
le pagine 260-1. 42 Lasciamo qui indeterminati i bersagli possibili, da
ricercare comunque in ambito ionico e pitagorico. 43 D.W. Graham, “Empedocles
and Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in The Cambridge Companion to Early
Greek Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge 1999, p. 175. 44
Leszl, op. cit., p. 19. 39 Natura e verità in Parmenide In effetti, nel caso
del poema di Parmenide, presumendone unitarietà e coerenza, possiamo
registrare: (i) lo squilibrio di struttura: la (seconda) sezione dedicata
all'esposizione dell'«ordinamento [del mondo] del tutto appropriato» (διάκοσμον
ἐοικότα πάντα, B8.60) doveva essere assai più consistente di quella (la prima)
relativa al «percorso di Persuasione, che si accompagna a Verità» (Πειθοῦς
κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ, B2.4); (ii) il costante richiamo,
nell'introduzione del διάκοσμος, a un lessico di conoscenza: B10 appare, in questo
senso, un vero e proprio programma di istruzione cosmologica e cosmogonica, tra
l'altro in sintonia con il modello poetico esiodeo della Teogonia45: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν
τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄
ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης [5] καὶ
φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν
Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i
segni e della pura fiamma dello splendente sole le opere invisibili e donde
ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio
rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge,
donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini
degli astri. 45 L’accostamento è naturale in Aristotele, quando, in apertura di
Metafisica I, 4, introduce l’analisi della causalità efficiente, rinviando
proprio ai precedenti di Esiodo e Parmenide sul ruolo cosmogonico di Amore. 40
Che l'articolata indagine prospettatavi possa essere rubricata come περὶ φύσεως
ἱστορία sembra, alla luce delle considerazioni introduttive, indiscutibile,
così come appare chiara la sua intenzione cognitiva: nella costruzione del
Poema, è allora possibile rintracciare una corrispondenza tra la ricerca della
seconda sezione e l'impegno ontologico-veritativo dei frammenti B2-B8.
L'obiettivo dichiarato (nel proemio) della comunicazione divina è compiutamente
conoscitivo, scandito da espressioni verbali dalla inequivocabile valenza
cognitiva, in relazione tanto a Ἀληθείη quanto ai δοκοῦντα: χρεὼ δέ σε πάντα
πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι
πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι
διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità
ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale
credibilità. Nondimeno anche questo imparerai: come le cose accolte nelle
opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti
(B1.28b-32). La Dea sottolinea il proprio impegno a (i) rivelare la realtà
genuina (Ἀληθείη), tradizionale appannaggio divino, e (ii) denunciare le
infondate (senza «reale credibilità», πίστις ἀληθής) «opinioni dei mortali»
(βροτῶν δόξας), in ciò riflettendo il canonico pessimismo sulla condizione e
comprensione umana che aveva trovato espressione nella poesia e nella sapienza
antica: τοὔνεκά τοι ἐρέω, σὺ δὲ σύνθεο καί μευ ἄκουσον· οὐδὲν ἀκιδνότερον γαῖα
τρέφει ἀνθρώποιο [πάντων, ὅσσα τε γαῖαν ἔπι πνείει τε καὶ ἕρπει.] οὐ μὲν γάρ
ποτέ φησι κακὸν πείσεσθαι ὀπίσσω, ὄφρ’ ἀρετὴν παρέχωσι θεοὶ καὶ γούνατ’ ὀρώρῃ· ἀλλ’
ὅτε δὴ καὶ λυγρὰ θεοὶ μάκαρες τελέωσι, 41 καὶ τὰ φέρει ἀεκαζόμενος τετληότι θυμῷ.
τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε
θεῶν τε. Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi: nulla è più
inconsistente dell'uomo tra tutte le cose che nutre la terra, e sulla terra
camminano e si muovono. Egli sostiene che nulla di male mai gli accadrà, fin
quando gli dei concedono forza e le membra sono in movimento. Quando invece gli
dei beati infliggono anche dolori, pure questi sopporta, suo malgrado, con
animo paziente. Tale è la comprensione degli uomini che vivono sulla terra,
quale il giorno che manda il padre degli dei e degli uomini (Odissea XVIII,
129-137) θνατὰ χρὴ τὸν θνατόν, οὐκ ἀθάνατα τὸν θνατὸν φρονεῖν il mortale deve
pensare cose mortali, non cose immortali (Epicarmo, DK 23 B20) ἄρα θεὸς μὲν οἷδε
τὴν ἀλήθειαν δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται soltanto dio conosce la verità, a tutti
è dato solo opinare (Senofane, DK 21 A24). Ma il programma non si esaurisce
nella contrapposizione tra comprensione divina e incomprensione umana, pur
limpidamente e criticamente evocata. La rivelazione della realtà autentica -
per la quale Parmenide ricorre a una perifrasi, impiegando due immagini:
letteralmente «cuore che non trema» (ἀτρεμὲς ἦτορ) di «Verità ben rotonda» (Ἀληθείης
εὐκυκλέος ovvero, secondo altri codici, «ben convincente», εὐπειθέος) - è
certamente occasione per condannare di fronte al giovane poeta (κοῦρος)
l’inattendibilità delle convinzioni umane. Essa, nell'economia del poema,
appare tuttavia funzionale anche alla presentazione di un resoconto
alternativo, plausibile (δοκίμως), del mondo dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα): 42
a dispetto dell'inaffidabilità delle correnti opinioni mortali, è possibile
delinearne una sintesi compatibile con la lezione di verità della prima
istruzione. Difficile credere che Parmenide non fosse in qualche misura
convinto della bontà del punto di vista espresso negli attuali frammenti
B9-B1246, ovvero della ἱστορία περὶ φύσεως tracciatavi, anche perché i rilievi
del testo richiamano puntualmente i divieti di B2-B8: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος
καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν
πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα
μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste,
secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a
quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla
pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9). Discorso affidabile
e ordinamento verosimile Eppure il passaggio tra le due sezioni è marcato in
modo inequivocabile: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης·
δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo
punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità;
da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole
ascoltando che può ingannare (B8.50-2). 46 Lesher, op. cit., p. 240. 43 In
questi versi si incrociano le due prospettive che Parmenide tenta di
salvaguardare all'interno della tradizionale opposizione tra umano e divino:
(i) da un lato la "superiore" ottica della divinità, che si esprime
in un logos degno di fiducia: svolgendo rigorosamente la propria disamina
dall'alternativa «è e non è possibile non essere»-«non è ed è necessario non
essere», esso riconosce che: ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές
τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν,
ἕν, συνεχές senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme,
saldo e senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto
insieme, uno, continuo (B8.3b-6a), (ii) dall'altro i punti di vista umani,
molteplici e concorrenti, insidiosi e potenzialmente dispersivi: è
esplicitamente all'interno di questo orizzonte che la Dea introduce la seconda
sezione: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν
γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo,
così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti. Nessun resoconto
cosmologico, nella misura in cui si riferisca alle vicende di una molteplicità
di enti in divenire (instabili e mutevoli), può essere considerato
completamente affidabile, come, invece, il discorso su «ciò che è» (τὸ ἐόν),
sulla realtà colta come totalità (unitaria, immutevole, essendo nel suo
complesso tutto ciò che è). Per valutare correttamente l'impresa parmenidea
dobbiamo tenere conto di due elementi: 44 (a) del contributo scientifico47
(prevalentemente in campo cosmologico48) riconosciuto a Parmenide
nell’antichità: ancora una volta è interessante soprattutto il fatto che
Teofrasto (DK 28 A44) gli attribuisse la scoperta della sfericità della Terra: ἀλλὰ
μὴν καὶ τὸν οὐρανὸν πρῶτον ὀνομάσαι κόσμον καὶ τὴν γῆν στρογγύλην, ὡς δὲ
Θεόφραστος [Phys. Opin. 17] Παρμενίδην, ὡς δὲ Ζήνων Ἡσίοδον [in riferimento a
Pitagora] ma fu anche il primo a chiamare il cielo cosmo e la terra sferica;
per Teofrasto fu invece Parmenide, per Zenone Esiodo, e che altre fonti
risalissero all’Eleate per osservazioni sulla identità di Espero e Lucifero (DK
28 A40a): Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ
Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι· μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ
οὐρανὸν καλεῖ Parmenide pone come primo nell'etere Eos, lo stesso da lui
chiamato anche Espero; dopo di esso pone il Sole, sotto questo, nella parte
ignea che chiama cielo, gli astri, e sulla natura solare della luce della Luna:
Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc. εἶναι τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’ αὐτοῦ φωτίζεται 47 Per
una recente valorizzazione di questo aspetto G. Cerri, La riscoperta del vero
Parmenide, introduzione a Parmenide di Elea, Poema sulla natura, introduzione,
testo, traduzione e note a cura di G. Cerri, Milano 1999, BUR Rizzoli (in
particolare pp. 52-57); D.W. Graham, Explaining the Cosmos.The Ionian Tradition
of Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford
2006, pp. 179-182. 48 Naddaf ha d’altra parte segnalato come il modello
cosmogonico della seconda sezione del poema dovesse essere influenzato da una
prospettiva biologica e ricordato opportunamente le tracce di una
«antropogonia», attestata da Diogene Laerzio (DK 28A1). Si veda G. Naddaf, The
Greek Concept of Nature, cit., pp. 137-138. 45 Parmenide [dice che] la luna è
uguale al sole: da esso è infatti illuminata (DK 28 A42); (b) dell'evidente
contrasto tra la condanna della confusione "mortale" tra le due vie:
οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ
παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è considerato essere e non essere la
stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna
all'indietro (B6.8-9) οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα Mai questo sarà
forzato: che siano cose che non sono (B7.1), ovvero dell’irrisolta opposizione
nelle cosmogonie correnti (ioniche? pitagoriche?): μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο
γνώμας ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν Presero la
decisione, infatti, di dar nome a due forme, delle quali l’unità non è [per
loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (B8.53-4), e la
sottolineatura (nel già citato B9) della riduzione omogenea all'essere delle
forme introdotte per il διάκοσμος ἐοικώς: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος
καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le
cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive
proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno
ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a
nessuna delle due [è] il nulla (B9). 46 La distinzione tra i due momenti
dell'istruzione divina sembra quindi consapevolmente delineare due distinte
forme di conoscenza: (a) la certezza della comprensione razionale – evocata
dalla reiterazione di νοεῖν (comprendere, concepire, pensare) e νόος
(intelligenza, pensiero), nonché di espressioni come κρῖναι δὲ λόγῳ («giudica
con il ragionamento») - degli attributi universali di «ciò che è» (τὸ ἐόν, il
complesso della realtà colto come tutto-intero); (b) la plausibilità di una
conoscenza – l'uso di verbi di conoscenza è indiscutibile nei frammenti
attribuiti alla seconda sezione - che possiamo definire "empirica",
dal momento che si concentra sulla natura delle cose che incontriamo nella
nostra esperienza49 . In realtà il quadro è più complesso, perché fortemente
condizionato da una cornice religiosa che deve indurre cautela. Intanto, quella
che abbiamo indicato come «conoscenza razionale» (via d'accesso privilegiata
alla Verità) è proposta come contenuto diretto di una rivelazione (B1) che
costituisce il contesto dell'intera esposizione del Poema, e che pone
immediatamente (B2) le premesse da cui dipendono i ragionamenti successivi.
Come avremo modo di sottolineare nel commento, tale rivelazione non appare un
semplice escamotage poetico, estrinseco rispetto alla comunicazione di verità,
ma, al contrario, il vero nucleo propulsivo dell’opera, la condizione di
continuità entro cui le due sezioni assumono il loro senso e il loro statuto50.
Un elemento andato perduto nella ricezione di Parmenide nel IV secolo a.C.
(che, infatti, non ci ha conservato citazioni dal proemio), ma in sé di grande
interesse per la collocazione culturale dell'Eleate e per la valutazione del
suo contributo. L'oggetto di tale conoscenza - τὸ ἐόν – appare, a sua volta,
nei frammenti sia come risultato di una costruzione logica: 49 Lesher, op.
cit., p. 241. 50 Su questo punto insiste Lambros Couloubaritsis, nella nuova
edizione (La pensée de Parménide, Éditions Ousia, Bruxelles 2008) del suo Mythe
et Philosophie chez Parménide. 47 ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ
ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής
ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito
dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare
l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che
l’altra invece esista e sia reale (B8.15b-18), sia come concrezione di una
sintesi intuitiva, a partire dallo sguardo rivolto alla molteplicità degli
enti: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος
ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον Considera
come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non
impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere, né disperdendosi
completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi (B4). In questo
secondo caso, la costante presenza dell'essere è giustapposta alla
presenza-assenza degli enti, prefigurando l'opposizione tra l'immutabile
presente dell'uno: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν,
συνεχές né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno,
continuo (B8.5-6a) e il divenire - scandito da passato, presente e futuro –
degli altri: οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι 48 καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε
τελευτήσουσι τραφέντα Ecco, in questo modo, secondo opinione, queste cose
ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito sviluppatesi, avranno fine
(B19.1-2). Ciò può suggerire che i due momenti del discorso divino riflettano
l'originale rielaborazione parmenidea della tensione, implicita nella cultura
delle origini, tra la dimensione temporale delle cose in divenire (τά τ’ ἐόντα
τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, «le cose che sono, le cose che sono state e le
cose che saranno», Iliade I, 70) e quella peculiare alla concezione arcaica del
divino (θεοὶ αἰὲν ἐόντες, «dei che sono sempre», Iliade I, 290)51 . La
distinzione ben delineata nei frammenti tràditi, come abbiamo visto, è quella
tra: (i) la certezza (πίστιος ἰσχύς) che scaturisce dal giudizio razionale su τὸ
ἐὸν: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν
Dire e pensare: «ciò che è è», è necessario: essere è infatti possibile, il
nulla, invece, non è (B6.1-2a); (ii) la verosimiglianza del resoconto
cosmologico, che pur legittimato dalla parola divina: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα
πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento,
del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei
mortali possa superarti (B8.60-1) si rivolge all'origine e sviluppo di fenomeni
prodotti dall'azione celeste: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα
51 Ivi, p. 102. 49 σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν
ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν Conoscerai la
natura eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente
Sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai
periodiche della Luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura (B10.1-5a), e,
ulteriormente, ai fondamenti cosmogonici e cosmologici (in questo senso alle
condizioni generali del mondo naturale): εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν
ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων conoscerai anche
il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidando
lo vincolò a tenere i confini degli astri (B10.5b-7). La certezza è prodotto
del «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος) associato a Verità (Ἀληθείη)
ed essere (τὸ ἐὸν): Parmenide insiste sulla necessità di tale sapere,
chiaramente correlata a immutabilità, identità e stabilità del suo oggetto. La
ricostruzione del διάκοσμος ἐοικώς riflette, d'altra parte, la mutevolezza dei
fenomeni fissati dall'arbitrio delle denominazioni umane: in questo senso,
rispetto all'affidabilità del «percorso di Persuasione» che manifesta la genuina
realtà (la Verità), essa è proposta dalla Dea come κατὰ δόξαν, «secondo
opinione». Essere e natura in Parmenide Nel proprio schema (Metafisica I, 5 986
b27-987 a1) - che già abbiamo commentato - Aristotele aveva dunque colto
sostanzialmente nel segno: 50 Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ
γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο
οὐθέν (περὶ οὗ σαφέστερον ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν), ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν
τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων
εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ
καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν.
Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal
momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto,
egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto
tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i
molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi,
chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo
sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere. La lettura aristotelica
suggerisce, infatti, che l'oggetto – apparentemente diverso - delle due sezioni
del Poema sia in verità identico, sebbene prospettato secondo differenti
modalità gnoseologiche: «secondo ragione» (κατὰ τὸν λόγον) e «secondo
sensazione» (κατὰ τὴν αἴσθησιν). Una considerazione puramente razionale fa
emergere la realtà (naturale) come uno-tutto; il riferimento all'esperienza
manifesta la pluralità dei fenomeni: nel primo caso il livello di astrazione fa
perdere di vista i connotati fenomenici e risaltare i tratti di fondo della
realtà; nel secondo l'urgenza di dar conto dei fenomeni spinge
all'individuazione di efficaci principi esplicativi. Come non è possibile
parlare di due oggetti diversi, così non può sfuggire nei frammenti il
tentativo di Parmenide di ripensare il problema dei principi in termini
ontologici, attribuendo cioè ai principi alcune caratteristiche dei «segni» di
τὸ ἐὸν: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν
φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, 51 τῷ δ΄ ἑτέρῳ
μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo
e segni imposero separatamente gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma
etereo fuoco, che è mite, molto leggero, a se stesso in ogni direzione
identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche
quello in se stesso, le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e
pesante (B8.55-9) τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε αὐτὰρ ἐπειδὴ
πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς,
πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ
μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e
queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose
e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe
alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9). Questo
autorizza l'ipotesi che la prima sezione – pur compiuta, autosufficiente e
autonoma – fosse effettivamente intesa come preparatoria alla seconda, con la
quale l'autore entrava in competizione (come sottolineato anche dalle parole
della divinità) con altre cosmologie. È plausibile che il modello esplicativo
del mondo naturale che vi si delinea abbia profondamente influenzato quello,
fondato sulla nozione di mescolanza, adottato da Empedocle e Anassagora52,
sensibili, tra l'altro, ai rilievi “ontologici” di 52 In modo diverso giungono
a sostenere questa ipotesi P. Curd, The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism
and Later Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998; P.
Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical Interpretation, cit.;
D.W. Graham, Explaining the Cosmos, cit.. 52 Parmenide53 – come risulterebbe da
una serie di frammenti (DK 31 B8, B9, B11, B12; DK 59 B17). 53 D.W. Graham,
“Empedocles and Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in The Cambridge
Companion to Early Greek Philosophy, cit., p. 167. Per una più meditata e
articolata riflessione sullo stesso tema, si può ora consultare D.W. Graham,
Explaining the Cosmos, cit.. 53 IL TESTO DI PARMENIDE E LA SUE FONTI Si
ipotizza che la consistenza dell'unica opera di cui la tradizione sostiene
Parmenide sia stato autore, fosse approssimativamente di un migliaio di versi,
160 (circa) dei quali abbiamo ricevuto attraverso posteriori citazioni da parte
di altri autori. Essi riferivano in qualche caso direttamente da una copia del
poema, in altri indirettamente da selezioni antologiche ovvero da citazioni
altrui. Riflettendo sulla storia di queste citazioni testuali, possiamo
concludere che il poema di Parmenide sia stato oggetto di due distinti momenti
di attenzione, a distanza di 4 secoli l’uno dall’altro, prima di scomparire
definitivamente54 . Il materiale del Poema Possiamo supporre che una prima
diffusione di copie del Poema avvenisse sotto il controllo dell'autore e che
forme di controllo sul testo e sulla sua circolazione fossero esercitate dagli
allievi nel periodo immediatamente successivo alla sua morte. È plausibile che
nel mondo greco occidentale si conservasse una memoria testuale autonoma, da
collegare forse ad ambienti pitagorici 55 , e che, analogamente, tradizioni del
testo si affermassero anche in altre aree di civilizzazione greca, come l'Asia
Minore, dove il poema sembra essere stato conosciuto abbastanza presto. Si
tratta solo di congetture, dal momento che non disponiamo di evidenze di questa
fase pre-platonica, ma, secondo Passa56, non è da escludere che a una di queste
tradizioni abbia attinto Sesto Empirico. La prima attestazione del Poema risale
a Platone, che cita per cinque volte Parmenide: nel Teeteto (180d a proposito
della tesi dell’unità e della immobilità dell’Uno-Tutto), nel Simposio (178b 54
N.-L- Cordero, L’histoire du texte de Parménide, in Études sur Parménide, sous
la direction de P. Aubenque, t. II, Problèmes d’interpretation, Vrin, Paris
1987, p. 4. 55 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua,
Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 143. 56 Ibidem. 54 a proposito del primato di
Eros), tre volte nel Sofista (237a e 258d a proposito del «parricidio»; 244e a
proposito della struttura e indivisibilità del Tutto). Aristotele, a sua volta,
replica la descrizione del Tutto già citata da Platone (Fisica 207 a18), cita
il verso su Eros (Metafisica 984 b26) e trascrive l'attuale frammento 16
(Metafisica IV, 5 1009 b22). L’ultima citazione della prima "esistenza
postuma" del Poema è in Teofrasto, che riprende tre volte il fr. 16 (in
una versione diversa da quella aristotelica). È probabile che le citazioni del
frammento 8 nello pseudo-aristotelico Su Melisso, Senofane e Gorgia e in Eudemo
derivino da Platone 57 . Dopo un lungo silenzio - segnale, secondo Cordero58,
non propriamente di scomparsa del testo parmenideo, piuttosto di «mancato utilizzo»
- il platonico Plutarco (I secolo d.C.) torna a fare uso abbondante dei
frammenti del poema, aprendo di fatto la seconda stagione d’attenzione per
l'opera - la più ricca di citazioni testuali - che dura fino a tutto il VI
secolo. Caratteristica di questa fase è il ricorso al Poema non per illustrare
la posizione dell'autore, ma per confermare o chiarire il tema oggetto di
analisi da parte dei commentatori: è probabile che le citazioni non siano di
prima mano, ma dipendano in gran parte da Platone, Aristotele e Teofrasto. A
Simplicio, l’ultimo autore conosciuto che abbia usato un manoscritto
dell’intera opera di Parmenide 59, dobbiamo la citazione (in gran parte come
unica fonte) dei due terzi dei 160 versi tràditi del poema: egli cita
estensivamente anche perché consapevole della rarità del testo già nella sua
epoca (clamorosamente quella in cui aumenta il numero di autori che
direttamente o indirettamente citano Parmenide: Damascio, Filopono, Asclepio,
Boezio, Olimpiodoro60): καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος
ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε 57 Cordero, op. cit., pp. 4-5. 58
Ivi, p. 5. 59 A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum,
Assen/Maastricht 1986, p. 1. 60 Cordero, op. cit., p. 6. 55 τοῖς ὑπομνήμασι
παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ
Παρμενιδείου συγγράμματος anche a costo di sembrare insistente, vorrei
aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere
uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto
parmenideo (DK 28 A21). Cordero giudica molto probabile – sulla scorta del
lavoro filologico di Diels – l'utilizzazione da parte di Proclo (V secolo) e
Simplicio (VI secolo) di due differenti versioni del poema di Parmenide61.
Damascio (V-VI secolo d.C.) cita sulla scorta del commento perduto di Giamblico
(III-IV secolo d.C.) al Parmenide platonico. Altri autori antichi (V e VI
secolo d.C.) come Ammonio, Filopono, Olimpiodoro e Asclepio potrebbero non aver
avuto la possibilità di accedere direttamente a copia dell’intero poema62 . Le
fonti e i loro problemi Da un punto di vista culturale, possiamo rileggere
questa storia disponendo le fonti in tre raggruppamenti63: (i) Platone,
Aristotele, Teofrasto e Eudemo (tutti del IV secolo a.C.), gravitanti intorno
alle due principali istituzioni filosofiche ateniesi: Accademia e Liceo; (ii)
figure eterogenee appartenenti a centri di cultura ellenistico-romana: Plutarco
(I sec.), Galeno (II sec.), Clemente Alessandrino e Sesto Empirico (II-III
sec.), Diogene Laerzio (III sec.); (iii) figure cronologicamente e
geograficamente distanti, ma unite culturalmente dal fondamentale
neoplatonismo: Plotino (III sec.), Giamblico (III-IV sec.), Proclo (IV-V sec.),
Damascio e Ammonio (V-VI sec.): Simplicio è loro discepolo. 61 Cordero, op.
cit., p. 5. 62 Coxon, op. cit., p. 2. 63 Seguiamo Passa, op. cit., p. 21. 56
Fonti attiche Possiamo supporre che le fonti del primo gruppo abbiano avuto
accesso a copie del poema: secondo Passa64, si può facilmente dimostrare,
tuttavia, che in molti casi esse citano a memoria, ma è probabile che
sfruttassero anche la prima sistemazione del materiale presocratico a opera dei
sofisti. Si ritiene, infatti, che Platone e Aristotele ricorressero alle selezioni
approntate nella seconda metà del V secolo a.C. da Ippia (che nella sua
Συναγωγή aveva estratto, messo in relazione e commentato tesi presenti in opere
poetiche e in prosa65) e Gorgia (che, a sua volta, aveva estrapolato dalla
prima produzione filosofica enunciati teorici che potevano essere organizzati
per contrapposizioni, così sottolineando gli insolubili contrasti tra
filosofie: un'impostazione che certamente ha lasciato tracce ancora nelle opere
ippocratiche, in Senofonte e Isocrate). Platone e Aristotele, che rivelano
nelle loro opere di combinare i due approcci, pur avendo modo di consultare
direttamente almeno una parte delle opere attribuite ai primi filosofi,
sarebbero stati comunque condizionati dagli schemi sofistici nella loro
lettura66 . Se è plausibile, dunque, che le nostre fonti più antiche - Platone,
Aristotele e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo - avessero accesso a copie
dell’intero poema, è tuttavia significativo che Teofrasto e Eudemo non siano
fonti primarie dei versi che citano e che lo stesso Aristotele citi (3 volte su
4) probabilmente sulla scorta dei dialoghi platonici (per altro poco accurati
nel riportare il testo parmenideo)67. La disponibilità, inoltre, di differenti
versioni dello stesso frammento (B16) in Aristotele e Teofrasto può essere
indizio dell’esistenza, già nel IV secolo a.C., di almeno due distinte
tradizioni manoscritte. Nonostante sia praticamente impossibile per noi
risalire oltre la redazione attica del poema pos- 64 Ivi, p. 25. 65 J.-F.
Balaudé, Hippias le passeur, in La costruzione del discorso filosofico nell’età
dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp.
288 ss.. 66 J. Mansfeld, Sources, in The Cambridge Companion to Early Greek
Philosophy, cit., pp. 26-27. 67 Ivi, pp. 2-3. 57 seduta dall'Accademia e dal
Peripato, è dunque almeno ipotizzabile discriminare al suo interno tra il testo
usato (o citato a memoria) da Platone e Aristotele e quello usato da Teofrasto.
Né, come abbiamo in precedenza segnalato, si può escludere che redazioni
alternative autonome siano sopravvissute nella tradizione più tarda68 . La
recente ricerca linguistica69 sottolinea come Platone citi da una versione già
in parte "atticizzata" del Poema, che aveva dunque sopportato
interventi simili a quelli operati (nello stesso periodo) sul testo omerico:
modificazioni del vocalismo e introduzione di aspirazioni (in origine il testo
doveva essere psilotico). Il testo riportato da Platone è nel complesso
accurato, sebbene, secondo Passa, proprio a Platone si possa far risalire la
spiccata propensione a interpretarlo, che diventerà poi norma per i
neoplatonici, con conseguenti gravi alterazioni nelle loro redazioni. Da
Platone e dalla sua scuola deriverà, fino a Proclo, quella tradizione
"accademica" da cui è tratta la maggioranza delle citazioni del Poema
disponibili. In considerazione di quanto sopra osservato, è plausibile che
Aristotele, a sua volta, dipenda da Platone, mentre Teofrasto potrebbe aver
attinto da fonte alternativa: è dalla ricerca dell'allievo di Aristotele che si
sarebbe formata, in ambiente peripatetico, la tradizione
"dossografica", quella delle fonti che derivano le proprie citazioni
da compilazioni70 . 68 Passa, op. cit., p. 26. 69 Ibidem. 70 La tradizione
dossografica si apre in effetti con le Φυσικαὶ Δόξαι (nella tradizione per lo
più indicato come Physicorum Opiniones) di Teofrasto (in 16 libri): integrata
in periodo ellenistico, l’opera sarebbe stata poi utilizzata dagli Epicurei,
Cicerone, Varrone, Enesidemo (fonte di Sesto Empirico, seconda metà II secolo),
dal fisico Sorano (I-II secolo), Tertulliano (II-III secolo). Diels denominò
questa revisione Vetusta Placita. Essa sarebbe stata ulteriormente rivisitata,
abbreviata e integrata – nel I secolo – da un autore indicato come Aëtius, la
cui raccolta, per noi perduta, è stato ricostruita da Diels. Il filologo
tedesco ha mostrato come i Placita attribuiti a Plutarco (in realtà
pseudo-Plutarco, II secolo) fossero una sintesi dell’opera di Aëtius (e il De
historia philosophica di Galeno un’ulteriore riduzione di pseudoPlutarco) e
soprattutto come da Aëtius (anche attraverso il materiale riassunto da
pseudo-Plutarco) dipendessero la monumentale antologia (solo 58 Fonti
ellenistico-romane Plutarco (esponente di punta della Media Accademia) è il
primo autore, dopo il lungo silenzio dell'età ellenistica, a citare passi del
Poema: gli attuali frammenti B1.29-30, B8.4, B13, B14, B15 hanno Plutarco come
fonte; degli ultimi due egli è la nostra unica fonte. Sebbene dichiari di
ricorrere ad appunti (ὑπομνήματα), alcune varianti di testo fanno supporre che
egli citi da fonti attendibili71 . È probabile attingesse a una tradizione
vicina o identica a quella "accademica" (le sue citazioni presentano
coincidenze con varianti trasmesse da Proclo), prima, tuttavia, delle
alterazioni intervenute nella successiva tradizione neoplatonica. La redazione
plutarchea di B1.29, infatti, coincide con quella di Sesto Empirico e Diogene
Laerzio, ed è alternativa a quelle di Proclo e Simplicio72. Indicativo della
validità della fonte plutarchea è soprattutto il caso di B13 (trasmesso anche
da Platone, Aristotele, Sesto Empirico, Simplicio, Stobeo): Plutarco è l'unico
testimone in grado di menzionare chiaramente soggetto e contesto del frammento,
con l'indicazione della sezione cui la citazione apparteneva (un unicum nelle
fonti)73 . Dimestichezza con il Poema, secondo Coxon74, mostrerebbe nel
complesso Clemente Alessandrino (per noi fonte più antica di quasi tutto ciò
che cita75: B1.29 s., B3, B4, B8.3 s., B10), ma il fatto che di B8.4 egli sia
l'unico a riportare la variante ἀγένητον (nella dossografia impiegata per
sottolineare l'accordo di Parmenide con Senofane) - dove Simplicio presenta ἀτέλεστον
- fa suppore, nella ricezione del testo, un condizionamento da parte di in
parte conservata) di Stobeo (V secolo), Eclogae physicae, e la Graecarun
affectionum curatio di Teodoreto (V secolo). A Teofrasto sarebbero in ultimo da
ricondurre anche la Refutatio omnium haeresium di Ippolito (III secolo), gli
Stromateis di altro pseudo-Plutarco (conservato da Eusebio), i capitoli
dedicati ai primi filosofi greci nelle Vitae philosophorum di Diogene Laerzio
(III secolo). Su questo Mansfeld, op. cit., pp. 23-24. 71 Passa, op. cit., p.
27. 72 Ivi, pp. 27-28. 73 Ivi, p. 28. 74 Coxon, op. cit., p. 5. 75 Ivi, p. 3.
59 versioni dossografiche. Più recisa la valutazione di Passa76, secondo cui
gli atticismi delle citazioni rivelerebbero come Clemente lavorasse su un testo
fortemenete modificato, di fonti atticizzate. Il livello di corruttela farebbe
escludere (contro l'ipotesi di Coxon) la disponibilità di copia integrale del
Poema. La ricerca di Passa ha evidenziato la peculiarità del contributo di
Sesto Empirico nella storia del testo del Poema: egli sarebbe, in effetti, il
solo a conservare nelle proprie citazioni tracce di una tradizione testuale
alternativa a quella attica77 . In particolare è Sesto - cui dobbiamo anche la
citazione di B7.2-7 e B8.1-2) – l'unica fonte del Proemio (B1.1-30) e una sua
interpretazione allegorica: in genere si afferma che esse dipendano da fonte
intermedia, probabilmente di ambiente vicino a Posidonio, ma lo studioso
italiano ha avanzato l'ipotesi che Sesto abbia utilizzato fonti diverse per il
testo del proemio e per la sua parafrasi78. Questa dipenderebbe effettivamente
da commento stoico; nel caso del testo del Proemio, tuttavia, Sesto è l'unico a
conservare traccia dell'antica redazione psilotica del poema: probabile,
dunque, che egli disponesse di una buona copia del Proemio, verosimilmente da
esemplare di tutto il poema79. Che Sesto (ovvero la sua fonte) possa aver
attinto a una terza tradizione testuale, è ipotesi che anche Cordero80 avanza,
sebbene la citazione di B1.29-30 in tre lezioni differenti non ne possa
costituire prova conclusiva. A tradizione testuale molto vicina a quella
sestana (quindi non attica), potrebbe aver attinto anche Diogene Laerzio, che
fornisce identica redazione di B1.29 e, con Sesto, una buona porzione di B7
(vv. 3-5)81 . Fonti neoplatoniche La prima fonte neoplatonica – ovviamente dopo
lo stesso Plotino (III secolo d.C.), che cita solo di passaggio frammenti
isolati: 76 Passa, op. cit., p. 32. 77 Passa, op. cit., p. 29. 78 Ivi, p. 31.
79 Ibidem. 80 Cordero, op. cit., p. 5. 81 Coxon (op. cit., pp. 2-3) presume
invece, nel caso di Sesto e di Diogene, fonti peripatetiche e stoiche. 60 B3,
B8.5, B8.25, B8.43 - è costituita da Proclo, che fu scolarca dell'Accademia
fino alla morte (fine V secolo). A lui dobbiamo un consistente numero di
citazioni: gli attuali B1.29-30, B2, B3, B4.1, B5, B8.4, B8.5, B8.25, B8.26,
B8.29-32, B8.35-36, B8.43- 45, che rivelano la sua familiarità con l’opera
parmenidea82, ciò suggerendo la possibilità che avesse accesso a testo
completo. Oggi si concorda83 sostanzialmente sulla notevole approssimazione dei
suoi riferimenti, probabilmente risultato di citazioni a memoria, eppure si
conviene che, in considerazione delle coincidenze non casuali con la versione
di Plutarco, il testo di Proclo dovesse essere antico almeno quanto quello di
Plutarco, e derivare dalla medesima tradizione testuale accademica84, sebbene
ormai modificata dall'interpretazione neoplatonica di Parmenide. Nella propria
edizione del Poema (1897)85 Hermann Diels attribuì a Simplicio - come fonte per
la ricostruzione dell'opera di Parmenide - enorme valore. A conclusione della
propria introduzione, il filologo tedesco da un lato assumeva che l'esemplare
di Simplicio dovesse essere di qualità eccellente (im Ganzen vortrefflich),
forse (vermutlich) risalente alla stessa biblioteca della scuola di Platone86,
di cui egli fu uno degli ultimi esponenti prima della chiusura a opera di
Giustiniano (529 d.C.); dall'altro, però, riconosceva anche come Simplicio e
Proclo non potessero aver ricavato dalla stessa copia le rispettive citazioni.
Così, nonostante risultassero legati alla stessa istituzione, secondo Diels i
due commentatori neoplatonici avrebbero utilizzato codici diversi87 , esemplari
di versioni testuali alternative all'interno della stessa tradizione
accademica. L'impostazione dielsiana nello specifico è stata di recente
discussa con acribia da Passa88, secondo il quale è difficile credere 82 Coxon,
op. cit., pp. 2-3. 83 Coxon, op. cit., pp. 5-6; Passa, op. cit., pp. 38-39. 84
Passa, op. cit., p. 39. 85 H. Diels, Parmenides Lehrgedicht, Academia Verlag,
Sankt Augustin 20012 , pp. 25-26. 86 Ivi, p. 26. 87 Ibidem. 88 Op. cit., pp. 35
ss. 61 che Simplicio potesse derivare la propria copia dalla biblioteca
dell'Accademia, dal momento che: (i) dopo la chiusura decretata nel 529
dall'editto di Giustiniano, i filosofi neoplatonici (il diadoco Damascio e
l'allievo Simplicio) prima si recarono in esilio presso il re persiano Cosroe
(531), per ritirarsi poi (532) entro i confini dell'impero bizantino, a Harran
(Mesopotamia) o in Siria; (ii) tutti i trattati simpliciani furono stesi dopo
il ritorno dalla Persia, secondo questo ordine: (i) de caelo, (ii) in physicam,
(iii) in categorias, (iv) de anima89 . Simplicio – cui dobbiamo citazioni degli
attuali B1.28-32, B2.3-8, B6, B7.1-2, B8, B10, B11, B12, B13, B20 - è stato, in
effetti, generalmente considerato fonte attendibile anche dagli editori
successivi: ancora Coxon90 giudicava l'esemplare a disposizione di Simplicio «a
rare and excellent copy». Nonostante si possa registrare come un certo numero
di sue citazioni sia ricavato da testi platonici, e plausibilmente sospettare
che sia ricorso a ὑπομνήματα e/o compilazioni antologiche (conosce infatti due
redazioni di B8.4, di cui una molto vicina all'esemplare di Plutarco e
Proclo)91 , a favore dell'affidabilità dell'attestazione di Simplicio depongono
l'esplicito impegno a trasmettere documenti del pensiero antico ritenuti
fondamentali e il fatto che egli mostri di padroneggiare la struttura del Poema
sin dal primo commento aristotelico (de caelo) 92. Soprattutto hanno pesato,
nella valutazione del suo contributo, i suoi espliciti rilievi, in precedenza
citati: «vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide
sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità
dello scritto parmenideo» (DK 28 A21). Passa93 ha tuttavia messo in dubbio
l'attendibilità della redazione simpliciana, facendo leva in particolare su un
indizio: citando i vv. B8.53-59, Simplicio (in physicam 31, 3) segnala: 89 Ivi,
p. 36. 90 Coxon, op. cit., p. 6. 91 Passa, op. cit. p. 40. 92 Ibidem. 93 Ivi,
pp. 41-43. 62 καὶ δὴ καὶ καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί τι ῥησείδιον ὡς
αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως· ἐ π ὶ τ ῶ ι δ έ ἐ σ τ ι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ
τ ὸ φ ά ο ς καὶ τὸ μ α λ θ α κ ὸ ν καὶ τὸ κοῦφον, ἐ π ὶ δ ὲ τ ῶ ι π υ κ ν ῶ ι ὠ
ν ό μ α σ τ α ι τὸ ψυχρὸν καὶ τ ὸ ζ ό φ ο ς καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ· ταῦτα γὰρ ἀπεκρίθη
ἑκατέρως ἑκάτερα tra i versi si riferisce un passo in prosa come dello stesso
Parmenide, che dice così: per questo ciò che è raro è anche caldo, e luce e
morbidezza e leggerezza; per la densità invece il freddo è indicato come
oscurità, durezza e pesantezza. Dopo B8.57, evidentemente, nella copia
utilizzata da Simplicio, uno scolio era stato incorporato (da un copista che
non si era reso conto trattarsi di καταλογάδην τι ῥησείδιον, di «un passo in
prosa») all'interno del testo del Poema. Il commentatore, tuttavia, nel citare
il passaggio, non sembra preoccuparsene, riferendolo sostanzialmente allo
stesso Parmenide (ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου)! Whittaker94 ne ha inferito che: (i)
l'esemplare simpliciano del Poema doveva presentarsi come «the product of
unintelligent transcription from an annotated source»; (ii) la competenza del
commentatore (che non si avvede dell'inquinamento del testo) in relazione al
testo parmenideo doveva essere discutibile. Una valutazione che dovrebbe far
riflettere sulla problematica situazione testuale del Poema, soprattutto
accreditando l'ipotesi di Deichgräber95 che tutta la copia di Simplicio fosse
corredata di scolii. Passa ha proposto un'interessante spiegazione
dell'atteggiamento del commentatore neoplatonico: il mancato allarme di fronte
all'inserto in prosa nel corpo esametrico del Poema deriverebbe dalla piena
assimilazione del quadro proposto nel Sofista platonico (237a): 94 J.
Whittaker, God, Time, Being. Two Studies in the Transcendental Tradition in
Greek Philosophy, Osloae 1971, p. 21. Citato da Passa, op. cit., pp. 41-2. 95
K. Deichgräber, "Xenophanes' περὶ φύσεως", «Rheinisches Museum» 87,
1938, p. 3. 63 Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ
ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός
τε καὶ διὰ τέλους τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ
μέτρων - Οὐ γὰρ μή ποτε τοῦτο δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ
διζήμενος εἶργε νόημα [B7.1-2] Questo discorso ha osato ammettere che il non
essere sia: il falso, in effetti, non potrebbe darsi diversamente. Il grande
Parmenide, invece, caro figliolo, a noi che eravamo ragazzi testimoniava contro
ciò dall'inizio alla fine, ribadendo ogni volta, nelle sue parole e nei suoi
versi, che: «Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma
tu da questa via di ricerca allontana il pensiero». Platone documentava una
pratica di insegnamento in cui si intrecciavano la memorizzazione dei contenuti
fondamentali del Poema, l'esposizione dettagliata del maestro,
l'approfondimento e il chiarimento di temi attraverso la comunicazione di
informazioni supplementari96: è possibile che in tal modo egli recuperasse un
modello effettivamente operante in ambito eleatico97. Non va inoltre
dimenticato che, proprio a partire da questa "testimonianza"
platonica, nella tradizione tarda (come attesta Suda, X secolo) si diffuse la
convinzione che Parmenide avesse composto, oltre al Poema, anche opere in
prosa: Παρμενίδης Πύρητος Ἐλεάτης φιλόσοφος, μαθητὴς γεγονὼς Ξενοφάνους τοῦ
Κολοφωνίου, ὡς δὲ Θεόφραστος Ἀναξιμάνδρου τοῦ Μιλησίου. [...] ἔγραψε δὲ
φυσιολογίαν δι’ ἐπῶν καὶ ἄλλα τινὰ καταλογάδην, ὧν μέμνηται Πλάτων 96 Passa,
op. cit., p. 25. 97 Ne sono sostanzialmente convinti sia Cerri sia Passa, che
richiamano questo punto. 64 Parmenide, figlio di Pireto, filosofo eleate, fu
discepolo di Senofane di Colofone; secondo Teofrasto, al contrario, di Anassimandro
di Mileto. [...] Scrisse di scienza della natura in versi e di altri argomenti
in prosa, come ricorda Platone (DK 28 A2). Non sorprenderà, quindi, che
Simplicio, poco avveduto sul piano filologico, potesse frettolosamente
ricondurre l'inserto in prosa a commento dello stesso autore. Queste
considerazioni contribuiscono a ridimensionare la fiducia nell'attendibilità
dell'attestazione simpliciana, che Passa98 giudica fondamentale ma
sopravvalutata: [Simplicio] mancava infatti sia della capacità di inquadrare
correttamente Parmenide nel suo vero contesto storico-culturale, sia di
strumenti critici in grado di smascherare i vizi dell'esemplare in suo
possesso. Quel che però risulta più preoccupante per l'editore del Poema
parmenideo è la prospettiva che nelle citazioni simpliciane si riflettano
interventi diretti sul testo, operati all'interno della scuola platonica,
perché rispondesse alle sue aspettative teoriche: proprio il caso di Simplicio
potrebbe essere esemplare, se accettiamo la ricostruzione di Passa99 .
Nell'ambiente siriaco in cui Simplicio avrebbe sviluppato tutta la sua opera di
commento, si era radicata, a partire dal II secolo, una tradizione che, da
Numenio a Giamblico (III secolo), aveva puntato a una rilettura della storia
della filosofia (Φιλόσοφος ἱστορία era il titolo della grandiosa ricostruzione
del maestro di Giamblico, il neoplatonico Porfirio, allievo diretto di Plotino)
imperniata sulla rivelazione della Verità: la filosofia vi era infatti
interpretata come recupero, con gradi variabili di approssimazione, di una
verità eterna, di cui Pitagora (erede delle antiche dottrine di Zarathustra,
Anassimandro, Egizi, Fenici, Caldei ed Ebrei) prima, 98 Passa, op. cit., p.
145. 99 Ivi, pp. 35 ss.. 65 e poi soprattutto Platone sarebbero stati i più
lucidi testimoni100 . Caratteristica dell'interpretazione siriaca di Giamblico
(cui si deve un importante "canone" di lettura tematico-gerarchica
dell'opera platonica101) rispetto all'interpretazione porfiriana102 era la
valorizzazione dell'essenza "pitagorica" del pensiero di Platone (e
Aristotele), che finiva per coinvolgere, in prospettiva, anche i pensatori
presocratici: così, per esempio, Parmenide figurava nel catalogo dei
pitagorici103 . È in tale ambiente che Simplicio avrebbe recuperato in genere
gli strumenti necessari al ripensamento di Platone e Parmenide (visto come
anello di congiunzione104) e il materiale per le proprie citazioni. Le
citazioni di Simplicio rimangono comunque fondamentali (in particolare per la
possibilità del commentatore di ricorrere direttamente a esemplare del Poema,
che consente di conservare caratteristiche formali autentiche, perdute in altri
settori della tradizione105), ma non senza riconoscimento e consapevolezza
della presenza - all'interno delle citazioni stesse - di (i) un evidente
processo di adattamento linguistico (contrazioni, crasi) al modello attico;
(ii) un possibile intervento sul lessico per impreziosire il testo106; (iii)
una probabile "normalizzazione"107 del testo sul piano dei contenuti,
alla luce della chiave di lettura neoplatonizzante e pitagorizzante. 100 Molto
utili per la ricostruzione di questo quadro il saggio introduttivo di G.
Girgenti, Interpetazione filosofica della Vita di Pitagora, in Porfirio, Vita
di Pitagora, a cura di A.R. Sodano e G. Girgenti, Rusconi, Milano 1998, e
l'introduzione dello stesso Sodano alla sua edizione di Porfirio, Storia della
filosofia, Rusconi, Milano 1997. 101 (i) Platone-etico: Alcibiade Primo, Gorgia
e Fedone; (ii) Platone-logico: Cratilo, Teeteto; (iii) Platone-fisico: Sofista
e Politico; (iv) Platone-teologo: Fedro, Simposio, Filebo (per il sommo bene).
Il tutto era poi ricomposto nella lettura di Timeo e Parmenide, che
riassumevano tutto l'insegnamento platonico sulla natura e la teologia. 102
Girgenti, op. cit., p. 11. 103 Passa, op. cit., p. 37. 104 Ivi, p. 145. 105
Ivi, p. 42. 106 Operazione caratteristica del Neopitagorismo secondo Passa,
ibidem. 107 Ibidem. 66 BIBLIOGRAFIA Edizioni del testo consultate Per il testo
greco e la traduzione ho tenuto conto delle seguenti edizioni contemporanee: H.
Diels – W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Band I, Weidmannsche
Verlagsbuchhandlung, Berlin 19526 [indicheremo l'edizione come Diels-Kranz
ovvero DK. Per la traduzione italiana, quando non abbiamo personalmente
tradotto, abbiamo utilizzato quella, a cura di G. Reale: I presocratici,
Bompiani, Milano 2006] P. Albertelli, Gli Eleati. Testimonianze e frammenti,
Laterza, Bari 1939 (ristampa Arno Press, New York 1976) [indicheremo l'edizione
come Albertelli] I presocratici. Frammenti e testimonianze. I. La filosofia
ionica. Pitagora e l’antico pitagorismo. Senofane. Eraclito. La filosofia
elatica, introduzione, traduzione e note a cura di A. Pasquinelli, Einaudi,
Torino 1958 [indicheremo l'edizione come Pasquinelli] Parmenide, Testimonianze
e frammenti, Introduzione, traduzione e commento a cura di M. Untersteiner, La
Nuova Italia, Firenze 1958 [indicheremo l'edizione come Untersteiner] G.S.
Kirk, J.E. Raven, The Presocratic Philosophers. A Critical History with a
Selection of Texts, C.U.P., Cambridge 1963 [indicheremo l'edizione come
Kirk-Raven] Parmenides. A Text with Translation, Commentary and Critical
Essays, by L. Tarán, Princeton University Press, Princeton 1965 [rimane, per i
problemi testuali e la loro discussione, una edizione di riferimento. La
indicheremo com Tarán] Parmenides, Über das Sein, übersetzt von J. Mansfeld,
herausgegeben von H. von Steuben, Reclam, Stuttgart 1981 Les deux chemins de
Parménide, édition critique, traduction, études et bibliographie par N.-L.
Cordero, Vrin, Paris 1984 [da 67 integrare con l’opera interpretativa
aggiornata - dello stesso autore – By Being, It Is, Parmenides Publisher, Las
Vegas 2004: complessivamente offrono un grande contributo testuale, grazie alla
discussione delle difficoltà e al confronto costante con la tradizione dei
manoscritti. Indicheremo lo studio del 2004 come Cordero] Parménide, Le poème,
présenté par J. Beaufret, PUF, Paris 19863 (edizione originale 1955) A.H.
Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986
[fondamentale, anche per i riferimenti alla tradizione testuale e ai
manoscritti, nonostante le riserve di O’Brien. La indicheremo come Coxon]
Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. I, Le Poème de
Parménide, texte, traduction, essai critique par D. O’Brien, Vrin, Paris 1987
[strumento molto utile per la discussione delle difficoltà testuali, ma anche
per la doppia traduzione, francese e inglese, con le scelte conseguenti. Lo
indicheremo come O'Brien] Parmenides of Elea, Fragments. A Text and Translation
with an Introduction by D. Gallop, University of Toronto Press, Toronto 1987
[indicheremo l'edizione come Gallop] Parmenide, Poema sulla Natura. I frammenti
e le testimonianze indirette, presentazione, traduzione e note a cura di G.
Reale, saggio introduttivo e commentario filosofico a cura di L. Ruggiu,
Rusconi, Milano 1991 [non si distingue tanto come strumento filologico, quanto
per l’ampio commentario filosofico di corredo. Indicheremo la traduzione come Reale
e il commento come Ruggiu] Parmenides, Die Fragmente, herausgegeben von E.
Heitsch, Artemis & Winkler, Zürich 1995 [indicheremo l'edizione come
Heitsch] Parménide, Sur la nature ou sur l’étant. La langue de l’être?,
présenté, traduit et commenté par B. Cassin, Éditions du Seuil, Paris 1998
[indicheremo l'edizione come Cassin] Parménide, Le Poéme: Fragments, texte
grec, traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1999
(edizione originale 1996) [indicheremo l'edizione come Conche] 68 Parmenide di
Elea, Poema sulla Natura, introduzione, testo, traduzione e note di commento di
G. Cerri, BUR, Milano 1999 [strumento essenziale – pur trattandosi di edizione
tascabile - per la discussione dei principali problemi testuali, e la
chiarificazione dei nessi con la letteratura greca arcaica. Lo indicheremo come
Cerri] H. Diels, Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen
und Schlösser, mit einem neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidierten
Bibliographie von D. De Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin 20032 (edizione
originale 1897) [rimane opera fondamentale, soprattutto per la comprensione
dell’ambiente culturale e i motivi del poema. La indicheremo come Diels]
Parmenide, Poema sulla natura, a cura di V. Guarracino, Edizioni Medusa, Milano
2006 Parmenide, Sull’Ordinamento della Natura. Per un’ascesi filosofica, a cura
di Raphael, Edizioni Asram Vidya, Roma 2007 Die Vorsokratiker, Band II
(Parmenide, Zenon, Empedokles), Auswahl der Fragmente und Zeugnisse,
Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis &
Winkler Verlag, Düsseldorf 2009 [indicheremo l'edizione come Gemelli Marciano]
Le parole dei Sapienti. Senofane, Parmenide, Zenone, Melisso, traduzione e cura
di A. Tonelli, Feltrinelli, Milano 2010 [indicheremo l'edizione come Tonelli]
The Texts of Early Greek Philosophy. The Complete Fragments and Selected
Testimonies of the Major Presocratics, translated and edited by D.W. Graham,
Part I, C.U.P., Cambridge 2010 [indicheremo l'edizione come Graham] Per specifici
problemi testuali risulta ancora illuminante A.P.D. Mourelatos, The Route of
Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale
University Press, New Haven – London 1970 (ora in edizione aggiornata presso
Parmenides Publisher, Las Vegas 2008) [indicheremo l'opera genericamente come
Mourelatos]. 69 Molto utili per la discussione di singoli problemi
interpretativi J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche
Welt, Van Gorchum, Assen 1964 [indicheremo l'opera genericamente come Mansfeld]
e W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della
filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994 [indicheremo
l'opera genericamente come Leszl]. In generale, per lo status interpretativo fino
alla seconda metà degli anni Sessanta, è strumento di inquadramento
l’aggiornamento, a cura di G. Reale, di E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia
dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III: Eleati, La Nuova
Italia, Firenze 1967 (ora ristampato come E. Zeller, R. Mondolfo, G. Reale, Gli
Eleati, Bompiani, Milano 2011, con aggiornamento bibliografico a cura di G.
Girgenti). Per una dettagliata analisi del frammento B8 e delle sue premesse è
davvero illuminante la lettura di R. McKirahan, “Signs and Arguments in
Parmenides B8”, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P.
Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008, pp. 189-229. Per la storia e lo stato
del testo di rilievo, insieme al fondamentale Les deux chemins de Parménide cit.,
il recente lavoro di E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di
lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009 [che indicheremo come Passa]. Letteratura
critica consultata J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics. An account of the
interaction between the two schools during the fifth and early fourth centuries
B.C., Cambridge University Press, Cambridge 1948 J. Zafiropulo, L’Ecole Eléate,
Les Belles Lettres, Paris 1950 J.H.M.M. Loenen, Parmenides Melissus, Gorgias. A
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originale 1953) 70 W.J. Verdenius, Parmenides. Some Comments on His Poem,
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Casertano, Parmenide: il metodo, la scienza, l’esperienza, Guida Editori,
Napoli 1978 E. Heitsch, Parmenides und die Anfänge der Erkenntniskritik und
Logik, Auer, Donauwörth 1979 M. Heidegger, Gesamtausgabe, II Abteilung:
Vorlesungen 1923-1944. Band 54. Parmenides, Vittorio Klostermann, Frankfurt
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Parmenides’ Weg. Vom Wahr-Scheinenden zum Wahr-Seienden. Mit einer Untersuchung
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H.G. Liddell, R. Scott, GreekEnglish Lexicon, revised and augmented throghout
by H.S. Jones, Clarendon Press, Oxford 1996 PARMENIDE SULLA NATURA Frammenti
testo greco e traduzione italiana1 1 Le note al testo greco si riferiscono a
problemi di determinazione del testo originale; quelle alla traduzione, invece,
a problemi di resa del testo greco e di interpretazione. 76 DK B1 ἵπποι ταί με
φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι, πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι
δαίμονος1 , ἣ κατὰ † ... †2 φέρει εἰδότα φῶτα· τῇ φερόμην· τῇ γάρ με
πολύφραστοι φέρον ἵπποι [5] ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον. ἄξων
δ΄ ἐν χνοίῃσιν ἵ < ει >3 σύριγγος ἀυτήν αἰθόμενος - δοιοῖς γὰρ ἐπείγετο
δινωτοῖσιν κύκλοις ἀμφοτέρωθεν -, ὅτε σπερχοίατο πέμπειν Ἡλιάδες κοῦραι,
προλιποῦσαι δώματα Nυκτός4 [10] εἰς φάος, ὠσάμεναι κράτων5 ἄπο χερσὶ καλύπτρας.
ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι κελεύθων, καί σφας6 ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει
καὶ λάινος οὐδός· αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται μεγάλοισι θυρέτροις· τῶν δὲ Δίκη7
πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς. [15] τὴν δὴ παρφάμεναι κοῦραι μαλακοῖσι
λόγοισιν 1 Diels-Kranz (ma non Diels nella sua originaria edizione del poema
parmenideo, 1897) accolgono la correzione (Stein, 1867) del genitivo δαίμονος
nel nominativo δαίμονες, di cui oggi si riconosce l'arbitrarietà. 2 Non si
tratta di lacuna testuale, ma di testo presumibilmente corrotto: KATAPANTATH,
trasmesso nei codici come κατὰ πάντ’ ἄτη (N), κατὰ πάντἀτη (L), κατὰ πάντα τη
(E), κατὰ πάντα τῆ (codices deteriores). Diels legge: κατὰ πάντ’ ἄ < σ >
τη (partendo dall'errore di decodifica del codice N da parte di Mutschmann).
Per il resto gli editori hanno fatto ricorso a congetture plausibili nel
contesto: Cerri: κατὰ πάντ’ ἃ τ’ ἔῃ; Cordero: κατὰ πάν ταύτῃ; Coxon suggerisce
κατὰ πάντ’ ἄ < ν > τη < ν >. Per la traduzione si veda nota
relativa. 3 χνοίῃσιν ἵ < ει > è correzione di Diels (1897) a χνοῖησινι
del codice N, χνοιῆσιν (codici EL). 4 Scegliamo, seguendo Diels, di considerare
Νύξ nome proprio della divinità, così come nel caso del successivo Ἦμαρ. 5 Il
genitivo κρατερῶν dei codici è stato emendato in κρατῶν da Karsten e il κράτων
da Diels. 6 La forma pronominale greca σφας è evoluzione dell'accusativo
plurale di terza persona in uso nell'epica arcaica (σφε) all'interno della
aedica ionica: la presenza della forma in Parmenide è considerata notevole da
Passa (pp. 99-100). 7 La forma Δίκη è degli editori moderni: nei codici δίκην.
77 πεῖσαν ἐπιφράδέως, ὥς σφιν βαλανωτὸν ὀχῆα ἀπτερέως ὤσειε πυλέων8 ἄπο· ταὶ δὲ
θυρέτρων χάσμ΄ ἀχανὲς ποίησαν ἀναπτάμεναι πολυχάλκους ἄξονας ἐν σύριγξιν ἀμοιϐαδὸν
εἰλίξασαι [20] γόμφοις καὶ περόνῃσιν ἀρηρότε9 · τῇ ῥα δι΄ αὐτέων10 ἰθὺς ἔχον κοῦραι
κατ΄ ἀμαξιτὸν 11 ἅρμα καὶ ἵππους. καί με θεὰ πρόφρων ὑπεδέξατο, χεῖρα δὲ χειρί
δεξιτερὴν ἕλεν, ὧδε δ΄ ἔπος φάτο καί με προσηύδα ὦ κοῦρ΄ ἀθανάτοισι συνάορος12 ἡνιόχοισιν,
[25] ἵπποις θ’ αἵ 13 σε φέρουσιν ἱκάνων ἡμέτερον δῶ, 8 La forma del genitivo
πυλέων trasmessa dai codici potrebbe rivelare (Passa, p. 84) la familiarità di
Parmenide con la dizione epica, manifestando in particolare la vicinanza a
Esiodo. Si tratta comunque di un caso dubbio di metatesi quantitativa. Diels,
nell'edizione del poema (1897), si interrogava (pp. 26-27) sull'opportunità di
conservare πυλέων in vece di πυλῶν. 9 La forma duale ἀρηρότε è stata restaurata
da Bergk e generalmente accolta dagli editori. Si distingue Cordero, che
conserva la forma del participio plurale ἀρηρότα dei codici NE e deteriores. 10
Il genitivo in αὐτέων, accolto per lo più dagli editori, è conservato dal solo
codice N; gli altri (LE e deteriores) riportano αὐτῶν. Sarebbe esemplare dello
stile solenne (di ascendenza epica ionica) adottato da Parmenide. Diels, in
verità, nell'edizione del poema (1897), optava per αὐτῶν, come oggi fa Cordero.
Effettivamente si possono trovare precedenti omerici (Iliade XII, 424) e
esiodei (Scutum 237) nella formula ὑπὲρ αὐτέων: rimane comunque il sospetto
(Passa, p. 85) che la lezione apparentemente superiore del codice N, copia di
uno scriba doctus, rifletta un tentativo di "omerizzazione" del
poema. 11 Si veda la successiva nota a θ’ αἵ del v. 20. 12 I codici di Sesto
Empirico attestano unanimemente συνάορος, il cui vocalismo - ᾱορος appare fuori
posto in un poema in esametri, composto da un autore ionico. In Omero è
attestato συνήορος, preferito da Brandis (1813) e, nel nostro secolo, da Coxon
(ἀθανάτῃσι συνήορος). Diels (1897) rifiutò la correzione, seguito dalla quasi
totalità di editori successivi. La scelta di Diels è stata di recente difesa,
su diverse basi interpretative, da Passa (pp. 132-137), che vede nel vocalismo
- ᾱορος il segno di una incidenza della lirica corale nella letteratura arcaica
e tardo-arcaica: συνάορος non è lezione dei codici attici del poema (che
dovevano riportare συνήορος), ma probabilmente è la forma voluta dallo stesso
Parmenide, che se ne appropriava appunto in quanto forma di successo nella
poesia contemporanea. 78 χαῖρ΄, ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα14 κακὴ προὔπεμπε νέεσθαι
τήνδ΄ ὁδόν - ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν -, ἀλλὰ Θέμις15 τε Δίκη16 τε.
χρεὼ 17 δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης18 εὐκυκλέος19 ἀτρεμὲς 20 ἦτορ 13 I
codici LE riportano ταί; N riproduce θ’ αἵ; i codices deteriores τε. Come
osserva J. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford
2009, p. 378): «the postpositive connective is required here». La presenza di
ταί nei codici si giustifica probabilmente per l'eco quasi letterale del v. 1,
che può aver confuso i copisti: i codici, infatti, riproducono per B1.1 la
stessa lezione data in B1.25 (Passa, p. 59). Passa fa tuttavia osservare come
il passaggio da un originale ΘΑΙ (nella scriptio continua dei codici) al ταί
della copia non sia facilmente spiegabile, mentre è più naturale ipotizzare
che, meccanicamente, ΤΑΙ sia stato reso come ταί. È probabile che il copista di
N abbia corretto (come ha fatto in altri punti) il testo che aveva di fronte
(ΤΑΙ), allineando la lezione dei versi 1 e 25, ovvero rilevando una sintassi
difettosa: introducendo l'aspirazione, l'originale ΤΑΙ sarebbe stato copiato appunto
come θ’ αἵ. Secondo Passa, è probabile invece che la tradizione di Sesto
Empirico riportasse ΤΑΙ, da rendere come τ’ ἄι, senza aspirazione: θ’ αἵ
sarebbe forma normalizzata di τ’ ἄι (congiunzione τε seguita dal pronome
relativo ἄι senza aspirazione), che conserverebbe traccia di psilosi, la
mancanza di aspirazione, comune nel dialetto ionico in cui il poema fu
originariamente composto. A conferma lo studioso italiano porta, sempre nel
proemio, il caso di κατ΄ ἀμαξιτὸν del v. 20, conservato dai migliori codici di
Sesto Empirico (NLE), in luogo della forma aspirata καθ΄ ἁμαξιτὸν, da
attendersi. È possibile, dunque, che la redazione del proemio da cui discende
la tradizione sestana fosse psilotica. 14 Scegliamo, a differenza degli altri
editori, di considerare Μοῖρα nome proprio, coerentemente con il contesto
divino. 15 La scelta della maiuscola è solo di alcuni editori. 16 Secondo M.E.
Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A new view on their cosmologies and on
Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974, p. 59, l'uso della minuscola in
questo caso sarebbe legittimo, in quanto non ci troveremmo di fronte alla
«nozione concreta» di Δίκη incontrata al v. 14. 17 Un caso di metatesi: χρεώ
forma epica da χρήω. L'epica conosce anche la forma più antica χρειώ (Passa, p.
77-9). 18 È interessante segnalare che in questo caso, nelle vecchie edizioni
(Diels 1897; Diels-Kranz), il testo greco riportava il maiuscolo Ἀληθείη,
evidentemente classificando Verità tra le rappresentazioni divine. In
considerazione della posizione - che, seguendo Passa (p. 53), si potrebbe
definire di «ipostasi divina» - riconosciutale anche in B2.4, reintroduciamo la
maiuscola iniziale. La stessa scelta è stata compiuta da Gemelli Marciano (II,
p. 12). 79 [30] ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα
μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα21 χρῆν δοκίμως22 εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα23 .
19 Degli ultimi versi del proemio abbiamo, oltre a quella (vv. 1-30) di Sesto
Empirico, diverse citazioni: Simplicio cita 28b-32 nel commentario al De Caelo
aristotelico; Diogene Laerzio cita 28b-30, mentre Plutarco, Clemente di
Alessandria, Proclo e ancora Sesto (nella discussione) citano 29-30. Il testo
di Simplicio riporta εὐκυκλέος («ben rotonda»), accolto da Diels in forza della
qualità e interezza (presunte) del manoscritto di Simplicio. Il filologo
tedesco è stato in passato seguito (tra gli altri) da Untersteiner, Guthrie,
Tarán, Hölscher, e oggi da Cordero, Reale, Cerri, Ferrari, Tonelli, Palmer. I
manoscritti ellenistici (quello di Plutarco, Sesto Empirico e Diogene Laerzio),
tuttavia riportavano εὐπειθέος (che viene tradotto come «ben convincente»), che
i più (tra gli altri Mansfeld, Mourelatos, Coxon, Conche, O'Brien, Gallop,
Curd, Gemelli Marciano, Passa) preferiscono. Solo Proclo usa εὐφεγγέος
(«risplendente»), poco attendibile. Come in altri casi, si è rivelata decisiva
la convinzione della affidabilità della redazione di Simplicio. Passa è
certamente colui che, con maggiore acribia, ha argomentato, in tempi recenti,
la propria opzione (pp. 55 ss.), tra l'altro all'interno di una ricostruzione
delle tradizioni testuali del poema che mette in discussione proprio
l'affidabilità della versione di Simplicio, che risentirebbe pesantemente di
adattamenti platonizzanti (come quella di Proclo). Di diverso avviso Cerri (p.
184), per il quale Simplicio sarebbe invece molto attento alla conservazione
del testo e del lessico parmenidei. Buone osservazioni a difesa della lezione εὐκυκλέος,
si trovano ora in Palmer (op. cit. pp. 378-80). 20 Plutarco, Diogene Laerzio e
Sesto Empirico (in math. 7.111) trasmettono ἀτρεκές («non torto»). Sulla
lezione ἀτρεκές ha pesato la liquidazione di Diels (1897, pp. 54 ss.), che vi
ha colto una trivializzazione, riconoscendo, invece, nell'alternativa ἀτρεμὲς
un «predicato caratteristico dell'Ἐόν parmenideo». A contestare la liquidazione
dielsiana, riproponendo la lezione ἀτρεκές, è stato di recente Passa (pp. 53
ss.), il quale ha dimostrato come l'aggettivo non implichi alcuna trivialità,
vantando invece precedenti illustri in Omero e Pindaro. Come tutto il verso,
anche ἀτρεκές sarebbe stato vittima di un rimaneggiamento secondario. 21 Passa
(p. 121) segnala come la forma contratta δοκοῦντα sia molto probabilmente un
atticismo nella tradizione del testo: egli esclude che δοκοῦντα (come anche
φοροῦνται in B6.6) sia lezione autentica. La lezione δοκοῦντα sarebbe stata
sostituita a δοκέοντα o δοκεῦντα. 22 Nella sua edizione del poema (1897) Diels
propose di leggere δοκίμως εἶναι come δοκιμῶσ(αι) εἶναι. Tra gli editori novecenteschi
Untersteiner è tra i pochi ad aver rilanciato tale lezione, seguito di recente
da R. Di Giuseppe, 80 [vv. 1-30 Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 111;
vv. 28b-32 Simplicio, In Aristotelis De Caelo 557-558; vv. 28b30 Diogene
Laerzio IX, 22; vv. 29-30 Plutarco, Adversus Colotem 1114 d-e; Clemente
Alessandrino, Stromata V, 9 (II, 366); Proclo, In Platonis Timaeum I, 345;
Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 114] Le Voyage de Parménide,
Orizons, Paris 2011, che documenta ampiamente, anche nella tradizione latina,
le ragioni della propria scelta. 23 La lezione dei codici DEF di Simplicio è
πάντα περ ὄντα, che accogliamo, mentre il solo codice A riporta πάντα περῶντα
(«tutte le cose pervadendo»), per lo più preferito dagli editori, sulla scorta
del precedente omerico (Iliade XXI.281 ss.). Ferrari (Il migliore dei mondi
impossibili. Parmenide e il cosmo dei presocratici, Aracne, Roma 2010, p. 43)
osserva che la forma περῶντα (da περάω) non ha riscontri nelle parti del poema
che ci sono pervenute. Passa (p. 127-8), incerto sulla lezione, ritiene che,
accettando l'opzione περ ὄντα, si debba comunque correggere la forma attica del
participio di εἰμί in quella ionica ἐόντα: in rapporto a un verbo fondamentale,
nell'uso e nella frequenza, all'interno del poema, è plausibile che Parmenide
«abbia voluto usare sempre la stessa forma, quella propria del suo dialetto».
81 Le cavalle1 che mi portano2 fin dove il [mio] desiderio3 potrebbe giungere4
, 1 Il testo greco riporta ἵπποι ταί, con il sostantivo dunque al femminile
(come in Pindaro, Bacchilide e Sofocle). Il tema del tiro di «cavalle» sarebbe
di origine omerica: secondo Tarán (p. 9) sarebbe forzato cogliervi prova di una
influenza orfica. 2 Il verbo φέρουσιν è al presente, che, come tempo verbale, si
alterna nel proemio all’imperfetto (che indica abitualmente azioni continuate)
e all’aoristo (impiegato normalmente per azioni puntuali). Secondo Coxon (p.
14) l’uso del presente sottolineerebbe come il poeta sia ancora sul carro, con
un viaggio ancora davanti a sé. È possibile, invece, che Parmenide intendesse
effettivamente marcare delle sequenze temporali, costruendo un proemio in cui
nel canto (presente) del poeta fosse rivissuta un'esperienza di rivelazione
(passato): rivelazione con cui il poeta stesso giustificherebbe la propria
attività, la scelta della via poetica (ὁδός πολύφημος, «via ricca di canti»).
G.A. Privitera ("La porta della Luce in Parmenide e il viaggio del Sole di
Mimnermo", «Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di scienza
morali, storiche e filologiche» s. 9, v. 20, 2009, pp. 447- 464) osserva come
il Proemio sia «fondato sulla memoria» e «autobiografico»: Parmenide avrebbe
«elevato alla dignità di proemio una sua lontana esperienza». A proposito
dell'uso dei tempi verbali, il presente «mi portano» indicherebbe in
particolare che sono state «le solite cavalle di adesso e di sempre ad averlo
indirizzato nel viaggio»; il successivo imperfetto πέμπον che l'azione è
avvenuta nel passato; il sostantivo κοῦρος (v. 24) segnalerebbe l'età in cui il
viaggio fu intrapreso. (p. 449). 3 Traduciamo θυμός come «desiderio», ritenendo
che il termine greco, nel contesto dinamico in cui è inserito, abbia il valore
di «slancio», ovvero – ma il significato appare più generico - di «animo». È
plausibile che θυμός si riferisca non alle cavalle (ἵπποι) ma al poeta che
parla: il termine, tuttavia, può essere simbolicamente collegato anche allo
sforzo della corsa delle cavalle (Coxon, p. 157). Secondo Chiara Robbiano
(Becoming Being. On Parmenides’ Transformative Philosophy, Academia Verlag,
Sankt Augustin 2006, p. 124), che interpreta come se i primi versi rinviassero
all'inizio del viaggio verso la rivelazione, la scelta di θυμός nell’apertura
del poema suggerirebbe come la guida possa dirigere all’obiettivo solo se si è
già motivati e disposti ad assumere un ruolo attivo nel perseguirlo. 4
L’ottativo ἱκάνοι è stato considerato (Tarán, Coxon) iterativo, indicante cioè
un’indefinita frequenza (dunque: «giunge»), ma nella poesia omerica è attestato
un uso potenziale (senza ricorso alla particella ἄν: Robbiano, op. cit., pp.
65-6, n. 189), che autorizza la traduzione che proponiamo. Anche Mourelatos
(The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments,
Yale University Press, New Haven – London 82 mi guidavano5 , dopo che,
conducendomi, mi ebbero avviato6 sulla via7 ricca di canti8 1970, p. 17, n. 21)
sottolinea – sulla scorta di precedenti omerici - che la modalità rilevante è
quella della possibilità. Cerri (p. 166) segnala come la metafora del moto del
pensiero, paragonato al moto traslatorio, sia molto radicata nell’immaginario
greco arcaico. 5 Il verbo greco è all’imperfetto (πέμπον): l'uso di imperfetto
durativo e participio presente (φερόμην v. 4, τιταίνουσαι v.5, ἡγεμόνευον v. 5)
denoterebbe che l'apertura del proemio proietta al centro dell'azione in corso;
le forme dell'aoristo (βῆσαν v. 2, προλιποῦσαι v. 9), secondo uno schema
ricorrente in Omero (O’Brien, p. 8), indicano, per contrapposizione, quanto
precede. Conche interpreta πέμπον come “imperfetto storico”, optando dunque per
una traduzione con il presente indicativo. Ferrari, nella sua analisi del
proemio (F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza
dall’Odissea alle lamine misteriche, Utet, Torino 2007, p. 104; ora anche Il
migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Aracne,
Roma 2010, p. 162), ha sottolineato come l’intreccio dei verbi al presente e
all’imperfetto sembri evidenziare la continuità tra il presente e il ritorno
dall’oltretomba. 6 Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., p. 102) coglie
in questo passaggio un’eco dell'iniziazione poetica di Esiodo: ciò che
Parmenide intenderebbe suggerire è che le cavalle (figure dello slancio
interiore del poeta) del suo θυμός lo hanno avviato sulla via poetica
(connotata come ὁδός πολύφημος, «via ricca di canti»), che gli permetterebbe di
comunicare la rivelazione ricevuta nell’Ade. Parmenide porrebbe in primo piano
il risultato dell’incontro con la divinità iniziatrice. 7 La ὁδὸς πολύφημος
δαίμονος, ἣ κατὰ † ... † φέρει εἰδότα φῶτα è contrapposta – secondo Cerri (p.
170) – alla strada pubblica, frequentata da tutti (secondo precedente omerico).
Possiamo individuare nel rilievo la possibile eco di un precetto pitagorico
riferito da Porfirio: τὰς λεωφόρους μὴ βαδίζειν («non percorrere le strade
popolari»). Maria Michela Sassi ("Parmenide al bivio", in «La Parola
del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 383- 396) – accostando sistematicamente il
Proemio ai frammenti di letteratura orfica, alle laminette e ai miti
escatologici platonici – interpreta l'espressione come indicante la via che
precede la porta dell'oltretomba, oltre la quale Parmenide troverà la dea (p.
387): simbolicamente vi si potrebbe cogliere il riferimento al processo di
iniziazione (donde poi il coinvolgimento di termini "tecnici" come εἰδώς
φώς o κοῦρε. Questo potrebbe spiegare anche la presenza di guide divine: come
rivelano i miti platonici (Fedone 107 ss.), le anime devono percorrere un certo
cammino per giungere propriamente nell'Ade; cammino non agevole, per il quale è
richiedo l'intervento di δαίμονες come ἡγεμόνες. 83 della divinità9 che10 porta
† ... †11 l’uomo sapiente12 . Ma l'espressione potrebbe più semplicemente
riferirsi all'attività poetica intrapresa (con eco esiodea), proposta in un
contesto pubblico (come suggerirebbe l'eco omerica di πολύφημος). O ancora,
come sostiene con buoni argomenti Palmer (J. Palmer, Parmenides &
Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford 2010, p. 56) in relazione al contesto,
essa potrebbe designare il percorso che il carro del Sole deve tracciare ogni
giorno. 8 Il termine πολύφημος è qui reso in senso attivo, a indicare
l’abbondanza di canti, leggende, ma anche voci, suoni e informazioni: si tratta
del valore più antico, omerico, riferito per esempio a una piazza (che risuona
di voci e rumori), come di recente ribadito da Ferrari (La fonte del cipresso
bianco, cit., p. 102). Diels e altri decidono invece di tradurre,
sottolineandone il valore passivo, come «molto celebrata». 9 Il termine δαίμων
(maschile o femminile, secondo i contesti) potrebbe riferirsi al successivo (v.
22) θεά: alla Dea interlocutrice del poeta. Di diverso avviso Ferrari (La fonte
del cipresso bianco, cit., pp. 106-7): riferendo il successivo pronome ἣ alla
divinità (e non alla via), egli osserva che «il ritmo stesso del verso»
suggerisce di considerare la relativa come «una perifasi che sollecita
l’identificazione della daimôn». In tal senso, essa non coinciderebbe né con la
divinità in genere (come crede invece Cerri, il quale traduce ὁδὸν δαίμονος
come «strada divina»), né con Dike, né con la θεά del v. 22: i paralleli
omerici ed esiodei inducono a credere che questa divinità femminile, che guida
su un carro condotto dalle figlie del Sole «l’uomo sapiente», sia da
identificare con Ἡμέρη, la figlia di Notte, ovvero Ἠώς, Aurora. In Odissea
XXIII.241-246 troviamo Aurora condotta attraverso l’Etere dai cavalli «che
portano luce ai mortali», un possibile modello per Parmenide. Il genitivo è da
considerare possessivo. Un’alternativa suggestiva – richiamata dal successivo
coinvolgimento delle figure mitiche delle Eliadi (vedi v. 9) - è quella secondo
cui l’allusione sarebbe al Sole, sul cui carro il poeta starebbe viaggiando
(Leszl, p. 147). 10 Mantengo l’ambiguità di riferimento del relativo ἣ: alla
Dea o alla via (ὁδός): l’analisi convincente di Ferrari spinge nella prima
direzione, ma la nostra soluzione lascia aperta la possibilità che il relativo
possa riferirsi a un tempo alla divinità – Helios, il Sole – e al tracciato
celeste che essa percorre quotidianamente. 11 Abbiamo già segnalato in nota al
testo greco il problema della corruzione del passo. Le principali proposte
degli editori: κατὰ πάντ’ ἄ < σ > τη (Diels, seguito da molti), «per
tutti i luoghi» ovvero, letteralmente, «per tutte le città»; κατὰ πάν ταύτῃ
(Cordero), «là riguardo a tutto»; Conche, che accoglie la proposta di Cordero,
interpreta tuttavia ταύτῃ non come forma avverbiale, bensì come dativo del
dimostrativo femminile, riferito a ὁδός; κατὰ πάντ’ ἄ < ν > τη < ν
> (Coxon), «through every stage straight onwards»; 84 Su questa via13 ero
portato14, su questa via mi portavano15 molto avvedute16 cavalle, κατὰ πάντ’ ἃ
τ’ ἔῃ (Cerri), «per tutte le cose che siano». Ferrari (op. cit., nota p. 114)
ha sostenuto a più riprese l’opportunità di recuperare la lettura κατὰ πάντ’ ἄ
< σ > τη, «come emendamento anche se non più come lezione tramandata». In
questo caso sarebbe tuttavia necessario tenere ben distinta la ὁδός πολύφημος
δαίμονος dell'apertura del proemio da quella di cui proprio la Dea sottolinea
il fatto che è ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου («lontana dalla pista degli uomini»).
12 L’espressione greca εἰδὼς φώς si riferisce, per alcuni (Bowra, Untersteiner,
Burkert), alla figura dell’«iniziato», secondo la terminologia propria della
tradizione misterica: «espressione quasi tecnica in tal senso», come nota la
Sassi (op. cit., p. 387), attestata nei frammenti orfici (fr. 233 Kern). Per
altri (Fränkel, Tarán), invece, all’uomo che già conosce la via per averla
percorsa; Coxon e Cerri insistono sul riferimento alle competenze e conoscenze
preventivamente richieste per la piena conquista della verità. Di diverso
avviso Mansfeld (J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die
menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964, pp. 226-7), il quale, partendo da
Senofane B34, sottolinea come εἰδώς abbia un valore legato all’esperienza
visiva, che si conserverebbe in Parmenide: la conoscenza che il poeta rivendica
è dunque legata a un esperire, vedere, diretto. Il termine εἰδώς dovrebbe
rendersi allora come «[l’uomo] che ha visto» ovvero «che ha conoscenza». Nella
stessa direzione si è mosso Ferrari (op. cit., pp. 102 ss.), il quale
sottolinea come la qualifica di sapiente, che indirettamente viene attribuita
al poeta narrante, presupponga che l'incontro con la Dea e la rivelazione siano
già avvenuti. La qualifica di εἰδώς indica, infatti, ancora in Aristofane e
Euripide, la condizione del «miste», di colui che ha ormai superato la prova
dell’iniziazione. L’immagine del sapiente che per il mondo diffonde con la
paola poetica la verità conquistata, suggerirebbe dunque di riferire la
situazione (e la condizione del poeta) a un tempo successivo all’incontro con
la θεά. 13 Intendo la forma avverbiale τῇ (ταύτῃ), ribadita nello stesso verso,
come se si riferisse non a un luogo determinato ma alla via lungo la quale il
poeta è condotto: «lungo questa via», dunque, o al limite «qui». Scegliendo di
tradurre in questo modo e non come per lo più si fa («là»), intendo marcare
questa sequenza – concentrata sul viaggio-missione del poeta - dalla
successiva, che si apre (v. 11) con un altro locativo (ἔνθα) e che propriamente
introduce alla rivelazione. La traduzione in questo caso ha un peso: dal
momento che τῇ può rendersi tanto con «qui» che con «là», le indicazioni di
luogo, analogamente ai tempi verbali, possono avere un'incidenza
nell’interpretazione complessiva. Abbiamo scelto una perifrasi, cercando di
conservare, anche in questa occasione, l'ambiguità: «questa via» 85 [5]
trainando il carro17: fanciulle18 mostravano la via. Nei mozzi emetteva un
sibilo acuto19 l’asse, può riferirsi alla via su cui al momento si muove il
poeta nella sua missione pubblica, ovvero la via al centro del successivo
racconto. 14 Le due forme verbali del verso – φερόμην e φέρον – sono imperfetti
in diatesi passiva e attiva: sottolineano l'azione di trasporto (delle cavalle)
e il privilegio di essere trasportato (del poeta). 15 Si tratta dell’ennesima
ripetizione di una forma del verbo φέρω nei versi iniziali. Tale ripetizione,
sottolineata dagli interpreti, è intesa da alcuni (Mourelatos, p. 35) come un
difetto, un limite della poesia di Parmenide, da altri (P. Kingsley, In the
Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999, p. 135), invece, come mezzo per
incidere sull’audience: la ripetizione sarebbe «una tecnica per creare un
effetto incantatorio». Secondo Chiara Robbiano (op. cit., p. 124), essa avrebbe
essenzialmente una funzione retorica: preparerebbe l’audience al concetto di
guida, centrale nel «second journey», cioè nel viaggio intrapreso, appunto
sotto la direzione della Dea, verso la verità. 16 L’aggettivo πολύφραστοι,
riferito alle cavalle, significa letteralmente «che hanno molto da dire»:
supponendo che πολύ comporti intensità, si può rendere con «molto avvedute»,
«molto sagge». Parmenide vuole forse sottolineare le affinità tra le cavalle e
le guide cui si allude ai vv. 5 e 9. 17 Cerri (pp. 96-7) ricorda come il carro
trainato da cavalle o cavalli sia chiara metafora della poesia, impiegata
spesso nella lirica corale: il poeta sul carro guidato dalle Muse è avviato
all’itinerario espressivo più adeguato all’occasione. D’altra parte anche lo
sciamano mediatore tra uomini e dei, come sottolinea Mourelatos (pp. 42-3), ha
la capacità di lasciare in trance il proprio corpo e viaggiare in cielo o
nell’oltretomba, per accompagnare altre anime o ricevere istruzioni mediche o
cultuali da una divinità. Il suo viaggio, pericoloso, avviene talvolta su un
carro volante: frequentemente accostata a certi animali, come i cavalli, la
figura dello sciamano - spesso poeta o cantore - narra in prima persona le sue
esperienze celesti. L’associazione con le Ἡλιάδες κοῦραι (v. 9) e i riferimenti
(v. 9) alla «dimora della Notte» (δώματα Νυκτός) e (v. 11) alla «porta dei
sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων) suggeriscono
un nesso tra il carro (ἅρμα) di cui si parla e il carro del Sole. La possibile
contestualizzazione oltremondana del viaggio fa pensare, d'altra parte, al
carro di Hades. 18 Si tratta, come risulta dal v. 9, delle Eliadi. 19 Così
traduciamo σύριγγος ἀυτήν, letteralmente «lamento di siringa [organetto a
canne]». Ferrari rende con «sibilo di zufolo». Si tratta del sibilo prodotto
dall’asse nella sua rotazione all’interno delle sedi (χνοῖαι) che lo fissano al
carro. Kingsley (op. cit., pp. 89 ss.) ha rilevato che le fonti antiche
(Ippolito, Plutarco, Giamblico) collegano l’esperienza del suono della σῦριγξ a
86 incandescente20 (poiché era mosso da due rotanti cerchi da ambo i lati),
mentre si affrettavano21 a scortar[mi]22 le fanciulle Eliadi 23, avendo
abbandonato24 la dimora25 della Notte resoconti di incubation, cioè a
esperienze di trance: uno dei segni che accompagnano il passaggio a un diverso
stadio di consapevolezza (tra sonno e veglia) sarebbe appunto il fischio della
σῦριγξ. 20 L’aggettivo αἰθόμενος letteralmente «infiammato», ma anche
«surriscaldato». 21 L’ottativo σπερχοίατο avrebbe, secondo Coxon (p. 161) e
altri, valore iterativo (come ἱκάνοι, v. 1). O’Brien (p. 10), invece, ne rileva
– sulla scorta di analoghe espressioni omeriche – l’uso per designare semplice
concomitanza di azioni. 22 Il testo greco non riporta alcun complemento
pronominale, ma è ovviamente da sottintendere, come nel precedente v. 4, che
πέμπειν si riferisca al poeta. Coxon (p. 161) fa osservare come il soggetto di
πέμπειν - e quindi anche della conduzione del carro del poeta - a questo punto
non siano più le cavalle ma le Eliadi. 23 L'espressione greca Ἡλιάδες κοῦραι
determina il precedente (v. 5) uso indefinito di κοῦραι: si tratta delle
Eliadi, le figlie del Sole. In Omero (Odissea XII.127-36) esse attendono
all'immortale bestiame del genitore, ma nel mito, cantato in un frammento
esiodeo (fr. 311 Merkelbach-West) e ripreso in un'opera perduta (Ἡλιάδες, appunto)
di Eschilo (alla cui rappresentazione in Siracusa Parmenide potrebbe aver
presenziato, secondo quanto ipotizza A. Capizzi, "Quattro ipotesi
eleatiche", «La Parola del Passato», XLIII, 1988, pp. 42-60; il
riferimento a p. 52), sono direttamente coinvolte nella drammatica vicenda del
fratello Fetonte, al quale consegnano il carro del Sole, all'insaputa del
padre. In questo modo esse sono corresponsabili della sua impresa punita
dall'intervento di Zeus con la morte di Fetonte. Per punizione Zeus le mutò in
pioppi: le loro lacrime si trasformarono in ambra. Nel contesto è significativo
ricordare che la prole del Sole è connotata nell’universo mitico in termini
sapienziali (Cerri, p. 173), e, d'altra parte, appariva funzionale all'economia
del racconto, del viaggio e della rivelazione. 24 Il participio aoristo προλιποῦσαι
– secondo il precedente omerico - indica il punto di partenza dell'azione
corrente (la conduzione del poeta da parte delle Eliadi). La «dimora della
Notte» - luogo di soggiorno alternato di Notte e Giorno – è, dunque, naturale
luogo di destinazione delle Eliadi che accompagnano il poeta. 25 Il termine
δώματα è al plurale («case»), probabilmente per accentuare le dimensioni della
casa della Notte. L’espressione δώματα Nυκτός richiama l’analoga Nυκτός οἰκία
esiodea (Teogonia, 744) e fa pensare, dunque, a una collocazione nell’abisso
del mondo infero (che in Esiodo domina sulla 87 [10] verso la luce26, rimossi
con le mani i veli dal capo27 . prigione dei Titani): la casa della Notte - in
cui alternativamente soggiornano Notte e Giorno – è probabilmente situata,
oltre la porta presso cui essi si danno il cambio, nel χάσμα sottostante. In
questo senso potrebbe leggersi l'indicazione del v. 11 a «i battenti dei
sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων). Mantenendo
il riferimento esiodeo, sembrerebbe quindi che Parmenide alluda in questi
passaggi non a una locazione genericamente ai limiti occidentali della Terra,
ma a una direzione sotterranea, verso le regioni del Tartaro e dell’Ade (Cerri,
p. 173). Nella letteratura orfica (fr. 105 Kern) abbiamo attestata
l'espressione ἐν τοῖς προθύροις τοῦ ἄντρου τῆς Νυκτὸς («sulla porta dell'antro
della Notte»). Da notare che, in questo caso, l'«antro» è sorvegliato da Dike,
Adrasteia e Nomos. D’altra parte, le porte di Notte e Giorno potrebbero
intendersi come le omeriche porte del cielo (Iliade V.754 ss.), sorvegliate
dalle Ore: Dike - in Esiodo - è proprio una di loro (Mourelatos, p. 15). È
possibile, tuttavia, che sia Esiodo sia Parmenide in realtà si appoggino a una
tradizione mesopotamica: W. Heimpel ("The Sun at Night and the Doors of
Heaven in Babylonian Texts", Journal of Cuneiform Studies, 38, 127-51) ha
mostrato come i testi sumerici e accadici presentassero esattamente lo stesso immaginario
celeste e infero, con analogo ruolo dei cancelli del cielo rispetto al
passaggio del Sole, analoga descrizione dei loro meccanismi di apertura,
analogo soggiorno notturno presso un dimora locata tra mondo celeste e mondo
infero (il Sole in effetti avrebbe svolto anche funzioni di giudice
oltremondano). Su questo Palmer, op. cit., pp. 55-6. 26 L’espressione εἰς φάος
può essere riferita a πέμπειν (v. 8), nel senso di «scortare verso la luce»,
ovvero, come è più naturale, a προλιποῦσαι (v. 9), scelta preferibile, anche
per la prossimità del collegamento. Quindi: «[le fanciulle Eliadi] abbandonata
la dimora della notte [muovendo] verso la luce». In ogni caso la costruzione
appare intenzionalmente ambigua e l'interpretazione è stata spesso condizionata
dalla punteggiatura: DielsKranz, per esempio, inserivano la virgola prima di εἰς
φάος, forzando il suo riferimento a πέμπειν. L’espressione è ricca di implicite
possibilità simboliche: un viaggio verso il regno della luce è metafora
appropriata per una esperienza di illuminazione (Mourelatos, p. 15) ovvero di
rivelazione; ma potrebbe richiamare il fatto che il poeta accede all’αἰθήρ,
alla estrema regione di fuoco dell’universo fisico, di cui la dea innominata
successivamente (v. 22) citata sarebbe personificazione (Coxon, p. 163). Ma la
luce potrebbe anche rappresentare il nostro mondo, se interpretiamo il racconto
come resoconto di un νόστος, di un periglioso viaggio di ritorno dal mondo
dell’Ade, dove il poeta ha ricevuto la rivelazione (così Ruggiu, pp. 162-3).
Cerri (p. 173) segnala come l’espressione ricorra in altri testi arcaici, per
indicare l’«azione portentosa del riemergere dall’Ade». Ferrari (op. cit., pp.
101-2) con buoni argomenti sostiene questo tipo di lettura: nel 88 Là28 sono i
battenti29 dei sentieri30 di Notte e Giorno: proemio il tempo del racconto
scorrerebbe a ritroso: il ritorno finale alla luce precederebbe il racconto
della catabasi nel regno della Notte. Secondo Privitera (op. cit., p. 460),
invece, proprio l'indicazione προλιποῦσαι δώματα Nυκτός εἰς φάος
rappresenterebbe «precisazione inequivocabile e scoglio funesto, contro cui è
destinata a naufragare ogni interpretazione catabatica del viaggio di
Parmenide». 27 Esiodo descrive la dimora della Notte avvolta nelle tenebre: καὶ
Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι E di Notte
oscura la casa terribile s’innalza di nuvole livide avvolta (Teogonia 744-745).
Nella stessa opera, le Muse sono introdotte come figure notturne: ἔνθεν ἀπορνύμεναι
κεκαλυμμέναι ἠέρι πολλῷ ἐννύχιαι στεῖχον Di là levatesi, nascoste da molta
nebbia, notturne andavano (Teogonia 9-10). I due passi, che non sono sfuggiti a
Cerri (p. 174), potrebbero concorrere a illustrare il moto e i gesti delle
Eliadi nel dettaglio fornito da Parmenide. Anche Palmer (op. cit., p. 57)
suggerisce l'accostamento. 28 Cerri (p. 174) segnala come l’avverbio locativo ἔνθα
ricorra nella tradizione epico-teogonica in relazione all’Ade come connotazione
aggiuntiva. Nella lettura di Ferrari, a questo punto comincia «il resoconto
dell’esperienza oltremondana» (p. 103). 29 Il testo greco presenta il plurale
πύλαι, letteralmente «piloni» ovvero i pilastri che sorreggono un grande
portale a due battenti (su questo punto si leggano le osservazioni di O’Brien,
p. 11, e Conche, p. 49). Altri (Cordero 1984, p. 180, Coxon, pp. 161-2)
riferiscono il plurale a due porte distinte, una in faccia all’altra: Coxon,
per esempio, seguendo le letture neoplatoniche di Simplicio e Numenio, crede
che le «porte» si riferiscano a quelle celesti, per le quali le anime sono
condotte, rispettivamente, a discendere εἰς γένεσιν («alla generazione,
incarnazione») e ad ascendere εἰς θεούς (verso le divinità), in altre parole a
viaggi di genere opposto. Il verso successivo sembra tuttavia smentire tale lettura.
In Omero è attestata l'espressione πύλαι Ἀΐδαο (Iliade V, 646; IX, 312; Odissea
XIV, 156) per indicare i cancelli che immettono al mondo infero; uso analogo (Ἄιδου
πύλαι) nella tragedia eschilea. Secondo Privitera (op. cit., p. 453), che
ricostruisce l'immagine del mondo nel mito arcaico attraverso i versi di Omero,
Esiodo, Mimnermo e Stesicoro, Parmenide avrebbe rinnovato il quadro che 89
architrave e soglia31 di pietra li incornicia32; emergeva dalla tradizione
unificando quelle che erano in precedenza due porte distinte: la Porta dell'Ade
(attraverso cui si davano il cambio Notte e Giorno) e la Porta del Sole
(attraversando la quale, a occidente, l'astro trascorreva, sul bordo
dell'Oceano, verso una porta orientale, per tornare a risplendere all'alba).
Secondo lo studioso italiano, Parmenide avrebbe trasferito la Porta della Notte
e del Giorno sulla Terra e l'avrebbe unificata con la Porta del Sole
(sdoppiandola dunque in una porta occidentale e in una orientale): la Porta
varcata dalle Eliadi riassumerebbe allora la doppia funzione nella tradizione
distribuita tra Porta del Giorno e della Notte e Porta del Sole. 30 Già negli
usi omerici e nella tragedia eschilea, il termine κέλευθος può indicare,
secondo il contesto, «via», «sentiero», «strada», ma anche ciò che viene
effettuato lungo quella via, cioè «viaggio» ovvero «spedizione». Il plurale
κέλευθα potrebbe rendersi in questo caso, mediando tra i due significati
segnalati, come «percorsi», come suggerisce anche Ferrari (op. cit., p. 109):
si tratta in effetti degli itinerari compiuti da Giorno (Ἡμήρη) e Notte (Νύξ).
La Sassi (op. cit., p. 388) fa notare come la porta, presso cui si incontrano e
attraverso cui accedono alternativamente al cosmo Giorno e Notte, dia accesso a
un «luogo mitico, analogo al Tartaro», dove, come in Esiodo (Teogonia 736 ss.)
è situata la «dimora della Notte». 31 L’Olimpica VI di Pindaro si apre con un
analogo riferimento alla soglia (οὐδός), a indicare l’esordio del canto. In
relazione alla espressione πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων è probabile che
οὐδός sia da intendere come entrata del mondo infero, accettando il
suggerimento di Cerri (p. 175) di accostare il passo parmenideo ai versi
esiodei di Teogonia 748-751: […] ὅθι Νύξ τε καὶ Ἡμέρη ἆσσονἰοῦσαι ἀλλήλας
προσέειπον ἀμειβόμεναι μέγαν οὐδὸν χάλκεον· ἡ μὲν ἔσω καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε ἔρχεται,
οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας δόμος ἐντὸς ἐέργει, ἀλλ’ αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα
γαῖαν ἐπιστρέφεται, ἡ δ’ αὖ δόμου ἐντὸς ἐοῦσα μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν
ἵκηται […] là dove Notte e Giorno incontrandosi si salutano, al momento di
varcare la grande soglia di bronzo, l’uno per scendere dentro, l’altra per la
porta se ne va, né mai entrambi a un tempo la casa trattiene dentro di sé, ma
sempre l’uno, fuori della casa, la terra percorre, l’altra, dentro casa,
attende la propria ora di viaggio, finché non giunga. 90 essi, alti
nell’aria33, sono agganciati34 a grande telaio35 . Nel poema di Parmenide
troviamo λάινος οὐδός invece di χάλχεος οὐδός, come appunto in Esiodo e Omero
(Iliade VIII, 15). Secondo Cerri (p. 176) la correzione nell’uso dell’aggettivo
potrebbe essere dettata dalla finalità del poema fisico dell’Eleate: la
collocazione nelle viscere della terra avrebbe consigliato «pietrigna»
piuttosto che «bronzea». 32 Rendiamo ἀμφὶς ἔχειν come «incorniciare»: il poeta
intende segnalare i limiti verticali (la soglia e l'architrave appunto) della
struttura, che, così descritta non può essere propriamente un cancello ma un
vero e proprio portale. Sembra da escludere anche la possibilità delle due
porte. 33 L’aggettivo αἰθέριαι si riferirebbe, secondo una certa tradizione
interpretativa (Deichgräber, Coxon), alla collocazione della porta nella
regione estrema del cielo; per altri, più semplicemente, il poeta
sottolineerebbe la dimensione in altezza del portale (Cerri: «battenti che
toccano il cielo»; Ferrari: «alta fino al cielo»). Alcune traduzioni (Tarán,
O’Brien) privilegiano il valore materiale dell’aggettivo, dunque la natura
eterea della porta: è vero però che Parmenide marca che essa è di pietra.
Proprio con l’incrocio lessicale di pietra ed etere egli potrebbe allora
suggerire che la porta è punto di incontro di terra e cielo (Leszl, p. 151). La
scelta dell'aggettivo sarebbe significativa, secondo Privitera (op. cit., p.
453), perché rivelerebbe come la porta che le Eliadi stanno per varcare non è
quella dell'Ade, la cui volta è descritta da Esiodo come sottostante il
soffitto del Tartaro. Al contrario, la PellikaanEngel (op. cit., p. 57) ritiene
che l'espressione αἰθέριαι πύλαι potrebbe essere ripresa sintetica del verso
esiodeo: τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο πάις ἔχει οὐρανὸν εὐρὺν Di fronte a essa il figlio
di Iapeto tiene il cielo ampio (Teogonia 746). Il riferimento ad Atlante, che
con i piedi piantati per terra solleva il cielo con testa e braccia, potrebbe
(come vuole Burkert) essere avvalorato proprio dall'uso di λάινος οὐδός
(«soglia di pietra») in relazione a αἰθέριαι πύλαι, quasi a indicare gli
estremi (terra e cielo) dello sforzo del titano. Parmenide potrebbe dunque aver
avuto Esiodo come modello per la sua porta dei «sentieri di Notte e Giorno»,
replicando l'analogo portale di Atlante (Pellikaan-Engel, op. cit., pp. 57-8).
34 La «strana» (Passa, op. cit., p. 100) forma verbale πλῆνται ha ingannato gli
editori: normalmente la si riferisce a πίμπλημι («riempire»), ma, come ha con
acribia dimostrato Passa (pp. 100-4), va ricondotta a πίλναμαι («avvicinarsi»),
di cui rappresenterebbe forma "corta" del perfetto medio (πέπλημαι).
Rendiamo, come suggerito dallo stesso Passa per il nostro contesto. 91 Dike36,
che molto castiga37, ne38 detiene le chiavi dall’uso alterno39 . [15]
Placandola40, le fanciulle, con parole compiacenti, 35 Anche in questo caso
molti editori sono stati imprecisi, lasciandosi sfuggire il significato tecnico
del termine θύρετρα, che è plurale tantum usato anche come variante di θύρα
(«porta»), ma il cui valore primario è «telaio [della porta]», come
correttamente inteso da Coxon e recentemente ribadito da Passa. 36 Nella
tradizione omerica ed esiodea, Dike era, con Eunomia e Irene, una delle Ore,
sorelle delle Moire, figlie di Zeus e Temi: compito delle Ore (Iliade V, 749;
VIII, 393) era quello di sorvegliare le porte del Cielo. È significativo che
anche Eraclito (DK B94) alluda a Dike e alle coadiutrici Erinni come garanti
del corretto percorso del Sole. Secondo Robbiano (p. 155), la figura di Dike è
tradizionalmente introdotta in relazione al rispetto dei confini: non a caso la
ritroviamo a sorvegliare il cancello che discrimina i percorsi di Giorno e
Notte. Essa sarebbe responsabile delle divisioni e distinzioni all’interno di
natura e società (dei confini tra parti e gruppi): in questo senso sarebbe
garante di equilibrio (p. 157). Tuttavia, come la studiosa correttamente
segnala (p. 158), l’ordine cui sovrintende la Dike parmenidea, rivelato nei
versi successivi, non è quello tradizionalmente inteso. 37 L’espressione Díkh
πολύποινος è attestata nella letteratura orfica (fr. 158 Kern), ma la datazione
è incerta (Coxon, p. 163). D'altra parte, come abbiamo già avuto modo di
segnalare, Dike compare nella stessa tradizione (fr. 105 Kern) come
sorvegliante (con Adrasteia e Nomos) dell'«antro della Notte». Molto critico su
questa prospettiva orfica Cerri (p. 104). Certamente, come osserva Mourelatos
(p. 15), la figura di Δίκη πολύποινος, che tiene le chiavi (delle
retribuzioni?), ricorda quella di una divinità infernale. Ferrari nella stessa
direzione traduce come «Dike sanzionatrice». Nell'economia del racconto
proemiale, accettando l'ipotesi di una katabasis, la funzione di Dike sarebbe
quella di permettere al poeta di accedere, vivo, alla realtà oltremondana
(Sassi, op. cit., p. 389). 38 L'interpunzione dell'edizione Diels-Kranz
autorizza a intendere il genitivo pronominale iniziale τῶν riferito (come il
pronome αὐταί, nella stessa posizione del verso precedente) a πύλαι. 39
L’aggettivo ἀμοιϐός – raro – sembrerebbe indicare successione: potrebbe
riferirsi al fatto che le chiavi consentono l’apertura alternata della porta
(Coxon, p. 164) ovvero al loro uso complementare (O’Brien, p. 11). Nel contesto
è probabile che il riferimento sia all’alternanza di Notte e Giorno: Dike
regolerebbe con la propria sorveglianza il passaggio del Sole. Questo potrebbe
spiegare la situazione drammatica di seguito descritta: non era in effetti
plausibile che Dike potesse lasciar passare il mortale viaggiatore. 40 Il verbo
πάρφημι (παράφημι) ha un valore simile al successivo πείθω, ed è spesso
associato all'inganno (come segnalato da LSJ). In questo senso forse 92 [la]
persuasero41 sapientemente affinché per loro la barra del chiavistello
togliesse rapidamente dai battenti42. E questi43 nel telaio vuoto enorme44
produssero aprendosi, i bronzei cardini nelle cavità in senso inverso facendo
ruotare, [20] applicati per mezzo di ferri e chiodi45. Per di là46 , anche la
scelta del complemento μαλακοῖσι λόγοισιν, per sottolineare la gentilezza
dell'espressione. 41 Il racconto della (possibile) catabasi, introdotto con la
descrizione del portale al v. 11, ha qui il suo effettivo inizio, segnalato
dall’uso del primo aoristo (βῆσαν al v. 2 era stato utilizzato all’interno di
una subordinata), cui seguono quelli ai vv. 18, 22, 23. Il racconto, secondo
Ferrari cui si devono queste osservazioni (op. cit., p. 105), è prospettato
come premessa e ragione del “ritorno”, cui sono stati dedicati i versi iniziali
del proemio. 42 Un analogo repertorio di immagini, movimenti, meccanismi di
chiusura e apertura di portali, così come analogo superamento divino dello
stesso portale che discrimina mondo celeste e mondo infero a opera del Sole è
documentato negli antichi testi sumerici (per i quali si rinvia ancora a
Heimpel e Palmer, op. cit., pp. 55-6). 43 Anche in questo caso, come nei
precedenti ai vv. 13-14, il pronome ταί si riferisce a πύλαι. 44 L’espressione
χάσμ΄ ἀχανὲς sembra evocare il χάσμα μέγα esiodeo (in entrambi i casi χάσμα è
in relazione con il genitivo πυλέων), il baratrochaos che Esiodo nella Teogonia
(740) pone al di là della soglia della porta di Giorno e Notte: si tratta della
voragine al fondo della quale è collocata la prigione in cui, al termine della
titanomachia, furono rinchiusi i titani sconfitti. Leszl fa notare (p. 151),
comunque, come non si abbia l’impressione che la porta di cui parla Parmenide
sia la porta di accesso alla casa della Notte. La Robbiano (p. 150), invece,
rileva la funzione drammatica dell’immagine, che si frappone, con la soglia
petrigna, tra la quotidiana esperienza mortale del viaggiatore e l’incontro con
la divinità. A rendere estremamente probabile la diretta evocazione di Esiodo
da parte di Parmenide contribuisce un dato significativo: il termine χάσμα non
ricorre in letteratura almeno fino alla metà del V secolo a.C. (M.E.
Pellikaan-Engel, op. cit., p. 53). 45 A struttura e dinamica della “porta”
dedicano spazio i commenti di Diels e Conche, che si servono anche di opportune
illustrazioni a sostegno della spiegazione. 46 Seguiamo Ferrari nel rendere in
italiano la formula greca τῇ ῥα δι΄ αὐτέων, costruita con la particella
avverbiale locativa e il complemento di (moto attraverso) luogo. Letteralmente
si dovrebbe tradurre: «Là, attraverso quella [porta]». 93 dritto condussero le
fanciulle lungo la via maestra47 carro e cavalli. E la Dea48 benevola mi
accolse: con la mano [destra] la [mia] mano 47 L'aggettivo (qui in forma sostantivata)
ἀμαξιτός, comunemente associato a ὁδός, indica la strada attrezzata per il
passaggio dei carri, quindi, derivatamente, una strada principale. Secondo la
Pellikaan-Engel (op. cit., p. 54), la scelta del termine segnalerebbe che dalla
porta al luogo dell'incontro con la Dea il percorso non è breve. In questo
senso potrebbe dunque approfondirsi la dimensione sotterranea del viaggio. 48
Traduco θεά con «la Dea» per accentuarne il valore religioso: mi pare
plausibile alla luce del suo ruolo personale di interlocutrice privilegiata,
che guida, sollecita, espone, proibisce ecc.. Per l'identificazione
dell’anonima divinità, tra le proposte degli ultimi decenni è interessante
l’indicazione di Cerri (pp. 180-1): nelle città della Magna Grecia (Locri,
Posidonia e varie altre) erano diffuse iscrizioni alla «dea infera», «ninfa
infera» o semplicemente «alla dea», in cui il riferimento era chiaramente a
Persefone. A conclusioni analoghe è giunto, indipendentemente, Kingsley (op.
cit., pp. 93 ss.). Anche Passa ( p. 53) ha di recente riconosciuto in Persefone
la dea rivelatrice del poema. Secondo West (M.L. West, La filosofia greca
arcaica e l'Oriente, Il Mulino, Bologna 1993, p. 289 n. 57), la θεά alluderebbe
a Θεία (Tia), in Esiodo (Teogonia 135) una delle Titanidi (come Temi), figlie
di Urano e Gea, e madre di Sole, Luna e Aurora (371-4). Anche in Pindaro
(Istmiche V.1) Θεία è invocata come «Madre del Sole». Pugliese Carratelli (“La
Θεά di Parmenide”, «La Parola del Passato» XLIII, 1988, pp. 337-346) ha
proposto – sulla scorta di una laminetta orfica dedicata a Μνημοσύνη, ritrovata
nel 1974 a Ipponio – l'identificazione della dea appunto con Mnemosyne (a sua
volta una Titanide). La stessa ipotesi è avanzata su basi analoghe da Sassi
(op. cit., p. 393). Ferrari (op. cit., pp. 107-8), sulla scia di J.S. Morrison
("Parmenides and Er", «Journal of Hellenic Studies», 75, 1955, pp.
59-68) e W. Burkert ("Das Proömium des Parmenides und die Katabasis des
Pythagoras", «Phronesis», 14, 1969, pp. 1-30), ha di recente concluso che
la non meglio definita divinità del v. 22 altri non sarebbe che Νύξ (Notte),
variamente attestata nella tradizione oracolare e orfica. In particolare egli
ha osservato come, nella tradizione epica, l’uso di θεά senza ulteriori
determinazioni sia anaforico: nel contesto, a parte Dike guardiana del portale,
l’unica divinità nominata è appunto Νύξ. Anche Palmer (op. cit., pp. 58-61),
seguendo Morrison e Mansfeld (pp. 244-7), è tornato a insistere su Νύξ,
giustificando la propria opzione non solo nel contesto del proemio, ma
rinviando anche all'ambiente culturale orfico, in particolare al poema oggetto
di commento nel Papiro di Derveni, e alle funzioni oracolari associate alla
figura di Notte nel mondo greco. A suo tempo la Pellikaan- 94 destra prese49, e
così parlava e si rivolgeva50 a me: O giovane51, che, compagno52 a immortali
guide53 Engel (op. cit., pp. 61-2) aveva opposto a questa proposta di
identificazione l'osservazione sensata che la compresenza di Eliadi e Notte era
quanto mai improbabile, proprio alla luce del precedente esiodeo. In
alternativa, quindi, aveva suggerito l'esiodea Ἡμέρη (il Giorno), da Parmenide
evocata come Ἤμαρ. A Πειθώ, invece, ha pensato Mourelatos (op. cit., p. 161).
Di recente, riprendendo il suggerimento di Hermann Fränkel, Privitera (op.
cit., pp. 461-2) ha proposto la Musa, portando sostanzialmente tre argomenti:
(i) la ricorrenza del termine θεά all'interno del proemio di un poema epico;
(ii) l'analogia con Iliade, nel cui primo verso la Musa è allusa appunto come
θεά; (iii) il costume che prevedeva una invocazione alla Musa per poema
"epico" di argomento sapienziale. In ogni caso, è significativo che
questa δαίμων subito interpelli il poeta: ciò ha riscontro nell'immaginario
viaggio oltremondano tratteggiato nelle laminette orfiche conservate, dove
l'iniziato è interrogato da «custodi» (φύλακες) presso la palude di Mnemosine
(Sassi, op. cit, p. 390). 49 Kingsley (op. cit., pp. 93 ss.) rinvia a
testimonianze vascolari che ritraggono Persefone nell'atto di accogliere
nell'Ade Eracle e Orfeo, offrendo loro appunto la mano destra. 50 Il verbo
greco προσηύδα è all’imperfetto, come il successivo προὔπεμπε (v. 26:
«spingeva»): i verbi che esprimono l’idea di un ordine o di una missione sono
impiegati all’imperfetto perché implicano uno sforzo e indicano il punto di
partenza di uno sviluppo. Così per i verbi che significano «dire» (O’Brien, p.
8): la forma epica φάτο, in effetti, può essere anche imperfetto. 51 Il termine
vocativo κοῦρε non si riferisce necessariamente alla giovinezza del poeta,
potrebbe piuttosto marcare lo scarto tra la natura divina e quella umana degli
interlocutori. Il termine κοῦρος (forma epica e ionica di κόρος), relativamente
raro nei testi arcaici, indica sia il giovane contrapposto all’anziano, sia il
figlio, sia il ragazzo contrapposto alla ragazza. Esso può implicare anche un
legame particolare con la divinità, dal momento che κοῦρoι erano chiamati i
giovani addetti ai sacrifici, ma anche i figli degli dei (negli inni omerici a
Hermes e Pan, e in Pindaro Olimpiche VI): in ogni caso, il termine sarebbe
titolo di onore (Coxon e Kingsley). Conche (p. 59) fa notare come l’appellativo
sia coerente con il contesto educativo, giustificando la disponibile e benevola
accoglienza della dea. La Sassi (op. cit., p. 387) associa l'appellativo κοῦρε
a εἰδὼς φώς, come espressione legata a una prospettiva iniziatica. 52 Il
termine συνάορος non significa semplicemente «accompagnato da», ma «associato
a», «collegato a»: la traduzione «compagno» è sufficientemente ambigua da accoglierne
le sfumature. Etimologicamente è connesso a συναείρω («aggiogare»), con il
significato immediato di «aggiogato insieme»: anche in questo caso, dunque, è
evidente il debito del proemio 95 [25] e cavalle che ti conducono, giungi alla
nostra casa54 , rallegrati, poiché non Moira55 infausta ti spingeva a
percorrere questa via56 (la quale è in effetti lontana dalla pista degli
uomini57), ma Temi58 e Dike 59 . Ora60 è necessario61 che tutto62 tu63
apprenda64: parmenideo all'immaginario dell'ippica (Passa, p. 137). Da
sottolineare il fatto che la formula utilizzata dalla Dea fa del κοῦρος in
questo modo un «compagno» delle Eliadi, a loro volta presentate (v. 5) come κοῦραι.
Secondo Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia, Bruxelles
1986, p. 93), il rilievo della Dea si riferirebbe alla comune giovinezza delle
Eliadi – κοῦραι - e del poeta - κοῦρος. 53 Il sostantivo maschile ἡνίοχος
designa chi guida un carro, l'«auriga»; derivatamente è utilizzato anche per
indicare chi governa e indirizza una nave, e, in senso lato chi guida e
governa. Nel contesto il termine si riferisce alle Eliadi. 54 Secondo Ferrari
(op. cit., p. 107), l'espressione ἡμέτερον δῶ («la nostra casa») richiamerebbe
δώματα Nυκτός («la dimora della Notte») del v. 9, spingendo alla conclusione
che la Dea sia da identificare appunto con Νύξ. 55 In Esiodo abbiamo tre Moire,
figlie di Zeus e Temi. L’espressione μοῖρα κακή ricorre in Iliade XIII, 602 per
indicare la morte: nel contesto, dunque, essa potrebbe alludere a un luogo preciso
dell’incontro con la divinità: l’oltretomba. In questo senso Cerri e Ferrari
traducono come «sorte maligna»: i traduttori, in effetti, per lo più
preferiscono associare al termine, nel nostro contesto, il valore di «fato» o
«destino». Così intende anche la Sassi (op. cit., p. 389). 56 L'espressione
τήνδ΄ ὁδόν sottolinea, con il dimostrativo, il privilegio del κοῦρος: a partire
dalla prima evocazione (vv. 2-3) della ὁδός πολύφημος δαίμονος, il tema della
strada/via è rimasto dominante sullo sfondo del racconto, che si è sviluppato
lungo l'itinerario del poeta. 57 Conche (p. 60) osserva che il riferimento
coinvolge costumi, abitudini, modi di pensare diffusi tra gli uomini. È
probabile ritrovare in questo passaggio un’eco del precetto pitagorico conservato
da Porfirio (e sopra citato proprio in relazione alla ὁδός πολύφημος δαίμονος
dei vv. 2-3): τὰς λεωφόρους μὴ βαδίζειν («non percorrere le strade popolari»).
58 In alternativa: «norma divina», ovvero «legge» (θέμις). Temi era una delle
Titanidi, figlie di Urano e Gea, madre delle Moire e delle Ore, nonché una
delle spose di Zeus. 59 Complessivamente il coinvolgimento di Temi e Dike
sembrerebbe essere proposto a garanzia della eccezionalità dell’evento
rivelativo. Il riferimento a Temi potrebbe giustificare l’intervento delle
Eliadi presso Dike per persuaderla ad aprire una porta che avrebbe altrimenti
dovuto rimanere 96 sia di Verità65 ben rotonda66 il cuore67 fermo68 , serrata
per un mortale (in vita), e il rilievo della associazione delle due dee nelle parole
della divinità innominata. Tenendo conto della associazione delle due dee con
la norma e la giustizia divine, il loro coinvolgimento proietta e impone sulla
successiva “rivelazione” una forte impronta d’ordine e di necessità (cosmici).
In questo senso Tonelli, nella sua edizione dei frammenti (p. 116), rileva come
Moira, Temi e Dike, unitamente ad Ananke (Necessità), rappresenterebbero «la
divinità femminile nella sua dimensione di norma cosmica». 60 Pochi traduttori
traducono la particella δέ. Ferrari le riconosce valore avversativo («Ma»),
altri continuativo: Diels («so»), Gemelli Marciano («also»), Tonelli («e»).
L'introduzione della particella non è legata forse solo a ragioni di equilibrio
metrico, ma anche al senso della rassicurazione iniziale della Dea: ella
dapprima tranquillizza il poeta circa il suo destino, quindi sottolinea il
compito che lo aspetta. 61 Il termine χρεώ è associato nell'epica a χρειώ, che
nelle fasi antiche dell'epica era utilizzato come vero e proprio nome
femminile: nel corso del tempo esso fu trattato come un neutro. Analogamente
χρεώ, che, preso il posto di χρειώ, finì per diventare un sinonimo di χρή
(Passa, p. 77-8). La formula (con copula sottintesa) χρεώ rende una necessità
soggettiva, dunque opportunità, convenienza, piuttosto che una costrizione
oggettiva: si potrebbe rendere anche con «è giusto», «è opportuno». In ogni
modo, l’uso di tale formula implica che quanto la Dea sta per esprimere è parte
del compito, del dovere che il viaggiatore deve assumere (Robbiano, op. cit.,
p. 75). Ferrari (op. cit., p. 104) giustamente osserva come il kouros per la
dea sia in fondo solo un «apprendista» (apostrofato appunto come κοῦρε). 62 La
scelta del pronome neutro plurale πάντα («tutto», ovvero «tutte le cose») è
significativa perché garantisce al programma della comunicazione (rivelazione)
della Dea un orizzonte di verità piena, totale, giustificandone le
articolazioni annunciate negli ultimi versi. 63 L'insistenza sui pronomi
personali è confermata anche nei frammenti successivi (soprattutto la polarità
«tu» e «io», in contrapposizione ai «mortali»). 64 Il verbo πυνθάνομαι ha il
valore di «imparare per sentito dire (raccogliendo informazioni)» ovvero
«imparare per indagine». Può implicare dunque sia un atteggiamento di passiva ricezione,
sia di attiva ricerca («di tutto fare esperienza»). 65 Secondo Coxon (p. 168)
il sostantivo ἀληθείη e l’aggettivo ἀληθής non significherebbero nel contesto
del poema «verità» e «vero», ma «realtà» e «reale». Di recente Palmer (op.
cit., pp. 89-93) ha rilanciato con buoni argomenti. Anche Ferrari traduce con
«Realtà». Nel suo Parmenides und die Anfänge der Erkenntniskritik und Logik
(Auer, Donauwörth 1979, pp. 33 ss.), E. Heitsch mostra, sulla scorta della
preistoria del termine, come 97 ἀλήθεια etimologicamente (non occultamento e
non dimenticanza) suggerisca una originaria affinità tra il senso oggettivo e
soggettivo di verità: ἀλήθειαν εἰπεῖν verrebbe per esempio a significare
«riportare nel discorso qualcosa che nel mondo si mostra come non nascosto». In
effetti, in Omero ἀληθείη e ἀληθέα compaiono in dipendenza da verba dicendi:
Gloria Germani ("ΑΛΗΘΕΙΗ in Parmenide", in «La Parola del Passato»,
vol. XLIII, 1988, pp. 177-206) ha sottolineato in questo senso la «peculiarità
sintattica» del termine nella individuazione del processo unitario che connette
soggetto e oggetto (p. 181). Tipico di ἀληθείη sarebbe infatti il riferimento a
chi parla: l'oggetto si manifesta solo se c'è un soggetto a cogliere tale
manifestazione. Il termine designerebbe dunque una relazione in cui «conoscere
e realtà si completano e si realizzano a vicenda» (p. 185). In effetti, già
Aristotele, riferendosi ai pensatori presocratici (Metafisica IV, 5 1010 a1-3),
poteva sottolineare: αἴτιον δὲ τῆς δόξης τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν
ἐσκόπουν, τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι τὰ αἰσθητὰ μόνον la causa di questa
opinione presso di loro è che essi certamente ricercavano la verità intorno
agli esseri, ma supponevano che gli enti fossero solo quelli sensibili.
L'accostamento verità-realtà (sensibile) proprio in relazione ai pensatori
presocratici è ribadito in Aristotele, per esempio: ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ
φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων Coloro che per primi
hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti
(Fisica I, 8 191 a25). Ma rispetto al nostro contesto è significativo, come ha
fatto notare Leszl (p. 16), il fatto che, a un certo punto, in relazione alle
opere di Melisso e Gorgia (seconda metà V secolo a.C.), siano state utilizzate,
accanto alla corrente indicazione περὶ φύσεως, rispettivamente le formule περί
τοῦ ὄντος e περί τοῦ μὴ ὄντος (rivelando una certa consapevolezza della
inadeguatezza della tradizionale titolazione). Passa (p. 53), che interpreta il
proemio come itinerario dell'iniziato verso la Verità, sostiene che esso
contiene «la rappresentazione poetica di esperienze sciamaniche vissute da
Parmenide»: Ἀληθείη, in questo senso, sarebbe «figura del contenuto essenziale
rivelato dalla dea, assurto esso stesso a ipostasi divina». Come segnala
l'autore, per altro, Verità ritorna, "ipostatizzata", anche nei
reperti archeologici (placche d'osso) recuperati a Olbia Pontica. 98 È allora
da soppesare con attenzione l'ipotesi interpretativa che fa della figura divina
appena introdotta il perno simbolico della ripresa e della soluzione parmenidea
del problema della verità, dopo la profonda incrinatura dell'orizzonte arcaico,
soprattutto a opera di Senofane: il tema dell'accesso alla verità potrebbe
fungere da chiave di lettura generale (oltre che, specificamente, dello stesso
proemio). Su questo punto ancora la Germani, op. cit., pp. 186-7. 66
Accogliendo la lezione εὐκυκλέος rendiamo letteralmente con «[Verità] ben
rotonda». Effettivamente ci sarebbero buone ragioni per l'adozione di εὐπειθέος,
se si potesse senza problemi tradurre come «persuasiva» (o «ben persuasiva»).
Nel verso successivo si rileverà come nelle «opinioni dei mortali» (βροτῶν
δόξας) non vi sia «vera credibilità» (πίστις ἀληθής): con una inversione,
Parmenide passerebbe da una «verità» (ἀληθείη) «persuasiva [credibile]» (εὐπειθής)
a una «vera» (ἀληθής) «credibilità» (πίστις). In B2.4, la Dea rimarcherà come
la via «che è» (ὅπως ἔστιν) sia «sentiero di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος),
in quanto «a Verità si accompagna» (ἀληθείῃ ὀπηδεῖ). In conclusione della sua
esposizione della verità, la stessa Dea sottolineerà (B8.50-1): ἐν τῷ σοι παύω
πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης A questo punto pongo termine per te al
discorso affidabile e al pensiero intorno alla verità. È indiscutibile
l'insistenza parmenidea sul nesso tra ἀληθείη e πειθώ, che in B2 sono proposte
sostanzialmente come ipostasi divine. Il vero problema dell'opzione εὐπειθέος è
che il significato antico dell'aggettivo εὐπειθής – attestato ancora in Platone
e Aristotele - è quello di «obbediente» «disponibile/pronto all'obbedienza»: il
significato di «persuasivo» è posteriore. Nell'economia del poema, anche
l'aggettivo εὔκυκλος – attestato sia in Pindaro sia in Eschilo – è comunque
denso di implicazioni, soprattutto in relazione ai versi del poema più citati
in assoluto nell'antichità (vv. B8.43-5), dove ritroviamo il ricorso a
un'immagine: εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ («simile a massa di ben rotonda
palla»). 67 Il sostantivo ἦτορ era impiegato prevalentemente per animali,
uomini, dei, quindi in senso non astratto: il suo significato sarebbe vicino a
quello di θυμός, per veicolare l’idea di un’attività intellettuale emotivamente
tonalizzata. In Omero il termine ἦτορ (insieme a κραδίη), come θυμός, sembrerebbe
coinvolgere soprattutto la sfera degli affetti, dei sentimenti. È significativo
che Parmenide opti di correlare Ἀληθείη a ἦτορ, la verità all’uomo che la deve
conoscere (Stemich, op. cit., pp. 78-80): nella letteratura arcaica ἦτορ è
piuttosto 99 [30] sia dei mortali le opinioni69, in cui non è reale
credibilità70 . connesso al corpo (Passa, p. 52). Il termine ἦτορ può indicare
la «coscienza vigile» («un cuore di bronzo», in Omero), da cui la fermezza
rilevata da Parmenide, ma anche la parte essenziale dell’uomo: in riferimento
al Tutto, la «verità ben rotonda», compiuta, perfetta (Ruggiu, p. 199). R.B.
Onians (The Origins of the European Thought, C.U.P., Cambridge 1951, p. 106) vi
vede racchiusa «la sostanza della coscienza», cui è associata la sede del
linguaggio. Questo può significare che all'espressione Ἀληθείης ἦτορ Parmenide
intendesse far corrispondere la «sostanza conoscitiva e insieme linguistica del
messaggio in esso [poema] contenuto» (Passa, p. 53). 68 L'aggettivo ἀτρεμές
(letteralmente «che non trema»), variamente tradotto (per adeguarlo al
contesto) come «intrepido» (Ferrari), «saldo» (Reale), «incrollabile» (Cerri,
che rende però la formula ἀτρεμὲς ἦτορ come «il sapere incrollabile»),
suggerisce immobilità, saldezza (e in questo senso lo ritroveremo annoverato
tra i σήματα in B8.4). 69 Contrapposte alla Verità, la Dea propone βροτῶν δόξας
(«opinioni dei mortali»), insistendo sia sul tradizionale discrimine tra sapere
divino e ignoranza umana, sia sulla opposizione tra «l’uomo che sa» (εἰδώς φώς,
v. 3) e «i mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν B6.4): a dispetto dei
mortali che non hanno conoscenza, il kouros deve conoscere tutto. Per connotare
il punto di vista dei mortali, la dea (Parmenide) ricorre a un termine – δόξαι
– che, a differenza del mero manifestarsi (φαίνεσθαι) e di una passiva
registrazione empirica, implica giudizio e accettazione (ancorché affrettati e
scorretti), opinione assunta attraverso una decisione, di cui, dunque, i
«mortali» non sono vittime ma responsabili. In questo senso Couloubaritsis, per
esempio, traduce con «considerazioni». È allora opportuno il rilievo di Conche
(p. 66): Parmenide evita di contrapporre la sua verità a quella degli altri, un
punto di vista ad altri alternativi. Il poeta, invece, è presentato come
portavoce di una divinità anonima, scevra della soggettività dei mortali,
impersonale: ella non è altro che la Verità stessa. Significativo
l’accostamento a Eraclito: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν
ἓν πάντα εἶναι non me, ma il logos ascoltando, è saggio convenire che tutto è
uno (DK 22 B50). Interessante il rilievo di Leszl (p. 37), in conclusione di un
lungo esame della nozione di ἀληθεια: δόξα indicherebbe a un tempo l’opinione
che abbiamo circa le cose e il modo in cui le cose si presentano a noi. 70 Il
termine greco πίστις conserverebbe – secondo Heitsch (Parmenides, Die
Fragmente, p. 95) – il valore di «prova, dimostrazione per credibilità o 100
Nondimeno71 anche questo72 imparerai73: come le cose accolte nelle opinioni74
fiducia» o semplicemente di «prova, dimostrazione» (Beweis) sia negli oratori
attici, sia in Platone e Aristotele. Egli propone di utilizzare questo valore
anche nel contesto di B1. Palmer (op. cit., p. 92) osserva, invece, come πίστις
sia in questo passaggio impiegato con valore soggettivo, dunque nel senso di
«trustworthiness»: tale (non genuina) «credibilità» si riferirebbe, tuttavia,
non direttamente alle βροτῶν δόξαι, ma alla loro esposizione nel resoconto
della Dea. 71 Come segnala LSJ, la formula ἀλλ΄ ἔμπης - composta da
congiunzione avversativa (ἀλλά) e avverbio (ἔμπης) – è impiegata nel greco
omerico come sinonimo di ὅμως (all the same, nevertheless, «nondimeno»), più
tardi con valore più debole (at any rate, yet, «tuttavia, comunque»). Cordero
(p. 32) osserva come la formula ἀλλ΄ ἔμπης sia utilizzata in Omero per
introdurre una restrizione di senso rispetto a quanto appena enunciato: nel
nostro contesto, dunque, secondo lo studioso argentino, la Dea intenderebbe
sottolineare il fatto che, a dispetto della loro non-verità, il kouros dovrà
essere informato sulle opinioni. La stessa convinzione era stata espressa da un
altro grande interprete di Parmenide, Tarán: i vv. 31-32 del frammento «show
the purpose that the goddess has in mind in asking Parmenides to learn the
opinions of men in spite [rilievo nostro] of the fact that they are false» (p.
211). 72 Il pronome ταῦτα (letteralmente «queste cose») può indicare quanto
precede immediatamente, quindi riferirsi alle «opinioni dei mortali», ovvero
specificare ulteriormente πάντα («tutto», v. 28), riferendosi a quanto segue
(in funzione prolettica rispetto a quanto introdotto con ὡς). La prima
soluzione appare più naturale rispetto all'uso corrente, tuttavia è possibile
la lettura dei due versi finali con un futuro programmatico (μαθήσεαι) e una
proposizione dipendente introdotta per definirne gli obiettivi. In effetti,
come nota Cerri, nell’uso corretto greco, per anticipare quanto segue sarebbe
stato più naturale τάδε; ma, come dimostra M.C. Stokes (One and Many in
Presocratic Philosophy, The Center for Hellenic Studies, Washington 1971, p.
302 nota 27) con paralleli in Erodoto, l'uso contemporaneo non escludeva un
valore prolettico del pronome. Nella nostra lettura, la Dea, effettivamente, si
riferisce ancora alle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξαι), i cui contenuti
(«le cose accolte nelle opinioni», τὰ δοκοῦντα) intende riscattare: ταῦτα,
quindi, a un tempo (e ambiguamente) evoca quel che precede, precisandone il
senso, e introduce l’ultimo punto del programma della rivelazione
(corrispondente alla seconda grande sezione del poema). 73 Il verbo μανθάνομαι
ha il valore di «imparare per esperienza o studio» (analogamente a πυνθάνομαι),
ma anche di «comprendere, discernere». 101 Patricia Curd (The Legacy of
Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University
Press, Princeton 1998, pp. 113-4) ha marcato le differenti implicazioni
semantiche rispetto al precedente πυνθάνομαι: πυνθάνομαι suggerisce che si
raccolga informazioni e apprenda per esperienza, mentre μανθάνω suggerisce
piuttosto apprendimento e comprensione acquisiti con un atto di giudizio. 74
Abbiamo scelto questa traduzione faticosa per τὰ δοκοῦντα, cercando di salvarne
le implicazioni semantiche. L'espressione participiale τὰ δοκοῦντα indica le
cose accettate nella opinione di qualcuno, ovvero che sono accolte nel giudizio
di qualcuno. Non si tratta di punti di vista soggettivi, quanto del loro
contenuto, delle cose cui ci si riferisce (che si manifestano) in quei punti di
vista, delle cose (plurale), di quelle che sono dette anche τὰ ἐόντα (Ruggiu,
p. 207). Cordero (p. 33) rende come «ciò che appare nelle opinioni», le cose
che sembrano, che sono pensate, tra i mortali: il mondo come è visto dai
mortali. Conche (p. 64) parla, a proposito di τὰ δοκοῦντα, di «correlati
intenzionali (nel senso della fenomenologia) delle doxai». Mourelatos (p. 204),
che ha scritto pagine illuminanti sul significato dei termini greci in radice
dok-*, marca l’ambiguità del valore di τὰ δοκοῦντα: «le cose che i mortali
ritengono accettabili», ma anche «le cose come i mortali [le] ritengono
accettabili». Parmenide intenderebbe, insomma, suggerire che i termini con cui
i mortali accettano o riconoscono le cose costituiscono l'identità propria
dell’oggetto della accettazione dei mortali. Brague (Études sur Parménide, t.
II, Problèmes d'interpretation, pp. 54-5) ricorda come in Simplicio ricorra la
formula τὸ δοκοῦν ὄν, «l’essere apparente», «ciò che sembra [essere] ente» in
contrapposizione a τὸ ὄν ἁπλῶς, «l’essere in senso pieno, assoluto». Una
formulazione senza paralleli, che potrebbe quindi essere eco di una espressione
autenticamente parmenidea. Couloubaritsis (op. cit., pp. 267 ss.), ribadendo il
doppio registro semantico di τὸ δοκοῦν (τὰ δοκοῦντα) - in una direzione rivolto
al discorso, in altra alla cosa - segnala il posteriore accostamento
aristotelico (Confutazioni sofistiche, 33, 182 b38) di τὰ δοκοῦντα a τὰ ἔνδοξα
e in genere la convergenza insistita in ambito peripatetico tra τὸ δοκοῦν ἑκάστῳ
e τὸ φαινόμενον ἑκάστῳ. La specificità di τὸ δοκοῦν rispetto all'altro termine
sarebbe tuttavia da rintracciare proprio nell'aspetto opinativo,
nell'implicazione di un giudizio. Il nesso con δοξάζειν («considerare») si
preciserà in relazione all'atto del nominare: è in quanto legata alla parola e
all'imposizione di nomi, che la via della doxa viene sviluppata nel poema. In
questo senso Couloubaritsis (op. cit., pp. 269-270) crede che l'espressione τὰ
δοκοῦντα rimandi alle cose in quanto designate dai mortali piuttosto che da
loro percepite. Più puntualmente: le cose che i mortali hanno designato per
spiegare il mondo in divenire. 102 era necessario75 fossero effettivamente76,
tutte insieme77 davvero esistenti78 . 75 L’imperfetto χρῆν seguito dall’infinito
può indicare un tempo reale del passato (pensando soprattutto all’origine delle
erronee opinioni mortali e all'alternativa proposta esplicativa di Parmenide),
ovvero un tempo irreale, del passato o del presente. Nel contesto, come segnala
Robbiano (p. 180), la forma verbale può riferirsi a un requisito nel passato
che o è stato o non è stato ottemperato. Ricordiamo che nel greco arcaico il
verbo esprime piuttosto convenienza che necessità logica (quindi «è giusto,
opportuno»). La concomitante presenza di δοκίμως rende, secondo noi, più logico
pensare che Parmenide intendesse contrapporre alle «opinioni dei mortali» una
prospettiva esplicativa alternativa e plausibile rivolta agli stessi oggetti di
quell'opinare: questo passaggio del testo è colto efficacemente nella resa di
Palmer (op. cit., p. 363): «Nonetheless these things too will you learn, how
what they resolved had actually to be [...]». 76 L’avverbio δοκίμως è qui usato
come complemento dell’infinito εἶναι: il predicato in effetti può essere
espresso da un avverbio, facendo così assumere al verbo «essere» il suo valore
pieno di esistenza. L’avverbio può tradursi sia con «plausibilmente»,
«accettabilmente» (Mourelatos, p. 204), sia con «realmente, genuinamente»
(secondo l’uso eschileo). Rendendo l’imperfetto (χρῆν) come forma di irrealtà,
si determina una costruzione ambigua, che afferma e nega a un tempo (come
irreale) un’esistenza qualificata come reale ovvero plausibile. Ne deriva una
sorta di gioco espressivo, del tipo rintracciabile nei frammenti di Eraclito
(O’Brien, pp. 13- 4). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 43)
cita in proposito DK 22 B28: δοκέοντα γὰρ ὁ δοκιμώτατος γινώσκει, φυλάσσει ...
(anche) l'uomo più considerato conosce e custodisce cose apparenti [ovvero opinioni].
Secondo lo studioso italiano, proprio la relazione tra τὰ δοκοῦντα e δοκίμως
comporterebbe un «cortocircuito etimologico»: il participio sostantivato, con
le sue potenzialità semantiche negative (parvenze), è coniugato con un avverbio
dal significato positivo di accettabilità, plausibilità. δοκίμως deriva da
δόκιμος («accettabile», «approvato», «stimato»); il verbo δοκιμάζω conferma il
senso di «mettere alla prova» e «approvare»: l'avverbio ha dunque in sé
implicite le sfumature di «come conviene» e di «realmente», «veramente». La sua
radice indoeuropea *dek- evidenzierebbe il senso di adeguazione, conformità
(Couloubaritsis, op. cit., p. 271). Accettando, invece, la vecchia lezione di
Diels (δοκιμῶσ(αι) εἶναι), ripresa, tra gli altri, da Untersteiner e
recentemente da Di Giuseppe, il senso di ὡς τὰ 103 δοκοῦντα χρῆν δοκιμῶσ(αι) εἶναι
sarebbe: «come era necessario acconsentire (riconoscere) che le cose che
appaiono ai mortali sono». 77 Traduco in questo modo il testo greco, intendendo
διὰ παντὸς πάντα come una formula, secondo il suggerimento di Mourelatos (p.
204), il quale fa leva su paralleli testuali che vanno dalla letteratura
ippocratica a quella platonica. Essi suggeriscono la traduzione «tutte [le
cose] insieme» (all of them together), ovvero «tutte [le cose] continuamente».
Sulla scorta dell’uso platonico (Repubblica, 429b-430b), Mourelatos (p. 205)
propone di leggere in διὰ παντὸς il riferimento alle prove sopportate nel corso
di una competizione. In alternativa si traduce διὰ παντὸς come «in ogni senso»
(Tonelli), «in un tutto» (Cerri), «dappertutto» (Ferrari»), mantenendo autonomo
il significato e la funzione di πάντα («tutte le cose»). 78 Si è dato notizia,
in nota al testo greco, delle due lezioni (περ ὄντα e περῶντα) dei codici di
Simplicio. Come ha giustamente fatto notare la Curd (op. cit., p. 114, nota
52), entrambe le letture rendono complessivamente lo stesso significato.
Traduciamo ὄντα come participio e non come sostantivo (manca, in effetti,
l’articolo τὰ), ricordando, tuttavia, come il termine, in Omero e Esiodo,
designasse le realtà che esistono davvero e nei filosofi ionici l’oggetto della
ricerca, la realtà permanente del mondo (Brague, pp. 61-2). 104 DK B2 εἰ δ΄ ἄγ΄
ἐγὼν 1 ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας, αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι·
ἡ μὲν ὅπως ἔστιν2 τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, Πειθοῦς 3 ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ
4 γὰρ ὀπηδεῖ -, [5] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών5 ἐστι μὴ εἶναι, τὴν δή
τοι φράζω παναπευθέα6 ἔμμεν ἀταρπόν7 · οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ
ἀνυστόν8 - 1 Coxon, invece di ἄγ΄ ἐγὼν (proposto come emendazione dei codici di
Proclo da Karsten e accolto da Diels-Kranz e dagli editori posteriori), legge
con i codici εἰ δ΄ ἄγε, τῶν («orsù, parlerò di queste cose»), difendendo la
propria scelta con la consuetudine epica del genitivo di argomento in
dipendenza da verba dicendi. La proposta di Karsten non solo è considerata più
naturale dal punto di vista paleografico, ma valorizza anche l’opposizione ἐγώ
- σύ, che nel testo pare significativa. La forma ἐγών riflette l'uso omerico,
che dissimulava l'antico digamma perduto nel dialetto degli aedi ionici: per
eliminare gli iati creatisi nella dizione, fu introdotto –ν nel testo omerico
(Passa, p. 74 nota). Qui il –ν di ἐγὼν supplisce il digamma iniziale di ἐρέω. 2
Come segnala Cordero (N.L. Cordero, "Histoire du texte de Parménide",
in Études sur Parménide, cit., t. II: Problèmes d'interprétation, p. 21), ἔστιν
è correzione di Mullach: la tradizione manoscritta conserva ἔστι. Il codice
moscovita W di Simplicio è l'unico a presentare la forma similare ἐστίν. Passa
(p. 97) osserva come i sei casi, in Parmenide, di ἐστιν con ν efelcistico
davanti a consonante rappresentino «una vistosa innovazione rispetto alla
dizione omerica». 3 Come in casi precedenti, intendo Πειθώ come nome personale.
4 Seguiamo Gemelli Marciano (II, p. 14) nell'intendere il sostantivo greco
maiuscolo. I codici di Proclo e Simplicio riportano ἀληθείη: ἀληθείῃ è proposta
degli editori. 5 La formula χρεών ἐστι è tipica della prosa: nella tragedia e
in Pindaro si trova solo l'uso assoluto dell'accusativo χρεών, nel senso di χρή
(Passa, p. 79). 6 I codici di Proclo riportano παναπειθέα e παραπειθέα; quelli
di Simplicio παναπευθέα, forma corretta, come rivela il confronto con Odissea
III, 88. Secondo Passa (p. 38), è evidente che in questo caso Proclo cita a
memoria. 7 Si tratta della forma ionica - ἀταρπός – dell'attico ἀτραπός (da
τρέπω). 8 I codici di Proclo riportano ἐφικτόν («che si può raggiungere», da ἐφικνέομαι),
quelli di Simplicio ἀνυστόν. La lezione di Proclo, che presenta paralleli in
Empedocle (B133) e Democrito (B58, B59), ha una sua 105 οὔτε φράσαις· [vv. 1-8
Proclo, In Platonis Timaeum I, 345; vv. 3-8 Simplicio, In Aristotelis Physicam
116-7; vv. 5b-6 Proclo, In Platonis Parmenidem, 1078, 4-5] plausibilità, ma la
forma ἀνυστόν («che può essere compiuto») ha riscontri "eleatici" in
Melisso (B2 e B7), e si trova ancora in Anassagora (B5). In questa occasione
Proclo potrebbe nuovamente aver fatto ricorso alla citazione a memoria: il significato
di οὐ ἐφικτόν è prossimo a quello di οὐ ἀνυστόν: «risultato che non si può
raggiungere». 106 Orsù1 , io dirò - e tu2 abbi cura3 della parola4 una volta
ascoltata5 - 1 La formula εἰ δ΄ ἄγε per «orsù» è ampiamente attestata
nell’epica, anche in relazione al pronome ἐγώ (Cerri – p. 187 - cita a esempio
un verso formulare che ricorre identico in molti luoghi di Iliade e Odissea). 2
Il pronome personale «tu» (σύ) si riferisce al poeta\filosofo, cui la Dea si
rivolge. Questa interpretazione dà continuità a B1 e B2. Untersteiner (p. LXXX)
ipotizza, invece, che a parlare sia lo stesso Parmenide: alcune espressioni che
ricorrono nei frammenti (in relazione ai «mortali») confermano la lettura
tradizionale. 3 Il senso dell’imperativo aoristo κόμισαι è quello di ricezione
e cura (come di cosa preziosa), forse anche di trasmissione (come vuole
Mansfeld, pp. 95-6). Tonelli (p. 119) rende questo complesso di significati con
«accompagna la mia parola». Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit.,
p. 135) recupera, invece, da Kingsley il senso di «take away» e traduce come
«riporta con te». 4 Il termine greco è μῦθος, che nella lingua greca tarda
significa (come il latino fabula) una narrazione meravigliosa, in origine
indicava qualcosa di completamente diverso: la «parola», la parola che esprime
ciò che è realmente, effettivamente accaduto, implicando quindi la dimensione
della oggettività: la parola che dà notizia del reale, che stabilisce qualcosa,
e, in questo senso, è autorevole (W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in
W.F. Otto, Il mito, a cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp.
30-32). Parola, quindi, intesa non come termine isolato, ma come discorso,
comunicazione di verità. Mourelatos (p. 94, nota) contesta la traduzione di
Tarán («word»), preferendole nel contesto di B2.1 «account», quanto la Dea ha
da dire, la sua comunicazione. In questo senso egli si appoggia a Omero, in cui
il valore del termine è quello di «discorso», «pensiero» o «consiglio». Solo
progressivamente, nell’uso post-omerico, il significato di «discorso» sarebbe
sfumato in quello di «resoconto», finendo poi per indicare «mito». Anche alla
luce di tale evoluzione, altri autori (Coxon, Robbiano, Curd) hanno preferito
tradurre con «story». Morgan (K. Morgan, Myth and Philosophy From the
Presocratics to Plato, C.U.P., Cambridge 2000, pp. 17-18) distingue tra l’uso
di ἔπος per «parola» o genericamente «affermazione» e quello di μῦθος, che,
come rivelerebbero alcune ricorrenze omeriche, si riferirebbe a un
«authoritative speech act». In questo senso, di recente Couloubaritsis, nella
nuova edizione del suo volume su Parmenide, ha insistito su una resa poco
familiare ma attenta a conservare un aspetto essenziale del valore originario
del termine greco: egli traduce (La pensée de Parménide, , Ousia, Bruxelles,
2008, p. 541) come «ma façon de parler autorisée». Una traduzione di
compromesso potrebbe essere: «e tu abbi cura delle mie parole dopo averle
ascoltate». 5 Tutto il verso ha una forte assonanza con Odissea XVIII, 129: 107
quali sono le uniche6 vie7 di ricerca8 per pensare9 : τοὔνεκά τοι ἐρέω, σὺ δὲ
σύνθεο καί μευ ἄκουσον Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi. 6 Il
valore di μοῦναι è stato da alcuni interpreti relativizzato, intendendolo nel
senso debole di «le sole legittime» (Conche, p. 76), da altri reso in senso
forte, come se le «vie di ricerca» indicate costituissero le due sole
possibilità per pensare (Cordero, p. 39). In effetti è difficile scindere il
valore di μοῦναι dal successivo infinito e dal relativo significato. 7 È
interessante segnalare come il termine ὁδός – che, nota Cerri (p. 60),
ossessivamente ritorna nel versi parmenidei – non abbia solo il valore
metaforico di metodo, cioè del percorso lungo il quale si sviluppa un’indagine
per giungere alla verità: esso può suggerire anche l’idea di «direzione di
vita», linea di condotta (Stemich, op. cit., p. 199), come è possibile
riscontrare in Eraclito, letteralmente e metaforicamente (in riferimento al
comportamento da assumere nella ricerca della verità). In Parmenide, tuttavia,
nel ricorso a ὁδός prevarrebbe la suggestione di un peculiare metodo di
pensiero e ricerca. La Stemich in questo senso indica (op. cit., pp. 200-1) una
convergenza tra l’illustrazione parmenidea del metodo per giungere alla
conoscenza dell’essere – inteso come via che conduce oltre l’ambito sensibile
in un ambito metafisico - e il percorso di ascesi filosofica all'idea del Bello
nel Simposio di Platone. 8 Coxon (p. 173) osserva come l’espressione ὁδοὶ
διζήσιος occorra solo in Parmenide (e in un frammento orfico di dubbia
congettura), forse per sottolineare la peculiarità della propria ricerca
rispetto a quella ionica. Secondo Kahn (Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P,
Oxford 2009, p. 147) δίζησις costituirebbe «equivalente poetico» del termine
ionico ἱστορίη («ricerca scientifica»). Oggetto di investigazione è (B6-B8)
l’essere (τὸ ἐόν), ovvero (B1.29 e B8.51) la realtà (ἀληθείη): «vie di
ricerca», dunque, perché hanno come obiettivo la verità. Leszl (pp. 124-5)
rileva come il verbo δίζημαι, corrente in Omero nel significato di ricercare
una persona o cosa scomparsa, ovvero ricercare per identificare qualcuno,
assuma il senso definito di indagare (e anche interrogare) in Eraclito e
Erodoto. L’espressione δίζησις sottolineerebbe così che la ricerca riguarda
qualcosa che non è manifesto o accessibile fin dall’inizio. Secondo Chiara
Robbiano (op. cit., p. 125) il termine suggerisce anche l’attiva partecipazione
richiesta per l’indagine stessa. 9 Come puntualmente rileva Cordero (p. 40),
l’infinito aoristo νοῆσαι ha valore di infinito finale o consecutivo, ma è
spesso stato letto con valore passivo, come se εἰσι («sono») avesse a sua volta
valore di possibilità («siano [possibili] da pensare», «logicamente
pensabili»). La scelta del valore attivo 108 l’una10: [che11] è12 e [che] non è
possibile13 non essere14 – comporta che sia più facile spiegare la presenza
delle successive congiunzioni dichiarative (ὅπως, ὡς), che possono
corrispondere alla attività di pensare («l’una per pensare che …», «l’altra per
pensare che …»). È possibile inoltre trovare un riscontro nel poema Sulla
natura di Empedocle, dove il frammento DK 31 B3.12 presenta costruzione
analoga: ὁπόσηι πόρος ἐστὶ νοῆσαι («dove ci sia passaggio per conoscere»).
O’Brien (pp. 153-4) fa dipendere invece νοῆσαι da μοῦναι ovvero dall’unità
sintattica μοῦναι + εἰσι: «Je dirai quelles sont les voies de recerche, les
seuls à concevoir». La Robbiano (op. cit., p. 82) valorizza l’ambiguità
nell’espressione di Parmenide, e propone, di conseguenza, di accettare
contestualmente entrambe le interpretazioni: quella che fa delle vie l’oggetto
del νοεῖν (da pensare) e quella che fa del νοεῖν la meta delle vie (per
pensare). Contro la resa attiva e finale dell’infinito le osservazioni di
Sellmer (S. Sellmer, Argumentationsstrukturen bei Parmenides. Zur Methode des
Lehrgedichts und ihren Grundlagen, Peter Lang, Frankfurt a.M. 1998, pp. 11-12),
in particolare il problema dell’impraticabilità della seconda via per il
pensiero. Contro la lettura potenziale di εἰσι νοῆσαι Kahn, Essays on Being,
cit., p. 146, nota 4. Abbiamo reso νοεῖν genericamente con «pensare», ma – come
suggerito da vari interpreti - si potrebbe scegliere una espressione più
specifica, come «comprendere», o anche «afferrare», che ancora conservano
traccia dell'originario valore di percezione mentale, capace di vedere in
profondità e più lontano, nel tempo e nello spazio (su questo punto Mourelatos,
pp. 68 ss.). Vero è che nei frammenti ci si riferisce a νόος (πλακτὸν νόον,
B6.6) anche per designare una intelligenza offuscata, confusa: ciò potrebbe
indicare che Parmenide non si senta vincolato a un uso di νοεῖν e derivati nel
loro significato cognitivo più forte, che, a nostro giudizio, rimane, tuttavia,
l'unico a giustificare l'alternativa che la Dea qui propone. Recentemente
Palmer (op. cit., pp. 69 ss.), nel tentativo di mediare tra una resa generica e
una più specifica, ha proposto understanding ovvero achieving understanding.
Tonelli, invece, rende direttamente come «intuire», per la continuità tra il
verbo greco e l'intueor latino, che implica un vedere che «attraversa e penetra
l'oggetto di conoscenza [...] facendosi tutt'uno con esso» (p. 118). 10
L’indicazione delle «uniche vie» è introdotta (v. 3 e v. 5) dalla formula ἡ μὲν
- ἡ δέ: si tratta di una alternativa ulteriormente delineata con coerente
corrispondenza anche nella costruzione sintattica. 11 Consideriamo in questo
contesto ὅπως e il successivo ὡς congiunzioni che introducono una dichiarativa
(retta da un sottinteso: «per pensare» ovvero «che pensa», «che dice»). In
questo senso, suggeriamo la possibilità di 109 di Persuasione15 è il percorso16
(a Verità17 infatti si accompagna) – leggere il verso come: «l’una: è e non è
possibile non essere» (analogamente il v. 5: «l’altra: non è ed è necessario
non essere»). L’uso di ὅπως e ὡς per introdurre le due vie sarebbe – secondo
Chiara Robbiano (op. cit., p. 82) - illuminante: esso suggerisce che esse sono
due modi di guardare alle cose, due prospettive: ὡς sarebbe, infatti, preferito
a ὅτι quando si voglia accentuare una affermazione come opinione, ovvero
introdurre qualcosa intorno a cui esistano opinioni differenti. Per la studiosa
italiana (p. 83), insomma, ὅπως\ὡς, con le loro implicazioni avverbiali,
servirebbero a esprimere uno stato di cose da una certa prospettiva,
manifestando dunque il proprio punto di vista. Analogamente Ferrari (Il
migliore dei mondi impossibili, cit., p. 40), il quale rende in entrambi i casi
con «secondo cui». 12 La terza persona singolare – ἔστιν - del presente di εἶναι,
«essere», è qui resa letteralmente, senza decidere del suo valore
(esistenziale, copulativo, veritativo), per conservarle tutte le sfumature. Tra
i traduttori moderni, Tarán sceglie di renderla con «exists», Conche con «il y
a», per sottolineare l’idea di presenza. In coerenza con il testo greco, non
attribuiamo un soggetto al verbo, lasciandolo sottinteso: si rinvia al commento
per un chiarimento. Coxon ricorda che l’omissione del pronome indefinito come
soggetto sia ampiamente diffusa nell’epica e nel greco posteriore (p. 175). 13
Letteralmente ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι si potrebbe rendere come «che non
[c’]è/esiste non essere», ovvero, sostantivando il μὴ εἶναι finale, «che il
non-essere non è», cui corrisponderebbe, simmetricamente ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι:
«che, come necessario, il non essere è». Ma, proprio considerando l’emistichio
5b (dove la traduzione «è necessario che… appare più naturale), optiamo per
attribuire a ἔστι valore potenziale e considerare μὴ εἶναι come infinitiva:
«che non è possibile non essere» (più ambigua), ovvero «che non è possibile che
non sia». Si tratta, in ogni caso, di un passaggio controverso, anche per le
sue implicazioni logiche, per le quali è molto lucida l’analisi di Leszl (pp.
131 ss.). 14 La nostra traduzione è vicina a quella di Heitsch: «Der eine, (der
da lautet) “es ist, und Sein ist notwendig”». Frère (J. Frère, Parménide ou le
Souci du Vrai. Ontologie, Théologie, Cosmologie, Kimé, Paris 2012) rende: «Le
premier chemin énonçant: est, et aussi: il n’est pas possible de ne pas être».
15 Come divinità, Persuasione è nella cultura arcaica (Pindaro) collegata ad
Afrodite, alla dea dell'Amore, in quanto esercita fascinazione e seduzione. È
dunque originale e significativa la connessione stabilita da Parmenide, in
apertura della comunicazione divina, tra Πειθώ e Ἀληθείη: nel suo caso i legami
persuasivi saranno il risultato del rigore e della coerenza logica 110 [5]
l’altra: [che] non è e [che] è necessario18 non essere19 . Proprio20 questa ti
dichiaro21 essere sentiero22 del tutto privo di informazioni23: impliciti nella
affermazione appena introdotta :«è e non è possibile non essere». 16 Il termine
κέλευθος viene da Coxon distinto da ὁδός come il «viaggio» lungo la «via»,
contribuendo in questo modo a determinare successivamente (Platone) la nozione
di μέθοδος, e di filosofia appunto come viaggio (p. 174). 17 Abbiamo già
segnalato in nota a B1, come nel poema ἀληθής (e ἐτήτυμος) significhino «reale»
e ἀληθείη «realtà». Heitsch (p. 97) argomenta a favore di una resa più esplicita,
che ricava dai contraddittori caratteri negativi di μὴ ἐὸν (verso 7): egli
traduce, infatti, con «evidenza» (Evidenz). Palmer ricorre a una formula
inequivocabile: «true reality». Pur concordando che la Dea si riferisce alla
realtà, insistiamo nel tradurre con il nostro «verità» e con la maiuscola,
intendendo Verità come entità divina. In ogni modo, come nel linguaggio
omerico, anche in Parmenide il contrario di ἀληθείη non sarà il falso, indicato
da ψεῦδος o ψεύδεσθαι, ma l'assenza di ἀληθείη, la mancata manifestazione della
realtà (su questo Germani, op. cit., pp. 183-4). 18 Colleghiamo, come appare
naturale, l’espressione greca χρεών al verbo ἔστι, traducendo con «è
necessario», conservando il valore modale. Come segnala Leszl (p. 136), χρεών
può stare da solo, inteso come un participio (χρή ἐόν), che, preceduto da ὡς,
assume valore avverbiale: ὡς χρεών potrebbe essere dunque inciso avverbiale in
una frase il cui significato complessivo non sarebbe modale («come
conveniente»). Il termine è usato nella cultura greca arcaica (e non) in
espressioni come κατὰ τὸ χρεών (Anassimandro DK 12B1: «that which must be»
secondo LSJ), ma per lo più nell'espressione χρεών [ἐστι] con il significato di
χρή («è necessario»). 19 Considerato μὴ εἶναι come infinito sostantivato e
interpretato ὡς χρεών avverbialmente, la traduzione del secondo emistichio
potrebbe essere: «e, come conveniente, il non-essere è». Si tratta di una
possibilità, che suona tuttavia piuttosto improbabile. Così come la traduzione
proposta da Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 137-8):
«l'una (via) secondo cui è lecito e non è possibile che non sia lecito...
l'altra secondo cui non è lecito ed è necessario che non sia lecito».
Coerentemente con la scelta del v. 3, Heitsch traduce: «Der andere, (der da
lautet) “es ist nicht, und Nicht-Sein ist notwendig”»; Frère (J. Frère,
Parménide ou le Souci du Vrai…, cit.) rende: «L’autre chemin énonçant: n’est
pas, et aussi: il est nécessaire de ne pas être». 20 Traduciamo avverbialmente
la particella δή, che molti decidono di non rendere ovvero di rendere come
congiunzione («e») per marcare una 111 poiché non potresti conoscere ciò che
non è24 (non è infatti cosa fattibile25), né potresti indicarlo26 . transizione
nel discorso della Dea. In effetti, δή è frequentemente posposto a un pronome
(nel nostro contesto τὴν con funzione pronominale), con il risultato di
accentuare il rilievo nella frase. 21 Coxon osserva che il verbo φράζω, che in
epica significa «indicare, evidenziare», è usato da Parmenide con oggetto
diretto o accusativo e infinito nel senso (poi regolare) di «spiegare» (p.
177). 22 Il termine ἀταρπός è contrapposto a ὁδός e κέλευθος, impiegati in B1
(vv. 2 e 11) e qui ai vv. 2 e 4: mentre in B1.21 eravamo informati del fatto
che il poeta viaggiava κατ΄ ἀμαξιτὸν «lungo la via maestra», in questo
passaggio, accennando alla seconda via, Parmenide ricorre a un’espressione che
veicola l'idea di sentiero, tracciato secondario, scorciatoia. 23 L’aggettivo
παναπευθής può indicare – attribuendogli senso passivo - ciò che è del tutto
ignoto, ovvero, in senso attivo, appunto «ciò che è del tutto privo di
informazioni», ovvero «imperscrutabile» (Tonelli p. 119), come la via che pensa
che «non è». Si tratta, nell'economia del discorso divino (e del poema), di un
punto essenziale: la seconda via delineata non è proposta come «falsa», non è
scartata come follia (non è prodotto di un πλακτὸς νόος, come si sottolinea in
B6.6 a proposito della presunta ὁδος διζήσιός «inventata» da coloro che sono
apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν); di essa si afferma che è sentiero lungo
il quale non si possono raccogliere informazioni, che non può manifestare la
realtà, come chiarisce immediatamente il verso successivo. 24 L’espressione τό
μὴ ἐὸν si potrebbe rendere anche come «il non essere». Secondo Coxon (p. 177)
essa si riferisce al soggetto della seconda via, di «non è», come manifestato
in B6.2 dall’uso del pronome indefinito μηδέν (nulla). In effetti l'espressione
τό μὴ ἐὸν è introdotta a giustificazione della dichiarazione del verso
precedente, dunque per identificare il presunto contenuto della seconda via,
necessariamente priva di informazioni. 25 L’aggettivo verbale ἀνυστόν è
attestato in Simplicio: con la precedente negazione (οὐ), il valore – da ἀνύω
(«fare, compiere») - è quello di cosa che non è possibile compiere. Nel suo
commento (p. 220), Ruggiu sottolinea come il valore di οὐ ἀνυστόν sia prossimo
a quello del termine ἀμηχανίη: esprime una impossibilità che scaturisce da
ontologica impotenza. Mourelatos (p. 100) insiste sull'idea di impraticabilità
che οὐ ἀνυστόν porta con sé: «that which cannot be consummated». 26 La
traduzione di φράζω con «indicare» vuol rendere il senso di «manifestare in
segni» (anche a parole): ciò che non è non può rendersi (e essere reso)
manifesto attraverso tracce, come saranno i σήματα dell’ἐόν in B8. 112
Mourelatos (p. 76) segnala che φράζω è impiegato nell’Odissea all’interno del
motivo del viaggio, in riferimento al gesto di una guida che mostri a un
viaggiatore il luogo o il percorso della sua destinazione. Si potrebbe rendere
οὔτε φράσαις, restringendo il campo semantico del verbo, con «né potresti
parlarne». 113 DK B3 ... τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν1 τε καὶ εἶναι. [Clemente
Alessandrino, Stromata VI, 2.23 (II, 440); Plotino, Enneadi V, 1.8; V, 9.5;
Proclo, In Plat. Parm. 1152, Theologia platonica I, 66 (ed. Saffrey,
Westerink)] 1 Il codice di Clemente riporta ἐστί; il testo di Plotino, in due
luoghi diversi, ἐστί e ἔστι. ἐστίν è correzione degli editori. 114 La stessa
cosa, infatti, è1 pensare2 ed essere3 . 1 Zeller, seguito da Burnet, Cornford,
Raven e altri, rende i due infiniti come dipendenti da ἔστιν (non ἐστίν) con
valore potenziale (analogamente a B2.3: εἰσι νοῆσαι), quindi con «denn dasselbe
kann gedacht werden und sein». Tarán, che accetta il suggerimento di Zeller,
rende con «for the same thing can be thought and can exist». Anche per O’Brien
(pp. 19-20) i due infiniti sono complementi del pronome (τὸ αὐτὸ) o dell’unità
sintattica pronomeverbo. Quest’uso completivo dell’infinito (νοεῖν)
ammetterebbe che lo si traduca come un passivo o equivalente: «C'est en effet
une seule et même chose que l'on pense et qui est» («For there is the same
thing for being thought and for being»). Il fatto che, optando per questa
soluzione interpretativa, il soggetto di uno dei due infiniti (εἶναι) diventi
oggetto dell’altro (νοεῖν), non rappresenterebbe un problema, essendo già
attestato nei poemi omerici. È un fatto, comunque, come osserva Conche (op.
cit., p. 89), che Parmenide ha scritto νοεῖν e non νοεῖσθαι. D’altra parte,
seguendo Plotino, la resa «più fedele» (Heitsch, p. 144), il senso «ovvio» del
greco (Conche, p. 89) sarebbe «pensare ed essere sono la stessa cosa», con τὸ αὐτὸ
predicato, νοεῖν e εἶναι soggetti della frase. Un’alternativa sensata, che
tiene conto di analoghe costruzioni nei frammenti sopravvissuti e soprattutto
del senso dei vv. 34-36a di B8: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα.
[35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν è
quella di Coxon («for the same thing is for conceiving as is for being»),
variata nella recente resa di Palmer (op. cit., p. 122): «for the same thing is
(there) for understanding and for being». 2 Secondo Cerri (p. 194), qui per la
prima volta νοεῖν assumerebbe il significato specifico di «capire
razionalmente», significato che, tuttavia, non si può regolarmente attribuire a
νοεῖν (e νόος) nei frammenti. In una sua classica ricerca filologica, von Fritz
(K. von Fritz, “Νοῦς, νοεῖν and Their Derivatives in Presocratic Philosophy
(Excluding Anaxagoras). I: From the Beginnings to Parmenides”, «Classical
Philology» 40, 1945, pp. 223-242) osserva come νοεῖν in Omero significhi
«comprendere una situazione» e come questo valore sia ancora presente nel poema
di Parmenide, indicando qualcosa di diverso da un processo di deduzione logica:
sarebbe ancora sua funzione primaria essere in contatto con la realtà ultima
(p. 237). Abbiamo sopra ricordato come Tonelli renda νοεῖν come «intuire»,
cogliendo la continuità tra il verbo greco e l'intueor latino, nella percezione
che 115 «attraversa e penetra l'oggetto di conoscenza [...] facendosi tutt'uno
con esso» (p. 118). 3 Gallop (p. 8) e Heitsch (p. 144) osservano che, sebbene
la continuità di B3 con B2 sia incerta, metricamente B3 costituirebbe con B2.8
una perfetta linea di testo. Calogero (op. cit., pp. 22-23) aveva in effetti
già proposto di leggere B3 come prosecuzione di B2, integrando il testo tràdito
in questo modo: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις·
[B2.7-8] τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι < ὅσσα νοεῖς φάσθαι >, Ché
quel che non è non lo puoi né pensare né dire: pensare infatti è lo stesso che
dire che è quel che pensi!. 116 DK B4 λεῦσσε δ΄ ὅμως1 ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως·
οὐ γὰρ ἀποτμήξει2 τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ
κόσμον οὔτε συνιστάμενον. [vv. 1-4 Clemente Alessandrino, Stromata V, 2 (II,
335); v. 1 Proclo, In Platonis Parmenidem 1152; Teodoreto, Graecarum
Affectionum Curatio I, 72 (22); v. 2 Damascio, Dubitationes et Solutiones de
Primis Principiis in Platonis Parmenidem I, 67] La proposta e l'integrazione
sono state poi ancora rilanciate da Giannantoni. 1 Due codici di Teodoreto con
la citazione di Clemente riportano ὁμῶς («ugualmente») in vece di ὅμως. Tra gli
editori moderni solo Hölscher e Untersteiner preferiscono quella lezione. 2 I
manoscritti di Clemente riportano ἀποτμήξει, quelli di Damascio ἀποτμήσει: ἀποτμήξει
sarebbe effetto di una atticizzazione del testo parmenideo, probabilmente
antica (come evidenziato dall'unanimità dei manoscritti). Secondo Passa (pp.
34-5), come avevano colto gli editori ottocenteschi che correggevano ἀποτμήξει
in ἀποτμήξεις, la forma verbale corretta sarebbe quella della seconda persona
singolare del futuro medio (ἀποτμήξῃ) nella probabile trascrizione di un
esemplare attico. 117 Considera1 come cose assenti 2 siano comunque3 al
pensiero4 saldamente5 presenti6 ; 1 Il verbo λεῦσσω è già impiegato da Omero
(Couloubaritsis, pp. 336-7) per indicare la capacità di considerare
simultaneamente passato e avvenire per comprendere il presente: capacità
associata alla maturità dell’anziano, al suo discernimento, contrapposto alla
precipitazione dei giovani. Molti traduttori optano per una resa che ne
accentui il valore percettivo: «osserva», «guarda». Etimologicamente, d’altra
parte, il verbo deriva dall’aggettivo λευκός, che nel linguaggio omerico
significa «chiaro», «limpido»: porta con sé, dunque, l’idea di chiarezza,
luminosità, trasparenza, come nell’italiano «chiarire», «rischiarare». 2 Ovvero
«cose lontane». Il verbo ἄπειμι, come il successivo πάρειμι, ha un valore a un
tempo materiale e mentale, indicando la distanza (πάρειμι la vicinanza) nel
tempo e nello spazio. Manteniamo in traduzione un senso indefinito. 3
Traduciamo così la congiunzione ὅμως: nelle varie versioni, il suo valore
oscilla tra l’avversativo e il concessivo, secondo i contesti. Dal momento che
è possibile legare il termine sia al verbo iniziale, sia a ἀπεόντα, Ruggiu (p.
238) suggerisce che la collocazione sia intenzionalmente polisignificante,
secondo lo stile attestato anche in Eraclito. 4 A chi debba essere
immediatamente riferito il dativo νόῳ è oggetto di discussione: è possibile
infatti accostarlo direttamente a lεῦσσε, nel senso di «chiarisci con intelligenza\intendimento»,
ovvero lasciarlo legato a παρεόντα, sottolineando come il nesso ἀπεόντα-παρεόντα
dipenda dalla visione dell’intelligenza: l’espressione νόῳ παρεῖναι avrebbe
appunto il valore di «essere presente alla mente, allo spirito». 5 L’avverbio
βεϐαίως (saldamente) può essere collegato direttamente al verbo, come
suggerisce Coxon (p. 188): «gaze steadily with your mind…». Lo studioso
giustifica la proposta per il parallelo con il verso di Empedocle DK 31 B17.30:
τὴν σὺ νόωι δέρκευ, μηδ’ ὄμμασιν ἧσο τεθηπώς Guardala con intelligenza, non
restare con sguardo esterefatto. La collocazione dell’avverbio fa pensare
tuttavia a un rapporto stretto con παρεόντα, di cui esprimerebbe il modo
d’essere, la solidità, la permanenza. L’avverbio veicola infatti l’idea di
stabilità, ma anche quella di costanza e lealtà. Robbiano (op. cit., p. 130)
rileva la connessione con ἀτρεμὲς ἦτορ 118 non impedirai7 , infatti, che
l’essere8 sia connesso all’essere, (B1.29): βεϐαίως esprimerebbe l’attitudine
dell’uomo che ricerca sulla via della verità; un modo di guardare, ma anche un
modo d’essere. 6 Ovvero «prossime». Sulla struttura del verso (lεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα
νόῳ παρεόντα βεϐαίως) ha richiamato di recente l’attenzione Graham (Explaining
the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University
Press, Princeton and Oxford 2006, p. 151), il quale ne ha rilevato la struttura
a chiasmo, che ricorderebbe quella di alcuni frammenti eraclitei, per esempio
DK 22 B25: μ ό ρ ο ι γ ὰ ρ μ έ ζ ο ν ε ς μ έ ζ ο ν α ς μ ο ί ρ α ς λ α γ χ ά ν
ο υ σ ι destini di morte più grandi ottengono sorti più grandi. 7 La forma
verbale ἀποτμήξει può essere terza persona singolare del futuro indicativo
attivo (così intendono per lo più gli editori moderni, sottintendendo νόος come
soggetto), ovvero, considerando la probabile atticizzazione del testo
parmenideo, come forma (attica appunto) della seconda persona singolare
dell’indicativo futuro medio: «tu non impedirai…». Secondo Passa (pp. 34-5)
sarebbe questa, in coerenza con analoghe espressioni del poema (εἶργε,
«allontana» B7.2b; μάνθανε, «impara» B8.52; εὑρήσεις, «troverai» B8.36),
l'interpretazione corretta del passo. 8 Traduciamo il participio ἐόν preceduto
dall’articolo (τὸ ἐόν) come «l’essere», senza articolo come «ciò che è»: per
noi si tratta di espressioni sinonime, ma la formula con articolo è più
astratta. Come nota Cordero (By Being, It is, cit., p. 169), Parmenide molto
raramente usa l’articolo τò davanti al participio ἐόν; in effetti participio
senza articolo cattura più precisamente il carattere dinamico della presenza
denotata da ἐστί: «essendo, è». Il problema della traduzione del termine è
comunque complesso: Heidegger (M. Heidegger, Was heisst Denken, Niemeyer,
Tübingen 1954, p. 133) richiamò l’attenzione sul duplice valore di questo
participio: nominale (ciò che è) e verbale (l’Essere di ciò che è), per
sostenere la tesi che già con Parmenide la filosofia sarebbe scivolata
nell’oblio dell’Essere, non riuscendo a mantenere distinti i due valori,
confondendo quindi Essere e enti. Di recente Thanassas (pp. 44-5) ha insistito
sul fatto che Parmenide avrebbe impiegato ἐόν esclusivamente in senso verbale,
come equivalente semantico di ἐστί. Il rischio di intendere il participio nel
valore nominale sarebbe quello di riconoscerne implicitamente l’esistenza come
unico ente, negando dunque la pluralità del mondo. Il che sarebbe contraddetto
dall’uso frequente di plurali (ἐόντα) nella sezione sulla Ἀληθείη (B4.1-2,
B8.25, B8.47-8). L’identità semantica e la sinonimia tra ἐόν e ἐστί sarebbe
inoltre 119 né disperdendosi9 completamente10 in ogni direzione per il cosmo11
, né concentrandosi. confermata da Parmenide nel poema stesso (B6.1-2).
Thanassas sostiene che ἐόν possa identificarsi estensionalmente con la totalità
degli enti che appaiono; intensionalmente (dal punto di vista del suo contenuto
concettuale), invece, ἐόν sembrerebbe distinto da essa: il suo significato
verbale, insomma, non si limiterebbe ad abbracciare la totalità degli enti, ma
farebbe del loro Essere il proprio obiettivo. 9 Il participio σκιδνάμενον, come
il successivo συνιστάμενον, si riferisce a τὸ ἐόν. 10 La funzione dell’avverbio
πάντως (interamente, completamente) sarebbe, in congiunzione con l’altro
avverbio πάντῃ (dappertutto, ovunque), quella di intensificarne valore
spaziale. 11 L’espressione κατὰ κόσμον appare come uno dei più antichi passi
presocratici in cui il termine κόσμος assume il valore di «ordinamento del
mondo», «cosmo» (Cerri, p. 199). Tarán, tuttavia, contesta che la nostra
espressione possa tradursi (così come abbiamo fatto) con un complemento di moto
«nel mondo» (o «per il mondo»), preferendo renderla letteralmente come «in
order», con il significato, dunque, di conformità a un ordine. Analogamente la
Stemich (p. 190) sottolinea come dalla Dea il kouros sia chiamato a non
alterare l’essere «secondo l’ordine delle cose», attribuendo quindi alla
formula valore normativo. Coxon sottolinea il precedente omerico, traducendo
«in regular order». Noi preferiamo attribuirgli il valore cosmico, considerando
κατὰ κόσμον insieme alla forma avverbiale precedente (πάντῃ πάντως). 120 DK B5
ξυνὸν δέ μοί ἐστιν, ὁππόθεν1 ἄρξωμαι· τόθι γὰρ πάλιν ἵξομαι αὖθις. [Proclo, In
Platonis Parmenidem 708] 1 La forma ὁππόθεν è correzione degli editori: i
codici di Proclo riportano ὅπποθεν. 121 Indifferente1 è per me da dove cominci,
dal momento che là, ancora una volta, farò ritorno. 1 Bicknell (“Parmenides, DK
28 B5”, «Apeiron», 13, 1979, pp. 9-11) ha proposto di tradurre ξυνὸν come «a
basic point»: «It is a basic point from which I shall begin: I shall come back
to it repeatedly». Collocando il frammento subito prima di B2, il senso
complessivo effettivamente è assicurato e, come è stato notato (Gallop, p. 37),
suggestivo. Difficile però avere un riscontro della traduzione proposta per ξυνὸν.
122 DK B6 χρὴ τὸ λέγειν τò1 νοεῖν τ΄ ἐὸν 2 ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ
ἔστιν· τά σ΄ ἐγὼ 3 φράζεσθαι ἄνωγα. πρώτης γάρ σ΄4 ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος †
... † 5 , 1 I codici di Simplicio riportano unanimente τό; nel 1835 Karsten
congetturò invece τε νοεῖν, ripreso poi da Diels. Il testo corretto, dopo la
riscoperta a opera di Tarán e la ripresa da parte di Cordero, è tuttavia
accolto solo da una minoranza di editori contemporanei. 2 I codici D e E di
Simplicio riportano τὸ ὂν, il codice F τεὸν: τ΄ ἐὸν è correzione degli editori.
3 Il testo greco in DK è τά σ΄ ἐγὼ, secondo la lezione di Bergk. Cordero (pp.
101-2) preferisce la versione del codice D di Simplicio (considerato il più
affidabile dallo stesso Diels 1897): τά γ΄ ἐγὼ. Il codice E riporta: τοῦ ἐγὼ;
il codice F: τά γε. 4 Il codice D di Simplicio riporta σ΄ (così come E e F); B
e C, invece, τ΄. 5 La tradizione manoscritta presenta a questo punto una
lacuna: la proposizione manca del verbo. Congettura Diels, tradizionalmente
accettata: εἴργω («tengo lontano», «distolgo»), sulla scorta di B7.2 (ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄
ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα - «ma tu da questa via di ricerca allontana il
pensiero»). Congettura Mourelatos: εἷργον («tenevo lontano»), in riferimento al
rifiuto della seconda via di B2. Congettura Cordero: ἂρξει («comincerai»).
Congettura Nehamas: ἂρξω («comincerò»), ripresa di recente anche da Patricia
Curd, che la preferisce alla precedente in quanto mantiene il baricentro del
discorso sulla divinità, coerentemente con gli altri versi del poema. La Curd
insiste in particolare sul parallelismo con i versi B8.50-52: ἐν τῷ σοι παύω
πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε
κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo termine al discorso
affidabile e al pensiero intorno alla Verità; da questo momento in poi opinioni
mortali impara, ascoltando l’ordine delle mie parole che può ingannare.
L’espressione «pongo termine» corrisponderebbe a «comincerò per te» appunto di
B6.3, così come «da questo momento in poi» a «da questa via di ricerca». A più
riprese (cominciando da B1.28-30) la dea sarebbe ritornata sulla 123 αὐτὰρ ἔπειτ΄
ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν [5] < πλάσσονται > 6 , δίκρανοι· ἀμηχανίη
γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν 7 νόον· οἱ δὲ φοροῦνται κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί
τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ
ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος. [vv. 1-2a Simplicio, In
Aristotelis Physicam 86; vv. 1b-9 Simplicio, In Aristotelis Physicam 117; vv.
8-9a Simplicio, In Aristotelis Physicam 78] propria strategia, enunciando i
suoi principi fondamentali (B2), ribadendoli (B6.3-4) e ricontestualizzando la
propria esposizione in B8.50-52 (Curd, The Legacy of Parmenides, cit., p. 58).
Tarán, che pur accetta la congettura Diels, suppone una lacuna successiva, tra
i versi 3 e 4. 6 La tradizione manoscritta di Simplicio riporta πλάττονται,
dichiarato corrotto in apparato da Kranz. In effetti πλάττονται sarebbe,
secondo Cordero e Cerri (p. 210), atticizzazione (intervenuta nella tradizione
manoscritta stessa) di πλάσσονται, da πλάσσομαι («mi invento»). Dello stesso
avviso O'Brien e Gemelli Marciano (II, p. 82). Coxon (p. 183) sostiene la
derivazione (per corruzione) da πλάζονται («vagano»). Diels fa della
espressione una corrutela medievale di πλάσσονται, variante dialettale di
πλάζονται, utilizzato nel poema (e in altri autori) per indicare sbandamento
intellettuale, errore. Una recente messa a punto della questione testuale si
trova in Passa (pp. 104 ss.), il quale ha con acribia sostenuto, su basi
parzialmente diverse, la soluzione dielsiana con precoce corruzione di
πλάσσονται in πλάττονται. Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p.
47 nota) ha contestato tale ricostruzione, preferendo tornare alla vecchia
correzione πλάζονται, coerente con πλακτὸν νόον e φοροῦνται (v. 6). Accogliamo
la correzione πλάσσονται, pur considerando l'emendazione πλάζονται, come
sinteticamente insegna Ferrari, una valida alternativa. 7 I codici DE di Simplicio
riproducono πλακτὸν, il codice F πλαγκτὸν, forma preferita da diversi editori
(Coxon, O'Brien, Conche, Cerri, Gemelli Marciano, Palmer). 124 Dire e pensare1
: «ciò che è è2 », è necessario3 ; essere4 è infatti possibile, 1 Accogliendo
la restituzione del testo originale di Simplicio proposta da Cordero (su
indicazione di Tarán), abbiamo qui due infiniti (λέγειν, νοεῖν) introdotti da
τό, da intendere: (i) come articolo determinativo (sarebbe allora più corretto
rendere con «il [fatto di] dire e il [fatto di] pensare»), ovvero (ii) come
pronome dimostrativo («dire questo e pensare questo»). Nella nostra traduzione
abbiamo seguito la prima soluzione: i due infiniti articolari costituiscono
soggetto congiunto del quasi impersonale χρή, come suggerisce Palmer
(Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., p. 111; ma si devono registrare
le riserve di Cassin, p. 146). Costruzioni alternative: (a) χρή regge
direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è il loro
articolo e ἐόν il loro complemento oggetto («è necessario che dire e pensare
ciò che è sia»): così, per esempio, Fränkel e Untersteiner. Una variante
interessante è quella sostenuta da Tarán e Cordero (Les deux chemins de
Parménide, Vrin, Paris 1984, pp. 111-2): essi suppongono la costruzione χρὴ εἶναι
(ἔμμεναι) τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν («è necessario dire e pensare ciò che è».
Cordero, tuttavia, nella revisione (2004) della sua opera, traduce
diversamente: «It is necessary to say and to think that by being, it is». (b)
χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è
articolo e ἐόν nome del predicato di ἔμμεναι («dire e pensare è necessario che
siano un essere»): così, per esempio, Diels (1897), Heidel, Verdenius. Coxon
(pp. 181-2) sostiene l'uso predicativo di ἐόν, supportandolo con paralleli (ἐὸν
εἶναι) in autori influenzati da Parmenide (Gorgia, Leucippo, Platone,
Aristotele). La sua traduzione (che accoglie il testo emendato da Karsten) è,
di conseguenza: «it is necessary to assert and conceive that this is Being».
Soggetto della proposizione sarebbe τό, pronome (che Coxon riferisce a τὸ αὐτὸ
di B3). (c) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui τό...ἐόν è soggetto, da cui
dipendono λέγειν e νοεῖν («ciò che è da dire e pensare è necessario che sia»):
così, tra gli altri, Burnet e Raven. 2 Traduciamo ἔμμεναι con «essere», per
mantenere l'ambiguità che a nostro avviso caratterizza il testo, attribuendogli
tuttavia valore decisamente esistenziale. 3 L’impersonale χρή è formula di
necessità ma anche di opportunità: il valore del vincolo implicato può variare
in intensità, dal necessario, al corretto, all’opportuno. Ha insistito su
questo punto Patricia Curd (1998, p. 53), 125 il nulla5 , invece, non è6 .
Queste cose7 io ti esorto a considerare8 . riducendo così l’impianto modale dei
primi due versi del frammento. Ma il nesso con B2 suggerisce la forma di
necessità. 4 Nel caso di B6.1b, l'impegno per l'interprete è doppio. Si
ripresenta infatti il problema di traduzione di ἔστι e si aggiunge quello della
traduzione dell’infinito εἶναι in questo contesto: si tratta di due problemi
correlati. Se, come scelgono di fare alcuni traduttori, si considera εἶναι come
infinito sostantivato, soggetto di ἔστι, avremmo: «l'"essere" esiste»
(Cerri); «infatti l'essere è» (Reale), «denn Sein ist» (Kranz), «for there is
Being» (Tarán). Analogamente intende la Germani (op. cit., p. 191). Questa
lettura potrebbe essere avvalorata dal fatto che due codici (BC) di Simplicio
riportano τò εἶναι (Cordero, Les deux chemins de Parménide, cit., p. 24). Nel
caso si accolga tale soluzione, in 6.1b-6.2a avremmo la piena esplicitazione
dei soggetti delle vie di B2.3 e B2.5: rispettivamente εἶναι e μηδὲν. Per certi
versi questa traduzione appare naturale, sebbene non risulti del tutto
perspicuo l'uso di γὰρ, a meno di privarlo del suo valore esplicativo per
riconoscergli una funzione confermativa. Se, invece, si intende εἶναι come
infinito retto da ἔστι, allora è naturale attribuire a questo valore di
possibilità (che sembrerebbe dare un senso alla particella γάρ). Alcuni
sottintendono ἐὸν come soggetto, traducendo: «solo esso infatti è possibile che
sia» (Pasquinelli); «For it is for being» (Coxon); «è possibile, infatti, che
sia» (Giannantoni); «perché può essere» (Tonelli, Ferrari). Altri, come O'Brien
e Cordero, optano per una formula impersonale: «car il est possible d'être»;
«for it is possibile to be». 5 Secondo Coxon (p. 182) μηδέν conserverebbe in
questo caso il suo significato più stretto, quello di «non una cosa». L’intera
frase, dunque, asserirebbe che ciò che non ha essere, non è per niente una
cosa. Kranz (in apparato) riteneva che μηδέν equivalesse a μὴ ἐόν (citando in
questo senso B8.10: τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον). Ferrari (Il migliore dei mondi
impossibili, cit., p. 46 nota) considera possibile un rimando al non-essere,
intendendo la lezione (corrotta) del codice greco di Simplicio (Phys. 117) come
μὴ δ’ ἐόν. 6 Anche in questo caso conserviamo l'ambiguità dell'«essere»,
intendendolo comunque in senso esistenziale: la necessità di affermare
l’esistenza dell’essere sarebbe giustificata incrociando la possibilità
dell’essere e l'inesistenza del nulla. Guthrie decide di attribuire al verbo
essere nell’intera formula valore di possibilità: «for it is possible for it to
be, but impossible for nothing to be». Analogamente Mansfeld: «denn dieses (sc.
Das Seiende) kann sein, ein Nichts hingegen kann nicht sein». O’Brien (p. 27) è
convinto che i due indicativi ἔστι e οὐκ ἔστιν abbiano valore potenziale, con
l’infinito in funzione completiva, e suppone un secondo infinito per completare
l’espressione negativa μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν: «il n’est pas possible 126 Per
prima, infatti, da questa via di ricerca 9 ti 10 , e poi da quella11 che
appunto12 mortali che nulla sanno13 (οὐκ ἔστιν) que (εἶναι) ce qui n’est rien
(μηδὲν)». L’alternativa, seguita da alcuni, è quella di rimanere fermi, in
entrambi i casi, al valore esistenziale, affermando (Tarán): «for there is
Being, but nothing is not». È possibile, tuttavia, attribuire senso potenziale
a ἔστι e senso esistenziale alla negazione οὐκ ἔστιν, come fanno Cordero (2004)
e, seguendo Colli, Tonelli, a dispetto delle obiezioni di O’Brien, che ritiene
improbabile la soluzione. Per conservare il senso modale di B2.3, Palmer (p.
113) propone di considerare ἐόν unico soggetto sottinteso di B6.b-2a (ἔστι γὰρ
εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν), e rendendo μηδέν con valore predicativo: «(What is)
is to be, but nothing it is not». Letteralmente più aderente al greco la
traduzione senza articolo: «nulla [ovvero niente] non è». 7 Il pronome τά (accusativo
neutro plurale) difficilmente può essere riferito esclusivamente al contenuto
dei vv. 1-2a: è invece probabile che esso alluda a quanto seguiva B2 precedendo
immediatamente B6, cioè la esclusione della via «che non è e che è necessario
non essere» come effettivo percorso di indagine. 8 La formula τά σ΄ ἐγὼ
φράζεσθαι ἄνωγα è mutuata da Omero ed Esiodo: richiama l’attenzione
sull’esclusione della via «che non è e che è necessario non essere». 9
Concordiamo con Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 49) nel
considerare questo riferimento alla «prima via di ricerca» (πρώτη ὁδός
διζήσιος) vincolato alla discussione di cui B6.1-2a costituisce la conclusione,
e che doveva vertere sul non-essere. Si tratta della discussione cui allude
Simplicio nel contesto della citazione di B8.1-52: ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ μετὰ τὴν
τοῦ μὴ ὄντος ἀναίρεσιν Le cose stanno in questo modo dopo l'eliminazione del
non essere. Per evitare confusione, alcuni traduttori hanno fatto ricorso a
costruzioni meno ambigue: «this is the first way of inquiry from which I hold
you back» (Kirk-Raven-Schofield); «Questa è la via di ricerca da cui ti
distolgo per prima» (Cerri); «Questa è la prima via di ricerca da cui ti tengo
lontano» (Tonelli). Come quella che proponiamo, si tratta di soluzioni
interpretative, che indubbiamente forzano la resa più naturale. In ogni caso,
per rimanere più aderenti alla costruzione greca, abbiamo considerato πρώτης in
funzione predicativa. 10 Manteniamo, pur con prudenza, la congettura Diels. 127
[5] , uomini a due teste14: impotenza15 davvero nei loro petti16 guida la mente
errante17. Essi sono trascinati18 , 11 Il compemento ἀπὸ τῆς riferisce il
pronome a ὁδοῦ διζήσιος: questo porta Coxon a concludere che nel contesto
Parmenide si riferisca a filosofi, ricercatori. 12 Normalmente si lascia cadere
in traduzione δή, che pure, seguendo un pronome relativo, ne enfatizza la
posizione nella frase. L'uso nel contesto potrebbe alludere alla discussione
che precede B6. 13 L’espressione greca βροτοὶ εἰδότες οὐδέν riprende il
tradizionale contrasto tra sapienza divina e ignoranza umana, riferendolo in
particolare a una tipologia di errore che nasce dal fraintendimento della
κρίσις di B2. La ἀκρισία delle «schiere scriteriate» (ἄκριτα φῦλα) manifesta la
loro «impotenza» (ἀμηχανίη). Nell’epica e nella lirica l’espressione βροτοὶ εἰδότες
οὐδέν ritorna frequentemente per caratterizzare il fatto che i mortali non
conoscono la totalità del passato, né possono prevedere il futuro, ristretti
alla limitatezza del loro presente (Ruggiu p. 259). Nello specifico,
l’ignoranza dei mortali è implicitamente contrastata dalla conoscenza che
Parmenide ha rivendicato per sé in B1.3 (εἰδότα φῶτα). 14 Il greco δίκρανοι si
riferisce alla condizione di coloro che manifestano una sorta di schizofrenia e
in questo senso hanno una testa (una mente) divisa in due: affermano a un tempo
essere e non-essere, fingendo di poter incrociare due vie in realtà (verità)
incompatibili. Robbiano (op. cit., pp. 104-5) segnala come nella lirica arcaica
il tema della indecisione-confusione propria della condizione umana fosse
espresso nel riferimento a un νόος diviso (Teognide) o a una sorta di doppia
mente (Saffo). 15 Il sostantivo greco ἀμηχανίη segnala la mancanza di mezzi, di
aiuti per risolvere una situazione di difficoltà: insomma, una condizione di
impotenza. In Omero gli dei possiedono σοφία, un saper fare (abilità nella
costruzione di oggetti) che garantisce loro una vita facile, mentre gli uomini,
ignoranti, conducono una esistenza dura. In Esiodo è grazie a Prometeo che gli
uomini hanno potuto strappare agli dei alcuni dei loro segreti, facendo fronte
alla propria impotenza. 16 L’espressione ἐν αὐτῶν στήθεσιν rinvia a Omero, dove
è marcato il nesso tra ἀμηχανίη e θυμός, la cui sede è appunto nel petto. Coxon
(p. 184) assume che nel contesto ciò possa alludere a un ruolo di θυμός
distinto da νόος, secondo il modello pitagorico ripreso nell’immagine iniziale
del carro (e poi reso celebre nel mito del Fedro platonico). 17 L’espressione
πλακτὸς νόος sottolinea lo sbandamento, l’erramento in primo luogo della
«mente» (così traduciamo in questo caso νόος) e quindi del «pensiero»: la
mente, invece di essere guida sicura, conduce fuori strada. 128 a un tempo
sordi e ciechi19, sgomenti, schiere scriteriate20 , per i quali esso21 è
considerato22 essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di
[costoro] tutti23 il percorso torna all'indietro24 . 18 La forma verbale φοροῦνται
rafforza il senso di sbandamento, deriva, cui conduce la mente dissennata dei
«mortali che nulla sanno». 19 L’espressione greca κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί vuol
marcare una condizione di disorientamento, a un tempo (ὁμῶς) di isolamento
uditivo e visivo. Anche Eraclito utilizzava l’aggettivo kwfój denunciare la
stoltezza manifestata dalle opinioni correnti. 20 Il greco ἄκριτα φῦλα
sottolinea l’incapacità, da parte di un gruppo numeroso (φῦλόν indica razza,
tribù, classe, genia), di giudicare, di discernere. Evidentemente la Dea
intende marcare, per contrasto, la prospettiva di ricerca aperta in B2 con
l'alternativa delle «vie di ricerca per pensare»: in questo caso, la «mente»
erra, e i «mortali» non conoscono alcunché. Alcuni ritengono (tra gli altri
anche Cerri, p. 212), che Parmenide si riferisca qui ai seguaci di Eraclito. 21
Traduciamo in questo modo il pronome τό, che, come aveva a suo tempo rilevato
Burnet (seguito poi da Coxon e ora da Palmer), potrebbe fungere da articolo per
sostantivare πέλειν, ma non οὐκ εἶναι. Nel contesto del frammento τό è da
riferire a ἐόν del v. 1. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, pp.
115-6), oltre a ricordare il frequente impiego da parte di Parmenide
dell'articolo come dimostrativo (secondo l'uso arcaico), ha segnalato una
costruzione analoga in B8.44b-45: τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον πελέναι
χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ è necessario, infatti, che esso non sia in qualche misura di
più, o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra, in cui τό rinvia a
τὸ ἐόν del v. 37. 22 Il perfetto medio-passivo νενόμισται ha attirato
l’attenzione di Jaeger (La teologia dei primi pensatori greci, cit., p. 170, n.
36), il quale lo riferisce non all’opinione di un uomo o di qualche individuo,
ma alla malignità del νόμος dominante (costume, tradizione), alla opinio
communis degli uomini. Leszl in questo senso osserva (p. 230) come il passivo
di νομίζω abbia il significato di «è pratica corrente». Il ricorso a νομίζω,
con la soggettività implicata, fungerebbe, secondo Coxon (p. 185), da contrasto
ai positivi (e oggettivi) λέγειν e νοεῖν. 129 23 Il genitivo plurale πάντων può
essere qui inteso come neutro, riferito dunque a «tutte le cose», ovvero come
maschile, riferito quindi ai «mortali», come il precedente relativo οἷς, «per i
quali». Coxon traduce: «and for all of whom»; analogamente O'Brien, Palmer,
Gemelli Marciano, che abbiamo seguito. La Gemelli Marciano (II, p. 83) segnala
la composizione ad anello, con cui nell'ultimo emistichio Parmenide
riprenderebbe il v. 4. 24 Secondo Mourelatos (p. 100), il senso dell’aggettivo
παλίντροπός sarebbe da vedere in connessione con οὐ γὰρ ἀνυστόν (B2.7),
indicando l’infinita regressione della ricerca lungo la via dei mortali.
Potremmo dire che la Dea in questo modo stigmatizzi la inconcludenza della
presunta via di ricerca inventata dai mortali, e quindi il destino di erranza
che colpisce chi pretenda di seguirla. Secondo coloro che propendono per una
interpretazione del frammento in chiave anti-eraclitea, qui avremmo una eco di
DK 22 B51: Οὐ ξυνίασι ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῷ ὁμολογέει· παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ
τόξου καὶ λύρης non capiscono che ciò che è differente concorda con se stesso,
armonia di contrari, come l’armonia dell’arco e della lira. Contro questa
interpretazione, tra gli altri, di recente A. Nehamas (“Parmenidean
Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, edited by V. Caston &
D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 55-6), il quale sottolinea come il
termine παλίντροπός si riferisca qui in realtà ai mutamenti sequenziali delle
cose reali l'una nell'altra (come nella cosmologia milesia); in Eraclito,
invece, esso sarebbe impiegato in riferimento a un equilibrio statico. 130 DK
B7 οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ 1 εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος2
εἶργε νόημα· μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα
καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν, κρῖναι δὲ λόγῳ 3 πολύδηριν4 ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα.
[vv. 1-2 Platone, Sofista, 237 a 8-9, 258 d 2-3; Simplicio, In Aristotelis
Physicam 135, 143-144; v. 1 Aristotele, Metafisica 1089 a; vv. 2-6 Sesto
Empirico, Adversus Mathematicos VII, 111; v. 2 Simplicio, In Aristotelis
Physicam 78, 650; vv. 3-5 Diogene Laerzio IX, 22] 1 Alcuni codici di Aristotele
(EJ) e Simplicio (DE) riportano τοῦτο δαμῇ, quelli di Platone τοῦτ’ οὐδαμῇ.
Sono attestate anche le forme τούτου οὐδαμὴ (Simplicio F), τοῦτο μηδαμῇ
(Simplicio D), τοῦτο δαῇς (Aristotele recc.). 2 I codici di Sesto e Simplicio
riportano διζήσιος (nelle varianti dialettali διζήσεος, διζήσεως), quelli di
Platone il participio διζήμενος. 3 Nonostante i codici di Sesto e Diogene
Laerzio riportino la forma del dativo λόγῳ, Kingsley (P. Kingsley, Reality, The
Golden Sufi Center, Inverness (CA) 2003, pp. 139-140), all'interno di una lunga
discussione sul valore da attribuire al termine (prima di Platone), propone
(seguito da Gemelli Marciano) di leggere, in alternativa, il genitivo λόγου. 4
Il testo di Diogene Laerzio riporta πολύδηριν, quello di Sesto πολύπειρον. 131
Mai, infatti1 , questo2 sarà forzato3 : che siano cose che non sono4 . Ma tu da
questa via di ricerca5 allontana il pensiero6 ; 1 Coxon (p. 190) osserva
giustamente che la presenza di γὰρ presuppone un'asserzione da giustificare,
per noi mancante: questo solleva dubbi sull'effettivo riferimento del
successivo τοῦτο. 2 Cerri (p. 215) osserva l’uso apparentemente irregolare di
τοῦτο in funzione prolettica (per la quale sarebbe stato naturale piuttosto
τόδε): nel contesto il pronome sembra in realtà riferirsi anche a quanto
precede (per noi perduto). 3 Seguiamo Tarán (e Diels) nel preferire questa resa
a quelle suggerite da O’ Brien e Conche: «Jamais, en effet, cet énoncé ne sera
dompté» («Mai, infatti, questo enunciato sarà domato») ovvero «Car jamais ceci
ne sera mis sous le joug» («Poiché mai questo sarà posto sotto il giogo»).
Secondo l’indicazione di Diels (Parmenides Lehrgedicht, p. 74), il senso
dell’aoristo congiuntivo passivo di δαμάζω \ δάμνημι è da ricavare dalle
citazioni platoniche del Teeteto (196b: viene usato ἀναγκάζειν) e del Sofista
(241 d5- 7): Τὸν τοῦ πατρὸς Παρμενίδου λόγον ἀναγκαῖον ἡμῖν ἀμυνομένοις ἔσται
βασανίζειν, καὶ βιάζεσθαι τό τε μὴ ὂν ὡς ἔστι κατά τι καὶ τὸ ὂν αὖ πάλιν ὡς οὐκ
ἔστι πῃ. Ci troviamo di fronte alla necessità, per difenderci, di mettere alla
prova il pensiero del padre, Parmenide, e di forzarlo [biázesqai] col dire che
il non-essere «è», sotto un certo aspetto; e che, per converso, l’essere, in un
certo senso, «non è» (traduzione M. Vitali, Bompiani, Milano 1992). A
rafforzare questo valore, c’è anche il βιάσθω del v. 3. Interessante anche il
suggerimento specifico di Liddell-Scott-Jones, di rendere il verbo in senso
lato come «sarà provato», che Cerri (p. 215) difende, pur apprezzando
l’interpretazione del passo offerta da O’Brien. Contro la scelta di Diels e LSJ
argomenta tuttavia in modo convincente Coxon (p. 190). A suo tempo Calogero
(Studi sull’eleatismo, cit., pp. 24-5, nota) aveva puntualmente contestato
l'ipotesi τοῦτο δαμῇ, preferendole τοῦτο δαῇς (l'emistichio risultava così:
«Non ti lasciar mai insegnare questo»). Alle osservazioni di Calogero si
richiama oggi la Gemelli Marciano (II, p. 84). 4 Il non-essere è in questo caso
espresso con il participio plurale μὴ ἐόντα, «cose che non sono». Secondo Tarán
(p. 75), ciò si collegherebbe alla successiva polemica contro il dato dei
sensi. 132 né abitudine7 alle molte esperienze8 su questa strada ti faccia
violenza9 , 5 Simplicio (Fisica 78, 2) sembra riferire l’espressione τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ
διζήσιος - «questa via di ricerca» - alla seconda via: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ
συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ
συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα· εἰπὼν γὰρ [B6.1b-2] < ἐπάγει > [B6.3-9]
μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας
τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] sostiene che la
contraddizione non sia vera [cioè: le proposizioni contraddittorie non siano
vere] a un tempo in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli
opposti: dice infatti [citazione B6.1b-2a] e aggiunge [citazione B6.3-9]. (In
Aristotelis Physicam 117, 2) Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono
l'essere e il non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver
allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge
[citazione B8.1 ss.]. Secondo Simplicio, insomma, B7.2 alluderebbe alla «via
che conduce al nonessere»; inoltre B7.1-2 seguirebbero B6.8-9, precedendo B8.1.
Come fa osservare Tarán (p. 76), Simplicio sembra distinguere anche tra
l’obiettivo polemico di B6 e quello di B7. 6 Il sostantivo νόημα è qui
impiegato probabilmente nel significato – già omerico - di mente, intelligenza,
organo del pensiero e della comprensione. I primi due versi del frammento sono
citati da Platone e Simplicio: essi costituiscono un primo blocco testuale.
Diogene cita isolatamente i vv. 3-5, secondo blocco. Sesto consente di cucire i
due blocchi, citando i vv. 3-6 dopo il verso 2. nella sua citazione, tuttavia,
non c’è posto per il verso 1. Non sorprenderà, dunque, che nella storia delle
interpretazioni il frammento abbia subito vari smembramenti e montaggi. Noi
scegliamo di conservare l’ordinamento che si può ricavare da Simplicio,
l’ultimo autore che si ha fondato motivo di ritenere disponesse di una copia
del poema (ancorché non esente da rielaborazioni linguistiche e
contenutistiche). 7 Coxon (p. 191) legge ἔθος in contrapposizione a νόημα
(abitudine versus analisi intellettuale): la prima forzerebbe, la seconda
condurrebbe in modo persuasivo. 8 Dal momento che ἔθος si connoterebbe
autonomamente in contrasto a νόημα, secondo Coxon (p. 191) πολύπειρον sarebbe
da riferire a ὁδὸν: contribuirebbe a determinarne il valore rispetto a τῆσδ΄ ἀφ΄
ὁδοῦ del verso 133 a dirigere10 l’occhio che non vede, l’orecchio risonante11
[5] e la lingua12. Giudica13 invece con il ragionamento14 la prova15 polemica16
precedente. Cerri (p. 216) giudica tuttavia inaccettabile la proposta (anche)
per ragioni metriche. Robbiano (p. 97) segue Coxon, insistendo sull’abitudine
generata lungo la via di cui i mortali hanno molta esperienza. Anche Nehamas
(op. cit., p. 59 nota 50) preferisce riferire πολύπειρον a ὁδὸν, ma suggerisce
la possibilità che Parmenide intendesse riferirlo anche a ἔθος. Per quanto
riguarda la traduzione, abbiamo optato per una resa che sottolinei
nell’aggettivo il riferimento all’origine dalle molte esperienze; altri
scelgono, invece, di marcare l’effetto implicito in esse, rendendo quindi con
«molto esperta», «molto abile». 9 Il verbo βιάσθω si potrebbe rendere anche con
«induca»: come informa Cerri (p. 217), esso ricorre frequentemente nella poesia
tra fine VI secolo e inizi del V (Simonide, Pindaro, Bacchilide, Eschilo) nel
senso di violenza esercitata dalla menzogna sulla verità. 10 Cerri (p. 217)
osserva che νωμᾶν nel linguaggio epico significa «muovere, dirigere con abilità
e destrezza». 11 Cerri (p. 217) rileva la natura ossimorica del verso: ἄσκοπον ὄμμα
e ἠχήεσσαν ἀκουήν evocano le metafore eraclitee. Lo studioso giustamente le
collega a B6.7, trovandosi però in difficoltà nell’interpretazione. In B6,
infatti, esse sarebbero riferite agli eraclitei, qui, invece, recuperate (nella
stessa prospettiva eraclitea) contro il sapere tradizionale. 12 Coxon (p. 192)
sottolinea come l’epiteto ἠχήεσσαν qualifichi tanto ἀκουήν quanto γλῶσσαν: la
lingua replicherebbe la confusione degli occhi e delle orecchie. La sua
proposta è contestata, per ragioni semantiche (il significato dell’aggettivo -
«risuonante» - mal si accorderebbe nel contesto con γλῶσσα), da Tarán (p. 77),
il quale suggerisce invece di considerare ἄσκοπον riferito tanto a ὄμμα quanto
a ἀκουήν e γλῶσσαν, con il valore avverbiale di «senza scopo», «a caso». Come
riconosce lo stesso Tarán, tuttavia, la lettera del verso 4, con i due
aggettivi immediatamente riferiti ai due sostantivi, rende più plausibile la
solitudine di γλῶσσαν: il termine, in relazione a ἔθος πολύπειρον, indica il
linguaggio ordinario. Heitsch (p. 161) suggerisce che, nel contesto, senza
ulteriori predicazioni, γλῶσσα non sia da porre sullo stesso piano degli altri
organi di senso: qui, dunque, il termine indicherebbe non l’organo del gusto ma
l’organo del linguaggio, come riconosce anche Robbiano (pp. 97-98), insistendo
sull’«organo che produce nomi che non sono in grado di riflettere la verità».
13 Kingsley (Reality, cit., p. 140) rende κρῖναι come «judge in favor of», nel
senso di «scegli» (opzione adottata anche da Ferrari, Il migliore dei mondi
impossibili, cit., p. 50); la Gemelli Marciano (II, p. 19) preferisce
«entscheide dich für» («deciditi per»). 134 14 Secondo Cerri (p. 218), del
termine λόγος – corradicale di λέγω (dire) e dunque originariamente sinonimo di
μῦθος - qui sarebbe valorizzato l’aspetto semantico del ragionamento mentale
(emergente anche in Eraclito), mentre nella seconda occorrenza nel poema
(B8.50) l’aspetto semantico del discorso che verbalizza il ragionamento (λόγος
è in tal caso complementare a νόημα). Tonelli (p. 126), insistendo sul
parallelo con il contemporaneo Eraclito, mantiene una stretta connessione tra
λόγος e νόος: λόγος non indicherebbe qui «il raziocinio ma la facoltà umana di
cogliere il senso». A suo tempo Conche (p. 122) aveva sottolineato come, a
differenza del νόος che può errare (B6.6), il λόγος non si allontani dalla
verità, evidentemente intendendo con il termine la facoltà razionale. Ma di
recente Kingsley (Reality, cit., pp. 129-50) ha lungamente argomentato che tale
significazione è solo platonica e post-platonica, mentre in Parmenide λόγος
avrebbe ancora il valore di «discorso» o «discussione»: in questo senso, egli
preferisce (come segnalato in nota al testo greco) emendare il dativo in
genitivo, facendone dunque una specificazione di ἔλεγχος. Contro la tendenza a
contrapporre, in Parmenide, il λόγος all'esperienza, si esprime anche Cordero
(By Being, It Is, cit., pp. 136-137), convinto che il significato base sia
ancora quello di «discorso». A noi pare che la resa con «ragione» sia forzata,
e che l'invito espresso dalla Dea sia quello di valutare discorsivamente,
argomentativamente: il suggerimento di Cerri, insomma, evitando
l'identificazione di una facoltà (la ragione appunto) e limitandosi a evocare
un esercizio di controllo della discussione (λόγος, ἔλεγχος), pare prudente e
funzionale. 15 Si tratta di una delle prime attestazioni del termine ἔλεγχος.
Liddell-ScottJones, con esplicito riferimento al nostro testo, indica come
significato «argument of disproof, refutation». Di recente, Chiara Robbiano
(pp. 106- 107) – che legge B7 e B8 come costituissero un testo continuo - ha
ricordato come ἔλεγχος debba riferirsi non solo alla contestazione già
implicita nei versi precedenti, ma anche agli argomenti di B8, che hanno «la
forma di un elenchos». In B8.1-49 la dea metterebbe alla prova varie strategie
tradizionalmente ritenute in grado di condurre alla conoscenza. Interpretando
correttamente il suo (della dea) logos, l’audience non solo sarebbe stata
completamente persuasa dal non seguire la seconda via, ma avrebbe anche
riconosciuto alcuni dei caratteri dell’Essere che concorrono all’obiettivo
della prima via: la comprensione (insight) dell’Essere. 16 L’aggettivo
πολύδηρις sarebbe, secondo Coxon (p. 192), di conio parmenideo, e si riferirebbe
alla polemica contro la fisica ionica e pitagorica, poi ripresa da Zenone. In
πολύδηρις – come osserva Conche (p. 123) - c’è l’idea di lotta, di
combattimento (δῆρις): la forza della ragione opposta alla forza
dell’abitudine. Liddell-Scott-Jones – con esplicito riferimento al nostro testo
- rende con una espressione di senso passivo: «molto contestata». 135 da me
enunciata17 . Interessante l'analisi di Patricia Curd (The Legacy of
Parmenides, cit., p. 104): «The elenchos (testing) is poludēris (rich in
strife) because it must repeatedly fight against habit and experience; it is a
battle to be won over and over». Efficace la resa di A. Nehamas (“Parmenidean
Being/Heraclitean Fire”, cit., p. 59), il quale traduce κρῖναι δὲ λόγῳ
πολύδηριν ἔλεγχον come «giudica con la ragione l'argomento che molto contesta».
17 Mentre Diels e Calogero riferiscono la prova (che così sarebbe genericamente
«annunciata») alla sezione sulla Doxa, Verdenius, Tarán e Mourelatos la
intendono riferita ai passaggi precedenti (il participio va allora tradotto più
opportunamente con «enunciata»), in cui la Dea ha introdotto le due vie e
argomentato contro la presunta terza via. Si tratta della posizione prevalente
tra gli interpreti, tenuto conto dell’uso del participio aoristo ῥηθέντα, che
proietta il termine cui si riferisce (ἔλεγχος) verso un passato appena
compiuto. Preferiamo lasciare sospeso il riferimento, tenendo conto anche del
suggerimento di R.J. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of
Changelessness", in Presocratic Philosophy, cit., p. 76) di tradurre in
questo caso il participio aoristo come «when it has been spoken by me». 136 DK
B8 vv. 1-49 μόνος1 δ΄ ἔτι2 μῦθος3 ὁδοῖο λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι
πολλὰ μάλ΄, ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε4 καὶ ἀτρεμὲς
ἠδ΄ ἀτέλεστον5 · 1 È possibile, sulla scorta della citazione di Sesto (Adversus
Mathematicos VII, 111), che il verso iniziale di B8 costituisse il secondo
emistichio (b) di B7.6a (ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα). Il testo dei codici di Sesto -
μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο - è tuttavia improbabile in epica, dove si
attenderebbe μοῦνος, forma (presente nei codici DE di Simplicio) che, in
effetti, alcuni editori preferiscono; d'altra parte, rettificandola, l'intero
verso non reggerebbe metricamente. Di recente Passa (p. 87) si è espresso per
la continuità tra B7 e B8, ritenendo di dover accettare μόνος come forma
autenticamente parmenidea. 2 In vece di δ΄ ἔτι, i codici DEF di Simplicio e LEV
di Sesto riportano δέ τι; il codice C di Sesto δέ τοι. Il contesto, tuttavia,
suggerisce l’adozione – largamente prevalente tra gli editori – dell'attuale
versione. 3 Sesto in vece di μῦθος riporta θυμὸς. 4 L'emistichio οὖλον
μουνογενές τε è lezione attestata in Simplicio (commento alla Fisica 120.23,
145.4, 30.2, 78.13, 87.21 e al De Caelo 557.18), Clemente e Teodoreto (che
tuttavia non è considerato fonte indipendente), originariamente accolta anche
da Diels e per lo più ripresa dagli editori contemporanei. Nella V edizione dei
Vorsokratiker a cura di Kranz, tuttavia, essa fu sostituita dalla trascrizione
dei codici di Plutarco (Contro Colote 1114 c) ἔστι γὰρ οὐλομελές («è infatti
intero [nelle sue membra]»), accolta tra gli altri anche da O’Brien e Reale.
Come segnala Coxon (p. 195), ἔστι γὰρ potrebbe essere formula introduttiva di
Plutarco: Passa fa notare, tuttavia, come la stessa formula sia ripetuta in
B8.33. Proclo cita (commento al Parmenide 6.1007.25, 6.1084.29-30) in un caso
solo οὐλομελές, ma, quando riporta l'intero verso (nello stesso commentario, 6.1152.25),
il testo del primo emistichio è οὖλον μουνομελές τε. Si ha quindi l'impressione
di una citazione a memoria (in effetti il testo è per il resto identico a
quello citato da Simplicio). La forma οὐλομελές, come suggerisce Passa (p. 63),
potrebbe essersi insinuata nella tradizione testuale parmenidea a partire
dall'atmosfera pitagoreggiante dell'Accademia, tra II sec. a. C. e I sec. d.
C.. Analogamente, deformazione del testo a noi tramandato dai codici
simpliciani potrebbe essere anche μοῦνον μουνογενές, attestato in
PseudoPlutarco, Teodoreto ed Eusebio. 5 La ricostruzione del testo di questo
secondo emistichio è molto controversa. La versione più attestata nelle fonti
antiche è: καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀγένητον. 137 [5] οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν
ὁμοῦ πᾶν 6 , ἕν, συνεχές7 · τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; οὔτ΄
ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω8 φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ
ἔστι. τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος9 ὦρσεν [10] ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον,
φῦν; οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών10 ἐστιν ἢ οὐχί. Tuttavia Simplicio presenta
anche (nel commentario alla Fisica 30.2, 78.13, 145.4) la variante ἠδ΄ ἀτέλεστον.
La forma ἠδ΄ ἀγένητον non pare sostenibile, in quanto ripetizione di ἀγένητον
del verso precedente. Sulla variante esistono comunque dubbi e non mancano le
trascrizioni alternative nei codici: ἢ δ’ ἀτέλεστον, ἢ ἀτέλεστον, ἤδ’ ἀτέλεστον,
ἢ δι’ ἀτέλεστον. Il testo potrebbe dunque essere corrotto, dal momento che il
suo senso appare contraddetto da οὐκ ἀτελεύτητον (v. 32) e τετελεσμένον...
πάντοθεν (vv. 42-3). Accettando la variante di Simplicio e volendone evitare le
implicazioni contraddittorie, Karsten propose di emendare il testo come ἠδὲ
τελεστόν (quindi «e perfetto»), seguito poi da Tarán e Cordero. Owen e altri
(Kirk-Raven-Schofield, McKirahan, sostanzialmente Mourelatos e Coxon) hanno
proposto ἠδὲ τέλειον («e completo»). Una minoranza (ma significativa: Hölscher,
Cassin, Leszl, Gemelli Marciano) ha ripreso la versione di Brandis: οὐδ’ ἀτέλεστον.
6 Del verso esiste una variante attestata (con leggere differenze) in Ammonio,
Asclepio, Filopono, Olimpiodoro: οὐ γὰρ ἔην οὐκ ἔσται ὁμοῦ πᾶν ἔστι δὲ μοῦνον.
A seconda della punteggiatura potrebbe rendersi come: «poiché non era, non
sarà, tutto intero insieme, ma è solamente», ovvero: «poiché non era, non sarà,
ma è solamente, tutto intero insieme». 7 I codici di Simplicio riportano ἕν,
συνεχές; in Asclepio è attestato invece οὐλοφυές («di natura intera»), lezione
difesa e preferita da Untersteiner. 8 Alla forma ἐάσσω, riportata da alcuni
codici di Simplicio, è da preferire ἐάσω, presente nei codici omerici e per lo
più anche in quelli di Simplicio (che presentano anche la variante ἐασέω). 9
Nell'epica χρέος è forma recente di χρεῖος: essa è attestata in Odissea nel
significato originario di «debito» e in quello secondario di «bisogno» (che ha
riscontri in lirica e tragedia), come sottolinea Passa (pp. 82-3). 10 I codici
attestano qui unanimemente χρεών ἐστιν; al v. 45, dove troviamo formula
analoga, le lezioni si dividono: alcuni codici riportano χρεόν ἐστι. Passa (pp.
80 ss.) ha discusso specificamente il rapporto tra le forme χρεών e χρεόν,
sottolineando come sia accettabile in Parmenide (analogamente a quanto
riscontriamo nel caso di Erodoto) la forma ionica recente χρεόν, 138 οὐδὲ ποτ΄ ἐκ
< τοῦ ἐ > όντος11 ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν
οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, [15] ἀλλ΄ ἔχει· ἡ δὲ
κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη,
τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ
ἐτήτυμον εἶναι. πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν12; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; [20] εἰ
γὰρ ἔγεντ΄13 , οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι. τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται
καὶ ἄπυστος14 ὄλεθρος. οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ
μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος.
[25] τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. mentre χρεών sarebbe
atticismo: a confermare un meccanismo di atticizzazione parallelo a quello
operante sul testo omerico. 11 Il codice di Simplicio riporta ἐκ μὴ ὄντος («da
ciò che non è»): l’emendazione proposta da Karsten - ἐκ τοῦ ἐόντος consente di
concludere la dimostrazione come si trattasse di dilemma: l’essere non può
avere origine dal non-essere (v. 7), né dall’essere, dunque è senza origine (ἀγένητον).
La necessità dell’emendazione è analiticamente sostenuta da Tarán (pp. 95-102),
ma combattuta con buone osservazioni da Coxon (pp. 200-201). Accogliamo, con
qualche riserva sia relativamente alla fonte emendata – i codici di Simplicio
rendono sostanzialmente in modo unanime il testo emendato – sia alle
implicazioni teoriche, la correzione, in considerazione soprattutto del senso
della successiva proposizione γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό. 12 I codici DE di
Simplicio riportano πέλοι τὸ ἐόν, generalmente accettato; il codice F rende
πέλοιτο ἐόν («potrebbe essere ciò che è», «essendo, potrebbe essere»), che una
minoranza di editori (tra gli altri Coxon e Cassin) fanno proprio. Karsten
propose di emendare il testo come ἔπειτ’ ἀπόλοιτο ἐόν («potrebbe poi perire ciò
che è»), soluzione accolta da Kranz (Vorsokratiker, V edizione), ma oggi
abbandonata. 13 La forma [εἰ γὰρ] ἔγεντ΄ è correzione (Preller) non attestata
nei manoscritti simpliciani della edizione di Simplicio, che riportano invece ἔγενετ΄
(EF) e ἔγετ΄ (D). 14 Qui, in vece di ἄπυστος (De Caelo A e Fisica F), nei
codici DE del commento al De Caelo abbiamo ἄπαυστος («incessante»), nel
commento alla Fisica (ed. aldina) ἄπιστος («incredibile»), in Fisica DE il
testo corrotto ἄπτυστος. 139 αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν ἔστιν ἄναρχον
ἄπαυστον, ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε15 μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής.
ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον16 καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται [30] χοὔτως ἔμπεδον αὖθι
μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, οὕνεκεν
οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν 17 δ΄ ἂν παντὸς
ἐδεῖτο. ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. [35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος,
ἐν ᾧ 18 πεφατισμένον19 ἐστίν, 15 Cordero ha restituito τῆλε sulla base dei
codici EW di Simplicio (Phys.); i codici DF riportano τῆδε (τῆ δὲ E a ). 16
Della prima parte del verso abbiamo due redazioni: i codici di Simplicio (Phys.)
riproducono (con varianti) ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον; quelli di Proclo (in
Parmenidem 1134.22, 1177.5/6) ταὐτόν δ’ ἐν ταὐτῷ μίμνει («identico, resta in un
identico [luogo]»). 17 La prima parte del verso è trasmessa con varianti nei
manoscritti di Simplicio (Phys.): ἐπιδευές· μὴ ἐὸν (30, 10, 40, 6 Ea F) ovvero ἐπιδεές·
μὴ ἐὸν (30, 10. 40, 6 DE); ἐπιδευές· μὴ ὂν (146, 6 EF) o ἐπιδεές· μὴ ὂν (146, 6
D). Da un punto di vista metrico, ἐπιδευές· μὴ ἐὸν non regge; d'altra parte ἐπιδεές
non è forma epica: Cerri (pp. 234-5), che discute ampiamente i problemi
connessi con la scelta del testo greco più plausibile, propende – con riserve –
per l’adozione della soluzione ἐπιδεές, accettabile appunto per la misura del
verso. Analogamente Coxon (p. 208). Vari editori (Tarán, O'Brien, Palmer,
Graham), invece, seguendo la proposta di Bergk, espungono μὴ, conservando la
forma epica ἐπιδευές. Passa (pp. 112 ss.) ha con buoni argomenti suffragato la
scelta di Cerri, marcando come ἐπιδεές riflettesse in origine, prima ancora
dell'atticizzazione del testo, l'adozione da parte di Parmenide, autore
tardo-ionico, di forme dello ionico parlato, in cui già era caduta la più
antica forma indoeuropea [w]: egli avrebbe preferito all'ἐπιδεῖς parlato la
sinizesi ἐπιδεές, «la sola grafia adeguata a un testo scritto». Preferiamo,
pertanto, evitare di ricorrere alla espunzione proposta da Bergk, conservando ἐπιδεές·
μὴ ὂν. 18 I manoscritti di Simplicio riportano ἐν ᾧ, quelli di Proclo ἐφ’ ᾧ,
dal significato sostanzialmente equivalente. O'Brien (p. 55) ipotizza che in
origine la formula di Proclo dovesse essere glossa per precisare il senso di ἐν
ᾧ. La lezione di Proclo è adottata da Cordero, seguito da Couloubaritsis. 19 I
codici di Proclo e Simplicio (Phys. 146, 8; 87, 15 F; 143, 23-24 EF) riportano
πεφατισμένον, privilegiato dagli editori; altri manoscritti di 140 εὑρήσεις τὸ
νοεῖν· οὐδὲν γὰρ < ἢ > ἔστιν20 ἢ ἔσται ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε
Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον21 ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι22· τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται 23 , ὅσσα
βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, [40] γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί
τε καὶ οὐχί, Simplicio (Phys. 87, 15 DE; 143, 23-4 D) presentano invece
πεφωτισμένον («è illuminato»). 20 Il testo del codice di Simplicio (Phys. 146,
9) riporta οὐδ’ εἰ χρόνος ἐστὶν («nemmeno se il tempo esiste»), che,
metricamente accettabile, appare poco sensato nel contesto. Coxon (seguito da
Conche) ha accolto la variante οὐδὲ χρόνος («And time is not»), che, a sua
volta, non risulta però illuminante. Tra le proposte per aggiustare il senso
del verso troviamo quella di Bergk - οὐδ’ ἦν γὰρ («né esisteva infatti») – e
soprattutto quella di Preller (la più adottata), che (con qualche perplessità)
seguiamo: οὐδὲν γὰρ ἔστιν [+ ἢ ἔσται]. Essa riprende (integrandola con la
congiunzione ἢ) una citazione di Simplicio (Phys. 86, 31) – οὐδὲν γὰρ ἔστιν –.
Va dato comunque atto a Coxon che il suo argomento a favore della lezione
χρόνος di Simplicio in Phys. 146, 9 è buono: essa si trova, in effetti, nel
contesto della citazione continua dei primi 52 versi del frammento (B8), quasi
a garanzia di uno sforzo di attenta trascrizione dell’originale, mentre l’altra
lezione (Phys. 86, 31) ha più l’aria di una libera parafrasi. Le difficoltà di
questo passaggio potrebbero dunque suffragare l'ipotesi di interventi di
montaggio sulla copia del poema disponibile a Simplicio. 21 I manoscritti EF di
Simplicio (Phys. 146, 11; 87, 1) riportano οὖλον (D ὅλον); l'Anonimo (In
Theaet.) οἶον («solo»); Platone (Teeteto 180 e1), Eusebio, Teodoreto οἷον
(«come»). 22 I manoscritti di Simplicio riportano τ΄ ἔμεναι (Phys. 146, 11)
ovvero τ΄ ἔμμεναι (Phys. 87, 1 EF; D τ΄ ἔμμενε); quelli di Platone, Eusebio,
Teodoreto (e Simplicio Phys. 29, 18; 143, 10) τελέθει; l'Anonimo τε θέλει. 23
Il secondo emistichio è di difficile decifrazione nei manoscritti. Nei codici
di Simplicio prevalgono tuttavia due lezioni, prevalentemente adottate dagli
editori: (i) πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται (Diels-Kranz, Tarán, Cordero, Coxon, O'Brien,
Conche, Cassin, Reale, Cerri); (ii) πάντ΄ ὀνόμασται (Mourelatos, Casertano,
Kirk-Raven-Schofield, Gallop). Gli accertamenti più recenti sui manoscritti
sembrerebbero suffragare questa seconda lettura, che ha un riscontro anche in
B9.1. Accanto a varianti secondarie, abbiamo come lezione alternativa il testo
di Platone (Teeteto 180 e1), seguito dal commentatore anonimo del Teeteto,
Eusebio, Teodoreto: παντὶ ὄνομ (α) εἶναι. Abbiamo mantenuto la lezione
Diels-Kranz perché, nel contesto, ci sembra più naturale il senso che se ne può
ricavare, anche in traduzione. 141 καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν.
αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον
ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον [45] οὔτε τι βαιότερον
πελέναι χρεόν24 ἐστι τῇ ἢ τῇ. οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν 25 ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι26
εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν 27 ἔστιν ὅπως εἴη κεν28 ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν
ἐστιν ἄσυλον· οἷ 29 γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει30 . [Fonti
principali: vv. 1-52 Simplicio, In Aristotelis Physicam 145-146, vv. 1-14 id.
78] 24 Si veda l'annotazione a χρεών, v. 11. In questo caso i manoscritti
riportano sia la forma χρεών, sia la forma χρεόν (sul piano filologico lectio
difficilior), che, come sottolinea Passa (p. 81) difficilmente può intendersi
come corruzione di χρεών. Manteniamo dunque la forma χρεόν, consapevoli
dell'improbabilità del fatto che Parmenide impiegasse la stessa formula πελέναι
... ἐστιν, ricorrendo ora a χρεών ora a χρεόν. 25 La lezione dei codici di
Simplicio è οὔτε γὰρ οὔτε ἐόν (ovvero ὄν): l’edizione aldina emendò οὔτε ἐόν in
οὐκ ἐὸν, per lo più accettato. Diels (1897) preferì l’alternativa οὔτεον (= οὔ
τι), forma rara dell’indefinito. 26 La forma ἱκνεῖσθαι è attestata in Simplicio
(Phys. DE), accolta dagli editori. Simplicio F riporta invece κινεῖσθαι. 27 Il
testo dei codici di Simplicio è οὔτε ὄν, emendato da Karsten in οὔτ΄ ἐὸν. 28 La
forma κεν è emendazione di Karsten: i codici DEF di Simplicio riportano καὶ ἓν;
l'edizione aldina κενὸν. 29 La lettura οἷ (dativo del pronome personale) si è
affermata nel corso dell’ultimo secolo, a partire dalla proposta di Diels, il
quale però intendeva οἷ come un relativo («verso cui»). I manoscritti (DEF) di
Simplicio riportano οἱ (articolo determinativo ovvero dimostrativo), emendato
nell’edizione aldina come ἦ (espressione omerica per «in effetti», «certo»). 30
Così già leggeva Diels; i manoscritti di Simplicio riportano in effetti κυρεῖ
(EF), ovvero κυροῖ (D): κύρει è emendazione degli editori. 142 Unica1 parola2
ancora, della via3 che4 «è», rimane; su questa [via] sono5 segnali6 1 Il
complesso della costruzione greca (aggettivo, avverbio, sostantivo e verbo)
μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο accentua la connessione logica del frammento con
quanto precede: prospettate le due vie, esclusa una delle due come
impercorribile, discusse le contaminazioni dei mortali, «rimane una sola via»
da esaminare, quella, appunto, ὡς ἔστιν. Sebbene chiaramente l’aggettivo mónoj
si riferisca a μῦθος, molti traduttori di fatto lo applicano a ὁδοῖο: «One path
only is left for us to speak of» (Burnet), ovvero «So bleibt nur noch Kunde von
Einen Wege» (Diels), «One way only is left to be spoken of» (Raven). 2
Ricordiamo che il termine μῦθος ricorreva già in B2.1, qualificato dalla fonte
divina: la «parola» (ovvero il «discorso») proferita dalla Dea doveva essere
accolta, meditata e custodita dal kouros. Il valore del termine sembrerebbe
dunque nel contesto quello di parola, discorso di Verità. Nella relativa nota
di B2.1 abbiamo richiamato alcune recenti posizioni interpretative: Morgan (K.
Morgan, Myth and Philosophy From the Presocratics to Plato, cit., pp. 17-18)
sottolinea nell’uso di mythos il valore di «authoritative speech act»;
Couloubaritsis (La pensée de Parménide, cit., p. 541) insiste sullo stesso
valore con una traduzione poco familiare: «ma façon de parler autorisée». 3 Il
genitivo ὁδοῖο è per lo più reso come genitivo oggettivo, di argomento, in
relazione a μῦθος, di cui specificherebbe il contenuto. Cerri (p. 219) difende
una sua interpretazione “partitiva” («di via, resta soltanto una parola»),
riferendolo alle vie prese in esame. 4 Il valore della congiunzione ὡς sarebbe
– secondo Mansfeld (p. 93) – complesso: non significherebbe semplicemente
«che», ma anche «come». Per tale valore si veda il parallelo di B1.31. 5 Coxon
(p. 194) sottolinea la contrapposizione tra σήματ΄ ἔασι e il successivo (v. 55)
σήματ΄ ἔθεντο («posero segni»): alla convenzionalità dell’imposizione umana è
opposta l'oggettività delle evidenze dell’Essere. 6 Il greco σήματα può
rendersi nel contesto come «indizi», «segnali», anche «evidenze» (monuments,
Coxon p.194). Essi possono essere intesi anche come i «riferimenti» che
consentono di mantenere la propria direzione lungo una via: essi
garantirebbero, in altre parole, al pensiero di non perdersi. Così, secondo
Cordero (By Being, It Is, cit., p. 168), i σήματα sarebbero indicazioni,
«prove» del carattere necessario e unico del fatto di essere: pietre miliari e
segnavia che indicano che il pensiero sta seguendo la via giusta. Thanassas (p.
44), a sua volta, ritiene che i σήματα – rigorosamente parlando – non siano da
intendere come segni dell’Essere, ma della sua via, con la funzione, quindi, di
guidare lungo il percorso di conoscenza dell’Essere: il concetto di ἐόν
assicurerebbe alla via la determinazione 143 specifica. A Thanassas (pp. 54-5)
si deve soprattutto un rilievo: i «segni» fungerebbero essenzialmente da monito
contro possibili deviazioni dalla via dell’Essere, quindi non tanto da
attributi positivi, piuttosto da segnali negativi, che escludono ogni
sovrapposizione con il Non-Essere. Un aspetto valorizzato anche da Scuto (G.
Scuto, Parmenides’ Weg. Vom WahrScheinenden zum Wahr-Seienden. Mit einer
Untersuchung zur Beziehung des parmenideischen zum indischen Denken, Academia
Verlag, Sankt Augustin 2005, p. 142): tutti i segni ricavati da Parmenide
sarebbero conseguenze necessarie e inconfutabili della applicazione del
principio di fondo secondo cui l’essere non può sorgere dal non-essere. La
Stemich (pp. 211-2) propone di analizzare i segni in quanto indicatori e a un
tempo strumenti di orientamento per il kouros, segnavia ma anche descrittori
della sua condizione spirituale nel momento in cui attinga la conoscenza. Da
ricordare, in ogni caso, che il termine designa anche i «segni augurali»
interpretati dagli indovini (Cerri p. 219); per Mansfeld (p. 104) σῆμα è il
mezzo di rivelazione di una potenza superiore. L’eco religiosa potrebbe essere
deliberatamente evocata dall’autore anche per predisporre la propria audience
(interna ed esterna) alla disamina successiva. Sempre Mansfeld segnala (p. 104)
come σῆμα sia sinonimo poetico di σημεῖον, termine che ritroviamo in Melisso
(B8) e negli usi giuridici. Mourelatos (p. 94) inserisce l’interpretazione dei
σήματα all’interno del motivo della quest: per raggiungere il fine della quest
è necessario percorrere la strada «è»; per fare ciò è necessario tenere
d’occhio i «segnavia». Rimanendo fedele all’immaginario epico, Mourelatos
propone di leggere i segnavia come imperativi del tipo: «cerca sempre ciò che è
….». Di recente Chiara Robbiano (pp. 108-9) ha segnalato il nesso tra ἔλεγχος e
σήματα: essi, in effetti, come rivela la letteratura arcaica, possono essere
usati per provare, mettere alla prova (sottoporre a elenchos) l’identità di una
persona. Robbiano si riferisce all’episodio del riconoscimento di Odisseo da
parte di Penelope, dove il termine σήματα è messo in relazione alla verifica
dell’identità del mendicante: è offrendo segni che Odisseo persuade della
propria identità. Sempre alla Robbiano (pp. 125-6) dobbiamo il rilievo circa il
nesso tra σήματα e loro interpretazione. La dea guida attraverso σήματα, che
l’audience deve interpretare. La consapevolezza della necessità di interpretare
segni per giungere alla verità richiamerebbe Eraclito DK 22 B93: ὁ ἄναξ, οὗ τὸ
μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει Il signore
che ha il suo oracolo in Delfi non dice, non nasconde, ma dà segni. Il modello
che la dea in questo caso evocherebbe sarebbe, dunque, quello di un dio che
invia segnali ai mortali, per far loro conoscere cose normalmente 144 molto
numerosi: che7 senza nascita8 è ciò che è9 e senza morte10 , fuori della loro
portata. La Robbiano, per altro, concorda con Cerri (p. 214) sul fatto che
σήματα non si riferirebbe ai predicati enumerati in B8.2-6, ma ai successivi
argomenti. A una funzione essenzialmente argomentativa dei σήματα ha pensato
invece Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 146): i «segni» costituirebbero gli
argomenti della dimostrazione, coincidendo di fatto con gli attributi fondamentali
dell’essere. Essi sarebbero in parte dimostrati nel seguito, in parte assunti
senza dimostrazione, fungendo da medi aristotelici e contribuendo al carattere
razionale della dimostrazione. 7 Della proposizione introdotta da ὡς (ἀγένητον ἐὸν
καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν) esistono varie traduzioni possibili: (a) intendendo ὡς
come congiunzione dichiarativa: «Being is ungenerable and imperishable» (Tarán
p. 85); «whatis is ungenerable and imperishable» (Mourelatos p. 94); (b)
intendendo ὡς come congiunzione causale: «since it exists it is unborn and
imperishable» (Guthrie p. 26); «étant inengendré, est aussi impérissable»
(O’Brien, p. 171); analogamente Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 146). La
costruzione σήματa … ὡς può (e probabilmente intende nel nostro contesto)
indicare sia la significazione del come (dell’Essere) in senso descrittivo, sia
il che (dell’Essere) in senso dichiarativo. I segni devono rivelare l’ἐόν e
dunque la loro funzione può sembrare quella di indicare il che; al contempo,
manifestandolo, consentono di prendere consapevolezza della sua natura (per cui
il come potrebbe essere giustificato). Da apprezzare (secondo Mourelatos, p.
95), infine, la struttura che viene introdotta a partire da questo punto:
Parmenide annuncia programmaticamente tutti i segnavia, quindi procede a una
loro giustificazione. 8 Il greco ἀγένητον ricorre in pensatori contemporanei o
di poco posteriori a Parmenide, come Eraclito (citazione di Ippolito di B50): Ἡ.
μὲν οὖν φησιν εἶναι τὸ πᾶν διαιρετὸν ἀδιαίρετον, γενητὸν ἀγένητον, θνητὸν ἀθάνατον,
λόγον αἰῶνα, πατέρα υἱόν, θεὸν δίκαιον· ‘οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν
σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι’ ὁ Ἡ. φησι. Eraclito sostiene che il tutto è diviso
indiviso, generato ingenerato, mortale immortale, logos eterno, padre figlio,
dio giusto, e afferma: énon me ascoltando, ma il logos, è saggio convenire che
tutto è uno», ed Empedocle (B7, dal Lessico di Esichio): ἀ γ έ ν η τ α : στοιχεῖα.
παρ’ Ἐμπεδοκλεῖ «Ingenerati»: gli elementi secondo Empedocle. 145 L'aggettivo
indica dunque ciò che è ingenerato in contrapposizione a ciò che ha nascita
(Eraclito), ovvero gli elementi primordiali, che non sono generati da altro ma
che tutto generano. Diogene Laerzio sostiene (IX, 19) che Senofane sarebbe
stato il primo ad affermare che «tutto ciò che è generato è corruttibile» (πρῶτός
τε ἀπεφήνατο, ὅτι πᾶν τὸ γινόμενον φθαρτόν ἐστι). Secondo Coxon (p. 195), il
termine potrebbe essere di conio parmenideo. Della stessa idea Mourelatos (p.
97), secondo cui esso ricorrerebbe qui per la prima volta nella letteratura
greca, assumendo un significato più forte del semplice «ingenerato»: ἀγένητον
in Parmenide escluderebbe ogni forma di processo in cui qualcosa venga
all’essere. Possiamo qui notare di passaggio che la caratteristica essenziale
dei segni parmenidei è quella di presentarsi come negazioni (alfa privativo +
aggettivo) di qualcosa di significante all’interno del linguaggio e della
esperienza dei mortali (Ruggiu p. 277). 9 Come già segnalato, traduciamo ἐόν
come «ciò che è», segnalando invece τὸ ἐόν come «l’essere»: per noi si tratta
di espressioni sinonime, ma la seconda, con l’articolo, è la formula più
astratta. Nel contesto ἐόν, come forma participiale, potrebbe essere reso con
valore verbale (come fa, per esempio Leszl, p. 171): «essendo ingenerato è
anche imperituro». In tal caso, però, le altre determinazioni rischierebbero di
essere subordinate alle prime due. Si può segnalare in questo contesto quanto
sottolineato da Scuto (op. cit., p. 141), secondo cui in Parmenide assisteremmo
al passaggio da un valore ancora temporale del participio a un significato
atemporale: si tratterebbe di una netta correzione nella direzione
dell'astrazione, con cui dall’esperienza della costante mutevolezza degli enti
si concluderebbe nella certezza di un essere sottratto al tempo. 10
L’espressione ἀνώλεθρόν, come la precedente - ἀγένητον - formata con l’alfa
privativo, indica letteralmente «ciò che è senza distruzione [morte] (ὄλεθρος)».
Si tratta di termine veramente raro nella letteratura arcaica: prima di
Parmenide ricorre una volta in Omero (Iliade XIII.761); dopo Parmenide
ricompare per la prima volta solo in Platone (Cerri, p. 220). Nella
testimonianza di Aristotele (Fisica III, 4 203 b13, DK 12 A15; 12 B3), in
riferimento ad Anassimandro, abbiamo: καὶ τοῦτ’ εἶναι τὸ θεῖον· ἀθάνατον γὰρ καὶ
ἀνώλεθρον [B 3], ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν φυσιολόγων E tale
sembra essere il divino; è infatti immortale e imperituro, come dicono
Anassimandro e la maggior parte dei filosofi della natura. Ciò potrebbe
significare che l’aggettivo era stato effettivamente impiegato dai pensatori
arcaici: Conche (p. 131) è convinto che il termine sia anassimandreo. In ogni
caso, i due aggettivi – ingenerato e imperituro – corrispondono alle
tradizionali connotazioni degli dei come sempre esistenti, immortali. 146 tutto
intero11, uniforme12, saldo13 e senza fine14; 11 Il termine οὖλον (che rendiamo
come «tutto intero» per dar ragione sia della totalità sia della integrità
implicite) è di diretta eco senofanea: οὖλος ὁρᾶι, οὖλος δὲ νοεῖ, οὖλος δέ τ’ ἀκούει
Tutto intero vede, tutto intero pensa, tutto intero ode (DK 21 B24). 12
Nonostante le difficoltà rilevate (Kranz, poi ripreso da Reale) nell'uso di
μουνογενές dopo ἀγένητον (v. 3), Tarán (p. 92) ha buon gioco nel marcare il
valore derivato dell’aggettivo, che anche in Eschilo (Agamennone 808) non ha
significato letterale di «unigenito», ma quello di «unico». Cerri (p. 221),
collegando μουνογενές all’epiteto sacrale di Ecate (secondo Esiodo, Teogonia
426, 488), valorizza la «metafora arditissima» proprio nella «contraddizione
sarcastica» ad ἀγένητον. In realtà la radice *γεν esprime sia la nozione di
“nascere”, “divenire”, sia quella di “essere”, “esistere”. Il termine
μουνογενές potrebbe alludere a γένος piuttosto che a γίγνεσθαι e dunque
veicolare l’idea di unicità. Mourelatos (pp. 113-4) suppone che Parmenide usi
μουνογενές in diretta opposizione alla formula tradizionale per esprimere
distinzioni, familiare da Esiodo: Οὐκ ἄρα μοῦνον ἔην Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν
εἰσὶ δύω Non c’era dunque un solo genere di Eris; sulla τerra ce ne sono due
(Opere e giorni 11-12). L’aggettivo μουνογενές si contrapporrebbe a μορφὰς δύο
(B8.53): dietro οὖλον μουνογενές ci sarebbe dunque il rifiuto della
contrarietà. Alcuni interpreti (Barnes, per esempio) associano μουνογενές a ἀτρεμὲς:
"monogeneity" e immobilità sarebbero poi contestualmente riprese ai
vv. 26-33. Secondo R.J. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of
Changelessness", in Presocratic Philosophy…, cit., p. 73) questa soluzione
è grammaticalmente più consona rispetto alla associazione alternativa a οὖλον,
sebbene rimanga preferibile considerare l'aggettivo indipendentemente, nel
significato di «uniforme». 13 L’aggettivo ἀτρεμές esprime stabilità, solidità,
immutabilità: Conche (p. 133) vi coglie la «calma» dell’Essere, in contrasto
con l’«inquietudine» degli enti. Coxon (p. 195) associa l’aggettivo alle
successive espressioni ἀκίνητον (vv. 26 e 38: «immobile»), ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ
τε μένον (v. 29: «identico e nell’identica condizione perdurando») e ἔμπεδον αὖθι
μένει (v. 30: «stabilmente dove è rimane»): esse denoterebbero identità esente
da mutamento temporale. Alle stesse connessioni rinvia anche McKirahan (R.
McKirahan, “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford 147 [5] né un
tempo15 era16 né [un tempo] sarà, poiché17 è ora18 tutto insieme19 , Handbook
of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford
2008, p. 210), il quale però insiste nel suggerire che l’aggettivo sia inteso a
esprimere il fatto che «ciò-che-è» è pienamente e non può cessare di essere
pienamente, effetto dei limiti che costringono la sua natura. Esso sarebbe,
quindi, impiegato per indicare qualcosa di più e di diverso dalla mera assenza
di cambiamento e movimento fisico. Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 147),
tra gli altri, leggendo il verso come ἔστι γὰρ οὐλομελές τε καὶ ἀτρεμὲς, lo
avvicina a Platone, Fedro 250 c3: ὁλόκληρα δὲ καὶ ἁπλᾶ καὶ ἀτρεμῆ καὶ εὐδαίμονα
φάσματα μυούμενοί integralmente perfette e semplici e senza tremore e felici
erano le visioni cui eravamo iniziati. Si tratterebbe di un riferimento ai
misteri eleusini, dove ὁλόκληρα («integralmente perfette») corrisponderebbe a οὐλομελές,
indicando la completezza di struttura fisica, mentre ἀτρεμές ritorna identico,
evocando «di Verità ben rotonda il cuore fermo» (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ
B1.29). La ripresa platonica suggerirebbe allora una direzione interpretativa
alternativa: uno sguardo sul mondo della alētheia indimostrato, il cui
apprendimento è intuitivo, tanto da essere paragonato alla conoscenza
misterica. 14 Leggo ἠδ΄ ἀτέλεστον – con DK, Coxon, O’Brien, Conche, Reale,
Heitsch e altri – attestato da Simplicio. Il valore da attribuire a ἀτέλεστον
dovrebbe essere, nel contesto, quello di «senza fine», «senza termine». Cerri
(pp. 222- 3) interpreta l’aggettivo letteralmente come «incompiuto»,
riferendolo, senza interpunzione, alla riga successiva: «incompiuto mai fu un
tempo, né sarà, poiché è ora tutto omogeneo». Da notare che Simplicio (Phys. 30,
4), volendo accostare Parmenide a Melisso, asserisce che l’essere di Parmenide
è ἄπειρον, con ciò intendendo probabilmente ἀτέλεστον (Tarán, p. 93). 15
Intendendo οὐδέ ποτe come formula avverbiale, avremmo «non mai, giammai».
Abbiamo preferito conservare πότe come avverbio separato dalla negazione,
riferendolo sia a ἦν sia a ἔσται. Ruggiu (p. 283) interpreta πότε come
indicatore della generale dimensione temporale, cui Parmenide contrapporrebbe
l’ἔστιν rafforzato dal νῦν, a esprimere il presente atemporale. 16 In questo
verso, come ha fatto giustamente osservare O’Brien (“L’Être et l’Éternité”, in
Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, Tome II Poblèmes
d’interprétation, p. 149), gli avverbi (πότε, νῦν) sono fondamentali come le
tre forme verbali di εἶναι (ἦν, ἔσται, ἔστιν). 148 17 Non è chiaro se ἐπεί si
riferisca immediatamente solo a νῦν ἔστιν o anche a ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές, cioè
se anche questi attributi concorrano alla determinazione delle due affermazioni
iniziali del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται: appare, in effetti, più semplice
escludere la possibilità che «ciò che è» (ἐόν) sia stato (e in qualche modo non
sia più) o debba essere in futuro (e in qualche modo non sia ancora) per il
fatto che esso è ora tutto insieme, uno e compatto, cioè che è pienamente,
senza mancare di alcunché che coinvolga in qualche modo «non è» (McKirahan, p.
207). 18 L’avverbio νῦν, come giustamente sottolinea Coxon (p. 196), non denota
un istante o una unità temporale, ma la simultaneità. Secondo Conche (p. 136),
«l’essere è, “ora”», irriducibile a un istante senza durata, o a una durata
temporale, che implichi successione di prima e poi. Così l’«ora» indicherebbe
una «durata senza successione» (come il «durare di Dio» secondo Tommaso).
O’Brien (Études, II, pp. 335-362) sottolinea il nesso con ἀγένητον e ἀνώλεθρόν:
la Dea intenderebbe escludere generazione e corruzione e dunque, in quanto
ingenerabile e indistruttibile, l’Essere sarebbe eterno. Secondo Cordero (By
Being, It Is, cit., p. 171) Parmenide usa il tempo presente ἔστιν per marcare
la presenza propria dell’«ora» (νῦν), cioè il permanente presente dell’essere:
l’essere non avrebbe nulla a che fare con il tempo strutturato in momenti
temporali. A queste letture si contrappongono tradizionalmente quelle che, nel
rilievo dell’avverbio temporale νῦν e nella contestuale negazione di passato e
futuro, colgono la presenza di una concezione ardita e profonda: l’Essere
sarebbe presente eterno, fuori dal tempo. Privilegiano questa dimensione della
“atemporalità” dell’Essere parmenideo, tra gli altri, Calogero, Mondolfo,
Gigon, Untersteiner, Reale (e Ruggiu nel suo commento). Mourelatos (pp. 103
ss.) ritrova nell’uso parmenideo dell’ἔστι il richiamo a una pratica
consolidata in ambito matematico: proposizioni senza implicazioni temporali
(tenseless) sono le verità necessarie - definizioni, verità classificatorie e
implicazioni logiche – cui la «predicazione speculativa» di Parmenide si
sarebbe ispirata. In B8.5 l’enfasi è ancora su νῦν ἔστιν, che suggerirebbe un
condizionamento temporale. Il senso del verso, tuttavia, sarebbe, secondo
Mourelatos: «né mai era, né sarà, né è ora, dal momento che semplicemente è».
In direzione analoga si muove Thanassas (p. 47), per il quale l’intenzione di
Parmenide in B8.5 sarebbe quella di marcare l’irrilevanza dello sviluppo del
tempo in passato, presente e futuro per il suo progetto ontologico: l’Essere
non è nel tempo, non ha storia né futuro, risultando estraneo a ogni mutamento.
Tarán (p. 95) insiste, a sua volta, per intendere il verso nel senso di una
continua durata temporale. È significativo, comunque, che sia assente una
esplicita argomentazione di νῦν ἔστιν, che per McKirahan (p. 206) sarebbe
conseguenza di «ciò-che-è è» (B2.7-8, B6.1-2) e riconducibile all’essenziale
pienezza dell’essere di ciò-che-è. Hankinson ("Parmenides and the
Metaphysics of Changelessness", cit., p. 73) propone una lettura 149
uno20, continuo21. Quale nascita22, infatti, ricercherai di esso? originale: in
forza degli attributi che τὸ ἐόν possiede «ora» (completezza, autosufficienza
ecc.), non ha senso supporre che possa non esistere in qualche momento del
passato o del futuro. 19 Conche (pp. 137-8), che valorizza il nesso con
l’avverbio precedente, traduce ὁμοῦ πᾶν come «tout entier à la fois»,
accostandolo al tota simul con cui Boezio (e poi Tommaso) caratterizzava
l’eternità. 20 Tra i «segni» destinati a gravare sul destino del pensiero
parmenideo, questo è senz’altro il più importante. Nel contesto, tuttavia, ἕν è
solo uno dei segni, inserito in una sequenza - ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές – in cui
l’autore sembra insistere sulla compiutezza, integrità e omogeneità dell’essere
piuttosto che sulla sua unicità. Come opportunamente marcato da McKirahan (p.
215), infatti, è probabile che μουνογενές e ἕν fossero sostanzialmente intesi
come sinonimi, in relazione al gruppo di attributi οὖλον, ὁμοῦ πᾶν, συνεχές, la
cui giustificazione argomentativa ritroviamo ai vv. 22-25. Come giustamente
rileva Conche (p. 138), l’essere è «uno», non l’Uno della posteriore tradizione
platonica-neoplatonica. Alla lezione ἕν, συνεχές di Simplicio, Untersteiner
preferisce quella alternativa di Asclepio: οὐλοφυές, «un tutto naturale». Coxon
osserva (p. 196) che questo è l’unico luogo in cui sia usato da Parmenide il
termine ἕν, il cui posto sarà poi preso da oὐδὲ διαιρετόν (v. 22), con cui –
qui e in v. 25 – συνεχές è virtualmente sinonimo. Mourelatos (p. 95, nota)
legge come un unico blocco ὁμοῦ πᾶν ἕν, interpretando ἕν come predicato
modificato dall’avverbio ὁμοῦ e dal pronome πᾶν: il senso complessivo sarebbe
«all of it together one». Secondo Cordero (By Being, It Is, cit. p. 177),
Parmenide intenderebbe marcare come il «fatto d’essere» sia denominatore comune
a tutte le cose, affermando che esso è unico, non che tutte le cose sono uno
ovvero che l’essere è l’Uno. Ruggiu (p. 286), pur non accettando la variante οὐλοφυές,
ritiene che l’Essere valga come intero: esso non espungerebbe il molteplice,
ricomprendendolo piuttosto in sé. 21 L’aggettivo συνεχές, in relazione con il
precedente ἕν, sottolinea il fatto che «ciò che è» è «uno con se stesso»
(Conche p. 139). Non è del tutto perspicua la connessione di questa ultima
serie di attributi con quella introdotta ai vv. 3-4: si tratta di implicazioni
dei precedenti ovvero di nuovi attributi? In ogni caso, qui termina l’elenco
dei segni. Da questo momento in avanti si apre la loro discussione
argomentativa, che altri (per esempio Heitsch, Leszl, Plamer) fanno iniziare
dal v. 5. 22 Il termine γέννα potrebbe tradursi più semplicemente con
«origine», ma, seguendo il suggerimento di Coxon (p. 197), insistiamo sul
valore biologico della espressione. È possibile che – come nota la Stemich
(Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, cit., p. 214) – in questo
passaggio il filosofo contrapponga alla comune accezione religiosa (per cui le
divinità sono sì 150 Come23 e donde cresciuto24? Da ciò che non è non
permetterò25 che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare26 che
«non è»27. Quale bisogno28, inoltre29, lo avrebbe spinto30 , [10] originando31
dal nulla, a nascere32 più tardi o33 prima34? immortali, ma non senza nascita)
la sua concezione dell’essere, appunto «senza nascita e senza morte». 23 La
formula interrogativa πῇ πόθεν potrebbe rendersi (con O’Brien e Cassin): «verso
dove e da dove?», accentuandone le implicazioni spaziali, insistendo cioè su
direzione e verso della crescita. Anche Mourelatos (p. 98, nota), attribuisce
senso locale a πῇ. 24 Il passaggio dal sostantivo (γέννα) al participio aoristo
(αὐξηθέν), con relativo cambio di sintassi, e il successivo (v. 8) implicito
riferimento all’infinito aoristo αὐξηθῆναι (essere cresciuto) in relazione agli
infiniti φάσθαι e νοεῖν, evocherebbero, secondo Coxon (p. 197) una tipica
situazione di dibattito (quindi di oralità). McKirahan (p. 193) ha sottolineato
le implicazioni tra le tre domande: assumendo che generazione e crescita siano
equivalenti (come ragionevolmente attestato dai successivi vv. 9-10), la
seconda e la terza domanda possono essere interpretate come riferentesi alle
sue condizioni necessarie: la generazione è un processo («come») che richiede
un’origine («donde»). 25 La formula οὔτ΄ … ἐάσω (futuro preceduto dalla
negazione) vuol marcare la proibizione logica imposta e fatta rispettare dalla
razionalità della Dea. 26 Letteralmente οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν dovrebbe
rendersi come «non è infatti dicibile e pensabile», con la proposizione
introdotta da ὅπως come soggettiva. I due aggettivi - φατόν e νοητόν – hanno
dunque complessivamente il senso di «cosa che si possa dire e pensare». 27
Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", cit.,
p. 77) suggerisce come soggetto implicito di οὐκ ἔστι «the potential
generator»: è la generazione dal non-essere che è impensabile. 28 La formula τί
χρέος; è corrispettivo poetico dell’ordinario interrogativo τί χρήμα; «quale
circostanza?» (Coxon p. 198). Gemelli Marciano (II, p. 87) rinvia a Pindaro e
Eschilo per la sua traduzione («Verpflichtung», dovere, servizio). 29 Come
segnalato da O'Brien nel suo commento (p. 50), la funzione di καί in questo
caso non è solo avverbiale: esso rinforza l'interrogazione. 30 Rendiamo in
questo modo la forma «irreale» dell’interrogativo (che suggerisce una risposta
negativa) veicolata da ἄν + l’aoristo. 31 Rendiamo in questo modo il participio
aoristo ἀρξάμενον, che in realtà dovrebbe implicare anteriorità rispetto
all'azione espressa dall'infinito φῦν: altri preferiscono ricorrere a
perifrasi: «se comincia dal nulla» (Pasquinelli), «se fosse nato dal nulla»
(Cerri), «se trae inizio dal nulla» (Tonelli). 151 Così35 è necessario36 sia
per intero o non sia per nulla37 . 32 L'infinito aoristo φῦν può essere reso
come «nascere\sorgere» o «crescere»: i traduttori si dividono. 33 La particella
ἢ può avere funzione disgiuntiva («o»), ovvero esprimere una comparazione (=
quam). 34 Traduco letteralmente ὕστερον ἢ πρόσθεν. Le versioni più diffuse
sono: «früher oder später» (Diels), «prima o poi» (Calogero), «later or sooner»
(Tarán), «dopo o prima» (Reale), «dopo piuttosto che prima» (Cerri), «later or
before» (Coxon), «plus tard, plutôt qu’ […] auparavant» (O’Brien). In effetti ὕστερον
è comparativo dell’avverbio, ma πρόσθεν no: quindi, letteralmente «più tardi
che [\o] prima», sebbene la costruzione possa sembrare asimmetrica. Nei versi
9-10 avremmo una delle prime applicazioni del cosiddetto «principio di ragion
sufficiente»: nulla si verifica senza una ragione sufficiente a spiegare perché
si verifichi così e non altrimenti. Secondo Conche (p. 141), si tratterebbe
della seconda applicazione, dopo quella di Anassimandro (per dimostrare la
centralità immobile della Terra nel cosmo), e dominerebbe nel complesso il
«pensiero dell’essere» di Parmenide. Una opinione diversa in proposito è
espressa da Leszl (pp. 182-5), che interpreta come se Parmenide intendesse marcare
l’assenza di una ragione (causa) perché l’essere si generi in un qualsiasi
momento: il non-essere, nella sua completa negatività, non potrebbe offrirne
alcuna. In realtà, come viene rilevato acutamente da McKirahan (p. 194), delle
due possibili traduzioni di ὕστερον ἢ πρόσθεν, «più tardi o più presto» ovvero
«più tardi piuttosto che più presto», la prima evidenzia come manchi una
ragione per cui ciò che è debba generarsi, cioè non ce ne sia in alcun momento;
la seconda, invece, in modo più sofisticato e coinvolgendo il “principio di
indifferenza”, sottolineerebbe come non ci sia ragione perché esso si generi
«in un momento qualsiasi piuttosto che in un altro». Sempre McKirahan osserva
come l’argomento sia formulato in termini di domanda retorica, che presuppone
una risposta del tipo: in nessuna circostanza, da ciò che non è potrebbe
generarsi qualcosa. 35 McKirahan (p. 194) ha contestato la tradizionale
traduzione di οὕτως come «così, perciò», che introdurrebbe la conclusione di
un'argomentazione. Secondo lo studioso, infatti, in tal caso il senso del v. 11
appare – nel contesto - problematico: πάμπαν πελέναι è più naturalmente
collegato all'analisi dei successivi vv. 22 ss., piuttosto che a quel che
immediatamente precede. La sua proposta è dunque quella di tradurre l’avverbio
οὕτως collegandolo alla alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ οὐχί: il suo valore
sarebbe allora «in questo modo» (cioè «essendo ingenerato»). La sua funzione
sarebbe prolettica: quanto detto nel contesto sarebbe rilevante per la
discussione successiva. A noi pare, comunque, che B8.11 concluda un passaggio
(esclusione della generazione) dell'argomento avviato nei versi precedenti. In
questo senso confermiamo la traduzione più comune. 152 Né mai 38 concederà
forza di convinzione39 36 McKirahan (p. 194) traduce χρεών ἐστιν come «è
giusto»: il suo significato - nel contesto dell’alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ
οὐχί - sarebbe quello di prospettarne i corni come «le uniche possibilità» da
considerare relativamente a ciò che è. 37 Come segnala Coxon (p. 199) la
formula ἢ οὐχί sta per ἢ οὐ χρεών ἐστι πάμπαν πελέναι «o non deve essere per
niente». Parmenide sottolinea la contraddizione e l’esclusione di una terza via
(adottando di fatto il principio del terzo escluso): la via dell’essere esclude
non solo la via del non-essere, ma anche un'impossibile combinazione tra essere
e non-essere (Conche p. 142). Secondo Mourelatos (p. 101), questo verso non
costituisce elemento della prova successiva, ma serve solo a ricordare la
krisis radicale, la «decisione», operata in connessione con le due vie. 38
Avendo accolto con cautela la correzione di Karsten del testo tràdito, dobbiamo
comunque osservare che lo stesso Simplicio, parafrasando due volte il nostro
passo (Phys. 77, 9; 162, 11), offre il senso della emendazione: καὶ γὰρ καὶ
Παρμενίδης ὅτι ἀγένητον τὸ ὄντως ὂν ἔδειξεν ἐκ τοῦ μήτε ἐξ ὄντος αὐτὸ γίνεσθαι
(οὐ γὰρ ἦν τι πρὸ αὐτοῦ ὄν) μήτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος Anche Parmenide infatti
sosteneva che l'essere in senso pieno è ingenerato: mostrava che esso non si
genera né dall'essere (poiché non c'è qualche essere oltre a esso), né dal non
essere (162, 11). D'altra parte, analoga impostazione dilemmatica è attestata
anche da Aristotele in un celebre passo della Fisica (I, 8 191 a28-33), con
chiara allusione anche agli Eleati (Palmer – Parmenides & Presocratic
Philosophy, cit., pp. 129- 133 - ha contestato, con buoni argomenti, che il
testo si riferisca esclusivamente agli Eleati): Ὅτι δὲ μοναχῶς οὕτω λύεται καὶ ἡ
τῶν ἀρχαίων ἀπορία, λέγωμεν μετὰ ταῦτα. ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι
τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες
ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον
μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων
ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν
γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’
εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. 153 che nasca qualcosa40 accanto41 a esso42.
Per questo43 né nascere né morire concesse Giustizia44, sciogliendo le catene45
, Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei pensatori antichi, lo
diremo in quel che segue. Coloro, infatti, che per primi hanno indagato in modo
filosofico la realtà e la natura delle cose furono sviati come spinti lungo una
via diversa dalla loro inesperienza. Essi sostengono in effetti che degli enti
nessuno né si genera né si distrugge: poiché ciò che si genera,
necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò che non è, ma è impossibile
che ciò accada in entrambi i casi. L'essere, infatti, non si genera (perché è
già) e nulla può generarsi dal non essere, dal momento che qualcosa deve
fungere da sostrato. E sviluppandone ulteriormente le conseguenze, affermavano
allora che non esiste il molteplice, ma solo l'essere stesso. 39 L’espressione
πίστιος ἰσχύς è variamente tradotta: «la forza di una certezza» (Reale), «forza
di prova», ovvero «forza di argomentazione» (Cerri). In ogni caso, come osserva
Cerri (p. 224), è chiaro dal contesto che πίστις è termine da Parmenide
impiegato nel valore di «convinzione razionale». Coxon (p. 199) rileva come
l’Eleate scelga di esprimersi come se la certezza (πίστις, appunto) avesse un
potere attivo e non solo critico. 40 Nel τι Conche (p. 145) coglie un
riferimento all’ente: dall’essere non può essere generato né l’essere né un
ente qualunque (esso non potrebbe che essere generato da un altro ente). 41
Attribuiamo a παρά valore locativo. In alternativa gli interpreti propongono
«oltre a», ovvero «in addizione a». 42 L'infinitiva γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό
sembrerebbe giustificare la scelta della variante di Karsten - ἐκ τοῦ ἐόντος.
Difficile, infatti, trovare altrimenti un senso. Per chi assume la lezione dei
codici - ἐκ μὴ ἐόντος – è più naturale cogliere in αὐτό un riferimento al
non-essere, che appare però problematico: si dovrebbe ammettere che la Dea
introduca ipoteticamente l'esistenza del non-essere (contraddicendo i
precedenti divieti), per marcare come da esso nulla di diverso possa derivare
ovvero nulla accanto, oltre a esso possa sorgere. Mourelatos (pp. 101-2), che
segue il testo greco non emendato, riferisce comunque il pronome a ciò che è:
nella sua lettura l’espressione «che da ciò-che-non-è qualcosa venga a essere accanto
a esso» - interpretata come equivalente a προσγίγνεσθαι (accrual, accretion) -
suggerisce l’idea di crescita come addizione (accretion) a qualcosa già
esistente. 43 La preposizione εἵνεκεν, con il τοῦ dimostrativo, introduce quel
che segue come conseguenza di quel che precede (Conche p. 146). 44 Intendo Δίκη
come nome personale: Conche (p. 146), invece, nega consistenza mitica al
riferimento, riconoscendolo come «metafora» della «legge dell’essere». Dike
svolge in questo contesto quel tradizionale ruolo 154 [15] ma [lo] tiene46. Il
giudizio47 in proposito48 dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso,
secondo necessità49 , di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile50
(poiché non è una via genuina51), e che l’altra invece esista e sia reale52 .
equilibratore, di preservazione delle distinzioni e dei limiti, che abbiamo
notato nel proemio. In questo caso – come osserva Robbiano (p. 163) – il limite
che la dea deve rigidamente sorvegliare è quello che (al v. 42) è definito πεῖρας
πύματον, «limite estremo», all’interno del quale riposa sicura l’intera realtà.
L’effetto è allora quello di fungere, in quanto rigorosa garante della
separazione (tra essere e non-essere), da sorvegliante dell’interezza e
integrità dell’essere. 45 I termini impiegati da Parmenide (Δίκη, πέδῃσιν,
nella riga successiva κρίσις) insistono sul lessico giudiziario, probabilmente
per rendere con efficacia la forza della necessità logica. In effetti, come
sottolinea Cordero (By Being, It Is, cit., p. 171), Dike, con Ananke e Moira,
assicura a un tempo l'immutabile identità di ciò che è e l’inesorabilità della
via. 46 Intendiamo ἐόν come oggetto sottinteso di ἔχει, per analogia a quanto
sotto (verso 26) affermato, appunto a proposito di ἐόν. 47 Il termine greco
κρίσις – così come il successivo verbo κέκριται – veicola ancora, insieme alla
formalità del giudizio, l’autorevolezza della decisione: a marcare la forza
razionale del passaggio nella dimostrazione della Dea. È esplicito nel contesto
il riferimento all'alternativa di B2: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. In questo senso,
Mourelatos ritiene che i vv. 17-18 abbiano la funzione di richiamare (come il
v. 11) la «decisione» tra le due vie. 48 Letteralmente: «a proposito di queste
cose», ovvero sulla questione della generazione e della corruzione o della
nascita e della morte. 49 Letteralmente «come necessità»: rendiamo ἀνάγκη
(preceduto da ὥσπερ) con il suo valore generico, non personale. 50 La coppia di
aggettivi ἀνόητον ἀνώνυμον (proposti senza congiunzione) sono, a nostro avviso,
da intendersi congiuntamente come connotazione dell’impalpabilità della seconda
via (ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι). 51 L’espressione οὐ γὰρ ἀληθής
ἔστιν ὁδός si riferisce al fatto che la via «che non è (ὡς οὐκ ἔστιν)» non
conduce in vero da nessuna parte e, in questo senso, non è una «via genuina
(vera)». Conche (p. 147) insiste piuttosto sul fatto che non si tratti della
«vera via»: in altre parole, di una via che conduca alla Verità. A conclusione
del verso troviamo, invece, l’espressione τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι,
che sottolinea come «l’altra [via] invece esista e sia reale», cioè una via che
conduce effettivamente a una destinazione. Coxon (p. 168) ricorda come nelle
occorrenze del poema, ἀληθείη (B1.29) e ἀληθής (B8.17, 39) si riferiscano non
al pensiero o al 155 E come potrebbe esistere53 in futuro l’essere54? E come
potrebbe essere nato55? [20] Se nacque, infatti, non è56, e neppure [è] se57
dovrà essere58 in futuro. linguaggio ma alla realtà oggettiva. Cordero (By
Being, It Is, cit., p. 179) sostiene che per Parmenide la verità è prerogativa
di un logos presentato da una via: solo per illegittima generalizzazione, la
via stessa sarebbe da considerare vera. La verità risiede in un logos che, se
valido, ha il privilegio di essere accompagnato dalla verità: così B2.4
recitava: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ («di Persuasione è
percorso – a Verità, infatti, si accompagna»). Più avanti (B8.51) Parmenide,
introducendo la sezione del poema dedicata alla Doxa, utilizzerà la formula [νόημα]
ἀμφὶς Ἀληθείης («pensiero intorno alla Verità»). Anche per la Wilkinson
(Parmenides and To Eon…, cit., pp. 87 ss.) impropriamente una “via” può
definirsi «vera»: seguendo Mourelatos, ella suggerisce che ἀληθείη nel poema si
riferisca non alla via ma alla dea: la verità è connessa a Persuasione, Πειθώ,
che sarebbe la dea stessa del poema; al centro del poema ci sarebbe il
riferimento al discorso della dea; la via «è» potrebbe intendersi come «il mio
discorso è». 52 Il valore di ἐτήτυμος (vero, genuino, reale) è sostanzialmente
coincidente con quello di ἀληθής: i due termini sono impiegati sostanzialmente
come sinonimi. Per le differenze Germani, op. cit., pp. 184-5. 53 Coxon (pp.
202-3) difende il testo del codice F: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοιτo ἐόν, e, rilevando
in πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα formula ricorrente (tre volte) in Omero, in cui l’avverbio ἔπειτα
si riferisce alle asserzioni che seguono, rende diversamente l’intero verso:
«And how could what becomes have being, how come into being?». Il senso sarebbe
quello di contestare che ciò che diviene (what becomes) possa essere Essere o
diventare Essere. La variante (oggi trascurata) di Karsten - πῶς δ΄ ἂν ἔπειτ’ ἀπόλοιτο
ἐόν («potrebbe poi perire ciò che è») - invece, introdurrebbe un argomento
contro la corruzione. 54 Qui Parmenide usa eccezionalmente l’espressione τὸ ἐόν.
55 Ovvero «venuto a essere» o «divenuto», «essere stato». 56 Tarán (p. 105)
ritiene che il senso dell’affermazione si colga nella contrapposizione tra il
passato ipotetico di εἰ γὰρ ἔγεντο – aoristo che può riferirsi sia al processo
compiuto di venire ad essere, sia a una condizione remota («fu») - e il
presente di οὐκ ἔστι: dunque, se è venuto a essere, è ora diverso da come fu
(Tarán p. 105). Analogamente per il secondo emistichio: se sarà, se avrà da
essere, ora è diverso da ciò che sarà. Anche Mourelatos (pp. 102-3) richiama
l’attenzione sulla scelta dei modi e dei tempi verbali di questo passaggio:
γένοιτο, ottativo, non porta riferimento al tempo; ἔγεντo, 156 Così è estinta59
nascita e morte oscura60 . aoristo, si riferisce a una azione puntuale nel
passato; ἔστι, presente, veicola durata e continuità: se x è in un certo
momento, allora non è in senso continuo e assoluto. O’Brien (“L’Être et
l’Éternité”, in Études sur Parménide, cit., Tome II, p. 153) osserva come il
presente οὐκ ἔστι non si riferisca al momento fuggevole intercalato tra passato
e futuro, ma a un «presente» logico: al «nulla» anteriore a ogni possibilità di
nascita («più tardi o prima»). Analogamente Cerri, che parafrasa: «se è nato
(rinato), non esiste (nel momento in cui non è ancora nato\rinato) [...]» (p.
227). 57 Qui dovremmo intendere «se [è vero che]». 58 Il verbo μέλλω seguito da
infinito futuro (ἔσεσθαι) può rendersi come «essere sul punto di, avere
l’intenzione di». Si suppone che l’azione o la condizione indicata
dall’infinito debba ancora avvenire. La presenza dell’avverbio (ποτε) rafforza
questo aspetto temporale dell’espressione (O’Brien, “L’Être et l’Éternité”, in
Études sur Parménide, cit., t. II, p. 139). McKirahan (p. 196) interpreta i vv.
19-20 come rivolti contro la generazione nel futuro, a completamento
dell’argomento di B8.5-6, per cui ciò che è non può essere in futuro. Era
rimasta aperta la possibilità che qualcosa che non è ora possa venire a essere
in futuro: B8.19-20 negherebbero questa possibilità. Mourelatos (pp. 106-7)
parafrasa diversamente il verso: «ciò che una cosa arriva a essere non è ciò
che la cosa realmente è, nella sua essenza o natura». Egli vi coglie un
contrasto non tra «arrivare a essere» e «essere durevolmente», piuttosto tra
tempo e atemporalità. 59 O’Brien e Cerri pongono ἀπέσϐεσται («è
estinta\spenta») come complemento verbale sia di γένεσις (genesi, nascita) sia
di ὄλεθρος (distruzione, morte). Soluzione che abbiamo preferito a quella,
adottata da molti, che invece sottintende il verbo essere nel secondo
emistichio e fa di una due proposizioni coordinate: «Così generazione è estinta
e distruzione ignorata». Secondo Thanassas (p. 46), l’analisi del primo segno
intreccia intenzionalmente divenire e tempo, anticipando la correlazione
aristotelica di tempo e mutamento. Gli enti individuali certamente sono
sottomessi al divenire incessante: Parmenide non negherebbe ciò, dedicando al
problema la parte più consistente del suo poema; ma nella Alētheia i segni non
si riferiscono a enti particolari, bensì unicamente al loro Essere: solo questo
Essere può rivendicare la estraneità a ogni forma di mutamento (pp. 48-9). 60
Cerri (pp. 227-8) osserva come – sulla scorta di assonanze omeriche – l’espressione
ἄπυστος ὄλεθρος possa essere resa come «morte oscura (ma anche ignorata,
oggetto di oblio)». Molto diversa la resa di McKirahan: «Thus generation has
been extinguished and perishing cannot be investigated» (p. 196). Egli insiste
(p. 223) sul legame tra ἄπυστος e il verbo πυνθάνεσθαι («imparare, investigare,
cercare»), da cui anche παναπευθέα ἀταρπόν (B2.6), la via di ricerca scartata
perché impossibile da investigare, da cui era impossibile, dunque, ricavare
informazioni. In B8.21 ἄπυστος 157 Né è divisibile61, poiché62 è tutto
omogeneo63; né c’è qui qualcosa di più64 che possa impedirgli di essere
continuo65 , conserverebbe lo stesso valore: la corruzione, la morte non
possono essere oggetto di indagine, in quanto, come la generazione, impongono
di seguire una via che non può assolutamente essere investigata. Si tratta di
una osservazione già proposta da Mourelatos (p. 97), secondo il quale Parmenide
non avrebbe ritenuto necessario argomentare contro la corruzione, rubricandola
all’interno della via negativa: ciò spiegherebbe appunto l’uso di aggettivi
come παναπευθής e ἄπυστος, riferiti alla via negativa e a ὄλεθρος. 61
L'espressione διαιρετόν ἐστιν può rendersi (ed è effettivamente tradotta) sia
come «è divisibile», sia come «è diviso»: come osserva Leszl (p. 202),
concettualmente la prima possibilità dipende dalla seconda, dal momento che
l’operazione intellettuale della divisione non fa che rivelare divisioni già
oggettivamente presenti (come attestato anche dagli argomenti di Zenone). Anche
Thanassas (p. 50) rileva come, nella discussione del secondo segno, Parmenide
punti a escludere la precondizione per ogni discriminazione interna dell’eon:
esso non ha parti in cui possa essere articolato. Ne seguirebbe che,
considerando ogni ente non come questa o quella cosa ma come Essere, non
sarebbe possibile riconoscere differenze: ogni determinatezza svanirebbe
all’interno della uniforme prospettiva dell’Essere. 62 Coxon (p. 203)
sottolinea come da ἐπεί dipendano tutte le asserzioni successive (vv. 22-25). 63
Traduciamo così l’aggettivo ὁμοῖον, che altri rendono come «uguale»: ci sembra
logicamente più efficace rispetto alla indivisibilità (οὐδὲ διαιρετόν). È
possibile anche una lettura avverbiale e non predicativa di ὁμοῖον, da rendere
(come fanno Owen, Guthrie, Stokes e Gallop): «esiste tutto allo stesso modo».
Tarán e Mourelatos hanno tuttavia, con buoni argomenti, contestato tale
lettura. McKirahan intende sia πᾶν sia ὁμοῖον con valore avverbiale: ciò-che-è
non avrebbe dunque l’attributo di essere tutto uguale (o omogeneo), piuttosto
ciò-che-è è in un certo modo, cioè tutto uguale, «interamente e uniformemente»
(v. 11: πάμπαν πελέναι). È l’omogeneità che rende impossibile ogni
discriminazione e divisione di ciò che è. Mourelatos (p. 114) ritiene che Parmenide
sostenga logicamente πᾶν ἐστιν ὁμοῖον con πάμπαν πελέναι. In ogni caso la
fondatezza della premessa di omogeneità è stata molto discussa: mancherebbe un
argomento a sostegno nei versi precedenti. 64 Traduciamo l’espressione τι μᾶλλον
genericamente come «qualcosa di più»: Coxon accentua il valore intensivo del
comparativo («any more in degree»). 65 McKirahan (p. 197) sottolinea come
συνέχεσθαι suggerisca non tanto continuità quanto «holding together», tenersi
insieme, e accosta il significato 158 né [lì] qualcosa di meno66, ma è 67 tutto
pieno68 di ciò che è69 . [25] È perciò tutto continuo70: ciò che è si stringe71
infatti a ciò che è72 . del verbo a quello dell’attributo ὁμοῦ πᾶν (v. 5), che
egli traduce come «all together». Robbiano (p. 130) segnala come συνέχεσθαι
possa riferirsi a unioni strette: l’unione sessuale di individui o le estremità
annodate di una cintura. Il senso è comunque quello di estrema coesione. 66
Rendiamo τι χειρότερον come «qualcosa di meno», per rimanere coerenti con la
scelta effettuata traducendo τι μᾶλλον. Coxon (p. 204) sottolinea ancora il
valore intensivo dell’aggettivo: Parmenide in questo senso avrebbe usato
χειρότερον (inferiore) e non *hsson (meno). 67 Intendiamo ἐόν come soggetto
sottinteso; altri intendono πᾶν come soggetto («but all is full of Being»,
Tarán). 68 L’espressione πᾶν ἔμπλεόν ἐόντος vuol marcare come ciò che esiste è
solo l’essere, quindi esso è continuo, omogeneo, “denso” d’essere (uguale in
tutto e per tutto a se stesso). Tarán (p. 108) osserva come la continuità sia
dedotta dalla omogeneità. Coxon (p. 204) parafrasa: «Being is adjacent to
Being», che implica l’assenza di qualsiasi cosa di diverso dall’Essere.
McKirahan (p. 197) insiste invece sulla completa pienezza di ciò che è, che
consegue dal bando di «non è». Si tratterebbe, nella sua lettura complessiva di
B8, di un “segno” fondamentale, che riformulerebbe πάμπαν πελέναι del v. 11,
cui essenzialmente si riferirebbero molti altri attributi. Thanassas
(Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., p. 50), sottolineando come il contesto
non sia quello di un’analisi fisica, ma di una considerazione ontologica
(condotta alla luce della distinzione fondamentale tra Essere e Non-Essere),
insiste nell’intendere l’espressione πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος come rilievo della
«pienezza ontologica» (ontological plenitude) che non ha nulla da condividere
con spazialità fisica, vuoto e massa. 69 McKirahan (p. 197) sottolinea il nesso
tra πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος e πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (v. 22): egli, infatti,
intende in entrambi i casi πᾶν avverbialmente (come nel successivo v. 25 ξυνεχὲς
πᾶν ἐστιν), così che ἔμπλεόν ἐόντος risulterebbe equivalente a ὁμοῖον. 70
Ovvero «coeso». Riformulazione dell’inziale indivisibilità: Coxon (p. 204)
osserva giustamente che, a parte la solitaria occorrenza di ἕν nel v. 6, ξυνεχὲς
è l’unico termine parmenideo per «uno». McKirahan traduce diversamente il
greco: dal suo punto di vista (p. 224), la relazione con συνέχεσθαι suggerisce
di valorizzare il fatto che ciò che è «si tiene insieme» (holds together); così
in vece di «continuo», con la sua ambiguità spazio-temporale, egli preferisce
usare per ξυνεχὲς la formula, di difficile resa italiana, «holding together».
71 Il verbo πελάζω suggerisce l’idea di avvicinamento. In questo senso potrebbe
essere tematicamente collegato tanto alla via quanto al viaggio che trascorre
159 Inoltre73, immobile74 nei vincoli75 di grandi catene76 , lungo la via,
seguendo i suoi segni. Robbiano (p. 133) insiste nel cogliere nella immagine ἐὸν
ἐόντι πελάζει la suggestione dell’ultimo passo di un viaggio che si avvicina
alla sua meta: l’Essere. 72 Abbiamo qui un passaggio in cui è dato intravedere
come, facendo leva sui due "assiomi" di B2 - «è e non è possibile
non-essere», «non è ed è necessario non-essere» - e dunque escludendo
sistematicamente il ricorso al non-essere, Parmenide abbia potuto superare,
nella nozione di τὸ ἐόν, la molteplicità dispersa degli enti, uniti e omogenei
nell'«essere». In effetti Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 153) osserva come
questi versi documentino il «continuo», dimostrando razionalmente il contatto
di «ciò che è» con «ciò che è»: l’unità dell’essere sembrerebbe non escludere
una sorta di molteplicità. Egli pone giustamente in relazione questo passo con
B4. McKirahan (p. 197) sottolinea invece il valore figurato dell’espressione:
una interpretazione letterale susciterebbe difficoltà. 73 Improbabile che nel
contesto αὐτὰρ abbia valore avversativo: preferiamo attribuirgli valore
progressivo (vedi Curd, The Legacy of Parmenides, cit., pp. 83-4). 74
L’aggettivo verbale ἀκίνητον può discendere dalla voce attivo-passiva o da
quella media di κινέω: nel primo caso il suo significato sarebbe «non
suscettibile di essere mosso dal proprio luogo»; nel secondo «non capace di
muoversi dal proprio luogo» (Mourelatos, op. cit., pp. 117-120). Tarán
giustamente sottolinea il nesso tra ἀκίνητον e ἀτρεμὲς (v. 4). L’aggettivo ἀκίνητον
si riferirebbe sia alla immobilità sia, più in generale, alla immutabilità. Su
questo si veda il commento. Una nuova, convincente luce sulla questione è stata
– a nostro avviso – proiettata dalla lettura di McKirahan (p. 200), il quale
insiste sul contesto immediato: «immobile» ha a che fare con i limiti dei
grandi legami piuttosto che con assenza di generazione e corruzione. I vv.
27-28 ricavano dai precedenti vv. 6-21 due ulteriori conseguenze dell’essere
ingenerato e incorruttibile, cioè senza inizio o fine, di «ciò-che-è» (ἐόν).
Attributi che non hanno in alcun modo a che vedere con l’assenza di moto. Nel
contesto l’espressione «immobile» coinvolgerebbe l’idea della natura fissa,
limitata e costretta di ciò-che-è. In questa prospettiva rimane aperta la
questione circa le convinzioni parmenidee sul movimento o cambiamento di
ciò-che-è. Thanassas (p. 51) privilegia nella propria lettura un’immobilità
fondata nell’assenza di relazioni con il Non-Essere: Parmenide escluderebbe il
«movimento ontologico» che avvicina Essere e Nulla. 75 Ovvero «nei limiti»
(πείρασι). Mourelatos (pp. 117-9) mostra efficacemente come alla nozione
omerica di κινεῖν fosse associata non la nostra idea di traslazione rispetto a
un punto di riferimento stazionario, ma quella di uscita, allontanamento da una
posizione originaria e dai suoi limiti: il caso paradigmatico sarebbe, insomma,
quello di "e-gresso", concettualmente 160 è senza inizio e senza
fine77, poiché nascita e morte sono state respinte78 ben lontano79: convinzione
genuina80 [le] fece arretrare. contrastante con la nozione di ὁδός («via»).
Mentre il viaggiatore lungo la via raggiunge il luogo di destinazione, colui
che si muove, invece, abbandona il suo luogo, supera, appunto, i suoi limiti.
Il concetto di «via» è centripeto, quello di κινεῖν è centrifugo. La
locomozione, in questo senso, sarebbe qualcosa di simile a un
autoestraniamento: muoversi è essere oltre sé stessi, essere dove uno non è: è
questa nozione di locomozione a essere oggetto di attacco nel paradosso della
freccia di Zenone. Si esprime l’idea – arcaica, ma ancora operante in
Aristotele (la teoria dei luoghi naturali) che il luogo di una cosa, con i suoi
limiti-confini, sia parte della sua identità. La relazione tra ἀκίνητον e
πείρατα escluderebbe dunque la locomozione intesa come moto assoluto,
"e-gresso" dal proprio luogo specifico. 76 Giustamente Cerri (p. 229)
segnala il cambiamento nel registro espressivo dell’autore, il cui linguaggio
«torna alle movenze epiche del proemio». Questo passaggio, in particolare, è
evocativo del mito prometeico, così come giuntoci nel dramma eschileo. Della
relativa, breve discussione di Cerri, sembra opportuno valorizzare la
possibilità che Parmenide e Eschilo (evitando improbabili contatti diretti) si
ispirassero, per il tema dell’incatenamento e della conseguente immobilità, a
un modello «già presente nella cultura mitico-filosofica della tarda arcaicità».
Non è chiaro, tuttavia, il senso preciso dell’aggettivo «mitico-filosofica».
Mourelatos (p. 115, nota), a sua volta, evoca un passo omerico (Odissea VIII,
296-98), che costituirebbe buon parallelo per l’immaginario parmenideo: ἀμφὶ δὲ
δεσμοὶ τεχνήεντες ἔχυντο πολύφρονος Ἡφαίστοιο, οὐδέ τι κινῆσαι μελέων ἦν οὐδ’ ἀναεῖραι
e tutto intorno le catene ingegnose chiuse, dell’astuto Efesto, ed essi non
potevano più muoversi né sollevarsi. 77 Gli aggettivi ἄναρχον ἄπαυστον marcano
la peculiare immutabilità dell’Essere, diversa dalla immobilità di ciò che si
genera e corrompe. Per questo potrebbero implicare – se si accetta la lezione
adottata – la formula ἠδ΄ ἀτέλεστον del v. 4. Coxon (p. 206) vi coglie un’eco
delle affermazioni di Anassimandro (DK 12 A15): οὐ ταύτης ἀρχή, [...] ἀ θ ά ν α
τ ο ν γὰρ καὶ ἀ ν ώ λ ε θ ρ ο ν di esso non c'è principio [...] immortale e
indistruttibile. 161 Identico e nell’identica condizione81 perdurando82, in se
stesso83 riposa84 , 78 All’aoristo ἐπλάχθησαν è possibile associare sia un
significato attivo (Coxon: «becoming and perishing have strayed very far
away»), sia un significato passivo (indicato in questo caso da Liddel-Scott):
come suggerisce O’Brien (p. 53), il secondo emistichio del verso giustifica la
resa passiva. 79 Coxon ricorda (p. 207) come l’espressione τῆλε μάλa occorra
una sola volta in Omero ed Esiodo, dove si allude alla distanza del Tartaro:
Parmenide potrebbe usarla per marcare analoga distanza dall’Essere di
generazione e corruzione. 80 Traduco πίστις ἀληθής non con «reale credibilità»
- come in B1.30: il diverso contesto – in particolare la sua impronta
argomentativa, autorizza una differente accentuazione del valore di πίστις,
intesa come convinzione, convincimento che scaturisce dall’esame condotto
correttamente. In effetti il termine ha un suo specifico uso giudiziario
(Heidel citato da Tarán p. 113), in cui designa l’evidenza o la prova addotta
in tribunale. Il legame con la Realtà\Verità, espresso dall'aggettivo ἀληθής
(reale, vera, veritiera, genuina), tuttavia, suggerisce di privilegiare il
significato di convinzione. 81 L’espressione greca ἐν ταὐτῷ μένει è idiomatica,
con valore variabile tra «restare nello stesso luogo» e «restare nello stesso
stato» (Cerri p. 231). Heitsch (p. 172) e Coxon (p. 207) insistono piuttosto
sulla condizione, Coxon escludendo il significato locale (come confermerebbe
l’uso analogo dellespressione in Epicarmo, Sofocle, Euripide, Aristofane).
Abbiamo privilegiato la seconda lettura per la sua portata più generale
rispetto ai fenomeni del mutamento che Parmenide intende escludere dall’essere.
McKirahan (p. 201) interpreta tutto il passo come una nuova sottolineatura del
fondamentale rilievo della pienezza di ciò-che-è, riformulato nel linguaggio
del limite, dei legami e della costrizione: in questo senso «identico e
nell’identico» sarebbero implicazioni di «è pienamente». Anche le scelte
verbali - «perdurare», «rimanere», «riposare» - supporterebbero questa lettura:
ciò-che-è è pienamente e non può cessare di essere in quel modo. 82 L'intero
verso 29 sembra evocare il frammento DK 21 B26 di Senofane: αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι
μίμνει κινούμενος οὐδέν οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι Sempre
nello stesso posto permane, e per nulla si muove, né gli si addice spostarsi
ora in un posto ora in un altro. 83 McKirahan (p. 201) rileva come καθ΄ ἑαυτό
possa significare sia «per sé», «solo», «solitario», ma anche «indipendente»
(prossimo al valore che gli darà Platone in riferimento alle Idee). Nella sua
prospettiva si tratta di una 162 [30] e, così, stabilmente85 dove è86
persiste87: dal momento che Necessità88 potente89 espressione plausibile per
descrivere qualcosa che è pienamente e non può cessare di essere in quel modo.
84 Opportunamente Conche (p. 155) richiama, per contrasto, le posizioni di
Eraclito e, soprattutto, nell’accentuazione dello spirito eracliteo, di
Epicarmo DK 23 B2.9: ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει ora
ciò che muta non rimane mai nel medesimo posto. I versi 29-30 sembrano
riecheggiare, in negativo, quella concezione. Mourelatos (p. 119) osserva come
la formula καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται manifesti noninterazione: il v. 29, dunque,
esprimerebbe a un tempo, nella sua prima parte, autocontenimento e
autoconsistenza, nella seconda parte isolamento, risultando complementare
all’attributo ἀδιαίρετον. Thanassas (p. 52) valorizza il nesso tra ἐόν e
identità: la saldezza dell’eon non si ridurrebbe alla semplice immobilità, al
rifiuto di ogni relazione con il Non-Essere, ma scaturirebbe anche dal rilievo
della identità (sameness) dell’eon con se stesso. 85 Rendiamo avverbialmente ἔμπεδον,
che indica stabilità, fissità: come correttamente osserva McKirahan (p. 200),
il termine nei suoi valori copre complessivamente le tre condizioni elencate al
v. 29. 86 Traduciamo in questo modo αὖθι per evitare «qui», «là», che appaiono
limitativi e troppo immediati (anche se non è da escludere a priori che proprio
tale immediatezza fosse ricercata dall’autore). Conche (p. 156), invece,
preferisce «qui», che indicherebbe – in parallelo con νῦν che è un «ora» non
temporale – un «qui» non spaziale. 87 Come segnalano i commentatori, ἔμπεδον αὖθι
μένει è formula epica, che richiama il celebre episodio in cui Odisseo si fa
legare all’albero maestro della nave per resistere al canto delle Sirene (Odissea
XII, 160-2): ἀλλά με δεσμῷ δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι μίμνω, ὀρθὸν ἐν
ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνήφθω ma con funi saldissime dovete legarmi,
perché io resti immobile, ritto alla base dell’albero – ad esso siano fissate
le corde. Nel nostro contesto il valore della espressione non è tanto locale
quanto temporale: segnala l’esenzione dell’essere da qualsiasi variazione
temporale (Coxon p. 208). Ruggiu (p. 299) sottolinea il carattere militare di ἔμπεδον
μένει: «stare saldo in battaglia». In gioco sarebbe non la stabilità spaziale o
163 nelle catene del vincolo90 [lo] tiene, che tutto intorno lo rinserra91 .
temporale, ma l’esclusione di ogni alterità e il radicamento dell’identità.
Come già segnalato in relazione a ἀτρεμὲς, McKirahan (p. 210) suggerisce una
sostanziale sinonimia tra i due aggettivi: entrambi esprimerebbero il fatto che
«ciò-che-è» è pienamente e non può cessare di essere pienamente, effetto dei
limiti che costringono la natura di ciò-che-è. 88 Intendiamo Ἀνάγκη come nome
proprio. Come Giustizia e Moira, Necessità è figura tradizionale e incarnazione
della ineluttabile legge del destino (Tarán p. 117). Mourelatos, che identifica
Necessità, Fato, Giustizia e Persuasione, traduce come «Constraint»: l’immagine
della Costrizione che tiene ciò-che-è nel suo luogo rafforza la sua tesi
secondo cui ἀκίνητον escluderebbe la locomozione intesa come moto assoluto,
egresso dal proprio luogo specifico (pp. 118-9). Dalla triangolazione
Giustizia, Fato (Moira), Costrizione risulterebbe che in Parmenide il concetto
di rettitudine (Giustizia) assimila il concetto di necessità (Mourelatos p.
120). In un classico lavoro dedicato al concetto (W. Gundel, Beiträge zur
Entwicklungsgeschichte der Begriffe Ananke und Heimarmene, Giessen 1914), Gundel
individuò il significato di Ἀνάγκη nel passo in questione come
Naturnotwendigkeit. Schreckenberg (H. Schreckenberg “Ananke. Untersuchungen zur
Geschichte des Wotgebrauchs“, «Zetemata» 36, München 1964, pp. 1-188, cap. I)
ne ha invece marcato la connessione tematica con altri termini, come giogo,
catene, corde, con l’idea di legame, imprigionamento, schiavitù, rilevando così
come sotto ananke non si sia in grado di scegliere che cosa fare. L’immagine
platonica di σύνδεσμος τοῦ οὐρανοῦ avrebbe origine proprio in ambiente
pitagorico, come Schreckenberg cerca di provare appoggiandosi alla
testimonianza di Aëtius – Πυθαγόρας ἀνάγκην ἔφη περιεχεῖσθαι τῷ κόσμῳ - e
collegandola alla nozione pitagorica di ἄντυξ κόσμου («limite del cosmo») e
all’abbraccio cosmico di Ananke. In questo senso essa avrebbe la funzione di
“destino” o “legge di natura”: qualcosa che si può esprimere in termini di
legami che vincolano, l’uomo o l’universo (pp. 75-6). 89 L’espressione κρατερὴ
γὰρ Ἀνάγκη richiama l’esiodea (Teogonia 517 ss.) κρατερῆς ὑπ’ ἀνάγχης, nella
descrizione di Atlante che «sostiene l’ampio cielo per una potente necessità ai
confini della terra», come segnalano vari commentatori. 90 Ovvero «nelle catene
del limite» (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν). Ancora l’insistenza sui vincoli, ancora da
intendere sostanzialmente in senso logico, nonostante la tendenza da parte di
alcuni interpreti a insistere sui limiti spaziali. L’associazione di Giustizia
(v. 14) e Necessità suggerisce in effetti a McKirahan (p. 200) che in gioco
siano soprattutto forza e\o costrizione. Nel riferimento ai vincoli e alle
catene Barbara Cassin (“Le chant des Sirènes dans le Poème de Parménide.
Quelques remarques sur le fr. 8.34", in 164 Per questo92 non incompiuto93
l’essere [è] lecito che sia94: Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 163-169)
ha colto un’eco di Odissea XII, 158-162: Σειρήνων μὲν πρῶτον ἀνώγει θεσπεσιάων
φθόγγον ἀλεύασθαι καὶ λειμῶν’ ἀνθεμόεντα. οἶον ἔμ’ ἠνώγει ὄπ’ ἀκουέμεν· ἀλλά με
δεσμῷ δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι μίμνω, ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ
πείρατ’ ἀνήφθω Per prima cosa ci impone delle Sirene di evitare il canto e il
loro prato fiorito. Posso ascoltarlo solo io, ma con fune saldissima dovete
legarmi, così che io resti immobile, ritto alla base dell’albero – ad esso
siano fissate le funi. 91 Il confinamento da parte di Necessità-Costrizione è
paradigmatico della concezione tradizionale greca per cui giustizia è mantenere
il proprio luogo specifico, rispettare il proprio ruolo (Mourelatos, p. 119).
92 La congiunzione οὕνεκεν ha etimologicamente (οὗ ἕνεκεν) il significato di
«ragion per cui», «cosa a causa della quale»; ha anche il significato di
«poiché», «a causa del fatto che» (privilegiato da Fränkel), e può essere usata
come ὅτι con il valore di «che», «il fatto che». Nel contesto preferiamo la
resa etimologica (privilegiata da Diels), ritenendo che la perfezione
dell’essere sia giustificata in quel che precede, ancorché con il ricorso a
un’immagine (la costrizione delle catene di Necessità) di probabile matrice
letteraria. 93 Secondo Coxon (p. 208), Parmenide impiegherebbe ἀτελεύτητον
nella sua valenza omerica di «unfinished». Rendiamo con «incompiuto»,
«imperfetto». Mansfeld (p. 100) sottolinea il nesso tra l’essere vincolato e
l’essere compiuto e perfetto, recuperando come implicito nel greco anche il
valore di «realizzazione» e, di conseguenza, l’idea di un vincolo che
legherebbe la cosa alla propria realizzazione. Si veda per questo R.B. Onians,
The Origins of European Thought about the Body, the Mind, the Soul, the World,
Time and Fate, C.U.P., Cambridge19882 , pp. 426-66. Mourelatos (p. 121)
sottolinea come il verbo τελέω sia collegato al motivo del viaggio e abbia
un'importante relazione con il verbo ἀνύω (consumare) e forse con l’idea di πεῖρας,
come legame circolare. Nell’epica in generale il verbo esprime compimento,
realizzazione di promesse, desideri, predizioni e compiti (comprensivi di
viaggi). È in relazione a questa idea di compimento che il termine ammetterebbe
il valore - più debole - di «fine», nel senso di «estremità» o «termine». 94
Abbiamo cercato di conservare la costruzione del verso greco, forzando la
costruzione italiana. 165 non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non
essere95, invece, mancherebbe di tutto. La stessa cosa96 invero è pensare97 e il
pensiero98 che99 «è»: 95 Intendiamo l’espressione μὴ ἐὸν come participio
sostantivo, in contrapposizione al precedente τὸ ἐὸν: quindi «il non essere»
ovvero «ciò che non è» (espressione tuttavia meno felice nel contesto). Ci
troveremmo in presenza di una articolazione del discorso imperniata su essere
(τὸ ἐὸν) e non-essere (μὴ ἐὸν): non è lecito che l’essere sia incompiuto: in
effetti non manca di niente; il non-essere, invece, mancherebbe di tutto».
D'altra parte, μὴ ἐὸν può essere reso in senso verbale: letteralmente la Dea
ipotizzerebbe: «se [l’essere] non fosse [non-manchevole], mancherebbe di
tutto». 96 A questo punto avrebbe inizio secondo Mansfeld (p. 101) un excursus
che impegnerebbe Parmenide fino al verso 41. Dello stesso orientamento anche Guthrie
e Kirk-Raven, cui si oppone, per esempio, Mourelatos (p. 165). Molto
convincente la lettura di McKirahan (p. 202): i vv. 34-41 esplorerebbero le
implicazioni del precedente (B2.7-8) «non potresti conoscere ciò che non è […]
né indicarlo». Se qualcosa è possibile conoscere o affermare, deve trattarsi
non di «ciò-che-non-è», ma (come conseguenza dell’alternativa) di ciò-che-è.
Esiste una proposta (originariamente suggerita da Calogero) di restauro del
testo greco da parte di Theodor Ebert ("Wo beginnt der Weg der Doxa? Eine
Textumstellung im Fragment 8 des Parmenides", «Phronesis», 34, 1989, pp.
121-138), secondo il quale il blocco di versi 34-41 andrebbe rilocato dopo il
verso 52. Come ha di recente sottolineato anche J. Palmer (Parmenides & Presocratic
Philosophy, cit., pp. 352-4), il testo guadagnerebbe in coerenza sia nel blocco
centrale del frammento, sia in quello conclusivo. Dello stesso avviso Ferrari
(Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 32 ss.). Ciò significherebbe,
tuttavia, mettere in discussione l'affidabilità della redazione del poema
utilizzata da Simplicio (che Diels riteneva «im Ganzen vortrefflich»): come ha
sostenuto Passa nella prima parte del suo lavoro, il testo simpliciano ha alle
spalle, in misura più accentuata rispetto ad altre fonti, un'interpretazione
del poema di Parmenide in chiave neoplatonizzante e pitagorizzante, che può
averne alterato la ricezione. Passa si limita tuttavia a indicare scelte
espressive, mentre l'ipotesi Ebert (e ora Palmer e Ferrari) implica un vero e
proprio montaggio del testo, aprendo una serie di possibili altri problemi
testuali relativi ad altri passaggi dei codici manoscritti. A Ebert va dato
atto, nello specifico, di aver sollevato un problema serio: nessun'altra fonte
antica cita il v. 34 dopo il v. 33 o il v. 42 dopo il v. 41. 97 Rendiamo ἐστὶ
νοεῖν letteralmente. Sulla traduzione, tuttavia, esiste grande discordanza.
Prevalgono due orientamenti, che optano per una resa diversa: (i) «thinking is»
(Owen, Sedley); (ii) «is to be thought» (Mourelatos), «is there to be thought»
(Kirk-Raven-Schofield), «is for thinking» (Curd). McKirahan (p. 203) traduce
«is to be thought of» intendendo l’espressione 166 [35] giacché non senza
l’essere, in cui100 [il pensiero] è espresso101 , come un richiamo di B2.2: ciò
che è disponibile per il pensiero (ovvero “per essere pensato”). 98 Intendiamo
il verso nel suo insieme come una ricapitolazione di B3 (a sua volta
conclusione di B2): ciò che è è l’unico reale oggetto del pensiero. Solo ciò
che è è disponibile come oggetto del pensiero e non esiste altro oltre ciò che
è: quindi solo ciò che è può essere pensato (McKirahan, pp. 203-4). Sulla
scorta di questa interpretazione, McKirahan suggerisce di interpretare anche
l’affermazione di B5: «indifferente è per me donde debba iniziare: là, infatti,
ancora una volta farò ritorno». 99 Intendiamo οὕνεκεν, in questo caso, come
congiunzione equivalente a ὅτι («che»), come, tra gli altri, Calogero («La
stessa cosa è il pensare e il pensiero che è»), Guthrie («What can be thought
[apprehended] and the thought that “it is” are the same»), Tarán («It is the
same to think and the thought that [the object of thought] exists»), O’Brien
(«C’est une même chose que penser, et la pensee : “est”»), Conche («C’est le
même penser et la pensée qu’il y a»), Cassin («C'est la même chose penser et la
pensée que "est"»). L'alternativa è rendere οὕνεκεν come formula
pronominale, composta dal pronome neutro (caso genitivo) + preposizione. Questa
lettura è difesa – tra gli interpreti recenti - da Reale («Lo stesso è il
pensare e ciò a causa del quale è il pensiero»), Coxon («The same thing is for
conceiving as is cause of the thought conceived»), Heitsch («Dasselbe aber ist
Erkenntnis und das, woraufhin Erkenntnis ist»), Cerri («La stessa cosa è capire
e ciò per cui si capisce»), Cordero («Thinking and that because of which there
is thinking are the same»), Gemelli Marciano («Dasselbe ist zu denken und das,
was den Gedanken verursacht»). Diels, intendendo come τὸ οὗ ἕνεκα con valore
finale (ciò in vista di cui), aveva reso: «Denken und des Gedankens Ziel ist
eins». Lo ha seguito Beaufret («Or c’est le même, penser et ce à dessein de
quoi il y a pensée»). Lunga disamina critica in Tarán, pp. 120-3. Di recente
McKirahan (p. 203) ha difeso la lettura causale di οὕνεκεν, ma ha avanzato
l’ipotesi suggestiva che l’espressione abbia contemporaneamente anche una
sfumatura finale. 100 Per evitare la difficoltà di una traduzione che
sottolinea come il pensiero sia espresso «nell’essere», sono state proposte
varie alternative. Zeller, Burnet, Cornford, Raven (tra gli altri) preferiscono
rendere ἐν ᾧ con una perifrasi: «a soggetto del quale», «in riferimento al
quale», «rispetto al quale». A conclusione di una lunga discussione (pp.
123-8), Tarán (seguendo Albertelli e Mondolfo) propone «in what has been
expressed». A questa traduzione (cui ricorre anche Sedley) sono state tuttavia
opposte obiezioni di ordine grammaticale (si veda Robbiano, p. 170). La
Robbiano (pp. 169-170) intende ἐν ᾧ come equivalente a ἐν τούτῳ ἐν ᾧ,
proponendo τὸ νοεῖν come soggetto di πεφατισμένον ἐστίν. Il passo in traduzione
risulta quindi: «for without Being you will not find understanding in that
where understanding 167 troverai il pensare. Né102, infatti, esiste, né
esisterà altro oltre103 all’essere104, poiché105 Moira lo ha costretto106 a
essere intero e immobile107. Per esso108 tutte le cose saranno nome109 , has
been given expression». In questo caso ἐν ᾧ non si riferirebbe a τὸ ἐόν, ma a
una formula implicita per «le mie parole, i versi del mio poema». La dea
spiegherebbe, insomma, che non si può trovare νοεῖν in ciò che esprime νοεῖν,
se non si trova l’Essere (τὸ ἐόν): per raggiungere la comprensione non è
sufficiente ascoltare le parole della dea, ma si deve trovare l’Essere.
Preferiamo, come versione più naturale, la traduzione (per lo più adottata
dagli interpreti recenti) che risale a Diels («denn nicht ohne das Seiende, in
dem sich jenes ausgesprochen findet, kannst Du das Denken antreffen»). 101
Secondo Ruggiu (p. 303, nota), πεφατισμένον indicherebbe non solo che il
pensiero è manifestativo dell’Essere, ma che l’Essere è tale in quanto
fondamento di ogni manifestabilità. In questo senso, πεφατισμένον sarebbe
equivalente a φατὸν e νοητόν (B8.8) e οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν
- οὔτε φράσαις (B2.7-8). 102 Rendiamo le due congiunzioni < ἢ >... ἢ
precedute da οὐδὲν come «né…né». 103 La formula ἄλλο πάρεξ è adattamento di
analoga formula epica (ἄλλα παρὲξ). 104 Secondo Mansfeld (p. 101) Parmenide
affermerebbe in questo passaggio l’identità di pensiero e essere, implicando
che il pensiero non possa essere qualcosa di altro, indipendente, contrapposto
all’essere o comunque estraneo a esso. 105 Anche in questo caso è la
costrizione della divinità di turno (Moira) a giustificare compiutezza e
unicità dell’essere parmenideo. 106 Si ripete, con ἐπέδησεν, la suggestione
dell’incatenamento, della costrizione (da intendere, fuor di metafora, in senso
logico). La formula μοῖρ΄ ἐπέδησεν è epica. 107 Le due connotazioni - οὖλον ἀκίνητον
– marcano l’integrità e immutabilità, reiteratamente richiamate nel frammento.
Per ἀκίνητον, tuttavia, vale quanto segnalato sopra: la sua comprensione, come
suggerisce McKirahan, è probabilmente da collegare alla metafora dei legami e
della costrizione. Così, l’integrità di ciò che è (espressa da οὖλον) è
sostenuta dall’immagine della costrizione a essere pienamente ciò che è. 108
Seguiamo Palmer (op. cit., pp. 171-2) nell'intendere τῷ come pronome relativo
(riferito a τὸ ἐόν): dal momento che egli accoglie la lettura πάντ΄ ὀνόμασται
del secondo emistichio, la sua traduzione risulta: «to it all things have been
given as names». Lo studioso si appoggia a una costruzione analoga presente in
Empedocle B8.4: φύσις δ’ ἐπὶ τοῖς ὀνομάζεται ἀνθρώποισιν 168 quante i mortali
stabilirono110, persuasi che fossero reali111: [40] nascere e morire, essere e
non essere, cambiare luogo112 e mutare luminoso colore113 . natura è data come
nome a questi [processi di mescolanza e separazione] dagli uomini. La resa
pronominale di τῷ è comunque assolutamente compatibile anche con la lezione
Diels-Kranz da noi adottata: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται Per esso [τὸ ἐόν] tutte le
cose saranno nome. Per lo più gli editori hanno reso τῷ con valore assoluto
come «perciò». 109 Il greco ὄνομα è singolare, per marcare l’identità nominale
dei neutri plurali πάντα e ὅσσα: genericamente cose, eventi, fenomeni, la cui
natura mutevole si rivela solo nome. La lezione alternativa dei codici di
Simplicio - τῷ πάντ΄ ὀνόμασται - è variamente tradotta: «wherefore it has been
named all things» (Gallop), attribuendo a τῷ valore avverbiale, ma anche «With
reference to it [the real world], are all names given» (Woodbury), intendendo τῷ
come un dimostrativo riferentesi a τὸ ἐὸν, ovvero (Leszl p. 231) «in relazione
a questo è assegnato, come nome». Da osservare che una lunga tradizione
risalente a Diels, ha tradotto l’emistichio introducendo un implicito aggettivo
peggiorativo (blosser, ovvero «mero») al sostantivo «nome», assolutamente
assente nel testo greco. Una diversa tendenza si è manifestata nelle versioni
degli ultimi decenni. 110 Il verbo κατέθεντο ricorre tre volte nei frammenti
del poema (qui, in B8.53 e B19.3): sottolinea la matrice linguistica della
ordinaria comprensione del mondo. 111 Il greco è ἀληθῆ. McKirahan (p. 202) ha,
secondo noi, correttamente colto il senso complessivo del passo: i vv. 34-38
argomentano che l’unico possibile oggetto di pensiero e linguaggio è ciò-che-è;
i vv. 38-41 ricavano la conclusione che, a prescindere da ciò cui i mortali
pretendano di riferirsi nei loro pensieri e discorsi, ciò cui essi realmente
(veramente) pensano e possono pensare è ciò-che-è. Ciò-che-è è l’oggetto dei
loro pensieri, anche di quei pensieri che ricorrono a formule proibite come
generazione e corruzione. Leszl (p. 231) osserva come la tesi di Parmenide
sarebbe che i «mortali» applicano all'essere – commettendo un errore – tutte le
designazioni: il loro errore consisterebbe dunque nell'imporre nomi all'essere
stesso, non nell'applicarli alle cose. 112 Tarán (pp. 138-9) ammette che, nella
espressione τόπον ἀλλάσσειν, il sostantivo τόπος molto probabilmente significa
«spazio vuoto». Parmenide, tuttavia, non sarebbe qui interessato a una polemica
nei confronti dei 169 Inoltre, dal momento che [vi è]114 un limite115
estremo116, [ciò che è] è compiuto117 da tutte le parti118, simile119 a
massa120 di ben rotonda121 palla122 , sostenitori della esistenza del vuoto, ma
solo a rilevare la contraddittorietà del fenomeno del moto locale. 113 Il
secondo emistichio - διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν – è variamente tradotto. Coxon
(pp. 211-2) rende con «change their bright complexion to dark and from dark to
bright». Come Reinhardt, egli coglie un'allusione alla successiva teoria (DKB9)
della composizione degli enti. Le differenze nelle traduzioni dipendono
soprattutto dall’intendere χρόα – accusativo di χρώς, «colore» - come χροιά
ovvero χρόα, «superficie». O’Brien (p. 56) sottolinea come al significato di
«complessione» (cui si riferisce anche Coxon) sia nel contesto da preferire
quello più generico di «colore». 114 La proposizione introdotta da ἐπεί può
omettere ἐστι: la traduzione può renderlo in questo caso come predicato verbale
(come abbiamo fatto) ovvero come copula: «il limite è estremo». 115 Mourelatos
(pp. 128-9) nota come l’immagine dei legami e dei limiti si faccia
progressivamente «più plastica e concreta» man mano che B8 procede, per
raggiungere il proprio culmine appunto in questo passaggio. 116 L’aggettivo
πύματος significa «estremo», «ultimo»: in Omero indica, per esempio, il bordo
estremo di uno scudo, ciò che lo limita e oltre il quale non c’è più scudo
(Conche p. 176). 117 L’espressione τετελεσμένον πάντοθεν indica la completezza
di ciò che è, risultando equivalente di πάμπαν πελέναι. Come ha
convincentemente marcato McKirahan (pp. 212-213), le indicazioni spaziali,
letteralmente disseminate nei vv. 42-49, possono essere intese anche in senso
metaforico. Si tratta di naturali sviluppi della nozione di πέρας, le cui prime
occorrenze, anche in ambito filosofico, hanno a che fare con i limiti spaziali,
ma che presto è usata anche per altre finalità, non spaziali (come attesta il
contemporaneo di Parmenide Eschilo). Thanassas (pp. 53-4), dal canto suo,
valorizza una interessante implicazione: il limite che abbraccia e conserva
l’interezza del reale (preservandola dal Non-Essere), consente da un lato di
riconoscere l’eon «completo da ogni lato», dall’altro di intendere tutte le
apparenze (appearances) come equivalenti, come esseri. Ciò richiamerebbe
l’affermazione conclusiva della dea nel proemio, che nella versione accolta da
Thanassas e da noi condivisa suona: διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα, «tutte insieme
davvero esistenti». 118 L’avverbio πάντοθεν, sia che lo si intenda riferito a
τετελεσμένον ἐστί (come nel nostro caso), sia che lo si riferisca, invece, a εὐκύκλου
σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, sembra esprimere comunque un punto di vista, una
prospettiva “esterna” (Mourelatos p. 126). Come, d’altra parte, per lo più 170
suggeriscono anche le altre immagini del frammento (lacci, legami, catene che
rinserrano tutto intorno). 119 L’aggettivo ἐναλίγκιον introduce indubbiamente
una comparazione, che tuttavia non si riferisce, si badi bene, direttamente a
σφαῖρη (palla, sfera), ma a ὄγκος (massa, estensione). 120 Il termine ὄγκος può
tradursi come «massa», volume fisico (Coxon p. 214): in tal senso è da
intendersi dunque la «ben rotonda palla». Parmenide si riferisce probabilmente
all'estensione fisica, tridimensionale, e alla forma geometrica compiuta.
Conche (p. 177) suggerisce «grosseur» o «corps». Di recente McKirahan (pp.
213-4), riprendendo la questione, ha ritenuto significativo che Parmenide non
dica che «ciò-che-è» è una sfera o simile a una sfera, ma «simile al corpo di
una sfera», una espressione giudicata «inaspettatamente elusiva». Non si
tratterebbe, infatti, né di massa (nel senso di peso) della sfera, né della sua
misura, né di altre qualità fisiche, né, pur avendo a che fare con la forma
della sfera, di forma o superficie. L’espressione potrebbe approssimativamente
tradursi come «estensione fisica»: «fisica» per suggerire che non si tratta di
astratta nozione geometrica; «estensione», in vece di «misura», per evitare la
tentazione di pensarla come una quantità determinata. Mourelatos (p. 126) aveva
a suo tempo segnalato il fatto che ὄγκος è espressione parmenidea per
estensione tridimensionale e che il carattere che essa accentua rispetto alla
sfera è la forma. 121 Come suggerisce Mourelatos (p. 127), intendendo πάντοθεν
riferito a εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, l’aggettivo εὔκυκλος definirebbe
un oggetto che, osservato da tutte le parti, ha il contorno di un cerchio
perfetto. Come abbiamo in precedenza ricordato, Tonelli (p. 117 e pp. 133-4) ha
sottolineato il nesso tra εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ - riferito a τὸ ἐὸν
– e ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ (B1.29): la forma sferica è forma
archetipica della perfezione e della totalità. 122 Seguo Leszl (p. 211) nel
tradurre σφαῖρη come «palla», analogamente all’omerico σφαίρῃ παίζειν (giocare
a palla). Ciò rende più efficace l’accostamento: Leszl osserva che «se l’essere
fosse detto «simile a una sfera», l’implicazione potrebbe essere che esso non è
veramente una sfera, mentre se è detto «simile a una palla», la giustificazione
per quest’affermazione può essere precisamente che è una sfera». L’espressione
εὐκύκλου σφαίρης ὄγκῳ rivelerebbe invece, secondo Coxon (p. 214), che Parmenide
qui non intende genericamente un corpo a palla, ma proprio la sfera (σφαῖρη),
la cui perfetta rotondità è sottolineata dall’epiteto εὐκύκλου. In ogni caso è
ancora da osservare – con Mourelatos (p. 126) - come la comparazione proposta
non sia direttamente tra ciò-che-è e una palla, piuttosto tra la completezza di
ciò-che-è e l’espansione-estensione di una palla perfetta, ben-rotonda.
L’analogia si riferirebbe alla curvatura esterna della sfera. 171 a partire dal
centro123 ovunque di ugual consistenza124: giacché è necessario che esso non
sia in qualche misura di più, Diels e Brehier hanno voluto cogliere dietro
l’espressione l’influenza pitagorica: essa alluderebbe, quindi, a una immagine
geometrica. Conche (p. 177) ribatte marcando come, in tal caso, non avrebbe
senso precisare εὐκύκλου. L’immagine sarebbe invece «fisica». Il sostenitore
più coerente della natura geometrico-spaziale dell’Essere parmenideo è De
Santillana (Le origini del pensiero scientifico, Sansoni, Firenze 1966):
l’Essere sarebbe il risultato di un processo di astrazione in cui Parmenide
avrebbe tenuto presenti spazio del matematico e spazio del fisico. L’Essere
sarebbe dunque un plenum, un'estensione corporea densa, cristallina: la realtà
fisica non sarebbe illusoria, ma avrebbe luogo nello spazio geometrico,
occupandolo. Coerentemente con la propria interpretazione dei segni come indici
della consapevolezza cognitiva del kouros, la Stemich (op. cit., p. 212)
ritiene che l’immagine della sfera, cioè della più perfetta di tutte le forme,
attesti che la conoscenza dell’essere è la forma più pura del pensiero: la
somma facoltà di pensiero del kouros, nel momento della conoscenza dell’essere,
è completamente conchiusa in se stessa, coincidendo a tutto tondo con la verità
della Dea. 123 Dal momento che è difficile attribuire parti all’essere, il
termine μεσσόθεν è stato spesso volto in senso metaforico. Concordiamo con
Conche (p. 180), che il centro cui si riferisce la Dea sia quello del mondo e
che ella sottolinei come in ogni parte dell’universo l’essere sia lo stesso.
Coxon (p. 217), invece, sottolinea come l’equilibrio cui Parmenide allude con
μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ sia di carattere «non-fisico», e funga da complemento
alla nozione di perfezione universale (somiglianza con il volume della sfera),
marcando la sussistenza in se stessa di questa perfezione, la sua totale ed
eguale dipendenza dal suo proprio centro. 124 Intendiamo l’espressione μεσσόθεν
ἰσοπαλὲς πάντῃ come un rilievo della compattezza dell’Essere: ἰσοπαλές concorda
con il neutro ἐόν\τὸ ἐόν, non con il maschile ὄγκος (o il femminile σφαῖρη),
dunque con il soggetto sottinteso («ciò che è»), non con «massa di ben rotonda
palla». Dal centro alla superficie della sfera si esprime la stessa forza
(Diels, Tarán), ovvero lo stesso «peso», lo stesso «equilibrio», la stessa
«spinta». Ruggiu (p. 309), riprende (da Calogero, Vlastos, Mourelatos e
Guthrie) l’idea che l’immagine della sfera esprima una «uguaglianza dinamica»:
forza e potenza dell’Essere si estendono in modo uguale dal centro alla
periferia e dalla periferia al centro, senza possibilità di differenza alcuna
in intensità o potenza d’essere. O’Brien e Conche preferiscono rendere come
«uguale a se stesso», privilegiando l’aspetto della omogeneità a quello
dinamico dell’aggettivo: è in particolare rilevante la sottolineatura, da parte
di Conche (p. 180), di un fatto che nel contesto può sfuggire: ἰσοπαλές si
riferisce all’Essere e non alla sfera. Secondo Mourelatos (p. 127) avremmo qui,
invece, la definizione 172 [45] o in qualche misura di meno 125 , da una parte
o dall’altra126 . Non vi è, infatti, non essere127, che possa impedirgli di
giungere a omogeneità128, né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è
129 - qui più, lì meno130, poiché131 è tutto inviolabile132 . di equidistanza: ἰσοπαλές
esprimerebbe l’idea di espansione uguale in ogni direzione. 125 Rendiamo in
questo modo οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον, per sottolineare l’omogeneità
dell’Essere in senso intensivo: non c’è un più o un meno d’essere. Si vedano
anche i successivi τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον (v. 48). 126 Ruggiu (pp. 309-10)
osserva come perfezione e stabilità dell’Essere non dipendano da vincoli
esterni, ma dalla simmetrica distribuzione delle forze interne e dall’assoluta
uguaglianza che sussiste tra le parti. 127 Traduciamo letteralmente οὔτε γὰρ οὐκ
ἐὸν ἔστι. Cerri (p. 239) osserva che, in questo caso, οὐκ ἐὸν «significa né più
né meno che “vuoto”, “spazio vuoto”, “assenza di essere\materia”». 128
Traduciamo così l’espressione εἰς ὁμόν: il non-essere potrebbe teoricamente
interrompere e discriminare l’identità e l’uguaglianza con se stesso di ciò che
è. In questa direzione anche le traduzioni di O’Brien («à la similitude ») e
Conche («à l’egalité à soi-même»). 129 Utilizziamo la forma dell’inciso
(traducendo ἐόντος come «di ciò che è»), per facilitare la lettura in italiano.
Avremmo potuto impiegare il pronome «di esso», ma abbiamo scelto di rimanere
aderenti alla ripetizione greca. 130 L’espressione τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον
ribadisce sostanzialmente omogeneità e uniformità già argomentate, e dunque la
pienezza d’essere di ciò che è. Come ha osservato McKirahan (p. 213), Parmenide
ha ogni motivo per concludere la trattazione di ciò-che-è sottolineando
l’importanza della tesi che «ciò-che-è» è pienamente, esprimendola in modi
differenti per catturare l’attenzione del suo pubblico e condurlo a comprendere
il suo punto più chiaramente. 131 Recentemente Palmer (op. cit., pp. 157-8) –
per evitare di fare del v. 49 (οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει) la
ragione (γὰρ) dell'affermazione di v. 48b (πᾶν ἐστιν ἄσυλον), a sua volta
proposta a giustificazione (ἐπεὶ) dei vv. 47-48a, che contengono una delle
ragioni a sostegno di quanto affermato ai vv. 44b-45, rischiando così la
circolarità – ha proposto di inserire un punto prima di ἐπεὶ, legando quindi il
v. 48b al v. 49b: «Poiché è tutto inviolabile – dal momento che è a se stesso
da ogni parte uguale – uniformemente entro i suoi limiti rimane». In questo
modo 173 A se stesso, infatti, da ogni parte uguale133, uniformemente134 entro
i [suoi] limiti rimane135 . ἐπεὶ introdurrebbe la ragione per l'affermazione
(riassuntiva) finale: «uniformemente entro i [suoi] limiti rimane». 132 Il
termine ἄσυλον evoca uno sfondo religioso: ἀσυλία era concetto del linguaggio
giuridico religioso e indicava la condizione di inviolabilità di persone o
luoghi sacri, associati al culto, la violenza nei confronti dei quali era
perseguita, come sacrilegio, con la condanna capitale. Secondo Colli (Gorgia e
Parmenide, cit., p. 150) l’allusione religiosa andrebbe posta in relazione con
la rivelazione del proemio. Nel contesto l’inviolabilità può intendersi come
altra faccia della costrizione che tiene insieme ciò che è, che gli impedisce
di essere diversamente da come è: impossibilità che gli siano sottratti i suoi
attributi o gliene siano imposti altri che non ha (McKirahan p. 213). 133
Parmenide afferma l’eguaglianza dell’essere con se stesso (οἷ πάντοθεν ἶσον) -
che esclude non-essere e possibili gradi d’essere – in relazione ai suoi
limiti. Come osserva Coxon (p. 216), l’Essere è universalmente uguale a se
stesso nel senso che è uniformemente confinato da un limite (ὁμῶς ἐν πείρασι
κύρει), il quale, essendo estremo, non lo divide da qualcos’altro ma lo
determina a essere quello che è e identifica la sua perfezione. Mourelatos (p.
127) suggerisce una lettura diversa: in riferimento alla sfera, si
valorizzerebbe il fatto che è un oggetto sempre uguale a se stesso, da
qualsiasi prospettiva lo si guardi. 134 Così rendiamo ὁμῶς, che si dovrebbe più
letteralmente tradurre come «ugualmente», «allo stesso modo». Mourelatos (p.
127) sottolinea come dire di qualcosa che «è presente» ugualmente entro i suoi
limiti sia un modo di affermare che è simmetrico. 135 Colli (Gorgia e
Parmenide, cit., p. 150) traduce κύρει come «tende»: il verbo introdurrebbe un
elemento dinamico, in tensione con la precedente connotazione statica
dell’essere, presentando l’essere quasi fosse un organismo vivente, che tende a
espandersi come un respiro verso i suoi limiti. In questo modo l’essere sarebbe
presentato dall’interno: dall’esterno ne sarebbe dunque accentuata
l’immobilità, dall’interno il dinamismo. 174 DK B8 vv. 50-61 [50] ἐν τῷ σοι
παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης1 · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας
μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας2 ὀνομάζειν·
τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν -· [55] ἀντία3 δ΄ ἐκρίναντο δέμας
καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν 4 ,
μέγ΄ ἐλαφρόν5 , ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄
αὐτό τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε. [60] τόν6 σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα
πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη 7 παρελάσσῃ 8 . 1 Come in B1.29
indendiamo Ἀληθείη come nome divino. 2 I codici DEEa F di Simplicio Phys. 39, 1
riportano γνώμας, forma per lo più accolta dagli editori; i codici DEF di Phys.
30, 23 e DEF2 di Phys. 180, 1 riportano invece γνώμαις. 3 Ι codici DE di
Simplicio riportano ἐναντία; alcuni editori leggono τἀντία. 4 Nei codici DE di
Simplicio ritroviamo ἤπιον τὸ in vece di ἤπιον ὄν. 5 I codici delle tre
citazioni di Simplicio riproducono il verso 57 con evidenti irregolarità
metriche, per la presenza di ἀραιόν (rarefatto) prima di ἐλαφρόν. Il testo
risulterebbe dunque: «che è mite, molto rarefatto e leggero....». Si è per lo
più ritenuto che uno dei due aggettivi fosse glossa dell'altro, con conseguente
espunzione. La versione del testo che suggeriamo è quella per lo più adottata.
Cerri, che sceglie di conservare il testo dei codici, senza espunzioni, in una
lunga nota testuale, con grande acribia ricostruisce la probabile fisionomia
del testo di Simplicio in questa forma:ἤπιον ἀραιόν ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν.
Da osservare che il termine ἀραιόν («raro», «rarefatto») è probabilmente da
considerare un termine tecnico della cosmogonia milesia (Anassimandro DK 12
A22, Anassimene DK 13 B1). Al contrario, il termine ἐλαφρόν non è attestato nel
linguaggio fisico presocratico. Coxon (p. 223) considera ἀραιόν certamente
parmenideo, in quanto utilizzato come opposto di πυκνόν da Melisso e Anassagora
e nella tradizione dossografica sulla fisica di Parmenide. 6 L'aggettivo
dimostrativo τόν è concordato con διάκοσμον. Karsten propose di correggere il
testo dei codici con τῶν. Il senso sarebbe allora: «relativamente a queste
cose, io ti espongo ordinamento del tutto verosimile». 175 [Fonti principali:
vv. 1-52 Simplicio, In Aristotelis Physicam 145-146; vv. 50-61 Simplicio, In
Aristotelis Physicam 38-39] 7 Nella trascrizione dei codici, alcuni editori
(Stein, tra i contemporanei seguito tra gli altri da Coxon, O'Brien) intendono
γνώμῃ. Il significato complessivo del verso cambia di poco: «così che nessuno
dei mortali possa esserti superiore nell'opinione» ovvero «nel giudizio» (o
«practical judgement» Coxon). 8 I codici Ea F di Simplicio riportano παρελάσση,
i codici DE παρελάση: gli editori hanno corretto in παρελάσσῃ. 176 [50] A
questo punto pongo termine per te al discorso affidabile1 e al pensiero intorno
a Verità2 ; da questo momento3 in poi opinioni4 mortali5 impara6 , l’ordine7
delle mie8 parole9 ascoltando10, che può ingannare11 . 1 L'aggettivo πιστὸν è
immediatamente riferito a λόγον, ma può riferirsi anche a νόημα: in qualche
caso le traduzioni scelgono questa strada. Qui abbiamo preferito mantenere
distinti i due oggetti - πιστὸν λόγον e νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης – che ci sembrano
reiterare e rafforzare lo stesso concetto. 2 Si potrebbe rendere νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης
– e si deve comunque intendere - anche come «pensiero intorno alla realtà». 3 I
due versi 50-51 segnano il passaggio tra una sezione l'altra: la conclusione
della Verità è segnalata da ἐν τῷ σοι παύω, l'attacco della Doxa da ἀπὸ τοῦδε
[...] μάνθανε. 4 Ovvero «convinzioni» o «considerazioni». 5 L'espressione δόξας
βροτείας – in considerazione del soggetto divino della comunicazione - potrebbe
forse rendersi semplicemente con «opinioni umane». 6 L'imperativo μάνθανε
riprende, nell'introdurre la sezione sulla Doxa, il programmatico futuro
μαθήσεαι di B1.31. Cerri (p. 242) sottolinea il valore "scientifico"
che il verbo venne ad assumere all'epoca, non indicando il mero ascoltare e
memorizzare, ma «l'essere fatto partecipe di una elaborazione scientifica, di
una dimostrazione rigorosa ed esaustiva». Interessante soprattutto ritrovare un
verbo come μανθάνω, senza dubbio positivamente connotato in termini
gnoseologici, nell'imminenza dell’esposizione della Doxa: B10 presenterà ancora
εἴσῃ («conoscerai»), πεύσῃ («apprenderai»), εἰδήσεις («conoscerai»). Lo stesso
B11 doveva esordire con un'esortazione simile. Tutti indizi di consistenza,
evidentemente riconosciuta dalla divinità al sapere che andava a esporre. 7 Si
potrebbe forse rendere κόσμον ἐπέων come «costrutto verbale», «sintassi
verbale». In ogni modo è da preferire una resa letterale del sostantivo κόσμος
(come suggerisce O' Brien, p. 57: «arrangement») nel senso di τάξις
(Anassimandro). Mourelatos (p. 226) indica come possibilità anche «forma».
Nella cultura arcaica l'espressione ricorre tra l'altro in Solone (κόσμον ἐπέων
ὠιδὴν fr. 2.2 Diels); nel V-IV secolo in Democrito (DK 68 B21): in entrambi i
casi si sottolinea la composizione, l'artificio poetico. Coxon (p. 218), che
rende il greco come «composition», sostiene che il termine sarebbe stato scelto
per la sua congruità con il successivo διάκοσμος, «sistema», che la
«composizione» deve esporre. Una interpretazione radicalmente diversa è quella
di J. Frère ("Parménide et l'ordre du monde: fr VIII, 50-61", in
Études 177 sur Parménide cit., vol. II, pp. 199-200), che legge il genitivo ἐμῶν
ἐπέων come complemento indiretto («dalle mie parole») di ἀκούων, e κόσμον come
«ordine del mondo». Robbiano (op. cit., p. 182) avanza l'ipotesi che κόσμος
mantenesse in Parmenide il suo valore omerico (disposizione ordinata che è
conveniente, che funziona e che è anche bella da vedere: il prodotto di un
essere intelligente), precedente al riferimento (che per altro conservava aspetti
della accezione originaria) all'universo (per la prima volta forse in Eraclito
B30). Nello specifico, secondo la studiosa, kosmos si riferirebbe a prodotto
della mente e della parola umana: a ciò che vediamo da una certa prospettiva
(umana) e non a ciò che (e come) le cose sono nell'ottica divina. Nehamas
("Parmenidean Being/Heraclitean Fire", cit., p. 60) ha invece
ipotizzato che κόσμος significhi nel contesto il mondo di cui la dea parla: «da
questo punto in avanti, impara le opinioni mortali, venendo a conoscere
(attraverso l'ascolto) il mondo ingannevole cui le mie parole si riferiscono».
È possibile che le affermazioni di cui consta la Doxa, la teoria che essa
contiene, non siano di per sé erronee, che descrivano correttamente un mondo di
per sé ingannevole, in quanto mascherato da realtà quando è solo apparenza. 8
L'uso dell'aggettivo possessivo sottolinea l'autorità della comunicazione e
l'assunzione di responsabilità nell'introduzione della sezione sulla Doxa:
analogamente ai pronomi personali ἐγὼν (B2.1), μοί (B5.1), ἐγὼ (B6.2), ἐγὼ (v.
60). 9 Coxon (p. 218) segnala l'opposizione di κόσμον ἐπέων a λόγος: «discorso
poetico» sarebbe contrapposto a «discorso razionale». D'altra parte la cultura
del V secolo riconosceva un nesso tra ἔπη e δόξα (come risulta da Euripide,
Eracle 111). Cerri (p. 243) non è, tuttavia, disposto a esagerarne, nel
contesto, le implicazioni: in particolare, l'irrazionalità e l'ingannevolezza
delle parole che seguono sarebbero solo relative. Tarán (p. 221) sottolinea
come la Dea, pur impiegando parole secondo le regole della grammatica e della
poesia, non potrà evitare che il suo discorso risulti decettivo. 10 Nuovamente
(dopo B2.1) il κοῦρος viene invitato ad ascoltare, a manifestare con la
disponibilità all'ascolto la propria aspirazione alla conoscenza. 11 Dobbiamo a
J. Frère (op. cit., p. 201) il rilievo circa il significato antico di ἀπατηλός:
che non sarebbe, come per il corrispettivo moderno, «ingannevole», piuttosto
«suscettibile di ingannare». La sua resa francese è la seguente: «[un ordre du
monde], où l'on peut se trompeur». Lo studioso propone in effetti di collegare
κόσμον e ἀπατηλὸν, senza fare di ἐμῶν ἐπέων un genitivo dipendente da κόσμον,
ma vedendovi un complemento di ἀκούων (p. 199). Reale sceglie di rendere l'aggettivo
con «seducente»: Ruggiu nel suo commento (pp. 313) sottolinea come il senso
dell'aggettivo vada colto nella relazione di apertura alla verità e all'errore
(come sarebbe proprio di ogni seduzione), alla luce del suo oggetto,
l'apparire. Mourelatos (p. 227) ha valorizzato le potenziali ambiguità della
formula κόσμον ἐπέων 178 Presero12 la decisione13, infatti14, di dar nome15 a
due16 forme17 , ἀπατηλὸν: è la stessa combinazione di parole a celare la
tensione di idee contrarie. L'espressione κατὰ κόσμον indica, in effetti,
parlare veritativamente, appropriatamente: la polarità κόσμος-ἀπάτη
segnalerebbe sia che le δόξαι sono decettive, sia che l'ordinamento delle
parole della dea o il loro contesto può suggerire molteplici e\o confliggenti
significati. In questo senso Mourelatos invita a tenere a mente la formula
esiodea ἐτύμοισιν ὁμοῖα («simili a cose vere», Teogonia 27) e l'espressione ἀμφιλλογία
(da tradursi come come «double talk», Teogonia 229), che Esiodo intenderebbe
deliberata e maliziosa. Affascinante l'accostamento omerico all'episodio di
Odisseo e Polifemo. Lo studioso ne ricava (p. 228) nel contesto una lezione di
ironia da parte di Parmenide: i mortali praticano "anfilogia"
innocentemente (senza saperlo), cadendo quindi in errore; la dea usa l'anfilogia
in modo pienamente consapevole, svelando quindi la verità sulle opinioni umane!
12 Anche chi, come Coxon (p. 219), ritiene che il modello dualistico proposto
nella Doxa possa risalire al pitagorismo antico, è convinto che κατέθεντο abbia
comunque come soggetto genericamente «gli esseri umani», cogliendo una
connessione tra lo stabilire nomi di questo verso e quanto sostenuto nei vv.
34-41. Tuttavia il problema del soggetto del verbo si pone: Frére (p. 203), per
esempio, osserva come sia difficile pensare che tutti i «mortali» possano
essere assunti come «dualisti», e decide di indicare come soggetto «alcuni»
(certains). Seguendo la proposta di Ebert ("Wo beginnt der Weg der Doxa?
Eine Textumstellung im Fragment 8 des Parmenides", cit.) di leggere la
sequenza dei vv. 34-41 dopo il v. 52, il soggetto di κατέθεντο (e dei
successivi ἐκρίναντο e ἔθεντο) diventerebbe βροτοί. Ma quali? Couloubaritsis
(Mythe et philosophie, cit., p. 261) ritiene, per esempio, che, diversamente
dai mortali (senza discernimento, che nulla sanno) di B6, i βροτοί di cui la
Dea parla negli ultimi versi di B8 si siano smarriti solo su un punto preciso
(B8.54). 13 Secondo Cerri (p. 245), la sequenza di aoristi (κατέθεντο, ἐκρίναντο,
ἔθεντο) rivelerebbe un riferimento del discorso della Dea a un lontano passato.
Secondo Diels (Parmenides Lehrgedicht, cit., p. 92) γνώμη κατατίσθεσθαι sarebbe
da considerare formula abituale: Liddell-Scott traducono nel nostro caso
κατέθεντο γνώμας ὀνομάζειν come «recorded their decision, decided to name». Si
potrebbe rendere come «si decisero a nominare». In alternativa si potrebbe
costruire il verso facendo dipendere da κατέθεντο («stabilirono») μορφὰς δύο
(«due forme») e attribuendo all'infinito ὀνομάζειν valore finale (per dar
nome), con γνώμας come oggetto diretto: «stabilirono due forme per dar nome ai
loro punti di vista» (soluzione vicina a quella adottata da Cerri). O ancora,
considerare (come Deichgräber) sia γνώμας sia μορφὰς come oggetti retti da
κατέθεντο («posero due forme 179 [come] principi per nominare»). Cordero fa,
invece, di δύο γνώμας l'oggetto diretto di κατέθεντο e traduce quindi: «They
estabilished two viewpoints to name external forms». Couloubaritsis (Mythe et
philosophie cit., pp. 278-9) propone una soluzione analoga, intendendo γνώμας
come «marque signifiante»; ne risulta: «En effect, ils proposèrent deux formes
pour nommer les marques signifiantes». Pur essendo la struttura della frase
molto diversa, nella sostanza il significato non muterebbe, come sottolinea
anche Conche (p. 190). Frére (p. 203), invece, sottolinea come κατέθεντο non
possa in questo caso essere costruito con il complemento diretto. Tenendo conto
del fatto che· (i) i vari significati del termine γνώμη sono riconducibili
essenzialmente a giudicare, pensare e (conseguentemente) decidere; (ii) nel
contesto γνώμας si dovrebbe rendere con «opinioni», «giudizi», «punti di
vista»; (iii) esiste nei codici DEF la variante γνώμαις: se accolta, la
traduzione dovrebbe risultare: «[Uomini] stabilirono, infatti, due forme per
nominare sulla base delle [loro] opinioni»; (iv) in alternativa γνώμας potrebbe
essere inteso come accusativo di relazione (Frére: «en leurs jugements») –
tutto ciò considerato, optiamo per la soluzione più lineare: quella di
intendere κατέθεντο γνώμας come «risolvettero i [loro] punti di vista» e dunque
tradurre «presero la decisione», «si decisero a». Va menzionata l'analisi di
Mourelatos (pp. 228-9), che riscontra nel verso una costruzione a conferma
della sua lettura "anfilogica" della sezione: l'effetto sarebbe
quello di far avvertire all'uditore/lettore la tensione tra γνώμην κατέθεντο
(«essi decisero») e κατέθεντο δύο γνώμας (l'opposto: «essi erano di due
opinioni, vacillavano»; situazione che può richiamare quanto espresso da
δίκρανοι, B6.5). 14 Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., p.
354) ha di recente sottolineato come γὰρ qui abbia poco senso nel contesto, in
quanto quel che segue non sembra giustificare le affermazioni della dea nei vv.
51-2: assumerebbe altro valore accettando la proposta di Ebert di
"restaurare" i vv. 34-41 dopo il v. 52. In realtà la Dea, in quel che
segue, illustra proprio come e dove possa annidarsi la distorsione nel punto di
vista umano che va a presentare. 15 La decisione di nominare implica un’arbitrarietà
che Parmenide ha già stigmatizzato in B8.38b-39: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα
βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ Perciò tutte le cose saranno nome,
quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali. Sullo stesso motivo
ancora in B19: 180 οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ
τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ.
Così appunto, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, a
partire da ora, sviluppatesi, moriranno. A queste cose un nome gli uomini
imposero, particolare per ciascuna. Se teniamo conto della proposta di restauro
del testo (vv. 34-41 dopo v. 52) da parte di Ebert, potremmo effettivamente
concludere che l'arbitrio della convenzione linguistica è indissociabile dalla
concezione parmenidea della Doxa. Leszl (p. 230) ha colto in questo
un’anticipazione della distinzioneopposizione tra nomos e physis. 16
Interessante la proposta di Leszl (p. 230): egli suppone infatti che δύο abbia
una doppia associazione, traducendo: «i mortali con doppia mente hanno dato
nome a due forme». La descrizione dei mortali corrisponderebbe così a quella di
B6.4-5. 17 Il valore di μορφαί sarebbe nel contesto, secondo Cerri (p. 246)
quello di strutture categoriali, create dall'uomo in funzione delle sue (due)
sensazioni più urgenti, sulla base delle quali si costruirebbe successivamente
la trama complessa delle parole. Un parallelo in Platone, che sembra evocare
direttamente il verso parmenideo: θῶμεν οὖν βούλει, ἔφη, δύο εἴδη τῶν ὄντων, τὸ
μὲν ὁρατόν, τὸ δὲ ἀιδές vuoi che stabiliamo, disse, due categorie di tutto ciò
che è, l'una del visibile, l'altra dell'invisibile? (Fedone 79 a 6-7). Nella
stessa direzione Robbiano (op. cit., p. 181), che vede nelle due forme opposte
la possibilità di ridurre il molteplice dell'esperienza «to a minimal number of
categories». Per rimanere vicino all'uso arcaico del termine, Cordero (By
Being, It Is, cit., p. 156) insiste per rendere μορφαί come «external forms».
Analogamente Frére (p. 204) – che opta per «figures», anche alla luce del
successivo riferimento a δέμας, che designa corpo e aspetto fisico - e
Mourelatos, che rende con «perceptible forms». Granger (“The Cosmology of
Mortals”, in Presocratic Philosophy, cit., p. 112) osserva come la scelta di μορφαί
(che significa appunto anche «forme esteriori», «apparenze per un osservatore»)
potrebbe segnalare il fatto che la dea si è volta dalla realtà alle apparenze.
181 delle quali l’unità18 non è [per loro]19 necessario [nominare]20: in ciò
sono andati fuori strada21 . 18 L'interpretazione del valore di τῶν μίαν è
stata oggetto di interminabile dibattito (che origina nell'antichità!). La
traduzione più fortunata è quella (proposta tra gli altri da Zeller e alla fine
accolta anche da Diels, inizialmente critico) che intende rilevare come, delle
due forme imposte dai mortali, una non avrebbe dovuto essere introdotta, una è
«di troppo» (ci si riferisce spesso alle due forme come repliche di Essere e
Non-Essere: la seconda non avrebbe dovuto essere nominata); ciò costituirebbe
l'errore dei mortali secondo la Dea. Si tratta di fatto dell’interpretazione di
Aristotele; essa è stata oggetto di critica, in quanto: (i) da un punto di
vista linguistico intende μίαν come se fosse ἑτέρην (non si potrebbe leggere in
μίαν il significato di «una delle due»); (ii) da un punto di vista
interpretativo accosta arbitrariamente essere e luce e non-essere e tenebra.
Una seconda linea di lettura (proposta tra i contemporanei in particolare da
Kirk-Raven) sottolinea come i mortali abbiano stabilito di nominare due forme,
di cui non si deve nominare una sola (cioè una senza l'altra), come specificato
da Raven: «two forms, of which it is not right to name one only (i.e. without
the other)». Coxon segue la stessa linea. Una terza esegesi (anticipata da
Reinhardt e Kranz e poi seguita Verdenius, Deichgräber, Untersteiner,
Pasquinelli, Schofield) fu proposta da Cornford, intendendo τῶν μίαν οὐ = οὐδετέραν:
i mortali hanno errato nell'introdurre (oltre all'essere) due forme: nessuna
delle due avrebbe dovuto essere nominata: «mortals have decided to name two
Forms, of which it is not right to name (so much as) one». La Curd l'ha
riproposta all'interno della sua analisi delle due forme come «enantiomorfe».
Tarán (p. 219) ha sottolineato come tale resa sottintenda qualcosa (οὐδὲ μίαν)
che il testo greco non propone. Una quarta possibile interpretazione è quella
che abbiamo seguito: si può ritrovare già nell'edizione del poema di Diels
(1897), ma è stata soprattutto ripresa e approfondita da H. Schwabl ("Sein
und Doxa bei Parmenides", «Wiener Studien», 1953, p. 53 ss.) e poi
adottata da Tarán («for they decided to name two forms, a unity of which is not
necessary»), Couloubaritsis e da Reale. Gli uomini pongono due principi che non
si possono ridurre a unità, in ciò cadendo in errore. Il genitivo del pronome
(τῶν) non può essere partitivo (in tal caso avremmo ἑτέρην) ma collettivo, e
riferirsi a entrambe le μορφαί. Conclusione: μία (da intendere in senso
numerico) deve essere «una unità» delle δύο μορφαί. Insomma l'errore
consisterebbe nel porre due forme e nel non cogliere che sono riconducibili a
un'unica realtà (l'essere). Fondamentale dunque l'accurata traduzione di
Schwabl dei vv. 53-4, che alcuni ritengono l'unica grammaticalmente accettabile
(Mansfeld, p. 126): denn sie legten ihre Meinung dahin fest, zwei Formen zu
benennen, 182 von denen die Eine (d.h. eine einheitliche, die beiden
zusammenfassende Gestalt) nicht notwendig ist; in diesem Punkte sind sie in die
Irre gegangen. Si tratta di una lettura sollecitata dallo stesso commento di
Simplicio (Fisica 31, 8-9): τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων
στοιχείων μὴ συνορῶντας [si sono ingannati] coloro che non colgono l'unità
nella opposizione degli elementi che producono la generazione. Su queste
esegesi si diffonde Reale nel suo aggiornamento a Zeller-Mondolfo, Eleati,
cit., pp. 244 ss.. Di recente Palmer (op. cit., pp. 169-170) ha contestato la
soluzione di Schwabl, ribadendo che il significato di τῶν μίαν è «one of
these», portando a esempio un testo di Erodoto (IX, 122), dove, però τῶν μίαν è
riferito a una pluralità di luoghi (πολλαὶ ἀστυγείτονες) e non all'alternativa
tra due elementi (che richiederebbe appunto ἑτέρην). 19 Importante per il senso
complessivo stabilire se la mancata postulazione è tesi della Dea ovvero parte
della sua analisi dell'errore dei mortali. Abbiamo scelto di seguire questa
seconda opzione, che ci sembra suggerita anche dalla relativa seguente. Dello
stesso avviso J.H.M.M. Loenen, Parmenides Melissus, Gorgias. A Reinterpretation
of Eleatic Philosophy, Van Gorchum, Assen 1959, pp. 117-120. 20 L'espressione
con valore modale χρεών ἐστιν richiede l'infinito: sottintendiamo ὀνομάζειν.
Nei precedenti (B2.5; B8.11, B8.45) Parmenide utilizza εἶναι o πέλεναι, ma
l'accusativo μίαν suggerisce nel contesto ὀνομάζειν. 21 Il perfetto
medio-passivo πεπλανημένοι εἰσίν equivale a «si sono sbagliati»: conserviamo il
valore implicito in πλανάομαι. Coxon (p. 220) osserva come l'uso del perfetto
distingua l'allusione storica ai pensatori ionici dall'analisi dello status
delle due forme espresso dall'aoristo κατέθεντο. In particolare, πεπλανημένοι εἰσίν
richiamerebbe B6.4-6, per l'uso di πλάζονται (la variante che Coxon accoglie in
vece di πλάσσονται) e dell'espressione πλακτὸν νόον. In questo modo si
chiarisce anche che le allusioni di quel frammento erano ai pensatori ionici.
La natura dell'errore cui si allude dipende dalla lettura dell'emistichio
precedente: aver posto due principi, distruggendo il monismo ontologico, ovvero
aver posto due principi senza coglierne l'unità; aver posto un solo principio.
Secondo Patricia Curd (The Legacy of Parmenides…, cit., pp. 104 ss.) l'errore
dei mortali sarebbe da ravvisare nel fatto che essi hanno fondato la Doxa su
due opposti di genere speciale: enantiomorphs, «oggetti che sono immagini
speculari l'uno 183 [55] Scelsero22 invece23 [elementi]24 opposti25 nel corpo26
e segni27 imposero dell'altro [...] definiti in termini di ciò che l'altro non
è» (p. 107), dunque in una sorta di intreccio di essere e non-essere. Thanassas
rimarca la connessione tra κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν e ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν:
la formula «in questo essi si sono ingannati» concorrerebbe a restringere la
validità del termine «ingannevole» alle «opinioni mortali» criticate in 8.54-
9, così da aprire la possibilità di una nuova comprensione della relativa
incidentale (τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν). Essa esprimerebbe esattamente l’errore
denunciato in quel che segue, poi corretto dalla «appropriata» Doxa divina (p.
65). 22 Seguiamo Coxon (p. 221) nel rendere – secondo il consueto uso epico di
κρίνεσθαι - ἐκρίναντο come «scelsero». Anche in questo caso si pone il problema
del soggetto: si tratta dello stesso soggetto di κατέθεντο? Ovvero, come crede
Frére (p. 204), di altro soggetto, per cui «alcuni presero la decisione di dar
nome a due forme» e «alcuni invece scelsero ... e segni imposero»? Optiamo per
la continuità di un soggetto indefinito. 23 Traduciamo δέ attribuendogli valore
avversativo (per lo più non è tradotto o gli viene aatribuito valore
copulativo), nella convinzione che la Dea, faccia seguito al proprio rilievo
critico del verso precedente. 24 Forzando l'interpretazione, sottintendiamo
«elementi» (e non genericamente «cose») nel neutro plurale ἀντία. Simplicio in
effetti parla di ἀρχαί e στοιχεία. Mansfeld (p. 140), sulla scorta di
Deichgräber, sostiene che i «segni» con cui sono connotate le due forme
concorrano a definire la nozione di «elemento», con cui, nella sua trattazione,
sostituisce il termine «forma». 25 Alcuni interpreti (per esempio O' Brien e
Frère) intendono ἀντία come avverbio («in modo contrario», «oppositivamente»)
riferendolo alle due forme nominate, «relativamente al corpo» (δέμας,
accusativo di relazione). Altri, invece, pongono δέμας come oggetto diretto di ἐκρίναντο
e pongono l'avverbio in relazione a esso. Coxon, dal canto suo, fa di πῦρ e
νύκτα gli oggetti diretti e di ἀντία un predicativo. Intendiamo ἀντία come
neutro plurale. 26 Il termine δέμας è sempre riferito a corpi viventi: secondo
Coxon (p. 221) ciò rivelerebbe che Parmenide considera le due forme come
divinità. Conche (pp. 194-5) ritiene che il significato omerico di forma
corporea non possa funzionare nel contesto: risalendo al valore di δέμω (che
indicherebbe un certo modo di costruire, per sovrapposizione di linee uguali),
egli individua «struttura» come resa più sensata. 27 Il termine σήματα avrebbe,
secondo Cerri (p. 248), qui il valore di «segni di lingua», «parole». Nella
scelta di ἐκρίναντο e di σήματα, Mansfeld (p. 131) 184 separatamente28 gli uni
dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco29 , che è mite30, molto
leggero, a se stesso in ogni direzione identico31 , coglie una ripresa della
«disgiunzione» (κρίσις) di B2 e delle proprietà dell’essere (B8). 28 Rendiamo
χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων come espressione avverbiale, per ribadire l'opposizione (ἀντία
δ΄ ἐκρίναντο). 29 Coxon (p. 221) ritiene che Parmenide, pur concordando nella
sostanza con Eraclito sul fatto che il fuoco è costituente ultimo del mondo
fisico, nella scelta della coppia luce-notte rivelerebbe come sua fonte
immediata la tavola degli opposti pitagorica. Charles Kahn, invece - nel suo
fondamentale Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett,
Indianapolis 1994 (originariamente Columbia U.P., New York 1960), p. 148 -, ha
mostrato come l'espressione φλογὸς αἰθέριον πῦρ risenta della omerica
connotazione di αἰθέρ (da αἴθω, «accendere, infiammare») come «celestial
light», originariamente indicante una condizione del cielo e solo derivatamente
l'elemento luminoso e raggiante connesso alla regione superiore dell'atmosfera,
a contatto con la copertura celeste (οὐρανός): nel tempo, insieme al correlato ἀήρ,
avrebbe modificato il proprio significato, finendo nel V secolo a.C. per
indicare una regione di puro fuoco (come ancora attesta Anassagora in DK 59 B1,
B2, B15). I sostantivi πῦρ e νύκτα (accusativi) sottintendono un verbo
reggente: nella nostra traduzione si tratta di ἐκρίναντο. 30 L'aggettivo ἤπιος
è per lo più tradotto con «mite», che nel contesto, dopo il richiamo a φλογὸς αἰθέριον
πῦρ, potrebbe apparire insensato: in alternativa Cerri (p. 249) propone «utile»
o «propizio». Ma anche questa soluzione, soprattutto nel confronto oppositivo
con i «segni» di «notte oscura», appare poco convincente. Manteniamo «mite»,
nel senso fisico, suggerito da Frére (pp. 207-8), di «non intenso». 31 La due
forme - «fuoco etereo» e «notte oscura» - sono poste a un tempo con la
caratteristica identità uniforme dell'essere e con la non-identità rispetto
alla forma opposta. Si tratta di caratteri fondamentali per l'interpretazione
della cosmologia parmenidea: il sistema di spiegazione adottato riflette
proprietà emerse dall'analisi della Verità. Su questo punto in particolare
Graham (pp. 170-1). Couloubaritsis (Mythe et philosophie cit., pp. 281 ss.)
vede in questo rilievo una sorta di indulgenza della Dea nei confronti dei
«mortali» in questione, i quali si attengono parzialmente alla legge
dell'essere: ciò consentirebbe di riconoscere i Pitagorici dietro alle
espressioni parmenidee. Come abbiamo sopra ricordato, Mansfeld (p. 140)
individua nei «segni» con cui Parmenide connota le due forme la nascita della
nozione di «elemento»: 185 rispetto all’altro, invece, non identico32;
dall’altra parte, anche quello in se stesso33 , le caratteristiche opposte34:
notte oscura35, corpo denso e pesante36 . proprio «auto-identità» e
«non-identità» rispetto alla forma contraria ne sarebbero i costitutivi
concettuali decisivi. 32 Forse è proprio questo rilievo a segnalare il limite
della posizione criticata: come suggerisce Couloubaritsis (Mythe et philosophie
cit., p. 288) non aver saputo cogliere fino in fondo la legge della identità e
non aver posto, per la conoscenza, l'orizzonte dell'unità. È possibile che il
gioco di τωὐτόν - μὴ τωὐτόν richiami le «schiere scriteriate» (ἄκριτα φῦλα) di
cui in B6.8-9a si dice: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν
[...] per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non
la stessa cosa. A questo ha di recente prestato attenzione Granger ("The
Cosmology of Mortals", in Presocratic Philosophy, cit., p. 111). Mansfeld
(pp. 133-4) ha osservato come l’identità dell’essere sia differente da quella
delle due forme: l’auto-identità dell’essere è identità nella quiete. L’auto-identità
delle forme, inoltre, è auto-identità di aspetto che non esclude ma anzi
concede allo stesso tempo una contraria auto-identità di aspetto. Nehamas
(“Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, cit., p. 55)
ha invece sottolineato come i due principi della Doxa - separati l'uno
dall'altro, ognuno completamente identico a sé e differente dall'opposto - non
si mescolino in alcun modo l'uno con l'altro: la loro «separazione radicale»
sarebbe dunque, «linguisticamente e filosoficamente», contraria alla «pervasiva
confusione di essere e non-essere» denunciata in B6. 33 Diels (DK vol. I, p.
240) legge κατ΄ αὐτό τἀντία come se αὐτό avesse valore avverbiale («gerade») e
κατὰ reggesse τἀντία («all'opposto»). 34 L'espressione τἀντία è qui intesa come
τά + ἀντία («gli opposti», «le cose opposte»), come oggetto indeterminato del
verbo reggente (ἐκρίναντο), utilizzato per introdurre il vero oggetto (νύκτα) e
le sue connotazioni. 35 L'aggettivo ἀδαής indica l'impossibilità di discernere,
percepire, conoscere (costruzione con alfa privativo del verbo δάω, «imparare»,
«conoscere», «percepire»): «absence de sens», secondo O'Brien (p. 60), ma anche
«absence de lumière» (δαίω). Liddell-Scott indica come secondo valore «oscuro»,
proprio in questa occorrenza nel poema di Parmenide. Coxon (p. 186 [60] Questo
ordinamento37, del tutto38 appropriato 39, per te40 io41 espongo42 , 223)
preferisce rendere l'aggettivo in senso attivo come «unintelligent». O'Brien in
francese rende con «l'obscure nuit», in inglese offre una versione più sfumata:
«dull mindless night». È da notare come questa connotazione di Notte possa
essere intesa in senso epistemico negativo (impenetrabilità conoscitiva): ciò
potrebbe aver spinto all'accostamento aristotelico tra Notte e non-essere. Su
questo si veda Granger (op. cit. p. 113). Da osservare inoltre che alcune delle
caratteristiche qui associate a νύξ (in particolare oscurità e densità)
richiamano quelle arcaiche di ἀήρ, connotata come nebbia densa, oscura, fredda
(per esempio Esiodo, Opere e giorni 547-556). Sulla origine e sui caratteri
degli elementi nella cultura greca arcaica è ancora essenziale il contributo di
Kahn, op. cit., pp. 119-165. A proposito di ἀήρ le evidenze testuali mostrano
come in origine il termine non designasse una regione o un elemento specifico,
ma una condizione: la condizione che rende invisibili le cose, assimilabile
dunque sia a νέφος (nuvola) sia all'oscurità, intesa come positiva realtà (p.
143). 36 Mansfeld (pp. 132-3) vede nella corrispondente sequenza di segni delle
due forme tre distinti aspetti: (i) denominativo (αἰθέριον πῦρ/νύξ), (ii)
teoreticoconoscitivo (ἤπιον/ἀδαῆ), (iii) fisico (μεγ’ ἀραιὸν/πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές
τε). Una quarta corrispondenza è ritrovata nel rilievo della comune
autoidentità e etero-differenza delle due forme. 37 Mourelatos (p. 230) coglie
nell'uso di διάκοσμος un aspetto decettivo. Esso può indicare «ordine del
mondo», ma suggerire anche attività: un ordinamento in divenire nel tempo, una
cosmogonia. Inoltre, in relazione a τἀντία e τ΄ ἐναντίον (B12.5),
l'implicazione di ordine (κόσμος) di διάκοσμος sarebbe rovesciata nel senso di
«segregazione, divisione»: il κόσμος dei mortali sarebbe dunque, in realtà, un
campo di battaglia. Il termine è tuttavia impiegato anche in Aristotele per
indicare l'ordinamento cosmico pitagorico e in genere anche nella forma verbale
διακοσμεῖν conserva una valore positivo. Robbiano (op. cit., p. 183),
riprendendo la propria interpretazione del termine κόσμος, osserva come
διάκοσμος sia qui utilizzato per ribadire all'audience che il kosmos non è un
aspetto della realtà, non esiste oggettivamente; che vedere un kosmos è vedere
ed esprimere la realtà usando parole. Thanassas (Parmenides, Cosmos, and
Being…, cit., pp. 64-5) osserva, invece, come il termine diakosmos implichi un
intreccio delle due forme, che prelude alla introduzione della nozione di
mescolanza, impiegata per la Doxa “appropriata”. In questo senso, le
espressioni «ordine ingannevole delle mie parole» e «ordinamento del mondo del
tutto appropriato» denoterebbero due diversi livelli e obiettivi della Doxa: è
importante che essi non siano confusi (pp. 67-8). 187 38 Mourelatos e
Couloubaritsis intendono πάντα come aggettivo, concordato con τόν διάκοσμον:
«this whole ordering [system, framework]»; «l'ordonnance totale». 39 Il
significato del participio ἐοικώς usato con valore assoluto è secondo
Liddell-Scott «seeming like, like» ovvero «fitting, seemly». La verosimiglianza
è qui da intendere in relazione ai caratteri attribuiti alle due forme, in analogia
con quelli dell'essere. Ruggiu osserva come, per connotare la doxa, Parmenide
ricorra ad aggettivi, con caratterizzazione positiva, che hanno radice
nell'apparire: ἐοικώς e δοκίμως (B1.32). RealeRuggiu scelgono comunque di
rendere ἐοικώς come «veritiero», seguendo Schwabl e il suo suggerimento di
leggere l'aggettivo «sulla base del linguaggio spontaneo di Omero» (p. 323),
piuttosto che con quello della (posteriore) sofistica. In Omero effettivamente
il significato prevalente di εἰκώς è «appropriato, adeguato». Untersteiner (pp.
CLXXVII ss.), in questo senso, insiste sul nesso con Senofane B35 (ἐοικότα τοῖς
ἐτύμοισιν), marcando l'accordo e la coerenza con i fatti. Anche Couloubaritsis
(Mythe et Philosophie chez Parménide, cit., pp. 264-5) sottolinea la positività
del termine, optando per il valore di «conveniente», adeguato, analogo a quello
(appunto) dell'avverbio δοκίμως. La dea segnalerebbe al giovane la propria
intenzione di esporre l'ordinamento delle cose «che conviene», cioè tenendo
conto della critica rivolta ai mortali (B8.54). Di diverso avviso Mourelatos
(p. 231), per il quale anche ἐοικότα manifesterebbe lo stesso gioco di
positività e negatività che in genere impronta la Doxa parmenidea: per i
mortali non iniziati ἐοικότα significherebbe «adeguato, appropriato,
probabile», per la dea e il kouros «apparente». Per Robbiano (op. cit., p.
183), la dea ricorrerebbe qui a ἐοικότα per correggere l'impressione negativa
che l'audience poteva associare al precedente κόσμον ἀπατηλὸν. Leszl osserva
(p. 223) come in questo verso di solito si renda διάκοσμον ἐοικότα come «ordine
(disposizione di cose) conveniente», ritenendo che ἐοικώς non possa qui valere
come «simile (a qualcosa)», in quanto sarebbe assente il termine di paragone.
Ammettendo tuttavia che in questo verso vi sia un richiamo al v. 52
(κόσμος-διάκοσμος) e che la descrizione tradizionale (omerico-esiodea) della
falsità sia quella di dire cose simili a quelle vere (ἐτύμοισιν ὁμοῖα), in
effetti il termine di paragone risulterebbe introdotto indirettamente:
l'essere, concepito come la realtà genuina. 40 Si susseguono i due pronomi
personali σοι ἐγὼ: abbiamo di nuovo ben marcato nell'interlocutore diretto il
destinatario dell'esposizione ancora rivendicata dalla dea. Qui il dativo è di
interesse (Coxon p. 223). 41 Coxon (p. 223) rileva come, nonostante la dea
attribuisca la «decisione di nominare due forme» e la scelta di luce e notte
agli esseri umani, considerandole integrali alla natura dell'esperienza umana,
ella invece sottolinea con ἐγώ che il sistema del mondo (caratterizzato come ἐοικώς)
è 188 così che mai alcuna opinione43 dei mortali possa superarti44 . suo. Un
aspetto rilevato anche da Thanassas (op. cit., p. 71): il pronome personale ἐγώ,
in greco non necessario, sarebbe impiegato per enfatizzare il carattere
rivelativo di quel che segue, così segnando il passaggio dalla Doxa ingannevole
a quella appropriata. 42 Coxon (p. 224) intende φατίζω come «io dichiaro»,
modificando la struttura della frase: «This order of things I declare to you to
be likely in its entirety». Couloubaritsis (Mythe et philosophie, cit., pp.
262-3) sottolinea come, nel linguaggio corrente, φατίζω fosse utilizzato per
indicare una promessa, un impegno. Come se la scelta verbale di Parmenide
impegnasse la Dea nella esposizione che segue. Interessanti le implicazioni
lessicali: il sostantivo φάτις in effetti significa «parola», in particolare la
parola di un dio o di un oracolo; ma anche «ciò che si dice di qualcuno», una
«voce» e, di conseguenza, «la rinomanza». Si tratta, dunque, di espressione
ambigua, il cui valore oscilla tra «verità» e discorso inverificabile.
Utilizzato dalla Dea, φατίζω viene da un lato a significare parola vera
(B8.35), che dovrà permettere al giovane di acquisire rinomanza, così da
risultare credibile come «uomo divino» (θεῖος ἀνήρ). Questo spiegherebbe,
secondo Couloubaritsis, il passaggio alla proposizione conclusiva: nessun
sapere umano potrà superare quello così acquisito dal giovane. In ogni caso,
anche per una valutazione complessiva della sezione sulla Doxa, è opportuno
marcare (seguendo Frère, op. cit., p. 209) come φατίζω rinvii, all'interno di
questo frammento, alla parola che manifesta l'Essere (vv. 35-36a: οὐ γὰρ ἄνευ
τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν). 43 Il termine γνώμη ha
uno spettro semantico piuttosto ampio, che spazia da «pensiero», «giudizio»,
«opinione», a «decisione», «massima pratica», «proposito». Reale-Ruggiu (pp.
316-7) interpretano l'espressione βροτῶν γνώμη come se non indicasse
semplicemente altre opinioni, altri giudizi «dei mortali», ma una forma di
"saggezza" (come quella veicolata attraverso gli enunciati
"gnomici" appunto, massime di saggezza pratica) tutta umana, che si
riduce a mere parole. Tarán traduce in effetti come «wisdom» e Couloubaritsis come
«savoir». 44 Il verbo παρελαύνω ha il significato di «passare», «superare».
Mourelatos (p. 226 nota) osserva che il verbo appartiene al vocabolario delle
corse di carri. Il senso sarebbe dunque da rintracciare nel
superamento/sorpasso («outstrip»), ma anche nel rivelarsi superiore in ingegno
(«outwit»). Untersteiner ha sottolineato anche il valore di «portare fuori
strada», «sviare», seguito da Reale-Ruggiu e anche da Cerri. Manteniamo la
traduzione più comune. Su questa conclusione ha fatto per molto tempo leva
l'interpretazione "dialettica" della Doxa parmenidea: uno strumento,
il migliore possibile, per concorrere con successo con cosmologie rivali. Ma
pur sempre "ingannevole"! Una recente ripresa, ben argomentata, è
quella di 189 Granger (op. cit., pp. 102-3): l'impegno della Dea sarebbe stato
quello di fornire il miglior strumento per individuare l'inganno che si annida
nelle cosmologie. Nella misura in cui il giovane allievo fosse stato in grado
di riconoscere i difetti del pensiero dei mortali nella cosmologia che la Dea
aveva approntato, nessuna opinione mortale avrebbe più potuto sorprenderlo: la
cosmologia più ingannevole, in effetti, è quella più vicina alla realtà. Tarán
(p. 207) aveva marcato come i due versi finali del frammento non affermino che
la ragione per esporre il διάκοσμος sia che esso è il migliore, ma solo che
l’intero ordinamento è offerto perché nessuna sapienza umana possa superare
Parmenide. 190 DK B9 αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται1 καὶ τὰ κατὰ
σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου
ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν. [Simplicio, In Aristotelis Physicam
180] 1 La forma verbale ὀνόμασται è in realtà nei codici DEF2 ὠνόμασται,
corretta dagli editori per ragioni metriche. 191 Ma poiché tutte le cose luce e
notte sono state denominate1 , e queste2 , secondo le rispettive3 proprietà4 ,
[sono state attribuite] a queste cose e a quelle5 , tutto6 è pieno ugualmente7
di luce e notte invisibile8 , 1 Coxon (p. 232) difende l'inversione tra
soggetto e predicato: dal momento che in B8.53-59 si parla di nominare due
forme, «luce e notte» dovrebbero essere soggetto della proposizione, mentre
«tutte le cose» diventerebbe predicativo. I due nomi sarebbero, insomma, la
sostanza della molteplicità di enti fisici. 2 Il pronome dimostrativo neutro
plurale τά secondo Tarán (p. 161), seguito da Conche (p. 198), si riferisce a
φάος καὶ νὺξ; Diels, invece, seguito da altri (per esempio Pasquinelli, Coxon),
lo intende riferito a ὀνόματα. Gigon, Fränkel, Raven rendono il verso come
espressione semplice: le cose in accordo con le qualità di luce e notte sono
state attribuite a queste cose e a quelle. 3 L’aggettivo possessivo σφετέρας
può essere tradotto con valore riflessivo («proprie») o meno: il valore dipende
dalla decisione circa il significato da attribuire a τά. 4 Il termine δυνάμεις
avrebbe qui, secondo Tarán (p. 162) e Coxon (p. 233) un valore analogo a quello
di σήματα. Conche (p. 199), a nostro avviso giustamente, interpreta come le «qualità
opposte» associate a luce e notte. Untersteiner (p. CLXXXIV, nota 66) vi coglie
invece sinonimia con φύσις. In effetti il termine dovrebbe nel contesto
significare proprietà, qualità essenziale. È vero però che la dimensione entro
cui Parmenide inserisce la Doxa è certamente anche linguistica, donde la scelta
di Tarán di tradurre con «meanings». Coxon sottolinea nella implicazione tra
δύναμις e μορφή un carattere della posteriore associazione tra δύναμις e ἰδέα o
εἶδος. 5 L'espressione ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς si riferisce agli enti fisici, con
i loro opposti caratteri. 6 Il pronome πᾶν può essere riferito al Tutto ovvero
a «tutte le cose», alla totalità delle cose: nel secondo caso, è l'insieme
delle cose a essere pieno di luce e tenebra, non ogni singola cosa. B12.1
sembra avvalorare la seconda lettura, così come Teofrasto in DK 28 A46. Tra gli
altri, Tarán (p. 162), Coxon (p. 233), e Gallop (p. 77) la sostengono. Conche
(p. 200) esplicitamente contesta questa lettura: come è possibile che la
totalità delle cose sia ripiena a un tempo di luce e notte se non non lo sono
anche le singole cose? Guthrie (vol. II, p. 57) e Cerri (p. 255) insistono
sulla equipollenza quantitativa. Ruggiu (p. 328) esplicitamente sottolinea come
«ogni cosa sia costituita insieme e ugualmente di Luce e Notte». 192 di
entrambe alla pari9 , perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla 10 . 7
L'avverbio ὁμοῦ può rendersi come «insieme», «allo stesso tempo», «egualmente».
Se il valore sia da intendere nel senso di una rigorosa misura quantitativa,
dipende da come si interpreta πᾶν. 8 L'aggettivo ἀφάντου è usato per marcare
come, benché invisibile, la notte, opposta alla luce, è pur qualcosa (Coxon p.
233). 9 All'espressione ἴσων ἀμφοτέρων si può riconoscere valore quantitativo -
come fanno Diels e Reinhardt e di recente, per esempio, Cerri (p. 255), per il
quale Parmenide preciserebbe come i due principi debbano essere
quantitativamente equipollenti – ovvero, come preferisce Tarán (p. 163),
interpretare nel senso di una equivalenza funzionale, ovvero di status o
potere, come vuole Coxon (p. 233). Empedocle (DK 31, B17.27): ταῦτα γὰρ ἶσά τε
πάντα καὶ ἥλικα γένναν ἔασι questi sono infatti tutti uguali e coevi, sembra
alludere a una equivalenza (non quantitativa) di funzioni delle quattro radici.
Le due «forme» concorrono alla composizione del mondo: la loro complicità
nell'opposizione assicura la stabilità del mondo (Conche, p. 201). L'idea di un
equilibrio di forze, tuttavia, sembra comportare una interpretazione
quantitativa. 10 L'espressione ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν è stata variamente
tradotta, ciò comportando una diversa accentuazione del suo senso complessivo:
(i) Diels, Burnet, Reinhardt, Cornford, Riezler, Untersteiner: «poichè nessuna
delle due ha potere sull'altra»; (ii) H. Gomperz, Coxon: «con nessuna delle due
c'è il vuoto»; (iii) Schwabl, Kirk-Raven, Beaufret, Hölscher, Mourelatos,
Kirk-Raven-Schofield, Austin, Reale, Palmer: «poiché insieme a nessuna delle
due è il nulla» (ovvero, Mourelatos: «since nothingness partakes in neither»);
(iv) Zafiropulo, Casertano: «perché non esiste alcunché che non dipenda
dall'una e dall'altra»; (v) Fränkel, Calogero, Verdenius, Tarán, O'
Brien:·«perché non c'è nulla che non appartenga all'uno o all'altro dei
principi»; (vi) Guthrie, Conche, Pasquinelli, O'Brien, Tonelli: «poiché niente
partecipa di nessuna delle due». Abbiamo preferito la terza soluzione, in
quanto sembra marcare con decisione la svolta rispetto all'errore imputato alle
«opinioni mortali» criticate in B8.53- 59: come sottolinea Ruggiu (p. 329), il
rilievo della Dea ribadisce come tutte le cose siano, come in esse si manifesti
l'Essere. La lettura di Simplicio sembra corroborante: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν
[...] εἰ δὲ μ η δ ε τ έ ρ ω ι μ έ τ α μ η δ έ ν καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι
δηλοῦται 193 e poco dopo ancora [citazione B9]; e se «insieme a nessuna delle
due è il nulla», egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono
opposti. Da segnalare come Gomperz e Coxon (suo allievo) ritornino sulla
questione dell'equazione nulla-vuoto: in un contesto fisico – secondo lo
studioso anglosassone (p. 234) – μηδέν significherebbe spazio vuoto, la cui
esistenza Parmenide avrebbe rigettato implicitamente (in B8, insistendo sul
pieno), Melisso esplicitamente. 194 DK B10 εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι
πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν1 ἐξεγένοντο,
ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα2 σελήνης [5] καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν
ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν3 ἔφυ τε4 καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων.
[Clemente Alessandrino, Stromata V, 14 (419)] 1 Si tratta di correzione degli
editori; il codice di Clemente riporta ὁπόθεν. 2 Gli editori moderni hanno
corretto la forma περὶ φοιτά del codice di Clemente in περίφοιτα. 3 Il codice di
Clemente riporta, dopo ἔνθεν, μὲν γὰρ, poi espunto dagli editori. 4 La forma ἔφυ
τε è correzione moderna: il codice di Clemente riporta ἔφυγε. 195 Conoscerai1
la natura2 eterea3 e nell’etere tutti i segni4 e della pura5 fiamma dello
splendente6 Sole le opere invisibili7 e donde ebbero origine8 , 1 La forma del
futuro εἴσῃ, come la successiva εἰδήσεις, è epica. Da sottolineare il valore
positivo del verbo: insieme a πεύσῃ e εἰδήσεις sottolinea la natura
programmatica del frammento e la sua funzione di cerniera nell'opera. 2 Il
termine φύσις è stato in questo contesto tradotto (Coxon, Conche) come
«nascita»: Parmenide non si proporrebbe di esporre la «costituzione» o
l'«essenza» (Diels traduceva con «Wesen») dell'etere o della luna, analizzarne
la composizione, ma di spiegare il loro venire a essere, la generazione dei
costituenti del mondo e la genesi dei fenomeni (Conche, pp. 204-5). Non pare
tuttavia naturale rendere l'espressione αἰθερίαν φύσιν come «la nascita
dell'etere», né necessario intendere «natura» come «essenza»: il riferimento
alla costituzione dei fenomeni implica, nel caso della cosmogonia della Doxa,
illustrarne l'origine. 3 Dalla testimonianza di Aezio (DK 28 A37) possiamo
intravedere come Parmenide intendesse αἰθήρ come l'atmosfera più pura,
rarefatta, nella quale si muovono gli astri, e ἀήρ, invece, si riferisse
all'atmosfera sublunare, dislocata a ridosso della superficie terrestre, più
densa, meno pura. 4 In questo caso σήματα assume il suo valore comune nella
lingua greca arcaica (Omero): gli astri intesi in generale come «segni» per
l'orientamento. 5 Il termine καθαρή, «pura», ha un valore prossimo a una delle
accezioni di εὐᾰγής (con alfa breve), utilizzato in questo verso nel senso di
«splendente» (εὐᾱγής con alfa lunga): si tratta di purezza anche in senso
religioso. 6 Abbiamo già detto di εὐᾱγής (con alfa lunga) con valore di
«splendente», da preferire all'altra forma, εὐᾰγής (con alfa breve), per
ragioni metriche (Cerri, p. 260). 7 L'espressione ἔργ΄ ἀίδηλα è attestata in
Omero, dove significa «azioni odiose» (Iliade V, 897): in questo contesto si
potrebbe rendere – come fanno molti traduttori - come «operazioni distruttive».
Ma l'aggettivo ἀΐδηλος – costruito con alfa privativo e la radice ἰδ- di
«vedere» - può indicare tanto la capacità di far sparire, rendere invisibile
(dunque «distruttivo»), quanto la indisponibilità alla vista (quindi «oscuro»,
«ignoto»). Nell'insieme il significato di «invisibile» appare più convincente.
Ricordiamo, inoltre, come fa notare Cerri (p. 260), che in B8.57 la Dea aveva
connotato il fuoco come ἤπιον (mite, utile). Conche (pp. 205-7) sostiene la sua
traduzione «les oeuvres destructrices du pur flambeau du brillant soleil»
rinviando alle funzioni cosmogoniche di Fuoco e Notte: la loro unione implica
generazione del mondo, la loro dissociazione distruzione del mondo. Nella
misura in cui il fuoco solare si purifica al punto di liberarsi dalla
componente notturna, 196 e le opere apprenderai periodiche9 della Luna
dall’occhio rotondo10 , [5] e la [sua] natura11; conoscerai anche il cielo che
tutto intorno cinge12 , donde ebbe origine13 e come Necessità14 guidando lo
vincolò15 a tenere16 i confini degli astri. esso diviene funesto e dunque
dissociatore della mescolanza e distruttore della realtà. 8 Il verbo (aoristo
medio) ἐξεγένοντο, alla terza persona, è riferito a tutti i termini elencati in
precedenza, e non semplicemente al neutro plurale ἔργ΄ ἀίδηλα: si troverebbe
altrimenti alla terza persona singolare. 9 Seguiamo Conche (pp. 207-8) nel
tradurre ἔργα περίφοιτα come «opere periodiche», evitando «vaganti», troppo
generico e fuorviante rispetto al senso implicito nell'aggettivo (che LSJ
traducono nel contesto come «revolving»): quello di una ripetizione costante:
già nell'ambito del pitagorismo, infatti, la lunazione sarebbe stata fissata in
4 periodi di 7 giorni. Il senso del rilievo parmenideo sarebbe allora quello di
sottolineare la periodicità dell'azione lunare. Tonelli (p. 137) preferisce
riferire a senso περίφοιτα a σελήνης («della luna errante»). 10 Qui κύκλωψ ha
il valore di «occhio rotondo» (LSJ «round-eyed») e non si riferisce ovviamente
al gigante dall'occhio solo, il Polifemo omerico. 11 In questo caso, come
scelgono di fare alcuni traduttori (per esempio Coxon, Conche), φύσις potrebbe
rendersi con il suo valore etimologico di «origine», «nascimento». 12
L'espressione οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα (letteralmente «cielo che tiene intorno») si
riferisce alla funzione del cielo nel sistema astronomico di Parmenide: quella
di racchiudere in sé l'universo, l'insieme di etere (contenente gli astri) e di
aria (che fascia la Terra). 13 L'espressione interrogativa ἔνθεν ἔφυ
rivelerebbe l'insistenza sulla spiegazione a partire dall'origine (Conche, p.
209). 14 Ritroviamo Ἀνάγκη, a governare (ἄγουσα) il cielo e soprattutto a
costringere entro i limiti (ἐπέδησεν πείρατ΄ ἔχειν). In B8 Ἀνάγκη costringeva
l'Essere alla identità e immutabilità; qui garantisce l'ordine dell'universo e
la sua costanza. Coxon (pp. 229-230) sottolinea la relazione di somiglianza,
analoga a quella che intercorre (in conclusione di B8) tra le due forme e
l'Essere. 15 Letteralmente «legò» (ἐπέδησεν): torna anche in questo luogo l'eco
prometeica che il verbo porta con sé (Cerri, p. 262). 16 Significativo il fatto
che il Cielo abbia una doppia funzione: avvolgente (ἀμφὶς ἔχοντα) e limitante
rispetto alla marcia astrale (πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων). 197 DK B11 πῶς γαῖα καὶ ἥλιος
ἠδὲ σελήνη αἰθήρ τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν
1 μένος ὡρμήθησαν γίγνεσθαι2 . [Simplicio, In Aristotelis De Caelo 559] 1 I
codici DE di Simplicio riportano θερμῶν. 2 I codici AF riportano γίνεσθαι. 198
[...] come Terra e Sole e Luna, l'etere comune1 e la Via Lattea2 e l'Olimpo
estremo3 e degli astri l'ardente forza4 ebbero impulso5 a generarsi6 . 1 L'espressione
αἰθήρ ξυνὸς si riferisce probabilmente al fatto che tutti gli astri sono
immersi nello spazio etereo. 2 La formula greca - γάλα οὐράνιον – significa
letteralmente «latte celeste». L'uso dell'aggettivo potrebbe autorizzare a
pensare (Conche, p. 211) che per Parmenide la Via Lattea fosse composta di
stelle. 3 Nel contesto l'espressione ὄλυμπος ἔσχατος - «Olimpo ultimo» o
«Olimpo estremo» - si riferisce chiaramente a quanto sopra abbiamo trovato
indicato come οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, «il cielo che tutto attorno cinge». Esso
costituisce l'estremo limite dell'universo, così forzando in circolo il corso
degli astri. 4 In Empedocle (DK 31 B115.9) abbiamo un'espressione analoga: αἰθέριον
μένος. Il valore di μένος sarebbe quello di forza vitale. L'impiego dell'aggettivo
θερμός si spiega con la natura ignea degli astri. 5 Significativo nel contesto
il ricorso al verbo ὁρμᾶν, che sottolinea la spinta, l'impulso interiore: è
tale impulso a guidare il processo di costituzione delle cose. In B12.4
Parmenide lo attribuirà alla potenza immanente di una δαίμων. 6 Come sottolinea
la scelta espressiva (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), il contenuto del frammento è
comunque in continuità con il tema cosmogonico-cosmologico del precedente. 199
DK B12 αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο1 πυρὸς ἀκρήτοιο2 , αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ
δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· 3 γὰρ στυγεροῖο
τόκου καὶ μίξιος ἄρχει [5] πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄4 ἐναντίον αὖτις5 ἄρσεν
θηλυτέρῳ. [vv. 1-3 Simplicio, In Aristotelis Physicam 39; vv. 2-6 Simplicio, In
Aristotelis Physicam 31] 1 I codici di Simplicio riportano παηντο (Ea ), πάηντο
(D1 ), πύηντο (D2E), ποίηντο (edizione aldina). Bergk ipotizzò prima (1842) πλῆντο
(adottato da Diels), quindi (1864) πλῆνται, per ragioni metriche. Gli editori
contemporanei sono divisi: alcuni (Tarán, Kirk-Rave-Schofield, O'Brien)
preferiscono πλῆνται, che risulta tuttavia più improbabile dal punto di vista
paleografico; altri la forma da noi adottata, πλῆντο, che presenta difficoltà
metriche. 2 La forma ἀκρήτοιο è correzione di Bergk: i codici riportano ἀκρήτοις
(DEa ), ἀκρίτοις (EF), ἀκρίτοιο (edizione aldina). 3 Il testo greco dei
manoscritti DEF è πάντα γὰρ στυγεροῖο, problematico a livello metrico. Karsten
e Diels propongono l'introduzione del pronome ἣ dopo γὰρ. Così ancora Cordero e
Reale. Mullach preferì correggere πάντα in πάντηι, seguito da alcuni editori
(Tarán, Coxon, O' Brien). Altri, appoggiandosi al manoscritto W, ignoto a
Diels, leggono πάντων: così molti editori contemporanei: Mansfeld, Kirk-Raven-Schofield,
Conche, Gallop. Si tratterebbe comunque, secondo Franco Ferrari (Il migliore
dei mondi impossibili…, cit., p. 86 nota), di congettura bizantina. 4 La forma
μιγῆν τό τ΄ è correzione di Bergk: i codici riportano μιγέν τότε (DE), μιγέν τότ΄
(F). 5 La forma αὖτις si trova nel codice F: DE riportano αὖθις. 200 Quelle1
più strette2 , infatti, si riempirono3 di fuoco non mescolato; le successive4
[si riempirono] di notte, ma insieme si immette5 una porzione6 di fuoco; 1
L'articolo αἱ, qui usato con valore pronominale, e l'aggettivo στεινότεραι si
riferiscono probabilmente a στεφάναι, come insegna Cicerone (DK 28 A37), il
quale traduce il termine come corona e orbis. Coxon (p. 235) osserva
giustamente come i versi che precedevano le citazioni di Simplicio dovessero
vertere sugli elementi e sulla struttura delle sfere, evocate senza dettagli o
nomi qualificanti in apertura. 2 Simplicio, nel contesto della citazione, si
limita a dire che i versi seguivano un passo sui due elementi, e non chiarisce quindi
a quale sostantivo l'aggettivo si riferisse: si intende comunemente στεφάναι.
In questo senso στεινότεραι qualificherebbe quelle «più strette», ovvero quelle
«interne», dunque le corone più vicine al centro del sistema.
Nell'interpretazione complessiva che Diels proponeva già nell'edizione del
poema (1897), il riferimento sarebbe alle corone interne di una doppia coppia,
che costituirebbe centro e periferia del sistema cosmico: (i) la coppia di
corone non mescolate (quindi una esterna di pura Notte, una interna di puro
Fuoco) posta al centro costituirebbe la struttura terrestre con la sua crosta
solida e il suo interno infuocato (fuoco vulcanico); (ii) quella alla periferia
corrisponderebbe alla solida (di pura Notte) parete esterna contenente (indicata
anche come ὄλυμπος ἔσχατος in B11, ovvero come «cielo che tiene tutto intorno»,
οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, in B10), e alla corona di puro Fuoco, evocata in B11 come
αἰθήρ τε ξυνὸς. 3 L'aoristo (πλῆντο) di πίμπλημι significa decisamente
«divennero\furono riempite»: Parmenide sta dunque alludendo alla formazione
delle corone (Coxon, p. 237). 4 L'espressione αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς significa
letteralmente «quelle sopra [ovvero dopo] queste»: per mantenere l'ambiguità di
riferimento, abbiamo deciso di rendere con «le successive» (così Tonelli). I
due pronomi dimostrativi (αἱ e ταῖς) si intendono riferiti sempre a στεφάναι:
il problema è capire esattamente a quali «corone» si alluda. Nell'ipotesi di
Diels, di recente rilanciata da Ferrari, si tratterebbe delle corone comprese
tra la coppia centrale e quella periferica (composte di "elemento
puro", di Fuoco all'interno, di Notte all'esterno); corone
"miste" di Notte e Fuoco. 5 Si passa dal passato (πλῆντο) al presente
(ἵεται), forse per marcare la perduranza degli effetti cosmogonici: il valore
dei versi è dunque sia cosmogonico sia cosmologico. 201 in mezzo a queste7 la
Dea8 che tutte le cose governa9 . 6 Letteralmente αἶσα – termine omerico - si
dovrebbe tradurre con «parte». Parmenide preferisce l'espressione poetica, rara
negli autori presocratici, a μέρος. 7 L'espressione ἐν δὲ μέσῳ τούτων è
ambigua, come fa notare tra gli altri Tarán (p. 248): essa può riferirsi al
centro dell'universo o al centro delle «corone miste». Nel contesto la seconda
sembrerebbe la soluzione più naturale. 8 Aëtius esplicitamente identifica la
δαίμων con una delle «corone miste»: τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις
< ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα
καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle
corone frammiste [di fuoco e oscurità], quella centrale è principio e causa di
movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa
e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità (DK 28A37), facendola coincidere
con Δίκη e Ἀνάγκη. In tal modo egli salda nella teogonia e cosmogonia della
Doxa i riferimenti sparsi in B1, B8 e B10 a Δίκη e Ἀνάγκη. Ma Simplicio,
evidentemente interpretando diversamente da Aëtius il riferimento di ἐν δὲ μέσῳ
τούτων, intende la dea come collocata al centro dell'universo: καὶ ποιητικὸν αἴτιον
ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως
αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea
che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione (contesto di B12).
Qualcuno ha suggerito che ciò avvenisse in quanto il commentatore accostava la
δαίμων parmenidea alla Hestia pitagorica: si veda, per esempio Filolao B7: τὸ
πρᾶτον ἁρμοσθέν, τὸ ἕν, ἐν τῶι μέσωι τᾶς σφαίρας ἑστία καλεῖται la prima cosa
ben composta, l'uno, nel mezzo della sfera si chiama Hestia (DK 44 B7). 9
L'espressione δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ sarebbe, secondo Tarán (pp. 248-9),
probabilmente connessa con l'idea, più o meno corrente all'epoca di Parmenide,
di una divinità suprema che governa l'universo. Coxon (p. 242) 202 Di tutte le
cose ella sovrintende 10 all'odioso 11 parto e all’unione12 , [5] spingendo
l’elemento femminile a unirsi al maschile13, e, al contrario, il maschile al
femminile. vi ha voluto cogliere un'analogia con Eraclito, per cui il potere
razionale del fuoco governa ogni cosa (DK 22B41). 10 Il senso più appropriato
di ἄρχει, in un contesto in cui si parla dell'azione della «Dea che tutto
governa» (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ), sembra essere quello di «presiede», «sovrintende».
Si potrebbe rendere anche come «è principio di» ovvero «è all'origine di». 11
L'uso di στυγερός (da στυγέω, «avere in orrore») rivelerebbe il pessimismo di
fondo di Parmenide, eco della Stimmung della sua epoca, come riscontrato
soprattutto nella poesia, epica e lirica. Da notare (Conche, pp. 225 ss.) che
in questo caso il riferimento non è esclusivamente alla nascita umana, ma alla
genesi di tutte le cose: la condanna del filosofo sarebbe rivolta al divenire
come tale (p. 227). Altri, tuttavia, attenuano il senso negativo dell'aggettivo
proprio in relazione al sostantivo τόκος, traducendo «doloroso [ovvero duro]
parto» (Reale), riferendolo quindi esclusivamente alla pena del travaglio, non
ai suoi effetti. 12 Il greco μῖξις è reso, alla luce del verso successivo, come
unione «sessuale», «coito» (Cerri), «amplesso» (Tonelli). In realtà non si deve
dimenticare che qui il poeta si riferisce non solo all'unione sessuale di
maschio e femmina, ma in genere all'unione dei due principi. 13 Le forme aggettivali
sostantivate τό ἄρσεν (il maschile) e τό θῆλυ (il femminile) alludono forse -
come nella tradizione pitagorica (secondo quanto attesta Aristotele) - alla
riduzione del primo elemento alla luce e del secondo alla notte. 203 DK B13
πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν μητίσατο πάντων… [v. 1 Platone, Simposio, 178b;
Plutarco, Amatorius 13; Sesto Empirico, Adversus Mathematicos IX, 9; Stobeo,
Anthologium I, 9, 6; Simplicio, In Aristotelis Physicam 39; v. 1b Aristotele,
Metafisica, 1, 4 984 b 23] 204 Primo tra gli dei tutti ella1 concepì2 Amore. 1
La δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ di B12. 2 Traduciamo in questo modo (ambiguamente)
μητίσατο: il senso – nel contesto garantito dalle testimonianze di Platone e
Aristotele (che pur lasciano incerto il riferimento al soggetto), Plutarco (che
riferisce il verbo a Afrodite) e Simplicio (che invece esplicitamente
identifica il soggetto nella δαίμων di B12) - dovrebbe essere quello di
generare, ma il significato del verbo μητιάω è «meditare, deliberare,
pianificare». Il verbo qualifica dunque la dea come una potenza razionale
(Coxon, p. 243). 205 DK B14 νυκτιφαὲς 1 περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς…
[Plutarco, Adversus Colotem 1116 A] 1 La forma νυκτιφαὲς è correzione dello
Scaligero: il codice di Plutarco riporta νυκτὶ φάος. 206 di notte splendente1 ,
vagando intorno alla Terra2 , luce d'altri3 1 Il composto greco νυκτιφαὲς
significa letteralmente «di notte visibile\splendente». Come fa notare Cerri
(p. 274), in tutti i composti del tipo νυκτι- il primo elemento ha valore di
determinazione temporale («di notte»). Questo è il senso che anche Conche (pp.
234-5) attribuisce al composto νυκτιφαὲς: «brillant la nuit», contestando la
poco convincente resa di Coxon («shining like night»?!). L'aggettivo ricorre
solo un'altra volta in Orphica, Hymnii 54, 10: ὄργια νυκτιφαῆ, in relazione ai
riti dionisiaci, che si tenevano (evidentemente) alla luce delle torce.
Aristotele documenta analoga interessante costruzione in riferimento al Sole:
νυκτικρυφές, «di notte nascosto». Rivendicato da Jaeger come citazione
parmenidea, l'aggettivo è stato accolto come frammento nella edizione
Untersteiner. Lo facciamo seguire come B14a. 2 L'espressione περὶ γαῖαν ἀλώμενον
riferisce alla Luna il moto di rivoluzione intorno alla Terra: in B10.4
Parmenide aveva usato la formula ἔργα τε κύκλωπος περίφοιτα σελήνης («le opere
periodiche della luna dall'occhio rotondo»), alludendo già con περίφοιτα al
regolare movimento (e quindi all'azione periodica) dell'astro. L'espressione
sembrerebbe poi implicare la sfericità della Terra, come attestato anche da
Teofrasto (Diogene Laerzio): πρῶτος δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν
μέσωι κεῖσθαι questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma
di sfera e giace al centro [dell'universo] (DK 28 A44). 3 L'espressione ἀλλότριον
φῶς, da intendere letteralmente come «luce altrui», si riferisce alla luce
riflessa della luna (luce «presa in prestito», come traduce Conche). Parmenide
consapevolmente gioca sull'assonanza con l'omerico ἀλλότριον φώς («straniero»).
Come osserva Cerri (p. 275), tale formula era evidentemente opposta a ἴδιον φῶς,
«luce propria». Espressione analoga in Empedocle (DK 31 B45): κυκλοτερὲς περὶ
γαῖαν ἑλίσσεται ἀλλότριον φῶς in forma di cerchio introno alla Terra si aggira
luce non propria (ovvero straniera). 207 B14a [...ἥλιος, ... τὸ περὶ γῆν ἰὸν ἢ]
νυκτικρυφές [Aristotele, Metafisica, VII, 15 1040 a31] 208 [... il Sole, ...
colui che va intorno alla Terra o] il di notte nascosto1 1 Secondo l'editore
della Metafisica - W.D. Ross – in questo caso Aristotele non avrebbe citato
Parmenide, ma forgiato il termine νυκτικρυφές in analogia con Parmenide
(νυκτιφαὲς). 209 DK B15 αἰεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο. [Plutarco,
Quaestiones Romanae 282 B; Plutarco, De facie in orbe lunae 929 B] 210 sempre
volta e attenta1 ai raggi2 del sole. 1 Il participio παπταίνουσα dovrebbe
letteralmente tradursi come «guardando attentamente». Come segnala Cerri (p.
276), è qui molto probabile che Parmenide giochi sulle implicazioni della
relazione tra i due termini, maschile (ἥλιος) e femminile (σελήνη): la Luna
innamorata volge il suo sguardo intenso verso il Sole. Immagine analoga in
Empedocle (DK 31 B47): ἀθρεῖ μὲν γὰρ ἄνακτος ἐναντίον ἁγέα κύκλον contempla di
fronte a sé il fulgido disco del suo signore. 2 Come osserva Cerri (p. 276), αὐγὰς
vale non solo «raggi» ma anche «sguardi». 211 DK B15a [Π. ἐν τῆι στιχοποιίαι] ὑδατόριζον
[εἶπειν τὴν γῆν] [Scolio a Basilio di Cesarea] 212 [Parmenide nei suoi versi
dice che la Terra] ha radici nell'acqua1 1 Secondo Conche (p. 242), che si
sofferma a lungo a chiarire l'affermazione di Basilio, la Terra cui si allude è
quella ricoperta di flora e fauna, la Terra vivente, di cui l'acqua è
effettivamente fonte di nutrimento. Non vi sarebbe dunque alcuna implicazione
genetica: alla luce delle testimonianze, non è l'acqua all'origine della Terra,
semmai il contrario. Coxon (pp. 246-7) ritiene, invece, che il riferimento sia
alla massa di terre emerse (forse per spiegare fenomeni come i terremoti). Di
diverso avviso, in passato Paula Philippson (Origini e forme del mito greco,
Torino 1949, pp. 269 ss.), che riscontra in questo riferimento all'acqua una
allusione al mito di Okeanos, che avrebbe circondato la Terra. 213 DK B16 ὡς γὰρ
ἑκάστοτ’ 1 ἔχῃ 2 κρᾶσιν3 μελέων πολυπλάγκτων4 , τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν5
· τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί·
τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ 6 νόημα. [vv. 1-4 Aristotele, Metafisica IV, 5 1009 b21;
Teofrasto, De sensu, 3; vv. 1-2a Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis
Metaphysicam (parafrasi del testo) IV, 5; Asclepio, In Aristotelis Metaphysicam
(parafrasi) 277; vv. 3-4 Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysicam
(parafrasi del testo) IV, 5] 1 Αlcuni codici aristotelici riportano ἕκαστος
(«ciascuno»), preferito da DielsKranz; altri ἕκαστοι o ἑκάστῳ. Il codice di
Asclepio ἕκαστον. Gli editori contemporanei (Tarán, Coxon, Conche, O'Brien,
Cerri) hanno optato per la versione di Teofrasto e di autorevoli codici
aristotelici (i più antichi) della Metafisica: ἑκάστοτε (lectio difficilior). 2
Seguiamo Coxon e Cerri nel preferire ἔχῃ - attestata da un solo codice (E)
aristotelico – a ἔχει (per lo più accolta dagli editori) o ἔχειν: come spiega
Cerri (p. 280), il congiuntivo ἔχῃ è non solo lectio difficilior, ma anche
scelta più sensata nel contesto. Passa (p. 48) sottolinea l'opportunità della
scelta di Cerri e Coxon, trovando riscontri nell'uso omerico delle comparative.
3 La forma κρᾶσιν è attestata in Aristotele e Teofrasto (in unione a ἔχει o ἔχειν).
Estienne modificò in κρᾶσις, ancora accolto da alcuni editori (Tarán,
KirkRaven-Schofield, O'Brien, Conche). A κρᾶσιν alcuni (Coxon, Palmer)
preferiscono la forma ionica κρῆσιν. Passa (p. 120) avanza perplessità in
proposito. 4 Il testo aristotelico, Alessandro e Asclepio riportano πολυκάμπτων
(«dai molteplici movimenti»). Il testo di Teofrasto πολυπλάγκτων, preferito
dagli editori. 5 I codici aristotelici (insieme a quelli di Alessandro e
Asclepio) riportano il presente παρίσταται, accolto da Diels-Kranz (e di
recente ancora difeso da Passa, pp. 48-51), di cui tuttavia è stata segnalata
l'impossibilità metrica. La tradizione teofrastea propone invece il perfetto
παρέστηκε (che ha esattamente lo stesso valore), metricamente accettabile. La
forma παρέστηκεν è degli editori. 6 I codici di Aristotele e Teofrasto
riportano ἐστὶ; quello di Alessandro λέγεται. 214 Come, infatti, di volta in
volta si ha1 temperamento2 di membra3 molto vaganti4 , così il pensiero5 si
presenta agli uomini6 : poiché è precisamente la stessa cosa 1 Attribuiamo al
verbo valore impersonale. Per l'alternativa costruzione personale sono state
proposte diverse possibili candidature al ruolo di soggetto del verbo: νόος del
v. 2 (Diels 1897: l'unico soggetto rafforzerebbe la correlazione ὡς... τὼς),
ovvero, adottando il testo greco di Diels-Kranz, ἕκαστος, o ancora un soggetto
implicito (Cerri: «qualcuno», «ciascuno», «l'uomo») o sottinteso (Ferrari: τις
βροτῶν Β8.61). Altri, emendando κρᾶσιν in κρᾶσις, hanno fatto della
«mescolanza» il soggetto. 2 Il termine κρᾶσις ha un valore più forte di μῖξις:
quello di perfetta fusione, mescolanza in cui non sia più possibile discernere
le componenti (come invece accade in una μῖξις, semplice mescolanza). La κρᾶσις
trasforma gli elementi in una nuova entità unitaria e armonica: per questo il
termine viene reso con «fusione» (Ferrari) ovvero «impasto» (Cerri), «unione»
(Tonelli). Va tuttavia osservato che, sulla scorta della testimonianza di
Teofrasto (DK 28 A46), anche tale amalgama presuppone una composizione
variabile dei due elementi base. Traduciamo quindi come «temperamento», anche
in considerazione della lezione che giunge dalla tradizione della medicina
ippocratica, dove l'idea di κρᾶσις era associata a quella di riconduzione del
molteplice a unità (Stemich, op. cit., pp. 157 ss.). 3 Ricordiamo che nei poemi
omerici il termine σῶμα non indica mai ciò che noi comunemente intendiamo con
«corpo», bensì il suo contrario, il «cadavere». Omero non rappresenta il corpo
dell’uomo come unità di una molteplicità: impiega infatti termini per lo più al
plurale, come μέλεα (o γῦια) appunto, che noi traduciamo con «membra». Ciò cui
qui Parmenide intenderebbe riferirsi con il termine μέλεα non sono dunque gli
«organi di senso» (Diels) o gli «elementi» (Schwabl), ma il corpo, come ha ben
rilevato Tarán (p. 170). È tuttavia interessante la proposta di Cassin-Narcy
(B. Cassin – M. Narcy, “Parménide Sophiste”, in Études sur Parménide, cit., II,
p. 289) di mantenere al termine la doppia significazione, riferendolo sia
immediatamente al corpo, sia mediatamente alle componenti universali. 4
Traduciamo l'espressione κρᾶσις μελέων πολυπλάγκτων come «temperamento di
membra molto vaganti [erranti]», intendendola riferita all'unità del corpo
umano, che è articolata appunto in appendici mobili, che si agitano in molte
direzioni. 5 Rendiamo il termine νόος con «pensiero» ritenendo che in questo
caso Parmenide non si riferisca genericamente alla facoltà (mente), ma alla sua
215 ciò che pensa7 negli uomini, la costituzione8 del [loro] corpo9 ,
condizione in relazione alla situazione del corpo. La costruzione dei primi due
versi e il loro contenuto propongono un'eco omerica: τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων
ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli
uomini che vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli uomini
e degli dei (Odissea XVIII, 136-7). 6 È significativo che in questo contesto la
Dea non ricorra a un'espressione come βροτοί ma a ἄνθρωποι: il termine assume
un valore descrittivo, marcando l'identica natura degli esseri umani «tutti»
(καὶ πᾶσιν καὶ παντί). 7 Ricostruzione letterale dei vv. 2b-4a: «perché è la
stessa cosa ciò che pensa (τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει) la natura del corpo
(μελέων φύσις) negli uomini, in tutti e in ciascuno (ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ
παντί)». Nella letteratura recente si è distinta la proposta (Thanassas, Meijer
e ora anche Marcinkowska-Rosół) di tradurre linearmente il testo greco,
supponendo νόος come soggetto (sottinteso) di ἔστιν: ὅπερ sarebbe complemento
oggetto e φύσις soggetto del verbo (φρονέει): perché [esso (il pensiero)] è
precisamente la stessa cosa che la costituzione del corpo pensa negli uomini,
in tutti e in ciascuno. Un'alternativa classica (Verdenius, ripreso da Vlastos
e, tra gli altri, da Hölscher, Barnes, Bormann, Mansfeld) è quella di fare di
φύσις a un tempo il soggetto di ἔστιν e φρονέει: «la natura delle membra è
negli uomini la stessa cosa che [essa] pensa». Tarán, Heitsch, Mourelatos,
Gallop, O'Brien, Gadamer (tra gli altri) hanno avanzato a loro volta una traduzione
letterale, che fa di φύσις μελέων il soggetto di φρονέει, di ὅπερ un
accusativo, e di τὸ αὐτό il soggetto di ἔστιν: «la stessa cosa, infatti, è ciò
che la natura delle membra pensa negli uomini». In questo modo si lega τὸ αὐτό
a ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί, marcando quindi l'identità dell'oggetto del
pensiero. 8 Intendiamo in questo contesto φύσις come «natura, costituzione»
(μελέων φύσις: «costituzione del corpo»). Giorgio Colli (Gorgia e Parmenide,
cit., p. 189) intende φύσις come «essenza»: il νόος, come elemento della
struttura dell'uomo, operebbe una fusione nella molteplicità delle «membra».
Tonelli riprende nella sua traduzione queste indicazioni. 9 Rendiamo il plurale
μέλεα come «corpo», secondo l'uso omerico segnalato sopra. 216 in tutti e in
ciascuno: ciò che prevale10 , infatti, è il pensiero11 . 10 In questo caso
intendiamo πλέον come comparativo di πολύ («molto»): τὸ πλέον non vale dunque
«il pieno» (πλέος aggettivo: «pieno»), ma «il più», «quanto prevale», riferito,
a quanto si ricava dal contesto della citazione teofrastea, agli elementi
(Fuoco-Notte, ovvero caldo e freddo). Teofrasto interpreta infatti: «la
conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale» (κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν
ἡ γνῶσις). Tra coloro che interpretano τὸ πλέον come «il pieno», interessante
la posizione di Tarán (pp. 256-60), che argomenta a lungo a partire dallo
stesso contesto teofrasteo. Teofrasto, infatti, citerebbe il frammento per
marcare come determinante per il pensiero non tanto l'elemento che prevale, ma
una certa proporzione tra i componenti (συμμετρία). Così, quando una certa
proporzione delle componenti di Luce e Notte è presente nel corpo, ne
risulterebbe lo stesso pensiero, dal momento che il pensiero è il risultato
dell'intera mescolanza. Coxon (p. 87) interpreta «the plenum» come «the subject
whose nature has been expounded in the Way of Truth»: esso sarebbe il solo
contenuto del pensiero. Recentemente M. Marcinkowska-Rosół, in Die Konzeption
des "Noein" bei Parmenides von Elea, De Gruyter, Berlin-New York
2010, p. 187, ha proposto di leggere τὸ come pronome dimostrativo (= τοῦτο) in
funzione prolettica, πλέον come avverbio, e ipotizzando una relativa in
funzione di completamento: «[denn dies ist mehr das Denken], was in der
Mischung jeweils überwiegt». 11 Qui νόημα è decisamente il risultato dell'atto
di pensare. 217 DK B17 δεξιτεροῖσιν1 μὲν κούρους, λαιοῖσι δὲ 2 κούρας… [Galeno,
In Hippocr. Epid. VI, 48 (XVII, 1002)] 1 La forma δεξιτεροῖσιν è intervento
degli editori: il codice di Galeno riporta δεξιτεροῖσι. 2 Il testo di Galeno
riporta δ’ αὖ: per ragioni metriche è stato emendato in δὲ (Scaligero, poi
Karsten). Cerri (pp. 283-4) ha contestato tale emendazione come inutile
banalizzazione. 218 a destra1 i maschi, a sinistra le femmine. 1 Le due forme
dative δεξιτεροῖσιν e λαιοῖσι sono riferite nel contesto del discorso di Galeno
(che cita) alle parti dell'utero: τὸ μέντοι ἄρρεν ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς
μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι τῶν παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν. ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως
ἔφη Molti altri tra gli antichi hanno sostenuto che il maschio sia concepito
nella parte destra dell'utero. Parmenide infatti afferma.... Gli aggettivi
andrebbero dunque riferiti alle parti dell'utero. 219 DK B18 Femina virque
simul Veneris cum germina miscent, Venis informans diverso ex sanguine virtus
Temperiem servans bene condita corpora fingit. Nam1 si virtutes permixto semine
pugnent Nec faciant unam permixto in corpore, dirae Nascentem gemino vexabunt
semine sexum. [Celio Aureliano, Tardarum sive chronicarum passionum libri IV,
9] 1 Nella tradizione si trova At come alternativa a Nam. 220 Quando femmina e
maschio mescolano insieme i semi1 di Venere, la potenza2 formatrice nelle vene3
, che [deriva] da sangue4 opposto5 , conservando la giusta misura plasma corpi
ben fatti. Se, infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono [5] e
non diventano un'unica potenza nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche
affliggeranno il sesso nascente con il [loro] duplice seme6 . 1 Dalla parafrasi
di Celio Aureliano troviamo conferma della tradizione dossografica secondo cui
Parmenide credeva che esistessero semi maschili e femminili, e che giocassero
entrambi un ruolo nella riproduzione. Tale convinzione risale probabilmente ad
Alcmeone di Crotone, ma fu contestata nell'antichità da Anassagora e Diogene di
Apollonia. 2 Il latino virtus traduce il greco δύναμις («potenza, forza,
qualità, proprietà»). 3 L'ablativo venis deve riferirsi o alle vene dei
genitori o a quelle dell'embrione: la costruzione, con l'uso di «diverso ex sanguine»
suggerisce che la seconda alternativa sia più probabile (Coxon, p. 254). 4
Evidentemente per Parmenide i semi deriverebbero dal sangue, rispettivamente
maschile e femminile. Coxon (pp. 254-5) segnala come ciò differenzi la
posizione di Parmenide da quella di Alcmeone (che faceva derivare il seme dal
cervello), mentre al sangue pare rinviasse Pitagora. 5 Come suggerito da Conche
(p. 262), «diversus» non ha qui valore generico, ma, in relazione al sangue
maschile e femminile, il significato di «opposto, contrario». 6 Si allude alla
situazione in cui l'individuo generato risulti possessore sia del seme maschile
sia di quello femminile, caratteristici normalmente di uomini e donne
separatemente (Coxon, p. 255). 221 DK B19 οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε1 καί
νυν2 ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε τελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι
κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ. [Simplicio, In Aristotelis De Caelo 558] 1 I codici
DE di Simplicio, in vece di ἔφυ τάδε, riportano ἐφύτα δὲ. 2 I codici di
Simplicio riportano καὶ νῦν· καί νυν è correzione degli editori. 222 Ecco, in
questo modo1 , secondo opinione2 , queste cose3 ebbero origine4 e ora5 sono6 ,
1 La formula οὕτω τοι è impiegata per riassumere quanto detto: introduce quindi
una ricapitolazione ovvero la "lezione" che si ricava dal discorso
precedente (Conche, p. 265). 2 In conclusione della seconda sezione del poema,
nella quale la Dea affrontava – come recita B8.51 - δόξας βροτείας, appare
legittimo tradurre κατὰ δόξαν come «secondo opinione». In realtà, molti scelgono
di insistere sulla radice in δοκέω, traducendo l'espressione come «secondo
parvenza», «secondo apparenza» (Tonelli), «selon ce qui semble» (Conche),
«according to belief» (Coxon). Il senso della formula a noi pare comunque
salvaguardato: la Dea conclude la propria trattazione della realtà dal punto di
vista dell'esperienza umana, cioè di quel punto di vista che matura a partire
da τὰ δοκοῦντα («le cose che appaiono e sono assunte sulla base della
esperienza»: Simplicio, a proposito di tale punto di vista parla di διακόσμησις
τῶν αἰσθητῶν), ribadendo il carattere che contraddistingue i fenomeni che
registriamo (τάδε): nascita (ἔφυ), sviluppo (τραφέντα), morte (tελευτήσουσι).
Nella sua interpretazione introduttiva, Simplicio impiega una formulazione
platonico-aristotelica: egli parla di ὑπόστασις τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ ma
anche di δοκοῦν ὄν. Come ha fatto osservare Coxon (p. 256), i due versi B19.1-2
mettono in contrasto la natura delle cose che appaiono nell'esperienza umana
con la natura attribuita all'Essere in B8.5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν
ὁμοῦ πᾶν. 3 Il pronome dimostrativo τάδε è qui impiegato per designare
l'insieme dei fenomeni cosmici oggetto della trattazione (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν
nel linguaggio di Simplicio) precedente. Secondo Conche (p. 265) si riferisce
alle cose che i mortali hanno sotto gli occhi: «queste cose qui», di cui il
discorso cosmogonico ha spiegato l'origine, la natura e il destino. 4 Il testo
greco riporta una irregolarità nell'uso del verbo: il plurale neutro τάδε regge
sia la terza persona singolare ἔφυ, sia la terza plurale ἔασι e τελευτήσουσι:
il passaggio da singolare a plurale nell'ambito di una stessa frase esistono
comunque precedenti in Omero e Senofane (DK 21 B29). 5 La formula καί νυν, come
segnalano Diels e Coxon, è comune in Pindaro (e Omero). 6 Come abbiamo già
segnalato, è chiaro come in questo passo «queste cose» siano connotate da un
punto di vista temporale in senso opposto rispetto a τὸ ἐόν: i tempi verbali
(passato, presente futuro), gli avverbi (νυν, μετέπειτα), le scelte verbali
(φύω, τρέφω, τελευτάω) contrastano la determinazione dell'essere come οὐδέ ποτ΄
ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν di B8.5. 223 e poi, in seguito7
sviluppatesi, avranno fine8 . A queste cose, invece9 , un nome gli uomini10
imposero11, distintivo12 per ciascuna. 7 La formula avverbiale μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε
(letteralmente «dopo, a partire da ora») contrasta la labile puntualità di νυν ἔασι.
Leggiamo ἀπὸ τοῦδε collegato al participio τραφέντα. 8 La costruzione greca -
τελευτήσουσι τραφέντα – consente diverse soluzioni nella traduzione (Cerri, p.
289): (i) la combinazione di futuro medio e participio aoristo può intendersi
nel senso del compimento dell'azione indicata dal participio, quindi:
«porteranno a termine la propria crescita»; ovvero (ii) nel senso di una
cessazione di quell'azione, quindi: «cesseranno di crescere» (si interromperà
il oro sviluppo); o ancora (iii) subordinando l'azione indicata dal futuro a
quella indicata dal participio: «una volta cresciuti/sviluppati, avranno fine».
9 Sottolineiamo il valore avversativo di δέ, seguendo Untesteiner e Ruggiu: ciò
contribusce a conferire senso critico al rilievo successivo. 10 Anche in questo
caso, come in B16, il poeta opta per ἄνθρωποι: la Dea ricorre insomma a una
designazione diversa rispetto alla diminutiva βροτοί. Sintomo, forse, del fatto
che in questo contesto la polemica è stata abbandonata per lasciare il posto a
una ricostruzione oggettiva. 11 L'espressione ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντο richiama
puntualmente B8.38b-39a: πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο e B8.53: μορφὰς
γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν secondo quella che Cerri (p. 289) definisce
«la più tipica movenza della "composizione ad anello"». 12
L'aggettivo ἐπίσημος si riferisce alla funzione (in questo caso attribuita a ὄνομα)
di distinguere, contraddistinguere (ἐπί-σημαίνω). All'instabilità del nascere,
crescere, morire è sovrapposta la relativa stabilità del nome. 224 COMMENTO 225
IL VIAGGIO [B1] Introduzione Sesto Empirico, unica nostra fonte per i primi
trenta versi del poema Περὶ φύσεως (Sulla natura), ne contestualizza il proemio
in questi termini: ὁ δὲ γνώριμος αὐτοῦ Παρμενίδης τοῦ μὲν δοξαστοῦ λόγου
κατέγνω, φημὶ δὲ τοῦ ἀσθενεῖς ἔχοντος ὑπολήψεις, τὸν δ’ ἐπιστημονικόν, τουτέστι
τὸν ἀδιάπτωτον, ὑπέθετο κριτήριον, ἀποστὰς καὶ < αὐτὸς > τῆς τῶν αἰσθήσεων
πίστεως. ἐναρχόμενος γοῦν τοῦ Περὶ φύσεως γράφει τοῦτον τὸν τρόπον Il discepolo
di lui (= Senofane), Parmenide, svalutò il discorso opinativo – intendo quello
che ha concezioni deboli -, e assunse come criterio quello scientifico, cioè
quello infallibile, avendo preso le distanze anche lui dalla fiducia nelle
sensazioni. Iniziando appunto il Peri physeōs scrive in questo modo … (Adv.
Math. VII, 111). Il successivo commento (§§112-114), nel quale Sesto identifica
il viaggio del poeta con lo studio filosofico (τὴν κατὰ τὸν φιλόσοφον λόγον
θεωρίαν), ha nei secoli condizionato la ricezione del proemio, sia nel senso di
proporlo come mera approssimazione metaforica all’istruzione filosofica del poema,
sia, conseguentemente, nel senso di misconoscerne il rilievo teoretico,
riducendolo a orpello poetico (in fondo trascurabile): ἐν τούτοις γὰρ ὁ
Παρμενίδης ἵππους μέν φησιν αὐτὸν φέρειν τὰς ἀλόγους τῆς ψυχῆς ὁρμάς τε καὶ ὀρέξεις
[1], κατὰ δὲ τὴν πολύφημον ὁδὸν τοῦ δαίμονος πορεύεσθαι τὴν κατὰ τὸν φιλόσοφον
λόγον θεωρίαν, ὃς λόγος προπομποῦ δαίμονος τρόπον ἐπὶ τὴν ἁπάντων ὁδηγεῖ γνῶσιν
[2. 3], κούρας δ’ αὐτοῦ προάγειν τὰς αἰσθήσεις [5], ὧν τὰς μὲν ἀκοὰς αἰνίττεται
ἐν τῶι 226 λέγειν ‘δοιοῖς ... κύκλοις’ [7. 8], τουτέστι τοῖς τῶν ὤτων, τὴν φωνὴν
δι’ ὧν καταδέχονται, τὰς δὲ ὁράσεις Ἡλιάδας κούρας κέκληκε [9], δώματα μὲν Νυκτὸς
ἀπολιπούσας [9] ‘ἐς φάος < δὲ > ὠσαμένας’ διὰ τὸ μὴ χωρὶς φωτὸς γίνεσθαι
τὴν χρῆσιν αὐτῶν. ἐπὶ δὲ τὴν ‘πολύποινον’ ἐλθεῖν Δίκην καὶ ἔχουσαν ‘κληῖδας ἀμοιβούς’
[14], τὴν διάνοιαν ἀσφαλεῖς ἔχουσαν τὰς τῶν πραγμάτων καταλήψεις. ἥτις αὐτὸν ὑποδεξαμένη
[22] ἐπαγγέλλεται δύο ταῦτα διδάξειν ‘ἠμὲν ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεμὲς ἦτορ’
[29], ὅπερ ἐστὶ τὸ τῆς ἐπιστήμης ἀμετακίνητον βῆμα, ἕτερον δὲ ‘βροτῶν δόξας ...
ἀληθής’ [30], τουτέστι τὸ ἐν δόξηι κείμενον πᾶν, ὅτι ἦν ἀβέβαιον. In questi
versi Parmenide dice che le cavalle lo portano, [intendendo] gli impulsi e i
desideri irrazionali dell'anima (1), e che esse avanzano lungo la via ricca di
canti della divinità, [intendendo] nella ricerca secondo la ragione filosofica;
la quale ragione guida a guisa di divinità, per la conoscenza di tutte le cose
(2, 3); le fanciulle che lo precedono sono le sensazioni (5): di esse accenna
all'udito laddove dice «due rotanti cerchi» (7, 8), cioè i cerchi delle
orecchie, attraverso cui esse ricevono il suono. Chiama gli occhi fanciulle
Eliadi (9), che avendo abbandonato la dimora della Notte (9) vanno «verso la
luce> (10), poiché senza luce non può esservi uso di essi. Dice che
procedono verso la Giustizia «che molto punisce» e che tiene «le chiavi
dall'uso alterno» (14), [intendendo] la ragione che possiede una conoscenza
certa delle cose. Essa lo accoglie (22) e promette di insegnare queste due
cose: «il cuore saldo di verità ben persuasiva» (29), che è il fondamento
immutabile della scienza, e l'altra «le opinioni dei mortali in cui non è reale
credibilità» (30), cioè tutto quanto ricade nell'opinione, che non è saldo. In
realtà, sin dalla fine del XIX secolo – dall'edizione (1897) del poema a opera
di Hermann Diels - si è reagito al rischio di una banale allegoresi della
poesia parmenidea, recuperando, proprio nel proemio, uno sfondo frastagliato di
prospettive e possibili 227 suggestioni culturali, che hanno in comune
l’effetto di renderne la relazione con i successivi frammenti molto più
complessa. Dobbiamo alla competenza del filologo tedesco l’inquadramento
dell’opera di Parmenide all’interno di un’articolata cornice di plausibili
precedenti (e motivi) poetici, che appaiono rilevanti per apprezzarne
l’originalità. Nella consapevolezza che la conoscenza della tradizione poetica
intermedia (secoli VII-VI a.C.) tra le fonti omeriche ed esiodee e il poema
parmenideo è, per noi, in gran parte compromessa, Diels valorizzava in
particolare1 : (i) il modello della speculazione cosmogonica e cosmologica di
Esiodo, che avrebbe improntato soprattutto la seconda sezione del Περὶ φύσεως,
ma da cui dipenderebbe la sua stessa struttura bipartita - corrispondente
all'iniziale sottolineatura delle Muse in Teogonia, vv. 27-28: ἴδμεν ψεύδεα
πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo
dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero
cantare, insieme al motivo della “doppia via” (verità ed errore), che
evocherebbe l’analoga alternativa tra miseria morale (κακότης) e valore morale
(ἀρετή) in Opere e giorni (vv. 287 ss.); (ii) il modello della poesia orfica,
di cui nel poema riecheggerebbero termini e immagini: nel riconoscerne
l’importanza, le connessioni con altre correnti religiose contemporanee
(misteri) e il radicamento nella tradizione più antica, lo studioso ne marcava
l’ampia incidenza nella cultura greca in genere, rilevando tracce del
«pessimismo» (Pessimismus) di questo movimento di «riforma» (Reformation) anche
nel «razionalismo» (Rationalimus) della filosofia ionica. 1 H. Diels,
Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen und Schlösser,
mit einem neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidierten Bibliographie von
D. De Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin 20032 (edizione originale 1897),
pp. 12 ss. 228 In tale prospettiva, Diels richiamava l’attenzione sulla
tradizione dei leggendari «profeti» del misticismo greco arcaico (Epimenide,
Onomacrito, Museo) che avrebbe ancora trovato espressione nei Καθαρμοί di
Empedocle: nel caso della forma poetica («rivestimento poetico», poetische
Einkleidung) privilegiata da Epimenide per la propria «rivelazione»
(Offenbarung), ritroveremmo, per esempio, il prototipo della «narrazione in
prima persona» (Icherzählung) di un’esperienza di Incubation, quale riferita da
Alessandro di Tiro: ἦλθεν Ἀθήναζε καὶ ἄλλος Κρὴς ἀνὴρ ὄνομα Ἐ.· οὐδὲ οὗτος ἔσχεν
εἰπεῖν αὑτῶι διδάσκαλον ἀλλ’ ἦν μὲν δεινὸς τὰ θεῖα, ὥστε τὴν Ἀθηναίων πόλιν
κακουμένην λοιμῶι καὶ στάσει διεσώσατο ἐκθυσάμενος· δεινὸς δὲ ἦν ταῦτα οὐ
μαθών, ἀλλ’ ὕπνον αὑτῶι διηγεῖτο μακρὸν καὶ ὄνειρον διδάσκαλον. ἀφίκετό ποτε Ἀθήναζε
ἀνὴρ Κρὴς ὄνομα Ἐ. κομίζων λόγον οὑτωσὶ ῥηθέντα πιστεύεσθαι χαλεπόν· < μέσης
γὰρ > ἡμέρας ἐν Δικταίου Διὸς τῶι ἄντρωι κείμενος ὕπνωι βαθεῖ ἔτη συχνὰ ὄναρ
ἔφη ἐντυχεῖν αὐτὸς θεοῖς καὶ θεῶν λόγοις καὶ Ἀληθείαι καὶ Δίκηι. Venne ad Atene
anche un altro Cretese, di nome Epimenide: nemmeno costui seppe dire chi gli
sia stato maestro, ma era straordinariamente competente nelle questioni divine,
tanto che, facendo offrire sacrifici, riuscì a salvare la città degli Ateniesi,
afflitta dalla peste e dalla discordia civile. Ed era così esperto in questa
materia non perché l'avesse imparata, ma si diceva che suo maestro fosse stato
un lungo sonno con un sogno. – Arrivò un tempo ad Atene un Cretese, di nome
Epimenide, portando un racconto difficile da credere, formulato nei seguenti
termini: disse che, sdraiatosi a mezzogiorno nella grotta di zeus Ditteo, rimase
immerso in un sonno profondo per molti anni, e si intrattenne in sogno con dèi
e discorsi di dèi, con la Verità e con la Giustizia (contesto DK 3 B1.
Traduzione di I. Ramelli e G. Reale). 229 Proprio Epimenide (nei suoi Καθαρμοί,
in particolare) sarebbe figura esemplare di uno sciamanismo, presente nelle
credenze religiose elleniche (in associazione con fenomeni rilevanti, anche a
livello letterario, come le epifanie, i sogni, i sacrifici), in cui, rispetto
al più generale tema della purificazione e della relativa iniziazione, decisivo
diventa il motivo del “viaggio” ultraterreno, del contatto con una realtà
trascendente: in questa direzione la poesia genericamente orfica avrebbe
incrociato l’elemento “estatico”, di cui appunto il «viaggio celeste» (Himmelreise)
costituirebbe frammento. All’interno di tale orizzonte culturale, il Περὶ
φύσεως si propone in una luce diversa, tale da suggerire maggiore cautela
ermeneutica nella riduzione dei suoi contenuti ai moduli del dibattito
contemporaneo (come accade negli approcci analitici ai frammenti). Nel caso del
suo proemio, in particolare, si rischia il fraintendimento proponendolo come
mera introduzione d’occasione o tributo formale, in cui il sapiente (un
filosofo!), per opportunità letteraria e compiacenza verso il proprio pubblico,
avrebbe optato per un mascheramento allegorico della propria concettualità
(assumendo l’implausibile veste del poeta!): è necessario invece conservare al
testo la sua polisemia e al complesso dell’impresa teorica di Parmenide uno spessore
originale2 . 2 Ogni edizione del poema e ogni saggio su Parmenide si
intrattengono su questo nodo interpretativo: la sintesi più recente del lungo
dibattito si può leggere in L. Couloubaritsis, La pensée de Parménide [si
tratta delle terza edizione di Mythe et philosophie chez Parménide], Ousia,
Bruxelles 2008, cap. II "Le «Proème» comme producteur de chemins".
Molto utile anche l’introduzione (“Parmenides and His Predecessors”) di M.J.
Henn al suo Parmenides of Elea: A Verse Translation with Interpretative Essays
and Commentary to the Text, Praeger Publishers, Westport 2003, che si apre la
propria introduzione sul tema “The Poet as Shaman and Singer of Mysteries in
the Homeric Style”, dedicando molto spazio all’analisi della struttura
dell’esametro parmenideo. Una riconsiderazione complessiva della poesia del Περὶ
φύσεως è proposta da L.A. Wilkinson, Parmenides and To Eon. Reconsidering
Muthos and Logos, Continuum International Publishing, London – New York 2009:
le pagine 69-79 sono dedicate al problema del proemio. Un’ampia e sostenuta
lettura del proemio come chiave per l’interpretazione del poema è oggi proposta
in R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, Orizons, Paris 2011. 230 Come di
recente ha ricordato Maria Laura Gemelli Marciano3 , il proemio parmenideo non
è inutile orpello o artificio letterario: esso è invece fondamentale per
comprendere carattere, metodo e finalità del poema. Nel contesto
storico-geografico, sociale e religioso in cui si muoveva Parmenide, cantare
un’esperienza eccezionale, rappresentare, nel ritmo e nella musicalità proprie
delle forme esametriche, un viaggio nell'aldilà, evocando un linguaggio
iniziatico e performativo, era cosa ben diversa dall’erudita esercitazione che
l’allegoresi di Sesto presuppone: il poeta Parmenide si rivolgeva a
un’audience, un pubblico convenuto per ascoltare le parole di una dea e
partecipare all’esperienza evocata in versi. È significativo, per la
comprensione storica del poema, che del proemio non resti traccia nelle
citazioni antiche, che esso sia stato ignorato da coloro (Platone e Aristotele)
che hanno contribuito a fissare i contorni della figura di Parmenide per la
tradizione successiva. Perché la poesia? Il problema della natura e portata del
proemio è strettamente connesso a quello, più generale, della scelta di fondo –
da parte di Parmenide - del medium poetico, di cui la narrazione riflette
alcuni motivi tradizionali, culturalmente di grande significato teoretico anche
nella prospettiva specifica del poema. Ci si riferisce in particolare
all’intimo nesso tra poesia, rivelazione e mito, certamente una chiave per
decifrare l’impianto creativo del Περὶ φύσεως, in cui si intrecciano racconto,
comunicazione divina della «parola» (μῦθος) e «verità» (Ἀληθείη). Rimane ancora
molto utile il vecchio aggiornamento, a cura di G. Reale, di E. Zeller – R.
Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III:
Eleati, La Nuova Italia, Firenze 1967. 3 "Lire du début. Quelques
observations sur les incipit des présocratiques", «Philosophie Antique»,
7, 2007 (Présocratiques), pp. 7-37. l'osservazione è alle pp. 11-12. 231
Poesia, mito, verità In un frammento (fr. 12 Bowra) del perduto Inno a Zeus di
Pindaro, contemporaneo di Parmenide, noi troviamo una sorta di
autointerpretazione mitica del ruolo del poeta e della poesia nella società
greca tra VI e V secolo a.C.. Pindaro racconta come, dopo aver ordinato il
mondo e il regno degli dei, Zeus avesse loro domandato se, per caso, mancasse
ancora qualcosa alla sua fatica: essi, allora, lo avevano pregato di creare
alcune divinità per «celebrare con parole e musica quelle grandi opere e
l’intero suo ordinamento»4 . A tale scopo, per onorare la bellezza
dell’edificio cosmico, e manifestarlo nella sua totalità, Zeus introduce nuove
divinità, le Muse: così la sua opera si compie con la nascita della parola, del
canto (originariamente identici), espressioni divine che ne rivelano l’essere.
Per il grande filologo tedesco Walter Friedrich Otto, il supremo evento del
mito è che l’essere delle cose si riveli nella parola con la sua divinità5 :
ogni mito genuino si rivolge alla totalità del reale, come uno sguardo
complessivo sulla sua manifestazione originaria. In questa prospettiva,
l’esperienza del mito è intesa come esperienza, a un tempo, della bellezza e
della verità: da cui l’impressione arcaica che il poeta possa avvicinare, più
degli altri uomini, l’essere delle cose; che la sua parola possa afferrare la
realtà in profondità in forza della sua “ispirazione”. L’invocazione alle Muse
dell’antica poesia greca palesa la recettività del poeta: l’ – osserva Otto -
non si apre con la superbia (tipicamente moderna) di una coscienza creatrice,
ma con la modestia di chi ascolta. È la divinità a cantare, il poeta è solo suo
mediatore: in questo senso la poesia è un’ombra dell’essenza del mito. Eppure
il poeta (tipicamente per noi il poeta omerico), sebbene non sia riconosciuto
autore di ciò che canta, rimane in ogni caso il recettore dello spirito delle
Muse: egli si distingue dalla massa degli altri uomini ed è più vicino agli dèi
in quanto sua è la voce 4 Citato in W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in
Id., Il mito, a cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 43-44. 5
W.F. Otto, Il mito (1955), ivi, p. 60. 232 attraverso cui le Muse si esprimono.
Egli è un «maestro di verità» (Detienne), le cui parole proclamano piuttosto
che suggerire: per questo poeti come Senofane e Parmenide (che compongono entro
la tradizione omerica) rivendicano una condizione privilegiata rispetto a
quella dei “mortali”. Donde il carattere spesso esoterico della filosofia
antica 6 . Parmenide e la poesia Nella scelta poetica di Parmenide questi
elementi, come si avrà opportunità di rilevare, si ricompongono in modo
originale, soprattutto nel plasmare l’atteggiamento del destinatario della
comunicazione divina: è un fatto, tuttavia, che essi siano presenti nel Περὶ
φύσεως, che il mito assuma la forma del manifestarsi di ciò che è originario,
di quanto viene altrimenti designato come il divino (τό θεῖον). Significativamente,
la θεά introdurrà (B2) l’assiomatica della sua istruzione intorno alla Verità
ricorrendo proprio alla formula «e tu abbi cura della parola, una volta
ascoltata» (κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας): il «giovane» (κοῦρος) è
esplicitamente sollecitato a «prendersi cura» (κόμισαι) del μῦθος divino, che
dischiude la comprensione della realtà. Dei termini greci arcaici per «parola»
ritroviamo dunque nel poema: (i) μῦθος (B2.1; B8.1), la forma primitiva per
esprimere ciò che è realmente, effettivamente accaduto: la parola che dà
notizia del reale, che stabilisce qualcosa, e, in questo senso, è autorevole;
(ii) λόγος (B7.5), che ha il valore di di ciò che è stato ponderato, che serve
a convincere (donde il valore di «ragione») 7 , della parola ragionevole. In
questo senso, in B7.5, la Dea innominata inviterà il κοῦρος a valutare
razionalmente (κρῖναι λόγωι, «giudica con il ragionamento») l’argomento
proposto. 6 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 29. 7 W.F.
Otto, Il mito e la parola, in Id., Il mito, cit., pp. 30-32. 233 Già nel
registro verbale è possibile intravedere l’intervento creativo di Parmenide
sulla tradizione. Nel rilevare la contrapposizione apparente del poema di
Parmenide con la razionalità ionica sul terreno dei contenuti e dello stile,
Ruggiu8 ha colto nella ripresa della forma e del metro epico una modalità
espressiva appropriata alla parola come μῦθος: il contenuto dell’epica è
costituito, insieme, da «le cose che sono, quelle che sono state e quelle che
saranno» (τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, Calcante in Iliade I, 70) e
τά ἀληθέα (le Muse in Teogonia 28), da intendere come sinonimi. Dal momento
che, anche per Parmenide, valore primario è la Verità (Realtà), attribuire a
una divinità la rivelazione del contenuto dell’opera sarebbe dunque escamotage
espressivo coerente con la tradizione sapienziale arcaica: il disvelarsi del
reale si palesa come manifestazione del divino stesso9 . È questo, allora, il
motivo che induce all'adozione della forma e del metro epico? Parmenide è ancora
persuaso che il discorso cantato come pratica comunicativa garantisca la
possibilità di una “comunicazione vera”, di un «autentico contatto» (Vernant)
con il divino10? Proprio il proemio, in effetti, sembra giustificare le scelte
di Parmenide alla luce dei suoi possibili modelli di riferimento: (i) l’inno
alla divinità in funzione di proemio rapsodico (nel campo della poesia epica),
ovvero l’invocazione alle Muse in funzione di protasi; (ii) i proemi delle
opere di Esiodo, Epimenide e Aristea (nel campo della poesia cosmogonica), che
celebrano l’investitura poetica e la rivelazione da parte della divinità11. Non
vi è dubbio che, optato per il medium della rivelazione, l’adozione della forma
poetica fosse scontata e il metro dell’epica tradizionalmente 8 Parmenide,
Poema sulla Natura. I frammenti e le testimonianze indirette, presentazione,
traduzione e note a cura di G. Reale, saggio introduttivo e commentario
filosofico a cura di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991, pp. 155- 156. 9 Ivi, p.
160. 10 Wilkinson, op. cit., p. 67. 11 Parmenide di Elea, Poema sulla Natura,
introduzione, testo, traduzione e note di commento di G. Cerri, BUR, Milano
1999, pp. 109-110. 234 funzionale all’istruzione 12 ; ma è anche vero che la
scelta dell’epica avrebbe a suo modo naturalmente comportato quel medium
(almeno nella forma dell'ispirazione) tradizionale. Si tratta di due
prospettive distinte e complementari, che potremmo così schematicamente
caratterizzare: la prima opzione sottolinea l’orizzonte della verità in cui si
iscrivono i contenuti del poema, che la divinità garantisce con la propria
autorità e autorevolezza; la seconda richiama soprattutto la sua efficacia
comunicativa, un aspetto spesso trascurato, ma che di recente ha assunto grande
rilievo nella letteratura critica13 . Poesia, educazione e vita Proprio
considerando i plausibili modelli che si celano dietro le scelte e i moduli
espressivi di Parmenide, non pare azzardato sostenere che il proemio annunci un
processo di trasformazione della persona (il κοῦρος istruito dalla Dea), in cui
il momento cognitivo tradizionalmente privilegiato dagli interpreti è in realtà
funzionale a una modificazione radicale dell’esistenza di colui che è destinato
a ricevere la comunicazione divina. Non a caso esso è stato spesso accostato in
passato ai miti escatologici di Platone: in particolare il mito conclusivo
della Repubblica (mito di Er) e quello centrale del Fedro (mito dell’auriga).
Almeno alcuni elementi fanno in questo senso indiscutibilmente riflettere: (i)
la ripresa di un motivo, quello del viaggio, centrale non solo nella
letteratura omerica ma anche in quella religiosa; (ii) la meta del viaggio:
l’incontro con la divinità; (iii) la scenografia cosmica dell’incontro; (iv) le
modalità della rivelazione divina. Gli interpreti sostanzialmente concordano
nel riconoscere nella scelta parmenidea del metro (esametro) dell’epica 12
Parmenides. A Text with Translation, Commentary and Critical Essays, by L.
Tarán, Princeton University Press, Princeton 1965, p. 31. 13 Mi riferisco, in particolare,
ai contributi di Chiara Robbiano (2006) e Martina Stemich (2008). 235
un’intenzione didascalica, l’interesse al recupero di uno strumento culturale
ed educativo essenziale della tradizione. Possiamo allora considerare tale
opzione come un facilitatore per la comunicazione del sapiente: come i poemi
epici di Omero ed Esiodo, il poema di Parmenide tratta della verità e offre
educazione. Chiara Robbiano ha giustamente rilevato come scrivere in versi
fosse la soluzione espressiva più naturale per chi intendesse affrontare una
materia del massimo rilievo: evocando alcune categorie epiche familiari al
pubblico, era poi possibile rimodellarle in una nuova prospettiva filosofica14.
Nel caso di Parmenide si trattava di suscitare aspettative, soprattutto se -
ammettendo la circolazione di idee nel complesso del mondo greco, orientale e
occidentale - interpretiamo la scelta poetica come alternativa ai modelli in
prosa provenienti dalla Ionia. Da un poema in esametri il pubblico poteva
aspettarsi: (i) una comunicazione di verità; (ii) la proposta di un modello di
comportamento15. A conferma, è significativo il fatto che, nella cultura tra VI
e IV secolo a.C., a più riprese, Senofane, Eraclito e Platone abbiano attaccato
Omero ed Esiodo, così denunciando l’incidenza (e l’efficacia) dell’epica
arcaica su mentalità e costumi. Non va trascurata la possibilità che Parmenide
abbia valutato l’impatto “didattico” della performance poetica, la forza
comunicativa della recitazione pubblica, caratteristica di un contesto
culturale ancora decisamente segnato dalla tradizione orale. Anche in questo
senso Parmenide avrebbe potuto sfruttare i vantaggi che garantiva il richiamo
alla sapienza del canto poetico omerico ed esiodeo (facilitare diffusione e
memorizzazione della propria scrittura, attingere a un repertorio di immagini e
analogie di sicuro effetto), con la possibilità, poi, di dar forma – in piena
autonomia – a nuovi concetti e formule astratte16 . 14 C. Robbiano, Becoming
Being. On Parmenides’ Transformative Philosophy, International Pre-Platonic
Studies, Academia Verlag, Sankt Augustin 2006, p. 42. 15 Ibidem. 16 M. Stemich,
Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, Ontos Verlag, Frankfurt 2008, pp.
30-31. 236 Della poesia greca arcaica17, il Περὶ φύσεως, nel suo proemio,
conserva senz’altro il riferimento paradigmatico al mito come memoria per
recuperare creativamente temi e motivi della tradizione in funzione
didascalica, insieme al rilievo dell’ispirazione divina (donde l’istituto
stesso del proemio, cioè l’abitudine di far cominciare il canto - epico o
lirico - con l’invocazione alle Muse o ad altre divinità) e alla (probabile)
destinazione performativa pubblica, collegata alla scelta della forma metrica
(esametro), secondo le indicazioni interne alla stessa tradizione omerica
(l’aedo Demodoco nell’ottavo libro dell’Odissea). Gentili segnala18 come alla
fine del VI sec. (504-501) il rapsodo Cineto di Chio fosse il primo a
«recitare» Omero a Siracusa (in un’area geografica non remota dalla Magna
Grecia di Elea: pare che Parmenide soggiornasse presso la corte di Ierone, che
aveva richiamato artisti e intellettuali da tutta la Grecia19), inserendo
nell’ordito dei poemi omerici originali versi epici. Non va dimenticato come,
in un sistema culturale – quale quello greco arcaico - fondato quasi
esclusivamente sull’oralità della comunicazione del messaggio poetico, il
cantore epico fosse destinato a trasmettere, attraverso la narrazione,
l’enciclopedia del sapere (tecnico, giuridico, scientifico) in cui, per secoli
(nel caso dell’epos omerico), si era riconosciuta (e intorno a cui si era
venuta organizzando) la società ellenica20. Per la comprensione del testo di
Parmenide, che noi oggi leggiamo, è quindi essenziale la contestualizzazione,
non solo per le trame teoriche, ma anche per quelle formali: ciò consente -
rispetto a quelle arcaiche forme enciclopediche, in cui tutta la saggezza era
incorporata nella concretezza della narrazione - di apprezzarne la specifica
natura, l'originalità dell’impianto e l’audacia dei suoi assunti (astratti e
sistematici). 17 Ricavo questi elementi dal primo capitolo (Oralità e cultura
arcaica) di B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V
secolo, Feltrinelli, Milano 2006. 18 Ivi, p. 22. 19 Su questo A. Capizzi,
"Quattro ipotesi eleatiche", in «La Parola del Passato», XLIII, 1988,
pp. 42-60; riferimento alle pp. 52-53. 20 Gentili, op. cit., p. 69. 237 Non va
comunque trascurato il fatto che la scelta espressiva – probabilmente
condizionata da esigenze di diffusione e trasmissione (non ultima la stessa
memorizzazione) – implicava, in quello sfondo culturale, la dimensione
“spettacolare” (recitazione e canto) della sua ricezione21, che Parmenide non
poteva ignorare. Questa considerazione, da un mero punto di vista formale, aiuta
a comprendere la solennità dell’esordio poetico del Περὶ φύσεως e l’insieme
drammatico del proemio (viaggio, difficoltà, incontro con la divinità), così
come la sua intenzione di coinvolgere il pubblico destinatario, non solo a
livello intellettuale, ma anche emozionale, incoraggiandolo a seguire
l’esperienza «trasformativa» del poeta, convertito dal contatto con la verità22
. In questo senso, rispetto alla tradizione, è opportuno osservare come il
poema suggerisca: (i) una diversa modalità di approccio alla Verità: nella
poesia omerica, la presenza del divino era evocata e invocata attraverso la
Musa e i versi originavano dalla «memoria divina» 23; nel poema in generale, e
nel proemio soprattutto, l'invocazione è sostituita da un incontro divinamente garantito
e da una diretta comunicazione divina, che fanno del poeta qualcosa di più di
un semplice tramite ispirato; (ii) una probabile integrazione della dimensione
performativa: l'invito alla valutazione razionale (κρῖναι δὲ λόγῳ) fa pensare a
una relazione educativa del tipo delineato dal Sofista platonico (237a): come
ha di recente sottolineato Passa24, la rievocazione, per bocca dello Straniero
di Elea, di una lezione tenuta da Parmenide ai discepoli potrebbe essere
indicativa – oltre che dello stesso modello pedagogico dell'Accademia – di
un'originale impronta dell'Eleate: Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν
εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ 21 Ivi, p. 49. 22
Robbiano, op. cit., p. 49. 23 Wilkinson, op. cit., p. 32. 24 E. Passa,
Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma
2009, p. 25. 238 μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ τέλους τοῦτο
ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων Οὐ γὰρ μή ποτε τοῦτο
δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήμενος εἶργε νόημα
[B7.1-2] Questo discorso ha osato supporre che ciò che non è sia; il falso,
infatti, non potrebbe prodursi in altro modo. Il grande Parmenide, tuttavia,
figlio mio, a noi che eravamo ancora bambini, cominciando e fino alla fine
testimoniava contro questo discorso, ribadendo ogni volta con le sue parole e i
suoi versi che: «Questo infatti mai sarà forzato: che siano cose che non sono;
Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero». Si tratta di un
«fotogramma di interno scolastico»25: la memorizzazione dei contenuti
fondamentali (cui la scelta dei versi sarebbe stata funzionale) era affiancata
dal commento e dall'argomentazione dettagliata del maestro, che approfondiva e
chiariva i temi (comunicando probabilmente informazioni supplementari, non
divulgabili all'esterno). Il poema potrebbe essere, almeno in parte, un reperto
di tale situazione didattica: donde le sue asperità e l'impressione che fosse
probabilmente rivolto a una cerchia ristretta26 . Parmenide poeta È
significativo che, in quella che potrebbe essere la più antica allusione a
Parmenide, egli sia annoverato tra i «poeti»: 25 Cerri, op. cit., p. 94. 26
Questo rilievo in M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des Présocratiques:
adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’estce
que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses
Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, pp. 89-90, che
accosta in questo senso Parmenide a Eraclito. 239 ἆρα ἔχει ἀλήθειάν τινα ὄψις
τε καὶ ἀκοὴ τοῖς ἀνθρώποις, ἢ τά γε τοιαῦτα καὶ οἱ ποιηταὶ ἡμῖν ἀεὶ θρυλοῦσιν, ὅτι
οὔτ’ ἀκούομεν ἀκριβὲς οὐδὲν οὔτε ὁρῶμεν; Mi chiedo se vista e udito abbiano una
qualche verità per gli uomini, oppure se queste cose stiano proprio come sempre
ci ripetono i poeti: che non udiamo né vediamo alcunché di preciso. (Fedone
65b), a dispetto di una tradizione che avrebbe poi, a più riprese, manifestato
un certo disappunto di fronte ai versi dell’Eleate: τὰ δ’ Ἐμπεδοκλέους ἔπη καὶ
Παρμενίδου καὶ θηριακὰ Νικάνδρου καὶ γνωμολογίαι Θεόγνιδος λόγοι εἰσὶ
κιχράμενοι παρὰ ποιητικῆς ὥσπερ ὄχημα τὸ μέτρον καὶ τὸν ὄγκον, ἵνα τὸ πεζὸν
διαφύγωσιν. I poemi di Empedocle e Parmenide, le Teriache di Nicandro e le
Sentenze di Teognide sono discorsi che, servendosi della poesia come di un
veicolo, ne prendono il metro e la dignità, per evitare la prosa [il prosaico].
(Plutarco; DK 28 A15) μέμψαιτο δ’ ἄν τις Ἀρχιλόχου μὲν τὴν ὑπόθεσιν, Παρμενίδου
δὲ τὴν στιχοποιίαν [...] Ad Archiloco si potrebbe rimproverare il soggetto, a
Parmenide il modo di fare versi […] (Plutarco; DK 28 A16) ὁ δέ γε Π. καίτοι διὰ
ποίησιν ἀσαφὴς ὢν ὅμως καὶ αὐτὸς ταῦτα ἐνδεικνύμενός φησιν Parmenide, pur
risultando oscuro a causa della poesia, espone e afferma a sua volta le stesse
cose. (Proclo; DK 28 A17). La forza del pensiero sarebbe stata, insomma,
artificiosamente costretta in una forma espositiva inadeguata, producendo un
duplice effetto negativo: l’oscurità dell’espressione e la scadente qualità dei
versi. Scontato, per la tradizione platonica, che Parmenide avesse elaborato il
proprio contributo indipendentemente dal 240 medium espressivo, cui si sarebbe
applicato in un secondo momento, valutandone l’impatto comunicativo: donde i
compromessi e le incongruenze cui accenna Proclo: αὐτὸς ὁ Π. ἐν τῆι ποιήσει·
καίτοι δι’ αὐτὸ δήπου τὸ ποιητικὸν εἶδος χρῆσθαι μεταφοραῖς ὀνομάτων καὶ
σχήμασι καὶ τροπαῖς ὀφείλων ὅμως τὸ ἀκαλλώπιστον καὶ ἰσχνὸν καὶ καθαρὸν εἶδος τῆς
ἀπαγγελίας ἠσπάσατο. δηλοῖ δὲ τοῦτο ἐν τοῖς τοιούτοις [B 8, 25. 5. 44. 45] καὶ
πᾶν ὅ τι ἄλλο τοιοῦτον· ὥστε μᾶλλον πεζὸν εἶναι δοκεῖν ἢ ποιητικὸν < τὸν
> λόγον. Lo stesso Parmenide, nel poema, pur essendo costretto, certamente a
causa della forma poetica, a far ricorso a metafore, figure e tropi, privilegiò
tuttavia una forma d’esposizione disadorna, controllata e semplice. Mostra ciò
in questi versi [B8.25, 5, 44, 45] e in tutti gli altri di questo tenore, così
che il suo discorso sembra piuttosto prosa che poesia. (Proclo; DK 28 A18).
Sembra rivendicare invece l’originaria e originale intenzione poetica
dell’opera parmenidea Genetlio: φυσικοὶ [sc. ὕμνοι] δὲ ὁποίους οἱ περὶ
Παρμενίδην καὶ Ἐμπεδοκλέα ἐποίησαν [vgl. 31 A 23]. […] εἰσὶν δὲ τοιοῦτοι, ὅταν Ἀπόλλωνος
ὕμνον λέγοντες ἥλιον αὐτὸν εἶναι φάσκωμεν καὶ περὶ τοῦ ἡλίου τῆς φύσεως
διαλεγώμεθα καὶ περὶ Ἥρας ὅτι ἀήρ, καὶ Ζεὺς τὸ θερμόν· οἱ γὰρ τοιοῦτοι ὕμνοι
φυσιολογικοί. καὶ χρῶνται δὲ τῶι τοιούτωι τρόπωι Π. τε καὶ Ἐμπεδοκλῆς ἀκριβῶς
... Π. μὲν γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς ἐξηγοῦνται, Πλάτων δὲ ἐν βραχυτάτοις ἀναμιμνήισκει.
Inni fisici, come quelli composti da Parmenide, Empedocle e dai loro seguaci
[…] Essi sono tali quando, levando un inno ad Apollo, diciamo che è il sole e
discutiamo della natura del sole, e di Era diciamo che è l’aria, di Zeus che è
il calore: inni di questo tipo infatti riguardano l’indagine sulla natura. Si
servono di questa forma d’espressione Parmenide ed Empedocle in modo rigoroso
[…] Parmenide ed Empedocle infatti fanno da 241 guida e Platone lo ricorda
brevemente. (Genetlio; DK 28 A20). Parmenide ed Empedocle sarebbero stati
campioni in un genere, quello dei «poemi fisici» (φυσικοὶ ὕμνοι), vere e
proprie «indagini sulla natura» (φυσιολογικοί), riconosciuto nell’antichità
(Platone). Simplicio suggerisce, dal canto suo, un ulteriore interessante accostamento:
εἰ δ’ ‘ε ὐ κ ύ κ λ ο υ σ φ α ί ρ η ς ἐ ν α λ ί γ κ ι ο ν ὄ γ κ ω ι ’ τὸ ἓν ὄν
φησι [Β 8, 43], μὴ θαυμάσηις· διὰ γὰρ τὴν ποίησιν καὶ μυθικοῦ τινος παράπτεται
πλάσματος. τί οὖν διέφερε τοῦτο εἰπεῖν ἢ ὡς Ὀρφεὺς [fr. 70, 2 Kern] εἶπεν ‘ὠεὸν
ἀργύφεον’; Se [Parmenide] afferma che l’essere uno è «simile a massa di ben
rotonda palla» [B8.43], non ci si deve meravigliare: a causa della poesia,
infatti, egli ricorre anche a qualche finzione mitica. Che differenza c’è
dunque tra questo modo di esprimersi e quello di Orfeo: «uovo d’argento»?
(Simplicio; DK 28 A20). La ricerca contemporanea ha documentato la matrice
omerica praticamente dell’intero lessico del poema (Coxon27), e rilevato la
raffinatezza della sua composizione ritmica e musicale (Henn), a dispetto della
complessità della sua materia (rispetto ai precedenti di riferimento, Omero ed
Esiodo), rivendicando quindi la dimensione poetica dell’opera di Parmenide e
soprattutto la sua formazione di rapsodo (Schwabl28), riconoscendo, in altre
parole, che «Parmenide era un bardo omerico, erede dei tesori di secoli di
recitazione orale» (Henn29), impegnato a comporre all’interno della tradizione
epica e non contro di essa. Parmenide, insomma, era (come Empedocle,
probabilmente) in primo luogo un poeta, interessato a sperimentare le
potenzialità 27 A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum,
Assen/Maastricht 1986, pp. 9-13. 28 H. Schwabl, “Hesiod und Parmenides, Zur
Formung des parmenideischen Prooimions (28 B1)”, «Reinisches Museum», 106
(1963), pp. 134-142. 29 M.J. Henn, Parmenides of Elea…, cit., p.5. 242 del
verso nel campo d’indagine della natura: i modelli epici potrebbero tuttavia
non ridursi ai poemi omerici ed esiodei, e comprendere anche (soprattutto per
la seconda parte del poema) la produzione orfica, soprattutto teogonica e
cosmogonica30, attribuita a Museo, Epimenide e Onomacrito31 . La rivelazione di
Parmenide La scelta di una portavoce divina esprimerebbe per alcuni il
desiderio di Parmenide di marcare l'oggettività del suo metodo32: se l’esito
della ricerca fosse stato avanzato semplicemente come la sua verità, avrebbe
finito per riproporsi come un punto di vista, l’opinione di un mortale in
concorrenza con le opinioni degli altri (mortali)33. Secondo il modulo epico,
invece, il poeta-pensatore non è che portavoce della Dea e della Verità: come
il contemporaneo Eraclito rimarcava che: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν
σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι non me, ma il logos ascoltando, è saggio convenire
che tutto è uno (DK 22 B50), così Parmenide non intende riferire la verità
immediatamente a un soggetto, ma alla divinità, per garantirne l’assolutezza34
. 30 Sull’orfismo in generale si vedano ora i numerosi e preziosi saggi
contenuti in A. Bernabé y F. Casadesús (coords.), Orfeo y la tradicíon órfica.
Un reencuentro, 2 voll., Akal, Madrid 2008. In particolare, nel primo volume A.
Bernabé, Caraterísticas de los textos órficos, pp. 241-246; M. Herrero,
Tradición órfica y tradición homérica, cit., pp. 247-278. 31 Per questi aspetti
R.B. Martínez Nieto, Otros poetas griegos próximos a Orfeo, ivi, pp. 549-576.
32 Tarán, op. cit., p. 31. 33 Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec,
traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1999
(edizione originale 1996), p. 66. 34 Ivi, p. 65. 243 Questa plausibile
spiegazione della cornice religiosa non può tuttavia non tenere conto proprio
della natura argomentativa della prima sezione del poema - indicata dalla Dea
come «discorso affidabile e pensiero intorno alla Verità» (πιστὸν λόγον ἠδὲ
νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης B8.50-1) - che la stessa Dea evoca come ἔλεγχος (disamina,
prova), invitando il κοῦρος a giudicare razionalmente (κρῖναι δὲ λόγῳ):
consapevolezza che sembrerebbe contraddire l’urgenza di un pegno divino per il
logos proferito. Rivelazione e verità In realtà Parmenide, come Senofane,
sembra per lo più aderire alla concezione pessimistica della condizione umana
espressa tradizionalmente nella poesia arcaica. Leszl, in proposito, cita il
contemporaneo Teognide (vv. 139-41): οὐδέ τωι ἀνθρώπων παραγίνεται, ὅσσα
θέληισιν· ἴσχει γὰρ χαλεπῆς πείρατ’ ἀμηχανίης. ἄνθρωποι δὲ μάταια νομίζομεν εἰδότες
οὐδέν· θεοὶ δὲ κατὰ σφέτερον πάντα τελοῦσι νόον Nessuno degli uomini ottiene
quanto è nei suoi desideri; si scontra infatti con i limiti postigli dalla dura
inettitudine. Uomini come siamo, coltiviamo illusioni, senza sapere nulla,
mentre gli dei pervengono alla realizzazione di tutto quanto hanno in mente35 .
È significativo che proprio dalla poesia Parmenide ricavi i tratti con cui, in
B6 e B7, caratterizzerà l’impotenza dei «mortali» (βροτοί): essi sono
apostrofati come εἰδότες οὐδέν («che nulla sanno», come in Omero, Teognide,
Mimnermo, Semonide); la loro incapacità di realizzare ciò che è nei loro
intenti è stigmatizzata 35 W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il
corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa
1994, p. 162. 244 come ἀμηχανίη («impotenza», «inettitudine», come in Teognide
e nell’Inno Omerico ad Apollo, vv. 189-193); la loro attitudine cognitiva
liquidata come πλακτὸν νόον («mente errante», con paralleli in Archiloco fr.
58)36 . A dispetto di questo quadro, del fatto che l’uomo, con le sole sue
forze, non possa pervenire alla conoscenza piena della realtà, il proemio narra
come l’intervento e la benevolenza delle divinità consentano – almeno al poeta
– di ricevere e partecipare di quel sapere che è appannaggio divino37. Non
sorprende che tale rivelazione investa in primo luogo le premesse (B2) della
successiva disamina razionale (B6-8), che il kouros è invece sollecitato a
valutare, come se ormai, grazie alla comunicazione dei principi, potesse
concludere autonomamente; né che, alla luce delle tradizioni evocate nello
stesso proemio, essa si sostanzi essenzialmente in termini contemplativi (B3-4),
facendo quasi coincidere la percezione intelligente (νοεῖν) con il proprio
oggetto (εἶναι) 38 . La specifica cornice letteraria e l’implicito motivo della
comunicazione divina sarebbero allora sfruttati, consapevolmente e
strumentalmente, allo scopo di certificare verità e disponibilità dei principi
dell’argomentazione: Parmenide, insomma, avrebbe attribuito i fondamenti della
propria enciclopedia a un’anonima docenza divina, per assicurarne
incontestabilità e universalità. Ovvero, come intende Conche, il sapiente-poeta
avrebbe conservato, nella finzione della Dea, l’idea tradizionale
dell’onniscienza divina, idea di un sapere che tocca la realtà nel suo insieme:
avremmo in questo senso, come già nel caso di Senofane, non più una divinità
religiosa ma filosofica39 . 36 Ivi, pp. 163-4. 37 Ivi, p. 166. 38 Su questo
ancora Leszl, op. cit., p. 168. 39 Conche, op. cit., p. 66. 245 Il problema
della verità Nella pratica poetica sembrava dunque risolversi un cruciale
problema cognitivo40: dal momento che gli esseri umani, nella loro impotenza,
sono soggetti a illusoni, come può il sapiente riconoscere la verità, sottrarsi
a quella condizione di diffusa deficienza (cognitiva) e pretendere di sapere?
Nella cultura greca arcaica, solo un dio poteva essere fonte di verità, e il
linguaggio della comunicazione divina era quello dei versi: Omero ed Esiodo
validavano la loro poesia marcando il fatto che essa annunciava la verità, la
cui conoscenza (sovrumana) era garantita dalla Musa epica41. In questo senso,
il motivo poetico della comunicazione divina è in Parmenide pervasivo,
abbracciando entrambe le sezioni del poema42: l’intero campo del sapere è
esplicitamente ricondotto alla lezione della Dea, tanto le tesi intorno
all’essere, quanto l’enciclopedia del «sistema cosmico» (διάκοσμος), senza
alcuno spazio per una piena rivendicazione autoriale da parte del poeta. Se
consideriamo la struttura dell'opera delineata in conclusione del proemio, e i
passi superstiti della prima sezione, risulta evidente, nella narrazione, come
il rilievo della lezione divina sia funzionale alla focalizzazione del problema
dell'accesso alla veri- 40 Su questo punto è fondamentale il contributo di G.W.
Most, "The poetics of early Greek philosophy", in The Cambridge
Companion to Early Greek Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge
1999, pp. 332-362. Nello specifico rinvio a p. 353. 41 Ivi, p. 343. 42 Sulla
scorta delle indicazioni del testo (DK 28 B8.50-52): ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν
λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε […] A
questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno
a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara […] le due sezioni
sono tradizionalmente designate come Verità e Opinione. 246 tà43. Veridicità ed
essenzialità44, in effetti, erano fondamentali obiettivi poetici che le opere
di Omero ed Esiodo si proponevano e rivendicavano (implicitamente o
esplicitamente): gli inni teogonici, per esempio, articolavano il pantheon
riconducendolo all’origine del cosmo, così assicurando, in forza della
rivelazione della Musa, una conoscenza superumana di cose distanti nel tempo e
nello spazio45 . Quando le Muse di Esiodo dichiarano: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν
ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte
menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare –
(Teogonia 27-28), l’intenzione non è di mettere in guardia dal contenuto della
buona poesia, piuttosto dalla comprensione della maggioranza degli uomini, così
scadente da non poter discernere il vero dal falso46. Senofane, probabilmente
nello stesso ambiente culturale di Parmenide47, aveva già chiaramente
manifestato segni di scetticismo nei confronti del mito e di quella tradizione
poetica: πάντα θεοῖσ’ ἀνέθηκαν Ὅμηρός θ’ Ἡσίοδός τε, ὅσσα παρ’ ἀνθρώποισιν ὀνείδεα
καὶ ψόγος ἐστίν, κλέπτειν μοιχεύειν τε καὶ ἀλλήλους ἀπατεύειν ogni cosa agli
dei attribuirono Omero ed Esiodo, 43 Su questo punto G. Germani, "ΑΛΗΘΕΙΗ
in Parmenide", in «La Parola del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 177-206.
44 Most, op. cit., p. 343. 45 K. Algra, "The beginnings of
cosmology", in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit.,
pp. 45-65. Il passo cui ci riferiamo è a p. 49. 46 Most, op. cit., p. 343. 47
La tradizione dossografica antica costantemente associa Parmenide a Senofane:
tale relazione è stata conservata nella tradizione fino al XX secolo, nel corso
del quale essa è risultata profondamente scossa. Con buoni argomenti ha di
recente rilanciato la dipendenza di Parmenide dal pensatore di Colofone John
Palmer (Plato's Reception of Parmenides, Clarendon Press, Oxford 1999, pp. 186
ss.; Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 324 ss.). 247 quanto
presso gli uomini è cosa riprovevole e censurabile: rubare, commettere adulterio
e vicendevolmente imbrogliarsi (DK 21 B11) Ὅμηρος δὲ καὶ Ἡσίοδος κατὰ τὸν
Κολοφώνιον Ξενοφάνη ὡς πλεῖστ(α) ἐφθέγξαντο θεῶν ἀθεμίστια ἔργα, κλέπτειν
μοιχεύειν τε καὶ ἀλλήλους ἀπατεύειν Omero ed Esiodo, secondo Senofane di
Colofone: Numerosissime azioni illegittime hanno narrato degli dei: rubare,
commettere adulterio e vicendevolmente imbrogliarsi (DK 21 B12). Egli (come
Eraclito) prende apertamente posizione contro la falsità dei contenuti di
quella poesia, contro la distorsione della corretta concezione del divino: è
significativo, in questo senso, che proprio a cavallo tra VI e V secolo a.C. si
sviluppi la più importante «misura di recupero»48 a protezione dei poeti:
l'interpretazione allegorica. A Teagene di Reggio dovremmo, in effetti, il
tentativo di sanare la frattura tra le fonti tradizionali dell'autorità poetica
e i più recenti criteri di argomentazione concettuale49 . Certamente la critica
di Senofane rischiava di accentuare il divario tra piano umano e piano divino,
come emerge da alcuni dei frammenti conservati, rendendo conseguentemente
problematico l'accesso alla verità: οὔτοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’ ὑπέδειξαν,
ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον non è vero che dal principio tutte
le cose gli dei ai mortali svelarono, ma nel tempo, ricercando, essi trovano
ciò che è meglio (DK 21 B18) 48 L'espressione è di Most, op. cit., p. 339. 49
Ibidem. Sulla relazione tra Senofane, Paremnide e Teagene si veda A. Capizzi,
"Quattro ipotesi eleatiche", in «La Parola del Passato, cit.. 248 καὶ
τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα
λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ
οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe,
né mai ci sarà sapiente intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se,
infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui
stesso non lo saprebbe: opinione è data su tutte le cose (DK 21 B34). Benché
testo e significato dell'ultimo frammento rimangano ancora controversi50, esso
sembra anticipare la conclusione scettica per cui non esiste criterio per
stabilire una verità evidente e del tutto affidabile. Analogamente si
esprimeva, tra i contemporanei di Parmenide, Alcmeone: Ἀλκμαίων Κροτωνιήτης
τάδε ἔλεξε Πειρίθου υἱὸς Βροτίνωι καὶ Λέοντι καὶ Βαθύλλωι· περὶ τῶν ἀφανέων,
περὶ τῶν θνητῶν σαφήνειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι καὶ τὰ ἑξῆς
Alcmeone di Crotone, figlio di Piritoo, ha detto queste cose a Brotino, Leonte
e Batillo: sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la
certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo trovare degli indizi51 (DK 24
B1). La scelta di Parmenide - di far ruotare intorno a una figura divina la
comunicazione del poema - potrebbe allora simboleggiare 50 J.H. Lesher,
"Early interest in knowledge", in The Cambridge Companion to Early
Greek Philosophy, cit., pp. 225-249. Il riferimento a p. 229. 51 Dal passo
iniziale del frammento vero e proprio (περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν) la
Gemelli Marciano propone di espungere la virgola, offrendo quindi la seguente
traduzione: «sulle cose invisibili che riguardano i mortali» ("Lire du
début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques",
«Philosophie Antique», 7, 2007 [Présocratiques], p. 19). 249 «la ripresa e la
soluzione parmenidea del problema della verità»52 . Non va quindi trascurata la
possibilità di cogliere, negli echi della poesia religiosa e della stessa
poesia esiodea (con la ripresa di elementi cosmologici della Teogonia), la
specificità dell'esperienza narrata nel proemio come prefigurazione del
complesso dei contenuti dell’opera. Motivi poetici e suggestioni In uno studio
molto innovativo per l’attenzione alla forma poetica del Περὶ φύσεως,
Mourelatos 53 individuò alcuni motivi 54 dell’epica chiaramente presenti nel
poema. Tra questi appaiono di particolare interesse (i) quello del viaggio,
certamente il più importante, anche per le possibili implicazioni (in
precedenza segnalate) con la poesia religiosa; (ii) quello dell’istruzione,
marcata dall’uso della seconda persona nella comunicazione divina, e dal
ricorso a formule programmatiche (χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι; μαθήσεαι; κόμισαι
δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας; πεύσῃ; εἰδήσεις), memori di Esiodo (Le opere e i giorni) e
Omero. Viaggio ed erramento Dei cinque aspetti rilevati55 nella struttura di
questo «motivo» (motif) omerico - (i) progresso nel viaggio di ritorno, (ii)
regresso ed erramento; (iii) navigazione esperta; (iv) azione folle; (v)
ricerca di informazioni sul ritorno da parte dei parenti a casa – i 52 Germani,
op. cit., p. 187. 53 A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides. A Study of
Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven –
London 1970, pp. 12-14. 54 Non mi addentro nella distinzione, proposta dallo
studioso, tra «tema» o «concetto», per cui le pure forme poetiche fungono da
veicolo (oggetto della «iconografia»), e «motivo» o «significato complessivo»,
«valore simbolico» (oggetto della «iconologia»). Ibidem, pp. 11-12. 55 Ivi, p.
18. 250 primi quattro appaiono marcatamente sfruttati nel poema. La compiuta
circolarità del viaggio nell'Odissea pone in primo piano il ritorno a casa
(νόστος), per cui esiste una specifica impresa di ricerca (νόστον διζήμενος):
nel proemio si alluderebbe esplicitamente o implicitamente – a seconda delle
interpretazioni – alla stessa situazione (viaggio alla dea e ritorno tra gli
uomini). In ogni caso centrali risulterebbero, nell’economia del poema, la
conduzione (πομπή) delle guide (divine) di scorta al viaggiatore e – per
contrasto – l’erramento (πλάνη) dei «mortali»: analogamente, l’eroe omerico -
accorto e istruito dalle divinità - sa di dover osservare un certo
comportamento, mentre i suoi compagni, privi di lungimiranza, si rendono
colpevoli di azioni irresponsabili, d’ostacolo al viaggio di ritorno56. Così,
al kouros la Dea non manca di riferire le coordinate (i «segni», σήματα) della
via corretta (B8.1-2: μῦθος ὁδοῖο ὡς ἔστιν), mettendolo in guardia dalle
insidie della «abitudine nata dalle molte esperienze» (B7.3: ἔθος πολύπειρον);
alla cui deriva, invece, come i compagni di Odisseo, si abbandonano i «mortali
che nulla sanno» (B6.4: βροτοὶ εἰδότες οὐδέν), connotati come «uomini a due
teste» (δίκρανοι). Ma il motivo del viaggio non riconduce solo al paradigma
omerico: è probabile ne esistesse una variante letteraria nella poesia
apocalittica 57 , diffusa nei circoli pitagorici, a partire dai Καθαρμοί del
leggendario Epimenide sopra ricordato. Non è solo Diels a crederlo; tra gli
specialisti del XX secolo, Guthrie58, per esempio, coglie, almeno a livello
verbale, echi orfici, che tuttavia non dimostrerebbero altro che il radicamento
nella tradizione della poesia più antica e in quella contemporanea (Pindaro,
Bacchilide, Simonide), mentre ritiene più consistente la possibilità di una
influenza dello sciamanesimo, proprio sulla scorta dei precedenti di Epimenide
e altri (Aristea, Abari, Ermotimo). 56 Ivi, pp. 18-21. 57 Uso l’aggettivo –
come Diels – nel suo significato etimologico da ἀποκαλύπτω (scoprire, rivelare
appunto). 58 W.K.C. Guthrie, A History of Greek Philosophy. II. The Presocratic
Tradition from Parmenides to Democritus, C.U.P., Cambridge 1965, pp. 10 ss..
251 Esperienze dell'altro mondo Come segnalato in nota ai versi del proemio,
alcune scelte espressive di Parmenide – per esempio il vocativo κοῦρε (con cui
la δαίμων apostrofa il viaggiatore giunto al suo cospetto) e soprattutto la
formula εἰδὼς φώς (con cui è indirettamente designato il poeta) – hanno fatto
pensare a un esplicito richiamo a modelli misterici, destinati a fortunate
riprese in particolare da parte di Platone59 . Rivestono in questo senso un
notevole interesse le laminette funerarie classificate come "orfiche"
(le più antiche risalenti al VIV secolo a.C.) e altri frammenti riconducibili a
quell'ambiente religioso, sia per il motivo del viaggio (per giungere all'Ade:
non agile, non lineare; dunque bisognoso di guida) e della connessa esperienza
che propongono (il giudizio della anime a opera di Dike), sia per specifici
elementi che presuppongono (l'iniziazione) e impongono (la necessità di operare
una scelta di fronte a un bivio). Di recente Ferrari è tornato a segnalare come
l'itinerario del poeta nel proemio, con la sua destinazione infera, abbia
«molto in comune con quegli itinerari iniziatici che i defunti percorrevano
nell'oltretomba», seguendo più o meno puntuali istruzioni60 . Non si
tratterebbe solo di dettagli di contorno (come segnaliamo in nota) che
Parmenide avrebbe recuperato per garantire solennità alla propria composizione,
ma di suggestioni che l'avrebbero informata, fornendo il nesso profondo tra il
racconto del proemio e il resto del poema, saldando «il tema dell'iniziazione
alla fondazione logica del sistema»61 . Così sarebbe possibile ricostruire la
topografia del viaggio parmenideo: percorso privilegiato (sotto la conduzione
delle EliaEliadi: κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον, v. 5) di un "iniziato"
(εἰδὼς φώς) lungo la via che conduce alla porta dell'oltretomba (ὁδός 59 Per
questi aspetti è ancora molto utile M.M. Sassi, "Parmenide al bivio. Per
un'interpretazione del proemio", «La Parola del Passato», cit., pp.
383-396. 60 F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza
dall'Odissea alle lamine misteriche, Utet, Torino 2007, p. 115. 61 Sassi, op.
cit., p. 386. 252 πολύφημος δαίμονος, vv. 2-3)62 sorvegliata da Dike, la quale
non solo consentirà al poeta l'accesso al mondo dei morti (per testimoniarne),
ma soprattutto l'incontro con la δαίμων e, conseguentemente, la sua istruzione.
Un tragitto che, a suo tempo, in uno studio pionieristico, Morrison aveva
connotato come quello del «poeta-sciamano in cerca di conoscenza»63,
accostandolo all'esperienza del platonico Er. In modo sorprendentemente simile,
le istruzioni (incise su laminetta aurea) per l'anima del defunto nel sepolcro
di Ipponio (circa 400 a.C.) prevedono: ἐπεὶ ἂμ μέλληισι θανεῖσθαι εἰς Ἀΐδαο
δόμους εὐήρεας Quando ti toccherà di morire andrai alle case ben costrutte di
Ade64 , dove, presso la palude di Mnemosine (Μναμοσύνη λίμνη), l'anima sarebbe
stata affrontata e interpellata dai «custodi» (φύλακες): [ h ] οι δέ σε εἰρήσονται
ἐν φραςὶ πευκαλίμαισι ὄττι δὴ ἐξερέεις Ἄιδος σκότους ὀλοέεντος che ti
chiederanno nel loro denso cuore Cosa vai cercando nelle tenebre di Ade
rovinoso65 . Ma le laminette propongono soprattutto un'altra suggestione, che
potrebbe emergere in Parmenide (per giungere poi ai miti dell'aldilà platonico)
come riflesso di un fondo escatologico comune 66 : la possibilità che una tappa
nell'itinerario tracciato da 62 La Sassi (pp. 387-8) ricorda come nel mito
oltremondano del Fedone (107d ss.) le anime dei defunti, per coprire il cammino
verso l'Ade, abbiano bisogno di δαίμονες che le conducano come ἡγεμόνες. 63
J.D. Morrison, "Parmenides and Er", «Journal of Hellenic Studies»,
75, 1955, pp. 59-68. La citazione è a p. 59. 64 G. Colli, La sapienza greca,
vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp. 172-3. 65 Colli, op. cit., pp. 172-3. 66
Sassi, op. cit., pp. 390-1. 253 Parmenide sia costituita dal bivio
dell'oltretomba ben attestato nelle laminette (e nei testi platonici): ἔστ’ ἐπὶ
δ < ε > ξιὰ κρήνα, πὰρ δ’αὐτὰν ἐστακῦα λευκὰ κυπάρισσος [...] ταύτας τᾶς
κρᾶνας μηδὲ σχεδὸν ἐνγύθεν ἔλθηις· πρόσθεν δὲ [ h ] ευρήσεις τᾶς Μναμοσύνας ἀπὸ
λίμνας ψυχρὸν ὔδωρ προρέον c'è alla destra una fonte, e accanto a essa un bianco
cipresso diritto [...] A questa fonte non andare neppure troppo vicino; ma di
fronte troverai fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine (laminetta di
Ipponio) εὑρήσσεις δ’ Ἀίδαο δόμων ἐπ’ ἀριστερὰ κρήνην πὰρ δ’ αὐτῆι λευκὴν ἑστηκυῖαν
κυπάρισσον ταύτης τῆς κρήνης μηδὲ σχεδὸν ἐμπελάσειας. εὑρήσεις δ’ ἑτέραν, τῆς
Μνημοσύνης ἀπὸ λίμνης ψυχρὸν ὕδωρ προρέον E troverai alla sinistra delle case
di Ade una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto: a questa fonte
non accostarti neppure, da presso. E ne troverai un'altra, fredda acqua che
scorre dalla palude di Mnemosine (laminetta di Petelia, circa 350 a.C.) εὑρήσεις
Ἀίδαο δόμοις ἐνδέξια κρήνην, πὰρ δ’ αὐτῆι λευκὴν ἑστηκυῖαν κυπάρισσον ταύτης τῆς
κρήνης μηδὲ σχεδόθεν πελάσηιςθα. πρόσσω εὑρήσεις τὸ Μνημοσύνης ἀπὸ λίμνης ὕδωρ
προ < ρέον > Troverai alla destra delle case di Ade una fonte, e accanto
a essa un bianco cipresso diritto: a quella fonte non accostarti neppure, da
presso. E più avanti troverai la fredda acqua che scorre 254 dalla palude di Mnemosine
(laminetta di Farsalo, circa 330 a.C.)67 . Così come l'iniziato è
preventivamente istruito di fronte all'alternativa delle fonti cui attingere
per placare la propria sete, la Dea di Parmenide, conclusa la propria
allocuzione introduttiva e richiamata l'attenzione del κοῦρος: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω,
κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας Orsù, io dirò - e tu abbi cura della parola, una
volta ascoltata (B2.1), evoca (B2.2) l'immagine delle «vie di ricerca»,
evidentemente biforcate: (i) ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι
(B2.3); (ii) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5); per
trattenerlo dal tentativo di percorrere la seconda, come invece accade
(analogamente alle anime che si gettano verso l'acqua della prima fonte) ai
«mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, B6.4)68 . Sono stati compiuti,
negli ultimi anni, tentativi per individuare un modello unitario per tutto il
materiale funerario di questo tipo (che si riferisce a reperti risalenti ai
secoli V-II a.C.), giungendo addirittura a fissare la serie di stazioni che
farebbero da sfondo alle istruzioni per le anime dei defunti69. Più
prudentemente, riferendosi alle laminette di Ipponio, Petelia, Farsalo e
Entella (fine V- fine IV secolo a.C.), Ferrari ha sottolineato come ci si trovi
di fronte «a una traccia poetica sostanzialmente unica e unitaria, ma altresì
che le rimodulazioni dei vari testimoni risultano a tratti 67 Colli, op. cit.,
pp. 172-7. 68 Sassi, op. cit., pp. 392-3. 69 Il tentativo più sistematico è
quello di A. Bernabé, Poetae epici Graeci. Testimonia et fragmenta, II:
Orphicorum et Orphicis similium testimonia et fragmenta, II, K.G. Saur,
Münche-Leipzig 2005, p. 13. di ciò dà conto Ferrari in La fonte del cipresso
bianco, cit., pp. 115-6. 255 importanti e complesse»70. In ogni caso, un
elemento risulta nel nostro contesto significativo: il fatto che nelle
laminette (pur recuperate in località diverse e in qualche caso distanti: si va
dalla Magna Grecia per le prime due laminette, alla Tessaglia per la terza,
alla Sicilia per l'ultima) si faccia «ripetuta menzione di Mnemosine come
divinità che dispensa il dono di ricordare»71, e che rivelerebbe l'appartenenza
dei defunti a circoli pitagorici, a quella cultura, in altre parole, «che
appunto alla memoria assegnava un ruolo cruciale nel processo di ascesi e di
perfezionamento della persona»72. Non è un caso che Pugliese Carratelli,
editore delle laminette, proponga, in relazione all'ambiente e allo specifico
richiamo del proemio di Parmenide a quella temperie, Mnemosine come la δαίμων
innominata di Parmenide. Esperienze sciamaniche Abbiamo citato Morrison a
proposito del suo accostamento del viaggio di Parmenide al tragitto di un
«poeta-sciamano»: la figura dello sciamano - il cui rilievo nell’ambito della
cultura arcaica era stato notato, qualche anno prima del contributo di
Morrison, da Dodds, in una delle opere più originali sulla civiltà greca73 - è
quella di un mediatore tra uomini e dei, che ha la capacità di lasciare in
trance il proprio corpo e di viaggiare in cielo o nell’oltretomba, per
accompagnare altre anime o ricevere istruzioni mediche o cultuali da una
divinità. Egli è spesso poeta o cantore e tipicamente narra in prima persona
dei suoi viaggi celesti e delle sue esperienze: il suo viaggio (il mezzo di
trasporto è talvolta un carro volante) è difficoltoso e può presentare momenti
di erramento prima del desiderato confronto con la divinità. 70 Ivi, p. 119. 71
Ivi, p. 124. 72 Ibidem. 73 E.R. Dodds, I Greci e l’Irrazionale, La Nuova
Italia, Firenze 1959 (edizione originale 1951), capitolo V (Gli sciamani e le
origini del puritanesimo). 256 Anche Mourelatos 74 riconosce le somiglianze tra
l’itinerario del kouros e il complesso di elementi focalizzati da Dodds e
ripresi, in relazione a Parmenide, da Guthrie. Se concediamo la presenza di
certi tratti sciamanici nella Grecia arcaica, il riferimento, nel proemio, al
viaggio del protagonista e alla sua scorta divina (Guthrie parla di «odissea
spirituale dello sciamano») avrebbe allora potuto immediatamente evocare,
nell’immaginazione di un ascoltatore "iniziato" a tali pratiche, i
segni dell’esperienza sciamanica. In questo senso appare ancor più
significativo l’accostamento a Odisseo. In particolare, Mourelatos è convinto
che, dietro o sotto la poesia di Parmenide, si possa rintracciare, oltre a
Omero (e a Esiodo), un consistente corpo di poesia cultuale e profetica del
VII-VI secolo a.C.. Il problema in proposito è la mancanza di esemplari per
valutarne la reale incidenza, forse più importante di quella omerico-esiodea. È
probabile, tuttavia, che l’importanza di questo retroterra dipenda in larga
misura da motivi e temi condivisi dall’epica precedente, sebbene impiegati in
una nuova prospettiva e con una nuova contestualizzazione. Parmenide avrebbe
così usato il complesso del viaggio sciamanico come modello per il suo viaggio
speculativo. Nonostante l’assenza di evidenze testuali che autorizzino a
parlare di un “motivo” letterario, allusioni al paradigma dell'esperienza
sciamanica sarebbero rintracciabili, secondo Kingsley 75 , proprio nel proemio,
quasi a inquadrare la successiva dottrina in una cornice sapienziale
indiscutibile. Anche per l'autore inglese, infatti, il modo di presentarsi del
poeta (come «uomo che sa», εἰδὼς φώς) costituirebbe uno standard nel mondo
greco arcaico per indicare l’«iniziato»76, colui che, in virtù delle proprie
conoscenze, poteva giungere dove ad altri era proibito. Analogamente
l’espressione κοῦρος con cui la Dea si rivolge al poeta denoterebbe una figura
al limite (e tramite) tra mondo umano e divino77: l’esperienza descritta,
infatti, sarebbe quella di un’eccezionale 74 Op. cit., pp. 44-5. 75 P.
Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999. 76 Ivi, p. 62.
77 Ivi, p. 72. 257 κατάβασις, autorizzata da Dike (divinità associata al mondo
infero78). Qui è plausibile che Parmenide si rifacesse a modelli letterari, che
coniugavano il tema della discesa nell’Ade in quanto luogo della rivelazione
(Odissea XI), a un determinato contesto cosmologico (Teogonia 736-774) e a
particolari figure di predestinati, come l’eroe Eracle79 o il leggendario poeta
Orfeo (in questo senso da leggere, analogamente a Dodds80, come sciamano). A
conferma della propria lettura (che in realtà si regge su tradizioni
posteriori), Kingsley porta testimonianze ricavate dall’arte vascolare
dell’epoca e della regione di Elea, che ritraggono l’incontro di Eracle con
Persefone secondo lo schema ripreso da Parmenide, ovvero quello di Orfeo con la
stessa dea infera, e la presenza sullo sfondo di Dike81. In questo modo sarebbe
attestato, se non un motivo poetico-letterario, almeno un retroterra culturale,
tradizionale e locale, in cui il poeta poteva inserire i propri riferimenti,
permettendosi l'anonimità della dea82. In effetti, che il ruolo di divina
interlocutrice sia ricoperto da Persefone, è suggerito dalla stessa accoglienza
del kouros da parte della θεά: non una sorte infausta (la morte?) lo ha
allontanato dal mondo degli uomini, ma un destino di conoscenza sotto l’egida
della giustizia divina. Come se, appunto, ella fosse preoccupata di rassicurare
il poeta circa la sua presenza nel mondo dei morti. D’altra parte, è assai
probabile che il poeta si attenesse a norme compositive, ricorrendo a scelte
espressive non improvvisate e per lo più funzionali a un determinato obiettivo.
Kingsley richiama esemplarmente il ricorso alla ripetizione costante del verbo
φέρω nei primi versi, la cui frequenza sarebbe difficilmente tollerabile, da un
punto di vista poetico, se non per l’effetto “performativo” (immaginando la
recitazione), di incantamento e trasporto. L’attenzione per alcuni dettagli fa
inoltre pensare che Parmenide evocasse precisi riferimenti cultuali (se non
poetici), così inquadrando la propria rivelazione in uno sfondo comprensibile
ai 78 Ivi, pp. 62-3. 79 Ivi, p. 61. 80 Op. cit., pp. 186-7. 81 Op. cit., p. 94.
82 Ivi, p. 97. 258 propri ascoltatori (iniziati): potrebbe dunque non essere
casuale il particolare rilievo iniziale del suono («sibilo acuto», σῦριγξ)
emesso dall’«asse del carro nei mozzi […] incandescente», dal momento che esso
ritorna nella posteriore tradizione dei papiri magici greci, associato proprio
al silenzio della «incubazione» e al viaggio cosmico83 . Maria Laura Gemelli
Marciano84 ha inoltre richiamato l'attenzione sullo spazio (21 versi) dedicato
nel proemio (che consideriamo conservato integralmente) alla descrizione del
viaggio e sull’acribia con cui ne viene resa l'esperienza sensoriale (acustica
e ottica), nonché la topografia: ricchezza di dettagli che sembra escludere il
mero impiego simbolico, tanto più considerando85 la stretta relazione tra suoni
(«sibilo», σῦριγξ), movimenti rotatori (i «cerchi rotanti» δινωτοῖσιν κύκλοις
dei vv. 7-8) – segnali di alterazione dello stato di coscienza - e il
manifestarsi delle figure divine86. Indizi che possono autorizzare la lettura
del poema come resoconto di un viaggio estatico. Alcuni elementi esteriori
concorrono in effetti a collegare Parmenide a questo retroterra apocalittico.
Nel 1962 fu ritrovata a Velia (l’antica Elea) un'iscrizione su blocco marmoreo che
recita87: Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης φυσικός. Parmenide, figlio di Pireto,
è riconosciuto come Ouliades, seguace di Apollo Oulios (venerato nell’area
anatolica, da cui provenivano i profughi focesi che fondarono nel VI secolo
a.C. Elea), e physikos, a un tempo ricercatore della natura e medico: dal
momento che ad Apollo Oulios era riconducibile la tecnica dei guaritori, è
possibile che la figura del filosofo fosse ufficialmente associata alla
iatromantica (di cui l’archeologia conferma la pratica in Velia), nel solco
dello sciamanesimo (Epimenide) attestato dalla tradizione testuale. Nella
stessa direzione punta un’altra evidenza dossografica: 83 Ivi, pp. 129-130. 84
Die Vorsokratiker, II, p. 54. 85 Sulla scia dello stesso Kingsley. 86 Gemelli
Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II, p. 55. 87 Kingsley, op. cit., pp. 139
ss.. 259 ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ
πένητι μέν, καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον
ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ πλούτου, καὶ ὑπ’ Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ
Ξενοφάνους εἰς ἡσυχίαν προετράπη. Parmenide, come affermò Sozione, ebbe
familiarità anche con Aminia, figlio di Diochete, pitagorico, uomo povero, ma
nobile e retto, ciò che tanto più ne favorì l’influenza. Quando questi morì,
Parmenide, che era di famiglia illustre e ricca, eresse per lui un monumento
funebre. Fu proprio Aminia, non Senofane, a volgerlo alla tranquillità di una
vita di studio (Diogene Laerzio; DK 28 A1). Il termine ἡσυχία - qui tradotto
come «tranquillità di una vita di studio» - avrebbe in realtà un valore molto
diverso, soprattutto riferito allo stile di vita esemplare del pitagorico
Aminia: qualcuno parla di vita contemplativa, ovvero di vita filosofica, ma
letteralmente il significato è quello di «quiete, riposo», «silenzio,
immobilità». L’ascetico Aminia sarebbe stato maestro di «incubazione», avrebbe
cioè avviato Parmenide alle tecniche di concentrazione già in uso presso i
gruppi pitagorici88 . Come ha rilevato la Gemelli Marciano89, l'«incubazione»
può fornire la chiave per collegare la iatromantica, riferita all'Eleate dalle
evidenze archeologiche, all'attività di legislatore attribuitagli sempre da
Diogene Laerzio (sulla scorta di Speusippo): almeno secondo lo schema che Platone
ricorda nelle Leggi (624b) in relazione al mitico Minosse, ma che abbiamo
ritrovato in Epimenide e che potrebbe emergere anche nel caso di Zaleukos,
legislatore di Locri, di cui si sosteneva avesse ricevuto le leggi direttamente
dagli dei. Sebbene non sia dato cogliere in quale modo questo insieme di
elementi potesse costituire un “motivo” letterario, è possibile ipotizzare una
sua codifica in una qualche forma recitativa (come nel 88 Kingsley, op. cit.,
pp. 179-181. 89 Op. cit., II, p. 45-6. 260 caso delle Purificazioni di
Epimenide), cui Parmenide potrebbe essersi ispirato (viaggio, incontro con
Giustizia e Verità ecc.), evocando situazioni e particolari significativi in
una società ancora legata a quelle pratiche (importate, come crede Kingsley,
dalla patria di origine, Focea, sulle coste dell’Asia Minore). La cornice
cosmologica: Esiodo Il motivo del viaggio e della sua destinazione divina – con
le diverse, possibili suggestioni - risulta comunque proiettato, nel proemio,
all’interno di uno sfondo cosmico (parzialmente delineato nelle allusioni del
testo) modulato su un terzo grande modello poetico, probabilmente decisivo
nell’elaborazione letteraria di Parmenide: la Teogonia di Esiodo. Sulla sua
incidenza pochi hanno dubbi, anche quando, come Mourelatos 90 , privilegino il
confronto con Omero. Sommariamente, infatti, possiamo rilevare: (i) le analogie
tra il proemio del poema e l’inno alle Muse91 della Teogonia; (ii) in
particolare la possibile criticità del già citato rilievo delle Muse in
Teogonia 27-28: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν
ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo
anche, quando vogliamo, il vero cantare -, rispetto al programma didattico
proposto in conclusione di B1, con l'opposizione tra verità e incerto opinare
umano; (iii) la presenza strutturale di dettagli dello scenario cosmologico
dell'opera esiodea nel proemio, oltre alla chiara intenzione cosmogonica (e
teogonica) della seconda sezione del poema. 90 Op. cit., p. 33. 91 Su questo,
tra gli altri, concordano Leszl, Couloubaritsis, e soprattutto M.
Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A New View on Their Cosmologies and on
Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974. 261 Quasi Parmenide volesse
sovrapporre o contrapporre la propria verità a quella del poeta di Ascra. A
livello formale, lo sforzo da parte di Parmenide di utilizzare creativamente il
precedente esiodeo appare evidente. Egli si muove in effetti all’interno delle
novità da questi introdotte nella tradizione aedica: il riferimento dell’autore
a se stesso nell’esordio dell’opera e la funzionalità del proemio rispetto al
poema. In relazione all'originalità esiodea del primo aspetto, Arrighetti ha
colto, nel modo di proporsi del poeta rispetto alla memoria letteraria, il
doppio risvolto della «contrapposizione polemica» e, soprattutto, del «distacco
critico», garantito dalla rivelazione delle Muse 92: l’investitura poetica e il
dono divino della verità, come proposti in apertura della Teogonia,
giustificano la pretesa di una poesia diversa dalla tradizionale, in cui
l’autore fondatamente rivendica una visione unitaria del cosmo. D’altra parte,
anche la risorsa proemiale è da Esiodo sfruttata in modo peculiare, nella
misura in cui essa non si riduce ad artificio estrinseco rispetto al canto
poetico vero e proprio, a inno propiziatorio da recuperare nel repertorio di
evocazioni dedicate, sul tipo degli inni tramandati come omerici: il nesso tra
proemio e poema è, nel caso della Teogonia, molto stretto, sia per il coinvolgimento
diretto del poeta e della sua esperienza personale, sia, in particolare, perché
tale esperienza illumina la sostanza complessiva dell’opera: «il proemio, con
il racconto della epifania delle Muse, costituisce la garanzia del carattere di
veridicità del contenuto del poema»93 . A richiamare l’attenzione
dell'interprete sul precedente esiodeo sono tuttavia soprattutto alcuni
elementi di contenuto, in primo luogo lo scenario complessivo del proemio
parmenideo, con un viaggio che conduce, lungo la direttrice del sentiero di
Notte e Giorno (il percorso lungo cui essi si alternano), a un imponente
portale (a protezione della dimora divina), il quale, aprendosi, rivela un
«vuoto enorme» (χάσμ΄ ἀχανὲς), eco delle «porte» (πύλαι) che chiudono (e
dischiudono) l’oscuro Tartaro esiodeo: 92 Esiodo, Teogonia, a cura di G.
Arrighetti, BUR, Milano 1984, pp. 7-8. 93 Ivi, pp. 129-130. 262 ἔνθα δὲ γῆς
δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος ἑξείης
πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ·
χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν οὖδας ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα πυλέων
ἔντοσθε γένοιτο, ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ θύελλα θυέλλης ἀργαλέη· δεινὸν
δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι. τοῦτο τέρας· καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν
νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι. τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο πάις ἔχει οὐρανὸν εὐρὺν ἑστηὼς
κεφαλῇ τε καὶ ἀκαμάτῃσι χέρεσσιν ἀστεμφέως, ὅθι Νύξ τε καὶ Ἡμέρη ἆσσον ἰοῦσαι ἀλλήλας
προσέειπον ἀμειβόμεναι μέγαν οὐδὸν χάλκεον· ἡ μὲν ἔσω καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε ἔρχεται,
οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας δόμος ἐντὸς ἐέργει, ἀλλ’ αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα
γαῖαν ἐπιστρέφεται, ἡ δ’ αὖ δόμου ἐντὸς ἐοῦσα μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν
ἵκηται· ἡ μὲν ἐπιχθονίοισι φάος πολυδερκὲς ἔχουσα, ἡ δ’ Ὕπνον μετὰ χερσί,
κασίγνητον Θανάτοιο, Νὺξ ὀλοή, νεφέλῃ κεκαλυμμένη ἠεροειδεῖ. ἔνθα δὲ Νυκτὸς παῖδες
ἐρεμνῆς οἰκί’ ἔχουσιν, Ὕπνος καὶ Θάνατος, δεινοὶ θεοί· οὐδέ ποτ’ αὐτοὺς Ἠέλιος
φαέθων ἐπιδέρκεται ἀκτίνεσσιν οὐρανὸν εἰσανιὼν οὐδ’ οὐρανόθεν καταβαίνων. τῶν ἕτερος
μὲν γῆν τε καὶ εὐρέα νῶτα θαλάσσης ἥσυχος ἀνστρέφεται καὶ μείλιχος ἀνθρώποισι,
τοῦ δὲ σιδηρέη μὲν κραδίη, χάλκεον δέ οἱ ἦτορ νηλεὲς ἐν στήθεσσιν· ἔχει δ’ ὃν
πρῶτα λάβῃσιν ἀνθρώπων· ἐχθρὸς δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσιν Là della terra nera e
del Tartaro oscuro, del mare infecondo e del cielo stellato, di seguito, di
tutti vi sono le scaturigini e i confini, luoghi penosi e oscuri che anche gli
dèi hanno in odio, voragine enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per
giungere al fondo a chi passasse dentro le porte, 263 ma qua e là lo porterebbe
tempesta sopra tempesta crudele; tremendo anche per dèi immortali è tale
prodigio. E di Notte oscura la casa terribile s'inalza, da nuvole livide
avvolta. Di fronte a essa il figlio di Iapeto tiene il cielo ampio reggendolo
con la testa e con infaticabili braccia, saldo, là dove Notte e Giorno venendo
vicini si salutano passando alterni il gran limitare di bronzo, l'uno per
scendere dentro, l'altro attraverso la porta esce, né mai entrambi ad un tempo
la casa dentro trattiene, ma sempre l'uno fuori della casa la terra percorre e
l'altro dentro la casa aspetta l'ora del suo viaggio fin che essa venga; l'uno
tenendo per i terrestri la luce che molto vede, l'altra ha Sonno fra le sue
mani, fratello di Morte, la Notte funesta, coperta di nube caliginosa. Là hanno
dimora i figli di Notte oscura, Sonno e Morte, terribili dèi; né mai loro Sole
splendente guarda coi raggi, sia che il cielo ascenda o il cielo discenda. Di
essi l'uno la terra e l'ampio dorso del mare Tranquillo percorre e dolce per
gli uomini, dell'altra ferreo è il cuore e di bronzo l'animo, spietata nel
petto; e tiene per sempre colui che lei prende degli uomini, nemica anche agli
dèi immortali.94 (vv. 736-766). Come ci ricorda Privitera95, abbiamo nella
cultura greca arcaica due prospettive sull'alternanza di luce e oscurità: una
fisica, rintracciabile nell'Odissea, l'altra mitica, presente invece in Esiodo,
ma con riscontri anche nell'Iliade. La prima sarebbe "orizzontale",
dal momento che i fenomeni coinvolti (il movimento del Sole, nel suo
trascorrere celeste da oriente a occidente, e il suo 94 Esiodo, Teogonia, cit.,
pp. 111-3. 95 G.A. Privitera "La porta della Luce in Parmenide e il
viaggio del Sole in Mimnermo", «Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei
Lincei», s. 9, v. 20, 2009, pp. 447-464. 264 tragitto di ritorno a oriente
navigando su Oceano intorno alla Terra) hanno luogo sulla Terra e nel cielo
sovrastante. La seconda, al contrario, "verticale", in quanto i
fenomeni terrestri e celesti sono radicati nel mondo "infero"96. Non
si tratta di prospettive incompatibili, come puntigliosamente dimostra lo
studioso: nel caso di Parmenide (come nel precedente di Stesicoro97)
registreremmo un originale tentativo di inquadrare il rapporto tra
Luce-Sole-Notte entro una cornice cosmica in cui si completano le due
prospettive tradizionali98. Nella lettura di Privitera, ciò avrebbe comportato
concentrare strutturalmente il baricentro del proemio sul percorso solare,
trasferendo la Porta del Giorno e della Notte dall'Ade sulla Terra: sarebbe in
questo senso esclusa qualsiasi forma di katabasis verso il regno dei morti.
Eppure i versi esiodei, a dispetto delle divergenze che pur ne caratterizzano
le interpretazioni cosmologiche 99 , si prestano a suggestioni diverse,
proiettando decisamente verso il mondo infero la ripresa proemiale di
Parmenide. Dopo la narrazione della Titanomachia (665 ss.), della sconfitta dei
Titani (713 ss.) e della loro segregazione in un remoto luogo infero (720 ss.),
Esiodo ci informa che sopra quella prigione, nelle profondità sotterranee, si
sviluppano le radici del mare e della terra (729): come intendesse garantire
sulla sicurezza della detenzione, il poeta fornisce particolari sulle modalità
di reclusione dei Titani (immobilizzati da «lacci tremendi» 718), e sulla
località di carcerazione («un'oscura regione, all'estremo della terra
prodigiosa», cintata tutta intorno e assicurata da portali di bronzo, e
guardiani infernali, 731-5). La descrizione del mondo sotterraneo è dunque
organicamente inserita nel contesto teogonico, sottolineando la rassicurante
distanza infera delle ostili forze titaniche: ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου
ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος 96 Ivi, p. 449. 97 Ivi,
p. 453. 98 Ibidem. 99 Si vedano, per esempio la discussione specifica in
Pellikaan-Engel (op. cit., capp. II-III), ma anche le annotazioni di Arrighetti
(op. cit., pp. 151-2). 265 ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα,
τά τε στυγέουσι θεοί περ. ἔνθα δὲ μαρμάρεαί τε πύλαι καὶ χάλκεος οὐδός, ἀστεμφὲς
ῥίζῃσι διηνεκέεσσιν ἀρηρώς, αὐτοφυής· πρόσθεν δὲ θεῶν ἔκτοσθεν ἁπάντων Τιτῆνες
ναίουσι, πέρην χάεος ζοφεροῖο. Là della terra oscura e del Tartaro tenebroso,
del mare infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti, sono le
scaturigini e i confini, luoghi squallidi e oscuri, che anche gli dèi hanno in
odio. Là sono le porte splendenti e la bronzea soglia, inconcussa, su radici
infinite commessa, nata spontaneamente; davanti, lontano da tutti gli dèi, i
Titani hanno la loro dimora, di là dal caos tenebroso100 (vv. 807-814). In
questa sua intenzione, è possibile che Esiodo effettivamente giustapponesse
(come vogliono Privitera e Arrighetti) prospettiva orizzontale e verticale,
oscillando tra una dislocazione occidentale e una sotterranea dell'«al di là»,
ma, come ha puntualmente indicato nella sua analisi la Pellikaan-Engel101, va
presa seriamente in considerazione l'ipotesi che il poeta alludesse a un quadro
cosmologico diverso da quello (sostanzialmente emisferico) della tradizione
omerica. La Terra vi comparirebbe come un disco piatto (ancorché ondulato sulle
due superfici), immobile, circondato dalla solida, rotante sfera celeste, il
cui emisfero sovrastante sarebbe stato designato propriamente come «cielo»;
quello sottostante avrebbe invece costituito quella regione infera in cui
proiettare la minaccia titanica e localizzare il sistema di tutele contro la
sua risorgenza. In questo senso, allora, è possibile che, alla luce del ruolo e
del corso cosmico e mitico del Sole, Esiodo incrociasse, rispetto
all'esperienza terrestre, il tradizionale orientamento orizzontale (estovest,
secondo la direzione quotidiana dell'astro), con la prospet- 100 Teogonia,
cit., p. 115. 101 Op. cit.. Si veda in particolare il capitolo II. 266 tiva
verticale rappresentata dalle opposte estremità, a ridosso della sfera celeste
avvolgente, dell'Olimpo e del Tartaro. Una certa confusione (stridente in
qualche dettaglio) si avrebbe semmai, secondo quanto rileva la
Pellikaan-Engel102, tra fenomeni (diurni e notturni) e loro personificazione
(Giorno e Notte). Così, nel quadro che possiamo ricostruire dai versi citati,
all'estremo limite occidentale della Terra, dove Atlante («il figlio di
Iapeto») sorregge la sfera celeste (per impedirle di gravare direttamente sulla
superficie terrestre e impedire il passaggio del Sole), si incontrano e danno
il cambio Giorno e Notte, i quali, alternativamente, discendono verso il mondo
infero per soggiornare nella «casa della Notte», e ascendere poi, quando giunge
il loro turno, verso il mondo terrestre (che quindi passa regolarmente dal
regime diurno a quello notturno). A tale ciclo e struttura cosmici si
riferirebbero i versi del proemio: «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno»
avrebbero la funzione di discriminare i due mondi, attraverso cui si succedono
i passaggi delle due divinità, consentendo l'accesso al mondo infero, in cui
sarebbe locata «la dimora della Notte» (δώματα Nυκτός). Ad accentuare tale
prospettiva "verticale" la possibile associazione tra tale sito e l'accesso
all'Ade, proprio come nella poesia esiodea: ἔνθα θεοῦ χθονίου πρόσθεν δόμοι ἠχήεντες
ἰφθίμου τ’ Ἀίδεω καὶ ἐπαινῆς Περσεφονείης ἑστᾶσιν Lì davanti del dio degli
inferi la casa sonora, del possente Ade e della terribile Persefoneia, s'inalza
[...]103 (vv. 767-769a) Sebbene possano essere sollevati dubbi circa l'esatta
struttura cosmologica che fa da sfondo al racconto parmenideo, le analogie con
il modello esiodeo potrebbero dunque autorizzare l'ipotesi che il superamento
della soglia sorvegliata da Dike apra al poeta non genericamente uno spazio
oltremondano, ma propriamente la 102 Ivi, p. 38. 103 Teogonia, cit., p. 113.
267 direzione dell’oltretomba, in altre parole del luogo tradizionalmente
privilegiato per le rivelazioni. Parmenide e la poesia: conclusioni provvisorie
È probabilmente questa la cornice entro cui Parmenide decide di concentrare gli
altri elementi della propria creazione, elaborando, consapevolmente e in modo
originale, materiali tradizionali, significativi nella comprensione dei
contemporanei. Questo non implica che egli abbia semplicemente puntato
all’effetto comunicativo, curandosi essenzialmente dell’impatto persuasivo
dell’immaginario così plasmato. Accogliendo le suggestioni di Kingsley (e
ancora della Gemelli Marciano) circa il radicamento del pensatore all’interno
di un sistema di credenze e pratiche ereditate dai costumi e culti del suo
popolo, potremmo ipotizzare che l’intenzione di Parmenide fosse quella di
veicolare, nelle forme ispirate della tradizionale poesia epica, arricchite dell’eco
suggestiva (suoni, movimenti ecc.) di una straordinaria esperienza sciamanica,
un nuovo punto di vista, maturato nella ricerca personale e nel confronto con
la cultura ionica e pitagorica, e la conseguente condotta di vita. Una
prospettiva interpretativa che, a partire dalla centralità dell’elaborazione
poetica, impone il problema di determinare il nesso tra gli elementi di
immediatezza ed emotività di quello sfondo culturale e l'indiscutibile impianto
logico del Περὶ φύσεως. Anticipando le conclusioni delle successive analisi, è
da rilevare come la difficoltà dell’interprete, nel caso di Parmenide, risieda
proprio nella determinazione della continuità tra esperienze religiose, il cui
retroterra emerge nell’espressione poetica, e razionalità scientifica, che
prende corpo nelle due sezioni del poema. Le strade per lo più battute nella
storia delle interpretazioni sono, in realtà, quelle (maggioritarie) che
scorporano i frammenti successivi dal proemio, quasi si trattasse di corpo
estraneo all’originale comunicazione parmenidea, ovvero quelle (minorita- 268
rie) che unilateralmente insistono sull’evento rivelativo (e sui suoi
contorni), trascurando poi il fatto che il tutto cosmico era l’oggetto di
analisi (anche dettagliata) nell’opera, come attestato dalla titolazione
tradizionale e, soprattutto, dalla sua consistente seconda sezione. È
plausibile, al contrario, che il complesso del proemio prefiguri le tesi del
filosofo e che queste non siano estranee a un intento trasformativo (Robbiano),
indistricabilmente connesso alle esperienze evocate. In questo senso, si può
condividere il suggerimento (Robbiano e Stemich) di cogliere nella sapienza
comunicata nel poema essenzialmente uno “stile di vita”, prefigurante
l’accezione di filosofia poi affermatasi (secondo la lezione di Hadot104) nel
socratismo e soprattutto nella cultura ellenistica. In dissenso da Mourelatos,
per il quale, invece, gli imperativi della dea sono tutti rivolti a un’attività
di tipo cognitivo, non al bios o al prattein105 . D'altra parte, contestualizzando
la lettura del proemio, è prudente rigettare un approccio meramente allegorico,
rintracciandovi piuttosto l’espressione di un’esperienza vissuta. Appare
fondata l’osservazione di Leszl106, secondo cui un'interpretazione allegorica -
come quella fornita da Sesto Empirico - si scontra con il fatto che la pratica
dell’allegoresi era, al tempo (fine VI secolo a.C.), solo agli inizi, con
Teagene di Reggio (forse, come Parmenide, legato all’ambiente pitagorica107.
Possiamo supporre108, allora, che, nella narrazione del viaggio del poeta
Parmenide, siano confluiti elementi eterogenei - il resoconto di una genuina
esperienza visionaria, allusioni cosmologiche, intenzioni didascaliche: il
poeta avrebbe plasmato, nel modulo espressivo più vicino alla sua formazione
rapsodica, immagini e contenuti a un tempo adeguati a manifestare le sue
conquiste spirituali, ed efficaci per co- 104 P. Hadot, Exercices spirituels et
philosophie antique, Albin Michel, Paris 20022 . 105 Op. cit., p. 45. 106 Op.
cit., p. 144. 107 Allegoristi dell’età classica, Opere e frammenti, a cura di
I. Ramelli, Bompiani, Milano 2007, p. XII. 108 Come fanno lo stesso Leszl, op.
cit., p. 145, e Coxon, op. cit., p. 156. 269 involgere (emotivamente e
intellettualmente) il pubblico destinatario (plausibilmente un gruppo ristretto
di discepoli109). Ciò comportava, naturalmente, anche consapevoli opzioni
simboliche, per le quali egli poteva attingere all’immaginario dell’epica e,
probabilmente, della stessa poesia apocalittica: il poema appare in effetti
concentrato sull’effetto (il mutamento della prospettiva cognitiva e la
correlata trasformazione dell’attitudine personale) dell’impatto con la verità,
della scoperta del reale assetto del tutto cosmico. Il viaggio e la sua
esperienza L’esplicita indicazione di Sesto Empirico ci attesta – come abbiamo
riscontrato introduttivamente - la tradizione integrale dell’incipit del poema
in quello che è classificato, nella edizione Diels-Kranz, come frammento B1: il
privilegio di disporre dell’esordio nella sua originale interezza offre
l’opportunità di valutarne costruzione, impronta e ufficio all’interno
dell’impresa complessiva di Parmenide. Comunque se ne interpreti il messaggio,
è chiaro come il poeta intenda marcare l’eccezionalità dell'esperienza cantata,
che – abbiamo sottolineato - non appare mera, scontata formula di indirizzo,
sebbene, prendendo in considerazione i contenuti dell’opera conservati nei
frammenti successivi, l’aura del mito possa superficialmente risultare
stridente con gli incoraggiamenti alla ponderazione razionale (B7 e B8) e con
le fatiche argomentative di B8. Come abbiamo già rilevato, è plausibile,
infatti, che il preambolo proponesse quella veste proprio in funzione di quei
contenuti e degli obiettivi educativi che il filosofo-poeta si prefiggeva. 109
Questa è l'impressione della Gemelli Marciano (M.L. Gemelli Marciano, "Le
contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires", in A.
Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is
Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve
d’Ascq (Nord) 2002, pp. 83-114. Il riferimento alle pp. 89-90. 270 Nel segno
dell’eccezione Nonostante i particolari sfumati della rappresentazione
d’insieme - dettagliata in alcuni passaggi (descrizione del carro e della
apertura della porta) e molto indeterminata in altri (tragitto oltre la
porta)110 - abbiano dato adito a vari tentativi di contestualizzazione del
viaggio, il suo carattere straordinario è segnalato da due momenti ben evidenziati
nei versi parmenidei: (i) l’intervento delle Eliadi (Ἡλιάδες κοῦραι) presso
Dike, austera (πολύποινος, «che molto punisce») guardiana del portale, per
persuaderla a consentire il passaggio del carro che conduce il poeta: le
fanciulle devono placarla «con parole compiacenti» (μαλακοῖσι λόγοισιν) e
«sapientemente» (ἐπιφράδεως) convincerla a concedere una possibilità
evidentemente non garantita ad altri mortali; (ii) la formula di accoglienza
della Dea, la quale rileva che: (a) non è stata «Moira infausta» (Μοῖρα κακὴ,
destino infausto) a spingere il giovane (κοῦρος) al suo cospetto; (b) la via (ὁδός)
per cui è stato guidato è «lontana dal percorso degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς
πάτου). Incrociando i rilievi, si evince che l’esperienza di cui è protagonista
il poeta eccede i limiti dell’umano e che ciò accade secondo un disegno cui
concorrono le aspirazioni (θυμός) del filosofo (v. 1): ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον
τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι Le cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio
potrebbe giungere, e il decisivo ausilio divino (vv. 8b-9a): ὅτε σπερχοίατο
πέμπειν Ἡλιάδες κοῦραι mentre si affrettavano a scortar[mi] le fanciulle
Eliadi. 110 Leszl, op. cit., p. 141. 271 L’eccezione coinvolge in particolare
due aspetti. Il poeta ha chiaramente l’opportunità: (i) di spingersi oltre i
confini stabiliti per le ambizioni mortali, e, in tal modo, (ii) di accedere
non semplicemente alla rivelazione della verità, ma più esattamente a una
lezione articolata, che lo informerà circa (a) la natura della realtà (vv.
28b-29): χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ Ora è
necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, (b)
la natura del comune fraintendimento (v. 30): ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι
πίστις ἀληθής sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità, (c)
fornendo soprattutto (pensando alla struttura del poema), alla luce di quegli
errori, gli strumenti corretti di comprensione del mondo della nostra
esperienza (vv. 31-2): ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν
δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Eppure anche questo imparerai: come le
cose accolte nelle opinioni era necessario fossero realmente, tutte insieme
davvero esistenti. A sancire tale eccezione registriamo, insomma, un triplice
avallo divino: (i) la scorta delle Eliadi, che si muovono a sostenere e
realizzare lo sforzo del poeta\filosofo; (ii) la condiscendenza di Dike, che
veglia sulle infrazioni ed è garante dei limiti; 272 (iii) la comunicazione
della θεά senza nome - che può offrire la chiave per giungere alla Verità -
meta del viaggio cui viene finalizzata l’aspirazione del poeta\filosofo. Il
quadro è, nell’insieme, una modulazione di quello arcaico tradizionale: sotto
protezione divina al poeta è permesso accostarsi a una condizione sovrumana111,
che descriveremmo in termini di ispirazione, illuminazione e rivelazione. In
altre parole, il privilegio della conoscenza superiore costituisce una sorta di
trascendimento dello status mortale: nel rispetto, tuttavia, dell’indiscutibile
primato del divino. Come anticipato nelle pagine precedenti e nelle annotazioni
al testo del frammento, le indicazioni del proemio sembrano dislocare tale
trascendimento nel mondo infero. In tal senso si può interpretare il
riferimento della dea a «Moira infausta» (ovvero «destino infausto») e,
soprattutto, alludendo a δώματα Nυκτός, all’abisso del Tartaro descritto
meticolosamente da Esiodo (Teogonia 736- 745)112, con la prossimità della
«dimora della Notte» (scortata nel suo corso da Sonno e Morte) alla «porta del
possente Ade e della terribile Persefoneia» (vv. 758-778). In analoga direzione
concorrono vari elementi esteriori (rilievi archeologici113, dati storici114),
cui abbiamo sopra accennato, che confermano, nel caso di Parmenide e di Elea,
la probabile relazione con il culto di Persefone, che potrebbe dunque essere la
θεά, innominata in quanto scontato referente. D’altra parte il viaggio nel
regno dei morti, anche senza voler fare eccessivo affidamento sulle credenze
sciamaniche, già in Omero (Odissea XI) risultava cruciale per la conoscenza
della verità. La stessa figura di Δίκη πολύποινος - l’aggettivo πολύποινος
ricorre solo in un altro testo, un poema attribuito a Orfeo (fr. 158 Kern), in
cui Dike affianca 111 Leszl, op. cit., p. 167. 112 Cerri, op. cit., p. 173. 113
Kingsley conferma che figurazioni vascolari rappresentano Persefone che
accoglie nell’Ade Eracle e Orfeo, stringendo loro la mano destra, proprio come
la dea innominata fa con il kouros del proemio. Op. cit., pp. 93-100. 114 Elea
era centro di un culto dedicato a Demetra e Persefone (Cerri, op. cit., p.
108). 273 Zeus nell’atto di relegare i Titani nel Tartaro115 - troverebbe in
tale scenario la propria naturale collocazione: nell’Ade i morti subiscono il
giudizio divino e ricevono, conseguentemente, la punizione delle colpe commesse
in vita. La plausibile destinazione individuata per il viaggio del poeta
avrebbe, tuttavia, anche un secondo e non meno rilevante risvolto nella
prospettiva del poema. Il percorso indicato, infatti, richiama la visione
mitica del cosmo espressa in Esiodo e Omero, in cui i confini del mondo
coincidono con quelli della terra (la cui superficie è piatta), sui cui limiti
estremi poggia il cielo-cupola116: in questo senso, nel caso dell’Odissea, la katabasis
non è intesa tanto come discesa sotto la superficie della terra, piuttosto come
raggiungimento di un luogo oltre i limiti della superficie terrestre117 . La
nozione del limite (e del suo superamento) è poi significativamente evocata dal
vettore e dalla scorta, che richiamano l’immagine del carro del Sole e il mito
di Fetonte118 . In effetti, la conduzione delle Eliadi (figlie di Helios, il
Sole appunto) e il tragitto verso «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno»
(πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων, v. 11), che complessivamente tracciano i
contorni celesti, se da un lato sembrano insistere sul punto di vista
privilegiato garantito al poeta, dall’altro, indirettamente, attraverso
l’implicita rievocazione di Fetonte (fratello delle Eliadi, la cui imperizia
nel condurre il carro, sottratto di nascosto al padre Sole, richiese
l’intervento riparatore di Zeus), suggeriscono anche l’idea della regolarità e
della misura cosmica, rafforzata dalla presenza severa di Dike. Come in Esiodo
e in altri pensatori arcaici (Anassimandro e il contemporaneo Eraclito), la
processualità della natura – l’alternanza di notte e giorno ai confini del
cosmo - si svolge in conformità con le prescrizioni della giustizia119. Al
poeta è dunque attribuito – garante Dike – il favore 115 Cerri, op. cit., pp.
104-5. 116 Leszl, op. cit., p. 149. 117 Ivi, p. 144. 118 Benché in genere
l’accostamento non sia sfuggito ai commentatori, mi pare particolarmente felice
la lettura che ne propone Leszl (p. 147). 119 Ibidem. 274 di seguire il corso
del Sole, abbracciando così nel tragitto mitico l’intera realtà cosmica e
accedendo ai misteri dell’oltremondo. Al di là dell'esperienza quotidiana
L’eccezionalità dell'esperienza del poeta, sottolineata nel suo indirizzo dalla
θεά, non sarebbe allora riducibile semplicemente a una discesa (κατάβασις) agli
inferi, ovvero a una ascesa (ἀνάβασις) celeste: quanto risulta marcato nei
versi del proemio è la distanza della via seguita nel corso del viaggio «dal
percorso degli uomini» (ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν, v. 27). La porta
del Sole, identificata con la Porta dell’Ade (Iliade VIII, 13- 16; Odissea
XXIV, 11-14; Esiodo, Teogonia 740 ss; 744-757; 811-814), è, in effetti,
miticamente situata nell’occidente estremo, lontanissima quindi dalle regioni abitate:
poggia sulla superficie terrestre, al di sotto della quale si radica nel
profondo, mentre i suoi pilastri si elevano tanto da toccare il cielo. Oltre
essa l’abisso, il mondo dei morti, il regno di Ade e Persefone120. Come ricorda
Cerri, si tratta di una «porta cosmica», sia in quanto discrimina il percorso
del sole e quindi giorno e notte, sia in quanto separa il mondo dei vivi e
quello dei morti121 . Ciò che, in realtà, viene sottolineato nel resoconto
parmenideo non è l’allontanamento dalla terra per pervenire alla porta del
cielo, superare i confini del mondo e incontrare, nell’etere celeste, la dea
rivelatrice (Mansfeld), né propriamente il viaggio nell’oltretomba (Burkert)
ovvero verso il centro del cosmo (Pellikaan-Engel). Il poeta, scortato dalle
Eliadi sul carro solare, perviene presso e oltrepassa la «porta cosmica»,
raggiungendo, dunque, il punto privilegiato che è accesso, a un tempo, all’Ade
e al cielo (con la duplice valenza, quindi, di rivelazione e illuminazione). In
ogni caso, la tradizionale oscurità dell’Ade appare, per la meta del viaggio,
più giustificata nel contesto rispetto alla luce 120 Cerri, op. cit., p. 98.
121 Ivi, p. 99. 275 celeste122: sono le Eliadi a doversi portare «verso la
luce», muovendo dalla «dimora della Notte» (dove hanno soggiornato durante la
pausa notturna: il loro viaggio comincia, dunque, presumibilmente all’alba), a
cui ritornano, con la compagnia del poeta, percorrendo, plausibilmente, il
consueto tragitto solare (cioè al tramonto, quando Notte ha nuovamente
abbandonato la propria dimora per dar cambio a Giorno). In questo senso, pur
ribadendo la convinzione che a Parmenide prema soprattutto evidenziare
l’oltrepassammento dell'esperienza quotidiana e la distanza dell’accesso alla
Verità rispetto all’ordinario spazio delle relazioni umane, la katabasis
certamente offre al poeta un paradigma influente. Al nodo della “direzione” del
viaggio è poi legato quello dei suoi tempi. Il poema si apre con il presente: ἵπποι
ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι Le cavalle che mi portano fin dove il
[mio] desiderio potrebbe giungere (v. 1), quasi a marcare un’abitudine123
ovvero, all’interno della narrazione, un elemento di sfondo, indipendente dallo
sviluppo del racconto, come i successivi rilievi (sempre riferiti al presente)
sulla «strada […] della divinità»: ἣ κατὰ † ... † φέρει εἰδότα φῶτα che porta †
... † l’uomo sapiente (v. 3), sulla struttura della “porta cosmica” e sul ruolo
di Dike: ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι κελεύθων, καί σφας ὑπέρθυρον ἀμφὶς
ἔχει καὶ λάινος οὐδός· αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται μεγάλοισι θυρέτροις· τῶν δὲ
Díkh πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς. Là sono i battenti dei sentieri di Notte
e Giorno: architrave e soglia di pietra li incornicia; 122 Ciò a dispetto delle
osservazioni di G.A. Privitera, op. cit.. 123 Guthrie, op. cit., p. 7. 276
essi, alti nell’aria, sono agganciati a grande telaio. Dike, che molto castiga,
ne detiene le chiavi dall’uso alterno (vv. 11-14). Nel primo caso sarebbe
accentuato il tratto sciamanico della figura del poeta, avvezzo a straordinarie
escursioni; nel secondo valorizzata, invece, la sua disposizione al sapere, la
sua aspirazione (θυμός, desiderio) alla verità124, condizione dell'esperienza
di conoscenza annunciata nel poema quanto la successiva rivelazione della Dea.
In ogni caso, l’uso del presente comporta che le «cavalle», soggetto della
relativa, abbiano una relazione non episodica con il poeta-narratore e dunque
siano irriducibili a mero vettore in una esperienza eccezionale, che
continuino, cioè, a operare nella contemporaneità, siano parte di un’esperienza
di verità che possa ripetersi (a cui altri, al limite, possano essere
avviati125). Nel senso allegorico proposto da Coxon126, il poeta è ancora sul
carro, con un viaggio ancora davanti a sé, con le cavalle che continuano a
essere le sue forze motrici: il viaggio diverrebbe allora figura del
conseguimento metodico della filosofia, secondo la lezione ricevuta; le cavalle
figura della forza (θυμός) che lo spinge a filosofare. Nel passaggio al secondo
verso, al contrario, appare chiara l’intenzione di Parmenide di raccontare,
nelle sue sequenze, la vicenda che lo ha visto privilegiato discepolo della
Dea: πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι δαίμονος, ἣ κατὰ † ... †
φέρει εἰδότα φῶτα· 124 Martina Stemich, nella sua ricerca su Eraclito
(Heraklit. Der Werdegang des Weisen, Grüner, Amsterdam 1996, pp. 41 ss.),
rintraccia una precondizione filosofica analoga nel frammento DK 22 B18: «Se
uno non spera, non potrà trovare l’insperabile, perché esso è difficile da
trovare e impervio». 125 In questo senso ingressivo la Stemich (Parmenides’
Einübung in die Seinserkenntnis, cit., pp. 39-40) interpreta l’intera
esperienza del proemio: sebbene il percorso verso la Dea sia già stato
compiuto, esso – in quanto motivo connesso a una trasformazione comprensibile
solo come sviluppo sistematico – diventerebbe emblematico della graduale
approssimazione alla conoscenza ricercata dal filosofo. 126 Coxon, op. cit., p.
14. 277 τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι φέρον ἵπποι ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι
δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον [Le cavalle] mi guidavano, dopo che, conducendomi, mi ebbero
avviato sulla via ricca di canti della divinità che porta † ... † l’uomo
sapiente. Su questa via ero portato, perché su questa via mi portavano molto avvedute
cavalle, trainando il carro: fanciulle mostravano la via (vv. 2- 5). L’uso dei
tempi verbali impone sia la prospettiva dello sviluppo e della continuità
dell’azione nel passato (imperfetto, che, comunque, qualcuno127 interpreta come
“imperfetto storico” traducendolo con il presente), sia quella delle sue
successive e puntuali sequenze compiute (aoristo), rafforzata, nel verso 2,
anche dal ricorso alla congiunzione ἐπεί («dopo che»). L’intero proemio è
costruito intorno a questo ordito temporale che, se valorizziamo l’opposizione
presente-passato, potrebbe alludere – come intendono Mansfeld128 e Ferrari129 -
al presente della condizione sapienziale del poeta, conseguita grazie alla
rivelazione della Dea e dunque giustificata dalla narrazione, dal passato. Nel
presente della performance recitativa il poeta evoca l’avventura della
conoscenza che lo ha visto fortunato protagonista al cospetto della divinità,
del cui dono si propone di far partecipi gli altri mortali: il sapiente, l’uomo
che sa (εἰδὼς φώς), è tale per essere stato guidato, condotto lungo la «via
della divinità» (il genitivo δαίμονος ha valore soggettivo e oggettivo a un
tempo: «della divinità» perché a essa appartiene ovvero a essa conduce); il
canto poetico documenta quel privilegio. Questa prospettiva temporale, che
collegherebbe al presente dei versi 1 e 3 una condizione di conoscenza
giustificata dall'e- 127 Conche, op. cit., p. 44.. 128 J. Mansfeld, Die
Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964,
pp. 228-229. 129 F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco…, cit., cap. VIII
"Il ritorno del «kouros»"; id., Il migliore dei mondi impossibili.
Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Aracne, Roma 2010, capitolo V "Il
ritorno". 278 sperienza (εἰδώς implica etimologicamente l’esperienza
visiva) narrata in quelli successivi 130, può essere messa in discussione
partendo dall’uso che, dell'espressione εἰδὼς φώς, si sarebbe fatto, nella
ritualità misterica, per indicare l’«iniziato» (analogamente, come sappiamo,
potrebbe intendersi anche il ricorso a κοῦρος al v. 24), e che potrebbe dunque
designare una minoranza predisposta, per intelligenza e tirocinio, alla
scoperta della verità131. Il termine εἰδώς si potrebbe allora riferire alla
conoscenza pregressa di Parmenide: in relazione all’obiettivo da raggiungere,
ciò garantirebbe un senso anche a θυμός (v. 1), allo slancio dell’animo del
poeta verso il contatto con la verità. Nulla vieta, tuttavia, di mantenere
distinte le qualità necessarie per accedere alla verità – che il poeta\sapiente
avrebbe evocato con il paradigma iniziatico dell’εἰδὼς φώς – dalla piena
cognizione di essa, disponibile – all’interno del tradizionale modello
oppositivo tra conoscenza umana e conoscenza divina – in virtù dell’eccezionale
prerogativa di una rivelazione divina. In tal caso la condizione che consente
al poeta di annunciare la verità (presente) è conseguita grazie alla
comunicazione divina (passato), in cui si realizza comunque la sua originaria
aspirazione. Accentuando (arbitrariamente) la significazione e composizione
simbolica nel racconto, si potrebbero identificare due movimenti – quello del
poeta sul carro tirato dalle cavalle e quello delle Eliadi che intervengono a
scortarlo presso le divinità – come rievocazione della tensione religiosa del
κοῦρος verso l’esperienza della rivelazione ovvero figurazione della ricerca di
un accesso alla piena conoscenza della realtà. Ancora sul nodo delle divinità
Abbiamo già avuto modo di portare l’attenzione – nell’economia complessiva del
frammento B1 e nello specifico 130 Si tratta appunto della proposta di
Mansfeld, op. cit., pp. 226-7. 131 Cerri, op. cit., pp. 169-170. 279 rilievo
dell'eccezionalità dell'esperienza celebratavi – sul ruolo delle figure divine
proposte nel proemio: (i) l’incarico di direzione, guida e tutela delle Eliadi;
(ii) la funzione di garanzia e sanzione di Dike; (iii) l’ufficio rivelativo
della θεά anonima, rispetto a cui, globalmente, nella vicenda cantata, gli
altri due risultano subordinati. In un contesto già popolato da molte altre
potenziali132 entità divine (Notte, Giorno, Temi, Moira, Verità), il loro
rilievo non può essere meramente narrativo, ma, nell'insieme dell'esperienza
che il poeta intendeva comunicare, doveva probabilmente celare anche una
valenza simbolica. Riprendiamo brevemente la questione. Dike deve essere
persuasa dalle Eliadi ad accondiscendere all’eccezione, proprio per consentire
la rivelazione: la dea è evocata in una mansione che il pensiero arcaico le
riconosce, come «ipostasi mitica della legge della physis» 133, che vincola
elementi e fenomeni nell’equilibrio del tutto. È significativo che anche in
Eraclito essa si esplichi in relazione al movimento solare e in genere alla
regolare alternanza di giorno e notte (che tanto rilievo cosmologico hanno nel
proemio): Ἥλιος γὰρ οὐχ ὑπερβήσεται μέτρα· εἰ δὲ μή, Ἐρινύες μιν Δίκης ἐπίκουροι
ἐξευρήσουσιν le Erinni che troveranno Helios, qualora egli oltrepassi le sue
misure, sono ministre di Dike (DK 22 B94). Incrociando nell’universo mitico la
sua figura con quella delle Eliadi (divinità solari dell'illuminazione)134,
Parmenide si rifaceva al mito di Fetonte, che esse, in una variante della
storia (ripresa in una perduta tragedia eschilea – le Eliadi appunto -, alla
cui rappresentazione a Siracusa Parmenide potrebbe aver presenziato135)
aiutarono nell’impresa di guidare il carro del Sole. Alla luce di 132 Se se ne
accetta la personificazione, giustificata dall’insieme dell’indirizzo e del
tono religioso del poema. 133 Cerri, op. cit., pp. 104-5. 134 Come ricorda Cerri,
op. cit., p. 173. 135 Capizzi, op. cit, p. 52. 280 questa circostanza, che i
versi dell’esordio poetico possono richiamare, Parmenide si proporrebbe come
una sorta di nuovo Fetonte, sebbene, nel suo caso, come ricorda la Dea, il
viaggio proceda (vv. 26-8) sotto buoni auspici136: di questo le Eliadi devono
convincere Dike, perché autorizzi il passaggio lungo la traiettoria solare. Se
accettiamo questo accostamento, la divinità allusa nei vv. 2-3 potrebbe essere
proprio il Sole: il carro su cui viaggia il poeta potrebbe essere allora il
suo, così come la via quella che il Sole percorre, e che conduce ai confini del
mondo. Ma l’associazione tra Eliadi e Dike è evocatrice anche in un’altra
direzione: abbiamo ricordato come, nella cosmologia mitica esiodea ricostruita
puntualmente dalla Pellikaan-Engel, la «dimora della Notte» sia collocata nelle
profondità del Tartaro (il mondo infero), in prossimità dell'accesso all'Ade
(il mondo dei morti), in una regione in cui hanno le loro radici la terra, il
mare, il cielo, abisso senza fine (caos), luogo terrificante anche per gli
dei137. In tale dimora soggiornano alternativamente Notte e Giorno: da essa
muovono e a essa conducono le Eliadi. Esse, uscite dalla porta cosmica del
Giorno e della Notte (su questo punto in Esiodo c'è un'incongruenza: dovrebbero
essere due, collocate alle estremità orientali e occidentali), prelevano
Parmenide (all’alba: si tolgono i veli notturni) e lo guidano alla stessa
porta, alta tra la terra e il cielo, seguendo verso occidente il percorso del
Sole. Al di là c’è il mondo infero: il suo vestibolo è a livello della
superficie terrestre (descrizione omerica), ma immediatamente dopo si spalanca
il baratro immenso. Parmenide ha il privilegio (come iniziato, εἰδὼς φώς) di
varcarne, ancora vivo, la soglia, per attingere la conoscenza: Dike è al suo
posto, nella misura in cui deve giudicare i requisiti; le Eliadi tutelano il
poeta viaggiatore in qualità di patrocinatrici (impiegano parole suasive per
ammansire la inflessibile sorvegliante dei confini)138 . Gli elementi che
abbiamo riassunto suggeriscono che l’eccezionalità dell’impresa cantata
coincida con il massimo pri- 136 Leszl, op. cit., p. 146. 137 Ivi, p. 147. 138
Cerri, op. cit., pp. 106-7. 281 vilegio previsto per un mortale nell’universo
mitico: come Odisseo e Orfeo, al poeta è concesso di accedere (anche se non
forse propriamente “discendere”) all’Ade, per incontrare la divinità che vi è
regina, Persefone. In questo senso, probabilmente, Parmenide insiste
inizialmente sull’uso del presente contrastato da quello del passato: per
marcare lo straordinario esito della sua esperienza, la cui specifica
difficoltà consiste proprio nel ritorno alla luce, tra i vivi, al presente
della condizione umana. Prima di concludere su questo punto, è ancora
necessario chiarire un aspetto. Abbiamo continuato a interpretare il proemio in
un senso prossimo alla sua lettera, come si trattasse del resoconto di un
viaggio dal poeta effettivamente compiuto, rigettando, quindi, le letture
allegoriche secondo il prototipo proposto dallo stesso Sesto Empirico. Questo
non comporta trascurare il valore simbolico delle scelte espressive di
Parmenide, evitare di attendere alle implicazioni che certe immagini o
situazioni concrete dovevano già avere assunto nella attività poetica all’epoca
di Parmenide: la pratica allegorica stava compiendo solo i primi passi, ma è
possibile che il simbolismo avesse un peso nella cultura pitagorica cui si
dovrebbe, secondo alcuni139, ricondurre la formazione di Parmenide. Il
contemporaneo Pindaro, per esempio, nella Olimpica VI, faceva ricorso al motivo
del viaggio con intento manifestamente metaforico, sebbene l’accostamento a
Parmenide risulti difficile (il viaggio di costui appare ben più complesso). In
ogni caso, è forse la natura stessa dell’eccezione evocata a rendere plausibile
un’intenzione simbolica del proemio: l'esperienza liminare (un viaggio oltre i
confini del mondo) compiuta dall'anima del poeta (spiritualmente), prefigurava,
nell'insegnamento della Dea, una vicenda conoscitiva di cui altri avrebbero
potuto fruire. Così, sfruttando al massimo l’incidenza dei dettagli concreti
della scena cosmica, Parmenide avrebbe, con la propria "odissea",
delineato un modello per le avventure dell’anima nel grande mito del Fedro platonico140
. 139 Coxon, op. cit., p. 14. 140 Su questo punto ampia è la convergenza degli
interpreti. 282 La sequenza del racconto e il progressivo (non casuale)
coinvolgimento di quelle divinità fanno comunque apparire poco convincenti le
letture che marcano nel proemio la mera figurazione allegorica di opzioni
gnoseologiche o la semplice legittimazione, in chiave di illuminazione
superiore, di una proposta filosofica. L’autore, invece, proprio attraverso la
narrazione in prima persona del viaggio, ha la possibilità di coinvolgere il
suo pubblico in un'esperienza di trasformazione radicale della persona, che
richiede l’identificazione con il protagonista (donde l’adozione della
prospettiva del viaggiatore)141. È la futura condotta di vita il vero obiettivo
delle istruzioni della dea: il viaggio, in tal senso, sarebbe rappresentazione
di una forma di κάθαρσις142. Lo sciamanesimo di Parmenide potrebbe leggersi in
questa prospettiva: non traduzione poetica di una trance onirica (incubazione),
ma assunzione della pervasività emotivo-esistenziale (forse direttamente
esperita) di quella prova al servizio di uno sforzo di profondo riorientamento
– teorico e pratico – nella realtà quotidiana. Alla concretezza di un fenomeno
culturale (la pratica sciamanica), forse radicato nell’ambiente eleatico143,
Parmenide associa un percorso di conoscenza, proposto esemplarmente ai propri
uditori, in cui la dimensione di estraneazione dalle distorsioni della
quotidianità è funzionale a un processo di trasformazione spirituale e a una
prassi di vita. Il corso delle Eliadi ai limiti del mondo, la sanzione di Dike
e la verità di Persefone scandiscono evidentemente una ricerca destinata a
modificare l’intera personalità: in un contesto in cui il sapere salvifico era
appannaggio di iniziazioni e incubazioni, il filosofo avrebbe così fatto
ricorso, in termini simbolici, all'efficacia coinvolgente (da cui l’attenzione
per alcuni 141 La Robbiano (pp. 65 ss.) dedica ampio spazio a questo punto,
individuando due elementi che, da un lato, favoriscono l’identificazione tra
pubblico e viaggiatore, dall’altro contribuiscono alla costruzione di una nuova
attitudine mentale: (i) la focalizzazione e l’invenzione della autobiografia:
le strategie dell’Io; (ii) il ritratto e le strategie del tu. 142 Coxon (op. cit.,
pp. 15-6) parla di katharsis pitagorica. 143 Come confermerebbero i rilievi di
Kingsley e le osservazioni della Gemelli Marciano. 283 dettagli riconducibili,
secondo Kingsley, all'esperienza dello sciamano) di una forma di ascesi
estatico-religiosa. La rivelazione e il suo programma Con il concorso delle
Eliadi e la condiscendenza di Dike (guadagnata proprio grazie all’intervento
persuasivo delle figlie del Sole), il poeta – superata la porta cosmica in cui
si incontrano i sentieri di Giorno e Notte – giunge infine presso la Dea: che
ella rappresenti la meta degli sforzi sottolineati nei primi 23 versi, è chiaro
nelle parole con cui la stessa θεά accoglie e rincuora («rallegrati!»)
l’attonito visitatore. Esse rivelano come viaggio e accompagnamento non siano
né casuali, né naturali, ma risultato di un disegno: ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα κακὴ
προὔπεμπε νέεσθαι τήνδ΄ ὁδόν - ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν -, ἀλλὰ
Qémij τε Díkh τε Non Moira infausta, infatti, ti spingeva a percorrere questa
via (la quale è in effetti lontana dalla pista degli uomini), ma Temi e Dike
(vv. 26-28). Non è stata la morte, un disgraziato destino, a condurre il poeta
al cospetto della dea infera, per una via ben lungi dai sentieri comunemente
battuti: la rassicurazione divina sottintende che quella distanza dai mortali
sia da considerare un privilegio e non un accidente, e che lo straordinario
incontro non sia da ascrivere tanto all'iniziativa del protagonista (che è
stato piuttosto spinto da Moira) quanto all’eccezionalità della scorta. La
«via» (ὁδός) che gli consente di raggiungere la residenza divina (ἡμέτερον δῶ
«la nostra casa») – probabilmente la stessa ὁδὸς πολύφημος δαίμονος («via ricca
di canti della divinità» vv. 2- 3), lungo la quale le cavalle conducevano il
poeta all’esordio: in 284 ogni caso una strada principale, come chiarisce
l'indicazione κατ΄ ἀμαξιτὸν («lungo la via maestra») – è percorsa sotto l’egida
della giustizia, in compagnia di «immortali guide » (ἀθανάτοισι ἡνιόχοισιν). Le
scelte espressive di Parmenide – il vocativo κοῦρε («giovane») e il nominativo
in funzione vocativa συνάορος («compagno») – apparentemente descrittive della
condizione giovanile del poeta e della sua scorta, potrebbero alludere, in
realtà, alla sua dedizione religiosa, sottolinearne l’iniziazione, e dunque
legittimarne il privilegio. Imparare tutto L’eccezionalità della situazione si
riflette anche nella completa disponibilità della Dea, nella sua accoglienza e
nell’informazione successiva: rilevando didascalicamente - secondo il
tradizionale paradigma144 oppositivo tra conoscenza umana e conoscenza divina -
l’opportunità per il «giovane» di «tutto apprendere» (πάντα πυθέσθαι), ella
propone un programma articolato in due momenti, chiaramente scanditi in greco
(vv. 29-30) dalle congiunzioni ἠμέν …. ἠδὲ («sia … sia»), in conclusione
ulteriormente precisati (v. 31) – ricorrendo alla formula ἀλλ΄ ἔμπης
(congiunzione avversativa + avverbio), da rendere come «nondimeno», «eppure»
«anche così». L’interpretazione di questo passaggio è molto controversa, ma
anche decisiva, dal momento che all'articolazione programmatica presumibilmente
corrisponde poi la struttura del poema (cioè la successiva esplicitazione dei
contenuti della rivelazione), e dunque dall'interpretazione di quella dipende
la comprensione di questo. Il kouros «apprenderà», «imparerà», sarà informato
su tutto: ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ 144 Secondo Cerri (p. 182) la
fraseologia dell’incontro tra il poeta e la dea riprende tipicamente quella
delle scene di incontro tra dei e mortali in Omero. 285 ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς
οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali
le opinioni, in cui non è reale credibilità (vv. 29-30). Si tratta
dell’opposizione fondamentale, che genera tutti i contenuti del poema: il
nucleo essenziale (ἦτορ, «cuore») di Verità (Ἀληθείη), di ogni verità (εὐκυκλέος,
«ben rotonda»), la sua necessità immanente (ἀτρεμὲς ἦτορ, letteralmente «cuore
che non trema»); le incerte «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξαι), che non sono
veramente credibili: esse risultano, letteralmente, inaffidabili, in esse non
risiede πίστις ἀληθής («reale fiducia»). La qualificazione umana delle doxai
giustifica la loro debolezza, assumendo per scontato che la proposta della
Verità sia divina. Il modello è ancora quello di Teogonia vv. 27-28: ἴδμεν
ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι
sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando
vogliamo, il vero cantare, sebbene in Parmenide l'opposizione tra proferire
menzogne (ψεύδεα λέγειν), cioè contraffazioni del genuino stato delle cose, ed
esprimere le cose reali (ἀληθέα γηρύσασθαι) sia rimodulata nella tensione tra
la salda stabilità nella relazione con la realtà («di Verità il cuore fermo»)
illustrata dalla Dea, da un lato, e l'incredibilità dei punti di vista mortali,
dall'altro. Nel poema non vi è propriamente traccia dell'esplicita e secca
contrapposizione verofalso: così l’oscillazione esiodea tra «cose false»
(ψεύδεα) e «cose vere» (ἀληθέα) diventa nel contesto parmenideo opposizione
determinata oggettivamente da una norma (esplicitata in B2). La divinità di
Parmenide è meno volubile delle Muse esiodee: la sua rivelazione è vincolata
alla manifestazione della realtà (Verità) e, conseguentemente, alla denuncia
dell'origine degli sviamenti umani nelle molteplici opinioni. In questo senso,
allora, possiamo leggere la conclusione del programma: 286 ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα
μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Eppure
anche queste cose imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario
fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti (vv. 31-32).
Nell’impegno a tutto insegnare, la Dea non si limita – attraverso
l'illustrazione della norma di verità – a denunciare l’inattendibilità delle
convinzioni umane (come vedremo, rintracciandone la distorsione genetica), ma
intende proporre una ricostruzione affidabile (δοκίμως) della totalità degli
enti che quelle opinioni travisavano. Il ricorso a δοκίμως suggerisce, nel contesto,
l'intenzione della Dea di riconsiderare comunque il materiale delle
inverosimili δόξαι βροτῶν, così da fornirne un quadro attendibile (credibile
alla luce della verità). Possiamo dunque articolare il programma della Dea in
tre momenti145: (i) l’esplicitazione della norma immanente (le «vie di ricerca
per pensare»), dell'intima necessità della verità (B2, B6), con la conseguente
manifestazione della struttura essenziale della realtà (B8); (ii) la denuncia
dell’errore di base delle opinioni dei mortali (B6, B7); (iii) la
riformulazione dei contenuti di quelle opinioni (quindi del mondo della
esperienza umana) conformemente a quella norma (B9 ss.). Tale scansione ha
dunque risconto nella struttura del poema: (a) una prima sezione (primo logos),
indicata convenzionalmente come “Verità” (Ἀλήθεια) dalla formula: πιστὸν λόγον ἠδὲ
νόημα ἀμφὶς ἀληθείης («discorso affidabile e pensiero intorno alla verità»
B8.50-51), in cui, in successione e strettamente connessi, sono affrontati i
momenti (i) e (ii): i principi del corretto ricercare e le origini dell'errore
dei «mortali»; 145 Ruggiu, op. cit., p. 196. 287 (b) una seconda sezione
(secondo logos, considerevolmente più consistente), convenzionalmente nota come
“Opinione” (Δόξα) e nel poema denotata per i suoi contenuti: δόξας βροτείας
(«opinioni mortali»): in essa si concentrava il punto (iii) del programma,
naturalmente più composito (riferendosi al complesso dell'esperienza). Variante
di questa prospettiva di lettura è quella di Coxon146 , secondo cui, invece, Parmenide,
in conclusione di B1, rievocherebbe le posizione espresse da Senofane e
Alcmeone nei passi sopra citati: καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται
εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι
τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται davvero
l'evidente verità nessun uomo conobbe, né mai ci sarà sapiente intorno agli dei
e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora gli capitasse di dire la
verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo saprebbe: opinione è data su
tutte le cose (DK 21 B 34). Ἀλκμαίων Κροτωνιήτης τάδε ἔλεξε Πειρίθου υἱὸς
Βροτίνωι καὶ Λέοντι καὶ Βαθύλλωι· περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν σαφήνειαν μὲν
θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι καὶ τὰ ἑξῆς Alcmeone di Crotone,
figlio di Piritoo, ha detto queste cose a Brotino, Leonte e Batillo: sulle cose
invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in
quanto uomini, è dato solo trovare degli indizi147 (DK 24 B1). 146 Op. cit., p.
169. 147 Dal passo iniziale del frammento vero e proprio (περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ
τῶν θνητῶν) la Gemelli Marciano propone di espungere la virgola, offrendo
quindi la seguente traduzione: «sulle cose invisibili che riguardano i mortali»
("Lire du début…", cit., p. 19). 288 Sarebbe dunque ribadita la
contrapposizione omerica tra incerte convinzioni umane (elaborate
inferenzialmente nel caso di Alcmeone) e conoscenza divina: Parmenide si
limiterebbe semplicemente a riformularla nel senso di un contrasto tra forme cognitive:
una affidabile perché in grado di manifestare il reale, l’altra opinabile e
convenzionale, espressione di meri punti di vista. Solo riconoscendo
l’insufficienza dell'esperienza ordinaria, gli uomini hanno la possibilità
della certezza: ciò che Parmenide avrebbe tentato nella seconda parte del poema
è appunto una ridefinizione del campo delle doxai in termini non
contraddittori. Questa interpretazione si scontra, tuttavia, con una lunga
tradizione che attribuisce valore diverso alle parole della Dea, per lo più
assimilando i punti (ii) e (iii): alla saldezza (razionale) della verità (i),
Parmenide contrapporrebbe l’incertezza (empirica) dell’opinare umano (ii), di
cui offrirebbe comunque, a scopo esemplificativo e\o critico, esposizione (o
ricostruzione) coerente (iii). Leszl 148 ritiene, in effetti, che la
distinzione verità-opinioni, che chiude la comunicazione della dea nel proemio,
corrisponda alla distinzione, enunciata dalle Muse esiodee, tra verità e
falsità: in entrambi i casi le divinità si rivelano in dominio completo
dell’ambito del vero e di quello dell’ingannevole (da Esiodo considerato tale
perché simile al vero), sebbene, a differenza delle Muse che si limitano a
esporre il vero, la dea di Parmenide espone anche ciò che non è vero, nell’intento
di coprire «tutto», di offrire un sapere globale che non ritroviamo in Esiodo.
Lo stesso parallelismo con l’inno alle Muse della Teogonia è sfruttato da
Mansfeld149, il quale riscontra, nel doppio resoconto prospettato dalla Dea,
l’analoga pretesa delle Muse di dire verità e menzogne: in questo modo,
evidentemente, tutto quanto si riferisce all’ambito della doxa è stigmatizzato
come ingannevole, con il risultato paradossale di ridurre proprio la sezione
cosmogonica e teogonica, più vicina al modello divinamente ispirato del poema
148 Op. cit., pp. 153-4. 149 Op. cit., p. 33. 289 esiodeo, a occasione per
repertare gli errori dei mortali (sottolineando come τὰ δοκοῦντα dovrebbero
essere ma non sono150). Non è da escludere, invece, che proprio il secondo
logos rappresentasse il nucleo centrale e originario del progetto di Parmenide,
quello in continuità con la riflessione arcaica περὶ φύσεως (donde la
titolazione tradizionale), di cui la sezione sulla Doxa riprodurrebbe anche la
logica di riduzione di τὰ δοκοῦντα, delle «cose accettate nelle opinioni», a
principi, «forme» (μορφαί) nel lessico parmenideo (B8.53); ma che l’elemento di
originalità (da cui l’attenzione tra gli antichi e la conservazione nelle
testimonianze) fosse costituito dalle premesse ontologiche contenute nel primo
logos, che forniscono la cornice e le condizioni di una coerente enciclopedia
del mondo naturale, denunciando a un tempo le debolezze delle ricostruzioni
alternative151 . 150 Ivi, p. 210. 151 Il dibattito sulla natura della doxa
parmenidea è sterminato: a parte il vecchio aggiornamento di G. Reale a E.
Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I,
Volume III: Eleati, cit., la questione è stata sistematicamente ripresa nello
specifico da P.A. Meijer, Parmenides Beyond the Gates. The Divine Revelation on
Being, Thinking and the Doxa, Brill Academic Publishers, Amsterdam 1997. Molto
utili J. Frere, "Parménide et l'ordre du monde: fr. VIII, 50-61", in
Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. II Problèmes
d'interprétation, Vrin, Paris 1987, pp. 192-212; R. Brague, "La
vraisemblance du faux (Parménide, fr. 1, 31-32)", ivi, pp. 44-68; A.
Nehamas, «Parmenidean Being/Heraclitean Fire» in Presocratic Philosophy, edited
by V. Caston & D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 45-64; H. Granger,
"The Cosmology of Mortals", ivi, pp. 101-116; P. Curd, The Legacy of
Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University
Press, Princeton 1998, cap. III: "Doxa and Deception"; le pagine di
D.W. Graham, Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific
Philosophy, Princeton U.P., Princeton 2006 dedicate all'argomento (pp.
169-184). 290 Opinioni: credibili e non Secondo uno dei più accreditati
studiosi ed editori contemporanei di Parmenide - Cordero152 - la Dea
prospetterebbe, introduttivamente, il contenuto del suo «corso di filosofia»
nell’ambizioso riferimento alla totalità delle cose, precisato in due oggetti
complementari: (i) il «cuore della verità» e (ii) le «opinioni dei mortali». A
completamento del suo programma, ella avrebbe poi illustrato anche un possibile
modello per le «opinioni»: la verità è assente dalle opinioni, ma «riconoscere
che le opinioni non sono vere è vero»153. Ciò che rende, a nostro avviso, implausibile
questa proposta di lettura è soprattutto l’estensione e l’articolazione che
supponiamo il secondo logos dovesse avere, configurandosi come poema
didascalico, manuale o trattato scientifico, a carattere enciclopedico154. È
necessario dunque intendersi preliminarmente sul valore delle opinioni155 . Una
prima indicazione ci giunge dalle testimonianze dei lettori antichi:
Aristotele, per esempio, osserva: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν·
παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν,
καὶ ἄλλο οὐθέν [...] ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν
κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ
δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ
κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν 152 N.-L. Cordero, By
Being, It Is. The Thesis of Parmenides, Parmenides Publishing, Las Vegas 2004,
p. 30. 153 Ivi, p. 32. 154 G. Cerri, «Testimonianze e frammenti di scienza
parmenidea», in Parmenide scienziato?, a cura di L. Rossetti e F. Marcacci,
Academia Verlag, Sankt Augustin 2008, p. 80. 155 Torneremo sull'argomento
commentando l'ultima parte di B8 e i frammenti del "secondo logos".
291 Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia:
ritenendo, infatti, che non esista affatto, oltre all’essere, il non-essere,
egli crede che, di necessità, l’essere sia uno e nient’altro. […] Costretto
tuttavia a tener conto dei fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione,
i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi,
chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo
sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Aristotele, Metafisica I, 5 986
b27 - 987 a1; DK 28 A24). A sua volta, Teofrasto (secondo quanto attestato da
Alessandro di Afrodisia) rileva: Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς.
καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων,
οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον
καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι
τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον
καὶ ποιοῦν. Parmenide figlio di Pyres, da Elea […] percorse entrambe le strade.
Mostra, infatti, che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la
generazione delle cose che sono, non avendo sulle due vie le stesse
convinzioni: piuttosto, secondo verità egli sostiene che il tutto è uno e
ingenerato e di aspetto sferico; secondo l’opinione dei molti, invece, al fine
di spiegare la generazione delle cose che appaiono, pone due principi, fuoco e
terra, l'uno come materia, l'altro invece come causa e agente (DK 28 A7). Il
problema dei due logoi era già delineato come incrocio tra due forme diverse di
esplorazione della realtà, che potremmo sbrigativamente indicare come razionale
ed empirica: la seconda parte del poema avrebbe così riproposto un approccio
alla physis, dai fenomeni ai loro principi, analogo a quello ionico; la prima
292 parte, originale, avrebbe invece introduttivamente messo a fuoco le
implicazioni ontologiche a priori dell’indagine156 . Certamente il programma
della Dea prevede un momento critico, che investe indiscutibilmente le
«opinioni dei mortali», in cui non risiede «reale credibilità»: individuare la
norma di verità comporta necessariamente denunciare l’origine di erronee
convinzioni circa il mondo dell’esperienza, senza escludere tuttavia la
possibilità che la stessa materia sia passibile di una trattazione diversa,
rigorosa e plausibile. Questo il senso della precisazione introdotta dal
restrittivo ἀλλ΄ ἔμπης: tra la saldezza della Verità (illustrazione della
realtà) annunciata dalla Dea e la (contraddittoria, come vedremo) inconsistenza
delle diffuse, illusorie convinzioni umane, si annuncia la possibilità di una
credibile (in quanto coerente con i presupposti che fondano la ricerca)
ricostruzione dei fenomeni. Benché l’intervento divino sia teso a legittimare
la norma di verità (che non può giustificarsi empiricamente), l’impianto
educativo del poema, la scelta del kouros e la sollecitazione critica nei suoi
confronti sembrerebbero autorizzare un'interpretazione positiva dei versi
conclusivi del proemio. Ciò che colpisce, nell’articolazione della lezione
divina, è, in ogni caso, soprattutto il punto (iii) del programma, che risulta
nel contesto meno scontato: comunque si intenda, infatti, la direzione del
viaggio cantato nei versi parmenidei, indiscutibilmente la sua meta è
rappresentata dalla rivelazione divina, che presuppone, con l’esito veritativo,
l’opposizione tra il sapere che la Dea può manifestare e quello che gli esseri
umani possono attingere. Così la compiuta (εὐκυκλέος, «ben rotonda» 157 ),
salda consistenza (ἀτρεμὲς ἦτορ, «cuore fermo») di Verità è (naturalmente e
tradizionalmente) contrapposta alla debole (οὐκ ἀληθής, «non reale 156 Si
tratta di una relazione che potrebbe ancora trovare riscontro
nell’organizzazione del poema Sulla natura di Empedocle, nei cui frammenti (DK
31 B8, 9, 11) troviamo l’eco della ontologia di Parmenide chiaramente saldata
alla prospettiva di una positiva indagine della physis. 157 Per la lettura che
proponiamo, sarebbe più naturale accogliere la variante εὐπειθέος («ben
convincente») della versione di Plutarco, Clemente, Sesto Empirico e Diogene
Laerzio, prevalentemente accolta dagli editori moderni, di cui diamo notizia in
nota al testo greco. 293 [genuina]») «credibilità» (πίστις) riconosciuta alle
βροτῶν δόξαι: «nondimeno», a proposito di queste opinioni, il poeta apprenderà,
dall’istruzione della Dea, anche come «le cose accolte nelle opinioni» (τὰ δοκοῦντα:
il contenuto empirico di tali opinioni) siano da intendere «effettivamente»
(δοκίμως: realmente, genuinamente), considerandole «tutte insieme davvero
esistenti» (διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα), in altre parole riconducendole
rigorosamente alla «via di ricerca» lungo la quale è effettivamente possibile
procedere (B2.3). Senza questa precisazione il percorso formativo destinato al
kouros sarebbe incompleto: la formula (χρεὼ) che lo introduce sottolinea come
esso sia opportuno, adeguato a conseguire una nuova consapevolezza della
realtà158. A tale scopo non è sufficiente (almeno non per la formazione del
kouros) conoscerne l’essenza e dunque prendere coscienza della genesi delle
opinioni erronee: per il poeta, destinato a tornare tra gli uomini e a
rivaleggiare con altri presunti sapienti, è necessario saper affrontare i
contenuti dell’esperienza umana. Non pare – come invece molti sostengono159 -
che la vera novità parmenidea sia rappresentata dal fatto che la Dea offra agli
uomini la possibilità di imparare e la verità e le opinioni, se per doxai si
intendono quelle illusorie dei mortali: esse saranno sbrigativamente liquidate
(B6-7) in conseguenza della enunciazione (B2) dei criteri di verità. Ciò che,
invece, risulta originale nella rivelazione della Dea del poema, a dispetto
della tradizionale frattura tra sapere umano e sapere divino, è l’ardita
combinazione di rigorosa affermazione (B2, B8) di una realtà non immediatamente
manifesta all’esperienza umana, e articolata esposizione di un accettabile
«ordinamento» (διάκοσμος, B8.60) dei fenomeni naturali. La comunicazione
dell’anonima divinità avrebbe insomma abbracciato sia quanto tradizionalmente
considerato appannaggio esclusivo del dio (la verità), sia l’oggetto della
contemporanea ricerca (περὶ φύσεως ἱστορίη): in questo modo, il poema avrebbe
ridefinito, nel suo insieme, il quadro cosmologico (e cosmogonico) della
Teogonia esiodea. 158 Robbiano, op. cit., p. 77. 159 Tra gli altri Robbiano,
op. cit., pp. 51-2. 294 Verità e opinione Sul programma introdotto dalla dea
innominata in conclusione del proemio (vv. 28-32), possiamo ancora osservare
come, a livello espressivo, l’articolazione su cui abbiamo insistito emerga
chiaramente nelle scelte verbali: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος
ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα
μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα. Intanto
risultano essenziali due verbi - πυθέσθαι e μαθήσεαι – il cui valore è quello
di «apprendere per esperienza», «imparare per indagine», ma anche «discernere»:
essi possono veicolare, dunque, sia l’idea di ricettività, sia quella di ricerca,
perfettamente in contesto laddove la docenza (divina: θεά) guida il processo di
apprendimento, marcando a un tempo i temi su cui verterà la lezione impartita (Ἀληθείης
ἦτορ; βροτῶν δόξαι; τὰ δοκοῦντα) e l’urgenza di comprensione da parte
dell’allievo (κοῦρος). La prima formula didattica sottolinea l’opportunità che
«tutto tu apprenda»: come in precedenza rilevato, è netta la costruzione
oppositiva dei vv. 29-30, in cui la saldezza della Verità è contrastata
esplicitamente dalla incertezza delle «opinioni», e la garanzia di verità del
nesso θεά-κοῦρος implicitamente alla inaffidabilità dei «mortali»: la
rivelazione del «cuore fermo di Verità ben rotonda» comporterà la contestazione
della consistenza delle loro convinzioni. La seconda formula introduce gli
ultimi due versi, testualmente molto tormentati: il fatto di ribadire
«imparerai» sembra implicare che questa sezione della lezione divina sia
ulteriore e autonoma rispetto alla prima opposizione (verità e credenza non
vera), sebbene il complemento oggetto - «anche queste cose» - plausibilmente
rinvii al contenuto delle «opinioni dei morta- 295 li»160 e soprattutto sia
evidente il vincolo lessicale rappresentato dalla comune radice (δοκ) di δόξας,
δοκοῦντα e δοκίμως. Come Mourelatos 161 ha chiarito nella sua ricerca, il verbo
δοκέω può significare sia (a) «aspettarsi», «pensare», «supporre», sia (b)
«sembrare», nel senso (i) di «pensare», ma anche (ii) di «apparire»: presenta
dunque a subject-oriented sense e an objectoriented sense. Mentre δόξα e δοκίμως
sarebbero riconducibili al primo valore e alla sua «funzione criteriologica»,
il ricorso al termine δοκοῦντα rivela piuttosto le implicazioni oggettive di
(b), nonostante la derivazione da δοκέω lo renda irriducibile a una «funzione
fenomenologica» (quella dei derivati di φαίνομαι). In δόξα
(opinione-convinzione) e δοκίμως (rendendo l’avverbio come «plausibilmente»)
troveremmo allora coinvolta l’idea di valutazione e accettazione, di
approvazione; di conseguenza in τὰ δοκοῦντα (o τὸ δοκοῦν ὄν, come in Simplicio)
«le cose ritenute accettabili» ovvero «le cose come sono accettate». Ma
l’avverbio δοκίμως è impiegato dal contemporaneo Eschilo con il valore di
«realmente» (Liddell-Scott) e quindi potrebbe a sua volta rinviare
all’accezione oggettiva, a una situazione di fatto, a come stanno
effettivamente le cose (così lo abbiamo inteso nella nostra traduzione). In
ogni caso, le βροτῶν δόξαι - che vengono denunciate come non fededegne - non
rappresentano mere impressioni ma punti di vista assunti, condivisi e diffusi,
con cui ha evidentemente senso ingaggiare polemica: è alla soggettività di tali
punti di vista che viene contrapposta la verità comunicata dalla dea. Gli
ultimi due versi del proemio ritornano sulla materia di quelle confuse
assunzioni, per riproporla in modo adeguato: in questo caso Parmenide impiega
non il termine δόξαι ma τὰ δοκοῦντα: non i punti di vista ma le cose che in
essi sono accolte. A τὰ δοκοῦντα collega la complessa (e testualmente
controversa) espressione participiale διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα, che abbiamo
reso come «tutte insieme davvero esistenti». La scelta appare non 160 In
funzione prolettica, Parmenide avrebbe – di norma - dovuto impiegare τάδε, non
ταῦτα, che sembra invece riferito a quanto precede. 161 Op. cit., pp. 195 ss..
296 quella di ricostruire la genesi dell’errore dei mortali, ovvero quella di
proporne una versione più coerente, piuttosto quella di mostrare come «le cose
accolte nelle opinioni» avrebbero dovuto («era necessario\opportuno», con
possibile valore di irrealtà) essere intese nella loro totalità come ὄντα
(esistenti), in altre parole considerate alla luce della Verità, ovvero come
genuina realtà. La precisazione di Parmenide, con le sue scelte lessicali (δοκοῦντα,
ὄντα), e la struttura del poema, con un secondo logos di natura enciclopedica,
suggeriscono di considerare positivamente il terzo punto del programma della
dea, ben distinto dal secondo (che riceve indiscutibilmente una connotazione
negativa), di cui tuttavia sembra condividere due elementi essenziali: (i) il
contenuto materiale, costituito dalla pluralità delle cose che accogliamo sulla
base della esperienza; (ii) la prospettiva (espressa dall’insistenza sulle
forme in δοκ), il punto di vista mortale, che è appunto quello che passa
attraverso l’esperienza, ma che, non per questo, deve essere giudicato
inaffidabile. La Dea procederà quindi: (i) in primo luogo, a introdurre quella
verità di cui è esplicitamente (e tradizionalmente) garante (B2): si tratta
delle premesse (B2.3, B2.5) da cui è possibile procedere per manifestare la
struttura della realtà (B8); (ii) poi, a stigmatizzare (sbrigativamente), sulla
scorta della forma (logica) di quelle premesse (necessità dell’essere e
impossibilità del non-essere), l'infondatezza dei comuni assunti circa le cose e
il loro divenire; (iii) infine, a illustrare, attraverso una ricostruzione
coerente con i parametri veritativi della Dea, l'«ordine del mondo»
(διάκοσμος), vero obiettivo dell'opera. In questo modo, il poema contiene,
complessivamente, la rivelazione di tutta la Verità: della sua natura
intrinseca («cuore fermo»), fraintesa nel comune, superficiale pregiudizio, e
della sua adeguata applicazione al campo dell’esperienza umana. Parmenide si
riferisce a due ambiti distinti, divino e umano, che nella rivelazione si
sovrappongono: la meditazione della «parola» (μῦθος) della Dea, che segnala la
traccia che conduce ad Ἀληθείη, 297 assicurerà al κοῦρος la consapevolezza
degli errori comuni tra gli uomini e dunque un'avveduta prospettiva sul mondo
della sua esperienza. In questo senso, le due sezioni (Verità e Opinione) hanno
lo stesso oggetto (non potrebbe essere diversamente per la logica del poema):
la realtà, manifestata nella sua unitotalità essenziale dall'intelligenza, e
nella pluralità dei processi naturali dall’esperienza. La scansione di tale
programma nei moduli della tradizionale istruzione poetica è significativa: lo
scarto tra sapere umano e sapere divino, proposto nella cornice
dell'eccezionale tragitto ai limiti del cosmo, dove cielo e terra, notte e giorno,
mondo dei vivi e mondo dei morti si incontrano, è ribadito non solo nella
relazione didascalica tra θεά e κοῦρος, ma anche nella complementarità dei loro
due diversi sguardi sulla realtà. Quello della Dea si rivolge impassibile
(logicamente coerente e inattaccabile) all’essere, alla totalità razionalmente
afferrata nella sua omogeneità e identità ontologica; quello dei mortali è
invece condizionato (e per lo più sviato) dal filtro dell’esperienza. Compito
del poema condannare le distorsioni e produrre – con la lezione divina – una
consapevole mediazione. Per via Prima di concludere l’esame del proemio e dopo
averne considerato gli ultimi versi e il programma contenutovi, è opportuno
ritornare riassumere i nostri risultati. Parmenide compone nei moduli della
tradizione epica, evocandone il rilievo veritativo e educativo e sviluppandone
in particolare il tema del viaggio, centrale non solo per l’epica omerica ma
anche, in generale, per l’esperienza culturale e religiosa arcaica
(sciamanesimo). Modulando tali paradigmi, il poeta insiste sull’eccezionalità
della propria esperienza, sia per gli auspici che ne assicurano lo svolgimento,
sia per la meta oltremondana, sia, infine, per l’incontro con la dea
rivelatrice: ciò comporta, da parte sua, valorizzare, con la lezione divina,
anche il percorso del viag- 298 gio, la «via» (ὁδός πολύφημος δαίμονος) che la
dea innominata ci informa essere «lontana dalla pista degli uomini. A sancire
tale percorso e la legittimità della percorrenza, Parmenide colloca Dike e Temi,
giustizia e norma divina: l’accesso alla verità, dunque, non è casuale,
accidentale, ma risultato di uno slancio educato (il poeta in apertura evoca la
spinta del proprio desiderio, θυμός), forse di una iniziazione (come
rivelerebbe, in particolare, l’uso della espressione εἰδὼς φώς). La lezione
della Dea non si limita a manifestare la Verità (di cui rileva la saldezza, il
nucleo inattaccabile), mediandola a un mortale, ancorché favorito, ma è attenta
anche a dar conto del mondo dell’esperienza, delle «convinzioni» umane, sia per
denunciarne gli stravolgimenti, sia per offrirne un’illustrazione adeguata,
coerente, nei suoi principi esplicativi, con la realtà annunciata (l'essere). I
modelli e i temi interessati suggeriscono che la comunicazione di verità,
certamente centrale nei frammenti disponibili, non fosse fine a se stessa, ma
costituisse l’elemento intorno a cui realizzare un profondo ri-orientamento
della esperienza umana e una radicale ri-determinazione del rapporto tra
soggetto umano e realtà (come cercheremo di dimostrare in B3 e B8)162 . La
formazione alla verità porterà il kouros a vedere il mondo in una prospettiva
lontana dalla quotidianità, ma soprattutto a scegliere diversamente dalla
società163 . 162 Analizzando il valore di ἀλήθεια nella cultura arcaica, la
Stemich (op. cit., pp. 84-6), convinta che in Parmenide non si possa
delimitarne nettamente la prospettiva oggettiva (che insiste sul referente,
sull’entità data al di fuori dell’individuo) da quella soggettiva (come nelle
espressioni dire vero, fare vero, in cui è sottolineata la relazione dell’uomo
alla verità), osserva comunque che Parmenide (come già Eraclito) insista
piuttosto sulla seconda, ovvero sulla condizione che consente all’uomo di
superare il senso comune quotidiano. 163 È significativo che, di recente, oltre
a Martina Stemich anche Chiara Robbiano (op. cit., p. 56) abbia richiamato
l’attenzione su questo punto: la ἀλήθεια rivelata, prioritaria nel programma
educativo della Dea, sarebbe il risultato di un punto di vista (che il kouros
deve maturare), e dunque soggettiva, ma, dal momento che esso svela l’essenza
della realtà, allo stesso tempo oggettiva. In questo senso il poema
riguarderebbe una trasformazione 299 Che si tratti di percorso astrale – quello
solare – che conduce alla porta cosmica, chiave di volta non solo
dell’alternanza giorno-notte ma anche dell’accessibilità al mondo infero,
ovvero di itinerario celeste, verso una trascendenza extra-cosmica (come vuole
Mansfeld), o ancora di discesa verso il mondo infero, il viaggio verso la
divinità è comunque destinato a un impatto che sarebbe riduttivo considerare
esclusivamente sotto il profilo conoscitivo, come per lo più si è fatto nella
tradizione. L’evento è decisivo non solo per quello che consentirà di conoscere
ma per come consentirà di condursi nell’esistenza: questa è forse la ragione
della scelta comunicativa di Parmenide, con le sue potenzialità performative
(la recitazione) e le allusioni a esperienze (rivelazioni, illuminazioni ecc.)
note soprattutto per la loro incidenza esistenziale. Non a caso, dunque, il
poema si apre con riferimenti allo θυμός, all’εἰδὼς φώς, alla accortezza delle
cavalle di scorta, e all’egida divina di Temi e Dike, per procedere
all’incontro con una dea (che potrebbe essere Persefone) la quale introdurrà la
propria rivelazione (B2) con l’evocazione dell’immagine di un bivio, di fronte
al quale il kouros è chiamato a scegliere. del punto di vista tale da investire
non solo l’oggetto della comprensione, ma anche - alla fine del viaggio - il
soggetto ( p. 37). 300 LE VIE E LA VERITÀ [B2] Nonostante i vari problemi di
traduzione e interpretazione suscitati dai versi di B2, con certezza possiamo
asserirne, come nel caso del precedente B1, la collocazione: all’inizio della
prima sezione del poema1 , a ridosso del proemio (se non addirittura in
continuità e contiguità con esso). Possiamo inoltre ragionevolmente ritenere
che B2 costituisca, con i successivi B3, B6, B72 , un blocco argomentativo
continuo: l’introduzione dei presupposti per manifestare (B8) i segni (σήματα),
le proprietà della Realtà concepita come un tutto, ovvero di quanto anticipato
(B1.29) come Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ («di Verità ben rotonda il cuore
fermo»). All’interno di uno schema espositivo che esplicitamente richiama
l’attenzione sul rilievo fondativo dei versi B2.2-8 (la Dea, infatti, marca la
significatività del proprio μῦθος, sollecitando l’interlocutore a prenderne
nota e averne cura), alcuni hanno voluto valorizzare la condizionante presenza
dei principi della logica occidentale3 , altri invece vi hanno colto le
premesse dell'ontologia4 . Dire, ascoltare La continuità con B1 è segnata
proprio dalla modalità direttiva della comunicazione, in cui esortazione e
insegnamento marcano lo scarto tra il ruolo della Dea (ἐγὼν ἐρέω, «io dirò») e
la ricezione (l’ascolto attento) del poeta (κόμισαι δὲ σύ μῦθον, «e tu abbi
cura 1 Ricordiamo che, nella cesura di B8.50-1, la Dea si riferisce a quel che
precede come πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης; B2.4 sembra riferirsi alla
stessa materia con l'espressione Πειθοῦς κέλευθος. 2 Coxon, op. cit., p. 173:
la sequenza proposta è, nella numerazione DK (diversa da quella ricostruita
dall’autore), B2, B3, B6, B4, B7. 3 Per esempio Heitsch in Parmenides, Die
Fragmente, griechisch-deutsch, herausgegeben, übersetzt und erlaütert von Ernst
Heitsch, Sammlung Tusculum, Artemis & Winkler, Zürich 19953 . 4 Per esempio
Leszl, op. cit., p. 85. 301 della parola»), destinata, a sua volta, a
trasformarsi, attraverso il canto, nella mediazione della verità a un
discepolo: il σύ («tu») impiegato dalla divinità è rivolto tanto da questa al
poeta, quanto da questi al proprio ascoltatore. La Dea sottolinea: ti dirò e tu
ascolta e riferisci. Al poeta, giunto alla meta del viaggio (infero), non sono
riservate privilegiate visioni o rivelazioni immediate; lo attendono, invece,
parole, di cui si raccomanda l'ascolto5 . La sua ricerca della Verità dovrà
dunque muovere da esse: parole con cui la Dea non nomina se stessa, non
descrive se stessa o la casa in cui risiede, non designa neppure puntualmente
un soggetto6 . Un solo impegno è stato assunto e quindi fa da sfondo alla sua
parola: «è necessario che tutto tu apprenda» (χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι). Come
sarà sottolineato in altro luogo (B7.5), l’espressione κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας
(«e tu abbi cura della parola una volta ascoltata») certamente sollecita
attenzione per la verità del messaggio (μῦθος), ma implica anche – nella
ricezione\cura - la sua valutazione e trasmissione. Sintomatica nel contesto la
scelta del termine μῦθος, la «parola» divinamente ispirata del poeta, la parola
che veicola, attraverso il poeta, il canto delle Muse, e dunque sancisce, a un
tempo, il vincolo di dipendenza del mortale dall’immortale, ma anche
l’eccezionale rilievo del poeta, la sua peculiare posizione sociale, la sua
σοφίη 7 . 5 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon… cit., pp. 89-90. 6 Ivi,
p. 79. 7 Su questo punto in particolare la Wilkinson (pp. 40 ss.), che richiama
Senofane, DK 21 B2.11-14: ῥώμης γὰρ ἀμείνων ἀνδρῶν ἠδ’ ἵππων ἡμετέρη σοφίη. ἀλλ’
εἰκῆι μάλα τοῦτο νομίζεται, οὐδὲ δίκαιον προκρίνειν ῥώμην τῆς ἀγαθῆς σοφίης
Migliore è infatti della forza di uomini e cavalli la nostra sapienza. Ma si
valuta questo in modo veramente dissennato: e invece non è giusto preferire la
forza alla buona sapienza. Lo stesso Senofane aveva così introdotto la propria
sapienza: 302 Io, tu La polarità comunicativa ἐγώ-σύ introduce anche la
dialettica del testo parmenideo: essa, in effetti, sottolinea l’urgenza di
illustrare la forza persuasiva del messaggio al destinatario (B2.4: Πειθοῦς ἐστι
κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ: «di Persuasione è il percorso - a Verità infatti
si accompagna») e dunque la dimensione argomentativa (che si impone soprattutto
in B8). A dispetto del tono e della situazione solenni, è progressivamente sul
piano della (co)stringente discussione (ἔλεγχος) che si sviluppa la rivelazione
della Dea, quasi assumendo il «tu» come muto interlocutore, di cui B8
sembrerebbe confutare il punto di vista ordinario. In questa prospettiva, la
dialettica comunicativa esprime l’intenzione educativa anche nella forma di una
lezione sull’uso degli strumenti razionali. B2 proporrebbe allora, in modo
originale, le premesse di base della successiva trattazione: Mansfeld, in
particolare, ha sostenuto che il ruolo condizionante della divinità e della sua
rivelazione si manifesterebbe nei due passaggi introdotti dalle forme verbali
in prima persona8 , negli asserti imposti dall’autorità di ἐγώ («io»): εἰ δ΄ ἄγ΄
ἐγὼν ἐρέω […] Orsù, io dirò (B2.1a) χρὴ δὲ πρῶτον μὲν θεὸν ὑμνεῖν εὔφρονας ἄνδρας
εὐφήμοις μύθοις καὶ καθαροῖσι λόγοις bisogna che in primo luogo celebrino il
dio uomini assennati, con racconti adeguati e puri discorsi (B1.13-14); e: ἀνδρῶν
δ’ αἰνεῖν τοῦτον ὃς ἐσθλὰ πιὼν ἀναφαίνει, ὥς οἱ μνημοσύνη καὶ τόνος ἀμφ’ ἀρετῆς
da lodare, poi, tra gli uomini, colui che, bevendo, pronuncia belle parole,
conformemente a memoria e aspirazione alla virtù (B1.20-1). 8 Op. cit., pp.
61-2. 303 τὴν δή τοι φράζω Proprio questa ti dichiaro (B2.6a). Il primo momento
coinciderebbe con l’enunciazione (B2.2) delle «uniche vie di ricerca per
pensare» (solo A e B sono «per pensare», A e B sono immediatamente
incompatibili), in questi termini (letterali): ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι
μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) […] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν
τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere
(B2.5). Il secondo con l’asserzione dell'impercorribilità della seconda via: τὴν
δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν Proprio questa ti dichiaro essere
sentiero del tutto privo di informazioni (B2.6). Che (i) «è» e «non è»
rappresentino alternative incompatibili e che (ii) τό μὴ ἐὸν non sia
effettivamente disponibile per un'autentica ricerca, costituirebbero le matrici
(garantite dall'iniziativa divina) della successiva discussione, come
evidenziato dall'invito all’ascolto9 : il poeta paleserebbe in questo modo sia
il proprio proposito argomentativo sia la consapevolezza del suo articolarsi.
Anche non condividendo la tesi di Mansfeld, appare comunque indiscutibile
l’intenzione di Parmenide di sfruttare la presenza della Dea per muovere da una
verità fondamentale. Altri, invece, riconoscendo l’uso didascalico del mito, vi
hanno colto la rivendicazione di una verità indiscutibile (che non è mera
opinione umana) 10 , ovvero l’espressione della matura consapevolezza
dell’oggetto e dei mezzi propri della filosofia11: non sarebbe stato 9 Ivi, p.
86. 10 Conche, op. cit., pp. 79-80. 11 La tesi secondo cui Parmenide sarebbe il
primo filosofo ad argomentare, a dare ragioni a supporto della propria
posizione, a elaborare consapevolmente 304 più sufficiente enunciare la verità;
era necessario assicurarla con la costrizione del logos. Forse, più
semplicemente, per il sapiente-poeta, che componeva all'interno di una cultura
in cui, in un modo o nell'altro, ogni sapere era radicato nella sfera della
comunicazione divina12, era scontato rispettare la convenzione e fondare le
premesse dei propri argomenti sulla parola della Dea. Uniche vie di ricerca per
pensare All'esortazione di apertura che l’«io» della Dea rivolge al «tu» del
poeta (v. 1), invitandolo ad «aver cura di» (κόμισαι) – ovvero «prender nota,
meditare e trasmettere» – quanto ella sta per rivelare, fa immediatamente
seguito (v. 2), sintatticamente retto dall’impegnativa espressione omerica ἐρέω
(«dirò, proclamerò»), la prima indicazione concreta sul contenuto della
rivelazione: αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι che abbiamo reso come:
quali sono le uniche vie di ricerca per pensare. Il verso presenta alcune
difficoltà, non indifferenti per l'interpretazione relativa e complessiva.
Quale valore riconoscere a ὁδοὶ διζήσιός? Quale a μοῦναι? Come rendere εἰσι?
Come νοῆσαι? La Dea, riferendosi a ὁδοὶ διζήσιός, ritorna (dopo averlo già
fatto in B1.2, B1.5 e soprattutto B1.26-7) sul tema della via, impiegando
un'espressione di nuovo conio, che rientra tuttavia a pieno titolo nel motivo
omerico del viaggio13. Il termine parmeni- il proprio ragionamento con metodo,
è di Cordero (By Being, It Is, cit., p. 38). 12 Su questo aspetto della cultura
greca, è interessante la messa a fuoco di L. Brisson, "Mito e
sapere", in Il sapere greco. Dizionario critico, a cura di J. Brunschwig e
G.E.R. Lloyd, vol. I, Einaudi, Torino 2005, pp. 49-62. 13 Mourelatos, op. cit.,
p. 67. 305 deo δίζησις è infatti di derivazione epica, essendo δίζημαι
utilizzato in Omero per «ricercare persone o animali perduti» ovvero nel senso
lato di «concepire»: esso implica desiderio del e interesse nell’oggetto
ricercato (la cui esistenza quindi non sarebbe in discussione). La formula ὁδοὶ
διζήσιός alluderebbe allora a un investigare impegnato a raccogliere
informazioni che conducano all’oggetto desiderato. È significativo che il
contemporaneo Eraclito usi δίζημαι nel senso di ricercare in profondità: χρυσὸν
γὰρ οἱ διζήμενοι γῆν πολλὴν ὀρύσσουσι καὶ εὑρίσκουσιν ὀλίγον Quelli che cercano
oro rivoltano molta terra, ma trovano poco [oro] (DK 22 B22), marcando la
propria direzione d’indagine verso quanto nascosto e inaccessibile ai più: la
ricerca della φύσις, in contrapposizione alla πολυμαθία di poeti e sapienti
tradizionali. Eraclito, tuttavia, sottopone il verbo a un’ulteriore, originale,
torsione: ἐδιζησάμην ἐμεωυτό ho indagato me stesso (DK 22 B101), che
Mourelatos14 legge in relazione a: ψυχῆς πείρατα ἰὼν οὐκ ἂν ἐξεύροιο, πᾶσαν ἐπιπορευόμενος
ὁδόν· οὕτω βαθὺν λόγον ἔχει i limiti dell’anima non potrai mai trovarli,
sebbene tu ti spinga per tutte le strade: tanto profondo è il suo logos (DK 22
B45). L’uso arcaico di δίζημαι sottolinea, insomma, il fatto che si ricerca
intorno a qualcosa che non è manifesto o accessibile fin dall’inizio. In questo
senso il nesso stabilito nei versi 3-4 tra la prima ὁδός e Ἀληθείη: 14
Mourelatos, op. cit., p. 68. 306 Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ di
Persuasione è il percorso - a Verità infatti si accompagna. È necessario un
percorso di ricerca per appalesare quanto è immediatamente nascosto: la via
conduce alla scoperta della realtà, e in questo senso alla «verità». La verità
richiede dunque una specifica ricerca: solo seguendo una «pista» (termini come
πάτος, κέλευθος, ἀταρπός sono ricorrenti nei primi due frammenti) non casuale è
possibile cogliere ciò che è genuinamente reale. Parmenide sceglie di ricorrere
all'espressione «vie di ricerca» proprio per dare risalto al fatto che esse
hanno come obiettivo essenziale la realtà (verità)15 . La Dea proclama dunque
solennemente: αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι (letteralmente: quali vie
uniche di ricerca sono per pensare). La costruzione greca ha autorizzato sia
(i) la lettura che insiste sulla concepibilità delle vie (εἰσι νοῆσαι in senso
potenziale, da rendere come: «sono possibili da pensare», «possono essere
pensate», «sono pensabili/concepibili»), sia (ii) quella che, come pare corretto
nel contesto, facendo leva (a) sul valore finaleconsecutivo dell’infinito, (b)
sul suo nesso con μοῦναι, e (c) sulla successiva determinazione delle ὁδοί con
formule introdotte da ὅπως e ὡς, esprime il lato attivo del pensare (dunque:
«quali sono le uniche vie per pensare»), introducendo due modi di pensare
(«pensare che...»). Qualcuno16 ha ipotizzato che Parmenide intendesse evocare
entrambi i valori, intenzionalmente giocando sull’ambiguità (in analogia con le
modalità di comunicazione del contemporaneo Eraclito): una chiave
interpretativa che potrebbe applicarsi ad altri passaggi del testo. 15 Leszl,
op. cit., p. 124. 16 Robbiano, op. cit., pp. 81-2. 307 Ma il testo pone anche
il problema della resa di νοῆσαι: generico «pensare», o, secondo l’uso arcaico,
«apprendere, conoscere»17? La traduzione in questo caso impone un'opzione
interpretativa: «pensare» rischia di risultare troppo indefinito rispetto
all'unicità conclamata delle vie, consentendo, per esempio, di ammettere, oltre
alle razionalmente legittime, anche «le vie dell’irrazionale» (illuminazioni,
rivelazioni, ispirazioni ecc.), illegittime agli occhi della ragione18, come in
effetti alcuni frammenti del poema (soprattutto B6 e B7) sembrano suggerire.
D’altra parte, si potrebbe obiettare che, rendendo in senso forte νοεῖν con
«apprendere\conoscere», come pur giustificato dalla conclusione del proemio19,
risulterebbe poi problematica la comprensione della via introdotta in B2.5
(letteralmente): ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι che non è e che è
necessario non essere. Di essa, in effetti, la Dea si affretta subito a
osservare: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ
ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· Proprio questa di dichiaro essere sentiero
del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è
(non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.6-8); sottolineatura
ripresa e accentuata ancora in B8.17-8: ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός
17 Mourelatos, op. cit., p. 70. Tra gli editori contemporanei, anche Heitsch
opta per erkennen. Per una discussione aggiornata si veda ora Palmer, op. cit.,
pp. 69 ss.. 18 Come nel caso di Conche, op. cit., p. 77. 19 Ch.H. Kahn, “The
Thesis of Parmenides”, in Id., Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009, pp.
146-147. 308 impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina).
Eppure è proprio questa difficoltà a risultare illuminante rispetto alla natura
e alla funzione delle «uniche vie di ricerca per pensare» (ὁδοί μοῦναι διζήσιός
νοῆσαι): solo la nozione di νοεῖν come pensare del tutto intellettuale, capace
di prescindere dalle sembianze sensibili e afferrare ciò che è realmente dato,
appare in grado di giustificare l'alternativa (ἡ μὲν... ἡ δὲ...) prospettata
nei versi B2.3 e B2.5. Intendendo νοεῖν come un «pensare» generico, si può
ridurre il paradosso di una «via di ricerca per pensare» connotata come
«sentiero del tutto privo di informazioni» (παναπευθέα ἀταρπόν) e, addirittura,
come «impensabile e inesprimibile (ἀνόητον ἀνώνυμον), ricorrendo alla
distinzione tra la sua prospettazione a priori e l'effettiva (a posteriori) sua
praticabilità. Crediamo, tuttavia, che sia solo la comprensione di νοεῖν
secondo la prospettiva omerica (improntata all'analogia con il vedere) di una
relazione percettiva immediata con l'oggetto20, a dare senso alla disgiunzione
«è»-«non è»: essa allora esprimerà, per quella funzione ricettiva,
l'alternativa radicale tra necessità di rivolgersi a una realtà che è, e
impossibilità di afferrare ciò che non è. La Dea annuncia nel contesto quali
siano le «uniche vie di ricerca per pensare»: tre sono gli elementi da
considerare: (i) la ricerca (δίζησις), (ii) i percorsi lungo per cui essa si
sviluppa, (iii) la finalità che essa intende realizzare, designata dall'infinito
aoristo νοῆσαι: «pensare», svelare la realtà (verità), ovvero, come suggerisce
Palmer21, «comprendere», «giungere a comprensione». Il contesto di B2
suggerisce palesemente anche l'obiettivo conclusivo delle ricerca, che traduce
in risultato la finalità dell'unico effettivo percorso di ricerca: come abbiamo
già osservato, della prima via di ricerca (ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι)
la Dea sottolinea che (a) è «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), 20
Germani, op. cit., p. 189. 21 Op. cit., pp. 72-3. 309 in quanto (b) «attende
alla Verità» (Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ). L'apertura di B6 preciserà (letteralmente): χρὴ
τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι è necessario il dire e il pensare che ciò che
è è, fissando quindi in quanto espresso da ἐόν l'oggetto specifico di
comprensione. D'altra parte, le «vie» annunciate sono «uniche» (μοῦναι) in
forza di ciò che esse si propongono di pensare: in B8.16 sinteticamente
proposto come ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν («è o non è»), esso è in B2 rinforzato da due
formule modali: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che
non è [possibile] non essere (B2.3) […] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι
μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5). Lungo la prima
via (per pensare), la ricerca si sviluppa riflettendo a partire dall'immediata
evidenza: «è» (ἔστιν), rimanendo saldamente sul terreno dell'«essere»
(escludendo cioè la possibilità del «non-essere»). La seconda modalità, invece,
prospetta una ricerca che si svolga a partire dalla negazione di quella
evidenza: «non è» (οὐκ ἔστιν), pretendendo di svilupparsi conseguentemente sul
terreno del «non essere». Delineata come alternativa alla precedente, essa si
rivela di fatto impercorribile, dal momento che il pensiero non avrebbe
alcunché da afferrarvi e manifestarvi: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν·
οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις Proprio questa
ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non
potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti
indicarlo. 310 Per pensare Prima di procedere alla determinazione delle «vie»,
è opportuno, tuttavia, in relazione al verso 2, soffermarsi ancora sulle
implicazioni dell’annuncio della Dea: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω [...] αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι
διζήσιός εἰσι νοῆσαι. Comunque si valutino queste parole, è evidente come in
esse Parmenide anticipi il senso di un messaggio (divino) che investe
indiscutibilmente la dimensione cognitiva del νοεῖν: si tratterà di riassumere,
nella schematica astrazione di due forme («vie»), le modalità di fondo del
«ricercare», del portare a conoscenza22, discriminandole rispetto all'ampia
fenomenologia di tentativi e sviamenti «mortali» (le δόξαι βροτῶν). Se si può
riconoscere alla narrazione del proemio anche un'intenzione simbolica,
ricordiamo come la θεά, accogliendo il κοῦρος, rilevasse (B1.27): τήνδ΄ ὁδόν
[...] γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν. Il filo che lega l’esordio della
comunicazione della θεά (B1.24 ss.) alla rivelazione di B2 è costituito dal
tema della ὁδός: la Dea dapprima (B1.27) – con riferimento alla via che, grazie
all’intervento di eccezionali coadiutrici, ha condotto al suo cospetto -
segnala come essa sia «lontana dalla pista degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς
πάτου); in B2 ella ne rievoca il tema nelle ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός, precisando in
modo rigoroso i criteri per valutare la fondatezza di ogni punto di vista. In
gioco è esplicitamente (B1.29) la Verità: (i) nella sua “essenza” (Ἀληθείης εὐκυκλέος
ἀτρεμὲς ἦτορ); (ii) nella sua manifestazione 22 Come ricordato in nota al
testo, Kahn (Ch.H. Kahn, “The Thesis of Parmenides”, cit., p. 147) ha sostenuto
che δίζησις costituirebbe «equivalente poetico» del termine ionico ἱστορίη
(«ricerca scientifica»). 311 all’esperienza umana (τὰ δοκοῦντα); (iii) nella
sua diffusa distorsione (βροτῶν δόξαι). La realtà da scoprire (Verità) rimane,
in effetti, al centro anche di B2, come abbiamo in precedenza sottolineato a
proposito della espressione δίζησις e della sua derivazione dall’omerico
δίζημαι, alimentando un possibile ulteriore paradosso. Secondo una corrente
interpretazione dei primi versi del proemio, la Dea è stata raggiunta a
conclusione di un viaggio lungo la «strada ricca di canti» (ἐς ὁδὸν πολύφημον)
che conduce «l’uomo che sa»: ella rivela di non essere la fonte diretta da cui
attingere la Verità; suo compito è solo quello di indicare il (nuovo) percorso
per conseguirla23. È questo decentramento della verità dalla Dea che
giustifica, per esempio, la lezione di Untersteiner, il quale fa coincidere la
verità con la via stessa. In ogni caso, nell’economia complessiva del testo, il
riferimento al νοεῖν – del poeta e del lettore\ascoltatore – è essenziale per
coglierne l’intenzione pedagogica. Il discorso si snoderà a partire dalla
comprensione delle implicazioni di due enunciati divini, insistendo sulla
centralità della relazione tra νοεῖν e εἶναι: tale comprensione risulterà
ugualmente vincolante per la Dea e per i «mortali» (manifestando un decisivo,
comune denominatore razionale): (i) legittimando, da un lato, il taglio
argomentativo di alcuni dei frammenti della prima sezione (segnatamente B8,
parzialmente B6) e l’ἔλεγχος adottato dalla divina interlocutrice per istruire
il κοῦρος; (ii) contribuendo dall’altro a determinare l’oggetto intorno a cui
verte il discorso, indicato dallo stesso Parmenide (nella formula più astratta)
come τὸ ἐόν. Le «vie» e i loro problemi: natura e articolazione della ricerca
Le «uniche vie di ricerca per pensare», come abbiamo visto, sono proposte
letteralmente come: 23 Ruggiu, op. cit., p. 211. 312 ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς
οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς
οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario
non essere (B2.5) ovvero, volendo risolvere le infinitive in una soggettive
esplicite (come appare più naturale): l’una che è e che non è possibile che non
sia l’altra che non è e che è necessario che non sia. La nostra preferenza per
la resa infinitiva è legata alla possibilità di rimanere più aderenti alla
costruzione greca e soprattutto di sfruttarne gioco espressivo e ambiguità. In
apparenza, l’alternativa (ἡ μὲν... ἡ δὲ...) reitera – pur senza
sovrapposizione, come vedremo - lo schema oppositivo già impiegato dalla Dea
nella propria allocuzione di saluto, quando aveva sottolineato al κοῦρος
l’esigenza di «tutto» apprendere: ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν
δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia
dei mortali le opinioni, in cui non è vera credibilità (B1.29-30). L'una -
l’altra Ammettendo la sostanziale continuità tra B1 e B2, le due opposizioni,
cariche di significato in forza delle reciproche introduzioni (nel primo caso -
B1.28 – l’urgenza di χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι; nel secondo l’interrogativo
implicito in αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι), appaiono evidentemente
collegate, 313 anche se non (come vorrebbe qualcuno24) nel senso di una
puntuale correlazione. Nel caso di B2, l’opposizione emerge non solo, sul piano
espressivo, nella scelta della costruzione (ἡ μὲν ὅπως ... ἡ δ΄ ὡς), ma
soprattutto, sul piano logico, nella peculiare costruzione degli enunciati, che
possiamo rispettivamente articolare nei due emistichi dei versi 3 e 5, quindi: ἡ
μὲν ὅπως ἔστιν […] (B2.3a) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν […] (B2.5a) καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι
(B2.3b) καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5b). Letteralmente dovremmo tradurre,
attribuendo (come prevalentemente si fa) a ὅπως e ὡς il valore di congiunzioni
(subordinanti) dichiarative (sottintendendo, dunque «che dice» ovvero «che
pensa»): l’una [che pensa] che «è»25 […] (B2.3a) l’altra [che pensa] che «non
è» […] (B2.5a), e che «non è [possibile] non essere» (B2.3b) e che «è
necessario non essere» (B2.5b). L'alternativa più credibile a questa
costruzione dichiarativa non pare tanto quella avverbiale discussa da
Mourelatos26: l’una come è e come non sia non essere l’altra come non è e come
sia necessario non essere, 24 In modo coerente per esempio Cordero. 25 Il
virgolettato vuol sottolineare il contenuto dichiarato. 26 Op. cit., pp. 49.51.
Untersteiner rende in modo apparentemente analogo, ma in realtà con valore
interrogativo: «come una esista e che non è possibile che non esista» (p.
LXXXVI). 314 quanto quella proposta da Ferrari27, almeno per quel che concerne
la resa di ὅπως e ὡς con «secondo cui», che ben suggerisce l'idea delle diverse
prospettive di ricerca. Il rilievo oppositivo delle «vie» può essere rafforzato
se – come è possibile e per certi versi naturale nel contesto – B2.3b (καὶ ὡς οὐκ
ἔστι μὴ εἶναι) è reso con espressione modale; avremmo così: e che: «non è
possibile non essere» [ovvero: che non sia] (B2.3b) e che: «è necessario non
essere» [ovvero: che non sia] (B2.5b). In questo caso, sarebbe evidente come
Parmenide abbia deliberatamente costruito le «vie di ricerca» facendo leva
sulle opposizioni «è» – «non è» e «non è [possibile] non essere» - «è
necessario non essere»: la Dea – per acclarare αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι
νοῆσαι - ricorre a due formule coordinate 28 : (i) «[pensare] che A e che B» per
la prima via; (ii) «[pensare] che non-A e che non-B» per la seconda. In greco
abbiamo: A = ἔστιν; non-A = οὐκ ἔστιν; B = οὐκ ἔστι μὴ εἶναι; non-B = χρεών ἐστι
μὴ εἶναι. Nello schema che così si delinea, da un punto di vista logico «non-B»
dovrebbe corrispondere alla negazione di «non è possibile non essere» e dunque
a «è possibile non essere», non a «è necessario non essere». In questo senso, è
stato giustamente osservato (Kahn, Mourelatos, Lloyd, Leszl) che, alla luce
della posteriore logica aristotelica, gli enunciati 2.3a e 2.5a sarebbero
effettivamente contraddittori29, mentre gli enunciati 2.3b e 2.5b (costruiti
sulla opposizione «non è possibile...»-«è necessario...») solo contrari30, e
che dunque la formulazione alternativa non sarebbe esaustiva. Eppure
nell'insieme appare chiara (Aubenque, 27 Il migliore dei mondi impossibili,
cit., pp. 135 ss.. 28 Proposta da Cordero, By Being, It Is…, cit., p. 43. 29
Ammettendo, ovviamente, l'identità di soggetto: uno necessariamente vero,
l’altro necessariamente falso. 30 Non potrebbero essere, quindi, veri entrambi,
ma potrebbero essere entrambi falsi. 315 Heitsch) l’intenzione di Parmenide di
esprimersi attraverso alternative esclusive (quindi in termini di espressioni
incompatibili)31 . In questo senso la nostra scelta di rendere il testo greco
con subordinate implicite: l’una: è e non è possibile non essere l’altra: non è
ed è necessario non essere, quasi la Dea puntasse ad associare all’immediato
rilievo dello stato d’essere (ἔστιν) la forma infinitiva32 («essere»), in altre
parole ad anticipare, nel gioco verbale, i due oggetti al centro della disamina
(B3, B4, B6, B7, B8): ἐόν, τό ἐὸν, τό μὴ ἐὸν. Una volta delineata la
formulazione oppositiva delle vie d’indagine, due questioni delicate (da un
punto di vista interpretativo complessivo) si impongono: a chi o che cosa si
riferiscono affermazione e negazione (quale il loro soggetto)? Quale valore
(esistenziale, copulativo, veritativo) attribuire al verbo «essere»? È - non è
Il primo interrogativo è ovviamente suscitato dall'assenza, in greco, di un
soggetto per ἔστιν-οὐκ ἔστιν: dal momento che le principali lingue moderne
richiedono che esso sia in qualche modo esplicitato, la traduzione del testo ha
sopportato svariati tentativi di completamento: dalla scelta dell'assoluta
indeterminatezza33, a quella della forma impersonale34, dal ricorso a pronomi35
31 Si veda la discussione in Cordero, op. cit., p. 71. 32 Heitsch rende ancora
più esplicitamente questa situazione: Der eine, (der da lautet) «es ist, und
Sein ist notwendig» Der andere, (der da lautet) «es ist nicht, und Nicht-Sein
ist notwendig». 33 Tipicamente Calogero. 34 Fränkel. 35 Si tratta della
soluzione più frequente. 316 (it, es, on), sostantivi (l’essere36, la via37, la
Verità38, il mondo reale39, il corpo40), all'uso di intere formule sottintese -
«whatever can be thought and talked about»41 (come viene da alcuni tradotto il
primo emistichio di B6.1), «whatever we inquire into»42 . Da un punto di vista
filologico l’ipotesi di una lacuna relativa al soggetto - azzardata per esempio
da Cornford43 e Loenen44, i quali propongono rispettivamente ἐόν (l'essere) e
τι (qualcosa) – appare forzata: i codici conservati di Proclo e Simplicio,
infatti, presentano lo stesso identico testo45 e l’operazione sul verso risponde
quindi a un'esigenza essenzialmente interpretativa. Parmenide, evidentemente,
ha scelto di esprimere i suoi enunciati in questo passaggio del poema senza un
soggetto esplicito. Può essere in questo senso provocatorio il suggerimento
della Wilkinson, la quale, in considerazione della naturale destinazione
recitativa del poema, considera l’assenza di un soggetto definito per ἔστιν
come una modalità intenzionale per esaltarne, nella ripetizione, la formula: la
sua rarità nella poesia arcaica fa supporre che per l’audience di Parmenide il
termine (soprattutto senza soggetto o come soggetto esso stesso) fosse una
novità46 . D’altra parte, l’esame del frammento consente di individuare un
soggetto implicito: la stessa logica di costruzione delle «vie» comporta,
infatti, che, nel momento stesso in cui la Dea sottolinea: 36 Tipicamente
Cornford. 37 Untesteiner. 38 Verdenius. 39 Casertano. 40 Burnet. 41 Russell,
Owen. 42 Barnes. 43 F.M. Cornford, Plato and Parmenides, Routledge & Kegan
Paul, London 1939. 44 J.H.M.M. Loenen, Parmenides, Melissus, Gorgias: A
Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorcum, Assen 1959. 45 Come osserva
Cordero (By Being, It is…, cit., p. 37), è curioso che le citazioni di questi
versi (in Proclo e Simplicio) siano posteriori al poema di un millennio. 46
Wilkinson, op. cit., pp. 93 ss.. 317 οὔτε … ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν
- οὔτε φράσαις non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa
fattibile), né potresti indicarlo (B2.7-8), conoscibilità ed esprimibilità – negate
a τό μὴ ἐὸν - debbano essere riferite a un ancora implicito [τὸ] ἐόν 47, come
chiarito in B6.1-2a (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι
γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν è necessario il dire e il pensare che ciò che è
è; è infatti [possibile] essere, [il] nulla, invece, non è. Se è vero, come
segnala Coxon48, che l’omissione del pronome indefinito (denotante «la cosa in
questione») come soggetto è ampiamente diffusa nell’epica e nel greco
posteriore, nel contesto dell’attuale B2, in altre parole all’esordio della
comunicazione divina, è tuttavia assai probabile che Parmenide rinunciasse
intenzionalmente al soggetto (per altro non immediatamente desumibile e quindi
difficile da sottintendere per l’ascoltatore), insistendo piuttosto sull’impatto
espressivo dell’intreccio oppositivo ἔστινοὐκ ἔστιν (con relative formule
modali), per (i) catturare progressivamente l’attenzione dell’ascoltatore e
(ii) coinvolgerne l’impegno intellettuale, lungo le due vie delineate,
nell’enucleazione della verità. Saremmo, in questo senso, in presenza di
un’ambiguità ricercata a scopo pedagogico. Se, come per lo più si conviene,
l’ordinamento DK dei frammenti della prima parte del poema è relativamente
plausibile, allora, da B2 a B8, assisteremmo a una graduale manifestazione del
47 Questo rilievo in R. Mondolfo, “Discussioni su un testo parmenideo (fr. 8.5-
6)”, «Rivista critica di storia della filosofia», 19 (1964), p. 311. Si veda
anche Coxon, op. cit., p. 177. 48 Op. cit., p. 175. 318 soggetto sottinteso49
in B2.3: dalla pura affermazione «ἔστιν» si passerebbe, in B6.1, a un soggetto
(ἐόν) sotto forma di participio ricavato dallo stesso verbo εἶναι, determinato
poi, in B.8, come vera e propria nozione (τὸ ἐόν), con relative proprietà50 .
La scelta espressiva di Parmenide (rinunciare a un esplicito soggetto per ἔστιν-οὐκ
ἔστιν) – che imbarazza il traduttore moderno, spesso costretto a ricorrere al
pronome neutro come mero soggetto grammaticale51 - ha l’effetto di porre in
risalto nei versi (per il lettore), ovvero nella recitazione (per
l’ascoltatore) l’assolutezza di ἔστιν (οὐκ ἔστιν) 52 , una ricorrenza
insistente nel poema53. L'«impertinenza linguistica» di Parmenide54 si sarebbe
concentrata deliberatamente su una forma verbale esposta all’ambiguità, per la
rottura dello schema sintattico soggettopredicato verbale, e l’uso (di
conseguenza incondizionato) della terza persona singolare indicativa (ἔστιν).
Con l’effetto di richiamare l’attenzione sull’esperienza del reale55 implicita
nel linguaggio ordinario: l'evidenza del puro fatto d’essere56. Come verbo
assoluto, senza vincoli grammaticali e logici (soggetto, predicato), ἔστιν
esprimerebbe immediatamente lo «stato puro»57 della realtà, 49 Su questa
proposta convengono alcuni recenti interpreti: Couloubaritsis, Cassin,
Aubenque, Ruggiu. 50 O’Brien, op. cit., p. 164. 51 Che preannuncia il vero
(reale) soggetto: Conche, op. cit., p. 79. 52 Grazie al supporto delle formule
modali οὐκ ἔστι μὴ εἶναι e χρεών ἐστι μὴ εἶναι. 53 Su questo aspetto, in
particolare, Wilkinson, op. cit., p. 94. 54 P. Thanassas, Parmenides, Cosmos,
and Being. A Philosophical Interpretation, Marquette University Press,
Milwaukee (Wisconsin USA) 2007, p. 35: l’enfasi sull’«è» sorgerebbe da una
certa awareness of language, e sarebbe in realtà funzionale al rilievo delle
implicazioni dell’uso pre-filosofico del verbo «essere». 55 R. Di Giuseppe, Le
Voyage de Parménide, cit., p. 89. 56 Convincente per questo aspetto la lettura
di Cordero, By Being, It Is, cit., pp. 61 ss.. Va per altro osservato come
Parmenide coniughi il rilievo «ἔστιν» con la formula «οὐκ ἔστι μὴ εἶναι», che
certamente lo rafforza: è a partire dalla sua assolutezza che si potrà
procedere all'estrazione (B6-B8) di un soggetto (con l’introduzione di τὸ ἐόν o
εἶναι). 57 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 93. 319 presupposto
in ogni affermazione58. Per questo l’aggiunta di un pronome indefinito
(qualcosa, τι in greco) tradirebbe (attenuandola) la radicalità
dell’indicazione della Dea, che potrebbe piuttosto essere intesa come veicolo
dell’originario stupore per, della primitiva attenzione al «fatto d’essere».
Nella lettura che proponiamo, infatti, all’immediata rilevanza dell’ἔστιν la
Dea farebbe seguire, con una sequenza verbale ad effetto59 , οὐκ ἔστι μὴ εἶναι,
cioè l’estrazione e l’affermazione (attraverso la doppia negazione) di εἶναι.
Per quanto si valorizzino le implicazioni linguistiche (come segnalato da
Calogero, e da altri poi in vario modo ribadito60), il contesto della
dichiarazione della Dea rimane comunque quello della determinazione di «vie di
ricerca per pensare», nel senso di percorsi prospettati per giungere a
comprensione della realtà: Parmenide intende dunque riferirsi in ultima analisi
alla realtà sottesa a quelle espressioni, delineata nella sua assolutezza («non
è possibile non essere»). Così, quando afferma (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τὸ
νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· è necessario il dire e il pensare che ciò che è è
(B6.1a), ἐόν emerge come espressione concettuale, consapevole sviluppo
astratto, dell’immediato contenuto di ἔστιν, denotando, a un tempo, la totalità
degli enti (di ognuno dei quali si dice che è «ciò 58 In questa prospettiva, è
forse ancora utile l'indicazione di Calogero, rilanciata da Giannantoni (G.
Giannantoni, "Le due 'vie' di Parmenide", «La Parola del Passato»,
cit., pp. 207-221), circa la scelta dell'«è» «in quanto puro elemento logico e
verbale dell'affermazione» (G. Calogero, Studi sull’eleatismo, La Nuova Italia,
Firenze 19772 , pp. 20-2). 59 L’effetto musicale in greco della sequenza
verbale in ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι non è facilmente
riproducibile in traduzione, mantenendo il valore potenziale di οὐκ ἔστι. 60
Riflessione intorno all’uso della copula (Thanassas, op. cit., p.32; Cerri, op.
cit., p. 60), alla sua funzione «speculativa» nel rivelare il predicato
essenziale di un soggetto (la copula funzionerebbe da conveyer verso la realtà
della cosa: Mourelatos, op. cit., p. 59); riflessione sul fatto che, in greco,
il linguaggio quotidiano indica le cose come ὄντα (Cordero, op. cit., p. 60.).
320 che è», ἐόν/ὄν), ma richiama anche la attenzione sull’essere (ἐόν, εἶναι)
di quegli enti61 . [Pensare] «che è», [pensare] «che non è» La seconda
questione suscitata dalla formulazione delle «vie di ricerca […] per pensare» è
relativa al valore da attribuire al verbo «essere» negli enunciati: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν
τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere
(B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che
è necessario non essere (B2.5). L'insistenza sull’incrocio oppositivo di ἔστι e
εἶναι risalta sia in lettura sia all’ascolto: «è»\«non-è», «non è [possibile]
nonessere»-«è necessario non-essere». A partire da questo dato testuale è
aperta la discussione tra gli interpreti su come intendere le espressioni
verbali. Nella conclusione dell’esame precedente abbiamo posto in relazione
l’affermazione di B2.3 con il primo emistichio di B6.1: χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν
τ΄ ἐὸν ἔμμεναι. All'interno del verso, «essere» (qui nella forma epica ἔμμεναι)
è riferito a un esplicito soggetto, il participio ἐόν, con un valore che
appare, naturalmente, esistenziale (predicato verbale: «esiste»). Ora,
volgendoci 62, senza forzature, a B8, possiamo ulteriormente rilevare due passi
chiaramente significativi: 61 Thanassas, op. cit., p. 45. Interessante il
rilievo secondo cui l’ἐόν di Parmenide sarebbe in questo senso direttamente
comparabile alla espressione aristotelica τὸ ὂν ᾗ ὂν. 62 Seguendo l’esempio di
O’Brien, op. cit., pp. 170 ss.. 321 […] ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν che
senza nascita è ciò che è e senza morte (B8.3), οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν
θέμις εἶναι per questo non incompiuto l’essere è lecito che sia (B8.32). In
questi casi si individua ancora esplicitamente il soggetto nel participio ἐόν
(B8.3) e nel participio sostantivato63 τὸ ἐόν (B8.32), mentre ἐστιν e εἶναι
sono impiegati con valore copulativo64. Più complessa la situazione di B8.5-6:
οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές· né un tempo era
né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.5-6), dove
soggetto sottinteso è ἐόν di cui sopra (B8.3), e ἔστιν ha un duplice ruolo: a
un tempo valore esistenziale (con l’avverbio: «è ora») e funzione copulativa65
. Se poi guardiamo alla ricostruzione delle premesse dell’argomento della Dea
(B8-15-18), dove Parmenide rievoca la κρίσις (decisione) intorno a «è o non è»,
il senso dell’ἔστιν in B2 si approfondisce: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν
ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ
ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. […] Il giudizio in
proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, 63
Che certamente comporta valore esistenziale. 64 In realtà per B8.3 la
situazione è più complicata, in quanto il testo greco potrebbe rendersi
diversamente: «essendo, è ingenerato e indistruttibile»; «essendo ingenerato,
l’essere è anche indistruttibile». 65 O’Brien, op. cit., p. 177. 322 di
lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è via genuina),
e che l’altra invece esista e sia reale (B8.15-18). La via (ὁδός) che pensa che
«non-è [e che è necessario non essere]» è abbandonata, in quanto «impensabile
[e] inesprimibile», perché «non genuina» (οὐ ἀληθής). In B2.6-7 si parla di
«sentiero del tutto privo di informazioni»: «conoscere ciò che non è» ovvero
«indicarlo» «non è in effetti cosa fattibile». L’altra si è invece «deciso»
(κέκριται) «sia\esista» (πέλειν) e «sia reale\genuina\vera» (ἐτήτυμον εἶναι).
Se in B2, nell’economia della lezione divina, è essenziale soprattutto
focalizzare l’attenzione sul valore decisivo della espressione verbale ἔστιν,
preparando il terreno alla comprensione delle implicazioni nella formulazione
delle «vie», in B8, al contrario, riscontriamo gli effetti della sistematica
applicazione alla prima «via», con altrettanto sistematica esclusione della
seconda. La prima via per pensare (comprendere) afferma ἔστιν; la seconda lo
nega (οὐκ ἔστιν). La prima via completa e assolutizza l’affermazione con la
negazione del non-essere (οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), ovvero della possibilità del
non-essere. La seconda via assolutizza la negazione affermando la necessità del
non-essere (ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι). Con la prima via, attraverso l’esplicito
(e incondizionato) rilievo di ἔστιν e dell’impossibilità di μὴ εἶναι, viene
implicitamente imposto l’oggetto pienamente positivo della ricerca (ἐόν, εἶναι);
con la seconda, che nega quanto la prima afferma, viene, di conseguenza,
delineato l’oggetto alternativo, radicalmente negativo, indicato come τό μὴ ἐὸν,
dichiarato al v. 7 come oggetto indisponibile alla conoscenza o alla
manifestazione. In B6.1-2a: χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι,
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν 323 è necessario il dire e il pensare che ciò che è è:
poiché è possibile essere, il nulla, invece, non è. con la piena esplicitazione
del contenuto delle due vie, avrà poi inizio la disamina critica. Se questa
prospettiva è corretta, allora in B2 le formule della pura affermazione (ἔστιν)
e della pura negazione (οὐκ ἔστιν) - sostenute dalle relative formule modali,
possono generare, in quanto «vie di ricerca» (le sole «per pensare»), due
soggetti diversi e due espressioni tautologiche, su cui appunto Parmenide fa
leva in B6. La necessità di «dire e pensare» che «ciò che è» (il participio ἐόν)
«è, esiste» fonda la propria legittimità sulla duplice premessa: (i) che
«essere» (εἶναι) «è possibile» (ἔστι); (ii) che il «nulla» (μηδέν) «non è» (οὐκ
ἔστιν). Il comune errore dell’opinare umano si accompagna proprio al
fraintendimento della portata di queste tautologie, nella contraddizione
generata dall’affermazione incrociata (ancorché solo implicita) di essere e
non-essere. Alla luce di questa considerazione – ribadendo quanto sopra a proposito
della deliberata opzione parmenidea per forme verbali (ἔστιν - οὐκ ἔστιν), nel
contesto immediatamente impersonali (senza soggetto e predicato) e dal valore
(esistenziale, copultativo, veritativo) ambiguo – appare insostenibile il
tentativo di attribuire τὸ ἐόν come soggetto comune sottinteso (in B2.3 e
B2.5). Dalle due formule saranno ricavati due soggetti distinti: uno reale (τὸ ἐόν,
appunto, «l’essere»), l’altro fittizio, pura espressione verbale e funzione
logica (τό μὴ ἐὸν, «il non-essere», μηδέν il «nulla»), segnavia di una pista
che la ragione riconosce subito impraticabile. In questo senso possiamo parlare
di due «vie»: (i) una manifesta la «realtà» (Ἀληθείη) di «ciò che è
(necessariamente); (ii) l'altra spinge a riconoscere (come evidenzia l'intervento
della Dea) l'indisponibilità effettiva di «ciò che non è (necessariamente)»,
che pertanto andrà sistematicamente escluso dall'orizzonte dell'umano indagare.
324 Non pare che alla seconda delle vie di ricerca si debba attribuire la
contraddizione che, invece, viene denunciata nelle «opinioni dei mortali»:
condivisibile su questo punto quanto sottolineato da Mansfeld66 .
L’identificazione della seconda via con quella del mondo dell’esperienza è
errata: ricordiamo come la seconda via è ancora connotata in B8.17-18: τὴν μὲν ἐᾶν
ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι.
[Si è deciso] di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non
è via genuina). Della via «non è» non si può concepire un contenuto reale: essa
è allora ἀνόητον, ma anche ἀνώνυμον (letteralmente «senza nome»: non si può
indicare ciò che non è in senso assoluto). Ma sono proprio i «nomi» a
caratterizzare il mondo fenomenico, come sottolinea la stessa divinità
(B8.38b.41): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ,
γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα
φανὸν ἀμείϐειν Per esso tutte le cose saranno nome, quante i mortali
stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere,
cambiare luogo e mutare luminoso colore. A rimanere «senza nome» è
definitivamente ciò che (necessariamente) è nulla, quanto appunto espresso
nella formulazione della seconda via, e designato come τό μὴ ἐὸν. Le due
enunciazioni divine (affermativa e negativa) – in quanto «vie di ricerca, le
uniche per pensare» - devono essere reciprocamente alternative ma in sé
incontraddittorie, e tracciare i percorsi (κέλευθος, ἀταρπός) per i quali: (i)
generare le nozioni di «essere» e «non-essere»; (ii) valutare, in relazione al
coerente ri- 66 Op. cit., p. 55. 325 spetto dell’alternativa concettuale
prodottasi, la consistenza dei punti di vista umani. D’altra parte, il motivo
dell’intransitabilità della seconda via è non il suo carattere contraddittorio
- come accade appunto nel caso della “presunta” via (B6.5-9) che i «mortali che
nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, «uomini a due teste» - δίκρανοι), si
fingono -, ma il fatto che (B2.6-8) «non potresti conoscere ciò che non è, né
potresti indicarlo», in quanto «cosa non fattibile». Prospettata (con la
negazione οὐκ ἔστιν) come alternativa a ἔστιν, la via che pensa «che non è e
che è necessario non essere» è «percorso» (ἀταρπός) assolutamente privo di
contenuti, e quindi indicato come τό μὴ ἐὸν. L’unica via, per la piena
consistenza dei suoi contenuti, effettivamente accessibile e percorribile «per
pensare» (cioè per afferrare la realtà) è, di conseguenza, la prima, il cui
soggetto sarà esplicitato come ἐόν (B6.1) ovvero τὸ ἐὸν (B8.32), ma già
implicitamente individuabile, nella forma oppositiva di B2, come formula
contraddittoria rispetto a τό μὴ ἐὸν. Si è detto67 che l’unico modo per
rispettare il valore oppositivo delle vie che la Dea propone è di mantenere lo
stesso soggetto per entrambe: abbiamo, però, ipotizzato che la linea di
pensiero di Parmenide sia stata in realtà un’altra, che in B2 si lascia
intravedere. Attraverso l'asseverazione della tesi «è» (ὅπως ἔστιν), pura
espressione dell’immediata esperienza della realtà, coniugata con la contestuale
negazione modale dell’antitesi («non è possibile non essere», ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι),
la divinità pone le premesse per l'estrazione della nozione positiva di τὸ ἐὸν,
che indicherà ovviamente ciò che è in senso pieno e necessario, il soggetto ontologico
di cui si manifesteranno le proprietà in B8: la prima via è in questa
prospettiva «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος). Nei versi 5-8,
invece, dall’altrettanto pura negazione (ὡς οὐκ ἔστιν) di quell’originaria
esperienza, coniugata con la relativa formula modale («è necessario non
essere», ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι), ella ricava la nozione di τό μὴ ἐὸν,
marcandone subito l'in- 67 Cordero (pp. 44-5), Ruggiu (p. 221). 326
disponibilità facendo leva su un’ulteriore, immediata evidenza: non è «cosa
fattibile» (ἀνυστόν) conoscere e indicare «il nonessere» (τό μὴ ἐὸν). Il
percorso di Persuasione La rivelazione divina delle «vie di ricerca» è
accompagnata da due rilievi. Relativamente alla via «che è e che non è
possibile non essere», la Dea osserva che: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ
- di Persuasione è il percorso (a Verità infatti si accompagna) (B2.4),
marcando, dunque, con un genitivo a un tempo oggettivo e soggettivo, come il
viaggio per tale via conduca a scoprire la realtà (Ἀληθείη): essa appare,
allora, come un'istruzione (affermazione d'essere e sistematica esclusione del
non-essere) da seguire nell'indagine. Nella stessa prospettiva, le formule
modali di B2.3 e B2.5 possono essere intese come ammonimenti divini, affinché
siano evitati gli sviamenti tipici dei «mortali che nulla sanno»: il «percorso»
(κέλευθος) lungo la ὁδός anticipa effettivamente l’idea della μέθοδος che
Platone introduce68, prospettando poi la filosofia (dialettica) come viaggio69
. 68 In Fedone 79e: Πᾶς ἄν μοι δοκεῖ, ἦ δ’ ὅς, συγχωρῆσαι, ὦ Σώκρατες, ἐκ
ταύτης τῆς μεθόδου, καὶ ὁ δυσμαθέστατος, ὅτι ὅλῳ καὶ παντὶ ὁμοιότερόν ἐστι ψυχὴ
τῷ ἀεὶ ὡσαύτως ἔχοντι μᾶλλον ἢ τῷ μή Mi sembra – disse - che chiunque, Socrate,
anche il più tardo, muovendo da questa via [ἐκ ταύτης τῆς μεθόδου], debba
convenire che l'anima è, in tutto e per tutto, più simile a ciò che è sempre
che a ciò che non lo è. 69 Coxon, op. cit., p. 174. Il passo di Repubblica
(532b) è il seguente: 327 L’insistenza sul processo (la via, il percorso) è
importante perché sottolinea come la Dea prospetti, nell’immediato,
essenzialmente la direzione di una ricerca, aperta al coinvolgimento razionale
del κοῦρος. In questo senso, la dimensione della (progressiva) scoperta della
realtà autentica (Verità), che culminerà in B8, se da un lato conferma
l’associazione (heideggeriana) tra ἀληθείη e disvelamento (non-nascondimento),
dall’altro accentua gli aspetti di attivo condizionamento del ricercare, donde
il rilievo della “cognizione critica” (B7.5: «giudica con il ragionamento», κρῖναι
δὲ λόγῳ) e il ruolo riconosciuto (B3, B4) a νόος e νοεῖν. La realtà (Verità) è
obiettivo del percorso di Persuasione (che a Verità, osserva la Dea, «si
accompagna», ovvero «tien dietro», ὀπηδεῖ), proposto come oggetto di
apprendimento, conoscenza e discorso70: il percorso sarà genuino, vero, nella
misura in cui svela la realtà. Che essa (Verità) si manifesti (a colui che
ricerca con intelligenza) lungo la via (che pensa o afferma) «che è e che non è
[possibile] non essere» è ulteriormente marcato – come abbiamo più volte
rilevato – dall'indicazione con cui la Dea stigmatizza l'alternativa, seconda
via (B2.6-8): Τί οὖν; οὐ διαλεκτικὴν ταύτην τὴν πορείαν καλεῖς; Ebbene, non è
proprio questo itinerario che chiami dialettica? Poche righe sotto (532 d-e),
Glaucone invita Socrate a determinare la natura della dialettica: λέγε οὖν τίς ὁ
τρόπος τῆς τοῦ διαλέγεσθαι δυνάμεως, καὶ κατὰ ποῖα δὴ εἴδη διέστηκεν, καὶ τίνες
αὖ ὁδοί· αὗται γὰρ ἂν ἤδη, ὡς ἔοικεν, αἱ πρὸς αὐτὸ ἄγουσαι εἶεν, οἷ ἀφικομένῳ ὥσπερ
ὁδοῦ ἀνάπαυλα ἂν εἴη καὶ τέλος τῆς πορείας Devi dirci allora quale sia il modo
della facoltà della dialettica, quali siano le specie in cui è divisa, e quali
le vie; queste infatti, come pare, sono le vie che potranno condurre là dove,
pervenuti, potrà esservi riposo dal cammino e fine del viaggio. 70 Mourelatos,
op. cit., p. 66. 328 τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν
γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις Proprio questa ti dichiaro
essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere
ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo. Si tratta
di un rilievo decisivo: la divinità mette in gioco l'autorevolezza del proprio
“io” (τοι φράζω, «ti dichiaro») per rivelare, della via «che non è e che è
necessario non essere», che essa è un «sentiero» (ἀταρπός, tracciato
secondario) per cui non si accede alla realtà, lungo il quale non si può fare
esperienza o imparare raccogliendo informazioni. Ciò-che-non-è È in questo
contesto che la Dea introduce la formula τό μὴ ἐὸν (participio sostantivato).
Nella cornice di un processo di indagine che evoca il tradizionale motivo
omerico del viaggio71, la precisazione è netta: il ricercatore che pretendesse
lasciarsi guidare dall'assunto «non è ed è necessario non essere», non potrebbe
propriamente incontrare, né «indicare» (φράζειν) qualcosa. Pensare «che non è e
che è necessario non essere» non porta da nessuna parte: nemmeno la guida
divina può tracciare concretamente tale via, portando a casa un risultato
conoscitivo: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν poiché non
potresti conoscere ciò che non è - non è infatti cosa fattibile (B2.7).
Possiamo allora, per contrasto, confermare che, lungo la via imboccata seguendo
l'assunto «è e non è [possibile] non essere», 71 Mourelatos, op. cit., p. 76.
329 ci si muove verso «ciò-che-è» (verso la realtà-Verità), e che tale percorso
può essere compiuto (cioè è «fattibile» - ἀνυστόν – a differenza dell'altro):
la guida divina, in effetti, potrà fornire i segni o i criteri della via72 .
Dal momento che – come rivela la dea senza nome - non è in assoluto possibile
(«cosa fattibile») conoscere, ovvero determinare «ciò che (necessariamente) non
è», solo la prima via, che pensa e afferma «che è e che non è possibile non
essere», che muove dalla evidenza «è», è in grado di manifestare la verità, di
estrarre dall’«è» indicazioni positive e ultimative riguardo alla realtà (donde
il successivo impiego delle nozioni equivalenti di ἐόν e τὸ ἐὸν). I dati
fondamentali su cui il κοῦρος è invitato a riflettere sono dunque: (i)
l'esclusività delle vie di ricerca «per pensare [comprendere]» (in questo senso
esse sono appunto designate come ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός νοῆσαι: l'infinito «per
pensare» ne specifica la natura); (ii) la loro reciproca incompatibilità
(sottolineata dal ricorso combinato alla negazione e alle formule modali - su
cui ancora tra breve); (iii) l’impercorribilità della seconda via: non è
possibile conoscere o indicare «ciò che non è»; (iv) la loro (conseguente) natura
ontologica, ovvero, propriamente, il loro annunciare opposti modi d'essere: la
modalità dell'essere necessario e quella del necessario non-essere73 . B2
attesta un ricorso precoce al surrogato τό μὴ ἐὸν per «nonessere»,
probabilmente dandone per scontata l’immediata evidenza per il
lettore\ascoltatore. Nella contrapposizione delle vie, ciò induce ad anticipare
le formule opposte (ἐόν e τὸ ἐὸν). In questo senso, l’argomentazione di
Parmenide appare sollecitata dalla preoccupazione di istituire e fondare la
contrapposizione tra τὸ ἐὸν («essere») e τό μὴ ἐὸν («non-essere»)74, marcando
(a) la loro reciproca incompatibilità, (b) l’intransitabilità del non-essere,
così da 72 Ivi., p. 78. 73 Su questo punto è oggi da valutare quanto scrive
Palmer, op. cit., pp. 83 ss.. 74 Leszl, op. cit., p. 105. 330 concludere
(letteralmente) nella onto-logia. Ciò comporta riconoscere, con Cordero75, che
l'assolutizzazione del concetto di «essere» è ottenuta da Parmenide attraverso
la negazione della contraddittoria nozione di «non-essere». Il focus ontologico
del poema (sinteticamente ribadito con formula ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν:
«è [possibile] infatti essere, il nulla invece non è») è così proposto
contestualmente all’unico, fondamentale rilievo sul non-essere: «non è
[possibile] non essere». Due formule: «non è possibile non essere», «è
necessario non essere» Torniamo allora ancora una volta alla formulazione delle
due vie per concentrarci sulla loro struttura formale: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς
οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una: è e non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν
τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra: non è ed è necessario non essere»(B2.5).
La presentazione di ognuna consiste (nella nostra traduzione) in un verbo
semplice (enunciato non modale), in forma impersonale, coniugato con un
enunciato modale: «è», «non è possibile non essere»; «non è», «è necessario non
essere»76 . Ogni verso è articolato in due coppie di emistichi corrispondenti,
(a) e (b); la prima coppia (a): ἡ μὲν ὅπως ἔστιν l’una [che pensa] che è, ἡ δ΄ ὡς
οὐκ ἔστιν l’altra [che pensa] che non è; 75 Op. cit., pp. 64-5. 76 O’Brien, op.
cit., p. 182. 331 la seconda coppia (b): τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι e che non
è [possibile] non essere [ovvero: che non è possibile non sia], τε καὶ ὡς χρεών
ἐστι μὴ εἶναι e che è necessario non essere [ovvero: che è necessario che non
sia]. La formula della prima coppia (primo emistichio) propone l'opposizione
tra affermazione e negazione: la traduzione, supponendo la dipendenza di ὅπως e
ὡς da νοῆσαι («le uniche per pensare: l’una che pensa che …, l’altra che pensa
che…») ovvero (come spesso si è fatto) da verba dicendi («l’una che dice che…,
l’altra che dice che…»), non presenta particolari problemi di resa – a parte
quelli (essenziali) già ricordati, relativi al soggetto inespresso e al valore
da attribuire al verbo «essere». Nel caso della seconda coppia (secondo
emistichio) si impongono invece difficoltà nella resa dal greco. Il greco οὐκ ἔστι
può essere predicato verbale («non esiste», «non c’è»), ovvero, come può
apparire naturale alla luce del corrispondente uso dell'espressione χρεών ἐστι
(«è necessario») in B2.5b, e della (comune) relazione con lo stesso infinito (μὴ
εἶναι), può tradursi con epressione modale («non è possibile»). Se, in questo
caso, seguendo Aubenque77, interpretiamo la formula modale οὐκ ἔστι come
sinonima di ἀδύνατον (impossibile), traspare allora l’intenzione parmenidea di
proporre l’alternativa in termini netti: nell’enunciare la tesi della prima via
(l’affermazione «è»), Parmenide marca, indirettamente, la sua necessità
sottolineando l’impossibilità della antitesi (la negazione «non è»). Quanto
affermato nella tesi non può essere negato, non può rovesciarsi nella antitesi:
nella argomentazione della Dea, l’affermazione è collegata strettamente alla
posizione della necessità logica e della impossibilità logica78. Resa italiana
in 77 P. Aubenque, "Syntaxe et Sémantique de l’Être dans le Poème de
Parménide", in Études sur Parménide, cit., vol. II, p. 109. 78 Ruggiu, op.
cit., p. 218. 332 questo senso più efficace potrebbe essere: «è e non è
possibile che non sia». A sua volta la formula della seconda via, οὐκ ἔστιν
(«non è»), vede accentuata la propria forza di negazione da un’espressione -
χρεών ἐστι μὴ εἶναι – che ribadisce l’intensità della antitesi («è necessario
che non sia»). L'enunciazione delle vie evidenzia, quindi, per un verso, la
loro assolutezza, per altro la loro reciproca incompatibilità. Non si deve
tuttavia perdere di vista il fatto che la Dea, nel mettere in guardia il κοῦρος
rispetto alla seconda via, si riferisca a essa con l'espressione τό μὴ ἐὸν,
stigmatizzando l’impossibilità di afferrarne e determinarne la negatività (οὐ γὰρ
ἀνυστόν, «non è infatti cosa fattibile», in cui spicca – come nel termine epico
ἀμηχανίη - la strutturale impotenza)79. Le vie non hanno, quindi, una mera
consistenza logica, ma finiscono per enucleare due distinte nozioni
ontologiche. 79 Ivi., p. 220. 333 PENSARE ED ESSERE [B3] Il frammento (è
proprio il caso di usare il termine) ha assunto nel corso dei secoli il valore
di sintetica espressione dell’essenza della filosofia di Parmenide1 : esito
paradossale dell’elaborazione della tradizione, dal momento che,
oggettivamente, esistono difficoltà per la sua contestualizzazione all’interno
del poema, e dunque anche per la sua intellezione. A ciò si aggiunga che, da
parte degli interpreti, sono talvolta considerati con sospetto contesto e
cotesto delle testimonianze di Clemente2 e Plotino3 , che citano il verso
parmenideo: anzi, soprattutto a causa della citazione delle Enneadi, quella che
appare la traduzione più naturale è stata spes- 1 Tarán, op. cit., p. 41. 2 Il
contesto di Clemente riporta: Ἀριστοφάνης ἔφη· δύναται γὰρ ἴσον τῷ δρᾶν τὸ νοεῖν,
καὶ πρὸ τούτου ὁ Ἐλεάτης Παρμενίδης· τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστί < ν > τε καὶ
εἶναι Aristofane ha detto: «il pensare ha lo stesso potere dell'agire», e prima
di lui Parmenide: [B3]. 3 Il contesto di Plotino (Enneadi V, I, 8) è il
seguente: οὖν καὶ Παρμενίδης πρότερον τῆς τοιαύτης δόξης καθόσον εἰς ταὐτὸ συνῆγεν
ὂν καὶ νοῦν, καὶ τὸ ὂν οὐκ ἐν τοῖς αἰσθητοῖς ἐτίθετο “τ ὸ γ ὰ ρ α ὐ τ ὸ ν ο ε ῖ
ν ἐ σ τ ί τ ε κ α ὶ ε ἶ ν α ι ” λέγων. Καὶ ἀ κ ί ν η τ ο ν δὲ λέγει τοῦτο -
καίτοι προστιθεὶς τὸ νοεῖν - σωματικὴν πᾶσαν κίνησιν ἐξαίρων ἀπ’ αὐτοῦ, ἵνα μένῃ
ὡσαύτως, καὶ ὄ γ κ ῳ σ φ α ί ρ α ς ἀπεικάζων, ὅτι πάντα ἔχει περιειλημμένα καὶ ὅτι
τὸ νοεῖν οὐκ ἔξω, ἀλλ’ ἐν ἑαυτῷ Già Parmenide aveva in precedenza aderito a una
opinione simile a questa, quando riconduceva a unità essere e pensiero, e non
poneva l'essere nell'ambito delle cose sensibili, affermando: [B3]. E dice
anche che è immobile, dal momento che – avendo aggiunto il pensare – gli toglie
ogni movimento corporeo, affinché rimanga nell'identico stato, definendolo
simile alla massa di una palla, in quanto raccoglie tutto in sé e il pensare
non gli è esterno ma interno. 334 so rifiutata, a favore di altre meno
immediate e più tormentate dal punto di vista grammaticale, in quanto si è
intravisto il rischio di fare di Parmenide un neoplatonico ante litteram4 . La
collocazione Nel tentativo di offrire contesto e senso al frammento si è per lo
più operato in due direzioni, che appaiono legittime: (i) ricondurlo a
complemento di B2.7-8 5 e quindi proporlo a sostegno (γάρ) dell'indicazione
secondo cui il non-essere non può essere né indicato né conosciuto6 ; (ii)
proiettarlo verso B6.1-2 e B8.34-37, come in particolare oggi propone Cordero7
, con argomenti convincenti. B3 e B2 Nel primo caso si insiste soprattutto
sulla compatibilità metrica e logica8 con l’ultimo verso di B2: i termini
coinvolti – νοεῖν e εἶναι – sono chiaramente correlati nella prospettazione
delle due vie («le uniche per pensare»), mentre in B2.7 Parmenide utilizza
l’espressione τό γε μὴ ἐὸν per indicare l’oggetto su cui andrebbe a vertere la
seconda via: oggetto che non può essere conosciuto e indicato. B3, dunque, non
farebbe che esplicitare il nesso identita- 4 O’Brien, op. cit., p. 19. D’altra
parte il senso della citazione di Proclo (Theol. plat. I, 66) appare
indiscutibile: ταὐτόν ἐστι τὸ νοεῖν καὶ τὸ εἶναι, φησὶν ὁ Παρμενίδης 5 Come
fanno – più o meno decisamente – Giannantoni, Ruggiu, Coxon, Sellmer, Heitsch,
Gallop, e, in passato, Calogero. Scettici Tarán, Conche, O’Brien. 6 Ruggiu, op.
cit., p. 233. Secondo Calogero (p. 19), B3 andrebbe congiunto a B2.8, con
l’aggiunta dι ὅσσα νοεῖς φάσθαι: si avrebbe così: «perché pensare è lo stesso
che dire che quello che tu pensi esiste». 7 E a suo tempo propose Giorgio
Colli. 8 Coxon (p. 180); Sellmer (p. 33); Gallop (p. 8). 335 rio tra εἶναι e
νοεῖν: le relative nozioni si implicherebbero inscidibilmente9 . Questa
conclusione non è in discussione: essa appare effettivamente il perno della
tesi di Parmenide anche in B6.1 e B8.34- 37, sebbene le traduzioni possano
diversamente modulare la relazione tra i due termini. In discussione è, invece,
il fatto che l’impossibilità di afferrare il nulla (B2.7-8) abbia bisogno della
dimostrazione introdotta da γάρ (B3): non è immediatamente chiaro che nel nulla
non c’è nulla da conoscere, concepire, pensare10? D’altra parte, l’implicazione
tra essere e pensare non sembra, a sua volta, aver bisogno della mediazione di
un argomento: è stato giustamente osservato come, nell’uso greco arcaico, il
verbo νοεῖν non veicolasse la possibilità di immaginare qualcosa di non
esistente, denotando fondamentalmente un atto di riconoscimento immediato11.
Concepito in analogia con la percezione sensibile, νοεῖν comportava nell’uso
che si pensasse appunto qualcosa di dato indipendentemente dall'attività stessa
del pensare, e che il rapporto con l’oggetto fosse del tutto immediato, una
sorta di contatto con esso12 . È possibile che la Dea, in B2.7, si limiti a
rilevare come τό μὴ ἐὸν non possa essere conosciuto, osservando semplicemente:
οὐ γὰρ ἀνυστόν, «non è infatti cosa fattibile», quasi a richiamare un'evidenza,
per cui non è necessario ulteriore argomento. A questo corrisponderebbe il
rilievo di B3, secondo cui εἶναι si identifica con νοεῖν: leggendo in
continuità i due frammenti, non dovremmo riconoscere alla congiunzione γάρ un
valore esplicativo, piuttosto intenderne nel contesto la presenza a conferma
della tesi di fondo. Dovremmo inoltre, in traduzione, attribuire a νοεῖν non il
generico significato di «pensare», ma, come suggerito da vari interpreti,
quello specifico di «conoscere» o «comprendere» («capire»13 , «Erkennen» 14 ,
«Erfassen» 15 o ancora, più debolmente, 9 Heitsch, op. cit., p. 144. 10 Conche,
op. cit., p. 87. 11 Guthrie, op. cit., pp. 17-8. 12 Leszl, op. cit., p. 67. 13
Cerri. 336 «conceiving»16). L’uso arcaico di νοεῖν evoca effettivamente
funzioni analoghe a quelle del verbo γιγνώσκω (normalmente tradotto con
«conoscere»), sebbene suggerisca in primo luogo il riconoscimento, la capacità
di penetrazione intellettuale17 . B3, B6.1 e B8.34-7 Anche Cordero ammette che
in B2 si stabilisca una relazione tra un oggetto (l’essere), il pensare
quell’oggetto e l’esprimerlo in un discorso: i versi B2.7-8 mirerebbero a
marcare il carattere assoluto e necessario di tale oggetto, essendo la sua
negazione impossibile. Come conseguenza, pensare e parlare non possono fare a
meno di questo oggetto18. Ma per lo studioso è rilevante la connessione con
B6.1, inteso a dimostrare la necessità di quella relazione: χρὴ τὸ λέγειν τò
νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι·(B6.1a) è necessario dire e pensare che – essendo - è 19;
e soprattutto B8.34-7, in cui Parmenide attribuirebbe al pensiero una sola
causa20: il fatto d'essere: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. oὐ
γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐφ’ [invece di ἐν] ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν·(B8.34-36a)
pensare e ciò a causa del quale c’è il pensiero sono la stessa cosa dal momento
che senza l'essere, grazie a 21 cui è espresso, 14 Heitsch. 15 Sellmer. 16
Coxon. 17 Leszl, op. cit., p. 68. 18 Cordero, By Being, It Is, cit., p. 83. 19
Usiamo, traducendo in italiano, la versione dello stesso Cordero. 20 Come si
vedrà, noi interpretiamo il passo in modo diverso. 21 Cordero utilizza la
versione ἐφ’ (invece di ἐν), unanimente attestata nei manoscritti di Proclo.
337 non troverai il pensare22 . Cordero osserva come nei due versi successivi
si precisi che «senza l'essere (τὸ ἐόν) […] non troverai il pensare», ciò
comportando che τὸ ἐόν designi sinteticamente quanto introdotto come οὕνεκεν ἔστι
νόημα («ciò a causa del quale c’è il pensiero»). Senza τὸ ἐόν, νοεῖν risulta
privo di fondamento, poiché (γάρ), come osserva Parmenide, c’è solo «l'essere»
(B8.36-7)23: οὐδ΄ ἦν γὰρ < ἢ > ἔστιν ἢ ἔσται ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος Né,
infatti, esiste, né esisterà altro oltre all’essere. È chiaro come ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ
νοεῖν (B8.34) equivalga a τὸ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν (B3) e quindi è plausibile che τε
καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα (B8.34) articoli la formula più secca τε καὶ εἶναι (B3).
In forza di questo accostamento, difficile sostenere l’interpretazione
idealistica che vorrebbe l’essere dipendente dal pensiero: «senza l'essere» (ἄνευ
τοῦ ἐόντος), il pensiero non esiste; ovvero, positivamente, esso esiste solo
quando esprime qualcosa su ciò che è24 . Da B2 a B3 Mantenendo aperte le due
prospettive e dunque collocando B3 concettualmente tra B2, B6 e B8, il frammento
andrebbe tematicamente inquadrato tra l’esclusione della concreta possibilità
di riferirsi al nulla nel pensiero e nel discorso (quindi della via «che non
è»), la conseguente affermazione della via alternativa alla precedente («che
è»), e l’esplicitazione delle sue implicazioni per il pensiero e il linguaggio.
L’estrapolazione non consente di stabilire se B3 fosse effettivamente parte di
un argomento ovvero, come sopra abbiamo prospettato, semplice precisazione a
sostegno della tesi di B2. Certamente in B8 l’implicazione tra pensiero 22 Come
per B6.1, traduciamo il testo di Cordero. 23 Cordero, By Being, It Is, cit., p.
85. 24 Ivi, pp. 88-9. 338 (νοεῖν, con il suo specifico valore conoscitivo) e
essere è inserita in una cornice argomentativa. Un elemento testuale deve far
riflettere l’interprete: Clemente, Plotino e Proclo citano B3 senza collegarlo
in alcun modo a B225 . In altre parole, le tre fonti del frammento vi leggono
l’asserzione dell’identità di pensare (o conoscere) ed essere, indipendentemente
dalla discussione sulle «vie di ricerca»26. Plotino, in particolare, mostra di
intendere B3 chiaramente nell’orizzonte di B8, insistendo sulla riduzione a
unità di pensiero ed essere e sulla posizione dell’essere al di fuori del campo
sensibile («non poneva l’essere nell’ambito delle cose sensibili»), e
parafrasando in tal senso proprio B8. Le ricostruzioni peripatetiche (Teofrasto
e Eudemo) del logos di Parmenide (secondo Simplicio che riferisce in proposito
la testimonianza di Alessandro di Afrodisia) fanno tuttavia intravedere il
nesso tra B2 e B3: τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὄν· τὸ οὐκ ὂν οὐδέν· ἓν ἄρα τὸ ὄν ciò che
è oltre l’essere, non è; ciò che non è, è nulla; dunque, l’essere è uno
(Teofrasto; DK 28 A28) τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὄν, ἀλλὰ καὶ μοναχῶς λέγεται τὸ ὄν· ἓν
ἄρα τὸ ὄν ciò che è oltre l’essere, non è; ma l’essere si dice in un solo
senso, dunque l’essere è uno (Eudemo; DK 28 A28). Nel citare i versi 3-8 di B2,
Simplicio precisa che essi contengono le «premesse» (προτάσεις) del discorso di
Parmenide: εἰ δέ τις ἐπιθυμεῖ καὶ αὐτοῦ τοῦ Παρμενίδου ταύτας λέγοντος ἀκοῦσαι
τὰς προτάσεις, τὴν μὲν τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὂν καὶ οὐδὲν λέγουσαν, ἥτις ἡ αὐτή ἐστι
τῆι τὸ ὂν μοναχῶς λέγεσθαι, εὑρήσει ἐν ἐκείνοις τοῖς ἔπεσιν 25 Un punto
richiamato da Mansfeld, op. cit., p. 73. 26 Coxon, op. cit., p. 179. 339 Se
invece qualcuno desidera ascoltare da Parmenide stesso queste premesse, quella
che dice che ciò che è oltre l’essere non è ed è nulla, che è la stessa di
quella che dice che l’essere si dice in un modo solo, le troverà in questi
versi [B2.3-8]. Significativamente Diels annota che B3 si connette a questo: in
effetti, l’espressione peripatetica τὸ ὂν μοναχῶς λέγεσθαι, che chiaramente
Eudemo propone come premessa del sillogismo27 , comporta la determinazione
dell’essere come κατὰ τὸν λόγον ἕν («uno secondo il concetto»), versione
aristotelica di B3. Come rilevato da Mansfeld28, l’unità concettuale
dell’essere funge logicamente da assioma nella ricostruzione peripatetica di
B2: un assioma indipendente, implicito, che Aristotele non introduce
formalmente nella sua ricostruzione: Παρμενίδης μὲν γὰρ ἔοικε τοῦ κατὰ τὸν
λόγον ἑνὸς ἅπτεσθαι […] παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν
οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν Parmenide sembra aver inteso l’uno secondo
la forma (il concetto) […] Poiché egli ritiene che oltre l’essere non ci sia
affatto il non essere, necessariamente deve credere che l’essere sia uno e
null’altro (Aristotele, Metafisica I, 5 986 b18, 986 b27; DK 28 A24). La
congettura adottata da Mansfeld, per giustificare a un tempo l’uso implicito di
B3 come assioma nella tradizione peripatetica, e la sua autonomia da B2
attestata dalla tradizione neoplatonica, è quella di proporlo come
modificazione della conclusione dell’argomento di B2, per noi solo implicita29:
solo l’essere (ciò che è) vi è allora per pensare e dire. 27 Mansfeld, op.
cit., pp. 78-9. 28 Ivi, p. 73. 29 Ivi, pp. 82-4. 340 Solo l’essere può essere
oggetto per pensare: con τὸ ἐόν Parmenide avrebbe introdotto qualcosa che manca
nella enunciazione della prima premessa (la prima via) del sillogismo di B2 (la
cui conclusione, quindi, avrebbe dovuto essere: «solo la prima via – che è e
che non è possibile non essere – è per pensare»). L’introduzione del soggetto τὸ
ἐόν sarebbe giustificata proprio da B3: nel testo tradito di B2 ci si limita a
rilevare l’impossibilità («non è infatti cosa fattibile») di procedere lungo la
seconda via, designata dalla espressione τό γε μὴ ἐὸν; B3 potrebbe rinviare
immediatamente – come precisazione - alla conclusione formale, in cui essere e
pensiero sarebbero stati esplicitamente correlati. La Dea allora
sottolineerebbe in B3 quella che dal suo punto di vista è una evidenza:
l’identità di essere e pensiero (vi ritornerà in B8.34 ss. con una più
articolata riflessione). Essere e pensare Nella nostra traduzione abbiamo
scelto di mantenere la struttura sintattica più naturale del verso greco,
cercando, allo stesso tempo, di preservarne l’ambiguità: la Dea di Parmenide
didascalicamente reitererebbe, in positivo, l’implicito (nei nostri frammenti)
risultato dell’argomento delineato in B2: (i) da un lato per marcare il nesso
tra νοεῖν e εἶναι e la sua natura intellettuale - così preparando la nota
discriminante rispetto all’ἔθος πολύπειρον, all'«abitudine alle molte
esperienze» (B7.3); (ii) dall’altro per richiamare l’attenzione del κοῦρος sul
contenuto della prima via (altrimenti espresso con ἐόν ovvero τὸ ἐόν). Il
pensare è introdotto in B2 come esercizio avulso da riscontri empirici;
un’attività in cui si è semplicemente chiamati a riconoscere un'evidenza: che –
pur considerando la possibile alternativa – per pensare e conoscere la verità
c’è una sola via da percorrere. Nello stesso tempo, l’identità affermata in B3
sottolinea lo stretto rapporto tra il percorso (la sola «via di ricerca» che
effettivamente è possibile seguire) e il suo esito: la via è in qualche modo
impo- 341 sta dalla realtà stessa (cui si allude forse con l'infinito εἶναι).
La via (o il metodo) è concepita come la via del discorso (λόγος) che ha
l’essere (ovvero la realtà) come contenuto30 . Quale identità? Nel suo commento
Cerri 31 ha segnalato, nell'identificazione dei due verbi, «stranezza
apparente» e «sinteticità paradossale»: νοεῖν, infatti, evidenzia un atto della
mente (che viene reso come «capire»), εἶναι uno stato delle cose. L’atto
intellettivo sarebbe dunque solo l’aspetto soggettivo dell’identità tra due
cose (esse sembrano diverse, essendo in realtà la stessa cosa); quell’
identità, invece, l’aspetto oggettivo dell’atto intellettivo. Ruggiu32 sottolinea,
da un lato, l’aspetto linguistico dell’identità, la connessione immediata tra
termini nel linguaggio ordinario non considerati identici; dall’altro l’aspetto
che potremmo definire “dialettico” della relazione: l’identità è anche
distinzione e si costituisce come rapporto di reciproca implicazione.
Thanassas, infine, rileva come l’identità tra essere e pensiero non sia da
intendere in senso matematico: il testo greco con τε καὶ suggerisce
un’interazione, una «mutua connessione e reciproca referenza». Nessun pensare
senza essere, nessun essere senza pensare33 . Dall’incrocio con B2, B6 e B8
abbiamo ricavato segnali abbastanza definiti circa la relazione cui allude la
sintetica formula del frammento: (i) rilevata l’impossibilità di percorrere un
corno della disgiunzione tra le vie («è e non è possibile non essere - non è ed
è necessario non essere»), in quanto non si può conoscere (γιγνώσκειν) né
indicare (φράζειν) «ciò che non è», e (ii) probabilmente integrato il rilievo
con la necessaria conclusione positiva circa la effettiva praticabilità della
via alternativa (conoscere e indicare ἐόν, «ciò che è»), la Dea (iii) estrae
quella che nella sua ot- 30 Leszl, op. cit., p. 64. 31 Op. cit., p.193. 32 Op.
cit., pp. 233 ss.. 33 Thanassas, op. cit., p. 39. 342 tica è un’evidenza
basilare, implicita nella impostazione di B2, espressa in termini astratti,
generali, con due infiniti. Il verbo νοεῖν non è più assunto a designare
genericamente un'operazione intellettuale, ma connotato specificamente per
veicolare un atto di riconoscimento (che riassuma sostanzialmente lo spettro
degli altri due verbi, γιγνώσκειν e φράζειν); εἶναι, impiegato per denotare
quanto si ritrova, come suo oggetto necessario, al fondo di un pensare che sia
riconoscere-esprimere-indicare: il fatto d’essere. Ma nell’identità accennata
da τὸ αὐτό, la Dea non si riferisce semplicemente alla connessione tra pensare
e essere, ma soprattutto alla reciproca implicazione: non solo il pensiero deve
avere come oggetto ciò che è, ma l’essere deve essere espresso, manifestato nel
pensiero. In apertura di una comunicazione di verità, questa osservazione è
capitale: pur prospettato (più avanti, in B8.34) come «causa del pensiero»
(Cordero), l’essere deve svolgersi completamente davanti al pensiero34, deve essere
pensabile (il che non comporta che dipenda dal pensiero). Dal punto di vista
della Dea, almeno, nulla, di diritto, sfugge al pensiero: il sapere che la Dea
comunica al filosofo (e di cui questi è tramite rispetto ai propri discepoli e
al pubblico di ascoltatori\lettori) è un sapere assoluto35 . Ancora su pensare
e essere Abbiamo insistito, nel commentare il frammento, sul rilievo della sua
collocazione per una corretta attribuzione di significato; in particolare,
proponendolo come sentenza con cui la Dea, ellitticamente, svela un principio
fondamentale della sua rivelazione, dell’esposizione della Verità. B3 è
l’occasione per interrogarsi sul valore di νοεῖν e εἶναι. Abbiamo già colto
indicazioni in tal senso: ipotizzando la prossimità testuale e logica di B2 e
B3, abbiamo determinato il campo semantico di νοεῖν in relazione a γιγνώσκειν e
φράζειν, in- 34 Conche, op. cit., p. 90. 35 Ibidem 343 tendendolo come atto di
riconoscimento immediato; in εἶναι abbiamo individuato la forma verbale con cui
Parmenide esprime l’evidenza presupposta per ogni attività di pensiero: quanto
possiamo indicare come «essere» ovvero il fatto di esistere. Una certa tensione
sussiste tra B2 e B3 riguardo al valore di νοεῖν. Mentre in apertura della
propria comunicazione la Dea salda l’alternativa delle «vie di ricerca» a νοεῖν
(esse, ribadiamolo, sono «le uniche per pensare»), dunque collegando al verbo
non solo la via positiva, ma anche quella negativa - non solo quella che avrà
il proprio soggetto in τὸ ἐόν (B8.32), ma anche quella che (non) lo trova
(B2.7) in τό γε μὴ ἐὸν -, nella formula sintetica del nostro frammento il
pensare sembra vincolato all’essere, addirittura si afferma che pensare ed
essere sono la stessa cosa. In che senso, allora, è possibile sostenere la
relazione tra νοεῖν e la via: «che non è»? Abbiamo già osservato in sede di
traduzione come i curatori delle edizioni dei frammenti abbiano spesso optato
per determinare νοεῖν in modo da evitare di renderlo genericamente come
«pensare»; ma non è facile aggirare la difficoltà, a meno di non decidere di
mantenere il valore generico in B2.2 e introdurne uno specifico (comprendere,
capire) in B3. Operazione legittima ma un po’ forzata. Secondo Leszl 36 ,
invece, B2.2 presenterebbe νοεῖν come atto puramente intellettuale
(implicitamente da contrapporre all’immediatezza del riscontro sensibile), che
coglie l’alternativa delle vie in quanto possibilità del tutto astratte. Tale
atto, tuttavia, sarebbe in ultima analisi riconducibile a un caso di
intellezione immediata dell’oggetto, consistendo di fatto nel riconoscimento
(intuitivo) della validità del principio del terzo escluso. In attesa di trovar
sottolineato in B4 un ulteriore, essenziale carattere della facoltà indicata
come νοεῖν - la capacità di rendere presente qualcosa che può essere lontano
nello spazio e nel tempo -, possiamo provvisoriamente concludere che: 36 Op.
cit., p. 69. Leszl intende B2.2 (αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι) come
«quali sono le vie di ricerca, le uniche che sono da pensare», quindi attribuendo
a noēsai valore passivo. 344 (i) νοεῖν è inizialmente introdotto in relazione
alle «due vie di ricerca», come loro finalizzazione («le uniche per pensare») -
evidentemente designando un atto di comprensione che dà senso all’indagine -,
ovvero, intendendo diversamente il testo greco, come loro condizione di
possibilità («le uniche da pensare\pensabili»), quindi accentuandone il
significato logico; (ii) νοεῖν – pur non ancora esplicitamente contrapposto ai
sensi – riceve una connotazione metaempirica: le vie sono «per pensare», non
sono fatte per essere esperite percettivamente; νοεῖν è in grado di evidenziare
quanto celato o sfocato nella percezione; (iii) νοεῖν è dunque attività che si
spinge oltre l’immediato sensibile, nel nostro contesto probabilmente oltre la
complessità dei dati empirici, per ridurli al loro essenziale, al loro comune
denominatore (fondamento) ontologico: nello specifico, il fatto d’essere
(condizione del pensare stesso) e la nozione (opposta) di τό μὴ ἐὸν. In questo
senso è giusto designarne la facoltà come «penetrazione intellettuale»37 .
D’altra parte νοεῖν è costantemente riscontrato su εἶναι o termini connessi: le
vie sono determinate come «l’una che è (e che non è possibile non essere)»,
«l’altra che non è (e che è necessario non essere)»; l’oggetto della seconda è
ulteriormente ripreso come «ciò che non è»; attraverso la formula τὸ αὐτὸ ἐστίν,
νοεῖν è sovrapposto a εἶναι. All’acume e intelligenza di sguardo del νοεῖν
corrispondono dunque la profondità e comprensione della nozione di εἶναι, che
appare designare, nel contesto, analogamente al termine Ἀληθείη, ciò che
genericamente indicheremmo come «la realtà», ciò che accomuna le cose che sono.
Nell’uso quotidiano «essere» è sempre oscurato da questa o quella cosa, sempre
presupposto in ogni possibile predicazione («è»): il νοεῖν riconosce come
proprio oggetto specifico e condizione appunto questo presupposto, questa
realtà. 37 Ivi, p. 68. 345 ENTI ED ESSERE [B4] Conservatoci nella sua interezza
dalla sola citazione di Clemente di Alessandria, il frammento ha sempre
costituito una croce per gli interpreti, divisi sul problema della sua
collocazione assoluta e relativa: incerti riguardo alla sua appartenenza alla
prima o alla seconda sezione del poema e (ulteriormente) alla sua posizione e
funzione all’interno di esse. In proposito abbiamo due proposte estreme: (a)
Diels, nella sua edizione del 1897, presentava il nostro testo come primo
frammento della prima sezione, collocandolo subito dopo il Proemio (che in
quella edizione, tuttavia, includeva anche B7.2-6); (b) Bicknell1 e Hölscher2 ,
al contrario, lo hanno considerato conclusione dell’opera (collocandolo,
quindi, dopo B19)3 , quindi nella seconda sezione. Possiamo considerare
intermedie tutte le altre proposte, variamente schierate, che fanno registrare
convergenze su un punto da valorizzare, anche perché potrebbe spiegare la
oggettiva difficoltà degli interpreti: il ruolo di cerniera di B4. Secondo
Ruggiu, per esempio, esso collegherebbe i contenuti propri dell’Opinione (τὰ δοκοῦντα),
al tema primario della Verità (τὸ ἐόν), marcando il radicamento del molteplice
nell’Essere4 . Che cosa rende di così difficile contestualizzazione,
all’interno del poema, i versi del frammento? Che cosa contribuisce al
disorientamento degli interpreti – arrivati con Fränkel a negare piena
intelligibilità a B4? Si possono agevolmente individuare tre questioni: 1 P.J.
Bicknell, “Parmenides' Refutation of Motion and an Implication”, «Phronesis»,
1, 1967, pp. 1-6. 2 U. Hölscher, Parmenides von Wesen des Seienden. Die
Fragmente, Frankfurt a.M. 1969. 3 In questo sono stati seguiti anche da L.
Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia, Bruxelles 1986), il
quale, tuttavia, nell'ultima edizione della sua opera (La Pensée de Parménide,
Ousia, Bruxelles 2008), ha optato per un inserimento all'interno di B8 (tra i
vv. 41 e 42). 4 Op. cit., p. 245. 346 (i) il ruolo del νόος e la probabile
valenza gnoseologica del frammento; (ii) il nesso tra ἀπεόντα - παρεόντα e τὸ ἐόν
(vv. 1-2) e l’ulteriore implicazione tra gnoseologia e ontologia; (iii) i
possibili riferimenti cosmogonici e relativi obiettivi polemici (vv. 3-4). Il
noos e il suo operare Per decidere del significato del frammento è importante
il contesto della citazione di Clemente Alessandrino (V, 15): ἀλλὰ καὶ Π. ἐν τῶι
αὑτοῦ ποιήματι περὶ τῆς ἐλπίδος αἰνισσόμενος τὰ τοιαῦτα λέγει· [B4], ἐπεὶ καὶ ὁ
ἐλπίζων καθάπερ ὁ πιστεύων τῶι νῶι ὁρᾶι τὰ νοητὰ καὶ τὰ μέλλοντα. εἰ τοίνυν
φαμέν τι εἶναι δίκαιον, φαμὲν δὲ καὶ καλόν, ἀλλὰ καὶ ἀλήθειάν τι λέγομεν· οὐδὲν
δὲ πώποτε τῶν τοιούτων τοῖς ὀφθαλμοῖς εἴδομεν, ἀλλ’ ἢ μόνωι τῶι νῶι. Ma anche
Parmenide, nel suo poema, alludendo alla speranza, sostiene cose di questo
genere: [citazione], in quanto anche colui che spera, come colui che ha fede,
con il pensiero vede le cose intelligibili e quelle a venire. Se ora affermiamo
che c'è qualcosa di giusto, diciamo anche che c'è qualcosa di bello, ma anche
che c'è qualcosa di vero: nessuna di queste cose, tuttavia, mai vediamo con gli
occhi, ma solo con il pensiero. L’autore alessandrino sottolinea come quel che
Parmenide afferma in B4 alluda enigmaticamente (questo il senso del verbo αἰνίσσομαι:
adombrare, alludere per enigmi) alla ἔλπις (e alla πίστις) cristiana: il saper
rappresentare (rendere presente) il futuro da parte dell’intelligenza (νόος).
In questo senso, Parmenide riconoscerebbe al νόος la capacità di rendere
presenti enti assenti e 347 lontani 5 . La prospettiva appare certamente
gnoseologica, investendo una facoltà cognitiva che Clemente decisamente caratterizza
rispetto all’organo di senso: un «vedere» (εἴδομεν) «con il pensiero» (τῶι νῶι)
contrapposto (con l’avversativa) al vedere «con gli occhi» (τοῖς ὀφθαλμοῖς). Ad
accentuare l’opposizione troviamo anche l’indicazione di oggetti specifici (τὰ
νοητὰ) per l’intelligenza, diversi (significativo l’accostamento a τὰ μέλλοντα,
«le cose a venire») da quelli immediatamente colti sensibilmente: si osserva,
infatti: οὐδὲν δὲ πώποτε τῶν τοιούτων τοῖς ὀφθαλμοῖς εἴδομεν, ἀλλ’ ἢ μόνωι τῶι
νῶι nessuna di queste cose mai vediamo con gli occhi, ma solo con il pensiero.
Cose assenti presenti Ora, se passiamo alla citazione, possiamo effettivamente
intravedere la ragione del suo recupero da parte di Clemente: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα
νόῳ παρεόντα βεϐαίως· Considera come cose assenti siano comunque al pensiero
saldamente presenti (B4.1). La Dea, che ha la parola, invita il κοῦρος a
osservare e prendere in considerazione come «cose assenti (o lontane)» (ἀπεόντα)
possano risultare «al pensiero» (νόῳ) a un tempo «presenti (o prossime)»
(παρεόντα). Precisando ulteriormente: οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι
non impedirai, infatti che l'essere sia connesso all'essere (B4.2). 5 Per
l’analisi della testimonianza di Clemente è essenziale e convincente il
contributo di C. Viola, “Aux origines de la gnoséologie: Réflexions sur le sens
du fr. IV du Poéme de Parménide », in Études sur Parménide, cit., t. II, pp.
69-101. 348 È chiaro come la possibilità di pensare (rappresentare) cose
assenti o lontane come presenti o prossime passi attraverso la consapevolezza
dell’omogeneità di τὸ ἐόν: il νόος raccoglie e supera, nella omogeneità di τὸ ἐόν,
le differenze che si impongono sul piano empirico. Il νόος, in questo modo, si
impone come uno sguardo altro rispetto a quello dei sensi, in grado di
superarne le discriminazioni alla luce di una realtà che solo l’intelligenza
stessa dischiude. È indicativo il fatto che Parmenide scelga un verbo – λεῦσσω
– etimologicamente legato a λευκός (nel linguaggio omerico «chiaro»,
«limpido»), che porta con sé dunque l’idea di chiarezza, luminosità,
trasparenza6 . Un verbo che può essere direttamente messo in relazione con νόος
(νόῳ), per assumere il valore di «chiarire con il pensiero [l'intelligenza]». I
primi due versi di B4, quindi, si prestano alla curvatura gnoseologica che il
contesto della citazione di Clemente implica, senza tuttavia comportarne
necessariamente le opposizioni; senza imporre, in particolare, l’opposizione
tra due inconciliabili visioni, sensibile e spirituale, come ha correttamente rilevato
la Stemich, sottolineando come in λεῦσσε νόῳ siano a un tempo coinvolti
entrambi gli elementi 7 . Possiamo inoltre marcare come il frammento non
autorizzi a retroiettare in Parmenide una teoria dei due mondi (sensibile e
intelligibile, ovvero presente e futuro), ma semplicemente registri due
distinte modalità di guardare alla realtà: l’immediato sguardo sensibile e la
più accorta considerazione dell’intelligenza, che ne supera le contraddizioni.
Con il risultato (che traspare in B4.1-2) di offrire, della stessa realtà, due
prospettive, una soggetta a distorsioni, l’altra corretta (che nell’economia
del poema sono accentuate come «opinioni dei mortali» e «Verità»). È nostra
convinzione (che presuppone una complessiva interpretazione del pensiero di Parmenide)
che proprio da questo frammento possano ricavarsi preziose indicazioni riguardo
alla capacità dell’intelligenza di superare la frammentazione del dato 6 Viola,
op. cit., p. 80. 7 Stemich, op. cit., p. 178. 349 empirico, raccogliendone
pluralità e differenze nella unità e compattezza dell’Essere. L’uso del plurale
ἀπεόντα-παρεόντα, quindi del singolare τὸ ἐόν, segnalerebbe appunto come ἀπεόνταπαρεόντα
siano (-εόντα), in quanto τὸ ἐόν mantiene l’unità e la compattezza
(nell’Essere) di tutti i suoi momenti8 . Elementi che puntano in direzione
della seconda sezione del poema. I due versi iniziali autorizzano, dunque, ad
associare a νόος (e νοεῖν) due distinte ma coordinate operazioni: (i) superare
i vincoli spazio-temporali “presentificando” la pluralità dispersa
(spazio-temporalmente), rappresentando presenti «cose assenti»; (ii) cogliere
la loro connessione (veicolata dal verbo ἔχεσθαι) in τὸ ἐόν (ovvero il fatto
che τὸ ἐόν è connesso a τὸ ἐόν). La seconda operazione è propriamente
“ontologica”, nel senso che riconosce e traduce in termini di τὸ ἐόν la
molteplicità espressa nei due plurali del primo verso (ἀπεόντα-παρεόντα): la si
è voluta leggere anche come un portare le cose lontane-assenti alla presenza
dell’essere9 . Lo spessore gnoseologico (ed epistemologico) del passaggio
consiste nel fatto che l’oggetto (τὸ ἐόν) cui il νόος è riferito,
direttamente10 o indirettamente11, è diverso dagli oggetti molteplici ai sensi
(senza tuttavia trasformarsi in una entità che neghi la molteplicità del
mondo12): li abbraccia e li raccoglie interamente, senza dislocarsi su un piano
di realtà altro. Come nota puntualmente Leszl, ciò fa di νοεῖν un’attività che
si spinge oltre l’immediato sensibile, rendendo presente l’assente, senza la
sua preliminare evidenza percettiva: un pensare del tutto intellettuale, che ha
per oggetto qualcosa che si impone 8 Ruggiu, op. cit., p. 241. 9
Couloubaritsis, Mythe et Philosophie, cit., p. 336. 10 Se accettiamo che ἀποτμήξει
sia terza persona singolare dell’indicativo futuro, con νόος appunto soggetto
sottinteso del verbo. 11 Nel caso si legga (come facciamo noi, ma di recente
anche Palmer e Tonelli) lo stesso verbo in seconda persona singolare futuro
indicativo medio, e la Dea quindi si limiti a esortare il κοῦρος a non
ostacolare la connessione di τὸ ἐόν. 12 Thanassas, op. cit., p. 43. 350
all’intelligenza13. Non deve però essere trascurato un aspetto del passaggio:
il movimento dalla assenza alla presenza rivela che l’uomo è comunque radicato
nel mondo, legato allo spazio\tempo14. Così, nel contesto di un discorso che
verte sulle «vie di ricerca», che focalizza il «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς
κέλευθος), non può sfuggire il fatto che il νόος sia connotato dinamicamente,
attraverso quel movimento, che porta con sé anche la potenzialità del suo
errare15: la sua conoscenza è esposta alla distorsione. È possibile che
l’operare del νόος riceva ulteriore significazione dall’accostamento a λεῦσσω,
che Omero utilizzava per indicare la capacità di considerare simultaneamente
passato e avvenire per comprendere il presente 16. Una capacità associata alla
maturità dell’anziano, al suo discernimento rispetto alla precipitazione dei
giovani, e che nel poema potrebbe avere un riscontro nella relazione
didascalica tra θεά e κοῦρος. «…saldamente presenti» Ritornando sull’apertura
di B4, è chiaro che l’uso dell’avverbio βεϐαίως (saldamente) nel primo verso, e
l’intero contenuto del secondo contribuiscono a determinare νόος come un
pensiero che conduce alla continuità e stabilità dell’essere: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα
νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come
cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai,
infatti, che l'essere [ciò che è] sia connesso all'essere (B4.1-2). 13 Op.
cit., p. 68. 14 Couloubaritsis, op. cit., p. 340. 15 Viola, op. cit., pp. 94-5.
16 Couloubaritsis, op. cit., pp. 336-7. 351 Effetto dell’operare del νόος è la
solidità della connessione degli enti (-εόντα), al di là delle loro coordinate
spazio-temporali, e il riconoscimento del loro comune denominatore nell’Essere
(τὸ ἐόν). Più precisamente: il νόος è quello sguardo che, da una parte,
illumina e unifica ἀπεόντα e παρεόντα (nell’ἐόν), dall’altra si vieta di
introdurre discriminazioni (spazio-temporali) in τὸ ἐόν 17. Alla luce di B3,
esso aderisce completamente all’ἐόν: l’avverbio βεϐαίως veicolerebbe allora
l’idea di stabilità, costanza, caratteristica dell’oggetto (τὸ ἐόν, appunto),
ma suggerirebbe pure qualcosa circa l’atteggiamento di chi è sulla strada della
verità: la certezza e affidabilità (ricordiamo ἀτρεμὲς ἦτορ di B1.29) di un
modo di vedere, corrispondente a un modo d’essere; a un νόος saldo e pieno di
fiducia18 . Dal momento che manca una specifica argomentazione a sostegno della
affermazione di B4.2, alcuni interpreti (Kirk-Raven, West, Gallop) hanno messo
in relazione B4 con B8.22-5: οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ
τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν
ἐόντος. Τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει Né è divisibile, poiché è
tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere
continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È perciò
tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è. Questa indicazione,
concettualmente apprezzabile, non comporta inevitabilmente una presa di
posizione sulla collocazione del frammento nel complesso del poema. Non
implica, in altre parole, necessariamente la dipendenza di B4 da B8 e dunque a
una sua dislocazione nella sezione sulla Doxa (o addirittura all’interno dello
stesso B8, dopo i versi 22-5). Forse, accettandone le impli- 17 Viola, op.
cit., p. 100. 18 Robbiano, op. cit., p. 130. 352 cazioni cosmologiche, la
funzione di B4 potrebbe essere stata prolettica, nella introduzione del
discorso della Dea, che poi B8 avrebbe articolato e precisato. È significativo
che nella sua prima edizione del poema (1897), come abbiamo sopra ricordato,
Diels proponesse l’attuale B4 come B2, dunque all’inizio sostanzialmente della prolusione
divina. Rimane comunque l'impressione che il frammento possa aver svolto,
nell'economia dell'esposizione divina, un ufficio di raccordo, tra le due
sezioni, analogamente a B9. In alternativa, valutando soprattutto il contesto
della citazione di Clemente e la sua intenzione di marcare la differenza tra
visione percettiva e visione spirituale, e convenendo con Coxon19 che Parmenide
non sia in questo frammento interessato alla natura dell’Essere (la cui
indivisibilità sarà argomentata proprio in B8.22-5), ma alla natura del νόος
come capacità intellettuale, potremmo ipotizzare il posizionamento di B4 in
relazione ai rilievi di B6 e B7 sui rischi della «abitudine alle molte
esperienze» (ἔθος πολύπειρον). L’espressione kata kosmon e le implicazioni cosmologiche
Sono comunque gli ultimi due versi (3-4) del frammento a rappresentare il
maggior cruccio per gli interpreti, soprattutto per la determinazione del
valore del greco κατὰ κόσμον e del senso della dinamica imperniata intorno ai
due participi σκιδνάμενον e συνιστάμενον, che indicano dispersione e
raccoglimento. Essi sono riferiti immediatamente a τὸ ἐόν, della cui
connessione interna (rilevata dal νόος) costituiscono una alternativa: οὐ γὰρ ἀποτμήξει
τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε
συνιστάμενον 19 Op. cit., p. 187. 353 non impedirai, infatti, che l'essere sia
connesso all'essere, né disperdendosi completamente in ogni direzione per il
cosmo, né concentrandosi (B4.2-4). Parmenide si limita a stigmatizzare la prospettiva
di un moto – ordinato (conforme a un ordine) - di disseminazione e
concentrazione degli enti, quale potrebbe essere rappresentato dalle cosmogonie
ioniche, ovvero, più specificamente si riferisce a un modello, intenzionalmente
impiegando il termine κόσμος per designare l’assetto complessivo della realtà?
Il noos e il cosmo Che egli possa aver imboccato – tra i primi - questa seconda
direzione, è suggerito dai passi paralleli - segnalati dagli editori - in
Empedocle (B17.18-21; riferimento già in Clemente) e Anassagora (B8), in cui la
dimensione cosmologica è indiscutibilmente centrale, implicando un’ontologia
influenzata da Parmenide: πῦρ καὶ ὕδωρ καὶ γαῖα καὶ ἠέρος ἄπλετον ὕψος, Νεῖκός
τ’ οὐλόμενον δίχα τῶν, ἀτάλαντον ἁπάντηι, καὶ Φιλότης ἐν τοῖσιν, ἴση μῆκός τε
πλάτος τε· τὴν σὺ νόωι δέρκευ, μηδ’ ὄμμασιν ἧσο τεθηπώς Fuoco e Acqua e Terra e
l’altezza immensa dell’Aria, e Contesa, disgiunta da essi ma di pari peso,
ovunque, e Amore, in essi, uguale in lunghezza e larghezza. Osservala con
l’intelligenza, non restare con sguardo stupito (Empedocle; DK 31 B17.18-21). οὐ
κεχώρισται ἀλλήλων τὰ ἐν τῶι ἑνὶ κόσμωι οὐδὲ ἀποκέκοπται πελέκει οὔτε τὸ θερμὸν
ἀπὸ τοῦ ψυχροῦ οὔτε τὸ ψυχρὸν ἀπὸ τοῦ θερμοῦ Nell’unico universo non si trovano
separate le cose, le une dalle altre, e non risultano tagliati a scure né il
caldo dal freddo né il freddo dal caldo (Anassagora; DK 59 B8). 354 Nel suo
commento a B4, Cerri ha invece richiamato l’attenzione sulla pagina iniziale
del trattato Sul cosmo per Alessandro attribuito ad Aristotele (ma più
probabilmente di autore genericamente peripatetico20), che contiene passaggi
che sembrano effettivamente riecheggiare i versi parmenidei: Πολλάκις μὲν ἔμοιγε
θεῖόν τι καὶ δαιμόνιον ὄντως χρῆμα, ὦ Ἀλέξανδρε, ἡ φιλοσοφία ἔδοξεν εἶναι,
μάλιστα δὲ ἐν οἷς μόνη διαραμένη πρὸς τὴν τῶν ὄντων θέαν ἐσπούδασε γνῶναι τὴν ἐν
αὐτοῖς ἀλήθειαν, καὶ τῶν ἄλλων ταύτης ἀποστάντων διὰ τὸ ὕψος καὶ τὸ μέγεθος, αὕτη
τὸ πρᾶγμα οὐκ ἔδεισεν οὐδ’ αὑτὴν τῶν καλλίστων ἀπηξίωσεν, ἀλλὰ καὶ
συγγενεστάτην ἑαυτῇ καὶ μάλιστα πρέπουσαν ἐνόμισεν εἶναι τὴν ἐκείνων μάθησιν. Ἐπειδὴ
γὰρ οὐχ οἷόν τε ἦν τῷ σώματι εἰς τὸν οὐράνιον ἀφικέσθαι τόπον καὶ τὴν γῆν ἐκλιπόντα
τὸν ἱερὸν ἐκεῖνον χῶρον κατοπτεῦσαι, καθάπερ οἱ ἀνόητοί ποτε ἐπενόουν Ἀλῳάδαι, ἡ
γοῦν ψυχὴ διὰ φιλοσοφίας, λαβοῦσα ἡγεμόνα τὸν νοῦν, ἐπεραιώθη καὶ ἐξεδήμησεν, ἀκοπίατόν
τινα ὁδὸν εὑροῦσα, καὶ τὰ πλεῖστον ἀλλήλων ἀφεστῶτα τοῖς τόποις τῇ διανοίᾳ
συνεφόρησε, ῥᾳδίως, οἶμαι, τὰ συγγενῆ γνωρίσασα, καὶ θείῳ ψυχῆς ὄμματι τὰ θεῖα
καταλαβομένη, τοῖς τε ἀνθρώποις προφητεύουσα. Τοῦτο δὲ ἔπαθε, καθ’ ὅσον οἷόν τε
ἦν, πᾶσιν ἀφθόνως μεταδοῦναι βουληθεῖσα τῶν παρ’ αὑτῇ τιμίων Ho più volte
pensato che la filosofia sia cosa veramente divina e sovrumana, o Alessandro, e
soprattutto in quell'aspetto per cui essa, da sola, innalzandosi alla contemplazione
dei componenti della realtà nella loro totalità, si è impegnata a conoscere la
verità che è in essi. E, mentre tutte le altre scienze si tennero lontane da
questa verità a motivo della sua altezza e grandezza, la filosofia non temette
l'impresa e non si reputò indegna delle cose 20 Rivendica la paternità
aristotelica dell’opera G. Reale, A.P. Bos, Il trattato Sul cosmo per
Alessandro attribuito ad Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1996. 355 più
belle, e, anzi, ritenne che la conoscenza di quelle cose fosse in sommo grado
congenere alla propria natura e massimamente conveniente. Infatti, poiché non
era possibile col corpo raggiungere i luoghi celesti, lasciare la terra e
contemplare quelle sacre regioni, come follemente tentarono gli Aloadi, l'anima,
mediante la filosofia, preso l'intelletto come conduttore, varcò il confine e
abbandonò l'ambiente che le è familiare, avendo trovato una via che non stanca.
E le cose più lontane fra loro nello spazio essa riunì insieme nel pensiero,
con facilità, credo, perché riconobbe le cose che le sono congeneri e con il
divino occhio dell'anima colse le cose divine, rivelandole poi agli uomini. E
questo le accadde perché desiderava, nella misura in cui era possibile, far
partecipi senza restrizione tutti gli uomini dei suoi tesori21 . Quello che
risulta interessante - in chiave eleatica – è, nei versi empedoclei e nelle
righe peripatetiche, il nesso tra lo sguardo del pensiero (νόος, διάνοια) e la
dimensione del tutto - le quattro radici in Empedocle, il riferimento agli
elementi della totalità nello pseudo-Aristotele; nel frammento anassagoreo,
invece, l’uso di κόσμος nel senso evidentemente di universo, complesso del
mondo (e non genericamente di ordine), come rivelato dal riferimento ai
tradizionali contrari cosmogonici «caldo-freddo», unitamente alla negazione
della separazione delle cose nella unità del κόσμος. Lo stesso Empedocle (DK 31
B26.5) impiega κόσμος nella formula εἰς ἕνα κόσμον («in un unico mondo»)
nell’ambito della descrizione degli effetti cosmogonici dell’alternanza ciclica
di Amore e Contesa; mentre in Eraclito (B30: κόσμον τόνδε), il termine è
presente in senso già prossimo al valore cosmico, per indicare cioè l’ordine
delle cose. L’espressione del pensatore agrigentino «osservala con l'intelligenza»
(τὴν σὺ νόωι δέρκευ) sembra effettivamente ricalcare il parmenideo λεῦσσε νόῳ,
così come la pseudo-aristotelica «le cose più lontane fra loro nello spazio
essa riunì insieme nel pensiero» (τὰ πλεῖστον ἀλλήλων ἀφεστῶτα τοῖς τόποις τῇ
διανοίᾳ 21 Ivi, p. 175. 356 συνεφόρησε) richiama complessivamente B4.1 (λεῦσσε
δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως). L’impressione è che i versi del Περὶ
φύσεως, i loro cenni al κόσμος, alle cose lontane e vicine, assenti e presenti,
allo sguardo del νόος, fossero chiaramente significativi in prospettiva
cosmologica già nel V secolo (Empedocle, Anassagora), a ridosso della sua
composizione: forse perché estrapolati dalla sezione cosmologica del poema,
forse perché in quel senso andava inteso l’insieme dell’impegno parmenideo
(come si evincerebbe in particolare dalla ripresa peripatetica, che risente
tuttavia della lezione aristotelica). La possibile (probabile) implicazione
cosmica, l’accenno alla dinamica di concentrazione-dispersione (eco plausibile
della cosmogonia di Anassimene), e, in relazione a τὸ ἐόν, il rilievo della
funzione omogeneizzante del νόος potrebbero suggerire ancora una posizione
introduttiva del frammento rispetto alla revisione cosmologica proposta
dall’Eleate (sulla scorta della lezione di B8): premessa, dunque, alla vera e
propria esposizione fisicocosmologica della seconda sezione. Disperdendosi,
concentrandosi I versi 3-4 alludono a qualche specifico precedente
cosmologico-cosmogonico, ovvero dobbiamo pensare a un riferimento generico? Gli
interpreti sono divisi anche su questo punto: qualcuno, come Coxon22, vi coglie
una polemica nei confronti della teoria di una sostanza prima soggetta a
condensazione e rarefazione (Anassimene23, pur non escludendo il coinvolgimento
polemico di Eraclito DK 22 B9124); altri, come Guthrie25, ritengono Parmenide
22 Op. cit., p. 189. 23 Su questo concordano Reinhardt, Gigon, Albertelli. 24
Il frammento recita: ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι δὶς τῶι αὐτῶι καθ’ Ἡράκλειτον
οὐδὲ θνητῆς οὐσίας δὶς ἅψασθαι κατὰ ἕξιν < τῆς αὐτῆς >· ἀλλ’ ὀξύτητι καὶ
τάχει μεταβολῆς σκίδνησι καὶ 357 alluda a Eraclito (B91)26; altri ancora, come
Conche27, valorizzando l’intenzione ontologica del frammento, dubitano che
possa riferirsi a fenomeni di condensazione-rarefazione, giudicando tale
lettura “obiettivista”, superficiale e banale. In realtà, se si prende sul
serio l’interesse cosmologico del poema di Parmenide, pare corretto
individuarne un obiettivo polemico, da cui il filosofo avrebbe preso le
distanze: nella logica dell’opera si potrebbe ipotizzare che la riflessione più
strettamente ontologica offra gli strumenti concettuali per contestare
alternativi modelli esplicativi della natura e fondare una più consapevole e
coerente teoria fisica. Schematicamente convincente la lezione di Graham28, il
quale, ammiccando a Thomas Kuhn, individua tre “paradigmi” scientifici,
successivamente attivi tra VI e V secolo a.C.: (i) quello con cui
originariamente si ricercò la scaturigine (φύσις) degli enti, il loro principio
(ἀρχή), e si tentò di inquadrare i fenomeni naturali, indicato come Generating
Substance Theory (GST); (ii) quello che avrebbe, secondo l’autore, radici nella
seconda parte del poema parmenideo e sarebbe poi stato sviluppato, più o meno
coerentemente, dai pensatori tradizionalmente designati come “pluralisti”
(Empedocle, Anassagora, atomisti), definito come Elemental Substance Theory
(EST); πάλιν συνάγει (μᾶλλον δὲ οὐδὲ πάλιν οὐδ’ ὕστερον, ἀλλ’ ἅμα συνίσταται καὶ
ἀπολείπει) καὶ πρόσεισι καὶ ἄπεισι Non è possibile scendere due volte nello stesso
fiume, secondo Eraclito, né si può toccare due volte una sostanza mortale
nell'identico stato; ma, per lo slancio e la velocità del mutamento, si
disperde e di nuovo si raccoglie (piuttosto, non di nuovo né dopo, ma a un
tempo si riunisce e si separa), viene e va. 25 Op. cit., p. 32. 26 Su questo
concordano Diels, Nestle, Cornford, Vlastos, Calogero, Mondolfo. 27 Op. cit.,
p. 94. 28 D.W. Graham, Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of
Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006.
358 (iii) quello espresso pienamente nei frammenti di Diogene di Apollonia,
riconosciuto come Material Monism (MM). Il primo corrisponde al programma
scientifico ionico, così riassunto per punti29: a) esiste una sostanza
originaria da cui tutto il resto è sorto; b) esiste un processo per cui gli
elementi costitutivi del cosmo scaturiscono dalla sostanza originaria; c) tali
elementi si dispongono negli strati materiali del cosmo; d) le strutture e i
materiali del cosmo si stabilizzano nell’ordine che conosciamo; e) emergono gli
esseri viventi; f) un’ampia varietà di fenomeni è spiegabile secondo il
modello. Rispetto a questo paradigma (modulato da Anassimene nel senso di una
vera e propria teoria del mutamento30), Eraclito (cui è dedicata da Graham
un’analisi convincente31) avrebbe abbandonato l’idea di primato della «sostanza
generatrice» a vantaggio di quella di processo universale, regolato da una
legge di scambio di masse elementari (fuoco, terra, acqua). È alla luce di
questi precedenti, in particolare dell’impatto della lezione di Eraclito32, che
Graham interpreta l’ontologia di Parmenide. La prima parte del Περὶ φύσεως
metterebbe in campo tutti gli strumenti concettuali per negare il divenire come
generazione dal non-essere e affermare una concezione di «ciò che è» che
l’autore ritiene compatibile con il pluralismo di sostanze ingenerate,
incorruttibili, omogenee, immutabili e complete (Graham parla di Eleatic
Substantialism): la seconda sezione (Doxa) avrebbe quindi proposto una cosmologia
basata sulle proprietà focalizzate nella Aletheia, coerente con i principi
della metafisica di Parmenide33 . Lasciando per il momento in sospeso altre
valutazioni, la collocazione della riflessione dell’Eleate proposta da Graham
appare 29 Ivi, pp. 8-9. 30 Ivi, pp. 45-84. La rivalutazione del contributo del
“terzo” milesio è uno degli aspetti più interessanti dell’opera. 31 Ivi, pp.
113-147. 32 Ivi, pp. 148-162. 33 Ivi, pp. 182-5. 359 sensata e potrebbe aiutare
a leggere correttamente anche il nostro frammento. Da un lato, infatti, i versi
attestano un ruolo del νόος chiaramente inteso a ricondurre gli ἀπεόντα alla
presenza di τὸ ἐόν, negando quindi lo spazio del non-essere potenzialmente
implicito nel movimento assenza-presenza; dall’altro anticipano (ovvero
sottintendono) i rilievi di B8 sull’omogeneità dell’essere, per rifiutare
quelle proposte esplicative che sembravano comportare, di fatto, accanto
all’essere del principio\natura, l’implicita ammissione del non-essere.
Anassimene (DK 13 B1), in effetti, sulla base di quanto espone Plutarco,
avrebbe sostenuto: τὸ γὰρ συστελλόμενον αὐτῆς καὶ πυκνούμενον ψυχρὸν εἶναί
φησι, τὸ δ’ ἀραιὸν καὶ τὸ χ α λ α ρ ὸ ν (οὕτω πως ὀνομάσας καὶ τῶι ῥήματι)
θερμόν [Anassimene] dice infatti che la parte dell’aria che si contrae e si
condensa è fredda, mentre la parte che è dilatata e “allentata” (è proprio
questa l'espressione che usa) è calda […] (DK 13 B1). Eraclito, a sua volta:
σκίδνησι καὶ πάλιν συνάγει [...] καὶ πρόσεισι καὶ ἄπεισι […] si disperde e di
nuovo si raccoglie […] viene e va (DK 22 B91). Il frammento di Parmenide – un
breve passaggio nelle centinaia di versi complessivi del poema – potrebbe
dunque essere risultanza di una più o meno esplicita evocazione dei precedenti
ionici, per marcare l'originalità del contributo eleatico soprattutto in
termini di coerenza – come attesterebbe l’insistenza sul νόος e sul suo operare
- con i presupposti taciti nella stessa concezione della realtà della φύσις- ἀρχή
ionica. Proprio questa possibile funzione critica farebbe di B4 una sorta di
passe-partout per il poema: 360 (i) come controparte gnoseologica
dell’argomentazione di B8 e dunque degli effetti paradossali di una coerente
riflessione ontologica rispetto ai dati del senso comune; (ii) come trait
d'union tra la sezione ontologica e quella cosmologica, a sottolinearne la
continuità, cioè nell’ambito di una positiva interpretazione della φύσις sulla
scorta della Verità, come vuole Ruggiu34 . 34 Op. cit., p. 251. 361
UN’ESPOSIZIONE CIRCOLARE [B5] Il breve frammento ci è conservato in una
citazione di Proclo, che lo connette a B8.25 (ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει, «ciò che è
si stringe infatti a ciò che è») e B8.44 (μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ, «a partire
dal centro ovunque di ugual consistenza»), riferendolo dunque all’Essere. In
realtà, come spesso è stato riconosciuto, è difficile sfuggire all’impressione
di una decontestualizzazione disorientante. Se l’indicazione di Proclo può
suggerire un suo significato ontologico, in linea, per altro, con la relazione
tra νοεῖν e εἶναι che emerge da B3 e la dinamica ἀπεόντα-παρεόντα-τὸ ἐόν di B4,
è forte tuttavia tra gli interpreti l’opzione metodologica, che appare in
qualche lettura particolarmente convincente1 . Anche nel caso di B5, la
questione del suo significato è decisiva per la sua collocazione. Laddove
prevalga il rilievo del suo senso ontologico, l’attuale sequenza può essere
mantenuta2 . Laddove, al contrario, sia privilegiato il senso metodologico del
frammento, il suo posizionamento nell’attuale ordinamento del materiale
andrebbe rivisto (come fanno, tra gli altri, Pasquinelli e Coxon), a ridosso di
B1 e prima di B2, come preliminare della esposizione divina. Registrata la
ricorrenza dell’immagine del cerchio all’interno delle citazioni del poema - la
verità «ben rotonda» (B1.29); l'analogia tra τὸ ἐόν e εὐκύκλου σφαίρης ὄγκος
(«massa di ben rotonda palla», B8.43); il discorso sulla verità indicato come ἀμφὶς
Ἀληθείης (B8.51); il concetto di «limite estremo» (πεῖρας πύματον, B8.42) –
appare comunque forzata la conclusione di Ruggiu3 , secondo cui B5 esporrebbe
la forma nella quale l’Essere esprime la propria natura. Soprattutto se teniamo
conto della possibilità che il materiale conservato rappresenti solo una quota
minoritaria dei versi del poema integrale. Nell’ambito della comunicazione della
Dea, invece, il passo potrebbe essere inteso e marcare lo scarto tra 1 È il
caso dell’analisi di Coxon e di quella di Conche. 2 Ovvero, ipotizzando una
(improbabile) lacuna in B8 (Cornford), potrebbe essere accettato il suo
inserimento tra i due riferimenti di Proclo. 3 Op. cit., p. 253. 362 sapere
divino e sapere umano: la necessità di un ordine espositivo rivolto al κοῦρος e
la sua indifferenza rispetto alla conoscenza di chi lo propone. Conche4 ha
giustamente messo in relazione il frammento con il programma di insegnamento
annunciato dalla Dea: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι È necessario che tutto tu
apprenda (B1.28). La verità che il κοῦρος apprenderà è la verità del Tutto, un
sapere compiuto: i limiti dell’uomo non consentono tuttavia che tale sapere sia
acquisito tutto in una volta. È necessario un ordine, corrispondente alle tappe
di una ricerca, modalità tipicamente umana di accedere alla conoscenza. Il
percorso, la via da seguire (affermazione di una via ed esclusione di un’altra,
ecc.) rappresentano un escamotage didattico che ha senso solo per il discepolo,
non per la Dea: per lei il punto di partenza e l’ordine di esposizione sono
indifferenti. In relazione a una verità definita nel poema εὐκυκλής («ben
rotonda»), Cerri valorizza, a sua volta, la prospettiva didascalica del
frammento5 , rafforzata dal possibile accostamento a Eraclito (DK 22 B1036 ) e
dall’eco nel Sofista platonico (237a7 ): Parmenide implicherebbe una sorta di
circolarità della ricerca scientifica e del discorso che la espone8 . 4 Op.
cit., p. 98. 5 Pur non escludendo, a priori, la possibilità di un suo
coinvolgimento all’interno di una (in vero implausibile) specifica
argomentazione geometrica. 6 Il frammento recita: ξυνὸν γὰρ ἀρχὴ καὶ πέρας ἐπὶ
κύκλου περιφερείας Comune è, in effetti, nella circonferenza del cerchio il
principio e la fine. 7 Il passo è il seguente: Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι
τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ μέγας, ὦ
παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ τέλους 363 In ogni caso, alla luce
della successiva trattazione dell’Essere e del mondo della natura, sembra
difficile poter insistere su tale circolarità, come ha opportunamente segnalato
Coxon9 : nel primo caso, infatti, lo sviluppo argomentativo procede in una direzione
lineare; nel secondo l’esposizione delle «opinioni dei mortali» doveva
diffondersi sul piano storico-descrittivo. Né è plausibile che la circolarità
indifferente possa riferirsi al complesso delle due esposizioni, dipendendo la
comprensione della seconda dalle analisi della prima10. Indifferente e
circolare, invece, potrebbe essere considerata la discussione delle possibili
vie di ricerca, non necessariamente legata a un ordine di sequenza e in questo
senso indifferente rispetto all’argomento da articolare. Come segnala Coxon11,
la circolarità di quella preliminare discussione sarebbe contrapposta alla
linearità degli argomenti sviluppati lungo la via imboccata verso la Verità
(B8). Una variante interessante è quella avanzata da Bicknell12, che abbiamo
registrato nelle annotazioni alla traduzione: intendendo ξυνὸν come a basic
point, B5 potrebbe essere immediatamente anteposto alla κρίσις di B2, per
marcare come a essa l’argomentazione della Dea avrebbe dovuto ripetutamente
richiamarsi. τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων [DK
28 B7.1-2] Questo discorso ha osato supporre che sia ciò che non è: il falso,
in effetti, non potrebbe generarsi in altro modo. Il grande Parmenide, invece,
ragazzo mio, a noi che eravamo ragazzini proprio contro questo discorso
testimoniava dall'inizio alla fine, in prosa e in versi, che [citazione
B7.1-2]. 8 Cerri, op. cit., p. 202. 9 Op. cit., pp. 171-2. 10 In questo senso
non convince il rilievo di Pasquinelli (I presocratici, p. 396) sulla presunta comunanza
di tutti i punti del discorso della Dea. 11 Op. cit., pp. 171-2. 12 P.J.
Bicknell, “Parmenides, DK 28 B5”, cit., pp. 9-11. 364 ESSERE E NULLA [B6] Il
frammento, ricostruito a partire dalle sole sparse citazioni di Simplicio
(quindi, come osserva Cordero1 , ricomparso a un millennio dalla stesura del
poema), è dallo stesso commentatore per un verso direttamente connesso a B22 ,
per altro proiettato su B7 e B8: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ συναληθεύει, δι’ ἐκείνων
λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα· εἰπὼν γὰρ
[B6.1b-2] < ἐπάγει > [B6.3-9] μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν
συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν
ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] Sostiene che le proposizioni contraddittorie
non siano a un tempo vere [letteralmente: la contraddizione non sia vera] in
quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti: dice infatti
[citazione B6.1b-2a] e aggiunge [citazione B6.3-9]. (In Aristotelis Physicam
117, 2) Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono l'essere e il
non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via
che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.] (In
Aristotelis Physicam 78, 2). È dunque introduttivamente importante, per una
valutazione del senso e della posizione del testo, ricordare che la citazione
di Simplicio è intesa a confermare l’uso condizionante del principio di
contraddizione3 (donde l’accostamento a B2) come premessa 1 By Being, It Is,
cit., p. 90. 2 Simplicio cita B6.1b-9 subito dopo aver citato B2.3-8. 3 In
questo senso Simplicio ne confermava l’implicita attribuzione a Parmenide da
parte di Aristotele (Metafisica IV, 3 1005 a28-35): 365 che lo stesso Simplicio
salda esplicitamente all’argomento ontologico successivo (B8). In effetti, il
primo verso e il primo emistichio del secondo sono richiamati dal commentatore,
in altro contesto, proprio per marcare il nesso tra pensiero ed essere: ἀλλὰ καὶ
τὸ πάντων ἕνα καὶ τὸν αὐτὸν εἶναι λόγον τὸν τοῦ ὄντος ὁ Παρμενίδης φησὶν ἐν
τούτοις [B6.1-2a]. εἰ οὖν ὅπερ ἄν τις ἢ εἴπῃ ἢ νοήσῃ τὸ ὄν ἐστι, πάντων εἷς ἔσται
λόγος ὁ τοῦ ὄντος Ma che la nozione di tutte le cose sia una e la stessa,
quella dell'essere, Parmenide sostiene in questi versi: [B6.1-2a] Se proprio
l'essere è ciò di cui è possibile dire e pensare, di tutte le cose vi sarà una
sola nozione, quella dell'essere (In Aristotelis Physicam 86, 25-30). Per la
sua discussa interpretazione è corretto e inevitabile rinviare al complesso
B2-B3, a maggior ragione ipotizzando che gli attuali B4 e B5 siano fuori posto
(in particolare che B5 possa precedere immediatamente B2 e B4 trovarsi a
cavaliere tra prima e seconda sezione). È possibile, infatti, intravedere nei
versi e nel contesto della citazione la centralità del riferimento critico a τό
μὴ ὥστ’ ἐπεὶ δῆλον ὅτι ᾗ ὄντα ὑπάρχει πᾶσι (τοῦτο γὰρ αὐτοῖς τὸ κοινόν), τοῦ
περὶ τὸ ὂν ᾗ ὂν γνωρίζοντος καὶ περὶ τούτων ἐστὶν ἡ θεωρία. διόπερ οὐθεὶς τῶν
κατὰ μέρος ἐπισκοπούντων ἐγχειρεῖ λέγειν τι περὶ αὐτῶν, εἰ ἀληθῆ ἢ μή, οὔτε
γεωμέτρης οὔτ’ ἀριθμητικός, ἀλλὰ τῶν φυσικῶν ἔνιοι, εἰκότως τοῦτο δρῶντες·
μόνοι γὰρ ᾤοντο περί τε τῆς ὅλης φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος Così, in
quanto è chiaro che [gli assiomi] appartengono a tutte le cose in quanto sono
(l'essere è infatti ciò che è comune a tutti), è proprio di colui che indaga
l'essere in quanto essere anche lo studio di questi [assiomi]. Perciò, nessuno
di coloro che si limitano all'indagine di una parte si cura di dire qualcosa di
essi, se siano veri o no: non il geometra, né il matematico. Ne parlarono,
tuttavia, alcuni dei fisici, e a ragione: credevano in effetti di essere gli
unici a ricercare sul complesso della natura e sull'essere. 366 ἐὸν (Simplicio:
τὸ μὴ ὂν), formula estratta dalla seconda «via di ricerca» di B2, che
evidentemente aveva costituito il preliminare oggetto di discussione nella
parte mancante del primo logos della Dea. Come rivela l’ampio dibattito intorno
alla traduzione del testo greco e alla sua intellezione, il frammento è
decisivo per determinare: (i) la natura delle «vie di ricerca per pensare»;
(ii) il numero di tali vie; (iii) l’obiettivo della polemica parmenidea. In
particolare, relativamente all’ultimo punto, è dall’Ottocento oggetto di
contesa l’attribuzione esatta dei riferimenti a βροτοὶ εἰδότες οὐδέν («mortali
che nulla sanno»), δίκρανοι («uomini a due teste»), e ἄκριτα φῦλα («schiere
scriteriate»), che molti hanno inteso come allusioni a Eraclito e seguaci,
trovando nelle espressioni degli ultimi versi un possibile riscontro verbale
(come abbiamo segnalato in nota): οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν
νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è
considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di
[costoro] tutti il percorso torna all'indietro (B6.8-9). La natura delle vie Il
primo verso e il primo emistichio del secondo, che sembrano fornire
nell’insieme un asserto e le condizioni che lo giustificano (come evidenziato
dal ricorso all’indicatore di premessa γάρ), introducono il primo problema
interpretativo: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄
οὐκ ἔστιν che può rendersi letteralmente come: 367 È necessario il dire e il
pensare che ciò che è è; poiché è possibile essere [ovvero, come preferiamo: è
possibile infatti essere], il nulla, invece, non è». La nostra traduzione4
ricava due formule modali («è necessario», «è possibile») dal testo greco, che
appare invece immediatamente costruito su tre formule tautologiche: ἐὸν ἔμμεναι
(letteralmente: «ciò che è [l'essere] è»), ἔστι εἶναι (che si potrebbe rendere
letteralmente: «è essere» ovvero «[l']essere è»), μηδὲν οὐκ ἔστιν
(letteralmente: «ni-ente non è»). L’essere dell’ente Il primo emistichio è
costituito da tre blocchi testuali: (i) l’espressione verbale χρή, che abbiamo
reso come «è necessario»: si tratta di una formula con cui la Dea rileva un
passaggio significativo della propria comunicazione, proposto come conclusione
di un argomento (le premesse introdotte dall'indicatore γάρ); (ii) le due forme
verbali all’infinito – λέγειν e νοεῖν – precedute da τό, con valore di articolo
sostantivante («il [fatto di] dire», «il [fatto di] pensare»), ovvero, come
crede qualcuno, di dimostrativo in funzione prolettica («dire questo e pensare
questo: ….»); in ogni caso è evidente che la Dea (Parmenide) coinvolge due
verbi particolarmente pregnanti nel contesto della sua rivelazione: νοεῖν
richiama immediatamente B3 e B2.2 (νοῆσαι), mentre λέγειν può collegarsi a
φράζω (B2.6-8); (iii) l’insieme verbale ἐὸν ἔμμεναι, formato dal participio
presente del verbo «essere» (ἐόν, forma ionica di ὂν: «essente», ovvero «ente»
o ancora «ciò che è» e quindi anche «essere») e dall’infinito dello stesso
verbo (ἔμμεναι nella forma epica), che 4 Per le costruzioni e traduzioni alternative
rinviamo alle note testuali al frammento. 368 abbiamo reso, come appare
naturale, come proposizione infinitiva (dichiarativa) retta da λέγειν e νοεῖν:
si tratta della prima formulazione ambigua (per la multivocità del verbo
essere) della tautologia centrale (μηδὲν οὐκ ἔστιν non fa che esprimerla in
negativo: da una lato l’«ente» di cui si afferma l’essere, dall’altro il
«ni-ente» di cui si nega lo stesso essere). Nel contesto la traduzione proposta
appare plausibile, ed evidenzia la difficoltà di interpretazione dell’ultimo
blocco: la scelta di Parmenide è chiaramente quella di sfruttare la densità
semantica della coppia participio-infinito dello stesso «essere», per marcare
l’identità di soggetto e verbo. L’effetto ricercato potrebbe essere quello – su
cui giustamente insiste la lettura heideggeriana di Beaufret 5 e Conche 6 - di
richiamare l’attenzione sull’εἶναι (ἔμμεναι) dell’ἐόν, sull’essere di ciò che
è; ovvero, più semplicemente, sul fatto d’essere, sull'evidenza dell'esistenza.
È da tener presente che, in B2.7-8, la Dea aveva denunciato come: οὔτε γὰρ ἂν
γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· poiché non potresti
conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo.
B6 si apre appunto sostituendo all’espressione negativa τό μὴ ἐὸν di B2.7 il
positivo ἐόν; al rilievo dell’impossibilità di conoscere e indicare (esprimere)
«ciò che non è», quello della necessità di dire e pensare l’«essere» dell’ἐόν.
Nel passaggio interviene l’importante novità dell’introduzione del soggetto di
εἶναι (ἔμμεναι), ἐόν appunto: l’affermazione «è e non è possibile non essere»
(B2.3: ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) che caratterizzava il Πειθοῦς
κέλευθος, «percorso di Persuasione», trova in B6.1a ἐόν come proprio naturale
soggetto di referimento. Nella sequenza B2-B6, possiamo intendere ἐόν come
formula concettuale scaturita dalla riflessione sull'espressione della prima
via di 5 Parménide, Le poème, présenté par J. Beaufret, cit., p. 81. 6 Op.
cit., p. 102. 369 ricerca per pensare7 : formula che manifesta l’essere di ciò
di cui si afferma ἐστίν, ovvero come formula sintetica riassumente la totalità
delle cose che si manifestano nella esperienza (come ricorda Thanassas8 , è
frequente l’uso del plurale ἐόντα nella sezione sulla Alētheia) di cui ἐστίν
focalizza il fatto d’essere: ciò che è, l’ente, la “cosa”, «è», esiste. Siamo
portati decisamente a credere che, nel contesto, il valore di ἔμμεναι sia
esistenziale, pur avendolo reso ambiguamente con «essere». L’uso dell’iniziale
χρή – anche senza volergli attribuire il significato forte di necessità logica
– è funzionale alla ripresa della conclusione negativa di B2 riguardo a τό μὴ ἐὸν,
integrata dal rilievo di B3: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa
cosa, infatti, è pensare ed essere. Delle «due vie di ricerca» di B2 – le
uniche «per pensare» - quella che pensava che «non è» è di fatto indisponibile,
perché, come abbiamo ricordato, «ciò che non è» non è conoscibile né
esprimibile; questo porta la Dea in B3 a rilevare il nesso tra νοεῖν e εἶναι,
tra il pensiero che svela (νοεῖν) e l’unico suo reale oggetto possibile (εἶναι)
alla luce dell’iniziale alternativa tra le vie. Nell’apertura di B6, ai due
infiniti (λέγειν e νοεῖν) viene esplicitamente attribuito un oggetto: la dichiarativa
ἐὸν ἔμμεναι («ciò che è è»). La Dea non si limita in questo modo a riprendere
ed esplicitare la propria tesi: sottolinea anche come pensiero e discorso
debbano correttamente ammetterla9 . A tale scopo, in B6.1b-2a, ella reitera
nella sostanza le risultanze di B2: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν essere,
infatti, è possibile, 7 Thanassas, op. cit. p. 45. 8 Ivi, p. 44. B4.1-2, B8.25,
B8.47-8. 9 Cordero, op. cit., p. 92. Preferiamo attenuare il carattere di
necessità logica che Cordero attribuisce a χρή. 370 il nulla, invece, non è. La
formula ἔστι εἶναι può estrarsi positivamente dall'insieme di affermazione e
proibizione nella prima «via di ricerca per pensare»: ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι
μὴ εἶναι. L'espressione μηδὲν οὐκ ἔστιν, a sua volta, ribadisce l'assolutezza
della seconda via: ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι, attribuendo
coerentemente a οὐκ ἔστιν un adeguato soggetto logico. La traduzione dei due
emistichi e la loro interpretazione sono comunque particolarmente controverse.
Essere, non-essere Traducendo letteralmente: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν
abbiamo almeno tre possibili costruzioni e relative plausibili soluzioni: (i)
intendere il precedente ἐὸν come soggetto del primo emistichio e μηδὲν del
secondo: poiché [ovvero: infatti] è essere, il nulla, invece, non è; (ii)
intendere ἐὸν come soggetto di entrambi, con μηδὲν predicato (come εἶναι):
poiché [ovvero: infatti] è essere, e non è nulla; 371 (iii) intendere εἶναι
come soggetto del primo emistichio e μηδὲν del secondo: poiché [ovvero:
infatti] l'essere è, il nulla, invece, non è. Nell'ultimo caso, esplicitamente
ritroveremmo la disgiunzione ἐστί\οὐκ ἔστι, accompagnata dai due soggetti
logici (il primo εἶναι, il secondo μηδέν) che la trasformano in una duplice
asserzione tautologica (quindi vera). Per molti versi si tratta della versione
più naturale10, ma ha lo svantaggio di non dare del tutto ragione dell’uso di
γάρ. Seguendo una affermazione (χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι), esso
dovrebbe introdurre le proposizioni in grado di giustificarla: ora la doppia
tautologia (si tratta dell’aspetto che rende più perplessi) sembra
semplicemente riformulare la dichiarativa (εἶναι funge da soggetto in
sostituzione di ἐόν), negando l’essere al soggetto contrario («[il] ni-ente»).
La Dea, dunque, sosterrebbe la propria tesi direttamente, marcando la non
esistenza del non-essere: oggetto del dire e del pensare non può allora che
essere «ciò che è», perché solo «ciò che è [l’essere] è [esiste]». Il vantaggio
di questa soluzione è quello di mettere in valore la possibile struttura delle
due vie di B2: come abbiamo osservato, la disgiunzione ἐστί\οὐκ ἔστι è
riformulata in termini tautologici, dunque investirebbe in realtà due verità,
in questo senso proposte come le uniche vie di ricerca per pensare11, una delle
quali (sviluppare coerentemente la premessa «che è») feconda, l’altra
(sviluppare coerentemente la premessa «che non è») assolutamente improduttiva.
Questo spiegherebbe il tono del discorso della Dea, che cambia e si fa sprezzante
solo quando denuncia la confusione dei βροτοί che incrociano le due vie: come
fa osservare Giorgio 10 Tra l'altro potrebbe essere suffragata dal fatto che
due codici (BC) di Simplicio riportano τò εἶναι. 11 In questo senso la lettura
della Germani, op. cit., p. 191. 372 Colli12, la via enunciata in B2.5 non era
stata rifiutata con disprezzo, perché volgare, come accade invece con quella
formulata a partire da B6.4. Le altre due soluzioni, in fondo, non si
allontanano concettualmente dalla precedente, trovando comunque nel contesto
dei frammenti una loro sensata giustificazione. Nel primo caso («poiché è
essere, il nulla, invece, non è») sarebbe messo in valore l'essere di «ciò che
è» (ἐόν), dell'ente, ribadendo la non esistenza del nulla, del
"ni-ente"; nel secondo (la costruzione appare meno naturale) la Dea
otterrebbe lo stesso risultato sottolineando che «ciò che è» è «essere» e non è
«nulla». È necessario, è possibile, non è possibile Un’interessante soluzione
alternativa alla traduzione letterale è quella proposta da O’Brien: essa,
rendendo ἔστι\οὐκ ἔστι con valore potenziale, ricava da B6.1-2a tre espressioni
modali: necessità (χρή), possibilità (ἔστι), impossibilità (οὐκ ἔστιν): Il faut
dire ceci et penser ceci: l’être est; car il est possible d’être, il n’est pas
possible que ce qui n’est rien. Poiché è possibile essere ed è impossibile che
il ni-ente sia, dire e pensare (presupposti nel ragionamento) dovranno
riconoscere come loro oggetto necessario l’ente. Come ricorda l’autore13,
infatti, i candidati a essere oggetto di tali attività sono ἐόν e μηδέν: il
primo può esistere, il secondo no. La difficoltà di questa interpretazione è
principalmente legata alla lingua greca, in cui ἔστι assume valore potenziale
in relazione con un infinito: è dunque legittima la traduzione del secondo
emistichio del v.1, problematica la traduzione di B6.2a, nella quale, 12 Gorgia
e Parmenide. Lezioni 1965-1967, a cura di E. Colli, su appunti di E. Berti,
Adelphi, Milano 2003, p. 175. 13 O’Brien, Études sur Parménide, cit., vol. I,
p. 214. 373 non a caso, O’Brien sottintende un infinito (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν
< εἶναι >). Anche Mansfeld14 opta per una (diversa15) resa potenziale in
entrambi i casi, proprio per garantire la corrispondenza, pur riconoscendo
ininfluente la traduzione con valore esistenziale di B6.2a (come abbiamo scelto
di fare). Parmenide potrebbe dunque aver derivato, dall’affermazione della
possibilità dell’essere e dalla negazione del nulla, la necessità che l'essere
sia16 . Resta comunque valida l’obiezione, avanzata da Leszl 17 , per cui,
attribuendo alle due ricorrenze di ἔστι valori diversi, verrebbe meno la
simmetria e soprattutto l'uniformità nell’impiego del verbo. Le due vie di B2
in B6 In apertura di B6, insomma, la Dea ritorna sull’alternativa delineata in
B2, precisandola: sottolinea la necessità (correttezza) del riconoscimento
dell’ἐόν come oggetto di λέγειν e νοεῖν, escludendo che μηδέν (τό μὴ ἐὸν di
B2.7), teorico contenuto della via di ricerca «non è ed è necessario non
essere», esista. In pratica ci troviamo di fronte a una riproposizione in
positivo della conclusione di B2. La puntualizzazione riguarda «le uniche vie
di ricerca per pensare»: alla pura formulazione oppositiva ὅπως ἔστιν\ὡς οὐκ ἔστιν
si sostituiscono le espressioni tautologiche – ἐὸν ἔμμεναι, ἔστι εἶναι, e μηδὲν
οὐκ ἔστιν, con l’esplicitazione, dunque, di adeguati soggetti logici. 14 Op.
cit., p. 90. 15 Traduce: «denn dieses (das Seiende) kann sein, ein Nichts
hingegen kann nicht sein». 16 Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 174) ha
osservato come l'affermazione iniziale di B6.1 (ἐὸν ἔμμεναι) sia l'enunciazione
della prima via di B2, mentre B6.2 enuncerebbe la seconda. Ciò confermerebbe,
secondo Colli, i soggetti delle due vie: «ciò che è», «ciò che non è». Questa
lettura fa cogliere un nuovo aspetto: nel frammento 6 ci sarebbe una
congiunzione delle due vie. Tra la possibilità che l’essere sia e la necessità
che il nulla non sia, dovremmo scegliere la possibilità, che così diventerebbe
a sua volta necessità. 17 Op. cit., p. 133. 374 In B2 la Dea aveva prospettato
due potenziali percorsi di indagine – gli unici «per pensare»: (i) l'uno,
ricercava pensando ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, in pratica
sviluppando le implicazioni dell'affermazione di esistenza - «è» - e negando
possibilità al non-essere: valorizzando il significato arcaico di νοεῖν (come
un vedere che coglie immediatamente il proprio oggetto), si potrebbe sostenere
che lungo questa pista di indagine il focus era destinato a concentrarsi
assolutamente sull'essere; (ii) l’altro, al contrario, tentava la ricerca
imboccando la direzione opposta, pensando cioè ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι
μὴ εἶναι, nello sforzo di ricavare le implicazioni della negazione «non è»
rinforzata dal vincolo di necessità: in tal modo la seconda «via di ricerca per
pensare» tracciava un percorso verso il nulla, subito inibito in quanto in tale
direzione non vi era «ni-ente» (μηδὲν) da vedere e riferire. La seconda via
poteva essere delineata solo come radicale alternativa alla prima e sostanzialmente
per confermarne la necessità: non è possibile νοεῖν, nel senso originario di
percezione mentale, se non di ciò che è. La Dea, infatti, aveva immediatamente
connotato la prima via come Πειθοῦς κέλευθος, in quanto capace di condurre alla
vera realtà (Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ): un convincente chiarimento in merito era
giunto però solo nei versi successivi, quando, a proposito della via
alternativa, ella aveva ammonito che τό μὴ ἐὸν è indisponibile all’effettiva
conoscenza ed espressione. In B2.7 la Dea aveva dunque estratto l'oggetto della
seconda via, implicitamente ponendo quello della prima. In B6.1-2a, abbiamo
l'indicazione in positivo dell'oggetto della ricerca: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄
ἐὸν ἔμμεναι e l'esplicitazione dei soggetti logici adeguati delle formule delle
vie: «ciò che è è» (ovvero «l'essere è») e «il nulla [ovvero, letteralmente:
ni-ente] non è». A questa lettura – che ha conseguenze, come vedremo,
sull'interpretazione dell’intero frammento - si contrappone in particolare 375
quella di Cordero (ma condivisa da altri), secondo cui nel complesso 6.1b-6.2a
si registrerebbe la presentazione della prima via18: «il nulla non esiste» di
B6.2a sarebbe una semplice riformulazione di 2.3b: «non è possibile non
essere», riferendosi quindi alla prima via19. In questo senso si è orientato di
recente anche Palmer20. Alla seconda via, a detta di Cordero, la Dea
alluderebbe invece subito dopo, connotando l'indiscriminata combinazione di
essere e non-essere: le cose dovrebbero essere e non essere allo stesso tempo,
come segnalato da B7.1 (εἶναι μὴ ἐόντα «che esistano cose che non sono»). La
struttura argomentativa, tuttavia, suggerisce che quanto «è necessario»
riconoscere (dire e pensare) - ἐὸν ἔμμεναι – è la compiuta, esplicita
espressione della formula per la prima via; a sua giustificazione sono addotte
la possibilità dell'essere e l'inesistenza del nulla. È decisivo soprattutto
questo rilievo. In B2.6-8 la Dea aveva infatti sottolineato il nesso tra la
seconda via e τό γε μὴ ἐὸν: essa era «sentiero del tutto privo di informazioni»
(παναπευθής ἀταρπός) in quanto «ciò che non è» è inconoscibile e
indiscernibile. La sua negatività è ora tradotta nella tautologia μηδὲν οὐκ ἔστιν,
come elemento dimostrativo per richiamare l’attenzione sulla necessità
dell'opposto ἐὸν ἔμμεναι. Il guadagno teorico su B2 riguarda sia la
riconsiderazione critica (argomentativa) del Πειθοῦς κέλευθος («percorso di
Verità»), inizialmente introdotto in forma direttiva, sia la definizione
ufficiale del suo oggetto: ἐόν. Il numero delle vie È indicativa la formula
utilizzata per valorizzare l’argomento proposto in apertura di B6: la Dea,
infatti, con espressione caratteristica dell’epica omerica ed esiodea, insiste:
18 By Being, It Is, cit., p. 99. 19 Ivi, p. 105. 20 Parmenides & Presocratic
Philosophy, cit., pp. 112-3. Palmer offre comunque un'interpretazione diversa
delle vie. 376 τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα Queste cose io ti esorto a
considerare, che sembra richiamare l’invito iniziale di B2: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω,
κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας Orsù, io dirò - e tu abbi cura della parola, una
volta ascoltata. Come in quel caso, la Dea sottolinea il rilievo
dell’alternativa tra le due vie per la corretta comprensione della realtà: il
fraintendimento della loro natura, in effetti, è all’origine della confusione
dei «mortali che nulla sanno», come appureremo tra breve. Analogamente, dopo
aver presentato la via « è ed è necessario non essere», la Dea si premura di
osservare (B2.6): τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν Questa ti dichiaro
essere sentiero del tutto privo di informazioni; in B6.3, allora, ella
ribadisce (immediatamente dopo aver affermato che «il nulla invece non è»):
πρώτης γάρ σ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < εἴργω > Da questa prima via di
ricerca, infatti, ti < tengo lontano >. Questa versione del testo greco,
con l’integrazione della lacuna dei codici assunta da Diels (sulla base di una
tradizione che risale alla edizione aldina del 1526), è stata vigorosamente
avversata da Cordero e abbandonata anche da Nehamas21 (e dalla Curd22), i quali
propongono, rispettivamente, di integrare con il verbo ἄρχω-ἄρχομαι (forma
media), «cominciare»: 21 A. Nehamas, “On Parmenides’ Three Ways of Inquiry”,
«Deucalion», 33-34, 1981, pp. 197-211. 22 Di ciò diamo conto in nota al testo
greco. 377 πρώτης γάρ τ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < ἄρξει > since you
< will begin > with this first way of investigation, πρώτης γάρ σ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ
ταύτης διζήσιος << ἄρξω > For, first, < I will begin > for you
from this way of inquiry. L’esigenza di mettere in discussione la lezione
tradizionale, sebbene giustificata da un punto di vista filologico dalla
oggettiva corruzione del testo dei manoscritti (con l’ulteriore possibilità che
la lacuna si estenda a più versi), è dettata soprattutto dalla incoerenza cui
si va incontro interpretando i primi due versi del frammento come ripresa della
sola via «che è e che non è possibile non essere», da cui, ovviamente la Dea
non potrebbe «trattenere» ovvero «tenere lontano»23, bensì solo «cominciare» o
invitare a cominciare. Pur segnalando la lacuna e riconoscendo la coerenza
degli argomenti filologici di Cordero, non crediamo necessario integrare
secondo la sua lezione 24 , ma offrirla solo come possibilità.
L’interpretazione che proponiamo è coerente con la lettura tradizionale, dal
momento che consente di riferire il complemento iniziale e il dimostrativo
ταύτης alla formula μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν. Essa evocava l'unica indicazione
desumibile dalla via di indagine «che non è e che è necessario non essere»:
l'oggetto che se ne può estrarre in verità non esiste. È probabile che dopo
l'enunciazione delle due vie la Dea avesse condotto la discussione a partire
dalla seconda, mettendo in guardia dal suo coinvolgimento: B6 e B7
rappresenterebbero la conclusione di tale disamina, mirata ad affermare la necessità
del riconoscimento che ἐὸν ἔμμεναι. In questo 23 Noto, per inciso che, nel caso
del verso B6.3, Cordero preferisce la lezione τ’ dei codici BC a quella σ’
(pronome personale) di D (con E e F), di cui si era sottolineata, per la
lezione del verso precedente, la bontà. Traducendo con il personale «ti»,
l’integrazione proposta risulterebbe impraticabile nel caso di Cordero, meno
naturale nel caso di Nehamas («comincerò per te»). 24 Che appare comunque
plausibile, dal momento che la costruzione ἄρχεσθαι + ἀπό è caratteristica
nella letteratura greca arcaica. 378 senso, la seconda via prospetta diventa
«prima» nell’ordine espositivo. Da questa prima via di ricerca, poi da quella….
Per chi (come Cordero, come noi e come altri) fa leva su B2 per sostenere un
modello duale per le vie parmenidee, B6.4-5 propone una difficoltà, che la
soluzione di Cordero e Nehamas effettivamente sembra risolvere, indicando una
sequenza nell’esposizione della Dea. Adottando la congettura di Cordero
avremmo: πρώτης γάρ τ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < ἄρξει > αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ
τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται > con questa prima via di
ricerca comincerai, poi con quella che mortali che nulla sanno s’inventano. Una
sequenza che potrebbe alludere alle due sezioni del poema, e richiamare
B8.50-52, considerato passaggio conclusivo della Alētheia e introduzione alla
Doxa: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε
βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo termine
per te al discorso affidabile e al pensiero intorno alla Verità; da questo
momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando,
che può ingannare. 379 Nella tradizione interpretativa, è stata decisiva (come
per altri aspetti) la presa di posizione di Karl Reinhardt25, il quale, dal
confronto tra B2 e B6, ricavò l’indicazione di tre vie: (i) quella che
affermerebbe «l'essere è» (ricavata da B2); (ii) quella che affermerebbe (a)
«l'essere non è» (ricavata da B2) ovvero (b) «il nonessere è» (ricavata da
B7.1); (iii) infine quella che affermerebbe «l'essere sia è sia non è» ovvero
«sia l'essere sia il non-essere sono». La prima via da evitare (nella lettura
tradizionale di Diels di B6.3) sarebbe la seconda via di B2; l’altra via da
evitare (B6.4) sarebbe allora una terza via rispetto alle due menzionate in B2:
dal momento che essa esplicitamente coinvolge la condizione dei mortali,
Reinhardt concludeva che dovesse concernere l’ambito dell'opinione26. È proprio
per precisare questo passaggio classico delle interpretazioni parmenidee che il
nodo delle vie richiede di essere affrontato e risolto (per quanto è possibile)
in questa sede. A noi appaiono indiscutibili alcuni punti: (i) B2 delinea in
modo netto una alternativa (ἡ μὲν ὅπως ... ἡ δ΄ ὡς), marcando l’esaustività
(«le uniche per pensare ») delle «vie di ricerca» prospettate; (ii) B2 offre
con «le uniche vie di ricerca per pensare» due direzioni d'indagine lungo le
quali dirigersi: (a) la prima muove dall’immediata evidenza: «è» (ἔστιν), estraendone
«essere» (εἶναι) e respingendo la possibilità della sua antitesi (οὐκ ἔστι μὴ εἶναι);
(b) la seconda dalla connessa negazione: «non è» (οὐκ ἔστιν), marcando la
necessità del non-essere (χρεών ἐστι μὴ εἶναι); (iii) lo stesso B2 registra
immediatamente l'asimmetria delle due vie indicate: l'indagine, infatti, non
potrà in realtà procedere lungo la seconda, in quanto non potrebbe discernervi
alcunché: non è possibile conoscere né indicare «ciò che non è»; (iv) le «vie
di ricerca per pensare» sono introdotte come vere e proprie premesse della
complessiva esposizione della Dea: le sue 25 Nel suo epocale K. Reinhardt,
Parmenides und die Geschichte der griechischen Philosophie, Vittorio
Klostermann, Frankfurt a.M. 1916. 26 Sulla questione molto chiara la ricostruzione
di Leszl, op. cit., pp. 120-1. 380 parole («io dirò - e tu abbi cura della
parola, una volta ascoltata») suggeriscono il rilievo cruciale dell'alternativa
per il kouros (e dunque anche per il discepolo, l’ascoltatore e il lettore);
(v) difficile quindi ipotizzare che Parmenide attribuisca alla Dea la
responsabilità di sostenere come possibile via di indagine («per pensare»!) la
tesi contradditoria: οὐκ ἔστιν ἐόν - «via dell'errore», come vorrebbe
Cordero27: è vero, piuttosto, che alla seconda via si alluderà (B8.17-8) come οὐ
ἀληθής ὁδός («via non genuina»), percorso di indagine che non può
concretizzarsi in conoscenza; (vi) dalle due vie, invece, potranno essere
estratte due verità basilari per le successive argomentazioni: l'essere è
necessariamente, il non-essere non esiste. Mentre si potrà procedere
ulteriormente a determinare la prima via (seguendo i σήματα di B8), nulla potrà
dirsi di più della seconda, evocata solo per marcare la necessità della
direzione d'indagine alternativa. Come segnala la Germani 28 (e, in una
prospettiva diversa, Cordero29 ), potrebbe in questo senso non essere casuale
l'eco parmenidea della formulazione aristotelica del principio del terzo
escluso: τὸ μὲν γὰρ λέγειν τὸ ὂν μὴ εἶναι ἢ τὸ μὴ ὂν εἶναι ψεῦδος, τὸ δὲ τὸ ὂν
εἶναι καὶ τὸ μὴ ὂν μὴ εἶναι ἀληθές dire che l'essere non è o che il non essere
è è infatti falso; [dire] che l'essere è e il non essere non è è invece vero
(Metafisica IV, 7 1011 b26-27). B6.1-2 costituirebbe, quindi, lo sviluppo della
conclusione di B2: la Dea, rievocando (implicitamente) l'alternativa tra le
vie, afferma la necessità di riconoscere che «ciò che è è» (ἐὸν ἔμμεναι),
attraverso il rilievo della possibilità di «essere» (ἔστι 27 By Being, It Is…,
cit., p. 73. 28 Op. cit., p. 193. 29 By Being, It Is…, cit., p. 105 nota. 381 εἶναι),
e dell’inesistenza del nulla (μηδὲν οὐκ ἔστιν) 30. In B8.15-18 il passaggio
sarà richiamato: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται
δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός -
τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò:
è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via]
impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra
invece esista e sia reale. Il testo è significativo, secondo noi, perché
scandisce efficacemente le sequenze del procedimento parmenideo: (a)
introduzione (logica: le vie sono per pensare) della disgiunzione «è\non è»;
(b) esclusione della via «che non è» in quanto ἀνόητον e ἀνώνυμον (che
richiamano le connotazioni di B2.7-8); (c) riconoscimento dell’unica via
praticabile per la ricerca: essa esiste è vera\reale (ἐτήτυμον), mentre l’altra
non lo è (non è «genuina», ἀληθής), non può costituirsi, per sua natura, come
effettivo percorso di ricerca. Liquidata la via ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι
μὴ εἶναι in quanto percorso di ricerca impraticabile («il nulla non è»), prima
ancora di dedicarsi al sondaggio dell’unica via genuina (ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ
ἔστι μὴ εἶναι), la Dea si sofferma sull’erronea «invenzione» dei «mortali che
nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν), effetto del colpevole misconoscimento
delle implicazioni nell’alternativa ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Ancorché prospettata
come ὁδὸς διζήσιος, la strada imboccata dai βροτοὶ εἰδότες οὐδέν è chiara- 30
L’argomento sarebbe quindi: (i) ἔστι εἶναι, (ii) μηδὲν οὐκ ἔστιν ® ἐὸν ἔμμεναι. 382 mente
caratterizzata, nelle scelte espressive dell’autore, come illusione31 .
L’impotenza dei mortali Il registro linguistico all’interno dei frammenti del
poema muta sensibilmente, per assumere i toni della risentita disapprovazione:
αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται >,
δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον e poi da quella
che appunto mortali che nulla sanno , uomini a due teste: impotenza davvero nei
loro petti guida la mente errante (B6.4-6). Questi versi assumono una grande
importanza soprattutto per lo sfondo culturale che sembrano evocare: Gigon,
Verdenius, Pasquinelli, Fränkel sottolineano come la terminologia parmenidea,
ricavata da formule consolidate dell’epica e della lirica greca arcaica,
veicoli un senso tragico dell’esistenza. Non a caso Jaeger32 richiama i versi
del Prometeo eschileo (probabilmente di pochi decenni posteriore al poema Sulla
natura): λέξω δὲ μέμψιν οὔτιν’ ἀνθρώποις ἔχων, ἀλλ’ ὧν δέδωκ’ εὔνοιαν ἐξηγούμενος·
οἳ πρῶτα μὲν βλέποντες ἔβλεπον μάτην, κλύοντες οὐκ ἤκουον, ἀλλ’ ὀνειράτων ἀλίγκιοι
μορφαῖσι τὸν μακρὸν βίον ἔφυρον εἰκῆι πάντα 31 Soprattutto se intendiamo il
verbo retto da βροτοί come forma di πλάσσομαι, «mi invento» e non di πλάζω
«vado errando», come interpreta Diels, seguito da molti altri. 32 W. Jaeger, La
teologia dei primi pensatori greci, cit., p. 155. L’autore osserva: «par di
sentire l’eco di un’esortazione religiosa». 383 Parlerò senza disprezzo per gli
uomini, narrando solo del favore dei miei doni. Dapprima essi, pur avendo
occhi, in vano osservavano; avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni
simili alle forme, la lunga vita impastavano tutta senza disegno (Eschilo,
Prometeo incatenato 445-50). Non vi è dubbio che Parmenide, nei versi di B6, sia
impegnato a stigmatizzare una condizione mortale, facendo riecheggiare spunti
della tradizione letteraria che si possono ancora riscontare nella produzione
filosofica del V secolo in Eraclito ed Empedocle. La ἀμηχανίη segna la
costituzione dei βροτοί (ricordiamo che è una divinità a parlare, ribadendo un
consolidato stereotipo già impiegato dal poeta nel proemio): l’«impotenza» si
traduce in una sorta di paralisi della comprensione, in una confusa percezione
della realtà e in un vano orientamento. Proprio come denunciato da Prometeo.
Ma, rispetto al luogo comune fissato nel mito, Parmenide pone l’accento
sull'incapacità di discriminare tra le due vie, e dunque su un intreccio
perverso di essere e non-essere: l’obiettivo polemico appare dunque una falsa interpretazione
del mondo reale, dell’esperienza, di cui si sottolineerà l’inconsapevole
consolidamento nel linguaggio del sentire comune, in una vera e propria
“seconda natura” (ἔθος di B7.3)33 . La Dea riferisce ai «mortali»una prima
serie di caratteristiche negative. Li qualifica come εἰδότες οὐδέν, «che nulla
sanno», una formula frequentemente impiegata nell’epica e nella lirica per
indicare la limitatezza dell’orizzonte umano34 (concentrato sul presente,
immemore del passato e ignorante del futuro)35 . Li connota come δίκρανοι,
«uomini a due teste», coniando un termine ad hoc per alludere allo specifico
deficit di comprensione: la mancata discriminazione tra le due vie comporta che
quei mortali guardino contemporaneamente in due direzioni. Attribuisce loro la
“finzio- 33 Su questo Ruggiu, op. cit., p. 257. 34 Ivi, p. 259. 35 A questa
situazione mortale era stata contrapposta la conoscenza rivendicata in B1.3 (εἰδώς
φώς). 384 ne” (πλάσσονται, «si inventano») di una via: invenzione evidentemente
frutto della confusione delle «uniche vie di ricerca per pensare». Denuncia la
loro ἀμηχανίη, la debolezza per cui la loro mente (νόος) cede all’attrazione
del non-essere - alla vertigine del nulla, come si esprime Conche36. In tal
modo ella collega a un impulso irrazionale la chiave dell’erranza dei mortali: ἐν
αὐτῶν στήθεσιν, «nei loro petti», potrebbe riferirsi a una localizzazione dello
θυμός che consenta di differenziarne la funzione rispetto al νόος. Queste
determinazioni negative sono ulteriormente accentuate con espressioni che
sottolineano la fenomenologia del disorientamento: οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς
τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα Essi sono trascinati, a un tempo sordi e
ciechi, sgomenti, schiere scriteriate (B6.6-7). I «mortali», dunque, non sono
in controllo di sé; il loro atteggiamento ne svela la radicale incomprensione,
che si manifesta a tre livelli: (i) nella perdita di contatto con la realtà:
gli organi di senso deputati (la vista e l’udito) producono – nel loro caso dei
«mortali» – isolamento, distorsione; (ii) nella conseguente tonalità emotiva
della sorpresa37, da intendere nel contesto non come positiva apertura alla
comprensione, bensì come sintomo della condizione contraria: profonda
confusione; (c) nella mancanza di giudizio38, di discernimento (κρίσις, κρινεῖν),
con cui spregiativamente la Dea connota le «schiere» (φῦλα) dei βροτοί, cioè la
loro massa, il loro insieme indistinto, come confusa è la loro percezione della
realtà. 36 Op. cit., p. 108. 37 Con formula omerica (τεθηπότες): in Omero (Odissea
XXIII, 105) lo sgomento era attribuito allo θυμός e localizzato «nel petto» (ἐνι
στήθεσσι). 38 Si tratta, a nostro avviso, dell’indicazione più importante
nell’insieme del frammento. 385 Le due sequenze su cui ci siamo concentrati
sono interessanti perché mostrano lo sforzo di Parmenide, per bocca della
divinità, di ridefinire lo stereotipo tradizionale della fragilità mortale:
così nel poeta-sapiente non troviamo alcuna condanna dell’uomo in quanto tale,
semmai, sin dal proemio, il tentativo di individuare la norma razionale che
vincoli umano e divino (Untersteiner). In questo senso la posizione di
Parmenide appare vicina a quella del contemporaneo Eraclito: τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’
ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ
πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι,
πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν
διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες
ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται Di questo logos che è sempre
gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di udirlo, sia subito dopo
averlo udito; sebbene tutto infatti accada secondo questo logos, si mostrano
privi di esperienza, mentre si misurano con parole e azioni quali quelle che io
presento, analizzando ogni cosa secondo natura e mostrando come è. Ma agli
altri uomini rimane celato [sfugge] quello che fanno da svegli [dopo essersi
destati], così come sono dimentichi di quello che fanno dormendo (Sesto
Empirico; DK 22 B1) ὧι μάλιστα διηνεκῶς ὁμιλοῦσι λόγωι τῶι τὰ ὅλα διοικοῦντι,
τούτωι διαφέρονται, καὶ οἷς καθ’ ἡμέραν ἐγκυροῦσι, ταῦτα αὐτοῖς ξένα φαίνεται
proprio dal logos con cui hanno sempre costantemente rapporto, essi discordano,
e quelle cose in cui si imbattono quotidianamente appaiono loro estranee (Marco
Aurelio; DK 22 B72) ἀξύνετοι ἀκούσαντες κωφοῖσιν ἐοίκασι·φάτις αὐτοῖσιν μαρτυρεῖ
παρεόντας ἀπεῖναι 386 ascoltando senza comprensione assomigliano a sordi; di
loro è testimone il detto: pur presenti sono assenti (Clemente Alessandrino; DK
22 B34) ὁ Ἡ. φησι τ ο ῖ ς ἐ γ ρ η γ ο ρ ό σ ι ν ἕ ν α κ α ὶ κ ο ι ν ὸ ν κ ό σ μ
ο ν ε ἶ ν α ι , τῶν δὲ κοιμωμένων ἕκαστον εἰς ἴ δ ι ο ν ἀποστρέφεσθαι E. dice
che per coloro che sono desti il mondo è unico e comune, invece ciascuno di
coloro che dormono ritorna a un proprio mondo privato (Plutarco; DK 22 B89) ξὺν
νόωι λέγοντας ἰσχυρίζεσθαι χρὴ τῶι ξυνῶι πάντων, ὅκωσπερ νόμωι πόλις, καὶ πολὺ ἰσχυροτέρως.
τρέφονται γὰρ πάντες οἱ ἀνθρώπειοι νόμοι ὑπὸ ἑνὸς τοῦ θείου· κρατεῖ γὰρ τοσοῦτον
ὁκόσον ἐθέλει καὶ ἐξαρκεῖ πᾶσι καὶ περιγίνεται Coloro che vogliono parlare con
intendimento devono fondarsi su ciò che a tutti è comune, come la città sulla
legge, e ancora più fermamente. Tutte le leggi umane, infatti, si alimentano
dell’unica legge divina: poiché quella domina quanto vuole, basta per tutte le
cose e avanza (Stobeo; DK 22 B114). Senza voler entrare nel dettaglio
dell’interpretazione del pensiero di Eraclito, è sufficiente osservare come
nelle citazioni sia marcato l’isolamento del sapiente rispetto alle opinioni
condivise dai più: il suo discorso consapevole (λόγος) che annuncia come
«tutto» accada secondo il logos (che manifesta dunque la struttura stabile del
mutamento) è contrapposto all’incomprensione (mancanza di intelligenza della
realtà) degli «altri» (uomini). Le espressioni impiegate denunciano chiaramente
una condizione di inversione: pur essendo il logos alla base della realtà (in
Eraclito abbiamo una delle prime attestazioni di κόσμος come ordine del mondo)
che li circonda, gli «uomini» (ἄνθρωποι) ne ignorano la normatività; essi
vivono così non da «desti» (ἐγρήγοροι) in una condizione di torpore,
stordimento: una sorta di sonnambulismo. L’adesione al logos è adesione a «ciò
che è comune» (τὸ ξυνόν) e quindi sensato, oggettivo, diversamente
dall’ottusità della incon- 387 sapevole esperienza quotidiana, che convince
falsamente di un mondo frammentario, discontinuo, caotico (il tema
dell’estraneità). L’«io» della Dea di Parmenide e l’«io» personale di Eraclito
sono – come correttamente segnalato da Conche39 - dalla stessa parte, in quanto
«cooperatori del vero»; dall’altra ci sono coloro che non giudicano con la
ragione: il segreto dell’erranza dei «mortali» è nel loro stesso pensiero40. A
noi pare che lo studioso francese abbia colto nel segno sottolineando come
l’espressione ἄκριτα φῦλα evochi l’«uomo collettivo», incapace di assumere la
decisione (κρίσις) riguardo alle due vie: in questo senso, analogamente a
quanto registriamo nei frammenti dell’Efesio, giudicare con intelligenza è
possibile solo all’individuo che si distacchi intellettualmente dalle credenze
collettive41 . Una via “inventata” Per riassumere e concludere sulle vie di B6,
ribadiamo la convinzione che Parmenide reiteri, in apertura del frammento,
l’alternativa di B2, introducendo poi, in relazione a essa, il tema specifico
dell’errore di fondo dei «mortali». Il passaggio alla confusa combinazione
delle vie è accompagnato nel testo dal recupero del motivo tradizionale
dell’impotenza umana (tanto più significativamente in quanto affidato alle
parole di una divinità), che viene tuttavia “curvato” per corrispondere alle
peculiari esigenze polemiche dell’autore. Il linguaggio parmenideo sembra
insistere soprattutto sulla natura illusoria di una ὁδὸς διζήσιος («via di
ricerca»), scaturita in realtà dalla presunzione e debolezza cognitiva dei
«mortali». In questo senso esso non avalla alcuna “terza via”, non le riconosce
alcuna consistenza, nemmeno sul piano strettamente logico: mentre la via che
pensa «che non è e che è necessario non essere» si presentava come uno dei
corni della alternativa 39 Non a caso editore sia dei frammenti parmenidei, sia
di quelli eraclitei! 40 Conche, op. cit., p. 107. 41 Ivi, p. 108. 388
fondamentale e, pur impercorribile, poteva almeno essere prospettata
correttamente, questa presunta “terza via” è stigmatizzata come “invenzione” di
«coloro che nulla sanno», dunque come logicamente insostenibile. Le due vie di
B2 possono essere ritradotte in forma tautologica in apertura di B6: ἐὸν ἔμμεναι
e μηδὲν οὐκ ἔστιν; anche per la seconda via, dunque, a dispetto della sua
negatività, è possibile, dunque, estrarre un soggetto, ancorché puramente
formale (μηδέν, ovvero τό γε μὴ ἐὸν). Dei βροτοὶ εἰδότες οὐδέν - che nel loro
scorretto argomentare e confuso parlare “si fingono” un commercio delle due vie
alternative - si rileva invece: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν
νενόμισται κοὐ ταὐτόν per i quali esso è considerato essere e non essere la
stessa cosa e non la stessa cosa (B6.8-9). È opportuno ricordare che Simplicio
cita B6.1b-3 (dopo B2), tralasciando l’esordio del nostro frammento e
concentrandosi sulla disgiunzione essere-non essere: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ
συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι
τὰ ἀντικείμενα Sostiene che le proposizioni contraddittorie non siano a un
tempo vere [letteralmente: la contraddizione non sia vera] in quei versi in cui
biasima coloro che mettono insieme gli opposti (In Aristotelis Physicam 117,
2). Precisa inoltre: μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι
νοητῶι Dopo aver biasimato coloro che congiungono l’essere e il non-essere
nell’intelligibile (Simplicio, Phys. 78, 2; DK 28 B6). 389 Pur non concordando
con l’analisi specifica di Leszl (vicina a quella di Cordero), mi sembra
inoppugnabile la sua osservazione: Simplicio intende rilevare la contraddizione
in cui cadono i mortali combinando termini incompatibili (essere e non-essere).
Dei «mortali che nulla sanno» la Dea parmenidea denuncia essenzialmente
l’incapacità di discriminare πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι («essere e non essere»),
ταὐτὸν κοὐ ταὐτόν («la stessa cosa e non la stessa cosa»), che finiscono per
essere contraddittoriamente riferiti a ἐόν. Nella loro finzione, secondo la
Dea, essi indifferentemente assumono e combinano termini in realtà
contraddittori, senza rendersi evidentemente conto della loro incompatibilità:
proprio nella contestazione di tale ingiustificata, infondata assunzione, in
questo come nei due successivi frammenti, si appalesa l’accanimento verbale di
Parmenide. L’obiettivo della polemica Ma chi sono i «mortali» cui si rivolge
l’attacco parmenideo? È possibile individuare un obiettivo specifico, ovvero
dobbiamo pensare a una generica presa di posizione? Parmenide si limita a
marcare la strutturale, originaria impotenza umana (come vuole Reinhardt),
magari per legittimare la funzione rivelatrice della divinità (come vuole
Mansfeld), oppure dobbiamo intravedere nei versi di B6 (come nei successivi di
B7) la condanna di un errore determinato? Più precisamente: le assonanze
espressive giustificano il coinvolgimento di Eraclito (e di suoi non meglio
precisati seguaci) come oggetto delle critiche (come credono in molti), o
dobbiamo piuttosto supporre che Parmenide prenda posizione in generale rispetto
allo sfondo complessivo (e grandioso) della sapienza milesia (come sostengono,
tra gli altri e in modo diverso, Untersteiner e Gadamer)? In un certo senso,
citando a conferma della nostra lettura i frammenti eraclitei, abbiamo indirettamente
già preso posizione, almeno rispetto ad alcune posizione consolidate del
dibattito interpretativo. 390 Quella che mortali che nulla sanno s’inventano Se
da un lato è corretta l’osservazione di Coxon, per cui in B6.4 il complemento
pronominale (ἀπὸ τῆς) si riferisce alla ὁδὸς διζήσιος del verso precedente, e
dunque a “ricercatori”, è dall’altro possibile che Parmenide abbia colto
l’occasione per polemizzare nei confronti di coloro (il greco indica
genericamente βροτοί, «mortali») che propongono un punto di vista ordinario,
teoreticamente ingenuo, in una veste ispirata o sapienziale. Nel linguaggio
della Dea sarebbero allora apostrofati («nulla sanno», εἰδότες οὐδέν) presunti
sapienti che esprimono, in verità, solo opinioni volgari. L’errore ascritto – la
mancata discriminazione delle due vie di B2 - potrebbe genericamente riferirsi
all’incapacità di offrire una coerente (con le «uniche vie di ricerca per
pensare») spiegazione dei processi naturali, preoccupazione esplicitata in
B8.38-41 e soprattutto nella seconda sezione del poema. Ricordiamo che anche
Eraclito ha modo di sviluppare, nei frammenti pervenutici, una polemica
analoga: la sua nuova nozione di saggezza da un lato lo spinge a rifiutare i
modelli della tradizione, discutendone lo spessore (il caso di Omero) o la
competenza (Esiodo), dall’altro a contestare l’enciclopedismo dei
contemporanei: τόν τε Ὅμηρον ἔφασκεν ἄξιον ἐκ τῶν ἀγώνων ἐκβάλλεσθαι καὶ ῥαπίζεσθαι
καὶ Ἀρχίλοχον ὁμοίως Sosteneva che Omero fosse degno di essere cacciato dagli
agoni e frustato e analogamente Archiloco (Diogene Laerzio; DK 22 B42)
διδάσκαλος δὲ πλείστων Ἡσίοδος· τοῦτον ἐπίστανται πλεῖστα εἰδέναι, ὅστις ἡμέρην
καὶ εὐφρόνην οὐκ ἐγίνωσκεν· ἔστι γὰρ ἕν Maestro dei più è Esiodo – costui
credono sapesse una gran quantità di cose, lui che non aveva conoscenza di
giorno e notte: sono infatti la stessa cosa (Ippolito; DK 22 B57) 391 πολυμαθίη
νόον ἔχειν οὐ διδάσκει· Ἡσίοδον γὰρ ἂν ἐδίδαξε καὶ Πυθαγόρην αὖτίς τε Ξενοφάνεά
τε καὶ Ἑκαταῖον l'apprendimento di molte cose non insegna la sapienza,
altrimenti l'avrebbe insegnata a Esiodo e Pitagora e ancora a Senofane e Ecateo
(Diogene Laerzio; DK 22 B40) Πυθαγόρης Μνησάρχου ἱστορίην ἤσκησεν ἀνθρώπων
μάλιστα πάντων καὶ ἐκλεξάμενος ταύτας τὰς συγγραφὰς ἐποιήσατο ἑαυτοῦ σοφίην,
πολυμαθίην, κακοτεχνίην. Pitagora, figlio di Mnesarco, esercitò la ricerca più
di tutti gli uomini e raccogliendo questi scritti ne produsse la propria
sapienza, il saper molte cose, cattiva arte (Diogene Laerzio; DK 22 B129).
L’obiettivo, nel caso di Parmenide, potrebbe dunque essere generale, e
coinvolgere le alternative al modello di sapienza filosofica che proprio la Dea
interveniva a delineare, sollecitando il kouros a meditare le sue parole e a
giudicare con intelligenza. Sul terreno filosofico è difficile pensare che le
posizioni della tradizione milesia potessero meritare un'attenzione così
critica e sprezzante. Il quadro offerto da Parmenide appare per molti versi
analogo a quello delineato a Mileto, con la fondamentale differenza che, nel
suo caso, non si punta a riscattare l’instabilità del divenire nella permanenza
della φύσις-ἀρχή: nel complesso dei frammenti si può cogliere, semmai, la
denuncia della debolezza degli schemi interpretativi ionici, come abbiamo già
registrato nel commento a B4. Una polemica, aspra nei toni, come quella di B6 e
B7 apparirebbe comunque eccessiva se rivolta effettivamente verso la cultura
scientifica di Mileto (sempre ammettendo la praticabilità, all’epoca, di
confronti del genere). L’impressione è che essa si rivolga piuttosto a una
volgare contraffazione del sapere: Conche ha probabilmente ragione a cogliervi
un riferimento alla massa di non filosofi, sordi e ciechi quando si tratta di
intendere la parola della Dea, la parola della Verità. Anche in questo caso,
potrebbe valere l’analogia con Eraclito. 392 Uomini a due teste All’inizio del
secolo scorso Döring42 propose di leggere i versi B6.4-9 come polemica
antipitagorica: una prospettiva rilanciata dall’adesione di una quota
minoritaria degli specialisti (tra i più autorevoli certamente Raven43). Tra
gli assunti di Döring44, soprattutto la convinzione che i primi pitagorici
asserissero l’esistenza del vuoto, considerato identico al non-essere:
posizione che Parmenide avrebbe riaffermato nella sua «terza via», combinando
essere e non-essere. Si tratta, evidentemente, di tesi discutibili, che
speculano su una materia molto controversa, non solo per le carenze
documentarie, ma anche per la complessità di quel movimento culturale, con la
sua tendenza a retroiettare verso l’origine conquiste teoriche maturate nel
tempo. È vero, d’altra parte, che proprio queste difficoltà non consentono di
escludere che Parmenide, sulle cui relazioni con ambienti pitagorici si è molto
insistito, potesse attaccarne posizioni specifiche, immediatamente comprensibili
nel contesto storico-culturale in cui erano avanzate, a un pubblico
essenzialmente di uditori o discepoli. Raven, in particolare, ha ravvisato in
B6.4-9 un riferimento al modello dualistico pitagorico45, in cui lo studioso
riconosce un'impronta antica, pre-parmenidea. Esso troverebbe espressione nella
tavola degli opposti attestata da Aristotele, riconducibile alla originaria
opposizione di limite (πέρας) e illimite (ἄπειρον), cooperanti nella
generazione di tutti gli enti46 . 42 A. Döring, Geschichte der griechischen
Philosophie, vol. I, Leipzig 1903. Dello stesso autore “Das Weltsystem des
Parmenides”, «Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik», 104,
1894, pp. 161-177. 43 J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics. An Account of the
Interaction between the Two Opposed Schools during the Fifth and Early Fourth
Centuries B.C., Cambridge University Press, Cambridge 1948. 44 Si veda Tarán,
p. 68. 45 Sebbene nella successiva opera con Kirk tale riferimento cada, a
favore della possibilità del tradizionale coinvolgimento di Eraclito. 46
Aristotele, Metafisica, I, 5 986 a17-21: τοῦ δὲ ἀριθμοῦ στοιχεῖα τό τε ἄρτιον
καὶ τὸ περιττόν, τούτων δὲ τὸ μὲν πεπερασμένον τὸ δὲ ἄπειρον, τὸ δ’ ἓν ἐξ 393
In questo senso, gli uomini «a due teste» (δίκρανοι) cui allude Parmenide
potrebbero essere genericamente pitagorici oppure i pitagorici responsabili
dell’elaborazione di quel modello dualistico: la testimonianza aristotelica,
infatti, a dispetto dell’accenno a un contributo specifico dedicato
all’argomento, rivela, (come nel ricorso all’espressione «i cosiddetti
pitagorici», οἱ καλούμενοι Πυθαγόρειοι), incertezze di documentazione e
difficoltà di determinazione, ricostruendo un percorso di ricerca (dallo studio
matematico all'applicazione dei suoi principi a tutta la realtà) che potrebbe
implicare un'evoluzione delle posizioni interne alla scuola. In ogni caso è per
noi significativo il riferimento ad Alcmeone (contempoaneo di Parmenide) in
relazione alla tavola delle due serie di contrari: ὅνπερ τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων
ὁ Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ ἤτοι οὗτος παρ’ ἐκείνων ἢ ἐκεῖνοι παρὰ τούτου
παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον· καὶ γὰρ [ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων [ἐπὶ γέροντι
Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο [δὲ] παραπλησίως τούτοις· φησὶ γὰρ εἶναι δύο τὰ πολλὰ τῶν ἀνθρωπίνων,
λέγων τὰς ἐναντιότητας οὐχ ὥσπερ οὗτοι διωρισμένας ἀλλὰ τὰς τυχούσας [...] In
tal modo pare pensasse anche Alcmeone Crotoniate, sia che questi prendesse tale
dottrina da quelli, sia quelli da questo; poiché, quanto a età, Alcmeone fiorì
quando Pitagora era vecchio, e si espresse in modo molto simile a costoro.
Sosteneva, infatti, che la maggior parte delle cose umane sono dualità, pur non
determinando, come fanno questi, le opposizioni, ma proponendole a caso [...]
(Metafisica I, 5 986a 27-34). ἀμφοτέρων εἶναι τούτων (καὶ γὰρ ἄρτιον εἶναι καὶ
περιττόν), τὸν δ’ ἀριθμὸν ἐκ τοῦ ἑνός, ἀριθμοὺς δέ, καθάπερ εἴρηται, τὸν ὅλον οὐρανόν
[Essi pongono] come elementi del numero il pari e il dispari; di questi, il
primo è illimitato, l'altro limitato. L’Uno deriva da entrambi questi elementi
(è, infatti, insieme, e pari e dispari). Dall’Uno, poi, deriva il numero; e i
numeri, come s’è detto, costituirebbero l’intero universo. 394 Secondo la
Timpanaro Cardini47, dalla testimonianza aristotelica si può concludere che,
come alla fisica ionica andava probabilmente ricondotta l'originaria dualità
pitagorica (ἄπειρον-πέρας), così alla cultura scientifica milesia dovevano
risalire quelle opposizioni (riscontrate poi nella pratica medica) che Alcmeone
contribuì a introdurre nell'ambiente pitagorico, dove avrebbero ricevuto una
elaborazione sistematica. Insomma, non è da escludere, a livello teorico, che
le allusioni critiche dei versi parmenidei possano investire temi e figure di
una tradizione che doveva risultare riconoscibile nello humus locale: in
un’epoca per la quale è difficile valutare l’incidenza della distanza degli
ambienti culturali, non vi è dubbio che appaia plausibile una referenza
pitagorica. Sul rapporto con la tradizione pitagorica avremo comunque modo di
tornare nel commento a B8. Il percorso torna all'indietro Sin dall’Ottocento
(Bernays) è maturata tra un numero consistente di accreditati interpreti
(Diels, Kranz, Mondolfo, Guthrie, Tarán, Couloubaritsis, Giannantoni, Cerri,
Graham, tra gli altri) la convinzione che il vero obiettivo della polemica di
B6.4-9 sia Eraclito (o, in alternativa, suoi presunti seguaci). Si va dalla
supposizione motivata da considerazioni di contenuto (Guthrie48), alla lettura
sostenuta dall'attenzione per la forma logica dei frammenti (Tarán e
Couloubaritsis), alle conclusioni giustificate da assonanze espressive (per
esempio Cerri). Sono spesso impiegati, come possibili evidenze testuali, le
seguenti citazioni eraclitee: οὐ ξυνιᾶσιν ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῶι ὁμολογέει·
παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ τόξου καὶ λύρης 47 Pitagorici antichi,
Testimonianze e frammenti, a cura di M. Timpanaro Cardini, Bompiani, Milano
2010 (edizione originale 1958-1964), pp. 134- 135. 48 Op. cit., p. 23. 395 non
capiscono che ciò che è differente concorda con se medesimo: armonia di
contrari, come l’armonia dell’arco e della lira (Ippolito; DK 22 B51) συνάψιες ὅλα
καὶ οὐχ ὅλα, συμφερόμενον διαφερόμενον, συνᾶιδον διᾶιδον, καὶ ἐκ πάντων ἓν καὶ ἐξ
ἑνὸς πάντα congiungimenti: intero e non intero, concorde discorde, armonico
disarmonico, da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose (Pseudo-Aristotele
[de mundo 5 396 b7]; DK 22 B10) ποταμοῖς τοῖς αὐτοῖς ἐμβαίνομέν τε καὶ οὐκ ἐμβαίνομεν,
εἶμέν τε καὶ οὐκ εἶμεν Negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non
siamo (Eraclito; DK 22 B49a) ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι δὶς τῶι αὐτῶι non si
può discendere due volte nel medesimo fiume (Plutarco; DK 22 B91a). Nel testo
di Parmenide si valorizzano per il confronto gli ultimi due versi (per lo più
tradotti diversamente49): οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ
ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è considerato
essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti
il percorso torna all'indietro. 49 La resa italiana più frequente è la
seguente: per i quali l’essere e il non essere sono considerati la stessa cosa
e non la stessa cosa: di tutte le cose c’è un percorso che torna indietro. 396
Secondo Tarán, la sottolineatura parmenidea riferirebbe a Eraclito (DK 22 B10)
l’identità dei contrari come identità-nelladifferenza, secondo un modello del
“sì e no”50, che l’Eleate ricondurrebbe all'opposizione fondamentale essere-non
essere (per cui appunto «l’essere e il non essere sono considerati la stessa
cosa e non la stessa cosa»). In questo senso, secondo Couloubaritsis, l’attacco
di Parmenide sarebbe rivolto a una impostazione (quella eraclitea) ancora
prossima alla logica ambivalente del mito, in cui la complementarità degli
opposti suppone un legame indissociabile. Eppure lo studioso belga, nella
modalità eraclitea di pensare gli opposti, riconosce già una presa di distanze
da quella ambivalenza, soprattutto per l’introduzione di un’opposizione più
inglobante, comune a tutti, quella appunto di essere e non-essere (DK 22 B49a,
B91)51. Proprio la rottura radicale di quella logica caratterizzerebbe la
κρίσις della Dea parmenidea, discriminante dunque allo stesso tempo anche
rispetto alla posizione di Eraclito52 . Ancora di recente, Graham53 ha proposto
di leggere l’ontologia parmenidea come reazione prodotta dall’impatto
dell’opera di Eraclito, la cui provocazione sarebbe consistita nella
esasperazione della polarità presente nel modello ionico, con l’abbandono
dell’idea di primato di una «sostanza generatrice» a vantaggio di quella di
processo universale, regolato da una legge di scambio di masse elementari
(fuoco, terra, acqua). A questi elementi di contenuto o struttura, si aggiunge
poi il riscontro di un’eco espressiva eraclitea, quasi Parmenide intendesse
colpire un avversario evocandone le parole. Sebbene Tarán, a proposito del
conclusivo πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος, metta in guardia dalla
tentazione di leggervi un puntuale riferimento alle parole di Eraclito (DK 22
B51)54, altri hanno molto insistito su questo punto: tra i contemporanei, per
esempio, Cerri 50 Tarán, op. cit., p. 71. 51 Couloubaritsis, op. cit., p. 199.
52 Ivi, p. 200. 53 Per esempio, sia in Explaining the Cosmos, sia in The Texts
of Early Greek Philosophy. 54 Semmai vi si dovrebbe ravvisare la caratterizzazione
delle vedute degli assertori dell’identità dei contrari (p. 72). 397 trova
conferma in B6.9 di una vera e propria «tecnica della citazione», già emersa
nel proemio con la evocazione del mito di Fetonte e delle Eliadi55 . Come Tarán
e Couloubaritsis, anche lo studioso italiano marca vicinanza e distanza
specifica della posizione di Parmenide rispetto a Eraclito, il quale, pur
avendo anticipato la teoria dell'identità nella (apparente) differenza,
manifestò nei suoi enunciati paradossali viva consapevolezza della
problematicità di tale verità, delle oggettive contraddizioni insite nella
realtà naturale e umana 56 . Così non vi è dubbio, secondo Cerri, che siano
proprio le formule scelte da Eraclito, del tipo «è e non è», a essere imputate
da Parmenide: il filosofo di Efeso avrebbe infatti praticato quella (presunta)
“terza via” denunciata dall’Eleate57 . Lo studioso italiano, inoltre,
sottolinea come le scelte lessicali di Simplicio, nel citare B6, mostrino come
egli avesse inteso che la (presunta) “terza via” del frammento non si riferisse
a un ingenuo atteggiamento ordinario della mente umana, ma alla tesi specifica
di un indirizzo filosofico: il linguaggio impiegato dal commentatore, infatti,
sarebbe quello con cui la tradizione peripatetica connotava inequivocabilmente
la dottrina eraclitea58 . Questa osservazione, tuttavia, non comporta alcunché
riguardo all'identificazione del referente dell’attacco di Parmenide: tra gli
specialisti è noto, infatti, come le ricostruzioni platonica e aristotelica
propongano un’anomalia di fondo, che si ritiene effetto dei peculiari canali
nella ricezione delle opinioni dei pensatori arcaici. Le prime collezioni delle
loro tesi, infatti, sarebbero da attribuirsi, nella seconda metà del V secolo
a.C., ai sofisti Ippia59, che avrebbe approntato una selezione per temi, e
Gorgia, che invece avrebbe disposto il materiale per contrapposizioni teoriche:
è dunque molto probabile che la versione offerta da chi (Platone e 55 Cerri,
op. cit., p. 208. 56 Ivi, p. 206. 57 Ibidem. 58 Ivi, p. 208. 59 J. Mansfeld,
“Aristotle, Plato and the Preplatonic doxography and chronography”, in G.
Cambiano (ed.), Storiografia e dossografia nella filosofia antica, Torino 1986,
pp. 1-59. A. Patzer, Der Sophist Hippias als Philosophiehistoriker, Münich
1986. 398 Aristotele appunto) diede inizio alle prime forme di storiografia
filosofica risentisse profondamente di quegli schemi riduttivi60 . Mansfeld61
ha marcato come ciò risulti particolarmente evidente proprio nel caso di
Eraclito e di Parmenide: del primo sarebbero stati esasperati la dottrina del
flusso universale e della diversità (a scapito delle affermazioni su unità e
stabilità); del secondo il motivo dell’Uno e dell’immobilità62. In realtà, come
abbiamo già avuto modo di rilevare in precedenza, è possibile leggere i
frammenti di Eraclito in una prospettiva alternativa, tale da rendere
problematici le facili schematizzazioni. L’Efesio, in effetti, proprio nelle
citazioni sopra riportate, potrebbe essere impegnato in un'operazione analoga a
quella parmenidea: considerare i modelli cosmologici e cosmogonici della prima
riflessione ionica e delle teogonie poetico-religiose per estrapolarne gli
schemi ricorrenti, sviluppando così la prima indagine sistematica sulle forme
della razionalità applicata alla ricerca. Concretamente questo si sarebbe
tradotto nel rilievo di tre aspetti essenziali: i) l'universale pervasività del
divenire; ii) la forma inerente al divenire; iii) la stabilità persistente nel
divenire. Significativa anche l’altra convergenza già segnalata: Eraclito
esplicitamente polemizza con alcune figure della tradizione - Omero, Esiodo,
Archiloco - e intellettuali contemporanei - Pitagora, Senofane, Ecateo - dalla
cui sapienza egli si proponeva, evidentemente, di prendere le distanze, per
delinearne, consapevolmente, quasi marcandone la novità, una propria. Eraclito
manifesta una verità – relativa alla costituzione del mondo fisico e umano - a
cui, pur avendone potenzialmente accesso attraverso esperienza e riflessione,
la maggioranza degli uomini - indicata spregiativamente con l’espressione «i
molti» (οἱ πολλοὶ) - rimane estranea. In questo senso, analogamente al kouros
privilegiato dalla rivelazione della Dea, egli avverte e marca il proprio
isolamento, sottolineando lo scarto tra una visione che va 60 Sebbene sia
plausibile che Platone e Aristotele (e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo)
avessero accesso a un manoscritto dell’intero poema. 61 F. Mansfeld, “Sources”,
in A.A. Long (ed.), The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, C.U.P.,
Cambrdige 199, pp. 22-44. 62 Ivi, p. 27. 399 al fondo delle cose afferrandone
la natura e la semplice, superficiale erudizione (πολυμαθίη) o la percezione
parziale e distorta che impronta le credenze degli uomini (δοξάσματα). La
pluralità delle cose è da lui colta come unitaria connessione cosmica,
all’interno di due limiti essenziali: i) il «logos che è sempre» (τοῦ δὲ λόγου
τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ); ii) la totalità degli enti che «sempre divengono secondo
questo logos» (γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε). Eraclito sottolinea
il valore di norma del λόγος rispetto a ogni accadere, con allusioni all’unità
della legge civile (νόμος) - cui si riconduce la identità della polis - e alla
unicità della legge divina (cui si riducono quelle umane), e ne afferma la
funzione strutturante all’interno dei singoli enti. Così, con riferimento al
λόγος, «tutto è uno» 63, sia nel senso che le cose sono tra loro unitariamente
organizzate secondo il suo piano, sia nel senso che nella natura di ogni
singola cosa si riflette il suo schema. Il λόγος è la legge che regola il
prodursi e il divenire degli enti nel mondo, pur rimanendo natura nascosta allo
sguardo superficiale. È in considerazione di questi elementi teorici (al di là
dei problemi di cronologia relativa, di non facile risoluzione64) che la
supposizione di una polemica specificamente antieraclitea appare esagerata, a
meno di non insistere su un atteggiamento in realtà più complesso (come
sembrano fare Graham, Cerri e Couloubaritsis). Cerri, per esempio, riconoscendo
come a Eraclito sia da attribuire un ruolo decisivo (da «archegeta») nella
ricostruzione della dottrina dell’«essere», giustifica l’attacco di Parmenide
come effetto dell’irritazione di fronte a un’incongruenza (la combina- 63 DK 22
B50: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι
non me ascoltando, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno. 64 Su
questo tra gli altri Conche (p. 108) e Colli (p. 178). 400 zione di «è» e «non
è»), che rischiava di vanificarne l’intuizione scientifica65 . In questo senso,
però, le battute parmenidee sembrano destinate a stigmatizzare un errore ovvero
un'incoerenza che il sapiente poteva cogliere non solo nelle espressioni della
cultura tradizionale, ma anche nelle posizioni della stessa sapienza ionica.
Ipotizzando per le opere degli autori presocratici – come ha fatto di recente
Maria Laura Gemelli Marciano66 - un «contesto culturale e pragmatico» molto
«concorrenziale», e concedendo quindi una circolazione sufficientemente ampia delle
idee nel bacino del Mediterraneo, potremmo attribuire alla polemica parmenidea
un riferimento generico e specifico a un tempo: (i) agli ignoranti colpevoli di
fondamentali fraintendimenti dei propri dati sensoriali (da cui l’insistenza
sull’ottundimento degli organi percettivi: cecità, sordità); (ii) ai poeti
responsabili della divulgazione di quel volgare stravolgimento della realtà;
(iii) ai pensatori ionici, che non avevano evitato un’ambiguità di fondo,
riconoscendo la forza del principio a un elemento a scapito degli altri,
concentrando l’essere in un’area della realtà, piuttosto che in un’altra; (iv)
al limite allo stesso Eraclito, essenzialmente per le sue provocatorie
enunciazioni di un logos che, per altri versi, Parmenide avrebbe dovuto apprezzare:
formule in cui, pericolosamente dal punto di vista eleatico, essere e
non-essere si trovavano accostati. Al centro dell’attacco dell’Eleate – come
confermerà B7 – sono gli “uomini della contraddizione”, coloro che implicano –
consapevolmente o meno67 – l’assurdo: «che siano cose che non sono»; in altre
parole coloro («schiere senza giudizio») che, affidandosi acriticamente al dato
empirico, condizionati dai meccanismi irriflessi dell’abitudine, avanzano una
inaccettabile terza via. 65 Cerri, op. cit., p. 209. 66 M.L. Gemelli Marciano,
"Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et
destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la
Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses
Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, pp. 83-114. 67 In
questo senso la lettura di Gallop (pp. 11-12), che attribuisce alle convinzioni
dei mortali riguardo a pluralità e divenire l’«assurda implicazione» che
«essere e non-essere sono la stessa cosa e non la stessa cosa». 401 Come
osserva Coxon68, la formulazione τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται
κοὐ ταὐτόν è da leggere in opposizione alla tesi di B6.1a: χρὴ τὸ λέγειν τε νοεῖν
τ΄ ἐὸν ἔμμεναι: il verbo νομίζω, con la sua soggettività, è contrastato dai positivi
(e oggettivi) λέγειν e νοεῖν. Conche giustamente può marcare come l’espressione
«mortali che nulla sanno» si riferisca alla massa di non filosofi, che
Parmenide trova sordi e ciechi quando tenta di far intendere la parola della
Dea, la parola della Verità69. Né va dimenticato un rilievo di Jaeger:
νενόμισται evocherebbe non l’opinione di un uomo o di qualche individuo, ma la
communis opinio, «la perversione del nomos dominante (cioè della tradizione)»70
. A questa ignoranza, tuttavia, è possibile fossero associate nella condanna
anche quelle espressioni scientifico-filosofiche in cui il discrimine tra «le
uniche vie di ricerca per pensare» appariva debole o confuso: un fronte
potenzialmente ampio, dai Milesi a Eraclito, passando per i pitagorici, la cui
reale presenza polemica è comunque solo ipotetica. 68 Op. cit., p. 185. 69 Op.
cit., p. 109. 70 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, cit., p.
170, nota 36. 402 ESPERIENZA, ABITUDINE, GIUDIZIO [B7] Il frammento,
ricostruito nel corso delle successive edizioni Diels e Diels-Kranz, è un
collage di diverse citazioni: (i) Platone (Sofista 237 a 8-9) e Simplicio (In
Aristotelis Physicam 143, 31–144, 1) riportano il secondo emistichio del primo
verso e l’intero secondo verso; (ii) Aristotele (Metafisica XIV, 2 1089 a)
riproduce l’intero primo verso; (iii) Sesto Empirico (Adversus Mathematicos
VII, 111) trascrive i versi 2-6, citandoli di seguito a B1.28-32 e
completandoli con B8.1b-2a; (iv) Diogene Laerzio (IX, 22) ci conserva i versi
3-5. Le sovrapposizioni sembrano quindi assicurare la plausibilità dell’attuale
ricostruzione e la ragionevole unitarietà del frammento1 , nonché la sua
probabile saldatura con B8, in considerazione del fatto che il secondo
emistichio dell’ultimo verso di B7 citato da Sesto corrisponde al primo verso
della citazione dell’attacco di B8 in Simplicio. Anche da un punto di vista
argomentativo appare piuttosto stretto il nesso tra B6, B7 e B82 e la loro
dipendenza logica da B2 e B3. Coxon3 ritiene possibile che B7 seguisse B4, a
causa dell’uso iniziale del plurale μὴ ἐόντα che richiamerebbe ἀπεόντα-παρεόντα
(B4.1). Mansfeld4 - che propone la sequenza di tre blocchi logici (B2-B3,
B6-B7, B8) – riconosce la possibilità che B5 si collochi tra il primo e secondo
blocco. Rispetto all'attuale ricomposizione del frammento, rimane aperto il
problema della (parziale) citazione sestiana in continuità con il proemio (e
per questo accolta originariamente da Diels nel primo frammento del poema5 ),
cui possiamo aggiungere anche quello linguistico e metrico, ipotizzando
l'ulteriore continuità di 1 Tarán, op. cit., p. 76. 2 Mansfeld, op. cit., pp.
91-2. 3 Op. cit., p 189. 4 Op. cit., p. 92. 5 Di recente Ferrari (Il migliore
dei mondi impossibili, cit., pp. 49 ss.), che è sostanzialmente tornato a
riproporre l'originale versione dielsiana. 403 B7.6[a] con B8.1[b]6 .
Attribuire l'origine delle difficoltà a una libera citazione antologica da
parte di Sesto, ovvero a una sua citazione da antologia poco affidabile7 , non
appare del tutto convincente, soprattutto alla luce del fatto che da Sesto
abbiamo l'unica citazione dell'intero proemio, con tracce della redazione
psilotica originaria (quindi di una tradizione alternativa a quella attica): è
possibile, dunque, che «egli disponesse di una buona copia del proemio,
derivata verosimilmente da un esemplare di tutto il poema»8 . Nel caso della
sua citazione sarebbe semmai da valutare l'intenzione teoretica di fondo:
mentre Simplicio esplicitamente si impegnava a documentare passi di un'opera
ormai irreperibile, Sesto potrebbe aver consapevolmente "montato"
parti del poema originariamente distinte, in funzione di un assunto generale:
respingere la validità della sensazione come vero strumento di conoscenza9 .
Nonostante perduranti perplessità, negli ultimi decenni la critica si è
mostrata tuttavia propensa a riconoscere la fondatezza della ricostruzione di
Diels-Kranz anche riguardo al presente frammento. Non è in discussione, in ogni
caso, il suo ruolo critico, per noi condizionato dalla ricezione di B6 e dalla
soluzione del problema delle “vie”. Una via che è impossibile addomesticare
L’attacco del frammento, infatti, ci proietta ancora sulla krisis di B2,
ribadita all’inizio di B6: 6 Nella citazione di Sesto, il verso iniziale di B8
costiuisce il secondo emistichio (b) di B7.6a (ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα). Ma la forma
tràdita - μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο - è improbabile in epica, dove si troverebbe
μοῦνος (in vece di μόνος); d'altra parte, rettificandola, l'intero verso non
reggerebbe metricamente. 7 Per esempio Plamer, Parmenides & Presocratic
Philosophy, cit., p. 380. 8 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e
questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 31. 9 Ivi, p. 30. 404 οὐ γὰρ
μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα·
Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da questa
via di ricerca allontana il pensiero (B7.1-2). Il senso del primo verso
coincide con la reiterazione della condanna della contraddizione, da cui la Dea
mette in guardia il kouros, con scelte espressive (ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος, ma anche
εἶργε νόημα, se accettiamo l’integrazione Diels per la lacuna di B6.2) che
richiamano evidentemente il frammento precedente. Il nume sembra ancora
impegnato a denunciare gli «uomini a due teste» (δίκρανοι), uomini della
contraddizione appunto, formalizzandone in questo passaggio, nei termini delle
«uniche vie di ricerca per pensare» (ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός […] νοῆσαι B2.2),
l’assurdità. Un pensare “selvaggio” Due elementi spingono in questa direzione:
(i) l’espressione introduttiva (oὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ) secondo cui è
inammissibile che «cose che non sono» (μὴ ἐόντα) «sono [esitono]» (εἶναι); (ii)
il sostantivo νόημα, che, come vedremo, può essere messo in relazione sia con
la formula κρῖναι δὲ λόγῳ, («giudica invece con il ragionamento» ovvero valuta
discorsivamente, attraverso l'argomentazione), sia, per contrasto, con ἔθος
πολύπειρον, l’«abitudine» nata dalle «molte esperienze». Per quanto riguarda il
primo aspetto, la traduzione che abbiamo adottato è sostanzialmente quella
tradizionale, che Diels suggerì sulla scorta della lezione platonica e Tarán ha
difeso per la sua sensatezza. Da O’Brien e Conche ne è stata proposta una
versione più letterale (di cui si è data notizia in nota alla traduzione), che
aiuta a comprendere il valore dell’affermazione εἶναι μὴ ἐόντα: «Jamais, en
effet, cet énoncé ne sera dompté», «For never shall this [wild saying] be
tamed» (O’Brien); «Car jamais ceci se- 405 ra mis sous le joug» (Conche). Ciò
che la Dea vuol manifestare è l’insostenibilità, l’illegittimità della tesi che
può ricavarsi dalla confusa posizione dei mortali «che nulla sanno». La
contraddittoria commistione delle «due vie» (che si fondano sull’immediata
evidenza «è» e sulla sua negazione), il mancato apprezzamento della loro
disgiunzione, si traducono in una “selvaggia” (bestiale) contaminazione, che è
impossibile “domare”, “aggiogare”, ricondurre a norma. Liddell-Scott-Jones
propongono per damázw, in questo caso, proprio in relazione a questa attestazione
parmenidea, lo specifico valore di «to be proved». La durezza della presa di
posizione della Dea, che reitera le formule sprezzanti del frammento
precedente, non si giustifica come semplice messa in guardia rispetto alla
inconcludenza della “seconda via” (ὡς οὐκ ἔστιν), il cui statuto, ricordiamolo,
era stato immediatamente definito in termini inequivocabili10: τὴν δή τοι φράζω
παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε
φράσαις· Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di
informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa
fattibile), né potresti indicarlo (B2.6-8). Ciò che viene stigmatizzato è
piuttosto il fraintendimento corrente, consapevole o meno: il nume si riferisce
a quelle posizioni che assumono esplicitamente o comunque implicano l’esistenza
del non-essere. 10 Insiste su questo punto, in diversi passaggi del capitolo 5
(Parmenides’ Poem), la Wilkinson; in particolare pp. 77-8. 406 Cose che non
sono Non è ovviamente sfuggito agli interpreti il fatto che in questi versi
Parmenide utilizzi il plurale - εἶναι μὴ ἐόντα (una infinitiva, per altro, con
soggetto senza articolo, così da lasciarlo indeterminato). Si è per lo più
voluto cogliere in questa scelta un rilievo polemico nei confronti
dell'esperienza sensibile11, di una “via” dei sensi che cerca di attribuire
esistenza a cose che non esistono. Anzi, secondo Cordero12, la critica delle
attestazioni sensibili salderebbe gli ultimi versi di B6 all’intero B7, in un
complessivo attacco al πλακτὸς νόος dei mortali. Insomma, l’infinitiva iniziale
(εἶναι μὴ ἐόντα), riassumendo B6.8-9, denuncerebbe l’esito di un modo di
pensare – quello di «mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν) –
condizionato, dalla fiducia nel dato sensibile e dalla guida di un intelletto
instabile, a credere che esistano cose che non sono13 . Parmenide avrebbe
impiegato il plurale (μή ἐόντα) e non il singolare (μή ἐόν) perché il pensiero
"selvaggio" di chi si allontana dalla strada dell’essere è esercitato
a partire dalle cose che si presentano nell’esperienza14. In questo passaggio
il filosofo non intenderebbe, tuttavia, riferirsi al «non-essere», non sarebbe
impegnato a rigettare la seconda via15, ma a rilevare la contraddizione indotta
dal fraintendimento dell’esperienza16. L’insistenza su questo punto nei due
frammenti che precedono (secondo le ipotesi di ricostruzione cui abbiamo
introduttivamente accennato) la lunga analisi della “prima via” in B8.1-49,
rivela come esso sia cruciale nella economia del discorso di Parmenide,
soprattutto in funzione della seconda sezione del poema. 11 Tarán, op. cit., p.
77. 12 By Being, It Is, cit., p. 129. 13 Ivi, p. 130. 14 Ruggiu, op. cit., p.
263. 15 Come ritengono Cordero e Tarán. 16 Conche, op. cit., p. 117. 407 Una
posizione diversa e più specifica in proposito è quella espressa da Coxon17,
secondo cui il contesto di B7 sarebbe quello di una critica non genericamente
condotta nei confronti dell'esperienza sensibile o del suo fraintendimento, ma
delle teorie fisiche precedenti e contemporanee. Ciò sarebbe confermato da
Simplicio (In Aristotelis Physicam 650, 11-2), che cita il verso 2
proiettandolo nella discussione aristotelica degli argomenti del V secolo a
favore o contro l’esistenza dello spazio vuoto: καὶ τὸ κενὸν οὐκ ἔχει χώραν ἐν
τῷ παντελῶς ὄντι, ὥσπερ οὐδὲ τὸ μὴ ὄν non può esservi il vuoto in ciò che è in
senso pieno, così come non può esservi il non-essere. Nella sottolineatura
parmenidea dell'inesistenza di «cose che non sono», avremmo allora una contestazione
delle teorie ioniche (i processi di condensazione-rarefazione cui alluderebbe
anche B4, i cui ἀπεόντα-παρεόντα sarebbero evocati appunto da μὴ ἐόντα), e
probabilmente delle posizioni di alcuni pitagorici sul vuoto: logicamente
B7.1-2 dipenderebbe da B2 e B4, in quanto a essere coinvolta nell’attacco
sarebbe appunto la supposizione che esista il vuoto (equiparato al non-essere),
condizione per discriminare l’Essere in ἐόντα. In pratica la Dea richiamerebbe
il kouros (in questa prospettiva essenziale l’enfasi sul «tu» personale) dalla
tentazione di seguire coloro che asseriscono l’esistenza del non-essere
(vuoto)18. In effetti, come ci ricorda anche la Wilkinson19, il concetto di
«non-essere» sarebbe associato nella riflessione arcaica al termine e alla
nozione pitagorica di ἄπειρον (illimitato): come risulta dalla testimonianza
aristotelica, i Pitagorici sostenevano che, dall'esterno «illimitato soffio» (ἐκ
τοῦ ἀπείρου πνεύματος), il vuoto (τὸ κενόν) fosse penetrato nell'universo (οὐρανός)
come «respiro» (πνεῦμα), costituendo lo spazio discriminante e distanziante le
cose: 17 Op. cit., p. 189. 18 Ivi, pp. 190-191. 19 Op. cit., p. 101. 408 εἶναι
δ’ ἔφασαν καὶ οἱ Πυθαγόρειοι κενόν, καὶ ἐπεισιέναι αὐτὸ τῷ οὐρανῷ ἐκ τοῦ ἀπείρου
πνεύματος ὡς ἀναπνέοντι καὶ τὸ κενόν, ὃ διορίζει τὰς φύσεις, ὡς ὄντος τοῦ κενοῦ
χωρισμοῦ τινὸς τῶν ἐφεξῆς καὶ [τῆς] διορίσεως· καὶ τοῦτ’ εἶναι πρῶτον ἐν τοῖς ἀριθμοῖς·
τὸ γὰρ κενὸν διορίζειν τὴν φύσιν αὐτῶν Anche i Pitagorici affermavano che
esistesse il vuoto e che esso dall'illimitato soffio penetrasse nell'universo
come se questo respirasse, e che è il vuoto a delimitare le nature, quasi il
vuoto fosse una sorta di separatore e divisore delle cose che sono in
successione. Questo accade in primo luogo tra i numeri: il vuoto, infatti,
distingue la loro natura (Aristotele, Fisica IV, 6 213 b22-27). Come abbiamo
osservato commentando B6, l’ipotesi di un confronto con le tesi pitagoriche è
suggestiva, anche per l’ambiente culturale cui si rivolgono i versi di
Parmenide: le indicazioni di Coxon, in effetti, sono supportate dall’uso di
aggettivi come ἔμπλεόν (B8.24) – riferito a ἐόν - ovvero πλέον (B9.3) per
«pieno»: Οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν
εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος Né è
divisibile, poiché è tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa
impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di
ciò che è. (B8.22-24). Αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ
σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου
ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte
sono state denominate, 409 e queste, secondo le rispettive proprietà, a queste
cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di
entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla. (B9). Nei
due diversi contesti – la sezione sulla Verità per B8, e, quasi certamente,
quella sulla Opinione, per B9 -, Parmenide associa a ἐόν e πᾶν omogeneità e
pienezza, evidenziando, nel secondo caso, l’assenza del nulla. Ciò farebbe
supporre implicito il rifiuto del «vuoto» (τὸ κενόν) e la sua identificazione
con il nonessere (μηδέν, «nulla» appunto), che solo Melisso avrebbe esplicitamente
sostenuto: οὐδὲ κενεόν ἐστιν οὐδέν· τὸ γὰρ κενεὸν οὐδέν ἐστιν· οὐκ ἂν οὖν εἴη
τό γε μηδέν Né esiste alcunché di vuoto: il vuoto, infatti, è nulla; e ciò che
è nulla non può esistere (DK 30 B7.7). Coxon20 nota come Aristotele – nella
discussione sul vuoto commentata da Simplicio (In Aristotelis Physicam 650,
11), cui si riferisce la citazione di B7.2 – coinvolga sul tema, oltre a
Leucippo e Democrito, solo i Pitagorici: essi avrebbero appunto attribuito al
vuoto una funzione discriminante, all’origine della pluralità (in primo luogo
dei numeri). La proposta di Coxon non è, tuttavia, del tutto convincente nello
specifico, in quanto non è sufficiente a spiegare il ricorso a μὴ ἐόντα per
indicare il vuoto. Forse giustificato per designare i supposti enti molteplici,
effetto dell’assunzione del vuoto-nulla, l’uso del plurale – come conferma
anche il lessico di Melisso - sembra improprio in riferimento a qualcosa che è
in sé indiscriminabile e inconsistente. Appare dunque più probabile che
l’apertura dell’attuale B7 riprenda la polemica aperta in B6 contro gli «uomini
a due teste», formalizzandola in relazione alla krisis di B2: il γὰρ del primo
verso sottolinea una continuità argomentativa che potrebbe trova- 20 Coxon, op.
cit., pp. 189-190. 410 re, nella formula contraddittoria εἶναι μὴ ἐόντα, la
possibilità di stigmatizzare con rigore l’assurdità implicita nelle assunzioni
di βροτοὶ εἰδότες οὐδέν. Forse la lettura di Mansfeld 21 è incauta
nell’assumere la validità dell’integrazione εἴργω di Diels per B6.3, ma la
proposta complessiva è di grande interesse: i primi due versi di B7
riformulerebbero B6; εἶργε (B7.2) richiamerebbe εἴργω (B6.3), completandone il
senso con un chiaro esempio di composizione ad anello. L’attacco ai «mortali
che nulla sanno» sarebbe dunque compreso tra il primo richiamo alla
disgiunzione fondamentale (B6.1-2: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν) e
l’invito a «giudicare con il ragionamento» (κρῖναι δὲ λόγῳ): due modi per
evocare la krisis di B2, prima e dopo la descrizione del mondo umano22 . Che
siano cose che non sono La Dea mette in guardia il kouros: a dispetto
dell’alternativa rappresentata dalle «uniche vie di ricerca per pensare» e
dunque contro una coerente considerazione razionale della realtà, si tenta di
far accettare l’esistenza di cose che non sono. In gioco è la presunta
pluralità di “non-enti” (μὴ ἐόντα) in qualche modo associata, nei versi
successivi a ἔθος πολύπειρον, «abitudine alle molte esperienze», un costume
mentale scaturito dal commercio quotidiano con il mondo. B4.1-2 può essere su
questo di aiuto alla comprensione: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως·
οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano
comunque per la mente saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere
sia connesso all’essere. 21 Op. cit., p. 91. 22 Ibidem. 411 Ciò che non è
immediatamente percepito è comunque razionalmente raccolto nell’«essere» (τὸ ἐὸν),
perché il νόος impedisce di considerare l’essere a “intermittenza”, quasi fosse
alternato al non-essere. Sono i sensi ad attestare presenza e assenza immediate
degli enti; è l’abitudine a tale oscillante attestazione empirica a tradire la
corretta comprensione: una superficiale lettura dei dati empirici spinge a
riscontravi la successione di essere (presenza) e non-essere (assenza). I
sensi, in verità, non rilevano (né potrebbero) il non-essere, come giustamente
ricorda Ruggiu23: essi attestano la presenza di qualcosa, quindi la sua
assenza; mai, però, propriamente il nulla. Ciò che la Dea contesta è dunque una
superficiale inferenza condotta dai mortali a partire dalla loro esperienza: in
Parmenide, come in Eraclito, non è in discussione il valore dei sensi, ma
quello dei giudizi dei mortali24 . Ma tu … Leggiamo ancora una volta l’attacco
di B7: Οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος
εἶργε νόημα Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma
tu da questa via di ricerca allontana il pensiero (B7.1-2). La Dea esorta il
kouros a trattenere il pensiero (εἶργε νόημα) dall'incosciente illusione che
esistano cose che non sono (εἶναι μὴ ἐόντα). Ritorna il riferimento alla «via
di ricerca» (τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος), che richiama B6.4-5: […] ἀπὸ τῆς [ὁδοῦ
διζήσιος], ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν 23 Op. cit., p. 266. 24 Conche, op. cit.,
p. 122. 412 < πλάσσονται >, δίκρανοι […] da quella [via di ricerca] che
mortali che nulla sanno < s’inventano >, uomini a due teste […] Nel
frammento precedente si era iniziato a costruire lo stereotipo degli sprovveduti
mortali, impaniati nella contraddizione: il loro, in fondo, era solo un
“preteso” percorso d’indagine, in realtà forgiato indebitamente (πλάσσονται,
«s’inventano»). In B7, invece, si punta su due elementi: (a) la dura presa di
posizione (οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ) rispetto alla pretesa che «siano cose che
non sono»; (b) l’appello personale (ἀλλὰ σὺ) a trattanersi - evidentemente
contrapposto con enfasi agli ἄκριτα φῦλα, alle «schiere scriteriate» (B6.7),
impotenti a discriminare essere e non-essere. Questo richiamo personale segue:
(i) l’iniziale allocuzione di saluto della dea al kouros (B1.24- 28) con
l’illustrazione del suo programma di istruzione (B1.28b: χρεὼ δέ σε πάντα
πυθέσθαι); (ii) l’invito ad aver cura della comunicazione introduttiva sulle
due vie alternative di ricerca, da cui dipende la possibilità di accedere alla
Verità (B2.1: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας); (iii)
l’esortazione ad atteggiare coerentemente la propria intelligenza (B4.1 e B6.2:
λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως; τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα); (iv)
la dissuasione dalla tentazione irriflessa di adeguarsi a uno stile di pensiero
(e comportamento) diffuso ma logicamente contraddittorio (B6.3-4: πρώτης γάρ
σ΄25 ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < εἴργω >, αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς...). In B7
registriamo dunque il compimento dello sforzo dissuasivo della dea nei
confronti del kouros, esplicitamente sollecitato a marcare il proprio
atteggiamento intellettuale rispetto all’«impotenza» dei «mortali», a
condividere razionalmente la disamina critica della Dea. La presunta
"terza via" è delineata es- 25 Il codice D di Simplicio riporta σ΄
(così come E e F); B e C, invece, τ΄. 413 senzialmente per distogliere da essa:
B6 e B7 svolgono, in questo senso, l'ufficio critico di «liberare la mente dell'allievo
(e dell'uditorio) da presupposti invalsi e premesse fallaci» per concentrarla
sul compito arduo di «riconoscere i segni scaglionati lungo la Via
dell'essere»26 . Chiara Robbiano, interessata a valorizzare in chiave
performativa l’efficacia comunicazionale del poema, ha sottolineato lo
specifico effetto identificativo sull’audience. Essa è stata incoraggiata a
immedesimarsi nel destinatario della comunicazione divina: un «uomo che sa»
(B1.3), partner degli dei (B1.24) sotto l’egida di Themis e Dikē (B1.28).
All’audience è stata prospettata quindi la scelta tra le alternative «per
pensare» proposte dalla Dea: la via lungo la quale è lei stessa a condurre alla
manifestazione dei «segni» della realtà genuina, e l’altra, da cui ella mette
in guardia, dal momento che, come abbiamo sopra ricordato: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης
τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις. Ora, le vie dei mortali, nel loro
sforzo di comprensione della realtà, implicano il nulla: così in B7.4-5 la Dea
metterebbe sull’avviso la propria audience contro il modo comune di guardare
alle cose e di esperirle27, insistendo a stigmatizzarne confusione e
distorsione. In questo senso, rispetto alla marcata contrapposizione del «tu»
ai «mortali» (e alle loro vie confuse), il riferimento della Robbiano allo
schema dissuasivo dell’antimodello28: tra B6 e B7 la Dea connoterebbe uno
stereotipo negativo (un antimodello, appunto), così da condizionare nella
scelta la propria audience interna (il kouros) ed esterna. Imboccare la via
sbagliata impliche- 26 Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp.
48-9. 27 Robbiano, op. cit., p. 97. 28 Secondo la lezione di Ch. Perelman &
L. Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation. La nouvelle rhétorique, Paris
1958, §80: le modèle et l’antimodèle. 414 rebbe, infatti, essere assimilati a
una tipologia umana con cui nessuno intende identificarsi29 . Da questa via di
ricerca… Come abbiamo segnalato in nota, nella testimonianza di Simplicio
(forse direttamente dal testo del poema) la «via di ricerca» da cui la Dea
inviterebbe a tenersi alla larga (B7.2) sarebbe la seconda di B2 (ὡς οὐκ ἔστιν),
diversa da quella evocata in B6.4, inventata da «mortali che nulla sanno»:
μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας
τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] Dopo aver biasimato
infatti coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile
[citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere
[citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.] (In Aristotelis Physicam 78,
2). Certamente la “seconda via” è coinvolta nel rilievo della Dea, ma non nel
senso che a essa immediatamente ci si riferisca: essa, piuttosto, risulta
implicata nella posizione espressa dai mortali che combinano indiscriminatamente
essere e non-essere. Ed è per questo motivo che B7.1 denuncia l'insostenibile
contraddizione: εἶναι μὴ ἐόντα, dove, come abbiamo già segnalato, il neutro
plurale plausibilmente si salda alla prospettiva del fraintendimento empirico
di cui si renderebbero colpevoli i «mortali». Condividiamo dunque la lettura di
B7.2 che Conche30 (e altri) hanno avanzato: la via di ricerca incriminata
sarebbe quella che βροτοὶ εἰδότες οὐδέν illusoriamente si forgiano, quella
appunto che pretende che i non-enti siano. Si tratta impropriamente di una 29
Robbiano, op. cit., pp. 103-4. 30 Op. cit., p. 120. 415 terza via, illegittima
dal punto di vista della Dea: in B2 sono definite le uniche vie legittime da un
punto di vista razionale (quello della Dea). Il pensiero e l’abitudine I versi
che seguono l’avviso della Dea contribuiscono probabilmente a chiarire
l’origine dello sviamento dei «mortali che nulla sanno»: μηδέ σ΄ ἔθος
πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ
γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza,
a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5).
Appena invitato il kouros a trattenere il pensiero (νόημα) dalla fittizia via
di indagine lungo la quale si trascinano i (o meglio certi) «mortali», il nume
richiama l’attenzione sulle insidie dell’«abitudine» (ἔθος), che allignano
nella irriflessa consuetudine quotidiana, con l’effetto di stravolgerne il
quadro: i termini in gioco sono appunto (i) ἔθος, che guadagna la sua forza dal
contrasto con (ii) νόημα. Il linguaggio dei versi 4-5 riprende chiaramente la
fenomenologia degli ἄκριτα φῦλα (B6.7): l’«abitudine» è contrastata con la
valutazione intellettuale implicita in νόημα, che può dissolvere le illusorie (perché
in sé contraddittorie) certezze empiriche. Costume irriflesso Di quale
abitudine si tratta? La Dea la qualifica come πολύπειρον, probabilmente per
marcarne l’origine dalle frequenti 416 esperienze, e ne rileva l’azione a un
tempo dispotica e insidiosa: evidentemente il quotidiano rapporto sensibile con
le cose, quanquando non è guidato dall'intelligenza, può indurre assuefazione e
spingere, inconsapevolmente, a ritenere che «siano cose che non sono». La nuova
messa in guardia è giustificata dai meccanismi irriflessi che condizionano il
nostro orientamento: proprio per questo i sensi non possono essere separati
dalla ragione31 . È sufficientemente chiaro che la condanna è rivolta al
cattivo uso dei sensi per effetto dell’abitudine e non ai sensi stessi: è
infatti marcato nel testo come sia l’ἔθος πολύπειρον a “forzare” (βιάσθω) la
percezione. D’altra parte, se la Dea esorta a giudicare con la ragione è perché
lungo la via sconsigliata la ragione non è impiegata, sotto l’effetto appunto
dell’abitudine32. Costantemente sottoposti a input sensibili che
richiederebbero di essere correttamente analizzati, i mortali sviluppano una
acritica dimestichezza con le cose, progressivamente avviluppandosi in una
spirale di incomprensioni. Eraclito aveva espresso forse lo stesso punto di
vista: κακοὶ μάρτυρες ἀνθρώποισιν ὀφθαλμοὶ καὶ ὦτα βαρβάρους ψυχὰς ἐχόντων
Cattivi testimoni per gli uomini sono occhi e orecchi, se essi hanno anime
barbare [balbettanti] (Sesto Empirico; DK 22 B107). L’Efesio riconosce
all’anima una funzione intellettuale – la presenza a sé stessi, la
consapevolezza - testimoniata da prontezza di direzione, controllo sui gesti e
in genere sul corpo (si vedano, per esempio, i frammenti B85 e B118) –
integrata dalla capacità di discernimento, senza la quale, sostiene il
filosofo, i sensi sono fuorvianti. I dati sensoriali in sé considerati sono
insufficienti, richiedendo il vaglio critico della psychē, proposta come
istanza indipendente rispetto alla sensibilità. Interessante, nella prospettiva
parmenidea, l’uso dell’aggettivo «barbaro», in cui è stata ravvisata la
probabile implicazione linguistica: il termine si riferisce, 31 Ruggiu, op.
cit., p. 267. 32 Conche, op. cit., p. 121. 417 infatti, o al balbettare di chi
non ha un buon controllo della lingua (gli stranieri) o alla incomprensione di
chi non conosce il linguaggio. A sottolineare l’essenziale ruolo dell’anima
come facoltà di raccolta, decifrazione e intellezione dei dati empirici. In
Parmenide, come in Eraclito, non è in gioco il valore dei sensi, ma quello dei
giudizi e del linguaggio dei mortali: i sensi, in effetti, non fanno che
attestare presenza e assenza; il resto è frutto del giudizio e del linguaggio
umani, che attribuiscono ai dati sensoriali una consistenza ontologica che essi
non rivendicano33 . L’erramento dei «mortali» è marcato dalla Dea (come in
B6.4-9) come erramento del pensiero, intellettuale: se consideriamo il contesto
del suo discorso, assicurato da B1, potremmo convenire con Conche che, se la
via della Dea è discosta «dalla pista degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου
B1.27), l’abitudine, al contrario, pare proprio trattenere e intrattenere su
quel percorso34. In questa prospettiva l’esortazione rivolta al kouros in B7.2
(ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα) può essere letta di nuovo in
parallelo con il frammento B1 di Eraclito (già utilizzato nel commento a B6):
l’isolamento del sapiente rispetto alle opinioni condivise dagli «altri uomini»
(τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους) si rivela nella tensione tra il suo discorso consapevole
- che annuncia il dominio del logos su tutta la realtà - e l’incomprensione
degli uomini (nei frammenti connotata come torpore, stordimento, una sorta di
sonnambulismo) per le cose che li circondano, tanto più grave in quanto essi
pure si muovono nell’ambito di quella legge universale e eterna, cui è
improntato il divenire di tutti gli enti. Ramnoux35 preferisce allora al
termine «abitudine» il termine «costume», per evidenziarne un effetto: esso ci
spinge a giudicare come tutti gli altri, ad assumere un punto di visto
ordinario, come se il nostro sguardo fosse privo di una propria identità. Per
questo, dunque, l’appello personale della Dea al discepolo affinché valuti 33
Ivi, p. 122. 34 Ivi, p. 121. 35 C. Ramnoux, Parménide et ses successeurs immédiats,
Monaco, Ed. du Rocher, 1979, p. 111. La referenza è di Conche, op. cit., p.
121. 418 ragionando. Conche 36 ne ricava un'indicazione suggestiva: l’abitudine
esercita il suo potere in modo insidioso, facendo leva sulla pressione sociale,
con il risultato di alienare il giudizio personale nel giudizio collettivo. La
via ordinaria è la via “collettiva” dei mortali; la via della Dea, la via della
Verità, è la via “singolare” del kouros37 . Sempre in relazione a Eraclito, ma
all’interno del più generale quadro di riferimento della cultura arcaica, Cerri
38 valorizza l’espressione ἔθος πολύπειρον, il «vezzo di molto sapere». I
termini πολύπειρος e πολυπειρία (in greco sinonimo di πολυμαθία e ἱστορία)
indicherebbero l’attitudine alle molte esperienze, a collezionare notizie,
denotando in ultima analisi una forma di cultura nozionistica, nell’antichità
attribuita per esempio a Solone39, impartita con la memorizzazione scolastica,
che Platone (Leggi 7.811 a-b) esplicitamente condanna (come πολυπειρία e
πολυμαθία), ma già duramente stigmatizzata, come in precedenza ricordato, da
Eraclito (DK 22 B40; B129). Appoggiandosi a Gemelli Marciano40, anche Chiara
Robbiano ha di recente ricordato come nel contesto presocratico (in particolare
in Senofane, Eraclito ed Empedocle) sia costante la polemica nei confronti di
altri filosofi ma soprattutto di altre autorità in campo culturale e
sapienziale. In questo senso sarebbero da leggere le aspre critiche di
Parmenide in B7: il riferimento sarebbe alla πολυμαθίη come sapienza tradizionale,
che raccoglie e accumula conoscenza intorno a molte cose41 . 36 Che,
ricordiamolo, è anche editore di Eraclito. 37 Conche, op. cit., p. 122. 38 Op.
cit., pp. 61-2. 39 Il quale (Plutarco, Sol. 2.1) avrebbe compiuto viaggi in
giovinezza «a scopo di esperienza molteplice e di indagine conoscitiva». 40
M.L. Gemelli Marciano, “Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et
destinataires”, cit., pp. 83-114. 41 Robbiano, op. cit., p. 102. 419 Occhio,
orecchio e lingua La “forza” della consuetudine è dunque contrastata dalla
“persuasività” (B2.4) che caratterizza il viaggio lungo la via autentica42: il
logos deve rettificare l’eco confusa della comune ricezione empirica, la cui
cifra è, ribadiamolo, essenzialmente la distorsione: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν
κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né
abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere
l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5). Parmenide
recupera un motivo tradizionale, che ha riscontri in Omero43 e nei lirici e
ritornerà ancora in Empedocle (DK 31 B3), ma soprattutto, come abbiamo già
ricordato a proposito di B6.7, in Eschilo: οἳ πρῶτα μὲν βλέποντες ἔβλεπον
μάτην, κλύοντες οὐκ ἤκουον, ἀλλ’ ὀνειράτων ἀλίγκιοι μορφαῖσι τὸν μακρὸν βίον ἔφυρον
εἰκῆι πάντα Dapprima essi [gli uomini], pur avendo occhi, in vano osservavano;
avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni simili alle forme, la lunga vita
impastavano tutta senza disegno (Eschilo, Prometeo incatenato 447-50).
Couloubaritsis ritiene che i μὴ ἐόντα (analogamente a τὰ δοκοῦντα) sarebbero da
identificare con le “cose”, cui Parmenide 42 Coxon, op. cit., p. 191. 43 Coxon
(p. 192) sottolinea la risonanza omerica (non l’uso che se ne fa ) dell’intero
verso 4. 420 negherebbe lo statuto di essere, attribuendo al commercio
quotidiano con esse, all’esperienza multipla, quella violenza sul pensiero che
si traduce nella identificazione del reale con il divenire44. In verità, la Dea
insegnerebbe che il loro statuto è quello di «nome» (ὄνομα): svuotate di ogni
consistenza ontologica, le “cose” sono così destinate a sparire. Secondo
l’autore belga, dunque, questa prima forma di “nominalismo” condannerebbe ogni
tentativo di attribuire realtà alle cose come «vuoto parlare», «parlare per non
dire niente»45 . Noi riteniamo che in B7 Parmenide rilanci la propria denuncia
contro il modo comune di guardare alle cose e di esperirle: i mortali implicano
il non-essere nel tentativo di comprendere la realtà attraverso il dato sensibile:
dunque, per riprendere una osservazione della Robbiano46, la Dea ammonisce la
propria audience che quando si coinvolge il non-essere, non si troverà la
verità. Per riprendere una formulazione, che ci pare efficace, della
Wilkinson47, la Dea «non critica i mortali perché percepiscono in modo
scorretto, piuttosto critica i mortali perché nominano in modo scorretto quello
che percepiscono»48 . Logos e elenchos Il frammento si chiude con una
esortazione notevole: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα
Giudica invece con il ragionamento la prova polemica da me enunciata (B7.5-6).
L’interesse del passo è legato alla connessione tra vocaboli destinati a
diventare tecnici nelle filosofie posteriori - λόγος e 44 Mythe et
Philosophie…, cit., p. 201. 45 Ivi, pp. 201-2. 46 Op. cit., p. 97. 47 Op. cit.,
p. 105. 48 Enfasi dell’autrice. 421 ἔλεγχος: il kouros è invitato a valutare, a
sottoporre a scrutinio, con il logos (con il discorso, con l'argomentazione)
l’elenchos (qualificato come πολύδηριν, «polemico», ma anche «molto
contestato») appena proposto (sulle implicazioni temporali del participio
aoristo ῥηθέντα si veda la nota alla traduzione). La Dea, con trasparenza,
sollecita il proprio interlocutore a prendere piena coscienza della forza
(razionale) della contestazione condotta: (i) ogni distanza (tra umano e
divino) è così annullata sul terreno dell’argomentazione: il potere del logos
può accomunare docente e discente; (ii) giudicare e discriminare appaiono come
operazioni implicanti il logos e riferentesi a una «prova» destinata a
contestare: in senso aristotelico, un argomento che intende accertare una
contraddizione. Il termine λόγος indicava originariamente l’attività e il
risultato del «raccogliere» (λέγειν), donde una prima associazione semantica
alla «numerazione» e le successive due linee di sviluppo: (i) «enumerazione» e
«racconto» (inteso appunto come raccolta e ordinamento di fatti), quindi
«discorso»; (ii) «conteggio, calcolo, stima, ragionamento». Nel nostro
contesto, e nella associazione con κρίνω, λόγος è espressione di operatività
razionale: argomentazione, riflessione. Nel contemporaneo Eraclito, λόγος
risulta polivalente, designando a un tempo il «discorso», la sua espressione
scritta, il suo significato; con una forte valenza ontologica, nella misura in
cui viene utilizzato per designare la struttura della realtà, la sua misura
interna. Secondo Ruggiu49 , anche in Parmenide, come in Eraclito B1, λόγος
indicherebbe quella peculiare forma di conoscenza razionale che (analogamente
al νόος) consente di penetrare il senso profondo delle cose. A determinarne
l’accezione è proprio l’associazione con ἔλεγχος: il valore etimologico
originario del verbo ἐλέγχω (da cui discende il sostantivo ἔλεγχος) è
«provocare vergogna», una vergogna che scaturisce dalla cattiva figura;
collegato a esso è il significato di «smentire una menzogna», riuscire a
provare che qualcuno è colpevole di una menzogna. È possibile che in questo 49
Op. cit., p. 267. 422 modo il verbo abbia assunto il senso di «mettere alla
prova, verificare, accertare qualcosa». L’espressione πολύδηρις ἔλεγχος sembra
dunque riferirsi proprio alla critica, sviluppata tra B6 e B7, nei confronti
della presunta sapienza tradizionale, probabilmente delle tesi di pensatori
ionici e forse pitagorici. Una vera e propria confutazione, se consideriamo che
la polemica è consistita essenzialmente nel denunciare la contraddizione
implicita in quelle posizioni. La Dea dapprima (B2.3a; B2.5a) propone
l’espressione diretta della semplice e immediata esperienza della realtà, ἔστιν,
contrapponendole la negazione (οὐκ ἔστιν): da questa alternativa fondamentale e
radicale, può ulteriormente ricavare τό μὴ ἐὸν (B2.7) e τὸ ἐὸν (B42; ἐὸν B6.1)
come soggetti (ancorché il primo solo logico, il secondo reale) delle due
coerenti «vie per pensare». Quindi, dopo aver riformulato (B6.1-2) in termini
tautologici (ἐὸν ἔμμεναι; μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν) il contenuto delle vie, ella si
concentra (B6.4-9; B7) sul cortocircuito prodotto nel pensiero (νόος) dei
«mortali» dalla loro contraddizione50, cioè dall’incauta contravvenzione delle
norme: οὐκ ἔστι μὴ εἶναι (B2.3b); χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5b). In questo senso
la «prova» intorno a cui la Dea invita il kouros a meditare è, nella posteriore
accezione aristotelica, una «confutazione» (ἔλεγχος), deduzione di una
contraddizione (ἀντίφασις), cioè procedimento dialettico per eccellenza 51 . 50
Heitsch, op. cit., p. 161. 51 Su questo si vedano in particolare i contributi
di Enrico Berti, ora raccolti in E. Berti, Nuovi studi aristotelici. I –
Epistemologia, logica e dialettica, Morcelliana, Brescia 2004. 423 PERCORSI
NELL’ESSERE [B8 VV. 1-49] Il frammento B8 ci è interamente conservato da
Simplicio, in due passi del suo commento alla Fisica aristotelica, ma brevi
citazioni (per lo più di singoli versi) sono riscontrabili nello stesso
commentatore, in Platone, Aristotele, Pseudo Aristotele, Aetius, Plutarco,
Clemente, Eusebio, Plotino, Teodoreto, Proclo, Ammonio, Filopono, Asclepio,
Damascio. La collazione dei codici ha creato, almeno in alcuni casi, non pochi
problemi per la ricostruzione del testo originale, con conseguenti, profonde
divergenze interpretative, come abbiamo già documentato nelle note. L’acribia
nella discussione critica si giustifica per il rilievo del lungo frammento,
attestato dalla stessa messe di citazioni e comunque dalla sua eccezionale
tradizione (B8 rimane uno dei più lunghi passi superstiti della sapienza greca
arcaica): con tutta probabilità in questi versi Simplicio ci ha conservato
(consapevole della rarità dell’opera) l’intera comunicazione di verità del
poema - dopo le premesse (B2, B3) e un primo esame critico (B6 e B7) - insieme
con l’introduzione della sezione convenzionalmente designata come Doxa (che,
secondo i calcoli contemporanei, da sola doveva coprire i 2\3 dell’opera): καὶ
εἴ τῳ μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ
πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ
λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος. ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ
μετὰ τὴν τοῦ μὴ ὄντος ἀναίρεσιν anche a costo di sembrare insistente, vorrei
aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere
uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto
parmenideo. Dopo l'esclusione del non essere, le cose stanno così: [B8.1-52]
(Simplicio, Commentario alla Fisica 144, 25-29). Nella nostra edizione e nel
nostro commento abbiamo deciso di dividere i due segmenti, ma solo per ragioni
di omogeneità: abbiamo in altre parole preferito concentrare l’attenzione prima
424 sulla presunta ontologia del poema, per passare poi in modo più sistematico
a discuterne i principi interpretativi della natura. La via «che è» e la Verità
Diogene Laerzio (IX.22), a proposito delle tesi di Parmenide, afferma: δισσήν
τε ἔφη τὴν φιλοσοφίαν, τὴν μὲν κατὰ ἀλήθειαν, τὴν δὲ κατὰ δόξαν Disse che la
filosofia si divide in due parti, l’una secondo verità, l’altra secondo
opinione. Alla luce di quanto risulta dalla nostra analisi di B1, tale
struttura emerge dal programma annunciato dalla Dea in B1.28b ss.: χρεὼ δέ σε
πάντα πυθέσθαι ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι
πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι
διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità
ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale
credibilità. Nondimeno anche questo imparerai: come le cose accolte nelle
opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero
esistenti. Nella prima sezione (dopo il proemio) indicata - per antica
consuetudine, sulla scorta di tale programma - come Verità1 , ritroveremmo
dunque - concentrato essenzialmente in B8 - l’insegnamento (πυθέσθαι, anche
«imparare») del «cuore fermo di 1 E che – ricordiamolo - Parmenide in B2.4
designa come Πειθοῦς κέλευθος - «percorso di Persuasione». 425 Verità ben
rotonda» (ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ), correlato alla denuncia (B6, B7 e
ancora B8) dell’errore insito nelle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξας). La
sezione indicata come Opinione sarebbe (nella nostra interpretazione) da
mettere invece in relazione all’ultimo punto del programma: conterrebbe cioè
una lezione (μαθήσεαι, «apprenderai») adeguata su τὰ δοκοῦντα, sui contenuti
dell’esperienza. È significativo dell'originalità della sezione sulla Verità –
soprattutto di B8 - il fatto che le citazioni relative siano più numerose e
consistenti. Dei tre blocchi testuali in cui supponiamo fosse articolato il
poema – Proemio, Verità, Opinione - l’apertura proemiale, che si prestava
all’allegoresi, dovette riscuotere particolare attenzione in età ellenistica:
probabilmente da una tradizione stoica dipende, infatti, la sua interpretazione
da parte di Sesto Empirico, che è anche l'unico a riprodurne integralmente il
testo (forse da fonte non attica2 ). In genere, però, già la produzione del V
secolo a.C. attesta l’incidenza del modello argomentativo e della concettualità
della Verità, che doveva costituire novità rispetto all'arcaica elaborazione
ionica, sebbene, come vedremo, sia molto probabile che i
"naturalisti" posteriori, da Empedocle agli atomisti3 , abbiano
adottato uno schema interpretativo desunto dalla Opinione. Anche la consistente
eco parmenidea in Platone e Aristotele è per lo più riferita alla Verità e solo
subordinatamente (so- 2 Secondo Passa (op. cit., p. 31), infatti, Sesto avrebbe
utilizzato fonti diverse per il testo del proemio e per la sua parafrasi: nel
secondo caso, la fonte potrebbe effettivamente essere stoica; nel primo caso,
invece, la tradizione sestana è l'unica a conservare traccia dell'antica
redazione psilotica del poema. Passa ne conclude che è plausibile che Sesto
disponesse di una buona copia del proemio, derivata verosimilmente da un
esemplare dell'intero poema. 3 Alexander Nehamas ("Parmenidean
Being/Heraclitean Fire", in Presocratic Philosophy. Essays in Honour of
Alexander Mourelatos, edited by V. Caston and D.W. Graham, Ashgate, Aldershot
2002, pp. 51-2) sottolinea come, nonostante i presocratici posteriori avessero
mutuato le caratteristiche ontologiche illustrate da Parmenide, nessuno si
sentisse in dovere di sostenere l'introduzione di una pluralità di elementi
giustificandola argomentativamente. Quasi non ce ne fosse bisogno: un segno,
forse, di continuità con il poema. D'altra parte, Melisso, che non attribuisce
esplicitamente a Parmenide le proprie posizioni, si impegnò a giustificare il
proprio «numerical monism»: un segno, forse, di discontinuità con il poema. 426
prattutto in Aristotele) alla Opinione, cioè a quella che doveva presentarsi
come una più tradizionale trattazione peri physeōs. È inoltre interessante
osservare come, anche da un punto di vista “musicale”, dell’esperienza di
ascolto dell’intero poema, B8 si distacchi dal resto, deviando spesso dalla
cadenza del verso omerico: solo nei versi nella terza sezione il linguaggio
ritorna alla semantica convenzionale e ordinaria e alle relazioni sintattiche
caratteristiche del proemio4 . La reiterazione di ἔστιν (senza soggetto)
produce (i) un’interruzione di ritmo (suono) e (ii) una dissociazione di
significato5 , come se Parmenide intenzionalmente rompesse la sintassi, le
regolari relazioni semantiche e le relazioni logiche o strutturali: sia che il
poema si legga in silenzio, sia che si ascolti in lettura, in B2 e B8 “è”
(senza soggetto) incombe, con eco amplificata dal ritorno al ritmo poetico
consueto nei due terzi finali del discorso della dea6 . La via che è L’attacco
del frammento (vv. 1-3a) non sembra lasciare dubbi sul contenuto: μόνος δ΄ ἔτι
μῦθος ὁδοῖο λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς… Unica
parola ancora, della via che «è», rimane; su questa [via] sono segnali molto
numerosi: che... Esplicito il richiamo a B2 (μῦθος; ὁδός) e ai suoi esiti:
rimane un’unica parola da ascoltare, dopo che si è riconosciuto
l’impraticabilità di alternative. È giunto dunque il momento di in- 4 L.A.
Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 107. 5 Ivi, p. 96. 6 Ivi, p. 107.
427 camminarsi lungo la via che appartiene a Πειθώ e Ἀληθείη. Su questo
Parmenide è ancora più netto nei vv. 15-18: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν
ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ
ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. Il giudizio in
proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di
lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via
genuina), e che l’altra invece esista e sia reale. Nel sottolineare la bontà
del proprio argomento, la Dea ricostruisce sinteticamente la ratio per cui
μόνος δ΄ ἔτι μῦθος […] λείπεται («unica parola ancora […] rimane» B8.1-2),
evocando l’alternativa dilemmatica - ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν (espressione sincopata
delle ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός […] νοῆσαι di B2.2) – e la conseguente, necessaria
esclusione della via «che non è» (B2.7-8): «non è fattibile» (οὐ ἀνυστόν)
conoscere (γνῶναι) e indicare (φράζειν) «ciò che non è» (τό μὴ ἐὸν). In questo
senso va intesa la coppia di aggettivi «impensabile» (ἀνόητον) e «indicibile»
(«senza nome», ἀνώνυμον): la via ὡς οὐκ ἔστιν (τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι) è
effettivamente impalpabile (B2.6), «sentiero del tutto privo di informazioni»
(παναπευθέα ἀταρπόν). La «decisione» (il «giudizio», κρίσις) è conseguente:
come destino («necessità», ἀνάγκη), ricorda la Dea, si è riconosciuto che non
si tratta di via «genuina» (οὐ ἀληθής ἔστιν ὁδός), lungo la quale sia realmente
possibile inoltrarsi e incontrare qualcosa. All’inizio di B8, delle «uniche vie
di ricerca […] per pensare», non rimane quindi che imboccare quella «reale» (ἐτήτυμον),
quella, appunto, ὡς ἔστιν (τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι): muoversi sul terreno
di «è e non è possibile non essere», rinunciando a dare 428 consistenza a
«non-è ed è necessario non essere», garantisce intelligibilità e comprensione
della realtà7 . Una sola parola L’eco inziale del μῦθος che la Dea aveva
invitato il kouros ad accogliere e conservare - e che dunque propone i tratti
di un authoritative speech act (Morgan) – è funzionale alla successiva notifica
della vanità del nominare mortale (B8.38b-39): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ
κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ Per esso tutte le cose saranno nome, quante i
mortali stabilirono, persuasi che fossero reali, ma anche al rilievo della
svolta introdotta in conclusione del frammento (vv. 50 ss.), con una formula
indicativa: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ
τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo
termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo
momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando,
che può ingannare (B8.50-52). La «parola» (il «discorso») di Verità della Dea
traccia i contorni della realtà attraverso l’esclusione sistematica di ciò che,
nella propria inconsistenza (τό μὴ ἐὸν), si rivela ἀνόητον ἀνώνυμον. Si tratta
della rigorosa applicazione argomentativa della formula della prima «via»: 7
Sul rapporto tra il tema della “via” e l’unicità del discorso in apertura di B8
si veda in particolare L. Couloubaritsis, Les multiples chemins de Parménide,
in Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 29-30. 429 ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς
οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una: è e non è possibile non essere. In questo senso, in
B7.5 ella aveva chiaramente esortato a valutare discorsivamente (κρῖναι δὲ λόγῳ)
la «prova polemica» (πολύδηριν ἔλεγχον) fornita: donde forse – ipotizzando una
sostanziale continuità tra B7 e B8 (come attesterebbero le citazioni e il
commento di Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII, 111 e 114) – l’apertura
con l’espressione μόνος δ΄ ἔτι μῦθος […] λείπεται. Tale μόνος μῦθος è relativo
alla «via: è» (ὁδός ὡς ἔστιν), di cui la Dea informa (vv. 2b-3a): ταύτῃ δ΄ ἐπὶ
σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄… su questa [via] sono segnali molto numerosi. Il discorso
è uno, perché una sola è in effetti la via riconosciuta percorribile; molti i
«segni» (σήματα) che consentono di identificarla8 , molti gli argomenti che
possono essere addotti per metterla alla prova: di qui il nesso tra πολύδηρις ἔλεγχος,
μόνος μῦθος e σήματα. Come rivela il precedente epico del riconoscimento di
Odisseo da parte di Penelope, essi, infatti, possono essere usati per provare
(sottoporre a elenchos) l’identità di una persona9 . Sarà allora lo stesso
intreccio dei «segni» a rivelare unità e omogeneità di τὸ ἐόν e dunque a
mostrare l’alterità tra il μῦθος della Dea e i discorsi dei «mortali»: essi
ipostatizzano quanto, in vero, è solo «nome»; assumono come evidenza ultimativa
la molteplicità di enti, senza ricondurla all’identità dell’«essere». Il μόνος
μῦθος che la θεά articola in B8.1-49 corrisponde a quanto annunciato (B2.4)
come Πειθοῦς κέλευθος («percorso di Persuasione») in quanto Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ
(«tien dietro a Verità»): lungo la 8 Secondo gli interessanti rilievi di
Robbiano, op. cit., pp. 108-9. 9 Ibidem 430 «via: è e non è possibile non
essere» si esprime – non solo per l’autorevolezza dell'indicazione divina, ma
per l’intrinseca costruzione razionale – quella πίστις ἀληθής (B8.28) che era
stata negata (B1.30) alle «opinioni dei mortali» (ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής,
«in cui non è reale credibilità»). Con una differenza significativa: nel
proemio il kouros doveva semplicemente registrare un annuncio; la πίστις ἀληθής
rappresentava quella credibilità che la Dea disconosceva alle convinzioni
correnti. In B8 è lo stesso «convincimento», maturato argomentativamente, a
trattenere dalla distorsione tipica dei «mortali che nulla sanno»: considerare
(νομίζειν) (B8.27-28): ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ
πίστις ἀληθής poiché nascita e morte sono state respinte ben lontano:
convinzione genuina [le] fece arretrare. Analogamente, in B6.4-9 e B7.1-5 la
Dea aveva duramente stigmatizzato la confusione teorica corrente, mettendo in
guardia il kouros: ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται > […]
ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν […]
[ti tengo lontano] da quella [via] che appunto mortali che nulla sanno , […]
schiere scriteriate, per i quali esso è considerato essere e non essere la
stessa cosa e non la stessa cosa […] οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ
σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα· μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε
βιάσθω Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. 431 Ma
tu da questa via di ricerca allontana il pensiero; né abitudine alle molte
esperienze su questa strada ti faccia violenza. In B8.38 ss. è lo stesso μόνος
μῦθος (articolato in relazione ai σήματα) a svelare in che cosa effettivamente
consista quello stravolgimento: perdere di vista il fatto che, prescindendo
dall’unico referente reale (l’essere), i vari nomi con cui designiamo i
fenomeni della nostra esperienza sono, in realtà, solo simboli: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται,
ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί
τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso tutte le
cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, persuasi che fossero reali:
nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore.
L’«essere» (τὸ ἐόν), ovvero «ciò che è» (ἐόν), è la sola cosa che possa essere
pensata ed espressa nel linguaggio: a qualsiasi cosa i mortali pensino o di
qualsiasi cosa i mortali parlino e in qualsiasi modo ne pensino o parlino, essi
in realtà pensano o parlano di ciò-che-è 10. Questa è la lezione che si ricava
dalla «parola» della Dea: trasfigurazione del linguaggio dell’esperienza, della
rappresentazione ingenua, ma anche della (contestata) cosmologia ionica. Una
lezione che discende, dunque, dalla krisis (ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν), condotta
escludendo τό μὴ ἐὸν: l’unica via praticabile troverà manifestazione rigorosa
attraverso i «segnali» che possono identificarla per la ragione. In questa
prospettiva i vv. 50-52 marcano effettivamente un passaggio, dal momento che
spostano l’attenzione (e l’istruzione) del kouros da quella manifestazione – il
«discorso affidabile» (πιστὸν λόγον) che esprime la Verità (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης)
– all’ambito delle nostre convinzioni empiriche (τὰ δοκοῦντα 10 R. McKirahan,
“Signs and Arguments in Parmenides B8”, cit., p. 205. 432 B1.31), da ridurre a
uno schema interpretativo adeguato (χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα
B1.32). È la stessa divinità a connotare la propria comunicazione (μῦθος): a
rilevarne con formule (κέκριται ὥσπερ ἀνάγκη) la cogenza, la dipendenza dalla
κρίσις (ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν),·e, attraverso figure (Δίκη, Ἀνάγκη, Μοῖρα), lo
statuto trascendentale. La «parola», infatti, nel suo procedere argomentativo,
appalesa, della realtà (τὸ ἐόν), ordine e superiore garanzia: «Giustizia [lo]
tiene (ἔχει)», «Necessità potente [lo] tiene (ἔχει)», «Moira (Destino) lo ha
costretto (ἐπέδησεν)». La nuova sezione, introdotta al v. 50, è, a sua volta,
esplicitamente determinata: è sempre la divinità a sottolinearne la materia diversa
– conseguenza dell’adozione di un punto di vista che potremmo definire “umano”:
δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε («da questo momento in poi opinioni mortali
impara» B8.51-2). Contestualmente, nell’abbandonare la parola garantita e il
suo oggetto immutabile (τὸ ἐόν e i suoi σήματα), è la Dea stessa a mettere in
guardia sul passaggio dal rigore del «discorso affidabile» (πιστὸν λόγον), del
«pensiero intorno alla Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης), alla ricostruzione
potenzialmente fuorviante (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων, «ascoltando
l’ordine delle mie parole che può ingannare»). Il poeta segnala il cambio di
registro anche a livello espressivo, tornando, come abbiamo in precedenza
ricordato, alla semantica convenzionale e alle relazioni sintattiche
caratteristiche del proemio: in questo senso, rispetto ai versi centrali della
Verità, ἀπατηλὸν (passibile di inganno) appare effettivamente l’organizzazione
stessa delle parole11 . L’attuale frammento B19 confermerà la natura “umana”
della prospettiva (κατὰ δόξαν) adottata, e la sua peculiare costruzione
linguistica: οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε
tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ 11 L.A.
Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 107. 433 Ecco, in questo modo,
secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito
sviluppatesi, avranno fine. A queste cose, invece, un nome gli uomini imposero,
distintivo per ciascuna. La via e i suoi «segnali» La Dea si affretta a
osservare (B8.2-3), riguardo alla ὁδός (ὡς ἔστιν), come: ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι
πολλὰ μάλ΄ su questa [via] sono segnali molto numerosi. Il rilievo è importante
perché sottolinea la fondatezza della comunicazione divina, sottraendola
all’arbitrio, e la sua intenzione razionale: essa allude a «segni», proprietà,
evidentemente da riconoscere come genuini indicatori della realtà, e
implicitamente è introdotta la loro discussione. La presenza di «segnavia»
lungo un percorso (κέλευθος) è naturale, così come la loro funzione di
orientamento: trattandosi di Πειθοῦς κέλευθος, il compito educativo della Dea
diventa quello di illustrarli e, così facendo, di sviluppare la conoscenza
della via, di guidare alla comprensione dell’essere. I σήματα si riferiscono
immediatamente alla ὁδός, non a τὸ ἐόν, ma la loro discussione, il
riconoscimento della loro funzione, contribuisce a determinare e far prendere
consapevolezza della nozione di τὸ ἐόν: la «via», in effetti, è indicata come ὡς
ἔστιν. In questo caso la natura descrittiva dei «segnali» rispetto al percorso
di conoscenza si fa ancora più netta. Simplicio (Phys. 78, 11) parla di τὰ τοῦ
κυρίως ὄντος σημεῖα, che potremmo tradurre come «connotazioni dell’essere che
veramente è». 434 Segnali La Dea ne propone un catalogo, nel seguito utilizzato
(anche se non integralmente) per l’analisi: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν,
οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν
ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές che senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto
intero, uniforme, saldo e senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà,
poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Dei molti problemi testuali abbiamo
dato notizia in nota. Qui interessa tentare di comprendere che cosa i σήματα
rappresentino per l’autore. Una prima risposta possiamo ricavare dalla versione
che abbiamo proposto (una delle possibili): la via ὡς ἔστιν è tradotta in
termini proposizionali, con un soggetto (ἐόν, lo stesso emerso in B6.1) e,
apparentemente12, due serie di predicati: (i) ἀγένητον, ἀνώλεθρόν, οὖλον,
μουνογενές, ἀτρεμὲς, ἀτέλεστον; (ii) νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές. I
«segnali molto numerosi» sulla via ὡς ἔστιν sarebbero dunque caratteristiche
che si possono legittimamente riferire a «ciò che è», sulla scorta – come risulterà
più chiaramente nel corso della esposizione divina (e come abbiamo anticipato)
- della κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Formulando diversamente lo stesso concetto:
predicati essenziali di τὸ ἐόν, implicati (e deducibili) dalla 12 Come
segnalato in nota, Leszl, Heitsch e di recente Palmer (tra gli altri), fanno
iniziare l’analisi dei segni dal v. 5, con ciò considerando gli attributi dei
vv. 5-6 già parte della discussione e non propriamente σήματα. 435 stessa
nozione di ἔστιν (τε καὶ [...] οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), con esclusione di οὐκ ἔστιν
(τε καὶ [...] χρεών ἐστι μὴ εἶναι); attribuiti all’essere, essi ne manifestano
la natura. È plausibile nel contesto che la Dea intenda σήματα e ἔλεγχος non
disgiuntamente, in altre parole che l’orientamento conoscitivo richieda non
semplicemente il catalogo, ma l’argomentazione che lo sostiene. Anzi, dal punto
di vista della lezione divina, la valutazione razionale del giovane allievo
appare preoccupazione primaria, come marcato in B7.5-6: κρῖναι δὲ λόγῳ
πολύδηριν ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα Giudica invece con il ragionamento la prova
polemica da me enunciata. I «segnali» potrebbero dunque costituire il materiale
concettuale su cui esercitare la razionalità del kouros, con un duplice scopo:
(i) fargli prendere confidenza con τὸ ἐόν; (ii) fargli prendere coscienza delle
inconsistenze di altre posizioni teoriche (ioniche, forse pitagoriche). Si
tratta ovviamente di due risvolti della stessa strategia, nella misura in cui
il riconoscimento della natura di «ciò che è» comporta, per un verso, la presa
di distanza dalla superficiale lettura del dato sensibile, per altro la
contestazione di lezioni concorrenti. Così ritroveremo riaffermato (B8.34-36a)
il nesso tra pensiero (addirittura nella formulazione astratta τὸ νοεῖν) e
essere: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. Οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος,
ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν La stessa cosa invero è pensare e il
pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso,
troverai il pensare. Un rilievo che ribadisce appunto l’equazione di B3: τὸ γὰρ
αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere, 436
e soprattutto richiama la funzione “ontologica” del νόος di B4.1-2: λεῦσσε δ΄ ὅμως
ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι
Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non
impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere. L’aspetto che appare
tuttavia peculiare nella relazione tra σήματα e νοεῖν è il fatto che alcuni dei
«segnali» fondamentali siano evidentemente costruiti - sul piano linguistico –
con l’uso dell’alfa privativo, mentre su quello argomentativo (attraverso ἔλεγχος,
confutazione) tutti siano sostenuti ribaltando il dato di senso comune (nascita
e morte, accrescimento e diminuzione, mobilità ecc.). Un risultato che a loro
modo anche la sapienza ionica aveva ottenuto, ma, come rivelerebbe la
discussione parmenidea, in modo contraddittorio. In questo senso, i σήματα
possono essere letti come elementi concettuali espressamente rivolti a
contestare i metodi tradizionali di interpretazione dell’universo13. Il
catalogo e la relativa discussione investirebbero direttamente alcuni
contributi della elaborazione cosmologica arcaica14: (i) il paradigma di fondo
della cosmogonia (B8.6-21); (ii) il modello esplicativo per successive
differenziazioni – quale è possibile intravedere nelle testimonianze su
Anassimandro e Anassimene (B8.22-25); (iii) la riflessione sul mutamento – cui
possono ricondursi in parte i frammenti di e le testimonianze su Anassimene e
Eraclito (B8.26-31); (iv) il modello biologico di sviluppo dell’universo, che
possiamo ritrovare nelle testimonianze su Anassimandro (B8.32-49). È allora
possibile che la natura dei σήματα non fosse quella di predicati astratti,
concettualmente dedotti dalla nozione di «esse- 13 Robbiano, op. cit., p. 109.
14 Ibidem. 437 re», bensì quella di contrafforti dialettici scaturiti dal
confronto con specifiche dottrine, e, in questo senso, storicamente,
culturalmente determinati. La loro funzione “segnica” rispetto alla «via»
consisterebbe nell’evitare che essa possa essere abbandonata, seguendo il
richiamo di assunzioni acritiche ovvero di presunte, scorrette, teorie. Donde
l’impronta discutiva e confutatoria dell’analisi di Parmenide. La via, i
segnali e la guida D’altra parte è evidente nel testo come la Dea scelga di
riferirsi ai «segnali» nel contesto della propria istruzione al kouros, del
proprio esercizio di guida. Anzi: ella guida attraverso σήματα, che impegnano
razionalmente. La tradizione li conosceva come «segni augurali» che gli
indovini dovevano interpretare15, come mezzi di rivelazione di una potenza
superiore16. In questo senso il contemporaneo Eraclito evocava lo stesso
modello: ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ
σημαίνει Il signore, di cui è l'oracolo in Delfi, non dice, non nasconde ma dà
un segno (Plutarco; DK 22 B93). Anche la dea di Parmenide invia segnali ai
mortali, per far conoscere cose normalmente oltre la loro portata: Robbiano e
Cerri hanno probabilmente ragione nel sottolineare come il termine σήματα non
si riferisca allora tanto ai predicati enumerati in B8.2- 6, quanto ai
successivi argomenti, risultando essenziale nella relazione tra l’umano e il
divino il momento dell'interpretazione dei segni per giungere alla verità. In
questa prospettiva – come rilevato da Mourelatos17 - σήματα e ὁδός (ὡς ἔστιν)
si salderebbero nel motivo della quest: per raggiungere il fine della ricerca è
necessa- 15 Cerri, op. cit., p. 219. 16 Mansfeld, op. cit., p. 104. 17 Op.
cit., p. 94. 438 rio percorrere la strada «che è»; per fare ciò è necessario
tenere d’occhio i segnavia. L’accostamento al modello oracolare - giustificato
non solo dalle implicazioni tra σήματα e σημαίνειν, ma pure dal nesso lessicale
tra σήματα e σημεῖον, termine per «segno divinatorio» (di qualsiasi tipo), e
«responso oracolare» (testo verbale) – è ricco di risvolti significativi nel
contesto. Il segno divinatorio, infatti, proviene dalla sfera divina: nel segno
la sapienza divina irrompe nell'ambito umano, per condensarsi poi nel
responso,: la parola del responso è umana come suono, ma rivela una conoscenza
che separa l'uomo dal dio18. Ora, non vi è dubbio che Parmenide rielabori, in
forme originali, questi elementi: la rivelazione, lo scarto conoscitivo e il
suo rilievo esistenziale, la comunicazione di verità come evento privilegiato.
Come ricorda la Robbiano19, la dea di Parmenide evoca un dio che manda segnali
ai mortali per far loro conoscere cose normalmente fuori della loro portata:
non dobbiamo dimenticare che in Omero la divinazione comporta la conoscenza
delle cose che sono, di quelle che saranno e di quelle che sono state in
passato: […] τοῖσι δ’ ἀνέστη Κάλχας Θεστορίδης οἰωνοπόλων ὄχ’ ἄριστος, ὃς ᾔδη
τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, καὶ νήεσσ’ ἡγήσατ’ Ἀχαιῶν Ἴλιον εἴσω ἣν
διὰ μαντοσύνην, τήν οἱ πόρε Φοῖβος Ἀπόλλων Si alzò allora Calcante, figlio di
Testore, di gran lunga il migliore degli indovini, il quale conosceva le cose
che sono, le cose che saranno, le cose che furono, e aveva guidato le navi
degli Achei fino a Ilio grazie all’arte profetica che gli donò Febo Apollo
(Iliade I, 68-72). 18 Su questo punto si veda G. Manetti, Le teorie del segno
nell'antichità classica, Bompiani, Milano 1987. 19 Op. cit., p. 126. 439 In
Parmenide è la divinità stessa a indicare i «segnali» che tracciano la via al
pieno dispiegamento della realtà (Verità) nella conoscenza, e a interpretarli
per il kouros; è la divinità stessa a tradurre la propria sapienza in immagini
e discorsi: essa riassorbe in sé, insieme alla funzione rivelativa, anche
quella di μάντις e προφήτης, marcando l’eccezionalità del privilegio concesso.
Il «colpo d’occhio [del dio] che conosce ogni cosa» (Pindaro), la visione
simultanea di passato, presente e futuro, si presenta nei segni che l’indovino
deve riversare in parole (enigmatiche) e l’interprete chiarire per i mortali.
In questo senso la divinità di Parmenide ha un ruolo simile a quello delle Muse
(le quali garantiscono al poeta la trasposizione della loro sinossi nello
sviluppo del canto), ma “laicizzato”: analoga l’intenzione pedagogica, comunque
diversamente declinata. La Dea, infatti, propriamente non ispira un canto,
piuttosto insegna argomentando; pur marcando lo scarto tra umano e divino, ella
comunica razionalmente, insistendo sulla «forza di convinzione» (πίστιος ἰσχύς),
sulla «convinzione genuina» (ovvero «reale credibilità», πίστις ἀληθής), per
illustrare i σήματα al proprio interlocutore (cui è richiesto di non accogliere
supinamente, ma riflettere su quanto comunicato): interpretarli significa, nel
nostro contesto, giustificarli razionalmente alla luce dei principi (le «vie»)
introdotti in B2. Alla ripresa del motivo tradizionale segue, dunque, una
sostanziale revisione: è attraverso ἔλεγχος che la Dea sviluppa il tracciato
della «via che "è"»; è contestando ed escludendo errate assunzioni di
senso comune e contributi teorici concorrenti che ella viene determinandola
dialetticamente. È indicativo del retroterra culturale il fatto che Parmenide
scelga di proporre in prima istanza un catalogo (memorizzabile) di «segni»,
quindi un prolungato sforzo argomentativo – un unicum nel panorama della
produzione arcaica –, sostenuto da una serie di immagini plastiche (catene,
legami, sfera) e figure (divine). Ritroviamo sapientemente intessuti ἔλεγχος,
metafora e mito, quasi costituissero ancora tre aspetti inscindibili di una
stessa esperienza comunicativa. Segnavia 440 L’attacco di B8 sottolinea dunque
una volta di più il ruolo della guida divina e la centralità del tema della
via: è la Dea, infatti, a ricordare come rimanga ancora solo la possibilità di
un μῦθος; è la Dea ad annunciare i «segnavia» (σήματα) e quindi che il percorso
sarà discorsivo. È la Dea, insomma, che non solo anticipa al kouros l’identità
della via che resta (ὡς ἔστιν), ma prospetta pure la prova (ἔλεγχος) che il
giovane discepolo deve sostenere. Come opportunamente osservato da Coxon20, B8
è introdotto da un resoconto delle evidenze lungo la via, sulla quale, nella narrazione,
il kouros deve ancora viaggiare: gli argomenti di B8 valgono quindi come guida
(filosofica), grazie a cui è possibile mantenere la direzione e percorrere fino
in fondo la «via genuina» (ὁδός ἀληθής), in B2.4 connotata come Πειθοῦς
κέλευθος. Come anticipato, Parmenide sembra articolare un doppio registro di
evidenze da sottoporre all’attenzione; in effetti il testo recita (vv. 3-6): ὡς
ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον·
οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές che senza nascita
è ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme, saldo e senza fine; né un
tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Ne
abbiamo sopra estratto due liste di attributi di ἐὸν: (i) ἀγένητον, ἀνώλεθρόν,
οὖλον, μουνογενές, ἀτρεμὲς, ἀτέλεστον; (ii) νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές.
L’argomento di B8 – pur coinvolgendoli complessivamente – sembra costruito per
privilegiare questi enunciati: 20 Op. cit., p. 193. 441 γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται
καὶ ἄπυστος ὄλεθρος è estinta nascita e morte oscura (B8.21) πᾶν ἐστιν ὁμοῖον è
tutto omogeneo (B8.22) ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον
αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa,
e, così, stabilmente dove è persiste (B8.29-30) οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι·
ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές non incompiuto l’essere [è] lecito che sia: non è,
infatti, manchevole [di alcunché] (B8.32-33). In questo senso appare plausibile
la ricostruzione di Mourelatos21 (ripresa di recente anche da Robbiano22),
elaborata tenendo conto delle convergenze tra gli interpreti sui seguenti
blocchi testuali e relativi sÔmata di riferimento: B8.6-21: ἀγένητον
(ingenerato) e ἀνώλεθρόν (imperituro); B8.22-25: συνεχές (continuo) e\o ἀδιαίρετον
(indiviso); B8.26-31: ἀκίνητον (immobile, immutabile); B8.32-33: οὐκ ἀτελεύτητον
(non incompiuto); B8.42-49: τετελεσμένον (compiuto). Possiamo precisare
leggermente questo schema e privilegiare la discussione (ἔλεγχος) di quattro
σήματα di base, riferibili, in quanto «segnavia», direttamente a ὁδός (ma,
nella nostra traduzione, predicati di τὸ ἐόν), cui è poi possibile ricollegare
gli altri: (i) «senza nascita e morte» (ἀγένητον, ἀνώλεθρόν B8.5-21); (ii)
«tutto omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον B8.22-25); (iii) «immobile» 21 Op. cit., p. 95. 22
Op. cit., p. 108. 442 (ἀκίνητον B8.26-31); (iv) «compiuto» (οὐκ ἀτελεύτητον,
τετελεσμένον B8.32-49). Di recente McKirahan23 ha proposto un elenco più
minuzioso, classificando con una più articolata suddivisione in gruppi tutti i
predicati: A: ἀγένητον (ingenerato) ἀνώλεθρόν (imperituro) B: οὖλον (intero)
τέλειον24 (completo) ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme) συνεχές (che si tiene insieme) C:
οὐδέ ποτ΄ ἦν (né un tempo era) οὐδ΄ ἔσται (né sarà) νῦν ἔστιν (è ora) D: ἀκίνητον
(immobile) ἔμπεδον (immutabile) E: ἀτρεμὲς (stabile) F: μουνογενές (unico25) ἕν
(uno). Nella nostra esposizione seguiremo lo schema di Mourelatos che abbiamo
precisato, integrandolo con le osservazioni desumibili dall’elenco di
McKirahan. Ingenerato (e imperituro) Il vero e proprio attacco argomentativo
del frammento è formulato come interrogazione (vv. 6-7)26: τίνα γὰρ γένναν
διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso?
Come e donde cresciuto? 23 “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The
Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham,
O.U.P., Oxford 2008, p. 191. 24 McKirahan legge hdè téleion in vece di ἠδ΄ ἀτέλεστον.
25 Noi abbiamo preferito rendere come «uniforme». 26 Ma alcuni sostengono che
l'argomentazione cominci al verso precedente con οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται... 443
L’implicita opzione discutiva impronterà lo sviluppo discorsivo: la Dea non si
limiterà a ragionare con il proprio (muto) ascoltatore, ma mimerà un autentico
confronto dialettico, attribuendogli le convinzioni teoriche (o di senso
comune) che è necessario confutare per dimostrare la propria tesi. Un possibile
modello argomentativo I versi 7-15 – nella versione (a dire il vero tormentata)
che abbiamo accolto e tradotto27 - possono esemplificare efficacemente la
struttura del procedimento razionale di Parmenide: οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω
φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι. τί δ΄ ἄν
μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; οὕτως ἢ
πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί. οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει
πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε
Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει· Da ciò che non è non permetterò che tu dica e
pensi; non è infatti possibile dire e pensare che «non è». Quale bisogno,
inoltre, lo avrebbe spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o prima?
Così è necessario sia per intero o non sia per nulla. Né mai concederà forza di
convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. Per questo né nascere né morire
concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. 27 Come risulta dalle
annotazioni al testo greco, abbiamo accettato l'emendazione proposta da Karsten
della forma ἐκ μὴ ὄντος attestata dai codici, in ἐκ < τοῦ ἐ > όντος. 444
L’argomento – insieme agli interrogativi che lo introducono - ha come soggetto
sottinteso (nella nostra traduzione) ἐόν (v. 3): per escluderne generazione
(τίνα γένναν αὐτοῦ; - «quale nascita di esso?») e derivazione (πῇ πόθεν αὐξηθέν;
- «come e donde cresciuto?»), la Dea non concede: (i) che esso possa nascere (φῦν)
«originando dal nulla» (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον) - «da ciò che non è» (ἐκ μὴ ἐόντος);
(ii) che esso origini (γίγνεσθαi) «dall’essere» (ἐκ < τοῦ ἐ > όντος). Non
rimanendo alternative, ella conclude il proprio ragionamento (a dimostrazione
della tesi: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν) appoggiandosi alla superiore
garanzia di Dike (il nume tutelare dei limiti e delle prerogative a essi
associate), la quale vincola ciò che è a essere ἀγένητον (e ἀνώλεθρόν). La
struttura dell’argomento risulterebbe dilemmatica, come segnalato dall'uso di οὔτε
(v. 7) e οὐδέ (v. 12): «non è vero questo, e neppure è vero quest’altro», dove
«questo» e «quest’altro» rappresentano le uniche due possibilità concepibili in
proposito28 , appunto ἐκ μὴ ἐόντος (v. 7) e ἐκ < τοῦ ἐ > όντος (v. 12
emendato). Di questa struttura si trova conferma nello scritto Sul non-essere
di Gorgia (versione Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII, 71): καὶ μὴν οὐδὲ
γενητὸν εἶναι δύναται τὸ ὄν. εἰ γὰρ γέγονεν, ἤτοι ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος
γέγονεν. ἀλλ’ οὔτε ἐκ τοῦ ὄντος γέγονεν· [...] οὔτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος·[...] οὐκ ἄρα
οὐδὲ γενητόν ἐστι τὸ ὄν E ancora, l'essere non può neppure essere generato: se
è stato generato, infatti, certamente è stato generato o dall'essere o dal
non-essere; ma non è stato generato né dall'essere [...] né dal non essere
[...]. L'essere, di conseguenza, non è stato generato; 28 Leszl, op. cit., p.
177. 445 e in Aristotele (Fisica I, 8 191 a23 ss.), con chiara allusione anche
agli Eleati29: Ὅτι δὲ μοναχῶς οὕτω λύεται καὶ ἡ τῶν ἀρχαίων ἀπορία, λέγωμεν μετὰ
ταῦτα. ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων
ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε
γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι
τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι·
οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι
γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ
μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei
pensatori antichi, lo diremo in quel che segue. Coloro, infatti, che per primi
hanno indagato in modo filosofico la realtà e la natura delle cose furono
sviati come spinti lungo una via diversa dalla loro inesperienza. Essi
sostengono in effetti che degli enti nessuno né si genera né si distrugge:
poiché ciò che si genera, necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò
che non è, ma è impossibile che ciò accada in entrambi i casi30. L'essere,
infatti, non si genera (perché è già) e nulla può generarsi dal non essere, dal
momento che qualcosa deve fungere da sostrato. E sviluppandone ulteriormente le
conseguenze, affermavano allora che non esiste il molteplice, ma solo l'essere
stesso. Lo stesso Simplicio, parafrasando due volte il testo (Phys. 77, 9; 162,
11), offre questo senso: 29 Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy
cit., pp. 129-133) ha contestato, con buoni argomenti, che il testo si
riferisca esclusivamente agli Eleati. 30 Enfasi nostra. 446 καὶ γὰρ καὶ
Παρμενίδης ὅτι ἀγένητον τὸ ὄντως ὂν ἔδειξεν ἐκ τοῦ μήτε ἐξ ὄντος αὐτὸ γίνεσθαι
(οὐ γὰρ ἦν τι πρὸ αὐτοῦ ὄν) μήτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος Anche Parmenide infatti
sosteneva che l'essere in senso pieno è ingenerato: mostrava che esso non si
genera né dall'essere (poiché non c'è qualche essere oltre a esso), né dal non
essere (162.11). Accettando questa lezione, ritroveremmo Parmenide impegnato a
elaborare una dimostrazione dialettica rigorosa31: (i) gli interrogativi
(retorici: τίνα [...] γένναν διζήσεαι αὐτοῦ;) introducono l’ipotesi
contraddittoria alla tesi che l’autore intende dimostrare (nella forma
gorgiana: εἰ γὰρ γέγονεν), in questo modo delineando la struttura dilemmatica
di base: «ciò che è è ingenerato» (ἀγένητον ἐὸν) - «ciò che è è generato»
(Gorgia: γενητόν ἐστι τὸ ὄν); (ii) tale ipotesi viene articolata in un nuovo
dilemma: nascita e crescita implicano necessariamente un’origine o (a) ἐκ μὴ ἐόντος
o (b) ἐκ < τοῦ ἐ > όντος (secondo lo schema citato da Simplicio); (iii)
dal momento che entrambe le possibilità sono razionalmente insostenibili,
l’ipotesi (nascita e crescita di ciò che è) si rivela infondata, e la sua
contraddittoria, la tesi difesa da Parmenide, è dimostrata: «che ciò che è è
ingenerato» (ὡς ἀγένητον ἐὸν … ἐστιν). Come abbiamo già segnalato, anche il
contesto appare implicitamente dialettico: viene (monologicamente) mimato il
dibattito tra un sostenitore (che pone gli interrogativi) e un oppositore (di
cui si anticipano le risposte possibili) della tesi di Parmenide. Compito
(retorico-persuasivo) della Dea rispetto al kouros (e al pubblico di
ascoltatori e lettori di Parmenide) è di illustrare i passaggi della (virtuale)
discussione, marcando il nesso tra «forza di 31 Contro questa ricostruzione,
che presume l’introduzione (consapevole) di un modello argomentativo
dilemmatico da parte dell’autore, può valere l’osservazione di Leszl (p. 178)
secondo cui la sequenza di tre argomenti (vv. 7b-9a; vv. 9b-11; vv. 12-13a)
rende improbabile una struttura dilemmatica. 447 convinzione» (πίστιος ἰσχύς),
«giudizio» (κρίσις), necessità (ὥσπερ ἀνάγκη). Appare trasparente nella
confutazione della prima possibilità: οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν·
οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che non è non permetterò
che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che non è il
riferimento a B2.7-8 e B6.1: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν -
οὔτε φράσαις poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa
fattibile), né indicarlo χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι È necessario il
dire e il pensare che ciò che è è. Questo comporta che quanto leggiamo a
livello frammentario fosse in realtà organizzato in una costruzione
argomentativa complessa, che il discorso della Dea in B8 presuppone (e talvolta
richiama esplicitamente): in particolare il μῦθος di B2. Il modello delle
«uniche vie di ricerca per pensare» ricavate dall’alternativa «è»-«non-è», il
rifiuto del secondo corno sulla scorta della sua inconsistenza (assenza di
contenuto da pensare, dire e indicare) e dunque la piena accettazione della
prima via di indagine («che è»), insieme alla conseguente esclusione di una
effettiva “terza via” (B6.4-5, 8-9; B7.1), consentono a Parmenide di operare di
fatto con i principi di non-contraddizione e del «terzo escluso»32: donde
l’impossibilità di sostenere che «ciò che è» non sia, ovvero 32 Conche, op.
cit., p. 142. 448 ammettere qualcosa che possa comportare che «ciò che è» non
sia33 . D’altra parte la pervasiva presenza della Dea - che pone domande e
risponde (vv. 6b-7a: τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν;), che
sottolinea i passaggi (v. 7b: οὔτ΄... ἐάσω;) e richiama le condizioni (v. 15b: ἡ
δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν...), che complessivamente ribadisce il rigore
del procedimento seguito (v. 16b: κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη...) e ne
conferma i risultati con il proprio commento (l’inciso ai vv. 17b-18a: οὐ γὰρ ἀληθής
ἔστιν ὁδός) – ci ricorda che il contesto narrativo entro cui si inserisce il
ragionamento è comunque quello di una rivelazione. Il fatto che alcune premesse
rimangano implicite si giustifica forse proprio con la forma apodittica della
comunicazione divina: come osserva Mansfeld34, i «segni» sono ricavati -
immediatamente o mediatamente - dalla disgiunzione di B2, le cui premesse sono
garantite dal μῦθος della Dea. Questo potrebbe anche spiegare la scelta
dell’espressione σήματα, il mezzo di comunicazione di una potenza superiore:
Parmenide sceglie di lasciare la «parola» della Dea a fondamento di tutti i
processi (e progressi) del pensiero in B835. Ella sollecita l’autonomia del
discepolo, ma lo invita a registrare e ad aver cura di un μῦθος contrapposto a
quanto comunemente assunto dai «mortali»: il suo ruolo pedagogicamente “eccede”
lo stesso esercizio razionale, assicurandone i principi, così come le altre
divinità evocate nel frammento (Dike, Ananke, Moira) “trascendono”
(garantendolo) τὸ ἐὸν, ciò che, secondo l’istruzione razionale, pretende di
dominare – di fronte al pensiero – senza eccezione36 . 33 McKirahan, op. cit.,
p. 192. 34 Op. cit., pp. 103-4. 35 Mansfeld, op. cit., p. 106. 36 Su questo in
particolare la terza edizione dell’opera di Couloubaritsis, più volte citata,
Mythe et Philosophie chez Parménide, ora con nuova titolazione: La pensée de
Parménide (en appendice traduction du Poème), Éditions Ousia, Bruxelles 2008,
per esempio p. 247. 449 Nascita e crescita Abbiamo sottolineato come la prima
sezione argomentativa si apra con tre interrogativi, che offrono alla Dea
l’opportunità di dimostrare ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν; essi sono così
formulati (vv. 6b-7a): τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale
nascita, infatti, ricercherai di esso? Come e donde cresciuto? È possibile
intenderli come introduzione ai tre successivi argomenti: (i) vv. 7b-9a: ἐκ μὴ ἐόντος
ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò
che non è non permetterò che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e
pensare che non è; (ii) vv. 9b-10: τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ
πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; Quale necessità lo avrebbe mai spinto,
originando dal nulla, a nascere più tardi o prima? (iii) vv. 12-13a: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ
< τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né mai
concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. 450 Le
relative risposte negative sarebbero formulate espressamente ai vv. 13b-15a: τοῦ
εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per
questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo]
tiene. Piuttosto che sollevare problemi diversi (ancorché collegati) e rinviare
a distinti argomenti, la progressione delle domande, il ricorso a interrogativi
retorici (vv. 9-10) e la possibile articolazione dilemmatica sembrano evocare
l’incalzare dialettico di un confronto, i cui termini di riferimento – il
sostantivo γέννα («nascita», «generazione») e il participio αὐξηθέν
(«cresciuto», da αὐξάνω, «crescere, incrementare») – puntano direttamente al
problema dell’origine, come esplicitamente rivelato dall’uso di due espressioni
verbali indicative: ἀρξάμενον (da ἄρχω, «iniziare, cominciare, dare origine»,
da cui ἀρχή, «principio») e φῦν (da φύω, «generare, produrre», ma anche
«sorgere, nascere», da cui φύσις, «natura»). In questo senso le tre formule
inquisitive (τίνα γένναν, πῇ αὐξηθέν, πόθεν αὐξηθέν) potrebbero essere assunte
come equivalenti: la seconda e la terza, in particolare, come riferentesi alle
condizioni necessarie alla nascita: essa è un processo (questo spiega il
«come?») che richiede un’origine («donde?»)37. Analogamente gli argomenti
possono essere letti come momenti della stessa progressione negativa contro
l’ipotesi di γένεσις di τὸ ἐόν: le domande ne articolerebbero le implicazioni
per consentire di confutarne più efficacemente le condizioni di possibilità. 37
McKirahan, op. cit., p. 193; Robbiano, p. 112. 451 Nascita e morte oscura
Proprio la connessione tra γέννα e φύσις (di cui «nascita» esprimerebbe uno dei
significati originari) ha fatto supporre38 che Parmenide nel nostro passo
discuta il senso stesso della nozione di φύσις, scomponendola nei suoi
originari termini costitutivi, di fatto attaccando la riduzione dell’Essere a
φύσις. Obiettivi della confutazione sarebbero, in particolare, Esiodo (il quale
aveva posto il problema: chi venne per primo?) e i pensatori ionici (per la
ricerca della ἀρχή) 39. Esemplari in questa prospettiva i frammenti di
Anassimandro: ἀρχὴn ... τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον ... ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι͵
καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν
ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν. principio delle cose che sono è
l’infinito ... è secondo necessità che verso le stesse cose, da cui le cose che
sono hanno origine, avvenga anche la loro distruzione [ovvero letteralmente: le
cose dalle quali invero le cose che sono hanno la loro origine, verso quelle
stesse cose avviene la loro distruzione secondo necessità]; esse, infatti,
pagano le une alle altre pena e riscatto della colpa, secondo l’ordinamento del
tempo (Simplicio; DK 12 B1) ταύτην (sc. φύσιν τινὰ τοῦ ἀ π ε ί ρ ο υ ) ἀίδιον εἶναι
καὶ ἀ γ ή ρ ω che essa [una certa natura dell’infinito] è eterna e non
invecchia (Hippolitus; DK 12 B2) ἀ θ ά ν α τ ο ν . . καὶ ἀ ν ώ λ ε θ ρ ο ν (τ ὸ
ἄ π ε ι ρ ο ν = τὸ θεῖον) immortale .... e indistruttibile ( Aristotele; DK 12
B3). 38 Per esempio a Ruggiu, op. cit., p. 289. 39 Ivi, p. 290. 452 Il
frammento B1 ci è conservato nella testimonianza di Simplicio, il quale nel suo
commento alla Fisica aristotelica si serve del prezioso contributo di Teofrasto
(uno degli ultimi a disporre probabilmente dell’opera del Milesio) nelle sue
Opinioni dei fisici: la citazione, che appare sostanzialmente accurata40, è
inserita in una presentazione delle opinioni di Anassimandro che è necessario
non perdere di vista per intenderne correttamente le parole: [A.] [...] ἀρχήν
τε καὶ στοιχεῖον εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον, πρῶτος τοῦτο τοὔνομα κομίσας τῆς ἀρχῆς.
λέγει δ’ αὐτὴν μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλο τι τῶν καλουμένων εἶναι στοιχείων, ἀλλ’ ἑτέραν
τινὰ φύσιν ἄπειρον, ἐξ ἧς ἅπαντας γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τοὺς ἐν αὐτοῖς
κόσμους· ἐξ ὧν δὲ ... τάξιν [B 1], ποιητικωτέροις οὕτως ὀνόμασιν αὐτὰ λέγων. δῆλον
δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα μεταβολὴν τῶν τεττάρων στοιχείων οὗτος θεασάμενος οὐκ ἠξίωσεν
ἕν τι τούτων ὑποκείμενον ποιῆσαι, ἀλλά τι ἄλλο παρὰ ταῦτα· οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου
τοῦ στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου
κινήσεως. [...] dichiarò l’apeiron principio e elemento delle cose che sono,
adottando per primo questo nome di “principio”. Egli sostiene, infatti, che
esso non sia né acqua né alcun altro di quelli che sono detti elementi, ma che
sia una certa altra natura infinita, da cui originano tutti i cieli e i mondi
in essi: [B1], parlando di queste cose così in termini piuttosto poetici. È
evidente allora che, avendo considerato la reciproca trasformazione dei quattro
elementi, non ritenne adeguato porre alcuno di essi come sostrato, ma qualcosa
di diverso, al di là di essi. Egli poi non fa discendere la generazione
dall'alterazione dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del
movimento eterno. [...] (Simplicio; DK 12 A9). 40 Per l’analisi relativa si
rinvia al fondamentale contributo di Ch. Kahn, Anaximander and the Origins of
Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis 19943 , in particolare alla prima parte,
dedicata alla documentazione dossografica. 453 Dal complesso di testimonianza e
citazione possiamo in effetti intravedere nel testo di Anassimandro sei aspetti
su cui si sarebbe concentrata la sua indagine: (i) l’ἄπειρον come «principio
delle cose che sono» (ἀρχή τῶν ὄντων); (ii) «le cose che sono» (τὰ ὄντα), la
totalità degli enti della nostra esperienza41, sottoposti ai processi di
generazione (γένεσις) e corruzione (φθορά); (iii) «le cose dalle quali» (ἐξ ὧν)
le altre («le cose che sono») hanno origine: nel contesto molto probabile il
riferimento agli «elementi» (στοιχεία) – nel linguaggio peripatetico della testimonianza;
più plausibile intendere i «contrari» (τὰ ἐναντία) da cui esse si fomerebbero
direttamente, come documentato da PseudoPlutarco: φησὶ δὲ τὸ ἐκ τοῦ ἀιδίου
γόνιμον θερμοῦ τε καὶ ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι καί
τινα ἐκ τούτου φλογὸς σφαῖραν περιφυῆναι τῶι περὶ τὴν γῆν ἀέρι ὡς τῶι δένδρωι φ
λ ο ι ό ν [Anassimandro] sostiene anche che ciò che, derivato dall’eterno, è
produttivo di caldo e freddo fu separato alla generazione di questo mondo, e da
esso una sfera di fiamma si sviluppò intorno all'aria che circonda la terra,
come la scorza intorno all'albero (DK 12 A10); (iv) «le cose verso cui» (εἰς ταῦτα)
si produce (γίνεσθαι) la corruzione delle altre cose: gli elementi (ovvero i
contrari) cui esse si riducono; (v) il come tale processo si sviluppa: «secondo
necessità» (κατὰ τὸ χρεών), secondo l’ordine del tempo» (κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν)
42; 41 Su questo punto la nostra interpretazione diverge da quella di Kahn (pp.
180 ss.), che costituisce ancora un riferimento imprescindibile. 454 (vi) il
perché, la causa del processo: il costante e compensativo confronto
conflittuale tra i contrari (διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας).
Da un punto di vista filologico, Kahn43 ha convincentemente insistito sulla
probabile genuinità della citazione, rilevando, con riscontri nella letteratura
del periodo, le ascendenze ioniche e arcaiche del lessico del frammento: è per
noi di particolare interesse la conferma – addirittura nella costruzione
sintattica – dell’uso omerico di γένεσις nel senso di «generazione» ma anche di
«origine causale» e - accanto alla plausibile autenticità di φθορά (termine non
attestato prima di Erodoto e Eschilo), come in Parmenide impiegato nella
letteratura ippocratica in contrapposizione a αὔξη («crescita») - la
possibilità di τελευτή («morte»), presente, con forme verbali derivate (τελευτᾶν),
in Senofane (τελευτᾶι B27) e appunto in Parmenide (τελευτήσουσι B19). Secondo
quanto attesta Ippolito: οὗτος ἀρχὴν ἔφη τῶν ὄντων φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου, ἐξ ἧς
γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τὸν ἐν αὐτοῖς κόσμον. ταύτην δ’ ἀίδιον εἶναι καὶ ἀγήρω
[B 2], ἣν καὶ πάντας περιέχειν τοὺς κόσμους. λέγει δὲ χρόνον ὡς ὡρισμένης τῆς
γενέσεως καὶ τῆς οὐσίας καὶ τῆς φθορᾶς [Anassimandro] disse che principio delle
cose che sono è una certa natura dell'apeiron, da cui si generano i cieli e
l'ordine [il mondo] che è in essi. Essa è eterna e non invecchia, e inoltre
circonda tutti i mondi. parla poi del tempo in quanto la generazione,
l'esistenza e la dissoluzione risultato ben delimitate (DK 12 A11), 42 Secondo
S.A. White ("Thales and the Stars", in Presocratic Philosphy cit., p.
4) l'espressione rifletterebbe le conquiste astronomiche di Talete. Sullo
stesso tema l'autore è tornato più diffusamente in "Milesian Measures:
Time, Space and Matter", in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy
cit., pp. 89-133). 43 Op. cit., pp. 168 ss.. 455 di quella «certa natura
dell’infinito» (φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου) Anassimandro avrebbe inoltre sostenuto
che (i) è «eterna» (ἀίδιον) e (ii) «non invecchia» (ἀγήρω). Predicati analoghi
a quelli - «senza morte» (ἀ θ ά ν α τ ο ν , immortale) e «senza distruzione» (ἀ
ν ώ λ ε θ ρ ο ν ) - che Aristotele, riferendosi esplicitamente anche ad
Anassimandro, aveva a sua volta citato, nel discutere dell’ἄπειρον come
principio: non a caso marcandone il nesso con «il divino» (τὸ θεῖον). Ora, è
possibile che Parmenide, nel complesso della sezione B8.6-21, tenesse presenti
proprio il modello se non addirittura lo scritto di Anassimandro: le assonanze
verbali (ovviamente per quanto la filologia ha potuto ricostruire del testo del
Milesio) appaiono esplicite, così come l'esigenza di escludere che (i) «da ciò
che non è» (ἐκ μὴ ἐόντος) qualcosa possa «essere cresciuto» (αὐξηθέν) – ovvero
che qualcosa possa «nascere» (φῦν) «originando dal nulla» (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον);
appare chiaro soprattutto il disegno di sistematica contestazione di nozioni
come γένεσις e γέννα (cui si deve aggiungere ὄλεθρος) e dell’idea stessa che
(ii) «da ciò che è» (ἐκ < τοῦ ἐ > όντος) possa generarsi «qualcosa
accanto [o oltre] a esso» (τι παρ΄ αὐτό). È una evidenza che la Dea, nella
propria confutazione, insista sulla γένεσις, senza produrre, in effetti, una
specifica argomentazione a supporto dell’incorruttibilità (ἀνώλεθρόν): sebbene
poi sottolinei (vv. 14 e 21) di averlo fatto. Dobbiamo concludere44 che
Parmenide giudicasse gli argomenti a sostegno di ἀγένητον sufficienti anche per
ἀνώλεθρόν (considerando l’affermazione dell’indistruttibilità dell’essere
implicita nell’esclusione della sua generabilità45); ovvero che non ritenesse
necessario confutare la corruzione in quanto processo analogo, ancorché
opposto, al precedente; o ancora che la rubricasse tra le espressioni della via
negativa. Significativamente, egli connota ὄλεθρος («morte», distruzione) come ἄπυστος
(«oscura», oggetto di oblio) come aveva fat- 44 Con McKirahan, op. cit., p.
193. 45 Tarán, op. cit., p. 106. 456 to per la via negativa con παναπευθής
(«del tutto privo di informazioni» B2.6)46 . D’altra parte, l’idea di forze
elementari a un tempo «immortali» e tuttavia generate era parte della
tradizionale concezione del mondo omerica ed esiodea (donde il genere
teogonico) 47 . Lo schema della testimonianza teofrastea ribadita da Simplicio
potrebbe confermarne il residuo nella distinzione anassimandrea tra: (i)
«principio» - τὸ ἄπειρον, pensato eterno e stabile, in contrapposizione
all’instabilità degli elementi (στοιχεία); (ii) «contrari» (τὰ ἐναντία: di base
«caldo» e «freddo») che scaturiscono per «separazione» (ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων),
«a causa del movimento eterno» (διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως), e che producono con
il proprio conflitto il processo cosmogonico (ovvero, più correttamente, la
«cosmo-gono-phthoria»48); (iii) «cose» (τὰ ὄντα) sottoposte alla vicissitudine
di generazione e corruzione. Il resoconto della Dea avrebbe dimostrato come,
secondo ragione, «ciò-che-è», oltre a implicare la stessa incorruttibilità
abitualmente attribuita al divino e a quanto a esso immediatamente connesso (i
cieli), escludesse in ogni modo la possibilità stessa di «generazione», nel
duplice senso di derivazione da qualcosa di «altro» dall'essere o di produzione
di altro essere. Aristotele, i Milesi e Parmenide Possiamo trovare un'eco della
discussione arcaica sulla «generazione» nella ricostruzione aristotelica delle
origini della filosofia (Metafisica I, 3): a proposito della posizione della
«maggioranza di coloro che per primi filosofarono» (τῶν δὴ πρώτων
φιλοσοφησάντων οἱ πλεῖστοι), secondo cui «principi di tutte le co- 46
Mourelatos, op. cit., p. 97. 47 Ibidem. 48 A. Laks, Introduction à la
«philosophie présocratique», PUF, Paris 2006, p. 10. 457 se» (ἀρχὰς πάντων)
sarebbero «solo quelli nella forma di materia» (τὰς ἐν ὕλης εἴδει μόνας),
Aristotele osserva: ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ
εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι
μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ
τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ
σωζομένης ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da
cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un
verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono
essere elemento e questo principio delle cose, e per questo credono che né si
generi né si distrugga alcunché, dal momento che una tale natura si conserva
sempre (983 b8- 13). Nello schema interpretativo di Aristotele, dunque, alle
origini della tradizione filosofica ritroveremmo, per dar conto del divenire
degli enti, l’applicazione di un principio: nulla si genera (dal nulla) e nulla
si distrugge (nel nulla). Ciò avrebbe di fatto imposto una forma di «monismo
materialistico»49, di riduzione del molteplice empirico all'unità soggiacente
del principio materiale. Il movimento dal principio e verso il principio, cioè
verso «quella natura che si conserva sempre» (τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ
σωζομένης), richiama quasi letteralmente (il complemento di origine è espresso
al singolare e non al plurale) il frammento anassimandreo. Più avanti,
precisando tale posizione che riconosce «unico il sostrato» (ἓν τὸ ὑποκείμενον),
Aristotele si riferisce implicitamente agli Eleati in questi termini: ἀλλ’ ἔνιοί
γε τῶν ἓν λεγόντων, ὥσπερ ἡττηθέντες ὑπὸ ταύτης τῆς ζητήσεως, τὸ ἓν ἀκίνητόν
φασιν εἶναι καὶ τὴν φύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ γένεσιν καὶ φθοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαῖόν
τε καὶ πάντες ὡμολόγησαν) 49 Secondo l'acuta lettura di Graham, Explaining the
Cosmos…, cit., pp. 48 ss.. 458 ἀλλὰ καὶ κατὰ τὴν ἄλλην μεταβολὴν πᾶσαν· καὶ τοῦτο
αὐτῶν ἴδιόν ἐστιν ma alcuni di quelli che sostengono l’unità, come sopraffatti
da una tale ricerca, affermano che l’uno è immobile e così anche l'intera
natura, non solo rispetto alla generazione e alla corruzione (questa è infatti
convinzione antica, su cui tutti concordavano), ma anche rispetto a ogni altro
mutamento: e questo era loro peculiare (984 a29-984 b1). L’inciso nel passo
rende ancora più evidente l’assunto aristotelico secondo cui già i primi
filosofi accettarono la doxa che è impossibile che qualcosa sia generato da ciò
che non è, sviluppando sistemi in coerenza con essa: la peculiarità della
posizione eleatica (a Parmenide si accenna esplicitamente due righe sotto) è
risultato della “estremizzazione” della stessa doxa adottata dagli Ionici50. In
pratica, Aristotele da un lato avalla una sorta di continuità tra la posizione
ionica e quella eleatica - nella condivisione del principio esplicativo di
fondo, dall’altro rileva lo scarto alla base della deviazione eleatica dall'indagine
peri physeōs nella radicalizzazione dell’applicazione di quel principio, che
avrebbe condotto alla negazione di ogni forma di divenire e dunque fuori
dell’ambito della filosofia della natura. Torneremo più sotto sul modello
cosmogonico e cosmologico milesio e sullo schema interpretativo aristotelico. È
tuttavia opportuno anticipare come il complesso delle testimonianze (di matrice
essenzialmente peripatetica) faccia in realtà intravedere la possibilità di una
lettura diversa: dalla natura individuata come origine (ἀρχή) si sarebbero
generate, per effetto in ultima analisi del moto intrinseco, alcune realtà
elementari indipendenti (connesse ai «contrari»: Pseudo-Plutarco accenna a
fuoco, aria e terra), da cui deriverebbe tutto il resto. Un modello pluralistico,
che 50 Sulla ricostruzione aristotelica delle origini della filosofia sono
molto interessanti le osservazioni di Leszl in W. Leszl, “Aristoteles on the
Unity of Presocratic Philosophy. A Contribution to the Reconstruction of the
Early Retrospective View of Presocratic Philosophy”, in La costruzione del
discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni
della Normale, Pisa 2006, pp. 355-380, in particolare pp. 362 ss.. 459 ancora
risentirebbe del politeismo teogonico esiodeo51, e che avrebbe suscitato dunque
almeno due ordini di problemi di "second'ordine" (metacosmologici)
per la riflessione posteriore: (i) perché una realtà dovrebbe avere una
precedenza, un primato (ontologico) sulle altre? (ii) come è possibile che una natura
ne produca altre? Da ciò che non è... Tornando ora al testo, per mostrare
l’insensatezza degli interrogativi sull’origine di «ciò che è» espressi
all’inizio della sezione: τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν;
Quale nascita, infatti, ricercherai di esso? Come e donde cresciuto?, la Dea,
come abbiamo già osservato, procede a considerare una prima eventualità: che ἐόν
sia scaturito (nato e cresciuto) ἐκ μὴ ἐόντος. Tale possibilità è scartata
sulla base di due successive argomentazioni: la prima si richiama alla linea di
pensiero sviluppata nei frammenti precedenti: ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ
νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che non è non
permetterò 51 Su questo schema interpretativo si veda in particolare Graham,
Explaining the Cosmos…, cit., capp. 3 e 4. Il tema era già stato affrontato
dall'autore in saggi precedenti: per esempio in "Heraclitus' criticism of
Ionian philosophy", «Oxford Studies in Ancient Philosophy», 1997, 15, pp.
1-50. A. Nehamas ("Parmenides Being/Heraclitean Fire", in Presocratic
Philosophy, cit., pp. 45-64), con qualche distinguo, accetta lo schema proposto
da Graham. Elabora un modello analogo S.A. White, “Milesian Measures: Time,
Space, and Matter”, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, cit., pp.
112 ss.. 460 che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che
«non è». (vv. 7b-9a). Abbiamo sopra rilevato in questo caso la ripresa delle
tesi di B2.7-8 e B6.1, e dunque di quanto immediatamente rivelato dalla Dea: (i)
esistono solo «due vie di ricerca per pensare» (B2.2); (ii) «una: è» (B2.3),
«l’altra: non è» (B2.5); (iii) la seconda è di fatto impercorribile, in quanto
παναπευθής ἀταρπός («sentiero del tutto privo di informazioni» B2.6); (iv) è
allora necessario che ciò che è sia (cρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι
B6.1). Il primo argomento dipende direttamente dall’autorevolezza (e
dall’autorità) del μῦθος divino, per escludere, con le sue logiche implicazioni
(la formula χρή, con le sue sfumature di cogenza, correttezza e opportunità),
un percorso di ricerca che coinvolga la via negativa, cioè comporti
concettualmente – a qualunque titolo – il ricorso a «ciò che non è». A questa
contestazione fa seguito un secondo, più discusso, argomento (vv. 9b-10): τί δ΄
ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; Quale
bisogno lo avrebbe mai spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o
prima? Come abbiamo segnalato nel commento, il testo greco lascia adito a due
possibili interpretazioni. (i) Perché mai, in un momento qualsiasi, «ciò che è»
dovrebbe generarsi? Nel «nulla», in effetti, manca una ragione per cui esso
debba sorgere. (ii) Per quale circostanza – ammettendo che sia generato - «ciò
che è» dovrebbe generarsi in un momento dato piuttosto che in un altro («più
tardi piuttosto che prima»)? In realtà - «originando dal nulla» - non c’è
ragione per cui un momento debba essere privilegiato rispetto a un altro: non
vi è affatto ragione, dunque, per la sua generazione. In entrambi i casi ci troviamo
in presenza dell’applicazione del principio di ragione, per cui un evento
determinato è necessario 461 che abbia la propria «ragione», cioè la propria
causa, in una situazione che possa produrlo (e quindi anche spiegarlo). La più
antica, esplicita formulazione del principio è in Leucippo (dalle fonti
ellenistiche supposto discepolo di Zenone e dunque considerato vicino alla
concettualità eleatica): οὐδὲν χρῆμα μάτην γίνεται, ἀλλὰ πάντα ἐκ λόγου τε καὶ ὑπ’
ἀνάγκης nulla accade invano, ma tutto da ragione e necessità (DK 67 B2). In
questo senso, la risposta di Parmenide agli interrogativi sull’origine di «ciò
che è» è netta: nel «nulla» non è possibile rintracciare tale causa; non c’è
ragione per cui «ciò che è» debba nascere (φῦν) dal nulla. Ma nella seconda
interpretazione, al comune terreno rappresentato dal principio di ragione si
aggiungerebbe un’ulteriore implicazione: il ricorso consapevole
all'indifferenza rispetto al tempo52, per cui nulla si verifica senza che vi
sia una ragione sufficiente a spiegare perché è così e non altrimenti. La
nascita in un momento piuttosto che in un altro non è casuale, ma conseguenza
necessaria di una causa determinata53: (i) affinché «ciò che è» si possa
generare, è necessario si generi in un certo momento; (ii) ma, derivando dal
nulla, non c’è ragione per cui si generi in un momento piuttosto che in un
altro; (iii) non essendoci ragione per cui esso si generi in un qualche
momento, esso non potrà mai generarsi. Insomma: deve esserci qualcosa che
faccia la differenza: il non-essere non può fare differenza. È qui possibile
ancora un’eco di Anassimandro, nel cui scritto sarebbe stata presente una
particolare applicazione cosmologica del principio, per giustificare
l’immobilità e la centralità della Terra all’interno della sfera celeste: 52
Leszl, op. cit., p. 183. 53 Conche, op, cit., p. 140. 462 τὴν δὲ γῆν εἶναι
μετέωρον ὑπὸ μηδενὸς κρατουμένην, μένουσαν δὲ διὰ τὴν ὁμοίαν πάντων ἀπόστασιν
La Terra è sospesa, da nulla dominata: rimane nel suo luogo a causa della
equidistanza da tutto [da tutti i punti della circonferenza celeste?]
(Ippolito; DK 12 A11) μέσην τε τὴν γῆν κεῖσθαι κέντρου τάξιν ἐπέχουσαν la terra
giace in mezzo, occupando la posizione centrale (Diogene Laerzio; DK 12 A1) εἰσὶ
δέ τινες οἳ διὰ τὴν ὁμοιότητά φασιν αὐτὴν μένειν, ὥσπερ τῶν ἀρχαίων Ἀναξίμανδρος·
μᾶλλον μὲν γὰρ οὐθὲν ἄνω ἢ κάτω ἢ εἰς τὰ πλάγια φέρεσθαι προσήκει τὸ ἐπὶ τοῦ
μέσου ἱδρυμένον καὶ ὁμοίως πρὸς τὰ ἔσχατα ἔχον· ἅμα δ’ ἀδύνατον εἰς τὸ ἐναντίον
ποιεῖσθαι τὴν κίνησιν· ὥστ’ ἐξ ἀνάγκης μένειν vi sono alcuni, come Anassimandro
tra gli antichi, che sostengono che essa [la terra] rimanga in posizione a
causa della equidistanza: una cosa stabilita al centro, infatti, e equidistante
rispetto agli estremi, non conviene si porti verso l’alto piuttosto che verso
il basso o orizzontalmente; ma poiché è impossibile muoversi contemporaneamente
in direzioni opposte, necessariamente rimane in posizione (Aristotele, De Caelo
295 b11-16; DK 12 A26). Nel caso del Milesio l’indifferenza (e quindi l’assenza
di “ragione” per il movimento in una direzione o nell’altra) è espressa in
relazione ai limiti celesti; Parmenide l’avrebbe applicata al tempo, nel senso
di negare la possibilità che nel nulla si dia ragione per fare differenza, ai
fini di un’ipotetica generazione dell’essere, tra un momento e l’altro. Appare
tuttavia più plausibile che il filosofo intendesse semplicemente marcare la
mancanza di una ragione per cui, «originando dal nulla», «ciò che è» si possa
formare in un qualsiasi momento: nella completa negatività del non-essere non
può tro- 463 varsi alcuna necessità che possa generarlo, nulla che possa
fungere da ragione (causa) per la sua generazione54 . Al termine del secondo
argomento, al v.11, abbiamo un rilievo: οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί
Così è necessario sia per intero o non sia per nulla. Insistendo sul valore
avverbiale di οὕτως, qui non ritroveremmo la conclusione del ragionamento ma
solo una sottolineatura importante: «ciò che è» deve essere integralmente
ingenerato ovvero assolutamente non essere. In pratica la Dea ribadirebbe
l’alternativa fondamentale della propria rivelazione, escludendo che tra le due
vie possa darsi una via intermedia e dunque un commercio tra essere e
non-essere. Come indicato in nota al testo, McKirahan55 ha riconosciuto al
verso una funzione prolettica: segnalerebbe che quanto stabilito è rilevante
per la successiva discussione. In effetti, πάμπαν πελέναι appare plausibile
parafrasi di «tutto omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον), «tutto pieno d’essere» (πᾶν ἔμπλεόν
ἐόντος) - discussi a partire dal v. 22 – piuttosto che di «ingenerato» o
«ingenerato e incorruttibile». Se invece, come per lo più si riscontra tra gli
interpreti, si attribuisce a οὕτως valore conclusivo («perciò»), il verso
risulterebbe comunque anticipare la krisis dei vv. 15-16 («Il giudizio in
proposito dipende da ciò: "è" o "non è"»), ribadendo
l’assoluta incompatibilità di essere e non-essere e dunque negando un passaggio
dal non-essere all’essere (e viceversa): nel contesto questo significa bandire
definitivamente la possibilità di generazione «dal nulla», ovvero che ci possa
essere una diversità dell’essere nel tempo56. Leszl, in particolare, convinto
che l’uso degli avverbi sottolinei nei vv. 9-10 la preoccupazione parmenidea
rispetto alla generazione nel tempo, interpreta: «in ogni momento l’essere c’è
tutto o non c’è per nulla»57. In questo senso la conclusione – e- 54 Leszl, op.
cit., p. 185. 55 Op. cit., p. 194. 56 Leszl, op. cit., pp. 185-186. 57 Ivi, p.
185. 464 scludendo il variare nel tempo di «ciò che è» – effettivamente diventa
anche funzionale alla successiva discussione della sua omogeneità. Né mai
dall’essere... Accettando l’emendazione di Karsten, i vv. 12-13a risultano: οὐδὲ
ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né
mai concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. In
pratica, dopo aver eliminato la possibilità di una derivazione di «ciò che è»
dal non-essere, la Dea si sbarazza rapidamente anche della possibilità
alternativa: che «ciò che è» si generi da altro essere. In che senso, infatti,
«qualcosa» (τι) potrebbe «generarsi» (γίγνεσθαί) «dall’essere» (ἐκ < τοῦ ἐ
> όντος)? Parmenide assume che la nozione di γένεσις ἐκ < τοῦ ἐ >
όντος introduca implicitamente la prospettiva di qualcosa di diverso dall’essere,
cioè che «accanto [o oltre] a esso» (παρ΄ αὐτό) possa prodursi altro. È
plausibile che anche qui egli si confronti direttamente con la riflessione
sull’ἀρχή: nella misura in cui si riconosca l’ἀρχή come «ciò che è» e si tenga
fermo il principio di esclusione del nonessere, che cosa potrebbe generarsi
«accanto [oltre] a esso»? In pratica ammettere la generazione dall’essere
comporterebbe riconoscere che: εἶναι μὴ ἐόντα siano cose che non sono (B7.1).
La Dea in proposito può ricorrere a una formula di divieto diversa da quella
“personale” utilizzata in B8.7 (ἐάσω ... οὐδὲ «non permetterò che...»): in
questo caso la proibizione risulta più astratta, vincolata a una considerazione
razionale (οὐδὲ ποτ΄ ... 465 ἐφήσει πίστιος ἰσχύς «Né mai concederà forza di
convinzione [certezza]», B8.12), alla linea di pensiero espressa nel testo
precedente. Una versione alternativa dell’ultimo argomento è quella
tradizionalmente accolta sulla scorta dell’autorevolezza del codice di
Simplicio: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό
Né mai dal non essere concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto
a esso. (B8.12-3) Si tratterebbe di un ulteriore sostegno (il terzo) alla
negazione della possibilità di generazione dal nulla, che presenta tuttavia una
difficoltà: il riferimento, nel contesto, dell’espressione παρ΄ αὐτό. Coxon58,
per esempio, traduce: Nor will the strength of conviction ever impel anything
to come to be alongside it from Not-being, riconoscendo a παρ΄ αὐτό valore
locativo e riferendolo all’essere. In modo analogo intendono il passo, tra gli
altri, Mansfeld59, per sottolineare come ogni origine dal nulla sia impossibile
(il nulla è l’assoluto nihil), e Cerri60, che vi intravede addirittura la
dimostrazione che l’Essere è οὖλον μουνογενές e ἕν, συνεχές. Altri, come
Leszl61 esplicitamente, riferiscono αὐτό a μὴ ἐόντος, e colgono una (nuova)
giustificazione del principio di ragione (ex nihilo nihil fit): il non-essere,
per la sua negatività, non può essere la causa di qualcosa. Conche62 segnala,
in questo caso, come risulti incomprensibile attribuire valore comparativo ad αὐτό
(«autre chose que lui-mêmê»), dal momento che così la Dea implicherebbe
l’esistenza del Non-essere. 58 Op. cit., p. 197. 59 Op. cit., p. 95. 60 Op.
cit., p. 224. 61 Op. cit., p. 187. 62 Op. cit., p. 143. 466 Alcuni 63 di coloro
che mantengono la lezione dei codici di Simplicio - e quindi non riconoscono
struttura dilemmatica all’argomentazione parmenidea, rilevandovi piuttosto tre
successive, insistite contestazioni contro la possibilità della genesi e
dell’accrescimento dal non-essere - colgono nel passo un riferimento al
concetto pitagorico di «vuoto» (= non-essere), così attestato in Aristotele: εἶναι
δ’ ἔφασαν καὶ οἱ Πυθαγόρειοι κενόν, καὶ ἐπεισιέναι αὐτὸ τῷ οὐρανῷ ἐκ τοῦ ἀπείρου
πνεύματος ὡς ἀναπνέοντι καὶ τὸ κενόν, ὃ διορίζει τὰς φύσεις, ὡς ὄντος τοῦ κενοῦ
χωρισμοῦ τινὸς τῶν ἐφεξῆς καὶ [τῆς] διορίσεως· καὶ τοῦτ’ εἶναι πρῶτον ἐν τοῖς ἀριθμοῖς·
τὸ γὰρ κενὸν διορίζειν τὴν φύσιν αὐτῶν Anche i Pitagorici affermarono ci fosse
il vuoto, e che esso penetrasse, dall’infinito soffio, nel cielo [universo]
come se [questo] respirasse, e che fosse il vuoto che delimita le realtà, quasi
essendo il vuoto qualcosa di separato delle cose successive e di distinzione; affermarono
anche che questo avvenga dapprima nei numeri: il vuoto, infatti, distingue la
loro natura (Aristotele, Fisica IV, 6 213 b) οἱ μὲν οὖν Πυθαγόρειοι πότερον οὐ
ποιοῦσιν ἢ ποιοῦσι γένεσιν οὐδὲν δεῖ διστάζειν· φανερῶς γὰρ λέγουσιν ὡς τοῦ ἑνὸς
συσταθέντος, εἴτ’ ἐξ ἐπιπέδων εἴτ’ ἐκ χροιᾶς εἴτ’ ἐκ σπέρματος εἴτ’ ἐξ ὧν ἀποροῦσιν
εἰπεῖν, εὐθὺς τὸ ἔγγιστα τοῦ ἀπείρου ὅτι εἵλκετο καὶ ἐπεραίνετο ὑπὸ τοῦ πέρατος
Non si deve allora essere per nulla esitanti circa la questione se i Pitagorici
non assumano o assumano la generazione: essi, infatti, affermano chiaramente
che, una volta costituito l’uno – sia da superfici, sia da un piano, sia da un
seme, sia da cose che sono in difficoltà a indicare – subito la parte prossima
dell’infinito fu attirata e delimitata dal limite (Aristotele, Metafisica XIV,
3 1091 a13-18). 63 Cornford, Raven, Untersteiner, Mondolfo, per esempio. 467
Mondolfo64, in particolare, nel complesso della sezione B8.5- 21 non coglie
semplicemente la negazione del divenire come processo di generazione e
corruzione, in antitesi ai modelli cosmogonico e teogonico, ma l’attacco a una
concezione determinata, di cui lo studioso ritiene si possano tracciare i
contorni definiti: una dottrina che affermava la molteplicità in connessione
con la discontinuità; che introduceva la generazione dell’essere, senza
precisarne processo e necessità, e, soprattutto, suscitava il problema
dell’inizio, suscettibile di accrescimento in relazione al nonessere. Come
risulta appunto dall'attestazione aristotelica, si sarebbe trattato della
cosmologia pitagorica, l’evocazione della quale spiegherebbe convincentemente
anche la sequenza di interrogativi ai vv. 6-7 e in genere la scelta dei σήματα
dell’essere da parte di Parmenide. Pur non escludendo le due possibilità - (i)
che la versione dei codici di Simplicio sia quella corretta e (ii) che
l’allusione sia effettivamente alla “respirazione cosmica”, che avrebbe
lasciato anche altre tracce antiche (in Senofane e Pindaro, secondo Mondolfo65)
– l’impressione è che in realtà l’insistenza del poeta sia essenzialmente su
γενέσθαι e ὄλλυσθαι e che l’eventuale riferimento dottrinale sia da individuare
all’interno di una discussione più ampia, in cui per Parmenide era fondamentale
attaccare le posizioni che in qualche misura ancora implicavano γένεσις e ὄλεθρος.
In questa prospettiva, l’emendazione che abbiamo accolto e la connessa
ricostruzione argomentativa (in cui οὐδέ al v. 12 richiama οὔτε al v. 7)
appaiono più convincenti. Sarebbe forse praticabile un’altra strada66 per
l’interpretazione di ἐκ μὴ ἐόντος, tuttavia più complessa e meno plausibile:
ammettere che l’espressione abbia un senso, nella lettura parmenidea, proprio
in relazione alle nozioni di περιέχον, ἄπειρον e ἀρχή, quasi 64 E. Zeller – R.
Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte Prima, vol.
II: Ionici e Pitagorici, a cura di R. Mondolfo, La Nuova Italia, Firenze 1967,
pp. 652-3. 65 Ivi, p. 653. 66 Su questo Conche, op. cit., pp. 143-4. 468 che
alle concezioni dei pensatori milesi e pitagorici fosse connaturato il
«non-essere». Aristotele è ancora prezioso: διό, καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή,
ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν per
questo diciamo che di esso [riferimento all’ἄπειρον] non c’è principio, ma che
esso stesso sembra essere principio di tutte le cose e tutte comprendere
[abbracciare] e tutte governare (Fisica IV, 4 203 b10-12; DK 12 A15). Marcando
l’origine degli enti nel loro complesso da un ἄπειρον-ἀρχή che è anche περιέχον
(avvolge «tutte le cose»), Anassimandro – così come i pensatori che ne
ereditarono a vario titolo lo schema cosmogonico - ne avrebbe fatto un
“non-ente”, qualcosa di diverso dagli enti di cui sarebbe stato principio. È
chiaro, comunque, che in questa accezione l’ἄπειρον-ἀρχή difficilmente avrebbe
potuto essere inteso propriamente come nulla e appare dubbia la possibilità che
in questo senso Parmenide vi si possa rivolgere polemicamente. Giustizia e le
sue catene A questo punto del suo ragionamento - una volta esclusa la
possibilità di γένεσις sia dal non-essere sia dall’essere e ribadito che «ciò
che non è» non è dicibile e pensabile - la Dea può concludere provvisoriamente
(vv. 13-15a): τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν,
ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le
catene, ma [lo] tiene. 469 L’interesse del rilievo è legato al fatto che
Parmenide sceglie, nel contesto della narrazione avviata con il proemio,
all’interno del discorso che la Dea rivolge al proprio interlocutore, e in
particolare di un passaggio argomentativo, di riconoscere a Dike – e poi a
Ananke e Moira - un ruolo di garanzia: esso si presta a una lettura simbolica,
quasi che la citazione della figura (e della funzione) mitica fosse semplice
«metafora»67. Così intendono molti interpreti, per i quali i tre numi
tradizionali, proprio per il loro intrinseco riferimento al rispetto dei
limiti, sottolineerebbero la «ineluttabile legge dell’Essere» 68 : in altre
parole, come l’Essere debba sempre essere identico a se stesso. La questione è,
in realtà, più complessa, sia dal punto di vista della costruzione del poema,
sia da quello delle specifiche implicazioni: (i) Δίκη πολύποινος è elemento
strutturale della narrazione: le sono espressamente attribuite una collocazione
liminare e, in relazione a essa, una (tradizionale) mansione di sorveglianza;
(ii) essa, tuttavia, sin dal proemio, è anche parte dell’azione: persuasa
dall’intervento delle Eliadi, Giustizia vien meno al proprio compito di tutela
del mondo infero e dei confini, consentendo l’accesso a un mortale; (iii) Θέμις
e Δίκη sono espressamente evocate dall'anonima divinità all’esordio del suo
discorso: il viaggio del poeta si compie non sotto l’impulso di Μοῖρα κακὴ, ma
sotto l’egida della Giustizia. Le figure del mito (Dike, Ananke, Moira),
insieme allo schema del «cammino» (ὁδός) - ovvero «pista» (πάτος) o «via»
(κέλευθος), costituiscono la struttura portante nell'architettura dell’opera69,
elementi di continuità nella sua articolazione, le sue condizioni “trascendentali”:
il contesto entro cui le specifiche trattazioni su «ciò che è» e sulla Doxa
assumono il proprio senso e statuto. Certamente le tre figure svolgono la
propria mansione di 67 Ivi, p. 146. 68 Tarán, op. cit., p. 117. 69 Un aspetto,
questo, registrato da Couloubaritsis nelle prime edizioni della sua opera e
accentuato nell’ultima edizione, La pensée de Parménide, cit.. 470 garanzia
“trascendendo” «ciò che è» (ἐόν), ovvero danno l’impressione, nelle parole
della Dea, di sovrintendere (problematicamente) all’Essere dall’esterno70, a
dispetto della sua assolutezza. In questa prospettiva, Dike, in particolare,
assume nel poema una posizione peculiare: essa protegge τὸ ἐόν da γένεσις e ὄλεθρος
avvolgendolo e trattenendolo in catene, in altri termini preservandone il
perfetto equilibrio attraverso l’esclusione della coppia oppositiva
nascita-morte71. Se nel proemio il suo ruolo era stato, secondo costume, quello
di consegna al portale discriminante del mondo infero, di salvaguardia dei
confini tra mondo della vita e mondo della morte, nel nostro passo tale
connotazione si modifica nel senso che la garanzia passa per la discriminazione
tra essere e non-essere, con conseguente immobilizzazione e omogeneizzazione
dell’essere stesso: oltre l’essere non si dà un mondo altro. Possiamo solo
registrare alcune espressioni indicative: οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε
Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει né nascere né morire concesse Giustizia,
sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (B8.13-15a) κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν
δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del laccio [lo] tiene (B8.30-31)
Μοῖρ΄ ἐπέδησεν Moira [lo] ha costretto... (B8.37). La Robbiano ha accostato, su
questo punto, la posizione di Parmenide a quella di Anassimandro, per cui, come
sappiamo, l’ἄπειρον «circonda e governa» ogni cosa: Parmenide, reagendo 70
Robbiano, op. cit., pp. 166-7. 71 Ivi, pp. 174-5. 471 forse a questa soluzione
e all’idea pitagorica di confine cosmico, avrebbe introdotto il riferimento a
un limite estremo della realtà, sorvegliato da figure di garanzia. A dispetto
delle differenze, entrambi gli autori avrebbero inteso marcare immutabilità ed
equilibrio dell’universo, che nulla può giungere a turbare dall’esterno. Mentre
l’ἄπειρον, tuttavia, appare come ipostatizzazione della causa dell’equilibrio,
Dike, Ananke e Moira, pur sovrintendendo all’Essere dall’esterno (come l’ἄπειρον),
non hanno consistenza ontologica, ma solo l’ufficio di orientare, guidare la
comprensione dell’audience cui il poema si rivolgeva72 . In realtà, il recupero
del mito nel contesto, con la sua “eccedenza” rispetto al dato argomentativo, e
la conseguente (apparente) «messa in questione» dell’assolutezza dell’essere,
potrebbe segnalare, come vuole Couloubaritsis73, la difficoltà di Parmenide a
giustificare argomentativamente uno stato limite o ultimo: nell’argomentazione
sviluppata, infatti, nulla autorizzerebbe a ricavare non-miticamente la
limitazione dell’essere. Il mito, attraverso l’uso che ne fa la dea,
supplirebbe a questa mancanza, rivelando che il logos non ha autonomia
assoluta: utilizzate per significare l’essere come se lo trascendessero, le
figure delle tre divinità tradizionali acquisirebbero così uno statuto
trascendentale e sarebbero il segno di un'integrazione, all’interno del poema,
tra discorso significante e discorso mitico74 . Giudizio ed essere D’altra
parte, che la tutela di Giustizia sia essenzialmente logica si mostra nei vv.
15b-18: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ
ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής 72 Ivi, pp. 166-8. 73
Mythe et philosophie…, cit., p. 217. 74 Ivi, p. 250. 472 ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε
πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è.
Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e]
inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia
reale. Il linguaggio e le immagini insistite - «sciogliendo le catene»
(χαλάσασα πέδῃσιν v. 14), «nei vincoli di grandi catene» (μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν
v. 26), «nelle catene del vincolo [lo] tiene» (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει v.
31) – puntano, da un lato, direttamente alla pratica razionale della decisione
giudiziaria, dall’altro alla conseguente restrizione di libertà: il vincolo che
Giustizia impone non è arbitrario; la condizione che essa prescrive è
logicamente incontrovertibile, donde la formula «secondo necessità» (ὥσπερ ἀνάγκη).
Come abbiamo sopra ricordato, il passaggio evoca sinteticamente le ragioni
della scelta dell’ἔστιν: (i) ripresa dell’alternativa tra le formule
contraddittorie ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν; (ii) esclusione della via οὐκ ἔστιν: in
quanto «non genuina» (οὐ ἀληθής), essa è anche ἀνόητον ἀνώνυμον; (iii)
conseguente concentrazione su ἔστιν: «che l’altra esista e sia reale» (τὴν δ΄ ὥστε
πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι). Sulla scorta di premesse individuabili negli esordi
della sua comunicazione (B2), e di cui era stato opportunamente segnalato il
rilievo, la Dea può ribadire l’impraticabilità del non-essere e delle nozioni
che in qualche misura lo implichino, come appunto γενέσθαι e ὄλλυσθαι. Con una
precisazione interessante: delineata come alternativa tra formule
contraddittorie, ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, in verità la krisis di B2 è tale solo
apparentemente, dal momento che - la Dea deve riconoscere - la via οὐκ ἔστιν
non è «genuina», è via solo in teoria, in quanto costruita sulla contraddizione
con l’unica realtà: ἔστιν. È da escludere, dunque, che la stessa divinità possa
in qualche misura servirsene, per esempio nella seconda sezione del poema, come
qualche interprete vorrebbe. 473 Essere e tempo I versi che seguono (vv. 19-21)
e concludono la prima sezione argomentativa del frammento sono ancora di
controversa interpretazione: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε
γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι. τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται
καὶ ἄπυστος ὄλεθρος E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come
potrebbe essere nato? Se nacque, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere
in futuro. Così è estinta nascita e morte oscura. Che la dimensione temporale
sia centrale è chiaro nell’uso dei tempi verbali e degli avverbi, così come è
esplicita la connessione tra temporalità e γένεσις-ὄλεθρος. Il testo e la sua
resa presentano difficoltà, di cui abbiamo dato notizia in nota. A un primo
livello di lettura, appare evidente come Parmenide giochi sulla
contrapposizione tra forme del verbo «essere» (εἶναι: ἔστι, ἔσεσθαι, τὸ ἐόν, ma
anche πέλοι) e forme di «venire a essere» (γίγνεσθαι: γένοιτο, ἔγεντo,
γένεσις). La convinzione da veicolare con tale costruzione verbale è che se
l’essere (τὸ ἐόν) è coinvolto in processi («nacque» ovvero «dovrà essere [in
seguito]»), e dunque diviene, esso propriamente «non è» (ovvero non è sempre
allo stesso modo75), così contraddicendo l’immediata evidenza della «via: è» -
che comportava l’altrettanto immediata ammissione: «non è possibile non essere»
(ἔστι καὶ οὐκ ἔστι μὴ εἶναι). Ciò che è propriamente (τὸ ἐόν) è sempre uguale a
se stesso, come suggerisce l’uso (durativo) di ἔστι; ciò che diviene (γένεσις
può valere genericamente come «venire a essere»), come tale, è instabile, è e
non-è (non è più o non è ancora). Già a livello verbale, dunque, Parmenide
intende rilevare la reciproca incompatibilità delle condizioni designate dai
due verbi. 75 Leszl, op. cit., p. 190. 474 Se τὸ ἐόν è venuto a essere, è ora
diverso da come fu; se verrà a essere in seguito, ora è diverso da ciò che
sarà76: il mutamento che implichiamo nelle espressioni temporali è
inconciliabile con la natura dell’Essere (ingenerato e immortale).
Interpretando, potremmo affermare, con Conche77, che quel che vale per la
temporalità degli enti della nostra esperienza irriflessa non vale per l’essere
di cui la Dea traccia i contorni: l’essere è «ora», nel senso che è sempre
uguale a se stesso. In alternativa, in vece della polarità passato-presente
ovvero «venire a essere»-«essere» (εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι), è possibile
valorizzare l'implicazione tra «venire a essere» e «non-essere»: ogni venire
all'esistenza, in effetti, presuppone sempre - indipendentemente dalla
prospettiva temporale (passato remoto o futuro prossimo: εἰ ἔγεντo - εἴ ποτε
μέλλει ἔσεσθαι) - una non-esistenza (οὐκ ἔστι). In ogni caso, appare a questo
punto evidente il nesso dell’argomento nel suo complesso con i vv. 5-6: οὐδέ
ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές né un tempo era né [un
tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Negare il passaggio da
non-essere a essere e viceversa – come nei vv. 6-18 – ovvero l’eventualità di
un mutamento dell’essere nel tempo, significa riconoscere che «in ogni momento
l’essere c’è tutto o non c’è per nulla»78 (ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί
v. 11), e dunque collegare il ragionamento che porta a escludere γένεσις e ὄλεθρος
al rilievo dell’identità di ciò che è con se stesso e alla problematica
caratterizzazione di ἐόν rispetto alla temporalità che ritroviamo nei vv. 5-6.
Interessante la ripresa del nesso in Melisso: 76 Tarán, op. cit., p. 105. 77
Op. cit., p. 148 78 Leszl, op. cit., p. 186. 475 ἀεὶ ἦν ὅ τι ἦν καὶ ἀεὶ ἔσται.
εἰ γὰρ ἐγένετο, ἀναγκαῖόν ἐστι πρὶν γενέσθαι εἶναι μηδέν· εἰ τοίνυν μηδὲν ἦν, οὐδαμὰ
ἂν γένοιτο οὐδὲν ἐκ μηδενός Sempre era ciò che era [qualsiasi cosa era] e
sempre sarà. Se, infatti, fosse nato, è necessario che, prima di nascere, non
fosse nulla; ora, se non era nulla, in nessun modo nulla potrebbe nascere dal
nulla (DK 30 B1) […] εἰ γὰρ ἑτεροιοῦται, ἀνάγκη τὸ ἐὸν μὴ ὁμοῖον εἶναι, ἀλλὰ ἀπόλλυσθαι
τὸ πρόσθεν ἐόν, τὸ δὲ οὐκ ἐὸν γίνεσθαι. εἰ τοίνυν τριχὶ μιῆι μυρίοις ἔτεσιν ἑτεροῖον
γίνοιτο, ὀλεῖται πᾶν ἐν τῶι παντὶ χρόνωι [...] se diventa altro, infatti, è
necessario che l’essere non sia uguale, ma che si distrugga ciò che era prima e
si generi ciò che non è. Se allora si alterasse di un solo capello in diecimila
anni, si distruggerebbe tutto quanto per tutto il tempo (DK 30 B7, §2) La
stessa preoccupazione, di marcare l’indifferenza dell’essere rispetto al tempo,
negare, in altre parole, la possibilità che il tempo possa comportare una
differenza per l’essere, è espressa chiaramente in termini più lineari e
immediati, sottolineando soprattutto la durevole identità temporale
dell’essere. In questo senso, la sintetica connotazione melissiana di τὸ ἐὸν -
«è eterno, infinito, uno, tutto uguale» (ἀίδιόν ἐστι καὶ ἄπειρον καὶ ἓν καὶ ὅμοιον
πᾶν, DK 30 B7, §1) - interpreterebbe la formula parmenidea «è ora tutto
insieme, uno, continuo» (νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές), in cui è necessario
considerare l’avverbio unitamente agli attributi, per intendere correttamente
il primo emistichio del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται. Ciò che la Dea sembra
negare è la possibilità di pensare coerentemente: τὸ ἐόν «[in] un tempo
[passato] era» ovvero «[in] un tempo [a venire] sarà». Accettando la nostra
traduzione, espressioni verbali come «era» e «sarà» sono rifiutate in quanto
modificate dall’avverbio ποτε («un tempo, una volta»). Il verso manifesterebbe
allora il proprio senso nella contrapposizione tra tempi 476 verbali e forme
avverbiali temporali: da un lato «né un tempo era» (οὐδέ ποτ΄ ἦν) e «né [un
tempo] sarà» (οὐδ΄ ἔσται), dall’altro «è ora» (νῦν ἔστιν). Le due proposizioni
coordinate sono a loro volta subordinate da un nesso causale - «poiché» (ἐπεὶ)
– alla terza («è ora tutto insieme, uno, continuo»): in altre parole è il
rilievo della completezza, omogeneità e integrità (ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές) di
«ciò che è» a escludere qualsiasi forma di discontinuità e dunque di autentica
discriminazione temporale. Questa costruzione si rifletterebbe anche
nell’argomento complessivo dei vv. 6-21: la Dea dapprima si concentra
sull’eventualità che «ciò che è» sia divenuto (nato e cresciuto), quindi (v.
19) considera interrogativamente che τὸ ἐόν possa esistere in futuro: πῶς δ΄ ἂν
ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ
ποτε μέλλει ἔσεσθαι E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come
potrebbe essere nato? Se è nato, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere
in futuro. Se riscontriamo i vv. 5 e 20: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν
ὁμοῦ πᾶν εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι possiamo notare
come la Dea insista a marcare l'incompatibilità tra esistenza passata e\o
esistenza futura (che implicano οὐκ ἔστι) e quella condizione presente (νῦν)
che si esprime nell’«è»79 e ne riflette il valore «stativo»80 . 79 Ma come
insegna Palmer, ἔστιν è forma riassuntiva di ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι;
o, come preferiamo, ἔστιν esprime immediatamente l’evidenza, di cui οὐκ ἔστι μὴ
εἶναι è contestuale inferenza. 80 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit.,
p. 94. Sulla questione lo studioso italiano richiama i numerosi lavori di Kahn,
ora riuniti in Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009. 477 Isolando (e
assolutizzando) le espressioni verbali (ἦν, ἔσται, ἔστιν, ἔγεντο, μέλλει ἔσεσθαι),
si è avvertito in queste battute il delinearsi di un punto di vista ardito:
l’idea dell’eternità come atemporalità, totale estraneità dell’essere al tempo.
Valorizzando, invece, le funzioni avverbiali (ποτε, νῦν), è forse più prudente
limitarsi a segnalare come – pur sempre all’interno di una prospettiva
temporale (che privilegia il presente) – la Dea rifiuti di riconoscere, in
relazione a τὸ ἐόν, la validità (sensatezza) del riferimento alle dimensioni
temporali del passato e del futuro. L’impressione che Parmenide insista sul
presente per sottolineare l'identità dell’essere è rafforzata dalla
reiterazione di formule di persistenza (e stabilità) già ricordate: τοῦ εἵνεκεν
οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει· né nascere
né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13-15a)
κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del
laccio [lo] tiene (vv. 30-31), cui possiamo aggiungere quella che è forse la
formulazione più pregnante: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως
ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso
riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30), dove la costruzione
verbale (μένον, κεῖται, μένει) e avverbiale (ἔμπεδον ma anche le espressioni ἐν
ταὐτῷ, καθ΄ ἑαυτό) segnala nuovamente la preoccupazione di fondo dell’autore
circa identità 478 e immutabilità di «ciò che è», e sua estraneità a processi
che possano contraddirle. Al v. 21 si conclude il lungo argomento, con
l’esplicita esclusione dei due indicatori fondamentali del divenire (e, per
quel che abbiamo potuto notare, della temporalità): τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται
καὶ ἄπυστος ὄλεθρος Così è estinta nascita e morte oscura. In entrambi i casi,
l’accettazione di un «venire a essere» ovvero di una «distruzione» dell’essere
comporterebbe l’implicita ammissione di ciò che non è, il riferimento a un
impraticabile passaggio dal o verso il nulla. Comunque sia tradotto il verso
(si vedano le annotazioni al testo), sulla scorta delle argomentazioni
precedenti, Parmenide chiude la propria esposizione relativamente a un punto
essenziale nel quadro della cultura contemporanea: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν
ἐστιν che senza nascita è ciò che è e senza morte (v. 3). L’estinzione dei
processi veicolati dai termini γένεσις e ὄλεθρος passa attraverso (i) la
decisione tra «è» e «non-è», (ii) l’inaccettabilità della loro commistione,
(iii) il riconoscimento che il nulla è inindagabile: donde forse la
caratterizzazione della morte (distruzione) come ἄπυστος, «inaudita»,
«inconcepibile». Omogeneo e continuo I vv. 22-25 costituiscono un nuovo blocco
a giustificazione dei σήματα: οὖλον (intero), μουνογενές (uniforme), ὁμοῦ πᾶν
(tutto insieme), συνεχές (continuo): οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον·
οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν
ἐστιν ἐόντος. τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. 479 Né è divisibile,
poiché è tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di
essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È
perciò tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è. Impermeabile
al non-essere, «ciò che è» non può che essere «omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον
letteralmente «tutto uguale»), «pieno» (ἔμπλεόν), «continuo» (ξυνεχὲς): in
altre parole, è «tutto» (πᾶν, termine ripetuto tre volte in quattro versi)
identico a se stesso (uniforme). In questo senso, esiste indubbiamente, tra
questo gruppo di σήματα, il precedente e i successivi, la forte connessione
garantita dai versi sopra citati: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται
χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se
stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30).
L’indivisibilità, l’irriducibilità dell’essere seguono alla sua omogeneità,
alla sua densità, in ultima analisi al bando della via «non è»: nulla può
inframezzarsi a «ciò che è». In poche battute la Dea sottolinea coerentemente
tale omogeneità con una serie di espressioni: (i) «non c’è alunché che possa
impedirgli di essere continuo»; (ii) «è tutto pieno di ciò che è»; (iii) «è
tutto continuo»; (iv) «ciò che è si stringe a ciò che è». Ora, è chiaro che
centrale risulta la (ii): πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος; una affermazione che
sembra ricavata direttamente dalla enunciazione della tesi di fondo di B2 (ἔστιν
τε καὶ [...] οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), esplicitata in B6.1-2a: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν
τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν. 480 Dal riconoscimento
dell’identità dell’essere con se stesso (ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι), e dal
contestuale bando del nulla (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν), seguono sia che «tutto pieno
è di ciò che è», sia che nulla «possa impedirgli di essere continuo», e,
ulteriormente, le due caratterizzazioni equivalenti del verso finale del passo:
«è tutto continuo» e «ciò che è si stringe a ciò che è». Tutto intero, uniforme
Parmenide suggerisce compattezza, coesione e identità, in forza di scelte
espressive che escludono la possibilità di distinzione, riduzione, separazione:
πᾶν ὁμοῖον, συνέχεσθαι, ἔμπλεόν, ξυνεχὲς πᾶν, πελάζει. Le implicazioni
materiali e psicologiche della pienezza e dei vincoli evocati sono state messe
in valore nell’analisi di Mourelatos81, il quale ha marcato la presenza sullo
sfondo di due elementi: (i) la semplicità inqualificata di ciò-che-è; (ii) la
negazione di dualismi. Questo consente di collegare il passo in questione con
l’iniziale rilievo (v. 4) dell’espressione «tutto intero, uniforme» (οὖλον
μουνογενές), che, sempre secondo Mourelatos82, anticiperebbe l’argomento a
sostegno dell'indivisibilità, anche grazie all’amplificazione di B8.5b-6a: ὁμοῦ
πᾶν, ἕν, συνεχές. Come abbiamo segnalato in nota al testo, per il significato
della formula μουνογενές lo studioso richiama un importante precedente esiodeo,
che Parmenide avrebbe avuto ben presente e in opposizione al quale avrebbe
coniato la propria espressione: Οὐκ ἄρα μοῦνον ἔην Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν
εἰσὶ δύω· τὴν μέν κεν ἐπαινήσειε νοήσας, ἣ δ’ ἐπιμωμητή· διὰ δ’ ἄνδιχα θυμὸν ἔχουσιν
Non vi era dunque un solo genere di Eris [Contesa], ma sulla terra ce ne sono
due: l’una potrebbe onorare chi la comprenda; 81 Op. cit., pp. 111-2. 82 Ivi,
p. 95. 481 l’altra è da riprovare; hanno animo diverso e opposto (Le opere e i
giorni 11-13). Il segnavia μουνογενές indicherebbe dunque un'identità di
genere, di natura, un’uniformità tale da escludere qualsiasi forma di
potenziale discriminazione all’interno dell’essere: in questo senso sarebbe
impiegato – nel nostro frammento – in antitesi alla dicotomia che il filosofo
pone al fondo delle «opinioni mortali» (δόξας βροτείας v. 51), costruite
intorno a una coppia di «forme» (μορφὰς δύο v. 53) distinte oppositivamente (τἀντία
δ΄ ἐκρίναντο v. 55), e reciprocamente separate (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων
vv. 55b-56a). Accettando la lettura di Mourelatos, risulta ancora più evidente
il ruolo decisivo della κρίσις richiamata al v. 16: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. È sulla
scorta di essa, infatti, che la Dea può marcare l’inesorabile “uni-genericità”
(o meglio uniformità) di «ciò che è», escluderne differenziazioni, proporlo
come un blocco compatto nell’essere. Concentrandosi su ἔστιν ed escludendo οὐκ ἔστιν,
è possibile affermare (di τὸ ἐόν): πᾶν ἐστιν ὁμοῖον. Una piena applicazione
della formula della prima via di B2.3: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι.
È possibile che l’insistenza su coesione e omogeneità dell’essere riveli ancora
un'intenzione polemica nei confronti del modello cosmogonico ionico: come
abbiamo già avuto modo di ricordare, le testimonianze su Anassimandro e
Anassimene supportano uno schema di base, per cui l’origine del processo di
formazione del mondo coinciderebbe con un atto di separazione da uno stato
primitivo di indifferenziazione: φησὶ δὲ τὸ ἐκ τοῦ ἀιδίου γόνιμον θερμοῦ τε καὶ
ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι [Anassimandro] sostiene
che ciò che, derivato dall’eterno, è produttivo di caldo e freddo fu separato
alla 482 generazione di questo mondo (Pseudo-Plutarco; DK 12 A10) Ἀ. δὲ Εὐρυστράτου
Μιλήσιος, ἑταῖρος γεγονὼς Ἀναξιμάνδρου, μίαν μὲν καὶ αὐτὸς τὴν ὑποκειμένην
φύσιν καὶ ἄπειρόν φησιν ὥσπερ ἐκεῖνος, οὐκ ἀόριστον δὲ ὥσπερ ἐκεῖνος, ἀλλὰ ὡρισμένην,
ἀέρα λέγων αὐτήν· διαφέρειν δὲ μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας. καὶ ἀραιούμενον
μὲν πῦρ γίνεσθαι, πυκνούμενον δὲ ἄνεμον, εἶτα νέφος, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, εἶτα γῆν,
εἶτα λίθους, τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων. κίνησιν δὲ καὶ οὗτος ἀίδιον ποιεῖ, δι’ ἣν καὶ
τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, discepolo di
Anassimandro, afferma, come quello, che unica e infinita è la natura
soggiacente, non indefinita, tuttavia - come sosteneva quello - ma determinata,
chiamandola aria. Afferma inoltre che essa si differenzia nelle sostanze per
rarefazione e condensazione. Rarefacendosi, infatti, diventa fuoco, condensandosi
invece vento, poi nuvola, e quando più condensato acqua, poi terra, poi pietre.
Tutto il resto deriva da queste cose. Anch’egli pone eterno il movimento per
cui si produce il mutamento. (Simplicio; DK 13 A5). Ἀ. δὲ καὶ αὐτὸς ὢν
Μιλήσιος, υἱὸς δ’ Εὐρυστράτου, ἀέρα ἄπειρον ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι, ἐξ οὗ τὰ
γινόμενα καὶ τὰ γεγονότα καὶ τὰ ἐσόμενα καὶ θεοὺς καὶ θεῖα γίνεσθαι, τὰ δὲ λοιπὰ
ἐκ τῶν τούτου ἀπογόνων. (2) τὸ δὲ εἶδος τοῦ ἀέρος τοιοῦτον· ὅταν μὲν ὁμαλώτατος
ἦι, ὄψει ἄδηλον, δηλοῦσθαι δὲ τῶι ψυχρῶι καὶ τῶι θερμῶι καὶ τῶι νοτερῶι καὶ τῶι
κινουμένωι. κινεῖσθαι δὲ ἀεί· οὐ γὰρ μεταβάλλειν ὅσα μεταβάλλει, εἰ μὴ κινοῖτο.
(3) πυκνούμενον γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι· ὅταν γὰρ εἰς τὸ ἀραιότερον
διαχυθῆι, πῦρ γίνεσθαι, ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον, ἐξ ἀέρος <
δὲ > νέφος ἀποτελεῖσθαι κατὰ τὴν πίλησιν, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, ἐπὶ πλεῖον
πυκνωθέντα γῆν καὶ εἰς τὸ 483 μάλιστα πυκνότατον λίθους. ὥστε τὰ κυριώτατα τῆς
γενέσεως ἐναντία εἶναι, θερμόν τε καὶ ψυχρόν [...] Anassimene, anche lui
milesio, figlio di Euristrato, disse che il principio è aria infinita, da cui
si generano le cose che nascono e le cose che sono nate e quelle che nasceranno
e gli dei e le cose divine, mentre le altre cose derivano da quanto è da essa
prodotto. (2) L’aspetto dell’aria è questo: quando è del tutto uniforme, essa
risulta invisibile; si mostra invece con il freddo e il caldo e l’umidità e il
movimento. Si muove sempre: le cose che mutano, infatti, non muterebbero, se
essa non si muovesse. (3) Quando è condensata e rarefatta, infatti, appare in
modo diverso: quando si dirada fino a essere molto rarefatta, diventa fuoco;
mentre i venti, a loro volta, sono aria condensata; dall’aria poi, per
compressione, si formano le nuvole, e, crescendo ancora la condensazione,
l’acqua, e, crescendo di più, la terra, e, crescendo al massimo, le pietre.
Così gli elementi fondamentali della generazione sono contrari, il caldo e il
freddo (Ippolito; DK 13 A7). La fonte comune di Pseudo-Plutarco, Simplicio e
Ippolito è Teofrasto, un teste affidabile: ricorrente - a dispetto della
convinzione che di tutto unica sia la scaturigine in una φύσις ἄπειρος - è
l’idea che: (i) fondamentale per la cosmogonia sia l’azione dei contrari
(Ippolito lo afferma chiaramente: τὰ κυριώτατα τῆς γενέσεως ἐναντία): essa si
dispiega, in Anassimandro, a partire da «ciò che è produttivo di», ovvero «ciò
che può generare» (γόνιμον) caldo e freddo, ovvero, in Anassimene, dai processi
di rarefazione e condensazione; (ii) la separazione del principio generativo
degli opposti (γόνιμον), nel primo caso, ovvero la doppia azione esercitata
sull’aria, nel secondo, sarebbero a loro volta effetto di un «movimento eterno»
(κίνησις ἀίδιος) nella φύσις ἄπειρος, da Simplicio riconosciuto (per entrambi)
come causa diretta del «mutamento» (μεταβολή). 484 Il lessico peripatetico
delle testimonianze fa intravedere la possibile sovrapposizione di due schemi
esplicativi, che potrebbero ambiguamente essere stati compresenti nelle
cosmologie (e cosmogonie) ioniche. Il primo – delineato dalle affermazioni di
Simplicio su Anassimene secondo cui la «natura soggiacente» (ὑποκειμένη φύσις)
«si differenzia nelle sostanze per rarefazione e condensazione» (διαφέρειν δὲ
μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας), e confermato da qualche passaggio di
Ippolito («condensata e rarefatta, infatti, appare in modo diverso» πυκνούμενον
γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι; ovvero «i venti, a loro volta, sono
aria condensata» ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον) – è quello che
prevale in Aristotele (e che è possibile ritrovare esplicitato in Diogene di
Apollonia): la materia originaria ed eterna subisce alterazioni a causa del suo
interno moto incessante, presentandosi così in varie forme fenomeniche. In
questo schema le «sostanze» della lista proposta83 (fuoco, venti, nuvole,
acqua, terra, pietre) non sarebbero realtà indipendenti, ma semplici stadi di
passaggio nel ciclo di trasformazione dell’unico principio materiale.
Conseguentemente, in questa prospettiva “monistica”, tutte le cose si
ridurrebbero ad aria84 . Il secondo è espressamente sottolineato da Simplicio
in Anassimandro (citato in precedenza): [...] οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ
στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου
κινήσεως [...] Egli poi non fa discendere la generazione dall'alterazione
dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno
(DK 12 A9), 83 Che ha l’aria di essere citazione dall’originale teofrasteo: in
questo caso non ritroveremmo una semplice parafrasi, con la proiezione della
dottrina peripatetica dei 4 elementi, ma forse il riferimento a un elenco
effettivamente anassimeneo. Su questo punto Kahn, Anaximander and the Origins
of Greek Science cit., pp. 149-150. 84 Secondo un paradigma riduttivo già
presente nel mito greco di Proteo, come segnala Kahn, op. cit., p. 151. 485 ma
rilevabile anche nelle testimonianze su Anassimene, dove si marca la
generazione di tutte le altre cose da un nucleo di «sostanze» (fuoco, vento,
nuvola, acqua, terra, pietre). Secondo questo schema (pluralistico, con
probabile eco del politeismo teogonico esiodeo), dal principio materiale (ἀέρα ἄπειρον
ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι) si sarebbero generate, come effetto di compressione e
rarefazione, alcune realtà elementari indipendenti (le «sostanze» elencate), da
cui risulterebbero tutte le altre cose. Una possibile, analoga oscillazione tra
i due schemi si lascia cogliere anche nel contemporaneo Eraclito: κόσμον τόνδε,
τὸν αὐτὸν ἁπάντων, οὔτε τις θεῶν οὔτε ἀνθρώπων ἐποίησεν, ἀλλ’ ἦν ἀεὶ καὶ ἔστιν
καὶ ἔσται πῦρ ἀείζωον, ἁπτόμενον μέτρα καὶ ἀποσβεννύμενον μέτρα Questo mondo
ordinato, lo stesso per tutti, nessuno degli dei o degli uomini produsse, ma fu
sempre, è e sarà fuoco sempre vivo, che si accende secondo misura e si estingue
secondo misura (Clemente Alessandrino; DK 22 B30) πυρός τε ἀνταμοιβὴ τὰ πάντα
καὶ πῦρ ἁπάντων ὅκωσπερ χρυσοῦ χρήματα καὶ χρημάτων χρυσός Tutte le cose sono
scambio con fuoco e il fuoco scambio con tutte le cose, come i beni sono
scambio con oro e l’oro scambio con beni (Plutarco; DK 22 B90) ψυχῆισιν θάνατος
ὕδωρ γενέσθαι, ὕδατι δὲ θάνατος γῆν γενέσθαι, ἐκ γῆς δὲ ὕδωρ γίνεται, ἐξ ὕδατος
δὲ ψυχή per le anime è morte diventare acqua, per l’acqua, invece, è morte
diventare terra, ma dalla terra si genera l’acqua, dall’acqua a sua volta [si
genera] l’anima (Clemente Alessandrino; DK 22 B36) ζῆι πῦρ τὸν γῆς θάνατον καὶ ἀὴρ
ζῆι τὸν πυρὸς θάνατον, ὕδωρ ζῆι τὸν ἀέρος θάνατον, γῆ τὸν ὕδατος 486 Il fuoco
vive la morte della terra e l’aria vive la morte del fuoco, l’acqua vive la
morte dell’aria, la terra la morte dell’acqua (Massimo di Tiro; DK 22 B76). Da
un lato, soprattutto i primi due frammenti suscitano l’impressione che Eraclito
riduca ogni cosa a fuoco, la natura originaria che si cela dietro ogni
trasformazione; dall’altro il lessico (γενέσθαι, γίνεται, ζῆι, θάνατος) di B36
e B76 suggerisce l’idea di un ciclo di produzione di elementi, che scaturiscono
gli uni dagli altri, senza una reale identità di base85 . I limiti di
documentazione (anche nel caso dei frammenti eraclitei) e il lessico e
l’impostazione peripatetici delle testimonianze non consentono di stabilire con
certezza quale schema fosse effettivamente operante negli autori ionici: in
ogni modo è chiaro che, rispetto all’impegno argomentativo di Parmenide, essi
potrebbero far sentire la loro presenza da due punti di vista. Intanto, come in
precedenza segnalato, nell’insistenza parmenidea sul nesso γένεσις- ὄλεθρος e
nell’eco biologica di molti termini ed espressioni ricorrenti nel poema
(γενέσθαι, ὄλλυσθαι, γένναν, αὐξηθέν, ἀρξάμενον, φῦν), che potrebbero evocare
la centralità della dimensione generativa decisiva nel secondo modello. Un
lessico “biologico” è attribuito chiaramente, nelle testimonianze, in
particolare ad Anassimandro, come rivelano l’uso del termine γόνιμον per
indicare il nucleo originario dei processi reattivi che conducono alla
formazione di un mondo (una sorta di base seminale del mondo stesso), e la
scelta di un verbo - ἀποκριθῆναι (da ἀποκρίνεσθαι) – che evoca attività di
secrezione. L’ἄπειρον stesso sarebbe stato proposto, allora, come fertile,
feconda matrice, una sorta di “genitore” (in senso letterale), cui imputare in
ultima analisi l’origine. In secondo luogo è evidente, nel poema, la
riflessione sulle implicazioni “ontologiche” dei due possibili paradigmi
esplicativi che possiamo cogliere nello schema attribuito dalle testimonianze
ad Anassimene: (i) esiste una «natura soggiacente» (ὑποκειμένη 85 Graham,
Explaining the Cosmos…, cit., pp. 124 ss.. 487 φύσις), «unica e infinita» (μία ἄπειρος),
dalla quale, (ii) a causa di «movimento eterno» (κίνησις ἀίδιος), (iii) si
produce «il mutamento» (τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι), consistente nel (iv) suo
differenziarsi «in sostanze» (διαφέρειν κατὰ τὰς οὐσίας), (v) «da cui»
discenderebbero «tutte le altre cose» (τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων). A Parmenide non
sarebbero sfuggiti: (a) la difficoltà di coniugare la consistenza d’essere
della ὑποκειμένη φύσις, la sua eterna irrequietezza, e la realtà sostanziale
delle «altre cose»; (b) il fatto che l’attività discriminante («differenziare»,
διαφέρειν) riferita alla realtà originaria ne minasse la compattezza (portando
con sé la nozione di non-essere); (c) il problema della giustificazione dello
stesso processo di generazione dal principio e\o della sua trasformazione. In
effetti si tratta delle questioni di fondo che abbiamo ritrovato commentando i
primi 25 versi di B8. Immobile e identico È probabile che allo stesso contesto
rinviino i versi successivi (26-31), che sottolineano immobilità e immutabilità
di ciò che è: αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν ἔστιν ἄναρχον ἄπαυστον, ἐπεὶ
γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής. ταὐτόν τ΄ ἐν
ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη
πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, Inoltre, immobile nei vincoli
di grandi catene, è senza inizio e senza fine, poiché nascita e morte sono
state respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare. Identico e
nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente dove
è persiste: dal momento che Necessità potente 488 nelle catene del vincolo [lo]
tiene, che tutto intorno lo rinserra. L’uso del termine ἀκίνητον non deve
ingannare: ciò che è in gioco in questo passaggio non è tanto, nello specifico,
il movimento, quanto il mutamento in generale, come suggerito da: (i)
accostamento tra ἀκίνητον e altri due aggettivi – «senza inizio» (ἄναρχον) e
«senza fine» (ἄπαυστον) – esplicitamente giustificati dalla precedente
esclusione di γένεσις e ὄλεθρος; (ii) insistenza su identità durevole, fissità
di stato e persistenza di τὸ ἐόν; (iii) variazione nel registro espressivo, con
la reiterazione di immagini che suggeriscono certamente anche inabilità al
moto, ma, nel contesto, soprattutto impossibilità di sviluppo, di cambiamento della
propria situazione. Nell’identica condizione Insomma, Parmenide appare
interessato a escludere dall’essere la possibilità di intrinseca motilità
(connaturata invece, secondo le testimonianze, alla φύσις milesia) - donde
forse l’aggettivo ἀτρεμὲς del v. 4 - e dunque, rispetto allo schema esplicativo
che abbiamo riscontrato, di trasformazione (μεταβολή): da un punto di vista
linguistico sono dominanti le espressioni che accentuano saldezza («stabilmente
dove è persiste» ἔμπεδον αὖθι μένει) e staticità («in se stesso riposa» καθ΄ ἑαυτό
τε κεῖται), figurativamente accompagnate dalla suggestione dei «vincoli di
grande catene» (μεγάλων δεσμῶν πείρατα), e del rinserramento dell’essere (τό
μιν ἀμφὶς ἐέργει) a opera di «Necessità potente» (κρατερὴ Ἀνάγκη). Come abbiamo
segnalato in nota al testo, il passo è ricco di echi letterari e riflette su un
nodo (mutamento) ben documentato anche nella cultura filosofica arcaica: - ἀλλ’
ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον οὐ πώποκα, τάδε δ’ ἀεὶ πάρεσθ’ ὁμοῖα διά τε τῶν
αὐτῶν ἀεί. 489 - ἀλλὰ λέγεται μὰν Χάος πρᾶτον γενέσθαι τῶν θεῶν. - πῶς δέ κα; μὴ
ἔχον γ’ ἀπό τινος μηδ’ ἐς ὅ τι πρᾶτον μόλοι. - οὐκ ἄρ’ ἔμολε πρᾶτον οὐθέν; —οὐδὲ
μὰ Δία δεύτερον τῶνδέ γ’ ὧν ἁμὲς νῦν ὧδε λέγομες, ἀλλ’ ἀεὶ τάδ’ ἦς A. Ma sempre
gli dei furono presenti e mai vennero meno: queste cose sono sempre uguali e
sempre per sé stesse. B. Eppure si dice che Caos primo venne all’essere degli
dei. A. Come possibile? Come primo non aveva da cosa derivare né verso cosa
procedere. B. Nulla allora procedette per primo? A. Nemmeno per secondo, per
Zeus, , almeno delle cose di cui ora stiamo discorrrendo in questo modo, ma
esse furono sempre [...]. (Epicarmo; DK 23 B1) [...] — ὧδε νῦν ὅρη καὶ τὸς ἀνθρώπως·
ὁ μὲν γὰρ αὔξεθ’, ὁ δέ γα μὰν φθίνει, ἐν μεταλλαγᾶι δὲ πάντες ἐντὶ πάντα τὸν
χρόνον. ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει, ἕτερον εἴη κα τόδ’
ἤδη τοῦ παρεξεστακότος [...] [...] Così ora considera anche gli uomini: l’uno
cresce, l’altro, invece, deperisce: tutti sono in mutamento durante tutto il
tempo. Ora, ciò che muta per natura e non mai nella stessa condizione permane,
sarebbe già diverso da quel che era [...] (Epicarmo; DK 23 B2) αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι
μίμνει κινούμενος οὐδέν οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι 490 sempre
nella stessa condizione permane, e per nulla si muove, né gli si addice
spostarsi ora in un luogo ora in un altro (Senofane; DK 21 B26). Le citazioni
di Senofane ed Epicarmo attestano, nella elaborazione contemporanea, la
preoccupazione per il mutamento in associazione al tempo: tradizionalmente
riferite al rapporto tra l’umano e il divino (Epicarmo), esse complessivamente
contrastano i processi di crescita e deperimento, l’instabilità sostanziale
degli esseri umani, con l’immota identità delle realtà divine («uguali e sempre
per sé stesse» ὁμοῖα διά τε τῶν αὐτῶν ἀεί), connotata sia rispetto al tempo
(«sempre gli dei furono presenti e mai vennero meno», ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον
οὐ πώποκα), sia rispetto allo stato («ciò che muta per natura, e mai nella
stessa condizione permane», ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι
μένει) 86. Significativamente, nel suo breve frammento Senofane sembra
giustificare l’immobilità divina con una considerazione di opportunità: «né gli
si addice [ἐπιπρέπει] spostarsi ora in un luogo ora in un altro». La Dea di
Parmenide, da parte sua, coniuga immobilità, immutabilità e identità sulla base
di tre considerazioni: (i) generazione e corruzione sono state allontanate
dallo scenario dell’essere con argomento conclusivo («convinzione genuina [le]
fece arretrare» ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής): τὸ ἐόν è dunque indiscutibilmente
sottratto alla linearità della relazione inizio-fine a causa della
contraddizione che essa comporta; è ἄναρχον ἄπαυστον nel senso che non diviene;
(ii) ingenerabilità, incorruttibilità, pienezza, omogeneità e continuità
(sottolineate nei versi precedenti) pongono l’accento sull’identità di τὸ ἐόν
con se stesso: essa appare il nuovo baricentro del discorso divino. La Dea,
tuttavia, non propone un argomento a sostegno, né esplicitamente si appoggia al
precedente, 86 È da osservare, in particolare, l’uso in entrambi gli autori
dell’espressione ἐν ταὐτῶι μένει (in Senofane l’equivalente poetico ἐν ταὐτῶι
μίμνει), nella duplice valenza (locativa e di stato) che ritroviamo in
Parmenide. 491 limitandosi invece a citare la garanzia della vigilanza di Ἀνάγκη
(Necessità-Costrizione) e, per due volte, dei suoi vincoli e catene; (iii)
l’immobilità è collegata, attraverso la sottrazione dei processi di generazione
e corruzione e il rilievo dell’identità di stato, all’argomento complessivo: il
movimento viene assimilato a un mutamento di condizione dell’essere e quindi
escluso87 . Non incompiuto... Anche l’argomento a sostegno dell’immutabilità di
«ciò che è» dipende dunque, in ultima analisi, dalla κρίσις dei vv. 15-16: ἔστιν
ἢ οὐκ ἔστιν. Su quel giudizio, in effetti, poggia saldamente la πίστις ἀληθής
che esclude, dall’orizzonte della riflessione sull’essere, γένεσις e ὄλεθρος.
Tale immutabilità è, a sua volta, utilizzata (vv. 32-33) come prova a favore
della perfezione di τὸ ἐὸν 88: οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι
γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο. E per questo non incompiuto
l’essere [è] lecito che sia: non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non
essere, invece, mancherebbe di tutto. Interessante nel passaggio il fatto che
Parmenide ricorra a una congiunzione (οὕνεκεν, «per questo») che riferisce
l’affermazione successiva a quel che immediatamente precede: l’argomento si
sostiene quindi sia sulla κρίσις e le sue conseguenze, sia sulle immagini di
vincoli e catene, immobilizzanti ma anche identitarie. La suggestione divina di
Ἀνάγκη opera a garanzia della compiutezza dell’essere, sorvegliandone e
salvaguardandone la pienezza (πᾶν ἐστιν ὁμοῖον; πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος). 87
Leszl, op. cit., p. 209. 88 Su questo passaggio P. Curd, Eleatic Arguments, in
Methods in Ancient Philosophy, edited by J. Gentzler, Clarendon Press, Oxford
1998, p. 18. 492 La Dea, insomma, annoda immobilità, immutabilità, identità e
perfezione: οὐκ ἀτελεύτητον – come οὖλον μουνογενές (intero, uniforme), ὁμοῦ πᾶν
(tutto insieme), συνεχές (continuo, coeso) – discende dal rigetto della via ὡς
οὐκ ἔστιν, e rivela dunque un carattere essenziale dell’essere. L’alternativa
radicale ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, con l’invito a valutare discorsivamente la
robustezza degli argomenti (B7.5) e a concentrarsi su ἔστι e sui suoi «segnali»
(B8.1- 2), comporta, infatti, la progressiva sottrazione di ogni negatività che
potrebbe attentare all’integrità dell’essere, come manifesto nel v. 33,
comunque lo si intenda: (i) l’essere non può essere in difetto in alcun modo
(poiché «deve essere per intero o non essere per nulla»); il non-essere,
invece, sarebbe totale assenza di realtà; (ii) traducendo diversamente, invece,
avremmo: ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο non è, infatti,
manchevole [di alcunché]; se non fosse [non-manchevole], invece, mancherebbe di
tutto (v. 33); se l’essere fosse in qualche misura o per qualche aspetto
carente, porterebbe con sé non-essere e ne sarebbe distrutto, come già marcato
(o anticipato) al v. 11: ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί deve essere per
intero o non essere per nulla. Se ora consideriamo, nel suo complesso, il nodo
di questi versi centrali del frammento, possiamo forse cogliervi una presa di
posizione nei confronti delle tesi che avevano delineato a un tempo il primato
di un principio e i suoi sviluppi o le sue trasformazioni: che lo avevano
considerato divino, attribuendogli eterna durata e vitalità, per garantire gli
enti nella loro totalità; proteiforme (l’aria di Anassimene?) per giustificarne
le traduzioni fenomeniche; infinitamente fecondo per sostenere gli incessanti
processi di generazione e corruzione. 493 Essere e pensiero È appunto nella
discussione di questo nodo che Parmenide inserisce (vv. 34-38a) quanto appare
come un excursus, oggetto di un articolato dibattito, filologico e
interpretativo, cui abbiamo accennato in nota al testo: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε
καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις
τὸ νοεῖν· o;udèn γὰρ < ἢ > ἔστιν ἢ ἔσται ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό
γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι La stessa cosa invero è pensare e il
pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso,
troverai il pensare. Né, infatti, esiste né esisterà altro oltre all’essere,
poiché Moira lo ha costretto a essere intero e immobile. Accettando la nostra
traduzione del v. 34, in effetti qui la Dea recupererebbe affermazioni avanzate
in precedenza: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è
pensare ed essere (B3) χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι Dire e pensare:
«ciò che è è», è necessario (B6.1a). Ribadendo la connessione, che fa da sfondo
a tutta l’esposizione divina, tra νοεῖν e εἶναι - e dunque anche
l’impossibilità che «ciò che non è» (μὴ ἐὸν) possa realmente essere oggetto del
pensiero89, secondo le indicazioni di B2.7-8: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν -
οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις 89 Questo è quanto i versi in questione mostrerebbero
secondo Curd, Eleatic Arguments, cit., p. 19. 494 poiché non potresti conoscere
ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né indicarlo - l’obiettivo
sarebbe quello di escludere che possa darsi per l’intelligenza della realtà
oggetto diverso dall’«essere» (ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος), che possa in altre
parole essere assunto come realtà quanto si manifesta a livello di senso
comune. Questa lettura sembra confermata da quel che segue immediatamente (vv.
38b-41): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ,
γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα
φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò che è] tutte le cose saranno nome, quante i
mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e morire, essere e non
essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. Gli eventi che i «mortali»
(βροτοί) registrano quotidianamente e che in modo irriflesso interpretano come
fenomeni di mutamento («nascere e morire», «cambiare luogo e mutare luminoso
colore») – designandoli, illusi (πεποιθότες) della loro genuina consistenza (ἀληθῆ)
- si rivelano, all'intelligenza critica sollecitata dalla Dea, per quello che
in verità sono: «nome». Gli uomini, in altre parole, utilizzano una pluralità
di espressioni - dalla Dea già esplicitamente proibite: «nascere e morire,
essere e non essere, cambiare luogo» - per articolare e cadenzare una realtà
che, correttamente valutata, risulta essenzialmente estranea a ogni accadere e
mutare. L’unico genuino (vero) oggetto di intelligenza e linguaggio è
«ciò-che-è»: indipendentemente da quel che i mortali pretendono di riferire nei
loro pensieri e discorsi, ciò cui essi realmente pensano e possono pensare è τὸ
ἐὸν 90 . 90 McKirahan, op. cit., p. 202. 495 Prima di tornare a discutere i
«segnali» lungo la via ὅπως ἔστιν – in particolare prima di riprendere e
ulteriormente determinare il nodo cruciale dell’immobilità, immutabilità e
compiutezza dell’essere – la Dea di Parmenide richiama l’attenzione su quanto
implicito nelle sue affermazioni iniziali (B2-B3): per un pensare intelligente,
capace cioè di afferrare consapevolmente il proprio oggetto, non può darsi
altro orizzonte che ἐόν, dal momento che «ciò che non è» (μὴ ἐὸν) è
intrinsecamente inconsistente. Molto discussa la formula impiegata (vv. 34-36a):
ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ
πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν La stessa cosa è pensare e e il pensiero
che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso, troverai
il pensare. Rispetto ai due enunciati (B3 e B6.1a) sopra ricordati, qui non si
tratta semplicemente di un’affermazione di identità (generica) tra pensare ed
essere (B3) ovvero di una presa d’atto della necessità per il pensiero di
ammettere che «ciò che è è» (B6.1a). Qui la Dea si spinge a delineare a un
tempo due relazioni - di identità (ταὐτὸν ἐστὶ) e di dipendenza (espressa da οὕνεκεν,
che traduciamo come equivalente a ὅτι «che»91) - i cui membri risultato da un
lato νοεῖν, dall’altro appunto «il pensiero» (νόημα) «che "è"». Non
c’è altro oltre all’essere, quindi l’essere non può che essere l’oggetto del
pensiero: la Dea sottolinea, infatti, come l’essere sia propriamente ciò «in
cui» il pensiero è espresso, il campo entro cui necessariamente il pensiero si
manifesta. Dal momento che τὸ ἐὸν è in verità il solo contenuto realmente
pensato ed espresso nel linguaggio, qualsiasi cosa i mortali pensino o dicano e
in qualsiasi modo la pensino o dicano, essi stanno parlando di ciò-che-è 92 .
C’è tensione, dunque, tra quanto essi sono «convinti» di nominare e 91 Ma che
altri scelgono di rendere come «a causa di». 92 McKirahan, op. cit., p. 205.
496 quanto in realtà essi nominano: sebbene non ne siano consapevoli, ogni nome
afferma l’essere. All’orizzonte (trascendentale) dell’essere non può sottrarsi
il nominare dei mortali93 . Nel contesto, insomma, a dispetto di una lunga
tradizione interpretativa, intenzione della Dea sarebbe non tanto aprire una
parentesi per discutere dell'inattendibilità dell’esperienza umana, quanto
rilevare l’illusione che altro (dall’essere e dai suoi «segnali») possa essere
l’ambito del pensare. In questione sarebbe allora la consistenza del mondo
attestato empiricamente, ma non in quanto di per sé illusorio, risultato di un
inganno dei sensi, piuttosto perché non inquadrato coerentemente, da un punto
di vista logico, nell'unitaria cornice d’essere, e dunque frainteso. In
quest'ottica, al linguaggio inadeguato dei mortali è contrapposto il linguaggio
della verità dell’essere94 . A chi si riferisce il termine βροτοί? Agli esseri
umani in genere, evocando il tradizionale rilievo della loro debolezza
cognitiva (rispetto alla conoscenza divina) e dunque accentuando la natura
eccezionale dell'esperienza del poeta? Ovvero a un gruppo o a gruppi di
sapienti rivali? Osservando le scelte espressive di Parmenide (γίγνεσθαί τε καὶ
ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν),
potremmo riconoscere sia una generica allusione alle modalità ordinarie di
lettura della realtà (cambiamento di luogo, mutamento qualitativo), sia
l’accenno a un linguaggio più specifico (nascere e morire, essere e non
essere): quello che sopra abbiamo individuato nelle testimonianze relative agli
schemi cosmologici (e cosmogonici) milesi e nei frammenti eraclitei. A noi
sembra, tuttavia, che questo passo - apparentemente una pausa nella sequenza
argomentativa del frammento – faccia emergere un aspetto peculiare
dell’approccio di Parmenide, una nuova dimensione speculativa. Ipotizzando che
l’Eleate abbia preso le mosse dall’analisi delle implicazioni (ontologiche) di
affermazioni relative alla φύσις o all'ἀρχή, denunciando le incongruenze delle
lezioni cosmologiche (e cosmogoniche) circolanti, è 93 Ruggiu, op. cit., pp.
307-8. 94 Ibidem. 497 possibile si sia a un certo punto concentrato sulle
condizioni di comprensione della realtà (dunque sulla stessa attività di νοεῖν):
questione di «secondo livello» 95 (meta-cognitiva), intesa a far prendere
consapevolezza, oltre che dei «segni» dell’essere, anche dei presupposti del pensare.
L’ontologia che viene delineata traccia così a un tempo i requisiti necessari
(stabilità, identità) alla conoscenza: la comprensione (νοεῖν) esige
determinate condizioni formali (proprietà) per l’intelligibilità del proprio
oggetto; condizioni che Parmenide potrebbe aver fatto emergere nel confronto
serrato (meta-critico) con le teorie della natura della tradizione ionica96 .
Moira lo ha costretto... Per la terza volta nel frammento, la Dea assicura il
proprio ragionamento ricorrendo a un’immagine mitica (e a una formula epica):
Moira «ha costretto» (ἐπέδησεν) ἐόν «a essere intero e immobile» (οὖλον ἀκίνητόν
τ΄ ἔμεναι). È in forza di tale “destino” che nulla «esiste o esisterà» (ἔστιν ἢ
ἔσται) «oltre all’essere» (πάρεξ τοῦ ἐόντος): ciò, in primo luogo, comporta
ancora (come nel caso di Giustizia e Necessità) che la garanzia di Moira
risulti formalmente essenziale per affermare integrità, unicità e immutabilità
dell’essere (e dunque per sostenere come i «nomi» dei «mortali» si riferiscano
in vero sempre e solo all’essere). Ma la superiore tutela di Moira impone, in
secondo luogo, anche l’identità di essere e pensiero, nel momento in cui marca,
appunto, come non possa esistere ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος («altro oltre
all’essere»). In questo senso, rispetto a νοεῖν e ἐόν, essa riveste una
funzione “trascendentale”: richiamando implicitamente le immagini dei legami
(πείρατα) e delle catene (δεσμοί) ed esplicitamente la fissi- 95 G.E.R. Lloyd
usa l’espressione «second’ordine», per esempio nel suo Le pluralisme de la vie
intellectuelle avant Platon, in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la
Philosophie Présocratique?..., cit., p. 44. 96 Graham, Explaining the Cosmos…,
cit., p. 166. 498 tà (ἐπέδησεν - ἔμπεδον) dei ceppi (πέδαι), con la figura di
Moira la Dea, da un lato, ribadisce la stabilità dell’essere, dall’altro indica
in quella invariabilità un carattere fondamentale della conoscenza. Questa
connessione tra saldezza di «ciò che è» e costanza del νόημα che la coglie è la
stessa allusa in B4.1-2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει
τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano comunque al
pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso
all’essere. La Dea le contrappone la precarietà tutta umana e artificiale
(«saranno nome» ὄνομ΄ ἔσται) di quanto (πάντ΄ [...] ὅσσα) «i mortali
stabilirono» (βροτοὶ κατέθεντο), lasciandosi poi traviare (πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ).
Compiuto e omogeneo I versi (42-49) che concludono la sezione sulla Verità ne
riassumono l’ontologia, insistendo particolarmente su compiutezza e omogeneità
di «ciò che è», attraverso un ampio ricorso a metafore “spaziali”: αὐτὰρ ἐπεὶ
πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ,
μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι
τῇ ἢ τῇ. οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν
ὅπως εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ἄσυλον· οἷ γὰρ
πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει. Inoltre, dal momento che [vi è] un limite
estremo, [ciò che è] è compiuto da tutte le parti, simile a massa di ben
rotonda palla, 499 a partire dal centro ovunque di ugual consistenza: giacché è
necessario che esso non sia in qualche misura di più, o in qualche misura di
meno, da una parte o dall’altra. Non vi è, infatti, non essere, che possa
impedirgli di giungere a omogeneità, né ciò che è esiste così che ci sia - di
ciò che è - qui più, lì meno, poiché è tutto inviolabile. A se stesso, infatti,
da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane. I versi
propongono contestualmente due diverse prospettive: l’accostamento alla «massa
di ben rotonda palla» (εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ) presuppone infatti un
punto di vista “esterno”, per comunicare un’impressione ottica (“da fuori”)
della compatta estensione dell’essere, della sua compiuta integrità; d’altra
parte, la sottolineatura dell’equa distribuzione (ἰσοπαλὲς πάντῃ) «a partire
dal centro» (μεσσόθεν), manifesta piuttosto un punto di vista “interno” (dal
centro alla superficie perimetrale). Complessivamente il testo vuol riproporre ἐόν
come totalità piena, densa, uniforme, e a tale scopo fa leva sulla nozione di
«limite estremo» (πεῖρας πύματον), di un confine che rende plasticamente l’assoluto
discrimine tra ἐόν e μὴ ἐὸν, logicamente essenziale a tutto il ragionamento
della Dea. C’è un limite estremo Anche in questo caso – come in altri passaggi
del poema – appare evidente il debito nei confronti dell’immaginario epico: ἔνθα
δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος
ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί
περ· χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν 500 οὖδας ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα
πυλέων ἔντοσθε γένοιτο, ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ θύελλα θυέλλης ἀργαλέη·
δεινὸν δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι.] [τοῦτο τέρας· καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν
νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι Là della terra nera e del Tartaro oscuro, del mare
infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i
confini, luoghi penosi e oscuri che anche gli dei hanno in odio, voragine
enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per giungere al fondo a chi
passasse dentro le porte, ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta
crudele; tremendo anche per gli dei immortali è tale prodigio. E di Notte
oscura la casa terribile s’inalza, da nuvole livide avvolta (Teogonia 736-745.
Traduzione di G. Arrighetti). Il passo esiodeo è di un certo rilievo nel nostro
contesto, in quanto lega il tema delle «scaturigini» e dei «confini» di tutte
le cose (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν) a uno scenario infero in cui è
inserito il riferimento alla «casa terribile di Notte oscura» (Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία
δεινὰ), probabile prototipo della «dimora della Notte» (δώματα Nυκτός) evocata
nel proemio di Parmenide. Né va dimenticato che la Dea promette nel poema «di
tutto informare» (B1.28): almeno didascalicamente, l’ottica della sua
comunicazione è situata effettivamente al «limite» del dicibile (dell’essere).
Agli interpreti non è sfuggito il peso peculiare che nello sviluppo
argomentativo di B8 progressivamente assumono le immagini che afferiscono al
limite (πεῖρας) vincolante per l’essere: τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι
ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse
Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13b-15a) 501 ἀκίνητον
μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν immobile nei vincoli di grandi catene (v. 26) ἐπεὶ τό
γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι poiché Moira lo ha costretto a
essere intero e immobile (vv. 37b-38a) κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν
ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει dal momento che Necessità potente nelle catene del
vincolo [lo] tiene (vv. 30a-31b) ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί dal
momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto (v. 42). Sono i
legami variamente evocati a impedire all’essere di essere esposto a generazione
e corruzione (ἀγένητον καὶ ἀνώλεθρoν), ovvero al mutamento (ἀκίνητον), e a
garantirne integrità (o%ulon μουνογενές) e perfezione (οὐκ ἀτελεύτητον,
τετελεσμένον). Come abbiamo in precedenza osservato, significativamente alle
immagini di catene e vincoli sono associate figure di garanzia: Giustizia,
Necessità, Moira. L’idea è quella di costrizione come destino ovvero legge
dell’essere97, ma nel contesto, in relazione al pronunciamento circa
l'esistenza di un «confine estremo» (πεῖρας πύματον), all'accostamento al
«corpo di una palla ben rotonda» (εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ) e alle altre
formule spaziali (πάντοθεν, μεσσόθεν) utilizzate, potremmo trovarci in presenza
di una suggestione cosmologica. Secondo Schreckenberg98, l'idea di un estremo
vincolo cosmico sarebbe antica e avrebbe avuto origine in ambiente pitagorico,
come documenterebbe Aëtius: 97 H. Schreckenberg, "Ananke. Untersuchungen
zur Geschichte des Wotgebrauchs", Zetemata 36, München 1964, pp. 75-6.
Citato in Robbiano, op. cit., p. 141. 98 Op. cit., pp. 103 ss.. Citato in
Robbiano, op. cit., p. 140. 502 Π υ θ α γ ό ρ α ς ἀνάγκην ἔφη περικεῖσθαι τῷ
κόσμῳ Pitagora affermò che la necessità circonda il cosmo99 , e confermerebbe
la nozione pitagorica di ἄντυξ κόσμου («limite del cosmo»). In effetti, Aëtius
attribuisce proprio a Pitagora l'introduzione del termine «cosmo» per indicare
il tutto: Π. πρῶτος ὠνόμασε τὴν τῶν ὅλων περιοχὴν κ ό σ μ ο ν ἐκ τῆς ἐν αὐτῶι
τάξεως Pitagora per primo chiamò l'insieme di tutte le cose cosmo, per l'ordine
che vi regna (DK 14 A21) Ricordiamo, inoltre, come il tema dell’equilibrio del
cosmo garantito dal confine cosmico si colleghi ad Anassimandro, del cui
principio (l’apeiron) Aristotele afferma: [...] διὸ καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή,
ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν [...]
per questo motivo diciamo che di esso [principio] non vi sia principio, ma che
sembra essere esso stesso principio di tutte le altre cose, e comprenderle
[abbracciarle] tutte e tutte governarle (DK 12 A15). A suo modo Parmenide
avrebbe potuto dunque fare proprio dall'ambiente culturale del tardo VI secolo
il motivo dell'immutabilità e della stabilità dell’universo, espresso
soprattutto nell'ultimo verso (v. 49) di questa sezione: οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς
ἐν πείρασι κύρει A se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente
entro i [suoi] limiti rimane. Rispetto alla tradizione, tuttavia, muta
profondamente l'ottica adottata: all'interno della sezione sulla Verità,
l'Eleate rivolge il proprio sguardo alla realtà cosmica rilevando la dimensione
d'es- 99 H. Diels, Doxographi Graeci, De Gruyter, Berlin 1965, 321 b4. 503 sere
(ἐόν), rispetto alla quale svaniscono tutti gli elementi di discriminazione
spaziale (così come erano stati neutralizzati tutti i riferimenti temporali)100
. Nell'essere si riassumono omogeneamente tutte le cose: «ciò che è si stringe
infatti a ciò che è» (v. 25: ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει). In considerazione
dell'alternativa radicale «è-non è», «ciò che è» risulta compatto (v. 19: πᾶν
δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος), coeso (v. 25: ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν), compiuto (v. 27: οὐκ
ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι): οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι
εἰς ὁμόν Non vi è, infatti, non essere, che possa impedirgli di giungere a
omogeneità (vv. 46-47a). La proibizione di percorrere la via che pensa «che non
è» fa sentire ancora la propria forza coinvolgente, nel determinare i contorni
della realtà. In effetti, la recisa affermazione della Dea: «vi è un confine
estremo» (πεῖρας πύματον) – sebbene ancora formalmente giustificata, a questo
punto, dall'insistenza (mitica e\o metaforica) su vincoli e catene, e dalla
sorveglianza dei relativi numi (Dike, Ananke, Moira) - interviene a completare
il quadro ontologico, marcando in particolare l'integrità di «ciò che è» come
totalità (v. 4: οὖλον μουνογενές; v. 5: ὁμοῦ πᾶν), di cui non a caso si enuncia:
«è tutto inviolabile» (πᾶν ἐστιν ἄσυλον). La reiterazione di un avverbio
connette inizio e fine del passo: τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν [ciò che è] è
compiuto da tutte le parti (vv. 42b-43a) 100 Su questo punto il saggio di M.
Kraus, Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht des Parmenides, in Frühgriechisches
Denken, a cura di G. Rechenhauer, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005,
pp. 252-269, in particolare pp. 260-1 e 267-8. 504 οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν
πείρασι κύρει a se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i
[suoi] limiti rimane (v. 49). La compiutezza (in ogni direzione) di «ciò che
che è» è sostenuta sulla base della sua "densità" ontologica: οὔτ΄ ἐὸν
ἔστιν ὅπως εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον né ciò che è esiste così che ci
sia - di ciò che è - qui più, lì meno (vv. 47b-48a). Nulla può alterarne
l'equilibrio, ovvero impedirne l'omogeneità (τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν):
affermare l'essere comporta escluderne (con il non-essere) ogni possibile
deficienza e dunque equivale ad affermarne eguaglianza, uniformità, totale
identità con se stesso, in altre parole la inviolabilità (πᾶν ἐστιν ἄσυλον).
Simile a massa... Estremamente controversa a livello interpretativo è la
similitudine introdotta dalla Dea all'inizio del nostro passo (ma in
conclusione della sua comunicazione di Verità!): εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ,
μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ simile a massa di ben rotonda palla, a partire dal
centro ovunque di ugual consistenza (vv. 43b-44a). Come abbiamo rilevato in nota
al testo, tre punti sono criticamente determinanti: (i) il soggetto
(sottinteso) della similitudine è ἐόν (con cui concorda ἐναλίγκιον); (ii) ἐναλίγκιον
(«simile») si riferisce non a «palla» (σφαῖρα) ma a «massa» (ὄγκος); 505 (iii) ἰσοπαλὲς
(«di ugual consistenza») è attributo del soggetto sottinteso («ciò che è»)
della affermazione iniziale, non di «massa di ben rotonda palla». Se è da
escludere l'equazione tra «ciò che è» e corpo sferico, è difficile tuttavia –
proprio in forza dell'eco spaziale di questi versi e dei successivi – sottrarsi
all'impressione che Parmenide stia parlando di qualcosa comunque esteso: il
tutto indifferenziato e omogeneo di cui si parla potrebbe dunque coincidere con
la realtà universale (τὸ πᾶν, come suggerisce Furley101), colta "in quanto
essere", in altre parole intuita appunto come ἐόν («ciò che è»), ovvero –
più astrattamente – come τὸ ἐόν («l'essere»), con le relative conseguenze
logiche. La novità della sezione sulla Verità (che culmina nei versi in esame)
sarebbe, allora, non quella di volgersi a una realtà diversa da quella cosmica,
ma quella di concentrarsi sul «tutto» (πᾶν, πάντοθεν, πάντῃ) - come già
documentato negli autori ionici – in una prospettiva diversa dalla cosmologia
milesia: le scelte espressive di Parmenide ci suggeriscono di definirla
"ontologica". Essa consiste nel trasfigurare la realtà – la stessa
realtà attestata dall’esperienza – alla luce di rigorose esigenze razionali,
che la Dea introduce assiomaticamente in B2 e ribadisce in B8.15 (ἡ δὲ κρίσις
τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν). Parmenide indica questa attitudine con formule che
evocano sia l'esame e la fatica argomentativa (B7.5: «valuta con il
ragionamento la prova polemica», κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον), sia lo
sguardo logicamente educato a evitare la contraddizione (B4.1: la possibile
connessione tra λεῦσσε e νόῳ). Il risultato di questa considerazione originale
della realtà cosmica è l'abbandono degli schemi esplicativi – cosmologici e
cosmogonici – milesi e la riduzione del «tutto» alla compatta uniformità di τὸ ἐόν:
nella sua identità logicamente garantita dall’effettiva indisponibilità di μὴ ἐὸν,
ogni divenire e ogni discriminazione temporale sono sospesi, nell’eterna,
continua gia- 101 D. Furley, The Greek Cosmologists. Volume 1: The formation of
the atomic theory and its earliest critics, CUP, Cambridge 1987, p. 54. 506
cenza di «ciò che è» in se stesso (dunque nel presente); analogamente sono
superate tutte le distinzioni di luogo, nella sua compiuta, omogenea, coesa
estensione. Insomma, del cosmo milesio (e probabilmente pitagorico) sono
evaporati i fattori cosmogonici - i contrari, la natura-principio, le masse
elementari - ed è rimasto τὸ ἐόν, espressione che solo in questo senso designa
qualcosa di astratto, non immediatamente riconducibile ai sensi: un intero
indiscriminato102, in cui si riassume la realtà dell'universo, la totalità
delle cose considerate appunto come essere103 . Solo in coerenza con l'esigenza
di permanenza, stabilità e identità incarnata da questa realtà-verità sarà
possibile ripensare il mondo della esperienza. Se è vero che Parmenide non
propone nella Via della Verità una propria cosmologia, ne fissa certamente le
condizioni di possibilità, come la riflessione posteriore, da Empedocle agli
atomisti, avrebbe mostrato. La similitudine con la «massa di ben rotonda palla»
è introdotta per illustrare plasticamente un nodo decisivo della esposizione
della Dea: ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν dal momento che [vi
è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto da tutte le parti (vv. 42-43a).
L'impressione è che Parmenide cerchi di utilizzare l'immagine della massa
sferica per confermare l'intuizione della compiuta integrità dell'essere senza
ricorrere a una tutela esterna, come avvenuto nei versi precedenti grazie alle
figure divine (Dike, Ananke, 102 Kraus (p. 261) evoca in proposito una forma di
esperienza immediata descritta da Ernst Mach, in cui l'universo nella sua
interezza si sarebbe rivelato come massa indiscriminata e coesa. 103 Thanassas
(Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., p. 45) sottolinea in proposito come l'ἐόν
di Parmenide sia direttamente comparabile alla espressione aristotelica tò $on
*h? $on, in quanto denoterebbe la totalità degli enti (tò $on), richiamando
tuttavia l'attenzione (nel secondo $on) sull’Essere di quegli enti. 507 Moira)
e ai loro vincoli immobilizzanti, piuttosto attraverso il riferimento al
carattere ultimo dell’estremità entro cui l’essere «uniformemente nei limiti
rimane» (ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει) 104. Il limite è estremo: come in Esiodo si dà,
rispetto all'abisso spalancato (χάος, χάσμ’ ἀχανές), una barriera
insormontabile in cui tutte le cose hanno radice (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατα), in
Parmenide oltre il confine non c’è nulla, al di qua tutto l’essere, di
conseguenza perfetto, compiuto (τετελεσμένον) da ogni parte (πάντοθεν) 105. La
similitudine insiste sull’estensione compatta e sulla tensione uniforme:
sull’uguale consistenza, dal centro al perimetro della sfera. Mourelatos ha
osservato106 come la sfera si prestasse, tra le varie figure, all'estrazione di
criteri di completezza, dal momento che è quella che ha estensione sempre
«identica con se stessa». Che questi versi (i più citati del poema
nell'antichità) fossero destinati a un forte impatto cosmologico, è rivelato
soprattutto dalle riprese platoniche: come hanno puntualmente confermato le
ricerche di Palmer107, la rappresentazione della grandiosa creazione del cosmo
fisico da parte del demiurgo, sulla scorta del modello del vivente
intelligibile, nel Timeo platonico propone un’impressionante concentrazione di
allusioni (e parole) parmenidee: σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ
συγγενές. τῷ δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ ζῷα περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα
τὸ περιειληφὸς ἐν αὑτῷ πάντα ὁπόσα σχήματα· διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ
πρὸς τὰς τελευτὰς ἴσον ἀπέχον, κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν
τε αὐτὸ ἑαυτῷ σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ
πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν
γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο ἔξωθεν, οὐδ’ 104 Couloubaritsis, Mythe et philosophie
cit., p. 249. 105 Ruggiu, op. cit., p. 309. 106 Op. cit., pp. 127-8. 107 J.
Palmer, Plato's Reception of Parmenides, O.U.P., Oxford 1999, pp. 193 ss.. 508 ἀκοῆς,
οὐδὲ γὰρ ἀκουστόν· πνεῦμά τε οὐκ ἦν περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς, οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς
ἦν ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο, τὴν δὲ πρότερον ἐξικμασμένην
ἀποπέμψοι πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ ποθεν—οὐδὲ γὰρ ἦν [...]
E gli diede una figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura congeniale al
vivente che doveva contenere in sé tutti i viventi non poteva essere che quella
che comprendesse in sé tutte le figure possibili; per cui, lo tornì come una
sfera, in una forma circolare in ogni parte ugualmente distante dal centro alle
estremità, che è la più perfetta di tutte le figure e la più simile a se
stessa, giudicando il simile assai più bello del dissimile. E ne rese
perfettamente liscio l'intero contorno esterno per molte ragioni. Infatti, non
aveva affatto bisogno di occhi, perché nulla era rimasto da vedere all'esterno,
né di orecchie, perché nulla era rimasto da sentire; né vi era bisogno di un
organo per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo
averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso
aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori [...] (Timeo
33b-c7)108 . 108 Traduzione da Platone, Timeo, a cura di F. Fronterotta, BUR,
Milano 2003. 509 DALL’ESSERE ALLE FORME [B8 VV. 50-61] Sin dalla antichità si è
presentato il poema di Parmenide come suddiviso in un proemio e due sezioni, di
diversa ampiezza: Verità (o via della Verità) e Opinione (o via della
Opinione), secondo lo schema attestato da Diogene Laerzio: δισσήν τε ἔφη τὴν
φιλοσοφίαν, τὴν μὲν κατὰ ἀλήθειαν, τὴν δὲ κατὰ δόξαν Disse che la filosofia si
divide in due parti, l’una secondo verità, l’altra secondo opinione. (DK 28
A1). È plausibile che Proemio e prima parte complessivamente risultassero
marcatamente più brevi rispetto alla seconda, di cui però abbiamo conservati
soltanto quaranta versi (dei 150 circa complessivamente superstiti: 32 del solo
B1 e 61 di B8!): 1/10, secondo le stime tradizionali, dell’intera sezione, che
doveva coprire i 2/3 del poema1 . Su questo elemento strutturale avremo modo di
riflettere ancora più avanti. Discorso affidabile e opinioni mortali Gli ultimi
12 versi del frammento 8 DK, conservatici da Simplicio, segnano evidentemente
il passaggio tra le due sezioni (Verità e Opinione), come rivela il contesto
delle citazioni: συμπληρώσας γὰρ τὸν περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί
[vv. 50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς
αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv. 50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς
στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο, ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ
> πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ 1 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon…,
cit., p. 104. 510 ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον
παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso infatti il discorso intorno
all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione vv. 50-61] (Simplicio, Phys.
38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili, o dalla verità, come lui si
esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in cui afferma [citazione vv. 50-52],
pone a sua volta i principi elementari delle cose generate, secondo la prima
antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco e terra o denso e raro o
identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in precedenza citati,
[citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). Pur ipotizzando la
posteriorità della suddivisione e sottotitolazione (Verità e Opinione) delle
sezioni, non rimangono dubbi circa la funzione di cerniera di questo passo. Il
linguaggio peripatetico del commentatore riflette in effetti un'altra celebre
testimonianza sulla Doxa parmenidea, proposta nel primo libro della Metafisica
aristotelica: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ
ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...], ἀναγκαζόμενος
δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν
αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν
καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον
δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con
maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il
non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e
nient’altro. […] Costretto, tuttavia, a seguire i fenomeni, e assumendo che
l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua
volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e
terra. E di questi 511 dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il
non-essere (Metafisica I, 5 986 b 31- 987 a 2). Verità e opinioni Il testo del
frammento è, d'altra parte, a sua volta esplicito nel rilevare la svolta
nell'esposizione divina: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης·
δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo
punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a
Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie
parole ascoltando, che può ingannare (vv. 50-52). Da un lato la Dea sottolinea
al proprio interlocutore la conclusione della «comunicazione attendibile» (πιστὸν
λόγον) e della «riflessione sulla verità» (νόημα ἀμφὶς ἀληθείης) e, insieme,
l'introduzione di «punti di vista mortali» (δόξας βροτείας), mettendolo
sull'avviso: la costruzione verbale (κόσμον ἐμῶν ἐπέων) potrà risultare
fuorviante (ἀπατηλὸν). Dall'altro, è comunque la Dea a tenere lezione (donde
l'esortazione al kouros: μάνθανε), e le stesse scelte espressive richiamano
puntualmente il programma educativo del prologo del poema. La rivelazione della
dea innominata comprevedeva tre momenti distinti (ma concettualmente
correlati): (i) l'indiscutibile Verità, (ii) le inaffidabili opinioni dei
mortali, (iii) un adeguato resoconto dei contenuti di quelle opinioni, τὰ δοκοῦντα
- «le cose accettate nelle opinioni», ovvero «le cose che appaiono». Nostra
convinzione è che le premesse di B2 consentano di individuare espressamente in
B8.1-49 la trattazione del primo punto, e complessivamente in B6, B7, B8
allusioni al secondo, non fatto oggetto di riscontro puntuale, ma solo
genericamente di rilievi di fondo 512 (che poi gli interpreti proiettano in una
direzione o nell'altra). Quella che tradizionalmente è chiamata Doxa doveva
invece svolgere l'ufficio positivo di rileggere il quadro dell'esperienza in
termini compatibili con le indicazioni della Verità: in pratica – secondo il
costume dei precedenti ionici – offriva cosmogonia, cosmologia e zoogonia,
probabilmente con dovizia di contributi, come risulta limpidamente dalla
preziosa testimonianza di Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ
διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ
φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ
οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς
ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν,
τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come
elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e
mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul
sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto
circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della
natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro. È
significativo il fatto che di questo διάκοσμος così poco sia stato conservato:
come documenta anche l'urgenza della citazione di B8 da parte di Simplicio, è
plausibile che fossero gli elementi più originali del poema – soprattutto
premesse ed esposizione della Verità - ad attrarre l'attenzione dei
compilatori: καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη
τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν
πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος
anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i
non molti versi di Parmenide 513 sull'essere uno, sia per il credito delle cose
da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo (DK 28 A21). La seconda
parte, in fondo, rientrava nei canoni della produzione cosmogonico-cosmologica
milesia: non è un caso che di essa siano state tramandate, probabilmente,
apertura e conclusione. «...l'ordine delle mie parole...» Come abbiamo
sottolineato in precedenza, la Dea mette sull'avviso il proprio giovane
interlocutore circa il mutamento di registro: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ
νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν
ἀκούων. A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al
pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara,
l’ordine delle mie parole ascoltando, che può ingannare (vv. 50-52). Due dati
risultano fuori discussione: (i) l'abbandono dell'esposizione della «Verità»;
(ii) il passaggio alla considerazione di «punti di vista mortali» (δόξας
βροτείας), in altri termini di una prospettiva diversa rispetto a quella
divina. Nel contesto della narrazione ciò comporta da parte della Dea – che si
rivolge a un essere umano – adeguare il proprio registro espressivo: pur
continuando la propria lezione, ella avverte circa il potenziale disturbo (alla
corretta intelligenza della realtà) conseguenza dell'adozione di un lessico
adeguato a quei punti di vista. Come im precedenza denunciato (B8.38b-42), il
linguaggio della pluralità e del divenire è virtualmente foriero di
contraddizione e il relativo correlato oggettivo, il mondo delle cose in
mutamento, è, dal punto di vista dell’essere, apparenza. Dal momento che –
nonostante le denunce di B6, B7 e dello stesso B8 – la 514 Dea insiste perché
il kouros apprenda (μάνθανε) quei contenuti, possiamo inferire che la sua
esposizione: (a) non si concentrasse su opinioni che il giovane allievo potesse
da sé ricavare dall'esperienza; (b) né, diffondendosi (secondo quanto ci
attesta Plutarco) sugli aspetti fondamentali della realtà naturale, avallasse
opinioni erronee (per circa i 2\3 del poema!); (c) piuttosto riconducesse
l'esperienza umana all'interno della cornice della verità. A sostegno di questa
lettura possiamo addurre i versi conclusivi del frammento (vv. 60-61): τόν σοι ἐγὼ
διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ
Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai
alcuna opinione dei mortali possa superarti. Si tratta in pratica
dell'osservazione finale di un inciso lungo 12 versi, a cavallo tra Verità e
Opinione, in cui la Dea (e il poeta attraverso la Dea) offre indicazioni sul
passaggio tra le due sezioni. Le scelte lessicali sottolineano che
l'esposizione successiva riguarderà l'organizzazione di una pluralità: così al
κόσμον ἐμῶν ἐπέων del v. 52 corrisponde, al v. 60 l'espressione διάκοσμον ἐοικότα
πάντα. Che si tratti dell'ordine verbale ovvero dell'ordinamento cosmico, è
comunque implicito il rinvio a una molteplicità di elementi da sistemare: è
possibile che Parmenide giocasse proprio sulla doppia valenza semantica di
κόσμος, costrutto, disposizione, ma anche «mondo», accentuando i rischi della
costruzione verbale (che può risultare «ingannevole», ἀπατηλόν). L'enunciazione
divina è comunque connotata positivamente: il rilievo dei pronomi personali
(σοι, ἐγὼ, σε) marca l'impegno e la responsabilità della Dea, nei confronti del
kouros, di fornire in ogni modo una ricostruzione almeno relativamente
plausibile del quadro complesso dei fenomeni naturali. L'adozione di un'ottica
«mortale» implica la dimensione qualitativa dell'esperienza (in questo senso
sembrerebbe scontato il ri- 515 chiamo a τὰ δοκοῦντα), come rivelano in
particolare le connotazioni delle «due forme» (μορφαί δύο), e dunque
l'adeguamento della prospettiva della comunicazione divina: donde l'urgenza di
ridefinire i tradizionali strumenti (il modello oppositivo) di illustrazione
dei fenomeni naturali, così da evitare le contraddizioni stigmatizzate nei
frammenti precedenti. Complessivamente la preoccupazione è quella di fornire
una spiegazione del mondo naturale (διάκοσμος) comunque superiore a quella
della concorrenza. Rispetto alla sezione sulla Verità, in cui era essenziale
determinare, con lo sguardo dell'intelligenza, la compatta fisionomia
dell'essere (attraverso i «segni» di B8), l'urgenza avvertita nelle parole
della Dea è quella di non abbandonare all'insignificanza il mondo
dell'esperienza. Un ordinamento verosimile Può essere utile, per comprendere le
movenze intellettuali di Parmenide, richiamare il testo di B4: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα
νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε
σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον. Considera come cose
assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti,
che l’essere sia connesso all’essere, né disperdendosi completamente in ogni
direzione per il cosmo, né concentrandosi. Se B4, la cui collocazione nel poema
rimane molto discussa, mostrava come per il νόος la molteplicità dispersa degli
enti (ἀπεόντα) «nel cosmo» (κατὰ κόσμον) si riconducesse alla identità di τὸ ἐὸν,
alla sua inscindibile connessione (τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος 516 ἔχεσθαι), a partire
dalla conclusione dell'attuale B8, dopo aver illustrato quell’identità in cui
tutte le cose si riassumono e averne analizzato le proprietà, la Dea percorre
in un certo senso la direzione opposta. Ella indica, infatti, come quella
molteplicità che si manifesta all'esperienza, in cui l'intelligenza riconosce
l'identità dell'essere, possa essere correttamente intesa nelle sue dinamiche,
senza pregiudizio per la realtà annunciata dall'intelligenza. Parmenide non
annuncia una distinzione di piani di realtà (anticipando Platone), ma rileva
come all'unica realtà si possa guardare nell'ottica immediata dell'esperienza,
ovvero attraverso il sondaggio dell'intelligenza, ricavandone due immagini
sostanzialmente diverse: nel primo caso il quadro multiforme e plurale di dati
mutevoli, nel secondo la sua estrema rarefazione negli attributi di B8.1-49, in
cui molteplicità, differenza, movimento ecc. sono evaporati nella compattezza
dell'essere. A partire dalle consuetudini empiriche (richiamate in B7.3
nell'espressione ἔθος πολύπειρον, «abitudine alle molte esperienze») si è
spinti a considerare reale una molteplicità di enti in divenire, che si
rivelano in contraddizione con gli esiti dell'esame cui l'intelligenza
sottopone «ciò che è» (ἐὸν). Si tratterebbe, in fondo, di una diversa, più
coerente e radicale modulazione del progetto di indagine ionico, almeno dando
credito alla interpretazione peripatetica delle origini, con la riduzione di
«tutti gli enti» (ἅπαντα τὰ ὄντα) all'unità di una «sostanza soggiacente» (οὐσία
ὑπομενούσα), a un tempo «principio» (ἀρχή), «elemento» (στοιχεῖον) e «natura»
(φύσις) delle cose (τῶν ὄντων): ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται
πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ
πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων,
καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης
φύσεως ἀεὶ σωζομένης ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro
essere, e ciò da cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono,
permanendo per un verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni,
questo sostengono 517 essere elemento e questo principio delle cose, e per
questo credono che nulla né si generi né si distrugga, dal momento che una tale
natura si conserva sempre (Aristotele, Metafisica I, 3 983 b8-13). Da un lato
Parmenide riconosce nel fatto d'essere la dimensione omogeneizzante che
raccoglie a identità gli enti, ricavandone – attraverso l'esclusione del
non-essere – le proprietà. Dall'altro, dopo aver denunciato le contraddizioni
di fondo che minavano le cosmologie contemporanee, offre nella Doxa una
ricostruzione che colloca quanto si manifesta nell'esperienza (τὰ δοκοῦντα) in
un sistema esplicativo (διάκοσμος) adeguato (ἐοικότα) – in esplicita coerenza
con le indicazioni dei «segni» (σήματα) della via «che è» (ὡς ἔστιν), come
evidenzia ancora B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ
σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου
ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte
sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state
attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno egualmente di luce e notte
invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il
nulla, impiegando un lessico che è indiscutibilmente quello della conoscenza e
non dell'errore, come conferma B10: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι
πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο,
ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς
ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων 518
Conoscerai la natura etereα e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma
dello splendente sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere
apprenderai periodiche della luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura;
conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come
Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini degli astri. Diagnosi di un
errore Dopo aver annunciato il passaggio dalla «riflessione intorno a Verità»
(νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης) alle «opinioni mortali» (δόξας βροτείας) e il mutamento
di registro - dalla necessaria enunciazione di «ciò che è è» (χρὴ τὸ λέγειν τò
νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι, B6.1) all'ascolto dell’«ordine delle mie parole che può
ingannare» (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων, B8.52) – la Dea concentra la
propria attenzione, con una formula non priva di ambiguità, su uno schema
linguistico di cui riscontra e stigmatizza, in un verso dal significato molto
discusso, il limite concettuale: μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν· τῶν
μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν - · Presero la decisione,
infatti, di dar nome a due forme, delle quali l’unità non è [per loro]
necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (B8.53-4). Di che cosa si
tratta e a chi è riferita la decisione? Abbiamo indicato in nota al testo le
principali opzioni interpretative contemporanee: in estrema sintesi, gli
studiosi hanno individuato i destinatari della contestazione o genericamente
nei «mortali», intendendo l'universale approccio umano al mondo naturale, o
specificamente in una determinata posizione teorica (per lo più nel pitagorismo
antico). Ma non appare plausibile che il modello 519 (dualistico) cui la Dea
allude possa essere fatto valere in generale per gli esseri umani, né che esso,
in particolare, possa univocamente riferirsi alla riflessione cosmologica
milesia (sebbene lo schema polare vi svolga un ruolo rilevante). D'altra parte,
la scelta di lasciare implicito il riferimento potrebbe spiegarsi – all'interno
della cultura aurale in cui matura l'opera di Parmenide – con la possibilità da
parte dell'audience di individuare facilmente il soggetto: in questo senso
potrebbe considerarsi credibile, a dispetto delle nostre incertezze circa la
sua fisionomia antica, la candidatura pitagorica. Riteniamo, in ogni caso, che
il poeta intenda contestare non ogni possibile approccio "mortale",
ma quello di un certo gruppo di pensatori, da cui evidentemente egli ha
interesse a prendere le distanze, per introdurre poi un resoconto
«appropriato», in relazione al quale impiega (in B9-10, come abbiamo sopra
segnalato) espressioni indiscutibilmente positive, difficilmente riferibili a
posizioni giudicate erronee. Due forme e la loro unità L'errore fuorviante (ἐν ᾧ
πεπλανημένοι εἰσίν: «in ciò sono andati fuori strada» v. 54b) che viene
imputato dalla Dea è delineato dapprima in termini formali, distinguendone due
momenti per focalizzare esattamente la sua genesi: (a) μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο
γνώμας ὀνομάζειν Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme... (v.
53) (b) τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν delle quali l’unità non è [per loro] necessario
[nominare] (v. 54a). I due versi, come risulta anche dalla nostra rapida
sintesi in nota al testo, sono stati oggetto di tormentate analisi
linguistiche, per decidere della costruzione del primo e del significato del
se- 520 condo. La nostra traduzione tiene conto delle diverse proposte
interpretative (e filologiche), senza pretendere di fare chiarezza: è
probabile, come suggerito da Mourelatos2 , che il costrutto verbale fosse
intenzionalmente ambiguo, se non addirittura ironico, forse concepito per un
efficace attacco ad hominem. La diagnosi ruota intorno al punto (b): la Dea, in
altre parole, stando alla nostra ricostruzione del significato dei versi
parmenidei, censura (senza addebito esplicito) il mancato riconoscimento
dell'unità nelle due «forme» introdotte per dar conto dei fenomeni. Una lettura
nell'antichità già proposta da Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν
τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας si sono ingannati coloro
che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la
generazione (Fisica 31.8-9). Per quanto ci è dato ricostruire dallo scarso
materiale conservato, nelle battute che segnano il passaggio alla Doxa la Dea
si intrattiene dapprima su un errore che evidentemente Parmenide considerava
strutturale almeno in certi resoconti cosmologici: ciò per assumerne un modello
(pitagorico?), evitandone a un tempo le implicazioni contraddittorie con
l'insegnamento della Alētheia. La preoccupazione di rilevare con precisione (ἐν
ᾧ, «in ciò...») la natura dell'erranza è probabilmente indice dell'esigenza di
procedere comunque con lo schema dualistico, tenendo lontano lo spettro del
non-essere. Si spiegherebbe così la cautela della Dea, la sua segnalazione
delle potenzialità fuorvianti del proprio discorso sulle «opinioni mortali»:
non a caso, dello schema adottato, subito si denuncia un impiego improprio, per
poi (B9) marcare la corretta impostazione ontologica: [...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ
φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν [...] tutto è
pieno egualmente di luce e notte invisibile, 2 Op. cit., pp. 228-9. 521 di
entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9.3-4).
Il riscontro tra il passo conclusivo di B8 e B9 – che doveva seguire dappresso,
secondo le indicazioni di Simplicio (contesto di B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν...,
«poco dopo aggiunge...») – può autorizzare la lettura di Thanassas, secondo il
quale l'aggettivo ἀπατηλὸν andrebbe riferito alle «opinioni dei mortali»
criticate in B8.54-9, in stretta relazione con la formula «in questo si sono
ingannati» (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν): essa esprimerebbe l’errore delle
ingannevoli δόξαι βροτείαι, preparando la correzione della «appropriata» (ἐοικότα)
Doxa divina3 . In effetti la Dea così passa a determinare il modello dualistico
introdotto al v. 53: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων,
τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄
ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές
τε Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente
gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto
leggero, a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece,
non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche
opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (vv. 55-59). Rispetto alle
precedenti allusioni agli errori dei «mortali», qui indubbiamente la situazione
si presenta molto diversa. Confrontiamo, per esempio, questa analisi con la
requisitoria contro la ὁδός διζήσιός richiamata ai versi B6.4-9: 3 Op. cit., p.
65. 522 αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν πλάττονται, δίκρανοι· ἀμηχανίη
γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί
τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ
ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος poi da quella [via] che mortali che
nulla sanno s’inventano, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti
guida la mente errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi,
sgomenti, schiere scriteriate, per i quali esso è considerato essere e non
essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso
torna all'indietro. Nel contesto delle citazioni (DK 28 B6), Simplicio indica
l'errore contestato: i «mortali che nulla sanno» hanno trascurato la κρίσις
(decisione, scelta) tra τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν, imponendo così di fatto l'identità
(εἰς ταὐτὸ συνάγουσι) tra essere e non-essere. Diverso il discorso a proposito
delle «opinioni mortali» criticate in B8, ancora secondo Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι
δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας
si sono ingannati coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli
elementi che producono la generazione (Fisica 31, 8-9). In questo caso, ciò che
viene censurato è sostanzialmente l'errore opposto: il mancato rilievo
dell'unità delle «forme» nell'essere. Si può notare, allora, accostando
l'attenzione descrittiva di B8.55-59 alla dura requisitoria contro la
confusione dei δίκρανοι di B6, come nella conclusione di B8 la Dea manifesti
una diversa indulgenza per quelle convinzioni, di cui sembra rilevare pregi e
difetti. Ella in pratica parrebbe, a un tempo, insistere sullo schema
oppositivo e prendere le distanze, per i criteri ontologici della Alētheia, da
una sua specifica applicazione. In questo senso, in parti- 523 colare,
l'insistenza su una opposizione i cui membri risultano interamente separati e
indipendenti: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων
[...] [...] ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό
τἀντία [...] Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero
separatamente gli uni dagli altri [...] [...] a se stesso in ogni direzione
identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche
quello in se stesso, le caratteristiche opposte [...]. Diventa allora difficile
credere che in B8.60-61, laddove afferma che: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα
πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento,
del tutto adeguato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali
possa superarti, la dea si riferisca alle erronee concezioni dei mortali appena
determinate 4 , mentre si rafforza l'impressione che il materiale frammentario
della Doxa costituisca il residuo di uno sforzo positivo di comprensione del
mondo naturale, definitosi proprio in relazione alla revisione di quello schema
oppositivo (come confermerebbe B9). 4 Su questo punto in particolare J.H.
Lesher, Early interest in knowledge, cit., p. 239. 524 Un modello elementare
Abbiamo inizialmente utilizzato il contesto della citazione dei versi
conclusivi di B8 da parte di Simplicio per osservare come il commentatore
segnalasse il passaggio tra le due sezioni del poema. Ora dobbiamo riprendere
quel contesto per determinare il modello proposto nella Doxa: συμπληρώσας γὰρ τὸν
περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί [vv. 50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ
τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv.
50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο,
ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ > πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ
ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso
infatti il discorso intorno all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione
vv. 50-61] (Simplicio, Phys. 38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili,
o dalla verità, come lui si esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in
cui afferma [citazione vv. 50-52], pone a sua volta i principi elementari delle
cose generate, secondo la prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco
e terra o denso e raro o identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in
precedenza citati, [citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). La Dea
prende dunque le mosse da uno schema in cui due μορφαί sono selezionate come
«opposti nel corpo» (ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας) e connotate con proprietà
reciprocamente ben distinte (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων): i «segni» fisici
erano essenziali e funzionali evidentemente alla concreta esplicazione dei
fenomeni: τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, 525 ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, [...] [...] ἀτὰρ
[...] τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε da una parte, della fiamma
etereo fuoco, che è mite, molto leggero [...] [...] dall’altra parte [...] le
caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (vv. 56b-59).
Dalla testimonianza aristotelica sappiamo che, tra i primi seguaci di Pitagora,
qualcuno produsse un sistema seriale di opposizioni entro cui è possibile
riscontrare anche quella sfruttata da Parmenide: ἕτεροι δὲ τῶν αὐτῶν τούτων τὰς
ἀρχὰς δέκα λέγουσιν εἶναι τὰς κατὰ συστοιχίαν λεγομένας, πέρας [καὶ] ἄπειρον,
περιττὸν [καὶ] ἄρτιον, ἓν [καὶ] πλῆθος, δεξιὸν [καὶ] ἀριστερόν, ἄρρεν [καὶ] θῆλυ,
ἠρεμοῦν [καὶ] κινούμενον, εὐθὺ [καὶ] καμπύλον, φῶς [καὶ] σκότος, ἀγαθὸν [καὶ]
κακόν, τετράγωνον [καὶ] ἑτερόμηκες· ὅνπερ τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων ὁ
Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ ἤτοι οὗτος παρ’ ἐκείνων ἢ ἐκεῖνοι παρὰ τούτου
παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον· καὶ γὰρ [ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων [ἐπὶ γέροντι
Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο [δὲ] παραπλησίως τούτοις· Altri di questi stessi
[Pitagorici] sostengono che i principi sono dieci, disposti in serie di
opposti: limite e illimite, dispari e pari, uno e molti, destro e sinistro,
maschio e femmina, fermo e mosso, diritto e curvo, luce e tenebra, buono e
cattivo, quadrato e rettangolo. Analogamente sembra pensasse Alcmeone, sia che
egli recuperasse da loro questa dottrina, sia che quelli la prendessero da lui:
Alcmeone, infatti, fiorì quando Pitagora era vecchio e professò una teoria
simile alla loro» (Metafisica I, 5 986 a22-31). Non è chiaro da dove Aristotele
- che, secondo la tradizione dossografica, avrebbe sviluppato specifiche
ricerche sui Pitagorici (Diogene gli attribuisce nel suo elenco delle opere sia
un Πρὸς 526 τοὺς Πυθαγορείους sia un Περὶ τῶν Πυθαγορείων) – abbia ricavato
quella tavola degli opposti, la cui antichità sarebbe attestata solo dal vago
accostamento alle idee del contemporaneo di Parmenide Alcmeone. Gli specialisti
sono divisi: Schofield5 ritiene che non ci siano in realtà elementi per
stabilirne l'originalità pitagorica, ipotizzando piuttosto una sua dipendenza
dal modello parmenideo. Più plausibile allora l'associazione con l'ambiente di
Filolao (seconda metà del V secolo a.C.)6 . Ma di recente Kahn7 , pur rilevando
nella doppia lista la possibilità di un'eco accademica, osserva come la
modalità con cui opposti astratti e concreti, matematici ed estetico-morali
sono combinati potrebbe rinviare effettivamente a uno schema arcaico. Essendo
implausibile (a causa dell’espliito riferimento a una «decisione»: κατέθεντο ὀνομάζειν)
che la fisica dualistica proposta rispecchiasse una prospettiva genericamente
umana, e che si riferisse direttamente solo alle cosmologie milesie (in cui il
dualismo oppositivo indubbiamente agisce), ammettendo che essa dovesse
risultare in ogni caso perspicua agli originari destinatari del poema, la
considerazione del contesto geografico e culturale entro cui Parmenide operò, e
le tenui indicazioni della tradizione dossografica: di; meno affidabile
Giamblico DK 28 A4): Ξενοφάνους δὲ διήκουσε Παρμενίδης Πύρητος Ἐλεάτης (τοῦτον
Θεόφραστος ἐν τῆι Ἐπιτομῆι Ἀναξιμάνδρου φησὶν ἀκοῦσαι). ὅμως δ’ οὖν ἀκούσας καὶ
Ξενοφάνους οὐκ ἠκολούθησεν αὐτῶι. ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι
Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ πένητι μέν, καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον
ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ
πλούτου, καὶ ὑπ’ 5 Nel suo rifacimento dei capitoli pitagorici di Kirk-Raven
(nel capitolo su Filolao): G.S. Kirk, J.E. Raven, M. Schofield, The Presocratic
Philosophy, C.U.P., Cambridge 19832 , p. 339. 6 Una indicazione analoga si può
ricavare dal saggio di C.A. Huffman, The Pythagorean tradition, in Early Greek
Philosophy cit., p. 78 ss.. 7 Ch.H. Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans,
Hackett, Indianapolis 2001, pp. 65-6. 527 Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ Ξενοφάνους εἰς
ἡσυχίαν προετράπη Parmenide Eleate, figlio di Pireto, fu discepolo di Senofane
(Teofrasto nella Epitome dice che costui fu discepolo di Anassimandro).
Tuttavia, pur essendo stato discepolo anche di Senofane, non lo seguì. Secondo
quanto ha affermato Sozione, egli si associò al pitagorico Aminia, figlio di
Diochete, un uomo povero ma di grande valore. Costui preferì seguire, e quando
morì, dal momento che Parmenide era di una distinta casata e ricco, gli eresse
un monumento funebre. E da Aminia, non da Senofane, egli fu avviato alla
tranquillità [della vita contemplativa] (Diogene Laerzio; DK 28 A1) Ζήνωνα καὶ
Παρμενίδην τοὺς Ἐλεάτας· καὶ οὗτοι δὲ τῆς Πυθαγορείου ἦσαν διατριβῆς Anche gli
eleati Zenone e Parmenide appartenevano alla scuola pitagorica (Giamblico; DK
28 A4), può suggerire l'ipotesi che l'Eleate abbia ricavato da contemporanee
correnti pitagoriche lo schema cui sommariamente riferirsi8 . In alternativa,
sfruttando il prezioso lavoro di Charles Kahn sull'origine degli
"elementi" nel mondo greco arcaico, si potrebbe rintracciare in
Parmenide l'eco di una tradizione che aveva fatto di Gaia (γαῖα) e Urano (οὐρανός)
i progenitori di tutti gli esseri, come si può ancora cogliere in Esiodo:
χαίρετε τέκνα Διός, δότε δ’ ἱμερόεσσαν ἀοιδήν· κλείετε δ’ ἀθανάτων ἱερὸν γένος
αἰὲν ἐόντων, οἳ Γῆς ἐξεγένοντο καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος, Νυκτός τε δνοφερῆς, οὕς
θ’ ἁλμυρὸς ἔτρεφε Πόντος Salve, figlie di Zeus, datemi l'amabile canto;
celebrate la sacra stirpe degli immortali, sempre viventi, 8 Dobbiamo tuttavia
ricordare, con Patricia Curd, che non si conosce alcuna cosmogonia presocratica
che cominci con Luce e Notte (The Legacy of Parmenides…, cit., p. 117). 528 che
da Gaia nacquero e da Urano stellato, da Notte oscura e quelli che nutrì il
salso Mare (Teogonia 104-107, traduzione Arrighetti), e più tardi nelle
laminette orfiche (V-IV secolo a.C.): ὐιὸς Βαρέας καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono
figlio della Greve e di Cielo stellante (laminetta di Ipponio) Γῆς παῖς εἰμι καὶ
Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono figlio di Terra e Cielo stellante» (laminetta di
Petelia)9 . Un’opposizione ricorrente nella cultura arcaica, intrecciata a
quella tra regione celeste (οὐρανός), e regione della oscurità (Ade, Notte), in
cui, come mostra ancora Kahn10 , αἰθήρ avrebbe poi sostituito οὐρανός, e ἀήρ
assorbito i caratteri della oscurità (come rivela, anche etimologicamente, la
formula omerica ζόφος ἠερόεις, «oscurità nebbiosa»). In Parmenide, insomma,
sarebbe possibile rintracciare un’estrema essenzializzazione e concentrazione
del lessico delle teogonie e cosmogonie, nell'alveo della riflessione
cosmologica dei Milesi, la quale, in estrema sintesi, aveva ricostruito gli
opposti elementari disponendo da un lato caldo, secco, luminoso e raro,
dall'altro freddo, umido, oscuro, denso. In questo senso egli avrebbe estratto
le sue due serie di proprietà (δυνάμεις) fondamentali: (i) αἰθέριον («etereo»),
[ἀραιόν] 11 («rarefatto»), ἤπιον («mite»), μέγ΄ ἐλαφρόν («molto leggero») sono
riferiti a φλογὸς πῦρ («fuoco di fiamma»); (ii) ἀδαῆ («oscura») è attributo
diretto di núx («notte»), mentre πυκινὸν («denso»), ἐμϐριθές («pesante»)
concordano con δέμας («corpo»), a sua volta in apposizione a νύξ. 9 Testo greco
e traduzione di G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp.
172-175. 10 Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett,
Indianapolis 1994, p. 152. 11 Secondo alcuni codici di Simplicio. 529 Se
consideriamo nel complesso le due liste, e riscontriamo l'incidenza di quelle
connotazioni nella tradizione delle opposizioni e degli elementi, non abbiamo
in realtà bisogno di coinvolgere indefiniti gruppi pitagorici: di quella
tradizione Parmenide avrebbe semplicemente riferito alla polarità πῦρ\νύξ i
poteri (δυνάμεις) cosmogonici essenziali, che altri avevano concentrato in sole
e terra e che Anassagora fisserà in αἰθήρ e ἀήρ. È significativo che ancora in
Empedocle, colui cui generalmente si riconosce l'introduzione del modello elementare
(le quattro radici), l'opposizione luce-oscurità giochi un ruolo rilevante: ἀλλ’
ἄγε, τόνδ’ ὀάρων προτέρων ἐπιμάρτυρα δέρκευ, εἴ τι καὶ ἐν προτέροισι λιπόξυλον ἔπλετο
μορφῆι, ἠέλιον μὲν λευκὸν ὁρᾶν καὶ θερμὸν ἁπάντηι, ἄμβροτα δ’ ὅσσ’ εἴδει τε καὶ
ἀργέτι δεύεται αὐγῆι, ὄμβρον δ’ ἐν πᾶσι δνοφόεντά τε ῥιγαλέον τε· ἐκ δ’ αἴης
προρέουσι θελεμνά τε καὶ στερεωπά. Orsù, considera questa attestazione delle
cose dette prima, se mai anche nelle cose dette prima è mancato qualcosa alla
forma: il sole splendente a vedersi e caldo dappertutto, quante cose imperiture
sono immerse nel calore e nella luce irradiante, la pioggia in tutte le cose
oscura e gelida; e la terra da cui sorgono cose compatte e solide (DK 30
B21.1-6). In ogni modo, come sappiamo, Parmenide intervenne a correggere quello
schema cosmogonico su un punto essenziale: l'assoluta posizione della
separazione delle due forme: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄
ἀλλήλων [...] [...] ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο
κατ΄ αὐτό τἀντία [...] 530 Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni
imposero separatamente gli uni dagli altri [...] [...] a se stesso in ogni
direzione identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte,
anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte [...] (vv. 55-59a),
emendata con la sottolineatura del fatto che esse sono e sono nell'essere: τῶν
μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν - · delle quali l’unità non è
[per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (v. 54).
Complessivamente il recupero e la correzione vanno nella direzione della
determinazione di due elementi-principi, qualitativamente connotati in funzione
della spiegazione dei fenomeni, di cui si rimarca che non sono frutto di una
indebita confusione tra essere e non-essere: in questo senso, come ha rilevato
Nehamas12 , essi danno ragione di molteplicità e cambiamento nel mondo
sensibile mescolandosi in proporzioni differenti, senza che nessuno dei due si
trasformi nell'altro. Identico, non identico Comunque sia stato ricavato, dalla
lezione di contemporanei pitagorici, come alcuni credono, ovvero distillando un
modello dalla tradizione, come abbiamo ipotizzato, lo schema che Parmenide
introduce ai vv. 53 ss. rivela, una volta sottoposto all'esame dei criteri
ontologici di B8.1-49, la propria falla. Inquadrate all'interno della
fondamentale alternativa «è-non è», le polarità oppositive, nella loro identità
con sé stesse (ἑωυτῷ τωὐτόν) e reciproca 12 A. Nehamas, “Parmenidean Being/Heraclitean
Fire”, in Presocratic Philosophy, cit., pp. 61-62. 531 non-identità (τῷ δ΄ ἑτέρῳ
μὴ τωὐτόν), ovvero nella mutua esclusione, appaiono foriere di potenziale
contraddizione: donde l'esigenza di denunciare il rischio13 . La situazione
appare paradossale, perché da un lato Parmenide, di fronte al compito di
spiegare τὰ δοκοῦντα, avrebbe recuperato il dualismo giudicandolo più coerente
con i criteri ontologici, rispetto, per esempio, alla cosmologia ionica che
cerca di dar ragione dei fenomeni facendo appello alle trasformazioni di un
singolo principio di base14; dall'altro, però, avrebbe avvertito l'implicita
debolezza del modello. Come abbiamo sopra sottolineato, il lessico dei
frammenti superstiti – che è lessico di conoscenza (B10: εἴσῃ «conoscerai»,
πεύσῃ «apprenderai», εἰδήσεις «conoscerai») - segnala che in qualche modo tale
debolezza era stata aggirata. La nostra lettura, tuttavia, non sembra aver
superato il paradosso: perché introdurre «due forme» e poi insistere sulla loro
unità? Aristotele, come abbiamo inizialmente avuto occasione di ricordare,
interpreta a suo modo: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ
ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν
[...], ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν
λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς
πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν
τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche
modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre
all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di
necessità uno e nient’altro. […] 13 In questo senso la Curd riferisce correttamente
la natura «enantiomorfa» del modello delineato nei versi conclusivi di B8, ma
secondo noi sbaglia ad attribuirlo a Parmenide, il quale, invece, lo propone
per sottolinearne il limite. 14 Nehamas, op. cit., pp. 61-62. 532 Costretto
tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i
molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi,
chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo
sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Metafisica I, 5 986 b27 - 987
a1). Solo per dar ragione dei fenomeni, Parmenide avrebbe recuperato due
principi (secondo i precedenti cosmologici) e solo analogicamente avrebbe
accostato la loro opposizione a quella di essere e non-essere15: Simplicio ne
coglie il senso citando B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν [...] εἰ δὲ "μ η δ ε τ έ
ρ ω ι μ έ τ α μ η δ έ ν " καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται e
poco dopo ancora [citazione B9]; e se "insieme a nessuna delle due è il
nulla", egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono
opposti. Il commentatore rileva l'interesse del passo parmenideo
nell’esplicitazione del duplice aspetto di φῶς e νύξ: per le loro proprietà
costitutive - che condensano le tradizionali opposizioni elementari – e nella
misura in cui escludano il nulla, esse possono fungere da ἀρχαὶ. Pur opposte
nei loro «segni», entrambe «sono»: «luce è» e «notte è». Insomma, l'Eleate
avrebbe conservato un consolidato schema esplicativo del mondo fenomenico,
emendandone le implicazioni inaccettabili sul piano ontologico: la mutua
esclusione degli opposti doveva evitare la trasformazione dell'uno nell'altro,
senza spingersi tuttavia fino alla loro assolutizzazione. Presero la decisione
di dar nome... Il passaggio dalla prima alla seconda sezione del poema è
sottolineato dalla antitesi tra «pensiero intorno a Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης)·e
«opinioni mortali» (δόξας βροτείας): come già 15 Così interpreta Mansfeld, op.
cit., pp. 137-139. 533 indicato nei versi che precedono, una componente
essenziale dell'opinare umano è riscontrata nel linguaggio, o, meglio,
nell'arbitrio delle convenzioni linguistiche. In questo senso era stata netta
la presa di posizione di B8.38b-41: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο
πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον
ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò che è] tutte le cose saranno
nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e
morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. Alla
necessità («unica parola ancora rimane», μόνος δ΄ ἔτι μῦθος λείπεται) con cui,
in apertura di B8, si erano imposti la prospettiva della «via che è» (ὁδοῖο ὡς ἔστιν)
e il riconoscimento della relativa sequenza di «segni» («su questa [via] sono
segnali molto numerosi: che ...», ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς...),
la Dea ha modo di contrapporre, introducendo le «opinioni mortali», la
decisione di «nominare» (κατέθεντο ὀνομάζειν), ovvero la scelta di «opposti» (ἀντία
ἐκρίναντο δέμας) e l'imposizione di «segni» (σήματ΄ ἔθεντο). Non sorprende,
dunque, che ella metta sull'avviso il kouros circa le potenzialità fuorvianti
dell'espressione di quelle convinzioni umane (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων).
Il passaggio fa registrare dunque una significativa svolta nell'atteggiamento
intellettuale proposto all'interno dell’esposizione divina. Da una
considerazione puramente razionale della realtà, che abbraccia con
l'intelligenza il tutto come tale, omogeneizzandolo nell'essere e guadagnandone
argomentativamente le proprietà, nella seconda sezione l'attenzione si sposta
sul complesso dei fenomeni e quindi non può prescindere dal dato sensibile:
questo non comporta comunque una forma di "empirismo", come
confermano appunto i rilievi circa la rielaborazione "umana" della
Doxa attraverso lo schema degli opposti. La posizione introdotta non è
assimilabile a quella stigmatizzata in B7.3- 5a: 534 μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν
κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né
abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere
l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua. L'operazione di
riduzione dei fenomeni naturali alla coppia «luce-notte» è certamente altra
cosa rispetto alla meccanica e irriflessa assuefazione al dato empirico (ἔθος
πολύπειρον), pur avendo di mira la stessa realtà attestata e accettata sulla
scorta dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα). La rielaborazione è valorizzata da
Parmenide soprattutto nella sua dimensione linguistica e\o categoriale:
l'insistenza su formule verbali che implicano valutazione (κατέθεντο, ἐκρίναντο)
e disposizione (ἔθεντο) è infatti associata al rilievo del «nominare» (ὀνομάζειν).
Così la Dea attribuisce il compito di ordinare il campo dei fenomeni all'umana
risorsa del classificare (attraverso i nomi), sebbene ella individui
esplicitamente nei nomi l'origine di un potenziale fraintendimento della realtà
(come denuncia B8.38b-41). Anche questo contribuisce a spiegare il cambiamento
di registro all'interno del poema e il richiamo ai rischi impliciti nella
comunicazione della Doxa. Questi rilievi non devono spingere a concludere che
il mondo della Doxa sia appunto un mondo puramente "verbale",
inconsistente, illusorio: non condividiamo l'opinione di Nehamas, secondo cui
la Doxa proporrebbe una descrizione accurata di apparenze, la quale, per quanto
accurata, rimarrebbe pur sempre descrizione di apparenze, dunque di un mondo
falso16. È vero piuttosto che Parmenide aveva denunciato tale illusione nell'immagine
della realtà - in sé contraddittoria – caratteristica di coloro che in B6.4-5
sono apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν e δίκρανοι. La seconda sezione del
poema, al contrario, era probabilmente intesa 16 A. Nehamas, “Parmenidean
Being/Heraclitean Fire”, cit., p. 63. 535 come alternativa alle cosmologie
ioniche17: una grande sintesi enciclopedica che avrebbe dovuto illustrare la
superiorità della sua analisi ontologica. L'orgoglio dell'impresa potrebbe
ancora riflettersi nelle battute conclusive del frammento: τόν σοι ἐγὼ
διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ
Questo ordinamento, del tutto verosimile, per te io espongo, così che mai
alcuna opinione dei mortali possa superarti (vv. 60-61). D'altra parte, se
l'intelligenza applicata alla riflessione su «ciò che è», alla totalità
dell'essere, manifestava proprietà rigorosamente riconducibili all'alternativa
«è»-«non-è», risulta invece evidente, nei versi tràditi della seconda sezione,
l'impegno a dare conto dell'impianto della realtà fenomenica, delle strutture
portanti del cosmo dell'esperienza umana. L'eco, nelle parole della Dea, del
tradizionale motivo dell'opposizione di sapere umano e divino, nonché l'uso di
espressioni, come δοκίμως (B1.32, «realmente», ma anche «plausibilmente») e ἐοικότα
(B8.60, «appropriato», «adeguato», ma anche «verosimile», «probabile»)
potrebbero segnalare, da parte di Parmenide, la consapevolezza dei limiti della
περὶ φύσεως ἱστορία. Spesso nella letteratura si è, su questo punto, evocato il
possibile esempio di Senofane: καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔ τις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται
εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι
τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται Davvero
l'evidente verità nessun uomo la conosce, né mai ci sarà 17 Come ipotizza
Graham (Explaining the Cosmos…, cit., p. 184), è forse possibile che la sfida
fosse lanciata anche a Esiodo, considerato alla stregua di un cosmologo. 536
chi sappia intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti,
ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non
lo saprebbe; opinione è data su tutte le cose (DK 21 B34) ταῦτα δεδοξάσθω μὲν ἐοικότα
τοῖς ἐτύμοισι Siano queste cose credute simili a cose vere (DK 21 B35) ὁππόσα δὴ
θνητοῖσι πεφήνασιν εἰσοράασθαι Tutte le cose che essi [gli dei] hanno mostrato
ai mortali perché le osservassero (DK 21 B36) οὔ τοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’
ὑπέδειξαν, ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον Gli dei dall'inizio non
hanno rivelato tutte le cose ai mortali, ma nel tempo ricercando essi trovano
ciò che è meglio (DK 21 B18). Graham18 ha di recente rilanciato l'accostamento,
rilevando come i frammenti di Senofane avrebbero presentato, tra VI e V secolo,
qualcosa di simile a uno status quaestionis, una prima meditazione sui limiti
della conoscenza del mondo naturale, concludendo che essa non sarebbe sicura.
Posizione analoga a quella del giovane contemporaneo Alcmeone: περὶ τῶν ἀφανέων,
περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι Sulle
cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma gli
uomini devono imparare per inferenza (DK 24 B1)19 . 18 Explaining the Cosmos…,
cit., p. 176. 19 Come abbiamo in precedenza ricordato, del testo greco esiste
oggi una versione proposta da M.L. Gemelli Marciano (“Lire du début…, cit., pp.
7- 37), che ha espunto la virgola tra i due complementi iniziali, offrendo
quindi un senso profondamente diverso: 537 Il pensatore di Crotone (che Diogene
Laerzio vuole discepolo di Pitagora e dunque proveniente dalla stessa area
geografica e culturale di Parmenide) avrebbe ripreso la tradizionale
opposizione (μὲν θεοὶ ... δὲ ἀνθρώποις) per precisare come gli uomini abbiano
solo la possibilità di procedere per evidenze sensibili e relative inferenze.
Parmenide potrebbe aver reagito alle provocazioni di Senofane indicando come in
realtà fosse possibile una conoscenza dimostrativa sicura di «ciò che è»,
sforzandosi poi, negli ultimi versi del nostro frammento, di rintracciare delle
linee di stabilità che consentissero di riordinare il campo fenomenico alla
luce delle indicazioni ontologiche, come rivelerebbero chiaramente i «segni»
attribuiti alle due «forme». περὶ τῶν ἀφανέων περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν θεοὶ
ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι sulle cose mortali gli dei possiedono la
certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo di trovare degli indizi. 538
LE FORME, L’ESSERE, IL NULLA [B9] Simplicio offre, nel caso di B9,
un'indicazione preziosa, ancorché approssimativa, circa la sua collocazione nel
poema parmenideo. Afferma infatti il commentatore (contesto DK 28 B9): καὶ μετ’
ὀλίγα πάλιν [citazione B9] εἰ δὲ ‘μ η δ ε τ έ ρ ω ι μ έ τ α μ η δ έ ν ’ καὶ ὅτι
ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται e dopo poco aggiunge ancora: [citazione
B9]. E se "con nessuna delle due è il nulla", egli dice chiaramente
che entrambi sono principi e che sono opposti. Dal momento che il rilievo è
posto subito dopo la citazione di B8.53-59, è facile concludere che i quattro versi
di B9 seguissero dappresso la conclusione di B8, anche se non necessariamente
come prosecuzione (come ipotizza Cerri1 ). Appare di conseguenza discutibile la
scelta di alcuni editori (Coxon, Collobert) di collocarli dopo B10 e B11
(ovvero di ipotizzare la successione B11- B10-B9, come fa O' Brien), o
addirittura, dopo altri intervalli testuali, subito prima di B19 (Mansfeld),
nonostante l'evidenza di una relazione tra B9, 10 e 11, come introduzione
generale all'esposizione cosmologico-cosmogonica della Doxa. Tutte le cose sono
state denominate In effetti, dopo l'esordio di B8.50-61, B9 condivide con B19
l'importante riferimento agli ὀνόματα e all'attività di ὀνομάζειν, che abbiamo
visto essere centrale nella costruzione della cosmologia parmenidea. In particolare,
nelle prime battute di B9 troviamo un accenno al ruolo d'ordine delle due
μορφάι: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις
ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς 1 Op. cit., p. 255. 539 Ma poiché tutte le cose luce e
notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono
state attribuite] a queste cose e a quelle (vv. 1-2). Nella dimensione plurale
delle cose (πάντα) attestate dall’esperienza e che l'intelligenza ha riassunto
nell’omogeneità dell'essere, il compito di φάος καὶ νὺξ è quello di
classificare e discriminare: secondo il modello che abbiamo riscontrato nel
commento al frammento precedente, lo schema oppositivo distribuisce sul
complesso dei fenomeni le «proprietà» (δυνάμεις, «potenze»), i σήματα che
accompagnano le due μορφάι, così riordinando, attraverso un'articolazione
elementare, il mondo empirico. Dopo aver messo a fuoco la nozione di τò ἐόν,
comune denominatore che contraddistingue la realtà, raccogliendo a unità la
totalità degli enti, e averne approfondito le implicazioni (alla luce della
κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν), Parmenide delinea una strategia conseguente di
recupero del cosmo dell’esperienza umana: Luce e Notte dovranno spiegare
l'apparire senza che venga ammesso come principio il nulla2 . Alcuni
accostamenti verbali manifestano questa operazione. Al verso B8.24b la Dea
aveva sottolineato (i): πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος ma tutto pieno è di ciò che
è, dopo aver ricordato (ii): οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ
τι χειρότερον né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere
continuo, né [lì] qualcosa di meno (B8.23-24a), e soprattutto (iii): 2 Ruggiu,
op.cit., p. 326. 540 οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον Né è
divisibile, poiché è tutto omogeneo (B8.22). A questa rappresentazione della
omogeneità e compattezza dell'essere possiamo far corrispondere l'affermazione
centrale del nostro frammento: πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων
ἀμφοτέρων tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile di entrambe alla
pari (B9.3-4a), dove l'originario nesso ontologico di totalità e pienezza (πᾶν
δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος) è declinato al duale (πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ νυκτὸς),
salvaguardando comunque l'esigenza di uniforme densità e continuità – veicolata
in B8 da espressioni come ὁμοῦ πᾶν (B8.5), πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (B8.22), oltre che
da συνεχές (B8.6) e συνέχεσθαι (B8.23) e ribadita in B9 dalla formula πᾶν πλέον
ἐστὶν ὁμοῦ e dalla precisazione incidentale ἴσων ἀμφοτέρων. Insieme a nessuna
delle due è il nulla Ma, al di là di queste convergenze che paiono
indiscutibili, il διάκοσμος proposto dalla Dea esplicitamente rileva il dato
discriminante rispetto alle narrazioni cosmogoniche, la preoccupazione
ontologica essenziale a tutela della fondatezza della ricostruzione: ἐπεὶ οὐδετέρῳ
μέτα μηδέν perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9.4). Per quanto
orientata a ordinare ciò che è registrato a livello empirico e che τὸ νοεῖν (il
pensare) ovvero il νόος (l'intelligenza) o ancora il λόγος (il discorso argomentativo)
confermano nell'unità di τò ἐόν, la scelta del modello oppositivo e della
relativa disposizione seriale (l'aristotelica συστοιχία) di δυνάμεις
(proprietà) riba- 541 disce l'assoluta esclusione del «nulla» (μηδέν). Insomma,
il linguaggio della doxa ripropone quello della alētheia, sottolineando, sul
terreno dell'apparire, la propria continuità con il νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, quasi
che la doxa, nel suo insieme e a dispetto dell'insidia degli ὀνόματα, ne
costituisse la diretta prosecuzione3 . Perché, ci si potrebbe chiedere,
Parmenide avrebbe dovuto affiancare alla Verità il resoconto plausibile di una
realtà già ridotta, nei suoi tratti caratterizzanti, ai σήματα di B8? B9 può
contribuire a una risposta, soprattutto considerandone la collocazione a ridosso
della dichiarazione conclusiva di B8: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα
φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del
tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali
possa superarti. L'orizzonte dell'esperienza è ineludibile per un mortale; così
l'insegnamento divino della verità è proceduto di pari passo con una puntuale
disamina degli errori umani, in larga misura condizionati da scriteriate
assunzioni empiriche: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον
ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su
questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio
risonante e la lingua (B7.3-5a). Proprio per la sua ineludibilità, la Dea si
impegna a fornire gli strumenti per una ricostruzione adeguata di
quell'orizzonte, che ne conservi la fisionomia pluralista e qualitativa, senza
contraddire nella sostanza le indicazioni della Verità. B9 si inserisce appunto
in questo contesto, con le sue "istruzioni" circa l'ordinamento lin-
3 Ibidem. 542 guistico del mondo dell'esperienza e il suo
"riempimento" a opera delle due «forme» nominate, con opportuno
esorcismo del «nulla». Una soluzione per garantire in ogni senso la superiorità
del discente dalla concorrenza di potenziali resoconti alternativi. In questa
prospettiva, la probabile ampia articolazione della Doxa ancora attestata –
come sappiamo - da Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ
διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ
φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ
οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς
ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν,
τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come
elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e
mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul
sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto
circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della
natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro, può
far sorgere il sospetto che la relativamente più contenuta trattazione della
Verità fosse funzionale al coerente consolidamento della trattazione
cosmologica e cosmogonica. Tutto è pieno di luce e notte Se osserviamo la
costruzione del frammento, possiamo notare un passaggio significativo per la
complessiva interpretazione della Doxa: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
[...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου 543 Ma poiché tutte le cose
luce e notte sono state denominate, [...] tutto è pieno ugualmente di luce e
notte invisibile. La consistenza del mondo della nostra esperienza dipende
dalla coerenza della sua costruzione linguistica: dopo (i) aver rifiutato le
interpretazioni che pretendevano coniugare essere e nonessere (B6 e B7), (ii)
aver individuato un modello (linguistico) di base, imperniato sullo schema
polare delle nozioni luce-notte (B8.53-4), (iii) averne rilevato i limiti
(B8.55-59), e (iv) bandito esplicitamente l'implicazione del «nulla» (B9.4),
Parmenide se ne serve (v) distribuendone le rispettive proprietà su tutte le
cose. In altre parole, egli procede a connotare, attraverso gli ὀνόματα delle
due μορφάι – e i relativi σήματα -, i vari aspetti fenomenici: la luce è
associata a caldo, leggero, raro; la notte a freddo, pesante, denso, come possiamo
evincere da B8.56-9 e dallo scolio a B8 di Simplicio: καὶ δὴ καὶ καταλογάδην
μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί τι ῥησείδιον ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως· ἐ π ὶ τ ῶ
ι δ έ ἐ σ τ ι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ τ ὸ φ ά ο ς καὶ τὸ μ α λ θ α κ ὸ ν καὶ
τὸ κοῦφον, ἐ π ὶ δ ὲ τ ῶ ι π υ κ ν ῶ ι ὠ ν ό μ α σ τ α ι τὸ ψυχρὸν καὶ τ ὸ ζ ό
φ ο ς καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ· tra i versi è riportato un passo in prosa come
fosse dello stesso Parmenide; esso afferma: «per questo ciò che è raro è anche
caldo, e luce e morbidezza e leggerezza; per la densità invece il freddo è
indicato come oscurità, durezza e pesantezza». Quanto è stato denominato
conformemente a tale strategia assume lo spessore di un mondo comune,
condiviso: non a caso, dopo aver impiegato in premessa l'espressione πάντα φάος
καὶ νὺξ ὀνόμασται, al v. 3 la Dea conclude che πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ νυκτὸς.
544 Le due «forme» concorrono alla composizione del mondo: la loro complicità
nell'opposizione assicura la stabilità del mondo4 . Il fatto che entrambe siano
parte dell'Essere rende possibile una fisica della mescolanza (κρᾶσις) 5 . La
κρᾶσις funge così da principio di costituzione di tutte le cose: l'uguaglianza
delle due forme e la presenza delle rispettive potenze spiega come ogni cosa
sia costituita insieme (anche se non nella stessa misura) di Luce e Notte6 . È
tuttavia necessario ricordare – con Conche 7 - che le due μορφάι parmenidee non
sono assimilabili agli elementi di Empedocle o degli atomisti: non si tratta di
principi eterni e immutabili, ma di «forme» nominate dai mortali, di cui la Dea
si serve ad hoc, per una adeguata spiegazione dell'universo delle «opinioni
mortali». Ciò deve rendere cauti rispetto a una loro ontologizzazione: nulla ne
giustifica l'assolutizzazione al di fuori di questo mondo. 4 Conche, op. cit.,
p. 201. 5 Ruggiu, op. cit., p. 327. 6 Ivi, p. 328. 7 Op. cit., p. 200. 545 UN
GRANDE AFFRESCO COSMICO [B10-11-12- 13] I tre frammenti B10-11-12 sono
conservati da due fonti diverse: Clemente Alessandrino (II-III secolo d.C.) e
Simplicio (tuttavia B11 in un passo del commento al De caelo, B12 in due passi
del commento alla Fisica): solo il secondo ci fornisce, per B12, un’indicazione
approssimativa circa la collocazione relativa: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν
στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως [...] poco più avanti
[B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente,
dicendo così [B12.1-3] [...] Ricordiamo che con analoga approssimazione («poco
dopo») era stata introdotta la citazione di B9, il cui testo avrebbe seguito
dappresso B8.59. Almeno i versi di B12, dunque, dovevano trovarsi a ridosso di
B8 e B9: certamente dopo B8. Il contesto delle altre due citazioni e il loro
contenuto concorrono a suggerire una stretta relazione di B12 con B10 e B11, e,
ulteriormente, dei tre frammenti con B9, anche se sono state proposte diverse
soluzioni circa la loro effettiva sequenza. B13, infine, conservato da varie
fonti (Platone, Aristotele, Plutarco, Sesto Empirico, Stobeo, Simplicio), viene
citato da Simplicio in stretta connessione con B12. Clemente (autore che rivela
dimestichezza con il poema, risultando unica fonte di quasi tutto quello che
cita) introduce e accompagna B10 con queste parole: ἀφικόμενος οὖν ἐπὶ τὴν ἀληθῆ
μάθησιν ὁ βουλόμενος ἀκουέτω μὲν Παρμενίδου τοῦ Ἐλεάτου ὑπισχνουμένου ‘ε ἴ σ η
ι . . . ἄ σ τ ρ ω ν ’ pervenuto alla vera conoscenza [di Cristo], chi vuole
ascolti Parmenide di Elea che promette «tu conoscerai ... degli astri». Il
commentatore neoplatonico, a sua volta, ci informa che: 546 Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν
ἄρξασθαί φησι λέγειν·[citazione B11] καὶ τῶν γινομένων καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν
μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν παραδίδωσι. Parmenide intorno alle cose sensibili
afferma di aver intenzione di dire [citazione B11] e descrive l'origine delle cose
che si generano e si corrompono, fino alle parti degli animali. Evidentemente
la funzione dei due testi citati era prolettica rispetto alla vera e propria
descrizione cosmogonica e cosmologica: dal momento che Plutarco (Contro Colote
1114b, contesto di DK 28 B10) ci documenta l'articolazione della Doxa
parmenidea, utilizzando ancora la sua testimonianza possiamo tracciare una loro
plausibile posizione: ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ
λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ
γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων
ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν,
οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del
mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i
fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla
Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna e tratta anche dell'origine degli uomini:
nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico
nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non
distruzione di un altro. Plutarco offre diversi spunti per il nostro
orientamento nella seconda parte del poema, suggerendo almeno tre cose
fondamentali sulla sua struttura: (i) intanto che la costruzione del «sistema
del mondo», annunciata in conclusione di B8, è, per quanto consta all'autore,
chiaramente responsabilità di Parmenide: διάκοσμον πεποίηται sottoli- 547 nea
l'originalità dell'impresa scientifica. Ciò è ribadito in conclusione: «ha
composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro» (συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν,
οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν); (ii) poi che la scelta degli elementi (στοιχεῖα) è
funzionale al progetto scientifico: la ricognizione cosmologica (διάκοσμον)
implica la ricostruzione comogonica; la struttura del cosmo la sua produzione.
Con la proposta di due principi il filosofo assicura la spiegazione fenomenica
(conclusione di B8 e B9): «mescolando come elementi la luce e la tenebra»
(στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν), egli produce il suo διάκοσμος. Da e
per mezzo di quegli elementi (ἐκ τούτων [...] καὶ διὰ τούτων) ricava (ἀποτελεῖ)
«tutti i fenomeni» (τὰ φαινόμενα πάντα); (iii) infine che il progetto
scientifico doveva essere ambizioso, dire «molto» («molte cose», πολλὰ) «sulla
Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna»: si tratta evidentemente del tema
cui alludono programmaticamente B10-11 e che B12 sviluppa. Doveva poi procedere
a delineare l'«origine degli uomini» (γένεσις ἀνθρώπων): ne abbiamo tracce in
B13 (e successivi). Potremmo così avere conferma della bontà dell'attuale
successione, ovvero supporre una sistemazione leggermente diversa. La natura
programmatica di B10 e B11, attestata dalla ricorrenza di formule illocutorie
(εἴσῃ, πεύσῃ, εἰδήσεις) che ricorda la protasiinvocazione alle Muse della
Teogonia esiodea1 , unitamente alla considerazione che B9 ne costituisce il
fondamento (funzione dei principi), potrebbe suggerire una posposizione dello
stesso B92 . A ciò osta sostanzialmente l'indicazione (comunque approssimativa)
di Simplicio, nel contesto di B9, circa la prossimità della citazione alla
conclusione della precedente (B8.53-9). D'altra parte è chiaro come B10 costituisca
una sorta di indirizzo della Dea a Parmenide, analogo a quello che chiude il
proemio: ci troveremmo in questo senso in presenza di un "secondo" 1
Cerri, op. cit., p. 263. 2 Ruggiu, op. cit., p. 332. 548 proemio3 . B10 e B11
annunciano – Clemente parla di Parmenide «che promette» (ὑπισχνούμενος) - e
descrivono sommariamente il programma scientifico (spiegazione cosmogonica e
cosmologica) che B12 contribuisce a realizzare. Con B10 e B11 siamo, insomma,
ancora al prologo, al profilo preliminare; con B12 alla descrizione dei
processi e della struttura del cosmo, che Aëtius e Cicerone (DK 28 A37) ci
aiutano a ricostruire. B9, in questo contesto, sembra effettivamente, più che
una tessera programmatica vera e propria, un rilievo delle conseguenze
immediate, sul piano cosmologico e cosmogonico, dell'opzione per le due «forme»
(B8.53-59), e quindi fungere solo in questo senso da cerniera introduttiva.
O'Brien4 , in alternativa, vi ha colto, dopo l'annuncio degli argomenti
principali (B11) e il passaggio alle «opere» del Sole e della Luna (B10), una
precisazione sulla natura delle due «forme», prima dell'introduzione della
δαίμων che le «governa» (la sequenza sarebbe dunque: B11-B10-B9- B12). La
disposizione proposta da Diels-Kranz appare comunque credibile e soprattutto
compatibile con le indicazioni di Simplicio. Conoscere la natura La Dea dunque
preannuncia (promette) al proprio discepolo un grandioso disegno scientifico: εἴσῃ
δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο
λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα
σελήνης καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν
ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. 3 Per questo in passato Bicknell
propose di integrare i versi di B10 nel prologo del poema (P.J. Bicknell,
«Parmenides, fragment 10», Hermes 95, 1968, pp. 629.631). 4 Études sur
Parménide, cit., I, p. 246-7 (in particolare nota 33). 549 Conoscerai la natura
eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente Sole le
opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche
della Luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo
che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo
costrinse a tenere i confini degli astri. La promessa è quella di: (i) far
«conoscere» (εἰδέναι) «la natura eterea» (αἰθερίαν φύσιν) e «tutti i segni»
(πάντα σήματα) nell'etere; (ii) e le «opere invisibili (distruttive)» (ἔργ΄ ἀίδηλα)
del Sole e «ciò da cui» (ὁππόθεν) esse si generarono (ἐξεγένοντο); (iii) far
«apprendere» (πεύθεσθαι) «le opere» (ἔργα) della Luna e «la [sua] natura»
(φύσιν); (iv) far «conoscere» (εἰδέναι) «il cielo» (οὐρανὸν) «che tiene tutto
intorno» (ἀμφὶς ἔχοντα) e «da che cosa» (ἔνθεν) «scaturì» (ἔφυ); (v) far
conoscere come Necessità (Ἀνάγκη) «incatenò» (ἐπέδησεν) il cielo a «mantenere
nei loro limiti» (πείρατ΄ ἔχειν) gli astri. Il contesto della citazione di B11
(nel commento di Simplicio al De caelo) conferma questo disegno di Parmenide:
Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν ἄρξασθαί φησι λέγειν·[citazione B11] καὶ τῶν γινομένων
καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν παραδίδωσι. Parmenide
intorno alle cose sensibili afferma di aver intenzione di dire [B11] e descrive
l'origine delle cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli
animali. 550 Conche5 ha osservato, a proposito di questi rilievi, come
Simplicio evidenzi l'ampiezza e la verticalità dell'indagine parmenidea,
evocando nelle scelte verbali (generazione-corruzione, parti degli animali) i
temi poi trattati da Aristotele, e la centralità dei processi naturali
nell'esplicazione dei fenomeni: il mondo è opera della natura. D'altra parte
non è sfuggita agli studiosi l'eco di questo indirizzo cosmogonico di B10 in
Empedocle (DK 31 B38): εἰ δ’ ἄγε τοι λέξω πρῶθ’ † ἥλιον ἀρχήν †, ἐξ ὧν δῆλ’ ἐγένοντο
τὰ νῦν ἐσορῶμεν ἅπαντα, γαῖά τε καὶ πόντος πολυκύμων ἠδ’ ὑγρὸς ἀήρ Τιτὰν ἠδ’ αἰθὴρ
σφίγγων περὶ κύκλον ἅπαντα. Orsù, ti dirò delle cose prime e ; da cui divenne
manifesto tutto quanto ora vediamo, terra e mare dalle molte onde e aria umida
e il Titano etere che cinge in cerchio tutte le cose. L'impressione è che
Empedocle si sia direttamente ispirato al modello parmenideo introducendo la
sezione astronomica del proprio poema 6 . Le opere della natura Di questo
programma scientifico (abbiamo già osservato, nel commento di B8.50-61,
l'insistenza della Dea sulle formule di conoscenza di B10) sono da notare in
particolare: (a) il nesso ribadito tra φύσις e ἔργα, e (b) l'uso di espressioni
come ὁππόθεν ἐξεγένοντο (che abbiamo reso come «donde ebbero origine») e
l'equivalente ἔνθεν ἔφυ. Al centro della comunicazione della Dea ritroviamo
dunque un modello di sapere che si definisce per la capacità di ricostruire la
«generazione» dei fenomeni, con l'esplicito accostamento di φύσις e γένεσις:
nel contesto il primo termine 5 Op. cit., pp. 210-11. 6 Cerri, op. cit., p.
259. 551 – che abbiamo per lo più tradotto come «natura» - designa appunto ciò
che dà origine (φύω, «dare origine»), la cui attività generatrice si traduce in
ἔργα. Conoscere la natura significa allora riconoscere i processi di
formazione, il manifestarsi dell'origine (φύσις, γένεσις) nei «segni» (σήματα),
nei fenomeni celesti; Parmenide evidentemente non allude con φύσις a un’immota
identità, a un'essenza che con la propria stabile determinatezza consenta di
classificare i fenomeni 7 : in questo senso la formula «donde ebbero origine» (ὁππόθεν
ἐξεγένοντο) riprende e rilancia la ricerca milesia dell'ἀρχή8 . Nell'indirizzo
della Dea è allora possibile intravedere una doppia direzione di indagine: (i)
quella che dai σήματα, dagli ἔργα, dai fenomeni astronomici risale alla natura
che li esprime; (ii) quella che dalla φύσις discende ai relativi ἔργα 9 . Nella
stessa direzione, precisando il disegno, B11: πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ σελήνη αἰθήρ
τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν μένος ὡρμήθησαν
γίγνεσθαι. [...] come Terra e Sole e Luna, l'etere comune e la Via Lattea e
l'Olimpo estremo e degli astri l'ardente forza ebbero impulso a generarsi. In
questo caso, di alcuni elementi essenziali del quadro cosmologico si prospetta
la genesi marcandone lo spunto immanente: a conferma del fatto che Parmenide
non intende semplicemente descrivere un ordine cosmico, stabilire ruoli e posizioni
relative, ma produrre una cosmogonia. La combinazione di ὁρμᾶν e γίγνεσθαι è
indicativa della sua nozione di φύσις: essa in ogni fenomeno è la 7 In questa
direzione anche la lettura di Conche, op. cit., pp. 204-5. A noi pare,
tuttavia, che Parmenide intenda esporre anche la «costituzione» dell'etere o
della luna, analizzarne la composizione. 8 Su questo punto si veda Ruggiu, op.
cit., pp. 333-5. 9 Ibidem. 552 δύναμις che si esprime in «segni» e «opere».
Ovvero, richiamando l'attacco di B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς Ma poiché tutte le cose
luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà
[δυνάμεις], [sono state attribuite] a queste cose e a quelle (vv.1-2), potremmo
concordare con Ruggiu10 che le due «forme» originarie – Luce e Notte – si
manifestano come δυνάμεις nella φύσις di ogni cosa: esse, sotto questo profilo,
costituirebbero l'unica natura delle cose. Opere invisibili, opere periodiche
Quello che, nei versi del poema che ci sono conservati, ancora possiamo
"catturare" della grandiosa sintesi cosmologica cui allude Plutarco è
lo sforzo di elaborazione cosmogonica. Essa traspare, come abbiamo rilevato,
nella insistenza sulla γένεσις, nella centralità del tema della φύσις, ma anche
nelle scelte verbali che tendono a marcare - si veda, per esempio, il passaggio
dal passato11 di πλῆντο al presente di ἵεται in B12.1-2 - gli effetti durevoli
dei processi generativi nella struttura cosmica: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς
ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα Quelle più strette
[interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive [si
riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco. 10 Ibidem.
11 Sia nella forma, da noi accolta, dell'aoristo, sia in quella del perfetto
medio (πλῆνται), proposta in alternativa. 553 È infatti probabile che B12
alluda proprio alla formazione e articolazione dello spazio cosmico (come
vedremo meglio più avanti), delineando costituzione del centro terrestre del
sistema (sfera terrestre e suo interno infuocato), della periferia celeste
(sfera solida esterna e sfera ignea interna), e dello spazio intermedio in cui
si muovono i corpi celesti. Esplicita in B12.3 è anche l'introduzione della
«Dea che tutto governa» (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ) e della sua funzione
"copulatrice": ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ
στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις
ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di
tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo
l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al
femminile (B12.3-6). Ma che lo sguardo del poeta – nei versi superstiti - non
sia rivolto tanto alla contemplazione di un ordine da cui ricavare o in cui
riscontrare armonie ed equilibri strutturali, ovvero modelli geometrici, quanto
al compiaciuto rilevamento della fecondità, dell'impeto (μένος) generativo che
nell'universo manifesta la natura, emerge nei versi in cui la Dea – riferendosi
a Sole e Luna – insiste non sulla loro posizione relativa nel sistema o sulla
loro relazione reciproca (a Parmenide dobbiamo il riconoscimento della
riflessione lunare della luce solare), ma sulle loro «opere», rispettivamente
«invisibili» (ovvero «distruttive») e «periodiche», cioè sul loro contributo ai
processi cosmici. 554 Il sistema del mondo Articolando il programma scientifico
annunciato in B10, B11 si riferisce al «come» (πῶς) Terra, Sole, Luna e etere
«ebbero impulso a generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), dunque al processo di
formazione del cosmo a partire dalle due potenze originarie. Il legame con B9,
infatti, doveva essere molto stretto, perché, come abbiamo già ricordato, la
citazione dei primi 3 versi di B12 è registrata nel seguente contesto: μετ’ ὀλίγα
δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως
[...] poco più avanti [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la
causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. Se è valida la ricostruzione per lo
più accettata, i versi di B12 dovevano seguire di poco B9, e dunque
l'introduzione degli elementi materiali (στοιχεία); d'altra parte essere
dappresso anche a un primo riferimento alla struttura delle «corone» (στεφάναι)
cosmiche, di cui ci dà notizia Aëtius (A37), dal momento che a esse rinviano
implicitamente in apertura: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ
ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ·
Quelle più strette [interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le
successive [si riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di
fuoco; in mezzo a queste la Dea che tutte le cose governa. Corone cosmiche Il
processo cui alludono i versi doveva fornire le coordinate essenziali per la
comprensione dell'universo parmenideo, relati- 555 vamente alla sua
configurazione e composizione. La scarsità (nei numeri e nella consistenza) dei
frammenti superstiti, purtroppo, non ci consentono di delinearle se non in modo
estremamente approssimativo: così sappiamo (B10.5-7) del «cielo che tutto
intorno cinge» (οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα) e di come esso sia stato vincolato da
Necessità (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη) «a tenere i confini degli astri» (πείρατ΄ ἔχειν
ἄστρων); B11 conferma la presenza di un «Olimpo estremo» (ὄλυμπος ἔσχατος) – il
cielo di cui sopra, umschliessende Firmament come lo definisce Diels12 - e di
uno spazio etereo (αἰθήρ τε ξυνὸς), con esso (ma la relazione è indefinita nel
testo) nominando Terra (che secondo la tradizione delle testimonianze antiche
consideriamo il centro del sistema) e pianeti; B12 poi, come abbiamo ricordato,
sintatticamente sembra sottendere il riferimento a una struttura ad «anelli» o
«corone» (στεφάναι) concentrici. Un senso complessivo a questi cenni
cosmologici riusciamo a garantirlo grazie alla preziosa (quanto discussa)
testimonianza di Aëtius, che fornisce, partendo da Teofrasto, il quadro
d'insieme entro cui collocarli: Π. στεφάνας εἶναι περιπεπλεγμένας, ἐπαλλήλους,
τὴν μὲν ἐκ τοῦ ἀραιοῦ, τὴν δὲ ἐκ τοῦ πυκνοῦ· μικτὰς δὲ ἄλλας ἐκ φωτὸς καὶ
σκότους μεταξὺ τούτων. καὶ τὸ περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν,
ὑφ’ ὧι πυρώδης στεφάνη, καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης
[sc. Στεφάνη]. τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ
< αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν
καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην. καὶ τῆς μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι
τὸν ἀέρα διὰ τὴν βιαιοτέραν αὐτῆς ἐξατμισθέντα πίλησιν, τοῦ δὲ πυρὸς ἀναπνοὴν τὸν
ἥλιον καὶ τὸν γαλαξίαν κύκλον. συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος
καὶ τοῦ πυρός. περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων 12 Parmenides Lehrgedicht, cit.,
p. 104. 556 τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν,
ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. Parmenide [afferma che] ci sono corone, l'una intorno
all'altra in successione, una costituita dal raro, l'altra dal denso; tra
queste ve ne sono altre miste di luce e oscurità. Ciò che tutte le avvolge è
solido come un muro, sotto il quale è una corona ignea; solido è anche ciò che
è al centro di tutto, intorno al quale è, ancora, una corona ignea13. Delle
corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e
causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che
governa e Giustizia che tiene le chiavi14 e Necessità. L'aria è secrezione
della Terra, evaporata a causa della sua [della Terra] compressione più
intensa, e il Sole e la Via Lattea sono esalazioni del fuoco; la Luna
mescolanza di entrambi, dell'aria e del fuoco. L'etere poi avvolge tutto
dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto
quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni
intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37). Parmenide avrebbe introdotto una
cosmologia fondata sulla nozione di στεφάνη, da intendere probabilmente come
«anello» cilindrico (Cicerone traduce coronae similem). Secondo Teofrasto,
dunque, il cosmo celeste dell'Eleate era costituito da στεφάναι concentriche,
anelli alternativamente di «rado» (ἐκ τοῦ ἀραιοῦ) e 13 Il testo greco καὶ τὸ
μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης sarebbe in realtà interpolato:
come sottolinea Franco Ferrari (nel suo recente Il migliore dei mondi
impossibili. Parmenide e il cosmo dei presocratici, cit., pp. 88-9), στερεόν è
infatti una integrazione, e περὶ ὃ un emendamento. Il testo alternativo
restaurato sarebbe: καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν περι < ι > όν πάλιν πυρώδης,
«e la circonferenza al centro di tutte [le corone] è di nuovo [una corona]
ignea». 14 Il greco stabilito da Diels - κληιδοῦχον Δίκην – è emendazione del
testo dei manoscritti: κληροῦχον Δίκην, «Giustizia che indirizza le sorti».
Simplicio, dopo aver citato B13, osserva in effetti: καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ
μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν φησιν, «[Parmenide sostiene
che la dea] invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso
opposto». 557 di «denso» (ἐκ τοῦ πυκνοῦ), che presentavano quindi la purezza
degli elementi-principi. Tra questi (μεταξὺ τούτων) erano poi dislocate altre
corone «miste di luce e oscurità» (μικτὰς ἐκ φωτὸς καὶ σκότους), con una
evidente corrispondenza nei «segni»: ἐκ τοῦ ἀραιοῦ/ἐκ φωτὸς, ἐκ τοῦ πυκνοῦ/ἐκ
σκότους. Il cosmo finito era avvolto da una sfera solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας
τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν), secondo quanto indicato in B10.5: οὐρανὸν
ἀμφὶς ἔχοντα, altrimenti evocato (B11.2-3) come ὄλυμπος ἔσχατος. L'espressione
conclusiva τὰ περίγεια suggerisce che al centro del sistema cosmico si trovasse
la Terra, come confermano, sempre sulla scorta di Teofrasto, Diogene Laerzio e
Aëtius (DK 28 A1, A44): πρῶτος δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν
μέσωι κεῖσθαι questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma
di sfera e giace al centro [dell'universo] Π., Δημόκριτος διὰ τὸ πανταχόθεν ἴσον
ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον
ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν· διὰ τοῦτο μόνον μὲν κραδαίνεσθαι, μὴ κινεῖσθαι δέ
Parmenide e Democrito sostengono che la Terra, essendo a uguale distanza da
tutte le parti, rimane in equilibrio, non avendo causa per cui debba inclinare
da una parte piuttosto che dall'altra. Per questo trema soltanto e non si
muove. La struttura del cosmo Seguendo le indicazioni di Teofrasto riferite da
Aëtius, analogamente al centro sferico (τὴν γῆν [...] σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι
κεῖσθαι) dobbiamo supporre sferica almeno la solida parete esterna (τ ε ί χ ο υ
ς δίκην στερεὸν) del cosmo - «ciò che tutto avvolge» (τὸ περιέχον δὲ πάσας).
Qui incontriamo una prima difficoltà: la 558 consistenza attribuita al
contenitore cosmico (appunto la parete solida esterna cui allude Aëtius)
dovrebbe comportare – per rispettare i σήματα associati alle due μορφάι – la
sua natura densa e oscura; d'altra parte Aëtius sottolinea come l'«etere»
avvolga tutto «dall'esterno [ovvero dalla posizione superiore]» (περιστάντος δ’
ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος). Diels15 identificava tale «muro» (Mauer) con una
sfera di pura Notte, esterna a una sfera di puro Fuoco, che complessivamente
costituivano la coppia di στεφάναι concentriche periferiche, contrastate, al
centro del sistema, da una coppia corrispondente: una sfera esterna di Notte
densa (la superficie terrestre) e una interna di puro fuoco (fuoco vulcanico).
Di recente Franco Ferrari 16 ha ribadito questo modello, tra l'altro proponendo
una revisione del testo greco di Aëtius che rende coerente l'ipotesi di Diels
con le indicazioni che giungevano da Teofrasto. Anche Tarán17 sottolinea la
corrispondenza tra τὸ περιέχον στερεὸν (A37), οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα (B10) e ὄλυμπος
ἔσχατος (B11), riducendolo a una solida sfera di Notte, sebbene poi la sua
struttura cosmica diverga in parte da quella dielsiana, per una diversa interpretazione
delle στεινότεραι στεφάναι (coincidenti, secondo lo studioso americano, con gli
anelli che contengono le stelle). Altri, tuttavia, hanno contestato questa
ricostruzione. Coxon18 , per esempio, pur rilevando che la testimonianza di
Aëtius appare parafrasi dei versi di B12, e concedendo che l'accostamento al
muro di una città (τ ε ί χ ο υ ς δίκην) potrebbe essere stato dello stesso
Parmenide (dal momento che ricorre in un contesto pitagorico alla fine di un
saggio di Massimo di Tiro, II secolo), denuncia come l'asserzione su τὸ
περιέχον στερεὸν risulti fraintendimento di ὄλυμπος ἔσχατος: l'οὐρανὸς di
Parmenide non sarebbe dunque solido (cioè composto di Notte), ma etereo, come
si ricaverebbe dall'incrocio delle attestazioni di Aëtius e Cicerone: 15 Nella
sua edizione del 1897, cit., p. 104. 16 Il migliore dei mondi impossibili,
cit., pp. 88-90. 17 Op. cit., p. 241. 18 Op. cit., pp. 235-236. 559 περιστάντος
δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ
κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. L'etere poi avvolge tutto
dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto
quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni
intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37) nam P. quidem commenticium quiddam:
coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et >
lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum [...] Parmenide elabora
qualcosa di fittizio: simile a una corona (egli la chiama στεφάνην), una sfera
di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli denomina dio [...]
(Cicerone; DK 28 A37). L'orbis lucis di Cicerone coinciderebbe con l'αἰθήρ di
Aëtius: Parmenide distinguerebbe il fuoco dall'etere: l'etere – secondo Aëtius
– costituirebbe in Parmenide la regione estrema dell'universo, governando il
cielo delle stelle fisse (οὐρανὸς) 19 . Ruggiu20 interpreta le indicazioni dei
frammenti e delle testimonianze in modo analogo. Il termine στεφάνη nel
pensiero arcaico designerebbe una formazione di tipo circolare sviluppata
intorno a un punto centrale: dal momento che al centro delle στεφάναι in
Parmenide sta la Terra, concepita come sferica, la struttura dei cieli sarebbe
sferica: la periferia sarebbe occupata da una sfera di fuoco; l'elemento che
tutto contiene, ancora igneo, sarebbe della consistenza di un solido muro.
D'accordo sostanzialmente Cerri21: nel complesso delle στεφάναι – corone
sferiche concentriche – la più esterna, il confine limite dell'universo
visibile, sarebbe formata da uno strato di «etere rigido», avvolgente un'altra
corona di etere rarefatto e igneo, denominata οὐρανός. 19 Ivi, p. 227. 20 Op.
cit., p. 343. 21 Op. cit., p. 266. 560 Parmenide avrebbe previsto, nel suo
cosmo, una doppia funzione per il cielo, che ancora può intravedersi nei
frammenti: esso è, per un verso, (i) οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, quindi fisicamente
limitante, circoscrivente; per altro (ii) vincolante: «Necessità guidando lo
vincolò a tenere i confini degli astri» (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων).
Il cielo, dunque, è anche legame per tutti gli elementi celesti: gli astri,
dislocati sulle στεφάναι, con i rispettivi moti, immersi al suo interno
nell'etere (ἐν αἰθέρι) 22 . In effetti risulta evidente, nelle testimonianze,
il nesso tra cielo ed etere. Parmenide avrebbe indicato due aree nell'etere
celeste: (i) l'etere che si estende tutto intorno al cosmo, libero da astri;
(ii) l'etere popolato da astri, condensazioni di fuoco23. A questo
alluderebbero le espressioni ἐν τῶι αἰθέρι·e ἐν τῶι πυρώδει di Aëtius A40a: Π.
πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν
τῶι αἰθέρι· μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ ο ὐ ρ α
ν ὸ ν καλεῖ Parmenide dispone per primo nell'etere Eos, considerato da lui
identico a Espero. Dopo quello dispone il Sole, sotto il quale sono gli astri
nella zona ignea che chiama cielo. Alla luce delle indicazioni che si possono
ricavare dai frammenti e soprattutto da Aëtius, l'etere si estenderebbe tra la
fascia più interna del sistema cosmico - densa di «aria» secreta dalla Terra (τῆς
μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι τὸν ἀέρα A37) - e la volta esterna (ὄλυμπος ἔσχατος),
che tuttavia potrebbe essere stata concepita a sua volta come etere rigido. Il
termine οὐρανὸς appare nelle testimonianze di Aëtius con i significati correnti
nella tradizione peripatetica (Teofrasto): molto chiaramente la struttura
celeste delineata e il lessico adottato riflettono la lezione di Aristotele: 22
Ruggiu, op. cit., p. 336. 23 Conche, op. cit., p. 213. 561 Εἴπωμεν δὲ πρῶτον τί
λέγομεν εἶναι τὸν οὐρανὸν καὶ ποσαχῶς, ἵνα μᾶλλον ἡμῖν δῆλον γένηται τὸ
ζητούμενον. Ἕνα μὲν οὖν τρόπον οὐρανὸν λέγομεν τὴν οὐσίαν τὴν τῆς ἐσχάτης τοῦ
παντὸς περινὸν περιφορᾶς, ἢ σῶμα φυσικὸν τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός· εἰώθαμεν
γὰρ τὸ ἔσχατον καὶ τὸ ἄνω μάλιστα καλεῖν οὐρανόν, ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί
φαμεν. Ἄλλον δ’ αὖ τρόπον τὸ συνεχὲς σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ
σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων· καὶ γὰρ ταῦτα ἐν τῷ οὐρανῷ εἶναί φαμεν. Ἔτι
δ’ ἄλλως λέγομεν οὐρανὸν τὸ περιεχόμενον σῶμα ὑπὸ τῆς ἐσχάτης περιφορᾶς· τὸ γὰρ
ὅλον καὶ τὸ πᾶν εἰώθαμεν λέγειν οὐρανόν. Τριχῶς δὴ λεγομένου τοῦ οὐρανοῦ, τὸ ὅλον
τὸ ὑπὸ τῆς ἐσχάτης περιεχόμενον περιφορᾶς ἐξ ἅπαντος ἀνάγκη συνεστάναι τοῦ
φυσικοῦ καὶ τοῦ αἰσθητοῦ σώματος διὰ τὸ μήτ’εἶναι μηδὲν ἔξω σῶμα τοῦ οὐρανοῦ
μήτ’ ἐνδέχεσθαι γενέσθαι. Prima dobbiamo dichiarare che cosa diciamo essere il
cielo e in quanto modi lo diciamo, perché diventi più chiaro l'oggetto
d'indagine. In un senso dunque diciamo cielo la sostanza dell'estrema volta del
tutto, cioè il corpo naturale nell'estrema volta del tutto; è appunto la
regione estrema e più elevata che siamo soliti chiamare cielo, in cui
affermiamo aver sede tutto quanto è divino. In altro senso [diciamo cielo] il
corpo contiguo all'estrema volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e
alcuni degli astri; anche questi, in effetti, affermiamo essere nel cielo. In
un altro senso ancora, diciamo cielo il corpo abbracciato [compreso]
dall'estrema volta; siamo soliti, infatti, definire cielo l'universo e il tutto
[ovvero: l'intero universo]. Essendo inteso il cielo in questi tre modi,
l'intero abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il corpo
naturale e sensibile, poiché nessun corpo esiste, 562 né è possibile si generi
fuori del cielo (Aristotele, De caelo I, 9 278 a9-25). È plausibile che nella
propria sintesi Aristotele tenesse conto anche della cosmologia parmenidea
ovvero di un modello analogo o condiviso (pitagorico?) dall'Eleate: in effetti
«il corpo naturale nell'estrema volta del tutto» (σῶμα φυσικὸν τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ
περιφορᾷ τοῦ παντός) richiama sia «il cielo che tutto intorno cinge» (B10.5 οὐρανὸν
ἀμφὶς ἔχοντα) sia l'«Olimpo estremo» (B11.2- 3 ὄλυμπος ἔσχατος), anche per la
sua associazione al «divino» (ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί φαμεν). È per
altro chiaro che quando Aëtius (A40a) parla di «astri nella zona ignea che
[Parmenide] chiama cielo» (ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ ο ὐ ρ α ν ὸ ν καλεῖ) si
riferisce a ciò che Aristotele indicava come «il corpo contiguo all'estrema
volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e alcuni degli astri» (τὸ συνεχὲς
σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων).
Interessante il rilievo aristotelico circa l'accezione "cosmica" di οὐρανός:
«l'intero abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il
corpo naturale e sensibile, poiché nessun corpo esiste, né è possibile si
generi fuori del cielo». La tentazione di una lettura "cosmica" di
Parmenide B8 è molto forte: la compiutezza dell'essere manifestata dalla sfericità,
traduceva in immagine ontologica la perfezione che la doxa poteva riscontrare
nell'universo compiuto e intero (τὸ ὅλον καὶ τὸ πᾶν) di cui parla Aristotele.
In conclusione non si può dunque non ribadire la difficoltà nella ricostruzione
del quadro cosmologico del poema: troppo frammentarie le citazioni e troppo
condizionate dal lessico e dalla concettualità della posteriore tradizione le
testimonianze. Come abbiamo constatato, sono pochi i dati certi sulla struttura
cosmica: (i) la forma complessivamente sferica del centro (Terra) e della
periferia (τὸ περιέχον, ovvero ὄλυμπος ἔσχατος, «Olimpo estremo»), pensata come
una parete solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν); 563 (ii)
l'esistenza di una prima fascia celeste superiore eterea, composta cioè di
corone, anelli cilindrici, di puro Fuoco; di una seconda fascia intermedia di
corone in cui Fuoco e Notte sono compresenti; di una terza fascia a ridosso
della superficie della Terra, corrispondente a una atmosfera aerea prodotta
dalle evaporazioni terrestri; (iii) la distribuzione dei corpi celesti tra le
prime due fasce (sulla loro disposizione le indicazioni non sono concordi). La
δαίμων e il cosmo Il contesto e la citazione di B12, insieme alla relativa
testimonianza di Aëtius, pongono un ulteriore problema interpretativo: quello
relativo alla posizione e al ruolo della δαίμων che lì viene evocata: μετ’ ὀλίγα
δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως ‘α ἱ
γ ὰ ρ . . . κ υ β ε ρ ν ᾶ ι ’. [...] καὶ ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν
ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων σαφῶς
παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων· ‘α ἱ δ ’ ἐ π ὶ . . . θ η λ υ τ έ ρ ω ι ’. [...] καὶ
ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην
καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν. poco dopo [B8.61], dopo aver
parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [vv.
1-3]. [...] La causa efficiente non solo dei corpi soggetti a generazione, ma
anche degli incorporei che concorrono alla generazione, Parmenide ha esposto
chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli pone la causa efficiente una e
comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione ἐν δὲ
μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει
564 πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a
queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella
sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi
al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6) τῶν δὲ συμμιγῶν
τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ
γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει
Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste [di fuoco e oscurità], quella più
centrale è per tutte principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide]
la indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi e
Necessità (Aëtius; DK 28 A37). Il neoplatonico Anatolio di Laodicea (III secolo
d.C.) offre un'ulteriore indicazione: πρὸς τούτοις ἔλεγον περὶ τὸ μέσον τῶν
τεσσάρων στοιχείων κεῖσθαί τινα ἑναδικὸν διάπυρον κύβον, οὗ τὴν μεσότητα τῆς
θέσεως καὶ Ὅμηρον εἰδέναι [...]. ἐοίκασι δὲ κατά γε τοῦτο κατηκολουθηκέναι τοῖς
Πυθαγορικοῖς οἵ τε περὶ Ἐμπεδοκλέα καὶ Παρμενίδην καὶ σχεδὸν οἱ πλεῖστοι τῶν
πάλαι σοφῶν, φάμενοι τὴν μοναδικὴν φύσιν ἑστίας τρόπον ἐν μέσωι ἱδρῦσθαι καὶ διὰ
τὸ ἰσόρροπον φυλάσσειν τὴν αὐτὴν ἕδραν Oltre a queste cose [i Pitagorici]
sostenevano che nel mezzo dei quattro elementi sta un cubo unitario di fuoco,
la cui posizione centrale era nota anche a Omero [...]. Sembra che abbiano in
questo seguito i Pitagorici i discepoli di Empedocle e Parmenide e per lo più i
[lett.: «quasi la maggioranza dei»] sapienti antichi, dal momento che affermano
che la natura monadica è posta al centro come focolare [Estia], e che conserva
la stessa sede in 565 forza dell'equiposizione [dell'equilibrio rispetto alla
perimetro del sistema] (DK 28 A44). Indubbiamente il cosmo parmenideo presenta
affinità con quello filolaico, quale possiamo ricostruire da frammenti e
testimonianze: ὁ κόσμος εἷς ἐστιν, ἤρξατο δὲ γίγνεσθαι ἀπὸ τοῦ μέσου καὶ ἀπὸ τοῦ
μέσου εἰς τὸ ἄνω διὰ τῶν αὐτῶν τοῖς κάτω. ἔστι < γὰρ > τὰ ἄνω τοῦ μέσου ὑπεναντίως
κείμενα τοῖς κάτω. τοῖς γὰρ κατωτάτω τὰ μέσα ἐστὶν ὥσπερ τὰ ἀνωτάτω καὶ τὰ ἄλλα
ὡσαύτως. πρὸς γὰρ τὸ μέσον κατὰ ταὐτά ἐστιν ἑκάτερα, ὅσα μὴ μετενήνεκται Il
cosmo è uno; iniziò a formarsi dal mezzo e dal mezzo verso l'alto, e attraverso
gli stessi passaggi verso il basso. Le cose che sono al di sopra del mezzo
giacciono in senso opposto a quelle che sono al di sotto. In effetti le cose
che sono in mezzo si trovano rispetto a quelle sotto come rispetto a quelle
sopra e le altre in modo simile: dal momento che rispetto al mezzo entrambe si
trovano nella stessa relazione, solo capovolte (DK 44 B17) Φ. πῦρ ἐν μέσωι περὶ
τὸ κέντρον ὅπερ ἑστίαν τοῦ παντὸς καλεῖ [B 7] καὶ Δ ι ὸ ς ο ἶ κ ο ν καὶ μ η τ έ
ρ α θ ε ῶ ν β ω μ ό ν τε καὶ σ υ ν ο χ ὴ ν καὶ μ έ τ ρ ο ν φ ύ σ ε ω ς . καὶ
πάλιν πῦρ ἕτερον ἀνωτάτω τὸ περιέχον. πρῶτον δ’ εἶναι φύσει τὸ μέσον, περὶ δὲ
τοῦτο δέκα σώματα θεῖα χορεύειν, [οὐρανόν] < μετὰ τὴν τῶν ἀπλανῶν σφαῖραν
> τοὺς ε πλανήτας, μεθ’ οὓς ἥλιον, ὑφ’ ὧι σελήνην, ὑφ’ ἧι τὴν γῆν, ὑφ’ ἧι τὴν
ἀντίχθονα, μεθ’ ἃ σύμπαντα τὸ πῦρ ἑστίας περὶ τὰ κέντρα τάξιν ἐπέχον. τὸ μὲν οὖν
ἀνωτάτω μέρος τοῦ περιέχοντος, ἐν ὧι τὴν εἰλικρίνειαν εἶναι τῶν στοιχείων, ὄ λ
υ μ π ο ν καλεῖ, τὰ δὲ ὑπὸ τὴν τοῦ ὀλύμπου φοράν, ἐν ὧι τοὺς πέντε πλανήτας
μεθ’ ἡλίου καὶ σελήνης τετάχθαι, κ ό σ μ ο ν , τὸ δ’ ὑπὸ τούτοις ὑποσέληνόν τε
καὶ περίγειον μέρος, ἐν ὧι τὰ τῆς φιλομεταβόλου γενέσεως, 566 ο ὐ ρ α ν ό ν .
καὶ περὶ μὲν τὰ τεταγμένα τῶν μετεώρων γίνεσθαι τὴν σ ο φ ί α ν , περὶ δὲ τῶν
γινομένων τὴν ἀταξίαν τὴν ἀ ρ ε τ ή ν , τελείαν μὲν ἐκείνην ἀτελῆ δὲ ταύτην.
Filolao definisce il fuoco in mezzo attorno al centro «focolare del tutto
[dell'universo]» e «casa di Zeus» e «madre degli dei», «altare» e «vincolo» e
«misura della natura»; l'altro fuoco in alto invece «l'involucro». Sostiene che
primo per natura sia quello in mezzo, intorno a cui si muovono dieci corpi
divini, primo il cielo delle stelle fisse, poi i cinque pianeti, poi il Sole,
quindi la Luna, poi la Terra, poi l'Antiterra; dopo queste cose il fuoco del
focolare, che risiede intorno al centro. Chiama la parte più alta
dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli elementi, «Olimpo»;
quella che porta sotto l'Olimpo, in cui sono collocati i 5 pianeti con il Sole
e la Luna, «cosmo»; dopo queste, poi, la parte sublunare e circumterrestre,
entro cui sono le cose della generazione mutevole, «cielo». E intorno alla
disposizione delle cose celesti verte la sapienza, intorno al disordine delle
cose in divenire verte la virtù: quella perfetta, questa imperfetta (Aëtius; DK
44 A16). È probabile che alcuni particolari delle concezioni pitagoriche siano
stati utilizzati per ricostruire a posteriori il quadro del cosmo parmenideo,
sempre che quegli elementi non fossero sullo sfondo della stessa elaborazione
eleatica, almeno come tratti consolidati di una tradizione. Aëtius (che si
appoggia alla lezione di Teofrasto) riferisce come anche Filolao definisse ὄλυμπος
«la parte più alta dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli
elementi», distribuendo poi gli astri in due regioni – κόσμος e οὐρανός –
compatibilmente con la rappresentazione parmenidea. La citazione filolaica
sottolinea la preoccupazione per la struttura sferica, che potrebbe riflettersi
nell’insistenza delle testimonianze sul modello arcaico delle «corone»,
probabilmente di matrice anassimandrea, in Parmenide: al pensatore di Mileto
punta anche l'argomento per la centralità della Terra, precoce applicazione del
principio di ragion sufficien- 567 te, impiegato da Parmenide anche in sede
ontologica, nella sezione sulla Verità (vv. B8.9 ss.): Π., Δημόκριτος διὰ τὸ
πανταχόθεν ἴσον ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν
δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν· Parmenide e Democrito sostengono che
la Terra, essendo a uguale distanza da tutte le parti, rimanga in equilibrio,
non avendo causa per cui debba inclinare da una parte piuttosto che dall'altra
(Aëtius; DK 28 A44). L'accostamento alla posteriore cosmologia (e cosmogonia)
filolaica - in cui si depositava e sistemava plausibilmente la primitiva lezione
pitagorica - è utile, tuttavia, soprattutto nella determinazione del ruolo
cosmico della δαίμων parmenidea. Simplicio, nelle due citazioni che
costituiscono B12, sembra interessato a rilevare come Parmenide postulasse
nella sua fisica una potenza distinta dalla forma Fuoco come «causa efficiente»
(ποιητικὸν αἴτιον): «la dea che governa tutte le cose». Secondo Coxon24, il
rilievo del commentatore sarebbe stato diretto contro il modello interpretativo
della doxa proposto da Alessandro sulla scorta di Teofrasto, secondo il quale
al Fuoco spettava il ruolo di ποιητικὸν αἴτιον e alla terra (Notte) quello di ὕλη:
καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην
καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν Egli pone la causa efficiente
una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione.
D'altra parte in B12 leggiamo che: ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ al
centro di queste [corone] la Dea che tutte le cose governa, 24 Op. cit., p.
234. 568 e Aëtius sottolinea come: τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν
> τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα
κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste
[di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di
movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa
e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità, mentre Plutarco, citando B13,
osserva: διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν Ἔρωτα τῶν Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς ἔργων πρεσβύτατον
ἐν τῆι κοσμογονίαι γράφων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν . . . π ά ν τ ω ν ’ «perciò
Parmenide mostra Eros come la prima delle opere di Afrodite scrivendo nella
cosmogonia [B13]». Le testimonianze e i frammenti superstiti consentono di
affermare che effettivamente Parmenide attribuiva alla δαίμων una funzione
cosmogonica (πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει, «di tutte le cose
ella sovrintende all'odioso parto e all’unione» B12.4). Evidentemente aperta è
invece la questione della sua collocazione cosmologica e della sua
identificazione. La dislocazione cosmica della δαίμων L'indicazione di Plutarco
è un punto di partenza: oggi si è infatti convinti che Plutarco non solo avesse
accesso a una copia del poema di Parmenide, ma potesse attingere a una versione
attendibile25. Il passo propone di fatto l'identificazione della δαίμων con
Afrodite: Simplicio sottolinea come la dea sia «causa efficiente 25 Su questo
punto è molto importante la messa a fuoco di Passa, op. cit, pp. 27- 28. 569
non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che
concorrono alla generazione» (ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι
γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων); Plutarco fa di
Afrodite la generatrice di Eros e dunque nomina la δαίμων. Ovviamente non
possiamo stabilire se l'identificazione fosse per lui scontata o solo una
speculazione ovvero riscontrata invece nel testo, ma la precisazione: «nella
cosmogonia» (ἐν τῆι κοσμογονίαι) - sembra avvalorare l'ultima possibilità. In
ogni caso, nella misura in cui B12 assegna alla δαίμων il governo di tutto, B13
sembra suggerire che ciò avvenga attraverso la generazione di Eros e il
controllo dell'accoppiamento26 . D'altra parte, poiché la testimonianza di
Aëtius colloca la dea al centro degli anelli misti di Notte e Fuoco,
assimilandola di fatto a uno di essi, è possibile, incrociando le due
testimonianze, ipotizzare che essa coincidesse con un'entità astrale concreta,
fonte fisica dell'influenza cosmogonica, Afrodite appunto. Parmenide, il primo
a identificare Eos (Ἕως ovvero Fosforo/Φωσφόρος, la stella del mattino) e
Espero (Ἕσπερον, la stella della sera): Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν
δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι Parmenide per primo pone
nell'etere Eos, considerato da lui identico a Espero (DK 28 A40a), potrebbe
aver dato per primo il nome di Afrodite all'astro27 . Contro questa
identificazione e collocazione si pongono le informazioni che giungono dal
contesto delle citazioni di Simplicio, che chiaramente parla a favore della
centralità cosmica della δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ: in effetti, l'espressione
parmenidea - ἐν δὲ μέσῳ τούτων - con cui essa viene introdotta, è ambigua,
potendosi riferire sia al centro delle corone miste (come appare più probabile
nel contesto) sia al centro dell'universo. Difficile pensare, tuttavia, che il
commentatore, che certamente disponeva di una 26 Cerri, op. cit., pp. 267-268.
27 Ibidem. 570 copia del poema, potesse fraintenderne il testo su questo punto;
né la sua indicazione contraddice quella di Plutarco, il quale si limita a
identificare la δαίμων come Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς . La testimonianza di Anatolio di
Laodicea è dello stesso tenore, marcando in particolare la continuità con le
cosmologie e cosmogonie pitagoriche: la «natura monadica» (τὴν μοναδικὴν φύσιν)
è posta da Parmenide (ed Empedocle) al centro (ἐν μέσωι) «al modo di un
focolare» (ἑστίας τρόπον). I riscontri delle citazioni di Filolao e delle
relative testimonianze confermano che nella tradizione pitagorica del V secolo
«il fuoco in mezzo attorno al centro» (πῦρ ἐν μέσωι περὶ τὸ κέντρον) coincideva
con il divino «focolare del tutto» (ἑστίαν τοῦ παντὸς), ovvero «dimora di Zeus»
(Δ ι ὸ ς ο ἶ κ ο ν ) o «madre degli dei» (μ η τ έ ρ α θ ε ῶ ν ), connotazione
che ritorna anche negli Inni orfici: [Ἑστία] ἣ μέσον οἶκον ἔχεις πυρὸς ἀενάοιο
Hestia [...] che hai dimora al centro del fuoco eterno (Orphica, Hymnii 84.1-2)
ἐκ σέο [Ἑστία] δ’ ἀθανάτων τε γένος θνητῶν τ’ ἐλοχεύθη, da te [Hestia] ebbe
nascita la stirpe degli immortali e dei mortali (Orphica, Hymnii 27.7)28 , e
che ritroviamo nel contesto simpliciano della citazione di B13: ταύτην [δαίμων ἣ
πάντα κυϐερνᾷ] καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων [B13] la [dea che tutto
governa] considera causa anche degli dei, affermando [B13]. La collocazione
della δαίμων al centro del sistema cosmico, le possibili convergenze con il
pitagorismo del V secolo sul motivo della Hestia divina, potrebbero avvalorare
il modello cosmologico 28 F. Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit.,
pp. 104-5. 571 proposto da Diels, per cui il nucleo centrale dell'universo
risulterebbe una sfera di puro Fuoco, circondata dalla superficie terrestre
(sfera di pura Notte). Coxon29, rilevando le difficoltà implicite nelle
testimonianze di Aëtius e Simplicio, ha sostenuto, sulla scorta di Cicerone
(A37), una diversa soluzione circa natura e collocazione della divinità. Come
abbiamo già riscontrato, in Cicerone, infatti, la dea appare come «una sfera di
fuoco e di luce che avvolge il cielo»: coronae simile efficit (στεφάνην
appellat), continentem ardorum < et > lucis orbem qui cingit caelum, quem
appellat deum immagina una corona (egli la chiama στεφάνην), cioè una sfera di
fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli denomina dio; incrociando il dato
cosmologico con quello fornito da Aëtius: περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος
ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ
περίγεια. L'etere poi tutto avvolge dall'esterno [dalla posizione superiore] e
al di sotto di esso è posto proprio l'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo
(Aëtius; DK 28 A37), si potrebbe concludere – come abbiamo visto - che l'orbis
lucis (secondo Cicerone, indicata da Parmenide come «dio»), la «corona» ignea e
luminosa che abbraccia il cielo, coincida con l'αἰθήρ di Aëtius, che avvolge οὐρανόν.
Questa identificazione sarebbe compatibile sia con la tradizione peripatetica
(che attribuiva al fuoco il ruolo di principio efficiente), sia con i dati
relativi alla tradizione ionica: ἅπαντα γὰρ ἢ ἀρχὴ ἢ ἐξ ἀρχῆς, τοῦ δὲ ἀπείρου οὐκ
ἔστιν ἀρχή· εἴη γὰρ ἂν αὐτοῦ πέρας. ἔτι δὲ καὶ ἀγένητον καὶ ἄφθαρτον ὡς ἀρχή
τις οὖσα· τό τε γὰρ 29 Op. cit., pp.239 ss.. 572 γενόμενον ἀνάγκη τέλος λαβεῖν,
καὶ τελευτὴ πάσης ἐστὶ φθορᾶς. διὸ καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν
ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν, ὥς φασιν ὅσοι μὴ
ποιοῦσι παρὰ τὸ ἄπειρον ἄλλας αἰτίας οἶον νοῦν ἢ φιλίαν. καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον·
ἀ θ ά ν α τ ο ν γὰρ καὶ ἀ ν ώ λ ε θ ρ ο ν , ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι
τῶν φυσιολόγων Ogni cosa, in effetti, è o principio o [deriva] da principio;
dell'apeiron però non v'è principio, dal momento che vi sarebbe un limite di
esso [apeiron]. E ancora, esso è ingenerato e incorruttibile, in quanto è un
principio: è necessario, infatti, che ciò che è generato abbia una fine, e vi è
un termine finale di ogni corruzione. Proprio per questo motivo diciamo che di
esso [principio] non vi sia principio, ma che sembra essere esso stesso
principio di tutte le altre cose, e comprenderle [abbracciarle] tutte e tutte
governarle, come affermano quanti non pongono oltre all'infinito altre cause,
per esempio Intelligenza o Amore. E questo è il divino: è infatti senza morte e
senza distruzione, come sostengono Anassimandro e la maggioranza degli studiosi
della natura. (Aristotele; DK 12 A15) Ἀ. Εὐρυστράτου Μιλήσιος ἀρχὴν τῶν ὄντων ἀέρα
ἀπεφήνατο· ἐκ γὰρ τούτου πάντα γίγνεσθαι καὶ εἰς αὐτὸν πάλιν ἀναλύεσθαι. 'οἶον ἡ
ψυχή, φησίν, ἡ ἡμετέρα ἀὴρ οὖσα συγκρατεῖ ἡμᾶς, καὶ ὅλον τὸν κόσμον πνεῦμα καὶ ἀὴρ
περιέχει' (λέγεται δὲ συνωνύμως ἀὴρ καὶ πνεῦμα). Anassimene, figlio di
Euristrato, milesio, affermò che principio delle cose è l'aria: da essa tutto
si genera e in essa di nuovo si risolve. Dice: «come la nostra anima, che è
aria, ci governa, così soffio e aria abbracciano l'interno universo» (aria e
soffio sono utilizzati come sinonimi) (Aëtius; DK 13 B2) εἶναι γὰρ ἓν τὸ σοφόν,
ἐπίστασθαι γνώμην, ὁτέη ἐκυβέρνησε πάντα διὰ πάντων 573 esiste una sola
sapienza: riconoscere la ragione, che governa tutto attraverso tutto (Diogene
Laerzio; DK 22 B41) [λέγει δὲ καὶ τοῦ κόσμου κρίσιν καὶ πάντων τῶν ἐν αὐτῶι διὰ
πυρὸς γίνεσθαι λέγων οὕτως] τὰ δὲ πάντα οἰακίζει Κεραυνός, τουτέστι κατευθύνει,
κεραυνὸν τὸ πῦρ λέγων τὸ αἰώνιον. λέγει δὲ καὶ φρόνιμον τοῦτο εἶναι τὸ πῦρ καὶ τῆς
διοικήσεως τῶν [ὅλων αἴτιον] [Eraclito sostiene anche che abbia luogo un
giudizio sul mondo e su tutto ciò che si trova in esso, attraverso il fuoco, in
tal modo:] il fulmine dirige il tutto, ossia [il dio] lo guida [con il
fulmine], intendendo con fulmine il fuoco eterno. Dice anche che questo fuoco è
dotato di intelligenza, e che esso è [causa] dell'ordinamento [dell'universo]
(Ippolito; DK 22 B64). Le assonanze espressive potrebbero avvalorare la
convergenza parmenidea sulle posizioni di coloro che, alle origini della
speculazione cosmologica, avevano accennato alla divinità della naturaprincipio
(καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον), assegnandole anche un compito direttivo sui processi
cosmici: «abbracciare e pilotare tutte le cose» (Anassimandro: περιέχειν ἅπαντα
καὶ πάντα κυβερνᾶν), ovvero «abbracciare l'universo» (Anassimene: ὅλον τὸν
κόσμον περιέχει), in analogia con il controllo dell'anima sulle nostre funzioni
vitali (ἡ ψυχή συγκρατεῖ ἡμᾶς). In B12.4, in effetti, ritroviamo il verbo ἄρχει,
che, come vuole Coxon30, potrebbe alludere direttamente ad Anassimandro (cui
Teofrasto riconosce il merito di aver introdotto il termine tecnico di ἀρχὴ). È
tuttavia possibile che la parmenidea δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ, da Plutarco
identificata come Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς , sia in realtà solo l'espressione mitica
della potenza generatrice cui alluderanno Empedocle e Lucrezio, il quale - ci
ricorda Ferrari31 - utilizzava espressioni analoghe a quelle del filosofo greco
(quae ... rerum naturam sola gubernas, I.21). A insistere per questa lettura è
so- 30 Ivi, p. 242. 31 Ferrari, op. cit., p. 106 nota. 574 prattutto Ruggiu32,
per il quale la δαίμων sembra essere la personificazione della stessa forza
vivificatrice (mana) presente in tutte le cose: l'impulso immanente alla
generazione (B11.3-4 ὡρμήθησαν γίγνεσθαι). Nel senso di una attribuzione ad
Afrodite della forza demiurgica è orientato anche il commentatore (IV secolo)
della teogonia (V secolo) del papiro Derveni, e conferme ulteriori si
potrebbero cogliere nel riferimento alla nascita di Eros, che potrebbe
coinvolgere il complesso sfondo delle presunte teogonie orfiche, documentate
negli Uccelli (vv. 695-9) di Aristofane. La funzione cosmo-teogonica della
δαίμων B12 allude quindi chiaramente a un processo cosmogonico e, in relazione
a esso, al ruolo direttivo (κυϐερνᾷ, ἄρχει) della δαίμων, la quale «spinge
all'unione» (πέμπουσα μιγῆν)·di «femminile» (θῆλυ) e «maschile» (ἄρσεν): ἐν δὲ
μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει
πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a
queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella
sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a
unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). Un
ruolo, come sappiamo, ben documentato nel linguaggio peripatetico di Simplicio
(contesto B12): 32 Op. cit., p. 344. 575 μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν
στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως ‘α ἱ γ ὰ ρ . . . κ υ β ε ρ ν
ᾶ ι ’. [...] καὶ ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ
καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων σαφῶς παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων· ‘α ἱ δ
’ ἐ π ὶ . . . θ η λ υ τ έ ρ ω ι ’. [...] καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν
κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ
ο ν α τίθησιν. poco dopo [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce
la causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. [...] La causa efficiente non solo
dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla
generazione, Parmenide ha esposto chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli
pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è
causa di ogni generazione, e connesso a una (probabilmente correlata) analoga
funzione teogonica: ταύτην καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν
. . . π ά ν τ ω ν ’ κτλ. καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές,
ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν φησιν. sostiene che questa stessa [la dea] sia causa anche
degli dei, dicendo [B13], e sostiene che invia le anime talora dal visibile
all'invisibile, talora in senso opposto (Simplicio; contesto B13).
L'indicazione di Simplicio suggerisce una prossimità almeno tematica tra B12 e
B13: πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν μητίσατο πάντων… Primo tra gli dei tutti ella
concepì Amore, confermata dalla testimonianza di Plutarco (contesto B13): 576
διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν τῶν Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς ἔργων πρεσβύτατον ἐν τῆι
κοσμογονίαι γράφων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν . . . π ά ν τ ω ν ’ perciò Parmenide
mostra Eros come la prima delle opere di Afrodite scrivendo nella cosmogonia
[B13]. Un'ulteriore cerniera tra i due frammenti si può cogliere nel contesto
della citazione aristotelica di B13 (Metafisica I, 4 984b23-7): ὑποπτεύσειε δ’ ἄν
τις Ἡσίοδον πρῶτον ζητῆσαι τὸ τοιοῦτον, κἂν εἴ τις ἄλλος ἔρωτα ἢ ἐπιθυμίαν ἐν
τοῖς οὖσιν ἔθηκεν ὡς ἀρχὴν οἷον καὶ Π.· οὗτος γὰρ κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς
γένεσιν ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν μ έ ν , φ η σ ί ν Ἔρωτα … π ά ν τ ω ν ’ [ B 1 3 ] Si
potrebbe sospettare che Esiodo per primo abbia ricercato una [causa] del
genere, anche se qualcun altro pose negli enti, come principio, amore o
desiderio, per esempio Parmenide. Questi, infatti, ricostruendo la genesi del
tutto, affermò: [B13]. Ancora utile, sebbene condizionata dall'esplicita
liquidazione (e incomprensione) della strategia parmenidea, è anche la
testimonianza di Cicerone (DK 28 A37): nam P. quidem commenticium quiddam:
coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et >
lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum; in quo neque figuram divinam
neque sensum quisquam suspicari potest. multaque eiusdem < modi >
monstra: quippe qui B e l l u m , qui D i s c o r d i a m , qui C u p i d i t a
t e m [B 13] ceteraque generis eiusdem ad deum revocat, quae vel morbo vel
somno vel oblivione vel vetustate delentur; eademque de sideribus, quae
reprehensa in alio iam in hoc omittantur Parmenide immagina qualcosa di
fittizio: una corona (egli la chiama στεφάνην), una sfera di fuoco e di luce
che avvolge il cielo e che egli chiama dio; in cui non si 577 può supporre ci
sia figura divina né sensibilità alcuna. Inoltre, indica moltre altre assurdità
di tale specie: riferisce infatti dio a Guerra, Discordia, Passione [B13] e
tutte le altre cose del genere, le quali sono distrutte o da malattia o dal
sonno o dall'oblio o dalla vecchiaia. Le medesime cose sono dette anche degli
astri: essendo già state criticate in altro luogo, possiamo ometterle in
questo. Quelli che abbiamo elencato sono i testi che complessivamente
autorizzano la speculazione sulla cosmo-teogonia parmenidea. Pochi gli elementi
sufficientemente certi: (i) la testimonianza di Simplicio – che pone la
funzione della δαίμων in relazione diretta con i «due elementi» (περὶ τῶν δυεῖν
στοιχείων) Fuoco e Notte – insiste decisamente sulla divinità come «causa
efficiente» (ποιητικὸν αἴτιον) «una e comune» (ἓν κοινὸν), origine di ogni
generazione (γένεσις); (ii) la sua causalità efficiente appare come impulso
alla mescolanza (πέμπουσα μιγῆν) dei due contrari: la divinità è causa comune
in quanto, attraverso la mescolanza delle δυνάμεις di Fuoco e Notte, rende
possibile quanto i mortali definiscono generazione e corruzione33; (iii) a
nascita e morte allude probabilmente Simplicio quando osserva che «[la dea]
invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto» (τὰς
ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν); allo
stesso fenomeno si riferisce Parmenide in B12.4 con l'espressione: πάντων γὰρ
στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει di tutte le cose sovrintende al doloroso parto
e all'unione. Conche (tra gli altri) si è soffermato34 sull'uso di στυγερός (da
στυγέω, «avere in orrore»), che a suo credere rivelerebbe il pessimismo di
fondo di Parmenide, portato di una Stimmung riscontrata soprattutto nella
poesia arcaica: un pessimismo proiettato nel 33 Ivi, p. 340. 34 Op. cit., pp.
225 ss.. 578 suo caso, rispetto alla poesia, dalla condizione umana al divenire
nel suo complesso; (iv) la mescolanza (μῖξις) è ulteriormente connotata come (o
almeno accostata a) una forma di unione sessuale: questo spiega probabilmente
il ruolo di Eros. Simplicio, infatti, introducendo B13, precisa che la δαίμων è
anche «causa degli dei» (θεῶν αἰτία), mentre Aristotele esplicitamente
attribuisce al concepimento di Eros una funzione cosmogonica («ricostruendo la
genesi del tutto», κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς γένεσιν); (v) a dire di
Cicerone, altre figure divine (Guerra, Discordia, Passione) dovevano cooperare
all'attività direttiva della δαίμων: evidente l'analogia con le forze
cosmogoniche di Empedocle (che, ribadiamo, potrebbe essersi ispirato
direttamente al modello parmenideo). In quella che Plutarco chiama κοσμογονία,
è possibile dunque che Parmenide impiegasse un doppio registro: l'esposizione
propriamente cosmogonica era accompagnata e intrecciata a una versione
immediatamente teogonica. Ciò è suggerito, da un lato, dall'uso, in B11.3-4,
della formula «ebbero impulso a generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), che sembra
implicare una spinta immanente, dall'interno della natura stessa del cosmo,
dall'altro, dalla attribuzione aristotelica a Eros di una funzione analoga.
Secondo Ruggiu35 l'impulso (cosmogonico) a congiungersi e mescolarsi (e quindi
il processo di costituzione delle cose) sarebbe guidato dalla potenza
immanente, da quella forza vivificatrice denominata δαίμων (o forse Ἀ φ ρ ο δ ί
τ η ς ), di cui Eros (insieme alle altre divinità cui allude Cicerone) sarebbe
espressione teogonica e cosmogonica a un tempo, nella misura in cui l'unione
sessuale rientra tipicamente nelle forme di congiunzione\mescolamento,
essenziali, nello schema parmenideo che prevedeva due principi elementari di
base, per produrre generazione e corruzione. Sarebbe, insomma, in vista
dell'«odioso parto» e dell'«unione» che la dea avrebbe «concepito»
(letteralmente «meditato, pensato») Eros36. Si può dunque osservare
ulteriormente che: 35 Op. cit., p. 340. 36 Coxon, op. cit., p. 242. 579 (vi) la
δαίμων, di cui si sottolineano, con linguaggio nautico (κυϐερνάω: pilotare,
timonare), sia il ruolo di governo, sia l'azione di dare inizio ai processi,
sembra dominarli in ultima analisi attraverso il pensiero (μητιάω: meditare,
deliberare, ma anche concepire, inventare). A dispetto del contesto e della
tradizione teogonica evocata, il poeta intenderebbe così rilevare «un rapporto
di pura filiazione concettuale»37 . 37 Cerri, op. cit., p. 273. 580 NOTTE DI
LUNA [B14-14A-15-15A] I quattro frammenti sono propriamente delle schegge del
testo del poema (B14a, per altro, normalmente non considerato frammento
autentico ma imitazione aristotelica), di difficile contestualizzazione, e il
cui valore è discusso. È significativo, in particolare, il fatto che B14 e B15
siano citati da Plutarco non per documentare il sistema astronomico di Parmenide,
ma, strumentalmente, per illustrare altre relazioni (B14) ovvero (B15) per le
implicazioni etiche (obbedienza volontaria a un superiore)1 : οὐδὲ γὰρ ὁ πῦρ μὴ
λέγων εἶναι τὸν πεπυρωμένον σίδηρον ἢ τὴν σελήνην ἥλιον, ἀλλὰ κατὰ Παρμενίδην
[B14: νυκτιφαὲς περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς] ἀναιρεῖ σιδήρου χρῆσιν ἢ
σελήνης φύσιν. nemmeno chi nega che il ferro incandescente sia fuoco o la Luna
Sole, ma come Parmenide: «di notte splendente, vagando intorno alla Terra, luce
d'altri» – elimina l'uso del ferro o la natura della Luna. τῶν ἐν οὐρανῶι
τοσούτων τὸ πλῆθος ὄντων μόνη φωτὸς ἀλλοτρίου δεομένη περίεισι κατὰ Π. αἰεὶ
παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο. Nell'abbondanza di tali entità nel cielo la
sola [Luna] va in giro bisognosa di luce altrui, secondo Parmenide. ...sempre
rivolta verso i raggi del sole. Nella tradizione è stato a essi attribuito
sostanzialmente un significato poetico e solo subordinatamente astronomico. Si
è insistito sulla costruzione ritmica2 ovvero sull'immaginario sentimentale cui
ricorre Parmenide: la Luna come donna innamorata rivolta a contemplare il
proprio amante (il Sole), illuminata dai suoi sguardi (raggi). Situazione e
immagine che Empedocle avrebbe poi puntualmente ripreso, come abbiamo segnalato
in nota al testo. 1 Coxon, op. cit., pp. 244-5. 2 Cerri, op. cit., p. 274. 581
Dai pochi versi si possono tuttavia ricavare anche interessanti indicazioni
cosmologiche: (i) la conferma della natura circolare del moto di rivoluzione
della Luna («vagante intorno alla Terra», περὶ γαῖαν ἀλώμενον); (ii) donde
l'inferenza circa la probabile sfericità della stessa, confermata dalle
testimonianze teofrastee; (iii) l'attestazione della relazione di dipendenza
della luce lunare dalla luce solare (ἀλλότριον φῶς). Su questo punto è
necessario precisare che, attraverso Aëtius, siamo informati della origine e
composizione di Luna e Sole: Π. τὸν ἥλιον καὶ τὴν σελήνην ἐκ τοῦ γαλαξίου
κύκλου ἀποκριθῆναι, τὸν μὲν ἀπὸ τοῦ ἀραιοτέρου μίγματος ὃ δὴ θερμόν, τὴν δὲ ἀπὸ
τοῦ πυκνοτέρου ὅπερ ψυχρόν. Parmenide sostiene che il Sole e la Luna si siano
formati per distacco dal cerchio della Via Lattea: il primo è costituito dalla
mescolanza più rarefatta, che è calda; l'altra dalla più densa, che è fredda
(DK 28 A43) συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος καὶ τοῦ πυρός
La luna è mescolanza di entrambi, di aria e di fuoco (DK 28 A37) Π. πυρίνην
[sc. εἶναι τὴν σελήνην]. Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc. εἶναι τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’
αὐτοῦ φωτίζεται. Θαλῆς πρῶτος ἔφη ὑπὸ τοῦ ἡλίου φωτίζεσθαι. Πυθαγόρας, Παρμ.
... ὁμοίως Parmenide sostiene [che la Luna è] di fuoco. Parmenide sostiene [che
la Luna è] simile [per grandezza] al Sole: è in effetti illuminata da esso.
Talete per primo disse che [la Luna] è illuminata dal Sole; analogamente
Pitagora, Parmenide ...... È la diversa commisurazione degli elementi base, pur
derivando Sole e Luna dalla stessa fascia celeste (la Via Lattea), a produrre,
nel caso della seconda, effetti fisici (fenomenici) più deboli 582 rispetto a
quelli del Sole (giustificandone così la dipendenza): il pallore della Luna è
connesso al fatto che il fuoco non riesce a renderla calda e quindi neppure
splendente3 . 3 Conche, op. cit., pp. 235-6. 583 IL CORPO E IL PENSIERO [B16]
Frammento di interpretazione estremamente controversa, B16 costituisce
effettivamente una sfida per il traduttore: accanto ai problemi di
determinazione del testo all'interno della tradizione manoscritta, troviamo
nello specifico difficoltà per quanto concerne la sua comprensione. In assenza
del contesto immediato, infatti, la costruzione sintattica non è del tutto
perspicua e univoca, e le possibili, diverse soluzioni producono per lo più
significati diversi. Incerta risulta anche la sua collocazione all'interno
della struttura del poema. Prevalente è l'orientamento di Diels, che considerò
i versi come appartenenti alla sezione sulla Doxa, ma non sono mancate - in
passato e tra gli studiosi contemporanei (Mourelatos, Robinson, Stemich,
Ferrari) – le proposte di assegnarlo alla sezione sulla Verità, analogamente a
B4: per gli uni il frammento esprimerebbe una concezione soggettivistica del
comune pensare umano, costantemente condizionato dalla situazione fisiologica
dell'individuo pensante; per gli altri, invece, esso affermerebbe la stretta
relazione tra pensiero e realtà. L'esame del contesto delle citazioni può
aiutare a comprendere il senso dei versi parmenidei e a decidere del suo
posizionamento nell'opera. Il contesto peripatetico Abbiamo di B16 due
citazioni integrali peripatetiche - in Aristotele (Metafisica IV, 5 1009 b21) e
Teofrasto (De sensu 3) – e due parafrasi – Alessandro di Afrodisia e Asclepio
nei loro commenti al testo aristotelico. Aristotele Aristotele cita il
frammento all'interno di una disamina critica delle dottrine relativistiche di
stampo protagoreo (tutte le opinioni sarebbero egualmente vere ed egualmente
false), che lo Stagirita 584 fa derivare dalla combinazione di un assunto
teorico di fondo e di due assunti specifici. Per quanto riguarda il primo, lo
scenario entro cui il filosofo posiziona gli autori citati, egli osserva (a più
riprese): ἡ περὶ τὰ φαινόμενα ἀλήθεια ἐνίοις ἐκ τῶν αἰσθητῶν ἐλήλυθεν la verità
circa le cose che appaiono ad alcuni è derivata dalle cose sensibili
(Metafisica IV, 5 1009 b1) αἴτιον δὲ τῆς δόξης τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν
ἀλήθειαν ἐσκόπουν, τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι τὰ αἰσθητὰ μόνον causa di questa
convinzione per costoro è che essi ricercavano sì la verità intorno agli enti,
ma supponendo che gli enti fossero solo quelli sensibili (1010 a1-3). Il
discorso aristotelico che coinvolge anche Parmenide verte, dunque, in generale,
su una ontologia "materialistica" e sulla conoscenza associata
all'esperienza sensibile. Le assunzioni specifiche riguardano invece la
sensazione (αἴσθησις): essa è intesa come (i) pensiero (φρόνησις), ovvero (ii)
processo di alterazione fisica (ἀλλοίωσις). La citazione di B16 avviene appunto
in questo contesto: ὅλως δὲ διὰ τὸ ὑπολαμβάνειν φρόνησιν μὲν τὴν αἴσθησιν,
ταύτην δ’ εἶναι ἀλλοίωσιν, τὸ φαινόμενον κατὰ τὴν αἴσθησιν ἐξ ἀνάγκης ἀληθὲς εἶναί
φασιν· ἐκ τούτων γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος καὶ τῶν ἄλλων ὡς ἔπος εἰπεῖν
ἕκαστος τοιαύταις δόξαις γεγένηνται ἔνοχοι. καὶ γὰρ Ἐμπεδοκλῆς μεταβάλλοντας τὴν
ἕξιν μεταβάλλειν φησὶ τὴν φρόνησιν· “πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἐναύξεται ἀνθρώποισιν.”
καὶ ἐν ἑτέροις δὲ λέγει ὅτι “ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν, τόσον ἄρ'
σφισιν αἰεὶ | καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο”. καὶ Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται τὸν
αὐτὸν τρόπον·[B16] 585 Generalmente, poiché pensano che la sensazione sia
pensiero e che sia una alterazione, sostengono che ciò che appare secondo la
sensazione di necessità sia vero. È partendo in vero da queste considerazioni
che Empedocle, Democrito e, per così dire, ciascuno degli altri [naturalisti]
si sono ritrovati soggetti a tali opinioni. Empedocle, infatti, afferma che, mutando
la condizione, muti il pensiero: «in relazione alla situazione presente, in
vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove dice che: «per quanto mutano
diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose
diverse». Anche Parmenide si esprime nello stesso modo: [B16]. È interessante
notare come Aristotele interpreti Empedocle: Empedocle, infatti, afferma che,
mutando la condizione (μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν), muti il pensiero (μεταβάλλειν τὴν
φρόνησιν), prima di citarlo (due volte), facendo corrispondere ἕξις e φρόνησις,
come, a suo dire, Parmenide avrebbe fatto nei suoi versi: καὶ Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται
τὸν αὐτὸν τρόπον anche Parmenide si esprime nello stesso modo. In effetti i
primi due versi del frammento parmenideo sono costruiti sulla connessione ὡς....
τὼς: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχει 1 κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι
παρίσταται2 come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra
molto vaganti, 1 È questa la forma verbale prevalente nei codici: nello
stabilire il testo abbiamo accolto tuttavia la lectio difficilior ἔχῃ
(congiuntivo). 2 Nella versione greca del frammento abbiamo accolto la versione
παρέστηκεν dei codici di Teofrasto. 586 così il pensiero si presenta agli
uomini, così che la citazione, nel contesto del discorso aristotelico,
suggerisce di riscontrare la correlazione precedente (ἕξιςφρόνησις): si è
spinti, insomma a leggere l'espressione ἔχει κρᾶσιν μελέων come corrispettivo
di ἕξις, e νόος come corrispettivo di φρόνησις. A ciò va aggiunto che la seconda
citazione empedoclea: ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν, τόσον ἄρ' σφισιν αἰεὶ
καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο per quanto mutano diventando diversi, di tanto
sempre a loro si presenta il pensare cose diverse, richiama, nella
formulazione, a sua volta i primi due versi parmenidei, in particolare per
l'espressione νόος ἀνθρώποισι παρίσταται, in cui il comune verbo παρίστημι è
riferito in un caso a τὸ φρονεῖν nell'altro a νόος. Indubbiamente, anche
evitando il commento diretto, Aristotele imponeva di fatto le coordinate di
lettura di B16. Al medesimo nodo teorico, lo stesso Aristotele si richiama
ancora in De Anima: Ἐπεὶ δὲ δύο διαφοραῖς ὁρίζονται μάλιστα τὴν ψυχήν, κινήσει
τε τῇ κατὰ τόπον καὶ τῷ νοεῖν καὶ φρονεῖν καὶ αἰσθάνεσθαι, δοκεῖ δὲ καὶ τὸ νοεῖν
καὶ τὸ φρονεῖν ὥσπερ αἰσθάνεσθαί τι εἶναι (ἐν ἀμφοτέροις γὰρ τούτοις κρίνει τι ἡ
ψυχὴ καὶ γνωρίζει τῶν ὄντων), καὶ οἵ γε ἀρχαῖοι τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι
ταὐτὸν εἶναί φασιν—ὥσπερ καὶ Ἐμπεδοκλῆς εἴρηκε ‘πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἀέξεται ἀνθρώποισιν’
καὶ ἐν ἄλλοις ‘ὅθεν σφίσιν αἰεὶ καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίσταται’, τὸ δ’ αὐτὸ
τούτοις βούλεται καὶ τὸ Ὁμήρου ‘τοῖος γὰρ νόος ἐστίν’, πάντες γὰρ οὗτοι τὸ νοεῖν
σωματικὸν ὥσπερ τὸ αἰσθάνεσθαι ὑπολαμβάνουσιν, καὶ αἰσθάνεσθαί τε καὶ φρονεῖν τῷ
ὁμοίῳ τὸ ὅμοιον, ὥσπερ καὶ ἐν τοῖς κατ’ ἀρχὰς λόγοις διωρίσαμεν 587 L'anima è
per lo più definita in base a due elementi: il movimento locale e il pensare,
il riflettere e il sentire. Sembra che il pensare e il riflettere siano
qualcosa come il sentire (in entrambi i casi, infatti, l'anima discrimina e
conosce qualcosa degli enti), e del resto gli antichi sostengono che il pensare
e il sentire siano la stessa cosa. Così Empedocle affermò: «in relazione alla
situazione presente, in vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove: «per quanto
mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose
diverse». La stessa cosa intende l'affermazione di Omero: «tale è infatti la
mente». Tutti costoro, in effetti, sostengono che il pensare sia qualcosa di
corporeo come il sentire, e che sentire e pensare siano del simile attraverso
il simile, come abbiamo detto inizialmente nel nostro discorso (De Anima III, 3
427 a17-29). Benché non evocato direttamente, Parmenide rimane coinvolto
doppiamente: perché l'equazione aristotelica tra «pensare» e
«percepire/sentire» (τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι) è genericamente rivolta
agli «antichi» (οἵ ἀρχαῖοι), analogamente alla connotazione conclusiva del
pensare come «qualcosa di corporeo come il sentire» (τὸ νοεῖν σωματικὸν ὥσπερ τὸ
αἰσθάνεσθαι), attribuita a «tutti costoro» (πάντες οὗτοι, cioè, ancora, «gli
antichi»). Significativi il costante riferimento a Empedocle e la citazione
omerica (in Metafisica IV, 5 1009 b28-30 si evocava Iliade XXIII, 698), di cui
molti studiosi ritrovano eco in B16: τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων,
οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che
vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei
(Odissea XVIII, 136-7). Il testo di Omero, in effetti, intende marcare la
costitutiva debolezza della comprensione umana e la sua totale dipendenza
dall'operare divino. Esso riflette un punto di vista che circolava nella poesia
arcaica: il νόος dell'uomo come ἀμήχανος (impotente) rispetto a quello divino.
Possiamo rintracciare lo stesso motivo in 588 Archiloco (fr. 68.1-2 Diehl),
Simonide (fr. 1.1-5) e Teognide (vv. 1171-4). Teofrasto Secondo Coxon3 ,
Teofrasto avrebbe avuto chiaramente presenti l'argomento e la citazione del
maestro, pur utilizzando il frammento per motivi diversi e ricavandolo da un
testo indipendente: non si comprenderebbe altrimenti su quali basi B16
troverebbe collocazione all'interno di una riflessione περὶ αἰσθήσεως (De
Sensu) e come potrebbe riferirsi al dibattito sull'origine della sensazione
(dal simile o dai contrari), se non appunto per la precedente (incrociata)
lettura aristotelica: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν·
οἱ μὲν γὰρ τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ
Πλάτων τῶι ὁμοίωι, οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι. (3) Π. μὲν
γὰρ ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν ἀλλὰ μόνον, ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον
ἐστὶν ἡ γνῶσις. ἐὰν γὰρ ὑπεραίρηι τὸ θερμὸν ἢ τὸ ψυχρόν, ἄλλην γίνεσθαι τὴν
διάνοιαν, βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν τὴν διὰ τὸ θερμόν· οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ ταύτην
δεῖσθαί τινος συμμετρίας· ‘ὡς γὰρ ἑ κ ά σ τ ο τ ε , φησίν, ἔ χ ε ι . . . ν ό η
μ α ’ (B 16). τὸ γὰρ αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ λέγει· διὸ καὶ τὴν
μνήμην καὶ τὴν λήθην ἀπὸ τούτων γίνεσθαι διὰ τῆς κράσεως· ἂν δ’ ἰσάζωσι τῆι
μίξει, πότερον ἔσται φρονεῖν ἢ οὔ, καὶ τίς ἡ διάθεσις, οὐδὲν ἔτι διώρικεν. ὅτι
δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν νεκρὸν
φωτὸς μὲν καὶ θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν ἔκλειψιν τοῦ πυρός,
ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι. καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν
τινὰ γνῶσιν. οὕτω μὲν οὖν αὐτὸς ἔοικεν ἀποτέμνεσθαι τῆι φάσει τὰ συμβαίνοντα
δυσχερῆ διὰ τὴν ὑπόληψιν. 3 Op. cit., p. 247. 589 Riguardo alla sensazione le
opinioni più numerose e diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile,
gli altri dal contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci
di Anassagora e Eraclito dal contrario... Parmenide, in effetti, nell’insieme
non ha precisato alcunché, ma solo che, essendo due gli elementi, la conoscenza
si produce secondo l'elemento che prevale: qualora infatti prevalga il caldo o
il freddo, il pensiero cambia [diventa altro], ma migliore e più puro è
comunque quello secondo il caldo. Anche questo, tuttavia, richiede una certa
proporzione. [citazione B16]. Parla del percepire e del pensare come della
stessa cosa: perciò anche la memoria e l'oblio derivano da queste cose
attraverso la mescolanza. Non precisa ulteriormente invece circa l'eventualità
che gli elementi siano equivalenti nella mistione: se ci sarà pensiero o no, e
quale la sua costituzione. Che egli faccia dipendere la percezione anche dal
contrario in sé considerato [cioè dal freddo], è evidente laddove afferma che
il morto non percepisce né luce, né caldo, né suono, per la perdita del fuoco,
ma che percepisce freddo, silenzio e i contrari. Nel complesso sostiene che
tutto l'essere abbia una qualche capacità conoscitiva. Così, dunque, egli
sembra eliminare in apparenza le difficoltà che derivano dalla sua teoria. A
differenza della discussione aristotelica dei presunti presupposti ontologici
materialistici e del conseguente sensismo soggettivistico di marca protagorea,
il contesto teofrasteo è quello di un'analisi decisamente gnoseologica. Dobbiamo
tuttavia trattenerci dall'intendere il frammento in chiave di gnoseologia
generale4 : né Aristotele né Teofrasto utilizzano i termini parmenidei νόος e
νόημα, limitandosi a correlare τὸ αἰσθάνεσθαι e τὸ φρονεῖν ovvero i derivati αἴσθησις
e φρόνησις. È possibile, dunque, che nessuno dei due intendesse realmente
attribuire a Parmenide la riduzione della conoscenza a percezione5 ,
riferendosi entrambi piuttosto alla sua teoria della conoscenza del mondo
sensibile. 4 Cerri, op. cit., pp. 277-8. 5 Coxon, op. cit., p. 251. 590 In ogni
caso, Teofrasto introduce il riferimento a Parmenide all'interno dell'esame
delle due opinioni prevalenti (secondo lo schema delle testimonianze
aristoteliche che doveva già risultare condizionante6 ): la prima novità
rispetto all'indicazione del maestro, infatti, interviene proprio su questo
punto: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν· οἱ μὲν γὰρ
τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Πλάτων τῶι ὁμοίωι,
οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι Riguardo alla sensazione le
opinioni più numerose e diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile,
gli altri dal contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci
di Anassagora e Eraclito dal contrario. Parmenide viene classificato tra i
sostenitori della derivazione della percezione dall'azione del simile sul
simile, sebbene all'inizio della trattazione specifica Teofrasto segnali come:
Π. μὲν γὰρ ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν Parmenide, in effetti, nell’insieme non ha precisato
alcunché [...]. La seconda novità della testimonianza teofrastea è che,
immediatamente di seguito, essa valorizza un particolare trascurato da
Aristotele: ἀλλὰ μόνον, ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ
γνῶσις [...] ma solo che, essendo due gli elementi, la conoscenza si produce
secondo l'elemento che prevale. Si tratta probabilmente di un riferimento
proprio alla conclusione di B16: 6 Su questo B. Cassin-M. Narcy,
"Parménide sophiste. La citation aristotélicienne du fr. XVI", in Études
sur Parménide, cit., vol. II, p. 281. 591 τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα ciò che
prevale, infatti, è il pensiero. Dal punto di vista di Teofrasto è questa la
peculiarità del contributo parmenideo in campo conoscitivo: il principio della
dipendenza del pensiero dall'elemento che prevale nella mescolanza. Il terzo
rilievo interessante della testimonianza è quello conclusivo: καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ
ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν Nel complesso [sostiene] anche che tutto l'essere abbia
una qualche capacità conoscitiva. La convinzione espressa potrebbe discendere
dai fondamenti della "fisica" parmenidea: i due costitutivi
"materiali" (Fuoco e Notte) presenti in tutte le cose hanno
«proprietà» (δυνάμεις) per cui funzionano anche come principi di movimento e conoscenza.
Possiamo così riassumere le preziose informazioni teofrastee sulle concezioni
gnoseologiche di Parmenide: (i) due sono gli elementi coinvolti nella
conoscenza (γνῶσις): «il caldo» (τὸ θερμὸν) e «il freddo» (τὸ ψυχρόν); (ii)
essa si produce con il prevalere di uno dei due (κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις):
a seconda della preponderanza, «il pensiero cambia [diventa altro]» (ἄλλην
γίνεσθαι τὴν διάνοιαν); (iii) il pensiero (διάνοια) qualitativamente migliore
(βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν) è «quello secondo il caldo» (τὴν διὰ τὸ θερμόν);
(iv) «una certa proporzione [degli elementi]» è tuttavia sempre implicata (δεῖσθαί
τινος συμμετρίας); (v) percepire e pensare sono considerati la stessa cosa (τὸ
αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ); (vi) la percezione è del simile attraverso
il simile (evidentemente Teofrasto ha presente una parte del poema per noi
perduta): ὅτι δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς
φησι τὸν νεκρὸν φωτὸς μὲν καὶ θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν 592 ἔκλειψιν
τοῦ πυρός, ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι Che egli faccia
dipendere la percezione anche dal contrario in sé considerato [cioè dal
freddo], è evidente laddove afferma che il morto non percepisce né luce, né
caldo, né suono, per la perdita del fuoco, ma che percepisce freddo, silenzio e
i contrari; (vii) tutta la realtà è dotata di capacità di conoscere (καὶ ὅλως δὲ
πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν): è chiaro nel contesto, dove ripetutamente si
accenna ai due elementi, che Teofrasto riferisce questa asserzione agli enti
sensibili, al mondo fisico. Al centro dell'esposizione della dottrina
parmenidea sono comunque i punti (ii) e (iii), che giustificano la citazione di
B16: Teofrasto ritrova evidentemente nel poema il rilievo esplicito
dell'incidenza della κρᾶσις μελέων sulla qualità del pensiero, ma solo sotto il
profilo della prevalenza di uno dei due «elementi» (στοιχεία), sottolineando
invece l'assenza in Parmenide di una perspicua considerazione degli effetti
dell'eventuale loro equilibrio. L'impressione è che il frammento parmenideo sia
impiegato non tanto per sostenere una prospettiva rigorosamente conoscitiva
(non per marcare la relazione tra il pensiero e il suo oggetto), quanto
piuttosto per rimarcare la relazione psico-fisica che vi è tematizzata7 . Ricostruzione
dei vv. 1-2a I primi due versi del frammento sono di interpretazione
relativamente più agevole rispetto agli ultimi due: nonostante le divergenze
nella ricostruzione sintattica, il senso generale non cambia di molto: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’
ἔχῃ κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, 7 M. Marcinkowska-Rosół, Die Konzeption des
"Noein" bei Parmenides von Elea, De Gruyter, Berlin-New York 2010, p.
181. 593 τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν Come, in effetti, di volta in volta, si
ha temperamento di membra molto vaganti, così il pensiero si presenta agli
uomini. Come abbiamo segnalato in nota al testo, esistono varie soluzioni per
il soggetto del primo verbo (ἔχῃ) e per il suo valore (transitivo,
intransitivo). Complessivamente, tuttavia, si conferma un'indicazione fondamentale:
la condizione mentale degli uomini è correlata alla loro situazione
fisiologica. Negli esseri umani in generale (ἀνθρώποισι), alle variazioni (ὡς ἑκάστοτ’
ἔχῃ) dell'amalgama corporea (κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων), corrisponde il
manifestarsi (τὼς παρέστηκεν) del pensiero (ovvero della «mente», νόος). Come
abbiamo registrato, è quanto Aristotele rendeva con la correlazione ἕξις-φρόνησις.
Si tratta di una tesi di antropologia generale che trova indirettamente
conferma nella tradizione dossografica: δύο τε εἶναι στοιχεῖα, πῦρ καὶ γῆν, καὶ
τὸ μὲν δημιουργοῦ τάξιν ἔχειν, τὴν δὲ ὕλης. γένεσίν τε ἀνθρώπων ἐξ ἡλίου πρῶτον
γενέσθαι· αὐτὸν [?] δὲ ὑπάρχειν τὸ θερμὸν καὶ τὸ ψυχρόν, ἐξ ὧν τὰ πάντα
συνεστάναι. καὶ τὴν ψυχὴν καὶ τὸν νοῦν ταὐτὸν εἶναι, καθὰ μέμνηται καὶ
Θεόφραστος ἐν τοῖς Φυσικοῖς, πάντων σχεδὸν ἐκτιθέμενος τὰ δόγματα. Disse che
due sono gli elementi – fuoco e terra – e che l'uno ha funzione di artefice,
l'altro di materia. Disse che la generazione degli uomini deriva in primo luogo
dal Sole e che a quello [uomo] spettano come elementi il caldo e il freddo, da
cui tutte le cose sono costituite. Disse anche che l'anima e l'intelligenza
sono la stessa cosa, come ricorda anche Teofrasto nella sua Fisica, dove espone
le dottrine di quasi tutti [i filosofi] (Diogene Laerzio; DK 28A1). Parmenides
ex terra et igne [sc. animam esse]. Π. δὲ καὶ Ἵππασος πυρώδη. Π. ἐν ὅλωι τῶι
θώρακι τὸ ἡγεμονικόν. Π. καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος 594 ταὐτὸν νοῦν καὶ
ψυχήν, καθ’ οὓς οὐδὲν ἂν εἴη ζῶιον ἄλογον κυρίως Parmenide dice che l'anima è
costituita di terra e fuoco (Macrobio; DK 28 A45) Parmenide e Ippaso dicono che
l'anima è ignea. – Parmenide dice che in tutto il petto ha sede l'egemonico. –
Parmenide ed Empedocle e Democrito dicono che l'intelligenza e l'anima sono la
stessa cosa; secondo loro nessun animale sarebbe completamente senza ragione
(Aëtius; DK 28 A45). Parmenide avrebbe ricondotto rigorosamente ai suoi
principi (Fuoco e Notte, ovvero Fuoco e Terra) la natura umana, attribuendo
alla loro interazione la stessa attività percettiva e conoscitiva. In
particolare, la scelta di κρᾶσις potrebbe rivelare la vicinanza di Parmenide
alle scuole mediche (il termine ritorna in Alcmeone ed Empedocle, nonché in
Democrito): l'idea trasmessa sarebbe quella del temperamento delle componenti
in un'amalgama coesa. Nel testo, comunque, il genitivo μελέων (πολυπλάγκτων)
non si riferirebbe (se non indirettamente) agli elementi, ma immediatamente
alle «membra» corporee, secondo il costume omerico di designare il complesso
fisico con il rinvio alle parti. L'Eleate pare dunque, in primo luogo, attento
a rilevare, nella relazione psicofisica, l'interdipendenza tra disciplina delle
«membra» e condizione della mente 8 : in tal caso, il tradizionale motivo
poetico dell'instabilità ed eteronomia9 della comprensione umana risulterebbe
decisamente piegato all'esigenza di marcare non tanto una generica dipendenza
del pensiero (νόος) umano dalle circostanze esterne - come nella formula
omerica sopra ricordata (ed evocata anche da Aristotele in De Anima): τοῖος γὰρ
νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε
tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra, 8 Su questo M. Stemich,
op. cit., pp. 139-142. 9 Riprendo l'espressione da Marcinkowska-Rosół, op.
cit., p. 162. 595 quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei,
quanto il suo condizionamento da parte del mutevole equilibrio fisiologico
corporeo10 . L'attenzione di Parmenide sembrerebbe allora, in secondo luogo,
tesa a marcare proprio la mutevolezza, l'instabilità della situazione
psico-fisica, come rivelerebbe la scelta dell'avverbio ἑκάστοτε («ogni volta,
di volta in volta») e dell'aggettivo composto πολυπλάγκτων («molto vaganti, dai
molteplici movimenti, volubili»). Nel complesso, quindi, nella prospettiva
antropologica adottata nei versi in esame, non v'è dubbio che sia proposta una
concezione del pensare come attività (e del pensiero come prodotto: νόημα) che
sopravviene (anche in questo caso la scelta espressiva è indicativa:
παρέστηκεν, «si presenta») dall'esterno, dal temperamento cangiante di «membra
che molto si agitano» (μελέων πολυπλάγκτων), di cui, insomma, il soggetto non
sembra essere in controllo11 . Ricostruzione dei vv. 2b-4 Il frammento
prosegue: τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ
παντί· τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα perché è precisamente la stessa cosa ciò che
pensa negli uomini, la costituzione del [loro] corpo, in tutti e in ciascuno:
ciò che prevale, in vero, è il pensiero. 10 Ivi, p. 176. 11 Ivi, pp. 162-3. 596
Si tratta di uno dei passaggi più controversi dell'intero poema sopravvissuto.
Nella nostra ricostruzione sintattica del testo greco, la Dea, riferendosi alla
propria asserzione secondo cui la qualità del pensiero dipende dal temperamento
delle membra (vv. 1-2a), precisa dapprima come ciò accada in virtù del fatto
che «ciò che pensa negli uomini» (ὅπερ φρονέει ἀνθρώποισιν) coincide (τὸ αὐτό ἔστιν)
con «la costituzione del loro corpo» (μελέων φύσις). La soluzione
interpretativa seguita nella traduzione è, nella sostanza, quella proposta
originariamente da Diels (1897), che appare, rispetto all'insieme del
frammento, la più equilibrata, a dispetto del limite denunciato nella
tradizione critica (Fränkel, Hölscher): la costruzione richiesta, con μελέων
φύσις come apposizione (con valore esplicativo12), risulta un po' artificiosa13
. A questo chiarimento la Dea fa seguire una puntualizzazione: il pensiero
(νόημα, qui da intendere come «contenuto di pensiero») coincide con «ciò che
prevale» (τὸ πλέον). Il senso è chiarito nella testimonianza teofrastea, come
abbiamo avuto modo di registrare: ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον
ἐστὶν ἡ γνῶσις [...] essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo
l'elemento che prevale. Il lessico di Teofrasto è lessico di
"conoscenza" (γνῶσις); quello del frammento appare piuttosto lessico
di "pensiero" (νόος, νόημα): in assenza del contesto, è la
determinazione del pensiero attraverso gli equilibri fisiologici che sembra
posta al centro dell'attenzione. La Dea, secondo costume (Omero, Archiloco),
informa il κοῦρος, destinatario diretto della comunicazione, circa
l'inevitabile condizionamento del pensiero umano: in altre parole, all'interno
della complessiva illustrazione della realtà cosmica e 12 Come spiegano nel
loro contributo B. Cassin e M. Narcy (p. 290). 13 Per una aggiornata disamina
della discussione critica in merito alle possibili soluzioni nella traduzione
si veda ora Marcinkowska-Rosół, op. cit., pp. 164 ss.. 597 dei suoi processi di
formazione, ella inserisce un resoconto dei meccanismi fisiologici alla base
delle attività spirituali. In realtà, la sua è una modalità didascalica per
mettere in guardia la propria audience. Soprattutto se consideriamo che, a
differenza di quel che accadeva nella rappresentazione omerica che teneva unite
dimensione corporea e dimensione spirituale, il ricorrente impiego di νόος,
νόημα, νοεῖν (B2, B3, B4, B6, B7, B8) suggerisce, nel caso di Parmenide, una
consapevole distinzione delle nozioni di «corpo» (μέλεα) e «spirito/pensiero»
(νόος) e la conseguente valutazione delle loro implicazioni reciproche. Il κοῦρος
è stato invitato a: (i) sottrarsi al giogo della assuefazione empirica: μηδέ σ΄
ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν
καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia
violenza a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua
(B7.3-5a), (ii) tenersi lontano dalla strada per lo più battuta dai «mortali»:
una strada che disorienta, ottundendo i loro sensi e la loro comprensione della
realtà: ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται >, δίκρανοι· ἀμηχανίη
γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί
τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα da quella [via di ricerca] che appunto mortali che
nulla sanno , uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti guida la
mente errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti,
schiere scriteriate (B6.4-5a), 598 (iii) imparare attivamente, giudicando
criticamente la comunicazione della Dea: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον
Giudica invece con il ragionamento la prova polemica (B7.5b), (iv) riflettere
sulla specifica capacità di attualizzazione del pensiero: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα
νόῳ παρεόντα βεϐαίως Considera come cose assenti siano comunque al pensiero
saldamente presenti (B4.1), (v) e sulla effettiva natura del suo oggetto: τὸ γὰρ
αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere
(B3). In B16, infine, la Dea esplicitamente ricorda come il prodursi del
pensiero sia da inquadrare all'interno di un'ineludibile cornice psico-fisica:
averne cognizione e coscienza comporta, in prospettiva, potersene
avvantaggiare, garantendo al pensiero le condizioni ideali14. Potrebbe allora non
essere casuale la relazione lessicale tra «mente errante» (πλακτὸν νόον,
B6.5b-6a): ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον impotenza davvero
nei loro petti guida la mente errante, e «membra molto vaganti» (μελέων
πολυπλάγκτων, B16): ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι
παρέστηκεν come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra
molto vaganti, 14 Così la Stemich, op. cit., pp. 164-5. 599 così il pensiero si
presenta agli uomini. Forse proprio il disordine e l'agitazione del corpo,
espressi da πολυπλάγκτα μέλεα, possono spiegare la confusione che domina il
pensiero dei «mortali». Per converso, possiamo ipotizzare che ai «segni» di
stabilità e compattezza del νόημα ἀμφὶς ἀληθείης (B8) dovesse corrispondere il
miglior temperamento degli elementi corporei: nella testimonianza teofrastea
«il pensiero secondo il caldo» (διάνοια διὰ τὸ θερμόν). Forse l'illustrazione
dei meccanismi fisiologici condizionanti aveva (direttamente o indirettamente)
la specifica funzione di guidare il kouros a una loro corretta gestione:
difficile, infatti, immaginare che il νόημα ἀμφὶς ἀληθείης potesse essere
affidato a un accidentale equilibrio psico-fisico, su cui il destinatario non
avesse opportunità di controllo15 . Queste supposizioni assumono maggiore
consistenza se accettiamo i riscontri giunti dalla ricerca archeologica16, i
quali, dopo i ritrovamenti dell'ultimo mezzo secolo, fanno intravedere la
possibilità che la «scuola eleatica» fosse qualcosa di molto diverso da un «cenacolo
di filosofi razionalisti»17: probabilmente un sodalizio consacrato ad Apollo Οὔλιος
(guaritore, risanatore), dunque una scuola di medicina, istituita forse dallo
stesso Parmenide, il quale è evocato in un’iscrizione recuperata a Velia
(l'odierno sito dell'antica Elea) come Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης φυσικός
(Parmenide, figlio di Pyres, medico di Apollo Guaritore). Altre iscrizioni
recuperate nello stesso luogo confermano l'esistenza di una tradizione locale
di guaritori - apostrofati come Οὖλις ἰατρός φώλαρχος, letteralmente
«risanatore medico signore della caverna» -, che onoravano un Οὐλιάδης ἰατρόμαντις,
un medico- 15 A meno di non interpretare il discorso della Doxa, come si è
fatto tradizionalmente, come una messa in guardia nei confronti di una
elaborazione segnata strutturalmente dall'illusione e dall'inganno: abbiamo
visto, però, che ci sono motivi per credere che non fosse questa l'intenzione
del pensatore di Elea. 16 In precedenza richiamati nel commento al proemio. 17
Passa, op. cit., p. 17. 600 indovino sacerdote di Apollo, da identificare
probabilmente con lo stesso Parmenide18 . È possibile, dunque, che egli
praticasse un'arte che si collocava tra medicina e mantica vera e propria,
ricorrendo al φωλεύειν, cioè a una sorta di "incubazione", analoga
alla letargia invernale dell'animale nella tana (φωλεός). Non dovrebbe allora
sorprendere il rilievo circa la relazione psico-fisica all'interno della
esposizione della Doxa. Il medico-indovino, in effetti, diagnosticava il male
in uno stato di trance, decifrando segni e ricavandone indicazioni terapeutiche
idonee19. Nel caso dell'«incubazione», l'esperienza avveniva, dopo una adeguata
preparazione cultuale, rimanendo immobili in assoluto silenzio, in un luogo
consacrato, inaccessibile ai profani: il sonno avrebbe portato con sé il
manifestarsi del dio in sogni e visioni, che lo iatromantis poteva
interpretare. Parmenide potrebbe aver suggerito al kouros una trasformazione
della condizione psicofisica, così da garantire, attraverso il suo controllo,
la perfetta amalgama dei dati percettivi, la loro omogenea fusione nel pensare
corretto. 18 Per queste notizie Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, cit.,
pp. 55 ss.; Gemelli-Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II, pp. 42 ss.; Ferrari,
Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 141 ss.. 19 Kingsley, op. cit.,
pp. 120-7. 601 MASCHI E FEMMINE [B17 E B18] I due frammenti (B18 può essere
solo impropriamente definito tale) trattano della differenziazione dei sessi
(B17) e della trasmissione dei caratteri sessuali (somatici e psichici),
delineando un abbozzo di spiegazione embriogenetica. Non a caso sono il
risultato di citazioni scientifiche: a Galeno dobbiamo quella di B17, che
doveva corroborare la sua opinione circa l'originaria formazione del feto maschile:
τὸ μέντοι ἄρρεν ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι τῶν
παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν. ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως ἔφη Molti altri tra gli
antichi affermarono che il maschio sia concepito nella parte destra dell'utero.
Parmenide in effetti dice [B17]. Proprio l'intenzione di confermare le proprie
convinzioni biologiche e l'assenza di indicazioni che attestino il rimando
diretto al poema hanno fatto avanzare dubbi sull'attendibilità di quella che
rimane comunque una "scheggia" testuale1 . A Celio Aureliano (V
secolo?), traduttore di opere della tradizione medica greca - in particolare,
nel caso specifico, delle due parti del monumentale Περὶ ὀξέων καὶ χρονίων παθῶν
(Sulle malattie acute e croniche) di Sorano di Efeso (I-II secolo) - dobbiamo invece
la parafrasi in versi che Diels-Kranz hanno classificato come B18. La citazione
è proposta nel seguente contesto: Parmenides libris quos d e n a t u r a
scripsit, eventu inquit conceptionis molles aliquando seu subactos homines
generari. cuius quia graecum est epigramma, et hoc versibus intimabo. latinos
enim ut potui simili modo composui, ne linguarum ratio misceretur. ‘f e m i n a
. . . s e x u m ’. Parmenide, nei libri Sulla natura, afferma che, secondo le
modalità di concezione, si generano talvolta 1 Conche, op. cit., p. 258. 602
uomini molli e sottomessi. Dal momento che il suo testo greco è in versi, lo
proporrò io pure in versi: ho composto, infatti, versi latini di tenore
analogo, per quanto mi è stato possibile, per non confondere il carattere
specifico delle due lingue. [B18] [...]. Celio Aureliano mette dunque
sull'avviso: la sua non è citazione letterale, ma traduzione-rielaborazione2 ,
sebbene, come ha osservato Coxon3 , la facilità con cui si possono volgere in
greco i suoi versi latini attesta la loro fedeltà al greco (come segnalato
dalla precisazione: «ut potui simili modi»). Per mettere a fuoco il nodo cui i
passaggi del poema evocati dalle citazioni si riferivano, sono essenziali le
testimonianze di Aëtius e Censorino: Ἀναξαγόρας, Π. τὰ μὲν ἐκ τῶν δεξιῶν [sc.
Σπέρματα] καταβάλλεσθαι εἰς τὰ δεξιὰ μέρη τῆς μήτρας, τὰ δ’ ἐκ τῶν ἀριστερῶν εἰς
τὰ ἀριστερά. εἰ δ’ ἐναλλαγείη τὰ τῆς καταβολῆς, γίνεσθαι θήλεα igitur semen
unde exeat inter sapientiae professores non constat. P. enim tum ex dextris tum
e laevis partibus oriri putavit Anassagora e Parmenide sostengono che i semi
della parte destra sono gettati nella parte destra dell'utero, quelli della
sinistra nella parte sinistra. Se la fecondazione è invertita, si generano
femmine. Tra i cultori della sapienza non vi è certezza circa la provenienza
del seme [lett.: da dove esca il seme]. Parmenide, infatti, credeva che
provenisse ora dalla parte destra, ora dalla parte sinistra (28 DK A53).
Evidentemente Parmenide prendeva posizione nel confronto scientifico circa
natura e meccanismi del concepimento, e loro effetti sul sesso dell'embrione.
In particolare, la testimonianza di Aëtius interviene a integrare e correggere
l'indicazione di Galeno. Questi richiama Parmenide come uno dei primi sostenitori
della 2 Cerri, op. cit., p. 285. 3 Op. cit., p. 253 603 tesi secondo cui il
maschio sarebbe concepito nel lato destro dell'utero: tesi attribuita da
Aristotele (De generatione animalium IV, 1 763 b30 ss.) ad Anassagora e «altri
fisiologi» (ἕτεροι τῶν φυσιολόγων): φασὶ γὰρ οἱ μὲν ἐν τοῖς σπέρμασιν εἶναι
ταύτην τὴν ἐναντίωσιν εὐθύς, οἷον Ἀναξαγόρας καὶ ἕτεροι τῶν φυσιολόγων·
γίγνεσθαί τε γὰρ ἐκ τοῦ ἄρρενος τὸ σπέρμα, τὸ δὲ θῆλυ παρέχειν τὸν τόπον, καὶ εἶναι
τὸ μὲν ἄρρεν ἐκ τῶν δεξιῶν τὸ δὲ θῆλυ ἐκ τῶν ἀριστερῶν, καὶ τῆς ὑστέρας τὰ μὲν ἄρρενα
ἐν τοῖς δεξιοῖς εἶναι τὰ δὲ θήλεα ἐν τοῖς ἀριστεροῖς Alcuni sostengono che tale
opposizione si trovi già in origine nei semi, come Anassagora e altri
fisiologi. Il seme, infatti, origina dal maschio, la femmina invece fornisce il
luogo; e il maschio viene da destra, la femmina da sinistra, e i maschi si
formano nelle parti destre dell'utero, le femmine nelle parti sinistre, e
associata a quella secondo cui il carattere sessuale preesiste nel seme
(fornito esclusivamente dal genitore maschio) al concepimento: il seme che
trasmette carattere maschile proviene dalla parte destra, quello che trasmette
carattere femminile dalla sinistra. Integrando Galeno, si può fondatamente
avanzare l'ipotesi che Parmenide facesse derivare i maschi e le femmine
rispettivamente dalla parte destra e dalla parte sinistra dei genitali maschili
e femminili. La versione latina di Celio Aureliano aiuta in particolare a
chiarire la posizione di Parmenide circa il contributo al concepimento: Femina virque
simul Veneris cum germina miscent, Venis informans diverso ex sanguine virtus
Temperiem servans bene condita corpora fingit. Quando femmina e maschio
mescolano insieme i semi di Venere, la potenza formatrice nelle vene, che
[deriva] da sangue opposto, 604 conservando la giusta misura plasma corpi ben
fatti (B18.1-3). Il testo (di tenore parmenideo4 ) offre, in effetti, alcune
informazioni importanti: (i) i semi originano dal sangue (maschile e
femminile); (ii) esistono quindi due tipologie di semi, rispettivamente
maschile e femminile: essi sono opposti come il sangue da cui provengono5 («da
sangue opposto», diverso ex sanguine); (iii) i due semi, maschile e femminile,
cooperano nella riproduzione. Incrociando queste informazioni con i riferimenti
delle testimonianze e dei contesti delle citazioni, possiamo così ricostruire
la probabile posizione parmenidea sulla relazione genetica dei figli ai
genitori6 : entrambi i semi delle parti (genitali) destre generano maschi
simili ai padri; entrambi i semi delle parti sinistre generano femmine simili
alle madri; negli altri due casi (semi delle parti sinistra e destra, maschile
e femminile), maschi simili alle madri o femmine simili ai padri. Parmenide
probabilmente riteneva che dalla corretta mescolanza di seme maschile e seme
femminile dovesse scaturire un'equilibrata costituzione psico-fisica: le due
tipologie di seme, infatti, conferivano specifiche proprietà (virtutes,
δυνάμεις), che, mescolandosi i semi, erano destinate a combinarsi in un'unica
potenza formatrice (informans virtus). È quanto si ricava dal rilievo in
negativo che chiude B18: Nam si virtutes permixto semine pugnent Nec faciant
unam permixto in corpore, dirae Nascentem gemino vexabunt semine sexum. Se,
infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono e non diventano
un'unica potenza nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche 4 Conche, op.
cit., p. 262. 5 Ibidem. 6 Coxon, op. cit., p. 253. 605 affliggeranno il sesso
nascente con il [loro] duplice seme (B18.4-6), e dal commento di Celio
Aureliano alla sua citazione: vult enim seminum praeter materias esse virtutes,
quae si se ita miscuerint, ut eiusdem corporis faciant unam, congruam sexui
generent voluntatem; si autem permixto semine corporeo virtutes separatae
permanserint, utriusque veneris natos adpetentia sequatur Pretende infatti che
i semi abbiano, oltre a materia, anche virtù formatrici (virtutes), le quali se
si mescolano così da produrre dello stesso corpo una sola virtù, generano
carattere (voluntatem) conforme al sesso; nel caso in cui, invece, una volta
mescolato il seme corporeo, le virtù siano rimaste separate, deriva ai nati
desiderio di entrambi i tipi di amore. Se la misura nella opposizione dei semi
fosse stata rispettata (temperiem servans) nella loro mescolanza (permixto
semine), si sarebbe realizzata complementarità nelle loro proprietà, garantendo
così un'unione equilibrata e armoniosa (unam permixto in corpore). In caso
contrario la disarmonia si sarebbe instaurata nei corpi, producendo disagio
sessuale e psichico7 : lo sviluppo coerente della personalità sessuale
(congruam sexui voluntatem) era funzione dell'armonia dei contrari nella
costituzione dell'essere umano. Le presunte tesi biologiche di Parmenide
presentano certamente affinità con quanto attestato del pensiero del
contemporaneo Alcmeone, nella tradizione dossografica proposto come «discepolo
di Pitagora» (Diogene Laerzio; 24 DK A1). Nel frammento B4 del suo Περὶ φύσεως
leggiamo infatti: Ἀ. τῆς μὲν ὑγιείας εἶναι συνεκτικὴν τὴν ἰ σ ο ν ο μ ί α ν τῶν
δυνάμεων, ὑγροῦ, ξηροῦ, ψυχροῦ, θερμοῦ, πικροῦ, γλυκέος καὶ τῶν λοιπῶν, τὴν δ’ ἐν
αὐτοῖς μ ο ν α ρ χ ί α ν νόσου ποιητικήν· φθοροποιὸν γὰρ 7 Ivi, p. 254. 606 ἑκατέρου
μοναρχίαν. [...]. τὴν δὲ ὑγείαν τὴν σύμμετρον τῶν ποιῶν κρᾶσιν Ciò che mantiene
la salute, afferma Alcmeone, è l'equilibrio di forze: umido, secco, freddo
caldo, amaro, dolce e così via; la supremazia di una di esse, invece, è foriera
di malattia: micidiale è, in effetti, il predominio di ognuno degli opposti.
[...] La salute, invece, è mescolanza misurata delle qualità. Sono evidenti le
consonanze lessicali (δυνάμεις, κρᾶσις) ed è probabile l'accordo sulla tesi
fondamentale di Alcmeone: che la salute del corpo sia funzione della isonomia
degli elementi contrari, e la malattia espressione di uno squilibrio. Le
testimonianze accentuano le convergenze anche nello specifico: ex quo parente
seminis amplius fuit, eius sexum repraesentari dixit A. Alcmeone afferma che il
feto ha il sesso di quello, tra i genitori, il cui seme è stato più abbondante»
(Censorino; DK 24 A14). Alcmeone condivideva con Parmenide la convinzione che
entrambi i genitori contribuissero con semina (σπέρματα) al concepimento, pur
avendo sull'origine dello sperma un'opinione diversa: Ἀ. ἐγκεφάλου μέρος (sc. εἶναι
τὸ σπέρμα) Alcmeone sosteneva che [il seme fosse] parte del cervello (Aëtius;
DK 24 A13). Mentre Coxon8 nota in questo senso come Parmenide seguisse
Alcmeone, Ruggiu9 tende a rovesciare la relazione, convinto che nello specifico
l'influenza sia stata esercitata da Parmenide su Alcmeone. La questione è in
effetti complessa. È probabile che Alcmeone ricavasse le proprie opposizioni
(umido-secco, freddo-caldo, amaro-dolce ecc.) dalla più antica 8 Op. cit., p.
252. 9 Op. cit., p. 366. 607 tradizione ionica, la stessa che dovette ispirare
le tavole pitagoriche, ma anche il modello parmenideo: l'orizzonte fisico
appare ancora quello delle origini e non va dimenticato che le osservazioni
biologiche di Parmenide sono inquadrate all'interno di una complessiva
interpretazione del mondo naturale in chiave oppositiva (Fuoco-Notte). Il primo
riferimento all'unione sessuale e alla riproduzione che abbiamo registrato
nell'analisi dei frammenti (B12) le introduceva direttamente in chiave cosmica:
ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος
ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ. in mezzo
a queste la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende
all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al
maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). È possibile,
come abbiamo in precedenza argomentato, che Parmenide abbia effettivamente
elaborato il proprio sistema (διάκοσμος) misurandosi con le proposte
pitagoriche proprio sul terreno decisivo della cosmogonia e cosmologia;
probabile che ciò sia avvenuto comunque tenendo ben presenti le soluzioni
ioniche. Dal momento che le testimonianze, soprattutto i recenti rilievi
archeologici, fanno supporre uno specifico interesse medico, non deve sorprendere
la possibilità che un confronto sia intervenuto anche in ambito biologico. Il
tema dell'opposizionericomposizione degli elementi risulta per altro
ricorrente: come sottolineava Maria Timpanaro Cardini a proposito di Alcmeone:
come alla fisica ionica si ricollegava probabilmente la primitiva dualità
pitagorica ἄπειρον-πέρας [...], così da quella stessa fisica trasse
verosimilmente Alcmeone 608 alcune opposizioni [...] le cui potenze egli
constatava nella pratica della medicina10 . Su questo sfondo piuttosto sfumato
è possibile parlare di comuni obiettivi scientifici nella ricerca di Parmenide
e Alcmeone, di convergenze nei risultati, sulla scorta di paradigmi esplicativi
condivisi, forse anche pitagorici. A Crotone una fiorente scuola medica preesisteva
all'arrivo di Pitagora, a testimoniare l'autonomia dell'indagine e della
pratica medica, sebbene poi esse siano documentate anche nell'ambito della
tradizione pitagorica antica, a conferma che la medicina fu avvertita come
μάθημα essenziale11 . 10 M. Timpanaro Cardini, Pitagorici antichi.
Testimonianze e frammenti, Bompiani, Milano 2010 (edizione originale
1958-1964), pp. 134-5. 11 Ivi, p. 133. 609 B19 Il frammento B19 ci è conservato
esclusivamente da Simplicio (In Aristotelis de caelo 558), in un contesto
particolare (557-8), in cui si susseguono in poche righe tre citazioni del
poema parmenideo (B1.28-32, B8.50-53 e appunto B19): οἱ δὲ ἄνδρες ἐκεῖνοι διττὴν
ὑπόστασιν ὑπετίθεντο, τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου
τοῦ αἰσθητοῦ, ὅπερ οὐκ ἠξίουν καλεῖν ὂν ἁπλῶς, ἀλλὰ δοκοῦν ὄν· διὸ περὶ τὸ ὂν ἀλήθειαν
εἶναί φησι, περὶ δὲ τὸ γινόμενον δόξαν. λέγει γοῦν ὁ Παρμενίδης [B1.28-32]. ἀλλὰ
καὶ συμπληρώσας τὸν περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγον καὶ μέλλων περὶ τῶν αἰσθητῶν
διδάσκειν ἐπήγαγεν [B8.50-53]. παραδοὺς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐπήγαγε
πάλιν [B19]. πῶς οὖν τὰ αἰσθητὰ μόνον εἶναι Παρμενίδης ὑπελάμβανεν ὁ περὶ τοῦ
νοητοῦ τοιαῦτα φιλοσοφήσας, ἅπερ νῦν περιττόν ἐστι παραγράφειν; πῶς δὲ τὰ τοῖς
νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ χωρὶς μὲν τὴν ἕνωσιν τοῦ νοητοῦ
καὶ ὄντως ὄντος παραδούς, χωρὶς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐναργῶς καὶ μηδὲ
ἀξιῶν τῷ τοῦ ὄντος ὀνόματι τὸ αἰσθητὸν καλεῖν; Quegli uomini [Parmenide,
Melisso] posero una duplice ipostasi: quella dell'essere che è veramente,
dell'intelligibile, e quella dell'essere che diviene, del sensibile, il quale
essi non ritennero opportuno chiamare essere in senso assoluto, ma essere che
appare. Per questo afferma[no] che la verità riguarda l'essere, l'opinione il
divenire. Parmenide, infatti, dice: [B1.28-32]. Ma anche una volta completato
il ragionamento intorno all'essere che è veramente, e sul punto di introdurre
[la trattazione sul]l'ordinamento delle cose sensibili, aggiunse: [B8.50- 53].
Dopo aver fornito esposizione sistematica delle cose sensibili, aggiunse
ancora: [B19]. Ma come ha potuto Parmenide supporre esistessero solo le cose
sensibili, lui che intorno alle cose intelligibili era stato in grado di
condurre riflessioni di tale consistenza e mole da non 610 poter ora essere
riportate qui? Come ha potuto trasferire le caratteristiche proprie delle cose
intelligibili alle cose sensibili, lui che con chiarezza distingue tra l'unità
dell'intelligibile e del vero essere e l'ordinamento delle cose sensibili e non
ritiene opportuno indicare il sensibile con il nome di essere? Riflettendo
sulle indicazioni qui fornite da Simplicio, e incrociandole con le sue stesse
citazioni, dovremmo concludere che: (i) il poema si articolava in due sezioni
principali, per le quali il commentatore trova conferma in B1.28b-32; (ii) il
passaggio tra le due sezioni avviene ai vv. B8.50-53; (iii) il nostro B19 era
apposto a compimento di quella che il commentatore designa come διακόσμησις τῶν
αἰσθητῶν (sulla scorta del διάκοσμος di B8.60): ciò non autorizza tuttavia la
deduzione che esso chiudesse il poema1 . Ancora sulla doxa parmenidea Il
contesto ci fornisce dunque una prospettiva d'insieme - ovviamente quella
culturalmente e teoreticamente condizionata dell'intellettuale neoplatonico del
VI secolo - sulla struttura del poema. Il proemio, in effetti, avrebbe, secondo
Simplicio, delineato nel programma espositivo della Dea (B1.28-32) due ambiti:
(i) il primo dedicato al «discorso/ragionamento sul vero essere» (περὶ τοῦ ὄντως
ὄντος λόγος), in altre parole alla «verità riguardo all'essere» (περὶ τὸ ὂν ἀλήθεια):
nel lessico della tradizione platonico-aristotelica si tratta dell'ambito
dell'«intelligibile» (τὸ νοητόν), che costituisce l'«essere in senso assoluto»
(ὂν ἁπλῶς); (ii) l'altro, relativo all'illustrazione sistematica
dell'«ordinamento sensibile» (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν, ma anche περὶ τῶν αἰσθητῶν
διδάσκειν), si riferisce all'«essere in divenire» (τὸ γινόμενον), il cui
statuto ontologico è quello di «essere che 1 Non tutti concordano su questo
punto: Conche (op. cit., p. 265), per esempio, non concede che il frammento –
naturale conclusione della cosmologia del poema – ne costituisse anche la vera
e propria chiusa. 611 appare» (δοκοῦν ὄν): Simplicio insiste sulla sua natura
«sensibile» (τὸ αἰσθητόν), dunque sul suo manifestarsi nell'esperienza. La
trattazione specifica è designata – in contrapposizione alla verità che
concerne l'essere in senso pieno - come «opinione riguardo all'essere in
divenire» (περὶ τὸ γινόμενον δόξα). È chiara, nel contesto del discorso,
l'interpretazione di Simplicio dei versi conclusivi (28b-32) del proemio: χρεὼ
δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς
οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως
εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα. La struttura effettiva del poema doveva, dopo
l'introduzione, prevedere: (i) la rivelazione circa «di Verità ben rotonda il
cuore saldo » (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ): si tratta di ciò cui allude
Simplicio con περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγος; (ii) la ricostruzione effettiva
(δοκίμως) di τὰ δοκοῦντα, delle «cose che appaiono», ovvero delle «cose
accettate nelle opinioni», che corrispondono a quanto il commentatore designa
come δοκοῦν ὄν: la rivelazione della Dea avrebbe dunque investito anche
l'ambito «sensibile», proponendo appunto una διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν. Il
contesto delle citazioni fa intravedere come, per Simplicio, l'articolazione
del Περὶ φύσεως fosse essenzialmente positiva, non prevedendo una specifica
sezione riservata all'esame degli errori umani – alle «opinioni dei mortali, in
cui non è reale credibilità» (βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής) -, che
doveva invece essere distribuito nelle altre due. Negli interrogativi retorici
che seguono la citazione di B19, troviamo conferma di una linea di lettura del
poema che, all'interno della tradizione platonica, ha per noi un importante
precedente in Plutarco: ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς
τὸ προσῆκον εἰς μὲν τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος 612 ἰδέαν τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς
ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν
προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν. ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν
ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεκ< ὲς ἦτορ >’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ
ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον, ‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ διὰ τὸ
παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι.
καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν;
οὐκ ἔστιν εἰπεῖν. [Parmenide] non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna
conferendo ciò che le è proprio, pone l'intelligibile nella classe dell'uno e
dell'essere, definendolo «essere» in quanto eterno e incorruttibile, e ancora
uno per uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile
invece in quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è
possibile vedere: «il cuore preciso della Verità ben convincente», che
raggiunge l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e «le
opinioni dei mortali in cui non è vera certezza», perché esse sono congiunte
con cose che accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze.
Come avrebbe potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il
sensibile e l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus Colotem
1114 d-e), e nella dossografia peripatetica (Teofrasto): Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’
ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν
ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν
μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν
εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν
ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. 613 Parmenide figlio di Pyres, da Elea […]
percorse entrambe le strade. Mostra, infatti, che il tutto è eterno, e cerca
anche di spiegare la generazione delle cose che sono, non avendo sulle due vie
le stesse convinzioni: piuttosto, secondo verità egli sostiene che il tutto è
uno e ingenerato e di aspetto sferico; secondo l’opinione dei molti, invece, al
fine di spiegare la generazione delle cose che appaiono, pone due principi,
fuoco e terra, l'uno come materia, l'altro invece come causa e agente (DK 28
A7). Ma chiaramente all'origine di questa valutazione delle prospettive (in
termini di contenuto e struttura) del poema parmenideo troviamo l'analisi
aristotelica: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ
ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...] ἀναγκαζόμενος
δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν
αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν
καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει
θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con
maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il
non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e
nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno
sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due
cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di
questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere
(Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1). Possiamo leggere il passo aristotelico
proprio come un tentativo di sottrarsi agli schemi della originaria ricezione
sofistica (giorgiana in particolare) del pensiero eleatico: Aristotele intende
marcare, nello specifico, l'opzione teorica di Parmenide da quella di Melisso,
il monismo «rispetto alla definizione (ovvero ragio- 614 ne)» (κατὰ τὸν λόγον)
dell'uno, da quello «rispetto alla materia» (κατὰ τὴν ὕλην) dell'altro.
Anticipando l'argomento di fondo della polemica plutarchea contro l'epicureo
Colote, lo Stagirita poteva sottolineare come «ciò che è» (τὸ ὄν) è «uno» (ἓν)
«secondo ragione» (appunto κατὰ τὸν λόγον), «molteplice» (πλείω) «secondo la
sensazione» (κατὰ τὴν αἴσθησιν). Si evitava in questo modo di fare di Parmenide
il sostenitore di un mero «uno-tutto» ovvero «essere-uno» (ἓν τὸ πᾶν, ἓν τὸ ὄν)
- formule cui era stata ridotta l'essenza della filosofia eleatica soprattutto
in alcuni dialoghi della maturità di Platone (Teeteto, Parmenide, Sofista,
Timeo) 2 – che avrebbero ridotto il mondo molteplice e cangiante
dell'esperienza a pura illusione. Come rivela il caso di Colote (e la risposta
di Plutarco), si trattava effettivamente di una ricezione diffusa,
probabilmente proprio sulla scorta dello schema gorgiano del Π ε ρ ὶ τ ο ῦ μ ὴ ὄ
ν τ ο ς ἢ Π ε ρ ὶ φ ύ σ ε ω ς . Ripercorrendo le testimonianze e valutando gli
interrogativi retorici che Simplicio faceva seguire alla propria citazione di
B19 e dunque al riferimento al complesso della doxa parmenidea, appare
giustificata una lettura "costruttiva" della seconda sezione del
poema. In Teofrasto e Simplicio – che certamente disponevano di copie diverse
del poema, trasmesse da tradizioni testuali almeno parzialmente alternative 3 -
si conferma, in particolare, la prospettiva aristotelica di un doppio resoconto
della stessa realtà4 : secondo ragione e secondo esperienza. Parmenide, in
altre parole, pur avendo coerentemente messo a fuoco i caratteri dell'oggetto
dell'intelligenza – e quindi correttamente distinto tra i due ambiti (τὴν μὲν
τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ) -, avrebbe poi
mancato di individuarne la specifica realtà intelligibile: come sottolinea Simplicio,
egli di fatto «proiettò sugli enti sensibili quanto adeguato agli enti
intelligibili» (τὰ τοῖς νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ). 2 Su
questo in particolare Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di
lingua, cit., p. 23. 3 Ivi, pp. 25 ss.. 4 Per questa linea interpretativa si
veda J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 32 ss., in
particolare pp. 38-41. 615 B19 e la doxa I tre versi del nostro frammento, poco
più di una scheggia testuale, ribadiscono sinteticamente i termini della
discussione: come abbiamo indicato in nota, la formula οὕτω τοι introduce
effettivamente la ricapitolazione del discorso sulle cose «fisiche» considerate
nel loro insieme (e ne traggono, in questo senso, la lezione «metafisica»5 ): οὕτω
τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι
τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ Ecco, in questo
modo, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in
seguito sviluppatesi, avranno fine. A queste cose, invece, un nome gli uomini
imposero, distintivo per ciascuna. Il punto di vista adottato - κατὰ δόξαν –
giustifica l'insistenza sulla dimensione temporale delle forme verbali
impiegate: ἔφυ, νυν ἔασι, τελευτήσουσι τραφέντα. Non è difficile intravedere la
corrispondente prospettiva del νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, espressa in B8.5: οὐδέ
ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν. Il rilievo del divenire passa, in
vero, attraverso scelte espressive ben ponderate: a) il passato espresso con ἔφυ
richiama etimologicamente (φύω) la centralità della φύσις (B10) nella ricerca
condotta (διάκοσμος) nella seconda sezione del poema; b) il presente connotato
avverbialmente (νυν) limpidamente evoca, per contrasto, il νῦν di B8.5,
caricandosi, rispetto all'immutabile stabilità di quel contesto, di un senso di
precarietà e sfuggente puntualità; c) lo sviluppo, il mutamento e la caducità
sono resi come τελευτήσουσι τραφέντα, marcando, insomma, il nesso tra fine e
compimento, con la ripresa di una forma verbale – τελευτάω - de- 5 Conche, op.
cit., p. 265. 616 rivata da τέλος e τελέω, ma, nuovamente, con un valore
diverso rispetto a quello di analoghi derivati in B8 (B8.4: ἀτέλεστον; B8.32: οὐκ
ἀτελεύτητον; B8.42: τετελεσμένον): il senso è qui quello di «concludersi in
quanto giunto al proprio fine e al proprio compimento»6 . Per la terza volta,
dopo B8.38b-41 e B8.53, i versi del poema insistono sullo spessore linguistico
della doxa: e ancora, come nei due precedenti, essenzialmente per rilevarne gli
effetti distorcenti. L'origine dell'erranza umana, dello sviamento che gli
uomini perpetrano e perpetuano nel linguaggio, risiede nell'ordinamento dei
contenuti fenomenici all'interno di una determinata cornice linguistica, in cui
appare implicita la possibilità di qualcosa di diverso dall'essere stesso7 .
Non a caso l'interpretazione κατὰ δόξαν parmenidea si era aperta stabilendo
principi (B9) di cui esplicitamente si escludeva la partecipazione al nulla. In
questo senso, Ruggiu8 ha colto nel linguaggio di Parmenide - in particolare in
questo passaggio - il tentativo di elaborare un lessico più vicino alla verità
delle cose; come in B4, dove l'apparire era stato proposto non nei termini
ontologici dell'«essere» e del «non-essere», ma in quelli della «presenza» e
dell'«assenza». Uno sforzo che ancora ci riporterebbe ad Aristotele, che ne
avrebbe colto alcuni aspetti nella sua polemica antieleatica: ζητοῦντες γὰρ οἱ
κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν
τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε
φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ
ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ
ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς
συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. 6 Ruggiu, op.
cit., pp. 370-1. 7 Ivi, p. 370. 8 Ivi, pp. 370-1. 617 Coloro che per primi
hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti,
dall'inesperienza furono spinti su una via diversa: essi sostengono che delle
cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò che si genera
origina o da ciò che è o da ciò che non è; ma è impossibile da entrambi i punti
di vista. Ciò che è, infatti, non si genera (dal momento che è già); né da ciò
che non è è possibile si generi alcunché: è richiesto in effetti qualcosa che
funga da sostrato [soggiacia]. Così si spinsero, aggravando le cose, ad
affermare che non esistano i molti ma che esista solo l'essere (Fisica I, 8 191
a25 ss.).
Antonio Capizzi. Keywords: Velia, la scuola di Velia. Zenone,
sono/fui, l’adolescenziale, conversazione, calogero, veliatichi, veliadi
meleagridi, pandionidi veliatico, eliadico, meleagride, pandionide. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Capizzi” – The Swimming-Pool Library.
Capocasale (Montemurro).
Filosofo. Grice: “You gotta love Capocasale; my favourite is his ‘corso
filosofico,’ which the monks rendered as ‘CVRSVS PHILOSOPHICVS,’ almost alla
Witters! Capocasale multiplies the principles of reason – I thought there was
just one – On top, he uses the trouser-word, ‘vero,’ – so he thinks he is
philosophising about the ‘vero principio della ragione,’ or its plural! In
fact, he is philosophising about conversational implicature!” Figlio di Lorenzo
e Maria Lucca, sin da ragazzino aiuta il padre nel suo mestiere di fabbro
ferraio. Nel tempo libero si dedica alla filosofia, mostrando grande attitudine
nella filosofia romana antica in particolare. Con la morte del padre, avvenuta
quando Capocasale aveva 15 anni, visse tra Corleto Perticara, Stigliano e San
Mauro Forte, procurandosi da vivere come insegnante privato, dedicandosi
contemporaneamente allo studio della filosofia e del diritto. Dopo esser stato governatore baronale di
Sarconi, incarico ottenuto appena ventenne, lasciò la Basilicata per
trasferirsi a Napoli, conseguendo la laurea in giurisprudenza. Dopo gli studi
universitari, insegnò filosofia nella scuola dallo stesso fondata a Napoli. Dal
1801 vestì l'abito talare e, dal 1804, fu nominato da Ferdinando IV precettore
di logica e di metafisica all'Napoli.
Perse tale incarico con l'arrivo di Giuseppe Bonaparte: sotto il suo
governo gli fu concessa solamente la docenza privata. Con la restaurazione,
Ferdinando IV lo nominò vescovo di Cassano nel 1816. Capocasale, tuttavia,
preferendo l'insegnamento, rinunciò alla carica, così come fece più tardi con
l'incarico di pari grado conferitogli per la diocesi di Sora-Aquino-Pontecorvo.
Sempre nell'ateneo partenopeo ebbe, dal 1818, la cattedra di diritto di natura
e delle genti: i suoi teoremi, di stampo lockiano, ebbero una certa risonanza,
tanto da essere citati da filosofi come Francesco Fiorentino, Giovanni Gentile
e Eugenio Garin. Alcuni suoi discepoli
divennero importanti personalità culturali del tempo come Francesco Iavarone,
Giustino Quadrari, Giuseppe Scorza, Gaetano Arcieri e Giuseppe Mazzarella.
Sempre fedele alla monarchia borbonica, si schierò contro le insurrezioni
carbonare del 1820. Dal 1822 fu precettore del futuro re delle Due Sicilie:
Ferdinando II. Fu inoltre membro di varie Accademie come la Parmense, la
Fiorentina, la Cosentina, l'Augusta di Perugia, Aletina e Renia di Bologna,
degli Intrepidi di Ferrara, de' Nascenti e degli Assorditi di Urbino, dei
Filoponi di Faenza. Altre opere:“Divota novena del gloriosissimo taumaturgo S.
Mauro” (Roma); “Esercizio di divozione verso il glorioso confessore S. Rocco”
(Napoli); “Cursus philosophicus” (Napoli); “Saggio di politica privata per uso
dei giovanetti ricavata dagli scritti dei più sensati pensatori” (Napoli); “Catechismo
dell'uomo e del cittadino” (Napoli); “Codice eterno ridotto in sistema secondo
i veri principi della ragione e del buon senso” (Napoli); “Saggio di fisica per
giovanetti” (Napoli); “Istituzioni elementari di matematica” (Napoli); “Corso
filosofico per uso dei giovanetti”. Dizionario
biografico degli italiani -- un filosofo lucano alla corte dei Borboni. Quoniam philosophia est scientia, quae viam ad felicitatem
sternit. Ea vero rationis solius ductu cognoscitur, ac demostrationis ope vernm
investigat. In vero autem inveniendo methodus utramque facit paginam: patet
primum philosophi studium esse debere, intellectum, sive facultatem cogitandi,
ad veritatem methodice investigandam, ac diiudicandam aptum reddere, eumque
mediis opportunis acuere, vel, si morbo aliquo laboret, salutaribus eidem
mederi remediis. Et quia veritas per demonstrationem invenitur, et iudicatur. Demonstratio
vero methodo perficitur, ut supra iam dictum est; liquet, ei pecessarium esse,
mentem quoque ad demonstrationem, ac methodum adsuefacere, ut in eo habitum adquirat
, in quo philosophi scientia consistit. Quamvis vero omnes homines naturali
quodam verum cognoscendi, iudicandi, rationes denique conficiendi facultate
praediti sint, eaque a multis usu, atque exercitatione ad summum usqne
perfectionis gradum sit redacta: quum tamen plurimis erroribus sint obnoxii ,
nisi facul tatem illam regulis quibusdam certis , at que indubiis dirigant ,
disciplina aliqua in veniatur , oportet , quae regulas ac prae cepta tradat ,
quibus naturalis illa cogi tandi vis augeatur, perficiatur , et ad ve ritatis
investigationem inoffenso pede dirigatur. Naturalis haec percipiendi ,
iudicandi , ratio cinandique vis LOGICA NATURALIS appellatur , quae qunn in
casuum similium observatione, adeoqne in sola praxi consistat , non solum
erroribus est obnoxía sed rerum caussas et rationes ignorans , confusam
tantummodo co gnitionem , non vero scientiam producere pol est . Ex quo
legitime fluit Logicae artificialis necessitas. Disciplina haec vulgo LOGICA
ARTIFI Cialis appellatur, quam definimus per do ctrinam , qua regulae traduntur
, quibus, humana mens in cognoscenda , et diiu ; dicanda veritate dirigatur. *
* Vocatur haec a ' nonnullis PHILOSOPHIA RATIONALIS, ARS COGITANDI, et kat i
Sony LOGICA ; 32 Logicae Prolegomena quae tantum abest , ut essentialiter a
Naturali differat , ut sit potius distincta eiusdem explicatio , adeoque tanto
illa praestantior % quanto distincta cognitio praestat confusae . Ex quo patet,
Philosophum sola Logica natu rali esse non posse contentum , sed ei colen dam
esse artificialem . 14 Quandoquidem autem Logica artifi cialis leges explicat
naturalem iudicandi fa cultatem dirigentes: sequitur 1 . ut eas ex mentis
humanae natura deducat, adeoque 2. mentis operationes prius, carum que naturam
distincte explicare; deinde vero eam in veritatis investigatione , atque exa
mine veluti manuducere debeat: uno verbo, ut prima theoriam , deinde praxin
ostendat. Vltro ergo mihi sese offert genuina Logicae divisio, in THBORETICAM
ET PRACTICAM. Atque hinc est, cur opusculum boc in duas partes distribuerimus :
in quarum prima de mentis operationibus; in altera de legitimo carum usu ,
quantum satis erit, tractabimus. Quoniam autem humana mens tria bus modis res
cognoscit; vel enim eas tan tummodo percipit , vel de iis iudicium pro fert ,
vel denique rationes conficit : * de tribus his mentis operationibus priore pår
te agemus. Quumque veritates vel per se pateant , vel per rationem et
meditationern inveniantur, vel denique ex aliorum scri Prolegomena. ptis
hauriantur : inventae vero cum aliis communicentur : de omnibus his parte se
cunda nonnulla haud proletaria monebi mus . } Experientia namque constat, nos
omnis cognis tionis expertes in mundum prodire ( quidquid pro ideis innatis
Platonici , et Cartesiani cla mitent ) , atque primo res simpliciter perei pere
, earumque ideas adquirere , deinde bi nas inter se conferre, tandem eas cum
aliqua tertia idea comparare, indeque novas verita tes deducere . Mentis actio
, qua res aliquas sensibus obvias percipit , aut ab iis abstra hendo novas
imagines sibi format, PERCEPTIO , sive idea dicitur : quum hinas ideas invicena
confett, IVDICIVM : dum vero eas cum aliis comparat , atque inde novas
veritates elicit RATIOCINIŲm nominatur. Nec aliae attente con sideranti mentis
operationes occurrere pote runt . Scholion. De Logicae utilitate non est, quod
plura dicamus. Quamvis enim quam plurimi eam scriptis suis ad astra tulerint;
quisque tainen in se huiusmodi periculum facere poterit : nam qnidquid ex recta
ra tione capiet emolumenti , id omne huic disciplinae se debere , aperto
cognoscet. Prima mentis hnmanae operatio est SIMPLEX PERCEPTI , sive notio, quam
de finimus per simplicem rei alicuius reprae sentationem in mente factam .
praesentationem autem intelligunt adcura tiores assimilationem eorum , quae
sunt exlra ens , in eodem *** . ** Dici quoque solet idea , conceptus , vel sim
** Per rea plex apprehensio , ut Scholis placuit. Sunt , qui perceptionem ab
idea distinguendam pu tant, atque illam esse aiunt , mentis actio nem in
obiecto percipiendo ; hanc vero ipsam abiecti imaginem menti percipienti obviam
, Sunt , qui eas terminis tantum differre do cent. Quidquid id est , nobis placuit
percep tionem cum idea confundere: adeoque nusquain hic de huiusmodi
distinctione sermo cadet. Ideam alii definiunl per imaginem menti ob versantcm
. Buddeus Phil. instrum . cum observ. alii per exemplar rei in cc gitante.
Hollmannus Log. Sed hae , aliaeqne definitiones eodem redeunt. ***
Repraesentationis vox absque definitione ad sumi poierat , quum sit cuique nota
: sed ut methodici rigoris amatoribus nonnihil daremus eam ita explicavimus ,
sequuti Baumeisterum Quoniam itaque notio est rei reprae sentatio : in omni
autem reprae sentatione duo considerarida veniunt, nem, pe modus repraesentandi
, et obiectum , sive res ipsa quae repracscntatur : liquet , in qualibet idea
itidem duo animadverti posse , scilicet percipiendi modum , et ob iecta nempe
res perceptas ; quorum ille FORMA, haec MATERIA idearum recte di, cuntur . Si
ergo ideae ad formam referan tur consideratio illa dicetur FORMALIS; si vero ad
nıateriam, OBỊECTIVA, vel Rialis appellabitur , Et quia utroque re spectu ideae
inter se differunt : de forma li , ac materiali earum differentia diversis sectionibus
agemus. MATE B nos De formali idearum differentia Experi Xperientia abunde
constat quaedam ita percipere , ut ca ab aliis in ternoscere possimus, quaedam
vero non ita . Repraesentatio illa , quae sufficit ad rem perceptam ab aliis
dignoscendam , idea di citur CLARA; OBSCURA contra , quae ad eam discernendam
est insufficiens. Vnde idea recte dividitur in claram , et obscuram E. Rosae
ideam claram habes , ei eam a lilio , hiacynto , aliisque floribus distinguere
scias , et quotiescumque tibi occurrit , eam dem agnoscas ; contra si arborem
peregrinam videas , eamque a reliquis plantis discernere nequeas, arboris
illius ideam habes obscuram. Huiusmodi sunt ideae infantum recens nato rum ,
hominum bene potorum , eorumqne , qui lethargo oppressi reperiuntur. CLARITAS
enim Physicis est ille lucis effectus, cuius operes externas circa nos positas
alias ab aliis distingnere possumus; contra vero OBCVRITAS est claritatis
absentia, scilicet tenebra rum eftectus : nam quun tenebrae in lucis privatione
consistant , haec vero obiecta exter pa distinguere faciat ; deficiente luce ,
deficit distinctionis facilitas : adeoque obscuritas in distinguendi impotentia
sita est . Quum res existentes innumeris de terminationibus, et circumstantiis
involutae observentur , ut infra dicemus ; hae vero, nisi attente consideranti,
sensuumqne aciem ad obiecta convertenti , innotescere non possint , ut
experientia patet : recte infer tur 1. éo clariorem fieri ideam , quo plu . ra
possunt in obiecta distingui ; * adeoque 2. ad claram idean adquirendam requiri
sensus cum attentione coniunctos , qua des ficiente , ideas fieri deteriores **
Esenplo sit hono in maxima distantia con stitutus , qnem qui vilet , primo
dubius hae ret , utrum corp is quidlibet sit , an vivens ; deinde in obiectum
illud oculorun aciem at tente convertens , a motu animal esse compe rit , sed
cuiusnam speciei , nescit ; propius ve ro'accedenten , ho nisen distinguit ;
tandem ex corporis habiti, facie, aliis que circumstan tiis Titium agnoscit.
Vides quan attente spe-. ctator consideraverit, ut Titium cognosceret!
Quemadmodun ideae meliores funt , si ex obscuris clarae evadant , ex confusis
distin ctae , ex inadaequatis adaequatae: ita deterio res redduntur, si ex
claris fiant obscurae ex distinctis confusae ex adaequatis inadaequatae. Quia
vero ab attentione penlet cla ritas idearum , eaque gralus ha bet , nec semper
, aut in omnibus eadem est : liquet 3. res alias aliis clarius a no 7 38 Logic.
Pars 1. bis percipi posse , ideoque obscuritatem dari non modo ABSOLVTAM sed
RELATIVAM. Hinc 4. obscuritatis caussam plerumquc in hominibus , raro in re
percepta quaeren dam esse ; ac proinde praecipitanter iu dicare illos , qui
absolute obscura esse di cunt , quae eorum superant captum : quo ut quae
ignorant ( ut Aesopica vul pes ) exsecrentur. * Obscuritas vel absoluta est ,
vel relativa. Illa habetur quum res percepta ab aliis prorsus internosci' non
potest; haec autem , quando rem qampiam aliqui subobscure , quidam clar re ,
clarius alii percipiunt. Quod quum acci dit , illorum claritas respectu maioris
horum claritatis est obscuritas relativa. fit , 21. Quoniam autem ad idearum
clarita tem utramque facit paginam attentio , qua deficiente deteriores fiunt:
con Sequens est 6. ut obscurae eyadant perce ptiones , si alicui meditationi
defisi alia percipiamus, vel 7 si unico actu plura 0 aut animo subiiciamus, 8.
denique si ab una perceptione ad aliam celerrime transeamnus. Et quia adfectus
attentionem turbant , ut cxperientia docet : infertur 9. menten adfectibus
agitatam * ad ideas cla ras vel numquam , vel raro admodum per, venire. Adfectus
enim sunt motus quidam vehementiores appetitus sensitivi ex idearum obscuritate
, et confusione orti , de quibus abunde in Psy chologia disseremus, adeoque iis
praedominan tibus nullae , nisi obscurae confusaeve ideae haberi possunt. Si
namque in ideis claritas et distinctio adesset , nullis adfectibus animus ve
xaretur. Hinc ergo est , ut a Philosophis ad fectus inter errorum caussas enumerentur.
E. xemplo sit homo ira aestuans , qui donec ea agitatur , nec res clare
percipere , nec perce ptionum suarum conscius esse potest. Vid . Seneca de Ira
Lib. I. cap. 1. et apud Virg. Aen. II. v. 315. Furor , iraque mentem prae
cipitant.Vides hinc , obscuritatis caussas easdem esse , quae attentionem
turbant vel minuunt : nem pe 1. distractionem , 2. obiectorum multipli citatem
, 3. praeproperam festinationem , 4 . denique adfectuum praedominium. Quae
omnia mentem frustra fatigant , et ad proficiendum în studiis ineptam reddunt.
22. Sed quia Philosophus non solis stare sensibus; rerum autem latebras et
recessus idest caussas et rationes inve stigare debet: per se patet 10. eum
claris notionibus adquiescere non pos * adeoque il . in distinctarum et adae
quatarum perceptionum statu versari debe re ut infra dicemus. 2 se ; · Clarae
namque ideae attento sensuum usu ad 40 Logic. Pars I. quiruntur; sensus autem ,
ut mox adparebit , res tantummodo exsistentes confuse repraesentant', in quarum
cognitione nullum ra tio habet exercitium : nihil ergo Philosophus age Tet ;
nec hihim quidem in scientia proficeret si claris dumtaxat ideis contentus rationem
ne gligeret, nec in caussarum inve stigatioue adlaboraret. > 2 23. Eadem
experientia docet , nos re rum quas clare percipimus , vel notas sive
characteres quibus ab aliis discer nuntur , distincte nobis sistere posse , eo
rum scilicet ideam claram nabere ; vel characteres illos invicem non posse
digno sive ipsos obscure percipere. Re praesentatio clara' notarum obiecti ,
quod percipimus , idea dicitur DISTINCTA : repraesentatio contra notarum obscura,
vo catur idea CONFUSA. Idea clara proin de merito dividitur in distinctam , et
con fusan . seere 8 Si quis invidiam novit esse taedium ob alterius felicitatem
, illius characteres sibi clare sistit , adeoque invidiae ideam habet distin
ctam. Si vero coloris nigri notas distinguere nequeat , licet eum ab aliis
coloribus discer nat , ejusdem ideam habet confusam : uti sunt omnes ideae
colorum , saporum , sonorum , odo rum , etc. , quorum characteres prorsus igno
ramus. Distinctio haec a Cartesio , et Leibnią * E. Cap. I. De Ideis. 41 tio
inventa fuit : alii namque grammatica vo cum significatione decepti, ideas
claras'ét di stinctas obscuras et confusas 'unum idemque esse docebant. Quum
idea distincta sit notio clara notarum ; ad claritatem autem notionum permultum
conferat attentio: consequens est 12 ut clarae ideae di stinctae fiant
potissimum attentione , qua deficiente , etiamsi distinctae sint , confu sae
evadant. Et quia singulae notae peculiaribus gaudent nominibus, qui bus
exprimuntur : infertur CRITERIVM ideae distinctae id esse , si cogitala nostra
aliis.cxponere, atque con is com municare queainus ; oppositum autem ess :
indicium ideae confusae . Hinc 13. idcas confusas aliis referre volentes ,
objecta , quae confuse percepimus , ipsis ostendere, vel cum alia re , de qua
ideam habent claram , comparare debemus. * Res clarior fiet exemplis supra allatis.
Qui notionem invidiae habet distinctam , is eam verbis explicare poterit: quod
recte ex sequetur , si notas , quib :is a :lfectuš iste ab aliis distinguitur ,
eau neret. Contra ei , quo modo coloris albi aut rubri nolas proferet , ut cum
aliis eius notionenı corninunicet ? Pro cul dubio , ut ab illo intelligatur , colorem
illum , aut rem quampiar confuse perceptam, ipsius oculis admovere, vel cum
alia re iarna nota conferre oportebit , sicque in altero con fusa quoque idea
orietur. Hinc est , ut colo rum ideas coeco nato nullo modo explicarc possimus
, isque visu carens nullam , nequi dem obscuram , umquam huiusmodi notionem
adquirere queat. ** 25. Porro rei , cuius distinctam habe mus ideam , vel omnes
novimus characte res ad eam in statu quolibet agnoscendam sufficientes, et tunc
idea distincta erit COMPLETA ; vel quosdam tantum · eosque insufficientes ,
eaqne INCOMPLETA dicetur . * Idea ergo distincta dispescitur in completam , et
incompletam . * Sic invidiae idea iam tradita completa est : adsunt enim notae
sufficientes ad eam in statu quolibet internoscendam. Si ve ro hominem cum
Platone definires per ani mal bipes implume , notionem haberes incom pletam : *
hae namque notae non sufficiunt ad hominem semper ab aliis rebus discernendum ,
ut ostendit Diogenes Cynicus , dum hanc Pla tonis sententian irridendo improbavit.
Nec eam postea coinpletam reddere potuerunt Platonis discipuli , addito latorum
unguium charactere : nusquam enim homines a simiis discernere illa nota
valebat. Laert. Lib. VI. cap. 2. segm . 40 . ** Licet duo clarissimiViri
Leibnitius , et Wol. Cap. 1. de Ideis. 43 fius semper et ubique in eamdem
sententiam ierint : in hoc tamen hic ab illo discessit . Quumque Leibnitius
omnem ideam distinctam completam esse docuerit : Wolffins contra eam in
completam , et incompletam dividi debere , docuit et demonstravit. a * 26.
Denique eadem experientia edocti scimus , nos quaedam ita percipere , ut non
solum eorumdem characteres singilla tim agnoscamus , sed et novas characte rum
notas enumerare queamus ; . quorum dam vero solis distinctis ideis adquiescere
. Quum notarum characteristicarum notione gaudemus distincta ; idea totalis
erit ADAEQUATA ; quum antem notas neb ; confuse repraesentamus, idea oritur INA
DAEQUATA . Quo fit , ut distinctam ideam rursus dividanius in adaequatam , et
inadaequatam . * E. g. Si quis invidiae notas rursus evolvat, sciatque taedium
esse sensum imperfectionis , et felicitatem determinet per siatum durabilis
gaudii : is invidiae idlea adaequata gandebit. Si vero in solis invidiae
characteribus ail juie scat : nec ulterius in iis evolvendis progredia tur ,
tunc ideam habebit inadaequitam . Ob servandum tamen , quod quo novas notas ,
donec fieri possit , invenire liceat , eo adaequatior evadet notio. * Hanc
porro doctrinam Leibnitio debemus , qui eam in Actis Erud. Acad. Lips. ann.
1684. semper 44 Logic. Pars I. p. 437. seqq. proposuit , eumque suo more
sequutus est Wolffius Logic. cap. i . f. 9. seqq. * 27. ANALYSIS IDEARUM est
formas tio idearum adaequatarum . Quumque idea fiat adequatioi, si novos semper
cha racteres invenire liceat : patet 15. eo adaequatiorem fieri notionem , quo
longius eius analysis procedere. Quoniam vero ob sensuura limites non possumus
plura distincte percipere : infertur 16. nos in notionum analysi" in
infinitum progredi non posse : ideoque 18. quum ad notas vel simplices , vel
cuique claras perven. tum fuerit uiterius eam instituere prohi bemur. ** *
Notionum analysis Medicoruin anatomiae simi lis est. Quemadinodum enim Medici
corpus humanum in partes dividunt, easque depuo in alias aliasque particulas
resolvunt , donec ad exilissima tandem filamenta perveniant , om nes interim
earum connexiones, structuram, et proprictates attente perscrutantes : ita et
Phi Josophi idearum noías singillatim perquirunt, easque iterum atque tertio in
novas notas mente resolventes , minima quacque adcurate contemplantur. **
Sicuti ergo Medicis , quum ad indivisihiles particulas pervenerint , eas in
novas rursus se care non licet : Philosophis etiam ea facultas Cap. I. De
Ideis. 45 ademta est in analysi notionum , si vel ad simplicia et indivisibilia
, vel ad clara et evi dentia fuerit pervenlum , vel finis obtentus sit , ob
quem fuerat analysis instituta. SECTIO II . De obiectiva , sive materiali
idearum differentia . 28. Haecaec de divisione idearum formali . Ad ,
materialem , sive obiectivam quod at tinet , primo res , quas nobis repraesen
{are possumus , vel sunt exsistentes , vel proprietates iis communes. Quidquid
exsi stit dicitur INDIVIDVVM , sive RES SINGULARIS: individuum autem defiuiri
po test id , quod est omnimode determina tum . Repraesentatio ergo individui vo
catur idea SINGULARIS sive INDIVI DVALIS. E. g. “Socrates”, “Plato”, Aristoteles,
Caius, Titius , haec dumus , haec mensa , hic liber quem legis, sunt individua,
quia in unoqucque eorum adsunt tales circumstaniiae et detern ina tiores , ut
Socrates sit Socrates , et non Plato , Caius sit praecise Caius , et non alius
: ita ut si aliqua earum desit , desinant esse quae prius erant . Hinc
individuum idem est cum uno mathemat.co , quod concipitur tanquam 46 Logic.
Pars 1. * > individuum in se, et ab aliis separatum . Iu re igitur
individuum res singularis ; ideoque eius perceptio singularis pariter
adpellatur. 29. Quamvis autem individua sint omni mode determinata hoc est
innumeris circumstantiis involuta ( S. 27:), quae efficiunt, ut ea longe inter
se differant : 11 bent tamen aliquas determinaliones , in quibus perpetuo conveniunt.
** Harum de terminationum complexus aliam ideam su periorem constituit , quae
SPECIES dici. tur. Non iniuria ergo species a recentio . ribus definitur per
similitudinem indivi duorum . Determinationis vocabulum , licet barbariem
redoleat, iure tamen hic a nobis adhibetur , et quia civitate donatum , et oh
termini pu rioris deficientiam . Absque definitione por, ro sumitur utpote
experientia seusuque com muni satis notum ; eius vero completam no tionem
dabimus in Ontologia , ubi methodici rigoris amatóribus abunde satisfiet. E. g.
Socrates , Plato , Caius , Titius , li cet aetate , ingenio , roribus ,
conditione , habitu , ceterisque inter se multum distent, habent tamen commuue
corpus organicum , et animain ratione praeditam . Duae hae de terminationes
speciem constituunt , qnae ho m, dicitur. Hinc vides , haec omnia individua in
eo siunilia esse , quod sint homincs. Si plurium specierun pariter cir
cumstantias consideremus videbimus eas in plurimis toto , ut aiunt , coelo
differre ; in aliquibus vero perpetuo similes esse . Atque hae determinaciones
, in quibus spe. cies , licet diversissimae , perpetuo conve . niunt , novam
ideam , eamque supremam , constituunt , quae GENVS vocatur. Genus ergo recte
definitur per similitudinem specierum . E. g . “homo”, “equus”, leo , canis ,
quantumli bet in tot determinationibus invicem diffe rant , habent tamen in
vita et sensione con venientiam. His circumstantiis conflatur genus, cui
animalis nomen inditum . Observes ita que , omnes illas species in hoc esse per
petuo similes , quod animalia nominentur, adcoque legitimam esse definitionem
generis traditam, 31. Quum genus sit similitudo specie rum ( S. 30. ) , idque
constituatur a com plexu circumstantiarum , in quibus species perpetuo
conveniunt ; in speciebns autem aliae determinationes exsistant , quibus il lae
inter se differunt: sequitur 1 , ut non abs se harum proprietatuin di
versificantium summa a Philosophis voce tur DIFFERENTIA SPECIFICA * E. g.
Invidia et commiseratio id habent commune , quod sint taedium . En genus. In eo
ve ro differuut , quod invidia sit taedium ob alte rius felicitatem ;
commiseratio vero ob infelici tatem. Id ipsum constituit differentiam
specificam. 32. Repraesentatio , quae exhibet pro prietates rebus exsistentibus
communes , di citur idea VNIVERSALIS . Et quia notio nes generum et specierum
determinationes continent pluribus speciebus vel individuis communes ( SS. 29.
30. ) : infertur 2. i deas generum et specierum esse universa Jes . Rursus
quoniam hae ideau couficiun tur , si determinationes aliquas ab aliis se paratas
consideremus; unum vero sine altero considerare dicitur AB STRAHERE ; liquido
patet 3. ideas uni versales esse quoque ABSTRACTAS. * Hinc est , ut vulgo
dicatur , ideas esse vel concretas , in quibus omnes simul adsunt de
terminationes ; vel abstractas , quae aliquas tantum exhibent mentis
abtractione ab aliis seiunctas: quod idem est , ac si dicas, omnes ideas vel
singulares esse , vel universales. 53. Ex dictis porro consequitur 4. ideas
universales non exsistere , nisi in singula ribus , nempe speciem ac genus
nusquam inveniri , nisi in individuis ; adeoque 5. plus esse in individuis ,
quam in specie ; plus quoque in speciebus, quam in genere. Ex quo patet 6. quam scite Logici pro
puntiaverint : Notionis extensionem esse in retione inversa comprehensionis. *
Regula haec aliter ab aliis enunciatur , sci licet : Ono maiorem habet idea
comprehensio nein , eo minorem habet extensionem , ct con tra. Comprehensio
dicitur complexus determi dationum , quae ideam aliquam constituunt. Ex tensio
vero est consideratio subiectorum , qui bus delerminationes illae tribui
possunt. Vid . la Logique, ou l'art de penser. part. 1. chap. 6. Quum ergo
individuum omnimodas determina tiones complectatur ( 9. 28. ) , ad unum tantum
subiectum extenditur ; genus vero paucissimas comprehendens circumstantias ( 5.
30. ) ad plu rima subiecta referri, nemo non videt. Posita igitur regulae
illius veritate, nullo negotio intelligitur 7 . nec ab individuo ad speciem ,
neque a spe cie ad genus umquam posse duci conclu sionem ; ac proinde 8. non
licere generi tribui , quod speciei convenit , aut ab illo removeri , quod huic
repugnat ; contra vero 9. a genere ad speciem , atque ab hac ad individuum bene
concludi , ideoque 10 . individuo dandum , quod speciei convenit, pariterque
speciei tribuendum esse quidquid generi convenire observatur. ** * T.I. C 50
Logic. Pars I. * Et recte ! nam nam in individuo comprehensio maior est ,
extensio minor , quam in specie, ut et in hac relate ad genus. Quidquid ergo de
individuo enunciatur , eius proprietates differentiales ; si ita loqui fas sit,
respicit , quae in speciem non ingrediuntur: ac proin de de hac enunciari
nequit . Eodem modo , quae de specie dicuntur, differentiam tantum specificam
spectant : genus autem proprieta tes multis speciebus communes continet ; adeo
que speciei attributa nullo modo cum genere coniungi possunt. Res clarior fiet
exemplo. Socrates est individuum , in quo omnimoda invenitur determinatio ; id
vero sub hominis specie comprehenditur. De So crate' recte enunciabis , quod
fuerit philoso phus , quia attributum hoc ei convenit ob scientiam , qua
praeditus erat ( S. 3. 4. ) , quaeque inter Socratis proprielátes individua •
les enumeratur. Possesne id de specie , idest de homine pronuntiare ? Minime
quidem : in determinationibus enim hominis specificis non scientia, sed
scientiae capacitas , nempe ra tio ', invenitur. Contra hanc regulam peccare
solent susurrones quidam , qui vitia vel de fectus in aliquo, vel aliquibus
individuis for san occurrentia toti speciei , coelui , vel clas si imputare non
erubescunt. ** Quum enim genus in specie , species pariter in individuo ,
contineatur ( §. 23. ) : quidquid generi conyepit , cum specie coniungi ; et
quik uid speciei convenit, de individuo quo Cap. I. de Ideis. 51 que enunciari
debet aeque, ac ab his removeri quod ab illis discrepat .E. g. Animal sentit ,
ergo homo sentit : homo est intelligens , quia libet igitur homo intelligens
est etc. 35. Res exsistentes rursus vel inira nos sunt vel extra nos. Prioris
classis sunt omnes animae actiones ; posterioris vero obiecta quaecumque
sensibus nostris obyer santia , vel mutationes in corpore humano ciusque
organis supervenientes . SENSV INTERNO percipiuntur, sive REFLEXIONE , hae
contra SENSIBVS EXTERNIS. Liquet ergo 10 , ideas omnes singulares sola sensionc
adquiri * Illae * Intra nos sunt affectus , et cogilationes vo strae, quae
interno sensu , conscientia refle xione ( haec opinia idem significant ) perci
piuntur. E. g . si quis tristitiam , vel metum sentiat , ciusque idcam sibi
formet , hanc sensu intern :) , sive conscientia , nempe atlen tione ad
proprias actiónes adplicatà , adqui sivisse dicitur. Extra nos porro sunt omnia
alia obiecta etsistentia sensibus obvia . Sic in deas omnes singulares, quaecumque
illae sint, sensibus percipi , nemo ignorat : superfluun enim ' esset id '
exemplis illustrare. ** Cuilibet autem de plebe noturn est , exter sensus
quinque numerari , visum nein pe, auditum , olfactnm , gustum , et tactum , nos
C 2 52 Logic. Pars 1. iisque totidem organa esse destinata ; visui scilicet
cculum , auditui aurem , olfactui na res , gustui linguam , tactui denique
specia tim manus , generaliter vero totam corporis humani superficiem . 36.
Quum ergo res exsistentes sensibus percipiantur ; ideoque ideae sin gulares
sensione adquirantur ; ex singula ribus vero universales sola mentis abstra
ctione formentur ( S. 32. ) : liquido infer tuir 11. omnes ideas vel SENSIÚNE,
vel ABSTRACTIONE fieri dooque adeo esse ideas adquirendi mcdos. ** * nem * Et hoc
est , quod a multis docelur , omnes ideas partim SENSIONE, partim ABSTRACTIONE
, partim CONSCIENTIA , vel REFLEXIONE adquiri. Vid . Heinec. Logic. S. 22. Nos
enim sensio cum conscientia et reflexione confundi debere , docuimus supra ſ.
35. ** Addunt alii tertium adhuc ideas formandi modum ARBITRARIAM scilicet
COMBINATIONEM , veluti quum quis ideam hominis cum idea equi componit ,
novamque Centauri notionem conficit : cuius census sunt etiam notiones montis
aurei , intellectus perfectissimi etc. , quae nihil aliud revera sunt, nisi ice
rum prius sensione adquisitarum combinatiores ab intellectu , vel phaniasia in
unum redactae, pro quarum veritate generalem tradunt regulam : Si ideae
arbitrio coniunctae sibi con tradixerint , impossibiles sunt , adeoque fal sae
( quae alio nomine CHIMERICAE , a Scola sticis ENTIA RATIONIS vocantur ) ; si
vero inter se non repugnent , pro possibilibus, adeoque pro veris sunt
habendae. TITIAS esse , 37. Ex quibus omnibus plane consequi tur 12. recte
adfirmari a Philosophis , i deas omnes ex earum origine vel ADVEN. vel
FACTITIAS . * INNA TAE namqne ab omnibus negantur, quid quid de iis praedicent
Plato , Cartesius eorumque asseclae , quorum tamen au ctoritas tanta non est,
ut eorum insomniis a sanioris Philosophiae cultoribus praebea tur adsensus, ut
in Psychologia distinctius adparebit. Per adventitias enim intelligunt notiones
sen sique adquisitas ( $. 36. ) : per fictitias vero illas quae vel
abstractione vel arbitraria combinatione fiunt. Plato namque animas humanas ab
aeterno praeexsistentes posuit singulas singula astra inhabitantes, qnibus Deus
monstruvii universi naturam , ac leges frtales edixit : sed quum a diis
inferioribus Dei ministris mones 'vocat in corpora fatali necessitate inclusa
fuissent eo rum omnium , aeternis ideis prius e rant intuitae, statim ob quos
dae. quae in с 3 51 Logic. Pars I. ' Jitas , non nisi longo sensuum usu , àc
nedita tione pristipam cognitionem recuperare. Plat. in Timaeo. Hinc vulgatum
eius effatum: Stu et discere idem esse , ac reminisci . Cicero Tuscul. quaest.
1. 24. Illas ergo ideas, quas antea habebant , vocavit innatas . Sed quum id
purum putumque sit Platonis som nium , nequaquam erimus de eo refutando
solliciti . Cartesius hoc nomine donavit facul tatem homini competentem omnia intelligibilia
videndi. Tom. I. ep. 99. Respons, ad art. 14: progranm . ann . Sed pèr hanc
rectam rationem intelligi , quisque videt, quam proin de ideam adpellare est
potentiam cum actu confundere. Cartesiani denique per ideas in natas
intellexerunt axiomata quaedam eviden tia , quae ab ipsa cogitaudi facultate
ortum ducunt, veluti : totum csse maius qualibet sui parte ; non posse idem
simul csse , et non esse ctc. At quis rerum omnium ignarus iguo rat , haec esse
pura judicia, quae a termino runi illorum relatione , ac ab ideis totius et
partis , exsisteniiue et non exsistentiae, sen su et abstractione prius
adquisitis immediate pendent ? Quae quum ita sini , ideas invatas nullo modo
dari posse , merito concludimus. 38. Ideae praeterea sunt aliae SIMPLICES , a
quibus nihil mente abstrahere pos sumus, ** aliae COMPOSITAE , bus per mentis
abstractionem plura divi dere , atque invicem separare licet . ** in qui Ex quo
necessaria consequutione conficitur 13. simplices ideas claras esse , at confu
sas ; compositas vero etiam distinctas. Tales sunt ideae omnes colorum ,
sonorum saporum , voluptatis , taedii , quas ideo aliis explicare non possumus
, nec illarum chara cteres invicem discernere , ut ita üs'definien dis omnino
incapaceś simus. ** Sic in idea mensae cuiusdam separatim con siderare possum
matericm , formam , figuram , colorem , magnitudincm , et id genus alia. His
addunt aliqui ideas ASSOCIATAS , si ve coniunctas , eas scilicet , quae ita
simul a nobis adquisitae sunt , ut quum una nobis occurrit , altera quoque
menti obversetur : veluti si rosain olim videns odoris simul no tionem accepi ,
quotiescumque odorem illum sentio , rosae etiam idea menti fit praesens.Denique
quuin vel substantias , vel modos , vel relationes pobis repraesentare queamus
, ideae sunt vel SVBSTANTIARVM, vel MODORVM, vel RELATIONVM. Per SVBSTANTIAM
intelligimus ens, cui atiributa ei accidentia tan quam subiecto , : veluti
inhaerere conci piuntur . . *. , MODI sunt adfectiones , et attributa
substantiis inhaerentia , a qui bus + D4 56 Log. Pars I. sola mentis
abstractione separantur. RE LATIONVM denique ideae sunt , quarum unius
consideratio alterius considerationem includit ita , ut haec sine illa non
possit intelligi. *** figura , * Veluti diximus , ut nostram imbecillitatem
adivemus : id enim in substantiis creatis lo cum habet , non autem in increata
, in qua nulla inter essentiam et attributa , nec inter ipsa attributa realis
distinctio dari potest, ut in Theologia naturali demonstratum ibimus. * MODI
vero sunt vel INTERNI, si in ipsa substantia. occurrant , ut dimensio , color
etc. in corpore ; vel EXTERNI, si in hominis mente sint , et tamen substantiae
tribuantur, veluti quum dicimus- virtutem ma sni aeslimatam , quae tamen
aestimalio est in hominum opinione. **** Relationes sunt ideae omnes
quantitatum , item Patris, Domini, Regis, et cetera id ge pus. Videatur abunde
ea in re Clericus in Logic. part. I. cap. 4. § . 2. seqq. , et in Arta Grit.
part. 1. cap. Ex quibus plane colligitur 14. nas in substantiis nihil aliud
cognoscere, nisi mo dos, ips4s vero substantias prorsus ignora re ; idcoque 15.
substantiarum ideas esse in relatione ad mentem nostram omnino sed tantummodo
abstractas et confuses, ram intelligibiles ; . quinisomo ló . rerun natu eo
magis agaosci, quo plures modi nobis innotescunt; maximam adhiben dam esse
cautionem in perpendendis re lationibus , ne vel earum fundamentum non recte
considerantes , vel absolute de relativis ideis enunciantes , praecipitantiae
errorisque arguamur, * Quantum haec doctrina roboris habeat in se dandis
hominum adfectibus , dici profecto, non potest. Exemplo sit is, qui se paupe
rem esse dolet , quia divitum opes non ha bet, et id absolute profert. Si vero
relationis pondus expendat, observetque alterum omnia bus necessariis rebus
egentem : declamare de sinet , quia sibi tantum superflua desunt. Be ne ergo
Seneca in Troad . v. 1016. Est mi ser nemo , nisi comparatus, Schol. Explicatis
iam notionum diffe rentiis, ad huius doctrinae usuin accedamus, quem paucis ,
iisque perutilibus , include mus regulis. Quisquis ergo Philosophiae operam
navas si solidae cognitionis es cupidus , sequentes animo infigito. CANONES. i
. Curato , ut rerum , quas pertra ctare cupis ', claram semper et distin ctam
cognitionem adquiras : attentionem proinde , quae ad idearum perfectionem
utramque facit paginam , in omni re adhibeto. Quoniam vero Matheseos studium
mirifice at tentionem acuit : hinc est , ut hodie studio rum initium a Mathesi
capiatur , exemplo Platonis ., qui neminem erudiendum suscipie bat , nisi
Geometria instructum . 2. In studendo praeproperam vitato festinationem ;
praecipue in primis scien tiarum principiis diu haereto , nec, nisi iisiprobe
intelleétis, ad cetera pergito .* * Quantum enim festinatio idearum claritati
osobsit, diximus in . 21. adeoque in adole. soentibus naturalis illa festinatio
, et praeci pitantia caute est obtundenda , ne superficia rie discant et
errores saepe labantur. Vnde VERVLAMIVS opportune docuit : Ius venum ingeniis ,
non plumas vel alas , sed plumbum el punderą auditinus. Caveio , ne nimia rerun
varietate mentem obruas, neve plura semel simul que addiscenda putes . - Panca
discito , eaque bune digesta contemplator. * Quum eaim attentio ad plura
dividitur, minor fit atque inepia : proindeque ideae deteriores fiant: ita ut
de iis perbelle dicat Seneca Ep. 2.: Nusquam est , qui ubique est. Qua de re
Plinius VII. ep.9 . praeclaram il lud monitum studiosae iuventuti perutile prae
buit : Non multa 7, sed multum . to 3 * AC 4. Priusquam ulterius progrediaris
ad idearum tuarum relationem attendi si qua sitt :: ne relativa pro absolu tis
accipiens in errores incidas, 5. Mentis solitudinem , animique tran quillitaiem
amato ; ne affectibus attentionem iurbes , iran , tristitiam , an liaque
pathemata ; adeoque sodalitates , compotationes ., spectacula fugito. ** * Bene
monuit Ovidius Tristium l. v . 30. Carmina proveniunt animo dédlicta serenos *
Comessationibus enim corporis inertia aus getur , mens obstupescit et habetatur
, ani mus ad voluptates inclinatur s spectaculis ve vero attentio distrahitur,
i sensimqué a studüs 1 C 6 6o Logic. Pars I. animus avertitur , quo fit , ut
aut nullae ad quirantur ideae , vel saltem obscurae, a qui bus errores ortum
ducere infra docebimus. aut mie 6. Quae legisti , audivisti > ditatus es ,
ita familiaria tibi reddito , ut eorum notas aliis indicare queas . Ea proinde
vel in chartam coniicito, te ipsum saepe examinaudo , idcarum tuarum
distinctionem experitor. ** * vel * Stilum Cicero vocat oplimum , et praest an
tissimum dicendi effectorem , et magistrum. De Orat. l. 33. ** Notum est
vulgatum illud ; docendo disci mus . Rationem huius canonis invenies supra. nes , utpote rei immaterialis a stiones, nullo
modo sensibus percipiuntur: ea non nisi signis, quae in sensus incur ruot;;
abis potefieri possunt. SIGNUM enim est, res quaedam sensibilis quae praeter
sui notionem excitat in mente ideam alterius rei, Sed quum ideae ng ** strae ordinario vel voce, vel scripto patefiant:
binc prioris gencris signa VOCES, posterioris TÈRMINI, ntraqne vero VERBA
dicuntur. Hinc verba per idearum nostrarum signa recte definiuntur, ut et voces
signa quaedam sono articulato prolata, mentis nostrae conceptus indicantia.
Signa quidem generatim appellantur, quia praeter soni vel scripturae; nationum
nostrarum ideam in audientibus vel legentibus excitant. E. g. Lacrimae sunt
signum tristitiae: quia quum hominem videmus lacrimantem, illico eum tristitia
adfectum esse cogitamus. Fumus quoque est SIGNVM ignis, quia eo viso non solum
fumi, sed ignis etiam notionein ad quirimus. Quae de signorum diversitate Scha
Jastici docent utpote ad rem
impertinentia, praetermittimus: astin Ontologia quaedam observatu digna obiter
attingemus. Cave tamen credas, voces esse SIGNA conceptuum necessaria. Quum
enim eaedem res non iisdem vocibus a diversis gentibus exprimatur: liquet, tas
ab hominum ARBITRIO pena der, adeoque esse SIGNA conceptuum arbistraria. Cuique
vero notum est, ad sona nar ticulatum sex requiri, nempe PVLMONES, qui follis
vice funguntur, ORGANUM VOCIS scilicet trachea, eique apposita larynx cum suis
apparatibus; LINGVA, cuius vis Braliones vocem prae ceteris articulatam red
dunt; PALATVM, nempe fornicem, ubi lingua stras vid rationes exercet; quatuor
DENTES incisores dicti, quibus sibilantes litterae efformantur, et in quos nedum
lingua, sed et labia vibrant; ac denique LABIA, quae in se invicem et in
dentes, inpingunt, ut fu sjus coram ostendemus. Ex qua definitione patet verba
et voces inter se differre: quum verba et iam scripto, voces autem non nisi
sono articulato proferri possint. Nos ideo voces adhibere, ut ab aliis
intelligamur; proindeque. Iita loquendum, easque vo ces adhibendas esse, ut
alii, quibuscum loquimur, mentem nostram intelligere pos sint; adeoque non
licere terminis in anibus vet notionem deceptricem continentibus uti; sed
tantum ii , qui ali quam notionem habent adlixam; quitinimo, singulis terminis
eamdem semper ideam, eamque claram, respondere debere; ideo que cos, qui vel
obscuram, vel non semper eamdem exprimunt notionem, om nino esse proscribendos.
Alterius vero mentem intelligere dicimur quum, terminis easdem notiones
adggimus, quas loquens cum iis coniunxit . mus TERMINUS INANIS dicitur, qui
nulla , habet notionem sibi coniunctam: adeoque nis hil, praeter solam soni
ideam, excitare potsest: quapropter vocari solet vor mente case' sâ , vel sonus
sine menie, a Scholasticis terminius insignificativus. Talis est versus ille,
quemia Nimiodo prolatum in infimo Tartari aditu fingit Dyinus Poeta Etruscus:
Raphel mai umech zabi alini. Dant. Inf. cant: Quoties autem vocem proferentes,
aliquid cogitare videinur, quum tamen nihil cogita puldaunque sententiam cum ea
donium ginius: tunc terninus ille NOTIONEM DECEPTRICIM continere dicitur.
Huiusmodi sunt casus Epicuri, sensibilitas physica Hel yetii, historia e
rationis penu depromta Boulangeri et Rousseau, quorum analysin cora , et in
Metaphysica conficiemus. Si nam que vox aliqua vel non eamdem seniper, vel
obscuram notionem habeat adfi xam. In primo casu auditor dubius haerebit, quamnam
cum ea loquens, coniunxerit ideam, adeoque cui non intelligent. In secundo ves
ro, quomodo mentem eius poterit intelligere, qui se non intelligit TERMINVS
CLARVS est, qui claram coiitinet notionem, OBSCVRYS, qui eamdem habet obscuram.
Terminusi qui eamdem semper exprimit ideam, FIXVS vel DETERMINATV ; qui vero
incon der stantem vagunite tabet significatum, VAGVS aut INDETERMINATVS dicitur,
Plurės autem termini eandem rem significantes, SYNONYMA, sive termini synonymici.
adpellantur, Scolasticis eum adpellare placuit univocum, sive unicam rem
indicantem, ut ignis, aqua, A Scholis dicitur “aequivocus”, hoc est plura aeque
significans. E. g. Cultus varios habet significatus: saepe enim pro adoratione
Deo debita: quandoque pro honore: nonnumquam pro corporis, vel animi decore;
non raro quo que pro telluris cultura accipitur, Tales sunt gladius, ensis, qui
idem ar morum genus exprimunt. Eos e Scholis qui dam vocant “paronymos”, id
quod ad intelligendas barbaras huiusmodi loquutiones breviter adnotavimus. Non
heic inquirere licet: utrum in quolibet idiomate revera dentur synonyma?
quaestio namque haec ad philologiam pertinent. Philosophia contra in exprimendis
animae cogitationibus usum loquendi servat, et colit, quem penes arbitrium est,
et ius, et norma loquendi (Horat. De Art. Poet. 8. 27). Terminus CONCRETVS est
qui qualitatem expriinit sabiecto inhaerentem, ABSTRACTUS vero qui qualitatem
illam a subiecto separatam indicat, Terminus PROPRIVS dicitur, quando rem
exprimit, cui significandae est destinatus; IMPROPRIVS vero, sive METAPHORICVS
ad rem aliam indicandam transferatur ob quamdam similitudinem . si Sic “pius”
est terminus concretus, “pietas” terminus abstractus , Concretus porro a
Wolffio dicitur, qui notionem exprimit concretam (sive singularem); abstractus
contra, qui ideam continet abstractam (sive universalem ). Haec autem omnia idem significant. E. g. Vox
oculis proprie sumitur, si organum visui destinatuin indicet. Ubi vero Cicero
Corinthum Graeciae oculum adpellat, eius uippe ornamentum ac pracsidium: improprie
sive metaphorice vocem illam usurpat, Hinc vide , voces improprias esse vagas
et indeterminatas. USVS LOQVENDI est significatio vocum in communi sei mone
propria . At quoniam in familiari sermone voces aliquae occurrunt quas intelligimus
quidem, li, cit ad notiones ipsis adiixas animum non hae voces dicuntur termini
FAMILIARES, et ad usum loquendi non advertamus pertinent, Si quis ergo oculi
vocem ad significandum organum sensorium visui destinatum usurpet, is loquendi
usum servabit. Tales sunt voces omnes, quas frequentissime proferimus, ac
memoriae mandavimus: ees enim intelligimus, sed usu et consuetudine adeo
familiares evaserunt, ut eas proferentes ad sensum notionesque ipsis adfixas
nusquam attendamus. Patet igitur Philosophum servare debere usum loquendi,
adeoque terminis claris, fixis, atque in sensu proprio usurpatis ei utendum
esse. Quod idem est, ac si dicas a terminis vagis, obscuris, impropriis, et
familiaribos esse abstinendum: aliter enim non intelligeretur. Hic porro. Ex
pluribus vocibus inter se apte connexis oritur SERMO, sive ORATIO sive
PROPOSITIO. Definitur autem sermo per nexium plurium terminorum mentis nostrae
conceptıbus exprimendis idoneum . а Logicis dispesci solet in CIVILEM, et
TECHNICVII, sive eruditim, quorum ille in vita civili ab omnibus; hic in
coinmunicandis ideis ad disciplinas pertinentibus, vocabulorum technicorum pe ,
ab eruditis adhibetur. Nisi enim ideis nostris explicandis sit idoneus, non
sermo, sed confusus inanium vocum cumulus dici poterit. Dicuntur autem verba,
vel voces technicae, quae ideas scientificas quibusdam disciplinis peculiares,
usu annuente, exprimunt: cuiusmo di non pauca occurrunt in qualibet disciplina.
Schol. Quae hactenus de vocibus dicta sunt, inania faere evaderent, nisi doctrinae
usum auditoribus nostris ostenderenus. Quae igitur de iis observanda putamus
paucis, isque tam familiari quain erudito sermoni inservientibus, complectemur
re gylis. Philosophus ergo noster scquentes observet CANONES. Antequam oum
aliis congrediaris, tecum attente perpendeto, quid cogites: Cogitationes porro
tuas totidem vocibus exprimilo, quot ideas hubes. Quantum adiumenti adfcrat hic
canon adolescentibus, ia promtu est. Quun enim fis familiarissima sit inanis
illa et garrnia loquacitas, fua fit, at persaepe in te veritatis notam incurant
des alimchanab inconsiifera to loquendi puriniz násvatur; facile parei, cur qui
cogitationibus suis atteindlit', nulla , nisi benedigestum , emitiere posse verbum
. Caveto, ne ideam soni habens, rei quoque notionem habere te credas ; aut
voces coniunctas intelligere quas disiunctas intelligis. Falluntur enim
persaepe homines , quum ter minos inanes, et notionem deceptricem con. tinentes
effutiunt , in quibus solam ideam $ 9 . ni habent, et nihil cogitantes aliquid se
cogitare creduat. E. g. Idea materiae et idea cogitationis possibiles sunt,
pariterque voces, quibus illae exprimuntur singulae intelliguntur. Coaiunclae
vero impossibiles evadunt, atque adeo intelligi nequeunt. Ecquis enim materiam
cogitantem exsistere posse imquam probavit ? Vid. Inst. nostr. Meiaph. P. 11.
Cap. 4. eas 3. sum loquendi semper
servato, nec novas temere cudito voces: quod si ad id quandoque necessitate
cogaris, adcurate definito, ne obscurus fias. In hanc regulam peccatur, si
quando vocabula technica, utut civitate donata, furene novitatis amore
mutantur; iis novae voces substituuntur, quamvis rem, de qua a gitur, adcurate
exprimant. Et si houe termini philosophici, reiecta barbarie, pristinae
restituuntur puritati, ea non novatio dicen et proda est, sed renovatio, idest
vocum ad pro prium avitumque decus restitutio Peregrina vocabula Latino, vel
Italico sermoni ne iminisceto, nisi vel Tocendi, vel amici cuiusdam oblectandi
caussa: alias eniin in paedantismum Empinges. Vid. Heineccium in Fundam . Stil.
cultior. Id vero egisse Ciceronem ex eiusdem scriptis didacticis, et Epistolis
ad Atticum abunde colligitur. Quum eniin paedantismus sit inanis glorio lae
cupiditas in minotüs , ineptisque rebus sectandis quaesita; paedagogi vero , a
quibus hoc nomen obvenit, id quoque habeant in vitio , qnod singulis verbis
latinas interse runt phrases ac textos : ideo hanc notain incurruut quicumque,
vel ad ostentandam e ruditionis niultiplicitatem , vel ob nimium tem poribus
inserviendi studium , nullum , nisi pe regrino sale conditum , queunt formare
ser monem . 5. Si aliis displicere non vis , quoties cumque loqui oportuerit ,
modesto vultu atque amoeno fuam proferto sententiam: ne docere ex cathodrá
potius , quam veruin dicere , videaris. 7Est et haec paedagogorum nota , qui
pueris in docendo imponere adsueti, inagisiral e illud supercilium ubique
servant , seque invisos au dientibus , maximo veritalis detrimento , red dunt.
Vid . Buddei Oratio de bonarum littera rum decrcinento nostra aetate non tenere
me tucndo. Dea rei distincia completa verbis expressa dicitur DEFINITIO. Res
vero ipsá , sive definitionis obiectum, vocatur DEFINITVM. Ordo igitur po
stálat, ut post'ideas earumque signa; bre vein de ddinitionibus tractationem
hic sub iungamus, Quid sit idea distincta , et qua ratione ad quiratur ,
dixiinus supra . seq. De idea completa cousule , quae breviter do cuimus g. 25
; diffusius enim hic , quae de illa dici merentur , enodabimus.Quemadmodum
antem idea voce prolata di citur terminus , isque clarus si claram expri mat
notionem; ad exprimendam, vero ideami distinctain , sive ' emuinerando ; il
dias characteres , non uno , sed pluribus claris opus est termiuis : ita
complexus ille yocum , * Cap. HI. De definitionilus. 71 hoc est idea distincta
completa sermone expli cata , definitio dici consuevit; adeoque non abs re
tractatus bic doctrinain sequitur ter minorum . 2. eas ** ne 49. Ex qua
definitione consequitur 1 . in definitione notas et characteres enume rari
oportere , qui sulliciant ad definiturn in statu quolibet agnoscendum, et ab
aliis rebus distinguenduin ; notas tales esse debere , ut nulli , nisi so li
definito in tota eius extensione , conve niant ; quare 3. merito a Logicis ad
firmari , definitionem neque latiorem que angustiorem sno definito , sed ipsi
aco, qualem esse debere , ut sibi invicem sub stilui possint. *** * Id autem ,
per quod res ab aliis rebus distin guitur , eius essentia a Metaphysicis
adpellari consuevit : inde ergojest , ut definitionem Lo gici esse dicant
orationem , qua rci essentia explicatur. Quia vero per extensionem intelligimus
quod cuinque subiectum , cui determinationes ideam aliquam constituentes tribui
possunt; perinde est , ac si dicas , definitionis notas tales esse debere , ut
omnibus subiectis, spe ciebus nempe , et individuis sub definito con tentis
conveniant. Porro inter characteres il los insunt proprietates genericae , et
specifi ** Logic. Pars I. *** Si cae , quae integram definili essentiam expo.
nunt , et repraesentant. Non iniuria igitur adfirmari solet , definitionem ex
genere et differentia specifica constare debere. Si namque definitio talis non
sit , ut possit definito substitui , vel ( ut aliis placet ) cam eo reciprocari
, vel illo latior , vel angustior erit , adeoque deficiens. Substitutio autem in
co consistit, ut definitio pro subiecto , defini tum pro attributo , et contra,
adsumi possit. E. g. Spiritus est substantia intellectu et vo luntate praedita
: contra vero substantia intel lectu et voluntate praedita dicitur spiritus.
90. Ex eodem quoque fluit 4 in defini tionem ingredi non posse , nisi ea , quae
Jei perpetuo et constanter insunt , idest ATTRIBUTA, vel ESSENTIALIA; proin
deque 5. locum in ea non habere ACCIDENTIA , seu MODOS. * * Quaenam sint
essentialia , et attributa , pate bit in Ontologia. Id unum hic notasse sull
ciet , tam essentialia, quam attributa rei cou stanter ac immutabiliter inesse
: nam attributa sunt eiusmodi characteres , quorum ratio suf ficiens cur rei
insint , in eiusdem essentia et natüra continctur : ut sunt tria latera et tres
anguli in triangulo. Quoniam vero definitio est idea rei distincta; haec autem
est no nec tio clara notarum ( 5. 23. )
: sequitur ut ea vocibus claris sit exponenda , obscuri quidquam continentibus;
ideoque 7. nec vagis ( $ . 43. ) , nec metaphoricis nec negativis ** terminis
in illa sit locus. Imo vero 8. eam in vitio poni perspicuum est , si sit
IDENTICA vel CIRCVLVS in definiendo committatur . Si tameu termini definitionem
ingredientes ob scuri quid habere videantur , prius adcurate definiantur , ut
claritatem adquirant. Sic in vidiae definitionein supra allatam nemini proferre
licebit , nisi prius taedii si gnificatus alia definitione sit determinatus.
Terminis negativis concipitur definitio > si explicet quid res non sit : ut
si dicas , invi dia non est commiseratio. Hinc vides, eam esse vagam et
indeterminatam , adeoque defi niti ideane inde oriri confusissim un , quod est
contra definitionis indolem: Exceptio tantum datur in rebus contradicto riis
nullun inedium adinittentibus , quarum una recte definita , altera negativis
terminis explicari potest. Sic ens simplex non immeri to dicitur quod partibus
caret , substantia , quae non exsistit in alio , tamquam in subie *** Definitio
identica est , quae idlem per idem explicat, cuiusmodi suut nonnullae Scholarum
cio etc. definitiones quas confusiones rectius dixeris. Exemplo sit quantitatis
definitio ab iis allata per accidens, a quo res dicitur quanta . Quid , quaeso
, haec verba significant , nisi quod quantitas sit quantitas ? Cui vero usui
definitiones istae esse possint , tironibus ipsis iudicandum relinquimus. ****
Circulus enim Geometris est figura plana linea curva in se redeunte terminata :
in defi niendo ergo circulus committitur, si in evol vendis definitionis
characteribus , eorumque novis definitionibus formandis , in aliquam ipsarum
definitum ingrediatur. Tunc enim per definitum explicaretur id , per quod
defini lum ipsum explicari deberet; adeoque res re diret ad definitionem
idemlicam , quae in vi to posita est . Illa notas et characteres e numerat
sufficientes , quibus definitum ab aliis rebus in siatu quocumque discerni
possit ; haec autem rei definitae genesin et originem exponit, ** unde et
GENETICA dicitur. * Per definitionem nominalem veteres intelligc bant grammaticam
vocis explicationem , qua vel radix sive origo nominis investigabatur, et tunc
Etymologia dicebatur : vel multiplex eiusdem significatio , eoque casu
Homonymia; Cap. III. De definitionibus. 25 vel denique plures voces eumdem
sensum ha bentes, et Synonymiae nomine veniebat. Quae enim nobis nominalis est
, realis inter illos audiebat. ** Nominalis ergo est definitio spiritus , si
eum definiveris per substantiam intellectu et volun tate praeditam : realis
autem , si invidiam definias per taedium ob alterius felicitatem : in ea enim
eiusdem caussa et origo explica tur. Vides hinc , nominales definitiones esse
arbitrarias : reales contra necessarias. > 53. Si vero idea rei distincta
quidem sit sed incompleta : tunc non definitio , sed DESCRIPTIO nominatur ; adeoque
in descriptione accidentia qnoque locum inve piunt , qnae quum in individuis
tantum concreta observentur, hinc est, ut res sin gulares describantur,
abstractae vero deti niantur; ** proinde illae Oratorun et Poe tarum hae
Philosophorum propriae sint . Descriptio itaque , licet plures enumeret no tas
; quam definitio , eas tamen ad rem in sta tu quolibet agnoscendam exhibet
insufficien tes. Tales notae non exsistunt , nisi in rebus singularibus ;,
utpote omnimode determinatis: universales namque ab iis mentis abstractione
erguntur, paucio resque adeo, ac sufficientes ipsis distinguendis Ꭰ . 76 Logic . pars I. >
continent characteres. Inde ergo fit, ut ha definiri possint, illae tantum
describi. Intelligitnr hinc: cum generum et specierum definitiones apud
Philosophos inveniamus, in dividuorum nihil nisi meras descriptiones Poetis ac
Oratoribus familiares , et si ab his definitiones proferri videmus , eas vel
incom pletas novimus, vel magno verborum ambitu expressas , ubi accidentia
attributis , caussas effectibus permixta observamus , quas tamen Philosopho
imitari nefas erit , quippe cui idearum analysis , essentiae rerum investiga.
tio , verborum praeterea praecisio in deliciis esse debent. Schol. Superest ,
ut quae studiosae iu ventuti utilitatem adferre possunt, ea pau eis exponamus
regulis huius doctrinae usum continentibus. Philosophiae igitur initiatus, si
quid a studiis suis commodi percipere cupit , sequentes animo imbibat CANONES.
1. Definitiones , utpote rei naturam et essentiam explicantés , ciim cura disci
to , ' ạtque teneto . ' Iudicium porro cum m moria coniungito : ideoque aliorum
definitionibus ne adquiescito ; sed ope rum dato , ut eas intelligas , et ad
tru tiram revoces. re Sunt enim, qui soli memoriae consulentes , quidquid in
aliorum scriptis repererint, id omne discunt , ac turpe putant ab eo discedere
. Hinc fit, ut si memoriae pondus inutile au feras, nihil, praeter arroquarov
quoddam , maneat. Homunciones isti memoriae dumtaxat exercendae intenti ,
iudicii vero prorsus ex pertes , libros quosvis sine delectu memoriae mandare
adsueti , innumeris snnt expcsiti er roribus ; quotcnmque eorum oculis
subiiciun tur. Ne igitur adolescentes , qui memoriam tantum in Scholis huc
usque exercuerunt , eamdem premant viam , sibique pessime cou sulant : visum
est , cautionem hanc eo neces sariam , quo prima scientiarum hic funda menta
sternuntur , ipsis suggerere et inculca re, ut iudicium excolentes in aliorum
senten tiis ad examen rcvocandis , et ad eruendas inde propria meditatione
veritates apti red dantur. ver 2. In legendis Auctorum libris , prum
phrasiumque lenociniis ne conti eto : sed ut sententiam ipsis subiectam lare ,
ac distincte intelligas , pro vi ili curato. Ita vitabitur stupida illa aliorum
sententiis adquiescendi consuetudo , quae in caussa fuit, ut liberculi aliquot
ex transmontanis, transma rinisque regionibus huc appulsi stilo quodam auribus
pruriente tot incautos captarint ado D 3 78 Logic. pars. I. lescentes , quos
inter crassae incredulitatis te nebras errabundos non sine magno dolore vi
demus. Hi namque culpabili ignorantia verbis tantummodo adquiescentes, nec
sententias in tellexerunt, nec eas ad trutinam revocare sunt ausi , iudicandi
quippe facultate destituti. 3. Rerum, quas nondum distincte in telligis ,
definitiones proprio marte con ficito , ut ex iteratis' actibus , continua que
exercitatione habitum in eo adqui ras. Res quidem non parvi momenti erit,
multun que laboris impendendum , pauco forsan aut irrito eventu . Animo tamen
non deficiant a : dolescentes : ab exiguis enim initiis maxima procedunt ,
atque experientia tandem , qui sit huius canonis fructus , addiscent. Poterit
autem quisque imitando incipere , experiundo prosequi , ac notionum analysi
sednlam na vans operam felici demum exitu proficere. Vi de quae docebimus
infra. Caveto, ne res omnes definiri pos. vel debere, credas ; * aut definitio
nes verbis diversas re quoque differre putes. ** * Videantur interim a nobis
ante dicta G. 27. Gap. III. De definitionibus. 79 ¥ Si namque dantur synonyma ,
verba nempe et phrases eumdem habentes significatum, quidni definitiones illae
verbis diversae synonymicis erunt expressae terminis , adeo que re unum idemque
significare poterunt ? 5. Si e Philosopho Orator aliquan dofieri cupis ,
definitiones pro definitis adhibeto : tunc enim auditorum animos inani verborum
ambitu non fatig abis solidaeque doctrinae clarissimum dabis indicium . Exemplo
sit elegantissima M. Ant. Mureti pe riodus Part. I. Orat. 1. ubi de laudibus
Theo logiae acturus , amplificat syllogismun quam brevissimum has continentem
propositiones : Facultas hominem Deo con ugens est omnium praestantissima.
Egpyas a eius talis est . Nam si eorum omnium , quae in hac inmensa re rum
universitate cernuntur, unumquodque per ficiendi sui desiderio tenetur ; et
animus no ster ad similitudinem Divinitatis effictus tan to perfectior est,
quanto propius ad illud , a quo ductus et propagatus est , exemplar ac cedit :
dubitari profecto non potest , quia ea sit omnium praestantissima facultas ,
quae , quoad eius fieri potest , cum humanis divi na copulando , mortalitatem
nostram , quantum illius imbecillitas patitur, Divinae natura e ar ctissima
colligatione devincit. Vides hic Theo D 4 80 Logic. pars 1. logiae definitionem
, oratorio licet more pro latam , multum orationi pulchritudinis ac di gnitatis
adferre. 6. Definitionem tuam , si ab aliis di stingui exoptas , efformare
curato ; id que obtinebis, si intellectuales morales que virtutes tibi
comparare studueris. * Hi namque definitionis characteres esse de bent. Quod ni
facias in vulgi turba confu sus eris , nomenque tuum in tenebris , ob scurumque
manebit ila , ut vel patrio , vel alio adpellativo nomine indigitari debeas. Notional
Otionum analysin in adaequatarum idearum formatione consistere , snpra iam
ostensum est. Porro in hac o peratione ideam aliquam in partes , sive notas
dividi , hasque rursus in alias disper tiri , quisque novit qui earum naturam
habet exploratam . Tunc igitur idea illa ut totum consideratur , characteres
autem ut eius partes : adeoque non abs re analysis idearum verbis expressa
DIVISIO nominatur , * quae recte definitur , quod sit to tius in partes
resolutio . * Quum autem in divisione novae notarum de finitiones
suppeditentur: iure doctrinam hanc definitionibus subiungimus. 2 55. Quoniam
vero quidlibet ut totum considerari potest : variae totius relationes sunt
enatae. Et quidem 1. totum essan tiale quod constat ex partibus ad ajus
essentiam pertinentibus, 2. totum integra le , compositum nempe ex corporibus ,
quorum snmma eius integritatem constituit, 3. genus, quod plures species suo
ambitu comprehendit , 4. subiectum , quod plura accidentia sustinet , 5.
accidens quod pluribus subiectis inhaerere potest, 6. caus sa , quae plures
producit 7 effectus, qui a pluribus potet procedere caussis. Quidquid tandem
pro ratione obiectorum, circa ' quae versatur in tot partes distribui potest ,
quot sunt objecta . Inde ergo est , ut va riae a Logicis tradantur divisionis
species veluti TOTIVS sive essentialis , sive in tegralis , in suas partes,
GENERIS in suas species subordinatas , SVBIECTI in sua Accidentia in suos
effectus, EFFECTVS CAVSSAE , ACCIDENTIS in sua snb 7 , D 5 82 Logic. pars 1.
iecta , rei in suas caussas , denique caiusvis per sua OBIECTA. Primae classis
est haec : Homo dividitur in animam et corpus ; vel as dividitur in duo decim
uncias. Secundae : Animal dividitur in hominem , et brutum. Tertiae : Homo est
, vel doctus vel indoctus. Quartae : Bonum est. vel animi, vel corporis.
Quintae : Philoso phiae dogmata alia intellectuin instruunt, a. lia voluntatem
dirigunt. Sextae : Veritatis impugnatio, vel ab ignorantia, vel a malitia
procedit. Septimae denique : Philosophia theo retica alia circa res corporeas,
alia circa incorporeas et intellectuales versatur. 56. Totum illud , quod in
divisionem cadit , DIVISUM ; partes vero , in quas dispertitur , MEMBRĀ
DIVIDENTIA no minantur. Sin membra haec in novas rur sus partes resolyamus.,
SVBDIVISIO di citar. * * E. g. Homo dividitur in partes suas essentia les
animam nempe et corpus ; hoc autem in caput , truncum o et artus reliquos. En
subdivisionem , 57. Ex membrorum itidem dividentiam numero nova quoque
divisionis oritur dif ferentia. Si namque duo fuerint membra Cap. IV. De
divisionibus. 83 dichotomia sive DIMEMBRIS ; si tres ? trichotomia seu
TRIMEMBRIS ; quatuor tetrachotomia hoc est QVA TRIMEMBRIS divisio, appellabitur
. SI Sic bimembris erit divisio lineae in rectam , et curvam , trimembris
trianguli in aequila terum , isosceles, et scalenum ; quatrimembris denique
parallelogrammi in quadratum , rc ctanguluin , rhombum , et rhomboidem ., 58.
Quoniam divisio est totius in par tes resolutio ; totum autem ae quale partibus
simul sumtis esse debet : consequens est 1 . ut membra dividentia simul totum
adaequare debeant divisum adeoqne nec plus illo, nec minus compre hendant ; *
2. ut non sibi coincidant, sed repugnent, sintque per novas definitiones ,
easque oppositas , distincta ; ** 3. ut ex ipsa rei dividendae natura petantur
, scili cet in tot membra totum dividatur , capax est ; 4. denique ut ad
confusio nem vitandam prius idea totalis ab am biguitate liberetur , posteaque
divisio insti tuatur . i quot *** * Contra hanc regulam peccant , qui angulum
dividunt in rectilineum et curvilineum , vel qui lineam esse aiunt , vel rectam
, vel curvam & derari potest: vel mixtam . In primo enim casu membra di
videntia simul sunt diviso minora ; in se cundo autem eodem maiora. ** Huic
quoque regulae adversantur ii , qui bo. num dividunt in honestum , utile , et
iucundum: haec enim membra simul in uno coexistere debent, ut genuinam boni
denominationem tue ri possit : adeoque non sunt repugnantia . Peccant etiam ii
, qui licet totum in membra opposita distribuant , ea tameu definitionibus non
repugnantibus determinant, ut quum cns in simplex et compositum diviserunt, et hoc
esse dicunt, quod partibus constat : illud contra definiunt per id , in quo
nihil consi *** Repréhensionem ergo .eruditorum merito incurrunt Ramistae , qui
tam superstitiose di .chotomiis adhaerent , ut in plura membra totum dividere
irreligiosum putent. Nec ali ter iụdicandum est de iis , qui nimiae mem brorum
multiplicitatis sunt amatores . Idem enim vitii, inquit Seneca , habet nimia ,
quod nulla divisió. Ep. 89. 59. Quum autem divisiones et subdi visiones potionum
analysin contineant, haec autem in idearum adaequa tarum formatione consistat,
ideo que ad maiorem distinctionem in nobis producendam sit comparata : sequitur
5. ut divisionibus aeque , ac subdivisionibus, quae iisdem ' reguntur regulis ,
omnia vi tentur , quae confusionem adferre possunt; proindeque 6. liquido
patet, non licere p? as ter necessitatem subdivisiones multiplicare, ne memoria
fatigetur , ac intellectui veių. ti tenebrae offundantur , Schol. Haec de
divisione . Ad hujus porro doctrinae usum nunc transeamus quem paucissimis inde
nascentibus include mus regulis . Logicae itaque Tiro utilissi mos aeque , ac
necessarios hosce discat CANONES, In dividendo subdividendove non aliorum
systemata , sed naturam tantum consulito . * Confusionem aeque , ac tae dium
vitare curato. * Hoc namque modo nec Ramistarum supersti tiosa restrictio , nec
Scholasticorum nimia di visionum membrorumque multiplicatio locum habebit.
Natura enim omnium optima, et ad curatissima est magistra. 2. Divisiones ne per
saltum facito. * Ordinem ac seriem in unaquaque re ser vato. Dicitur autem
civisio per sattum , quae ordi... nem non scrval , et in qua ea , quae in sub
divisione cxprirai deberent , comprehendun tur : e.g. si ideam diviseris in
claram et ina daequatam , divisionem conficies per saltum; inadaequatam enim quae
in subdivisionem ingredi deberet in divisione locum habere observas. Series
ergo atque ordo ne pertur betur, quisque in studia incumbens cavere stu deat.
CAPVT QUINTVM De iudiciis , et propositionibus , 6o. Hactenus de ideis ,
earumque ana lysi, quantum instituti brevitas tulit, actum . Eas vero si
comparemus , scilicet si duas ideas inter se coniungamus vel separemus, alia
mentis oritur operatio , quae IVDI CIVM adpellatur. Est autem iudicium duarum
idearum comparatio earumque relationis perceptio. Iudicium porro ver bis
expressum dicitur PROPOSITIO vel E NUNCIATIO. ** * E. g . Si ideam spiritus cum
idea indestructibi litaiis conferas , videasque unam alteri conve nire , tunc
spiritum esse indestructibilem ndi cas : contra , si indestructibilitatis ideam
cor Cap. V. De iud . et prop . 87 separas: haec poris notioni non convenire
observes ,corpus non esse indestructibile colligis. In primo ca su ideas
coniungis ; in altero mentis operatio , qua earum relationem ex pendis, iudicii
nomine venit. ** Nonnulli discrimen inter haec duo nomina statuunt: ut prius
locum inveniat, si in syllo gismo spectetur ; posterius vero , si extra id
inveniatur. Sed in re tam parvi momenti diu immorari, foret ineptum. 61.
Quoniam iydicium duas ideas compa rat , et si verbis exprimatur , propositio di
citar ( $ . 60. ) ; idearum vero signa sunt voces seu termini: liquet, quam
libet enunciationem duobus constare termi nis , quorum ille , cui aliquid
convenire vel discrepare ennuciatur, SVBIECTVM ; is vero , qui subiecto
tribuitur vel ab eo removetur , ATTRIBVTVM vel PRAEDICATVM nomiuatur , qui duo
simul pro positionis EXTREMA dici consueverunt. Quumque eorum nexus verbo
substanti vo exprimatur : merito vox illa ex hoc verbo desumta , quae propositionis
extrema coniungit , COPVLA vocatur. E. g. In hac propositione, “Deus est
aeternus,” Deus est subiectum , quia ipsi tribuitur aeternitas ; aeternus
dicitur attributum, quia Deo convenire enunciatur ; vox deniqne “EST”, quae duo
haec extrema coniungit, atque unum al teri convenire indicat , copula , hoc est
coniunctio , adpellatur. Hinc ergo colligitur, quain cumque propositionem
SUBIECTO, COPVLA, et ATTRIBVTO constare debere , ut enunciatio LOGICA PERFECTA
dici pos sit. Si namque horum aliquis lateat , CRYPTICA, vel IMPERFECTA dicilur
, quia naturalis compositio crypsi aliqua tegitur: id autem accidit, quum
verbuin aliquod copulae et attributi vices sustinet e. g. Deus mundum creavit :
idem enim esset ac dicere : Deus est Creator mundi. Est et alia propositionum
crypticarum species , iu quibus sub uno verbo tota enunciationis latet
compositio per ellyp sin eruenda : ut in illis : veni , vidi , vici : hic
namque tres iusunt enunciationes ex iis dem verbis repetendae , nempe: “Ego
fui-ve nens , ego fui videns , ego fui vinccns.” QvanVandoquidem in qualibet idearum
comparatione sex potissimum con fiderari possunt, scilicet: materia , sive
ideae quae comparantur; forma, seu comparatio ipsa ; qualitas comparationis;
eiusdem quantitas ; objectum, 6. denique evidentia relationis : ideo sub
totidem adspectibus propositiones intueri possumus ; videlicet, ratione MATERIAE,
FORMAE, QVALITATIS, QVANTITATIS, OBIECTI, et EVIDENTIAE. Quamvis autem hunc ordinem
divisionis natura suppeditet : liceat nobis in hac tractatione qualitatem ante
omnia perpendere , utpote quae in aliis distributionibus usui esse debet;
quaque postposita , nonnulla obscuritate laborarent. Propositionis QVALITAS
consistit in extremorum combinatione tione. Quum ea coniungimus , scilicet prae
vel separa dicatum subiecto convenire enunciamus ADFIRMARE dicimur; NEGARE
contra, si illa seiungamus, seu unum ab altero discrepare pronuntiemus. Recte
igitur omnis propositio, si qualitatem spectes, dividitur in AIENTEM et
NEGANTEM. E. g. Quum dico, “Mundus est contigens”, praedicatum cum subiecto
coniungo, adeoque de mundo adfirmo esse contingentem. Quando vero enuncio,
“Mundus NON est aeternus”, extrema seiung , idest aeternitatem a mundo removeo
et hoc est quod dicitur negare. Ex quo vides, negationem (“NON”) copulae
praepositam reddere propositionem negantem: quod si non copulam, sed terininorum
ali quem, vel eius partem negatio afficia , non negans, sed INFINITA orietur
enunciate. E. g. Marcus Aurelius Romano Imperio pote ral non nocere, quia
Philosophus. Distinctio haec aliter ab aliis enunciatur, scilicet in
adfirmativam et negativam . Vtrum que apte. 64. Si ad propositionum materiam attendamus,
eae sunt vel SIMPLICES, vel COMPOSITAE. SIMPLEX enunciatio dicitur, cuius
termini plures non sunt sed unuin habet subiectum , et unum prae dicatum; COMPOSITA
vero, quae plura > Cap. V. De iud . et prop 91 continet vel subiecta, vel attributa;
eaque est vel EXPLICITA, si compositio sit mania festa, vel IMPLICITA,
Scholastico nomine EXPONIBILIS , si compositionem habeat latentem , et paullo
obscuriorem. Addunt alii enunciationem COMPLEXAM eamque haberi aiunt , quoties
terminus ali . quis propositionem contineat incidentem sibi adnexam , quae ,
licet ad essentiam proposi tionis non pertineat , ad eam tamen intelli gendam
plurimum confert , exprimiturque per pronomen relativum QVI. E. g. Plato , qui
divinus fuit dictus , ideas innatas admisit. Propositio illa , qui divinus fuit
dictus , in , çidens est. Sed distinctio haec in Logica aut parvi , aut nullius
fere est momenti. Simplex ergo erit propositio : Deus est ae. ternus , iten que
: aer est gravis. *** In quo vero consistat palens , vel latens compositio , ex
sequentibus abande patebit , ubi de explicitarum implicitarum que enuncia
tionum speciebus sermo erit. Id porro sedulo observandum , in compositis non
unam , sed plures contineri enunciationes , id quod ex earum analysi poterit elucescere.
EXPLICITA enunciatio dividitor in CONDITIONALEM; CONIVNСТАМ; DISCRETAM;
CAVSSALEM; DISIVNCTAM et RELATAM. Conditionalis, alio nomine hypothetic , est,
quae praedicatum habet subiecto tributum sub aliqua conditione: e . g. “Si
mundus est ens contingens , non exsistit a se” -- in qua prima pars conditionem
, altera propositionem continet. De hac autem observandum. I. conditio
existentiam non largitur : visi enim veritatem adquirat , enunciatio vera esse
non potest. Sic si dicas, “Si navis ex Asia venerit , centum tibi me daturum
promitio”: promissio vera non erit , nisi navis ex Asia redux fuerit ; 2 .
conditio impossibilis habet vim negandi. Et -recte : nam conditio impossibilis
numquam in exsistentem abire poterit ; adeoque enunciatio nullibi veritatem
adquiret. Vnde idem est di cere : si digito Coelun tetigeris , centum ti bi
dabo , ac si diceres : numquam tibi dabo centum : conditio namque impossibilis
est. Coniuncta , sive copulativa dicitur , in qua termini ita connectuntur, ut
de pluribus su biectis idem attributum; vel plura altributa de eodem subiecto
enuncientur. E. g. “Iustitia et prudentia sunt virtutes”; “Deus est aeternus et
omnipotens”. Disiuncta, vel disiunctiva
est , in qua uni subiecto plura tribuuntur praedicata, vel u Cap. V. De iud. et
prop. 93 num attrubutum pluribus subiectis , ut plu ribus unum , vel uni plura
conveniant , licet indeterminate. E. g. Aut doctus eris , aut in doctus. Quae
de hac observari merentur , con fer in S. 58. cur ( 1 ) Caussalis est , in qua
ratio additur , praedicatum subiecto tribuatur. E. g. Vitia nostra , quia
amamus , defendimus: Politicas quia prudentiae regulas tradit , sedulo exco
lenda, 1 Discreta dicitur , quae duo de eodem s biecto judicia continet
qualitate diversa : ut illud Horatii. Coelum , nou animum mutant , qui trans
mare currụnt. Item illud Terent. andr. 1. SC. 2 . Davus sum , non Oedipus.
Relata , seu relativa est, cuius una pars ab altera vim sunnit, ad eamque
refertur ut il lud Virgilii Georg. II. v
. 291. et quantum vertice ad auras Aetherias, tantum radice in Tartara tendit.
IMPLICITAE vero species sunt EXCLVSIVA; EXCEPTIV;
COMPARATA RESTRICTIVA: licet alii quoque inceptivas , desitivas, et
'reduplicativus adiungant. Exclusiva est, in qua sensus duplicatur per
particulas exclusivas solum, tantum, dumta xat etc. , estque vel exclusi
praedicati, e. g. oculus tantummodo videt. Exceptiva est, in qua particulae
exceptivae praeter, nisi, et similes, sensum multiplicant. E. g.: “Omne ens,
praeter Deum , est contingens.” Comparata cicitur propositio, vel particu la
quaedam comparativa relationem adferat inter subiectum et praedicatum, ita ut
ge mipus inde emergat sensus e. g., “ira est amore validior. Restrictiva denique est, quae multiplicem
continet sensum per particulas restrictivas. quatenus , in quantum , quoad etc.
geminatum. E. g.: Ilomo , quoad corpus ', est mortalis. INCEPTIVAS vocant, quae
actionem aliquam in principio enunciante, ut: successio temporum a creatione
incoepi ; DESITIVAS, inquibus ejus cessatio et finis praedicatur, ut: tutela
pubertate finitur: REDVPLICACIVAS denique , in quibus subiectum geminalum at
liud iudicium continet tacitum. E. g. “Corpus, qua corpus est , a spiritu
differt. Sed de his plura coram. Si enunciationis FORMAM spectemus, erit
NECESSARIA, CONTINGENS (fortuitam Cicero adpellat), POSSIBILIS, IMPOSSIBILIS:
in quibus si necessita , contingentia , possibilitas etc. reticeantur, ABSOLVTAE
dicentur ; si vero exprimantur, MENTALES. Necessariam dicimus, cuius extrema
ita contiunguntur, ut aliter se habere non possint. E. g. “Circulus est
rotundus”. Contingens est, cuius termini nullam neces sariam habent
connexionem, sed ita cohaerent, ut aliter esse queant. E. g.: “Crastinus dies
erit serenus”. Possibilem vocamus, in
qua attributum sn biecto non repugnat, ut cera liquescit. Impossibilis dicitur
proposition, cuius termini inter se repugnant, ut, “Circulus est quadratus”.
Ratione OVANTITATIS enunciatio dividitur in VNIVERSALEM, si attri butum
subiecto in tota huins 'extensione conveniat; PARTICVLAREM, si ad aliquas
tantum species, ant individua in subiecti notione contenta extendatur; denique
SINGVLAREM, si individuum subiecto exprimatur, Addunt alii inde finitam, sed
eam non esse ab universali dstinctam, infra abunde patebit. in. Alia universalem
vocant propositionem, qua ratio sufficiens, cur praedicatum subie cio
tribuatur, latet in ipsa subiecti natura, scilicet, si praedicatum sit
attributum essentiale subiecti. Ita haec enunciatio, “Homo est libertatis
capax”, est universalis tum quia subiectum in tota eius extentione sumitur
nullus enim homo invenietur, nullus enim homo invenietur, cui libertate careat;
tum quia ratio sufficiens , cur libertas homini trihuitur, latet in ipsa
hominis ESSENTIA et natura , hoc est, ut Scolastici aiunt, rationalitate.
Signum universitatis in aiente propositione est “OMNIS” (italiano: “ogni”); in
negante NVLLVS. Quae de universalitate metaplıysica et morali Philosophi docent,
ea hic persequi brevitas non patitur, sed in ipsis praelectionibus aliqua no
tabimus. Particularem propositionem alii esse dicunt, in qua ratio sufficiens;
cur praedicatum subiecto naturam est repetenda; E. g. “quidam homines sunt
crudili”. Vides hic subiectum non in tota sua extensione accipi, sed ad aliqua
tantum individua extendi, ita ut ratio sufficiens, cur homini eruditio tribuatur
hominis naturam inveniatur, scilicet in studio aique exercitatione.
Particularitatis nota est QUIDAM, ALIQVIS; in negante vero additur particula
NON. E. g., Livius Romanorun historiam
ad sua usque tempora scripsit. En propositionem singularem : subiectum enim est
terminus singularis. 6g. Ex quibus omnibus consequitur v . ad essentiam propositionis
universalis non reqniri notam uuiversitatis, sed eam pro lubitu exprinii vel'
omitti posse; INDEFINITAM dici propositionen in qua pota reticetur ac proinde
recte a Philosoplus adfirmari, propositiones in definitas aequipollere universalibus;
qui nimmo, signum universale numquam efficere posse, ut enunciatio talis
evadat; falli ergo eos, qui universalem propositio hem defipiunt per eam, cuius
subiectum signo aificitur universali; particula rem facile in universalem commutari
pos se, si subiecto addatur ratio suficiens, cur ei convcniat allributum,
Ecquis enim propositionem hanc: “Omnis homo est doctus”, ideo universalem esse
aufirmabit, quia signo universali subiectum adficintur? Hinc si propositionem
universalem particularibus , vel particularem universalibus terminis signisque
exprimamus a veritate deficiet, ut suo loco dicemus. Sumas e. g. hanc
propositionem: “Quidam homo est philosophus”, habes propositionem particularem.
Adde snbiecto caussam, cur de homine esse philosophum enunciatur. scilicet
scientiam; eamque sequenti modo exprimito: “Omnis homo scientia praeditus est
philosophus”, ex particulari in universalem abibit. Mirum quantum transmulalio
ist haec in scientiis prodest. Ab ea enim pendet propositiomm analysis; puta
earumdem resolutio in hypothesin ct thesin. Nobis in secunda part , ubi de
experientia sermo erit , huius modi commutationis usus erit obiter attingen
dus. Iuvat hic compendii loco addere , veteres harum propositionum differentiam
quatuor vocalibus indicasse: “A”, “E”, “I” et “O”, id quod se quentibus
expressere versiculis: Asserit “A”, negat. “E”, verum universaliter ambae.
Asserit I , negat O , sed particulariter ambo: De rat. et Syll. S E Ć T10 11.
De propositionibus mathematicae methodo inservientibus. Ostrema enunciationum
divisio quae earum obiectum, et evidentiam res spicit, ea est, quae in
recentioribus Phi osophorum et Mathematicorun scriptis pas sim observatur
peculiaribus desiguala nominibus, quaeque a nobis ideo distincte tradenda, quia
me!l dun mathematicas in hisce justitutionibus sequi statuimus. Ratione ilaque
OBIECTI pto positio est vel THEORETICA, in qua a liquid de subiecto enuncialur,
vel PRACTICA, quae aliquid fieri posse aut debere adfirmat. Sic propositio
theoretica est haec, “Omnes ro dii eiusdem circuli sunt aequales”. Practica
vero: “Quovis centro et intervallo circulus describi potest. Vides hinc,
theoreticam propossitionem veritatis alicuius enunciationem; pra cticam vero
operationis faciendae expositiouera continere, Quo ad EVIDENTIAM enunciatio vel
talis est, ut extremorum nexus per se clare pateat, vel quae demonstratione in
digeat. Illa INDEMONSTRABILIS, haec DEMONSTRABILIS dici consuevit. Quibus
enodatis, ad peculiaria propositionum nomina explicanda transcamus. Indemonstrabilis
ergo est enunciation, “Totum sua parte maius est”. Demonstrabilis . contra
haec: “Scientia Philosopho est necessaria”, ea enim ex collatione definitionum
scientiae et philosophi debet demonstrari. Propositio indemonstrabilis
theoretica dicitur AXIOMA. Si vero practica fuerit, POSTVLATVM vocalır. E.g. “Totum est aequale omnibus suis partibus
simul sumti”. D. de Tschirnausen axioma vocat quamcumque propositionem ab unica
definitione immediate deductam ; Euclides au tem illam , quae primo intuitu ab
unoquoque perspici potest. Res eo redit , ut axioma vo cemus enunciationem per
se claram , adeoque demonstratione non indigentem , sive a defini tione , sive
aliunde evideutiam suam repetat: ac proinde nostra definitio utramque
amplectitur sententiam , ut diffusius coram ostendemus. ** E. g Quovis centro
ac quovis intervallo cir culum describere. Coguita enim circuli defini tione ,
postulati huius veritasan. scitur, Cap. V. De iud. et prop. IOL Enunciatio
theoretica demonstrabilis THEOREMA vocatur; practica contra dicitur PROBLEMA. In
Theoremate ergo propositionis veritas ex plurium definitionum collatione
demonstrari debet. E. g., “Deus est aeternus” Huius enim demonstratio ex
definitionibus Dei , et aeter ni inter se collatis peti debet. Hinc est, ut
duabus illud constet partibus , nempe enunciatione, qua veritas șive propositio
theoretica enunciatur, et demonstratione, qua ea dein confirmatur : ideoque in
fine demonstra tionis addi solet Q. E.'D. , hoc est , “quod erat
demonstrandum.” Quum Problema sit propositio practica, pa lam est , illud
tribus absolvi, propositione sci licet, quae quid faciendum proponit,
solutione, quae modum, quo fieri potest, ostendit, et demonstratione, quae rem
bene processis se concludit , addends, “Q. E. F”. idest, “quod erat faciendum”.
Sic problema est haec enunciatio : Commiserationem in altero excitare. COROLLARIVM,
sive CONSEOTARIVM dicitnr quaevis enunciatio, quae ab alia immediate, et
necessariae consequutione oritur. E. g. Cuum demonstraveris propositionem E T.
hanc : Nihil est sire ratione sufficiente , per teris inde eruere corollarium;
Ergo, id omne, quod ratione sufficiente destituitur, nec est , nec esse potest. SCHOLION, seu SCHOLIVM, est oratio, qua
illustratur quidquid in propositione obscurum videbatur. In eo igitur doctrinae
usus exponitur, historia narratur, auctorum sententiae referuntur aliorum
obiectiones proponuntur et refelluntur, ce teraque observatu digna enucleantur:
ut videre est in omnibus Mathematicorum , et Philosophorum recentium scriptis. LEMMA est proposititio ex aliena disciplina
desumta, quae tamen ad demon strandum aliquid in doctrina , quam tra ctamus in
subsidium adhibetur. Ita Aritmetici in costructione quadratornm et cuborum
lemmata ab Algebra muluantur, ut est propositio illa : Cuiuscumque numeri bi
partiti quadratum aequatur quadratis parti una cum facio dupli partis unius in
al teram lucti. um Cap. V. De iud. et prop . 103 S E C T10 lll . De
propositionum adfectionibus. HaecAec de enunciationum diversitate. Superest ,
ut de earum adfectionibus pau ca dicamus , de quibus quamplurima in Scholis
praecipiuntur laboris quidem plena, vtilitatis autein expertia. Ad propositionum
adfectiones referuntur: OPPOSITIO,
SVBALTERNATIO, CONVERSIO, et AEQVIPOLLENTIA. OPPOSITIO est duarum
proposi tionum inter se pugnantium collatio : estque vel CONTRARIA , si earura
utra que sit universalis in qua propositio nes ambae possunt esse falsae , sed
non ambae verae ; vel CONTRA-DICTORIA, si etiam quantitate differant , *** in
qua enunciationum illarum necessario una ve ra esse debet , altera falsa ; vel
deni que SVBCONTRARIA , si ambae sint par ticulares , **** in eaque
propositiones am bae verae , at non ambae falsae esse possunt. * Sic oppositae
sunt hae propositiones : Omnis E 4 spiritus cogitat ; nullus spiritus cogitat:
pu. gnant enim inter se , quum de eodem subie cto idem una adfirmet, altera
neget. ** E. g. Omnis homo est ratione praeditus : nullus homo est ratione
praeditus, quarum una vera est , altera falsa. Possunt tamen da ri casus , in
quibus ambae falsae sint , veluti huum unirersaliter enunciatur , quod particu
lariter proferri debebat. E. g. Omnis homa est eruditres : nullus homo est
eruditus. Om nibus enim tribuere quod quibusdam tan tum convenit , est falsum
dicere dicere, ut infra videbimus. *** Ita propositiones : Omnis spiritus
cogitats quidain spiritus non cogitat , sunt contradi ctoriae , earum enim una
universaliter ait, al. tera particulariter negat. Iure igitur exclusa altera
includitur , et contra : nam falsum est a quibusdam removere quod omnibus con
renit , vel aliquibus tribuere quod nulli com petit. ***** Talis est sequens
oppositio Quidam ko mines sunt divites : quidam homines non sunt divites :
Vides hic ambas propositiones veras esse. Quod si dicas : quidam homo est liber
: quidam homo non est liber, quum haec falsa sit , altera vera esse debet.
Rationem eius re gulae , ne longius provehamur , coram dabi una , mus. 7SVBALTERNATIO
est duarum Cap. V. De iud. et prop. 105 propositionum sola quantitate differen
tium , sed eosdem terminos habeniium mutua quaedam relatio. Vniversalis enun
ciatio SVB-ALTERNANS ; particularis vero SVB-ALTERNATA, a Logicis dici con
suevit. * De qua adfectione duo notanda occurrunt : 1. Veritatem subalternantis
veritas quoque subalternatae consequi tur , non contra ** . 2 : Falsitas propo
sitionis ' subalternatae falsitatem etiam subalternantis arguit , non autem con
tra. E. g. Duarum propositionum : , Omnis homo est eruditionis capax ; quidam,
homo est eruz ditionis capax , illa subalternans , haec subal ternata dicitur.
** Sic quum ia superaddito exemplo verum sit , omnes homines doctrinae esse
capaces , verum quoque erit, quosdam homines doctrinae capa ces esse. Ratio
huius regulae est. Contrariae ambae verae esse non possunt ( S. 78. ). Si ergo
'subalternans vera sit; eius contrará falsa erit. Quum autem huic contradıcat
subalterna ta , et in contradictoriis necessario una sit , altera falsa ( C.
eod. *** ) , liquet subal ternatan necessario verum esse debere ; alias , enim
in contradictione falsitas ex utraque par te daretur , quod est absurdu :n.
Contra ea si verum est , quosdam hom nºs esse eruditos vera E 5 106 Logica
Pars. I. cui quum non certe infertur omnes homines eruditos esse . *** Si
namque subalternata est falsa , eius con tradictoria vera erit; sit contraria
subalternans , haec non poterit non esse falsa , adeoque subalternae falsitatem
necessario sequi. E.g.Falsum est, aliquem spiri tum esse mortalem : falsum
qnoque erit, omnem spiritum esse mortalem . At şubalternantis fal sitas non ita
subalternatae falsitatem includit. Quum enim in subalternante , utpote univer
sali , subiectum in tota sua extensione suma tur ( $. 68. ) , poterit attributum
aliquod extra subiecti naturam rationem sui habere sufficientem , adeoque
aliquibus tantum spe ciebus , aut individuis conveniens propositio piem
efficere particularem ( f. eod. *** ). Fal sa in hoc casu' erit subalternáns ,
non vero subalternata. Hinc si falsuin est , omnes homi nes ésse doctos, non
ita falsum erit , quosdam homines esse doctas. 80. CONVERSIO est mutua
extremorum salva enunciationis veritate , substitutio Ea fit tribus modis ,
scilicet 1. SIMPLICITER , quum eadem qualitas et quantitas manet ; 2. per
ACCIDENS , quin quan titas sola mutatur ; 3. denique per CONTRA-POSITIONEM ,
quum salva pro, positionis quantitate , terminis additur ne galio , qua fit ,
ut enunciatio lex determi pata in infinitam abeat. Cap. V. De iud. et prop :
107 * Scholerum est ha ec doctrina a nobis recensi ta in gratiam eor um , qui
huiusmodi loquite tiones scire cupiu nt ; sed non caret sua uti litate ; imo
haud raro est necessaria, Sim plex igitur est conversio : Omnis spiritus est
substantia cogitans : omnis substantia cogi tans est spiritus. ** E. g. Omnis
doctus est homo , copyertitur per accidens hoc modo : ergo quidam homo est
doctus. *** Sic : Quidam homo non est. pius , per con trapositionem convertitur
: ergo quoddam non pium est homo. Sed quorsum haec ? ais. Con fer, Dan.
Richterum diss. de convcrs. propo • sition. Halae 1740 AEQUIPOLLENTES denique
dicun tur enunciationes , quae verbis licet di versae , cumdem tamen sensum
habent. * Duae ergo propositiones synonymicis termia nis expressionibusque
prolatae aequipollentes sunt, nempe eumdem valorem habentes. Ego Omne animal
vivit et sentio : nihil tam ani manti proprium est , quam vita et sensie. Quae
de his postremis propositionum adfectionibus laboriosius a Scholasticis
traduntur , tempus terendum potius , quam ad rationein excolendam sunt
adcommodata. Nobis haec tantum notasse sufficiet. Schol. Quae de iudiciis , ac
propositio nibus cupidae iuventuti observanda arbitra. mur , ea paucis
exponenda supersunt. Qua propter tironi Philosopho sequentes tenea di sunt CANON
ES , 1 , Q Voniam iudicia sunt sapientiae , vel stultitiae fidelia indicia ,
par cius iudicato ne aliis sis ludibrio teque in errorem temere coniicias. 4 *
Sensus namque communis a iudicandi peritia scientiam hominis metiri solet. Ea
de re quum de alterius sapientia vel stultitia iudicium proferre volumus eum
criterio pollentem pel carentem adpellamus. 2. De nuila re , nisi cuius adaequa
tam , aut saltem distinctam habes ideam, iudicium proferto, tuum . Idearum enim
confusio praeiudiciorum mater est fera cissima. * Quum enim rerum , de quibus
iudicare volu mus , distinctatu vel adaequatam habemus ide am : tunc eas
undequaque cognoscimus , re lationesque perpendimus ; adeoque termino rum
nexibus optime coguitis , recte iudiça þimus, Cap. V. De ind . et prop. 109 4.
In vel tuo i quocumque iudicio vel alieno caussam et rationem atten te
perspicito , cur tales ideae tali modo coniungantur vel scparentur , nec alio .
* * Etenim infra abunde patebit , verae prope, sitionis criterium esse , si
ratio sufficiens ad. sit , cur praedicatum subiecto tribuatur , vel ab eo
removeatur. Tali ergo ratione perspem cta , non poterit iudicium non esse verum
; ac proinde errandi metus procul aberit. 4. Praecipitantiam fugito : ideoque
in iudicando tardus , in enunciando tardior esto, ne levitalis errorisve
arguaris. Me mento Augustini praeclarum illud : ver IA BIS AD LIMAM , SEMEL AD
LINGUAM , Ne cit enim , monente Horatio , vox missa Leverti. Notum est
responsum illud nescio cui num quam loquuto , ac pro sapiente seinper habi. to
, datum , postquam semel toqui voluit : Si tacuisses , Philosophus mansisses.
51. De moribus , et viia hominum num uam iudicato . Nemo enim alterius in er
est a Deo constituius: > Hinc sapientissimum illud Servatoris nostri 110
Logica Pars. I. monitom gauctiope muniiuin habemus Matth. VII. 1. Nolite
iudicare , ut non iudicemini. Qua vero ratione praeceptum istud homini bus
inculeatum sit , ostendemus in Iure Naturae . Quoniam duarum idearum convenien
tia , aut discrepantia non semper unica intuitu aguosci potest , adeoque dan
tur veritates demonstrabites( s 71. ) ; de monstratio autem ratiociniorum serie
absol vitur: ordinis ratio postulat , ut de ratiocinatione verba faciamus. Est
vero RATIOCINATIO, sive RATIOCINIVM , actio mentis , qua ex duobus iudiciis no
tionein communem habentibus tertium eli citur ; vel practice est duarum idearum
cum teriia comparatio', earumque rela tionis. deductio . Ratiocinium porro
verbis expressa dicitur SYLLOGISMVS. * Quando igitur mens de veritate iudicii
alicu ius nouduin certa , eius extrema , sive ideas confert cum idea aliqua
tertia , et ab earum convenientia vel discrepantia , tertium elicit Cap. IV .
De rat. et Syll. III iudicinm : tunc ratiocinatur , hoc est rationes conficit ,
ut veritatem inveniat. E. g. Ut sciat, an aer sit gravis comparat ideam aeris,
et ideam gravis ; cum tertia idea corporis , ob servatque , num inter eas adsit
convenientia : qua comperta , duas illas ideas inter se quo que convenire
concludit hoc modo : Omne corpus est grave : Aer est corpus ; Ergo aer est
gravis. En ratiocivium . Quod si verbis exprimatur , erit syllogismus. 83.
Experientia teste scimus , duas ide as cum tertia triplici modo comparari pos
se : vel enim cum illa conveniunt , vel u na convenit , altera discrepat , vel
ambae ab ea discrepant. In primo casu elicitur ter tium iudicium aiens , in
secundo negans, in tertio vero nihil exsurgit. Totum ergo ratiocinii pondus
duobus his axiomatis con tinetur : nempe 1. Quae conveniunt cum aliquo tertio
ea conveniunt inter se : 2. Quorum unum tertio cuidam convenit, alterum autem
ab eo discrepat , illa in ter se quoque discrepant * Primum axioma est ratio
sufficiens syllogismi aientis ut videre, est in exemplo supra al lato ; alterum
negantis : e g . Qui Deo servit non servit Mammonae: sed Christianus Deo. 1.
servit: ergo Christianus non servit Mamm onae. Vides hic duaru n idearum
Christiani et Mam monae servientis., alteram convenire cnm ter tia Deo
serviendi , alteram vero ab ea di screpare : unde infertur a se invicem
discrepare. 84. Ex quibus rebus clare consequitur 1. in omni ratiocinatione
tres tantummodo ideas esse debere, adeoque 2. in omni syllogismo tres tantuin
terminus; * unde 3. si plures ad sint tirinini ; guain tres , syllogisuum es se
falsum . ** Quumque tres ideae totidem combinationes adinittant ( per exper. )
: sequitur 4 : ratiocinium tria quoque iudicia continere ; ac proinde 5.
syllogismum tres, nec plures , enunciationes admittere) Advertendum hic , tam
terminos , quani pro positiones syllogismums, componentes y pecu liaribus a
Logicis ' donata fuisse nominibus. Et ut a teruninis incipiamus , praedicatum
tertiae propositionis ,, quae principalis dici potest , MATOR adpellatur ,
subiectum eiusdeni , MINOR ; {erminus vero , qui tertiam ideanı ex . primit ,
quique rationem continet suffizientem couvenientiae , vel repugnantiae termini
ma ioris cum minore, MEDIUS voćatur. E pro, Cap. V. De iud. et prop. 113 >
positionibus etiam illa , in qua medius cum maiore confertur, MAIOR, vel PROPOSITIO
simpliciter ; illa , in qua medius cum minore comparatur, MINOR vel ASSUMPTIO;
ambae vero PRAEMISSAE dicuntur , propositio denique, quam principalem supra,
adpellavimus CONCLUSIO COMPLE xto , a Scholasticis CONSEQUENTIA nos minantur.
Sic in primo exemplo gravis est terminus maior , aer minor , cor pus est
terminus medius , adeoque prima pro positio est maior , altera minor , tertia
con clusio . * Solet enim quandoque quartus irreperę ter. minus , et
syllogismum corrumpere , idque raro patenter; nam saepius in termino aliquo ,
vel compositione latet. Fieri hoc potest 1 . per aequivocationem , ut fi
terminuin aliquiem yagnum adhibeas in sensu diverso : eg: Vilpes habet
qualuorpedes , Herodes est vulpes ; er go Herodes habet quatuor pedes. In quo
ob servas vocem vulpes prino proprie ; secundo vero metaphorice suintam ; 3.
per supposi tionis mutationem , ut si idem terminus ma terialiter in una ,
formaliter in premissarum altera sumatır . E. g. Iinne ens est generis
neutrius: femina est ens, ergo fernina est ge neris ncutrius , in quo nocens in
miori gran . matice ; in minori philosophice anceptum est; 3. per confusionem
termini abstracti cum con creto . E.g. Omnis prudentia est habitus bo nus :
Titius est prudens: ergo Titius est ha bitus bonus. Tres ergo enuuciationes
syllogismi materia dici possunt : forma namque legibus absolvi tur , quas infra
'exibebimus. 85. Quamvis vero ratiocinium tam fa cilis exequutionis primo
intuitu videatur : difficilis tamen admodum est termini me dii , qui communis
idearum mensura est inventio. Sed ut omois difficultas evanescat, experientiam
philosophiae matrem consule re decet. Ea enim duce discimus , mentem postrani
in ratiocinando duplieem ingredi viam : vel enim notionum alteram ad pro prium
genus , vel speciem revocat , et quid quid his convenit , illi quoque tribuit ,
vel definitionis characteres evolvit , eosque al . teri convenire observans
definic tum quoque coniungit. Duplex ergo est medium inveniendi methodus :
altera sub iectum ad genus , vel speciem , sub qua continetur , reducendi,
eique tribuendi , vel adimendi quidquid ideae genericae con vepit , vel ab ea
discrepat ; altera attributi definitionem cum subiecto comparandi , et ab eorum
convenientia vel discrepantia , praedicati quoque cum subiecto coniunctio nem
eruendi. cum ea Cap. IV . De rat. et Syll. Exemplo sit sillogismiis supra adductus.
Scire cupis , aer sit gravis ? Reduc subiectum sub genere corporis , et vide ,
utrum huic conveniat gravitas , eam de aere quoque enunciabis , ita
ratiocinando. Quodlibet corpus est grave , aer est corpus : ergo aer est
gravis. Haec erit prima medium inveniendi methodus. Rursum gravitatis defi
nitionem evolve , eiusque characteres , nem pe corporum inferiorum pressionem
confer cum aere. Quumque ei conveniant , attribu tum cum subiecto coniunges hoc
modo : Quidquid corpora inferiora premit , est grave: Aer premit corpora
inferiora : Ergo aer est gravis Habes hic alteram medium inveniendi me thodum .
Eodemque modo in aliis ratiociniis investigando procedes : quod si adcurate ser
ves , numquam tua te fallet ratiocinatio . 86. Ex hoc principio fluunt
sequentes regulae ratiocinii fundamentales. I. Quid quid convenit generi vel
speciei , conve nit etiam omnibus speciebus , et indivi duis eorum ambitu
conteniis. 2. Quid quid repugnat vel generi specici, repugn it omnibus quoque
speciebus , et individuis sub iisdem contentis. * 3. Cui convenit definitio , convenit pariter definitum : ac
proinde 4. a quo discrepat definitto , di screpat etiam definitum . * Vides
ergo ideam mediam semel universaliter sumi debere , quia ideam universalem , ge
. mus nempe vel speciem , exhibet. Quod si bis particulariter sumeretur ,
ratiocininm vi tio laboraret , ut infra dicetur. Quumque praedicatum tam latc
pateat , quam subiectum cui tribuitur , ut cuique manifestum est : li quet ,
propositionem , in qua medius vicem praedicati sustinet , particularem esse.
Debet ergo medius terminis universaliter sumi in ea propositione , cuius
subiectum constituit Et quoniam propositio , in qua subiectum in tota sua
extensione sumitur , est universalis: liquido infertur , saltem unam praemissaram
esse debere universalem. Variae syllogismorum figurae Scho lasticis fuere in
deliciis , quas barbaris ali quot vocabulis , versibusque distinguere
consueverunt. Nos , missis futilibus tracla tionibus , regulas quasdam Tironibus
ma xime inservituras , quibus syllogismi leges breviter exponuntur , hic
subiiciinus , quas. sequcntes exhibent. Cap. IV. De rat. et Syll. 119 CANONES. In
syllogismo non plures termini sunto , quamtres. Si quartus irrepserit,
vitiosusiesto. Est lex eo magis observanda , quo omnia sophismata , si bene
perpendantur, contra illam peccare observamus. Ecquid enim sunt fallaciae tanto
labore a Scholis evolutae, an liquitatis , amphboliae , dictionis composi
tionis , divisionis , caussae , dicti simpliciter, con e juentis , accidentis ,
cetera, nisi syllogi smi e quatuor terminis conflati , in quibus quarins
cryptice latet ? Veritas hace altcate consideranti baud aegre patescet . Vide
quae de quatuor terminis diximus g. Medius terminus numquam conclu sionem
ingreditor. Monstruosuin enim es set , caussam in effectus constitutionem
immisceri. : * → Intellectus enim in ratiocinando vice Mathe matici fungitur.
Quia vero Mathematicus dua rum magnitudinuin aeqnalitatem ex cniusdam tertii
adplicatione cognoscit , nec , nisi in comparatione , mensuram adhibet : ita et
in tellectus in ratiocinando ex duobus indiciis 118 Logica Pars. I. * tertium
ervit , in quod medium comparatio nis ingredi , valde foret absurdum. Vitiosum
ergo esset ita raziocinati : Omnis bonus Phi losophus est homo : Titius est
bonus Philo sophur : ergo Titius est bonus homo. Medius Damque terminus ex
parte in conclusionem irrepsit. 4. Non esto plus minusve in conclu sione, ac
fuit in praemissis, ne quatuor inde éxoriantur termini. Si nanque praemissae
sunt veluti comparatio nes duarum magnitudinum cụm tertio eisdem adplicato ,
scilicet mersura : iudicium ex comparatione ipsa procedens , perfecte com
parationibus ipsis convenire debet. Quando vero in conclusione plus minusve
continetur, quam in praemissis , idem esset , ac si dice res productum maius
vel minus esse altero, quod ex iisdem factoribus est ortum Plus cotineret
conclusio , si ita diceres: Qui alium l'aesit , puniendus est : Cajus alterum
laesit: Cajus ergo morte puniendus est. Minus con tra , si sic ratiocinaris :
Qui furium commi sit , restitutioni et poenac subiacet : Titius fur tum
commisit : tius restitutioni subiacet. 4. Ex puris particularibus , vel ne
gantibus ( praemissis ) nihil sequi , ius estc . Cap. V. De rat. et Syll. 119 *
Diximus enim f . 86. * , praemissarum unam saltem esse debere universalem :
unde si am hae essent particulares , impingeretur in regulam 1.1 . S. cit.; si
vero ambae negantes , tunc duarum idearum neutra cum tertia conveniret ,
adeoque nihil sequeretur per S. 83. Falsum ergo esset dicere : Quidam bo mines
suni doeti : quidam homines sunt in docti : ergo quidam docti sunt indocti.
Item Nullus impius salvatur : nullus impius est pius : ergo nullns pius
salvatur. 5. Conclusio partem sequatur debilio rem , probe curato , ne in
superiora pecces. * Pars debilior est propositio particularis , vel negativa.
Si ergo una praemissarum fuerit particularis , conclusio quoque particnlaris ,
conclusio quoque particularis esse debet , alias plus esset in conclusione ,
quam in praemissis ; quod est contra regulam 3. : si vero una praemissarum
fuerit negans con clusio adfirmans contra regulam 2. In hoc eniin casu
extremorum conclusionis unum cum medio convenit , alterum ab eo discre pat ;
adeoque ea inter se quoque discrepare concludendum est ; quare conclusio negans
esse dcbet. Quae de diversis syllogismorum figuris regulae vulgo traduntur ,
eae ad rem non faciunt ; ac proinde a nobis tuto prae terinittuntur, 120 Logita
Pars. I. CAPVT SEPTIMVM . De aliis ratiocinandi modis. 38. Sunt et aliae
ratiocinandi formae , quae licet a syllogismo diversae adpareant syllogismum
tamen continent vel 1. CRYPTICVM , vel 2., COMPOSITVM , vel 3. MVLTIPLICEM. De
his obiter praesenti ca pite agemus. SYLLOGISMUS CRYPTICVS est , in quo forma
ordinaria ( * . 71 * ) quo modolibet périurbatur , aut occultatur. CRYPSIS ergo
inducitur i . per ordinis perturbationem , * . 2. per propositionum aequipollentiam
per propositionis alicuius omissionem , quo casu dicitur ENTHYMEMA , 4. denum
per contractionem. * Ordo perturbatur , ai quando propositiones transponuntnr :
ut si prino conclusionen vel minorem , de nde maiorein vel conclusio riem
ponas. E. g. Quum ira sit adfectus minor ) , debei omnino compesci (conclusio)
; omnis namque adfectus est compesccn dus ( maior ). ܪ Cap.
VII. De aliis rat. " modis. 121 ** E : 8. Adfectus est attentionem turbare
. Quum ergo ira sit molus vehementior appe tus sensitivi ': infertur , in
iracundo attcntio nem mirifice perturbari. *** ENTHYMEMA igitur est syllogismus
dua bus constans propositionibus , quarum prima ANTECEDENS altera dicitur CONSEQUENS.
In hac argumentandi forma praemise sarum aliqua reticetur , speciatim vero illa
, quae cuique patet , ut : omnis adfectus tur bat attentionem : ergo ira turbat
attentionem. Minor deest , utpote quae ab audiente sup pleri potest. Eodem modo
et maior retice ri , minor contra exprimi solet : e. g. ir & est adfectus:
ergo estcompescenda. SYLLOGISMUS CONTRACTUS dicitur in quo solus maior cum
medio termino pro punijatur, relicto iniuore cum omni combi patione. Talis est
Cartesii syllogismus. Cogi 10 , ergo sum : ubi eogito est medius , est terminus
maior ; adeoque minor , scilicet ego , cum tota propositionum connexione
reticetur: integrum enim ratiocinium lioc,mo do exponendum erat: Quid juid cogitat,exsistit
ego cogiio : ego igitur exsisto. SYLLOGISMVS COMPOSITVS est , in quo adest
aliqua' propositio composiía , estoque vel HYPOTHETICVS ; * vel CO PULATIVUS,
** vel DISIVNCTIVVS , vel tandem ex hoc primoque coalescens, qui proprio nomine
vocatur DILEMMA. Tom . I. F . Sun : Hypotheticus , sive conditionalis est , eut
ius maior est propositio hypothetica: é g. Si homo est rationalis , sequi tnr ,
ut sit libertatis capax : atqui est ratio nalis ; ergo est capax liberatis De
hoc te nenda regula : Adfirmata conditione, adfir matur conditionatum ; et
negato conditionato, negatur conditio. Quum enim in hypothesi contineatur ratio
sufficiens veritxtis proposi tionis , adfirmata caussá adfirmatur effectus
contra vero negato effectu, eius quoque caus sa negari debet.. ** Copulativus ,
sive coniunctus est, qui malo. iorem habet duas simul propositiones coniun
gentem , et negantein , quarum unam minor adfirmat , alteram conclusio negat.
E. g. Non potest anima sinni aeternum vivere , et cum corpore perire , atqni aelernum
vivit : ergo non perit cum corpore. ** Disiunctivas est cuius propositio maior
est dis iunctiva. E. &. Aut anima cst ens ' simple: aut compositum : sed
non est cns compositum , ergo est simplex. Notanda crgo regula : Ad firmato uno
disi!ınctionis membro , reliqua negantur ; ct negatis rcliyuis, unuin ad fir
tur. Confer tamen quae de disiunctivis pro positionibus diximus. Si ergo in
maiori propositio bypothetica cum disiunctiva copuletur , DILEMMA con surgit
quod argumentatio bicornis vel crocodilina vocari solet. Id vero definitur :
Syllogismus hypotheticus , cuius mai oris ' al 7 Cap. VII. De aliis rat. mo
dis. Tera pars est disiunctiva , quae in minore negatur , et in conclusione
totum destruitur. E. g. Si ens simplex naturaliter cx alio en te oritur tunc
aut ex alio simplici , aut e composito oriri debet : sed neque ex alio ente
simplici , neque c composito oriri potest : ergo naturaliter ex alio ente non
potest orlum du cere. Mirificum est Dilemma AVGVSTINI Tract. 1. in Joann , quo
Arianorum errorem circa Verbi aeternitatem egregie confutarit Huc referenda
quae diximus de divisione MVLTIPLICEM SYLLOGISMVM , licet imperfecte exhibent
1. EPICHERE MA , in quo alterutri , vel utrique prae missarum probatio additur
; * 2 PROSYLLOGISMVS , in quo ' prioris syllogismi conclusio posterioris eidem iuncti
maiorem constituit POLYSYLLOGISMUS , qui plurium syllogismorum connexionem
contínet, e SORITES, qui plures ita connectit propositiones , ut prioris
aliribu tudi si ! posterioris subicctum . EPICHEREMA ergo rsl syllogisms .
cuius praemissis compendii caussa ralio Quirlitur Exemplum habes iu Cic. pro
Sex Rusc. MAI. Vt quis parricidii sit suspectus , is sce lestissimus ét
audacissimus sit , oporlei. RATIO est enim crimen horrendum. NIIN . Sex Roscius
non est talis PROB. Non est audax , non luxuriosus mon avarus. 124 Loigica
Pars. I. CONCL. Non ergo est parricidii suspectus. ** In PROSELLOGISMO itaque
duo adsunt syllogismi coniuncti , quorum posterior ma iorem habet in prioris
conclusione contentam : quapropter eius minor SVBSVNTA vocatur MAI. Omnis
spiritus est ens simplex , MIN . Anima humana est spiritus : CONCL. Ergo anima
humana estens simplex. MIN . SVBSVMTA. Atqui ens simplex est indestructibile.
CONCL. Ergo anima humana est indestructibilis. Si prosyllogismus uiterius
procedat , aliae que minores subsumtae et conclusiones snb inugantnr , dicetur
polysyllogismus, hoc est plurium syllogismorum connexio legitime fa cta .
Exemplum habebis infra Part. II. Cap.3. Sect. 2. ubi demonstrationis specimen
dabimus. SORITES a Cicerone de Divin . Lib II. cap. 4. acervalis dictus , est
plurium propos sitionum cumulus ita connexarum , ut unius praedicatum sit
alterius subiectum , adeoque tot syllogismos continet , quot sunt propo
sitiones , demptis duabus , eodem fere modo, quo polygonum aa Geometris per
diagonales in tot triangula resolvi potest , quot sunt la tera demtis duobus.
Haec autem argumenta tio nisi cautiones quedam adhibeantur ad fallendum aptior
est. Cautiones istae funt. 1 . Nulla praemissarum diibia sit , aut falsa : >
1 Cap. VII. De aliis rał. modis. 123 coram. ex falso enim antecedente non
potest verum consequens oriri.2. Non insint in Sorite duae propositiones
negantcs. Hoc enim casu in eius resolutione aderit syllogismus ambas praemis
sarum negantes habens , quem vitio laborare supra observavimus ( F. 87. can. 4.
) . En Soritis exemplum . Quodlibet corpus est ali quo loco : quod est in uno
loco , potest etiam esse in alio : quod potest esse in alio loco , potest
rnutare locum : quod potest mutare lo cum , est mobile : ergo quodlibet corpus
est mobile. Eius vero analysis rationem reddemus 92. Syllogismo , eiusque
speciebus . e diametro opponitur INDVCTIO, quse vere ac proprie dici potest
argumentatio a posteriori , quippe quae a singularibus ad particularia , alquc
ab bis ad universa lia procedit. Haec autem syllogismo prior est : nam quum ope
experientiae praemis sas conficiat , indeque conclusiones eliciat universales ,
hac vero syllogismi praemissas constituant , utpote qui ab universalibus ad
particularia , vel ab his ad singularia gra dum facit : hunc sine illa construi
non posse , quisque videt, INDVCTIO itaque est argumentatio , in qua quiquid de
singulis speciebus vel individuis speciation praedicatur , generatim quoque de
toto genere vel speeie enunciatur ; adeoque in ea tot minores adsunt , quot
species vel in F 3 dividua exprimuntnr. E. g. aurum , argentuan orichalcum ,
cuprum , stannum , plumbun , ferrum , igni inieclun liquefiunt : ergo omne
metallum igni ni ectum liquefit. Ad inductio nem ergo duo requiruntur , 1.
plena partium enumeratio , 2. ut quod inferioribus tribuitur, ile superiori
pariter enuncietur. Si ergo par tes omnes enuncientur , inductio dicelur com
pleta , sin aliquae tantum , incompleta erit : si denique una dumtaxat fars
proponatur, EXEMPLUM adpellabitur, quod tamen ad oratores non ad Philosophos
pertinet , quum sit contra 34. S. n. 6. ** Ex iis enim , quae diximus Cap. 1. ,
liquet, ideas universales abstractionis ope a singulari bus erui. Eodem modo
Par. 11. Cap. 4. Sect. I. ostendemus , indicia universalia a sin gularibus
abstrahendo confici. Id vero est , quod Inductionem constituit. Quum autein
praemissarum syllogismi saltem una debeat es se universalis, patet , In
ductionem syllogismo principia praestruere : adeoque illo priorem esse. Schol.
De hụius doctrinae usu tandem pauca delibare juvabit. Quae de universa hac
tractatione homini philosopho servanda sunt , qui sequuntur , exponunt. Cap.
VII. De aliis rat, modis.127 CANONES, QVandaquidem ratiocinando veritas + vi .
innotescit , principia prius con siderato num solida sint et indubia .
Propositiones deinde ad trutinam revo cato , ac denique eurum connexionem
adcurate perpendilo , ne in quolibet r'a riocinandi modo fallaris: “ . Quum
enim syllogismus materia et forma con siet : illan vero propositiones , hanc
propo sitionum connexio , lioc est syllogismi "leges constituant;
cuiuslibet autem rei bonitas materiae soliditate ac formae aptitudine
absolvatur : patet; Philosophum de utraque sollicitum esse debere , ut ratioci
. nia sua tulo proferre possit. 2. Quoniam omnis argumentatio ad unum redit
syllogismum , id agito , ut huius leges nocturna diurnaque manu verses :
alioquin loqui scies , non ratio cinari. Exploratum namque est , quamcumque ar
gumentationem syllogismuni esse vel crypti cum ", vel compositum , vel
multiplicem: nisi ergo syllogismi probe gnaa rus , nulliusmodi argumenta
poterit quisque proferre. Qua de remiramur, viros alioquin F4 doctissimos , et
de Philosophia optime atque abunde meritos , syllogismo fuisse adeo in fensos ,
ut eum inutilem , immo nullins bo ni effectorem esse clamitarint. Infra vero ab
unde patebit , scientificam methodum sola syllogismorum concatenatione absolvi
: unde evidenter proseguisque deducet , syllogismum homini philosopho esse
omnino necessarium Videatur Wolffius in Log. Germ . S. III. seq. , ubi
mathematicas demonstrationes absque illo fieri non posse , experiundo ostendit
3. Si cum alio res tibi fuerit , omnia eius argumenta in syllogismos resolvito
: tunc enim clare perspicies, cunctane re. cte procedant, an aliquis lateat
error , an sub ambagibus fallacia occultetur. Varii namque sunt fallcndi inodi
a Scholasti cis magno labore evoluti , qui tamen si ad sillogismum eiusque
leges , tamquam ail ly, dium lapidem , exigantur, oppido evanescent, Ut hoc
exempli loco addamus , si soriten duas propositiones negantes habentem in syl
logismos resolvas : 'nonne statim patescet do lus, quum tres negantes
propositiones in ra tiocinio , adeoqoe contra quartam eiusdem " legem
peccatum esse , observabis. Praeclaro igitur hoc duce uti nolle idem esset , ac
in. ventis frugibus , glandibus vesci. Hucusque usque satis satis.dede mentis
mentis ope ope rationibus actum . Quum autem Logicae sit non contentiones
nequicquam fovere, sed hominum vitae consulere , atque intel lectum in
veritatis investigatione dirigere: doceamus , oportet , qua ratio ne tribus
hisce mentis operationibus in cognoscendo diiudicandoque vero recte uti
debeamus. Quod ut commodius effici pos sit , pauca quaedam de veritate
generatim spectata, eiusque genuina tessera , hic prae mittemus, VERITAS est,
vel METAPHYSICA, quum ens aliquod actu exsistens suam habet essentiam ; vel
ETHICA quando quilibet sermo interno sensųi , F 5 130 Logica Pars. II. scilicet
conscientiae , respondet ; ** vel denique LOGICA , si cogitationes nostrae
obiectis suis sint conformes. Quia vero hic cum Metaphysica atque Ethicą nihil
no bis est negotii , de veritate logica verba tantummodo faciemus. Metaphysice
ergo verum dicitur quidquid om nibus gaudet proprietatibus , quae ad con
stituendam eius essentiam sunt necessariae : adeoque huic falsum opponi nequit
, qoia es: sentia entis est necessaria et immutabilis ut in Metaphysica fusius
docebimus , ac proin de nequit ens exsistere , et sua simul essen . tia carere.
Ita aurum est verum aurum , qu pin omnia auri adsunt requisita. At non_da tur,
inquies , falsum aurum ? Minime. Tunc enim non aurum , sed cuprum , orichalcum
, aliudve , aut e pluribus metallis revera mi xtum erit. Illud autem verum
aurum iudica. re , est nubem po lunone amplecti , atque a veritate Logica
aberrare. ** Verę loqui dicimur , quum secundum cong scientiam loquimur , idest
dicimus quae trinsechs sentimus. Atque ḥaec veritas dicitur moralis sive ethica
, cui opponitur falsilo suium , quod est sermo contra concientiam prolatus , de
in Moralibus agemus. quo 93. VERITATIS LOGICAE vocabulo itelligimus
convenientiam cogitationum no strarum cum rebus ipsis, Quumquç no . De ver.
eiusq. crit. 131 stra congitandi facultas tribus tantum mo dis sese exserat ,
vel in ideis forinandis vel in iudiciis eruendis vel denique in rationibus
conficiendis ( S. 15. ) : liquet , logicam veritatem vel in ideis , vel in iu
diciis, vel in ratiocinatione reperiri. * Hac definitione veritatem abstracto
modo con sideramus : concreto namque definiri posset per cogitationem obiecto
suo consentaneam . Porro veritasa Logicis dispescitur in FORMALEM, et
OBIECTIVAM . Illa est , cuius obiea ctum extra nos vel non existit vel non tale
ut a mente nostra concipitur : quales sunt veritates omnes purae geometricae;
haec ve ro , cuius obiectum extra nos realiter exsistit. Ham alii INTERNAM hanc
EXTERNAM adpellare consueverunt. Illa est clara , distin cta , et indeficiens ,
quippe qua mens de se suisque operationibus iudicat , haec vero ob scura, dubia
, et fallibilis : non enim per eam, scire possumus , utrum cogitatioues nostrae
obiectis suis extra nos positis conveniant necne ? adeoque quum veritatem
habemus in ternam , de reali extra nos obiecti exsistentia iudicare non
possumus ; quum contra veritatis externae compotes certi simus obiectum in
cogitatione exsistens extra eamdem etiam rea liter existere. 96 IDEA VERA
dicitur , si quando nca bis rem , uti in seu est , repraesentemus : *verum est
lyDICIVM , siconiungenda co 2 F 6 132 pulemus , separanda seinngamus ; 've rum
itidem RATIOCINIVŇ , si ' neque in materia , neque in forma peccaverit, * Idea
ergo singularis ( $. 28. ) vera est , si quando eius obiectum extra nos
realiter exsi stat , eoque modo , quo nobis illud reprae sentamus : vera
pariter dici debet idea uni versalis , dum compositio vel abstractio a re rum
natura non recedit , ita ut characteres illam comitantes simul in uno inveniri
pos sint. Vides hinc , ideas deceptrices , chimae ricas , aliasque obiectis
suis nullo modo re spondentes dici non posse veras. Advertas - tamen ,
absolutam obiecti deficientiam , vel ideae ab eo discrepantiam veritati nocere.
Si namque obiectum non sit evidens , nec ideae characteres eum eo conferre
queamus ; con tra vero sufficientibus indiciis de eius verita te certi simus :
notionem illam deceptricem vel terminum eam exprimentem inanem ad pellare , est
contra Logicae regulas , ac pri ma cognitionis humanae principia tnrpissime
peccare. In hunc errorem incidunt quicum que de mysteriis Sanctae Religionis
sermonem instituentes , aliquam credentibus notam inu rere conantur , quod
vocabula mente cassa proferant e id quod alibi diffuse enodabimus. ** Nimirum
si de re quapiam aliquid adfirme mus vel negernus, quod adfirmari aut negari
oporteret : veluti quum soli spendorem iri, buimus vel tenebras ab removemus ?
tunc judícia nostra veritate gaudebunt, f 2 2 eo 2 Cap. I. De ver. eiusq. crit.
133 *** Ratiocinationis , sive syllogismi materiam es se tres illas
propositiones , e quibus confla tur ; formam vero leges . ( S. 87. ) expositas,
supra docuimus ( 6- 84.** ). Si ergo pro positiones fuerint verae : leges autem
adcuras te servatae , ratiocinium non poterit non es se verum : quia , quum
qualis est caussa , ta lis esse debeat effectus , non potest ex veris
praemissis falsa legitime fluere conclusic. Ex quo liquido colligi potest , eum
, qui prae missas concessit, non posse negare conclusio nem ex iis legitimo
nexu fluentem . Cave tas men , ne ex conclusione , licet evidenter ex
praemissis deducta , de hárum veritate audeas áudicare : potest enim conclusio
vera legitime ex falsis ambabus oriri praemissis. Talis es, set sequens
syllogismus : Omnis virtus est fugienda : Avaritią est virtus ; Ergo avaritia
est fugienda, Vides hic veram conclusionem legitime ex fal sis praemissis
deductam . Possesne conclusionis veritate praemissarum quoque veritatem ar 97.
Quoniam iudicium verbis expres sumi propositio dicitur ( § . 60. ) : evi dens
est. propositionem dici veram , quae adfirmanda adfirmat negandaque ne gat ,
servata ubique quantitate. * Sed quia non omnium cnunciationum veritas , nec ab
omnibus distincte perspicitur : criterium aliquod inveniatur , oportet , ad
quod guere? 134 Logica Pars. I1. tamquam ad lydium lapidem , propositio nem
quamcuinque exigentes , eius verita tem dignoscere queamus. ** • Veluti quum
particulariter enunciatur de su biecto quidquid extra illius naturam ; vel uni
versaliter quidquid in eius essentia rationem habet sufficientem . Vid. supra
Part. I. Cap. 5. Sect. 1. . 68 . ** Hoc autem criterium exsistere debet quo
propositiones veras a falsis , a phanta smatis , realitates ab insomniis
discernere pos simus : alias enim homo in perpetua illusia ne versaretur , id
quod est Divinae sapientiae, homini, ipsiqne humanae menti iniurium . Quia de
te Philosophi omnes in eo consenserunt, li cet in adsignanda illa tessera in
contrarias partes opinando ierint, res 98. CRITERIVM VERITATIS est ra tio
quaedam sufficiens , per quam intel. ligitur cur praedicatum subiecto tribua
tur , vel ab eo removeatur . * Nimirum ut cogitationum nostrarum cum obiectis
suis conformitatem perspicere possimus in 93. ), eiusmodi characteres in promtu
haberi de bent , quibus attributi cuin subiecto con venientia vel discrepantia
ita determinetur, nt mens adquiescat , nec ullus de earum veritate supersit
dubitanli locus. ** Qua propter characteres illi REQVISITA ad peritatein recte
dicuntur, *** Cap. I. De ver . eiusq. crit. 135 Variae de veritatis criteriis
omni aetate fuere Philosophorum opiniones , exceptis Academi cis , üsqne, qui
Scepticismum ad furorem usque provehere ausi , atque a Pyrrkone Pyr.
rhonistarum nomine insigniti , nihil a nobis vere sciri posse , temerario ausu
adfirmarunt, quorum insania comploranda potius esset , quam confutanda. PLATO
yeri tesseram es se statuit , evidentiam intelligibilem aeterna rum idearum
mentibus participatarum ; EPI CURUS fidem sensuum. ARISTOTELES medium inter hos
iter tenens , utramque evi dentiam veri criterium posuit : illam nempe in
intelligibilibus ; hanc in iis , quae sensi bus percipiuntur. STOICI , secundum
Laer , tium , veri indicinm aibeant comprehensibilcm phantasiam hoc est ,
evidentiam &maginationum; CARTESIUS cum recentioribus , elaram, et distin
ctam perceptionem : in Medit. 4.; MALEBRANCHIUS cam evidentiam , quam inter na
animi coactio sequitur , ut ei adsensum denegare nequeamus. Lib .I.de inquir.
verit. LEIDNIȚIUS in triplici evia dentia , intellectus , sensus et
auctoritatis criterium illud posuit. Quae vero de his ob servari merentur , in
ipsis praelectionibus ex ponemus. In hac ergo propositione : Aer est gravis ,
qualitas attributi, hoc est gravitas, per no tionem aeris determinatur : in hac
enim inest ratio sufficiens cur ipsi illam tribuatur. Quum enim aer corpora
inferiora premat ; idque > 136 Logica Pars. U. ad costituendam gravitatis
notionem requira tur : clare patescit, aerem esse gravem , adeo que
propositionem esse veram . Et hoc est, quod Wolffius , criterium verae proposi,
tionis ésse determinabilitatem attributi per notionem subiecti. 7 *** E. In hac
propositione : Caius est invia dus , requisita ad veritatem sunt invidiae cha
racterés alibi enumerati , qni in Caio deprehenduntur , quique rationem con
tinent sufficientem , cur Caio to invidum es se tribuatur, Quum igitur
veritatis criterium in ratione sulficiente consistat , et a requisitorum collectione
constituatur sequitur 1. ut inter veritatis crite ria adnumerari debeant
quaecumqne iis de terminationibus praedita sunt , ut a mente, quamvis invita ,
adsensum extorquere pos sint. At quia experientia quotidiana docet, mentem
nostram non convinci , nisi ' sen suun testimonio in rebus sensibilibus, * in
tellectus evidentia in intelligibilibus , auctoritatis deuique pondere in iis ,
quae neque sensu , nec ratione percipi possunt : liquet 2 . criteria illa pro
rerum di. versitate tria statuenda #Y *** esse , intellectus sensuum et
auctoritatis EVIDENTIAM. nempe , Cap.II. De ver. eiusq. crit. 137 * Per res
sensibiles intelligimus non modo cor poreas quae sensibus exsternis , sed et
ipsas animae actiones , quae sensu interno perci piuntur. Quum igitur :Naturae
sa pientissimus Auctor hominem conscientia , sen suque cum omnibns organis
instruxerit , ut : omnium cogitationum suarum obiecta distin gueret , eorumque
conscius esset : non ab re vera esse pronuntiamus, quae internus eter nique
sensus ita se habere testantur. ** Et quidem omnium axiomatum evidentia a primo
cognitionis humanae principio , nempe non posee idem simul esse et non esse ,
ori ginem suam repetit ; hoc vero principium in timo sensu cunctis innotescit.
Quaecumque porro propositiones a veritatibns evidentibus legitimo nexu
deducuntur eamdem evidentiam adquirunt, quam illae habebant , id quod ra tione
duce ac demonstratioris ope conficitur quibus intellectus convincitur ,et mens
adquie scit : evidens ergo est , veritates tam demon strabiles , quam
indemonstrabiles ad Logicae reguias cxactas revera exsistere , ab homini bus
certo cognosci posse , earumque criterium in intellectus adquiescentia reponi
debere nempe ut Malebranchius ait , iu ea 'eviden ' tia , qnae internam
producit coactionem , at que a mente adsensum extorquet. Huiusmodi sunt
propositiones humanum ca ptum superantes , nobisque ideo imperviae , quae quum
ab Ente intelligentissimo tantum agnosci possint , revelatae tandem addiscun
tur , fidemque mereatur : quum entis illius perfectiones sint infinitae , nec
de illarum 2 I veritate addubitari sinant. Eiusdem commatis sunt facta , sive
propositiones singulares , quae in locis temporibusve remotis extiterunt, qnae
que nec. sensibus , nec ratione a nobis una quam erui possunt, quidquid contra
dicat D. Rousseau Disc. sur l ' inegalité parmi les ho mm . ; sed sensibus olim
ab adstantibus coaevis que percepta , ab his vero vel scriptis vel per manus
tiadita ad . nos pervenerunt : ct quia narrantium auctoritas suspecta non est ,
certitudinem , aut saltem probabilitatem in mente producunt. Vides hinc ,
sententiam nostram in intelli gibilibus rationem, in sensibilibus experien liam
, in factis rebusve humanum captum ex superantibus auctoritatem commend.ve ;
adec que eamdem asse cuin Cartesiana , Malebran chiana, et Leibnitiana. Sed
quia tessera haec certitudinem potius , mentis scilicet nostrae statum , quam
rei veritatem respicit , de ea, quam producit , evidentia plura infra , ubi de
veritate certa sermo erit , haud spernen da dicemus. Interim confereudus
Io.And. Osiander Diss. de Crit. Verit. Tubingae 1748. FALSITAS veritati
opposita est di screpantia cogitationum nostrarum ab obiectis. Quumque
oppositorum contrariae sint adfectiones , patet , falsitatem vel in ideis, vel
in judiciis, vel in ratiociniis reperi ii ; * adeoque FALSITATIS CRITERIVM esse
manifestum rationis illius sufficientis defectum . Cap. I. De ver . eiusq. Falsa
ergo est idea , quum aliter se habet a re repraesentata ; falsum iudicium aiens
. , si quando subiecto non conveniat attributum , negans vero quoties boc illi
conveniat ; adeo que falsa propositio , quae neganda adfirmat, adfirmandaque
negat , vel quae universaliter enunciat quod particulariter enunciari
debe . bat ; falsum denique ratiocinium , quod in materia vel forma peccat
: i illa , quando propositiones sunt falsae ; in bac vero , quum syllogismi
leges, violatae sunt. ** Propositionis falsae rera tessera est , si non modo
desit ratio sufficiens, cur praeuicatum subiecto tribuatur , vel non ; verum
adsit rl tio , cur contrariuin enuncietur : tunc enim subiecti notio determinal
qualitatem attribu ti oppositi. Porro in ratiociniorum forma fal sitas esse
potest vel patens , vel latens . Si vitinn sit manifestum , dicuntur PARALOGISMI
; si vero crypsi aliqua tegatur , vo cantur SOPHISMATA A Scholasticis am bo
vocantur FALLACIAE. Paralogismus est sequens: Omne homicidium est vitandum ,
nullum furtum est homicidium ergo nullum furtum est vitandum. In co enim aperto
peccalum est colra Can . 4.6. 87.: me dius enim terminus his particulariter
sumtus est. Sophisma contra crii , si sie ratiocinabea ris : Populus ex terra
crescit : mulliluilo ko. 140 Logica Pars. II. minum est populus : ergo
multitudo hominum ex terra crescit : quatuor namque termini ir repsere per
aequivocationem termini populus, qui in maiori arborem , in minori hominum
multitudinem siguificat. ** Plurima de fallaciis ad nauseam usque a Scho
laflicis tradita invenientur , qui tamen tot tan tisque tractationibus nullum
fecerunt operae pretium. Quia vero in huiusmodi failaciis, fi ve dictionis,
five (ut ipsi aiunt) extra di ctionem , vitium plerumque latet in quarto
termino cryptice tecto : Auditorum nostro rum mentes non ultra fatigabimus :
attamen, si sapient , syllogismi leges memoriae inscul pent, et ad terminorum
numerum semper animum adverlut. Quibens relligiose servatis, aut nihil scimus ,
aut numquam , neque de cipi ratiocinando , nec alios deçipere pote runt. Schol.
De huius tandem docirinae usu opus cst , ut aliqua addamus. Ea paucis iisquo
baud spernendis comprehendemus regulis . Qui ergo Philosophi nomen adse qui
cupit , hos probe teneat. Cap . 1. De ver. eiusq. crit. CANONE S. I Dea , quae
characteres continet si * bi invicem repugnantes, deceptrix est : imaginaria
vero , qua ob similitudinem quampiam nobis fingimus quod non est, ut quasi per
imagniem oculis obiectum praesens sistamus. ** * Hae igitur ideae proprie
loquendo non falsae, sed potius impossibiles dici possunt , quia nihil sumt: ut
' idea circuli quadrati , ligni ferrei , creaturae infinitue', ec. ** Vocantur
istae a Wolffio vicariae realium , quia earum vices gerunt , ut si memoriam ti
bi rapraesentes per receptaculum idearumi : licet enim nulla adsit analogia
inter spiritum el corpus , atque adeo inter eorum proprie lates : ob
similitudinem tamen , quod , sicut in receptaculo plura servamus , quae inde ,
quum opus fuerit , depromiinus , ila memoria plures ideas , quae tamdiu latuere
nobis sug gerit , memória ipsam veluti receptaculum nobis sistinus 2. De eo ,
cuius clare et distincte ra tionem perspicis sufficientem , tuto adfir mato :
negalo vero , quod eidem pari ratione refragari cognoscis. Si eam non adhuc
nosti : licet pro incerto haberi 142 Logica Pars. II. ſas sit , ne temere
iudicato , donec veri tatis eius , falsitatisve criterio polleas. Hoc quidem
modo vitari poterit audax illa in iudicando praecipitaptia , quae incautos
maxime adolescentes quamplurimis subjicit erroribus. Hi ramque sola suarum
virium praesumtione freti iudicia sua nec rationc ful ciunt, nec ad criterium
aliquod exigunt ; quo fit , ut ea praecipitanter nimis prouentiare adsueti ,
ratione tandem destituantur, et quid quid in buccam venerit effutiant. 5. Si
diu in veritate invenienda fru . stra taboraveris , examen reintegrato. Si ne
id qutdem profuerit , ne rem pro falsa , aut impossibili venditato , nitam
ridiculus sis , qui mentem tuam veri ful sigue mensurani esse existimes. * *
Perutilem harc cautionem inculcat Genu eusis noster , quae dici non potest ,
quanto sit omuibus adiumento. Quum enim obscurilas plerumque sit relativa ,
eiusque caussa in - bo mirum n.entibus , raro in re percepta , sit quaerenda (
S. 20. ) : nullum est huiusmo di iudicium , quod non ex praecipitantia fluat .
Qui enim ita se gerunt, ni mia de in tellectus sui viribus praesamtione
laborant, idque agunt , perinde ac si supremum persprie caciae cognitionisge
gradum obtineant, cui an tefcratur remo, pauci pares putentnr. In hanc rigrilam
offendunt quicumque mundi creatio Cap. II De ign. et er. cor. caus. 143 nem iu
tempore , aliasve doctrinas , quas intellectu adsequi nequeunt , proimpossibi
libus venditant , ut fusius in Metaphysica docebimns. Id vero quam ridiculum
sit , nemo non videt. De ignorantia et errore , eorumque caussis. A Ctio mentis
, qua verum ( S. 94. ) agnoscit, resque sibi re praesentat ac percipit , COGNITIO
adpellatur. Eius vero absentia dicitur IGNORANTIA, quae definiri pot est per
statum mentis cognitione desti tulae . * Sic e g. qui disciplinae alicuius
veritates ac praecepta novit , eaque mente tenet , illius cognitione gaudet :
contra vero , si ea cogni lione sit 'destitutus , disciplinam illam igno rare diciiur.
103. Experientia quisque sna it aliena doceri potest , hominnm plerosque nihil
aut minipium admodum in rebus cogno scere ; plurima quoque nesciri ab iis , qui
acriori se praeditos ingenio jactant : cos vero , qui doctissimorum virorum
nomine gaudent , quo longius sua sese exserit co gnitio , eo plurima se
ignorare comperient. 144 Logic. Pars II. * Ex innumerabili rerum , quae sciri
possunt , puniero ingenii cuiuscumque vires superante, domesticaque experientia
fluxit mos ille lau dabilis ad utilium rerum cognitionem ani mum adplicandi ,
neglectis iis , quae ad cu iusqne statum minime pertinentes, inter su ferflua
et inuțilia referuntur. Recte namque observaverat Seneca necessaria a nobis
igno rari , quia superflua discimus. Id ipsum er go argumento est , homines ,
postquam ad sublimiorem , ut aiunt, cognitionis apicem pervenerint ,
quamplurima adhuc habere , quorum nulla se gaudere cognitione animad vertant,
illoruinqe esse admodum ignaros. 104. Ex quo patet 1. omnes homines in stalu
verae ignorantiae versari , ac ne minem un quani reperiri posse , qui omui moda
rerum cognitione praeditum se tuto adfirmet : quapropter oportere 2. ordine na
in studiorum curriculo servari , ut primo necessaria * deinde ütilia , postremo
iu cunda discantur ; adeoque 3. eruditorum reprchensionem merito incurrere eos
, qui neglecta hac methodo ad superfluarum re rum siudiuin animum adplicant ,
param curantes ea , quae ad interni extervique status suiperfectionem sunt
necessaria. Necessaria dicuntur , quae Dei suique cogni tionem spectant , item
quae facultatem quam quisque profitetur , postremo quae ad socie tatis commoda
promovenda pertinent. Cap. II. De ign. et er. eor. cans. 1.45 ** Suo itaque
officio deesset Medicus , si ne glecta medendi arte, eruditioni, hoc est quid quid
extra Medicinae ambitum est , operam daret. Ignorantiam quoque suam magis pro
moreret Legisperitus , si pro legum codici bus , medicos aliosve sibi inutiles
libros evol veret. Alque utinam nostro hoc aevo Lit teratores isti extra aleam
aberrantes defide, rarentur ! 105. Ad ignorantiae porro caussas de tegendas
nobis lucem quam maximam ail fert experientia. Ea enim duce scimus igno rantain
oriri a 1. DEFECTV IDEARVM , non solum in iis rebus , quae nostrum si perant
captum , sed etiam in iis , quae iu jus limites von excedunt , 2. MENTIS
IMBECILLITATE , sive impotentia co gnoscendi idearum nostrarum relationem , LABORIS
IMPATIENTIA, qua fit, ut attentio minuatur, ideaeque fiant deterio res, STVDIORVM
CONFVSIONE , MEMORIA vel nimia, vel labili, 6. denique SVBSIDIORVY INOPIA. (t )
Impotentia haec ab idearum mediarum defe ctu pendet : quo fit , ut communi illa
defi ciente mensura , nec conferre inter se nolis nec propterea vertalem
delegere quaemus. ( ones T. 1. **
Confusio studiorum habetur , vel quia fine attentione aut ordine fiunt , vel
quia plurima eodem tempore cursimque discuntur : ex quo pluribus intentus minor
est ad singula sen sus. Hinc nimia illa sciolorum turba , solis frontispiciis
praefationibusque furfuroscrum , nostram invasit aetatem, ** Nimia namque
memoriae praestantia laboris impatientiam, adeoque ignorantiam parit ; illius
vero infidelitas cognitionis defectum au get. Ecqua enim cognitio ei , qui unam
al teramve propositionein memoria retinere non valet ? ( + ) Subsidiorum nomine
veniunt Magistri, si ve viventes illi sint , sive mortni, scilicet li bri. Ex
horum enim defecte lici non po test , quot sublimia vilescant ingenia , quae
vel mechanicis adeo artibus, aut otio et libidi ni se addicunt. Elegantissimum
est Alciati em blema , quo ingenia ista iuveni euidam com parat , cuius
sinistra manus duabus alis in Coclum tollitur , dextera vero ingenti pon dere
impedita deorsum fertur. Cujus em blematis dilucidationem reddemus Dolendum
autem magnopere est , quod si quando iuvenes isti litterario furfure vix in
crustati Rempublicam invadunt , societatis perturbatores , bilingues ,
susurrones , ad pessima demum et turpissima quaeque , ( si paucos excipias )
parati evadunt. 106. Haec de ignorantia. Quando au tem propositicni verre
dissensim , falsae contra adsensum praebemus, tunc ERRA coram Cap. II De ign.
et ei. cor. caus. 147 RE dicimur, sive judicia confundere. Qua propter ERROR
definiri potest , quod sit confusio iudiciorun . Error autem in iu dicando
commissus PRAEIVDICIVM * adpellatur , quod esse dicimus iudicium erroneum
praecipitanter et sine maturi tale latum. Dicitur vero praeiudicium , vel quia
sanae mentis praevenit iudicium , vel quia praema ture et fine criterio
profertur. Talia sunt pleraque vulgi praeiudicia , veluti: discum solis
diametrum habere circiter bipalmarein: cometas esse bellorum caussas : et alia
eius modi. 107. Quum praejudicium sit iudicium erroneum ; error vero confusio
iudiciorun: evidens est s . praeiudicia na sci ex idearum ob curitate et
confusione, adeoque 2. eorum originem ab intellectus corruptione unice esse
petendam . Equidem sunt plerique , qui praeiudiciorum originem a voluntaté
repetunt, eamque pri us emendandam esse aiunt ; ii tamen io to aberrant coelo :
voluntariam namque praeiudiciis adhaesionem vel negligen liam animum ab iis
liberandi , pro praeiudia ciis venditant . Si vero rem probe per penderint
videbunt, ea , quae voluntatis vitia asserunt , ab intellectus vitiis vel
imagin natione pendere : et si qui méntem obun brant ad feclus , appetitus
quippe sensitiyi * * 7 G 2 148 Logica Pars. It. ** vehementiores molus , non
aliunde , quam ah ideis obscuris et confusis ortum trahunt. Qua de re legatur
Syrbius in Phil. rat p : 5 . 108. Duo intérim sunt praeiudiciorum genera ,
AVCTORITATIS scilicet , et NIMIAE CONFIDENTIAE . * Illa sunt , quae nostris
viribus parum confisi , nimi aque oscitantia laborantes ab aliorum , quorum
apud nos plurimum valet ancio ritas , scriptis vel sententiis kausta adopta mus
, eaque pro sanctis habenda puta mus ; hec vero , quae nostris viribus niinium
fidentes , quamquam praecipitan ter et sine meditatione prolata . , tainquam
vera lamen adsumunus illis firmiter achae remus , et proeiis , veluti pro aris
et fo . cis , pugnamus. * Addunt alii praeiudicia AETATIS. At quum illa non
sint, nisi opiniones praeconceptae a nutricibus parentibus , atque magistris a
teneris , ut aiunt , unguiculis haustae : ea ad auctoritatis praeiudicia
referri , nemo non ri det . Illustris VERULAMIUS de augm. scient V. 4.
praeiudicia , , quae iilola vocat , in quatuor dividit classes , quarum prima
am plectitur idola tribus, scilicet quae in ipsa hamana natura fundata sunt ;
altera idola specus , hoc est hypotheses a nobis ipsis provenientes ; tertia i:
lola fori , idest prae concept as opiniones , quae ab hominum com mercio mabant
; quarta denique idola the *** Cap. II. de ign. et er. eor. caus. 149 atri ,
videlicet erronea iudicia , quae ex Phi losophorum sententiis bauriuntur. Quae
0 mnia ad duas , quas retulimus , classes com mode referri possunt , ut coram
ostende mus. * Auctoritatis praeiudicia sunt ea , quae a nu tricibus ,
magistris ( vivis illis mortuisve ) , aut populo haurimus : eiusmodi sunt
opinio pes omnes aliquibus civitatibus , familiis , vel.: sectis familiares ,
quarum cultores illis , tam quam glebae , adscripli , nulloque utentes iu dicio
, eas, tamquam oracula , pronuntiant seque inde dimoveri non patiuntur. Curio
sissima est Galilaei narratio in Systemate co smico , de viro quodam nobili
Peripatheticae philosophiae addicto , qui qunm Venetiis in domo cuiusdam Medici
sectionem anatomicam perfici vidisset , in qua maximam nervorum stirpem e
cerebro exeuntem , per cervicem transire , per spiralem distendi , ac postea
per totum corpus divaricari observasset , nec, nisi tenue filamentum , funiculi
instar , ad cor pertingere , a Medico rogatus , adhuc in Aristotelis sententia
manere vellet rumque originem a corde repelere? non sine magno adstantium risu
respondit : Equide:n ita aperte rem oculis subiecisti, ut nisi tex tus .
Aristotelicus aperto nervos corde deducens obstaret , in sententiam tuam per
tracturus me fueris. Quis , quaeso , haec au diens a risu ' temperaret ? ***
Vocari quoque solent praeiudicia receptae hypotheseos , novitatis , similia :
ut sunt sy nervo e G 3 750 Logica Pars 11. MAE , stemata omnia ab eruditis
inventa , quibus tam acriter inhaerent , ut uullum sit rationis pondus , quo ab
opinione sua dimoveri pa tiantur. 109. De errorum caussis, restat, ut paulo ca
addamus, Eae vel REMOTAE sunt quae mentem ad errores ac praeiudicia praeparant
et disponunt; vel " PROXI. , quae mentem ipsam ad iudicio rum confusionem
impellunt , erroresque producunt. Remotae rursus in generales dividuntur , et
speciales . Caussae generales sunt ATTENTIONIS DEFÈCTVS, qui ideas reddit
deteriores ADFECTVS , quos attentionem turbare , idearumque obscuritatem parere
supra ob. Servavimus, SCIENDI LIBRO ciun ralurali corporis inertia, COMPENDIA
et DICTIONARIA disciplinarum, in quibus nulla idearum analysis reperitur MALVS
vocabulorum VSVS , quo fit, ut auctorum sensus non intelligatur denique LI
BERTAS PHILOSOPHANDI. Praeiudiciorum cnim origo ab idearum ob scuritate
repetenda est , idearum vero obscuritatem pariunt attentionis defe clus et
adfectus er his ergo caussis praeiudicia nasci , quisque intelligit. Quainvis
enim corporis inertia laboris impa Cap. 11. De ign. et er. Cor. caus. ¥
tientiam creet , adeoque ignorantiae tantum Caussa esse possit ( * 105. ) : cum
sciendi tamen libidine conjuncta errorum genitrix est: etenim sciendi pruritus
efflcit , ut intellectus tali cupiditate ductus intra ignorantiae fuae te
niebras consistere nolit , opportunisque prae • diis vacuus ea investiget ,
quibus par non est , ac proinde in plurimos lahatur errores. ** Libertas enim philosophandi
iuxto maior in receptas hypotheses illidit ; nimis autem con etricia in
auctoritatis praeiudicia nos urget , sel saltem crassam parit ignorantiam .
110. Speciatim autem AVCTORITA TIS praeiudicia oriuntur harum trium abaliqua
EDVCATIONE, scilicet, CONVERSATIONE [conversazione], et CONSVETVDINE; ut et
praeiudicia NIMIAE CONFIDENTIAE aa nimia INGENII FIDUCIA. Et ut de educatione
quaedam singularia attingamus , id sedulo notandum : praeiu dicia , quae ab ca
procedunt , tribus cha racteribus optime distingui, temporis BREVITATE, 2. loci
RESTRICTIONE , cognitionis DEFECTV. Qui quidem characteres si desint ,
propositio non in ter praeiudicia , sed inter veritates com muni hominum
consensione probat as est referenda . Quot mala hominibus adferat educatio ,
vix dici potet. Parentes enim tantum abest , ut puerorum intellectum perficere
eorumquemor is mederi curent , ut potius eorum aninum maximis praeiudiciis,
anilibus fabeliis , erro neisque opinionibus imbuant. De magistrorum educatione
nihil dicemus , ab iis enim quam multa hauriuntur praeiudicia , quum iuvenes in
magistrorum verba iurantes quaeuis eo run effata sancta esse putent , ac de
illis veluti de Religione , dimicent ! Conversatio cuin libris et eruditis ,
consuetudo cum po pulo quot foveant errores , quum res sit me ridiana luce
clarior , in ea explicanda nihil immorabimur Legatur interim Tullius Tuscul
quaest. Lib. III. cap. 1 . Qui nimium suo indulget ingenio , fieri non potest ,
quin in errores incidat, el pacdın tismum vel contradictionis spirituin induat
, quae duo vitia aliorum aversionem odiuinque conciliant. Praeterquam quod
novitatis studi um quanta hominibus mala produxerit , ii sciunt, qui Ecclesiae
vel litterarum vices er annalibus didicerunt. *** Nimirum educationis praeiudicia
tantisper in animo sedent, donec ad maturitatem ra tionisque perfectionem sit
perventum ; nou sunt ubique earlem , sed quamvis in cuius cumque Regionis
gentibus praeiudicia sedeant, diversa tamen pro educationis morumque di
versitate inveniuntur ; rudium tandem von eti am sapientum mentes occupant ita
, ut dum illi inter praeconceptas opiniones erroresque iacent , hi eorum
insipientiam ac ignorantiam destruere nullo modo valentes vel rideant, vel de
ea conquerantur. Cap. II, De ign. ei er. eor. caus. 253 mus Omnes illae , quas
recensuimus caussae praeiudiciorum remotae sunt ; pro Xima namque est
PRAECIPITANTIA . Quae quum ita sint , optimum , idqne uni cum , ad praeiudicia
vitanda remedium est iudicium suspendere, seu DUBITARE : est: enim DUBITATIO «
prudens iudicii su spensio. Tanc autem iudicium suspendi quum propositionein
aliquam nec adfirmamus neque negamus. * Cave la nen credas , ad praeiudicia
vitandą conferre Scepticismum , vel Pyrrhonismum insanam nempe illum de onnibus
dubitandi miorem , quo hodiernos incredulitatis fauto . res uii , non sine
dolore videmus. Stolidi tas enim , nedum temeritas infanda foret sine
sufficienti ratione dubitare. Sobriam quip pe ac prudentem commendamus
dubitationem eo fine institutam , ut suspendatur iu licium , donec mens ad ideas
distinctas clarasve per veniat. ** Totum hoc de rebus intra rationis fines ex
sistentibus , nullaque evidentia suffultis est intelligendum . Etenim quae
Divina auctorita te nituntur , aut mathematica gaudent eviden tia de illis
dubitare , impium ; de his ve ro , foret adprime stullum . Schol. Espositis
mentis humanae imbe . cillitate et vitiis , reliquum est jis praebeanius
medelam. Quamvis Feromul, 7 ut aptam ti philosophicarum rerum Magistri , inter
quos Nicolaus Malebranchius , et Antonius Genuensis , quamplurima ad id remedia
. proposuerint , quibus vel minimum quidem addere , non opis est nostrae ;
licebit ta men , ad Auditorum nostrorum instructio nem , si plura n quimus ,
eadem saltem ab ipsis tradita paucis repetere. Quisquis ergo ignorantiam errorenive
yitare cupis , hos menti infigito CANONES. MEREntem sedulo studio attentio ne ,
meditatione ab obscuritate et confusione liberato. * In hoc enim in . tellectus
perfectio sita est, a qua exsu lant ignorantia et praeiudicia . * Ut id
consequantur adolescentes , prae ocnlis habeant quae in prima harum
Institutionum parte observavimus , ea praecipue , quae de ideis cap. 1. Schol.
adnotavimus. 2. Ad studia praeiudiciis liber ac do cilis , uti modo in lucem
editis infans, accedito . Magistrum eligito optimum ab eoque necessaria atque
utilia disci io , nihil verens ab eius , qui te ad sa pientiam manuducit, prius
ore pendere: Cap. II. De ign, et er. eor. caus. 155 ut praecepta demum , quum
te ignoran tia deseruerit ad examen revocare possis. * In Magistrorum electione
magna cautio adhi benda est : abea namque pendet cognitionum nostraram
soliditas et rectitudo. Ad eorum dotes praecipue attendendum , de quibus ideo
pauca inferius delibabimus. 3. Methodum ubique atque ordinem cordi habeto. In
studiis eapraecedant per quae sequentia intelliguntur. Ex hujus canonis
neglectu oritur studiorum confusio , quam ignorantiae caus sam haud postremam
esse , experientia sensusque com munis evidenter ostendit Auctoritati nec nihil
, nec multum deferto. Nimia namque aliis adhaesio servum pecus ; sensus vero
communi ne glectus audacem efficit , omniaque sibi permittentem. 5. De iis ,
quae vel Divina auctori tate , vel maxima evidentia destituta sunt , prudenter
dubitato , donec certus fias. Rectam rationem prius, sensum dein de optimorum
communem consulito . Quae captum vero tuum superant ne perqui rito , nisi prius
opportunis mediis probę fueris instructus. * G6 156 Logica Pars. II. * Si vero
captum humanum superent , ca non investigare omnino , recta ratio docet. 6.
Laboris patiens , memoriae ac per spicaciae tuae ne nimis fidens esto . Me
mento Poetae illud: ABSQUE LABO RE.NEMO MUSARUM SCANDIT AD ARCEM. Vides hinc ,
quam immerito a nostrae aetatis adolescentibus voluptati ac vanitati deditis
laboremque horrentibus cognitio studiorum que felix exitus expectetur. Compendia
et dictionaria , quippe quae nihil solidi profundique continent, ne multum
amato . Paucos habeto libros, eosque lectissimos. * Cum lectione me ditationem
semper coniungito Non nostrum est
praeceptum , sed Senecae , qui ut facilem Lucilio suo viam ad virtutem aperiret
, librorum paucitatem diserte com mendat his verbis : Cum legere non possis
quantum habueris , sat est habere quantum legas. Ep. 2. Vide quae diximns Part.
I. 8. Poetas caute legito , ne inanibus fabellis animunı imbuas. Populum , utpo
te pessimi argumentum , ut anguem fu gito . Senecam audito dicentem : SANA
TIMUR , SIMODO SEPAREMUR A ÇOETU, cap. 1. Schol. Cap. II. De ign. et er . cor.
caus. 157 Ad poetas quod attinet , eorum lectionem adolescentibus vel omnino
interdicendan , vel arctissimis includiendam cancellis cuperernus, quippe qui
vivida phanthasia pollentes ima ginationi retinere potius, quam laxare debent
habenas : id quod ia legendis Poetis contra evenit. Populi porro damna paucis
expressit idem Seneca, quum ait : Inimica est mullorum convcrsatu. Ep. 7. De
Veritate ceria , melliisque ad cam perveniendi. $ 12 . sis ad veritatis
investigationem gradum faciamus. VERITAS vel CERTA est, si in ea adsint omnia
veritatis requisita, ut nulla nobis de illa re maneat suspicio aut dubium , vel
PROBABILIS , si propius ad certitudinem acce dat , nempe quum non omnia insunt
re quisita . De illa nunc , de hac subsequen ti Capite agemus. CERTITUDO est
mentis status veritati adensum ita praebentis ut nulla de opposito adsit
sollicitudo Ex consequitur i , ut si quam minima adsit suspicio non certitudo ,
sed INCERTITUDO vocetur. Et quia non idem est om. nibus mentis status ,
sequitur 2. eamdem evunciationem uni certam esse posse , al teri incertam .
Tandem quoniam quisque mentis suae statum agnoscit , consequens est 3. ut nemo
aliorum certitudinis sed suae tantum iudex esse possit. * Quia omne , quod
verum est , vel absolute et in se tale est vel in relatione ad mentem , quae
non semper terminorum nexum distincte percipit : ideo Philosophi certitudinem
divide bant in OBIECTIVAM et FORMALEM , il lamque esse , aiebant , nexum
propositionis in trinsecum , hanc mentis nostrae statum respi cere. Nos illam
proprie VERITATEM , hanc CERTITUDINEM adpellamus. E. 8. Axioma ; Totum est
maius sua parte , si absolute et in se spectetur , VERUM dicitur , si vero ad
men tem referatur, CERTUM est , quia talia ad sunt indicia, ut ipsi absque ulla
oppositi formi dine adsensuin praestemus. Quoniam indicia ad certitudinem
ducentia trium generum esse possunt , sci licet vel absolute infallibilia vel
dalis tantum permanentibus caussis naturalibus , vel denique sccundum huinanae
prudentiae leges : evidens est 4. triplicem etiam esse certitudinem,
METAPHYSICAM nempe yel MATIEMATICAM , quae illis ; PHY. Cap. 111. De veritate
certa etc. 159 SICAM , quae istis ; MORALEM tandem , quae his fulcitur indiciis
, quaeque alio no mine FIDES HUMANA adpellatur. * Primi generis sunt axiomata,
aliaeque pro positiones nullis obnoxiae vicibus ;alterius haec propositio:
corpus non suffultum cadt : pos fremi vero haec : Augustus fuit primus Ro
manorum Imperator. 115. Experientia abunde constat , men tem nostram non statim
, nec semper , quod verum est , certo cognoscere- Via ergo quaedam ipsi
monstranda est , qua tuto ad certitudinem perveniat : eaque , pro certitudinis
varietate , diversa est ; spe ciatim vero triplex, EXPERIENTIA sci licet, RATIO
seu DEMONSTRATIO , et AUCTORITAS , de quibus singillatim , et quantum res ipsa furet
, breviter agemus. Uidquid a nobis sciri potest , vel singulare est vel
universale ( S. 26. seqq. ) ; itemque vel effectus, vel caussa . Singulares
porro ideas sensibus ad quirimus; universales' vero in 160 Logica Pars II.
tellectus abtractione conficimus. Rursus quaelibet caussa effecluin salte in
natura , praecedit , ut in Metaphysica do. cebimus. Duae igitur cognoscendi
viae no bis aperiuntur , altera , quae a singulari bus ad universalia ; itemque
ab effectibus ad caussas ascendit , nemp: a sensibus , si ve experientia incipit
; ideoqne dicitur co gnitio a posteriori: altera , quae ab uni versalibus ad
particularia , a caussis ad ef fectus rationis ope descendit descendit ,, ac
proinde vócatur cogniíio a priori. De illa nunc ; de hac sequenti sectione
agemus. Omue itaque , quod experientiae ope scimus, dicitur COGNITIO A
POSTERIORI. Est autem EXPERIENTIA cognitio adqui sita ex attentione ad obiecta
sensibus obvia, Sic per experieutiam novi'nus aquam made. facere, ignem col
fucere , ceram igni admo tam liquefieri , ct id genus alia. 117. Quum
experientia sit in rebus sen sibus obviis; sensibus auien percipianlur les
exisientes sive indiviadua: patet 1. a uobis res tan tum singulars experimento
addisci , * extra eas nsilium alind esse experientiae obiectum , adeoque 3. eam
in abstractiş 2 2 . Cap. Ill. de Veritate certa ctc. 161 sensus et
universalibus locum non habere, licet haec ab ipsa deriventur. Igi tur 4. qui
demonstrationem aliqu am posteriori conficere vult , is casum singu larein ,
allegare debet, dummodo experien tia non sit cuivis obvia ; 5. denique , ex
perientia non datur in iis, quorum n ullam habenius ideam . * Quoniam vero est
vel internus , vel externus experientia quoque est vel INTERNA, vel EXTERNA.
Illa habetur qnum nobis ipsis attendentes aliquid in anima nostra contingere
percipimus : e. g quoties nobis malum aliquod repraesentamus ; toties taedio
nos adfici animadvertimus ; haec ve ro , si res in organis nostris mutationem
pro ducentes percipimus: ut si manu igui admota, calorem igui inesse
observemus. "Experientia rursus dividitur in VVLGAREM , quae mnibus aeque
patet , ut calor ignis, et ERVDITAM , quae speciali studio, atque adhi bitis
necessariis mediis cooficitur , arleoque so lis innotescit eruditis , ut '
aeris gravitas , elasticitas ctc. 118. Habitus , sive promtitudo aliorum vel
propria esperimenta colline andi, et ex iis conlusiones elicianendi, dicitur
ARS EXPERIVNDI. Quae quidem ab experientia tam longe distat, quantum ba bitus
dfert ab actu. * Non ergo sufficit unam alteramye experientiam peragere , aut
aliquot instrumenta s ertractan . 162 Logica Pars II. di peritiam habere , ut
experiundi arte prae ditus quis dici possit , sed opus est habitn longa
exercitatione adquisito , non solum res experimento subiiciendi , sed propria
aliorum que experimenta ad critices regulas exigendi, atque ex iis conclusiones
scientificas , sive corolla ria legitimo rationis usu deducendi 119. Quoniam
experientia sensibus ni titur; ad sensionem autem duo requiruntur , scilicet
mutatio in or ganis sensoriis ab externis obiectis produ cta , et
repraesentatio in anima huic obie cto conformis ( ut in Psychologia ostende mus
) : consequens est 6. ut sensus , po sitis ad sentiendam requisitis quam
fallant ; * proindeque 7. nos non & sensibus, sed a iudicio , quod ani ma
praccipitanter fert super experientia , persaepe falli. Rinc. 8. cautiones
quaedam ad errorem hunc vitandum adhibendae > num sunt. et Requisita ad
sentiendum tria sunt , orga norum sensoriorum sanitas 2. attentio , 3. justa
obiecti distantia. Quotiescumque ve ro de visu agitur , et quartum requisitum
adesse debet , nempe èiusdem mcdii in ter obiectum et organum interpositio.
Quum enim in visione radii lucis in corporum superficiem incidentes
reflectantur , et in acre prius , deinde in oculi humoribus ac lente cristalli
ua refracti ad retinam usque pertingaat , u Cap. 111. De Veritatė certa etc.
163 hi motum in nervo optico , quod sensationis caput est , producunt : si
partim in aere partim in aqua aliove densiori medio obie clum ponatur , non
eadem erit lucis refra ctio , adeoque non idem locus obiecti parti ' bus
adsignabitur : unde fit, ut illud fractum vel recurvum adpareat. Si ergo
neglecto hoc requisito adparentiam illam pro realitate sumamus , non sensuum ,
sed judicii defectú id provenire , fatendum est. Cautiones , quas inculcamus
sunt 1. ut sior gana sensoria paullo debiliora fuerint, debi tis armentur
instrumentis , 2. ut obiecta in iusta ab organis distantia posita attente ob
serventur 3. ad tot sensus , ad quot redi gi possunt , redigantur. Si cautiones
istae adhibeantur nullus in percipiendis rebus sensibilibus irrepere poterit
error : si vero quae dicta sunt probe attendantur , non in surgent amplius
difficultates , nec erunt qui vetustissimam cipionis in aqua fracti , turris
que emimus rotundae adparentis cantilenam ad nauseam usque repetentes , sensuum
fal laciam ulterius inculcare velint. 120. Quia vero per experientiam sin
gularia tantum cognoscimus sequitur ut VITIVM SVBREPTIONIS incurrant ii , qui
ea , quae minime ex perti sunt , vel quae imaginationi aut ra tiociniis
experientia deductis debentur , pro experientia obtrudunt. * Tales sunt , qui
pliaenomeni alicuius caussam raperientia constare adserdut. Veluti si quis 164
Logica Pars II. ferrum a magnete altrahi videns , experien. tia compertum esse
diçat , ex magnete efflu - via exire ferrurn attrahendi vim habentia , vitium
subreptionis incurret. Quum ergo res singulares tantum modo experiamur; earum
ve ro repraesentatio dicatur idea singularis: recte infertur 10. notiones expe
rientiae ope immediate formatas esse ideas singulares , ut et 11. singularia
iudicia ipsis innixa . * Quumque his nova deducta iudicia non nisi
ratiocinationis ope eruan tur : evidens est 12. haec nova iu dicia di ci non
posse singularia , sed DIANOETICA sive ratiocinantia.Vocantur huiusmodi iudicia
INTVITIVA , quia in his , quae in rei cuiusdain notione comprehensa intuemur ,
eidem tribuimus : ut ignis est rulidus : aqua madefacit. Scholastici ea
vocabant discursiva : ratioci nium namque ab iis dicebatur discursus. E. g.
ignis est cctivus : vapor est elasticus. Quandoquidem indicia intuitiva
conficiuntur tribuendo rei quidquid in ipsi us potione comprehenditur: sequilur
. 13. ut ea conficianlur accipiendo rem perceptam pro subiecto, eique tribuen I
22 . Cap. III De Veritate certa ete. 165 do quidquid attente consideranti in
ipsa occurrit , vel ab ca removendo quod in aliis , non etiam in illa
observatur. * remove * In primo casu habebis iudicium aiens , in secundo
negans. E. g. Ignem percipis eique calorein inesse observas . Sume ergo ignem .
pro subiecto , calorem pro attributo , et ha bebis iudicium aiens : ignis est
calidus. Contra quia alias observasti aquam madefa cere , id vero in igne non
intueris : ab igne hoc attributum , eritque indiciun negans : ignis non
adefacit. 123. Quemadmodun autem enunciatio . nes particulares in universales
comunitari possunt: ita , quamvis notiones et iudicia ab experientia deducta
sint singularia, commode tamen in u niversalia transmulari possunt , si regulae
sequenies exacte servcolur. 12. Quoniain individua'sunt omnimo de determinata (
$ . 18. , et variis circum stantiis involuta: 14. at tente separari a re
percepta debent acci dentia sive modi ab attributis essentialibus, quibus
tantumu modo est attendendun : 15. allributa haec essentialia onipibus
speciebus vel individuis 166 Logica Pars II. convenientia abstractionis ope
retinenda , atque inde notae characteristicae depro mendae sunt , quae ad rem
illam ab a liis discernendam sulliciant . Hi quidem ermut characteres
definitionis a posteriori ex in dividuis casibus eruendae. 125. Vt antem
operatio recte procedat, oportet 16. tot facere iudicia intuitiua quot res ipsa
percepta suppeditat , 17. ac cidentia omittere , 18. attributa , quae non
seinper eadem sunt , determinationis bus particularibus liberare , ac tandem
19. plura ea in re adducere exempla magna pe sollertia attendere in quibus
perpcluo conveniant , aut inter se discrc pent. * E. g. Vt scias quid sit
commiseratio , ob serva casum aliquem , in quo videas te , aut alium alterius
commiseratione percelli. Ad duc et aliam huius modi speciem , aut plu res etiam
, si id res exigat , videtoque cir cumstantias , quae sunt perpetuo similes.
Hoc modo in notescet tibi commiserationis idea universalis , cuius notae
definitionem suppe ditabunt realem , commiserationem nempe es . se tacdinm ob
alterius infelicitateir. Conf Wolfi. Log. Lat. §. 492. 126. Nunc quo modo
iudicia universa lia a posteriori coulcianlur , observemus. Cap. III. De
Veritate certa etc. 167 Quia ab experientia oriuntur iudicia intuitiva:
videatur primum , num praedicatum sit attributum rei perceptae essentiale : quo
casu enunciatio erit uni versalis ( $. 68* ). Deinde experientiam multoties
repetendo dispiciatur , utjum at tributum illud rei perceptae perpetuo et
costanter insit. Quod si non semper illud inveniatur , investiganda est ratio ,
cur in ea aliquando deprehendatur , eamque biecto addendo , indiciuin enascetur
uni versale ( 5. 69. ): * Ita e . g. esperientia novimus , igni semper calorem
inesse , ceram autem non seinper es se liquidam . Iudicium ergo ignein esse
cali dum erit universale : at non universaliter ius ferre poterimus ceram esse
liquidam ;sed opor tet invenire rationem cera aliquando liguescat , quae quun
sit in igne , cui tunc admovetur , hac subiecto addita , universalis orietur
ennnciatio : cera igni admota li quescit. cur > 1 127. Philosophus interim
in rerum ca ussis et rationibus investigandis studiose versatus regulas quasdam
sequa tur oportet , ut veriiates ex experientia de ducere queat. llae regulae
sunt : 1. Si in obiecto aliquo mutatio observetur , qun ties obiecto alteri
iungitur , idquc con 168 Logica Pars I. stanter : tunc hoc esse illius caussano
3 tuto concludi potest. * 2. Si duo vel plura , licet perpetuo , coexsistere
wel se mutuo sequi observeniur , sta tim inferre licet , unum esse alterius ca
ussam , nisi prius recta rario sic esse convicerit. non * Id clare patet
exemplo cerae liquentis igni , aut solis radiis admotae. ** Si ergo bellum
simul cum cometa existat , vel eumdem sequatur: praecipitantia erit iu dicare ,
hunc esse caussam illius. 21 . 128 Ex quibus omn : bus clare deducitur 20
propositiones ex experientia legitime uistitala confectas esse certo veras ;
quouicumque sensioni omnibus requisitis in stuctae convenit , pro certo haberi
, adeo . que 22. et definitiones experientiae adiu mento legitime efformatas ,
et 23. axio mata vel postulata ex his de ducta itidem certitudine pollere. Rationem definivimus per facile tum distincte
perspiciendi. Il la ergo utimur si qnando enunciationem , de cuius veritate
iudicium ferre volumus , ita cuin aliis connectimus , ut inde ter minorum nexus
ctare perspiciatur : id ve . ro est , quod dicimus COGNITIONEM A PRIORI.
Connexio isthaec vocatur DEMONSTRATIO , cuius est veritates ex certis
principiis per legitimam ratioci nandi seriem eriiere ( š. cod. ) . SERI ES
porro RATIOCINÀNDI habetur , si ex pluribus syllogismis invicem connexis
conclusio prioris sit praemissa sequentis ut inox adparebit: qni quidem
SYLLOGIS MI CONCATENATI dicuntur. 130. Ex quibus nullo negotio sequitue 1. in
omni demonstratione duo requiri , nempe principia demonstrandi certa it in :
dubia , eorumqne cum conclusione coone xionem . Et quia experientiae rite
institu definitiones , axiomata et postulata T. 1. tae , 2 > H 170 Logic .
Pars II. certitudine gaudent ( s. 128. ) : infertur 2. ea ad eiusmodi principia
esse referen da , proindeque 3. illum adserta sua nou demonstrare , qui ea ex
incertis dubiisque principiis deducit. 131. Quia vero duplex cognitio datur , a
priori scilicet , sive per rationem ; et a posteriori , seu per expe rientiam:
sequitur hiec 4 . duplicem quoque dari demonstrationem, earoque vel A PRIORI
confici vel A PO. STERIORI : illam haberi , quando veri tatem aliquam a principiis
legitime connexis deducimus , vel effectum per suas caussas probamus ; si
quando eam ex experientia reete institu ta , vel caussam per suos effectus
demon stramus. ** Quum ergo a priori demonstrare volumus , principia statuamus
necesse est , antequam ad syllogismorum concatenationem deveniamus. Id darius
fiet exemplo. Ponamus hanc proposi tionem : Deus caret adfectibus. Eam a prio.
ri sic demonstrabimus. DEFINITIONES. 1. Deus estens perfectissimun. 2.
Intellectus perfectissimus est , qui omnia * hanc vero , sibi distinctissime
repraesentat, 3. Appetitus sensitivus est. qui oritur ex idea boni confusa. 4.
A'fectus sunt motus vehementiores appe 1. tu sensitivi. Cap . II!. De Veritate
certa etc. 1 . ) : sed era mo AXIOMATA. 1. Ens perfectissimum gaudet in
tellectu perfectissimo. 2. Distinctissima omnium repraesentatio ex cludit
quamcumque idearum confusionem . THEOREMA. Deus caret adfectibus. DEMONSTRATIO
. 1. Ens perfectissimum in tellectu gaudet perfectissimo ( ax. Deus cst ens
perfectissimum ( def. 1 . ) ; go Deus gaudet intellectu perfectissimo. 2.
Quicumque intellectu gaudet perfectissi omnia sibi distinctissime repraesentat.
Deus vero gaudet intellectu perfectissimo ( num. 1. ) : onania ergo sibi
distinctissime repraesentat. 3. Qui omnia sihi distictissime rapraesentat ,
ideis caret confusis ( ax. 2. ) : at Deus om niasibi distinctissime
repraesentat. ( num . 2 ) : ergo Deus caret ideis confusis. 4. Ab ideis boni
confusis oritur appeti !us ser sitivus ( def. ? . ) : quuin ergo Deuts careat
idcis confusis ( num .' 3. ) ; liquet , eum care re quoque appetitus sensitivi.
5. Qui appetău caret sensitivo , is caret adfe clibus ( def. 4. ): atqui Deus
carct appetitie sensitivo ( num . 4. ) : ergo Deus caret adfe ctibus. Vides hic
syllogismorum connexione a principiis ceriis deducta confectam esse demonstratio
nem . ** A posteriori demonstratur animae in nobis exsistentia hoc modo. EXPER.
Si nobis ipsis attendamus , obserica biinus , aliquid in nobis esse , cuius ope
nosa H 2 172 Logic. Pars. II. metipsos ab aliis rebus extra nos positis , inter
eas vero alias ab aliis distinguiinus , boc est nostri rerumque extra nos
positarum conscii sumus. DEFINITIO . Id. ipsum , quod nobis sui rerumque extra
se positarum est conscium , dicitur anima. TIIEOREMA. Exsistit in nobis anima.
DEMONSTRATIO. Experientia enim constat , aliquid in nobis esse nostri rerumque
extra nos positarum conscium : id ipsiin autem est quod dicitur anima ( per
defin. ) : e: c sistit ergo in nobis anima. Demonstratio iterum est , vel D.
RECTA sive Ostensiva * vel INDIRE DIRECTA seu apogogica. **. Illa est qua ex
notione subiecti colligitur eius nexus cum attributo ; haec autem in qua
oppositum tamquam verum assumen tes , conclusionem falsam inde deduci mus , ut
propositionis nostrae veritas elucescat. Directa ergo erit demonstratio , si
ordinem sequatur hactenus explicatum ( $. 131. , si ve a priori sil , sive a
posteriori : ut videre est in superadductis exemplis ( $: 131 " ); **
Indirecta demonstratio vocari quoque solet redactio ad impossibile vel ard
absurdum , quia oppositam propositionem ut veram alla sumens , ex ea absurdum
aliquod , sive cou clusionem impossibilem, eruit. Talis crit de monstralio
scyueas. THEOREMA. Nibil est sine ratione sufficiente. DEMOSTRATIO. Ponamus
aliquid esse sine ratione sufficiente. Ratio ergo , cur id sit aut fiat , erit
in nihilo : adeoque nihilum ex sistet simul , et non exsistet. Essistet , quia
aliter non posset esse caussa alterius : non exsistet , quia aliter non esset
nihilum . Quod quum contradictionem involvat , sitque ideo impossibile : ergo
nihil est sine ratione suffi ciente. 133. Ex hactenus dictis patet 1. quam
cumque propositionem legitime demonstra tam esse certo veram idest certitudine
gaudere metaphysica , proindeqne 2. de inonstrationem csse viam ad certitudinem
perveniendi praestantissimam . Quumque ex perientiae et demonstraționis
excellentiam ostenderimus : ' recie concludi mous 3. veritatem certain dici .
dubia ' sensione , vel evidenti principio ni titur , dummodo in demonstrando
CIRCU LUS non irrepscrit. In hoc vitiuni incurrunt ii , qui propositio nem
probantem demonstrant per propositio nem probandam : quia in tali casu idem per
idem demonstratur. Huic adfiuis est illa , quae a Scholasticis adpellari solet
PETITIO PRINCIPII , nempe quum principium de monstrandi vel nullum est , vel
nulla certi tudine aut ' evidentia gaudet. Huiusmodi sunt pleraeque
enunciationes Epicuraeorum , Pla quae in H 3 174 Logic. Pars Ir. quis tonicorum
, Stoicorum , aliorumque, de bus in Metaphysica erit disserendi locus. 134.
Quoniam autem in detegendis per demonstrationem veritatibus ordo , sive
methodus requiritur : ne longius hic pro grediamur , de ea sequenti capite ,
prout res exegerit , breviter enodateque tracta bimus. R Elite ut de AVCTORI
TATE pauca dieamns . Ea non scientiam , ut experientia et rutio ; sed FIDEM
parit. Est autem FIDES : ad sensus propositioni datus , alterius te stimonio
itinixus. Ex quo patet , rationem fidei sufficientem esse narrantis auctorita
tem. Quumque auctoritas vel Divina sit , vel humana : fides quoque in DIVINAM
et HVMANAM recte dispertitur. 136. Ex qnibus liquido infertur 1. fidei
fundamentum in eo consistere , ut narrans taliasit , qui nec falli nec tallere
possit ; ac proinde 2. eo firmiorem esse fidem quo certiores sumus de scientia
et veraci tate narrantis. Et quia Deus est omniscius Gap. VI. De Veritate certa
175 et infinite verax , quippe in quem nulla cadere potest ' imperfectio ( per
princip ; Theo. nat. ) : evidens est 3. fidem Dic vinam parere certitudinem
omni exceptione maiorem ; pariterque 4. Dei loquentis au ctoritatem esse
fundamentum veritatis com pletum , omnibusque numeris absolutum ; adeoqu 5.
debere nos Deo loquenti ad quiescere , nec umqnam Dei testimonio
demonstrationem ullam opponere , utpote vel falsam prorsus , vel indigestam . *
Non potest enim certitudo certitudini adver : sari , quia si id esset , tunc
contrariarum propositionum utraqua vera esset , adeoque idem simul esset et non
esset : quod quum repugnet, non potest ergo fidei Divinae demonstratio ulla
obiici. Quumque Dei verbum sit fundamentum veritatis com pletum ( num . 4. f.
huius. ) : patet , quam cumque demonstrationem ei adversantem esse falsam. Quandoquidem
autem auctoritas humana fidem parit bumanam, et certitudinem moralem : de ea
pauca adhuc addenda supersunt. Et primo quidem , quum fundamentum fidei sit opi
nio, quam de narrantis scientia bitate habemus; eoque fir mior sit fides , quo
certiores sumus de hu et pro H 4 196 Logic. Pars II. jasmodi dotibus ( S. eod.
) : liquet 6. l dem humanam parere in nobis certitudi Nem moralem completam , si
non adsit ra tio , cur in narrante aut imperitiain , aut malitiam supponere
possimus : veluti si evidentia scientiae probitatisque indicia de derit si
nihil emolamenti ex iis , quae narrat , perceperit , si ' parratio rectae ra
tioni non repugnet ; si denique pro nar rationis suae veritate dimicaverit ,
vel per secntionem passus sit. * Deinde quoniam non omnes homines eadem
praediti sunt scientia et probitate , nec de his semper certo iudicare possumus
, quum id io so la opinione versetur: exsurgit hinc probabi litas, de qua
paullo post praecepta dabimus. * Postremâ haec conditio maius certitudini mo
rali pondus adiungit: si vero deficiat , liu modo priores adfint circumstantiae
, certilu do vim suam non amittit .. Schol. Nunc in eo sumus , ut explica tae
doctrinae usum paucis tradamus. Qua propter Philosophus noster hos , qui se
quuntur, observet. CANON E S. AMD quidlibet erudite experiundum, nisi
necessariis praemunitusa in strumentis me accedito . Si haec desint, Cap. III.
De Veritate certa etc. 177 aliorum experimenta consulito , dummo do eorum
integritatis scientiaeque con stiterit, atque inde tuas deducito con clusiones.
Si per insrumenta liceat , aliorum experimenta ad examen revo cato ut sacriorem
eorum ideam ad quiras , caussasque facilius investigare possis . * Et quidem
experientia erudita instrumentis opus habet , sine quibus experimenta fieri
nequeunt. Si ergo desint , observationes nul lae erunt : ac proinde aliorum
experimenta consulenda , praemissis cautionibus , quae de eorum veritate dubitare
non sinant. Hinc Physicis admodum necessarius est machina rum instrumentorumque
apparatus , ut phaea nomena observari possint , a quibus ad caus sas proximas
rationis ope concludendum est. 2. Ne phantasiae partus, aut ratiocim nia ex
experimentis deducta pro expe rientia venditato ne subreptionis ar guaris. *.
Quidquid enim imaginationi debetur, reale non est, sed phantasticum. At in
experientia realis rerum exsistentia observatur ; adeoque qui phantas mata pro
rebus obtrudunt , su bripiendo a dsensum extorquere conantur : et tunc evenit ,
ut cum ratione experientia pu gnare videatue , de quo infra sermo erit . Quod
sem el expertus es , ne teme ? depromito , sed experimenta saepius H 5 178
Logic. Pars II. repetens, an costantia sint , observato; nec , nisi certior
omnino factus, de iis enunciato . Saepe enim accidit , ut effectus aliqui a cir
cumstantiis oriatur accidentalibus , vel caus sae cuidam externae debeantur.
Repetenda er go experimenta , ut diiudicari possit, utrum principali , an
accessorüs caussis , effectus il le tribuendus sit , adeoque non mirum , si
facta semel observatione , effectus productio propriae caussae non tribuatur,
4. Demonstrationes non nisi certis in dubiisque principiis superstruito. Ratio
ciniorum catenam ne interrumpito ; sed sequentium veritas ex antecedentibus
patefiat. * Eo namque modo habebitur legitima syllo gismorum concatenatio in
qua demonstras tionis essentia sita est , ut supra diximus. Ne ciedito ,
quamcumque enuncia tionis probationem pro demonstratione sumi posse : qaamvis
omnis demonstra tio sit probatio. Ex debilibus enim prae inissarum
probationibus exilis enervisque exsurgit demonstratio cui nihil potest roboris
accedere . * Nimiruni demonstrationis robur a praemis stabilitate , legitimaque
connexione procedit , adeoque pro; earum firmitate con clusionis pondus augetur
, vel minuitur. sarumriat , 6. Demonstratio , ut certitudinem ра talis esto ,
quae neque per mate riam , neque per formam ulla possit ra tione convelli .
Iunc enim adsensum etiam ab invito , extorquebis. 7. Si metaphysicae
certitudini expe rientia adversetur , haecfallax esto. Absurdum namque foret id
exsistere , quod rectae rationi repugnat. * Eo namque casu duas habemus
'propositiones inter se contradicentes , alteram singularem , quae quidpiam exsistere
pronuntiat , univers salem alteram , quae idem existere posse ne gat ; adeoque
duo haec enunciata inter se pugnantia ita comparata sunt, ut quod pri mum
sensibus perceptum fuisse ait, illud alte rum solidis rationibus intrinsecus
impossibile esse demonstrat. Quum itaque ab impossibi litate ad non
exsistentiam conclusio duci pose sit ( per princ, Ontol, ): recte colligitúc,
in hac collisione rationem vincere, ac proinde experientiam dici debere
fallacem , quippe non experientia , sed subreptionis vitium rea pse adpellanda.
Et hoc universali omnium phi losophorum consensione pro inconcusso axiom mate
habendum est: ut ita Genuensis noster praecipuum inter suos de veritatis
criterio cả nones illum posuerit: Si intellig :bili evidentiae physica
adversetur , FALLAX HABETVR PHYSICA , est enim haecminor , cui proii # 6 180
Logica Pars 11. + de vals dicere, quam de intelligibili subdubitan re , quae
summa est , acmathematicam parit certitudinem , par est. Cui deinde subiungit :
Fingamus ( quaquam id falsum keputo , ma thematica evidentia demonstrari terram
mye veri: si qui sensuum evidentiam reponeret , non esset audiendus, nisi
matorem minori evi dentiae praeferre velimus. Art. Lozicocrit Lib. IIT. cap. 3.
15. can 1 , Sed quid , in quies , alienam auctoritatem in re tam evi , denti
confulere conaris? Nimirum quia canon bic a quibusdam , apud quos Genuensis no
stri plurimum valet auctoritas , nigro lapillo notatus est : ut sciant
sententiam nostram non singularem aut phantasticam , sed ratio De aç unanimi
hominum ratione utentium consensione fultam . cum eius quoque Viri ipsis non
suspecti adsertione congruere. 8. Nihil Divinae auctoritatį opponere fas esto,
Quum Deum loquutum esse con stal , cuncta silento . Huic metaphisicą, certitudo
numquam refragator : sed si per rationem liceat , demonstrationes ad calculum
revocato ; * vel si Dei vera bum explicatione egeat , Ecclesiam in , fallibilem
eius interpretem con sulit o . * Referentes nồs ad ea , quae diximns, quia
demonstratio Dei verbo repugnans fal sa est , dummodo intra rationis fines
quaer stip sit rationes ,iterum conficiautur , e de Cap. IX. De. Methodo. 181
monstrationes ad calculum revocentur , ut adpareat, undenam oppositio illa
ortum duxe rit, principiisne dubiis et incertis, , an a defectu legitimae connexionis
? * Ratio huius canonis haec est, Onnis lex eiusdem Legislatoris spiritu est
explican da Si enim leges humanae difficultate aut: ob scuritate aliqua
laborent, earum explic atio et interpretatio tantum a Legislatore , eius que
Administris est petenda , non a pri vatis Doctoribus proprio marte cudenda.
Quan to magis ergo Divina lex quae verbo Dei con tinetur, ab eo qui eiusdem Dei
spiritu gau det est explicanda. Ecclesiam autem Dei spi șitum habere , patet ex
ipsis Servatoris no stri verbis Matth. ult , ubi Apostolis ait Ec ce ego
vobiscum sum omnibus diebus usque ad consumationem saeculi. Et loan. XVI. 18.
Cum , venerit ille Spiritus veritatis ( Pa . raclitus ) , docebit vos omnem
veritatem . Quid quid ergo Ecclesia pronuntiat , assistente su premo animarum
Pastore Christo , et docente Spiritu Sancto pronuntiat ; adeoque per eana Deus
ipse suum interpetatur verbum 182 Logica Pars. Į1. G A PUT QVARTV M De Methodo
. 138. Vum in demonstrationibus con clusiones ex certis principiis per
legitimam ratiociniorum seriem dedu ci debeant; illa vero series arglimentorum
METHODVS dicatur: non abs re brevem hanc de metho do tractationem doctrinae de
demonstrationis bus subiungiinus. 139. Quilibet experiundo agnoscere po - test
, enunciationis cuiusvis veritatem du plici modo detigi posse , scilicet vel
eam dividendo , et ope analyseosed prima simpliciaque principia perveniendo ,
vel componendo idest , principiis ad conclu siones sensim ac legitimo nexu
progre. diupdo . Vnde clare patet , methodum esse vel ANALYTICAM sive
divisionis , vel SYNTHETICAM seu compositionis. * Methodus ergo anulytica a
principiatis ad principia , synthetica a principiis ad princi piata ( uti
Scholae aiunt ) procedit. Dla composita resolvit. haec simplicia componit, Rem
exemplis illustrabimus. Ad demqnstran dam enunciationem alibi ( S. 131, )
allatam ? Deus earet adfectibus : analytice ita ratio cinabimur. 1. Quicumque
caret appeti tusensitivo , caret @ap. IV . De Methodo, 183 etiam affectibus (
per defin. aff. ) : atqui Deus caret appetitu sensitivo ; ergo Deus caret
affectibus. a, Min. prob. Quicumque caret repraesentatio nibus confusis , caret
quoque appetitu sensi tivo ( per defin. app. ) : Deus vero caret
repraesentationibus confusis, ergo Deus ca. ret appetitu sensitivo . 3 Min
prob. Quicumque omnia sibi distinctist sime repracsentat , repraesentationibus
caret confusis ( est axioma ) : sed Deus omnia si bi distinctissime
repraesentat : caret ergo repraesentationibus confasis. 4. Min . prob .
intellectu gaudens perfcctissi mo omnia sibi distinctissime repraesentat ( per
defin . intell. Quum igitur Deus gau deat intellectu perfectissimo : omnia sibi
distictissime repraesentat 5. Min. prob. Ens perfectissimum intellectu gaudet
perfectissimo ( est axioma ) : Deus autem est ens perfectissimum ( per defin.
Dei ) : ergo Deus gaudet intellectu perfe ctissimo Eamdem propositionem
synthetice demonstravi mus ( $ . 131. * ) . At in gratiam Tironum , quos ad
Philosophiam manuducere instituimus , aliam adhuc dabimus demonstrationem , bre
vem illam , at mathematico more confectam hoc modo: THEOREMA, Deus caret
affectibus . DEMONSTRATIO. Est enim ens perfectism simum (defin. 1. ) , cuius
est intcllectu gaudere perfectissimo ( ex 1. ) , qmniaque 184 Logica Pars ir.
sibi distinctissime repraesentare ( defin . 2. ) id quod omnimodam ab eo
idearum confu şionem excludit ( ax. 2. ), Quum itaque ab idearun confusione
pendeat appetitus sen sitivus ( defin. 3. ) ' , cuius vehementiores motus
dicuntur affectus ( defin . 3. ) : iure colligitur, Deum omnino affectibus
carere. Vides hic , quam bene monuerimus in fine primae partis , maximum atque
insignem esse usum syllogismorum in conficiendis mathema ticis
demonstrationibus : atque hinc patet , quam inepti ad demonstrandum sint ii ,
qui syllogisınıim eiusque leges negligunt, et igno rata vituperante 140.
Quoniam methodus analytica a dif ficilibus ad facilia , a compositis ad sim.
plicia progreditur ( s. 139. ); synthetica vero a principiis ad conclusiones (
S. eod. ) conséquens est 1. ut illa in veritate inve nienda , haec in alios
docendo adhibeatur ; * adeoque 2. eruditorum reprehensionem in currant qui ip
docendo illam potius, quain hanc sequi amant. Et quia feracior illa est , haec
sterilior ** : novit quisque 3. docendi ordinem id exigere , ut post quan
auditoribus synthetice veritas fuerit explanata , iisdem "analytice modus
. indi cetur , quo fuit ab auctore inventa . Analyticam enim methodum in
docendo ad bibere idem esset , aç opposita et difficili ti 9 Cap. IV . De
Methodo. 185 rones ducere via , eosque ad veritatem vel numquam , vel raro
admodum pervenire ** Feracior quidem est analytien methodus quia singula ad
examen revocat , minuta quae que considerat , atque possibiles omnes fin git
casus , inde ab hac quasi sylva conserta , enodatis extricatisque ambagibus ,
ad rem ipsam perveniat ; synthetica vero sterilior , & generalibus namque
principiis brevi atque ex pedita via pergit conclusiones. Eadem autem ratione
illa difficilior , haec facilior est : adeoqne illa viatori tramitis inscio ,
qui di vinando et om nia tentando difficiliter quo tedebat pervenit : haec
eidem perito similis , qui brevi apertaque via iter conficit , et finem ideo
suum cito consequitur, 541. Iam ad melhodi leges , tum utri que communes
cum alterotri peculiares , tradendas accedamus. Eas aliquot complc clemur
regulis ; quarni quinque genera les , ceterae vero speciales sunt, analyticae
praesertim methodo inserviturae. Quicum que igitur veram : methodum in
veritatis investigatione cailere cupit , hos rigides servet . 186 Logica Pars.
II. CANON E S. I. Q Votiescumque ad demonstrandum accedis , cur ato , ut a
facilibus notisque incipias , indeque ad ignota et difficilia gradatim
progrediaris. Prin cipia itaque solida , ideasque selig ito medias , atque ea
semper cordi habelo * Est haec lex , quam inculcavimus ( $. 130. ) et alibi
retulimus. In -singulis ratiocinationis gradibus eamdem semper servato
evidentiam , ut altei um ab altero derivari clare sentias. * * Ita vitabitur
paedantismus , hoc est inutile illud memoriae pondus iudicio destitutum , et in
minimis quibusque sectandis vanam quae ritans gloriolam , de quo vide supra
Part. I. Cap . 3. Schol. Can. 4 3. Stilo utitor facili , ac naturali , non
oratorio vel ampulloso. Verborum tantum , quantum ideis clare exprimen dis
satis est adhibeto : nec , nisi in ideis claris , quidquam tentato. * Verborum
enim copia ignorantiae confusioni sve indicium est : quae namque ignoramus vel
confuse scimus , ea nimia verborum cir cuitione explicare cogimur. Cap. IV. De
Methodo. 187 4. Argumentum pertractanduſ ab am biguitate , si quafuerit ,
liberato prius ; deinde in tot membra dividito , quot ca pax est : singula
attente examinato ac definito : * omnia clarissimis explica to verbis , ac
quaestione quam simplicis sime exprimito . * Prae oeulis tamen habeantur , quae
de de finitionibus diximus Verba : quce obscuritatis aliquid habent , adcurata
definitione dctermina to , in eoque semper sensu adhibeto. * Confer quae
diximus SS. 5. 46. De methodo analitica livec habeto : 6. Ad veritatem
inveniendam , quae stionemve solvendam , ne nudus princi. piorumque inscius
accedito : num sorida cognitione ad id paratus advenias , se dulo perpendito. *
Sinamque incapax principiisque destitutus rem aliquam adgrederis , fieri non
poterit , quin inepta et ridicula effutias. 7. Quaecumque cum proposita quae
stione aliquam habent connexionem di 古 88 Logica Pars II. ligenter exquirito : omnes possibiles ti
bifingito hypotheses : quaecumque ei lu men adferre possunt , ne rciicito sed
Omnia simul colligito et comparato. 8. Principia quaeque atque ideas mutuo
conferto: omnium relationes perpendito efinesque sectator , eaque , superflua
de mendo in parvum referto numerum . Omnia deinde corrigito diuque considera to
, ut tibi familiaria fiant. * Speciatim vero principiis diu haereto. Repetitione
namque attentio renovatur ius ope ideas meliores fieri docuimus F. 19. Schol.
Quas de syudetica methodo tradenda forent , ea partim a nobis incul. cata sunt,
partim infra , ubi de modo alios docendi sormo erit , enodabuntur . Si quis
autem metho dum hanc callere cupiat, is Christiani Wolf fii tractatum de
methodo mathematica , universae Matheseos elementis * praemis-. sibi curet
reddere familiare CU sum * Exstant haec 5. voluminibus in 4. excusa Ha lae
Magdeburgicae. Cap. V. De Veritete Probabili. GA P VT QUIN T V M De Veritate
probabili -542. o 142 Eritatein dici certam mnia adsunt requisita quamcum que
oppositi formidinem excludentia , su pra docuimus. At intellectus nostri
infirmitas persarpe impedimento est, quo minus nobis illa veritatis indicia pa
. teant ita , ut veram absque ulla oppositi suspicione perspiciamus. Hinc ergo
est , cur in praesenti capite de probabilitate , quantum satis erit , dicere
instituerimus. 143. Est autem PROBABILITAS status mentis ex indiciis
insufficientibus verita ti adhaerentis , cum aliqua tamen op positi formidine,
PROBABILIS ergo di cilur enunciatio in quc adest ratio in sufficiens , cur
praedicatum subiecto tri bu atur. * Ita Cicero pro Milon. cap. 10 probabilibus
argumentis probat , Clodium Miloni insidias struxisse. Ait enim : Clodium
dixisse , Milo nem esse occidendum ; 2. eum Miloni neces sarium iter Lanuvium
facienti obviam ivisse , 3. idque itinere effecisse maxime expedito , et
praeter consueludiuem ; 4. servos cu: n les lis ante fundum suum collocasse. Probat
id 190 Logica Pars I. esse > in quidem , sed probabiliter , insufficientibus
quippe indiciis , adeo ut aliqua adhuc adsit oppositi formido. Ex quibus
definitionibus clare de ducitur 1. eo probabiliorem esse proposi tionem , quo
plura adsunt veritatis indicia 2. dici vero DVBIAM , si ex alterutra parte
aequalia fuerint rationum momenta, adeoque 3. IMPROBABILEM qua paucissima
inveniuntur ; quibusque e contrario fortiora indicia opponuntnr ; 4. omne
probabile , esse quoque possibile , quamvis 5. non omne possibile dici pro
babile possit . * Probabilitas enim supponit possibilitatem : quum enim
probabilitas veritatis alicuius exsi sicntiam indicet , exsistere vero nequeat
, cui deest possibilitas , liquet, tunc de pro . babilitate qnaestionem
institui posse quum rei possibilitas firmata sit: ut ita qui eam esse im
possibilem demonstravit , uihil aliud oneris habeat , omnemquede probabilitate
contro versiai tollat . Possibilitas autem non infert probabilitatem : nam quum
possibile sit , quod non involvit contradictionein ( per princ. Onol. ) , non
ideo probabile dici potest , nisi quaedam adsint circumstantiae , quae id
revera exsislere evincant. 145. Quia dantur enunciationes probabi les,
sillogismus autem propositionibusconstat: liquet 6. Cap. V. De Veritate Probabili.
191 dari quoque syllogismum probabilem . Et quia couclusio sequidebet partem
debiliorem; debilior vero est pro positio probabilis , prae certa : consequens
est 7. ut conclusio sit probabilis, si alte rutra praemissarum talis sit . Sed
quoniam conclusionis vis est aggregatum virium praemissarum (s . 82. seqq . ),
infertur 8. ut si utraque praemissarum sit probabilis , conclusionis
probabilitas minuatur pro sum ma graduum , quibus illae a certitudine recedunt.
* Denique quum demonstra tiones coficiantur ex syllogismis concatena tis ,
quorum unus ab altero vim sumit: evidens est 9. integram de monstrationem , in
qua vel una probabi lis propositio irrepsit , non esse , nisi 7 pro babilen. *
Certitudo namque in philosophicis se habet , ut aeqealitas in mathematicis.
Sicuti ergo ae qualitatis nulli sunt gradus , ita et certitudi nis.
Probabilitas autem maior est vel minor provt minus magisve a certitudine
recedit,ut et inaequalitas servata proportione. Ponamus ergo certitudinem
constare gradibus 12. Si una prae missarum tantum certa sit , altera duobus
gradibus ab ea recedat , habebimus conclu sionem probabilem duobus dumtaxat
gradi 192 Logica Pars II. Io bus a certitndine distantem : tunc enim ma ior
erit Ei , minor - , quibus addie tis , babetur in conclusione summa = 2. quae
duobus tantum gradibus ab unitate , sive certitudine diftat. Ponamus porro prae
missarum unam ita probabilem esse , ut duo bus gradibus a cerit udine deficiat
, altera ve ro tribus ; habebimus conclusionem sive summam fractorum et E quae
quinque gradibus ab uuitate pe a certitudine recedit , quot deerant in am babus
praemissis. Dem . 146. His generatim expositis , ad pro babilitatis species
transeamus. Probabilitas recie dividitur ib HISTORICAM, PHYSICAM, POLITICAM,
PRACTICAM, et HERMENEVTICAM . De singulis pau ca delibabimus. A probabilitate
differt OPINIO , quae est propositio insnfficienter probata , scilicet a
principiis nondum certis , et precariis dedu cta, quae ideo est mutabilis , ac
proinde po test ut plurimum esse falsa : unde opinio di viditer in PROBABILEM ,
et IMPROBA, BILEM , prout principia sunt prout princi pia sunt probabilia , vel
precaria , omni nem pe rationis auxilio destituta. Sap. 7. De Veritate
probabili. He completanarratio eae De probabilitate historica. SISTORIA, est
factorum fidelis et . Eius au ctores sunt homines : fidem ergo parit hu mapam. Homo
vero factum aliquod fideliter et complete narrans , HISTORICUS vel TESTIS
dicitur. Sed quia aliorum narrationes neque experientia , nec demonstratione ad
examen revocari possunt ob vitae intellectusque nostri brevitatem mentisque
imbecillitatem , nec de omnium probitate certo constare potest: quando ` id in
sola opinione versetur , non certitudinem , sed probabilitatem in nobis
gignunt. Quumque hominum aucto ritate freti adsensun historiae praebeamus :
evidens est , historicae probabilitatis funda mentum esse fidem humanam . * Ut
autem narratio historia dicatur , dcbet non modo esse fidelis , hoc est res
clare , eoque , quo contigerunt, ordine narrare , sed completa etian ', omnia
scilicet factorum adiuncta , circumstantias , relationes , caussas ; et fines
amplecti.Hinc Cicero Historici perinde, ac Oratoris dotes paucis expressit,
nempe talem esse debere ne quid falsi dicere audeat ne quid veri non audeat.Quia
fides aliorum testimonio in nititur, estque fundamentum pro babilitatis
historicae; homines autem ob ignorantiam malitiamve , aut fal li aut fallere
possunt , ut experientia testa tur : consequens est , ut ad adsequendam
probabilitatem historicam cautiones quae dam adhibendae sint , quibus testium
an ctoritas , factorum genuinitas , natrationuin qucque veritas dignoscatur.
eam * Hinc ergo enata est ARS CRITĪCA , sive habitus aliorum auctoritatem ad
trutinam re. vocandi , recte adhibendi , factaque scienter ac sine erroris nota
dijudicandi:Tapinps 1 namque indicium notat. Et quamvis artis cri ticae
officium , vulgarem sequuti opinionem , infra ad solum librorum examen atque in
terpretationem restringamus ; non ideo no bilissimam hanc artem cancellis adeo
angu stis coarctare volumus ; sed quidquid de usi auctoritatis , rernm gestarum
examine ac in dicio dicenda sunt , ea ad artem criticam : pertinere , qnisque
sciat : id quod semel pro sem per observandum . 119. Quia ergo in omni
narratione tria considerari possunt ; narrans nempe , bar ratiun , et ipsa
narratio : hinc est , ut in fide humana ad tria potissimum attendi so leat ,
scilicet i . ad homines narrantes, ad res narratas , 3. ad modima parran di . *
Ab hominibus nunc ordiamur. * Atque in his , quae sequuntur , regulis tam
historicam , quam hermeneuticam probabilita tem respicientibus , nedum librorum
genui nitatem integritatsmve expendentibus , gene rales totius críticae leges
ad singulares spe cies et circumstantias adplicandae consistunt, in quibus
addiscendis eo maiorem operam collocare debet , qui philosophi nomen tue ri
cupit , quo frequentius in evolvendis li bris , factisque diiudicandis erit ei
, re exi gente , versandum, Quoniam hominibus , licet eadem natura , non cadem
tamen est perspicacia, mcrumque probitas , nec omnes iisden sensibus eamdein
rem percipere possunt (per cxper. ) ; hoinnes autem factum aliquod narrantes
testes vocantur 147. ) : patet in quolibet teste tria concia derari posse ,
scilicet INTELLECTVM, VOLUNTATEM et SENSUS, Si intellectus spectetur , testesa
sunt vel PRVDENTES ac PERSPICACES , yet RVDES et IGNARI; si VOLVNTAS ,idem sunt
vel NEVTRI PARTI, vel VNITANTVM faventes , itemque vel PROB!, vel IMPROBI; si
denique SENSVS, sunt vel I 2 ATI 196 Logica Pars II. OCVLATI, qui factum quod narrant
ocu lis perceperunt , vel AVRITI , qui illud ab aliis audiverunt ; et hi denno
vel Co AEVI sunt , qui eodem facti tempore vi xerunt , vel RECENTIORES qui id postea
ab aliis acceperunt. Sic Livius inter
testes prudentes est referen dus : multo namque po!lebat iudicio. Idem tamen
Romariorum parti favebat , quippe Romanus et ipse. Tandem factorum , quae sua
aetate evenerunt , testis coaevus , eorum autem , quae ante conditam
condendanıve urbem , ac per tot saecula ad sua usqne tem posa accidisse tradebantur
, recentior dicen dus est. 152. Ex quibus omnibus patet 1. in fa cti alicuius
narratione , quod attentionem iudiciumque requirit , homines prudentes et
perspicaces rudioribus ignavisque esse antehabendos ; promiscue vero se habe re
in rebus solis sensibus , non etiam iu dicio , indigentibus , dummodo in illis
af fectus partiumve studium non metuatur : tunc enim rudiorum testimonium proba
bilius erit ; 3. testes neutrales alterutri parti faventibus recie pracferri ,
nec non 4. oculatos auritis , 5. coaevos recentiori . bus , inter auritos autem prudentes ru dioribus ,
eos tamen , ad quos ex oculato Cap. IV . De Veritate Probalili. 197 nullam esse
, fide digno magnaque auctoritate pollente facti fama pervenit , ceteris
incerto alio . quin rumore ductis esse anteferendos , ac denique 8. coaevi
testimonium plurium contestium narratione augeri , cui nescio quidnam ad
probabilitatem ultra deesse possit , 153. Quod altinet ad res ipsas narratas
síve facta ; observandumu 9. probabilitatem si circumstantiae adsint sibi
invicem repugnantes ;nihil enim impossibi le potest esse probabile ( S. 144. )
; 10 . nullam quoque esse probabilitatem , si testis unicus factum aliqnod
insolitum et mira bile narret : licet 11. probabilius id ha bendum sit , si a
pluribus probatae fidei viris unico contesta narretur ; 12. nulla itidem
probabilitate gaudere , narrationem, quae claris rationibus -aperto repugnat ;
13. non idem tamen dicendum de ea , quae moribus opinionibusque nostris ad
versatur , *** nec 14. si caussa modusque ignoretur , aut vim artemque nostram
su peret. Sic pleraque prodigià ab uno Livio narrata nullam merentur fidem ,
utpote omni proba bilitate destituta : veluti quod scribit Lib. 1. ca. 12. post
pugnam Romanorum cum Albanis , Tullo ' Hostrilio Rege 1 factam , I 3 198 Logica
Pars. II. in Monte Albano lapidibus pluisse ; vel quando , Tarquinio Prisco
regnante , Au guris Attii Nevii cotem novacula discissam refert Lib. I. cap.
25. : id enim mirabile quidem et insolitum , sed a Livio tantum relatum . Qua
de re iure idem Historicus de his , fimilibusque factis improbabilibus vocabulo
ferunt fidem suam sartam tectam servat , non modo singulorum narratione, sed et
in historiae suae proaemio, ubi cas ideo nea adfirmare, nec refellere velle
fatetur , ut potc poeticis magis decora fabulis , quam incor. ruptis rerum
gestarum monumentis confirm mata . nempe Lu nam ** Huiusmodi sunt fabulae illae
, quibus Mu hamedanum scatet Alkorauum , a Muhamede bifarian digito divisam
partemque in vestis manicam delapsam iterum in coelum repositam ; palmae
eiulatus in eius absentia , et id genus alia. > *** Sunt enim , mores pro
regionum ac tem porum varietate , varii. Quidquid ergo mori bus nostris turpe
est , fortasse apud alias Gentes honestum erit , et quod nostro sae culo nefas habetur
id licitum esse alio : tempore potuit. Quis enim ut cum Cornelio Nepote
loquamur , non vitio verteret The bano Epaminondae, saltasse eumcommode
scienterque tibiis cantasse ? Et tamen haec aliaque nostris moribus indecora
inter eius virtutes commemorantur. Nepos. in Proem. Cap. V. De Veritate
probabili. 199 154 Quoad modum narraudi tandem , id sedulo advertendum , facta
stilo simplici non oratorio aut poetico , narrari debere. Si itaque simpliciter
atque historice nar ratio scripta legatur , maiorem meretur lidem , quam quae
poeticis pigmentis aut oratorio fuco lasciviens aures demulcere conatur. SECTIO
II. De Probabilitate physica , politica , et practica. 153.TJAEc de fide humana
, quam qui ritatis praeiudicio occupatus conseri debet . Ad alteram nunc probabilitatis
speciem ac cedamus , nempe PHYSICAM ; quae ha betur , quum ex pluribus
phaenomenis ad caussam aliquam physicani concludimus, cui illos tribuimus
effectus. Gravesandius eas vocat hypotheses. 8 Probabile est , fluxum maris à
lunae solisque attractione pendere: nam ex plurie . bus phaenomenis hanc illius
caussam ess posse , compertum est. Ad physicam probabilitatem eruen dam quatuor
adhibendae sunt cautiories : 1. ut phaenomenon adstumtum sit certum, eiusque
distincta idea , aut clara saltem , habeatur , ne chimaeram pro re , aut nu bem
pro Iunone amplectamur ; 2. si phae nomenon illud sit ab alio relatum ad
historicae probabilitatis regulas, tamquam ad lydium lapidem , exigatur : 3.
eius porro caussae omnes pose sibiles investigentur , et.cum phaenomeno
conferantur ; ac denique 4. ex iis una plu resvc adsumantur, quae cum omnibus
cir cumstantiis apte conveniant . * Quum autem doctrina haec ad Physicam fa
cultatem pertineat : sufficiat de ea quaedam tantum hic notasse : commodius
enim in Phi. sica tractabitur. POLITICA probabilitas ea est , qua ex alicujus
personae phaenomenis in dolem animi arguimus. ' Quumque in ex propensiopuni
signis ad ipsas propen siones concludamus : evidens est tracta tionem hanc ad
Ethicam potius , quam ad Logicam pertinere : adeoque non mirum , si eam
inoffenso pede oniittamus. ea Ut clarius politica probabilitas intelligi pos
sit , sumamus e. g. aliquem , in quo vultus hilaritas, iocandi studium ,
corporis mobi litas , laboris impatientia , prodigalitas' , in constantia ,
garrulitas etc. observentur : non ne eum statim voluptati deditum esse con Cap .
V. De Veritate probabili. cludes: Haec erit probabilitas politica. Lega tur
interim Cl. Heineccii dissertatio : Dein cessu animi indice. Quae de
probabilitate PRACTICA dici inerentur , ea fusius persequuti sunt Andreas
Rutigerus in Lib. de sensu peri et falsi. III. 8. , et Ludovic. Mart. Kallius
in Elementis Logicae probabilium Nos paucis rem expediemus. Eam Rudige rus
vocat , qua ex physicis vel moralibus principiis futurum aliquem praedicimus
even tum . Quod quum in practica casuum si milium expectatione consistat ,
eaque ex pectatio vocetur analogia evidens est practicam probabilitatem recte
adpellari ARGUMENTUM AB ANALOGIA ; id quod maximo apud Politicos usui esse
solet . * * Politici namque in gubernandis rebus publi cis probe versati
probabiliter unius aut alterius Regni praedicunt eversionem , propte rea quod
aliae res publicae post easdem cir cumstantias subversae sint : adeoque a simi
Jium casuum exspectatione practicam eruunt probabilitatem . CA habetur , quum a
quibus dam in Auctoris scripto obviis eius sen. surn eruimus . Saepe enim
accidit , ut in auctoris alicuius interpretatione quaedam occurrant , quae
multiplicem sensum ad mittunt : tunc ex auctoris fine , verborum significatione
, locorumque collatione pro babiliter colligitur , quidnam auctor ille voluerit
intelligere, idque fit ope ARTIS HERMENEUTICAE, quae definiri potest per
habitum Auctorum loca interpretan , di , sive eorum sensum eruendi. SENSUS
AUCTORIS est ceptus , quem scriptor vel loquens vult in legentium auditorumve
animis per ver ba produci. Auctorem ergo interpretari dicimur , qumun ex legitimis
principiis eius sensus investigamus. Et quia ars hermes neutica est facultas
auctorum loca inter pretandi; consequens est 1 ., ut eius sit genuinum auctoris
sensum erue Te ; adeoque 2. regnlae tradantur , opor tet, quarum ope sensus
ille quam proba, bilius investigari possit, соп Cap. v . De Veritate,probabili.
203 Quumque in his regulis totius Hermeneuticae adeoque et Criticae artis leges
Auctorum in terpretationem respicientes pofitae fint : non mirum , si a
canonibus huic sectioni subii.. ciendis abstineamus , quippe qui superflui
omnino forent, et loquacitatem potius , quam logicam praecisionem arguerent. Quoniam
Scriptoris sensus perver ba significatur: colligitur in de 3. ut interpres
linguam , qua scriptor conceptus suos expressit , eiusque idiotis, mos probe
calleat : adeoque patet 4. falli eos , qui linguam illam ignorantes aliorum
versionibus translationibusque fidunt ; 5. ut ad scriptoris sectam , finem ,
affectus,mu nus, aetatem , gentis suae mores ' attendat : unde 6. integrum
Auctoris systema prae oculis babeat , ac de eo secu dnm dome sticas notiones ,
non ex propriis opinioni bus , iudicium ferat ., quid > * Praeclare id monet
Clericus Arte Critica Part. Il Sect. 2. cap. 2. $. 7. et 8. Opor tct , inquit
Vir eruditissimus , nostrarum opi nionum veluti oblivisci , el quaerere ,
veteres illi Magistri senserint non quod sentire dcbuisse nobis videniur , ut
sape rent. 162. Ex eodem principio fluit 7 inter pretein affectibus ,
praeconceptisque opinionibns omnino vacuum esse debere ; nee 8. Auctoris verba
extra contextum legere aut considerare , sed antecedentia et con sequentia
attente conferre : multoque ma gis y. loca parallela auctoris eiusdem sol
licite comparare , ut quod obscuritatis ir , repserat , statim evanescat .
Quumque ad cognitionis claritatem ac distinctionem om ne momentum ferat
attentio ( m. 19. ) : sequitur 10. ut qui librum aliquem probe interpretari
vult , eum attente atque ordi ne legat , et codicem habere ' curet quam
emendatissimum. ' * Quantum ad librorum interpretationem con ferat editio ,
ratio in promptu est. Videmus enim , quam multis scateant erroribus edi tiones
quaedam ab indoctis ignarisque con fectae typographis , ut Delio saepe notatore
opus habeant. "Nitidissimae prae ceteris sunt editiones a Viris claris ,
qui id oneris susce perunt, effectae, quibus multum iure merita debet
Respublica litteraria, Cop. V. De Veritate probabili. Uoniam magno
Hermeneuticae adiumento est Ars Critica : non abs re fuerit , pauca de hac
illustri arte haud contemnenda degustare. Quam bene de ea meritus sit Vir
multiplici eruditione praeditus Ioannes Clericus , communi sa pientum consensu
probatur. Nos eius du ctu regulas saltem generales nostris audi toribus
trademus ut quantum fieri pote rit , libros genuinos a nothis , integros a corruptis
discernere valeant. Res quidem foret laboris plenissima et satis prolixa , si
Critices distincte praecepta trade re conaremus. Id adcurate cxsequutus est
Clericus , quo'nemo elaboratius eam pertra ctare , operaeque pretium facere
posset. Nos autem tironibus scribentes , notiones maxime genericas jis
suppeditare adlaboramus ; quia, quum perfectum fuerit ipsorum iudicium , et
matura aetas , omnia, quae hoc super argu mento scienda forent , in eodem
Clerico legent. ARS CRITICA est habitus libro Fum genuinitatem et integritatem
diiudi, 20 Logica Pars I. Candi. * Quae definitio ut intelligatur, oportet
claras notiones genuinitatis , et in tegritatis librorum in legentium animis
excitare . * Notandum tamen hic Crilices vocabulum strictissimo iure usurpari',
regulasque ea in re generales tironibus suppeditari : latiori Damque
significatione tam historicam proba bilitatem , quam hermeneuticam amplectitur,
de quibus per summa capita praecedentibus sectionibus sermonem instituentes
praecepta , yeluti per lancem saluram , ex hibuimus. Earum. LIBER GENUINUS
dicitur , qui ab eo , cuius nomen prae se fert ,-. fuit exaratus ; SUPPOSITUS
autem , qui ab alio , quam cuius nomine insignitúr , scripius est. * Liber
dicitur INTEGER , si tantum contineat , quantum Auctor in eo descripsit ,
CORRUPTUS vero al quid ab alio additub sit , vel demtum: speciatin Viro si
additum INTERPOLATVS ; sin den tuni , MVTILVS appel . latur . si 2 * Dici
quoque solet spurius fictus vel fictitius: liniec vocabula ab aliis
distinguantur. Sed non est idoneus huic quaestioni locus, Cap. V. De Veritate
probabili. 2014 * Huius corruptionis quatuor caussas tradit Clericus: nempe
Librarios ( dictantes perin de , ac scribentes ) , Criticos , impostores ,
tempus. Satis erit haec generatim scire guia singillatim percurrerenon vacat.
166. Criticae leges ab eodein Clerico de cem adisignantur. Eas nos sequentibus
ex ponemius regulis , quas philosophus nos ter observabit. Sequantur ergo .
CANONES t . " S " ppositum habeto librum , qui in vetuslis codicibus
alii tribuitur Auctori ; interpolatum , si in aliis de sideretur, quod in eo
reperitur; muti lum denique, si quae in ipso desunt in antiquis codicibus
inveniantur. 2. Si a veteribus quaedam a libro ali quo exarata sint , ea vero
nunc in li eadem inscriptione. insignito deside rentur : aut alius esto , aili
muiilus. Si aliter legantur, suspeciels. Si vero omnia aptu cohaereant ,
genuinus esto et inte ger , nisi alia adsit ratio dubitandi. 3. Liber , cuius
nulla fit inentio in veteribus catalogis , aut a scriptoribus proxime
sequentibus , plerumque fictus esto , cut saltem suspectus, . 209 Logica Pars
I. > 4. Scriptá a veteribus diserte reiecta, aut in dubium vocata , nequit
recentio, rum auctoritas , nisi gravissimis rationi. bus, , pro genuinis
admittere. 5. Liber dogmata continens iis con trária , quae scriptor cuius
nomen praefert , alibi constanter defendit , ut plurimum aut spurius esto , aut
interpo latus. 6. Idem iudicium ferto de eo , in quo personae , facta , uut
nomina com memorantur Auctore , cui tribuitur , recentiora . 7. Spurium quoque
aut interpolatum iudicato librum in quo controversiae tractantur post Scriptoris
tempora na tae , vel adest scriporis imitatio . 8. Talis quoque ut plurimum
esto si fabulis scatens , aut ineptus , viro docto minimeque imperito
tribuatur. 9. Liber stilo scriptus diverso a stilo Auctoris aut saeculi , in
quo ille vixit, spurius esto , eiusque censendus , ius stilo est conformis. In
. Vocabula recentiora Auctorem arguunto recentiorem , aut libri interpo
Talioncm : in translatione vero , si ni hil est quod sapiet linguam , in qua
scripsisse constat Auctorem , cui tribyi: utr , translatio non esto , cu * Cap.
V. De Veritatc probabili. 209 * Pluribus hanc doctrinam persequi deberemus,
idoneisque illustrare exemplis : sed res est maximi momenti, et nimis implicata
, nec in stituti brevitas eam disquisitionem patitur. Quivero plura cupit, adeat
Clericum in Ar te Critica , ubi plurima inveniet suo gustui . adcommodata. Id
interim notasse sufficiet , in hisce omnibus ad praxin adplicandis ma gna
cautione opus, esse ne in praecipitan tiam , adeoque in errores prono cursu la
bamur CAPVT SE X T V M. De Veritatis inquisitione. 167. Sendus pecialior
Logicae usus nunc evol vendus , nempe PRAXIS , qua mentis nostrae operationes
sint in verita tis investigatione dirigendae.Veritas inveni tur vel proprio
marte, sive per meditatio nem rite institutam ; vel ab aliis inventa quaeritur
et ud trutinam revocatur. Quia vero nec meditationi , nec bonae lectioni par
est , qui hasce lautitias nondum degus tavit : Logicae est regulas suppeditare
quibus mapuducti adolescentes et recte mea ditari , et libros cum fructu legere
dis cant. Quumque nostrum sit auditorum nos trorum utilitati studere : de
duobus his veri tatem inveniendi modis hoc capite agemns. MEDEDITATIO est
conformis co gitationum nostrarum bonae methodi legibus adplicatio. Meditamur
itaque , quum cogitationes nostra's bonae methodi legibus g . 138. seqq. ) ita
dirigimus , ut veritates ex veritatibus, co gnitiones ex cognitionibus eruamus.
Ex qua definitione sequitur 1 . ait quantum diſfert regula ab eius adplica
tione , tantum optima methodus a medi tatione distet , . meditaturus leges
quibus bona methodus absolvitur ( S. 141. ), callere debeat ; adeome 3. eo
felicius meditetur , quo exactius leges illas esequitur ; nec non 3. aliquarum
saltem veritatum debeat es se gnarus , ut ex ijs veritates aljas erue re
legitime possit ( S. 167. ) . 5. Tirones ergo , aliique bonae methodi ,
veritaium que ignari ad meditandum sunt inepti . * Cui enim serei principium
deest , nullo mo do seriem ipsam , hoc est veritatum catenam conficere potest.
Pari modo qui concatenationis leges ignorat , quantumvis veritatum mente te *}
Cap, VI. De Veritat. inquisitione. 211 neat , nec illas recte disponere , nec
ordina tam seriem formare valet. 170. Quia ad bonam methodum requi ritur
idearum claritas ( 5 141. cap. 3. ); ad claritatem autem confert attentio ( S.
19. ) ;consequens est 6. ut qui feliciter meditari vult , attenitonem praecipue
colat ; quin 7. et praeiudiciis liber et 8. certis indubiisqoe principiis ( S.
131 ) praemunitus ad meditandum accedat. Quum que ad principia referantur
praecipue de finitiones ( f. eod . ) : recte consequi tur 9. ut res de qua
institui vult mcdi . tatio , edcurate definiatur , f . 141. cap. 5. ) , ac inde
novis definitionibus omnia dividantur. El * Serventur tamen , quae de
definitionibus ( Par. I. Cap. 3. ) , et divisionihu:s ( Cap. 4. ) docuimus , et
quomodo definitiones ex ex perientia eruantur. quoniam inter principia etiam
axiomata et postulata enumerantur ( S. 130 ), eaque es definitionibus legitimue
eruuntur: liquido infertur 10. medita turo innotescere quoque debere modum ex
definitionibus axiomata eruendi , * ut om nes principiorum species probe tencat.
Quonam autem modo ex unica definitione ar. iomata et postulata formentur, hic
adden dum . Tribus quidem modis id effici posse certum est : scilicet PARTIS
OMISSIONE , nempe quum genus vel differentiam specificam omittimus. E. g. ab
hac definitio ne : Invidia est taedium ob alterius felicita tem , omitte genus
, et habebitur axioma: Invidia respicit felicitatem alterius : omitte
differentiam , eritque aliud axioma : Invidia est taedium 2. INVERSIONE , si
definitio in definiti locum substituatur. E. g. Qui er alterius felicitate
taedium percipit est invi. dus 3. CONVERSIONE , si aientes pro positiones in
negantes convertamus E. g. Qui ex alterius felicitate non percipit taedium ,
-non esi invidus ; vel eum , qui non est in vidus , alterius feliciiaiis non
taedet. Postu lata eadein ratione conficiuntur , si nempe modus exprimatur ,
quo quid fieri potest : sed ea melius ex realibus , quam ex nomi nalibus
definitionibus deducuntur. Sic ex ea dem definitione habebis postulatum :
Invidia excitatur , si invido alterius felicitas reprae sentetur. 172.
Praestructis ita principiis , opor tet il . ut ex eorum collatione THEO REMATA
, vel PROBLEMATA compo nantur , j 12. et unde consequentiae im mediatae sese
offerunt , COROLLARIA deducantur , vel 13. ubi maiori explicatio ni locus erit
SCHOLIA subiungantur. De Veritatis Inquisitione. 213 Est enim Theorema
propositio theoretica de monstabililis, demonstratio autem ex principiorum collatione
conficitur, ut videre est in superioribus Cap 3 . Sect. 2. et Cap. 4. Hoc modo
ex principiis ( §. 171. * confectis erui poterit theorema : Invidia oritur ab
odio , et similia . Pari mo do quia Problema est propositio practica , eius
solutio et demonstratio ex eorumdem principiorum collatione petitur. Ita ex
eisdem principiis orietur problema : Juvidiam in altero excitare ; cuius
solutio haec erit Invidia ex odio nascitur. Fac er go ut is, in quo invidiam
excitare vis , ala terum odio prosequatur , cuius inde felicita tem ei ostende:
ex ea namque taedium per cipiet , adeoque in eo invidia excitabitur.
Corrollaria vero tam ex indemonstrabilibus, quam ex demonstrabilibus
enunciationibus des duci possunt. Sic ex superioribus axiomatis varia oriuntur
corollaria , veluti ergo qui tae dii non est capax , invidus esse non potest :
item ex postulato: ergo ubi non adest feli citatis repraesentatio, locum non
habet invi dia ex secundo item theoremate ergo qui alterum amat , ei non
invidet ; atque ita porro . 173. Haec omnia vero praecepta , ut aemoriae
infingantur , brevissimis ample temur regulis , quas , qui sequuntur , shibent
214 Logica Pars II. CANONES. ANicquam meditationem instituas, ipsam quantum
natura ipsa fert , exa cte dividito . 2. Ex definitionibus axiomata , item
postulata deducito , atque ab his per im mediatas consequutiones corollaria con
ficito . 3. Plura principia vel antecedentes propositiones mutuo conferto , et
sic theoremata vel problemata efformabis , ex quibus , quae haberi poterunt ,
erues consectaria . 4. Propositiones - inventas bona me thodo legitimoque nexu
comparato , et id agito , ut omnia per demonstratio nes apte cohaereant. 1 *
Ita novae orientur veritates , novaque semper ratiocinia fluent. Perinde ' vero
est , qua met hodo ratiociniorum series in ordinem rediga tur , modo regulae
alias ( $. 141. ) propo sitae rite observeutur. Scol. Sint haee satis de
meditatione , ei usque legibus , quae numerosias protra here non fert instituti
compendium. Qui Cap. YI. Da Veritatis Inquisitione. 115. vero longius et
distinctius meditandi re gulas vellet addiscere , ei Baumeisteri dis sertatio
de arte meditandi attente legen da foret , eaque in syccuin et sanguinem
vertenda . Interim ad auditorum nostrorum instructionem hic brevem subiicere
praxin censuimus , quo facilius artem hanc per discere possint. Qua de re
eruditissimiVic ri exemplopi addncemus pulcherrimum . Si quis AMICI characteres
sit exploratu. rus , absque librornm auxilio , sequentem instituens
meditationen , haec habibit. § . I. Ex casuum sin vularium observa tione g .
124. seq . ) critor Amici DEFI TIO : Amicus est persona , quae nos amat, f . II
. Ad definitionis porro notas atten dens quisque videt , notionem amoris de.
finitione indigere. Eodem igitur modo. hacc noya definitio eraalur. Sic . amare
alierum nihil aliud significat , quam ex alterius felicitatc volup'atem
percipere. 6. JIÍ. Ex his definitionibus eo , quo diximus , artificio axiomata
de dacantur . Et quidem ex prima definitione ( 1. ) fiunt AXIOMATA. 1. Amicus
al terum amat. 2. Qui alterum non amat non est amicus.3.Quicumque obligatur ad
ali un amandum , ad amicitiam ei praestan 116 Logica Pars 11. dam obligantur.4.
Vbi nullus amor , ibi nulla omicitia. 5. Quamdiu durat amor , tamdiu durat
amicitia . 6. Qui efficit , ut ab alio ametur , eum sibi red dit amicum. Quidquid
amorem in altero excitat amicitiam foret. 8. Quid quid amorem impedit ,
amicitiam tollit. 5. IV. Ex amoris defimtione ori untur sequentia . 1. Qui
alinm amat , ex illius felicitate deleciatur. 2. Quicumque obligatur ad
volupiatem ex aiterius fe licitate capiendan , obligatur ad alte rum amandum .
3. Qui iubet , ut volup tatem ex a terius felicitate capiamus , alterum , iubet
, ! ť umemus. 4. Quid quid promovet voluptatem , ex alterius felicitate
capiendain , promovet amo rem . 5. Qui illum impedit , hunc sis tit . V.
Collatis inter se duabus illis de. finitionibus , nascitur. THEOREMA. Amicus
alterius feli. citate delectatur. DEMONSTRATIO. Qui alterum a. mat , alterius
felicitate delectatur ( s. 1. ) : amicus alteruu amat ( §. III. cud 1. ) ; ergo
amicus alte rius felicitaie delectatur. 5. VI . Ex quo inmediata consequutico
ne cequentia fluunt, IV. AX Cop. IV . De Veritatis Inquisitione. 217
COROLLARIA. 1. Anicus ergo ex amatae personaefelicitate nullo taedio afficitur.
2. Sed potius ex eius infeli citate taedium sentit. S. VII. In quibus , quum
taedii facta sit mentio , perapte addi potest. SCHOLION. Est autem invidus ,
qui, ex alterius felicitate taedium percipit misericors vero , quem alterius
infelici. tatis taedet. $ . VIII . Hinc ergo habentur THEOREMA I. Amicus non
est in vidus. DEMONSTR. Invidus enim est , qili ob'alterius felicitatem taedio
adficitur ( S. VII. ) : Quod quum in amico non reperiatur: amicus " go non
est invidus. THEOREMA. Amicus est mise ' icors. DEMONSTR . Taedium enim
percipit x personae amatae infelicitate ) $ . II. or. 2 : ) : quod quum dicatur
coinmise atio ( 5. VII. ) : amicus ergo commi eratione tangitur erga personum
ama zm . § . IX. Nova rursus inde sequenlur COROLLARIA. 1. Invidus ergo non si
bonus amicus. 2. Qui ergo nescit Tom . 1. 218 Logica Pars. Ij. > novae r'e
commiserari alterius vices , eumque ab infelicitate , dum potest , non vult eri
pere , non se dicat amicum . 6. X. Si meditatio continuetur inde sequentur
veritates. Et quidem defi niendo rursus notas voluptatis et felicita tis ,
maxima enunciationum seges adpare bit. Sint ergo . DEFINITIONES. Voluptas sive
delectatio est sensus perfectionis. 2. For licitas est status durabilis gaudii
. . XI . Ex quarum prima oriuntur AXIOMAT'A. 1. Delectutio ex aliqua supponit
eius bonitatem ac per feciionem , earumque repraesentationem . 2. Quicumque
obligatur ad sensum per fectionis in altero promovendum , obli gatur. ad
voluptatem in eo excitandum. 3. Oui - iubet primum , praecipit secun dum . § .
XII . Ex altera vero fluunt sequentia AXI. 1. Qui alterius felicitate dele
ctatur , ex eius statu durabilis gaudii voluptatem capit. 2. Qui alterius
statum durabilis gaudii promovet , eius felici tatem promovet. 3. Qui illud
iubet , hoc quoque iubet . 4 Quicumque obligatur ad primum , obligatur ad
secundum. 1. XIII . Conferantur definitiones cum antecedentibus , indeque
nasceutur. Cap. VI. De Veritatis Inquisitione. THEOREMA I. Amicus alterius feli
citatem sibi , tamquam bonum , reprae sentat. DEMONSTR. Alterius enim felicita
te delectatur ( $ . V. ) : quod quum fie ri nequeat , nisi illam sibi , iamquam
bonum , repravsentet. Ergo amicus alterius felicitatem sibi tamquam bonum ,
repraesentat. THEOREMA II. Amicus delectatur alterius statu durabilis gaudii .
DEMONSTR. Quum enim ex alterius felicitate delectetur; felicitas vero sit
status durabilis gaudii ( S. X. def. 2. ) : ex hoc patet , amicum, quo que va
luptatem percipere, THEOREMA. Amicus alterius gauuium durabile sibi , tamquam
bonum repraesentat. DEMONSTR. Eius namque statu de lectatur ( per theor. 2. ) ,
quod fieri non potest , nisi id , tamquam bonum , sibi repraesentet. Ergo
amicus alterius gaudiun durabile si bi , tamquambonum , repraesentat. § . XIV .
SCHOLION. His praemissio succurrit lex appetitus , qua anima id , quod sibi ,
tamquam bonum repraesen tal , adpetit , et promovere studet. Plurimae hinc
propositiones de duci poterunt. Et quidem THEOREMA. Amicus alterius felici
tatem , idest gaudium durabile , adpe tit , et promovere studet. DEMONSTR. Omne
, quod nobis , tamqnam bonum , repraesentamus , ad petimus et promovere
studemus ( XIV . ) amicus sibi alterius felicitatem statum que durabilis gaudii
, tamquam bonum , repraeseníat: er go ea omnia adpeiit ; et promovere stil det
. *. XVI. Ex quo, sponte manant, COROLLARIA. Ergo amicus om nia cavet , quae
alterum taedio affi ciunt 2. nec ullam omittit occasionem quai personae amatae
iucunditatem et voluptatem promovere possit . S. XVII. Durabilis gaudii porro
notio nem evolvendo occurret. DEFINITIO. Durabile gaudium est voluptas
eminentior ex possessione ve iarum perfectionum grta . 9. XVI. Ex qua ultro
sese off -rt. AXIOMA. Qui alterius gaudium du rabile promovet , eius quoque
proinovet perfectiones. Atque inde exurget novum THEOREMA. Amicus alterius per
fectiones promovet. DEMONSTR. Eius enim gaudium durabile promovet ( $. XV . ) ,
quod idem est ac promovere eius perfections. F. XX. SCHOL. Est autem legis Natu rae iussum
: Tuas aliorumque promove to perfectiones . S. XXI. Jude ergo oriuntur.
COROLLARIA . 1. Amicus ergo legem Naturae observat 2. Nos ergo obligati sumus
ad amicitiam colendam , 3. Adeoque,qui homines sibi reddit ini. micos Naturae
legem violat. 4. Vo. luntati ergo Divinae: conveniens est , ut aliis simils
amici . etc. Haec brevi meditatione compertae sunt veritates, Quod si modilatio
aliquamdiu proferretur , dici non potest , quot novae propositiones exurgerent.
Huic autem exer citationi si adolescentes adsueverint , aut nostra nos fallit
opivio , aut sine multa lectione , brevi tempore , minimoque la bore Philosophi
acutissimi evadent. K 3 2 ? 222 Logica Pars IT S E C T I O. II. De librorum
lectione. Q" non 174 Vum intellectus noster arctis simis sit limitibus
circumscrip tus , atque adeo veritatibus omnibus pro pria meditatione eruendis
incapax :facile est and intelligendnm , cur aliorum scripta le genda sint, ut
quae proprio marte possumus, ab alis detecta inueniamus. Sed quia non omnia ab
omnibus adcurate scri pta , plerique etiam intellectus voluntatis vitio
laborant , ideoque errare possunt: cautio quaedam adhibenda est in legendis
eorum libris , ac proinde Lo gicae interest praecepta tradere , quibns in jis
ad examen revocandis , dijudicandisqne veritatibus ab aliis inventis aut
exaratis mens dirigatur : id quod in praesenti se ctione docendum . 175. LIBER
est aut HISTORICVS , aut ŚCIENTIFICVS .Ille , in quo facta, seu enunciationes
singulares ; hic , in quo pro positiones universales et dogmata traduntor.* *
Hac librorum divisione nulla alia exactior. Quorum eum librorum habemus
notitiam , Cap. VI. De Veritatis Inquisitione. 223 nihil , nisi duorum , quae
enunciavimus , ar gumentorum alterutrum esse potest obiectum Patet ergo ratio ,
cur libros omnes in histo ricos , et didacticos sive scientificos distri
buerimus. 176. HISTORIA , quum sit rerum quae acciderunt fidelis narratio ( S.
147. ) , facta vero vel Naturae opera , vel Societatem vel fidelium communionem
nempe Eccle siam , vel deniqne litterariam Rempublicain spectent , esse potest
NATVRALIS , ClVILIS, ECCLESIASTICA, vel LITTERARIA . * Rursus quoniam omnium ,
aut quo rumdam , vel alicuius ex quatuor illis , fa cta refert , dividitnr in
UNIVERSALEM , PARTICULAREM, et SINGULAREM. Jarum prima Naturae opera enumerat ,
altera hominum vices et facta commemorat , iertia Ecclesiae vicissitudines et
annalia narrat , po strema vel disciplinarum et librorum , vel eru ditorum
vitas et fata omnia refert. ** Historia Naturalis ergo erit VNIVERSA LIS , si
omnia in ea Naturae opera eno dentur ; PARTICVLARIS si alicuius tantum classis,
veluti ex Regno vegetabili , fossili, ani mali etc. SINGVLARIS si alicuius
tantummo do plantae , lapidis, metalli , aut viventis inventio , usus ,
incrementum etc, narrentur. K 4 224 Logica Pars II. civili , ecclesiastica , et
litteraria , de quibus plura coram 177. Quia libri vel scripta ideo . legun tur
ut veritates ab aliis inventae et dete ctae discántur ( 5. 274. ) ; ea vero
verbis referta sunt , ut auctoris sensus intelliga. tur ( §. 160. ) , idest
eaedem ideae ver bis adsignentur , quas Auctor cum iis con iunxit ( S. eod . )
: per se patet genera lis in legendo servandus. CΑΝΟΝ. IMN legendis , aliorum
scriptis curato , uit easdem notiones cum verbis con iungas, quas Auctor voluit
iisdem adfigi. 178. Ex quo legitima consequutione na scitur i . in cuiuscumque
libri lectione at tendendum esse ad definitiones , quibus sin gularum
significatio determinatur , vel and conceptum ab usu loquendi tributum 11s ,
quae sine definitione adsumuntur. Et quia claras ideas ac distinctas adquirere
si ne attentione non possumus ( 9. 19. ) : se quitur 2. ut ad id potissimum
requiratur attentio , crebriorque repetitio , in libris praecipue historicis ut
facta facilius me inoriae mandentur. * 9 Cap. VI. De Veritatis Inquisitione.
225 * Vide quae de attentione ac repetitione dixi mus in Part. I. cap. 1. Seol.
can. ult. 179. Et quoniam in historia tria potis simum spectantur , nempe
veritas , ordo ac finis , facile patet 3. in libris histori cis legendis
attendi debere ' ad rerum sive factorum veritatem , ad eorum ordinem et
legitimam seriem et ad finem an sci licet liber Auctoris scopo respondeat. >
* Pro diiudicanda rerum VERITATE, bislo ricae probabilitatis regulae traditae
sunt( $ .152. seqq. ). ORDO vero tuin in locorum , tuna in temporis circumstantiis
consistit. Eius ergo legiiimitatem quoad loca suppeditat GEO GRAPHIA , circa
teinporis autem seriem CHRONOLOGIA. FINIS demum ex üsdem scriptis abunde
patebit , adeoque , an ei res pondeant, ex eorum lectione diiudicari pote rit
Historiae nituralis finis est obiecta rario ra adcurate describere , phaenomeni
alicuius cuncta notatıı digna , partiunqne nexum di stincte exponere ; Civilis
est politices civilis que prudentiae regulas exemplis et factis con firmare ;
Ecclesiasticae scopus est , statum Ecciesiae , incrementin , in file
costantiain , in profligandis erroribus - prudentiam Su premi item Numinis , in
ea conservanda au gondaque Providentiam , 2 gelis , ostendere ; Litteraria ?
tandeſ , inveniendi arlena , quam EVRISTICAM vocant , aptis aliaque id K 5 226
Logica Pars II : subsidiis , et veritatum a veteribus invenla rum cognitione
perficere. Cognito itaque libri scopo , restat ut attente legatur ( S. 178. )
statimque innotescet , utrum suo fini respon deat. 1 180. De librorum
scientificorum lectio ne sat erit , si pauca degustemus. Quo niam in scriptis
didacticis methodus reqni rit , ut nullus adsumatur terminus , nisi notionem
habeat sibi adiunctam , atque ut ea praemittantur , per quae sequentia in
telliguntur: consequens est 4 . ut in iis legendis singulae veritates prius in
classes dispescantur , ibique videatur utrum ad principia an ad propositiones
iu de deductis pertincant ; deinde 5. ad sin gulas voces et notiones jis ab
Auctore ad fixas attendatur ; (ac deni que 6. ut legens veritates antecedentes
si bi reddat familiares , nedum demonstratio nes in syllogismos resolvat , in
quibus vi. deat , si quid doli contineatur. 181. In scriptorum porro
didacticorum examine ad eorum dotes potissimum respi ciendum , de quibus
sequenti capite age. mus. Id unum porro meminisse juvabit; ad illorum examen
conficiendum requiri absolụtam et continuatam libri lectionem , Cap. VII. De
l'erit. comm. 227 attenta mque veritatum earumque nexus con templationem : *
quae omnia si desint , le ctio dicetur SUPERFICIARIA . * Ad id ergo ineptissimi
videntur scioli quidam in sola romanensiiim fabellarum lectione ver sati , qui
in dijudicandis per tabernas comoe diis scurrilibus , aut ephemeridibus omnia
studia sua contulerunt ; vel adolescentuli vo culis tantum , phrasibusque meinoriae
infi gendis adsueti , qui vix e paedagogorum fe rula manum subduxerunt: "
Requiritur autem laboris patientia , attentio , mens methodo ac meditationi
adsuefacta , non vero in expen ex . dendis rerum corticibus solo sensuum et
phan tasiae ductu exercita. OVampdoquidem a Platone * monitum non praeclare ,
non est no bis solum nati sumus , adeoque nec nobis sed aliorum commoda pro
movere debemus : veritates a nobis dete ctas, vel quae ab aliis inven tae nobis
ope lectionis innotuerunt, aliis proponere Natura obligamur. Qui vero verbis
alium ad ignotarum veri talum cognitionem perducit , is eum Do 5 K 6 228 Logica
Pars. Ir. CERE dicitur adeoque DOCTOR CO gnominatur. 7 * Ip Ep. ad Archytam
Tarentium . Vid. Cic. de Fin . Lib . II. cap. 14. ** Latius hic patet docendi
vocabulum , qu am a Cicerone de Offic. Prooem . usurpatur. Id ve ro ex
definitione admodum completa prono , ut aiunt , alveo fluit. Ceterum in hoc
usum loquendi sequuti sumus : vulgari namque ser mone tritum est , Magistrorum
alios esse vi VOS , alios mortuos , qui Scriptorum vel Auctorum nomine
distinguuntur , ita ut libros melonymicę magistros mortuos vulgo appel lent.
183. Et quoniam verba vel voce profe runtur , vel scripto exaranțur ( S. 42. )
: patet , duplicem esse docendi modum , vo ce scilicet , atque scriptis ;
adeoque MA GISTRUM dici debere , tam eum qui li þros in lucem edit , quam cum
qui in A cademiis iuventutem instruit. Speciatim autem in sequentibus eum , qui
scripta didactica ( de quibus hic tantum ser mo est ) conficit, SCRIPTOREM vel
AU. CTOREM ; eum vero , qui adolescentes ro ce docet DOCENTEM , DOCTOREM ,
MAGISTRVM dicemus : idque ad evitan dam confusionem , atque inutilem verborum
repetitionem . Sed quia doctrinam hanc in dus as dividere instituimus sectiones
, nt de utri Cap. VII. De Verit. commun . 229 se esse usque virtutibus ac
vitiis aliqua dicere posse mus : nunc , quae utrique communia sunt ,
dispiciemus. Ad calcem denique capitis quae dam de discentium dotibus ae naevis
com pendii loco addemus. 184. Quia vero docents est , alios ad ignotaruin
veritatum cognitiovem prducere; cognitio avlein debet certa et distincta eaque
vel a posteriori vel a priori: consegucas esi 1. ut lectores vel auditores de
veritatibus certi reddendi sint , adeoque 2 , indiciis sufficientibus at que
inf.l.bilibus ad veritatis cognitionem adducendi ( $ . 1 : 4 . ) . quod ut fiat
, 0 portet 5. ut docens ab iis intelligatur , ideoque 4. sit perspicuus , ad
quod requiritur 5. ut artein , in qua versatur , distincte intelligat * ( $ .
24 ) 6. bonam methodum rigide servet ( . 138. seqq . ) , 7. et si quid
implicatum confu suinque occurrat , distincte explicet. > * Criterium enim
notionis distinctae est , si cum aliis eam possimus per verba communi Care:
nisi ergo distincta artis suae docens cognitione gaudeat , fieri non potest ,
ut eius praecepta perspicue aliis proponere queat. CONVICTIO est actio , qua al
terum de veritate certum reddimus. Quod quum fiat demoustrationis ope ( . 133.
) quisque videt , convictionem sola demon stratione absolvi. * Ex quo liquet 8.
do centem alios de veritate , quam docet , debere convincere , ** ac proinde 9.
pro babilibus argumentis uti ei non licere : *** nisi res talis sit , ut sola
probabilita te cognosci possit . * Quoniam ergo convictio demonstratione ab
solvitur demonstratio vero est vel directa vel indirecta , ( 132. ) , vel a
priori vel a poste riori ( $. 131. ) : non abs re convictioni ea dem nomina ,
prout veritates demonstrantur, a Philosophis tributa sunt. ** Vt vero rationis
pondus in convincendo ani mum sese insinuet , oportet , ut iHe sit atten tus ,
in demonstrationibus versatus , et talis ; qui rationum momenta perpendere
possit. Quapropter solidis demonstrationibus , non conviciis , irrisionibus ,
dictisque iniuriam in ferentibus ad veritatem est trahendus. Convi cia nanque
odium iramque pariunt, et atten tionem turbant. *** Dici haec solet PERSUASIO ,
quae quum sit rationibus insufficientibus innixa , convi ctio dici nequit ,
quippe quae a convictione longe multumque distat. " Hinc vides , convictio
sit Philosophcrum propria , perсиг Cap. VII. De Verit. commun. 231 suasio vero
Oratorum , qui in investigatione verosimilium argumentorum versantur , quan tum
sufficiat ad caussam probabilem redden dam , de quo conferendus est Cicero de
In vent. cap. * 186. SOLIDITAS est completa artis, quam profitemur , methodique
cognitio, Hinc ergo patet 10 maximam et praeci puam doceotium dotem esse
soliditatem , adeoque 11. litteratos superficiarios es se ad scribendum aeque ,
ac docendum ineptos . * Vitium vero soliditati oppositum in speciali bus
tractationibus infra explicabimus. Ad eas itaque progrediamur, SECTIO I. De
Librorum dotibus. IBER , in quo veritates continen tur , SCIENTIFICVS dicitur ,
alio nomine SCRIPTUM DIDACTICVM . Eius dotes sunt SOLIDITAS, PERSPICVITAS, METHODVS,
et SVFFICIENTIA. SOLIDITAS consistit in principio rum firmitate , ac
deinonstrationum stabi 232 Logica Pars II. bilate . Solidus ergo dicitur liber
1. si eius dim principia certa fuerint atque indubia ( $ . 150. ) , 3. si
propositiones singulae rig de sini demonstratae , si bona me thodus in
demonstrando adbibita pec in
demonstrando cir culus irrepserit. Si vero bonae methodi leges fuerint negle
ctae , tunc liber SVPERFICIARVS dice tur. Huiusmodi vero libris Rempublicam ca
rere litterariam , foret maguopere optandum . 189. PERSPICVITAS in verborum pro
prietate , iustaque eorum cum ideis pro portione sita est . Verborum PROPRIETAS
es'git , ut voces omnis secundum usum loquendi fixo sign ficatu adbibeantur, adcuratisque
definitionibus deter spineniar. Iusta verborum cum ideis PROFORTIÓ requirit ,
ut liber non sit prolixior , nec brevior , quam scopo SIO conveniat. *
Quemadmodum enim prolixitas verborum mul titudine mentem obruit : ita et nimia
brevi tas Auctoris sensum occultat , adeoque am bae oliscuritatem pariunt,
scilicet vitium per spicuitati oppositum Vid. Heinec. Fundam . Stili culiior.
Part. S. cap. 2 § . 50. Cap. VII.De Verit. comm un. nexu 190. METHODVS in eo
est ut veri tates ex veritatibus et principiata , ut aiunt , ex principiis
legitimo et continuo sint deducta , nihilque confusionis vel perturbationis
inveniatur ; denique si ea praecesserint , per quae sequentia intel. ligi
possunt. SVFFICIENTIA tandem id exigit, ut liber sit COMPLETVS, idest veritates
et propositiones exhibeat Auctoris fin i suf ficientes : qui namque finem non
ahso lvit , INCOMPLETVS adpellatur. * Longum valde foret , si sufficientiae
particu lares characteres , hoc est fines lot tantorum que librorum percurrere
vellemus. Sufficiat tamen generales eiusdem notas evolvisse : id enim ex
attenta cuinsque libri lectione quisque poterit diiudicare. 192. SYSTEVIA est
congeries verita tum inter se connexurum , et a prin cipiis suis legitime
deductarum . Et quia id quatuor , quas recensuimus, dotibus absolvitur : hinc
est , ut Logici dicant , librum quemcumque scien titicum systematice scribi
oportere. * Non omnes tamen qui libros scribunt systema conficere possunt ; sed
ii tantum qui veritates a se detectas , et ad eumdem 234 Logica Pars IT. >
scopum tendentes in libros referunt. Eorum autem , qui alienis laboribus
insudant , alii sunt COMPILATORES , qui aliorum opera hinc inde dispersa
colligunt, atque in lucem edunt , mulla ordinis habita ratione ; E PITOMATORES
qui brevius aliorum scripta prolixiora componunt. Et hi qui dem reprehensionem
numquam , quandoque vero laudem ( illi praecipue ) ab eruditorum universitate
reportant. Sunt vero quidam , qui aliorum scripta suffurantes ea typis man dant
, impudentique fronte suo nomine inscrie bunt , iique PLAGIARII nuncupantur. De
his autem quidnam dicendum , sit , omnes no runt. SECTIO II . De Doctorum
virtutibus et vitis. DOCTO OCTOR appellatur , qui alios voce ad rerum ignotarum
co gnitionem perducit, vcos de veritatibus , qnas tradit , certos reddit, atque
convincit. Eius virtutes partim ab inte !lectu , par tim a natura , partim a
voluntate penden tes , sunt quatuor : ab intellectu SOLIDITAS , et in doendo
PRUDENTIA ; a na tura DOCENDI DONUM ; a volnntate ve ro AMOR. De singulis pauca
disquiremus. Cap. VII. De Verit. Commun. Ex doctoris definitione sequitur 1. ut
generales docentis characte res possidere debeat is , qui doctoris munere fungi
vult ; adeoque 2. prima et praecipua eius virtus sit SOLIDITAS qua fit 3. ut
res abstractas et intellectu difficiles exemplis illustret , at que
propositionum omnium sive a se , si ve ab aliis enunciataruin analysin
instituat. Nisi enim exemplis ac similitudinibus res dif ficiles illustrentur,
aegre ab auditoribus au dietur , quibus abstrahendi ars vel ignota prorsus est
, vel laboriosa : adeoque taedium concipientes attentione carebunt nihilque
intelligentes doctorem fine suo frustrabunt. 195. Quia vero doctor auditores
suos de veritate cerlos reddere debet ( S. 184. ) ; ad certitudinem autem ducit
demonstratio: consequens est 5. nt scientia praeditus, verborum facilitate in
fructus ct ad rationem de omnibus red dendain promlus esse debeat . Et quia au
ditores convincendi sunt, et ad hoc in eis attentio requiritur: patet 6.
Doctorem DOCENDI DONO in. signitum esse debere , idest dicendi promti tudine et
suavitate , quo deficiente , ad proprium munus obeundum ineptus erit. 236
Logica Pars II. parvum in eo 9 a do * Vt enim auditor sit attentus , cavere
debet qui eum docet , ne taedio, eum adficiat. Tae dium autem haud excita bit ,
si verborum inopia , dicendi infelici tate , animique imbecillitate laboret. Eo
nam que casu non modo attentionem minuet sed et illius ludibrio se exponet. Qui
ergo se huiusmodi suavitate ac promtitudine senserit destitutum , ei auctores
fuerimus , ut cendi munere se abstineat , si operae preti um perdere nolit.
196. Quoniam autem non eadein omni bus est adolescentibus perspicacia , que non
tam voce , quam exemplo erudiuntur : liquido infertur 7. ut doctor facoltate
gau deat doctrinas ad discentium captum ge niumgne adcommodandi . ac media ad
fi nem rite disponendi, nec non 8. in ex sequendis praeceptis auditores
manuducat, seque iis pracheat antecessorem : praecipue veio 9. si in moralibus
vitaque civili ver setur institutic , animum ipse prius ad vir tutem instruat,
ut ad hoc vivum exemplar omnes conformari studeant. * Et hoc est, quod dici
soiet PRVDENTIA INDOCENDO. * Si namque docentis actiones a praeceptis dis
crepent , nequicquam laborum suorum fru ctum exspectabit , et adolescentes
exemplum potius malum , quam bonam vocem sequuti Cap. VII. De verit. commun.
237 nihil , praeter praeceptoris imitationem , prae se ferent : quum bene
monuerit Iuvenalis : Omnes duciles sumus pravis ac turpibus imi tandis suos .Postrema
doctoris virtus eaque magni momenti, est AMOR erga Quum enim in erudiendis
pueris aut ado lescentibus permulta opus sit fidelitate inserviendi
promtitudine , patientia patientia , et labore haec auien omma nisi ab iis ,
qui nos amant , sperare non possumus : recte infertur 10. doctorem sincero audi
tores suos amore prosequi; adeoque 11 . et studio ; 7 commoda promoveadi
adfcctum esse debere. eorum * Quam necessaria sit haec in doctore virtus , ex
sequentibus alimde patebii. Si namque amor deficiat , et studium deerit
disceniium utilitati inserviendi : ac proinde pro doctore exsurget mercenarius
vel utilitati , vel existi mationi propriae consulens; et tanc nec morun ratio
umquam habebitur , et omnes lucri fa cendi artes promovebuntur. Si haec omnia
ponantor , habebimns magistrum , vel leo poribus inservientem , in muneris
exercitio ne gligentem , timidum , sui dumtaxat studio abreptum , et ad
vilissima quaeqne facilem ; vel inaccessibilem , clatum , ' omnia sibi per
mitientem , quandoque etiam garrulum , ét e cathedra , tamquam e suggestu ,
aliorum no mina lacerantem , quo tutius possit de suis virtutibus declamare.
198. Si virtutum quas recensuimus opposita evolvautur , illico doctorum vi tia
ad parebunt, quae breviter enumera bimus. Eorum primum et praecipuum est
IMPERITIA, idest artis methodique-igno. ratio . Huius effectus sunt 1.
obscuritas , qua fit , ut talis doctor terminis inanibus , vagis obscuris , nec
recte definitis sit con tentus , resque difficiles exemplis illustrare nequeat
: 2. confusio quae methodi negli gentiam , analyseos ignorantiam , ac con vincendi
impoientiam parit : 3. docendi ineptitudo ; quum enim ars ignoratur et methodus
, deficit prompitudo et suavitas , quibus ducendi donum absolvitur * ( S. 95.)
: 4. molesta prolixilas , aut obscurabre vitas ; ignorata namque arte vocabula
quoque technica ignorantur, quo fit , ut vel inanibus circumloquutionibus, vel
paucis et insufficientibus rei explicandae verbis uta tur: 5. superfluorum
tractatio et necessa riorum omissio , quam veram ignorantiae causam esse ait
Sencea ( S. 103. * ) : 6. ser monis barbarics , cui proxima est obscuri. tas et
taediuin , adeoque ad minuendam ten dit attentionem. Cap. VII. De verit.
commun. 239 * Non desunt equidem , qui naturali quodam suavitatis defectu
laborantes nec genio , nec captui auditorum se accommodare sciunt , li cet
doctissimi sint et omnimoda, eruditione praediti. Naturalis autem haec
imbecillitas non inter vitia sed inter defectus est referen da, adeoque
imperitia dici neqnit. Quamvis enim huiusmodi doctoribus lepor desit : me
diorum tamen excogitatio aliaqne pruden tiae subsidia praesto sunt.
Ineptitudinis ergo caussa non alia adsignari debet , quam impe ritia , scilicet
soliditatis absentia. > 199. Alterum doctoris vitium a primo oilum ducens
est IMPRVDENTIA in do cendo , quae in caussa est , ut auditorum Caplui genioque
se adcommodare , atque media ad finem ducentia excogitare , ac proinde animis
morbo aliquo laborantibus mederi nesciat. * Quae enim prudentia in imperito ?
Imprudentiae quoque debetur illa paedagogo rum imbecillitas , qua inter se
invicem de futilibus inoptisque rebus decertantes , vel aliis invidentes
discentium animos adversus aemulos stimulanti. et ad pueriles irrisiones
dicacitatesque concitant : quo fit , ut ipsi in spretum et abietionem incidant,
adolescentes contra pessimos , audaces , ridiculosque mo res induant. 240
Logica Pars II. 200. Ad voluntatis vitia , quae amorem excludunt, referuntur : AMBITIO
, si ve nimia gloriae laudisque cupiditas , qua fit , ut vana eruditionis, autº
eloquentiae ostentatione , nimioque sermonis fuco di sciplinarum praecepta non
explicentur , sed implicentur , propriaeque existimationi potius , quam
discentium utilitati doctores consulant. - 3. AVARITIA , quae omnia trabit
commodum efficitque , ut sola sit utilitas iusti prope mater et aequi:
VOLVPTATIS CONSECTATIO , quae ignaviam , laboris im pa tientiam oilierique
neglectum parit , atque soliditatis defecium arguit , quum bene monterit
Genuensis .noster : difficile esse reperire hominem vere doctum simul autem et
mollem , ad suum > * * * * Inde quoque fluxit Cynicus iile mos , et ef
fraenis alios lacerandi consuetndo , quae in caussa fuit , ut de quorumdam
adolescentum petnlantia ad satyras proclivium emunctae nae ris homines
conquesti · gint : videbant enim pravam consuetudinen a pessimo doctorum exemplo
vatan in naturam paullatim ac cor ruptionem abituran Ex codem tandem fons te
manat ctiam illa docentium praesumtio , qui , ne discipulus supra magistrum
esse vie deatur , vel aliquot sublimiores doctrinas sla Cap. VII. De verit:
commun . 241 bi solis reservant , vel sublimia auditornm in genia deprimunt ac
despiciunt. Praeterquam quod ambitio in doctoribus novitatis amorem gignit ,
eosque opinionum singularium et ab surdarum , saepe etiam impietatis studiosos
efficit : id quod maximo adolescentihus detri mento est , praecipue quum
auctoritatis prae indicium altius in iis radices agat. Vid Hei nec. Ethic. l.
77. ** Quando quis avaritiae studet , non aliorum , sed sua tantum commoda
promovet , idque per fas an nefas , nihil sua referre videtur. Hinc auditorum
quosdam opibus pellantes , vel praeceptorum gratiam muneribus ementes reliquis
praeferunt, eos seorsum instruunt , ac speciali cura in aliquibns reconditis
rebus erudiunt, eaque praedilectione prosequuntur , ut se aliorum odio ,
invidiae vero illos expo nant, adeoque nihil neque hi pro . ficiant. *** Art.
Logicocritic. Lib. I. cap. Voluptati nanque dediti plerumque sunt ignavi ,
desides , et laboris impatientes ; atque inde fit , ut non satis praeparati ad
doces dum accedcntes in lycaeo quidquid in buccain vererit effutiant, et quia
ex abundantia cor dis , ut Servator ait , os loquitur , bonos persaepe mores
verbis factisme corrumpant. Delicatuli isti suat etiam meticulosi , adeoque
veritatem , quam alias intrepido vultu , si ri te munere suo fungi vellent ,
dicere debe ne aliorum indignationen incurruni Tom . I. L neque illi reni , )
242 Logica Pars II. aut dissimulant , aut tegunt, aut ( quod val de dolendum )
foede corrumpunt. Praeterea in huiusmodi hominibus ridicula quaedam et
thrasonica reperitur ambitio , scilicet paedan tismus', quo furentes nusquam ,
nisi de suis rebus gestis plurima exaggeranti, auditorum , que risui se
exponunt. 201 • Superest , ut doctrinae usum do etorumque officia exponamus ,
ut si qui munus hoc inire cupiunt , bene incipere , feliciusque prosequi
possini. Quicunque cr go ad istruendam iuventutem animum ad. pellis , hos
diligenter observato : CANON ES. Avditores eligito perspicaces, mui toque
supientiae umore Nagrantes. Eo rum porro attentionem excitato sae pius , ac
vitia , quibus eos laborare per cipis , prudenter sensimque corrigito. 2.
Doctoris munus , nisi solida artis methodique cognitione imbutus , ne te mere
suscipito : idque summa fidelitate, prucuttia , ac sincero erga discentes amore
absolvito. 3. Adolescentes in moralibus civili Cap. VII. De Verit. comm . 243
busque disciplinis non tam voce , quam exemplis erudito. Evidentissimum numiz
que , teste Augustino , docendi genus est subiectio exemplorum . 4. Religionis
amorem , morumque in tegritatem in discentibus foveto , neque te illis
familiarem nimis reddito , ne , excusso subiectionis fraeno , doctores
parvipendentes nihil proficiant, et ad pessima quaeque praecipites ruant.
" , SECTIO III . De Discentium dotibus ac naevisn's 202 , Am de dotibus
IAm vitiisque discça tium pauca apperidicis loco ad damus. Eorum est de veritatibus
certos reddi ; solidache imbui co gnitione, quae non nisi es claris
distinctisque oritur notionibus. Ad claras vero ac distinctas ideas adquirendas
requiritur attentio et libertas a praeiudiciis : Quidquid ergo attentionem tur
bat , vel praeiudicia fovet , ab iis abesse debet . 203. Priina ergo et maxima
discentium dos est BONA NENS, DOCILITAS, ATTENTIO sincerus erga stu. dia et
docentes AMOR, LABORIS PATIENTIA et otii
fuga , + 6. de. nique ANIMI SOLITUDO . It * Bonae mentis vocabulo intelligimus
non mo do naturalem ingenii perspicaciam , cuius de fectus hominem reddit
cognitionis incapacem , verum etiam animum bene educatum vcrae que Relligionis
amantem : quum Divino oracu lo monituin sit initiuin om nis sapientiae esse
timorem Domini. Hoc est libertas a
praeiudiciis ,ut supra di clum est, animique inclinatio ad quaecunque praecepta
ediscenda , et ad pra xin adplicanda. ID adeo * Si namque Doctores et studia
amemus , his sedulam navamus operam , illosque atter te auscultamus : si vero
amor hinc absit , taedium supervenit . , attentio minuitur , que aut parum aut
nihil in studiis profie mus. | Laboris enim impatientia ignorantiae cause est ,
ut dixiinus ; quoniam veri tates vel propria meditatioue vel Aucts rum lectione
inveniuntur, medtatio vero perinde ac lectio laborem cai gunt , ut ex superioribus
abunde constat. De verit. eomm. 245 # Multitudo namque non modo praeiudicio rum
fons est sed at tentionem quoque distrahit aut saltem mi nuit : adeoque solum
oportet esse , qui sa pientiae sentit amorem. Ex iisdem principiis sponte
manant discentium vitia , qualia sunt 1. Religionis spretus , quem conse quitur
voluntaria praeiudiciis adhaesio , 2. mentis hebetudo , 3. attentionis distra
ctio , 4. otium et laboris impatientia a dolescenlibus familiarissima , 4.
aversio a studiis vel doctoribus , 6. denique spe ctaculorum , multitudinis ,
et sodalita tum amor , quo fit , ut attentio distraha tur ( $ . 40. Schol. Can.
5. ) , et ad voluptatem inde ac perditionem praccipiti Cursu ruant. Schol. Quae
de discentium officiis tra lendae forent regulae, eae ab eadem do trina huc
usque exposita facile deduci po erunt. Quapropter hic a canonum addi tione con
mode abstinemus. De litterario certamine. zv ERTAMINIS LITTERARII no Emine
intelligimus quascumque disputationes, quae pro veritatis disquisitione vel
diiudicatione instituuntur. Hae disceptationes similiter vel scriptis , vel vo.
ce liont : et quidem SCRIPTO, vel alio rum errores confutamus , vel nosmet ab
eorum imputationibus defendimus: VOCE autem rationes utrinque conficiuntur , et
ad examen revocantur. Si ergo alterius errores scripto detegantur , actio haec
dicilnr CONFITATIO ; si pro positiones ab alterius impugnatione vindicentur,
DEFENSIO, si denique coram disce platio instituatur, propio nomine DISPVTATIO
adpellatur. De harum qualibet diversis sectionibus agemus qua alium erroris
convincimus. Ex qua definitione patet 1. confutantem de Cdium erroris
convincimus. Ex bere falsitatem propositionis, quam alter pro vera asseruit
demonstrare, idque a priori vel a posteriori, directe aut apogogice indiciis
sufficientibus, hoc est principiis demonstrandi certis ei utendum esse. Etquia
eadem propositio non potest esse simul vera et falsa (alias in contradictionem
inpingeretur ): evidens est. propositio nem legitime denionstratam confutari
non posse, adeoque. eius demonstration, nem esse contrariae confutationem. Antequam
vero confutatio instituatur opore tet STATVM QVAESTIONIS conficere, idest verum
suctoris sensum intelligere, ut propositionem falsam ex ipsius auctoris men le
demonstret. Eo enim ipso vitabitur LOGOMACHIA, qua propositio vera impetitur,
cuius veritas, licet ab adversario sit cognita, aliis tamen verbis expriiuiiur
et impugnatur, adeoquc insurgit quaestio de verbis . Vid . Weienfelsium de
logomachiis eruditorum . Si vero indicia fuerint insufficientia, scilicet principia
probabilia et precaria, tunc non con L'utilis , sed IMPVGNATIO dicetur.
Impugnari tamen potest, nempe dubiis au dificultatibus quisbusdam subiici , ut
eius veritas clarius elucescat, nec ulla remaneat op positi suspicio , id quod
infra in Seet. 3. docebimus. Quoniam confutatio ost convictio; haec autein
requirit , ut con vincendus sit attentus , nec adfectus in eo attentionem turbantes
exciteptur : liquido infertur 5. confutantem ea omnia quae attentionem in
altero per turbant , atque adfectus excitant , vitare debere ; consequenter 6.
a conviciis , ir risionibus, vel consequeniiis periculosis, quae confutandi
famam laetlunt , abstinen dum esse. Sunt autem PERICVLOSAE huiusmodi CONSEQVENTIAE
, quae non quidem ex genui no Auctoris sensi , sed ex confutantis opi nione
eruuntur , quaeque non veritatis de fendendae gratia deducuntur , sed ut adver
sarii fama in discrimen vocetur , isque alio rum ludibrio exponatur. Harum
porro con sequentiaruin confectores proprio nomine CONSEQVENTIARII vocantur.
208. Qaum ergo consequentiae pericu losae aliorum odium Auctori concilient ( $.
207. * , ) eique invidiam creent : non abs re a Philosophis argumenta ab invi
L4 1 + Cap. ult. de titt. cerlamine. 249 * dia fuerunt appellatae. Ex quo patet
ARGUMENTUM AB INVIDIA ductum in confutando sollicite esse vitandum ; a deoque
8.non abs re consequentiarios a Wolfio PERSECUTORES cognominari . * Logic. Lat.
pag. 752. Idque iure merito . Nam confutator vere dicitur , qui veritatem ab al
terius paralogismis vindicare studet. At qui non veritatem , sed adversarii
famam perse quitur , nullo inodo confutator dicendus est, sed alterius
persecutor, quia id non rationis auxilio , sed invidiae stimulo perficit.
Schol. Quoniam itaque in confutante solius veritatis amor exigitur : ut in con
futatione nihil vel minimum peccetur , hos qui sequuntur , servare curato . CAN
ONE S. I. A, D confutandum solo veritatis a more , non odio adversus alte rum
ductus accedito . Adversarium soli dis rationibus non conviciis , dictisve
famae nocentibus de errore et falsitate convincito . 2. Si obscuro impropriove
stilo ad edəssarius scripsit , ut dictionem corriagat , seque intelligendum
praestet , ad wertito. Si quid ab altero in demonstran do peccatum , sive
principia falsa sint, sive connexio illegitima , cuncta distincte modesteque
patefacito. Demonstrationis rigidus custos principiorum diligens investigator
esto , ne tibi ab adversario nota inuratur. E tenim TURPE EST DOCTORI , QUUM
CULPA RE DARGUIT IPSUM. DEFENSIO est propositionis ab alterius impugnatione
vindi catio . Ex eadem ergo definitione sequitur 1. ut propositio legitime
confutata defen din non possit , ut et 2. ad defensionem propositionis
sufficiat eius veritatem solide demonstrare , aut 3. si de terminis tan tum
quaestio sit , eos adcuratis definitio nibus determinare. Duobus vero modis
defensio insti taitur. Vel enim propositionis veritatem ab alterius
impugnatione vindicamus , vel Cap . ult. De litt. ccrtumine. 251 impugnantis
errores itidem detegimus . Pri mae classis seripla dicuntur APOLOGE TICA ;
alterius vero POLEMICA vel E RISTICA. * jin , * Horum quidem scriptorum minorem
num rum Respublica optaret litteraria. His nam que nec veritas invenitur , nec
ratio perfici tur , sed contentiones animique perturbatio nes aluntur , nulla
prorsus utilitate, magno autem Societatis , ac iuventutis studiosae malo. ?
211. Defendenti ergo , ne a recto. aber ret , Sequentes proponimus. , C ANONES.
1 . PhoRopositionem a te légitime demon Stratam , aut notionem cum ver bis rite
' conjunctam ab alterius cuiusvis impugnatione ne defendito. Pro të nam que
evidentia pugnabito ? ? 2. Eius , qui te maledictis conviciis que laesit ,
scriptis modesto respondeto silentio . * la cedendo victor abibis. * Si namque
simili stilo , respondeas , nullum operae pretium facies , adversarii
petulantiam temeritate lua iustificabis , inque idem vitium incides , quod in
alio reprehendis. Quidquid ab altero tibi impugnari sentis , in eo tua versetur
defensio. * Si vero argumentis ab invidia periculosis que consequentiis ab
aliquo persecutore adfectus fueris , sat est eius malitiam et nocendi studium
ostendere teque commiseratione potius , quam ira per citum perhibere. Si ergo
deverborum sensu quaestio sit , eum te explicasse sufficiet : si principia
impugna tor urgeat eorum certitudinem ostendas oportet : si in
demonstrationibus te ar guere velit , earuin legitimam connexiouem prae oculis
ponere ; si vero aliqua consequen tia absurda tibi imputetur , aut ipsius conse
quentiae veritatem , aut eam ab adversario non recte deductam , demonstrare
debebis. Quod si persecutor obscurae famae sit , te tacente veritas ipsa
loqietur , tuaque mo destia impudeutem adversarium confusione " obruet.
SECTIO III . 7 212. , 18. De Disputatione. A D veritatis tandem disquisitionem
accedamus , quae non scripto , sed voce fit , quaeque disputationis no. De
litt. certaminemine venit. Est igitur DISPUTATIO -aru ritatis alicuius
discussio voce facta. Ea tribus ' personis absolvitur , quarum una
propositionem'impugnat , altera eamdem defendit , tertia vero huic suppetias
fert. * Adeoque qui veritatem difficultatibus du bisque implicat , OPPONENS ;
qui vero eaka ab eiusmodi impugnatione vindicat , DEFENDENS, vel RESPONDENS ;
qui deni que huic aliquid adiumenti adfert , PRAESES aupellatur. 1213. Ex qua
definitione liquet 1. di- , sputationem esse impugnationem proposi tionis
veraen eiusque. defensionem ; ideo que 2. , utramque demonstratione absol vi ,
ut disputantium alteruter de veri tate convincatur ; quare 3. quidquid ge
neratim de convictione dictum, de disputatione etiam intelligatur , prae cipue
vero 4. status quaestionis formandus et
5. oportet , ut lingua loquantur clara et intelligbili, hoc est amboruin captui
adcommodata 6. ut u trique nec animus nec lingua deficiat. Su per omnia autem 7
affectibus carcant , odio , praesertim et invidia, Non enim ad rixandum , sed
ad disputandum. descendunt. At affectus convicia iniuriasque pariunt , quibus attentio
turbatur ( S. 207. ): ac proinde a disputantibus louge debent ab esse , ne ira
odiove perciti tantum absit ut veritatem inveniant , ut potius .a convicis ad
manus transeánt. Ex eadem definitione fluit 8. di sputantes debere in terminis
contradicto . riis versari , hoc est ut idein ab uno a d. firmetur , ab altero
negetur'. Et quia idem subiectum in contradictione requiritur; eruitur 9.
disputantes debere in terminorum notionibus convenire: quapro pter 10 si
verborum sensus- lateat , eorum explicationem a respondente peti posse, ut in
claris distinctisque rebus incidat contro versia, ct ' sic logomachiae
vitentur. Disputatio vel' ACADEMICA est , vel DIALECTICA. Illa continuato ac
paene oratorio dicendi genere , haeć syllo gistico more conficitur . In illa
opponens disscrtatione quadam propositionis veritatem impugnat, respondens
contra eodemstilo obiectiones diluit , ihesiique defendit ; in hoc vero
syllogisniis aliisque ratiocinandi modis chunciationem opponens inpugnat , ' et
ex Cap. ult. De litt. certamine. adverso respondens ratio cinia ad trutinam
revocans propositiones veras concedit , falsas negat , dubiasque distinguit,
eoque progre diuntur , donec ad principia perveniant.Addi potest methodus
disputandi SOCRATI CA, quae Opponentis interrogationibus , et Defendentis
responsionibus dialogico stilo ab solvitur. Sed quum ea iam pridem ab usu
recesserit : ab eius explicatione merito ab stinemus : in ipsis tamen
praelectionibus , quae de ill a dicenda forent , paucis expe diemus. Vides ergo
methodum Academicam ad eru ditionis et eloquentiae ostentationem in Aca demiis
prae se ferendam unice inventam esse. In disputando autem , quum homini pede
stanti in uno ñec eruditio , nec verborum copia praesto esse possit ,
Dialectica metho dus merito praeterenda, Vtcumque vero disputatio instituatur
invabit disputantiirin munera paucis expo nére : id quol sequentibus exequemur
re gulis. Et primo quidem amborum , dein de opponentis; postremo respondentis
mu nia recensebimus . Quisquis ergo ad dis putandum accedis , hos religiose
castodito : Phim Rimum omnium controversiae sta tum conjici ! ) . Nihil porro ,
nisi terminis claris fixisque expressum , in e am incidito . Obscura quaeque
explica to . 2. Dispu'ans adfectibus vacuus , veria tatis tantum amans, eiusque
invenienda cupidus esto . Cuncta modeste, suaviter , amice proferto . Convicia
et dicta mor dacia , velut angiem , fugito. OPPONENTIS hae fere partes sunto .
3. Quacunque meihodo thesin aliquam adoriris , syllogisticam artem cuidi ha
beto . Argumentu solida non sophismata ineptasve fallacias, proponito . Conclu
sio thesi impugnatae semper e diametro contraria esto 4. Si quid a respondente
tibi propo nitur explicandum , explicato : si vero probandum , tamdiu
syllogismorum , au xilio probato , donec ad principia per veneris. Ad singula
respondentis verba et distinctiones attendito . Si illa obscura sint, illi
explicanda dato ; si vero clara , Cap. ult. De litt. certamine. 257 novas
exceptiones , prout res tulerit , contra formato. Praecipue videto , si ad
versarium ex assertis suis convincere et refutare, proprioque , ut aiunt, gladio
iu gulare possis Et hoc est , quod vocari solet ARGVMENTVM AD HOMINEM, de quo
tamen videa tur lo. Lockius de intell. bum . IV . 17. , qui eius
insufficientiam in vero inveniendo et de bilitatem ostendit. Nos autem tantum
in ex ercitationibus litterariis , quae coram fiunt id commendamus: de veri
namque investiga tione fusius supra tractavimuis. RESPONDENS demum id sibi negotii
sciat praecipue datum. Argumentum opponentis prius repe tito , deinde sedulo
perpendito , num de bila gaudeat soliditate . Praenissarum quae tibi dubiae
videbuntur , probatio nem postulato . 7. Syllogismum in forma peccantem totum
reiicito. Si haec bene processerit materiam ad examen reyocaio. Propo sitiones
falsas negato , veras concedito, dubias vero distinguito : sed de omnibus
rationem reddere memento., ne ridiculas, evadas . 258 Logic. Pars. ii. 本
Perridicula ergo est illa Scholasticorum regula: Semper nega , numquam concede
raro distingue. Si namque casu neges, duo rum alterum exspectare debebis , vel
ut ne gationis caussam adferas , vel ut lucem quo que neges meridianam :
utrumque homini sen sibili acerbissimum . . 8. Si oppositae propositionis
impossi bilitatem demostrare possis ; nihil ultra oneris habebis . Si vero in
auctoritate probatio ' versetur : sat erit adversarii te.ctus obscuros claris
auctoritatibus re fellere . 9. Caveto, ne propositionem concedas, in qua
adversarius struxit insidias : ne cx eius admissione incidas in laqucos. Schol.
Ceterum disputandi regulac usu magis ct exercitio , quam praeceptis , ad
discuntur ' . Si tamen dicendum quod res est , in huiusmodi litterariis
contentionibus von soliditas, sed promtitudo , immo ve ro impudentia valet et
veritas amittitur potius , quam invenitur : Qua de re vide inus
eruditos doctosque viros raro admodum ad disputandum descendere. Legatur
Bud seus Obseru . in Plit. instrum . Pur: III. Cup . 3. g. 11. Giuseppe
Capocasale. Keyword, assoc: ‘tears’ are a sign of sadness, but the kind of sign
that ideas are related with are arbitrary, not necessarily natural signs. The
correlation can be iconic, arbitrary, associative, etc. A sign is not
essentially connected with the purpose of communication (smoke means fire).
Grice is into ‘communication,’ not signs as such – a theory of communication,
not a semeiotic. Capocasale does not
expand on the intricacies of the cocodrile’s tears, because he is not
interested, but it woud just take a footnote to his comment on ‘lacrimae’ being
a ‘signum’ traestitiae. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capocasale” – The
Swimming-Pool Library.
Capocci (Viterbo). Filosofo. Grice:
“I like Capocci; he was a Griceian; he opposed Aquinas on the dependence of
will and intellectus – surely they are independent, and possibly the will is
more basic! La ‘volonta,’ as the Italians call it! -- “That’s how I shall call
himothers favour “Giacomo da Viterbo.”” Essential Italian philosopher – Di
famiglia nobile, studia a Viterbo. His monicker was ‘il dottore speculativo”.
Insegna a Napoli. Il suo saggio più conosciuto, “De regimine christiano” Approfondisce
i temi della teocrazia, e del potere temporale del cesare e il suo stato. Altre
opere: “Quaestiones disputatae de praedicamentis in divinis”. “Summa de
peccatorum distinctione” – “there are surely more than seven sins – Multiply
sins beyond necessity --. Dizionario Biografico degli Italiani.Vi sono in cui Giacomo viene
raffigurato con un'aureola – segno naturale accordo di Peirce del santo.Mariani
identified two manuscripts containing a Summa de peccatorum distinctione:
Biblioteca Nazionale di Napoli, cod. vii G. 101 and Biblioteca di Montecassino,
cod. 743, both of which ascribe the work to James. Ypma does not mention. Summa
de peccatorum distinctione Fratris Jacobi de Viterbio Sacrae Theologiae
Professoris , Fratrum Eremitarum Sancti Augustini , Archiepiscopi Neapolitani.
D. AMBRASI , La Summa de peccatorum distinctione del b . Giacomo da
Viterbo dal ms. VII G 101 ... D. GUTIERREZ , De vita et scriptis Beati Iacobi
de Viterbo , “ Analecta Augstiniana ” , XVI , 1937 Lectura super IV libros
Sententiarum Quaestiones Parisius disputatae De praedicamentis in divinis
Quaestione de animatione caeli Quaestiones disputatae de Verbo Quodlibeta quattuor Abbreviatio In Sententiarum Aegidii Romani De
perfectione specierum De regimine christiano Summa de peccatorum distinctione
Sermones diversarum rerum Concordantia psalmorum David De confessione De
episcopali officio Like many of his
contemporaries, James devotes serious attention to determining the status of
theology as a science and to specifying its object, or rather, as the
scholastics say, its subject. In Quodlibet III, q. 1, he
asks whether theology is principally a practical or a speculative science.
Unsurprisingly, perhaps, for an Augustinian, James responds that the end of
theology resides principally not in knowledge but in the love of God. The love
of God, informed by grace, is what distinguishes the way in which Christians
worship God from the way in which pagans worship their deities. For
philosophers—James has Cicero in mind—religion is a species of justice; worship
is owed to God as a sign of submission. For the Christian, by contrast, there
can be no worship without an internal affection of the soul, i.e., without
love. James allows that there is some recognition of this fact in Book X of
the Nicomachean Ethics, for the happy man would not be “most
beloved of God,” as Aristotle claims he is, if he did not love God by making
him the object of his theorizing. In this sense, it can be said that philosophy
as well sees its end as the love of God as its principal subject. But there is
a difference, James contends, in the way in which a science based on natural
reason aims for the love of God and the way in which sacred science does so:
sacred science tends to the love of God in a more perfect way. One way in which
James illustrates the difference between both approaches is by contrasting the
ways in which God is the “highest” object for metaphysics and for theology. The
proper subject of metaphysics is being, not God, although God is the highest
being. Theology, on the other hand, views God as its subject and considers
being in relation to God. Thus, James concludes, “theology is called divine or
of God in a much more excellent and principal way than metaphysics, for
metaphysics considers God only in relation to common being, whereas theology
considers common being in relation to God” (Quodl. III, q. 1, p.
20, 370–374). Another way in which James illustrates the difference between
natural theology and sacred science is by using St. Anselm's distinction
between the love of desire (amor concupiscientiae) and the love of
friendship (amor amicitiae). The love of desire is the love by which
we desire an end; the love of friendship is the love by which we wish someone
well. The love of God philosophers have in mind, James contends, is the love of
desire; it cannot, by the philosophers' own admission, be the love of
friendship, for according to Aristotle, at least in the Magna Moralia,
friendship involves a form of community or sharing between the friends that
cannot possibly obtain between mere mortals and the gods. Now although James
concedes that a “community of life” between God and man cannot be achieved by
natural means, it is possible through the gift of grace. The particular
friendship grace affords is called charity and it is to the conferring of charity
that sacred scripture is principally ordered.Like all scholastics since the
early thirteenth century, James subscribes to the distinction between God's
ordained power, according to which “he can only do what he preordained he would
do according to wisdom and will” (Quodl. I, q. 2, p. 17, 35–37)
and his absolute power, according to which he can do whatever is “doable,”
i.e., whatever does not imply a contradiction. Problems concerning what God can
or cannot do arise only in the latter case. James considers several questions:
can God add an infinite number of created species to the species already in
existence (Quodl. I, q. 2)? Can he make matter exist without form
(Quodl. IV, q. 1)? Can he make an accident subsist without a
substrate (Quodl. II, q. 1)? Can he create the seminal reason of
a rational soul in matter (Quodl. III, q. 10)? In response to the
first question, James explains, following Giles of Rome but against the opinion
of Godfrey of Fontaines and Henry of Ghent, that God can by his absolute power
add an infinite number of created species ad superius, in the
ascending order of perfection, if not in actuality, then at least in potency.
God cannot, however, add even one additional species of reality ad
inferius, between prime matter and pure nothingness, not because this
exceeds his power but because prime matter is contiguous to nothingness and
leaves, so to speak, no room for God to exercise his power (Côté 2009). James
is more hesitant about the second question. He is sympathetic both to the arguments
of those who deny that God can make matter subsist independently of form and to
the arguments of those who claim he can. Both positions can reasonably be held,
because each argues from a different (and valid) perspective. Proponents of the
first position argue from the point of view of reason: because they rightly
believe that God cannot make what implies a contradiction, and because they
believe (rightly or wrongly) that making matter exist without form does involve
a contradiction, they conclude that God cannot make matter exist without form.
Proponents of the second group argue from the perspective of God's omnipotence
which transcends human reason: because they rightly assume that God's power
exceeds human comprehension, they conclude (rightly or wrongly) that making
matter exist without form is among those things exceeding human comprehension
that God can make come to pass.Another question James considers is whether God
can make an accident subsist without a subject or substrate. The question arises
only with respect to what he calls “absolute accidents,” namely quantity and
quality, as opposed to relational accidents—the remaining categories of
accident. God clearly cannot make relational accidents exist without a subject
in which they inhere, for this would entail a contradiction. This is so because
relations for James, as we will see in section 3.3 below, are modes, not things. What about absolute
accidents? As a Catholic theologian, James is committed to the view that some
quantities and qualities can subsist without a subject, for instance extension
and color, a view for which he attempts to provide a philosophical
justification. His position, in a nutshell, is that accidents are capable of
existing independently if they are thing-like (dicunt rem). Numbers,
place (locus), and time are not thing-like and are thus not capable of
independent existence; extension, however, is and so can be made to exist without
a subject. The same reasoning applies to quality. This is somewhat surprising,
for according to the traditional account of the Eucharist, whereas extension
may exist without a subject, the qualities, color, odor, texture, necessarily
cannot; they inhere in the extension. James, however, holds that just as God
can make thing-like quantities to exist without a subject, so too must he be
able to make a thing-like quality exist without the subject in which it
inheres. Just which qualities are capable of existing without a subject is
determined by whether or not they are “modes of being,” i.e., by whether or not
they are relational. This seems to be the case with health and shape: health is
a proportion of the humors, and so, relational; likewise, shape is related to
parts of quantity, without which, therefore, it cannot exist. Colors and
weight, by contrast, are non-relational, according to James, and are thus in
principle capable of being made to exist without a subject.The fourth question
James considers in relation to God's omnipotence raises the interesting problem
of whether the rational soul can come from matter. James proceeds carefully,
claiming not to provide a definitive solution but merely to investigate the
issue (non determinando sed investigando). The upshot of the
investigation is that although there are many good reasons (the soul's
immortality, its spirituality and its per se existence) to
say that God cannot produce the seminal reason of the rational soul in matter,
in the end, James decides, with the help of Augustine, that such a possibility
must be open to God. Thus, it is true that in the order which God has de
facto instituted, the soul's incorruptibility is repugnant to matter,
but this is not so in absolute terms: if God can miraculously cause something
to come to existence through generation and confer immortality upon it (James
is presumably thinking of the birth of Christ), then he can make it come to
pass that souls are produced through generation without being subject to
corruption. Likewise, although it appears inconceivable that something material
could generate something endowed with per se existence, it
is not impossible absolutely speaking: if God can confer separate existence
upon an accident—despite the fact that accidents naturally inhere in their
substrates—then, in like manner, he can confer separate existence upon a soul,
although it has a
seminal reason in matter. Scholastics held that because God is the creative cause of all
natural beings, he must possess the ideas corresponding to each of his
creatures. But because God is eternal and is not subject to change, the ideas
must be eternally present in him, although creatures exist for only a finite
period of time. This doctrine of course raised many difficulties, which each
author addressed with varying degrees of success. One difficulty had to do with
reconciling the multiplicity of ideas with God's unity: since there are many
species of being, there must be a corresponding number of ideas; but God is one
and, hence, cannot contain any multiplicity. Another, directly related,
difficulty had to do with the ontological status of ideas: do ideas have any
reality apart from God? If one denied them any kind of reality, it was hard to
see how they could function as exemplar causes of things; but to attribute
full-blown essential reality to them was to run the risk of introducing multiplicity in God. One
influential solution to these difficulties was provided by Thomas Aquinas, who
argued that divine ideas are nothing else but the diverse ways in which God's
essence is capable of being imitated, so that God knows the ideas of things by
knowing his essence. Ideas are not distinct from God's essence, though they are
distinct from the essences of the things God creates (De veritate, q.
2, a. 3). One
can discern two answers to the problem of divine ideas in the works of James of
Viterbo. At an early stage of his career, in the Abbreviatio in
Sententiarum Aegidii Romani—assuming one accepts, as seems reasonable,
the early dating suggested by Ypma (1975)—James defends a position that is
almost identical to that of Thomas Aquinas (Giustiniani 1979). In his Quodlibeta,
however, he moves to a position closer to that of Henry of Ghent. In the
following I will sketch James' position in the Quodlibeta as
it provides the most mature statement of his views. Although James agreed with the notion
that ideas are to be viewed as the differing ways in which God can be imitated,
he did not think that one could make sense of the claim that God knows other
things by cognizing his own essence unless one supposed that the essences of
those things preexist in some way (aliquo modo) in God. James'
solution is to distinguish two ways in which ideas are in God's intellect. They
are in God's intellect, firstly, as identical with it, and, secondly, as
distinct from it. The first mode of being is necessary as a means of
acknowledging God's unity; but the second mode of being is just as necessary,
for, as James puts it (Quodl. I, q. 5, p. 64, 65–67), “if God
knows creatures before they exist, even insofar as they are other than him and
distinct (from him), that which he knows is a cognized object, which must needs
be something; for that which nowise exists and is absolutely nothing cannot be
understood.” But James also thinks that the necessity of positing
distinct ideas in God follows from a consideration of God's essence. God enjoys
the highest degree of nobility and goodness. His mode of knowledge must be
commensurate with his nature. But according to Proclus, an author James is
quite fond of quoting, the highest form of knowledge is knowledge through a
thing's cause. That means that God knows things through his own essence.
However, he does so by knowing his essence as a cause, and
that is possible only by knowing “something (aliquid)
through a cause, not merely by knowing that which is the cause (i.e., God)”. Although James' insistence
on the distinctness of ideas with respect to God's essence is reminiscent of
Henry of Ghent's teaching, it is important to note, as has been stressed by M.
Gossiaux (2007), that James does not conceive of this distinctness as Henry
does. For Henry, ideas possess esse essentiae; James, by
contrast, while referring to divine ideas as things (res), is careful
to add that they are not things “in the absolute sense but only determinately,”
viz., as cognized objects (Quodl. I, q. 5, p. 63, 60). Thus,
divine ideas for James possess a lesser degree of distinction from God's
essence than do Henry of Ghent's. Nevertheless, because James did consider
ideas to be distinct in some sense from God, his position would be viewed by
some later authors—e.g., William of Alnwick—as compromising divine unity. The concept of being,
all the medievals agreed, is common. What was debated was the nature of the commonness.
According to James of Viterbo, all commonness is founded on some agreement, and
this agreement can be either merely nominal or grounded in reality. Agreement
is nominal when the same name is predicated of wholly different things, without
there being any objective basis for the application of the common name; such is
the case of equivocal names. Agreement is real in the following two cases: (1)
if it is based on some essential resemblance between the
many things to which a particular concept applies, in which case the concept
applies to these many things by virtue of the self same ratio and
is said of them univocally; or (2) if that concept is truly common to the many
things of which it is said, although it is not said of them relative to the
same nature (ratio), but as prior to one and posterior to the others,
insofar as these are related in a certain way to the first. A concept that is
predicated of things in this way is said to be analogous, and the agreement
displayed by the things to which it applies is said to be an agreement of
attribution (convenientia attributionis). James believes that it is
according to this sense of analogy that being is said of God and creatures, and
of substance and accident (Quaestiones de divinis praedicamentis I,
q. 1, p. 25, 674–80). For being is said in a prior sense of God and in a
posterior sense of creatures by virtue of a certain relation between the two;
likewise, being is said first of substance and secondarily of accidents, on
account of the relation of posteriority accidents have to substance. The reason
why being is said in a prior sense of God and in a secondary sense of creatures
and, hence, the reason why the ‘ratio’ or nature of being is different
in the two cases is that being, in God, is “the very thing which God is” (Quaestiones
de divinis praedicamentis, q. 1, p. 16, 412), whereas created being is
only being through something added to it. From this first difference follows a
second, namely, that created being is being by virtue of being related to an
agent, whereas uncreated being has no relation. These two differences can be
summarized by saying that divine being is being through itself (per se),
whereas created being is being through another (per aliud) (Quaestiones
de divinis praedicamentis, q. 1, p. 16, 425–6). In sum, being is said of
God and creature, but according to a different ratio: it is said
of God according to the proper and perfect nature of being, but of creatures in
a derivative or secondary way.James' most detailed discussion of the distinction
between being and essence occurs in the context of a question that asks if
creation could be saved if being (esse) and essence were not different
(Quodl. I, q. 4). His answer is that although he finds it
difficult to see how one could account for creation if being and essence were
not really different, he does not believe it is necessary to conceive of the
real distinction in the way in which “certain Doctors” do. Which Doctors does
he have in mind? In Quodl. I, q. 4, he summarizes the views
of three authors: Godfrey of Fontaines, according to whom the distinction is
only conceptual (secundum rationem); Henry of Ghent, for whom esse is
only intentionally different from essence, a distinction that is less than a
real distinction but greater than a rational distinction; and finally, Giles of
Rome, for whom esse is one thing (res), and essence
another. Thus, James agrees with Giles, and disagrees with Henry and Godfrey,
that the distinction between being and essence is real; however, he disagrees
with Giles about the proper way of understanding the real distinction.The
starting point of his analysis is Anselm's statement in the Monologion that
the substantive lux (light), the infinitive lucere (to
emit light), and the present participle lucens (emitting
light) are related to each other in the same way as essentia (essence), esse (to
be), and ens (being). The relation of lucere to lux,
he tells us, is the relation of a concrete term to an abstract one.
To-emit-light denotes light as an act, just as to-be (esse) denotes
essence from the point of view of an act. Now, a concrete term signifies more
things than the corresponding abstract term, e.g., esse signifies
more things than essence, for essence signifies only the form, whereas esse signifies
the form principally and the subject secondarily. By ‘subject’ James means the
actually existing thing, which he also calls the aggregate or supposit (Wippel
1981). Esse and essence thus signify the same thing
principally, but differ in terms of what they signify secondarily. Although
this difference is only conceptual in the case of God, it is real in the case
of creatures. It is this difference that explains why one does not predicate
to-emit-light (lucere) of light itself (lux) or being of
essence: what properly exists is that which has essence, viz., the
supposit. Esse denotes essence as existing in a supposit.The
kernel of James' solution, then, lies in the distinction between what terms
signify primarily and secondarily. To his mind, this is what makes his solution
closer in spirit to Giles of Rome than to either Godfrey or Henry, without
committing him to a conception of the distinction as rigid as that of Giles.
The distinction is real for James, but in a qualified way (Gossiaux 1999).
Because identity or difference between things is determined to a greater degree
by primary rather than by secondary signification, it follows that essence and
existence are primarily and absolutely the same (idem) and
conditionally or secondarily distinct. Yet, although the distinction is
conditional or secondary, it
is nonetheless James devotes five of his Quaestiones de divinis
praedicamentis (qq. 11–15), representing some 270 pages of edited
text, to the question of relations. It is with a view to providing a proper
account of divine relations, he explains, that it is “necessary to examine the
nature of relation with such diligence” (Quaestiones de divinis
praedicamentis, q. 11, p. 12, 300–301). But before turning to Trinitarian
relations, James devotes the whole of q.11 to the status of relations in
general. The following account focuses exclusively on q. 11. James in essence
adopts Henry of Ghent's “modalist” solution, which was to exercise considerable
influence among late thirteenth-century thinkers (Henninger 1989), although he
disagrees with Henry about the proper way of understanding what a mode is.The
question boils down to whether relations exist in some manner in extra-mental
reality or solely through the operation of the intellect, like second
intentions (species and genera). Many arguments can be adduced in support of
each position, as Simplicius had already shown in his commentary on
Aristotle's Categories—a work that would have a decisive
influence on James' thought. For instance, in support of the view that
relations are not real, one may point out that the intellect is able to
apprehend relations between existents and non-existents, e.g., the relation
between a father and his deceased son; yet, there cannot be anything real in
the relation given that one of the two relata is a non-existent. But if so,
then the same must be true of all relations, as the intellectual operation
involved is the same in all cases. Another argument concerns the way in which
relations come to be and cease to be. This appears to happen without any change
taking place in the subject which the relation is said to affect. For instance,
a child who has lost his mother is said to be an orphan until the age of
eighteen, at which point it ceases to be one, although no change has occurred:
“the relation recedes or ceases by reason of the mere passage of time.”But good
reasons can also be found in support of the opposing view. For one, Aristotle
clearly considers relations to be real, as they constitute one of the ten
categories that apply to things outside the soul. Furthermore, according to a
view commonly held by the scholastics, the perfection of the universe cannot
consist solely of the perfection of the individual things of which it is made;
it is also determined by the relations those things have to each other; hence,
those relations must be real.The correct solution to the question of whether
relations are real or not, James contends, depends on assigning to a given
relation no more but no less reality than is fitting to it. Those who rely on
arguments such as the first two above to infer that relations are entirely
devoid of reality are guilty of assigning relations too little reality; those
who appeal to arguments such as the last two, showing that relations are
distinct from their subjects in the way in which things are distinct from each
other, assign too great a degree of reality to relations. The correct view must
lie somewhere in between: relations are real, but are not distinct from their
subjects in the way one thing is distinct from another.That they must be real
is sufficiently shown by the first Simplician arguments mentioned above, to
which James adds some others of his own. However, showing that they are not
things is slightly more complicated. James' position, in fact, is that relations
are not things “properly and absolutely speaking,” but only “in a certain way
according to a less proper way of speaking.” A relation is not a thing in an
absolute sense because of the “meekness” of its being, for which reason “it is
like a middle point between being and non-being” (Quaestiones de divinis
praedicamentis, q. 11, p. 30, 668–9). The reasoning behind this last
statement is as follows: the more intrinsic some principle is to a thing, the
more that thing is said to be through it; what is maximally intrinsic to a
thing is its substance; a thing is therefore maximally said to be on account of
its substance. Now a thing's being related to another is, in the constellation
of accidents that qualify that thing, what is minimally intrinsic to it and thus
farthest from its being, and so closest to non-being. But if relations are not
things, at least in the absolute sense, what are they? James answers that they
are modes of being of their foundations. “The mode of being
of a thing does not differ from the thing in such a way as to constitute
another essence or thing. The relation, therefore, is not different from its
foundation” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 33,
745–7). Speaking of relations as modes allows us to acknowledge their reality,
as attested by experience, without hypostasizing them. A certain number's being
equal to another is clearly something distinct from the number itself. The
number and its being equal are two “somethings” (aliqua), says James;
they are not, however, two things; they are two in the sense that
one is a thing (the number) and the other is a mode of being of the number.In
making relations modes of being of the foundation, James was
clearly taking his cue from Henry of Ghent, who has been called “the chief
representative of the modalist theory of relation” (Henninger 1989). For Henry
and James, relations are real in the sense that they are distinct from their
foundations and belong to extra mental reality. However, James' understanding
of the way in which a relation is a mode differs from Henry's. For Henry, a
thing's mode is the same thing as its ratio or nature; it is
the particular type of being that thing has, what “specifies” it. But according
to James' understanding of the term, a mode lies beyond the ratio of
a thing, like an accident of that thing (Quaestiones de divinis
praedicamentis, p. 34, 767–8). In conclusion, one could say that in his
discussion of relations, James was guided by the same motivation as many of his
contemporaries, namely securing the objectivity of relations without conferring
full-blooded existence upon them. Relations do exhibit some form of being,
James believed, but it is a most faint one (debilissimum), the
existence of a mode qua accident. James discusses individuation in two places: Quodl. I,
q. 21 and Quodl. II, q. 1. I will focus on the first
treatment, because it is the lengthier of the two and because the tenor of
James' brief remarks on individuation in Quodl. II, q. 1,
despite certain similarities with his earlier discussion (Wippel 1994), make it
hard to see how they fit into an overall theory of individuation.The question
James faces in Quodl. I, q. 21 is a markedly theological
one, namely whether, if the soul were to take on other ashes at resurrection, a
man would be numerically the same as he was before. In order to answer that
question, James tells us, it is first necessary to determine what the cause of
numerical unity is in the case of composite beings. There have been numerous
answers to that question and James provides a short account of each. Some
philosophers have appealed to quantity as the principle of numerical unity;
others to matter; others yet to matter as subtending indeterminate dimensions;
finally, others have turned to form as the cause of individuation. According to
James, each of these answers is part of the correct explanation though it is
insufficient if taken on its own. The correct view, according to him, is that
form and matter taken together are the principal causes of numerical identity
in the composite, with quantity contributing something “in a certain manner.”
Form and matter, however, are principal causes in different ways; more
precisely, each accounts for a different kind of numerical unity. For by
‘singularity’ we can really mean two distinct things: we can mean the mere fact
of something's being singular, or we can point to a thing qua “something
complete and perfect within a certain species” (Quodl. I, 21,
227, 134–35). It is matter that accounts for the first kind of singularity, and
form for the second. Put otherwise, the kind of unity that accrues to a thing
on account of its being a mere singular, results from the concurrence of the
“substantial” unity provided by matter and the “accidental” unity provided by
quantity. By contrast, the unity that characterizes a thing by virtue of the
perfection or completeness it displays is conferred to it by the form, which is
the principle of perfection and actuality in composites.Although James thinks
he can quite legitimately enlist the support of such prestigious authorities as
Aristotle and Averroes in favor of the view that matter and form together are
constitutive of a thing's numerical unity, his solution has struck commentators
as a somewhat contrived and ad hoc attempt to reach a compromise solution at
all costs (Pickavé 2007; Wippel 1994). James, it has been suggested, “seems to
be driven by the desire to offer a compromise position with which everyone can
to some extent agree” (Pickavé 2007: 55). Such a suggestion does accord with
what we know about James' temperament, namely, his dislike of controversy and
his tendency, on the whole, to prefer solutions that present a “middle way” (Quaestiones
de divinis praedicamentis, q. 11, p. 23, 513; Quodl. II,
q. 7, p. 108, 118; De regimine christiano, 210; see also Quodl. II,
q. 5, p. 65, 208–209). However, James' professions of moderation must sometimes
be taken with a grain of salt, as there are some positions he wants to pass off
as moderate that are quite far from being so, as we will see in Section 7 below.The belief
that matter contains the ‘seeds’ of all the forms that can possibly accrue to
it is one of the hallmarks of James of Viterbo's thought, as is the belief that
the soul pre-contains, in the shape of “propensities” (idoneitates),
all the sensitive, intellective, and volitional forms it is able to take on. We
will look at James' doctrine of propensities in the intellect in Section 5, and his doctrine of
propensities in the will in Section 6. In this section, we
present James' arguments in
favor of seminal reasonsOne important reason for subscribing to the existence of seminal
reasons is that the doctrine enjoys the support of Augustine. Although
James is sometimes quite critical of his Augustinian contemporaries, including
his predecessor Giles of Rome, he is an unreserved follower of Augustine,
especially when it comes to the greater philosophical issues, such as knowledge
and natural causation. However, what is particularly interesting about James is
the way in which he enlists such decidedly un-Augustinian sources as Aristotle,
Averroes, and especially Simplicius in the service of his Augustinian
convictions (Côté 2009). James
offers a thorough discussion of seminal reasons in Quodl. II,
q. 5. The question he raises there is not so much whether there are
seminal reasons, for this is “admitted by all Catholic doctors” (Quodl. II,
q. 5, p. 59, 16), but rather, how one is to properly conceive of them. A
seminal reason, according to James, has two characteristics: it is (1) an
inchoate state of the form to be, and (2) an active principle. Most of the
discussion in Quodl. II, q. 5 is devoted to establishing the
first point. James thinks that the thesis that forms are present in potency in
matter is consonant with the teaching of Aristotle, who, he claims, follows a
“middle way” on the issue of generation, eschewing both the position that forms
are created, and also Anaxagoras' “hidden-forms hypothesis,” according to which
all forms are contained in act in everything. Now to say that forms are present
in matter inchoately or in potency, according to James, entails that the
potency of matter is something distinct from matter itself.
One argument in favor of this thesis is that matter is not corrupted by the
taking on of a form: it remains in potency towards other forms. Also, potency
is relational, whereas matter is absolute. When James states that matter is
distinct from potency he does not mean to say that they are entirely distinct
or unconnected, quite the contrary: potency is the potency of matter.
However, potency adds three characteristics to the concept of matter. First, it
adds the idea of a relation to a form (matter is in potency towards a form);
second, it adds the idea that the form to which it is related is a form it
lacks; finally, it implies that the form which matter lacks is a form it has
the capacity to acquire, for as James explains, one does not say that a stone
is in potency toward the power of sight merely because it lacks sight. In order
for something to be in potency toward a particular form it must both lack that
form and also possess an aptitude to take it on. James neatly summarizes his
views in the following passage: “[the potency of matter] denotes a respect of
the matter toward the form, attendant upon its lacking that form and having the
aptitude to take it on, so that four properties are included in the concept of
potency, namely matter, lack of form, aptitude toward the form and a respect
toward the form insofar as it is educible by an agent and motor cause” (Quodl. II,
q. 5, p. 69, 359 – p. 70, 363).
The originality of James' position lies in the way in which he
conceives matter's aptitudes. The term “aptitude” has a precise technical
meaning, which he fleshes out with the help of Simplicius' commentary on
the Categories. It denotes a certain incipient or inchoative
state of the form in matter. Potency and act, James tells us, are two states or
modes of the same thing, not two distinct things. What exists in the mode of
actuality must preexist in the mode of potency, but in an inchoate way. James
is aware of the several objections that may be leveled against his conception
of aptitudes or propensities. The most serious of these is perhaps the charge
that their existence makes generation, i.e., the production of new beings,
impossible or useless. James replies by suggesting that those who argue in this
fashion misconstrue Aristotle's doctrine of change. For change, according to
Averroes' understanding of Aristotle (see Quodl. III, q.
14), does not result from an agent's implanting a form in a receiving subject,
for this would imply that forms “migrate” from subject to subject; it results
rather from an agent's making that which is in potency to be in act. For this
to occur, however, more is required than the mere passive potency of matter:
the seminal reason must also be viewed as an active principle. The activity of
potency manifests itself in the shape of a natural inclination or tendency to
attain its completion. Generation thus requires two things (besides God's
general operative causality): the “transmutative” agency of an extrinsic cause
and the intrinsic agency of the formae inchoativum which
inclines the potency to attain its completion. James' doctrine of seminal reasons would elicit considerable
criticism in the early fourteenth century and beyond (Phelps 1980). The initial
reaction came from Dominicans, e.g., Bernard of Auvergne, the author of a
series of Impugnationes (i.e., attacks) contra
Jacobum de Viterbio, and John of Naples who argued against James'
distinction between the potency of matter and potency. But James' theory would
also encounter resistance from within the Augustinian Order, e.g., from
Alphonsus Vargas of Toledo. James'
doctrine of cognition must also be understood in the context of his
thoroughgoing Augustinianism and against the backdrop of the late
thirteenth-century arguments against Thomistic abstraction theories. According
to Thomas Aquinas' theory of knowledge, the agent intellect abstracts a thing's
form or essential information from the image or representation of that thing.
The outcome of this process was what Aquinas called the intelligible species,
which was then taken to “move” the possible intellect to conceptual
understanding. However, as thinkers such as Vital du Four and Richard of
Middleton were to point out (see the articles by Robert and Noone), the
information coming in through the senses is related to a thing's accidental
properties, not to its substance. How, then, could abstraction from the senses
produce an intelligible species relating to the thing's essence? Although James of Viterbo
agreed by and large with the spirit of this objection and believed that the
replies by proponents of abstractionism were unsuccessful, he had another
reason for rejecting the theory. This was because it implied a view of the
intellect which he thought to be profoundly mistaken, namely, the view that
there is a real distinction between the agent intellect (which abstracts the
species) and the possible intellect (which receives it). If it were truly the
case, he reasoned, that one needed to posit a distinct agent intellect because
phantasms are only potentially intelligible, then, by the same token, one would
have to posit an “agent sense”, because sensibles “are only sensed in potency”
(Quodl. I, q. 12, p. 164, 234). But given that no proponent of
abstraction admits an agent sense, one should not allow them an agent
intellect. Furthermore, if there were an agent intellect distinct from the
possible intellect, it would be a natural power of the soul and so would be
required for the cognition of all intelligibles, not just a
certain class of them. Similarly, qua natural power, its use would be required
not only in the present life but also in the afterlife. But of course that
would be absurd, as the agent intellect, ex hypothesi, is only
necessary to abstract form from matter, something the mind does only when it is
joined to a corruptible body. James was well aware that by denying the
distinction between the two intellects, he was opposing the consensus view of
Aristotle commentators. Indeed, his views seem to run counter to the De
anima itself, though, as he would mischievously point out, it was
difficult to determine just what Aristotle's doctrine was, so obscure was its
formulation (Quodl. I, q. 12, p. 169, 426—170, 439). He replied
that what he was denying was not the existence of a “difference” in the soul,
but merely that the existence of a difference implied a distinction of powers (Quodl. I,
q. 12, p. 170, 440–45). The intellect, he held, was both in act and in potency,
active and passive, but one could account for its having these contrary
properties without resorting to the two intellect model. This is because
intellection is not a transient action (like hitting a ball), requiring an
active subject distinct from a passive recipient; rather, it is an immanent
action (like shining). James' solution, in other words, was to conceive of the
intellect (as indeed the will) as essentially dynamic, as an “incomplete
actuality”, its own formal cause, spontaneously tending toward its completion,
much in the way seminal reasons tend toward their completing forms—indeed both
discussions drew their inspiration from the same source: Simplicius' commentary
on Aristotle's analysis of the second species of quality. The intellect was
described as a general (innate) propensity made up of a series of more specific
(equally innate) propensities, the number of which was a function of the number
of different things the intellect is able to know: “The intellective power is a
general propensity with respect to all intelligibles, that is, with respect to
the actual conforming to all intelligibles. On this general propensity are
founded other specific ones, which follow the diversity of intelligibles” (Quodl. VII,
q. 7, p. 93, 453–55). Of course, as James readily acknowledged, although the
intellect is its own formal cause, it cannot issue forth an act of intellection
without some input from the senses. However, the type of causality the senses
were viewed as exercising was deemed to be purely “excitatory” or “inclinatory”
(Quodl. I, q. 12, p. 175, 613–16), making the senses not the
principal but rather an instrumental cause of intellection. In all, three
causes account for the operation of the intellect, according to James: 1) God
as efficient cause; 2) the soul and its propensities as formal cause, and 3)
the object presented by the senses as “excitatory” cause. Although, as we have just
seen, James rejected the distinction between the agent and possible intellects,
there was another, equally widely-held distinction in the area of psychology
that he did maintain, namely the distinction between the soul and its
powers.For the purposes of this article, it will suffice to think of the debate
regarding the relation of the soul to its powers as being motivated at least in
part by the need to provide a coherent understanding of the soul's structure
and operations in view of two inconsistent but equally authoritative accounts
of the soul's relation to its powers. One was that of Augustine, who had
asserted that memory, intelligence, and will (i.e., three powers) were one in
substance (De trinitate X, 11), and so believed that the soul was
identical with its powers; the other was Aristotle's, who clearly believed in a
certain distinction, and whose remarks about natural capacities (dunameis)
as belonging to the second species of quality, in Categories c.
8,14–27, and hence to the category of accident, making them distinct from the
soul's essence, were commonly applied by the scholastics to the soul's powers.
Each view, of course, had its supporters; and, naturally, as was so often the
case, attempts were made to find a middle way that would accommodate both
positions. During James' tenure as Master at the University of Paris, the
majority view was very much that there was a real distinction. It was the view
held by many of the scholastics whose teachings he studied most carefully,
namely Aquinas, Giles of Rome, and Godfrey of Fontaines. There was, however, a
commonly discussed minority position, one that eschewed both real distinction
and identity: that of Henry of Ghent. Henry believed that the powers of the
soul were “intentionally”, not really, distinct from its essence. James,
however, sided with Thomas, Giles, and Godfrey, against Henry (Quodl. II,
q. 14, p. 160, 70–71; Quodl. III, q. 5, p. 83, 56—84, 63).
His reasoning was as follows. Given that everyone agreed that there was a real
distinction between the soul and one of its powers in act (between the soul and,
e.g., an occurrent act of willing), then if one denied that there was a real
distinction between the soul and its powers, as Henry had, one would be
committed to the existence of a real distinction between the power in act
(e.g., an occurrent act of willing) and that same power in potency (that is,
the will, qua power, as able to produce that act), since the power in act is
really the same as the soul. But as we saw in the preceding section, something
in potency is not really distinct from that same thing in act. This followed
from James' reading of Simplicius' account of qualities in the latter's
commentary on Aristotle's Categories. For instance, seminal
reasons are not really distinct from the fully-fledged forms that proceed from
them, nor are intellective “propensities” really distinct from the fully
actualized cognized forms. Hence, James concluded, the powers must be really distinct from the soul's essence. The question of the will's
freedom was of paramount importance to the scholastics. Unlike modern thinkers,
for whom establishing that the will is free is tantamount to showing that its
act falls outside the natural nexus of cause and effect, showing that the will
is free, for medieval thinkers, usually involved showing that its act is
independent of the apprehension and judgment of the intellect.
Although the scholastics generally granted that a voluntary act results from
the interplay between will and intellect, most of them preferred to single out
one of the two faculties as the principal determinant of free choice. Thus, for
Henry of Ghent, the will is the sole cause of its free act (Quodl. I,
q. 17), so much so that he tends to relegate the intellect's role to that of a
sine qua non cause. For Godfrey of Fontaines, by contrast, it is the intellect
that exercises the decisive motion (Quodl. III, q. 16). Although James
of Viterbo sometimes claims to want to steer a middle course between Henry and
Godfrey (Quodl. II, q. 7), his preferences clearly lie with a position
like that of Henry's, as can be gathered from his most detailed treatment of
the question in Quodl. I, q. 7. James' thesis in Quodl. I, q. 7 is that the will
is a self-mover and that the object grasped by the intellect moves the will
only metaphorically. His main challenge is to show is that this position is
compatible with the Aristotelian principle that whatever is moved is moved by
another. As we
saw in the previous section, James believes that the soul is made up of what he
calls “aptitudes” or “propensities” (idoneitates), which are the
similitudes of all things knowable and desirable, “before [the soul] actually
knows or desires them” (Quodl. I, q. 7, p. 91, 407 – p. 92, 408). The
pre-existence of such aptitudes implies that the soul is neither a purely
passive potency nor made up of fully actualized forms, but rather an
“incomplete actuality” or, perhaps more correctly, a set of “incomplete
actualities,” which James describes as being “naturally inserted in [the soul],
and thus, remaining in it permanently, though sometimes in an imperfect state,
sometimes in a state perfected by the act” (Quodl. I, q. 7, p. 92,
419–24). In
order to show how this view of the soul is compatible with Aristotle's
postulate that every motion requires a mover distinct from the thing moved,
James introduces a distinction between two sorts of motion: efficient and
formal. Efficient motion occurs when motion is caused by a thing that possesses
the complete form of the particular motion caused; formal motion occurs when
the moving thing has the incomplete form of the thing moved. Heating is given
as an example of the first kind of motion; “gravity” or rather heaviness, i.e.,
the tendency of heavy bodies to fall, is cited as an example of the second kind
of motion. Aristotle's principle applies only to the first kind of motion,
James asserts, not the second. Things which possess an incomplete form
naturally—i.e., in and of themselves without an external mover—tend to their
completion and are prevented from reaching it only by the presence of an
external obstacle. For instance, a heavy object naturally tends to move
downward and will do so unless it is hindered. Such, mutatis mutandis,
is the case of the soul and especially of the will: the will as an incomplete
actuality naturally tends to its completion; in that sense, that is, formally
but not efficiently, it is self-moved. The difference between it and the heavy
object is that whereas the object moves upon the removal of
an obstacle, the will requires the presence of an object; it
requires, in other words, the intervention of the intellect in order to direct
it to a particular object. However, once again, the intellect's action is
viewed by James as being merely metaphorical, that is, extrinsic to the will's proper operation. Like
Albert the Great and Thomas Aquinas, James of Viterbo holds that the moral
virtues, considered as habits, i.e., virtuous dispositions or acts, are
connected. In other words, he believes that one cannot have one of the virtues
without having the others as well. The virtues he has in mind are what he calls
the “purely” moral virtues, that is, courage, justice, and temperance, which he
distinguishes from prudence, which is a partly moral, partly intellectual
virtue. In his discussion in Quodl. II, q. 17 James begins by
granting that the question is difficult and proceeds to expound Aristotle's
solution, which he will ultimately adopt. As James sees it, Aristotle proves
in Nicomachean Ethics VI the connection of the purely moral
virtues by showing their necessary relation to prudence, and this is to show
that just as moral virtue cannot be had without prudence, prudence cannot be
had without moral virtue. The connection of the purely moral virtues follows
from this: they are necessarily connected because (1) each is connected to
prudence and (2) prudence is connected to the virtues (Quodl. II, q. 17, p. 187, 436 – p. 188, 441). Since
the time of Augustine, theologians had agreed that man needs the gift of grace
in order to love God more than himself, and that he cannot do so by natural
means. However, in the early thirteenth century, theologians raised the
question of whether, at least in his pre-lapsarian state, man did not love God
more than himself. That this was in fact the case was the belief of Philip the
Chancellor as well as Thomas Aquinas. Other authors, such as Godfrey of
Fontaines and Giles of Rome, argued further that to deny man the natural
capacity to love God more than himself, while allowing this to happen as a
result of grace, was to imply that the operations of grace went counter to the
those of nature, which was contrary to the universally accepted axiom that
grace perfects nature and does not destroy it. By contrast, James of Viterbo
famously argues in Quodl. II, q. 2, against the overwhelming
consensus of theologians, that man naturally loves himself more than God. He
has two arguments to show this (see Osborne 1999 and 2005 for a detailed
commentary). The first is based on the principle that the mode of natural love
is commensurate with the mode of being and, hence, of the mode of being one.
Now a thing is one with itself by virtue of numerical identity, but it is one
with something else by virtue of a certain conformity. For instance Socrates is
one with himself by virtue of his being Socrates, but he is one with Plato by
virtue of the fact that both share the same form. But the being something has
by virtue of numerical identity is “greater” than the being it has by reason of
something it shares with another. And given that the species of natural love
follows the mode of being, it follows that it is more perfect to love oneself
than to love another (Quodl. II, q. 20, p. 206, 148 – p. 149, 165).
The second argument attempts to infer the desired thesis from the universally
accepted premise that “the love of charity elevates nature” (Quodl. II,
q. 20, p. 207, 166–67). This is true both of the love of desire and the love of
friendship. In the case of love of desire, grace elevates by acting on the
character of love: by natural love of desire we love God as the universal good.
Through grace God is loved as the beatifying good. Regarding love of
friendship, James explains that God's charity can only elevate nature with
respect to its “mode,” that is, with respect to the object loved, by making
God, not the self, the object of love. In other words, James is telling us that
if we are to take seriously the claim that grace elevates nature, there is only
one way in which this can occur, namely by making God, not the self, the object
of greatest love, which implies that in his natural state man loves himself
more than God. James'
opposition to the consensus position on the issue of the love of self vs. the
love of God would not go unnoticed. In the years following his death, such
authors as Durand of Saint-Pourçain and John of Naples criticized him
vigorously and attempted to refute
his position (Jeschke 2009). Although
James touches briefly on political issues in Quodl. I, q. 17 (see
Côté, 2012), his most extensive discussions occur in his celebrated De
regimine christiano (On Christian Government), written in
1302 during the bitter conflict pitting Boniface VIII against the king of
France Philip IV (the Fair). De regimine christiano is often
compared in aim and content with Giles of Rome's De ecclesiastica
potestate (On Ecclesiastical Power), which offers one of the
most extreme statements of pontifical supremacy in the thirteenth century;
indeed, in the words of De regimine's editor, James' goal is “to
formulate a theory of papal monarchy that is every bit as imposing and
ambitious as that of [Giles]” (De regimine christiano: xxxiv).
However, as scholars have also recognized, James shows a greater sensitivity to
the distinction between nature and grace than Giles (Arquillière 1926). De
regimine christiano is divided into two parts. The first, dealing
with the theory of the Church, is of little philosophical interest, save for
James' enlisting of Aristotle to show that all human communities, including the
Church, are rooted in the “natural inclination of mankind.” The second and
longest part is devoted to defining the nature and extent of Christ's and the
pope's power. One of James' most characteristic doctrines is found in Book II,
chapter 7, where he turns to the question of whether temporal power must be
“instituted” by spiritual power, in other words, whether it derives its
legitimacy from the spiritual, or possesses a legitimacy of its own. James
states outright that spiritual power does institute temporal power, but notes
that there have been two views in this regard. Some, e. g., the proponents of
the so-called “dualist” position such as John Quidort of Paris, hold that the
temporal power derives directly from God and thus in no way needs to be
instituted by the spiritual, while others, such as Giles of Rome in De
ecclesiastica potestate, contend that the temporal derives wholly from the
spiritual and is devoid of any legitimacy whatsoever “unless it is united with
spiritual power in the same person or instituted by the spiritual power” (De
regimine christiano: 211).
James is dissatisfied with both positions and, as he so often
does, endeavors to find a “middle way” between them. His solution is to say
that the “being” of the temporal power's institution comes both from God—by way
of man's natural inclination—in “a material and incomplete sense,” and from the
spiritual power by which it is “perfected and formed.” This is a very clever
solution. On the one hand, by rooting the temporal power in man's natural
inclination, albeit in the imperfect sense just mentioned, James was
acknowledging the legitimacy of temporal rule independently of its connection
to the spiritual, thus “avoid[ing] the extreme and implausible view of [Giles
of Rome]” (Dyson 2009: xxix). On the other hand, making the natural origins of
temporal power merely the incomplete matter of its being was a way of stressing
its subordination and inferiority to the spiritual order, in keeping with his
papalist convictions. Still, James' very choice of analogies to illustrate the
relationship between the spiritual and temporal realms showed that his solution
lay much closer to the theocratic position espoused by Giles of Rome than his
efforts to find a “middle way” would have us believe. Thus, comparing the
spiritual power's relation to the temporal in terms of the relation of light to
color, he explains that although “color has something of the nature of light,
(…) it has such a feeble light that, unless there is present a more excellent
light by which it may be formed, not in its own nature but in its power, it
cannot move the vision” (De regimine christiano: 211). In other words,
James is telling us that although temporal power does originate in man's
natural inclinations, it is ineffectual qua power unless it is informed by the
spiritual. Bibliography
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Vertreter und Philosophisch-Theologische Lehre,”Analecta Augustiniana, 27:
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aureola segno naturale della santita.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capocci” – The Swimming-Pool Library.
Capodilista (Battaglia Terme). Grice:
“I like Capodilista – good vintage (literally)! – Capodilista is difficult to
comprehend, but when I was struggling to find examples of implicatura due to
exploiting ‘be perspicuous,’ he was whom I was thinking! Keywords in his
philosophy are ‘il non-detto,’ ‘homos eroticus’ – filosofia dell’espressione –
metafisica – equilibrio apolineo-dionisiaco, positive-negativo –“ “Un pensiero perfetto in sé non esiste; un
pensiero è perfetto solo nella serie innumerabile dei pensieri che nascono da
esso.» (Quaderni). Appartenente ad una
famiglia veneziana di nobili origini, nacque nella villa di famiglia da Angelo
Emo e da Emilia dei baroni Barracco. Studia a Roma sotto Gentile. Le sue riflessioni
sul nihilismo sono un'anticipazione della filosofia di Heidegger. Debitore dell'attualismo gentiliano. Partendo
da questo, giunse a trasformarlo in una filosofia dove l'atto è la re-figurazione
dell'auto-negazione del nulla che comunque conserva una sua funzione positiva
così come nela religione romana la morte del corpo ha la funzione di salvezza
nella redenzione dello spirito (animo). La forma superiore dello spirito
intristisce e cerca invano di uscire da sé per trovare qualcosa che lo salvi. Un'istanza
di salvezza che trova senso nella religione romana. Dio espia la sua
universalità. Distrugge ogni valore e il proprio, sì che lo sparire, il
nascondersi di Dio nella sua espiazione non è altro che la nuova creazione dei
valori, e così il ciclo ricomincia. Dio si abolisce col suo stesso realizzarsi.
Un altro punto fondamentale di sua filosofia è la figura centrale
dell’intersoggetivita., del rapporto concreto particoare, particolarizato, inter-personale
contrapposto all’astrazioni di una collettività IMpersonale generalizato (universalita,
universabilita, generalita formale, generalita applicazionale, generalita di
contenuto --, sia quella esaltata da uno stato etico (la communita, la
popolazione, la societa). Una diada conversazionale non può essere un dato. Una
diada conversazionale può essere solo un rapposro inter-soggettivo, cioè due
resurrezioni. Il filosofo è assillato da questo fondamentale problema. Il
problema è questo: di quali fedi si nutre e sussiste il mondo? Quale è la fede
autentica che lo sostiene nella vita che gli dà la forza dell'attività e la convinzione
di partecipare con la sua vita (o la sua azione o il suo essere) alla immortalità,
cioè all'assoluto? La diada conversazionale ha bisogno dell'assoluto (l’universabilita)
e pertanto il suo problema è questa partecipazione all'assoluto. Come raggiungerà
l'assoluto le due uomini – le due maschi -- della diada conversazionale? Quale
sarà la sua fede laica? Non certo quella collettivistica-sociale che ha fatto
uso della violenza, la forza, e la autorita illegitima, e ha fallito ma neppure
quella etrusca che ha compresso la libertà di coscienza. I etruschi sono nati sotto il segno dello
scandalo. Ma il sacro si è allontanato dalla sua scandalosa azione
originaria. Perché in ogni fede vi è
qualcosa di scandaloso e di vergognoso? Perché vi è qualcosa di vergognoso
nella verità e nella vita stessa? Forse l'elemento vergognoso è
l'intersoggetivita pura attorno a cui verte la fede e che si crea con la sua
negazione. L’intersoggetività è sempre nuda e la nudità è scandalosa. I vestiti
sono l'uniforme innecessari della società. Invano due maschi credono di
distinguersi con le vesti; e credono che le due nudità sia uniformità. Le vesti
sono il riconoscimento della società, del sociale. Ma le vesti sarebbero nulla
se non fossero animate dalla vita intersoggetiva di due nudità. Le veste sono
orgogliose delle due nudità che socializzanoa. È quindi con la libertà
degl’entrambi della diada, con le due nudità, con il rifiuto di ogni veste di
uniformità, IM-personalita, ed obbedienza all'autorità ad una dottrina o scuola
di mistica pitagorica collettivizzante, che la diada recupera la sua essenza
duale intersoggetiva interpersonale particolarizata che si fonda sull'amore -- alta
espressione del "singolare duale".
Altre opere: “Il dio negative” (Marsilio, Venezia); “La voce d’Apollo
musogete: arte e religione nella Roma antica” (Marsilio, Venezia); “Supremazia
e maledizione” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Il mono-teismo demo-cratico”
(Mondadori, Milano); “Metafisica” (Bompiani, Milano); Il silenzio (Gallucci, Roma);
“La meraviglia del nulla” Dizionario Biografico degli Italiani. Le parole che si riferiscono a dei valori, si svalutano
progressivamente come le monete, come, appunto, i valori. Quando
pensiamo troppo profondamente, perdiamo l’uso della parola. La parola si può
“usare”, cioè profanare, quando non se ne comprende il significato. Se
comprendessimo il significato delle parole, non usciremmo mai più dal silenzio.
La conversazione è pericolosa per un’idea, per uno spirito, per una
verità che non resiste alla lieve immediatezza (e cioè rapidità) che è l’anima
irriducibile di una conversazione e di una comunicazione tra viventi (e che
altro è l’arte?). E così l’idea è pericolosa per una conversazione.
Conversazione (espressione, comunicazione ecc.) e idea tentano continuamente di
sopraffarsi. Appunto perché l’una non può vivere senza l’altra. È lecito
ad un artista prendere sul serio ciò che scrive? Non decade dalla sua qualità
di artista e di creatore per divenire soltanto un credente? Il torto dei romantici
è stato principalmente quello di prendersi sul serio; i più antichi scrittori
prendevano sul serio il loro argomento, ma sempre conservandosi estranei ad
esso; senza considerare la loro soggettività di creatori come l’oggetto stesso
della loro creazione. I romantici invece prendevano sul serio se stessi, e ciò
li rendeva ridicoli, perché ovviamente non potevano più mantenersi al di sopra
del loro argomento. Si dovette, pertanto, da Baudelaire in poi, ricorrere ad
una forma di ironia. Ciò che distingue la sfera (moderna) del sacro è la
mancanza di ironia; eppure può anche darsi che l’universo che abitiamo sia una
forma dell’ironia divina, manifestatasi come creazione. Nella sfera antica del
sacro, gli Dei di Democrito e di Epicuro ridevano negli intermundi. La sfera
della sacralità antica si differenzia dalla sfera della sacralità moderna
appunto perché gli antichi Dei, grazia alla loro pluralità, conoscendosi l’un
l’altro, ridevano. Un’ilarità che non si addice a un Dio unico e solitario, ma
che potrebbe, se l’Unico non fosse troppo preso da se stesso e dalla sua
onnipotenza, tradursi nel termine più moderno di ironia. A noi uomini accade
appunto di osservare che l’ironia è il solo modo di distaccarci dalla nostra
onnipotenza, di uscire all’esterno della nostra assolutezza. Le opere
d’arte, come tutte le immagini, sono in realtà dei ricordi. Sono la memoria.
Noi amiamo un’opera d’arte perché essa è la nostra memoria che si risveglia,
che riprende possesso di noi, e del suo universo, cioè di tutto. La memoria
talvolta dimentica; ed essa ricorda quando dimentica. La forma letteraria
in cui meglio ci si può esprimere è appunto la lettera (l’epistola). Perché
l’altro è sempre presenta mentre scriviamo e abbiamo la facoltà di creare il
destinatario. Abbiamo la facoltà di creare un pubblico come destinatario? Se
non avessimo la facoltà di creare un destinatario, individuale e universale,
non scriveremmo mai. Forse non penseremmo neppure. Nessuno scrive per sé.
L’immagine e la rappresentazione, che dovrebbero essere la fedeltà
assoluta delle cose rappresentate, sono allora infedeltà altrettanto assoluta,
diversità radicale dal rappresentato? Il rappresentato in quanto oggetto è per
definizione diversità assoluta dal soggetto; come allora, con quale sintesi si
può superare questo iato? In quanto differenza dal soggetto, l’oggetto ne è la
negazione, la pura negazione; e questa negazione, in quanto puramente essa
stessa, è soggetto essa medesima, cioè è il soggetto che si nega; è l’atto del
soggetto, in quanto questo atto è l’atto del negarsi. Quindi noi siamo la
rappresentazione, siamo l’atto in cui tutte le cose sono e vivono, cioè
l’attualità, in quanto siamo autonegazione. La negatività è l’universalità
dell’atto. (Q. 331, 1970) L’eco è la voce del nulla, la parola del nulla,
appunto perché è esattamente la nostra voce e la nostra parola, obiettivata,
ripetuta. L’obiettività è la ripetizione del soggetto che non può mai
ripetersi? (Q. 336, 1970) Tutto ciò che pensiamo o scriviamo è nell’atto
stesso una metamorfosi. Il nostro pensiero non ha altro oggetto che il proprio
nulla. (Q. 336, 1970) L’arte dello scrivere è l’arte di far dire alle
parole tutte le trasmutazioni che esse contengono e sono – tutta la loro
attuale diversità, tutta la negazione che esse sono quando si affermano, e
tutta l’affermazione che viene espressa dalla negazione. Mediante la loro
trasmutazione, che è l’affermarsi dell’attualità di una negazione (cioè
dell’attualità dell’atto che si riconosce come negativo), le parole finiscono
per creare un organismo, un organismo di parole, cioè la frase: L’organismo
della frase e del verbo che trasforma la negatività della parola in un atto. La
parola è la diversità dell’atto. Negarsi e attualità, negarsi e trascendenza e
diversità, sono sempre, e sempre attualmente congiunti; perciò la parola
contiene il seme della frase, del discorso. (Q. 340, 1971) Forse il
nostro nome è soltanto uno pseudonimo; forse anche i nomi delle cose sono
pseudonimi. Ma qual è il vero nome? È più probabile che le cose come crediamo
di vederle siano soltanto gli pseudonimi di un nome; e noi stessi e il nostro
essere siamo pseudonimi; di un nome che forse non conosceremo mai e che appunto
per questo ha una realtà suprema. Una realtà unica. Una sintesi invisibile di
realtà e verità. Una realtà che la conoscenza (la scienza) non può dissolvere,
analizzare. (Q. 244, 1971) Gli scritti di aforismi o di idee
frammentarie, di epigrammi o di formule, sono i modi di esprimere l’assoluto, o
qualche assoluto, qualche verità in forma breve. Ma ognuno di questi frammenti
vuole essere l’espressione dell’assoluto, e quindi non può essere frammentario.
Frammenti e parti che sono relative all’assoluto, senza esserlo, si trovano
nelle opere di una certa ampiezza, ampie come la vita. La vita, essendo
universale, può essere plurale. (Q. 347, 1972) Il Mangiaparole rivista n.
1Il Mangiaparole 6 Mario Gabriele Lo scrivere è una forma silenziosa
(fonicamente) del parlare; ma è un parlare che ha il singolare privilegio di
non essere interrotto, se non dalla propria coscienza; la coscienza è la madre,
l’origine del discorso, ma è anche la coscienza che fa al discorso, cioè a se
stessa, le continue obiezioni. La coscienza è il maggiore obiettore di
coscienza. La coscienza parla per affermarsi o per smentire? (Q. 347,
1972) La nostra scrittura è geroglifica come la nostra parola, che non
coincide con ciò che vuole esprimere, ma soltanto vi allude simbolicamente;
allude a qualcosa di originariamente noto od originariamente ignoto. A qualcosa
di diverso. La parola stessa è originariamente diversità. La Parola è diversità
da se stessa e perciò coincide con la diversità dell’atto, con la diversità
originaria che vuole esprimere? Questa coincidenza era l’ideale, lo scopo, la
fede dell’età dell’autocoscienza. L’età dell’autocoscienza e la tirannia; vi è
sempre un quid al di là dell’espressione, senza questo quid l’espressione non
sarebbe una metamorfosi. La metamorfosi vuole esprimere se stessa con la
negazione; noi alludiamo alla diversità con la negazione, con la identificazione.
(Q. 355, 1973) …Noi siamo la verità; è proprio per questo che ci è
impossibile conoscerla. la conosciamo quando diventa altro da noi. La
conoscenza, l’espressione, la stessa memoria creano l’anteriorità della verità
e della sua attualità. Se la verità è un Eden, noi possiamo conoscerla solo
quando ne siamo fuori, quando ne siamo espulsi ed esiliati. (Q. 359,
1973) L’arte dello scrittore consiste nel creare una complicità nel
lettore; e di quale colpa diviene complice il lettore? Non lo si è mai saputo.
Esistono innumerevoli sistemi di estetica e di spiegazioni complesse e fallaci
di un atto che è la semplicità originaria. Una complicità del lettore con
l’autore. Il delitto (e il diletto) perfetto. (Q. 370, 1975) Soltanto
l’inesprimibile è degno di un’espressione… (Q. 372, 1975) La parola è un
irrazionale ed è strano che essa esista in un mondo razionale e quantitativo;
nel mondo dell’identità. la razionalità è soltanto nel numero; la Parola è
divina, anzi la scrittura ha identificato la Parola (il verbo) e la divinità;
per gli antichi il numero aveva significati simbolici, cioè spirituali. Oggi il
numero privato di ogni significato è identificato dalla sua «posizione» (nello
spazio è o sarà il vero successore della parola – ma troverà in se stesso una
nuova irrazionalità?) Il numero è la massima razionalità e insieme la massima
irrazionalità come serie infinita; non possiamo vivere senza irrazionalità,
appunto perché la vita è essa stessa irrazionalità; il numero può vivere? (Q.
372, 1975) … Noi parliamo, noi scriviamo, senza ricordarci la suprema
scadenza del silenzio… (Q. 372, 1975) L’espressione più perfetta è quella
che crea l’inesprimibile… (Q. 381, 1977) Parola L’aforisma e
l’ironia sono una professione di scetticismo nei confronti della poesia.
L’aforisma è la definizione, l’analisi, la spiegazione, la risoluzione in
termini umani della lirica; l’ironia è la scoperta dei suoi motivi non lirici:
uno sguardo dietro le quinte… (Q. 9, 1921) Come esprimerò io il mio
pensiero, la mia vita, la mia esperienza? Questa dovrebbe essere
l’interrogazione da ogni uomo posta a se stesso. Vero è però che in genere
l’inesprimibile è ciò che per noi ha più valore e importanza; quello verso cui
ci sentiamo più attirati; quello per cui sentiamo come un’antica, istintiva e
simpatica affinità e parentela… (Q. 9, 1929) La quantità di parole
inutili che uno scrittore inserisce nel suo scritto è inversamente
proporzionale all’importanza dello scrittore stesso. Vi sono scritti in cui
nessuna, o quasi, parola può essere tolta senza grave danno per l’opera e per
noi; altri in cui si possono togliere tutte… (Q. 14, 1932). Andrea
Emo Capodilista. Emo Capodilista. Keywords: I taccuini del barone Capodilista,
il taccuino del barone Capodilista. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Capodilista” – The Swimming-Pool Library.
Capograssi (Sulmona).
Grice: “I love Capograssi; at Oxford we’d call him a lawyer, but the Italians
call him a philosopher! My favourite of his tracts is his attempts – linked as he
was to the Napoli area – Vico relevant! Oddly, he stresses the ‘Catholic,’ or
RC, as we say at Oxford, rather than the heathen, pagan, side, of this
illustrious philosopher who Strawson – as along indeed with Speranza -- think
as the greatest Italian philosopher that ever lived – I mean, what can be more
Italian than Vico?!” Si occupa principalmente di filosofia del diritto. Fu
membro della Corte costituzionale. Da un'antica famiglia nobile che vi si
era trasferita da un comune della provincia di Salerno nel 1319, a seguito del
vescovo Andrea. Si laurea a Roma con “Lo stato e la storia", in cui già
affiorano le problematiche connesse alle interrelazioni fra individuo, società
e stato: problematiche che impegneranno tutta la sua filosofia. Insegna a
Sassari, Macerata, Padova, Roma, e Napoli.Nel luglio del 1943 prese parte ai
lavori che portarono alla redazione del Codice di Camaldoli. La sua
filosofia si centra nell’esperienza giuridica ed è rivolta alla
centralizzazione della volontà del soggetto agente, che si imprime nell'azione
stessa, vera fonte di espressione giuridica e di vita. La filosofia dovrebbe
quindi occuparsi della vita e dell'azione, avendo a centro della sua
speculazione la "persona". Il suo pensiero si ricollega al
personalismo. Il ponere al centro della sua filosofia il rapporto essenziale
che intercorre fra il diritto inteso come esigenza giuridica e la vita consente
alla filosofia del diritto di superare il campo della tecnica giuridica per
pervenire ad una visione organica e totale del reale, cioè a Dio. Fede e
scienza; Lo Stato; Riflessioni sull'autorità; democrazia diretta; Analisi dell'esperienza
comune; L’esperienza giuridica; La vita etica; Il problema della scienza del
diritto); Incertezze sull'individuo, Milano, Giuffrè). “Pensieri” sono alcuni scritti vergati su
foglietti e conseglla. Nei Pensieri, poi raccolti e pubblicati, si colgono i
momenti salienti della sua filosofia. La teoria dei valori. Il
personalismo. Il positivismo giurdico in
Italia. Decentramento e autonomie nel pensiero politico europeo. I sentieri dell'uomo comune. Dizionario
biografico degli italiani. Kelsen
avrebbe, invece, potuto utilizzare la stessa idea di una Norma Fondamentale
come un principio etico-politico costituente. Anzi, proprio perché essa è tale,
non si identifica con la pura fatticità della Forza, come, invece, pensa
Capograssi. Ed è rivendicando la funzione costituente della Norma Fondamentale
che Bobbio può osservare: Il Capograssi sostiene che tutta la costruzione
kelseniana è così solida solo perché poggia su alcuni presupposti, e che questi
presupposti non sono soltanto delle ipotesi di lavoro utili alla ricerca, ma si
fondano su una vera e propria concezione della realtà. E che questa concezione
è che il diritto è forza (N. BOBBIO, La teoria pura del diritto ecc., cit., p.
24. Per la posizione di Capograssi si veda: Impressioni su Kelsen tradotto, in
«Rivista trimestrale di diritto pubblico», (1952), 4, pp. 767-810, poi in ID.,
Opere, vol. V, Giuffrè, Milano). Le argomentazioni di Capograssi, secondo
Bobbio, rinviano a una concezione giusnaturalistica del diritto che confonde
«il criterio di validità e il criterio di giustificazione del diritto», e
aggiunge che il Kelsen si limita a dire che il diritto esiste
(indipendentemente dal fatto che sia giusto o ingiusto) solo quando la norma,
oltre che valida, è anche efficace (il cosiddetto principio di effettività).
Non si potrebbe mai trarre dalla concezione kelseniana il principio che il
diritto è giusto in quanto è comandato, perché da nessun passo del Kelsen si
può trarre la conclusione che il diritto, il quale esiste in quanto è comandato
(e fatto valere colla forza), sia anche giusto53. Dunque, l’insoddisfazione di
Bobbio per la soluzione kelseniana nasce dal fatto che il giurista viennese lascia
aperto il problema del che cosa fondi e legittimi il sistema normativo e
l’ordinamento giuridico, con la 50 N. BOBBIO, La teoria pura del diritto e i
suoi critici, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», (1954), 8
pp. 356-377, poi ristampato in ID., Studi sulla teoria generale del diritto,
Giappichelli, Torino 1955, pp. 75-107. Il saggio è ora in ID., Diritto e
potere, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1992. Utilizzo quest’ultima
edizione. La citazione è alla p. 39. 51 Cfr. N. BOBBIO, MaxWeber e Hans Kelsen,
«Sociologia del diritto», (1981) 8, pp. 135- 154, ora in ID., Diritto e potere,
cit., pp. 159-177. 52 N. BOBBIO, La teoria pura del diritto ecc., cit., p. 24.
Per la posizione di Capograssi si veda: Impressioni su Kelsen tradotto, in
«Rivista trimestrale di diritto pubblico», (1952), 4, pp. 767-810, poi in ID.,
Opere, vol. V, Giuffrè, Milano 1959, pp. 311-356. 53 N. BOBBIO, La teoria pura
del diritto, cit., pp. 25-26. 88 ADELINA BISIGNANI conseguenza che la stessa
funzione costituente della Norma Fondamentale non viene esplicitata. L’esigenza
di superare i limiti teorici di Kelsen non comporta, però, il recupero del
giusnaturalismo come ideologia (come idea di una fondazione del diritto su
valori assoluti e trascendenti), ma sollecita il pieno recupero di quelle
ragioni etiche e sociali che, dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale
e dopo l’olocausto, si erano manifestate come una “rinascita del
giusnaturalismo”54. Per queste ragioni Bobbio non si lascerà mai tentare
dal ridurre lo Stato al suo ordinamento giuridico; a quello Stato-Forza che
Capograssi rinfaccia a Kelsen. REFS.: Impressioni su Kelsen. CAPOGRASSI,
KELSEN E IL NICHILISMO GIURIDICO. ASPETTI DELLA CRISI DELLA SCIENZA GIURIDICA. Le
“Impressioni su Kelsen tradotto” come critica all’astratto formalismo giuridico
kelseniano e alla teoria del diritto come “forza e forma”. La “pars destruens”
di Capograssi. Capograssi scrisse le “impressioni su Kelsen tradotto” poco dopo
la traduzione della teoria generale del diritto e dello stato da Cotta e
Treves, edita dalle Edizioni di Comunità. Si tratta di un saggio denso, in cui
la prosa capograssiana e la sua cifra stilistica è mossa, libera, sinuosa,
andante come sempre, ma particolarmente severa, austera, critica, propositiva,
concettualizzante, come dappresso noteremo, sia nella “pars destruens” che nella
“pars costruens” del saggio. La pars destruens è chiara e persuasiva. La
dottrina kelseniana dello stato e del diritto si pone fuori i reali problemi
della scienza giuridica ed una prima immediata impressione ha il lettore, e
deve subito dirla, una impressione singolare di riposo. Sarebbe così bello se
uno potesse accettare questo pensiero. Come si capisce il successo che ebbe
quando nacque, in un’epoca e in un mondo, che ci è ormai così lontano e che era
così facile ad accogliere ogni genere di illusioni. Qui non ci sono più
problemi. Come per un’operazione di magia i problemi sono spariti. Non ci sono
più disordini, incertezze, incoerenze, nel pensiero e nella realtà. Ogni cosa è
sistemata ordinata disegnata in una specie di piano regolatore, che smista e
distribuisce tutto in compartimenti separati. Se uno potesse accettare. Con
tanto più impegno di attenzione il lettore è indotto a leggere. Il diritto come concepito e teorizzato dal
Kelsen è una scienza esangue. Lo notava pure Pigliaru, in “Persona umana ed ordinamento
giuridico” richiamando proprio in nota il pensiero capograssiano testè citato.
E’ un diritto scisso dall’essere e dalla storia, fondato su un’astratta idea di
dovere contrapposta all’essere, entro una rigida separazione, che Kelsen svolge
nell’opera surriferita, ma anche in altri scritti, tra natura (essere) e
spirito (devere). Si tratta di un’idea di scienza giuridica totalmente formale,
fondata sulla norma giuridica, monade, essenza, fondamento del sistema kelseniano.
Il diritto è un ordinamento coercitivo basato sulla validità, cioè la forza
vincolante e sull’efficacia cioè l’effettiva applicazione delle norme
giuridiche. L’ordinamento giuridico è un sistema di norme connesse fra loro in
base al principio che il diritto regola la propria creazione. Lo stato, il
potere dello stato, i tre poteri dello stato, gli elementi dello stato, sono
soltanto stadi diversi nella creazione dell’ordinamento giuridico. Così come,
in questa intelaiatura teoretica, per Kelsen quelle che per lui sono le due fondamentali
forme di governo, democrazia ed autocrazia, sono modi diversi di creare
l’ordinamento giuridico. Lo stato, entro una simile ed asfittica concezione, è
un ordinamento giuridico espressione di norme giuridiche valide ed efficaci,
collocate in un sistema giuridico gerarchico, in cui ogni norma trae il
fondamento della sua validità dalla norma gerarchicamente superiore e la stessa
costituzione è ridotta a norma sulla normazione, sulle procedure di formazione
della legge. Capograssi nota opportunamente che lo stato è, altresì, un ordinamento
relativamente accentrato, a differenza dell’ordinamento internazionale più
decentrato. Un ordinamento che produce diritto e da cui deriva la
giurisprudenza normativa, che coincide con un sistema di norme valide, che è
l’unico sistema che deve riguardare l’indagine del filosofo della
giurisprudenza. Capograssi osserva, inoltre, che in Kelsen il diritto in senso
sociologico che descrive l’effettivo comportamento umano che rappresenta il
fenomeno del diritto e cerca di predire l’attività degli organi creatori del
diritto e specialmente quella dei tribunali e lo stato in senso sociologico
riguardano la sfera dell’ efficacia del diritto, delle norme, e sono
condizionati dal diritto normative, così come quest’ultimo concerne la sfera
della validità delle norme e condiziona la scienza sociologica del diritto. Ma
scienza delle norme e scienza dei fatti sono scisse, ciascuna vive di vita
propria, sono parallele e non interferenti, sempre rigorosamente distinte ed
eterogenee. In questi due mondi così puri l’uno e l’altro, il filosofo si muove
con la libera facilità con cui l’uccello vola nell’aria. Di conseguenza, la
giurisprudenza normativa non si interseca mai con la giurisprudenza
sociologica, il diritto come tecnica della sanzione ed ordinamento coercitivo
può rivestire qualsiasi contenuto, in una concezione del dovere assolutamente
formale che non ha nemmeno per così dire il contenuto di sé stessa come dovere,
perché questo dovere non ha nulla del
dovere reale. E afferma altresì l’insigne autore, citando Bobbio e comparando
la teoria generale del Kelsen a quella di Carnelutti, che se la teoria generale
è teoria generale del diritto POSITIVO, sicuramente quella del Carnelutti, a
differenza di quella del Kelsen, è relativa alla vita stessa della realtà
giuridica, perché muove dalla nozione di diritto come composizione di conflitti
di interesse. La teoria generale del Kelsen è astratta e resta sulla superficie
della norma e della vita dell’esperienza giuridica comunale, perché il sistema
gerarchico di norme valide trae il suo fondamento da una norma non da un fatto,
da una norma fondamentale, una “Grundnorm”, presupposta ed ipotetica, ricavata
con procedimento interpretativo dal filosofo. Quest’ultima pone una data
autorità, non si fonda su nessuna norma, è valida» in virtù del suo contenuto e
non «perché è stata creata in un certo modo, al pari di una norma di diritto
naturale, a prescindere dalla sua validità puramente ipotetica, ed il suo
contenuto è il fatto storico particolare qualificato dalla norma fondamentale
come il primo fatto produttivo del diritto. La norma fondamentale cioè significa
in un certo senso, la trasformazione del potere in diritto. La perfetta
separazione della forma dal contenuto, la perfetta indifferenza della forma da
qualsiasi contenuto, che è la base di tutto questo sistema, non vale per la
norma fondamentale, che da validità a tutte le norme, che si caratterizzano
proprio perché il contenuto è per esse indifferente…perché è proprio il
contenuto a dare qui validità alla norma fondamentale»[23]. L’«identificazione
perfetta» tra diritto e Stato, inoltre, fondata sulla “Grundnorm” e
“l’esteriorità” del diritto, osserva il Nostro, deriva da una concezione del
diritto «come forza», come «diritto naturale della forza»[24]. E’sistema di
«norme sanzionatorie» che, formalmente, sono «un aliquid di stabile di fronte
al perpetuo oscillare della forza»[25], ma la cui validità è “emanazione” di
una “norma fondamentale”, la quale trae il proprio contenuto dall’ «evento di
forza che si è assicurato il potere vale a dire il diritto di riempire le forme
vuote delle norme».[26] Questo è il «residuo giusnaturalistico kelseniano»: il
«diritto naturale della forza» che fonda il diritto positivo statale. La prosa
capograssiana sul punto è vibrante, incisiva: «qui il diritto è forza
organizzata, cioè forza e forma; la forza sostiene e riempie la forma, la forma
riveste la forza»[27]. La “pars destruens” del saggio in esame giunge al suo
acme con una metafora corrosiva: «la rappresentazione del diritto che è in
questo libro…richiama la visione di quegli spettri di città e paesi, che i
bombardamenti avevano demolito in modo che erano rimasti in piedi muri e travi:
non c’era più nulla tranne quel tragico scheletro di case nude e vuote,
terribili sotto la luna», «ma che si sarebbe detto di uno di noi che avesse
preso quei “cadavera urbium” per città viventi, per le case dove gli uomini vivono?
Ci sarebbe stato errore pari a questo? E così accade per il diritto, come è
esposto in questo libro»[28]. Il diritto è, in definitiva, confuso dal Kelsen
per «eventi di forza», «dispositivi di sanzioni», «sistemi coercitivi». 2. – La
“pars costruens” capograssiana ed il richiamo al pensiero del Vico ed alla
concezione del “diritto come esperienza” La “pars costruens” dello scritto
oggetto delle presenti considerazioni richiama, con riferimenti sintetici ma
convincenti, il pensiero del Vico, sempre presente nella riflessione del
Capograssi, la storia e lo storicismo, la nozione di esperienza. Capograssi
indica come prioritaria la necessità «di non mutilare l’oggetto della scienza
del diritto, cioè l’esperienza», «riducendola tutta al cosiddetto valore o alla
cosiddetta forma o alla cosiddetta forza», alla «nuda forza» e alla «vuota
forma»[29]; la «necessità di vedere l’oggetto, cioè l’esperienza, nella sua
integralità vivente, nella sua natura, cioè vichianamente nel modo di nascere
perenne e quotidiano del diritto come vita e come esperienza, e quindi con
tutto quello per cui nasce, per cui si afferma, per cui si concreta in forme
concrete nella realtà»[30]. Al riguardo si accennano idee di grande importanza
che hanno più ampi sviluppi nell’opera principale del Nostro, “Il problema
della scienza del diritto”: la possibilità della conoscenza della realtà e del
diritto si compie «nella comune coscienza umana di colui che osserva e conosce
e di colui che opera nella realtà che è osservata e conosciuta. In quanto chi
osserva partecipa della stessa vita, degli stessi principi, delle stesse
esigenze di chi opera, è il segreto per cui chi osserva riesce a rendersi conto
di quello che fa colui che opera»[31]. Ne “Il problema della scienza del
diritto” si legge, infatti, ad esempio, che «con tutto il suo lavoro
l’intelletto riflesso che si pone come scienza viene faticosamente e lentamente
, perché fa il suo cammino momento per momento e tappa per tappa, scoprendo
quella che è l’idea viva del diritto, la viene scoprendo traverso tutte le
forme concrete e particolari dell’esperienza che essa forma»[32]. E «l’idea
viva del diritto» si forma come «parte essenziale dell’esperienza», «momento e
parte della vita stessa dell’esperienza» che «conosce sé stessa nella sua effettiva
e determinata puntualità e riesce a conservare la realtà di sé stessa nelle sue
molteplici e puntuali determinazioni»[33]. Capograssi, inoltre, soffermandosi
ulteriormente sull’opera del Kelsen richiama anche «la grande verità vichiana
che il mondo storico lo conosciamo perché lo facciamo…»[34]; richiama il
monito, proprio del Vico, di non «mettersi fuori dall’umanità…»[35]. E rileva
che «se uno si mette al mondo supponendolo già compiuto…e quindi estraneo
all’osservatore, necessariamente l’integralità dell’esperienza gli sfugge»[36].
In tal modo l’insigne autore coglie, dunque, il punto di maggiore fragilità
dell’impianto teorico del Kelsen, cioè la netta, irriducibile, incolmabile
separazione tra la “norma giuridica” e la “coscienza dell’individuo”, tra l’
“oggetto” ed il “soggetto”, tra la «norma estrinseca al soggetto e il soggetto
estrinseco alla norma»[37]. La “pars costruens” capograssiana ruota, quindi,
intorno al concetto di «unità in perenne movimento che è tutta la natura
dell’oggetto» del diritto[38], «l’esperienza nella sua vivente umana unità» che
è “falsata” (perché l’ “oggetto” è falsato) dai presupposti e dai postulati
della teoria generale del diritto e dello Stato di Hans Kelsen[39]. E
l’illustre autore, perciò, individua la «positività del diritto» come «coerenza
intrinseca al processo di vita», «coerenza interna e vitale», e non «coerenza
formale e artificiale», delle «determinazioni della vita giuridica», che
«vivono nel concreto»[40], ricordando un’opera in tal senso significativa, gli
“Orientamenti sui principi generali del diritto” del civilista Antonio Cicu. 3.
– Sull’attualità del pensiero di Giuseppe Capograssi e su alcuni aspetti
significativi dell’attuale crisi della scienza giuridica alla luce di recenti
saggi monografici sull’argomento. Per una critica del “nichilismo giuridico”
(ontologico) Perché è attuale la critica capograssiana al formalismo giuridico
kelseniano? Perché nell’ “ambiguità del diritto contemporaneo”, per riprendere
il titolo di un notissimo saggio del grande pensatore abruzzese, del 1953 [41],
si parla di frequente di “crisi”, con ciò indicando, per riprendere il
linguaggio dello stesso Capograssi, «una situazione che non vorremmo», «un
elemento di disapprovazione» ed «un elemento di speranza», il richiamo di una
«situazione passata» o «pensata», «che crediamo migliore, vale a dire che
preferiremmo»[42]. Ora, tra gli autori che hanno approfondito gli aspetti
dell’attuale crisi della scienza giuridica sono di notevole importanza, a
parere dello scrivente, tre saggi monografici, il “Diritto senza società” di
Pietro Barcellona[43], il “Nichilismo giuridico” (e la più recente opera dello
stesso autore, “Il salvagente della forma”) di Natalino Irti[44] ed “Il diritto
e il suo limite” di Stefano Rodotà[45]. Ritengo che la sfida più radicale ed
invasiva[46], tra le teorie sviluppate in questi saggi, sia quella del
“nichilismo giuridico” ( più precisamente del “nichilismo giuridico
ontologico”, riprendendo la ricostruzione di una recente monografia di Mario
Barcellona, “Critica del nichilismo giuridico”[47], che lo distingue dal
“nichilismo giuridico cognitivo” nordamericano) e quest’idea è affermata
dall’angolo visuale di chi cerca, come lo stesso Rodotà si propone con
lucidità[48], risposte alternative al nichilismo. Il nichilismo, senza voler
entrare nel merito di tutti i suoi significati[49], secondo il filosofo Emanale
Severino ed il giurista Natalino Irti, significa, in un senso specifico al
diritto ed alla tecnica economica, «ricavare le cose dal niente» e «riportarle
al niente»[50]. Franco Volpi scrive che esso è «la situazione di
disorientamento che subentra una volta che sono venuti meno i riferimenti
tradizionali, cioè gli ideali e i valori che rappresentavano la risposta al
“perché”e che come tali illuminavano l’agire dell’uomo»[51]; Friedrich
Nietzsche ne parlava come «il più inquietante tra tutti gli ospiti»[52]. Sul
punto penso al “Dialogo su diritto e tecnica”, scritto in più atti dai due
stessi importanti autori surrichiamati, Irti e Severino, in cui l’Irti afferma
che «l’unica superstite razionalità riguarda il funzionamento delle procedure
generatrici di norme», «la validità non discende più da un contenuto, che
sorregga e giustifichi la norma, ma dall’osservanza delle procedure proprie di
ciascun ordinamento»[53] ed il Severino ritiene che «la tecnica è destinata a
diventare principio ordinatore di ogni materia, la volontà che regola ogni
altra volontà»[54], «la “capacità” della tecnica è la potenza effettiva
(“potenza attiva” nel linguaggio aristotelico) di realizzare indefinitamente
scopi e di soddisfare indefinitamente bisogni»[55]. L’idea di sistema giuridico
unitario e di diritto statale «portatore di valori», in un simile orizzonte, è
ormai destinato al declino irreversibile, sul viale tramonto. Il diritto della
globalizzazione, e questo è il “topos” di crisi più acuta, porta alle estreme
conseguenze quella scissione tra “liberalismo” e “liberismo” che Benedetto
Croce già tracciava negli anni trenta[56]. Lo stesso Irti scrive che «la
tecno-economia non conosce differenze soggettive ma soltanto variazioni di
quantità»[57]. Il “diritto globale”, come nota un altro grande giurista,
Francesco Galgano, fondato sul principio di effettività e non su quello di
legalità, è pienamente funzionale all’ “idea di produzione” che viene
dall’economia e, come scrive l’Irti, «caratterizza l’economia globale»[58], i
cui spazi sono fluidi e sottratti al controllo giuridico e politico degli Stati
nazionali sovrani. E’ in crisi, come opportunamente pone in risalto lo stesso
insigne autore ne “Le categorie giuridiche della globalizzazione”, il «dove del
diritto», il «dove applicativo», il «dove esecutivo» delle norme, «l’intrinseca
ed originaria spazialità del diritto», l’idea di “confine” consustanziale allo
Stato nazionale moderno che si afferma con il capitalismo mercantile[59]. Non
solo: i ritmi produttivistici della tecnica e della sua volontà di potenza,
posti in evidenza e criticati, pur se ritenuti ineluttabili da Emanuele
Severino[60], secondo lo stesso Irti «producono un vorticoso succedersi di
norme giuridiche…» che «attesta la “nientità” del diritto, i canali delle
procedurequesti che potremmo chiamare nomo-dotti, poiché conducono le volontà
dalla proposizione alla posizione di norme - sono pronti a ricevere qualsiasi
contenuto.Ogni ipotesi può scorrere in essi: la disponibilità ad accogliere
qualsiasi contenuto è indifferenza verso tutti i contenuti…»[61]. Per cui,
l’attuale crisi del diritto, «nella postmodernità giuridica», è «l’indifferenza
contenutistica” che “sospinge verso il culto della forma” e costituisce perciò
realizzazione ed inveramento dello “Stufenbau” kelseniano, “capace di tradurre
in norma qualsiasi contenuto” (“la Grundnorm di Kelsen – che Severino
definirebbe “logos ipotetico”- spiega la validità di qualsiasi
ordinamento»[62], è il trionfo del vuoto formalismo giuspositivista che «si
svela nelle procedure produttive di norme», nella razionalità tecnica e
nell’«autosufficienza della volontà normativa». Al riguardo si deve porre
l’accento su un altro notevole autore, di diversa formazione culturale, il
filosofo marxista Galvano Della Volpe, che in un saggio dal titolo emblematico,
“Antikelsen”, contenuto nel suo volume “Critica dell’ideologia
contemporanea”[63], individuava i limiti propri della dottrina del diritto e
dello Stato del Maestro di Praga, del Kelsen, proprio riferendosi ad una
concezione meramente formale, raffinata e colta espressione di un’idea borghese
del diritto, della democrazia e dell’eguaglianza. Ma sono altrettanto
importanti le profonde ed intelligenti critiche di Nicola Abbagnano, che ha
giustamente parlato del formalismo giuridico nei termini di una dottrina
adattabile a qualsiasi regime politico e quindi sprovvista di sostanza, di
contenuti[64]. Per tornare all’analisi di alcuni rilevanti aspetti dell’attuale
crisi della scienza del diritto, “nichilismo e formalismo” sono i due aspetti
pregnanti di un diritto “tecnico”, “autoreferenziale”[65], “senza società”,
come scrive Pietro Barcellona[66] realizzazione anche, secondo quest’ultimo
autore, delle distorsioni della teoria sistemica di Luhmann[67]. Rodotà nella
sua opera summenzionata scrive che «il diritto deve misurarsi con una tecnica
di cui è stata da tempo esaltata l’irresistibile potenza, la continua
produzione di fini, alla quale sarebbe ormai divenuto impossibile opporsi. Così
la tecnica annichilirebbe il diritto, condannato ormai ad una umile funzione
servente. Ma questa è una profezia destinata a realizzarsi solo se la politica
diviene progressivamente prigioniera di una logica che la induce a delegare
alla tecnologia una serie crescente di problemi…e se il diritto, seguendola in
questa deriva, accettasse un’espulsione da sé di valori e scopi, determinado
quella che Michel Villey ha chiamato una “mutilazione del diritto per ablazione
della sua causa finale”»[68]. Per cui viene da chiedersi, in termini comunque
molto problematici, se è possibile individuare una via d’uscita al declino dei
sistemi giuridici e della certezza del diritto, alla “crisi di razionalità”,
per riprendere Habermas, delle società capitalistiche postmoderne,
all’oscuramento dei contenuti essenziali degli ordinamenti giuridici
democratici, tra cui rientrano, anzitutto, i diritti fondamentali (lo stesso
Rodotà ritiene altresì che «la ricostruzione di un fine del diritto intorno ai
diritti fondamentali si presenta così come una guida quotidiana, come un test
permanente al quale sottoporre anzitutto le scelte giuridicamente rilevanti.
E’un impegnativo programma, che mette alla prova politica e diritto. La politica,
considerata non più nell’area dell’onnipotenza, ma del rispetto. Il diritto,
non più vuoto di fini, ma strettamente vincolato a un sistema di valori, dunque
in grado di offrire una guida pur per le scelte tecnologiche»)[69]. Insomma:
qual è oggi lo scopo del diritto?[70] Ed in che senso l’antikelsenismo vichiano
e personalista di Capograssi[71] è attuale e può costituire, “storicizzato” ed
adeguato al “presente storico”, una chiave di lettura delle asimmetrie e degli
scompensi dei sistemi giuridici vigenti e degli attuali “usi sociali del
diritto”?[72] La critica capograssiana al formalismo costituisce un richiamo al
presente. Essa rappresenta una delle più significative alternative teoriche
agli esiti del nichilismo formalista; essa, per riprendere le parole del
Maestro che ricordiamo, è «sforzo per costruire la storia», per «realizzare la
vita nei suoi termini di attualità», e quindi il diritto «nella profonda vita
delle sue determinazioni positive»[73]; anche perché il diritto, come scriveva
un altro importante giurista, Salvatore Satta, è «dover essere dell’essere» e
non «dover essere» contrapposto all’«essere»[74], “Sollen” staccato dal “Sein”.
Capograssi ne “L’ambiguità del diritto”[75] propone delle conclusioni dense di
speranza, affermando che «quest’epoca…pur muovendosi in un macrocosmo di
dimensioni così gigantesche…non fa che mettere al centro di questo mondo e
delle sue creazioni niente altro che l’uomo». Ed esse possono essere
un’alternativa alla “nientità” del diritto globale contemporaneo ed al
liberismo tecnicistico, produttivistico e massificante; al trionfo dell’
«Apparato tecnocratico», di cui parla Severino ne “La filosofia futura”[76],
che quasi lascia presagire la «fine della storia» e del «divenire storico» come
«farsi dell’esperienza umana» e, per riprendere Jhering, della “lotta per il
diritto”[77]. [1] Il presente testo riprende, nelle linee essenziali, la
relazione presentata al Convegno di studi internazionale sull’ “Attualità del
pensiero di Giuseppe Capograssi”, tenutosi a Sassari tra il 16 ed il 18
novembre 2006, i cui atti sono in corso di pubblicazione con la casa editrice
“Il Mulino”. V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, in “Rivista
trimestrale di diritto pubblico”,1952/4, 767-810, ora in ID., Opere, Milano, 1959,
V, 313-356. [2] V. H.KELSEN, General theory of law and State (1945), Teoria
generale del diritto e dello Stato, tr. it., a cura di S. Cotta e G. Treves,
Milano, 1952. [3] V. P. PIOVANI, Introduzione a G.Capograssi, Il problema della
scienza del diritto, Milano, 1962, VIII. [4] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su
Kelsen tradotto, op.cit., 314. Per una differente concezione del diritto
critica verso il formalismo gradualista di Hans Kelsen v. G.WINKLER, Teoria del
diritto e dottrina della conoscenza.Per una critica della dottrina pura del
diritto (1990), tr. it. di A. Carrino, Napoli, 1994, 249 (ove è scritto che «la
dottrina pura e generale di Kelsen è stata…, sin dall’inizio, nelle sue
premesse epistemologiche e gnoseologiche, priva di fondamenta solide…»); 189
(pagina in cui si afferma che «la dottrina pura del diritto di Kelsen si
impiglia inevitabilmente in molteplici dilemmi. Un aspetto di questi dilemmi
risiede nel tipo di determinazione dell’oggetto, un altro nella concezione
della scienza. Un altro ancora nella ipostatizzazione di un orientamento
metodologico che deifica il concetto teoretico del diritto, lo interpreta nel
senso della logica formale, lo deforma e lo priva al tempo stesso del suo
oggetto empirico»). [5] V. A. PIGLIARU, Persona umana ed ordinamento giuridico,
Milano, 1953, 98. Su quest’opera v. G. BIANCO, Prefazione ad Antonio Pigliaru,
Persona umana ed ordinamento giuridico, in “Diritto @ storia”, n. 5, 2006 =
http://www.dirittoestoria.it/5/Contributi/Bianco-Pigliaru-persona-umana-ordinamento-giuridico.htm
ed in A. PIGLIARU, op.ult.cit., Nuoro, 2008. [6] V. H. KELSEN, Teoria generale
del diritto e dello Stato, Milano, 1984, 35, 121,399. [7] V. H. KELSEN, Teoria
generale del diritto e dello Stato, op.cit., 30 ss., 111 ss., 125ss. [8] V. H.
KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 18 ss. [9] V. H.
KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 29 ss., 123. [10]
V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 111ss. e G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 316-317. [11] V. H.
KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 274 ss. [12] V. H.
KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op. cit., 288 ss. [13]
V.H.KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 126 ss.
Peraltro Kelsen sull’argomento introduce una sua distinzione tra “Costituzione
formale” e “Costituzione materiale” specificando che «presupposta la norma
fondamentale, la costituzione rappresenta il più alto grado del diritto statale.
La costituzione è qui intesa non già in senso formale, bensì in senso
materiale. La costituzione in senso formale è un dato documento solenne, un
insieme di norme giuridiche che possono venir modificate soltanto se si
osservano speciali prescrizioni, la cui funzione è di rendere più difficile la
modificazione di tali norme. La costituzione in senso materiale consiste in
quelle norme che regolano la creazione delle norme giuridiche generali, ed in
particolare la creazione delle leggi formali». Questa distinzione è,
ovviamente, eterogenea rispetto al dualismo “Costituzione formaleCostituzione
materiale” proposta dai “realisti”, in particolare da Costantino Mortati, Carl
Schmitt, Giuseppe Guarino, peraltro con connotazioni peculiari in ciascuno
degli autori richiamati. V. in argomento G. Bianco, Quel che resta della
Costituzione materiale (tra congetture e confutazioni), in “La Costituzione
materiale. Percorsi culturali e attualità di un’idea”, a cura di A. Catelani e
S. Labriola, Milano, 2001, 487-502. [14] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su
Kelsen tradotto, op.cit., 315. [15] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e
dello Stato, op. cit., 165 ss. [16] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen
tradotto, op. cit., 318. [17] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto,
op. cit., 319. [18] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit.,
320. [19] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 327, nt.
1. [20] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 322. [21]
V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 322. [22] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 328. [23] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 328-329. [24] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 331. [25] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 332. [26] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 332. [27] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 333. Ed il nostro
aggiunge nella stessa pagina, con il consueto tono intelligente ed
appassionato, che «concepito il diritto come forza e come forma, è evidente che
l’ordinamento giuridico ha una doppia faccia, la forza, cioè l’efficacia, la
forma, cioè la validità. La seconda dipende dalla prima ed è condizionata dalla
prima; la prima finchè dura si esprime nella seconda; la validità è
l’espressione formale dell’efficacia, e l’efficacia è la realtà sostanziale
della validità. Per questo i due diritti in senso normativo e in senso sociologico
si rispecchiano e vanno di conserva: sono due facce dello stesso fatto»(p.
333). Dappresso è scritto che «la forza è il principio del diritto; gli
interessi, le passioni, le ideologie sono il contenuto; e la forma è la norma
come puro dispositivo della sanzione, e l’ordinamento che è il sistema delle
norme valide fondato sull’evento di forza che costituisce il contenuto della
norma fondamentale. Si può dire, può non chiamare nuda, perché non ha in sé
nulla di razionale: forza nuda dall’esterno, poiché s’impone per qualsiasi via
e vince se è legittimata, forza nuda dall’interno di sé stessa, perché non è
altro che il (preteso) fondo irrazionale e cieco dell’azione umana. Rare volte
la concezione del diritto come nuda forza è stata espressa e svolta con più riuscita
e più completa coerenza sia in sé sia nel suo naturale esplicarsi e compiersi
nelle forme vuote delle norme. Abbiamo qui nella forma più razionale e perfetta
il diritto naturale della forza e la sua dogmatica»(p. 335). [28] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 347. [29] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353 e 351. [30] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353. [31] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353. [32] V. G.
CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto (1937), Milano, 1962 (con
introduzione di Pietro Piovani), 181. [33] V. G. CAPOGRASSI, Il problema della
scienza del diritto, op.cit., 181. [34] V. G. CAPOGRASSI, Il problema della
scienza del diritto, op.cit., 353. [35] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen
tradotto, op.cit., 354. [36] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto,
op.cit., 354. [37] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit.,
354. [38] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 355. [39]
V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 355. [40] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 356. Molto intense e
particolarmente significative sono le vivaci conclusioni del saggio in
considerazione: «Quello che è essenziale è questo riportare a questa unità
vivente, a questa coerenza intrinseca al processo di vita, proprio le profonde
esigenze e funzioni per cui il diritto costituisce un interesse formativo della
vita; quel cogliere dall’interno e come componente il diritto tutta la sostanza
etica del fenomeno giuridico. Qui il giurista è non il tecnico che fa uno
sforza di costruzione puramente formale, per raggiungere una coerenza puramente
formale, ma l’uomo, proprio l’uomo nell’alto senso della parola, che cerca di
cogliere il diritto nella profonda vita delle sue determinazioni positive e
nelle profonde e immutabili connessioni, con i principi e le esigenze
costitutive della vita e della coscienza. Qui il giurista è proprio il
collaboratore della vita, il collaboratore indispensabile del segreto processo
traverso il quale la vita concreta si trasforma in esperienza giuridica, e
l’umanità del mondo della storia viene perpetuamente difesa contro la barbarie
sempre presente e sempre immanente della forza. E se non è questo, che cosa è
il giurista? Che cosa ci sta a fare nella vita? Perché vive?» [41] V. G.
CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto contemporaneo, in AA.VV., La crisi del
diritto, Padova, 1953, 13-47, ora in ID., Opere, V, op. cit., 385 ss. [42] V.
G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto contemporaneo, op.ult.cit., 387. [43] V.
P. BARCELLONA, Diritto senza società, Bari, 2003. [44] V. N. IRTI, Nichilismo
giuridico, Bari, 2004; ID., Il salvagente della forma, Bari, 2007. [45] V. S.
RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2006. [46] Sia
consentito di rinviare a G. BIANCO, Nichilismo giuridico, in Digesto IV,
disc.priv., sez.civ., III vol. di agg., Torino, 2007, 790 ss. [47] V. M.
BARCELLONA, Critica del nichilismo giuridico, Torino, 2006, 181 ss. e 287 ss.
[48] V. S. RODOTÀ, La vita e le regole, op.ult.cit., 9 ss. Si legge, in
particolare, tra i molti spunti presenti nel saggio monografico, che «sullo
sfondo scorgiamo la fine di un’epoca nella quale esistevano valori generalmente
condivisi, mentre oggi viviamo in un tempo caratterizzato da un politeismo dei
valori e da controversie intorno al modo di dare riconoscimento al
pluralismo…Si scorge una frontiera mobile, addirittura sfuggente, tra diritto e
non diritto…»(p. 16); «il percorso tra diritto e non diritto porta al
disvelamento progressivo dell’inadeguatezza della dimensione giuridica
tradizionalmente conosciuta rispetto alla vita quotidiana…nello stesso ordine
giuridico possono annidarsi i fattori che si oppongono al dispiegarsi della
personalità, alla pienezza della vita» (p. 23); «non siamo più di fronte
all’astrazione, ma alla cancellazione del soggetto»(p. 25). [49] V.in modo
particolare sul punto M. HEIDEGGER, Il nichilismo europeo, tr. it., a cura di
F. Volpi, Milano, 2003, 108; F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, frammenti
postumi ordinati da P. Gast e E. Forster-Nietzsche, nuova ed. italiana a cura
di M. Ferraris e P. Kobau, Milano, 2005, 7, 8, 17. [50] V. N. IRTI, Atto primo,
in N. IRTI-E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, Bari, 2001, 8 ss.; ID.,
Nichilismo e metodo giuridico, in “Nichilismo giuridico”, op. cit., 7. [51] V.
F. VOLPI, Il nichilismo, Bari, 1996, 4. [52] V. F. NIETZSCHE, La volontà di
potenza, op. cit., 7. [53] V. N. IRTI, Atto primo, in N. IRTI-E. SEVERINO,
Dialogo su diritto e tecnica, op. cit., 8. [54] V. E. SEVERINO, Atto primo, in
op. ult. cit., 27. [55] V. E. SEVERINO, Atto primo, in op. ult. cit., 28-29.
[56] Su cui v. B. CROCE, Liberismo e liberalismo, in “Elementi di
politica”(1925), Bari, 1974, 69 ss. v. al riguardo N. IRTI, Il diritto e gli
scopi, in “Esercizi di lettura sul nichilismo giuridico”, op. cit., 115 ss.
Sull’argomento v. pure le riflessioni contenute in B. LEONI, Conversazione su
Einaudi e Croce, in ID., Il pensiero politico moderno e contemporaneo, a cura
di A. Masala e con introduzionedi L.M. Bassani, Macerata, 2008, 337-374. [57]
V. N. IRTI, La rivolta delle differenze, in “Esercizi di lettura sul nichilismo
giuridico”, in Nichilismo giuridico, op. cit., 144. [58] V. N. IRTI, Nichilismo
e formalismo nella modernità giuridica, in Nichilismo giuridico, op.ult.cit.,
25. Sul pensiero del Galgano v. ID., Lex mercatoria, Bologna, 2001, 234 ss.
[59] V. N. IRTI, Le categorie giuridiche della globalizzazione, in Norme e
luoghi. Problemi di geodiritto, Bari, 2006 (2a ed.), 143 ss., 144. [60] v. tra
i molti scritti dell’illustre filosofo Id., La filosofia futura, Milano, 2006,
p.150sgg.; Id., Destino della necessità, Milano, 1980, p.41sgg.; Id., Essenza
del nichilismo, Brescia, 1972, p.227sgg. [61] V. N. IRTI, Atto secondo, in E.
SEVERINO-N. IRTI, Dialogo su diritto e tecnica, op. cit., 45-46. [62] V. N.
IRTI, Atto primo, in op.ult.cit., 8. [63] V. G. DELLA VOLPE, Antikelsen, in
ID., Critica dell’ideologia contemporanea, Roma, 1967, 91-100. [64] V. N.
ABBAGNANO, Stato, in Id., Dizionario di filosofia, Torino, 1983 (2a ed.), 835.
[65] V. P. BARCELLONA, Diritto senza società, op. cit., 87 ss. e 151 ss. [66]
V. P. BARCELLONA, Diritto senza società, op. ult. cit., 9 ss., 11, in cui si
legge che l’epoca della globalizzazione «appare essenzialmente come definitivo
tramonto della società come istituzione (come tecnica organizzativa),
attraverso la quale si realizza la mediazione tra l’istanza di libertà e
l’ordine prodotto dall’autogoverno della società, e come fine della storia
intesa come metamorfosi dell’orizzonte di senso entro il quale si sviluppa la
dialettica sociale…I concetti di Stato nazionale, che aveva rappresentato la
forma dell’organizzazione sociale, e di sovranità, che aveva individuato nella
democrazia, come governo di popolo, la base di ogni ordinamento, sono
inutilizzabili per descrivere e comprendere le forme della globalizzazione».
[67] V. P. BARCELLONA, op. ult. cit., 151 ss., ove si afferma che nella teoria
surrichiamata «il sistema può fare a meno delle intenzioni e dei progetti,
della volontà e della coscienza e, in definitiva, degli uomini in carne ed
ossa. Perché il suo destino si compie nella perfetta circolarità della
riproduzione auto-referenziale e auto-riflessiva dei suoi “dispositivi” e della
sua logica. Luhmann ha scoperto il segreto del moto perpetuo e per questo la
sua teoria è ormai il nucleo vero di tutte le rappresentazioni della
modernità…»(p. 152). V. al riguardo N. LUHMANN, La differenziazione del diritto
(1981), tr. it., Bologna, 1990, 61 ss. [68] V. S. RODOTÀ, La vita e le regole.
Tra diritto e non diritto, op. cit., 35-36. [69] V. S. RODOTÀ, La vita e le
regole. Tra diritto e non diritto, op. cit., 37. [70] Su cui v. in generale le
classiche pagine di RUDOLF VON JHERING, Lo scopo del diritto, tr. it., con
introduzione di M.G. Losano, Torino, 1972, 6, in cui è scritto che «lo scopo è
il creatore di tutto il diritto; non esiste alcuna norma giuridica che non
debba la sua origine ad uno scopo; cioè ad un motivo pratico». Sul tema è stato
opportunamente notato che «là dove si parla di scopo…si allude a processi
intenzionali, consapevoli, voluti» (R. RACINARO, Presentazione di “La lotta per
il diritto” di R.von Jhering, tr. it., Milano, 1989, XX). [71] Sull’attualità
del pensiero del Capograssi v. anche il paragrafo quarto di G. BIANCO,
Nichilismo giuridico, op. cit., 790 ss. [72] Al riguardo v. la ricostruzione
contenuta in S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, op.cit.,
9 ss. [73] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 356.
[74] Sul tema v. S. SATTA, Norma, diritto, giurisdizione, in “Studi in memoria
di Carlo Esposito”, III, Padova, 1973, 1623 ss., 1629; ID., Il giurista
Capograssi, in “Raccolta di scritti in onore di Arturo Carlo Jemolo”, Milano,
1963, IV, 589 e ora in ID., Soliloqui e colloqui d’un giurista, Padova, 1968,
433 ss. Sull’argomento sia consentito rinviare, per una più articolata ed ampia
trattazione, a G. BIANCO, Crisi dello Stato e del diritto in Salvatore Satta,
in “Clio”, n.4/2003, 703 ss., 709 e 711. [75] V. G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del
diritto contemporaneo, op. cit., 415. [76] V. E. SEVERINO, La filosofia futura,
op.cit., 150 ss., 155-156 (pagine nelle quali si afferma che «la volontà che
nell’Apparato si vuole sempre più potente e decide in questa direzione, in ogni
momento del suo sviluppo decide innanzitutto di eseguire quell’insieme
determinato di azioni che in quel momento aumentano determinatamente la sua
potenza. In quantoè questa decisione, la volontà è quindi certa
dell’accadimento di tali azioni e pertanto è certa di esistere nel futuro in
cui tali azioni sono compiute. Ma la volontà che si vuole sempre più potente
non è solo questa certezza di esistere in quel momento del futuro in cui la sua
potenza riceve un incremento determinato: è anche la certezza che in ogni
momento futuro essa sarà il tentativo di aumentare la propria potenza e cioè di
trasformare ogni stato dell’essere. E’ certa del proprio tentativo. Decide che,
in ogni momento del futuro in cui essa si troverà esistente, tenterà di
aumentare la propria potenza», pur non essendo «certa che il divenire sia
eterno» perché «la volontà che si vuole sempre più potente riconosce la
possibilità del proprio annientamento»). [77] V. R. VON JHERING, La lotta per
il diritto, op. cit., 71 sgg. Sostiene l’Insigne giurista che “il diritto ci
presenta, pertanto, nel suo movimento storico, il quadro del tentare, del
combattere, del lottare, in breve dello sforzo faticoso…il diritto come
concetto rivolto a uno scopo, posto nel mezzo dell’ingranaggio caotico di
scopi, aspirazioni, interessi umani, è costretto incessantemente a tastare,
saggiare per trovare la via giusta, e, quando l’ha trovata, ad atterrare ancora
innanzi tutto l’opposizione, che gliela preclude” (pp. 91-92). Giuseepe
Capograssi. Keywords: positivismo, positivismo giuridico, H. L. A. Hart,
Kelsen, il concetto di stato, stato come forza, stato come autorita, Capograssi
contro Bobbio. La critica di Bobbio a Capograssi, essere/devere –
Capograssi/Hart – Capograssi e il fascismo – in concetto di stato come medimen
– kelsen, positivismo giuridico – l’esperienza giuridica, azione giuridica, due
tipi d’obbedenza: formale (vacua) e materiale (intenzione inclusa), intenzione,
agire, vita etica, intersoggetivita, soggeto, individuo, interpersonalismo,
l’interpersonalismo di Capograssi – Aligheri, Leopardi, Zibaldone, Rosmini. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Capograssi” – The Swimming-Pool Library.
Caporali: Grice: “You gotta
(as we say at Berkeley) love (as we say at Berkeley) Caporali – typically
Italian he dedicates his life to philosophise on Pythagoras (or Pitagora, as he
prefers) just because he is ‘italico,’ or ‘Italiano,’ with the capital I that
was then in fashion!” Grice: “What I like about Caporali is that, unlike the
98% of Italian philosoophers, he detests German philosophy, as represented by
Muri – “See how clear the religion of the Italian anti-clerics is compared to
the German obscurity of Muri!’ And right he is, too!” --
Grice: “For the Oxonians I always recommend his “epitome di filosofia
italiana,’ which, I subtitle it as “From Pythagoras to Pythagoras, and back!” –
His three-part tract on Pythagoras (Natura, Uomo, Other) is fascinating –
especially the other – he also philosophised on ‘scienza nuova.’” -- Enrico
Caporali (Como), filosofo. Laureatosi in giurisprudenza all'Padova, studiò
anche storia e geografia presso l'ateneo bolognese, così come approcciò, sia
Italia che all'estero, le scienze naturali e la matematica. Nel corso dei suoi viaggi si avvicinò al
movimento metodista, tanto che nel 1875 a Milano, dove l'anno prima aveva dato
alle stampe la Geografia enciclopedica, ne ricevette l'ordinazione a
evangelista, mentre quella a diacono la ricevette a Terni nel 1879. E, non a
caso, Caporali è stato segnalato fra le menti più eccelse
dell'evangelicismo. Dal 1876 a Perugia,
e poi come ministro a Todi dalla fine del 1881, finì per distaccarsi dal
movimento metodista. È in quel contesto che diede vita alla rivista La nuova
scienza, uscita in 6 volumi tra il 1882 e il 1896. La notorietà che ne conseguì
gli portò l'offerta di reggere come titolare, su indicazione di Nicola
Fornelli, la cattedra di filosofia all'Bologna, che tuttavia Caporali rifiutò. Dal 1905 riprese e approfondì le questioni
filosofiche, studiando, in particolare, la dottrina di Pitagora, che avrebbe
ricondotto, da nazionalista qual era, ad una tradizione italica e latina, in
funzione anti-straniera. Secondo Caporali, la formulazione pitagorica del
numero reale consentiva di riconoscere la relazione dell'espressione della
coscienza e della volontà umane con i problemi della vita. Opere principali Geografia enciclopedica
rispondente al bisogno degl'italiani ordinata alfabeticamente, Politti, Milano
1873. Epitome di Filosofia italica della nuova scienza. Vademecum delle persone
colte che vogliono diventare filosoficamente italiane, Tip. dell'Umbria,
Spoleto 1911; La natura secondo Pitagora, Atanor, Todi 1914; L'uomo secondo
Pitagora, Atanor, Todi 1915; Il pitagorismo confrontato con le altre scuole,
Atanor, Todi 1916; La Chiara religione degli anticlericali italiani con la
nebbiosa tedesca di Romolo Murri (della pubblica opinione moderatore), Tip.
Tuderte, Todi 1916. Note L'Enciclopedia
Italiana, vedi , indica il 1841 come anno di nascita. V. Vinay, Luigi Desanctis, Claudiana, Torino
1965240. In tal senso B. Croce,
Pescasseroli, Laterza, Bari 192255, che lo cita con i filosofi protestanti
Taglialatela e Mazzarella. G.B.
Furiozzi, Enrico Caporali tra politica, religione e filosofia, in Idem, Dal
Risorgimento all'Italia liberale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli
1997, 125–136. R. Mariani, Del sommo
filosofo pitagorico Enrico Caporali da Como (1838-1918): da Pitagora ad Alberto
Einstein, Domini, Perugia 1955. Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons
Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Enrico Caporali M.C.C., «CAPORALI, Enrico», in Enciclopedia
Italiana, I Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1938. Luca
Pilone, «Enrico Caporali», in Dizionario biografico dei protestanti in Italia,
Società di studi valdesi, sito studivaldesi.org. Filosofia Filosofo del XIX
secoloFilosofi italiani Professore1838 1918 Como TodiScrittori italiani del XX
secoloPersonalità del protestantesimo. LA NUOVA SCIENZA di ENRICO CAPORALI Alcuni pedanti, non
intendendo la sacra scienza dei Numeri, o dei Principii Universali, che
Pitagora fece il centro del suo sistema, attribuirono a questo grande Maestro
teorie confuse e assurde. Così gli studiosi, i quali non seppero discernere il
pensiero Pitagorico dalle aggiunte e dalle non scientifiche interpretazioni che
ne fnrono fatte dopo Pitagora, supposero che la radice e i rampolli della
Antiquissima Italicorum Sapientia fossero ormai disseccati, e trascurarono
l'Italo Maestro per andare ad abbeverarsi a fonti straniere. Con tutta fede
dunque, e sicuro di fare opera veramente italiana, il Prof. Enrico Caporali,
più di trentacinque anni fa, si ritirò nella misteriosa solitudine della sua
villa presso Todi per dedicarsi tutto alla restaurazione del Pitagorismo tra il
plauso e l'ammirazione dei migliori pensatori nostrani e stranieri. Redasse
allora la Nuova Scienza e in seguito pubblicò altre opere fra le quali i volumi
della Sapienza Italica presso questa Casa Editrice. La quale, avendo ora
rilevato dall'eredità giacente dell'illu stre estinto, quel che rimaneva della
sua prima opera suddetta, la presenta agli studiosi. La Nuova Scienza è
composta di 25 spessi fascicoli in-8°, e va dal 1884 al 1892. Restano
quarantasette copie dell'Obera completa e si vendono al prezzo di L. 125
ognuna. Si vendono anche separatamente alcuni fascicoli che possediamo in
maggior numero, al prezzo di L. 5 ciascuno. Diamo qui i titoli delle principali
dissertazioni contenute nella detta opera La Nuova Scienza: L'odierno pensiero
Italiani (dal 1° al 12° fascic.) — La Formula Pitagorica della Cosmica
Evoluzione ;dal 1° al 23°) — L'Evoluzione anticlericale Germanica nella dispera
zione (7°) — L'Evoluzione anticl. germ. negli errori finalisti (10°) —
L'Evoluzione malin tesa e la sua negazione (dal 13° al 18°) — // Monismo
Pitagorico antico (21°) — Perpetua voce umana— Commedia degli Spiriti (id.) —
La psicogenia pitagorica di M. F. Pauthan (12°) — La sostanza impasticciata del
Prof. Dal Pozzo (23°) — // principio Eraclitico con frontato col Pitagorico
(22°) — // Pitagorismo di Giordano Bruno (23°) — La formula Pitagorica
dell'Evoluzione Sociale (24° e 25°). O. La
Sapienza Italica mmfà i opera insigne del filosofo nella quale facendo rivivere
il Pitagorismo alfa luce dello scibile moderno sì mira alla restaurazione della
nazionale *coltura Casa Editrice " Atanòr „ - Todi 1914 La Natura
secondo Pitagora ossia La progressiva concentrazione e sistemazione delle unità
senzienti. Tov ò\ov oòpavóv àp|iovóav sivat xat àpt&fiov. Tutto
l'iTiiiverso è numero e armonia. Pitagora. Oùx' fircstpog èaxl [isxa^oXr]
où5s(iia oì)xs auvsx^SNiente può cambiare nell'indeterminato e nel continuo.
Aristotele (Phys. Vili. - 8). La Sapienza Italica i La Natura secondo
Pitagora opera insigne del filosofo Enrico Caporali il - nella quale facendo
rivivere il Pitagorismo alla luce dello scibile moderno si mira alla
restaurazione della nazionale coltura Con cenni storici su Pitagora e la
sua Scuola Casa Editrice " Atanòr „ - Todi 1914 3244 PROPRIETÀ LETTERARIA
Tutti i diritti riservati per tutti i paesi compresi la Russia, la Svezia e la
Norvegia MI STORICI SO PITAGORA E LA SUA SCUOLA Pitagora, secondo Teopompo,
Aristossene e Aristarco (citato da Clemente), era figlio di un gioiel- liere
etrusco, che mercanteggiava in Oriente, e di una donna greca chiamata
Partenide. Nacque venticinque secoli fa, 587 anni avanti Gesù Cristo in Samo.
La Pitonessa di Delfo, consultata mentre Partenide era incinta, aveva detto : «
Avrai un figlio che sarà utile a tutti gli uomini, in tutti i tempi». Pitagora,
fin dalla sua prima gioventù avido di scienza, seguì le lezioni di Ermodamate a
Samo e quelle di Ferecide a Siro, poi visitò in Mileto Talete, l'iniziatore
della filosofia greca, e per suo consiglio viaggiò in Egitto. A Memfi,
presentato a quei sacerdoti d'Iside dal Faraone Amasis, al quale, dicesi, era
stato raccomandato da Policrate il tiranno di Samo, fu da essi ricevuto nel
loro tempio e iniziato alle loro dottrine segrete. Così, durante gli anni di
questa sua iniziazione, egli potè bene internarsi in esse, e principalmente
versarsi con ardore in quella sacra scienza dei Numeri, o dei Principii
Universali, che egli fece di poi il centro del suo sistema e formidò in un modo
originale. Egli arrivò agli alti gradi del tempio, ma, essendo avvenuta in — 6
— questa epoca una ribellione in Egitto, dopo aver assistito al saccheggio dei
santuarii e allo scempio compiuto su le opere millenarie dalle orde della
plebe, fu condotto, secondo alcuni, insieme con altri adepti a Babilonia. A
Babilonia accrebbe il suo sapere ed ebbe rivelati gli arcani dell'antica
sapienza Caldea. Da qui ritornò alla sua isola, che un usurpatore straniero,
dissoluto e crudele, ora tiranneggiava ; e volle subito fuggirne. Venne in
Grecia e quindi nella Magna Grecia, ove si stabilì a Cotrone, nel Golfo di
Taranto, che era, con Sibari, la città più fiorente d' Italia. Ora egli che
aveva attinto a sì pure fonti di sa- pere e acquistato grande esperienza della
vita, nauseato dalla indisciplinatezza delle democrazie, dalla insipienza dei
filosofi, dall' ignoranza dei sacerdoti, dalla dissolutezza che veniva a
diffondersi, ebbe vi- sione di un rinnovamento da effettuare fra gli uo- mini.
Onde stabilì di fondare una scuola di scienza e di vita dalla quale uscissero,
non dei politicanti e dei sofisti, ma dei giovani dall'animo nel vero senso
della parola virile, e che dovesse essere il nucleo, come il punto di partenza
per la trasformazione graduale dell'organamento politico della Città, in cor-
rispondenza al suo ideale filosofico, secondo il quale, affinchè lo Stato fosse
ordinato armonicamente, do- vevasi conciliare il principio elettivo con un
reggimento della cosa pubblica costituito per la selezione dell'intelligenza e
della virtù. Sorse dunque a Cotrone il più grande istituto pe- dagogico di quei
tempi, che è pur da considerarsi come il più nobile tentativo d'iniziazione
laica che sia stato mai impreso ; e in breve ebbe a fiorire in tal modo che,
non solo nella Magna Grecia, come — 7 — a Metaponto, a Taranto, e più tardi a
Eraclea, furono stabilite filiali, ma anche in altre parti d'Italia e
principalmente in Etruria, la sacra terra donde il Maestro era oriundo. Egli si
circondò di scelti discepoli, maschi e femmine, e tutti sedusse, poiché
avviluppò di grazia Vausterità dei suoi insegnamenti. Essi dovevano le- varsi
all'alba, adorare Dio, seguendo una dorica danza, quando il Sole appariva su
l'orizzonte, passeggiare nel parco dell' istituto dopo le abluzioni di rigore,
recarsi nel tempio di Apollo in silenzio, affinchè l'anima, così nella sua
verginità, si raccogliesse all'inizio del giorno. Indi, in ampie sale, venivano
istruiti nella matematica, nell'astronomia, nella medicina e nelle scienze
naturali, o nella politica, nella morale e nella religione, secondo le classi o
gradi d'iniziazione, e in altre ore nella musica istrumentale e corale. A
mezzogiorno, dopo la pre ghiera agli Dei, si faceva un pasto frugale di
pane, mele, noci e olive, e quindi si andava allo stadio per gli esercizi
ginnastici, che tutti, fuor che la lotta e il pugilato, erano tenuti in onore.
Poi si discuteva di amministrazione della città, di morale e di 'po- litica
generale, e in fine si andava a cena, dove si mangiava anche carne in piccola
quantità e si beveva vino, sedendo intorno a ogni tavolo in numero di dieci,
poiché dieci è il numero perfetto. Durante la cena, uno dei più giovani faceva
una lettura ad alta voce, e questa lettura era seguita da libere obie- zioni e
discussioni ; poi si ricordavano le regole dell' Istituto, e, cantando un inno
alle Muse, si andava a letto. Il vestito di tutti i discepoli era di bisso, a
forma egiziana o etnisca. Le fanciulle con vesti bianche egualmente di bisso,
strette leggiadramente al corpo, — 8 — e con la fronte recinta di una bendella
di porpora, erano anch'esse con ogni cura istruite, ma non partecipavano alle
lezioni del mattino, ne agli esercizi ginnastici con i giovanetti, ne ai
dibattiti e alle deliberazioni della sera. Il grande Pitagora a sessantanni si
trovava ancora nella pienezza delle sue forze. Fra le fanciulle dell'Istituto
ve riera una di meravigliosa bel- lezza, chiamata Teano. Teano fu compresa di
grande amore per il Maestro e non volle tener celata a lui la sua passione.
Egli che fino a quel giorno, come tutti gli adepti, aveva rinunciato alla donna
per darsi tutto all'opera sua, fu singolarmente colpito dalla purezza di lei, e
non pose indugio a sposarla, giacche in questo caso l'amore giustificava il
matrimonio, com'egli aveva sempre insegnato. La splendida Teano entrò in breve
completamente nel pensiero del suo maestro e marito ; e divenne abilissima
nell' insegnare alle giovinette dell'Istituto. Ella ebbe due figli, Arimneste e
Telangete, e una figlia, Damo o Mia. Arimneste fu autore di prose e poesie
morali, Telangete divenne più tardi il maestro di Empedocle e a lui trasmise i
secreti della dottrina. Mia andò sposa al più celebre degli atleti, Milone di
Crotone. Dall'Istituto pitagorico uscirono geometri, medici, artisti,
amministratori ed uomini politici ragguardevoli, che portarono, sotto certi
aspetti, la Magna Grecia al disopra della Grecia. Non si concedeva di entrare
nell' Istituto a giovani di famiglie non onorate o di costumi cattivi. Fa per
avere rifiutato un certo Cilone, giovane ricchissimo, il quale desiderava di
far parte dell'Istituto, che Pitagora venne una sera assalito mentre stava in
casa di Milone e di sua figlia Mia. E, cogliendo — 9 — pretesto dal voto
contrario che Pitagora aveva dato sulla distribuzione delle terre di Sibari,
che i Crotoniati avevano conquistate, il suo nemico Olone indusse la plebaglia
a dare l'assalto all'Istituto, uccidendo e ferendo molti giovani alunni. Allora
Pitagora che aveva già ottani' anni, si rifugiò negli istituti filiali di
Locri, di Taramto e di Metaponto, morendo in quest'ultimo nel 497 cioè dieci
anni dopo. Pitagora non credeva nella metempsicosi, ma sol- tanto nella
immortalità dell'anima razionale. Però permise che la metempsicosi dei Misteri
Orfici fosse presentata al popolo come opportuna per spronare alla virtù ed
impedire la delinquenza. Infatti egli non ha collegato in nessun modo la
metempsicosi al suo sistema filosofico. Egli si sforzava sempre di liberare gli
schiavi e di dare agli umili cittadini il sentimento della dignità morale, e
diceva che la virtù non è perfetta se non è accompagnata dalla fede in Dio,
perchè l'ordine universale si regge sulla mente divina ordinatrice e perchè Dio
solo può dare alla morale sanzioni efficaci. Diogene Laerzio narra che Pitagora
scrisse tre libri, uno sulla Educazione, uno sulla Politica ed il terzo più
importante sulla Natura: ma andarono tutti e tre perduti e ne rimangono
soltanto i frammenti citati da Aristotele e da altri filosofi posteriori. Fra i
discepoli di Pitagora si distinsero Archita di Taranto, Timeo di Locri, Ocello
di Lucania, Ecfanto di Siracusa, Filolao, Eudossio, Alcmeone, Epicarmo ed
Hipparco. Quando Platone viaggiò nella Magna Grecia, fu Archita di Taranto che
gì' insegnò la dottrina del Numerante : ma Platone la guastò nell' intrecciarla
alla sua teoria delle Idee Eterne ossia concetti gè- — 10 — nerali delle cose
ch'egli supponeva esistere da se, indipendenti e separati dalle cose. In una
scuola Pitagorica di Agrigento sorse Empedocle, nato quindici anni dopo la
morte di Pitagora, il quale abbracciò con ardore lo studio della Natura comune
ai Pitagorici, ma mentre egli osser- vava da vicino una eruzione del vulcano
Etna soc- combette asfissiato nel 425. Nella scuola Pitagorica di Siracusa
brillò poi Archimede, il fondatore della idrostatica, il quale scoprì anche la
quadratura della parabola, oggi an- cora ammirata dai Matematici. Ma qual era
il carattere del sapere Pitagorico? Pitagora fu Venciclopedista del suo tempo:
fondò la Filosofia Italica, ben diversa dalla Greca. Come fa notare il prof.
Zeller (nella sua introduzione ai cinque volumi di Storia della Filosofia
Greca) gli errori di Platone e di Aristotele erano quelli del popolo greco,
troppo idealista e portato a giudicare le cose con la fantasia, ed a studiare
poco la Natura. Erano artisti e poeti e non scienziati: appena avevano fatto
delle osservazioni superficiali, volavano a stabilire delle massime generali.
Invece Pitagora era in stretto senso uno scienziato, un appassionato scrutatore
della Natura, sicché potè fondare il Naturalismo Italiano. Diede per primo il
nome alla filosofia, come lo diede al mondo, chiamandolo Cosmo, che vuol dire
Ordine, vale a dire che porta in se la gran Legge della tendenza di tutti gli
elementi a formare più alta Unità: in modo che ogni particella sta in ar- monia
col Tutto ed è fatta da una forza numerante. L'Universo, secondo Pitagora, è la
manifestazione della Energia divina, che si contrappone i punti di forza o
Atomi, i quali, derivando da una potentis- — 11 — sima Unità, tendono a riunirsi
ed a ritornare alla Unità primitiva, sicché^ tutte le cose si fanno dal di
dentro al di fuori. E un Monismo del Noumenon vivente in ogni individuo, che fa
i fenomeni della Sensazione e del Moto. Gli Organismi sono governati dal
Sentimento, trovando piacere neWassurgere a più alta Unità, e dolore nello
scomporsi. Anche la Natura inorganica sente e vuole il suo sviluppo, il suo
godimento, benché non sia provvista di nervi: ma è da essa e dalla sua
rudimentale sensazione e vo- lontà, che a poco a poco, attraverso la evoluzione
delle attrazioni molecolari chimiche dei colloidi, si vanno formando, per
successiva divisione del lavoro, gli or- gani ed i nervi. Egli precisò con
ripetuti esperimenti il rapporto fra la lunghezza, il diametro e la tensione delle
corde sonore e la qualità dei suoni ; indovinò per il primo che la terra è
sferica e gira attorno al sole, che le stelle sono altrettanti soli in
movimento ; scoprì il teorema sulle proprietà del quadrato della ipotenusa nel
triangolo rettangolo ; calcolò la teoria degli iso- perimetri, dimostrando non
commensurabile il rapporto fra la diagonale ed un lato del quadrato ; in-
trodusse nelVaritmetica il sistema decimale, e nella musica l'ottava, la quarta
e la quinta. Il filosofo Lucio {in Plutarco Symp. VIII. 7) narra che gli
Etruschi, che stimavano Pitagora quanto i Greci, osservavano i simboli di
Pitagora. Ad un acuto osservatore come Pitagora non poteva sfuggire la legge di
attrazione e coesione che forma e tiene assieme tutti i corpi gazosi, liquidi e
Egli ne supponeva la causa nella tendenza di tutti gli elementi a riunirsi ed a
formare più alta Unità, ed invano i fisici moderni ne cercarono la — 12 — causa
in pretese pressioni dell'etere cosmico. Più tardi Empedocle di Agrigento la
chiamò poeticamente Amore Universale, contraponendovi l'odio o repulsione, che
avviene contro tutto ciò che disturba il piacere dell'unione. Empedocle pensò
la Naturaorganica, piante ed animali, come un processo di crescente
unificazione e sistemazione (benché non conoscesse la cellula) e la malattia e
la morte come un processo di dissoluzione delle particelle senzienti. L'Essere
non è per Empedocle in continuo flusso, il diventare non è un formarsi di cose
nuove (come pretendeva Eraclito d'Efeso che nella Grecia orientale emulava
Pitagora), ma è l'unirsi delle particelle, lo ascendere a pnu alta Unità, il
formarsi dai molti l'Uno: mentre il morire discioglie la Unità nella
Molteplicità. Era bene istruito del pensiero pitagorico Anassagora, il primo
greco che separò lo spirito dalla materia, e che suppose le anime degli animali
e degli uomini come formate di Omeomerie, specie di Numeranti, che separano,
distinguono, scelgono, conoscono le cose utili e respingono le inutili al bene
dell'individuo e della specie. Ma i suoi discepoli Socrate e Platone intesero
poco il Pitagorismo, in modo che dopo Anassagora la filosofìa Greca si
allontanò dalla Italica. Pitagora fu il genio tutelare del pensiero laico
Italiano, e ^diede sempre il midollo alla coltura nazionale. E grazie a Pitagora
che nell'antichità e nel Medio Evo l'Italia non fu una provincia della
filosofia greca. E grazie a Pitagora che un po' alla volta fu sorpassato il
Platonismo e fu vinto l'Aristotelismo. Nel Rinascimento con le invasioni dei
bar- bari si oscurò ogni luce di pensiero, ma la idea pitagorica tornò a
brillare per la prima e a dare — 13 — impulso alla nuova filosofia italiana
grazie al car- dinale Nicolò di Cuza, nato a Treviri, ina educato in Italia.
Egli nel 1440 scrisse: «Ratio est men- « sura quae omnia in multitudinem,
magnitudinem- « que resolvit. Mens est viva mensura quae mensu- « rando alia,
sui capacitatem atiingit » . La mente è la unità che si esplica nella
diversità. Essa discerne confrontando e misurando. L' investigazione della
Natura, che era stata lo scopo principale delle Scuole Pitagoriche venne pro-
mossa dall'Accademia di Cosenza (a 40 miglia da Cotrone) fondata nel 1500 dal
Parrasio - dalla quale sorse Bernardino Telesio che scrisse: « Della natura
delle cose secondo i propri principii » -, dall'apertura in Padova nel 1644 del
primo Orto Botanico, dalla Aliatisi botanica iniziata nei giardini di Alfonso
aVEsie, dalle Accademie dei Lincei a Roma, del Cimento a Firenze, dei Segreti a
Napoli con G. B. Porta, le quali servirono di stimolo e di esempio ai popoli di
oltralpe per la fondazione delle loro Accademie Maggiori. Giordano Bruno
sostenne poi contro gli Aristotelici che gli elementi medesimi della natura si
ritro- vano in terra e in cielo, indovinò la trasformazione degli organi
animali secondo l'uso che se ne fa, notò che la Unità domina nell'uomo e che
alla sua Monade centrale convergono quelle periferiche del corpo, sicché
l'organismo è come un dispiegarsi del- l'anima. Lontano dalla luce del
Pitagorismo, Cartesio trasse per alcuni anni in errore col definire la Materia
come Res extensa, confondendola con lo Spazio, fantasticandola come piena di
vortici, credendola sostanziale. Ma la verità Pitagorica della Attrazione fu
dimostrata da Newton e il newtoniano Boscovich 14 concepì gli Atomi come punti
di forza. Ad essa furono poi aggiunte l'attrazione molecolare chimica,
elettrica e magnetica, le quali diedero ragione agli antichi Pitagorici e ad
Empedocle. Nel libro che segue noi supponiamo che Pitagora siasi istruito dello
scibile moderno, e consideriamo la Natura dal punto di vista pitagorico, che è
il più fecondo per intenderne le leggi. La Nafta secondo Pilajora La
progressiva concentrazione e sistemazioni delie unità senzienti.Noi fondiamo la
filosofìa sopra la totalità del- l'Esperienza, ossia stiamo sempre sulla base
dei fatti, come li prende, li elabora e li interpreta il nostro stromento del
conoscere (lì. Nessuno vorrà ammettere che una volta non ci fosse niente: e che
dal Niente venisse fuori l'Essere. Ex nihilo nihil. UHegelismo, che, invece di
stare ai fatti, fonda la filosofìa sui Concetti, e quindi prende il Concetto
del Nulla come equipollente a quello del- VEssere li ha sposati per farne
uscire il Diventare: ma per noi il Nulla è un vero Niente e lo la- sciamo nei
cervelli che lo pensano come reale. Dunque un Essere vi è sempre stato. Che
questo essere eterno fosse molteplice, nes- suno che guardi il mondo e conosca
la Unità delle forze fisiche che si manifesta, non solo sulla (1) Non bisogna
esagerare il bisogno di gnoseologia al punto di farla precedere ad ogni studio
filosofico. Di gnoseologia parleremo nel Volume L' uomo secondo Pitagora di
prossima pubblicazione. Coloro che non vogliono filo- sofare senza prima
determinare i confini della ragione, somigliano a colui che non vuol entrare
nell'acqua, se prima non ha imparato a nuotare. — 18 — Terra, ma in tutti i 50
milioni di stelle visibili nelle notti serene (anche in quelle più lontane la
cui luce impiega più di diecimila anni per ar- rivarci, quando si studiano
colFanalisi spettrale) nessuno potrà affermarlo. Dunque YEssere eterno era Uno.
Che cosa era questo Essere uno eterno ? Ardigò dice che era la Sostanza
Psicofisica, ossia psiche (unità), e poi forza materiale (molteplicità). E così
può essere. Nel voi. IV. delle sue opere (pag. 270) egli ci dice che questo
primo Essere ha cominciato a sdoppiarsi in Spazio e Tempo, per poter fare la
esteriorità, ossia il Mondo: ed aggiunge che lo spazio era allora convertibile
nel tempo e viceversa, senza dirci a quanti anni, mesi, giorni ed ore
corrisponda un determinato spazio. Noi c'inchi- niamo al prof. Ardigò per
questa bella trovata, la più positiva e la più radicale della sua filosofìa,
così immaginosa, che la bellissima Cerezada, per divertire il potente sultano
Sciariar nelle Mille ed una notte, non avrebbe saputo inventare. Il male si è
che (se fosse vera la convertibilità dello spazio nel tempo e viceversa),
sarebbe impossibile la Natura. Il Senatore B. Croce poi, di natura non ne vuol
sapere affatto e nel gennaio 1909 scrisse nella sua Critica che la filosofia
può abolire la natura (1). Questa è fatta di sensazioni, di senti- menti, di
volontà, di movimenti, dei quali è dif- (1) S'intende che egli non pretende di
abolire la Natura, bensì, come dice a pag. 75, il concetto di Natura. E la
filosofia ha da essere tutta dello spirito, senza impicciarsi di Natura. — 19 —
fìcile formarsi concetti esatti, e si richiede, per intenderla, uno studio
vastissimo e profondo. Sarebbe comodissimo di risparmiarlo. Le scienze
naturali, dice il Croce, sono fatte con concetti sbagliati, e la pratica che ne
consegue, è fatta di volere e di azione, ossia di soggetto fatto oggetto. Sia
come ipostasi della scienza, sia come forma pratica dello spirito, che diventa
volontà ed azione, e quindi oggetto, è meglio tagliar corto, e considerare come
abolito il Concetto della Natura. Fino ad ora nessun filosofo, neppur Hegel, ha
potuto ^fare a meno di tentare una Filosofìa della Natura. E vero che sarebbe
stato prudente abolirla, come la volpe dichiarava non matura quell'uva, alla
quale non poteva arrivare. Se vi è un lettore inimicato contro la Natura, potrà
con essa conciliarsi in questo Libro, nel quale cercheremo di penetrare appunto
nella Natura. Avvertiamo che V Essere eterno ed uno ha dovuto essere attivo sempre,
estrinsecandosi (poiché essere vuol dire essere attivo) pensando prima i due
sistemi di punti e di istanti (lo Spazio ed il Tempo) e poi contrapponendosi i
punti di energia. Dunque il nostro studio deve cominciare da queste
estrinsecazioni primissime dell'Essere Eterno; vale a dire la matematica in
spazio e tempo, e la fisica in atomi eterei ed atomi ponderali. CAPITOLO
I. La prima estrinsecazione dell' Essere Divino (Spazio e Tempo) La
fisiologia dei sensi ha mostrato come dal tatto, dalla vista, dal senso
muscolare sorga in noi l'idea dello spazio e le condizioni in cui questa
intuizione si forma ancora nei bambini. Questa esperienza è sempre diretta
dalla Unità di coscienza. Altro è la intuizione di spazio e il concetto dello
spazio, ed altro è lo Spazio, ossia il fondo eterno. Se un centimetro quadrato
contiene 1.000.000 di punti, mezzo centimetro quadrato dovrebbe con- tenerne
mezzo milione. Ma non si può ficcarvene dentro altri milioni allo infinito ;
altrimenti i punti si toccano e diventano di due o tre un punto solo. Chi nega
la realtà dello spazio, nega la realtà del mondo, che è tutto esteriorità. Se
fosse puramente nostro subbiettivo e continuo, non vi sarebbero punti fissi,
uno fuori dell'altro, non vi sarebbe alcun luogo; quindi il moto, cioè il
passaggio di un corpo da un luogo ad un altro, non avrebbe realtà. Zenone di
Elea infatti negava la realtà del moto, perchè lo riteneva continuo, come
spazio e tempo, e diceva che, se il veloce Achille sta un passo dietro la
tartaruga, non la potrà mai raggiungere. — 22 — Ma quando si considera lo
spazio come un si- stema bene connesso di punti pensati dall'Essere Divino e
quindi reali, e il tempo come un seguito di istanti, divisi da minimi
intervalli, allora si ca- pisce che il moto reale è possibile, perchè il corpo
che si muove va a scatti, cessando di essere nel punto dove era, per cominciare
ad essere laddove non era. Altrimenti un corpo in moto non sarebbe in nessun
luogo. Celere è il moto i cui intervalli o riposi sono brevi. Lento è quel moto
i cui in- tervalli sono meno brevi. Lo spazio ed il tempo non hanno energia
motrice, ma non sono nulli ed hanno una realtà numerica. E siccome il Numero è
la realtà maggiore della Logica, come dimostra Hegel, così la loro realtà è
certa (1). Kant suppose che noi creassimo lo spazio ed il tempo, ossia che
fossero come occhiali colorati o nostre intuizioni che ci obbligassero a vedere
e toccare le cose esteriori in un modo subbiettivo della nostra coscienza.
Ipotesi resa impossibile oggidì, giacche le fotografìe e le fonografìe ci di-
mostrano che le macchine fotografiche vedono le cose come noi e notano così le
divisioni dello spazio come noi, e le macchine fonografiche dividono il tempo
come i nostri orecchi, riproducendo le vibrazioni fonografate e quindi i suoni.
È vero che riconosciamo dapprima lo spazio ed il tempo em- (1) Lo spazio, il
tempo, gli atomi, sono la molteplicità del mondo che non può essere fatta se
non da una Unità spirituale. Se tutte le cose hanno relazioni numeriche tra
loro, la sostanza comune numerica dello spazio, del tempo e delle minime unità
atomiche, va considerata nella Unità Cosmica.piricamente : e che per i bambini
non sono altro che forme della distanza degli oggetti voluti e del moto
necessario per raggiungerli. Più della vista e del tatto è il senso muscolare,
ossia il senso dinamico della forza ricevuta e spesa, il senso del moto, e
della resistenza, che ci dà lo spazio ed il tempo: è questo il primo senso a
comparire nella evoluzione animale e nel feto. La realtà dello spazio è il da
mihi ubi constitam della filosofìa scientifica. Nella « Teoria del cielo » Kant
riconobbe la realtà dello spazio, e lo disse un assoluto, indi- pendente dalla
materia, anzi base della possibilità di sviluppo delle forze, eterno, infinito,
vuoto: e aggiungeva « dubito che se ne sia mai data una « definizione adeguata.
Le determinazioni dello « spazio non sono conseguenze del posto che oc- «
cupano reciprocamente gli atomi, ma queste sono « conseguenze dello spazio, e
le diversità nei corpi si « riferiscono sempre allo spazio assoluto, che non è
« oggetto di sensazione, ma è una idea fondamen- « tale, la quale rende
possibile tutte le altre. Di « modo che non si può percepire un corpo se non in
« relazioni spaziali con altri corpi » . Più tardi però Kant concepì spazio e
tempo come forme subiettive della visione e dell' intelletto, con le quali noi
mettiamo ordine nei fenomeni e fu in questa stra- nezza seguito dallo
Schopenhauer. Non però dagli altri maggiori pensatori della Germania, non da
Jacóbi, da Schelling, da Hegel, da Herbart, da Beneke, da Schleiermacher, da
Bitter, da Weisse, da Ueberweg, da Wundt, da Hartmann, da Zeller, da
Trendelenburg, da Lazarus) da Dilhring, da Baumann. Il danese Kromann ed altri
provarono che le difficoltà che Kant trovava nello spazio obbiettivo, rimangono
anche se lo spazio fosse meramente subbiettivo. Alcuni matematici, come
Riemann, credettero che, oltre al nostro, vi fosse uno spazio a molte
dimensioni. Ma, se lo spazio avesse più di tre dimensioni (larghezza, lunghezza
e profondità), tutti i corpi varerebbero di massa e di volume. Ogni azione a
distanza ritornerebbe sopra se stessa. La gravitazione sarebbe proporzionale
inversamente del cubo, e non già del quadrato della distanza, come dimostrò A.
Wiessner. Le leggi di gravità stabilite dal genio di Isacco Newton ci provano
che lo spazio a tre dimensioni è il solo reale; giacche la irradiazione degli
atomi si ripartisce sulla periferia interna delle sfere; appunto per il
rapporto inverso del quadrato della distanza. E se lo spazio avesse due sole
dimensioni, si ripartirebbe sulla periferia interna dei circoli. In altre
ipotesi la gravitazione sarebbe in rapporto inverso di ogni altra funzione
delle distanze. — Anche i tre assi perpendicolari dei cristalli ed altre leggi
fisiche, ci provano che lo spazio reale ha tre sole dimensioni. E lo dimostra
anche il chiaris- simo professore Federico Enriquez trattando della Geometria
non Euclidea e non Archimedea nei suoi « Problemi della scienza » Bologna 1905.
La realtà dello spazio assoluto a tre dimensioni, è tanto sicura, che il
maggior fisico del nostro tempo sir W. Thomson (creato poi Lord Kelvin), mostrò
che si deve prenderlo per base di tutte le misure (1). (1) Abbiamo riassunto le
ragioni e le proposte del Thomson nel volume quarto della nostra Nuova Scienza
pa- gina 81 a 84. — 25 — La realtà del tempo poi che (come dice Neioton) «
fhixus mutari nequit, equabiliter fhlit » è dimostrata vera da molte leggi. Se
non vi fosse un centro immobile nell'Universo, tutta la meccanica serebbe
fallace. Se non fosse reale il Moto assoluto, addio astronomia. Tutto cangia o
di luogo, o di forma, o di qualità, e nessun cangiamento può av- venire se il
tempo non fosse una realtà. Si potrebbe dubitare della realtà del tempo
soltanto se niente si cambiasse. Non sono inerti spazio e tempo, perchè
assoggettano, come sistemi inalterabili di punti e di istanti , a regole certe
i moti, le azioni e le resistenze. Lo spazio ed il tempo sono così obbiettivi
come subiettivi, sono i due Oceani della possibile espansione di qualsiasi
energia. Il fondo eterno non può essere che uno. Lo implica la interazione
delle forze ; lo implica il coesistere di un numero enorme di scopi e di azioni
e di moti che si incontrano e lottano fra loro senza confusione. Se non vi
fosse la sistemazione dei punti di spazio e degli istanti di tempo,
sistemazione che è tutta dovuta alla Unità Reale eterna {Numerorum Fons di
Giordano Bruno) discontinuando il tempo e lo spazio, il Moto che è l'espansione
della Energia in questi due Oceani, non avrebbe mai precisione ; anzi non
sarebbe possibile. La possibilità dei coesistenti (spazio) e dei successivi
(tempo) rende facile l'azione dei punti di forza. — Spazio e Tempo esistono per
se come sistemi di termini puntuali indivisibili (1) e tra i termini puntuali
ci (lì Una superfìcie è definita lunghezza e larghezza, senza profondità. Una
linea lunghezza, senza larghezza, ne profondità. Un punto, ciò che manca di
larghezza, di — 26 — sono intervalli infinitesimi, ma non nulli. Se fos- sero
nulli non sarebbe possibile il moto e specialmente il moto curvilineo, die si
calcola col diffe- renziale. Infatti una curva cambia continuamente di
direzione, con grandezze infinitesime, che cre- scono o diminuiscono. Il
differenziale è un valore che limita e non una grandezza numerata. Per variare
la direzione in una curva qualsiasi, vi è bi- sogno di un nuovo impulso, sia
pure infinitesimo, ma non nullo. Possiamo pensare come infiniti lo spazio ed il
tempo, ma lo infinito non è mai una realtà. La loro connessione e tale che
sembrano continui e si trattano come tali; nondimeno i punti dello spazio e
gl'istanti del tempo sono realmente fuori gli uni degli altri e quindi
numerabili, senza tener conto degl' intervalli infinitesimi (1). Ogni punto è
numelunghezza e di profondità. Se i punti, le linee, le superficie non avessero
per limiti dei punti indivisibili, questi limiti sarebbero composti di molte
parti, di cui nessuna sarebbe l' ultima ; non vi sarebbe alcuna figura
definita, non vi sarebbe linea lunga e linea corta perchè tutte sarebbero
composte di parti infinite, mentre in realtà la linea corta è quella composta
di minor numero di punti. Ecco la realtà dello spazio: sta nell'essere
numerabile. Il tempo poi è composto di istanti indivisibili, perchè se non si
potesse arrivare alla fine della sua divisione, vi sarebbe un numero infinito
di istanti (ossia di elementi del tempo) contemporaneamente. Locchè è assurdo.
Il tempo è fatto dalla Unità cosmica e intuito dalla nostra Unità intima e non
è un concetto empirico. Senza l'Unità in- tima non riveleremmo il Moto e il
cambiamento delle cose tutte, come lo rilevano anche gli animali, perchè non si
confronta se non vi è l' Uno vivente. Gli istanti sono reali e numerabili e
fanno la realtà del Tempo. (1) Contro questi intervalli Pascal diceva che i
punti dello spazio o si toccano interamente e allora invece di — 27 — rato,
ogni istante del pari, sono tutti diversi e discernibili, hanno tutti una
esistenza separata e permettono di evitare la confusione nel Cosmo e nella
Scienza. Cartesio rinnovò la geometria cambiando la qualità, ossia la forma dei
corpi, in quantità; riducendo la forma alla posizione e determinando la
posizione con le linee coordinate potè sostituire alla misura diretta la
indiretta e trovare le quadrature, le cubature ecc. Egli applicò l'al- gebra
alla geometria, osservando che ogni spazio chiuso può determinarsi dalla
lunghezza delle li- nee perpendicolari abbassate su due linee rette o su tre
piani che si taglino nello stesso punto ad angolo retto. Così le linee e le
superfìcie curve possono determinarsi dalle loro equazioni, in cui le relazioni
variabili sono combinate con quantità costanti, ed i numeri servono a
constatare le proprietà dello spazio. Il che sarebbe impossibile se lo spazio non
fosse realmente composto di punti separati indivisibili. Inversamente, le
proprietà dello spazio, può dirsi che dipendano dalle proprietà del numero;
sicché lo spazio si risolve in un sistema di numeri, pensato dalla Unità
suprema del Cosmo. Galilei scoprendo le leggi d' inerzia, scoprì an- che la
necessità del moto assoluto, almeno nel calcolo, e quindi del Tempo assoluto. —
Kuno Fischer ha dimostrato (contro Trendelenburg) che il moto è preceduto e
spiegato dal tempo e non gedue sono uno : o si toccano soltanto in parte e
allora sono divisibili. E sbagliava, perchè non sono circoli, ma punti e non
hanno parti, ma essendo fuori l'uno dell'altro non si toccano. L'estensione
dello spazio deriva appunto da questo, che non si toccano.nera né il concetto
ne la intuizione pura del Tempo. Nei suoi « Philosophiae naturalis Principia »
, 1714, (Def. Vili) Newton scrive : «Eadem est Buratto seu perseverantia rerum,
sive motus sint celeres, sive tardi, sive nulli » . Il tempo sarebbe il
medesimo anche se l' Universo e i suoi , moti fossero affatto diversi da quelli
che sono. È un pensiero della Eagione eterna di cui Descartes (Lettera a Vatier
nov. 1643) scriveva : « Tempus non est affectio rerum sed modus cogitandi » .
Aristotile. Phys. IV. 10 chiama àpi&iioc, x^viqaeos ossia numero del moto.
11 tempo è eguale da per tutto e questa sua ubi- quità non permette di
prenderlo per una linea, benché sugli orologi e nelle clessidre lo si misuri
sopra una linea. Newton dice che il tempo è un sistema d' istanti che non dipende
dalla nostra coscienza. Ogni fi- nalità si appoggia sulla idea del tempo, senza
la quale niente si farebbe, non potendo aspettarsi effetto alcuno dalle proprie
azioni. La legge d' inerzia prova che il moto è assoluto come lo spazio ed il
tempo. Essa è dimostrata vera da tutte le esperienze (benché sia impossibile la
esperienza fondamentale perché stiamo in un pianeta del sistema solare e non
nel centro universale). Essa prova la realtà dello spazio e del tempo e la loro
uniformità. Che lo spazio ed il tempo per noi sieno concetti a priori o sieno
in- tuizioni, poco importa. Quello che importa di sa- pere è quello che sono in
se stessi. Sono due sistemi di punti e di istanti separati e discernibili,
perchè numerati. La realtà che hanno è minima, mancando di energia, ma se non
vi fosse, si avrebbe il caos e la indeterminazione. Spinoza diceva: « Quo plus realitatis
aut Esse unaquaeque res habet, eo plura attributa ei competunt » e questi due
sistemi di punti e d'istanti non hanno altro attributo che l'ordine, il mimerò,
la realtà dell' Essere puro, del Numero. Lo esigono la Meccanica, l' Astronomia
e tutte le scienze esatte. Al principio delle cose non vi poteva mai essere
(come supposero parecchi Metafìsici, ed anche YArdigò) Vessere indeterminato.
Come prova il grande matematico Cantor, lo spazio ed il tempo sono due oceani
di punti e di istanti nei quali anzitutto si estrinseca l'Essere Uno Reale. Il
Numero è così alla genesi di ogni possibile energia. Pitagora, dando al Mondo
il nome di xoajjto? (ossia ordine) comprese che il generatore dell'ordine era
il Numero. E Leibnitz scrisse che « omnibus ex nihilo ducendis sufficit unum »
. La seconda estrinsecazione dell' Essere Primo (Atomi eterei e ponderali) Come
non sono continui lo spazio ed il tempo, così non è continua la Materia (come
crede Ardigò)1 e se lo fosse, non opporrebbe resistenza, come dimostrarono
Poisson e Cauchy. La forma sferica non basterebbe all'equilibrio di un corpo di
materia continua ; una siffatta materia si dissi- perebbe nello spazio: sarebbe
una specie di atmo- — 30 — sfera diffusa allo infinito, con strati concentrici,
sempre più rarefatti. Parti di numero indeterminato, mai non potrebbero fare un
tutto di numero determinato, come dimostrò fin dal 1844 Saint-Venant. Nella «
Révue du mois » 1906, Jean Perrin provò la discontinuità della materia con la
radioattività e con altri fatti. Ciò che è sostanziale non può concepirsi come
indeterminato o indefinito, quindi l' indistinto di Ardigò è un concetto
inapplicabile in fìsica. Tutte le leggi fisiche e chi- miche ci provano
concordi che gli atomi serbano sempre proporzioni definite nello scambiare le
loro forze (attrazione, calorici specifici, equivalenti elettrici e chimici,
ecc.). Il Secchi ( « Unità nelle forze fìsiche » ) fa os- servare che
teoricamente l'equivalente definito e multiplo esige che la materia sia
composta di centri distinti e semplici. Questo lo aveva già in- tuito Pitagora,
quando distinse nettamente il nu- merato o numero concettuale dalla Unità Reale
o sostanziale : e fu svolto il suo pensiero da Ecfante di Siracusa, il quale
mostrò che le Unità reali erano Atomi, intendendoli come unità immateriali,
esistenti a se, come punti di energia propria se- movente, prevenendo così le
obbiezioni degli Eleatici contro la possibilità del moto. Spazio e tempo sono
le condizioni numeriche nelle quali ci si presentano la materia e il moto nelle
esperienze di forza, mentre l'energia atomica, come vedremo, sente e vuole e fa
il moto opponendo alle forze incidenti la forza propria della impenetrabilità.
L' Essere atomico non si lascia annichilire. Il dire che persiste la forza, la
volontà, ossia una attività, una realtà indeterminata, è vago e per nulla
scientifico, se non si dice che è la me- — 31 — desima in quantità. Bisogna
dire che quello che persiste è Vertergià, la Unità Reale. Il carattere
distintivo della scienza italica fu di eliminare l'in- determinato, e di
cercare il concreto misurabile. Il Moto non è altro che un rapporto di spazio e
di tempo e non ha esistenza in se stesso. La realtà sta nell' Atomo senziente e
volente. Lo ammise il Taine nel 1892 e lo aveva, dodici anni prima, ammesso
anche Herbert Spencer scrivendo nella Revue Philosophique de la France « La
forza « cosmica non può somigliare alla nostra : ma sic- « come la genera,
devono essere modi diversi della « stessa energia. Il potere manifestato in
tutte le « cose è alla fine quello che in noi scaturisce sotto «forma di
coscienza. La materia vive in ogni « Atomo per se stessa. Questo centro, questa
Unità « interiore di tutte le cose e inaccessibile alla nostra « coscienza : le
scienze studiano i loro fenomeni « e non la realtà conscia che li fa. Ma
siccome « noi dobbiamo sempre pensare la manifestazione « esterna nei termini
della Energia intima, così, « (conclude l'eminente filosofo inglese) si arriva
« ad un concetto psichico degli Àtomi » . Quando si dice che gli atomi sentono
un tantino, è inutile spiegare che non si parla dei nostri sensi, che sono
frutto di lunghissima evoluzione, nella quale gradualmente si sono accmnunati
il sentire ed il volere di milioni di Atomi, dividendosi il la- voro
fisiologico, e formando così organi perfezionati. Ma si intende che gli Atomi
debbano avere il solo senso dinamico (o della forza fondamentale che tende a
formare più alta unità). Infatti la coe- sione è universale e non è mai un
moto, ne fatta da moti esterni. E se viene disturbata, fa il moto termico o
calorico e la elettricità dinamica. In al- — 32 — tre parole si parla di quella
sensazione primitiva minima dell' Èssere in se, dalla quale derivano tutte le
altre più complicate e più raffinate della chimica e della biologia. Quando la
violenza del verito fa accavallare le onde del mare, un buon Capitano (come ce
lo de- scrive l'ammiraglio francese Cloué) fa portare in- torno i sacchi di
telaforte, pieni di stoppa imbevuta di olio di pesce, di foche o di marsuini,
fa forare con aghi da vele i sacchi, legandoli alla poppa o alla prora, non mai
più vicini di dieci metri fra loro. Ogni ora escono da tutti i sacchi da due a
tre litri di olio, formando quasi una strada piana, larga 50 a 80 metri, che
manda lembi di olio fino a 400 o 500 metri ai due lati della nave. Questa
pellicola di olio che si diffonde sul mare e calma le onde furiose, non può mai
essere piegata dal vento, per quanto sia veemente. Eppure questa pellicola ha
lo spessore di i /QQ , 0QQ di millimetro (poco più delle bolle di acqua
saponata), e basta a far cambiare la direzione alle molecole dell'acqua che
arrivano con impeto. E perchè ? Unicamente per la forza di coesione delle
minime molecole dell'olio. Il Cloué ha avuto più di duecento rapporti
concludenti da varie società di salvataggio, da molti capitani di lungo corso,
che attra- versano periodicamente 1' Oceano Atlantico. La coesione è dunque una
gran forza, se in una pellicola poco più grossa della bolla di sapone può
arrestare i marosi in burrasca ! ! Ed è una forza indipendente da qualsiasi
altra, che non deriva da cause meccaniche, ma unicamente dalla sensazione
dinamica, dal piacere di unirsi delle molecole di olio. — 33 — L'atomo di una
goccia di acqua non vede, non ode, non ha ne palato, ne olfatto, ne udito, né
vista, ne tatto; ma ha bensì il senso rudimentale, dal quale (con lunga
evoluzione) uscì il tatto chi- mico e quello delle cellule degli organismi inferiori.
E quando milioni di atomi fanno la goccia di acqua senza esserci costretti da
alcun moto, da nessuna pressione di etere (come fu constatato), la fanno
godendo, altrimenti non la farebbero. Il maggior neocritico tedesco, il Wundt,
con- cepiva gli atomi come volontà elementari, come es- seri attivi che sentono
(benché più semplicemente di noi) : e li aveva concepiti così anche Antonio
Rosmini, come si vedrà nel terzo Volume. Materia inerte non esiste che in
apparenza. « Instar arcus tensi, qui non indigent stimulo alieno, sed sola
suòlatione impedimenti» diceva Leibnitz. La Materia è un Concetto vuoto di una
cosa che la Scolastica credeva sostanziale, che non ha qualità propria, ma si
supponeva servisse di base alle forze, le quali sarebbero state (secondo gli
scolastici) meri accidenti : mentre sono le vere realtà. La Materia (dice il
senatore A. Righi) ha per proprietà distintiva Vinerzia ; e gli elettroni (o
atomi veri), benché non sieno materiali, perchè le loro masse crescono colla
velocità (Moderna Teoria dei fenomeni fisici, 1907, pag. 234), la mostrano in
molti casi, quando stanno fermi, come punti di forza disposti simmetricamente
intorno ad un centro positivo ; ma in moltissimi casi non la mostrano,
cambiando il modo di sentire e di volere. La cosa reale non può essere che un
sistema di punti di energia senziente. Anche nell'urto meccanico, il corpo urtato
si muove per una intiina reazione, ossia perchè le molecole ritornano al posto
in cui trovavano la coesione gradita. Nessuno misura la Materia se non come
peso, massa o volume: di cui i primi due si risolvono in forze e il terzo in
spazio occupato dalle forze. Gli atomi sono punti, ma fanno la massa e la
densità, perchè vi è fra loro dello spazio, anche nei liquidi e nei solidi:
ciascuno esiste in sé, e persistendo in relazioni diverse, si sviluppa in
molteplice. La causa del moto è sempre intima, nella sensazione delle forze.
Gli atomi veri che il prof. Stones ha chiamato Elettroni, non sono estesi,
perchè, se fossero estesi, sarebbero divisibili: ma sono punti di energia, che
irradiano nell'Etere il quale è pure discontinuo e (secondo Helm e Vogt)
darebbe origine agli Elettroni. Invece di Materia, si dica dunque Corpo, vale a
dire complesso di energie: e si lasci la Materia alla scienza morta di
Aristotile e degli scolastici medioevali e moderni. L' Energia di qualsiasi
specie si trasforma con- servando il suo valore numerico : ogni Energia è
potenziale rispetto a quella in cui si trasforma. L'Energia è sempre misurabile
ed è l'unica che ci interessa. Si compra la materia come la- boratorio di
energia. L'Elettrica ha un valore commerciale, dunque è realissima, benché la
parte materiale degli impianti elettrici non si alteri, né diminuisca col
consumo. Sembra che il calore sia energia cinetica, ma non si può trovare la
sua potenziale, se non è nel disturbo della coesione, che è un modo di
avvicinarsi godendo l'armonia. Nessuno sa se la Elettricità sia energia
cinetica oppure Energia potenziale: non è fatta dal mo- — 35 — vimento dagli
atomi complessi di Thomson, ma soltanto dal moto degli Elettroni. Questi sono
punti di forza senza nucleo materiale, senza caput mor- tuum che li porti, come
la terra va attorno al sole senza essere portata dall'Elefante o dalla
tartaruga degli Indiani. « Omnis Ens, aut in se, aut in alio est » diceva
Spinoza e gli Atomi sono in se, elementi psichici che non si lasciano
distruggere e se disturbati reagiscono. Lotze osserva che la reazione non è mai
simile all'azione, ne Veffetto somiglia alla causa, almeno nella qualità. Chi è
colpito si difende in modo diverso (Microcosmos I 165 a 168). E Lasson filosofo
di non minor valore del Lotze, aggiunge : « Non esistono cose meramente
oggettive, passive, esterne» . Una energia reale (osserva Guyau) deve avere un
modo interno di essere: un appetito, una sensazione rudimentale. Così pensarono
eminenti fisici (oltre ai filosofi), quali furono : G. Bruno, Leibnitz, Kant,
Boscowich, Maupertius, Cauchy, Moigno, Ampère, Faraday, Tyndall, Zóllner,
Fechner, Wundt, Haeckel, Delboeuf, Cournot, Cope, Vacherot, Fouillée, Preyer,
Ostwald, Mach (1). Nella sua « Mechanik in ihrer Entwickelung » ossia « La
meccanica nel suo sviluppo, il Mach scriveva che « La mitologia Meccanica è
sbagliata. (1) Il Marchesini e gli altri discepoli di Ardigò credono che gli
Atomi siano materiali e si affannano a combattere la falange dei, veri
pensatori di cui qui abbiamo dato alcuni nomi. E giusto però osservare che
hanno male inteso Ardigò, il quale scrisse che « la Materia è Pensiero ».
S'intende non dei sassi, né dell'uomo, ma della Sostanza Psicofìsica, di quella
divinità inconscia dello Schelling ch'egli chiamò V Indistinto. - 36 - « La
nostra fame non è molto diversa dal bisogno « di combinarsi delle molecole. La
nostra Volontà « non è molto diversa dalla pressione del tetto « sulle pareti
di una casa » . E Kromann, filosofo di Copenhagen (Unsere Natur Erkentniss)
osserva : « se l'Atomo fosse ma- « teriale, non opererebbe se non nel posto ove
si « trova, non irradierebbe energia termica o elet- « trica ; anzi non si
continuerebbe il moto dopo « V urto, se non per alcuni istanti, e andrebbe «
estinguendosi per l'attrito. Avviene l'opposto : « dunque l'Atomo è Energia
psichica » . Il considerare la Fisica come una estensione della Meccanica va
bene fino ad un certo punto, per la comodità dello studio esteriore, ma la
filo- sofia non è limitata dagli orizzonti della Materia estesa e cerca la
realtà intima che fa le forze originali. Bisogna evitare di fare della
scolastica positivista una Metafisica di Materia, di Forza, di Massa, di Moto,
di finzioni logiche, che si pigliano per reali quanto più sono lontane dalla
realtà, mentre sono meri simboli, meri concetti astratti. I fatti reali di
coesione, di solidarietà dell'etere e dell'aria, senza la quale non vedremmo la
luce, non ci arriverebbero ne luce, ne suoni, ci con- vincono che sotto le
astrazioni della scolastica materialista, ci sono le realtà psichiche indivi-
duali minime. L'Etere cosmico forma un tutto solidale ed elastico, è quindi
composto di tanti punti di forza che reagiscono. Quando questi punti di forza
si scindono in due elettricità, l'una positiva al centro e l'altra, composta di
elettroni negativi, alla periferia, fanno gli atomi ponderali, che ten- — 37 —
dono ad unirsi, se vicini, con la coesione, e se lontani colla gravitazione, in
ragione inversa del quadrato della distanza. L'etere è il mezzo che porta
istantaneamente l'attrazione da un punto al- l'altro, per quanto sia lontano,
Coesione e gravitazione, ossia le forze attrattive, ci indicano che la prima
tendenza intima degli atomi è quella di formare più alta unità (1) anzi ce lo
indica già la costituzione degli atomi sferici in due specie di elettricità, il
cui centro è positivo e la periferia è negativa, ossia composta di elettroni
negativi (2). La massa è il numero degli atomi di un corpo, il peso è invece
relativo al corpo celeste sul quale si sta; cosicché un corpo pesante un
chilogramma sulla Terra, peserebbe sul Sole 28 chili, su Marte 4 /2 chilo,
sulla Luna 37 centigrammi. Ma il platino pesa 80 volte il sughero di egual
volume in qualunque posto si trovi. Le prime forze dunque sono di elettricità
statica. Quando questa è disturbata, ne segue un moto disordinato e dispersivo
che si dice calorico e sembra spiacevole, perchè appunto è disordinato e ogni
corpo cerca di rigettarlo sui vicini e si di- sperde. Questa è la seconda forza
fondamentale della Natura. Ed è sempre un eccitamento a ri- (1) Ben inteso che
l'attrazione o coesione incomincia a una distanza minima sì ma non quasi nulla,
perchè quel punto che si dice atomo non può essere annichilito. (2) Nella
nostra Nuova Scienza abbiamo lungamente mostrato che i tentativi di Lesage,
Secchi, Isenkrahe ed altri di spiegare la coesione e la gravitazione per pres-
sione dell'Etere, erano falliti; e di questa opinione sono tutti i maggiori
fisici, fra cui l'eminente prof. Augusto Righi. 3 — 38 — tornare all'armonia
facendo la elettricità dinamica, ossia quelle correnti che divennero nella
moderna industria mezzi di grande efficacia. Già nei vecchi esperimenti di
Siebeck e di Nobili il calorico si trasformava in elettrico contrasto. Che dal
calo- rico (moto disordinato) gli atomi appena lo possono, passino all'
elettricità ed al magnetismo (moti ordinati e piacevoli), venne recentemente
dimostrato dai professori Ettingshausen e Nernst, mettendo in un campo
magnetico una piastra di bismuto, perpendicolarmente alle linee di forza: poi
riscaldando la piastra da una parte, si vede dall'altra parte sorgere una
corrente galvanica. Una data quantità di energia termica è sempre equivalente
ad una determinata quantità di ener- gia elettrica (2) qualunque sia la sua
temperatura; si ottiene sempre lo stesso valore trasformando una nell'altra. L'
Elettricità che non si manifesta in tensione (statica) si manifesta in corrente
(di- namica) o in rotazione (magnetica) o irradiando e vibrando. Le proprietà
di isolare o di condurre la elettricità dipendono dall'aggregazione molecolare,
p. es. il Carbonio nel diamante isola, nella grafite conduce; i corpi a
molecole bene orientate si elettrizzano bene scaldandosi poco (come l'ambra, la
ceralacca, il vetro); ma i metalli composti di atomi neutri, avendo le molecole
male (1) Avendo Carnot provato che il calorico non si con- verte in lavoro
meccanico se non quando passa dai corpi caldi ai freddi, Thomson ne dedusse che
una parte sempre maggiore della Energia convertita in calorico si disperde nel
cielo e il lavoro scema : così alcuni credono che l'ener- gia dopo molti
milioni di secoli si estinguerà ; ma questo sarebbe già raggiunto (se fosse
vero), perchè l'Universo non ha avuto principio nella sua energia potenziale. —
39 — orientate, si lasciano molto riscaldare con lo sfre- gamento senza
elettrizzarsi, sono elettropositivi, e si possono jonizzare con poca energia.
Un corpo carico di elettrico, sebbene isolato, produce nei vicini uno stato
elettrico di specie opposta (negativa o positiva) in ragione inversa della
distanza. Con una macchina di induzione si elettrizzano migliaia di cilindri di
latta. La elettricità è un contrasto di correnti bipartite e non si ricompone
se non allora che la positiva è posta in contatto improvviso colla negativa.
Niente passa dal corpo inducente al corpo indotto; ma gli atomi di questo
assumono la corrente, senza che l'e- tere frapposto si elettrizzi ne si
polarizzi - e questo ci prova che non è l'etere che fa la elettricità. La
fisica nuovissima fa oggi sugli elettroni ossia sugli atomi elettrici ricerche
perseveranti. Studiando la conduttibilità della Elettricità attraverso i li-
quidi ed i gas, si vide che era costituita da Elettroni, ossia da Atomi
elettrici, rispetto ai quali le cariche sono multiple, come numeri interi di
atomi elettrici. Helmholtz l'aveva intuito e Lorentz lo dimostrò. Lodge e Righi
trovarono che l'Etere è elettri- cità di forza minima ed il principio di ogni
materia, ha una massa ed una forza viva, che dal punto centrale dell' Atomo fa
i vortici elettrici, l'atomo vorti- coso di sir William Thomson (lord Kelvin)
il quale conteggiò il numero degli Atomi minimi (Elettroni). Gli Elettroni sono
emessi con enorme velocità dal catodo, nei tubi a vuoto (raggi catodici) e dal
radio (raggi beta). Questi risultano da cariche elettriche in moto rapido assai
e sono deviati dalle calamite (1). fi) Kauffmann : La costituzione
dell'Elettrone, 1906. - Annalen der Physik, quarta serie, voi. 19. - 40 — Il
prof. Abraham di Gottinga nel 1902 ha cal- colato la massa apparente
dell'Elettrone per le diverse velocità, supponendo che abbia causa elet-
tromagnetica e che l'Elettrone sia sferico e rigido. Kauffmann confermò che non
vi è nocciuolo materiale nell'Elettrone. Un magnete, ossia una pietra di ferro
sulla quale si scaricò probabilmente il fulmine e nella quale le due
elettricità restano separate ed in contrasto continuo, attrae il ferro, come tutti
sanno. Il magnete non attrae cei*to per la pressione dell'etere, che si
esercita su tutti i corpi. Dopo il ferro, il nikel e il cobalto sono i metalli
più magnetizzabili: un pezzo di acciaio che subisca un forte sfregamento con un
magnete, diventa un magnete e serve a fare altri magneti. I gas e le materie
contenute nelle fiamme sono magnetizzabili e di- vidono le fiamme in due corni.
Jonizzare vuol dire separare da un atomo neutro alcuni suoi elettroni negativi:
e si fa facilmente nei metalli, composti di atomi neutri. Si jonizza sia col
gran calore, sia con urti violenti che scal- dano molto, sia coi raggi
catodici, di Rontgen o di Becquerel. Un filo arroventato jonizza il gas che lo
tocca, ed i gas delle fiamme sono tutti for- temente jonizzati e ridotti ai più
semplici elementi Uberi. Le scariche elettriche sono fatte dai joni dei gas,
urtati violentemente, scomposti in elet- troni negativi. La luce deriva da
vibrazioni elettriche trasversali e perpendicolari ai raggi da destra e da si-
nistra. Se la destrogira o la levogira ritarda, non danno più una riga sola
nello spettro, ma due. I raggi scoperti nel 1895 da Rontgen che partono dai
catodi ossia dai poli negativi in sfere di gas rarefatti, hanno onde quindici
volte più corte di quelle della luce del sole, e non si vedono, ma fotografano
e non si rifrangono, non sono carichi di elettricità come i raggi catodici ; ma
fanno sor- gere l'elettricità nei corpi conduttori. I raggi scoperti da
Becquerel nel 1897 non partono da sfere di gas rarefatti, ma da corpi estratti
dalla pecliblenda (q sono i seguenti: radio, uranio, torio, bario, attimo)
vengono emessi anche nel vuoto ed a temperatura glaciale e sono di tre specie:
alfa, beta e gamma. Gli alfa sono fatti da joni positivi e deviabili e
jonizzano i gas che urtano. I beta più forti anche nel fotografare, si
comportano come raggi catodici e deviano in senso opposto agli alfa. I gamma
sono più veloci e più penetranti degli alfa e dei beta. Trasformano l'ossigeno
in ozono, il fosforo bruno in rosso. Non derivano da scomposizione chimica, ma
da emissione di elettroni. Arrestano le scintille di , una fortissima macchina
elettrica, perchè egualizzano le elettri- cità accumulate, e le scaricano da
se. I raggi Rontgen sono esplosioni elettriche (materia radiante di Crookes, il
quarto stato di Faraday) e scompongono gli atomi dei gas nei loro Elettroni
negativi. Traversano i corpi opachi, fanno vedere le ossa e le palle di fucile
rimaste nelle ferite. I raggi Becquerel dei corpi radio attivi permettono di
scoprire in un miscuglio di gas elementi in proporzioni assai più piccole di
quelli indicati dallo spettroscopio. Intorno agli Elettroni negativi l'Etere è
teso in lunghezza e premuto dalle parti trasversalmente. Le linee di forza
magnetica sono cerchi perpendicolari alla trajettoria centrale. Una corrente
elet- trica è un flusso di Elettroni negativi equidistanti: se il moto non è
uniforme si ha Vinduzione, come dice Righi - (La moderna teoria dei fenomeni
fi- sici, 1907, Bologna, p. 257). Le aurore boreali e le corone dipendono dal
magnetizzarsi della luce. La efficacia della elet- tricità e del magnetismo
diminuisce col quadrato della distanza. Scaricando una corrente elettrica sopra
un disco di vetro, la positiva fa raggi diritti, mentre la negativa fa delle
ramificazioni si- mili alla radice di una pianta. R. Hertz trovò che
l'elettricità si propaga con onde dell'Etere cosmico che nel suo oscillatore
erano ridotte a 6 centimetri, ma colle bottiglie di Leyda superano 300 metri e
nelle macchine dei telegrafi senza fili arrivano a 7000 dalla stazione di
Coltano. — Le onde di Hertz dipendono da esplosioni per urto (1). La
elettrolisi è la scomposizione in joni degli elementi delle molecole: p. es. il
sale di cucina sotto l'azione di una pila e di due elettrodi, si di- vide in
joni di Jodio positivi che vanno al polo negativo, o Catodo, e in joni di
Cloro, negativi, che vanno al polo positivo o Ànodo. E l'acqua si scompone in
ossigeno, che va al polo positivo, o Anodo, ed in idrogeno, che va al polo
negativo o Catodo. Sulla elettrolisi si fondano gli accumulatori, o casse
cariche di elettricità, ottenuta separando il (1) Le scariche oscillanti, come
quelle fatte negli Oscillatori di Marconi sono prodotte da molti alternati
passaggi, da una serie rapida di flussi che, urtando violente- mente l'Etere,
vi fanno delle onde concentriche assai lunghe. Il ricevitore o coherer
alternando lo stato magnetico permette di far segnali. — 43 — piombo
dall'ossido di piombo (che si adoperano per muovere i tram elettrici). La
genesi degli elementi ossia delle varie specie di Atomi fu studiata dal Crookes
in Inghilterra, dal Mendelejew in Russia e da altri (1). Dalla in- focata
nebulosa, per la irradiazione del calorico, e l'abbassarsi della temperatura,
si formarono dapprima i 14 elementi leggeri (2) e poi, per successivi
raffreddamenti, anche gli elementi pesanti fino all'Uranio che pesa 240 volte
l'Idrogeno. Ogni elemento leggero diventò capolista di un gruppo, per
successive differenziazioni e complicazioni. — Raffreddandosi le stelle, la elettricità
ci va for- mando nuovi elementi e si complica la loro strut- tura. Così nelle
stelle bianche non vi è che Idrogeno, e poco Magnesio. Nelle stelle gialle,
come il sole, vi sono i metalli: ma non ancora i metalloidi. Nelle stelle rosse
che si raffreddano poi, come Ercole, ci sono metalloidi, e i metalli sono (1)
Tutti sanno che la piccolezza delle molecole è estrema. Gli Elettroni non sono
che punti di forza. Si può assottigliare l'oro in lamine di cinque milionesimi
di millimetro. Certi infusori provvisti di organi hanno un diametro minore di
un millesimo di millimetro. (2) Idrogeno, Litio, G-lucinio, Boro, Carbonio,
Azoto, Ossigeno, Fluoro, lodo, Magnesio, Alluminio, Silicio, Fosforo, Solfo
disposti in due serie : la elettrizzata positivamente e la elettrizzata
negativamente, ciascuna di 7 ele- menti. (Per gli elementi seguenti vedi Wendt,
Evolution der Elemente, 1891, Berlino). L'analisi spettrale datante linee
quanti sono gli elementi che compongono i corpi incandescenti. Nei laboratorii
chimici è difficile superare 2.400 gradi centigradi, tuttavia gli atomi di
idrogeno vibrano del pari nelle stelle, nel sole, nelle nebulose o in un tubo
di Geissler riscaldato, perchè danno lo stesso spettro. tutti combinati. Ma ad
altissima temperatura gli elementi si dissociano, perchè gli Elementi non sono
gli Elettroni o Atomi veri, ma sono atomi composti vorticosi, che Thomson
mostrò essere circolari, non tagliabili che vibrano quando sono urtati.
Dissociando gli elementi, diventano radioattivi, come dicemmo sopra, e la
dissociazione può arri- vare a tale energia che, col disgregare un soldo di
rame, si avrebbe forza bastante per far muovere un treno di centinaia di
quintali. Il prof. Ramsay vide il radio trasformarsi con- tinuamente in elio.
Le cinque leggi principali della fìsica pura mostrano la Unità ideale e reale
di azione e sono : Inerzia, Indipendenza delle Forze, Eguaglianza fra Azione e
Reazione, Conservazione della Materia e Conservazione della Forza potenziale
(non della manifestata). Del resto il principio di conservazione della Energia,
ha valore per i fatti osservati ; ma è inesatto l'applicarlo agli altri. Tutti
i fatti meccanici, sono nello stesso tempo fatti elettrici o chimici. La
meccanica ne coglie un solo aspetto : risolvere il mondo in figure è una
mitologia. Le forze interne sono le essenziali, sono psichiche. Il nostro
Giambattista Vico diceva che il conato o virtus movendi è fatto dall'appetito,
dal desiderio. Del resto tutte le spiegazioni meccaniche, quando escono dal
problema dei tre corpi, ossia cercano di determinare le variabili che
preponderano, di tro- vare le relazioni funzionali tra loro, per predire lo
stato futuro di un sistema di corpi, non danno mai la certezza e sono soltanto
approssimative. Se si considerano sistemi isolati come conservativi, vi s'
introducono delle variabili, riguardandoli 45 come porzioni di un sistema
conservativo più ampio : ma gli attriti, le viscosità e le complicazioni dei
moti di altri corpi, e sopratutto le rotazioni, rendono la soluzione impossibile:
come ben dice E. Picard (La mécanique classique, 1906). Laplace, invece di
supporre che l' impulso fosse proporzionale alla velocità, ritenne che fosse
una funzione della velocità e variasse con la velocità, come si è trovato poi
per gli Elettroni, le cui masse crescono con la velocità, per cui non sono
materiali. Così bisogna abbandonare le equazioni differenziali e cercare le
equazioni funzionali, se si vuol prevedere l'avvenire di un sistema di corpi. I
corpi non sistemati o che sono in moto lento, sono soggetti a cambiare
direzione e velocità, se vengono urtati. Non è l'urto, ne la pressione che si
converte in calore : bensì l'urto eccita le forze- interne a difendersi con
moto rapido irregolare che dilata e si disperde. Se si urtano due palle lanciate
una contro l'altra, le forze che risultano sono momenti eguali, ma opposti :
così che entra nel corpo urtato la sola differenza. II moto che segue all'urto
non avviene mica per una infusione di moto come suppongono gl'ingenui : ma esso
si verifica sempre per la solidale elasticità delle molecole, che ritornano al
loro stato abituale di coesione, come ha dimostrato fin dal 1887 Todhunier
(nella sua bella Theory of Elasticity). Fin qui abbiamo considerato la Materia
nel minimo, ossia nei suoi Atomi eterei e ponderali, cercando (per quanto era
possibile) le sue forze intime. Se ora la consideriamo nel massimo, dobbiamo
riconoscere che l'Universo non può essere infinito, — 46 — come è sempre
ripetuto nella filosofia del prof. Ardigòy ne in massa, ne in energia potenziale,
perchè allora, come ha provato l'astronomo Olbers, il centro di gravità sarebbe
in ogni punto del mondo e la meccanica e l'astronomia se ne andrebbero a
rotoli: ed anche perchè, come notava Angelo Secchi (Le stelle, pag. 334 a 336)
se il mondo fosse infinito e popolato di infinite stelle, la vòlta celeste ci
comparirebbe lucida come il sole in tutta la sua estensione. Chi avesse occhi
sarebbe subito accecato, ma nessun occhio avrebbe potuto nem- meno formarsi.
Zollner credeva che l'Universo finito evaporerebbe nello spazio : ma questo è
impossibile, perche, alla temperatura di 270 gradi sotto zero, (che è quella
della Via Lattea) e tanto meno ai freddi maggiori delle regioni più lontane
della Via Lattea, nessun corpo può svaporare. Le forze della Materia sono
anzitutto attrattive, e di queste parleremo nel seguente Capitolo. Le ripulsive
sono quelle della impenetrabilità, del calorico, dell'elettricità che abbia
eguale dire- zione e le esplosive dei composti chimici in cui entri l'azoto e
delle cariche elettriche. Derivano dal disturbo del godimento che è
caratteristico delle forze attrattive. La solidarietà degli Atomi in generale
Coi principii delle scienze fìsiche insegnati da Cartesio in poi, non si è
riusciti mai a spiegare l'attrazione e la coesione, che tengono insieme tutti i
corpi e sono le prime forze iniziali (1). Quanto tendano a stare insieme gli
Atomi Eterei lo prova la flessibilità ed elasticità dell'Etere. Quanto tendano
a stare congiunti gli Atomi ponderali, ognuno lo vede nelle goccie di acqua,
nelle colle, nei cementi, nei marmi, nei legni duri, nei corami, nelle corde di
canapa, nei diamanti,. in molti metalli e specialmente nei fili di ferro : anzi
in tutti i corpi liquidi o solidi compreso il proprio. Al di là di una piccola
frazione di millimetro, la coesione diminuisce e si estingue e su- bentra
l'attrazione in ragione inversa del quadrato della distanza, perchè gli Atomi
irradiano sopra superfìcie tanto più grandi quanto più sono lontane. Newton e
Faraday hanno intavolato bene il problema dell'Attrazione Universale. Ma gli
Empirici,, ed anche il gesuita padre Secchi (che non era punto filosofo, e
credeva come tutti i Tomisti, nel Motore immobile divino) lo hanno oscurato.
(1) L'amore degli animali e anche dell'uomo è la su- blimazione di quella
tendenza fondamentale che tiene as- sieme tutti i corpi del mondo. — 48 —
Newton per un quarto di secolo ci meditò so- pra (1) e stabilì due punti vale a
dire che l'agente della gravitazione non può essere meccanico (nella Prefazione
ai suoi Principii 1713), e che l'agente immateriale muove. Dunque è la unità
energica psichica degli Atomi ponderali, che trasmette per l'Etere la tendenza
a congiungersi. Quando questa calma, istantanea irradiazione arriva ad altri
Atomi ponderali è sentita, ed avviene la attrazione reciproca. Faraday
commentando (nel Philosophical Magazine, 1884, pag. 143 del Volume XXIV),
scriveva « Nella gravitazione la forza va per l' Etere alle « maggiori
distanze, partendo dai punti Atomi di « Boscovich. Ogni Atomo irradia dal suo
centro a « tutto il sistema solare » . Newton non ammise che la gravitazione
fosse dovuta ad una causa immateriale (che sarebbe la psichica Unità reale
degli Atomi) perchè come fi- sico diceva « hypothesis non fìngo » ma non lo
escluse e lo lasciò pensare al lettore. Egli vide bene fin dal principio e
concluse definitivamente nel 1681 che ogni teoria meccanica sulla gravità non
si può sostenere mai, perchè non si propaga, non si al- tera, non devia per
l'interporsi di qualsiasi so- (1) Newton studiò la ipotetica pressione dell'
Etere per spiegare la gravitazione fin dal 1675, e ne scrisse una Memoria che
lesse alla Royal Society. Ma nel 1686 di- chiarò in una Lettera ad Halley che
tale ipotesi non aveva il minimo fondamento. Sfortunatamente per loro e per la
scienza fìsica alcuni Empirici ed anche il padre Secchi nei due ultimi secoli
perdettero il tempo nel tentare di scoprire come V Etere facesse tale
pressione, che già il genio di Newton, dopo maturo esame, aveva trovata
impossibile. — 49 — stanza gazosa, liquida o solida, non prende mai la
direzione di una risultante, non si rinette, non si rifrange, non si trasforma
come la luce, non può essere un moto, ne derivare da un moto, è istantanea. I
tentativi di Lesage, di Schramm e di Secchi di far derivare la coesione e la
gravità dal flusso e dalla pressione dell'Etere, per quanto ingegnosi, rimasero
così imbrogliati da difficoltà enormi che non persuasero alcun filosofo. Arago
in Francia, Maxwell in Inghilterra ed altri grandi fisici li dimostrarono
inani. Clerk Maxwell ne enumerò così gli assurdi: 1 . — Eichiedono un punto
motore che agisca fuori e al di là dell'Universo. 2. — Esigono che la materia
sia ora creata ed ora annullata, giacche ora la forza è esaurita ed ora
acquista una enorme velocità. 3. — Riducono la gravità, che è forza perenne in-
distruttibile, ad un semplice effetto di di- verse forze che ci sono ignote. 4.
— Implicano la esistenza di capitali strabocchevoli di energia nell' Etere,
capitali che nes- suno ci ha trovati. 5. — Se fossero vere, farebbero andare in
frantumi varie volte al giorno tutti i sistemi solari. II padre Secchi altro
non fece che generalizzare per isbaglio un caso speciale di Poinsot (N.
Scienza,. IV voi., 282 e seg.) (1). (1) È molto deplorevole che alcuni giovani,
unicamente^ mossi dall'orrore per la psiche e per ogni interiorità (senza-
badare che essi sentono, vogliono e pensano) e volendo spie- gare tutto il
mondo con la esteriorità, ossia meccanicamente, sprechino oggi il loro ingegno
nel cercare a quali squili- — 50 — Newton (nell' Ottica) dichiarò assurdo che
la gra- vitazione fosse proprietà dovuta a moto di materia. Il suo concetto si
trova nei Principia (alla fine del libro) dove suppone che la forza psichica
degli atomi faccia la gravità; benché, come dice- vamo or ora, seguisse la
regola del suo tempo, fondata sul pregiudizio di Cartesio che la Materia nulla
avesse di psichico, che « in Philosophia experimentali hypotheses locum non
habent » „ — Egli veramente non arrivava fino a supporre che gli atomi avessero
un germe di sensazione, ma cre- deva in uno spirito pervadente gli atomi, e
lasciò (come Cartesio) la materia inerte passiva, mossa dallo spirito divino.
Fu Voltaire che presentò alla Francia il Newton della gravitazione universale,
considerata come una brìi dell'etere possano attribuirsi la coesione e la
gravita- zione ; dando prova unicamente della insolubilità del pro- blema. Fra
questi va notato l'egregio ingegnere M. Barbèra nel suo libro «L'Etere e la
materia ponderale» uscito a Torino sulla fine del 1902, nel quale, in meno di
140 pa- gine fa 1400 ipotesi : ma nella Prefazione del quale egli ha però il
buon senso di confessare che il meccanismo di ogni fenomeno fisico « rimane
affatto misterioso, e che i risultati della ricerca di esso sono quasi sempre
concezioni stranissime ed assurde, ma spera nondimeno che non sieno dannose ».
Dal momento cbe fu riconosciuto da eminenti fisici, fra cui in Italia da Righi
ed altri, cbe gli Elettroni (elementi degli Atomi) non hanno nucleo materiale,
sarebbe meglio fare a meno di scervellarsi per restare materialisti, limi-
tandosi a dire : « Sic volo, sic jubeo : sit prò ratione vo- luntas ». Se non è
assurdo cbe io, cbe sono composto di Atomi, senta, non sarà assurdo cbe un
atomo abbia un germe di sensazione gradita, nella Coesione. proprietà della
Materia, e divulgò quello che Newton dichiarò assurdo, vale a dire che la
materia agisse dove non era. Ma Voltaire non era che un letterato. Nella
evoluzione fìsica in grandi masse, come nella evoluzione chimica in piccole
masse, più o meno lentamente, le parti si rendono solidali nella sensazione
rudimentale dinamica (o della forza): perciò tutti i corpi (siano allo stato
gasoso, liquido o solido), sono elastici. Alla superfìcie di una massa liquida,
per 10 a 12 milionesimi di millimetro, la coesione è massima. Alla profondità
doppia è diminuita di 3/4 . Rucker nel 1885 con esperimenti ottici elettrici
confermò questi risultati. Quincke nel 1887 ha analizzato le pellicole liquide
che bagnano i solidi e disse che a meno di 25 milionesimi di millimetro
incomincia la coesione per le molecole dell'ac- qua. Nelle bolle di sapone la
pellicola è costante, se lo spessore eccede cinque soli milionesimi di
millimetro, e torna a crescere, se lo spessore viene ridotto ad un milionesimo.
Un liquido è formato da diversi strati, cosicché due porzioni di acqua si
attraggono quanto più stanno alla superfìcie: alla distanza di un dieci-
milionesimo di millimetro si attraggono con una forza massima. Thomson nel 1886
disse che l'at- trazione capillare non è altro che l'attrazione Newtoniana resa
più intensa per le molecole mobilissime che fanno il liquido. La forza di
coesione è tanta da resistere a grossi pesi. Da oltre un secolo Barton prese
molti cubi di rame aventi le loro superfìcie ben levigate e liscie, li mise sul
tavolo uno sopra l'altro e vide che, prendendo in mano il più alto, gli
restavano attaccati tutti i sottoposti. — 52 — I fenomeni della capillarità nei
tubi stretti sono ben conosciuti da tutti. Centinaia di esperimenti svariati
della solidarietà furono fatti da Plateau (Statique expérimentale et théorique
des liquides soumis aux seules forces moléculaires). Facendo ca- dere a goccie
certi olii sopra l'acqua, si distendono come piani : mentre le goccie di altri
olii cadendo si dispongono in forma di lenti più o meno convesse. La coesione
delle molecole di olio è tanta che i marinai calmano le onde furiose del mare
vicino alla loro nave col versarvi sopra un sottile strato di olio nel modo
indicato nel Capitolo precedente. La natura numerica della coesione si può in-
vestigare pigliando certe soluzioni, fortemente colorate, di permanganato di
potassa e facendone cadere alcune goccie sull'acqua, a minima distanza da
questa, e lentamente. Si vedrà che la sostanza colorata, nel suo discendere e
nel modificare l'as- sociazione molecolare assume la forma di anelli vorticosi,
cinti da una pellicola, che, sempre più assottigliandosi, si rompe : ed ogni
frammento degli anelli maggiori, discendendo, assume subito la forma di minore
anello vorticoso e via di se- guito, dando una figura di polipo che genera
sempre nuovi e minori anellini vorticosi fino a che diviene invisibile. — Con
una goccia di inchiostro il fenomeno succede lo stesso ma con tanta velocità
che riesce impossibile di studiarlo. Gli anelli vorticosi sono sempre fatti in
questo esperimento dalla forza di coesione in lotta col peso : prova che molti
atomi simili sempre tendono ad unirsi e uniti una volta stentano a disunirsi, e
che l'unità domina i molti. Per quanto siano caldi i liquidi riescono a for-
mare delle goccie. L'astronomo Young (Il Sole, — 63 — p. 220) dice che il Sole
(che sembra sia in gran parte gazoso) deve formare la sua fotosfera con
goccioline di metalli. Non vi è corpo gazoso che non possa gustare la coesione.
Infatti Cailletet e Wriblowcki, con macchine possenti, sono riusciti a rendere
liquidi quasi tutti i gas. La teoria cinetica dei gas di Clausius, Joule e
Maxwell non si regge più, perchè gli urti obliqui farebbero roteare le
molecole, il moto di traslazione si rallenterebbe e cesserebbe, e perchè la
legge di Mariotte e Gaylussac (essere a temperatura costante il volume di un
gas in ragione inversa della pressione) non si verifica che poche volte, come
provò Regnatili: anzi Hirn variò a piacere la temperatura senza che cambiasse
la resistenza (1). Clausius cre- dette che le molecole dei gas corressero senza
vi- brare e spiegava così la discontinuità degli spettri dei gas, dei liquidi e
dei solidi. Ma recentemente vari fisici hanno attribuito gli spettri lineari
dei gas alla piccolezza delle loro molecole, invece che alla fantasticata loro
corsa vertiginosa, e fu tolto al Clausius l'ultimo suo rifugio che era lo
spettroscopio. Venne allora Hirn a provare che, se le molecole dei gas
corressero in linea retta, non vibre- rebbero e non potrebbero mai dare un
suono. Il suono ci prova che i gas hanno le loro parti solidali e sistemate,
come una corda tesa vibra ; ma se non è tesa, non vibra più. Per vibrare
occorre (1) Tait nel suo bel libro Heat, nell'ultimo Capitolo indicava fin dal
1884 le gravissime difficoltà che presen- tava l' ipotesi cinetica dei gas del
Clausius, che venne accettata per alcuni anni provvisoriamente. 4 che le
molecole ritornino allo stato di prima. L'aria vibra (come le lamine sonore di
Chladni e di Savart perchè è elastica e solidale. D'altronde se l'aria fosse
costituita al modo escogitato dal Clausius, essa non si alzerebbe più di dodici
chilometri, secondo Hirn, mentre si eleva a cento e più. Bisogna anche pensare
che tutti i corpi premuti si riscaldano e così si riscaldano anche le onde di
aria vibrante. Se non si riscaldasse, dice Hirn, il suono si propagherebbe in
un minuto secondo a 288 metri, mentre si propaga a 340, perchè il suono passa
da onda ad onda più calda. Il prof. Hirn conclude che gli atomi dei gas non
corrono, non si urtano, ma formano un sistema elastico solidale, che deriva
dalla stessa tendenza intima che fa la coesione dei solidi, dei liquidi e la
gravitazione. La facilità con cui si mescolano i gas, le leggi della pressione,
si spiegano senza bisogno che cor- rano molti chilometri al minuto e senza che
su- biscano tanti urti. — Il Sisifismo di Clausius può essere eliminato. La
solidarietà non è un moto, è uno stato psichico, in cui si forma un essere
collettivo, una grande unità. E il godimento è evidente in un esperimento che
tutti possono fare, mettendo dei cavalierini di carta sopra due o più corde
vibranti vicine e lontane. Quando due corde danno il medesimo suono, appena si
tocca coll'archetto una corda, si vede che dall'altra i cavalierini saltano
via, anche se la corda è lontana molti metri. Mentre, se non danno il medesimo
suono, anche se sono avvicinate quasi a toccarsi, i cavalierini delle corde non
toccate rimangono fermi ed indifferenti. Dunque l'aria è solidale, di una
solidarietà così intima da far vibrare tutto ciò che vibra nel medesimo tempo e
non ciò che vibra in altri tempi. Così se abbiamo due coristi eguali,
battendone uno, suona anche l'altro; se ne abbiamo cento o mille, tutti vibrano
del pari. Il rinforzo di un suono avviene sempre quando, in vicinanza del corpo
so- noro, ce ne sono altri che dieno lo stesso suono. I fabbricatori di
stromenti musicali applicano con- tinuamente questa legge, che prova la
solidarietà degli Atomi anche allo stato gasoso. Questa solidarietà è evidente
non soltanto fra gli Atomi ponderali allo stato solido, liquido e gasoso. ma
anche fra gli Atomi eterei, che sono infinitamente più piccoli degli Atomi
ponderali. Locke (nel suo Saggio sull'umano intelletto, II, 23) fece notare
quanto sia stupido cercar di spiegare la Coesione degli Atomi ponderali
inventando una pressione dell'Etere, perchè gli Atomi dell'Etere che sono
coerenti e solidali fra loro, esigerebbero per spiegare questa pressione un
secondo Etere che premesse il primo e questo esigerebbe un terzo etere e via di
seguito all'infinito. Sopra un'onda di luce rossa stanno 200 Atomi Eterei.
Faraday provò che il mezzo etereo è elastico, col mostrare che le sue linee di
forza si curvano. Hirn ne dedusse che gli Atomi Eterei sono solidali e formano
un tutto elastico persino nelle suddivisioni infinitesime. Se l'Etere fosse in
flusso continuo, se fosse di densità variabilissima come supponeva il padre
Secchi per poter darsi l'aria di spiegare la coesione, non potrebbe mai
trasmettere la luce con tanta regolarità e delicatezza. Questo è evidente se si
riflette un poco. Secondo Lorentz l'Etere deve — 56 — essere in stato di
relativa quiete e di solidarietà nel suo complesso, per permettere il moto
della Elettricità e della Luce. Senza questa solidarietà non avremmo la luce
del sole e delle stelle, come senza la solidarietà dell'aria non avremmo il
suono : quindi non si sarebbero formati ne occhi, ne orecchi ; ed è alla
solidarietà dell' Etere e dei gas che dobbiamo la civiltà ed i maggiori piaceri
della parola e dell'arti belle. Alla stessa solidarietà dobbiamo le onde
scoperte dal prof. Hertz assai grandi, sulle quali si fondano i telegrafi senza
fili. Quando la coesione degli atomi e la loro solida- rietà vengono disturbate,
sorge il moto irregolare del calorico, che allontana gli atomi gli uni dagli
altri, dilata i corpi, liquefa i solidi, volatilizza i li- quidi, disperde e
non si concentra mai. Hirn schiacciando il piombo (senza accrescerne la
densità) provò che il calore deriva dal disturbo della coe- sione e che è un
moto degli atomi e non delle molecole. Ben a ragione dunque il fondatore della
ter- modinamica Mayer diceva che la coesione e l'at- trazione non sono moti, ma
tengono della natura della sensazione, sicché la Materia bruta inorganica ha un
senso di solidarietà innegabile e l' Unità do- mina la moltiplicità, il
molteplice tende ad unirsi e di questa tendenza sono visibili gli effetti in
tutta quanta la fìsica. Fra le soluzioni separate da membrane permeabili ha
luogo sempre uno scambio, nel quale la più densa assume più che non ceda e la
meno densa perde più che non acquisti; fatto che prova la tendenza ad
associarsi di tutti gli atomi. Il disturbo dell'armonia fa l'allontanamento
degli atomi, la dilatazione dei corpi, la disgregazione. — 57 — La tendenza
all'armonia fa i contrasti elettrici della luce, la solidarità dell'Etere e dei
gas, la coesione dei liquidi e dei solidi, e l' attrazione dei corpi lontani.
Così si manifesta nella fisica la tendenza a for- mare più alta Unità, che si
accentra poi e si rende manifesta nella Chimica, e, ancor meglio, nella
Biologia e nell'Amore delle Piante e degli Animali, sempre per cause intime e
non mai per le forze incidenti dell'Ambiente. Nel succitato libro sul Calore il
Prof. Tait di- ceva bene: senza moto non vi è Calore, ma non ne segue che il
Calorico sia un moto: come senza Fosforo non vi è Pensiero; ma non ne segue che
il Pensiero sia Fosforo. Il Moto che fa la gravitazione, il Calorico e 1'
Elettricità, ossia le forze fondamentali dell'Universo, deve essere fatto
dalla sensazione rudimentale degli atomi e deve essere una manifestazione della
loro volontà primitiva. Come dicea Herbert Spencer: gli specialisti stu- dino
pure i fenomeni fisici come meri movimenti; ma la filosofìa badi alla realtà
conscia, ossia alla Unità interna di tutte le cose. (Vedi sopra Cap. II, pag.
20) (1). Siamo coerenti e riconosciamo che la (1) Lo stesso Ardìgò scrisse,
come Schelling, che la Materia è una forma del Pensiero (e doveva dire non del
Pensiero, ma della sensazione della Volontà), ma in tutto il suo sistema non
seppe spiegarlo e adottò la fisica che attribuisce agli urti delle forze
incidenti ogni fenomeno. Newton aveva ben capito che della materia si poteva
affermare una forza sola generalissima, cioè la resistenza, scrivendo nei suoi
Principia Definitio IIIa : « Materiae « vis insita est potentia resistendi ».
Egli aveva pure compreso che l'aria e l'etere erano elastici fé quindi
solidali) scrivendo nella sua Ottica (Questione XVIII) che l'aere è assai più
elastico e più attivo dell'Aria. 58 vera filosofìa della Natura non può bandire
la psiche dalla fisica, ma può andare sotto la scorza delle cose e indovinare
la loro intimità. I filosofi che dicessero che noi fin qui abbiamo fatto della
fìsica e non della filosofia, mostrerebbero corto intelletto; perchè abbiamo
stabilito e provato che la Materia sente e che è tutta solidale. E nei seguenti
Capitoli lo vedremo ancor meglio. CAPITOLO IV. La solidarietà geometrica
cristallina Il materiale dei cristalli è chimico : ossia fatto da molecole ; ma
la costruzione è fisica, e conserva le proprietà fìsiche delle molecole,
orientandole secondo le direzioni dei tre assi; e specialmente il calorico, la
elettricità e la luce. Chi non ammette la psiche nella Materia e si affanna a
spiegare la coesione delle molecole di una goccia di acqua, inventando la
assurda pressione dell'Etere, ha bisogno poi di tutt' altra pressione, per
spiegare la formazione di un cristallo e deve fare mille ipotesi di un Etere
più schiacciante (1). (1) L'Illustre Presidente della Società Geologica
Inglese, il prof. Judd diceva che « Each minerai like each plant, or animai,
possess its own individuality ». Le forze a tergo, gli urti, le pressioni non
spiegherebbero mai la gran varietà di strutture che presentano i cristalli
(Sulla formazione dei cristalli parlammo nella nostra Nuova Scienza, voi. IV.
pag. 479 a 481 e in altri siti). La coesione geometrica cristallina indica
chiaramente la tendenza a godere la Eleatica quiete fra i contrasti elettrici.
Evers disse che la preparazione biotica è evidente nei cristalli; è l'alba
della vita che si chiude fra le pareti ; è una vita modesta, casalinga,
incipiente, quella che si rappiatta fra i tre assi di coesione geometrica e
mantiene le loro pareti. Le molecole allo stato liquido, quando si abbassa la
temperatura (se trovano la calma e le soluzioni necessarie) tendono a
cristallizzarsi. E, dalla vescicola centrale che fa il cristallo, gli Atomi
della soluzione vanno disponendosi in tre assi perpendicolari (i quali rivelano
che sono tre e non più le dimensioni dello spazio reale, come nel Capitolo I fu
detto). E prendendo le forme di tetraedri, di prismi, a base triangolare o
parallelopipedi (1) non le prendono per quelle forze esterne a cui lo Spencer e
VArdigò ricorrono, e che non possono riunire altro che detriti, arena, polveri
e spazzature : le prendono per la tendenza delle Unità interne a formare, unite
coi simili, dei sistemi di equilibrio stabile di godimento durevole, fra i contrasti
elettrici. Il punto centrale dove si intersecano i tre assi rimane indifferente
fra le polarità. Scaldando un (1) Ai sistemi cubico, prismatico, romboidale
ecc. si aggiungano le strutture lamellari dei marmi, la granulare del gres, la
ramificata delle miche, del bismuto, del cobalto grigio, la capillare
dell'asbesto, dell'amianto, quella a pagliette o lamine sottilissime degli
scbisti. In qualunque forma gli spigoli opposti si modificano insieme. Il
clivaggio o spaccatura produce polveri della forma medesima a quella di ogni
cristallo. Soltanto il granato e lo smeraldo si rompono in frammenti
irregolari. cristallo, l'asse dominante si dilata per primo e maggiormente ; il
polo positivo si riscalda, il negativo si raffredda. Le proprietà ottiche variano
secondo che la luce segue l'asse principale o gli assi secondari. Nei cristalli
della neve cinque o sei aghi diacciati a forma di stella formano l'ossatura.
Tra questi gli aghetti trasversali formano un ricamo regolare. Si crede che le
forme dei cristalli sieno, se non eguali, almeno analoghe a quelle delle
molecole della medesima sostanza; perciò l'acqua, avendo le molecole
semplicissime, di quasi nove decimi di ossigeno e poco più di un decimo di
idrogeno, cristallizza in forma di aghi. Non cristallizzano i Colloidi, perchè
le loro particelle o molecole sono in moto irregolare e senza centro, e si
ritengono essere reti di cristalli filiformi, entro le quali si organizzano
gruppetti di molecole che tendono ad una elasticità variabile : però si
induriscono facilmente in colle, in pelli, in unghie, in corna. Nella parte non
cri- stallina, non filiforme dei colloidi, ossia nella parte elastica, la
tendenza alla vita è di un altro genere (gomma, amido, colla, destrina,
tannino, albumina ecc.) diverso dal cristallino, ma non an- cora cellulare. Lo
stato colloidale si verifica anche nell'argilla ed in qualche metallo. Le
sostanze amorfe sembrano gelatine compatte, come il vetro, il quale, benché
assai duro, è elastico, probabilmente per la gelatina inserita nella rete dei
minimi filetti cristallini di silice, dai quali derivano le sue proprietà
ottiche di trasparenza. — 61 — Nelle vere gelatine le parti molli si ingrossano
nell'acqua, assorbendola per endosmosi. Nelle roccie cristalline vi sono molti
cristalli. I metalli sono miscugli di cristalli e di sostanze amorfe, che non
lasciano passare la luce e la as- sorbono o la riflettono. Per lo più le terre
sono metalli ossidati. L'interna struttura dei cristalli non è in generale
omogenea: essi sono divisi in magazzini, che contengono acido carbonico, ed
alcuni liquidi ed hanno delle vescicole che si muovono da se. I cristalli si
formano subito nell'acqua ipersaturata, quando vi sia un minimo frammento della
loro specie. Il Thoulet professore di mineralogia a Nancy col signor Germez,
preparavano, ad esempio, soluzioni ipersaturate contenenti del borace
ottaedrico a 5 equivalenti di acqua, e del borace rombico a 10 equivalenti di
acqua e poi vi immergevano corpi di diversa qualità senza che il liquido
perdesse la sua purezza. Ma appena si poneva nella prima un minimo frammento di
bo- race ottaedrico e nella seconda un minimo poliedro di borace rombico, la
vita cristallina si cominciava, la temperatura si elevava, ed in pochi minuti
tutto quanto il borace disciolto veniva cristallizzato. Sicché si può dire che
ogni cristallo imita il tipo della sua famiglia. Nessun cristallo scende verso
gli inferiori ; tutti cercano di innalzarsi, di ascen- dere a più alta Unità. E
se non arrivano ad imitare le forme superiori, vi si avvicinano. Così il
feldspato potassico triclinico si trasforma in monoclinico, l'assofìlite
monoclinica diventa tetra- gona ecc. ecc. (Vedi Nuova Scienza, Voi. II, p. 94).
II principio della inerzia o della eredità, lotta an- che nei cristalli, come
nelle cellule, col principio — 62 — della variazione, secondo le circostanze
valutate dalla Natura che si fa ossia dall'intima Unità. Soltanto la formazione
e lo adattamento e perfezionamento dei cristalli sono molto più lenti e la loro
vita è molto più semplice di quella delle cellule. Link vide che il principio
di ciascun cristallo che si forma in una soluzione ipersaturata, sta in una
vescicola più ipersaturata nella quale le molecole si concentrano meglio.
Attorno alla vescicola si formano globuliti, mentre fanno i tre assi e le
figure geometriche, rivestendosi di pareti. Dalla molecola integrante di Hauy,
alla molecola fìsica di Delafosse, alla maglia cristallina di Bravais, si
elevano, mediante il polimorfismo, a forme più complesse. I cristalli mutilati,
se hanno la soluzione conveniente, si rifanno e si ripresentano intieri. Anche
adulti, essi variano per la pressione, il calore, la luce, e sentono ogni
variazione del- l'ambiente. Ma sempre e tutti si fanno dal di dentro al di
fuori per virtù propria, per la tendenza ad unirsi ed a godere e non per le
forze incidenti dall'ambiente, come pretende il falso Positivismo di Ardigò. La
durezza, la conduttibilità del calorico e delle elettricità, la fosforescenza
ed altre proprietà di- pendono dalla simmetria con cui sono disposte le
molecole del cristallo. La opacità dei cristalli deriva da squilibri termici,
da incipienti efflore- scenze e da disgregamenti molecolari. I minerali giovani
sono molto diversi dagli antichi. La Petrografia è la Paleontologia dei Minerali.
— 63 - I cambiamenti vitali delle rocce provengono dalia- tendenza di quello
che è instabile a divenire stabile. Judd ha visto che esiste una perfetta
gradazione fra le roccie cristalline (granito, diorite, gabbro), i tipi
vulcanici (riobiti, basalti) ed i vetri vulcanici. La temperatura delle lave
uscenti dai vulcani è di 2,000 gradi centigradi. Alla superfìcie si
raffreddano, nell' interno restano semiliquide e vi- scose, solidificandosi
mano mano che corrono giù per il declivio del monte, in masse vitree oscuredi
cui la metà è silice (combinata sotto forma di sili- cati coll'allumina, col
ferro, colla calce, colla magnesia, con la potassa, colla soda). Queste masse
vitree mostrano al microscopio milioni di cristallini inci- pienti chiamati
microliti. Ve ne sono anche di più grossi, formati nell' interno del vulcano,
prima di essere eruttati, ma rotti dal magma infocato. Alcuni geologi scozzesi,
inglesi e francesi ten- tarono di riprodurre artificialmente, da un secolo in
qua, tali eruzioni vulcaniche. Daubrée, Fouqué, M. Levy scaldando i minerali al
bianco abbagliante, abbassandone poco a poco la temperatura al rosso aranciato
(punto a cui si fonde l'acciaio), alzando allora il crogiuolo sul forno e
riducendo la temperatura al rosso ciliegio (punto a cui si fonde il rame) e
ritirando poi dal forno, lasciarono tempo sufficiente alle molecole di
cristallizzarsi (1) in serie. Ed ottennero in tal (1) A rinforzare quanto nella
Introduzione dicevamosulla Unità della Natura, parliamo qualche minuto dei
Cristalli formati fuori della nostra Terra. Chi guarda una Meteorite entrare
nella nostra Atmosfera, a 60 chilometri di altezza, accendersi, correre 30 chi-
modo la leucotefrite del Vesuvio, la onte dei Pirenei, i Basalti e molte altre
roocie, della cui ori- gine ignea non si era ancora ben certi. Le più difficili
ad ottenersi sono le roccie primitive acide che racchiudono quarzo, mica ed
ortosi. Si è tentato recentemente di esperimentare i miscugli di detriti
organici nella formazione dei Cristalli e si sono ottenuti degli accentramenti
misti di forme nuove. Un sale in soluzione amorfa omogenea diede al prof, von
Schrón di Napoli delle petrocellule che si riprodussero per endogenesi. Il
prof. Dubois di Lione, depose sul brodo di gelatina dei cristalli di cloruro, di
bario e di radio, e ne fece sorgere muffe e granulazioni pseudovegetali, che si
dupli- carono. Hennequey di Parigi le disorganizzò presentandole al radio.
lometri al secondo e talvolta il doppio, chi ascolta le de- tonazioni che ne
succedono, crederebbe che si fondano. Invece alle volte si rompono, ma
rimangono solidi e freddi nel loro interno. La più grossa cadde a S. Caterina
nel Brasile e pesa 250 quintali : in termine medio non vanno oltre mezzo
quintale. Tre quarti cadono nei mari; delle altre ben poche in terre coltivate.
Le meteoriti ci mettono nella condizione di un generale che riesce ad
impadronirsi di qualche prigioniero, e lo interroga su tutto quello che si è
fatto nel cielo, perchè ogni minerale testimonia delle circostanze in cui
nacque. Ebbene, questi avanzi condensati delle nebulose, hanno gli elementi
delle primitive roccie Terrestri. Vi si trovano delle specie mineralogiche
identiche, che possiedono i medesimi angoli, le stesse faccie nei loro
cristalli, e sono spesso associate nel medesimo modo. La silice o acido
silicico (tanto energico nelle temperature elevate), ci testimonia l'alto
calore in cui furono generate le Meteoriti. Il Peridoto (il quale si forma
allor- ché nelle officine viene ossidato il silicio) lo si trova an- Nel 1904
BurTce mettendo sopra uno strato gelatinoso del cloruro o bromuro di radio,
guadagnò i primi Radichi, o microbi del radio, in uno, due o tre giorni.
Crescevano fino ad Vìooo ^ m^~ limetro, mai di più, avevano nuclei oscuri, si
segmentavano e si scioglievano nell'acqua. Il radioli distruggeva e finivano
col cristallizzarsi. Ben si vede nella materia inorganica una ten- denza ad
unificarsi sempre maggiore. Essa assuma aspetti diversi (come li abbiamo ora
indicati) nei colloidi, nelle gelatine, nei vetri, nei metalli, nei cristalli :
sempre la intima unità generatrice della forma cristallina, che dalla vescicola
centrale dispone le molecole in contrasti elettrici, o della forma colloi- dale
che fra le reti cristalline dà origine a gruppi elastici, o della forma pseudocellulare
che fa muffe e granulazioni nei miscugli di detriti organici coi minerali, va
assurgendo ad armonie speciali. che nelle meteoriti e nelle roccie profonde del
nostro globo e può dirsi la scoria universale. La contestura soprafina delle
Meteoriti rassomiglia a quella della neve, ed è do- vuta all' immediato
passaggio del vapore di acqua allo stato solido. Come la neve, e malgrado la
loro tendenza ad una cristallizzazione nettamente geometrica, le combinazioni
silicato delle Meteoriti presentano cristallini confusi e minutissimi. Il
silicio che sulla Terra ha bruciato, formando l'acido silicico, deve essere
stato causa di un gran riscaldamento degli astri quando si combinò con
l'ossigeno. Cuocendo il ferro fuso, per trasformarlo in ferro malleabile od in
acciaio, l'ossigeno dell'aria brucia il carbonio ed il silicio ed una parte del
ferro, producendo una scoria nera che contiene un Peridoto a base di ferro che
ha V identica chimica costituzione e la medesima forma cristallina del Peridoto
magnetico delle Meteoriti conser- vate nei principali Musei. Sono frammenti di
vecchi corpi celesti, errabondi fra i sistemi stellari. — 66 — Sono le forme
primitive, spesso non ancora ben -definite della vita, la quale diventerà poi
libera e forte nell'accentramento Cellulare e più che mai nell'Organico. Ogni
forza attrattiva della Natura è ministra di ordine, che parte dalle Unità
senzienti, le quali non sono essenze incaliginate di una filosofìa nebulosa,
non sono Concetti antitetici da conciliare, uè Indistinti che si vadano
distinguendo colla di- visione delle forze come nello Hegelismo e nell'^lr-
digoismo, ma sono intime cause di fenomeni e di atti della Natura che si fa
coadunando, anno- dando, stringendo, godendo. Non è un lume pallido ed
intermittente quello che mandano i mille fatti fin qui accennati della coesione
e della solidarietà, ma diventa, raffron- tato con altri della Chimica, un
cardine di principii naturali, dei quali la scienza del pensiero è tenuta a
fare indagini nuove. Non si dirà, speriamo, che in queste pagine abbiamo fatto
della cristallografìa, perchè nelle descrizioni e nelle misure degli angoli di
questa non siamo entrati (e di goniometri e di polariscopi non abbiamo fatto
alcun cenno); abbiamo soltanto passato in rivista le diverse tendenze della
materia che si crede morta, stupida ed inerte alla finalità del piacere,
all'esercizio sempre più elevato •e complicato della coesione geometrica. L'ascesa
alle chimiche combinazioni La combinazione chimica è un perfezionamento
notevole e graduale della Coesione. Diciamo graduale perchè prima si fa coi
simili e poscia impara a sposarsi con altri elementi. Così l'ossigeno libero,
il cloro libero, lo idrogeno libero, lo azoto libero, il silicio libero sono
sempre appaiati in molecole di due atomi. Che l'energia chimica non derivi
dagli urti di particelle solide o liquide è dimostrato dal fatto che la energia
di qualsiasi elemento non sta in proporzione delle masse, e che i loro
equivalenti meccanici sono enormi. Ad esempio se si combi- nano per formare
36,5 di acido cloridrico, un gramma di idrogeno con 35,5 di cloro, svolgono
tanto calore da innalzare di un grado la temperatura di venticinque chilogrammi
di acqua (come osserva Stallo). Non è certo per cause meccaniche che V azoto
(il quale forma quasi quattro quinti dell'aria) resta sempre il più inerte ed
il più indifferente di tutti gli elementi, non entra in alcuna combinazione se
non vi è spinto dalla elettricità. Ed è sempre pronto ad uscirne, abbandonando
i compagni. Non è per cause meccaniche che V Ossigeno si combina con quasi
tutti gli elementi con grande facilità od ardore. Unito con poco più di un
decimo di idrogeno fa l'acqua, così benefica in tutta — 68 — la natura. Ma
unito coi metalli fa gli ossidi e le terre. Unito con corpi combustibili
brucia, fa la fiamma del legno, delle candele, dell'olio, ecc. e forma e
conserva e rinnova i corpi organici. Unito coll'azoto fa gli esplosivi, i cui
atomi si spaccano, slanciano i projetti con velocità di chilometri per minuto
secondo (2 la polvere di fucile, 7 ad 8 la nitro manite). Non è per cause
meccaniche che il Carbonio e sempre un elemento di accentrazione, il quale con
l'ossigeno, l'idrogeno e l'azoto serve a comporre i corpi organici, che
vogliono continuamente scambiare i loro elementi. Non è per cause meccaniche
che tutti gli ele- menti i quali si trovano in equilibrio instabile si
combinano con ardore. La polvere da fuoco alla prima scintilla svolge un grande
volume di gas acido carbonico, grazie all'azoto indifferente ed inerte, per cui
l'ossigeno ed il carbonio si trovano in equilibrio instabile. E più ancora
nella nitro- glicerina e nella dinamite. Non e per cause meccaniche che le
combinazioni chimiche cambiano profondamente il modo di sentire e di operare
dei loro elementi. Chi ravviserebbe nel sale di cucina, bianco, cristallino i
suoi due componenti, vale a dire il cloro (gas giallo attivissimo) ed il sodio
(metallo argenteo leggerissimo). Chi riconoscerebbe nell'acqua, composta per
quasi nove decimi di ossigeno comburente, con oltre un decimo di idrogeno,
combustibile, i suoi elementi ? Chi troverebbe nel quarzo che cri- stallizza in
aghi esagoni trasparenti, il silicio nerastro ed il gas ossigeno che lo hanno
formato? ~L'Ardigoismo venga un po' qui col suo Indistinto, col suo incrociarsi
delle famose linee del tempo e dello spazio, e con la sua legge di formazione,
dividendo la linea e suddividendo all' infinito. Non è,'col dividere, ma
coll'unire che si trova piacere e si fa l'evoluzione. Lo Hegelismo spieghi un
po' col processo antitetico dei suoi concetti universali e concreti queste
combinazioni chimiche ed i loro effetti, dovuti evidentemente a modi diversi di
sentire e di volere. Non è per cause meccaniche che le sostanze iso- mere, vale
a dire composte della stessa qualità e del medesimo numero di Atomi, hanno
spesso un modo diverso di sentire e di operare. Ad esempio il fosforo bianco è
velenoso; ma, scaldato nel vuoto, fa il fosforo rosso, che è innocuo. Il
cianato di ammoniaca è velenoso, mentre non lo è l'urea. Sono Isomeri molte
glucosi e saccarosi, l'amido, il legno e la destrina. Se le cause meccaniche
facessero le combinazioni chimiche, la atomicità o valenza degli ele- menti
(che si può chiamare la loro dose di energia) avrebbe una legge invariabile.
Questa fu supposta quando nel 1855 il compianto senatore Cannizzaro (allora
professore a Pisa) provò che non esiste contraddizione fra la legge di Avogadro
che determina il peso delle molecole e quella di Dulong e Petit che determina
il peso degli Atomi. Ma la ipotesi svanì ben presto (1). (1) L'idrogeno ed il
cloro valgono 1, l'ossigeno 2, l'azoto 3, il carbonio 4, e pochi elementi hanno
una valenza superiore. Infatti il carbonio si combina con 4 atomi di idrogeno e
con 4 di cloro, o con 3 di idrogeno ed 1 di cloro, o con 3 di cloro ed 1 d'
idrogeno. Invece 2 atomi di ossigeno, che è bivalente, si combinano con 1 atomo
di carbonio. Nelle sostituzioni la valenza ha importanza, p. es. 1 di azoto che
è trivalente, può surro- Anche i pronubi delle nozze (che sono in generale il
calorico e la elettricità) non danno il modo di predire le combinazioni. Quelle
che si fanno sviluppando calorico, dette esotermiche, hanno meno energia della
somma dei loro componenti, essendo rimaste esauste. Quelle invece che si fanno
convertendo subito il calorico in elettricità, senza perdita, dette
Endotermiche, hanno energia maggiore della somma dei loro elementi. Armstrong
considera la chimica affinità come una Elettrolisi rovesciata, in cui l'azione
è eguale alla reazione. L' intimo fattore delle formazioni chimiche pare sia la
tendenza a formare più alta Unità: infatti garsi a 3 di idrogeno, oppure a 1 di
idrogeno e 1 di ossi- geno. Se uno di carbonio sposa 3 atomi di idrogeno non è
saturato, e può appetirne e guadagnarne un altro di cloro o di idrogeno. Sempre
univalenti sono idrogeno, cloro, argento, ed i metalli alcalini terrosi. La
valenza è di 1, 3, 5, 7 in alcuni gruppi, di 2, 4, 6, 8 in altri. Una
combinazione non saturata serve di radicale per nuove combinazioni. La ipotesi
delle leggi di Atomicità o Valenza svanì quando si vide che l'ossigeno non è
sempre bivalente e si fa valere come tetravalente quando vuol combinarsi con
elementi più pesanti e che l'azoto non è sempre trivalente, perchè nella Urea 2
atomi di azoto ne sposano 1 di car- bonio ed invertendo l'urea in cianato di
ammoniaca la diversità aumenta con 4 di idrogeno. E si vide pure che il ferro
vale 2 nel bicloruro e vale 4 nel bisolfuro; si as- sodò che il solfo, il
selenio ed il tellurio valgono 2 con l'idrogeno e 4 negli acidi anidri e nelle
anidridi, e si constatò che l'azoto ed il fosforo che in generale sono tri-
valenti, in alcuni casi si fanno valere come 5. Anche il Carbonio che vale 4,
quando fa l'ossido di carbonio, di- venta soltanto bivalente. i fermenti o
catalizzatori le accelerano. La meccanica chimica è fondata sulle leggi di
Newton che non sono meccaniche. I composti binari della chimica organica
(idrogeni carburati), i composti ternari (alcool, olii, grassi, acidi) ed anche
i quaternari (amidi, ligneo, aldeidi, destrine, gomme, gelatine, albumine) esi-
gono lungo tempo per formarsi, moltissime essendo le loro molecole. Quando un
tipo è formato, questo si ripete e si sviluppa in una lunga serie: p. es. il
tipo dell' idrato di potassa, o quello dell' ammoniaca. Quando si presenta un
tipo di formazione superiore, è imitato e moltiplicato. E questo prova il
principio pitagorico dell'ascesa a più alta Unità per godere, insito in tutti
gli Atomi. Se non si frappongono ostacoli, la moltiplicazione dell'azione
chimica è continua. Così nelle fabbriche di acido solforico, pochissimo
biossido di azoto basta a provocare l'unione dell' ossigeno dell' aria con
grandi quantità di acido solforoso. Come è naturale le combinazioni chimiche
du- rano e resistono quanto più sono semplici. Fra i minerali, i protossidi, le
terre e gli alcali. Resistono meno i deutossidi, i tritossidi ed i perossidi
nei quali 2, 3, 4 Atomi di ossigeno stanno congiunti ad un Atomo di metallo o
di altro elemento. I sali poi, che sono composti di 5 o più Atomi, non resistono
al forte calore : meno che mai i sali doppi. Appena 30 o 40 gradi centigradi
bastano per danneggiare i composti organici, come è noto a chiunque : e per
poco che si vada oltre i quaranta si distruggono. — 72 — La vita non sta mai
nelle sostanze chimiche, ma nella morfologia, ossia nella capacità unitaria di
fare funzioni ed organi, scambiando e dominando le sostanze chimiche. Perciò i
chimici non arriveranno mai a fare nei loro laboratori nna cellula. Nondimeno
l'analisi e la sintesi degli elementi organici si è ottenuta da mezzo secolo in
qua sempre meglio, nelle sostanze meno essenziali alla vita. Berthelot sperava
di arrivare a formare gli zuccheri. E. Fischer ottenne le sostanze zuccherine
naturali semplici. Nessuno arrivò ancora a fare le albumine. Hegel definiva la
vita e V idea arrivata alla esi- stenza immediata » ; sicché le forze fìsiche
avrebbero, secondo Hegel, soltanto una esistenza mediata, ossia non esistono in
se: non sentono, non sof- frono, non godono. Ma allora sarebbero esseri puramente
passivi e quindi non esseri. L'Unità assimilafrice cellulare L'acqua alla sua
superficie, di 1 /25000 di milli- metro, tende a colloidare. E sotto una
atmosfera gravida di carbonio, e dopo che un vulcano abbia versato solfo e
fosforo, nel periodo geologico Laurenziano, sembra che alcuni Atomi isolati di
car- bonio si sieno combinati con l'ossigeno, con l'idro- geno dell'acqua e con
un po' di azoto dell'aria, per formare i primi biomori o granuli invisibili, -
73 — i quali poi diedero origine al bioplasma reticolato, visibile eoi
microscopio. Dal bioplasma si formarono i plastiduli ed i citodi che si sono
concentrati in cellule. Concentrazione mille volte disfatta e mille volte
rifatta forse, secondo le intemperie. Grazie alla intima tendenza delle molecole
di formare più alta unità, e di accrescere e rendere durevole il godimento,
acquistando capacità di fare moti volontari, tale concentrazione ha finito per
durare. Da queste prime Cellule è uscita tutta quanta la Natura organica sopra
la Terra. La forma sferica persistette poi in tutta la flora e la fauna allora
quando, abbondando gli alimenti, si moltiplicarono rapidamente e si
concatenarono, formando colonie di cellule. L'acqua rimane, anche negli
organismi superiori, l'elemento necessario ed universale, perchè tutte le
reazioni chimiche vitali avven- gono in essa, essendo essa composta, per quasi
nove decimi, di ossigeno. L'acqua discioglie e mette in circolazione ed in
conflitto le sostanze di ogni organismo, essa dissolve i sali in acidi ed in
basi libere, come lo farebbe un forte riscaldamento, perchè libera il suo
calorico la- tente (Gautier). E quando l'uomo stesso sente diffondersi sostanze
inette alla vita, bevendo ac- qua si prepara ad eliminarle. — I sali, e
specialmente il marino, o cloruro di sodio, rialzano lo scambio vitale,
penetrando da per tutto, per la piccolezza delle loro molecole e determinando
la solubilità o insolubilità di molte so- stanze proteiche. L'agente della vita
non è una pretesa forza vitale staccata dagli Atomi; ma è Velevazione delle —
74 — Unità atomiche ad Unità più alta e a godimenti maggiori (1). Se si
guardano le cellule dal punto di vista della Unità formatrice si intendono e si
penetra nella causa che è la Natura che si fa; mentre, se si guardano dal punto
di vista del molteplice materiale, non si hanno che dei frammenti slegati ed
inerti. Delle prime cellule viventi ci può dare un'idea oggidì il protoplasma o
parte sempre giovine delle piante. La cellula si forma unificando e restando
una nella varietà. Infatti le molecole binarie, ter- narie o quaternarie della
sostanza proteina del protoplasma (per la instabilità dell'azoto), sentono le
variazioni di temperatura, e le vibrazioni elettriche e luminose, come la
coesione e l'attrazione molecolare. Il protoplasma delle piante è colloide,
viscoso, non traversa mai le membrane per diffusione, ed è formato da due o più
sostanze albuminoidi (2), con acqua e sali. Non si scioglie nell'acqua, ma ne
assorbe moltissima, e senza essa non vive. Si muove sempre ed ha granuli (3) che
vanno alle pareti della cellula a prendere aria ossigenata (1) A questo
innalzamento giovano molto gli accelera- menti dei processi chimici che sono
cagionati per Catalisi, ossia per la presenza di una minima quantità del
prodotto della combinazione bramata, che ecciti al piacere della sensazione
superiore. (2) Una molecola di albumina ha 72 Atomi di carbonio al centro, che
trattengono in un solo sistema sociale pa- recchie centinaia di Atomi di
idrogeno, di ossigeno e di azoto. (3) Questi granuli sono per lo più di materie
proteiche, però ve ne sono di grasse e di minerali — 75 — e luce ed a nutrirsi
di polveri e fanno appendici come amebi, variando la vita a seconda delle cir-
costanze, finché queste non sono troppo avverse. Nei nostri laboratorii si studiano
le combinazioni in proporzioni costanti delle sostanze non più viventi, perchè
le viventi variano troppo le loro combinazioni per essere osservate con sicu-
rezza. Con l'acido acetico si scioglie il protoplasma delle cellule, ma non il
loro nucleo. Il protopla- sma staccato dalla sua colonia è sempre morto, ed
assorbe indifferentemente tutte le sostanze, anche il cloruro di sodio ed il
nitrato di potassa. Ma quando è vivente, respinge queste e tutte le sostanze
nocive, e non assorbe se non quelle che può assimilare, provando così che la
Unità interna fa la vita, e che la struttura materiale, ossia la Natura fatta
ne dipende. Infatti il protoplasma perde ogni irritabilità e vitalità se viene
sottoposto all'azione dell'etere e del cloroformio, come se fosse un animale.
Del protoplasma quattro quinti sono acqua, un quinto è formato dalla materia
granulosa vitale della quale ora parleremo. Questa massa granulosa è sempre
molle ed estensibile, ma non è densa se non attorno al nucleo. Ogni varietà di
granuli si assimila le materie opportune. Senza sensazioni gradevoli o
spiacenti, senza figurazioni non si sarebbero mai fatte le cellule del
protoplasma. La funzione precede la struttura; ma il protoplasma rimane sempre
allo stato ameboide. Una macchina a vapore è fatta dal di fuori, unendo pezzo a
pezzo, come l'uccello fa il suo nido e il castoro la sua capanna; se viene
guastata, non — 76 — si accomoda da se, non si provvede da se di ac- qua e di
carbone, ed è indifferente se invece di carbone si ponga materia non
combustibile sotto la caldaia, e se dentro questa si metta dell'arena invece di
acqua, e se invece di vapori arrivi ghiaccio nel suo distributore. Ma il
protoplasma si fa da sé stesso, come una società cooperativa, dal di dentro,
per slancio delle energie chimiche, intente ad accrescere le loro sensazioni
rudimentali di os- sidazione. Perciò è pronto a riparare una ferita, un danno.
Non vi è una forza vitale particolare: ina tutte le forze fisiche e chimiche
cooperano nell'ascesa alla Unità Cellulare. 1j assimilazione è una prima
funzione delle Unità confrontanti, e sta nel fare (come lo dice il nome),
simili alla propria cellula le sostanze diverse che incontra. L'azoto non serve
se non come elemento indifferente, dando agli elementi attivi (carbonio, ossigeno,
idrogeno e sali) la facilità di scomporsi e di ricomporsi, onde cambiare le
molecole inerti e semplici in molecole operose e composte, ascen- dendo (se
l'ambiente è favorevole) a maggior pia- cere di vivere. La cellula scompone le
materie incontrate, trat- tenendo quelle che può appropriarsi, dando loro il
SUO tipo, e respingendo od escretando le altre, conservandosi nella sua forma e
nella sua chimica composizione, nella sua armonia, come un Tutto bene
sistemato. Il protoplasma è una continua affermazione dell'Unità reale, ossia
dell'Essere Uno, per se. Quando una cellula è ben nodrita e si gonfia, la Unità
formatrice si raddoppia, divide le sue molecole in due segmenti, che diventano
ciascuno eguale alla cellula madre, e così di seguito. Ogni cellula ha il suo
nucleo, distinto dai granuli microscopici che lo attorniano. Il nucleo (nel
quale ci è sempre un po' di fo- sforo) è una minima cellula interna centrale,
con sugo alcalino e molti granuli, di cui il maggiore si dice nucleolo. Nella
segmentazione (chiamata Cariocinesi) vi è un centro-soma, ossia corpo centrale,
che fa un citoplasma (rete di fili colorati che contengono il protoplasma). Dal
centro-soma cominciano, nel momento della segmentazione, i due Astri (Aster) o
centri di fibre diramate verso la periferia e contenenti, nella loro rete,
materie contrattili e sostanze nutrienti. Ingrossandosi queste, e formando un
solco, la cellula madre si divide in due parti. Non vi sono genitori ne figli,
ma la Unità del Tutto che determina le parti, si ripete vitalmente migliaia e
milioni di volte. Questo processo di segmentazione continua nella nutrizione
delle piante e degli animali. La Unità cellulare è una legge sociale, che si
conserva in tutte le cellule derivate, con la stessa forza assimilatrice. La
spiegazione meccanica qui è, non solo impotente, ma diventa assurda; giacche
tutti sanno che dall' 1 al 2 non vi è frazione che possa condurre 1 +- V2 + 7^
-b 78 4- 716 ecc. ecc. Ed anche coi Differenziali, non si è mai trovata la
costante degli Integrali. L'agente della Cariocinesi è la Unità sociale
ereditata, il tipo assimilato?^ che sa conservare la sua identità in tutte le
cellule che ne derivano, distinguendosi sempre dall'ambiente. Chi volesse
vedere la vita incipiente non ha che a passeggiare lungo gli stagni. — 78 — Se
si raccoglie in uno stagno una goccia di acqua, e se la si osserva col
microscopio, si ve- dranno cellule non protoplasmiche, ma separate le une dalle
altre; cioè Amebi privi di colore, che si muovono con lentezza e si nutrono di
pol- vere vegetale, facendo una lunga digestione e rigettando il soverchio. I
più sviluppati sono la Terricola, la Guttata, ed il Limax. Benché gli Amebi e
le Molière non abbiano struttura, hanno sensazioni e volontà e rispondono agli
eccitamenti. Guardando col microscopio la materia granulosa delle muffe, degli
Amebi, non presenta cel- lule : è un plasma semifluido con granuli che as-
similano e si nutrono. In questi, come in molti altri esempi, risulta chiaro
che non è il tessuto che fa la vita dal di fuori al di dentilo; ma all'opposto,
la vita, che è tendenza all'unità superiore e al piacere, funzionando dal di
dentro al di fuori fa poco a poco le strutture. Il prof. Verwoorn studiò le
cellule dei Protozoari, prima che divengano animali o piante, e vide che
sentono gli eccitamenti, si nutrono, as- similano, escretano, si adattano
all'ambiente, ed accumulano energia chimica. Cercano di acquistare materiali
per rendersi indipendenti (ecco il principio della vita, l'opposto dello
Ardigojano che fa sorgere gli individui per le forze incidenti dello ambiente)
per rendersi indipendenti nel nutrirsi, nel respirare e nel lottare. Esse
manifestano la facoltà di discernere quello che è utile da quello che è dannoso
nel sistema di armonia che si ven- gono formando, in cui trovano piacere (1).
(1) Nessuna bestia mangia erbe velenose. — 79 — Nella putrefazione della carne,
nascono in un paio di giorni innumerevoli bacteri, i quali nel giorno seguente
fanno cigli e flagelli, ed arrivano alla lungezza di i j iQQ o 2/ l00 di
pollice; poi si gonfiano e seminano un liquido da cui nascono punti vivi, che
diventano granuli e germinano i figli per segmentazione. In alcuni infusori il
protoplasma si differenzia in parte contrattile e sensibile e parte digerente,
che trasforma in clorofilla. In essi si vede la ge- nesi dei due regni animale
e vegetale. Quando la parte nutritiva di una massa di cellule prevale sulla
contrattile, sensibile, la vita ameboide si ri- trae in pochi punti e si
rivivifica solamente nella stagione degli amori. Gli esseri inferiori assumono,
a seconda dell'ambiente, il carattere vegetale o iL carattere animale. Ad es.
le Euglene, benché provvedute di bocca e di apparato digerente, si nutrono come
vegetali, prevalendo in esse la clorofilla. — I Protozoari o Protofiti non sono
organismi, perchè cambiano di struttura: ma sentono il calore, la luce, l'
umidità, il contatto, e si nutrono, si moltiplicano. Alcuni tastano, gustano,
nuotano, vi- vono in società e spiegano i loro pseudopodi, ten- dono ad
impadronirsi dei frammenti vegetali che trovano vicini. Sono i viventi più
piccoli e più allegri e non hanno struttura visibile. I preludi delle azioni
vitali sono per lo piùfatti dai fermenti. I fermenti, figurati o no, aiutano
l'assimilazione nelle piante e negli animali, come Catalizzatori, accelerando o
ritardando le reazioni, senza prendervi alle volte parte attiva,, come fa la
polvere di platino nella fabbricazione dell'acido solforico. — 80 — I fermenti
aerobi respirano l'ossigeno dell'aria. I fermenti anaerobi pigliano l'ossigeno
senza contatto con l'aria, cercandolo nei liquidi dove si trovano. Ogni
fermento è una vitalizzazione od unificazione (animale o vegetale) di succhi, e
l'agente che li fa può essere solubile, ossia senza forma organica, ma la sua
solubilità è però soltanto apparente. Ve ne sono in ogni protoplasma vivente;
ce ne sono dei digestivi, degli idratanti, che sa- ponificano i grassi (come la
steapsina) degli ossi- danti (come la laccasi) dei coagulanti (come la
caseasi), degl' invertivi (sucrosi) che, se affondati nel glucosio, scompongono
lo zucchero per cavarne l'ossigeno, sia nel mosto, sia nei frutti carnosi; se
ne trovano anche nei germogli del grano e della barbabietola. Il fermento
lattico inacidisce lo zucchero del latte; il mycoderma aceti ossida il vino e
l'alcool, il mycoderma vini cambia l'al- -cool in acqua e acido carbonico,
alcune muffe di- struggono aerobicamente lo zucchero e la celluiosi. Il lievito
di birra, secondo le circostanze, è aerobio o anaerobio. Invece il butirico e
la maggior parte dei bacteri sono anaerobi ; tolgono l'os- sigeno agli zuccheri
ed agli amidi e fanno all'oscuro la loro sostanza albuminoide. Quasi tutte le
terre contengono fermenti, i quali trasformano l'azoto dei concimi animali in
azoto nitrico. Le terre di leguminose sono abitate da colonie di bacteri sopra
le radici e nel 1886 furono descritte da parecchi biologi. Nel 1906 l'inglese
Bootmley ha scoperto il modo di modificarli e di renderli adattabili anche ad
altre piante coltivate, sicché ogni coltura diventerebbe capace di ingras- sare
la terra da se, senza sfruttarla mai, come fanno adesso le lupinelle, i
trifogli e le erbe me- — 81 — diche, utilizzando tutto lo azoto che fa quattro
quinti dell'aria e sotto l'azione della elettricità investela terra arativa e
fino ad oggi andava perduto. Si intravvede così la possibilità di rendere
facile la coltura intensiva anche nelle terre inferiori. I batteri di radici
non somigliano affatto a quelli di cui parleremo nel Capitolo seguente, ne a
quelli di cui fu detto nella pagina precedente. Nei diversi modi di essere, di
sentire, di operare delle Cellule, vi sono tre fatti che altamente interessano
la filosofia, vale a dire il Dominio del nucleo sopra le parti circostanti, la
Segmentazione che è chiamata anche Cariocinesi, e VAssimilazione, Il dominio
del nucleo ci prova che le unità delle molecole e dei biomori accentrano il
loro senso* rudimentale, facendo delle moltissime piccole Unità solidali, una
Unità centrale. La segmentazione prova che questo governo centrale non riesce a
dominare un molteplice maggiore, per cui allorché questo supera il numero di
Atomi governabili, la solidarietà si divide in due cellule. Jj Assimilazione
dimostra che la Unità centrale così formata, rende gli Atomi nuovi inesperti,,
(che entrano con gli alimenti), solidali degli Atomi vecchi non soltanto, ma
che li sa ridurre (come lo dice il nome) simili ai precedenti facendo le
medesime chimiche combinazioni; e rigettando le materie inette ad essere
vivificate. Ecco il vero principio della vita. Questa tendenza, differenziata
in apposite funzioni, per diverse specie di cibi, formerà poi, negli organismi
superiori, le-' funzioni digestive. Fatti che non si spiegano certo con le sole
forze chimiche, e tanto meno con le sole forze — 82 — incidenti dell'ambiente,
al modo Ardigojano ; ossia dal di fuori al di dentro; ma che sorgono dalla
forza unitaria del piacere. E sono dovuti al grande progresso che ha ot- tenuto
nella cellula la originaria tendenza a più alta Unità, e ad accumimare
stabilmente il sentire e il volere degli atomi. Così avviene anche nelle
società umane : p. es. la Repubblica Portoghese non fu fatta nell'Ottobre 1910
da forze incidenti, venute dal di fuori al modo Ardigojano per caso; ma dalla
tendenza -a godere la libertà ed a governare dei cittadini più istruiti,
irradiando dall'Accademia a tutta la Nazione la volontà e la forza che rovesciò
la .Monarchia clericale dei Braganza. CAPITOLO VII. Come le Unità Cellulari si
accentrano nelle Piante per godere l'amore Nelle grandi associazioni di
cellule, le varie parti hanno sensazioni assai diverse, perchè la Unità
generale del Collettivismo dà a ciascuna parte funzioni specifiche, e quindi si
vanno for- mando differenti strutture. Però la chimica composizione è presso a
poco la medesima. Questa è una prova palmare che le diverse tendenze e funzioni
non dipendono da cause materiali. Ogni cellula dell'organismo (oltre la
funzione nutritiva e la facoltà di segmentarsi in due) ha — 83 — una funzione
sociale, che le viene imposta dalla collettività nell'atto della segmentazione.
In generale le piante sono fatte da idrati di carbonio (amido, zucchero,
grassi, albumine e clorofille). L' amido diventa celluiosi e legno, e nutre le
piante dietro la luce che passa per le parti verdi o clorofille. Anassagora ed
Empedocle insegnarono per i primi che le piante crescono per appetizione
(éTuifruiila) e che la vita incomincia sentendo pia- cere o dolore. In generale
le piante sono colonie o collettivi- smi di amebi protoplasmici che, facendo
prevalere la parte nutritiva sulla semovente, si sono fatte delle costruzioni
sufficienti a ricoverarli moltiplicati, per godere gli alimenti, l'aria,
l'acqua, e la comodità di copularsi senza essere disturbati. In- vece di essere
fatte dall'ambiente (come pretende lo Ardigoismo), cercarono fino dall'inizio
di premunirsi e difendersi contro il medesimo. La natura che si fa cerca sempre
di rendersi indipendente dall'ambiente. Noi vediamo le sole costruzioni e non i
microscopici costruttori. Questi differenziano una parte del protoplasma in
piccoli dischi di clorofilla con pigmento colo- rato in verde, per impedire la
soverchia ossidazione dei carbonati e per moderare la propria respirazione
dell'ossigeno. Della clorofilla due terzi sono carbonio, un sesto è ossigeno, 1'
11 °/ idrogeno, il B °/ azoto. Essa respira in modo contrario della parte
animale delle piante, cioè assorbe il gas acido carbonico, ed emette
l'ossigeno, e serve a proteggere gli amebi. Senza la clorofilla il protoplasma
animale non resisterebbe al sole e si dissolverebbe sotto la pioggia. Le
cellule o dischi verdi sovrapposte sopra le coste dei mari, fecero le Alghe ora
in linee semplici, ora a lamine, ed ora a rami. Si ingrandirono, riunendo le
tre dimensioni, e si ingrossa- rono, mentre il protoplasma animale ascendeva e
le soluzioni saline col gas acido carbonico penetravano per endosmosi
attraverso le membrane di celluiosi. Il protoplasma animale andava intanto
concentrando il senso della coesione e delle chimiche combinazioni in modo
sempre più perfetto, ed ar- rivava così a fare dei punti sintetici di amore
ossia delle spore incipienti. Il diletto dell'unione si affinò e le colonie
vegetali crebbero d' importanza. Come diremo nel Capitolo XIII, non si può
chiamare memoria la riproduzione del collettivismo vegetale, perchè è piuttosto
una legge sociale diventata meccanismo, come nella cellula la segmentazione in
due cellule riproduce raddoppiata la cellula prima, per un modo di associarsi
divenuto abituale a tutte. Le prime specie vegetali andarono così formandosi
dal di dentro al di fuori. Alcune specie di Alghe crebbero fino a cento metri.
E nelle prime Epoche Geologiche non vi furono altri vegetali che questi. Tutti
sanno che le Epoche Geologiche anteriori alla Quaternaria, in cui noi viviamo,
furono quattro, e che si dividono ciascuna in tre Periodi. Forse non tutti
sanno che, ritenendo che, per i detriti delle roccie e le terre portate dai
fiumi, il fondo del mare si alzi di un millimetro al se- colo (in termine
medio) e misurando lo spessore — 85 — dei sedimenti sottomarini che, per le
sollevazioni delle Catene montuose (1) vennero in parte portati alla luce dalla
prima Epoca in poi, si calcola che sono passati 40 milioni di anni divisi così:
PERIODI Nell'Epoca Primitiva o Arcaica Laurenziano — 10 Milioni di anni
Cambrico — 6 » > Siluriano — 7 » » Neil' Epoca Primaria o Paleozoica
Devoniano Carbonifero Permiano 12 Neil' Epoca Secondaria o Mesozoica Trias
Giurese Cretaceo Neil' Epoca Terziaria o Ceiiozoica ) Eocene Miocene Pliocene
(1) Una volta il sollevamento delle Catene montuose veniva attribuito a spinte
verticali date dal magma centrale dal sotto in su. Elia de Beaumont,
Machperson, Suess, Lapparent e molti altri, fra cui Federico Sacco, professore
di Paleontologia nella Università di Torino, dimostrarono che deve attribuirsi
invece al raffreddamento del globo, che obbligò la prima crosta a corrugarsi,
facendo delle catene montuose per la j^ressione laterale. Ripetendosi la causa,
si formarono molte catene parallele una sotto l'altra come nelle Alpi,
nell'Himalaya, nelle Cordigliere delle Ande e nelle Montagne Rocciose : oppure
6 — 86 — In tutto 40 o 41 milioni di anni dopo le roccie primitive della scorza
terrestre, e prima del periodo in cui viviamo (1). Quando le acque si
ritiravano per l' innalzamento graduale di qualche costa, poco a poco le Alghe
mandarono al fondo alcune appendici, che si tra- sformarono in radici. In pari
tempo si andarono complicando e perfezionando gli organi della nutrizione,
della re- spirazione e di difesa. Questi progressi furono lenti e graduali e
sempre la Natura che si fa restò la parte minima, mentre la Natura fatta o
meccanismo fu la parte una a distanza dall'altra in linee arcuate o diritte. E
lungo queste Catene si sprofondarono i mari, il cui fondo, alle volte, veniva
poi sollevato in parte. I vulcani trovansi sopra le linee soggette a movimenti
più pronunciati. I terremoti avvengono dove il corrugarsi continua. L'eminente
geologo prof. F. Sacco ha in molte memorie chiarito queste ed altre leggi di
orogenia, e specialmente nell' « Essai sur l'Orogénie de la Terre», 1895,
Turin. Clausen. Egli segue la nostra filosofìa pitagorica e desi- dera che essa
venga accolta dalla maggioranza degli scienziati - anzi crede che questo dovrà
verificarsi in un tempo più o meno prossimo. (1) Si crede che soltanto al
principio dell'Epoca Terziaria cominciassero i ghiacci ai poli e sopra le più
alte catene di montagne, ossia un milione di anni fa, dice il Falsan « La
période glaciaire », pag. 221. Sicché per 30 milioni di anni la nostra Terra
potè svi- luppare una vegetazione di paesi caldi. Ma i ghiacci si estesero in
Europa soltanto quando il Sahara diventò un mare e quando cambiò il corso del
Gulf Stream dell'Atlantico. E il clima mite nostro ritornò al disseccarsi del
mare sahariano e al modificarsi della cor- rente calda dell'Atlantico dalle
Canarie alla Norvegia ed all'America. — 87 — massima della vegetazione. Però la
minima parte della Natura che si fa bastava a fare l'Evoluzione ed a dare
origine a migliaia di specie diverse, sempre più rigogliose. Ancora oggi nelle
Alghe Desmidie, nelle Diatomee, nelle Spirogire, tutte Alghe unicellulari e
microscopiche, la copula è di semplice condensazione, e il protoplasma viene
scambiato sotto la vecchia scorza e le fa ringiovanire. Per dare un' idea del
numero immenso di queste semplici Alghe basterà dire che la scorza silicea
delle Diatomee (numerosissime in tutte le acque dolci e salate del mondo),
forma quella terra fina detta tripoli che serve a pulire i metalli. Benché una
goccia di acqua contenga delle migliaia di* queste minime Alghe, pure il loro
numero è così grande, che ne sono formati degli strati estesis- simi prima
della Epoca Terziaria. Nelle Alghe composte di molte cellule si formarono le
prime spore come centri dell'Amore. La filosofìa ha trascurato finora lo studio
delle prime manifestazioni dell'amore, che tanti insegnamenti racchiudono. Le
zoospore, animaletti microscopici, riuniscono in se la energia morfologica
delle piante primitive, che non è Memoria come pretendeva Federico Deipino « La
psicologia dell'avvenire » , ma è una legge sociale la cui sintesi s'impone nel
protoplasma animale delle piante. Nelle più semplici Alghe Porfirie, le spore
cadute si muovono strisciando come gli Amebi. In altre Alghe esse si riuniscono
in gruppi di cellule ovoidi, con delle appendici vibranti, le quali, col
fissarsi in terra e col segmentarsi, produssero i primi talli germinanti. Molte
Alghe per le inondazioni morirono nella melma; ma dai loro frammenti privi di
clorofilla, uscirono i Funghi composti di filamenti ramificati. Da quelle poi
che erano più putrefatte si crede che siensi formati i Bacteri, i quali
rimasero sempre minutissimi, ma si moltiplicarono assai, re- stando innocui
finche vivevano all'aria (1). Nelle Alghe superiori cominciò la divisione delle
spore in femmine ed in maschi. I due sessi si as- sociarono per fare gli
Sporangi od Oogoni capaci di germinare. Nei posti dove le Alghe erano prossime
ai Funghi si unirono con questi per formare i Licheni. Ma i Funghi ed i Licheni
(essendosi dati a vita parassita) rimasero piccoli e deboli. Le Alghe Characee
popolarono le acque dolci e gli stagni. (1) È noto che quando i Bacteri
penetrano nel sangue di un animale ferito, avendo bisogno di ossigeno, ne
alterano il sangue, producendo una malattia contagiosa. Sopra di essi venne
studiato il processo di evoluzione con facilità, perchè ve ne sono di quelli
che in due ore si raddoppiano, sicché in pochi anni si possono ottenere molte
migliaia di generazioni. E così si vide che era possibile col variare la loro
ali- mentazione e l'ambiente e di rendere innocue le specie più virulenti.
Pasteur li coltivava nel brodo, che presto si altera e non si coagula che a 0°
gradi. Roberto Koch di Berlino li coltivò nella gelatina, che si solidifica a
16 gradi centigradi e quindi nel clima di Berlino permette quasi tutto l'anno
(meno il breve estate) di fissare i bacteri sopra una lastra di vetro in un
sottile strato di gelatina e di osservarli col microscopio fornito del così
detto « Mare di luce Abbe ». Il Koch arrivò così a scoprire i bacilli della
tisi, del colera, della febbre gialla, della peste ; riformò la teoria Le
Fucacee furono le più diffuse nei mari e formarono delle masse estese dette
Sargassi. Al- cune Alghe come la Macrocystis arrivarono alla lunghezza di
centinaia di metri. Le Alghe dei terreni che andavano asciugandosi, rese
robuste, aspirando bene l'ossigeno, si trasfor- marono poco a poco in Muscinee
o Muschi non più alte di mezzo metro. Nei Muschi acrocarpi le piante femmine
producono degli archegoni o sacchetti in cui si sviluppa l'oosfera che,
fecondata, fa l'uovo che germinerà, mentre le piante maschie fanno le anleridie
o sacchetti dai quali scappano gli anterozoidi, che vanno a fecondare le
oosfere delle sorelle. Dalle Muscinee vennero le Epatiche piene di spore,
anch'esse per lo più divise in piante maschie con anteridie e piante femmine
con gli archegoni, piene di acido malico, che attrae i maschi. delle infezioni
ed ebbe numerosi discepoli, fra cui il nostro Gosio professore a Roma. Anche la
muffa delle cantine (Pennicillum glaucum) le cui spore sono tanto minute che
girano nell'aria, messa nel sangue di un animale senz'altro muore; ma, se viene
coltivata ed abituata poco alla volta a stare nel sangue caldo, può far morire
un coniglio in due giorni. I Bacteri sono a milioni nei paesi tropicali e in
certi paesi sono cospersi o influiti da corpi radioattivi tanto da^ far
luccicare le acque del mare. Se ne raccolgono molti di questi innocenti bacteri
per farne in Germania delle lam- pade a luse verdastra-azzurra, le cui onde
sono molto brevi, e si conservano senza rinnovare l'aria per parecchi mesi,
permettendo di leggere i giornali di notte e di fare qua- lunque lavoro. Invece
nei paesi assai freddi i Bacteri mancano, o sono pochi. Per questa ragione la
carne degli animali uccisi si conserva benissimo nelle terre polari, giacche la
causa della putrefazione delle carni non è il calore, ma sta nei Bacteri. Le
proporzioni crebbero nelle Felci e nelle Preste. I vasi interni lunghi si moltiplicarono,
per mandare in alto i succhi nutrienti e per formare edifìci e magazzini dove
albergare e gustare la vita e l'amore, formando dei 'protalli. Alle Felci
aventi spore, seguirono i protalli a Félce, con generazione alternante : l'una
intenta ad accrescere la nutrizione, riproducendosi senza nozze; l'altra a
gustare l'amore ed a migliorare la morfologia, mediante la riproduzione
sessuale. Nella Età paleozoica le Crittogame avevano raggiunto proporzioni
colossali anche ai poli : ma oggi si sono ristrette alle regioni tropicali.
Nelle Preste dove i maschi erano separati dalle femmine, intorno al tallo
permanente, ne sorsero altri più piccoli, a formare lo sporogono nelle
Ofioglossee. Lo sporogono o sporangio, diventò il più gradito convegno di spore
dei due sessi, e servì alla evo- luzione morfologica delle specie superiori,
fino alle Fanerogame del nostro tempo. Dal periodo Devoniano al Permiano la
vegetazione fu superba in Crittogame ed in Gimnosperme, soprattutto in Pini,
mentre nessuna Angiosperma era ancor nata. Le Crittogame e Gimnosperme si
svilupparono per milioni di anni e lasciarono, laddove si sono fossilizzate, il
Carbon fossile, che contiene quattro quinti di Carbonio puro. Si restrinsero
dopo il periodo Permiano e allora prevalsero le Conifere e le Cicadee. Nel
Trias co- minciarono le Angiosperme. Dopo il periodo giurese prevalsero le
Fanerogame, che prima erano piccole, e crebbero in al- tezza. — 91 — Fin dalle
prime Ofioglossee il tallo dell'amore si era impiccolito e fatto incoloro e sotterraneo,
e si moltiplicarono gli sporogoni o sporangi : il tallo poi fu ridotto quasi a
nulla nelle Rizocarpee, mentre lo sporogono dominando si divise in spore
maschie e spore femmine nei Licopodi. Finalmente nelle Fanerogame (Gimno ed
Angiospermé) lo spo- rogono nascose il tallo facendo spore maschili o polline e
spore femmine od ondi. Il protoplasma maschio non si organizzò più in
corpuscoli, ma attraversò per endosmosi le pareti del tubo pollinico e andò ad
impregnare i corpuscoli dell'ar- chegono. Le foglie dello sporogono furono
trasfor- mate per la festa dell'amore in variopinti e vellutati petali, stami e
pistilli, emulando le spighe a sporangio floreale delle Crittogame. Nelle
Gimnosperme (conifere e cicadee) la macrospora, ossia il sacchetto embrionale
contenuto nell'ovulo (macrosporangio) diede luogo ad un piccolo protallo che
rimase nel- l'ovulo e ad un endosperma con archegoni, che il polline andò a
fecondare; dopo di che YOosporo potè fare il granulo del seme. Il polline è un
surrogato dell'anterozoide delle Crittogame e non ha l'aspetto di ainebo, ma ne
ha la virtù, senza sforzare le piante a perdere la vigoria nutritiva; è un
perfezionamento che fa godere l'amore senza perdere la robustezza. In questa
lunga evoluzione degli organi sessuali riesce evidente che la psicogenia è
fatta dalla sen- sazione piacevole e che la somagenia non è altro che un
risultato della psicogenia ripetuta con per- severanza. La Natura che si faceva
nelle foreste era la parte minima, ma era piena di vita allegra. Nelle antere,
nei pistilli dei fiori è evidente la vita animale : sono relativamente caldi e
respirano - 92 — più ossigeno che il resto della pianta. Uovulo ha molte
cellule irritabili, il cui nucleo si segmenta e fanno il sacco embrionale,
composto di due cellule che ricevono il polline, e sono nodrite dalle vicine :
una di esse farà il germe con due cotile- doni che diverranno la radichetta e
la piumetta. Nella Fanerogame la riproduzione è assicurata in tutte le parti
giovani. I Protonti tendevano a fare un protallo sessuale permanente: ma non vi
riuscirono: e già nelle Crittogame superiori e nelle Gimnosperme il protallo
sessuale era stremato. L' indirizzo assunto dalla maggior parte delle specie
vegetali fu quello invece di fare degli sprorogoni perpetui, nei quali per
spore e per germorgli si gode una riproduzione più diffusa, benché i germogli
non si stac- chino dalla pianta madre, come facevano le spore delle Felci. —
Rosai, Viti, Ciliegi, Peri, Meli, Spine e migliaia di altre specie meno comuni
nel clima temperato, si moltiplicano per germogli, quanto per semi - perchè
spore o germogli di spore sono quasi dapertutto. In generale nelle piante
attuali prevale la generazione agamica o la sessuale ; ed è rara la generazione
alternante (fuorché nelle Conifere-vascolari). Nelle Fanerogame le parti
giovani hanno sempre spore e possono germogliare ; tutti sanno che nelle
Begonie persino ogni foglia fa germogli avventizi, capaci di produrre una
pianta perfetta. Nelle Fanerogame il nodo del picciuolo delle fo- glie parte
dal centro del midollo e dà la morfologia e la chimica delle parti che ne
derivano, poco meno dei fiori. I fiori degli alberi corrispondono alle Meduse
ed ai Polipi idroidi e si individualizzano, mentre i nodi e le foglie si
riproducono senza nozze. — 93 — Nelle miriadi di specie erbose ci sono
individui agami alla radice, e nel fusto : mentre in cima al fusto sorgono
individui fiori. Il fusto risulta dai fusticini posti a capo uno dell'altro,
tutti con ra- dichette, con fibre, con vasi, con trachee. Mirabile
composizione, formata lentamente nell'ascesa a più alta unità del collettivismo
di ogni specie. Nelle Piante (come negli Animali) il fattore delle maggiori
trasformazioni fu l'Amore. L'ambiente, il clima, l'uso e il non uso degli
organi influirono meno della sintesi goduta nei piaceri intimi della Natura che
si fa liberamente. Dorhn variando Fambiente, vide che gli organi restavano a
lungo i medesimi, ma le funzioni variavano subito ; poco a poco la funzione che
era secondaria, diventava primaria, modificando in alcune generazioni tutta la
struttura. Ed oggi il De Vries attribuisce la evoluzione delle piante a rapide
mutazioni. La maggior cernita sta nelle mutazioni del si- stema riproduttivo,
più che nell'adattamento al- l'ambiente: perciò la prima cura dei giardinieri
(come degli allevatori del bestiame) è d' impedire Vincrociamento coi tipi
vecchi e di somministrare all' individuo che si vuol variare una forte
nutrizione. L'Embriogenìà, origine dell'individuo organico, è un raccorcio
della Filogenìa, origine della specie, anche fra le piante. Nelle Fanerogame si
tro- vano reminiscenze delle Thallofiti, delle Muscinee e delle Crittogame.
Dove la pianta ha vita più attiva è aerobia ed animale, come nel seme che
germina, nella gemma che si sviluppa, nella foglia che cresce, nel fiore che
matura: e consumano molto ossigeno riscal- dandosi. I fiori assorbono in 24 ore
tanto ossigeno quanto l'uomo (a parità di volume). — 94 — Le parti più vive
sono sempre più azotater giacche l'azoto, essendo indifferente ed instabile,
favorisce la decomposizione e la ricomposizione delle molecole a seconda dei
bisogni. Queste parti sono le più calde e le più zoidi; però la parte animale
delle piante resta sempre minima, benché diffusa. Le piante più attive, come la
sensitiva, si affaticano e poi dormono. La Dionea chiude le foglie e stringe
gli insetti in trappola. La Drosera segrega in pari tempo un vischio che li
uccide e li digerisce. Sono le piante più azotate di tutte. — In tre piante
insettivore fu scoperto nel 1900 da Huberland un vero organo del tatto,
sopratutto nella Mimosa pudica. Nel 1904 Kollwitz vide il principio di una
struttura nervosa anche in altre piante. F. Hook attribuisce alle piante anche
sentimenti e volizioni (1). La lenta Evoluzione delle varie specie di piante
compiuta in milioni di anni nelle Epoche geologiche indicate fin qui, smentisce
affatto gì' influssi delle idee- eterne del Platonismo e dello Hegelismo e più
ancora la pretesa formazione naturale dell'Ardigoismo, che avverrebbe per lo
incrocio della linea del tempo nei punti dove si tagliano le tre linee fra loro
perpendicolari dello spazio e prova la verità del Pitagorismo, dimostrando che
le piante si sono formate per sensazione e volontà, cercando ed ottenendo il
godimento e la moltiplicazionedelie spore e dei germi di riproduzione. In
generale le radici sono coperte di uno strato di cellule piene di aperture, le
quali (quanto più si trovano verso la punta), assorbono per endo- (1) Sind
Pflanzen und Thiere beseelt? 1906, Lipsia. smosi i succhi minerali disciolti.
L'acqua passa più presto del fluido denso che empie le cellule e dietro essa i
succhi minerali e sopratutto la soda vicino al mare e in terra ferma soda,
potassa, calce, silice e talvolta il ferro. Darwin as- somigliava le radici a talpe,
che volessero andare a cercare il cibo sotterra e col muso procurassero di
stendersi nel terreno umido e grasso, evitando i sassi e all'occorrenza
sciogliendoli nell'acqua un po' alla volta. Alcune arrivano, perseverando, a
sciogliere marmi e silicati. Il moto di circumnutazione di queste radici sembra
fatto dalla intelligenza, per evitare o superare gli ostacoli; poco sopra delle
punte vi sono dei peli, che assorbono sempre succhi minerali. Nei fusti e nelle
foglie il protoplasma fa un moto di circumnutazione che si alza la sera e si
abbassa la mattina, ed è forte sotto i tropici* giovando a diminuire
l'irradiazione notturna. L'energia della pianta viene dalla combustione in
piccola parte, ma assai più dal sole ; perchè i suoi cibi sono inossidabili ed
inerti come lo sono l'acqua, l'acido carbonico, i nitrati ed alcuni sali e
quindi incombustibili. Ma la luce fa operare la clorofilla, che aspirando il
gas acido carbonico, lo scompone e rigettando l'ossigeno (1) mette il carbonio
in grado di far zucchero, amido, grassi e albumine, e anzitutto l'amido (C6 H10
O 5 ) e la glucosi (C6 H12 O 6 ); poi anche molecole azotate, (1) Di notte la
pianta vive come un animale assorbendo cioè l'ossigeno ed emettendo carbonio.
Una foglia, re- stando all'oscuro, prende in un giorno circa 8 volte il suo
volume di ossigeno, mentre l'uomo ne prende 14 vo- lumi ed un passero 200 a
260. pigliando l'azoto dalla terra e non dall'aria, ossia pigliandolo dai
nitrati. Con questi elementi saturati incombustibili la pianta fa molecole
combustibili non saturate e cariche di energia. Lo sviluppo della clorofilla
comincia nei punti gialli dei cotiledoni chiamati leuciti, che alla luce fanno
diventare verde il loro pigmento. Sono glomeruli che dal calore del sole e
dalla luce assumono l'energia termico-elettrica, trasformandola in energia
chimica che assorbe il carbonio. Ogni specie ha una clorofilla apposita, e ad
esempio negli spinacci è fatta di C 40 H62 A2 O 4 , nella erba medica G 42 H63
A2 O 4 . Nelle piante acotile- doni è ancora assai diversa. Assorbendo il
carbonio, i glomeruli verdi formano le aldeidi, gli zuccheri, gli amidi, i
corpi grassi, il tannino e le materie albuminoidi, con un lungo e fecondo
lavorìo. Negli albuminoidi, oltre al carbonio e agli elementi dell'acqua e dell'aria,
entra sempre qualche po' di solfo e alle volte anche di fosforo: elementi
accentratori, che vedremo cre- scere negli animali e di cui vi sono traccie già
nei nuclei delle cellule degli amebi e del protoplasma. L'acqua col carbonio fa
l'aldeide più semplice, il quale polirnerizzando fa lo zucchero. I fermenti
della cellula, sotto la luce del sole fanno nelle foglie zucchero ed amido.
Tenuto al- l'oscuro l'amido si cangia in celluiosi o mucilaggine. La celluiosi
è una sostanza idrocarbonata insolubile negli acidi e nelle basi (che sotto
l'in- fluenza degli alcali può tornare amido) con cui si fanno le parti più
solide delle piante C 12 H10 O i0 . Le piante prendendo l'azoto non dall'aria,
ma dalla terra, riducono i nitrati ad acido cianidrico. — 97 — Nelle sementi a
lungo private di qualsiasi umidità i gruppi di cristalli poliedrici delle
aldeidi, gruppi (che si chiamano i miceli) si toccano. Mase penetra l'acqua, si
rianimano ossigenandosi, e, se la temperatura è dolce, germogliano. Mettendo
del grano di frumento nell'acqua te- pida, non si cambia il suo amido finche
non germina. Ma appena principia a germogliare, l'amido si idrata e si
trasforma in glucosi. Ed ora veniamo alle analogie interne fra le piante e gli
animali. Il liquido assorbito dai succhi digestivi in cui le radici hanno
trasformato i sali ed altre sostanze minerali ascende nel fusto, sciogliendo
alcune so- stanze che trova nel passaggio e diventa linfa. Quanto più questa
ascende, tanto più diviene densa. Essa forma dei canali o arterie capillari,
nei quali scorre, attratta dalle gemme sbocciate sul fusto, ed arriva agli
stomi, ossia alle bocche delle foglie, dove si ossigena, evaporando l'acqua. Da
queste foglie il succhio ridiscende sotto la corteccia, divenuto latice
(piccolo sangue, di cui la parte essenziale si coagula, come il sangue ani-
male). Come latice empie i canali laticiferi ramificati dal parenchima, e fa,
nelle fibre allungate, il così detto Libro. Il latice è pieno di granuli
vitali, che, come i globuli del sangue, circolano e depongono il nutrimento
nelle varie parti, fino alle radici e nel midollo, formando quel deposito di
materie nutritive che sta fra il legno e la corteccia delle piante
dicotiledoni, chiamato Cambio. Nelle piante monocotiledoni mancano le gemme
laterali, e le fibre del libro ed i vasi laticiferi sono contenuti nei fasci
fibrosi vascolari arcuati — 98 — sparsi nel fusto. E perciò nelle
monocotiledoni il cambio si deposita in masse sparse. La gemma terminale unica
di queste Monocotiledoni approfitta del succhio elaborato dalle foglie
precedenti ; e così avviene anche nelle Acotiledoni vascolari. I vasetti
laticiferi abbondano presso le ghiandole e sopratutto in quelle della resina e
delle gomme sotto la corteccia. Vere ghiandole sotto l'epidermide sono quelle dell'arando,
del mirto, della ruta, che secernono olii volatili. Le ghiandole interne ed
opache son fatte da peli gonfiati, come nelle ortiche. Le materie resinose, la
cera impermeabile all'acqua sono vernici utilissime, le quali moderano la
evaporazione, e non sono escre- menti. Così nei pini, nei pioppi, nei castagni
d'India. Nel Chili e nel Perù quasi tutti gli arboscelli hanno il trasudamento
resinoso, perchè il clima è asciutto e senza di esso svaporerebbero troppo i
succhi : la polvere di cera segregata da peli glandulosi copre le foglie dei
cavoli ed altre specie, le prugne, le uve, ed altri frutti. Molte piante
sommerse nell'acqua si rivestono di uno strato vischioso che impedisce
all'acqua di macerarle. Le resine e le gomme non sono escrezioni: lo sono
invece quelle •che escono nelle radici dai fiocchi gelatinosi. F. Loed (The
dinamics of living matter, 1906, .New-York) considera ogni organismo come una
macchina chimica, di colloidi; ma non può spiegare l'assimilazione e la
morfologia senza Vunità senziente collettiva, che provvede ad ogni bisogno
interno ed esterno delU piante. Le albumine vegetali sono eguali a quelle
animali. Tutte si coagulano a caldo, tutte reagiscono del pari agli acidi, alle
basi ed ai sali. — 99 — Le globuline vegetali o Edestine, sono fatte per metà
di carbonio, per un quinto di azoto, per quasi un quarto di ossigeno: il resto
è idrogeno, con pochissimo solfo. I bacteri che (come dicevasi nel Cap. VI) in-
grassano le piante sono fatti di una globulina so- lubile nell'acqua chiamata
myco-proteina. Le caseine vegetali (tutte insolubili nell'acqua) fanno il
glutine e sono affini alle legumine estratte dai legumi. II protoplasma è
alcalino, ma il liquido che lo circonda è acido trasparente. Le fibrille vive
pulsano, e nei vacuoli si depongono sali, acidi, zuccheri, grassi, amidi, tutti
len- tamente segregati. Le glucosi formate nelle foglie di un albero, scendendo
nel cambio sotto la corteccia del fusto, e poi nelle radici, perdono la loro
acqua, e vanno depositando l'amido insolubile e la celluiosi. Rie- scono
polimerizzando a fare alcuni principii aro- matici. Una parte importante
l'hanno i fermenti. Dove la pianta cresce presto, lo si deve a fermenti ossi-
danti detti ossidasi. Ossidando molto le aldeidi si ottengono gli acidi. Nelle
sementi del papavero, del ricino, della canapa, del fico, del lino, della
veccia, del granturco, ci sono le steapsine che sa- ponificano i corpi grassi
ed idratano. Nel latice della pianta a lacca del Giappone ed in molti Funghi vi
è la laccasi, fermento che provoca la ossidazione dei tessuti ed agisce sui
germogli e fu trovato anche nella Dahlia e nella Barbabietola. Wiirtz trovò la
papeina, fortissimo fermento in altre specie vegetali. Vedremo negli Animali
quante funzioni vengano attivate dai fermenti. I fenomeni vitali aerobi,
distruggono nelle piante, come negli animali, i grassi, gl'idrati di carbonio,
con lenta combustione, che riscalda alquanto le cellule. Da per tutto dove si
moltiplicano le cellule in- terne e si organizzano, vi è combustione e riscal-
damento, emettendo gas acido-carbonico ed acqua, precisamente come si verifica
in un animale. Le diverse funzioni interne delle piante che abbiamo indicate
sono dunque analoghe a quelle di certi animali inferiori (meno la clorofilla o
parte verde). Non siamo entrati nella Botanica descrittiva, limitandoci ad
investigare la Natura che si fa delle Piante, le cause intime della loro
formazione ed evoluzione. I Botanici si arrestano quasi sempre alla Natura
fatta delle Piante e trascurano la Natura che si fa. Questa invece interessa
altamente la Filosofìa della Natura, perchè presenta una serie ricchissima di
fatti, che ci convincono che la parte materiale dei Vegetali è la persistenza
ereditata dei movimenti funzionali che, molte volte ripetuti, diventarono
strutture ed organi. Dalla psiche del Proto- plasma, non già dall'Inconscio
Indistinto, né dal caso, uscirono tutte le funzioni : e tutte le forme mirabili
della vegetazione universale, le cui centinaia di migliaia di specie
abbelliscono la faccia della Terra. Tutto si è fatto dal di dentro al di fuori,
all'opposto di quanto insegna VArdigoismo. « E questo fia suggel ch'ogni uomo sganni
». Origine psichica delle specie animali Ogni forza nella sua intimità, lo
abbiamo visto fin qui nella Natura inferiore, è sentire e volere: sentire il
contatto delle cose esteriori portate nella propria unità; e poi volere
l'allontanamento di ciò che fa male e l'avvicinamento di ciò che fa bene : e
giova a sviluppare la propria vita ed a renderla indipendente. Quindi ogni
forza organica ha la sua finalità, benché si manifesti come Materia. La Natura
che si fa era, ed è ancor sempre nelle specie vegetali ed animali sentire,
desiderare e volere. Il sentire precede il desiderio, il volere e il muoversi
lo seguono. Negli animali più che nelle piante si manifesta la causa evolvente,
cioè la tendenza di elevarsi a sensazioni più armoniche, ad unità più
complesse, operando e dominando in relazione. « Et mihi res, non me rebus
submittere amor ». Orazio. Nel processo chimico la distruzione provoca a
rimettersi; nel processo morfologico la Vita è la evoluzione a forma più alta,
e più sicura di dominare gli ostacoli. Se fosse un mero processo chimico di
combustione, si potrebbe mantenere la vita nei membri mutilati degli animali superiori,
di cui si può conservare per alcune ore la digestione, la respirazione, la
circolazione del sangue e la secrezione delle ghiandole. — 102 — La formazione
lenta e perseverante degli Organismi per fuggire il dolore e procurarsi il
piacere è universale. Essa fa le funzioni e le consolida in organi, dapprima
deboli e semplici, poi, con l'esercizio, vieppiù complicati e robusti. La
funzione è la distribuzione della forza che un organismo oppone a quanto
inceppa il suo libero sviluppo, ossia lo sviluppo del piacere. Il materialista
crede che le Turbellarie non re- spirano, perchè prive di branchie, che i
Polipi non sentono, perchè non hanno nervi, che gli Insetti non hanno
circolazione perchè non hanno arterie, né vene; ossia credono che la funzione
dipenda dall'organo, il quale organo poi si sarebbe fatto miracolosamente per
virtù dell'ambiente. Invece secondo Schelling, Hartmann si sarebbe fatto per
virtù dell'Inconscio, Indistinto, Infinito, secondo Ardigò da tutti e due. Ma
il zoologo filosofo sa che le funzioni prive di organi si compiono meno bene,
ma si compiono : e che ci vuole molto tempo a fare gli or- gani. La vita
intensa non si manifesta se non quando le materie azotate si scompongono, per
ricomporsi con atti Unitari Morfologici, che ordi- nano le funzioni e formano
poco alla volta gli organi. Le correnti interne delle Monere fanno le prime
appendici e la contrattibilità: esse non hanno ah tro organo della volontà che
i così detti falsi piedi, formati dal loro protoplasma esterno viscoso : e quando
hanno finito di muoversi, li ritraggono nella massa comune. I cigli permanenti
principiano negli Actiniferi ed irradiano da un centro. Nelle specie superiori degli
Infiisorii (1) si riuniscono in una coda, detta flagello (anche le spore delle
Alghe verdi hanno cigli vibratili). Le larve dei Celenterati ne sono coperte.
Engelmann distinse i moti degli Amebi, che sono sarcodici o ad appendici brevi,
o fila- mentosi, dai moti oscillanti dei Bacteri. Gli animali sono in generale
assai più azotati delle piante; e quindi di composizione più instabile, più
facile ad adattarsi alle nuove circostanze e tendenti a dominarle. La loro
psicogenia fa la somagenia più presto che nei vegetali. Dalla gelatina che è
Valfa delle materie proteiche, essi arrivano in poco volgere di tempo a far
Valbumina che ne è Vomega. L'albumina, con 14 elementi diversi, forma molecole
composte di centinaia di Atomi, la cui struttura si presta alle più diverse
funzioni, grazie alle isomerie, per le quali (con l'aumento di Atomi della
medesima specie nella stessa molecola (polimerie) oppure con la metameria (che
lascia lo stesso numero di Atomi di ogni specie, cangiandone soltanto la
disposizione) si ottengono nuovi adattamenti all'ambiente e nuove forze per
svilupparsi (2). (1) Fin dal 1848 il prof. Ehrenberg di Berlino scoprì 400
specie di Infusori microscopici che vivono in diversi strati dell'atmosfera, ed
altre centinaia se ne scopersero poi, di una piccolezza tale da essere
invisibili, nella pioggia, nella nebbia, nella neve, nel mare, negli stagni. La
vita ani- male pullula dapertutto dove vi è ossigeno, anche in forme
minutissime. Ci sono animaletti che si muovono con molta alacrità, sanno
evitare gli ostacoli che si oppongono al loro corso : i grossi vanno a caccia
dei piccoli. Se ne sviluppano molti nelle infusioni fredde o macerazioni
vegetali. (2) Queste materie proteiche vengono nei Laboratori delle Università,
cimentate con l'idrato di barite, con poco risul- tato, perchè l'albumina morta
non è più capace di nulla. La sintesi piacevole o dolorosa guida l'animale a
fare le funzioni più adatte, trovando mezzi migliori, e respingendo,
abbandonando i meno utili per nutrirsi, per respirare, per muoversi e per
riprodursi. L'organo deriva dalla funzione, la quale (come dicevamo) si compie
anche se gli organi sono di- fettosi o mancano del tutto, benché allora si
compia meno bene. Così distrutti i reni, l'urea viene estratta dal sangue nella
superficie mucosa dell' in- testino. Quando una funzione comincia a
localizzarsi, è sempre confidata ad un vecchio organo leggermente modificato.
La Natura che si fa, tende sopratutto a modificare opportunamente la
Morfologia. La formazione degli organi di relazione e so- pratutto degli organi
dei sensi, ci mostra che una continua crescente attenzione a determinati scopi
fu rivolta dai più semplici animali. Le successive accumulazioni di energia e
di abilità acquisita, benché piccole negl'individui, da- vano una grande somma,
dopo una lunga serie di generazioni, con la legge ben nota della diminuzione
del lavoro biologico generale a vantaggio di un organo particolare. Furono
certamente figurate con perseveranza le varie maniere di difesa che si fecero
animali di scarsa intelligenza. Quando un atto nuovo, per speciale
combinazione, è trovato utile, i più stu- pidi animali arrivano a farne una
funzione, e ri- petendola per varie generazioni in favorevoli cir- costanze un
organo efficace. Così i Bagni in ori- gine segregavano un liquido viscoso per
farsene bozzoli ; ma discendendo dalle frasche mentre il vento li gettava sui
rami prossimi, videro che ri- - 105 — tornando più volte al primo ramo ed
incrociando i fili, pigliavano mosche, finche impararono a far reti
geometriche, che all'aria si induriscono. Alcune Formiche, il Bombardiere,
alcuni Scarafaggi videro che getti e spruzzi loro servivano ad allontanare i
nemici e ne appresero l'arte. La Seppia imparò ad intorbidare le acque. Le
Torpedini del Mediterraneo, i Siluri del Nilo e del Senegal, il Gimnoto dell'
Orenoco ed altri Pesci, con apparati nervosi pieni di cellule prismatiche di
gelatina, si fecero delle batterie elettriche con le quali danno scosse
violenti a chi li insegue. In un Vademecum destinato alle persone colte in
generale, per far meglio intendere la multiforme attività della psiche, che va
facendo e moltiplicando ogni specie, ci sembrò utile di dare alcuni esempi
caratteristici. Se una divinità inconscia presiedesse alla evoluzione degli
organismi o se questi fossero fatti dalle forze incidenti dell'ambiente (che
YArdigò, seguendo lo Spencer, crede tanto influenti), non sarebbe vero il fatto
osservabile in tutti gli ani- mali e nell'uomo stesso, che le funzioni fatte
con coscienza e ripetute, rendono i moti più facili e più coordinati, omettendo
gli inutili, per insistere sugli utili, con teleologia sempre più
chiaroveggente, interna dell'animale e non esterna dell' Inconscio cosmologico
universale. Quando la funzione, ripetuta per alcune generazioni, ha formato
sarcodi, muscoli, nervi e moti riflessi, cessa il lavoro di convergenza che
atten- deva ad un determinato progresso morfologico : la coscienza se ne
ritira, dirigendosi a soddisfare nuovi bisogni; ma la coscienza e la
convergenza ritornano sopra quei punti, quando cambiano le — 106 — circostanze,
e l'animale tituba sul da farsi, e deve fare nuovi movimenti e quando impara un
mestiere. La convergenza assomma le Unità senzienti come un fiume assomma le
acque di tutta una valle. La convergenza della Natura che si fa, trova i moti
migliori e li combina. La Natura fatta delle cellule associate per fare i moti
nuovi, dopo averli imparati, li continua come una macchina, come i soldati,
dopo aver imparato l'esercizio dagli uffi- ciali, li continuano da se soli e li
ripetono centinaia di volte facilmente. E questo meccanismo si fa poco a poco,
perchè, con la semplice ripetizione di un movimento, l'ani- male, sente
fortificarsi i muscoli che contrae, le ossa sulle quali i muscoli si
inseriscono, ed i centri nervosi che li eccitano. Un animale superiore
racchiude in se milioni di sensazioni delle sue cellule dei suoi organi, che
egli, nella sua vita conscia generale, non avverte. Se le sentisse sarebbe
confuso, come un generale condannato ad udire i discorsi dei suoi gregari. La
cenestesia o sentimento comune, accentra le Unità organiche e fa la sensazione
interna sintetica, che ^impone di esercitare o di trascurare le funzioni. È un
tatto interno, che sente la vita scorrere nei visceri, nelle membrane mucose,
nelle ghiandole, nei muscoli, nelle arterie, nei polmoni, nelle articolazioni,
nei nervi: è, come vedremo nel Capitolo XIV, la base dell'anima giacche ne fa i
sentimenti, le sensazioni, i ricordi e le voli- zioni : base psichica, che
viene dalle singole unità delle cellule e degli organi e non dall'ambiente, ne
dall'Inconscio, Infinito, Indistinto. L'eredità ci dà gli organi, senza che il
neonato sappia ancora farli funzionare : la coscienza degli antenati li ha
fatti poco a poco, ma facilmente l'animale diventando adulto impara ad usarli.
La funzione va presto nell'animale nato da poco, da se come un meccanismo :
senza nuove aggiunte: finché non cambino le circostanze e non sorgano ostacoli
impreveduti. Per modificare le funzioni ci vuole la coscienza, l'attenzione, la
Natura che si fa, la sìntesi chiaroveggente, gaudente o sofferente. Essa per
fare dei cambiamenti minimi esige un grande lavoro, come osserva il Pouchet,
mentre il lavoro della psiche inconscia, passiva, che va come un meccanismo,
ossia della Natura fatta, non spende energia visibile, perchè si fa per con-
vergenze particolari, minute e locali, senza cercare nuove combinazioni. I
vantaggi acquisiti da poco tempo, si perdono, se non sono conservati e
rafforzati coll'esercizio, e se la Volontà li abbandona, gli organi si
atrofizzano. La selezione fatale per la sopravivenza dei più adatti a vivere in
un determinato ambiente (the sunnvance of the fittest) propugnata da Carlo
Darwin esigerebbe molti più milioni di anni di quelli che attesta la
stratificazione dei sedimenti geologici. Quindi bisogna con Naegeli dare molto
maggiore importanza alle cause intime, alla Unità noumenica, ossia non
fenomenica, la quale sentendo, desiderando, volendo, cambia le funzioni e le
perfeziona. Romanes ha mostrato che VAmore ha separato le specie animali,
perchè, fra certe famiglie si stringevano alleanze, che escludevano gli altri,
e — 108 — le isolava; cosicché alla fine, le nozze con altre famiglie restavano
sterili. Infatti la prima cura degli allevatori è eli impedire l' incrociamento
delle nuove varietà coi vecchi tipi. — La figurazione amorosa, separando ed
isolando, fece e fa le specie nuove. La umana imaginazione è una piccola parte
delle combinazioni di imagini e di sen- sazioni che ebbero gli Animali, e
sopratutto di quelle relative al miglioramento delle proprie condizioni e dei
propri organi ed alle scelte sessuali. Sembra che le modificazioni degli
animali su- periori sieno avvenute bruscamente, nell'ovario o nella prima fase
dell'embrione, quando erano state lungamente richieste dalle circostanze e vi-
vamente figurate e bramate dai genitori. L' imaginazione della madre ha la più
grande influenza sull'Embrione, non soltanto nel concepirlo, ma anche quando si
va svolgendo nel ventre, come lo provano tanti fatti di cui alcuni ne ci-
teremo in seguito (molti somigliano a mostruosità). Ohi guarda le miriadi di
specie minute resta meravigliato di vedere come siensi fornite di organi così
diversi, così opportuni per la vita, nelle fo- reste, sui monti, sul mare,
sulle acque dolci, correnti o stagnanti. Gli Insetti che volano hanno valvole
pulsanti sparse in tutto il corpo e perfino nelle zampe, ed un intricato
sistema di vasi e di tubetti secretori che fanno sughi gastrici e in al- cune
specie (numerosissime sulle rive del fiume Orenoco in America) veleni per i
nemici. GÌ' Insetti hanno foggiate le membra loro a mille usi per afferrare o
masticare i cibi, per succhiare od incidere le piante e le carni (mandibole,
palpi labiali, proboscidi, trombe, lancette). Alcune specie, come VElater
tropicale e le nostre Lucciole, sono fosforescenti e la fosforescenza è dominata
dalla loro volontà. Il verme di acqua dolce fa le branchie dalla pelle; il
Crostaceo phyllopodo le fa dalle zampe. Nel Gambero gli anelli sono assai
diversi : gli uni portano antenne, i seguenti mascelle, zampe e l'addome. E tra
le zampe, ve ne sono di ambulanti, di prensili, di respiranti e di natanti.
Tutti conoscono molte specie di Molluschi, le quali si fecero un mantello,
emettendo, a lamine di carbonato di calce, una Conchiglia del colore del
mantello, piccola casa portatile. Così gli Uccelli fanno le uova con guscio
calcare. In generale le parti mediane cambiano difficil- mente. Invece le
estremità vennero adattate fa- cilmente in tutta la Fauna ai nuovi bisogni,
quando duravano per varie generazioni. Il graduale innalzarsi (con sentimento,
desiderio e volontà) delle specie animali, fu studiato da C. Darwin e da
Haeckel e tenteremo di darne le linee principali (per quanto si può in un paio
di pagine), onde mostrare l'efficacia delle leggi generali di evoluzione sopra
esposte. Haeckel, con mente scrutatrice e geniale ha li- brato i fenomeni della
Embriologia e le testimonianze della Paleontologia, dando un quadro
approssimativo della generale evoluzione morfologica dalle prime colonie di
cellule. Dai Polipi idroidi derivano le Meduse e stac- candosi, formando la
testa, gli Anellidi. Gli Articolati (Anellidi, Miriapodi, Insetti, Ragni e
Crostacei) saldarono i loro muscoli ai tegumenti esteriori, che in principio
erano semplici indurimenti della pelle e poi si coprirono di chitina. — 110 —
Come dagli Articolati venissero i Molluschi non è deciso, vi sono due
spiegazioni. (Vedi Capitolo XIII). Dai Molluschi si staccarono i Tunicati,
animali assai piccoli, per la tunica a sacco, nella quale chiusero le branchie,
gl'intestini, il cuore, ed i vasi sanguigni (Ascidìe, Bifore, .Pirosome, ecc. a
generazione alternante. Si crede che dai Tunicati, per mezzo dei Cordati e
dello Amphioxus (che non ha ancora cervello) sieno derivati i primi Pesci,
alcune specie dei quali sono prive di ossa ed hanno soltanto cartilagini ancora
oggidì. Tutti i Pesci hanno un cuore, che corrisponde alla metà del nostro, e
sangue freddo: tutti hanno molte dita per nuotare. Se ne staccarono i
Dispneusti, nel periodo Devoniano, i quali resero la loro vescica natatoria
capace di funzionare come polmoni, entrando per molte ore al giorno nelle
foreste prossime al mare. Per cacciare animaletti vivi i Dispneusti ridussero a
poche le dita e le accorciarono. Dai Dispneusti provennero gli Amfibi, i quali
nascendo respirano ancora con le branchie, ma nella età adulta respirano coi
soli polmoni, abituandosi a vivere sulla terra. Essi ridussero a 5 sole le dita
di ogni membro e queste rimasero poi 5 in tutti i Vertebrati, compreso YUomo.
Le Rane inghiottiscono l'aria per la bocca. Perdendo affatto la respirazione
bronchiale, complicando il cuore, ed acquistando quella membrana detta Amnio
che riveste il feto e li fece chiamare Amnioti, si formarono dai più elevati
Amfibi gli Stegocefali, che divennero padri dei Rettili. Come le più energiche
forze plutoniche erano necessarie per dare origine ai basalti ed alle altre Ili
roccie ignee della prima scorza terrestre, così le forze organiche più
energiche erano necessarie a dare i primi abbozzi della Flora e della Fauna. E
le Unità intime confrontanti in tanto carbonio e calore, come ne avevano i mari
nell'epoca Primaria o Secondaria, dovevano aver maggiore facilità di oggi nel
cambiare e scegliere le forme fondamentali. Perciò si trovano fino dalla Età
Mesozoica i tipi fondamentali delle varie specie già pronunciati. Nel periodo
Siluriano, ossia nell'Epoca Arcaica (subito dopo il Cambrico), vi erano già
Molluschi superiori ed anche Pesci. 1 Pesci Ganoidi del Si- luriano avevano un
sistema nervoso dorsale, di molto superiore a quello radiato o bilaterale o centrale
dei Molluschi. Questo ci prova che, fino dall'origine, vi erano diversi tipi
fondamentali e che non è vera la Evoluzione sopra una sola linea. Nel periodo
Cambrico, vi erano già Crostacei di forme gigantesche. Dal Cambrico al
Devoniano, abbondarono le Trilobiti (1), che sembrano essere stati i primi
Crostacei, tanto numerosi da formare coi loro scheletri dei depositi
estesissimi, ma estinte dopo il periodo Devoniano. Si moltiplicarono gli Amfibi
e i Rettili. Alla fine di questo periodo si alzarono le piante terrestri e
formarono grandi foreste che crebbero poi nel periodo Carbonifero. Nel
Devoniano erano Felci arboree colossali, Si- gillane e Lepidodentri) tutte
Crittogame, mentre nelle acque si moltiplicarono i Molluschi, i Cro- (1) H. E.
Ziegler : «Die Descendenz Theorie in der Zoologie », 1902, Iena. -Piate: « Das
Darwinistische Prinzip der Selection», 1905, Lipsia. — 112 — stacci, i Zoofiti,
i Pesci. Parecchi degli Amfibi e dei Rettili raggiunsero dimensioni assai
notevoli. Alcuni Lepidodentri erano alti 30 metri e il loro tronco
aveva un diametro di 3 a 4 metri, che si trovano spesso nei sedimenti di
quel periodo. Le Sigillarle erano anche più alte, fino a 40 metri, con tronchi
enormi e cicatrici alla base delle loro lunghe e durissime foglie; bastino
questi esempi per mostrare in quale magnifica vegetazione si movessero quei
grossi e feroci Vertebrati. Dal Trias al periodo Permiano, Amfibi e Rettili
divennero padroni delle terre boscose e delle ac- que dolci. Il sangue restava
freddo, e si mescolava nel cuore, il venoso con lo arterioso, senza passare per
i polmoni. I più grossi furono gli Ictiosauri, carnivori per lo più, a lingua
secca, con pochissimo senso del gusto. Nel periodo Cretaceo, dalle Lucertole
derivarono i Fisomorfi e gli Ofidi o Serpenti, perdendo per inerzia ed atrofìa
le membra, e facendosi ad ogni vertebra una costola, perchè vivevano sempre
sdraiati e si limitavano a poltrire e strisciare (1) nel fango e fra le alte
erbe. Gli Amfibi antichi erano coperti di squame, mentre i viventi sono ignudi
avendo degenerato. Invece i Rettili antichi erano nudi, per lo più, e i viventi
arrivarono ad agguerrirsi con squame e con corazze. (1) L'apparato velenoso
delle Serpi sta nelle ghiandole salivari, che in parte secernono materia gialla
velenosa, che passa poi per i denti forati superiori, mentre la bestia afferra
la vittima ( Vipera, Aspide, Sonagli, Crotalo o Tri- gonocefalo, Najadi). Dai
Rettili ai staccarono i Draghi, piccole lucertole che rivolsero una parte delle
costole a destra e a sinistra per sostenere due prolungamenti della pelle che,
senza permettere loro di volare, gio- vavano però a sostenerli come paracadute
nel sal- tare da un albero ad un altro lontano alcuni metri. Essi non stanno
quasi mai per terra, ma vi- vono sulle cime degli alberi o si gettano nelle
acque in cui nuotano con grande facilità, per prendere gl'insetti che mangiano.
Ve ne sono molte specie ancor oggi nell'India orientale e nelle Isole della
Sonda. Furono questi i primi Rettili che riuscirono a rendere caldo il loro
sangue. Pare che anche i Dinosauri ed i Plesiosauri avessero il sangue caldo ;
essi vivevano nell'acqua ed erano provvisti di grossa coda, di natatoie
potenti, avevano un collo serpentino assai lungo, per lanciare la testa sopra
le prede, e sbranarle coi loro formidabili denti. Formati nel periodo Giurese
si estinsero nell'Epoca Terziaria. Erano lunghi da 4 a 6 metri. Fra le specie
affini ai Draghi e ai Dinosauri o Plesiosauri ve ne furono al principio
dell'Epoca Terziaria di quelle più piccole, che diedero ori- gine agli Uccelli,
diventando bipedi. A quelli che si appoggiavano sulle gambe di dietro, si
allargarono le membra anteriori, che si coprirono di piume, per far salti e
volate ed in- nalzarsi sulle Piante. Il passaggio dai Rettili agli Uccelli si vede
nel periodo Giurese nello Hesperornis senza ali, che viveva nell'acqua e
mangiava pesce, nello Ictyomis della Creta Americana e nell: "
Archaeopterix di Germania: tutti avevano denti e coda da Rettili. An- oor oggi
gli embrioni degli Uccelli sembrano Rettili, come le Rane neonate paiono Pesci.
Nei Pesci come nei Rettili e così negli Uccelli il cervello manca di
circonvoluzioni. Manca pure ad essi la vescica, e l'orina sbocca in un
prolungamento del retto, detto cloaca. I polmoni degli Uccelli continuano in
tutto il corpo, con le cel- lule membranose, perfino nelle ossa, per il grande
esercizio della respirazione che fanno volando. Lo sterno è grande e solido,
dovendo sostenere le ali. Per cercare sementi ed Insetti o Vermi ridussero la
faccia a due mascelle, formando il becco, ren- dendo così impossibile la
masticazione; per cui in pari tempo modificarono l'apparato digestivo,
incominciando a digerire nel ventricolo succenturiato, per continuare poi nel
ventriglio, dove si forma il chilo. Neil' Epoca Terziaria le specie degli
Uccelli si moltiplicarono assai ed arrivarono a proporzioni enormi. Alcune di
queste poco o nulla volavano come YEpyornis del Madagascar, oggi estinto, che
era alto 4 metri, i Dinorni della Nuova Zelanda alti 2 metri e mezzo, lo Struzzo
dell'Africa e dell' India, alto anche più e più grosso, ma che non vola più e
corre fornito di cosce grosse come quelle di un uomo, colle sue gambe alte 130
cent, più del cavallo. Vive in truppe e mangia erbe; oggi si alleva con
profìtto. Gli sono omologhi ed analoghi, ina un po' meno alti, il Casoar
nell'isole della Sonda, lo Emù dell'Australia, il Nandù del- l'Argentina. Gli
uccelli rapaci non raggiunsero mai quelle dimensioni: VAquila dell'Europa e
dell'Asia, il Condor delle Ande non superano quasi mai il metro in lunghezza. Essi
rappresentano nell'aria quella caccia fe- roce che è stata continua sulla terra
e nell'acqua, caccia clie si esercita sempre contro altre specie. Fra i membri
di una famiglia, fra quelli di una società animale, regnano l'amore o
l'amicizia, e vi sono esempi numerosi di abnegazione e di sacrificio. Il numero
delle specie di animali che vivono di erbe supera quello delle specie che
vivono di carni, come il numero delle tribù selvaggie pacifiche, supera quello
dei selvaggi feroci, e quello degli uomini civili e laboriosi supera quello dei
delinquenti. E bisogna guardare all' origine dell' egoismo feroce. Come nella
Fisica e nella Chimica le forze fondamentali ed universali sono le attrattive,
e sol- tanto quando l'armonia e l'esistenza è minacciata sorgono le ripulsioni,
così, quando le specie animali imparano a far caccia e guerra, è per lo più
quando sono minacciate nel pacifico possesso dei loro mezzi di vivere, quando
non trovano da sfa- marsi (1). I primi Mammiferi furono i Sauro-mammoli ed i
Monotremi nel Trias e ne vennero 3400 specie, (1) Gli animali domestici ben
trattati restano come fanciulli affezionati, mentre quelli maltrattati perdono
la natura pacifica ereditata. All'opposto gli animali di specie feroce sono più
o meno adatti a diventare domestici. Così si fa con gli orsi nelle locande del
gran Parco Nazionale del Yellowstone negli Stati Uniti, così si fa con gli
alligatori ed i coccodrilli negli Stati meridionali di quella grande
Repubblica, i quali ornai nel Mississipi si allevano per venderli come carne da
macello. delle quali metà sono già estinte. Il periodo glaciale le obbligò a
surrogare alle squame i peli, mandando molto sangue alla pelle a formarvi le
ghiandole pilifere per ripararsi dal freddo; così si fecero anche le lane delle
pecore. Meno gli Equidi e le Antilopi, che impararono a correre più veloci, gli
Ungulati, che tanto si erano moltiplicati, furono tutti mangiati dai Carnivori,
derivati nel periodo Eocene dai Marsupiali, Laddove la persecuzione dei carnivori
era più minacciosa, i Cetacei, che erano e sono ancora Mammiferi {Balene,
Delfini) ed i Pinnipedi (Foche) si salvarono nel mare, lasciando inerti le
membra posteriori, svilupparono in natatoie le membra anteriori ; ingrossarono
la musculatura della coda ed impararono ad allargare sempre più la bocca, per
ingoiare molti pesciolini ad una volta. Invece sui grassi pascoli del Miocene e
del Plio- cene dove i Carnivori non penetravano, i Ruminanti, riposando quando
erano satolli, digerendo lentamente, si fecero quattro stomachi, risalendo i
cibi dal pansé nella bocca per essere macinati, e tornare poi nel secondo
stomaco {cuffia) e nel terzo (centopelli) e passare finalmente nel caglio che
termina la digestione. I più grossi Mammiferi furono i Mammuti della Russia.
Per prendere i cibi nelle paludi, per bere, per sollevare qualsiasi piccolo
oggetto, gli Elefanti prolungarono il naso in proboscide, onde restare
comodamente piantati sulle grossissime gambe poco pieghevoli. Per scavar la
terra le Talpe cambiarono le zampe anteriori in uncini e zappe ; per mangiare
le foglie più alte delle Palme le Giraffe allungarono molto — 117 — il collo ;
per nutrirsi di mosche e di farfalle not- turne il Pipistrello distese sopra le
membra anteriori un mantello, facendo crescere sulle 5 dita assai lunghe una
membrana che serve come di ali; ed anche il Pesce Dattilottero allargò le
natatoie del petto e le allungò in ali. Per difendersi, i Ruminanti si fecero
spuntare sulla testa le corna ; per arrampicarsi sugli alberi le Scimmie
cambiarono le zampe in mani; per armarsi di sassi e di bastoni con le mani
alcune di esse si abituarono a stare dritte sulle membra posteriori e ne
vennero i nostri piedi, e quell'af- flusso di sangue al cervello durante la
gestazione del feto, che aumentò l'intelligenza. Studiando le differenze fra
Scimmie ed Uomini il prof. Keit trovò che 312 caratteri morfologici sono propri
di questi ; 186 sono comuni all'Uomo ed al Gibbone, 272 all'Orangutano, 385 al
Gorilla e 396 allo Scimpanzè. Selenica mostrò che la embriogenià umana somiglia
moltissimo a quella di queste specie. Certo è che l'embrione nostro diventa
successivamente in nove mesi : Monerula, Morula, Blastosfera, Gastrula,
Cordoniano, Acranio, Ictioide, Àmnioto, Mammifero placentato e Primate, giacche
la Ontogenia o evoluzione dell'individuo è un raccorciamento della Filogenia o
evoluzione della specie. Il posto relativo delle parti negli animali di un
medesimo tipo non cambia mai ; benché se ne foggino stromenti tanto diversi
(come ne abbiamo indicati parecchi) a seconda della loro volontà. Bisogna ben
distinguere la Omologia o somiglianza delle forme, dalla Analogia o somiglianza
delle funzioni, giacche la modificazione degli organi — 118 — per farli servire
a funzioni nuove è stata assai frequente in tutti i tipi. Vi sono specie
fluttuanti per i molti incroci (cani, sorci, uomini ecc.). Il sentire-volere ha
fatto tutte le specie estinte o viventi, compendiando le anteriori. Quindi con
perseverante volontà l'uomo può perfezionare il sistema nervoso, il cervello
sopratutto, il sistema vasomotore, il muscolare, il cuore, i polmoni. Tutte le
volte che i figli tendono al medesimo scopo dei genitori, rinforzano la Natura
che si fa e perfezionano il corpo, facendo ereditare capacità fisiche ed
intellettuali migliori. Vi sono famiglie di atleti, di Boxers, di ballerine, e
famiglie di pittori, di musici e di scienziati. La Civiltà è una gara continua
nel far atten- zione a nuovi oggetti, un eccitamento perenne ad osservare, a
pensare, e quindi a sviluppare gli strati corticali del cerebro. L' Inconscio è
sempre un risultato della perse- veranza del Conscio nell'attivare nuove
funzioni. Ne abbiamo addotte in prova centinaia di fatti, mentre nessun fatto
può addursi per dimostrare che dall' Inconscio esca il Conscio. Ex nihilo
nihil. Ciò nullameno Schelling nel 1799 diede all'In- conscio la parte di fare
l'Ordine nel mondo, ed Ardigò lo riprodusse. « Die Materie ist erstarrte
Intelligenz, disse Schelling, la materia è pensiero congelato » . Ed Ardigò
Voi. IV, p. 269 « Il contenuto di ciò che si dice Materia, non è altro che lo
stesso Pensiero del quale è una forma » . «L'Infinito inconscio fa l'Ordine nel
mondo» disse Schelling. Ed Ardigò lo riprodusse, II, 235. « La Unità ordinatrice dello Indistinto
assoluto fa la Natura » , p. 247. « Tutto risulta da urti : lavoro meccanico :
ma in fondo vi è una razionalità sapientissima » , p. 249. « L' Indistinto
Universale, per cui tutto è uno, è la causa dell'ordine » , p. 250. « L'ordine
nel caso, e il caso nell'ordine : ecco la ragione della distinzione o
formazione naturale », p. 129. «Lo Indistinto è Infinito, ed è l'ambiente che
sta sotto ad ogni distinto » , p. 183. E Ardigò conchiude che 1' Indistinto
assoluto esclu- de il sopranaturale. E fa alcune osservazioni al padre Secchi,
cercando di provare che la Natura è infinita e che l'Ordine viene da questa
Infinità. Però noi abbiamo dimostrato nei primi Capitoli di questo Libro che
l'Infinito non è mai una realtà, che non vi può essere materia continua, che il
mondo non può essere infinito. Dalla falsa premessa che il mondo è infinito,
non si può tirar fuori l'ordine; e dal cambiare il sopra naturale in sotto
naturale non si può tirar fuori nulla, perchè l'effetto è lo stesso, che venga
dal di sotto o dal di sopra, V Indistinto è la causa dell'ordine. Però VArdigò
si contradice volendo parere positivista. Ed a tal uopo scrive, p. 249 : « La
Intelligenza viene dopo e non prima dell'ordine e ne è un effetto » . I suoi
discepoli poi ripetono sempre questa seconda parte, e non la prima
schellinghiana, del loro maestro : Marchesini ( « Vita e pensiero di Ardigò » ,
1907, p. 338), scrive : «L'umano pensiero si è formato per la continuazione di
accidentalità infinite, succedentesi ed aggiuntesi a caso, le une alle altre »
. E a pag. 259 ci dà questa bella genesi degli Uccelli : « La specie della
Gallina è un apparato — 120 — « fisiologico riuscito, per aggiunte e
modificazioni « casuali, occasionate dalle azioni e reazioni del- « Vambiente »
. Qui dunque lo Indistinto Inconscio, razionalità sapientissima, non fa più
nulla: è il caso, è l'ac- cidente che fa tutto. E il ritmo che è la semplice
ripetizione di un moto ad intervalli eguali, viene ad aiutare il caso. L'
Indistinto a che cosa è ridotto ? Si vuol ne- gare che venga da Schelling, da
Hegel, da Hart- mann. Si vuol tirarlo fuori dal nostro sentire: « Potendo
invertire le sensazioni che fanno il Me « da quelle del Mondo o Non Me, dice il
Mar- « chesini (pag. 308 a 312) si scopre che la sen- « sazione in se stessa è
indifferente ad essere « oggetto o soggetto, ed abbiamo così lo Indi- « stinto
sottostante ad ogni distinto. Indistinto po- « sitivo trovato per induzione. «
Via i misteri della divinità, avanti la conti- « nuità funzionale della Natura
infinita, che si « manifesta come Materia, come Spirito. La espone rienza della
nostra sensazione ci dà il sottostante « indistinto » . È questo il Positivismo
radicale delVArdigò. È facile osservare che questo sforzo di far apparire come
Positivo lo Indistinto Inconscio è impotente, perchè nessuno ha mai avuto una
sensazione che sia sensazione di nulla, vuota ed indistinta, indifferentemente
Oggetto o Soggetto : nessuno invertisce il proprio Io nelle cose o le cose nel
proprio Io. Ne Ardigò, ne alcun suo discepolo ha mai ten- tato di spiegare
l'ordine e la formazione delle specie vegetali ed animali, fuorché con trovate
come quella della gallina or menzionata. La me- schinità dell' Ardigoismo si
vede dai suoi frutti. L'oscillare continuo fra il Positivismo e l'Indistinto
Infinito ha costretto VArdigò a continue contraddizioni ed oscurità. La verità
è che la Natura che si fa, più o meno conscia e libera, ha fatto nella lunga
evoluzione le varie specie animali, organizzando la psiche inconscia o passiva
Natura fatta che va per necessità come un Meccanismo. Non andiamo a cercare la
causa delle varie specie animali nelle stelle, nelle nebulose, nello ambiente
infinito di Ardigò, nel caso e simili; siamo un po' più modesti e positivi, e
cerchiamola in quella Unità intima che ha fatto le cellule ed i primi viventi,
e che sentiamo capace di modificarci e di svilupparci ancora. Questo è il vero
Positivismo armonico, pitagorico, Italico (1). CAPITOLO IX. Come la psiche fa
la vita interna sana Fa sorridere il vedere Marchesini (nella sua- « Crisi del positivismo
» ) stentar tanto a far venir fuori la sensazione dai corpi inorganici e il
pensiero dagli animali, mentre Ardigò d'accordo con (1) Non è una divinità
inconsapevole, inconscia, che rivolge l'attenzione a determinati scopi al
disopra o al disotto degli animali lasciandoli inerti materie, che si muovano
senza sapere perchè. Ma sono gli animali stessi che senza aspettare il caso,
come la gallina sopralodata, desiderano ed ottengono col perseverare il proprio
sviluppo. lo Schelling (nel Voi. IV sul compito della filo- sofia) scriveva che
la Materia è una forma del Pensiero: e negli altri Volumi insistè sulla unità
del Pensiero con la Materia. Per quanto cerchi di far prevalere nelle dot-
trine contradittorie del suo maestro la parte positivista sulla parte
schellinghiana panteista, pure egli è costretto a dire, p. 250: «L'Indistinto è
« la nebulosa verso il sistema solare, è l' Embrione rispetto all'animale
adulto. 253: L'In- « distinto è la realtà unica fondamentale della « Unità e
molteplicità della Natura. 254 : la realtà «della psiche e della materia
insieme. 260: L'or- « dine si spiega per le due leggi dell' Indistinto « e del
ritmo. Per l'Indistinto ogni accidentalità « è subordinata all'ordine
universale. Per il ritmo « vi è ordine e numero (tautologia). 296 : A sostrato
« dei due mondi psichico e fisico sta l'Indistinto psi- « cofisico che ne è la
ragione esplicativa (mentre « Ardigò diceva che l' Indistinto non si può spie-
« gare, perchè spiegare vuol dire distinguere e « questo è l'art. 6 del suo
Catechismo). 331 : Il « che cosa sia non si rivela che sentendolo e si «
risolve nel Divenire che è VEssenza dell'Essere « (frase presa da Hegel). E il
divenire è per noi « ed in noi necessariamente sensazione » . Marchesini non ha
capito che, se il divenire è sensazione per noi, lo sarà anche per gli animali,
le piante, le cellule e le molecole. Quando Ardigò fu accusato di aver preso il
suo Indistinto dall'Omogeneo dello Spencer ebbe facile la risposta. — Io non
l'ho preso (come Spencer) dalla fisiologia, ma l' ho preso dal ^pensiero
filosofico, e poteva aggiungere tedesco. E in- fatti il Panteismo di Schelling
ed egli non ha — 123 — mai negato di averlo preso dalla Germania: fu sempre
studioso assai della filosofia tedesca, citò nella Psicologia molti autori
tedeschi, per cento pagine, e quando fu accusato di essere Metafìsico, si
schermì evasivamente (come diremo nel nostro III Volume). Se prendiamo V
Indistinto deìYArdigò non verniciato di Positivismo,. non mascherato dal manto
di pontefice dell'Ateismo Italiano, vedremo che è una nebbia panteistica, che
(a quanto egli dice) contiene in sé la ragione della differenziazione e della
continuità fra i differenziati. Infatti il suo discepolo G. Marchesini sostiene
che la gran legge di formazione delle cose è questa: che una linea si suddivida
in punti infiniti (pag. 115). Certo la linea è continua e contiene in se i
punti. Ed è tutto. Questa è la sua gran spiegazione. Chi non se ne contenta,
non ha capito come si sono fatte le piante, le bestie, gli uomini e pretende
troppo dall'Ardigoismo. Ora questo Indistinto nebuloso e vago non ha fatto,
secondo noi, veramente niente. Tutto era preciso e numerato fin dalle prime
nebulose e dall'Etere. Quelle che hanno fatto l'ordine della flora e della
fauna sono le Unità viventi, distin- tissime e precisissime della Natura che si
fa, che cerca di aumentare la sensazione piacevole e di evitare la dolorosa,
formando le più utili funzioni (e con la loro ripetizione, gli organi), della
di- gestione, della respirazione, della sanguificazione o Ematosi,
dell'assimilazione, della generazione. Per poco che noi penetriamo nella genesi
della vita interna, potremo ben convincerci, sulla base dei fatti. Digerire
vuol dire scomporre, macerare, idroliz- zare le materie ingerite e poi combinarle
con le proprie sostanze. Arthus (Nature des Enzymes, 1896) suppone che i
fermenti sieno sostanze non materiali, formate dalla Unità generale
dell'organismo. Nei Protozoi comincia a separarsi la funzione digestiva dalla
motrice. Nei Celenterati si può già distinguere 1' Entoderma che modificando
gli ali- menti accumula energia, dall' Ectoderma che fa tentacoli. Gl'Infusori
hanno bocca, faringe e ca- vità digestiva protoplasmica. Ma nei Polizoari
YEntoderma diventa un canale alimentare, che si divide in esofago, stomaco ed
intestino. Nelle Ascidie il sugo nutriente si separa dalle feci. In principio
il fegato, il pancreas, sono semplici cellule escrementizie biliari: poi si
riuniscono in sacchetti con piccoli canali ramificati. A misura che l'assimilazione
si afferma, vengono segregandosi gli Enzimi o succhi digerenti come nelle
Salpe. Le ghiandole segreganti crescono negli Aneh lidi (1), negli Echinodermi,
negli Artropodi, e nei Molluschi: questi ultimi hanno un vero fegato. I
Crostacei si sono già formato un fegato di cellule peptiche ed epatiche. In
tutte le cellule delle ghiandole, che ricevono dalla unità generale dell'
organismo la funzione di secernere, si compie un delicato lavoro di scelte
feconde, e finiscono alcuni nervettini (i quali provengono negli animali
superiori, sia dal gran simpatico, sia dal sistema cerebro-spinale). (1) Meno
nella Tenia ed in altri parassiti. Il corpo della Tenia riceve dapertutto gli
alimenti, senza farsi un apparato circolatorio, ne digestivo. Tutte le sue
cellule si nutrono e respirano. Sono questi nervettini che dirigono la funzione
speciale del secernere. E non hanno bisogno di essere animati dallo Inconscio
di Schelling e di Hartmann ne dallo Infinito sottonaturale che, se- condo
Ardigò, è la causa dell'ordine. Il parenchima (o epitelio ghiandolare) attrae
dapprima dal sangue l' acqua ed i principi in essa disciolti : la ghiandola,
che era pallida, si ar- rossa, e si riscalda, elaborando sotto l'azione del
sentire - desiderare - volere, mediante i nervettini, il suo secreto, traendo
dal sangue, che filtra at- traverso ai capillari ed ai tubi porosi, la sostanza
specifica. Le ghiandole sono i chimici o farmacisti del collettivismo organico.
Il tessuto retico- lare delle ghiandole è privo di fibre. Mettendo della pepsina
e dell'acido lattico con- tenuto nel sugo gastrigo in un bicchiere, si può fare
una digestione artificiale. Ma non si può nei laboratori chimici far nascere il
sugo gastrico. Per farlo è necessaria la sintesi organica, non fatta per
accidente ad uso Marchesini, ma per godere la vita. Tutte le secrezioni sono
finaliste, tutte si compiono per atto unitario sintetico, così quella del sugo
gastrigo, come quella della saliva, della bile, della milza, o dei reni. E una
finalità fatta poco alla volta, non venuta giù dall'Indistinto Infinito di
Ardigò, provando e riprovando, insistendo sulle sensazioni piacevoli ed
evitando quelle che dispiacciono. Per eredità della specie la digestione si fa
anche nell'embrione, che non è ancora provvisto di nervi. Negli animali
superiori la digestione rende i cibi capaci di essere assorbiti dalla mucosa
inte- stinale ed assimilati nel sangue e nei tessuti. — 126 — Gli animali,
mangiando vegetali, ne desumono Carbonio, Azoto, Solfo, Idrogeno, Ossigeno, che
sono pronti nelle albumine e nei grassi. Se gii animali dovessero prendersi
l'azoto ed il zolfo fuori delle albumine vegetali, morirebbero : perchè essi
non possono cavarli dalla terra, ne dall'aria, come fanno le piante. La
maggiore vitalità e mobilità ottenuta dagli animali, dipende non già
dall'Indistinto della teo- logia germanica o dell'Ardigoismo, ma dalla facilità
di alimentarsi mangiando i vegetali, perchè le Unità senzienti formano più
presto e più gagliarda la unità organica dell'Animale. Il riassorbimento del
chilo nell' intestino, è fatto dalle cellule epiteliali (che tappezzano la
parete interna dell'intestino) che assumono il cibo per contrazione attiva,
come fanno gli Amebi ed i Rizopodi. Una parte più vitale l'hanno le cellule
linfatiche, le quali emigrano dal tessuto adenoide, vanno fra le cellule
epiteliali fino alla superficie dell'intestino, per ghermire le gocciole di
grasso, e non lasciano passare veleni. Va notato che le sostanze alimentari
solubili nell' acqua, non scendono mai dall' intestino al cuore per il condotto
toracico, ma per la vena porta e per il fegato (che le assimila prima che
entrino nel sangue). Le cellule linfatiche assu- mono sole il peptone disciolto
nell'acqua. Le sostanze velenose ingoiate si fermano tutte nella bile. La linfa
empie gli interstizi fra i tessuti ed i vasi linfatici ed è un complesso di
trasudati non utilizzati, composto di plasma liquido e di corpuscoli, granuli o
globuletti bianchi (circa 8.000 per millimetro cubico), e goccie di grasso.
Quando ar- rivano nel sangue questi globuletti, diventano globuli bianchi (più
grossi), e poi rossi. Nella linfa vi sono già gli elementi chimici del sangue
(acqua, siero, albumina, fibrina, grassi, e specialmente 1' acido butirico,
cholesterina, glucosio, leucina, urea, sali, carbonati e fosfati). Ma la linfa
(che aumenta sempre durante la digestione), si coagula più lentamente del
sangue ed è meno alcalina. Contraendosi ritmicamente il cuore, il sangue
inturgidisce le arterie formando il polso. I globuli rossi trasfusi in animali
di altra specie si combattono e si uccidono a vicenda, non già perchè abbiano
una diversa composizione chimica, ina perchè è diversa la loro sintesi, ossia
l'impulso loro dato dalla Unità generale organica, il che prova ad un tempo la
individualità dei globuli rossi, e la psiche passiva loro imposta dall'Unità
generale (1). Le unità dei globuli rossi debbono adunque es- sere formate da
elementi morfologici vitalissimi. Sono clorotici coloro, i cui globuli rossi
sono piccoli (una metà od un terzo del giusto), hanno cuore piccolo e vasi
troppo stretti. — Nelle morti apparenti, il sangue non è morto. Se si fa
entrare per due terzi nelle carni un ago pulito, dopo un'ora, se il sangue
vive, l'ago si può ritirare an- cora pulito : ma se il sangue è morto, l'ago
sarà arrugginito. — L'asfissia uccide i globuli rossi e (1) Va notato che (come
provarono Friedental ed altri), il sangue di un uomo si può mescolare senza
recare grave danno alla salute col sangue dello scimpanzè e viceversa, mentre
non sopporta la mescolanza con altre specie ani- mali, locchè prova una certa
consanguineità fra questo troglodite dell'Africa e l'uomo. — 128 — l'ossido di
carbonio uccide la emoglobina del san- gue ed i tessuti. La formazione del
cuore non si spiega senza sintesi morfologica dell 1 Unità confrontante perchè
nessuna persistenza della forza può formare ventricoli ed orecchiette, arterie
e vene contemporaneamente. Ci vogliono figurazioni e moti sintetici
mirabilmente accordati in tutta la lenta formazione della specie, che viene
accorciata nel feto. Così la formazione del cuore insegna quanto sia falso at-
tribuire l'evoluzione alle forze esterne, come fanno il Positivismo e
\Ardigoismo. Bisogna penetrare nella intima compagine degli Organismi animali
per vedere la sintesi organica nella sua formazione sotto l' impulso del
Noumenon e della Volontà. L'assimilazione collettiva non dipende dalle materie
che furono mangiate, come si credeva dai naturalisti tedeschi mezzo secolo fa,
che scrissero Der Mann ist was er isst, ossia l'uomo è quello che egli mangia.
Che una donna mangi fratti o legumi, carne o formaggio, uova o patate, pasticci
dolci o erbe condite, le materie albuminoidi di questi alimenti si trasformano
nel suo sangue in serina, fibrinogene e globulina, nei suoi muscoli in muscolina,
nelle sue mammelle in caseina, nelle sue ossa in osseina, nel tessuto
congiuntivo in congiuntina, ed in elastina: tutte sostanze chimiche fra loro
differenti. La chi- mica organica ha ornai assicurato queste leggi (dice
Gautier). Se la Evoluzione si facesse dal di fuori al di dentro (come pretende
Ardigò) non vi sarebbe ne digestione, ne assimilazione. Perchè le stesse
albuminoidi, tratte da cibi molto diversi fra loro, si trasformano nelle varie
— 129 — parti del corpo in sostanze chimiche così adatte a sviluppare o il
sangue, o i muscoli, o le ghiandole, o le ossa, o il tessuto congiuntivo ?
forse per le accidentalità del Marchesini? venute non si sa da qual corpo
estraneo ? forse per l' Infinito causa dell'ordine o per l'Indistinto
sottostante ad ogni distinto, il quale non ha altra legge di formazione se non
la divisione della linea in parti infinite? Dividere non è fare nuove sostanze
chimiche. Dividere e suddividere, distinguere e sotto di- stinguere non è fare
da artista morfologo. Dunque bisogna riconoscere che la Unità or- ganica
intima, il Noumenon reale, che cerca il piacere e fugge il dolore esercitando
le funzioni essenziali del digerire, del far sangue, della assi- milazione,
organizza le materie in modo da mantenere e sviluppare il proprio piacere ossia
la propria Vita, combina le molecole in guisa da dar loro efficacia, e
esercitando la funzione si fa la compagine fisiologica, adatta a lottare contro
le dif- ficoltà ed a rendersi indipendente dall'ambiente. Non è dividere e
distinguere: è piuttosto co- struire, riunire, combinare, disegnare nuove
forme, nuovi sistemi di forze: è unificare, in una paro] a r e quindi godere la
varietà nella Unità. La legge della Natura è l'ascesa a più alta Unità e non la
divisione e suddivisione di un Indistinto in pezzettini. Per la stessa forza di
assimilazione, l'animale trasforma gli idrati di carbonio che mangia in
glicogene nel fegato, in glicosi nel chilo e nel sangue, in inosite ed acido
lattico nei muscoli, in lat- tina nelle mammelle, in tunicina nella pelle dei
Tunicati, sempre sotto la influenza del sistema nervoso, che sente il dolore e
il piacere. — 130 — Lo stesso dicasi dei grassi. Qualsiasi cibo prenda un
animale, egli farà (senza aiuto dello Inconscio Indistinto sopra o sotto
naturale) nelle cellule adi- pose della pelle butirina ed oleina, nel tessuto
cel- lulare del ventre stearina oleina e palmitina ; nelle mammelle butirina e
margarina ; nelle api farà della cera, e via dicendo. Eppure nel chilo, nei
gangli del mesentere, vi sono sostanze omogenee: ma questi grassi, quando .sono
arrivati nei diversi organi, si differenziano assai, ossia si specificano in
sostanze nuove. L'assimilazione non. è una scelta dei materiali portati dal
sangue. È piuttosto una metamorfosi operata da ogni cellula, sotto la influenza
del si- stema nervoso, ordinato dalla Unità organica del- l'animale, dando
origine, col medesimo chilo e con lo stesso sangue a nuove sostanze, le quali
nel sangue e nel chilo non esistevano. Anzi l'assimilazione complessiva, sotto
la in- fluenza del sistema nervoso, allorché l' animale non riceve più grassi,
né principi amilacei, lo rende capace di formarsi le sostanze occorrenti,
traendole dai suoi propri albuminoidi, idratandoli, ossidandoli ed arrivando a
farsi nella milza la Emoglobina o materia rossa del sangue, la quale pesa il
doppio della albumina, ed è assai più complicata delle albuminoidi mangiate.
Tra i fattori dell'Ordine secondo VArdigoismo primeggiava dal 1870 in poi
l'Indistinto, pallida luna, la cui luce rifletteva il sole dell'Inconscio di
Schelling. Degenerando (per la sua intrinseca contraddizione di essere in fondo
panteismo germanico e di voler parere ateismo positivista) ha finito col
ridurre lo Indistinto ad una astrazione dalla sensazione indifferente tra
soggetto ed oggetto, tra spirito e materia, e a renderlo così impotente a fare
l'Ordine come da pag. 308 a 312 ci diceva, nel suo tentativo di popolarizzare
l'Ardigoismo, il Marchesini (vedi sopra). Restarono così a far l'ordine in
generale e Vor- dine biotico in particolare il caso ed il ritmo. Ma il ritmo
non è altro che la ripetizione ad intervalli dello stesso moto e non può fare
del nuovo, e il caso è antiscientifico. Così VArdigoismo per la sua intrinseca
contraddizione ed oscurità e per la sua ostinata trascuranza di studiare la
natura vegetale ed animale e le leggi di tutti gli organismi, va isterilendosi
in una ontologia e fraseologia d'indistinto, d'infinito, e di casi. Perciò gli
scienziati Biologi Italiani che non seguono il Pitagorismo oggi si sono dati alla
fi- losofia dell' Inconscio di Schelling e di Hartmann (Die Philosophie des
Unbewussten, 2 voi.) altri- menti, per fare codazzo al rispettabile prof.
Ardigò, sarebbero stati condotti a dare di ogni or- ganismo una origine del
tutto casuale, come quella insegnata dal Marchesini (vedi sopra) (1). Ad ogni
modo, se VIndistinto che sta sotto ad ogni distinto è (come credeva VArdigò) un
pensiero, ci si dica se questo pensiero che opera sotto, en- tra davvero
nélVanimale e lo fa sentire, volere, godere o soffrire. Se sì, allora è inutile
l' Inconscio e si viene nel nostro Positivismo Pitagorico bruniano, ossia nella
filosofìa Italica. (1) Si legga la splendida Conferenza tenuta nell'Acca- demia
dei Lincei dall'illustre fisiologo prof. Giulio Fano di Firenze dinanzi a S. M.
il Re nel 1910. — 132 — Se no, allora l'animale resta un trastullo della
divinità. E nello Ardigoismo (che nega la unità intima di ogni organismo) se
non si ricorre al- l'Indistinto Inconscio divino, manca ogni principio
informatore, e la gallina e l'uomo stesso (compreso il prof. Ardigò) diventano
prodotti del caso cieco e sterile. Nel delicatissimo lavorìo che prepara i
succhi nutritivi, si manifesta la vita sintetica della Unità organica generale,
che determina le funzioni di ciascuna ghiandola. I globuli bianchi sono
preparati dal fegato e dalla milza, la quale può dirsi una doppia ghiandola
linfatica, sierosa, chiusa, piena di vasi sottili, intrecciati in fitta rete,
specialmente nei corpuscoli del Malpighi. Dal fegato, dalla milza, dal chilo,
dalla linfa, escono i globuli rossi nuotando nel siero senza imbeversene,
contrattili, e si chiamano Ematite, Il plasma in cui le Ematie sono sospese
contiene la fibrina (che manca nel siero) e risulta dallo sdoppiamento del
fibrinogene. La trama delle Ematie o globuli rossi è fatta da un albuminoide
ferruginoso detto Emoglobina, da globulina, lecitina, cholesterina e sali
minerali, per assimilazione sintetica senza che intervenga nessun Inconscio
Infinito. Di pari passo con la funzione circolatoria procede quella di
respirazione, che rinnova ad ogni istante il sangue venoso a contatto con
l'ossigeno. La pelle, fatta di tessuto connettivo molle, non contrattile (ossia
privo di muscoli) ma indurito all'aria, emette sempre vapore acqueo, gas acido
carbonico, ed un po' di azoto, assorbe ossigeno, e fa, negli animali inferiori,
quello che nei superiori è affidato alle branchie ed ai polmoni. La funzione
respiratoria si svolge lentamente come la digestiva e la circolatoria. Nei
Vermi marini le branchie sono foglietti di vasi capillari. Nei Vermi superiori
ed in alcuni Crostacei sono a fasci di fili od a pennacchi. Nei Molluschi
maggiori e nei Pesci diventano interne, quasi fogli di un libro. 'NegYInsetti
le trachee conducono l'aria dapertutto e così anche in alcuni Ragni e negli
Uccelli. Negli animali superiori, poi si sono formati quei milioni di alveoli o
sacchetti polmonari, fatti di fibre muscolari liscie che nell'uomo presentano
all'aria penetrata nei polmoni la superfìcie di una sala (circa 200 metri
quadrati) dove il sangue venoso cambia la sua emoglobina in Oxy-emoglobina.
Secondo Smith un uomo sdraiato prende un litro di aria nel medesimo tempo in
cui un uomo seduto ne piglia 1.18, ed un uomo in piedi 1.33, chi cammina lento
1.90, chi va presto 4, chi corre 7 litri. La funzione respiratoria tra le
vitali è quella che si può aumentare e perfezionare con maggiore facilità. In
ogni organismo, oltre gli atti vitali, vi sono quelli non vitali. Ogni cellula
fa prima le sostanze azotate, poi le non azotate, cioè i corpi grassi, la
saccarosi, l'amido, la inosite, il glicogene. Il sangue si depura per atto
vitale nei reni, che spremono fuori dal sangue la orina. Ma non è per atto
vitale (bensì per forze chi- miche soltanto), che le albuminoidi coli'
idratarsi si cambiano in creatina, lisatina, urea ed acido lattico. E per forze
chimiche soltanto che la urea fa il carbonato di ammoniaca. — 134 — Il sangue
sano contiene mezzo grammo per litro di acido urico che si idrata e si ossida e
si elimina nei sani allo stato di urea, di acido os- salico e di acido
carbonico. Tutte le perdite di carbonio, che è l'elemento accentratore, si
fanno per atti non morfologici, non vitali, non diretti dalla Unità organica
generale, appena l'ascesa a più alta unità, ossia al piacere di vivere, si
rallenta in qualche parte. Queste perdite avvengono disassimilandosi, idra-
tandosi, e facendo i rifiuti da espellere. Le funzioni principali della vita
interna sana e specialmente l'assimilatrice sono sempre fatte dalla Psiche poco
a poco e diventano abituali, regolari, quanto più sono ripetute di generazione
in generazione e quanto più la specie ha imparato a rendersi indipendente
dall'ambiente, ed anzi padrona dell'ambiente nel trovare abbondanti cibi, aria
ed acqua salubri e nel perfezionare la facoltà di vitalizzare il chilo, la
linfa, ed il sangue. CAPITOLO X. Come la Psiche fa le guarigioni. Come le
malattie mentali derivano per lo più da disturbi o da irregolarità della
convergenza nervosa che fa l'Unità conscia generale, la Per cezione e la Memoria,
così le malattie del corpo dipendono spesso da disturbi e da irregolarità nella
irrigazione sanguigna. I vasetti capillari sono lunghi nell'uomo 500 volte più
delle arterie e delle vene non capillari. Ogni capillare è composto di cellule
fusiformi con un nucleo in cui arriva il nervettino vaso- motore. Ogni organo
può rendere indipendente dalla circolazione generale la sua particolare. Vi
sono due provenienze dei nervettini vasomotori: quelli che dipendono dal gran
simpatico, nelle emozioni si restringono e quindi rallentano il corso del
sangue; quelli invece che dipendono dal sistema cerebro-spinale, si allargano,
accele- rando il corso del sangue. Nell'uomo sano, bene equilibrato, queste due
azioni si alternano e si combinano in guisa da mantenere l'armonia fra tutte le
funzioni. Nell'uomo immorale si disturbano a vicenda. I delinquenti ed i pazzi
sono più o meno inetti a regolare i vasomotori: ora la reazione è scarsa ed ora
è eccessiva. La sfiducia e l' inquietudine guastano le ghiandole e l'assimilazione,
e quindi anche la ematosi o sanguificazione e il sistema nervoso, ossia le vie
per le quali corrono la sensibilità e la volontà. Queste sono prove palmari che
gli animali si fanno dal di dentro al di fuori e sono sempre sintetizzati dalla
propria unità generale. I sentimenti di fiducia e di bontà sono i migliori per
regolare la Ematosi e quindi la nutrizione di tutti i tessuti. La psicogenia fa
la somagenia, ossia la psiche fa il corpo. I vasomotori sono i primi ministri
della natura che si fa col sentimento. La immoralità ed il vizio si traducono
in una natura che si fa morbosa. I capillari venosi, col sangue reso inetto,
per avere deposto, nel tessuto che irriga, gli elementi — 136 — dei quali ha
bisogno (1) portano verso le uscite anche i veleni prodotti dalla fatica o
ponogeni (dal greco nóvoc, fatica) che sono l'acido lattico ed i leucomani, i
quali impediscono di rimanere attivi. La circolazione nutritiva della notte
rifa le forze esaurite nel lavoro diurno. I vasi capillari asportano per i reni,
per i polmoni e per la pelle i veleni ponogeni. I vasomotori regolano sempre la
produzione del calore animale. Si restringono se fa freddo, si dilatano se fa
caldo per far sudare e svaporare. Per molte ragioni adunque, guastare i
vasomotori è guastare la salute ; e la Unità disordinata da desideri immorali e
da passioni li guasta. La febbre è fatta dal sistema nervoso del gran simpatico
irritando i nervettini vasomotori ed il cuore, e le arterie ; alza la
temperatura da due a sette gradi sopra la normale, e stanca i muscoli. È una
reazione naturale che eccita gli organi ad eliminare le cause di malattia
esterne ed interne e specialmente le alterazioni del sangue: perciò questa
reazione salutare (a parità di cause) è maggiore nei fanciulli e minore nei vecchi.
La reazione salutare è sempre più benefica quanto più vi è fede, speranza e
piacere e non avviene o resta debole e fiacca in chi ha sfiducia o paura. Del
resto gli animali tengono nella loro milza un serbatoio di fagoceti. La milza
fa (oltre ai globuli bianchi e rossi della linfa e del sangue) anche i così
detti Lenii) Anche calce e fosfati per darli alle cellule del periosto e per
rendere possibile la formazione e lo induri- mento delle ossa, quanto più i muscoli
vi si appoggiano. coceti o Fagoceti che sono amebi atti a fare il tes- suto
congiuntivo attorno alle ferite ed a guarirle, cacciando via le infezioni.
Infatti gli animali privati della milza soffrono di infiammazioni. Nelle
infiammazioni essudative i Leucoceti cor- rono verso la parte che trovasi
minacciata, come i medici corrono agli ammalati. La infiammazione in generale
come la febbre è un processo salutare. Non è un processo fisico chimico, ma è
una reazione di queste guardie sanitarie benefiche che si chiamano Fagoceti o
Leucoceti. I quali corrono a prendere quella parte dei tessuti che si è
guastata per portarla fuori verso le uscite. Nelle malattie acute scendono a
milioni a purificare i tessuti, ed agguerriscono il corpo a procedere sicuro
tra le insidie dell'ambiente ed a rendersene indipendenti, all'opposto di
quanto pretende YArdigoismo. E sono sempre diretti dalla Unità generale
dell'organismo e non dall'Inconscio Infinito sopra o sotto naturale. Grazie
alla polizia sagace che viene esercitata dai Leucoceti, nelle orine dei malati
si trovano leucomani basiche dannosissime. Ma la psiche riesce diffi- cilmente
ad impedire il moltiplicarsi dei bacilli. Moltissime malattie sono formate dal
moltiplicarsi dei Bacteri e specialmente le contagiose : I microbi anaerobi
fanno escrezioni velenose che il prof. Selmi ha chiamate dal greco Ptomaine.
Sono malattie ve- nute dall'esterno, che poco dipendono da disturbi della
irrigazione sanguigna. Sono regali dell'ambiente, che fanno ammalare e mai
guarire. Un'altra causa di gravi morbi è l'eccesso del mangiare e del bere
liquori e vini alcoolizzati, che produce una combustione vitale non completa,
arrivando a quadruplicare l'acido urico. L'inazione, l'inerzia, produce gli
stessi effetti della fatica eccessiva, cioè acido urico, che si depone nelle
giunture, perchè l'ossigeno del san- gue stenta molto ad ossidare le cellule
organiche. Le malattie per combustione incompleta producono erpeti alla pelle,
depositi artritici presso le ossa, guasti epatici ed ingrossamenti del fe-
gato, nefriti e litiasi: e cagionano le così dette diatesi braditrofiche, ossia
malattie croniche per rallentamento della nutrizione. Poco a poco, col
massaggio e la ginnastica, la psiche può libe- rarsene. Tutti conoscono la
riparazione dei tessuti che si opera rimarginando le ferite con tessuti nuovi e
simili, anche il nervoso. L' uomo può riprodurre il cristallino dell'occhio (se
non era stata levata la capsula), può rinsaldare le ossa rotte, e rifarne la
parte che manca (se è rimasto il periosto). Gli animali inferiori riparano anche
più presto. Tagliando la zampa ad un Tritone, i Leucoceti gli fanno un tessuto
embrionale con vasi e pelle. Tagliandogli la coda può rifare le cellule grigie
del midollo, i gangli nervosi ed i muscoli. Se una impressione morbosa ha
cagionato una negmasia che ostruisca i vasi dei tessuti, si fa una neomembrana,
detta Essudato, in cui si or- ganizzano nuovi vasetti capillari, che
riassorbono il male, per espellerlo nel torrente della circola- zione. Se
l'Essudato è soverchio, e non può essere -assorbito, si liquefa, si cambia in
pus, e va verso le cavità sierose o verso la pelle. Se un corpo straniero è
penetrato nell' organismo, provoca una acuta negmasia, con suppurazione per
espellerlo ; se poi il corpo estraneo è penetrato nelle parti profonde, dalle
quali non si può mandarlo via, viene circondato da vasetti capillari nuovi, che
formano una membrana di rivestimento o cisto, isolandolo per proteggere i
tessuti. Anche nei tumori del fegato formati da entozoari, avviene lo
incistimento con membrane apposite. I tumori fibrosi dell' utero si empiono di
concrezioni calcari che loro impediscono di cre- scere. I flemmoni acuti della
fossa iliaca dell'ovario e degli annessi dell' utero vanno nella vescica e
negli intestini, cercando l'uscita. Se un'arteria o una vena si chiude, si
organizza una vascolarità collaterale. Se entrano a piccole dosi delle sostanze
vele- nose, la Unità organica fa poco a poco i contraveleni. L'animale
vaccinato con le antitossine, diventa immune, anche con dosi di un
cinquemilionesimo di grammo (1). (1) Due o tre secoli fa quando moltissimi
contadini inglesi andarono a lavorare nelle fabbriche, la tisi fece strage. Nel
secolo decimonono i loro organismi in poche generazioni divennero resistenti ed
oggi la mortalità per tisi è inferiore in Inghilterra a quella di ogni altro
paese, perchè, come dimostrò il prof. Sanarelli della Università di Bologna,
gli organismi (quando se ne lasci il tempo oc- corrente) tendono ad
immunizzarsi. Così nelle Pelli Eosse e fra i Negri, i germi della tisi portati
dagli Europei fecero morire a centinaia, perchè i loro organismi non erano
abituati a lottare ed a vincere i bacilli di Koch. Tra gli emigranti Italiani
che andarono a stare nelle città industriose dell'America soccombettero alla
tisi quelli che provenivano da provincie Abruzzesi, Calabresi dove la tisi è
rara, mentre quelli venuti dalla Lombardia o dalla Liguria dove è frequente
hanno resi- stito assai meglio.Le malattie croniche sono per lo più cattive
abitudini della natura che si faceva, ossia meccanismi formati da errori e
trascuranza dell'Unità di coscienza. Creighton (Inconscious Memory in di-
sease, 1886, London) attribuisce alle cattive abitu- dini dei tessuti certi
moti riflessi patologici, ed a quelle dei tessuti certe febbri persistenti, certe
affezioni cutanee ed anche catarri cronici. Quando la legge sociale morbosa si
è radicata, si forma una diatesi, che viene ereditata. Ma l'esercizio muscolare
e il sudore guariscono un po' alla volta anche queste, e la Unità generale
invita l'animale a far moto celere per sudare. Il sudore (che traspira per la
secrezione dell'acido lattico, dovuta all'aumento della innervazione e della
circolazione, al riscaldarsi del sangue che corre verso la pelle per
raffreddarsi) è il caccia- mali per eccellenza, portando via ogni acidità e
lasciando l'organismo alcalino e sano. Quante guarigioni ha fatto il sudore! Il
maggior vantaggio dell'esercizio muscolare (sia fatto per lavoro professionale,
o sia fatto per sport), sta nell' accelerare la circolazione sanguigna, e
quindi lo scambio dei materiali inetti coi vitali, giacche in un muscolo che
lavora passa 9 volte più sangue che in un muscolo che riposa, mentre si rende
più. facile la innervazione e la dilatazione dei vasi. E siccome l'esercizio
muscolare è sempre re- golato dalla coscienza dell'individuo, ognuno ha il
mezzo più sicuro per guarire dai suoi mali. Il movimento non è necessario
solamente al- l'apparato circolatorio, respiratorio e al digestivo; ma a tutti
gli altri apparati semplici e locali. Lo stato liscio delle cartilagini, la
secrezione regolare del liquido sinoviale, la flessibilità dei ligamenti, tutte
le condizioni anatomiche, indi- spensabili al funzionare di un'articolazione,
spariscono man mano che si sta fermi, arrivando ad ossificare le fibre dei
ligamenti, a fare delle ossa vicine un solo osso ; mentre chi molto si muove
conserva benissimo le giunture e moltiplica le fibre ligamentose. I muscoli
stessi che, nella inazione si ritraggono, e perdono ogni elasticità,
l'acquistano a misura che vengono esercitati. Però va notato che il moto non è
mai un tocca e sana, un rimedio istantaneo, e produce le sue modificazioni
salutari soltanto un po' per giorno, sicché tardano per settimane e per mesi a
manifestarsi pienamente, dovendosi colla nostra natura che si fa, formare una
natura fatta, cioè un meccanismo che vada poi da se solo, salubremente,
regolarmente. Un poeta inglese disse: Mentre sei nella tua casa di carne
muoviti; ci sarà tempo di riposare poi nella casa di creta. Gli Inglesi se lo
ripetono e nella età matura non poltriscono, ma accrescono gli esercizi. Il
football da ottobre ad aprile è frequentato assai in tutti i prati che rompono
la monotonia dei sobborghi di Londra. Si corre, si salta, si danno pugni non
solo i diritti ma anche gli storpi. E in pari tempo si con- serva la
tranquillità dell'animo, la fiducia e l'al- legria. In America, Mistress Mary
Eddy Baker ha fondato una religione che chiamò « Christian Scientism » , ha i
suoi templi in Boston ed altre città e diffonde la fiducia nella salute;
guarisce anche realmente molti mali e mantiene migliaia — 142 — di Ladies
Cureers (1). A questo proposito non è inutile di ricordare che in tutte le
religioni si sono curate le malattie con la fiducia e che a Cachemire, nella
moschea maggiore, si conser- vano tre peli della barba di Maometto i quali ogni
anno fanno delle cure mirabili. E chi se ne potrà meravigliare, se pensa che in
tutti gli atomi e specialmente in quelli che appartengono ad un organismo, nel
quale hanno accomunato il sentire ed il volere per un certo tempo, vi è un
unanime accordo nelVassurgere a vita più intensa e ad unità più alta? Accordo
delle Unità molecolari cellulari ben inteso, senza che venga giù dal Cielo
Infinito di Ardigò, dalla sotto natura o dalla sopra natura, alcuna di quelle
cause alle quali VArdigoismo attribuisce l'ordine. Si promuove la guarigione
col crederci e col volerla. Spesso gli organismi inferiori che parevano morti,
ma dei quali non si era guastata la morfologia, risorgono (come lo descrisse
fin dal 1860 il Pouchet nelle sue « Récherches et expériences sur les animaux
résuscitants » ). Egli fece risusci- tare fino a dieci volte dei Rotiferi
disseccati col tornare a bagnarli. E così pure fece rivivere degli Ostracodi e
dei Radiati, delle ova di Apus, e delle Anguillide. Gli atomi di ossigeno, di
idrogeno, di carbonio, e d'azoto, si elevano nella mor- (1) Educate nel «
Theological Metaphysical and Psychological College » di Boston. Il Finot nella
sua Revue disse che la volontà ha sopra l'organismo la potenza di
ringiovanirlo, guarirlo, raffor- zarlo. E consiglia di svolgere tutte le forze
con fiducia ottimista, preparandosi robusta salute e vita lunga. fologia
cellulare che trovano, rifacendo la Unità generale degli animali che sembravano
rigidi. Perfino dei Vertebrati offrirono non dubbi esempi di risurrezione.
Certe Rane chiuse da secoli fra le roccie appena ebbero l'aria si mossero.
Certi Pesci agghiacciati dai crudi inverni, quando ri- sentivano l'aria e
l'acqua tepida, poco a poco ricominciavano lo scambio col mondo esterno e
ritornavano sani. Qui non ci entra affatto l'Ipnotismo. Gli organismi si sono
fatti un po' alla volta per il piacere; e se la morfologia non è guastata,
appena il piacere ridiventa possibile {perchè ritorna la umidità od il calore che
mancavano)y ritorna la vita. Sopratutto nelle malattie che dipendono da stasi
sanguigne e in molte altre, la Psiche guarisce agevolmente. In quanti sono i
morbi che affliggono l'uomo poi, i bravi medici cercano sempre di inspirare
fiducia e coraggio, ben conoscendo che questi hanno maggiore efficacia della
Farmacopea. Non mancheremo, terminando questi cenni sulla guarigione, di
osservare che la Natura che si fa per guarire, non è solamente la Unità
generale dell'organismo; ma che vi concorrono le Unità dei singoli organi,
essendo tutti intenti, anche quelli della psiche passiva diventata meccanismo,
a conservare e ristabilire la salute. Come la Psiche fa il Sistema Nervoso. Le
due funzioni del sentire e del muoversi, quando furono ripetute, depositano
nelle vie per- corse delle sostanze più instabili, che sono deli- catissime e
dalle quali si formano i nervi e servono col semplice rivolgersi delle loro
molecole, a tra- smettere sensazioni e volontà. Il sistema nervoso è assai
rudimentale nei Celenterati, nei Polipi e Acalefi, come le Meduse, nelle
Pholades (molluschi inferiori). Diventa visibile nei Vermi inferiori, e cresce
bene nei Crostacei, nei Ragni e negl' Insetti, con- centrandosi in fili bianchi
formati da molti fasci e formando dei gangli o gruppi. I gangli si avvicinano
specialmente nel torace e nella testa. Nei Molluschi Cefalopodi i gangli si
accostano tanto da formare una sola massa attraversata dallo eso- fago. Negli
Scorpioni vi è quasi un piccolo cervello in due lobi, poco separato dal grosso
ganglio del petto. Le larve degli Insetti sembrano Vermi, e con- servano come i
Vermi la catena dei gangli : ma nella metamorfosi il sistema nervoso si
concentra in una massa, tripartita in testa, torace ed addome. I Tunicati e
YAmphioxus sviluppano meglio il sistema dorsale ed il cervello ; e nei Pesci
inferiori questo si divide in midollo allungato o cervelletto, cervello medio
(di lobi ottici e tubercolari) e cervello anteriore, in due emisferi, che
ingrandiscono poi nei Vertebrati superiori. Sotto queste cinque forme (la
diffusa dei Protozoari, la disseminata dei Radiati inferiori, la ra- diata
delle Meduse e degli Echinodermi, la bilaterale ventrale dei Vermi, degli
Artropodi e di alcuni Molluschi e la mediana dorsale dei Tunicati e dei
Vertebrati), la composizione della sostanza nervosa si perfeziona gradualmente
e arriva nei Primati e nell' Uomo ad avere molta lecitina, che è la sostanza la
più instabile e la più adatta a ricevere impressioni. I fili nervosi fanno
cilindrassi, chiusi in fo- dere di Keratina e dal neurilemma. Della sostanza
nervosa tre quarti sono acqua, il quarto che resta solido è per metà di
albumina e gelatina, e per l'altra metà di lecitina, cholesterina, e di altre
sostanze grasse e di fosfati. I fosfati predominano nelle cellule grigie, che
stanno alla fine di ogni nervo sensibile ed al principio di ogni nervo motore,
ed hanno l'ufficio di ricevimento o di trasmissione dei dispacci. Nelle cellule
grigie quasi nove decimi è acqua,, il 12 °/ è solido. La sostanza bianca che
arriva nei gangli e nel cervello non ha che il cilindrasse e la myelina, senza
fodere ; è acida, con poca lecitina. La lecitina si compone di molto carbonio,
ed ossigeno, con qualche grasso, con neurina ed acidi fosforici. La convergenza
che fa sorgere la Unità intima generale dell'organismo va sempre a finire nelle
cellule grigie. La Natura che si fa, col ripetere i moti, li fa andare con
crescente facilità, finche di- ventano moti riflessi, ossia Natura fatta.
Nell'uomo il centro moderatore degli atti riflessi della spina dorsale sta nel cervello,
dietro ai tubercoli quadrigemini. Vi sono nel cervello molti altri riflessi,
grazie ai quali vengono imparati i mestieri e si arriva a parlare presto. Tutti
gli atti riflessi si compiono senza V imagine} e non vengono impediti dal
cloroformio (1), mentre gli atti volontari non solo, ma anche gli abituali, e
quindi di psiche passiva, ma recente, in- dividuale, non ereditata (come lo
scrivere, il nuotare, la scherma, ecc.), esigono V imagine e sono arrestati dal
cloroformio. — Nella scherma si fanno per abitudine istintivamente delle
celerissime parate opportune che, pensandoci avrebbero voluto dieci volte più
tempo, e queste, come i mestieri imparati da lungo tempo da operai provetti,
sono impossibili sotto l'azione del cloroformio. Ma i veri atti riflessi
ereditari non soffrono per il cloroformio (2) e predominano in tutta l'
infanzia e l'adolescenza ed anche negli adulti nelle funzioni interne, quali
sono il deglutire, i moti peristaltici degli intestini, l'animazione dei globuli
rossi, il ritmo della respirazione, la contra- zione dei muscoli, la
defecazione, il parto, la regolazione del corso del sangue che fanno i
minutissimi nervettini vasomotori. (1) L'imperatore Commodo dava nel circo al
popolo Romano lo spettacolo di parecchi struzzi che, presa la corsa, erano
decapitati col lanciare frecce a falce al loro collo : essi compivano gli altri
tre quarti della corsa nell'anfiteatro, per puri atti riflessi della loro spina
dorsale. (2) Gli anestesici, cioè gli Eteri ed il Cloroformio, sono volatili ed
il loro effetto è passeggero. — I nervi motori si avvelenano col curaro, i
sensibili colla stricnina, e questi, essendo contripeti, basta avvelenarne uno
per ucci- dere l'animale. I muscoli si avvelenano col cianuro di potassio. —
147 — Nei moti riflessi abbiamo la prova evidente che il Conscio fa
l'Inconscio. Questi moti riflessi sono stati una volta imparati dalla psiche
attiva dei genitori, giacche l'In- conscio non può fare mai il Conscio. Ex
nihilo nihil. E dalla unità generale di coscienza dell'or- ganismo animale
deriva la combinazione di tutti gli scopi assunti nella evoluzione, che
esprimono lunghe serie di atti compiuti per godere la vita, e deriva pure la
prevalenza nell'uomo dei nervi sensibili sui nervi motori (1). La maggior parte
dei moti riflessi dipende dal sistema del gran simpatico, che va dal midollo
allungato al petto ed al ventre ed a tutte le ghiandole. Dipende pure in parte
dal medio simpatico detto anche nervo vago, o pneumogastrico, che regola i moti
del cuore. Il midollo allungato o bulbo, regola la respirazione, la
deglutizione, e la voce (nodo vitale). Il nervo splanchico può inibire
l'intestino tenue. Il moto del cuore e quello degl' intestini è fatto dai
gangli delle loro pareti. Gli altri moti riflessi dipendono dal si- stema
rachidiano della spina dorsale, in cui, in- trecciandosi i due sistemi nervosi
(del cerebro e del gran simpatico), vi sono quattro colonne : due dei nervi
sensibili e due dei nervi motori. Anche le cellule grigie sono doppie. (1) Sherrington
mostrò nel 1906 (The integrative action of the nervous system. New York) che i
riflessi maggiori sono composti di riflessi semplici e successivi, sopra una
serie combinata di archi riflessi, divisi ciascuno in metà efferente e metà
afferente ; ossia partendo dalle cellule grigie ed andando al muscolo o alla
ghiandola. Il nervo conduttore è fatto di neuroni che si toccano, ma non sono
mai continui. — 148 — Nel cervello la sostanza grigia trovasi alla periferia,
sotto la corteccia nelle circonvoluzioni e supera la metà, e la bianca con poca
grigia sta nel centro; ma nel midollo la disposizione è in gran parte
contraria, ossia la bianca sta alla periferia e la grigia nel centro. Però
questa si con- tinua nella grigia del cervello fino allo strato ot- tico e al
corpo striato, dove si agglomera nel mezzo del cervello. Le cellule grigie sono
moltipolari, ossia hanno molti poli o prolungamenti e sono alcaline. Quando una
sensazione colpisce una cellula grigia, segue l'assimilazione nuova. Il nervo
in riposo è alcalino: lavorando diventa acido e le sue sostanze più vitali
cominciando a guastarsi, fanno la cholesterina. Alla filosofìa importa molto la
distinzione fra la Natura che si fa ed i moti riflessi, e tra la scomposizione
e la ricomposizione delle cellule grigie. Herzen credeva che si avesse
coscienza quando le cellule grigie si disintegrano; ma appena si di- sintegrano
la convergenza nervosa che fa la co- scienza le reintegra, con una nuova
figurazione. Allora alla negazione di ciò che sembrava male fondato, ossia alla
imagine difettosa, succede l'af- fermazione di quello che dall'animale o
dall'uomo è ritenuto vero, utile o bello, una imagine cor- retta o nuova. Per
sistemare il nuovo, occorre prima disgregare la formazione erronea. Ritorneremo
a parlare della Natura che si fa sotto quattro nuovi diversi aspetti nel Cap.
XII sui Muscoli, nel Cap. XIII sulla Psiche generatrice, nel XIV sul Sentimento
e nel XV sulla Volontà. Insistiamo sopra questi rapporti, perchè la Natura che
si fa è conscia: mentre la Natura fatta è necessitata e va come un meccanismo,
come quegli struzzi privati della testa, che l'Imperatore Commodo dava in
ispettacolo ai Romani. (Vedi sopra, la noterella pag. 146). Come il midollo
spinale ha quattro colonne, due dei nervi sensibili e due dei nervi motori,
così il cervello ha quattro parti, di cui le due anteriori piò. alte giudicano
e muovono in quei centri che il prof. Flechsig chiamò i quattro centri
spirituali; dopo che le due posteriori e più basse hanno sentito in quei centri
che lo stesso fisiologo ha chiamati i cinque centri sensitivi. La massa delle
cellule grigie nel cervello alto è distribuita intorno sotto le meningi in 9
strati doppi sottili. Ha circa mezzo miliardo di cellule, ciascuna delle quali
mediante 4 fili comunica con le vicine e con la sostanza bianca e grigia, che
sta al centro del cervello. I cervelli sono magazzini d'imagini che con-
servano nelle cellule grigie le più minute divi- sioni dello spazio e del tempo
di quello che si è veduto, toccato ed udito. La convergenza dei nervi per
l'attenzione, si porta appunto sopra quelle cellule grigie, dove si fa la
percezione o che dopo fatta questa, in- teressano per ravvivare nella memoria
alcune determinate imagini. II punto focale della convergenza generale è la vera
Unità dell'organismo, e fa l' Io che gode, soffre e pensa: e al di là, subito
al di là di questo punto focale, una minutissima divergenza delle stesse linee
arrivate colla Convergenza, lascia sul piano delle cellule grigie l'imagine di
quello che si è percepito e che si può in seguito rammentare, ritornando a convergervi
le forze. Io. Il punto focale della convergenza adunque è mobile, si forma a
seconda dei bisogni di questa o di quella parte. Le cellule grigie dove si
riuniscono le imagini fatte nel cervello basso o strato ottico, stanno negli
strati corticali interni, mentre nei seguenti, fino alle meningi le cellule
grigie diventano sempre più piccole e contengono probabilmente gli estratti dei
simboli delle imagini. Quando si pensa le cellule grigie cerebrali si consumano
e si rinnovano cinque volte più presto di quando non si pensa. Quando si fanno
le percezioni o le astrazioni o si correggono gli errori, si fanno nuove forme
nelle cellule grigie corticali. Mentre quando non si pensa, il rinnovamento delle
cellule grigie av- viene poco a poco per semplice nutrizione e scambio di
materiali, senza cambiare le forme delle impressioni ricevute o dei segni
astratti, i quali ultimi però rimangono sempre in stretta relazione con le
imagini materiali, ossia con le minime suddivisioni dello spazio e del tempo
delle cose vedute, toccate ed udite, ecc. Meno precise sono le imagini prodotte
dai sensi dell'odorato e del palato, anzi non sono imagini, ma reazioni sentite
pensando ai cibi e ai fiori o ad altre cose odorate. Precisissime sono invece
quelle del senso muscolare, che sono sempre collegate con quelle delle cose
vedute, toccate od udite. La Energia pensante ha le stesse origini della
Energia fisiologica e chimica e risulta dalla Convergenza che percepisce, ricorda,
rammenta o combina le imagini confrontando e giudicando. Dunque il Pensiero è
un lavoro che distrugge la sostanza nervosa più delicata, come il lavoro dei
muscoli consuma gli zuccheri ed i grassi che sono nascosti nella carne
contrattile. Il Pensiero ha il suo equivalente meccanico, ma è impossibile sta-
bilire quanto sia, per la difficoltà dell'esperimento. Il cervello anteriore
regola le correnti nervose di tutto il corpo. Il cervelletto regola il senso
muscolare ed il tatto, ed un poco anche l'udito, e ne partono i cordoni
posteriori del midollo. Per agire il cervello abbisogna di sangue arte- rioso e
ci arriva da due parti. Quella meringe che avvolge gli strati corticali ed è
chiamata la pia madre, riceve un gruppo di arterie per il cervello alto, ed un
altro per il cervello basso e posteriore. La rete chiamata nevroglie, sotto le
meningi, protegge i nove strati doppi di cellule grigie, del cervello alto, i
cui vasetti capillari venosi portano via i solfati ed i fosfati consumati nel
pensare. Se si arresta la irrorazione arteriosa del cervello, avvengono
svenimenti, sincopi, vertigini o colpi apopletici. Se la normale contrazione
dei vasetti capillari, per causa di qualsiasi sentimento, cessa ad un tratto,
si dilatano le arterie della faccia umana, che arrossisce. Basteranno questi
pochi cenni, per intendere quanto diremo sul Pensiero nel Volume Secondo
«L'Uomo secondo Pitagora». Il cervello umano pesa un solo quarantesimo del
corpo, ma riceve un sesto del nostro sangue per le due arterie carotidi e le
due vertebrali. Il cervello sta al peso del corpo come 1 a 5600 nei Pesci (che
sono i più stupidi fra i Vertebrati), come 1 a 1300 nei Rettili, come 1 a 212
negli Uccelli, come 1 a 186 nei Mammiferi; numeri soltanto approssimativi e
presi in termine medio fra le varie specie di ogni ordine. Un cavallo che pesa
come sette uomini ha due libbre di cervello. Un uomo ne ha quattro libbre.
Dunque, relativamente, l'uomo ha quattordici volte più cervello e più pensiero
del cavallo. Come la Psiche fa il Sistema Muscolare Nei precedenti Capitoli
abbiamo veduto il progresso graduale mirabile della Natura che si fa. In questo
vedremo come ordina i moti. La Volontà si manifesta senza aver ancora al- cun
organo negli amebi e nei nostri globuli bianchi, il cui protoplasma contrattile
si compone di albumina coagulabile e di sostanze proteiche non solubili. Il
protoplasma contrattile degli Embrioni degli animali inferiori vi somiglia
assai. Tutti i muscoli cominciano nel feto allo stato di sarcodi amorfi: i
nervi li fanno diventar muscoli. Il primo muscolo a formarsi, e V ultimo a
morire, è quello che governa la circolazione del san- gue e non si arresta mai
: è il cuore. Al momento in cui dal sarcode si sviluppa in un uccello il
muscolo che pulsa (fra le ore 26 e 30 dalla incubazione della gallina), i suoi
movimenti sono rari e poco percettibili. Poco a poco si ac- celerano e si
pronunciano : ed allora si formano i vasi, pei quali si caccia il sangue
(arterie) e quelli per cui ritorna (vene) ed un'area vascolare provvisoria, una
vescicola che si allunga in ventricolo di sopra e in orecchietta di sotto:
diventa un cuore di pesce. Poi si contorce, mentre il ventricolo va sotto, la
orecchietta va sopra e diventa cuore di rettile con tre cavità. Finalmente fa
la quarta ca- vità e si completa come cuore di uccello o di mammifero. Come
avviene la contrazione dei muscoli ? Avviene grazie a molecole di protoplasma
assai grosse, chiamate sarcous, che mutano forma con grande facilità, essendo
molto eccitabili e gonfiandosi col prendere il liquido ad esse vicino.
Naturalmente nel gonfiarsi si avvicinano e costringono così le fibrille
intrapposte a contrarsi, come ha dimostrato il prof. Arndt (Psychiatrie). Il
sangue porta continuamente ai muscoli car- bonio, sotto forma di grassi e di zuccheri
(che sono ambedue ossidi di carbonio). Il muscolo contraendosi non consuma la
propria sostanza, ma si bruciano questi materiali portati dal sangue arterioso
; anzitutto i ternari o idrocarbonati, cioè i grassi ed i zuccheri; e poi in
grado minore i quaternari cioè gli azotati (1). E la combustione non avviene
(1) I prodotti della combustione completa dei ternari sono l'acido carbonico e
l'acqua, e il prodotto della combustione completa dei quaternari è l'urea. Ma
se la combustione fu incompleta, il prodotto dei ternari è l'acido lattico, e
quello dei quaternari o azotati è l'acido urico, la creatina e la creatinina,
cause di grassezza, di artrite, di gotta, di renella, di calcoli orinari e di
nefrite. se non allora che la Volontà fa contrarre i muscoli gonfiando i
sarcous. Il gonfiamento dei piccoli in- visibili sarcous produce quello dei
muscoli visibili. Dunque la Psiche, che ha fatto i muscoli, è quella che li fa
contrarre. La combustione dei grassi e zuccheri è la principale sorgente del
calore animale. La contrazione è atto vitale psichico della Unità intima
volente, esercitata nella syntonina di cui fanno parte i sarcous. Invece la
elasticità, per cui le fibre muscolari ritornano ad allungarsi dopo che erano
contratte, è una proprietà fìsica della fodera delle fibre muscolari detta
sarcolemma. L' Unità intima col ripetere i moti, li fa diventare abituali ed
atti riflessi. Il plasma muscolare dei sarcous, detto myosina o syntonina, che
sta fra le fibre, si coagula come il sangue. I muscoli viventi sono elastici,
mentre i morti sono rigidi. Un muscolo affaticato non si contrae più. Ma se la
Volontà è forte, ed esercitata, bastano 2 minuti per riattivare tutti i
muscoli. I boxers inglesi ogni 3 minuti di lotta ne prendono 2 di riposo e così
continuano per parecchie ore. Ogni 3 minuti l' Unità intima raccoglie la sua
energia per tornare a gonfiare i sarcous. II sistema muscolare è una batteria
di archi intrecciati ; ma chi lancia la freccia è la Volontà, forza unitaria
più delicata. Due uomini della stessa musculatura, lavorano molto diversamente,
secondo la loro volontà. La differenza può andare dall'uno al dieci. Quando i
nervi eccitano i muscoli a contrarsi, il sangue ci corre per avidità dell'
influsso nervoso — 155 — dal quale furono fatti, essendo il sistema muscolare
una continuazione dei nervi motori. E va notato che lo stesso nervo motore può
contrarre il muscolo e può anche inibire il movimento, secondo che comanda la
Unità intima, per il bene del Collet- tivismo organico. Il nervo motore comincia
a deperire nella cel- lula grigia cerebrale, perchè la volontà è centri- fuga;
mentre i nervi sensibili cominciano e deperiscono a partire dalla periferia,
essendo emissari del cervello, che devono prendere le impressioni
dell'ambiente. Perciò le sensazioni si diffondono ; mentre il nervo motore
muove un solo muscolo. I muscoli sono un po' innervati continuamente, quanto
maggiore è la Energia della Natura che si fa ; e sono quindi elastici, perchè
gli estensori ed i Settori si equilibrano. Marey dice che, se i muscoli non
fossero elastici, dovrebbero fare un lavoro decuplo, con un risultato ridotto
al decimo. La loro elasticità si può far crescere con la Volontà e con
l'esercizio, fino al punto da eseguire facilmente quei lavori di equilibrismo,
di acrobatismo, di ballo o di operazioni manuali difficili in alcune
professioni, che si ammirano. La Natura fatta della Volontà si può vedere sui
corpi delle persone addestrate da lungo tempo alle ginnastiche: ed è un
complesso di vasomotori, di nervettini del senso muscolare, di arterie, di
vene, di muscoli collegati, che permettono di fare con prontezza movimenti
impossibili a chi non è esperto, sempre diretti dalla Unità intima Volente.
Quando danno spettacolo di sé le ballerine, gli atleti, gli acrobati, gli equilibristi,
questa Natura fatta è già divenuta un Meccanismo. Allora i prò- — 156 —
tagonisti, stanno attenti con la Natura che si fa soltanto alle nuove
circostanze che si presentano nei loro compagni o nel pubblico. (Vedi Zucca,
Acrobatica ed atletica, 1902). I corpi di essi sono continuamente addestrati ad
innervare le spalle, i fianchi, le braccia, le gambe ed il ventre: e sono
incomparabilmente più elastici di quelli di chi fa vita sedentaria. I muscoli
hanno dei nervettini sensibili nelle loro fibre, che danno il senso muscolare,
col quale noi proporzioniamo tutto quello che facciamo. Le isteriche
anestesiche possono fare dei lavori di ago e di ricamo delicati, con la sola
sensibilità muscolare. Il senso muscolare è il primo ministro della Volontà. Fra
i muscoli bisogna distinguere quelli a fibre striate da quelli a fibre liscie.
Le fibre liscie (lunghe cellule nucleate) stanno nell'uretere, nella vescica,
nelle ghiandole, nello stomaco, nell'intestino, sempre alcaline e si con-
traggono ad ogni improvvisa emozione, avendo nervetti vasomotori assai delicati
che vengono dal gran simpatico, per atti riflessi. Dipendono dal gran simpatico
anche i muscoli che fanno rigettare gli alimenti dannosi (contraendo l'addome
ed il diafragma più dello stomaco). I più utili ad esercitarsi per sviluppare
la salute sono i muscoli psoailiaci del retro venfre, vicini alla colonna
dorsale, che sono i più ricchi di arterie, ed i più prossimi agi' intestini.
Piacere e dolore crescono con le fibre striate. I più dipendenti dal^ cervello
sono quelli della laringe. E evidente la Natura numerica della Unità in- tima
quando cantano Uccelli, Scimmie ed Uomini, perchè, senza una interna ed elevata
capacità di proporzionare la lunghezza delle corde vocali, rie- sce impossibile
di emettere i suoni voluti. A tal uopo la struttura fatta dalla Volontà di
cantare deve essere diventata un Meccanismo. Nell'uomo la laringe ha due corde
che fanno le note basse, vi- brando in tutta la loro lunghezza. La glottide le
ravvicina per farne vibrare una parte soltanto, a misura che il suono si vuol
fare più acuto. Finite le note di petto, la sola parte che vibra dà un
falsetto, perchè manca l'aria. Per fare le note gravi la faringe si contrae, la
epiglottide si alza. Un tenore, un baritono, un basso profondo, un soprano, col
muscolo tiroide (se hanno una Natura fatta esercitata) possono, senza
preamboli, emettere quella Nota che desiderano. Basterebbe osservare questa
facoltà di proporzionare i movimenti muscolari ed emettere le varie Note per
far diventare pitagorico chiunque vi rifletta. Abbiamo indicato alcuni fatti
della fisiologia utili a dar fondamento alla filosofia della vita. Il
Pitagorismo esclude l'indeterminato e vuole che tutto sia definito se è
possibile matematicamente, giacche la matematica è l'ossatura delle forze
fìsiche, chimiche e biotiche come disse il Galilei. In fisiologia questa
ossatura è determinata dalla Natura che si fa della Unità organica distinta e
precisa, che numera col numero reale (e non col concettuale) intenta ad esercitare
le funzioni es- senziali: digerire, respirare, sanguifìcare. assimilare e
generare, attenta a cercare il piacere e fuggire il dolore, bramosa di
ascendere a più alta unità e di affermarsi. Più che in tutti gli altri muscoli,
in quelli della laringe, i nervi nel farli, nell' intrecciarli, nell'educarli,
misurano col Numero reale. Della Parola diremo nel Yol. II. La Psiche
generatrice Vedemmo ette gli organismi sono associazioni collettivismi di
cellule, formati sentendo, desi- derando e volendo. Fra il sentire e il volere,
vi è di mezzo non già il Concetto Hegeliano, ne lo Indistinto Ardigojano, ma
una figurazione dell'atto necessario per svilupparsi. Ripetendo quell'atto, la
Natura che si fa lo cambia in Natura fatta poco a poco. All'individuo bastano pochi
giorni per fare un'abitudine : alla specie abbisognano molte generazioni. Le
abitudini di due o tre generazioni non divengono Natura fatta della specie, ma
quelle conti- nuate da molte generazioni rendono durevole la modificazione. Nel
Oap. sul sistema nervoso abbiamo distinto gli atti riflessi che sono di natura
fatta individuale o di poche generazioni, da quelli di molte generazioni, che
si compiono senza avere la imagine e non vengono impediti dal cloroformio. Le
parti più antiche, cioè i tessuti epiteliali, sono quelle che resistono più di
tutte agli anestesici. 1 muscoli resistono meno assai dei tessuti epiteliali,
ma continuano ad essere irritabili se non sopravvengono gravi guasti
nell'organismo generale. Meno dei muscoli resistono gl'intestini, le ghiandole,
il senso nutritivo, il senso respiratorio, il senso erotico. Invece la
sensibilità conscia è subito abolita, appena vengono somministrati Etere o
Cloroformio. Gli atti della sensibilità conscia progrediscono poco a poco e
sono essi che fanno i piccoli perfezionamenti degli organi digestivi, dei
respiratori, della circolazione, delle secrezioni, della sen- sazione e della
locomozione clie vanno complicando e perfezionando gli organismi, facendoli
passare dallo stato di Protozoari a quello di Animali più evoluti. La Natura
fatta acquisita è una consuetudiner una legge, un esercito addestrato in modo
diverso e proprio di ciascuna specie, in cui si riflettono tutte le sensazioni,
tutte le volizioni, tutti i coefficienti del passato : cosicché ogni dettaglio
nelle forme e nelle funzioni di un animale, ha avuto la sua causa intima.
Questa legge di evoluzione si riproduce rac- corciata nel seme, nell'embrione,
nel suo modo di crescere e di fruttificare — il che si esprime dicendo che la
filogenia (origine della specie) si ricapitola nella ontogenia (origine
dell'individuo). Quindi bisogna precisare che non è una memoria, come la
chiamano molti naturalisti poco filosofi, quella che fa uscire dal seme l'una o
l'altra pianta, e dal seme di un animale l'uno o l'altro tipo zoologico. Non è
una Memoria,, ma è una Legge, una forma di moto, una psiche obbediente,
passiva, inconscia nel suo complesso. Da molte uova di pesci e di uccelli di
specie diversa, escono pesci ed uccelli assai diversi. Da spermatozoidi e da
ovuli di Rettili, di Quadrupedi, di Primati, di Uomini, escono Vertebrati assai
differenti, senza che la psiche sociale inconscia, nel ricapitolare la lunga evoluzione
della specie,. mostri mai una libertà di volere, un qualsiasi arbitrio. Tutto
va meccanicamente, necessariamente ; ed anche le mostruosità, le forme terato-
logiche hanno sempre cause straordinarie di di- sordine. I moti una volta
imparati vanno senza imagine, sono ornai voluti fortemente, organizzati,
diventati meccanici : camminando non pensiamo al moto delle gambe. Non si può
chiamare Memoria se non quella dell'Individuo, al quale ricorda le sue
percezioni, i suoi atti. Non si può avere Memoria senza possedere il sistema
nervoso e specialmente la so- stanza grigia, in cui deporre e conservare le
inda- gini. Hering professore a Vienna è stato il primo a chiamare erroneamente
Memoria questa Legge o statuto sociale, progressivo delle specie che si
-evolgono. Nella sua Dissertazione all'Accademia Viennese 1870 disse che la
Memoria è una funzione generale della natura organica, e questa parola male
applicata ha generato poi molta con- fusione così in zoologia, come in
fisiologia ed in psicologia. La Legge o statuto sociale organico procede sicura
fintanto che l'ambiente non sia troppo av- verso. E intimamente connessa con la
Unità che la figurò. Le filosofìe straniere non spiegano il mistero della vita.
Lo Inconscio di Ed. Hartmann come può far tante meraviglie nella sua
inconsapevolezza? A che servirebbero il dolore ed il piacere degli organismi,
se questi sentimenti non governassero la loro vita e la loro evoluzione e tutto
fosse operato da una divinità inconscia? Tanto più che nello Inconscio di
Hartmann la Volontà lotta sempre con l'Idea. In realtà non vi è affatto questa pretesa
lotta; anzi non vi è neppure l'Idea: ma fra il Sentire e il Volere vi è la
figurazione del moto che può giovare, figurazione che non si può chiamare Idea,
Concetto o Pensiero. Le altre scuole non facendo la distinzione fondamentale
fra la Natura che si fa, libera, e la na- tura fatta, necessitata restano
impotenti nei problemi essenziali della vita e dimenticano la Unità intima che
dà il piacere di vivere, fattore primo ed essenziale. Piacere che è più che mai
sentito e goduto nell'Amore, quando tutte le psichi degli organi si fondono in
una grande unità, ed è sentita colla figurazione delle forme teleologiche del
sistema di forze proprio di ogni specie, ossia della legge o statuto sociale
dell'organismo. Un sentimento finalista, prepara in questa figurazione le generazioni
future. La sintesi del collettivismo organico, agognata e goduta con
sentimento, figurazione e volontà, è la causa della Eredità e somiglianza dei
figli agli antenati, salvo quelle piccole modificazioni che furono vivamente
bramate. I passi più notevoli nella bellezza e nell'utilità della struttura, si
preparano a lungo e si fanno prontamente nella sintesi Erotica, e nell'Embrione
quando il Collettivismo organico è vivamente sintetizzato. Platone vedeva il
divino nell'Amore ses- suale, perchè (egli diceva) prende tutta l'idea della
specie, e la realizza. Possiamo dire che è la tra- smissione della Legge
sociale del Collettivismo. La forza di ogni cellula dell'organismo, con- verge
e concentra sopra poche cellule tale funzione, sia che si faccia per
germinazione, sia che si faccia per fusione di nuclei germinativi sessuali.
Dapprima il piacere di congiungersi si compie senza sessi, ringiovanendo i
nuclei delle cellule, per semplice fusione, come nei Ciliati, nei Rizoidi e nei
Magellati. Le cause meccaniche non bastano per aggruppare intorno ad un
progenitore, per riproduzione senza nozze, individui primordiali, per formare
un individuo superiore, e tanto meno a dar ra- gione delle forme seriate, ossia
disposte in serie, e meno che mai a spiegare la differenziazione autonoma. Sono
necessarie le cause interne vitali (sensazione, desiderio, figurazione,
volontà) a trasfor- mare gli organi. Ci vuole poi gran concentrazione
morfologica per moltiplicare l' individuo e fare le -colonie. E gli animali
inferiori stentano tanto a fare tale concentrazione, che la prole resta
impotente a diventare adulta in breve tempo, ma gli embrioni gradatamente si
sviluppano fino a divenire adulti. Negli organismi inferiori {Celenterati,
Crinoidi, Vermi e Crostacei inferiori) l'uovo non produce quasi mai un
organismo uguale al genitore: ma sviluppa un essere embrionale, che ri- corda
il primo individuo delle colonie lineari (Idromeduse) od il centro dei
Corollari, e degli Echinodermi, che crescono a raggi (Radiati). Quando si muove,
diviene un primo anello, che ne germina dei successivi, ai quali servirà poi di
testa nei Vermi {Trochosphera) e negli Articolati (Nauplius). Nell'Idra di
acqua dolce non vi sono che quattro o cinque individui in colonia, ma nei
Polipi idrati sono migliaia. La Medusa in colonia non fa uova: ma quelle •che
si isolano nuotando per godere le nozze, le — 163 — fanno. Un siconoforo è una
federazione fluttuante di Meduse, divise in prensori, locomotori, riproduttori
e nutrici. I Polipi del Corallo formano grandi co- lonie ; ma anche fra essi vi
è VAnemone che vive isolato. Nei Briozoari e nei Tunicati si vede sempre il
rampollo, come nei Celenterati. Nei Vermi, negli Artropodi non si vede; ma sono
formati essi pure da meridi (ossia parti), derivate rampollando le une dalle
altre. Negli Anellidi la bocca e gli organi dei sensi stanno nella sola testa,
ma ogni anello ha le proprie gambe, il proprio canale digestivo, il suo ganglio
nervoso, e i suoi vasi saguigni, il suo sistema riproduttore. Se si separano,
fanno la generazione alternante, ora a gemme, ora ad uova, come le Salpe,
nuotatrici, tunicate, le une grosse come aranci e dedite all'amore, le altre
piccolissime, associate in catene fosforescenti. Così lo Sciphystoma, alterna
le funzioni riproduttive, in modo che il sessuato fa le uova, ma non le vede
nascere, e le nutrici allevano le larve nate dalle uova. I Vermi si distendono
con nuovi anelli sopra una linea lunga e diritta. Ma in alcuni la progressione
si fece per asse trasversale, obbligando ad accentrare e differenziare,
portando al centro gli organi di nutrizione e di circolazione, e ne vennero i
Molluschi, cancellando i segmenti; eppoi si fecero la conchiglia, per ripararsi
dai ne- mici (come pensano Perrier e Gegenbaur). Però nella loro Embriogenià, non
mostrano mai di es- sere segmentati, e possono anche non essere derivati dai
Vermi, come pensano Rabl e Cattaneo. La facoltà di rigenerare le meridi o parti
ta- gliate è evidente nell'Idra e nella Stella di mare, come nelle Piante. I
Crostacei derivano in gene- — 164 — rale da specie che avevano venti segmenti.
Il Pe- neonauplio aumenta gradatamente i suoi segmenti, mentre il gambero ha 21
segmenti fin dalla nascita. Le larve degli insetti sono Embrioni nati avanti
tempo, ma capaci di svilupparsi con l'aiuto di nutrici, ed anche senza di esse,
quasi sempre con Metamorfosi, come nel Baco da seta. Questo ani- maletto,
finche mangia sul gelso, non ha sessi: farà le ghiandole sessuali quando sarà
crisalide e farfalla, giacche la Muta o Metamorfosi è sem- pre una crisi di
maturità genitale. E per godere l'amore che si chiudono ed elaborano i germi
della loro Unità più alta. Gli Artropodi fanno diverse mute, rigettando il
guscio. Il bruco, con bocca masticante, diventa farfalla, con bocca da
succhiare. Il verme bianco diviene scarafaggio senza mutar bocca. Nelle Api,
nelle Vespe, nelle Pidci, nei Lepidotteri, e nei molti Vermi inferiori, si
osserva la partenogenesi. La partenogenesi artificiale è sempre impossibile
senza le forze che accumulano le ener- gie delle precedenti generazioni (1). La
concentrazione erotica arriva a perfezionarsi negli spermatozoidi e negli
ovidi. I sessi si svolgono in ghiandole ermafrodite, nelle quali il di fuori è
maschile, il di dentro è femminile. Se prevale l'assimilazione si ha la
femmina: se prevale l'azione si avrà il maschio. (Vedi: Thomson Geddes:
Evolution of sex. 1890, Londra). (1) Nella « Biologia taurinensis » di A.
Gìglio 1906, il prof. A. Ceconi dice che chi vuol spiegare fisicamente la vita,
prende sempre per isbaglio delle analogie parziali, come se avessero valore
totale. — 165 — L'ovulo nasce nella donna dall'epitelio dell'ovario, che è uno
dei tessuti più bassi, e più antichi dell'organismo. Anche gli spermatozoidi
nascono dal tessuto epiteliale dell' uomo. L' uovo fecondato del maschio non si
sviluppa in modo molto diverso dalle uova partogenetiche. Loeb e il prof.
Delage della Sorbona 1906, trovarono il modo (con so- luzioni saline e
semidolci miste a tannino), di pro- vocare la fecondazione artificiale delle
uova di al- cuni minuti animaletti marini, alternando la coa- gulazione (con
acidi) e la liquefazione (con alcali) delle albumine dell'uovo. L' uovo femmina
ha molto citoplasma ed un pronucleo privo di corpo centrale. Il maschio ha un
centrosoma, un pronucleo, e quasi nessun ci- toplasma. Il centrosoma maschio si
biparte fecondando la femmina. Ogni organismo superiore esce da uno sper-
matozoide che, nel suo mezzo milione di cel- lule, riunisce l'idea vitale da
svolgere, ossia la psiche passiva degli antenati, in sintesi morfologica, che
incomincia il suo impulso nell'astro del coito. Lo Spermatozoide e quasi uguale
in tutte le specie superiori, ma ben diversa è la psiche passiva che riceve dai
genitori. Entrando nell'ovulo lo irradia e lo vivifica, e ben presto la cellula
uovo principia a segmentarsi ed a sviluppare (con struttura semifluida)
l'embrione, dotato di una psiche passiva uguale a quella dei genitori. L'ovulo
prodotto in una delle vescicole dette di Qraaf, quando è maturo, riceve molto
sangue, gonfiandosi e rompe il follicolo, andando nelle trombe falloppiane,
facendo mestruare la scimmia e la donna (non i quadrupedi). 11 L'uovo dei
mammiferi è piccolissimo, ha quattro parti, cioè la vitellina, o zona pellucida
esterna, il vitello pieno di granuli, e fra queste la vesci- cola germinativa
di Purkinje e quella embrionale di Balbiani. Nelle uova degli Uccelli vi è di
più l'albume ed il guscio calcare, dovendo essere nutrito e riparato fuori
dell'alvo materno, covato tre settimane, mentre nei mammiferi l' uovo prende i
materiali nutrienti dalla placenta (che nella donna è una, nelle pecore e nelle
vacche sono parecchie). Il testicolo è fatto da molti tubetti stretti e lunghi
contorti, che sboccano nel canale eiaculatorio : in ogni tubetto si formano
strati di cellule di cui le più centrali allungano una coda e divengono così
Spermatozoidi. Brown Séquard iniettando sotto la pelle dei neurastenici
l'estratto dei testicoli di giovani animali fatto a freddo, ne guarì molti. La
spermina iniettata sotto la pelle è tonica per due settimane e non fa mai male.
Lo sperma contiene un numero enorme di sper- matozoidi ed uscendo si accompagna
al liquido delle ghiandole del canale eiaculatore, al fluido delle ghiandolette
del prostata ed a quello delle ghiandolette Cooper dell'uretra. Evaporato, lo
sperma cristallizza alla superfìcie il fosfato di spermina. Gli acidi
estinguono i movimenti degli spermatozoidi, gli alcalini a 35 gradi li
conservano. La testa dello spermatozoide è ricchissima di acido nucleinico, il
corpo è fatto da materie albuminoidi con lecitina e ce- rebrina, e il 5 °/ di
fosfati (1). La Psiche ge- (1) Hofmeister vide che le protamine sembrano fatte
dal trasformarsi delle proteine nel dar vita a spermatozoidi. Infatti nel
Salinone, il testicolo cresce a spese della — 167 — neratrice è affidata a
questi elementi chimici, in- vestiti dalla Volontà o Legge o Statuto sociale
ereditario. Quando corre molto sangue all'utero fecondato, incomincia alle
mammelle la secrezione de] latte, umore albuminoso pieno di globuli bianchi e
di cellule nucleate dolci, che dopo il parto diventa un composto di caseina, di
lactosi, di sostanze grasse neutre e di sali. Siccome il sangue non contiene
caseina, ne zucchero di latte, così è certo che vengono segregate nelle
mammelle che gonfiano i loro acini. La caseosi emulsionata ed i globuli
butirici rendono opaco il latte. Nei giorni della mestruazione il latte si
altera : ma presto ritorna normale. Che cosa avviene nell'utero a cui corre il
sangue dopo la fecondazione dell'ovulo? Il suo nucleo, come quello di tutte le
cellule nella cariocinesi (di cui parlammo nal Cap. VI) fa una segmentazione
che si moltiplica, finche si forma la così detta Morula ; un assieme di palline
come mora di gelso. Là si sgomitolano le membra venture dell'uomo. Nel centro
della Morula si apre una cavità, in cui corre un liquido che gonfia e spinge le
pareti, formando la Blastosfera. Questa va pigliando la musculatura del corpo,
intanto che gli animali non mangiano. — Secondo Bang, invece di protamine vi
sono istoni negli spermatozoidi in via di formazione e questi si sviluppano più
tardi in protamine e proteine, che for- mano le teste degli spermatozoidi. Del
resto la composizione chimica importa poco, poiché è la sintesi morfologica di
tutto il collettivismo organico che dà la vita agli spermatozoidi come agli
ovuli. Questa sintesi è del tutto psichica, come è evidente. forma di un ferro
di cavallo, detta Gastrula, ed ha di dentro VEntoderma e di fuori VEsoderma.
Neil' Entoderma (che diventa poi il canal digestivo) si fa un terzo foglio cioè
il Mesoderma in- vaginando : il Mesoderma svolge il cuore ed i vasi sanguigni.
L'Esoderma si sviluppa in sistema ner- voso muscolare, con un primo tubo di
nervettini liquidi viscosi; e questo tubo farà la spina dorsale ed il cranio.
La legge o statuto sociale è così divisa in tre dipartimenti. L'Embrione è un
corpicino animato dalla legge intima ereditaria, che riproduce gli antenati,
fa- cendo ogni giorno crescere la sensazione ed il moto del feto. La Unità che
diventa organica svolge la legge sociale formata nell'atto della fecondazione:
è V anima che fa il corpo, dal di dentro al di fuori, come dal di dentro al di
fuori si è fatta la specie. Lo studio degli embrioni e dei feti presenta molte
difficoltà per determinare nella Ontogenia la Filogenia, ossia per scoprire la
genesi della specie, perchè l'acceleramento embriogenico modifica nel feto gli
organi ed anche perchè si esige un magazzino di materie nutrienti che altera le
forme, come dice il Perrier (Philosophie zoologique). In uno stesso gruppo
zoologico la nascita avviene in stadi diversi; alle volte si saltano delle
fasi, o le cavità e gli organi che esse contengono si costituiscono
diversamente. La funzione generativa conferma adunque tutte le leggi di
formazione delle specie animali che si sono esposte nei capitoli precedenti. La
Unità infima nel Sentimento Il sentimento è il Governo del collettivismo
organico, ed è piacevole o doloroso. Esige più tempo delle sensazioni. La
sensibilità organica (che Rosmini chiama il sentimento fondamentale della vita
animale, tenendone gran conto, a differenza di tutti gli altri Metafisici)
detta in greco Cenestesia, in tedesco Gemeingefiihl, o tatto interno di tutti i
muscoli, nervi, della circolazione sanguigna, delle funzioni digestive, della
respirazione, delle secrezioni ghiandolari, del senso erotico, abituata da
milioni di anni ad unificare il suo tatto interno ed il piacere della vita e
della salute, è il fondamento delle tendenze individuali e del carattere: ed è
ereditata come psiche passiva, che può fare l'attiva convergendo nella Unità.
Il carattere viene dal complesso di tutte le cel- lule nervose, mentre l'
intelletto viene da una piccola parte di esse. Nelle malattie la cenestesia è
dolorosa quanto più vengono disturbate o minacciate le funzioni essenziali.
Nella convalescenza è piacevole, quando si va guarendo ed eliminando le ultime
stasi sanguigne; nella salute si gode fa- cendo una ginnastica, aumentando la
circolazione del sangue, la respirazione e la innervazione delle membra.
Dicemmo che il sentimento esige più tempo delle sensazioni, non però più di due
se- — 170 — condi minuti, dopo l'eccitamento ; tempo necessario per fare il
bilancio dei vari organi e sapere se l'organismo guadagna o perde. Sono
confronti fatti dalla Unità generale, in cui il Numero concettuale non entra
mai, relativi all'ambiente, alla nutrizione, alla salute o malattia, all'età ed
alle forze dell'in- dividuo ; sono dunque calcoli dell' Unità numerante intima.
Il tempo è abbreviato assai nelle gravi ferite. Le sensazioni sono reazioni
localizzate nei sensi speciali dalla cenestesia: ed avvengono in generale in 2
centesimi di minuto secondo dopo l'ec- citamento. La differenza del tempo dal
sentimento alle sensazioni può dunque arrivare al centuplo. Ogni sentimento
eccita il cervello e qualche gruppo di ghiandole. Nella paura quelle
degl'intestini, nella collera quelle del fegato, nelle in- quietudini i reni e
la vescica depuratori del san- gue ; nel dispiacere e nel dolore le lagrimali.
Nei sentimenti che deprimono, il cuore si ral- lenta e nel primo istante si
arresta. In quelli stellici il cuore batte più celere e le arterie si al-
largano, il cuore si vuota più facilmente, nelle emozioni liete, e più
difficilmente nelle emozioni tristi, per cui il popolo attribuisce i sentimenti
al cuore. I sentimenti di piacere e dolore, salute o malattia, coraggio o
paura, simpatia od antipatia esprimono il rapporto in cui stiamo con le cose e
in massima parte dipendono dal sistema nervoso del gran simpatico, operando sui
nervettini vasomotori. Essi promuovono la Evoluzione destando i desideri e
facendo la convergenza sulle sensazioni e sulle imagini che più giovano a
preparare il proprio vantaggio. Esprimono a fondo la Unità numerante, perchè
consistono dal principio alla fine in confronti di proporzioni (benché fatti
senza Numero astratto) e sono comuni agli animali ed all' uomo. Le scelte fatte
fra le varie vie, i cibi, le bevande, le azioni di ogni specie, i diversi modi
di condursi, le risoluzioni importanti prese d' improvviso e anche le meditate
sono suggerite dal sentimento e fatte con lampi di attenzione. Sotto l'azione
del sentimento il sistema vaso- motore modifica la digestione e la secrezione
della saliva, dei reni, delle lagrime, del latte (1) ecc. Il piacere ed il
dolore sono i due modi sostanziali dell'essere noumenico, dell'Intensivo conti-
nuo nella sua intima forza : Varmonia che fa espandere le Energie, la
disarmonia che le co- costringe a soffrire e ad estinguersi. Ogni piacere
aumenta la forza muscolare ; prova che ogni energia vuole ascendere. La
felicità corporea sta nell' accumulare forza nervosa; è salute il condensarla
ed è vizio il dissiparla. Il piacere, in chi non degenera, è una continua
nascita ed è quindi ascendente in ogni specie, in ogni individuo che
progredisce. Ogni Io sorge in condizioni diverse dagli altri, e (come diceva
Góihè) chi gode meno è chi scimiotta i godimenti degli altri. Ogni uomo
intelligente è originale nel modo di godere. Ogni acquisto di nuova sensazione
armonica fa piacere più assai che la ripetizione delle co- (1) La gioia aumenta
la secrezione del latte, la paura la diminuisce e l'arresta. La vacca e la
capra munte da mano straniera non danno latte. — 172 — nosciute e già provate :
e questo è lo stimolo che fa ascendere i piaceri e specialmente quelli
artistici. Ogni allargamento del dominio sopra le cose è piacevole, ogni
restrizione ed asservimento è doloroso. L'ambizione di promovere il bene comune
è sempre piacevole e non è vero quel che disse Bahnsen (nella sua
Charactérologie) che sia mossa dall'egoismo. La gioia giova molto al cuore, ai
vasomotori, allo stomaco, al fegato, a tutto il sistema nervoso e ghiandolare.
L'amor sessuale aumenta molto la circolazione del sangue, la respirazione, il
godimento del tatto, del senso muscolare. Ogni espansione di vitalità e di
forza, che non esaurisca, fa bene: rende l'occhio più vivo, il cuore batte più
celere, le narici si allargano, la respirazione si fa più frequente e profonda,
i muscoli si alzano, il sugo gastrico corre allo stomaco, la saliva alla bocca,
tutto il corpo aumenta la Cenestesia, non soltanto nei piaceri corporei della
tavola, dell'alcova, della ginnastica, ma anche negl'intellettuali, come la
contemplazione di un ca- polavoro dell'arte, di un bel paesaggio alpestre, di
un progetto industriale promettente, o l'ascol- tazione di una musica che
gradevolmente ci molce l'orecchio (1). Le teorie che fanno derivare i
sentimenti benevoli dalla esperienza, dalla utilità sono superflue e false.
L'amore infatti pervade tutto l'uni- verso e dà maggiore piacere che la malizia
ed il calcolo egoistico, anche ai più vili animali. (1) Nei piaceri
intellettuali l'aumento della circolazione, della innervazione è minore in
paragone con i piaceri del corpo. Le carezze eccitano piacevolmente i
vasomotori ed il gran simpatico, aumentano la vitalità, specialmente se sono
variate di modo e di posto. La emozione tenera (da non confondersi con
l'erotica) aumenta le secrezioni, la circolazione, la re- spirazione, e la vita
e dà un piacere calmo e durevole. La gioia se è forte può far piangere per la
pressione sanguigna degli occhi. Anche il pianto cagionato da dolore aumenta la
circolazione del sangue ed è un mezzo indiretto per cacciar via le imagini
tristi. La simpatia deriva da sinergìa di moti, da ammirazione per la bellezza,
la bravura e la bontà (1) per cui si entra nel modo di sentire dell'ammirato e
la Unità intima dell'ammiratore si mette all'uni- sono con quella di colui che
lo incanta. La collera e la gioia aumentano la innervazione dei muscoli,
dilatando i vasi, mentre la paura e la melanconia abbassano V innervazione e
restrin- gono i vasi. La paura fa impallidire perchè re- stringe i vasomotori,
raffredda il corpo, rilascia gli sfinteri, peggiora le malattie. Il terrore inibisce
ed arresta il cuore. La melanconia è l'atonia di spirito deprimente, è un
rinunciamento ad ogni convergenza, e se dura a lungo, sconcerta ogni funzione
vitale e si co- munica altrui, come gli altri sentimenti. Il disgusto deriva
dal palato e dall'odorato, che sono legati al pneumogastrico, promovendo moti
ri- (1) Ed è comune anche fra gli animali. Si sono visti vertebrati di varie
specie rifiutare il cibo e morire d'ina- zione per aver perduto l'amante, cani
desolati per la morte del loro padrone, e persino oche ed anitre zoppe
sostenute amorosamente nel camminare da amanti e da sorelle. flessi intestinali
e del canale digestivo e quindi nausea e vomito. Paura e disgusto hanno un
fondo comune, cioè la tendenza a fuggire e a respingere: sono movimenti di
avversione. La collera astenica è penosa, la stenica non lo è, perchè lotta
sperando di vincere e di farsi giustizia. Quando si intellettualizza, genera
l'in- vidia, e il risentimento, composti dallo istinto ag- gressivo e del
calcolo che inibisce ed arresta gl'impulsi distruttivi, per evitare le vendette
e le pene sociali o religiose. I sentimenti malvagi che hanno le varie specie
di delinquenti non vanno ascritti a necessità ere- ditata (benché si erediti il
carattere) ma assai più a cattivi esempi ed a seduzioni nuove. Esagerando le
ipotesi di Ferraz, Destine, Morel, Lubbock, corredandole di un gran numero di
osser- vazioni personali sui delinquenti e sui pazzi, so- vente male applicate,
Cesare Lombroso ha insegnato e fatto credere a moltissimi italiani viventi che
i selvaggi sieno fatalmente malvagi e che i nostri delinquenti sieno uomini che
ritornano allo stato dei loro antenati selvaggi. Però non è così ; se vi sono e
vi furono popolazioni selvaggie feroci, ve ne sono e ve ne furono molte
pacifiche e buone. La guerra fra tribù e tribù, fra popolo e popolo va ascritta
più che a nativa malvagità, alla debolezza del pensiero ed alla incapacità di
estendere il proprio ideale sociale al di là di certi limiti, di fiumi, di
monti, di laghi, di mari o di razza o di abitudini di lavoro. Infatti (come
osserva l'eminente economista prof. Achille Loria) , i delinquenti convicts,
deportati dalla Grande Brettagna, nell'Australia si trasformarono in una sola
generazione in gentiluomini e diedero impulso alla stupenda democrazia del «
Common Wealih of Australia » dove due città più popolose di Roma e di Napoli
(Sidney e Melbourne) ed altre parecchie accentrano istituti di beneficenza ed
hanno meno delinquenti della madre patria. Non è il corpo che fa l'anima : ma è
l'anima che fa il corpo. I sentimenti si comunicano facilmente : chi è triste
rende tristi i suoi confabulatori, chi è al- legro tiene allegra la brigata, un
buon libro fa buoni i lettori, unibro cattivo li corrompe: le carceri, il
domicilio coatto sono semenzai di delinquenti, ad onta di tutte le
conformazioni dei cranii e di ossa e di altri dettagli morfologici che il
Lombroso ha descritto con tanta diligenza. Queste conformazioni non sono la
causa, ma Veffetto degli animi pravi. La delinquenza, quando non sia
passionale, è un vile mestiere che ha rischi come alcuni mestieri onesti, e che
si sceglie a piacere o per suggestione, per imitazione, come gli altri, che
forma le sue abitudini e adatta i suoi organi e perciò finisce per modificare
la fìsonomia e per abbrutire anche l'aspetto. Ma in principio della loro-
carriera molti delinquenti sembrano, a guardarli,, simili agli onesti. Si
dimentica che la Natura fatta del delinquente è un'abitudine, un meccanismo
fabbricato poco a poco dalla Natura che si faceva e che il primo indizio fisico
del disordine del carattere non è il cranio, ne l'orecchio ad ansa, ma è il
disordine del sistema vasomotore, per cui la reazione ora è ec- cessiva, ora
insufficiente e manca l'equilibrio, la. facoltà di calcolar bene le conseguenze
dei propri atti e di moderarsi. Il valentissimo propagatore delle idee
Lombrosiane, l'eminente penalista prof. Enrico Ferri, le rese più dannose colla
sua dottrina fatalista, at- tribuendo le passioni perverse ed ogni delitto ad
una malattia, di cui l'uomo è irresponsabile ed insegnando che il criminale non
va dispregiato più che non si disprezzino i pazzi e gli appestati. La nuova
scuola penale, quando guarda l'albero genealogico di un delinquente dà la parte
del leone ai parenti malsani e quella del lepre ai parenti sani. Eppure il
Maudsley (Crime et folie, p. 255) dice che allorquando il cervello ha
principiato a degenerare, l'uomo può prevenire o con- tenere la pazzia o il
delitto con lo sviluppare il controllo della volontà e col proporsi un alto scopo.
Non è la morfologia, ne l'atavismo che fa i cri- minosi, ma l'educazione data
al popolo dai cattivi Governi. Nel Veneto la delinquenza è la minima d' Italia
perchè l'Austria amministrava onesta- mente, come la Repubblica Veneta. Invece
nel Lazio dove l' ipocrisia era obbligatoria prima del 1847, dovendo ogni
cittadino comunicarsi a Pasqua, e dove non vi era giustizia, tutto si con-
cedeva per favore a chi obbediva e serviva al clero ; in Sicilia, dove la
polizia dei Borboni stava agli ordini dei Feudatari, e l'autorità sembrava
disonesta e nemica del popolo (il Colajanni assi- cura che facilmente ancor
oggi si depone e si giura il falso in giudizio) ; nel Napoletano, dove a questi
mali si aggiungevano i cattivi esempi, venuti dalle alte classi, la delinquenza
è massima. Bisogna badare alle fonti dalle quali provengono i germi di degenerazione
delle idee e dei sentimenti. A guastare le idee provvede fra noi una filosofìa
balorda, a guastare i sentimenti provvedono i teatrali dibattimenti nelle Corti
di Assise e le cronache giudiziarie dei periodici, la pornografìa, le carceri,
il domicilio coatto ecc. Le missioni cristiane in Africa ed in Oceania
riuscirono a convertire a buoni costumi milioni di uomini che il Lombroso
riteneva inconvertibili. Tutta la storia ci testimonia che, quando le classi
diri- genti erano morali, lo diventavano anche i popolani e viceversa. I
sacerdoti ed i feudatari malvagi hanno diffuso la diffidenza e la ferocia.
L'eroismo e l'esal- tazione, quanto il panico e la paura, e i sentimenti di
odio e di vendetta, passano dai caratteri forti ai deboli, come provarono il
prof. Sigitele ed altri. Chi non ha conosciuto l'ardore di sacrificio dei Mille
? Chi non sa quanto gli occhi dolci, ma al bisogno fulminei, di G. Garibaldi
valessero ad in- fiammare i giovani? Chi non ha respirato l'ideale della patria
libera quando era serva? Come avvenne la comunicazione dell'eroismo, allorché
Medici ed i suoi trecento, difendendo il Vascello, versarono il miglior sangue
come un sol uomo? Dunque i sentimenti, buoni o cattivi, si comunicano. Il
sentimento religioso, come lo ispirano i sa- cerdoti, colla paura dell'inferno,
può trovarsi negli animali domestici verso i loro padroni. Ardigò e Trezza lo
intesero così basso. Certe specie di scimmie fanno atti di ammirazione e di
adorazione al levarsi del sole e seppelliscono i loro morti. Il sentimento
religioso (come lo dice il nome) è quello che fa sentire la parentela che
abbiamo con tutte le cose, con tutti gli esseri, e la derivazione dalla conscia
Unità del Cosmo. Ma non si è sviluppato se non molto tardi nella storia. Vico e
Comte sbagliarono supponendo che la prima età fosse quella degli Dei. Era
piuttosto consacrata al culto dei defunti e delle forze naturali. I selvaggi
primitivi credevano che la Natura fosse un seguito di fatti causati dagli
spiriti incorporati nel sole, nelle stelle, nella luna, nei monti, nei numi,
nei mari, nelle piante, negli animali e persino nelle rupi. Tiele provò che
tutte le religioni più antiche cominciarono dall'adorazione delle forze
naturali e dal culto degli antenati, dei genii protettori, o dei genii malvagi
che mettevano paura. Lo spiritismo odierno ci mostra con quale fa- cilità
uomini anche istruiti, ma inetti a pensare, si danno a credere alla esistenza
di spiriti invisibili ed alla loro influenza. E infatti, in moltissime tribù
selvagge, divengono sacerdoti o maghi coloro che possono ipnotizzarsi ed
entrare in estasi, costringendo i de- moni a desistere dai loro perfidi
propositi, ed invocando l'aiuto dei buoni genii. Le tribù tu- ramene dell'Asia
centrale e settentrionale e quelle di varie parti dell'Africa credevano tutte
che, per- dendo la coscienza e lasciandosi ispirare dalle potenze occulte si
trovasse il rimedio ad ogni male. Del resto gli Dei dei popoli selvaggi, anche
se più evoluti, operano sempre come uomini, capaci d'ira e di vendetta.
L'origine dei miti sta nella combinazione d'idee che è propria dei selvaggi,
per cui si rassomigliano le leggende dei Greci, dei Celti, dei Lapponi, degli
Eschimesi, degli Iro- >ehesi, dei Cafri e dei Boscimani, come li ha
confrontati fra loro Andrea Lang. Il progresso mitologico consisteva nel
conside- rare come astratti, vecchi e privi di attività gli Dei di prima e come
realissimi quelli immaginati dopo. Così al Cielo e Terra dei Turanici, gli Ari
opposero Varuna o Ritam che fa l'ordine; ma poi Varuna tramontò e si fece
annanzi Indra il dio della luce. Allora la religione ascende di grado e diviene
più razionale ed intima. Si fanno sagrine! e scongiuri magici, nel mentre si prega
come persona a persona e già nei più antichi inni Vedici, Varuna è invocato a
perdonare i peccati. La lode della divinità si accende per la speranza nella
vittoria dei propri fini individuali o sociali : e per conseguirla si viene
accentuando la potenza e la generosità del Dio ; gli si fanno offerte,
sagrine!, gli si erigono templi, si stabilisce un culto. Il Cielo degli Indiani
è anche il Dyaus Patir, il Padre celeste; il Tien dei Cinesi è il padre degli
Dei e della Natura simbolo del maggior Dio; in Egitto il sole unificava gli dei
locali primitivi, e così fra i Summeri e Accadi sull' Eufrate e fra i primi
Semiti. Il culto del sole prevalse fra i Malesi, i Baici, primi immigranti
nella China, e nei Sinto del Giappone, ed anche nel Messico e nel Perù, quando
passarono in America la magìa e l'astro- logia dell'Asia. Ra, Dio del sole,
ispira a Tot o Ermete i quarantadue libri sacri degli Egiziani, che insegna-
vano la eternità della vita e del pensiero. Il Dio accadico del fuoco, Kebir,
si fuse col Dio iranico del fuoco e col Bel, Dio del sole. Nell'India andò
perduto il carattere personale del Dyaus Patir degli Ari primitivi e si pensò
Brama come spirito assoluto, volontà impersonale che fa la Maya o illusione del
mondo. — 180 — Invece nell'Iran (Sogdiana, Battriana) fu concepito un Dualismo
del Dio buono Ahura Mazda o Yaruna contro Arimane capo dei demoni. L'idea di un
regno di Dio in cui tutti sono solidali e il merito di alcuni si estende a
tutti i fedeli è di Zoroastro. Dalla piccola città di Ur, dove fio- riva una
delle scuole teologiche di Zoroastro uscì Abramo, capostipite degli Ebrei che
conservarono il dualismo iranico, di angeli e demoni. Il riformatore dell'India
si limitò a predicare l' eguaglianza, la grazia eguale per tutti, anche per le
donne, gli schiavi, i criminali, abbattendo le Caste. Secondo Badda la
convinzione di essere peccatori ed il pentimento rigenerano, e si prova col
lenire i dolori degli uomini e degli animali, liberandosi dalla Maya o
illusione del mondo. Il riformatore della Palestina Gesù fu il maggior genio
del sentimento e rese la religione un affrancamento dalla necessità, una viva
fiducia nell'Essere trascendente, una speranza di vita celestiale, che
contrasta coi bassi ideali di ric- chezza e di potenza dei sacerdoti del suo
tempo e di quelli del nostro. I suoi discepoli avrebbero dovuto essere focolari
di rinnovamento della coscienza morale, centri degli assetati di giustizia,
intenti a diffondere luce ed amore; quindi non potevano abbracciar mai la
universalità di un popolo. Il Cristianesimo non si limita, come il Buddismo, a
svincolare da ciò che è illusione, interesse, va- nità e superbia; ma contempla
il sole della vita nella sua unità ed onnipotenza. Consiste essenzialmente
nella comunicazione dei sentimenti di amore, di abnegazione, di fede, spe-
ranza, che aveva Gesù. E stupido quindi l'abbassare Gesù a livello di profeti
volgari. Per operare il bene, per muovere gli uomini all'altruismo, alla
solidarietà, si esige un centro, un faro, un modello, il maggior genio del
sentimento. Risuscitò l'Italia, da Arnaldo di Brescia a Dante (Vedi Gebhart,
«L'Italie mystique», 1890), dandole il sentimento profondo che i preti non
conoscevano. Risuscitò l' Europa, per mezzo della Riforma e della Rivoluzione
francese, che rovesciò quella che Voltaire chiamava l' Infame, dando al popolo
per lievito : Liberté, Egalité, Fraternité. E sempre sarà necessario, più dei
geni della scienza, delle arti belle, della politica, il genio del sentimento,
centro motore dell' umanità buona, perchè i sentimenti non s'insegnano, non
s'imparano da pochi, ma si comunicano a tutti. La Unità Numerante nella Volontà Se il
Sentimento è il Governo di ogni Collet- tivismo organico animale, la Volontà è
il suo ministro esecutore ed ha per ufficiali i nervi motori e per soldati i
muscoli. Nell'uomo, dal sostrato frontale parte l'ordine, e per il fascio
piramidale va alle circonvoluzioni motrici e per il centro ovale arriva alla
capsula interna che penetra nel corpo striato. I corpi striati (sul dinanzi del
cervello basso, nel corno maggiore), sono grossi come due uova 12 di tacchino e
rossi, formati di cellule grandi grigie poligone. Ogni corpo striato dirige i
movimenti del lato opposto. Al corpo striato seguono il peduncolo cerebrale ed
il bulbo, e nel midollo spinale fa agire i nervi motori ed i muscoli.
L'esercizio muscolare volontario è sempre preceduto dalla attività del cervello
e del cervelletto, posto in azione dalla Volontà: Questo fattore psichico è il
yero motore dei muscoli (1). I moti riflessi sono effetto della Volontà degli
antenati diventata meccanismo. I più invariabili dipendono dalla spina dorsale.
I riflessi cerebrali si adattano a complicate reazioni. I sensori motori
vengono dal bulbo, dai corpi striati e dagli strati ottici. Ferrier (The functions
of the Brain, p. 287), vide che i centri inibitori impediscono la distra-
zione. Il moto inibito si disperde in gesti a metà, ed in disturbi viscerali.
Se un moto riflesso non si compie, è sempre segno che venne contrariato per
inibizione, voluta dai lobi frontali. Un ragazzo che impara a scrivere muove la
faccia, le gambe, finche poco a poco si riduce a muovere solamente gli occhi e
la mano. Sempre gli animali sostituiscono alla diffusione illimitata inutile,
una diffusione ristretta e limi- tata al movimento che serve al loro scopo, e
fin qui è Natura che si fa con attenzione. In seguito, (1) La Volontà non può
essere Elettricità: come di- cemmo sopra, perchè va infinitamente più lenta ; è
tutta psichica, e può così bene contrarre, come rilasciare i vari muscoli. Essa
spende la forza nervosa accumulata e chiama sangue arterioso a vivificare i
muscoli che lavorano. quanto più si ripete, tanto più si moltiplicano le
fibrille, i vasi capillari, e si consolida in moto riflesso, ossia in
meccanismo di Natura fatta. Abbiamo esposto la graduale formazione del
meccanismo nei Capitoli XI sul sistema nervoso, XII sul sistema muscolare, XIII
sulla Psiche generatrice, e altrove sotto diversi punti di vista, perchè la
Natura che si fa va sempre distinta dalla Natura fatta che è necessitata. Non
manca, anche ai più semplici animali, la libertà di volere nella Natura che si
fa. La Necessità regna in tutta la Natura fatta, che è la parte massima, mentre
la Natura che si fa è la parte minima, ma è libera. Gli atti volontari liberi
sono assai pochi al paragone degli atti che si fanno per abitudine e per moti
riflessi, anche nell'uomo educato. Un moto che si fa per abitudine esige ancora
l'imagine: mentre un moto riflesso, che è ereditato, non ha più bisogno della
imagine, e si compie macchinalmente. Ogni organismo esprime quello che gli
antenati hanno voluto per il proprio bene, e l'istinto è una combinazione di
processi appetitivi e di atti riflessi. Maudsley (Body and Will) dice che
l'energia volontaria registra le sue esperienze modificando la struttura
nervosa, acquistando nuova potenzialità, tanto nell' operare certi atti, quanto
nello inibire quelli che sarebbero abituali. Nella proporzione che si arresta
la tendenza a diffondere il movimento delle membra, la co- scienza si va
concentrando in un modo specialmente voluto. Tutte le specie animali si sono
svi- luppate coordinando e subordinando i moti secondo che erano utili e
piacevoli. E quanto più questi movimenti venivano ripetuti, tanto più diventavano
facili, finche si resero moti riflessi irresi- Questa genesi della Natura che
si fa e della Natura fatta è di grande luce nella scienza e nella vita pratica.
Ma nelle filosofie dialettiche dello Hegelismo e dell1 Ardigoismo che negano
l'indivi- duo e riducono la coscienza ad un'astrazione, ri- sultato del
processo di antitesi dei concetti per l'uno, e risultato delle forze incidenti
dell'ambiente per l'altro, è ignorata. Anzi YArdigò confonde insieme sentire,
volere e pensare negando sempre il soggetto che pensa e vuole. Nelle sue Opere,
Voi. I, p. 141 a 185 egli scrive che il soggetto è un concetto astratto. « La
coscienza non è altro, egli dice, che l' insieme delle rappresentazioni o
esterne (dalle quali si astrae il il concetto di materia) o interne (dalle
quali si astrae il concetto di spirito o di anima) (pag. 145). Il riferimento
delle sensazioni al soggetto pensante ed agli oggetti esteriori, non ha luogo
per intui- zione immediata: ma è un puro effetto di esperienza, per la quale ne
facciamo poco a poco l'abitudine (pag. 149). Dunque non vi sono schemi a priori
dell'intelligenza: non vi sono elementi primitivi; ma sono tutti, anche il Me,
prodotti da abitudine empirica (pag. 150). La coscienza è un risultato delle
forze incidenti {pag. 151). Non è vero che il fenomeno non si possa pensare
senza il soggetto relativo. Il Soggetto è un concetto al quale si può arrivare,
ma non un dato, dal quale si debba partire. Il Soggetto dei fenomeni
psicologici non è altro che un astratto che si chiama Anima, è in- stabile, e
segue le variazioni logiche per le quali passa l' induzione, dopo lo esame dei
fatti » (pagina 163). « Non vi è differenza radicale fra Sentìmento, Volontà e
Pensiero : Gli atti volontari altro non sono che sensazioni e sono riferiti
all'anima per errore (pag. 180). Le facoltà rappresentative, affet- tive e
volitive, sono solamente combinazioni variate dei medesimi elementi di
sensazione, come altret- tante parole formate col medesimo alfabeto (pagina
181). Le cognizioni, gli affetti, i sentimenti, i voleri, sono tutte sensazioni
o ricordanze di sen- sazioni, e dipendono dall'organismo » . Così l' Italia non
si faceva dal di dentro al di fuori, da un eroe ai suoi compagni garibaldini e
alle masse : no, erano gli effetti inconsci dell'ambiente che spingevano Garibaldi
a Calalafìmi a rispondere a Bixio : « Non ci ritiriamo : qui si fa l' Italia o
si muore » . E dall'ambiente che i martiri e gli eroi antichi e moderni
attinsero il coraggio e l' entusiasmo : risultati delle forze incidenti,
sentire, pensare, volere : tutto è uguale per Ardigò, ò]xbu xà Travia. Ogni
uomo ha i suoi doveri: e se li segue è come una nave che va al porto, per forza
propria, avendo buon capitano, buona bussola, buona macchina, buone vele, e
questo è l'uomo pitagorico bruniano. Mentre, se non li segue, somiglia ad una
nave che non sa andare in porto se non per caso, e che, quando i venti sono
contrari, ed i marosi minacciano, si lascia travolgere dalle forze inci- denti,
come un trastullo. E questo è l' uomo Ardigotico. Ardigò ha negato la Coscienza,
il Soggetto, e la Natura che si fa. Ed in questo egli non ha fatto altro che
seguire il Positivismo anglo-fran cese e contraddire al suo pensiero
fondamentale dello Indistinto che sta sotto ad ogni distinto e che somiglia
allo Inconscio di Schelling. L'armonia fra la filosofia di Schelling e quella
di Feuerbach e di Spencer non è stata trovata à&WArdigò: né poteva
trovarla. Il disaccordo è evidente nella teoria della Volontà. Chi è che vuole
quello che fac- ciamo noi ? Se è l'ambiente non siamo noi. Se noi andiamo
contro l'ambiente (e lo fanno tutti gli animali) siamo snaturati, delinquenti
che vanno contro il loro papà l'Indistinto. Così il Signor Ardigò non è più
Ardigò: e una eco della gente che lo circonda. Il prof. Giuseppe Sergi poi,
nella sua « Psychologie physiologique » 1888, fa derivare gli atti volontari
dai moti riflessi/ e tratta della prima differenza tra la volizione e l'atto
riflesso, nel sospendere dopo l'eccitamento il moto, per cer- care una via
nuova e arrivare così all'atto spontaneo, il quale, deriverebbe dall'attività
automatica (sic) degli elementi nervosi e muscolari. È inutile proseguire.
Intelligenti pauca. Il confusionismo è madornale. Gli atti riflessi non si sa-
rebbero mai formati, se non fossero stati voluti e ripetutamente voluti dagli
antenati degli ani- mali che oggi ne sono forniti. Se la Volontà uscisse dai
moti inflessi, sarebbe perfettamente inutile, essendo meccanismi che vanno per
necessità. Grazie a queste false ed assurde teorie, oggi nell'antica patria del
diritto (che era tutto fondato sulla libertà), si crede che l'uomo sia schiavo
delle proprie passioni: e la scuola Lombrosiana, attribuendo i delitti, le
malattie mentali e anche il genio alla epilessia larvata, è ^esagerata a tal
punto che il Morselli scrisse nella Cronaca d'arte di Milano che, con tali
teorie, si può giungere a chiamare l'uomo un animale epilettico. La nostra
dottrina della Natura che si fa e della Natura fatta fu, non solo adottata da
valenti professori Italiani di filosofia del diritto, ma approvata anche
all'estero e specialmente dallo eminente magistrato e pensatore francese Tarde,
il quale la segnalò nella Reme Philosophique come «profonde et habituelle
distinction » . Essa concilia in modo strettamente scientifico il sentimento
della libertà, i bisogni della giurisprudenza, della politica, della morale,
con le esigenze del Determinismo ; ed è tutta fondata sui fatti. Altri due
illustri filosofi francesi più del Tarde espliciti amici della nostra Nuova
scienza cioè B. Perez, «Le caractère de l'Enfant à l'homme», 1892, e Fr.
Paulhan, « Les caractères » , 1894, opposero egregiamente i padroni di se
stessi, ossia gli uo- mini riflessivi, che sanno sistematicamente inibire i
movimenti superflui o dannosi, agi' incoerenti, agl'impulsivi, ai suggestionabili,
ai deboli, ai di- stratti, agli storditi, ai frivoli, insomma a coloro che si
lasciano imporre dalla società e trastullare dalle forze incidenti (agli uomini
ardigotici). Sono questi i mezzi caratteri o i senza carattere, assai numerosi
nelle grandi agglomerazioni umane. Però i veri caratteri si possono ridurre a
tre, cioè quelli in cui predomina V intelligenza, che sono pochissimi,
calcolatori, i quali nulla lasciano al caso ; i sentimentali che vivono
sopratutto nella loro intimità, suscettibili, meditativi; e i volitivi che
vivono molto all'esterno, nell'azione, audaci ed ottimisti (1). (1) Tutti sanno
che gli antichi Greci distinguevano quattro temperamenti e li dicevano base di
quattro ca- ratteri: il sanguigno leggero, versatile, corrisponde ai 1 veri
caratteri sono unificati e stabili, durevoli, cambiano poco e difficilmente
(1). Le divisioni fon- damentali dei caratteri sono date adunque nella
distinzione delle tre facoltà psichiche : sentimento, pensiero e volontà. Se
fosse lecito trovare qualche analogia nel mondo fisico si potrebbe osservare
che gli uomini nei quali prevale il sentimento corrispondono al Carbonio
(elemento accentratoro); quelli nei quali è maggiore la volontà all' Ossigeno,
(elemento che si combina cogli altri più facilmente) ; quelli senza carattere o
di semicarattere all' Azoto (elemento in- differente ed inerte); quelli
finalmente che pen- sano più di tutti, non hanno naturalmente corri- spondenza
nella natura bruta; corrispondenze che forse hanno poco valore. I grandi
capitani, come Napoleone, i grandi uomini di Stato, i maggiori industriali
sanno mezzi caratteri, tipi misti; il melanconico che Lotze chiamò
sentimentale, esitante e profondo; il collerico che ha molta imaginazione e
passioni intense, corrisponde ai volitivi; e il flemmatico o linfatico molle,
di poca imaginazione, freddo, agisce lentamente, corrisponde ai senza
carattere. Cabanis vi aggiunse il nervoso, che è una varietà del sentimentale,
e il muscolare che è una varietà del volitivo. B. Perez classifica, osservando
i moti, in vivi, lenti, ardenti, e tipi misti. F. Paulhan osservando la legge
di associazione delle idee, ossia l'attitudine di ogni ele- mento, desiderio,
idea a suscitarne altri, per uno scopo comune. Veggasi pure Janet, « Des
caractères dans la sante et dans la maladie ». (1) Le conversioni sincere come
quella di S. Paolo, di Lutero, Agostino ecc. lasciavano stare il fondo del
carattere, mutandone solamente l' indirizzo e gli scopi. I can- giamenti di
carattere dovuti a malattie od a ferite della testa non sono conversioni ma
caratteri nuovi, dipendenti da organismo modificato. combinare questi
caratteri, in modo da trarne il maggior frutto per la guerra, la politica e gli
affari: e se mancano il carbonio o l'ossigeno, Velemento indifferente mette in
equilibrio instabile alcune società, alcune burocrazie, alcuni organismi, che
guidati da mano più sapiente prospererebbero. Il Volere fa tutti i moti. La
volontà è la finalità resa causale, giacche al sentimento ed al giudizio fa
seguire l'atto di difesa e di sviluppo. Maine de Biran vide che il tipo su cui
percepiamo le cause esterne è la nostra volontà, poiché essere vuol dire
sentire, volere, agire, ed infatti Schopenhauer concepì il mondo come fatto da
Volontà cieca. Ed il viennese professore Stricker, che meglio degli altri
pensatori lo interpreta, os- serva che la Volontà è la vera causa (Ursache,
Urquelle), che essa è il tipo della forza universale. Con l'esperimento si
provoca, a nostro piacere, un fenomeno, e si riconosce il modo di agire delle
energie cimentate : assimilando le forze della natura alla volontà nostra.
iSTon è tanto il succedersi co- stante dei fenomeni, che ci assicura sulla vera
causa, quanto il cooperarvi col nostro senso muscolare e con la nostra Volontà.
Siamo costretti a considerare ogni moto come causato e trasferito da una
Volontà, da una forza simile alla nostra Volontà. Huxley e Dubois Reymond
credevano che ci fosse un abisso fra la volontà e il moto, fra la psicosi e la
neurosi. Però l'abisso non vi è punto ,se si pensa che l'Intensivo continuo
della coscienza volente è il centro attivo del moto centrifugo. E la Volontà è
misurante in tutto quello che si fa, anche in una carezza ad un bimbo: se non
misurasse, invece di fare una carezza darebbe uno schiaffo e per farsi la barba
si taglierebbe la pelle: ne cucire, ne scrivere, ne disegnare, né lottare e
tirar di scherma, ne eseguire qualsiasi lavoro si potrebbe se la Volontà col
senso muscolare non fosse misurante e non sapesse continuamente proporzionare i
movimenti. La volontà che misura senza numero concettuale è sopratutto evidente
nelle partite di boxe, dove la direzione e la veemenza dei colpi sono calcolate
ad ogni istante con colpo d'occhio si- curo nei minimi atteggiamenti.
Spettacolo interessante la ginnastica; e specialmente una partita di boxe.
Johnson campione della razza negra del Texas e Jeffries campione della razza
bianca dell'Ohio, nel luglio 1910 presso la Università di Reno, città
universitaria del Nevada, mostrarono tutte le risorse della Volontà più
esercitata a forza di pugni: e vinse il Negro, benché meno alto e meno robusto.
La Volontà non sta punto in proporzione della intelligenza. I Batraci sono meno
intelligenti dei Rettili, ma non meno risoluti. Fra i Mammiferi, che superano
per intelletto gli altri Vertebrati, la Volontà è sovente inferiore a quella
dei Rettili, e gli Uccelli spesso fra i tropici si lasciano affascinare. Certi
serpenti affascinano uccelli, scimmie, conigli, col solo guardarli concentrando
la loro Volontà. Mentre i piccoli animali che vor- rebbero divorare stanno
sugli alberi, il serpente che sta per terra, li aspetta, li attrae: ed essi si
sentono paralizzati, e mezzi morti di paura: fin- che vanno nella bocca del
tiranno, per un ipnotismo che li conquide a far loro rinunciare alla propria
volontà, alla distanza di alcuni metri, e mentre potrebbero ancora scappare
volando o sal- tando altrove (1). Torneremo sulla fascinazione nel Voi. II:
L'uomo secondo Pitagora, Cap. IX. Spesso un uomo d' ingegno ha volontà mediocre
\ ma viceversa grandi passioni, desideri violenti sor- gono non di rado in
uomini di cervello debole. Oltre ai mille modi di esercitare la Volontà nel
lavoro e nella lotta per la vita, vi è la scarica leggiera e piacevole del
Riso, che non ha alcuno scopo di utilità conoscitiva, ne economica, ne
estetica, ma si fa spontaneamente, come esplosione di libertà, quando ci
colpisce qualche contrasto improvviso di idee che si escludono, o qualche
notizia gradita che promette lo sviluppo del be- nessere nostro o dei nostri
cari o quando si fa un giuoco ginnastico divertente, o quando ci minaccia chi
non può misurarsi con noi. Si comincia col sorriso, che increspa le labbra e
mostra i dentini delle Delle donne; si accresce facendo brillare gli occhi e
mostrando (come disse il Fiorenzuola), l'anima nel suo splendore, si arriva a
scuotere piacevolmente il petto e il diaframma^ ad abbracciare i vicini ed a
saltare. Il giudizio muove il riso : ma è la volontà che scarica la forza
nervosa. Un giovanetto che studia Tlnglese, p. es., e pronuncia Shakespeare ora
come Schiacciaspie, ora come l' immortale Scappavia, desta l' ilarità
irresistibile ; ridono anche le scimmie. (1) Per suicidarsi ci vuole, oltre ad
una forte volontà, un giudizio sentimentale sul minore dei mali inevitabili :
giudizio che in generale manca agli animali. Però gli scorpioni, se messi
vicino al fuoco, si suicidano, alzando la coda e cacciando il loro dardo
avvelenato nel mezzo della testa. Il riso è sempre giovevole: allarga il
torace, fa emettere il gas acido carbonico, ed aspirare os- sigeno, vivifica il
sangue, abbassa il diafragma, dilata i polmoni ed i vasomotori, rischiara le
idee, dà innervazione a tutto il corpo. È una esplosione di libertà, di
superiorità, di vittoria, ed è probabile che nella civiltà possa
generalizzarsi. Certo negli uomini poco civili è più raro, e negli ani- mali
inferiori ai quadrumeni manca. Schopenhauer scrisse che gli uomini volgari si
annoiano stando soli, perchè non hanno la potenza di ridere da sé. La umanità
nel ridere dimostra che è libera, e gode ogni qualvolta s'innalza sopra
l'ambiente, e si svincola da ogni ostacolo, da ogni ceppo, da ogni meschinità.
INDICE Cenni storici su Pitagora e la sua Scuola . . Pag. 5 Introduzione » 17
Capitolo I. - La prima estrinsecazione del- l'Essere Divino (Spazio e Tempo) »
21 Id. IL - La seconda estrinsecazione del- l'Essere Primo (Atomi eterei e
ponderali) » 29 Id. III. - La solidarietà degli Atomi in generale » 47 Id. IV.
- La solidarietà geometrica cri- stallina » 58 Id. V. - L'ascesa alle chimiche
combinazioni » 67 Id. VI. - L'Unità assimilatrice cellu- lare » 72- Id. VII. -
Come le Unità cellulari si ac- centrano nelle Piante per godere l'amore » -82
Id. Vili. - Origine psichica delle specie animali » 101 Id. IX. - Come la
Psiche fa la vita in- terna sana » 121 — 194 — Capitolo X. - Come la Psiche fa
le guarigioni Pag. 134 Id. XI. - Come la Psiche fa il Sistema Nervoso » 144 Id.
XII. - Come la Psiche fa il Sistema Muscolare » 152 Id. XTTI. - La Psiche
generatrice ... » 158 Id. XIV. - La Unità intima nel Senti- mento » 169 Id. XV.
- La Unità Numerante nella Volontà . » 181 ^ LBOL'20 SAN TOMASO D'AQUINO
Della Pietra filosofale e dell'Arte dell'Alchimia, con una Introduzione L. 3,-
MARCO SAUNIER La Leggenda dei Simboli filosofici, religiosi e massonici . . . .
L. 6,- ERMETE TRIMEGISTO Il Pimandro e altri Scritti Ermetici, tradotti dal
greco per il D.r Bonanni, con una Introduzione L. 3,- CIRO ALVI L'Arcobaleno L.
3,50 Frate Elia » 2,— Vangelo (II) di Cagliostro, con una Introduzione di
Pericle Maruzzi L. 3, — Prossimamente : Gr. Uebini - Arte Umbra. L. Fumi -
Eretici e ribelli nell'Umbria. Dr. Keller - Le basi spirituali della Massoneria
e la yita pubblica. Enrico Caporali. Keywords: l’implicatura di Pitagora
– pitagorismo – neo-pitagorismo – epigrafe sulla lapide di Caporali a Todi –
Caporali – il mito di pitagora – la mistica di pitagora – scuola di mistica
pitagorica – reincarnazione – concetto di metempsicosi – filosofia italica –
pitagorismo nella Roma antica – Pitagora e Platone – Pitagora ed Aristotele --
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caporali” – The Swimming-Pool Library.
Cappelletti: Grice: “I like
Cappelletti – and so does he! He is into what he calls, in Latin, to show off,
‘philosophia anthropologica,’ which is MY thing – I mean, one can explore the
philosophy of ‘life’ (bios) per se, and Aristotle on the ‘entelechia’ of a
vegetable, but vegetable implicatures are boring (to us); the idea of
‘psychology’ features large, and also ‘vita.’ When Cicero dealt with
Aristotle’s philosophy of life (zoe, bios, psyche) he found himself in trouble:
vita, anima – And then came Ficino and Pico! Cappelletti knows it all, and it
shows!” -- Vincenzo Cappelletti (Roma ),
filosofo. Dopo gli studi liceali
classici, si laurea prima in medicina poi in filosofia. Nel 1967, consegue la
libera docenza in storia della scienza che, dal 1968 al 1971, insegna, per
incarico, all'Perugia, quindi, dal 1972, all'Roma La Sapienza dove, nel 1980,
consegue l'ordinariato; ha successivamente insegnato la stessa disciplina
all'Università Roma Tre fino al 2002, quando è andato in quiescenza. Nel 1956, inizia a collaborare con l'Istituto
dell'Enciclopedia Italiana di Roma, fino a diventarne, nel 1969, vicedirettore
generale, quindi, l'anno successivo, direttore generale, carica che manterrà
fino al 1992. Questo periodo, vedrà una progressiva affermazione sia in campo
nazionale che internazionale dell'Istituto, con un forte incremento nella
produzione delle opere nonché l'apertura di nuovi ed innovativi progetti
editoriali. Dal 1992 al 2002, è
vicepresidente e direttore scientifico dell'Enciclopedia Italiana, carica
rivestita negli anni trenta da Giovanni Gentile, poi da Gaetano De Sanctis,
quindi da Aldo Ferrabino di cui Cappelletti sarà appunto collaboratore negli
anni 50'. Già condirettore della rivista di storia della scienza Physis (dal
1991) e degli Archives Internationales d'Histoire des Sciences, dirige, dal
1956, Il Veltro. Rivista della civiltà italiana (da lui fondata assieme a Aldo
Ferrabino), nonché presiede la casa editrice Studium. È anche socio storico dei
"Martedì Letterari". Dal 1970
al , è presidente della Domus Galilaeana di Pisa e, dal 1989 al 1997,
dell'Académie Internationale d'Histoire des Sciences. Dal 1999, è presidente
della Società Italiana di Storia della Scienza (presidente onorario dal ) e,
dal 1997 al , dell'Istituto Accademico di Roma. Inoltre, dal 2001 al 2005, è
commissario straordinario dell'Istituto Italiano di Studi Germanici, quindi
presidente dal 2006 al , promuovendone il passaggio da istituzione culturale a
ente di ricerca. Presiede inoltre, dal 1988, la Società Europea di Cultura, fra
gli anni 80' e 90' il Centro Italiano di Sessuologia (CIS), la Fondazione
Nazionale "C. Collodi" dal 1989, il Consorzio BAICR-Sistema Cultura
(Biblioteche e Archivi Istituti Culturali di Roma) dal 1991, la Fondazione FUCI
dal 1996 al . Dottore honoris causa
dell'El Salvador e di Moron-Buenos Aires, è stato socio straniero
dell’Accademia delle Scienze di Bucarest. Nel 1991, riceve il Premio
internazionale Montaigne per le scienze umane. Medaglia d'oro al merito
accademico, è insignito, nel 2003, della medaglia Koiré dell'Académie
Internationale d'Histoire des Sciences e, per due volte, della medaglia d'oro
al merito della cultura italiana, sia per gli sviluppi dell'Enciclopedia
Italiana che per la promozione degli studi di storia della scienza. La sua attività scientifica ha riguardato
inizialmente la storia e l'epistemologia delle scienze biologiche nella
Germania dell'Ottocento, quindi le teorie psicoanalitiche, in particolare la
psicoanalisi freudiana e la psicologia analitica, nei loro rapporti con le
altre discipline socio-umanistiche, fra cui l'antropologia, la politica e la
filosofia. Ha anche curato collectanee su aspetti del pensiero nonché le opere
di alcuni scienziati del Settecento e dell'Ottocento, fra cui Giovanni Battista
Morgagni, Emil Du Bois-Reymond, Rudolf Virchow, Hermann von Helmholtz. Quindi,
dopo aver ulteriormente approfondito gli aspetti storiografici e metodologici
delle scienze esatte e naturali, i suoi interessi di ricerca si sono rivolti
verso la filosofia e la sociologia delle scienze, analizzando, sia dal punto di
vista storiografico che epistemologico, i rapporti storico-dialettici fra
scienza e società, con particolare riguardo alle scienze umane. Pubblicazioni principali Emil Du
Bois-ReymondI sette enigmi del mondo , Firenze, Tip. L'impronta, 1957. Atomi e
vita, Bologna, Edizioni Cappelli, 1958. Entelechìa. Saggi sulle dottrine
biologiche del secolo XIX, Firenze, G.C. Sansoni, 1965. Opere di Hermann von
Helmholtz , Torino, UTET, 1967 (2ª ed., 1995). Rudolf VirchowVecchio e nuovo
vitalismo , Roma-bari, Editori Laterza, 1969. L'interpretazione dei fenomeni
della vita , Bologna, Società editrice il Mulino, 1972. Emil Du Bois-ReymondI
confini della conoscenza della natura , Milano, Giangiacomo Feltrinelli
Editore, 1973. Freud. Struttura della metapsicologia, Roma-Bari, Editori
Laterza, 1973. Epistemologia, metodologia clinica e storia della scienza medica
(), 5 voll. (IV e V curati da V. Cappelletti e Dario Antiseri, 1982), Roma,
Arti grafiche E. Cossidente, 1977-82. La scienza tra storia e società, Roma,
Edizioni Studium, 1978. Saggi di storia del pensiero scientifico dedicati a
Valerio Tonini , Roma, Casa Editrice Jouvence, 1983. Antropologia dei valori e
critica del marxismo , Roma, PWPA-Edizioni dell'Accademia, 1984. Alle origini
della "philosophia anthropologica", Napoli, Guida editori, 1985. De
sedibus, et causis. Morgagni nel centenario (curato assieme a Federico Di
Trocchio), Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1986. L'Enciclopedia
Italiana per l'Europa: le nuove opere Treccani, Roma, Quaderni de Il Veltro,
1992. Le scienze umane nella cultura e nella società odierne , Edizioni
Studium, 1993. Etnia e Stato, localismo e universalismo , Roma, Edizioni
Studium, 1995. Introduzione a Freud, Roma-Bari, Editori Laterza, 1997 (2ª ed.,
2000; 3ª ed. ampliata, ). Filosofia come scienza rigorosa. Edmund Husserl a
centocinquant'anni dalla nascita (con Renato Cristin), Soveria Mannelli (CZ),
Rubbettino Editore, . L'Università e la sua riforma (curato assieme a Giuseppe
Bertagna), Roma, Edizioni Studium, . Natura e pensiero. Percorsi
storico-filosofici, Roma, Aracne Editrice, . Onorificenze Medaglia d'oro ai
benemeriti della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinariaMedaglia
d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte — Roma, 28 novembre 1992
Note Notizie bio-bibliografiche
sull'autore si trovano in V. Cappelletti, Natura e pensiero. Percorsi
storico-filosofici, Aracne Editrice, Roma, , Introduzione di G. Cimino ( 9-48),
Appendice ( 247-252). Cfr. V.
Cappelletti, "Attualità della storiografia scientifica", in: La storiografia della scienza: metodi e
prospettive, Quaderni di storia e critica della scienza, N. 5, Domus Galilaeana
(Pisa), CLUEB, Bologna, 1975,
315-329. La maggior parte delle
notizie biografiche qui riportate, sono tratte dalla biografia dell'autore
scritta da G. Cimino per l'Enciclopedia Italiana (cfr. sezioni "" e
""). Istituto Italiano di
Studi germaniciHome page Società europea
di CulturaHome page Guido Cimino,
CAPPELLETTI, Vincenzo, in Enciclopedia Italiana, V Appendice, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1991, vincenzo-cappelletti. Altri progetti
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Cappelletti Vincenzo Cappelletti, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. italiana di Vincenzo Cappelletti, su
Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com. Registrazioni di Vincenzo Cappelletti, su
RadioRadicale, Radio Radicale. Vincenzo
Cappelletti: La nascita della Psicoanalisi. Aforismi, storia del termine
inconscio, documento video, Rai Scuola.Filosofia Filosofo del XX secoloStorici
della scienza italiani 1930 2 agosto 21
maggio Roma Roma. Il termine entelechia
(entelechìa, dal greco ἐντελέχεια) è stato coniato da Aristotele per designare
la sua particolare concezione filosofica di una realtà che ha iscritta in se
stessa la meta finale verso cui tende ad evolversi. La crescita di
una pianta, con cui essa tende a realizzare la propria entelechia. È infatti
composto dai vocaboli en + telos, che in greco significano «dentro» e «scopo»,
a significare una sorta di «finalità interiore». Aristotele parla di
entelechia in contrapposizione alla teoria platonica delle idee, per sostenere
come ogni ente si sviluppi a partire da una causa finale interna ad esso, e non
da ragioni ideali esterne come affermava invece Platone che le situava nel
cielo iperuranio. Entelechia è quindi la tensione di un organismo a realizzare
se stesso secondo leggi proprie, passando dalla potenza all'atto.[1] È
noto infatti come, secondo Aristotele, il divenire si possa considerare
pienamente spiegato quando se ne individuino le sue quattro cause: Causa Materiale,
Causa Formale, Causa Efficiente e Causa Finale. Per designare il compimento del
fine Aristotele usò appunto il termine entelechia che indica lo stato di
perfezione, di qualcosa che ha raggiunto il suo fine. I neoplatonici si
avvicinarono in parte alla concezione aristotelica secondo cui la forma di un
corpo doveva essere anche immanente ad esso e non solo platonicamente
trascendente, tuttavia trovarono riduttiva l'identificazione dell'anima con
l'entelechia, essendo l'anima per costoro qualcosa di anteriore al corpo e
comunque autonomo rispetto ad esso. Una sintesi tra la concezione aristotelica
e quella neoplatonica si trova in Campanella, per il quale la natura è un
complesso di realtà viventi, ognuna animata e tendente al proprio fine, ma
d'altra parte tutte unificate e armoniosamente dirette verso una meta comune da
una stessa universale Anima del mondo. Anche Leibniz conciliò
l'entelechia aristotelica con la visione neoplatonica, facendone una proprietà
essenziale della monade, cioè di ogni "centro di energia", capace di
svilupparsi autonomamente verso la propria meta o destino: ogni monade non
riceve alcun impulso dall'esterno, ma tutte insieme formano un complesso
unitario, retto al suo interno da un'armonia prestabilita da Dio, Monade suprema.
Esse sono infatti coordinate al pari di tanti orologi, funzionanti per conto
proprio ma sincronizzati tra di loro. Goethe in seguito designò come
entelechia l'archetipo della pianta, cioè il modello ideale di ogni tipo
vegetale che si estrinseca in maniera tangibile nelle sue fasi di sviluppo
esteriore, adattandosi di volta in volta alle differenti condizioni ambientali
in cui si imbatte. Nel Novecento il termine entelechia è stato riproposto dal
filosofo e biologo Hans Driesch per designare la forza vitale da lui ritenuta
immanente agli embrioni e responsabile del loro sviluppo, in opposizione alle
teorie meccaniciste che li consideravano alla stregua di «macchine». Aristotele
ne parlava infatti come di qualcosa che ha la «vita in potenza» (De Anima, II, 412,
a27-b1). ^ Così Plotino in Enneadi, IV, 7, 8. ^ Goethe, La metamorfosi delle
piante (1790). ^ Sul concetto di entelechia in Goethe, cfr. il saggio di
Giorgio Dolfini, L'entelechia di Faust, Olschki, 1983. ^ Dizionario di
filosofia Treccani. Voci correlate Aristotele Monade Collegamenti esterni (EN)
Entelechia, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica
su Wikidata (EN) Entelechia, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company.
Modifica su Wikidata Controllo di autorità. GND (DE) 4356679-0 Filosofia
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Categorie: AristoteleConcetti filosofici greciNeoplatonismoStoria della scienza.
entelechia Termine usato da Aristotele in
contrapposto a «potenza» (δύναμις), per designare la realtà che ha raggiunto il
pieno grado del suo sviluppo. Il termine fu ripreso da G. Leibniz per indicare
la monade, in quanto ha in sé il perfetto fine organico del suo sviluppo.
Nel campo delle scienze biologiche il termine è stato usato per definire il
principio dirigente dello sviluppo di ogni organismo. In questa accezione il
termine e. fu ripreso da H. Driesch, che nella sua dottrina neovitalistica
ammise l’esistenza di un principio organico individuale avente in sé l’idea
della realtà perfetta, cioè dell’organismo completamente sviluppato.Vincenzo
Cappelletti. Keywords: entelechia – vita – filosofia della vita – Grice,
“Philosophy of Life” – Aristotle on entelechia – storia della scienza – storia
dela psicologia filosofica --. Il concetto di entelechia. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cappelletti” – The Swimming-Pool Library.
Capra (Nicosia).
Filosofo. Grice: “Plato, who never fought, thought the soul was in the brain;
Aristotle, who taught Alexander, and knew of Alcebiades, a warrior, was aware
of the sinews of the body; he thinks the ‘anima’ was in the heart – ‘enthymema’
– Ryle laughed at them all, stupidly. The issue is VERY subtle – And Marcello
Capra explores the conceptual intricacies of applying a spatial concept (like
‘sedis,’ the most general spatial concept, actually) to ‘anima’ – And the good
thing is that he philosophised with his companion while they did peripatetics
along the valley of the river in Nicosia!” “Why is it that philosophers always
have to self-segregate; people spoke derogatorily of the Oxford School of
Ordinary Language Philosophy, but there were THREE schools: mine, Witters’s
followers’s, and Ryleans – and each could not stand the other! Well, Capra,
bored of Palermo, founds in Nicosia his own academy – At Oxford we had
unfortunately to SHARE the town, if not the gown!” – Studia a Padova sotto
Montano e Falloppio – un ginecologo. Tornato a Nicosia, fonda una scuola,
societa, gruppo di gioco, o club di filosofia. In seguito, si trasferì prima a
Palermo e poi a Messina. Divenne assistente di Giovanni D'Austria e medico della
flotta del suo 'Impero per cui partecipa alla battaglia di Lepanto. Tornato in
Sicilia, su incarica del vice-ré Don Diego Enriquez de Gusman studia l'epidemia
di peste e descrisse i risultati dei suoi studi in un
volume dal titolo De morbi pandemici causis, symptomatibus et curatione,
pubblicato a Messina. Scrisse anche un volume sulle proprietà mediche della
scorzonera. Pubblica a Palermo saggi filosofichi. Un saggio filosofico e di
dedicato alla sede corporea dell'anima e considera i principi di Aristotele e i
quesiti di Galeno. Per Aristotele, contro Platone, la sede corporea dell’animo
e nel cuore; per Platone alla testa!Altro saggio tratta dell'immortalità
dell'animo alla luce della psicologia filosofica funzionalista di Pitagora, Aristotele,
Pitagora, ed Epicuro. Di Marcello Capra non si conoscono esattamente il luogo e
la data precisa della morte. Uomini
illustri della Sicilia. Dizionario biografico degli italiani. l'immortalità dell ' animo umano è considerata come
incerta. Ma ciò sia detro di passaggio ; che noi non vogliamo , ne dobbiam
difendere l'Immortalità dell ? animo Umano con tanto pericolo. E a chi domandi
, l'immortalità dell'animo è vita futura ? rispondiamo , esser futura la
sanzione. ftante la lor confufione coll'anima universale diffusa in tutta la
mole corporea · Onde opponendo quegli Antichi l'immortalità dell'animo alla
mortalità del corpo , mostravano , che questa immortalità intendeano , come una
permanenza eterna. La sola immortalità, dunque, alla quale si possa pensare, e
alla quale effettivamente si è sempre pensato, affermando l'immortalità dello
spirito, è la immortalità dell'Io trascendentale; non quella, in cui si è fantasticamente
irretita la mitica. L'uomo adunque , come egli è creato in mezzo fra l ' Angelo
, e la bestia , cosi alcuna cosa comunica con gli Angeli , cioè l'immortalità
dello spirito , e in alcune cose comunica con le beftie , cioè la . mortalità
della carne insino , che la carne ... Sulla sede dell’anima e della mente. De
Sede Animae et Mentis ad Aristotelis praecepta adversus Galenum. Primò igicur
notandum , quando de Sede Animæ rationalis disputamus , per Sedem strictè nos non
intelligere firum , qui exigit distinctionem seu divisionem partium in loco ,
folisque competit corporibus , sed , ut Scholastici nuncupant ... Dialogus de instrumento philosophiae. Publication: Messanae
: ex typographia Fausti Bufalini, Marcelli Caprae , ... de Immortalitate
rationalis animae juxta principia Aristot . adversus Epicurum , Lucretium et
Pithagoricos quaesitum . — Panormi , apud J. F. ... De Immortalitate rationalis
animae juxta principia Aristot. adversus Epicurum, Lucretium et Pithagoricos quaesitum
il Capra, nicosioto , il quale nel 1589 inandava fuori due Quesili, l'uno
De sede animae et mentis ad Ari stotelis praecepta , adversus Galenum , l'altro
De Immortalitate A nimae rationalis , justa principia Aristotelis, adversus
Epicurum , Lucretium , et Pythagoricos; Caprae Marcelli, nicosiensis , De sede
animae et mentis ad Aristoteles praecepta , adversus Galenum , Quaesitum.
Panormi 1580 in 4 . De immortalitate animae rationalis , iuxta principia Ari
stotelis, adversus Epicurum , Lucretium , et Pythagoricos, Quae situm. Ibi 1589
in 4 . Qualche
relazione con quest'Istituto devono aver avuto le opere pubblicate dal Capra in
quel torno di tempo , come : De sede animae et mentis ad Aristotelis praecepta
, adversum Galenum . Quaesitum ( Panor . , 1859 ) ; — De immortalitate. Capra,
filosofo siciliano originario di Nicosia, può essere considerato un altro
esponente non secondario della quaestio che interessa la sede dell’anima (o
animo) razionale. Studia a Padova sotto Monte e Falloppia, esperienza questa da
cui aveva mutuato l’interesse, tutto padovano, per i problemi di fisiologia
generale e psicologia. Per un’introduzione alla non vasta biografia di Capra,
si vedano PITRÉ e GARIN, GLIOZZI e DOLLO --. Nel “De sede animae et mentis
ad Aristotelis principia adversus Galenum (Palermo) dedicato al viceré don
Diego Enriquez de Guzmán, conte d’Alvadeliste. Infatti, Capra dà ampio saggio
delle sue attitudini filosofiche in campo medico, prende le difese della
psicologia aristotelica. Per Capra la quaestio de sede animae si presenta
immediatamente duplice. In un senso, infatti, la questione riguarda l’anima
come principio di fisiologia generale e soggetto quindi a generazione e
corruzione (quaesitum de sede animae). Dall’altro, invece, riguarda un
principio immateriale, immortale ed eterno (quaesitum de sede mentis). Disputaturus
(ut ad peripateticum pertinet) de animae sede. quoniam una aeterna, ut in
nostro quaesito demonstravimus: altera mortalis. Quibus non eodem modo sedes
convenit. Propterea ut lucidior sit explicatio agam primo de sede animae quae
interitui est obnoxia. Mox agam de sede mentis: hoc est illius partis quae
venit deforis, et post corporis dissolutionem remanet superstes. Quanto
all’impostazione, il saggio si presenta come una serrata fila di quaestiones e
responsiones secondo l’uso scolastico, mentre l’obiettivo polemico è
rappresentato dalla tesi galenica dell’estensione e dislocazione reale dei
principi psichici nel corpo. Capra distingue anzitutto tra “principato”
(principatum) ed “estensione” (extensio) dell’anima. Il principato riguarda
l’organo che per primo si attiva, si modifica o cessa di funzionare in
determinate condizioni. L’estensione, invece, ha a che fare con la reale
presenza dell’anima nelle strutture materiali. In quest’ultimo senso si hanno
due alternative: o l’anima si trova ad essere suddivisa in più parti del corpo,
oppure si trova tutta insieme in una sola di esse. Entrambe le opzioni vengono
però respinte, anche con argomentazioni tratte da esperimenti anatomici. In
generale l’estensione dell’anima viene negata poiché, in ossequio al dettato
aristotelico che vuole l’anima forma del corpo organico, la sede dell’anima
deve essere considerata il corpo nella sua interezza -- principatum
consideramus; cum obtinet in aliqua corporis particula. At si consideramus
extensionem, ea est ubique. Obiectio Et quoniam ad huc quispiam instare posset
per ea quae retuli in praecedenti quaesito. Nam per ligamenta conspicimus
privari membra sensu et motu. Quod non contingeret si anima per totum corpus
esset extensa. Hinc Aristotelem aliquando videtur asserere animam esse in
spiritu. Responsio Dicendum est quod solum ex eis colligimus principatum, et
insuper colligimus spiritum esse id principium, per quod anima iungitur
corpori, et obit munera sua. Non autem accipimus eam non esse extensam, quia
reiicienda est sententia Galeni qui cum censeat animam mortalem esse
temperamentum; cum inquit, septimo de placitis Hyppocratis, et Platonis
vegetalem esse temperamentum epatis. Vitalem vero temperamentum cordis. Nam si
id esset, tunc non ubi vitalis esset anima, ibi reperiretur vegetalis. Nec
essent extensae per universum corpus. Cum itaque animae non conveniat sedes ut
corpori, nec ita si una corporis parte et non alia. Est enim in toto corpore:
et dum quaerimus sedem animae tamquam formae, dicere debemus totum corpus esse
animae sedem. Quanto all’estensione del principato in cui essa si manifesta,
invece, si tratta di un’estensione per accidens, che spetta realmente forse
solamente ai vegetali e ad alcune specie di insetti. Per questa via, distingue
quindi l’estensione spaziale dalla divisione concettuale. La prima compete
all’anima in quanto soggetta alle forme materiali di cui si serve. La seconda
rappresenta la molteplicità delle sue funzioni come espressioni di un'unica
attività. Gli esperimenti sulla legatura dei nervi dimostrerebbero in tal senso
che qualsiasi organo, separato dalla sua connessione con il cuore, diviene
torpido o mal funzionante. Et authoritatibus, et rationibus confirmare
possumus. Et primo nos conspiciamus quod si a corde ad reliquas particulas
claudatur iter, aliae partes vitae privantur: nam et motu et sensu distincte
conspiciuntur. Ut in obstructionibus, in epilepsia, in ligationibus servare
licet. Id minime eveniret si anima esset tota in quavis parte. Ma essi, secondo
Capra, evidenziano anche come l’anima abbia la tendenza a ricostituire
spontaneamente quella totalità che viene interrotta o sopressa con le
operazioni di legamento o incisione, in ciò dimostrando la sua dipendenza da un
principio unico. L’anima, benché estesa nella sua totalità in tutto il corpo ed
ogni sua parte in ogni parte di quello, differisce in questo dalle altre forme
materiali che, quando viene divisa, essa recupera la totalità che tuttavia non
è una totalità di estensione. E ciò avviene in quanto essa possiede un
principio dal quale dipende. E per questo Aristotele afferma che l’anima è una
in atto, e molteplice in potenza. Inoltre è estesa in modo tale da interessare
allo stesso modo ogni parte del corpo e da adattarsi alle forme inferiori, ma
in modo consequenziale e seguendo un certo ordine, poiché tali forme si
osservano nel cuore, e poi negli altri organi, o in ciò che fa le veci del
cuore. Tutte queste cose sono note per il fatto che dimostrano come l’anima sia
forma necessariamente estesa e divisibile. Così, dunque, l’anima è estesa in
relazione all’estensione del corpo, ed è divisibile, dipendendo tuttavia dal
cuore quanto a sviluppo e conservazione, tramite gli spiriti e le parti più
sottili del sangue. Qui si può separare l’anima in motore e mobile a motivo
delle diverse parti, e lo stesso si può fare distinguendo gli spiriti e le
specie dell’anima in rapporto al corpo misto. In primo luogo, dunque, l’anima
dipende dagli spiriti e dalle parti più sottili del sangue che traggono origine
dal cuore, il quale si dice essere la sede dell’anima. Anima ut extensa est
tota in toto, et pars in parte. In hoc differt ab aliis formis materialibus.
Quod quando dividitur post divisionem recipit totalitatem. Non tamen
totalitatem extensionis. Et id evenit. Quoniam habet unum principium a quo
pendet. Et ideo Aristoteles inquit, quod est una actu, plures potestate.
Insuper ita extensa quod aeque Item respicit omnem corporis partem et convenit
formis infra animam, sed cum dependentia, et ordine aliquo. Quia Item
considerantur in corde, mox in aliis, vel in eo quod cordis gerit vicem. Haec
omnia ex eo sunt nota, quod ostendunt animam esse formam tunc necessario extensam,
et divisibilem. Sic itaque anima extensa ad extensionem corporis, et
divisibilis, pendens tamen infieri, et inconservari a corde, mediantibus
spiritibus, et subtilioribus partibus sanguinis. Hinc animam secari in motorem,
et mobile ob varias partes: et spiritus distinctionem, et animae diversitatem
ad formam misti. Primum itaque anima innititur spiritibus, et tenuioribus
partibus, et a corde originem ducunt, quod dicitur esse sedes animae. L’estensione
corporea compete dunque all’anima in virtù di un organo principale, il cuore, e
quindi di organi secondari dei quali per accidens condivide la corporeità,
mentre substantialiter l’anima si comporta come la fiamma che, seppure divisa
in molte parti, resta sempre ed essenzialmente una. In questo senso la sede
dell’anima è l’organo mediante il quale l’anima si unisce primariamente al
corpo ed è dunque l’organo che per primo nasce e per ultimo cessa di vivere.
Rispetto ad esso il cervello si presenta quasi excrementum et pondus iners. Per
rintracciare l’origine del principio fisiologico e la sua sede, Capra fa affidamento
alla dinamica del calore innato -- Ea est censenda animae sedes quae origo, et
principium est huius caloris. Sine quo anima nec esse, nec operari valet. Sed
huiuscemodi est cor: ut experientia docet, et omnes affirmant. Immo Hyppocrates
ait animam spirituum seu calorem esse -- laddove infatti ha origine il calore
naturale – egli argomenta – ha origine anche l’anima quae educitur primo de
potentia materiae. Ma, calore e vita hanno origine dal cuore e si diffondono
attraverso gli spiriti ed il sangue a tutto il corpo: a quanti dicono che gli spiriti
siano sede dell’anima si deve rispondere che è necessario considerare il calore
come sede. Infatti gli spiriti sono necessari in quanto il calore naturale è un
certo tipo di spirito, giacché nello spirito si conserva il calore, la cui
origine non è né il fegato né il cervello, ma il cuore, che è la sua origine
precipua. E se anche alcuni anatomisti hanno attribuito l’origine degli spiriti
alla pulsazione, si sono sbagliati ed hanno fatto affidamento su di una falsa
esperienza. Infatti, il cuore è l’origine del calore e lì, nelle parti più
sottili del sangue, debbono avere origine gli spiriti; non certo dall’aria che
viene attratta. Perciò si deve ritenere che la sede dell’anima sia quella che
possa adattarsi a ciascun singolo vivente. Ma ciò che si adatta ad ogni singolo
vivente è il cuore. Ad id quod dicunt de spiritibus occurrendum est: quia nos
calore considerare debemus. Nam spiritus necessarii sunt: quoniam calor
naturalis quidam spiritus est. Cum in spiritu servatur calor. Non epar non
cerebrum est origo. origo itaque praecipua cor est. Et si Anatomici nonnulli
pulsui. Id tribuerunt. Falluntur, et falsitate experientia nituntur. Nam
caloris origo cor est, et ibi spiritus extenuissimis partibus sanguinis gigni
debent: non autem ex attracto aere. Propterea ea est censenda animae sedes.
Quae singulis viventibus convenire valeat. At singulis convenit cor. Stabilendo
dunque il cuore quale sede dell’anima, prosegue Capra, si riuscirà facilmente a
giustificare i fenomeni di accrescimento, moto, ostruzione o legatura dei
nervi. A questo punto, però, l’autore è costretto a fare i conti con la
tradizione prettamente medica che si richiamava a Galeno ed agli esperimenti
relativi alla separazione dei principi fisiologici nel corpo, ad iniziare dal
movimento dimostrato dal cervello relativamente alla sistole ed alla diastole,
affermato dai medici ed accettato con grande riluttanza da Capra. Et cum cor
primo movetur vere potest esse principium motus aliorum: nam et si moveatur per
sistolem et diastolem: cerebrum a nullo movetur motu, et anima per motum maxime
diiudicatur. Non enim censendum est ut falso putant nonnulli Anatomici medici,
quod cerebrum quoque movetur per sistolem et diastolem: quoniam si id
conspicitur in cerebro id convenit ob arterias per cerebrum distributes. Nel
ritenere che il cervello sia importante tanto quanto il cuore medici falluntur,
scrive il medico siciliano, ribadendo le classiche motivazioni aristoteliche,
esposte da noi nel capitolo secondo, per cui il cervello è di per se stesso
insensibile, freddo ed immobile. Ma ciò ancora non basta. Poiché, come già
visto, gli esperimenti di legatura ed ostruzione delle arterie hanno secondo
Capra il solo scopo di dimostrare che, separati dall’attività di infusione di
calore e vita propria del cuore, tutti gli altri organi vengono privati delle
proprie funzioni, non può far altro che dichiarare false la maggior parte delle
dimostrazioni anatomiche ottenute mediante legamento: Gli anatomisti inoltre
legano un cane, e danno ordine di tagliare velocissimamente il torace. Quindi
legano quattro vasi del cuore e lo asportano, dopo di che sciolgono il cane,
che grida e corre. Questo genere di scappatoie non hanno alcun valore: ed in
primo luogo perché le esperienze che costoro riferiscono sono decisamente
incerte, e forse in gran parte false. Talvolta, infatti, gli uomini vivono
anche dopo che sia stata asportata loro una parte di cervello, e si sono visti
spesso animali camminare anche senza testa. Inoltre, una volta formato il
cuore, le forme che plasmano l’embrione esistono prima che il cervello sia
formato e l’embrione già sente, e se lo si punge si contrae, cosa questa,
invece, che ancora non accade al cervello. Insuper Anatomici quidam canem
ligant, et secare iubent citissime toracem. Mox ligant quatuor vasa cordis. Et
cor eximunt, deinde solvunt canem qui vociferat, et currit. Evasiones hae
nullae sunt: et primo quae ab eis referuntur valde sunt dubia, et fortasse
magna ex parte falsa. Vivunt enim nonnunquam homines quibus aliquid cerebri
detractum fuit. Et avulso capite saepe progredi conspecta sunt animalia.
Insuper informationes embrionis genito corde ante quam sit cerebrum productum,
sentit embrio et si pungitur contrahitur. Non tamen adhuc cerebrum habet. Dunque,
in sede fisiologica, l’instrumentum commune communi sedi resta il cuore, da cui
hanno origine tutte le concoctiones e quindi tutti i temperamenti; attraverso
di esso, inoltre, un’anima immateriale si unisce (copulatur) con le funzioni
vitali dell’organismo attivando in successione tutte le altre: secondo Capra,
infatti, gli esperimenti di legamento indicano che ciascun organo, interrotta
la via che lo collega agli spiriti prodotti dal cuore, cessa pian piano la propria
attività peculiar. Questa strenua difesa del cardiocentrismo aristotelico in
pieno Cinquecento può sembrare arretrata rispetto al clima costituitosi sul
finire del secolo intorno all’intepretazione anatomica del Quod animi mores, e
soprattutto del De placitis, ma si ricollega di fatto anche a sviluppi
successivi, quali quelli di Rudio e Cremonini, in cui il primato del cuore non
necessariamente implica una svalutazione delle funzioni del cervello. Ed, in
effetti, l’importanza del cervello come sede del pensiero verrà in parte
recuperata nella sezione conclusiva dell’opuscolo, De sede mentis. Se la
concezione galenica relativa alla localizzazione delle funzioni psichiche si è
rivelata fallace sia in generale -- l’essenza dell’anima è infatti indivisibile
--, sia nello specifico -- la sede da cui si sviluppa la totalità delle
funzioni organiche è il cuore, non il cervello -- non può tuttavia negare che
gli esperimenti galenici dimostrano come il cervello debba essere considerato
sede almeno di alcune delle operazioni dell’anima razionale. Anche in questo
caso, tuttavia, parlare di sede è improprio, poiché la mente è, in quanto tale,
immateriale e ad essa non conviene quindi alcuna sede. In ogni caso, prove a
favore della localizzazione cerebrale esistono anche secondo Capra e possono
essere articolate almeno secondo quattro ordini di ragioni: 1. il pensiero
richiede l’ausilio di phantasmata che si producono nel cervello; il ribollire o
fervor degli spiriti nel cuore non sempre è causa di un processo analogo nel
cervello; accade invece che, se si è preoccupati o agitati – pur restando
inalterata la fisiologia cerebrale – gli spiriti fervano nel cuore a motivo
della preoccupazione. De sede animae et mentis (Palermo) negli
accessi febbrili non si verificano danni alla ragione, a meno che il calore non
raggiunga la sede del capo (ovvero l’interno di esso); le funzioni
dell’intelletto subiscono mutamenti in relazione alle lesioni del capo o alla
corretta conformazione dello stesso. Per le ragioni esposte, dunque, la
soluzione fornita da Capra è quella di postulare una duplice unione tra anima e
corpo; una secondo natura (coppulatio et sede naturalis), la cui sede interessa
il cuore in qualità di organo principale dell’organismo; l’altra secondo la
natura dell’operazione (“coppulatio et sede operationis”), che avviene in un
organo di per sé secondario come il cervello, nel quale hanno sede tuttavia le
operazioni della phantasia e dunque, metonimicamente, dell’intelletto: Ma
avviandomi alla soluzione della questione, si deve considerare che chiunque dei
Peripatetici ritenga l’anima soggetta nella sua interezza a nascita e morte,
come Alessandro di Afrodisia, dovrebbe affermare in modo assoluto che la sede
dell’intera anima sia il cuore. E perciò Alessandro, fondandosi sulle proprie
premesse, asserì proprio questo. Coloro che, al contrario, affermano che la
mente è eterna, ritengono che essa si unisca a noi in modo duplice (duplici
coppulatione): una per natura, l’altra per operazione e che quest’ultima avviene
nel cervello, dato che il cervello è sede della mente. Se dunque affermiamo che
all’anima si addice una duplice unione con il corpo, resta provato anche che,
in duplice modo, all’anima spetta una sede, l’una per natura, l’altra per
operazione. Per natura la mente si unisce all’anima soprattutto in quel luogo
in cui vengono portate a compimento le azioni <che sono proprie di essa>,
ed in questo senso saranno vere queste conclusioni,vale a dire: conclusione. Alla mente non spetta una sede.
Questa conclusione risulta vera per la ragione già esposta che la mente non
dipende dal corpo o da una sua parte, né richiede un organo particolare. conclusione.
Il cervello è sede della mente. Questa conclusione risulta vera non in ragione
della dipendenza, ma in ragione dell’operazione: nel cervello infatti vengono
portate a termine le operazioni dell’immaginazione, facoltà che è ministra
dell’intelletto. conclusione. Il cuore è sede della mente. Questa conclusion risulta
verà in ragione dell’unione dell’intelletto con noi stessi, che si chiama
unione per natura. 4. conclusione. Il cuore è la sede principale dell’anima.
Sede cioè della facoltà animale. Il cervello è sede dell’anima in quanto
operante e delle sue operazioni. 6. conclusione. Sede dell’anima sono gli
spiriti, dal momento che essi sono come il veicolo delle facoltà ed il loro
strumento comune. conclusione. L’intera specie umana è sede della mente, in
particolare, però, l’uomo in quanto sapiente. 8. conclusione. Sede della mente è
la facoltà immaginativa. conclusione. Il cuore è essenzialmente ed
intrinsecamente membro più importante del cervello. conclusione. Il cervello è
membro divinissimo in modo accidentale ed estrinseco. conclusione. Ma poiché
ciò che è eterno ha necessità di unirsi a ciò che è eterno, si deve dire che
Dio è sede della mente, perché solamente in lui troviamo il riposo ed il fine
ultimo sovrannaturale. Sed me conferens ad quaesiti dissolutionem
considerandum. Quod quicunque ex Peripateticis animam omnem ortui atque
interitui obnoxiam esse afferunt, veluti censuit Alexander. Absolute dicere
deberent totius animae sedem esse cor. Et ideo Alexander innixus suis
fundamentis id asseruit. Qui vero contra. Aeternam dicunt esse Mentem. Isti censent.
Quod ut duplici coppulatione nobis iungitur. Una per naturam. Altera per
operationem nobis coppularetur. Quoniam ea efficitur in cerebro tunc dicendum.
Quod cererbum est sedes Mentis. Si vero ei duplicem asserimus convenire
coppulationem; tunc duplici quoque modo probatum est ei sedem convenire. Unam
per naturam. Alteram per operationem. Per naturam iungitur animae. Eo
praesertim loco ubi opera perficiuntur, et ad hunc sensum erunt istae conclusiones
verae, Videlicet. Conclusio. Menti non convenit sedes. Haec vera est ea ratione
qua diximus. quod mens a corpore, vel corporis partibus non dependet, nec
organo particulari eget. Conclusio. Cerebrum est sedes mentis. Haec est vera
non ratione dependentiae sed ratione operationis. Nam in cerebro perficiuntur
opera imaginativae. Haec autem est ministra intellectus. 3. Conclusio. Cor est
sedes mentis. Haec est vera ratione coppulationis intellectus nobiscum quae
nuncupatur coppulatio per naturam. Conclusio. Cor est praecipua animae sedes.
Sedes inquam virtutis. Conclusio. Cererbum est sede. Operantis animae, et
operationum. Conclusio. Animae sedes sunt spiritus. Cum sint quasi vehiculum
facultatum, eiusque commune instrumentum. Conclusio. Tota humana species est
sedes mentis. Proprie tamen homo sapiens. Conclusio. Imaginativa est sedes
mentis. Conclusio. Cor essentialiter, et intrinsece est praestantius membrum
quam cererbum. Conclusio. Cerebrum accidentaliter, et extrinsece est
divinissimum membrum. Conclusio. Sed cum aeternum aeterno coppulari debeat
dicendum. Deum esse sedem mentis. Quoniam in eo solo conquiescimus et in ultimo
fine supernaturali. Per infinita saecula saeculorum. Amen. Nella serie di
conclusioni che chiudono l’opuscolo, alcuni storiografi ottocenteschi hanno
voluto scorgere una dichiarazione di averroismo. Sembra tuttavia difficile
distinguere la presunta influenza averroistica da una sincera e piena
dichiarazione di fede. Con il De sede animae et mentis Capra si assiste al
tentativo di riportare il problema della localizzazione psichica ad un unico
centro funzionale, il cuore, di contro al poli-centrismo galenico. Ma
l’operazione – di per sé condotta in osservanza del più rigido aristotelismo –
sembra destinata a fallire, poiché la duplice unione con il corpo (“duplex
coppulatio”) cui va soggetta l’anima ripropone in realtà il dual-ismo galenico
tra funzioni che si svolgono al di sotto e al di sopra della rete mirabile,
quasi posta, quest’ultima, a suggello visibile della differenza che intercorre
tra operazioni puramente mentali o psicichee ed operazioni lato sensu “fisiologiche”.
Il suo contributo è interessante, semmai, dal punto di vista
dell’interpretazione che egli fornisce agli esperimenti galenici circa la
legatura di nervi e vasi, come pure delle contro-prove empiriche che adduce a
sostegno della propria tesi. In effetti, in Capra è soprattutto l’idea che il
principio psichico, inteso quale principio basilare della “vita”, debba avere
un centro a tenere banco nella discussione, discussione che pure non può fare a
meno di costanti appelli agli Anatomici, e quindi alla tradizione medica del
proprio tempo. È comunque sullo stesso piano – l’intepretazione di esperimenti
che nel loro orizzonte osservativo si coordinano tutti intorno alla lettura del
De placitis Hippocratis et Platonis, e quindi del Quod animi mores – che si
muove anche la critica antigalenica mossa da Bernardino Telesio nel Quod animal
universum. Marcello
Capra. Keywords: animo, spirito, l’immortalita dell’animo, l’immortalita dello
spirito, incorporeita dell’animo, incorporeita dello spirito, Method in
philosophical psychology, psychic versus psychological, functionalism,
manifestation in behaviour – body/soul – corpore animo – hylemorphismo, life,
soul – Aristotle on soul and life – zoon, vita, anima – Galeno poli-centrismo –
Aristotle monism, dualismo. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Capra” – The Swimming-Pool Library.
Capua (Bagnoli
Irpino). Filosofo. Grice: “I like Capua – from the middle of nowhere – Lago
Laceno – he founds an “Accademia degl’Investiganti” in Capri! To philosophise!”
Vestigia lustrat, i.e. even in dreams the hound follows the trace of the hare!”
-- Impegnato nella ricerca e nella sperimentazione, in antitesi ai vecchi
capiscuola come Aristotele, Ippocrate, Galeno ed altri, fu a capo di un'accademia
dal nome gli "Investiganti". Pubblicò il "Parere",
sostenendo le idee di chi opponeva la ricerca medica e scientifica al sapere
della tradizione. Nacque a Villa Capua, in Via Carpine, da Cesare e
Giovanna Bruno. Nonostante la famiglia fosse facoltosa, non gli venne assegnato
un precettore che lo seguisse negli studi oltre le basi grammaticali. Ad ogni
modo, si dedica con passione, sin da giovanissimo, all'approfondimento del
latino, del greco e della retorica. Persi entrambi i genitori e dovette cominciare
a provvedere da sé alla sua educazione. Trasferitosi a Napoli per seguire la
sorella, frequenta la scuola dei padri della Compagnia di Gesù. Impara le
Istituzioni di Giustiniano, leggendo al tempo stesso anche le osservazioni di
Giacomo Cuiacio, testi che segnarono profondamente la sua formazione, come è
evidente in vari passaggi del suo "Parere" e nelle sue "Lezioni
intorno alla natura delle mofete". Si laurea e fa ritorno a Bagnoli, con l’intenzione di
approfondire le sue conoscenze naturali ed anatomiche, effettuando osservazioni
dirette su animali vivi sezionati e con il supporto di testi reperiti a Napoli.
Proprio in quegli anni prese forma il suo pensiero critico circa l'inadeguatezza
del metodo della filosofia. Degli anni di ritiro a Bagnoli non abbiamo ulteriori
notizie biografiche. Amenta, autore di una sua biografia, ci riferisce anche di
una certa attività letteraria, collocabile in questo periodo, di cui, tuttavia,
non ci è giunta testimonianza. I suoi testi furono rubati mentre era in viaggio
verso Napoli. Si trasferì definitivamente in Napoli. Probabilmente il suo
trasferimento fu favorito dalla presenza a Napoli di Cornelio, suo amico, il
quale vantava una lunga preparazione alla scuola galileiana e indirizza Di
Capua alla ricerca scientifica nella linea segnata da Galilei e da Cartesio,
protagonisti della rivoluzione che la filosofia sperimentale portava
all'interno di una cultura legata al passato e in cui vigeva la legge
dell'"ipse dixit". Sulla scia di questo fervore intellettuale, fonda
insieme a Cornelio, e Borelli Gl’Investiganti, gruppo di gioco filosofica di neta
ispirazione anti0aristotelica. La sua casa fu spesso luogo, ad ogni modo,
di incontri tra gli intellettuali napoletani che facevano capo
agl’Investiganti. Ottenne il riconoscimento dal Principe Francesco Carafa, di
essere iscritto all'Arcadia di Roma, con il nome di Alessi Cillenio. Tale
riconoscimento scaturisce dalla fama e dall'operosità scientifica che ottenne
non solo a Napoli, ma in tutta Italia. A causa del suo ruolo di spicco
all'interno dell'Accademia e della pubblicazione della sua opera più celebre,
il "Parere", e coinvolto nel processo agl’ateisti che fu da molti
visto come un processo indetto dal tribunale dell'Inquisizione per contrastare
il diffondersi delle nuove idee in ambito scientifico e filosofico. Il processo
era ancora aperto quando morì. Fu un professionista scrupoloso e un illustre
innovatore scientifico nello scenario culturale napoletano della seconda metà
del Seicento. Egli dimostrò notevole interesse per le dispute galileiane e i
processi contro lo scienziato pisano, che in quegli anni erano al centro delle
cronache del mondo politico, religioso e scientifico. In quel periodo Di Capua
era anche interessato al pensiero di Bruno, Campanella e Porta, ma soprattutto
era affascinato dalle novità scientifiche a cui lo introdusse il suo amico Cornelio,
riguardanti i libri e le pubblicazioni dei principali scienziati e filosofi
italiani ed europei come Francesco Bacone, Cartesio, William Harvey, Thomas
Hobbes, Pierre Gassendi, Daniel Samert, Hooke, Willis, Boyle. Tra Cornelio
e Di Capua sorse una solida amicizia basata su ideali comuni: entrambi non
condividevano né l'autoritarismo aristotelico né le vecchie teorie di Ippocrate
e di Galeno. Dello stesso pensiero era Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679),
medico fisico e matematico, ammiratore, anche lui, del metodo di Galileo.
Infatti lo sperimentalismo galileiano, basilare nell'attività dell'Accademia
del Cimento, influenzò e si congiunse con l'attivismo speculativo degli
Investiganti napoletani. L'ambiente culturale napoletano era dunque vivo
e attivo e le librerie di via San Biagio dei Librai divennero centri di raduno
intellettuale, in cui si discuteva sulle novità di fisica, astronomia,
filosofia e medicina. Di Capua, ancora prima della fondazione dell'Accademia degli
Investiganti, aveva già incominciato a contribuire al risorgere della cultura
napoletana, partecipando attivamente alle riunioni e ai circoli culturali sorti
a Napoli nella seconda metà del Seicento, tra cui quello fondato da Camillo
Colonna. In un’ottica del tutto contrastante alla Controriforma della Chiesa
cattolica che da circa cinquanta anni aveva preso piede, Napoli diventa il
centro della vita letteraria e delle attività scientifico filosofiche,
spostando l'attenzione da Firenze a Napoli: si passa dal Cimento e dai Lincei
agli Investiganti, dalle Accademie fiorentine e romane a quella napoletana.
Si forma quindi in questa “nuova” Napoli, sotto lo stimolo, l'esempio e
l'amicizia di Cornelio e Borelli, i quali, durante i loro viaggi, erano stati
illuminati dall’ “Accademie des Sciences” di Parigi e la “Royal Society” di
Londra. È in questo contesto culturale che ‘Il Parere” richiama l’attenzione di
Redi. Lui e Redi erano entrambi scienziati, intellettuali, accaniti osservatori
della natura; tutti e due seguivano il metodo sperimentale secondo lo spirito
galileiano. Redi scrisse a Di Capua una lettera dopo aver letto le sue
"Lezioni sulla natura delle mofete", in cui gli manifesta tutta la
sua stima e ammirazione. Redi fu il primo ad effettuare ricerche sul cancro e
sulla parassitologia. L’ammirazione che provava nei confronti del Di
Capua era la dimostrazione che quest’ultimo era inserito nell'élite culturale
italiana del tempo, anche al di fuori del circuito napoletano, fino al punto
che la Regina Maria Cristina di Svezia si interessò vivamente a lui e alle sue
idee, comunicandogli il desiderio di conoscere con maggiore chiarezza ed
approfondimenti il suo parere sullo stato dell’incertezza della medicina. Scrisse
allora i “Tre Ragionamenti sull'Incertezza dei Medicamenti”. Nelle sue
pubblicazioni non fa menzione di Vico, suo devoto alunno, probabilmente in
quanto al momento della sua morte il Vico aveva soltanto 25 anni. Quindi non
aveva avuto modo di intuire le capacità intellettuali di Vico, il suo genio
raziocinante di storico e di filosofo. Certamente Vico fu influenzato dalle
idee e dalle teorie di Di Capua, che affiorano in alcune orazioni giovanili
vichiane (il concetto della divinità presente in tutta la natura). Vico, di
natura solitaria, fu molto sensibile alle novità scientifiche e filosofiche del
tempo, partecipa al movimento culturale napoletano e frequenta la casa Di
Capua, che considerava il suo ideale maestro. Capua, Cornelio, Andrea, e Borelli
fondano a Napoli “Gli’Investiganti”insieme ad altre illustri personalità del
mondo scientifico filosofico napoletano. Gl’Investiganti sorgeno in uno
scenario di fervore intellettuale nuovo, dall'esigenza, quindi, di allontanarsi
dalla filosofia aristotelica e dalle teorie di Ippocrate e di Galeno, per
abbracciare le nuove teorie rivoluzionarie. Il motto degl’Investiganti e una
citazione di Lucrezio: "vestigia lustrat" seguito dall'immagine di un
cane che segue le tracce e fiuta le impronte, rappresentando a pieno lo sforzo
degl’nvestiganti nella ricerca delle cause alla base dei fenomeni
naturali. L'Accademia fu chiusa per la peste nel 1656. Venne riaperta dal
marchese Andrea Conclubet, spinta da una nuova energia vitale: superare
l'arretratezza culturale del paese per mettersi al passo con gli altri Stati
europei. Gli investiganti si riunivano ogni 20 giorni e non si limitavano alla
discussione dei vari argomenti, ma anche alla sperimentazione proprio come gli
accademici della Royal Society di Londra e del Cimento. Alla riapertura
dell'Accademia, quindi, le prime lezioni furono tenute dal Di Capua su
argomenti di natura scientifica. Altre lezioni ebbero come argomento l'anima,
la fisiologia e l'embriologia. Si eseguirono anche esperimenti di fisica,
meccanica e idromeccanica in situ, cioè nei luoghi dove certi fenomeni si
verificavano (per esempio nella grotta del cane di Pozzuoli, nota per i
fenomeni mefitici). Le nuove teorie degli Investiganti determinarono una
reazione nel mondo del conservatorismo gesuitico, che sfociò nella fondazione
di un'Accademia antagonista: l'"Accademia dei Discordanti", guidata
dai famosi medici Carlo Pignatari e Tozzi. Quest'ultimo fu primo medico del
Regno di Napoli, professore alla Sapienza e in seguito alla morte di Malpighi gli
venne affidata la carica di archiatra pontificio. Da allora i contrasti tra le
due Accademie si moltiplicarono a tal punto che il viceré Pedro Antonio de
Aragón dispose di chiudere entrambe le Accademie. In seguito riapre una sua
scuola, dando prova della sua convinzione sulla fondatezza delle sue teorie e
sul desiderio di trasmettere queste verità agli alunni. Questo periodo
rappresenta un momento di massima notorietà del pensiero culturale a capo di Di
Capua, tanto che, il viceré spagnolo Ferdinando Gioacchino Faiardo indisse un
congresso, in cui diversi medici dovettero esprimere il proprio parere per ciò
che concerne lo stato delle teorie medico scientifiche oggetto di disputa. Fu
così che, in occasione del convegno, Dcompose il suo "Parere Divisato in
otto ragionamenti..", che ottenne notevoli riconoscimenti oscurando il
conservatorismo cattolico dei suoi detrattori. Nonostante il Seicento, secolo
del barocco, avesse come personaggio di spicco a Napoli Giambattista Marino, ritenuto
dai suoi contemporanei un genio poetico di grandezza insuperabile, si dichiara
nettamente anti-marinista, in quanto la sua mentalità era di natura critica,
analitica e scientifica. Si forma nel pieno delle dispute letterarie tra
marinisti e tradizionalisti di stampo petrarchista. In quell'epoca predomina il
trecentismo linguistico, perorato da Bembo e codificato dalla Crusca, che
Salviati detta e di cui nel solo Seicento esistevano ben 3 edizioni. La
notorietà, l'autorità, il peso culturale di questo nuovo dogma della lingua
italiana ebbe una notevole presa su Capua grazie anche alla sua
predilezione per la poesia di Petrarca. Poiché i petrarchisti sono considerati
“antiquari” dai marinisti, lui stesso venne etichettato come un antiquario, in
quanto purista linguistico e seguace della tradizione dei dettami della Crusca.
Di fatto, tuttavia, egli sosteneva principi rivoluzionari di scienza, seppur mediati
da un linguaggio ormai arcaico. Tuttavia a Napoli, nella seconda metà del
Seicento, si afferma intorno a lui un movimento puristico, a tendenza
arcaicizzante che esercitò il suo influsso anche su Vico. Questo sottolinea il
suo aspetto conservatore, riferito esclusivamente al linguaggio da lui usato,
tipico del purismo letterario petrarchesco. In contrasto con questo
atteggiamento letterario antiquario, fu senza dubbio un rivoluzionario in
ambito scientifico nello scenario culturale napoletano. La sua produzione
filosofica è, dunque, caratterizzata nel complesso da una forte contraddizione
tra il nuovo del suo pensiero scientifico ed il vecchio o antico della lingua
da lui scelta. La sua oè costituita da duemila sonetti, due tragedie ("Il
martirio di Santa Tecla" e "Il martirio di Santa Caterina"), alcune
commedie, una favola a sfondo idilliaco e altri scritti filosofici vari. Di questa produzione non abbiamo
testimonianza a causa del furto subito da lui in viaggio verso Napoli. I
sonetti, tanto nella forma quanto nel contenuto, sono di imitazione
petrarchesca. La stesura di questi ultimi, inoltre, è collocabile al periodo
dell'adolescenza e, pur non potendolo affermare con certezza, è lecito intuire
che la sua cosiddetta produzione non abbia potuto assurgere ad alte cime,
considerata anche la sua indole disposta più allo studio dei fenomeni e al
razionalismo che all'aspetto psicologico o ai fattori emotivi. Le opere
drammatiche sono, al contrario, ispirate al modello di Porta. Il Parere divisato
in otto ragionamenti è indubbiamente la sua opera più importante, pubblicata a
Napoli, ristampata con le Lezioni intorno alle mofete. In questo testo parte
dalla pretesa di dimostrare quanto vana, quanto priva di ogni salda dottrina
fosse la filosofia di Aristotele, rivendicando un rinnovamento culturale , un
bisogno di liberarsi dagli eccessi del potere politico ed ideologico di alcune
posizioni. Proprio a causa di questo spirito di rivolta rintracciabile nel
testo fu intentato un processo contro lui da parte dei Gesuiti, capitanati da Benedictis,
che si svolse a Napoli. Nel Parere, tuttavia, più che negare il pensiero di
Aristotele nel campo della conoscenza, intende contestare l'atteggiamento di
coloro che ne avevano adottato in maniera eccessivamente pedissequa il metodo.
La posizione da lui presa è tutta in favore della rivalutazione delle scienze e
di un approccio nei confronti di queste che non sia statico, bensì critico
anche nei confronti della tradizione. La medicina in particolare è una scienza
che non può fondarsi, a suo parere, su nozioni incontestabili, ma deve
piuttosto essere costantemente messa in discussione, pur mantenendosi nei limiti
dell'esperienza e della debole ragione. Nell'opera, comprensiva di otto
ragionamenti, viene anche delineata la figura ideale del "buon filosofo",
il quale deve essere allo stesso tempo anche amante della filosofia e buon conoscitore
della geometria. Agli otto ragionamenti aggiunse un'appendice al
"Parere": "L’incertezza". In entrambe le opere Di Capua
finisce con il constatare lo stato dubbioso tanto della conoscenza e come
proprio il loro caratteristico elemento di imprevedibilità, anche in quanto
soggette agli elementi umani, rendano impossibile una conoscenza del tutto obiettiva.
Le Lezioni sulla natura delle mofete riprendeno i concetti già esposti nel
"Parere" sull'aria, concepita come anima dell'universo. Anche nella
descrizione e nello studio delle mofete, fenomeni naturali caratterizzati
dall'uscita di anidride carbonica, vapore acqueo e altri gas da terreni di
origine vulcanica, rivela le sue attitudini alla razionalità, alla
dimostrazione obiettiva di ogni evento fisico, sostenendo come la conoscenza di
un fenomeno debba essere fondata sul metodo sperimentale. Altra opera
pubblicata a Napoli e una biografia del condottiero Andrea Cantelmo, il quale
milita nell'esercito di Ferdinando II D'Austria e a cui veniva attribuita
l'invenzione delle mine volanti e di un tipo di pistola a ripetizione con 25
colpi. La biografia diventa il pretesto per l'autore per far affiorare la sua
concezione sull'individuo, sull'uomo, sui giochi della fortuna, sulla
dialettica tra gli avvenimenti storici riguardanti l'uomo come personalità unica
ed individuale e l'intreccio dello svolgimento degli eventi. Generoso De
Rogatis, Cenni biografici degli uomini illustri di Bagnoli Irpina. Carmine
Jannaco Martino Capucci, Storia letteraria d'Italia (F. Vallardi, Milano,
Piccin nuova libraria, Padova); . Mario
Puppo, Discussioni linguistiche del Seicento, UTET, Torino). “Parere del signor
Lionardo di Capoa divisato in otto ragionamenti, ne' quali partitamente
narrandosi l'origine, e'l progresso della medicina, chiaramente l'incertezza della
medesima si fa manifesta” (Antonio Bulifon, Napoli); Niccolò Amenta, Vita di
Lionardo Di Capua, Venezia). Niccolò Amenta, Vita di Lionardo di Capoa detto fra
gli Arcadi Alcesto Cilleneo” (Venezia). Nicola Badaloni, Introduzione a
Giambattista Vico , Laterza, Roma; Bari); Cotugno, La sorte di Giambattista
Vico e le polemiche scientifiche e letter. dalla fine del XVII alla metà del
XVIII secolo, Tip. del R. Ospizio V. E., Giovinazzo. Salvo Mastellone, Pensiero
politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento, D'Anna
editore, Messina-Firenze); Walter Maturi, Fausto Nicolini, La giovinezza di Gian
Battista Vico; saggio biografico, Napoli); Camillo Minieri Riccio, Cenno
storico delle Accademie fiorite nella città di Napoli, Bologna); Luciano Osbat,
L'Inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti, Edizioni di storia e
letteratura, Roma); Amedeo Quondam, "Minima dandreiana: prima ricognizione
sul testo delle "risposte" di F. d'Andrea a Benedetto Aletino"
in Rivista storica italiana, Napoli); Gabriele Reppucci, Saggio monografico su Capua,
scienziato-medico-filosofo bagnolese (Circolo Sociale "Leonardo di
Capua", Bagnoli Irpino). Dizionario Biografico degli italiani. Vico,
Autobiografia, a cura di B. Croce Bari (Edizioni Pauline, Milano). Lionardo Di
Capoa's Parere is just that: an opinion in response to a specific request by
the Viceroy and the Consiglio Collaterale in 1678 put to a group of prominent
Neapolitans for counsel on a legal regulatory policy. Di Capoa's attack on
Aristotelian discursive modes seems simple, ordinary Aristotle-bashing. Di
Capoa maintains a theoretical investment in the anima: this is not a
recuperation, or a conscious continuation, of Aristotle on Di Capoa's part. Di
Capoa wishes then, to protect medicine not only from mechanical applications of
logical techniques, but also from premature, reductionist applications of
beast/machine metaphors. Di Capoa wishes then, to protect medicine not only
from mechanical applications of logical techniques, but also from premature,
reductionist applications of beast/machine metaphors. Aristotle offers a
'biological concept of the soul' as the 'first actuality of life', the
principle of life. IL PARERE DEL SIGNOR LIONARDO DI CAPOA
divisato in otto ragionamenti, ne’ quali partitamente narrando l’origine, e'l
progrello della filosofia, chiaramente l'incertezza della medefima ſi fa
manifefta . SOMA I N N POLI Å Per Antonio Bulifon MDCLXXXI. Columa de
Superiori. 1” All'Illuſtriſſimo, ed Eccellentiſſimo Sig. LCTEA IL SIGNOR D.
FRANCESCO CARRAFA Principe di Belvedere, Marcheſe d'Anzi , &c. On avendo io
coſa , Eccellentiſsimo Signor mio , che m'abbia in più pre gio di quel che fo
la padronanza voſtra , cerco per quanto poſso , di farla paleſe a ciaſcuno :
ficome altri fa il poſſedimento delle coſe più care, e prezioſe, ch' egli
s’abbia , o per ſua induſtria , o per fortuna ac quiſtate . Ho penſato dunque ,
che a ciò fare io non potrei avere migliore opportunità di queſta , che mi
porge il preſente libro , che per mia gran vençura eſſendomi capitato alle mani,
ho preſo a far iſtampa re, s'io il mettesli fuori ſotto ilnomevoſtro, La ſcrit
tura veramente a giudicio di Voi medeſimo, e d'ogn altr'huomo intendente è tale
, che agevolmente poſ ſo da lei promettertii il fine , che m'ho propoſto ;im
perciocchè ben toſto n'andrà ella per le mani delle perſone di miglior giudicio
nelle buone letiere , sì per per ta cognizione , che s'ha dell'autore dilei ,
doa vunque ha di quelli , che ſe ne dilectano , sì perch' ella il vale , per
l'eloquenza , e doctrina, di che ſi ve de ripiena : oltre all'autorità , e
fama, che le ſi accre fcerà dall'iſteſso nome voſtro ch'ella porta ſeco .
Poichè posſiam dire, che poche ſono quelle parti d' Europa, ove non s'abbia
conrezza diVoi, e delle voſtre egregie qualità , o per la fama, o per la pre
ſenza di Voi; ma che quaſi tuttele havete cerche colle lunghe , e laudevoli
peregrinazioni, le quali in quella guiſa , che da Voi ſono ſtate
fatte,ſidebbono riporre fra quegli ſtudj , con che vi ſiete ſempre in gegnato ,
e v'è venuto fatto d'aprirvi la ſtrada allº intera cognizione delle umane cofe
, e d'accreſcere con le doti dell'animo , e dell'ingegno lo fplendore ch'avete
ereditato da'voſtri maggiori . Oltre a ciò non doveva queſta ſcrittura venirne
fuori ſotto al. tro nome , che'l voſtro : mentre , e la ſtima, che Voi fate
dell'autore di eſsa , e l'affezione , che gli porta te , ficome fare ancora a
ogn'altro huomo lettera to , e l'antica dimeſtichezza, ch'egli ha con eſſo Voi
il richiedeano . Ricevete dunque ilpreſente dono , ch'io vifo di queſto libro ,
o per più vero dire , della picciola parte , ch'io ho in quello , per l'opera
da me polta in farlo ſtampare , con l'uſata voſtra uma nità in ſegno
dell'oſſervanza,ch'io viporto . E pre go Iddio , ch'avanzi in bene ogni voſtro
deſiderio; e alla buona Voſtra mercè umilmente mi raccomando. Di V. E ,
Vmiliſs. Servidore. Giacomo Raillar D. Carlo Buragna ; a'Lettori. E Gli sono
già alcuni meſi paſati,che d'ordine del Signor Vicerè fu tenuto conſiglio da
alcuni Medici di metter qualche compenſo agli abuſi , ed errori , che tutta via
ſi commettono nel medicare . Edopo qualche ragio namenti intorno a cotal
biſogna avuti , diviſarono eglino , che per potere con piis loro acconcio
eſaminar le ragioni , eipareri propoſti , e da proporſi , ciaſcuno doveſſe mettere
in iſcritto il fuo. Perchèconvenne al Sig. Lionardo di Capocs, che fu uno
de’chiamati a queſta adunanza ſcrivere il parer ſuo intorno a cotal materia ; e
parendo a lui, che ciò non fi poteffe fare acconciamente, senza conſiderare
innanzi tratto , e riandar con diligenza la natura della coſa , che s'aveva a
trattare , cioè della medicinz : sì il fece egli con tanta dottrina , elo
quenza , ed erudizione, che , ejfendo il ſuoſcritto venuto al le mani d'alcuni
huomini letterati , e altri amici di lui, par ve loro dettato più toſto per
l'univerfalità di coloro , che fi dilettano delle bettere piie eſquiſite , che
per haverfi egli awe rimanere fra i termini d'una picciola , e privata
compagnia: comechè l'autore di quello non s'aveffe nello ſcrivere propoſto
altro fine , che di ſoddisfare al carico da quella impoſtogli.Sti marono dunque
coſtoro , che foſſe una tale ſcrittura dameia ter in luce per mezzo delle
ſtampe : e tanto fecero ,che alla per fine perſuaſero il Signor Lionardo a
farne loro copia , e a con tentarſi, che ſi stampaſealmen queſta delle molte, e
diverſe opere fue, ch' egli tieneappreffo di fe. E in ciò non pure eb bero
eglino riguardo al piacere, che ſarannoper prender i doe tine i curioſi della
lettura di queſto fcritto , ma all'utile an che ne può riſultare a ogni forte
di perſone , e Spezial mente agli avveduti, e giudiciofi ragguardatori delle
cofe . Poichè , vedendo eglino la varietà delle opinioni, edelle Seite, e le
diverſe , eSpelle volte contrarie guiſe di medicare , che fra i medici ditempo
in tempofonvenute sì , anche ſenza entrar coʻfiloſofanti in più ſottili
Speculazioni , potranno age volmente accorgerſi, con quanta ragione altri
Àfaccia a cre Bere D 1 grand 4 derë , o voglia dare a vedere, che una
profeffione perfefef ſa cosè dubbiofa , e incerta , habbia in ſe dottrina , o
principi, ſu i quali altri pola porre alcuno ſtabile fondamento;e quan to fa
pericoloſa coſa il vederſi nelle mani di coloro , che così fi dannoad
intendere, espezialmente dove ne va la ſanità , e la vita . Oltre a queſto ,
chi non vede di quanto frutto può rium Scire queſto ſcritto a'giovani, che
danno opera alla medicina ? mentre dalla fola lettura di lui potranno efi per
avventura apparar più di ciò , che alla cognizione della natura di lei
s'appartiene, che non farebbono col rivolgere tutt'ora i volumi de'più
riputati, e folennimaeſtri di quella : e accorger fi a un'ora qual via
nell'impreſa del medicare ſi vuol tener da colui , che laſciate andarele
giunterie, e le ciance , intende Secondochè la condizined'untal meſtiere
comporta , faronore a fe , e giovamento agli infermialla ſua cura commeſſi . Ne
meno faranno efli, e ciaſcun'altro, che attende a’migliori ljudj, per vedere
apertamente quanti , e nella medicina, e nell'altre Scienze ci sono ſtati, e
fono di quelli , che fi vanno ſtillando il cervello pur dietro a quello, che o
norciès o pure non ſi ritro va ; e, come dile il noſtro Dante, Trattando
l'ombre , come coſa falda . Maſenza, che Io mi diſtenda più oltre in voler
dimoſtrares chente, e quale , e quanto profittevole , e dotta fi fia queſta
ſcrittura , a ſufficienza il lettore ſol potrà egli vedere di ſe: e come anche
non eſſendo ella fata dettata a fine d'averſe a divolgare , non per queſto
rimane, ch'ella non corriſponda al la fama dell'ciutore di efsa , e
all'opinione , che portanodi lui gli huomini più intendenti, e giudiciof . Sta
ſano . EMINENTISSIMO SIGNORE A I Ntonio Bulifon eſpone a V. Em. come deſidera
darë alle ſtampe un libro intitolato Parere del Signor Lionardo di Capoa ,
intorno alle coſe della medicina , per ciò ſupplica V. Em .commetterne la
reviſione a chi me glio parerà all’Enı.V.ut Deus, & c. N Congregatione
habita coram Eminentiſſimo Domino Cardinali Caracciolo Archiepiſcopo
Neapolitano ſub die 3. O &tobris 1679. fuit dictum , quod R.P.Franciſcus
Verciulli Soc. Ieſu revideat , & in ſcriptis referat eidem Congregationis.
MENATTVS VIC. GEN. Iofeph Imp. Soc. Iefu Theol.Eminentiſs. EMINENTISSIMO
SIGNORE O letto per comandamento di V. Emin. il libro del Si gnor Lionardo di
Capoa : intitolato Parere intor noalla medicina , ne vi ho ritrovato coſa
alcuna con traria alla dottrina della Fede , overo a' buoni coſtumi . Per
queſto lo giudico degno di ſtapa, per pubblica utilità , e per ammaeſtramento
degl' ingegni curioſi di recondita , e fruttuoſa filoſofia . 13. di Aprile
1680. HE Dell'Em. V. Antico, umilifs. Servo Franceſco Verciulli della Comp.di
Giesi . N Eminentiſs. Dom . Cardinali Caracciolo Archiepiſcopo Neapolitano fuit
dictum , quod ſtante relatione (upra ſcripti Reviſoris , imprimatur MEN ATTVS
VI C. GEN. 1 Iofeph Imp. Soc. Ieſu Theol. Eminentifs. 1 ECCELLENTISSIMO SIGNORE
A Ntonio Bulifon eſponea V. E. come deſidera dare alle ſtampe uno ſcritto
intitolato Parere del sig. Lionardo diCapoa , intorno alle coſe della medicina,
perciò ſupplica V.E.commetterne la reviſione a chi meglio parerà a V.E. ut
Deus, & c . Magnificus Michael Biancardi videat , &inferiptis referai.
CARRILLO REG. CALA REG. SORIA REG. Proviſum per Suam Excell. Neap. dic 4.
Aprilis 1680. Maſtellonus. ECCELLENTISSIMO SIGNORE PA Er obedire a'comandidi V.
E. ho letto il libro intitola to Parere del sig. Lionardo di Capoa,intorno alle
cose della inedicina , e perchè in eſſo non ho ritrovato coſa contraddicciite
alle Regie giuriſdizioni, giudico poterli dare alle ſtampe,fe cosi reſterà V.E.
ſervita . In Nap. 16. Maggio 1680 DiV.E. Devotifs. Servidore ! Michele
Biancardi Viſa ſupraſcripta relatione , iinprimatur, & in publicatione
fervetur Regia Pragmatica CARRILLO REG. CALA REG. SORIA REG. Maſtellonus RA:
RAGIONAMENTO PRI M O, 8CMA 220 GLI non hàveramente impreſa , o Signo ri, che
più ragguardevole comparir faccia la maeſtà d'un prudente, e valoroſo Prin cipe
, quanto l'adoperar sì col ſenno , e colla mano , che i Popoli alla ſua cura
commeſſi non vengano da ſtraniero ferro aſſaliti, o ſenza vendetta miſeramente
oltraggiati. Ma non è opera per mio avviſo men laudevole , e generoſa il render
loro poi ſicuri da gl'inganni de’dimeſtici nimici;i quali al lora più
gravemente nuocer ſogliono ,quando ſotto il vela mo della benivolenza,edella carità
aftutiffimamente ſi cuo prono; e ch’infingendoſi tutti umani, e compaſſionevoli
al l'altrui fciagure, tendon poi loro sì inſidioſilacciuoli, che rade volte ,o
non mai ſenza mortale offeſa ſchifar ſi poſſo no . E nel vero, che monterebbe
eglimai l'uſcir talvo , e ſicuro da' manifeſti riſchi della guerra ad huom ,
che poi nella tranquillità della pace,in tanto più acerbi,quanto più naſcoſi
pericoli inavvedutamente cader doveſſe ? Anzi queſti di tanta maggior
compalfione degno ſarebbe, quáto più gravi , e più dure , e lagrimevoli da
giudicar ſono le А ſven Ragionameñto Primo ſventure di quella nave, che
ſcampata da più alti mari , giunta poi in bocca del porto miſerabilmente
virompe . Perchè non mai a baſtanza potrà commendarſi il pietoſo , e faggio avvedimento
- del noſtro Eccellentiſſimo Signor Vicerè ; il quale auendo con maraviglioſa ,
e incredibile felicità il primo ottimamente compiuto ; e reſi vani gl'in
tendimenti , e gli sforzi di quelle armate, che ſuperbe, e crudeli infeſtando i
mari , e le terre , ad ogn'or di ſangue , e di fuoco ne minacciavano ; e
ſgombrate ſimigliantemen te le fchiere de gli sbanditi, e de gliſcherani, che
le ſtrade tutte, ei contadi ſcorrendo il noftro Regno malmenavano; ora con ogni
ſtudio , e diligenza và riparando, che non ſia mo aman ſalva nell'avere,e nella
perſona miſerabilmente oltraggiati per lomal'uſo della Medicina. La quale per
ciocchè a ciaſcun forſe abbiſogna, ſicome ove ſia infra’li miti mantenuta della
ſperienza , e della noſtra comeche debil ragione, eſſer puote per avventura di
qualche giova mcnto al comune : così allo incontro s'egli mai avvien, che fi
torca à ſiniſtro cammino , affai più delle malattie mede fime dannofa fi
ſperimenta, e nocevole al genere umano . Nè prima alla notizia di lui
gl’infelici avvenimenti d'alcu ni infermi fon pervenuti, per li quali le
Chimiche medici ne forte s’accagionavano, ch'eglitantoſto ne impone, che per
noi con minuta diligenza li cerchi ogni modo più op portuno da potervi dar
riparo : e inſieme di preſcrivere a Medici, ove faccia meſtiere , certe ,
ſicure , e falde regole nel loro operare. Ma io quantunque voltemeco penſando
riguardo quan te , e quali ſian le malagevolezze d’un tale affare , tante fra
me mcdeſimo confuſo oltre modo, e fofpeſo rimango;per ciocchè, o che ficome in
tutt'altre biſogne di gran conſide razione interviene, o che natura di tal'arte
nol patiſca, du ro molto , e malagevol ſembra il dar legge alle coſe a quel la
appartenenti . Perchè amerci più toſto ſenz'altro fare , tacendo di non darmene
briga , ſe non fapelli, ch’in sì fat ta maniera contravvcrrei a ' comandamenti
di colui , icui senni ,non che le richicke debbo di preſente , ſenza replica
alcu Del Sig.Lionardodi Capoa. 3 alcuna , e con ſomma venerazione ſeguire ; da'
quali ſol moſſo , ed anche dal giovamento, ch'alla mia patria ne po trebbe
forſe avvenire, volentieri, e di grado mi vilaſcierò entrare . Ed acciocchè
ogni diliberazione , o partito, ch'intorno a ciò ſia da prendere, a vano , ed
inutil fine affatto non rie ſca , tutte le forze del mio deboliflimo
intendimento im piegherovvi ; diviſando in prima le malagevolezze , in cui di
leggier s'avvengono non che Principi, o Maeſtrati ; ma Medici ancora , comechè
faggi , e intendentiſſimi in dare ſtabili , e certe leggi alla Medicina ;
eſſendo fommamente una tal'arte di ſua natura incerta , e dubbitoſa, ed
incoſtan te . Indi poi pian piano , e con diſcreto avviſo più adden tro
facendoci,ilmodo proporremo , col quale quanto law natura della coſa comporti,
un buon Medico , ed un mi glior Chimico far ſi poſſa. Ne altro provvediméto
intorno a ciò al preſente mi ſovviene, che valevole , ed a propoſito ſia per
riparare alle perpetue , e quaſi fatali calamità della Medicina. E per
cominciare dalle memorie più antiche , laſciando da parte ftare quanto poco duraſſe
in India, in Babilonia , edin Afiria quel lor diviſo di dover allogure
gl'infermi nelle più uſate contrade e della Terra, perche fuffer cura ti da’
viandanti; nell'Egitto là , dove l'arti tutte, e i più no bili ſtudj nacquero
in prima , e fiorirono , ſolamente a’Rè , ed a' Sacerdoti , ed a pochi Baroni
d'alto affare ilmedicar gl'infermi era conceduto ; onde da Manetone fra' Medici
d'altiffimo fapere annoverati furono Antotide ſecondo Rè della prima dinaſtia
de'Tiniti, il quale laſciò ſcritti alquan ti libri di notomia : e Tofortro Rè
della terza dinaſtia , la qual’era de'Menfitani . Ma poi tratto tratto cotal
meſtiere con tutti s'accomunò , eziandio colla minuta plebe; e tan to il numero
de' Medici s'accrebbe , che ben per ciaſcun male era il particolar Medico
ſtabilito , che ad altro malo re non dovea por mano , come ne dà teftimonianza
Erodo. to della Greca Iſtoria padre , con queſte parole : ; dè intpoxaj A κατα
: 1 2 I Strab. lib . 3.8 . 16. Ragionamento Primo κατι δέ σφι δέδασε μιής
νούσου έκασG- ιησος, και ου πλεόνων» παντού δ ' ιητών επί σλέα.οι μενεγαρ
οφθαλμών Ιητοί κατεσέασι, οι δε κεφαλής , οι δε όδόντων, οι δε τών και νηδήν ,
οι δε των αφανέων νούσων, cioc fala Medicina appo loro divifaeflendo per ogni
malore, e nongià per più il ſuo Medico : Ondetuttoilpaeſe vien da Medicin
gombro ,perocchè altri curano gli occhi, altri il capo , altri i denti , altri
le parti del ventre , e altri i mali interni , e na Scofi . Rimaſa poi in man
ſolamente delle private perſones non ſi può creder di leggieri , quanto cadendo
dal ſuo pri mo ſplendore l'Egiziaca medicina cangiolli per l'infingar dia, ed
ignoranza de' novelli Medici, iquali eran di così poco talento , che come dice
ilteſtè mentovato Erodoto, i primi della Corte del gran Rè della Perſia ,
allorche a co ſtui gli ſi era dislogato ilpiè, non pur no’l ſepper guarire , ma
coʻloro argomenti a peſſimo ſtato il riduſlero . Perchè ſicome ſenza fallo è da
credere , fù a’Medici , come narra Diodoro, nell'Egitto per legge vietato il
traviar da’coman damenti degli antichi Maeſtri , a' quali ſe alcun contrave
gnendo interveniva , che piggiorato ne foſſe lo infermo , n'era perciò
acerbamente punito ,xq'v Teis ex tās iegãs 616nou νόμοις αναγινοσκουμένοις
ακολουθήσαντες αδυνατήσωσι σώσαι τον κά. μνοντα ,αθώοι παντός εγκλήματG-
απολυόνται.εαν δε παρά το γεραμ μένα ποιήσωσι, θανάτου κρίσιν υπομένεσιν. Εnel
vero fu non po ca fortuna di Galieno (per tacere al preſente d'Ippocrate, e
d'altri) il non eſſer egli nato à que'tempi,ed in quc'paeſi; perocchè non così
agevolmente n'avrebbe ſchivata la pe na, ſe quaſi ad onta della reverenda
autorità di tal legge oso pur dire quette parole: ου γαρΙπποκράτης μόνον ,
αλακαν τοϊς άλλους παλαιούς, ουχ απλώς οίς αν είσαι τίς αυτών πυρεύω βασανίζω
δε και αυτός τη τεπείρα , και ταλόγω. ciοε , πότερον αληθές εςιν , ή fèuda ö
yayçá Daci , Io ciò offervo non ſolamente negli ſcritti d'Ippocrate, ma in
tutt'aliri libri de gli antichi; che non così di leggieri foglio commendare ciò
che ciaſcun di loro ne aveſſe laſciato ſcritto ;maprima il vò ben’io
ejjaminando colla Sperienza, e colla ragione,ſe vero, o falfo fifia ;ſe pure
egli, che valente maeſtro di loica era , per iſchermirfi non aveſſe tali chioſe
fatte in su gli ſcritti de gli antichi, e tanto i lor Del Sig.Lionardo di
Capoa. 3 . i lor ſentimenti ſtravolti, ed avviluppati , finche paruti fof ſer
conformi a ciò che più gli era a grado. Coſtuina , che più di ogni altra han
poi ſeguita, e ſeguono tuttavia i Me dici, che gli vanno appreffo , i quali in
tal guiſa i ſuoi detti sformano , ed anche que’d'Ippocrate, che ſovente fan ve
duta di dir tutt'altro di ciò che da prima ſi propoſero . E forſe gli Egizziaci
medeſimi con iſchernire la lor legge anch'eſſi vezzatamente cotal arte
operavano ſecondo il proverbio : fatta la legge , penſata lamalizia . E a tanto
giunſe per avventura la lor traſcutata arditezza , che ſo vente vegnendo toſto
alle purgagioni , e per lo più con in felice avveniméto per ripararvi
traſandata la prima legge una nuova ne publicarono, ſecondochè ne narri
Ariſtotele con quette parole: Εν Αιγύπτω μετα την πταήμερον κινείν έξεσι τοις
Ιατζούς, έαν δε πρότερον επί τω αυτε" κινδύνω , eler lecito a' Medici
muovere ſolamente dopo il quarto giorno , che fe'l voglion far. prima, lo ſi
facciano a lor pericolo .La qual mellonaggines non ritrovò gran fatto , ch'io
mi creda , ricevitori , ſe mai avviſarono quanto di leggier poſſano avvenir
que’mali, a ? quali fa meſtieri d'eſtremi medicamenti anche nel primie ro
giorno, e toſto che ſi fan manifeſti. Ma o quanto da nul la ſtato ſarebbe quel
Medico , che procurato aveſſe l'altrui ſalute a coſto della propria vita, Eda
tali ſconvenevolezze avendo per avventura riguar doi Greci, i quali come
nell'arti , c nelle ſcienze, così nel la prudenza civile ogni altra nazione ſi
laſciarono ſenza contraſto addietro : non mai dar vollono determinate leggi
alla Medicina, ed a que', che la eſercitavano; amando me glio , che ne'liniſtri
avvenimenti de gli infermiper colpa ' de’Medici n'aveſſercoſtoro in condegna
pena la ſola infa mia portata : και πιο σιμον γαρ ιητικής μούνης έν τήσι
πόλεσιν ουδέν 60315042 Tinio a'došíns , la quale a coloro, cui preme l'animo cu
ra di vero onore, più ch'ogni altro fupplicio grave riuſcir fuole, e nojofa. La
qual coſtuma ſi vede manifeſta da File, mone, ovc dice : Μόνω. 2 Ippocrate , 6
Ragionamento Primo 1 111 Μόνω διατάω τούτο και συνηγόρω Εξεσιν αποκτείναν μεν ,
αποθνήσκαν δε μη . Cioè a dire , al Medico ſolamente, ed al giudice fi permet
te uccidere a man ſalva le genti . Piacque ciò anche all'al to ingegno del
divino Platone , laſciando egli così nella ſua Republica ordinato : Aniuna pena
fia ,che foggiaccia il Medicó, s'alcun infermo da lui curato contro ſua voglia
fia che ne muojaιατρών δε περιπτάντων αν ο θεραπευόμενων υπ'αυτών τε arvoſi
xabago's tsw na odvopov . Dal cui divilo non punto ſi di lungo Luciano , ove
diſſe : L'arte della Medicina quanto di maggior pregio è degna , e più
dell'altre alla vita giovevole, tanto i ſuoimaeſtri debbono più godere di
libertà' ; e convene volcoſa è , che goda di qualcheprivilegio, nè fia giamai
liga ta , o foggiogata da potenza veruna una dottrina confecrata agl'Iddij,e
diporto degli uominipiù ſcienziati,nè vegna alla dura ſervitù delle
leggiſottomeffa , e al timore , e alle pene acTribunali . π δε της ιατζικής όσω
σεμνότερόν έσι και τώ βίω Χρησι μώτερον τοσέτω και ελευθεριώτερον είναι
προσήκει τοϊς χρωμένοις , και πνα πονομείων έχειν την τέχνην δίκαιον τηεξεσία
της χρήσεως , αναγκάζεσθαι δε μηδεν , μήδε ποσάττεσθαι , πράγμα ιερον και θεών
παίδευμα και ανθρώ πων.σοφών επιτήδευμα.μήδ ' υπο δελείαν γενέσθαι νόμου μήδ'
υπο φόβος και auweiar dixæsnetw . E cõciofoſſecoſa , che frà Greci gli Ate
nieli ſolamente vietaſſero alle donne , e a'ſervi lo ſtudio del la medicina ;
non è però gran fatto da lodare , per non dir che molto da biaſimar ſia un cotale
ſtatuto ; perciocchè,co me più avanti diraſli , lo intendimento di valoroſe
donne contro al loro avviſo s'è moſtro più fiate valevole a viril mente
imprendere i più alti ſtudj; ed a ' ſervi ancora conce dette la natura più
volte animo , e ingegno alla libertà fi loſofica acconcio : perchè a ragione
non guariappreſſo fù rivocato : rapportando Igino : Obſtetricibus neceffitatis
, honeſtatis gratia ufus medicina tandem ab Athenienſibus con ceffus fuit . E
molto meno dovrem noi credere , che rima neſſe in piè la beſſagine di Seleuco ,
che tal potremoſenza fallo quella ſua legge chiamare , colla quale non altrimen
te , che ſe veleno ſtato foſſe proibì il ber vino ſotto capi tal pena a tutti
gli ammalati Locreſi, ſalvo ſe prima non ne ayer 1 DelSig. Lionardo di Capoa.
aveffero da loro Medici la licenza ottenuta. 3 Ens Aoxgüv των Επιζεφυρίων νοσών
έπεν οίνον α'κρατον μη προσάξαν7G- ταθεραπεύ αντG ,εί και περιεσώθη θάνατG- ή
ζημία ήν άντώ, οπ μη προσαχθέν από o'Se triev. La Romana Republica , che non
pur nel governo militare , ma nel politico ancora avanzò di gran lunga le
greche tutte, e lebarbare nazioni, giudicò convenevol com fa il non commetter
ſenza freno alla balia deMedici la cu sa della vita de gli uomini ; e perciò
preſe per partito, che Aquilio Tribuno della plebe, non so ſe Gallo , o altro
e' ſi fofíe,con un plebiſcito , il qual fu poi annoverato infra le leggi di
Roma,qualche penaa'loro fallimenti iinponeffe , per la qual’accorti divenuti
foſſero , e cauti nell'operare . Non per tanto dimcno è da credere che legge
tale, o ple biſcito , che ſi foſſe , non mai ſi metteſſe in ufo , ch'altrimen
te avrebbe avuto il torto Plinio di ſclamare in sì fatta gui. fa contra’Medici.
+ Nulla præterea lex punit inſcitiam capitalem , nullum exemplum vindiétæ :
indi ſoggiugnere : difcunt periculis noſtris, experimenta per murtes agunt: ed
in fin conchiudere : Medicoque tantum hominem occidiſe fumma impunitas eft. Ma
vi ha di vantaggio ſecondo il me delimo Autore tranfit convitium ,
&intemperantia culpa tur , ultroque qui periere argauntur . E perciò
immagino , ch'in compilando i Digeſti per commandamento di Giuſti niano a bello
ſtudio traſandaffero que celebri Legiſtila fentenza troppo dura nelvero, e
crudele di Paolo ſopra la legge Cornelia de Sicariis . S Si ex eo medicamine,
quodad falutem homini , vel ad remedium datum erat homoperierit, is qui dederit
ahoneftior fuerit, in inſulam deportatur, humi lior autem capite punitur . La
quale a giudicio di quella grand'animadella civil ragione GiacomoCujacio, alla
già detta legge Cornelia non può propiamente ridurſi; peroc chè dice egli il
Medico ſanandi,non nocendi animodedit. Ed avvegnacchè i medeſimi Legiſti nelle
Hituta , e ne’Di gefti vi rigiſtraffero non ſolamente il già detto capo della
legge Aquilia , ma ancora le ſeguenti parole d'V Ipiano , SicutiMedico imputari
eventusmortalitatis non debet , itad quod * Elannt. lib 2.9.cap.z.
lib.recept.lent. 6 Cuias.in Ang Corn de Sioar. 8' Ragionamento Primo tores
quodper imperitiam commifitimputari ei debet, ebo pretextu fragilitatis
humanadeliétum decipientis in periculo homines innoxium eſſe non debet.
Nientedimeno o di rado, o non mai certamente fur meſſi in uſo cotali ſtatuti,
avvegnachè non ſolamente Plinio, ma molti, e molti anche dopo lui le que. rele
medeſime replicando con più vive doglianze l'acca gionaſſero ; infra’quali il
dottiſſimo Agnolo Poliziano in una ſua piſtola al Leoniceno così ſcrive,
indolui rurſus ge neris humani vicem , quod in fegraſari tamdiu impune tri ſtem
hanc inſcitiam patiatur, atque ab ijs interdum vitæ fpem pretio emat, unde mors
certifima proficifcatur ,e'l Vives co sì grida : Errata illius (del Medico ei
favellando) impung funt:immomercede compenſantur, e Battiſta da Mantova: His
etfi tenebraspalpant eſt facta poteſtas Excruciandi ægros, homineſqueimpune
necandi. E un Satirico Italiano ſcherzando col titolo del Dottor dice a queſto
propoſito medeſimo del Medico: Mapoichè un tal ci può donar la morte Senza
punizione, e ſenzapena Forzaè, che sì gentil titol riporte E'l noſtro
Accademico in quel ſuo vaghiſſimo dialogo , hoc tamen ipfo -ſecuri , dice
parimente deMedici, quod nulla fit lex,quæ puniat infcitiam capitalem : immo
vero cum mercede gratia referatur, ed altrove: Carnifici medicus par eſt: nam
cædit vterque Impune: &merces cædis utrique datur . E un'altro Autore: Si
quæcamque ſuaplectuntur crimina lege Quas Medici maneant modo veſira piacula
pænas ? Quiplerumque ipſo facitis medicamine morbum, Etdiro ante diem ægrotos
demittitis orco . ? Scilicet hoc vobis indulſit opinio rerum Vna potens. Clades
inferre impune per Orbem Mercedemque alieno obitu , laudemque parare.
Edavvegnachè Maſlimino condennaſſe nella perſona tutti ſuoi Medici , perche non
gli aveſſero o ſaldate affatto le piaghe, o alleggiato il dolore , nondimeno
l'eſfemplo d'un tal DelSig.Lionardo di Capoa. 9 tal tiranno non può dar vigore
a leggeniuna ; e fu queſta non men, che tutt'altre ſue crudeltà biaſimata da
gli ſcrit tori del ſuo ſecolo , ſicome anche Aleſsádromeritevolme te riportò
titolo di crudele, per haver fatto ingiuſtamente ammazzar Glaucia Medico , per
ſoſpetto, ch'egli aveache colui poco faggiamente aveſſe curato il ſuo cariſlino
Éfc ſtione. Comeallo incontro grandemente vien commenda ta la clemenza, e
umanità di Dario Iſtaſpe Redella Perſia, il quale i Medici già alla morte dannati
, perchèlui aveſſer malamente cnrato , volentier permiſe , che liberaci foſſero
da Democide illuſtre Medico da Cotrone . Ma non però creda alcuno , aver
iMedici per traſcutaggine de’reggi menti una tal libertà guadagnata ; anzi egli
è ſomma nc ceſſità del comune, e quaſi arte di buon governo; perocchè ſarebbeli
quaſi affatto ſpenta , e com’Io avviſo annullata fin la memoria del meſtier
della Medicina, ſe contro aʼme dicanti con rigor di giuſtizia ſi procedefle. Ed
in vero qnal huomo mai, ſe non ſe ſommainente ſciocco, e ſcimunito, o temerario
aſſai avrebbe vanamente logorato il tempo , e le fatiche dietro ad un'arte ( ſe
pur arte poſſiamo chiamar la Medicina , non avendo quella niuna certa , e filla
regola nelle ſue operazioni ) quanto a ſe ſpiacevolc,e malagevo liſſima a
conſeguire , e ne gli avvenimenti dubitoſa aſſai? E dicola ſpiacevole, perocchè
qualmaggior noja, e ſpiaci mento , che quel di colui , che continuo ha da
bazzicar co? malati, e veder ſempre , & udire l'altrui miſerie ſenza aver
talora opportuno argomento da riſanarli ? Ed è anche malagevole ad imprendere ,
e incerta ſempre negli avve. nimenti : imperocchè nella cura delle malattie non
meil dell'avvedutezza del Medico il caſo ancora, e la fortuna vi fan la lor
parte '; perchè ſurſe quel volgar detto: Fa meſtieri il Medico ejjer forto
benigna coſtellazion nato . Ed o quanto aſſai ſoyente avviene , che contro ad
ogni avviſo umano , ficome ſcriſſe Celſo , etiam Spes fruſtratur : &
moritur aliquis , de quo Medicus fecurus primòfuit. Ed : Ippocrato medeſimo
avvegnacchè altiſſimoMedico , & avvedutiſſimo B giu 7 Plutarcom: 11 / a ? !
. 10 Ragionamento Primo giudicato , purconfeffa se da tal meſtiere ancor più di
bia limo, che di lode aver’acquiſtato. r fywye doréw pasiove uspelo Morgíny
topov xexangãoBan Thin Tégun.E quinci è, che duracoſa, o malagevoliſſima, o
impoſſibile ſempre mai è'l ravviſare ſe le cattive uſcite de' mali da
dapocaggine de' Medici più toſto avvengano , o da natura delmale , o da altra
interna cagione , in cuiſenno alcuno , ne umano provvedimento giammai non
vaglia. Incertiſſimi ſempremai, ed oſcuri gli uſcimenti delle malattie ſi ſono
,maſſimamente delle acute, ſecondo il ſentimento d'Ippocrate ; perchèdiceva
anche Celſo: Neque ignorare oportet in acutis morbis fallacesma gis effe notas
falutis ,& mortis. Senza che ſoglionſi ne'cor pi degli animali ingenerare,
e talvolta anche di preſente , iveleni per ſubitana, o precipitazione , o
coagulazione ; e può anche huomo, che non altri, ma Apollo, ed Eſculapio
medeſimogiudicherebber faniſſimo,aver dentro enfiature, o altri nafcofi malori
, che quando egli men ſi crede ſian , valevoli ad irreparabil morte condurlo ;
e ciò anche nel tempo ſteſſo , che li s'appreſtano i medicamenti; perchè a
torto poi i rimedjmedeſimi, e non il malore accagionatine vengono. Ed oltre a
ciò poſſono alcuni medicamenti, che buoni, e giovevoli alla ſalute degli
huomini ſi giudicano , tal curbamento dentro cagionare , che l'ammalato le new
muoja avanti , che noi col noſtro corto intendimento pof fiamo ne pur badarvi :
8 Quæque medendi caufa repertow ſunt ( comene fà teſtimonianza Celſo )
nonnunquam in pejus aliquod convertuntur , neque id evitare humana imbe.
cillitas in tanta varietate corporum poteft . Perchè non ſarà egli colpa
de'Medici l'avertalvolta piggiorato co’ſuoi me dicaméti lo infermo; ne in ciò
le leggi potranno giámai coſa del mondo determinare . Ma su concedaſi , pure ,
che per legge ſia a' Medici l'uſo del medicar preſcritto : come mai potrebber
coloro eſſer caſtigati ſe la travalicaſſero ? o co me mai potrebbe porſi in
chiaro il delitto , acciocchè poi ſecondo il diritto delle leggi vi ſi
procedefle ? E chi baſte volmente non sa quanto i Medici tutti ſian contrarj di
ſet te, s lib.z.cap.6. DelSig. Lionardo di Capoa. IT ) te, e diſcordanti ſempre
ne’loro ſentimenti ? Perche oda paleſe nimiſtà , o dacoperta invidia, il che è
peggio, ſempre ſtuzzicati, o tratti dall'amore e dalla benivoglienza de’lo ro
parziali, traſandata la verità delle coſe rappreſentano al Giudice tutt'altro ,
che di giuſtizia dovrebbero ,e dannoli a divedere, come ſuol dirlila Luna nel
pozzo, ſecondo il lor diſiderio ; ſenza che il timor della pena , in cui
potrebbe di leggieri incorrer il Medico, ſempre ſoſpeſo, e inviluppa to il
terrebbe in prender partito anche quando faceſſe me ſtiere dipiù efficacemente
operare ; ed egli timido , econ fuſo per non porre a riſchio la ſua perſona
nelle piu gravi malattie ſcioperato, e colle mani penzoloni ſe ne ſtarebbe; o
pure per non partirſi dal comun ſentimento del vulgo , comechè falſo , e almal
contrario, talvolta vani, e perico lofi rimedi uſerebbe . Coſa , chepiù
ch'altrui a'Medici de Principi , come avvisò il Cardano , avvenir ſuole ; i
quali per tema non pur dell'infamia , ma di mal maggiore ſi ten gono di
adoperar grandi, e non uſati medicamenti. Ne ſam rà quì fuor di propoſito
l'apportare un'eſemplo del meſtier della guerra,da quel della Medicina non
guari in verità per l'incertezza de'ſucceſſi lontano . Compativano anzi che nò
i Romani Maeſtrati gli erroride' Capitani de’loro eſer citi;e ben ſi vede a
quale altezza ne montafſe perciò lo im perio di Roma, come all'incontro sa
ciaſcuno a qual miſe rabil fine ſi conduceſſero i Cartagineſi per operar ſempre
mai ilcontrario . E più vicin deʼnoſtri tempi ben lo mani feſtarono i Viniziani
con loro gravoſiſsimo danno, e quaſi con la caduta univerſale del lor comune,
quando ingiuſta mente per la ſua tracotanza decapitarono il Carmagnuo la;
perchè poi ſmagato il Liviano, e ſecondando il fenti mento de’malcauti
provveditori,ne perdette la giornata di Vicenza , e miſerabilmente con tutto
l'eſercito ne reſtò tagliato, e ſconfitto . E forſe la morte data al Vitelli fu
an che una delle principali cagioni , onde i Fiorentini traditi dal Baglione,la
libertà poi miſeramente ne perderono. E ben potrebbe qui alcuno non ſenza
qualche ragione andare ſpiando,che la legge Aquilia, cometutt'altre leggi B 2
de' 12 Ragionamento Primo 1 ! de’Romani da noi teſtè rapportate, nõ già per li
valétiMea dici oMetodici , o Empirici, o Razionali ſtare foſſer fatte, ma ſolamente
pe’ſoli popoleſchi Empirici,e volgari; eſſen do comunal ufo appo coloro di non
ſolamente con nome di Medico i volgari Empiricichiamare , ma quegli ancora, che
di caſtrare i fanciullieran uſi ;come agevolmente ſi può ne'Digeſti, e nel
Codice così di Teodofio, come diGiuſti niano comprendere . E certamente in
coſtoro ſolamente da credere , ch'aveſſe luogo l'ignoranza dell'arte ; per ca
gion della quale furono in Romacontro a' Medici ordina te le leggi. Ma sì fatta
razza di medicanti ben ne do vrebbe eſſere acerbamente punita: intramettendoſi
teme rariamente in meſtier di tanta conſiderazione , quanto è il mcdicare; e
ordinando alla cieca rimedi di riſchio sù la vi ta de gli ammalati. Perchè
ſtimo ben fatto aſſai, ch'in mol te parti dell'Europa , venga loro ſotto
graviſſime pene if medicare interdetto ; avvegnacchè poi cotali divieti poco, o
nulla fian melli in uſo . E ben d'eſſo loro a gran ragione dice Anneo
deRoberticiocchè degliStrolaghi diſſe in pri maTacito : Genus hominumpotentibus
infidum , Sperantibus fallax : quod in Civitate noſtra vetabitur femper ; &
retine bitur: Se non ſe troppo fcarſo èil paragon del Roberti ; che i
cattivelli degli Strolaghi altro no fanno,che con lor cian cie tenere a bada le
brigate de' curioſi con paſcer loro di vaniſſime ſperanze; e gli Empirici
volgari co'lor vani ſegre ti , e con lor ciarle , o rattengono gli ammalati ,
che non prédano rimedj da'buoni Medici,ondepoi ſe ne muojano: o pure con lor
nocevolifumi medicamenti eglino medeſimi gli uccidono. E giuſtamente per avventura
furon prima digradati , c poi nella perſona condenvati que' viliſimi paltonieri
nel reame di Francia , ch’in vece diguarireil Rè Carlo Seſto , preſſo a morte
coʻlor medicamenti , e quaſi a perduta ſpe ranza ilcondufſero . Ma egli fu per
mio avviſo poco ſag. gio, cavveduto quel valoroſo Re arriſchiando in mano di
giuntatori , e pancaccieri la propia vita; e ben come da pri ma li s’offerſero
di voler riparare a'ſuoi malori , così do 1 veali Del Sig.Lionardo di Capod. 13
veali toſto e ſenza niuna pruova fare , o aſpettar di lor pro meſſe :del
temerario, e folle ardimento punire. Se pure non fu malavoglienza , edaſtio
de’maligni Medici di que’tem pi,che fe si malcapitare que'cattivelli, Ma come
potevan giammaicon ſalde, e durevoli leggi ſtabilir la Medicina, oi Popoli , o
i Maeſtrati , i quali po co , o nulla per la più parte di quella s'intendevano
; le a tanto non poteronmaii più ſaggi, e avveduti Medici per venire, li quali
per lungo ſtudio, ed eſercizio molto adden tro in quella ſentivano ? Inventore per
quel che fi creda , o almeno antichiſſiino ſcrittore fu della medicina Eſcula
pio , e come ne da teſtimonianza Ippocrate , o chiunque altro fi foſſe l'autor
della piſtola a Democrito, molte re gole all'eſercizio del medicare egli
preſcriffe : ma ben to fto non buone conoſcendole parecchj ſaviſſimamente diſ
fenne; quròs , dice e' parlando d’Eſculapio , è moois deepcóunge καθάπες ημίν
αι των ξυγκαφέων βίβλοι Perchè può dirſi col toſcano lirico , che Solchi onde,
in rena fondi, e ſcriva in vento colui , che dietro lo ſtabilimento di sì fatte
regole s'affati ca, e a cuic.iglia di chiarirfene cercherò per quanto io pof ſa
di inoſtrargliene con ordinato diviſamento le cagioni. La medicina tanto , e
tanto oggimai creſciuta, e avanza ta, che ben di maggioranza co’più illuſtri ,
e più nobili ſtu dj gareggiar ſi vede, e colla ſua giuridizione fin détro i più
rimoſſi,ed vltimiconfinidella natura s'innoltra : pure fra gli anguſti limiti
di pochiſſime piante ſi vide in prima riſtret ta, come avviſa per tacer d'altri
l'antico chioſatore d'Ome ro vidpxxia inteixen év GOTÁVOLS ñ ; e'l nostro
Seneca : Medicina quondam paucarum fuit fcientia herbarum ; anzi in quel dolce,
e ſovr'ogn'altro avventuroſo tempo Quando era cibo il latte Del pargoletto
Mondo, e culla il boſco. col ſolo digiuno gli huomini ſi medicavano, 9 E pur
viuean que'primi huomini allora, Elefebbriſcacciar, quando l'aiuto Non 9
Ercol.Bentiv.Satir, 3 . 14 Ragionamento Primo Non davan l'erbe, ne'lfapere
ancora, o perchèpoco loro abbiſognaſſe la medicina, come avviſa altresì Seneca
: Firmis adhuc, folidiſquecorporibus, & facili cibo,nec per artem ,
voluptatemq; corrupto: o perchèficome à tutt'altre coſe di quaggiù è dato ,
eziandio alle più grandi, da deboliſſimi principj dovea la medicina trarre
l'origine; que’medicamenti uſando gli huomini allora, che loro, o dal caſo , o
da bruti animali , o dalla propia induſtria venian manifeſti . 10 Perchè
ragionevolmente credeſi, che Age nore , e Chirone tenuti per alcuni ipiù
antichi di tutti i Medici,coll'uſo delle ſole piāte medicaſſero. Túcsospeli
Aynuo είδη,Μάγνητες δέ Χείρωνα τοϊς πρώτους ματςεύσαι λεγομένοις απαρχας κα
μίζουσι.ρίζαι γάρ εισι και βόταναι δι' ών ιώντι τες κάμνον ζεις.Ε di Chi rone
ritrovatore del Panace Chironio : πρώτην μεν χείρων G- επαλθέα ρίζαν ελέσθαι
κενταύρου χρονίδαο φερώνυμον, ήν ποτε χώρων πολίω εν νιφόεντι κικών εφράσσατο
δείρη narra 11 Euſtazio , ch'eſſendo egli nella mano ferito , oco me vuole
Plinio, nel piede ritrovaſſe la medicina dell'erbe, χείρωνα γάρ φασι σώθενζ
ποπτην χώρακαι την δια βοτανών επινοήσασθαι ixreixn\v: e per tacer di Mercurio
,ilquale inſegnò come can ta Omero l'uſo ad Vliſſe dell'erba Moli Ως α'eg
φωνήσας πάρε φάρμακον Α'ργαφόντης Εκ γαίης έρύσαςκαι μιν φύσιν αυτού έδειξεν e
ſi pare, che medicaſſero altresì non con altro , che colle fole piante Ercole,
onde traſſe il nome il Panace Erculeo; e Ilide e Oſiride, e Apollo, e Arabo , e
Cadmo, e Bacco per opera del quale come dice Plutarco, si ritrova
primieramente, e monta in pregio il vino , medicamen to poderoſo , e ſoave, e
venne anchepaleſata al mondo la gran virtù dell'edera , la quale
maraviglioſamente riparar ſuole i danni , che provenir poſſono dal vino
ſtrabocche γolmète ufato , ο ΔιόνυσG- και μόνον τώ τον οίνον ευρώνιχυρόα τον
φάρ μακον και η διεν,ίατρος ένομίσθη μέτσι, αλα και το τον κιτζόν ανπταπό μενον
μάλισα τη δυνάμει πεος τον οίνον ας πμην προαγαγών και τεφανά . σθαι διδάξαι τα
βακχένοντας , ως ήταν υπότα οϊνα ανιόντο , τα κιλά κα ποσβεννύνθG- την μέθην τη
ψυχρότητ: δηλοί δε και των ονοματώ, ένια την Σ 10 Trif.appo Plur. u lib.i'lliad
Del Sig . Lionardo di Capoa. Is 2 την πιο ταύ πολυπραγμοσύνην. Le fole erbe
dovettero pari méte adoperarc Eſculapio inventore del Panace Aſclepio , col
quale egli,comecāta Nicádro guarì lola figlio d'Ificle: a's" χει και
πίνακες φλεγυήϊον όρρατε πρώτο παιήων μέλανG- ποταμε " παρg χάλG- αμερσεν
αμφιτζυωνιάδαο θέρων, ΙφλίκλεG- έργG έντε συν ηρακλή κακήν έπυράκτεν ύδρην e
che come avviſa il ſuo chioſatore ſolea nclle cure de gli altri fuoi inferimi
anche adoperare . δ Ασκληπιον τέτω λέγεται Ιατεύσαι όσις ήν της κορωνίδα της
θυγατςός τ8 φλεγύο παιήων só coxnýma. ed Amitaone, e Melampo , il quale come ſi
legge in Dioſcoride dell'elleboro ſerviſſi nel curar le fi gliuole di Preto Rè
de gli Argivi. Mercun Qutisaitór @ toe's Afolty Osya tegas Hayelous év ained,
cioè coll'ellebero xa Jogou weó tos ĉ beeg Tolcay , e Podalirio, e Macaone non
d'altro , che d'erbe fi valfer pe' feriti dell'oſte greca , e prima della
guerra Trojana Medea , come narra Diodoro coller be guarì le ferite di
Giaſone,di Laerte,d’Atalanta, e di Te fpiade. Ιάσονα και Λαέρτην, έπ δε
Αταλάντης, και τους Θεσπιάδας προσα γορευομένους· τούτοις μεν ουν φασίν υπο της
Μηδείας εν ολίγαις ημέραις Tori písars Borzívass DeexWeu Iñvou . E Trifone appo
Plutarco in nalza , e loda ſommamente gli antichi nneisy xexenuefuésmo' Qurwv
ixrçıxß. Quindi provati più volte , e riprovati poi i lor medicamenti , dieder
la prima bozza all'arte del medicare, como cantù Manilio : Per varios caſus
artem experientia fecit Exemplo monftrante viam . Macome pochi , e ſemplici
erano in prima i medicamenti, poche, e ſemplici altresì eſſer dovettero allora
le regole della medicina: quindi per gli errori, ne'quali puotè age volmente
incorrere la ſperiêza,abbiſognò ,che cotali rego le,comechè pochiſſime,pure
talvolta mutafler faccia ,cam biandoſi tuttavia , è migliorandofi i primi
medicamenti. Così cominciò la medicina ſu'l bel principio a far manifeſta la
ſua incoſtanza . Ma non guari così ella in man delle ſemplici perſone riſtette
, che tratto tratto non vi poneſſer mano anche i filoſofanti; i quali è da
credere, che da prima da 16 Ragionamento Primo da ſola curioſità, e diſiderio
d'inveſtigar la cagione de'me ? dicamenti tratti vi cifoſſero ; ma pian piano
vie piu avan zandoviſi,ericoncentrandoviſi,giunſero poi a tale,che bia ſimando
, comeincoſtante, e pericoloſa l'antica ſemplicità del medicare, le prime
fondamenta gittarono della razio nal medicina ; comeche Euſtazio ne faccia
Podalirio il primiero inventore , ed egli ſembri per quelche ne narri Eriſimaco
appo Platone, ch’un tanto onore al ſuo padre Eſculapio ſi debba attribuire :
onuéte? Quiséger G Astana's ( ως φασιν διδε οι ποιητα, και εγω πείθομαι
)συνέςησε την ημετέραν τέχνην . ή τεν ιατζική (ώσπερ λέγω ) πάσα δια το θεε τε
του κυβερνάται.Ε pri ma aveaegli detto:έπισήμη των τε' σώματG-ερωτικών προς
πλησμο νην και κένωσιν , και ο διαγιγνώσκων εν τα' τους τον καλόν τε και αίρον
έρω το , 8'τός εςιν ο ιατρικώτιτς- και ο μεταβάλειν ποιών ώστε αντί το ' ετέρα
έρωτG- τον έτερον κτησάσθαι : και οίς μη ένεστιν έρως δει δ'εγγενέσθαι,έπισα
μενG- εμποιήσαι , και εν όντα εξελεϊν , αγαθός αν είη δημιουργός : δεί γαρ δη
τα έχθισα όντα εν τωσώματι , φίλα οΐόντ είναι ποιείν , και έραν αλήλων , έξι δε
έχθισα , τα εναντιώτατα ψυχρoνθερμώ,πικρον γλυκεί , ξηρονυγρό πάνω τα τοιαύα
τούτοις έπιςηθείς έρωτα εμποιήσω και ομόνοιαν . Ma non per tanto non
ceſſarono,mavie più moltiplicarono le ſue muitazioni e le ſue incertezze : e
come varj erano , e diſcordanti quei , chela cſercitayano, così varia ella ne
divenne, equaſi in inille parti diviſa. Ma pur ſi manteneva intanto con
iſtrettiſſimo legam alla filoſofia la razionalıncdicina congiunta ; intanto che
da'più ſaggi, e prudenti ſtimatori delle coſe , come Celſo avviſa, parte di
quella veniva concordevolmente giudic.ee ta: eral parve che ſe ne ſteſs’ella
fino all'età di Erodico, detto da alcunimalamente Prodico . Or coſtui come rio
traceiar ſi puote da quel che ne narr. Platone nel Ginna fio , di cui egli era
Mactro, cpriino miniſtro , cagionevole divenuto della perſona, per lo biſogno,
che gliene faceva , a coltivarla medicina con tutto l'aniino , e conogni ſtudio
maggiore ſi volſe; e quella alla Ginnaſtica congiugnendo, e preſcrivendole
alquante regole da lui per via della ra gione, e della ſperienza daprima
ritrovate, li parve,ch'an zi d'ogni altro qualche forma d’arte a darle
incominciaſſe. E illo DelSig.Lionardo di Capoa . 17 E allora venne ella pian
piano a perderdella filoſofia l'an tica uſata dimeſtichezza : comechè Celſo, ed
altri portino opinione eſſer ciò per opera d'Ippocrate primieramente avvenuto .
E da Erodico ſembra eglipoi, ch'il reſtì da noi mentovato Ippocrate ſuo ícolare
, ed Eurifonte , e altri il coſtume di trattar ſeparatamente dallafiloſofia le
coſe alla medicina appartenenti apprelo aveſſero . Ed avvegnachè ad alcuniciò ſembraſſe
ben fatto affaire digran giovamen to alla medicina ; non però di menomolto
manifeſto egli ſi potrà comprendere per colui , ch'alla verità delle core
voglia ben profondamente guardare, cſſergliene anziche no graviſſimo nocimento
ſeguito. Imperciocchè quindi i filoſofanri niuna curanon dandoſi di por mano
alla media cina , e quinci i Medici delle biſogne di quella groſamen te
diviſando , per poco di razional non le rimare , altro che'l nome. E giunſe a
tale sì biaſımevol coſtume, ch’in di fenderlo tuttavia i lor poſteri
pertinacemente s'affaticava no : e oſtinati in su la credenzi coglievan pruova
da farlo a credere alle genti . E Galieno pure osò dir d'Ippocrate , aver lui
certamente gran ſenno fatto in non inframetterſi giammai di volere ſicome ſi fè
poi da Platone , inveſtigar la natura , e la generazione delle qualità di
que'loro quat tro primi corpi, ondegiudicano ciaſcuna coſa , ela malli ...
turta del mondo cſſer compoſta, e ordinata; dicendo, un cotalbriga
a'filoſofanti ſpezialmente , e non già a'Medici appartenerſi; i quali ogniloro
uficio han baſtantemente , compiuto,toſto che a ſapere aggiungono la ſanità
de'corpi dal temperamento , o dalla meſcolanza del caldo , e del freddo , e
dell'umido , e del ſecco ingenerarſi,ſenza più ol tre curioſamente ſpiarne. Ma
qual di queſta giammai po trebbe alla medicina coſa più offendevole , c più
dannoſa immaginarſi? Così per lungo uſo ne' Medici , che razionali appellar ſi
facevano l'amor della fapienza tratto tratto mancando , più fiere aflaise più
crudeli le conteſe della malandata mc dicina rappiccaronſi; perciocchè ove in
prima i ſentimenti gli uni de gli altri per vaghezza ſolaméte della verità con
C trila 18 Ragionamento Primo traſtar ſolevano , allora affondati tutti nelle
fazioni, e oſti nati ne gli appoſtamenti, non rifinarono di piatire , e riot
tare, e carminarſi l'un l'altro, e proverbiare; intanto che ne meno i primi
maeſtri, e ritrovatori dell'arte ne fur ſalvi, Apollo giudicato Iddio della
medicina , era allora poco a capital dalla fciocca gétese volgare torma de
Medici tenu to , rimproverandoli apertamente eſſer luiciarlone , e mil
lantatore; e ſovra tutto d'ingratitudine anche il cacciarono; perciocchè avendo
egli dall'altrui urmanità , e corteſia law medicina apprefa,tutto ſuperbo poise
gonfio ſe n'andavas come s'egli, e no altri dapprima per propria induftria
ritra vata l'aveffe. Anzi perchè egli in maggior pregio ,e gloria formontar ne
doveſſe incominciò lo ſcaltcrito ,e fagace pá cacciere,avédone appreſa l'arte
da Glauco, ch'era un volpā vecchio, a cicciar carore,e far l'indovinello
,aprēdo la ſtra da alle frodi, e aſtuzie da trccellar le genti. Proverbiò altri
Eſculapio anch'egli Dio della medicina,perchè egli bergol foſſe , è di poca
fermezza in mcdicando ;e non poche be ſtemmic ancora li furono ſcagliate per la
ſua ingordilimizu avarizia: imperciocchè egli in priina d'ogni altro , ficome
narrano, 12 l'arte ragguardevole, e ſacrosāta della medicina in profan’uſo
rivolgendo, tratto da vil guadagnos2 prezzo medicando a un'infermoPrincipe vendèinfinito
teſoro al quante poche erbe, e radici, perchè giuſtamente eglimeri tóne poi
cffer fulmimato ,ed arſo daGiove;e laſcionne a'pe fteri un così ſeoncio , e
così abbominevole eſemplo . E ol tre a ciò dicono ,ch'egli in far l'indovino,
el malioſo , ci tutt'altre giunterie, e frafche il ſuo padre Apollo digran
lunga avanzaſſe, perchè poi funne ſovraſtante a gli augurj, e all'arte divinatoria
per ciaſcun creduto. E côtro di lui di vantaggio aggiungono aver lui con mille
modi , e artifici fconvenevoli dato a divedere altrui, ficome fè ſuo pa dre ,
che anche i cadaveri ſapeſſe egli in bella vita riporre; e che in sì fatta
gaiſa il titolo di divino fecleratamento d'accattar fi proccuraffe . Ma per
recarvi le molte parole in una , e'conchiudono alla perfine, ch'Apollo
poco,onul la Pindaro, Del Sig.Lionardodi Capoa : 19 la di medicina s'intendeſſe
: e molto meno ne ſapeſſe il ſuo figliuolo Eſculapio ; perciocchè sfidandoſi
colui di poter nell'arte propia il figliuot compiutamente ammaeſtrares, fotto
la diſciplina di Chirone fegliele lungamente impren dere. 13 E coſtui dopo
cotanto ludio , e tempo, che logo rovvi, tanto ne venne in ſuſo , che per
guarire un menomo dolor di denti fu a riſchio di perdervi il ſuo buon nome; e
le ftanco alla perfine con una preſta diliberazione per torli d'addoſſo una
cotal ſeccaggine a viva forza no'l cavava , fuora al malato chi sà che gliene
farebbe ſeguito ? E'l ſuo gran Maeſtro Chirone non che altri , ma ſe medeſimo
cu far non valſe , allor che a caſo da Ercole ferito preſe per partito di far
larga rinuncia della vita , e dell'immortalità 2 Prometeo , e così uſcir
valoroſamente fuor d'ogni impac cio . 13 E ben da ciò fi può apertamente
comprendere , re vere foſſero quelle tanto maraviglioſo , e tanto impareg
giabili pruove , che di lor falfamente la menzoniera anti chità và millantando
. Così per avventura gli aftioſi con tradittori di que'primi maeſtri favellano
: c Io ancora a vo lerne dire al preſente ciò, che me ne paia , non mi ſembra
gran fatto da porre in dubbio eſfer que’ primi ritrovatori della medicina
appo'Greci poco in quella cercamente pro firtati; ſe nc'ſecoli appreſſo ancora
, quando colletà in cia lcuno ſtudio , carte avanzavaſi ilmondo, meno
ſaviamente coloro diviſandone, moſtraron'altresì d'aſſai poco ſaperne. E quantunque
eglino in tanto buon nome , e pregio per tutto ne montaſſero; non però di meno
non dobbiamo noi dalla noſtra credenza rimanerci ; giudicando nelle prime bozze
dell'arti al ſemplice, e creſcente mondo eſſer ſem brati maraviglioſi, e divini
ritrovati le prime opere della medicina. E fu ciò più che a tutt'altri
inventori, agevol molto a’Medici ; perciocchè ogni lor grave fallimento , ed
errore in medicando, eſſendo, come diſle colui, naſcoſto in fieme coʻgli ucciſi
da loro forterra ; e allo incontro appa rendo folaméte di quà le loro comechè
menomiſſime pruo ve ne'vivi da loro riſanati, ſenza troppa invidia poteronfi C
2 age 13 Apollodoro . RagionamentoPrimo agevolmente acquiſtar loda , e pregio
immortale . Senzaa chè nelle più ribalde, e cattive perſone certamente ciò
avviene ; le quali ſicome aſute , e malizioſe ſi van procac ciando per tutto
favorevoli , e parteggianti ; e dalla vera fapienzalontane non laſciano
qualunque froda , 0 giunte ria , onde preſſo la minuta bruzzaglia delpopolo
diventi no ragguardevoli. Perchè è certamente da giudicare eſſere ftati coſtoro
, di cui cotanto buccinavaſi, aſtutiſſimi giunta tori , e ramanzieri. Nè Io ho
in animo di recarvene qui molti eſempli,chea gran dovizia potrei ritrarre dalle
anti che , e dalle moderne memorie ; ſolamente non laſcerò di rapportarc
,effer'antica fama,che Acrone d’Agrigéto aveſ ſe una volta damortifera
peſtilenza liberata la Città d'A . tene colle grandi luminarie , e fuochi ,
cheper entro vi fè accendere. Ma ſe ciò da fuoco avvenir poſſa , non che da
altro ,da gli occhi noſtri propjcertamente ce ne habbiamo potuto
ricredere.Narrali il medeſimo aver fatto a’ſuoi tépi İppocrate . E Toſſare
ancora dopo morte acquiſtonne e Itatue, e ſacrifici, ed altri onori divini;
perciocchè, come narra Luciano, in tempo che Atene era più che mai dalla
fogadella peſtilenza malmenatas e tutto che dipopolata , e ſgombra , diceſi
eſſer apparſo colui ad Architele moglie d'un cotal huomo dell'Areopago ,e
averle ſicuramente det to , che ſe gli Atenicli fpargeſſero le ſtrade tutte
divino, di preſente farebbcſi attutata la peltilenza ; e ciò facendo co loro ,
dilubito , conforme colui loro promeſſo aveva,ne fur del tutto rimofti , δπι
της ελάδα κατά τον λοιμον την μέγαν έδοξεν και Αρχιτέλος γυνή Αρεοπαγίτε ανδρος
επιφάνια τώ λοιμώ έχόμενοι, ή τας σενωπες δίνω παλά ράνωσι τέτε συχνάκις
γενόμενον ( 8 ' γαρ ημίλη σαν Αθηναίοι οι ακούσαντες ) έπαυσε μηκέτι λοιμώξειν
αυτούς. Or qui io amereil'uſato ſuo avvedimento in Luciano , il quale
ſcioccamente ſe'l crede, e va fantaſticando , ciò eſſer potu to avvenire da
vapori del vino , i quali trameſtati all'aria Paveſſero purgata , e dilibera da
gli aliti peſtilenzioſi, che l'infcrtavano .Madominc ſe coteſte peſtilenze non
manca rono, fe no ſe dopo lungo ſterminio ,c mortalità delle genti, allorchc
ſtanco rimafeli il male ; perchè dovrem noi dire eller BIBLIOTICA NA effer ciò
avvenuto per opera de’vani, e poco giovevoli ar gomenti , e non più toſto per
isfogamento , c periſtracce del malore? Cosi certamento è da giudicare, che
gliaſtuti, e molto ſcalteriti giuntatori conofcendo il male effer già nel calo,
e nel menomamento,per procacciarſi loda, e pre gio immmortale vezzatamente
v'aveſſero poſto conſiglio; acciocchè poi l'opera delſalvamento foſſe più coſto
a loro , che alla natura del male attribuita . Artificio ,che tutto dì ſi
ſperimenta ne'Medici ancora de’noſtri tempi. Ma in qual to ad Eſculapio ben può
egli rimanerſene có quella gloria, che per eſſer egliſtato il primo Maeſtro del
mondo in civar déti,glivien ragionevolméteattribuita dal romano Orato re, quádo
che diceÆfculapius : primus dentis evulfionem in venit:concioffiecoſachè le
cure per lui fatte sì rare,e si ma raviglioſe elle ci vengano in tante , e si
diverſe guiſe nar rate , ch'elle come avvisò ſaggiamente Seſto Empirico ſon per
ciò da dire del tutto favoloſe , wwóJeon gas éautois yolañ λαμβάνοντες οι
ιπεικοί ή ορχηγών ημών και επιςήμης Ασκληπιον κεκε » egυνώ.θα λέγεσιν εκ
νεκέμνοι τω ψύσματι, ενώ και ποικίλως αυτό μεG anárixa. Narra Steficoro effer
Eſculapio alla ſua maggior gloria formontato per aver riſuſcitati co'fuoj
inedicamenti alquanti di coloro ch'in Tebe crano trapaſſati; ma Polian to dice
ellerli Eſculapio refo ragguardevole per eſsere ſta ti di ſua mano riſanati
alquanti per iſdegno di Giunone impazzati . E Parraſio racconta eſser fui ſopra
tutto ſtato commendato peraver da morte ricolto Tindaro. E Maſta filo vuole,
chcil ſuo maggior pregio foſſe ſtato ľaver ri congiunto , e riſuſcitato
Ippolito ſquarciato in cento brini da fpaurati corſieri .Ma Filarco rapporta tutto
il ſuo buon nome, e onore dalla viſta ritornata a figliaoli di Fineo aver avuto
dirivo. E Teleffarco finalmentcrafferma efser lui ag giunto infra '
Dij,perciocchè tentato aveva di riſuſcitar da morte Driσne. ΣτησίχορG» μεν εν
Εριφύλη ειπων , όπ πινας των επι Θήβαις πεσόντων και ανισά . ΠολύανθG-δε ο
Κυρηναίς , εν τω πρί των Ασκληπιαδών γενέσεως. ότι τάς Προύσε θυγατέρας κατα
χόλον Ηράς εμ μανάς γενομένας ιάσατο .Παρράσιο- δε , δια το νεκρόν Τυνδάρεω ανα
· τηςαι.Σλάφυλφ δε εν τω περί Αρκάδων , όπ Ιππόλνιου έτράπευσε φέ EMANUEL BLI
UBIO EMANUE BOMA govca 22 Ragionamento Primo 1 γονία εκ Τροιζήνα- και καλα τις
παραδεδομένας κατ' αυ78 ° έν τοϊς τραγωδε μένος φήμες . ΦύλαρχG- δε , εν τη
εννάτη για το της Φινέως υους των φλωθένας απκαςήσαι χαριζόμενον αυτών τη μηρή
Κλεοπάτρα τη Ερεχθέως . Τελέσαρχος δε και εν τω Αργολικώ, και ότι Ωρίωνα
επεβαλέτο avasãows, Ma quali artificj e' non tcntò per eſser tenuto di ligente,
e ſcorto nel medicare ancora che ſchifi, e abbomi nevoli fuſſero ? Egli volle (
liçome narra Cclio Rodigino , c venne in ciò Eſculapio da Ippocrate imitato
sallaggiar fin le feccie degl'inferni, coinc ſe ciò necellario ancor foſse a
rintraciar le cagioni delle malattie, perchè poi da Ariſtos fane nel Pluto
proverbioſamente oxaloDeéy @ ne fu chiama to , e Noipiù acconciamente potremmo
à lui dire col no ftro Azzio Sincero . Efe idem poteris Merdicus, &Medicus;
Ma ſopra tutto giovaron lommámente ad E/culapio gl’in dovinelli, le malie,gli
oracoli, i ſacrificj, gli agurj, e altre,e altre molte ſorti di ſuperſtizioni,
e d'altre fraſche ,e giunte rie , ch'egliuſava ; ficcando carote alla ſciocca
gentane , c tenendo in sù la gruccia con ſuoi cicalamenti gl'infermi. Cola la
quale ſi coſtumava allora da chiunque voleva con qualche lode eſſercitar la
medicina. E per tacer di Medea, c d'altri molti, Melampo con sì fatti artificj,
e fanfaluche , oltre alla fama grande , che gliene ſeguì, di povero conta dino
, ch'egli era , inſieme con ſuo fratello divennero ric chiſſimi Principi , e
ſovrani Signori delle due parti delRe gnodiPreto , e mariti delle figliuole di
lui da sè riſanaten, le quali chiamavanſi per quel che ne dica Apollodoro, Li
ſippe, e lfianaſſa; ma ſecondo Eliano Elea, e Celene; e che o per lo troppo uſo
del vino , o per opera della Reina di Cipri impazzare andavan paſcendo
brancoloni, e muge ghiando coinc vacche per le valli della Morea , e d'altri
paeſi intieme con lor ſorella Ifinoc , la qual prima di eſser medicata ſe ne
morì : delle quali narra Virgilio nella Bu. colica: Pretides impleruntfalfis
mugitibus agros; At non tamturpes pecudum tamen ulla fecuta eft Concubitus ;
quamvis collo timuiffe: aratrum , Et 1 Del Sig. Lionardo di Capoa. 23 Et fæpè
in levi quæfiffet cornuafronte. E che per opera di Melampo poi poſeſi conſiglio
al lor fu rore,e furono ricoverate a ſanità coll'elleboro nero, come vuol
Dioſcoride ; avvegnachè Galien giudichi , e con più falda ragione ,eſsere
ſtatolelleboro bianco,che ciò opera to aveſse . Il qualmedicamento apparò in
prima Melampo dalle pecore,come vuol Teofraſto , o più toſto dalle capre,
ch'e'guardava ,come ſcrive Plinio; le qualicon paſcer l'el leboro ſi purgavano
. Comechè alcuni portinoopinione eſser da Melampo l'impazzate donzelle guarite
non già coll’elleboro , ma con latte di capre paſciute in prima di quello ; e
altripur vogliano eſser non già quel Melampo caprajo , che loro il ſenno
ricoverato aveſse ; ma un'altro Melampo detto l'indovino : E Polianto ciò ad
Eſculapio attribuiſce , ſicome narra Seſto Empirico , ed Eudoilo appo Stefano
antichiſſimo Geografo : Ma che che ſia di ciò, non è da dubitare, che Melampo
dopo lunghe cerimo nie, e facrifici ,e ſuperſtizioni volle, che imprima le
impaz zate Donzelle fi lavaſſero in quella famoſa fonte d'Arca dia chiamata
Clitorio ; perciocchè in memoria di ciò vi ſi leggevano in un marmo que'
belliſſimiverfi rapportati da Iſogono antichiſſimo Scrittore dell'acque. Αγρότα
συν ποίμνεις το μεσημβρινόν ήν σε βαρύνη Δύψος αν εσχατιας κλείτορG- ερχόμενον
, Της μέν από κρήνης αρύσαι πόμα , και παρα νύμφαις Υδριάσι σήσον παν το σόν
αιπόλιον . Αλα συ μήτ' επί λετρα Gάλης κρόα μη σε και αύρη Πημένη θερμής εντός
εάνια μέθης . Φεύγε δ' εμην πηγήν μισάμπελον ενθου μελάμπες ΛεσαμενΘ- λύασης
ποιτίδας αργαλίης Távla xabaqueor fxoļev daóx gupov súr’ ár át' deyes συρεα
τρηχείης ήλυθεν αρχαδίης.. Perchè poi ſurfe conteſa infra gli Scrittori di
giudicar di verſamente quella cura : e altri dicono eſſere ftato il ſacri ficio
ſolamente, e'l bagno: altri l'elleboro; ma certamenre per quel che per
noiavviſar fi poffa, egli ſi pare , ch'amena due i medicamenti vi fuffer da
Melampo adoperati; perchè Pittagora così dice appreffo Ovidio: . Clito 24
Ragionamento Primo Clitorio quicumquefitim de fontelevarit ; Vina fugit:
gaudetquemerisabſtemius undis , Seavis eft in aqua calido contraria vine :
Sive, quod indigena memorant, Amithaone natus, Prætidas attonitas poftquam per
carmen , &herbas Eripuit furijs ;purgamina mentis in illas Mifit aquas;
odiumquemeri permanfitin undis. Al qual coſtuine avendo per avventura riguardo
l'Omero Ferrareſe volleche Aſtolfo faceſſe lavar più volte in mare il ſuo
forſennato Orlando pria che gli da se bere il licores avuto in Ciclo per
guarirlo: 1.0 fà lavare Aſtolfo ſette volte , E ſette volte ſott'acqua
l'attuffa Si che dal viſo , e da le membra folte Lava la brutta ruggine , e la
muffa. Ma non ſi contentava già disì fatti artificj ſoli Melampo, ma a render
più ragguardevoli,e famoſe le ſue cure ſi van tava anche come ſcorgerſi puote
in Sinelio 14 di ſapere in terpetrare i ſogni , e ſi valca oltre a ciò degli
augurj, e da va ad intendere a tutti che gli aveſſe Apollo inſegnata l'ar te
dell'indovinare , e che avendoſi egli allevate in caſa al quáte bilce, quelle
poi dormendoſi egli nel più alto filézio della notte gli haveſſero leccare
l'orecchie, ond'egli ſubita mére p paura deſtatoſi havelle inteſo preſlo
all'alba chiara mente i linguaggi tutti degli uccelli, os, parlando di Melāpo
dice Apollodoro, επί των χωρίων διατελών ,ε'σης πτό τε οικήσεως αυτού δρυός,έν
και φωλεος όφεων υπήρχεν αποκλεινανίων των θεραπόντων τους όφας,τα μη ερπετα ξύλα
συμφορήσαςέκαυσε τους και τ όφεων νερατους έθρε . ψενοι δε γενόμμoι τέλιου
σειράντες αυτώ κοιμωμδύω τώμων εξ εκατέρω : ma's exca's Txis gaca sesi
exclougor . o de avasara moi gerópfu were δεης των υπερπτπρίων ορνέων τις φωνας
συνία . και παρ' εκείνων μανθεί vwv, niuna arte dunque gianmaiebbe , per quanto
lo mi creda, tanto commercio colle menzogne , e colle frodi , e colle
ſuperſtizioni, quanto il meſtier della medicina. La qual cola così manifeſta ſi
pare a chiunque ſia di quella mezzanamente inteſo, che non abbiſogna al
preſente, ch'io 14 lib.3 . di van Del Sig.Lionardo di Capod. 25 di vantaggio mi
v'affacichi. Non però di meno non laſce ? rò d'accennare le ſtrane, e ridevoli
cerimonie, ch'adopera vano gli antichi in raccorre le piáte, acciocchè poi più
ma raviglioſi, eragguardevoli dalla ſcimunita gente giudicati foſſero i lor
medicamenti. Non poteaſi la Peonia coglier di giorno ; perciocchè dubitavano
non v'aveſſero a perder di preſente la viſta,ſe da qualche ghiandaja vi foſsero
in colti. Colui, che cavar voleva la Mandragola, conveniva, che ben ſi
guardaſse dal verto contrario : e prima dicavar la formavale con un coltello
incorno tre cerchi: e in divel lendola poi tener ſi voleva la faccia volta
verſo Occiden te : e mentre divellcvaſi faceva di meitieri, ch’un'altro le
andaſse intorno faltando, e ſghignazzando, e dicendo non foquali parole ſconce,
e laſcive , come racconta Teofraſto con quette parole . Περιγράφειν δε και τον
μανδραγόρgν εις τάς ξίφα: τέμνειν δε πεός εσπέραν βλέπονται τον δε έτερον κύκλω
περιορ - χεΐσθαι , και λέγειν ώς πλείσα πτρια φροδισίων τέτο δεόμοιον έoικε των
περί τξ κυμίνε λεγομλύω κατι την βλασφημίαν όταν σπείρεσ . Le Quali poida
Plinio nel ſuo volgar cavate non fur così intiera mente rapportate . Cavent,
dice egli, effofuri contrariun ventum , & tribus circulis ante gladio
circumfcribunt:poftea fodiunt ad Occaſum ſpectantes. Mach afsai maggiori
cerimonie cavavaſi preſso gli anti chi la Baara, la qual vogliono aicuni, che
altro certamente non foſse, che la Mandragola medeſima. Eglino in prima le
gittavan ſopra del ſangue metruo , o dell'urina delles donne , quindi cavandole
intorno alla barba la terra liga vanla cautamente dietro un cane ; il qual poi
chiamato dal padrone in correndo la ſtrappava di terra , e di preſente ne moriya.
Cosìda Giuſeppe Ebreo vien narrato a dágay γος δε και κατά την άρκτου
περιεχέσης την πόλιν βαάρας ονομάζεται τόπος φία σε ρίζαν ομωνύμως λεγομένην
αυτώ αύτη φλογί μεν την χροιαν έoικε , περί δε τοις εσπέρας σέλας απασρέπτεσα
τους δε επιεσε και βε λομένοις λαβείν αυτήν εκ έσιν ευχείρώτος αλ' υποφεύγει
και επόπρον ί' Edi quell'altro delmedeſimo Ariſtotile , che il tralaſciar da
parte i ſenfi per laſciarne cie camente alla ragione guidare, d'aſſai debolezza
d'ingegno ar gomento ſia ? O forſe non fu egli del medelimo ſentimento anche
Galieno ? ecco le ſue parole : coloro tutti da giudicar fono , anzi forſennati,
che ſavj, i qaali potendo le coſe pie namente comprendere , ed apparar da'
ſenſi, voglion pures che da apprender fieno dalle ſoledimoſtrazioni . Ealtrove
il medeſimo autore: è dottrina da tiranno , e piena di confu fioni , e di
contefe quella di coloro , che ſolamente agli altrui detti s'appoggiano. E di
grazia leggan pure una volta il me deſimo fentiinento nel loro Avicenna ; e ſe
non altro , va dano, e sì l'apparino dal Principe de' Teologi , Giovanni Scoto
54 Ragionamento Primo Scoto , ove dice , che tutti coloro, che'a' ſenſinon
voglio no dar fede , degni giuſtamente ſieno delle fiamme. E ſap piano di
vantaggio, che chiunque abbia qualche ſcintilluz za di ragione , diqualunquc
Serta egli ſi ſia , debba pure con quel gran lume della Galienica, e
dell'Ippocritica medicina Niccolò Leoniceno dire : non debemus profecto de
Situere ita nosmet ipfos, ut aliorumfemper veſtigia fequentes, nihil ita per
nosmet ipfos decernamus. Hoc enim verè effet alienis oculis videre , alienis
auribus audire , alienis naribus odorare , aliena ſapere intelligentia : ac
nibil nos aliud quam lapides effe ftatuere, fi omnia alienisaffertionibus
committe remus , nihilque à nobis ipfis diſcutiendum putaremus . E queſta
pertinacia medeſima un'altro parzial di Galic no ( 1) oltremodo tacciādo,prende
a narrare un piacevoliſ fimo avvenimento; cioè, che un pubblico lettore uſato
lun , go tempo , ed invecchiato in ſu'libri d'Ariſtotile , abbatté. doſi per
avventura un giorno in una notomia , e veggendo manifeſtamente la vena cava
dalle innumerabili fila , ora dici , chę ſon nel fegato la ſua originç trarre ,
tutto ingom, bro , e pien di maraviglia , Come chi mai avf4 incredibil vide,
confeſsò , che nel vero per quel, che gliene moſtraffero i fenfi la vena cava
diramar dovelle dal fegato ; ma non per ciò egli credédo a' fenfi contraddir
doveffe al ſuo maeſtro Ariſtotile , il quale tutte le vene nell'huomo aver
principio dal cuore, coitantemente afferma; perocchè,diceva egli, più agevole
allai eſſere , i noſtri ſenſi talvolta ingannarſi, che il grande , e fourano
Ariſtotile in errore alcuno giammai eſſere caduto . E più avanti cbbe di male
la ſua oſtinazio ne,chę vegnendo per alcun diinoftro in brigata d'huomi ni
letterari,eſſere intorno al cuore alquanta lugna , la qua le a ficvol lumicino
di candela liquefacevali, con tutto ciò per difender oſtinatamente il ſuo
Ariſtotile, negante law medeſima coſa , osù pur dire , che quel dalui veduto
non era miga graſcio . Maaſai per certo piacevole egli ſi è ciò , che a tal pro
poſito anche narra il chiariſlimo Redi, che un ' profondo 1 1??30 , ( 1 )
Santoro. DelSig. Lionardo di Capoa mac ro in iſcriteura peripatetica , perchè
non veniſſe egli coſtretto a confeſſar per vere le ſtelle , ed altre nuove core
dal gran Galilei in Cielo ravviſato , ricusò l'ajuto dell'oc chiale ; e ch’un
altro più teſtereccio non volle mai degnar di vedere aprir da lui una di quelle
picciole rane , che per le polveroſe ſtrade in tempo diſtato ſpicciano , per
non eller altresì coſtretto a confeſſare , ch'elleno non s'ingene rino nello
ſtante dell'incorporamento della gocciola con 1.2 polvere. Maove Io ferbero di
narrare i piati, e le conteſe, che nella medicina del nobiliſſimo medico
Proſpero Mar ziano in Roma s'accrebbero ? il quale di non volgare dot trina , e
di faggio avvedimento fornito , quanto avea dita lento, ed'induſtria, tutto
glorioſamente in iſpicgare la doc trina d'Ippocrate impiegando, diè
manifeſtamente a vede re , che allai ſovente Galieno,o non aveſſe compreſo,o
non avelle comprender voluto il vero ſentimento di quelgran vecchio . E ciò
anche Pier Caſtelli narrando dice, che Ga lieno così parimente foſseſi
adoperato in iſpicgar del divi no Platone i dottilimi ſentimenti : Galenus ,
vel non intel . kexit, vel intelligere noluit Hippocratem , & Platonem , ut
ſua extarent. Quindida'rimproveri , e da’mordimenti dilui difende il laviffimo
vecchio , ſpezialmente intorno alle c.2 gioni delle febbri, coſtantemente affermando
, non ſola mente Ippocrate non avere a ' febbricitanti giammai pre ſcritto il
lalaro , ſe non ſe ove caſo di grande infiammagio ne d'entro richieſto l'avelse
: il che già prima di lui piena mente Girolamo Cardano avviſato avea; anzi per
ſentimé to d'Ippocrate vudl , che la febbre una di quelle cagioni ſia, che il
ſegrare affatto abborriſcono . E queſte , ed altre buone dottrine il
valent:huomo del Marziano faggiamente manifcftando , ravvivò con eſle la caduta
, c quali eftinta ferta del ſuo caro Ippocrate . Ma non ſolo come fin ora abbia
dimenticato una dona na , la qual comechè tale , pur merita d'eſsere in
iſchiera de' più nobili letterati annoverata . Io dico la Signoras D. Oliva
Sabuco: Co Ragionamento Primo 1 Coſtei gl'ingegnifemminili , egli uſi Tutti Sprezzo
fin da l'etade acerba : A’ lavori d'Aracne , a l'ago , a' fufi Inchinar non
degnò la manſuperba: Ed eſsendo ella di valore, c d'ingegno più che maſchile
abbondevolmente fornita , animoſamente fi iniſe col cere vello , e con l'animo
ad inveſtigar le coſe naturali; e più ol tre avanzandoſi, ed in biſogne di
maggior utile , e prò la mente rivolgendo , acciocchè le Spagne, e'l mondo
tutto qualche concio ne traeſsero, ad un nuovo , ed ingegnoſif fimo diviſo
dimedicina diè maraviglioſamente principio . Ella così all’Auguſtiſſimo Monarca
Filippo Secondo d'e terna ,e glorioſa memoria in una lettera ſcrivédo,iſuoi pre
gi manifeſta. Reſulta muy clara y evidenteměte, como reſul ta la luz del Sol,
eſtar errada la medicina antigua que ſe lee yeſtudia en ſus fundamentos
principales, por no aver enten dido ni alcançado los Filofofos antiguos y
Medicos, ſu natu raleza propria, dondeſe funday tiene ſu origen la Medicina.
Delo qual no ſolamente losſabios y ChriſtianosMedicospue den ſer juezes, pero
aun tambien los de alto juyzio de otras facultades , y qualquier hombre abil
yde buen juyzio. E quin di poco appreffo : y el que no la entendiere ni
cumprehendie re , dexela para los orros y para los venideros , o crea a law
eſperiencia, y no a ella , pues mi pericion es juſta, queſeprue ve efta miſecta
un año,pueshan provadola medicina de Hip pocrates y Galeno dos mil años , y
enella han hallado tan poco effecto y fines tan inciertos , comoſe vee claro
cada dia , y so vido enelgran catarrotavardete , viruelas, y en peftes paf
Sadas , y otras muchas enfermedades dondeno tieneeffetto al guno , pues de mil
no viven tres todoel curſo de la vidabaſta la muerte natural : y todos los de
mas mueren muerte violen ta de enfermedad , fin aprovechar nadaſu medicina anti
gua . E nel dialogo della vera medicina : Nomepodreys negar (Señor Doctor ) que
la medicina eſcrita que ufays eſta incier. ta , varia y falta y que ju fin , y
efeto fale incierto , falfu y dudoſo,como vemos claramente ellasde m34s artes
iener füis 1 1 fines Del Sig.Lionardo di Capo a. 57 20$ fines y efetosciertos ,
y verdaderos fin variacion , ni engažo, comola Aritmetica, Geometria, Musica,
Astrologia, y las de mas , que a quel fin , y bien que prometen , lo cumplen, y
fale cierto ſiempre y verdadero. Todo lo qualbien vers que falta en la medicina
,pues eſta tanengañoſa , incierta; yva ria :luego claro eſta que eſta arte
tiene algunafalta en las raga zes , y fundamentos ,pues no echa el fruto,
conforme a lo quc promete, que muchas vezes esperamos lindas māçanas echa
eſcaramujos agallas y niſpolas :lo qual al buen juyzio pondra en duda, y dira
por ventura, Eſte aunquepaſtor trae , razon , que los antiguos tambien fucron
ombres como eſte. E più ſotto ſeguendoil medeſimo ſentimento ſoggiunge: No nze
podeys negar ,Señor Doctor , la incoſtancia, y quantas ve zes fuemudada la
medicina , y que eſtuvo vedadamucho tič po en Roma , y que muchos ſabios mo le
han dado credito , ni ſe han querido curar con medico por las cauſas que tengo
dichas, que ſon degran eficacia . Ylos Sarracenos, y los del Reyno de la China,
no admiten inedicos , j' ay mas gente que en Eſpaña . Y eſosmiſmos autores
antiguos , graves le ponen gran dificultad , diziendo , que la vida esbreve, y
el arte es largo , el juyzio difficultoſo , la eſperiencia engañoſa , & c.
I dixo Hippocrates : que perfecta yacabada certinidad de la medicina no ſe
alcanca , y no me podeys negar , Señor Do Etor que fueron hombres, cimo
noſotros: y que ſus dichos , no forçaron a la naturaleza del hombre, a que ella
fueffe lo quc ellos dezian , que ella ſe quedo en lo queera , y ſu dicho no la
mudo , y pudieron errar como hombres,pues tantas vezes fue frrada y mudada ,
como lo podeys veren Plinio , donde dize que ninguna de las artes
fuemasincuſtante ,y mudable, que la medicina : y que cada dia ſe mude. Più
oltre crapaffala signora D. Oliva , i cui fourani pre gi nou è mio diviſo al
preſente raccorre , ed annoverare , che troppo a lungo ne verrei . E baſterammi
accennar ſo lamente molte coſe averſi alcuni de'più rinomati autori in veſtite
, inillantando falſamente, ſe eſſere ſtati i primi a mani feſtarle , come
intorno all'ordimento , che tien la natura in compartire alle parti de'corpi
animati il nutriinento, che H cla 58 Ragionamento Primo ellämolto avanti
ravvitate appieno , e glorioſamente già paleſate ne'luoi libri l'avea . Surſe
dopo coſtei nella noſtra Italia un novello Siſtema di razional medicina, e fu
gentil trovato diquel celebre filoſofante , e maeſtro in divinità Tomaſſo
Campanella . Non miſe egli già le mani all' opere della medicina : ma pure
ſpiar volle di quella i più ripoſti arcani ; e comeage vol fu al ſuo pellegrino
intendimento lo ſceverar la ſua fi loſofia dalla volgare , che nelle ſcuole
comunemente inſe gnavafi , così potè ancheordinar con belle dottrine un'al tro
trovato dirazional medicina , e quindi ancor ne ſegui rono molti, e varj
rimeſcolamenti, e conteſe nell'arte. Ma i ſegni, e le coſtoro mete , o quanto
trapaſsò gene roſo a’giorni noſtri il grand'Ermete della balla Germania ,
Giovan Battiſta Elmonte , che con più alti apparecchi , e colla mente di più
nobili arredi fornitas tentò Ia grand'im preſa , onde vie più s'accrebboro i
contraſti , e le miſchie . Coſtui a ſingolar acutezza d'ingegno, cãdidezza
accoppia do di non volgari coſtumi, rivolto curioſamente alla Spa girica ,
intorno allo ſcioglimento de’naturali corpi tutto dieſſi, e ne a fatica,ne a
ſpeſe giammai perdonando, tant'ol. tre avanzoſi, che laſciandoli dietro l'orme
glorioſe dal Pa racelſo ſegnate s nórimai ſi riſtette', fino a tanto, che ull
maraviglioſo , e non più udito liſtema di razional medicina egli giunſe
felicemente a formare . E a qucſta medeſima guiſa veduto abbiamo a ' di noſtri
per lo ſentiero dell'immortalità, e della gloria avviarſi a gran paſſi co'l ſuo
novello ſiſtema di razional medicina il celebre Tomaſſo Vilfis ; ne di
leggieripuò crederſi, qua to egli con ogni ſtudio maggiore proccuraffe
d'ammannar tutto ciò , ch'avvisò dovergli farluogo a sì nobil lavoro : e con
qnale sforzo, con qnai ſudori, con quali vigilie egli s'adoperaſe per condurlo
allo intero ſuo compimento. Ma non vi durarono minor fatica", ne minore
induſtria adope rarono per fomigliante impreſa , e’l Silvio , celebre per lo
innumerabile drappellode Fuoi ſeguacije'l Gliffonio ,e l'El vezio , e'l
Meſfonieri; e'l Travaginis , ed altri illuſtri l'ette rati Del Sig.Lionardodi
Capoa . 59 rati dell'età noftra , a molti de'quali, che che ſtata ne forte la
cagione, non è venuto fatto di poter mettere fuorii loro concetti. Taccio al
preſente di que'valent' huomini, che tuttavia ſudano all'opera , e colla ſcorta
de’moderni trova ti della notomia , e della moderna filoſofia naturale, ſpera
no, quando che ſia divenire a capo de’lor generoſi diſegna menti dietro a yarj
ſiſtemi di razional medicina. E taccio altresì di coloro, che ſottilmente van
tutto di diviſando (i ſtemi di ſperimentale, e di metodica medicina , ma
dall'an tica gran fatto varia , ediſcordante , Ma o quantoperciò più le têzoni
de Medicine ſiano acceſe con porre ſottoſo pra , ed avviluppar la medicina
tutta , non fa meſtierial preſente narrare , ſe tutto dì co’propj occhj
apertamente il veggiamo. Perchè ſe a'dì noftri l'eloquentiſſimo Plinio vi vo
fosse, griderebbe dicerto più che mai con quelle ſue adirate parole: mutatur
ars quotidie toties intarpollis, & in geniorum flatu impellimur , non già
di que’della Grecia ora Icioperata , e incodardita ſotto'l giogo della barbarie
; ma di que'celebratiſſimi dell'Inghilterra, e d'altre Provincie , da lui
ne’tempi ſuoi barbare giudicate , Malo ormai giunto mi veggioal più copioſo
ſtormo de medici,in tante ſchiere , e tazioni partita , e quaſi ſtraccia ta
veggendo la medicina, che ormai per ingegno umanono fi può più avanti partire.
F ſon coſtoro que'cutti,che nondi Greco , o di Latino, o di Barbaro, o d'altro
ſtrano ſcrittone , modernoso anticoch’e'ſiaſi,ſeguirvogliono la peſta ,ed a gli
altrui ſentimenti ſempre ligarſi; ma liberi affatto , e ſciolti gir con
iſpedito voloi valtiſſimi Regni della natura fcorré do ; quindi cozzando contro
i più duri, cd oftinati malori con quell'armi , ch'a coſto delle propie fatiche
s'acquiſta rono ,nonpreſe , o tolte da gli arſenali altrui , ed alla cic ca
adoperate , fanno con glorioſe impreſe render eterni , e illuſtri i lor nomi.
Così nulla altrui credendo , ſalvo ſelor non venga da propj ſenſi, o da certiſſima
ſperienza appro vato , tutcoyogliono ſpiare , a tutto penetrare, e tutto ſot
tilmente con occhio curioſo eſaminare ;ne per iſmaltire hā no altre ragioni,
che quelle ſolamente,ch'all'avvedutezza H 2 del 80 Ragionamento Primo delloro
intendimento confannoſi . Ed eſſendo a tutte ſet te contrari, e a niun
de'ſertegiantiaffatto nimici, giurano che in queſta guiſa,più che altri
oftinataméte fi faccia, l'or me d'Ippocrate , e di Galieno vengano ſopratutto a
ſegui tare . E perciocchèlo giudico , che aſſai monti al noſtro intendimento il
vedere, ſe una tal libertà , debba loro eſa fere permeſfa: priegovi o Signori,
poichè a baſtanza par mi d'aver ragionato, nella vegnenteaſsemblea ad udir loro
ragioni. RA 81 RAGIONAMENTO SECONDO, 322 ) EBBO per ſoddisfare all'obbligazion
del la mia promeſsa diviſarvi oggi,o Signori, le ragioni di quei filoſofanti ,
che alla li bertà de'loro ingegni alcun freno di fer vitù generoſamente
ſdegnando , voglion gir liberi a lor talento fpaziando pe' vaſti, e ſiniſurati
campi della Natura . Ma conciosſiecofachè el le fien molte , e molte , e tutte
di gran lieva ,io non ſo qual prima mi debba dire , quafdopo ; ſenzachè a me
non fu conceſſa in ſorte larga vena diben parfare , perchè con purgato ſtile
ſpianandole ( e quale alla lor dignità per av ventura ſi converrebbe ) la for
ſaldezza , e valore veniffer per voi più chiaramente compreſi. Ma forſe hanno
elle an cora ciòdi vantaggio , che rôzzamente accennatc poffano, e pregio , e
commendazione non ordinaria da voi merite volmente ricevere . E per venirne
omaia capo, parmi che alcuno autor di quelle a queſta guiſa d'eſſo loro
parlamen , tando potrebbe imprenderne il filo . Egli non alzò certamente natura
con ſingolar vantaggio fovra tutt'altri animali all'huomo inverlo il Ciclo la
fronte ; di sì 68 Ragionamento Secondo di sì generoſi , e ſublimi, e liberi
ſpiriti abbondantemente fregiandolo , perchè egli poi qual paluſtre mergo ,
raden do lempre maiil ſuolo , non avelle ardimento di battere generoſamente in
alto le penne, per potere da ſe medeſi mo ſpiare, e inveſtigare quelle si
varie, e sì ſtrane apparen ze , onde bello ſi rende , ed ammirabile l’Vniverlo
; ma acciocchè largamente per tutto ſpaziandoli , il tutto e'cer chi, il tutto
e'ravviſi,il tutto e' pienamente comprenda , non già nelle copie incerte , e
ragionevolmente d'error ſo ſpette , manel primo , c vero loro originale . Così
quell' Aquila deGreci filoſofanti glorioſamente adoperando, con felice., e
ſpeditiffimo volo Proceſſit longè flammantia mænia mundi, Atque omneimmenfum
peragravit mente ,animoque. E pure ad onta d'una sì provveduta madre, v'hà chi
a dáni, ed a rovina diſe , e de gli altri Segnò le mete , e'n troppo brevi
chioſtri L'ardir riſtrinfe de l'ingegno umano , facendo sì , che i troppo
creduli, e ſciocchi poſteri ad altro non badaffero , ch'a leggere, c rileggere,
e tutto dì di chio ſe , e di coinenti gli arzigogolise le fanfaiuche d'un mondo
tutto fantaſtico caricare . Quicfto non volle già,che faceſſe in modo alcuno il
giovinetto Lidia , quel gran maeſtro della greca filoſofia Antiltene : quando
di nuovo libro , di nuoyo ſtile , ditavolette nuove a doverſi fornir gl’impoſe
', fe filoſofar con ello lui voleſſe ; e ciò , perchè egli compré deſfe , che
le coſe ,che per lui , da regiſtrar foſfero , eſfer quelle non doveano , che
già da altrui ſcritte in prima , diviſate ſi erano .. Eciò anche molto innanzi
ad Antiſtene inſegnò quell'antichiſſimo Savio , che primadi tutt'altri,
Filoſofia chiamò con nome degno, quando a ' luoiſcolari diceva , non doverſi da
loro nella , popolare ſtradaconfuſamente co'l volgo ignorante cammi nare .
Equeſta libertà nelle ſcienze ciaſcun'altro de più ce lebri , e rinominaci
filoſofi comunemente ancor richieſe : c da più illufri medici, e per valor
d'ingegno , e per opera di mano eccel'éti faclia Grecia futta oltre modo abbrac
ciata. Del Sig. Lionardo di Capoa. 69 ciata . La cui altezza d'animo
ſaggiamente imitar volle il famoſiſſimo medico , e filoſofo Claudio Galieno ,
ficome in più luoghi ne da pienamente teſtimoniāza nelle ſue ope re, o quand'egli
oltremodo uccella , e berteggia i tenacif ſimi ſeguaci d'Eraſiſtrato ,i quali
a' detti di lui , come agli oracoli d'Iddio riverenti s'acchetano,faldiſſime,
ed infalli bili verità , ſempre mai giudicandole, o quando coſtante mente
afferma eſſer egli d'ingegno rintuzzato affatto , ed abbattuto lo farſene
ſcioccamente a’derti, ed alle ſenten ze , cd a'giudicj altrui , non volendo
coſa alcuna bilancia re , ne punto a lor paſſare innanzi: o quando altrove
iſtan cemente priega , e ſcongiura i parteggianti tutti a por giù la ſcabbia ,
e'l furore , e la ſtolta follia delle ſette : 0 quin do adiratamente grida
effer dura , e malagevole impreſa a ridur coloro alla ſtradadella verità , i
quali già ſotto il ſera vilgingo di qualche ſchiera ſottomeſſi fi fieno . Quindi
la ra gion recandone ſaggiamente ſoggiugne, che le falſe opinio niingombrando
gli animidegli buomini, non folamente fordi, ma ciechi ancora
renderglifogliano, intanto che ſcorger affat to non posſano ciò , che altri di
neceſſità rimira . O quando altrove proteſta , eſſer egli un male da non potere
in verű modo guarire,la folle , e ſciocchiffima caponeria di cotali
parreggianti; e di qualunque ſcabbia più dura affai, e ma ſagevole a trarre : e
che cotali uccellacci non che fappian , giammai nulla di buono , anzi ne men
d'appararlo ſi ſtudj no : o quando ſtizzoſamente ſclama, amarpiù toſto, coloro,
cfer della patria , che della propriafetta traditori , e rubelli. Et o piaceſſe
pure al Cielo , che coralidetti non ſi vedeſ fero a giornate dall’oſtinatiffima
pertinacia di coſtoro av verativolendo : più toſto manifeſtamente uccidere i
miſeri infermi , che ſpiccarſi punto daʼnocevoliſentimenti de’loro amati
Maeſtri . Ma perchè dobbiam mai ſempre noi con follc oſtinazio ne laſciarci
trarre afreverendiſlimo parer degli antichi? for ſe non ſono ſtate lor molte
coſe a grado , ch'a noi ſpiace voli ora ſono , ed affatto nojofes Cosi 64
Ragionamento Secondo 1 Cosi la gente prima,chegià viſe Nel mundo
ancoraſemplice, ed infante Stimò dolce bevanda , e dolce cibo L'acqua , e le
ghiande, ed orl'acqua, ele ghiande Sono cibo , e bevanda d'animali , Or che s'è
poſto in ufoilgrano, e l'uva , O forſe alcuna coſa , ch'al lor cortiſlino
intendimento vera parve, ora falliſiima manifeftaméte p opera degli ingegnoſi
moderninon ſi è ſcorta ? Così ſon veriſſiine prove de’mo derni notomiſti il
ritrovato dell'aggiramento dei ſangue, delle vene lattec, edel códotto del
Virſungo ,e del ſaccolat to, e de'vali acquoſi, e degli uſi delle glādole, e
d'altre par ti, e altri infinici nuovitrovati ,che crollano, c ſcovolgono,e
da’fondamenti abbattono , cd atterrano ogni razional ſi Atema d'antica medicina
. O forſe farà egli colpa degli in nocenti moderni l'effer' eglino nați dopo
gli antichi auto rir ma ſe ciò è fallo , e colpa , certamente commiſerla in
prima coloro , i quali da' ſentimenti de' loro più antichi maeſtri tralignando
, e nuove ſchiere di filoſofia , c di me, dicina anmutinando , ofarono in prima
novelli ſcolari ri bellarc a'loro antichi maeſtri, e darne nocevole cſemplo di
si follo , e temerario ardiinento . Imperciocchè ognianți co a'tempi ſuoi fu
moderno ; perchè figgiamente il Princi pe Claudio Ceſare apppreſſo Tacito ebbe
a dire : quæ nunc vetuftifſima creduntur nova fuere : inveterafcet feculum no
firum, & quod hodie exemplis tuemur , inter exempla erit, (1 ) cd a queita
medeſima cagione avendo riguardo un mo derno Poeta contro que' , che per eller
egli moderno biafi mavano il Paracelſo , in ſomigliante guiſa conchiude , Qui
nova damnatis , veteres damnetis oportet ; Aut iſta nihil eft in novitate novi
Saran dunque acerbamente da vituperar Platone , Antiſte nc , Eſchine, ed
altrifamoſiſſimiingegni, i quali poſto in non cale le vecchic ſcuole , che
allora nella Grecia fioriva . no , a quella di Socrate , che nuova era , per
imprender fi loſofia coraggioſamente ſe'n girono ? anzi ne furon perciò foin (
1 ) Etienne Paſquier . 1 1 Del Sig. Lionardo di Capoa 05 sómamente da
cómnendare. E nuove altresi furono le ſcuole di Platone:e pure Ariſtotile,e
Senocrate,e Speuſippo,ed al tri molti cotăto tépo v’uſarono; 11e alcuno ebbe
perciò giá mai ardiméto alcuno di biaſimargli . E dalla novella ſcuola
d'Ariſtotile in tanta gloria mótò Teofraſto per l'uſarvicon tinuo , che uguale
, e forſe al inaeſtro ſuperior ne divenne; perchè dal padredegli ſtoici
filoſofanti Zenone , funne poi grandemente lodato. E nuova anche fu la ſcuola
di Zenga ne , e nuova quella d'Ariſtippo , e quella di Fedcne, equel. la di
Euclide daMogara . Così anche fur nuove le ſcuole d'Eubolide , d'Epicuro , di
Menedemo , d’Arcuila , e d'al tri molti maeſtri di filoſofia , e pure per
huoinini illuftri,ed egregj, alle vecchie , e famoſe ſcuole degli antichi
filoſofan ti furono antipoſte , riportandone ſempre mai buon nome, e fama non
ordinaria dicandidi, e veritieri ſcrittori di que tempi . E perchè nó ſarà
lecito anche a noi tralaſciando le vecchie ſcuole ad una novella indirizzarci,
e maſſimamen te in quelle coſe , ove già i manifeftiffimi errori degli anti chi
maeſtri abbiam compreſi ? E forſe ſarebbe a tanta altezza pervenuta la nobiliffima
arte della pittura , ſe gli antichi maeſtri paghi ſolamente della rozžillima
imitazione del vecchio Filocle,nö ſi foſſero ſtudiati di vantaggio con la loro
induſtria di limarla : e col tirar ſolamente le linee dell'ombre de'corpi
aveſſero così alla groffa ſchizzate ſempre le lor confuſe, e diſtinate figu re
? O forſe fu egli troppo ardimentoſa tracotanza dell'in gegnoſo Cleofante , odi
Parrafio , o di Polignoto , o di Zeuſi, o d'Ag laufone , o del vaghiſfimo
Apelle il dar loro più vivi i colori,e più regolati i diſegni,e più ſquiſite le
om bre , onde poi vive , e perfettiſlime riſaltando,n'aveffero ,e gli augelli ,
e i deſtrieri, ei cani , ei maeſtri medeſimidell arte glorioſamente ad
ingannare ? così anche i noſtri avan zandoſi di mano in mano l'un l'altro
a'tempi di Dante Ali ghicri, Credette Cimabue ne la pittura Tener lo campo, ed
or ha Giotto il grido; Si cbe la fama di colui ofcurawi I Quin 86 Ragionamento
Secondo Quindi fu il famolo dipintor di Madonna Laura Mae Itro Simone cotanto
commendato dal Divino Petrarca, ed altri famoſiſſimi dipintori. Ma ſopratutti
ſi tolſero il van to , ed al preſente s'ammirano comemiracoli dell'arte l'o
pere maraviglioſe di Rafaello , e di Tiziano , e di quel grande Michel più che
mortale Angel divino. Necertamente potrebbe la Grecia gir ſuperba, e altiera
della ſonora tromba del grand'Omero,del grave coturno di Sofocle della ſublime
lira di Pindaro, e de' ſouviſlimi verſi d'Anacreonte , di Teocrito , e di
tant'altri illuſtri , c nobili Poeti ; o Roma de' ſuoiLucrezj , de’ Virgilj ,
de’ Catulli , de' Properzj, de' Tibulli , degli Orazj . Ne la Spagna
ammirerebbe l'altiſſiino canto del Camoes, e le colte rime del Garzilaflo . Ne
goderebbe la Francia l'ornato ſtile del dottiſſimo Ronzardo , e del Bert: ſſo.
Ne il noſtro più ,che tutt'altri, dolce,vago,e bello Idioma, vātar potrebbe il
divi no cato dell'incóparabile Torquato Taſſo ,di Giovani della Caſa , o la
maraviglioſa evidenza dell'Arioſto , e dell'Ali ghicri,o la dolciſſima muſa del
Petrarca,del Bébo,dell’Ala māni, del Triſlino, delMolza,del Guidiccione ,del
Taffo Pa dre,del Guarini,di Galeazzo di Tarſia ,edi altri,ed altri no bili
ſpiriti,che di valor colla ſuperba grecia gioſtrano ,o pur la vincono , ſe
coſtoro tuttida'veſtigj de'rozzi antichi non aveſſero oſato d'allontanarſi; il
perchè faggiamente ebbe a dire Iſocrate:yeggiamo noi l'arti,e tute'altre coſe
eſſer van taggiate , e creſciute non già per coloro , che le comunali, e
uſitate ritennero , ma per coloro , che d'ammendarle , e torne via glierrori ,
e migliorarle preſero ardimento: ta's επιδόσεις δρώμεν γινομένας, και των
τεχνών , και των άλλων απάντων , και δια της εμμένονάς τοϊς καθεξώσιν , αλα δια
τηςεπανορθένας, και τολμώνας «ί τι κινείν των μη καλώς εχόντων . Ε fe cio fi
vedea giornates anche in quelle arti avvenire, nelle quali pare , che omai poco,
o nulla fi poffa più oltre andare , e pure non vi ha altra ſtrada d'avanzarli a
maggior perfezione, che del mai ſempre nuove coſe inveſtigare: perchè non ſi
dourà an che ciò alla filoſofia , ed alla medicina permettere ? malli mamcn
DelSig.Lionardo di Capoa . 67 mamente , che il campo di eſſe è queſto si vafto
, e grandif ſimo teatro dell'univerſo, nel quale ad ore , ed a moinenti apparir
tutto dinuove , e nuove coſe fi veggiono , da te nervi i più ſublimi, e pellegrini
ingegni mai ſempre img piegati . Multa dies , variufque labor mutabilis ævi
Rettulit in melius; ſenzachè certiſlima coſa è , che'l mondo più ſempre mai col
tempo invecchiando ,dinuovi , ed utili ritrovati per la noſtra ſperienza di
mano in mano i ſecoli arricchiſce . Co sì noi veramente ſiam da dirci vecchi ,
e gli antichi, i quali nel vecchio mondo ſiam nati , e non que’tali , che nelmo
do infante, e giovane,men di noi ſperimentando conobbe ro . Anzi coloro , che
per innanzi naſceranno , più di noi ſaran vecchj , ed antichi, e conſeguentemente
d'eſſer più di noi dotti, e ſperimentati , e diquant'altri per l'addietro mai
furono , auran cagione . Ed a propoſito di ciò ſovven gonmi quelle belliſſime
parole del gran Baccone da Vero lánio: de antiquitate autě(dice egliopinio
,quam homines de ipfa fovent,negligens omnino eft, ex vix verbo ipfi congrua :
Níundi enımſenium, & grandavitas pro antiquitate vere habendafunt;quæ
temporibus noftris tribui debent,non junio ri ætati mundi, qualis apud antiquos
fuit. Illa enim ætas re Spectu noftri antiqua, &major ; reſpectu mundi
ipfius,nova , minor fuit.Atque revera quemadmodum majorem rerum humanarum
notitiam , á maturius judicium , ab homine fene expectamus , quam à
juvene-propter experientiam , & rerü , quas vidit , & audivit, &
cogitavit, varietatem , copia eodem modo, do à noftra etate (fi vires ſuas
nuffet , & expe riri , &intendere vellet)majora multo , quam à prifcis
tem puribus expectari par eft ; utpote ætate mundi grundiore, infinitis experimentis,
& obſervationibus aucta, & cumulata . E in verità , chi ha mai tante ,
e si diverſe maraviglie in Cielo , e in terra , e nell'acqua, e negli augelli,
e ne’peſci, e ne' bruci animali, e nelle piante ſcovrir potuto , dove turto di
attenti , ed intricati gli ingegni tutti de' più ſottili I 2 filo 88
Ragionamento Seconda filoſofanti viſi aminirano, ſe non ſe la noſtra età , cioè
a dire il mondo vecchin, il quale ne va nuove maraviglie di giornata in
giornata rappreſentado; intanto , che ora d'ogni tempo quafi n'è lecito a dire.
quod optanti divum promittere nomo Auderet , folvenda dies en attulit ultro .
Oltre a ciò gli antichi ſavj, ſicome i confini delle loro co trade appena
s'argomentarono di paſſare , così altii ani mali,altre piante,ed altri minerali
fuori di quelle non iſpiar mai, ne conobbero , e ſe ne rimaſero alla ſemplice
relazio ne de'marinari , c d'altre perſone idiote , e volgari , dalle quali
ingannati,ne ſcriſſero poi tante incredibili bugie . E chi potrebbe mai tener
le rila in leggendo ciò , che Erodo to favoleggiò dell'incenſo, dicendo, che
gli Arabiil colga no profumando in prima l'arbore con iſtorace : iinperocchè
fra irami di quello s'appiattano folti (tuoli di ſerpentelli coll'ali di
variati colori : τον μέν γε λιβανωτον συλλέγεστ , την σύeακα θυμιών της . E non
guari apprefio,τα γαρ δένδρεα Gύτα του λιβανωτοφόρ , όφιες υπόθεροι και μικροί
τα μεγάθεα, ποικίλοι τα είδεα , Qurárrs01 , Trnýber mondo, me ei sér d por
exasov . E del Laudano ,affer: mò eſſer quello odorifero , e dilettevole a
fiutare , e pur na ſcere in luoghi puzzolenti , e ſpiacevoli; e che ritrovaſi
ſu le barbe de'becchi a guiſa di muffi, che naſce da' legni pu tridi: έν γαρ
δυσοδμοταίω γινόμενον,ευωδέ αλόν εσ • των γας αιγών των τζάγων εν τοίπ πώγωσε
ευρίσκεται έγινόμενον , οιται γλοιός από και o'rins . Ma Rufo da Efeſo dice ,
alle barbe delle capre ap piccarſi il L.audano allor che le frodi del Ciſto van
ghiot tamente paſcendo Αλο δε πε κατι γαίαν έρέμβων λήθανον εύροις Αιγών αμφί
γένια • το γας καθύμιον αιξε Κισσε ανθήενθG- επέδμεναι άκρα πίτηλα Τον δ' από
λαχνήεν7G- ανεπλήσθησαν αλοιφής Λίγες υπαί λασίασε γενίασε πλευρά τε πάνω . E
forſe il medeſimo volle dire Erodoto. E ſimilniente fi pare , che credeſſe
Dioſcoride colà, ove ſcriſle parlando del Ciſto : Imperocchè pafcédo le ſue frõde
i becchi, e le capre lor fu la barba, e ſu'l vello dell’anche s'appiaitriccia
quella tena DelSig.Lionardo di Capoa. 69 tenace graffezza , onde poi
pettinandola la raccolgono i Paſtori, e colata non altrimenti, che ſi faccia
del miele, e ne forman paſtelli, e la ripongono . Sonyi alcri, che tirando, e
sbattendo certe corde ſopra queſti arboſcelli raſchiano poi la graſſezza ,
chevi s’appicca, c fannone paſtelli, e a quefta guifa la riferbano:τα φύλα γας
αυτού νεμόμεναι αι αίγες και οι τεάγοι ή λιπαρίαν αναλαμβάνει το πώγωνα
γνωρίμως • και τους μερούς πτοσπλαήoμένην δια το τυγχάνειν ιξώδη• ην αφαιρώντες
ύλίζει, και απο τίθενζι αναπλάοσοντες μαγίδας · ένιοι δε και χοινία επισύρεσι
τοις θάμνοις , και το πζοσπλασθεν αυτοίς λίπG- αποξύσαν τις αναπλάσει: Il medeſimo
dir vollc Plinio , ma in traslatido le parole di Dioſcoride poco bene
peravventura intendendo la parola Jauvois, e l'altra unigovor ſcriſſe : Sunt
qui herbam in Cypro , ex qua id fiat,ledam appellent : etenim illi ledanum
vocant : hu jus pingueinfidere:itaque attractis funiculis herbam eam con volvi,
atqueita offas fieri.Vidiede ancora inciera credenza Galieno , quando dice
gevers auto del laudano, favellan do ) κατά τα γένεια των τάγων έν πτ χωeίοις
επιγίγνεώι: e Paulo da Egina λάδανον από τον κίσε τού λάδανος λεγόμενον
γίνεθαινεμόμεναι γαρ αυ τον αι αίγες , εν τοίς πώγωσι , και τοϊς μηρούς αυτών
και λιπαρώτε ρον , και οπώδες πόας αφαιρούνι . Éd Eichio λάδανον το με απο των
πωγώνων των αιγών , και τάγων Ma à chi cgli non ſembrerà incredibile ciò ches del
Malabatro narrano Diofcoride, e Plinio , pur troppo groſſi nell'informarſi , e
nelcreder leggieri. Eftima il pri mo naſcer quello nelle lacune a guila di
lente paluſtre ; e'l ſecondo no’l fa punto diverſo dalle foglie del Nar do
Indiano; e pur ſappiamoeſſer foglia di ben grande , co ſpazioſo albore , non
già paludoſo , ma ſalvatico , emon tano . Io non farò menzione delle tante , e
tante inyeriſi. mili bugie, ch'cglino medefimi, e Teofraſto della cotanto
celebrata ( piganardi inventarono . Ne mi fermcrò a ſpia nare i fallimenti di
Dioſcoride colà ove diffe , che le radici del gégiovo fié così picciole,come
quelle del Cipero; è co me ciò,che buccinavaſi appo gli antichi dell’ambra
gialla moſtri anch'e' di credere , cioè,che il liquor d'amendue i pioppi preſſo
le rive del Po in diſtillando da tali alberi fi rap 7ο RagionamentoSecondo
rapprenda in ambra, ſeguendo in ciò la volgar fama de'ma fonieri Poeti, i quali
fan che l'ambra ſia il doloroſo umore, che per gli occhj fuor verſarono le pie
, e addolorate ſorel le, che dell'acerbo caſo del lor Fetonte dogliendoſi
furono in quegli alberi ſtranamente converſe , onde poi Fluunt lacryme :
ſtellataque fole rigefcunt De Ramis electra novis : qua lucidus amnis Excipit ,
du nurubus mitiit geſianda larinis. Ma non men piacevoli a udir ſono i falli
del ſovraca cennato Erodoto dietro al raccoglimento della caſſia, e del
cinnamomo. Credette egli con altri antichi, e la lor creden za gli Arabi, c
molti de'noſtri follemente ſeguirono , que Ite effer due piante fra eſſe lordifferenti;
e vuol egli , che la callia naſca in una palude non guari profonda ,per entro ,
e d'intorno alla quale ſoggiornano alcune fierucole alate fimili a'
vipiſtrelli, che mandan fuori orribili ſtrida, e ſono di gran forza , e vigore
; ma gli Arabi per iſchermirli da' yelenoſi lor morſi, in cogliendola ſi
cuoprono il volto , e'l corpo tutto ,da gli occhi in fuora ,di cuoja ,e d'altre
pelligec colefue parole : επταν καζδήσωνοι Βύρσησι δέρμασι άλoισι πάν το σώμα,
και το πόσωπον , πλην αυτών των οφθαλμών έρχονται επί την καασίην • η δε έν
λίμνη φύεται ου βαθέη , σιρι δε αυτήν, και εν αυτή αυ . λίζεται κού θηeία ερωτι
, της νυκτίρια ποστίκελα μάλιστα και και τί . SUYE δεινον και ες αλκήν άλκιμα •
τα δη απαμυνομένες από των ópfamutów . E quale aggiraméto di ſtrano cervello ſi
pare ciò , che leggeli rapportato da Teofraſto, che i rami della caſſia P cſfer
nervoſi non poffano ſcortecciarſi , ma tagliinſi in pic cioli pezzetti , i
quali ſicuciono dentro a’pclli di bovi pur mo ſcorticati , perchè i vermicelli
, che nel corromperſi del legno s'ingenerano ,roſicchiádone la midolla, inutile
laſcia no la corteccia intera , mercè l'amarezza , e l'acrimonia del fuo odore
, την δε κασταν φασι τας μέν ραβδες παχυτέρας έχαν, ινώδης δε σφόδρα , και ουκ
είναι τριφλοίσα , χρήσιμον δε ταύτην τον φλοι δν· αν ουν τέμνωσε πως ραδες και
κατακόπαν ως διδακτυλα το μήκG-, ή μικρά μάζω ταύταδ' άς νεόδωρον βρείνον
καταρραΠεαν · ατ ' εκ ταύτης, και των ξύλον σκυμένων, σκουλήκια γίνεσθαι , από
μια ξύλον κατεσθίει • τα φλοιού δε ουχ απεπειι , δια την πικρότητας και
δριμύτητα 7ης οσμής , 1e O 1 1 quali parole cosìtraslatò Plinio con l'uláta
eleganza:Con fecant furculos longitudinebinum cubitorum , mox præſuunt
recentibus coriis quadrupedum ob id interemptarum ,ut ijs pu trefcentibus
vermiculi lignum erodunt, & excavent corticem tutum amaritudine . Ma che
direm noi delle lunghe dice rie del Cinnamomo appo Erodoto più incredibili
delle ciance del verace Turpino preſſo del Bojardo, e del l'Arioſto . Il
Cinnamomo , dice Erodoto che non ci fia manifeſto ove , e'n qual modo naſca ,
ſe non che pro babilmente ſi crede ingenerarſi in que'paeli, ove Bacco fu
nutricato , e le feſtuchedi eſſo eſſer quindi da certi grandi uccellacci
traſportate in alcune ſcoſceſc, einacceſſibili mo. tagne per fabbricarvi inidi,contro
a’quali han gli Arabi ritrovato un ſottil modo : cglino tagliano in pezzi, e
con quidono le membra di boyi, d'aſini, e d'altri giumenti, e quelli appreſan
quanto è poſſibile a’nidi, e quindi ſi dipar tono ; gli uccelli intanto calan
giù , e preſo della carne la ripongon entro a’lor nidi , i quali non valevoli a
ſoſtener tanto peſo caggiono a terra , e gli Arabi allora ne fan race colta
:όκα με γας γίνει αι , και ήτις μιν γή ή τσέφεσα έστ , έκ έχεσι - πών, πλην
όπλόγω άκόπ χρεώμενοι , εν πίστ δε χωeίοισι φασί πνες αυ η φύεσθαι εν τοϊσι ο
Διόνυσος εξάφη • όρνιθας δε λέγεσαι μεγάλες φορέ eaν ταύται το κάρφεα, τα ήμεϊς
, απο Φοινίκων μαθόνης , κινναμωμον καλέομεν · φορέειν δε τους όρνιθας ές
νεοσιας πεπλασμίνας πηλό πέος αποκρήμνοισι ούρεσι , ένθα πόσβασην ανθρώπω
ουδεμίην άνοι : πεος ών δή ταύα τους Αραβίους σοφίζεσθαι τάδε · βοών π και όνων
των απαγινο . μένων, και των άλλων υποζυγίων τα μέλια διαμόνας ως μέγια και
κομί ζειν ες Gύτα τα χωρία και σφεα θένας άγχου των νεο Αστέων απαλάασε . « θαι
έκας αυτέων• τας δε όρνιθαςκατο πετυμένος και αυτών τα μέλεια των υποζυγίων
αναφορέαν επι τας νεοσπαστας δε ου δυναμίνας ίσχειν,καταρρής γνυσθαι γαρεπί
γήν, τους δε επόντους συλλέγαν ούτω με πκινναμωμον. Ma fe quefto fembra fogno
d'infermi, ben fola di Ro manzi ſarà, ſenza fallo , quel convenente
d’Ariſtotile in torno al medeſimo fatto ,dove e' narra, ch’un uccello detto in
Arabia Cinnamomo (comechè appreſlo Plinio chiami fi Cinnamologo) vada cogliendo
i fuſcelli della canella, e fe · ue fabbrichi il nido ſu le cimede gli alberi ,
onde pofcia gli Secondo Regionamento ܐܶܡ gli Arabi con faette di piombo lo
ſcroſtano , e caduto giù in terra l'adunano φαστ δε ο κινναμωμον όρνεον είναι
οι εκ των το . πων εκείνων , ¢ το καλούμενον κινναμωμον φέρων πεθέν τούτο το
ορειον, και την νεολίαν εξ αυτού ποιείσθαινεολεύα δεφ' υψηλού δένδρετε εν τοις
θαλ. λοϊς των δένδρων, αλλά τους εγχωρίες μόλιόδον προς τοις οισοίς πέοσαρ των
τας , τοξεύοντας καζβάλειν τε ού7ω συνάγειν , έκ του φουτου το κινναμωμον :
elmedefimo vien confermato da Antigono, ov ” codices λέγαν δέ τινας τε το
κιννάμωμον όρνεον είναι , και αρώμα & φί. ραν , και τους νεοφίας εκ τούτου
ποιείσθαινεοτεύειν δ' εφ ' υψήλων δένδρων τ' α Gάτων , 7ους δε εγχωρίες
μόλιόδον τοϊς δίπϊς προτιθών ας τοξεύαν , και κα - αρρηγνύειν τας νεολίας . E
non molto diffimile e cio , che ne vien creduto da molti altri antichi appo
Teofraſto: néger aus δέ πς και μύθος υπέρ αυτού · φύεσθαι μεν γάρ φασιν εν
φάραγξιν , εν ταύζις δ ' όφης αναι πολλές δήγμα θανάσιμον έχοντας : πεος ούς
φραξάμενοι τας χώρας,και τες πόδας , καταβαίνεσι, και συλλέγεσιν,είθ' ό'ταν
εξενέγκωσιδιε λόντες βίαμέρη διακληράν τει πεος τον ήλιον Ma ſe mai mi foffe in
animod'annoverare gli errori tut ti , ne'quali caddero gli antichi per eſſer
eglino maldelle ftraniere faccende informati:Io direi come Plinio follemé. te
dica, che'l Cinnamomo naſca nell'Etiopia , ed indi aſſai più vaneggiãdo
ſoggiúga,che gli Eriopi il coprano da que de'proſſimani paeli;e che giungendo
poiegli al colmo del le vanezze, apertamëte contraddicendoſi, non ſi vergogni
d'affermare , ch'eglino ſe'l portino per alti mari con lun ghe , e pericoloſe
navigazioni, ove non giova governo de nocchieri , ne vela , o remi,inafol
l'umano ardire, e la for tuna gli regga . Direi come in alcuni antichi Greci
comentarj leggaſi , che'l Cinnamomo col ſolo toccaméto ,l'acque bogliéti rin
freſchi , e meſſo ne'bagni, i ferventi loro vapori in un bel freſco tramuti ;e
che tutti gli animali di putredine nati,am 2nazzi:ότι ζέοντος φασή του εν
λέβητα ύδατος είπες θίγοι μόνον η κιννα. μωμον ευθυς καταψύχειν το ύδως και και
λετάω έπεισενεχθέν διαπύρω μετα ποιεϊν τον εν τώ αίρι φλεγμον εις ψυχρότειν ,
και αφανισικήν των εκ φθο ράς πνος ζωογονουμένων την φύσινέχαν.Direi di
vantaggio , co medel pepe favoleggiado Dioſcoride ne narri , naſcer quel lo in
India da un coral arbuſcello , che produce un frutto 1Ο Del Sig.Lionardo di
Capoa. 73" lungo , ſicome baccello , il qual chiam ali pepelungo : den tro
del quale dice ritrovarſi alcune granella non guari dau quelle del
migliodiſſomiglianti; e che queſto ſia il perfer to pepe;imperocchè aprédoſi col
tépo n'eſcon fuora i raci moli carichi di granella , ficome gli veggiamo; e
queſti anzi d'effer venutia maturezza colti, fāno il pepe biaco , e'l nero poi
dice egli conciosſiecofachè ſia maturo, eſſer odorifero ,e dilettevole al guſto
più che'l bianco ; il quale perciocchè a debita maturezza non è pervenuto , non
è cotanto perfetto . Πέπερ , δέρδρον 15ηρείται φύομεναι εν ενδία βραχύ καρπον
δε ανίησι , κα . &ρχας με πξομήκηκα θάπερ λοβούς όπες επί μακρόν πέπερι:
έχον τα ένο (λεις ) κέγχρω παραπλήσιον και το μέλι έσεσθαι και τέλειον πέ. περι
. όπερκαλα τους οικείας καιρούς αναπλoύμνον βότρυς ανίησε κόκκινο φέροντας
οί'ες ίσ μου και τους δε, και ομφακώδες και οι τινες εισι το λευκόν πε . περι ,
epoco appreffo:το δε μέλαν ήδιον και δριμύτερον του λευλου , φύσιμώτερον· και
μάλλον δια 10' ναι ώριμον αρωματίζον• εύχρησότερόν τη εις τας αρτύσπις· το δε
λευκών και ομφακίζον ασθενέτρον των πτοειρημέ . ng IWY , Ma troppo lūga materia
da ſtancarne nell'impreſo arin farebbe il volere ad uno ad uno tutt'altri lor
fallimenti annoverare . Perdoniam pure a gli antichi ogni lor negli genza ,
ſenulla ſeppero , over nulla curarono del muſchio , dell'ambra grigia ,del
zibetto, della noce moſcada,de'ga rofani e d'altri, ed altri aromati. Non fia
lor colpa, ma del la fola fortuna , il non aver eſſi avuto contezza niuna della
Mecciocana , della Contrerba, del Saſſafras, del Cafè , del Legno Guajacosdel
Balſamo del Perù, dell'Erba Te,dellas Salſa , della China , e d'altri quaſi
innumerabili ſtranieri ſemplici, che al preſente ſon così manifeſti, e conti ,
che van per le bocche, e per le mani d'ogn’uno . Mache più: laſciam pur, che
gli antichi ordiſcan degli animali le più incredibili fole , che peravventura
cader potrebbono in penſamento umano : 0 pure avendole da altrui udito , co me
ſe da propj occhj ſtate foſſer vedute , sì le abbinn per vere , e le rapportino
. Laſciam , che creda Anafſagora appo Ariſtotile , che i Corvi uſin per bocca
colle lor fem . K 74 Ragionamento Secondo 1 minc , e dea cagione dicantare a
colui :. CorueSalutator, quare fellator baberis. E trapaſſiam fotto ſilenzio
ciò che infinſero agli antichi della Catapleba , di cui Plinio, e Solino fan
parole, e Sor gona appellafi appo Ateneo , la qual vogliono,che talma lìa dal
ſolo ſguardo diffonda, che immantinente l'animal rimirato , ſtupido,ed
inſenſato divega,e poco ftante fi muo ja ; il che vagamente deſcriſſe in
quc'verli il Petrarca. Ne l'eſtremo occidente V na fera è ſoave , e queta tanto
, Che nulla più . Mapianto E doglia , e morte dentro a gli occhi porta Neprendiam
briga d'annoverar ciò che favoleggiarono Megaſtene , Daimaco , Nearco , Ariſtea
, Onoficrito, Te fia , ed altri appo Erodoto , Strabone , Diodoro , Plinio , e
Gellio degli huomini, che in Oriente preſſo il Gange naſcono ſenza bocca, e ſol
Gi paſcon d'odore : degli huo mini , che in India appo i Nomadi vivono ſenza
naſo : de gli altri, ch’appo i Troglodici ſon ſenza capo , e collo, ed han gli
occhj ſu la ſpalla :d'altri , che han faccia di cane, e latrano , e di
tant'altri di fimil figura , a quei , che la ma ga Alcina in guardia al ſuo
palaggio teneva . Non fu veduta mai piùſtrana torma , Più moſtruoſi volti , e
peggio fatti . Alcun dal collo in giù d'huomini ban forma , Col viſo altri
diſcimie , altri di gatti . Stampa no alcun co’piè caprigni l'orma: E traſandiam
Platone , che verace credette quella bugiar da fama de'Poeti , che i Cigoi
preſſo l'eſtreno for giorno mandin fuori più bello, e più ſoave il canto; e non
ci fer miamo a ſtacciar la cagione, che di tal fatto ne arreca táto ſottile,
che da per ſe la ſcavezza, cioè, che eſſi cantano pe'l gran contento , che
prendono del preſto ritorno , cli’al lo ro Apollo a far hanno . E con queſto
diPlatone,laſciamo impunito anche il fallo d'Ariſtotile, qualor prende licenza
di dir , che nell'Africa molti ne furveduti da’marinari, che buſamente , e
doloroſamente cantavano ; eſſendo in veri tà Del Sig.Lionardodi Capoa. 75 tà il
lor căto un'imporcuno gridare ,comedioche ſalvati che,anzi che no.Ne prendiam
niuna cura diripigliar Teo fraſto ſeguito da Celſo , da Solino , e da altri,
perchè po co , o nulla ſagace ſcriveſſe del Cainelconte', ch'egli il 'a ria ſi
viva:così d'affermarlo niuno ſcrupolo non avendone, come ſe ſtati foſſero un di
quei Poeti , che coll ulata lor licenza cantarono, ſicome Ovidio , Id
quoquequod ventis Animal nutritur , & aura El'Alciato Semper hiat,ſemper
tenuem qua vefcitur auram Reciprocat Cameleon . O di caffar quegli, che vollero
,eſſere it Camelconto della grandezzadelCoccodrillo , ſe pure non fu queſto ,
crrore di Plinio ;imperocchè tutto ciò che narra delCameleonte , dice d'averlo
tolto di peſo a Democrito , che un libro in tiero ne fcrife , ρve dicendo και
το μέγεθος ομοιον είναι τώ κροκο dergoe, ' non badò punto , che nel Ionico
linguaggio , nel qual Democrito favellava ,la parola xpowodeina , val quel la
Lucertola , che appo gli Atenieſi , e gli altri Greci dice fi sæūgos, ficome
fanno gli ſtudioſi di tal linguaggio . Elaſciamo ſtare ciò , che gli antichi,
a'quali ſi parve , che deffer credenza Varrone , Plinio , Solino , Columel la ,
Marziano Capella , e Servio follemente vaneggiaro che alcune cavalle ſu'l Tago
ſieno ingravidate dal vento , e moran fuori polledrivelociſſimi al corſo . Co
per vero dir non men fantaſtica del Pegaſeo di Bellero fonte , o dell'Ippogrifo
d'Aſtolfo , e ben degna , che ne freggino i lor Poemicoloro, cui a par
de'pittori è cócedu to di poter tutro ardicainente attentare . E sì cantar puo.
tè Omero de'Cavalli del fuo Achille , Εάνθαν και Βαλίον ,τωάμα ποιηση πελέσθην
, Tες έτεκε Ζεφύρω άνεμω άρπια Ποδάργη . E ſimilmente Virgilio Ore omnes verſa
in Zephyrūſtant rupibus altis Exceptante; leves auras, á fæpefine ullis
Conjugiis , ventogravide, mirabile dicru ! E Silio Italico delo lociſfimo
Peloro no , fa K 2 Nu 76 Ragionamento Secondo Nullus erat pater ad Zephyri nova
flamina campis Vectonum eductum genitrix effuderai Harpe E dell'Aquilino il
noſtro ammirabil Torquato , Queſti ſu'lTago nacque , ove talora L'avida madre
del guerrero armento Quando l'almaſtagion , che n'innamora , Nel cor le inftiga
il naturaltalento , Volta l'aperta bocca incontra l'ora , Raccoglie i ſemidel
fecondo vento , E de'tepidi fiati( o maraviglia! ) Cupidamente ella concepe , e
figlia . E finalmente perdoniamo agli antichi ciò che ſognarono de'Pigmei ,
della Fenice , del Centauro , dell'Aquila, del I.eone , del Coccodrillo , della
Salamandra , della Pirau ſta , della Remola , del Cavallo marino , del
Baſiliſco ,del l'Elefante , de'Satiri, degli Ipogrifi , de'Ciclopi , delle Si
rene ; e tant'altri errori , ne' quali non pur degli animali , ma de’minerali
altresì in trattando incorſero, i quali di bé groffi volumi, non che di brevi
dicerie ſarebber lunga ma teria , ſol che a noi ſi conceda picciola ,e ben
dovuta rin chieſta , il poter da’lor falli ritrarci , uſcir da’lor rei inſe
gnamenti, non coſto iinboccarne loro ſtrane ſentenze , e per ſeguir la verità
tutti lor falſi rapporti porre in no cale ; a noi, cui tutto il mondo, è già
quaſi omai ſcorto , e mercè la diligenzza delle lunghe pellegrinazioni, non pur
ſap piamo i luoghi , i portamenti, i coſtumi degli abitatori : ma di che
animali qualche ſi ſia paeſe venga fornito , quali piante germogli , quai
minerali produca . E non v'ha ge te nel vero sì barbara , e feroce , la quale ,
o per avventu ra , o da neceſſità coſtretta non abbia a pro del comune qualche
commendevol rimedio ritrovato , il quale ad al tre più umane , e ben coſtumare
nazioninon è occorſo . E ben ciò a pruova ſappiamo ; imperocchè ne per lunghe
vi gilie , ne per iſparti ſudori di'ſavj greci , o daʼnoſtri fi po tè ritrovar
mai rimedio tanto valevole a domar la ferocia delle febbri , quanto è quella
maravigliofa corteccia ,inſe gnatane da' barbari abitatori del Perù e Eto
quanto se quan . DelSig. Lionardo di Capoa 77 quanto egli ora ammirerebbe per
Dio queſta fortunata , e prodigioſa fecondità , e con qual leggiadria , ed
altezza di ſtile egli anche per celebrarla ſarebbe,il ſublime poeta filoſofante
Lucrezio , ſe dique' pochiſſimi trovati del ſuo ſecolo così maraviglioſamente
preſe a cantare : quædam nunc artes expoliuntur : Nunc etiam augeſcunt : nunc
addita navigiis funt Multa : modoorganici melicos peperere fonores. Denique
natura hac rerum ratioque reperta eft Nuper , & hanc primus cumprimis ipſe
repertus Nunc ego fum in patrias, qui poſſim vertere voces. Deh ſi paragonino p
Dio le ſtorie della natura di quc fto noſtro ſecolo non ancor finito , con
tutte l'antiche , e veggaſi ſe più fecondo di maraviglioſi trovati fia queſto
poco di tempo, che itati non ſiano per addietro tanti , tanti altri ſecoli
paſſati. Si paragonino pur le perſone, ci medici, e i filoſofinti antichi,
emodernifi bilancino . Ma che dico Io deMedici, e filoſofanti moderni ? baſta
ſolo un ſol filoſofo , l'ingegnoſiſſimo Galileo , per tacer di Re nato , del
Gaſſendo , dell’Obbes , del lungio , e di tant’al tri , ad oſcurare ,
cſommerger affatto la gloria di tutta quanta l'antichità . Orche direbbe Plinio
il giovine in rimirar tanti belliſſi mi , e nuovi trovati dell'età noſtra ? ſe
de’tempi ſuoi, che pur ne furono affatto ſterili , ed infecondi, così ebbe a di
re : Sum ex illis fateor , qui mirer antiquos ; non tamen , ut quidam temporum
noftrorum ingenia deſpicio. Neque enim quafilaxa , & effeta natura elt , ut
nihil jam laudabile riat . Ma ſu concedaſı pure ciò , che a niun modo conce der
mai certamente ſi dee , cioè a dire , che alla antichità ſolamente abbiamo a
ſtarcene ; come mai potrà egli ſenza guida di boſſolo il corſo della ſua nave
reggere il nocchie. ro?come ravviſar l'aſtronomo le nuove ftelle ſenza il nuo
vo occhialone? come abbatter le ſchiere nimiche, o rintuz zarne gli affalti il
Capitano ſenza gli archibugj, e l'arti glierie, e ſenz'altri moderni ritrovati
da guerra ? Che farà il filoſofo , e'l medico ſenza il microſcopio ? Quanto ri
pa mar 78 Ragionamento Secondo 1 2 2 ! 1 1 . 1 1 marrà a ſuper della Terra al
Geografo , ſenza le novelle ; tavole dell'America ? in quaiviluppi , cgarbugli,
e con fuſioni troverrebberſi mai gli Stronomisi quali a far prova aveſſero del
Siſtema di Tolomeo infino a’di noſtri, quafi comunemente per tutti ricevuto ?
Non s'addofferebbero le ſghignazzate , e le riſa anche del popolo minuto , e de
più ſemplicifanciulli , s'eglino mai a negare ardiſſero lo innumerabili ſtelle
della via lattea ? o faceſſer veduta di non iſcorger in faccia al Sole le
macchie? oi compagni di Saturno ,ch'alcuniorecchj, altri anella , ed altri
manichi chiamano, o le nuove ſtelle Medicee , o lo ſcambiar della faccia di
Venere , o'l dimorar più in là delle lunari regio nile Comece , o le montuoſità
della Luna ; o l'aggirarſi di Venere , di Mercurio , di Giove, e di Marte
intorno al So le ? E con qual fronte ofercbbero i filoſofi ora difender
l'incorruttibilità de'corpi celeſtiali, la faldezza de' Cieli , la sfera del
fuoco , e tanti , e tant'altri ſogni d'ozioſi cer velli ? E come ardirebbero i
medici ſenza i novelli trovati della notomia morta , e della notomia vitale ad
impren der eure ſenza manifeſtiſſimo riſchio de'mileri ammalati ? Ed o quanto,e
quanto mal conſigliati ſarebber quegli in fermi, chenelle lormani li
porrebbono; edo quanto in názi tratto ſarebbe il migliore ad arriſchiar la vita
più to ſto in man d'avveduto, e ſaggio Empirico , il cui meſtiere, comechè
manchevole , tuttavia a pericolo d'errare aſſai men ſoggiacer ſi vede , che la
falſa razional medicina daw Galieno in guiſa tale abborrira , e biaſimata , che
ezian dio contro le regole dialettiche egligiudica eſfer coſa iin poſſibile
poterfi mai da’ falli principjdi quella altre con cluſioni, cheſempre falſe ,
cavarc . Ma laſciando ciò al preſente , che troppo larga materia da diſcorrer
ſarebbe, dico, che un talmio diviſo di dover ſi ſemprcmai al miglior di
ciaſcuno , o antico , o moderno autorch'egli diafi , appigliare, ne a '
ſentimenti d'alcuno tenacemente ligarli , ſenzachèè egli ragionevole aſſai, e
conveniéte, fù di vataggio da tutti gli ſcrittori di maggior lieva abbracciato
, e da' più ſavj filoſofancije da ſacriTeo . 1 logi Del Sig. Lionardo di Capoa.
79 logi comunemente leguito , e fommamente da ciaſcun commendato. Odafi di
grazia fra’primi quel Principe de Lirici, e de'Satirici Poeti Latini,checol
ſuaviſſimo ſuo me. tro i rigidiprecetti dell'Epicurea , c della Stoica
filoſofia addolcendo , così ne canta Quod verü ,atque decens,curo, di rogo
&omnis in hoc să . Condo , &compono,quod mox deprumere poffim . Ac ne
forte roges quo me duce , quo lare tuter : Nullius addictus jurare in verba
magiftri, Quo me cunque rapit tempeſtas , deferor hofpes ; Nunc agilis fio ,
& verfor civilibusundis ; Virtutis vere cuſtos , rigiduſque ſatelles : Nunc
in Ariſtippi furtim præcepta relabor's Et mihi res , non me rebus ſubmittcre
conur. Equel , ch'altrove eglimedeſimamente va diviſando. .., Quodfitam
Gracisnovitas inviſa fuiſſet Quameſt nobis , quid nunc effet vetus ? aut quid
habcret. Quod legeretztereretque viciſim publicusuſus ? Odafi Quintiliano :
neque id ftatim legenti perſuaſum fit, omnia , quæmagni autoresdixerunt ,
utique efleperfecta ; e recando « gli di ciò la ragione, ſoggiunge: nam , &
labun tur aliquando , & oneri cedunt , & indulgent ingeniorum , fuorum
voluptati : nec intendunt animum : Odali il Roma no Oratore : non tam autores
in diſputando, quam rationis momenta quærenda funt ,quin etiam abeft iis qui
dicere van lunt , plerumque eorum autoritas , quife docere profitentur :
definunt enim fuum judicium adhibere , atque id habent ra tum quod ab eo , quem
probant judicatum vident. Indi tra paſſando a condennare il vituperevole
coſtume de' Pitta gorici , a'quali per certa, ed infallibil ragione l'autorità
fo Jamente del Reverendo lor maeſtro baſtava : conchiude : tantum opinio
præjudicata poterat , ut etiam fine ratione va leret authoritas . Odali oltre
a' già rapportati autori più fiace il medeſimo avviſo dalla ſaggia mente di
Platone, ac comandatone ſpecialmente nel Critone , ove diffe : 10 ſon di sì
fatta natura , che a niun'altro mai mi ſon condot to a preſtar fede, ſalvo, che
a quella ragione , che più vol te da go Ragionamento Primo te da me
diligentemente ſtacciata , e diflaminarā alla fine ho ritrovato eſſer l'ottima
: as iywa õ jóvov vũ , anc ' wy de Tolos 1G- , οΐG τωνεμών μηδενί άλω πάθεσθαι,
ή τώ λόγω , δς αν μοι λογιζα Hér w Gea Tigos Paívntou , Odaſi il famoſo
Ariſtotile, ilquale , avendo a trattar certa quiſtione, ove le faceva uopo per
la verità d'impugnar le determinazioni de'ſuoi amici,veg gendoſi quaſi allo
ſtrettojo, pur ſaggiamente diliberando, cbbe a dire,più umana coſa eſſere il
preporre la verità agli amici αμφοίν γαρ όνπιν φίλων , όστον πτοπμαν την
αλήθειαν , e pri ma auea egli detro a pro della verità , far meſtiere , maffi
mamente al filoſofo , diſtrugger le ſue proprie credenze ; ma odaſi quella
maraviglioſa , e divina ſentenza ch'egli medeſimodal Fedone del ſuo maeſtro
apprefe, e pur da tut ti coloro , che Ariſtotelici, o Ippocratici , o
Galieniſti in torto chiamar ſi fanno , vien comunemente traſandata,an zi
affitto ſpregiata : Amico Socrate, Amico Platone, ma più amnica la verità ; la
qual diviſando, esfigurando queſti Iciocconi indegniſſimi del nome di vero
filoſofante , foven temente dir ſogliono : eſſi amar meglio di ſcioccheggiar
con Ariſtotile , Ippocrate , e Galieno che con altri laggia mente diſcorrere .
E ben di quella più amico ſoventemo ftroſli il medeſimo lor Ariſtotile, ſe
migliaja di yolte ripre ſe,e biaſimòTalete , Pittagora , Parmenide , Anafſiman
dro , Anaſlimene , Meliſſo , Democrito , Anaffagora , cd altri molti , che
prima di luieran lodevolmente feduti fra filoſofica famiglia ; e ne meno per
riverenza talor ſi ritena ne , chea'medeſimi ſuoi maeſtri Socrate , e Platone
il fi inigliante non faceſſe, i quali manifeſtamente alle volte bialima , e
riprende ; e forſe ſe ſua malavoglienza , ed ill vidia non foſſe, potrebbeſi
ancor credere , che egli per ſo lo zelo della verità così loro villaneggiaſſe,
e carminaſſe , chiamandogli talora, e ſcempiati, ed ebbri , e farnetici , e
ſciocconi, e ſtolti , e ſcimuniti , e non farebbe per avven tura gran ſenno ,
che ſon pur coloro gran maeſtri in filoſo fia , e danon così gravemente mordere
. Ma queſta cotai ſentenza ebbero in bocca poi tutti i ſuoi più celebri
diſcepoli, e ſeguaci, Licome ſcorger.age. 2 vol DelSig. Lionardo di Capoa 80
volmente e'ſi puote , in Teofraſto , in Ermia, in Iſtracone, iu Ariſtoſſeno ,
in Ipparco , ed in altri molti, i quali ſi vide ro mai ſempre antiporre la
verità , ſe mai lor ſi parve d'a verla rinvenuta , almedeſimolor maeſtro , e
duce Ariſtote le , non che ad altri filoſofanti; e'l ripigliano liberamente e
ſenza ritegno,qualora in qualche fàllo il tolgono; e queſta medeſima ſentenza,
dipoi han comunemente avvuta fiffa inmente tuttii moderni riformatori della
filoſofia , a’quali tanto , e sì fattamente piacque ad ogn'orapreporre la veri
tà ad Ariſtotele , che allora con ſignoria da tiranno in tutte le ſcuole del
mondo regnava, ed a guiſa di celeſtial nume per ciaſcun riverivali, checon
eroica fortezza, e con in vincibile , e veramente filoſofica coſtanza , nulla
curanda che perciò ne foſſero eglino mai ſempre , e proverbiati , e deriſi,il
ripreſero ſoventemente , e lo dimentirono di non , pochi ſuoi falli. Ma odaſi
omaiquell'altra non men famoſa ſentenza, la ) quale à Socrate ſuo maeſtro è da
Platone attribuita rávws γαρ και 1ειο σκεπτέον ός τις αυτο είπεν, αλα πότερον
αληθές λέγεται η ου , Non già chi abbia detta la coſa , ma s’eidica , o non
dica il vero ,doverſi conſiderare . Ne in ciò punto è da tralaſciare il celebre
latino Stoico; il quale al ſuo Lucilio in una piſtola, così favella: Epicurus,
inquis , dixit : quid tibi cum alieno? quod verum eſt, meum eft: indi egli
foggiugne con quelle veramente memorabili parole: Perfeverabo Epicurum tibi
ingerere, utifti qui in e verba jurant , nec quid dicatur æftimant, fed à quo
fciant, quæ optima ſunt eſſe communia . Ne meno è da notare as noſtro propoſito
ciò che altrove parimenteegli dice contro i miſerevoli parteggianti: qui alium
fequitur , nihil inve nit , immonequequerit; e ciò , che altrove ancora : Non
ergo fequor priores ? faciofed ; permitto mihi, bu invenire ali quid , mutare,
nec fervio illis fed , aſſentior, e ciò, che un' altra fiata egli così proteſta
: Qui ante nos ifta noverunt,non domini noftri , fed duces funt. Ne è da paſſar
ſotto filézio quel belliſſimo detto di Por frio το αληθεύειν και μόνον
δύναταιτους ανθρώσες ποιάν Θεό Παραλεσίες, L. caya 82 Ragionamento Secondo 1
cavato nel ſuo volgare dal beato Girolaino con queſte vo ci . Poft Deum
,veritatem colendam , quæ fola bomines Deo proximos facit . E ſe tanto può far
la verità , dove più riporrem noi l'a nimo , a qual'altro fine indirizzerem noi
i noſtri ſtudj,dure rem noſtre fatiche , ſpargerem noftri ſudori, vegghierem le
gelide, e ſerene notti, ſe non perla verità ? Eccovi, ecco vi o Signori il vero
ſentiero dell'immortalità , e della glo ria. Ecco quel ſentiero, che ſegnarono
i barbari daprima, indi i Greci, ed ultimamente i moderni noſtri filoſófanti ,
che in tanto pregio ,e tanta fama glorioſamente falirono ; e perchè crederem
noi, che l'antica età aveſſe , e Talete , e Anaffimenc, e Senofane , e
Anafſimandro , e Pittagora , ed Empedocle, e Leucippo , e Democrito , ed
Eraclito, ed Anaſlagora, e Socrate , e Platone, ed Ariſtotele , ed Epi curo , e
Zenone , e tanti , e tant'altri filoſofi d'immortal fa ma degni: e ſi pregin
parimente , e lidian yanto i noſtri ſex coli d'aver recati almondo il Cardinal
Cuſano , e' Co pernico , el Patrici , e'l Teleſio , el Ramo , e'l Do nio , e
Ticone, e'l Cheplero, e'l Bruni, e'l Gilberti, e'l Montagna , e'l Merſenni, e'l
Baſſoni, e'l Galilei , e lo Sti gliola , e'lCampanella , e'l Verulamio, e
Renato , e'l Gaf fendi , e'l lungio , e'lConte Digbi , e'l Oggelandio , e'l
Boile , e’l Borrelli , e'l Maignano, e'l Robervallio , e'l Mal pighi, e'l Redi
, e lo Stenone , e'l Ricci ,e l'Vliva , e'l Por zio , e ' Bellini, e'l
Marchetti , e'l Montanari, e queſti,che ſommamente fregian la noſtra patria
Tomaſſo Cornelio Gio: Battiſta Capucci , e D. Carlo Buragna, dicui ben to ſto
s'ammireranno gl'ingegnoſi filoſofici trovamenti, ed al tri incomparabili eroi,
che con gloriofiffima gara lundcl l'altro fe'n vanno per le vaſtiſſime regioni
della natura, fu perbi ,e alti voli lpiegando: fe non perchè tutti coltoro va
ghilimioltremodo di ſpiar la ſola verità,non vollero giá mai ſtarſene a niuno ,
ne a' derti di niuno traportar cieca mente ſi laſciarono . E viuran ſeipremai
pe'l contrario ſenza fama , e ſenza lode appo i faggi, e prudenti ſtimato ri
delle coſc tutticoloro , che toglier non vogliono una sì 1 com .-s 1 Del Sig. Lionardodi
Capoa. 83 commendevole, e neceflaria libertà ; anzi ſovente in tai fal. limenti
dalla lor cieca oſtinazione ſon tratti, che ne ſenza riſa rimembrare, ne ſenza
nota d'obbrobrio , e di vitupero nominar unque ſi poſſono. E io comechè ſopra
ciò diviſar lungamente potrei , e di sì fatti errori quaſi infinito numero
rapportarvene,purnon dimeno rimarrommene per modeſtia ; c fie baſtante il ri
duryi amemoria , ſol ciò, che d'un ' oſtinato , e duriſſimo Peripatetico narra
il Sagredi appreſſo quell'altiſſimo filo ſofante,ch'oggi l'Italia tutta onora
più che altri già non fe la ſua Grecia . Mi troyai, dic'egliga caſa un Medico
molto „ ſtimato in Vinegia , dove alcuni p loro ſtudio ,e altri per » curioſità
convenivano talvolta a vederqualche taglio di „ notomia per mano d'uno , non
men dotto , che diligen te , e pratico notomiſta; ed accadde quel giorno , chę
ſi andava ritrovando l'origine , e naſcimento de'ner » vi , ſopra di che è
famoſa controverſia infra' medici „ Galienifti, e Peripatetici ; c moſtrando il
notomiſta , co » me partendoſi dal cervello , e paſſando per la nuca il gra »
diſſimo ceppo de' nervi , s'andava poi diftendendo per es la ſpinalc ,
diramandoſi per tutto il corpo : eche ſolo un fil ſottiliflimo , come di refe
n'arrivava alcuore : voltofi 5 ad un gentil'huomo , ch'egli conoſceva per
filoſofo Pee ripatetico , e per la preſenza del quale egli avea cons
iftraordinaria diligenza ſcoverto, e moſtrato il tutto,gli „ addomandò , s'egli
reſtava ben pago , e ſicuro, l'origine de'nervi venir dalcervello , e non dal
cuore : al quale il „, filoſofo dopo eſſere ſtato alquanto ſopra diſc , riſpoſe
: voi m'avete fatto veder queſta coſa talmente aperta , e ſenſata , the quando
il teſto d'Ariſtotele non foſſe in chiaro , ch'apertamente dice i nervi naſcere
dal cuore, biſognerebbe per forza confeſſarla per vera . Ragione. volmente
adunque potè cantando eſclamar colui. Sæpe graves, magnoſque viros ,
famaqueverendos , Errare , & labi contingit , plurima fecum Ingenia in
tenebras cunfuerunt nominis alti Autores , uticonnivent , deducere eajdım , 1.
Ta . 2 84 Ragionamento Secondo Tantum exemplavalent , adeo eſt imitabilis
error. Fin quìha potuto trarmi con convenevol diſdegno dive dere in tanti
errori i miſerelli parteggianti vitupcrofamen ce cadere . Ma vegnamo a moſtrar
ora, ſicome già propo nevam di fare,quanto i Sacri Teologi la libertà , che noi
commendiamo, eglino altresì , ed approvino , e lodino . E chi baſtantemente mai
rapportarpotrebbe,con quan co fervore s'attraverſi a coloro che la libertà
degli Scritto ri intendonodi riſtrignere, quel ſottiliſſimo fra gli Scolaſti ci
Teologi Durando ? Egli con chiare , ed efficaci ragioni manifeftaméte il ci va
dimoſtrado con dire che ſe mai noi dovremo agli altrui detti acchetare ( il che
non ſi deca niú modo concedere ) chi così temerario , e così folle farà ,the
più toſto a’Pagani , e perfidi gentili fede preftar vorrà , che a’ facri , e
piiſcrittori , e Padri di Chieſa Santa da divin lu me illuftratis e pure
Agoſtino proteſta di non voler'egli già , ch'a'ſuoi detti dar s'abbia ferma
credenza : ma che ciaſcuno in prima ben bene gli diſamini , & abburatti, e
ſe veri non gli pajano ſenz'altro alcun riguardo gli rifiuti to Ito , e rigetti
;indi le parole medeſime di Agoſtino recate avendo così fieramento ſcagliandoſi
contro alcuni barbaf fori , che vogliono impor meta alla libertà degli altrui
in gegni, e ridurli al durofervaggio di qualche fi fia ſcrittore, e che altro ,
eſclama egli , è ciò per Dio, ſe non che un vo lere quel tale ſcrittore
antipurre a'Dottori di Santa Chieſa ? fe non che un chiudere il varco a color
,che vanno in traccia della verità ?Se non che un far argine a quei , che
s'inviano pe'lſentiero della ſapienza : ſe non cheun'ammorzar violen temente ,
non che oſcurare il chiariſſimolume della ragione . Così quel gran Dottor della
Chieſa , non men d'ammira bil ſantità , che di profonda ſcienza dotato,
ſcrivendo al Gran Girolamo, lume maggiore della Criſtiana Religio ne , dopo
avergli detto , ch'egli dava intera , e ferma credenza a'libri ſolamente della
ſacra Scrittura , ed agli autori di quella , degli altri in sì fatta guiſa egli
favella : Alios autem omnes ita lego , ut quantalibet San &titate do
Etrinaqueprecellant , non ideo verum putem , quia ipfi itas Jenſe is
DelSig:Lionardo di Capoa . 85 fenferint,fed quia mibi, vel per illos
authenticos autores ,vel probabili ratione , quod à vero non devient perſuadcre
po tuerunt . Ma prima di S. Agoſtino quel criſtiano Tullio, Lattan zio
Firiniano,avendo iſentimenti medeſimi con eloquenza; ed efficacia non ordinaria
manifeſtati,ſiegue a dir poi, ch' ogni ſapienza da ſe caccian via coloro ,che
ſenza diſcreto giudicio ,i trovati degliantichiapprovano , e a guiſa di pe
corelle dietro a quelli ſi laſciano ciecamente trarre ; per ciocchè : ficome
egli ſoggiugne : Hoc eos fallit , quod maa jorum nomine pofito non putant
fieripulje , utaut ipſi plus fa piant , quia minores vocantur , aut illi
deſipuerint , quia majores nominantur: cd alla fine così gridando ei conchiu de
: Quid ergo impedit , quin ab ipfis fumamus exemplum , at quomodo illi ,
quifalſa inveneruntpofteris tradiderunt, fic nos , qui verum invenimus poſteris
meliora tradamus . Or dunque , fe tanta libertà ſi tolgono i Sacri Teologi ,
che talor dove ragion ripugna contraſtano ferventemente a'lo ro maeſtri , ed a’Dottorimedelimidi
Chieſa Santa , ere tāta libertà richiedeſi a'filoſofanti a poter ſaggiamente in
veſtigar la natura delle coſe ; quanta crederem noi ch’ab.
biſognardebbaaʼmedici . Anzi coſtoro di tutt'altri certa mente maggior la
debbon godere ſenza alcun paragone ; imperocchè ſei filoſofi volendo pur
ſtrettamente appiccar ſi ad alcuno , altro per avventura non fanno, che con in
gannar ſe medeſimitrarli alcun'altro dietro ſenza nocimé to alcuno , che
all'altrui vita ſeguir ne poſſa: i Medici per lo contrario , con laſciarſi
a'lormaeſtri ingannare , non di naſconder ſolamente altrui le verità naturali
,non di ficcar carote al baſſo vulgo ſolamente ſi ſtudiano , ma oltre a ciò
da'vani,e ſtoltiloro aggiramenti,offeles c per lo più mor talijanzi ſterminje
rovinc cagionarſitutto di crudeliſſima mente veggiamo . E pure i mediciduri , e
oſtinati dietro al lor Galieno le veſtigie di lui , nõ già la verità ,vā
ricercă do ; e come ſaggiamente notò l'avveduciſſimo Signor di Montagna: On ne
demande pas fiGalien a rien diet qui vail le:mais s'il a diet ainſin,ou
autrement. Esì gli antichi am, . 1 mae 86 Ragionamento Secondo maeſtramenti,
anzi gli antichierrori ſempremai ſeguir vom gliono ; e mi ricorda a tal
propoſito , che ritrovandomi in brigata di curioſi, e dotti amici a caſa il
noſtro Severino quivi da un diligente notomiſta Daueſe ne fur moſtre le vene
acquoſe in un cane da lui aperto ; ma immantinente levolli ſuſo un teſtereccio
Galieniſta (il qualeſimili trova ti prendendo a gabbo poc'anzi avea detto effer
eglino ar zigogoli di moderni ingegni per far contraſto al for ſaggio Galieno )
e contro al buon notomiſta in ceffo rabbuffato , c adattandoſi gli occhiali al
naſo ſtizzoſamente ſcaglioſli con un preſto argumenter contra : ne era inai
egli per rifi pare , ſe oltre alle riſa de'circo tantichetamente , e in vo ce
piena di carità , e di modeſtia, non gli aveſſe il prudente Notomiſta replicato
, ſe non valere ſtar su le difeſe , mu eſſer pienamente pagodi ciò , che
gliocchi, e le man pro pie le facevan chiaramente vedere . O ſtrana , o incredi
bil pertinacia de parteggianiMedici, voler eſſere anzi cic chi , e ſordi, e
tradir ſe medeſimi, ei malati, che ponen do giù la dura , e pertinace loro
oſtinazione ricrederſi de' manifeſti errori de’loro macſori: anzi porre in oblio
l'uma nità , e'lnatural conoſcimento , e lume, per gire così loro
inconſideratamente appreſſo , Come le pecurelleeſcon del chiuso Ad una , a due,
a tre : e l'altrefanno Timidetteatterrandol'occhio , e'l muſo ; E ciò che fa la
prima , e l'altre fanno , Addo andoſi a lei s’ella s'arreſta, Semplici, e quete
, e lo perchè non ſanno Ma chczben ſo lo , che per la più parte ciò fanno coſto
ro , non peraltro , ſe non ſe ſolamente per torſi da doſo la troppo nel vero
gravoſa , e malagevolc briga d'inveſtigar con iſtenti, e ſudori la naſcoſa , ed
a’lor m.cítri non cono ſciuta verità ; e perciò fan veduta d'eſſer ſaggia
elczione di ragionevole genio, quella , che certamentealtro non è , che
dapocaggined'intelletto groſſo , e tondo ; e sì la loro ignoranza, e la loro
pecoraggine cercan di ricoprire, onde poi d'aſtio , c d'invidia fremēdo, per
dar quanto (torpo per lo DelSig.Lionardo diCapoa. 87 loro ſi poſſa alla gloria
de moderni ſcrittori, quella degli antichi mai sëpre d'innalzar fi argomentano;
del quale ma ligno, e biafimevole artificio , forte lagnádoſi Marziale col ſuo
Regolo così canta : Eifequid hoc dicam vivis, quod fama negatur Et ſua quod
rarus tempora leltor amet. Hifuntinvidia nimirum Regule mores Præferat antiquos
ſemper,utilla nuvis. Nono Signori, che non ſon già queſti i veri ſentieri,per
cuine’tempiantichi s'avvivono , ed Ippocrate , e Diocle, e Pliſtonico , e
Praſlagora , ed Erofilo , e Filotimo , e Cri fippo , ed Eraſiſtrato , ed
Aſclepiade, per tacer d'altri , es d'altri famoſi razionali medici antichi.
Così anche a'tem pi noſtri ſi ſon vedutimontar feliceméte al titolo de'ſaggi,
e'l Valentino , c'l Paracelſo, e'l Quercetano ,e l'Elmonte, e'l Villis , e'l
Silvio, e tant'altri avvedutiffimi medici moderni . Non è giàtale crederemio
Galienifti, non è già tale il ſentiero del voſtro Galieno ; (gannatevi pure una
volta , e ſe non altrui , credetelo a lui medeſimo, che oltre a quel , che
n’abbiam di ſopra rapportato , egli più ch'altrove af faichiaramente quivi
l'afferma, ove diſe medeſimo narra , che egliavea per coſtumedi chiamar ſervi
tutti coloro , i qualidaIppocrate, e da Praffagora , o da chiunque altro fi
foſſe predevano il nome, e che da tutti egli uſava di mai fempre fcegliere il
migliore : ήρετο πνα των εμών φίλων από ποί και έην αιρέσεως • ακούσας δ'όπ
δούλες ονομάζω τους εαυτός αναγο ρεύσανας ιπποκρατείας, και πραξαγορίες , η
όλως από πνος άνδρας , εκ λίγοιμι δε τα παρ' εκάσες καλά, δεύτερον ήρετο , ίνα
μάλιση των πα hasūv in aivoso: ma che ? un'altra fiata lo ſteſſo voftro Galie
no non dice, che a manifestiſſimo riſchio d'incorrer in nons pochi
erroricoluis'eſpone, che fermamente ſecondar ſem premai vuole i ſentimenti ,
che il maeſtro della ſua fettan come falde, ed infallibili verità gli diviſa ?
conciosſiecofa chèſecconc una certiMima ragione di ini medeſimo colle ſue
propie parole ) Χαλεπόν γαρ ανθρωπιν όν % μη διαμαρτάνειν εν πολ . λοίς: τα μεν
όλως αγνοήσαν τα , τα δε κακώς κρίναντα , τα δε αμελί segov ypay ar to ,cioè :
egli è malagevol molto , o pure impoſſi bile, 88 Ragionamento Secondo bile
cheunoseſſendo buomo,in tante, e si diverſe coſe ialor non s'aggiri, alcune
affatto non ſappiendo,enon conoſcendo,e d'al tre malgiudicando , e d' altre
alla fine con poca cura, ed avo vedutezza favellando. Fin quì Galieno , il cui
faggio av viſo non ſolocome mai pofla per Galieniſta alcun traſan darſi , o
manifeſtamente diſpregiarli; e pure egliè tale, che più , che a tutt'altri,
dovrebbe eſſer a cuore a'Galieniſti , i quali lodovrebbon prontamente ſeguire ,
ſe non mai per altro , almeno per darne a divedere, ch'elli veramente há bo in
quel pregio , ed in quella ſtima , che tutto dì millan tano , il lormaeſtro ,
il lor principe Galieno ; altrimente vero dirà Paganino Gaudenzio, il quale
queſto graviſſimo fallo loro rimproverando, prorompe in queſte parole , Ga
Lenum voce tenus extollunt, re ipſa autem deferunt , atque contemnunt . Tanto
dice o Signoriilſaggio , e ben conſigliato rino vatore della vera filoſofia , e
medicina , e con ragioni, e con teſtimonianze forſe di maggior lieva più oltre
proce derebbe , s'egli non avviſaffe , che il rimanente ben pote te voi, come
ſavj,per voi medeſimi pienamente compren dere; onde con quelle divine parole,
le quali già lo inge gnoſiſlimo Teleſio ſotto l'effigie della Verità
giuſtamente ( culſe Móva pod pina , cioè a dire Sola coſtei a me amica ; e con
quelle parole , che replicar così ſovente il Paracelſo folea : Alterius non
fis, qui ſuuseffe poteft, ê ſe ne rimane Ma io aggiugnerò di vantaggio , coſa ,
che per avven tura a primafaccia ella creduta nó mifie, e pur ella è vera, e
pur ella è certa : ne loolerei dirla, ſe non ilperaſli farve la toccar con mani
, cioè , che poco men , che tutti i più celebri , e più ſtimati parteggianti di
Galieno da chiarore di verità talvolta illuminatihan fatto come propj i medeſi
miſentimenti , e quaſi tutti tanto nel filoſofare , quanto al fatto del
medicare foglion ſovente dall'orme di Galieno, e d'Ippocrate medeſimo partirſi,
alcuni liberamente ciò có deſfando, altri poidiſimulando la coſa , e'l
contrario tutto con Del Sig. Lionardo di Capoa. 89 con fatti adoperando, di ciò
,che ſempremai con parole proteſtar ſogliono . E percominciar dalle Spagne ,
acciocchè per noi in si lungo narramento con qualche ordine ſi proceda , Tomaſo
Rodrigo Viega,infra gli altri Spagnuoli nobiliſſimo inter petre di Galieno,
ſcuſandoſi una volta di aver contra a’sé. timenti del ſuo maeſtro diviſato, di
cui allora appunto egli ſtava il libro delle differenze delle febbri
comentando,co si ebbe a dire : Eſſer egli da credere , che noi non pur fiam
nati ad interpetrare gli altrui detti, ma altresì a diſami nargli ben bene, più
pregiandola forza della ragione, che l'autorità de'maeſtri ; ed ove ſiam da
neceſſità coſtretti, li beramente da lor ci dipartiamo , perchè dalla verità
non venghiamo a dilungarne ; e quindi a poco paſſando a di ſaminar le ſue
dottrine , il toglie in non pochi falli,de'qua li ſuoi avviſi ſommamente egli
pregiandoſi, alla fine con chiude : quæ animadverſiones liberum animum
oftendunt,com uni veritati vacantem . Nequi rapporterò lo altre ſue parole
intorno al mede fimno ſentimento , che troppo lungo ne verrebbe il mio di.
ſcorſo ; ma non laſcerò lo già di dire , come forte per lui ſi ripigli ,
l'haver Galieno la reſpirazione al cervello aterie buita,ſognandoviſi per
ſoſtener sì folle opinione , unamé brana non mai per niun Notomiſta ravviſata.
Ne men ta cerò , come chioſando egli quel luogo, ove Galien con feſla
apertamenteeſſerſi eglimededelimo ingannato in giudicandod'un ſuo propio male ,
contro luiprorompa in queſte parole: Galenus qui in propriis malis cæcutivit,
quid in alienis faceret ? Ma chi potrebbe mai il famofiffiino Galieniſta
Frances ſco Vallelio séza taccia di traſcuraggine intorno a ciò tra laſciare ?
cgli avvedutiffimo ne'luoilentimenti , non pure il ſuo maeſtro Galieno , e'l ſuo
divino Ippocrate nelle co ſe di maggior confiderazione arditamente abbandona ,
fi come nelpurgare , e nel cavar ſangue , quantunque quafi con argani, e con
lieve, co tutte ſue forze a ſentimentiluoi di traſcinargli ſi affatichi ; ma in
un particolar luo libbri M cino 90 RagionamentoSecondo 1 cino alcuni detti del
ſuo Galieno rapportar volle, coranto fra ſe contrarj , e diſcordi , ch’in niun
modo , ſecondo lui , difender mai , o riconciar baſtantemente fi poſſono ; la
qual coſa prima di luiaveaſiancor tolta a fare quell'altro dotto compilator di
Galieno Andrea Laguna. Così anco ra dal giogo degli antichi due Greci maeſtri
ſi ſon talvolta ſcolli,, e ſtrappati , e per altre ſtrade liberamente avviati
il Lemoſio, il Mercato , ilMena , il Segarra , il Peramati , il Pereira , e'l
Mattamoros. Ma ciò far ſi vide più di tutt'al tri Spagnuoli, e con maggior
nerbo, l'avvedutiſſimo Pier Garlia nobiliſſimo profeſſor di medicina
nell'Accademic Compluteſe ; la qualcoſa così egli faggiamente proteſtā do ,
dice , che altri non prenda maraviglia, ſe di quelle co ſe , ch'e' rapporta ,
alcune n’abbia colte altrui variamen te diſaminandole, e ſe inolte ſien nuove,
e nonmaidaglian tichi pria dette, ne pubblicate in alcun modo: quàm( ſog
giugnendo ) in rebus ad examen revocandis non authorita tes ,sed rationum
momenta conſtet preponderare , indeque , vetus verbum : Amicus Plato , fed
magis amica veritas,oy tum babuiſe . E per far motto intorno a sì fatta maniera
, ancor de Medici di Valenza , i quali sì con Ippocrate, e con Galicno ſtar
ſogliono ſtrettamente confederati , che anzi a ſommo fallo li recherebbon , che
no, il dilungarſi in un ſol minuto punto dalle loro dottrine . Pure il Pereda
fuo chioſatore forte fi briga diſcuſar Michel Paſcali cele bre ſcrittor di
pratica Valenziano, perchè queſto poco ti? lor ſiaſi curato delparere di quegli
antichi maeſtri, così dicendo ; cum bic vir doctus ſcripſerit tempore quo multæ
falf & barbarorum ſententiæ vigebant, veritates Galeni,quas modo multorum
auctorum lectione habemuserantocculte. Ma che forſe il Pereda in quelle ſteſſe
ſue chioſc , ove a fuo potcre egli crede di rimettere il Paſcali nella diritta
ſtra da , non ne torce ancor'egli , e non una , o due , ma più, e più fiate ?
certo , che sì ; imperocchè in trattando delle febbri ardenti, così ne ragiona:
Cum vero in hac febre non apparent figna fanguinis, non eft neceſſaria
ſanguinis miſſio , fed purgatio bilis, neque inomni putrida febri ſecandaeſt ve
14 , ut 1 DelSig.Lionardo di Capoa . 91 na , ut multi recentiores medici cum
Galeno X1. Meth . vo. lunt . Or ecco , come da Galieno ribellando il ſuo giura
to campione , e lotto le bandiere del barbaro , e miſcredé te Avicenna
fuggendoſi,arditamente gli fà teſta , e cerca , di mandare a terra una
dellebaſtie più celebridella Galie nica medicina, fondata in ſu quella
univerſal ſentenza,che veruna eccezione non patiſce , cotanto replicata da Ga
lieno, e celebrata da’ſeguaci di lui: xala ,soy eli cw , ws dignton, φλέβα
τέμνειν ου μόνον εν τοίς συνόχοις πυρετούς , αλα και τοις άλλοις απαστ τοϊς επί
σήψ « χυμούς , όταν γε ήτοι τα τ ηλικίας , ή τα τ δυνά pescos pead montées :
Egli è coſa falutevoliſſima , ficome io hogià detto , ilcavarſangue , non folo
nelle finoche , ma eziandio in tutt'altre febbri, che daputridi umori fon
cagionate , fol, che l'età , o be forzeno'l vietino . E comechè li forzi egli
di ceſſare la fellonia , con dir , che Galieno non faccia men zion del falaſſo
altrimenti nella terzana ſemplice, ed altri moltiſſimi eſempli vada ei
rapportando : queſto però è un volere ſaldar la piaga con pannicelli caldi,
direbbe lo’nfa rinato della Cruſca, ed un'aggiugner colpa a colpa, fallo 2
fallo , in modotale , Che non l'avria Demoſtene difeſo ; imperocchè vien'egliin
sì fatta guiſa ad accufare il maeſtro di contradizione, o di poca fermezza almeno
, il che affai monta in faccende di così gran rilievo.Ne men moſtra ,che molto
fedel ſia di Galieno il Pereda, colà ove dice: Mul ti fequutiGalenum
lib.VI.derat. vict. in morb. acut. in by dropeanafarca ex fuppreſiunemenfium ,
d hemorrhoidibus, autalia plethoricaaffectione orto ,quando incipit fecant ve
nam, quod difficillimum nobis videtur,immo falfum , quia in hydrope jecur
maxime refrigeratū eſt, do funguinis misfio ex accidéti refrigerat.E
finalmétericordevole d'eſſer filoſofo, d'esſer medico, d'eſſer libero, a viſo
aperto dice altra volta il Pereda , favellando d'un luogo d'Ippocrate
malamente, ſecondo lui da Galieno ſpiegato ; quem locūzignofcant mihi ejus
manes , Galenusnon recte explicuit . Stefano Roderi go da Caſtello ,
Portogheſe,celebre lettor nella famoſilli M 2 ma ſcuo 92 Ragionamento Secondo
ma ſcuola di Piſa , nei libro de Meteoris microcoſmi, ove ſommaméte proneggia
d'effer medico , e filoſofante libe ro , dapoi ch'egli ha commendaro Ariſtotile
, che ne ha laſciaci credi del ſuo libero filoſofare , forte ſgridando co loro
, che voglion ſempremai gir carpone collo inge gno , e farti ſervi d'altrui ,
così favella : fed quotus quiſ que eft, qui hanclibertatem velit ? Proh dolor ,
ingewa phi lofophia ſervos parit: ed altrove : ego vero quid antiquiores
fenferint parü ſollicitus , &nulli ſedia addictus.E poco ap
preſſo:Neotericorú inventa, fi qua mihi arrident, amplector, quæ difplicēt
relinquo.Chiama egli più d'una fiata Galieno negligente , duro , oſtinato ,
caparbio , protcryo , e catti vo filoſofante; e cotanto allontanoſſi dalla
dottrina di Ga lieno il Roderico nel menzionato volume , che vennnea formare un
novello ſiſtema di razional medicina . Il celebre fra'GalieniſtiSpagnuoli
Andrea Santacroce , quante volte, e quante all'opinion di Galieno, e d'altri an
tichi , o non bada , o non cura , o talora lc fpregia ? Noil dic'egli una volta
: mihi fufpe &ta eft Galeni doctrina ; ed al tra volta motteggia il
medeſimo, perch'e'malaméte ſpiega un teſto d'Ippocrate có dire:frigida
explicativ; ed altra fia ta ripigliádo có viſo d'armi Galieno,nó dice, ch'egli
a tor to ofa cacciare Ippocrate , come colui , che non intera mente aveſſe
aflegnate le cagioni della debolezza delles forze nelle malactie : eccone le
ſue parole : Hippocrates elio modo , & forfan clariori caufas debilitatis
nobis propo fuit , quamvis Galenus illumfine ullo fundamento repreben dere
aggrediatur . Ma quale oggidiaperto campo, e libe ro nello Spagne tutte a'
medici lia dato da potere agiata mente perciafcuna fetta ſcorrerc, affai fie
manifesto a chi pon mente alle parole framezzate nell'opera del medico della
Regal caſa Gaſpar Bravo , valoroſo , e forte cam pione della doctrina diGalieno
: e fono le ſeguenti : liens Non eft conformatum à natura , ut fit receptaculum
bumoris melancholici redeuntis è jecore , quod Galenus , & reliqui
dugmarici antiqui illi ſubſcribentesfinem pracipuum quare fuerit lien à natura
conformatum ignorarunt; quod Galenus in ina Del Sig.Lionardodi Capoa. 93 in
infantis anatomes non potuit circulationem fanguinis , cu motum percipere. E in
priina , di Galieno medeſimo avea già detto :fiabſolute velit
interdicerefanguinis miſionem in pueris, non ftandum ejus doctrine . Senzachè
volen tier coſtui ad alcuni novelli trovati dà piena credenza , fi come
all'aggirarli del ſangue , ed alle vene latree, e ad al tri molci diviſi
moderni ; perchè ragionando d'Arveo, così manifeſtanente dice : quod Haruei
doctrina, ſi vera,non ob ftat , quod nova , ab illo noviter dicta , quia in
naturali busnon tam quis dixit , quam quid dixit examinandun. O faggia
veramente, e prudentiſſima ſentenza, e degna d'un vero filoſofo , degna d'un
vero medico , degna d'uns vero , ed avveduto diſcepolo d'Ippocrate, e di
Galieno ! E che direm noi o Signori dell'Accademie tutte delle Spagne, da quella
di Valenza in fuori, la qual ſola , eco ſtantemente di non dipartirſi giammai
in coſa niuna dal ſuo Ippocrate, e Galieno ſi da vanto ? Coſtoro certamen te
han ſeguito ſempre , cſeguon tuttavia per ſolo titolo i medeſimi Greci maeſtri
; ma in verità quanto poi da loro nell'adoperare dilunghinſi , non ſi può egli
bastantemente narrare . Eben'avviſollo una volta il teſte mentovato Ga lieniſta
Andrea Santacroce , il qual dopo aver due luoghi delluo Galieno recati, ove
coluidice, che ne’troppo fred di , o nc'troppo caldi tépi non ſi debba a niun
partito cavar ſangue , avvegnachè grave , e di riſchio ſia la malattia ,e
l'infermo freſco , e giovine , c ben’atante della perſonas foggiugne
inanifeſtamente poi : certe qui hæc legit,quomo dotempore Eſtivo, &in ifta
tam calida Matriti regione,pre cipue hoc anno, tam audacter mittit fanguinem ?
quid mira quod multi interierint , ut dicitGalenus? fed quid mirum fi tantum
aberrent multi , ut mittantſanguinem folius refri, gerationis gratia ?
Malaſciādoci omai addietro le Spagne,valichiamo pu ., rca ragionar della
Frácia, nella quale avvegnachè la oſti natiſfiina ſcuola di Parigi aveſſe col
Quercetano tutt'altri Chimiciperſeguitati , e banditi , non fù ella poi così
fal dase coſtante , che non abbandonate talvolta , ed aper tamen 94
Ragionamento Secondo tamente non rintuzzaſſe la ſcuola d'Ippocrate , e di Galie
no ; imperciocchè da’ſentimenti di coſtoro , quanto al fat to delle purgagioni,
e del ſegnare , e d'alcune altre core di lieva alla medicina appartenenti,
tanto , e si fattamen te fi dipartono , e s'allontanano , che più non farebbero
p avventura i medeſimi liberi , o vaghi mcdicanti ; il che pienamente ſi può
per ciaſcun comprenderedall'opere de più famoſi medici di coral nazione. Ne
permio avviſo è da logorar punto di tempo in far parole del famoſiſſimo
Rondelezj; eſlendo purtroppo manifeſta la libertà , con cui egli imprende a
vagliare, ed a riprovar l'antiche opinioni, e produrre in mezzo, e ſtabilir le
novelle, dal propio inge gnioritrovate. No meno è gran fatto da prender cura di
porre in chiaro quanto il dottiflimo Valerioia îi moftraſſe ſempremai fido
amatore , e difenſor della verità ,le cuilo di di celebrare , ed innalzar fino
alle ſtelle non è mai ſtan ca la ſua eloquentiffima penna ; oltremodo commendan
do altresì Galieno , perciocchè ancor'egli per amor della verità avelle più
fiate fronteggiato il venerando macſtro Ippocrate ; eſſendo egliciò ben
conoſciuto a chiunque l'o pere diluiabbia rivolte . E oltre a ciò quanto il
medeſi mo Valeriola ſenza alcun ritegno ove gli ſia in concio ad Ippocrate ,
Ariſtotile , e Galieno faccia contraſto ; palesí do ſenza riſpetto , quanto
ſoventemente,l'un detto diGiz lieno l'altro annulli , ſpezialmente colà , ove
ſi briga di vo lere ſpianar la facoltà dell'orzo, o dove ragiona filoſofan , do
dell'amaro ſapore , e tutt'altri fallimenti di lui, qualo ra gli vengan
conoſciuti, non laſcia con generoſa libertà di ſvelargli, e ripigliargli. Ma
non potrei tacer'io dell'elegantiſſimo Fernelio , il quale , comeche foſſe
motteggiato dall'Italico Galieno Aleflandro Maſſaria con quelle pungenti parole
: fummus cum ratione hic vir ſuo libro titulum inferipfit , Ferneliime dicina ;
namque fi totam illius inftitutionem , omniaque dig mata diligenter
animadvertas,ea majoriex parte juntite ejus propria, epeculiaria , ut prope
fint nullius alierius:pur decegli, non ſolo gran lume della riſtorata cloqueaza
Ro mila , 1 DelSig.Lionardo di Capoa. 98 mana, ma ſovrano pregio dell'arte
della medicina eſtimar fi ; perchè credendolo proverbiare il Maſſaria , il
vennes anzi a commendare , che nò ; imperciocchè , fe ad altro , ch’a ricercar
nuove coſe , e per alcun'altro non mai prima tocche ebbe il Fernelio l'animo
tutto , e'l penſier rivolto , per certo , che egli fi fe in tal guiſa conoſcere
per degno imitatore , anzi einolo d'Ippocrate, e di Galieno. Ma forſe il
Maſſaria non riguardò punto a quelle parole , le qualiil Fernelio ,antiveggendo
,che delle ſue novità ſareb be per alcun da eſſer tacciato ,nelprincipio del
ſuo vaghiſ ſimo volume laſciò ſcritte ; la dove egli con sì efficaci , e
convincenti ragioni, econ sì maraviglioſa facondia , la fua cauſa difende , che
più non farebber per avventura , o'l fottiliſſimo Demoſtene, o l'eloquentiſimo
Tullio; le qua li per eſſere ſoverchiamente lunghe qui io non rapporto; ma non
gia tacerò lo quell'ultime ſue parole , colle quali maravigliando egli de
famoſi trovati dell'età fua , così al tamente favella :nihilvere docto
illifeculo debet hæc invi dere . Dicendi ratio , fummaqueeloquentia nunc paffim
flo refcit, philofophiæ genus omne excolitur :m :ufici , geometra, fabri,
pictores , architecti ,fculptores,aliiquc artifices innu merificmentis aciem
extulerunt , ut artes quique ſuas pre claris, magnificiſque operibus
exornarint, quevetuſtioribus illis uno omnium ore celebratis nihilcedant. Neque
inven tis folum ornamenta, e incrementa adjunxit temporum ex curfio , fed
&artes novasprotulit,ad quas priorum nunquã, velingenium , vel induſtria
penetraverat . Quindi ſieguo egli a raccontar delle bombarde, delle ſtampe , delle
bof fole da navigare , e d'altri maraviglioſi ritrovati de'tempi addietro ; e
intorno al navigare ſi vanta ſommamente d'a vervi anch'egli fatta la ſua parte.
Mao quanto più il benz parlante Fernelio com menderebbe la noſtra età , fe
vedeſſe a' dì noftri di nuove , e più maraviglioſe pro ve la fperienza
accreſciuta, e ſempremai ritrovarſi da gli ingegnoſi moderni , o le carrette a
vela , o le trombe parlanti , o le lanterne magiche , o i teleſcopj, oimicro
ſcopi , o le tante , e tante , e sì maraviglioſeforti d'oriuo J ligo 96
Ragionamento Secondo li, o i varj, e varj, e non mai poſti più in opera ſpecchi
co cavi,che repentemente liquefanno anchei metalli più du. ri: o le Pitture,
che apparir fíno a’riguardáti, Protei di mil le forme le colorite telc : o con
qual arte da guerra infra brieve ſpazio di tempo in terra ſi gettino le
Cittadelle , ultimo rifugio de’vinti , & ultimo ſtento de’vincitori : e co
me dall'acceſe bombarde li mandi ſoccorſo alle caden ti fortezze , traendo
argomento di ſalute da’medelimi ſtrumenti d'offcfe: 0 come a diſpetto quaſi
della natura ſi poſla forc'acqua francamente navigare . E come egli au rebbe
aggrottate per iſtupor le ciglia in avviſando altreer ranti , ed altre fille
non mai più vedute Itelle , ed altri , ed aleri movimenti, oltre a quegli già
per l'addietro conoſciu ti nel Ciclo dagli antichi. E che aurebbe egli detto
dell' Elatere dell'Aria, de' Barometri, delle Termometre , e degli ſtrumenti
del vuoto , in cui non rimane ne men pic cio iſlimoacomo d'aria ? Eche
de’nuovi, e maraviglioſi uſi della calamita ? e che del trasfonderli del ſangue
e di cotant'altre prlove , che commendevol tanto rendono, e amipirabile l'età
noftra . Certainente con maggior mara viglia egli ſclimato aurebbe , e con onta
pur degli inutili e pecoroni parreggianti : fi omnem laborem pofteri collocaf-,
fent , ut eas folum artes, diſciplinas exædificarent , qua rum fundamenta
priores jecerant , nunquam tam multa di fciplinarum copia creviſet. Si qua in
veterum mentem non venerant, juniores non aperuiſſent, neque illorum induftriam
fuis vigiliis excitafent: nova ingeniorum lumina minime lucefcerent . Ma e'l
Fernclio , e tutt'altri autori Franceſchi prima di lui , quanto al filoſofar
liberamente poſſon ceder tutti la maggioranza a Lorenzo Giuberti nobilillimo
lettore nell’Academia di Mompelieri ; il quale dopo ellerli oltre modo lagnato
de gravioltraggj , che per opera d'Ariſtote le han villanamente molti degli
antichi ſavi patiti , haven do colui si fittamente i lor ſentimenti inviluppati
, e {tra yolri , che s'eglino pur ci ritornaſſero , non più , comopro pi lor
parti ravviſur certamente gli potrebbero: indico 4 1 1 4 silog. Del
Sig.Lionardo di Capoa 97 sì loggiugne. Hinc res eò miferia tandem reducta fuit
, ut quum maximophilofophurum damno aliorum commentaria periiſſent ,in iis
nullo refragante poſteritas tenaciffime inhee Jerit, ea tantum vera eſe ſibi
perſuadens , quæ fine contro verſia proponerentur. Quindi egli con animo libero
, e fin loſofico, dinon dover ſenza minuta conſiderazione laſciar fi trarre a
gli altrui pareri,manifeſtamente proteſta : avve . gnachè ſian quelli pure
diGalieno medeſimo, dicuiegli così dice . Hec dum animadverto,non poffum non
illius quo que dicta exactiusperpendere , de pleriſque dubitare : ut
diligentiore facta inquifitione veritastandem ( abfit invidia dicto )
eluceſcat. La qual faggia libertà , dice egli, da cia ſcun doverſi ſommamente
ſeguire,tra per l'utilità , che ol tremodo ſe ne ritragge , e per l'autorità
de'letterati più prodi , ed in iſcienze più valoroſi , che ſempre glorioſamé te
l'han ſeguita ; de'quali egli fa un brieve, ma ſcelto ca talogo,arrollandovi
anche in fine l'avvedutiſſimo Gugliel mo Rondelezj , e ſommamente
commendandolo. Ma non ſolamente Lorenzo Giuberti nel ſoftener la fin loſofica
libertà moſtrar volle la ſua maraviglioſa coſtan ża , anzi non pago di ſe
medeſimo d'imprimere, e propag ginar sì nobili ſentiméti anchenegli animi de'
ſuoi ſcolari ſommamente ſtudiosſi . Perchè un diloro ebbe già quell'e
legantiſſima orazione , che oggidi ancora vien da'curioſi con maraviglia
guardata; e nella quale dopo aver colui có forti, e valevoli prove ſaggiamente
la ſua ragion difeſa , la gran forza ſpiegando della verità , dice , quella
ſola la greca filoſofia a cotant'altezza aver potuta condurre,e por l'ultima mano
alla latina eloquenza : e da quella ſola ani cora eſſer la Criſtiana Religione
introdotta , e ſeminata in Europa: e cô la verità medeſima aver fatto capo a
Socrate ache Platone; e côtro Platone poi eſſerſi armato Ariſtotele; e
nell'Italia gran tratto dagli Aſiatici aver ſeparato Cice rone . E fu opera
anche della verità il replicare appreffoi Criſtiani Paolo a Pietro , e opporſi
Agoſtino a Cipriano ; e altri molti eſſerſi per ſola vaghezza di quella l'un
l'altro perſeguitati. Quindi rivolgendo il ſuo ragionamento a’ri N gidi, 1 1 98
Ragionamento Secondo gidi, e ſuperſtizioli barbafforidi quella ſcuola rancida ,
che più le viete anticaglie degli ſtolidi maeſtri, chela nuova , e pur mo nata
verità ſcioccamente pregiano così ſoggiugne . Et paganorum quorundam ( cioè a
dire d'Ippocrate , e di Galieno ) memoriam ſuperſtitiosè coletis ? eorum nomina
tam aniliterperhorrefcetis , ut à falfifſimis quorundam decretisnon poffe
quemquamfine nefario ſcelere deficere judicetis ? Ma non comporta il tempo ,
che più avanti lo ne rapporti , comeche per tutto quel libbricino vaghiſſime,
ed ingegnofiffime coſe ſparſe vi lieno : ed a cui caglia di leggerlo forſe non
rincreſcerà . Di tanta, e sì valevol forza fur le perſuaſioni, e l'au corità
de'due valentiffimi maeſtri , cioè del Rondelezine del Giuberti , che traendoſi
dietro già tutta la ſtudioſa gioventù di Mompelieri , da indi in poi in quella
famofiffi ma Accademia fempre la libertà del ben filoſofare è cam. peggiata .
Ne con più ardente , e con più vigoroſo ſtile altra ſcuola di Francia armolli
mai a far teſta a quella di Parigi a pro della Chimica, e del Quercetano ,
quanto la famofiflima ſcuola di Mompelieri : da cui ſon ſempre uſci ti , ed
eſcon tuttavia valorofi germogli . Che più ? egli è táto non chebiaſimevole,ma
impoſſibi le a fofferire la fervitù delle Sette agli ſtudioſi ingegni
Franceſchi, che non che altri , macoloro , i quali la liber tà in altrui
ſommamente riprendono , come il Silvio , l'Ol Jerio , il Doreto , eiduo Riolani
, lor fa meſtieri , ch'a ' giurati maeſtri , o di naſcoſto ſi ſottraggano , o
manifeſta mente ribellino . Anzi (chi il crederebbe !) anche colui , ch’a
difeſa di Galieno contro il Vefalio sì fieramente ar moſſi , voi m’intendete o
Signori , io dico il rabbioſo An drea di Lorenzo , udite come pur ebbe a dire :
Ego enim hactenus is fui ,qui nullius jurare in verba magiſtri aſſuevi, multa
prioribus ſeculisincognita , & diligenti noftra ubfer vatione animadverſa
in apertam lucem profero . Mala Lamagna , quantunque foſſe ſtata il Teatro ,ovej
con Paracelſo da prima , e poſcia con gli ſcolari di lui ten zonaſſero i più
oſtinati difenſori degli antichi maeſtri : es quan Del Sig .Lionardodi Capoa.
99 quantunque ſurti vi foſſero , ed in quel meſcolamentoal ſchermo del lor
Galieno.v'aveſſer fatta puntaglia il Fuſio , il Platero , il Cratone , ed altri
acerbiffimi,e valorofi Gas lieniſti : nonpertanto ſono ſtati i Tedeſchi, de
France fchi medeſini nel filoſofar ſemprese nel medicare aſſai più
liberi,licome ne dan piena teſtimonianza Giorgio Agrico la , come colui , che
in trattando delle coſe minerali tante, e tante fiare va ripigliando gli
antichi maeſtri , e Taddeo Duni , il quale , tutto cheGalienifta, pur contro.il
mede fimo ſuo maeſtro Galieno , un libro partitamente compo ſe , ove nel
procmio così apertamente dice: Galenusquis dem amicus eft, & fcriptor
antiquus, & illuftris., vene randus : veritas tamen , & antiquior ,
& illuftrior , dve. neranda magis.. E che direm noi di Geremia Triverio ,di
Felice Plateri, di Corrado Geſncro , di Martin Rollando , e d'altri aſſai, ma
più di tutt'altri di Mattia Vnſeri.il qua le al ſuo Galieno apertamente
ribellandoſi infra l'altre una volta dice con efficaciſſime ragioni aver lui
dimoſtro ,andar Galieno follemente errato nel filoſofare delle cagioni del.
l'Epilellia : e che de' ſuoi falli eredierano rinaſi gli oſti nati ſuoi
ſeguaci, negli animi de'qualila falla dottrina del lormaeſtro così tenacemente
ſi trovava radicata , ut ( per dirla colle ſue propie parole ) Scirrum quamvis
durum cia tius digeras , quain inveteratam hanc opinionem àpuero con ceptam ,
ipfis è mente eripias . Ma quel che maggiormente recar dee eglimaraviglia fiè,
che imedeſiminimici,e per fecutori del Paracelſo , eziandio i più fieri, ed
acerbi anch'eglino talvolta dalla loro annodata congiura mani feſtamente fi
partono, come Felice Plateri , Tomaſo Era fto ,Giovan Cratone,GaſparreOfmanno
,nimico il più im placabile, che mai Chimici aveſſero ilqual tutt'altri medi
ci, anche di ſua ſchiera, intinto biaſimò, e ſquarciò , che afpriſfimamente da
due diſcepoli di Galieno anche funne ripreſo : l'un de'quali , che fù Daniello
Orſtio , così pro verbiando il motteggia : ad Hoffmanni modum , qui inftar anys
rixoſe heroes medicos paſſim fcurrilitertraducit; e l'al tro , che è Riollano
il figlio , ſdegnato oltremodo, di lui N 2 ſcri Tôo Ragionamento Secondo ferive
: Hoffmannusnimis liberè, & licentiosè caftigat omnes Medicos ,
utfolusſibiſapere videatur. Mainfra gli altri partiſſene ancora Rinieri
Solenandri filoſofo , e medico digran pregio, il quale coll' armi , dal
medeſimo Galieno un tempo adoperate , coraggioſaméte diféde la ſua ragione ; e
dopo d'aver acculato Galieno de' falli p lui comeſſi nel libro de’séplici
medicaméti,così con tro di lui , e degli altri antichi maeſtri ſaggiamente
ragio na . Si in his medicina partibus , in quibus plus externi ſon Jus ,
experientia valet , quam judicium , & ratio , tantū deliquerunt majores
noftri, quid credere debemusfactum ef feincæteris omnibus , quæ fola ratio,
& ingenii ac umen af Sequi, eperſuadere poteft ? E che direbbe ora il
Solenan dri , ſe vedeſſe di già fatto palele al mondo , quanto G2 lieno, e
altri Antichi,della verità andaſſero lungamente er rati, in filoſofando dietro
le parti tutte della medicina? Ma non v'ha infra tutti i Tedeſchi Galieniſti,
che de’detti del lor maeſtro Galieno sì poco conto faccia, quanto , ſecon do ,
ch'io mi creda , quel tanto celebrato ſeguace di lui Daniel Sennerto ;del quale
perciocchè e' fa moſtra in ogni luogo d'eſſer libero, no fà meſtieri al preséte
ch'io sétéza alcuna ne rechi. Tanto ſolamente apporterovvene ciò, che egli in
difeſa di ſe ad Antonio Guntero ragiona . Semper novum ( dice egli) Suſpectum
fuit , antiquum vero lauda tum ; fed an jure ſemper , dubito; nam , quod nobis
antiqui, olim novum fuit : ideoque non tempore , fed rationibus opi niones
affirmandæ funt , eæque veriſimehabende , quæ cum natura , qua antiquiſſima
eft', confentiunt . E poco avă ti : multa adhuc in natura reſtant explicanda;
& plurimas in ea ita obſcura ſunt , ut magni etiam viripleraque vix de finire
aufi fint . Ma non hà egliper mio avviſo animo me no nobile , e generoſo del
Sennerti , il famoſo Galienilta Ollandeſe Giovan Antonio Lindeni intorno al
giudicar li beramente , e fecondo ragione,la verità delle coſe , ſenza eſfer di
vaſallaggio alcuno. Coſtui infra gli altri ſuoi li beri , e memorabili
conſigli, una fiata ragionando di Ga lieno , e avviſando in quante beſtemmie ,
cd empiezze foffe DelSig.Lionardo di Capoa. ΤΟΥ foſſe coluinelle ſue dottrine
ſtrabocchevolmente caduto così eſclama : Quid eft abnegare Deum , fi hoc non
eft ? fi enim iſta non poteſt , ne quidem Deus eſt ? alla fine contro i
parteggianti di lui ſtizzoſamente prorompe: &hic eſt illes homo ,cui non
aſſurrexiſe grandenefas eft ? cuique contra dixiſſe mortale peccatum eft ? E altra
volta così del ſuo mae ftro Galieno ragionando : Galenus ( diſſe ) magnus eſt,
& fuit , &erit ; non tantus tamen , quem patiar libertati med fibulam
imponere in iis , qua meliori ratione, atqueexperiêm tia certiore habeo
comprobata. Ne men del Lindeni maa gnanimo , e libero fu quell'altro Galieniſta
parimente Ol landeſe Zaccaria Silvio ; intanto che non laſciandoſi tra ſcinare
,ma ſolamente condurre a reverendi ſentimenti del maeſtro , ritroſo , e reſtio,
ſovente a quelli ricalcitra ;e tra viando dagli antichi ſentieri , per nuove, e
non uſate vie s'argomenta talvolta , comechè poco felicemente , d'ag giugnere alla
verità . Priorum veſtigia (dice egli) omnia premere, & eaděſemper inculcare
ridiculū eft.E no guari ap preſſo : Pigri eft ingenii contentum effeiis,
quæfunt ab aliis inventa , fiquidem mentis acrimoni: nihilnon humanarum rerum
ſubjicitur . Perciocchè ficome egli medeſimo ra giona , non è la medicina , o
la filoſofia così ſtretta , così anguſta , e di sì poca ſpazioſità , che di
preſente dagli an tichi primi macſtri ſi foſſe potuta ingoinbrar tutta, ſenza
laſciarne ſpanna altrui ; ne così manifeſta , e ſviluppata, iz ciaſcuno è la
verità delle coſe chei primicri inveſtigatori di quella aveſſero avuto ventura
di prenderla liberamen te ſenza gli argomenti di cotante ſperienze; e giugnendo
primieri alla gloria vincerla ſolamente della mano ; veri tas , fù ſentenza di
lui , in multo altiorem demerfa puteum eft, quam utpaucis inde extrahi poſſit
feculis . Énel mede fimo ſentimento fu certamente ciaſcun'altro medico , fi
loſofante di Ollanda ; c Io ne potreiquì rapportare infini te teſtimonianze ,
ſe non che io temo per avventura di ſo verchiamente ſtuccarvi colla mia
lunghezza. Ma non poſſo perciò tralaſciare a dire dell'ingegnoſo filoſofante, e
medico de'ſuoitempi Giacomo Bacchio ; il qual veggens е doſi 102 Ragionamento
Secondo doſi da' ſentimenti, e dalla ragione perſuaſo ,anzicoſtret to , e vinto
a confeſſar l'aggiramento del ſangue, niente curando,ch'una tal dottrina non
l'aveſſc egli apparata da' volumi degli antichi maeſtri, sì volentieri la
ricevette , e intanto l'abbracciò , che conchiuſe alla fine doverſi quella in
diſpetto degli oſtinati Galieniſti tutti ſeguire,ſe ben l'or dine tutto
dell'antica medicina aveffe foſſopra a ſconvol gerſi , e andarne a fondo;
perciocchè ſecondo un sì nuovo diviſo in aſſai coſe fi riformerebbe la medicina
, e in mi glior filo certamente ſi metterebbe . Sic contingit , oſſer vò egli ,
concefo , ftatutoque ſanguinis circulatorio motu ,in numera veteris doctrina
fiatuta inverti ; unde totus docendi ordo turbatus præpoſtere , & fine
certa methodo, & doétrina omnino confuſe inſtituitur , addiſcitur; quam
pofitioni bus cashenatim cohærentibus , &certo ordine inſtructis ſia biliri
decer . Ma che direm poi del medicar della Lamagna, il quale , da queldella
Francia poco certamente s'allontana ? ſe non fe i Tedeſchi aſſai più de
Franceſchidi ſegnar ſi ritengo no ; e intanto l'abborriſcono , e ne ſon ritrofi
, che deter minatamente giudicano, i Salaſli mai ſempre eſer danne voli , e
ſconcj, e ſe non altro alla per fine menomandone gli ſpiriti , raccorciarne
miſerabilmente la vita . No lo mi prenderò quì punto briga in provarvi quanto i
Tedeſchi ſien filoſofi , emedicidabbene , e amatori della verità , no
appiccandoſi oſtinati, e provani a Setta niuna ; ed egli ſiè ben manifeſto a
ciaſcuno , non più fortemente altronde che dalla Lamagna eſſere ſtato dimentito
, e ricreduto più fiate de'ſuoi errori Galieno . Ma non men libera dell'altre
nazioni fu la gran Bretta gna in non yolermai tenacemente appiccarſi a'
ſentiinenti d'Ippocrate, e di Galieno , o d'altri antichi medici, ſenza in
prima lungamente abburattargli, e porgli allo ſquitti no delle ſperienze , e
delle ragioni. E ciò agevolmente potrà comprendere chiunque prenderaſli briga
tanto qua to di rivoltarci tarlati, e polveroſi volumi dell'antico Ric cardo ,
o di Giubetto , o di quelGiovanni, che ſopra tutti 1 inani DelSig.Lionardo di
Capoa 103 ز manifeſtò i ſuoi laudevoli, e generoſiſentimenti in quel li bro
mandato fuora da lui , ſotto nome di Roſa Anglicana ; e da cotant'altri antichi
Inghileſi, a' quali , comeduchi,e maeſtri del filoſofare , e dell'opere di
medicina , piacque anzi gli Arabi dottori, che i Greci maeſtri nelle loro ſcuo
le ſeguitare . E più allor crebbe , e avanzoſſi nell'Inghil terra la libertà
del medicare, quando pofta giù la ruggine di que'rozzi ſecoli, più preſſo
a'tempi noſtri,per opera de gļItaliani maeſtri, rinacquero quivi le lungamente
ſepolte greche , elatine lettere ; perciocchè allorcertamente con maggior ſenno
, e avvedimento ſi puotè per valenti lette rati gareggiar vicendevolmente per
la verità; e crebbe tă to poi nella famoſa penna del Primeroſio , dell'Igmoro ,
e d'altri valenti Galieniſti Inghilefi la libertà delloſcrivere nella medicina
, che ſoverchio ſarebbe il raccontarlo. Pu re non mi terrò di ſommamente
commendar quelle famo ſe ſcuole ,onde ſi moſſe da prima l'incontraſtabile
difeſa a pro dellaggiramento del ſangue , la qual sì forte , e valo . roſamente
Fiaccò le corna del ſoverchio orgoglio al gonfio , e folle Pariſano , che
vergognato , e ontoſool tremodo divenutone, non osò il cattivello per innanzi
far ne più motto . Ma chi mai pareggiar potrebbe il valore del grãde Ar veo ?
ilqual ſgombrate da ſe tutte paffioni di Sette , e di nimiſtà , intanto
avvantaggioſſi colla ſua laudevole liber tà ne'ſentimentipiù veri delle coſe ,
che nelle ſue glorioſe . opere così par , che ſaggiamente ragioni : Io miſon
forte fovente meco medeſimo maravigliato di coloro , anzi tal volta hogli preſo
a gabbo , i quali follemente s'avviſano aver l'operc d'Ariſtotile , o di
Galieno , o d'altro più cele bre maeſtro cotanta perfezione , e compimento, che
nulla certamente lor poffa aggiugnerſi più di vantaggio . Non è la natura delle
coſe cotanto aprima faccia manifeſta che compiutamente per huom’poſſa
prenderſi, ſenza ben cutca in prima diſtintamente ſpiarla . Ella ha i fuoi
ſegreti na ſcondigli, a'quali non può certamente aggiugnerſi, ſenza la 104
Ragionamento Secondo la guida di lei medeſima: e ciò , che in alcune coſe confu
ſamente, e inviluppatamente n'accenna , altrove poi reſa . ne fedeliſſima
interpetre , più diſtintamente , e manifeſta mente n’eſpone. Perchè ſenza
dubbio mal potrà giugnes re a diterminar coſa del mondo intorno all'uſo , o
alme ftier delle parti del corpo umano , chiunque in prima non n'abbia ben
preſo argomento da ciaſcun ' altro bruto ani male , e'l ſito diligentemente , e
la fabbrica , eicongiunti vaſi , e altri accidenti di quelli , e delle lor
parti conoſciu to , e l'uſo loro per pruova ſaputo . Et putabimus, dirolla pure
colle ſue propie parole , nihil prorſus commodi ab his auxiliisfcientiarum
nobis accedere ; verum omnem plane fa pientiam à primis ftatimfeculis abforptam
fuiſe ? Ignavia profeéto hæc noftre, haud naturæ culpa eſt . Ma che non di ce
egli, e quali ſaldiſſiine ragioni non apporta in concio a' ſuoi liberi
ſentimenti , o nella famoſiſfima lettera dirizza ta al Collegio di Londra , o
nel proemio del libro della generazion deglianimali ? Pudeat, udite , come
all'alta impreſa del liberamente filoſofare ne ſtuzzichi , e ne ſpro ni il
magnanimo amator della verità : pudeat itaque in hoc nature campo tam ſpacioſo,
tam .admirabili, promifique majora femper perſolvente,aliorum fcriptis credere
; incerta indè problemata videre ; &ſpinofas, captioſaſque diſputa
tiunculas nectere . Natura ipſa adeunda eft; & ſemita quă nobis monſtrat
infiftendum . Ma dalle nazioni ſtraniere , paſſiamo omai a narrar del. la
noſtra vaghiſſima Italia , pregio delle più belle lettere, e ricovero ditutte
ſcienze ; la qual certamente , intorno alla medicina, oltre a gli Abbanije i
Niccoli, c i Gentili , e i Dini, ei Tomalli, e i Taddei, e i Ferrari, e gli
Vghi, e i Girardi , e i Platearj, e i Turiſani,e i Salvatichije i Giacomi da
Forli, e i Mattei da Grado , e gli Arduini , e i Montagnani, gli Arcolani, c i
Zerbi, ei Savanaroli , e cento , c millal tri avvedutiſſimi ſeguaci
dell'Arabeſchedottrine : hebbe anche Aleſſandro de Benedetti, e Matteo Curzio ,
eGio van Manardi , e Giovan Battiſta Montani, e Antonio Mu fa Brafavolo , c
Nicolò I.coniccni, per tacer d'altri molti, a’quali DelSig. Lionardo di Capoa:
105 a' quali più di ciaſcun'altro per avventura piacque le doe trine
d'Ippocrate, e di Galieno fominamente ſeguire . E pur veggiam talvolta effer
coſtoro manifeitamente , trali gnati dalle reverede dottrine de’lor carimaeſtri
, e in mol te , emolte coſe , che a grado lor non furono , avvegna chè di non
poca conſiderazione,loro apertamente contra-. ſtare . Ne reco Io già al
preſente per teſtimonio del mio ragionaméto Gabriel Fallopio, ne il
Trincavelli, ne il Mer curiale,ne Ercole di Saſſonia ,ne Girolamo Capodivaccas
ne Orazio degli Eugenj,ne Ceſare Magati,ne altri , e altri avvedutiſlimi
medici, e filoſofi commendati ne’loro tempi, c pregiati allai . Solamente
ricorderò le glorie del famo fiflimo Giovanni Argenterio , e cotant'altri loro
valoroſi ſeguaci , e imitatori; i quali traſandate le leggi, e le ſtret tiifime
mere degli antichi maeſtri, ſcorſero liberamente perlo gran campo della
medicina , ſenza appiccarſi molto tenacemente, ad Ippocrate , o a Galicno
,comechè Ippo cratici , e Galieniſti eglino li foſſero . Ma cometutt'altri , e
in dottrina , cin chiarezza di fama avanza di gran lun ga queltanto valoroſo ,
ed eccellente ſcrittore Girolamo Cardano , così a niuno certamente egli cedede
Galieniſti medici Italiani nella gloria del liberainente filoſofare.Egli a niun
pregio tenendo maeſtro alcuno , ſolamente s'affa . tica , e ſi ſtudia per la
verità, e non ha quaſi facciuola nel le ſue opere , ove egli non ſi vegga oftinatamente
conten dere col ſuo Galieno , prendendo cagione tratto tratto d '
accoccargliela , e manifeſtamente biaſimarlo, intorno alla maniera del ſuo
filoſofare , e del ſuo ſcrivere , e del porre in opera il ſuo furbeſco meſtiere
; infra le quali non mi par da dover tralaſciare quel che in un de'ſuoi libri ,
di lui narra , dicendo eſſere ſtato colui prima Cerulico: e che in ciò pure non
molto tempo , e ſtudio logorato v’aveffe,ac ciocchè al colino di tal meſtiere
ne foſſe dovuto formota re . E delinedeſimoGalieno altra volta forte biaſimando
ſi, dice ſoiainente eſſere ſtata cagion di cotanti ſuoi errori, e fallil'effer
egli riſtato in sù gli arzigogoli dello ſpecula re , ſcnza diſcender giammai
all'operare , e ſenza far prìo O va del 106 Ragionamentosecondo 1 va delle ſue
mal credute dottrine : Caufa errorum in medi cina eft , quod quicontemplantur,
non medentur, ut Galenus, Paulus , & c Princeps , & hodie omnes
medicine profeſores; ideo ( avvertimento ben degno da dover far faldiffima im
preſſione ne’noſtri medici) loco regularum , &dogmatum fcribuntfomnia.
Mayperchèa far parole del Cardano ci ſiam condotti , e'nó mipare di dover
tacere, quáto nella ſchicttezza,e bo tà dell'animo, e nell'amor della verità
egli lungamenteve Galieno medeſimo,non che altri ſi laſciaſſe addietro ; per
ciocchè biaſimando oltremodo la malvagità , e la caſtro naggine de' teſtereccj
, émalandati parteggianti de' ſuci tempi ,infra l'altre , cosi una volta
ſtizzoſamente gli pun ge , egli beffeggia . Demiror , dice egli , credulitatem ,
de mentiam , & impietatem medicorum noftræ ætatis , quorum aliqui eo
deveniunt , ut cbliti omnis humanitatis , maline perdere homines , utferviant
pertinaciæ , quam revocari, a eosſervare. E oltre a ciò vaegli conſiderādo
intanto giu gner l'oſtinazione, e l'affetto degli accieciti parteggianti, che
riguardando alle dottrine de’loro cari maeſtri, non che a capital niuno la
verità teneſſero , anzi l'anime loro medeſimc non curando , foventi fiate il
diritto delle divi ne leggi, e delle naturali traſandano: cdeo ſectis , grida
egli pictoſamente piagnendo , addicti ſunt , at nec immor talitatis aninorum
,nec præceptorum philofophiæ reſpectus ul lus eos teneat . Machirccherammi
amcinoria tutti gl'infelici, e com paſionevoli avvenimenti, i quali dalla
mellonaggine,dalla pertinacia , dall'ambizione,dall'avarizia, e dalla malvagi
tà de'cattivi parteggianti tratto tratto ſeguir ſogliono, che egli lungamente
va diviſando : Eglino ſempre oſtinati ncl le loro fanciullaggini, non che
foſſer giammai da tanto , che guarir ſapefiero alcuna malattia
diconſiderazione;an zi fovenci volte si , e tanto operano colle loro trappole ,
che ne tolgono la voita aʼmedici più valoroſi. E ſon pur così ribaldi, e
ſcellerati , che sfregiando colle loro opere il digniffimo nome di Criſtiano ,
e laſciata affatto la pietà, cla ! Del Sig.Lionardodi Capod. 101 e la carità
unico patrimonio de'ſeguaci di Criſto ,tuttiaya: ri , e ambizioſi,ſi
veggono,ſolamenteiricchi, ei nobili am. malati viſitare , e i poveri, e
miſerabili, dalla fortuna ab. bandonati,dopoaverglilungaméte ſpolpati, o
affatto non curare , o ſe pur vi vanno frettoloſi, e ſuperbi, come vili
giumenti, o come altri bruti animali crudelmente trattar gli . Del quale
graviſſimo misfatto certamente la cagioa ne ſi è il lor Maeſtro Galieno , da
cui eglino tutto apparā doprendono ancora ad eſſer oltremodo ambizioſi, e
avari. Hujus tanti mali, ſono le parole propie del Cardano , au tor fuitnofter Galenus,
qui nil ubique jactat, niſi proceres , atque Imperatores ; quum tam
juveniseffet, ut ambitione, inani nomine potius, quamartis peritia eis
innotuerit. Nc oltre a ciò tace il Cardano l'aſture frodi di que'Vol poni
maeſtri , i quali a perpetuar la lor tirannia,agl’ingan ni , alle millanterie ,
alle beffe , all'aſtuzie , aile giglioffe rie gl’innocenti ſcolari tratto
tratto avvezzavano . E di tanti misfatti , e ſcelleratezze'non laſcia
d'accagionarne ſopratutto le perſone nobili , e d'alto affare , i quali per
ciocche delle coſe del mondo , e della natura poco, o nulla ſi conoſcono , non
laſciano a ciò porre acconcio compen ſo, ficome certamente dovrebbono ; anzi
intanto giugne la lor biaſimevole dappocaggine, chc in luogo di ricercar
ne'medici profonda dottrina , buoni coſtumi, intendimen to di linguaggi,
avvedimento grande , ſcienze alla medi cina appartenenti, pierà de gl'inferini,
antivedimento del Je future cole, ſperienza delle cure malagevoli , conoſci
mento delle matematiche, ripoſo di mente , amor di glo ria , che naſca dal ben
operare , diſpregio d'altre coſe ſol lazzevoli , e ardente diſiderio d'apparare
; vi richiedeva no orrevoli veſtimenta , aſpetto grazioſo , viſo piacevole,
adulazion di parole , abbondanza d'ammalati illuſtri , e grandi,magnificenza di
ricchezze, e cento, e mille altre ſo miglianti vanità. E ben gli parve , che
meritevolment , coſtoro ne portaffer poi la debita penitenza , omorendo ne loro
i più cari parenti, o ſtandone eglino medelimi ſem premai ſparuti, c
triſtınzuoli , e cagionevoli aſſai dell i per 0 2 108 Ragionamento Secondo
perſona : diuturno cruciatu protractorum per longumtempus morborum : per
rapportarvi omai alcune altre delle ſue pa role medesime,che mi ſovvengono:
preterea fiderationum , debilitatum ,quæ poft fanationem illis relinquuntur ;
avs vegnachè affatto non ſi vedeſſe Gir del pari la pena colpeccato, mal
capitandone non pur eſli,magl’innocentiloro figliuo li , e amici . Ma troppo
piacevol coſa è a ſentire ciò , che finalmente egli contro i medici de'ſuoi
tempi narra , i quali baldanzoſi , e tronfi liberamente ſcorrendo a lor talento
per tutto , e abborrando, e malmenando la medicina, co ( trignevano alla fine i
cattivelli infermi, che male a lor uopo nelle lormanicapitavano , a pagare a
ingordiſino prezzo i rimedj, e talora anche la morte ; facendo eglino ancora
forſe la lor mano negli ſtrabbocchevoli guadagni degli ſpeziali.. Ma, che direm
noi di Giulio Ceſare della Scala digniſ fimo medico de'ſuoitempi . Egli comechè
fieriſlimo ne mico foſſe del Cardano , e s'argomentaſſe a ſpada tratta
dirimbeccarlo quaſi in ogni parola; intanto , che ne pur la loro oſtinatiſſima
nimiſtà Ha diſciolto colei , ch'il tutto ſolve . Atque ut etiam nunc poſt
cineres , dice coll' uſata elegan za il noſtro Severino.ſtridēt in ævum ab
ipfis exaratæ chara te ; non però di meno , ove ſol ſi tratta della libertà
della filoſofia , e di non laſciarſi dictro gli antichi ciecamente traſcorrere
, allorcertamente poſto giù lo ſdegno , e’lli vidore ſon tutti di convegna a
ritrarſi di parteggiare , e far capo oſtinatamente alle ſette . Errata majorum
, diſſe generoſamente una volta Giulio Ceſare della Scala , diſi mulanda non
funt , ne eo ipfo pofteritati imponamus .E benſi valſe egli del ſuo avviſo ,
quádo cruccioſamente diile d'Ip pocrate al Cardano : Tueris , atque profiteris
nefandum illud Hippocratis deliramentum , à quo non abfunt Galeni
trepidationes, animam nihil aliud eſſe, quam cæleſte calidum: avvegnachè ſenza
ragione alcuna aveſſe egli rimprovera to una volta a Galieno una sìfitta
libertà , e ſtizzoſamé 1 te bia . Del Sig. Lionardo di Capoa. 109 te
biaſimatolo d'aver egli ſovente contraſtato il reverendo Ariſtotele;come ſe
graviſſimo fallo , c ſcelleratczza ciò ſi foſſe: Galenus avidiſſimus ,dice egli
, carpendi longe de meliorem ; in quella guiſa appunto , che quel nobile Ga
lieniſta Giulio Aleſſandrinovoleva , che ſolamente all'Ar genterio foſle
vietato il por mano all'opere degli Antichi per ammendarne gli errori ; della
qual coſa , non ſenza gran ragione per avventura forte fi biaſimail Solenandri
, così rimproverandogli: Verum fateris,antiquiores fcripto res erraſſe,
concedifque aliis omnibus , qui funt ingenio , em judicio aliquo prediti, ut
poffint ea reprehendere , quæ ma lè funtdieta , &meliora tradere : foli
Argenteriohanc li centiam adimis . Ma prima delCardano , e di Giulio Ceſare
della Scala, per ripigliare ilfil del noſtro ragionamento, grandiſſimali bertà
ufar ſi vide , e nelfiloſofare , e nello ſcrivere un'ala tro valent'huomo nelle
inatematiche , e nella filoſofia , e nella medicina aſlai bene fcorto , ed
cſercitato ; perchè meritonne d'eſſer'altamente pregiato , e onorato da quel
generoſo favoreggiatore , e intendente delle buone lette re Lione il Decimo ,
Sommo Pontefice . E fu coſtuiGio vanni da Bagnuolo, il qual non mica pago nelle
ſcuole d' averdato ſaggio del ſuomagnanimo, e nobile ſpirito , no curante
l'altrui autorità in non poche concluſioni: e aven do fuor dell'uſo comune
mandata avanti la Chimica: coſa a que’tempirariſima, maſlimamente in Italia :
volle in cc minciando un capo diquel libro, ch'egli fa dell'ecliſſe del la Luna
, più manifcftamente proteſarlo , portando ſenti menti veramente da filoſofo
ragguardevole , e di gran lie va . Quoniam noſtri antiqui progenitores , dice
egli ,fcien tiarum inventores , rationibus , experimentis, comperie runt
ſcientias ; veriphilofophantes ipfos imitando conari de berent no perfiftere
inventis,fed nova nature ſecreta venari. Maquel famofiffimo medico, e filoſofo
, e pocta de Verona Girolamo Fracaſtoro , avvegnachè da' ſervili fen timenti
delle ſcuole ingombro troppo commendaſſe il fuo maeſtro Galieno , e molto a
capitale il teneſſe ; non però dime 110 Ragionamento Secondo di meno , reſo
talvolta avveduto dalla verità, non ſi tiene, ove gli venga in concio,
d'aſpramente riinbeccarlo, e qua. to al fatto de’giorni critici rinfacciargli
ch'egli pur troppo ſcioccamente ponendo in non cale gl'inſegnamenti de’alo
ſofi, a'vani preſtigj degli ſtrolaghi ſia ricorſo . E oltre a ciò nelmedicare
,e nel filoſofare da'diviſamentidi lui ſi di lunga; come agevolmente ſi può
veder ne'ſuoi libri della fimpatia, e antipatia delle coſe, e della contagione
, eins altri luoghi ; ma ſopratutti nel ſuo divin poema della Sifi lide , per
cui huom certamente crede , lui all'altezza del gran Marone eſſer’aggiunto , e
che tutt'altri poeti felice mente G laſci addietro . Nel qual poemacontro
l'opinion del ſuo Galieno va egli cantando , l'aria ſola di tutte coſe eller
principio , così manifeſtamente raffermando: Aër quippe pater rerum eft,
&originisauctor. E prima egli così del naſcimento delle coſe avea diviſato
: Principio quæque in terris, quæque æthere in alto : Atque mari in magno
natura educit in auras , Cuncta quidem nec forte una , nec legibus iiſdem
Proveniunt, sed enim, quorumprimordia constant Epaucis,crebro ac paſſim pars
magna creantur : Rarius aſt alia apparent, non niſi certis Temporibufve ,
locifve , quibus violentior ortus, Et longefita principia: ac nonnulla prius,
quam Erumpant tenebris , &opaco carcere noctis , Milletrahuntannos
,fpatiofaque ſecula poſcunt Tanta vicoëuntgenitaliaſemina in unum . Quindi con
l'uſata ſua eloquenza della cagion de'mali di viſando, cosiegli canta Ergo
&morborum quoniam non omnibus una Nafcendi eft ratio , facilispars maxima
viſu eft, Et faciles ortus babet , &primordia praſto. Rarius emergunt alii
, poft tempore longo Difficiles cauſas , & inextricabile fatum , Et
feropotuere altas ſuperare tenebras. Ne men del Fracaſtoro al ſottiliſſimo
Andrea Cefalpi. ni piacque ſommamente levarſi ſuſo contro il ſuo maeſtro Galie
DelSig.Lionardo di Capod. ilt * Galieno, e iſeguaci di lui , prendendola
oſtinatamente a favor d'Ariſtotele , e de'Peripateticiin ciò , che da coloro
dipartonſ i Galieniſti ; ſenzachè egli è pur troppo mani feſto a ciaſcuno
eſſere ſtato primiero il Cefalpinia ſcoprir glorioſamente al mondo
l'aggiramento del ſangue:tutto , che parer poſla ciò, che moltoprima di lui
aveſſe fatto Pla tone con quelle parole: Μέγιστν δε όταν α'μαι καθαρά
συγκερασθείσα , το τών ινών γένος , εκ της εαυτών διαφορή τάξεως . αι
διεσπάρησαν εις αίμα , να συμμέ Πρως λειότητος ίχοι και πάχους , και μήτε δια
θερμότη ως υγρών εκ μανού του σώματG- εκρέσι , μήτ' αυ πυκνοτέρον δυσκίνητον
ον, μόλις axaspécouto iv Cais Preti,che ſuonano in noſtra lingua : E maf.
fimamente quando ( la bile )col puro ſanguemeſcolata,difor dina quella ſpezie
di fibre ,le quali ſono ſparſe per lo ſangue, acciò ſia in eſlo una mezzanitate
tra'l groſo, e'lſottile:per chè mediante ilcalore non iſcorra per lo corpo
,ficome ogni li quida cofa fcurre perun corporaro, neſia troppo groſo , e
difficile a ſcorrere , sì, che appena poipoteſſe andare , eritor nare per le vene
. Ma non poco certamente e' ſiparc, che Santorio Santori, famoſo, e
raggaardevol medico de'ſuoi tempi profittafleſi in liberamente ſcrivere , non
avendo ri guardo a ſetta niuna , per aver eglicol Sarpi , e col Gali Jei un
tempo ufato ; i cui ſentiméti vollc cgli in molti luo ghide'ſuoi ſcritti, come
ſuoi propj diviſamenti manifeſta re , e ſpezialmente in quel libro cotanto per
ciaſcun com mendato, della Staticamedicina , comcchè il più delle vol te male
egli apprendendo le commendevoli dottrine di que’valent'huomini, e alle ſue
volgari ſconciamente me ſcolandole , fe ne faceſſero le ſcherne gli accorti
lettori. Maciò da parte al preſente laſciando , non ſi può egli di leggier
narrare, quanto da lui carminati, e proverbiati du ramente foſſero i parteggianti
tutti medici , e filoſofi ; e quantunque volte gli vien fatto loro l'accocca ,
rapportão do in ſuo pro varie, e molte autorità d'Ariſtotele, e di Ga lieno ;
di cui ſeguendo la traccia arditamente ofa afferma re,alquanti Aforiſmi
d'Ippocrate ritrovarſi talora dalla verità non poco lontani : e molti, e molti
errori ne'moder ni, e 112 Ragionamento Secondo - { ni , e negli antichi
ſcrittori dimedicinaegli ravviſa: e non pochi anche ne ritrova in Galieno. Così
eglibiaſimando, e maladicendo oltremodo la follia, ſicome e'dice , di pa recchj
ſcuole dell'Europa , dice , che in quelle ſcioccamé te maggior credenza preſtar
ſogliaſi all’orrevole autorità d'Ariſtotele, d'Ippocrate, o di Galieno , che a'
ſentimenti noſtri medefimi; e pur dice cgli Ariſtotele medeſimo, Galieno di
comun conſentimento più volte affermare, ef ſer anzi alla ſperienza , e a'
ſentimenti, che all'altrui auto rità da dar fede. E poichè in concio al ſuo
ragionamento più luoghi di Galieno egli rapporta , così alla per fine con
chiude: Quare quum Galenus,neque meus fueritaffinis, confanguineus , aut
majorum meorum avunculus , quod ſciã , neque in Sanctorum catalogo fit
collocatus, quiafflatusdi vinitate fuerit loquutus , non video cur omnes non
poffint honorificè , fi fenfibusudverſetur, eum relinquere. Neè da tralaſciare
al preſente di narrare ancora del fa moſiſſimo Andrea Mattioli , il qual
comeche parzialiſſimo del ſuo Galieno , purc in più luoghi, della verità reſo
ay veduto , dice manifeſtamente , eſſerſi colui in leggendo Dioſcoride aggirato
,e ſovente non averne parola inteſo ; e una volta infra l'altre non puotè
ritenerſi di non iſtizzo ſamente gridare : videtur Galenus non folum plurimum à
Diofcoridis fententia ,ac hiſtoria aberraſſe , fedetiam à ra tione ipfa ,
acveritatelongè fane abeffe . E oltre a ciò dice eſſere ſtato Galieno di poco
ſenno ,ein molti luoghima nifeſtamente contradirli; ed eſſer egli ſtato nato a’
Poeti , c troppo di leggieri alle loro vanillime fa vole aver preſtato fede,
non altrimente , che ſe ſtate foſſe ro incontraſtabili verità da raffermar con
tutti i ſacramen ti del mondo . Ma il dottiſſimo Proſpero Alpini in tutti
que'ſuoi libri della metodica medicina , avvegnachè ancor egli di parte
Galieniſta pur altro certamente non fa, ſe non ſe difendere i metodicida’mordimenti
del ſuo Galieno , e d'altri R.2 zionali medici ; e ſpezialmente ove Galieno
così ſconcia mente carica di bialimi, e di maladicenze Attalo famoſif troppo
affezio fimo DelSig.Lionardo di Capoa 113 Timomedico metodico , dicendo , che
per opera di lui for fe ftato ucciſo Teagene filoſofo cinico . Ma quanto poco
capital faceſſe di Galieno, e d'altri razionali medici il nar rato Attalo , ſi
può agevolmente comprendere dall'acerba riſpoſta da lui data a Galieno ;la qual
coſtuipoſcia,come ſua sóma lode foſse , volle nell'opere ſue laſciare ſciocca
mente regiſtrate . E forſe fuella più ancor pugnereccia, e di piggior talento ,
che egli ne racconta . Eche direm noi del valoroſo Girolamo dall'Acquape dente
digniſſimomaeſtro del grand’Arveo ? Quante fiate ) egli, comechè Galieniſta,
pur da’ſentimentidiGalieno ra gionevolmente ſi diparte ? Quante ,e quante fiate
grave mente il proverbia , e riprende di ſciocchezza, ed'igno ranza ? Pure
infra cotanti biaſimi, e rimprocci , ch'Io per brevità tralaſcio , recheronne
al preſente uno , che val per cutti , lagnandoſi egli forte del tempo ,
ch'avendone tolte tutte le bell'opere degli antichi filoſofánti, ne abbia ſola
mente laſciate quelle d'Ariſtotele , e diGalieno , como ſchiuma de libri , e
viliſfimo fondaccio di tutte le buone dottrine ; eſſendo coloro in molte , e
molte coſe ſempre mai fallati ; e ſpezialmente taccia Galieno diquella folle
ſua opinione intorno alla formazion della viſta . E intanto è vero ciò , che
noi raccontiamo , eſſerſi i va lenti Galieniſti pur talvolta per vaghezza della
verità al lor maeſtro Galieno ribellati , che maraviglia è a narrar come
Aleſſandro Maſſaria,cotanto oſtinato, e leal parteg. giante di Galieno ,
pur’una fiata ponendolo in non cale, aveſſe oſato cavar ſangue nella
diſſenteria , comechè cer caſſe poi a ſua poſta didarne a vedere con
fievoliſſime ra gioni, eſſer ciò anche ſecondo il ſentimento del ſuo G2 lieno ;
e'l celebre Settala ancor' cglicotanto fedel ſegua ce del medeſimo , pure
l'aveſſe fronteggiato , e ripigliato , 12, ove egli ragiona delle cagioni del
color glauco degli occhj ; ed ove dice , che l'acque de'pozzi non fiano ,me
appajano fredde l'eſtate più , che in altri tempi; percioc. che ſi toccano
colle mani calde; e che l'inverno al contra rio ne pajano calde , perocchè ſi toccano
colle mani food P dc. . 114 Ragionamento Secondo 1 1 1 de. Ma quel , ch'è più
da conſiderare ſi è ,ch'egli in un'in ? tero libro riprova l'antico , e
praticato uſo di medicar le ferite , appigliandoſi ad un nuovo modo da
Ippocrate, e da Galieno non mai conoſciuto , non che adoperato . Ma troppa gran
briga fermamente lo mi prenderei , ſe recar qui ora voleſsi ciò, che ad uno ad
uno tutti gli ec cellenti, e famofi ſcrittori Italiani lungamente ne diviſino .
Chiudaſi adunque sì nobil corona colle parole del ſotti liffimo Pier Caſtelli,
il quale una fiata infra l'altre contro cotali pecoroni da greggia maggiormente
ſdegnato , così proruppe : An omnia novit folus Galenus ? an nihilreliquit
pofteris inveſtigandum ? Quo merito infudit illi uni Deus (quod alteri nulli)
totam , perfectam , &integram medici nafcientiam ,nihil nobis reliquens ? e
dopò molte graviſſime parole , che egli apporta a queſto propoſito , così alla
fine conclude : Patet boc , quia poft Galenum tanta medicinefa Eta eſt additio
, ut triplo auctam dicere poflimus. E si nobil costume di liberamente
filoſofare in medi cina,ben da molte , e molte fcritture publicate in iftampa ,
apertamente ſi ſcorge, ch’abbian ſeguito a gara l'Accade mie , ond'è sì
abbondevole , ctanto fi pregia tutto il bel paeſe, Ch’Appennin parte , e'l mar
circonda, e l'Alpe. Ma io tralaſciando a bello fludio tutt'altre parti , ragio
nerò ſolamente della nobili : lima noftra Città , delle Sirene , e delle Muſe
amenillima ſtanza , che non pur nella gloria delle lettere , ma in ogni altra a
niuna delle più celebri , cd illuſtridell'Vniverſo riman certamente feconda . E
laſciā do di favellar del Belli , del Bozzayotra , del Tucca , e d' altri , e
d'altri lettori diminor grido oſtinatiſſimi ſeguaci, e parziali d'Avicenna :
come potrò mai lo pienamente nar rare co quanta maraviglia udiſfer già legger
le noſtre ſcuo le il teſte da noi mentovato Argenterio ; al cui ſottile in
gegno , ed avveduto giudicio ,non miga, come altri per av vétura coftumano
,baltādo il copiare , e l'appropiarſi l'al trui viete dottrine ; ma volendo
egli diſaminare , e far pro va delle coſe della medicina ne’libri già ſcritte,
il diſcreto, e av Del Sig. Lionardo di Capoa 115 e avveduto , e giuſto
Giudiceſtudiavaſi d’aſſomigliare ; il qual non a tutti pienamente dà
fede,maaltri approva, al tri traſanda , altri manifeſtamente rifiuta, ficome
appunto ragion chiede; ficome avviſa quel ſuo difenditore . Su mus omnes in
arte noſtra tanquam in fenatu conſtituti, in quo non ut pedariiftatim pedibus
in aliorum fententiam ire debe mus , fed ut prudentes Senatores viderequid
conveniat ; at que ita ingenue proferrede rebus , quod rationi confonum ar
bitramur. E ben per ciaſcuno il finiſſimo , ed eccellente giudicio
dell'Argenterio intorno al noſtro propoſito potrà agevolmente da queſte parole
di lui ravviſarſi . Non tam Servili, dice eglifimus , animo , ut omnia
veterumplacita , oraculorum inftar indiſcriminatim veneremur , vel tam ab jecto
, ut pofteris omnem , meliora excogitandi occafionem prareptam , ac præciſam
effe arbitremur ; quafi vero non idő nuncſit , quod olim Cælum, eadem terra ,
idēgenerandimo dus : eadem denique, & facilior etiam , quam aliis fueritdin
cendi , inveniendique ratio . Ma certamente non men dell’Argenterio ſdegnarono
con filoſofica libertà altri Na poletani lettori aſſai, di lcgarſı-a'
ſentimenti d'Ippocrate , o di Galieno: avvegnachè per ceſſar forſe l'invidia
della ribaldaglia del volgo , con parole alcuni di eſſi il diſfimu laſſero ,
facendo ſempremai veduta di abbracciar , e di ri tener tenacemente tutto ciò ,
che inſegnato viene per Ip pocrate , c per Galieno . Infra'quali Filippo
Ingrafiagavi do oltremodo , e curioſo di conoſcer la vera fabbrica del corpo
umano, ebbe ventura d'abbatterſi il primonelle veſi chette ſeminali,non più per
addietro da alcun degli antichi medici ravviſate ; ed infra l'altre coſe ebbe
ardimento, nc d'Ippocrate , ne di Galieno punto curando , di purgare cziandio
nelvigor delle malattie . Così anche gencrofa mente ſi ſottrailero alle ſchiere
de parteggianti Bernardi no Longo , Paolo Monaco , e Giovanni Antonio Piſani :
un diſcepolo de'quali ( 1) in una apologia in difeſa diſe , e de'ſuoi maeſtri
compoſta,volle, che per ciaſcun ſi leggeſſe: femper licuit omnibus literarum
profefforibus non folum con P 2 ( 1 ) Ferdinando Caſſani, t tra 116
Ragionamento Seconda tra recentiores medicos , & Philofophos ,ſed etiam
contra Gao lenum ipfum , &Platonem , alioſque illuſtresfcriptores dice re ,
fi quando ratio dictaverit . Seguiron poi con la mede fima libertà ſempre
Girolamo Polverini, Quinzio Buon giovanni , e Latino Tancredi,huomo, come dice
Sertorio Quattromani, di molte lettere , e di molto giudicio , e gran difenſore
della dottrina del Telefio . S'allontanò altresìda gli antichi talora ſalvo
Sclani , e Mario Zuccari, il qual co sì forte , e vigoroſamente riprende
Galieno nel giudicio che colui diè intorno alla malattia d'Erofonte : ed altrove
sì ardicamente , che nulla più , e come ſuol dirſi, a ſpada tratta prende a
difender il coſtume de’Napoletani , intor no al cibar gl'infermi, contro i più
valoroſi Campioni, ch' aveſſer mai le dottrine d'Ippocrate, e di Galieno
ritenute. Ed a' di noſtri abbiamo pur veduto Giovan Battiſta Ma fulli , Antonio
Santorelli , e Girolamo Fortunato , il qual tutto ciò , che nell'opere
d'Ippocrate , e di Galien fi riſer ba , sì fattamente per le maniavci , che non
v'era forſe parola , di cui improviſo domandarone non gli veniſſe to ito a
memoria ; e nondimeno tanto , e sì fovente ove gli pareva , cheragione il
richiedeſſe , coſtumava egli a rim beccar l'antiche , e comuni opinioni , che
per tanto a' Ga lieniſti tutti n'era in uggia , e crepacuiore: e ſofina , e
cavil Joſo ſempre chiamavanlo . Ma ben comprendelí l'animo fuo libero , dal
libro , ch'e' compoſe de’principi delle coſc naturali , ed in quello ancora de
ſenſi ,il quale egli ſotto nomc d'un ſuo ſcolare mandò fuora . E dietro alle
ſue ver ftigie poi non guari lontano andar mirammo Onofrio del Riccio , huomo
veramente per vivezza d'ingegno , e per dabbenagginc d'animo , tenuto
fommamente caro dalla Città tutta . Ma perchè addietro laſcio ora Io Paolo
Emilio Ferrilli della nuova , e della vecchia medicina parimente inteſo , e di
ciaſcuna di effe egualmente libero profefforc ?il qual da' fuoi lunghi viaggi ,
e pellegrinazioni tante, e sì fatte forti di nobili, e cari medicamenti alla
patria riportò , che ben volentieri a pro di ciaſcuno le botteghe tutte degli
ſpeziali 1 1 * cor Del Sig. Lionardo di Capoa. 117 corteſeméte arricchiune. E
dove lo trapaſſo ſotto ſilenzio ingratamente aſcoſo il piùſovrano pregio , che
aveſſer mai le noſtre ſcuole , il dottiſſimo Marco Aurelio Severino , il qual
non ſolo , ſe miglior Chimico , o medico, e ſe più va lorofo in fiſica , o in
cirugia, e ' li foſſe . Egli animoſamen te ſeguédo l'orme del famoſo Giulio
Azzolini ſuo maeſtro : anzi oltre affai più gittandoſi , in favellando , ed in
iſcrivé docon filoſofica libertà ripigliò Galieno , e gli altri anti chi , e
nelle noſtre ſcuole tante fiare , e tante fè conmae ftra mano chiaramente
vedere paleſi, e manifcfti agli oc chj di tutti i ſolennillimi falli, che
iGreci , egli Arabi , ei Latini lor ſeguaci nel notomizare i corpi aveano in
prima commeſli. A bello ſtudio poi non fò lo aleuna menzione quì di Baſtian
Bartoli , non avendo huom , che non ſappia , che tra'vantaggi fuoi maggiori ei
ripoſe il goder mai ſem pre , e valerſi d'una sóma libertà nel filofofare ,
colla quale egli conſumò l'impreſa d'un novello filtema di medicina. Ma che
tanto infra i lettori Napoletani andarmipiù rav . volgendo , ſe tutti i maeſtri
delle noſtre ſcuole da Diego Raguſi in fuora , che ſaldi , & interi i
ſensimenti d'Ippo crate mai ſempre ſeguir volte, il qual pure, così in queſto,
come in altro non ſi vide ſecondar nella ſteſſa maniera poi Popinion di Galieno
, in ciaſcun tempo conformaronſi se pre con l'uſo del noſtro comun medicare il
quale quanto dalla dottrina se da' ſentimenti d'Ippocrate , cdiGalieno
s'allontani , avvegnachè il contrario comunemente fi giu dichi , agevolmente
può da ciaſcun ravviſarſi . Ed Io ,per chè di più non mipermette il tempo ,
daronne al preſente qualche breviſſimo ſaggio . E percominciar con qualche
ordinato diviſamento , manifeſta coſa è , che gli argome ti maggiori , de'quali
fornir ſi vuole la medicina , s'ella mai di giugner intende al ſuo laudevot
fine d'approdare il genere umano, per comun ſentimento di tutti più ſaggiIp
pocratici , e Galieniſti ,a tre capi quali tutti, principalmen te fi
riſtringano , nella Dieta , nella Cirugia, e in quel,ch' appreffo iGreci
chiamaf; Φαρμακευσης . Intorno alla Dieta quanto da' due Greci Mae ſtri 118
Ragionamento Secondo 1 ſtri i Napoletani medici fian diſcordanti , dicalo ir
mia vece quel famoſo Galieniſta Melaneſe Lodovico Set tala , (1 ) fuerunt ,
dice egli,quiprimis tribusfaltem diebus, aut inedia , aut tenuiffimo vietu
laborantes exficcabant , pro grelu autem temporis cibos tum in forma, tum in
quantita te adaugebant ,quos Galenus in lib. method. med. pluribus in locis
exagitabat. Hanc cibandi rationem fervare intelli go Hiſpanos medicos,
Neapolitanos. Narra egli minuta mente il modo daʼnoſtri Napoletani tenuto nel
cibare gľ infermi; indi poichiaramente dimoſtra eſſer ciò affatto con trario
agli inſegnamenti d'Ippocrate, e di Galieno ; la qual coſa aſſai già prima del
Settala avea un de'famoſi maeſtri del paſſato ſecolo , Paolo Tucca avviſato
,così nel la ſua pratica del medicar Napoletano dicendo,fciendum , quod
longediftat modus dietandi Hippocratis, Galeni, & Avicenna , ab eo quem
obſervamusdiebusnoftris. Illi enim principes voluerunt in febrium principio
craſſiusfore reficien dum : in ftatu vero , aut nihil offerendum , aut
tenuiſine dietandum . Nos vero quaſi oppoſitum obfervantes in ftatu reſumptive
, in principio autem alternative cibamus. Ma da Paolo Tucca in poi non può di
leggier crederſi quanto vie più da Ippocrate , e Galicno in cibar gl'infermi
ſianli i noftri medici dilungati, e ciò fu cagione di quella famo fiffima
difeſa , che ancora va per le mani de’letterati , fatta a pro di Giacomo
Bonaventura medico di Cleméte VIII. contro Mario Zuccaro, già in queſto noſtro
ſtudio lettore per Maſſenzo Piccini da Lecce. Ma non che nella quantità , e nel
tempo co'due Greci maeſtri i Napoletanimedicimanifeftamente conſentano , anzi
nel modo ancora , e nella qualità de'cibi ſopratutto da color fi partono , di
tutt'altrevivande nutrendo gli in fermi , che diquelle , che da’lor venerandi
maeſtri ne fuz rono in prima ne’loro libri diviſate.E dove di grazia ſono ora
l'acque melate , e l'orzate, e altri ſomiglianti beverag gj, cotanto da'Greci
commendati, certamente in lor luogo i brodi di polli , e le peſte carnidelle
galline nella noſtra Cit 1 (1) In comment.in problemat. Ariftot. Del Sig.Lionardodi
Capoa. 119 ye Città ſi coſtumano.L'orzata , dice una volta Ippocrate ( 1) di
ragion mi pare, ch’alle vivāde di fermēto ſia da antiporre, e lodo coloro , i
quali l'antipongono. Iltocáva refü šv douée oefãs ποκεκείσθαι των σιτηρών
γευμάτων εν τετέοισι τοϊσι νοσήμασι και εποι vÉo To's asforgivavtas . Ed altra
volta dice , eſſer l'orzata oltremodo valevole ad umettare , e perciò a'
febbricitanti recar grandiſſimo giovamento;a’quali ſecondo i fentimen ti di lui
medeſimo, l'umettativo cibo è sépremai convene vole ed allo incótro le carni
tutte nocevoli.E l'altro Greco maeſtro Galieno ( 2) oltremodo berteggia, c
proverbia Pe trona,aſpraméte rimproverādogli, che agliammalati ſuoi có lor no
poco nociimento concedeſſe le carni. Perchè ma nifeſtamente ſi comprende, i
Napoletani medici irrorno al nutricar gl'infermi , anzigli ammaeſtramenti di Petronas
, che que' d'Ippocrate (3) o di Galieno (4) feguire . Così è da dir, che le
brodadelle galline non ſian da dare agl'in fermi di febbre, conciosſiecoſachè
quelle al parer d'Ippocrate , e di Galienio abbian certamento vigor di
ritenere, e di ſtrignere , dove l'orzata, ſecondo i ſentimenti di coloro, è
mollificativa , e mezzanamente umoroſa ,ne punto riſtri gnente , perchèqueſta ,
c non quelle a ' febbricitanti ra gionevolmente dar ſi vuole . Ma che direi noi
del vino , che da’Napoletanimedici , non altrimente , che ſe toſſico foffe ,a '
febbricitanti ſi victa ? e di Galieno fir pur dato ad un'ammalato di febbre
acuta , e come egli ne narra, di cal do , e ſecco temperamento ; anziegli
manifeſtamentene conſiglia , e ne conforta , che inzuppandovi il pane ſi dia ,
mangiare a'febbricitanti , anche talvolta nel comincia mento delribrezzo . Ne è
già mio intendimento al preſente di dar giudicio fopra si futre quiſtioni, o ſopra
tutt'altre , ch'io qui rap porti ; ma ben ſolamente dico, ſembrarmi agevol
molen , e piano il coſtumedel cibar Napoletano ; e che null'altro , che
dappoc.iggine, e vaghezza di riſparmiar fatica l'abbia in pri (1) lppocr . nel
lib.i.della dieta (2) nel com . 1. fop. il 2.11b.della diesa ne'male Atw8. (3 )
nel s . della dieta. (4) nel 1.lib . della facoltà de'med.Jemplo I20
Ragionamento Secondo in prima a'neghittoti Cittadiniportato , traſandandoſi co
sì pian piano, ed abbandonandoſi quel d'Ippocrate , e di Galieno, che
malagevole affai, ed intralciato a’beſci uc celloni medici delbarbaro ſecolo
ſembrava. Iinpercioc chè , licome il primo de'Greci maeſtri dice , ( 1 ) e
l'altro il conferma ( 2 ) eragione il richiede , dee il ſaggio ,ed avve duto
medico in prima ben avviſare quanto egli per durare il mal Gia ,ed in ciò gli
argomēti tutti del ſuo ſottiliſſimo in tendimento adoperare. Il che quanto ſia
malagevole a certamente comprendere , ſenza reſtarne talvolta da' ſuoi avviſi
ingannato , ciaſcun da per se baſtantemente , ſenza ch'io divantaggio gliele
inſegni potrà ravviſare . E ciò ri chieſero ne'medicique’due maeſtri, acciocchè
nelle brevi malattie debba ſempre con iſtrettiſſimo cibo nutricarſi l'a malato
, e nelle men brevi non così coſto da prima gli fi menomi a ſpiluzzico , onde
poi nel maggior avanzo del male ne venga debole , e ſpoſato , e ſenza poterſi
con ar gomenti ajutare; ma pian piano riſtrignendogliele, poffin poi il medico
nel colmo della malattia maggiormen te ſcarſeggiando , poco , o nulla concedergliene
. Intorno poi alla Cirugia cgli è duro molto a credere , quanto da ſentimenti
d'Ippocrite , e di Galieno , il medicar di Na poli ſia lontano. E laſciando da
parte ſtare come quì ſu bitamente, e ſenza conſiderazion niuna in ciaſcuna
febbre fi coſtumi cavar ſangue,contro il proponimento d'Ippocra te , anzidi
tutt'altri medici del ſuo tempo , o più antichi , i quali , ficome narra il
Cardano:in febribusnon folebant mit tere fanguinem ,etiam ardentifimis; ora
cavaſi a giorna te il ſanguenella noſtra Città, non ſolamente a’vecchi, e
deboli , ma eziandio a'bambini di latte , e talora anche a'
ſoſpettidileggeriſſimi mali; quando tutto il contrario di ce Ippocrate : Τα δ'
οξέα πάθεα , φλεβοτομήσεις, ήν εαυρον φαί γηται το νούσημα, και οι έχοντες
ακμάζωπ τη ηλικία, και ρωμη πανή aúrtorw . Ma negli acuti malori cavarſangue fi
dee ove fire grande il male , e l'infermo giovane fia ,e ben gagliardı, e vi
goroſo. Il che richiede anco in molti , e molti luoghi Ga ( 1 ) ippocrate nit
lib . 1.degli Aforij.nell' A or.7.8.9.10 . ( 2 ) Gal.nel Com . * lieno
DelSig.Lionardo di Capoa. IZI lieno ( 1) in un fra glialtri dicendo : si péya
zo voonud reordea κoίημεν ειναι και η παρον ήδη θεoρoίημεν , ή αρχόμενον
επισκεψάμενοι την ρώμην της δυνάμεως έξελούντος του λόγε μόνατα παιδια ..
Dunque ſe noi temiamo non avvegna qualche gran malattia, oſe pre Jente quella
già ,o pure in ſu'l cominciar fia ,avědo ben prima le
forzedell'infermoconſiderate,aprirem poſcia la vena :So lamente da queſto
divifamento i fanciulli riſerbădone. E po ſcia egli medeſimo l'età preſcrive.,
ove da prima i fanciul li ſegnare fi poſſano , dicendo (2 ) , che non ſi debba
no aprir le vene a' fanciulli , intin , che giungano all anno quattordiceſimo .
E altrove ( 3 ) anche dice , che ſe le forze di colui , che ammalerà di febbre
per putrefa zion d'umore,nel lor vigor dureranno , toito come coinin cierà ella
a farſi vedere gli ſi converrà cavar ſangue : ſolo , che non abbia crudità
nello ſtomaco , e l'età 'l conſentiſca, e le forze ſien robuſte ; perciocchè altrimenti
aon gli fi dee in modo alcuno aprir la vena. E quindi poco appreſſo ma
nifeſtamente ſoggiugno : che ſe l'infermo farà bambino , o non giunto ancora
all'anno quattordiceſimo,non gli fica coſa delmondo ſangue. Ne ſon da
tralaſciare quel l'altre parole del medeſimo Galieno ; le quali molto al no
ſtro propoſito ſi confanno:ove ſpiegando tutto ciò , ch’al falaffo richiedefi
cosi dice : ( 4 ) δεύτερG- σκοπός της φλεβότα μίας εςιν , ει ακμάζει καλά την
ηλικίαν οκάμνων» ούτε γαρ παίς , ούτε γέ έων , φέρει την φλεβοτομίαν , ουδ ' αν
μέγα νόσημα νοσώσιν. La fecd da cofaze che ſi richiedenel dover trar ſangue
fiè,cheguardar fi deeſelámalato ſia giovane perciocchène i făciutli,ne i vec
chiSoſtēgono ilfalaſſo,avvegnachèpur gravefase di riſchio la malattia , che loro
dea noja : E tralaſciando di rapportare al triluoghi , ove ſempre il medeſimo,
e'grida , e ripete, di rem ſolamente de'tempi , ch'egli giudica al ſalaiſo
oppor tuni: mentre che in Napoli , ſenza alcun riguardo alle troppo freddo, o
troppo calde ſtagioni avere , cavaſi co munemente in ogni tempo ſangue da
Galieniſti, a' troppo .crcduli , e mal conſigliati infermi; i quali
iinınaginano,an Q zi fer ( 1 ) Gal.della maniera del curare col falafo. ( 2 )
aelmed.luogo ( 3 ) nel mes. ( 4) nel.com.ſop.illib d'ippocr.della Dieta. vi per
. 122 RagionamentoSecondo zi fermamente credono venir medicati ſecondo le
regole di Galieno , e d'Ippocrate. E pure i noſtri medici nulla ba dano
a’rigoroſi divieti di coloro , e maſſimamente di Gaa lieno (1) il qual vuole ,
che oltremodo ſi debba dal medi. co aver riguardo al temperamento dell'aria
,ch'ella non ſia eſtremaméte calda , e ſecca, ſicome è infra'l tépo del naſci
méto del cance dell'Arturo ;e ravviſa egli , che tutti colo rosa'quali i medici
nulla alle ſtagioni badado, traſfer fuora del ſangue , irreparabilmente
morirono . Così vuol Ga lieno ancora che nelrigor del verno,ſia molto da temere
il falaſſo, e dice effer manifeſta coſa , che da ciò molti, e gra vi pericoli
ſeguir ne poffano . E perciocchè egli ſtima va eſſer ciò coſa di grandiſſima
conſiderazione , dopo tan to , e tanto manifeſtarlaci , di nuovo con queſte
parole la ci perfuade:( 2 ) πτoσθήσω δε ένεκα του μηδεν λείπειν , τον από του
περιέχον ημάς αέρG- σκοπών , όταν η θερμος ικανώς και ξηρος , ως διαφορεΐσθαι ταχέως
υπο του που το σώμα τηνικαύζ γαρ αφισάμεθα της φλεβοτομίας 4 και μέγα το νόσημα
, και ακμάζων ο άνθρωπG- άη - Ma acciochè nulla vi manchi , aggiugnerò
quell'altra coſa , alla quale è di meſtieri averminutoriguardo,cioèa dire l'a
ria , che ne circonda : e guardare s’ella fia sformatamente calda, e fecca ,
intanto , che molto ne venga a ſvaporare , ed sfalare il corpo ; imperciocchè
allora di ſegnar ci rimarremo: comechè graviſſima ſia la malattia , e l'huom
per tofa , e robuſto . Ma no meno i Napoletani medici nel trar fangue avvifan
punto ſe la compleſſion del corpo ſia fie vole , o vizzi , graffa , o ſcialba,
nelle qualiſecondo il lor Galieno , avvegnachè grave infermità il richicgga,o
nien te certamente , o molto poco fangue è da trarre ; ma nien te in verità poi
ne ſecchereccidella ſtate . Ma egli è omailuogo da tralaſciar per iſtrettezza
di té po altre condizioniper Ippocrate, e per Galieno , al ſalaſ ſo richieſte ,
alle quali o poco , o nulla mai i Napoletani medici riguardar
fogliono.Finalmente trapaſſando al ter zo ftruméto della medicina chiamato da
Greci Maguáxeu ois dimoſtrerem brevemente, come ne precedenti abbiam ( 1 ) nel
1.lib.dell'arte curat. A Glaucone. ( 2 ) nel com. 4. fop. il lib. della Dieta.
altro vigo mani DelSig.Lionardo di Capoa. 123 manifeſtato, quanto i Napoletani
medici in adoperarlo ſom gliano da Ippocrate , cda Galieno allontanarſi .
Eglino in priina molti , e molti medicamenti coſtumano , che da Ippocrate , e
da Galieno ne inen per nome conoſciuti già mai furono ; ficome ſenza dubbio
veruno son la Callia , i Tamarindi, il Riobarbaro , la Siena , la
Scialappa,ilMec ciocano la Gottagomma , la China , la Salſa,ed altri aſſai ,
che per eſſer ben conoſciuti, e per non recarvi noja al pre fence tralaſcio .
Le compoſizioni poi deʼmedicamenti nelle noſtre bot teghe introdotte, ſono il
più ,o dagli Arabi tratte , o da gli Ermetici filoſofanti; ina quel, ch'è di
maggior conſdera zione nell'uſo de medicamenti puganti ſi è , che i noſtri
medici Napoletani,laſciati da parte , ed abbandonati af fatto i due Greci
maeſtri,van per diverſe tracce cammina do , ſenza ritegno, o ſcrupolo niuno di
purgar audaciſfima mente in ognitempo , in ogni diſpoſizione di ſtagione , in
ogni età dell'infermo, e in ogni ſtato di malattia:e purga do eziandio i corpi
ſani, con far credere alla ſemplice , e credula gente , che cosìvoglia
Ippocrate , e che così co mandi Galieno ; imperocchè ingeneranſi continuamen re
in noi vizioſi eſcrementi, da dover con gli argomenti delle purgagion continuo
anche vuotare . La qual nuova coſtuma, quanto da Ippocrate , quanto da Galieno
ſia ri provata ben ſi comprende da ciò , che Ippocrate una vol ta dice:
φυλάσσεσθαι δε χρή μάλιστα τας μεσολας των ωρέων τας μεγίτας και μήτε φάμακον
διδόναι εκόντος.Βifogna minutamire ri guardare alle grandi mutazioni
de'tēpijacciocchè in quello no s'appreftino di leggieremedicamenti agl'infermi.
E'l medeſi moIppocrate nó guari appreſſo , cosi parimétedice : jiti κινδυνόλαι
ηλίκ τζοπαί αμφότεροι, και μάλλον θεριναί • και ισημερινα νομιζόμεναι είναι αμφόπραικαι
μάλλον δε αι μετοπωριναί • δά δε και των άτρων στις επιταλας φυλάσσεσθαι , και
μάλιστα τα κυνός· έπειά αρκλέρη, και επί πληϊάδων δύσει • τε γαρ νοστύμα
μάλιστα εν ταύτησα τησαν ημίρηση κρίνεται και τα μου απο φθίνει , τα δε λήγα ,
τα δε άλα πάνω jebésalom és ÉTELOV GÒ Qu, weg,étépnu xatásamov • Pericolofifuno
amē, Q.2 due i ' 124 Ragionamento Secondo 1 1 due iSolſtizi ; eſpezialmente
quel della ſtate; pericoloſo ale tresì l'uno, e l'altro equinozio ; ma quel
maggiormente dell' Autunno . E biſogna ancora aver riguardo al naſcimento delle
ſtelle,mafimamentedella Canicola ; quindi altramon . sar dell'Artaro, e delle
Pleiadi; imperciocchè le malattie in queſtigiorni più, che in altriſi
giudicano: altre morte recan do , ed altreſvanendo, o d'uno in altroftato
facendo paſſag gio . E Galieno in altro luogovuole , che anche a ' tempi troppo
caldi , o troppo freddipormente ſi debb.2 ; che lè'l temperamento della
ſtagione, o del luogo ſarà qual'eſſer dee’del tutto ce ne terremo; ma ſe talnon
è , purgheremo sì bene , ma molto meno di quel che faremmo, qualora ne l'un ,
ne l'altro il ci vietaffe . E del tempo della ſtate egli dice (1) confermando
il detto d'Ippocrate , che ne'gior ni caniculari, cd avanti di quelli,
malagevole , e danno ſo ſie l'uſo de'medicamenti purganti . E parimente in un'
altro luogo ( 2 ) egli dice , che coloro , i quali, o per crudi tà, o per altra
qualunque cagione accolgono abbondanzas di non cotto umore , oche più
dell'uſato averanno gonfio, il ventre , e'l corpo tutto ingroſſato , non ſofferiſcono
pur gagioni. Egli vuole altresì Galieno , che que'febbricicá ti, i quali
abbondano d'umori crudi , che moleſtan loro lo ſtomaco , non ſi debban ne
ſegnare ne purgare : A niun di coſtoro , ſono le ſue propie parole , e' fi
fuole trar ſangue giammai , chenon gliene provengagraviſſimo danno,e come chè a
lor faccia meſtieri la vacuazione, nonpoſſono nientedi meno eglino tollerare,
ne le purgagioni, ne i Sala, fe fenza queſto ſincopizzanti pur fono : (3) éx'
Sevd's twv Toroutwv cipecto της αφαίρεσης άνευ μεγίσης έωθε γίγνεσθε βλάβης·
και τσι δέονται γε κενώσεως • αλ ' έτη φλεβοτομίαν , έτε κάθαρσιν φίρεσιν εύγε
, και καρλς Tobrwv étaipuns ougróMorlar. Ed un'altra fiata egli medefimo dice,
la ſoſtanza de' fanciulli infra l'altre tutte agevoliſſi mainente digerirſi , e
diſliparſi; eſſendo ella ſopra tutte maggiorméte abbõdevole d'umore,comechè
meno fredda ella fia : ma però men di purgagione aver biſogno, perchè da ſe
medeſima ella vuotar li ſuole . Ed altrove ancora ma 1 (1) nel 14.lib . del metod.
(2 )nelmetod,allib.9 .(3) nel met, al lib.12. 1 nife Del Sig.Lionardodi Capod.
125 nifeſtamente inſegna,che'l vuotare i ſoperchj umori, che nel corpo continuo
ne s'ingenerano , non è di giovamento alcuno alla gente ; anzi le alcuno per
temna, che l'abbon danza degli cſcrementinon gli noccia , voleſſeſi avvezza. re
a purgarſi una , o due volte il meſe , oltre al manifeſto nocimento , che
gliene fiegue, prenderanne il corpo una dannevole , e peſſima uſanza . Ma
ſopratutto , quanto al purgar gli umori nelle malattie , i quali abbian
dicocimi to biſogno , da’ſentimenti d'Ippocrate , e di Galieno ina nifeſtamente
ſi partono i noſtri medici ; quantunque a tut ta lor poſſa con belle parole di
dare a divedere altrui il contrario ſempre s'argomentino . Ne lo prenderom mi troppa
briga di dimoſtrar ciò con lunghe , e ben’ordi nate ragioni;ma baſtcrammi
ſolamente le parole d'Ippo crate , edi Galicno rapportare , acciocchè da quelle
per ciaſcun comprender baſtevolmente ſi poffa , quanto nella crudità degli
umori, onde cagionaſı il male,da coſtoro sé pre i medicamenti purgativi vietar
fi fogliano, ſalvo,che radiſſime volte , e nel principio di quellemalattie ,
che có enfiamento cominciano . Ilmaeſtro di Galieno , e de' Ga lienifti, per
quel ch'eglino tutto dì dicano,fipare , che ne ſuoi Aforiſmi ,
ne’qualibrievemente , quanto mai di buo no, o ſcritto, o oſſervato negli anni
tutti della ſua vita egli mai aveſſe riſtringa , una cotal co ? a con una
general pro poſizionenediffiniſce ; colla quale quanto altrove ne dice tutto
conformaſi , anzi quindicome conſeguenza ſi cava ; la qual coſa è sì chiara , e
manifefta , che di vantaggio più manifeſtar non ſi può; perchè a confeſſarla
per verail me deſimo Vittorio Trincavelli,non che altri funne coſtretto ,
oftinatiſſimo diféditore della cótraria fentéza.Egli aduque ( 1) così dice ; ab
hoc aphoriſmo cæteri omnes , qui huc fpe ctant , tanquam corollaria deducti
ſunt : ed oltre a ciò ſog giugne : ita ut nullam aliam exceptionem admittat,
niß eam quam ipfe expreffit : quum morbusturget. Ed è l'Afo riſmo, il qual da
Galieno,oracolo fù chiamato una volta, cosi ( 2) Le materie cotte purgare , e
muover fi debbono; mas, non ( 1 ) del confer.la fan.nellib. 4. (2) nell'afor.
22. dellib . 1. - 126 Ragionamento Secondo 1 . non già le crude ; nemica nel cominciamento;
ſe nonſe allor , che turgidefono,malepiù volte turgide non ſono : Témava Pago
μακεύειν, και κινέαν , μη ωμα, μηδε εν αρκήσιν , ήν μη οργά • τα δε πλά sve oux
ogy : Intorno alla qual voce opgør mi par doverſi cô . fiderare , che in queſto
luogo appreiſo Ippocrate altro non dinoti , che diſiderar ferventisſimamente ,
e con impazien za ; ed avvegnachè non men dell'animate, che delle inani mate
coſe dir ſi ſoglia , tuttavia più acconciamente agli animali ella conviene ,
ſecondo il ſentimento di Galieno,il qual forſe da Ariſtorile ( 1 ) appreſo
l'avea . E diceſi di quegli animali ,che tratti da iinpetuoſa foga di libidine
ſtā no in ſucchio , e come diſſe Virgilio In furias , ignemque ruunt: quindi
preſeli la metafora degli umori nel corpo uma no , i quali avidi di fcappar
fuora,ſtrabocchevolmente , e con impeto , diparte in parte ſi muovono , non
laſciando aver punto di ſoſta al povero ammalato . Ma noi , avve. gnachè
diſcorrimento , o foga più ſaggiamente da dir ſia , o enfiamento , o pure con
nuova voce alla noſtra lingua Turgenza , o Turgidezza: dal gonfiare , o ſia
enfiare,e dal turgere diciamo ad imitazione dique'valent’huomini, che nel
latino linguaggio‘l'opere d'Ippocrate , e di Galieno traportando,preſero la
voce turgere : onde poi novellame re ne diramaron quell'altra Turgentia , ad
orecchio latino de'buonitempinon mai più per quel,che mi paja per l'ad dietro
udita : gonfie , e turgide parimente chiamiamo, quelle materic , che a si fatto
movimento ſoggiacciono ;ed in verità gli umori , che’n tal guiſa ſi muovono, ſi
formen tano , ſi rarefanno, egonfiano. Ma alla coſa ritornádo: queſto Aforiſmo
appunto cófer mafi per quell'altro ( 2 ) Nel cominciamento delle acute ma
lattie di rado lepurgative medicine da uſar ſono : e ciò con diſcreta avvedutezza
ſide'fare : iv Toirov ožico maderav énezaéxus εν αρκήσι τησι φαρμακείοσι
χρέεσθαι , και τούτο πξοεξευκρινήσαν τις sterkev. Per la qualcoſa avendo egli
in priina avviſato , che folamente quegli ammalati da purgar fieno , ne' quali
liu mate ( 1 ) nel lib.o dell'iſtoria degli animali : ( 2 ) nel 1.degl'
Aforiſmi. ( Del Sig . Lionardodi Capoa. 127 materia , onde il mal s'ingenera ,
ben cotta , e digerita ſia , fe pur quella non turge , è che rade volte ciò
avviene; e ritrovandoli nel cominciamento di tutte le malattie mai ſempre
cruda,e non digerita la materia: fiegue di neceſſità, che rade volte in ſu'l
cominciar delle malattie, fieno gl’in fermi da purgare. Ed è pur piacciuto ad
Ippocrate , ſcar ſo altrove di parole , enegli aforiſmi ſenza fallo ſcarſiſsi mo
, e riſtretto , oltre ad ogni ſuo coſtume quivi la mede fima coſa avvedutamente
ridire,acciocchè per tutti i me dici l'importanza di sì grave precetto avviſar
ſi debba , ed apprender quanto quello lor faccia di meſtieri, e di riſchio fia
a travalicare . Etali Aforiſmi con avvedutezza non or dinaria chioſando poi
Galieno ,oltremodo ciò ne impone , e ne accomanda: e sempre, che egli di tal
biſogna impren de a dire , toſto a quelli ne rimanda,comea faviſſīme nor me ,
che il tutto intorno a tal materia perfettamente con tengano . Ed avendo in
un'altro Aforiſmo Ippocrate parimente detto ; ne'mali oltremodo acutifon da
purgare il medeſimo giornogli ammalati, ſe vi è gonfiamento ; concioſiecofachè
allora l'indugiare è dannoſo affai( 1) Papuaxetes , év toñosning οξέσιν , ήν
οργα, αυθημερον• χρονίζαν γαρ εν τοϊσι τοιούτοισιν , κακον Galieno però vuole ,
ed eſpreſſamente n'impone , che an che in queſto caſo dell'enfiamento , il che
molto di rado 'avvenir fuole , vi s’abbia in prima ben bene a riguardarc, e
penſare , cioè con tal riguardo,e ritegno adoperare , che nulla più : ne meno
ove fia enfiamento purgando, ſe il cor po valcvol non fià a ſoſtenere il
purgamento ; perchè aj tal propofito Galieno dife ( 1 ) ώς τ' ευλόγως ολιγάκις
εν τοις οξίσιν νοσήμασι κατ' αρχάς γενήσεξι ημϊν χρώα φαρμάκων , τω μήτε
πολάκις οργάν εν αρχή τους λυπούνας ,μήτε , ά και του υπάρχει και του κοσουνίG-
αν επιληδεία προς την κάθαρσιν όντG- , αλα μηδέ καιρών ημίν παρέχοντG-
επιτήδειον παρασκευάσαι. Per la qual cofa nelle acute malattie ragionevolmente
operando, di rado , nel prin cipio impiegheremo noi purgative medicine ;
concioffiecoſachè gli afflittivi umori , nel principio le più volte, ſtuzzicati
non fieno , (1 ) nel lib.di que'che convien purgare . 128 Ragionamento Secondo
fieno , e potrebbe intervenire altresì , che ove eglino fienosi fattamente
ſtuzzicati , allor non foſelo infering a fojtener la purgagione adatto . E più
addietro , de' medelimi umo. ri favellando avendetto: τους ούν τοιούτος
εκκενούν πξοσήκες , τε τέσι τους εν κινήσει , και φορά, και ρύσι • τους δε καθ'
έν πμόριονεσηεγμέ νς,ούτ' άλω πνι βοηθήματα χρή κινείν, ούτε φαρμακεύειν , πζίν
εφθή . ναι : τηνικαύτα γας και την φύσιν έξομεν βοηθούσαν . Αdunque con venevol
coſa è , che cotali umuri ſtando in continuo moto, e diſcorrimento , e fluffo,
fi vuotino ; ma que' , che in qual che luogo del corpo giä ſi ſon fermati, ne
con argomento alcu no , ne con purgativa medicina damuoverfono, anzi che fieno
ben digeriti ; imperocchè allora anche la natura dello infermoalla purgagione fauorevole
auremo. Ma il principio delmale , ficome ne inſegna Galieno , prendeſitalora
per lo primo aſfalimento , o quando da prima comincia a chiocciar l'ammalato ;
altre volte anche inſino a’tre primi giorni ; e aſſai ſovente per tutto quello
ſpazio di tempo ,nel quale niuno affatto , o troppo debi le , e oſcuro ſegnal
di cocimento ſi pare . E'l gravamento , o accreſcimento del male liè , quando
manifeſtamente il cociinento , o pur ſegnia ciù contrarj ſi ſcorgono ; e dura
finattanto , che alla dovuta perfezione il cocimento ridu caſi ; per la qual
cofa allora maggiormente le moleſtie , e le noje degli ammalatiad accreſcer ſi
vengono . Ma il gó fiamento avviene, o toſto, che alcuno ad ammalar comin cia ,
o non molto indiappreſſo , cioè nel primo, o nel ſeco do giorno , ſicomc par ,
che in più d'un luogo avviſi Ga licno . Ma ritornando al tempo delle purgagioni
: ſo ben’In , non eſſer paruto ſaggio a Galieno il diviſo di colui, che
volle,non doverſi porger giammai le purgagioni, anzi de' primi tre giorni : ma
ſi ben dopo il quarto , a coloro , che patiſcono ſcorrimento di ventre ; il
qual parere egli ri provando, conchiude così dicendo : Egli adunque è di
meſtiere, che non già dopo il terzo giorno fi pergano imedica menti , ma
ficomediceapertamente l'aforiſmo( 1) Negli acu. 11 111.1 (7)
L’Aforij.24.ditlib.i. ' DelSig.Lionardo di Capoa. 129 - ti malori di rado,e
nelprincipio dobbiam delle purgagioni va lerci. E perciò ci biſogna diffinir la
coſa giuſta la mente de gii aforiſmi, ed inveſtigar ove abbiamo a purgare in
fulprin cipio, ed ove abbiamo ad attendere il cocimento del males. Imperocchè
fe alcun determinerà ſolamente nel principio , o non iſtabilirà alcuna delle
parti , rimarràſenza fallo ingan κato . πτοσήκεν ουν ούχ ως πανώ μεία τας ταϊς,
αλ' ώσπερ ο αφορισ μός εςι τοϊος • έν τοϊς οξέσι πτέθεσιν ολιγάκις , και εν
αρχίσει τησι φαρμα κίησι χρέεσθε , και χρή καλα τους αφορισμους διορίζεσθαί τε
και σκέλεσθε, πότε κατ' αρχάς έξι χρησέον τη φαρμακείη , και πότετην πέψιν
αναμείναν . τιτε νοσήματος. έαν δε πς ήτοι κατ' αρχάς είπoι απλώς , και μη
διορισάμε . ν ©· , εκάτερον σφάλετε: Adunque per Imanifefto fentimento
d'Ippocrate , c di Galieno , di rado nel cominciamento delle acute malattie da
inuover ſono gli umori, e nell'avā zo non mai , ma ſolamente,facendo di meſtiere,
nello ſce mo del male . E ben ſaggiamente troppo , ſecondo che ad huom paja ,
in tal biſogno ſpeſe più lunghe parole l'av vedutiſſimo Ippocrate più , e più
volte i medeſimi ſen timenti divilaudonc ; imperocchè egli avviſava graviſ
ſimno danno dal muover gli umori crudi dover certamente ſeguire . Perchè
altrove favellando egli di que' , che pur gano nel principio
dell'infiammagioni: il che Galieno nel comento vuol , ciic s'intenda anche , di
que' tutt'altri mali , chedagli umori procedono :dice , che per coſtoro nulla
dal luogo offeſo certamente ſi vuota , non mai cedé do alla forza del
medicamento , ciò che ancora è crudo ma per lo medicamento debilitanſi, e
ſciolgonſi più coſto quelle coſe , che ſane eſſendo , al inal contraſtano , per
chè infievolitone il corpo , agevolmente farà dal mal ſo verchiato, ed
abbattuto : ne potràricoverarſi più mai per argomento alcuno » ο κόστ δε τα
φλεγμαίνον εν αρχή νόσωνευ θέως επιχορέασι λύειν φαρμακη και του με ξυνεταμένου
, και φλεγ μαίνοντG- έδεν αφαιρέσον • γαρ ενδιδοί ώμον εον το παθG- , τα δε
αντί . χον% τω νεσήματα και υγιεινα ξυντήκασιν ασθενές- δε του σώματG- κνο μένα
το νούσημα επικρα ]έι · οκόταν δε ονούσημα επικρατήση του σώ μας το τοιόνδε
ανιάτως έχα. Ma ſe ciò per buona ventura dell' ammalato pur non R gliene 139
Ragionamento Secondo 3 gliene liegue , non per tanto certiſſimi danni, ed
irrepara bili avvenir gliene debbono; e ſe non altro , certamente gliene andrà
alla lunga il male , e ſconvolgeraſli il giudi cio , che ſopra quello da dar
era ; ſicome non una, ma più fiate Ippocrate ,e Galieno ( 1) pienamente ne
dimoſtrarono. Ora quì , chi non iſcorge allai chiaro , che minorar ſecon do
Ippocrate , e Galieno non mai li puote la cruda mate ria , come beſtialmente ſi
perfuadono i noſtri mcdici; i qua li tentan ciò fare colle ininoranti , che lor
dicono,medici. ne . Ma comechè in ciò grandiſſima arte , emalizia ado perar
ſogliano coloro , che ſon di contrario ſentimento , p coprire , e naſcondere al
Mondo, la manifeſta lor ribellio nca’maeſtri ; pur non fanno sì fare , che da
ciaſcun non li conoſca , e non ſi ſcopra la ragia , onde ne reſtin poi
vergognoſamente dinnentiti , e convinti; così ſciocche ſon le chioſe ,
eicomenti , co' quali ſi ſtudiano a tutta lor poſſa d'inviluppare , e
travolgere gli apportati Aforiſ mi , e con lor ciance far calandrini , non ſolo
la volgare , e cieca gente , Cheficrede ogni coſa, che l'è detto : ma col volgo
ancora que'letterati , che poco , o nulla a sì filtre coſe ,avvegnachè
digrandiſſima conliderazione , ſo glion badare . E certamente non poſſo non
maravigliarmi forte della lor tracotanza : ſe così poco, o nulla eli riguar
dando alla ſtima di sìvenerandi maeſtri , ad ogn'ora così vituperevolmente gli
beffano . Perciocchè volendo coſto ro, che nella copia grande , nella malizia ,
e nella ſorti gliezza degli uniori, e ſomigliantemente ne'caſi di confi
derazione, o per riguardo della dignità della parte offeſa, o della gravezza
del male , o della grandezza delle cagio ni , o del pericolo imminente , o per
altre ragioni ſia das purgar l'ammalato , tutto che la materia cruda lia , e
non pur nel principio , ma nell'aumento , e nel vigore delma le : o ciechi
affatto , e diflennati ; e pure ſcioccamente ma lizioſi, e maligni apertamente
a tutti ſi fan vedere, non ſolo, perchè vengono ad accagionar di ſoppiatto , ſe
non (1) nel lib.4. della dies. p.44 . di mal Del Sig.Lionardodi Capoa 131 di
malvagità, di traſcuraggine almeno , i lor maeſtri ; poi chè in materia di
tanta conſiderazione , ne Ippocrate , nes Galieno di cotalicaſi han fatto
menzione alcuna , comes certamente doveano; ma anco , perchè, o non avviſano ,
o fingono dinon avvederſi , che poco men , che ſempre ; o una , o più delle
coſe per lor dette, ne'mali acuti ſi trova no . Laonde , ſe tale veramente ,
qual per loro fi finge, li foſſe ſtata veramente opinione d'Ippocrate , e
diGalicno, aurebbon elli in verità tutto il contrario dovuto dire: cioè, che no
miga già di rado,come dicono, ma ſovétiſſimamen te , o poco men , che ſempre
nel principio degli acuti ma li ſi debba purgare , e che nell'aumento , e nel
vigore di ef fi ciò anche ſi debba eſeguire . Ma pure per iſchermirli da cotal
colpo s'argomentan coſtoro di traſcinare a'lor ſentimentiqualche ſentenza
de'loro maeſtri: da cui tutt'altro certamente ſi compren de , che qucl, ch'elli
intendono . Ne dovea in buona veri tà Ippocrate , ſe pure frenetico, e
mentecatto egli del tut to non era , in que'luoghi , ove del gonfiaincnto
ſolamente fe menzione , non annoverarvi ancora quell' altre condi zioni , per
le qualis’aveſſe parimente a purgar la materia, non anche al debito cocimento
pervenuta . Che ſe non è da dire , lui quivi averle per balordaggine
dimenticate , masſimamente negli aforiſmi, ove tutto il ſuo ſtudio,e tut ta
l'avvedutezza maggiore egli logorò , perchè per ogni parte perfetta l'opera
riuſcir doveſſe , biſogna di neceſlicà conchiudere,talenon eſſer mai ſtato il
ſentimento di lui , cioè a dire, che gli umori non cotti, anche ove gonfiamé to
non foſſe , a purgar s’aveſſero • E Galieno, che così abbondatisſimo di parole egli
ſi fu, che anche in coſe di niun momento vanamente alla lunga ſcialacquolle,
come poi vogliam dire , che in materia di tanto affare, oltre al ſuo natural
coſtumeaveſſe affatto ri ſparmiate. E certamente non ſi dee in niun modo crede
re , ch'egli così traſcurato ſi foſſe , che quivi ancor nons v'aveſſe fatta la
ſua diceria , fe ftato foſſe meſtieri , diviſan done a ſuo modo quáto
n’abbiſognaffe in que'caſi'la pur R 2 gage 4 132 Ragionamento Secondo ga , e
quanto ſtrabocchevoldanno , e nocimento, traſan dandola,per ſeguir ne foſſe al
malato . Ma certamente no fu tale il ſuo ſentimento , ficome cotefti diffeonati
ſquali modei vogliono follemente darne a divederc. E ben avvi faronlo anche
molti valentisſimi Galicniſti , cosìdel paſſa to , come del preſente ſecolo;
masſimaméte Giulio Ceſare Claudino,avvegnachè del purgare ainicisſimo, pur nõ
po cédolo ricoprire apertisſimainete cõfeffollo ,dicédo : Equia dem fic
exiſtimo valdè efe probabile, mentem efe Galeni, a Hippocratis, cruda materia
nunquam efſeexhibendum phare macum excepto uno turgentia caſu . E di lui molto
innanzi Giovan Manardi, che per conoſcerſi bene della greca fa vella , e perciò
più leal interpetre de’veri ſentimenti d'Ip pocrate eſſendo ,così delle
purgagioni nel principio delle malattie , ebbe a dire . Et licet Hippocrates
dicat buc raro faciendum , nos rationibus adductismoti, crebrius id face re
poſſumus , debemus. E de’noſtrimedici replicar po trebbe Aleſſandro Maſſaria
ciò , che del Manardi e di tute' altri del ſentimento di lui già diſſe .
Hippocrates ducet,ra roin morbisacutis effe medicamenta adminiſtranda: contra
non defunt Manardus, &alii ,ſidiis placet , Heroes , qui audent affeverare,
illa effe crebrius, immo Semper admini ſtrandas. Ma omai s'è táto oltre in
diſpetto di Galieno, e d'Ippo crate l'uſanza di purgar la materia cruda pian
piano avan zata , che ove in prima non altri medicamenti ſi metteva no in opera
, che piacevoli, e deboli , ne più , che una , o pur due volte : ora a gran
dovizia grandi ,ed efficaciſſime purgagioni cosìcompoſte ,come ſeinplici,
da'noſtri Galie niſti largamente diviſanſı; e ſe pur talvolta , o per tema ,
che n'abbiano gl'infermi, o per altra cagione , alquan to più lievi , e deboli
loro le impongono , nondimeno , o con accreſcerne la quantità , o con meſcolarvi
per entro alero in ggior medicamento , o collo ſpeſſo reiterar delle medicine
coſtringono maggiormente a vuotarſi il corpo con dannograviffimo, e irreparabil
riſchio degli ammala ti ; fe puread Ippocrate preſtar fede noi vogliamo ; il
qual fico Del Sig.Lionardo di Capoa 133 ficome di ſopra è detto , tante , e
tante fiate manifeſtol loci : e Galicno medeſimamente , il quale oltre a ciò av
vifa , che 3Gν αρχηταί η νόσημα των εκκρινομένων αδέν έκκρίνε. αι τίωικανά τα
λόγω της φύσεως , αλ' έσιν άπαντα συμπτώμα των εν τω σώματι παρά φύσιν ,
διαθέσεων • ν ώ γας χρόνω βαρύνεται με υπό των νοσωδών αιτίων η φύσις , απεψία
δ ' ες των χυμών , εν τέλω κενέσθαι τη χρησώς αδύνατον • πτοηγάσθαι μεν Κρή
πέψιν, ακολα θησαι δε διάκρισιν , 49' εξής κένωσαν την αγαθή γένηται κρίσης.
Cioc. quando alcun male comincia , ſe cofa maiavvien, cheppura ghi, allor
certamentenon purgheraftſecondonatura , ma ciò Farafficontro le diſpoſizioni
diquella; imperocchè ,'quando la natura vien aggravata dalle cagioni delle
malattie , ma fon crudi gli umori , allora impoſſibil coſaè, che alcuna eva
cuazionefelicemente rieſca ,concioffiecofachèfadi meſtieriche in prima il
cucimento , quindi lo fceveramento , e finalmente l'evacuazion ſi faccia ,
perche ſia buono il giudicio. E fomi gliantemente in quel luogo ove dice.Per la
qual coſa effen. dovi nelcominciamento delle malattie sēpremaiſegni dicru .
dità , ſemprealtresi nocevol ſarà , e darnofa l'evacnazione di si fatti umori :
ώς τ' εα ειδη κατα την αρχήν τα νοσήματος απε . ψίας εσιν αι σημάα , μοχθηρα
δια παντός έσαι των τοιέτων χυμών ή xívwos : E quindi, per tacer altri luoghi,
ſi ſcorge quan to vadano errati , così coloro , che follemente immagina no non
aver vietate altrimenti quelle purgative medicine , cheminorantieſſi chiamano,
no Ippocrate , ne Galieno nella crudezza degli umori : comequegli altri ancora
, che ofano affermare , che Ippocrate, e Galieno, non per al tro vietafler le
purgagioni , che per non eſſer note loro, ſe non che quelle purgative medicine
, che violenti ſono nell'operare ; il che però eſſer molto , e molto dal veroló
tano chiaramente ogn’huom vede ; imperocchè per tacer del latte rappreſo ,
dicuicosì ſovente Ippocrate ſi valles certiſſima coſa è , che gli antichi
ebbero contezza della Mercorella ( la quale per poco val quanto la Siena)
dell'E pittiino , della Fumaria , dello Goico , del Polipodio , dell'Agarico,
il quale per Galicno malamente venne ſti mato radice , comeche fungo egli
veramente ſia , e d'al tre , e 134 Ragionamento Secondo 1 tre,e d'altrebenigne
purgative medicine. Ne è daracer qui, cheGalieno dice a Glaucone, che dar egli
debba l’Aſsézio, leggeriſſimo, ſenza fallo, medicamento, nelle terzane, allo ra
quando apparir ſi veggano i ſegni del cocimento . Ga lien parimente viera,
cheſi deanell'infiammagioni interne la Iera di Temiſone, leggeriſſima medicina
, ſe non che quando la materia ſarà al cuocimento pervenuta; ed avve gnachè
alcuna delle accennate medicine lenitiva ſolamen te fia, nondimeno , come la
ſperienza , ne inſegna data in quantità grande divien purgativa. In quanto
all'Epit timo , ed alPolipodio , Galien dice chiaramente eſserel Jeno benigne
medicine,e che moderatamente purgano ( 1) E quanto è a me , Io porto fermiſſima
opinione, che lo pocrate , e Galieno aveſsero dalle continue, e diligenti of fervazionide'Sacerdotidell'Egitto
un tal parere appreſo ; e perciò eſſer'avvenuto , che così ſtabilmente poſcia
l'avel fer ſempremai conſervato ; eche dall'Egitto le sì fatte of ſervazioni
quel gran padre della filoſofia , e medicina Ita liana,Pittagora,in prima
aveſse nella Grecia recate ; quel Pittagora lo dico, di cui altri ella non
vide, da Democrito in fuori , che il pareggiaſse, non che con lui poteſse entra
re in gaggio, o'l ſuperaſse giammai . Ma che Pittagora , foſse di tal
ſentimento , egli li par manifeſto per quel che nc fia ſcritto in quel celebre
Dialogo , che della natura dell'univerſo compoſe il divino Platone, la ove
Timco no biliſſimo Pittagorico introduce delle purgagioni in ſimil guiſa a
favellare. La terza ſpecie del commovimento ſuol riuſcir , ma non però ſempre
giovevole ad huom , che da grave neceſſità vi ſia tratto ; ne altrimenti da chi
ſia di ſana mente è da uſare, cioè quella forte di medicina purgativa; *
imperciocchè que’mali,che no ſono guari pericololi , non ſono da ſtuzzicar con
purgagioni ; concioffiecoſachè la di ſpoſizione di ciaſcun male fie ſomigliante
alla natura degli animali : c certamente la coſtituzion dicoſtoro è talmente
ordinata , che generalmente ha i termini della vita già ſta biliti , e
qualunque animale ci naſce , con fatale , e deter mina ( 1 )
nelmerodal.lib.13.6.15. DelSig.Lionardo di Capoa 135 minato ſpazio ncmena egli
i ſuoi giorni: trattone fuora quelle paffioni , che di neceſſità avvengono;
imperocchè i triangoli dal naſcimento di ciaſcú d'eſso loro tal virtù ſor
tiſcono , che ſol yale a mantenere il loro ordinamento per infino ad un certo
tempo , oltre al quale a niuno è conce duto dipoter più avanti allungar la ſua
vita . Lamede ſima diſpoſizione adunque è data alle malattie , e ſe altri colle
purgagioni contro al fatal tempo ſconccralla , al lora di piccioli,grandi , e
di pochi , molti diverranno ; il perchè col regolamento del vitto le sì fatte
malattie ſon da correggere , e rintuzzare , per quanto a ciaſcun veriì , ad
huopo ; ne il durevol male con medicamenti irritar fi dee : Πίτον δε αδG-
κινήσεως και σφόδρα ποπ αναγκαζο μένω χρήσιμον , άλως δε ουδαμώς τα νούν έχοντι
προσδεκτέον , το της φαρμακευτικής καθάρσεως γιγνόμενον ιατρικών • τα γαρ
νοσήμα όσα μη μεγάλος έχει κινδύνες , ουκ ερεθισέον φαρμακείαις · πα σα γαρ
ξύτα στις νόσων , όσον πνα τη των ζώων φύσει ποσέρικε και γαρ η τούλων ξύ.
νοδG- έχασα πάγμένες του βίον γίγνει χρόνος , του ο γένες ξύμ . παν G καθ '
αυτό το ζώον ειμαρμένον έχον έκαςον, τον βίον , φύει χωρίς των εξ ανάγκης
παθημάτων • το γαρ τσίγωνα ευθυς καρχας εκάσων δύναμιν έχον & ξυνίσταται
μέχρι πνος χρόνε δυνατού εξαρκών , ου βίον ούκ αν ποτέ τις ας το περgν έπ βιώη»
τόπος ουν αυτης και της πε και τα νοσήμα ξυάσεως ήν • όταν τις παρα την
ειμαρμένην του κράνε φθείρη φαρμακίαις , άμα εκ μικρών μεγάλα , και πολλα εξ
ολίγων νοσήμα τα φιλί έγνεσθαι· διο παιδαγωγών δεά διαίταις πάντα τα τοιαύται
καθ , όσον αν και τα αλή » αλ ' ου φαρμακεύοντας κακον δύσκολον ερεθιστον , Ma
diſcédédo a qualche particolarmalattia ,egliè da ſapere che fu ſentimento
diGalieno, che in quelle febbri, che portan ſeco i flulli da purgar giāmai,ne
da ſegnar fia l'am malato, quantunque ben fi pareſſe , che la materia per la
ſoccorrenza uſcita , non foſſe ella alla debita purgabaſtá te , o altro vi
foffe da dover cacciar fuora nell'ammalato ; ſoggiugnendo manifeſtamente
Galieno al ſuo Glaucone , eſſervi ſtatialcuni , che ſcioccamente in sì fatto
caſo ab bian condotti, preſſo che a gli ultimi sfinimenti, gl'infer mi . Mai
noſtri mediciavvegnachè d'eſſer di Galien fede liſſimi ſeguaci ſommamente di
pregino, pure i ſaldiſſimi ann 0ae 136 'Ragionamento Secondo maeſtramenti di
lui affatto traſcurando , a lor talento , e purgano , e ſegnano in ſomiglianti
caſi, nulla guardando a’riſchj, che , ſecondo egli avviſa , ſeguir ſovente ne
pof ſono . Così ſomigliantemete Galieno nelle febbriſincopa li (p tacer della
diffenteria)vieta in tutto il falaſſo , e le pur gagioni'; e pur coſtoro
arditamente contro i ſentimenti * del lor maeſtro tutto dì ve l'adoperano .
Così anche nel la puntura quando appajano gli ſputi del ſangue,e nel do lor
delle coſtole , vieta apertamente Ippocrate l'aprir la vena, ſe pure nel dolor
delle coſtole qualche manifefto ſe gno d'infiammagionenell'interiora non appaja
. Ma cote iti diſcreti diviſamenti del loro Ippocrate non altrimente , che
vaniſſime fuperftizioni fi foſſero diſpregiando i noſtri Ippocratici medici,
baſta ſolamente loro in tali avvenime ti , che col dolor vi ravviſin la febbre,
che come in prima poffono, cosìin diſpetto d'Ippocratc ,e di chiunque ad Ip
pocrate crede, per iſvenare i miſeri cattivelli arruotano barbaramente le
lanciuole , direbbe Proſpero Marziano per avventura . Ma dove laſciato avea lo
il purgar le dó ne levate appena del parto , e non paſſati ancora i termi ni
fatali aſſegnati apertamente da Ippocrate a ciò conve nevolmente operare ? E
dove nelle lunghe malattie , nelle quali la materia ha maggiormente di
cocimento biſogno , ne fegnal d'enfiamento eſſer mai vi puote, il purgar de’no
Itri medici contro i manifefti divieti d'Ippocrate , e di Ga lieno:E dove il
cibare a roveſcio gli ammalatise non guar dar punto all'età de'fanciulli, e
de’vecchi , o alle ſtagioni dell'anno , e cento e mille altre coſe di
grandiſſima confi derazione , ovemanifeſtamente da’lormaeſtri ſi partono ?
Troppo largo campo o Signori da valicare aurei , s’lole voleſti fil filo tutte
narrare: ne per poco di venirne a capo Io ſpererei, Ma come ciò avvenuto ſia ,
che in tante coſe , e malli mamente nel purgare , c nel trar ſangue dal loro
Ippocra te , e Galieno i noſtri Galieniſti partiti fi fiano : e che ezian dio
que' che han riſtorata la lor medicina, e ſottrattala al l'arabeſca rozzezza ,
pure travalicando i lor diviſi abbia no in Del Sig.Lionardodi Capoa . 137 no in
ciò manifeſtamente fallato ; lo ciò giudico avvenirc, perchè gli ammalati , e i
lor parenti, efamigliari ſian ſem pre deſideroſi oltremodo di rimedj, e
ſpezialmente di quei, che per manifeſta vacuazione adoperar fi veggono ; come
fe da quelli il lor ſalvamento , e non più toſto la lor morte dependa . Perchè
nelle malattie , e maſſimamente nelle più gravi, e nel vigore , e accreſcimento
di quelle , ove l'intermo maggiormente languiſca, per non moſtrarſi i me dici
ſcioperati ſenza ajutarli con argomento niuno , fi va gliono di cotali medicine
, e talor vi ſono dagli ammalati medeſimi, o da congiuntidi coloro contro
lorvoglia i me dici menati ; perchè altrimenti a color non ſarebbon a grado. E
quinci anche è , che alcuno de’moderni intro duttori di nuovi ſiſtemidi
medicina ,abbian ritenuti in par te sì fatti modi di inedicare : non perchè
egli veramente crcda , che ſien valevoli conſigli, da riſtorare ammalati ; ma
perchè egli avviſa in tal errore eſſer già foinmerſa , ed incallita la gente,
che ſe altriméti adoperaſe,niuno certa o pochiſſimi ammalati da medicar gli
giugne rebbono. Adunque manifeftamente da ciò , che detto è compré der ſi puote
, che purtroppo grandemente nel medicare , da Ippocrate, e daGalieno i
Napoletanimedici ſi diparto no , e s'allontanano ; emolto più aſſai di quel,
che'l Paracelſo , e l'Elmonte ſteſſo , e altri moderni ſpargirici, o altri ,
ch'elli fieno, per avventura ſi facciano . Mafi laſci ad altri la briga di ciò
conſiderare: baſti a noi il ſapere,co . me ancora da ciaſcun Galieniſta
Napoletano ſi viene con fatti a commendar ciò , che con parole da alcuni di
loro manifeſtamente ſi biaſima ; e come ancor' eglino laſcia no il loro
Ippocrate, ed il loro Galieno , ove lor venga in talento : e che tutti
igualmente abbandonando l'an tiche ſtrade più ch'alle cieche autorità de'
creduti maeſtri , alla ragion ne laſcianio guidare. E perciò per Dio ceſſino
coſtoro d'abbajare addoſſo a’moderni medi canti , e di mordere , e di lacerar
tutto dìla loro lode vole libertà , ne mai più per innanzicon uggia , e crepa
mente > S CUO 138 •Ragionamento Secondo cuore ſi ſtudjno di contradiarla , e
di metterla in fondo ; poichè, come per addietro ſi è fatto per noi manifeſto,
da' più ſublimi ingegni,che ſtati fieno in ciaſcun tempo s'è ab bracciata , e
mantenuta da' più nobili ſcrittori, edalle più illuſtri Accademic , e Scuole
dell'Italia , della Lamagna , della Francia , dell'Inghilterra , della Svezia ,
della D2 nia , della Polonia, e da tutt'altre parti del mondo glorio famentc
ſeguita. Ma riſerb.andomi di ciò favellare a miglior huopo, ri tornerò pure a'piati
,ed alle conteſe deimedici; onde già mi partii. E quantunque fin'ora per me
molte narrate ne ſieno , pur molte ancora , e quaſi infinite a raccontar ne
rimangono; le quali poichè mi pare d'aver oggi ragionato a baſtanza , e già il
ſole comincia a gir ſotto , riſerberolle. alla ſeguente aſſemblea . RA 139 j:
Milli RAGIONAMENTO T E R Z O Beda Vantunque volte meco ſteſſo penſando rammento
quel tranquillo , e feliciſſimo ſecolo , che meritevolmente dell'oro per
ciaſcuno vien detto : tante a biaſi mar la preſente , e miſerevol noſtra età;
quaſi di forza ſon tratto . Non pure , perchè a quella la terra dall'aratro non
ancor tocca , tutto ciò , che al mantenimento di noſtra vita abbiſogna
abbondantemente produceva ; ed ora a romper zolle col Vomere , e col Raſtro , a
ſveller pru ni c ſtecchi anza , e ſuda , e talora anche in darno il Bi folco ;
ne perchè allora , e nuvoli , e nebbie ,e tempefte ', c turbini non
intorbidavano , ficome or fanno , i lucidi ſereni dell'aria ; ne perchè
l'eſecrabil fama dell'oro, non ancor ſignoreggiava il mondo : reſo ora
ſcellerato, e crude le, poichè fol vince l'oro , e regna l'oro ; ne per tant'al
tri privilegj , che diquella s'annoverano , de'quali altro che un'intenſo
deliderio , ch'il cuore acerbamente ne pun ga a noi non n'è rimaſo ; ma ſi bene
perciocchè , e liti , e S 2 pia 2 1:40 Ragionamento Terzo piati , econtefe , ed
armi,eguerre non allignarono . No arruotava le zanne a mordere il cinghiale ;
non digrigna va i denti il maſtino ;non rabbuffava il doſlo il Lionefra ; l'erbe
, e fiori s’appiattava ſenza veleno l'angue . Ma che è ciò ? l'huomo , l'huomo
di tutt'altri animali duca , e ſigno re non fabbricò nave , ch'apportaſſe
guerra agli altrui li di , non forbì , non arruotòferro periſvenar l'altrui
petto : non aſſordò l'orecchie con iſtrepito ditrombe , di corni, o di
bellicofi tamburi ; vivea ciaſcun ficuro ſenza il riparo di murate Città . Ed
a'dinoftri , che più fi tenta , che più fi machina , ove più fi bada , fe non
ſe a' nuovi ordigni da guerra , perchèl'un Principe, l'altro abatta; l'una
Repub blica , l'altra eſpugni; l'una Signoria, l'altra atterri; l'una Città ,
l'altra ſtermini; l'un nimico, l'altro affondi; ſi com batte nelle campagne ,
ſi combatte nelle Città , s'armas contro l'un l'altro amico,'e fin dentro il
nario albergo con l'un, l'altro fratello, anzi il padre co'l figlio calora
conten de; va in ſomma il mondotutto in conteſe , e benchè tar dis pure è
gionto agli antipodi il furore dell'armi. M2 egliè pur vero , chele diſcordie
abbian per qualche tempo auuto fine , ne in ogni tempo le porte di Giano ſieno
ſtate sbarrate . Ma quel, che pür troppo è da maravigliare , è ciò , che lo
ne’paſſati ragionamenti v'ho detto , e debbo nel preſente ſeguire ; egli cono
le tante , e tanto invilup patecontefe de’medici. Queſte non han mai ſofta ,
quefte non han inai line ; e comeche moltisſime ve n’abbia fin or diviſate ,
pur altre aflai a narrar ne rimangono ; le qua li lo fon ora
perdiviſarvibrievemente , e darvia diveder , che tutte quante dall'incertezza
dell'arte abbiano origine; la quale perchè più chiaramente per voi ſi
comprenda,dirò brievemente altresì,chente mi paja delle ſette de'medici. E
perchè fi comprenda , quanto queſt'arte fia ſempre mai nemica naturalmente di
pace: ne baſterà per avventi ra il riguardar ſolamente al cófuſiſſimo drappello
de'Ga lieniſti, che co’lor diverſi, confuſi, e ritorti ſentimenti ban turbati i
mari Con menti avverſe, ed intelletti vaghi, Non 1 Del Sig.Lionardodi Capoa.
141 Non per ſaper , ma per contender chiari . Eper la verità delle loro ſtrane
, e ſtravolte opinioni da . to brigando romoreggiano , che poco men fanno per
av ventura l'onde torbide, e fonanti del noſtro Tirreno qual ora nelle più
atroci tempeſte giungono furioſe a riverfar G ſu i lidi. Magna mentis
admiratione diftrahor , dper surbor ( dicea di loro appunto favellando Giovanni
da Sa lisberia ) quod a fe ipfo tanto verborum conflictu, &collifio ne
rationum defiliunt, &difcordant. Neancor paghi del le lor lunghe e,
oſtinate conteſe aggiugnendo ſempre pia tiapiati, quiſtioni a quiſtioni , ne
preſero anche in preſto dalla brigante filoſofia , altri più inviluppati , e
nodofi , da fare ſtancar inutilmente per un'intero ſecolo i più riottoſi
dicitori del mondo . Perchè riſtucco , ecrannojato l'avve durisſimo Lodovico
Vives , così (clamando proruppe. Ex fcholaftica illa phyfice exercitatione
ingentem , ácopiofifſimă difputandi materiam in hanc quoque artem, tanquam plar
ftris invexerunt, de intentione, & remilline formarum, de raritate, &
denfitate departibus proportionalibus, de inſtáribus: ea que nec funt, nec
unquam evenient ventilantes fua fomnia ; defertapugna cum morbis interea loci
premen tibus , atque occidentibus . Ea res fecunda , e infinita non aliterquam
bydra quædam diutiſſimèremurata eft ingenia, cum fructu aliis vacatura. Videre
eft cavillariones a, trj. cas Iacobi Forlivienſis, nec minus fpinofas, nec minus
inu tiles , quam Suiceticas: nec prolixitate, cu moleftia cedentes. E Gregorio
Giraldi huom di rara , e di ſquiſita letteratu ra , così de’diſcordanti
pareri,che a danno altruiportano , e mettono in campo i medici , fe vagamente
parole . Nec minus quoquo medici noſtro periculo de medēdi ratione ejuſq;
partibus difenſere, aliis alia fubindeapprobantibus , ut no ftra etiam hac
ætate tanta fit inter medicos diſſimilitudo , ut corumaliqui vena inciſiunem
omnino prohibeant, alii ad eam aperiendam potius exclamext. E per recarne
brievemente un faggio , eglino intorno aº principj delle coſe naturali
contender fieramente ſogliono: ne ſi può di leggier credere quante diverſe , e
confuſisſime opi 142 Ragionamento Terzo opinioni ciaſcun di loro ne porti .
Dicono alcuni ritrovar fi veramente , e formalmente gli clementi ne'miſti:
altri in contria opinion tratti ,ſolamente in virtù, ed in potenza. Vogliono
coſtoro , ſecondo ilſentimento del lor maeſtro , effer le qualità formevere
degli elementi, e de'milti : co loro tutte le forme eſſerveriſſime ſoſtanze
giudicano. S'ay vilan molti collor Galieno , amendue le qualità nel lor fommo
grado eſler igualmente negli elementi ; altri una in più alto , e altra in più
baſſo grado ne allogano ; quin di infra coſtoro altra nuova quiſtion forge, ſe
colle più fie voli qualità degli elementi le côtrarie accoppiar ſi ſoglia no .
Ma ſe le dette qualità ſien tutte , come dicon poſiti ve , e vere : 0 pure
alcune di loro ſolamente privazioni di quelle , lungamente affai ſi contraſta
ora eziandio in fra’ Galienifti medici. Ed oltre a ciò giudicano alcuni,in qua
lunque,comechè picciolisſima particella deʼmiſti , formal mente avervi parti
corriſpondenti a ciaſcuno degli elemé. ti ; altri ſono dicontrario parere . Ma
chi potrebbe mai intorno a ciò rapportar tutte le antiche, e le moderneopi
nioni ? ſenzachè non ſon minorile conteſe , s'egli ſia pur vero , che vi ſia
temperamento ; ſe quello veramente ſia l'anima medeſima dell'huomo, come
cmpiamente avviſoſ ſi Galieno , o pure altro , che quella ; ſe ſia da porre il
ſo ſtanzial temperamento ; e ſe quel poſto , del qualitativo in nulla
differente egli ſia . Oltre a ciò quante le differen ze deil'uno , e dell'altro
teinperamento ſi ſieno ; ſe il qua litativo ſolamente nella proporzicn delle
quattro prime qualità riſieda , o pure in altra qualità da quelle riſurtu . Ma
troppo a lungo ne verrei, ſe tutte diſtintamente nar rar volesſi intorno a sì
fatta materia , le zuffe , e le conte ſe de’alieniſti filoſofanti. O forſe
almen , ſe in tutt'al tro ſi rodon l'un l'altro il baſto, faranno a buon concio
ra nodati , e concordi in render ragione dell'eſiſtenza de’lor quattro elementi
nella natura ? Anzi in ciò più che altrove gareggiano in rintuzzarſi ,
rifiutando altri ciò, che altri ne dice , e tutti l'un l'altro oſtinatamente
carminandofi ; an zi fra cllo loro Vopiſco Fortunata Pemplio dopo averne molte
I DelSig.Lionardo di Capou . 143 . molte , e molte ragioni recate ,e tutte
rifiutate,ultimame. te con tali parole i ſuoi propj ſentimenti ne paleſa. Sed
hæc omnia quăfint imbecillia quilibet videt.Quapropter aliorum etiam qui
hactenus id ipfum conati ſunt argumentis penficum latis ,puto non poffe vera,
& efficaci rationeprobari, ejetan tum , veleffe debuifle quatuor elementa ,
ſed id ita effe, nos accredere Ariſtoteli toti omnium fcientiarum fapientia
lumi ni . Concluſione indegniſſima nel vero non pur di lui : ma di qualunque
più cattivello ſcolaretto , che per filoſofante ſi voglia fare acredere; c ne
verrebbe ſicuramente cgli dal ſuo Ariſtotele , c dal ſuo Galicno ſchernito , e
forſe da lor nc torrebbe in capo del ſer Meſtola, e delgocciolone , le il
ſecodo ne meno ad Ippocrate vuol dar fede ſenza il pc gno in mano delle ragioni
, el primo allega l'autorità nel l'ultimo luogo dopo tutt'altre pruove , con
ciò manifeſta mente inſegnando , che non miga delle autorità , ma delle ragioni
lo intelletto ſolamente debba eſſer pago. Ma pu re Iddio voleſſe ,che aſſai non
vi foſſero a’dì uoſtri, di quel li , i quali ſecondo il ſentimento del Pemplio
, non alla migliore, ma alla maggior parte degli ſcrittori voglion gir dietro
,pecorum ritu ,perdirlo colle parole di Seneca , non qua eundum eft , fed qua
itur . Cattivelli di loro, che tratti dalla bordaglia de letterati,immaginano ,
che allora ſien da lor meſſi in ſu’l filo del vero ſapere, qualora da lo ro
forſe più, che da ogn'altra coſa del mondo, ne fon di ſtornati, e danneggiati
così , come cantò il Bembo nello ſuc diviniſſime ſtanze : Sicome nuoce al
gregge ſemplicetto La ſcorta fua quandell'eſce diſtrada , Che tutto errandopoi
convien,che vada . Ed’o ſe mai eglino fi riducellero alla memoria la ſentenza
del teſte da noi citato filoſofo , Argumentum peſſimi turba eft. E quell'altre
parole del medeſimo,non eadem hic,cioè nel filoſofare, quam in reliquis
peregrinationibus condicio eft in illis comprehenfus aliquis limes ,
interrogati incola non patiuntur errare : at hæc tritiſima quaquevia,
&celeberri ma maxime decipis : certamente infomiglianti falli ſcimu. niti ,
14 Ragionamento Terzo niti , ch'elli ſono , non fi laſcerebbono traſcinare. Ma
egli però giova credere, che il Pemplio non già da fenno, ma per irrifion
parlaffe , ed ironia , ' fe poi ſenza al cun rimordimento , e fenza ſcrupolo
averne di temerità, in trattando delle qualità,paleſemente delle dottrine d'Ari
ftotele , e di Galieno famoſtra di non curare . Malaſcian do da parte ſtare
tutt'altre quiſtioni, nelle quali inveſchia ti, e impaſtojati i Galieniſti
tutti ſtralciar mainon ſi poſe fono , ficome ſon quelle intorno a' principj
dello ingene. rarſi dell'huomo , al caldo natio, all'umido , che dicon ra
dicale, all'eſiſtenza , alla natura , e al numero degli ſpiriti ; e
ſomigliantemente intorno all'inviluppatiſime, e tutto che innumerabili quiſtioni
della natura , del numero, del luogo , della diſtinzione delle potenze, e
ſpezialmente in torno a quelle coſe , onde il chilo , e'l ſangue, e gli altri
umori s'ingenerano ; o pure in trattar del polſo , dell'arte rie , e del movimento
del cuore : ed onde i ſentimenti nc végano, e formiſi il moto.Chimai baftevol
ſarebbea por gli d'accordo intorno a quella cotanto celebre , e faniores
conteſa , e di tanta conſiderazione in medicina , ſe la bi le , la flemma , ela
malinconia ftian di fatto , o pure in po tenza nella maſſa , come dicono,del
ſangue ? Il che in buo ſentimento viene a dire , fe veramente vi lieno , o no;
im perciocchè certamente nulla monta il potervi eſſere , ac ciocchè ſi dica,che
vi ficno ;ficome direbbeſi altresì , che nel ſangue vi ſieno in potenza , e
carne , e vermini , e cene to , e mille altre coſe , chequivi ingenerar ſi
poſſono . Ma a cui caglia di vedere un confuſiſſimo rimeſcolamento di diverſe ,
e ſtrane opinioni , riguardi digrazia a' Galienilti medici intorno al diviſar
della natura , delle differenze, e delle cagioni delle materie delle febbri, e
de'luoghi, ove s'ingenerano ; riguardi all'opere de’loro antichi, e moder ni
maeſtri : e poi, ſe potrà, ridicamiquando mai potreb be alcuno ſcalappiar
dall'intralciato , e confufiffimo labi rinto di tanti , e sì fatti riboboli, e
indovinelli; e guari pu re a quali debolillime fila aſſai ſovente la medicina
di Galicno s'attenga , Tralaſcio pure le lunghe , ed inviluf pate 1 1 DelSig.
Lionardo di Capoa 145 pate quiſtioni intorno all'apopleſſia, al catarro, al
letargo, alla mattezza ,alla malinconia, a' capogirli, al mal caduco, alla
peſtiléza,almalfrāceſco, eda täi'altre dubbioſe cotro verlie , che non ſarebbe
per avventura minore impreſa il raccorle quì tutte, che l'arene del mare, e le
ſtelle del Cie to minutamente annoverare . E comechè per queſto capo incerta ,
e confuſa , e inviluppata la medicina de' Galieni fti oltremodo ſi ſcorga , e
perciò inucile , e nocevole ad adoperare:non peròdi meno non è ella intorno alle
mag giori biſognedell'huomo incerta maggiormente, ed in tralciata, cioè a dire
intorno alla dieta : i fini, e le condi zioni del trar fangue : la natura , la
facoltà , gli effettia e'l modo dell'adoperar de’medicamcnti : quando , ed in
qua’rempi del male ſien da dar le purgagioni: ed altre , ed altre infinite
quiſtioni,delle quali queſte,ch'io ho quì bric vemente raccolte , una
menomiſſima particella ſi fono , e certamente lo m'avviſo , ch’in leggendolei
curioſi da non poca inaraviglia ſien ſoprapreſi; anzi forte ſoſpirerano , s
ſdegneranſi , veggendo a quante controverſie,a quanti ſo fiſini, a quanti
pericoli per lor ſi faccia foggiacere il bene ftare , e la vita deglihuomini. E
chicon occhio aſciutto può rimirar il crudeliffimo ſterminio , che fan tutt'ora
de gli ammalati di febbre maligna, per non ſaper di quella , cofa del mondo?
Eglino piatiſcono in prima delle cagioni di fuora , chenti , e quali elle fiano
, e d'onde naſcano , come operino , e muovano il male ; quindi intorno a quel.
le d'entro combattono , ſe fien verainente qualità : efe tali, naſcoſc più
toſto , o manifeſte , o pur ſe da loverchio di putrefazione avvengano , o da
tutta la ſoſtanza più to ſto gualta ; e corrotta ; e oltre a ciò in quali
luoghi elle fi covino , diverſamente contraſtano . Così mordendoſi l'un l'altro
, e piatcndo , niun l'imbrocca , e tutti a malpartito menano gli ammalati ;
volendo altri i falaſſi , ed altri vie tandogli, ed altri una fol volta
permettendogli , chi ſcar ſamente , cchi fino a trar loro tutto il ſangue , chi
dalle venc delle braccia , e chi da quello de piedi , e chi anches da quelle
parti , delle quali è bello il cacere , con appic T carvi 140 · Ragionamento
Terzo carvi le mignatte; altri a tutti coſtoro cótraſtando voglió , che dalla
buccia ſolamente per coppette fi tragga . Alcu ni vengon toſto alle purgagioni,
altri aſpettan qualche de boliſſimo ſegnal di cocimento ;ed altri, o nel
principio pur gar logliono , ove turgide lien le materie , il che di rado .
avvenir ſuole, o pure inſino allo ſcemo del male s'indugia no . Molti poi nel
purgare , de’violenti medicamenti fer vir ſi fogliono ,molti de'mezzani, ç
moltide’deboli , e be nigni n'adoperano : e parecchi ancora con lenitivi rimedi
folamente medicar s'argomentano. V'ha chi purga una ſol volta , e chi più volte
in ogni tempo , e ſtato del mal lo coſtuma . V'ha alcuni , che come il mal
comincia , cosi toſto con le purgagioni v'accorrono ; ma dopo i trè dì af fatto
le victano ; e dicoſtoro altri di vomitive, alori di sé plici purgative
medicine ſervir ſi fogliono. Alcuni ne'pri migiornidel male a' rimedj , che
chiaman veſcicanti , gli infermi condannano ; altri vuol, che in prima purgati
, e ſegnati color fieno ; echi in un luogo, e chi in un'altro cô -sì fatti
rimedj marchiar gli vogliono , togliendo loro così manifeſtamente le forze , e
crucciandogli , e dando loro vigilie , e dolori, e forſe con riſchio di
gangrene,di piaghe nelle reni , e nella veſcica, di malagevolezze d'orina ,e
d'altri malori , che ne foguono . Ne mancano eziandio infra'Galieniſti medici
alcuni più rinominati , che per be nevoglienza al lor maeſtro Galicno , cd
Ippocrate , o per chè così veramente lor paja,cotal ritrovato come peſtilen
zioſo ; e ficriſlino, e di barbara gente, e crudele , oleremo do vituperino, e
danninozil quale non a confortar vaglia, ed ajutare il cocimento , ma ſolamente
a fraſtornarlo , ed indugiarlo , con accreſcer le cagioni ad un'ora , e gli
effet tidel male , e con piagar , ed infiammar malamente ſpeſſo ſpeſſo le reni
, e la veſcica, e far talora gli addolorati lan guenti di puro fpafimo
miſerabilmente morire . E v'ha , eziandio di coloro , che non d'altri rimedi,
che de ſolian sidoti nelle maligne febbri ſervir fi fogliono; ed intorno a
queſti ancora diverſamente piariſcono . E forſe faran mai per riconciarſi, e
porſi d'accordo infra qualche ſpazio di + tein DelSig.Lionardo di Capoa 147
tempo le lor conteie ? e le loro incertezze appianate , fari per porſi fuora,
quando che ſia un più ſtabile , e veriſimile fifteina di medicina? anzi per
quanto ne poſſiam conghier turare eglivie piů a giornate s'accreſcerannoi piati
, e le conteſe , e ſempre più confuſo , e incerto , e pericoloſo il lor meſtier
diverráne. E nel vero,chi mai potrebbe deci derle ? non le autorità , non le
ragioni , non l'eſperienze ; imperciocchè , così gli uni , come gli altri, di
loro eſperi menci egualmente fan moſtra , e pompa ; morendo vera mcnte , e
guarendo così degli uni , come degli altri , i malati . Per amendue le parti
poi lor ragioni ſi produco no in mezo; equinci , e quindi ogni conteſa ha
ancora i fuoi parziali . Ne v'ha cagionealcuna , per la qual mag giormente
attenerci dobbiamo a Giovan Manardi,ad Er cole Saſſonia , ad Orazio degli
Eugenj , che d'altra parte più coſto ad Aleſſandro Maſſaria ,ed a Fabio Paccio
, eze Pietro Salio, o a Girolamo Cardano preſtar fede, conciofa fiecoſachè
tutti egualmente ficn di pregio, e lieva nella Gia lienica medicina , ed
egualmente di maggioranza gareg giar îi veggino . Perchènon ebbero certamente
il torto , per quelch’lo ini creda ', a dir quc' valene' huomini:non . polje
comprehendi patere ex eorum qui de his diſputarunt di fcordia ; ciim de ifta re
, neque inter ſapientia profeſſores , neque inter ipfos medicos conveniat. Ma
poiche Io in par te vi ho diviſato a’quali tempeſtoſe procelle di litigj
ediconteſe la medicina tutta ſoggiaccia , diſconveneyol coſa non farà ', ch'Io
mi ſtudi per avventura , e mi argome ti di recarvene brievemente la cagione .
Alcuni ſciocca . mente fi perſuadono ciò ſolamente per colpa deʼmedici avvenire
, i quali oltremodo d'onor deſideroſi,ed avariſfi mi del denajo , e
naturalmente ancora riottofi , e ſuperbi, ſi graffjno ſeipremai , e ſimalmenino
; cercando a ſpada tratta ciaſcuno , ove a lui venga in concio, altrui
travaglia re , e neinichevolmente affitto atterrare . Così vengono a partirſi
in fazioni, e ſempremai a premerſi,e tenzonare , non altrimenti , che
tutt'altri macftri di cialcun'altro me ſtier fi facciano; perchè faggiamente
diffe Eriodo وا T 2 Ka? 148 RagionamentoTerzo 1 Και κεραμεύς κεραμά κοτέα , και
τέκτονι τέκτων Και ωχός πτωχώ φθανέα , και αοιδος αοιδώ . Che in lingua noſtra
riſuona Al fabbro , è'l fabbro in odia : e'l vafellajo Non puòſoffrir compagno
: arde diſdegno Contro un mendico l'altro : el’un cantore Contro l'altro cantor
di rabbia freme. Malo per me fermamente credo , che alcra di ciò ne ſia la
cagione : e che non tanto per uggia , e mal talento deʼme dici, quanto per
mancamento dell'arte medeſima così in certa,e intralciata ,e dubbioſa no poſſan
goder mai, ne pa ce ' , ne ripoſo que', che l'eſercitano.Negià in tante, e tan
te diverſità di ſentiméti ciafcun'altro meſtiere partir fi fuo le , in quante
la medicina ſi parte , ſe già non foſſe , che la filoſofia , e tutte quelle
ſcienze , c'han colla filoſofia qual che attacco , o dependenza , alle inedeſime
tempeſte del la medeſima ſoggiacer ſi veggono ; nelle quali malagevol molto , e
difficile è lo inveſtigar la verità , licome confeſſa no que'filoſofi , e
medici medeſimi, che d'haver preſte loa lor pruove , e dimoſtrazioni falſamente
ſi pregiano , Nemailetto di ſelva allor , che priva L'arbor difoglie il
venta,ha tante fronde quante , e quante diverſe , e diſcordevoli fette ha
l'anti ca , e la moderna filoſofia ; o in ciaſcuna ſetta di quelle's quante, e
quanto diverſe infra loro fian de parteggiatilo pinioni. Così de'Peripatetici
ſolamente , chi non sa quam to li premano , e li rintuzzino iGreci ,egli Arabi
, eiLa tini Maeſtri ? quorum fudium , dice un di loro, perpetuum ,ut
contradicant, ab aliis femperdiffentiant . Ed a cui non ſon manifeſte le continue
, ed oftinate contefe delle dire Peripatetiche ſchiere ancora,che nominali
chiamano, creali ? E a tanto giunſe la lor riottoſa oſtinazione , che poco
fallò , ch'un dì in Parigi venendo alle mani , nó iſve gliaſſero nella Francia
una nuova , e fanguinofa guerra ci yile . Ed infra i Reali medefimi chi
potrebbemai, co’TO miſti gli Scottiſti rappartumare? e chi co’Tomiſti i Tomi
fti medelimi:econ gli Scottiſti gli Scottiſti ? ma per noi 3 di DelSig.Lionardo
di Capoa 149 dipartirci della noſtra medicina, in queſta altro non è egli per
certo di tante , e tante diſcordie cagione , ſe non ſe la medeſima
malagevolezza del rinvenir la verità delle coſe naturali . E ciò ben’avvisò
Galieno medeſimo, ove quel, le parole di Ippocrate va in prima chiosãdo
xehosganemi il giudicio difficile : ο λόγG- δ'αν ηκρίσης άη , το κρίνεσθαι παρ'
αυτό τα ποιητία .χαλεπος και δυσθήρατός εσιν όγε αληθής , ως δηλόι και το
πλήθG- των κατα την ιατρικής τέχνης αιρέσεων •ου γαρ αν άπερ οίον τ' ήν ραδίως
ευρεθήναι το αληθές , ας τοσούτον ήκον αντιλογίας αλήλοις οι ζητήσαντες αυτό
τοιούτοι τε και τοσούτοι γενόμενοι . 11 giudicio , dice egli , fi è la ragion
medeſima : poichèper quella le coſe , che da far fono , fon giudicate. E
certamente egli è difficil molto , e malagevole , a rinvenire, Io dico il
giudicio vero , il qual manifeſtamente ravvifarfo fà dalla diverfità delle
fetre della medicina. Concioffiecofachè le agevol foſſe il xin venir la verità
, non ſi ſarebber tanti , e tanti valent'huomi ni , che per imprenderla con
ogniſudio ſi ſono affaticati, in colante ſette partiti . Fin qui l'avveduto
Greco.Manoi più avanti procedendo ci avviſizmo , il rinvenir la verità effer
certamente molto più malagevole , o piùardua imprefa aſſai di quel', che
s'immagini , e dica Galieno . Ad inve Aigar di ciò la ragione convien ridurci
amemoria , che noi non men , che gli altri animali , poveri , e mudi affatto di
qualunque , comechèmenoma contezza delle coſe,naſcii mo ; verità così chiara ,
e conoſciuta per ognuno, che non le fa d'alcuna pruova meſtiere , e molto ben
ad ogniora Iz ravviſiano, e Platone ſteſſo venne coſtretto a confeſſar fa ,
avvegnachè altra volta faccia ſembiante di tener con truia opinione , dicendo ,
che'l noſtro apparare altro in vero egli non ſia , ſe non , che un rammentarci
quelle co ſe appunto nredelune , che già noi prima di naſcere ſape vaino ; ed
imperciò tutte le notizie ſenza fallo conviene , che da noi ſteſſi l'appariamo;
ma come, e da cui,non èma lagevol troppo per avventura ad inveſtigare.
L'animanoſtra , alla quale , come a parte più nobile , e più principale
dell'umana compoſizione, ſolamente con. viene l'apprender le coſe ; ondefolea
ſaggiamente Epicar modi 150 Ragionamento Terzo mo dire: la mente vede, la mente
ode, l'altre coſe tutte fon forde , e cieche ; l'anima noſtra lo dico , comechè
in corporca forma , ed inviſibile ella fia , in sì fatta guiſa no dimeno unita
, ed avviticchiata , per così dire, ella al cor po ſi ritrova,che ſe queſto
dalle ſenſibili coſe di fuora toc co , emoflo ad eſſer mai viene , varj , e varj
penſamenti in effa egli è valevole a ingenerare ; c ciò avvicne qualunque ora
elleno toccano ,e muovono le fibre de’ncryi , le quali a guiſa di fila
ſottiliflime di ſeta trapunte in ricamato pan 10, {parce per tutto ilcorpo
ravviſanſi, e che queſte poi avvalorate da un diſcorrente , e ſottil licore ,
gli avvti mo viinenti alla prima loro origine riportano nel cerebro principal
ſedia dell'anima , ove quella il comprende, o per me dire ſente . E le fibre
poi col venir variamen te premute da quelle parti del corpo , che ſi chiamano
organide'ſenſi, ecoltorcerſi, e col piegarſi in varie, ed in varie maniere sì ,
e tal mutamento ricevono ne pori, enel ſito delle lor particelle , che da loro
, e dalla diverſità de li ſenſibili oggetti di fuora la diverſità del comprendera
, o fia de'ſenſi,ncll'animna procede . Quinci ſcorger ſi puore , chei ſenſi
ſono quelli , per li quali non altrimenti , che per le fineſtre liz luce ,
entrano nell'anima le prime contezze delle coſe, e da queſte ella poi altre ,
ed altre contezze col mezo del diſcorſo tracndo , tratto tratto ſe ne viene ad
arricchire ; ma come, e dove ſi riſerbino l'acquiſtato notizie , e come l'anima
l'abbia più , o meno pronte, quae do valer ſe ne vuole , e come per ſe ſteſſe
talora all'anima firappreſentino , è malagevoliſſimo ad inveſtigare ; ne queſto
propoſito più che tanto appartiene forſe a noi il fa perlo . Ed al ſentir
dell'anima ritornando, lo dico libera mente , e confeſſo , che i ſenſi nc ſe
medelimi , ne l'anima mentir non poſſono gianmai; inperocchè i ſenſi le im
preſſioni degli eſterni ſenſibili oggetti mai ſempre tali all' anima
rappreſentano , quali eſſi appunto le ricevono, fen za curare, o prenderſi
d'altro brigi. Verità , la quale non ſo lo come de'peripatetici le ſcuole col
maeſtro Ariſtotile abbiano ofato negare;cocioffiecofachè ſe nella maniera , la
qui Del Sig.Lionardodi Capoa. 151 quale effi fingono andaſſe la faccenda, ogni
fabbrica di no Itro diſcorſo certamente a terra ne verrebbe, come faggia mente
avviſa quellaltilimo filoſofante , e poeta latino: .. Vt in fabrica ſipravaſt
regula prima:“ Normaque fi fallax rectis regionibus exit: Et libella aliqua fi
exparte claudicat hilum : Omniamendose fieri :atque obſtipa neceſ umft: Prava :
cubantia : prona : Supina: atq; obfona tecta Iam ruere ut quædam videantur
velle: ruantq; Prodita judiciis fallacibusomniaprimis. E ſe i ſenſi mai
poteſſero una ſol volta , o ſe , o altri ingão Nare , ſi toglierebbe via
certamente dal mondo ogni con tezza , ogni giudicio , ogni fede ; e non per
altro in vero gli antichi Padri della Chieſa così acerbamente ripigliaro no i
filoſofanti d'una sì erronica , e ſciocca dottrina : Re cita Ioannis
teftimonium , dice Tertulliano , quod audivi. mus ; quod vidimus oculis noſtris
, quod perfpeximus, ma nus noftræ contrectaverunt de verbo vitè falfa utique
teſta -tio fi oculorum , aurium , & manuum fenfusnatura mer titur . Ma a
chi mai ricorrer ſi dovrebbe per conoſcer, ed ammendare i fallimenti di ciaſcun
ſenſo ? ad altro forſe ? certamente no; imperocchè dell'uno non meno l'altro
ſen ſo farà ſoſpetto difalſità , e d'errore; ſi chiederà forſe aju to agli
altri ſenſi tutti : manon ſono queſt'altri ancora ſom ſpetti di falſità ? o ſia
una , o ſieno più le perſone , che ne deano teſtimonianza , nulla importa,fe di
eſſe tutte è dub biofa , ed incerta la fede . O forſe, come Ariſtotele ſi per
Snade , gli errori de'ſenſiconoſcerà la ragione ? ma come potrà cio mai eſſa
fare , fe per avvederti dell'error d'un ſenſo , ad ammendarlo , dineceſſità le
fa meſtieri fervirſi dell'opera d'un'altro ſenſo , e di notizie , e di regole
col me. zo de'ſenfi parimente avvte . A queſte, e ſimili malagevo lezze ponendo
mente peravventura Ariſtotele , ne aven do altro rifugio dice, che ben può la
fagione giudicare del l'error d'un ſenſo colla ſcorta d'un'altro ſenſo , il
quale abbia però più ben fatto , e ſquiſito l'organo ; e fi ſerve egli per ciò
dimoſtrare dell'eſemplo dell'anello , il quale mello و IS2 RagionamentoTero
meſlo ſenza frámettervi ſpazio notabile ditempo, or nel l'uno , or nell'altro
dito della inano appare al ſenſo del tatto non uno , ma due eſſer gli anelli ;
il quale per error del tatto vien ſecondo lui avvertito , ed ainmendato dalla
ragione col cõſeglio del ſenſo della viſta: l'organo del qua le è più
eccellente di quello del tatto . Ma a chi per Dio un sì fatto riparo vano non
ſembra; poichè quancunque l'eccellenza dell'organo perfetta aſſai , e compiuta
ſia , nó ſarà mai valevole ad operare, che quel ſenſo non men degli alori non
vada ingannato . E per valermi del medeſimo p · lui rapportato eſemplo del
ſenſo della viſta, non s'inganna queſti , ſecondo cheporta opinione il medeſimo
Ariſtote. le , ne'colori dell'Iride , e delcollo della colomba; anzi ſe
poteſſero mai i ſenſi ad alcuna forte d'errore ſoggiacere , fi ritroverebbe per
tale , che ben ſottilmente vi badaſſe, affii più agevolmente ad errare il ſenſo
della viſta , che tutt'al tri ſentimentiincorrere . Ma lo forte mi maraviglio
poi , come non avviſaffe Ariſtotele , che ſoventemente l'errore del ſenſo , che
ha più eccellente l'organo , da un'altro fen fo , di cui l'organo è aſſaimeno
ſquiſito conoſcaſi , e cor reggafi; comeincontrarſuole nelremo dentro
dell'acqua, ove l'organo della viſta dal toccamento vien ricreduto, e ciò lo
dico favellando fecondo i ſuoi medelimi ſentimenti. E alla fine domáderei ad
Ariſtotele, ſe i ſenſi de'quali egli intende doverſi la ragione ſervire per
riprovar altri ſenti menti , ſieno anch'eglino tali , e ſe tali pur ſono ,
perchè cglino ancora non potranno eſſer fall? adunque mai potrà giudicar la
ragione appiccata allc lor pruove , c certamen te mal può convincer perſona di
falſità quel Giudice , al quale convenga dineceſſità valerſi di teſtimoni
ſoſpetti. E a ciò riguardando forſe Ariſtotele con la ſua uſata poca fermezza
in alcun luogo dice , i ſenli non potere in modo alcuno errare, cche ſia
debolezza d'intelletto i ſenſi per la ragione laſciare. Ma quantunque non
poſſano iſenſi , ne ſe , ne altri in gannare , non però di meno poſſono molto
bene allo in telletto , cui propianente il giudicar s'appartiene , effer 1
cagio Del Sig.LionardodiCapod. 153 cagione d'errore , e d'abbagliamento ;
ecomechè poffafig avventura l'inganno , o l'errore ſchivare col non precipi tar
coſto ,e inconſiderataméte il giudicio, ma ſoſpedédolo, e ritenédolo finattanto
che fiarrivi a quell'evidéza de’sē timenti , tanto , e tanto celebrata per
Epicuro : tutta fia ta ,perciocchè ne in tutticorpi,ne in ciaſcuna particella
di quelli, tra per la lor picciolezza , e per altro impedimento egli non è
a'ſenſid'internarſi , e di profondarſi conceduto, e quando ben loro ciò venga
permeſſo , ne men altro egli no certamente comprender ne potráno ſe non
ſecotali im preſſioni ſolaméte,che da quelliricevono , pchè no già mi ga i
corpi, ma qualche operazione ſolamēte de'corpi vien loro ad eſſer manifefta ;
ma la ragion poiè quella chedal le varie , e varie operazioni de'corpi , varie
, e varie core alla natura lor pertinenti imprende ad inveſtigare. Ma pera
ciocchè dell'operazioni medeſime, che per li ſentiinenti s'avviſano , varie , e
diverſe eſſer poſſono le cagioni , e nel trarne argomento vezzoſa talora , e
ingannevole loro ſi fa davanti Falfa di verità ſembianza , e larvä, agevolmente
la ragion vi s'inganna, giudicando fallaces mente ,da tale cagione un'effetto
naſcere,che da altra cer tamente avviene ; e come già cantò l'Ennio noftro Ita
liano : Veramentepiù volte appajon coſe, Che danno a dubitar falſa matera Per
le vere cagion , che ſono afcoſe, così s’alcun dicelle, che l'oriuolo collo
ſtelo , e colmare tello tratti da contrapeſi,e da ruote,n'additi l'ore del
giore no , vero per avventura egli direbbe ; ma non mai potreb be certaméte
affermarlo,potendo altri ed altri ſtrumentila medeſimacoſa operare . Perchè
ciaſcun fillogiſmo, che intorno alle coſe naturali formaſi,probabile ſolamente
ef ſer può , non già dimoſtrativo , ſe pur toglier non nevo gliamo alquanti ben
pochi, che da quegli effetti ſi dedu cono , i quali d'una ſola , e certa
cagione poſſono avveni re ; ſicome per avventura farebbe il dire, dover eſſer
ne V ceſke 154 Ragionamento Terzo ceſſariamente corpo ciò , che gli organi
de'ſentimenti ne muove ; concioſliecoſachè la coſa, che muove, a ciò fare è ben
di meſtier , che tocchi; e'l toccamento , ſalvo che da corpo ,non ſi può
incontrare: perchè ſaggiaméte Lucrezio: Tangere , vel tangi , niſi corpus,
nullapoteſt res. Così ancora , che'l corpo mentre egli è dimenſionato poſſa in
parti parimente dimenſionate eſſer diviſo . Che tra uno, &altro corpo eſſer
nó pofta altro di divario,ſalvo , che nella grandezza , nella figura , nel moviinento,
nel l'eſſer diviſo in parti, o non divifo, e nell'aver le parti ol tre alle già
dette vario il ſito, e l'ordine tra di eflo loro ;co ciofliecoſachè altro di
queſto non poffa, ne al corpo, ne al le parti , nelle qualiil corpo ſia diviſo
, avvenire . E però è da dire , la diverſità , che così grande eſſer noi veggia
mone'corpi dell'univerſo , altronde certamente non pro cedere , che dalle coſe
già dette , che'l calore , la freddez za , la ſaldezza , il diſcorrimento ,
icolori, ei ſapori tutti , cd altre ſomigliantiqualità , le quali a noi parc ,
che nc corpi dell'univerſo ſieno jaltro verainente non ſieno , ſe non ſe ,o
l'accennate coſe : ſe veramente elleno ne'corpi ſono : e ſe ſono in noi,
cffetti di quelle , o per me' dire de' corpi per quellemodificati . Maqueiti ,e
ſomiglianti argomenti ſon così pochi , e generali, che per lor non ſi può al
vero conoſcimento di quelle particolari cagioni pervenire , ove ſenza fallo,
del 12 natural filoſofia il pregio tutto è ripoſto . E ciò sì bene fu
conoſciuto al principe di tutti greci filoſofanti Demo crito , ed a molti
ancorde’ſavjantichi, che perciò in ap portando le cagioni delle naturali
apparenze, delle fole probabili ragioni s'appagavano; e ſaggiamente il Padre de
Criſtianifiloſofi Agoſtino il Santo ebbe a dire:latet ve rit atis quærenda
modus; e'l gran Galileo de Galilei , che tanto abbiun veduto a’dì noſtri gir
dentro alle ſecrete coſe delle ſcienze, che al parer del dottiſſimo Obbes :
Primus aperuitvobis Phyfica univerſaportamprimam : pur dir ſo leva eſſer pochiuimicoloro
, che qualche particella di filo fofia ſi ſappiano , e Iddio ſolamente ſaperla
tutta , eche quan Del Sig.Lionardo di Capod. 155. * quanto più in perfezione
monterà la filoſofia , tantomeno merà il novero di quelle concluſioni, che da
quella dimo ſtrar ſi fogliono. E'l celebratiffino fondator della peripa tetica
ſcuola , avvegnachè talvolta d'altro ſentir faccia veduta , pur tanta forza ha
la verità , che gli potè purc al la fine una volta trar di bocca , e far
apertamente confer fare , eſſer la noſtra mente alle coſe più manifeſte della
na tura , qual'occhio di notturno augello a'rai delSole ; e 'altrove , che
diquelle coſe , che ſono a’noftri ſentimenti naſcoſe allor baſtevolmente d'aver
ragionato penſar dob biamo , quandoſecondo il diritto della ragione provevol
mente , come eller poffino ne ragioniamo. E quel Fio rentin filoſofo , c poeta
fa , che ſecondo il ſentimento del la ſua peripatetica ſcuola la ſua Bice gli
dica , e facciagli a ſapere . dietro a’ſenle Vedi, che la ragion ha corte l'ali
. E innanzi parimente avcagli colei detto : Erra l'opinione de'mortali Ove
chiave di ſenſo non differra . Ma non penſaron mai, licome far certamente
doveano , o pure il naſcoſero , e Dante , ed Ariſtotele, le naturalico ſe eller
a' ſentimenti, non perla lontananza ſolamente de gli oggetti, ma per altro
ancora vietate , e che noicolsé ſo non già le coſe , ma ciò , che in noi le
coſe operino ſo lamente comprendiamo. Verità aſſai ben penctrata da quegli
antichi ſavj , che diſſero appo Aulo Gellio : (1)om xes omnino res, que
fenfushominum movent são osis , cioè a dire , come egli ſpiega : nibil eje
quicquam quod ex fefe conſtet , ncc quod habeat vim propriam naturam ; fed om
nia prorſum ad aliquid referri:taliaque videri effe,qualis fit. eorum ſpecies,
dum videntur: qualiaque apud fenfusnoftros, quopervenerunt creantur,non apud
fefe, unde profeeta sunt. Ma a che più da filoſofi ,eda’Poeti mendicar
teſtimonian zein coſa cotanto manifeſta , la qual dalla verità medeſi ma ne fu
ſpiegata per bocca del ſapientiſſimo Re Salamo V 2 ( 1 ) lib.iLcap.i . ne : 0 m
I56 Ragionamento Terzo ! ne : Omnibus, quæ fiunt fubfole hanc occupationem
pesſimam dedit Deus filiis hominum , ut occuparentur in ea . Intellexi quod
omnium operumDei nullam poffit homo invenire ration nem eorum quæ fiunt ſubfole
, & quanto plus laboraverit ad quærendum tantò minus inveniet . Etiam fi
dixeritſapiens ſe ea noſſe ,non poterit reperire. Or qual contezza dunque aver
mai potrà la incdicina intorno alle coſe a ſe appartenenti,ſe quelle medeſime
fo no , ove s'intralcia , e s'inviluppa maggiormente la filoſo fia ? Ne in ciò
la medicina , dalla filoſofia è differente , re non fe quella in più largo
campo forſe va ſpaziando, e nel la contemplazion ſolamente , o ſemplice
diſcorſo s'acche ta : e queſta ha per ſuo fine, e berſaglio il porre in opera•
Perchè ſicome la filoſofia , la medicina ancora di pochili me coſe naturali
conoſcer douraſi , e quelle forſe poco, o nulla al medicar ſaranno acconce :
intanto , che non ſap piendole non è gran fatto per huom da curarlene. Ma per
diſcendere in qualche particolarità,e far quãto più ſi pof fa una tal verità
manifeſta : non vi par’egli , o Signori , che alla medicina ſovra tutt'altre
cofe farebbe di meſtierc,che gutte le parti liquidc, e ſalde del corpo umano, e
l'aficio le facoltà, e la natura ne foſſero interamente manifcfte? or dove mai
ne fa ſcorta la coſtruttura dello ſtomaco , degli inteſtini , del fegato ,
della milza, delle reni, della veſcica, del pulmone , del cuore , delle
glandule , le quali ſparte per tutto il corpo poco men che innumerabili fono ,
ele più di effe di canta picciolezza,che fenza l'ajuto del micro fcopio non ſi
poſſon raffigurare , per tacer d'altre , e d'al tre parti ; e quantunque a tal
ſegno di perfezione eller giunta a'dì noſtri veggiamo la notomia , che nulla
più : nientedimeno non ſi è egli potuto , ne men ſi potrà giam mai camminar
ſicuro , ne determinare , ſe non ſe pochiſſi me coſe intorno all'ammirabile
magiſtero de' corpi degli animalized agli uficj,ed alle operazioni delle parti
di quel li.Ed a dir liberaméte il vero , licome avvenir noi parimen te veggiamo
, in tutt'altre partidella filoſofia , e della me dicina dopo tante induſtrie,
e fatiche durate, e dopo tan . ti ſparti ! Del Sig.Lionardodi Capoa. 157 ti
ſparti ſudori per cotanti valent’huomini,altro alla firms non ſi è arrivato a
ſapere,ſe non fe altrimente in verità an dar le coſe di quel , che s'avviſavano
, e davano a noia divedere gli antichi; e comechè gliocchi de’modernino tomiſti
dal microcoſpio avvalorati poco men che lincei fie divenuti , eche eziandio
colla ſcorta dell'avveduto Bilſio apparato abbiano a fchivare alcuni intoppi
aʼnotoiniſti de' vivi animali , per l'addietro inſuperabili ; impertanto non
poſsono in modoalcuno nelle menomiſfime particelle pe netrare , le quali ſe non
vengono ben ſottilmente avviſa te , e ad unaad una diligentemente conſiderate ,
Io non ſo in qual modo ſaper fi pofsa la fabbricazione,e la coſtruttu ra delle
parti maggiori, che ſenza fallo di quelle compo fte, e formate ſono . Perchè
egli avvien ſovente ,dover noi in sì fatte bifogne camminare al bujo ,
attenendone ſola mente a troppo deboli , e incerte conghietture , e per cal.
laje inviluppate andando . La inalagevolezza inedeſimi, anzi maggiore vienſi ad
incontrar poi negli uficj e nell'o perazioni dieſſe parti ; e quel configlio,
che porger ne puote in sì fatte traverſie il vital notomiſta , fia pur detto
con pacedel Valentino , del Paracelſo , c dell'Elmonte , quantunque grande ,
ofere ognicredere egli ſi paja , e che torno d'ogni briga magnificamente ne
prometta , fovente ſuole, per la malagevolezza eſtremadella coſt, ſcarſo , e
debole molto riuſcire , e talvolta anche in tutto inutile ; il che da non altro
certamente naſce , ſe non ſe dalla troppo fquiſita, e dilicata finezza del
lavorio de ' corpi degli ani mali . Ma della fabbrica del cervello cotanto
intralciata,e ma ravigliofa , Dio buono, che han potuto giammai, o gli an
richi, oimoderni Notomiſti di certo raccorre ? non è ſta ta egli ogni lor
fatica inutil ſempre,e vana , facendovi ma la pruova la loro induſtria , e’l
loro ſtudio ? Egli ſono le fi bre , che'lcervello compongono , così minute, e
ſpeſſe , e ſottili , e sì la for teſſitura , e reticulazione è dilicata , e la
lor ſoſtanza molle , che a volerle ben partire fenza riſchio di romperle , o di
perderle , inalagevole anzi impoſſibile : ogni 158 Ragionamento Terzo ) ogni
impreſa rieſce . E sì, e tanto egli è ſpinoſa , ed intri cata, che'l gran
Renato delle Carte reſtādovici anche egli tutto inviluppato , e preſo,
ragionevolméte quell' huom, ch'egli compoſe per molti valenc'huomini vēne
propiamé te idcale, e ſuo luomo appellato . Ma ſe tanto avvien del. le parti
grandi del corpo perciaſcun vedute , che farà cgli da dir poi delle picciole ,
inolte , e inolte delle quali ha forſe la natura a nobiliffmi uficj, ed
operazioni deputate ? eci ha alcune di eſſe parti cotanto menome , e ſottili ,
che non ha mano cosìſcaltra , ed avveduta , che poſſa ſperar di venire a capo
di dividerle co'l ferro giammai. E altre vi fono più ſottili aſſaile quali
appena per la lor sóma piccio lezza ſi poſſono col più fino , eſottile
microſcopio ravvi fare ; E di queſte ancora vi ſono altreminori , e quaſime
nomillime linee , nelle quali inutile ſi prova ogni arte , vano ogni ſtrumento
per ravviſarle . Ma chi mai potrà le particelle del ſangue darne piena mente ad
intendere , le quali ogni chimico ritrovamento per farne notomia vincono ?
Chiquelle del ſugo nutritivo , della linfa , del licor pancreatico ,
dell'orina,del fiele ,del la mucilaggine, che veſte le membrane, detta dal
Paracel . ſo finovia , e d'altre , e d'altre diſcorrenti ſoſtáze del cor po
delle qualiinfin’ad ora nulla ſe ne fa , ne ſe ne potrà giammai per avventura
per huom ſapere, comechè ſcorto, e diligente nel meſtier del far notomie egli
fia . E chi finalmente aggiugnerà a capire , ſe non ſe per in certe , e
fallabili conghietture , o la grandezza, o la figu ra , o'l lito, o'l movimento
di quegli inviſibili corpicciuoli, che ogni inenoma particella delle falde , e
delle liquide parti del corpo dell'animale compongovo ? E ſe ciò all'u mano
ingegno è naſcoſo , come potrà egli mai paſſar oltre a-ſpiarne le facoltà, gli
uficj, e l'operazioni , e tute'altre biſogne , che di neceſſità all'economia
degli animali s'ap. partengono . E come ravviſar mai potrafli , da chi , ed in
qual manie ra s'ingencri il Chilo , e comc, e per chi a cambiar ſi ven ga in
ſangue , e coine il ſangue ad ogni ora in tante, e tan te mae DelSig.Lionardo
di Capoa 159 te maniere ſi muova, e mai ſempre caldo ſe ne ſtea, e ten ga in vita
i membri tutti dell'animale , e come ſi faccia il ſenſo, e'l moto: e cante, e
tante altre operazioni,le quali non ſappiêdoſi, ne men certamente conoſcer fi
potrebbono gli ſtravolgimēti di eſſe,cioè a dire le malattie e queſte igno
rādoſi,come poi ſi potranritrovar certieſicuri argomenti da riſanarle ? Ma per
darvi anco qualche ſaggio dell'incer rezza degli antivedimenti de'medici , ſe
non ſi fa , ne può ſaperſi giammai coſa , che certa , e ſicura ſia dell'orina ,
e de polli ,chi può indovinarmai, per Dio , non che ſalda mente ſapere, tutte
quelle cagioni , per le quali eglino , malimamente ipolli, anche in un momento
ſpeſſo ſpeſſo variando, così ſtranamente ſi cambjno ? che direm poi de gli
altri ſegnali della medicina , onde argomentar parimé. te ſogliono imedici le
malattie , e le cagioni di eſſe non meno de’polſi, e dell'orina , anzi aſſai
più di queſti talora incerti , e fallaci ? Certamente non mai potrà compren
derſi perloro la qualità del inalore , e la cagione argomé tare. Ed ebbero
ſenz'altro il torto di sì fatti ſegnali cotá to millantare i greci maeſtri,
ſpezialmente Galieno, come ſi può ſcorgere , per tacer d'altre ſue opere , in
quellibro, ch'egli a Poftumo intorno a tal materia ne ſcriſſe; che lo per me
credo , che quelle , che a forec loro ne riuſcirono , certamēte colcarbon
bianco ſi ſarebbon potute ſegnare . De'cibi , e de’medicainenti, e delle loro
facoltà , e valore nulla certamentenemen potrà ſaperſi, nonſolo per defimi, ma
per quel, che poſſano nel corpo umano opera re . E comechè i Chimici più che
tutt'altri d'aver delle già dette coſe più pieno conoſcimento giuſtamente
vantar potrebbono ; pure quel che ne fanno riſpetto a quel che rimarrebbea
fapere è poco , anzi nulla . E ſon di vantag gio tutte le pruove non altro ,
che probabili , e poco ſalde conghietture ; perciocchè , non ſolamente
imcitrui(liami pur lecito al preſente uſar termini dell'arte ) ma l'aria an
cora , e'l fuoco , e ivaſi, e tutt'altri ſtrumenti , che vi s'a doperano,
ragionevolmente d'errore , e d'inganno pofſon render ſoſpetta ognilor più
diligente , e accorta notomia, ſe me 1 con 160 RagionamentoTerzo ne ſeco
conmeſcola per entro a'corpi, che ſi dividono qualche lor particella , che
magagni , emuti la lor compleſſione i E mallimamente l'aria, in cui tanti,e sì
diverſi corpicciuo li diſcorrono ; i quali dalla terra , e anche altronde melli
fuora , e infra quelle monome particelle del corpo diviſo per avventura
meſcolandoſi , agevolmente le potranno in altre cambiare. E'l fuoco d'altra
parte introducendovial cune di quelle particelle , licvi , e ſottili , che
rubate ad altri corpi ſuol con leco ſempreportare ; o pur portando per li pori
del vaſo le medelime particelle delcor po del quale ſi fa notomia , e
maſsimamente le più nobili, ele più operative , che in eſſo dimorano : comechè
la boca ca del vaſo ſia bene, e come dicono, ermeticainente turata ; o purcolla
ſua forza nel digeſtire , e nel formentare , e nel lo ſceverare,ch'egli fà le
particelle del corpo , del qual li fa notomia , diſponendo altramente quelle ,
e altramente meſcolandole , e dando lor movimento , per nulla dirdel. la
grandezza , e della figura loro per eſſo diverſamente cambiate . Perchè fe
tante , e tante cagioni poſſono alla fotomia delle coſe intervenire,come potrà
egli mai ilChi mico notomiſta co'ſuoi argomenti vantuti dipienamente ,
conoſcerle : Anzi tanto egli ne ſaprà meno, quanto mag giormente
faticandovil'havrà guaſte, e ſconce. Adunque ſe vaniancora , e infruttuoſigli
avviſi , e gli argomēti de'più intimifamigliaridella natura ci rieſcono; e ſe
nulla approda la più diligente , e ſottil notomia delle coſe a ſpogliar dalle
dubbietà , e dalle incertezze la noſtra Medicina : Io per mè non ſaprei qual
conſiglio prender mi doveſſi a dichiarirla dalle ſue nubi . Ne è da tralaſciare
a queſto propoſito quanto agio s’a veſler preſo i Medici
filoſofantidall'incertezze della me, dicina a ragionar ſovente , e piatir nelle
ſcuole or d'una , or d'altra parte, più per vaghezza d'ingegno, che per amor
della verità , difendendo tutte opinioni, ed ove lor con cio vi ene ,
giudicando non altrimenti che quel ſottiliſſimo filoſofante Pittagora
faceaveder della filoſofia de omni re pervalermi delle parole di Seneca ) in
utramque partem diſpu 1 1 Del Sig.Lionardodi Capoa . 101
difputaripoleexaquo.Perchè nõ è da maravigliare, ſe Dica nilio Egeo prendendo a
difender cento contrarie opinioni in altrettanti capi partite , diede a diveder
manifeſtamente l'incertezza di cotal arte . Il primo capo delle ſue conte ſe
ſiè,che egualméte dal padre,e dalla madre fiinādi fuo ra il ſeme a ingenerar
gli animali. Il ſecondo , che non d'ambedue ſi mandi. Il terzo, che ſi mandi da
tutto'l cor po . Il quarto , che iteſticoli ſolamente v’abbian parte . Il
quinto , che'l cibo nello ſtomaco per opera del calor ſi (maltiſca. Il ſeſto ,
cheno . Il ſettimo, che ciò ſia per lo ſuo sfacimento , e ſtritolamento .
L'ottavo , che no . Il nono ,che ſia dalnativo fpirital calore . Il decimo ,
che no . L'undecimo , che per lo corrompiincnto del cibo fia . Il duodecimo ,
che no. Il tredecimo , che avvegna per propietà de' ſughi. Il quartodecino, che
no . Il quinde cimo , che il calor natio a qualità s'appartegna. Il ſede cimo ,
che no . Il diciaſettefiino, che per lo calore avve gna la digeſtion de'cibi.
Il diciaotteſimo, che no . Il di ciannoveſimo , che la diſtribuzion de'cibi lia
per attraimé. to di calore . Il venteſimo , che no . Il ventuneſimo , che dagli
ſpiriti la digeſtion ſi faccia . Ilventidueſimo, che no . Il ventitreeſimo
cheper opera dell'arterie ſi digeſtiſca Il ventiquattreſimo, che no . Il venticinqueſimo,
che ciò ſia permancamento a vuoto accompagnato . Il venteſimo feſto , che non
per ogni mancamento eglilia . Il venzette. fimo, cheil glauco degli occhi per
mancanza d'alimento al condotto viſivo s’ingeneri. Il ventotteſimo, che no. Il
ventinoveſimo , che quel naſca per diſcorrimento di fan , gue nelcondotto
vilivo . Il trenteſimo , che no . Il tren tuneſimo , che dalla graſſezza degli
umori , e dalla eſala zione ſi faccian gli occhi glauchi. Il trentadueſimo, che
no , Il trentatreeſimo , che la freneſia dal diſtendimento delle membrane del
cerebro , e dal corrompimento del ſangue fi cagioni . Il
trentaquattreſimo,cheno . Il trentacinque fimo , che per ſoverchianza di calore
ella non avvegna . Il trentelimo fcfto, che no . Il trenzetteſimo, che per
infiam magione ella ſia . Il trentottelimo , cheno . Il trentano X volimo, :
162 Ragionamento Tero 1 1 velimo, che da infiammagione ſi cagioniillecargo. Il
qua ranteſimo, che no . Il quarantuncfimo, che per diſtendi mento , e per
corruzione egli ſia . Il quarantadueſimo che non già per ſoverchianza , ma per
la qualità dell'eſa lazione avvegna. Il quarantatreeſimo che la fames e la fere
ſia di tutto il corpo . Il quarantaquattreſimo, che, dallo ſtonxaco folamente
provenga. Il quarantacinqueſia mo , che ſia ſol nel penſiero , e
nell'immaginazione . !! quarantefimo feſto , che la ſete per diſſeccamento
s'accen da . Il quaranzetteſimo,cheno . Il quarantotteſino, che nello ſtomaco
due diverſe operazioni ſi facciano . Il qua rantanoveſimo , che no . Il cinquanteſimo
, chedalla pelli cella dentro dal cerebro traggano il lor principio i nervi .
Il cinquantunelino , che'l traggan da quella di fuora . Il cinquantadueſimo,
che le parganti medicine operino per lo corpo fpargendoſi. Il
cinquantatreeſimo, che colloro fcorriincnto folamente , ſenza fpargerſi vuotino
. Il cin quantaquattreſimo , che da uſar fieno purganti medica nienti.
Ilcinquantaciirquelimo, che no.Il cinquantefimo fefto ,cheda ſegnar fia . Il
cinquāzettefimo , cheno . Ilcin quattrotteſimo,che ſia da dare a febbricoli il
vino. Il cinquá sanoveſimo,che no . Il ſeſsãtefimo,che adoperar debbano il
bagno. Il ſeſsātnneſimo che no.Il feſtancaduelimo,che nell' accreſcimento
de’nrali fia da far if crifteo agl'infermi. Il fola sātatreclimo che no.Il
feſsátaquattrefimo, che in ſu’l prin cipio delle malattie fan da uſar
leunzioni. Il ſeſsátacinque fimo,che no.I)fefsātefimo fefto ,che nella teſta
poſſanoado perarſi i cataplaſini. Il fellazettelimo , che no ; ma ſola mente vi
li debbano porre coſe odorifere . Il feflantotteli mo,effer giovevoli quelle
coſe , che muovono a vomito . Il fefsancanoveſimo , che no . IHfettantcfimo ,
che dal cuor fi dirami al corpo ilſangue . Il fettantunelimo , che no . Il
ſettantadueliino,che gli fpiriti dal cuorfi mandiitos ne dall'arterie ſien
tratti . Il fettantatreeſimo , che no . Il fettátaquattreſimo,che da per ſe il
cuor ſi muova.Il ſettan tacinquefimo , che no . Il ſettantelimo ſeſto , che
l'arterie per lor natura ſieno ſtanza del ſangue . Il ſettanzetteſimo , che 1
Del Sig. Lionardo di Capoa 163 che no. Il ſettantotteſimo, che tuttii vali che
ſopraſtano, e gonfiano , fieno ſemplici. Il ſettancanoveſinio , che i
ricettacoli ſieno invoglie inteſſure. L'ottantelimo, che per mezzo
de'nervifacciali il ſentimiento , el moto . Lottan tuneſimo , che no .
L'ottantadueſimo, che'lcuor fia prin cipio delle vene. L'ottantatreeſimo,che
no. L'ottantaquat trelimo, che ſia il fegato . L'ottatacinqueſimo , che no .
L'ottanteſimo ſeſto che ſia il ventricolo . L'ottázetteſimo, che no .
L'ottantottelimo, che tutti i ricettacoli ſi dirani no dalle pellicelle, che
veſtono il cerebro. L'ottantanoveli mo , cheno . Il nonanteſimo , che'l pulmore
ſia priucipio dell'arterie . Il nonantunefiino , che no . Il nonantaduefi ſimo
, che quell'arteria , la quale ſta preſſo alla ſpina , ſia di tutt'altre
arteric capo. Il nonantatreeſimo , che no . I nonantaquattreſimo , chedal cuor
naſcano tutte larteric . Il nonantacinqueſimo, cheno . 11 nonanteſimo feſto ,
che dalla membrana del cerebro traggano i nervi origine, non già dal cuore . Il
nonanzcttcrimo , che no . Il nonantot tcfimo , che non nel cuore , ma nella
teſta la potenza it tellettuale dimori . Il novantanoveſimo , che nelcuore . Il
centeſimo , che nel ventricino del cerebro ella ſia . Ma di cotante rivolture ,
e mutamenti d'opinioni, e di ſentimenti certamente egli non è da maravigliare,
ſe tanto forſe avrebbe ancor fatto Galienomedeſimo , ove in con cio gli foſſe
venuto . E di ciò egli ſteſſo ne' ſuoi libri ſi vā millantando ſommamente di
poter improvviſo cial cuna ſerta dc'medici de' ſuoi tempi a buona ragion difen
dere . Perchè ſe dir non vogliamo , eſser egliſtato Galie no un riottofo
giuntatore , o berlingatore ſofiſta , che co' ſuoi fiſicoſi aggiramenti per
diritto , e a torto il tutto a di fender togliendo , uccellar n'aveſſe voluto,
convien di ne ceflità affermare , ciaſcuna ſetta de'ſuoitempi anche ſeco do il
ſentimento di lui eſsere Itata igualmente ragionevo le ; e conſeguentemente a
niuna certezza eſſer la medi cina appoggiata . EccmechèGalieno ciò dimenticando
vanti fovente di poter far pruova de'luoi detti, avendo sé pre in lor concio
nuove diinoſtrazioni ; non però di meno X 2 (il ci ta , 7 164 Ragionamento
Terzo il dirò pur con buonapace di lui) le ſue millanterie row vente ſogliono
in vaniſimo vento riuſcire. Anzi egli me deſimo dimentendoſi talvolta , e in
più luoghi contaſtan doſi, ne fà della fua beſsaggine , e della fua poca fermez
za avvedere . Quid enim , dice di lui ſtizzoſamente gridan do il Giuberti ,
quid enim in Galeni fcriptis frequentiusoc currit , quàm ipſumplerumque videre,
quod alibimultis ra tionibus fueraidemolitus,id conſtantiſime afferere ? ERi
nieri de'Solenandriznon men delGiubcrti della dottrina di Galieno
intendentiſſimo, così parimente avviſollo . Gale nus , quiuberrimo ingenio fuit
, ca oratione liberali ferè prodigus , innumeros propè confcripfit libros: in
quibus rerü, &dogmatum multitudine plurima ſuntdiſcrepantia , nec fo bi
ipfis conſentientia ; quafi quis attentè cum judicio legit ,fi quis diligenter
in unum colligit , ingens chaos agnoſcit. Ma lo dirò di vantaggio ( il che non
mi ſarebbe per av ventura peralcun creduto, ſe con l'autorità del medeſimo
Galicno Io non gliene facelli certa , e ben falda pruova ) che ſe ancor la
medicina foffe dattanto , che a ſaper dicer to molte , e molte di quelle coſc
aggiugneſſe , le quali per addietro dicemmo eſſer di quelle ,chein quiſtion
cadono tutto'l giorno , e più altre affai: ne meno alla ſicura nell’o perar
ſarebbe ; abbiſognado a tale effetto, ſecondo Galie no , che molto bene in
prima la propria natura , e com plexió di colui ſi conoſceſse, il quale ſarebbe
da medicare. il che ſecondo, che cgli medeſimo apertamente confeſſa , non ſi
può per partito alcuno baſtevolmente giammairav viſare , Ma ſe sì poco da noi
in medicina per la ſua dubbiezza è da avere a capitale la ragione, non però
dimeno e'non creda alcuno , che ſicura nc fia la ſperienza ;anzi per mag
giormente incerta, e dubbioſa più avanti per noi ſarà mo Itrata . Perchè
ſeguiranne poi ſicuramente , che non purla sagione dalla ſperienza
accompagnata,valevol ſia a render certa , elicura la medicina ;
concioffiecofachè verifimile a veriſimile accozzádo ; e no certo a non certo, e
per lunghi argométise pruove che vi ſi aggiugono, non potrà mai, che I cer
DelSig. Lionardo di Capoa 105 .1 } certa , e incontratabil fia , ſicuramente
riſorgerne. Magià ſi è per queſte , e per altre coſe addietro diviſa te veduto
a baſtanza , e con quanta diligenza per noi li è potuto la varietà delle ſette
della medicina, e le diverſe ; e ſoventi fiate contrarie inaniere del medicare
, e la varieră dell'opinioni , che fra’mnedicanti di tempo in tempo ſono venute
in sù , non da altro, che dalla grandiſſima incertez za dell'arte pervenire ;
egli forza fit, ch'al preſente fati gi per noi ſi duri in eſatninar le letto
della medicina come già proponemmo , ed intorno a quelle i noſtri fenti menti
ſpiegare ; quantunque a chi attentamente voleſse alle parole, che fino adora di
tutta la medicina breveme te abbiam fitto , riguardare, non farebbe forſe
meſtieri più diſtintamente diviſargliene , potendoſi ognuno a ſuffi cienza
accorgere , ſe giammai un'arte così dubbiola , in coſtante , ed incerta poſſa
avere in ſe dottrina , o principi tali , che su vi poſſa huom porrealcuno
ſtabile fondamen to , e ſicuro . Ma per dar cominciainento dalla volgare
Empirica , chiamata imperfetta , è ella certamente la più copioſa, c abbondevol
di ſeguaci, che tutt'altre ſchieredi medicina unite inſieme, e rannodate fi
vantino giamnsai d'arrollare ; infanto , che dir potrei, come ad altro pro
polito il noſtro lirico, Non ba tanti animili il far fra l'onde, Ne lafsio
fupra'lcerchio de la lung Vide mai tante ſtelle alcuna notte , Ne tanti augeili
albergan per ti boſchi, Ne tant’erbe ebbe maicampo,nepiaggia . Onde ebbe
ragionevol cagion di dubitare colui , ſe più coſtoro ſi foſſero , o l'infinita
ſchiera degli ſciocchi; ne ba fa tutti interamente a comprendere quel volgar
diſtico, Fingitfemedicumquiſquis idiota profanus, Iudæus .... hiſtrio , rafor ,
anns. E ben diſſe il Carlectone : Medicos ſe fingunt quoque Rizo tomi ,
Seplaſarii , fordidi Balneatores,triobolares Phleboto matores,fpurcidici
Lenones,indo&tiparochiaram Sacrificuli, favella egli de’miniſtri della
falla ſciſmatica Chieſa In 1 3 ghi 166 Ragionamento Terzo ghileſe , de'quali fa
parole altresì , e forte ſi duole il Pri meroſio ) Chymiſte carboniperdes ,
audaculi Edentato res, impudentiſſimi V romantes , veteratores Fatidici , lj
bidinoja obſtetrices 231Sádes, a pre cæteris omnibus perfi da illa ,
ingratifimaque impoſtorum gens , Pharmacopo le ; qui ſuntin Rep. agrorum
pernicies,reimedicècalamitas, & Libitin & præſides . Che più , fe
toccar quaſi co’mani l'innuincrabil torina di sì farti medici al Duca Nicolò da
Ferrara il motteggevol Gonnella , allor , che nel novero di coloro , oltre
allamaggiorparte della Città, il medeſimo Duca arrollando ripole ; ed egli era
così celebre , e ftima to tanto in quella Città la volgare Empirica, che molti
, e molti de'Razionali inedici oltreinodo godeano di militar ſotto le ſue
inſegne . Maper Ferrara medicando quanti Veggo andar io , che barbagianni funo
Ridicoli , ineſperti , ed ignoranti : Che non ftudiar d10 anni , fur a ſuono
Digran campana alzati al dottorato Per amicizia o per promeſſo dono : Che ne
Ariſtotel mailejer,ne Plato, Ne Avicenna , o Galien , ma due ricette, E le
regole appena del Donato. Ma ciò permio avviſo , non altronde certamentewviene,
che da una tal naturale inchinazione, che ſempremai inver la medicina par che
tuttiegualmente abbiamo , e del co prender quanto quella ne abbia ad ogn’or
luogo tra per noi medeſimi, e per gli amici , e per tutt'altre perſone del
mondo . E perciocchè ad interamente apprenderla, e ado perarla , qual veramente
fi conviene , di grandiflima fiti ca , e di ſudore non ordinarione fa meſtiere
, ciaſcuno, co me il meglio puote malmenandola , ed abborrandola , in pochi
giorni l'appara , e ſenza troppo diſagio la mette iz opera . E in vero
cotalforte di medicina è molto agevole a imprendere , e ſovente dinon poco
pregio , eguadagno Suol eller cagione ; perchè parecchj diigraziati,cuile robe
o per nanfragj, o per fallimenti mancarono, o a giuochi, 4 o dic
DelSig.Lionardo di Capoa 167 o dietro a feminine diinondo , o nelle follie
dell'Alchimia vanainente fcialacquaronle , ſtenchi alla fine ,eigannati ri
courar ſoyére al ſicuro porto d'una tal medicina ſi veggo no . Ed ora mi
ſovviene di quel gran miniſtro di ſtato , il quale avédo perduti có la grazia
del ſuo Principe ache tut ti gli avanzi delle ſue miſere fortune, diedeli
ultimamente lo Igraziato a compor ballotte da medicina , e ſpacciarles a
prezzo,qual vilisſimo pancacciere, ſoſtentando così l'in felice ſua vecchiaja.
Ma non fa meſtier , che intorno a coſtoro lo troppa brin ga mi prenda in
manifeſtar le lor beſsaggini, e i loro erro ri ; che purtroppo chiaramente per
ciaicun ti conoſce quanto eglino ſempremai ciecamente medichino , ed ari fchio
, ed a ventura ; non ſappiendo talora ne men groſsa mente , econfuſamente i
ſegnali delle inalacrie , non che la natura di quelle ; perchè convien poi loro
nel diviſare, e adoperarc i medicamenti andar ſempre atatone , con af pettarne
, timoroli, gli avvenimenti. Maggior fatica fen za fallo rimane in dar giudicio
della perfetta Einpirica ; la qual per le ſue regolate maniere di adoperare ,
nelle qualianifeftamente ſi ſcorge aver qualche ſcintilluzza di ragione ,puofſi
in certo inodło covenevolméteRazionale Empirica chiamare ; conciolliecoſachè la
perfetta Empi rica inedicina ſopra uma falrima baſe aver ſembri le ſue
fondamenta, che è la fperienza , non folamente per la baſ. fa gente, ma per
gl’ifteli medici raziunali cotanto ſtimata , e a capital tenuta : che
apertamente talora, e in ifcritto , e in voce una delle due colonne della
medicina chiamarla fogliono ; eſſendo l'altra , fecondo lor ſentimenti la ragio
ne . Anzi huomini chiarillimi diqueſta medeſima ſembra glia de'Razionali cotáto
agli Empirici nemica (tra’quali fur Eraclide da Taranto medico , e filoſofo di
sì gran fapere, ecosì nell'arte eſercitato , che agevolmente e' li puotè ad
ogni più eccellére medico greco paragonare) abbadonādo la lor fetta Razionale e
laſciate affatto le ragioni alla fola ſperiéza degliEmpirici ricoverati alla
fine ſi rifuggirono ;ed altri comechè perſeverino nella ſetta de'Razionali,pur
ma nifc 168 Ragionamento Terzo niſeſtanente confeilano eſſer ſoventi volte da
antiporre la ſperienza alla ragione ; e dicono , che ove d'una parte la ragione
, e d'altra la ſperienza il contrario ne perſuadono , che allora il medico
laſciar debba affatto la ragione , e la ſperienza ſolamente ſeguire. Ed infra
filoſofi di grido Ari ftotele apertamenteconfeffa , all'arti tutte aſſai più di
con cio , e d’utile la fperienza recare , che la ragione , e che'l medico
maggiorinente in pregio ſormonti nel far pruova continuo degli ammalati, checon
beccarſi tutto giorno il cervello ne’libri . E quel ſcrittore , che col ſuo acu
tilimo intendimento ſi ſeppe così addentro innoltrare ne gli affari del mondo ,
avvisò , la medicina non eller altro , che ſperienza fatta dagli antichi medici
,fopra la quale fosi dano i medici preſenti i loro giudicj; ma prima dilui avea
detto Quintiliano,medicina ex obfervasione falubrium ,atq ; his contrariorum
reperta eft , & ut quibufdam placet,tota co hat experimentis ; nondimeno
l'Empirica medicina , non che abbia giammai nulla di certo , anzi ſoventi volte
in graviffimi errori traſcorrer ſuole , laſciandoſi oltre al dove. re alla ſola
ſperienza ciecanente guidare ; la qual come Ippocrate grandiffimo
ſperimentatore avviſa , ſovente è fallace,e vana . E in vero ſe la ſperienza è
ricordo di quel le coſe,le quali più d'una volta ſtate ſono oſſervate , chi
oſerà mai certamente affermare , che ciò che più volte av venne , debba poi
altre , cd altre volte ſomigliantemente avvenire ? Certamente niuno , ſe non
colui ſolamente , che inveſtigatane la cagione , onde quelle volte già que gli
effetti avvennero,delle ſeguenti riuſcite ragionevoli ar gométi potrà cavarc;
delle quali cagioni , ſe le medeſime ſaranno , certamente nc ſeguiranno i
medeſimi effetti , ma ſe peravventura non ſaran deffe,o quanto diverſi,e
varjef. ferti uſcir ne potranno; ſenzachè la medeſima cagione per la diverſità
delle molte circoſtanze , che l'accompagnano , non ſempre ſuole i inedeſimi
effetti produrre , ina diver ſi , ſecondo la diverſità delle perſone ,
de'luoghi, c d'altre coſe , che vi concorrono , Alche ficome in tutte ſcienze è
ſommainente da riguardare , così non è da traſcurar punto DelSig.Lionardo
diCapoa. 169 1 I punto in medicina: nella quale avviſaſi a giornate , noul
ſempre i medeſimi mali dallemedeſime cagioni avvenire : non ſempre congiurar le
medeſime circoſtanze in mante ner le medeſimemalattie : e finalmente non ſempre
que, mali , che i medefimi eſſer ſembrano , effer veramente ta li, quali ſi
pajano ; concioſliecoſachè i ſegni tutti e gli in dizj, pe'qualicomprender ſi
poſſono,ingannevoliſovente, e fallaci fieno , facendo veduta d'eſſer
manifeſtamented un male , il qual poi tutt'altro ſarà di quel , che noi alla
prima faccia argomentiamo. Ma ne meno giudicar puoſ, fi con piena certezza , ſe
ſia ſtata opera del medicamento il migliorare,e'l guarirc dello infermo ;
imperciocchè tal volta dalla ſola natura del malato , o del male ſuole ava
venire ; ed altri pur follemente immaginerà , eſſere dal ſuo medicamento
ſolamente ſeguito . E allora più mala gevol ciò, e intralciato ſi rende, quando
all'ammalato più d'un rimedio ſi porge ; perciocchè allora non può age.
volmente imbroccarſi, qual di que’tanti medicamenti ab bia per avventura
all'inferno approdato. Ma tacciaſi al preſente di ciò , che di leggier forſe po
trebbeſi ſchivare , comealtresì è da tacer della credenza , la qual ſenza
manifeſto riſchio d'errore non ſi può piena mente alle ſtorie degli ſcrittori
preſtare : coſa la qual già tanto contra gli Empirici rimproverarſuole Galieno
. Ne meno faticheremo in dir cola alcuna intorno al paſſag gio , che da parte a
parte far fogliono gli Empirici , e dal la ben compoſta analogia di male in
male ; che ben ciaſ cuno a prim'occhio potrà agevolmente comprendere,quã. to
ftrabocchevole, e inviluppata ſia la lor dottrina , e d'e videntiſſimi riſchj
tutta ripiena . Manon fia forſe fuor di propoſito il rapportare al preſente ciò
che della ſperienza un graviſſimo autore , e più , che altri per avventura in
quella eſercitato ne manifeſta dicendo ,eſſer la ſperienza in man del medico ,
non altrimenti , che il cuor di bella donna in mano di fido amante; il quale,
quádo più immagi na di tenerlo ſtretto allora quello in altrui inani ſe n'è vo
lato . Verità anchemolto ben conoſciuta all'avvedutiſſi. Y moje 170
Ragionamento Terzo mo , e faviſſimo ſperimentator de’noftri tempi Franceſco
Redi; il quale ſcrive trovargiornalmente, che le ſperien ze più malagevoli, e
più fallaci lien quelle, le quali intor no alle coſe medicinali fi fanno . Ma
volete voi , ch'lo brievemente vidia a diyedere quanto vana , e fallace ſia
nella medicina la ſperienza ? Ella non ha mai potuto ne pur una delle famoſe
quiſtioni appianare, che mai ſempre le penne de'medici tengono affaticate . Ma
riguardando i maeſtri, e fondacori della Metodica medicina all'incertezza dell'Empirica
: e d'altra parte av viſando quanto la Razionale in ſu le fanfaluche degli ar
gomenti, e delle ſofiſticherie vanamente s'aggiri : vollero ſolamente a certe
poche coſe veriffime, e manifeſte del tutto appiccarfi, e quivi l'arte tutta
della lor medicina piantare. Eglino a due foli generi i mali tutti del mondo
riſtringono : uno de'quali diſcorrente , e l'altro ſtretto chiamano . Naſce il
diſcorrente allora, quando i pori del corpo fon ſoverchiamente allargati , e
fatti maggiori aſſai di quelli, che in prima erano ; o quando altri nuovamen te
accreſciuti glie ne ſono; e lo ſtretto allo incontro è quż do le parti
oleremodo ſtrette infra loro , e congiunte lì ſo no , perchètalora , o più
abbondevolmente , o più di ra do li vuota il corpo . Quinci eglino due forme di
manife fti indizj di ciò , che far li dee argomentar fogliono : una di
ſtrignere , ed una di allargare : e queſte chiaman comu nità curative , e
quelle paſſive; aggiugnendovi di vantag gio le comunità temporali, cioè a dire
il principio , l'avā zamento, il vigore, e lo ſcemo della malattia . E percioc
chè il male talvolta d'amendue le prime comunità con polto effer ſoglia , cioè
diſcorrente inſieme, e ſtretto : vo gliono allora i metodici , doverſi la cura
alla maggiore , e più ragguardevol parte ſolamente indirizzare . E tanto
baſtial preſente aver de’loro principj accennato ; chi più addentro ne vuol
ſpiare,leggane più diſtintamente in Ga lieno , e Proſpero Alpini , il qualcon
lunga fatica accolſe inſieme, e ragunò tutti gli avanzi dell'antica Metodica
medicina , e di difender quella con cutta forza oſtinata medite i DelSig.
Lionardodi Capoa 171 ſenza troppa mente ſi ſtudia ; ma non puote però per
fatica, che v'ado: peri far sì,che non rieſca malagevoltroppo,ed intralcia to
a' curioſi l'apprenderne intera la dottrina ; concioſie coſachè alcune coſe ,
poco forſe bene, e fedelmente egli rapporti; ed in altre faccia meſtiere andar
pur tentone , ed alla cieca . Ma lo quanto è a me , voglio al preſente più di
Galie no medeſimo eſſer liberale a'Signori Metodici , e conce der loro di
vantaggio molte, emolte di quelle coſe , che fatica durare , agevolmente negar
loro po trei . Sien pure , com'eglino s'avviſano , le comunità cut te manifeſte
, e piane , e a quelle nulla mai oppor ſi poſſa: or come, e in qual modo
baſterà ciò ſapere per prender aº mali conſiglio , ſenza più oltre ricercare
argomenti a ciò opportuniz ma eglino nel medicare ſi laſcian pure allora
ciecamente trarre alla ſperienza ; adunque eglino anco ra in ſembraglia
de’Razionali, e degli Empirici andando alla ventura , e facendo argomento dall'
incertezza degli avvenimenti , manifeſtamente talora inceſpando traripa no . Ma
ciò traſandando,ſia pur da curar malattia di ſtret tezza , come di poftema , o
d'altro ſomigliante malore , che di allargamento abbia biſogno : manifeſta coſa
è,che la materia ingozzata , e rattenuta in qualche luogo della perſona;cotal
ſtrettezza cagioni ; ed acciocchè poſſa li beramente far punta , ed uſcir
fuora, conviene in primas, che la durezza liſciolga , ed ammolliſca: ed altro
s'impré da con argomenti a ciò fare valevoli, & opportuni . Or come potrà
mai ciò ſeguirc, ſe non ſi ravvili in prima , di qual natura ſia la materia
indurata, acciocchè poi libera mente il ſuo vero , ed acconcio rimedio trovare
, ed adato tar viſi poſſa : O forſe ciò , che ſcioglie una ſoſtanza,co sì
ſomigliantemente tutt'altre ſcioglier puote? anzi talora in contrario da quello
indurar le veggiamo, Limus, ut hic durefcit, bæc ut cera liquefcit V no,
eodemque igne: Ed ecco brievemente abbattuta a terra l'evidenza de Metodici ;
ecco , che pur convien loro entro i confini de? 1 1 Y 2 Ra 172 Ragionamento
Terzo Razionali medici alla fine ricoverare . Ne più intorno alla lor dottrina
impiegherovvial preſente parola . Ma delle ſchiere Razionali degli antichi
Greci così ſcarſe rimaſe ſono appreflo noile memorie , che non v'ha luogo
alcuno di diviſarne, non che d'abburattarle , o per avventura riprovarle; anzi
ne men ſaper certamente por ſiamo , chi mai ſtato fi foſle il primiero
tra'Greci , cui foſ ſe venuto fatto di dar principio alla Razional medicina , e
ciò chealtrove andato ſe n'è per noi ricercando , non li è potuto ancora così
rinvenire , che foſſe valevole a to gliere ogni dubbietà . Ma non è egli però
da porre in for ſe , ove ſottilmente la coſa ſia riguardata, che la Razional
medicina da tempi aſſai più lõtani di quel, che per avven tura comunemente
s'eſtima, tragga la ſua origine ; e forſe forſe ella è sì antica , che non pur
ne convien dire , ch'af fai prima della volgare Empirica ella naſceffe , ma
chel Empirica volgare ſia della Razionale , anzi, che no giove nil parto , e
creatura ;la qual coſa in sì fatta guiſa leggier mente noitoccheremo . Quelle
coſe onde diſcacciar ſi ſogliono talora da' corpi le malattie , e che rimedj
comunemente ſi chiamano, con vien dineceſſità , che tutte da ſe ſteſſo l'huomo
le im prenda ( non avendo altri ch'inſegnar gliele poſſa ) natu ralmente , da
alquante poche in fuora ſi alla medicina non fanno , le quali gli vengono da'
bruti animali dimoſtre ; ma può tali medicamenti l'huomo ap prendere , o a caſo
in effi abbattendoſi ; o col diſcorſo in veſtigandogli. E
concioffiecoſachèrariſien quei rimedi, che a caſo ritrovar ſi poſſano ; nc
ſembri veriſimil punto , che le tante erbe , e radici, onde negli antichiſſimi
tempi, non pur le ferite , ma gl'interni malori altresì medicavan ſi ,
veniſſero a ſorte lor conoſciute ; rimane adunque, che per la più parte dalla
ragione i medicamêti ftati fieno ſco verti . Ma come que'primi rozzi huomini
per queſta via aveſſero potuto rinvenir le sì varie virtù de'medicamen ti , non
è coſa molto malagevole per avventura ad inveſti gare,ſopratutto cui voglia
pormente a'bruti , e andar mi > che nulla qua nutamen DelSig.Lionardo di
Capoa. 173 nutamente ſpiando come tutto di s'adoperino in ritrovar le medicine
perloro malattie . I brutistutto che d'anima ragionevole privi, pur nondimeno
oltre a' ſenſi , ſi trova no di tutto ciò , che a lor fa meſtiere a comprendere
le ; coſe neceſſarie al proprio mantenimento, baſtantemente provveduti ,anziabbondevolmente
dalla larga , e prodi ga mano della natura arricchiti . Vengono talora agli
animali le medicine dal caſo di moſtre , comedel Dittamo , erba crinita , e di
purpureo fiore , avvenir ſuole , eſca oltremnodo gradita , e foave al palato
delle capre ; onde ſoventi fiate ſavoroſamente la paſcono ; e ravviſando elleno
, che ſe mai ferite vengano da' cacciatori dopo haverla poc'anzi paſciuta
,dalla fe . rita , allora Volontario per fe loftralſe'n eſce, ſi riſtagna di
preſente il ſangue , e ractamente ſe ne fugge il dolore : ad ogni ora poi,che
ferite ſi ſentono, a paſcerlo frettoloſe ſe ne corrono ; e per queſta da noi
menzionata ſtrada , e non già per quella del ſognato , e favoloſo iſtin > to
, . maſtra natura alle montane Capre ne inſegna la virtù celata Qualor vengon
percole , e lor rimane Nel fianco affilala faetta alata ; e a queſto medeſimo
modo fors'anche addottrinati De la Scimmia il Leon languente, ed egro
Avidamente cerca il feropaſto; E beve il Pardo de la Capra il ſangue, Epafcei
ramofcei d'oliva il Cervo; perocchè eſſendone cibati a caſo , allora , che
infermi fi ritrovavano , giovevoli aſsai ſperimentarongli : E ſomi gliantemente
altresì La teſtuggine allor , che'l fero tofco De la ſerpe l'ancide , e dentro
ſerpė Il paſciuto velen falute , , e vita Dall'Origano cerca , e non indarno.
Opera ſomigliantemente del caſo , e' certamente ſema bra, i 174 Ragionamento
Terzo bra ,ſe per qualche male infaſtiditi,dalcibo aftenendoſi gli animali
avviſan riuſcir cotale aſtinenza loro giovevole, c perciò per innanzi per
ſimili cagioni ſi rimangono di ci barſi . Ma con più ſottil modo, e più
fagacemente ven gono gli opportuni medicamenti di vantaggio lor cono ſciuti ;
comene'lupi ,ne'gatti , e ne' cani, per tacer d'al tri , manifeſtamenie ſcorger
ne lece, allora , che ſenten doſi eſſi aggravare , e moleſtar lo ſtomaco pe'l
guaſto , e corrotto cibo , ed avviſando , che alcune erbe , le quali talora
forſe loro punſero il muſo , poſſano , ſtuzzicando le parti interne,provocar di
leggieri il vomito; di quelle op portunamente ſi vagliono . Chiunque andaſle
poi con qualche minuta diligenza , e ſollecitudinc ricercando , ravviſerebbe
per avventura,che ove il gran fattore della natura ha della ragionevole ani ma
privi i bruti animali, abbia nondimeno lor dato forſe alcun ſentimento
de’noſtri più dilicato , e perſpicace , valevole più agevolmente a comprendere
ogni menoma impreſſione, che lor da ſenſibilioggetti ſi venga a fare, on de
poſſano la lor vita acconciamente regolare ; ma ſe tal ſentimento poi, cone
ſovente avvenir egli ſuole , diritta mente non gliſcorge , elli ne argomento
alcuno hanno di riparare a'lor mali, ne fanno, ne poſſono dalle mortali di
ſavventure in modoniuno ſchermirſi;perchè veggiam tut to dì le capre , le
pecore, le vacche, i cavalli , ed altri ani mali infermar gravemente ; e ſpeſſe
volte per aver palaiu to erbe nocevoli, e velenoſe ; il che quando mai altra ra
gion no'l dimoſtraſse, nc dà chiaramente a divedere , non ritrovarſi veramente
negli animali quel maraviglioſo , ed inverifimilc iſtinto, che cosi
inagnificamente lor s’attribui ſce percoloro , che non ſi avanzan più oltre nel
filoſofare , che nella prima ſola corteccia delle coſe . Or ſe tanto a’ bruti
animaliè conceduto , che poſſan talora con qualche dilicato ſentimento, e con
rozzo, ed imperfetto modo in veſtigare , o pure rinvenir qualche ombra di
Razional medicina ; come non aurà potuto l'huomo , ſoura loro d'anima
fpirituale, e ragionevole, e immortal dotato come 1 dico Del Sig. Lionardo di
Capoa 175 : dico non avrà potuto ſino a’ primi tempi , e col naſcente mondo,
col diſcorſo i medicamenti ricercare , e ritrovare ? ſenzachè fa meſtier
certamente all'huomo, ſe ſcovrir pure egli vuole la naſcoſa virtù medicinale o
di pianta , o d'ani male , o di vegetabile alcuno , prender in duce , e in
iſcor ta la ragione; imperocchè l'huomo non gode di quella feli cità in
guatando le coſe , che grande a maraviglia aver- , fi ſcorge ne'bruti;
ne'quali, coine di ſopra dicevamo , o liau per le ſvariate diſpoſizioni degli
organi, o ſia pure, che'l di Icorſo rechi qualche impedimento alſentire, Dove
manca ragione ilfenfu abbonda. E in confermazione di quanto lo dico, s'egli ſi
riandaſſero, comechè leggiermente l'antiche memoric, ſi ravviſerebbe
apertamente , che a'primi maeſtri della medicina convenne valerſi della ragione
per inveſtigare, e rinvenire i medica menti. E percominciar da’ Cineſi : Popoli
ſenza fallo di tutt'altri più antichi:leggeſi ne' loro annali, che'l grans,
monarcaCinnungo ,il quale ſuccedette a Fojo che no guari dopo il diluvio refle
l'imperio della Cina, c che quivi prin cipe de' medici , e inventore della
medicina vien comune mentetenuto, ritrovaſſe perpruova fatta in ſe medeſimo la
virtù di molte , emolte radici , e piante, abili non ineno produrre, che a
diſcacciare lemalattie; ech'egli ne compo neſſe varj, e varj libri, de'quali
infino ad ora li ſon valuti , e fi vagliono anche oggidi i Cineſi medici con
felicità non or dinaria nel medicare. Or non sebra mica egli credibile che a
caſola prima fiata e' poteſſe Cinnungo pormano a quel la tal pianta , o radice
per farne la pruova? Ma è veriſimil molto, che foſpinto e'veniſſe a ciò fare da
qualche ragione; altrimenti non ne ſarebbe egli giammai potuto venir a ca po;
tanto più, che Cinnúgo, ſicomeivi è furna, nell'anguſto { pazio d'un anno ſolo
inveſtigò ,e rinvenne ben ſeſſanta ve lenoſi ſemplici, caltrettanti
falutevoli,e abili a rintuzzare, e a vincere illoro veleno;e contale , e tanto
avvedimento econ ſucceſſi così fortunati egli vi ſi adoperava, che comu
neinente buccinavaſi eſſere i luoi occhj vie più aſſai di que' del lupo
ccrviero acuti , c penetranti. E più chiaro molto rio 170 Ragionamento Terzo
ciò che lo ora dico ſi ſcorgerebbe per avventura , ſe colui che ſi diè cura, e
impiegò il ſuo ingegno a traslatare in la. tino idioma le croniche de'Cineſi,il
medeſimo fatto aveſſe de'volumi della lormedicina . Ma più certo ſi rende , che
que'primi Cineſi medici , da ragione ſcorti, aveſſer rivolto l'animo ad
inveſtigare i medicamenti ,daciò ch'eglino a queſt'opera fare, ancor della Chimica
valuti commodamé te fi foffero. Per la qual ragione creder pariméte ſi dee, che
que', che nell'Egitto la medicina trovarono , i quali altresì della chimica
ſcorti furono, e inteſi:parimente ſi foſſero del diſcorſo valuri : non
riſtandoſi in ciò, che dal ſolo caſo lor ſi parava davanti.E per dir qualche
coſa anche della Scitia, la quale non ſoggetta allo imperio d'altra nazione,
conten de d'antichità (comeper Trogo Pompeo narraſi) coll’Egit to medeſimo ;
tutto che da Erodoto un tal vanto alla Fri gia s'attribuiſca ;della Scitia lo
dico, chi mai recar potrebbe in dubbio, che i primi medici per via della
ragione rinve niſſero i medicamenti: ſe in Prometeo , dal quale, ebbe il ſuo
primo cominciamento la medicina degli Sciti, accom pagnata mai ſempre ſi vide
la medicina, colla filoſofia; e fe non aveſſero alla ragion poſto mente, come
mai que’primi medici dell'Arabia ravviſar potevano la puzza del bitume, e delle
barbe de'becchi dar cõpéſo alle infermità cagiona te a que'popoli dalla
ſoverchiaza degli odori ſoavi . Ne meno in verità nella Fenicia i nepoti
diScdoc, i quali, co me narraſi per Sáconiato ,o lia Filalete, appo Euſebio
ritro varono primieraméte, qual ſorte d'erbe, oqual maniera di cã to valevol.fi
foſſe adomar queſta,o quella malattia, ſenza l'ajuto d'una profodiſfına natural
filoſofia ciò inveſtigar mai poterono.I Druidi poi dellaGallia , nõ meno in
filoſofia , che in medicina ſcarti,che infra l'altre medicine adoperavano, quel
,che dica Plinio , il fūmo della ſelaginc al mal degli oc chj.no avrebbon fenza
fallo mai a caſo ardendo la ſelagine Sperimétar potuto agli occhi giovevole
ilſuo fumo:ma pri ma di ciò fare cóvié dire ,ch'eglino aveſſero in prima alla
na tura dalla ſelagine,e del ſuo voláte ſale poſto mente. E p fa vellar della
Grecia , da qualche ragione moſli furono Chi rone Del Sig.Lionardodi Capoa. 177
rone , Eſculapio , Ercole , Melampo , ed Achille a valerli primieramente della
Centaurea , dell'Aſclepio , dell'Era clio , dell’Achillea , piante che non
poteva certamente il caſo loro porle davanti, per effere elle amariſſime, e non
mai per huom veruno , in cibo uſate . E ſe mai eglino vo lendole ferite
turare,di qualch'erba ſi yalſero, la qual ven . ne sì factamente la ſua virtù a
ſcoprire: comepotea mai ciò avvenire delle radici, malimamente , che alcune di
loro convien che con zappe , o marre dalla terra a viva forza li ſuellano ; e
parea vana affatto una tal fatica, quando coll erbe più agevolmente, ed
aflaimeglio all'aperte piaghe approdar ſi potea . Fu dunque l'eſperienza dalla
ragion ; preceduta ; ed ebbe il corto Quintiliano affermando il contrario colà
ove difle :Vulnusdeligavitaliquis , ante quam hèc ars effet , & febrem
quiete , eo abftinentia , non quia rationem videbat :fed quia id valetudo
coëgerat,mis tigavit. E come mai fu egli poſſibile , che Melampo , il quale
parve , che nella greca medicina introduceſte l'uſo de'mi nerali ,rinveniſſe a
caſo effer la ruggine del ferro giovevo le alla ſterilità . Ma ſe razionali
furono avvegnachè roz zi , ed imperfetti quegli antichisſimimaeſtri , ed
invento . ri della medicina,convenevole certamente egli ſembra .' che qualche
coſa anche di loro da dir ſia . E daremoa tal diviſamento da'Cineſi principio .
Coa me, e quanto oltre nelle coſe della natura filoſofando s'a vanzaſſero i
Cinefi, il grande teſtè di noi mentovata lin peradorc Cinnungo , e gli altri
primi medici della Cina , Io porto per me ferma opinione , che penetrar non ſi
pof ſa per huom giammai; concioſsiecorachè i libri poco mé, che tutti furono al
niente dalle voraci fiamme condotti, gia ſon due mila anni traſcorſi, per
ordine dell'Imperado re Cino , il quale rizzò incontro a’ Tartari quelle ma.
raviglioſe mura , e delle lettere implacabil nimico maisé pre moſtrosſi;
avviſando faggiamente, che'l troppo ſtudio di quelle , rendea gli animi
ſnervati, ed imbelli, ediſadar tia difender la patria dagli allalti nimici; e
ſe alcuni pure Z de 178 Ragionamento Terzo 1 de’più antichi tuttavia per
avventura ſalvınerimaſero.no vi avendo ora chi intender poſſa que’miſterioſi
caratteri, ne’quali ſcritti furono , è tanto , comeſe ſmarriti anch'e glino ,
ed abbruciati fi foſſero . Ma da qualche veſtigio , che tuttavia ne rimane , ſi
ſcorge apertamente , che i Ci neſi nella geometria , nella filoſofia , e
nell'altre ſcienze molto furono addottrinati , e ſi valſero della Chimica , e
conobbero ,un ſolo eſſere il principio delle coſe naturali; e fer ſecondi
principj le cinque ſoſtanze dette da loro me tallo , legno , acqua , fuoco , e
terra ; ma diverſi da que' corpi, che comunemente con tal nome ſi chiamano, e
non disſimili per avventura da' principj de' noftri Chi mici . Ma ſi par
certamente , che Cinnungo non molto nella filoſofia , e nella medicina
avanzaffeli ; mal potendo per opera d'un ſol huomo sì grand'impreſa , c di
tanta lievas in un tratto naſcere , e ricevere l'ultimo ſuo compimen to ;
masſimamente alla medicina richiedendofi molto re po, e che molti, e niolti
huomini a tal lavoro s'adoperino, acciocchè a qualche ſtato di perfezione , e
di eccellenza pervenga . Ma chi no ſarà periſcorgere anco a prima viſta poi qua
to fien favoloſe , ed inverilimili quelle pruove,chedi Cin nungo ſi narrano ,
che egli faceſſe in ſe ſteſſo lo eſperimen so delle piante nocevoli , e rift
orative , e che nello ſpazio sì breved'una ſola giornata , tante ne provaſse, e
ne ripro vaffc ; il che fa chiaramente conoſcere , quanto la medici na , ſe
acquiſtar vuole eſtimazione , in tutti i tempi , cd in ructii luoghi abbia in
coſtume di porre in opera le men zogne , ele millanterie . Quáto poi valeſſero
gli antichi medici Cineſi nella Chi mica , chi potrà mai indovinare fi la ſolo
, che eglino s' ingegnarono di trovar medicine , non ſolo acconce agua rir le
malattie : ma anche valevoli negli huomioi ad eter nar la vita ; e
comediRaimondo, d'Arnaldo da Villanova millantano i frati della Roſea Croce ,
che vivi anche oggi ſien o , che vadano ſempremaiper lo mondo vagando; co sì
fin 1 ! Del Sig.Lionardodi Capox . 179 . sì fingono ,e danno ora ad intenderei
moderni Cineli Chi mici , eſser molti , e molti di quegli antichiſapienti, che
, fattafi colla gran medicina immortali , dimorino nelle cia me degli
altisſiini monti , e quindi vadano , anzi volino dove lor più ſia a grado , ed
anche in Cielo, Sciolti da tutte qualitati umane, Ma più , che tutt'altri ſi
laſciarono nella Cina da' Chia mici ingannare i troppo ſemplici Imperadori;e
narraſi,che da lor perſuaſo l'Inperadore luoo a comporla medicinas da poter
divenire immortale, faceſse fabbricar un pala gio di cedro , di cipreſso,di
canfora, e d'altri legni odori feri, che'l loro odore lūgia inolte miglia facea
ſentirſi.Al zò nel palagio una torre dibronzo altisſima nella cui vce ta eravi
una conca parimente di bronzo , formara a guiſe d'unamano , nella quale ogni
mattina avcaſi a raccorres. purisſima la celeſte rugiada: ove macerar pofcia fi
dovea no le perle , ed altre peregrine, e rare coſe , delle quali compor li
doveva quel prezioſo , e divino medicamento , che facea l'immortalità
conſeguirea qualunque adoper2= valo . Ed anche a’giorni noftri ſi veggon per
tutti i reami diquel vaſtisų moimperia , andar ad ogn'ora vagabon deggiando ,
in grandisſimonumero i Chimici; i quali in fingendoſi dicſer nati più e più
ſecoli addietro , vendon altrui la medicina , che fà gli huomini immortali, e
tra per le loro trappole , e per lo deſiderio , che è in ciaſcheduno di
conſeguir l'immortalità , ritrovano , e più tra’letterati che tra gli altri ,
chilorpreſta credenza . Ma laſciando sì fatte memorie da parte ſare , ſi ſcorge
quáto ben forniti foſſero de'rimedi efficaci gli antichi Ci ucfi , dalle maraviglioſe
cure , che con eſli tuttavia fanno i moderni medici . Solamente
potrebbeſilevare incontro taluno,dicendo che non ſiano giunti a ſaper quanto
dilet. tevol ſia ilber freddo, ne mai habbia meſſo in uſo i ſalalli; ma tali
appoſizioni recar potrebbonſi eglino a ſomma lo da ; imperocchè col ber caldo
ſi ſono i Cineſi ſottratti al nale della pietra , alle podagre , e ad altre
atrociffime malattie , che così frequenti , ed abbondevoli ſono fra z 2 noi 180
Ragionamento Terzo . 1 1 3 noi . E quanto al non trar ſangue, oltre al novero
de’gre ei , e de’noftri medicanti, che ſeguono il medeſimo iſtitu to: la ben
lunga preſcrizione di quaranta, e più ſecoli , ne? quali han potuto guarir
feliciffimamente, ed in iſpazio al ſai brieve le malattie , non gli rende degni
, non dico di ſcuſa , ma d'altiſſima loda ? eda ciò vorrei, che poneſſer mente
tutti coloro, che così di leggieri ſi laſciano a' medi ci trar ſangue. I
moderni Cineſi medici non altrimenti , che gli antichi già fi faceſſero,
de’ſemi , delle frondi , delle corteccie d'alcune piante ſi vagliono, e
d'alcune pictre al tresì , e ſerban libri, ove ſon figurate l'immagini di tali
piante , e pietre , e le loro virtù narrate ne’precetti, e nelle
regolemedicinali,non guarida noi eglino ne van lontani . Preſcrivono a’loro
infermi sì rigoroſe diete , che alle volte laſcian paſſar fino a venti dà fenza
dar loro altro cibo , che certo ſugo dipere , tre , o quattro fiate il giorno ,
e ber quãto acqua richieggiono; e sì molte graviilime malattie a buonoje
perfetto ſtato riducono. Immagina alcuno , che tal dieta non potrebbe
fofferirſi da'noſtri huomini; ma quanto egli vada errato,ilpuò far vedere
l'eſſere ſtata in uſo appo gli antichiſſimi greci , e l'eſſere i Cineſi di noi
più teneri, e dilicati aſſai.Ma che che ſia di queſte,van tutto dì i Cineſi
compilando libride'ſegni,delle cagioni, e degli effetti de' mali,da’quali,non
avendo nella Cina ſcuole di medicina, e da' proprj lor padri i Cineſi la
ſogliono apparare • Di. cono tutti , che i Cineſi medici ſono séza alcun paragone
aſſai più de’noftri,valenti in guarire i mali; ma nondimeno ancora ivi colla
medicina s'accompagna l'inganno, e l'ar tificio ; ed eſſendo eglino intendenti
molto de'polli, tutta via per parere in ciò da più affai , s'interrégono fin’a
mez ' ora , fingendo d'oſſervar minutamente le lor mutazioni in toccandogli , e
danno a diveder dapoi , che con una tal diligenza eſſi aggiungano a ſapere
d'ogni varia , e più oc culta interna diſpoſizione , e diqualunque più ſtrana
mas, lattia la natura , e la vera cagione . Ma è per mio avviſo il pregio
maggiore della lor medi cina l'aver certi argomenti da poter talora porre utile
cos pen . DelSiy.Lionardo di Capoa ISI penſo alle più gravi malattie . Vlano
frequentemente la prezioſa radice, detta da loro Ginſen , dalla quale ſové te
ſi veggon guarir gl'infermi , eziandio morienti, e però una libra di eſa , non
val meno di tre libre d'argento . Nil la io dico dell'erba Te , percioccliè
ella ſi adopera tutto dì anche ora appo noi : comcchè non ſi veggian quì d'cila
que’maraviglici effetti , che narraſi ſoler nella Cina mo ſtrare, o ch'ella
colla navigazion così lunga perda per lo maggior parte quel, che chiamar
fogliono i Chimici vola tile Alcali , e con eſſo inſieme poco men , che tutta
la ſui virtù , o qualunque altra ſiane la c.igione. Eavvegnachè alcuni
de’noftri ſcrittori ſi ſieno ſtudiati di tor via altrui ogni buona opinione ,
che di tal erba portavano ,dicendo, ch'ella ſoglia talor cagionare Apoplesſia a
cui ſovente l'u fi ; non però dimeno noi ben ſappiamo per pruova , cſſer ciò
falſo; e ſe egli è incontrato , che alcuno avendola ado perata fia caduto in
Apopleſſia , certamente non vi ha avu to ella parte niuna . Egli è vero però ,
che talerba ſoglia apportar qualche moleſtia, ſe ſi prenda allor, che nello ſto
maco non ben digeſto il cibo ſia , e di ſoverchio acetofo : il che adoperar
ſuole altresì il Cafè , ela Cicolata ; alla , qual coſa riparare ottimo rimedio
è il digiuno . Ma io no voglio laſciar di dire con queſta opportunità, che in
luogo dell'erba Te lo ſoglio ſověte imporre a'malati qualch'er ba noftrale ,
cos lor giovamento non ordinario :e che gli Ollandeſi portano nella Cina le
frondi della Salvia involte a guiſa della Te, e per una libra di frondi di
Salvia tre tan te ne riportano di Te; cotanto le ſtraniere coſe più in pre gio
delle propie dagli huomini tengonſi . Ma avvegnachènella Cina i medici, quanto
alfatto del medicare fien così fortunati, comediviſato abbiamo: non dimeno
avuti vi ſono in pochisſimo pregio ,c ſtima. E quinci avvien poi , che tutti coloro
, i quali ſien d'alto in gegno , e di ſaggio avvedimento dalla natura
forniti,nul. la badandoviaila , moral filoſofia ſtudioſamente ſi volga no ,
onde a'primi onori del regno agevolmente poi pervé gono.E ciò permio avviſo è
Itata una delle principalica, 1 { gioni 182 Ragionamento Terzo 1 1 ! doti ,
gioni , per la quale de'buoni libri dell'antica medicina , e della natural
filoſofia pochi rottami ſi trovino , e che a? di noſtri ogni ſtudio di natural
filoſofia tralandiſi. Ma per trapaſſare all’Egiziaca medicina; quanto chia
ri,erinominati al inondo , ſe'n viſſero già lungamente per fama , quegli
avveduti , e ſapientisſimifiloſofi, i quali la medicina ritrovarono
primieramente , e ſtabilirono il Egitto : altrettanto certamente ſono oggi in
lunga dimé cicáza ſepolti, e ſol ſervono all'umana cupidigia per pruos va della
leggerezza , e della fragiltà della gloria monda na ; perciocchè eziandio di
coloro , iquali ebbero già vé tura d'eſſer collocati infra’Dei immortali, non è
a noine meno il vero nome pervenir potuto . Caſtigo ben douuto all'invidia ,cd
alla tracotanza di quei Principi , e Sacer , i quali ſotto pene gravisſime a
tutti l'apparare , e l'eſercitar la medicina victarono; e per maggiormente na
ſconderla , e invilupparla con cnimmi,econ caratteri da lor ſolamente
compreſi,ſempremai di ricoprirne i miſteri ſommamente ſi ſtudiarono . Perchè io
giudico , che po co , o nulla della medicina Egiziaca apprender certamen te
poteſsero que'curioſisſimi valent'huomini Greci, i qua li tratti dal deſiderio
d'appararla inſieme colla inacemati ca , e colla filoſofia naturale , e altre
buone arti nell'Egit to pellegrinarono ; ed in quel tempo appunto per lor di (
grazia vi giunſero, che caduta ivi affatto dal ſuo ſplendo re la medicina, ed
empirica volgar tutta divenuta , comun nemcnte da' medici ſcimuniti , e balordi
ſi malmenava ; ed i ſacerdoti l'antiche note più non intendeano , o ſe pu re
qualche coſa ne penetravano,ſommamente avari delle loro dottrine , tenevanſi
d'inſegnarle altrui , e masſima mente a' foreſtieri ; del che manifeſtisfima
tcftimonianza è il leggere ciò che della ſtrologia avvisò Luciano , quan do e'
diſſe , che i Greci niente di eſsa affatto dagli Egizi n'aveano mai apparato .
Eλήνες δε ούτε παρ' Αιθίοπων,ούτε παρ' Aiguntów césporogins ma ei ou fèy óxx
gav . Senzachè, ſe a Greci al trôde venuta foſse la medicina ,certamente ella
non ſareb be tanto indugiaca ad allignarvi , e di veniryi a tanto ſtato 1 1 1
di glo Del Sig.Lionardo di Capoa. 183 di gloria , a quanto ella poi in proceſſo
di tempo creſcen do aggiunſe. E comechè per oltraggio de'ſecoli niunas certezza
a noi dell’Egiziaca medicina ſia pervenuta ;pur potrebbeſi ragionevolmente
argomentare , eſſere ſtata quella a grandiflima altezza da' Re , e da'
Sacerdoti del l'Egitto condotta , da ciò, che ne ragiona Omero colà ove narra ,
che la moglie di Tono Re dell'Egitto diede la can to celebrata Nepente ad Elena
. Ενθ' αύτ ' αλ' ενόησ’ Ελένη Διος εκγεγαλα , Αυίκ' άρ' ας οίνον βάλε φάρμακον
ένθεν έπιναν Νηπενθέςτ'αχολόν τε, κακών επίληθον απάντων . ος το καταβρόξειεν
επην κρητήρι μιγείη , Ούκ άν εφημέριος γε βάλοι και δάκρυ παρειών , ουδ ' ά οι
κατατεθναίη μήτης τε , πα ής τε , Ουδ' ή οι πιοπάροιθεν αδελφεόν, και φίλον τον
Χαλκώ δηγόων , όδ' οφθαλμοίσιν δρώτα . Τοϊα Διός θυγάτης έχε φάρμακα μηπόενα
Β'θλα ταοι Πολύδαμνα πόρην Θώνος παρξί κοιτς . Onde a la bella , e vaga Elena,
figlia Del ſommo Giove,allbor nuovopenſiero Venne ne l'alma , che nel vino
infuſe Ch'efibevean 'un prezioſo , alme Liquur , che toſto ogni dolor diſcaccia
Da l'almaoppreſſa , e l'iraſpegne, ed indi Induce dolce , e graziojo oblio Di
tutti i mali ; onde ſe alcun guſtoffe Di tal bevanda nella tazza miſta Non
potria mai per tutto un giorno intero Sparger dagli occhi per le guance l'onde
Del pianto ; o d'attriftarſi ;ancorchè morti Davanti aveſſe i cari madre , e
padre ; Nefe con gli occhi propri anco vedele, Troncar col ferro l'infelici
membra , Del frate amato , o del fuo dolce figlio . Cosifatti i liquori erano ,
e i ſughi De l'alma figlia del gran Giove eterno ; Cb'erano utili, e buoni, a
lei dati Polia 184 Ragionamento Terzo Polidanna gli avea di ToneSpoſa . Il qual
medicamento , qualcertamente fi foſſe in que' te pi malagevol molto è ora ad
inveſtigare ; ne comporta il mio ſcarſo ragionamento , che lungamente lo ne
favelli, ne che fra sì varie , e cotante opinioni inutilmente lo mº aggiri ,
mentre altri vogliono , non altro eſſere la Nepēte, che una ſemplice, e cruda
erba infuſa nel vino ; altri allo incontro medicina artificioſamente preparata
, chi dice d'uno , echi di più ſemplici compoſtage lavorata . Io giu dico , ne
forſe da' limiti della ragione gran tratto queſto mio ſentimento s'allontana ,
chela Nepente opera foffe della Chimica; imperocchè sì piacevole ed efficace,e
pre zioſo medicaméro, qual ne vien dagli antichi narrato , al tro cercaméte non
ſembra chedi que', che tutto dà i noſtri Chimici metton fuora nelle loro
botteghe . E fu nel vero la Chimica nell'Egitto antichiſſima ; pcrciocchè
Vulcano figliuol di Nilo guardiano dell'Egitto,Opi, e Fia da' ter razzani anche
chianato,daprima il fuoco, e l'uſo di quel lo ritrovò , e diè principio egli
altresì all'arti tutte , che del fuoco ſi ſervono ; il cheoltre a Zezze moderno
, e ſti mato da alcuni poco veritiere ſcrittore , il qual dice . Πύρ , και
τέχνας δε ύκ πυρος οπό σας tutti i Tcologi,ei Filoſofi antichi di comun
ſentimento af fermano ; 'e Vulcano altresì , ſecondo Ariſtotele , e So zione
appreffo DiogeneLaerzio , inveſtigò da prima i prin cipj della natural
filoſofia;perchè potrebbeſi danoi a buo na ragione affermare , aver lui per
dover più acconciamé te farc , e rinvenir ne'corpi diſciolti , eminuzzati, i
primi lor componenti , adoperato da prima il fuoco , e sì fatta niente dato
alla Chimica rozzamente principio . E quin ci nacque per avventura la favola
dell'adulterio di Marte, e di Venere da Vulcano a gli altri Dii paleſato ; con
la qualc ne vollono per mio avviſo dare a divedere quegli antichi filoſofanti,
qualche gran miſtero della Chimic'arte eſſere ſtato da Vulcano primieramenre
trovato , e dalui poſcia a’Re,ea Sacerdotidimoſtro.Ma laſciando a'Chimi ci tut
Del Sig.LionardodiCapod. 185 ci tutto ciò, che dietro a tal fatto potrebbeſi
più profon damente eſaminare . lo dico , che non ha dubbio veruno avere gli
Egizi Sacerdoti per la lor medicina tratto gran , pro dalla Chimica ;
imperocchè ella venne a tale , cheti to altamente ne puotè favellare il
dolciſſimo Iſocrate con queſte parole : gli Egizi Sacerdoti per guarire il
corpo dalle malattie ritrovarono la medicina; non già quella , che ſi
valede’ınedicamenti pericoloſi, ma ſi bene quell'al tra , che potendoſi colla
medeſima ſicurtà adoperare , che gli ordinarj cibi d'ogni giorno ; recar ſuole
poi tanti, e ta li giovamenti, che gli fa vivere ſani lunghisſimo tempo :
Ιατρικήν εξεύρον επικερίαν , και διακεκινδυνευμένοις φαρμάκοις χρω - μένην :
αλα τοιέτοις , α τίω μεασφάλμαν έχ ομοίαν τη τροφή τη καθ' ημέραν : τας δε
ωφελείας τηλικαύτας , ωπ εκείνες ομολογεμένως ogcevozallos ng Harga61w télys
civos. Magran pezza avanti Iſo crate , e nel tempo appunto , che in Egitto
fioriva la ve ra medicina , avea detto Omero , dell'Egitto favellando, Ιητςος
δε έκασΘ-έπιαμενΘ-. περί πάντων Αν θρώπων . cioè, ficome volgarizza il
Baccelli: Ivi ciaſcuno è melico perfetto, F più ,ch'gn 'altro ajui perito, e
fuggio. Poichè in verità ciò che ſconciamente dell'Egiziaca me dicina vien
narraco per Diodoro , quand'e'dice : gli Egi zj non aver meſſo maialtra forte
di rimedio in uſo , fe non fe criſtci folamente , purgative medicine , c
digiuni, e vo mitivi : τας δε νόσους περκαταλαμβανόμενα και θεραπεύει το σώμα .
τα κλυσμοϊς , και ποτίμοις τε καθαρτηρίοις και νησείαις και εμέ. τους και
ενίοτε μου καθ' εκάτην ημέραν, ενίοτε δε τάς ή παρgς ημέρας dia menortes
.e'debbeſi ſolaincnte di quc'tempi prendere,nc' quali la medicina da'Re , c da'
Sacerdoti, in mano della più minuta bordaglia del popolo eraſi vergognoſamente
invilita , eſſendo già caduta dal ſuo primo ſplendore, ed in iſtato di
miſerevole ignoranza ridotta ; ſicome avviſaſi da quelle leggi, da noi nel
primo ragionamento recate , che il mediconon aveſſeſi giammaia dipartir dagli
ammae ſtramenti degli antichi, ne foſſe lecito porger a’malati al; A a cun -186
Ragionamento Terzo cun medicamentoprima del quarto giorno , ſe non ſe a ri
ſchio della propia perſona del medico . Al che forſe po nendo mente il Corringio,
e non diſtinguendo i tempi, af ſolutamente ebbe a dire , la medicina degli
Egizi eſſere ſtaca rozza aſſaige materiale . Ma ſe perciò dal Borric chio egli
meritevolmente ne venne biafimato , egli fareb be certamente aſſai più da
biaſimar Galieno , il qual ne gar non potendo, che gli Egizi prima de Greci
avefler contezza de'medicamenti , pure osò dire eſſere ſtato il lo ro
conoſcimento affai groſſo , e rozzo , e che con l'agio di aprire i cadaveri p
imbalſamargli ritrovato aveſſero mol te coſe alla notomia dell'huomo pertinéti.
Ed era tanto in: Egitto la medicina caduta,e avvallata allor;che quel pae ſe
da’Perſianiſoggiogato venne , e domato in guerra , che i ſuoimedicipiù celebri
, e più valorofi , quali effer do veano ſenza fallo que" , che medicavano
il Re,furono vin ti agevoliſſimamente da Greci, i quali ancora erano roz zi ,
enovizi nell'arte . Caduto poil'Egitto ſotto l'Imperio d'Aleſſandro , l'Egi
ziaca medicina , ruinà anch'ella , e tracollò sì facramente, che i medeſimi
Egizi da’Grecimaeſtri poi l'apparavano.. E infino alla cadura del Romano
Imperio in Aleſſandria le ſcuole di varie ſette de' medicanti Greci in grande
ſtato , edorrevole durarono ; e tratto tratto poi crebbero in tanta fama di
dottrina , che a Galieno , come egli me delimo ne da teſtimonianza ,non
increbbe d'andarvi per udir Nemeſiano, famofiflimo infra’diſcepoli di Quinto
,che di Galien medeſimo era ſtaro maeſtro ; e ſi mantennero le ſcuole
d'Aleſſandria in ranta grandezza , e ſplendore lun go ſpazio di tempo intanto ,
che, come narra Ammiano Marcellino,baſtava in que'tempi, chehuomo aveſſe ftu
diato in medicina in Aleſſandria per eſſer in pregio poi di valentiſſimo medico
tcnuto . Narrali per Damaſcio nella vita d'Iſidoro , i fatti egregi di Giacomo
medico Aleſſandrino, per li quali meritò egli, che gli ſi ergeſſero ſtatue in
parecchi luoghi, e ſpezial mente in Atene . Coſtui quarant'anni continui logorò
fa cendo DelSig. Lionardo di Capok 187 cendo eſperienze , e dopo aver tutto il
mondo traverſato cſercendo ſempre la medicina , ed inſegnandola al figlio , che
ſeco conduceva: pervenuto poi in Coſtantinopoli,tro vò quivi medici, che poco ,
o nulla di medicina ſappien . do , non con la ſperienza , come doveano , ma
congli al trui detti medicavano a ritroſo , anzi ( conciamente mal megavano i
caccivelli infermi; maGiacomoin medican do, cosi egli, come il figlio ſervivaſi
delle purgagioni, e debagni,non traendo a niuno mai ſaugue. E quanto al fatto
della Cirugia , oglino ſolean molto di rado porre in opera il ferro, e'l fuoco
; ma le maligne piaghe con la fola dieta curavano. Eben coſtoro amendue
farebbero da ri putar degni di molta loda , ſe non foſſero ſtati ſuperſtizio fi
, e idolatri , come par,che dica Fozio , comechè un an rico autore appo Suida
affermi , Giacomo eſſere ſtato Criſtiano ; maavviſa il dottiflimo Iſacco
Cauſaboni, che Fozio ciò aveſſe derto di Giaccmo , moſſo ſolamente da coloro ,
che'l credeano mago ,per le maraviglioſe cure , ch'ei facea . Dice di più
Damaſcio , che diſcepolo di Giacomo fù Aſclepiodoto , il qual di muſico ,
ch'egli era in prima,li fè medico , e infra breve tempo cotanto in ſapere
vantag gioſli , che in molte coſc , emolte , ſi laſciò dietro il me delimo ſuo
maeſtro . Fu coſtui gran matematico , c'l più eccellente infra tutti i
filoſofanti de' ſuoi tempi , comeche di coranto intendimento non foſſe , che
poteſse i miſteri d'Orfco, e de’lavj Caldej penetrare. Egli de' medici de ſuoi
tempi avea ſolamente in pregio Giacomo ſuo Mae ftro , e degli antichi,
Ippocrate , Sorano , Cilice , e Mal leoco . Perchè ſembra , ch'egli, e Giacomo
ſuo maeſtro foſſero ſtati metodici ; e quinci ſi ſcorge,ch'a'que'tempi vi cran
de'valenr'huomini , che in niun pregio avcano Ga lieno . Rinovò Aſclepiodoro
felicemente l'uſo dell'Elleboro bianco , già lungo tempo traſandato , e ne
vinſe incura bili malori. Entrò egli nella famoſa mofeta di lerapoli,e ſe ne
uſcì ſalvo , ponendoſi al naſo , e alla bocca la veltes Аа 2 ripie 188
Ragionamento Terzo ripiegata sì fattamente , che racchiuder vi poteſse qual che
particella d'aria , onde egli agevolmente reſpirar do veſse ; quindi
accoppiando inſieme varj minerali,con ma. raviglioſo artificio una ſomigliante
mofeta ne compoſe. Ciò , che di vantaggio di lui narra Damaſcio per non recarvi
tedio al preſente tralaſcio . Tanto vo dire,che de' medici d'Aleſsandria altro
non raccontandoſi, ſi vede,che poco alla fama riſponder dovea il loro valore .
Ne pur nell'Egitto la greca medicina nel ſuo buon nome lungo tempo durò ;
perciocchè di mano in mano piggiorando magagnoli, finche tolto al Romano Imperio
per opera de' capitani d'Omare l’Egitto, e venuto in mano de Saracenia poco a
poco vi fi ſpenſe la greca medicina, ed in ſuo luogo un'imperfetta volgare
Empirica vi rimaſe;alla quale ſucce dette poi , e fin’ora vi regna un'ombra di
Razionale, o per ine’dire , di Metodica mcdicina aſsai rozza, e ſciocca, iil
una, o in duc cotali coſe appiccata , e ſtabilita , le quali ſembrano a
que’maeſtri ſcimmioni , cvidenti principi, fondamenta di quella , c non
altrimenti che ſe foſscro già al tempo d'Erodoto . Egli ha ora in Egitto
un'infinita fchiera di medicanti barattieri , i quali per pochi bajocchi
ottenuta licenza di medicare dall'Alimbali , over princi pe de'medici,
deſtinato , ed eletto a quell'uficio per denaro dal Barsa del Cairo , o che
ſappia egli , o non ſappia di me dicina,medicano , una o più fortidi malattie ,
comc più lo ro in concio viene ; c giudicano eglino , due ſole eſser lo cagioni
di cutti mali yil caldo , e'l freddo; ed eſsendo l’E gitto grandemente al callo
ſottopoſto , immaginano qui vi follemnente , che tutte le malattie , o procedan
dal cal do , o fian da ftrabocchevole caldo almeno accompa gnate ; perchè
giudicando, che l’un contrario ſi ſpegna per Taltro , ſeryonli mai ſempre di
rimedj acconci , ſecondo la loro opinione , e valevoli a rinfreſcare . Perchè
traggon · largamente ſangue in tutte le empleſſioni , in tutte l'età , in tutte
le ſtagioni dell'anno , ed a tutti infermi , e dan be re acqua agghiacciata ;
il che «i ! anto fuor d'ogni ragione la fascia , non ha cercamente huomo di sì
mezzano inten dimen DelSig. Lionardo di Capoa 189 dimento , che di leggieri
avviſar no'l poſsa ; ſenzachè i cauterj , e le ſcarificazioni, che
crudelisſimamente, e fen za riguardo alcuno anche nelle più menome malattie ſo
gliono adoperare , tolgono affitto loro ogni buon nome ; intanto , che affatto
contrarj a quegli antichi mediciſein brano , i quali avean piacevoli argomenti
folamente il uſo . Ma ritornando alla medicina degli antichisſimi Egizzi,
certamente lo non ſo , come iſcuſar ſi poſsa quel graviſſi mo fallo , nel quale
que'Re, e Sacerdoti incorſero in te nendo cotanto a riguardo l'eſercizio della
medicina; il că po della quale è così vaſto , e così malagevole, cheappe na ,
che più , e più persone colle lunghe eſperienze , e col le ragioui una menoma parte
oggi coltivar ne poſsano . Ma no meno da biaſimar íono gli Egizi medici, per
aver oglino primieramente colla vanità della divinatoria fero logia , corrotta
, e magagnata la medicina, ſe pure è de preſtar credenza alle parole di Giulio
Firmico : Nekepfo egli dice , Ægypri jufiifimus Imperator, a Aſtrologus val de
bonus , per ipfos Decanos omnia vitia , valetudineſques collegit , oftendens
quam valetudinem Decanus efficeret, quia natura alia vincitur , quia Deum
frequenter alius Deus vincit , ex contrariis ideonaturis , contrariiſque pote
ftatibusgumnium ægritudinum medelas divinæ rationisma gifteriis invenit .
Triginta ſex itaque Decani omnem Zo diaci poffident circulum , ac per duodecim
fignorum numeri ifte Deorum numerus , ideft decanurum dividitur . Se poi dagli
antichi medici cra ſtato introdotta nell’E gitto quell'uſanza , che nel tempo
d'Erodoto , nel quale fenza fallo la buona medicina iyi affatto era mancata,
fer bavali , clic per tre giorni di ciaſcun meſe dell'anno gli huomini per
conſervarli fani ſi purgavano col vomito , e ſi Ιανοvg!'inteftini τόπω δε ζόης
τοιώδε διαχρέωνται : συρμαΐζεσαι σάς ημέρας επεξής μηνός εκάσg , εμέτοισι
θηρώμενοι την υγίειην , και κλύσμασι, νομίζονες απο τών τξεφόνων στίων πάσας
τας νούσος τοϊσι ανθρώποισι γίνεσθαι . loper me non credo,come si poſſa
generalmere favel lan 190 RagionamentoTerzo 1 lando , comeche rieſca calor
peravventura giovevole , tal coſtume in tutto lodare ; conciolliecoſachè
coll'uſare il yomito , ei medicamenti, lo ſtomaco, e gl'inteftini a poco a poco
s'indebiliſcono , e fi ſconvolgono notabilmente , e alconciano oltremodo le lor
commeſſure, c li vuotano in ſieme con i cattivi umori le mucilagini , che
veſtono , e difendono le loro membrane , ed altre , ed altre ſoſtanze non ſolo
utili , ma ſommamente ancora all'economia , all' operazioni , ed alla vita
degli animali neceſsarie, non che gioveyoli. Altro non rimane a dire
dell'Egiziaca medi cina , ſe non chenon coſtumò ella ne meno allora quando era
caduta dal ſuo primiero ſtato , per quel, che ſe ne ſap pia , di trarre mai
ſangue : comechè comunemente credam ſi, che dall'Ippopotamo , o ſia cavallo di
fiume, in Egitto da prima i medici l'apprendeſsero; perciocchè egli,come
Diodoro racconta,nel fondo del Nilo quivi dimora , oco. me Ammian Marcellino , fra'canneci
delle rive di quel 1o . Ma Prometeo , o pure Magog , onde ebbero la prima
origine gli Sciti arricchìpreſso quelli la medicina, per ſua opera
primieramente ritrovata , dinoli, e molti nobili , cgiovevoli medicaméri,
co’quali ebbe egli fortuna dico si felicemente eſercitarla,ch'egli
ragionevolmente ſi vanta appreſso il ſublime poera Eſchilo , ch'egli medicava
me [ colando inſieme medicine acconce, ed atce a domar le malattie , con guarir
tutti coloro , che così malamente ſi ritrovavano ridotti , che non ſi cran
pocuti per niun riine dio in prima riſanare , e che prima , che a lui veniſse
fatto di ritrovarle, e di porle in opera , non vi avea rimedio al cuno per le
malattie To pelice régason , & nis vóm glori, Ουκ ήν αλεξημ’ δεν έδε
Βρωμον, ρύ χρυσόν , και δε πιςον , αλα φαρμάκων Χρία κατέσκέλoντo πείν έγω
σφίσιν Εδάξα κegίσεις ηπίων ακεσμάτων Αις τας απάσας εξαμάζονται νόσος , Ma di
lui ancor ragionevolmente dottar ſi potrebbe,nó egli 1 Del Sig.LionardodiCapoa.
191 egli aveffe dato alla ſua medicina principio con iſcioglie re i corpi più
duri , quali ſono i mecalli, per opera dei fuo co : mentre è coſtante fama appo
l'ancichità , ch'egli pri ma di tutti da varie, e varie minicre ritraele i
metallico me ſi può da que'verli vedere, Χαλκόν , σίδηρον , άργυρον, χρυσύνη
της Φησεν αν πάροιθω εξεύρειν έμού . E conciofoffe coſa , che atanta impreſa
gli faceſſe cer tamente meſtieri riguardar ſottilmente ancora al fuoco , e in
diverſi gradi partirlo , e perciocchèegli peravventura , del calor del Sole
ſervisſi : finſero , ch'egli affole il fuoco imbofaco aveſle . Ma tafciam di
ciò , a' Chimici il penſie ro , come anche di fpiegar l'allegoria dell'effer
Prometeo al raffo legato per comandamento diGiove; il che cicga remente vien
nel fuo idioma da Eſchilo medeſimo narra to , ed è nel noſtro tale il ſenſo ,
Gia fiam giunti,o Vulcan , ne'vaflicamping E nelle folitadini deferte Per dove
a Scitia valle; a te s'aſpetta i decreti adempir delGenitore ; Equeſto audace
all'alte eccelſe rupi Con lacci indiſolubil didiamante Legar fra i duri faffi .
Eito fplendore Del foco onnipotente , onde tu altero N'andavigià , furotti,
damortali Dono nefeo : dritroi , che d'un sal fallo Pagbiagli Dei la meritata
pent's ondiegti a venerar l'alto potere Di Giove, e l'huomo almeno amare apprenda.
lo perme immagino , che Promeceo , o che'l caſo il por: taile , o da qualche
ragione ſoſpinto accendeffè il fuoco con i raggi del ſole , e che da queſto
traerſe origine la fa voka accennata . Mache che fia di ciò , li diede Prome
teo ad intcrpetrarc i ſogni, e diceſi, ch'ei trovaſſe gli au gurj: Teórus di
nous isoleradio il che fa vedere , che in fin al ſuo primo cominciamento la f
media 192 Ragionamento Terzo 1 medicina ſempremaiaccompagnoli coll’arti
ſuperſtizio : ſe , e vane . Ma come poi gli Scici della medicina di Pro meteo
ſi valeſſero , Io non ne ſaprei dir altro , ſalvo , cho eglino ſi ſervivano
delle purgagioni , e della dieta nel cu rare le malattie , come appo Plutarco
riferiſce Talete την δίαιταν αυτή & τον καθαρμον ο χρώνται Σκύθαι περί τους
κάμ νοντας και αφθόνως , και προθύμως παραδέδωκε Ma trapaſſando ora alla
Fenicia :ebbe ella ne'primi tem pi huomini d'acutiſſimo, e maraviglioſo
intendimento , e ſopratütro aſſai vaghi d'inveſtigar le biſogne del mondo , si
fattamente , che prima di ciaſcun'altra nazione ebbero ardimento di condurfi
per nuovi mari ( fabbricando ad ogni ora nuove Città , e popolandole di gente
douunque capitavano ) a lontani, e per addietro non conoſciuti paeſi d'Africa ,
e d’Aſia , e d'Europa , perchè creduto venne, che i Fenici foſſero i primi, che
ſolcaſſero co’legni il mare: onde diſſe Tibullo . * Prima ratem ventis credere
docta Tyros. Perchègiudicar dobbiamo, eſſere ſtati i Fenici, abi. li ſoprammodo
a imprender colle ſpeculazioni, e colles ſperienze la medicina , e che però
ella nella Fenicii , fe condochè la natura d'un talc affare comporta , alcolmo
della perfezioneaggiugneſſe . E di vero convennc , cho gni ſua parte arricchita
, ed illuſtrata veniſſe dal profondo fapere di Cadino , come colui , che dopo
diverſe,c glorio ſe vittorie dell'Africa avute , come canta Nonno nel poema
dc'fatti dfBacco , edificò cento Città . • ... Λιβυσίδι ΚαδμG- αρούρη Δομήσας
πολέων εκατονταδα , δωκε δεκάτη Δύσβαζα λαϊνέοις υφούμενα τύχεα πύργοις e
ſpezialmente la famoſa di Tebe, ove egli regnar poi do veva . Quindi egli
ſpogliando dell'antica rozzezza , c pe coraggine la grecia , le diedeinſieme
con tante , e tante doctrine molti vocaboli , e le lettere ancora , e
l'umanità. Il chei medeſimi Greci apertainente confeſſano , dicendo Erodoto
>, per tacer di Filoſtrato , d'Ateneo , e di Diogene Laerzio , chei Fenici,
che vennero con Cadmo, conmol te al . . DelSig.Lionardo di Capoa 193 te altre
dottrine , le lettere , che prima non vi erano , in Grecia introduffero: ως δε
Φοίνικες ούτοι ως συν Κάδμω απικό. μενοι , εσήγαγαν διδασκάλια είς τους
Ελληνας, και δη , και γράμματα ουκ toy a aliv eranos . Conoſceſi anche
manifeftamenre in ciò , che nella Fenicia la vera natural filoſofia allora
regnavas la quale, come Strabone ,e Poſſidonio appo Seſto Empiri co raccontano,
da Moſco Fenice , Leucippo da prima apparò . Ma più che altro , l'eccellenza
della medicina de Fenicj ne da manifeſtamente a divedere, l'aver ella pe netrar
ſaputo , come ſi poſſa col canto domar la ferocia delle malattic ; al che certamente
imprendere ben ſalda, e ſottil filoſofia loro abbiſognava , eun'avvedimento non
. miga ordinario , e volgare; eſſendo loro neceſſario dilige temente
inveſtigare la materia del ſuono , qual veramen te ella lia , ſe l'aria , o ſe
pure qualche ſpezial ſoſtanza,che nell'aria fi crovi , e le figure , e la
grandezza delle parti celle , che la compongono ; e come la lingua , che forma
il canto per via di miſure , e di convenenza , or fortemen te , or pianamente ,
or velocemente , or tardamente la muova ; e coine sì fatto movimento or
s’uniſca , or fi di funiſca , or creſca , or manchi , or fi rifletta , or
s’attuti ; come intorno intorno egli così velocemete liſpáda;e co. me
all'orecchio finalmente pervenuta la ſonora ſoſtanza , o penetri i poridel
timpano, e per li tortuoſi ſentieri del laberinto , e della chiocciola
aggitandoſi, a percooter rat ta ſe'n vada ne'nervi dell’udico , o pure le ſue
particelle dieno il lor movinento al timpano , e'l timpano le com munichialle
particelle dell'aria , qual falfamente inn.itu chiamaſi , e queſte poi alla
membrana, che veſte la chioc ciola il compartano . Ma ſopratutto inveſtigar
loro cer tamente ancora conveniva , come le fibre de nervi dell'u dito ,
rappreſentando fedelmente all'anima lc vare, e va rie maniere, colle quali
elleno tocche , e percofie furo no , facciano sì , ch'ella la sì varia , e táta
diverſità deluo ni ne venga ad imprendere ; e come l'anima poi da una ſorte di
ſuono noja , e da un'altra diletto tragga ; e come da ciò s'ingenerino in eſſa
amore , odio , ira , timore , ed Bb altre, 194 Ragionamento Terza 1 altre , ed
altre paſſioni ; e come queſte finalinente , o cre ſcendo, o ceſando il
movimentodel ſangue , e dell'altre diſcorrenti ſoſtanze del corpo , o
allargando , o riſtrignen do , o chiudendo i pori delle parti ſalde, fi rendan
valevo li , come d'ingenerare , così anco di menomare , c di eſtin guere
parecchie malattie . Mache che ſia del filoſofar, ch'eglino ſi faceſſero intor
no a tal facenda, quáto giugner poſta la forza del căto tut to dì ne' bambini a
noſtre caſe oggi'l veggiamo ; a ' qu ali per lo ſolo canto, avvegnachè non
ancora i ſentimenti del le voci pienamente comprendano , s’alleggiano i
dolori,e talvolta affatto ancor fi tolgono , e ſi ſeccan ſu le pupille le
lagrime,luſingādogli pianaméte alla quiere il sono;e vede ſi talora huomo
pe'lcāto aſsõnare, in cui vana ache la virtù dell'oppio ſperimétata ſi era.Il
che ne può far fede vero efa fer potuto ciò,che d'Aſclepiade ſi legge cioè
ch'egli la rab bioſa furia del ribellante vulgo colla muſica , ecol ſuono
eſtingucſse . Mapoimaggiore senza filo ſi prova la virtù del căto,ove ſia
chiintéda la ſignificāza delle parole ,come quelle , che ancora per ſe ſtelle
fole, gli affettinell'animo, valevolia deſtar ſono . Onde non ſenza maraviglia
lo lege go in Diodoro , che la muſica dagli Egiziachi, non ſolo inutile , ma
nocevole anzi che no venille ſtiinata , Tu'vuge σακην νομίζεσιν , ου μόνον
άχρηστν υπάρχειν, αλα, και βλαβεραν, ecio che Eforo appreſſo Polibio dice : la
muſica eſſere ſtata ri trovata per ingannare gli huomini : ettes , ¿ ' atémy,
aggona πία παρεισήχθαι τους ανθρώποις . Perché non eeglia mio cre dere affatto
inveriſimile, che Damone co'l căto aveſſe té perar potuto , e raffrenar le
menti offuſcate , ed alterate dall'ebbrezza . E ciò , che narrafi di Terpandro
, e d'A rione , ch'aveſſer col canto riſanati gli abitatori di I.esbo; chc di
graviſſiine malattie moleſtati, ed oppreffi langui vano ; e di Pittagora ciò ,
che ne narra Eutimio,che a ſuon di cornamuſa aveſſe ad un giovine tutto infiammato
d'a moroſo foco , l'ardentiſſime fiamme amoroſe ſmorzate , ad un'altro, che
infuriato correva col ferro ignudo, lo sfre nato orgoglio arreſtato ; e di
Timoteo , che con furioſo canto Del Sig.Lionardodi Capoa. 195 canto iſtigaſſe
Aleſſandro Macedone a prender l'ar : me ; ma addolciando le note sì adoperaffe,
che le poneſſe giù di bel nuovo ; e di Aſclepiade , che le impazzate men ti, e
da furor turbate , aveſſe con ſoave melodia in iſtato di ſanità ridotte ; e del
medeſimo, che a ſuon di tromba a’ fordi renduto aveſſe l'udito . Ma non così di
leggieri pe I ) ſembra ,che preſtar ſi poſſa fede a Marziano Capella , il quale
afferma,eſſere ſtate guarite le piaghe perla muſi ca ; ed à ciò , che diceli
d'Itinenia Tebano, che col canto guariſſe la ſciatica, comechè li fien fovente
vedute per im provviſo timore , e le podagre, e le quartane febbri dipre ſente
fanate . Ma che Talere poi colla ſoavità della Ce tera la peſtilenza aveſſe
fugar potutz , coſa ſembra affatto lontana dalla verità . · Ma il valor della
muſica ben venne conoſciuto a tutte quelle nazioni, che in mezo alle battaglie
vollono i ſuo ni , e l'armonie framettere ; come quelle , che troppo va levoli
lor lembravano a trarre gli animi de'combattenti, e colle varie note
ſvolgergli, ove più l'era a grado ; e talora incoraggiargli a più pericoloſe
impreſe . E sìi Geti uſa rono le Cetere , e le Siringhe : i Creteſi ', le Lire
: i Lidi ed i Lacedemonj gli Auli,a ſuon de'quali pria di comin ciare la
miſchia , di cantare un melos qucſti eran uſi, che Embetterio appellarono. E
gli Arcadi p incoraggiare la lor giovētù ad altiſſime impreſe, e per addolciar
la rozzezza de’ioro animi,cagionata dall'aſprezza dell'aria ,, con ogni ſtudio
ferventemente alla mulica s'impiegavano ; e l'eſſer ne ignoranti aurebbonſi a
fommo ſcorno recato ; onde diffe Polibio, che fin dalla tenera fanciullezza
s’avvezavan gli Arcadi a cantar Inni, e Perni , i quali ſecondo il patrio
coſtume erano indirizzati a lodare gli Eroi, e gli Dei della Patria ; e altri
ufici della lor inuſica va il medelimo Polibio lungamente diviſando ; e ne fa
anco parola Atenco .. Vennero, ma non guari feliceméte i Fenici da’mcdicanti
dell'altre nazioni imitati , i quali le maraviglioſe pruove, che per coſtoro
col canto facevanſi ſcorgendo , e non ſap piendone la cagione, ne per iſtudio
c'huom vi mertelle Bb giam 2 196 Ragionamento Terzo 1 7 1 giammai penetrar
potendola, li fecero a credere , che l'ar monia tucti mali diſcacciar poteſse ;
anzi vi ebbe di van taggio chi ſconciamente filoſofando immaginò , non ſo
lamente ſopra gli animali, maaltresì ſopra l'infenſate co ſe quella
ſignoreggiare , e fin ſopra i Cieli , e nel baſso in ferno diſtenderſi. E
perciò vollono , che colà giuſo nell abiſso calando Orfeo, co'l ſuon della ſua
Cetera ſtrozzal ſe ſu le fauci di Cerbero i latrati , che uſo era contro a '
paſsaggieri con crudel rabbia di mandar fuori: raffermal ſe l'orgoglio delle
furie ſmanianti: e l'anime tutte perdue te , aveſler dall'acerbe lor pene
alcuna triegua: ne lacera te p allor foſsero dagli Avoltoj a brano a brano le
viſce re a Tizio , ne le membra a Siſifo dal grayoſo ſaſso sfra cellare ; ne
per ſete delle vicine acque, e per fame delle vedute poma arrabbiaſse Tantalo .
E tutti quanti in ső ma l'inceſsabili torméti col ſuon della ſua lira in quel
paſ ſaggio ſgombraſse; anzi colla dolce armonia sì poteſse fa re , e tanto ,
che dagli infernali Dei a'regni della luce law ſua cara Euridice otteneſse di
riportare ; il che vagamen . te deſcriſse l'ingegnoſo latino poeta. T alia
dicentem , nervofque ad verba moventem , Exangues flebant animæ,nec Tantalus
undam Capravit refugam : ſtupuitq; Ixionis orbis. Nec carpere jecur volucres
urniſque vacarunt Belides: inque tuofedifti Siſyphe ſaxo. Tum primum lacrymis
vibarum carmine, fama ef Eumenidum maduiſſe genas : nec regia conjux Suſtinet
oranti , nec qui regit ima , negare : E per tal cagione altresì,ad imitazione
di Teocrito , Virgi lio introduce Alfefibeo a dire Carmina , vel Calo
poſuntdeducere lunam . Carminibus Circe focius mutavit V lalei Frigidus in
pratis cantando rumpitur anguis : Eplamedeſima cagione pariméte quel noſtro
Poeta puo tè far dire alla Ninfa , dicui narrò Ricciardetto aRu. giero: Dal
Giella Luna al mio cantar difcende , S'ago DelSig.Lionardo di Capoa. 197, .
S'agghiaccia il foco , e l'aria fifa dura , Ed bo talor con ſemplici parole
Moffa la terra , ed ho fermato il ſole . Ma cotanto oltre portofſi la ſomma
ſmcmoraggine di quegli ſciocchi imitatori de'Fenici, che non ſolamente nel
canto , manelle parole ſole ancora una tanta virtù, ed ef ficacia conſiſter
crederono , e di quelle in medicando fer vivanſi : onde fi legge in Omero ,che
colle parole ſtagnals ſero il ſangue delle ferite d’Vliſse i figli d'Autolico,
Τονμάρ Αυτολύκου παίδες φίλοι αμφεπένοντο, Ω'πιλήν δ ' ο'δυσπG- αμύμονG-
αναθέριο Δήσανέπιαμόνως • επαοιδη δ' αίμα κελαινόν Εχεθος: cioè , Mad' Aurolico
i figli eſtrema cura si preſer del divino Vliſſe , e prima Congrand'arte
legaron la ferita Tenendo ilſangue , che già fuor n'uſcia Conparole d'incanto
entro le vene . Ma non ſolo i greci, maanche i noſtri poeti, per cacer
de’latini , ſecondando i ſentimenti del vulgo ciò ſcriſſero , infra' quali il
Taſso padre finge , che la donzella della fa ta Silvana medicaſse colle parole
quell'Inghileſe Cava liere gravemente per man d'Alidoro ferito , cosìdicendo: E
con la forçade'magici incanti Fe in lui tornar la virtù già ſmarrita, Se
ricourati i vaghiSpirti erranti , Gli fanò in breve tempo ogni ferita . E
dicono altri ſcrittori aſsai, che operino ciò anche le parole in tutt'altre
malattie : infra’quali Vindiciano: Namque eft res certa Carmen ab occultis
tribuens miracula verbis : e priina di lui Quinto Sereno: Multaquepræterea
verborum monftrafilebo; Nam febrem vario depelli carmine polle Vana fuperftitio
credit , tremuleque parentes. La qual beſſaggine è durata fempremai, edura
tuttavia nel 198 Ragionamento Termo nel mondo , attenendoſi a cotali fraiche ,
e novelle'; non ſolo la ſcempiata plebe , maancora quei , che tra’letterati
tengono qualche luogo; e nel paſſato ſecolo il Perrino,fa mofiflimo Peripatetico
, per tacer d'altri di minor liéva , con vaniſſimi ſofiſmi, diſoſtener sì fatte
pecoraggini fol lemente argomentoſſi, cercando di dare a divedere,che le parole
naturalmente ciò poſſano operare; anzi di vantag gioancor giudicano , che le
parole eziandio ſcritte , e ad doffo portate , non ſolo a guarire i mali , e le
febbri, ma anche a render yani i colpi delle ſpade, e delle palle degli
archibuſi ſommamenteapprodino. Onde poi prendono i noſtri Poeti a favoleggiar
de’loro Cavalieri crranti , co me di Ferraù narra l'Arioſto: Ch'habbiate ſignor
mio già intefo eftimo, Che Ferraùper tutto era fatato , Fuorche là
dovel'alimentoprimo Piglia’lbambin nel ventre ancor ferrato. E del ſuo
valorofifſimo Orlando : Era egualmente il Principe d'Anglante Tuttofatato , furrche
in una parte : Ferito eller pote a fotto le piante: Ma le guardòcon ogni ſtudio
sed arte . Duro era il reſto lor ,come diamante ( Sela famadal ver nonſi
diparte ) E l'uno , e l'altro andòpiùper ornato , Che per biſogno a le
battaglie armato . Ma più ridevole in vero, e ſtrana allai, èpreſſo il Bojardo
, e l'Arioſto , la novella d'Orillo , il quale ingaggiato a bàttagiia con
Grifone , ed Aquilante ſu le ſponde del Ni lo , non mai da que’prodi campioni
potea trarſi di vita : imperocchè per virtù diparole ,e d'incanto , egli era sì
fattamente ciurmato , che dopo eſſere ſminuzzato , e tri tato, di nuovo,
que'minuzzoli da per ſe acozzandoſi , -ri tornava , ſicomeprima a vivere , e a
combattere ; onde cantò il Bojardo Segli tagliafſi il collo , il petto ,e
l'anca Piùminuto il tritaſi, che'l panico, 6 Mai DelSig.Lionardo di Capoa. 199
Mainonſarà dello Spiritoprivo, Spezzato in mille parti torna vivo. Famoſa ſenza
fallo , e chiara al mondo fe la medicina de Traci il valencillimo medico , e
filoſofante Orfeo , come colui , che per teltimonianza di Clemente Aleſſandrino
nelle ſecrete coſe della natura fi fè addétro aſſai ; e fu il pri mo,
checurioſamente, per quel che ſi ſappia , dell'erbé ſcriſfe : primus, dice
Plinio , omnium , quos memoria novit Orpheus de herbis aliqua prodidit .
Compoſe egli ancora alcuni libri della natural filoſofia, delle gemme, del ſito
delle fibre , e un libro ſe'l ver dice Galieno della compoſia zione degli
antidoti, e molti , e molte altri libri di coſe naturali ; ſenzachè non ſi può egli
di leggier credere, in quanto pregio avuto egli foſſe tra per la dolciſſimaarmo
nia del ſuo canto , e per altre ſue rare dottrine , maſlima mente della
politica , di cui ſecondamente che ne raccon ta Pauſania , fù egli un gran
maeſtro , molte , e molte di di quelle coſe inſegnando , le quali alla vita, e
al regime to degli huomini abbiſognano. E anche fu egli pregiato molto , e
tenuto a capitale per le molte , e valevoli medi cine a corali malattic non men
del corpo , che dell'animo dalui ne'ſuoi infermi felicemente adoperato. E
comechè favoloſo affatto , e vano fia ciò , che vien narraro di ſua moglie
Euridice,da luicol canto riſuſcitata : non però di meno vogliono molti antichi
ſcrittori , che Orfeo la riſa naſſe , preſſo a morte ridotta dal morſo d'una
ſerpc, e che poſcia ella ſe ne moriſſe per colpadel medeſimo Orfeo .Ma ſe foſſe
veramente d’Orfeo quel poema dell’Argonautica, che la bugiarda Grecia ſotto il
ſuo nome divulgò , dottar non ſi potrebbe , che egli non foſſe ſtato della
Chimica molto , e molto avviſato , mentre ſi deſcrive in quel libro
minutisſimainente ciò, che ſi richiede per lo gran magiſte ro , che deſcritto
era , come ſi finge nel libro , che Orfeo con gli altri argonauti a Colco
conquiſtarono. E quinci certamente ſi pare poi, che i poeti prendelſer
l'occaſione di finger quel celebre favoloſo racconto del Vello dell'o ro:, il
quale , come dicono lo ſcoliaſte d'Apollonio ,e Sui da, e 200 Ragionamento
Terzo da , e Varino Favorino , altro veramente ei non era , che una pelle ,
nella quale l'artificiofa maniera da cambiar in oro qualunque altro
demetallideſcritta leggevaſi. Ma le tante arti , e ſpezialmente la muſica,e la
poeſia ; nelle quali dilettavali aſſai Orteo , e l'eſſer egli ſtato , CO me
Simplicio riferiſce,autore, ed inventore deltaco , e no per altro, che per
iſcuſarſi, e riveſciar ſopra la di lui inevi. tabile neceſſità quelle morti,
che per ſua colpa a'poveri in fermi avvenivano , mi dan per avventura giuſta
cagione di dubitare, non egli foſſe ſtato nella filoſofia,e nellamedi cina da
mé, che altri credevalo ;ne tāta loda meritar dovel ſe , quanta in prima
guadagnoli nel creſcere dell'arti ap preſſo i troppo ſemplici , enon eſperti
antichi, iquali pa ghi ſolainente delle primeapparenze delle coſe , nonnes
venivano troppo addétro a penetrare le cagioni;comeche Pittagora ſtudiato
oltreinodo ſi foſſe delle doctrine di lui apparare , e diſcerner ſuoi
librilegittimi da non veri,ſico me non pochiſcrittori teſtimoniano, e
ſpezialmente Siria no , il quale di moſtrare a' fentiinenti d'Orfco que'diPi
tagora , e di Platone concordevoli argomentolli. E più avanti è da dottar della
ſua dottrina , e valoria ; percioc chè non è egli vero ciò , che il ſemplice
vulgo parimento di lui credeva , efſer le ſue azioni , ed andamenti tutti con
una coral gravità di coſtumi, e lantità di vita ſempremai ſtati accompagnati ;
conciofoſſe coſa , che egli dimoltes malvage uſanze , c cattive vezze la Grecia
cutra gualta, e corrotta aveſſe : Sacra Liberi Patris , dice Lattanzio , pri
mus Orpheusinduxit in Greciam , primufque celebravit in monte Bootie Thebis ,
ubi Liber natus eft. E di vantaggio ſcrive di lui Ovidio : Ille etiam Tbracum
populis fuitauthor amores In teneros vertiſe mares : Ma la medicina de Traciin
fama,edonor maggiorinen te poi crebbe per opera di Zamolſide, non meno ſaggio ,
che valoroſo lor Principe, da alcuni fallamente appo Ero doto creduto ſervo , e
diſcepolo di Pittagora . Ma della medicina di Zamollide altro noi non abbiano,
ſe non quel poco DelSig. LionardodiCapoa 201 poco che appo Platone ſe
nelegge,cioè,nó poterſi medicar gli occhj ſenza la teſta ,ne la teſta ſenza
tuttoilcorpo, ne il corpo ſenza l'anima. E queſta dicca Zamolſide eſser la ra
gione, perchè molte malattie de'corpi fieno naſcoſe a'me dici Greci , a’quali
non è manifeſto dove primjeramente faccia meſtieri applicar la medicina, cioè
al tutto , il qua le non iſtando bene , è imposſibile , che qualunque ſuas
parte ſe ne ſtea bene;cócioſliecoſachè,ficomc egli dicevil ', ciaſcun noftro
bene , o male dall'anima noftra ne diſcenda al corpo , e da quello
conſeguentemente a ciaſcuna parte di ſe, e perciò agli occhj ſi partiſca ; e
però giudicava in prima eſſer l'anima ſopratutto da medicarc ; acciocchè bé poi
ne ſteſſc la teſta , e tutto il corpo .Mal'anima egli volc va , appo Platone,che
da medicar foſsc có incanci; e queſti diceva eſserci buoni ſermoni , e
indirizzamenti, i quali certamente fan pro a render l'huomo temperaro , e ſigno
reggiante l'impeto de'ſenſi alla ragione rubelli ; e quindi 1.2 ſanità al capo
, e a tutto il rimanente del corpo agevol mente poicompartirſi: ecco le ſue
parole sa's dº itu'sa's Guo ας , τες λόγες είναι τις καλές • εκ δε των τοιέτων
λόγων εν αις ψυχαίς σοφροσύνην εγγίγνεσθαι ,ής εγγενομένης , και παρέσης ράδιον
ήδη είναι την υγίειαν , και τη κεφαλή, και το άλω σώμαπ πορίζων , Ma non facea
meſtieri certamente di molto ftudio , e di molta acutezza d'intendimento a
porre in aja sì fatti di viſamenti , che poſsono di leggieri cadere in mente
anche alle più idiote perlone . Nevero egli ſi ritrova , che le malattie tutte
del corpo , dall'anima dependano , o ſem - prc , chepatiſce una parte , debba
neceſsariamente patir il tutto , o'lmal delia parte da tutto il corpo, o da
qualche parte principale di quelle dependere; perciocchè ben può eſser tutto il
rimanente del corpo, ſano , & una , o altra parte ſolamente magagnata . È
ciò avvenir tutto dì live de ,maſſimamente nelle ferite, ed epfiamenti, che
colme dicar la parte offeſa ſola, ſenza badar ad altro , quella feli cemente ſi
riſana ; e ciò conferma l'eſemplo del fatto a'no ſtri tempi avvenuto , dicolui
, che portar non potendo il troppo acerbo dolore , che per la podagra pativa in
un de Сс diti 1 2 202 RagionamentoTerzo diti del ſuo piè , venne a tanta
diſperazione, che preſo un coltello, troncoſselo , ne più mai in altro luogo
poi venne gli la podagra . Macon gran prontezza venne abbracciata , e con gra
disſima ſuperſtizione oſservata sìfatta guiſa di medicare da'Greci medici
razionali ; e di quella tuttavia ſivaglio no i noſtri medici ancora , tra per
far pompa di quel ſape. re , ch'effi non hanno , ed ancora per menar la cura
alla lunga ; ma ſopratutto per non aver rimedio opportuno al male ; e di cotali
ſorti di medicine ſi ſervono , le quali al la malattia punto non s'appartengono
; e nondimeno egli no millantando dicono uſarle opportunamente: acciocchè prima
il tutto , e le parti principali medicate ſieno ; e quin di all'offeſa parte fi
venga a dar riparo ; e immaginando follemente ancora , che ciò far conaltro
argomento non ſi poffa , i lor ſalalli , e le ſtomachevoli purgagioni, che fono
i maggiori ricoveri della loro ignoranza , mettono di preſente in opera,co
imporgli largamente ovunque più loro aggrada , fino a far infralir gli ſpiriti
, e preffo , che amorte giugner i malati; ma ben ſovente incontrar ſuole, che
da qualche femminella , o altro menomo Empirico ' , cui il vero rimedio ſia
conoſciuto , di sì fatte lor cianceri mangan beffati , e ricreduti . Ma per
altro poi molto manifeſto fiſcorge, che in Za mollide aſſai più che'l
ſapere,parte v’ebbero l'aſtuzic,ele frodi, delle quali niun forſe di lui meglio
ſi ſeppe a'luoi tempi valere . Fabbricò egli un belliſſimo palagio ( co me
narra Erodoto , comeche Strabone altrimentijl fatto deſcriv2 ) nel quale
convitava a mangiare la gente più principale , e lor perfuadeva , che ne eſſo ,
ne alcun di co loro , che gli tenean compagnia giammai morirebbe; ma inſieme
con eſo lui dopo il trapallamento della preſentes vita , eterna beatitudine
goderebbono. Edificò egli un ' altro palagio ſotto terra, la dove egli infingendoſi
mor to ſtette celatamente tre anni ; nel qual tempo con pieto fi ſoſpiri, ed
amare lagrimc doloroſamente fu pianto da que'popoli; ed uſciione poſcia diè a
diyedere, ch'egliera in vi DelSig. Lionardo diCapoa 203 ciò , in vita ritornato
; e queſto , ed altro egli ebbe agio di fa . re , perch'era in grandiſſima
gloria ſalito , tra per la medi cina , e tra per eller qnci popoli groſſi , e
materiali ſoprá modo ; intanto , chenon ſolo diedero intera credenza a che
detto aveya : ma ancora dopo mortc in cotanta , maraviglia fu tenuto , che
venne da loro per Dio adora to ; ed a’teinpi di Erodoto eglino ancora avevano
in co ſtume di madargli uno ambaſciadore con una nave di cin que hucmini:
aʼquali era impoſto , che giunti ad un ſoli tario , ed ermo luogo,prendeſſero
per lo piede il detto am baſciadore, e lo ſoſpingelſer ſu in modo tal ,
ch'eglive niſo a cader giù loura tre lance a tal effetto acconce ; il quale fe
immantenente ſe ne moriva , eran ſicuri , che Za molde favorevol farebbe ſtato
alle lor dimande ; ma ſe per avventura morto non foſſe , n'era accagionato ,
coine indegno dell'ambaſceria , e reo , e perfido huomo era ap pellato; ed
un'altro ambaſciadore a queſt'opera fare eleg gevano , al quale le medeſime
ambaſciate imponevano Quefta fortuna medeſima appretſo lui participarono i ſuoi
fcaltriti diſcepoli, come quei, che poteron dare agevol mente a divedere a
quc'ſemplici popoli , che valevoli foſ ſero coʻloro argomenti a dare altrui
quella immortalitá che per ſe medeſimi conſeguir non potevano. Ma Bacco, ſapientiſſimo,
e valoroſiſſimo Principe de' popoli Affirj, della medicina de' quali ora lo
intendo di ragionare , avendo in pochiſſimo tempo a forza d'ar me vinta
l’Iberia , e la Libia , e l'Oriente tutto , e più, e più volte calcate colle
vittorioſe piante l'arene dell’O ceano , e fin l'ultime regioni della terra
penetrate , e po ſtevi per eternamemoria de'ſuoi trionfi quelle due famo ſe
colonne: così ragguardevole, e glorioſo in tutto'lmon do divenuto,pur ebbe in
cotanto pregio la medicina , che non già monarca , e conquiſtator delmondo, ma
medico ſolamente volle elles chiamato . E nel vero così magnifi che, c gloriofe
furle fue impreſe , che per tacer de Fenicja ftudiaronli i Greci millantatori
colle loro uſate menzogne di Cadmo al nipote , huom di loro nazione propiamente
Сс 2 inve 204 Ragionamento Terzo 1 1 inveſtirle ; ma ſi ben non ſeppero con
loro novelle la coſa comporre , che non ſene doveſſe manifeſtamente avvede. re
ciaſcun , che de'tempi di coloro faceſſe ragione ; per ciocchè egli è coſa
manifeſta , che molto tempo addietro a Cadmomedeſimo, non che a ſuo nipote, ci
foſse Bacco vivuto , ſecondamente che s'avviſa in Euripide , introdu cente
nella Bacchide Cadmo a comındare il culto di Bac co , fol perchè egli antico fi
foſse : Πατος παραδοχας, άσθ' ομήλικα , χρόνων Κεκτήμεθ' , έδεις αντο καβάλει
λόγG-. Ed Ateneo ,graviſſimo ſcrittore, ſomiglianteméte dice,far fi menzione di
Bacco nella lapida del ſepolcro di Nino , il qual viſſe certamente ſeicento
anni prima de'tépi di Cad mo ; ſenzachè appo Filoſtrato affermano in verità
gl'In diani , eſſer Bacco , non dalla Grecia , comealtri crede , ma
dall’Affiria nelle loro contrade capitato. La maggior opera, che Bacco in
medicina faceſse, ſem bra ſenzafallo il ritrovamento del vino . E ciò fù per av
ventura , che adoperando cgli il ſugo dell'uva per cotal fua biſogna a
caſoqualche parte nelvaſo avanzata ne for ſe,la qual poi bollendo,e
formétandoſi in vino fi cambial fe: e diciò avvedutofi egli , a bello ſtudio
poi la colaj provaſse , eriprovaſse, finchè avviſandolo alla fine così
ſpiritofo , e giovevole al genere umano l'adoperaſſe in prima nelle malattie,
quindi ancora agli huomini ſani lar gamente il concedeſse . Ma forſe egli ,
ſecondochè lo immagino , per via della Chimica ritrovollo ; la qual , ficome in
Egitto , così anche doveva allora in quelle con trade ſommamente adoperarſi. E
veramente ſolo a'Chi miciconviene col digeſtimento , e formentazione neʼlu ghi
vegetabili ſuegliar gli ſpiriti, i quali pigri in prima, e quaſi addormentari
in quelli dimoravano . E potrebbe eſser’anche , che Bacco apparato l'aveſse in
ciò , che lo frutte , da ſe medeſimeforinentar fi ſogliono , el ſapore e
l'altre qualità convencvoli al vino acquiſtare; avvenen . do ciò per opera
de'movevoli ſommamente , & acuti cor picciuoli , i quali dall'aria intorno
lor communicandoſi, e ajuta Del Sig .Lionardodi Capoa. 205 ajutati da cotali
atometti di quelli , onde il fuoco s’ingco nera,che continuo portan ſeco ,e che
in que'corpi trovano, fuiluppano tratto tratto, e ſciolgono quella nobiliſsima
foſtanza , ch'anima del vino può dirſi , e da' Chimici , che colla
diſtillazione ſoglion dal vino ſepararla,acquarzente, e ſpirito di vino ſi
chiama. Ma comechè del ritrovamento del vino ſe ne debba veramente l'onore al
noſtro comun padre Noè ; impertá to è da credere, eſſer' il modo di fare il
vino da lui già ri trovato ,per travalicamento di tempo , ſmarrito : cche Bacco
poi da capo il rinveniſſe . lo fo , che alcuni favo leggiando voglion con lor
novelle darnc a divedere ,eſſere ſtata una medeſima perſona Noè , e Bacco ; ma
ciò trala fcio , per non effer egli in modo alcuno da credere ; per ciocchè per
quel , che comprender ſi poſſa dalle ſagre car te , non guerreggiò giammai Noè
, ne altra impreſa fece , che ſpezialmente a Bacco s'attribuiſca . E molto meno
è da preſtar credenza al Voſſio padre , il quale a deboliſſime fondamenta
appoggiato , giudica , non altri eſſere ſtato Bacco , che'l ſanto Moisè ;
perciocchè Moisè non fu mai in India a guerreggiare , non chepunto ta
foggiogaſſe. Ma ciò non appartenendo punto al noſtro propoſito dico, che ciò ,
che ſifacefle in inedicando Bacco , e quali altrimedi camienti egli adoperaſle
, e come co'l vino guariſse i mala ti , e coll'edera poi a'nocimenti del vino
e' riparaffe , non ; ne abbiamo al preſente,per quel ch’lo ſappia, contezza
alcuna . E avvegnachè valentisſimomedicante e' li foſſe, c imperciò
dall'oracolo il dator della vita chiamato , non però di meno eſſendo egli avido
di loda , e vanaglorioſo aflai, pur comegli altri per maggiormente cfſer tenuto
a capitale , vollemueſtrevolmente render più maraviglioſe le ſue cure , con far
veduta , che qualche coſa ſopranatu rale anchev'aveſse ; perchè ſerviſſi delle
divinazioni e de facrifici, i quali tra per queſto , e per la ſperanza di veni
re anch'egli dopo mortequal Dio dagli huomini celebra . to , nell'Alliria , e
ne'paeſi dalui ſoggiogati , in primaj introduſſe. 200 Ragionamento Terzo 1 Ante
tuos ortus ar& fine honore fuerunt Liber , & in gelidis berba reperta
focis . Te memorant Gange, totoque Oriente ſubalty Primitias magnofepofuiße
lovi . Cinnama tu primus, captivaque thura dediſti , Deque triumphato
viſceratoſta bove. Ma trapaſſando dalla medicina degli Affirj a quella de gli
Arabi , ſe rozza veramente , e ſciocca oltremodo ne gli antichi tempiquella fi foſſe
,o ſe talpur ſi pareſc,ben G ravviſa in ciò , che da Agatorchide per
teſtimonianza di Strabone, e di Diodoro , che da lui tolfer di peſo ciò , chc
ſcriſſer delle coſe degli Arabi, narrato ne viene . Do po aver detto
Agatoichide, che nell'Arabia per la trop pa fragranzia,e acutezza, che ivi
fentivaſi degli odori del le loro piante , diffolvendoſi , e dilatandoſi tratto
tratto la teſſitura delle membra di quegli abitatori, divenivano i cattivelli
in fierisſime cagioni , e malattie . Soggiugne egli poi , che a quelle co'l
fumo, ccolla puzza delle bar bc de'becchi , e del bitume davan riparo :
da#reouév8 rõrúa ματG- υπ ' ακράτε , και μη τικής δυνάμεως , και την συμμετρον
πύκνω. σαν επιπλεονεξίσης, ωπάγαν ας έκλυσαν ισχύ την .Ρcrche fembra ad alcuni
, che a ciò fare ſoſpinti foſſer gli Arabi medican ti da quel volgar ſentimento
, che l’un contrario , per l'al tro curarſi debba . Ma che che ſia della verità
di ciò ,tan to , e tanto oggi meſſa in dubbio da’moderni medici : di co , che
ſe rimedio pur quellera , certamente era cgli più acconcio a conſervare , e
difendere da quelle malattie i pericolanti paeſani , che le già appiccate
ceffare. Ne è pū. to vero ciò, che il dottiſlimo Salmafio giudica , esſere ſta
ta queſta in Arabia una cotal ſorte di metodica medicina ; perciocchè i
Razionalimedici ancora ſi prendon guardia di non laſciar di ſoverchio turati ,
o ſpalancati i pori degli animali , e oltre al convencvole ſtemperati.
Maccrtamē te è da dire , che eſſendo ora cosi odorifera di ſpezierie l'Arabia ,
quale in quegli antichissimi tempi ſi era:ne per ciò cagionandoſi quivisì fatte
malattie , fieno affatto fa volore, e vane cotali no c!le di que'tcmpi; o alti
vode,che dagli Del Sig.Lionardodi Capod. 207 dagli odori foſſe ciò avvenuto. Ne
poſto in ciò della tram { curaggine di Strabonc , e di Diodoro forte non maravi
gliarmi,i quali non ſi dieron mai cura di ravviſare un cotal farfallonenegli
antichi, e pure nc'loro tépi affai ben cono ſciuta ſi era l'Arabia.Ma nella
Grecia da chi , e in qual té po da prima ritrovata ſi foſſe la medicina , Io
quanto a me confeſſo affatto non ſapere ; nondimeno farei d'opiniones molto
tempo avanti di quel , che comunemente ſi giudi ca , quivi eſſere ſtata quella
ritrovata : e ben priina aſſai , che Cadmo le priine lettere vi recaffe ;
perciocchè per le gravi , e crudeli malattie , che continuo quella infeltava no
, ſommaméte allora faceva la medicina alla Grecia me ſtieri . Il che fu anche
cagione , perchè con tanto ſtudio, e in tanto novero i Greci tutti allora alla
medicina s'impie gaſſero; e non fu egli al mondo ,per quanto ſi poſſa in iſto
ric avviſare , nazione alcuna , che cotanto vis'inviluppal ſe , quanto la Greca
. Perchè ſembrami egli certamente imposſibile , che nelle tenebre di tanti , e
tanti paſsati ſe coli , e da poche, e non ordinate memorie , che appena ai
noſtra notizia fien pervenute, ſi poſſa in alcun modo inve ſtigar la verità di
cotali coſe ; ſenzachè fon le loro ſtories tutte ſofperte di falſità , e
millantatrici, ccon l'uſate lor favole , e novelle ſempremai meſcolate;imperciocchè,
co me avviſa Giuſeppe Ebreo: non avēdo avuto i Greci ſcrit ture pubbliche ,
nelle quali fedelmente ficonfervaſsero fe . memorie delle coſe avvenute ,
oguiſcrittore poteva ,come più gliera a grado narrar le coſe,ſenza aver timore
di po ter mai eſser colso in fallo ', e convinto di bugia . Arro ge , che i
Greci , come afferma Dione , erano così avvez zi al piacere , che ſtimavan vere
tutte le coſe , che narrate foffero con eleganza di ſtile ; il che poi
cagionava, che gli ſcrittori d'altro cura non ſi deſsero , chedivagamente, ed
ornatamente ſcrivere , fenza durar fatica nell'inveſtigar la verità de' fatti ;
anzialcuni ſovente ſi ſtudiavano , meſco . lando a bello ſtudio menzogne
coll’iſtorie , di fare altrui delle loro ſtrabocchevoli impreſe maravigliare ;
e altri fi adoperavano in ben comporre , e inviluppar le coſe per coglier 1 1
208 Ragionamento Ter 70 6 1 coglier poicagione di trarre a ſua patria ciò , che
di ma. gnifico , e di pregiato andaſſe attorno . Così il comun der Greci le glorioſe
geſte in medicina d'Oſiri Egizio , perta cer d'altre ſue impreſe , che non
fanno al preſente a noſtro propoſito , al ſuo Apollo figliuol di Latona
mentendo at tribuì; e'l figliuol di Semele reſe chiaro , e illuſtre co' fat ri
di Bacco Afirio . Così ancora quanto di grande , e di glorioſo in medicina
operaſle Tofortride, inſieme coʻl ſuo medeſimo ſoprannome al ſuo Eſculapio
falſamente attri buì; laſciando così in tanti volumi , e confuſioni il pren .
derſi cura gli ſcrittori di rapportare il tempo , in cui par citamente quegli
antichi medici Greci viſſero , de'quali ancora a' noftri tempi ne ſon giunte
qualche contezze,che malagevole , anzi impoſſibile egli ſembra ad huom lo ſvi
lupparſene . Ma io in quanto potrò per fornire il mio di viſo , faronne una breve
, comechè confuſa accolta , eſc condochè alla memoria a mano a mano mi ſovverrà
, ter rò ragionamento di ciaſcuno . E prima di tutt'altri mi convien narrar di
Peone tenuto in sì gran maraviglia appreſſo gli antichi per la ſua
impareggiabil’arte del medicare , che ragionevolmente giudicarono , aver lui
meritato d'eſſer medico diGiove, e cotanto lafsù pregiato , e tenuto a
capitale, che più dicia fcun'altro Dio preſſo a quello orrevolmente ſi
ſedeſſe;nar, rando di lui Omero . Παρ δε διά κρονίωνι καθέζείο κύδει γαίων ,
e'l medeſimo poeta nell'Odiſſea avea detto , i medici del l'Egitto eſſere
eccellenti per eſſer della ſchiatta di Peone : Tlainavos dirigevédans . Il che
ci può far credere , che Peone foſſe Egizio , e non Greco di nazione , ma
inſieme con gli altri , che teſtè dicemmo agli Egizi da'Greci rubbato ; e
intanto crebbe nella Grecia la fama di Peone , che ciaſcun medico dopo di lui
giudicava , ſe eſser ſommamentelti mato , e commendato, ſe col ſuo nome chiamar
ſi faceſse; anzile mani inedeſime de'valenti medici da Galjeno, c da altri
ſcrittori vennerdette pconie ; e peonie parimente fi diſsero l'erbe più
giovevoli,ed efficaci ad uſo di medicina; perchè cantò il Poeta Et ful 4 - Del
Sig.Lionardo di Capoa 209 fuperas Cali veniſe sub auras Peoniisrevocatum herbis
, cioè a dire , come avviſa Servio , à Peone Dcorum medico Vsò Peone in
medicando le ferice, piacevoli, e dolci mc dicamenti, co’quali curò egli
Plutone, per le mani d'Er cole grayemente ferito : Τα δ ' επι Παιήων οδυνηφα
φάρμακα πέσων, Η'κέσατ' Dalla qual cura ſi può agevolmente avviſare, eſsere ſta
to Peone appreſso gli antichi in maggior pregio aſs :ri del medeſimo Apollo :
comechè alcuni vanamente giudichi no , la modelima perſona eſſer Peonc , ed
Apollo . Ma ciò quanto ſia lontano dal vero manifeſtamente in ciò ſi conoſce ,
che Omero nel ſuo maggior poema , di Peone, e d'Apollo , come di due diverſe
perſone ſeinpremai farvel 1.1. Ne è punto da dar credenza al chioſator di
Nicandro, che vuole,Peoneeſſere ſtato il medeſimo , ch'Eſculapio ; nel quale
crrore cadde poſcia Artemidoro ,quando diſse : Slautwv gas ó Arxassatoo's
heyeces: imperciocchè nc' tempi d' Omicro , Eſculapio non era ancora deificato
; trattando Omero comc huono Eſculapio allora quando e' dice , in favellando di
Macaone, che egli era figlio d'Eſculapio ec cellentiſſimo medico : Φώτ' Α '
σκληπιά υον αμύμον G- ιητήρG- , Maciò laſciando al preséte, e ritornando al
noſtro pro poſito della medicina , dico , che di Peone non s'hà ine moria ,
ch'Iomiſappia , niuna , fuor ſolamente della Peo nia : Vetuftifima ,narra
Plinio , inventio paoniæ eft , no menque authoris retinet. MaIo quanto a me
giudico, non cffer lui ſtato cotanto valoroſo medico, qual per avventu ra lo ci
danno a credere i troppo rozzi antichi; percioc chè altro delle ſue pruqve non
abbiaino, che l'aver lui una fola ferita ſaldaca . Perchèè cgli a buona ragion
da crede re , che Peone per dovere a cotanta gloria , quanta egli acquiſtonne ,
condurſi, tutti i buoni, c malvagj contigli adoperati y’aveſe,facendoſembiante
alla ſciocca , e fem , D d plice 210 Ragionamento Terzo plice gente,con
ſuefruſche,di tar lemaraviglic . E per av ventura egli ſi fu il primo, che ne
fe credere cotáte ſcioc chezze della ſua peonia: dicendo,dover'huom quella in
lis la notte cogliere, per non eſſer dalle ghiandaje veduto ,le quali ſtandole
continuo a guardia, crocchiando , e volan do accorron coſto a bezzicar gli
occhi di chi la ſvelle ; ſen zachè dicono correr colui manifeſto pericolo di
cicpargli gl'inteſtini , ſe digiorno la coglie . Novella ſecondochè giudica
Plinio , a bello ſtudio ordinata, e compoſta per dar maggiormente ammirazione
alla coſa . Ma non che ciò ſia vero , anzi le virtù tante della Peonia cotanto
dagli ſcrittoricommendate , e da Peone forſe da prima a quella attribuite , ora
in verità tutto vane , e falſe ſperimentate fi ſono : ne ad alcun lieto finc
giammai riuſcir ſi veggono . Perchè colſer cagionc alcunidi dubitare , non
forſe que Ita noftra Peonia altra fi foſſe , che quella cotanto tenuta in
pregio dagli antichi , e adoperata in diverſe lor malat tie. È altri giudicano
effer veramente quella ; ma per conſervarli nelle ſue virtù vogliono , che ſia
in certi tem pi ſolamente , e ſotto cotal coſtellazione da raccoglicre . Ne è
da tacere in queſto propoſito , quanto arditamente uccellar ne voglia Galieno ,
il quale afferma aver lui me delimo ſperimentato , che la radice della Peonia
appicca ta al collo de fanciulli, c quivi da lor tenuta , non ſolaine se
glidifenda dal mal caduco , ma anche quando già pre ſi ne ſono, facciagli di preſente
rinvenire. Malaſciando al preſente Pconc , e trapaſſando a dir d' Apollo ,
creduto comunemente Dio della medicina : egli è da ſapere , che molti Apelli
già furono in Grecia , e cctante, e sì diverſe , e dal vero lótane ſono quelle
coſe , che per gli ſcrittoridilor ſi narrano , che ſarebbe certa mente un
logorar fuor di propoſito il tempo , il venirle qui ad una ad una a raccontare.
Solaméte dirò del figliuol di Latona quelle poche , e confuſe memorie alla ſua
me dicina pertinenti , che per quanto lo ſappia a' noſtri tem pi pervenute ſono
. E in prima , quantunque Apollo al cuna erba ritrovaſſe ad uſo di medicina ,
quale è quella per 1 Del Sig.Lionardo di Capoa. 211 percid detta Apollinare,
che è una cotal ſpezie di Solatro; Apollo hanc berbam ,dice diquella Apuleo,
fertur inveniffe, da Aſclepio dediffe,&apollinaris nomen impofuiſſe ; inper
tanto non è perciò egli da eſſerne cotantoonorato col rag guardevol titolo di
Dio della medicina , ficome dal vula go , or follemente ſi giudica ; perciocchè
in quel medeſi mo tempo , ch'e'fioriva , molto d'altra parte in medicina
vantaggiavaſi Chirone ; il qual certamente in ciò cotanto di lui fu maggiore ,
ch'egli inedefino conoſcendolo tale , volle, ch’Eſculapio ſuo figlio per
maggiormére profittar vi, da Chircne la medicinaapparaſſe , come da maeſtro di
ſe più valoroſo aflai . Senzachè narra Igino,cſſere ſtato Apollo il primicro
ſolamente a ritrovar la inedicina degli occhj , non di tutt'altre malattie del
corpo umano. Ele disse d’Apollo, Callımaco, che da lui primieramente gli
huomini apparato avevano a cellare i pericoli della mor tಲ : Κάνε δε θυμαι
και μάντιες : έκ δε νυ Φοίβε , Iyisod dedeany , ardermoor Java Toio : ſeguì in
ciò certainentc egli la comun credenza della gente volgare , non badando punto
alla verità del fatto. Ma ſia pur ciò , comeſi voglia : lo quanto a me immagi
gino , che Apollo , o avendo egli col ſuo ſtudio , e colla ſua diligenza
rinvenuta cotal medicina a’malori degli oc chi giovevole , o pur da qualche
vegliarda appreſa aven dola , a quella adoperare con ogni ſuo ſtudio continua
mente intendeſſe; e comechè in quella parte reſo fi foſ ſe ragguardevol molto
alla gente di que'tempi, non pe rò di meno egli è da dire , nel rimanéte eſſer
lui ſtato mol to rozzo , e dappoco in medicina , e'l ſaper ſuo manche vole
affai; ajutandoci a ciò giudicare la comun mellonag gine di que’tempi, e
maſſimamente nella Grecia nell'arti più ragguardevoli. E che cotal foſſe ſtato
anch'egli Apol lo , in ciò certamente ravviſar fi potrebbe , ch'egli poco alla
ſua ſcienza fidando per dovere aggiugnere a gloria di valoroſo , quella parte
della medicina a imprender ſi dic de , la quale intorno agli antivedimenti
s'adopera;quindi D d 2 росо 2 IZ Ragionamento Terzo poco in quella ancor
profittando,peraltre ſtrade ſconce, e ſuperſtizioſe argomentofli di venire a
capo de' ſuoi avviſi, apparando dal vecchio Pane l'arte ſcaltrita , cingannevo
le del vaticinare . Quindi andato in Delfo , la dove Te. mide dava le riſpoſte,
e avendo quivi la ſerpe ingannevol mento ucciſi , la quale gli vietava
l'entrata nell'aperturu dell'oracolo , ingombrollo di preſente , e cominciovvi
in un tratto maeſtrevolinente a profetizzare; ſcrivendo di ciò Apollodoro
quette perole: Απόλλων δε την μαντικήν μαθών παρα του Πανός , του Διός Θυμάρεως
ήκεν ας Δελφούς χρησμωδούσης το σε Θέμιδα • ως δε ο φρερών το μαντίον Πύθων
ώρις εκώλυεν αυτόν παρελθείν εις το χάσμα και του τον ανελών , το μανλείον
παραλαμβάνει . E queſto vien altresì conferinato di Strabonc, il quale meglio
ſembra per mio avviſo , che abbia ſaputo la coſi . Dice egli ch'effedo ſtato
Apollo ammaeſtrato nell'arte de' vaticinj da Pane , che diede le leggi agli
Arcadi , ſe n'an daffela dove la Notte,e la Dea Temide davan le riſpoſte, ed
ammazzato il tiranno di quel luogo chiamato Pitone, ribaldo , e terribile
huomo,che per la ſua grandearroganza dicevali se zw ,cioè Dragone,preſidéte
allora della menſa de’ vaticinj, ſe ne impadroniſſe , e celebrar vi faceſſe gli
ſpettacoli . Coſtuma poi ſeguita per tanti ſecoli da que gliempi , c fugaciſuoi
facerdoti, e miniſtri , i quali imi tando in ciò il loro aſtuto maeſtro ,
vezzatamente davanj le riſpoſte inviluppate d’enimmi, e diriboboli, intanto ,
chequalunque caſo poi n'incontraſſe, ſipotea ben dire , eller quello verainente
ſecondo il lor divino predicimen to ſeguito . Nc in ciò punto meno ſcaltriti, c
maliziofi fi rono dopo Apollo gli altri medici, col tener macítrevol mente mai
ſempre i cattivelli malati a bada, e ragionando ſemprea riguardo , c con
duplicità , delle lor malattie,per dover ſempre poi indovinare, a qualunque
fine il mal ne siulciffe . E quelle fi fur larti, onde in tanta fama, e pregio
2p preſo il vulgo montò Apollo , che guadagnoſsene il titolo k ! maggior
medicante del mondo,anzidi Dio della me sna. Misi, e tanto non potè egli con
fue afuzicado 1 Del Sig.Lionardo di Capoa. 213 perare , che di più intendenti,
ed avveduti huomini non foſſe ignorante , e poco del meſtier della medicina
confa pevole reputato . Ne per pruova altro che talcertamen te potevano
giudicarlo , riguardando tutto giorno per mā, di lui, e di Diuna ſua ſorell.2 (
la qual medica ancor ella , ritrovò , e diede ilnomeall'Artemiſia) morirſi a
centina. ja i miſeri malati , ſenza mai guarirfene niuno . Infra’qua li furono
i figli della ſventurata Niobe ; di chic eila cotan to dolor preſe, che
mancandole ad un tratto i ſentimenti, e riſtretti in ſe gli ſpiriti , ſenza
alcun motto fare, chiuſei le pugna, pirò ; perchè poi preſer cagione i Poetidi
favo leggiare , ch'in fafso ella cambiata ſi foſſe . E quinci nac que poi ,
ch'eziandio dopo che furono Apollo , e Diana nel numero degli Dei allogati
,credevaſi comuneméte, che tutti quegli infermi , che capitavan niale delle lor
malat tie , ſe femmine follero , perman di Diana , e ſe huomini, per man
d’Apollo moriſscro ; perchè Omero, Ε'λθων αργυρότοξ - Απόλλων Αρτέμιδι ξυν και
οίς άγανούς βελέσουτ κατέκτεινε . E’l medeſimo poeta finge , ch’Apollo mandaſſe
la pe ſtilenza nel campo greco ; ne per altro , al creder di Por firio furono
poſtele ſaette nelle mani d'Apollo , é ne ven ne giudicato Dio infernale . Qual
ſi foſſe egli poi ne'co ftumi , il taccio ; eſsendo pur troppo manifeſte a
ciaſcuno le ſue infamie , e ciò che avveniffe alcattivel di Giacinto , per fua
mano , e a Lino . Tanto mipar , chedebba lo ac cennare ciò , che alnoſtro propofito
ſi conviene , cioè, ch ' cgli avvili da prima , e profanò il ſanto meſtier
della me dicina , inſegnandola ad Enone in pagamento d'averle tolta a viva
forza la verginità , e l'onore ; perchè ella co sì preſso Ovidio fi vanta , Me
fide conſpicuus Troje muwitor amavit Ille med fpolium virginitatis habet ; Id
quoqueiaétando : rupi tamen ante capillos, Öraque ſuntdigitis afpera facta
meis. Nec pretium ſtuprigemmas , aurumque popofcit; Turpiter ingenuum munera
corpus emunt . IR . L : 214 Ragionamento Terzo ! Ipfe ratas dignam medicas mihi
tradidit artes, Admiſisque meis ad fua dona manus . Quècunque herba potens ad
opem ,radixque medendi Veilis in toto nafcitur orbe ,mea ef . Ma trapaſsando a
Melampo : grande nel vero , e non ordinario fu il pregio , che guadagnoſli
oglicolla me dicina , mentre oltre alle figlie di Preto , egli guarà an cora
della ſterilità , per quel , che nc narri Euſtazio , Ifi cle , colla ruggine
del ferro ; comechè ſecondo l'ufan za comune de'medici , maſſimamente di que'
tempi, per più ragguardevole render l'opera , facefle egli veduta ,do po aver
ſacrificato un bue agli uccelli , con diſtribuire a ciaſcuno di eſſi la ſua
parte , ch'un avoltojo alla fine croc chiando gli rivclaſſe , che la ſpada ,
colla quale Iflaco té tò d'uccider lficle , e da quello affiſſa ad un pero
ſelvaggio, l'aveſſe reſo infecondo. Ma ben fi pare, che Melampo foſſe di non
mezzano intendimento fornito , e che egli for ſe il primo , che cominciato
aveſſe a medicar nella Grecia co’minerali . Perchè agevolmente porraſſi
argomentare ', l'uſo di quelli eſſere ſtato antichiſſimo nel mondo : comc che
per loro poca uſanza, maffimamente eſſendo ſtati ado perati ſempre da medici
ſolamente diprima lieva , detto fia , che l'antica medicina nell'erbe ſolamente
confiftelſe . Ma come ciò avvenir poſla , che la ruggine del ferro ab bia virtù
ditor via la ſterilità dall' huomo , e di diſporlo a potere acconciamente
ingenerare , egli non è certamen ce troppo malagevole, ad avviſare a chiunque
ben fappia, onde provenir ſoglia cocal vizio nel corpo umano; per. ciocchè
ſuol'egli naſcere talvolta dalla ſoperchievole ace toſità de'lughi : alla quale
ammendare fa certamente gra diſſimo proil ferro , e maſſimamente la ſua ruggine
; la quale oltre che non ſuole alle viſcere quella gran moleſtia cagionare ,
che la limatura diquello talvolta apporta , el la preparata dagli aliti acetoli
del nitro , e del fal ma rino , che continuo per l'aria diſcorrono , i qual
eſsendo più ſottili affai di quelli fpiriti, che per arte li fanno , più
cfficace , e profitcevole ſi rende di quella ruggine , che per ! man Del
Sig.Lionardodi Capoa. 215 man de'Chimici maeſtri li lavoraziinperciocchè è più
accô . ia a meſcolarſi colle ſottiliflime , e acute particelle , che
travagliano le viſcere . E di ciò fenne più volte pruova quel celebre Franceſco
medicante Riverio il vecchio . Ma ſoſpettar p avvétura alcú potrebbe,che o
nell'Egit to , o nella Fenicia in ſicmecoll'uſo delle purgagioni una tal
medicina Melampo da, priina appreſa avelle ; percioc chè, focondamente chenarra
Erodoto , egli dell'Egitto alla Grecia , inlieincco'ſacrifici di Bacco , molte
, e molte novelle ufanze reco: Εγώ με νύν φημί Μελάμποδα γενόμενον άν δes oφoν
, μαντικήντα έωυτή συσή σαι , και πυθόμμoν απ’ ΑΙ' γύπτου άλα και πολλά
απηγήσασθαι Ε΄ληση , και τα περί τον Διόνυσον ολίγα αυ των πειραλάξανά . Tanto
, e tanto oltre portoſli nell'arte col ſuo altiſſimo intendimento Chirone , che
non ſolo all'indebolite parti del corpo , come Maſſimo Tirio racconta , con
efficaci ar gomenti la ſm.rrrita ſanità egli ſi vedea tutto di rivocare's m.i
agli animi ancora utiliſime medicine appreſtava . Ne ſolo fu cgli ( per quel ,
che n'avviſi Stafilo ) eccellente in filoſofia , e in aſtronomia ; ma valſe
ancora affai nella mu fica , e in modo , che ſeppe, come il medeſimo Stafilo ,
e Boezio narrano , parecchjinfcrinità coll’arinonia della ſua cetera guarire;e
fu cotanto vago di ſpiare i ſegreti del la medicina , che in volontario eſilio
lungi dalle Cittàan doffene aid abitar nelle ſelve , per poter ivi a più
bell'agio la natura , e le complellioni dell'erbe inveſtigare ; nel che
s'adoperò egli si bene , che inventor della inedicina dell' erbe ne venne
comunemente tenuto: e da altri inventor di tutta quanta la micdicina fu detto ;
e in cotanta fama , e grido crebbe , che non iſdegnarono ( come narran Filo
ftrato , e Zezze) per appararnela medicina, d'abitar con e To lui entro la
grotta del moute Pelio ,oye egli ſtanziava, Telamone , Peleo , ed Achille , e
Giaſone , ed Ariſteo , ed Ercole , c Teleo , ed altri : huomini di gran pro ,
eva lore ; i quali , coine laſciò ſcritto Maffino Tirio , egli in continue
fatiche d'ogni ſorte eſercitando , e nelle cacce , e nel corſo , facendo loro
giacer nella nuda terra , e per 216 Ragionamento Terzo e per burrari , e per
aſpre vic affaticandogli, e dando lor fcrini cibi mangiare, e ber ſemplici
acque di fiume, ad un perfettisſimo ſtato di ſanità riduccvagli ; e doppia
utiliti da tali ſuoi diviſamenti traevan quei grand'huomini ; per. ciocchè non
pure il modo di ſe medelimi regolare, ma di curar áltri ad un ora apparavano .
Neè da tacere, che pcr più profittar egli con maggior copie di ſperienze ,
media car ſoleva anche i bruti animali ; anzi cgli li fu il primo a ciò fare ;
e imperò venne Itimato figliuol d'un cavallo.Ne per mio avviſo è vero, che alla
Cirugia , comealtri ſi dan no a c.edere, e ' ſolamente daſic opera; avendo egli
, coine narra Apollodoro , relicuita la viſta a Fenice , il qual fu poi un de '
compagni d'Achille nella guerra Trojana : cù . το υπ του πατρός έτυφλώθη καίGψευσαμένης
φθο, Κλυτίας και του πα τζος παλακίδος . Πηλεύς δε αυτον προς χείρωνα κομίσας
υπ' εκείνα θε egπευβέντα τας όψεις , βασιλέα κατέςησ: Δολόπων. ΕPindaro an cora
par , che voglia dire, che Chirone ogni forte d'inter mità aveſſe mcdicato
;poichèdeſiderava ,ch'egli tornaiſe in vita , acciocchè aveſſe potuto render la
ſanità all'infermo Ierone , perciocchè egli pativa del mal della pietra , co me
dice un'antico Scoliaſte di Pindaro , o di fcbbre, com' altri vogliono. Ηθελον
χώρωνα κε φιλυρίδας , et Κρεαν του3 αμετέρας από γλάς - σας κοινον εύξαθαι έπες
, ζώειν τον απικόμδυον , Io vorrei ch'il Filliride. Chirone, ( Se tanto defiar
lice a chiſpera ) Tornaſea reſpirar l'aure del giorno: cpoco appreffo ,, « δε
σώφρων αντιξον έναιεν έπ Χείρων , και 1ι οι φίλον εν θυμώ μελιγαρυες ύμνοι
αμέτεροι τίθεν , ατήρα του κέν μιν πίθον , και νυν έσλοίππα αέάν ανδράσι θερμάν
νουσών , Or Del Sig.Lionardo diCapoa 217 Or ſe ne l'antro fuo foſe Chirone E
che queſt'Inno mio gli foſe grato , Saria mia voglia inteſa A dirle fol tua medica
arte adopragi: Onde i mali , ch'induce Eſtremo caldo, bai didomar valore.
Diceſi che Chirone tanto valeſſe nella Cirugia , che'l antiche ulcerazioni, e
malagevoli a guarire, da luipoichia mate foſſero chironic , o perchè lorluogo
aveſſe il valor di Chirone , come vogliono Euſtazio , e Paulo da Egina, o
ch'egli foſſe ſtato il primo , che sì fatte piaghe aveſſe riſa-. nate,
com'eſtima Galieno . Ma io , ch'alla fama comun degli ſcrittori non così di
leggierimilaſcio trarre , a cona feſſar il vero , aſſai dappoco , e rozzo
parmi, chefoſſe ſta to Chirone anche in Cirugia ; perciocchè egli l'uſo del ta
ſto , e le maniere da faſciar le ferite affatto non ſapeva . Perchè
ragionevolmente immagina alcuno, che chironic fi dican le piaghemalagevoli a
guarire , perchè Chironie prima di tutti foſſe ſtato ad averle ; e sì
fattamente , che vano riuſcì tutto il ſuo ſtudio , e ſapere , nó che a
guarirle, ma ad alleggiare almeno il dolore acerbiſsimo , che quel le gli
cagionavano ; intanto che a morte poi ne divenne ; comeche alcuni dicano ,
ch'egli da ſaetta folgore ucciſo morille . Ma vengaſi ora alla medicina
d'Eſculapio cotanto fa moſa , enegli antichiſecoli celebrata . Tiene Eſculapio
, per comun conſentimento degli ſcrittori, il più orrevol grado in medicina ,
che inedico giammai aveſſe ; intanto che meritonne quel famoſo Inno del maggior
poeta de' Greci. Di lui varie coſe , e di gran lieva ſi narrano, le quali
traſandando lo , alcune diquelle, che alla medicina s'ap partengono ſol
brievemente dironne .Già dicevam di lui, eſſer fama, che primad'ogn'altro
metteſſe fuora alquante regole di medicina; manon ſembrandole poi all'eſperien
za , e alla ragion conformi, alcune correſlene., altre di sfenne affatto , el
contrario ne preſcriſſe'; e forſe quelle ch'e'laſciò dopo morte , cancellate in
tutto , ed annullate Еe avreb 218 RagionamentoTerzio avrebbe , ſe di ciò tare
gli foſse avanzato tempo . Credeſi dalla più parte degli ſcrittori, ch'egli a
veſse folamente inteſo alla Cirugia , ne d'altre parti di medicina fi foſse giammai
intramelso .Ma ſe vogliam prcfar credenza ad Erodoto, o qual che ſiaſi colui
cheſcriſsc il libro detto in troduzione, overo , il medico: egli è da dir, che
di cia ſcuna parte della medicina egli pienamente ſi conoſceſse ; perciocchè
quivi leggeſi, ch’Eſculapio fu quello il qualow ritrovò la perfetta, e in tutte
ſueparti compiuta medicina; e Pindaro parimente dice, ch'a lui accorrevano per
curar (i non ſolasiente i feriti , ma i febbricitanti ancora , c que ch'entro
d'altre malattie erano magagnati: τους με ών όσοι μόλον αυτοφύτων έλκέων
ξυνάονες , και πολιώ χαλκώ μίλη πτωμένοι , ή χερμάδι τηλεβόλω , À Deenvã Avei
nego tórefwoodśuas , και Xepewo , aurons amor , áa λοίων αχίων εξαγεν • τους με
μαλακαίς επαοιδαίς αμφίπων , τους δε προσανία πί νοντας , ή γύoις περιάπων
πάντοθεν * φάρμακα και τους δε τοματς έπασιν ορθούς . Quindi veniano a lui le
ſchierea volo De’languenti infeliciegri mortali , O traejjero in fen fiftola ,o
piaga , O dapietre , odaferro aſpra ferita , O pur nafceffeil duolo ,
Da'diſcordi fra lor femivitali , Ogni dolor , ogni tormento appaga : Porge con
molli incanti a queſti aita , Ed a quei con bevande il malor toglie Per un
farmacod'erbe inſieme aduna, Per altro acque raccoglie. A chi con tagli
induſtri, e Cirugia , Drie 1 1 1 Del Sig.Lionardodi Capoa. 219 Drizza le membra
, e fero duol travia , E prima l'aveva chiamato difcacciatordi tutti mali
Ασκλαπιών άρω παντοδαπών αλεκ' ήετανούσων. Ffculapio s'appella , Sourano Eroe
diſanità perfetta, Có'ogni morbo da lbson caccia , e ſaettai Egli non ſembra
veriſimile adunque ciò , che dice P12 tone, ch’Eſculapio traſcurato aveſſe
quella parte della me dicina , la quale ſuole il cibo agl'infermi diviſare. Ma
fo pra qualifondamenta egli appoggiato aveſe il ſiſtema del la ſua medicina,
egli è malagevol molto ad inveſtigare ; perciocchè nc libro alcuno dilui c'è
pervenuto, ne ſenten zaveruna ſua appo altri ſcrittori ſi ritrova. Tanto ne vie
ve accennato appreffo Platone,ch'egli inſegnato n'aveſse esſer.nel corponoftro
molte, e molte coſe infra lor nimi. chevoli , e tenzonanti; e di loro
abbiſognar,che'lmedico diſcreto ne rintuzzi, e raccheti le contele , e vadale
pian piano co’ſuoiargomentirappaciando ; e queſte diſcordá ti coſe vuol egli ,
che ficno il freddo, e'l caldo : l’amaro , e'l dolce : il fecco , e l'umido , e
altre sì fatte. Ma ſe altro di ciò non ritrovò in medicina Eſculapio ,
certamente è da dir , che troppo ftrabocchevoli le lodi immeritevolmé te gli
addoffaſſe il buon Erodoto ; -e ben ne potrebbe egli a buon concio
eſſercontento di meno ; imperocchè, non che egli l'intero compimento aveſſe
giammai dato alla medicina , come Erodoto immagina, anzine men la pri mabozza ,
per que , che fi ſappia , certamente le dicde.' E che mai potrà il medico
ritrarre dal ſapere, che s'abbia no le diſcordanti parti ad accordare , o che
queſte nel cor po umano ſi trovino , ſe poi più avanti non ſappia minuta mente
, ove elle fiano allogate, ove ſia il dolce, ove lama ro ', ondeil freddo ,
onde il caldo -s'ingeneri, onde la lor nimiſtà provenga , in che la lor natura
conſiſta , con quali argomenti poſſan porſi d'accordo , come vuotarli , qualo
ra lien di foverchio rigoglioſe , e ſtrabocchevoli, o am mendarſi qualora
piggiorino ,o porger loro ſoccorſo qua Ee 2 lora 220 Ragionamento Terzo lora
infievoliſcano ; che per altro quel , che ſappiamo averne diviſaro il
grandiſſimo Eſculapio , ad ogni huom di contado agevolmente potrebbe
occorrere,ed eſſer ma nifeſto . Affai rozza dunque, e imperfetta oltremodo fu
ſenza fallo d'Eſculapio la medicina , ne sì grandi , e rag . guardevoli furono
i ſuoi trovati,come huomdice ; e ſc cgli oltre all'accennate coſeritrovò
qualch'erba, anche i ruſti ci , ei bruti molte, e molte n’han ſapute
ritrovare;nę grād' acutezza d'ingegno per ritrovar il taſto , oʻl modo di fa
ſciar le ferite abbiſognava , o per trar fuora i denti dalla bocca , che lo
perme non vo torgli queſt'altra gloria , co mechè Cicerone ad un'altro
Eſculapio l'attribuiſca colà ove dice . Aeſculapiorum primus Apollinis , quem
Arcades volunt,qui ſpecilluminveniſe, primuſque vulnus obligaviſ fe dicitur .
SecundusſecundiMercurii frater : is fulmin percujus dicitur humatus effe
Cynoſuris. Tertius Arſippine Arſinoe :qui primus purgationem alui , dentiſque
evulfio nem , ut ferunt , invenit . Ne ſembra punto vero quel ,che Diodoro dice
d'Eſculapio ,ch'egliparecchjinfermi co'ſuoi argomenti guariſse; onde fe
poifavoleggiare altrui,ch'e gli aveſſe richiamati anche in vita i morti;
imperocchè Strabone , graviſſimo autore , e degno ſenza fallo , che gli ficreda
aſſai più che a Diodoro, chiaramente dice, che lo gni furono d'huominiozioſi, e
ſcioperati, quali certame te i Greci ſi furono , le cure tutte ad Eſculapio
attribuite. E Celſo in lode d'Eſculapio altro non ſeppe dire, ſe non fe , cſſer
lui ſtato ricevuto nel numero degli Dei , perchè l'arte della medicina aſſai
rozza,e materiale in que'tempi, aveſſe alquato dalla ſua groſſezza forbita :
quoniam adhuc rudem , a vulgarem , dic'egli, parlando d’Eſculapio , banc
fcientiam paulòfubtilius excoluit , in Deorum numero rece ptuseſt. Convenne adunque
certamente , ch’Eſculapio có l'uſate frodide’medici la ſua grandiſſima
debolezza ap piattata tenelse ; imperciocchè cgli,come Pindaro dice, li valle
dell'incantagioni; ma più nc ſi fa manifeſto in ciò che San Cirillo ne ſcrive,
ch'egli intento oltremodo alle guadagnerie, continuó con giunterie , ed altri
rei artifici an . DelSig. Lionardo di Capoa 22 1 > andato ſe ne foſseper io
inondo diſcorrendo ( il che mol to ajutar ſuole i medici , ad acquiſtar fama, e
pregio ) offerendo liberamente a ciaſcun , che biſogno n'avel ſe il ſuo
meſtiere e dove che giugneva prometten do le maraviglie . Così egli
vanagloriando per tutto, ſe non huono mortale , ma celeſtiale Dio eſser diceva
, e millantaya temerariainente il ſuo valor diſtenderſi fino a riſucitare i
morti . Le quali arti , e giunterie , acciocchè poteſse a fine più
acconciamente condurre, ſi pensò egli , che l'iſpida , e folta barba nudrendo ,
e laſciandola a gui ſa dicaprone lunga ſcédergiuſo dal méto al petto avreb be
più di leggieri alle ſue trappole trovato crcdito . E sì il fece egli, e con
tanto vantaggio adoperovvili , che ſervì d'eſemplo a tutti i medici appreſso .
Il che diede forſe cagione a Luciano di far dire da Momo ad Apollo , ch'egli
non operaſse come fanciullo , ma favellaſse ani moſamente, é diceſse luo
parere, ne fi vergognaſse ad ar ringare per non aver barba; perchè era ſuo
figliuolo Eſcu lapio , il qual così grande , e lunga , e folta l'aveva üst menn
μaegκιεύε πεος ήμας , αλα λέγε θαρρών ήδη τα δοκάνα , μη αιδε . σθεις ,
αγένειο» ών δημηγορήτις , και αυ% βαθυπώγωνα , και ευγέ ναον έτως τον έχων τον
Ασκληπιόν Vì ha chi vuole , ch’Eſculapio a quella guiſa appunto , che
a'noſtriciurm.dori veggiam fare , portaſse ſecole ſerpi : e che per riſparmio
camminaſse a piedi : e che que ſta ſia la vera cagione perchè alle ſue ſtatue,
o ritratti ſipo neſse in mano la ſerpe , e'l baſtone ; ſopra le quali coſe poi
ſognate ſi ſono tante , e tante fraſche di allegorie per gli ſcrittori ,
chemolto lunghe, c nojoſe farebbono a rac contare . Ma vie più dopo inorte
crebbe in fama , edono re Eſculapio , tanto era folle , e cieca allor la
gentilità : perchè glivénero alzati in diverſe parti delmodo,e parte, e per
materia ricchiffimi tépj, co maraviglioſe ,e belle ſtatue dimarino , d'avorio,
d'argento , e d'oro, e medaglie infini te furon ſtampate colla ſua effigie ; e
sì , e tanta era la fede, che aveyano gli huomini in lui,che i ſuoi tempj
ſempremai ſi vedevan pieni d'infermi, trattivi d'ogni parte ; i quali # di 222
Ragionamento Terzo 2 di notte, edi giorno quiviil ſuo ajuto aſpettando ſe ne
gia cevano;e per tacer d'altri, abbiam di ciòmeinoria nel Cure culione di
Plauto , dove del ruffiano dice Fedromo a Pa linuro : Id eo fit,quia hic leno
ægrotus incubat In Aeſculapii fano ; e così ſtandoimalati,venivan loro i facerdoti
malizioſi , fcaltriti , facendo veduta dinulla ſaper dimedicina , o del male ,
che coloro avevano ; quindi appreffati all'oracolo fingevan ch’Eſculapio
rivelato loro aveſe il medicamento all'orecchio. Talorapareva,ch’Eſculapio
medeſimo all'infer mo in ſogno additaſse il rimedio ;c ciò per avventura avve
niva tra per lo aver lui guatato ffaméte il giorno la ſtatua d'Eſculapio , c
per li lunghi ragionamenti , che dietro a tal materia coʻminiſtri dei tempio
avevan forſe tenuti , i quali avevangli per avventura le maraviglioſe cure d'E
fculapio narrate vero per aver inteſo quel rimedio fterfo da'incdici ,o
da’altri . Ma pur v'aveva fra' Gentili huomini di ſcalcrito intendimento , chea
ciò niuna credé za preſtavano , come Filoſtrato narra di Filemone;al qua le
avêdo in ſogno detto Eſculapio ,che s'egli voleva guari re dalla podagra,
conveniva, che ſi afteneiſe dal bere fred do , egli deſto poi la vegnente
inattina diſle ad Eſculapio proverbiandolo , c che altro rimedio o valent'
huomo a nreſti tu dato , le medicar avelli voluto un bue ? E ſe mai interveniva
, che alcuno ( o che'l rimedio , o ch'altro ca gioné ne foſſe ) guariſſe ,
oltra’doni , che coluiagli altari offeriva , toſto alle mura un'effigiata
tavoletta , a perpetua memoria della ricevuta ſanità appendevaſi a gloria d'E
ſculapio ; perchè poi ſe ne traſcriſfero nc'libri de' medici parecchj rimedj ;
c delle dette già tavolette , anche a' di noſtri ſe ne vede alcuni ; delle
quali per eſemplo vi ridur rò a memoria quella pietra , in cui fu regiſtrato ,
che di ſperato da tutti Giuliano per unvomito di ſangue,eſſendo ricorſo
all'oracolo, n'ebbe riſpoſta , che veniffe , e da tro altari piglialle
pinocchie di quelli per tre giorni con inic le mangiaſſe; ed in tal modo
liberato colui, lefe le grazie al Del Sig.Lionardo di Capoa. 223 alla prefenza
di tutto il popolo , αίμα αναφέροντα Ιαλιανώ , απηλπισμλύω υπο παντός ανθρώπε
εχρημάτσεν ο θεός ελθών, καιεκ τα Βιβώνκαι άραι κόκκος προβύλες και φαγών μετα
μέλιτG- επι της ημέ . φας , και εσώθη , και ελθών δημοσία ηυχαρίσησεν έμπροσθεν
τε δήμε. Ma trapallando alla medicina d'Ercole;ſe Ercole come fu in medicina ,
foſſe così ſtato valoroſo Ne l'ardue impreſe del ſanguigno Marte , non avrebbe
certamente ripieno il mondo delle ſue mara viglioſe prodezze , ne ſtancate di
tanti , e tanti ſcrittori le penne per celebrarle . Ma ciò non ſi dee punto a
neglige za attribuire , o a poco intendimento , ch'egli avuto avef ſe ;
perciocchè logorò egli gran tempo , egran fatica ad imprender la medicina ; e
fu sì profondo , ed acuto il ſuo intendiinento , ch'ei ſi fu il primiero a
comprendere , che per ta fimilitudine , la quale i Chimici chiaman ſegiratu ,
ra , ravviſar ſi poteſſe la complesſion delle piante'; e per uſo propio ſe
nevalſe allor,che preſso a morte ferito dal l'Idra , ricorſe per guarire alla
Dragontea , la quale coll? Idra ha alquanta ſomiglianza; quantunque egli poiso
per tener ciò altrui naſcofo , o per più ragguardevol renderli appreſso la
gente , o per altra cagion , che ſi fofse , infin . geffe ciò dalla riſpoſta dell'oracolo
aver apparato : il qua le l'aveſse impoſto , ch'egli ſi inetreſse in camino
verſo la dove naſce il ſole ; perciocchè quivi al valicar d'una rivie ra
aurebbe ritrovata un'erba ſomigliante all'Idra ,colla quale lc ferite da’morfi
dell'Idra fatregli poi egli aurebbe ſicuramente potuto medicare , eguarire . Io
non ſo , ſe collo intendimento G foſse Ercole tanto avanti portato , che foſse
giunto a penetrar , che la Dragontea col ſuo fab volatile acuciſſiino , del
quale eila oltremodo è abbon devole, forza aveſse di ammendare l'acetoſità , in
che co filte il guarir delle piaghe ; ma la medicina non era allora tanto oltre
paſsata , che aveſse potuto sì fatte ſottigliez ze ſcoprire . E queſta, e non
altra dovette eſsere la cagio NC , per la quale Ercole non potè nella medicina
sì eccel lente divenire , e che guarir non poteſse egli le piaghe al fuo
maeſtro Chirone , comechè gli veniſse fatto di guarir lamo 1 224 Ragionamento
Terző la moglied'Achille preſso a morte ridotta ; onde poi Eu ripide finſe
nell'Alceſte , averla lui da morte riſucitata : E queſto è quanto Io ho potuto
raccogliere della medici na d'Ercole Tebano fra le tante,e tante varietà degli
ſcrit ti , iquali così di lui confuſamente ſcrivono , che nulla più ; dicendo
Varrone , eſsere ſtati quarantadue famoſi huomini di tal nomé; altri dodici ,
altri tre , altri due, e Ci cerone ſei ;ed evvi ancora , chi porta opinione ,
non eſser mai ſtato sì fatto huomo al mondo . Ma della medicina d'Ariſteo
figliuol d'Apollo , o pur di Giove , come altri giudica , non ne vengono
ſcritte , per quanto lo ſappia , ſe non certe poche , e confuſe memorie ;
ſolamente ſap piamo da Cicerone , e dallo Scoliaſte d’Ariſtofane, che Ariſteo
aveſse ritrovato il modo di far l'olio , il miele , e'l Gifo.ΆρσαίG- δε ο
Απόλλων G και Κυρήνης πτώτην την εργασίαν τα σπλ . φίον εξεύρεν , ώσπερ , και
το μέλλG- . Infegno parirnente Ariteo meſcolare il vino col miele, per quel che
dica Plinio : Ari Seusprimus omnium in eademgente,melmiſcuiſe vino fua vitate
præcipua utriuſque natura ſponte provenientis: e non fi dee tacere ciò , che
d'Ariſteo dice Giuſtino : Arifteum in Arcadia lase regnaffe, eamque primum ,
apum , á mellis ufum , &lactis , &coagulihominibus tradidiffe ,
folftitia . leſque ortus, do federum primum inveniſe. Ma quantun que il filfio
, e'l miele, e l'olio, i quali Ariſteo non fola mente ritrovò, ma prima di
tutti inſegnonne agli altri me dici la virtù , e la maniera, colla quale
adoperar fi doveſ ſero , abbiano recato gran giovamento al mondo;non pe rò di
meno s'altro di ciò non fece Ariſteo , non sò locome ei ſi poſsa infra gli
altri eccellenti medici annoveraré; m2 pure fu egli di tanto avvedimento
fornito , che ſeppe con l'uſate giunterie ,e menzogne riparare alle diffalte
del ſuo poco ſapere ; e raccontaſi di lui da Teofraſto , da Apollo nio , da
Cicerone , da Germanico, e da Igino, che eſſendo l'iſola di Ceo dal rabbioſo
furor della canicola gravemés te percoffa , sì che feccavan le biade , e gli
huomini mi ſeramenre morivano , eche avendo Ariſtco al ſuo padru Apollo domandato
, come ſi poteſſe a tanta calamità ri para 1 Del Sig.Lionardo di Capoa 225.
parare, n'aveſſe rilpoita,che proccuraffè egli prima di pure garcon vittime , e
ſacrificj l’Ilola , la qual era così atro ceméte punica o aver dato ella
ricovero agli ucciditori d ' Icario ; e quindi pregaffe Nettuno,ſicome
Germanico Cé fare riferiſce, coinechè Teofraſto , ed Apollonio Rodio cd Igino
dicano aver riſpoſto Apollo, che pregar egli doveſse Giove,ch’allo ſpuntar
della Canicola faceſſe per quaranta giorni,ſoavi venti ſpirare, che queſti agli
ardori di cotale Hella aurebber dato agevolmente compenſo ; cd avendo ciò egli
puntalmente cſeguito ,ſpiraſſero i promeſli venti, e. ceſſalsero di preſente i
danni tutti dal ſoverchiante caldo w ?quell'Iſola cagionati ; perchè ne venne
egli poi Giove Ariſtço , ed Apollo Agreo chiamato , e frale ſtelle in Cie: { o
collocato . Or chiper Dio non ravviſa, che una cotat folenne giuntcria
imboccaffe Ariſtco a quel rozziſſimo po polazzo , ſappiendo di certo , che il
naſcimento delle cas nicola gli ulti venti preceder fogliono , cd accomp2
guare? Venue fomimamente commendato Achille dalla ſonora cróba del greco pocta
per le maraviglioſe prodezze da lui nella guerra Trojana operate;ne altro quaſi
in tutta l'Ilia de raccontaſi , che l'invincibil fortezza d'un tanto Eroe ; ne
in quel divino pocma ſenza lunga maraviglia legger fi pofiono le ſanguinoſe
battaglie , ele ragguardevoli im preſe d'Achillc.Ma doveva egliper mio avviſo
da non mi nor pocta d'Omero eſſer altrettanto commendato per la contezza, e
perl'eſercizio cli'egli ebbedella medicina e con tanta maggior ragione , quanto
più generoſo , e più magnifico ſenza fallo è il dare , che'l torre altrui la
vita . E ben'egli conobbe di quanta loda meritevole e ſe ne rés deſſe , che
però appo Stazio egli vantoſfi eſſergli ſtata in fra l'altre coſe la medicina
ancora da Chirone fuo Avolo inſegnata . Quin etiam ſuccos ,atque auxiliantia
morbis Gramina, quo nimius ftaretmedicamineſanguis: Quid faciat fomxos , quid
hiantia vulnera claudat, Queferrocohibenda lues , que caderes herbis Edocuit.
Ff Fu 1 226 Ragionamento Terzio Fu cgli tanto ſtimato nel greco campo, in
medicina,ch' Euripilo gravemente ferito , volle effer ſolamente da Pa troclo
medicato , perchè eglifoſse compagno d'Achille , c'l vero modo di medicar le
ferite n'aveſse apparato ; Νίζ υδαπ λιαρώ , επί δήπια φαρμακα πασσε Ε'εθλα , τα
σπ ποπ φασίν Αχιλήφ»δεδιδάχθαι . Ma ſopratutto vien commendato Achille per aver
co noſciute le cagionidella peſtilenza , che allor travagliava ſommamente il
campo greco ; e per aver anco ritrovato il Millefoglio,per lui detto
Achilleasil quale anche a' dì no ftri molto giovevole alle ferite , e ad altri
parecchj malili ſperimenta ; e ſomigliantemente per aver riſanato Telefo, nella
cura del quale adoperò egli la ruggine della mede fima lancia, colla quale
ferito cgli prima l'aveva : Eft , rubigo ipfa , ſcrivePlinio , in remediis,
cific Telephum pro diturfanaſeAchilles , five id area , fiveferrea cufpide feo
cit ; ed in un'altro luogo il medeſimo Plinio dice : arugi nem inveniſe ,
utiliſimam emplaftris , ideoque pingitur ex cuſpide decutiens eam gladio in
vulnus Telephi ; avvegna chè altri vogliano averlo egli con l'Achillea guarito
,ed al tri, con l'Achillea , ccon la ruggine del ferro . Perchè moſtra, ch'egli
fu il ſecondo , cheſi fappia infra'greci me dici, che i minerali adoperati
aveſſe in medicina. Ma po trebbe per avventura alcun ſoſpettare , e con
qualchera gione, non egli applicua aveſſe la ruggine del ferro alla Jancia
imbagnata in fangue d'Euripilo , non già alla feri ta di lui ; e che gli
ſcrittori, i quali la biſogna pienamente non coinprendevano,contentati ſi
foſſero ſolamente di di re , che l'atta d'Achille modelima faceva, e riſanava
le feri te . Il che ſe vero foſſe , non moderno ritrovato , ma ben molto antico
da dir ſarebbe la cura , che chiaman ſimpa tica nclle ferite . Dice Plutarco ,
che Achille intendente foſſe del modo di guarir colla dieta , e ch'egli
trovaſſe con ragione, che i corpi, i quali avvezzi in prima alle fatichc, in
proceſſo di tempo poi le laſciano , e li ripoſano , toſto triſtanzuoli, e
cagionevoli, e languidi di compleſſione divengono ; e pe 1 rò di Del
Sig.Lionardo di Capoa. 227 1 rò dice che egli ſoleva far paſcere a cavalli che
avevā ma gagnati i piedi per l'intermeſſo eſercizio , l'appio rimedio grāde a
tal male.Macon pace pur di Plutarco, Io non ſo , che gran coſa queſta fi ſia ;
ne per eſſa , ne per l'altre di lui narrate coſe ſi può dire in verità , che
Achille gran medi co ſtato e’ſi foſſe. In quáto poi alla cura ſimpatica delle
ferite: lo p me la ſtimo favoloſa invētione del Valentini; e forte mi maravi
glio, che tanti , e tanti valent'huomini vi fi lieno oltremodo affaticati, in
contendendo alcuni cheper ſopranatural po tenza doveſſe quella intervenire; e
altri ciò coſtantemente negando ; e cercando d'inveſtigarne altronde la vera ca
gione ; ma , ne queſti, ne quelli avviſano , chele ferite tal volta ,eziandio
più gravicpericoloſe ſenza rimedio alcuno guariſcono; perchè non ſi può trarre
argomento niuno dal. la lor guarigione a pro della ſimpatica medicina . Io non
ſaprei ridire ſe Palamede inventore di cotante ; coſe , ch'abbiſognano alla
vita degli huomini aveſſe anco ra in medicina qualche bella curioſità
rinvenuta; avvegna diochè ſia molto veriſimile, ch'egli ciò facerſe, come
colui, che di natura era molto acconcio a filoſofare; in tanto , che ne venne
appellato noivoo PG , cioè a dire il ſavio di tutto, come leggeli in molti
verſi fatti in ſua loda ; quantunque Omero non faccia di Palamede menzione
alcuna , o per invidia , che gli aveſſe, perchèegli era miglior poeta di ſe, o
pure per renderſi grato a ſucceſſori d'Agamennone, ili tra'l quale, e Palamede
fu mortal nimiſtà ; impertanto li ſcorge manifeſtamente in altri ſcrittori più
degni di fede aſſaidi Omero , eſſere veramente ſtato Palamede il più fa vio di
guerra di tutti greci,e in prodezza non puntominor d'Achille . Madi ciò
ch'operaffe in medicina Palamede', altro non ne abbiamo,ſe non ſe ciò che ne
racconta Filo { trato ; il quale l'introduce una volta a dire, che a chiunque
voglia preſervarſi dalla pefte , faccia meſtierimangiar po co , e affaticarſi
molto , e che così egli avvezzati aveſſe a viv ere i ſuoi ſoldati; perchè poi
la crudel peſtilenza da Po to nella Città dell’Elleſponto , ed in Troja
appiccata , aw ni un de’greci noja mai diede ; comechè eglino fi foſſero in Ef
2 perti 228 Ragionamento Terzo peſtilenzioſi luoghiaccampati. Ma quanto cotali
avver . timenti lontani dal vero ſieno, non ha tra noi,chi non l'ab bia non ha
guari pienamente ſperimentato ; e però di più dirne al preſente mirimarrò . La
medicina di Patroclo compagno d'Achillo , e di Po dalirio , e Macaone figliuoli
d'Eſculapio , che ſerbaraſſi eterna , ed immortale nella memoria degli huomini
mercè del ſovrano poeta greco , che ſi diè cura di cele brarla : ſembra ad
alcuno , che ſolamente nelle ferite s'a doperaſſe ; e veramente a riparar i
dannidellapeſtilenza , che nel greco campo faceva fieramente ſentirti,non ſi
leg. ge in Omero , che in coſa alcuna, o Podalirio, o Macaone, o Patrocło mai
s'adoperaſſero : avvegnachè la cura de’ga voccioli , e d'altre enfiature, che
ſuolo cotal morbo cagio nare , alla Cirugia dirittamente s'appartenga; la qual
coſa vien raffermata ancheda Celſo , allor che facendo men zione di Podalirio ,
e di Macaone, dice : Homerus non in peftilentia , neque in variis
generibusmorborum aliquid at tuliſe auxilii , fed vulneribus tantummodo ferro ,
& medi camentis mederi ſolitos elle propoſuit. Ma con pace pur di Celſo,
dall'aver ciò taciuto Omero non ſi può certamente argomentare eller loro
ſolamente ſtati cerufici; e fe noi medicaron la peſte,forſe ciò fecer eglino
per non tracollar dal loro buon nome in medicar quel morbo , cui non v'ha
rimedio alcuno , e che l'antichità credeva,che ſolamente gli Dii poteſſero
riſanare; ne ha ſembianza alcuna divero, ch’Eſculapio lor padre,emaeſtro la
Cirugia ſola loro infc gnaffe ; ſenzachè(comeavviſa Eulazio ) Podalirio , non
ſolamente curò diverſe infermità : ma prima di tutti, come egli dice, gittò le
fondamenta della razional medicina. Ma a quale ſtato di perfezione la medicina
per Podalirio Macaone , e per Patroclo uſata montafle, dal poema mag giore
d'Omero ſi può agevolmente comprendere . Primie. ramente ſolevano in medicando
ſucciartalora eglino colle labbra il ſangue delle ferite ; e'a tal modo Macaone
medi car ſi vide a Menelao la piaga fattagli da Pandaro, Aύ πιο επα δεν έλκG- '
έμπιστ πικρος οιτς Αίμ' εκμυζήσας επ' άρ' ήπια φάρμακα είδως Πασσα . Sem . ,per
DelSig.Lionardo di Capoa. 229 Sembrare egli potrebbe per avventura ad alcımno
il ciò fa re vano , ed inutile , anzi per l'umidità della ſaliva alles ferite
anche nocevole ciò li pare , ſenzachè è ſtomachevol coſa , e pur troppo alla
dignità de'medici ſconvenevole Nero io , comeil primo Baron dell'oſte greca , e
nipote diGiovediſavanzando dal ſuo pregio, inchinar ſi poteſse ad una sì vile ,
e vituperevole opera . Non ſolo permet teyan poi coſtoroa'feriti mollidi fudore
, edi ſangue, pu re allora uſciti dalla battaglia, lo ſtarſene giacédo all'om
bra , ed al frelco ventilar de’zefiri per riſtorar dolcemente la ſtanchezza ;
ma lo ſteſso medicante Macaone dopo ch ? egli fu ferito ciò fece : οίδε
έδρώαπεψύχοντο χιτώνων Irávte ne Ti Tvorni zaregi og ános. Ma quanto polfa
nuocere il vento ad huomini anchei faniqualor eglino molli di ſudore fiano ,non
che a’feritija ? quali feoza fallo per lo minor danno inacerbir puore les
piaghe, non è chi noʻl fappia . Ponevano altresi medica do alla groffa, entro
le ferite,radici d'erbe crude , e ſem plici fenza eller punto confattese
preparate ad uſo de’me: dicamenti: επί δε ρίζαν βαλε πικρών χερσι διατρέψας. Ma
inolto più ſciocchi, e più rozzi furono i loro divi famenti intorno al
regolainento del vitto degl'infermi ; eglino cibavangli di groſse cipolle , e
di miele κρόμμυρν ποτώ όψον, Η δε μέλι χλωρον παρ' δ' άλφιτα ιερά ακτήν. edavan
loro berc il loro ufato contadineſco Ciceone ; bem veraggio il qual di farina,
e di cacio di capra, e di più grá di , e poderoſi vini delle Smirre componeyaſi
Πινέμαι δ' εκέλευσεν επαρ' όπλισε κυκεώ . E queſte fono le care , e falucevoli
vivande, e beverage gj , che la belliſſima Ecamede concubina dell'antico Nem
ftore dava loro ; i quali non iſcherni, ne rifiutò il medefi mo Macaone,ſenza
conſiderare , ne pure un menomori ſchio d’infiammagione, che agevolméte ſeguir
ne poteva Ma 1 230 Ragionamento Terzo Ma ben ſo lo , che di fomiglianticoſe ,
ed in pro, ed in contro diſputando, veriſimilmente dir ſi potrebbe, che no già
eglino ſomigliantiguiſe di sì reo , eſconcio medicar praticafsero ; ma che
Omero a ſuo talento le finga , poco eſsendo della verità informato ; che ſe ciò
vero foſse , lo non ſo come infra gli altri cotanti pregj inveſtir ſi potreb be
ad Omero l'eſser lui ſtato di tutte ſcienze, più di qua lunquc altro maeſtro
,affai ben conoſciuto; nihil unquam . ceciniſe , dice Pier Laſena , quod nun
prudenter excogita tum ,ex induſtria diſpoſitum , &in alicujus rei utile
dixeris documentnm . Potrebbe anche dirſi, eſsere il Ciceone di que' tempi
valevole , a ſtagnar il ſangue delle ferite , o pure a ſciorlo , ove egli fia
rappreſo , e corrotto ; avve gnachè Platone dica eſser molto nocevole cotal
beverag . gio a’malacije oltre all'infimagione,che apporta, ingene rare anche
non poca flemma;e per avventura con più falda ragione potrebbeſi delle cipolle
dire , che per lo lorotale aguto , oltre allo ſcioglimento del ſangue
potrebber'an che difender le ferite dall'accroſità , da cui certamente la
febbre , e'l dolore , e lamarcia ,e l'infiammagione,e tutt' altro male a'feriti
avviene . E ſe pure coloro uſava no con ſemplici radici , e crude, medicar le
ferite , ciò era, perciocchè eglino ben’avviſavano eſserl'erbe cotanto più
giovevoli , e vigoroſe , quanto più ſemplicemente ne ſon dalla natura
ſomminiſtrate, e che col tanto confarle, e ma cerarle , e logorarle ad ufo
delle noſtre medicine, manchi alla fine, e ſvaniſca ognilorvigore; fe pure
nonvogliamo dire , eſsere ſtate di tanta virtù , e di si ſaldo giovamento da’
medici ſperimentate, che ſenza confettarſi punto,o sé. za contiglio
dimeſcolamento niuno le più gravi ferite ma raviglioſamente ſaldavano ; ne a
ciò foſse itato anco me. ſtieriregolamento alcuno di mangiare , o di bere: per
ciocchè egli narrafi per coſa certa ,che a' tempi più a noi vicini, il
Paracelſo,per lo gran valore de'ſuoi medicaméti, poco , o nulla a ciò badando
laſciaſse che a lor talento fi nutricaſser gliufermi, facendogli talora ſeco a
deſco lie tamente federe , mangiando in brigata ; ſenzachè Platon dice, DelSig.
Lionardo di Capoa 231 dice, che per eſſer quegliantichi aſſai regolati nel
mangia re , e pel bere , non avevan poi gl'infermi biſogno , che regola alcuna
intorno a ciò la preſcrivelſe ; e finalmente l'uſo di ſucciar le ferite, non
eſsere fuor di ragione ; impe rocchè cotal medicamento molto fa pro a riparare
al gua ftamento del ſangue , traendol fuora delle ferite, e difen dendolo col
fuo ſale dall'acetofità , per cui elleno marci ſcono ; perchè cotal medicamento
a'di noſtri ancora co munemente l'uſiano e, per pruova tutto di ſperimentia mo
eſser giovevole a'feriti , e utile aſsai ; ficome anche ſi può ſcorger ne'cani
: da’quali per avventura Podalirio , e Macaone , oi loro più antichimacſtri
ildovettero da prie ma appararc ; perchè ſe veggiamo, che cotanto approda
a'feriti, perchè ſarà egli da biaſimare ?Maper me non cre do, che si facce
difeſe loro facciā luogo; imperocchè Ome ro tutto che la incdicina ignoraſse ,
deſcriſse nientedime no le coſe, o coine di altri ſcrittori venivan narrate, o
dal la famaerano rapportate , maſlinamente dove cgli non aveva cagione alcuna
d'allòtanarſi dalla verità, o per ren der più vago , c più inır.zviglioſo il
ſuo poem 1,0 per altra cagione ; ne punto vale l'eſemplo del Paracelſo ,
imperoc che , ſe pur è vera la ſtoria , il Paracelſo fi ſerviva di bala ſamisì
prezioſi, e valevoli a guarir le ferite , che non fa ceva loro d'alero
meſtieri. Ma in quanto al Ciceone ; egli è una bevanda in verità sì ſconcia , e
mal fatta , che ſenza fallo non può ella altro inai , che nocuinentu agli
huomini ſani , non che agl'infer mi apportare , che che ſi credan Plutarco , ed
Ateneo , i qualinon avviſarono la ſtrana, e nocevole formentazio ne , che'l
cacio , il vino , e la farina inſieme meſcolati far poſsono nelle vifcere .
Vltimamente , le radici , e l'erbe non preparate , maffimamente l'Achillea , e
l’Ariſtologia , colle quali molti antichi ſcrittori ſi credono , che Podali rio
, Macaone, e Patroclo medicaſsero , abbondevoli ſo no d'umore acquoſo , e non
ben digeſto , il quale oltre che infievoliſce il ſolfo , e l'alcaliloro
volatile , in cui law vir 232 Ragionamento Terza virtù conſiſte , per ſc iteſso
altresì egli è ſommamente alle ferite nocevole . ... In quanto poi al lavar ,
come è già detto con l'acqua ſemplice le ferite , non è vero'ciò , che
alcunidicono, che ciò eglino-faceffero per iſtagnar di preſente il ſangue;men
cre ciò non ſolamente non licſprime da Omero , appo il quale ſi ſuol fermare il
ſanguecon l'incantagioni ; ina di ce eglichiaramente , che l'acqua , colla
quale le ferite li lavavano era calda, e perù più acconcia aſſai ad aprire, che
a riſtrignere; al che avendo per avventura riguardo il lati no poeta,con
l'acqua allora allora tratta dal Tevere fin ge , che'l ſuo Mezenzio ſi lavaſſe
le piaghe . Interea Genitor Tyberini ad fluminis undam Vulnera ficcabat lymphis
, corpuſque levabat . Nove , aphyſice , dice ſu queſto il chioſatore Servio,
nan cum aqua omnia infundătur,hic aitficcari vulnus ab aqua , Oratio vera eft
,quia fluxussăguinis aquarü frigorecôtines Yur.Ma Servio freddamente troppo,per
mio avviſo ſcuſa il ſuo Virgilio d'una sì ſtravolta maniera di favellare : ma
un tal modo di mcdicar le ferite , con l'acqua lavandole , tut to che ricevuto
,ed uſato anche dopo grăde ſpazio di tem po da’Latini, e da'Greci , onde dice
Silio purgat vulnera lympha: anzi ſin’al paſſato ſecolo da molti Ceruſici anche
coſtuma to, quáto lia nocevole ravviſar puollo facilmente ciaſche duno,che
punto abbia d'incendimento ;laonde con più lag gio avviſo da’moderni medicanti
leferite col vino , o col l'acquarzente , ovc,lor huopo ciò lor faccia , vengon
lä vate . Maquantunquc sì malamente medicaſſero Podalia rio , e Macaone ,
venncro non ſolo vivi, ma anco dopo morte in sì gran pregio tenuti , che
furonodi ſtatuc, di té pj , e facrificionorati . Quelle coſe poi , che di
Podalirio narra aver letto in al cuni antichilibri Celio Rodigino , elle fon
tutte, per quel ch'io micrcda novellette da Romanzi ; ciò Zono ,degli avendo
rotto in invar preilo la Caria, fu ſottratto al perico lo da 0 ! Del
Sig.LionardodiCapoa. 233 lo da un'avvenente paftore,e lu’l lido corteſemente
accol to ; e che poi; il Re di quel paeſe avendone coutezza avu ta , per
luimandato aveſſe perchè medicaſſe una ſua fis gliuola, che dalla vetta d'una
torre era giuſo caduta ; cui egli facendo crar ſangue da amendue le braccia , e
con al tri rimedi aveſſe in buona ſanità rimeſſa ; di che il padre oltremodo
contento magnificamente della Provincia del Cherſoneſo dotatala , data gliele
aveſſe per moglie; e che Podalirio nel Cherſoneſo födate aveſſedue belle, ed
egre gic Città , una col nome della moglie Cirene , e l'altra col nome di quel
Paſtore chiamandone. Convenevol coſa ſtata ſarebbe, che noi ſecondo lo in
cominciato aringo ordinatamente procedendo , avellimo molto addietro fatto
parole di Teſco , di Giaſone , di Pe. lco , di Telamone , e del ſuo figliuolo
Teucro , e d'Erobo te : ora concioſliecoſachè ſcarliflime memorie di loro fien
no a noi pervenute, n'è convenuto tacergli ; e perciò pal farem ſomigliantcméte
ſotto filenzio,'e Nicomaco , c Gor gaſo figlidiMacaone, e d'Anticlea , i quali
ſuccedettero al regno di Diocle loro Avolo materno , e come nar ra Paufania ,
lolevano gl'infermi corteſemente curare , e maſſimamente le dislogate oſla , o
membra in buon concio rimettere ; onde per grado, gran tratto ne furono come
Dij da’poſteri venerati . Ne meno terrò lo ragiona mcnto diSoſtrato ,di Dardano
, di Cleomitide , di Teo doro , di Criſime , dc'quali oltre aʼnomni, nulla
affatto noi non poſſiamo fpere. Ma prima ch'a' più baſſi , e più vicini tempi
facciamo paſsaggio,n’è paruto bene il doverci alquanto intertenere a ragionare
di quel ſiſtema , del quale Ippocrate fa parole nel libro della vecchia
medicina;ritrovato ,comepar ch'ca. gli porti opinione, da’primi inventori
dell'arte. Or dice Ip pocrate,che quegli átichisſimi e ſagaci inveſtigatori
della medicina,faggiamere avviſaſſero ,che ne il caldo,ne il fred do , ne
l'umido , nc'l fecco , ne altra ſomigliante coſa all' huomo foſſe d'alcun
nocumento gianımai; ma di sì fatte coſe il fomino , o l'ecceſso , che vogliam
dire , il qual per Gg ſover 234 Ragionamento Terzo ſoverchio di vigore , non
poſſa eſſer dalla natura ſoprava zato , ſia agli animali d'offeſa, e
didannaggio cagione; U queſto proccuravano có ogni ſtudio di reprimere,o tor
via ; il quale ecceſſo dicevan' eſſi avvenire , qualora l'amaro , amariſſimo :
il dolce , dolciſſimo : l'acetofo , acetofilimo divenga ;mentre portavano
opinione, l'Amaro , il Dolce; il Salſo , l'Acetoſo , il Diſcorrente , l’Acerbo
, e altre infi nite coſe di varie, e molte virtù fornite, dovere eſſere di ne
ceflità nell'huomo, sì veramente , che fteano frá eſlo lor meſcolate , e
confuſe, e l'una temperata dall'altra ; che foj mai avvien ch'alcuna di eſſe da
tutt'altre appartandoſi , così ſceveratamente ſe ne ſtca , allor fallendo al
diritto or dinamento del corpo umano cominci a farſi con mole ftia ſentire , e
grave offeſa recare. De' cibi buoni, ed offendevoli, eglino ſomigliantemé te
diſcorrevano :dicendo cheil Pane, o altri cibi, onde 1 huom niun male non
pruova,ſia dall'accennate coſe , e ſa pori acconciamente temperato, e che
quegli , onde alcun danno riceve , abbiſogni ch'una delle già dette coſe ab bia
ſoverchiamente d'aſſai. Più avanti volevan'effi , che il caldo , e'l freddo men
di tutte le già dette coſe fieno operativi ; cd ove rimeſcolici inſiemeneſteano
niun danno giammai non facciano ; ma quantunque volte ſi leparino ,e che o
riprezzo , o furiofa febbre perciò hucm ne patiſca l'altro contrario imman
tinente accorrendovi , e la furia del tiranneggiante nimico affrenando, toſto
venga l'infermo d'ogni affanno a liberar fi . Il che ſe pur non li vede nelle
ardēti febbri,nelle infiá magion de'polmoni, ed in altre gravi malattie
avvenire , dicevan'eglino , che in sì fatti cali non già dal folo caldo , ma
inſieme colcaldo dall'amaro, e dall'acetoſo, o da altra fimil coſa la febbre
veniffe generata . Finalmente tutto ciò , ch'Ippocrate dietro a tal materia
fiegne a narrare , e come egli prenda a ripigliar coloro che dipartendoſi da
queſti diviſamenti,le cagioni di tutti i ma li all'umido , al ſecco , al freddo
, al caldo fi ftudiavano d ' attribuire,per eſſer molto lungo , e forſe di poco
momen to, lo Del Sig.Lionardo diCapoa 235 to , lo tralaſcio diriferire . Ma
quanto al fatto del teſte da noi rapportato ſiſtema, egli ne ſembra per le
parole del medeſimo Ippocrate, che Apollo , o Chirone , o Eſculapio , i quali è
fama d'aver primieramente la medicina inventata, ſtati ne ſiano gli au tori. E
quanto ad Eſculapio , comechè contuſamente ne faccia parole Platone , e a guiſa
d'huom , che di dubbia , coſa favelli, par che dir voglia , ch'egli in tal modo
fi loſofaſſe , ed è veriſimil molto , che dal ſuo maeſtro Chi, rone , o
dialcun'altro egli appreſo l'aveſſe : e Chirone da alcun'altro fimilméte di lui
più antico : eche poi avendolo Eſculapio altrui inſegnato tratto tratto infino
a' tempi d ' Ippocrate per altri andatoſi foſſe avanzando ,e a quelter mine
condotto , ſicome egli il riferiſce ; ma egli è nondi meno per mio avviſo ,
aſſai manchevole , e ſcempiato , ne Ippocrate interamente , e qualli
converrebbe il rapporta; si che ne laſcia cagion di dabitare, che ne men'egli
il con tenuto di tal fiſtemi capiſſe . Ne ſembra impertanto, che non già di
ſoli medici; madi filoſofanti , e medici inſie me , o di ſoli filoſofanti ſia
tal lavoro; e per una tal breve, e confuſa notizia , che può averſene, pur
manifeſtamente ſi ſcorge , che non mai dovette cader in penſiero a que gli
antichi medici, e filoſofi , che di quattro corpi, che ſon comunemente Elementi
chiamati , tutto l'Vniverſo com pongali, i quali diquelle , che prime qualità
le ſcuole , appellano forinati, con altre , che ſeconde nominano ac cozzati, i
tanto varj corpi miſti vengano a ingenerare; m2 che quaſi infinite particelle
di figura diverſe ,in varie gui le ora accoppiandoſi, or ſeparandoſi,tuttele
coſe faceſſe ro ; o per me'dire , e più ſecondo la loro opinione , da tale accozzamento
, o ſceveramento tutte le coſe ſi faceffcro in varie guiſe ſenſibili ; e che ,
ne generazione, ne corrompi mento v'abbia in Natura giammai, ficome dice
chiaramé. te nel libro della Dieta il medeſimo Ippocrate ; ma che ogni coſa ,
che dinuovo ſimanifeſta , pureravi innázi . Il qual modo di filoſofare , ſe non
è appunto il medeſimo có quel di Anaſlagora , certamente da quello non è guari
di verſo . G g 2 La 236 Ragionamento Terzo La maniera del medicare di quegli
antichiſſimi medici autori di sì fatto ſiſtema , viene apertamente accennata da
Ippocrate quando dice , ch'eglino davano .opera a tor via dall'huomo tutto ciò
, ch'eſſendo della ſua natura via più valevole , e no'l potendoella vincere ,
offefa ne rim.z. ne ; come l'amariſfimo , il dolciſſimo , e altre ſomiglianti
teſtè mentovatecoſe; le medicine poi a vuotarle voleva no eglino, che ſi
daſſero nel tempo opportuno a ciò fare , cioè allor,che per eſſer elleno al
dovuto cocimento perve nute , era ceffato il lor impeto , e mitigato il furore;
d'on de fi cava , che quegli avvedutiffimihuomini non adope ravan le
purgagioni, ſalvo che nella declinazione del nia le ; e chiaramente dice
ſecondando i lor ſentimenti Ippo crate , che allor , che nell'huomo ſomınamente
creſce la collera , in tutto quel tempo , ch'ella ſi trova ſtemperara ; cruday
e ſincera per arte niuna ſi poſsono , ne il dolore, ne la febbre , che da
leicagionanſi mitigare , non che eſtin guere. Macon quali argomenti eglino
cercato aveſsero di cuocere , e diridurre al lor primicro ftato le nocevoli
materie,Ippocrate non ne tien ragionamento; folamente fi pare , per quanto
raccoglier fi pofsa dagli altri ſuoi libri, e dalle parole , che reftè abbiam
noi recate,che eglino in ciò non ſi valeſsero de'falasſi . Ritrovò a'noftri
vicini tempi un sì facro fiftema , oltre al Paralcelſo , al Severino , ed al
Quercetano altri , eal. tri doctisſimi ricevitori ; i quali colle tante , e
rante cu rioſe , e ſottili dottrine , che viaggiunſero ſommamente il
nobilitarono , e lo fecero altro in verità parere da quel lo , che così
rozzamente defcritto nel libro della vecchia medicina ſcorgeſi ; ma non
poterono nientedimeno que' valentisſimi huomini , per quanto mai
s'affaticaſſero, e che poneſsero ancora in opera per ciò più acconciainente
fare la vital notomia , ritrovar argomento giammai , che effi cacemente provar
poteſſe , che nell'huomo , ed in altri corpitante, e tante varietà innumerabili
ſi trovino di coſe ; laonde degni certamente diſcufa mi pajono que'primi au
tori del ſiſtensa ,fe ne meno eglino non le vennero in quel il a Del
Sig.Lionardo di Capoa. 237 li a dimoſtrare ; ed in verità lo per me crcdo , che
ne me no eglino non aveſſer potuto ciò fare giammai ; imperoc chè ſe ſono ,
come esſi vogliono , in minutisſime particel le diviſe , e l'une coll'altre meſcolate
, e confuſe , necon i ſentimenti ſi arrivano a comprendere , ne effetti poſſono
produrre , da’quali argomentar ſi poſlá lor ritrovarſi at tualmente nell'huomo
, ed in altri corpi , e ſe mai pure in eſso loro talvolta feorganfialcune delle
dette ſoftanze di quando in quando venir ſuſo, non ſi può ſapere certa mente ſe
vi erano in primanaſcoſe , o le pure elleno da' primi lor femi di nuovo fiſiono
ingenerate. Orper diffalta di queſte certezze,non farà egli manche vole, e
ſcépiata quella medicina, che preſupponendole, ſu vi s'appoggia ? Ed oltre a
ciò fe prima diligentemente non inveſtigheraſſi, e giugneraſſi a faper qualſia
la natura dell' acerbo, delPacecoſo , e d'altre ſimili coſe , qual contezza
de’loro effettipotrà averli, o del loro operare, e delle ma lattic , e della
virtù deʼmedicamenti , e del modo d'ufar gli . E forte aggiroffi Ippocrate ,
ſofifti tutti que' fapien tìſliini filoſofi , emedici nominando,i quali
volevan,che il medico foſſe pienamente di tutti gli affari della natura in
formato , e intefo minutamente di tutto ciò, onde l'huomo compongali , e quanto
al ſuo mirabiłmagiſtero concorra . E parvc al buon huono , che il conoſcimento
di ciò antaa più alla pittura , che alla medicina s'apparteneſſe ; e ba it are
al medico ſol tanto , ch'egli conoſca l'huomo in ri guardo al mangiare , e al
bere, che gli convicne . Ma quefto medelimo chi non vede , che non mai poſſa fa
perfi, fe la natura dell'huomo in prima , e poi di tutti i cia bi, e beveraggi,
e d'altre, e d'altre coſe e non iſcorgaſi. Io nóho preſo a vagliar ciòsche
dicefi pariméte,che qua Jora popera del ſolo caldo ſeparato dal freddo fi
cagionano le malattie, il freddo v'accorra a dar riparo; che ſomigliati
fraſchenõ maiimmagino ,che foſſero ufcite di bocca dique' valoroſi átichi;ne fo
Io,comeIppocrate fe l'abbia maiim maginar potute. Aurebbono bēdovuto dire
eglino , o eſſer mol 238 Ragionamento Terzo altra opera , greca , molto, e
molto agevolea ritrovare il rimedio, ſe le malac tie dalcaldo , o dal freddo
ſolo avveniſſero , avendo noi pronti ſempre tra le mani quegli argomenti,
iquali, o ſcal dare , o raffreddarne poſſono; o pure, che il loverchievol caldo
, in perdendo le particelle , che fanno il moto , les quali sfumano velocemente
, ove non v'abbia coſa , che vaglia a intertenerle,coſto s'ammorti,e venga
meno.E ſo migliáteméte eglino ácora dir potevano delfreddo fover chievole ,che
tor ſi poſſa agevolméte via incótanéte ſenza che della ſola continua
formentazione del ſangue. E tanto baſti del più antico ſiſtema della medicina ,
ficome a noi ne giova credere, al preſente aver detto ; onde come d'abbondevole
, e larga fonte tanti, e vari ruſcelletri poi d'altri ſiſtemi di razional
medicina tratto tratto li diram irono : chenon pur la grecia tuttav , ma alere
barbareſche, e più rimöte nazioni allagarono. E primieramente quel ſe ne vide
uſcir fuori, di cui ſicome noi teſtè dicevamo fa Ippocrate mézione ; il quale
dell'u mido , del ſecco , del caldo , del freddo nel filoſofare ſi valſe ; e
quell'altro purdalmedeſimo Ippocrate accenna to , di coloro , i quali più
ſottilmente le coſe fin da’loro primiprincipj fil filo d'inveſtigare li
ſtudiavano ; ed altri , ed altri Siſtemi ancor covenne,che a que'répi ſi
adaffer tut tavia mettendo fuora per que' filoſofi, che in molte , e varie
ſchiere eran partiti; alcuni de’quali, come addietro accennammo, ciò fecero per
avventura ſol per render pa ga la lor curioſità , e per vaghezza di ſpiarei
ſegretidella natura ; ed altri per intendere oltre al filoſofare , anches
all'opera della medicina , fino a’tempi d'Erodico , oveda prima ad alcun ſembra
che dalla filoſofia indegnamente divorzio faceſſe la medicina ; le pure alai
molto prima, e per opera d'altri ciò non avvenne , e ben’ Ippocrate nel libro
della natura dell'huomo, oltre a'già narrati,di quegli altri Siſtemi ta
menzione, formati da que'medici ,che volevano , o dal ſangue , o dalla collera,
o dalla flemma elfer formato l'huomo , Ma 1 DelSig. Lionardo di Capoa 239 Ma
tempo ſarebbe omai di patrare ad altro ; más poichè non è queſt'opera da dover
fornire in brieve ſpa zio di tempo : ed lo tanto oltre mi ritrovo col mio fa-.
vellar traſcorſo , che già omai è l'umid'ombra della not te ſopravenuta , egli
fie convenevole, che ad un'altra ada nanza l'eſaminamento degli altri ſiſtemi
di medicina lo ri ſerbi. KK KE UP) RA: 240 All RAGIONAMENTO QV A RT 0. 22 S E
quelle gravi , ed acerbe quercle , che veggiam tutto di metterſi fuora dalle pé
ne di tanti, e tanti ſcrittori contro le bar bareſche armate , perchè coile più
bello meinorie della famoſaGrecia abbia quel le i più prezioſi libri della
medicina cru delinente malmenatic diſtrutti: vorrem noi dirittamente guardare,
ritroverein per mio avviſo eſſer quelle in veri tà poco ragionevoli , cmenche
giuſte doglianze ; iinpe l'occhè ſe gli ſmarriti libri della greca medicina
eran fimi glianti a queſti, che a noſtre mani ſon pervenuti , fideu certamente
ſtimare alſai ben lieve la lor perdita , ne da do Ierſene gran fatto , anzi da
non mettere in conto ; mare pure quelli di maggior lieva ſi erano , e più vera
, e fotril doctrina contenenti , bcn'a torto , s'io pur non vado erra to ,
oiGoti, o gli Alani, o gli Vnni , o iBulgari, o i Sa raceni di sì grā misfatto
accagionanſi; imperchè di coſtoro certaméte niuno giunſe giamai a depre.larc,ed
a ſignoreg giare la Grecia tutta ; c quãdo ultimaméte il Turcheſco fu rore
ſurſe ſtruggédola , ed ingiuſtaméte uſurpádola , cd oc cuparl Del Sig .Lionardo
di Capoa. 241 cupandola inleme colla Città , ſede, e capo dell'Orientale ,
Imperio , allora preſſo che tuttii libri , che vi avevano della greca
nazione,mercè all'induſtria degli Italiani huo mini nelle noſtre contrade
vennero traſportati; ſenzachè v'han pure molte Iſole greche, ch'all'Ottomano
giogono ſottomeſse dell'antica libertà anche a' di noſtri ſi godo no . La vera
cagion dunque della perdita de' più beilibri non purdella medicina , ma delle
più nobili arti , e delle più ſovrane ſcienze,non già alla furia dell'armi , o
delle fiamme nemiche : non già alla rabbia del tempo di tutte l'umane coſe
fiera divoratrice ; ma recheſi ad altrettanto più cruda, quanto men furioſa , e
mentemuta cagione.Diec tracollo , chi'l crederebbe ! dier tracollo dal lor
primo ſplendore le lettere , non per altro , ſe non ſe per manca mento, e per
colpa de'letterati medeſimi; c donde atten devan ſoftegno , e riſtoro , quindi
ſterminio elleno ebbe ro , c ſtruggimento ; conciofoſse coſa ,che , ficome
talora in bello , e ſpazioſo campo di grano ſoglion naſcer avene , logli , ed
erbe ſterili , e dannoſo , e ſoffocarlo , cosìſur ſero tratto tratto nella
Grecia fra quell'anime grandi , es valenti , che del vero ſapere eran ſolamente
paghe, alqua ti huomini di ſtolido , ed ottuſo intendimento , i quali da
vaghezza tratti divano onore , e di popoleſca fama, ogni loro ftudio ponendo in
farſi tener alla minuta plebe ſapie ti ſol dieder opera ; e tutti intelero a
certe vane ombre di dortrine ; e perciò laſciando in abbandonamento i buoni
libri a conſumar dalla polvere, e a roſicchiar dalle tarme, ſol cura ſi diedero
di riſerbare , e di tramandare a' po fteri que’libri , che con pompa , cd
arringo di belle parole facevan veduta d'inſegnar tutto quando poco , o niente
in lor v'era di pregio ; e delle lodi di sì fatti volumi,aven do eſſi riempiute
le carte , la troppo credula , anzi cieca , pofterità , come prezioſi teſori gli
ha ricevuti , e ſempre mai venerati. Mai voſtri ingegni, o Signori,per cui
veggio omai ſcorgerci da miglior lume la verità : mi danno ani mo ch’lo
proſeguendo la incominciata tela de’varj ſiſtemi de'Greci medici, vi faccia
ſcorgere ad un'ora per la più Hh par 242 Ragionamento Quarto parte falſe eſſere
quelle eccelléti prerogative, che di mol ti ſcrittori va buccinando da per
tutto immeritevolmente la fama. La medicina di Erodico ,la quale quatūque in
vitupere vol guiſa per Platoneſtata foſſe trattata: no però di meno dal
gétilillimo ſuo ftilc ella vene sõmaméte nobilitata ,ere ſa immortale, per
fatica , che vi ſi duri , Io non ſo vede re , come ſi poſſa giammai ad
eſaminazione acconciamen te ridurre,poichè d'efla sì poche, e cófuſe memorie
avázate ne fono,che appena ne ſi aprirà capo da potere alcun degli
argomentiond'ogli fabbricolla indovinare ; impertanto a volerne dir ciò che per
noi fi può , rammentomi, che Platon riferiſce, Erodico eſſere ſtato miglior
maeſtro d'in ſegnare, come gl'infermi eſercitar doveſſero le membra, e
ſtropicciarle , ed ugnerle , e regolatamente prendere il ci bo , chedi
giovevoli , ed efficaci medicamenti a coloro preſcrivere;perchè e'ne viene dal
medeſimo Platone affai Íconciamente vituperato ; dicendo , ch'egliin sì fatta
gui fa non diſtruggeva altrimenti le malattie , ma le complcf fioni ſolo a
poter quelle lungamente foſtenere ajutava ; ond' egli paſsò ad affermare la
medicina d'Erodico eſſer arte da Pedagogo ;imperocchè ficome da coftoro i
fanciul lini, così da quella i mali reggevāli; mache di ciò Erodico la dovuru
pena aveſſe meritevolmente pagata ; imperoc chè della ſua inutil medicina ,
penofa , e cagionevolvita traſſe continuo , e ad una lunga , e ftentata morte
ſempre diſpofta,perocchè da una nojofiffima, e mortal malattia preſo , egli per
trovarqualche argomento da ſoftenerla , tutto nello fludio della medicina
s’involſe , traſandando tutt'altre biſogne , e ſolo a ciò di forza intendendo ,
altro non gliene avvenne , ſe non ch'egliebbe a viver si parca mente , e
regolato, che ſe mai dall'uſato cibo ſi dipartiva, toſto ritornava ad ammalare
, e più che prima cagionevo le diveniva ; e a queſta guiſa reſo a ſe medeſimo
inutile, e grave peſo , viſſe infino all'ultima vecchiczza ; ove di que favita
rinereſcédogliil morirc, ſdegnofaméte fi dipartio.E alla finc Platone
motteggiandolo conchiude , che una ec cellen Del Sig.Lionardo di Capoa 243
cellente , e ragguardevol palma e' riportaſſe dall'arte ſua, e talc , qual
veramente gliſi conveniva , come a colui , il qual non ſapeva , ch'Eſculapio
una cotal guiſa di medica re a' pofteri non aveſſe inſegnata, non già perchè
non gli foſſe aliai bé conoſciuta : ma ſi bene perocchè egli ſcorge va,che in
una bé ordinata Città a ciaſcun debba eſſere l'o . pera ſua convcncvole
aſſegnata , alla qual fornire doven do intendere , mal potevagli ozio lungo
avanzare , du potere a ſtéto da una tal medicina attender prò , o riſtoro ;
coſa , la quale certamente ridevole ella ſembra ſe vien el la mai negli
arteficiconfiderata . Reca Platon l'eſemplo d'un legnajuolo , il quale ſe mai,
come porta la ſua diſ grazia ritrovali preſo da grave malattia , egli toſto
inan dando per lo medico, da lui richiede , che diviſandoglial cuna purgativa ,
o pur vomichevole medicina , o col fer ro proccuri toſto di torgli ogni inale ,
e ogni ſeccagin da doſſo ;ma ſe allora il medico ſolpreſcrivcſſoglilungadieta,
e altri così fatti riguardi , certamente , che colui gli re plicherebbe, non
eſſer miga ſuo intendimento di menar il can per l'aja , e foggiacere a una sì
nojoſa, e miſerevol vi ta ; e così datogli dipreſente il congedo coll'uſata
libertà ſe ne rimarrebbe ; e ſemai avveniſſe per forte , ch'egli guariffe , ſi
viverebbe per innanzi felice ; ma ſe il corpo no potendo al mal far contratto
ſe ne moriſſe, almen verrebb’ egli ad eſſere da tante noje ſviluppato . E dopo
queſti ra gionamenti Platone apertamente una tal medicina caccia via dalla ſua
repubblica , come dannoſa , e tale , che i ſuoi cittadini non meno alle lor
private biſogne , ch'a quelle del comune verrebbe a fraſtornare, e ritorre.
D'una tal materia ſi legge una lettera dello Speroni , con la quale egli va
dimoſtrado con vani ſofiſmi,la vita ſobria eſfer no cevole uzi che no; infra
l'altre coſe dicendo , la vita ſo bria non poterſi appellar ſana, eſſendo la
ſanità un'acci dente , che coll’inferinità , ch'è il ſuo contrario via ſi cac
cia del ſuo ſoggetto ; perchè ſe nella vita ſobria non può effer inferinità ,
non può eſſer (anità vera; c ſe tinto , e non più fi mangia , quanto baſta al
vivere noi ne coin H h 2 bar 1 244 RagionamentoQuarto batteremo, ne
cămineremo,ne falteremo giámai, ne potre mo ciò fare , perchè non averemo le
forze,mangiando fo lamente per vivere , il che ſarebbe un gran difetto nell
huomo . Oltre a ciò e' dice, che come la mano ſtorpiata , non è mano , perchè
no può come mano operare,così la ſo bria vita no è vita,ma meza morte, perchè
no opera quan to , e come dee l'huomo operare.Dice parimente egli che il morir
per riſoluzione ſia la peggior guiſa di morte, che poſſa fare l'huomo :perchè
queſto è inorir di fame ; della qualmorte parlando Omero in perſona de'compagni
d'V Jiffe l'abborriſce infinitamente : ed elegge più coſto lo an negarſi ,
che'lmorir di fame į ne peraltro Dante biafi matanto i Piſani, che per aver
fatto morir di fame il Con te Vgolino ,benchè foſſe traditore della Patria .
Con chiude egli alla fine , che chi è ſobrio nel cibo faria huopo cffer ſobrio
in molt'altre coſe : peſare il vino, e'l pane, nu merare l'ore: farebbe luogo
ancora pefare i peſieri, lo ſcri vere , il leggere', e ſimili cofe , che
impediſcono la dige ſtione : numerare i palli, e le parole , che ajutano la
dige ſtione : non dormir ſe non tante ore il dì , e tante la notte . Ma il
chiariſſimo Signor Luigi Cornaro , a cui era in dirizzata la lettera ; col ſuo
proprio cſemplo fe veder ma nifcſtamente quanto ciò vano , e fuor di ragion fia
: impe socchè egli colla rigorofa dieta lano , c vigorofo , e bene atante della
perſona anche nella cadente età ſi mantenne , e viſſe oltr'a cent'annipronto
ſempremai , e col ſenno , e colla mano alle biſogne tutte della ſua patria
;comechè ca gionevole aſſai di compleſſione e'li foſse in prima ſtato ncl Ja
ſua giovanezza , ca molti, e graviſſimimali ſoggetto ; intanto , che
comunemente da'medici dopo varj , e diverſi argomenti indarno adoperativi ,
diſperato ſovente di ſuas ſalure ſtato ne foſſe . Ma quanto vane ,quanto deboli
, e fanciullefche fien le ragioni, con che Platone s'argomenta d'abbatter Erodi
co ,e come ſcioccamente la dappocaggine d'Eſculapio , e de figliuoli di lui
egli di ſcuſare s'ingegni : Io non pren derommi al preſente briga di
dimoſtrarlo , potendo ciaſcũ 1 da per Del Sig.Lionardo di Capoa. 245 da per fe
a prima veduta baſtantemente comprenderlo . Macome non ſi può in modo niuno
negare, che quel me dico , il quale aveſse per le mani ſicura ,ed
efficacemedici na , che ſenza indugio poteſse un grave male di prefence guarire
, non dovrebbe certamentead altri medicamenti aſpettarſi; nondimeno non ſo lo
fe Eſculapio , cotanto da Platone commendato, aveſse pronta ſempremai unas
cotal medicina non che a tutti mali acconcia , ma ſola mente alle ferire ;
eſsendo rade molto cotali forti di me dicamenti , e radiſsimi coloro , che
alcun certamente ne ſappiano ; perchè lopratutto fa meſtieri, che'l medico per
ogni via ſappia all'infermo ſoccorrere, eſe non può riſa, narlo,poſsa almeno
tantoſto indugiar la fua morte , tem poreggiando , e ſcherinendolo a ſuo potere
. Perchè fom mamente egli è da lodare il ſaggio avviſamento d'Erodi co , il
quale molto bene a pruova ſcorgendo quanto poco a capitale da tener foſse
l'operazion de’medicamenti, diede opera più che altro a quelle coſe , che ſe
non ſono ditroppo vaglia , s'annoverano fenza fallo infra le meno incerte
dellamedicina . Ecertamente per quelle uſare no fi corre pericolo niuno da’malati
, e poca , e niuna fatica . s'imprende a porle in opera . MadalPaverle Erodico
dalla ginnaſtica portatealla me dicina,quanta lode egli per ciò ne meriti ,
Galieno mede. fimo il confeſsa ; il qual nondimeno una tanta lode ad Ip pocrate
attribuiſce . Io per me ſtupiſco della fcimunita tricotanza di tal’huomo che
avendo letto più volte i dia loghi della repubblica di Platone , e recatone nel
fuo li bro pur qualche luogo, ardiſca pure d'affermare , che Platone in ciò
ſolamente la cattiva ginnaſtica biaſimaſſers la quale ſi predeva cura di difpor
gli Atleti ad eſser valo roſi , ed abili a loro eſercizj . E certamente ſe
quellibro di Platone ſinarrito per ayventura ſi fofse , ciafcun farga mente le
ſciocchezze di Galieno crederebbefi . E come voleva Platone biaſimar la
ginnaſtica, che per Galien cat tiva dicefi , s'egli nella ſua Città ordina ,
che s'edifichiil ginnaſio , e diſegna con molte parole la contrada acconcia per
i 246 Ragionamento Quarto per quello , e vi ricerca in iſpezialità copia
d'acquc cor renti , così per derivarla in uſo de' caldi bagni , coine per
irrigare il terreno , e render vago , eadorno il luogo ; ſen zachè no mai
ſtanco ſi moſtra Platone in tutte le ſue ope re di celebrare il ginnaſio , e
quegli eſercizi , che ivi fico ftumavano di fare : come ſommamente utilia
conſervar la ſanità ; e fra l'altre egli ebbe a dire una volta, eſsere ma
lagevol molto il ritrovare diſciplina miglior di quella, la quale fin’alla ſua
età in lunghiſſimo ſpazio di tempo s'era ritrovata ; cioè della muſica , che
all'animo , e della gin naſtica , che al corpo appartiene. Ma laſciando ciò da
par te ſtare , egli va grandemente per mio avviſo errato Pla tone
nell'affermare, che que'buoni antichi medici non cu raſsero il regolaricibi
a'malati , e che ciò eglino faceſse ro , non peraltro , ſe non perchè non
avevali a que’tempi di ciò punto biſogno, perchè agli antichi , i qualimaisé.
pre regolaramente vivevano, non faceva poſcia inferman doſi huopo diregola
alcuna di medico ; concioffiecofachè le tante , e tante förti di malattie , che
fra gli antichi ſové teniente ſi vedevano , faccian’aperta , e fedele
teſtimonia za del contrario . Ma quantunque vero foſſe ciò ,che Pla tone
immagina della ſobrietà grande degli antichi huo mini , pure altri cibi
a'lani,ed altri a'malati convengono; e quelmedico , il quale cibaſse l'infermo
come fano , e'l ſano come infermo ugualmente nel certo all'uno , ed all l'altro
nocerebbe . Egli poi non ha dubbio alcuno , che'l regolar i cibi foſse la prima
coſa certamente , che s'ado peraſse in medicina ; anzi da ciò venne ſuſo
primieramé ce la medicina ; e prima , che foſsero i medici , i medelimi infermi
da per ſe il ritrovarono ; e illuſtri.fimo in queſto affare è il luogo di
Celſo; il quale ci giova quì tutto rec.le re , comemolto al noſtro propoſito
faccente: Ægrorums, dice egli, qui fine medicis erant , alios propter
aviditatem primisdiebusprotinuscibum affumpfiffe , alius propter faſti dium
ahſtinuile, levatumque magis eorum morbum effe , qui abſtinuerant :
itemquealios inipfa febre aliquid ediſ Te , alios paulò ante eam , alios poft
remiffionem ejus , optime dein Del Sig. Lionardo di Capoa 247 ! deinde his
ceflife , quipoft finem febris id fecerint . Eadeque ratione alios inter
principia protinus ufos effe cibo ple viore , alios exiguo , graviureſque eos
factos qui fe imple rent. Hæc, ſimiliaque quum quotidie inciderent , diligentes
homines notaje: quæ plerumquemelius refponderent ,dein deægrotantibusea
præcipere cæpiſſe :fic medicinam ortam-, ſubinde aliorumſalute ,aliorum
interitu pernicioſa diſcer nentem à ſalutaribus, Ma intorno al cibari malati,
certiſſima coſa egli ſi è, che gli antichi medici gră pezza affai prima
d'Ippocratemol . te coſe , e molte diviſarono, come ſi può agevolmente ve dere
nel libro della vecchia medicina , ed in altre opere d ' Ippocrate medeſimo ,
onde parimente ravviſar fi puote quanto errato vada Galieno, il quale di ciò
far yolle il buo Ippocrate autore. Ma , che che ſia di tali faccende, terri
bile allai ſembrami nel vero la cenſura , con la quale Ip pocrate, non avendo
veruno riguardo alla venerazion do vuta al maeſtro Erodico , fconciamente il
riprende,e vitu pera ; dicendo, ch'egli togliere la vita a tutti que'cattivel
li febbricitanti , ch'e' medicava colle fatiche , e co' fummi. caldi , che loro
imponeva; e ne reca egli di ciò la ragione, dicendo cfler a' febbricitanti il
pareggiare, il correre,e gli ftrofinamenti , eifomenti oltreinodo contrari
.Aggiugne Galieno a ciò che dice lppocrate , che Erodico in ciò fa re, ne anche
alla ſperiéza guidar certaméte e'li faceſſe ,non volendo niuna ragion delmondo
, che'l male col male, la fatica colla fatica , il ſimile col liinile da
medicar ſia ; an zi e'dice , che gli argomenti tutti adoperati per Erodico
nelle febbri , valevoli più toſto ſiano ad accreſcere sfor matamente il calore
, che a toglierlo . Ma certamente no molta fatica aurebber egli durata i
ſeguaci d'Erodico in rimboccare Ippocrate , e Galieno ,dicendo ,che Erodico,
come buon medico razionale non già alle febbri, ma alla cagione di quelle
riguardar doveva,alla qual togliere cer tamente quemedeſimiargomenti fi
convengono, i quali egli adoperava , avvegnachè in prima ſe ne creſca talottas
la febbre per qualche poco ſpazio di tempo ; ma poi ſen za fala 248
Ragionamento Quarto za fallo rimoſſane la cagione del tutto ſi ſpegne ; ſenza
chè ben potrebbono di vantaggio aggiugnere , il medeſi mo appunto farſi da
Ippocrate , e da Galieno : i quali con fregamenti , e con dare a {piluzzico , e
a riguardo il cibo medicar parimente ſogliono i febbricitanti . Ne qui deb befi
tacere , ſcorgerſi da ciò chiaramente eſſere antichiſ ſimo coſtume de'medici
biaſimare in altri , come manche voli , e malfatte anchequelle coſe , che
eglino medeſimi in ſomiglianti caſi operar tuttavia ſogliono. Ne poffo sé. za
maraviglia riguardare alla gran tracotanza di Galieno, il quale così
aſprainenre riprende il diviſamento d'Erodico ſenza punto penſare , che ello
ancora alcune febbri linco pali co'fregamenti, e col digiuno curar foglia ;
perchè egli vien forte ripigliato dal Tralliano , il quale rintuzza lo , c
percuotelo , e con maggior ragione per avventura , con quell'arme medeſime, che
Galieno aveva contro Ero dico adoperace. Vltimamente ſe un ſomigliante
coll'alcro da curar ſia , coloro ſe'l veggano , i quali comeche con parole il
biaſimino , purcon fatti talvolta il ſogliono ado. perare : ſolamente lo avviſo
, che Ippocrate medeſimoma nifeftaméte afferma, che'l yomito col vomito ſi
cefla ,e che col limile il ſimile ſi cura . Quinci ſcorger ſi puote , chcgli
huomini tutti,e più che altriimedici, Togliono di leggieri nell'arti, chedi
nuovo imprendono ad eſercitare , valerſi di quelle coſe, alle qua li per
qualche ſpazio di tempo diedero in prima opera ; e percið Erodico per mio
avviſo ſi ſerviva così ſpeſſo degli Itropicciamentiin medicando gl'infermi, e
d'altre opere , ch'erano in uſo nel ginnaſio , di cui egli aveva avuto la cu ra
; così veggiam que' ,che, o d'Aſtrologi, o d'Alchimi ſti divengono medici , non
preſcriver rimedio alcuno , che non ſe ne fian colle ſtelle , eco'fornelli
conſigliati; ma no penſi però alcuno , che'l maeſtro , o preferto del Gimnaſio
aveſſe cura di far ſtropicciare , o d’ugnere que' ch'eran deſtinati alle lutte
, al corſo , e agli altri gilochi , che ſi fa cevano nel Gimnaſio ; ma il ſuo
uficio ſi era il comandar nel Ginnaio , e conliſteva nella ſupreina autorità di
quello p li vile Del Sig.Lionardo di Capoa. 249 li varjufici a quella
ſottopoſti, e per le ipeſe , che per l'e ſercitazioni facevan meſtieri ; edun
taluficio era in sì grá pregio,edonore tenuto,che nó foleva darſi,ſe non ſe
a'più nobili , o ben’agiati huomini del paeſe; c durò lungamen te tal uſanza sì
fattamente ,che i medeſimi Romani Im peradori talvolta non iſdegnarono in
volendo favoreggiar qualche Città amica, e qualche popolo a loro affeziona to ,
infra i titoli , egli onori degli altri maeſtrati, d'accet tar anche quello di
prefetto , o maeſtro del Ginnaſio . Ma non men della medicina montò in
grandiſſimo pre gio , e venerazion l’arte ginnaſtica , la qual fu cotanto ce
lebrata a que'rempi dalle dotte penne de ſagaciflimiſcrit tori , che nulla più
; d'alcun de'quali con ſomma lode fa menzion Galieno, appo il quale leggefi di
vantaggio ,che non ſolamente eglino contendevano co’più chiari , ed il luftri
medici razionali, ma che quegli fteffi , chenel Gin naſio bazzicavano
proverbiar ſolevano Ippocrate ,che egli temerariamente inipreſo aveſſe ad
inſegnar un'arte , dicui cgli era affatto ignorante , e digiuno . Ma ritornando
ad Erodico , chc che ſi dica di lui Platone , non ſi fermò egli nelle coſe ſole
della ginnaſtica ncll'eſercitar la medicina , ma ſi valſe d'altri , e d'altri
rimedj, de' quali altri medici dopo lui parimente fi valſero : come ſi può
vedere in Ce lio Aureliano , il quale in facendo parole della ſciatica , delle
medicine d'Erodico così dicc : Herodicus igitur, ut Aſclepiades memorat ,
ventrisadhibet purgationem , atque pofl cenam vomitus , quifunt implebiles
potius quam ficcabi les: tum vaporationibus tepidis aceti decocti exhalatione
con fectis utitur , vel aqua marina , admifta thalsa herba,atq ; biljopo, &
his fimilibus, veficis bubulis repletis corpus va purandum probat, vel aliis
quibufque majoribus inflatis tu mentia loca pulſari jubet , e tanto baſti della
medicina d’E rodico avere accennato. Eurifonte celebre medicante dell'antichiſſima
ſcuola di Gnido , il quale ,come riferiſce Sorano inſieme con Ippo crate medicò
Perdicca Rè della Macedonia , dalle poche memorie , che n'abbiamo, non ſi può
ſcorgere in qual ma I i niera 250 Ragionamento Quarto 1 niera egli medicaffe ,
ene meno come egli in medicina fi loſofato aveſſe ; e delle ſentenze Gnidie,
dicui voglion ch ' egli li foſſe l'autore, ne reca tanto poco Ippocrate , il
qua le fi diè cura di eſaminarle , ch' Io per me non ho che di viſarne . Egli
vien rapportato da Ippocrate , che i compi latori di quel libro aſſai
minutamente, ed a ſpiluzzico avel ſer raccolto , e diviſato tutte quelle coſe ,
che avvenir ſo gliono agl'infermi in ogni lor malattia ; ma non è per ſuo
avviſo da far gran fatto ſtiina della coſtoro induſtria , come quella, ch'aſſai
leggiera , ed agevole impreſa è a chiunque neprenda cura , quantúque niente
informato di medicina egli ſia : baſtado ſol,che dallo infermo della nojoſa
iſtoria della propia malattia pienamente véga avviſato.Ma lo ,có buona pace
d'Ippocrate , ſono in contrario parere; e lem brami, che gran ſenno faccian
que’medici , e fieno ſom mamente da commendare , qualora ſi danno ſomiglianti
brighe; imperocchè,non di ſole ciance,madicoſe in qual chemodo rilevāti ſi
vedrebbon ripiene le ſcritture de’me dici . Ma che è ciò , che ſoggiugne poſcia
Ippocrate, che egli fia queſto un peſo da tutte braccia , ne v'abbiſogni in
tendimento di medicina ? E chi non vede quanto dalvero manifeſtamente il ſuo
parer li diparta? da che a ſimili rac conti fa luogo comprender le variazioni
de' polli, e altre biſogne ſola medici conoſciute; edo che vaghe novelluz ze da
riftuccar la pazienza di ciaſcuno ſarebbon le imper tinenti ciuffole , ed
anfanie , che talor foglion narrare a ' medici gl'inferini, fe quelle appunto
aveſſero a deſcriver ſi poi ! e ſe per alcun, ſicome affai ſovente avvenir
veggia mo , foffe offeſo il cervello , che domine potrà unqua ridir
dirittamente giammai de'ſuoi travagli l'infermo ? nondi. meno, quantunque una
tal impreſa lia aſſai propia del me dico , lo giudico , che ſe altri vi ponetle
mano , chemedi co non foffe,peraltro riguardo maggior utile ſe ne ritrar. rebbe
; iinpcroccliè nurrerebbe egli ſemplicemente come và la biſogna ſenza giugnervi
nulla di ſuo , ove da ' medici mercè dell'ufire loro aliuzie , tra per ridur'la
cagion d'o gni avvenimento de'ma i alle lor concepute opinioni,o per altrid 1
DelSig. Lionardo di Capoa 291 alera cagione,cofa ,che ſoſpetta di
falſicà,cd'errore non ſia non pongono in iſcrittura giámai . Soggiugne
Ippocrate, che di quelle coſe , delle quali dee aver contezza ilmedi co per
propia fua induſtria , oltr'a quelle , che poſſon ſa perſi dalla bocca dello
infermo , molte ne tacquero que gli ſcrittori; e ch'egli di quelle notizie ,
che s'acquiſtano per opera della conghicttura, e che pertinenti ſono al mo do ,
col quale curar fi dee ciaſcuna malattia , non s'app.2 ga affatto di ciò , che
color ne dicono ; e quinci ſi pare, ch ' Eurifonte medico razionalc ſtato ſi
foſſe , e che , ſecondo i ſentimenti d'Ippocrate medeſimo ſuo emulo, aveſſe ſcrit
to affai bene in medicina : nientedimeno, per quel che Ip pocrate
parimenteriferiſca , chiaramente ſi ſcorge,che co sì Eurifonte , come que'
della ſua ſcuola di Gnido ben molto poco valfero nella medicina ; imperocchè
nel medi car le malattie, toltene l’acute, fi valevano ſolaméte dell'e
Jarerio,del latte, e del fiero; e veramente intorno a ciò IP pocrate a gran
ragione ne ripiglia l'autore di quel libro ſoggiugnendo, che ſarebbe degno di
gran lode l'adoperar pochi medicamenti,ſe quelli buoni li foffero e conveniffe
ro veramente a que’mali , a'qualieglino gli preſcrivono; ma che altrimenti vada
la biſogna . Vengono in ciò i medicanti da Gnido imitati da parec chj
de'moderni medici , i quali ſi tengon le mani a cintola ne'mali lunghi, ed allo
incontro poi nellacute malattica non dan mai foſta a' poveri infermi ,
travagliandogli ad ogn'ora con importuniffimi rimedj , la dove dovrebbono ſenza
fallo il contrario operare ; concioſliecofachè il ma de , il quale qualche
ſpazio di tempo dur.2 ,renda aſſai age vole al medico il potere inveſtigarne, e
rinvenirne il rime dio ; il che nc'mali acuti malagevolmente riuſcir puote , i
quali per ſe ſteſſi , o bene , o male finiſcono in brieve. Ma nondimeno egli è
ſommo artificio di medico il medi car sì fatti mali con molti rimedj:
imperocchè ſe l'infermo guariſce, il vulgo ignorante agevolméte crede eſſer ciò
per opera avvenuto di alcuno di que'tanci rimedi , che gli furono dal medico
preſcritti : non avviſando , che celeres, ! I i 2 & acu 252 Ragionamento
Quarto 1 cu acutæ pafſiones, etiam fponte folvuntur , &nunc fortuna,
nuncnatura favente, come laggiamente Celio Aureliano avvila ; e ſe
purl'infermomai vienea capitar male, tutta via della ſua induſtria ognuno
contento , ed appagato li tiene , inmaginando , che egli non abbia laſciata
coſa p riſanarlo. Ma che che ſia di ciù ne'mali lunghi,ove nel vero
l'imprendimento, e l'opera del buon medico maggiorme te ſi richiede ,
perciocchè, ficome avviſa il medeſimo Ce lio , neque natura , neque fortuna
folvuntur , ſi portò pelli maméte, per avviſo d'Ippocrate,Eurifóte;maſe
crediamo a Celio Aureliano, nelmedeſimo fallo incorſero parimen te con
Ippocrate ſteſſo tutt'altri greci medici , che furono prima di Temilone. Ma
ricornando ad Eurifonte , Io non ſo, s'egli, o pure alcri compilando la ſeconda
volta il libro delle ſentenze Gnidie,maggiormente , come porta opinione
Ippocrates, il perfezionaffe: parte delle coſe, che in prima vi li legge vano ,
come chioſa Galieno , affatto togliendo , e parte in altro cambiando ; effetti,
come altrove abbiamo pa rimente avviſato ,che provenir ſogliono dall'incertezza
della medicina ; e queſto è quanto laſciò ſcritto Ippocra te della medicina
d’Eurifonte . Si valſe cgli , come Ce Jio Aureliano dice , di qualche
medicamento d'Erodico , e ſcriſſe per quel che narri Galieno, di notonia,e di
quel le inedicine ,che ſi poſſono in luogo d'altre , che mancal ſero porre in
opera . Ma trapaſſando ora alla medicina d'Ippocrate, egli cer tamente
oltrealcrcder di ciaſcuno malagevole mi ſembra a diviſarne ora i miei
ſentimenti ; perciocchè di que’libri, che ſotto il ſuo nome ſi leggono, ne pure
a teinpo dell'an tico ſcrittore , che ne racconta la vita , dar fermo , e ſicu
ro giudicio ſe ne poteva . Ma che unque diciò ſia ,manife ſta coſa è , che
parecchi dell'opere dilui per travalicamé to di tempo ſmarrironſi , ed altre
manchcvoli in parte , tronche li riinaſero ; ed in altre ancora molto, e molto
co ſe , o da ſuoi ſcolari, o da altri aggiunte furono ; noiz però di meno c'fi
pare ad alcuno che , coll'efler perdute l l'ope 1 Del Sig.Lionardo di Capoa.
253 -- Popere d'Eraliſtrato, di Diocle d'Aſclepiade,e d'altri buoni medici
antichi, in queſte ſolaméte, che ſotto nome d'Ippo crate ne rimaſero, oggi ſia
quaſi tuttoquáto di buono v'ab bia infra'Greci di medicina,cópreſo; impertanto
moſtrano manifeftaméte, che non riſpondono a quel gran nome,che da alcun medico
greco in prima , e poi da altri anchenon medici ſenza troppo ben'eſaminar la
coſa ,egli n'ha ripor tato ; ne lo ſo permevedere , come ſi poteſſer mai, nu
Platone , ne Ariſtotcle approfittarli per efle tanto quanto nella filoſofia
naturale , come Galieno , e altri medici ſo gliono ad ogn'ora millancare . Ma
chi per Dio paſſerà sé . za riſa la beſtaggine di Macrobio , il qual poco di sì
fatte coſe conoſciuto , e nõ avédo forſe mai letti i librid'Ippocra te,
follemére cómendandolo , gli attribuiſce ciò che a Dio ſolamente conviene,
dicendo: Hippocrates qui eam fallere, quam falli neſcius. Nulla poi dico
diGalieno ,il quales tutto che non ſi vegga mai pago di lodare Ippocrate , con
dire una fiata infra l'altre ,che le ſentenze dilui tutte ve riffime fieno ,
Ta' ti Ittasaxegéros dogueala mutu le árugega tab iar e che la parola
d'Ippocrate fi: come la voce d'Iddio: Notip Des our nj In Toregros
réžis:impertātono approva egli poi co* fatti ciò, che dicecolle parole:
imperocchèmolte,emolte fiate apertamente dalla ſua dottrina s'allontana ; anzi
tal volta dimenticando quanto aveva detto in ſua lode , for te il proverbia,
e'l biaſima, come altrove dimoſtrato ab biamo . Mai più ſapienti,cd ayveduti
tra gli antichi ſcrit tori , quali furono ſenza fallo i Setteggianti, e
queich'eb ber più valore, e più nome tra ’ loro ſeguaci, in pochillimo pregio
tennero Ippocrate : come ſi può agevolmente ve dere in Celio Aureliano; ed
Aſclepiade chiamar ſolevala medicina d'Ippocrate Meditazione della morte . Ma
noi non badando a'cicalecci di niuno , diciamo primicramente , ch'egli ſi pare
certamente , che Ippocra te aveſſe in qualche grado avuto quel natural talento,
che alla medicina richiedeli; e che ſi foſse altresì cgli ſtato un' huomo infin
da’primi anninello ſtudio , e nell'eſercizio di ella continuamente involto ; e
comechè non ben intelo ſcor 254 Ragionamento Quarto I ſcorgeli ſovente delle
coſe , ſembra pure , ch'egli ciò che ſi conoſceva in medicina in que'rozzi
tempi, ne’libri degli antichi letto , & veduto egli aveſſe; e chi ben vi
affiserà la mente ravviſerà nelle ſue opere affai più manifeſte le fondamenta
delle varie , e diverſe ſette della medicina, di quel , che già follemente millantando
Plutarco ne ſcriſſe , d'avere i principj tutti delle ſchiere de'filoſofi ne'
Poemi d'Omero pienamente rinvenuti ; perchè fi dee ‘ certamente credere,o
cheIppocrate impiegato tutto nell'uſo delme dicare non aveſſe avutomaitempo
d'inveſtigare , e deter minare ciò chepiù vero gli foſſe paruto in medicina:o
che pure avendo egli coſa per coſa minutamente ſtacciata , ed abburattata,
ftanco alla finc,manifeftaméte avviſato aver ſe non eſſer più da appiccarſi ad
uno , che ad un'altro fi ſtema di medicina,per la loro egual dubbietà ;e quinci
egli poi di varj , e tra effo loro contrarj ſentimenti da' capi di diverſe
ſette appreſi i ſuoi ſcritti riempic ; e per tacer d'al tro per ciaſcun ſi
ravviſa aver Ippocrate nel libro della natura umana impreſo a parlare d'uno
ſpezial fiſtema di medicina , ed'un altro nel libro della vecchia medicina , e
d'un'altro nel libro degli fpiriti, e d'un'altro ultimamen te nel libro della
dieta , comechè qucftie'confonda con gli altri ſiſtemi da lui poco ben'inteſi ,
e ſpezialmente con quello della vecchia medicina ; il quale ultimo ad alcuno
ſembra , che intorno a tal materia .e ' compoſto aveſſe ; e viene ſcioccamente
da molti creduto non già ď Ippocrate , ma di Democrito ; ma certamente fuor
d'ogni ragione ; perciocchè in altra più nobile , e più ſottil ma niera quel
ſublime filoſofante compoſto l'avrebbe . Ma che che di ciò ſia,per tornare a
quelchereſtè dicevamo, pié d'incertezze , e tcmpellante : Ippocrate , par che
talvolta alla ſperienza , ed alla ragione il tutto raſſegni; ed altre yolte
ſembra, ch'egli alla ſperienza ſolamente s'attenga ; e da ciò moſſi negli
antichitempi alcuni , come narra Ga ļieno , ed alcuni altri della noſtra età,
infra'quali è il Mon tano , preſero cagionedi piatire, fe Ippocrate in medicina
da parte empirica , o da parte razionalc veramente tenuto ha Del Sig. Lionardo
di Capoa 25.5 ! + haveſſe ; ma non poteva certamente egli,comechènon foſe ſe di
molto grande intendimento fornito, nel maneggiar tutto dila medicina non
avvederſi della poca fermezza e della molta dubbierà di quella . Ma per altro
poi, quan to Ippocratemancaffe di quell'intendimento , che a gran filoſofante ,
emedico , qual vien' egli comunemente te nuto appartienfi:ſcorger fi può
chiaramente in tutte le ſue opere, e particolarmente nel libro della vecchia
medicina; nel quale avendo egli avviſato eſſer da filoſofare in medi cina in
quella guiſa appunto , che cgli quivi ſecondo i fen timenti de'più
antichimaeſtri diviſa, da chiunque al vero, e perfetto conoſciinento di quella
aggiugnere intenda:ed oltre a ciò , che la medicina non foſſe ella ancor tutta
a ' ſuoi tempi ritrovata , ma unamenoma ſola parte di quel la, e che molto
ancor ne reſtaffe per innanzi a ſcoprire; egli nondimeno, ne molto , ne poco vi
s'affutico ; anzi andò dietro ad altri, ed altri ſiſtemi di medicina a guiſa di
cieco , che séza guida alcuna vada caſtoni, ed attenědoſi a ciò che , incontra
, or per una , or per altra ſtradì errando , ſenza mai venire a capo del ſuo
cammino;la qual verità ben vé ne dului me.Iclimo conoſciuta , e finceramente
paleſata nella piſtola ( ſe alori ſecondo i ſuoi ſentimenti in nom :) fuo , pur
non la finale ) che egli ſcrive a Deinocrito ; over apertimente dice ſeno
eſſere ancora pervenuto a quel le gno nell'arte , che diviſato ſi aveva ,
avvegnachè negli an ni molto , e molto avanzato, e nell'uſo del inedicare con
tinuanente logorato fi foſſe . Map far pienamérc vedere,e toccar co muni quáto
po co in filoſofia avázato fi foſſe Ippocrate, egli ſi convégono ad uno ad uno
elaininarle fondamenta de'varj ſuoi, e co tanto infra loro diſcordanci ſiſtemi
di medicina ; coinechè ciò per avventura ſoverchio giudicar ſi potrebbe;
percioc chè tali , e tante ſono le dippocaggini di lui , e le ſcioco chezze
de'ſuoi ſentimenti , che tolto per qualunque mez zano intendimento ſenza troppa
firtica avviſar li potreb bono ; il che egli ancor conoſcendo , e reſtandovi
alla fine inviluppato , e contuſo , in njun di quelli riſtr fermame te ſi >
256 Ragionamento Quarto te fi volle , dottando, e tempellando ſempremai di ciaſcu
no. E conciofoſſe coſa, che del Giſtema della vecchia me dicina altrove
baſtevolmente detto ſia', cominceremo al preſenteda quello , che nel libro
della dieta con lungo , e magnifico apparecchiamento di parole egli neporge.
Pri mieramente in quel libro e'nedice ſecondo il ſentimento , ch'egli altrove
rifiutato avea dique'valent'huomini da lui contro ogni ragionechiamati ſofiſti,
che chiunque a ſcri ver imprenda della dieta all'huom pertinente , egli con
venga in primain prima aver piena ,e perfetta contezza della natura dell'huomo,
e di qualiprincipj egli da prima compoſto foſſe : e oltre a ciò ſpiar
minutamente , e com prendere quali di que'principj in lui maggiormente s'avã
taggino . Sentimento quanto ſaldo , evero , e che non ha di pruova alcunabiſogno
, altrettanto volgare , e agevole a penſare; perchè eglimoſtra ,che Ippocrate
non abbia per quello , ſe pure è ſuo , cotanto merito appo i medici dovuto
acquiſtare ; non peròdi meno lo ſcaltrito temen do negato non gli foſſe sì bel
diviſaméto ,ne vuol far pruo va , ſo giugnendo , che ciò non fi ſappiendo , mal
ſi po trebbe cibo ,che profittevole abbia ad eſſere , ad huom ’ ragionevolmente
diviſare. Indi foggiugne convenire an cora aʼmedici la compleſſion di tutti
cibi , e vivande, che noi uſiano eſſer conoſciuta ;e ſopra ciò con lunga,ed
inutil diceria grā pezza cgli di provar s’affatica,comcchè di pruo va niuna ciò
abbia punto biſogno.E quindi il ſuo ragiona mento cominciando intorno a
principj delle coſe della natura , in sì fatta gniſa ne parla. Così l'huomo,
come tutt'altri animali di due principj so compoſti, i quali comechè diverſi
ficno quanto alle lor facultà , all'uſo nondimeno ſon concordevoli , e acconci;
ciò ſono l'acqua , e'l fuoco ; i quali amendue non meno a tutt'altre coſe , che
l'uno all'altro ſcambicvolmente ba fano ; ina ciaſcuno per fe a ſe inedefimo ,
ne ad altra coſa del mondo non baſta ; e la virtù , e la forza di ciaſcun di
effi è tale cheper lo fuocoli muove ciaſcuna coſa qualun qne clia lia , c in
qualunque luogo dimori : e per l'acqua Con DelSig.Lionardo di Capoa 257
convenevolmente ella ſi nutrica , e creſce . Ma in conti nui piati, e battaglie
elliftando ſempremai fi contraſta no , e ſi vincono ; non però sì fattamente ,
ch'alcun d'eſli cotanto abbattuto , eſpoſſato ne rimanga , che niente più di
vigore,o di forza non gli avanzi; perciocchè ove il fuo co preſſo all'eſtremo
dell'acqua ſtrabocchevolmēte è per venuto , toſto il debito nutrimento gli
manca; perchè egli volgeli colà , ove nutricar ſi poſſa ; e l'acqua d'altra
parte quando all'eſtremità del fuoco è aggiunta riman priva di inovimento , e
nulla vale ; perchè vien toſto dallo ſcorre te fuoco in nutrimento cambiata . E
imperciò nel conti nuo lor tempellaméto niun di loro sì pienamente può ſo
verchiar l'altro , che affatto l'uccida ; ma amendue vengo no in sì fatta guiſa
ſcambievolmente a ſoſtenerſi, che egli no ſolamente baſtevoli ad ogni coſa
rieſcono per doverla in qualunque modo comporre. Orchi domine cotáto ſarà di
cieca paſſionc ingombro , che non iſcorga pienamente quanto vani , e ridevoli
ſieno i diviſamenti d'Ippocrate intorno a ' ſuoi principj . Vn ſol principio ,
dice egli ,non baſta ; ma baſterà egli , che sì il dica ? anzi vi ſarà chi vi
replichi , uno eſſer ſufficientiſfi mo , ove le parti, che il compongono di diverfa
figura fie no, e diverſamente fieno allogato , e infra loro compoſte, e ſi
muovano : perchè poidi yarie facce le coſe tutte del mondo compor debbano ;
ſenzachè ſe principj delle coſe vuole egli , che ſieno il fuoco , e l'acqua,
perchè egli non ne ſpiega lor natura ? ne baſta in ciò ſolamente dire eller il
fuoco valevole a dare il movimento ; perciocchè ben do veva egli più avanti
ragionando ſpiar la cagione del movi mento delfuoco , e ricercarminutamente
diche egliſia compoſto , e chedifferente il faccia dall'acqua : e queſte coſe
ritrovate riporle poi per principj delle coſe , come quelle , onde tuce'altre
vengono ingenerate: e non già il fuoco , e l'acqua , che non ſon primieri
nell'ingenerare . Ma mentre egli con l'uſata ſua traſcuraggine di ciò niuna
briga ſi prende , certamente dall'acqua , e dal fuoco in quella guiſa , ch'e'
ne favella , nc huomo, ne altro animal K k niu i 258 Ragionamento Quarto 1
niuno coinpiuto , ne coſa altra delinondo non ſe ne potrå comporre giammai ;
econtraſtino pure , e ſi meſcolino quanto ſi vogliano l'acqua , e'l fuoco tra
cſſo loro , che poche coſe infra lor diverſe riuſcir ne dovranno : licorne di
due lole lettere dell’Abici non poſſono per rimeſcola mento comporſi , fuor
ſolamente , che due fillabe : conie da A , ed L : di cui altro , che LA , ed AL
non può for marfi. Macome potran mai riſtrignerſi cotanto , eammaſlarla le
particelle dell'acqua , che formar ſe ne poſſano , ecar ne , e oſſa , e nervi,
e cotant'altre fulde , e dure parti d'a nimali , e d'altre coſe del inondo ? Ne
ciò può adoperarli punto dal fuoco ; perciocchè egli nell'acqua altro far non
può, che le particelle diquella col ſuo movimento , che chiaman dilatante ,
ſempre partire , e ſceverare , licome noicontinuo incontrar veggiamo : perchè
l'acqua vie più liquida , c diſcorrente , e rada ne diviene , non che s'am
maſſi, e fi riſtrigna in coſe falde , e dure . E alla fine ell2 dal fuoco
cotanto menoma , e faccil diventa , che ſe non , d'aria , d'un corpo all'aria
ſomigliante , certamente ella prende forma ; ſenzachè l'acquanon può per troppo
ſpa zio di tempo ritencre il fuoco , e convien ſe calda ſi vuol mantenere, che
continuo altronde quello le venga ſom miniſtrato . Ma che'l fuoco ,come
s'avviſa Ippocrate , dall' acqua nutrito fia , e perchè l'un l'altro vincer non
poſla , ſciocco troppo lo mi terrei , ſe perder tempo lo voleli in rifiutarlo .
Vuole oltre a ciò Ippocrate , che l'acqua fia fredda, ed umida,e'l fuoco caldo,
c ſecco : e che'l fuoco riceva dall'ac qua l'umidità , e l'acqua
vicendevolmente dal fuocolas ſecchezzaze che così eglino l'un nell'altro
adoperando,le tante , e tanto varie forme, e generazioni di ſemi, eda nimali
vengano a produrre : e cotanto diverſe infra loro , che ne quanto all'apparenza
, ne quanto alla lor virtù hā nulla di ſomigliante ; perciocchè non iſtando
giámai l'ac qua , e'l fuoco nello ſtato medeſimo : e ſempreinai cam biandoli ,
e diſcorrendo , forza è , che le coſe , che da lor 1 : fife Del Sig.Lionardodi
Capoa. 259 fi ſeparano , eli producono ,diſſimiglianti oltremodo rie ? fciano .
E certamente , com'e' diviſa, niuna coſa del mon do non muore , nc ſi fa quel
che in prima non erazma me ſcolate inſieme, e partite ſi cambiano le coſe :
come chè giudichi alcuno , che da Pluto per accreſcimento tratto venga alla
luce, e ſi crii : e altro incontrario ,che dal la luce per iſcemamento a Pluto
giunto ſi diſtruggage dice poi,che nó ha dubbio veruno , che fia più toſto da
preſtar fede agli occhi , ch’alle opinioni , o pareri degli huomini. Reca
eglipoi di ciò la pruova , dicendo animali ef ſer queſtie, quelli , e non eſſer
miga poſſibile, ch'uno ani mal ſi conſumi , non con tutti : conciolliecoſachè
chi po tri mai diſtruggerlo ? ne può ingenerarli giammai quel che non è , non
avendovicofa alcuna ,che non ſia , onde poſſa ingenerarſi;mabé s'accreſcono
tutte coſe,e li meno mano a soma grādezza,e picciolezza in quanto egli ſi può:
e quinci s'ingenera, e muore alcuna coſa. Indi egli ſpiega in grazia del Vulgo
, che lo ingenerarſi, e'l corróperli del le coſe altro non ſia , che'l meſcolamento
, e lo ſcevera mento . Ma più avanti facendoſi dice , che lo ingenerarſi,
e'lcorromperli la medeſima coſa ſieno : e'l medeſimo pa rimente il meſcolamento
, e lo ſceveramento : e che lo i13 generarſi altro che il mefcolamento non fia
: el corrom perſi , e'l menomare altro non fit , che lo fceveramento : e che
ciaſcınıa coſa ſia la medeſima , che l'altra : e tutte lien uno ; e in queſte
sì fatte coſedice egli l'uſanza eſſer con traria alla natura ; ma ſpartamente
ciaſcuna cofa , o ſia di vina , o umana ,ſufo , e giuſo vicendevolmente,
giorno, e notte , più , o meno traſcorrere. Indi fiegue egli a di se il fuoco,
e l'acqua hanno avvicinamento ; il Sole l'hà lunghiſſimo , e breviſſimo ; di
nuovo queſti , e noi qucfti ; la luce a Giove , le tenebre a Pluto : la lu ce a
Pluto , e le tenebre a Giove avvicinanſi, ecam ' bianſi quelle quà, e quelte
là;d'ogni tempo paffano quello coſe di queſte,e queſte di quelle ; ne fi lanno
quel che el leno medeſime fi facciano , comeche faccian veduta di fa . perlo
:ne ciò , che veggono,conoſcono , ma in tutto ciò Kk 2 ogni 260 Ragionamento
Quarto 1 . ogni coſa loro per divina neceſſità avviene, così in quel le coſe ,
che vogliono , comein quelle , che non voglio no , perciocchè accozzandoſi , e
partendofi quelle quà,e queſte là , fra eſſo loro avviluppate , e confuſe ,
ciaſcuna il preſcritto fato adempie. Or chi ſarà così da paſſione accięcato , e
imbard.ato , che manifeftamente non ravviſi in ciò , che rapportato nº abbiamo
, effer egli una ſtrania cervelliera , e poco men , che ſpiritata colui, che
ſognandolo lo ſcriſſe Ė non fico prende chiaro in cotanti aggiramenti, ed
arzigogoli, che Ippocrate parla aſſai di ciò ,che meno intende ? e che nő ſolo
coll'oſcurità delle parole vuol naſcădere la ſua dap pocaggine , e ignoranza ; ma
anche farne cotanti Calan drini :e tenendo lo ſciocco vulgo in parole , il qual
fem premai coſtuma di pregiare aſſai più ciò che non gli èma nifeſto , darne
conmaraviglia a divedere ch'egli delle co ſe della natura oltremodo conoſciuto
ſia . Egli è ben ve ro, che molti anche di coloro, i quali letterati
ſtimanſi,há creduto , o moſtrato di credere , che in queſti riboboli , cd
enimmi d'Ippocrate , e in altri ancora, che largamen te ſon ſeminati entro i
libri tutti della dicta, e in quel del la vecchia medicina , edell'alimento ,
ch'egli tutti i più naſcoſi , e pregiati miſteri della medicina , e della
filoſo fia abbia deſcritti; e non ha guari che'l Tacchenio nel ſuo Ippocrate
chimico ſi è ſtudiato con queſto libro di darne a divedere eſſere ſtato
Ippocrate un valentiſſimo chimi co . Ma ritornando a ciò , che diciavamo, lo
m'avviſo , che Ippocrate ciò trovaſſe ſcritto in qualche libro d'alcú di quelli
antichi filoſofi, i quali ſolevano cosi vezzatamé te favellare :e che poco cgli
incédédoiſentiméti di coloro, così ſconcj, e guaſti l'abbia portati , in quella
guiſa,che fileggono ; e tanto più , chemoſtra ,ch'egli confonda in ſieme, e
meſcoli due ſiſtemi di medicina, e di filoſofia fra ello loro contrarj ; da che
egli dopo aver portati que? due primieri principj delle coſe, avvedutofi forſe,
che non baſtavano , parla poi non altrimenti , che ſtabilito aveſſe in prima ,
che ciaſcuna coſa in ciafcuna coſa ſia , nel . Del Sig.Lionardodi Capoa. 201
nella maniera appunto, che ſi accennò nella cenſura del libro della vecchia
medicina; perciocchè e' dice, che nul la ci s'ingenera di nuovo , ma sì ſi
meſcolano inſieme le parti, e compongono le coſe,e lefan grandi,ne alcuna co fa
li muore al poſtutto , mà ſparpagliandoſi, e dividendo ſi vien meno . Coſa, la
quale non può intenderſi in verű modo di ciò , ch'aveva egli in prima detto ;
perciocchè ſe l'acqua , e'l fuoco i principj ſono dell'huomo , meſcolan doſi
queſti , e accozzandoli a formar l'huomo, non ſe ne potrà certamente altro
naſcondere , che l'acqua , e'l fuo co medeſimo,prendendo ſembianza delle parti
dell’huo mo , com'e' dice ; ma non già le parti dell'huomo, ciò ſo no carne ,
offa , nervi, e altri membri di quello, eſſendo ci in prima , comechè
appiattate , e naſcoſe , nel meſcola mento dell'acqua , e del fuoco ci ſi
laſcino poi di preſen te vedere ; ne partendoſi poi l'acqua dal fuoco, e guaſtā
doſi il lavorio dell'huomo non diverrà ne la carne ,ne l'ol fo così menoma , e
tritolata , che non ſi parrà ; ma tutta la carne , e tutto l'oſſo diverrà acqua
, e fuoco : e queſti che in prima non apparivano , manifeitamente nelloro
.ſcioglimento poi ſi vedranno . Si pare adunque,ch'e ' vo glia dire eſſer
nell'acqua le particelle , chc chiaman ſimi lari, ma così menome, e ſottili,
che non ſi poſſan per huom ravviſare : le quali poi rannodate, o ſciolte dal
fuo co , compongano, e guaſtino le coſe . Ma ſe pur queſto cgli volle intendere
, comepotrà mai il fuoco le particel le dell'acqua colla ſua forza annodare, ſe
il movimento è dilatativo, come dicono , e ſempremai ſcioglie, e parte ?
Convenivaadunque , che Ippocrate altre, ed altre ragio ni ne recaſſe , le quali
ciò poteſſer operare . Ma concedaſi ciò pure a lui : non perciò
l'acqua,c’lfuoco , ma le par ticelle ſimilari ſarebbon da dir principi delle
coſe. Ma cadendogli dalla memoria ciò ,che poco anzi egli detto aveva, ricorre
di nuovo all'acqua , eal fuoco : e in favellando dell'anima dell'huomo,non mçno
ſciocco ,che empio , e miſcredentc,dice quella ancora, come tutt'altre coſe ,
eſfer d'acqua , e difuoco compoſta . E tante, e tali ſono 262 Ragionamento
Quarto 1 4 ſono le ſue ſcempiezze, e mellonaggini neʼlibri della die ta , che
lungo ſarebbe ad una ad una narrarle . Ma trapaſſando all'altre ſueopere ,
contende il Vale riola , e con luianche ſi conforma il Cardano , non eſſer
d'Ippocrate illibro intitolato mei quoär , overo degli ſpia riti groiſi, o
vizioſi : peralcuneſciocche , e falſe dottri ne , che in quello s'avviſano , e
altre ancora contrarie a quelle , che in altri ſuoi volumi egli divisò , Ma fe
tale oppofizione aveſſe luogo , converrebbe certamente con dannar come non ſue
l'opere tutte , che ſotto il fuo nome fi leggono ; perchè è da dire , che poco
ragionevolmente aveſſe perciò cotal libro ilValeriola colto a lppocrate;ma
Galieno , comeche in quel libro vi ſien diviſamenti poco a' ſuoi pareri
conformi, non però di meno riconoſcendo lo egli d'Ippocrate , il reca ſovente
in concio di qualche ſuo ſentimento . Sembra certamente il libro miglior per
avventura di tutt'altri,chc intorno a ſomigliante materia aveſſe mai compoſto
l'autore ; imperciocchè ha egli ordi ne , e qualche forte di chiarezza : e
moſtra fovente , che l'autore intenda bene ciò, che ſi dica . Vuole egli in
eſſo darne a divedere , che tutti mali , che n'avvenge:10 , da una ſola cagione
ſi dirivino ; comeche per li diverſi luo ghidelcorpo , ove n'aggravano,
diſſomiglianti affai ne ſembrino . Tutti corpi , eglidice , così
dell'Iruomo,come d'altri animali,del cibo ,dello fpirito , edel bere ſi loſten
tano . Gli ſpiriti, che ſono entro il corpo , vengono da Ippocrate chiamati
quoca: e quello, che è fuora del cor po aveõua cioè : a dire , aria . L'aria
fecondo Ippocrate ha grandiſſima parte fra le coſe , che accaſcano alcorpo : ed
è donna , e lignora del tutto . Indi egli lungamente fopra quella ragionando ,
dice delle fue gran virtù , ed opere , Itabilendo in prima qualche ſentenza ;
la quale preſe 2 gabbo dal Valeriola n'è moſtra a' di noſtri per ve re dalle
maravigliore , c fommamente comincndevoli of fervazioni de’noftri moderni .
Dice egli , che tutto ciò she fra’l Cielo , ela terra s'interponeſia , da
ſpirito ingôn bro : e che lo ſpirito cagioni il verno , e la ſtate : e che'l
cor DelSig. Lionardo di Capoa 263 1 corſo della Luna , e delle Stelle per lo
īpirito facciali : e che lo ſpirito alimenti ilfuoco , intanto che ſenza quello
non poſſa il fuoco più vivere : c che l'aria ſottil perpe tua purimente
perpetuo mantenga il corſo del Sole . E oltre a ciò avviſa Ippocrate ritrovarſi
achcin mare lo ſpio rico ; perciocchè ſe quelnon vi foſſe , dice egli , che i pe
ſci non potrebbono in niun modo vivere ; concioſliecola chè non
participerebbono dello ſpirito dell'acqua traen dolo . Aggiugne di vantaggio
effer la terra fondamento dell'aria,c queſta veicolo della terra: ne aver coſa
niuna al mondo vuota di quella : e quella ſolamente eſſer cagione a noi della
vita , e diciaſcuna malattia , che n'avviene ; intanto che avendone meno infra
bricve ſpazio di tempo ciaſcun ſi muore ; perciocchè ben può ciaſcuno ſenza ci
bo , o beveraggio alcuno viver qualche giorno: ma non già ſenza ſpirito ; e ben
poſſiamo poſando ceſar di tutte noſtre operazioni , comechè menome, e brievi
elle ſieno; ma non già del reſpirarc . E quinci egli vuol trar conſe guenza ,
eſſer molto ragionevole, che ficome la morte , così anche le malattie tutte dallo
ſpirito n'avvengano , e che quello calor compreſo , e putrefatto da altre
cagioni diſcorrendone per lo corpo n'offenda . Quindi egli co minciando dalle
febbri và diviſando , ficome ciaſcun ma le dallo ſpirito ſi formi : e tutti
minutamente gli anno vera . Ma un sì fatto liſteina , perchè ingegnoſo fia , e
conte gna in se qualche coſa di ragionevole, non però di meno , generalmente
ragionando , falſo affatto , e inveriſimiles eſſer fi ſcorge; concioſliecoſachè
quantunque grande fia il biſogno , chedell'aria abbiamo, non è perciò quel a ſo
la , che ne mantiene , e ne nutrica : ma l'acqua ancora al noſtro vivere è
neceſſaria , e altre molte coſe , così den tro , come fuora del corpo ; le
quali , o mancando , oſo verchiando , o alterandoſi, non men dell'aria medeſima
cſfer poſſono a noi cagion di malattie . Nemeno al preſente è da tacere , come
cotal ſiſtema di medicina s'appoggi a'divilainenti , i quali non cheda Ippo 264
Ragionamento Quarto Ippocrate foſſer provati , anzi dalvero talora manifeſta
mente appajon lontani . E comechèalcuni di loro ne sém brino aver qualche
ſembianza divero ; non però di meno fon da lui con parole non propie , e
ambigue a bello ſtu dio inviluppati , e adombrati ; acciocchè aggiugnendo noi
con malagevolezza, e fatica a ritrovarne il coltrutto , da quelli poi
prendeſimo argomento di giudicar talijan zi maggiori gli altri ſuoi ſentimenti
ſciocchi, e vani , com poſtida lui per uccellarne maggiormente . Ma ſe lo
ſpirito,ſecondochèIppocrate così liberamen te afferma , è colui , che ſignoreggia
, e governa ciaſcuna coſa del mondo , e che la vita , e la morte ne porge : per
chènon iſpiega egli poi , ficome certamente fargli con veniva , come, e con
quali artificj tante maraviglie quel lo adoperi ? e perchènon ragiona della
natura di quello , e diquell'altre ſoſtanze , che , come e' dice , imbrattan
dolo, e inſuccidandolo cotanto a noinocevole , e peſti lenzioſo il rendono ? E
per avventura gran ſenno egli fe a non addoſſarſi cotanta briga; perchè è da
dire , che ciò egli non ſappiendo, non potrà certamente mai la natura , e la
generazion delle malattie per sì fatta ſtrada incoglie re ; e ſeguentemente gli
argomenti ancora , come a quel le da proveder ſia non ſaprà. E quinci avvien
poi , che ne men di que’mali, cheper compreſſion dell'aria vera mente
n'avvengono, no mai egli coſa alcuna di ſaldo rap porta; perciocchè non
ſappiendo egli la natura dique'cor picciuoli,da cui compreſso lo ſpirito quella
generazion di febbre cagiona , la quale , com'eglidice, è tutta comune, e
appellati peſte : ſenza dubbio non giugnerà egli giam mai a penetrare gli
effetti tutti , che da quelle diverſame te provengono, e le varie maniere ,
colle quali ciaſcuno animale offendono. E ſe egli non cura d'inveſtigare altre
si quali ſoſtanze ſieno quelle, che s'accompagnano collo ſpirito allor che
racchiuſo entro noi ne muove la colica ,o altri ſomiglianti mali , come ne
potrà egli mai compiuta mente ragionare : o donde trarrà egli gli argomenti da
porvi ragionevol conſiglio ? Ma 1 Del Sig. Lionardo diCapoa 205 Ma ſe le ſoſtanze
, che collo ſpirito -meſcolanſi , ſon ca gion di cotante malattie , come
potralli eglia buona ragić dire , che lo ſpirito medeſimo, enon più toſto
quelle ciò adoperino ? perchè è da dire , che ſtabilendo Ippocrate it ſuo
ſiſtemà, alla prima v'abbia dato di becco , e vi ſia infe liceinente
fdrucciolato , dicendo eſſer l'aria cagion del. le noſtre malattie , e non più
toſto le varie , e diverſe for ſtanze , che per quella diſcorrono , e collaria
inſieme en trano ne'noſtri corpi: quali ſono molti ſemi, e animaletti, chę
ſovente fi ravviſano , così nelſangue , come nell'altre parti liquidedi noie,
le rendono mal'acconcc ad adem piere i loro uficj: e fermandoſi talora o nel
cuore , o nell? altre parti ſalde del noſtro corpo in molte, e molte manie re le
moleſtano ; ſenzachè ſon nell'aria varie , e varieme nomiſſime altre ſuſtáze
da'vegetali, e da’ıninerali corpia quella mandate : alcune delle quali, quando
di ſoverchio vi diſcorrono , fannofi anoi per opera dell'odorato ſentirez e
l'avvedutiſſimo Elmonte intorno a ciò narra chente , es quali ritrovate egli
n'aveſſe una volta in una tela ſtata al quanto appiccata al merlo d'un'alta
torre ; perchè egli for: te fi maraviglia,come noi che continuo le beviamo,
lunga mente viver poſſiamo ſenza nocimento alcuno; ma non aya visò egli eſſer
ancora nell'aria molte , e molt'altre ſoſtanze a noi giovevoli,le quali
certamentepoſſona'dannidi quel le riparare . Ora in queſte,e in ſomigliati
oſſervazioni cõveniva, che il buono Ippocrare tutto il ſuo ſtudio
impiegafle,ricercan do diligentemente le vere cagioni della peſtilenza, accioc
che prender vi dovelle convenevol riparo : e non fare il pancacciere con lunghe
dicerie , e vane , e inutili fraſche tenendone a bada in quel ſuo fainoſiſſimo
libretto,ove egli lungamente ragiona degli ſpiriti. Ma lalciãdo alpreséte ciò
da parte ſtare,quáto Ippocra te manchevole, e difettoſo ſia ſtato in queſto ſuo
nuovo ſi ſtema di medicina, ſi può agevolmente conoſcerc in ciò , che cgli
della febbre và diviſando . Dice egli, che allor che diſoverchio empieli il
corpo di cibi, ingencranfi in 1. 1 130i 266 :: Ragionamento Quarto noi grandi
ventolit , le quali non potendoper lo ventre di ſotto uſcire per ritrovarlo
chiuſo , ruggiando per ic bu della diſcorrono all'altre parti del corpo ,
maſlimamente a quelle, ove ſerbaſi il langue , e sì l'infreddano , e'l fanno
intriſire . Or come domine potrà mai dentro de' ſuoi vaſi infreddare il săgue
plo ſpirito che è nelle viſcere ? ma egli ingannofi forſe Ippocrate avviſando
il ſanguc tratto dalle . vene, il qual per l'aria di fuora divicn freddo . Ma
che che ſia di ciò, davcva ben egliconſiderare non potcrne in mo do alcuno
raffreddare il ſangue dentro alle vene l'aria , in che di verno crudo , e
rabbruzzata dalle nevi , comeche continuo ne circondi, e continuo da noi fi
reſpiri. Erra ancora grandemente Ippocrate in dicendo , che'l ſangue
dall'orrore , e dal treinore fopravegnenté intimo rito ſi rifugga alle parti
più calde del corpo : ove poi ſi ri ſcaldi, e ſiraccenda per maniera tale, che
anche l'aria me delima, che prima infreddato l'aveva,nc divenga calda; e sì
amendue ftraboccheyolmente affocati riſcaldino cutto il corpo, e'l faccia
febbricoſo . E certaméte in ciò egli ragio nando, molto ſconciamente
s'ingāna;perciocchè,le, come egli confeffa , il caldo tutto al corpo dal fangue
fi cagio. na,come potrà mai infreddato il ſangue niuna parte del corpo rimaner
calda ; anzi treinerà egli per tutto, e diver rà ghiaccio , come cantò
l'antichiſſimo fiorentin Poeta. Qual'è colui, c'ha sì preſſo il riprezzo De la quartana
, c'ba già l'unghiaſmarte, E triema tutto purguardando il rezzo . Ma, ſicome
egli s'avviſa , rimangano pur calde l'altre parti del corpo ,
nedall'infreddardel ſangue fi mortifichi no ; non mai tanto però faran vive , e
affocate , che vale voli ſiano a raccender l'agghiacciato ſangue, e ſvegliare
in quello un sì rabbioſocalore,qual ſenza fallo è quel del la febbre . Ma
troppo nojolo lo nc verrei , ſe tutti minutamente raccontar voleſſi gli errori
d'Ippocrate intorno a sì fatto ſia ſtema ; perchè rimanendomi al preſente di
più ragionarne trapaſſerò a quell'altro ſuo ſiſtema di medicina cotanto ICITU 1
1 1 Del Sig. Lionardodi Capo a. 287 eenuto in pregio , e commendaco dal luo
chiòfator Galie no , che nulla più : di cui cotanti filoſofi, e medici in ragioz
nando , e in iſcrivendo ſi ſon valuti , e tuttavia li vaglionoj che ſembra omai
ſconvenevoliſſimo , e indicibil fallo il mu* farvi contro , non che
manifeſtamente abburattarlo . E queſto ſi è il diviſamento , ch'e'fa nel libro
della natura umana ; il qual libro non può recarſi ir dubbio,che-d'Ip pocrate
verainente non ſia , in ciò che , come faggiamente avviſa , e argomenta Gilieno
della teſtinonianza di quel lo ſerviſſi più volte Platonc ; e ben può per
quello chiun que n’abbia talento agevolmentecomprendere ,fin’a quá to
d'Ippocrate ſi ſtendeſſe l'intendimenco , ela valoria, co sì nell'inveſtigar le
coſe della natura, come in altre, ed ala tre coſe alla medicina pertinenti ; e
coincchè per Galien ſi contenda eſſere ſtato verannénre Ippocrate il pri:11 )
ittle tore , e inventore d'un sì fatto ſiſtemi; noa però dimeno per
teſtimonianza delmedeſimo Ippocratc apertimento ciò eſſer fa ſo s'avviſa ;
concioſliecoſachè rapportandolo egli nel libro della vecchia medicina
manifeſtamente na ragiona , come di dottrina da altri già prima di lui ricrova
ta , einſegnata;anzi nel medeſimo libro della natura un la 112 agevolmente per
ciaſcun ſi può comprendere , che Ip pocratc,non come di ſuo propio diviſamento
ne ragionin . Miche che fadi ciò tralaſciandolo digiudicar noi al pre ſente ,
darem cominciamento dal titolo dellibro così an pio , e inagnifico , che nulla
più ; e certamente cilcuno abbattédoſi nella prima faccia nel libro deci puoi
cvJpurs, ſcaglierebbeſi tolto a leggerlo, e a volerne imprender con ingordigia
tutto ciò , ch'e defidera : giudicando , ch'un si valentemedico , e
filosofantc, qual Ippocrate comuneiné te ſtimaſi , verainente trattata l'aveſic
, licomealla propo fta materia ſi conveniva : cche,comegià Marco Tullio del
divino Democrito , il quale nel cominciuniento d’un ſuo libro ſcritto aveir ,
b.ec loquarde univerſis , ebbe a dire nit excipit de quo non profiteatur , così
d'aſpettar foile d'Ippo crate, chenulla già quivi tralaſciato aveſſe di quanto
alla natura umana s'appartiene. Ma tolto egli del.no avviſo LI 2 folier 268
Ragionamento Quarto [ chernixo , e beffato rimarrebbeli,vedendo in quante brico
vi parole fuggendo Ippocrate traſcorra tolto una così ma lagevole , e così
vaſta matcria ; e ciò , che è affatto impor tevole in lui, che cotanto nella brevità
dilettoſli , egli è il libro più ricco aſſai di parole , che dicoſe ; anzi di
poco falla , che tutto parole egli non ſia : e quelle pochiſſime coſe , che vi
ſono , così ſconce, e ſenza ragione ſi portanto , opure con cosi vani,e
fanciulleſchi ſofiſmiintralciate, che nulla di ſaldo vi ſi può per huom giammai
apprendere. Egli dice primieramente Ippocrate con lungo aggira mento di ciarlc
, che alcuni giudicavano eſſer l'huomo ſo lamente una coſa ; ma , che coſtoro
tuttimal certainente comprendevan quello , di cui favelſavano, e che perciò di
verfâmente l'andavano ſpiegando ; concioſlīccofachè quá tunque ciaſcun di loro
concordevolmente diceffe, tutte co ſe , che ci ſono eſſer una , e queſta
medeſima effer una a tutte; non però di meno diſcordavā poi oltremodo inſieme
in dando a quella nome ; perciocchè altri dicevano eſſer aria , altri fuoco ,
altri acqua , e altri terra . Soggiugne egli poi , che ciafcun di coſtoro
recava teſtimonianze , e ſe gni , ma di niuna lieva, in concio del fuo
ſentimento; e che tenendo tutti la medeſima opinione , e contradiandoſi nel le
parole , davan manifeſtamente a divedere, che niun di Loro ſapea veramente la
coſa ; e che ciò parimente ſi ſcor geva ili vedendo tutti coſtoro nel lor
continuo piacire, che tratto tratto facevano , non mai per tre fiare continové
riu fcir dalla battaglia i medelimi: maoruno, or altro eſfer il vincitore ,
ſecondamente che ben parlante egliera , edat popolo tenuto in pregio .
Conchiude alla fine Ippocrate , chuom , che di coſe vere, e da ſe ben conoſciute
faceſſe pa role , ſempremai dalle conteſe con vittoria uſcirebbe ; o che ſembra
a lui , che coſtoro piatiſfer con parole più per iſocmypiczzi , che per altro ;
perciocchè tutti alla per fine convenivano infra loro nel ſentimento di Mcliffo
. Ma Galicno chiofando queſto luogo d'Ippocrate, con ' gran pompa di parole
forte fi maraviglia , una sì fciocca credenza eller caduta nell'aniino di
que'filoſofanti, i qua live Del Sig .Lionardodi Capoa: 269 Si venivano in sì
fatta guiſa a coglier via la contemplazioni delle coſc naturali, mindando a
fondo la vera filoſofia. Ma ftiaſene pur con pace Galieno : non ſembra per Dio
, che con sì fatto cominciamento prometter ne voglia Ippocra te un trattato
beir lungo della materias ch'egli imprender a ragionare , e quale appunto
quella richiede ? mapoinon trapaſſando oltre a divifarne, par che ne
vogliamanifeſta mente uccellare , laſciandone affatto digiu ni della mate ria ,
ne inſegnandone coſa alcuna di lieva . Ma ſi per doni queſto pure a Ippocrate :
qual ſi foſſe veramente las ſentenza di que’valent’huoinini, Io nonmidarò al
prelen te curz niuna d'inveſtigare ; tanto accennerò , che eglino tutti una
medeſima coſa dicevano : e cheniun di loro giu dicava , che o l'acqua , o la
terra , o l'arir , o'l fuoco foſſe principio delle coſe dell'Vniverſo :ne di
ciò mai fu conteſa infra loro , comeſcioccamente giudicano Ippocrate, e Ga
licno ; ma ſolainente eglito piativano, e andavan confide rando di qual faccia
veſtiſſe l'univerſo da prima , allor,che fu fatto ilmondo ,ſe d’acqua , o di
fuoco , o d'aria , o di terra . Ne laſcerò d'accennare quanto vana', e ridevole
fia la ragioneper Ippocrate recata ; concioſſiccofachè chiſa rà colui, che
manifeſtamente non ſappia,che nel piatir de? letterati huomini , maſſimamente
appreſſo il vulgo , non mai vincer foglia colui ' , che ſa ben la coſa, e che
dice vero : ma colui, che meglio con vaghe' , e ben ordinate dicerie Ja fa
colorare : eche il più delle volte nelle conreſe ne ha ſempre la miglior parte
l'ignorante , e'l ſofiſta ,come ilme deſimo Ippocrate ancor rafferma ? Macome
que’valent" huomini porevan mai eſſer d'accordo colla ſentēza di Me liffo
, il qualnon diterminò mai il principio delle coſe nx turali , fe eglino , comc
Ippocrate racconta , il ditermina vino Ma che che ſia di ciò , Io per me
immagino, che te neſſer veramente eglino la ſentenza di Meliſſo , come Ip
pocrate dice' ; ma ſe ciò era , a torto certamente da lui fur biaſimati :
dicendo egli, che coloro determinato aveſſero il principio delle coſc qualli
foſſe , con chiamarlo o arias , o acqua ,o fuoco , o terra ; ſe pure non
vogliam dire , che -- Ip 270 Ragionamento Quarta Ippocrate veramente non
intendeſſe ciò che que’valent huomini fi diceſfero , it che fe ben li conſidera
, il fue vellare , che in tutto il ſuo libro ne fa Ippocrate, ſembra nel vero
più ragionevole . Fin qui e' fi pare , cheIppocra te abbia de'filoſofanci ſoli
favellato : ora ſe'n viene egli a’ medici , e dice , che alcuni diloro
affermavano non alira cola , che ſangue eſſer l'huomo; altri eller quello ſolamen
tecollera : ed altri ſolamente flemına ; perchè dice egli che coſtoro imitavaro
que’hiloſofi dalui in prima raccon tati , tenendo uno eſſere il principio
dell'huomo, e chia mandolo col nome, che più lor veniva a grado, o di colle ra
, o diflemma, o di ſangue , e che quello dalcaldo,e dal freddo a cambiar fi
venga in ſembiante , ed in virtù , e di venga, e amaro , e dolce , e bianco e
nera , cd ogn'altra.com fa . Soggiugne indiappreſſo Ippocrate , che molti, emol
ti così dicevano , e che altri , ed altri dicevan parimente coſe da queſto non
guari lontane. Or quinci ſi vede chia ramente chenei ,cqualiſi foſféro anche ne
tempi d'Ippa crate infraʼmedici le conteſe ; perchèmoſtra veramente , che da ſe
ſteffa la medicina altro non ſia , ch'un fertiliffi mo campo , che
litigj,piati, e diſcordio ad ogn'ora pro duca . Ma riprova Ippocrate si fatte
opinioni con quell'argo mcnto cotanto per Galienu ammirato , e celebrato , che
nulla più : ſe una coſa fola , dice egli , l'huomo ſi foſſe non verrebbe
certaméte eglimzi a dolerſi:imperchè nó aureb be egli donde venir gli potefíe
il dolore , per eſſer ogni coſa una ſola coſa ; e fe pure l'huom mai li doleffe
, convera rebbe ſenza fallo , che uno ſi forre il rimedio , coʻl quale egli
guarir doveſſe ; ma in farti va altrimenti la biſogna. Micomechè nella prima
vista ogn’un ch’abbia punto d' intendimento avveder ſi poſa della vanità di sì
fatto argn mento , pure ne farem noi qualche parola'; ma veggiani prima ſe
contro coloro , a'quali par propiamente indiriz zato , coſa alcuna egli
conchiuda. lo permeavviſo , che que'buoni medici nulla curar fi dovettero mai
di sì tutte ciuffole , ed anfanie , imperciocchè eglino tenevano , che 1 1 1 o
'! 10 Del Sig.Lionardo di Capoa. 271 o'l fangue, o la collera , o la flemma ſia
quelprincipio prof fimo, cioè donde iminediatamente s’ingeneri l'huomo:ma che
ciaſcun di eſli venga poicompoſto da quell'altro pri mo principio , del quale
l'altre coſe del mondo tutto fatte ſono; e che queſto foſſe ſtato lor
ſentimento ſcorger fi puo te chiaramente dalle parole , chc Ippocrate medeſimo
di lor riferiſce allor ch'e'dice , che eſi volevano , che o dal ſangue , o
dalla collera , o dalla flemma ſi-cagioni l'amaro, e'l dolce , e tutte altre
coſe , che nell'huomo li ravviſano ; or comenon può agevolmente l'huomo,tutto
che di ſana gue ſolo formato e' li foffe , ayer cagione di dolore dall'a . maro
, dal falſo , dall'acetoſo je da altre , e altre coſe, co mechè eſſe dal
ſoloſangue ſi foſſero ingenerate ?ora a que. fte tante cagioni de’dolori non fa
egli meſtieri, che con più d'uno rimedio li ripari : e ſe in ſentenza di
que'valent'huo mini nelle vene altro non è , ſalvo che o ſolo ſangue , o ſo la
flemma, o ſola collera : potrannocertamente rondime no nelle vene ſteſſe , o
dal fangue ſolo , o pur dalla flem ma ; o dalla collera . , ed oltre a ciò
nello ſtomaco da'cibi molte, e molte coſe parimente di diverſa natura
,contrarie ; e moleſte all'huomoingenerarfi , che potranno ſenza fallo elfer
cagioni di dolori , e di varie ; e varie generazioni di malattie, le quali
certamente con altrettante medicine di fcacciar ſi convengono . Egli doveva
adunque provar Ippocrate primicramentes che dal ſolo ſangue , o dalla ſola
flemma, o dalla collera , fola,nientealtro ,che o ſangue, o flemma , o collera
inge: nerar fi poffa; il chein niun modo fa egli , e ne men fare veramente il
potea : concioffiecofachè favellando ſecondo i medeſimi ſentimenti d'Ippocrate
aurebbon potuto dire que'medici , il ſangue, la flemma,e la collerà eſſer non
ſemplici, ma compoſte coſe di que'quattro corpi , che Ip pocrate vuole , che
ſiano i primi principj; e come tali ben poter eglino in varie , e varie forme
cambiarſi; ed in vero fe le varie , e varie ſoſtanze onde l'huom ſi nutrica ,
come dovetter fenza fallo conoſcer que'valent'huomini, non ſo : no di ſangue
formate , e d'eſſe nondimeno s'ingenera il să gue r . 272 RagionamentoQuarto
gue, convien neceffariamente dire , che varie , e varic coſe che ne meno han
ſomiglianza niuna col ſangue , fi pof fan dal ſangue parimente ingenerare ; e
cosi ſomigliante mente della collcra , e dellaflemma aurebbon potuto co loro
filoſofare , Ma aurebbe poi per avventura riſpoſto un di que'filo ſofi, che
Ippocrate s'avviſa parimente colla ſua ragione di riprovare , chel'aria ſola
col riſtrignerſi , e coll'allargarſi , e con altri , e altri movimenti delle
ſue particelle valevole fi renda a ingenerare , e ſangue , e carne, e oſſa , e
nervi, c altre , e altre parti cosìſalde , come diſcorrenti dell'huo mo, e che
ſimiglianteméte coʻmedefimi ſuoi vari moviine ti cagionar poſſa mole’altre
generazioni di varie altre lo ftanze, onde ricever poi debba l'huomo non una,
ma più, e più cagioni di dolori , e di malattie , alle quali faccian ,
meſtiericotantialtri medicamenti per ſuperarle. Ma cer tamente Meliſso , e gli
altri buoni filofofanti, i quali fole lemente ſi fa a credereGalieno ch'abbia
Ippocrate vinti, direbbono , che non ſolo veramente uno ſia il principio.di
tutte coſe , cioè il corpo : ma che ſe uno il principio non foſſe, non ci
ſarebbe ne dolore , ne malattia , ne rimedio alcuno giammai , e che a fare
diverſità di inali, e di rime dj altro non vi ſirichiegga, che l'eſſer
quell'uno corpo di verſamente ſtritolato , e partito : lecui ſottiliflime
particel le di tante, e sì varie figure compoſte, ſolamente in ciò dif feriſcano
. Mimaraviglio poi oltremodo di Galieno , il qualnon s'avvede,ciò che impugna
Ippocrate eſſer crede za d'Ippocrate medeſimo ; ma ciò che nedee recar vcra
mente più maraviglia , ſi è ch ' una tal opinione dallo ſteſ ſo Galieno vien
tenuta in tutte le ſue opere, e particolar méte nelle chioſe di queſto medeſimo
libro.Ma Ippocrate dopo aver recata la ſúdetta ragione folleméte dice,checo lui
ilquale porta opinione , che l'buomo ſia ſolo ſangue , debba mo& rar ,
che'l ſangue non muti ſpezie, ne ſi cábj in varie , e varie maniere,c allegnare
almeno un'ora ſola dell' anno , o qualche età dell' huomo , nella quale non
altro che ſangue in eſſo lui fi ravviſi, e ſimilmente dice egli degli altri .
Del Sig.Lionardo di Capoa 273 aleri . Ma perdonifi ad Ippocrate il non oſſervar
lui l'ordi nato diviſamento nel favellare , avendolo egli ſempremai per coſtume
: Io l'addimando in prima , perchè ſecondo lui la collera , il ſangue, e la
flemma, e la malinconia nel comporre varie , e varie parti dell'huomo, poterono
sì be no cambiar natura : e cambiar non potralla ciaſcuna di lo ro
ſeparatamente ? e s'egli riſpondeſſe , che non già col cambiar natura , macol
ſolo meſcolamento quelle parti formarono , lo gli ritorno a dire, che non mai
col ſolo meſcolamento quattro corpi a far mai valevoli ſaranno tá ta , c tanta
varietà dicoſe ; e addurrei per eſemplo , che quattro lettere dell'alfabeto col
ſolo meſcolarſi pochiſſi me ſillabe arrivano a formare . Ma ſe que’mcdici
diceſſe ro eſser un di que'loro umori compoſto de quattro corpi d'Ippocrate ,
come potrebbe mai Ippocrate quelli impu gnare ? ciò, che promette poi Ippocrate
di fiar vedere, che quelle coſe , delle quali egli compone l'huomo ſi trovino
mai ſempre nell'huomo medeſimo : Io per me non ſo , co me ſarà egli ciò mai per
moſtrare ? Contende parimento Ippocrate non poterſi farla generazione da un
ſolo princi pio; recando perragione , che un ſolo principio non poſsa
meſcolarſi . Ma chiaramente ſi dimoſtra ciò che in pri ma lo avviſai, Ippocrate
non miga comprenderei veri se timenti di que'filoſofi; concioffiecoſachè un
principio , il quale abbia particelle diverſe tra di loro per figura , per
grandezza , e per movimento , con meſcolarſi clieno infra loro in varie, e
varic guiſe,valevole egli è certaméte ad in gencrar tutte coſe . Per far pruova
poi maggiormente della ſua ragione ſog giugne Ippocrate : ſe ne meno il caldo ,
il freddo ,e l'umi do , e'l ſecco ,fe temperati eglino non ſono ,non baſtano a
far la generazione , come aurà mai vigor di farla un ſol principio : Io per me
non ſo , che ſorte d'argomentar ſi ſia queſta d'Ippocrate ; doveva certamente
egli , il che mai no adempie , provare in prima con efficaci ragioni, che di
quclle quattro coſe il tutto s’ingencri ; e poi addurle per elemplo. E nel
certo egli non ha dubbio, che a lui avreb M m bon 274 Ragionamento Quarto 1 ·
bon riſpoſto quei filoſofi , che clleno , comeche ten perate ſi fingano , non
poſsano in niun modo ciò fare, un principio ſolo a tanto bene valevol' eſsere :
ficomenes terra ,ne acqua,ne pietra, ne aria, ne altre, e altre coſe mol te
poſsono formare una ſpada, un'elmo,una corazza , e tanti , e tanti iſtrumenti
da guerra, che'l ſolo ferro può fa re : imperocchè il ferro ſolo è quello, il
quale ricever puo te le diſpoſizioni neceſsarie a formargli, non altrimenti il
corpo , il quale in particelle , o ſia già diviſo , o divider ſi poſsa , le
quali ricever poſsano parimente varie , e varie grandezze , fito ,figure ,
eordine, può ogni coſa produrre , ne que quattro corpi d'Ippocratenel modo, che
egli va filoſofando , potranno mai ne anco un menomiſlimo gra nello di ſenape
giammai ingcnerare . Ma non altrimenti , che s'egliavuta già aveſse la vitto
ria , faccendo gran gallorìa trionfa il buono Ippocrate di quegli antichi
maeſtri, e dando a lor la ſentenzia finale co tro , determina temerariamente la
quiſtione con dire , che eſſendo la natura dell'huomo , e dell'altre coſe
chente , e quale egli ha diviſato , non uno ſia l'huomo: ma che ogn' una delle
coſe , che lo ingenerano abbia una cal virtù, che al corpo ella ha dato .
Magodaſi pure Ippocrate della ſua vittoria , e ne riceva l'applauſo da Galieno
, il quale non per altro certamente fa ſembiante di farne cotanta ſtima , ſe
non ſe per acquiſtar fede alle ſue opinioni ; qual coſtu maegli parimente negli
altri autori tener ſempremai ſcor geſi , delle teſtimonianze de'quali ſe mai
egli a ſuo pro fi vale commendagli , che nulla più ; ma ove poi cofa inſe gnino
alle ſue opinioni contraria , non ha villania , che ſi diceſſe mai a triſto
huomo , che lornon dica . Ma ripi gliando il noſtro diſcorſo , vuol egli
intendere certamente per le teſtè menzionate parole, che que' quattro ſuoi
corpi ritengano il calore , la fredezza , la ſiccità , e l'umidità nel corpo
per loro ingenerato . Ma cotante altre , che nell’ huomo ravviſanſı donde
cglino naſcono ? Dirà egli dall' accénate quattro qualità;ma ſe altri ciò
negaſſe,come glie le neghiamo noi , come il proverebbe mai? Ma così ſcon
ciaméte diſcorre Ippocrate p no aver voluto mai volger 1 . ſiad Del
Sig.Lionardo di Capoa. 275 fi ad inveſtigar la natura di quelle ſue quattro
qualità ; il che certamente al filoſofo, e al medico far ſi conviene,mal.
Gimamente ove imprenda a trattare della natura dell'huo mo : e dall'aver ciò
traſandato Ippocrate , avvien , ch'egli forte aggirandoſi immagini potere il
leggiero , e diſcorré te caldo quelle coſe operare ,che a ſpiritual ſoſtanza
ſola mente convengono. Ma laſciam noi a miglior huopo il diviſar di ſomigliante
biſogna: ſoggiugne appreſſo Ippo cratc con lungo giro d'ozioſe ciance , che in
diſtruggendo fi l'umancompoſto , tutti e quattro i già detti corpi ſce
verandoſi, alla lor primiera natura ritornino ; e ciò vuoľ anch'egli,chenel
disfacimento di qualunque altra coſawa avvegna . Ma le egli ficomea caſo , in
fretta , e ſenza niu no avviſo ſomiglianti coſe afferma, così foſſe andato a
poco a poco con ſagace diſcernimento diſaminandole , lo porto opinione, che in
cotanti errori non ſi ſarebbe lalciaa to così agevolmente traſcorrere;
perciocchè oltre alla Chi mica arte,altro ancora ne rende ſicuri , che quelle
ſoſtanze in cui nel lor disfacimento ſi riſolvono i corpi,ſiano non , miga
ſemplici, ficomee'vuole , ma compoſte. Paffa più oltre Ippocrate coll'impreſo
ordine a dir, che nel corpo umano viſia il Sangue , la Flemma, la Collera
gialla, enera,iquali umori ove ſiano con quell'ordinamen to , che ſi convenga,
l’huom viva in ſanità :mafe'l contrario avvenga e' toſto ammali . S'affatica
egli con lunghe dice ric di moſtrar , come poffan que' quattro umori tutte le
malattie ingenerare :maciò fa egli troppo groſſamente , e generalmente ne'dubbj
maggiori tacitamente paſſandoſe ne ; e dopo queſto torna di bel nuovo alla
canzone dell' uccellino, che ſian quattro gl'umori de'corpi degli anima li , di
natura , e di nome fra effo lor differenti ; la qual di verſità immagina egli
di ſtabilire, e poter ſaggiainente ar. gomentare dalla diverſità de'colori, e
dalla diffomiglian za del tatto , che ſecondo lui vi s'avviſa . Ma s'aveſſc
egli mai poſto mente a cotante coſe ; ch'avendo un medeſimo colore fon di
natura poi diverſiſſime, e al contrario ad al tre , ch'avendo una medeſima
natura han colori aſſai di M m - 2 ver 276 Ragionamento Quarto 1 verſi , ſicome
le Fraghe , le Ciriegie , le Azzaruole , le Corniuole , eľVve , e i Fichi ,
certamente , del ſuo ab baglio ſi ſarebbe avveduto . E più avanti dovea
fomiglia temente avviſare , che v’abbian parecchi, e parecchj altre coſe, che
per poco artificio variando grandeméte nel colo rela medelima natura pur
ſerbano;licome della Cera, dell' Ambra gialla,dell'Inceſo,delCorallo,del corno
delCervio avvenire a giornate ſperimentiamo;evidétiſlimo argomen to , che i
vari colori non ſian buoni, e fedeli teſtimonjdel la varietà della natura delle
coſe . Ne la ragione il con trario ne addita ; imperocchè la varietà de'colori,
non al tronde avviene falvo che dal variamento del ſito , o della diſpoſizione
della ſuperficie de'corpi, la qual diverſamen te i luminoſi raggi riflette. Ma
che domine cadde cgli in mente ad Ippocrate allor che diſſe , che dalla varietà
del toccamento , poſſano iva rjumori diſcernergli E quale è mai quel divario,
che mer cè della mano poſſa avviſarfi , ſe tutti egualmente caldi fi
ſperimentano , tutti egualmente nelle vene , e nell'artcrie so diſcorréti. E da
cotali lor vaſi uſciti eglino p la più par te e'li rapprendono , e in una maſſa
s’uniſcono , nella quale, poco , oniun divario per lo toccamento può ſcorgerſi
E ſe più avanti facendociconſidereremo l'altra ragion pre ſa dalla varictà del
calore , dell'umidità , della ſiccità , no aurem di forza a confeffar , ch'ella
più frivola aſsai, eri devol fia delle prime , e che moſtri ben’appieno quanto
egli sbalcſtrato in filoſofando Ippocrate vanamente s'ag giri?
concioſiecofachè, ſe negli umori non v'ha ficcità , come potrebbeſi dalla
ficcità la lor differenza conoſcerſi ? e ſe l'umidor del corpo altro non è , ſe
non che la ſua di ſcorréza, c'l poterſi agevoliéte ad altro corpo appiccare,
ficome conſentir ſi dee da chiunque voglia Tanamente fi loſofure , egli dourà
concederſi , che tutti gli umori del corpo umano egualmente fian umidi , dache
tutti s'ap piccano parimente alcorpo tangente , e tutti parimente ſon
diſcorréti,e quanto al calore détro al corpo, tutti ſono egualmente caldi , e
fuor di quello tutti fimilmente dalla circon Del Sig. Lionardo di Capoa 277
circonſtante aria raffreddati vengono, o riſcaldati . Ma più avanti: ſe gli
umori nel corpo umano ſognati da Ippocrate , ſicome e vuole veramente ſi
foſſero , e alcun di elli , o calorc,o freddo eccitaffe , impertanto no
potrebbe dirſi effer cotale umore,o freddo , o caldo : imperocchè ſe o ſpina ,
o chiodo , o altra pugnente , o doloroſa materia in alcuna parte del noſtro
corpo violentemente ſi ficcarella ſuol poco ſtante , e freddi riprezzi , e
ardenti febbri ecci tare ; e pur la ſpina , il chiodonon per tanto , o freddi,
o caldi potrà dirſi,chefiano . Finalmente ſi sforza Ippocrate queſta varietà
d'umori di Atabilire con conghietture tratte dalle purgative medicine. Se
medicina purgante la flemma , dice egli , ad huom da raſli giammai , certamente
fi vuoterà la flemma, e così pa rimente ſiegue a dire dell’una,e dell'altra
collera; e ſoggiu gne appreſſo : veggiam noi per ogni ſcalfittura uſcir fuora
il ſangue, e ciò in qualunque tempo , o d'eſtate , o d'inver no, o digiorno , o
di notte ; ma ſe alcun primieramente riſpondeffe ad Ippocrate , come per tacer
de’noſtri, già fe rono i più valenti , e più celebri fra gli antichi medici,non
avervi medicina , che vaglia a vuotar determinato umore , che mai incontro gli
ſi potrebbbc per lui replicare? E a yo ler dire il vero, lo ſtimo da non dover
mettere in forſe, che Ippocrate niuna notizia aveſſe delmodo, comeoperano le
purganti medicine ; che ſe mai di quello ſi foſſe alquan to inteſo , forſe non
gli ſarebbono dalla penna uſcite cotante fraſche , e novelluzze ; ne ftillato
s'aurebbe il cervello per dimoſtrar gli errori in cui credette eſſere tutti
coloro chediſſero uno eſſer l'huomo,e non già dal guazza buglio di sì diverfi
umori compoſto : c pur egli non giunſe mai la mente di que'valent’huomini
ſanamente a compren dere , come chiaro dal medeſimo ſuo diviſamento ſi fior ge
. Credettero , dice Ippocrate , coloro uno effer l'huo mo; perciocchè vedevano
per le purganti medicine morir ſene alcuni con vuotarſi un ſolo umore ; perchè
ſtimavano altro non eſſer l'huomo , che quel folo umore; ed altresì dallo
ſcorgere ſolamente ſangue nfcir a' decapitati,non ef fer al 278 Ragionamento
Quarto 4 fer altro l'huomo,che ſangue; e per la medeſima cagione non mancò chi
diceſſe eſſere il ſangue l'anima umana . Or contro ad eſſi la vuole Ippocrate ,
e immagina di gettare a terra tutti i loro argomenti, e opinioni , dicendo non
mai alcuno eſſer morto colla vacuazione d'un ſolo umore, ſenza tutt'altri
eſsere inſiemcmente ſcappati fuora ; e vuol che quantunque volte huom prendendo
medicina purgante la collera ſe ne muoja , vomiti primicramente la collera , ap
preſſo la flemma, indi la malinconia , e finalmente il ſan gue di forza
ancordalla purgazione ſia tratto fuori , e ſo migliante avvenga nell'altre
purganti medicine . Ma chi quinci non iſcorgerebbe, che Ippocrate, o voleſſe
altrui uccellare , o ſcriver ciò che prima gli cadeſſe in penſiero , fenza
prenderſi briga di narrar gli avvenimenti diquegl'in fermi, cheper virtù delle
purganti medicine forſe a gior nate gli morivano nelle mani;e perciò anche
aveſſe a sì gra zioſa favoletta aggiunta una più vana ragione , cioè , che il
medicamento entrato in corpo vada da prima movendo , e cacciando fuora
quell'umor, che ha porianza di trar fuo ra . Aggiugne per iſpianar la
materia,l'eſemplo delle pian te, le quali dic'egli ; dalla terra per lor
nutriméto traggono varj ſughi dolci,acetoſi, e falli ; c ſomigliantemente po
tranno le purganti medicine trarre da tutto il corpo uma no i varj uinori, ma
coll'ordinamento , che teſtè accenna vamo : cioè , che la medicina purgante la
flemma debba vuotar prima la flemma, e poi gli altri umori , e finalmen te il
ſangue , e cosìſimilmente tutt'altre ; ma dagli ſcan naci prima il ſangue , poi
la flemma , e appreſſo la collera eſca fuori. Ma con tale eſemplo delle piante,
non che non agevoli egli l'intelligenza de'ſuoi trovati, ma vie più l'in
garbuglia , e ravviluppa ; concioffiecoſachè non mai può ſembrar vero, cui
voglia la coſa pe'l ſuo verſo guardare che le piante ſenza uncini avere , o
mani , e ſenza poter dar di grappo poſſano trar ſugo dalla terra , o altro ,
che lor bi fogni; elleno ſi nutriſcono della terra , macon altro ma giſtero di
quel che troppo groſſamente immaginò il buon Ippocrate . Evvi nelle piante una
fotcililina , e volantes ſoltan DelSig. Lionardo di Capoa 279 ſoſtanza
ſomigliante molto allo ſpirito del ſangue degli animali , la quale ſtando in
continuo movimento diforme cazione, la picciola pianticella sbucciando ſcappa
fuori, e framiſchiaſi colla terra proffimana alle radici ; or tra per lo movimento
d'eſſa , e per quello , checontinuo dal Sol ri ceve la terra , e damolt'altri
minuti corpi , che perla lor focofa, e attiva natura , a guiſa di tanti
ſpiritelli l'agitano ,e la commuovono , molte parti d'eſſa in ſu vengon
fofpinte in licve alito aſſottigliate, le quali di leggier poſſono i pic cioli
pori delle radici, in cui s'abbattono penetrare , e fic candofi elleno in così
farti buchi vengonoa cambiar figu ra , e da'formenti digeſtivi delle medeſime
piante altro va riamento ricevono si, che pian piano vengono la pianti cella ad
accreſcere , in lei traſmutandofi ;ne queſta trasfor mazione è maligevol molto
a comprendere, anziin molte frutta può agevolmente oſſervarſi ; pongaſi mente
alle me lagrane , che a volerle aſſaggiare ritroveralli , che le ſue fibre
portano a' granelli un amarisſimoſugo , il quale , o dolce , o alquanto agro
divien nella carne d'eſlo granello, ma nell'oſſo inſipido , e ſcipito ; e
ſimilmente avviſeremo altresì in quelle frutta , che colte da propj alberi , e
ripo ſte ſoglion venire a inaturezza : alcunide’quali eſſendoin prima amari
divengon poi dolci , e ſaporofi, ficome ſono le ſorba , le neſpole , e le
melegrane medeſime. Non fa dunque luogo di traimento veruno alle piante ,
acciocchè fi nutrichino ; il qual traimento da filoſofi è ſtato meſſo nella
natura , comechè di ciò alcuna pruova giammai non aveſſero:ne ſo lo pchè
vogliano farci a credere,ch'un ſimile abbia a trar l'altro fimile séza
adoperarvi altro , cheſimpa tia, la quale altro noè, che un bel vocabolo.
Nóv'ha adun que medicina al modo, che vuoti il tale,o'l tal determinato umore ;
ne mai vero diſſe chiunque affermò aver ciò offer vato : ma le purganti
medicine ciò che nelle viſcere ritro vano, formentano, e rendon mordace, e
fangli cambiar na túra ; e quinci avvien,che ciò che ſi vuota appaja di diver
fi colori , e prenda una puzza ſimile a'cadaveri sper , eſſer le
purgativemedicine si ſtimolofe , che aprono ledelicate boc 280 Ragionamento
Quarto boccuzze de'vaſi facendo , da eſſe uicir fuori il ſugo in ef ſo lor contenuto
, e corrompendolo ; e conſiſtendo la virtù delle purganti medicine ne'lali ,
chein eſſe ſono, in quelle foſtāze elle più operano, e la efficacia lor
dimoſtrano mag giormente ove i ſali più preſtamente diſſolvonſi ; e quinci
avvien , che le fecce, che per eſſe ſi vuotano liquide diven gono , e
diſcorrenti. Finalmente lo immagino , che non mai veduto avelle Ippocrate
ſcanar Porco njuno ,e che ſe pur cgli guatato mai aveſſe immolar vittime negli
altari , aveſse avuti gli occhi di glauco,o di nero colore tu le pupille
ripieni,õde la gialla, e nera collera nel lor ſangue diveder raffembrogli.
Scorſe egli per avventura alcuna fiata, Io bé glicle cóſento ,ad huo dopo aver
preſo vomitiva,o altra ſimigliante medicina,get tar perla bocca fuori
inſipido,amaro, acetoſo, biáco,o gial lo uinore, ma non giunſe a conſiderar
tanto che baſti,cioè che i sì fatti umori s'ingenerano nello ſtomaco de'corpi
c.2 gionevoli , e infermicci, e chenon ſi ravviſano nelle venc , ne pur
quand'huomo inferma. Ne deve egli così toſto ob bliar ciò , che altrove più
d'una fiata racconta , altri ſughi aver egli oſſervato recere , c per ſotto
altrui cacciar fuori certi altri umori , i quali eglinondimeno vuol , che nelle
vene non abbian luogo ; sì cheanche ſecondo lui , non è fano diſcorſo , ne
concludente argométo a provar gli umo ri eſſervinelle vene , perchè ſi vuotano
colle purgagioni. Ma a che domine dovrà egli tanta fatica logorar tanto tempo
indarno , ſtillarli sì fattamente il cervello , e porger cagione a' poſteri di
ricercar ſempremai Duovi ſofiſmi per iſtabilir la ſua ſentenza in materia, che
con un foi fifo gua tuento potea ben coſto determinare ? Ecco come una ri
cevuta opinione ne fa velo alla mente,si ch'ella obblia ſo vente i più piani
ſentieri della verità . Orlo , direi ad Ip pocrate , e a tutti quanti i ſeguaci
di lui, traggaſi ad huom fano il ſangue , cd aſsaggiſi , chee' non ritroveralli
ne af ſai ne poco amaro ; oue è dunque la collera? e non ſarà l'a cctoſo , oveè
la malinconia ? Replicheran per avventura, che'l miſchiaméto, ela cõfuſione di
sì fatti umori fraſtorni DelSig.Lionardo di Capoa . 281 tal diſcerniméto al
palato ; ma ſe a giuſta porzion di ſangue poche gocciole d'acetoſo liquore,o
picciola quãtità di fiele ſi meſcoli, e ſi dibaſti in modo, che daper tutto ſi
ſparga ,e fi confonda,noi proverem nel ſangue,e l'acetoſo, e l'amaro
ſapore:adunque ſe nõ vi ſi aſſaggiavano in prima , novi do vevan eſſere . Più
avanti veggiam ſe ſceverandoſi i diverſi liquori, che nel raffreddato ságue ſi
ſcorgono ſi poſſano av viſare i quattro umori d'Ippocrate;egli è ver,che nel
ſangue ſia un liquore acquoſo ,in su'l quale vogliono i ſeguaci d'Ip pocrate,
che nuoti la collera,ingannati da un certo giallor, che vi ravviſano, e'l
rimanente ſia tutto ſiero ; ma s'egli ciò vero foffe , abbiſognerebbe , che la
ſuperficie del detto li quore amareggiaffc ;il che no mai veggiamo avvenire.Se
poi tutto il ſiero ſitragga via dal ſangue, rimarrà una materias rappreſa , la
qualroffa nel ſommo,e nera apparirà nel fon do ; ma non miga egli è vero ,
ficome per coloro ſi eſtima che quella , ch'è in fondo del vaſo ſia la
malinconia , 1013 efſendo ella di niun modo aceroſa , ma del ſapor medeſimo
della roſſa; ſenzachè fe tal fanguigna maſſa foſfopra ſia ro veſciata , la
roffa parte in nera , e la nera ſcambieraſli in rof. fa ; il che avvien
dall'aria , la qual movendo le particello ; della fuperficie del ſangue , le fa
così roffe, e di più allegro color dell'altre apparire. Ma oltre alle già dette
coſe , due altre ſoſtanze nel rapa preſo ſangue ſi ſcorgono; una dellequalicſſendo
diſcorre te , e bianca , ne fa chiaro veder , ch'ella fia chilo , in fan gue
non ancor traſınutato : l'altra gaglioſa,e tenace , di cui ne fa purmenzione
Ippocrate ; e perciocch'ella è deſtinata a nutrir le parti tutte del corpo, da'
moderni ſugo nutriti vo acconciamente vien detto; e queſto ſugo va col ſieroſo
migliantemente miſchiato ; e agevolmente la coinprenderà chiunque ponendo il
vaſo del detto fiero ſu le lente bragie nie farà tutto l'acquoſo unore
agiatamente eſalare . Nefi nalmente voglio laſciar d'avviſare , che in quelle
febbri, le quali per parere d'Ippocrate ſon dalla bile prodotte, non , mai
ritroveralli il ſangue d'alcun'amaro ſapore , nepur quella parte , che vi va a
nuoto ; ne in quell'altre , che per Nn avvi 282 Ragionamento Quarto avviſo di
lui dalla malinconia provengono , il ſangue ſenti rà miga dell'acetoſo ; ne men
quella parte d'ello che , nera appariſce; ſicome ſenza durarvi molta fatica
potea chiarir fene Ippocrate , ſe pur ſicome non ebbe a ſchifo le ſtoma chevoli
fecce degl'infermi aſſaggiare,così la pūta della fin gua in cotai parti del
ságuedegnato aveſſe d'intignere, qua lora veniva tratto agli ammalati di
terzan2,0 quartana;e ſe a coſtoro egli non ne traeva , in altre opportunità
potea farne eſperimento . E più di lui era debito di Galieno tal fatto , nie
dovea a chiuſi occhj in biſogna di cotanto rilievo preſtar fede ad Ippocrate .
Ma Io non poflo non ammirar quì quelle anime grandi, le quali a torto accagiona
Ippocrate , perchè elle dicano , effer flemma l'huomo ; perchè avendo nel
ſangueſcorta quella bianca ſoſtanza ch’appella flemma Ippocrate, giun ſero a
comprendere , di quella effer formato l'huomoje ve ramente di quella vié la
parte materiale del ſeine formata , di quella il latte , diquella tutt'altre parti
del corpo uma no nutricanſi. Ma ad Ippocrate ritornando : tralafciò egli in
queſto luogo di far parole della più nobil parte del ſan gue , dico della parte
ſpiritofa ; quantunque altrove oſeu ramente ne faccia motto , e ſenza penetrare
, o diſaminar tanto che bafti la ſua natura ; e moftra , che la riponeſe fra le
ſoſtanze diſcorrenti non umide , licome è l'aere,e non già fra le umide , com'è
l'aqua : il cui ſembiante più coſto par, che ritiga lo ſpirito del fangue ;il
che no dovea trapal farſi tacitamēte da Ippocrate;e doveaegli por mēte altresì
a cotāte altre umide ſoſtanze dell'huomo, e diſaminar così di effe , come delle
parti ſolide , la natura , gli uficj,e le ope razioni ; le quali ignorand'egli
nulla viene a ſaper della na tura di quello , la quale altrui pretende
d'inſegnare, ne può ſiſtem.2 alcuno ne meno manchevole , e ſcempio ftabi fire
di razional medicina . Ma il buono Ippocratc , come ſe taſe uficio aveſſe inte
ramente compiuto , e come ſe quanto avea diviſato foffes incontraſtabile , e fermo
, paſſa più avanti nel fuo libro a nar DelSig.Lionardodi Capoa. 283 narrare,
che l'inverno s'avanza nell'huom la flemma,come quella, che più d'altri umori a
cotale ſtagion confaffi,eſſen do più di tutt'altri fredda; la qual coſa egli
vuol ritrarre non altronde , che dal toccamento ; ed afferma coſtante mente ,
cha la fiemma,del ſangue , e della collera ſempre ha'l tocco più freddo ; la
qual coſa però quanto ſia falſa è teſte per noi detto. Fa egli , che l'inverno
abbondi più ch ' altro tempo la flemma; perocchè in più larga copia ne veg giam
per le bocche , per le narici degli animali uſcir fuori; e per l'enfiature , e
altri mali dalla flemma cagionati , che ſovente in quella ſtagione afcir
ſogliono agli huomini . Ma ſe l'inverno, ficomealtroveafferına Ippocrate più
che mai le viſcere , ele interiora ſon riſcaldate , non ſo lo come poſs'egli
argomentar ch'abbiano allora a ingenerare abbó dante copia di flemma, poſto che
la flemma foſſe da an noverare infra gli umori; e flemma foſſe ciò, che per la
boce ca ſi ſpurga, e per le narici , e ch'ella produceſſe que'mali, che freddi
s'appellano . Ma più avāti al diviſamento d'Ippocrate fa la continua cſperienza
contraſto , e ſcorgeſi, che l'eſtate , ſe avviene ad huom qualche catarro ,
qualunque ne ſia la cagione, e' ſcaricherà per le narici , e per la bocca le
flemme, ch'e'di ce, in tanta copia, cheſtimeraſli colui non aver altro inca po
, ne in corpo , ſalvo che flemma. Ora Ippocrate a voler faggiamente diſcorrere
, dovea bé avviſar, che l'inverno per lo freddo riſtrigonfi i pori della'
noſtra pelle : il perchè non potendo per eſli uſcirne cosi ah bondantemente
quella ſoſtanza , che in ſottile alito ,altro tempo ſvaporar ne ſuole , vienaa
rapprenderli in flemma, edella natura per più larghe ſtrade ſivuota. La Primavera
vuol , che ancor ſian copioſe le flemme ; ma collo ſcemamento del freddo
comincino pian piano w ſcemarli, e'n loro veceil ſanguigno umor vada creſcendo
. Ma feper opinion di lui anche la primavera le vilcere lon cal:liffim ,
chefanno in corpo le fléme , e chi loro da luo go ? Ma la ragio , che ne reca
per l'avanzaméro del ſangue, cui no fem ! rerebbe dimoſtrazion di ſcrupoloſo
Geometras Nn 2 ܐܐ 284 Ragionamento
Quarto : la Primavera dic'egliè calda, ed umida,e caldo , ed umido è altresì il
ságue:adúquc alla primavera cofaſſi. Ma pur noi veggiamo,che a quel tempo
ilſiero alquáto più copioſo di venga , anziche no , ſe a quel tempo ſon più
abbondanti le urine, e oltremodo patiſcono gli Idropici , in lor ſover chiando
sformatamente le acque. E che abbiam noi a dir degli altri argométi, ond'egli
ſi sforza Ippocrate di confer mare tal ſoperchiamento di ſanguenella già detta
ſtagione: in cui , dic'egli , fogliono avvenir diffenterie , e vacuazion di
ſangue per le narici , ed è il ſangue più caldo , e roſſo , che mai ?
Certamente come altre fiate abbiam detto ; im perocchè la diſſenteria non
puòdal ſangue avvenire,il qual giuſta i ſentimenti d'Ippocrate è umor piacevole
, e dolce anzi che no ; e più toſto la malinconia, e la collera dovreb bon
eſserne accagionate , le quali eſsendo aſpre , e ſtimo Joſe avrebbon a rodere
le inteſtina , e farne uſcir fuori il fangue. Rimarrebbono altre leggiere coſe
a diſaminare in que fto libro d'Ippocrate dietro tal materia de'quattro umori,
le quali da lui coll'uſato ſcioperìo , e groſſezza fi trattano, e altre coſe
degne da avvertire occorrerebbono per avven tura a chiunque con minuta
diligenza l'andaſse rivolgen do, ch'Io per fretta non ho curato d'oſservare . E
baſtami d'averne fol tanto confuſamente rapportato, perchèfi ſcor ga qual foſse
la traccia da Ippocrate temtita nel filoſofare dietro le biſogne della medicina
; e ch'egli andato foſse nolto lungi dal vero , ne mai imbroccato aveſse al
legno . Ma ſe pure a lui non venne fatto di poter con pruove fta bilire i
quattro primi corpi,no è da prenderne maraviglia : imperocchène iné v'aggiuſe
Ariſtotele ;il quale,e pl'altez za dell'intédiméco, e per le notizie di varie
coſe,digrā lūga gli ſi dee antiporre,che che ſe ne dica in contrarioGalieno ; e
veramente le ragioni per colui rapportate eſſer frivole , e di niun valore, non
che da altri,mada'medefimi Peripatetici vien conſentito ; ma che chc ſia di ciò
, non avendo Ippo crate potirto giámai provar ne l'eſiſtenza de'primi quattro
corpi ſemplici, ne de'quattro umori , tutto il ſiſtema deila ſun Del
Sig.Lionardo di Capoa. 285 - ſuamedicina,chelu vi fő:la,cõvié,che crolli ad
ogni leggier foffio , e cada giù in terra. Maben s'avvide Ippocrate della
debolezza de' ſuoi ſiſtemi; onde o di rado, o non mai in al tri ſuoi libri
volle valerſene , e particolarmente in quei de gli Aforiſmi;i quali non voglio
lo traſandar ſotto lilenzio, poichè da molti ſono avuti in sì gran pregio appo
Suida , che loro non già inortal coſa , ma opera di ſouraumano in gegno
raſſembra, non altrimenti, che dell'Alcorano ſi fac ciano i melenli ſeguaci di
Macometto . E per lo meno cre de altri , che non maisì grand'impreſa fu da
un’huomo ſo lo compiuta ; c anche coſtor ſon partiti, alcuni credendo , ch'egli
da varj ſcrittori gli aveſſe raccolti ; c altri , ch'e' la veſſe copiatidalle
tavolette affilfe nel tempio d'Eſculapio . E certamente ſe mai vero foſſe , che
Ippocrate , come An drea antichillimo autor riferifce , miſe a fiamme, ed a fuo
co quella cotanto celebre libreria di Gnido , egli ſarebbe da fufpicare, che nõ
pur gli Aforiſmi,maquát’opere van del fuo nome intitolate,ſtate folero altrui
fatiche, ed ei per ac cattarne reputazione, come propie le aveſſe divolgate. Ma
avend' egli per avventura poco ſanamente le opinioni di quegli autori
compreſe,sì malamente compilare le aveſſe ; e quinci ſia altresì avvenuto , che
tante varie , e diſcordan ti dottrine , e opinioni per entro vi ſi ritrovino ;
e perciò ſia indarno gettata la fatica di coloro , che di accordarle tanto
lungamente ſi ſtudiano ; a ciaſcun de'quali potrebbe ram mentarſi l'avviſo di
Franceſco Ottomanno : Vercor ne ple rumque in iis , qui confultò inter fe
diffentiunt conciliandis nimium ingenioſi eſe velimus. Ma che che ſia di ciò ,
lo per me ſon ſicuro, che agevolmente accorgerafli , cui caglia di chiarirſene
, non effer degni di cotante lodi gli Aforiſmi d'Ippocrate , quante d’uma
cieca, e comun fama ne han ri cevuti ; e perciò nella ſchiera de poco accorti
foſſe il noſtro Petrarca ,ovein favellando di biſogna a lui poco conoſciu ta
ebbe a dire: E quel di Coo , che fe vie miglior l'opra , Seben intefi foller
gli Aforiſmi. Sicome del poco lor valore s'avvider tutti que’medici,che infra
286 Ragionamento Quarto 1 nfra i Greci ebbero inaggiore ſtıma,e rinomea ;i
quali non men , che di tutte altre opere d'Ippocrate , tenner pochiſſi mo , o
niun conto degli Aforilmi; la qualcoſa ſi ſcorge rebbe manifeſtamente da noi,ſe
ſpente non foſſero ,e ſmar rite tutte loro ſcritture ; ma nondimeno può
argomentar ſi ſenza rimanerne in forſc , dalle reliquie , chene' libri di Galieno
, e di Celio Aureliano , a ' dinoſtriſe ne riſerba no ; e per quelle poche
memorie , ch'abbiam di Giuliano eccellentiſſimo filoſofo , e medico ,
quantunque il con trario ſis forzi dimoſtrarGalieno . Ma ſe ancor foſsero in
piè que’libri, che ilmedeſimoGiuliano compilò contro gli Aforiſmi, o ſe foſſero
almen rimaſe le chioſe , che ſu d'er ſi fe Lico , il quale ſi diede cura
d'andargli un per uno mi nutamente , e ſenzariguardo alcuno diłaminando,
chente, e quali eſſi ſiano apparirebbe chiaro , comechè io non mi dalli briga
di favellarne ; ma poichè così va la biſogna: di co, che molti degli Aforiſmi
liano così generali, che per la medicina poco , o niun pro trar ſe ne poſla ; e
di leggier ſi potrebbono ad ogn'altra materia acconciamēte adattare; il che ha
porto occaſione di occupar certi sfaccédati cervelli a travorgergli con
pochisſimo ſtorciméto alla politica , alla milizia , e ad altre arti , e
diſcipline ; altri ve ne hanno co tenenti sì groſſo, e materialinotizie , che
ad ogn ' huom di 'contado aſsai meglio ſon conoſciute ; altri , come avviſa il
Santoro , non li poſson mai recare ad effetto ſenza molto ritegno , e ſenza
l'indirizzamento delle regole dell'arte ;di fetto , ſenza fallo ,gravisſimo ad
autor, che imprenda a pre. ſcriver certe regole , e leggi in qualunque arte ,
emaſlima mente in medicina ; e altri v'han cui facendo biſogno di pruove , fur
da lui tralaſciati ſenza alcuna ragione ; e ſe pu re alcuna fiata vi rapporta
qualche argomento , ritroveral fi eſſer poco ſaldo , o inefficace ; anzi loventi
fiate ridevo le, e frivolo ; altri ſe ne ritrovano ,la cui dottrina, o aper
tamente, o per poco che ſi vada diſaminando , falſa , e fal lace ſi ſcorge.
Altri finalmente per entro a quel libro ve n'han sì confuſi , e oſcuri ,e
impigliati, ch'a volervi per in tendergli qualunque più grave farica durare,
non ſe ne ri trar Del Sig.Lionardodi Capod . 287 trarrà coſa , che monti un
frullo . Ma l'oſcurità è vizio si ordinario d'Ippocrate , che ne men Galieno
cotanto di co lui parziale potè contenerſi sì, che non ne faceſſe motto , a non
ne lo proverbiaſſe , e ſcherniffe più fiate. Ma fe è vizio , ed error grave
l'oſcurità in qualunque materia , egli è ſenza fallo graviſſimo , ove ſi tratti
dimc. dicina ; arte malagevoliſſima per ſe ſteſſa , e in cui l'crrare
potrebb’eſſer di graviſſimi danni , e nocumenti cagione ; if perchè non ſon da
intendere quelle ſcuſe , che dell'oſcurità d'Ippocrate voglion farſi per alcuni
, dicendo ch'egli a ſtu dio voleſſe sì fattamente ſcrivere le ſue opere , e
maſſima mente gli Aforiſmi, acciocchè sì prezioſiteſorinon iſtaffe ro ſenza
riſerbo ; ma quafi ſotto bel velo ricoverti , e aſco ſi; imperocchè lo
primieramente non ſo intendere qualſia mai quell'altezza di dottrine, che nella
medicina d'Ippo. crate ſia ripoſta , ne fin'ora v'è ſtato chi abbia potuto fco
vrirla ; anzi è avvenuto a coloro, che troppo v'han durato fatica a
interpretrarla , quel che accader ſuole ſoventeagli Alchimiſti, che in vece di
divenir dovizioſi d'oro , e d'arie tutto il for picciolo capitale ſcialacquano
. Ma fe Ip pocrate voleva aſconder la ſua dottrina,sì che da altri non mai fi
riſapeſſe, potea con un più bello , e fottil modo ben farlo , cioè
rimanendoſene in pace , ſenza ſehiccherarle carte , o por tanticervelli a
partito per intender la ſua mé te , con si grave riſchio de' poveri ammalati .
Or veggafi di vantaggio quanto egli foffe dabbene , equanto oſſerva tor
dell'impromeſſe,e facraméti ,co’quali dichiarò di voler a'ſuoi ſcolari tutta
quanta la medicina perfettamente inſe gnare ; e certamente ſe non altro lor
comunicò di ciò che ne'ſuoi libri , e particolarmente in que' degli Aforiſmi la
fciò regiſtrato , e in quella sì confuſa maniera , que' catti velli l'olio , e
la fpeſa indarno vi dovettero logorare. Ma il bujo di quella favella, ſe mal
puofli fofferire altrove,cer tamente nell'opere degli Aforiſmi, ove
principalmente egli vuol dar leggi , e regole di ciò , che fi dce nell'arte eſe
guire , è tanto biafimevole , e ſconcia , che nulla più ; e ſe Principe mai , o
Repubblica in dettando leggi , e ftatuti ſi valeſ. to , 288 Ragionamento Quarto
valeſſe dello ſtile degli Aforiſmi d'Ippocrate, in quali tea nebre , in quai
garbugli, in quali intrighi, in quantipiati , o conteſe ſe ne viverebbe quella
malnata Città , quellas infelice provincia? S'attēta altri di ſcuſare Ippocrate
col precetto d'Orazio Quicquid precipies eſto brevis,utcito dicta Recipiant
animidociles , teneantquefideles. Ma per coſtui non badoſli , a quel,che poco
avanti dal medeſimo Poeta fu ſcritto : Decipimurſpecie recti : brevis effe laboro
Obfcurusfio : Ne potè ciòdiſſimulare, comeche parzialisſimo d'Ippoa crate , per
tacer d'altri chioſatori, il Signor della Sciam bre , sì chenon aveſſe
arditamente a dire d'Ariſtotele , ed' Ippocrate , e de'loro eſpoſitori
favellando : ita perplexe, & obfcurè uterque locutus eſt, ut ad ſingula
verbaceſpitandum illis fuerit,antequam tantis tenebris lucem aliquam afferro
potuerint . E quantunque egli appreſſo imprenda a farne ſcuſa, indi a poco
ſoggiugnendo: Atque id ſaneHippocrates quadam neceffitate impulſus præftitit in
Aphoriſmis : cùm enim ad pauca quædam capita vaſtam , & immenfam artem
contrahereftatuiffet, ne trunca, manca redderetur, necef fe illi fuit ſuh
unoquoque plura præcepta recondere , quàm quæ verbis deſignarentur:
&fingulos Aphoriſmos prêter id , quod exprefsè docent, proponere , ut figna
, du notas , quibus aliarum rerumeadem ſpectantium recordatio excitaretur: no
però dimeno lo perme non ſo ſe venga sì fattamente ad iſcuſarſipiù tolto , o ad
accagionarli Ippocrate ; imperoc chè qualbiſogna , o diſtretta lo sforzò mai a
favellar di tut to , e'l tutto avviluppare, ed entrar nell'aringo ditanti , e
sì diſgiunti ragionamenti per diviſar pochiſſimecoſe , c di niun rilievo ? E
qual lode è mai d'uno ſcrittore l'accennar ſotto velame d'oſcurillime parole
una cofa , e laſciarnu cento , e mille , cuiabbiſognerebbe , che
dall'intendiinen to del diſcreto lerrore fi ſuppliſſero; il che ſe mai il letto
re far poteſſe da ſe medeſimo , a che affaticarſi in sicer carle fu le altrui
ſcritture con ſuo diſtento . Ma ſe pur po telle Del Sig.Lionardo di Capoa 289
teſse Ippocrate ritrovar qualche perdono persì fatte ſcule in alcunadelle ſue
opere, chi mai potrebbe ſofferir quelli oſcurità , che per tacer d'altri ſi
ravviſa nc' libri della Die ta , degli umori, degli alimenti , in cui ebbe a
dire quel celebre galieniſta Antonio Fracanziano ſuo chioſatore , Hippocrates
anigmaticè , dw obfcurè adeo loquitur , ut divi nandum magis quandoque , quam
afferendumquid voluerit: orin quegli certamente le ſottili difeſe del Signor
dellau Sciambre non poſſono a niun modo aver luogo . Egli adú que nc fa
meſtieri di dire a voler ſchiettamente la verità có. feffare , che l'oſcurità
d'Ippocrate avvenga dal rozzo , e oſcuro conoſcinicnto , ch'ebbe di quelle coſe
, che a ſpia nare egli impreſe; e perciò con oſcure , c affai brevi parole
cerchi toſto sbrigarſene , come fan coloro, che di future, e loro ignote coſe
ragionano.Ma pur troppo bene è riuſci ta ad Ippocrate, e d'onde biaſimo e'
meritava, e vitupero, quindi gli avvenne lode , e commendazione dalla voigare
ſchiera de'letterati; i quali ciò che meno intendono , comes cofa maggior
de’loro ingegni vie più commendano ; e per ciò è avvenuto , che sì folta turba
de'chioſatori abbia in darno tanta fatica durata,per volerdimoſtrare,ch'altiſlima
dottrina ſotto l'ombra di quel favellar ſi naſconda; e dico indarno :
imperocchè a gente di ſano intendimento quelle cotante lor novelluzze
malagevoliſſimamente iinboccar poſſono ; eſſendomanifeſto , che ove Ippocrate
favella di coſe, ch'egli intenda ,e ſappia, ſicome quando narra avve nimenti ,
e iſtorie di malattie, o fa parole di qualche parte di notomia , ch'egli avea
oſſervata, non torbido , e confuſo ſtile;ma cõchiaro ,e intelligibil ragionaje
ſe ben ſempremai ſparge per entro a tai ragionamenti qualche antica , e vieta,
e poco inteſa parola : impertanto non può renderli tutto il favellar sì
avviluppato, che in fine la ſua mente non fi com- ' prenda . Egli è adunque
oſcuro , ove di ciò che non inten de , imprende a favellare. Ma per non iltar quaſi
ſempre in ſu l'ali , c diſcender omaia qualche particolarità : lo dico , che il
primo, ove procura di ſcorgerne la medicina , come poſta lu la vet Oo t2 290
Ragionamento Quarto 1 1 ta d'un erta , e lunga , e ſtraripevol roccia ,' oue
mat puofli, tra per la brevità della vita ,ei molti , e gravi peri coli , che
vi s’incontrano per huom pervenire ; e tale,e tan to , che vale a torre il
pregio a quanti e'ne ſoggiugne;im perocchè ſe cotante malagevolezze ha la
medicina per fe medelima , ei, che dovea far altro , fe non ſe a tutto sforzo .
agevolarne il ſentiero ? e pur coʻſuoi Aforiſmi il varco sì fattamente impruna
, che ove huom dietro a lui mettaſi in cammino,a diftento fenza offefa potrà
ritrarne il piede.Do vea ben avviſar Ippocrate , chela brevità, ove l'oſcurità
non iſchifi, quanto ſcema allo ſcrittor di fatica , al lettore altrettanto ne
aggiugne . E nel vero chi potrebbe confide rar quanto ftento dovettero durar
tutti coloro , che prima di Galieno ſi dieder briga d'interpetrar l'opere
d'Ippocra te ; e pur nientedimeno non uſciron dal laberinto , come vuol
Galieno; il qual ſoggiugne lui aver primieramente porto il filo da poterlo
ſpiar tutto , e ritornare in ſalvamé to ; quantunque v'há chi non gliele vuol
credere , e affer ma coſtantemente ch'egli vi ſia rimalo avvolpacchiato,co me
tutt'aleri ; e ne ci reca la ragion dicendo , che ſe vera mente per Galieno
foſſero ſtati compreſi i ſentimenti d'Ip pocrate , cotante quiſtioni , e piati
dopo lui non ſarebboe no inſurti , per indovinar , che diavol d'inſegnamenti
ſian que' d'Ippocrate ,maſſimamente negli Aforiſmi. Orail té. po , che in ván
fi logora in sì fatti litigj,nó ſarebbe meglio, e con maggior pro
nell'inveſtigar tante coſe, che fann'huo po allame licina , opportunamente
impiegato ? Ma nella feconda parte di queſto primoAforiſmo, poi chè tanto gli è
a cuore la brevità , a che perder parole per dire,che , acciocchè il medico
adempier poffa felicemente il ſuo uficio , abbiſogni che vi concorrano l'opere
dello in fermo , de’famigliari, e tutt'altre eſteriori coſe al biſogno fian
preſte ? O utiliſſimo , o raro , e non mai caduto in mé. te umana conſiglio del
diviniflimo Ippocrate ! e Monna Berta , e Monna Nonna ſomigliantemente non
l'averebbe ſaputo ? Ma il ſecondo Aforiſmo, per la cui eſpoſizione veggiam
venire fino a villane parole i Chioſatori, e alqua 1 le più Del Sig.Lionardo di
Capoa 2.91 1 le più coſto con aringo d'ornate ciance , che con faldezze di
dottrina , cerca difar riparo Galieno a petto degli argo menti , che incontro
gli avventa Giuliano : non contien al tro certamente , ſalvo che unadottrina
molto volgare, tanto baſſa , ch’un Maeſtro Simone, non che altri G verge
gnerebbe d'averla meſſa in dozzina , maſſimamente ſules prima fronte d'un libro
di tanta eſpettazione ; ella è tales : le vacuazioni , che per vomito , o di
ſotto ſpotaneamente avvengono , ſe fian tali, quali eſſer denno , giovano , e
age volmente ſi collerano ; e ſe ilvuotamento de’vaſi tal lia,qual çiler dee ,
giova , e ſi tollera . Orlaſciando da parte ftare, che con chiarezza , e
brevità maggiore potea cotal diviſa mento ſpiegarſi, per avventura dicendo ,
cheſe l'arte , o la natura vuoterà ciò che pecca nel corpo , fie di giovamento
l'evacuazione: lo quì chiederci, chemifoſſe moftro , ove ſia l'altiſſima
ſapienza, ove il ſottile intendimento del Prin cipe , e dell'inventore , come
Galien lo dice , della razio nal medicina Ippocrate ; adunque in faccenda di
cotanta lieva haſſi a giudicar degli eventi : A che dunque vagliol tanti
ſiſtemi di razional medicina , sì lungamente, eintan ti libri da lui
regiſtrati? A che giova l'aver eglicotanto ra gionato degli uinori, e
dell'altre cagioni delle malattie , e delle altre coſe confacenti alla
medicina,ſe al miglior huo po non gli vagliono un frullo ,egli abbiſogna , ch'a
ſuomal grado ,alla fallace empirica abbia ricorſo . Ma più oltre: onde fe
meſtieri ad Ippocrate dirigiſtrar tale avvertimento nel divin volume degli
Aforiſmi, ſe non v'ha perſona così ſcicmpiata tra'l vulgo , che molto bene non
ſappia , che al lor , chenon reca moleſtia allo infermo, e ch'egli ſe n’ap
profitta , che tale qual eller deeſiaſi la vacuatione; ma do vea certamente ,
&aurebbe fatto il meglio,avviſare Ippo crate , che quantunque non ne tragga
alcun diſagio l'infer mo , e che imınantinente dopo la vacuazioncegli guariſca,
avvenir può talora , che l'umor vuotato non ſia tale , quale vacuar ſi dec
;imperciocchè ben potrebbe egli di leggieri avvenire , che dopo la vacuazione
di qualche materia , la quale niente aveſſe che fare colmale , riſtoraſleli
l'infermo Oo 2 per -- 292 Ragionamento Quarto per qualche vacuazione
inſenſibile di ciò , che cagiona il male,fattanel medeſimo tempo. Nedee ciò
recar maravi glia , ſe talora ne’più gravi , e pericolofi malori , quanto più
rigoglioſi,cotanto menome, e fottili ſono la cagioni, che l'adoperano ; e ben
ſovente avviene fenfibilc vacuazione per opera di quelmovimento ,cheſi fa nel
corpo nello ſcio glierli , e nell'ufcir fuora , e nel mutar faccia , fito, o
movi mento que corpicciuoli , onde il mal ſi cagiona : a pruova conoſcendoſi ,
che huom ſuda , vomita , e manda fuori per altre parti quantità d'umori , e ſi
ſgrava immantinente dal male ; che ſe non uſciſſe allora o pietra , o altro ,
che'l ca gionaſſe , ogn’un di certo giudicherebbe, che per la vacua zion di
quelle materie foffe l'infermo riſanato. In confer mazion di ciò che lo dico,
in quci , che ſon morſi dalle vi pere noi veggiamotutto di dopo preſi gli
antidoti vacuarſi per vomito , e per ſudore gran copia dimaterie nel tempo
medeſiino , che guariſcono ; e pure quelle non han coſa del mondo che fare col
veleno della vipera , il quale in altro non conſiſte , che in una
piccioliſſima, e poco men ch'insé fibile ſoſtanza , la quale rappigliandone il
ſangue nelle ve ne toſto n’uccide . Ma che non veggiamotutto di nelle poſteme; e
nelle ferite , ed in altre ſorti di malattie vuotar fi copia d'umori ad eſſe
non pertinenti,c guarire , ma per al tra cagione,gl'infermid e quinci
poiinginn.icii medici con falaſli , e purgagioni , ed Jorinojoſi , cimportuni
rimedj i loro infermi crudelmente ſogliono malmenare ; giudican do così imitar
l'opere della natura ; e per aver talvolta av viſto , che qualche febbre , o
altro male ſi ſia diminuito dopo un grand'uſcimento di ſangue : comandan poi ,
che nelle febbri ſi tragga langue. Ne per altro parimente,nulla curando
l'avviſo d'Ippocrate, e di Galieno,ſi vagliono del le purgigioni nel principio
, nell'accreſcimento ,e nel vigo re delle malattic , ſe non ſe dall'aver eglino
veduto , come chè radillime volte , che dopo eſſerſi vacuata qualche ma teria
in que’rempi lia migliorato , e riſanato qualche infer mo ; e queſto è quello ,
s'io non vado errato , che dovca norar Ippocrate negli aforiſmi. Ma ne meno
ſempre che quel DelSig. Lionardo di Capoa 293 qnelle materie ſi vuotano , quali
appunto da vuotar ſono, ciò vien lievemente comportato dall'infermo ;
concioffie coſachè molte volte elleno tra per la loro mordacità, e per la
delicatezza della parte , per la quale ſi vuotano , e per altre cagioni ancora
recar ſogliono noja grande agl'infer mi ; come Ippocrate medeſimo ſe ſteſſo
dimenticando al trove avviſa ; ma non ſenza ragione Giuliano prover bia , e
ripiglia Ippocrate dicendo , ch'egli incominciando queſto aforiſmo afferma come
vera una propoſizione non miga per lui provata , ne dimoſtrata in prima, cioè ,
che naſcan le malattie dalla foprabbondanza ſolamente , o dal cambiamento degli
umori in altra qualità di quella , che in prima aveano , la qualvien da'medici,
corrottela , chiama ta ; ch'egli però giudica ,che ove non ſi ſcorga legno di
cor rottela d'umori,che la ſoperchianza ſia de’inali cagione . Coſa , la quale
foggiugne Giuliano , in modo veruno in tender noir fi puote , ne è vera :
imperocchè fe ciò foſſe , eglinon ha dubbio , che tutte in fermità agevolmente
gua rir potrebbonſi : ne fi vedrebbe giammai lunghezza di ina lattia : e una
ſola la maniera di tutte curarle certamente fac rebbe ; imperocchè ciaſcun
potrebbe agevolmente qualo ra a grado gli foſse , effendo ciò in ſua mano ,
comeilmal l'affale , così toſto ripararvignon gli biſognando a ciò altro ,
falvo che fa ſola vacuazione , la quale in qualunque tein po porre ſi può in
opera col ſegnare , ſe'l male ſarà cagio . nato dal ſangue , e fe dalla flemma
, e dalla collera ,condar loro acconce medicine. Riſponde Galieno all'argomento
di Giuliano con dire , che allora oltragli umori, abbia an cora nelle parti
falde del corpo qualche vizio ; perchè va cuito l'umore dura ancora il male; ma
ſe nel inale ,ficome Ippocrate ſuppone, tengono gráī parte gli umori, dovrebbe
almeno tanto quanto fcemarlo il vuotamento di quelli ; il che certamente non
avviene ; anzi Galieno medeſimo ri portando in ciò molte fperienze ,
coſtantemeure altrove il niega . Ma come allor, che fon crudele materienel
princi pio de’mali ,quando le parti ſalde non ſon potute ancora contaminar da
eſſe , le vacuazioni riefcono nocevoli , non che 1 294 Ragionamento Quarto che
infruttuoſe : e allo incontro poi, licomecon Ippocrao te afferma Galieno , elle
giovano affai,e colgono via il ma lenel loro ſcemo, quando non può eſſere , che
non ſiano rimaſte offeſe gravemente, e contaminate le partiſalde , le quali in
tutto il tempo delmale in varieguiſe moleſtate , e ſconce ne vennero ? adunque
direbbe Giuliano, non avran nulla che fare con quelle malattie le diſcorrenti
ſoſtāze del corpo ; e allor , che li veggono dopo la vacuazion di qual che
umoré ceſſar le malattie, ciò non avvien certamente per la
vacuazione,comeIppocrate afferma. Ma par egli certa mente , che
Ippocratemedefimo non troppo fitidi in ciò della ſua dottrina ; imperocchè
avviſa egli poi nell'ultima parte dell'aforiſmo, che convengafi aver riguardo
al paeſe, alla ſtagione , e alle mulattie, e all'età, ove da far Giala va
cuazione . Ma per tacer della ſtagione , dell'età , e del paeſe , onde niuna
certezza trar ſi puote , con qual argo mento in tata incertezza delle coſe
dell'arte potrà mai rin venire il inedico fe fia , e qualſia quella parte
diſcorrente , che cagioni l'infermità ? Credeſi la collera cagionar la ter zana
: la malinconia , la quartana : e pure queſte alla va cuazione , che penſan
fare i medici di tali umori , non ce dono :'maſivincono ſenza vacuazion’alcuna
colla ſcorza del Perù , e con altre molte sì fatte medicine. Il terzo Aforiſmo
per mio avviſo parve al Paracelſo co tener dottrina di sì poca conſiderazione ,
che egli lo tra sformò sì , che in tutto è diverſo da quello d'Ippocrate;ma ſe
cosi debbonſi chiofare, e interpetrare i detti degli auto ri , egli ſe'l veda ·
Dice Ippocrate, lo ſtato degli Atleti, i quali ſian pervenuti al ſommo della
bontà eſſer pericoloſo; imperocchè non potendo poſare,ne vantaggiarli in
meglio, convien , che vada al peggio; e che però dipreſente huopo faccia
vuotargli . Primicramente la ragion d'Ippocrate, la quale ha dato cagione di
quiſtionar canto , e d'aggirarſi fra vani argomenti al Forli alSermoneta , e ad
altri ozioſi cervelli, è troppo rozza nel vero ., e materiale , e più li ſten
de aſſai di ciò , che Ippocrate s'avviſa ; imperocchè perpe tuamente ſe la
detta ragione aveſſe luogo , sìfatte perſone dovreb Del Sig.LionardodiCapoa. 295
dovrebbono andaralpeggio ; il che falſo ſi ſperimenta ; e ben ſi conoſcerebbe
apertamétc per ciaſcuno la falſità del la menzionataragione d'Ippocrate ,
s'egli come far dovea, l'aveſſe con più parole ſpiegata , comepofcia fecero i
ſuoi chioſatori , dicendo , che non poffan mantenerſi nello ſta-, to preſente ,
nepofare : perchè continuamente cibandoſi sì fatti huomini, e ingenerandoſi in
loro il chilo , e'l fangue , c queſto ad ogni ora diſtribuendoli per le parci
del corpo , ne potendoſi a quello unire per non eſſervi luogose peròſo
verchiandos debba di neceſſità cambiar in peſſimo il lorot timo ſtato . Ma non
poſer mente coſtoro alla copia grande. del ſangue, e delPaltre tuţte
diſcorrenti parti , e ſalde del. le loro foſtanze , checontinuamente G
dileguano, e per sé.. fibili,e p cieche ſtrade efco fuora da'corpi degli
huomini p . la continua formentazione di quello , che in aliti lotciliſi- . mi
mai ſempre gli va ſciogliendo ; e quanto più abbonde vole , e di buona
condizione è il ſangue, tanto più egli è vigoroſo , e valevole
ne'ſuoimovimenti, e nell'altre ſue operazioni ; e quindi ſcorgonſimolcijemolti
dicotali huo mini ftar bene lungo tempo : e comechènondimeno qual-, che volta
coſtoro pur ne pericolino, ciò non èmiga già per la ragione per Ippocrate apportata;
maperchè venendo ta lora oltre al dovere per qualche cagione di fuora a muo- ,
verfi , e a rarificarſi ſoverchiamente il ſangue, ſi rompono ivaſi, che'l
contengono : 0 pure quello diſcorrendo in co pia grande nelle parti falde
delcorpo , cdivi fermatofi, or una , or un'altra ſorte di mali , e talvolta con
impedir affar to la circolazione del ſangue repétina morte alcresì cagio na ; e
ciò è quanto dovea il noſtro buon Ippocrate avvi fare . Appreffo fålla egli
gravemente , ſenza dubbio , in tacendo come, e in qual maniera s'abbia negli
Atleti a tor. via la pienezza; ſe colle vacuazioni , o pur colla dicta ; s'egli
quì intende di quella vacuazione, che ſi fa colla die. ta , comedicono i
chioſatori di queſto aforiſmo,dovea pur certamente egli avviſare quando ciò far
convenga colla ſc. la dieta , e quando altrimenti e in sì fatta maniera non in
fruttuoſi affacco ,e vani farebbono ſta i per avventura i ſu : i avvertimenti .
Im 296 Ragionamento Quarto Imprende poi ne ſeguenti aforiſmiinfino al venteſimo
a far paroleIppocrate dietro al cibar degl'infermi ; e come chè in lor ſi
contenga qualche utile avvertimento, pur col Puſato ſuo modo intrigato del
favellare , confonde quelle materie , che meſtier fenza fallo gli facea
illuſtrare ; eſſen do nel vero la maniera del cibar gl'infermi una delle coſe
più neceſſarie a ſapere in medicina ; eavendo in quegli aforiſmi alcune regole
, alle quali fa meſtieri d ' eccezione , le dovea egli almeno accennare ; ed
era aſſai più neceſſario l'inſegnar ciò , che le tant' altre bazzicatu re , in
cui inutilmente di certo ſpende egli tante parole das vegghia , come quello,
che agevolmente lapute ſono,e co noſciute per ogn’uno. E in verità, chi è , che
non ſappia eziandio fra quelli, che non mai ſtudiarono in medicina , che
ne'mali lunghi s'abbian’a mantener le forze dello in fermo, e conſeguentemente,
che dar non gli ſi debba a ſpi luzzico il cibo , ma un poco più largamente x
Chiè , che non conoſca , che nell'acceſſioni della febbre , non ſi debba a niun
modo cibare il malato ? ma sì general legge dover cgli riſtrigaendo avviſar ,
ch'alcuna fata anche ciò far colz venga . Nel duodecimo aforiſmo fi da briga ,
e ragionevolme te nel vero Ippocrate, di narrac i ſegnali delle durate delle
malattie ; ma in materia di sì gran lieva, e onde , com'e gli medeſimo avviſa,
depende il diritto regolaméto del nu tricar gl'infermi,ſecondo il ſuo coſtume,
ofcuro , e intral Lito favella , e con poche parole ſi toglie dal doffo ogni
ſeccaggine ; tralaſciando non per ſuo mal talento , ma per ſuo poco ſapere di
far motto de'polſi. E quanto al fat to deglieſempli , egli è molto ſcarſo :
recandone un ſolo della pleureſi, e nemeno in quella fi trova ſempre eſſer ve
che apparendo nel cominciamento di quella lo ſputo , il male abbia poco a
durare . Va errato parimente Ippo crate in dar intera credenza a ſudori , alle
fecce , e ſpezial mente all'orina ; la quale per tralaſciar altre ragioninon
tutta li ſepara dal ſangue ;maparte di eſſa trapelando dal ſacco latteo per una
breviſſima ſtrada tragittaſi alle reni ; e ro , come Del Sig. Lionardo di
Capoa. 297 comechè una sì fatta ſtrada ignoraffe Ippocrate, dovca pur cgli por
mente ad alcuni beveraggi , che appena tranghiot titi , di preſente ſi orinano
: e agli ſparagi , al Terebinto, e ad altre coſe , che ſenza toccar punto il
ſangue alterano sé, fibilmente l'orina . Nel tredecimo aforiſmo dice Ippocrate
, cheivecchi portano agevolmenteil digiuno ; e quindi paſſa a far paro le
dell'altre età . Ma queſto è un'errormaſchio ; imperoc chè dal continuo
ſperimento ne fi fa chiaro , ch'a’vecchi tra per la lor debolczza ,e perchè
poco nutrimento traggo no da'cibi, aſſai ſpeſſo faccia meſtier riſtorarſi . E
verilimo troviain noi l'avviſo di Celſo : inediam facillimè fuftinet media
etates , minus juvenes , minimè pueri, & fenectutes confećti. Vien
poil'Aforiſmodecimoquarto, il qual tanto ammi rar ſi ſuoledaʼnoſtri medici ,
cioè , che coloro , i quali cre ſcono , abbiano in copia grandeil caldo innato,
e che per ciò faccia lor meſtiere abbondevol cibo , alorimenti il cor po ſi conſumi
. Ma non avviſano coſtoro , che alcuni peſci creſcono oltremodo , e non che
eglino caldi fieno , anzi só freddi si fattamente , che lc loro interiora
agghiacciate,no altrimenti che neve li ſentono : come avviſa de’luccj del la
nuova Francia il Padre Giuſeppe Breſſani : ho aperto (dic' egli) il luccio
ancor vivo , e trovato il freddo del ſuo ſtomaco, quafi inſopportabile alla mia
maro. Altra coſa adunque co vien certamente dire, che ſia quella , per la cui
opera ben ,' digeſtendoſiicibi , e altra cagion concorrendovi creſcano
glianimali; e a quella in prima dovea por mente Ippocra te , e poi diterminare
; ma eglia ciò non badando , indias poco ſiegue a dire nell'altro aforiſino ,
che di verno , o di primavera fiano le viſcere per natura caldiſſime , ei louni
lunghiſſini ; e perciò in quelle ſtagioni più largo cibo dar ſi debba
;concioliecofachè l'innato calore allor creſca , cui maggior cibo certamente
abbiſogna , e che di tal coſa nes fan pruova l'età , egli Atleti. Ma che fan
qui tantc parole a ſpiegar una sì breve ſen tenza : ecco l'uſata felicità del
ſuo breviffimo ſtile ; ma ab biz Рp 298 Ragionamento Quarto I biaſi pur ciò per
niente , egli non è tuttoda trafandar fotro ſilenzio , che quantunquevero in
tutti huomini , per tacer d'altri animali, ciò che diceIppocrate ſi
ſperimentaſſe, che diverno , e di primavera affai meglio fmaltiſcanſi i cibi :
la ragione nondimeno , che di ciò e' ne reca è falſa ; concior fiecofachè falfo
apertamente ſia , che nelle menzionatcſta gioni caldiſſime fiano leviſcere degli
animali; e perchè ciò vero fofle , nemen nulla montcrebbe : non facendoſi altri
méte dal calore la digeſtione de'cibi: ficome ne ſiamo omai tanto accertati ,
chenon fa luogo, che lo vi ſpenda parola. Perchè in van brigafi Galieno di
recare in concio d'Ippo crate le ragioni fanciulleſched'Ariſtotele , che le
viſcere di verno caldiffime fiano, perchè il caldo, come ſenſo egliavel fe , e
del circoſtante freddo ſentiſſe l'offeſe , alle più naſco fe interiora ſi
rifugga ; e certamentecotal ſciocca filoſofia , che i luoghi ſotterra caldi
ſiano di verno , e freddi di ſtate , per lo Termofcopio falſa apertamente
ravvifaſi , comeché tali pajano a noi , che di ſtate caldi, e di verno freddi
v’en triamo dentro . Ma avvegnachè a pro d'Ippocrate dir potrebbeſi , che di
verno per eſſer chiuli i poridegli animali ſi venga aritener quella ſoſtanza ,
che di ſtate eſce fuori , la quale da al ſan gue col movimento il calore : non
però di meno , come fiè accennato , manifcſtamente in noi ſtesſi ravviliamo le
parti dentro del noſtro corpo tutte , non altrimenti, che quelle di fuora ,
effer più affai calde di ſtato , che diverno; ne per altro nella detta ſtagione
così volentieri acque freſche, e altri raffreddari liquori beviamo ; ne
Ippocrate medefimo oferebbe ciò negare ; il quale dice altrove , che di verno
s' ingenera la flemma, ſecondo luifreddiflimo umore , eche avvengano lunghe , e
cagionate da tardi , lenti , e freddi umori le malattie . Ma Galieno volendo le
parti del ſuo maeſtro difendere , immagina sì fatta malagevolezzaceſare, con
dire , che di ftate ſian calde , maggiormentc che diverno le viſcere , di quel
caldo , ch'egli avveniticcio , e foreſtiere chiama ,ma non già miga deicaldo
innato . Chiama egli caldo innato una i 1 1 DelSig.Lionardo di Capoa . 299 remo
. una aerea acquoſa ſoſtanza d'un calor mite, e ſoave inſieme con gli animali
nata , e avveniticcio allo incontro poi chia ma un caldo terreo mordace
affocato ; e di queſto egli di ce nell'infelice difeſa del precedente aforiſmo
d'Ippocrate contra Lico, che abbondevoli fiano maggiormente i giova ni , e di
quello i fanciulli. Ma quanto ciò poco , anzi nulla approdi a difefa
d'Ippocrate, noi or brievemenre dimoſtre Primieramente convien ſapere, che'l
calore negli anima li naſce tutto dal ſangue ; perclié folea dire l'Arveo ,
altro non eſſere il caldo innato , che'l ſanguemedeſimo: folusnē pefanguis eft
calidum innatum , ſeu primo natus calor ani. malis, uti ex obſervationibus
noſtris circa generationem ani. malium , præfertim pulli in ovo luculenter
conftat : utentia , multiplicare fit fupervacuum . Argomento manifeſtiſimo è di
ciò , ch'io dico lo ſcorgere , ch'abbandonata dal ſangue qualunque parte
dell'animale , immantenente ogni calor viene ella a perdere : e ſe mai eſce
dall'animale tutto fuori il ſangue , ben toſto dal cuore , dalle vene ,
dall'arterie , da altre parti falde tutto il calor fi diparte. Vano , e falſo
adunque è ciò, che con Ariſtotelecomunemente dir ſi ſuo le , il cuore effer
fonte del calore : ne ſo lo vedere , come in sì fatta opinione compiaceſſeſi
quel grandiſſimo filoſo fante Renato delle Carte ; imperocchè agevolmente egli
avviſar potea il cuore noneſſer più caldo , che l'altre vilce re deglianimali.
Ma fe'l ſangue ( e ciò avviſa infra gli al tri il noſtro Ippocrate ) per ſe
ſteſſo non è caldo , convien! inveſtigare , onde il calore in prima gli
avvenga,e la cagio ne per la quale caldo mai ſempre nell'arterie , e nelle vene
quello mantieneſi . Credettero alcuni degli antichi, che'l fangue ſi riſcaldi ,
e caldo continuamente ſi mantenga , perlo movimento , che dal cuore , o
dall'arterie egli conti nuo riceve ; ma non baſta certamente un si debile
movie, mento a ingenerar nel ſangue sì gran calore ; anzi prima che'l cuore , e
che l'arterie ſi faccian vedere nell'huomo , caldo vi ſi ſperimenta il ſangue ;
ne meno a ciò baſtevole è certamente il ſuo perpetuo muoverſiin giro ; ma
chiunque P p 2 pon 300 Ragionamento Quarto pon mente alla materia , onde
ingeneraſi il ſangue, più age? volmente peravventura inveſtigar ne potrà la
cagione. E gli faſſi séza dubbio il sāgue del Chilo, e'l Chilo s'inge nera
d'erbe , e di frutta , e di carni, che altresì dell'erbe, e del le frutta
vennero fatte , e ingenerate ; or sì fatte vegetabili ſostanze, come ancora le
minerali,per la formentazione ſo la divengon calde sì factamente , che ſenza
aver d'altro bi ſogno., mentre dura la forinentazione, dura parimente in loro
più , o meno il calore ; cofa,la quale nel mofto, c in al tri ſomiglianti fughi
da chiunque mente vi pone ad ogni ora ravviſar eglifi puote ; ma d'altra affai
più nobile , e più maraviglioſa maniera certamente e' ſi pare quella formen
tazione,che faffi nel fangue , la quale in parte è ſomiglian te a quella , che
avvenir ſcorgeſi alle diſcorrenti ſoſtanze minerali ; onde avviene che lo
ſpirito ,che per chimica ma no dal ſangue li trae, ſia gran fatto diffimile da
quello che ſi tragge dal vino e da altri ſughi formientati vegetabili trar fi
ſuole . Ma come veramente una tanta opera nel ſangue fi faccia , e qual ne ſia
la cagione, non mi par tempo oppor tuno a conghietturare ; e baſti per ora
ſolamente ſapere, la formentazioneeſſer quella , la quale diliberando nel fan ,
gue i ſemi del fuoco da que'ritegni , per li quali non pote vano eglino
muoverſi di quel moto mai ſempre dilatante propio delfuoco , v'ingenera, e vi
mantiene continuo il ca lore;ma nel ſangue poi(o in altro ſugo al fangue
equivale te )de’peſci, o d'altri ſomigliáti animali, no mai calor fi rav vila;
cõcioffiecofachè i femi del fuoco in lor fieno , o molto pochi, o in sì fatta
guiſa con altri, & altri ſemi di varie altre coſe avviluppati,che mal ſi
poſſono eglino per lo movime to della formétazione,conechè grāde e’lia
agevolınéte ſvi luppare . Ma che che fja di ciò, uno ſolo è certamente per
manevole negli animali il calore , il quale , or naturale , or non naturale
porrà dirſi, fecondochè convenevole , o non convencvole e farà alla natura di
quelli . Ma fe'l ſangue concinuo va cõſumandoſi cô ingenerarſene ſempre mainuo
vo, intanto ,che dopo qualche giorno non ne riman più goc cia alcuna del vecchio,
certamente convien dire ch'appena ne'fan DelSig.Lionardo di Capoa. 301 ne
fanciullinon inolto guari dopo i loro naſciinenti il caldo innato ritrovar
puoſſi; ed ecco, s'io pur non m'inganno, ca duti, e ſparti a terra fin dalle
fondamenta i maggiori argo menti in difeſa della doctrina d'Ippocrate , portati
per Ga licno . Ma per ritornare al noſtro propoſito : di ſtate pllo calore
dell'aria circonſtante , la qual continuamente dagli huomi niper la
reſpirazione li bee , e per le ſoſtanze del volante . ſalc , che'n quella , più
, che in altra ſtagione nell'aria ſi ri trovano , sformatamente la
formentazione del ſangue , e in eſſo in prima , e poi nelle viſcere divien più
grande,e pa riinente ilcalore ; allo incontro poi il verno, mancando all' aria
que'ſali, e tra per queſto , e per la ſua freddezza ſi di minuiſce colla
formentazione, così nel ſangue,come nelle viſcere neceſſariamente il calore ;
ne per altra cagione nel le parti di Settentrione il ſangue , e le viſcere ,
maſſimame te di verno non molto calde ſcorgonſi ncgli animali, e in alcuni di
eſli mancar affatto ſi ravviſa ogni fcintilluzza di calore,sì fattamente , che
per ogn’uno trapaſſati ſi ſtimereb bono ; ne pare dalla verità lontano ciò che
de' Lucumori narra Sigiſmondo Libero : Dicono che agli kuominidi Lucu morie :
coſa mirabile , e incredibile , e che ha più della favo la , che del verifimile
: fuole intervenire , chequelli per ciaſ cun'anno , cioè a' ventiſette del
meſedi Novembre , nel qual giorno appreffo de', Ruteni è la feſta di S. Giorgio
, muojano,6 chepoi nella ſeguenteprimavera a'ventiquattro d'Aprile al la
fimilitudine delle ranocchie di nuovo riſuſcitino . Ma che che faſi di quelli :
lo dico , che ſe Ippocrate , e Galieno aveſſer voluto veramente filoſofare ,
avrebber per avven tura ritrovato la vera ragione , per la quale di verno , e
di primavera i cibi meglio aſſai fi digeſtiſcano, eſſere ſolo per chè a
que’tempi quella nobiliſima ſoſtanza, la quale fico municâ dal ſangue allo
ſtomaco , e fa la digeſtione,affai più vigoroſa, e forte fia, che di ſtate non
è, in cui per lo calore oltremodo in quello accreſciuto ſi diſlipa , e fi
dilegua ; cf fendo ella , comechè accender non fi poffa , vie più dello {pirito
delvino volante , e ſottile ; e per mancamento d'u pa co 302 Ragionamento
Quarto na cotal ſoſtanza ſenza fallo avviene , che gli huomini, co mechèpiù
caldi , men gagliardi ſi ſentano , e atanti della perſona . Ma nc .men ſe ſi
concedeſſe a Galieno , che v'abbian ve ramente due ſorti di caldo negli animali
, ſarebbe ciò pun-, to per giovare ad Ippocrate ; concioſliecoſachè , o innato
, o avveniticcio che'l caldo fi concepiſca, purchè e' s'avanzi .nell'animale ,
conſumerà ſenza fallo il corpo diquello ; la onde ſe fi ammette la ragion da
Ippocrate nel precedente aforiſmo recata , converrà certamente dire , ch'a'
giovani più ch'a' fanciulli , e che di ſtate più che di verno abbon devol cibo
faccia meſtiere ; ma ciò Ippocrate , e Galieno fe'l vedano , che per altro
poiifanciulli più largamente eſ ſer denno cibati ; sì perchè abbiſogna lor copia
di materia per creſcere , sì perchè la lor ſoſtanza più agevolmente fi dillipa;
e quantunque di ſtate abbian più biſogno di riſtoro , e dicibo gli animali ,
nondimeno non molto bene, e per fettamente in quel tempo facendofi la
digeſtione , convien che parchi ſiano alquanto eglino nel cibarſi. Ma lo laſcia
to aveva di rammentarvi , che Ippocrate medeſimo rifiuta incautamente ciò, che
Galien delle due ſorti di caldo, a pro di lui dice; imperocchè Ippocrate reca
l'eſemplo degli atle ti, in cui certamente il caldo avveniticcio , è quel che
ſovrabbonda ; tralaſcio ciò che dice parimente Ippocrates, cheivecchj per avere
ſcarſità di calore , non ainmalino co sì , come i giovani difebbri acute; co
che pare, che ne me no il calor de'febbricoſi , ſecondo Ippocrate, differiſca
dal l'innato , ſalvo che per gradi . Maper mio avviſo la colpa tutta non è miga
già diGalieno, ma d'Ippocratc ; imperoc chè egli,comechè no'l dica apertamente
, ſuppone le due ſorti di caldo ; perchè nel medegmo aforiſmo a ſe medeli mo
e'viene a contraddire . Nell'aforiſmo ſedecimo fi dice, chci cibi umidiconven
gono a 'febbricitanti tutti. Ma a color , che patiſcon coti diane febbri, o
terzane, diquelle chechiamāli( purie , i qua per tutto il corſo del male
tengono lo ſtomaco , e l'altres viſcere ripiened'acquoſe , ed unnidiſſime
ſoſtanze , lo per me li Del Sig. Lionardodi Capoa 303 me non sò , comegli umidi
cibi poſſan unqueinai approda re. Lafciando egli poi di favellar più de'cibi ,
fa ſtrano pal faggio Ippocrate alle medicine purgative ; foggiugnendo
nell'aforiſmo venteſimo, che quelle coſe , le quali o figiu dicano , o
giudicate interamente già ſono , non ſi debbano muovere, e ne con medicine , ne
con altro irritare , ma lila fcin così ſtare ; ſentenza, la quale con altre de'
libri degli aforiſmi volle Ippocrate , che ſi leggeſſe nel libro degli umori ,
ed in altre ſue opere , e contiene ſenza fallo uil, atiliffimo avvertimento
;mapotea certamente Ippocrate far di meno ditorſi una sì tatta briga , cotanto
ella è chia ra, e manifeſta coſa ; e nel vero chi ignorar mai potrebbe ,
avvegnachè non inai ſtudiato abbia in medicina , che ad huom perfettamente
guarito della malattia , non che lava cuazione, che potrebbe di nuovo
ſcopigliare il ſano ordi namento del corpo , ma niuna altra forte di rimedio
non faccia meſtiere ? Ma forſe ſcorger dovette Ippocrate, che i medici de'ſuoi
tempi, non altrimenti che li facciano og. gidì que' de’noftri , o poco , o
nalla vi badavano ; e ciò per mioavviſo avviene , perchè di lor natura i medici
avidi ſon mai ſempre di far coli, chepaja al vulgo grande ; come è il vuotar
con ſalafli , e con purgative medicine ; e van cer cando ogniora qualche
apparente cagione di poter ciò egli no fare ;eforſe che'l medeſimo Ippocrate
non gliele porge allor ch'e ' dice in un'altro aforiſmo, che ciò che rimane
dopole malattie foglia dinuovo ingenerarle ? ma chi ben riguarda la coſa ,
apertainente ſcorge, che non ſolamente in ciò ,che accénato abbiamo,maquaſi in
tutte altre materie ritrovano i medici ciò, che lor fa inefticre, nell'opere
d'Ip pocrate ; e queſta certamente è la cagione , per cuida'no Atri
Setteggianti ſia Ippocrate in qualche pregio tenuto. Ma che che lia di ciò ,
dovea annoverar Ippocrate minutamen te i ſegni , per li quali ravviſar poſſa il
medico , che'l male interamente lia andato via ; c que'ch'egli altrove , e
Galić nelle chioſe brievemére produce in mezzo ,quáto ſianofal laci ognun per
ſe ſteſſo conoſcer puote . Doveva pariméte Ippocrate ſpiegar diligenteméte,che
ſia ciò che rimane do po le A 304 Ragionamento Quarto po lemalattic ; es aitro
e' non dice, niente certamenteegli inſegna , chenon ſia a tutti ben noto . Dice
indi nell'aforiſmo venteſimo primo Ippocrate, che ciò che vuotar fi dee ,per le
ſtrade, onde ha egli cominciato ad uſcir fuori, e per li convenevoli luoghi
convenga vuo tarlo . Qui il gran macſtro delle più aſcoſe materie dell'ar te ,
non fi dipartendo dall'uſato ſuo coſtume , imprende ad inſegnare faccenda,
eziádio alle madrine manifefta; e non fa menzione di niuno di quegli
avvertimenti, i quali dovca egli negli aforiſmicertamente regiſtrare ; cioè
quali vera mente li licno que'luoghi, ch'egliappella convenevoli, come talora
tra per la delicatezza d'alcune parti , e per le mordacità de’lughi , o per
altra cagione convenga al me dico altrimenti operare di quel ,che li faccia la
natura. Vien poſcia quell’Aforiſmo altrove da noi recaro , che contiene nel
vero un'ammaeſtramento molto , e molto ne ceffario a ſaperſi dal medico intorno
al tempo delle purgam gioni nelle malattie ; ma da’ſeguaci d'Ippocrate , e diGa
licno , come abbiam dimoſtrato,in niunconto tenuto . Mów la colpa , s'Io pur
non vado errato , in gran parte ſi dec ad Ippocrate attribuire, ilquale dovea
certamente ſcriver co ſa di sì gran momento d'altra miglior forma,e produrre in
mezzo le ragioni, e le ſperienze, che fanno al propoſito , e poſſono la verità
dalui inſegnata appieno aʼmedici perſua dere. Ma il buono Ippocrate ciò
traſandando logora il té po in narrar altre inutili novelluzze ; anzi con recar
egli quell'altro Aforiſmo :nel cominciamento de’mali , ſe pu re ti pare, che
s'abbia a muovere, tu muoverai: séza giugner altro, comecertamente dovea
eglifare,da cagione di por re in dubbietà ciò che prima avea egli inſegnato .
Nell’Aforiſmo ventitreeſimo ripete Ippocrate vanamé te ciò ch'egli altre fiate
avea detto;ma ciò ch'e'poſcia v'ag giugne , egli è certamente un'avviſo così
fuor di ragione , che giuſtamente da più avveduri medicanti , comechè per altro
ſuoi parziali,vien traſandato ; cioè che vuotar fi deb ba fin’allo sfinimento ,
ſe mai ne ficcia inelticri, purchè pof ſa comportarlo l'infermo. Maquinon ha
dubbio nuno , che Del Sig.Lionardodi Capoa. 305 che Ippocrate dato c'non abbia
il cervello a rimpedulare; imperciocchè non ſi rammenta , che poco addietro
corali vuotamenti avea egli oltremodo biafiinati, ſaggiamente ſti mádogli di
grādilimo riſchio; quantunque egli in ſe ritor nato altrove poidi nuovo gli
rifiuti.Ma più v'è di male , che Ippocrate no fa parola niuna diqual vuotaméto
intēder vo glia ; ſe di quel , che per li ſalaſli , come ſpiega Filoteo , o
pure diquel, che per le purgagioni s'adopera; come rac coglier fi può da ciò ,
che in prima egli ha detto ; o diquel che fafli , e per gli uni , e per l'altre
,comevuol Galieno , il quale ſcioccamente approva nelle chioſe la menzionata ,
dottrina dell'Aforiſmo, Ma ſe mai d'un sì grave fallo ſcu ſazion ritrovar
poteſſe Ippocrate , e vero foſſe ancora in qualche malattia haver luogo sì
fatte eſtreme,e mortali va cuazioni, Io ſaper vorrei da lui,comemai cotali
purgagioni s'abbiano a porre in opera sì , che o giúgano appunto allo
sfinimento,o no’ltrapaffino anche di molto; perciocchè con graviſſimo riſchio
del povero infermo sì fattamente ancora operar potrebbono, che colle liquide
ſoſtanze curte ſi vuo caſſero päriméte le falde,anzil'anima ácora, e 12 vita
;séza chè p cercana (periéza abbiamo, che debile, e ſpoſfata puc gativa
medicina ralormolto vuoti , e groſſo calice d'ama riſſimo , e violentiſſimo
beveraggio nulla non operi, ſecon dochè 'l corpo, più, o menvi & ritrova
adatto ;perchè trop po pericoloſo nel vero riuſcirebbe a porre in opera
l'avviſo d'Ippocrate , ponendoci a troppo ſtretto riſchio d'ammaz zar
l'infermo, o di nulla giovarlo . Ma poſto , che ciò che inſegna Ippocrate ſi
poreifc dal medico ſicuramente legui re, qual pro per Dio a’milerellilanguéti
mai ne avverrebbe, ſe di neceſſità le più nobili, e utili foſtāze del corpo
s'avreb bono ad un'ora a vuotare? e quì ci accade d'avviſar la ſcioc ca
pecoraggine d'alcuni medicāti de'noſtri tempi, i quali no avendo ardimento
d'imnitar Ippocrate , e Galieno nel ſe gnare fino allo sfinimento , l'imitano
poi nell'uſare violen tillime, e nocevoliſſimepurgagioni: follemente immagi
nando ,nel far grandemente vuotare , tutto il ſapere, e'l va lore del medico ,
e l'eccellenza dellamedicina confiftere ; e RI pure 306 Ragionamento Quarto -
pure il medeſimo lormaeſtro Ippocrate apertamente avvi ſa,che non miga per la
quantità s'abbiano a ſtimare le pur gagioni , ma per la qualità degli umori,che
ſi vuotano.Ma trapaſſando al ſeguente Aforiſmo:ciò che ſi dice in quello ,
giàvenne detto in prima nell'Aforiſmo ventidueſimo; per chè chiaramente ſi vede
, che Ippocrate follemente riſpar miando le parole nel biſogno maggiore , le
conſuma poi , ove non fa meſtieri ; ma non una , o due fiate egli in ciò ſi vede
fallare ; e ſimigliantemente ciò , che ſi dice nell'ulti mo aforiſmo, fù detto
già nel ſecondo ;perchè egli vien giu dicato ragionevolmente vano , e ſoverchio
da Galieno ,che che fi dicano in contrario gli altri chioſacori :onde non è da
farne più motto . Egli era sì agevole impreſa ad Ippocrate il dettar aforif mi
, che lo immagino , che egli dormendo ancora ne com poneſle; imperocchè non
ſolamente in queſta , ma in cuce ' altre ſue opere gliva egli ſeminando; e
quelche più dej recar maraviglia ſiè , che ne reca alcuniegli ſovente , che
colla materia , la qual ſi tratta non han punto che fare; ma quando di ciò lo
vado ricercando la cagione, ritrovo da al tro una sì fatta agevolezza non
procedere, ſe non fe dal ſuo poco intendimento , e dal non diſaminar lui bene
le coſe ; perchè fi verifica in Ippocrate quel faggio avviſo d'Ariſto tele ,
che coloro, che a poche coſe riguardano agevolmea te diterminano ; e quindi
avviene , ch'egli tratto tratto diſguiſato , econfuſo non ſerba ordine, o
maniera alcuna , a guiſa de’noſtri Romanzatori , i quali di palo in fraſca ſem
pre faltando, quando men s'aſpetra, rompendo il fil del ra gionamento ci
laſciano , e d'alcro imprendono a ragionare. Malafciam Bradamante , e non
v'increfca V dir , che così reſti in quell'incanto, Che quandoſarà il tempo ,
ch'ella n'eſca La farò ufcire, c Ruggier' altrettanto, Come raccende il guſto
il mutare efca , Così mipar , che la mia iſtoria quanto Or quà ; or là più
variata ſia , Mero a chi l'udirà nojoſafia. Così Del Sig.Lionardo di Capoa 307
2 L Così il noſtro Ippocrate ora laſciando di favellar delle
purgagioni,nelſecodo libro a far parole del ſonno trapaſſa, dieědo : il ſonno
ove in alcuna malattia fia tormentoſo ne addita quella eſſer mortifera ; ma ſe
ſarà egli giovevole,ne fa avviſati non eſſer mortale . Egli l'ha indovinato
certamente alla prima ; e non veg giam noi tutto di trap.affar molti, emolti,
che tempo del male piacevol ſonno agiatamente ſopiva : e allo incontro rimaner
in vita altri , che nelle loro malattie da funcſtif limiſogni,o da altro
aſpramente fur dormendo travagliatis Or non avvien quaſi ſempre
nell'avanzamento dell’avute malattie , che gli infermi più moleſtia in ſonno ,
ch'in veg . ghiando patiſcono ? e purnondimeno eſli per la più parte riſanano ;
oltr’a ciò le terzane , e tutt'altre febbri intermit centi fogliono il più
delle volte con faſtidioſi ſonni gli am , malati sformatamente annojare : e pur
le sì fatte,ſecondol' avviſo del medeſimo Ippocrate,non fon di riſchio veruno;
e quantunque ,per parere diGalieno, Ippocrate non intenda , di favellar de
fonnida tali febbri avvegnenti, pur nondi meno era il diritto ch'egli l'aveffe
apertamente ſpiegato, ne miga alla diſcrezion de'chioſatori , o de' lettori
laſciato. Nel ſecondo Aforiſmo afferma Ippocrate , che ſe'l ſon no la
farnetichezza raccheta , vada ben la biſogna . Ma che è ciò per Dio , ch'egli
dice ; Io vo conceder , che talor vaglia , ne vi ha chi il nieghi , ch'un
placido, e ſoave ſonno valevole ſia una ſinaniante farnetichezza ad attutare :
eche aver fano l'intelletto ſia coſa non che buona, maottima ; ma ſe un sì
fatto giovamento s'aveſſe altronde, che dal sô no , domine ſe ſarebbe male ? e
ſe ſarebbe ancor bene,ab biſognava certamente Ippocrate dir nell' Aforiſmo :
buona coſa è , che i farnetici dal lor farneticare riſanino ; e five drebbe
ſenza fallo regiſtrata una dottrina nel divino volu medegli Aforiſmi da fare
ſcorno alla concluſione di quel ſovrano collegio de’medicanti, la ove tutti
conchiuſcro, che Mecenase non aveva ſonno , E queſt'era cagion,che non dormiva
”. Ma quanto meglio avrebbe fatto Ippocrate , e quanto Q92 con 308 Ragionamento
Quarto 2 $ con avanzaméto della medicina ſpeto avrebbe egli il tem po, ſe in
vece delle sì fatte novelluzze aveſſe impreſo a rac corre , e a dimoſtrarne di
quanto riſtoramento ne fia il ſon none come allettar fi poffa a recarne quelle
tante utilità ,on de ragionevolmente ilParacelſo ebbe a gridare : fomnus Jant
um arcanum eft in medicina ut libenter ab aliquo fcire velim , abfit difto
error , an , & qua medicina fit, quæ in omnibus morbis, tampræfens, &
repentinumfit auxilium , adeoque corpori , acfanitati condueat æquè ac fomnus.
Co sì col grave fafcio di penſieri ſogliono i malati laſciar an che i più
oſtinati dolori della perſona, allorche luſingando loro le pupille il ſonno
dolcemente gli abbandona in fule piume; laonde non ſenza qualche ragione
l'autore dell'in no ad Orfeo attribuito,chiama il ſonno Re degli huomini, c
degli dei Somnequies rerum ,placidifſime fomne Deorum , Paxanimi , quem cura
fugit,tu pectora duris, Feſa minifteriis mulces , reparaſque labori . Canta
Ovidio ; e Seneca Tuque à domitor Somne malorum , requiesanimi, Pars
humanamelior vitae E'I Caſa O ſonno, o dela queta umida ombrofa Noite placido
figlio , o de’mortali Egri conforto, oblio dolce de'mali Si gravi , ond'è la
vita aſpra , e nojosa E'lTallo Padre Orche m'arde l'a febbre gorche'l vigore
Vital m'invola il duolo acerbo , e rio , Col ramo: molle dell'onde d'obblio
Torrai laluce agli occhi, ame l'ardore ; ne altro rimedio ritrovò Erminia (
appo il maggiore deno Itri Poeti ) .a? ſuoi dolori,che'l ſonno Cibo non
prendegià , che de'ſuoi mali Solo fi paſce, e för di pianto ha fete ; Ma'l
funno, che de'miſeri mortali E' coiſko dolce obblio poſa, e quiet thing Son .
DelSig. Lionardodi Capoa 309 Sopš coʻfenfi i ſuoidolori , e l'ali Diffefe fuura
lerplacide , e chete . Ma comechè ciò fia vero , pocomontava a noi certame te
il faperlo , fe non fappiamo inſieme chenti , e quali ſiano irimedj daciò
operare;perchèdovea certamente Ippocra te diviſare inſieme degli argomenti ,
onde a’malati ſi può chiamare il ſonno ; e comechèoſtinato ingannarlo : e non
folamente dire cheil ſonno approdi a corali infermi. Ma forſe lo vado errato ;
perciocchè non fo com'egli il pur rivelò af fuo Signor de la Sciambre , e fe ,
che colui n'in fegnaffe i ſentimenti di lui, o per fua dappocaggine, o per la
ſua natural mutolezza in prima naſcoſi : conciofoffe co fa , che chioſandocolui
queſto ſecondolibro, ſcritto aveffe: nel titolo : nova ratioexplanandi
aphoriſmos Hippocratis , per quam uſusaphoriſmorum ab Hippocrate intenti, nec
ta. mea conſcriptireperiuntur . Econ queſte magnifiche pro. meſſe venendo egli
poi al poſtro Aforiſmo , dice per fenté za d'Ippocrate : ad praxim revocabitur
hæc prognofis, ſiis ejufmodi effe&tibus appoſitis remediis fomnus
concilietur . Ma prima,chc a lui ne diè la curaIppocrate alParacelſo d'avvi
ſarlo , il quale nelle chioſe del derro Aforiſmo diſſe : Som nifera
quomodocunqueea vocentur àquolibetmedico fummo perè conſideranda Junt ;
fomnusenim medicina ef ſuperans omnia arcana gemmarum ', cu lapillorum
pretioforum . Qui Natura Arcantfomniferumexconvenienti effentia desīte ptum
,rectè applicare novit,is magni apud ægrotosfaciendus eff . Non igitur folum
defomnisnaturalibusHippocrates bic loquitur ,fed oportet ut euminrelligatis ,
fcut medicum ex pertum , qui ex fpiritu medicina locutus eft , non ut Humori
Ba, qui ignorat quid fit fomniferum ,fed ut artifex . Mache mivo Io più nel
farnerico degli Aforiſmi d'Ippocrate lun gamente avvolgendo , i quali di sì
picciola levatura ſono , quára per noifin'ora s'è accénata. Vegga pur
chiunquecó animo tranquillo , e ripofato , e veramente da filoſofo daw niuna
paſſione imbardaro , e'sì gli giudichi cutti , e ſottil mente gliſtacci,
cheſenza troppa fatica logorarviagevol mente ritroverà eſſer i rimanenti tutti
della medeſima va glia 310 Ragionamento Quarto 1 9 1 glia diquelli, che fin quì
diviſati abbiamo :eche malamē: te allogata abbian l'opera in affibbiarvi tante
chioſe , eco mentiſopra,i noſtri medici, mallimamente il narrato Signor della
Sciambre , il quale lo non sò con qual arte s’indovis ni , e a noivoglia
comunicar corteſemente ciò che Ippo crate avea intenzione di dire , e'l racque
ſolamente per ri ſerbare al ſuo valoroſo ſegretario la gloria d'una sì magui.
fica impreſa . Ma ſe bene Ippocrate detto veramente aveſ ſe ciò che il Signor
della Sciábre diviſa , e pretende aver il maeſtro a bello ſtudio tacciuto ,
gran coſa pur cgli non fa rebbe , come ſi può ſcorgere nelle ſue chiole . Ma
incom portabile certamente, e' mi pareil Signor de la Sciambre, Aon ſolamente,
perchè in ogniaforíſino coſtantemente egli afferma queſto , o quell'altro aver
Ippocrate avuto in men te di dire,ma eziandio, perchè talora in materie
chiariffime ci vuol'egli far vedere per roſſo il giallo , ficome quando p
ſoftenerche'l , ſuo modo di medicare non travii dagl'inſe gnamenti d'Ippocrate
, vuol farne a credere colui aver avu to in animo , che ancora fuori del
gonfiamento le crude materie vuotar fi debbano ; error,che in verità non mai
gli porè cadere a niun modo in penſiero . Or ſe la potente faſcinazione
dellepaſſioni non aveſſe magagnate le menti de'chiofatori , eglino ſiſarebbono
, fe lo diritto eſtimo, da per ſe del poco , 0 niun valore del volume degli
Aforiſmi agevolmente avveduti, almen per quelli che perentro ma nifeſtamente
falfi vi s'avviſano ; intanto , che ne meno il tanto parzial d'Ippocrate
Galieno , e altri ſeguaci di quel lo gli han voluti torre a difendere . Ma
comechè cotanto imbardato fi moftri Galieno delle dottrine d'Ippoctate pur egli
falſo a cento , c mille pruove confeſſa apertamente ayer lui ritrovato
quell’Aforiſmo, il qual dice , che ſe mai la rete efca del ventre fuori, abbia
di neceſſità a infracidire. Machi falſo parimente non ravviſa quell'altro , ove
inten de Ippocrate didarne certi ſegnali da conoſcer le donne in cinte ,
dicendo ; ſe conoſcer tu vorrai quando la femmina gravida ſia , innanzich'ella
vada a coricarſi, dalle bere la mulla, e s'ella ſarà moleftata da’dolori del
ventre, di certo, che DelSig.Lionardo di Capoa 311 che ſarà gravida: ſe nulla
ſentirà ella nonaverà concetto.E fe l'aforiſmo è falſo , abbiſogna anche dir ,
che in vano ſi becchiil cervello Galieno per recare la cagione, perchè abbia a
farſi dopo il definare cotal operazione ; è falſo diſ fe Avicenna,chedell'error
dell’Aforiſmo in parte s'avvide , che tal fatto avvenga a quelle donne, che non
hanno in co ftumetal beveraggio ; imperocchè a quelle donne, le qua li per
addietro non mai l'aſſaggiarono , o gravide , o non , gravide , che ſiano
elleno , foglia talora la mulla dolori di ventre cagionare : il che avviene
ancora dalla mulla com, poſta coll'acqua piovana , della quale alcuni
immaginano aver Ippocrate favellato. Falſo pariméte ſcorgeſi l’Aforiſ mo , che
mortale ſia a donna gravida ogni acuta malattia . L'Aforiſmo , di cui
meritevolmente dice il Santoro : ne , mofana mentis defenderet hunc aphoriſmum
: cioè, che co loro , de'quali l'orina è fabbionoſa abbian la pietra nella
veſcica, che che a difeſa d'Ippocrate il Zecchi ſi dica , egli è così apertamente
falfo , che Ippocrate medeſimo altrove lo rifiuta , e ripiglia fortemente
alcuni antichi medici , che ciò dicevano · Galieno ancora avvifa la ſua falſità
, e dice eſſer errore d'Ippocrate , o dc'copiſti, e che l'Aforiſmo do vea dire
, o nella veſcica , o nelle reni ; ma con cutta que fta aggiunta di Galieno ,
falſo altresì tutto di egli ſi ſperi menta.e Girolamo Cardano nelle chiofe,dice
lui ſteſſo per lo ſpazio di trenta anni aver avuto l'orina ſabbionoſa , ſen za
aver avuta mai menoma pietra , o nelle reni , o nella ve fcica . Soggiugne
oltre a ciò , che di dieci perſone appena che una additar ſe ne poſſa , che non
abbia l'orine ſabbjo noſe : e pure rari fon coloro , che han pietre nelle reni
, e radiſſimi coloro, che l'han nella veſcica . E oltre a ciò egli racconta ,
che gli Spagnuoli poco men che tutti fan l'orina ſabbionofa , e nondimeno
pochiſſimi vi ſono infra loro, che patifcano il mal della pietra . Ma non
menofalſo è quello altro aforiſmo ,che'n bocca de’medici tutto di eſſer veggia
mo,cioè,che que'febbricofi,i quali fan corbida l'orina , qua le è quella de
giumenti, o hanno attualmente , o auranno di preſente dolor nel capo . E
quell'altro , che a coloro , a ’ qua 312 RagionamentoQuarto quali nelle febbri
ogoigiorno viene il rigore , ogni giorno le febbri ſi tolgano. E quell'altro ,
di cui Giulio Ceſare della Scala , così a Girolamo Cardano ragiona : nequemés
ægrotat , ut falfo voluit Hippocrates , cum dolorem , quo cru ciamur non
ſentimus: comechè non vera ſi trovi la ragione , checolui poi ne recà
ſoggiugnendo :fed quoniam dolentem ad locum fubfidii ergo diſtracti ſpiritus
non repreſentantur, imaginationi. E quegl’aicri, ch' alle femmine, alle quali
corrono imeſtrui,e agli Eunuchi,non mai vegna loro la po dagra . Maquale
ſciocca femminella nõ riderà ſtrabocche volmcntc in udendo quell'aforiſmo , che
i malchi per lo più s'ingenerino nella parte deſtra della donna , e le fem mine
nella ſiniſtra ? E di quell'altro , che ſe la donna aura conceputo maſchio , ſi
vedrà ben colorita in volto ; mares avrà conceputa femmina , farà pallida ; e
di quell'altro : ſe una donna non ſarà gravida, e vuoi ſapere ſe concepirà ,co
prila bene con panni, e di ſotto adopera ſuffumigji e feľo dore per entro il
corpo vedrai, che vada alla bocca , e alle nari , ſappi, che per ſe ella non è
ſterile . Taccio altri , altri aforiſini intorno alla medicinal materia, che
fan vede re , che Ippocrate poco avea che fare certamente quando fcriveva un
tal libro , ſe vi pone sì fatte fraſche , che ſe ben vere elle foſſero, non
però di meno non ſono tali, che debu ban regiſtrarſi in un'opera nella quale
intende Ippocrate inſegnare le più ſegrete coſe dell'arte. Ma ad altro facendo
paſſaggio: già noi veduto abbiamo quanto poco Ippocrate intelo foffe della
natura delle co fe pertinenti alla medicina ; ma ſpezialmente anche ſi pa che
niente fi fu egli certamente ſcorto della ſto ria delle parti del corpo umano ,
e degli ufici di quel lc , e del modo , col quale adoperano , come ogn'un può
ſcorgere in tutti i ſuoi libri , che non fa meſtieri, ch’lo ne faccia parola .
Solamente narrerò, come per ſaggio dell' altre coſe , ſicome intorno a ciò
filoſofi egli una fiata , di cendo , che quelle parti , che ſono ampie nel
ventre, e ftret te nella bocca , com'è la veſcica , il capo , e lå matrice, ſon
fatte per attrarre, eche apcrtamente queſte sformatamen re , 1 1 1 . te tras 1
i DelSig.Lionardo di Capoa. 31 ; te traggono , e ſon pieni degli attratti umori
; ene reca per ragione il vederſische colla bocca aperta nulla ſi trae , e che
fporgendoſi in fuori poi, e ſtrignendoſi le labbra , e adata tandovi una
fiſtola ,ſi trae agevolmente ciò che ſi vuole , e che le ventoſe , le quali
ſogliono appiccarſi per attrar re dalla carne , ſiano ampie nel ventre, e
ſtrette verſo la bocca; ccco le fue parole : Το μειο ελκύσει εφ' εαυτό, και
έπεσα σας υγρότη εκ τέ άλε σώματG- , πότερον τα κοίλα π , και εκπτ . παμύα, ή
του στρεά της και τρο/γύλα, και του κοίλα τε, και ές στνον εξ ευρές . συνη μία
, δύναιτ' αν μάλιστα , οίμαι μύτσι τα τοιαύτα εις ενόςσυγγ μένα εκ κοίλε ε ,
και ευρίG-' καζ μανθάνειν δε δεί αυτα έξωθεν εκ τω. φανερών • τέτο με
γαρ,τησόματι κεχίωώς , υγρόν δεν αναστάσεις προσμελήναςδε , και συσείλας και
πιέσεις τε τα χίλεα · έτι τε αύλον ποθέ. μυς , ρηιδίως αναστάσεις αν ό , τι
θέλας • τούτο δε, αί στκύαι ποζαλό μίμαι εξ ευρές ως πνώτερον ενενωμέναι πες
τούτη τεχνέαται , προς το έλκαν από της σαρκος , και επιστά αλλά και πολ α
τοιούτοςοπα · των δ ' έσω του ανθρώπς φύσης, χήμα τοιούτον• κυρίς τε , και
κεφαλή , και υπέ es γυναιξί - και φανερώς αύτο μάλιαάλκει και πλήρεςέπν επαρκτα
υγρό Tuloi aici . Non occorre , che Io mi dia briga in diſaminar si fatte
fanfáluche , potendo ogn'ın per ſe medeſimo ravvi fare, ſolamente in udirle
ſoluna fiata, che contengono più errori , che parole . Egli vuole , che la
veſcica tragga l’o . rina ; il che tanto è , quanto s’un diceffe,che'l letto
del ma re tragga l'acqua da'fiumi;e'l medeſimo dir ſi puote del ca po , e della
matrice . Ben ſi pare poi , ch'egli ignorimolte di quelle ſtrade, per le quali
le diſcorrentiſoſtanze ſi por tano in diverſe parti del corpo. Ma egli è
diſadatto l'eséplo della bocca, e delle ventoſe, comechè egli pur ſi cõcedeſſe
, ch’elleno adoperaffero per traimento , ficome fin ' a' dìno ſtri han
follemente creduto , e inſegnato le ſcuole ; ma qual maraviglia , che ciò
Ippocrate aveſſe affermato , s'cgli ſcriſ ſe ancora nel libro della natura del
fanciullo, che lo ſpirito caldo tragga a ſe lo ſpirito freddo , e ſe ne
nutrichi : Távce δε , σκόσα θερμαίνεταικαι πνεύμαέχει το δε πνεύμα ρήγνυσι ,
ποιέει οι οδον αυτ έωυτώ , και χωρέσα έξω · αυτό δε το θερμαινόμενον έλκα ες
έωυτο αύθις έτερον πνεύμα,ψυχρόν δια της βαγής , αφ' και τρέφεται. Νce vero
cioche diccAndrea diLorézc, cheIppocrate ſapeſſe títo dinotomia Rr quan Ι 314
Ragionamento Quarto 1 quanto gli faceva luogo per la medicina;
concioſliecolache dubitar non ſi poſſa ,che molte, e molte coſe di notomia ,
che neceſſarie séza fallo ſono alla medicina razionale ,igno te affatto gli
foſſero ; imperocchè, per tacer d'altro,cgli è certamente neceſſario a quella il
conofeer chenti, e quali fieno i movimenti dell'arterie , le itrade del chilo,
l'aggira mento del ſangue , la fabbrica , e gli ufici delle giandole, e altre ,
e altre molte coſe , delle qnaliniuna conrezza ebbe egli giammai ; nondimeno
avvegnachè queſte, e altre co Scaffai, pertinenti alla medicina ignoraffe
Ippocrate , non ſi può negare , cheegli molto nous'avanzaffe ſopra tutti gli
altri medici de'ſuoitempi, per quel , che noi fappiamo , il che da altro
certamente non nacque , che dal talento natu Tale , che egli ebbe adatto aſſai
al ineſtier della medicina, il quale ajutò egli , e accrebbe ſommamente in
coltivan do oltremodo quella parte alla medicina , molto neceſ faria , qual è
ſenza fallo l'offervazione ; e nel vero Ippocra te fu un curioſo oſſervatore ;
perchè ebbe a dire di lui Ga lieno , ch'egli affai più coſe colla ſperienza ,
che colla ra gione conoſceſſe; e il meglio certamére avrebbe fatto egli, le
trafandate tutte altre biſogne, a queſta ſola inteſo ſem pre aveſſe ; e ſenza
ad altro inframmetterſi aveſſe folamen te narrata la nuda, e femplice ſtoria
intorno agl'infermi da lui medicati ; ma nondimeno non ſi ſcorge aver egli
tanti felicità nell’ofſervazioni Ippocrate , che, o per poca dili genza , o per
alcro , che ſi fia egli ſovente non inciampizma quel , ch'è peggio, anche
talora in coſe agevoli molto ad offervare e fallare ſcioccamente ſi vedese ciò
ch ' e'nenar ra , ne men per avventura il direbbe un rozzo, ed ineſperto huomo
dicontado . Ma in quella parte poi della medicina , ch'alla dieta ap partiene
egli li portò nel vero così bene Ippocrate, che niu na cofa par che glimanchi;
e di certo e' ne meriterebbe una grandiſſima loda , ſe queſto medeſimo non
faceſſe aperta mente conoſcere , ch'egli ſtato foſſe molto manchevole , e
difettoſo in quel, che più propio , e neceſario egli è in me dicina, e in cui
conſiſte , ed è riporta l'eccellenza, anzi l'cf fere Del Sig.Lionardo di Capoa.
315 1 ſere tutto del medico ; cioè nella concezza de'inedicamen ti :
maſſimamente di quelli , che tali veramente ſono , e che da’moderni , ſpecifici
chiamanſi ; i quali ſenza cagionar ne vacuazione , ne movimento altro niuno han
virtù d'eſtin guere il male , e riſtorar l'infermo ; ina comechè in ciò affai
mancaffe Ippocrate, purebbe egli tanto intendimento,che ne'mali acuti della
ſola dieta per lo più ſi valſe , rade volte adoperando i vuotamenti, come
colui, che ben conoſceva, ch'eziandio con yuotare gran quantità d'umori , le
malat tie per lo più ſi mantengano nel loro vigore. Ma che poco foſte inteſo de
medicamentiſpecifici Ippocrate, ſipareaper, tamente da chiunque ſi da cura di
legger i libri degli Epi demj , ne'quali ſi veggon le malattie ne'terminiloro
fatali , o in bene,o in male eſſere oftinatamente terminate; c alcu . na fin’al
centeſimo giorno eſſer durata . Si ſcorge ancora ciò nelle medicine , le quali
egli adopera , come quelle che pericoloſe ſono , e poco efficaci, come ſono
infra l'altre ch' Io taccio , comea tutti conoſciute, le cantarelle , di cui
egli ſi vale temerariamente in verità nell'Idropiſia ,e in altri ma li dando
cinque di effe , e togliendone ſcioccamente il ca po , i piedi, e l'ali, che
potrebbono in parte rintuzzare il lor veleno ; e racconta Galicno, ch’un medico
per ciò aver yo luto fare aveffe ucciſo miſerevolmente un'infermo; ma tã. to e'
ſi compiacque di sì beſtial medicamento Ippocrate , che con peffimo conſiglio
e' vuol , che le cantarelle ſi met tano entro la matrice per vuotarla
de’malvagi umori ; ove pone egli in opera ancora l'Aglio, il Pepe, e la
Sandaraca, la quale,comemoſtra il Mattioli , è una ſpezie d'orpimen to velenoſo
corroſivo , cd altre, ed altre cauterizzāti medi cine ; il che volendo
ſcioccamente un medico de’noſtri tem pi parzial molto d'Ippocrate una fiata
iinitare , riduſſea , pèſſimo ſtato una povera inferma.Neper altro,che p máca
méto ď' efficaci medicine nell'interne infiamagioni ſegnar ſuole Ippocrate fin
allo sfinimento ; c quel che ſi è il peg gio , e Galieno malagevolmente il
comporta contro le ſue medeſime regole,nella pleureſi,ſe nelle parti interiori
ſi ſtea da il dolore , ſolve egli il ventre coll’elleboro, e col peplio, Rr 2
Ma و 310 Ragionamento Onarto Ma chi voleſſe annoverar le mal preparate ,
violcntise veler noſe oltremodo , c ſtrabbocchevoli medicinc,che ſuol por re in
opera Ippocrate , elle ſon tali, chei medeſimi ſuoi fee guaci meritevolmente
l'han poſte in miſuſo . Ne per al tro parimente egliconfiglia, che la febbre
non s’abbia a mi tigare nella punta, per fette giorni, e ſi debba dar largamé,
te bere,o aceto co mniele , o aceto con acqua: Ineueſten we xex άσθαι ή πυρετόν
μη παύεινέστα ημερέων ποτέ δε χρήσθω,ή οξυμε aixpýtw ,vi šče xzi üfatı:oltre a
ciò ſoggiugne egli poco ap preſſo,che nel quinto , e nel ſettimo giorno ſi
debbano por re in opera gagliardiflimemedicine da ſpurgare ben bene il petto ,acciocchèil
ſettimo giorno menmoleſto all'infermo poi fi faccia fentire : και έτι τή αίματη
, και την έκτη ισχυροτύτοιστ χρέεσθαι τσιστν επαναχρεμπτηeίοισι φαρμάκοισι , ως
την εβδόμην δια jnásoe spegno dydyn . Ma da queſto ,e dal non eſſer ben lui
ſcor to dell'altre coſe della medicina naſce il peſſimo conſiglio , ch'egli da
al medico :che non avédo egli contezza del male adoperar debbamedicine,manon
molto gagliarde ; e ſe co un tal argométo ſcemerà il male,gli addicerà,che
curar e'l debba coll'aſciugare ; ma ſe'l male non ne ſcemerà , e ne di verri
piti graveil citrario fardovrafi: Τών νουσημάτων ,ών μη επί 5ηταί τις ,
φάρμακον είσαι μη ισχυρό ,. ήν δε ράων γένηται , δίδεικται «δος , εύπεπιέον
έσιν ισχνάναντα • ήν δε μη ραων ή , άλλα χαλεπώτερον Xu tavavila . Dalle quali
parole, e da quel che indi appreſſo edice apertamente ſi ravviſa aver Ippocrate
voluto in tendere , che il medico ,non ſappiendo qual male l'infermo paciſca,fi
vaglia delle purgative medicine ; e che altro per Dio avrebbe mai potuto
Maeſtro Simone nello ſtudio di -Bologna a'ſuoi ſcolari infegnare Magli ſcherzi
laſciádo , intorno a ciò certaměte parmi più faggio aſſai il coſiglio d '
Avicenna, il quale vuole,che il medico no conoſcêdo ilma Ic , altro farnon
debba , ſalvo che preſcrivere all'infermo una rigoroſa dieta , e intáto ſtar
cauto , cariguardo per po, ter quello per qualche ſegnal fotcilmente avviſare .
Ma della fuadebolezza ben avvedutofi Ippocrate , per guadagnarſi il buon nome,
ſeguendo egli il coſtume degli alori medici, cheabbiamonarraci , coll'arti, e
colle giun, 1 terie Del Sig.Lionardodi Capoa. 317 terie ricoprir cercolla ,
perchè diede opera grande agli arr tivedimenti , e ne ſcriſſe molti libri; ne
per altro cgli com pole ancora illibro degli inſogni; opera ridevole allai nel
vero, la qual ſembraverainente fatta per huon , che lo gnando færnetichi ;
perchè mi maraviglio forte della follia di Giulio Ceſare della Scala , che ſi
diè briga d ' appiccar gli sù un comento . Divulgò altresì Ippocrate per la me
deſima cagione quel celebre ſuo ridevole giuramento , in cui no lo lo fe più
ammirar ſi debba la ſua ſciépiezza , o law fua malizia . Quelle cofe , ch'e'
giura Io non le reco ; ma ben può ſcorger ciaſcuno ,che elle vi ſono poſte
tutte per farlo credere huomopio , e divoro , non altrimenti , che Ser
Ciappelletto per la ſua falſa confeſſione. Ma nientedi meno non furono
baſtevolitanti se sivarj artificj , ch'egli non cadeſſe dalſuo buon nome , e
che , come egli mede fimo confefſiz , più biaſimo affai,che gloria dal mcdicare
e ’ no riportaſſe;ilche non ſolamente gli avvenne,permio av viſo , dal non aver
lui avuto niuna contezza di nobili , e va loroſe medicine, per le quali egli in
pregio montaffe,e l'ac quiſtata gloria e' non perdeffe , qualora in qualche
finiſtro accidéte in medicãdo incorreſſe; ma ancora dal coprendere aſſai bene
Ippocratc , ammacſtrato dalle ſue continue of ſervazioni , i viluppi , e
l'incertezze della ſua arte , e qua to poco ſia il frutto , o'l giovamento ,
che poſſa da'ſuoi ar gomenti huom ritrarre ; perchè egli ſcarſo anzi che no mai
ſempre fu d'imporre ne'mali acuti que'rimedi chegrā di chiamanſi da'Greci;
temendo oltremodo di ciò, che age volmente ſeguirne poteſſe ; ne coſtumava egli
, come ab biam veduto , trar ſangue nelle febbri, ſe non fe quando ſcorgevale da
grandi, e interne infiammagioni accompa gnate : ne purgar coſtumava, ſe non ſe
molto di rado, e nel cominciamento ſolo de'mali acuti; perchè n'era talora ol
tremodo biaſimato dalle genti minute , le quali giudica vano , comechè grave
foffe , e di riſchio il male , eſſerne nondimeno piggiorato l'infermo ,
ſolamente per la tra . ſcuraggine, e manchevolezza del medico che non ci avel
ſe al tempo con valevoli purgagioni, e con replicati falafi fat 318
Ragionamento Quarto 2 fatto riparo ; ſıcome la ſciocca rubaldaglia deʼmedici
allor forſe avea per coſtume; i quali in ſomiglianti malattie mol ti , e varj
medicamenti ,ficome egli narra , adoperavano , non altrimenti, ch'or ſi
facciano poco men , che tutti i Ga lieniſtide’noftritempi. Cosìnella paſſata
ctà videroi no. ftriantichi con biaſimi di traſcuragginc indegnamente ol
traggiato , o proverbiato maiſempre Proſpero Marziano, e prima di lui anche
GirolamoCardano;i quali ſaggi,e avve duriſſimieſsédo in gir dietro ad Ippocrate
le medeſinc tac cc del lor maeſtro agevolmére ſi guadagnarono.E a' tempi noftri
abbiamo pure uditi i brôtolaméti, erimproccjcutto di ſcagliati a Paulo Emilio
Ferrillo , per eſſer lui nelle febbri dal preſcrivere le purgagioni ritroſo ; e
indi a poco acerba mente cffer proverbiato Diego Raguſi , perciocchè nel
ſegnare, e nell'uſare le purgative medicine fedelisſimo ſe guace d'Ippocrate, e
del Marziano ſi dimoſtrava , ne mo riva giammai infermo, chenon ne veniffe loro
rimprove rata la dappocaggine , e traſcuratezza d'aver colui ſenza gli acconcj medicamenti
miſeramente laſciato morire. Com tanto il non operare ſecondo la folle opinione
del cieco vulgo , grave crrore , e biaſımevole ſempremai fi giudi ca e;
maggiormente allor, che no li ficgue ciò, che comu mente dalla traccia de'
menovili maeſtri coſtumar ſi ſuole , 1 1 RA 319 1 1 RAGIONAMENTO QVINTO, des S
É ſtanco, c anſante pellegrino , cui lunga, e faticoſa ſtrada ancor rimane,
acciocchè pofla gli ſmarriti ſpiriti rivocando, al fine diterminato agiatamente
pervenire,or in ombroſa felva al canto di piacevole uſi gnuolo s’arreſta ,or
indilettevol poggiore fpirãdo fi ſiede,or lūgo la riva d'un qualche fuggére, e
chia risſimo fiumicello ſi slaccia or in un pratello di freſchiſ fima, e
minatiffimaerba ripieno , e di vaghi fiori,dolceme te ripoſa; e ſe Natura
rizzare, e ſparger volles come huom crede, in mezzo agli fpaziofi campidel
inare tante , e tante Iſole , acciocchè quando a'Soli più tiepidi s'accolgono
,ri trovaſſero agios e poſa ne'loro lunghiſſimi voli le varies tormedegli
uccelli; ragionevolmente dobbiam noi, o Sig. poichè sì dura, e malagevole
imprefa di dover ragionādo traſcorrere le ſcuole de più famoſi medici abbia già
comin ciata ragionevolméte dico dobbiam noi talora interrāpédo i noſtri lúghi
ragionaméti préder nuova lena; e táto più , che vie più ſghembo , e inviluppato
ſentiero di quello, chedie tro n'abbiam laſciato , orci ſi fa innanzi ;
imperocchè ab } bia 320 Ragionamento Quinto biano , ficome avere potutofin'ora
comprendere, piena mentediinoſtro ,ſe'l mio avviſo non m'inganna , a quanto mal
riuſciſſe a coranti valene'huomini il volere alcun fifte ma di razional
medicina ſtabilire; e fornigliante di molt’al. tri appreſſo andrein diviſando
;avvegnachèa trattar dico ſtoro aſſai più grandemalagevolezza s'incontri ;
imperoc chè di loro opere nulla a' noſtri tempi non ſe ne ſerba , e quelle
poche, e intralciate memorie , che di eſſe abbia mo, maffimamente appo Galieno,
o poco, o nulla n’appro dado a farne diviſar di loro dottrine ; imperciocchè
quel buon huomo , tra perchè non l'intendeva , e anche , perchè vezzatamente
ſtudiavali d'oſcurare , e porre a fondo ogni lor fama, e gride , cosìſconce,o
travolte le ci narra talora, che a gran pena illor intendimento ſe ne può
ritrarre , Ma comunque ſia la biſogna, Iomiargomenterò ſecondo mia poffa
d'illuſtrar quanto poſſibil fia i loro ſentimenti e la lor dottrina ſtacciando
, ſeguitar la coſtuma del noſtro im preſo diviſamento . E tralaſciando quì in
primadi far parole d'Apollonio ,di Diſippo , e d'alcun' altri ſcolari
d'Ippocrate:i quali per va rj , e diverſi ſentieri avviandoſi , a varie, e
diverſe altre ſet te di medicina dicder principio: come di quelli,de qualial
tro non ho che dire , ſe non che alcuni di loro vennero ini vituperevolguiſa
crattatida Eraſiſtrato : darem comincia mento dal famoſo Diocle . Dico adunque
, ch'e' fi puòbé ammirare , e commendare la ſua grandiflima corteſia , o
umanità veramente ſingulare, colla quale , come teſtimo nia Galieno,uſar ſolea
con gl'infermi ; ma tion già la ſua dottrina , eſſendo molto rare quelle notizie
, che a noiper venute ne ſono ; ſi legge nientedimeno ancor oggi una ſua
cpiftola del inodo del conſervar la ſanità , dove permio av viſo non ha coſa
per cui meriti egli quelle ſomme lodiche dagli ſcrittori, e particolarmente da
Galicno sfoggiataméte inveſtire gli vengono; nesébra punto chesì fatta piſtola
Gia degna di quel ſapientiffimo Principe , al quale ella è fcrit ta ; vi ſi
ſcorge tuttavia , che Diocleera aſſai vago dell'A ſtronomia , e che ben poco
egli gradiva le compoſte medi cine Del Sig. Lionardo di Capoa 321 را cine , e
che non moito gli erano a cuore le purgagioni. Per quel poi, che di lui vada
dicendo Galieno , egli ha Dio cle per fondamenta del ſuo ſiſtema il caldo , e'l
freddo , e'l fecco , e l'umido ; de'quali i due primi,agenti, e gli altri pa
zienti e' vuol , che fieno . Dottrine , che quanto dal vero modo di filufofare
vadan lontane, altra fiata avendone lo fatto ſermone , non fa lungo, ch'al
prefente più il dimoſtri; ma comechè Diocle d'altiſimo intendimento , e ben
acco cio al filoſofare ſi foſſe , non però di meno , o per manca mento di
maeſtro , o di guida , ch'al diritto fentiero l'avel fe fcorto , o per altro ,
che ciò operato aveſfe ;ſconciamente laſciandoſi trarre a’hiſicofi impigli
della dialettica , sì , e tal mente bambo , e ſcempiato ne divenne , ch'oltre
a' già detti crrori, impreſe a foftenere , non eſſer altrimenti il ſu dore,
vuotamento naturale;e quantunque a Galieno ſem braſſer molto probabili fue
ragioni , nondimeno da colui, come troppo durauna talopinione, e come ripugnante
, e contraria all'evidenza de'ſenſi vien forte bialimata , e rifill tata . Ma
quanto molto poco in filoſofando in medicina egli s'avanzaffe Diocle ,
chiaramente il ci da egli medefi mo a conoſcere, quando favella della malattia
ipocondria ca , di cui un libro ben'intero e compofe , il quale ſcëpia to ,
emancheyolc ftimnafi per Galieno ; ma che che nedica colui , degno
certamenteini pare di grandiflima foda quel libro ; imperocchè ci fa vedere il
fuo componitore eſſerfi molto ben avveduto della incertezza della medicina , da
che tutto ſoſpettofos e rentonc e' ſempre ſe'n va in con ghietturando le
cagioni delle maraviglioſe , e ſtrane appa senze di quel male. Dice infra
l'altre coſe in quel ſuo libro Diocle,doverſi fo ſpettare in coloro, che ſon
travagliati da’mali ipocondria ci , non quelle venc , che ricevono l'alimento
dal ventrico lo , abbian aſſai più calore del convenevole , e'l ſangue in effo
loro ſia più groſſo aſſai divenuto ; concioliecoſachè cerca coſa ſia le
menzionate vene eſſere in quelli oppilate i edice ciò argomentarſi
dall'alimento , ch'al corpo accon ciamente non ſi diſtribuiſce , e nel
ventricolo, indigeſto ri Sf inane ; 322 RagionamentoQuinto mane ; quando
davanti per li meati ſi ricevea ,e per la mag gior parte con agevolezza s'avvallava
al ventre , come dal vomito poi manifeſtamente s'avviſa , quandoil giorno ap
preſſo così guaſto ſi rece , per non eſſerſi diſtribuito al cor po il cibo ;
mache'l calore in sì fatti infermi fiz più del na turale ſoverchievole ,
agevolmente fi ravviſi , così dall'in focamento , che a loro avviene , come da
quelle coſe ,che anche lor li danno ; imperocchè giovevoli eglino ſperimé tano
i cibi freddi, i quali ſogliono certamente rintuzzare , e fpegner in parte il
calore: τες δε φυσώδεις καλεμόες , υπολαμ . βάνειν δεί πλέον έχειν το θερμόν
του ποσήκοντG- εν ταις Φλεψί Gίς εκ της γασρος την κοφίω δεχομλύαις · και το
αίμα πεπαχιώθαι τούτων δηλοί γαρ ότι μου έσι έμφeαξις περί ανώς τις φλέβες τω
μηκαταδέ χεθα το σώμα την τοπίω · αλ' εν τη γασρί διαμένειν ακατέργασον» πρό
τερον των πόρων τοίχων αναλαμβανόντων , τα δε πελα αποκρινάντων ας τω κάτω
κοιλίαν και το τη δευτεραία εμών αυτες έχ υπαγόνων ας το σώ. μα των στίων · ότι
δε το θερμόν πλέον εα του καιτου φύσιν» μόλις αν της κατανοήσσεν, έκ τε των
καυμάτων των γινομένων αυτούς , και της ποσ φοράς • φαίνονlαι γαρ υπό των
ψυχρών όφελούμενοι σιτίων•ταδε πιανα το θερμόν καταψύχων , και μαραίνουν σωθεν
. Soggiugnc indi appreſſo Diocle , che affermino al cuni eſfer infiammata in sì
fatto male la bocca dello ſto . maco , la qual s'uniſce con gl'inteſtini, e per
la infiamma gione quella parimente oppilarſi, e vietar , che i cibi non calino
giù agl’inteſtininel tempo opportuno , e ſtabilito ; perchè dimorando i cibi
poi,oltre alconvenevole nello ſto maco,cagionino igonfiamenti, e'l calore, e
l'altre coſe tur te , che menzionate per lui in prismafi fono : Λέγεσι δε πνες
επι των τοιούλων παθών ή σόμα της γασρος το συνεχές των εντέρω φλεγμαί ΥΑν ,
δια δε την φλεγμονίω έμπε πξάχθαι , και κωλύειν καταβαίνουν τα σιτία ας το
έντερον τοϊς τεταγμένοι χρόνοις· τούτα δε γιγνομένα , πλείονα χρόνο του δέον-
έντή γατε μένονά , τους πάγκες παρασκευάζει,και τα καύμαζ, και τ' άλατα
πποειρημένα , Egli vien Diocle ripigliato da Galieno , perchè infra le tante
coſe , ch'egli in mezzo produce , del timore , c della triſtezza , che propie
ſono delmale ipocondriico , e'punto non favelli , ma Galien medeſimo diciò poi
lo ſcuſa , fog giugnendo dallo ſteſso nome del male farli ciò manifeſto , imper
DelSig.Lionardodi Capok 323 impertanto Diocle non averne fatto menzione; ma
nondi meno a Galieno non diſpiace la maniera del filoſofa te di Diocle intorno
a ciò ;maſolamente forte fi maravi glia , dicendo eſſer una quiſtione degna da
fare , perchè non abbia Diocle recata la cagione, per la quale in sì fat to male
venga la mente offeſa:masì fatta quiſtione, s'egli vi aveſſe poſto bé méte, nó
gli era molto agevole a folvere; imperocchè ragionevolmente nel vero non volle
darſi bri ga niuna Diocle di produrre in mezzo coſa ,qualegli non avea avuta
fortuna d'inveſtigare: nel che avrebbe certame, te il meglio fatto ad imitarlo
Galieno , il quale così ſcon ciaméte ebbediciò a filoſofare, che
meritòd'efferne acerba mére proverbiato,e deriſo da’luoi medeſimi parziali. Ma
noi laſciādo da parte ſtare Galieno,diciamono molto bene nel vero aver
de'maliipocondriaci filoſofato Diocle; cõciof ficcofachè in priina , per tacer
d'altro ,non continuo ſi avviſi ſmoderato calore nello ſtomaco , o nelle parti
vicine , ma talora fredde ſenſibilmente ſi ſcorgano in coloro , che pa ciſcono
sì fatto male ; perchè convicn certamente giudica re , che'l calore quandunquc
in lor ſi trovijalcro non ſia, ſal vo che un effetto del male medeſimo; la qual
certezza fal fa apertamente ne fa conoſcere l'opinion teſtè rapportatas da
Diocle, di coloro iquali ſtimavano cóſiſter sì fatto ma le in una
infiammagione, o altro ſimile della bocca del Pi loro . Gli argomenti poi , che
reca Diocle per far pruova della ſua opinione quanto deboli fieno , e fallaci,
non fa meſtieri, ch'lo dica ; concioltecofachè ogn’un per ſe ſteſ ſoconoſcerpuò
, che da cibi, chefreddi egli appella ,ſovés te ſaccrefca oltremodo ilmale,
comechè talora ſembrich ' cglino lo mitighino in qualche parte, col rintuzzar
la mor dacità de'ſughi secol reprimere la ſtrabocchevol lor fora mentazione .
Chi poi ben riguarda alla fabbrica, call'ufi cio delle vene , le quali picciole
nelle loro boccucce ſi van tratto tratto allargando , perchè acconce, e
valevoli firé dono a ricevere più agevolmenteil ſangue , s'avvede inco tanente
quanto dal ver ſi diparta la ſentenza di Diocle,co tanto cómendara , e tenuta
in pregio dal vulgo de medici , SI 2 che 324 Ragionamento Quinto le che le vene
meſeraiche ſi poſſano oppilare . Ma fievolej molto certamente ſi pare
l'argomento, onde provar imma gina Diocle eſſer negli ipocondriaci le vene
meſeraiches: oppilate , perchè l'alimento al corpo in lor non fi diſtribui ſca:
imperocchè dovea Diocle conſiderare , che non diſtria buendofi l'alimento al
corpo dell'animale,non guari dité. po egli in vita durar potrebbe , e chemolti,e
molti ipocó driaci, anche forti talora, e vigoroſi fin’all'ultima vecchiz ja
veggionſi tutto dì pervenire ; falſo adunque ſi è ciò chè di loro va
filoſofando Diocle ; ſenzachè ben chiaro ognun vede la parte più ſottile
dell'alimento,qual è quella la qua. P le vene meſeraiche,com'egli ſtima al
corpo li diſtribui fce, continuo trapelare, e diſcorrere agl'inteſtini, avvegna
chè la parte di luipiù groſſa nello ſtomaco rimanga . Mavi dovea altresì por
mente , e inveſtigar Diocle , onde avve gna , che'l cibo nello ſtomaco degli
ipocondriaci,indigeſto rimanendo ,non n’eſca fuori nel tempo uſato ; ma certamé
te s'egli innoltrato ſi foſſe nella ſpeculazione delle coſe 112 turali,ne
avrebbe di leggieri ritrovata per avventura la ca gione ; e tanto più , che pur
egli avviſa nello ſtomaco degli ipocondriaci la pontica , e ſtitica acetoſità ,
la quale non permettendo , che'l cibo ben ſi digeſtilca,increſpa ,e ſtrigne la
bocca del Piloro, per inodo, che dallo ſtomaco non pof ſano nel tempodovuto
calari cibi agl'intcftini . Ma laſcia do di ciò più favellare : non ineno e' ſi
ſcorge il modo del filoſofare in conghietturando di Diocle, da ciò,ch'egli dice
: appo Plutarca: επι δε τοϊς φαινομένοις δοαται ο πυρετόςεπιγενόμG"
nečuvala , noi Prey Movad,sy 6x6õves , cioè : le cose , le quali a noi
manifeſtamēte fi fă vedere,additano le nafcofe : poichè ſi vede la
febbre,colleferite,colle infiammagioni, e cõ i gavoccioli ac compagnarſi ; dal
che certamente egli vuol cavare Diocle , che in quelle febbri, nelle quali
nulla appare di fuori del le menzionate coſe , ficno entro al corpo elleno, o
altro fimile , che colla febbre parimente s'accompagni. E rav viſaſi eziandio
la maniera del filoſofare di Diocle allor che appo il medeſimo Plutarco va
inveſtigando le cagioni, per le quali i maſchij ſtendi ſono.4.0
disocyóvoustousaideges ,na es' Del Sig.Lionardo diCapoa. 325 Θα το μήθ' όλως
εύνες σπέρμα πιοΐεσθαι,ή παeg το έλαήoν του δέοντG . και παρά το άγονον είναι
το σπέρμα , ή καλα παράλυσιν των μορίον , κατα λοξότη του καυλού μη δυναμένε
τον γόνον ευθυβολεϊν,ή περί το ασύμ Mergov tæv porów.alo's Tajvané saory oñs
peýrsas. Ma oltraciò ſappia di Diocle aver lui, contro quel , che avca
inſegnato Ippo crate negli aforiſmi avviſato, l'itterizia , d'ognitempo,ch'
ella ſopravegna alla febbre eſſer giovcvole ; al che cgli poi aggiugner volle,
che ſopravegnendo all'itterizia la febbre, mortifera coſa quella ſia: arquatum
morbum , ſono parole di Celſo , Hippocrates ait, fi poft feptimum diem
febricitante agrofupervenit, tutum effe, mollibus tantummodoprecordiis
fübftantibus ; Diocles ex toto , fi poft febrem oritur,etiam pro defe , fi
pofthanc febris, occidere. Ma non meno dell'afo riſmo d'Ippocrate la ſentenza
di Diocle falſa cutto di fi ſperimenta . Coltivò egli poigrandemente la notomia
, ma come qucl rozzo ſuo ſecolo comportava , poco felicemente nel vero ; non
però di meno cgli in ciò è da commendare ;m2 séza fallo poi a ſommo onore
attribuir gli ſi dee, l'eſſer lui ſtato il primo, ch'aveſſe ofrto pubblicar con
un libro partia colare al mondo le coſe , ch'egli avviſate avea nel far no
tomia degli animali. Ma procedendo più oltre ci ſi fa davanti l'altro famoſo
Principe deʼRazionali inedici Pralfagora, cotanto celebras to , c in pregio
tenuto da Galieno , il quale diſſe eller lui ſtato in tutte le parti della
medicina eccellentiſſimo , e in tendentiſfimo di tutte le più ſottili
(peculazioni delle coſe naturali . Ma di queſt'huomo non è per mio avviſo da
far giudicio diverſo da quel , che di Diocle noi teltè fas ; cemmo ; poichè
iinitando in ciò Diocle, portò Praffagora, altresì opinione dalle quattro
primieramente comuni qui lità appellate dirivar tutte l'operazioni della natura
; e con queſta credenza camminando avanti , di neceilità dovette , da uno in
altro crror tratto inceſpicare. Oltra ciò viens forte Praſlagora biaſimato da
Galieno, perchè egli ſcrivel fe con tanta oſcuritàche ſembrano fc fue ſentenze
enigmi da tener mai ſempre in biltento il lettore . Ma con pace. pur ! 326
Ragionamento Quinto pur di Galieno,Io non giudico queſt'errore cotanto propio
di Praſſagora, che non ne ſia ſopratutto da cacciar lamedia cina medeſima , per
la grandifinna incertezza di quel la ; onde imaeſtri più accorti , e malizioſi
, per non farſi torre in fallo foglion sì facramente ſcrivere chenon ſi pof fa
per niuno ne’lor veri ſentimenti penetrare. Ma impertáto fallò grádeméte
Praſſagora,e lervi di pel fimo eſemplo agli altri Razionali medici , che dopo
lui furono , e particolarmente a Galieno, in voler con ſue ciar le farne
calandrini, ecercare di render poſſibile l'impoſſi bile , cioè certa ,
l'incertezza della razional medicina . Vien biaſimato anche Prafſagora da
Galieno , ch'aven do egli in prima detto , che gli umori non ſi contengano al
trimenti dentro l'arterie , cerchi nondimeno egli poi d'in ſegnare , e minutamente
additando vada , come per opera del toccamento avviſar, eglinon ſi poſſa quali
umori fia-. no quelli , che nell' arterie ſi naſcondono ; ma lo immi gino, che
in ciò non ſi contraddiceſſe altrimenti Pralſago 11 , come dice Galieno , ma
ch'aveſse egliportato opinio che allor , che l'huomo è rano non abbia alcro
nell'ar terie , che ſangue, ma che infermando egli poi altri umari ancor vi
diſcorrano ; ne potea egli in verità altrimenti di rc , s'egli pur non era
affatto di ſenno fuori . Che ſia vero quanto lo dico ,apertamente ſi ſcorge in
ciò , che il mede fimo Galieno di lui riferiſce , cioè ch'egli ne men nelle ve
ne credea che vi ſieno gli umori. Ma errò certamente , e in iſconcia guiſa
Praſsagora , in portando opinione l'arterie cambiarli finalmente in nervi ;
avvegnadiochè difender s'ingegnino giuſta ogni lor pof ſa si ſtrana, e dal vero
apertamente lontana opinioncscome favorevole al lor Ariſtotele , il Cefalpino ,
il Reuſnero , e'l Marziano ; ma di non poco biaſimo degno ſi rende appo molti antichi
ſcrittori Praſsagora per lo ſtrano , e crudel modo, col quale egli intende, che
s'abbia a medicar l’lleo, volendo egli infra gli altri rimcdi,che all'infermo
fi faccia vomitare , e dopo il vomito gli li tragga il ſangue , emol to forte
gli ſi premano collc mani , il ventre , e gliinteſtini, cal nes Del Sig.
Lionardo di Capoa 327 e alla per fine poi col ferro ſi taglino ; ond'ebbe a
dire ra gionevolmente Celio Aureliano : quo probatur magnificam mortem
Praxagoram magis quam curationem voluife fcri bere; ſenzachè vié egli tacciato
dal medeſimo Celio, ch'e'li yaleſse anche nel curarlo degli ſconcj rimedi
d'Ippocrate : Aliquos etiã poft vomitum phlebotomat,&vento perpodicem
replet , ut Hippocrates . Item libris de caufis , atquepaſſio nibus ,& curationibus
vinum dulce dari jubet , d rurſum Hippocratis ordinem ſequitur congerens omnia
peccata . Macon qual eccellenza di dottrina , e con qual artificio pervenir
aveffe potuto al principato della razional medici na il celebratiſſimo
diſcepolo di Praſſagora, Pliſtonico , chi farà mai che poſſa ſpiegarlo fra le
sì ſcarſe memo rie , che di lui ne ſon rimaſe ? Io permeſolamente, e ap pena ne
lo quanto per Galicno all'avviluppata, eſcarfamé te ſe ne racconta: e gli ſi
afcrive ciò a ſomma losa,cioè che raffermaſſe egli quanto in prima diviſato
avea Ippocrate de’quattro umori; la qual coſa ſe tale è veramente, qual ſi
jarra egli , ne fa apertamente vedere , quíto troppo grofa ſolanaméte foffe
căminato Pliſtonico in filoſofando; ina no dimeno pur ſembra , che qualche ſcintilluzza
di lume in quelle folte tenebre, e oſcure egliſcorgeſſe allor , chej porta
opinione , che le digeriſca il cibo nello ſtomaco putrefacendoſi ; il che nel
vero fu aſſai ad inveſtigar ma lagevole a lui , che non avea contezza niuna di
Chi mica, e veramente il cibo nello ſtomaco non maiſi ſcioglie, e muta natura ,
fe non vi concorre l'opera d'una pronta , c velociffima filoſofica
putrefazione. Scriffe Pliftonico della materia de'medicamenti , macom'egliin
ciò li portafle al cri.per meve'ldica . Ma trapaſſando ad altri, Io non potrei
dire,ne'l mio det to ritroverebbe agevolmente crcdéza, in qual pregio ſovra
tutt'altri Principi della Razional medicina il grand'Erofilo s'avázaſſe.E
certamente degli ſtudi della notomia egli mol to ſi conobbe , e gli poſſon ceder
ſenza contraſto la maggio ranza non pur Galicno, ficome giudica dirittamente il
Vera ma quant'altri notomiſti prima, e dopo lui nella Grc 1 fatio , cii 328
Ragionamento Quinto cia tutta fiorirono . E quanto alla dialettica, egli
cotanto lungamente divifonnes e tanto minutamente , che il vulgo ſciocco dalle
tante fraſche delle quiſtioni , delle diftinzio ni ,e diffinizioni, e
argomentioffuſcato,comeſe da ſovrano nume ftate fofſer dettate, le dottrine di
lui celebraya oltre modo , e riveriya . Ma il tanto ſtudio della dialettica do
vert'eſſere alla ſetta d'Erofilo dinon picciol damnaggio ; e quinci forſe
avvenne , che molti , o sfidando d'intender pienamente le tante ſottigliezze di
lui, e altri a niun pre gio , comevani, e inutili arzigogoli avendole , ad
altre ſcuole ſi rivolgeſſero. Ma impertanto la ſua dottrina ritro vò inolti , e
gravi ſeguaci , e fù aflai commendara ; anzi narra Strabone,che infin nella
Frigia v'era a'ſuoi tempi una famola ſcuola della dottrina d'Erofilo . Or Io,
quantunque a voler dire il vero eſtimi, che gran pro alla notomia abbia
apportato Erofilo , nondimeno fembramifarfallon da Ro . manzo quel del
Falloppio : Contradicere Herophilo in Ana tomicis,eſt contradicere Evangelio
.Ma ebbe Erofilo per co ſtume di paleſar séza riguardo niuno ciò che a fui
veraméte parea delle coſese cotraddiſſe quando egli ſtimava, che ine ſtier ve
ne foffe , a tutti gli antichi , non la perdonando ne meno al ſuo divin Maeſtro
Praſagora . Fuegli molto prati co nella materia demedicamenti,e fcrille parecchi
volumi del modo , come ſe nc debbano imedici valere ; il che fu gli agevole
affai, avendo egli logorato tutti i giorni della ſua vita in far prove, e
fperienze;per le quali non ſi può ne gare , ch'e'non merti grandiſſima loda;
comechè non cſen do a noi pervenute , niuna utilità del mondo abbian potu to
recarci . Ebbe vétura Erofilo d'abbatterſi nelle vene fartee ;ma egli
traſcurato , sì bella opportunità laſciofſi uſcir delle mani, non dandoſi cura
d'ilveſtigarne il lor proceſſo , e l'uſo ; ma di cotal negligenza è
fomigliantemente da accagionar Ga lieno , e tutti quegli altri notomiſti ,
chedopolui anche ſe ne rimarono . Non molto diffimile dal fallo d'Erofilo fi fu
quello del noſtro Bartolomeo di Euſtachio, il quale avendo sitrovato il canal
pettorale , non ſi diè briga d'altro, e la 1 fcion Del Sig. Lionardo di Capoa.
+329 fcionne il penſiero al Pecchetti, a cui meritevolmente la gloria tutta di
così gran fatto ſi dee. Ma ritornando ad Erofilo: non fu egli nel vero molto fe
lice in ritrovar coſe grandi , e maraviglioſe, o molto com mendevoli in
ſagaceNotomilta ; avvegnachè tutto dì ta gliar ſoleſſe non ſolamente i
cadaveri, ma eziandio vivi gli huomini. Scelleratezza tanto crudele, tanto
infame, e vi tuperevole, e degna d'eterno biaſimo,che val ſolo ad oſcu rar ogni
ſuo pregio , e a far conoſcere al niondo ad un'ora, quanto la fierezza
de'medici, il diritto delle naturali, del le divine , e delle umane
leggitraſandando , oltre palli law crudeltà d'ogni più fiero tiranno ; perchè a
gran ragione certamente ebbe a gridare il gran Padre Tertulliano : He rophilus
ille medicus , aut lanius , quifeptingentos exſecuit , ut naturam ſcrutaretur ,
qui homines odit , ut noſlet. Man prima di lui Cornelio Cello, dopo aver detto
,ch'Erofilo, ed Eraſiſtrato aveano alle lor notomie vivi gli huominide ſtinati,
cosi ách'egli un cosìabbominevol misfatto deteſta: crudele vivorum hominum
alvum , atque præcordia incidi , & falutishumanæ præfidem artem ,
nonfolumpeftem alicui , fed hanc etiam atrociffimam inferre . Sopra tutto s'affaticò
Erofilo nella materia de polſi, la quale,valendoſi egli della muſica, cercò
d'illuſtrare, e di ti durre a perfezione, per modo, che nulla vi ſi aveſſe di
vātag gio a diſiderare ; ma tanto , e tanto egli vi ebbe a ſofiſtica re , che
meritevolmente forſe perGalieno ,e per altri ne venne più d'una volta ripreſo ,
e proverbiato ;mad'altra parte per altriſommamente commendato , come ſi può ve.
dere in Plinio . Arteriarü pulfus in cacumine maxime merebro rū evidens in
modulos certos,legeſq; metricas, per atates , fta bilis , aut citatus , aut
tardus defcriptus ab Herophilo medici na vate miranda arte . E queſto accrebbe
in modo la ſua fama , e buon nome , che nulla più ; promettendoſi cgli , e
dando altrui ad intendere, che col mezo de'polli , com' ab biamo con Galieno
accennato , poſſanſi avviſare ancor les coſc impoſſibili a conoſcere; come
ne’barbari ſecoli comu liemere li vider poſcia farei medici coll'orinc , colle
quali fa Tt cean 330 Ragionamento Quinto 1 cean veduta diconoscere pienamente
lo ſtato de'malati , e de’lani; di che ancor qualche veſtigio tuttavia nella
noſtra Italia , e altrove ne rimane . Mache / a'tempi noſtri in va rie .guiſe
noipur veggiamo da qualche medico ſcaltrito porre in uſo si fatte frodi, e
riportarne ſempremai premj, e laudi non ordinarie. Ne è da maravigliare ;
perciocchè il mondo gode in tal guila d'effer ſemprcmai uccellato ; il che
apertamente ſi fa vedere dalla grande ſtima , chevien fatta della Srologia , e
della Gabbala , e d'altre arti vane , e ſu perſtizioſe ; e tanto prevalſe, e
montò in pregio con fomi glianti artificila gloria d'Erofilo , che di baſſo, e
rintuzza to intendimento' , e come della ſua dottrina incapaci venis van
giudicati coloro , che ſi dipartivano dalla ſua ſcuola ; perchè diſſe Plinio di
lui favellando : nimiam propter ſubti bitatem defertus: e della ſua ſetta
facendo parole : deſerta hac Secta eft , quoniam neceffe erat in ea literas
ſcire. S'af faticò parimente Erofilo , come Galien riferiſce, in inve itigar la
natura dell'erbe ; e dir ſolea , non haver così gra ve, e pericoloſa malattia
,che non ſi poteſſe coll’erbe curare ; ma non però di meno il valor di molte di
quellenou effer conoſciuto , e alcune di loro gran virtù avere ' , le qua li
tutto dìda noi fi calpeſtano : inde plerofque, fono parole. di Plinio, ita
video exiſtimare , nihil non herbarum vi effici poffe , fed plurimarum vires
effeincognitas , quorum innume 70 fuitHerophilus claras medicina , à quoferunt
dictü quaf dam fortaſſis,etiam calcatas prodeffe. Solea far altresi grá diffima
ſtima Erofilo dell'Elleboro ; il quale, come altrove vien ſcritto dal medeſimo
Plinio, veniva pareggiato da lui ad un fortiſſimo Capitano ; perchèturbate egli
avendo en tro il corpo tutte le coſe ,foffe poi il primoa uſcirne: elleború
fortiſſimi Ducis fimilitudini aquabat ; concitatis enim intus omnibus,ipfum in
primis exire.Mada ciò apertamente ſcor geſi, che poca , o niuna contezza aveſſe
Erofilo di quelle nobiliſſime medicine , le quali ſenza recar moleftia , e dan
no niuno ſon valevoli a domar le più gravoſe , e feroci ma lattie: e ch'egli
altresì ignoraſſe ilmodo , per lo quale la fciandogli intera la parte
giovevolemedicinale,ſi toglie all '. Elle Del Sig.Lionardo diCapoa. 331
Elleboro la velenofa ; ſenzachè non è miga vero ciò ch'e . gli trancaméteafferma
, che l'Elleboro fia il primo ad uſci re ; imperocchè talora non li diparte
dallo ſtomaco , e dall altre viſcere allo ſtomaco proſſimane,ſe nõfe ha fatto
vuo far egli all'infermo in prima quanto di cattivo , e di buono nel ſuo corpo
ſi ritrovava. Non è ſtato adűque in medicina il valor d'Erofilo così grande ,
quale il ci narra millantan do la fama , Ma doveva Io certamente aſſai prima
far parole di Me necrate da Siracuſa; il quale col fuo ſtrano modo di filoſo
fare, e di medicare rinnovar volle l'antico uſo di Apollo, e d'Eſculapio ,
facendoſi venerar come un Dio. Ma a bello ſtudio venne da me tralaſciato , per
non haver Io potuto p quanto lo mi vi fia affaticato , niuna contezza aver mai
dėl ſuo liſtema; ritrovo ſolamente di lui , ch'egli ſcriſſe , per quel,che ne
narri Galieno , un libro de'medicamenti , de quali egli molti da ſe ſteſſo
trovò , Fu egli Meneçrate così ſuperbo , ambizioſo , e vano, che non volle egli
giammai denajo , o altro premio dagſinfer mi di mal caduco , che guarivano per
le ſue mani ; folo ri. chicdea , che eglino ſuoi ſervi fi doveſſero confeſſare,
e che col nome di Giove l'aveſſero a chiamare , e come Gio ve il doveſſero
onorarc.Solea egli ſpeſſo in mezzo a coloro , traveſtiti, chi da Ercole , chi
da Apollo , chi da Eſcula pio , chi da altro Dio minore , a guiſa di Giove con
coro na d'oro in teſta , colla veſte di porpora , e collo ſcettro in mano farſi
in pubblico vedere , 1.a qual si ſciocca traco tanza imitar volle Ottaviano
Ceſare , quando, come rac conra Suetonio , con gli abiti d'Apollo fra huomini,
e fra donne rappreſentanti Dij , e Dec, e'feder yolle in un ſono tuofo convito
; Cum primum iftorum conduxit menfa choragum , $exque Deus vidit Mallia , exque
deas; Impia dum Phabi Cafar mendacialudit, Dum nova divorum cænat adultera :
Omnia fe à terris, tunc Numina declinarunt, Fugit auratos luppiter ipfe thronos
, Tt 2 1 Ma 332 Ragionamento Quinto . ! Mapiacevole egli è a udire ciò che
avvennea Menecran te con Filippo Rè diMacedonia , comechè Plutarco dicas con
Ageſilao Rè di Sparta; ſcriſſe a Filippo egli in sì fatta guifa Φιλίπσω
Μενεκράτης ο Ζεύς εν πτά θαν: maFilippo trattado lo da pazzo, qual egli
veraméte era, così gli riſpoſe : dínia πος Μενεκμάτα υγιαίνειν συμβελεύω σοι
ποσάγαν σεαυτόν επί τοϊςκα στο Ανήκυραν τόποις · ηνίδετο δε άeg δια
τούτωνόππαραφρονώο ανήρ . Vna volta anche il medeſimoRè invitò Menecrate a
deſinar ſeco,egli fe porre un deſco da parte, facédoglidar cótinua méte
incenſo, in tépo,che gli altri convitati in altra tavolas allegramente
ciurmavanſi , e facevan gozzoviglia. Mene crate nel principio fommamente godeva
dell'onore fattogli dal Rè , come å un Dio; ma poichè gli ſopravenne la fame, e
gli fè vedere , ch'egli era huono, comegli altri , fi parcì dolendofi , e
lagnandofi fortemente della beffa fattagli dal Rè . Mi ſi fan davanti ora
Neſiteo, Filotimo, Eudemo, e M2 rino , i quali comechè ſommamente cominendati,
e in pre gio avuti foſſero da Galieno , è da dir nondimeno , che no troppo bene
filoſofaſſero cglino in medicina , c che molto poco altresì valeſſero in
notomia ; ficome da qualche lor ſentimento rapportato dalmedeſimo Galicno,
apertamen tc per ognun ravviſar ſi puotc . Maintra le ſette più chiare , e più
famoſe , che nell'air tiche ſcuole già s'inſegnavano della razional medicina (
ſe cgli s'ha riguardo alcorſo non mai interrotto Per volger d'anni , oper girar
di luftri) che nelle Città , e nelle Provincie più nobili s ove la greca
fapienza era in pregio , glorioſamente fiorirono : o le pur fi mira all'onore ,
alla fama, e al numero ragguardevole de lor maeſtri, niuna certamente , s'Io
pur non vado errato egliſembra , che agguagliar fi poffa , non che antiporre a
quella , che da Crilippo in prima ritrovata , indi per opera di Medio, e
d'Ariſtogene celebri tra' ſuoi ſcolari,maſopra tutto per Eraſiſtrato ſommamente
accreſciuta ne vennc , e ftabilit2. Quinci ſi può agevolmente conghietturare
ché te , e quale egli ſtato ſi foſſe il fapcre, l'avvedimento, law fpe . d 0 0
1 1 1 DelSig. Lionardo di Capoa. 333 i 1 ſperienza , e l'induſtria
d'Erafiltrato , che di Criſippo,d'A riſtogene, e di Medio nulla v’abbiam che
dire ; ma ciò più aſſai in verità argomentarlece da quelle pochiſſiine coſes
comechè tronche , e ſmozzicate, Che fan col duro tempo afpro conflitto, che di
lui nell'altrui opere , e più che in altre , in quelle de ſuoi einuli tuttavia
ſi leggono ; nelle quali pariinente egli moſtrò quanto , e quanto oltre
condotto fi foffe per le più dure , c ſpinoſe malagevolezze dell'arte ; intanto
che ad acquiſtar meritamente e' ne venne la Signoria curta della medicina ; e
non ſenza ragione certamente venncgià da al cuni valent'huominicreduto ,
ch'egli laſciato di gran lun ga s'aveſse addietro nonch’altri, Apollo,
Eſculapio ,e Peo ne medeſimo. Così egli da Appiano Aleſsandrino ,venne
appellato meetóvuje @u ,c Galieno parimé : e con orreuoli, e riverēti maniere
trattandolo, 11011 iſdegnò di ragguagliarlo ad Ippocrate ; chiamando egli l'uno
, e l'altro : iv dožoTátis iørção. E avvegnadiochè pure alcuna fiara moſſo , o
dal zelo della verità , o dall'invidia , o dall'emulazione, o daw troppo
altieris e ſuperbi portamenti de'parreggiatiei ſegua ci di lui, ſconciamenre
egli lo biaſimise prendaa gabbole ſue opinioni ; nientedimeno in tanto pregio ,
e in sì gran , yenerazione ebbe Galieno la dottrina d'Eraliftraro , ches prender
volle fatica di commentarmolte delle ſue opere : e di lui favella più d'una
fiara con molto riguardo, e onor di parole ; e mi ricorda , ch'una volta infra
l'altre togliendo egli ad impugnar una ſua opinione, ſcuſando quali il ſuo
troppo ardimento con eſo luicosì ne favella : Si compiac cia di grazia
Eraſiſtrato , che in quella guiſa appunto,e col la medeſimalibertà lo tratri
lui , e le ſue quam le egli trattar mai ſempre ebbe in coſtume Ippocrate , ela
doctrina di quello . Ne fi dee anche aſcrivere a poca lodo d'Eraſiſtraco ,
ch'egli, comenarra Galieno , ſi foſſe ſtato il primo autore , e introduttore
della vera arte ginnaſtica , e che per opera del ſuo ſenno, e della ſuamano in
piede ſi ri metteſſe ; anzi ſi ritornaſſe in vita la notomia, la quale per infingardia
degli antichi medici già affacco caduta, e ſpen ta fe ne giacea . Ma 1 opere ,
colla ! 334 Ragionamento Quarto < + 1 Ma qual maniera egli tenelle
Eraliitrato nell'inveſtigare le cagioni in ſeno della natura appiattate, e
naſcoſe , e quai foſſero i ſuoi ſentimentiintorno a ' principi delle coſe ſenfi
bili , malagevole molto egli è ad avviſare ; impertanto ſi ſcorge
apertiſſimamente , ch’Eraſiſtraço era affai libero nel filoſofare , e oltremodo
ſchiyo , anzi nimico di far pompa appo il vulgo di mentito , e apparente ſapere
; onde mai non ſi vide ricovrar egli alla franchigia tanto da’ſofiſti uſi ta ,
e praticata , delle facoltà , e d'altre fimili vanillime novelle , e ciance ,
le quali non altro in verità , che Nomije fenza ſoggetto Įdolifono, nelle malagevoli
, e inviluppate tenzoni della filoſofia , e della medicina ; nella qualcoſa
,comechè ne doveſſe Era fiftrato con ogni ragione , s'Io pur diritto eſtimo ,
ſomma lode ritrarre , malignamente troppo in verità , e a gran for to funne
ripreſo , e vituperato da Galieno ; il quale oltre a ciò ardiſce
anchetemerariamente a vituperarlo , e a biafi marlo, perchè ſempremai moſtrato
ſi foſſe ſul filoſofeggia re , duro, e implacabile avverſario dell'opinioni
d'Ariſtote le , nulla curando , che ſuo avolo ſtato e' fi foſse ; col qua le ,
e coʻPeripatetici in una ſola coſa convenne, ciò fu nell' affermar
coſtantemente, che per la natura niéte a caſo mai vegna fatto , e poſto in
opera.. Ma non rammentò Galieno , che Ariſtotele , ed Erafi Atrato convengono
bene inſieme anche nel dire , che le re ni, e la milza non fervano a coſa niuna
; ma della milza . prima di tutti ſcriſſe colui ad Ippocrațe, parlando della na
tura dell'huomo, παλίων απέναντι £'δα , πάγμα μηδέν αιτίμο». Furicevuta una tal
opinione da Rufo da Efeſo , il quale dif ſe,che la milza foſse anánt , ni
avevéeyn ,mano già da’ſco Jari d'Eraſiſtrato , come que’ , che diſsero , che la
milza preparaſse al fegato il ſugo da generare buon ſangue , tör το σπλάγχνον
περπαρασκευάζειν το ήπατπ τ έκ ή σιτίων χυμόν ής α' Mateu xensă girsar , Ma
benchè Erafiltrato sì grande , e sì valent'huomo ſi foſſe , e che tanto dalla
natura foſſe favo. reggiato , e di rari doni , ç maraviglioſi arricchito, c per
ső mo sforzo di ſtudio molto avanti fontille nelle coſe dellam! natu 1 DelSig.Lionardo
di Capoa 335 matura , e che colla altezza del fuo anino ſtudiato fi folle di
aggiugnere anche talora fin la dove forſe non potè per addietro pervenire altro
intendimento mortale : e coll'e ftremo diſua poſſa di formareſi foſſe
argomentato il fiſte ma della ſua razional medicina ſommamente perfecto , e
compiuto ; nientedimeno più d'una fiata dal diritto ſentier della verità inolto
, e molto lungi ſi trova; e ſi leggon di lui alcune ſtrane, e ſconce opinioni,
comeche in alcune a cor to accagionato talora e' ne vegna da Galieno' , e in
alcun con aſſai fievoli , evane ragioni riprovato ; il che ravviſa no talvolta
, e ſono coſtretti a confeſſare i medeſimiGalie niſti ancora Ma nientedimeno a
grandiſſima ragion certamente vien da Galieno aſpramente ripigliato Erafiftrato
per aver dct to egli, che nell'arcerie nello ſtato naturale dell'huomo no
v'abbia ſangue , ma ſolo ſpirito vitale, ſecondo lui :e fpiri to' animale
ſecondo Criſippo ſuo maeſtro ; coſa', della qua le , così evidentemente ne
appare il contrario , che forte mimaraviglio , comeGalieno quantunque
abbondevole d'ozio , e di ciance aveſse potuto darſi briga di compilare un
libro intero per impugnarlo . Ma, o Quanto è'l poter d'una preſcritta ufaniza !
equanto dileggieri un’huompaſſionato in gravi falli quaſi inavveduramente
traſcorre . I ſeguaci d'Eraſiſtrato per niu na ragionedel mondo , neper
evidenza de'ſenſi , che loro apertamente additaffe il contrario, abbandonar
mainon vollero i ſentimenti del lormaeſtro"; il quale non altrime ti , che
ſe Dio ſtato foſse', ſe preſtar lece in ciò fede a Ga lieno ſolevan eglino
ammirare', e venerare ; avendo per vero , e ſaldo, e indubitato ogni ſuo
qualunque detto. Ma ritornando a noſtra materia ; egli è da creder , che dall'o
pinion , che reſtè abbiā noi rapportata , prendeſse cagione d'inſegnar poi
Eraſiſtrato , altro non eſser la febbre , che un movimento inuſitato del ſangue
, che dalle vene, dove naturalmente riſiede , all'arterie tragittiſi: e
cheſicome al lor , che non ſoffiano i venti , pofa abbonacciato , E nelſuo
letto il marfenz'onda giace ; ma 330 Ragionamento Quinto ma ſoffiando poi
fortemente Oſtro o, Aquilone enfia , ed eſce fuori impetuoſo , e rapido
dall'uſate ſue ſpon de, e inonda , ed allaga le piagge tuttc , c le campagne
vici ne ; così anche , fe non v'ha coſa , che l'agiti, o'lcommuo va, dimori
placido il ſangue nelle vene:maſe per ſoverchia abbondanza gonfio , o per altra
cagione ſoſpinto , e agita to mai venga , sboccando ſubito dalle vene , ratto
all'arte rie diſcorra, e ſe quindi dallo ſpirito , che in eſso dimora ſia
altrove riſpinto , vada a fermarſi , e ſtagni in quelle cic che ſtrade , dove
terminano l'arterie ; e quivi riſtrignen doſi, crappigliandoſi, formerà
l'infiainmagione; e la feb . bre ; ecco le ſue parole rapportate da Plutarco:Nuperds
isi zí. νημα αίματG- παρεπιπλωκός ας του τα πνεύματG- αγγείο απιοαιρέτως
γινόμενον • καθάπερ γαρ επί της θαλάττης , αν μηδέν αυτήν κινη ήρες μί , ανέμε
δε έμπνέοντG- βιαία παρά φύσιν , τότε εξ όλης κυκλεται. ούτω και εν τω σώματι ,
όταν κινηθήτο αίμα και τότε εμπίπτει μες στο αγγα των πνευμάτων , πυρέμενον δε
θερμαίνει το όλον σώμα . Αrtifciofotis trovato nel vero , ma che appoggiato in
aſsai poco falde fó damenta non può far , cheda ſe ſteſso non crolli, e rovini.
Manon laſcerò già lo quì di narrare ciò che immagina . alcuno , ch'altri ſi
foſsero intorno a ciò iyeri ſentimenti d ' Eraſiſtrato , e chemal'inteſi , e
peggio ſpiegati a noiſien pervenuti; e tanto più , che come
Galienoavviſa,Eraſiſtra to a ſtudio oſcuro alle volte Con giri diparole
obblique incerte recar ſuole le ſue opinioni ; e che perlo ſpirito egli abbia ?
intender voluto un ſangue ſottiliſſiino ,e di quelle particel le , onde ſi
forman l'etere , e l'aere per la più parte ripicno. Macheche ſia di queſto ,
certamente ſi deecgli credere, ch ? a niuna guiſa mai avrebbe Erafiltrato dato
fuori così inve riſimili, e vane fanfaluche, ſea lui foſse pervenuta qualche
menoma contezza del vero movimento del ſangue; e pure egli vi fu molto da
preſso : imperocchè ravviso , e conob be , che dalle vene all'arterie, comechè
vi lien le ſtrade, na turalmente non ſi tragitti il ſangue ; il che diede
poſcia ca gione a Galieno d'affermare, che l'arterie traggano il ſan gue dalle
vene . Qui riſtette, ne paſsò più avanti Eraſiſtra to, con Del Sig. Lionardo di
Capod. 337 -- to ; comechè la ſua gran virtù molto bene il valeſſe , merce che
non già alla Grecia , ina alla noſtra Italia era la glo ria riſerbata dello
ſcoprire l'aggiramento del ſangue . Oltre a ciò ſi pare ,che ſommaméte lodar ſi
debba Eraliftra 10 , perchè al ſuo grande avvedimento , e induſtria aſcon der
no li potè il ſugo nutritivo ma: pur fallò egli in immagi nando , che quel
ſolamente ſerviſſe a nutricare i nervi , ſe è vero ciò che ne narra Galieno .
Conobbe ancora Erafiftrato le vene lattee; niétedimeno rinvenir non ne ſeppe
l'uſo ; s'accorſe egli anche , ed è egli non picciolo ſuo vanto , che'l
reſpirare non diedes già a noi natura , comeimmaginò con Ippocrate , Diocle, e
Ariſtotele , Perchè'l caldo delcor temprato fia . Ma non potè penetrar egli
nientedimenoil vero ,'e propio uſo della reſpirazione: e perchè alcuni animali
fieno ſtati formati sì , che debbano reſpirare ; imperocchè contendes
Erafiltraco , che la reſpirazione ad altro non vaglia , fe non fe a poterempier
d'aere Parterie ; coſa, che da per fe appar dal vero così apertamente lontana
,cheimutilmente colle fue ciance Galieno impréde a dimoſtrarla alțresì
tale.Mafe Eraſiſtrato aveſſe avviſato, che il sague,tutto che no appaja di coſe
diffimiglievoli eſſer cópofto, pur contenga molte , e molte parti dinatura
diverſisſime avrebbe potuto agevol mente ſpiegare, qual ſia la neceſſità
dell'aere , e della refpi razione neglianimali; imperocchè avviene , che nel
ſepa rarli dalſangue la parte più ſottile , e per così dire , ſpirito ſa , ſi
faccia anche neceſſariamente ſeparazione di varie al tre parti groſſe ;come
nella formentazione del moſto , e d'al tre liquide foſtanze chiaranxente
ravviſaſi ; queſte groffe porzioni, forza è , che s'abbattano, ſeparate
cheelleno ſo no , o nell'acre , o in altro corpo ſimile , il quale contenga
pori acconci a riceverle , e che ricevutele , ſia valevole a tragittarle fuori
de'vafi:a quella guiſa appunto , che al ráno s'appaltano le lordure, le quali
imbrattano il panno, e che col ráno ſe ne van via; e ſe perdiſgrazia
dell'animale qual che tratto di tempo , quancunque aſſai menomo , non fao V u
cel 338 Ragionamento Quinto ceſſe nel ſangue una cal purificazione, intoppando
agevol mente negli anguſti vaſi dieſſo colle craffe porzioni ſepa rate i
ſottiliſſimi formentāti corpicciuoli,ſarebbono queſti incontanente coſtretti ad
abbandonare il movimento loro dılacante; e ſeoltre a'formentanti corpicciuoli
aurà nel são gue abbondanza di ſoſtanze d'altro genere, ma altresì vo lanti ,
tra le quali viliano in copia grande i ſemi del fuoco, così queſti , come
quelle non incontreranno molta diffi coltà a liberarſi da' ritegni ; e ſe vi ſi
aggiugnerà qualche altra circonſtanza , onde , e l'uno , e l'altro movimento ,
e di formentazione, e dicalore rieſca grande , e notabilmée te impetuoſo ,
allora cgli grande oltremodo converrà ch ' avvegna la ſeparazione : per lo che
non baſtando . dilatare , il ſangue dalle groſſe, c importune porzioni
quell'aere,che inceſſantemente negli animali per li pori trapela , abbiſo gna ,
che altra aria mediante la reſpirazione fi beva ; e di quì ravviſato ſenza
fallo avrebbe Eraſiſtrato , che parecchi animali no poſſano vivere colla ſola
traſpirazione, maloro faccia huopo pariméte della reſpirazione; e ſe'l moviméto
formentante non ſarà molto grande , ne verrà da notabile, calore accompagnato ,
allor l'animale avrà di pochiſſimo aere biſogno , e baſteragliquello , che, o
colla ſola traſpi sazione , o con qualche forte ancora di imperfetta reſpira
zione ſuccerà ;e p cal cagione poſſono détro alle acque vie vere i peſci;
imperocchè nell'acque, benchè aere non vi ſia almeno che ſenſibile appaja , vi
ſono impertanto parecchi, e parecchj aliti , i quali cosìdalla terra , come
altronde gli vengono ad ogn'ora ſomminiſtrati; e trapelando queſtinel corpo
de'peſci, adempiono il medeſimo uficio dell'aere col riportarvi quelle
ſoſtanze, che , o nel fangue, o ne'liquori al ſangue equivalenti impedir
potrebbono la formentazio ne, col mettergli giù nell'acqua , acciocchè l'acqua
ſe n’ abbia a ſcaricare, comunicandola all'aere più vicino; il che ſe mai lor
viene impedito , rimangono i peſci poco ftanto privi di vita . Nell'uovo poi ,
e nell'utero eſſendo i mo vimenti dell'animale non molto grandi , e
maſſimamente fra queſti il formentante, ed eſſendo anche oltremodo mol lise
DelSig. Lionardo di Capoa 339 li ; e pieghevoli , e poroſi i ſuoi vali , può
baſtar ſolamente quell'aere,che per li pori vi trapela; e ſe mai dal freddo , o
da altra cagione vegan chiuſi i pori,nõ entrādovi più l'aria, ceſſa nell'uovo ,
e nell'utero la formentazione del ſangue, e ſe ne muore l'animale ; ſenzachè
non è di picciolo mo mento a mantener il debile moto formentativo nell'anima le
racchiuſonell’vuovo ,ilpicciolo ,e rimeſso eſteriore caldo, che o dalla
chioccia,o dalla fornace , o dal fime gli vié comum nicato ; e come tutto dì
veggiamo,nc'vaſi ermeticaméte fi gillati, il calore del bagno,o del fime è
valevole a far sì, che non ſi attuti , anzi duri , e fi accreſca nc'liquori la
formen tazione . Aggiugneſi , che mal ſi può render volante quel la nobiliſſima
ſoſtanza , la quale continuamente a vivificar le parti dell'animale dal ſangue
lor ſi communica,ſenza l'ac re, in cui mai ſempre troyanſi quc'volanti
corpicciuoli, che ajutano la formentazione . Ma laſciando queſto ſtare al
preſente , forſe noi cammi namo dietro la guida d'un cieco ; e altra
peravventura ſa rà la vera opinione d'Eraſiſtrato , la quale a dir il vero vien
portata in sì fatta maniera da Galieno , che ſembra ch'egli, o non l'aveſſe
inteſa , o non l'aveſſe voluta intendere, come fa anch'egli nel rapportare
quellaltre opinioni d'Eraſiſtra to intorno alla cagione ,per la quale ſe ne
muojan gli ani mali nelle mofete . Vuole Eraſiſtrato , per quel che ne nar ri
Galieno , che ſe ne muojan gli animali nelle mofete , e nelle ſtanze chiuſe ,
einfette o dagli alitidella calce, o dal fummo de carboni , per ritrovarli in
sì fatti luoghi l'aere ad un tal grado ſommo di tenuità ridotto , chene fi
riceva dall'arterie , ne ricevuto per eſſe ſi poſſa ritenere; ma con
grandiflima facilità fe n'eſca fuori; laonde per mancamen to di ſpirito egli ſe
ne muoja neceſſariamente l'animales . Prende a gabbo una tal ſentenza Galieno ,
e dice , che do vea dire più toſto Eraſiſtrato ,che ficome nel pane , ne’logu
mi , e in altre ſomiglianti vivande fi ritrova una qualità as noi contraria ,
così ancora una sì fatta diſpoſizione d'ae re ſia bcnigna , e amica agli
ſpiriti , e un'altra maligna , es nimica . Vu 2 M2 340 RagionamentoQuinto 1 ! .
Ma nondimeno conobbe chiaramente Galieno la vani rà del ſuo ragionamento ; onde
vien coſtretto a confeſſare d'eſſergli di ciò naſcoſa la vera cagione; come ſi
può vedere nel libro dell'utilità della reſpirazione ; ma che che ſia di
Galieno , lo ammiro grandemente l'acutezza dell'ingegno d'Eraſiſtrato , e'l ſuo
modo non guari lontano dal vero filo fofare intorno a tal faccenda;e forſe la
fua opinione ſe ſi va fottilmente vagliando non ſi ritroverà tale , quale la
s'im magina, o la fi dipigne Galieno ; il quale a dir il vero ſem brami troppo
groſſo in ciòse materiale,anzi che no , facen dofi egliacredere, che
Eraſiſtrato da lui medeſimo in sigra pregio avuto aveſſe ſognar mai potuto che
Paer pregno del fummo de carbonizfia del puro aere piu tenue, e più ſottile. Ma
lo per me porto fermiſlina opinione ,chc Eraſiſtrato aveſſe fatto differéza tra
fúmo e acre, come da ognun falfi fra l'aere, e l'acqua;e che non altro per
tenue aveſſe egliin tendervoluto , che picciolo , o poco : imperocchè la p.2
rola asfilos, della quale e' li valſe , ſecondochè dice Galie no ſteſſo , non
ſolamente ſuol eſfer preſa da'Greci antichi a fignificare quel che noi Italiani
diciamo foteile , e che da' Jatini ſi dice tenuis ;ma ancora per dinotare,come
ſi può ve derein Ariſtotele , e in qualch'altro autore di que' tempi , quel,
che i latini chiamano , cxiguus , e noi picciolo , o po co diciamo . Or
chidomine non fa , che la dove è aſſai de ſo il fummosivi ſi ritrovi in meno
quãtità l'aere? Conferma fi ciò che lo dico dalle ſteſſe ragioni d'Eraliſtratos
per Ga lieno recate; imperocchè ſe l'aere delle mofetc, e di sì fat si luoghi
egli foffe tal veramente , qual Galien dice ch’af fermiErafiltrato , ch'egli
ſia , cioè troppo ſottile :con gran di ſlīmaagevolezza ſenza fallo penetrar
egli potrebbe alles art erie ; concioſliecoſachè le ſoltanze diſcorrenti tutte ,
qu anto più ſottili ſono , tanto più convenga , che compo he , e formate licno
di minutiffime penetrevoli particelle ; lao nde ſcimunito affatto ſarebbe
Eraſiſtrato in dicédo,che per eſſer l'aere delle mofete troppo ſottile,
tragittar egli no lip offa volentieri alle arterie ; ma entrarvi poi allo incon
tro . DelSig. Lionardo di Capoa 341 tro malagevolmente vi potrà l'aere qualora
eſſendo egli pochiſfimo venga con copia grande di denfe , e groſſe fo ſtanze
accompagnato . Ma non ſi ſarebbe vanamente nel vero aggirato infra tante
ciuffole , e anfanie Erafiltrato , ro con diligenza degna d'un sì grande
filoſofante aveſſe poſta ben mente alla natura delle mofete ; perchè
agevolmente aurebbe per avventura rinvenuta la vera cagione , per liza quale in
quellamuojono glianimalisin iſcorgédo la mofe ta eſſer una diſcorréte ſoftāza
più groſſa, e grieve affai dell? aria; e comechè nõ umida, in altro poi non
guari dall'acqux disſomigliāte;e gli aliti della mofeta unirſi nella guiſa me
deſima appunto ,che veggiam infieme unirki i zampillidel le acque, e mátenerf
nelle cocavità nõ meno ſtrettamente uniti infieme , e congiunti , che que'
dell'acqua nelle fon tane fi facciano ; e non altrimenti che l'acqua
incontrando declivo il terreno, correr alla in giù la mofeta . Errò pari mente
Eraſı trato la dove c'credette eller la carne non al. tro, ch'un accozzaméto di
ſangue rappigliatose raſſodato , da che la carne è veramente un compoſto di
picciole, c mi nute fibre ; e di fibre parimenté vengon formate le piccio
liffime glandolette , che ſparſe perentro , e ſeminate vifo no ; c quantunque
la carne del fegato , e della milza paja , nella prima viſta una mafſa di
ſangue , pur nondimeno tal non ritroveralla chiunque mettédola in acqua a
macerare, faccia , che ſe ne ſepari quel ſangue , che vi ftà meſcolato ; che
allora manifeſtamente delle già dettc fibre tutta appa rirà ella refuta. Ma
paſſando ad altro , che in Erafiſtrato lo ho ritro vato ; egli mi ſembra , che
ſi foſſe in qualche ſembian za di verità incontrato in diviſando delle febbri ,
in quella guiſa , che s'è da noiaccennata ; non conſiſtendo verame te in altro
la natura della febbre , ſe non ſe in un tal certo movimento non ordinario , e
non naturale del ſangue ; ma non prende egli a ſpiegar mai poſcia , anzine men
cura, per quelche fappiamo per bocca di Galieno, d'andar inveſti gando , come a
razionalmedico fa meſtieri, le cagioni,on de ciò poſſa avvenire ; il che
avrebbe potuto fareegli age vol 342 Ragionamento Quinta 1 volmenteper
avventura,ſe li foſſe innoltrato maggiormen te nella filoſofia ; ne gli mancò ,
al mio credere , ingegno , ne animo ad una tanc'impreſa acconcio ; ma gli
vennero meno gli ſtrumenti, i quali la ſola Chimica da lui nonco noſciuta
ſomminiſtrar gli potea Ma che cheſia di questo , non potè celarſi all'acutezza
del ſuo intendimento, che la digeſtion del cibo non ſi fà al trimenti dal
calore ; ma inveſtigar nondimeno , e rinvenis non ſeppe egli mai que'
ſottiliſſimi vapori nel ſangue, onde il cibo ſidivide , e li rompe in
minutiſſime parti nello ſto maco ; e comeche conoſceſſe ben egli ancora il
ſangue non eſſer da ſecaldo , non potè egli nondimeno però penetrar mai, onde ,
e come il ſangue caldo diveniffe , e fi conſer vaſſe negli animali . Maper far
qualche parola dietro all' eſercizio del ſuo meſtiere : egli maneggiò l'arte
Eraſiſtrato così magnificamente , che niun'altro tanto mai più ,ne pri ma , ne
poi, per quello , che noi ſappiamo sì ragguardevol mente la ritenne. Ma egli
non ha però dubbio niuno,che col profondo ſapere , colla gran fua diligenza , e
induſtria gli s'accompagnaſſe proſperevole anche la fortuna: la qua le al
maggior huopo nonmancò di favoreggiarlo , avendo egli dalla vicina morte
ſottratto , e penetratane la cagione a tutti naſcoſa della graviſſima malatcia
del regal giovanet to Antioco figliuolodi Seleuco,il quale in ſua lode così fa
, vella appo il noſtro loyrano lirico E ſe non foſe la diſcreta aita Del fiſico
gentil , che ben s'accorſe, L'età fua ſul fiorire era finita, Or chi è per Dio
, che apertamente non conoſca aver avu to in ciò grandiſſima parte la fortuna .
E non potea egli agevolmente ingannarviſi Eraſiſtrato , e in vece dell'oro,
delle dignità ſupreme, degli onori, e della gloria immor tale ,
ch'e'guadagnonne , obbrobrio , e vituperio eterno riportarne ? Ma in ciò imitar
lo volle anzi emularlo Galie no, le pur è vero il ſuo magnifico racconto
allorche e' ſco verſe quella Romana femmina eſſer preſa forte dell'amor di
Pilade ballerino ; c comechè egli vanti aver in ciò ſupe lato Del
Sig.Lionardodi Capoa. 343 . rato il medeſimo Erafiftrato , ſe pur tale appunto
andò law biſogna , qual egli la narra, non però di meno per eſſere fata colei
viliſſimadonnicciuola , non ne riportò Galieno , ſe non quella gloria, ch'egli
a ſe medeſimo attribuiſce , in iſcrivendo a Poſtumo talconvenente . Ma per
toccar qualche coſa intorno alla maniera del medicare tenuta da Erafiltrato,fi
pare ,ch'egli nonmolto ſi Je i Salopsi ſoddisfece , ne troppo ſi valſe delle
purgagioni : delle quali affatto ſi tenne egli nelle febbri ; e dar ſolamente
le ſolea in altre malattie , che'lrichiedeario ; ſi portava egli sì fattamente
con gli infermi,che ſenza lor molta moleſtia, e riſchio alcuno recare , e ſenza
porgerne loro cagione , fol con iſtrettamente cibargli , felicemente conſeguire
ſperava ciò che altri dalle purgagioni, e da’ ſalaſli attendeano. Ma nonmeno
Eraſiſtrato, di quel che Criſippo ſuo maes ftro s'aveſſe già adoperato ,
ftudioſſi egli ancora di ridurre alla ſua antica ſemplicità innocentee, inerme
la greca me dicina ; vietando ſeveramente i ſalafi, i quali s'erano a po co a
poco in tutte le ſette della medicina introdotti ; per chè ſi vede chente , e
quale e' fi foſſe il valore , e quanto grande l'animo di Criſippo , e
d'Eraliſtrato , i quali ebbero ardimento primieramente di far fronte
all'oſtinata bruzza glia del vulgo, e rincuzzare una già quaſi preſcritta
uſanza nella medicina . Ma le ragioni delle quali eglino fi valſe ro a ciò
perſuadere,vengon deliderate da Galieno; ne accé na egli una ſola d'Eraſiſtrato
: la quale ſiè , che nel ribut tamento del ſangue non ſi dee ſegnare, acciocchè
per lo mancamento di eſſo non vegna poi coſtretto il medico a cibare fuor di
tempo l'infermo ; e in ciò loda grandemente egli Criſippo ſuo maeſtro , il qual
dice , che in ciò ebbe ri guardo,non ſolo alpreſente , ma all'imminente male
anco ra ; concioſſiecoſachè al ributcamento del ſangue agevol mente ſeguir ne
ſoglia l'infiammagione, in cuiilcibare ric fce ſenza fallo molto, e molto
pericoloſo a' poveri infermi; ed egli è forteda temere, che chiunque dopo
l'etſer legna zo dee portar la famc gran tempo , non vegna a mancare; indi
poſcia ſoggiugne , che per sì fatta maniera adoperan doni 344 · Ragionamento
Quarto doſi nel medicare Crilippo , n'acquiitaſſe lode , e gloria immortale .
Mas'altra ragione di ciò ne recalle Erafiſtrato , Io no'l ſaprei diterminare ;
non potendoſi preſtar fede in si fatta materia a Galieno ; cercando egli , come
avviſa eziandio alcun de'ſuoi più parziali ſeguaci , a diritto , e a roveſcio
il meglio ch'e'potea d’avvallar la gloria , e la famad'Erafi ſtrato ; c anche
talora tentando a forza di ſofiſmi, e dica lunnia (trappargli di mano la
ſignoria della medicina. Recar ſi veggiono in mezzo da Galieno alcune frivolei
ragioni de'parteggianti d'Eraſiftrato ; ma da Galieno me. delino per avventura
fognate . Maegli ſi dee fermamen te credere , che non poteano mai, ne Criſippo
, ne Erafi . ſtrato , ne Medio , ne Ariftogene bandire , introdurre , mantenere
in piede poi una maniera sì da quella diverſa ch'era comunemente in uſo , ſenza
farne ben prima pruos va con qualcheprobabili ragioni, colle quali moſtraffera
eſſere ſtati a ciò fare tratti di peceſſità , e non da vaghezza alcuna ; ne
poteano altrimenti facendo difenderſi ne'lini ftri avvenimenti delle malattie ;
e forſe Criſippo , o pure Erafiltrato qualche libro particolare ne compofe non
per venuto alle mani di Galieno; il quale dice chiaramente una volta , che
l'opere di Criſippo crano molto vicine a ſmar richi , e ad eſſer ſommerſe in
perpetuadimenticanza . Ma quando primieramente cominciato foſle nella Gre cia
un sì crudel coſtume d'aprir col ferro , o col morſo di velenoſi vermini le
vene , e colla luſinghevole ſperanza di fottrarla a' preſenti, o
a'ſopravegnenti mali,impoverir dell? unico ſuo ſoſtentamento la vita , egli è
coſa malagevolen aſſai nel certo ,anzi per avventura impoſſibile a diſtinguere;
folamente,che non ſi poſſa porre in dubbio e' mi pare ,che'l crar
ſaugue,nemolto nepoco , ne'primni antichillimi tempi della medicina appoi Greci
in uſo niuno noirera ; ne Ome ro , il qual non iſdegna con abbaſſarſi alle più
menome par ticolarità delle coſe porre in non cale la dignità, e la gran dezza
, e magnificenza convenevole all'eroico poeta , livi de giammai far mézione
alcuna del ſegnare nella cura del le fe . DelSig. Lionardodi Capoa 345 : le ferite
di Marte , diMenelao , d'Euripilo , e di Macaone; perchè , per tacer d'Achille
, e di Patroclo , ne Podalirio ne Macaone, eſſendo favoloſo ciò che di lai
narrali intorno a tal convenente per Celio Rodigino , ne Chironę lor maeſtro ,
ne Eſculapio lor padre , ne Apollo lor avolo , ne Peone medico di Giove
conobbero , e.miſero mai in uſo i ſalafli, e ne meno fi fa fe'l fegnare,da loro
mcdelimi i Gre ci trovaſſero , o pur da altri popoli l'apprendeſſero;macer
tamente ciò non poterono iGrecidagli Egizaj antichi ap parare , i quali per
teſtimonianza di Socrate ,da noi altro ve apportata,non ſi valfero mai di
rimedi pericoloſi; ne ore no da’moderni: imperciocchè coſtoro , come avviſa Dio
doro , altra ſorte dirinedj non ebber mai in uſo , fuoriſo Jamente , che criſtei
, digiuni, purgative medicinc,e vomi tive . E ſi pare , che dagli Egizzj
nell'altenerſi oglino mai ſempre da’lalaſli veniſſero imitati i fapiéciflimi
popoli Chi neli, nel cui paeſe, che poco cede in grandezza all'Europa, ma
l'avanza di gran lunga nel numero degli abitatori,non di vide mai ,
comedicemmonoi già , trar ſangue in infer mità vcruna; il cui eſemplo han
ſeguito quei della Coccin cina, del Giappone,e tutti quegli altri popoli porti
in quell' eſtremo tratto della terra , che bagnata viene dall'Oceano orientale
; e in modo tale abborriſcono i Cineſi medici i falali , che ne i Saraceni ,
allora quando i Tartari occupa rono quell' imperio , neinoſtrive l'han mai
potuti intro durre . ? Ma che che ſia di queſto , chi poſe in uſo primiero il
trar ſangue , Io immagino , che fi movcffe , e ſpinto vi . foffe , non già come
immaginò Plinio ( ſeguito in ciò fol lemente dalMontano, e dal Vonio)
dall'eſemplo del caval lo del fiume ; non eſſendo miga vero ciò , che ſe
neraccon ta, come. Avempalace Arabomedico avvisò; ma dallo ſcor gere forſe ,
che dopo qualche ſpontaneo uſcimento di fan gue,o dalle narici , o da altra
parte ſi vedea cedere in qual che parte il malc e sì crebbe l'uſo del ſegnare
nella Grc cia , checonvenne , che Ippocrate, c.prima gli altri più ani tichi
landaſſero a poco a poco riſtrignendo , sfidando per It' ! 346
RagionamentoQuinto d ſe per avventura di torlo via affatto Ma non ſarà forſe
fuor del noſtro propofito a rap portare ora alcuna delle tante ragioni , colle
quali po trebbeſijs’Io pur non vado errato , sì fatta opinione difen dere . La
vita degli animali ( dico ora vita , largamente parlando x quello , ſenza cui
al corpo, comechè compiuto, e ſufficientemente organizzato; non può l'anima
accoppiar ſi , o ſtar tantoquantoin lui ) egli ſembra , che in altro ve ramente
non confifta , che nel ſangue, o in qualche altro- li quore alſangue
equivalente , che in alcuni animali in vece di quello (i mira . Coſa , la quale
non può punto dottarſi da chiunque avviſa, che collo ſcemo del ſangue fcemaſi
agli aniinali anche manifeſtamente la vita ; perchè ſe non per forte diſtretta
, e neceſſità quello non li convience vuotar negli animali . Ma delle due
maniere , colle quali il ſangue menomac puoſli , ciòſono , ocom trarlo fuora a
viva forza da'vafi , che'l contengono , o con dar ſtrettamé te', e a riguardo
il cibo ; il trarlo certamente è quello , il qual reca nocimento , e danno
maggiore , e più gli animam li affraliſce ; concioſliecoſachèfgorgando il
ſangue , con quello inſiemene ſvaporano quelleſottiliſſime volanti ſo ſtanze:
per le quali , e del chilo s'ingenera il ſangue, cin , priina de'cibi
s'ingenera il chilo ; ne può il ſangue mantc werſi nel ſuo ſtato, nevivificare
le parci dell'animale, ſenza loro ; il che apertamente da chiunque mente vi ponga;
po tendoſi di leggieri avvilare, non fa luogo, ch'Io ne faccia parole . Quinci
chiaramente ſi vede, c'l confeffa il medeſimo Ga lieno , che potendofi, qualor
ne faccia meſtieri, acconcia mente coldigiuno menomare il ſangue , non fia ciò
da fare in modo alcuno coltrarlo fuor delie vene,maſſimaméteove ègrade malattia
;imperocchè quelle nobiliflime foſtāze ,che detro abbiamo effer nelſangue ,
ajutano oltreinodo gl’in fermia ſtar vigoroſi della perſona ſenza eſſere
diſvenuti, affranti dal male, e giovano affai al mantenimento di quel li ,
cafar laro ricoverar la ſalute ; perchè quanto più gra voſe , e di riſchio ſono
le malattie, più nocevole certamen te è Del Sig.Lionardo di Capoa. 347 O te è
il erar fangue, e men fi eonviene . Malaſciandoda parte ſtare ciò che
berlingando diceſi Galieno intorno al dovere fcemareil fangue , onde preſeg
cagione i ſuoi ſeguaci di continuo aggirarli infra vane , e inutili contefe :
certa coſa è, che'l ſangue può eſſer nocevo le agli animali , o per ſoverchio
di rigoglio , e d'abbondan za, per cui o di preſente cagionar puofli in
quelligrave ma latcia , o perchè egli è sì , e talmente piggiorato in tutto, in
parte , che traligni dalla ſua natura, e non ſi conformica quella
dell'animale:0 pure perchèegli inſieme e malvagio , e ſoprabbondevole s'avviſa.
Ora in tutti , etre queſti caſi certiſſima coſa è , che'l ſegnare è fommamente
nocevole E per cominciar dal ſoverchio del sāgue, chi negherà quel lo non eller
mica vizio nella perſona: ficome anche vizio egli non è nella vita civile l'effer
riccamöte fornito a denari, o d'altro,che meſtier faccia ad huomo per bene, e
agiatame te vivere . E apertamente avviſafi, che coloro , che fom mamente in
ſangue abbondano , ſon più d'aleri forci , e be atanti della perſona. Ma ficome
la copia delle ricchezze , comechè buona coſa quanto a ſe , pure ad uſo cattivo
da gli huomini adoperandori, ſuol di gravidanni talora eſſer cagione: così
anche l'abbondanza del ſangue , avvegna chè buona , e laudevole fia ,può talora
nuocere , ſeconda mente che per noi ſopra il fecondo aforiſmo del primo li bro
d'Ippocrate già fu accennató . Orrel foverchio del ſangue può táto nella
perſona adou perare , che ragionevolmente ne debba temere il medico , poco
ſenno ſenza fallo farà di lui a volervi riparar col fa Jaffo : potendo ben
eglicon imporre ſtretto digiuno ciò ac conciamente fornire . E ſe'l male è già
fufficientemente appiccato , ne di quello il ſangue punto più s'inframerre ;
che monterà egli attutar la canapa , acciocchè la girandola già preſa di foco
non ſi conſumi? o pur che monterà egli ſpuntar la ſpada , perchè la ferita
fattane fi ſaldi? E ſe pur dura oſtinato il ſangue a tener mano al male ,
oglirecas qualche impedimento alla cura di quello , può bene il me dico
avveduto ſenza ricorrere al pericoloſo partito della X X 2 1 : { so 348
Ragionamento Quinto laſſo , con imporre all'infermo , che più o meno fi riman
ga da' cibi : o più , o'meno , ſicomcli conviene , menomar lo . Nein ciò è da
riguardare a ciò che in contrario ſi dice Galieno , cioè , ch'alcuni corpi
v’abbia , i quali non così agevolmente potľano il digiuno comportare, per eſſer
egli no caldi, e ſecchi in compleſſione,e come e' dice, collerici ; '.
concioſliecofachè, per tacere, che ritrovar non ſi poſſa mai ficcità ove ſia
gran ſangue, maſſimamente laudevole,e buo no , qual G ſuppone : e che la
collcra non s'inframetta pun . to nelle vene , nelle quali, come altrove
diviſato abbiamo, ne meno in que'mali, che ſecondo effo Galieno dalla col lera
avvengono , nelle vene ſi trova : e che in sì fatti corpi non poſſa eſſer
troppo abbondevole il ſangue per lo ſmalti mento , che continuo di quello falli
: può bene il medico co medicine , che attutino la collera , e con beveraggi ,
che non facciano ſe non ſe pochiſſimo ſangue, acconciamente a ciò dar riparo ; ſenzachè
in cotali corpi, i quali oltremo do abbondan di collera ,ſicome faggiamente
avviſano Ip pocrate , e Avicenna ,ſon pericoloſi iſalasſi ; e ſe ciò fonte,
c'huom collera aveſse nelle vene , impoſibil certamente egli ſarebbe , che non
n'aveſſe ancor nello ſtomaco : nel qual caſo ne men Galieno medeſimo ardirebbe
a trar ſan . guc agli infermi , per qualunque gran male cglino aver ſero , Ma
ſe'lſangue è malvagio , o cgli è per ſe ſteſſo tale , o pur altronde la reezza
gli vien comunicata. Se altronde gli vien comunicata , non che giovi mai il
falaſſo , anzi egli è ſommamente nocevole ; imperciocchè , non che per lo trar
del ſangue ſi ſcemi mai il mále,anzi ne monterà egli maggiormente , c più fiero
, e rigoglioſo diverranne , ufcé do inſieme col ſangue quelle nobilisſime
ſoſtanze , che di cemmo : le quali poſſono , e nel ſangue , e in quella parte,
ond’al ſangue diſcorre il male, rintuzzarne l'impero :e ſcio gliendo , e
aminendandocacciar via dal corpo per cieche , o per ſenſibili ſtrade quel
caccivo ſugo, onde cotanto attri ſtivali il ſangue . Echi voleſse ammendare il
ſangue coil cavarne dalle vene , farebbe come colui che con trarre ac, qua *
DelSig.Lionardo di Capoa. 349 qua da un lago , in cuicontinuo acqua ſalmaſtra,
o dall'int. teriora della terra ,o altronde trapeli, voleſſe quelle addol cire
. Ma ſe'l ſangue per ſe ſteſſo è cattivo , con trarne parte , non mé cal
rimane, qualſe vin ravvolto, o aguzzo emend.:re ſperaſſe mai ſcimunito
contadino, con trarne dalla botte al quáti maſtelli ; ſenzachè l'infermo ,
perdendo anchequel le menzionate fpiritualı ſoſtanze , le quali ſole poſſono i
difetti del ſangue ainmcndare , il nuovo ſangue , cheper quelle s'ingenera ,
e'l chilo diverranno mai ſempre pig giori . E quinci apertamente avviſar
puofli, che ne merz faccia luogo il ſegnare , quando il ſangue nella perſona ab
bondevole inſieme , e viziofo ritrovali . Ma per farci più addentro nella
preſente quiſtione : l'al terazione , o'l cambiamento del ſangue , o egli è in
tut to effo , o pure in qualche una , o più delle ſue parti, ość. fibili , o
inſenſibili ch'elle ſiano ſi trova ; oveche ſi covi il difetto ,certaméte
inutile affatto, e dáncvole ſarebbe il crar lo ; concioffiecoſachè il l'angue
in guiſa meſcolato per lo continuo movimento della tormentazione , e confuſo ne
vali ſi ritrova , , che non men della parte vizioſa di quello, la buona ancora
col ſalaſſo fuori ne ſcorga; perchè queſta, debile , e infiebolita rimaſa ,
meno certamente potrà rin tuzzare , e ammendare l'avanzo della cattiva . Ma
potrebbe per avventura alcun dire , incontrar tal volta ne'malati, che il
ſangue loro ſia tutto buono: ma che ſol qualche ſoſtanza di qualità cattiva , o
dentro a’ vaſi in generata, o altronde in quelli venuta,come vermini, e altre
fomiglianti ſtrane coſe, chenel ſangue talora anche d'huo mini ſani ſi ſcorgono
, renda quello vizioſo; e allora col fa laſlo ſi poſſon molto bene quelle
vuotare ; ne per altra ra gione alcune malattie ſcemanſi talora , o affatto li
ſpegno no per uſcimento di ſangue dalle nari, o da altra parte del la perſona .
Io certamente , ſe ciò foſſe vero , a sì fatto argomento non ſaprei lo che
riſpondermi : e non che a ſegnare diſtor nerei i noſtri medici , anzi a ciò
ſommamente confortar gli deurei 350 Ragionamento Quinto devrei ; ma in verità
altrimenti va la biſogna; perciocchè, o che nel ságue la vizioſa foſtáza
s'ingeneri , o che altróde a quello avvegna,no guaridopo il ſuomagagnaméto tra
plo moviméto in giro del ſangue ,e per quel della formentazio ne , convien ,
che quella sì, eralmente ſi meſcoli, e li ri volga inſieme con quello , che è
buono , che ſe di tutti , e due non ſi ſgoccino interamente i vaſi , certamente
non ſe ne potrà egli giammai tutto il malvagio ſpiccare. Anzico me in
tutt'altri vuotamenti avviene , anche in quelli, chej per più larga bocca ſi
fanno , certana coſa è , che allora il fangue piùpuro, e più ſottile più
agevolmente ne ſpiccia fuora, rimanendo ſempre quaſi inorchia in fondo ilmalv.2
gio ; ſenzachè può talvolta ne pori de'vaſi sì facramente fare inframeſfa la
cattiva ſoſtanza , che per trarne tutto il ſangue ne mencertamente quindi
ſpiccar ſi potrebbe . Ma ſerbiſi pure ella ſolamente nel ſangue , e per lo
cotinuo ri volgimento di quello ella ancora ſimuova : certamente il caſo ſolo
operar potrebbe, che in paſſando per lo ſpiraglio della vena , trattadalla foga
del ſangue ancor ella per la medeſima ſtrada fuora ne ſgorgaſſe . Ma certamente
il co trario tutto di avvenir veggiamo , maſſimamente nel velen della vipera:
il qual penetrato una volta entro il ſangue,no ſi può quindi per ſalaſſi
ritrarre giammai , ſe non ſe quando di preſente ſi taglia l'offeſa parte ;
perciocchè allora non penetrato ancor molto addentro il veleno , inſieme col
fan gue fe n'elce fuora . Ne dee ſempre il medico avveduto prender guardia d'
imitar co' ſuoi argomenti in ogni coſa la natura ; concioſ fiecorachè non può
egli ſapere comc , quando , e perchè quella opcri. Avvien talora , che
s’alleggj, o affatto ſpe gnaſi qualche malattia dopo uſcimento di
ſangue;percioc chè nel tempo medeſimo incontra per avventura, che la ca gion
vera del male, la qual nó avea coſa che fare col sāgue, come altrove è detto ,
ſi è tolta via . Talora la cagion del malce nel ſangue : ma dalle partiſalde
nel tépo medefimo dell'ufciméto , o poco avanti, e prima,che mclcolată fi fof ſe
con tutto il ſangue, a quello mandata ; e talora, perchè nel 4 1 1 3 1
DelSig.Lionardo di Capou. 351 Ael medeſimo tempo ella del ſangue ſi è partita :
e giunta... alle boccucce de'vali colla ſua mordacità le ſtimola,leapre , e
inſieme col fangue n'eſce fuora . Or fe poteſſe il medico mai per ſenno avviſar
sì fatte coſe; forfe ſarebbegli permel ſo talvolta il ſegnare; ma perciocchè
egli èmalagevole al fai, anzi impoßībile a comprenderle , impoſſibile altresì
ſi rendea lui la pericoloſa impreſa di poter col ſalaſſo vin cer le malattie .
Perchè quando egli follemente s'arriſchia ad adoperarlo , ſi pone inmano della
fortuna:e'l nocimen to , e'l danno è ſicuro , e'l giovamento molto incerto ,
che ne poffa all'infermo ſeguire ; e maggiormente che rariſſi me fiate ciò che
lo hodetto incontrar fi vede.Perchè ſcioc chi ſon da ripurar ſenza fallo
coloro, che da quelle pochiſ. fiine volte , che felicemente per opera della
natura ciò av. vcnire ſcorgono gvoglion , che parimente dall'arte ſempre mai
ſeguir debbawo Mafe nel fangue farà per avventura in parte ſcema to il
movimento in giro , o quel della formentazione , allora ccrcamente, non che
rieſca giovevole , ma dannoſo olcremodo ſi ſperimenta il Talaſſo ; imperciocchè
per quello fcemandoli quelle parti, onde al ſangue cagionanſi eſimo vimenti ,
diverranno eglino ſenza fallo minori;ma le i movimenti faran creſciuti ,
comechè fembri , che per ſegnare debban ceflare , fcemandoſiquelle ſoſtanze nel
la perſona , onde effi' movimenti procedono : non però di meno rimanendo in
piede la cagione non naturale , per cui il' moviméto in giro, e quel della
formentazione nelſangue accreſciuto ſi era , nonſolamentevano ſarà il falaſſo ,
ma altresì ſommamente nocevole; perciocchè con quello fi vé gono a tor via dal
fangue le ſoſtanze ſpirituali , le quali ſo le poſlon vincere, e ſgombrare la
cagione non naturale,per cui que’movimenti oltre al dovere , sformatamente
accre fciuti ſi erano ; ſenzachè in que'movimenti sì factamente avanzati , ſi
fà grandiſſima perdita di Sangue : e poco , o nulla fi dee cibar l'infermo;
perchèfe vorreio a quello col ſalaſſo ancora torre il ſangue, egli correrà
certamente grá diſſimo pericolo della vita. Ma 352 Ragionamento Quinto Ma ſe'l
ſangue li ferma in qualche parte falda del corpo, come veggiamonelle infiammagioni
avvenire , allora non è da ſcemare il ſangue co'ſalaſli : ma sì ſi dee prender
guar dia , che ſi toglian via le cagioni, onde quello a fermarſi quivi fu
coſtretto se ciò non ſolamente , perchè il ſangue allor dalla febbre , che
s'accompagna coll'infiammagione, grandemente ſcemaſi , e perchè poco, o nulla
ſidee l'infer mo cibare : ma ancora , perchè quantunque ſe ne traggu
daʼvafi,quel,che rimane,ſi fermerà pure Oſtinato quivi,e tā to più ,quáto ſarà
facto men vigoroſo il ſangue a più oltre pasſare;come veggiamo ne'mali della
gola , e della pleureli avvenire ; ę fcorto manifeſtamente ſi è allor che ſpina
, o al tra fomigliante coſa ſi ficca nella carne , che con quantun que ſangue
trarre , non ſi può far sì, che non vi accorra in fiammagione : evi ſi ripara
ſolamente con trarne la ſpinews ſenzachè col ſalaſſo dipartédoſi dal corpo ciò
che ſcioglier puote il ſangue rattenuto nella parte offefa , ne viene av
montaremaggiormente il male . Neha luogo niuno certa mente quì , o la
derivazione , o la rivulſione , che chia mano i medici , percui eglino tutto dì
ſono a zuffc , eacă teſe in volendo riconciliare alcuni luoghi d'Ippocrate , e
di Galieno : i quali variamente ne favellano; imperciocchè movendo di continuo
il ſangue in giro, da qualunque par te egli ſi tragga , ſempre ne liegue il
medeſiino : c niente ri lieva quantunque l'arterie ſi ſegnaſſero; imperciocchè
vuo. tandoſi l'una parte del ſangue da'vaſi colla lanciuola, inco tanente nuovo
ſangue dall'altra vi diſcorre : ficome in fiue micello avviene, le cuiacque per
varj ravvolgimenti ricor rando a guiſa diconfuſo labirinto s'incontrano : E
mentr’ei vien ,se , che ritorna , affronta , E comechè i moderni per no li
dipartire in medicando da gli uſi comuni, ſi ſtudjno, e s'affarichino dicoglier
pruove ; no però di meno apertaméte ſi vede cheindarno li beccano i geti; per
maniera,che un di loro ebbe manifeftaméte a co feffare, che in ciò deſli ſtare
alla ſola ſperienza; comcchè al cuni più ſaggi,e avveduti affermino le ſperiēze
tutte recate dagli Del Sig. LionardodiCapoa 353 dagli antichi a queſto
propofito eſſer fallaci, e vane.Perchè ragionevolmére temevano i più famoſi
Galienifti, che fiori vano a que'tempi che da prima ſparſeſi la circolazion del
ſangue ,no ſe n'aveſse a travolger tutto, e andar a foqqua dro l'uſo del
medicare comunemente ricevuto ; e queſta fi fu una delle cagioni, perchè un sì
lodevol ritrovato tanto lor rincreſceſse .; el principal.degli argomenti, che
contro a ciò giammai fi ftudiaffero di fare il Riolano , il Primero fio , il Pariſano
,e altri ſi fu, che come narra l'Arveo: ftão se circuitu phlebotomia
nonrevelli; quit ſanguisnibilominus parti affetteimpellatur . Ma comechènó
ſapeſſe l'avvedu tisſimoGio:Battiſta Elmonte dell'aggirainento del ſangue, pure
ebbe egli tanto d'intendimento ,chegiunſea conoſcer ja vanità della revulſionc
,, .e della dirivizionc ,allor che iit facendo paroic della punta c'diſle: Quam
circumfpečte ſunt Scholæ in fermocinalibus , &artificialibus : que in
natura nil nifi ludicra ſunt! Quoniam etiamfi vena cubiti ufque in cavam totum
depleat cruorem : do hecconſequutive èvena azygos cruorem extrahat ; fcire
tamen deberent ſcholæftatim poft, totumiterum cruorem æqualiter in venas
reftitui : adeò licet.vena cubiti tatapoffetevacuari ( quodnunquam ) tamé mox
iterum totus cruor equareturper totum venarum cótex tum . Vnde manifeſtum fit
vanas efle revulfionis , deri vationis nanias : quippe quibus conceſſis adhuc
non nifi pro paucula mora inſervirent intenţiopi , Perchè ad alcuna delle dette
ragioni, per tacer della ſperienza , riguardando per avventura quegli
antichiſſimi medici della Grecia , i quali prima d'Ippocrate fiorirono , ma in
quel tempo , che'l ſegnare era già nella Grecia in trodotto , furono così
ritroſi , e guardinghi in crar ſangue: ne mai oſarono ſegnar nelle febbri,
anche ardentiflime.Ne Ippocrate medeſimo, come ſi vede nc’libride'luoghi dell'
huomo , e in altre ſue opere , fegnò giammai nelle febbri , ſe non folamente in
quelle , che da grande infiammagione dentro cagionanſi; e in alcuni mali vuole egli
di ſtrettamen te , che da ſegnar ſia con tal convegna , che non vi ſia feb bre
; e avviſa egli oltre a ciò una fiata , che dopo lungo uſci Y y nicht 354
Ragionamento Quinto 1 1 1 1 1 mento di ſangue dalla matrice d'una donna , le
ſopraven ne la febbre : coſa ,la qual veggiamoanchenoi più d'una volta avvenire
. Ne è punto vero ciò che dice Galicno , che Ippocrate porti opinione , che in
tutte acute , egrandi malattie ſia datrar ſangue;concioſliece ſachè in quel
luogo per noigià recato , in cui ſi conrende da Galieno', che ciò egli affermi
, egli nel vero non di tutti mali acuti vuol che s'intenda , ma di
que'ſolamente , de'quali egli quivi ragio na , sì veramente , che ſien grandi;
e imperò vípoſe la par ticella deg che i Latini dicono fed , o pure verùm , e
noi diciamo ma: della qual particella Galieno in ſu quel luogo non fa menzione
alcuna , e artaramente la tace per poter quello recare a ſuo concio ; perchè i
ſeguaci d'Ippocrate forte ne'l tacciano, dicendo , ch'egli falſato aveſſe il
teſto d'Ippocrate . Ne è da tacere quanto Galien ſi maravigli , perchè una cal
ſentenza non ſia ſtata poſta da Ippocrate negli aforiſmi; e perchè egli altresì
non abbia detto , che ne'mali grandi anche non acutiſi debba trar fangue. Ma ne
men da’Galieniſti medeſimi viene ricevuto e ap provato il lor macſtro Galieno
in quel ſuo famoſo decco : che in tutte febbri ottima coſa ſia a trar ſangue ,
non fola mente in quelle , ch'egli chiama finoche , ma in quelle an. cora,che
da putrefcenza d'umori fon cagionate . E nel ve o eglino in ciò gran ſenno
fanno a laſciar da parte la reve renda autorità del lor maeſtro , e ſtar
guardinghi , e ritroſi di cavar ſangue in tutte ſorte di febbri; anzi licome
eglino nella quartana , e nella terzana ſemplice di ſegnar ſi guar dano ,così
nelle altre ancora ſe sbandeggiaſſero affatto i ſa laſli , o quanto
miglioriſarebbon da eſler giudicati, e più aſſennati aſſai del lor medeſimo
maeſtro ; concioliecolachè nelle febbri maſſimamente acute , e più in quelle ,
che ſino che chiama Galieno, per la ſtrabocchevole formentazione, e per lo
troppo riſcaldamento del langue, cotato egli liſce ma, e s'affraliſce , e
s'infieboliſce la perſona, che pericolo ſo alfai, e nocevole riuſcirebbegli
ilfalaſſo ;ſenzachè dal la ſcarſezza del cibo ancora , e per lo poco ſmaltimento
di quello s’aſſottigliano sì fattitebbricoli, e quali a buccia eſtreina
dimagrano. Ma . Del Sig.Lionardo di Capoa. 355 Ma avvegnapure , che con ſegnare
rinfreſcaſſeli veram mente il fangue, ilche in cotalifebbri non ſi ſcorge, ſe
non fe di rado , eperpochiſſimo ſpazio di tempo avvenire, ri furgendo teſteſo
vie più che mai impetuoſo, e fervente il calore ; non però,dimeno aſſai
ſciocchezza certamente fa rebbe a volerper poco rinfreſcamento pericolar
graveme te la perſona , e manifeſtamente porla a riſchio dimorte ;
perciocchèſovepti volteincontra , che dopo il falaſſo vol gendofi a maligna la
febbre., più coſto n'uccida. E fe pur vogliam rinfreſcare il ſoverchio calor
ne'malati: che non cercar di ſcemarlo con argomenci acconcj, ſenza metterci al
pericoloſo partico de ſalaſſis che non cercar rimedj da to glier la cagione
,onde nel ſangue colla formentazione il ca lore ſtrabocchevolmente ècreſciuto ,
laſciando in lui quel la vital ſoſtanza, che ſola puòl'infermo ne' ſuoi mali
aju tare ? Ma ſopratutto certamente vorrei Io domādare ad Ippo. crate , e
Galieno , perchè eglino diſideravan , che ſi traef fe ſangue fin’allo
sfinimento dello infermo nelle febbri ca gionate da grandi infiammagioni
dentro, maſſimamente.ne' mali della gola , e della punta? perciocchè in quelli
, fico me il inedeſimo Galieno inſegna , ogni ſperanza di riſto ramento
nelvigor.dello infermo allagaſi; ilqual ceſſando molti ſe ne veggion
miſeramente morire , eziandio nel di .chino del male , non avendo in lor virtù,
perla fiebolezza , da poter il puzzo già cotto , e digeſtito ſpurgare. Ma ſe
Galieno non vuole,che ſi tragga ſangue a'fanciul li prima del quatroidecimo
anno per qualunque graviſſimo male elli abbiano , non per altro certamente , ſe
non ſe per la grandiſſima inſenſibil vacuazione , che continuo coloro fanno :
perchè farà eglida trar ſangue nelle febbri , malli anamente sipoche, e in
quelle dell'interne infiamagioni,per cui l'inſenſibil vacuazione , che fasſi
negli infermi è ſenzaw paragone affai maggior di quella de'fanciulli ? Ma per
avventura egli non fu Galieno così amico di ſe gnare., comeſi fanno a credere i
ſuoi Galieriſti ; e forſe più per oggia , e diſpecto , ch'egli aveva nella
nimica ſerta di Y y a d'Era 356 RagionamentoQuinto 1 Eraliftrato , cotanto egli
commendò i ſalali, che per ra . gion , che veramente ve'l traeſſe ; perchè con
tante leggi, ' e convegne , e riguardi egli ne riſtrigne l'uſo , che certa
mente delle diecivolte , che i noſtri Galieniſti ſegnano , ſe bé li mir231on ne
ſaran due per avventura ſecondo il vero ſentimento del lor maeſtro Galieno
adoperate ; e rariſſiine volte certamente quelle ſarebbono , che ſegnar ſi
dovreb be ſecondo il lor Galicno ; ma eglino credendo d'adoperar bene nelle
malattie , con porre ayanti un sì gran rincdio,e sì giovevole, qual e' dicono;
non curano di trarre a' mini feltisſimo riſchio i malati, ordinando largamente
i falasſi in ogni malattia ſenza riſpetco alcuno, anche contro i divi lamenti
del lor medeſimo maeſtro . E comechè Galieno , come teſtè diciavano , n'aveſſe
una volta inſegnato , che ottimo ſia a ſegnare in tutte ſorte di febbri,pur
quando poi più minutamente nevuol divifare raccontando ad una ad una al ſuo
Glaucone le maniere di toglier via le febbri , quaſi dimentico del falaſſo no
nefà motto niuno nella cu ra della ſemplice terzana la qual ſecondo lui muove
dapll treſcenza d'umori ; e nella cura della terzana baltarda egli dubitoſo, e
in nube ne favella , tempellando nel ſuo ani mo tra'l ſoſpetto , e la paura di
non offender con sì fatto medicamento gl'infermi. Perchè ragionevolmente il Ro
rario di ciò avveduto, forte proverbiandolo diinunifeſta contraddizione nc'ſuoi
ſentimenti l'accagiona: quum aliud videatur proponere in univerſali methodo ,
ficome e' dicu , quàmin particulari exequatur . Ma non che Galieno die fcendendo
al particolare, a ciò che prima accennato ave va in univerſale, minutamente fi
conformi; anzi cotanto fciocco , ebalordo egli è nelle ſue regole , come già
diviſa to abbiamo , che in preſcrivendole in univerfale , fache ſo vente l'una
all'altra contraſti, e vicendevolmente fi com battano . Così nel libro del modo
di medicar per via di fa lasſi,contro il rapportato duo diviſamento dice : lo
dimos ftrerò in queſto libro , che non che a ciaſcuno convenevol fia il falaſſo
, anziche ne men coloro , ch'abbondan oltre fiodo ia langue , fian da ſegnare ,
ſe prima manifeſtamente non DelSig. Lionardo di Capoa 357 fa non ſappiafi. di
qual natura fia l'abbondanza del lor fan gue : e quale lo ſtato dello infermo,
e gli anni, e'l luogo , e la ſtagione , e la complesſion dell'aria ſia : e
chenti, e quali fegniabbia egli patito' o patiſca nelcorſo della fua ma lattia;
per ciaſcuna delle quali convenienze dice egli di do verne inaniteſtamente
dimoſtrare , che molti ſenza graviſ fimo for dáno ſegnar non ſi poffano . Ecco
le ſue parole : Εγω επιδείξω κατατον εξής λόγον , και μόνον άπαντας και
δεομένες φλεβοτομίας , αλ' εδέ τες πληθωρικές αυτούς , εαν μη πεότερον αυτό το
πλή θG- , οποίον πτην φύσιν εα διορίστι μετα τούτα την έξιν του κάμνονlG
Xoxíarte , xai megy, noi xwegen wij , satíscos , @osc te thonyera , sche όσα
περεστ τω κάμνονασυμπώμας καθ' έκασον γαρ τούτωνεπιδείξω πολ . λους μη φέρον ως
αβλαβώς την φλεβοτομίαν . Ωltre acio avendo Galieno nel libro cótro di
Eraſiftrato , e altrove inſegnato , che del ſoverchio ſangue trar G debba
copioſamente infino allo sfinimento ; nel quarto libro poi del inetodo eglicer
tamcnre in miglior ſenno rinvenuto affermanon cffer il ſo verchio ſangue
indizio del ſalaffo ; perciocchè ſe huom ſa no sformatamente in ſangue abbonda
, non è egli si toſto da ſegrare : ma sì fi dee con purgagioni, e con
menomargli il cibo , c con iftropicciamenti e, altri rimedj ajirtare. Co sì
anche egli inſegna nell'undecimo del ſuo metodo , che nella febbre ſinoca no
debba il medico troppa copia di sã gre allo infermo trarre : acciocchè il
debito alimento alles parti rimanga , ne fia ſtretto l'infermo per ricoverar le
ſinarrite forze a doverſi troppo ghiottamente nutricare ; non però di meno egli
medeſimo altrove dice ſe aver nella febbre finoca fino allo sfinimento ſegnato
. Ma più che in ogn'altronel nono libro del metodo moſtra affai ma nifeftaméte
Galieno quáto egli ondeggiáre, e dubbioſo in torno al ſegnar fia ;
conciosſiecofachè egli quivi dica do verſi trar ſangue di preſente a'malati di
febbre finoca ſenza punto por cura che fia ilfeſto , o'l decimo giorno , o
altro giorno critico : e ciò diſtrettamente egli comanda ſenza ri fpecto alcuno
. Matoſto poi rivolgendoſi,indi a poco ſog. giugne , che ſe peravventura da
altri medici , o dagli asli ſtenti , o dal malato medeſimo ti verrà ciò vietato
, allor tu : debbi - 358 Ragionamento Quinta debbj imporgli beveraggi
d'acquafredda ,e agghiacciata potendoli ciò ſicuramente adempiere ſenza
nocimento al. cuno dello infermo; e ſe ciò pure ſicuramente adoperarnon ſi
puote , allor comanda,che il medico ſi debba ad altri ri. medj rivolgere forſe
più accoci di queſti. Dal quale diviſa méto manifeftaméte s'avviſa quáto poco
fperava Galieno nel falaſſo a dover guarir la febbre ſinocajāzi qnāto egli no
men del ſalaſſo temeva anche dell'acqua fredda: la qual ſe .condo lui ſmaga la
perſona , affieboliſce le membra, e ren de crudi gli umori, e ſveglia tremori ,
e dibattimenti nel corpo , e cagiona nonpocamalagevolezza nel reſpirare . E ſe
con molta ragione egli ebbe nel libro primo del metodo a coinmendare oltremodo
gli antichi medici ; i qualicosì ritroſi, e guardinghi erano in permettere agli
in . fermi vino,o acqua, o altro rinfreſcamento della loro ſete ; che non
altrimenti, che i rigorofi Capitani a’ſoldati comā dino , o i Principia i lor
popoli, cosi eglino in ciò ſtretta mente ubbidir ſi facevano da' loro infermi:
certamente Galieno , ſc avelle creduto eſſer neceſario il falaſſo a cota li
febbri, avrebbe egli il ſuo medico conligliato ,che ripu gnando altri medici, o
gli aſſiſtenti, o l'infermo medeſimo, di quello ſi rimaneſſe ; maſe più a
capital ſenza fallo auuto l'aveſſe, egli ſaldo, e oſtinato nelſuo proponimento
avrebe be pur confortato ilſuo medico a doverlo metter avanti, o pure
d’abbádonardi preſente la cura dello infermo; ficome altrove in ciò che conoſce
neceſſario al ſalvamento de'ma lati, più volte il ſuo medico diſtrettamente
egli ammo niſce Mache direm noi quanto egli generalmente poca ftima faccia de
Calaſſic poco in lor lifidi? maſſimamétein quelli bro , quando contro ad
Eraſiſtrato maggiormente aiz zato , e riſcaldato vuol provar quanto ſia
convenevole , neceſſario a'malari il ſegnare ;allora nel maggior caldo del la
pugna , quali ſchivando la propoſta , che cotanto in pri ma avea preſa per la
punta , li rivolge contro coloro ,i qua li giovani, e mal pratici in medicare,
temerariamente ove non ſi conviene adoperano il Calaſſo ; e sì cutta la colpa
ri yerla 1 Del Sig .Lionardo di Capoa. 359 1 verſa ſopra coloro, i quali
quantunque nel cominciamento del male traggan ſangue', dice nondimeno,cheper
lor dap pocaggine ſpeſſo gravemente pericolano gl'infermi; per chè conchiude
egli diſiderar più toſto , che cotali nuovi uc celloni non s'infrámettano
dibiſogna così pericoloſa ,e più toſto per ſalvamento demalatiſe ne rimangano .
Mamol to aftuto , e malizioſo ch'egli è , ſe per prender riparo di cotanti mal
capitati infermi per lo ſalaito , n'accagiona la tracotanza , e la befraggine
de'giovani e mal praticime dici : come ciò colpa foſſe dell'età di coforo , e
non più to fto del medeſimo medicamento ; perciocchè egli dice' , e
manifeſtamente confeffa, maggiore aſſai eſſere il numero di que’malati, che per
malamence ſegnarſi ſi morirono , che , di coloro , a'quali tratta non fu mai
goccia di ſangue. Eal la per fine egli conchiude, che gran danno , e nocimento
agl'infermi apportano que'medici, che giudicano nel co minciamento di tutte
tebbri doverſi crar ſangue. Ma che che ſia dell'opinione diGalieno,la continua
ſpe rienza di ciò baſtantemente ammaeſtrar ne puote : e ſe li beri d'ogni neo
di paſſione negli uſcimenti delle malattie riguardiamo, ben coinprender
pofliamo quelle per ſalaſli non eſſer mai ſcemare, le per avventura giunte non
ſienoa' termini loro facali se da ſe ſono ſenza argomento alcunori ſtate ; ma
non così negli altri rimedi, i qualivantar poſſo no di riparar veramente alle
malattie , e cacciarle fuora dalla perſona per lor virtù , e giovamento ;
ficome nelle terzana , e nella quartana avviſar puoſli: le quali non cede do
a’ſalalli ; o alle purgagioni, pur dalla ſcorza del Perù só vinte , e
fignoreggiate ; perciocchè quella ſolamente è ri medio acconcio loro ,e non già
il falaſſo, o la purgagione,le quali coſe più coſto offédono ,che giovano in
corali malat tie.Nein ciò voglio lo diftédermi al preſente,co farne lun ghe
pruove: ſolamente rapporterò l'avvenimento del Sere niſlimo Cardinal Infante;al
quale comechè per li tanti ſa laffi non foſſe rimaſta gocciola difangue nella
perſona,pur. dura , e oſtinata la ſua febbre non ceſsò mai , ne rifinò, fin chè
cacciollo diqueſta mortal vita . Anno 1641 Noven bris 300 Ragionamento Quinto
bris diſſectum fuit curpus Principis FerdinandiHiſpaniarum Regis fratrisCard .
Toletani, qui 89.diebus tertiana febri agitatus obiit ætatis 32.annorum .
Etenim fublatis cordes bepate, cu pulmone , adeoque difettis venis ,arteriis,
vix cochlear cruoris in cavuum thoracis confiuxit ; planè nimiru hepar oftendit
exangue: cor verò inſtar crumena flaccidum : biduo enim ante mortem plus
ediffet ,fi ipfi conceffum fuiffet , Fuit enim per venæ feitiones ,
purgationes, hirudineſque ità exhauftus , ut dixi; non definebat tamen tertiana
fuum sypă Servare. Ne muove punto ciò , che ſi porta per Galieno , ſe pur cgliè
vero , di quelmalato difebbre ſinoca, che ſegnato da lui fino allo sfinimento
ſi guarì ; concioffiecoſachè veg. giam noi molti, e molti guarir turto dì da și
facte febbri ſenza verſargoccia di ſangue ; ed'altra parte infiniti anche ſono
coloro ,come teſtimonia il medeſimo Galieno , i qua li fino allo sfinimento
ſegnati G morirono; e coloro ancora, i quali a peſſimo ſtato della lor ſalute
ne giunſero : e coloro , i quali anche per teſtimonianza del medeſimo Galieno
,co loro grandiſſimo riſchio ,dopo ſegnati fino allo sfinimento , affieboliti ,
e raffreddati di tutta lor perſona n'ebbero ſudo ri grandiffimi, e ſoccorrenze,
comechè poi loro ne folie ccffata la febbre. Ne di ciò è punto da maravigliare;
con cioſliceofachè tra per lo perdimento del ſangue,e degli ſpi riti s'agitino
, e ſi perturbino sì fattamente le parti (alde, e diſcorrenti della perſona ,
che per lo ftrabocchevol rime ſcolamento ſe ne viene a fommuovere,e disſipare
la cagione della lor malattia : e sì rimangono liberi , e lani di preſente co
non poca maraviglia de’inedeſimi medicanti. Così veg giamo per ira , o per
timore, o per altra grave , e ſubitana paffione le gotte , e le quartane , e
altre dure , e pertinaci malattie eſſer di preſente riſtate. Quinci
manifeſtamente ſi comprende , ſciocchi oltremo do , e ſcimuniti eſſer coloro ,
i quali per picciol ſalaffo per fuadonſi aggiugnere a ciò , chè Galieno con
largamen te trar ſangue fino allo sfinimento aggiugner fi crede va ; perciocchè
coſtoro per non porſi a riſchio d'ammaz zare Del Sig.Lionardodi Capoa : 361 1
zare i malati nonolano loro con iftrabocchevolmente rea gnargli torre affatto
le forze,e sì porli in bilico della lor vie ta ; ma si mezzanamente ſegnandogli
certamente non po tranno mai muover a rimeſcolamento le parti falde', e di
fcorrenti del corpo , onde taloramaraviglioſamente,come chê con non poco
riſchio della perſona , ſi riftanno le ma. lartie ; perchè da’loro falaffi
altro certamente ſperar non ſi può , che certisſimo danno, e nocimento ſenza
ſperanza di riſtoramento alcuno ne'malati . E fenza fallo gran ſenno fanno
coloro , che ne più , ne meno ſegnano , pereſſer i ſa lasfi ne'malati, o
gravemente dannofi , e di riſchio , o affat to inutili . E a ciò riguardando i
più pratici , e vecchi nel meſtier deilamedicina,ritrofi oltremodo , e
guardinghi ſo 110 nel fegnare : ficome Raſi, e altri valeuti medici nell'ulti-
, ma lor vecchiaja dalle continue pruove addottrinati, nois mai ; ſe non molto
di rado , e con grandisſimo riguardo ſi videro adoperare i ſalasſi. Mainoitri
medici , comechè di ciò pure fien ſufficientemente ſgannati , e ricreduti ,
pure per non metter affatto in miſaſo l'antichisſima coſtuma de ſalasſi , e si
laſciare anche in ciò la medicina del lor mac. ſtro Galicno , così ſcarſamente,
e a biſtento ſegnano , ch'o ve gli antichi medici largaméte traevano il fangue
a libbre , coſtoro ſolamente il traggono a pochisſime once; ritenen do così
ſolamente in nome , e per veduta l'eſler Galieniſti in trar ſangue , quando in
verità non ſono. Ma per ritornare allamedicina d' Eraſiſtrato , egli fem bra,
per quel che nemoftriGalieno , che della materia de medicamenti egli ſi foſse
allai ben conoſciuto ; e viencegli oltrcmodo da Galien celebrato : perciocchè
pellegrinando egli, e non avendo una fiata in acconcio una ſua medicina per lo
ſtomaco , ponetie ſaggiamente in opera alcuni ſughi d'erbe,le quali quivi
abbondanteméte erano;eGalien pari mente di luiracconta , che trovandoſi cgli
medeſimo un giorno infermo in contado, e abbiſognandogli al ſuoma lc il
paſtello d'Androne, ne potendolo quivi avere, in luq go di quello aſſai
felicemente adoperò il ſugo del Rovo ; c ſoggiugne Galieno , chee'non venne
Eraliſirato a ciò fa Z Z 1 1010 362 Ragionamento Quinto re ſoſpinto altrimenti,
o perſuaſo', come millantavano Sea rapione , e Menodoto, dal paſſaggio, o
argomento dal fi mile al fimile , non avendolomiglianza niuna tra'l paſtello
d'Androne, e'l ſugo del Rovo,madalla general contezza , la qual egli avea della
facoltà de'ſemplici ; per la cui' mea deſima ſcorta,ad emulazioned'Eraſiſtrato
ritrovò poiGa lieno parimente quel medicamento , che'l fa tanto ſtraboce
chevolmére pavoneggiare,cioè il ſugo delle noci.Or penſa te voi che ſchiamazzio
avrebbe farto egli, e qual loda avrebbea ſe ', e ad Erafiltrato attribuita
Galieno , ſe qual che menoma delle chimiche medicine aveſſer potuto mai eglino
rinvenire . Ma ne Eraſiſtrato , ne Galieno ſeppero mai' , che nel ſugo del Rovo
, e delle noci viabbia un ſale adatto a ſciogliere molte, e molte di quelle
materie , onde ingenerar fi loglion le poſteme; e che non ſolo i fughi già
detti ſono riſtrignitivi,mavalevoli anche a fare cambiar na tura a quelle
acetoſe ſoſtanze', oude s'ingenerano l'infiam magioni . E quinci ſi ſcorge
apertamente , chevada errata in ciò la medicina razionale antica , la qual ſi
crede , uſana do medicamenti sì fatti nel primo cominciamento dell'in
fiammagioni, porre in opera coſe , che di ripercuotere, o di riſtrignere
ſolamente abbian valore. Maritornando a noſtro propoſito : bé potea anche effer
agevolmente vero ciò che diceano que’gran lumi dell'em pirica medicina ,
Serapione , e Menodoto , che da qualche ſomiglianza no penetrata da Galieno
tra'l Rovo,c'l paſtel lo d'Androne indotto ſtato foſſe Erafiſtrato a ciò fare ;
e in verità tra'l Rovo , e la Galla ,per tacer del vitriolo , onde vien formato
il paſtello d'Androne, potea non che Eraſi ſtrato , ma huom di mezzano intendimento
di leggieri av viſare eſſer non poca lomniglianza . Maquanto sì fatta ſo
miglianza poſſa ingannare , non ſi richiede gran forza di loica a farlo vedere
; e ſe , come pare a Galicno , Eraſiſtra to avea una general contezza
de’medicamenti per quella acquiſtata , certamente egli l'avea per iſperienza ,
o da fe , o da altri fatra , la quale agevolmente può eſſer fallace : 0 pure
per via di ragioni non meno della ſperienza ſoſpettes d'er 1 1 1 Del
Sig.Lionardo diCapoa . 363 d'errori, e d'inganno.; perchè in un punto cosi
principale manchevole , difettoſo , e incerto il fiftemadella razional medicina
d'Eraſſtratoanche ritro.yafi. Ma trapaſſando ad altri : Io non ſaprei dire
s'empirico e ſi foſſe , opur razionale quel famoſo medicante Petronas, il quale
dopo Ippocrate , maprima d'Erafiftrato ebbe ad introdurre un iſtrano , e non
più veduto , o intero modo di medicar le febbri . Solea coprir egli i
febbricoſi di tanti pannilani,che loro ſi yeniffe a creſcere olcremodo il
caldo, e la ſece; matantoſto, che incominciava il febbril caldo as ſcemare, ei
facea loro pienetazze trangugiare di freſc'.ac qua , il ſudore aſpettandone; il
quale ſe non compariva, di nuovo tacealorbere nuovaacqua, e proccurava
ch'eglino vomitaſſero ; riſtata poi la febbre , gli cibava di carne di porco
arroſta , econcedea loro liberamente il vino ; maſe la febbre non ſi partiva ,
facea bere agli ammalati acquad calda, e fale per render lubrico il corpo; e in
queſto tutti igrantrovati della ſua medicina eran ripoſti. Mamipare da non
dover logorare indarno il temponella cenſura d'un sì fatto modo di medicare ; e
comechè in alcune fortidi febbri , e in qualche huomo gagliardo , e ben atante
della perſona non foſſe per avventura fuor di ragione il farlo tuttavia in
tutte ſorti di febbri, in tutte perſone, egli fem bra certamére una ſciocchezza
non punto diverſa da quel la d'alcuni medici de'noftri tempi: i quali non con
altro che .colle purgagioni , e co'ſalali immaginano ciaſcuna gene razion
dimalattic rilanare . E più ragionevole certamente egli ſembra la manicra del
medicare alcune febbri, dagli Albaneſi uſara ; i quali nel cominciamento di
quelle foglion dare all'infermo vin generoſomeſcolato.con iſpezierie, fimile al
vino ippocra tico , e al vin brugiato degli Inghileſi. Ma quino ſi può certaméte
lodare il cófiglio diCornelio Celſo, che nelle febbri lente tratto tratto
fidebbail corpo imbagnar con acqua fredda meſcolata con olio ; che in tal guiſa
egli credette , che ſi verrebbe a riſvegliar il riprezzo, e conſeguentemente
anche il calore, ondeagevolmente ne Z 2 2 po 364 Ragionamento Quinto
potrebbel'ammalato guarire : fæpe igitur, egli ſcrive , et aquafrigida , cui
oleam foc adječium, corpus ejus pertractan-, dumeft ; quoniam interdum fic
evenit , ut horror oriatur, ds . fiat initium quoddam novi motus , exque eo ,
quum magis corpus incaluit ,fequatur etiam remiffio. Ma quantunque alcuna fiata
a ciſo poſſa il fatto nella guiſa da lui deſcritta accadere , ed agli ammalati
alcun pro avvenire ; pur non dimeno ſenza manifeſto riſchio non va la biſogna ;
impe rocchè ſe altrimenti riuſcirà , n'andrà ſenza fallo da male in peggio
l'infermo. E quinci fi ſcorge con quanta ragio ne abbian laſciato i Galieniſti
il pericoloſo modo, col qual guarito aver fi gloriava la febbre finoca Galieno
, confar uſcire il ſangue dalle vene per via del falaſſo , fino allo sfi
nimento dello infermo ; da chefacendoſi gran movimento nel corpo fogliono i
ſudori copioſiſſimi,e l'uſcite del corpo , e'l vomito anche talora , come
avviſa il medeſimo Galicno, avvenire ; per li quali , e per le quali o ſperano
, che debba mancare affatto ,oin parte la febbre . Ma in vano certa mente
eglino poi attendono tal opera da’lor piccioli ſalallı; al che non dovette aver
riguardo Avicenna,la ove diſſe el fer meglio affai accreſcere il numero, che la
quantità de’la laffi ; cioè più cofto in più volte il ſangue , che tutto inſie
metrarlo fuori , Ma per più d'una pruova avviſando il grand'Atenco , fra quante
traverſe , fra quanti viluppi , fra quante incertezze vacillanti s'andaſſer ad
ogn'ora aggirando le varie , e tra effo loro diſcordanti dottrine, che per le
fcuole più cele bri della razional medicina nellaGrecia s'inſegnavano,im preſe
anch'egli una fabbrica di novello fiſtema di medici na ; perchè tutte le forze
del fuo acutiffimo intendimento egli vi poſe in opera ; c tanto in ciò fare
ebbe ſeconda las fortuna, che da molti valent’huomini vennero a gara le ſue
opinioni ricevute , e approvate ; e per tutto quel tempo , che le lettere
fiorirono nella Grecia , e nel Romano impe. rio , celebre fi manterne la ſua
Setta , e in buon nome, las qua le ſpirituale venne chiamata ; imperocchè una
fortiliſ ſin a fpiritual ſoſtanza clla immaginava ; la qual per tutti i 1 corpi
Del Sig.Lionardo di Capoa 365 corpidell'Vniverſo diſcorrendo mai ſempre, e penetrando,
non meno il grande , che'l picciol mondo regger doveſſe ; é dove ella non foſſe
primjeramente offeſa ,non poteaſi, fe condo il ſuo ſentimento , male alcuno
ingenerarſi; il qual diviſaméto ſi parve egli, che’n parte adombrar voleße Vir
gilio in prima dicendo . Principio cælum , duterram ,campofque liquentes,
Lucentemque globum Luna, Titaniaque aſtra Spiritus intusalit :totamque infufa
per artus Mens agitat molem , & magno fecorpore mifcet. E poi Torquato
Taſſo Ele menzogue antiche Di chifiloſofando , e menie , e Spirto Dieda queſta
mondana , ed ampia mole ? Il qualper entr'a lei trapaſa, e ſpira ; Com'a lor
parve , e'l Cielo , e l'ima terra , E laſpera delſollucente, e vaga , E’l globo
de la Luna , e l'auree ſtelle , E de l'aria , e del mare i larghi campi Nutre ,
e miſto al gran corpo in varj modi, Move agitando le diverſemembra ? Ebbe la
ſetta fpirituale oltre ad Ateneo, e a Criſippo fuoi principi , e alMagno , ad
Agatino, ad Erodoto , altri , e al tri valentiffimi huomini, che colle loro
opere univerſalmé te avute a grado ,ſommamente la nobilitarono , e l'illuſtra
rono ; e fra gli altri Archigene:il quale , tra per lo medica che felicemente
mai ſempre fece , e per li tanti doctiſ ſimilibri , ch'e' diede fuora, ne'quali
non laſciò cofa , ne grande , ne piccola, che trattata diligentemente per luino
foſſe nella medicina , non ha che cedere a niuno , ch'abbia o prima , o dopo
lui ſcritto , e medicato infra'Greci ; im pertanto per la ſoverchia
applicazione alla loica , onde a gran ragione talora vien Archigene accagionato
da Galie no : e per valerſieglino della filoſofia degli ſtoici, i manca
mentidella quale altrove da Noi fien conti , difettoſo , e fallace moltoegli
riuſcì il loro fiſtema di medicina razio nale . Oltre re , 366 Ragionamento
Quinto Oltre a queſto e'miſembra , che riprovino eglino me deſimi il loro
ſiſtema ; imperocchè in medicando le malat tie , poco , anzinulla a sì fatto
Spirito badar fogliono ; con che danno a divedere non altro eſſer queſto loro
ſpirito , ſalvo che un gentil trovato per fare parer maraviglioſa al vulgo la
lor medicina. Doveano adunque eglino provar in prima con ſaldiđimi argométi
eſſervi un cotale ſpirito; indi diligentemente inveſtigare , chente ,equal li
fia la ſua nas tura , cioè qual figura qual , grandezza, equal movimento
abbiano le particelle , che'l compongono, e come egli fac cia le ſue operazioni
nelcorpo umano , e come nell'inge nerarſi le malattie egli offeſo vegna ; e in
qual guiſa dar li pofla a'ſuoi diſordinamenti compenſo .. Poco men che
crucciato ſi maraviglia Plinio , in pone do egli mente alle ſtravaganti pur
troppo, e maraviglioſes felicità nelvero d'Aſclepiade ;huomo com'e'dice , quan
to al naſcimento , di condizionemolto vile , e di maſtro di ritorica ch'egli
era in prima , perciocchè aſſai poco gli fruttava , in un tratto medico
divenuto . E sì , e tanto egli adoperò , che nuova ſembianza in breviſſimo
tempo ve ſtir facendo alla medicina , a rimaner ne veonero l'antiche regnanti
ſette ſconvolte tutte , e poco men, che affatto op preſe, e abbattute ; ed egli
folo vincitore,e trionfante de gli altri medici , a guiſa di perpetuo dittatore
nella Città donna,e capo del mondo , ne ordinò a ſuo talento , e ne diſpoſe le
leggi: ſupremo, e aſſoluto arbitro , della vi ta , e della morte diquelpopolo ,
nelle cui mani ſtava la morte , cla vita d'ogn’uno ripoſta . Ma fermamente egli
fi dee credere , che a tanta grandezza perveniſſe Aſclepia de , non tanto
com’alcuno immagina, ch'egli ottimo e pro to parlatore ſi foſſe , quanto che
colſenno, e col valor no punto ordinario viſi portaffe , comechè la fortuna
anch'el la vi concorreſſe con qualche gran fatto ; quale appunto di fu quello ,
che vien narrato dallo ſteſſo Plinio ; ch'eſſendo ſi un giorno egli a caſo
incontrato in un miſerello , che per morto era portato alla ſepoltura ,
facendolo egli a caſa rie tornare , con valevoli argomenti in perfetta ſanità
il rimiſe . Eben 1 DelSig.Lionardo di Capoa. 367 . túrós , E ben palesò egli al
mondo la grandezza del ſuo animo' , e la ſingolar fua prudenza: allor , che
prevedendo la fa tal rovina del gran Re di Ponco Mitridate , generoſamente
diſprezzando la gran ſomma dell'oro da colui per amba fciadori offertagli,
ricusò d'andare alla ſua corte . Malale tezza del ſuo acutifſimo intendimento
appieno benmoſtra no quelle, che delle tante , e tante ſue opereſcarſiſſimes
particelle a noi ſono rimaſe ; nelle quali ſi vede apertainéa te , che non
iſchivando egli mafagevolezza niuna, ne ſi fermardo nella prima buccia delle
coſe , s'ingegnava ſeco do ogni ſua poſſa d'internarſi nc più ripoſti ſecreti
della na Primieramente vuol egli Aſclepiade , che non già per caſo, ma di
neceſſità , e per l'indirizzamento della natura ognicoſa avvegna nell'Vniverſo
: e che fa natura altro ve ramente non ſia , che'l corpo medeſino , o'l ſuo
moto : per la cui perpetua, e iron mai ſtanca opera i corpicciuoli, i qua li
cosìpiccinli ſono, ch'alla menteſola permeſſo viene co prendergli , veloci , e
ratti , e con volante foga fra' effo lo ro incontrandoſi , e con vicendevoli
percoffe , l'un coll'al tro cozzando , e forte battendoſi , fi vengano a
ſminuzza rc , e a dividere in minutilíme, e innumerabili ſchegge ; le quali con
diverſi movimenti andando l'una verſo l'altra , e inſiemeaccoppiandoſi, e
congiugnendoſi , prive d'ogni qualità , col moro , col numero , colla grandezza
, collow figura , e coll'ordine le coſe , e l'apparenze tutte ſenſibili
producano;ne eſſere fuor di ragione,egli poiſoggiugne ,che ſien privi diqualità
i corpicciuoli ; concioſliecoſachè altro dal tutto , altro dalle parti ne
ſegua; l'argento è bianco, ma nera è la ſua radicura ; il corno ènegro , mala
ſua polvere è bianca ; ma dovetre dir egli ancora , che le qualità altro non
fieno , o per me'dire altro non le faccia apparire , che'l concorrimento , la
figura , e’l fito , e la grandezza , e l'or dine , e'l moto di que'corpicelli;
perchè allor che concor rono inſieme piccioliſſimi corpicelli , o ſperali, o
piramida li , e con dilatante moto velociſſimamente ver noi fi lancia no , a
formar ne vengono quel ſentimento , che dicalore ſi chiaina. Di 368
Ragionamento Quinto Dice oltre a ciò Aſclepiade,chenell'accozzarſi inſieme,
appigliandoſi le particelle , o ſchegge ſuddette nel formar le membra degli
animali , vi laſciano molti , e molti ſpazj vuoti, per opera delſolo
intendimento compreſi , varj di grandezza , e di figura ; i qualiſe aperti fi
mantengono al tragitto de ſughi, ſi mantiene l'animale ſano , callo incon tro ,
ſe impediti fono per la dimora de'corpicelli ,a far li vê gono ſecondo la
varietà delle parti , e degli ſpazj, varie, e diverſe le malattie ; ma non però
già tutte malattie, ſecon do Aſclepiade , avvengono per la dimora
de'corpicciuoli, fe non ſe alquante ſolamente , come la freneſia , il lecargo ,
le puinte , e lefebbri grandi ; ma altre poi avvengono per ſoverchio aprimento
: e s'ingenerano per la curbazione de ſughi , e degli ſpiriti, per la quale
ſtrabocchevolmente s’al. largano gliſpazj, come nella fame canina , e nella
fover , chia magrezza ſi vede : 0 nuovi ſpazj a viva forza in non , convenevoli
luoghi ſi aprono , come nell'Idropiſia acca de , Vuole oltre a ciò Aſclepiade,
che non iftiano le cagioni operatrici de’mali ne'liquidi corpi ripofte ; ma nel
vero al tro quelle non eſſerç , ſe non ſe le cagioni antecedenti . Si ride egli
di quel grande ſchiamazzio , che fanno i medici in. torno a'giorni critici ;
portando opinione , che d'ogni tem po , com'egli avea avviſato , poſſano
creſcere , e ſcemare, o ſpegnerſi affatto le malattie . Ma per accénar qualche
coſa intorno all'altre parti del la medicina d'Aſclepiade: egliamo di condurre
iſuoi infer mial deſiderato fine della ſalute, con moleſtargli il men ,
ch'c'potea; avendo ſempre in bocca quelle celebri ſue pa role , che vengon per
Cornelio Cello rapportate: tutè,citò, jucundè ;perchè cra egli nimiciſſimo di
que'medicamenti, che così ſovente , e per lo più fuor di teinpo venivan da al
tri medici adoperaticon incerțillima ſperanza d'avere a re , care qualche
giovamento agl'infermi ; e allo incontro con ſeguirne loro licuriſſimo , e
pronto il danno , ela nojx;per chè chiamar egli folea la medicina degli antichi
, medita zion della morte; e molto ben’ayyisādo l'accortiſſimo huo . 110 , e
DelSig.Lionardo di Capoa. 309 mo , e di sì fatte coſe aſſai intendente , quanto
poco atten der fi poteſſe dal'incertezza della medicina , e dalla fiebo lezza
de'ſemplici , o compoſti medicamenti, che in que' tempi erano in uſo , nel
ſapere ben regolar la vita col ci bo , coll'eſercitar le mébra,e altresì fatte
piacevoli cole , poco men che tutto il sómo del ben medicar ripofc. E nel vero
ciò non fe già egli , come huom crede , da neceſſità alcuno ſtretto ,per no
aver contezza, ne men mezzanamite de’rimedj; anzi egli ſi fu della materia
de’medicamenti co sì ſemplici, come compoſti sì ben conoſciuto , che ſicoine
Galien dice , egregiamente cgli ne ſcriſſe : e molti, e molti medicamenti di
ſuo ingegno egli ritrovò , e poſe primiera mente in uſo , e ne compoſe un
particolarlibro; i qualime dicamenti, non che da altri foffer mai tacciati ,
anzida’ine deſimi ſuoi emuli , e avverſarj commendatioltremodo , e fovente
adoperatifurono ; infra’quali ſi ammira per Galic no quel celebre impiaſtro per
le piaghe, che non ſi dee ri muovere, ſe non ſe dopo tre giornizonde fi
pare,che Aſcle piade apriſſe la ſtrada alnuovo modo in queſto ſecolo in
trodotto di medicar le ferite . Oltre a ciò abborrì egli ſoprammodo le
purgagioni; ma fivalſe de criſtei . Danrò ancora, come racconta Plutarco,
ivomiti, che troppo frequentemente allora erano in ufo, e che a' tempi noſtri
ancora fi uſano da alcuni i quali per dir la colle parole di Cornelio Celſo :
quotidiè ejiciendo, vo randi facultatem moliuntur: ma non già egli il tolſe
affatto dalla medicina,anzivuol'egli, che nelle terzane ſi proccu ri il vomito
; del quale , com'c'medeſimo narrazli ſervìnel curar quella nobile femmina di
Samotracia . Ne ſi dee qui tacere , che ſi pare,ch'Aſclepiade vicino ftato
foſſe ad aver contezza dell'elatere dell'aria , come ravviſar ſi puote dal le
ſeguenti parole di Plutarco , avvegnachè coſtuimoſtrino aver ogni particolarità
compreſa de ſentimétid'Aſclepiade: υπομιμνήσκα δε αυπ επι της κλεψύδρας
Ασκληπιάδης και τον με πνεύμα να χώνης δίκην συνίσησεν , αιτίαν δε της αναπνοής
την εν τω θώρακι λεία μέρειαν υπο τίθεται • πεος ήν τον έξωθεν αερα ράν , τε
και φέρεσθαι παχυμε . ρη άνε πάλιν δε αποθεϊσθαι ,μηκέπτε θώρακG- οί'ε πόντος
μήτ' έπεισ A23 370 Ragionamento Quinto 1 re δέχεσθαι , μήθ' υπρεϊν •
υπολειπομένα δέ τιν G- εν τω θώρακι λελομερές dei begyiQ ( šgaię o nav
ixreiveron ) neos Tšto nánar có trw umojéves βαρύτης του εκτός αντεπεισφέρεται
αυτοι δε ταϊς σκύις ασικάζα: την δε και προαίρεσιν αναπνοήν γίνεσθαί φησι
συναγομένων των εν τω πνεύ μονι λελοτάτων πόρων,και των βρογχίων πνεμένων » τη
γας ημετέρα G. &υπακούει πιοαιρέσει . · Machi potrebbe mainarrar tutt'altri
diviſamenti, e opi nioni, le quali fallo Iddio , come riferite vengono ; e per
la più parte da chi punto non l'intendea ; e talor anche da al cuni per vggia ,
e mal talento a ſtudio guaſte , e travolte . Il che oltremodo malagevole rende
la cenſura del ſiſtema della ſua medicina ; pur lo brievemente ne dirò in
qualche coſa il mio ſentimento . E primjeramente parmi, ch'aveſſe errato aſſai
ſconcia mente Aſclepiade nella notomia; portando egli opinione con Ariſtotele ,
ed Eraſiſtrato , che le reni non abbiano al cuna operazione: echeciò , che ſi
bee , ſciolto in vapori ſe'n vada nella veſcica,dove poſcia li ftipi in orina ;
delche meritevolmente vien egli ripigliato da Galieno ; comechè a gran torto
dal medeſimo venga poi biaſimato , perchè c' non fi vaglia della facoltà
ſeparatrice, che vuol dire in buo ſenſo , perchè egli non ſi metta a filoſofare
con ciance, e anfanie . Ma fuor d'ogni ragione,e a corto non meno sfac
ciatamente fi accagiona per Galieno Aſclepiade , dicendo, che contro l'evidenza
de'ſenſi egli aveſſe negato, che quel le coſe ,le qualiognun vede , che vanno
verſo quelle,dalle quali ſi crcde eſſer elleno tratte ,veramente vi vadano;che
certamente non potea egli sì milenſo , e ſciocco eſſere un tanto huomo , Negò
ben'egli la facoltà attrattiva , e co'buoni filoſofan ti ſtimò eſſere per lo
lume della ragione manifeftiffimo,che ne ſomiglianza mai , ne facoltà , ne
altra coſa del mondo potrebbe far sì, che un corpo moveſſe altro corpo ſenza
toccarlo , o per ſe ſteſſo , o per altro corpo da ſe parimente tocco , e moſſo
; poichè a trarre a ſe un corpo lontano fa certamente meſtiere uncino , o fune
, o altro ſomigliante appiccatojo, che'l prenda. Ma * I 1 DelSig.Lionardo di
Capoa. 371 Ma non poſſo lo laſciar di forte non ridire , quantunque volte
rammento quella ragione , colla quale Galieno con tro Aſclepiade ,ed
Eraſiſtrato , e altri buoni filoſofantiſen za vederne altro ,fermanente
credette , ſe averela virtù at trattiva già faldamente provata ; dic'egli,che
per induſtria d'alcuniladroncelli, i quali poneano vaſi di creta pieni d' acqua
nelle carrette del grano, quello ne creſceva manife ftaméte dipeſo ;coſa la
quale avvenir nó potea,fecondochè cgli ſtima , ſe'l grano non aveſſe la virtù
attrattiva; concio foſſecoſa che eſſendo egli diſcorſo per tutte fette di medi
cina rinvenir non aveſſe mai potuto ragione alcuna , che in ciò punto
l'appagaſſe . Quinci ſi pare ,che meritevolinen te il Veſſalio avendo anch'egli
avvifata un'altra cotal ra gione a queſta poco, o nulla diſſimile , prorompeſſe
in sì fatte parole motteggiã do i libri della dimoſtrazione di Ga licno
:profeito ſiGaleni libri de demöftratione , cjufmodi crebris Scatent
demonſtrationibus,que ipfi & fimodo aufim proloqui) non infrequens , ac
poriſfimum in quamplurimumGalenusex celluit anatome ſunt , non eſt ut eos
libros tantopere expecte mus . Ma laſciando ad altri più di noi ozioſi ſopra
ciò fa vellare, certamente venner conoſciute molte , e molte coſe di notomia
per Aſclepiade , che avrebbono fenza fallo po tuto render chiaro , e
ragguardevole oltremodo il ſuo ſite ma : comechè paruto fo fe , ch'egli aveſſe
portata opinio ne , che'l nutrimento alle parti non diſcorreſſe per quel cá
mino , che co'nunemente per ciaſcun ſi credea ; impertanto immaginò egli , di
ſottiliſſimo vapore in guiſa portarſi per tutte parti dei corpo il cibo crudo ;
ma non diſse perchè, e comeſi ſmaltiſca nello ſtomaco per renderſi valevole a
pe netrare in quegli anguſtiſſimi ſpazj da lui immaginati. Ad imitazione
poid'Aſclepiadevolle l'Ofmanno, che in forma di vapore il chilo dalle vene , e
dalle arterie miſeraiche tratto veniſse . Ma prima d’Aſclepiade pare che
Eraclito , Ariſtotele, ed Eralitrato aveſser detto , che in guiſa della
ruggiada il chilo , e l'alimento per lo corpo ſi ſpargeſse. Ma laſciando di
favcllar di queſte coſe , nelle quali, non ſolo Aſclepiade, ma tutt'altri Greci
andarono errati; egli Aaa 2 è ben 372 Ragionamento Quinto èben 1 cerco , che
dovea minutamente Aſclepiade per dar l'ultimo compimento alla ſua dotcrina più
avanti diſami nando riconoſcere , chenti , equali, e dove veramente fof ſero
nelle membradeglianimali gli ſpazi, e la grandezza, e la figurą , e'l fito , e
l'ordine , e'lmovimento di quei cor picelli, i quali o affatto , o in parte
turandogli , o più del convenevole dilatandogli , o altri nuovi ſpazj formando
ſien poi cagione, ſecondochè egli vuole d'ingenerare i mali negli huomini ;
perchè fa meſtieri aver piena contezza di tutti corpicelli, onde le parti
diſcorrenti, e falde vengan compoſte ; e ciò non ſappiendoſi,malagevolmente
potralli, come a razional medico fi convienc , alcun ſicuro , e certo rimedio
per ragion ritrovare . Dove poicgli dice farſi la freneſia , il letargo , la
punta, ele febbri da'corpicelli , chenegli ſpazj inframelli dimora no , perchè
egli non ſoggiugne ( o forſe no'l ſappiam noi s'egli il Gfacefle ) quale quegli
abbian grandezza, e figu ra e, come ſeano compoſti, e accozzati infra loro
que'pic cioli buchi ? e avvegna pure ,ch'egli accennalle avvenir la contina dal
rattenimento de corpicelligrandi, la terzanz de'piccioli , e la quartana
de’menomi: non è però queſto ſuo parere ſaldamente raſſodato dalle ragioni,
ch'egli rap porta ; anzi pajon'elle molto leggieri : e ſono queſte , che i
corpicelli grādi più agevolmére gli ſpazj riemoiano ; e più agevolméte gli
ſgõbrino ,e i piccioli meno;ma ſe la biſogna pur così andaſſe.com'e'diviſando
ne ragiona,queſta contez za fola al medico razionale non baſterebbe al ſuo
intendi. mento fornire ; ma di ſaper anche il movimento , la figura, el ſito di
quelli farebbe a lui meſtieri , ficome poco 'addie tro noi dicevamo ; e ſe impoſſibile
per avventura una sì fąt ta impreſa pare che ſia da poterſi per intelletto
umano co durre a capo , yana ſenza dubbio ricſce ogni induſtria, ogni argomento
d'Aſclepiade, o di qualunque altro ingegno , che di ſtabilir ſetta veruna di
razional medicina preſuma ), E avvegnachè Aſclepiade , come detto abbiamo aſſai
ben inteſo fi foſſe della materia de'medicamenti, a modo che , comeperGalieno
ſi narra , egli ſolo , e Dioſcoride d'ogni ſorta 1 DelSig. Lionardodi Capor 373
Torta dimedicamenti,cosìdell'erbe,come degli arbori,deld le frutta ,de' ſughi ,
de' liquori , e d'altre , e altre coſc fof ſero pienamente informati :
nientedimeno , ſe le pruover che intorno alla loro natura , e al loro operare
egli nellas ſua opera recò , ancora di leggeſſero , ſi troverebbono, per quel
che ſi è accennato , ſolamente probabili, o forſe po co falde ragioni ;e
meſtier certamente farebbe ad Aſcle piade , alla fola ſperienza , non men che
altro più vile Em. pirico ricorrere . Ma ben ciò conobbe egli , ne'l diffimulò
punto , e confeſsò apertamente , altro la medicina non ef fere , ch'una cotal
ſemplice conghiettura ; onde ebbe a dire Plinio , ch'egli : medicinam ad caufas
reuocando conjectur.i fecit : o come legge Giacopo Dalecampj : conjecturalem
fecit. Nel curar le febbri terzane,e quartane egli ſembra ,che non molco bene (
comechè'l contrario dica Cornelio Cel ſo)faceſſe in laſciando la coſtuma di
Cleofanto antichillimo medico , ilquale alquanto ſpazio avanti al cominciar
della febbre uſava dare aglinfermi il vino , e bagnar loro con acqua calda la
teſta ; ove in inolte altre coſe i coſtui avviſi era uſo di ſeguitare .
Vuolanche Aſclepiade, chenon ſi tragga mai ſangue , fuor ſolamente ne'dolori ;
e ciò perchè facendof queſti da’ grandi corpicelli nelle parti ſalde fermati, c
rattenuti , ſe condo il ſuo ſentimento, gli pare , che ſi poſſan trar fuora
dagli ſpazj per opera del ſalaiſo. Maegli ſenz'altro fallò; sì perchè i
piccioliflimi, e velo ciſſimicorpicelli ,che formano il fuoco , cagionar ſoglio
no il dolore : come anche perchè converrebbe per la me deſima ſua ragione trar
ſangue nella contina ; il che da lui inceſſantemente ſi nicga;ſenzachè,ſe
com'egli immagina , i corpicelli fermati negli ſpazj ſono cagione de'mali,e
queſti tutti nelle parti ſalde conſiſtono : e le liquide , benchè fuor di modo
abbondino ne'vaſi , non ne ſono cagioni vere , e preſenti , ma ſolo
antecedenti: che monterà egli il trar fuo ra mai le parti liquide de’vaſi per
la cura de dolori Mache che ſia di ciò , egli non mi par, che ſi poſſa punto
dubitare, chc 374 RagionamentoQuinto 1 } che profondiffimi fi foſſero i
ſentimenti d'Aſclepiade,e che cgli, il quale tra'greci medicimaggiore, e più
alta contez za ebbe delle cole della natura e ſolo ardì a ſpiar tutto , e a
ſcriver tutto , ciaſcun maeſtro più valoroſo ", e più rino mato in
medicina a molto ſpazio dietro ſi laſcj; perchè fai meſtieri dire , che
grandiflimo danno per la perdita dello ſue opere fia alla medicina, calla
filoſofia ſeguito , Quinci ſi vede , che ſcarſemolto, per non dir altro, ſem bran
le lodi ,colle quali Plinio volle onorare Aſclepiadeo Afclepiadi Prufienfi,
condita nova feéta ,fpretis legatis, doo pollicitationibus Mithridatis Regis
reperta ratione,qua vinü agris medetur,relato è funere homine , ofervato ,ſed
ma xime/ponfione falta cum fortuna , ne medicus crederetur fi unquam invalidus
ullo modofuiſſet ipfe , & victor fuprema in ſenecta lapſu ſcalară
exanimatus eſ. Ma laſciando Aſclepiade,che pur troppo n’abbiam dete to , e
trapaſſando ad altri ſetteggianti medici; qual e ſi foſſe veramente il ſiſtema
della medicina del famofiffimo Antonio Muſa, lo non poſſo ne meno immaginare,
non che diviſare; e fe'l favore , e l'autorità d'Ottavio Ceſare potè farlo
prevalere a tutt'alori di que'tempi: non per tanto fù cgli da tátoge baſtevole
a mantenerne vive le memorie ap po i pofteri. Potrebbe di leggieri eſſere ,
ch'egli per mag giormentepareggiar Temiſone ſuo maeſtro , fifoffe fatto di
qualche nuova forte di metodica medicina inventore . Veggiam di lui ſolamente
alcune forme , o ricette di co pofizion di medicamenti aſſai volgari , e di
molta poca co ſiderazione , dalle quali nulla comprender puoſſi dalla maniera
per lui tenuta nel medicare Ottavio ,tutta travolta da quella di Cimolio ;
perciocchè Ottavio , licome narra Suetonio, quia calida curari non poterat,
frigidis curari coa &tus authore Antonio Muſa. Perchè potrebbe ragionevol
mente dubitare alcuno, non egli empirico foſſe ſtato di ſet ta ; ma per
avventura a ciò fare da qualche apparente ra gione egli fu moſſo . Neciò è
nuovo, che i razionali ſiva gliano di tal regola ; poichè il fece Ippocrate
ancora ; co mechè egli poi moſtri , ch'aveſſe altro in animo, con inſe gna 3
Del Sig.Lionardo di Capoa. 375 gnare una fiata il contrario, la ove diſſe,che
chiunque ope ra con ragione , avvegnachè ſenza profitto , e infelicemen te fi
faccia , dee coſtantemente camminare per la ſteſſa ſtra da : návraisatakóyov
meséori ,xai pen'govojévwv * xara'dégor ,designer swßaives , i inapoy, pérovt
QuTð dóžavo iš devās, il che da cao gione a molti medici di pericolar ſovente i
loro infermi; i quali veggendoapertamente , che a mal fine rieſcon pure le lor
cure, non per tanto ſe ne riniangono, o ad altro divi ſo volgono i loro
intendimenti , con graviffimo dan no de' cattivelli . E mi ricorda in acconcio
di ciò aver letto in un coral autore ', che avendogli ſcritto un ſuo ſcolare ,
che avea egli per più d'una pruova cono ſciuto , che'l ſegnare in alcune febbri
', che allora la Città di Vinegia fieramente malmenavano , conduceva a ficura
morte gl'infermi : impertanto ſe n'era egli rimaſo cô nolto giovamento di
quelli : egli replicogli una gran vit lania , chiainandolo ſciocco empirico,
biaſimando il ſuo fa lutevol diviſo , non altrimenti , che ſe colui aveſſe una
gra ve ſcelleratezza comeſſo; e diſſegli ſpacciatamente, che tor naſſe al
falaſſo di prima , nulla curando, che gl'intermi per ciò fare certamente fe ne
moriſfero ; e in ciò rammentogli la teftè apportata dottrina d'Ippocrate; non
avviſando ,che comechè verilimo ſia il detto d'Ippocrate , nientedimeno è
ragionevolmente da ſoſpettare non ſia manchevole, e fal lace la ragione , allor
che non le riſponde l'uſcimento . E chi ſa poi tra le tante incertezze
dell'arte , qual ſia la vera, e legittima ragione ? ma come ſaggiamente avviſa
Galie no,non è peſo da tutte braccia , ne opera d'huom di poca dottrina il ciò
poter ben avviſare . Egli li fu Antonio Muſa , per quel che s'argomenti dal
ſoprannome impoſtogli, d'ingegno aſſai nobile, ed elegá te ; ne per altro
Euripide nel Palamede chiamò colui col medeſimo ſoprannome: εκτάνετ' εκτάνετε
ταν πάνσοφον , μεν ουδέν αλγύνεσαν αηδόνα μούσαν . M2 376 Ragionamento Quinto
Maqual fi foſſe veramente l'eleganzadell'ingegno d'An conio Muſa,
manifeſtamente ſcorger ſi può da quelvaghiſ, fimoEpigrammadi Virgilio .
Cuivenus ante alios Divi, Divumqueforores Cuneta ,nequeindigno Mufa dedere bona
. Caneta quibus gaudetPhabus ,chorus ipſeq; Phabi Doctior o quiste Mufa fuiſse
poteſt? O quis se in terrisloquitur jucundior uno , Clejo nam certè candida non
loquitur . Sivalſe Antonio Muſadella carne delle vipere, enedam va mangiare con
non poco giovamento a coloro che da in fanabili piaghe languivano: i quali
maraviglioſamente con incredibil velocità , ſe'l ver dice Plinio , ne
guariyano. Io yo meco diviſando ,che'lMuſa aveſſe ciò appreſo dal vale tiſſimo
tra'greci mediciCratero, cotāto daCicerone in iſcri védo ad Attico ,celebrato
;dicui narra Porfirio che riſanato aveſſe un miſerello ſchiavo , cui in iſtrana
guiſa dall of Ia la pelle ſpiccavaſı , fol coldargli mangiar vipere prepa rate
a guifa di pefci: Kegπρούτου ικττού οικέτης ξένων περιπεσών νο τήματα , των
σαρκών απόφασιν λαβεσών εκ των οδών, τοίς μου ωφέλι ούδέν , ιχθύω- δε κόπο ίχα
εκευασθένη , και βρωθένπδιεσώθη της σαρκός συγ 2014 nbbons . Ma ſopra ogn'altro
medicainento ſi ſervì Anto nio Muſa de bagnidell'acqua fredda ; e egli, e'l ſuo
fratel do Euforbo medico di Giuba RediMauritania ne introdur fc primiero
l'uſosappo il quale in sì grande ſtima Euforbo crâ, che zvédo egli ritrovata
un'erbamedicinale,volle,che colnome d'Euforbo foſſe chiamata . Mail Muſa folea
ba gnare i ſuoi inferini prima nell'acque calde,voladosper mio avviſo , aprir
loro in prima bene i pori, acciocchè le fredde poimegliovi poteſſero penetrare;
quindi entroall' acque fredde gli laſciava agghiacciare.Del qual modo di medica
se così narra Orazio nelle ſue piſtole,dimádádo Numonio Valla , ſe in Salerno ,
e in Velia foſſe così fredda l'aria ,che dimorandovi egli poteſſegli giovare
a'ſuoi mali; percioc. chè il ſuo medico Antonio muſa , freddiſſima gliele
richies deva per dover prendervi i bagni freddi . Aua DelSig. LionardodiCapoa
377. ? Quæ fit hyems Velie ,quodCalum Vala Salerni, Quorum hominum regio ,
&qualis via.( nam mihiBajas Mufa fupervacuasAntonius, &tamen illis
Mefacit inviſum : gelida cumperluur unda Per medium frigus; ſanè myrteia
relinqui, Dictaque ceſsantem nervis elidere morbum Sulfura contemni , vicus
gemit , invidus ægris : Quicaput, & ftomachum fupponerefontibusaudent
Clufinis, Gabiosquepetunt, & frigida rura. Ma certamente ebbegran ventura
il Muſa , che dopo l'el ferſi bagnato in sì fatta guiſa Ottavio , guariſi d'una
gra villima inalattia ; comechè dica Plinio , che ciò foſſe avve nuto per opera
delle lattughe,delle quali egli cibavalo co tro il parere di Cimolio ; perchè
fu queſti della caſa di Ot tavio ſcacciato fuora ; indi cominciarono i Romani
ad uſar ſovente nelle lor menſe le lattughe , che per averle anche fuor di
teinpo , riſerbavanle nell'oſſimele. Per la qual cura Antonio Muſa in sì
rilevato ſtato montonne , e in cotanto credito , cheoltre alle ricchezze , agli
onori, e a'privilegi, che per ſe non ſolo , ma per tutti altresì i medici
ottenne, l'adulatore Senato rizzogli una ſtatua di bronzo nel ſegno d'Eſculapio
, come ne da teſtimonianza Suèronio : Medico Antonio Mufa , cujus opera ex
ancipiti morbo convaluerunt , ſtatuam , çre collaro juxta fignum Eſculapii
ftatuerunt . E fe'l mio avviſo non m'inganna , d'oro gliele avrebbe certa mente
rizzata , ſe più coſto Ottavio morto ne foſſe;percioc chè non bene allora
ſtabilita ancora la tirannide , n'avreb be per avventura la libertà egli
ricupcrata ; e veramente ſe la fortuna fecondato aveſſe il diſiderio de'Romani,
non ſa . rebbe riſtato per lui di far co'ſuoi bagni ciò che Bruto , ne Caffio ,
ne Seſto Pompeo , ne Marc'Antonio con tanta oſte per mare , e per terra non
avean potuto adoperare . E bé ſi vide quanto nocevole e' foſſe il modo del
medicare del Muſa , quando da lui in sì fatta guiſa trattato, come narra Dion
Callio , ſe ne morì Marcello ; perchè di preſente e'per denne !, gloria , che
guadagnata s’avea ; non ſi dee imper 1.2 . P ; CXLV2Livi , come o telo 378
Ragionamento Quinto poteva nel Dione dicc, che allora buccinayaſî,che eglicon
que' ſconci rimedj lo faceſſe a bello ſtudio morire ; anzi morilli Mar. cello
in Baja , come teſtimonia Properzio , il quale viſse a que'tempi His preſſus
Stygiasvultum demiſit in undas Errat, in veftro fpiritusille lacu .
Neſembramiveriſimile ciò , che ne va conghietturando quel ſottiliſſimo
inveſtigatore, e d'ogni rara dottrina ſovra no maeſtro Giuſeppe della Scala ,
facendoſi egli a credere, che Properzio cosìvezzatamente la biſogna rivolgeſſe
per ‘iſcagionar Livia , e fargliene ſervigio ; 'perciocchè allor ſu ſpicavaſi,
che in ciò ella certamente aveſſe tenuto mano;vo luit , ſono ſue parole ,
gratificari ei , que de ejus morte ſu Specta fuitLivi& Aguftę. Ein vero non
ha dubbio alcuno, che per machinazione di Livia no meno morir le acque di Baja
Marcello ,che in quelle di Stabia , la dove alriferir di Servio egli moriſli; e
ficome immagina il mede Simo Giuſeppe,la ſua morte avvenne nell'acque acetoſe
di quella fonte , che a tempo di Plinio chiamavali di Medio. Io porto
opinione,che'lMufa bagnaffe più d'una fiata Mar cello nell'acque calde di Baja,
e poi,com'e’avea per coſtu me, nelle fredde il poneſſe , e che alla fine nell'acquecalde
colui abbandonaffe la vita ; ne dal narrainento di Properzio argomentar fi
puote : Marcellum in aquis Bajanis fulz merſum interije : coine va
interpetrando lo Scaligero;im perocchè altro nő,è il ſentiméto di Properzio, fe
no ſe Mar cello effer morto per quell’acque,colle quali,eſsédo egli si
tiſicuzzo , e triſtanzuolo, e col Toverchio lor calore, o rõpe dogli qualche
interno tumore , il ſoffogallero : o di ſover chio creſcendo il moviméto del
ſangue li diffipaſſero le ſot tiliffime particelle, dalle quali depéde.la vita
negli animali, onde repétemente egli mādafle fuori l'anima;coli, la quale
eziādio ad altri è avvenuta; ne veraméte fi puote sõmerge re niuno in
que’bagni, ſe a viva forza altri non ve l’affoghi; onde maggiormente avrebbe
dato cagione alle genti diſu ſpectare non ciò foſſe per opera di Livia avvenuto
; e ca to balti del Muſa aver fin'ora accennato . Ma paſſiam oltre a dir
DelSig.Lionardo di Capoa. 379 a dir di Clinia da Marſiglia . Fu la guiſa del
coſtui medica. re nel vero ſtranamolco ,e ſuperſtizioſa : imperocchè infi
gnevaſi egli di non darmaia malato niuno ,o cibo , o medi cina , fuor ſolamente
, che in certi puntiaſtrologici di fito , o dicongiunzioni della luna , o
d'altri corpi celefti : e bert gli approdarono sì fatte malizie ; poichè montò
in sì buon nome, e fama appo i Romani,che oltremodoricco in brie, ve tempo ne
divenne ;delle quali ricchezze, parte cgli co funionne largamente per cinger di
novelle mura la propia patria , e parte alla medeſima ne fe dono ,
acciocchèpoter Le riſtorar quelle , quando huopo ciò lor foſſe . Ma lo non
prenderò a dar giudicio dietro il fiſterna del la ſua medicina , non avendene
niuna certa , e ſicura con tezza; ma mi darò briga di far paleſe la ſciocchezza
di lui, conoſcendoſi molto bene da chiunque abbià fior d'inten dimento non
eſſer altro la ſtrologia da lui in medicãdo ado perata , ch'un ſottile , e
malizioſo ritrovamento per paſcer divanc ciance , e promeſſe le troppo credule
perſone . Ma forſe , come i Romani ſi ſervirono degliauguri ſecondochè la
neceſſità il richiedea : ne folean giámai darcominciamé to all'impreſe , ne
trar fuora gli cſerciti , ne far giornate , nc alcuna coſa di confiderazione ,
o civile , o militare ado perare , ne mai ſarebbon andati a gucreggiare , ſe
prima non perſuadevano a l'ofte , che gli augurj avean promeſſo loro la
vittoria , affinchè i Coldati maggiormente incorag . giati prédeſſero ſperanza
divincere : dalla quale ſperanza ſpeſſo certamente naſce la vittoria : così
Clinia valevali della ſtrologia, acciocchè gl'infermi deſſero piena fede alle
medicine loro preſcritte ; e forſe ſe ne valſe altresì egli per iſchivare,
quádo più in cõcio gli era di preſcrivere qualche medicina , la quale da lui
non convenevole al male foſſe ftata ſtimata ;ma dalla minuta gente giovevole ,
e neceſſaria giudicata ; valevaſi dico della ſtrologia appunto a quella guiſa,
che coll' artificio degli Auguri i Capitani Romani fi rimanevano dal
coinbattere,quando giudicavano non do ver la battaglia a lieto fine dover per
loro riuſcire. Il ſiſtemadimedicina di Carmide conyenne ſenza fallo , Bbb 2 che
380 Ragionamento Quinto cono . 1 che foſſe non meno fciocco ,che ſtrano, come
quello, che poſti in non cale , e dannati, e vituperati, i diviſamenti di tutti
gli altri medicijalle più rigide ſtagionidell'anno glin fermi, avvegnachè
vecchi nell'acque gelide fommergeva; iinpertanto ritrovò gran ricevitori,come
Plinio ed altri di Ma per venire allamedicina di Galieno , vana per avvé tura ,
eſoverchia giudicherà alcuno la mia fatica in abbu rattarla ; imperciocchè
chiunque avvedutamente v'affiſe rà lo ſguardo , ben toſto ſcorgerà i mancamenti
, e i difetti di quella : i quali non tanto dalla natura medeſima della
medicina , quanto dal ſiniſtro modo del filoſofar di Galie no naſcer fiveggono
;. il quale avvedutiſſimo in fuggire il ranno caldo di ſpiegar diſtintamente le
particolarità della medicina , ch'e'medefimoconfeſſa , e proteſta eſſer tanto a
' medici neceffarie : a bello ſtudio par , che riltando in s l'ali , o dando
lunghe , e inutili aggiratc , a quelle ſpiegar ne giammai ſcender non voglia.
Perchè luo mal grado gli è pur di meſtiere d'abbatterſi,e d'impaſtojarſi
ne'mede fimigruppi, e nodi, ove parimente i Metodici, e gli Empi rici tutti
s'impigliano . Così con le medeſime ſue pruove, con che egli lorcerca
d'abbattere, gli ſi ſcagliano pur con tra i ſuoi nimici;e dicendo , ch'egli
inneſta in ſu'lſecco , or dinando falſamente il ſuo liſtema, e ponendo a ſuo
talento i fondamentialla medicina , niegano conſtantemente gli eleincnti', e
gli minori , e l'altre coſe cutre '; ove egli coil poco ſode , ed
efficacipruove la gran machina della ſua medicina pianta, ed appoggia. Ma lo
ciò al preſente trala fciando , renderommi lecito di brevemente accennare, che
di Galieno la medicina non ifpieghi punto il vero , e fiſio comodo come naſcano
, o naſcer poſſano le quattro fue prime qualità ,ma ſolamente le ponga già nate
; ne men , quella tanto quanto ne diviſa,in qualcoſa il lor eſser conſi ita ;
perchè poi valeyol non è a manifeſtar la maniera del loro operare , ne quant’oltre
la lor forza fi ſtenda , ne pur gli effetti che per lc , o per accidente da lor
fortiſcono . Ma come egli maile natura delle qualità ſpiegar potea, ſe la >
natu Del Sig . Lionardodi Capoa 381 natura della materia , dalla quale quelle
dirivano ed in cui, coine e' medeſimo dice, e naſcono, e muojono, giámai inve
Aigar egli non cura; il che quanto monti , agevolmente da ciò potrà
comprenderli , che traſandato il conoſcimento delle qualità l'economia degli
animali , ne la natura delle malattie , ne le cagioni diquelle , ne i
medicamenti mede fimi non ſi potranno in modo veruno comprendere . Per chè non
ſarà medico, che abbattendoſi in qualità di ſover chio rigoglioſe , o
manchevoli di ciò cheal corpo richieg gafi, poſsa mai,la ragione adoperando alla
debita propor zione ad agguaglianza ammendandole riporle ; e ne men per la
medeſima cagione provar egli mai non ſi potrà , in che conſiſta la árminatío ,
o nimiſti , che tra loro eſser fi dice ; perchè anche ne fiegue , che non ſi
ſappiano , ne convenevolméte ſi poſſano perGalicno ľaltre qualità ſpie gare ,
che ſeconde chiamanli ,e che egli pocoriguardando a ciò che gli antichi nel
lib.della vecchia medicina ne nar rano , giudica , che cheno non pofsan cola
alcuna opcrare; € pure avviſar egli poteva, che l'acetofo, per eſemplo,avve
gnachè freddo , o caldo , o temperato, pur nelle ferite meſ lo , dolore , e
infiammagione apporti ;e che non altrimenti , che dal caldo , dallacetoſo anche
l'acetoſo s'ingeneri ; e ſe Pamaro fembra a lui effetto del caldo, il caldo
eziandio na fca dall' amaro Macertamente ſe Galieno aveſſe bene avviſata la
natura delle prime qualità, iion avrebbe giamai fopra quelle il fiſtema della
medicinapiantato ; concioſſie coſachè ben egli compreſo avrebbe non eſser
quelle baſtá ti a ſpiegar tutto ciò , che nella naturä vedeſi . Perchèi più
ſcorti tra ſeguaci di ſua ſchiera, ove s’abbattono a diviſar delle coſe della
natura , fono ftretti ricorrere alla propria foſtanza , o pur alla forina
eſsenziale , all'amiſtà , o alla ni miſtàgalla fimigliáza, o diſimiglianza tra
le coſc , e alle qua lità naſcoſe; che è tanto quanto a dire a cagioni, delle
qua li nulla non ſi ſa, ne ſaper fi puote . Quindi: per racer del Fernelio, e
del Severino: il ſottilif fimo Andrea Libavio amico per altro di Galieno, colſe
ca gione di dire: in magneticis, quum omnia elementa excufse runt, 1 382
Ragionamento Quinto . ränt, elementarii medici nibil inveniunt,nec de proprio
ſubje cto virtutis , nec de caufa prima. Mala vero funt princi. pia artis ea ,
qua inexplicatam tādem relinquüt quæſtionem . Talia verofuntelementa
Galenicorum : ex quibus non potes demonſtrare rationem facti offis , carnis ,
fuccini,magnetis , & cetera ſecundum formam eſsentialem . E Daniel Senner
ti, pertacer d'altri aſsai, cosi diſse:ubicumque pluribus eçdē affectiones ,
& qualitates infunt , per commune quoddams principum infint neceſse eſt
;ſicut omnia ſunt gravia pro pier terram , calida propter ignem . At
colores,odores , Sapores efse progosov , fimilia alia , mineralibus, metallis ,
gema mis , lapidibus ,plantis , animalibus infunt . Ergo per com mune aliquod
principium , & ſubjectum infunt. At tale prin cipium non funt elementa :
nullam enim hatent ad tales qua litates producendas potentiam . Ergo alia
principia unde fluant inquirenda funt. Ed una tal neceſſità molto bene
avviſando molti degli antichi, e poco men , che tutti imo derni Galieniſti, ſe
maicoſa alcuna malagevole , ed oſcura intorno all'economia degli animali a
ſpiegare imprendono, o ſcorger intendono la natura ,e la cagione di qualche
ſtra na , c non conoſciuta malattia , allora abbandonato affac to il lor
maeſtro Galjeno , e poſta in non cale ogni ſua dot trina , ed ogni diviſamento
della ſua razionale , e vana mie dicina , a’nuovi ſiſtemi de'Chimici
filoſofanti toſto s’appi gliano , E ben di ciò avvideſi anch'egli Galieno ; e
rimirando alla manchevolezza,e dappocaggine delle ſue fondamen ta, dopo aver
più , e più fiate diſegnato , le facoltà non có fiftere in altro , che nel
temperamento, o meſchianza delle quattro primnequalità , avviſando alla perfine
mal poterli con quello l'opere della facultà baſtantemente ſpiegare , così
ſcagionandoſi apertamente confeſsa, che eſso per non ſaper la natura della
cagion factrice , la chiama facoltà , o potenza; c però dice eſser nelle vene
una certa potenza da ingenerare il ſangue, e nello ſtomaco un vigor di
cuocere', e nel cuor di palpitare ; e in tutt'altre parti del corpo eſser anche
una tal potenza d'adoperar quelle coſe , chcin eſse ſi fan . 1 1 4
DelSig.Lionardo di Capoa. 383 fi fanno . Con cheGalicno apertamente confeſſa
cgli me defimo, le facoltà , che coſa mai elle ſi ſiano, affatto non ſa pere ;
e ſolamente così per via di ragionamento chiamarle. Ma non fi potrebbono con
parole ſpiegare, tante elleno, e tante ſono , quelle fiate , che per Galien ſi
ricorre ad una cagione , la qual eglimedeſimo , non ardiſce, o corporca, o
incorporea determinare ; e che egli ignorando , che coſa ſia veramente ,
inſieme col vulgo coſtumacol nome di Na tur'a appellarla . E ridevole veramente
ſi è la maniera,col la quale egli una fiata imprende a ſpiegar ,come le partide
gli animalifacciano le loro operazioni;dice egli , che ſico me al comandamento
di Vulcano , ſecondo finge Omern, i mantici da ſe ſteſſi mandavan fuori, o'più
, o neno il fiato ; e le dózelle d'oro da ſe ſi muoveano ; cosinel corpo degli
animali niuna coſa eſſer immobile , ed ozioſa ; imperocchè dal ſupremo facitore
alcune divine virtù ſono ſtate impreſ fe alle parti di quelli , sì che le vene
non ſolo il nutrimento dello ſtomaco deducono : ma l'attraggono , e lo
preparano al fegato ; ilquale così preparato da' ſuoi ſervi ricevendo lo , gli
da l'ultima perfezione di ſangue : müstepOuengo εποίησεν αυτοκίνητα τουτου
Ηφαίςκαι δημιουργήμα , και τας μια φύσας ευθύς άμα τα κελεύσαι τον δεσπότην,
παντοίων, εύκρηκτον αύτμηνεξανι είσας : τοις δε θεραπείνας εκάνας τας χρυσας
ομοίως αυτά τώ δημιουργώ κινουμένας εξ αυτών ούτω μοι και συνοεί κατά το του
ζώου σώμα μηδέν αρ . γον μήτ' ακίνητον, άλα πάντα μεία της πεσούσης καζασκευής
βίας τινας αυτοϊς δυνάμεις τουδημιουργού χαρισαμύου,κοή, τας μέν φλέβας, ου πα
eaγούσας μόνον την τξοφήν εκ της γασφος , ' έλκούσας άμα και πιο
παρασκευαζούσας το ήπατι τον ομοιόταν εκείνων τόπον , ως αν και eαπλησίας αυτώ
φύσεωςυπαρχού σας , και την πξώην βλάσησεν, εξεκεί YOU MEWCimpéva . Ed è anche
manchevole la medicina di Ga lieno, per non faperſi in quella il meſtiere, e
l'uficio di mol e molte parti del corpo ; perchè malamente l'economia degli
animali , ed ondenaſcan le malattie , ei luoghi , e le cagioni, e gli effetti
di quelli vi ſi potrà convenevolmente ſpiare. Concioffiecofachè Galieno
medeſimo principe, e titrovator di quella , non ebbe ne men ventura di ravviſar
baſtan te , j 384 ' Ragionamento Quinto baſtantemente la coſtruttura , e gli
ufici delle parti dalı conoſciute;non che d'abbatterſi mainel: canale del Ver
ſungio, o nelle vereacquoſe , o nelle vene lattee , o in alą tre , cd altre
infinite coie da’moderni deſcritte . Ne ſeppe cgli ne men per ombra il vero
movimento del cuore , e dei fingue : ritrovato , del quale ſecondo l'avviſo
dell'inge. gnoſilliino Renato, nullum majus, & utilius in medicina eft. Ne
del vero cammin del chilo ſeppe boccata; le quali due coſe ſole di tanto pregio
, e di tanta conſiderazione parve l'o al nobiliſſimo filoſofante Pietro
Gaſſendo , che meritc volméte egli chiamarle ſoleai due poli della medicina; e
de queſti due trovati, che l'un l'altro conferma maggiormen te , craſſoda, egli
ſommo contento prender ſoleva , quindi fperando, che'la medicina , quando che
fosſe, aveſſe avuto a ritrovar qualche coſa diſaldo a pro degli huomini; malli.
mamente in quella parte , in cui dall'economia degli ani maliella s’argomenta
di riſtorar la perduta ſanità ; almen finattanto, che novello lume lo
dimoſtraffe l’orſa;imperoc chè della volgar medicina, che tutta ſi briga in
diſaminar le qualità , ed in aggiugner ciance a ciance, eglicēto niun non facea
: Ma perciocchè queſta ſarebbe opera da trattar con maggior agio , e tempo in
un'intero volume , laſcerolla al preſente, riſtrignendomi ſolamente in un capo,
ch'a dover lo quì brievemente accennar mi tira . · La maggiore, c principal
parte , e pił d'altra alcuna nel meltier della medicina neceffaria,ſenza alcun
dubbio quel la fiè , che alla materia de'cibi, e de'medicamenti s'appar: tiene
; or queſta nella medicina di Galieno è certamente tutta
impirica;conſeguentemente a tutte quelle jacertezze, e a tutti quegli errori ,
e falli ſottopoſta , che Galicno me deſimo, ei ſuoi ſeguaci tanto , e sì
factamente negli Impiri ci dannano , erimordono . Ed è ciò dicanta conſiderazio
ne , e rilievo , che in utili a baſtanza , c infruttuofe, e vane le contezze
cutte della medicina , ſe mai clla in altre parti alcuna n’aveſc, render puote
: le qualitutte ad altro non fono indirizzate , che a diviſare , & proporre
agli ammalati i cibi, siinçlicamen :1 , 3 ? fu conced.fipreselierelli 13,45's
DelSig.Lionardo di Capoa. 385 ra , medicina di Galieno s'abbia certa, e ſicura
contezza dell'ea conomia delcorpo umano , della cagione , e della natura
de’mali, e d'altre ſomiglianti coſe molte a ciò pertinenti, ed acconce:qual pro
giammai peropera di tali notizie dal la razional medicinapotrà ritrarſi ?
certamente per quel che Io micreda , niuno , ſe non ſi prenda inſieme a diviſar
con efficaci , e ben certe ragioni, come,e qual ſorte di me dicamenti , e
dicibida dar ſiano agli ammalati. E ciò cos me mai vorráno i Galieniſti
convenevolmére porre in ope, ſenza in prima pieno , e faggio conoſcimento
dellana, tura , e della propietà di quelli avere ? Ma queſto per lor non
avendofi, avvegnachè d'eſfer razionali millantino,cm pirica certamente , e
incerta farà da dire la lor medicina ; per tal modo , che non ne potrà ſe
non-ſelargamente il no. bile , e laudeyol titolo dell'Arte meritare . Ed
interviene nella medicina ciò che ſi vede anche nella Loica avvenire; che per
una menoma particella , che nella definizione , o nel partimento , o nel
fillogiſmo dubbiofa fia , ed incerta, toſto dubbioſo , e incerto il tutto anche
diviene ; e per una pic cioliſſima taccherella ſi sfregia . Senzachè la
medicina in tanto è arte , e conſeguenteinente certa , in quanto ella ha
ficuri, e certimezzi, quali ſono ſenza fallo i inedicamenti, ei cibi, per
ritrarre il ſuo bramato, ed aſpettato fine della ſalute degli huomini . Adunque
non eſſendo queſti certi , ç ſicuri, conſeguentemente non ſarà da dir veramente
arte la lor medicina . Perchè poi veggiamo iGalieniſti medici, quanto più
avveduti , e più dorti eglino ſono , tanto più dubbiofi, e tertennanti
ſempremai medicare ; ne dalla lor doctrina , e diligenza mai nulla di certo promettere.
Nequáto in fin quì ho detto ha biſogno alcuno di pruo va ; imperocchè
manifeftiffima coſa è , che Galieno mede ſimo, non che altri , con iſchiettezza
veramenteda filoſo fo , e degna di lui , molte , e molte fiate apertamente il
co felli ; ed una infra l'altre mordendo , e biaſimando alcuni medici de'ſuoi
tempi , che troppo arditamente ſtudiavanſi di inveſtigare per via di ragione
da’ſoli effetti la natura, e la proprictà de’medicamenti; dicendo : non
laſciaremoin Сcc . tanto, 380 Ragionamento Quinto tanto, paffar ſenza gaſtigo
la ſoverchia tracotáza di coloro, i quali dalla coſtruttura, e dal colore , e
dall'odore, e dal fa pore , e dalpeſo , e dalla leggerezza di ciaſcuna coſa del
modo,la di lei propria virtù diſpiar s'argométano . Quindi appreſſo ſoggiugne ,
che tutta la ragione d'eſaminare , e giudicar bene la biſogna nella ſperienza
ſopra tutto confi iter debbia , avvegnachè v'abbia aſſai de’medici, chequel la
traſandata, ſolamente in avviſar ſe vermiglia, o di buono odor la roſa ſia
vanamente s'indugj . Ed a ciò anche riguar dando di Galieno il fedeliſſimo
interpetre, Vallelio, così al la fine prorompe . Modoillud unum ftatuimus
nullum effe certum argumenti locum ad inveniendum , rei cujuſpiam temperamentum
ex ſecundis qualitatibus ; fed ex modo , quo nos afficiunt ſolum ; ita ut in
hac doctrina nullum locum ra tio kabeat , fed tota fit empirica . Con la qual
ſentenzas certamente egli abbatte infin da' fondamenti, cmanda au terra la
medicina tutta del ſuo maeſtro , e ſpezialmente ciò che egli medeſimo nelle ſue
côtroverſie avea in prima infra l'altre sbracciate arditamete millantato :
Poj]Galenum non amplius interpollis ars fuit ,fed perpetuo eadem veris de
monftrationibus confirmata . Ma certamente s'egli riſuſci taffe a' tempi noſtri
il Valleſio, rimarrebbeſi per innanzidi gracchiar più del ſuo divino Galieno; e
ricreduto a’moder ni ritrovati, non più di colui vanterebbe : nihil ti ejus in
ventis adhuc eſse additum : quoniam hic author nihil , quod ad artis attinet
conſtitutionem non reliquit inventum , quod pofteriſuperadderent. E tanto più,
che il Valleſio fu ſempre amiciſſiino della verità : poichè , per tacer d'altro
, non ſi ritien per quella di rimproverare a Ippocrate medeſimo.co. tanto da
lui ſtimato , il non ſaper punto di Loica; e più ma nifeſto ſi vede nel fin
delle ſue fatiche intorno alla ſacra fi loſofia , ove infra l'altre coſe
accreſcendo il numero degli elementi dice , che quelli non ſiano ſtati mai , ne
fuora del corpo miſto eſſer poffano: i quali ( ſon ſue parole ) actu qui. dem
nullibi, potentia vero in omnibus miſtis eſse dicimus. E ben’egli avvedutoſi
de’vaneggiamenti, e degli errori di Ariſtotele , ſpezialmente intorno alla
materia prima , dice . mani Del Sig.Lionardo di Capoa. 387 manifeſtamente , e
confeſſa , che quella Aggira, ed avviluppa il capo agli huomini. Ma laſciando
queſto ſtare al preſente , dirò coſa non da trapaſſar forſe ſenza qualche
ammirazione ; anche il mede fimo Galieno, nonche altri s'avvide eller tutta la
ſua razio nal dottriaa non altro, che vaneggiamenti , cd inutili ciar le ;
poichè avendo egli ſognato , che ſarebbon guariti due infermi , ſe lor tratto
fi foſſe dall'arterie della inan deſtra copioſo il ſangue , ei prontamente
gliele craſſe , e tutt'altri ſuoi ſtudj,ſpeculazioni, e fatiche in non cale ponendo
, fe guì l'indirizzamento d'un vanillimo ſogno ;e certamente un tal fatto appo
me non ritroverebbe niuna fede , ſe Galieno medeſimono’l confeſſaſſe ; ed Io il
ridirovvi colle parole di lui ; πξοτζαπείς υπό τήνων όνειρά τον δυοϊν εναργώς
μοι γενομένον , ήκον επι την εν τω μείζξυ λιχανού τε και μεγάλου δακτύλου της
δεξιάς χει ρος αρτηρίαν, επέτρεψα ερείν , άχρις αν αυτομάτως παύσηται το αίμα ,
κελεύσαντG- ούτω τε ονείρατG- ερρύη μεν εν εδ' όλη λίτζα • παραχρή μα
δεσπεύσατο χρόνιον άλγημα κατ' εκείνο μάλισα το μέρG- ερείδον ένθα συμβάλα τα
διαφράγματι το ή παρ' εμοί μεν ουν τούτο συνέβη νέω την • ηλικίαν όντι •
θεραπευτής δε του θεού εν περγαμω χρονίου πλευράς αλ γήματG- απηλλάγη δι ’
αρτηριοτομίας,εν άκρα και τη χaei γενομένης και εξ ονείρα G- επι τούτο ελθών
και αυτος. Ho lo tralaſciato a bello ſtudio di riferir poi ad uno ad uno , come
fanno il Veſſalio ,ed altri,ed altri notomiſti,tan ti , e tanti errori , che
nel deſcriver le parti del corpo uma no preſi furono per Galicno : per non
recarvi consì lungo racconto più di noja , che per avventura non ſi conviene .
Ne menomiho preſo briga d'avviſarciò ,che a ciaſcuno è manifeſto , che l'opere
di Galieno ſenza alcun paragone ſian più di vane ciance , che di coſe ripiene ;
sì che quantū Andrea Lacuna l'accorciaffe , a più picciol volume po tca ſenza
fallo riſtrignerle . Ne meno ho curato accennar come coſa a tutti nota , chc la
dottrina inſegnata da Ga lieno , per la più parte ſia colta di pelo ad altri
ſcrittori; e tal volta male da lui inteſa , c peggio ſpiegata . Ho trala ſciato
altresì per la medeſima ragione , di narrar come Ga lien poco intendente fi
paja delic ſentenze di Democrito, Ссс 2 di que 1 388 Ragionamento Quinto di
Placone , e d'Ariſtotele , e come al roveſcio anch'egli ſovente ſpiegar fi vegga
i ſentimenti d'Epicuro;comechè da un particolar maeſtro n'aveſſe egli la
filoſofia epicurea ap parata ; il che ſovente anche egli fa dell'opinioni
d'Eralia Itrato , d’Aſclepiade , e d'altri Setteggianti; avvegnachè eº
millanti, che di tutte ſette e' ſtato foſſe nella ſua giovanez za da più
celebri maeſtri di quelle addoctrinato . Ho tra laſciato anche di far parola
dello ſconcio modo del filofo fare , che mai fempreGalieno adopera , non
iſccndendo mai alle particolarità delle coſe ; e ſe talor e'fi pare , che
viſcenda , il fà per modotale,che'l traſcurarlo ſenza fallo farebbe menmale . E
nelvero chi è , che non conoſca,co me per lui ſcioccamente ſi filoſofi dietro
agli clementi , a' temperamenti, agli ſpiriti', al caldo innato agliumori; la
natura delle quali coſe non mai filoſoficamente egli ſpiega; ne mai pruova , ſe
non ſe con ſole parole la lor eliſtenza ? Chi non fa poi, come egli
ſcorriamente favelli dell'inge ncrazione, del naſcimento, del creſcimento
dell'huomo, e come follemente e' ragioni dell'ingenerazionedelchilo , e del
ſangue , della natura , e degli uficj , delle parti, e di tut te altre coſe
all’huomo appartenenti ? Chi è per Dio , che non iſcorga , com'egli
facendofimenare per la barba dagli ſtrolaghi, vanamente favolegojde giorni
critici , e com'e . gli oltremodo vancggj in facendo parole della materia del
la natura , delle cagioni , e deglicfetti delle febbri , e d'al tri mali, e
particolarmente dell’Apopleſſia ,e dell'Epilcilia . dicendo egli , amendue
queſti mali avvenire per l'oppila zione de’ventricoli del cervello fatta da
freddo , groſo , e tenace umore ; recandone per ragione , che di preſenta
faccianſi, e di preſente finiſcano ; o eſſendogli caduto dal la memoria, o
ponendo in non cale d'aver lui altra fiata ,più al vero conformandofi,
argomentato il palpitar del cuore di botto ingenerandoſi, e di botto riſtando ;
di neceſſità ca gionarſi da ſoſtanza aerea , e ſottile ; ſenzachè ſe ver folle
, com’ei dice, dall'intera oppilazion de’ventricoli del cervel lo l'Apoplefia ,
e dalla non intera l’Epileſia ingenerarſi , converrebbe chemai ſempre
dall’Epileſſia cominciaſſe l'A popiel DelSig. Lionardo di Capoa 389 ra ,
poplellia : e che queſta in quella mai ſempre terminalſe ; il che non ſi avviſa
, ſe non ſe di rado ; ma ciò fa vedere le gran traſcuraggine di Galieno nelle
coſe della medicina , che non curoffi mai di aprir cadaveri ; perciocchè
aurebbe rinvenuto in alcuno oppilati i ventricoli del cervello , il quale no
foſſe morto d'apoplesſia,o d'epileſſia;ed altri eſſer morto di sì fatti mali ,
ſenza tenere ne' ventricoli del cer vello umore niuno. Laonde potrebbe a
Galieno addattarſi molto bene quelcelebre detto d'Ariſtotele :87 @ gu dangrasa
γα, αλα μαντεύεται το συμβησόμενον εκ τείκότων , και προλαμβάνει και ως ουτως
έχον και πειν γινόμενον ούτως . Or non fi coglie da ciò che è detto , che
Galieno della coſtruttura delle parti del cervello , e del loro uficio non
ſapeffe boccata? il che da egli anche chiaramenre ad inten dere , allor , ch'ci
fa parole degli altri mali della teſta ; ed ora mi ſovviene ,come follemente ei
filoſofi dietro alla pau ed alla triſtizia de'malinconici , in così dicendo :
ficome le tenebre eſteriori apportano ſpavento a quegli huomini , cheaudaci , o
fapienti non ſono , così la malinconia col fuo colore offuſcando , ed
ottenebrando la ſedia dell'anima , le reca timore ; ne' qualiderti è certamente
da ammirare , che ſié più errori che parole; e moſtrafi chiaraméte per eſli,
che Galieno niéte foſſe della natura dell'anima, edi quella delle qualità
intcſo :eche nó ſapeſſe, che coſa foſſe la luce , che coſa foſſe il colore , ne
come le ſenſibilità, e l'immagi nazionc , o'l diſcorſo in noi fi facciano ;
perchè ragione volmente nel vero , comechè non a baſtanza ne vien egli per
Averroe proverbiato , e deriſo . Or come per Dio huom , che ſuperficialmente
filoſofu della natura , e delle cagioni delle malattie , mai può in medicando
della ragione valerſi ? .e certamente , per ta cer d'altro , a Galicno ne meno
una terzana ſemplice gli verrà mai fatto poter con ragione operando ſecondo i
ſuoi diviſamenti medicare ; imperocchèquantunquegli ſi con ceda eſſer vero ciò
ch'e' finge della terzana , cioè , che ſi cagioni la terzana dalla collera , la
quale fuor delle vene s'imputridiſca:e s'abbia p cofa provata,e vera la ſua
rego la, che 390 Ragionamento Quinto la , che curar ſi debba per li contrarj ;
le Galien non fa la natura della collera , come potrà ſaper mai come s’impu
tridiſca , e che imputridir la faccia,e come per la putreſce za vi s'accenda ,
e ſi comunichi al corpo il calore: e d'onde egli potrà coglier gli argomenti ad
inveſtigare ciò che all' altro ſia contrario ? lo ſo ben, ch'e' dice la collera
eller un umor caldo , e ſecco,corriſpondente all'elemento del fuo co ; ma s'ei
non fa qual ſia la natura del calore , e della ſic cità , e del fuoco
,certamente nulla ei non ſaprà della colle ra , ne comprender mai potrà , come
ella , e per chi s'im putridiſca , e come ella cagioni la febbre , e comea ciò
ſi poffa dar compenſo . Certamente meglio partito egli avrebbe preſo , ſe della
ſola impirica valuto li foſſe ;la qua le , ſecondo quel ,
ch'eglimedeſimoafferma, è aſſai mens fallace della falfa razionale , Ne meno lo
dirò , ch'ebbeGalíeno avvegnachè compi laſſe tutto Dioſcoride,diſagio di buoni
, ed efficaci medica menti : c che egli la più gran parte delle compoſte medici
nedegli altri inedicimeſcolò nelle ſue opere: e che adope raffe ogni maggior
diligenza, per apparar rimedj , ricercă dogli eziandio infra altri ſetteggianti
, e cra’volgari impiri ci ; perchè diſperato egli anco di ciò , fu coſtretto
ne'falar fi, nelle purgative medicine , e nella dieta , e ne'giornicri sici
tutte ſue ſperanze riporre. Or ſe a queſte,e ad altre cole, che ſe Io voleli ad
una ad una narrare per ora non ne verrei a capo , aveſſe avuto Gi rolamo Cardano
riguardo , certamente e non avrebbe fra quei ſuoi dodici più ſottili ingegni
del modo meſſo Galie no in iſchiera , nc mai ſi ſarebbe laſciato traſcorrer
dalla penna ultimus fubtilitate ſed clariſimus arte Galenus metho dis ,
pulſibus, atque diſsectionibus. Ma quanto a queſt'ul tima parte,ben qual ſi
foſſe Galieno , il riconobbe , e l'ad ditò il Veffalio , che più del Cardano ne
fudi gran lungu informato . De' poiſi poi,che coſa potea indovinarne mai colui
, che per iſpiegarne la cagione , alla facoltà ricorſe , ne punto ſeppe
de’movimenti del ſangue ? Ma nella loica , quanto egli poco valce , il dica
Aver roc, i 1 DelSig. Lionardo di Capoa 391 tropo ſtudio . roc , il dican
aldri, che tanti errori gli ſcoprirono in doſſo . Ma queſto è il veleno di
tutte ſue opere , il della loica : e fe Galien conobbeſi bene della loica,
ficome pare al Cardino, che monta ciò , s'egli non ſapea ,ne pro to avea fra le
mani ciò ch'avea eglicolla loica a diviſare ? e tanto baſti avere al preſente
della medicina di Galien fiz vellato ; e dicoloro , che dopo lui vennero ,
paſſeremo omai a far brievemente parole, comechè novelliſiſtemino ritrovaſſer
eglino di medicina . Furono di così poco taléto que' che dopo Galieno ſcriſ
ſero in medicina, che non ſoppero altro , che le coſe mede fime dagli antichi
già dette , malamente per lor compreſe , e peggio rapportate , compilare ; anzi
in ciò pur cotanto bambi, e goccioloni diinoſtrarõſi,che tralaſciando perdap
pocaggine le migliori , ſolaméte alla ſchiuma inteſero; per chè Giuliano Cefare
avendo commeſſo ad Oribaſio , che di tutti antichi libri di medicina il più bel
fiore coglieſe ', mal puotè vedere il ſuo deſiderio a nobil fine códotto; per
ciocchè colui non altro che di fraſche, e di novelle,e di va niſſiine anfanie
ſolamente fe faſcio . Ma dovea purGiulia no , ſe filoſofante era , qual ſi
ſtudiava di far vedere ad al trui , avviſar ben cgli eſſer queſta d'altri omeri
loma , che dello ſciocco berlingatore d'Oribafio ; ne alcuna coſa di pregio
certamente atrendere da quegli infeliciſſimi tempi potcaſi, ove i medici anche
eglino nelle loro dottrine reſi ſervi,parean ſol nati a ſeguir prontamente i
fallimenti, e gli errori de'ſecoli traſandati , edi queimaeſtri, i quali ſicome
da ciò che addietro da noi è detto ſi può agevolmente ri trarre , anzi alle
ciance , e alle lunghe dicerie , che alle fal de operazioni avean l'animotutto
, e'l penſiero rivolto . E sì , e tanto queſta ſconcia , e biaſimevol coſtuma
crebbe, e diſcorſeper tutto a que' tempi, che i medeſimi impirici ,
ancora,laſciando da parte le loro pruove , e le ſperienze , tutti nelle
ciuffole , e ne'ben compoſti cicalamenti ancor ella s'impigliarono; perchè
meritevolmére Galieno una fiata fi biaſimava di quel valentiffimo medico di tal
ſetta , ch'avef fe voluto logorar la ſua induſtria , e'l tempo in contraſtare !
ic 392 Ragionamento Quinto le ſette razionali ; perchè in iſperimentare , e in
medicare folamente adoperandoſi maggior frutto certamente confe guito n'avrebbe
. E fe gran ſenno quell'altro dottiſſimo impirico , ch'or mi ricorda eſſere
dalmedeſimo Galieno co loda mézionato : il quale a un inferino, che avea dato
orecs chic ad una lunghiſſima diceria tenuta dietro alle cagioni , alla natura
, a’ſegni , e a’rimedj della ſua malattia per un ciarlatore razionale , così
diſſe; Io per me non ſaprei io, ond'è , che tu più coſto debbi attenerti alle
vane ciance di coſtui , che alle tante , e tante pruove fatte permefin'ora ;
dal che moſſo lo infermo , diede di botto comıniato al van ſofiſta , e nelle
mani dello ſperimentato impirico rimiſeſi . Ma certamente cotanto ciarlare , e
anfaneggiare appararo no gli antichi incdicanti greci dal ſoverchio ſtudio
della loica ;avvegnachè per quella intorno alrimanéte,anzigua fti che
addottrinati ftati foſſero in avviſar le cagioni, e vere ragioni delle coſe:
cotanto ſconcia, e travolta l'adoperava no . E forſe in ciò potrebbon ritrovar
pietà , non che per dono , ſe già l'oſtinazione, e la fracotanza d'alquanti di
lo ro non foſſe giunta a tale , che per fermo eglino ebbero , e per coſtante ,
così veramente andar le biſogne della natų. ra, come eglino le îi davano ad
intendere , Ritroſi ancora ſi parvero , e negligenti affai i Greci mę, dici
nell'inveſtigar le parti così diſcorrenti , come faldede gli animali ; e poco o
nulla s’affaticarono per iſpiarne l'e , conomnia , e l'ingenerazioni , e
gliavanzamenti delle ma lattie ; ma ſour'ogn'altra coſa ſi vider traſcurati in
raccon tar la ſtoria de'medicamenti , la quale così dubbia , incer ta , e
favoloſa eſſer s'avviſa, come ſe a ſtudio di tal formar la ſtato foſſe il lor
principale intendimento; tante, e sì ſpeſ ſe fraſche , e novelle ſi troyano
colla verità in quella me ſcolare , e confuſe , E ben ſi ſcorge ciò dalla
raccolta, che ne fe il noſtro Plinio; ina foyra tutto dal volume di Diofco ride
, il qual da varjantichi autoriritraendo le virtù de'mc dicamenti ſenz'avviſar
ſe vere , o falſe elle fi foſſero , di tut te pienamente fece faſtello ; e tali
vengono poi per Galic no, per Oribalio , per Paplo , per Aczio , per Simon Seti
trat DelSig.Lionardo di Capoa 393 tiatto tratto deſcritte, quali
appunto.le.laſciò Dioſcoride regiſtrate; ſe non ſe ſcioccamente (forſe per far
ſembiante, che da coloro erano ſtate le coſe affai minuramente difa minare ) in
qual grado il ſemplice, o caldo o freddo ,o.umis do , oſecco egli.fi foffe
v'aggiunſero .. Ma ſe talora in qualche menomiſlima parte vien per lo ro mai
Dioſcoride ripigliato , certamente il fanno dove e * no'l merita ; ficoinc
allo.incontro il commendano , dove no'l vale . Ne lo ciò dico per diftorre
imedici dalla lettu ra di Dioſcoride , ch'egliè anzi permio avviſo il volume di
lui la miglior' opera di quante della medicina de' Greci alle noſtre mani ne
lian pervenute : ma perchè eglino vi ſia cauri , guardinghi, e ſenza rigoroia
efaininazione alle cofe per lui riferite alla rinfuſa non dian intera credenza
. E quinciancor manifeftamente s'avviſa , che non che nulle giovaffe.a'Greci la
Razional traccia a difcernere le facoltà de'medicamenti, anziella di vantaggio
loro oltremodo nocque ; perciocchè più veritieri aflai trovanfi i rapporti
delle virtù de’ſemplici appo i barbareſchi popoli, privi, digiuni di lettere,
che nelle limite , e ben culte ſtorie loro . Io tralaſcio di far parole
de’medicamenti compoſti de’Gre ci, che afai chiaro fi pare , quantodalla
fortuna, dal caſo, anzi che daila ben regolata loro ragione ne vengano di
viſati; mal porendofi dirittamente accozzare , e comporre infieme imedicamenti
femplicida colui , che di quellinon fia pienamente informato . E ben s'avvidero
i Greci ine dicanti più ſagaci ,.e più ſtimari della . poco lieta uſcita de'
loro medicamenti; perchè andando per innanzi maggior mente a riguardo:
folamente nel preſcrivere fobrio , e ben regolato vivere , l'arte tutra,e'l
ſommodel medicare ripo fero ; e sì , e tanto-in.ciò furono ritenuti , e
rigorofi, ch'a molti infermi più giorni ogni cibo vierano , cad altri la fo la
mulla permettevano. Poco accorti in mole'altre coſe li videro i Greci medici ;
perciocchè per iſpiarequanto lor foſſe ſtato poſſibile deca gioni delle
malattie di tanti infermimorti nelle lor mani no fi diedero maicuca d'aprire
icadaveri; avvegnachè una tal Did dili . 394 Ragionamento Quinto
diligézainutile altrui poſſa sebrare,eflendo malagevol mol to lo inveſtigare ſe
ciò che guaſto nelle interiora ſi ritrova , più toſto ſia effetto ,che cagion
delmale ; pur nondimeno alcuna fiata potrebbeperavventura a qualcheutilità
riuſci re . Ma quelche più rilieva, ne meno fcriſſero i Grecile ſtorie de'mali
, ſe però non le ci ha tolte la lunghezza del tempo ; e quelle poche, chenoi ne
abbiam focco nome da Ippocrate , elleno ſon cosi rozze, ed imperfette , che
r.2- ' gionevolmente huom favoloſe le crede . Perchè non è po co da lodare il
diviſo di que'moderni , che ſi ſono attentati di ſcriverle , comeche Pabbian
poſcia meſſo infelicemente in opera , o perchè lor venne in talento di
raccontar le ma raviglie , ſicome fece Amato nelle ſue ſtorie :0 pure, perchè
dalla faſcinazione delle ſette adombrati', vider le coſe al trimenti diquel
ch'elle erano ; ſe pur non ſon elli imalizio fi , che le coſe ſempre aroveſcio
, e travolte ne vogliono da re a divedere ; ſicome alcuni di loro cento, e
mille fperien ze, matutte falſe , per difender le loro opinioni tutto di van
recando . Egli furon poi i Greci cosi per vaghezza brigāti, eriot tofi che ,
tal ſovente videli , nonche ad altri ,ma a ſe me d'elimi far contraſto ; ſe
bene in ciò non tanto eglino ſono da accagionare, quanto i viluppi , e le
malagevolezze di quell'arte , che eglino cotanto con biftentis e vigilie , e
fudori ſtudiaronſi d'illuſtrare , emaggiormente offuſcaro no ; perchè non ſenza
rifa da huom di ſano intendimento leggerafſí la millanteria di Pelope Maeſtro
di Galieno , il qual vantava di ciaſcuna coſa di medicina ſaper la vera ;
incontraſtabil cagione . E già parmi leggiermente avet cocca, e traſcorſa tutta
la medicina de'Greci;e quantunque non abbia lo fatra ſpezial menzione d’Areteo
, il cuili bro per avventura ſembra ſcritto con diligenza maggior di quanti ne
fon rimaſi interi della medicina deGreci,e con filoſofica libertà; pur non è da
maravigliarvene, perciocchè egli contien le dottrine medeſime da noi più fiate
diſami nate , e riprovate . Finalmente ſi conoſce , che non hanno gran coſa i
Greci in medicina adoperato ; imperocchè les aveffer 1 1 Del Sig.Lionardodi
Capoa . 395 aveſfer qualche coſa di pro eglino mai rinvenuto , certame te
qualche veſtigio appo gli autori , chealle noſtre mani so pervenuti,ne
apparirebbe. Ma chedovrem noi dire della Arabeſca medicina ella fu tanto nel
paſſato ſecolo abburattata , e premuta,che par che d'altra eſaminazione non le
faccia più meſtiere . E ciò maggiormente , che dagli Arabi fu maiſempre il
filoſofar in inedicina di Galieno ſuperſtizioſamente ſeguito; del cui
mancamento molte coſe abbiam noiragionato . Ma egli è in iſtato più miſerevole
la loro ſcuola , che dove alcunas volta Ippocrate , e Galieno non dipartendoſi
dalla ragio ne il ver dicono , ella ſconciamente gli abbandona . Nel rimanente
poi, e ſpezialmente nella materia de ſemplici: di leggieri immaginar nonpuoſli,
quanto ſciocchi ſi ſiano i diviſamenti degli Arabi;imperocchèbaſtava lor
ſolamente aver letto , o pur udito, che per Galicno una coſa ſi affer maſſe,
che immantinente per vera la credevano.Perchè poi gli Arabi ignorarono la greca
favella , l'un ſemplice , e l'un malore per l'altro ſpeſſe fiate colfero in
iſcambio; e de’libri della natomia de'greci molte coſe , emolte non inteſero ;
ma gran male queſto non ſarebbe ſtato per avventura , fe di vantaggio qualche
lor ſogno non ci aveſſer frāmeſſo . Ed anvegnachè fra’medicamenti dagli Arabi
ritrovati ve ne abbia forſe saluno , che a que' de Greci prevaglia . , niente
dimeno nulla ,.o poco ciò monta riſpetto al grave, e incom parabil danno ,
ch'apportarono gli Arabial mondo colla ver introdotto l'uſo del zucchero , per
cui ſi fono sbandeg giate perpetuamente le Sape , le Mulſe, gli Offimeli ſem
plici, e compoíti, e in tante guiſe formati; e ſono a lor ſuc ceduti con
graviſſiino danno degl'infermi,i ſciroppi ; con cioliecoſachè ſotto il doice
del zucchero ,un enordaciſſimo, e pungentiffimo fale ſi naſconda, valevole
colla ſua morda cità a ingenerarferventiſſimo caldo ; ed egli oltre a ciò ab
bonda il zucchero d'una cotal tenacità oppilante , e perciò alle viſcere
nocevole oltremodo , e nimici; della quale il miele è affatto privo , mercè , che
le apiil rendon volatile , Ddd 2 e fot 1 390 RagionamentoQuinto é fottile , e
penetrante e, quaſi ad una celeſtial quinteffens za il riducono ; perchè
facendo nelle viſcere il miele poca dimora, poca, o niuna offeſa può
certamenteil ſuo fale re carne , che men acuto anche , e mordace del ſale del
zuc chero ſi ſperimenta . Maſenza più diftendermi in queſto , ayendovifaſtiditi
pur troppo , lo fo quì fine al mio ragio mare . RA : 397 RAGIONAMENTO SE S TO,
vele Icome al partir della fredda ſtagione, dal grave peſo delle neviſgombra la
terra , tutta lieta: , e feſteggiante ringiovaniſce , e allo ſpirar de'tiepidi
zeffiretti laſciando ležiarſe, e ſquallide ſpoglie; di vaghi fio ri, e di
fronzute piante fi riveſte ; e fiabe belliſce : cosìparimente;o Signori ,le
ſcienze , e le più no bili artiscellati ifuriofi diſcorrimenti de'barbari, che
mala mentemalmenare l'aveano , cominciarono aʼnoſtri più yi cini tempiper
l'Italica induſtria tratto tratto a farſi vedere, a poco a poco riacquiſtando
l'antico', e forſe altro più rag guardevole ſplendore.Già la Greca, e la Latina
favella ,d'o, gni ſcienza antichemadri , riſurte fiorivano ; già la Poeſia ',
egli ſtudjtutti del ben parlare erano in ſu'l far frutto ; ne l'Archițettura
più , 12.Muſica ,o la Pittura , o ciaſcuna altra arte abbattutalanguiva ; ma
pur la medicina ſola;e la Filoſofia nel comun ſollevamento , in vil ſervaggio
vivens do ſe ne giacevano oppreffe , efgombinate dal barbareſco giogo
d'Ariſtotele, e di Galieno; quando piacque finalme. te a colui, che impoſe a
tutte umane coſe aver fine, che fi levala 299 Ragionamento Sesto 3 1 Ievaffer
fuſo alquantianimigrandi , e generoli, quali NOR G fperavano, e non poteano per
huom mai immaginarſi, ch , avallar doveſſerola ſignoria di coloro , e la
medicina , e la filoſofia alla primieralibertà, e al perduto pregio riporres O
ſpiriti veramente generoſi, e da elſer commendati per quantoil mondo durerà ; i
quali ardirono prima di far ri paro all'impetuoſo torrente dell'abuſo comune ;
e ad op porſi sforzatamente all'univerſalconſentimento delle gen ti . Maggior
gloria certamente fu di coſtoro , i quali furo no i primi a rompere il guado a
sì ardua impreſa , e arice ver a battaglia affrontata i pertinaci ſeguitatori
di Galieno: che di coloro , i quali in prima ſetteggiando a lor talento , nel
confuſo rimeſcolamento della medicina s'argomenta rono di trarla moltitudine
ancor libera a’lor ſentimenti; c . s'eglino , i quali riduſſero la medicina a
qualche più toſto apparente,ch'eſiſtente ſtato di perfezione , ed i primi ri
trovatori di quella in cima d'altiſſima gloria aſcefero,e for montarono : che
farà da dir di coſtoro , i quali, non che ab battuti e'fi foſſero in terren
ſoluto ,e d'ogni erbaccia purga to : anzi cotanto duro , e mafagevole , e
ſpiuoſo il ritrova rono , che ben convenne loro in prima durar lunga fatiga a
liberarlo da’bronchi, e da'pruni, c da’ravvolti ſterpi,che
l'ingrombavano,anziche vi poteſſero granello riporre. Ne ſembra certamente
cotanto malagevolel'introdurre da pri ma alcuna coſtuma infra le rozze genti : quanto
egli è du To , e quaſi impoſſibile , allor che quelle già auſare viſono, e
tutto che indurate ,a far loro cambiar uſanza , ericre derle , e ſgannarle de
loro errori; perchè è da dire , ches molto maggior vanto foſſe deʼriſtoratori
della guaſta, e mal menata medicina a rimetter fe medeſimi in prima, e poi gli
altri al diritto ſentiero : che non fu di coloro , i quali non incontrarono
malagevolezza niuna d'invecchiata , cpre ſcritta uſanza da ſuperare . Ma ciò al
preſente laſciando , trapaſſeremo a narrar de'noſtrivaloroſi moderni, ſecondo
il noſtro diviſamento ; e diremo chente , e quali ſiano le loro opinioni
intorno alle coſe più ragguardevoli della me dicina . 1 + 1 Egli Del
Sig.LionardodiCapoa. 399 Egli fembracertamente , che prima diciaſcun'altro l'al
cilimo Chimico , e filoſofante Bafilio Valentino , monaco diS.Benedetto: fatto
capo a' ſuoi tempi nella Lamagna co tro la ſignoreggiante medicina di Galieno,
e quella degli Arabi, perpiù d'una prưova conobbe a deboliſme fonda menta
quelle attenerſi , e in ſü’l ſecco ſenza fallo effer in
peſtate;concioffiecoſachèprive di ragioni,e manchevoliol tremodo d'efficaci
medicamenti végano alla per fine ſtret re a riporre tutta loro ſperanza di
vincer le pertinaci,e gra vi malattie nella ſola natura : comcchè co ' falalli
,e colle purgagioni , e con altriſconcj, e violenti rimedi render la ſogliono
ſovente ſpoſfata, e poco acconciza fofferir la vio lenza del male . Perchè
argomentoſſi dicomporrenuove forti di medicamenti profittevoli a malati ſenza
riſchio di piggiorar loro con quelli di nulla la conpleſſione. E con
ciofoſſecofa,che eglivalentiſſimo Chimico foſſe , e molto in folver icorpi
maſſimamente minerali affaticafléfi , diede egli cominciamento a quel ſuo
famoſiſſimo ſiſtema di medicina , chepoicompiuto,e perfezionato venne da Teo
fraſto Paracelſo . Ma comechè ponga egli per fondamen to della fua medicina
que’tre principi , de'quali anche ſer veli il Paracelſo : çiò ſono zolfo , ſale
, e mercurio ; non però di meno diſcorda egli non poco dal Paracelſo in ciò ,
che egli giudica corali principj ingenerarſi dagli elementi . Nel qualſuo
ſentimento certamente egli non poco falla , laſciandoli ſcioccamente menare
alla piena del folle vulgo in ſupporregli elementi ; perciocchè ben doveva egli
avvi ſare , quelli ſolamente eſſer nel cervello d'Ariſtotele , e di Galieno : e
che tutti loro argomenti, malimamente quel lo , che ſembra aver qualche
ſembianza di vero , cioè , che icorpi tutti in iſciogliendoſi , a quelli come
aloro primi componenti ritornino , ſiano yani, e fallaci; alla qualcoſa fare
bédovevalo ajutare lanotomia vitale;mal'aver lui uſa . to qualche tempo nelle
ſcuole in ciò pur dovette abbaci narlo . Adunque egli giudica , che tutte coſe
abbian lor materia , e lor forma, onde poi prenda dirivo ciaſcuna lo ro operazione
: e che queſta dalle ſtelle venga ingenerata,e dagli 400 Ragionamento Seſto 1 1
dagli elementi formata , e da’tre principj ſolfo , fale , e mer curio prodotta
, e perfezionata ; ma pur.dice egli una fiaca l'acqua eſſer la primamateria
ditutte le coſe ; que, ſon fue parole , exficcatione ignis , & aëris in
terram formata eft . Oltre a ciò egli afferma, in ciaſcuna coſa dimorar cotali
fpi riti vivificanti operativi , i quali G nutrichino, e fi foftenti no
de'corpi, ne'quali albergano: che in queſti ſpiritila vir tù , e la forza
d'effi corpi ſpezialmente conſiſta ; ma come chè queſte, e altre fraſche
aſſaiintorno alla natura di sì fat ti ſpiriti egli vada ſcrivendo , pur ſi
potrebbono le ſue parole intendere allegoricamente , e con ſentimento forſe da
non diſpregiarſi: ſe non ſe moſtra manifeſtamente così in: ciò , comein altri
ſuoi divifamenti eſſere ſtato lui molto [um perſtizioſo , e vano nel ſuo
filoſofare . Perchè o colpa foſſe de'tempi , o altro, che il ſi faceſſe,
comechè egli intenden tiffimo foſſe ſtato della vital notomia , e che con
quella ma raviglioſe coſe aſſaioperate aveſſe , avviſando ſottilmente i più
naſcoſi ſegreti della natura ; non però di meno non ſe ne ſeppeegli sì ben
ſervire , che penetrare aveſſe potutoi veri principj,onde le operazioni, e
gliefferci de vegetabi li , degli animali , e de'minerali procedono . Mapure
egli , come non poco arricchita aveſſe de' ſuoi comiendevoli ritrovati , e di
ſottiliffimi divifamenti la me dicina , e che ſaggiamente giudichi infra
l'altre coſe , che dal lavorio delle chiniche preparazioni de' corpi naturali
ne lieguano,naſcere il certo conoſcimento di cotal arte;im pertāto.egli
manifeftamête avviſando l'incertezza di qucl la , ne conſiglia , econforta a
riguardar ſempre all'uſcimen to de’rimedj; perciocchè dal nocimento , e
dall'utile , che quelli recano a'malati, può il medico avveduto prender có
figlio , ſe debba più per innanzi adoperargli. o nulla , quanto al fatto del
medicare, il Va lentino delle chimiche operazioni fi valſe; imperocchè qua tunque
belli , e grandi, e copiofi medicamenti gli venine ro , mercè la chimica
conoſciuti ; la cui vircù egii profone damente ſpiò: e più avanti facendoſi
giugneſſea penetrar la propietà de' tre principi nondimeno non tols'egli a {pie
1 Ma poco , gi!re Del Sig. Lionardo di Capoa 401 gare, come da quelli
s'ingenerino , el guariſcano i mali. La quale imprela certamente fu dopo luidal
Paracelſo , ſe non compiutamente fornita , a grande ſtato condotta ; av
vegnachè il Valentino non tralaſciaſſe affatto di metternes fuora da quando in
quando qualche profittevole ammae ſtramento ; ſicomeè quello chea’mali
ch’abbian fatto cal lo , e di ſoverchio ſi fian radicati in corpo , ſolo le
fifle me dicine approdar poſſano , ficome quelle , che fin dalle ra dici gli
sbarbano; le non fiſſe ſaggiamente a quell'acques piovane aſſomigliando , le
quali toſto diſcorrendo per le Atrade , non penetrano per fonghe, o per foſſati
fin nelles viſcere della terra . Siinigliante è quell'altro ſuo avviſo , che
Come d'affe ftraechiodo con chiodo, così l'un ſimile vaglia l'altro a curare ;
allegandonc l'eſem plo del veleno , il quale non altrimenti che la calamita ſi
faccia il ferro , tragge , ed aſſorbiſce l'altro veleno ; ed in veggendo egli ,
che l'acqua arzente guariſce la Riſipola , immaginò, che il caldo di quella
l'interior calore di queſta attraeſe . Ma da queſto diviſamento può ciaſcuno
far con , ghiettura , ch'egli entrato ne’valti regni della natura , qui vi poi
li ſmarriſfe , ne fructo, e pro che dovea ne riportaſ ſe ; imperocchè s'egli ſi
foſſe dirittamente appoſto , avreb be detto , che ingenerandoſi la Riſipola
dall'acetoſità , gli Alcali volanti dello ſpirito del vino ciò adoperino ; il
che ben ebbe inteſo il Paracelſo, onde potè cotant'erbe di ſimi li alcali
volanti ripiene,valevoli a far contraſto all'acetoſità delle ferute agevolmente
rinvenire , e compornc tanti be veraggi , che vulnerarj ſon detri. Maciò , ch'è
di maggior conſiderazione , cgli non curò mai il Valentino d'inveſtigare ( il
che forſe a lui non guari malagevole ſtato ſarebbe) la figura , e tutt'altre
proprietà di quelle particelle , onde i tre principj ſono formati , eco me , ed
onde le loro operazioni avvengano; in tal guiſa avrebbe egli potuto
felicementenella filoſofia innolcrādoſi ſcorgere , come il ſuo Vulcano fia
conoſcitore , egiudica tore ditutte le coſe ne’ere principj ſolvendole , ficome
e'di Eec CC CON 402 Ragionamento Sefto 1 ce con quelle parole , che dal tedeſco
idiomanel latino così furono dalChercringio portate; Quum Chalybs durif
fimusfilice duro ſolidoque percutirur , ignis ignem excitat , commotione
vehementi , & - accenſione eliciente occultum ful phur, fiveignis occultus
manifeftatur.commotione ifta vehe menti , eper aërem accenditur , ita ut verè ,
& efficaciter ardeat ; fali maner: in cinere , &mercurius inde fe
proripit una cum ſulphure ardente . Ma ſe mai avutoegli aveſſe pie na
contezzadella naturadel fuoco ,di cuipoteva informar ſi dalle continue
operazioni, che gli ſe ne parávano innanzi agli occhj;séza fallo ,egli in
sifatramaniera none avreb be ragionato .. E ſe in cocal guiſa foſſe andato
confidcrara mente negli alti miſterj della natura innoltrandoſi , NTOI farebbe
ſtato da cotanta maraviglia ſoprapreſo per lo con tinuo ſcambiamento delvino in
aceto . Ne ſarebbe egli ſta to nelle ſue opinioni cotanto bergolo , e poco
ſtabile ;:fe forſe ciò non avvenne in lui dall'accorgimento , ch'eglieb be del
noſtro corto intendimento , e dalle malagcvofezze in cuici avvegniamnoi fovente
in filoſofando . Il perchè preſe ad eſclamare una fiata . Bone Deus !'natura à
nobis bominibus quodammodo indignatur tota: pervideri ! cum vi tri noftratempus
conftitueris adeobreve , & cu verus omnia judex multa refervaveris tibi in
creaturis; que non ſcientiæ , fed admirationi noftræ reliquiſti. Ma tempo è
omai di venire a Teofraſto Paracelſo ; ne già m'invicrò lo per la ſtrada
dall'Eraſto , dal Cortino , dal Riolano padre , e da altri famoſi Galieniſti
calcata ; i quali a biaſimar in lui ciò,che eglino medeſimi non comprende vano
fi miſero , porgendo giufta cagione ał gran Ticone di dire: Paracelſus pluribus
oppugnatus quam intellectus ; e lor fatica impiegando intorno a materie
bazzeſche,e gher minelle s'ardirono a rimbcccar quelle ragioni , che già più
fortunatamente avea il Paracelſo contro illoro Ariſtotele , e'llor Galicno
adoperate : intorno a' quali ſoleva il Para celſo dire , che con una ſola
ſperienza arebbe cento ſuppo fte dimoſtrazioni d'Ariſtotele abbattute, e
mandate a ter ra ; ma rimarrò ſolamente pago di toccar pochiſſime coſe 1 di mio
Del Sig.LionardodiCapoa. 403 di mio talento , e ſpezialmente quelle , ſopra le
quali il di ftema tutto di lui vien piantato .. Lamedicina del Paracelſo ,
quantunqueragionevolme te a chi può dar di queſte coſe perfettogiudicio molto
più veriſimile dell'altre razionali fi paja , e che tanto ne' pro fondi miſteri
della natura innoltrata , e profondata lilia , cheminutamente ragguardar poſſa
a quelle minuzie , per le quali ſolamente l'arti alla debita perfezione
montarpor fano : ediſceſa ſi veggia più di tutt'altre medicine, ad ogni
menomillunaparticella diſtintamente Itacciare : coſa , la quale già tanto da
Galieno fu nella medicina fofpirata ; e quantunque nel diviſarle cagioni ,e la
natura delle målar tie , e diciù , ch'a quelle , ed all'economia degli animali
s'appartenga , valentiſſimo egli fia : edil ſuo autore abbia trovati , e
poſtiglorioſamente in uforimedj valevoli, ed ac concj a riſanare ancheque’mali
giudicati per addiecro infia nabili dagli antichi ; e quantınque alcuno dir
giuſtamen te vaglia , aver lui aſſai più di lume , e di vantaggio , e d'ui tile
recato al mondo co'foli ſuoi libri del Tartaro , che co® loro infiniti , e
voluminoſi libri di medicina tutt'altri fcric tori , così Greci , come Latini
inſieme s'ayefſer mai fac to ; non però di meno chiunque con occhio filoſofico
, e fpaffionato ben ſotcilmente vi badalſe,agevolmente ravvi far potrebbe la
dottrina per lei inſegnata eſſer alquanto manchevole , ed intralciata , e le
ſue saccherelle, comechè minori forſe dell'altre, avere anch'ella . E tutto ciò
certamente avviene tra per la natura della medicina, impoſſibile a comprendere
ad intendiméto uma no , come di ſopra baſtantemente è detto ; ed ancora per chè
il Paracelſo a tante , e sì diverſe , e ſtranemaraviglie da lui nuovamente
nella natura offervate, a guiſa d'occhio da troppa luce abbagliato , Che dal
troppo veder men'alto intende, tutto vinto , e tremolante più oltre non osò
guatare : ſule prime ſoglie della natura riſterteſi, ove maggiormente a fpiarla
per tutto inuoltrar fi dovea ; così Nun altrimenti ſtupido fiturba Ece 2 Il 1
404 Ragionamento Seſto 1 1 Il montanaro , e rimirando ammuta, Quando rozzo , e
ſalvatico s'inurba. Perchènon men , cheGalieno già de'ſuoi principj s’aveffe
fatto: grazioſamente immaginandoſi la natura della corpo rea ſoſtanza , e delle
quattro primjere da lui dette Relol lacee qualità : ene men inveſtigando onde
avvenir poſfa , ch'elleno sì poco valevoli ſiano nel corpo umano ad opera re ,
e cheniuna parte abbiano nelle gravi inalattie ; e per altre,ed altre
ragioni,nelle medeſime tacce delle quali ac cagionali Galieno poco meno
incorrer fi vede. Così il Pate racelſo intorno a'ſuoi principj non miga già,
ſicomea buo.si filoſofíte covenivaſi,riguardò alla natura , o alla proprietà ,
o a’modi del loro operare;ſenza le quali contezze non può certamente , ſe non
murarſi a ſecco, e poco durevol ſiſtema di razional medicina in piè rizzarſi .
Ma acciocchè quanto Io dico più apertamente ſcorger ſi poſſa , convien la coſaw
più minutamente diſaminare . Queſta grandiſſimamaſſa dellVniverſo e' fi pare ,
che da Teofraſto Paracelſo venga in due globi partita: uno al to , che due
elementiin ſe contiene , ciò ſono il fuoco , Paria : e un'altro più baſſo, che
ſomigliante due altrine ha, e ſono l'acqua , e la terra . I quali quattro
Elementi chia manfi ancora da lui vacuitadi;perciocchè vuoti d'ogni cor po
eglino ſono:altrimenti no potrebbono da' corpi agevol mente efſer ingombri.
Sono adunque gli elementi incorpo rei,cioè a dire privi d'ognicorporea
diméfone. Ma in que Ha vacuità dice egli , chela luce , e le ſeminali ragioni
di tutte cole dal loprano Facitore meſſe furono , allorches quello, di nulla
criò da prima l'Univerſo; quindi v'aggiun ſe le ſembianze , e le coperte propie
de corpi, le qualiallor che quelli veſtono , varie , e diverſe coſe ci producono.
Per quel, che ſi poſſadall'opere del Paracelſo argomentare : i principi primi
delle coſe fon di due inaniere; perciocchè, o ſono principj propiamente tali ,
o alcuni di que', ch'elemé ti comunemente diconſi . Gli elementi ſono due , uno
è fecco , il qual terra dannata , e cenere , carena anche tal volta chiamaſi:
l'altro è umido , il qual flemmafi dice . La Del Sig.Lionardo di Capoa 405 La
terra dannata non ha virtù alcuna , ſalvo che d'aſſor bere, e impiaſtrica,come
dicono ; e la flemma parimente al tro non adopera , che ammollare , e inumidire
; perchè ſon dette principi paſſivi . Ma non ſolamente la ficcità , e
l'umidore, giudica il Pa racelſo , che in nulla s'adoperino in queſta maſſa
mondiale; ma quell'altre dire qualità ancora ,che dalle ſcuole agli ele menti
s'attribuifcono , dice egli ad altro non ſervire , fuor folamente, che a
riſcaldare,o a raffreddare; perchè da lui , tutte , e quattro chiamanſi
Relollacee, cioè a dire ſeioperd te , e ozioſe ; perciocchè non hanno elleno
virtù alcuna ſe minale . Nelche ſi pare, che il Paracelſo imitare abbia vo Juto
Ariftotele, ilquale vuol , che i ſemi tucti ſian d’unco tal calore forniti,
propiamente celeſte, e diverſo affatto dal calore elementare. Perchè è da dire
, che fecondamente chè giudica il Paracelſo , le quattro volgari qualità altro
non adoperino , che cccitare, e riſvegliare le féminali virtù nc'corpi,ove clle
ſono. Ma i principj propiamente tali , che attivi egli chiama ; ſono anchetre ,
fecondo lui ; ciò ſono il Sale , il Solfo , e'l Mercurio . Egli è il ſale una
ſoſtanza ſalda , ſavorofa , la , qual disfaſli , e ſolveſi volentieriper
acqua,e per caldo derato fi ſecca , e li raſſoda : e per ſoverchio fuoco ſi
fonde. Il ſolfo è un corpo liquido, untuoſo , agevole ad accender fi . E
dalſale vengon tutti ſapori alle coſe : e per lo ſolfo gli odori in quelle
fpirano . Ma il Mercurio è un coralli quore fottiliſſimo , echiariſſimo , il
quale per la ſua ſottie gliezza in tutto penetrando , agevolmente ſi diſperde ,
ei fvaniſce. Or sì fatti principi giuſta i ſentimenti del Paracelſo abbi fognan
tutti neceſſariamente a comporre , egenerare cia fcuna coſa del mondo;
perciocchè il ſale è il fondamento di tutta la faldezza de'corpi ; e non
potendoſi il fale meſcola re , s'egli in primanon li ſolve in minutiſſime
particelle , fa meſtieri della fleminaa ciò adoperare . Ma la flemma non può
meſcolarli col fale per cóporre i corpi,ſenza l'ajuto del ſolfo ; il qual
parimente per la ſua untuoſità non potendo mo : ſi age 406 Ragionamento Sefto
fi agevolmente partire, ficomefi conviene, abbiſogna dell' acqua; la
qualcompreſa, e impregnata del ſale ſciolto , fonde il ſolfo , e maggiormente
disfallo , acciocchè poſla diſcorrere , e meſcolarſi acconciamente a formarle
coſe del mondo . Vien poiil mercurio , il quale a guiſa d'anima nel corpo , per
cutto penetra , e diſcorre ; ma in niunama niera potrà certamente ingenerarſi
fermo, e ben faldo cor po , ſe per la terra dannata in prima non ſi ſuccia ,
es’at trae la ſoverchia acqua , chesformatamentel'ammolla: per la qual terra finalmente
alla debita perfezione, e all'ultimo for compimentole maſſe tutte de
corpidivengono . Per le quali coſe dimoſtrandone il Paracelſo, che
diſtruggendofi qualunque corpo , in queſte cinque ſoſtanze folamente fi lolva :
e contendendo, che cotaliſoſtanze non poſſano cer tamente per cola del mondo in
altro giammai cambiarli , o folverſi : egli inſiemeraffermail ſuo diviſamento ,
e abbat te ſenza fallol'opinione d'Ariſtotele , e di Galicno intorno a’loro
priini quattro elementi. E sì avendo ben tutto ciò che fa meſtieri alla natura
de’principi, queſte ſole ſue ſoftá ze , e non altre dice il Paracelſo eſſeri
veri principi delle core . Ma Io per manifeſtare il mio parere intorno a cotal
di viſo del Paracelſo , non vo'ora opporgli , che y’abbia alcu ni corpi , i
quali , come affermal'Elmonte , e altri valoroſi maeſtri in Chimica , non ſi
poſſano maidisfare , o fciorre nelle loktanze da lui avviſate ; ficome
certamente è l'oro , e'l mercurio volgare;perciocchèegli agevolmente riſponder
potrebbe, ſe aver bene cotali corpi ſoluti ; comcchè ciò 2 coloro malagevol
fia, ſenza il vero artificio adoperare. Ne meno dirò , che cotali ſoſtanze
s’ingenerino di nuovo allor che disfannoſi i corpi : e che prima in quelli in
niun modo alliguavano ; perciocchè potrebbe egli ancor dire, che'lle gno per
qualche ſpazio di tempo macerato nell'acqua , le poi ſi brucia, non dimoſtra
nulla di ſale: ſegno manifeſtif fimo, che'l ſale allor, che in bruciandofi il
legno nonmace rato ſi pare , era in priina nellegno : e che dal legno l'ac qua
n’avea tratto colſuo maccramento il ſale ; anzi dirà il Para . Del Sig.
Lionardodi Capoa. 407 Paracelſo eſſer alcuni corpi, ne'quali ſenza artificio
alcuno , e ſenza ſolverſi v'appajano manifeſtamente cotali principi, ſicome
nelle ſugne , e in altri corpi grafli', e uotuolije nelle ulive anche non
ſolute il ſolfo-apertamente li ſcorge ; per ciocchè in quello ſommamente
abbondano ; ne a trar da quelli il ſolfo fa luogo lungo ftudio di chimica , o
ben fati colo favorio di diligentemaeſtro ; che poſfiamo dire eſſer il ſolfo
quivi tratto per l'artificio del fuoco, e in canta abbon danzaefferſi di
preſente ingenerato . Nepuò il fuoco , per direvole , e gagliardo , ch'egli
fiaſi ciò adoperare; percioc chè dalla terra dannata', o dalla flemma, ove
fólfo ,ne mer . curio, ne fale non alligna , non ſi potrà per opera difuo co ,
orlalaro chimico ſtrumento trarne goccia giammai. Tralaſcerò pure di dire
collElmonte , che dall'arena; dalla ſelce , non maiſolfo , o mercurio ſi può
trarre ; per ciocchè riſpõderebbe il Paracelſo in cotalicorpieſſer quel le
ſoſtanze cotanto ſcarſe , e poche , che nel volerle diſa minare ſi difperdono .
Ne recherò , che per far pruova diciò l'Elmonte con ſuo ſottiliffimo artificio
ſciolle in un purisſimo ſale l'arene , e le pietre : le quali s'avvisò egli no
aver perciò perduto nulla del loro primjero peſo ; percioc chè fa
pochiilimaquantità delſolfo , edelmercurio ſvapo raci,quello cotanto poco fa
menomare,che malagevolmen te fi pud per huomo avviſare ; ſenzachè ben può
penetrar qualche coſa in eſſi corpi, quando ſolvonfi,la quale riſtorar poſla il
perdimento delle ſoſtanze , che ne ſvaporano . Ne dirò pur coll'Elmonte ,
ſcambiarſi infra loid vicen devolmente corali principj; conciofoſſecofa , che
egli con maraviglioſo artificio ſcambiato aveſſe il ſale in olio , e l'o lio
poi tramutato in acqua ; perciocchè non così agevol mente il Paracelſo
avrebbegli in ciò preſtato tede , fe pri ma con gli occhj propj non l'aveſſe
veduto . E medeſima menteciò riſponderebbe il Paracelſo a quell'altra novella
dell'Elmonte , ove egli vantaſi da ſedici once di gromma di vino aver tratto
per diſtilazione un'oncia d'acqua , due once , e mezza di ſale , e dodici
d'olio , perchè egli n’argo menta poi contro al Paracelſo , che l'olio ſi ſia
nuovamente dal 408 Ragionamento Sefto , dal Cale acetoſo della gromma
ingenerato; conciofoſſecofa , che ſe tanta quantità d'olio ſtata in prima vi
foſſe ,ſarebbe & a più d'un ſegno certamente manifeſtaţa. Ė alla per fine
laſceròmolti, e molti altriargomenti da rintuzzare il ſiſtema del Paracelſo , e
i ſuoi principj : ficome quelli , a' quali cgli agevolmente riparar potrebbe .
Sola mente dirò , che quantunque lo ſcioglimento ottimo mnez zo fia da
dovereavviſarei principi delle coſe ; non però di meno tra per la ſcarſezza
degli ſtruinenti, e di tutto ciò ,ch ' a perfettamente fornirlo ſi conviene, e
ancora per lamala gevolezza dellavorio , ſi rende quaſi egli impoſſibile ; ſen
zachè nello ſcioglimento delle coſe,moltec molte lor por zioni delle più
ſottili, e però forſe più operative fa mestier, che ſvaporino , e ſi diſperdano
prima di potereſſer avviſa te ; c altre comechè pur virimangano , nondimeno per
la loro picciolczza non si poſſan comprendere , non che per altra notomia più
ſottile diſaminare. Ma ſopra qualunque altro argomento , che ſoſpetti rens de i
principi delParacelſo quello ſiè,che colle ſuddette ſue cinque ſoſtanze egli
non iſpiega, ne ſpiegar certamente po tea , come da loro le ſenſibili qualità
ad ognun conoſciu te , e quelle , ch'egli chiama Cherionie s’ingenerino ,eco me
operino , ſe pure il fanno ; ne è maraviglia , che'l Para celſo ciò non abbia
adempier potuto : da che egli non ſa qual ſia la lor natura ; ne certamente
ſaperla , anzine meno inveſtigarla egli giammai poteva , non ſappiendo la
natura della ſoſtanza ,onde quelle produconſi. Perchè egli fa meſtier
confeſſare , che la medicina del Paracelſo manche vole nella ſua maggior parte
ſi ſia. E ſe egli cotanto valoroſo ſi foſſe ſtato in iſcienza , qual veramente
giudicavaſi , dovea ben'egli in avviſando , che co'ſuoi principj non ſi potea
render ragione dell'apparenze delle coſe , prender quinci cagione di
ſoſpettarenon certa mente altri foffero i veri principj di quellc , e quindi
forte ſtudiarſi d'inveſtigargli ; perciocchè ſe a ciò aveſſe porav ventura egli
indugiato ; ſenza fallo avviſato avrebbe, le varie , e diverſe figure delle
menomiſſime particelle eſſer de'ſuoi DelSig.Lionardo di Capoa 409 de' ſuoi
principj cagione ; perchè agevolmenteargomentar n'avrebbepotuto come, e perchè
quelli operaffero : eche non eglino , ma il corpo medeſimo in varie , e diverſe
brice fgrecolatose partito, forſe delle coſe del mondo il vero prin cipio, onde
poi ciaſcuna operazione di quelle prendeſſera dice , e cominciamento . Ma
intorno alla maniera dei medicare del Paracelſo , ſe credenza preſtar ſi deve a
que’libri , che ſotto ſuo nome vanno , èda dire , chemolto vaga , e in coſtante
ella ſi foſ fe , e di pochiſſima fermezza . Il che altronde certamente non
nacque , ſe non fe dall'avvederſi , ch'egli fe in medicão do , dell'incertezza
grande dell'arte ; non però di meno egli pur convien confeffare , niuno ,per
quel che ſi ſappia , aver avuto corante , e cotanto efficaci, evalevoli
medicine a fgombrar le più pertinaci, e diſperate malattie , quanto il
Paracelſo ; e sì ſaggiamente ſeppele egli a tempo adope rare , che non fu
certamente infra gli antichi medico co tanto valoroſo , e avveduto , ch'a molto
ſpazio , così nell' uno , come nell'altro non gliandaſic dietro . Perchè in tā
to pregio , e rinomèa montonne egli preſſo le genti, che non huomo mortale
tanto , o quanto della medicina cono ſciuto ,ma non altrimenti che dal Cielo
per ſalvamento del genere umanomandato comunemente giudicavanlo . Ne v'increſca
al preſente aſcoltarne anche da altri le lo di , ancorachè alcuni di loro per
uggia , e mal talento con biechi occhj il guardaſſero . Ecco il doctiſſimo
Spondano, il qual ſovente lumc, e occhio della Germania folea chia marlo , così
di luifcrive : creditur habuiſse præftantiffimum illud vellus aureum , quod
Iafon apud Colchos conquifivit : ( Intelligunt me qui Suidam legerunt) quo
defperatos mor bos fanavit ; ande magietiam opinionem apud quofdam cele bres
viros , quod magis miror , eft confequutus . E prima dello Spondano , Corrado
Geſneri, comeche parzial di Galieno , e di lui per invidia inimico , pur dalla
verità ſtret to ebbe a dire : audio multos paffim ab eo in morbis deſpera tis
curatos : & ulcera maligna ab eo feliciter ſanata . E al trove egli n'avea
detto : Paracelſus noftra memoria mugus Fff FJOR 410 RagionamentoSefto (
nondubito.quin hoc nomen magis fanèintelligas', ut apud Perfas ufurpatum fuit)
admirabilis homo, notusamicis qui. bufdam meis; à vicinis noftris Helvetiis
oriundus , perva. gatus magnam Orbispartem : chimica arte y qaamipfe puto
ſpagiricamvocat, excellentisfimus omnium , ita utper eam metalla immutaret .
E'l dottisſimo Geometra, e filoſofo Pietro Ramo di lui parlando fcrive:in
intima natura viſce ra ficpenitus introivit , metallorum , ſtirpiumque vires,
facultates tàmincredibili ingenii acumine exploravit,acper vidit , ad morbos
defperatosi, & hominum opinione infana biles, percurandum,ut cum Teofraſto
nataprimum medicina, perfett'aque. videatur . Madel ſuo incóparabilvalore; e
delle maraviglie adope. xate da lui in medicina;piena teſtimoniāza ne rende la Città
tutta , e la dottiſſima Accademia di Balilea, e'l Comun di Norimberga, ove egli
per tante maravigliole ſue pruove ragguardevol molto , e famoſo divenne:
intanto che ragio nevolmente ftipiditone il Zemeo avvedueisfiino ſcrittor
de'ſuoi tempi,cosìdi lui dice : Apud Germanos: nunc Thea phraſtus quidam vir
adolefcens'exiſtit, cui parem Orbis.non fert :doctioremme legiſememor non ſum
.. E Melchiorre, Adamo dilui pur raccontando dice: eum ingenio acutisfimo,
acferè divino fuiſſepreditum : din univerſa philofophia tàm ardur , tum
arcana', abdita eruiſse mortalium nemi nem : lepra , podagra,
hydrope,aliiſqueinfanabilibus malis, defperatis mulios liberaſse: "idie
per duas horas Ba flee tum aétiuamtumcontemplativam philofophiam fumma
diligentia , magnoque auditorum fructu eſseinterpretatum doctrină ,quam non ex
Hippocrate , fed experientia aſsegur sus erat. E'l Barthio pur di lui dice: Ego
de Theopbralo pre clarèfentio : admiranda praffitit; ſed qui cum perfectè intel
ligat , & quæ ipfe fecit faciat, nondum audivi. Ę France fco Oporino fuo
famigliare, per veduta anche di lui racco ta : pari induſtria novi ipſum
leprofos , bydropicos , e pilepti cos , podagricos , morbo venereo infectos ,
aliofque innume ros infirmos gratis fanare . Id quod Galenici Doctores non fine
notabili dedecore non potuerunt imitari ; unde in ma gnum DelSig.Lionardodi
Capoa. 411 gnum apud quoslibèt.contemptum inciderunt. E'l me delimo Oporino in
quella lettera appunto , ove fraſtorna to dagli emuli dilui , e
fommoſſoanch'egli in truppa , a rabbioſa monte mälmenarlo , infra le tante , e
tantc menzogne , e cacce , che per isfregiarlo farnesicando ſi fogna ( del che
gravemente poi pencilſı , ſicomene narra Michel Toſite ) pur non potè tanto
diffimulare , che apertamente talvolta non confeffaſſe eſſere il Paracelſo
valentiffiino medico , aver prontamentetra le mani mirabilem faciendi medicinä
in omni morborum genere promptitudinem , felicitatem , Quindi di luinarrando
foggiugne , che in curandis vulne ribus, etiam deploratiffimis miracula edidit
, nulla victus præfcripta , aut obſervata ratione . E de'ſuoi mirabili , e
valevoli argomenti maravigliato: laudano fuo , dice , ita gloriabatur , ut non
dubitarit affirmare ejus folius ufu ses mortuis vivas reddere pole; idque
aliquoties , dum apud ipfum fui, ipfe declaravir. Macelebre ſopra tutte fiè la
teſtiinonianza , che fe del le maraviglioſe cure del Paracelſo il
SereniſſimoArciveſco vo di Salburgo, il quale dopo averlo altamente anorato in
vita , e faccigli in morte famofiflimi eſcqui : volle , che nel Ja lapida del
fuo ſepolcro fi leggerle queſto orrevole ſopra ſcritto ; Conditur hic Philippus
Teophraſtusinfignis medicine doctor, quidira illa vulnera Lepram ,podagram
,Hydropem , aliaque infanabilia corporis.contagia, mirifica arte fubftulis , ac
bona fua in pauperesdiftribuenda , callosandaque curavit. Ma:2pertamente tutto
dì ſi ſperimenta il valor di qual che medicina del Paracelſo , comeche delle
men nobiliel la li fia , alla contezza noſtra pervenuta ; perchè tutto dà i più
valenti Chimici ſtudianti per rinvenirne alere nelle ſue opere . Ma delle
medicinedelParacelſo aſſai bene ſcorro Giovan Battiſta Elmonte, tuttochè ſuo
emulo , ebbe a dio re eller quelle così rare , e prezioſe , che meritevolmente
il gloriofo ſoprannome di Monarca degli arcani ne avelle egli riportato .
Maavvegna pure, checotanto valorolo foſſe ſtato il P.2 racclſo in medicina ,
qual noiraccontato abbiamo; non per Fff 2 rò di 412 Ragionamento Seſto rò di
meno non ſempre ſi veggono i rimedi di lui a liero ffa ne riuſcire : e ciò maggiormente
teſtimonia la non macura morte,che fopravennegli a mezzo il corſo della fua
vita , cioè a dire nell'anno quaranſetteſimo; dalla quale nó li po tè egli per
argomento niuno fchermire : comechè cotanti diſperati infermi dall'orlo della
ſepoltura ſottratti aveſſe, e quaſi di mano a morte sforzaraméte ritolti; e pur
egliavea detto in prima: nullus morbus fuo medicamine defituitur . Che ſe'l
maggior medicante del mondo non potè ceſsar la violenza del ſuo fato , e
adoperarsì co'ſuoi valevoli , co prezioſi medicamenti,che la ſua vita a'più
vecchi anni ſi ri ſerbaſſe , che dovrem noi ſperar mai di certo dalla medici na
, attenendoci a rimedjdeboli , eſpoſſati , per falvainen to delle noſtre vite ?
Ma egli ſcagionando in ciò l'incertez za grandiſſima dell'arte , che pur troppo
avveduto ſe n'eray e roveſciandone follemente la cagione a'forcunoſi fati, dice
che in baha di quelli ſia l'uſcimento de’rimedj interamente ripoſto ;
perciocchè da quellola vita , e la morte noſtra de pende ; quod autem , dice
egli , parlando dell'incertezza de' medicamenti, ium medicine , tum his atentes
perfæpè à fa talibusgravius vexentur , &cuentum conditioni medicina AC
curſuinatura adverfum omnino experiantur;ideo nobis fa Gere debet , ut inde
diſcamus nimis obftixatam de hac fragili vita fiduciam ,ac fpem deponere . Etfi
enim nocentia fimul omnia , &medicinarum fimulomnium virtutes , morbo rum
genuinascaufas ; ac bis oppofit& remedia debita plenè teneamus: nibilominus
tamen hancconfidentiam incumbes fan tum infringit facilè , ftatum formum omnem
deftruit ; cui nos non modo non obluétari quicquam poſsumus , ſed fatali bus
caufs nofmet nudos totos potiøs objicimus, utpote que nos in folidum
mortalesfaciani , noftraque molimina infrin , gant, & providentiam noftram
, ac confilia univerſa ever Ma de'medicamenti di lui cotanto poco approfittar
ne poſſiamo , che comechè egli valentiſſimo medico , e filorow fante ftato
foſſe , pur le ſue opere in gran parte inutili, infruttuoſe ne rieſcono ;
cotanto piatto , e imbacuccato tant . egli 1 Del Sig.Lionardodi Capoa. 413 egli
ſi fu ne'ſuoi ſentimenti ,ch'a ben rugumargli malage voliſſimamente ſe ne può
cavar nulla di buono . Eoche foſſe ſtata invidia aʼmedeſimi ſuoi ſeguaci , o
altro ch'a ciò far lo ſpigneſſe ,dique'ſuoi maraviglioſi medicamenti, on de
cotanta fama egli accattofſi , pochi egli ne volle inſe gnare :. e que'pochi
cotanto monchi, e oſcuri ne fcriffe , che ben ne laſciò nel farnetico di
doyerne inveftigar con lunga fatica la traccia ; de'quali egli medeſimo
favellanda , dice : in quibus afsequendis paucisfimi fcopum contingent . ,
Perchè alcuni inviluppativiſi ſconciamente vi favellarono , togliendo in
cambiouna coſa per altra , e sì con quelli pig giorando gl'infermi delle loro
malattie , e ſovente anche uccidendogli . Vuole egli, che ciaſcuna malattia ,
toltenc quelle , che richiedono la mano del medico per dover curarſi, e quelle
ancora , che dalle ſole qualità relolacce avvengono , le quali ſenza argomento
alcuno d'arte ſi guariſcono , dalle impurità ſemplici del ſale , o del mercurio
, o del ſolfo , o da tutte queſte foſtanze so da parte di eſſe s'ingeneri no .
Ma comechèegli cotanto danno ne dica da quelle av venirne: ſe noi non ſappiamo
, ne egli punto ne ſpiega qual ſia veramente la natura loro , ne anche
certainente avviſar poſſiamodi che forte d'impurità quelle loro fiano, accioc
chè acconciamente alle malattie da quello inoſſe riparar posſiamo . Le medicine
, dice il Paracelſo, effer debbono ſomigliá ti al inale , ch'è da curare ;
perciocchè quantunque ognun fappia , che le malattie fian contrarie alla ſanità
delle gen ti , e che perciò vincer ſi debbano con argomenti contrar alla lor
natura ; non però di meno le medicine , le quali G convengono alle malattie
eſſer debbono pure della mede fima lor generazione ; perciocchè altrimenti mala
pruovan vi farebbono a raccattar la ſanità . Quinci ſi è, che'l Para celſo dopo
aver avviſato tre eſſer i generi delle malattie , così dica : caveat itaque
medicus ne arbores duas in unams curam inferat :fed teneat regulas,morbis
mercurialibus dan dum ejſe mercurium : morbis falinis,falem :morbisfulphureis,
ful 414 Ragionamento Sesto ſulphur ; unicuilibet nimirum morbo fuum
appropriatum ficut convenit . Ma in buona fe , che ha egli che fare la
ſomiglianza con la cura delle malattie? Perchè ebbe egli la ragione l'Elmo te
di forte biaſimarnelo : igroravit bonus ille vir , quod ifta non fintagentia
fufficienter ad fanationem requifita . Ne ciò è ſempre vero , che le coſe più
agevolmente poſſano alle ſomiglianti penetrare , cmeſcolarſi inſieme; ecome il
me deſimo Paracelſo diffe:quodlibet fuumfimile comprebendere. fuum fimile,non
diverſum ; perciocchè avviſiamo noi tutto giorno in molte , e molte coſe il
contrario avvenire . Ele pur talvolta incontra , che s'accozzino , certamente
per al tracagione egli s'adoperajāzicotáto ciò è falſo ,che per co trario
alcuno dir potrebbe più p diverſità, che p ſomiglia za inſieme le coſe
accozzarſi: ficome i corpiconcavi ſono , i quali ſtrettiſſimaméte a’ritõdi
s’uniſcono ;nei corpi ſpea rali , o ritondi , comechè fomigliantiſſimi infra
lorofiano, poffono in alcun modo convenirſi : avvegnachè pur ſi con vegnanoi
quadrati. Perchè dica pure a ſuo seno il Paracel fo :Scorpio ſcorpionem curat ,
realgar ſuŭ realgar, mercurius fuummercurium , meliſir fuam melilă; che ditanta
mara viglia non ſarà certamente cagione la ſomigliáza;anzitute' altro di quello
, che egli va diviſando ; perciocchè, per ta cer dell'altre coſe , nello
ſcorpione i pori auſati per lungo tempo a ritenere in ſe quel ſuo veleno , e
acconcj anche a riceverlo , più agevolmente il ricevono dalla ferita , ch'egli
fa nella carne d'alcuno , che non poſſon riceverlo l'altre parti ſane vicine
diquella ; perchè movendo per la forme tazione le particelle delveleno nella
fcrita , volentiericol loro diſcorrimento nello ſcorpione paffano, e a riccrti
me deſimi, onde uſcirono, fi ritornano . E queſte ſono le con tezze ,che deve
avere il medico avveduto per doverpren . der argomento da porre avantile fue
medicine, e non già le ſomiglianze , o altre fraſche , le quali agevolmente poſ
fono ingannarlo , e mettere per la mala via iwiſeri infermi. Che ſe noiveggiamo
alla giornata a' mali del ſale aceroſo porfi conſiglio collaflomma , e colla
terra dannata, e altri, Catri Del Sig. Lionardodi Capoa. 415 $ 1 e altri mali
guarirli con diſſomiglianti rimedi, perchè do vrem noidire,che la ſomiglianza
fola poffá diſmalare i cat tivelli infermi, e nello ſtato ſalutevole del
primiero vigore riporgli ? Maſu riccvaſi pure',comevera,la regola del Pa .
racelſo intorno a'generi de'medicamenti, e ſia pur la fomi glianza da ſeguire
in medicando ; come potrà mai il media co avveduto avviſare qual forte di ſale,
o di mercurio , o di folfo daelegger ſia per riſtorar de’ſuoi mali l'infermo ,
feu prima egli pienamente no coprenda la gencrazion di quel ſi , ch'a ciò il
conduffero . Conviene adunque al medico fa pere quali ſien quelle particelle ,
che forman l'apparenza dell'aceroſità nel fal dell'aceto's quali l'amaritudine
nel ſal della coloquintida , ſc ragionevolmente egli proceder vuo Ic nel ſuo meſtiere.
· Ma fe'l Paracelſo ebbe la medicina univerſale , come è coſtante famaaverla
lui apparata nel fuo lungo pellegri naggio , non facea meſtieri ſapere;
o'avvifar niuna disì fata re coſe , ne'curar di vene łatice , o di acquoſe, ne
della doc cia del Virfungo , o della circulazion del ſangueso dal tri , e
d'altrimoderniritrovati : comeche ſembri aldortifia mo Vitiſchio aver parte
luidi queſte coſe felicemente avvi fate . E cócioſliecofachè l'univerfal
medicina ſenza riguar dare a età o oa compleſſione , o ad altra coſa del mondo
, igualméte torte malattie vanti di guarire;Io non ſo lorper chè il Paracelfo a
si fåtte fraſche foſſelli: attenuto , ſe egli diquella erisì ben fornito ;
perciocchè quella diceni eller ſomigliante albalſamo naturale, e perciò valevole
a invi gorirlo , e ajutario sì fattamente , ch'egline ſolva , vinci, e
diſtrugga le cinture ſeminali di qualunque ſorte zonda l'e malattie curte
prendon dirivo . Diceſi balſamo naturale dal Paracelfo' una coral ſpiriz tuale
ſoſtanza di principi puriſſimi compoſta , e participan te della natura
celeſtiale : onde ella è quafi incorporea ye incorruttibile ; adunque corale
eller conviene l'univerſal medicina, e che ſia partecipe di tuttiprincipj ,
acciocchè in ciaſcuna malattia approdar poffa . Ma certamente non che il
Paracelſo cotal medicina avuta aveſſe giammai , anzie egli 416 Ragionamento
Seſto egli fola il creder , che quella ci ſia , o pofla mai eſſere :av : vegna
pure , chealquanti medicamenti di lui fieno ſtati va levoli a ſgomberar molte ,
e diverſe generazioni di graviſ fime malattie . Ma egli tante,e tante ſortidi
medicine ado però nelle ſue cure , e argomentoffi dicomporre , e lavora te con
ſuo gran biſtento , e noja degl'infermi, che certa mente a cið recar non
s'avrebbe dovuto , ſe quella ſua uni verſal medicina conoſciuta aveſſe;
ſenzachèegli , ſe non voleva pur logorarla nelle cure baſſe , e menovili,
ſarebbe fene almen ſervito perſe medeſimo, allorche da graviſſi ma malattia
ſorpreſo anzi tempo morilli , e prima d'aggiu gnere all'anno cinquanteſimo
della ſua vita. Ma ſe eglifof fefi pur nella filoſofia tanto, o quanto
innoltrato , no avreb be sì fatte millanterie ſcagliate del ſuo valore , e
della vir tù della ſua univerſal medicina . Ne meno egli certamente detto
avrebbe , che l'huomo per la ſola immaginazione va levol ſia anche fuora del
corpo a far le maraviglie , cche i caratteri , e le immagini ſcolpite nelle
piaſtre , e porta te adoſſo poteſſero ſchermir le genti dalle inalattie, e libe
rarle da quelle ; ne farebbeli follemente ſognato , che'l ſole fo ne'corpi
degli animaliſidiſtilli , ſi fublimi, ſi riverberi, fi calcini , e ſi fonda :
onde poi mettan fuora varie, e diver fe forte di malattie : e che'l ſale , e'l
mercurio in noi ſimi gliante ſi diſtillino , fi ſublimino , e ficalcinino cagionando
le malattie : è che'l mercurio aſſottigliato oltremodo per la ſoverchia
circulazione ſia cagione delle ſubitane morti , e repentine:e che noi
puntalmente n'aſſomigliamo all'univer fo , e neſiamo vere imınagini in ciaſcuna
noſtra parte : e che i tre principj in noi cotante generazioni di malattie
prodı cano , quante ci ha coſe create : e tante , e tant'altre ciuffo le , e
aggiramenti , che ſe tutti fil filo gli vorrei narrare,non così agevolmente ne
verrei a capo . E tutto ciò a lui avvē ne per diſagio di profonda filoſofia. Ma
per avventura egli non fu cotanto ſciocco , qualnoi giudichiamo dalle man
chezze dell'opere fue; perciocchè quelle da' ſuoi malevoli per uggia , c per
diſpetto cosìdiſguiſate , e travolte furo no con torne alcune ſentenze per
entro , e altrs, o ſciocche, o fans 1 1 Del Sig. Lionardo di Capos 417 o
fanciulleſche, o empie vezzataméte frapporrvi,che omai tralignano dallo
ſplendor d’un tant'huomo, enon ſembran più ſue. E alcune ancora affatto non ſon
fue , licome il medeſimo Oporino , che così fellonoſamente rubbellogli ſi ,
manifeſtamente rafferma; perchè non dovrebbeſi certa mente coglier cagione per
quelle d'accoccaglierla , c dir glicne male ; ſenzachè manifeſta coſa è , che
quelle , che ragionevolmente ſon da credere opere ſue , vennero perla più parte
ſolamente dalai diſegnate , ne più poi per innan zi rivedute ; perciocchè egli
dal ſuo focoſo , e diſcorrevo {e ingegno traportato inteſe ſolamente in prima a
ritrovar le coſe , e quali dal profondo della natura cavarle , con in tendimento
poi di più minutamente a ſuo bell'agio quelle ſtacciare ,.e diſaminare, per
poter metter avanti con eterna fama del fuo valore quelſuolodevoliſſimo
ſiſtema, che im preſe a diſegnare; e per avventura ſarebbegli venuto fatto ,
s'a ciò tempo aveſſe avuto ; ma la morte, ch'improvviſo gli fopravvenne, fe
riuſcire a vuoto i ſuoi diſegnamenti, e non laſciogli agio di fornirgli ;
perchè rotto a mezzo della fa rica ilſuo lavorìo,cosìmonco , e diviſato rimaſe
, qualnoi veggiamo. Ed è anche opinione d'alcuni , che le menzio oate ſue opere
foſfono componimenti de'ſuoi ſcolari ; per ciocchè egli uſava folamente a boce
inſegnar loro i ſuoi ſentimenti, ſecondo la coſtuma di quc'rempi ; e quelli poi
gli cópilavano in iſcrittura, molte coſe giugnendovi dellor capriccio ,e molte
non ben copreſe travolgendo a lor talen to in tutt'altro , cheegli li voleva
dire . E ciò tanto più ne ſi fa manifeſto , quanto in eſli ſuoi libri più fiate
le medeſi me ſue coſe ſon ripetite , ſecondochè da diverli ſuoi ſcolari furono
accolte ; anzi dal loro natio tedeſco linguaggio nel Jatino idioina
ſcioccamente traportate da perſone diciò poco , o nulla intendenti , così
confuſe , c inviluppate di vennero , che malagevolmente ne vien fatto ad
avviſarne , iveri ſentiméti dell'Autore; col qualdifetto aggiūta anche
l'ofcurezza , ch'egli a bello ſtudio argomentolli frapporvi, certamente
oſcuriſſimi , e malagevoli oltremodo quelli ne, rieſcono ;
conciofoſſecoſa,cheartatamente il Paracelſo co Ggg sì piat 418 Ragionamento
Seſto sì piatto , e imbaccuccato ne' ſuoi ſentimenti con nubi di riboboli, e
d'enimmi i ſacroſanti miſterj:della natura avef ſe coperti,per far quelli
ſolamente , e con lunga fatica agli huomini dotti , e di maggiore intendimento
comprendere, enaſcondergli alla minuta: bcuzzaglia:delle genti, o comes diſſe
il Berni Alle brigate goffe, agli animali; Che con la viſta non pafsan gli
occhiali. Ilche ſenza fallo infra gli altri fu dalBorricchio avviſaperchè egli
dice : ne Eleufina ſacra.profanè Viiverſi pro fituerent: gnarus , id factiraſse
Egyptias, & Pythago ne affeclas ſacheche la di ciò, non ſono impertanto da
ſpregiare i ſuoi diviſamenti intorno alle coſe della medicina; percioc chè per
tacer de’ſuoi medicamenti, de' quali ſe vier mai quella priva, poco men , che
come corpo morto ſenza vita rimane : non può certamente eſſere ne filoſofo ,
nemedico valoroſo colui che non ſappia appieno ciò ,che dellecoſe della
natura:glorioſamente.Paracelſo n’abbia diviſato .. Fra Tomaſſo Campanella ,
comechè d'acutiffiino inten dimento, e libero filoſofante e' ſi foſſe , pur sì
fattamente tratto tratto favella delle cofe naturali , cheben ne da.aw divedere
quanto più agevole impreſa ſia lo ſchivar quegli errori', ove gli altri incorli
ſono , che il ritrovar la verità . Nocquegli più che altro ſommaméte in ben
filoſofare nel lamedicina,l'averlui-troppa credenza. voluto preſtare alle
opinionidel Teleſio ſuo maeſtro , per tacer della ſtrologia, e d'altre vane
ciurmerie ,c.indovinelli, ove egli fanciulle ſcamente dilettavaſi ; e l'averfi
dato follemente a credere, che cotali.coſe, o enti favoloſi da lui ſolamente
immagi nati abbian parte nelle cofe della natura ; perchè non è da maravigliare
ſe'l ſiſtema della medicina , dalui fabbri cato , manchevole oltremodo , e
difettuoſo riuſciffe . Al la qual coſa fu egli anche cagione il non aver lui
eſercitato gianmai cotal meſtiere: ficome anche nocque a Cornelio Celſo ;
perciocchè aflai per avventura ſarebbonfi vantag. giati, ſe per pruova
ſperimentato aveſſero i lor diviſamenti. Ma Del Sig. Lionardodi Capoa 419 Ma
ſopra tuttonocqueal Campanella il no eſſerfi eglipũ to conoſciuto di nocomia ;
perchè egli poi traſcorfe in co tanti errori, e aggiramenti , dicendo il fegato
efferfonte , c origine del ſangue e la milza del fiele : e che tutto dal
cervello provenga: Organum fpiritus, dice egli , cor Jan guinis jecur ,fplen
fellis , & alia aliorum ; omnia autemiſta cerebrocauſsam habent ;arteria
vocalis manifeftè ex.com pite oritur , ubi et ftipitem amplisfimum
haber:igitur& alia; Junt enim ejufdem fubftantia , d originis . Etanti, e
tantal. tri falli egli preſe nella notomia anche in coſe manifeſtiffi me, e a
ciaſcunconoſciute,che ragionevolmente di lui cb be a dire ilLindeno : Quid
horum eft , quod fenfus teftis omni exceptione major manifefta fallitatis etiam
Anatomi corumpueris damnate.convincit? Ma non però di meno fep pebenegliil
Campanella da quel gran Padre di Chicas Santa,GiovanniCrifoftomo appararc ,
che'l nutrimento p una cotal cortiliffima foftanza ; la quale ſpirito appella
Cri foſtomo, dal cervello infieme colfenfo , e col movimento all'altre membra
degli animali fi difpenfi;comechèpai egli di ciò dimenticato,altramente
favelli.. : Ma che direm nai del fiſtema di lui , della nuova arte di
medicare,ch'egli ne compone ? Vuole eglicol Telefio il caldo ſolamente, e'/freddo
effer primi principj di tutte co fe , i quali egli chiamaagenti: e l'umidità ,
e la ſiccità ef fer ſolamente diſpoſizioni della materia , ceffetti di quelli;
intanto che la materia delcaldo aflottigliata divenga umi da : e ſi rondafecca
, ingroffata dal freddo . Ne l'umido có altro può accompagnarfi, fuor folamente
che col caldo : nè'l ſecco con altro , che col freddo; perciocchè ſel'umido
s'accompagnerebbe col freddo : 04 fecco col caldo , dice eghi, che ſarebbon da
quelli toſto diſtrutti . Anzi dice egli, che'l caldo fia cagione dell'umido.:
e'l freddo del ſecco ; perciocchè il caldo ſolve le coſe , e le allarga , e
l'aſſorti glia : e'l freddo per contrario le indura , le ſtrigne , e le co
ftipa. E queſti due principj dice egli effer foſtanze , o for me eſſenziali ,
de quali accozzate alle lor materie formino il Cielo , c la Terra; perchè anche
due, e non quattro vuo Ggg 2 le cgli, 420 Ragionamento Seſto fe egli, che ſian
da dire gli elementi. E le forme dice efier nuovamente introdotte nelle coſe dalla
potenza della na tura agente , non già dal feo della materia cavate. Maquel,che
più è ridevole in lui ſi è ,chc dice egli eſſer : altri principj incorporei,
che régan parte nel componiméto delle colc ; daʼqualivuol egli , che prenda
dirivo ciaſcunas operazione la qualda'volgarifiloſofanti alle qualità occul te
delle coſe s'attribuiſce . E queſti principj incorporei , o primalità , ch'egli
chiama, vuol egli , cheſiano lapotenza, la ſapienza , e l'amore ; onde ciaſcuna
coſa voglia , poffaw , e conoſca:onde anche quella prenda naturalmente ſenſo
della propia conſervazione . Ma quanto poco vero fia sì fatto diviſamento
de’princi pj della natura ,non fa meſtier , ch'lo ſpieghi; potendo cia fcuno
per fe agevolmente avviſare, non ſolamente il caldo, e'l freddo effer nella
natura , ma altre , e altre coſe diver filime da quelle ; ſenzachè non
ifpiegando il Campanella la natura del caldo , e del freddo in che veramente
conſiſtay mal può inveſtigar poi , non che dichiarare , fe quelli vera mente
operino , e come; imperciocchè ſovente egliſoftá ze chiamandole,par che ne
voglia certamente uccclare ; poichè egli medeſimo dice, la materia ſola eſſer
propiamé te ſoſtanza, e non altro ; perchè manifeſtamente s'avviſa , che il
Campanella nel primo ſuo filoſofare, e in ſu la ſoglia appunto di quello
ſconciamente fdrucciolando cadele : e grandiſſimo tratto dalla vera ſtrada
della filoſofia forvia to erraſſe ; perchè poicertierrori, e aggiramenti gliene
ſeguirono, che nulla più ; prendendo egli in cambio della mido il diſcorrente ,
che è ſuo genere, e non iſpiegando la natura di quello , ne del ſecco , o del
dolce ,, o dell'amaro , o di tuce'altre ſenſibili qualitadi . Negran fatto
v’abbiſo gna a dimentirlo delle operazioni de'ſuoi principj;percioc chè per
ciaſcun , che riguardiall'acqua , che per lo freddo congelata fi rarifica ,
agevolmente ſi può avviſare , che non feiapre il freddo condenſi le coſe .
Mache è ciò ch'egli di ce , che le coſe inanimate abbian ſenſo certamente a ciò
cre 1 . 1 DelSig.Lionardo di Capoa. 421 1 credere, per tutti gli argomenti del
mondo, ne egli,ne il Tea lefio , ne l'Elmente ,che in ciò volle ſeguirgli,
m’indurreb bono . Ma ſpiegar poi non può egli in modo quelle ſue prima lità ,
c'huom finte da lui non le creda , e aver la loro eſiſté za tutta nel cervello
ſolo dell'autore; perchè non sà cgli dir neanchecome vengan quelle a
incorporarſi nelle coſe ſen fibili dell'univerſo ,eda far tutte quelle
maraviglioſe ope razioni , che da lor procedere tutto dinoi veggiamo . Ma per
darci ad intendere , che le coſe tutte abbian ſenſo , do vea certainente egli
prima farci vedere in quelle gli orga ni , i quali render le poſſano del ſenſo
capaci. Vuole il Campanella ,che l'huomo ſi componga del fal do , dell'umido ,
dello ſpirito , e dell'anima ; e che la ſal dezza dalla denſità naſca , e
queſta dallo ſpeſſo , e fulto ac eozzamento delle parti ſi componga ; perchè
dice egli, che le coſe condenſe , e falde , sì attamente, che di vantaggio più
riſtrigner non fi poſſono reſiſtano al toccamento,e fem brin dure.E d'altra
parte dice naſcer l'umidezza per diſa gio di parti;e per alkargamento diquelle
che ſon diradate,e folute , dice eglieffer la ſpiritualità : la qual non che
reſiſta al toccamento , anziella dileguiſ immantinente ,e fugge da ognjintoppo
. Ma purdice egli alcune volte gli ſpiriti operar faldamé te per l'unione non
già corporale , ma ſicomeeglichiama, affettiva :dalla quale invigoriti incontro
la forza, che lor fatta viene , riſcuotonſi quelli , e combattendo diſcacciano
ciò , cheloro è d'impedimento . Soggiugne il Campanella , ch’alle parti
ſaldefaccia me ftier dell'umide per dover nutricarſi delle parti di quelles più
groſſe , e per non dover ſeccarſi, erõperſi :e per cõrra rio l'umide delle
falde abbiſognare, come divafo , o di ri cetto , che loro dia luogo ,e le
ſoſtenga . Ma agli ſpiriti,di ec egli , far luogo le parti umide ,acciocchè
dalla lotti gliezza diquelleſi nutrichino : e le falde ancora, acciocchè
appiccati quivi dimorino , e non ſi portin via ; e per con trario l'umore
abbiſognare dello ſpirito , acciocchè quello pre 422 Ragionamento Sefto
premendo il cibo , e traendone il fucco , il formi: e ſomi gliante , acciocchè
per quello ſi riſcaldi , e diſcorra ; e al ſaldo ancora convenirli loſpirito ,
acciocchè per quello ſo ſtener fi poffa, e muoverſiovein concio gli venga. E
alla perfine dice egli che l'anima abbia ancor ella biſognodello ſpirito ,
acciocchè per opera di quello itu dioſamente muova il corpo , e la ſcienza
delle coſe natu rali apprenda ; perciocchè l'anima da'corporei oggettief ſer non
può mofla,ſe nonſe permezzo dello Ipirito : dalle cui paflioni ella vien
rattenuta , o reſa prontaalle ſue ope fazioni. Ma lo ſpirito allo incontro
haegli ancor biſogno dell'anima in quanto egli è umano: e acciocchè maggior.
mente egli perfecco ſi renda nelle ſue primalità, e più valo roſo nelle ſue
operazioni, e più ragionevole nel reggimen to delcorpo . Main quanto
eglièanimale,1100 chemeſtier gli faccia l'anima, anzi egli fortemente contro
quella com batte , maggior capital facendo degli agj propj di ſe , e del fuo
corpo,che de celeſtialidell'anima. Adunque dice egli, effer corali vicende
fommamente neceſſarie a ben viverle genti ; che le alcuna per mala ventura in
quelle traſandaffe, toſto le malattie mettan fuora : le quali ſciogliendo l'uma
na compoſizione, ne diſpongono alla morte. Ma quali ragioni adopererò lo per
mádare a terra si fat to fiftema , e rintuzzare il diviſamento del Campanella ?
Egli non ha dubbio veruno , che nella maggior parte di quello cotanto egli
dalla natura s'allontani , e trafandi,che ſenza ch'Io l'accenni agevolmente
ciaſcuno per ſe medefi mo il può avviſare. Ma s'egli pure fondar voleva ſiſtema
di razional medicina , conveniva in prima molto bene la natura del corpo
inveſtigare , e di ciò che a quello avvenir poffa : ficome fecero quegli
antichi greci filoſofanti, i quali egli follemente in quella piſtola ,ch'egli
ſcrive al Gaffendi forte biaſima, e riprende. La qual coſa egli certamente
nonfacendo, comechè egli col ſuo acuto intendiméto mol ti , emolci errori di
Galieno , e de ſeguacidi lui ſcoperti aveffe : pure per manchezza non poco
danno gliene ſeguì ; perciocchè egli così poco acconciamente della natura del
le m2 Del Sig . Lionardodi Capoa. 427 fc malattie , e delle cagioni,e de'ſegni
e delle cure di quel le imprende a ragionare , che ineritevolmente ne fu ſghi»
gnato , e carminato da tuttimedicide'ſuoi tempi;non pe rò dimeno fra cotante
fue ſconcezze famoſa: ſenza fallo fi è quella ſentenza, ch'cgli reca intorno
alla natura dellow febbre : ne ſaper puoffi, ſe egli dáll'Elmonte, o pur l'El ,
monte da lui tolia l'aveſſe ; imperocchè ſcriſſero coſtoro nelmedeſimo tempo ;
ma ad amcnduc n'avez dato forfe cagione disì. Fattamente filoſofar della febbre
Roderigo Veig... Io la rapporteròcolle proprie parole del Cápanel la : Febris ,
dice egli , eft fpontanea .extraordinaria fpiritas agitatio , inflammatioque ad
pugnam contra irritantem mora bificam cauſam : quam fic.calefacit, agitar,
digerisque, red ditque expulfioniapsan , vel extinétioni', velmeliorationi .
Macomechè la febbre tutto ciò faceffe , nonperò di meno offendendo ella
ſoprammodo le operazioni, è ella cert2 ; mente da dir malattia ; ſenzachè Io
non ſolo , come lo ſpi rito poſſa aver ſentimenti : e non altrimenti, che
s'egli ani mal foſſe , quando gli metra bene , riſcuotaſi, e s'apparec chj di
combattere contro ciò che'l molefta , e gli reca in toppoalle ſue operazioni .
Cofia , la quale delcervellodel Campanella fofamëte,e:dell'Elmonte immaginar ſi
poteva: Ma intorno a medicamenti, eglivuole ,che la cura quan to a ſeda far ſia
perli contrari: ma per accidente talora dal le cofe comigliantiancor ſi elegga
; e alcuna fiata gli uni ,ė gli altri meſcolando compor fi convenga , acciocchè
il foa migliante appiccandoſi alfomiglianteaſe l'attragga;quin . di il
contrario combatrendolo il difçacci . Orcome egli fti ma le genti disi groffa
paſta , che ne vuol far Calandrinis dandone a divedere sì fatre favole x Reca
égli in pruova il fapone : fiquidem, dice , Sapone ex oleo , cinere , da calces
confefto maculas olei ex panno extrabimus: oleo invitantej oleum , &
alliciente : cinere , calce fimul expellentibus, Quare , ſoggiugne poi ,
maculas vini ex calce , di vino fa . pone confecto educes; fihanc nofti magiam
. Ma doveva av viſar pure il Campanella , non già per la fomiglianza , che pulla
opera , l'olio con l'olio fi meſcola , el vino col vino ; i mil 424
Ragionamento Sesto 1 1 ma per la figura , e per la diſpoſizione delle loro
particel le ; e doveva egli pure inveftigar la cagione , per la quale la cenere
, ela calcina radendo l'olio della veſte,allettaco . come egli dice ,
dall´altro olio , quello ne portin via ; per-. ciocchè ſe a ciò egli badato
avrebbe , ben ſarebbeſi accor. to coral purgamento altronde non naſcere, che
dalla figu ra delle particelle de'ſali di quelli , i qualiſe mai loro ven gono
colti , la calcina , ne la cenere , ne anche il ſapone , che di lor fi lavora ,
non ſaranno d'efficacia alcuna ; ſenza . chè fe per fomiglianza è , che l'olio
del ſapone attragga l'olio dalle veſti , e con la ſua amicizia ne lo ſpegoli ,
e dia vella:qual ſomiglianza giammai ritroverà il ſapone in curtº altre macchie
de' panni lini , che così gli imbianca so puc Laſciando il ſapone, qual
ſomiglianza avrà egli il bucato con quelle : 0'1 fummo del ſolfo colle macchie
de'veli? cer tamente non altra , che quella ,che ha la granata colla ſpaz
zatura della caſa , o l'erpice , elamarra colle zolle. Soggiugneil Campanella,
che quando ſi vuol preſcrive re purgativa medicina , ineſcolar ſi debbano
talora i ſimili co’contrarj , appunto come il ſapone da lui diviſato;accioca
chè i ſimili ateraggano'a ſe gli umori, ei contrari poi ſcac ciandogli fuora
gli purghino . E quinci , dice egli, nella compoſizion dell'utriaca ſi meſcola
la carne della vipera, acciocchè dal veleno di quella il veleno s'attragga , e
dagli aromati poi ſi diſcaccj. Ma alla Croce di Dio , chi non ſa, o chinon ha
per pruova avviſato ,che la carne della vipera non ſia veleno ? Perchè falſo ,
e vano eſſendo affatto il ſuo diviſamento intorno alle compoſizioni
de’medicamenti: come , e quando de ſomiglianti ,ede'contrarj, o ſemplici, o
meſcolatinelle cure delle malattie ſervir nc convengu : a'conſigli di lui
certamente in niun modo attener nedob biamo , fe a liero fine delideriamo i
noſtri medicamentido ver riuſcire . Fu egli ancora cotanto poco fcorto della
natura de' me dicamenti , che per tacer d'altri falli in ciò da lui preſi ,dif
ſe egli , che le coſe fredde non ſi convengano puntoal le cargo: perciocchè
eſtinguino gli ſpiriti ; e pure il caltoreo, il 90 : Del Sig.Lionardo diCapoa.
425 il quale è argomento acconcio aſſai ad affrenar la violenza di quel folto ,
che cagiona il letargo , avvalora gli fpiriti. Dice egli ancora , che
l'antimonio crudo gagliardiffimaw medicina ſia . Mapiù ſconciamente egli
trafanda in pre ſtando fede alle fraſche del Maeſtro Agoſtino del Roſli in
quella ricetta , in cui colui dice , che ſi tragga il mercurio dell'argento , e
che quello ſi meſcoli, e s'uniſca con l'arien to vivo volgare per dover
lavorarne il precipitato da cura re il mal franceſe. Ma ridevole ſopra tutto ſi
è quel ſuo di viſo di dover colle ventoſe d'oro trarre il inercurio dall'of ſa
degl'infermi:fi Hydrargyrus,dice egli, offa penetrarit,nec expellipoffit ,
cucurbitulisex auro confectis facilè educitur, tractione vacui; Sympathia
fimulnaturarum . Ma comechè in molte , e molte coſe , ficome accennato abbiamo
falli il ſiſtema del Campanella , e ſia ſopra de boliſſime fondamenta murato ;
impertanto non è affatto da ſpregiare quel ſuo libro della medicina ;
perciocchè può egli a chi ſaggiamente l'adoperi non poco giovamento recare ;
eſſendo nel vero egli ſtato un de' maggiori inge gni e più valoroſi , che la
noſtra Italia, e'l noſtro ſecolo ab . bia alleyati. Ma Roderigo Caſtello
anch'egli della debolezza della medicina di Gilicno reſo avveduto,imprende
forte a com batterla , e mandarla al ſuolo ; e proteſtando di dovere gli
inſegnamenti del ſuo Ippocrate ſeguitare, ſi biaſima oltre modo delle dottrine
d'Ariſtotele , e di Galieno , e diſtinta mente egli i loro falli ſcoprendo va
dagli antichi Greci filo fofanti ad accattar contezze di buona medicina ; ma
non gli venne cotanto fatto , chenon deſſe anch'egli in iſconcj, e biaſimevoli
errori , giudicando follemente in prima eſle re gli atomi delle prime qualità
forniti ; quindi in tanti , e sì grandi vaneggiamentie' traſcorre,che lungo
ſarebbe quì ad uno ad unoannoverargli. Ma ſopra tutto fi ftudia egli di darne a
divedere ciò che il Paracelſo prima di lui inſegna to n’aves : cioè a dire ,
che il mondo picciolo ritenga in fer tutte le parti , e tutte l'apparenze , che
nel mondo grande ſi veggono. E mentre egli da ciaſcuno qualche ſentiinento Hhh
imbo 1 426 Ragionamento Sefto 1 1 imbolando s'argomenta da cotanti meſcolamenti
ſconcj, e mal conformi far forgere un nuovo ſiſtema di medicina propio di ſe ,
filoſofandoora col Paracelſo , e ora con Ga lieno , avviluppa il tutto , e
comediſſe colui, Confunde le dueleggi a ſe mal note. Ma egli convien ora far
parole dell'ingegnoſiſſimo ſiſte ma di medicina diGiovan Battiſta Elmonte ; il
quale,a vo lerne liberamente dir ciò che me ne paja, aſſai più felice lun go
tratto fu in abbattere, e ſpiantare gli altrui edifici,che in fondare , e in
iftabilir fermamente i ſuoi, comechèdimol ti, e molti nobili, e utiliſſimi
ritrovati venifle fatto alla ſua induſtria d'arricchir la medicina . Il
materiale principio di tutte le coſe ſenſibili dell'univerſo , appo l'Elmonte,è
l'ac qua , non intervenendo nella compoſizione de'corpi miſti altramente l'aria
, ne il fuoco , come quello , che non è ſo ftanża , ne accidente , ma morte delle
coſe; argomen taſi provar una cotal fua opinione , con dire , che ciaſcuno
corpo del mondo poſſa ſempre che ſi voglia in ſale căbiar fi ; e'l ſale poi per
opera del circolato del Paracelſo, in ac qua d'altrettanto peſo ridurſi . Oltre
a queſto dice l'Elmo te l'acqua eſſer ſempliciſſima, e benchè contenga ella in
qualche modo il ſale, il mercurio , e'l ſolfo,i quali da quel la per natura' ,
e per arte ſeparare giammai non ſi ponno;ne ſono veramente ſale , folfo , e
mercurio , come tali da eſſo appellati, per eſſer a quelli ſimili, e per non
ſapergli altri menti ſpiegare; no vuolc egli però, che l'acqua di ſolfo , di
fale , e di mercurio coinpoſta venga . Ma che che ſia dicið egli ſcorgeſi
apertamente , che l'Elmonte non manifeftis pūto , come far ſenza falloe'douea,
che coſa l'acqua vera mente fiafi ; ne fpiega di qual natura fornita l'aveſle
L'alta cagion , che da principio diede A le coſe create ordine, eftato; anzi
egli manifeſtamente confeſſando di non ſaperne boc cata, conforta , e rimuove
chiunque d'imprender la natura dell'acqua s’affatica: così di quella dicendo ,
Quis unquam mortalium novit quid fit aqua ? qua tamen creatorum eft maximè
obvia , aperta ,viſibilis,atranslucida ? tantum enim deea Del
Sig.LionardodiCapoa. 427 de ea fcit rufticus, vel idiota quantum
philofophus:něpè æquam liter illam concipiunt per obſervationem fenfuum : quod
fit .corpusgrave , liquidum , humidum ,digitocedens , fluidum , amotoque digito
ſerecludéns, calorisſuſceptivum ,attenuabia le in vaporem :nemo tamē novit
internam aquaquidditatem , vel quare liquida fit,anhumida. Ma in vero egli ha
il corto l’Elmonte a ragionar sì fatra mente dell'acqua ; imperocchè s'egli
così ſolamente di.com loroſchiamazzatoaveſſei quali a coſto dicicalecci apprefa
fo il volgo,il nobile , e laudevol titolo di filoſofanti compe rar ſi
vogliono,vero per avventura egli detto avrebbe ; im perciocchè affermado eglino
l'acqua eſſer un tal corpo dal la natura compoſto ,e meſcolato d'atto , e di
potenza , ei freddo, e umido , ne ſpiegundo poi qual ſia l'atto , per lo quale
l'acqua a partir ſi viene da cuce'altre coſe , che acqua non ſono, e in che
conſiſta la potenza , e come ſi maturi nell'atto , e venga a perfezione , sì
che acqua , se non altra coſa più coſto quella divenga : ne diviſando , che
coſa las freddezza fia , ed onde avvegna il diſcorrimento , ne per qualcagione
alcuni de'corpi liquidi , e corſoj, umoroſi an. cor ſiano , ed altri no:nulla
certamente vengono ad inſe ghare intorno all'acqua , ne più di ciò che'l
popolazzo mi nuto ſenza il lor diviſamento ne ſappia . Ma fe l’Elmonte aveſſe
mai ben fiſamente riguardato 2 * dialogi di Platone, e a que'pochi
mnaraviglioſi avanzi del le divine opere , ch'ancor fi riſerbano di Democrito ,
o al diviſar degli altribuoni filoſofanti : o pur s'egli, ficome conveniva ,
dagli effetti rapportati, di penetrar poipiù ad dentro nelle cagioni di quelle
ſottilmente ſtudiato ſifoffe : o alla natura de' corpi diſcorrenti aveſſe poſto
mente : Io ſon ben certo , che in cotal guila dell'acqua egli ragiona. to non
avrebbe: e altro certamente egli principio di tutte coſe naturali, che quella
,la cui natura di non ſaper libe raméte cõfeffa,determinato
avrebbe;perciocchèconvenen do tuor d'ogni dubbio all'acqua il diſcorrimento , a
queſta guiſa poteva ben egli riuſcir nella più ſicura ſtrada da avvi. far la
natura di quella . E certamente in ciò , che ſi apro Hhh 2 no, e 42.8
Ragionamento Sefto ño , e ſi fendono agevolmente i corpi diſcorrenti, e da cida
ſcuna parte anchemenomiſſima, in ogni tempo ſon pene trabili : e dallo ſpargerſi
di quelli, e diſcorrer liberamente per tutto : e dal riempiere gli ſpazj , e
adattarſi agevolme te alla figura del vuoro, che ingombrano, intanto che al tra
forma non hanno fuor ſolamente quella , che loro da vali, che gli contengono, e
chediſcorrer non gli lafciano , vien preſcritta : e dall'avviſare , che ogni
particella loro participando delle medeſime propietà di eſli, diſcorrentes
anch'ella fia : ottimamente raccoglier egli poteva dovere eſſer icorpi
diſcorrenti compoſti di menome particelle, i1f ſenſibili , e tra eſſo loro in
atto partite , e fpiccate per un.. cotal movimento continuo , che non mai le
laſcia appicca re , e congiugnerſi inſieme. La qualcoſa egli avviſando
agevolmente fatto gli veniva di poter la natura dell'acqua apparare , e si riparare
all'ignoranza , ch'egli di se medeſi mo ne confeffa ; concioffiecoſachè eſſendo
l'acqua oltre modo diſcorrente , egli è da dir che ſia un'accoglimento di
menome , e inſenſibili particelle , le quali sì fattamente fixo no accozzate
,eammaſſate inſieme, che ſembrino a'noſtri ſentimenti una ſola coſa :
avvegnachè in atto elle ſiano fe parate, e partite ,intanto che inſieme non
maiforte fi ſtrin gano , ne meno per alcuno de’loro lati : e ſeguentemente
continuo ſi muovano . E ſcorto egli avrebbe altresì noi avvenir loro sì fatto
movimento dal caldo ; concioffiecofa chè l'acque , comechè fredde elle fiano, e
poco mé che ag ghiacciate: non però di meno non ſono elle meno diſcor
rentije-ſdrucciolevoli delle calde,ſe non già ſiano in ghiac. cioammaſſate;perchè
avrebbe eglicertamente detto che'l movimento , checosì l'acqua ſciolta ritiene
, abbia le par cicelle ſue , o da ſe medeſimo, o altronde che dal caldo a :
quelle comunicate ;: perciocchè l'acqua , almeno perquel che noi avviſiamo ,
cede cheta al toccamento , e da luo go a ’ ſaldi corpi ſenza vederſi. ella
punto muovere : e di lataſi a'raggi della luce : e riceve entro di ſe
particelle di ſale marino, e d'altri corpi cheper la ſomiglianza , che hā no
con quello, parimente eſſi vengono ſali appellati : avve gna 1 3
DelSig.Lionardo di Capoa 429 1 gnachè muovēdo in noi molre,e diverſe varietà di
ſentime ti nell'organo del guſto , convengano eſſer diverſamente foggiati ; i
quali corpi penetrando per mezzo effe particel le , ingombrano gli ſpazj
piccioliſſimi tramezzati: o pure ingombrano gli angolije i cătoncelli che
quelle colle for fi gure formano, intanto che vi ſi poſſano acconciamente le
diverfe figure delle particelle faline allogare . E moltise molti d'effi
tramezzamentiper tal maniera compoſti , e or dinari ſono , che agevolmente per
entro , e ſenza niun rite gno diſcorrer vi poſfä fa luce. E oltre a ciò
riguardando l'Elmõte all'operazioni dell'acqua, avviſato ben'egli avreb be
eſſer quella un di que' corpi diſcorrenti , ch'agevolme te a'ſaldicorpi s'appiccano
, i quali tanto , o quanto fier poroſi: e che fi fpargano ſopra tutti quelli, e
penetrino lo ro dentro , c talotta anche in parte , o in tutto gli ſolvano ;
perchè comunemente diceſi l'acqua eſſer umida. E come chè egli nc ſembrieſſer
l'acqua tenera oltremodo , e molo le; non però di meno egli alquanto d'aſprezza
avviſato an che v'avrebbe, avvegnachè dipoco momento elia fia :non iſpiccadofi
l'acqua agevolméte da'corpi ſaldi sì, e talmen te,che quelliaffatto sgocciolati
nerimągano; e quincianch ' egli comprender avrebbe potutonó effer le particelle
dellº acquada tutte parti cotanto terſe; e liſciatesquali per av vécura
iminagina ilDeſcartes.Alle quali coſe tutte ſe l’El mõte ben fiſamente
riguardato aveſſe, certamente egli ar gomentata n'aurebbe la figura d'effe
particelle , ficome ferono già ne’primi tempi Pittagora, Timco , Platone ,
altri, i quali la immaginarono icafoedrica: 0 pure ſicome de’giorni noftri
l'accennato Deſcartes, il quale giudicata l'ha cilindrica , e pieghevole, e
guizzante a guifr d'anguil le : 0 ficome l'incomparabil filoſofante Gio :
Alfonſo Bor relli , il qual.cosi'ne favella: lanugo quedam tenuis , &de
bilis inveſtiens.quodlibet aqua minimum , ſcilicet concipide bet interna ,
& individua qualibet aquæparticula , ſolidad's &dura : cujus figura
octaedra . E avvifato ancora l'Elmon te avrebbe eſſer le particelle dell'acqua
d'una medeſimas foggia infra loro , o almeno poco diſſomiglianci ; la qual for
1 1 430 Ragionamento Sefto forma loro , o affatto non ſi può in altra cambiarc,
o egli è cotanto malagevole , che grandillima fatica meſtier vi fa rebbe a ciò
operare ; ne fino a'tempi noſtri ciò ad alcuno è venuto fatto , ne mai, per
quanto Io poſſa comprendere , certamente verrà per innanzi:acciocchèin altra
figura l'ac qua ſi tramuti . E ciò egli anche avviſa l’Elmonte, e vera mente
per ognun yedeſi, che non riceva l'acqua fcambia mento alcuno
ſenſibile:avvegnadio che a qualunque ingiu ria ella ſi eſponga ., o di caldo ,
o di freddo,o di altra imma ginabile qualità ; ſe non ſe riſerbandone ſolamente
quella , che ella in agghiacciando riceve , o riducendoſi in vapore; per le
qualiè coſa manifeſta , e all'Elmonte ben conoſciu che non già la figura delle
particelle dell'acqua , ma il ſito ſolamente , e'l movimento di quelle ficam
bia.Maſenza far tante parole , l'acqua racchiuſa entro una guaſtadetta
ermeticamente , come ſi dice , ſuggellata das Criſtofano Clavio , la quale dopo
cotant'anni nel Collegio Romano della Compagnia di Giesù dimoſtraſi: ella
s'avvi ſa non punto dall'eſſer ſuo naturale mutata ; e altre acque ancora per
più ,e più ſecoli intere,elane pariméte li fon mā tenute séza ricevere
oltraggio veruno dal tépo ; perchè ſen za fallo è da dire eſſer quelle di
tempera dura , emalage vole aſſai a ſolverſi, dall'onnipotente facitore da prima
fabbricate : Adunqueragionevolmente può dirſi dell’El. monte , che de'principi
delle coſe naturali Nonpinſe l'occhio infino alla prima onda. E per avventura
dobbiam noi confeffare , il medeſimo all’Elinonte eſſergià intervenuto, che in
prima di lui al Pa racelſo fortito era : che ove maggiormente egli ſciarpillar
figli occhi perpiù veder conveniva,quivi tralandındo,più , ch'altrove ſerrati
gli aveſſe ; ed avvegnachè di ſottiliſimo intendimento , emaraviglioſo foſſeſi
l'Elmonte,pure abba gliato al troppo luine della natura per troppo veder rintuz
zato ſi fofle și come ilſol, cheſi cela egli ſteſſo Per troppa luce , quando il
caldo ha roſe Le temperanze de'vapori Speli: c firta Del Sig.Lionardodi Capoa.
431 1 e fatto groſſo dall'abbondantiſſimapiena de curioſi:fegreti di quella
Quaſi torrente ,ch'alta vena preme foverchiando il letto , ed allagando le
prode;pertroppo ri goglio diſperſo ſi foſſe . E quinci certamente viene , che
nello ſpiegar l'economia degli animali, qualche fiata ricorre ancoregli alle facoltà,
nonmeno ,cheGalieno fi aveſſe fatto ; ne di ciò pago pro duce egli in mezzo
alcuni ſtrani arzigogoli, e nuovighiri bizzi del ſuo cervello :altri ne toglic
in preſto dal Paracel fo , come gli Archei, i Blas' , i Magnali;e quelFormento
, il quale per dirlo colle ſue ſteſſe parole , eft ens creatum form male, quod
neque fubftantia , neque accidensfed , neutrum » per motum lucis ignis
magnalisformarum conditumàmundi principio in locis fue monarchia , ut femina
preparet;exiſtat , a precedat; con che' , e con altre molte fue fantaſie, le
qua li lo per non rediarvinon ridico , da apertamente a divedere l'Elmonte,
ch'egli non già nel mondo noftro , di cui tutto di nuove, c nuove maraviglie
egli ſcopriva ,main un mon do da lui immaginato filoſofava. Tanto , e tanto poi
egli involto fi fu nella notomia vita le , ch'egli traſcurò la morta , ne di
queſta ſeppe altro di quel, che n'era ſtato già ſcritto ; perchè alcuniaffatto
non ſeppe', ed altri, poco curioſo non curò de’modernitrovati; i qualimolto
approdato avrebbono; rendendo ad un'ora più credibili , e manifeſte alcunedelle
ſue opinioni; perchè sé bra ' , che forſe non abbia tutto il torto a morderlo,
e biaſſa marlo il Gliſſonio , quando così di lui diſſe ; hic auctor , utu
eunque acerrimi ingenii ,in eo fuitminus felix , quod .veteri placitis
rariffime aſsétitur,& vix,nifi in iis rebus,in quibus il li ex certisſimis,
demonftratis neotericorum obſervationibus manifeſte coarguuntur Ma ſe dalla
maniera del medicare argomentar lece il va lor de’ſiſtemi della medicina,
certamente in ciò quello dell' Elmonte tutt'altria molto ſpazio ſilaſcia
addietro . Per ciocchè oltre alla contezza delle buone , e valevoli medi cine ,
, ch'egli ebbe pronte così ſempre fra le mani, cotan to egli 432 Ragionamento
Seſto . co egli vanraggioſli negli ſtudi del ſuo meſtiere, e di si acum to
intendimento fu , ch'avviſando i graviflimi danni , che per li ſalaſſi , e
per.le purgagionipoſſono intervenire : e'l veleno , che per entro quelle ſi
naſconde: così nimico ne fu , e così ritroſo d'adoperarle, che come confeſſa
Andrea Cel lario , comechè Galieniſta ', baud paucis medicam artem
profitentibus oculos aperuit . Ne laſcioſſi in ciò menare alla piena del ſecolo
,oalla famoſiſſima rinomea del Paracel lo , che non aveffe egli ſolamente
intefo quelle medicine , operare, le quali ſenza recar moleftia , o noja alcuna
allo in. fermo , fan vuotare ſolamente ciò che cagiona il male.Per chè egliin
cotanto pregio,e onor crebbeneadoperando ciò anche nelle più gravi , e
pericoloſe malattie , che daGalie niſti medeſiıni, non che da altri, ne venne
ſommamente commendato , e quaſia miracolo tenuto . Così infra gli altri Andrea
Cellario in facendo parole di lui , e del Paracelſo nel terzo tomo dei fuo
Atlante celeſte , Chymicarum ,dice ,operationum adjumento admiranda hatte nus
præftiterunt , ac talia medicamenta produxerunt quæin morbis illis natura
humana penetrantibus arêtius , altius fe infinuantibus , & remediis à
natura productis cedere ne Sciis , primas terent, &vulgaria medicamina
longe ſuperăta E per tacer di Daniello Orftio , Nicolò Franchimorc famo fillimo
maeſtro infra'Galieniſti nell'Accademia di Praga, in una piſtola mandata
all'Arciveſcovo di Colonia,dilui di ce: Helmont pater tanti fiebat Bruxellis ,
ut non niſi deſperati ad illum quafi ad ſacram anchoram confugerent: quorum non
exiguum numerum ab orcifaucibus eripiebat; enon ceſſaro no i rabbioſinimici
d'orrevolmente commendarnelo , ſtret ti a ciò dalle maraviglioſe cure di
lui,per tacer de’liberi mc dicáti Frāceſco Glišonio, cd Olao Borrichio , che nó
ſi veg gion mai ſtanchi di ſommamentelodarlo . Ma cotantielo gj pur nulla fono
in riſpetto di ciò, ch’in ſua loda vantano i più nobili filoſofanti del noſtro
ſecolo , ciò ſono il Gallen do , elBoile , ed altrimolci di non poco pregio .
Ma doler ne dobbiamo eternaméte dell'Elinõte,come di quello , che niuna delle
ſue nobili, e prezioſe incdicinema 1 wife DelSig. Lionardo diCapod 433 wifeſtar
ci abbia voluto , e quancunque ilParacelfo nie al tri valenci Chimicigliene
aveſſero dato eſemplo ; non do vea pure egli , che sì corteſe , umano , e
compallionevole dell'altrui miſerie unquemai moſtroflisin ciòimitargli. Ne da
coſa , che di tanto pro era al mondo rutro ,dovea diftos lui , lamalignità
d'alcunimedicanti, i qualificome uſura parono ingiuſtamente gran parte de'
ſuoitrovati ſenza fag di lui menzione, così parimente avrebbon fatto delle ſues
medicine . Ma ſe egli più lungamente l'Elmonte viſſuto foſſe , con dar
compimento alla ſua maggior opera, che la cera , ed imperfetra in man del ſuo
figlio rimafe , avrebbes forſe di sì fátti medicamenti alquanto più apertamente
fas vellato , Ma affai più tardi certamente di quel, che fi richiedev. per
avventura miſeſi in alletto Pier Giovan Fabbri a dar cominciamento all'opera
del ſuo novello ſiſtema della ra zional medicinazimperocchè egli da prima
dietro la vanità dell'Alchimia per convertire in oroi più vili metalli conſu .
mò lungo tempo , ed appreſſo trapaſsò ben ſei luftti medi. cando altrui, ſicome
egli ſteſſo confcſſa , ſenza alcun fruta to mai ritrarne ; ne maigli venne
fatto di ritrovare in tutto quanto quel tempo medicina , chevalevole a
domarfolie le malattie ; e quantunque egli dì , e norte ſtudiato avelle
attentamente ne’libri d'Ippocrate,e di Galieno, e molti cu daveri aperti
d'huomini , e di bruti, per inveſtigar l'efficie ti , e le materiali cagioni
dc’mali: non mai potè giugnere a ravviſare i luoghi de' putridi umori, ne in
parte veruna di ſano , o d'inferm'huomo, o la collera, o la flemma, o la
malinconia putrefacte ſcorger giammai. Il perchè pres'e gli per partito , di
voler,laſciando le altrui autorità a nons calere,per ſe medeſimo metterſi
ne'più cupi pelaghi della filoſofia navigando ; e poi i ſuoitrovati al giudicio
de'fa vj , e diſcreti eſtimatori delle coſe rimettere, così dicen do : Si
rationes mea , cu experientia non optimę videan tur , trutinentur ,
&ponderentur diſquiſitione naturali, ut Aquid falſi continere
videanturrejiciantur omnino , Celia minentur prorſus à fcholis : quod fi vero
probe experiantur lii quid 1 1 434 * Ragionamento Sefto 1 quid ni.
amplexabuntur ,tutabuntur . Primieramente avviſa il Fabbrila materia , onde fon
le Senſibilicoſeformate efferpalpabile , viſibile , e falda na giddiſtinguerſi
dalla forma, la quale fecodo luisaltro no es cheuna propriedeionatæ ,
virtùnella materia,laquale poits chè è ufcica fuori sidiſtingueda lei ,come
dalla ſua cagio nel'effetto . Ondeagevolmente può ſcorgerſi,che ſefalſe andato
il Fabbriin si fatca guiſa piùavantifiloſofando, faa rebbe egli per avventura a
qualche buon terminepervenu po : ma egli appenamefſoli in camino , ſmarrì il
diritto fen : tiero .. Immaginò il Fabbri la prina materia non eſſer.al
extocheil fale dell’Vniverſo nelquale il folfo ilmercurio, ed'un'altro ſale ſi
contêga : e credette ', che queſto medeſir no áveffe voluto dire Ariſtotele, la
dove della priina mate ria cosiofcuramente favella . Vuoldivantaggio egli, chę
tutte le coſe , omallimamente l'huomo abbiano dentro di ſe un tale fpirito
volanto oleremodo , e diſcorrente , di cui tutteleſueparticompoſtebeno, ed'onde
tutte l'operazioni della vita , e tutte quelle coſe avvengano , che ſi
oſſervano nellemalattie . Queſto ſpirito , dic' egli , che nel fegato e
alquantogre /fo : ma più ſottile nel cuore e ſottiliffimondi seżvello ;
naſcere:ad un parto colfeme, e nel'naſcere venir dalle ftelle arricchito della
luce , la quale ſecondo lui èlau farma eſſenzialc , non ſolo dello ſpirito , ma
di tutt'altres coſe del mondo ... Stimapariméte il Fabbri:altro veraméte non
effer. Ja na tura, falvochelaluce' , e che dallaluce ilmovimento, e la quiete
a'corpitutti dell'univerſo dirivi, e ſecondo più , o meno , che lo spirito
participidella luce , tanto più , o me, noegli nelle ſue operazionivigoroſo, e
potente divenga , Immaginaancora ilFabbricheentrije penetri l'anima dell? huomo
allo ſpirito , e che lo ſpirito poia tutte le parti del ſuo corpo l'anima
uniſcaaMa:Io pur troppo lūgone diver , reiſe volcliquitute'altri ſtrani ſuoi
diviſaméti narrarvijne midarò impaccio di contraſtarglije gittarglia terra
aduna ad uro ', facendomia credere , che ciaſcun da per ſe in ſen
dendogliraccontare,o.in legendogli ſia per accorgerſi coſto del 1 $ . DelSie.
Lionardodi Capod della lorvanica . E cerramenteſe alcuna coſav'hadibuone no nel
Fabbri yella è colta di peſo.al Paracelſo, all’Elmon të, e ad altri valorofi
Chimici: marelle eſſendo poi da lui có altre volgariopinioniaccozzato vengono a
perder tāto del lor valore , che ſembrano prezioſegemme dal vil fangoia cretate
. Or quantoal fatto del medicare e'non ha dubbio, ch'al ſai dappoco ſi
dimoſtraſſe il Fabbris imperocchè tralaſcian , doda parte tutt'altre mal fatte
fue cure: nella peripneu . monia vuolegli, ch'abbondantemente abbia da
principio a trarſi ſangueallo infermo , c poi collc viole ; e collo fpiri to
del vitriolos o con altri simili argomenti abbia z rinfre fčatli quel caldo ,
che collo ſpirito della vita di foverchio nc'polmoni ribolla : ed il feguente
giorno coll'antimonio ábbia aprocacciarfegli il vomito , acciocchè con tal move
mento venga ad aprirli alcunapoftema , ove vi ſia . Ein tãto fi cibi l'infermo
d'orzate colſal della prunella, e collo { pirito del vitriolo.Orchi mai divifar
potrebbe più folli di vifaméti di queſti e ben per'talie'medeſimo gli conobbes
poichè altrove confeſſa , che le più valevoli medicine alla peripneumoniafianla
verga del Toro ,e'lſangue dell'Irco . E certamente dagli acetoſi medicamenti ,
che altro maiſe non ſe grave danno avvenirpotrebbe a coloro , che di pe
ripneumonia patiſcono; la qualgiuſta i fencimenti del Fab bri,dall'acetolità
s'ingenera ; e oltre aciòcol purgare l'in fermo con sìpotente vomitivo,
poich'egli è divenuto fpof fáto , e fievole per l'antecedente falaſſo , qualpro
ſe nepos trebbe per lui fperare? mafopra tutto dal trar fangue, qual buono
avvenimento ne potremo giammai attendere ? Ed o quanto fe più ſenno il Fabbri ,
allorche dall'Elmonte ay viſato ,de'ſalaffi altrove in altra guiſa favellando,
ne diffes : MirorParifienfium medicorumpertinacitatem , curationem febrium ,
& ferèmorborum omnium in fanguinismisſione lar . ga , ocopiofa collocantium
: cum fepe fæpius caulja moru. borum , & potisfimumfebrium tam continuarum
, intermite sentium non refedeat in fanguine , imovirtus s proprietas: lii
curana Ragionamento Seffo . curandi morborum omniü in fanguine collocetur ,cum
arcbeūs visalis fanitatis economus , & morborum amniumcuratorin fanguine
refideat: ea fublata ,dlarga manu effufo effundan, tur etiam unacumſanguine
vitalisſpiritus, undevires tola luntur , di diffunduntur, &perinde tota
rotius corporis nad Cura debilis admodum fit, do curatio etiam morborum omniū ,
que ab ipſa naturadependetevaneſcit;ita ut loco illius fubfc quaturmors ; aut
incurabilismorbus, E quinciſcorger li puote altresìchiaramente,quáro bere gol
fi foſſe ,e incoſtante ne'ſuoipareri il Fabbri , e quanto malagevole ; c dura
impreſa lia lo ſcaricarſi delle falle opi nioni fin dalla prima giovanezza
concette , e per vere al. cun tempoi fermamente credute ; il che nella ſtoria
della cure da luifatte più chiaramente ſi ſcorge ;nella quale fto ria , e nel
divilainento altresì delle chimiche medicine po trebbe da luiper
avventuralealcămaggiore, epiù ſincerità d'animo ricercarfi ; maciò traſändando,
quanto al ſuo liſte maſo replicherò , licome poco addietro accennava , che
troppo vacillante, e caduco e'fia ,eche il Fabbri poco , o niente non badando
ad inveltigar la natura de'ſuoi primi principj,forz'è,ch'egli abbia a
rimanerſene fenza poter mai de’loro effetti aſſegnar la vera cagione . - Ma la
SignoraD. Oliva Sambuco, della quale lodovea molto addietro , l'ordine de'tempi
( erbando , far parolesar vegnachè ſtudiata ſi foſſe continuo di ſvilupparli
dagli er: rori de’mueſtri , e delle dottrine già da loro imbevute : pur tanto
non potè ella dimenticarle', che non vi frameſchiaffe qualche ſentimento di
quelli talvolta entro al ſuo ſiſtema Svétura nella quale i più famoſi
filoſofanti veggőfiancora incorrere ; perchè la ſua medicina non altrimenti,
che quel le deglialtri razionali, è manchevole , e difertuofa ; edan co tale
ventura certamente le avvenne , per non aver ellow avuta cortezza della chimica
.Ma nocquenon poco a'ſuoi divifamenti l'aver ella più di quel , che fi
dovea,preſtata ... credenza alle parole di Platone ; et non eſſerfi a que’rem
pi aperca ancor la {trada della vera filofofia . Im. Del Sig . LionardodiCapod.
737 Immagina la Signora D.Oliva effer l'huomo ana travol ta pianta , le cui
radici fian nel cervello , onde un bianco fugo dipartendoſi ſe'n vada il tronco
, i rami, è tutto il ri manence a mutrire , tal ſugo bianco vuol che ſia freddo
, umido ; mache nel fegato facendoſi roſſo : caldo, e umido altresìdivenga; e
che nel cuor finalmente ſcambiato in să gue , in caldo , e fecco fi muri . Il
calor del cuore crede ela la , che ſerva all'huomo , come it caldo del ſole
alle pian te ; e che'l bianco fugo faccia l'uficio de quattro elementis fcorrere
dal cerebro cotal ſugo per la pelle, per li nervize per le dilicate pellicelle
, o membrane, che vogliam dire, delle vene :mapoiin roſſo , e ſanguigno umor
convertitos per altre vie , cioè per le vene, e per le arterie ritornare . Or
queſto fugo ove ſia malignato ,fuor delle proprie vie sboce cando per
tutt'altre parti del corpo ſconvenevolmente an dar penetrando , contro il
provveduto ordinamento della natura . Tutto adunque il Florido ,e vigoroſo
ſtato di queſtº arbore , vuolella , chedalle radici , cioè a dire dal cerebro
avvenga : la dove fc quella , che pia madre fi appella , la dura madre
toccando, ftiano ambedue ſollevate, e diſteſes e quali alcranio appiccare,
allorvederſiverdeggiante , e fiorita tutta la pianta : ma ſe mai divengan vizze
, o alqua to s'abbaffino , fanguire parimenre lei; e quando finalmen te la pia
madre ſia dalla dura totalmente ſtaccata allor non poter avere a niun modo più
vita . Con queſto trovato , o purcon queſta ſomiglianza dell'arbore , vaella
tutti i con . venenti della vita , e della morte , e della generazione , u
della corruttura dell'huomo , e de rimedi, e delle malatı tie acconciamente
fpiegando. Tali ſono i divilamenti dietro alla medicina della Signo ra D. Oliva
; i quali comeche pajanoin gran parte dal vc to lontani, purealcuni di loro ſon
tali , che non poffeno . fenza lunghi encomj, enon ordinaria maraviglia guardar
fi; edIomifarò lecito d'arrogare a sì valoroſa donnaquel che già della poereſſa
Sulpizix diſfè Giulio Ceſare della Scala :ut tamlaudabilis heroina ratio
habeatur non anime objicere ei iudicii ſeveritatem : Ma 738 Ragionamento Sesto
Ma crapaſsado al ſiſtemadella medicina di Tomaſo Vil lifio ; egli ſipare, ch'in
fula foglia appunto diquello con ciamente fdrucciolandovaneggj.
Imperocchèavendoegli Popinion d'Ariſtotele rifiutata intorno a' principj delle
cos fe , ficome troppo groſſa , e ſciocca : e quella di Democri to , e
d'Epicuro , ficomefoverchiamente ſottile , e da’ſenli lontana : alla perfinc
egli alnuovo diviſainenco de'Chimi ci tutto s'appoggia , e vuolche ciaſcunacoſa
di ſpirito (co sì chiama egli ilmercurio ) .di ſale , di ſolfo , d'acqua , e di
terra formata ſia ; perciocchè in quelli ciaſcun corpo ſenga bilmente ſi
riſolva . E con quelto cinque ſoſtanze , in ciò , che elleno ne'corpi compoſtihanmovimento
e proporziou ne , ſi ſtudiacgli , e s'affatica di dar ragione dell'apparen ze
cutre della natura , e ſpezialmente diquelle,ch'alla mc dicina s'appartengono.
E comechè egli apertamente con felli cotali ſoſtanze non eſſer ſemplici , ma
comporte, e me ſcolate ; pur tutto il ſuo diviſamento quì egli fermando,no fi
prendepiù avanti briga di ſpiar di cheforte priacipj fora fono quelli, onde le
ſue prime cinque ſoſtanze ſon compo fte ; anzi egli dice , che non
avendoviragionc , o ſtrada al cuna da potergli avviſare , ſciocchezza ſia
l'entrar nel fara netico didoverciò fornire:e qualunque coſa ſe ne dica eller
più coſto un grazioſo diviſamento , e voler giudicarc allas ventura , ea
riſchio delle.cofe del mondo , che conſaldez za di buona filoſofia ragionarne.
Ma quantochè egli con ciò di ſcagionar la ſua dappocaggine s'argomenti, imper:
tanto maggiormente in altri, e altri ſuoi divifamenci egli s'accagiona;
perciocchèa chiben vi ponga menre, tuttoil fuo filoſofare , avvegnachè egli
contro i buoni filoſofi fa vellando , dica procudere,autfomniare philofophiam
me nola le, lubens profiteor; altro nel vero egli non è , ch'un andare alla
cieca, e taftonc,ſenza certezza alcuna . Ma ciò laſcia do ſtare , o non
s'avvede egli , o s'infigne di non accorgerſi in dicendo chelo ſpirito una
coral ſoſtanza fortidiguna, ë voláte Gia; che spiegar uc doveva come cotal
ſostanza s'av valli , e fi deprima, c come poi ſi cſalti , e come con gli al
tri principj ſi meſcoli : c comc ammendi, e affreni i ftraboc chero 1 9 Del Sig.Lionardodi
Capon . 439 chevoli diſordinamentidel ſolfo', e del ſale : é comequela to tante
, e tant'altre operazioni faccia , le quali egligliat tribuiſce . Certamente
non mai egli ſaper potrà diche. for te particelle quelle: fiano , ondela
ſottigliezza dello ſpirito diriva ; e colcoccare , che colmuovere ora in uno ,
oras ialtro modofogliono negli altri corpioperare . Eben'e gli dovera ( ficomca
buon filoſofante ſi conviene, ilqual fondar voglia ſiſtema di cazionalmedicina)
dalle appareze degli effetti la natura delle loro cagioniinveſtigare : cav
vifare , chenon puòlo ſpirito effer diſcorrevole , ſe di pre fente nonceda
atutti corpi ſaldi , che perentrovi paſlino je perchèeglièda dire',
cheloſpirito ſia in molte , e moltes particelle diviſo : le quali continuo
movendo infra loro sé.. pre ſeparate ftiano ;ne lo ſpirito,foctile,c volante
efferpuðn e per cutto perretrare , ſe le ſue particelle picciolitime non fono ,
esì fåttamente foggiate , che molti gomiti 20 angoli, non abbiano . Neper
darragione dell'opere del ſolfo giova ſapere eſ fer quello , licomc egli dice ,
di coſtruttura alquauto più groffa', emaggioredi quella dello ſpirito ; e che
da quello nafca il calore , cla varietà de'cofori , e degli odori alle co fe ,
e l'a lor bruttezza , e bellezza : c per la più parte la di verſità de' ſapori
; perciocchè quantımqne tutto ciò vero fi foffe ,cheegli ſenza niuna pruova
farne grazioſamente , afferma, ben potevaeglidall'apparenze,che dal fólfo vega
giamo , argomentar, che le particelle diquello comeche, in continuo movimento
anch'elle fteano;ficome quelle dela 16 fpirito e fiano peròmeno pulite , e
ſdrucciolantii, calia quanto' famoſc . E què è danocare , come il Villiſio vada
divifando dellacomplellion del fuoco ; egli dopoaver ava vifato effer quello
ſomigliantiſſimo alla materia prima de Peripatetici , in ciò che in tutto
partire in niuna dice quel, lb allignare, così poi faggiamente ſi ſpiega:Ignis
exfuina tura nullibi exiſtentiam , ac certum durationis modum obtin net .
Quindifoggiugne : formaignir omninòdepēdet à para siculisfulphureis infubjecto
quopiam agglomeratis.y - cona fërrimerumpentibus a quodque ignis nihil fit
aliud , quam ejuſmo 440 Ragionamento Sefa 1 1 . 1 + ejufmodiparticularum
impetuofius concitarum motus , deras ptio.Ma s'egliaveſſe mai poſtomente alle
particelledel fol fo, le qualieſſendo di neceſlità ramoſe, per la loro figuras
non così acconce ſono a muover velocemento, e a penetrar ne'corpi più duri , e
fpeffi , ficome far veggiamo al fuoco : il qual perciò dice Democrico aver gli
atomi ſuoi ritondi : non avrebbe certamente eglicosì di quello filoſofato . Ma
Signori ancor Io immaginava una volta cosi andac la biſogna del fuoco, qualla
giudica il Villiſio: e acciocchè ceſſar poteſli le malagevolezze propoſte ,
mecomedeſimo penſava doverſi i ramidel ſolfo piegare in ingenerando il fuoco ,
e in ſe medeſimi ravvolti formar cotante ſperette , acciocchè agevolmente
muovere , e penetrar poteſſero; ma meglio poi il mio divilamento vagliando ,
ricreduto , igannato inutaiparere . Convien dunque dire , chele pare ticelle
componenti il folto diduefogge ſiano, una ramoſa, e un'altra ritonda. E
cosìſomigliante doveva egli delle particelle de'fali filoſofare , e ſpiar le
vere cagioni dell'o perazioni di quelli,e di que’loro ftati, ch'egli chiamafram
fionis, volatizationis,& fluoris:quali egli ſpiega co ſole pa role ſenza
recarne giovamēto alcuno. E certaméte non per altro ciò egli adopera, cheper
non curar d'inveſtigare la na túra , e la propietà de'componenti di quelli . E
doveva bé egli quanto più ciò era malagevole a fornire , cotanto mag giormente
argomentarſi perogni ſtrada diaggiugnere infin dove colla mano, ecol ſenno
arrivarpoteffe: e cið mallima mente egli col conſiglio dell'incomparabile Boile
, edal. tri valorofiffimi filoſofanci fornirpoteva ; ma egli per cele far
farica non volle di cotante biſogne imbrigarſi: perchè poi diſguiſata , e
ſconcia la ſua filoſofia ne divenne . Eles non da altro , almeno dagli effetti
de'ſali,ch'e' continuo da vanti agli occhi avevasben egli in ciò , che quelli
folvonli nell'acqua, e a temperato fuoco ſeccanfi , ca gagliardo fi fondono
avviſar poteva la natura delle loro particelle, e di quelle di tutt'altre
generazioni de' ſali: e ancora in ciò che quelli,davolanti divengono fiſſi , e
da fiffi di nuovo volar ti . E Gimigliante da ciò ben'egli inveſtigar poteva in
che con ! 1 1 1 + 0 Del Sig.Lionardodi Capoa. 441 1 convengano le
particelleinfra loro , le qualicotante gener razionidifali compongono ; e in
ciò ancora , che i volanti ſali agevolmente le loro propierà lafciano ,
divenendo da aſpri, e amari , e acetofi: dolci , e foavis e per contrario da
dolci,e ſoavi:acetofi,e aſpri, e amari; e alla per fine inciò , che i ſali di
qualúque ſorte ſiano, ftranaméte cambiadoli, e laſciádo illoro natie ſapore, e
ditutt'altre propietadiſpo gliádoſisin ſalfezza ſolamēte ſi rivolgano
;perciocchè da ciò tutco ben'egli argométar poteva eſſer i ſali compoſti dipar
ticelle acconce a cambiar figura : 0 pure non eſſer quelle in loro d'una
medeſima forma, madivarie , e diverſe figuu te foggiate. Quindi oltre paſſando
avviſare' poteya' , iſali acetofi, in ciò che recano acerbiflimi dolori, eſfer
d'acutif fimc particelle compoſti : e l'altre generazioni de' fali cſfer più ,
o meno di quelleforniti , ſecondainenteche più o me no il palato nepungono. E
così anche dell'acqua, e della terra dannata certame te a lui faceva meſtierdi
filoſofare , ſe aggiugner voleva al ragguardevol nome di buon filoſofante . E
comechè negat non fi poffa che per la maggior parte riuſcir ſogliano gli ar
gomenti tanto , o quanto probabili folamente , e ragione. voli ſenza ſaldezza
alcunadicerta verità ; non però dime. no egli è il migliore affai, ſtudiarſi, e
affaticarſi per via di conghietture ,ed'argomenti d'aggiugnere a ciò , cheper
noi non ſappiamo: checosì ſenza nulla imbrigarfi d'inve ftigarne , laſciarlo
vergognoſamente in non calere pernou Ara dappocaggine: Ne lo al preſente midarò
briga d'eſaminare il poco lo devolfiloſofare del Villiſio intorno alla
formentazione, al ſangue , alle orine ,alle febbri, e ad altre malattie;
percioc chè ognuno agevolmente veder può , che non è altrimenti ſaldo
filoſofare il ſuo , ma ſolamente ragionarea riſchio, e a voto ſenza fondamento
alcuno ; e ben potrebbe per buo monegarſi poco men ch'ogni coſa , ch'egli
afferma , ſenza timore d'eſſer dalle ſue anfanie, e da'ſuoi aggiramenti rim
beccato . Ma non però di meno montò egli in qualche buo nome dei ſuo meſtiere,
per eſſere Atato egli molto avventu Kkk raro 442 Ragionamento Seſto 1 rato
ne’luoi emoli; perciocchè de’ſuoi tempi abbatteſt in tal , che nulla ſappiédo
delle coſe della natura, volle ſcioc camente e con fanciulleſchi argomenti
carminarlo ; per chè non durò molta fatica il dottiſiino Lovero ſuo ſegua ce' ,
non tanto d'inframmetterſi della difeſa di lui , quanto per ricredere , e
rintuzzare la tracotata beffaggine dello ſciocco Galieniſta ; e nel vero ſe
filoſofo ſtato foſſe il Mea La, avrebbe egli minutamente ciò che lo ho
accennato del la medicina delVilliſio in prima detto . Ma nella notomia il
Villifio fu molto ſcorto, e avveduto, intanto che non v'ha notomiſta alcuno,
che meglio di lui, e più ſottilmente le parti del cervello ſpiare aveſſe;ma da
cià altro certamente noi raccoglier non poſſiamo , che la pro poſta da noi
cotante fiate dimoſtrata ,ora maggiorméteper fuadere : cioè a dire che vano , e
inutil ſia il diviſar di me. dicina razionale : ne medico poter giainmai in
quella tane to , o quanto vantaggiarſiz.conciolliccoſachè dalla lunghif fima ,
e inolto ſcorta diſaminazione , ch'egli fa dell'uficio delle parti del cervello
, non altro certamente ora ne ſap piamo,chequello , che in prima fapevamo ::
cioè a dire nulla di certo . Quanto alla maniera del medicare fu egli ſenza
fallo ſciocco ,, e infelice aſſai ; perciocchè dopo aver appreſa , ed
eſercitata la medicina a quella guiſa , che in Inghilterra comunemente
coſtumavali :volendo egli filoſofare ſopra quella , ſi perſuaſe , che le
continue ſperienze , così.dover fi medicare additato aveſſero ; perchè non
guari egli lontan facendofia'comunali rimedi, nel ſuo ſiſtema,ſtudiof ſi di
darne a credere eller quellii veri argomenti da raccato tarne la ſanità ,
ricoprendo con sì fattoavviſola ſua beſſage gine, c non rinvenendo nulla per
giovamento de'cattivelli, inferini'. Anzi vi fu di peggio nella ſua medicina ,
che non che valevole argomento egli mai ritrovato aveſſe : anzi in qualche
biſognatalvolta , ove i volgarimedici bene ado peravano , egli diverſamente
ſentendo dipartiſlene. Ma prima difar parola della maniera del ſuo medicare ,
egli conviene avviſare, cſſer poco ragionevole ciò che 1 1 d egli Del
Sig.Lionardo diCapoa. 443 egli giudica, cioè, che la febbre finoca
puerida,ficome egli dice , per eſſenza ſempremaiſia : e che la pleureſi , la
peri pneumonia , l'infiammagion della gola , e altri fomiglianti mali ſiano
effetti, e non cagioni della febbre ; conciollie cofachè ciò
manifeftamenteripugnar ſi vegga all'evidenza: avviſandoſi fempremai tratto
tratto avanzarſi , e ſcemarla febbre , ſicome Icema , o creſce l'enfiagione ;
anzi talora prima d'apparir la febbre: il dolore , c l'enfiagione appa fiſcono
: e cominciandoſi poi la ſoſtanza ivi cntro racchiu fa'a formentare , e a
comunicarſi al ſangue , e far ſaccajan comincia altresì la febbre . Ma più
manifeſto ciò s'avviſa nelle ferite , e allor che qualche ſcheggia , o ſpina, o
altrás ſomigliante coſa nella-carne ſi ficca ;perciocchè ivi a poco accendefi
la febbre nella piaga ſolaméte, enelle parti prof ſimane , e talor anche
pertutto il corpoſi fpande ; e leav vien , che le fibre alcuna fiata enfino ,
ciò nulla rilievaan dover far pruova del ſuo diviſamento ; perciocchè quella
medeſima cnfiagioneſarà anch'ella cagion della febbre, no già effetto , ſicome
immagina il Villilio ; concioſliecoſachè manifeſtamente s'avviſi in sì fatte
eiffiagioni rattenerſi il ſangue , e dal ſuo uficio rifturfi; perchè poi naíce
la febbre; ne ciò potrebbe in piun côto negare il Villifio, confeſsado egli
medeſimo quefta verità : Ab ejuſmodi tumore,dice egli dellenfiamento delle
fibre, calor, e dolor in parte intendű . tur : fanguis in motu ſuo magis perturbatur
: adeoque febris accenfa plus aggravatur. Ma non men vano , e falſo è ciò
ch'egli giudica dell'ingencrazionedelle febbri, che chir mano intermittenti; la
quaic opinione potrei lo agevolme te rifiutare :ma perciocchè egli è manifeſta
aſſai la ſua fal lanza , e per non dilungarmitroppo me ne rimango.Sola mente
dico ciò lui fare perpoternella cura delle febbrila biaſimevol coftuma de
ſalafi ritenere ; nella qual certame te cotanto egli è più de'Galieniſti
medeſimi tracotato , che ovei più avvedutifra loro nella terzana intermittétenõ
ar diſcono a trar sāgue, egli pur vuol, che trar fi debba, accioce chè col ſuo
mcnomamēto il sāgue fi rinfranchi, e ſi rinfre ſchi , e mcnos'accenda , e più
liberamente ſenza riſchio ď K k k incen 1 2 1 444 Ragionamento Seſto
incendimento diſcorrer poſſa , e riandar perla perſona .Ma ſe aveffe avviſato
il Villiſio le terzane intermittenti divenir talora per li falalli contine ,
certamente cgli non avrebbe così follcmente ragionato. M2 apertamente ſi vede,
ch'egli dictro alla bruzzagliai de’volgari medicanti , più negli effetti
de’mali , che nelles cagioni di quelli s'indugia . E per favellar con lui,
ſecon do iſuoi medeſimi ſentimenti , ſe la terzana s'ingenera, per ciocchè il
facgue ſtrabocchevolmente mordace , e punge te,non intride, e matura toſto il
ſucco nutritivo : mala maggior parte di quello in una cotal materia nitro -
ſulfurca corrompendo muta : come potrafli ella maiper lalafo am mendare, ſe il
ſangue , che riman nella perſona , anch ' egli mordace , e pungente vi rimane ?
certainente egli ancora , ſe non ſi addolcia , farà valevole a corromperc, e
guaſtare il ſucco nutritivo , e ingenerar la febbre ; anzi tanto mag giormente
, quanto per lo ſuo fcemo, più debole , e fpoſfato diviene a rintuzzar quella
mordacità, che'l corrompe,me nomandoſi in lui quella nobiliſſima ſoſtanza ,che
ſolamente poteva nel ſuo intero affinamento ritornarlo ; perchè poi il ſangue,
che di nuovo s’ingenera , diverrà ſenza fallo pig. giore : e non ben
digeftédoſi il cibo, il ſucco nutritivo yer rà anche a ingenerarſi cattivo : e
manterrannc quel calo re , checol ſalaſſo iinmagina di ſcemare il
Villiſio;ſenzachè è egli inolto di riſchio il ſegnar nella terzana ; perciocchè
tra per lo cibo , che dentro dallo ſtomaco de’inalaci ſi cor rompe,e per lo
sfoggiato calore,ch'allottigliando, e diradi. la collcra nel ſuovalo
avvić,chequella nello ſtomaco ſi tra sfonda , e cotanto mal cagioni : ſicome a
quel giovinetto nobile intervenne , di cui narra il medeſimo Villiſio ,che no
oſtante la cardialgia avendolo cgli fitco ſegnare, piggioró ne sì fatcamente ,
chequali ne fu per debolezzamorto , gliene ſeguirono fieriſſimivomiti ,e
ſpalime , c rivolgime ci d'inceſtini : ne alleggioll in lui il dolore, ſe non
ſe nel de clinamento del male . Vuole ancora il Villiſio , che trarſi debba
fangue nello febbri, ch'egli chiama efiimcre, e nella finoca putrida , ac cioc
Del Sig. Lionardodi Capoa 445 ciocchè perlo falaſſo diradandoſi il ſangue fia
ventato : e le particelle calde di quello per affoltata non ſi accendano; ſi .
coinc adoperar veggiamo a contadini, i quali rivolgendo, e ſcioperando il fieno
difoverchio riſcaldato, fannogli pré dere rinfreſcamento . Ma egli è certamente
ſogno del Vil lilio , che liquorsche continuo muova , e diſcorra , ficome il
ſangue , abbia quelle particelle , ch'egliſcioccamente chiama calde , le quali
poſſano ſtare ammonzicchiate,e af faſtcllate , ficome ficno in palco ,
maſſimainente , che pic cioliflime , e ritonde quelle fono , e ſi muovon
rapidiſſim.2 mente allor che fanno il calore ; perchè malagevolmente ſtar
poſſono inſieme, ſe da qualche materia viſcoſa, e tenz ce non ſianoben prima
appiccate. Perchè è da dire , che fconcio , e ridevole oltrcmodo ſia il paragon
del fieno dal Villiſio apportato ,in cui lo ſtrignimento premendone il fucco
cagiona la formentazione , e'l riſcaldamento . Maw oquanto meglio egli avrebbe
adoperato , ſe non già con falalli , ma con rimcdj acconcja ciò fare ,
ſicomealtrove per noi è detto , ſi foſſe argomentato di ſventolare il ſangue ,
edirinfreſcarlo . Ma egli più oltre traſandando vuol che da ſegnar fiano anche
i fanciulli : quandoil medeſimo Ga lieno , che de ſalaſli fu cotanto amico, e
altri antichi medi cistutti ad una giudicano efſer quelli ſommamente a' fan
ciulli dannevoli , e da fuggire . E avvegnadiochè egli molce novelle ne
racconti d'alcuni febbricoli da lui felice mente col fataſſo guariti ; non però
di meno , ficome egli medeſimo teftimonia, non pochi ancora ne poſe per la ma
la via ; ne è da credere , che coloro che ne camparono ,fof fcro da falaſiajutati
: anzi per qualche altro argomento, o cagion da’lui non conoſciuta celsò loro
la febbre : e fuma raviglia , che infermo, chenon potè reſiſtere alla febbre ',
aveſſe poi la febbre inſieme, e'l mal del falaſſo contraftato. Che ſe veggiuno
noi alcuni avvelenati ſenza cóſiglio niu no campare, e altri cadere ftraboccati
da alto ſenzafiaccar fi il collo : ele ſcoppiate delle bombarde alcuna volta
non colpire , perchè dobbiam noi dire i ſalali ſolamente, per chè talvolta non
ammazzino , non effer mali ? Ma ben disi tra 440 Ragionamento Sefto 8 1
Travolto diviſamento portonne egli la pena il Villiſio ; per ciocchè
co'ſuoicari ſalasſi-egli-medeſimo s'ucciſe . Ma gľ Inghilefi , huominicotanto
pertraffichi , e per uſanze co noſciuti di tutte coftume della maggior parte
del mondo , Io non sò lo come ſi laſcino ciecaméte portare alle beſlag gini
de’loro medici , e non più toſto rimirino alle varie , ¿ diverſe nazioni, colle
quali eglino uſano , che ſenza laper mai di lanciuole , o dimignatte , e ſenza
'logorar goccia di ſangue ſtan bene delle perſone: e ſe pure infermano , altri
argomenti coſtumano a raccattar la ſanità , che i nocevoli ſalaffi. E per non
andar ricercando detl’Indie , e d'altres a noi rinnotiſfime partijagevolméte
ciò potrebbono avviſa re da’Mori: i quali, ſicome teſtimonia quel gran Maeſtro
in divinità Tomaſſo Campanella, le malattie tutte col ſolo di giuno , e colle
unzioni, e co ' tropicciamenti curama. Ma non meno ſciocco, e poco avveduto
nelie purgagio niegli ſi fu il Vihiſio ; concioffiecofachè egli talora ſenza
riguardare al tempo delmale toſto le purgative medicine,e le vomitative impor
foglia, con graviffimo danno degli in ferini; e ciò egli vuole anche dove la
febbreſia grande , d'accendimento dentro agevolmente temer fi poſſa. Ma quanto
poco fermo e' ſi foſſe nelle ſue regole il Vil lifio , manifeſtamente egli
medeſimo il ci da a divedere, al for che dopo averdiviſato ſecondo fua poſſa a
che debba il medico riguardare per dovere acconciamente i ſalaſſi , e le
purganti medicine adoperare , maſſimamente nelle feb bri peſtilenzioſe , e
maligne : alla per fine avviſando egli la vanità de'ſuoi diviſaınenti, e
dimentito della certezza della medicina razionale , non altrimenti , che ſe
volgare impi rico e' fi foffe , conſiglia imedicifuoi ſeguaci, che ſi laſci. no
ſolamente in ciò alla ſperienza guidare . In his cafibus , ſon fue parole,
prater medicicujuſque privatum judiciums; experientia potiffimam mededi
rationem fuppeditat ; cã enim hæ febres primo graffantur,finguli ferèfingula
tētăt remedia : diex eorum fuccesſibus una collatis facilè edifcitur , qua li
demum methodo innitendum erit , donec ultimo crebro ten tamine , feu
tranſeuntiuin veftigiis via quafi regia , « Lata Del Sig .Lionardo di Capoa 447
ád bujuſmodi affectuum rationem texitur, variiſque obſerva tionibus ,
monitiſquemunita , Or quinci manifeſtainente comprēder puoſli quanto po co egli
affidato nel fuo fiſtema di medicina, il tutto nel ſens; no , e
nell'intendimento de'mediciavveduti roveſciaſſe, giu dicando non eſſer rimedio
cotanto certo , di cui noi poffil mo vivere a ſicuranza. Ma non ſi dec egli
nondimeno privar della meritata lo de il Villiſio , per eſſes e' ſtato
certamente il primiero tra' Chimicimedicanti,ch'abbia avuto ardimento ,
rendendo giuſta ogniſua poſſa cagioni veriſimili di tutte le coſe , di
fabbricar un ordinato ſiſtema di medicina razionale, e ſopra tutto per quelbel
libro , ch'ei compoſe della Farmaceutica razionale ; ove egli s'ingegna di dar
ragione dell'operazio ni tutte , che ſi fanno ne'corpi umani dalle medicine. Ma
non già egli però, come par,chemillanti con queſte paroleg. Spartam hanc
fcilicet operationis pharmaceutice Ætiologiam , prius fere intactam , fi nunc
temere agreflus, non dignefatis abfoluero , veniam utcunque merebor , quia
terram non modo: incognitam ,fed , GvaldeSalebrofam ,&quafi labyrintheam
peragrare. incumbebat , fù’l priino aqueſta opera ; poichè il Paracelſo , e
l'Elmonte , ſopra i diviſamenti de'quali áp-, poggia tutta la ſua machina il
Villiſio , ne trattarono , tut tochè non ordinatamente aſſai n'aveffero eglino
favellato Ma ne a queſti , nc al Villiſio , per non aver eglino conſide rata
innanzi tratto , e riandata con diligenza la natura del la coſa , cioè
que’principi primi , ondederivano immedia tamente le operazioni de'medicamenti,
riuſcì il-finir una sì commendevoleimpreſa , con quellafelicità , che le avca
no eglino dato principio. Malaſciando dipiù ragionar del Villiſio, e del ſuo
liſte ma, a quel di Franceſco delle Boe Silvio trapaſſeremo;egli fin da primi
anni il Silvio , licome di lui narra Luca: Schache negli ſtudi d'Ariſtotele , e
di Galieno involto, do po lungo tempo a ciò logorato, veggendo alla fine , la
Chi mica di que' tempi a grandiſſima altezza ſormontata per le maraviglioſe
cure dell'incomparabile Giovan Batrifta El mon 448 Ragionamento Sefto monte ,
di cui ſopra è detto , a quella apparare con tutto il ſuo intendimento , e con
non ordinaria fatica ſi rivolſe; e conoſciuti i grandillimi errori, e ſconcezze
delle volgári dottrine , per non dovervender la ſua ſcienza a minuto, ne? più
ſaldi ſtudi delle buone arti sì , e tanto innoltroffi , cher grandiſſimo, e
famoſo ne divenne: e di molte , e laudcvoli conoſcenze arricchito miſeſi a
diſcorrere pergli ſtrabocche voli campi della medicina. Ma ſicome ardito ,e
poco cſper co Nocchiere , avvegnachè di ſarte , di - gomene , di ve le , di
boffolo , e di tutto ciò , ch'a ben corredata nave fac cia meſtiere ,
ſufficientemente ſia fornito : impertanto per nuovi , e nonconoſciuti mari
navigando, no ſappiendo egli poi ben quelli adoperare , miſerevolmente
inghiottito vi muore ; così il Silvio , comechè dibuona filoſofia,per quel
ch'e' medeſimo dice : e di non ordinaria medicina fornito , non però dimeno non
ſappiendo egli quelle adoperare,ſcó- - ciamente fallovvi , e quaſi nocchier mal
pratico negli alti maroſi del ſuo meſtiere appena ſciogliendo, fortunolamen te
annego . Ma potrebbe alcun recare in dubbio , ſe ſcor ro in filoſofia si bene
il Silvio si foffe veramente itato , co me eglinevuoi dare a divedere ; e
nelvero per quel che comprender poſſiamo dalle fue opere , egli ſembra, che no
molto addentro e' la ſpiaſſe , comechè una fiata dalla ra dezza , che adopera
il fuoco ne'corpi,cgli argomēri le parci celle di quello effer piramidali; non
però di meno egli po co conoſcendoſi eſſer profittato nella buona filoſofia ,
co mechè ,i per quel, ch'e'nedica , trentatrè anni continuo in appararla e' ci
aveſſe logorati , proteſtando le ſue dappocaggini , manifeſtamente dice :
optabile foret naturalium rerum principia vera , eorundemque numerum certum ,
qualitates legitimas via,methodoq ; mathematicis demõltrari. Ma nella medicina
razionale più alquanto egli ardimé toſo , volle il ſuo ſiſtema diviſarne ,
dicendo tre umori prin cipali eſſer ne'corpi degli animali: cioè il ſucco
pancreatico, la collera , e la flemma; i quali nel ſottile inteſtino adunā.
doli inſieme, e meſcolandoli, quell'umor poicompongano, che da lui è detto
triumvirale ; che il ſucco pancreatico di 1 1 1 2 0 1.111 DelSigLionardo
diCapoa. 449 ſangue , edi ſpiriti animali dentro al pancrea s'ingenere quindi
agli inteſtini per la celebre 'doccia del Virfungio diſcorra ; chela collera ſi
formi di ſangue dentro alla ve ſcica del fiele ; e che ſia ella abbondevole
aſſai diſale ama ro , e volante , e comee'dice, liffiviale , da poča acqua foo
Luto : in cui alquanto d'olio, e di volante ſpirito anche s'av viſi; che la
flemma ſi crii della ſaliva , la qualdegli ſpiriti animali , e della più ſalda
, e tenace parte del ſangue com pofta , dalle glandole delle maſcelle per le
docce , che falia vali diconft, alla bocca trapeli , e continuo tranghiorten
doſi dentro allo ſtomaco diſcenda : e quivi le ſue tuniches ainmorbidando
digeſtiſca i cibi; quindiallinteſtino fottilc pianamente trapelando ivi
s'accolga,c per la più gran par te dimori . Venir la flemma di molta acqua, e
di poco fpi rito aceroſo , e volante se dipochiſſimo olio, e ſale lillavia le
compoſta ; perchèin quella una gran virtù formentantea ritrovarſi; il ſucco
pancreatico ingenerarſi degli ſpiriti ani mali, e del ſanguenel pancrea: e che
fia eglialquanto ace toſo : ne dalla flemmadiffomigliante , ſe non ſe più alqua
to ſottile ; che ſi tragittiegli perlo canal del Virſungio al fotcile inteſtino
, la dovenel meſcolarſi ch'egli fa colla collera , perla contraria diſpoſizione
dell'amaro di quella , edell'acetofodi eſſo,a riſvegliàr fi venga un cotal
bollimé to , per lo quale la parte più groſſa , e limacciola ſi ſeparije queſta
giù per gl'inteſtini s'avvalli : e quella per le venes lattce diſcorrendo al
cuore aggiugna ; e la flemma anco ra nel fuo ribolliméto fi ſolva: e che la
parte ſua più diſcor rente , e ſottile inſieme colla maggior parte della
collora, e del fucco pancreatico traſcorrano parimente al cuore : ove la
fermezza, e’lcompimento deano al ſangue; e'l lor rima nente diſcendendo giù per
gl’inteſtini groili , e alle fecces! meſcolandoſi , quelle maggiormente
colorate , e tenaci ré. dere , Cosìavendo formato con queſti tre ſoli umori il
fi ftema tutto della ſua medicina il Silvio , dal guaſtamento, e perturbazione
di effi vuol , che tutte le febbri dirivino ; concioſliecoſachè ritrovandoſi
talvolta per qualche cagio ne il pancrea oppilaco , quivi il pancreatico fucco
oltre all' LII uſa : 450 RagionamentoSefto ùfaço dimorando , maggiormente
acetoſo divenga , e mor: dace ; perchè egli poi faccia negl'inteſtini un
bollimento grande, c ſtrabocchevole aſſai più dell'uſato : e naſcerne la febbre
, qualdicono intermittente . E ſe quella parte della collora , della flemma , c
del ſucco pancreatico , la quale al cuor ſi tragetta , non ſia ben
condizionata, ella nel deltro ventricolo di quello un'altro diverſo ribolliméto
riſ veglj , e le contine febbri cagioni . Ma troppo lungo fa rebbe il voler qui
raccontare comedal rimeſcolamento di tutti , e tre queſtiumori vuole il Silvio
, che ciafcuna maa , lattia ne*corpi umani s'ingeneri. Io non ſaprei lo di
leggier narrare quante miſchie, quan te conteſe , eriotte abbia riſvegliate
infra' medici un cosi ftrano ſiſtema , così vivendo il Silvio , come anche dopo
ſua morte ; ma lo diciò non curando al preſente , folamente per quanto a mio
propoſito s'appartiene , dico eſſer vera mente ingegnoſo , claudevoleil
diviſamento del Silvio , e quale appunto a un cotanto valent'huomo conveniya ;
ma perciocchè egli tutto grazioſamente afferma ſenza nium pruova fare delle ſue
ſtranezze farà quello da dircertamēte una ben compoſta novella per tener a bada
con ſue ciarle l'ignoranza del vulgo, e preffo quello accattar titolo di va
lorofo filoſofante ;machi ſpia più addentro , non veggen do comepoffano effer
tali quei tre umori, quali e' glide fcrive , ecome poffano aver poſlanza di
cagionare i bolli menti , e le febbri, e tutt'altre malattie, che egli
racconti, poco certamente a capitale il ciene . Anzi radillime volte nella
flemma, e nel ſucco pancreatico l'acetofità egli avvi far ſi puore; ſenzachè
nel pancrea non ſi è giammai per al cuno acetofità , ne poca , nemolta
avvifara: e pure dovreb be ad ognora quella trovarviſi, le nel Pancrea
s’ingeneraf fe , e s'accoglieffe veramenteil fucco acetofo ; perchè ra de volte
ancora quel bollimento , ch'egli immagina ,negli inteſtini da quelli riſvegliar
puoſli ; anzi è egli imposſibi le , che per l'acetoſità il bollimento avvegna :
ficome per pruova veggiamo , che il liquor del fiele collo ſpirito del
vitriolo, o delſale , o con altro acetoſo umore meſcolato ri bolla: DelSig.
Lionardodi Capoa 451 bolla : che che in contrario fi dica Olaaldo Crollio , da
cui peravventura ciò apparò il Silvio : il qual contendendo co tro la manifeſta
ſperienza , ne vuol dare adivedere , chelo ſpirito del vitriolo a ſtomaco ,
cheabboudi in collera ,bol Jimento cagioni. Maſenza fallo egli di gran lunga
s'aggi , 1.3 il Silvio a dir , che gli ſpiriti animali ſiano aceroſi ; per
ciocchè, fe ciò foffe , inervicontinudrattratti , e in malei Itato ne ſarebbono
: ſappicndo ben ciaſcuno , che l'acctori tà , ſicomc (triguente , e lazza, e
pugnereccia , a’nerviol tremodo contraria , e nimica fia . Ma chela ſaliva allo
ſmaltimento de'cibinelnostro ſton macobaltevol fia , comechè ella pur gli ſia
diqualche gio vamento , chiunque al maraviglioſo artificio del digeſtimé. to
non abbia poſtomente, potrà folamente crederlo . E ſopra tutto è da
maravigliare di ciò ch'e dice delle febbri intermittenti ; perciocchè ſe quelle
dall'acetofità fi cagionalſero, ſenza dubbiogl'Ipocondriaciad ognorafi vch
drebbono , e terzane , e quartane patire; poichè in loro fo pra tutti il ſucco
delPancrea , ficome anche il medeſimo Silvio confefla , oltremodo acetoſo
s'avviſa . Ma riſerbando a più agiato tempo sifatte conſiderazio ni : ciò che
toglie maggiormente l'eſſere razionalmedico al Silvio , e'l fiſtemadilui manda
a terra , fiè , che egli trasa dando le fondamenta , a niuna cura prende
l'inveſtigar la natura di quelle prime ſoſtanze de Chimici, ſule quali egli
fonda la fua medicina. Mache che Gadella ſua filoſofia , il modo certamente del
ſuo medicare , comechèpovero , e manchevole degli arcani dell'Elmonte , e del
Paracelſo , non poco dee effer commendato ; perciocchè egli usò le
volgarichimicheme. dicine , e masſimamente l'alloppiate connon ordinaria fe
licità ,, e pregiodel ſuo nome ; fe non ſe quanto egli preſtò alle purgagioni
troppa credenza : ele pole talora in opera , ove in tutto , e pertutto
diſconvenivano : avvegnachè pur guardingo, e ritrofo alquantoegli ſtato ne
foſſe . E come chè cgli dicoloro , che così volonteroſi ſono a ſegnare, só
mamente ſi biaſimaffe, non però di meno per non dipartir LIT 2 ſi dall' 452 3.
Ragionamento Sesto folo può contrariare almale . Oltre a queſto la formentl
fidall'uſo comune , andò a bello ſtudio accattando cagioni di ſegnare
ancornelle febbriintermittenti: ove egli affer ma non aver luogo niuno il
fataſlo.Immagina poi egli , che faccia luogo il ſegnare nelle febbri
finoche,acciocchèilsā gue ſtrabocchevolmente radificato non rompa i vaſi ,o fac
cia qualche altro gran male ; non avviſando , che con altri ficuriargomenti ,
quandociòpur s'aveſſea temere , dar vi fi può compenſo , ſenza tor via , col
trar ſangue, ciò che zione,tutto che grande, nel fangue,non li dee con
-iſpogliar lo della ſua vital ſoſtanza impedire, poichè per quella ſteſ ſa
formentazione, grande eccitandoſi , o fenfibile , o inſen fibile vacủazione ,
fi difcaccian fuori del corpo le cagioni delle malattie , il che s'impediſce
certamente col ſegnare. Dopo il Silvio ,mi ſi fa davanti Lazaro Meffonieri, il
qua le troppo libero , coltre alconvenevole ardito , imprende a determinar
delle più ardue', epiù ripoſte quiſtioni, di cui piatiſfer mai con lungo ſtudio
ifilolofanti . Primieramente egli ſtabiliſce effer principidelle coſe il mercurio
, il fales , e'l folfo , e dice quefti , licome in cotante arche , o matrici
contenerſi negli elementi ; i quali ſecondo l'avviſo di lui, fon quattro :cioè
il fuoco, efficiente cagion di tutte altre coſe , in cui niun principio egli
v'alloga ; l'aere , in cui ri fiede il mercurio ;l'acqua , ove ſtanzia il fale
; e la terra in cui dimora il ſolfo . Il fuoco ond'ogni altro elemental mo to
deriva , vien dal folto ajutato , ed eccitato dal mercu rio ; e ſue proprietà
ſono il dar movimento al mercurio , il riſplendere , il riſcaldare , l'attrarre
a fc le cofe oleaginoſe, e Peſſere attutato dall'acqua ; l'aria colfuo mercurio
fa fare a ſegno il fuoco ; il mercurio è un certo ſpirito aeree , il qual
coagula l'acqua , e'l fal volante rappiglia , e che afo fai bene col fuo ſal
fiſſo s’uniſce ,ed al ſolfo cótraſta .Dimo ra ilmercurio ne'luoghi piùdalle vie
del ſole rimoti, fico me ſono amendue i poli;l'acqua tiene una ftrettiſſima
ami, ſtà col ſale , e nimiſtà grande allo incontro poi colſolfo . La terra
opprimeilfuoco, e quanto ella è del ſolfo amica, altrettanto ſi moſtra nimica
del fale . Indi Del Sig.Lionardo di Capod . 453 , 0 Indideltemperamento il
Meſonieri vegnendo a favel lare , così ne divifa : il temperamento è un'armonia
delles quattro prime qualità, avvegnente dalmeſcolamento de gli clementi, e
de’naturali principj:( Delle qualità , che gli elementi compongono , due ne
ſono attive , e due paſſive: attive ſono il calore , e la freddezza , paflive
l'umidità , e la ſiccità . Tre coſe vihan nell'univerſo manifeſtamente calde ,
il ſole nelmondo celeſte , il fuoco nel mondo ele, mentale , e lo ſpirito
vitale nelmondo animale , e tre allo incontro manifeſtamente fredde , la Luna ,
il mercurio , lo ſpirito animale . Alcune ſtelle divantaggio vi han nelmo do celeſte
,dilornatura calde , e altre freddo , ma occulta mente ; e altresì nel mondo
elementale altre coſe calde fredde , macelatamente , o accidentalmente ſi
trovano : umidifſime ſoſtanze fon da per ſe l'acqua, e l'olio ; ſecchiſ fime la
terra , e'l fale . Maicorpimiſti divengono umidi,o ſecchi , allor che conalcuna
delle già dette coſe 's accop piano . Le ſeconde qualità daglielementi, e da
principi naturali variamente fra eſfo loro meſcolati dirivano . I 12 pori
ditutte coſe naſcon dal ſale, gli odori dal folfo , lam durezza dalla terra , e
dal fale : la mollezza , e tenerezza , dall'acqua. Ed ecco in brevei lunghi
diviſamenti del Mel fonieri ridotti:ne'quali egli nel vero indarno tenta
diridur re in un corpo folo , membra cotanto fra effo lor diſcorda ti, che non
poffono a niuna guiſa acconciarfi. E quinci ſcorger puoli, che quantunque egli
molto ſtelle in fu l'av vifo pernon laſciarſi trarre, e cader col yulgo de
filoſofan ti in errore; pur nondimeno non potè affatto obliar le ſcon ce , e
falſe opinioni , che cotanto tempo han tenuto maga gnate le ſcuole; le quali '
, come faggiamente,il Verulamio avviſa : Elementorum commentum , quod avide à
medicis acceptum , quatuor complexionum , quatuor humorum, qua juor primarum
qualitatum conjugationes poft fe traxit , tan quam malignum aliquod , infauftum
fidus infinitam , & medicine ,nec non compluribus mechanicis
rebusfterilitatem attuliſje, Maciò che egli poivi aggiugne del ſuo il
Meſfonieri, in tut 454 Ragionamento Sefto curto ,e pertutto inverigmile fembri
; ficomcè il dir; che il mercurio freddiffima, emobiliffimafortazaſi ſia ;e che
ſte colà ne paeſi al polo vicinijed alorcedaltre sì fatte fanfalu che', che lo
non mi do briga diriferire , per non logorare fuor di propoſito il tempo . Mada
tanti , e sì varj,e sìftra ni ſuoi arzigogoli, nonmai vien fatto alMeſfooieri
di co glier coſa che vaglia a dar ragione di quelle apparenze,ché tutto dì nel
grande, e nel picciolo li fan vedere.i ': Vuole oltre a queſto il Meffonieri,
che di tutte l'azioni del noſtro corpo ſien cagione gli ſpiriti animali, e
vitali; lo fpirito animale, dic'egli,è della natura del mercurio , aereos
freddiffimo , e dalcervello perlinervi, e perle membrane penetra, e fa il
ſentimento , ed ogn'altra azione animales; fi nutriſce della ſalſa , e acquola
parte del ſangue ; lo ſpiri to vitale è della natura del fuoco, ed egli è il
primo a muo vere , e a far impeto nel corpo, e a ſuegliar lo ſpirito anima lé ,
il quale da per ſeimmobile,e privo di ſentimento farebo be ; tragittaſi dal
cuore perle vene , e per le arterie infieme col ſangue, e forma i dibattimenti
de'polli. Nell'uniones d'amendue queſti ſpiriti conſiſte la vita dell'huomo, e
nella ſeparazione, perlo coptrário ,la morte . Maconcedaſi, che dal ver lontano
non ſia ciò, che divi ſa il Meffonieri,vorrei fapere, onde argomenti egli
eſſere lo ſpirito animale freddiffimo, ed immobile, e participar del la natura
di quel mercurio aereo da lui ſognato , e paſcerfin. enudricarſi del fale
foluto dall'acquoſa parte del ſangue ; e come parimenté egli provar poſſa aver
lo ſpirito vitale na tura di fuoco , e dar lui il moto , e'l vigore allo
ſpirito ani male . Ma formentandoſi continuo il ſangue nel corpo dell'huomo , e
comunicando egli ſempremai più , ome no calore a cucce le parti delcorpo , come
, e dove por trà mai l'animale ípirito olcremodo freddo , e inmo bile
ingenerarſi ? Coavien parimcnte poi , che'l Mcf ſonieri ci additi il modo , col
quale s’uniſcano fralo ro , el diſuniſcano si farciſpiriti ; e altresì , che
ſaper egli cifaccia , onde avvenga ,che'l caldo eſtremo dello ſpirito yitale
non difrugga, e diſlipi lo ſpirito animale ; ccoine al lo in DelSig. Lionardo
di Capoa. 455 lo incontro l'ecceſſivo freddo dello ſpirito animale non am morzi
, ed eſtingua lo ſpirito vitale . Laſcio di narrare,quanto il Meffonieri
nell'aſſegnare gli uficj alle parti del corpo umano , vada ſovente errato ; e
quanto egli poco felicemente lt vaglia (non riconoſcendo Je tali ) d'alcune
falſe opinioni di Galieno ; ma accennerò fol tanto ciò che follemente va
diviſando dietro allo in generarſi delle malattie: dicendo , che qualor
l'azione dell' animale , o del vitale ſpirito ſia impedita , gli huominiven
gano damaloritravagliati ; sì che le malattie propriamen te favellando fien
tutte negli ſpiriti, e meno propriamente poi negli humori, e nelle altre parti
delcorpo ; e la cura delle malattie tutte in altro non conſiſtere , ſalvo che
in tor via quelle cofe , che impediſcono l'azioni degli ſpiriti je conchiuder ,
che tutto ciò con cinque generazioni ſole di medicamenti fare agevolmente ſi
poſſa. Ma a queſti , cad altri diviſamenti, ch'egli poſcia produ ce in mezzo in
facendo parole delle particolari malattie,no fa certamente luogo d'argomenti
per moſtrargli fall . Fi, nalmente la maniera delmedicare del Meſfonieriaſſai
roz za nel vero , e materiale effer ſi vede . Ma poichè da uno in un altro
ſiſtema paſſando fin quì lią giunti lo non voglio trafandar tacitaméte
Franceſco Mea. ra celebre medicante nell'Ibernia . Fu coſtui della ſchiera
deGalieniſtiin prima : ma avviſando egli poi quanto all'o pera del medicinare
mal veniffero ad huopo le vane ciance di Galieno , impreſe a metter fuori
un'altro ſiſtema di ra zional medicina ; nel quale egli fu tutto inteſo ad
accozza. re inſieme le dottrine di Galieno con quelle di Paracelſo, in quella ftrana
guiſa appunto , che pittor farebbe, ſe mai te Ita umana fopra un collo di
cavallo tutto coperto di penne di varj, augelli e dipigner voleſſe . Forte egli
rimproccia tutti coloro che ichimici principj ofano dinegare: cô que fte parole
. Et miror profecto qua fronte quiſquam experien tia Scientia omnis , &
cognitionis inventrici) repugnare prefumat , nifi pro ratione fufficiat ,
multos pudere , cos pige me quiequam denovo admittere , quod confirmat&
eorum upi niuni 456 Ragionamento Sefto nioni adverfetur , à quo ne látum quidem
unguem recedere Suftinent , ne prius non recte fapuille videantur: multos taria
ta cum fatuitate , ne dicam Idololatria, Hippocratem , Ari ftotelem ; aGalenum
venerari videas ,utquicquid ab illis non dictum , non dicendum , quicquid
abillis incognitum , no cognofcendum putent; e molto appreffo fi briga in
moſtrar , che in natura v'abbiano sì fatti principj; sì veramente però, che non
debba a crederſi , che ſian primi ; imperocchèegli vuole , che della materia
,della forma, e della privazione i quattro elementiſi formino , c'di queſti
facciali il ſale , il ſolfo , e'l mercurio , che ſon terzi principi; i quali
finalmél te col vario accozzamento loro , quanto v'hanell'univerſo coinpongano
, Ed ecco , ſecondo lui , onde formanſi le parti ſalde, e di. ſcorrenti del
corpo umano: e particolarmēte i quattro umo ri di Galieno ; ne’quali , allor ,
che il ſale , il ſolfo, e'l mer curio ſtan così bene adattati , che non vengano
fra ello lo ro a tetizone , n'avviene la ſanità , e per contrario lemalat tie .
Diviſa egli , ſecondo l'avviſo dechimici, lungamente de'ſali ; dicendo , che
altri ſe ne ravviſano nella flenna ſas lata , come è il fal comune , e'l
ſalgemma; altri nella flem ma acetofa , e in cerca fpecie di malinconia
parimente acç. tofa , come è il ſale armoniaco ; e così ancora diſcorre ra
gionando degli altri ſali , che ſono negli altri umori . Vna sì fatta dottrina
fu introdotta primieramente nelle fcuole per alcuni ſeguaci del
Paracelſo;immaginado eglino con ciòfare ,che celtaſſero le perſecuzioni chelor
faceano i Galieniſtis ma lor non venne fatto il diſegno ; anzi , come in tute
gare civili avvenir ſuole, cui non voglia ad alcuna delle fazioni attenerſi,
eglino divennero d'ambedue le par ti nimici ; e come alga , o ondamarina , che
da'contrarjvé . ti ſia , or quinci , orquindi agitati, così l'opinioni di coſto
ro furono da'Paraceláſti, e daGalieniſticótraſtate . Il per chè anche noi ſenza
quì intertenerci immaginamo, che da quel , che di Galieno , e di Paracelſo
addietro abbiam di: viſato , rimanga ilſiſtema del Meara baſtantemente impu
gnato ; imperocchè, ſe ne con gli elementi , ne co’principi chi Del
Sig.Lionardo di Capoa 457 1 1 chimici poſſono i varj avvenimenti del corpo
umano fpię garfi : di ſeguente è da dir , che ove ancor vero foſſe (il che non
potrebbe a niun modo concederſi)che i princpj chimi ci daglielementi ſi
formino, ne men coſa , che monti una frullo Gi farebbe mai a pro della medicina
ſcoperta. Quanto nocimto recar poſſa a ben filoſofare il non eſser l'huomo'da
prima indirizzato per diritta via , il ci fa mani feftaméte vedere Frāceſco
Gliſſonio ;il quale comechè d'ala tiffimo intendimento fornito , e nella
notomia , e in alte cofe alla medicina appartenenti oltremodo avanzato fi foſ:
fe ; impertanto non ſeppe egli sì , e tanco ſchivare le ſcom ee opinioni nella
gioventù appreſe , che intriſo alquanto, e guaſto non ne rimaneſle. E ben ne
diè egli manifcfti ſegni nel ſuo ſiſtema di razional medicina , allor che
veriſſimo giudicando il diviſamétode'Chimici dictro a’principj del le coſe
naturali ,vuol , che il mercurio , o ſia lo ſpirito , e l'olio , c'l ſale , ela
flemma , e'l capo morto , o terra dan nata fian l’ultime particelle, nelle
quali le coſe o per ingen gno , o per induſtria umana folver li poſſano. Ma
dicia avendo lo altrovci miei ſentimenti paleſati, qon fa luogo al preſente ,
che lo di vantaggio ncragioni. Credeegli accordar queſte cinque ſoltanze con
gli ele menti d'Ariftotele, dicendo l'elemento del fuoco allo ſpiri to
riſpondere , e quello dell'aria all'olio , e quel dell'acquz alla flemma , a
quel della terra alla terra dannata, e allale. Ma in buona fe ,Signori ,chi non
avviſa , che'l fuoco non abbia punto che fare col mercurio il quale comechè
foco siliflimo ſia , e che le particelle , che'l compongono lian ,
piccioliffime', nonſono però elle tali, che tutte quelle ope razioni,
chedalfuoco naſcer veggiamo, adoperar poſla ao . E ne men certamente l'olio
potrà mai quella attegné. za coll'aria avere , la qual peravventura immagina il
Glif fonio ; perciocchè l'aria , comechè diſcorrevole , c vagas oltremodo ſia ,
non è perciò umida, ne ad accenderſi,o bru , ciare acconcia , Ma avvegnachè
l'acqua alla flemma ſia pure in qualche parte conforme: che compenſo prenderà
egli il Gliſſonio a voler duc diverſillims cofs , quali ſono il Mmm file, 1
4384 Ragionamento Seſto . slaai Cáte jela terra dannata , porre d'accorto , e
far ch'una coſt fola , e un ſolo elemento elle fiano E fe pur v'ha infra loro
qualche attegnenza , nondimeno fallò egli no poco Ari ſtotele a porre quattro ,
e non più toſto cinque elementi, e principj delle coſe ; perchè ſcompigliata',
e ſconvolta ner diviene oltremodo la filoſofia d'Ariftotcle : la qual folle
mente il Gliſſonio con quella del Paracelſo ſi ſtudia di ri conciare . Ma
ſufficienti non parendo si fatti principj al Gliſſonio a falvar l'apparenze
della natura, egli in luogo di ſpiar ſottile mente,ſicome far doveva,i vcri
principj onde fiicópongono quelli , al Paracello , e all'Elmonte per
dappocaggine ſi ri fugge, e togliendo da foro ciò , cheeſli degli Archei mil
lantando dicono : e giugnédovi di vantaggio molte altres fraſche del ſuo ,
ſcioccamente con si fatti ripari di riſtorar la ſua cadente Gloſofia
s'argomenta : dandone apertamente a divedere con quanto poco ſenno imbolato
egli aveſſe il piggior di que’libri di que'valent huomini','tralandando d ?
altra parte coranti buoni , e pregiatiſſimi diviſamemi , chę coloro in altre
coſe,e fpezialmente intorno alla via da do ver curar gl'infermi han laſciati
Almondo , che giacea pien d'alto errore.". Dice adunque il Gliffonio eſſer
l'Archeo un cotale ſpi rito reggicore , il qual negli ſpiriti di qualunque
coſa,il.ca lor vitale , e attuale riſvegli: e muova, e rilievi tutte le cor
loro facoltà natūrali : e altri ſoſtegna : e ciaſcuna natural parte dal
corrompimento difenda : tenendola buona fperā. zagli fpiriti , iquali egli in
feſta , e lietamente fa vivere . Quindi il Gliffonio le varie generazioni degli
Archei di ftintamente va rapportando , ein prima quella dell'Archeo dell'uovo»;
il qual primieramente eglidice , che habbia lo fpirito ſuo innato, il quale a
tutt'altri elementi dell'uovo fi gnoreggi ; e oltre a ciò contenga ancora , ma
ſol virtualmé te l'infiuffo vitale , e animale , e che fia ancora delle tre
prime facoltà naturali fornito, le quali egli percipientes, appetente, e
movente chiama , da una ſpezial diſpoſizione circonſcricte , c terminate . La
facoltà percipiente , dicu , egli, DelSig :Lionardo diCapoa. 459 egli , che
l'Idea dell'uovo , e quella ancor dell'animale dam ingenerarhi, o della pianta
in ſe comprenda; imperciocchè l'Archeodi quelli , non ſolamente ſemedeſimo,e
gli effer, ti , i quali egli può produrre , conoſce; ma l'idea ancora
dell'animale, o della pianta ravviſa ; ſappiendo oltre a ciò il modo' ancora ,
e l'ordineditutta ſua formazione, e qual fa tempo acconcio a mandır avanti le
ſue operazioni. La diſpoſizione della facoltà appetente compréde in ſe l'amor
della natura rappreſentata per l'idea ,e una cotal brama di quella limitata ,
sìche ſoſpeſa reſti laſua potenza infino al sempo opportuno . E ultimamente, la
diſpoſizione della faç coltà movēte porta con ſçco la ſua virtù formatrice,
euna tanta operazione valevole , e acconcia , maches'indugi all'opportunità
dell'attualeformentazione. Oltre a ciò vuole egli , che l'Archeo nell'uovo
anche dopo l'eſſer fuoriquello uſcito dall'ovaja,ligato alquáto ję pigro
nerimanga ; perciocchè le ſenza il conſiglio della chioccią , o d'altro
ſomigliante ajuto la formentazion dello animale rentaſſc , ad infelice fine
ogniſuo ſtudio riuſcireb be . Quindi egli alquante propoſizioni pertinenti alla
na. tura di quello va ſpiegando, facendoſi a credere ſe averba ftantemente ogni
ſuo diviſamento ſpiegato per gli avvifi dell'ingegnoſo Malpighinell'uovo.
L'Archeo, dice egli,di tutto il corpo già formato è di tre maniere: naturale ,
vita le , e animale ; il primo in due ſole coſe è differente da quel ch'egli è
già ſtato nell'uovo : l'una fiè , che egli in quello avca già ſolamente la
forza d'operare: e poi nel corpo for mato, in atto già opera ; e l'altra ſi è,
che al preſente egli in un caſamento già fabbricato abita , e dimora : al quale
in , acto egli fignoreggia . Ha cgli due miniſtri generaliſciò for no l'Archeo
vitale, e l'Archeo animale ; e oltre a coſtoro di diverfi altri particolari
miniſtri egli è fornito , quali ſono ſenza dubbio gli Archei del fegato ,
de’polmoni, del ven tricolo , della matrice , e d'altre parti del corpo a
qualche uficio dalla natura dell'animal ſorteggiate . L'Archeo vi tale ,
licoine il ſole è di tutto ciò, che la terra produce prin çipal cagione , così
eglią tutte parti del corpo l'effetto iq Mmm 2 flui 460 Ragionamento Sejto
fluiſce , comechè da le ſolo niuna coſa egli ſpecificar polfa. L'Archeo animale
agli ſpiriti animali tutti è ſopraftante , i quali nel ſucco nutritivo abitano
, e dimorano. E dalla perturbazione , e rimeſcolamento di coteſti Archei vuole
egli , chele malattie tutte ne avvengano . Ma egli ſarebbe un logorar vanamente
le parole , ſe fil filo annoverarc Io vorrei i diviſamenti tutti del Gliffonio
intorno agli Archei . Dirò ſolamente apparer manifeſto , ch'egli in luogo di
ſpiegar , ſicome egli intende, la natura degli Archei, il che traſandato a
ſtudio venne dall’Elmon te , vie più oſcura , e inviluppata la rende . E doveva
pure cgli avviſare , che di quelle cofe , che nonci ſono , ne eſſer poſſono ,
quantomaggiormente ſe ne favella , tanto men ſe i nedice ;ne ſi può ſenza
maraviglia conſiderare, come uns sì ſottile, e avveduto notomiſta, qualſenza
fallo ſi è il Glif ſonio , eſſendoſi ſottilmente argomentato d'inveſtigar con
fua fatica anche le più merome bazzecole da altri poco curate , foffe poi sì
vocolo , e traſcurato in ciò , che folle mente ammannare aveſſe potuto cotante
ciuffole,e giunte rie , non meno a' ſentimenti, che alla ragion lontane. Ma non
tanto del Gliffonio , quanto di tutti quali i va Ient huominiun tal fallo ſi è
ſtato ; i qualiper aver più mi nutamente le maraviglioſe operazioni della
naturaavviſa tc , diffidando per for manchezza d'inveſtirne le cagioni
corporali, e far che da quelle tutte dipender poteffero ,fi rifuggirono a sì
fatte fraîche , e ne compoſero cagioni fia tc , e favoloſe, onde natura .
Diſdegnofa fen 'duole, e fene'ricbiama. Maſopra tutti in ciò è certamente da
biaſimare il fallo del Gliffonio ; il qual manifeſtamente affermando , fe cfſer
pago , e contento a ' principj chimici , e a que primicorpi , che coloro
chiamano componenti , avvegnachè egli con felli poterſi più olere
coll'intendimento procedere traſcor : se egli poi ſconciamente a favolar degli
Archei , e sicon fondere , e invituppar la fua filoſofia con arzigogoli, non
men vani , e ridevoli di quelli de'folleggianti peripatetici Ma DelSig.Lionardo
di Capoa 401 Ma che è ciò , ch'egli dice de’pori di noitra buccia,negan do
affatto quegli eſſerci mai ? c pur dice egli, che perquel la
ſottiliſſimeloftanze fuor del noſtro corpo continuo tra pelino . La qual coſa
nel vero cotanto ridevole fiè, quan to le pruove ancora ridevoli ſi ſono ,
leqnali egli ſciocca mente a ciò raffermar va cogliendo . Ma chi non iſmaſcel
berebbe delle riſa in avviſare i forciliſfimi argomenti , co' quali ſi ſtudia ,
e s’affatica il Voffio giovane di fare in ciò le fue parti ? Tralaſcio a bello
ſtudio , comeche aſſai vi ſarebbe da di re , ciò che egliintorno alle maniere
di ſeparar le parti de corpimiſti ragiona · Solamente accennerò quanto egli di
que’ſcioglimenti diviſa , i quali , ficome egli dice, avvengo no per
congregationem , vel attractionem magneticam , fi ve fimilarem . E in prima va
egli rapportando quelcomun proverbio: che'l ſomigliáte del ſuo fomigliante
goduzquint di egli loggiugne , che ſicome gli animali dilettanli oltre modo di
quelli della tor generazionc, così anche eſſer ra gionevole ad argomentardelle
coſe, che nonabbiano ani ma; imperciocchè ciafcuna coſa del mondo per narurat
tz Jento la confervazion di se difidera,la quale da’ſomiglianti avviene : e
fugge il ſuo diſtruggimento', il quale per li ſuoi contrarj le incontra .
Finalmente cglicoichiude: ex dictis conftat , quod per attractionem fimilarem ,
five magneticam intelligam.nempe alle &tationem , five incitamentum , quo
cora pus naturale ad aliud fui fimile fertur. Ma qual coſa in buona fe più
ſciocca, e ridevole può per travolto , e ſcempiatocervello immaginarfi
giammaisquí to queſta del Gliffonio , il quale a cutte inſenſate foſtanze il
conofcimento , e'l poterf a fua balìa muovere actribui ſce ? certamente fe di
baona ragione voleva egli filoſofare, dovea pure avvifare ,che le cofe , che
ſtanchete , e fenzów movimento , ſe già non fono animate, tali ſempre fe ne
ſtao no , infin che per urto da altricorpi tocche, e fofpinte di fuo luogo non
partano .Eſe non piace pure al Gliſſonio ciò , che naturalmente filoſofando
ragionan que' valent' huomini , de qualiegli l'opinion rapporsa incorno all'an
dar 402 Ragionamento Sefto 1 ! 1 1 i 1 dar del ferro alla calamita , doyea ben
egli alcra più ragio nevol inaniera inveſtigare , onde ciò ayviene . Ma direbbő
per avventura coloro iquali follemente avviſa il Gliſſonio aver con ſue ragioni
abbattuti, infra l'altre coſe eller nella calamita una tale ordinanza di pori
dirittamente dall'aſſe , il qual dicon magnetico , del quale eſcan continuo
fuora particelle ſottiliſſime , e ſpiritali aſſai: e che ſian nel ferro i pori
pieni di particellemagnetiche travoltę infra loro , inviluppate per maniera,
che entrandovi le ſottiligime para ticelle fpiritali , che efcon fuora della
calamita , faccian , l'uficio della formentazione riſvegliando in quelle il
movi mento ; le quali poi movendo verſo il polo magnetico, dis rizzino , ci
fianchidel ferro forte percuotano : e sì quello co’loro colpi innanzi {pingano
; ma nella calamita -ancora farſi un cotal rimeſcolamento di particelle
ſpiritali , le qua. li urtano in eſſa , e ancor la ſpingono intanto ,
chevicende volmente incontro moyendo dagl' innumerabili corpice ciuoli d'entro
ſoſpinti, corrano a cozzarſi. Ne ciò deves punto recár maraviglia , che la
calamita ancorada ſua parte fi muoya , comeche più tarda, e lenta i perciocchè
ſe nel acqua il ferro , e la calamita ſi pongano,da qualche legno o altrá ſomigliante
leggiera ſoſtanza ſoſtenuti , intanto che ſopránocanti poſſano andarea gall.2 ,
ſcorgefi toſto il ferro notar verſo la calamita , e la calamita d'altra parte
verſo il ferro . E ſe ciò pure non ſoddisfaceſſe al Gliſſonio a voler cotanta
maraviglia ſpiegare , dovrebbeegli in alera, e altra maniera-la cagione di
quella inveſtigare. Maad altro fac cendo paſſaggio, èegli ſommamente
damaravigliar della troppo ſcimunita ſchiettezza del Gliſſonio ; perciocchè có
tro i propjſentimenti talvolta alle comuni opinioni del vul. go laiciali
ſcioccamente traportare : ficome,per tacer d'al tro, manifeſto avviſaſi in ciò
che egli de'quattro volgari umori va ragionando; cioè;che con util grande della
media cina un tal diviſamento rinvenuto foſſe : e che ragionevol mente damedici
feguir debbafi , ficome loro molto pro fittevole , e acconcio a dover porre in
opera le purgagioni, e altre ſorte di votamenti ; eche Galien d'altri
diviſamengi degli DelSig. Lionardodi Capoa 403 1 degli umori infrămetterſi non
volle , ficome poco utili alla medicina. Madi ciò egli toſto pētuto dice
eſſervi un quin to umore, cioè a dire il ſucco nutricāte , il qual giudica egli
effer soinmamente a ſaperſi neceſſario ,no che utile a chibe neje lodevolmente
apparar voglia la medicina; e pure il fuo Galien di quello nulla ragiona, ne
moftra certamente pun to ſaperſene. Ne è vero ciò, che egli millanta di
Galieno, eſſer quello non poco commendevole per avere cotal divi ſamento da
primaritrovato ; concioſliecoſachè poſto che loda pur nedoveſſe all'inventor
ſeguire , certiſſima cofa . ſia , che la dottrina de’quattro umori molte
centinaja d'an ni, anzi che Galien naſceſſe divulgata già foſſe nelle ſcuo le
della medicina . Ma ſe il Gliſſonio intéder vuole di que. gli uinori, che in
varie , e varie parti del corpo fan dimora, non mica già quattro , ne cinque,
ma molti, e molti egli no ſono, de' quali alcuno non ſi è forſe ancora ſcoverto
. Nelle vene, e nelle arterie poi non trovarſi queſti quattro umori, ſi è
moſtro già ; ed i più ſcorti,e celebri fra'Galienia ftimedeſimil'han conoſciuto
. Vn divifamento poi quaľ è quel di Galieno dietro agli umori, che non ſi da
niuna cu . ra d'inveſtigar la natura delle coſe , non ſolamente utile niuno ,
ma danno graviſſimo alla medicina ha recato Maquanto al medicare , comechè
ſcorto molto , eave veduto egli ſi moſtri il Gliffonio in conſiderando una
fiata , che'l trar fangue nella Rachitide niun giovaméto rechi allo
infermo;nonperò di meno non ardiſce eglia riprovare una sì biaſimcvolcoſtuma
dagl'Impirici in Inghilterra , ficome cgli afferma , introdotta . Non propone
egli medicamen to , che volgar non ſia; ne contento d'un ſol medicamento ,
molti e molti inutilmente nemeſcola inſieme non men che gli altri medicanti ſi
facciano ;e in ciò ,per cacer d'altro, da egli manifeſtamente a divedere quanto
mal fornito'lia d'efficaci, e valevoli medicine . E ciò baſti avere al preſen
té del ſiſtema del Gliffonio accennato ; il qual per altro è certamente non
poco da commendare ; maſſimamente per la ſomma, e maraviglioſa diligenza , e
ſollecitudine da lui pſara nelle coſe dellanoromine Ma 464 Ragionamento Sefto
Ma di troppo lungo tempo abbilognerei , fe lo voleli eſaminare i fiſtemi cutti
dellamedicina dell'Ogelande, del Regio, del Moebbio , del Carlettone,
delBartoli , e d'altri ſcrittori . A baſtanza potrà ciaſcuno in leggêdo le loro
ope re da ſe fteſſo accorgerſi, che il più di loro poveri d'intendi mento , e
ſcarſi di partito per quanto facica vi duraſſero ,ra de fiate han potuto dar
paſſo ſenza la ſcorta d'altri ſetteg gianti,l'opinioni de'quali tutto cheda
loroſtravolte,abbia mo noi a ſufficienza conſiderate ,e riandate ; e altri di
loro , fra'quali il Tacchenio ,il Travagino,il Sualve,ilFlúdize'l Fo lio fon
così groſſi , e materiali ne'loro diviſamenti, che non fa huopo ,che ſe ne
abbia a far menzione alcuna particola re : Adunque chiaramente conoſccſi, che
da que primi tempi, che ebbecominciamento la razional medicina lino a giorni
noſtri,per quanta induſtria, e diligenza , che da'fi lolofanti antichi ,
emoderni vi ſi fia adoperata , e per qua te coſe per la morta , e per la vital
notomia liaoſi nelle ani. mali , nelle minerali, e nelle vegetali ſoſtanze
novellamen te ſcoverte , e per quantepruove , e ſperienze da'ſaggi, u avveduti
medicanti in sì lungo proceſſo dicempo nelle cus te delle malattic fieno
adoperace , non ſe n'è potuto giam mai rierar nulla di ſaldo a ſtabilir per
cercano conoſcimer to, e per vera ragione dottrina niuna . Ma non dee ciò re
car maraviglia a cui tanto , o quanto alle ragioni pongas mente ; per le quali
, s’Io pur non vado errato,apercamen-, te conoſceſi quanto ad huom’malagevole ,
anzi impoffibile affatto riefca lo ftabilir luftema alcuno di razionalmedicin
na; e ſe pure dalle preterite.coſe giudicar delli di quelle , che debbono
avvenire, per tanti,e canti, che infelicemente, vi ſon naufragaci non mai ſi
vedrà capitarne a ſalvamento ſeggettante alcuno; e ficome... Chi folca il lido
perde l'opra , e'l tempo, così avverrà certamente a ciaſcun' altro , che
tenterà una ſimile impreſa 3 ne potrafli così nel filolofare in medicina ,
comenell'adoperarla prometter ficuramente d'aggiugnere a ſaper la natura
de'mali,e come, e perchè ne noftri corpi s'ingenerino, e come riparar vi ſi
polia . Anzi, o infeliciflia condizione di noi mortali ! nel continuo ſu
buglio, DelSig.Lionardo di Capoa. 405 buglio , e rimeſcolamento
dellamedicinaper fatica , e di ligenza , che adoperata viſia , chi mai fin'ora
avviſare ha potuto , che coſa ſia un piccioliſſimo catarro , che ne mo- .
leſti? e . venne queſta veritàmolti, e molti ſecoli avanti co noſciuta per
tacerdi Pitagora)da Empedocle ,da Acrone,da altri antichi filoſofáci:e da
Platone, il quale della incertezza della medicina favellado ebbe a dire ήν δε
καλούσε μενΙατζικής βοήθεια δε πε και αύτη χεδόν όσον ώρεψύχα καύμαπ ακαϊρα , και
πάση τοίς τοιούτοις ληίζονταιτην των ζώον φύσιν , ευδοκιμον δε ουδέν τούτων είς
αφίαντην αληθειάτην άμεσα γαρδόξοις φφάται τοπιζόμα. Venne
altresìconoſciutaqueſta verità, oltre a Seſto Empirico , da Cornelio Celſo
:allorche diſſe della medicina favellando : eft enim bęc ars conjecturalis ,neq
;ei refpondent,non folum có . jecture ſed nec etiã experientię per ; nulla
diredel Cardi- : nal Cuſano, e d'aleri moderni. E a ciò ſenza fallo riguar dádo
i più ſaggi, e ſcienziati popoli della Grecia, quali ve ramente fur gli
Acenieſi: allor che maggiormente in Aten ne fioriva la filoſofia , e le buone
letterc , traſcurarono la medicina , no facendone niun capitale , come ſi può
vede re nel Pluto d'Ariſtofane Ούκούν ιατρον εισαγωγών έχρήν τινο Tis dñi
iarsós ész vũv šv tñ wóriet ; .. Ούπ γας ο μιθος ουδέν έσ' , ούθ ' η τέχνη . .
E dietro agli Atenieſi anche iRomani; i quali avveduti, c ſagaci in yotar dalla
Grecia il copioſo teſoro di tutte le buone arti , e ſcienze, la medicina
ſolamente d'imprender non curarono ; anzi dice Plinio : Populus Romanus neque
46- ; cipiendis artibus lentus : medicinæ etiam amicus: donec ex pertam
damnavit ; e dagli Eccleſiaſtici ſcrittori vien anco l'uſo di sì fatto meſtiere
ſommamente abborrito , e danna to; infra'quali il Balſamone Patriarca
d'Antiochia così dela; le manchevolezze di quello avveduto, ne manifeſta:
avve-, gnachè la medicina pur quella veramente fia, che produces © riſerba la
ſalute ſecondo lo intendimento de laggi: non dimeno non può ella al ſuo fine
aggiugnere; ed Arnobio;, Medici curătanimal humi natū , ut confisú fcientia
veritate; fed in arte ſuſpicabilipofitum , conjecturarum eſtimationi bus nutans
; e'l medelimo ne ſcrive llidoro Pcluſiost : clo Nnn niin 1 406 Ragionamento
Sesto migliantemente con molra vaghezza Stefano Veſcovo di Tornaja :
Hippocratisin ebo Galeni diſcipulos , ut mihi confu lant conſulo : incerta
famper ab iis oracula deportans, qui in vafevitreo coloris, & fubftantiæ
peccata diſcernunt . Perchè 9. Chieſa , come l'apportaro Patriarca Balfamone ne
nar ra,Puro, e'l meſtiet del medicare a fuoi Cherici interdiſſe : adunque ,
egli dice , non è certamente ragionevole , che il Sacerdote , oʻI Diacono , o
altro qualunque Cherico tra fcurando un minifterio irrepréfibile, che già
impreſe y oraw s'impieghi ad er meſtice mutevole, edubbioſo , e alfai fo vente
fallace . E S. Bernardo volle, chei fuoi MonacidiS. Naftagia nelle loro
malattie non fi ſerviſler: punto de' me dici ; al che riguardando per avventura
Franceſco Petrarca huom di ſaldo, e intero giudicio,ſcrivédo a un ſuo amicogli
diede queſto ſalutevol conſiglio : Nulla eft rectior ad falute via ,quă medico
caruifje . E certamente, molto ben per mio avviſo venne conoſciuto al Petrarca
,quel che dopo lui avvi sò l'avvedutiſſimo Franceſco Berni , 2.4 . La medicina
como fue erbe , e coſe diri Che fa ? caccia carote a tutti mali ..'.... Infin
che l'huom perſempre fa ripoſe. Queſtofece ella al figlio d'un gran Rede noftri
tempi ; il qualeavvedutofi de vaneggiamentidella medicina , alla fine fece boto
scomedarra Giorgio Orni : Si Deus aliam prolem largiatur , nullo se
ampliusmedico ufurum . E per ciò oltremodo fu ſaggio l'avvifo diquel profodo cd
ampio pelago d'ogni più rara , ed antica doctrina Giuſeppe della Scála, il
quale ricusò ,come narra Daniele Einlio ,ognicoſi glio de'medicāti nell'ultima
fua inferinità ; ptaceredi quel gran filoſofante Franceſe; il qualecoll'altezza
del ſuo inté. dimentoporè montar ſu la vetta del più belſapere; Io di co Michel
diMontagna , che nelle ſue infermità rifiutò sê premai l'operade’medicanti :
defichepoſcia valevoliflime's ragioni e' ci reca ne'ſuoibelliſſimi volumi.
Neparmi qui da dovere trapaſſar lottó filenzio quel convenente di Do menico
Sala , celebre lector di medicina nella famofiffima ſcuola di Padová ; il quale
canto non potè tenerli, che alla fine , un giorno non apriffe a' fuoi fcolári
quel che e' del la Del Sig.LionardadiCapoa. 467 la medicina ſentiva , inqueſta
difinizione: Medicina ef ars * illudendimundum , &à qua totus mundusdelufus
eft. La qual definizione porſe cagione a Rafael Carrara di chiarir, ſi affatto
della vanità d'effa , di tralaſciarne l'eſercizio , e di cantare in quel ſuo
giocoſo ſonetto Ben diſe quel grand'huom lettor primero Nela Città d'Antenore
fondata , La medicina deve eſſer chiamaja Arte da mincbionar il mondo intero.
Ma chealtrondegir richiedendoteſtimonianze di colo ro , che a faccia ſcoverta
abbia la medicina guarata . Non folea Mario Zuccaro (a ciaſcun di noi ben
conoſciuto ) no ſolea , dico , ſovente dire a' ſuoi ſcolari : miferi , ed infer
lici noi , félmondo arrivale a faper maile,debolezze nofire , che ne meno ne
poffiam promettere colla noſtra médicina d'a yere a guarir un picciolo
carbõcello,certamēte chene cõverreh be apparar altro meſtiere ? E quinciè
avvenuto poi,c'huomi ni d'acuto intédiméto , e di ſano giudicio, e di profondo
fą. pere , e di nobil'animo forniti ,pulla abbian curato d’eſer citarla; infra
i quali per tacer.canţi antichi diligenti inve ſtigatoridelle coſe , ſavj
interpetri della natura , ed altri huomini inſigni dc'tempi noftri , lol faro
menzione del no ſtro Col’Antonio Stigliola , riſtoratore della Pitagorica
filoſofia : e di Gio; Alfonſo Borrelli chiaro , ed eccellente in ogni ſcienza .
Anzi quinciè egli avvenuto , che i medeſimi razionali medici,i quali moſtrano
che più diciaſcun'altro tengono a gran capitale la mcdicina , l'abbjan , nel
maggior hyopo mcNain son çalere . Intorno allaqual coſa miricorda d'un medico
infra’più venerandi di queſta noftra Città,ch'eſſen do non ha guari dell'ultimo
ſuo male infermato, e vani veg gédo riųſcire,e ſenza pro gli argométituttidella
ſua medi cina , diſperato alla fine miſeſi in mano d'un famoſo fpe -ziale ; ed
eſſendoſicolui una volta rimaſodi viſitarlo, egli impaziente entro una carrozza
fattoſi, un picciolo in atc raſſo allogare , comepotè il , inen male ; alla
bottega delo ſpeziale andollene a richiamarſi agram ente della graſcura tezza
dilui; cd avendogli par iſcurarſi colui detto : A voi Nnni 2 1012 468
Ragionamento Sefto 4 non fa meſtieri la mia opera , imperocchè quando vi foffe
in grado porreſte avereil Sig. tale ( così un principaliffimo medico
nominandogli, e di'lui amiciſimo) allora tutto crucciato l'infermo ripigliollo
dicendo, io vo'da voi ſola mente effer medicato; e ſareiben folle , ſe volelli
mettere in balia delle ciarle di lui la cura di mia ſalute . E dalla medelima
incertezza della medicina avvien,che P lo più i medici, ſe'l vero
avviſanomolti,e graviſſimi autori Sien così ingorda , e sì crudelcanaglia ;
poichè non potêdo mercè della lor opera promettere alcu na coſa dicerto ,
abbiſogna loro , che alle giunterie , e alle frodi abbian ricorſo peraccattar
lode,ed eſtimazione. Ne fon elleno mica nuove le loro aſtuzie : ma fino a'tempi
di Galieno , per tacer de’più antichi , eran ſommamente in vi gore.E cui non è
noto quel celebre diviſamento di Galicno, tolto per la più parte da Ippocrate,
ov'egli mette nella via chi che ſi voglia , acciocchè buon medico divenga: in
que. fta guiſa ? In primad'ogni altra cofa è da diviſar delle viſi tazioni de'
medici ; perciocchè alcuniinfermi rade , e altri ſpeſſe volte deſiderano eſſer
viſitati.Non dec egli il medico ove il malato riposādo dimora étrar facédo
romore co'pie di , ſicome fanno alcuni; o alzando di ſoverchio la voce :
acciocchè ſvegliato colui non abbia a lagnarli , che gli ſia rotto in teſta il
ſonno . Ma i ragionamenti de'medici in al cuni ſono ſciocchi , e ſenza ſenno ,
ſicome per rapporto di Bacchio, d'un cotal Callinatte racconta Zeuſi: il quale
ef fendo da un infermo domandato ,' ſe di ſua malattia morir doveffe , rifpofe
con quelle parole , ει μή σε λητωκαλλίταις γά yato , e ad un altro infermo
ſomigliantemente riſpoſe: Κατθανε και ΠάτροκλG- όπερ στο πολών αμάνων. Morio
Patroclo ancor di tepiù degno. Oltre a queſto dee effer il medico affettatuzzo
della per ſona , e grazioſo in entrando , e in ſedendoſi , acciocchè nó gli
ſiano fatte le ſcherne ; ma non cotanto tronfio , e traco tato , ina
mezzanamente grave , ſe non ſe per avventura amaffe meglio l'infermo vederlo
alquanto modeſto , e umi le , o di ſoverchio altazzoſo . E ſomigliante dobbiam
noi dire de’veſtimenti del medico , i quali ancoramezzanamé te deb 7 Del
Sig.Lionardodi Capaa: 469 te debbono eſſer foggiati, ne cotanto ricchi, e
nobili, che troppo tracorato il dimoftrino : ne cotanto ofcuri , eruſti cani,
che il facciano poco a capital tenere dove egli ufaw ; ſe non ſe ancora agli
infermi, otroppo ornati otroppo vie li piaceffero . Così anchela tonditura
de'capelli eſfer dee a grado degliinferini, i quali egli medica ; perciocchè
ins corte d'Antonino padredi Commodo,ciaſcun famiglio per imitar la coſtuma
dello Imperadore , fino alla cuticagnato , devafi ; perchè Lucio chiamavagli
tutti Mimi; e per con trario i famigli di Lucio lūghe,e belle chiome nudrivano.
I medici ancora aver debbono l'unghie nette , e ben forbice; e fe per avventura
putiffe loro il fiato , o le dicella , o tutta la perſona,a modo di becco ,
fpiacevole odore gittaſſe , fi debbon eglino d'odoriferi unguenti , od’acque
nanfe for nire , prima che ad altri medicar fi preparino . Ma purvoleſſe Iddio ,
che queſti, e non altri foſſero i lo ro artificj; eglino di vantaggio ricorrono
alle frodi, alle in vidie , alle maladizionije ed altre illecite ſtrade,
acciocchè fopra gli altri avanzarfi poffano , e maggiormentein pre gio , e
ſtima ſorinontare . Così vedeli , che un medicobia fima ; e danna i medicamenti
dell'altro ; tutto che que'me deſimi ſiano , ch'egli appunto diviſati n'avrebbe
, s’a lui foffe toccata in prima la volta. Al quale , ed anche pega gior
misfatto non vergognoſli Aſclepiade di confortare i fuoi ſcolari , fe vogliam
dar fede a Celio Aureliano che'l rapportascosìdilui dicendo . Primo etenim
invidiosè jubet fi qua ante ipſum medicus adhibuit , repudianda . At fi non
adbibuerit ,tuncprobanda , tanquamlegitimaputans ut hæc aliis adhibentibus noceant,
ipfomedeantur . Earrab, biato ſeguace & Afclepiade moſtrolli il famoſo
Gabriel Zerbi , allor , cheſcriffe : Medicus aliorum remedia ne lave det
,utſupra vulgaresfapere videatur ; e l'aſtioſo Teſſalo fpinſe l'Imperador
Nerone a diſpregiar tutt'altri : rabies quadă ,comenarra Plinio, in omnisævi
medicos perorans . E d'un tal medico ne narra il giuriſconſulto Alfeno :
medicus libertus , quod pataret , fi libertiſui medicinam nonfacerevt, multo
plures imperansesſibi habiturum , poftulabat , ut feques rentur 470.
Ragionamento Sefto rentur fet ; netie opus facereni , Ed'un altro medico narra
Calliodoro , che delbarbaro Tiranno Teodorico un sì fat, to privilegio
iinpetraffe : inter faburis magiftros folusbabea, ris eximius : &
omnesjudicio quo cedant , qui fe ambitiones maruzcontentionis.excruciant; eſto
arbiterartis egregie ,e04 rumquediſtingue confli& us , quos judicare
folusfolebat affe Etus. Or li potea penſarmai ſcimunitaggine maggiore di queſto
maeſtro Scimmione? Egli aveva a ſedere a ſcrannaa giudicar le più intratriate
quiftionidella natura, come ſe la medicina forſe arte da mattonar le ſtrade, a
da far bambuc cj ; o comeſemonna Natura ſtata foſſe una maſſaja fante, ſcá,
preſta a ſeguire icomandamenti del Sere . Ne è da die favolofa affatto la
novella di que’medici , che per uggia ze mal talento guaſtarono , e atterrarono
diſpetroſamente ; bagni di Pozzuoli ; e di que'ribaldi ancora , che il mede
fimo ferono alle pregiatiſime acque medicinali della valle d'Anfánto , di cui
ancor vive la famaappreſo que delpae ſe Irpino . Perchè ragionevolmente forte
l'avvedutiſfuno Pietro d'Aponamorde, e sfregia il medico , chiamandolo talora :
Invidie pelagus, derrationis organum , ambitionis perforatam clepſydram ;aliena
veritatis contradictorem gar . rulum , propriæ ignorantia conftantiffimum
defenforem , & inexcufabilem ægrorü neglecturē:c ancor faggiamente avvila
il Magati colà ove fi lagna, che'l ſuo govello modo dime dicare non avrebbe
trovato gran fatto ricevitori: da che no- sébrava di molto pro.aʼmedici,i qualimzi
ſempre fono alla propia utilicà,e al vil guadagno intefi;foggiugnédocgli:
denociniis, atque affentationibus , ut potentium gratia uti ad queftum poffint,
facram medicinam fædare,c libiitfis æter nas infamiæ notasinurere nihili
faciunt . E Giulio Celules della Scala nella fua poetica , de’medici parlando :
turban, dice, videmus à primis literarü rudimentis continuo ſe ipſam eo
fenomine venditantem , invidam , maledicam ; cbtrecta tricem ; novam ſpeciem
cynicorum yavaram , temulentamus Supinam , ignavam fimul,asq ; ignaram . E
GirolamoCar dano di finiſſimo giudicio ; e più che altri del meſtier della
"incdicina intcndcnte , vuol ; che da eſa neceflarianente 5 avve Del Sig.
Lionardo di Capoa 471 avvegna ,che taliticnoquei, chefeſercitaiio : medicina ! facit
, ſono le ſue parole ,nonreruin memoris , fed verborü :1 callidos y verſatiles
ingenio ;inuidos avaros ; idolofos , las boriofos , non ingeniofos , de minime
graves s opus enim coni rúm , d exercitatio minusquam liberalis eft : e altrove
pa rimente de medici avea detto: funt autem improbi fermèi omnes noftra ætate ,
adeò ut nihil pejus excogitari poffit . Perchè gli ftrolaghiallogando la
medicina conſervatrices ſotto labalia del Toro , e di Venere , onde huom fi
consi dace, per quel che eſſi dicono,ad ogni force d'impudicizitz e di diſonore
: c la medicina curativa ſotto quella diMarte, edello Scorpione, fer gran fenno
a dovere sì fatti fregj in veſtire, come ne diviſa il mentóvato Conciliatore ;
il qua-> le ſoggiúgne , chedalle ſtelle medefime , onde venir ſuole
l'eccellenza de’medici nel for meſtiere, vēga anche loro la malvagità
de'coſtumi; perchè finalmente ei conchiude,um", eccellente , e perfetto
médico nonpoter eſfere ſe non fer fcellerato huomo , e malvagio ; ed avvegáachè
vani, efol li fien ſempremai da giudicare i cicaleccj.delfa ftrologia : è
nondimenodacredere , chegl’intendenti dell'arte,ciò cut to a bella poſta
fingeffero per adattár le coſtellazioni a quelle coſe , chetuttogiorno nel
meſtier della medicina', e ne’profeſſori diquella s'offervano's Má chi mai
ilmaltalento , e l'uggia demedicinarrar ba ftantemente potrebbe, e come
ſtizzoſamente l'un l'altro tutt'ora ſi carminano , efimalmenano . Egli è coſa
pur manifeſti a ciaſcuno l'avere gli aſtioſi medicidi Danimarca tracollato
dalla grazia del loro Rè it benigniffimo ,e inge gnofifſimo Ticone della
perduta ftronomia famoſiſſimo ri. ſtoratore , intanto , chegliene fư tolta
l'Iſola , e la Rocca d'Vraniburgo , di cui egli era Signore : e sité tanto mara
vigliofe operazioni', é ordignidella ſtronómia , ele nobi lißime chimiche
fucine rovinarono , che appená oggi,non ſenza lagrime, fe neriſerba la memoria
: E l'ombra foldi si gran corpo appare. Ma ſcelleraggine così grande di tradir
nemichevolmente la patria , ſpogliandola di quello fplendentiffimo lume , non
pur 1 472 Ragionamento Seſto $ . pur delSettentrione,madel mondo tutto , onde
foſſe sõi moſſa a commetterla la cagneſcatabbia di que'ribaldi me dici, da
cheIo non potrei ſenza lagrime narrarlo , dicalo in mia vece Pier Gaſſendi :
Erant in his medici quidam , qui videntes non modo exDania , fed ex regionibus
etiam cete ris maximam egrorum turbam ad Tychonem confugere, cu Spagyrica
illiusremedia , quę quibuslibet gratis largiebatur expertifeliciter , ac
morborumetiam valgo habitorum infa nabilium levamen fentire , livore inſigni
cxardefcebant, cu quapotenant apud quoslibet,procereſquepotisſimum , quibus
preftabant operam ,ipfius nomen traducebant, E o quanti ale tri eſempli della
coſtoro invidia rapportar potrei, ſe non che troppo ne ſarei per andare alla
lunga. Apollo crudca liſſimamente ucciſe il celebre medicante , e , pocta Lino
, la qui inorte pianſero eziandio le genti barbare ; per lo che gli Egizi una
flebile canzone ſopra tal convenente com poſero , appellato in lor lingua
Emaneco , ci Greci Lino, la chiamarono . Ippocrate , comeſcrive Andrea
antichiſe funo medico , inſidioſamente brụciò la nobile, e ricchiffima Libreria
diGnido ; e quindi egli poi per tcina fuggiſli . A Quinto , medico famofiffimo
, dice Galicno , fu meſtieri gombcrar Roma di prelente, per ceſſarele
ribalderic d'al tri medici . E in Roina pure attoſſicato da’rivali luentura..
tamente moriffi un grandisſimo medico , come narra Gin lieno , ilquale anco di
ſe narra , che egli fieramente perſe guitato yenne da parteggiantimedici di quel
tempo. E per nulla dir quì delle occulte inſidie , c machinazioni, e delle
trappole , e frodi ordinate dagli Arabi medicanti inverſo Avicenna ,
Avanzavarre , e Raſi : quai vili trattamenti nó fi ferono poi a Raimodo Lullio,
ad Arnoldo da Villanova , a Pier d'Abbano , c ad altri molti letterati di
vaglia, perli maligni medici di que' tempi? il dicano pure le fughe, gli elilj,
le prigionie ; per tacer delle ſatire, dell'invettive del le falſità , delle
tradigioni, onde que’valent huomini có punti oltremodo , e travagliati ne
vennero; imperocchè di sì fatto memorie per la tralcutaggine degli ſcrittori di
que tempi De Del Sig .Lionardodi Capod. 473 1 Debil aura di fama appena giugne.
E laſciando da parte ftare, come coſa dinon tanto rilie ? vo , quanto i limiti
dell'oneſtade oltre paſſafle in favellan do, é in iſcrivendo Maeſtro Gio :
della Penna , ( chea 'di ſuoi con aura di grido popolare in queſta noſtra Città
eſer citar fi vide la medicina , contro Maeſtro Frāceſco Zannel li; egli è ben
certo , che più d'un buonno ſcienziato , e il. luſtre trafſe già a fondo
l'ardente , e peftifera invidia di Maeſtro Dino dal Garbo medico Fiorentino .
Ma quandº altri , e quanti nobili e illuſtri medici, oltre al Veſalio a mal
partito menòla velenoſarabbia, e le cupide ambizioſe voglie di meſſer Giacomo
Silvio ! collacui eſtrema aya rizia ſcherzando quelgran Poeta Scozzeſe finſe ,
che ſcola piti foſſero nella lapida della ſua ſepoltura i ſeguenti verke
Sylvius bic fitus eft , gratis,qui nil dedis unquam , Mortuus , & gratis quod
legis ifta,doles. Ma quali onteper Dio, o quali ingiurienon ſoftenner que!
virtuoſi,che con eſfolui cócorrevano alla cura degl'infermi, dallamaladizione ,
e dall'altezzola , e sfrenata tracotanza delGalieniſta ineffer Frăceſco
Rabalefio così reoze malva gio huomo,che d'accordo col Marotto motteggevol
Poeta egliosò di gittar le prime födaméta dell'ercſia nella Frácia ? e da
Michel Servetto , la cuiempietà era inteſa a rinovellar gli errori di Paolo da
Samoſata , e di Marcello Ancirano : e dall'empia , e ſopraſtante arroganza di
Giorgio Biandra ti , e di Franceſco Stancato pur esli Galieniſti;per opera di
cui ribellando ſi fottraffe alla cattolica fede il giovanetto Principe Giovanni
Sepuſio , e quindi ſen ? vennead infeſtar dell'Arianeſimo colla più parte
dell'Ongaria la nobilisſima Proviácia tutta della Tranſilvania . E che non fe
contro i poverimediciſuoi emoli la barbara fierezza di Giacomo da Carpi; il
quale rinovando la lagrimevol carnificina d'E raſiſtrato , e d'Erofilo ,osò ,
come narra Paolo Giovio, far notomia , non già d'un reo alla morte condennato ,
come i già detti due Greci facevano , ma vie più ſpietatamente d'un innocente
infermo alla ſua cura commeſſo . E per far omai paſſaggio a coſe più note , e
men forſe moleſte : che Ooo non + 474 Ragionamento Sejto non oſarono , che non
imprefero , che non machinarono a danni del Paracelſo i Galieniſti medici della
Germania ? Necertamente è da credere il Paracelſo averſi lui ſteſſo tal briga
adoſſo recata perricredere , e rintuzzare il lor rives ritisſimo Ser Galieno :
conciosficcoſächè così fieramentes ancora eglino perſeguitarono , e malmenarono
Lionardo Fuſio , Giovan Cratone , e Andrea Mattioli ; il quale con meche
Italiano , e di patria. Sanefe, con eſfo foro dimora. va; e altri' , e
altrimedici,purGalieniftige della formede , fima banda parzionali; e fomigliáte
ferono i Galieniſti me dici Italiani a Gio: Battiſta Montano, a Girolamo
Fracaſto . ro , ea Matteo Curzio , comechè queſti tutti afpada tratta la
dottrina di Galieno difendeffero : e nel medeſimotempo eglino unitamente contro
Giovanni Argenterio diGalien nimicocongiurarono . Nedi coralrabbia innocenti ſi
ſer barono quegli altri pur Italianimedici ,che ſtizzoſamente &
'avventarono contro il dottiſſimo Girolamo Cardano. Ne dágli Italiani altresì,
c daʼFranceſimedici tralaſcioffi quá lunque ſtrada d'oſcurarc , e deſtinguere
quel chiariffimo lume dell'eloquenza e d'ognidottrina incendétifſimo Gilt , lio
Ceſare della Scala ;'eche non tentarono imaeſtridella famoſt ſcuola diMöpelieri
per abbattere il celebraciſſimo Rondelezj, e'l Giuberti, la cuiimpareggiabile ,
e non or dinaria dottrina ſopra tutt'altre ſcuole d'Europa di gran lunga
poggiar gli facea?Ne tono nuove le rabbioſe invidie, el'affrontarebattaglie
d'e’medici di Parigi controil Quer eetano ', il Torqueto , il Baucineto ,
l'Arveto , il Libaviowe tiaſcun'altro Chimico di que'tempi, da noi in
parteancor più addietro accennate . È chinon falacruccioſa invetti va compoſta
in Parigi da Germano Cortin contro i Para eelliſti fornita dicalunnie'ye di
fofiſmi tutti fanciulleſchi , fenza fermezza:niuna didimoſtramento ? Matroppo
lungo ne verreišs’Io diſtintamente narrar vo leffi le travaglie ; e le noje;che
nella Lamagna ,nella Dania , nella Franciada’rabbioſi rivali fofferirono Pier
Severino , Michel Tofſite , Bernardo Perotti , Girardo Dornei,Mar tino
Rolando,, Oſualdo Crollio , ealtri infinitimedici doro tillin Del
Sig.Lionardodi Capod 475 1 tiffimi, e avveduti affai ; i quali ſempre , o nella
fama, a nell'avere, o nella perſonalungamente fur'oltraggiati. E fenza andar
mendicando eſempli di fuora , laſciando das parte ftare le non meritare
perſecuzioni del noſtro Antonio Altomari,abbiam purnoi con gli occhi, o congli
orecchi baſtantemente per addietro compreſo la rabbia de'medici nella noſtra
Città contro il Ferrillo , e lo Schipani, e'l For tunato , e'l Ricci, per tacer
d'altri, e malmenato da rabbio . filime trafitture d'invidia il Macaone delle
noſtre contrade Marc Aurelio Severini ( le cui doctiflime opere in molte ,
varie lingue traportate non mai per tempo diincaricate la ranno) così
egliperaccuſad'invidiofi rivali,ſenza riguardo alcuno averli a'meritidella fua
perſona, fu prima incarcerz to , e poſcia toltoglilo ſpedale ove eglia
cocantiſpacciati infermi già la ſalute maraviglioſamente avea riportata , alla
fine de' ſuoi beni ſpogliato , Ma delle malvagità de'. medici, quali coſe
tralaſcerò lo , o quali ne ridiro ? E pero chè non fo lo côte ad una ad una le
ingiufte uccifioni , che medici innocentiffimi há per altio d'altri medici
miſcrevol mente patito : fra le quali mi rammenta prima di tutt'altre quella
ſpietatiſlimaal celebre Virsūgio data da quell'infa me medico Scozzeſe,nó
peraltra cagione, come ſcrive Giz no Leoniceno , ſe non ſe, per dirlo colle
parole di lui: ob con munem in praxi novatam operam , &à Virſungio non teme
re traduct am tăta in virum honeſtisſimum flagravitinvidia . Ma in paragone di
tutte queſte, lagrimevole oltremodo è la narrazione del gloriogfimo martire,
che ora beato gode nella preſenza di Dio,Pantaleonc : a cui tanto , e si fatta
-mente porè l'invidia de’mcdici , che accuſacolo all' Impe cradore di Roma
Maffimiano , non mai fi: rimaſero , finchè " non videro per man del
manigoldo dal buſto l'onorata te Ita ſpiccarſi. Mache dalla medicina medelma
avvenga, che i medici fian così ,comeabbiam diviſato malvagi,polliam farne più
chiaro argométo ,perciocchè eglino no pur nelle noſtre par ti , dove
parch'abbiſogni più d'un artificio ne'medici: ma anche la dove gli huomini ſon
grosſige materiali, anzi che Ooo 110 , 1 2 477 Ragionamento Sefto no , ufano
altresìi medici malizie; ed inganni per accie ditarſi nelfor meſtiere. E per
tacer d'altre parti: nell'Ia die Orientali , come riferiſce Francefco Silvio ,
Solent muka ti medici ad febrium variarum curationem acus aureas lone gas , ac tenuisſimas
in varias corporis partesintrudere, atq ; ita putant febres miraculofe curare;
e nel Tapui danno a di vedere a' cattivelli infermi, che la cagion di lor
malattie fian certe pietre , o animali , o ſterpi, o coſe fimili , le qua li
e'dicon , che gliele traggon dicorpo a forza di medicine, e vomitivi ; e in tal
guifa fi fanno a credere per grandiflimi bacalari ; e in tanta reputazione ne
montano, che anche i Re loro invidiandofa , voglion effer diloro ſchiera . Nel
ta muova Francia poi , ficome teſtimonia il Padre Brel fani, i medici danno ad
intendere a que’popoli, che tutti i medicamenti infallibilmente le infermità
guariſcano : ed ove no’l facciano dicon'eſfer il mal ſovranaturale , a cui
ſovranatural rimediofaccia meſtiere; e tali aggiungono ef fere per la più parte
le vomitive medicine, e só quei volpo . ni sì deſtri , checol vomito vi
meſcolan di botto , ſenza che altri lor tolga in fallo , o ciocchetta di
capelli, o pietra, o legno, o altro ſimile; il qual ſenza durar molta fatica
per fuadono altrui eſler la malefica fættura , la quale anche ta tor fan veduta
di cavarlz fuori colla pūca d'un coltello , che tengono infra le dita , o
altrove naſcofo ; e ſe poiavviens, che piggioril'infermo, cglino ſoggiugnendo ,
che il mal d' un altro Demonio fifaccia, il rimedio replicano ; e quando
finalmente lo infermo fe ne muoja , ſi fan loro ſcuſe , con dir , ch'il Demonio
,che l'uccide, è del lor più potente ; c in cal guiſa quei ghiottoncelli
queſte, e millalcre novelluzze da ridere a quegli imboccano . Or ſe la medicina
è tales, che da per fe delle frodi , e degli ingamni abbiſogna , deb bonſi
ſtimare certamente oltremodo felici que'popoli, che cosi zorîchi, c barbarida
noi vengon detti ; .poichè a loro è conceduto privilegio sì grande di non avere
a provar l'o pera dicoſtoro . Felicisſimi furono adunque i terreni del · la
Libia y dell'Arcadia , e d'altre fimili Regioni , in cui si dannofa gente
allignar per alcun tempo non ſi vide : fe. 1 1 ! + licil Del
Sig.LionardodiCapoa 477 licisſimo per fei ſecoli il Popolo Romano , il cui
fenno che pote da debolisſimi iniz; ſollevare alla ſignoria del mondo la fua
Repubblica,faggiaméteper lo detto ſpazio di tempo vietò affatto l'uſo
de'medici. Felicisſima in ciò la gente del contado , che il lor conſiglio non
curando,della vita allus ga il dubbio corſo ; onde dieron cagione ad Ercole
Bentis voglio di cantare in loro loda Però ſaggioilvillan , chiam'io ,che
quando Égli ba la febbre,che più arde se bolle Non va cura di medico cercando;
Ma nelgran parafiſmo il fiaſco tolle De l'acqua,.e tanto bee chepoi diviens
Diſalubre ſudor fovente molle : Overa l'ombra de la viti amene Il Settembre o
l'Agofto a luva mezzo A fare il corpo lubrico fen ' viene; E la manna , el
Riobarbarodiſprezza, La piumangbiunti , il ſervizial , la curi , Che tolgon
l'appetito , e la fortezza, DifeLafcia diſporre a la natura : Che ſe dato è
diſopra,chetu mora , Non ti guarrà dieta ,o lunga cura. E più avanti E narraci
un villan nofiro canutog Ch'altro nonmangia , cheformaggio,mentre Ha febbre ;
emai non hamedico-auuto. E nonvoglio ( foggiunse egbi) che m'entre Nojofo, e
diſpiacevoleGriflero, Neamara medicina in queſto ventre, Ede la febbre
nel'ardor più foera Votai fovente in vece di ſillopa Di moſto un capacisſimo
bicchiero. E forſe ,che farà queſto qualchenovellar dipocca , o da orator
menſonieros Michel diMontagna filoſofante ,un de più grandi', che peravventura
abbia avuto la Francia , o fommamente veridico ,non cinarr'egli, che in un
villaggio , ove inai non vi bazzicavaalcun medico ,conmiglior ſanità, chial 778
Ragionamento Sejko 1 ch'altrove vivevafi? Maſenza entrare in alcie provincicis
ciò non veggiamoa pruova rutto dìnell'Italia echiepper Dio di noiche , non
ſappia ciò , che molt'anni avveniffe in quella terra , chenon avendo mai per
addietro ravviſata faccia dimedicoil Signor di effa immaginandofarle ungrá pro
un ve n'introduſe, ilquale co'falaslijpurgagioni, cve Icicanti, e altri rimedj,
ivi non primanominati , non che praticati, ſeppe sì ben pelarla , ch'eravicino
ad eſſer vo ta d'abitatori: ed avvedutiſene i vafſalli ,a guiſa di cani
mordenti ſi ferono a doffo al padrone, e lo sforzarono ad mandarne via il
medico . Manon ſo come caduto dalla . memoria mi'era ciò che al noſtro
propofita avviſano il fan moſisſimo Adriano Turnebo, huomio di fingolar
giudicio , e di chiara fede: Animadversi , ſctive , in dyfenteriæ popu •
larimorbo , in vicis de pagis , qui medicina non utuntur , mortuos , aut nullos
,aut paucos : in quibufdamurbibus plu . rimos elatus à medicis maximofumptu :e
Pier Gaffendi huo mo inſignede'tempi noftri : ex iis ; qui medicas adhibent,
aliquiſanantur, aliqui moriuntur ;pari modo aliqui Sanar jur, aliqui
moriunturex iis qui non adhiberi: avvegnachè eglipoinell'ultimaſua infermità
per non diſpiacere aʼme dicanti ſuoi amici ciò traſandandoſi facefle da loro
con re plicati ſalasſi uccidere ; e quel celebre medicante Lazaro Meſfonieri
ache dice: multi fineullis auxiliis fpontè fanátur. in agris, & pauperes
medicis deftituti . Malaſciando que ſto ſtare al preſente, tra per la dubbiezza
dell'arte , tra per la varietà delle opinionidelle ſette; e per la nequizia ; e
malvagità degli artefici fu egli ſempreragion di ſaggio , e avveduto governo il
non darloro orecchja determinar fol lemente coſa alcuna in medicina ; e infra
tanti ſubugli di ſchiere , e fazioni non ſi yide mai faggio Principe , o ben ,
ordinato reggimento vietar a mediconiuno, che con paro le , e con fattinon
paleſaſſe iſuoi liberi ſentimenti. Così con loro ragioni non poteronmai o
Erafiftrato ſommamé te caro al Re Antioco , o Aſclepiade amato aſſai, e tenuto
in pregio dal gran Pompeo , o Antonio Mofaonorato , e careggiato da Ottaviano
Ceſare , o Vezio valente adul tero DelSig.Lionardo diCapoa. 479. 1 tero
dell'Imperadrice Meſſalinamoglie di Claudio , o l'am, inicislimo dell'Imperador
Nerone , Teffalo , far sì, che a medici di contrarie fette gi per comandamento
de loro Principi foſſe il medicar vietato e in lor diſpetto liberer fempremai
fr tennero le fchierenemiche . Cosi fempremai in Romàse in tutt'altre parti
delmondo , nomeno i Razio nali, che i Metodici, e gl'Impirici liberaméte il
lormeſtie re eſercitavano , ciaſcun di loro ugualmente il privilegio della
cittadinanza di Romagodendo . E dopo le rovines dell'Impero Romano noir ſi
videinfragli Arabimedico vā caggiato ſopra altri : ne a'feguaci d'Avicennafu
maiper opera de ſeguaci diRaſi', o d Avenzoárre il medicarvieta4 to. Ne
infra''noftri ancora, comeche cotanto l'Arabeſche dottrineper tutto
ſormontalfero , comeaddietro è narrato , non però di menonon poterono far sì ,
che affatto abbats tutane foſſe la ſchiera de’lornimicisſimi Galieniſti ;ned'al
tra parte poreron mai coſtoro dallor buornome pūto far gli cadere; e avvegnache
con ſátire , einvettive lungamen te piatifféro ; nondiineno di nulla mai', o
reggimento , o maeſtrato , o Signoria vi s'inframmiſe, ne Principe', che
faggio, oavveduto foffe's colle maia parteggiarncalcunod Ein vero , non Sommo
Pontefice , o Re delle Spagne, o Imperadore;o Re della Francia, o
dell'Inghilterra; o della Suezia ,o della Dania; o altro Principe;oRepubblica
mai; ch ," Io ſappia, ſi legge nelle ſtorie, che voluto aveſſe prēder bri
gadellegare; o dellediffenzionide’medici. Ne il Re della Francia soi.parlamenti
diquella ',e ſpezialmente queldi Parigi, città in cui fivide lapiù lunga', e la
piùfieracon tefa infra i medici Chimici' , e Galieniſti; avvegnachèmols to
ſtimolato ne foſſedalla ſcuola di Parigi , volle mai inan dare avanti i decreti
diquella , nulla curandole ciarle di PierGregorio da Tolofa ( il qual ſe tanto
nella filoſofia ,e negli altri buoni ſtudi del Lullio foſſefi innoltrato ,quan
to nella Loica di lui s'avantaggiò , certamentenon aureb be egliuna
sivergognoſa briga impreſa ) diedeagio a ' Pas racelfifti di liberamente
ſempremedicare ;e ad ontapure del Galieniſta Riolanoilvecchio, edi cute'altri
nimici , tư di 480 Ragionamento Seſto di quel gran Principe ſempre in grazia il
dottiffimo Giu ſeppe Quercetano medico , e conſiglier dilui: e come egli
certamente il valeva , ne fu da lui ſommamente onorato ; e quantunque perquella
ſcuola infra l'altre chimiche medi cine foffe affatto vietato il dover dare
l'antimonio per en tro : pure non che tal divieto aveſſe avuto effetto alcuno,
a i Miniftri del Parlaméto Paveſſer mai co' loro arrefti raffer maco , anzi
l'ancimonio per ciaſcun medico liberamente adoperavaſi ,comechè nelle cure
delle medeſime perſones reali. Ei Miniftri, e ireggimenti tutti de’noftri
Invitriffa mi Redelle Spagne , così ne'paeſi balli , come in tuce'altres
Provincie della loro Monarchia ſempre hapermeſſo ,le tur tavia permettono l'uſo
libero del medicare a' ſeguaci del Paracelfo, e dell'Elmonte , e del Silvione
del Villifio , fen-) za ritegno alcuno ; ſpregiando ſempremai, e rifiutando de
maladizioni, ei rapporti de Galieniſti . Che ſe mai Prins cipe , o Maestrato
inframmetter tałora s'ha voluto , e por mano in affare pertinente alla
medicina,e alcuna ſua cola , comechè menoma a certa , e determinata legge
ligare , bea fiè veduto perpruova , che ogni loro ſtatuto , a ſconcio , e non
laudevolefine ſempremai è riuſcito ; come ſi vide av venire , oltre a quel, che
è detto , allor , che perconſiglio de Napoletanimedici venne perla Prammatica
del 15620 Puſo della manna sforzata , qual dicono , come velenoſo vietato ; la
quale fa meſtiere rivocarla nel 1573. con per metterſi çſprettamente l'uſo
della manna dell’Orno , e del Fraſſino , che poco prima era ſtata ſeveramente
proibita . E no poffo no arroſsare in leggere que'rimproveri fatti dal Clufio ,
e dalMattioli , il quale in cotalguiſa favella : Er . rano non poco i medici
Napoletani co’loro Protomedici; i qua li fanno proibire ſotto graviſſime pene ,
che non ſi debba ven . der la manna, che riſuda dalla ſcorza del frasſino , e
dell'ora 10 , la qual chiamanomanna sforzata, immaginandofis cle nonſia buona
acofaveruna , imperocchè queſta, oltre che pur ga ſenzamoleftia alcuna , e
daffi ficuramente alle donne gra videin ogni tempo della gravidezza , è
fantiffima , ed eccel, Lentisfima medicina nelle petecchie , e febbri maligné,
e pelli, lenzia DeSig. Lionardo di Capod 487 : Jenziali,eſſendo che il fraſſino
ha manifeſta virtù controtua ti velewi ; però laſcimo omai iProtomedici
Napoletani di peria reguitar coloro, che cavano lamanna dalfrasſino , e non
pris vino gli huomini dicosì prezioſo medicamento non conoſciuto da loro ,
febene viforopiù propinqui di Noi. E ben ſi vede altresì in quanti errori ſieno
ircorſi alcuni Giudici in laſciandola guidare a' ſentimenti d'alcuni medi ci:
che ben lungo catalogo recar ne potrei. Macontente rommi al preſente di
mentovarne ſolamente un'eſemplo di non poca conſiderazione , che facendoſi
troppo ſemplice mente alcuni Dottori di legge a credere, i bambini nati di otto
meſi non potere naturalmente vivere, come avviſavali Ippocrate , del quale il
loro Bartolo portando opinione i diviſamenti della natura cſfer non guari
diffimili alle leggi umane , dice : ftandum eft libris Hippocratis tanquam ad
théticis : giudicarono quelle eſſere vere ſconciature, e das dover eſſere
d'ogni eredità incapaci ; nel quale errore laſciaronſi traportare l'Alciato ,
e'l Cujacio , e altri au tori di lieva in legge . Perchè il noſtro Matteo degli
Af flicti ne rapporta una deciſione ; ove in modo giudicoſlinel noſtro
tribunale per haver data intera credenza a' medici , che dal Caranza dottor di
legge ſpagnuolo ne fu ripigliato con queſte parole : venit improbandum judicium
Protomedi ci Ferdinandi Regis primi Neapolis , & aliorum quos Affli Etus
decif. 236. num.4, valentisfimos Philofophos appellat : eorumque ductu Sacrum
Confilium Neapolitanum octavo mē fenatum materna fucceffionis incapacem
declaraffe afferit; ut meritò decifionem iftam , d predictorum judicium impugna
verit Boërius dec. 220.in fine,neque enim ita magnifacien dum eft judicium
illud Confiliis philofophorum , medicorü relatorum ab Afflicto fup.ut ab eo
quiſquam non malit diſce dere , quam à veritate . Maciò ſopra tutto ſi ſcorge
da quel,che narra quell'av veduto ,e giudicioſo ragguardator delle coſc Giacomo
Tua no; dice egli, che d'ordine d'Errigo Quarto Re di Frácia, il gran
Lemoſiniere , e altri ſuoi famigliari, che co'i may giori valent’hu onini di
ciaſcun meſtiere tenner conſiglio ppp i dair 482 Ragionamento Sesto 1 3 di dar
compenſo agli abuli della famoſa accademia di Pa . rigi , e che infra l'altre
leggi , e ſtatuti diviſarono delle bi. fogne della medicina : ordinando, che i
medici di quella ſcuola doveſſero legger l'opere d'Ippocrate , e ogni ſua
opinione puntualmente ſeguire :medicos ſono , parole del, to ſtatuto,
rapportate dal Tuano, ut leges fibi prafcriptas tee neant , divinum Hippocratem
diligenter legant, præcepta ejus religiosèfervent . Empiricam caveant , neque
ea ullo modo utantur . Ma cotale ſtatuto non potè giamınai eſſer poſto in opera
; e in vero , ſeque’valent’huomini aveſſero innan zi tratto conſiderata , e
riandata cotal biſogna, e riguarda to alla varietà delle ſette , e delle
opinioni , e all'incertez za di tal profeſſione, non avrebbono così ſciocco
divieto mandaco fuora . E tanto più , che que' inedici , che con figliarono una
cal legge , ne prima , ne poi i diviſamen ti d'Ippocrate oſſervarono ; e in
iſpezialità nel purgare , e nel ſegnare ,come nel ſecondo ragionamento avviſam
mo ; ſenzachè il non valerſi dell'empirica medicina è contro l'ammaeſtramento
del medeſimo Ippocrate ; e an zi tutti medici vengono di neceſſità aſtretti a
yalerſi delle impirica, come da quel ch'è detto agevolmente coglier fi puore ;
perchè gli ſteſſi riformatori convenne certamen te , che alcuna fiato, per non
dir altro, veniſſero con em piriche medicine curati , ſpezialmente ſe furono
morſi da can rabbioſo , o daſcorpioni, o da altri velenoſi animali . E già
parmi o Signori, ſe'l mio avviſo non m'ingannnas che per quel che da noifin qui
ragionato foſſe de tantidi vieri della medicina , che ſaldinon nai ſono fungo
tempo durati : delle diverle , e ſoventi fiate contrarie guiſe di me dicare , e
dalle si varic , e tante opinioni, che fra i medici di tempo intépo ſono venute
inſư, impoſſibili a porſi mai im alcun patto d'accordo: dalla lunga incertezza
disì dubbio fo , ed inviluppato meſtiere , il quale non ha in ſe dottrina , o principj
, ſui quali huomo unquemai poſta porre alcun menomo fondamento : e dal
maltalento demediciinvidio fise maligni, affai manifefte fi pajano le grandi
malagevo lezze , acui s'avvengono tutti coloro ,che d'ordinar lebis fogne 1
DelSig.Lionardo di Capoa. 483 + ſogne della medicinafi danno alcuna cura . E
perciò lag . gio ſembrami lavviſo di quella Città , o di que'Regni , ch' avendo
forſe a pruova legià dette verità conoſciute , non vogliono in alcun modo
prenderfene briga , ſeguendo in queſta guiſa la coſtuma dell'accorto poeta , il
quale , coine Orazio faggiamente avviſa , que Deſperat tractata nitefcere
poffe, relinquit . Talfu il fano conſiglio del Signor Duca diMedinaceliVi cerè
nella Cicilia ; il qual non che andar voleſſe a ſeconda di coſtoro , anzi
prendendole a gabbo , ſcheroù le ambizio ſe,e avare bramedi Filippo Ingraſſia
Protomedico di quell' Iſola ; il quale a diritto , ed a roveſcio volcva i
maliſcalche ſoggetti alla ſua giuriſdizion ridurre; perchè pubblicò unu libro,
ove ingegnofli di far chiaro (ne v'ebbe per avventura a durare la maggior
fatica del modo) che la medicina degli huomini,edelle beſtie in nulla foffero
fra ello lor differéti, * e che fra medico , e maliſcalco altro di divario non
v'abbia, che ſolamente nel pome . Ma lo finalmente non lo fe altri poſla più a
propoſito metterci innnanzi agli occhj l’infelice fine, a cui pervengono tutte
le ordinazioni in affári di mc dicina ; e ſpezialmente quelle che fatte ſono a
richieſta , o a conſiglio de'inedici , quanto Trajano Boccalini : allor che
narra , aver Apollo per ſecondar le perſuaſioni d'Ippocrate tenuto a conſiglio
alquantimedici ,a cagion di voler ripa rare ad alcuni diſordini ch'avvenivano
nel medicare : ma per l'ordinazioni di tali riformatori, non pure no iſcemaro
no in alcun patto , ma vie più moltiplicarono le malattie ; e le morti giunſero
a tale , ch'egli rimaſe forte maravigliato: ( ſon parole del Boccalini) ch'una
diliberazione fatta con ze lo di tăta carità aveſſe potuto fortire il fine
infelice d'una tan to calamitofa confuſione; onde bruttamente da Ippocrate chia
mandoſi offeſo , eſchernito , che ſotto zelo d'apparente carità verſo il
benpubblico , con quel pernizioſoricordo aveſſe volu to aprirſiſtrada
all'eſercizio della ſua ambizione: inpubblica udienza , con indignazionegrande
disfece il collegio, con ani Ppp 2 mo dia 484 Ragionamento Sefta mo
diliberatififimo di far contro Ippocrate qualche notabile rifentimento".
Orecco le riufcite di que'riſolvimenti, ches goglion prenderſi d'un arte
cosìfallace, e manchevole, Eche ix ſuobaso mai por ha certezzha 1 RAS 485 .
RAGIONAMENTO SET TIM Or 220 Bbiam finora fufficientemente diviſato , o Signori;
delle dubbietà ,.e incortezze del la medicina ,malagevoliaffaiperhuomo, anzi
impoſſibili a ſuperare :'infra le quali ondeggiandociaſcuno continuo s'aggirai;
non altrimenti , che picciola , e malforni ta barca irr tempeſtoſo pelago
dimare da'fortunoſi ventije dalflottar dell'onde dibattuta', e
percoffa'traballa ; o mal pratico viandante il qualecoleo da oſcura'norte,in
folta , non conoſciuta ſelva ;per travolti-bronchi , e fterpi andan do, quafiin
cófuſo-laberinto s'aggiri, séza potermai riuſci re a dritto ſentiero, ch'a
falvamento il conduca'. Perchè non potendoſi in così intralciato meftiere via ,
o modo al cunoavviſare , convienr'certamente , che'l tutto a poſta, e ad
abitrio didifcreto , e'ayveduto medico fi rimetta. Aduna que avendo
ilmedicoperle maniun sì grave affare, chento ſenzafallo è dagiudicar la vita ,
e la ſanitàdi ciaſcuno ,dse egliconogni ſollecitudine,e con ogniarte ingegnarſi
di far: giovamentoagl'infermi commeſt alla cura dilui , al mio gliormodo cheſi
poſſa ; çfecondochè la condizione d'un sal 486 Ragionamento Settimo tal
meſtiere comporta . E (come a coloro, cherompon per tempeſta in mare , i
qualiad ogni picciol cravicello , o pan chettirgi appigliano,così parimente dee
il medico negl'ince : uob; maroſi della ſua profeſſione valerſi di que’tutti i
Jabuli argomenti , che gli li fanno avanti; an corchè non ben ſicuro egli ſia
,che con quelli sì degna im preſa poſſa ridurre a quel fine, al quale l'avrà
indirizzita . E quinci ſi è, che quantunque poco ,o niuna certanza recar
poſlano al ſuo meſtiere le corezze,che per le cofe,o vedute, olette, o perlo
imperfetto, emāchevole umano modo dific loſofare s'acqui &ano; egliimpertanto
deein tutte quante Je coſe alla medicina perrigenti eſerbene ſcorto , e cono
ſciuto , chiunque voglia con qualche profitto , e laudevol mente cſercitarla ;
perchè fa meſtiere , che lo attenendo le promeſſe già fatte in ſu’l principio
di queſti ragionamenti, vegga minutamente chente , e quali coſe a fare un buon
medico , e perfetto,in quanto ſi poſſa umanamente, c quan to la condizione
d'una tal biſogna comporti, ſi riclrieggia no e per tutti diviſatamente
diſcorra. Egli ſembra certamente che non vada err ato Ippocra te , o
chiunqueegli (i foſſe l'autor del libro dell'arte, quan do dice , ch'a coloro ,
che vogliono all'altezza della medi cina mόrare faccia meftieri φύσεG-,
διδασκαλίας, τόσο ευφυές , tendopatíns,Qinomovins,xpóvx,cioènatura acconciaze
nobilize vira tuoficoſtumi , e luogo allo ſtudiarconvenevole , e buon alleva
mentoinfin da fanciullezza , einduſtria, e tempo. Richiedeſi in prima natural
genio , ſecondo lui; conciolo fiecofachè mancando talvolta, vano affatto , e
inutile ogni ftudio , e ogni diligenza riuſcirebbe. Ne è vera l'opinione del
vulgo, cheſolo alla poeſia vuolch’abbiſogni quella na , turale inclinazione ,
dache alla medicina apparare , e tute? altre ſcienze ancora convien favorevole
averla ; vero fem premai ciò che dice il noſtro Dante ſperimentandoſi: Sempre
natura,ſefortuna trova Diſcorde aſe , cum'ogn'altra ſemente Fuor di ſua region
fa mala prova ; Eſe'l mondo la giù ponce mente Al fondamento ,che Natura pone,
Seguen . Del Sig .Lionardodi Capoa . 487 Seguendo lui auria buona la gente. Ma
voi torcete a la religione Tal chefu natoa cignerſi la ſpada, E fare Re
ditalcb'è dafermone Onde la traccia voſtra è fuor di ſtrada. Ma più ch'a
tutt'altri meſtieri, alla medicina natural ta lento richiederſi, egli ſi porrà
chiaro a chiunque badar vo glia,ch’afmedico talora improvviſo , ſenza aver
potuto in prima dello infermo , o della natura di lui molto diſtinta contezza ,
o eſperimento , convenga diviſar me dicamentijanzi che dal malore iľvigore
almalato ſia colto, o le forze ; eďove ancor queſte ſiano all'ultimo ſcemo per
venute,no perciò sbigottire allora, ma prendendo cuore, e ardire a novelle cure
lollevare lo intendimento . Alla qual coſa fare , chi non avviſa , che fano
giudicio , e ſpedito in gegno, e natural ſagacità v’abbiſogni, c tale appunto
qual fa meſtiere per avventura a'gra Capitani, e a'comandatori diguerra . E mi
ricorda a tal propoſito , che il Signor di Molluch chiariſſimo capitano dir
Tolea , ch ' ove il general della battaglia , iit veggendo rotte le ſue
ſquadre', e ſcon fitto l'eſercito ,egli , o da vergognago da timore oppreſſo ,
il ſenno , e l'ardir non perdeſſe ad'un ora , ſempremai buo na ſperanza gli
rimarrebbe da poter raccozzare i ſparpa gliati, e fuggitiviſoldati , e
incoraggiargli di bel nuovo a fronteggiar l'ofte vittorioſa . Ma potrebbealcun
dire,che natura perapparar medicina punto non abbia luogo; o che fe per
appararla vi pur biſogni, certamente cotale inchina. zione, eabilità ciaſcun di
noi egualmente l'abbia ; impc rocchè, direbb’cgli , quantunque lo ſappia molti,
e molti eſſer coloro , che per naturaľripugnanza di genio , o d'ate titudine in
altre arti , appena aſſaggiatele , dalla impreſa fi fian riſtati: pur d'uno
normi ricorda', ch'avendo l'a nimo alla medicina rivolto , non ne fia medico
poſciano e'n buono ſtato divenuto . Eforſe ciò avviene , perchè eſ fendo la
medicina al mondo rominamente neceſſaria per riparare a cotante malattie' , il
ſommoProvveditores n'ab bïaciaſcun baſtevolmente d'attitudine fornito per
apparar lized eſſerne da tanto ; ma a ciò ſi riſponde i ſovrani conli gli 488
RagionamentoSettimo 1 . 6 gli dell'eterno facitore dell'univerſo non eſſer dato
di po tere ſpiare al corto intender noftro , come temerariamente altri pur
s'attenta di fare : ma ſe a qualche conghiettura ne fi daiſe mai luogo, lo
direi che anziperchèdi ſommo pro, c di gran pregio èla medicina, perciò non
eſſer peſo di tut tebraccia, ma di pochisfime; ſicome avvien delle coſe più
perfette, le quali ſono altresì più rare . Maintorno abuonicoſtumi,che fiorir
debbo in colui che d'eſſer medico intéda, fu egli queſto sétiméto del méziona
to autore,ſeguito comuneméteda tutti;anziGalieno mede fimo in un luogo dice
,cbe colui, ch'èxibaldo, e di mala co ſciéza no puòmainegli Studi d'un tal
meſtiere vataggiarſi . Ne lo ſtenderommi al preſente in ragionar del.conoſci.
mento delle lingue; imperocchè della Greca, della Latina, e forfe acor
dell'Arabeſca ,e dcHa Tedeſca egli è allai chia ro ,che p iſtudiar ne’libri in
quelle cópoſti,bone,e interame te delle medeſimedobbiamo eſſere inteſe: anzi il
dottiffimo Samuel Bocciardi porta opinione chesõmaméteal medico ſia neceffaria
la lingua Ebraica. Eforſe anche con qualche ſoverchio di diligenza per lo
riſchio , chedal non pienamen té intenderle ne può ſeguire ; il che avviſando
l'avvedutiſ fimo Arnaldo da Villanova ſtrettamente ne l'accomandò; cne lo diè
per regola nell'apparar medicina, con queſte parole : Notitia nominum prodeft
ad doctrinam . Et nulla profeéto ars , curiofius , cautius vigilantius homini
diſcenda , traétanda, meditanda eft , quammedicina , qua nulla eft pe
riculofior: quippe quum in ea verſetur falushominum , vi ta ; per tacer della
Loica, che richiede Galieno nel medico; il troppo ſtudio della quale nuoce ,
non ch'altro , a chiun que veramente approfittar ſi voglia nella filoſofia ,
eſpe zialmente nella medicina,poichè eſſendo l'intelletto avvez zo a quelle
coſe finte , non fa poſcia dipartirſene allor, che delle vere , e ſenſibili
ſoſtanze imprendea filoſofare ; onde faggiamente quella grand’alına del ſaggio
Galileo folea paragonare i Loici agli artefici degli ſtrumenti muſia cali , i
quali tutto dimaneggiandogli, non ſanno poi quan doloro biſogna, ſe non ſe
rozzamente valerience Ma ş DelSig.Lionardo di Capoa. 489 1 Ma la norma ſicura
de'perferri, e dimoſtrativi fillogiſmi ſolamente dalla Geometria ci ſi porge :
e malamente al ſi curo fornito loico , e conſeguentemente buon medico ſarà
colui, a cui per le mani gcoinetriche dimoſtrazioni tutt'orx non ſono . E
certamente avea la ragione , l'autor della pi ftola a Teſſalo di tanto iſtantemente
quello confortare , e fpignere allo ſtudio della Geometria , e dell'Arilmetica
: poichè la notizia di cotali ſcienze, oltre agli altri concj,che arrecar ſuole
, dice egli: tlu fug'us o &uréple FE xxA THA Qvyesépleas a & ti tò év
inagixí óvño Jou răvő mi yeusercioè ,apporta chiarezza, e fortigliezza
nell'intendimento , acciocchè poffa ben rintraca: ciar tutte quelle coſe, che
all'uſo della medicina abbiſognano. E diſtintamente poi va dimoſtrando di
quanco pro fia ad un medico faper Geometria , affermando ancora lommamen te
giovevole , e neceſſaria eſſere a ben comprendere le deslogate offa , e l'altre
biſogno nella medicina . Mamol to avanti avrebbe egli certaméte della Geometria
detto : ſe oltre a ciò ſaputo aveſſe,che séza quella, poco, o nulla inté der ſi
può delmovimento de'muſcoli, e de’mali della viſta, e d'altre belliſſime
dottrine molto alla notizia dell'ordina mento del corpo umano utili , e
neceſſarie . Ma fe ( come più avanti dimoſtreremo) giammai non può eſſer medico
, chifiloſofo in priina non fia : c per apparar filoſofia , la Geo metria è
ſommamente di meſtiere;egli è pur manifeſto ,che il medico debba efter Geometra
. Ne può punto dubitara ſi il convenir cotanto a ' filoſofila Geometria;
concioſſicco ſachè abbiamo nelle ſtorie , che gli antichi filoſofanti , tan to
biſognevole ſtimaſſero la Geometria nelle loro ſcuole , che no volcan ,cheniuno
in quelle entraſſe ,ſe prima inGeo metria ſtudiato pienamente non aveſſe . E'l
gran Galileo de’ Galilei , grandiſſimo maeſtro di coloro , ch’alla vera , e
dalda filoſofix attendono , diſſe ; In un vaſto volume farfe ne'lafiloſofia
tutta deſcritta : e quello eſserne ſempreinnanzi agli occhi aperto , cioè a dir
l'univerfo ; ma non mai poterviſe leggere , fc in prima la lingua , e i
caratteri , co' quali egliè Scritto, perfetiamente non s'apparino. Egli è
ſcritto , dics in lingua matematica , e i caratteri ſono triangoli , cerchi , -
Q29 altre 490 Ragionamento Settimo 1 > altrefiguregeometriche,sēza i
qualimezziè impoffibile adin të der umanamenteparola : ſenza queſti, è
un'aggirarſi vana . měte per un'ofcuro laberinto. Comendaſi adunque oltremo do
il ſaggio conſiglio dell'avvedutiſſimo Cardano , il qual mi ricorda ,
ch'avrebbe voluto , che niuno in medicina non ſi foſſe mai convertato , il
quale , mathematicas perfecte no calleret, per dirlo colle ſue parole ; del che
recandone la ragione, ſoggiugne : Nam his folum , nec fallere , nec falli
contingit; unde qui in illis peritusfuerit ,non eſt veriſimile in propria arte
velle ſuperioribus , &fuis, ac fibi ipſi impo were . Ma oltre alla Loica, e
Geometria, la Stronomia , la Mu fica , e altri nobili, e liberali ſtudj in un
perfetto medico Galieno richiede ; e della Muſica favellando Tomaſſo Cá panella
dice :medicusnon ignoret , qui foni, quos motus in ( piritu ,adquas bonas
operationes excitět,ut medicinales fint;i quali ſtudj,ſecodo lo ſteſſo Galieno,
il primo luogo appreſſo Mercurio ingombrano ; e con molte , e ben compoſte pa
role l'utilità , che da quelli ſi trae , va egli ne'ſuoi ſcrit ti diviſando , e
quanto egli avanzato ſe ne foſſe ; ſenzachè, dic'egli , ſe il medico , non è di
ſtronomia intendente , gran tratto ei ſi dilungherà da’ſentimenti d'Ippocrate ,
il qual non pur conforta i medici tutti ad appararla, ma molte co ſe ha egli
ne'ſuoi libri ſcritte , le quali ſenza ſaper di ſtro nomia , impoflibil
certamente fie , che per huomo s'inten dano. Ma nel vero lo non ſaprei mai
comprendere , come ben ſi poſſa medicare , ſenza ſapere, il naſcimento , e loco
caſo delle ſtelle, e la varietà de climi,e altre ſomiglianti co le , neceſſarie
al meſtier della medicina , le quali tutte la ftronomia ne inſegna .
Eragionevolmente tutti coloro ch ' un tale ſtudio , come vano , e inutile
a'medici biaſimano , punge , e proverbia il buon Franceſco Vallefio , dicen do
, che la ſtronomia vien da alcuni giudicata coſa alla medicina affatto inutile
, non per altra cagione, ſe non per chè poſſano in cotal guiſa ſchifare lo
ſvergognamento, che dal non ſaperla gliene naſcerebbe . Perchè il non mai aba
Aan 1 1 Del Sig.Lionardo di Capoa 497 1 1 ſtanza lodato Ipparco aſſomigliava
ilmedico ignorante di ſtronomia ad occhio privo della viſiva potenza; e'l famo
fiſſimo infra gli ArabiAlbumazar,dice chela ſcienza delle ſtelle a quella della
medicina , principio , eguida ſia. Ma fe la Stronomia richiedefi a'medici, non
men di quella certamente fa loro meſtieri il ſaper le ſtorie delle coſe, che
avvengono al mondo; concioffiecofachè oltre al ſaper di quelle , i principi,
egli avanzamenti delle piſto lenze , e d'altre aſſai malattie , manifeftamente
talvolta an che comprendonſi le cagioni de’malije i rimedj , ch'a quel li
talvolta hanno approdato , e ciò, che per pruova ha noc .ciuto , e giovato agli
huomini : e aſſai pienamente ſi com prende quanto dalla lezion di Tucidide
aveſſe Galieno tratto di profitto , e altri aſſai medici di gran lieva, e malli
manente da quello artificioſo narramento di lui della fie ra , e lunga
peſtilenza del Peloponneſo , traportato poi co tanta eleganza, e così ben da
Lucrezio nel luo natio idio mi . Ma ſopra tutto ſenza dubbio la natural
filoſofia al medico ſi richiede ; imperciocchè , fe perfettamente egli ſaper
dee la natura , è l'economia tutta del corpo uma no , le cagioni, così d'entro
, come di fuora delle malat tie , le qualità , e le coinpleſſioni dell'aria ,
delle acque,de' vegetali, degli animali ,e de’minerali turti: conſeguente méte
egli ďee ſtudiare in filoſofia,nó come dicono, di primº occhio , e diſcorrendo
: ma in quella con ogni intendimen to , e ſtudio involgerſi , e riconcentrarſi,
e in apprenderla , pienamente con ogni sforzo , e con ogni opera affaticarſi .
Perchè il Paracello chiamar folea la filoſofia madre, e fon damento della
medicina ; e Ariſtotele n'impone , che il me dico cominciar debba , ove il
filoſofo finiſca; che altro non vuol dir, per mio avviſo, che il medico dal
filoſofo non dif feriſca , ſalvo che nell'operare : e che la medicina altro no
fia , ch'una operatrice filoſofia . Folle adunque , e danne vole oltremodo è da
giudicar certamente il conſiglio d'A vicenna : che il medico ſenza più avanti
ricercare , appa gar ſi debba a' detti de filoſofiintorno alle coſe naturali;
Raq 2 ne lo 492 Ragionamento Strimo ne logorar punto di tépo in abburattargli,e
far pruova del la verità ; concioffiecoſachè il medico in eſaminandogli no che
dall'arte ſua fi diparta giammai , come ſcioccamente s'avviſa Avicenna , anzi
allor maggiormente vi s'interna , e profonda , e più maturamente l'apprende. E
bene imma gino lo , che a ciò riguardando eſfo Avicenna , avviſaffe pienamente
il biaſimo grande , che di tal conſiglio guada gnare egli medeſimo ſi poteva i
perchè altro non te in tue to il corſo della ſua vita ',' che attentamente
ſpeculare , e contemplar le coſe della natura . Miglior ſenza fallo fu l'avviſo
di Galieno , il qual ſopra ciò ben’un libro inte . ro compoſe con queſto titolo
densos iarbós, og QorbootG.per * chè e' medeſimo dille altrove , il medicare
una piaga non, effer impreſa da tutte braccia , ma di color ſolamente che le
coſe tutte della natura hanno davanti agli occhi . Ma dove lo traſandava il
buono Ippocrate : il qual giudicò fi loſofia , e medicina eſſer compagne
ſtrette , e ſorelle ,giua te , ed avviticchiate ; e ſimigliantemente Cornelio
Celſo afferma , amendue coſtoro d'un medeſimo parto eſſer nate, così ſcrivendo
: Primomedendifcientia pars fapientia habe batur ; ut &morborum curatio ,
dow rerum nature contempla tio fub iiſdem auctoribus nata fit ;c di ciò ne
apporta ragio ne: fcilicet his hanc maximè requirentibus, qui corporum fuo rum
robora inquieta cogitatione , nocturnaque vigilia mi nuerant . Ideoque multos
ex Sapientia profeſsoribus peritos ejus fuiffe accepimus. E egli è pur troppo
manifeſto ,quan to Pittagora , Empedocle , e Democrito , e Platonc , e altri
grandiſſimi filoſofi più di qualunque altro Greco nel le ſecrete coſe della
natura innoltrati, più di tutt'altri me dici della Grecia ancor s'avanzaſſero ;
ſenzachè i fonda tori , e i Principi di ciaſcuna ſcuola di medicina , eziandio
della Metodica, e della Impirica , eilor più rinomati ſe guaci , tutti
concordementenegliſtudi della natural filoſo fia s'eſercitarono . Perchè il
fimile certamente ciaſcun al tro mcdico de’tempi noſtri dovrà fare; e di lor
direbbeſi po ſcia con quelle voci d'Ippocrate innsós gap Quómo , iostec , cioè
a dire : il medico filoſofo è ſomigliante a un Dio . E 1 1 quan 1 1 !
DelSig.Lionardo di Capoa. 493 > quantunque ,come ſopra abbiamodimoſtro ,
aſſai poco al baſſo , e loſco intender noſtro nelle coſe naturali di ſaper ſia
conceduto ; nondimeno queſto ſteſſo ci da a divedere effer neceſſario al medico
lo ſtudio della filoſofia, acciò egli pof fa agevolmente accorgerſi , non aver
la medicina certezza alcuna ; e a queſto avendo certamente riguardo , diceva
Cornelio Celfo : natura rerum contemplativ , quamvis non faciat medicum
aptiorem , tamen medicine reddit perfectum . Oltre alla naturalfiloſofia, la
morale ancora a'medici ſi conviene ; concioſGecofaché , ſe come di ſopra è
detto per ſentimento d'Ippocrate , di buoni , e laudevoli coſtumief ſer dee
fregiato il medico, Io non ſaprei già , come a tal pre gio mai aggiugner
poteſſe colui , che coile natural filoſofia la moraleancora non accoppj;
ſenzachè la moral filoſofia è quella , cha per oggetto Panino dell'huomo , e in
quello ſuol riconoſcere i malori,e lecagioni,e gli effetti di quelli,e darvi
baſtante compenſo , ed efficace ajuto . Orcome po trà il medico adoperando il
ſuo meſtiere, con valevoli me dicamenti fanar gli ammalati del corpo , ſe in
prima le ma lattie dell'animo loro non toglie ? cioè a dire , ſe non fa di
filoſofia morale a Imperciocchè i mali tutti del corpo , come da prima, e
principalcagione , da alcuna paſſion dell'ani mo ſovente naſcer ſogliono , la
qual certamente ne cono fcerc , ne rimuover potrà il medico giãmai , fe dalla
moral filoſofia no ſia fcorto. Tanta enim ,dice Sinforiano Cãpegio , per tacer
altri , eſt animi , &corporis neceffitudo , ut ſua om nia bona, ac mala ,
velint nolint, invicem communicent. Per chè della nostra anima facendo parole
cantò il Guarino . Qwell’immortal, che null'ha di terreno A terrenidifetti ancor
foggiace. E Platone nel Carmide lungaméte ciò va diviſando; la qual coſa ancora
, ficome teltimonia Ippocrate avea in coſtu me di fare Eſculapio s il quale
appreſa certamente l'a vea da Chirone ſuo maeſtro : e ſe pure dopo ſi è co
minciato a feparare l’un meſtier dall'altro , non èmara viglia , dice Malfmo
Tirio : perciocchè la medeſima artu di curare il corpo , così in fc ftella
diviſa , e lacera ſi vede, : chic 494 Ragionamento Settimo che altri ha cura
dimedicar ſolamente gli occhi , altri law veſcica , e altri altra parte del
corpo . Ma con quanto di fcadimento , c danno dell'arte , e de’maeſtri di
quella , per nulla dir de’poveri infermi, ciò avveniffe ,che partite , e
ſceverate queſte due profeſſioni abbiano i medici, ſolamen te inteſi a curare
il corpo , ſenza badar punto alle malattie dentro , lo dicano tante , c tante
malvagità , e ribalderie operate daʼmedici , come di ſopra dicemmo ;
concieſlico fachè non ſon per altra cagione i biaſimi tutti a' medici, e alla
medicina medeſima proceduti,che dall'aver clli traſcua rata l'arte dirender ſe
medeſimi in prima, e poi gli alţri tute si della verità , della giuſtizia , e
dell'oneſtà lodeyoli ama, tori . Ne per altro chiama Ippocrate, per mio avviſo
, il medico filoſofo ſomigliante a un Dio , fe non perchè dal medico filoſofo
non ſia da ſcompagnar cotal parte cotan 10 eziandio giovevole , e neceſſaria
alla medicina . Per chè guardando a tutto ciò Galieno , cercò di riparar ſe
condo ſua poſla a tanto diſordinamento , e di riunir di nuovo , e rannodar la
medicina colla morale filoſofia: onde compoſe quel libro , ove e' moſtra,
comes’abbiano a cono ſcere,per doverſi guarire,i difetti dell'animo; e
quell'altro, del ravviſare , e del medicare dell'anime le malattie . Ebé
chiaramente ſi vede quanto in ciò, che inſegna altrui e' me defimo profittaſle
; concioſſiccoſachè, come di ſe medeſimo egli narra , era egli avvezzo a
ſoffrire , e a portarein pace i caſi.umani, e d'animo grande , e immobile , ne
ſi crolla va punto agli urti di rea fortuna: ne perdita di beni , o altra
maggiore ſventura era per farlo ſmagare:ne movealo onor di gloria , o burbanza
divana ambizione , o qualunqne altra coſa maggiormente al mondo ſi pregia ..
Mail medico avendo a guwar le malattie de' corpi uma ni, ea provvedere a
quelle, che ſono a venire,non ha dub bio alcuno , che ſopra tutto egli della
natura del corpo umano aſſai pienamente dee eſſere doctrinato , e di quelle
coſeancora , che riſtorare il poſſano dalle cagioni, ovale. volmente ceſfarle .
Or chiunque voglia,per quanto glifia dalla debolezza dell'umano intendimento
conceduto , per veni. DelSig. Lionardo di Capon 495 venire a qualcheconoſciméto
della natura del corpo uma no , gli conviene in prima il ſito , la figura,
l'ordinamento, e la grandezza ,e l'uficio delic parti di quello diligétemente
inveſtigare : alla qual coſa manifeſto è , che ſenza l'ajuto della notomia egli
aggiugner non poffa : perchè della me dicina folea dir faggiamente Cello :
incidere mortuorum corpora difcentibus neceffarium . La qual neceſſità inolto
bé gli antichi medici conſiderando , come pienamente nete ſtimonia Galieno , a
ufare i noromici ſegamenti fin da fan ciullezza diligentemente s'avezzano . E
oltre a ciò egli dee bene inveſtigare , e con ogni ſtudio maggiore andar
rintracciando la propietà, o la natura dell'Erera ,dell'aria , dell'acqua,
della terra , della Luna , del Sole , e di tutt'al tri Pianeti del Cielo ;
da'quali corpi tutti continuo fotti liffime , e non vedute ſoſtanze ſgorgano,
quali a pro , e qua li a dannodell'umane vite . Quindi s'andrà egli pian piano
innoltrando a ricercar le naſcoſe virtù de'minerali , de've gerali, e degli
animali tutti , oide il cibo , e imedicamenti per gli huoinini ſi coinpongono .
Cola,la quale cotanto al medico è neceſſaria , che d'effa ſola ſi vanta Apollo
preſſo l'ingegnoſo Poeta latino Inventum medicina meum eſt : opifexque per
orbem Dicor : &herbarum fubješta potentia nobis . E'I Mantovano Omeroper
unico fregio del ſuo lodato Medico riconoſce Scire poteftates herbarum, ufumque
medendi. E l'altiſſimo Toſcano Poeta E già l'antico Erotimo , chenacque In riva
al Pò , s'adopra in ſuaſalute : Il qual de l'erbe , e de le nobil'acque Ben
conoſceva ogniuſo , ogni virtute . Intorno alla qual coſa folea ben dir
Oribaſio , che fenza un tal conoſcimento non fi poſſa dirittamente mádare ava
ti la medicina έχ οίόν τε είναι χωρίς ταύτης ιατρεύαν όρθώς. Ε gia molto prima
di lui la notizia de'ſemplici in più luoghi de' ſuoi libri affai avea
accomādara Galieno, i quali paſſo pal ſo potrannoſi da’curiofi ſcolari vedere :
e ame baſterà al preſen 490 Ragionamento Settimo 1 1 preſente per raccorciar la
lunghezza in così chiara materia d'apportare un ſolo , over'dice : chiunque nel
medicare vorrà da tutte parti eſſer ajutato,egli coviene in prima eſser molto
bene ſcorto , e auſato nelle piante, e negli aniinalise ne'metallize in
ciaſcun'altra cofa terreſtra, delle quali ſervir noi ci ſogliamo ad uſo di
medicamenti, e infra quelle , le più eſquiſite ſceglier ſappia ;
concioffiecoſachè non eſſen do egli in sì fatte coſe dottrinato , ſe mai oferà
un talme Aiere imprendere , ſappiendo , ſolamente in ciarle la nor na del
medicare,non mai ſaprà adoperar coſa degna di me dico , Quinci ſi pare quanto
errino i medici , comequelli, che pongono queſta parte , cotanto alla medicina
necella ria ,in mano degli ſpeziali; concioſſiccoſachè, come avvi fa il
doctiſſimo Fabio Colonna : in quo ille medebitur medi. cusiſilocis contingat
pharmacopolis carentibus, artem exerce re ? an ne verbis ? c più avanti
trapaſſa l'avvedutiſlimo Pier Caſtelli a minacciarne i mali , che di cotal
traſcuraggine agevoliſſimamente ne poſſono ſeguire: medicus , dice egli ,
neſcit quod agro præfcribit: Pharmacopæus ignorat preſcri ptum medicementum :
Rufficus herbarius , qui fæpèlegere ne fcit , &à nemine doceripoteft , cafu
colligit fimplicia: &hoc modopreparatamedicine rarò fanitatem ,
fepiffimemortem afferunt , ignorantiæ finem ; e quàforſe egli li parrà ad alcu
chc per troppo afpri, e faticoſi ſentieri avendo il me dico condotto, omai
delle tante , e tante malagevolezzo , che noi diviſate gli abbiamo , ſenza
altra fatica durare ſia per venire a capo . Ma egli va alcrimenti la biſogna,
rima nendo ancora dopo tanti viaggi nuovi altri pachi lontani troppo , e non
conoſciutia piè volgare : oye fra bålzi, e di rupi, per iſcoſceſi , e avviluppati
ſenticri con gran ſudore , e biftento giugner ſi dee . Egli è il vero , che
giunto poi quivi , trova ben cento , e mille vaghezze allettaprici ,
luſinghiere . Già parę di udirvi dire concordemente , che lo voglia favellar
della Chimica , nella qual ſi comprende tutto il bello , tutto il vago , tutto
il maravi glioſo , che può mai operar la natura,o l'ingegno umano. Ne 10 , zia
2 Del Sig.Lionardo di Capoa. 497, Ne Io fe cento bocche ,, e lingue cento
Avesſi, e ferrea lena , e ferrea voce , alcuna menoma parte de' pregj di sì
iluſtre , e glorioſo me ftiere potrei narrare.Ditelo intáto voi in mia vece, o
arti il luftrio, rare fcienze, o nobilisſimi ſtudi di quella figliuoli'; voi
dilettoſe , giovevoli , e neceſſarie al gencre umano arti dell'agricoltura ,
del fabbricare , del navigare, della mili della ſcultura , della pittura ,
della filoſofia, della me dicina : voi facendo teſtimonianza della grandezza ,
e dellº eccellenza della Chimica ,narrate pure, come da effa -i vo ftri natali
, il voſtro accreſcimento , ilvoſtro ſplendor trac fte : dite come a'voſtri
intendimentiporſe la materia , age volò l'opera : Netacete pure , o ultime
pruove' dell'uma na induſtria , gloriofiffime memorie dell'antichità d'Egittor
prezioſo nepente commendato dalla ſonora troba de gra deOmero , che
co’ſentimenti inſieme i dolori , e gli affan ni de’greci Campioni potcſti
aſſonnare; ricchiſſime coppes allanſonti; e voi cento ,e cento altre Egizie
maraviglie , che tolte a noi dal teinpo , appena chi vi preſti fede ritro vare
interamente potere. Voi ſuperbe piramidi di Mem fi , voi effigiati obeliſchi di
Tebe ,che all'eternità confc crati Roder non può del tempo invidalima, fare pur
chiara l'eccellenza della Chimica ; e ne'metalli, e nelle gemme , cnegli
artificioſi ordigni da quella portivi raccotate i ſuoi pregj,e le fue glorie
eternaméte innalzate . Ne mé taccia il tépo quanto a capital tenuta foſſe la
chini ca dagli antichi,chegiudicando Diocleziano baftar quella ſola agli Eğizj
per frõteggiare, e mandar giù le glorietutte del Romano Imperio, comenarra
colui appo Suida,diedes alle fiame tutti i volumi di sì nobil meſtiere, va
reixnucios χρυσού , και αργύρε τους παλαιούς γεγραμμένα βιβλια διερευνησαμG
έκαυσε και προς το μηκέτι πλούτον Αίγυπλίοις, έκ τ τοιαύτης προσγίνεσθαι τέχνης
, μηδέ χρημάτων αυτουςβαρβούν ας πρεσία του λοιπού Ρωμαί oss auliceiv . Ma
quanto la Chimica faccia meſtieri alla medicina, da ciò pienamente ſi può
ravviſare , che ſenza quella non può Rrr vale. 498 Ragionamento Settima
valevolinente operare , ne è da dir arte ſicuramente la mes dicina ; perciocchè
, fe come abbiamo di ſopra lunga mentedivifaro , in cicchi , e confufilimi
laberinti: invi luppata la medicina , nulla mai dicerto fermamenteriſer ba, non
v'ha più valevol lucerna , o più ſicura guida da poter giugnere a qualche
veriſimil conoſcenza delle coſe , che la vera , echimicąſperienza . Enel vero ,
che giove rebbe mai al medico il ſapere ad una ad'una le partitutte annoverare
, e ſcernere del corpo umano , ſe.poi della nas tura , e del miniſtero diquelle
digiuno. ſi foffe..? certo , che nulla ; licome nulla ancor monterebbe , che
notii fiini glifoſſero i ſemplici tutti , eivegetali , e gli aniinali, ei
minerali , ſenza ſapere lui la propietà', e l'efficacia di quelli . Perchè a
inveſtigar la propietà, e Puficio delle par ti del corpo umano lungamente
affaticandoſi gli antichi fi loſofanti , fenza la traccia della chimica a poco
felice fine le loro opere riuſcir fi videro : e ciò , tra perchè iſegui ,į le
conghietture , onde di prenderle immaginarono , poco men che ſempre fallaci ,
evane fi erano : e ancora perchè parecchj di coloro , il tutto a quelle ,, che
chiaman prime qualità diridurre s'ingegnarono, dovēdoſi per loro più to fto
altre , edaltre qualità ſpiarc ,dalle quali molto più,che dalle prime , le operazionidelcorpo
umano, come è detto , dipendono. Matroppo malagevoli alcune di quelle fono , e
ad intendimento umano moltonaſcoſe ; così ayviluppatou fono , e infra lor
intralciate le particelle cutte , onde s'in generano :: 0 per la troppa
debilezza de'lor movimenti , o per la picciolezza;,.e cenuità di quelle , o per
altre fomi gliati cagioniagli organi de’noftri ſentiméti celandoſi,non ne
laſciano alla verità pienamente penetrare; Namneque pulueris interdum
ſentimusadhæfum Corpore , nec membris incuffam fidere cretam , Nec nebulam
noctu , neque araneitenuiafila Obvia fentimusquandoobretimur euntes . Così
ancor vanamente ſtudiandoſi gli antichi filoſofanti di comprender la natura , e
la propietà dell'aere , dell'ac que , della terra , delle piante , degli animali,
e de' mine rali, DelSig. Lionardo di Capoa 497 rali , in non pochi errori
inavvedutamente incorſero:; maw pur della loro dappocaggine ricreduti Ippocrate
, Teofra 1to ,, Diofcoride, e altri famoſi antichi filoſofanti , sfidan doſi di
poter quella con piena, e perfetta ragionegiam mai ſcoprire , ſenza più
addentro vanamente innoltrarſi in fu la lola corteccia ſi riſtarono ., quel
ſolamente ſcrivendo ne , che per lungapruova già ſperimentato :n'avevano . H
che diè cagiondi iclamare a quel gran lume della filoſofia , edell'eloquenza
Romana : mirari licet, quæ fint animad venfa à medicis herbarum genera , qua
radicum ad morſus beſtiarum , ad oculorum morbus , ad vulnera ; quorun uim ,
aique naturam ratio nuſquam explicavit : utilitate, con ars eft, &inuentor
probatues, &indi a poco ſoggiugne:quod ſcămone & radix ad purgandum
,quod ariſtolochia ad morfus ferpentum poffit , videmus, quod fatis eft; cur
posſit,nefcimus. E comeche altri filoſofanti , emedicidi grido, dallapore ,
dall'odore , e daaltre ſimiglianti qualità d'inveſtigar ſi ſtu diaſſero , come,
o caldi , o freddi, o ſecchiidetti ſemplici foſſero , onde poila virtù di
radificare , o di ſtrignere , o di riſtorare , o d'altro argomentar poteſſero :
inutilenondime no,e vano ſempre da'brioni filofotanti il loro ſtudio fu giu
dicato ; e'l medeſimo Galicno , non che altri dice, queſta eſſere una ſtrada ,
oltre ad ogni creder dubbievole., c falla ce; ſenzachè ben rade voltc dal caldo
, dal freddo , dall'u ! mido , o dal ſecco -naíce: ma vifan la più parte
l'amaro , e l'acetofo , ed altre fomiglianti qualità , che ſeconde chia mano .
Oltre a ciò , v'ha parecchi de'ſemplici,chène odo re alcuno , ne ſaporc, ne
altra manifeſta qualità avendo, só poi di grandiſfime virtù , eziandio
belzoardiche , e veleno ſe dotati. E chi mai colla ſola guida de' ſenti
potrebbe av viſar , che l'acqua ftigia , che in niuna ſenſibil qualità dall
acqua comunale differente fi ſcorge , cosi peſtilenzioſa, en mortal poi ſia ?
Solola Chimica con ſue pruove faccendio manifeſti i naſcoſi veleni di quella
potrebbe avátiagli occhi di ciaſcuno quegli acutiſſimi ſali porre,che già
valevoli furo nel fior degli ani, e'nel caldo delle vittorie a roder crudelmé
te al grande Aleſſandro le viſcere ed ogni altra coſa conſu R.15 2 mano , 500
Ragionamento Settima mano , fuor ſolamente l'unghie degli aſimi, come dice Plu
tarco : e.de'cavalli avea detto Pauſania ,, Trogo , e Curzio; ed Eliano delle
Corna degli aſini della Scitia ; e di quelle delle muledice Plinio:ungulas
tătùmmularum repertas, ne que aliam materiā, quæ non proderetur à venena ſtygis
agudo E Vitruvio : conſervare antë eam , &continere nihil aliud po teſt
nifi mulina ungula . Machi potrebbe mai credere , cheſotto la dolcezza del
miele , e dei zucchero cotanto piacevoli alguſto,e ſoavi, a covino poi alcuni
ſpiriti pungenti, e roditori non molto dall'acqua forte, e dall'acqua.regia
diſſomiglianei ? delle quali gli acutiſſimi ſpiriti net vitriolo , nel nitro ,
nell' allu me , e nel ſal comune s'appiattano ; e che nel ſolfo diqua , lunque
ſapore ignudo , c digiuno dimori un ſale oltremo do acecolo , c roditore ; e
che nell'olio delle ulive due fali fi ragunino , uno acutiſſimo , c aſſai
valovole a rodere , e l'altro ſoprammodo piacevole , e ſoave ; e che l'acqua pu
ra , e ſchietta , che continuo ſi beve , e ſembra al guſto co tanto inſipida ,
ritengi un fale sì fattamenteacuto , e pene trevole , che ben balta egliſolo in
minutiſſime particelle a fminuzzare , e ſtricolare quel duriſſimo metallo ,
ch'alle fiąmme, ed a'fuochi punto non cede ; echenelle viole, nel ke lattughe ,
nelle roſe , ne'papaveri ,, e in altre ſimiglianti ierbe , e fiori, giudicati
anzi freddi che no dagli erranti medici, un cotalc ſpirito-affocato , ed
ardente mícoſo li ftia , dallo ſpirito del vino non punto diſſomigliante . Vanillimi
adunque, e fallaci i ſentieri ſono , ch’a ravviſar le qualità de'ſemplici gli
antichimedici s'impreſero : e per giugnere alyero conoſcimento delle coſe,
cgliè di meſtiere,che pré- . diamo ad avviarci Per ſentier nuovi a nullo anco
dimoſtri: cioè (viſcerando , e minutamente partendo ciaſcun corpo per opera
della vitaf notomia , la quale Sempre a vincer ſe beffa oprando intefa noi
veggiamo oggidi a sì bello ſtato eſſer condotta . E quanto sì nobilc,e glorioſo
meſtiere per aggiugnere a'no Itri intcadimenti aveſſe luogo , ben conobbelo il
curiofiſla mo Ga . Del Sig.Lionardo di Capoa. for mo Galieno , allor che con
ogni sforzo la natura dell'accto ftudiandoſi d'inveſtigare, lungamente indarno
diſiderando fi , così ebbe a dire : In queſta coſa Io non ſon per tentar tutte
le ſtrade , e tenterò di far ogni pruova , acciocchè poftafi qualchearte ,
oqualche ingegnoritrovare , col qua le ſeparar ſi poſſano le parti contrarie
nell'aceto , ſicomeſuol farſi nel latte . Macertomala pruova vi fe egli
Galieno,na giugnendo a ciò, che per ogni menomo ſcolaretto dell'ar te
agevolisſimamente s'adopera . Or quat maraviglia fa rebbe all'orgogliofoGalieno
,c quáto da inenoora li ftime rebbe', fe nel meſtier della medicina dopo
tantiſtudj,e tan ti fudori daun giovane Chimico frvedeſſe a lungo ſpazio
avanzare? nonpur ſappiendo coſtoro in due diverſe ſoltan zel'aceto partire, il
che grandisſimo vantaggio reputave Galieno , main altre , ed altre molte quello
agevolmente freverare: le quali ſottopoſte poi al ſottile,e profondo eſa
minamento de filaſofi , con dar probabile,e verifimile con tezza delle lor
varie ; e diverſe propietà , le tante , e tanto maraviglioſe
operazionidell'aceto ne vengono a manife ftare . Oltre a ciò lo immagino
altresì , che s'egli aveſſes mai il curioſisſimo Galieno qualchemenomacontezza
del la Chimica , comeche rozza; e imperfetta aver potut ? , 11011 đì -ſarebbe
certainéte maieglimaravigliato , come ſotto una sì grande virtù di riſtrignere
, quanta è nel vitriolostanto, tanto calorc covar fr poteffc .- Imperocchè egli
con far di quello notomia agevolmente ,el’una, e l'altra ſoſtanza ri. trovata
v'avrebbe, onde poi d'amendue gli effetcidi riſcal dare inſieme , e di
riſtrignere pienamente n’avrebbe la ca gion compreſa . Efeaveſſemaidiviſar
voluto come il me deſimo ſpirito del vitriolo dueeffetti in - fra le
contrariope rar mai poteſſe , ſciogliendo aleuni corpi caldiſſimi, e rap
prendendo d'altra parte alcuni liquidi , e fortili, e.volanti troppo , ch'a
qualunque oſtinato ghiaccio ligar non lila fciano: 0 como manchevole , e
imperfetto il ſuo filoſofar. .conoſciuto avrebbe . Or di queſta nobilisſima
arte non meno per avventura, che già ſi ſtimaſſe anticamente il pe netrar la,
dove F101 902 RagionamentoSettimo Fuor d'incognito fonte il nila muove , tra
per le tenebre folte disì antica età , e maggiormente per la non poca cura ,
che ebbero ſempre i ſuoi maeſtri di ferbarla a bello ſtudio naſcoſa a' più
altiingegni;o punto no iſcrivendone, o ſcrivendone purcon ritegno , e riguardo
, accennandola con ignoti geroglifici,c.con intralciati eniin . mi , e con
oſcure allegorie , e favoloſi racconti inviluppan dola :malagevolemolto,e
confuſo per certo , e poco mē,che impoſſibile rendeſi a volerne il ſuo primo
incominciamento rapportare; cofa,la quale in tutt'altre biſogne di conſidera
zione avvenir fimigliāteméte ſi vede. Ma che che di ciò Gia, .che di sì nobil
ritrovato deali la gloria all'antica Paleſtina , o pure alla Fenicia ,o
all'Egitto , o alla China , o a qualū quealtra parce forſe più ragionevolmente
la contraſta: egli è coſa ben certa,e ben da ſe medeſima appare eller la Chi
mica antichiſſima, e da’più rimoti tempi eller ritrovata nel mondo , avvegnachè
alcuni non affatto il concedano; e Sao muelBocciardi dica : novum effe inventum
della Chimica favellando , nec illius quenquam meminiffe ante Iulium Firs micum
; il che pienamente teſtimoniano Euſebio ,e Zoſimo; e Suida , c ſpezialmente il
Firmico , il quale tutto che fio tilſe a'répi di Coſtantino , pure traſſe le
ſueſcritture , come ei medelimo ne narra, dall'opere antichiſſime de'Caldei, es
degli Egizj; onde dice il teſtè menzionato Euſebio , che aveffe la Chimica
apparata Democrito:Aquóxer Qu Abdueírris φύσικο- φιλόσοφG- ήκμασεν εν Αιγύπου
μυηθας υπο Οσάνς του Μήδε σαν λέντG- έν Αίγυπω πα αξε τών τηνικαύζ Βαπλίων
Περσών άρχων 7 εν Αι. γύπω ιερών εν τω ιερώτΜέμφεως συν άλοις ιερεύσι και
φιλοσόφους , εν οίς ήν και Μαρία της εβραία σοφή. Και Παμμένης συνέγραψε περί
χρυσού , αργύρα , και λίθων , και περφύρgς λοξώς' . ομοίως δε και Μαρία εσ
ηγέθε σαν παρ' ο'τανε , ως πολσίς και σοφούς αινίγμασι κρύψαντες την τέχνην .
Μa che Democrito ſapeſſe la chimica , ſi può apertamente ve dere in quel che
dice di luiSencca in una ſua piſtola : exce dit porro vobiseundem Democritum
invenifle, quemadmodūs decoétus calculus in fmaragdum converteretur, qua
hodieque coétura inventi lapides coctiles colorantur ; le quali parole di
Seneca fan.conoſccre quanto vada.crrato Giuſeppe della Sca DelSig. Lionardo di
Capox For conto Scala ; in facendoſi a credere non avere ſcritto altrimenti
Euſebio , che Democrito nell'Egitto foſſe ſtato in Chimie ca addourinato ,ma
aveſſe ne'libri d'Euſebio un tal racco to, aggiunto , untal Pandoro monaco; e
comcchè ſi conce deſſe a Samuel Bocciardi, Oſtane non eſſere ſtato giammai in
Egitto , e ch'eglimorto {ifoffe gran pezza innanzi, che colà andaſſe Democrito
; impertanto qualch' altro di cotal nomepotrebbe effere ch’aveſſe qualche
operazione chimi ca a Democrito inſegnata. Ma ſe pure Euſebio errato aver ſenel
nome , da ciò non puòargomentarſi eflerturto il rac Ma ben l'antichità della
chimica affai: appieno dimoArano le fabbriche degli iſtrumenti dell'agricoltura
, las qual ſenza dubbio, niuno colmondo medeſimo nacque adi un'ora :: e'l modo
di coporre il pane, o dipremerdåll'uva, od'altre frutte il vino , e l'artificio
veramente maraviglioſo di fabbricare i vetri , e diformar le gemme, e'l meſtier
del la milizia , e d'altre antichisfimearti giovevoli non poco , e neceſſarie
al genere umano ; le quali ſenza la Chimica non fi poteron mai certamente
ritrovare.. Edella ſua antichif lima lega collamedicinaben ſi può ravviſar
qualche veſti gio appreſſo Teofraſto , ed altri antichi ſcrittori: e da qualche
medicamento ancora delle volgari botteghe ſi può co prendere non eſſer sì nuova
cotal arte , e da’moderni inge gni ritrovata . Mache che ſia di ciò: egliè
certamente l'uo. ficio , o'l meftier dell'arte chimica di ſciorre i corpi
unici, e di congiugnere inſieme i diviſi .. E quantunque ella ſia uns fpezial
arte , che da ſe medeſima reggafi, ne le faccia ne ftieri, o la medicina, o
alcra arte , di cui dipender debba; non però di meno per li molti , é diverſi
fini , in cui gli ar tefici le loro chimiche operazioni talora indirizzar
ſoglio . no , ella infra varie altre arti ſovente s'acconta ;, ma in tre ſpezie
principalınente è partita . La primaſiè, che ſolve, ed uniſce tutti metalli
imperfetti p condurgli a quellaper fezione ( come coloro s'avviſano j che l'oro
in ſe contiene:e queſta vien chiamata da’Greci aepurunanida , La ſeconda ſi è
la filoſofia ,per la quale sì fatte operazioni s'indiţizzano a fin 1 dico 04
Ragionamento Serrimo di conoſcere , e ravviſare la natura , e la propietà delle
co fe a' ſenſi ſottopoſte . La terza- ſi è la medica , che il mede
fimoſimigliantemente adopera per iſpiare; e conoſcerpie namente la patura de
corpiumani, e- giudicar delle ſanità, e delle malattie , e dell'arie , e
dell'acque, e demedicamć ti , e di tutt'altre coſe schad huomo faccian
meſtieri: e an cora acciocchè i medicamenti per quella ſoavi, e grazioſi fi
rendano , e di maggior efficacia ,e ſicurtà per noi ſi ſpe rimentino : e ſi
poſſa ad un'ora più felicemente il veroje conyenevole loro uſo inſegnare.
Comunque però ſi dica no , o ſi faccian gli artefici, egli è ben chiaro -effer
la Chimi ca una cotal arte da per ſe fola; colla quale tanto ha che far la
medicina, quanto delle matematiche , o d'altri ſtudij e virtù certamente
s’inframinette ; ſe non ſe per avventura dobbiam dire ,che maggiore , e più
manifeſta utilità recau alla medicinata Chimica , che tull'altri ſtudi di ſopra
ac cennati unitiinſieme, e rannodati ſi facciano . Perchè come medico Chimico
-ſuolchiamarſi dal volgo colui , che del la Chinica tanto quanto per lamedicina
ſi ſerve , così ſo migliantemente o ſtronomico , o geometra , o muſioo chia mar
colui-fi vorrebbe, che per maggior profitto inmedici na trarre , di sì fatti
ſtudi picnamente fi conoſce . Ma noi nondimeno del comuni favellare l'ulo
ſeguendo, chimnico medico , o chimico filoſofante-colui chiameremo , che del la
chinica arte , o per medicare , o per filoſofare quando meſtier gli faccia
ſervir Si fuole . Madall'uficio , edal fin della Chimica chiaro'fimiglia
temente ſi comprende quanto quclla ne vaglia, e n'ajusi,a1 ži ſicuramente détro
alle ſecrete coſe della natura metter ne poſſa . E ſe veriſſimo cgli mai ſeinpre
ſi crede , ch'allej naſcoſe coſe Non trova ingegno-umano aperto il varco : chi
può mai porre in dubbio , che lo ſcioglimento de'corpi naturali - il più ſcuro,
e'l più agevol modofia da pervenirea qualche conoſcimento dique’principj, onde
compoſti, e formati i naturali corpi ſono : come appunto dallo ſciogli incnto
dc'corpi artificioſi, comed'orioli; o d'altri ſimiglia . ti in Del Sig
.Lionardo di Capoa SOS و ti ingegni fi vengon toſto a ravviſar le parti, che
quei comº ponevano; il che ben conoſcédo i primi padri,e maeſtri del la natural
filoſofia , Pittagora , Parmenide , Anaſimandro , Democrito , e altri ſaggj
filoſofanti dalle continue conſide razioni , che attentamente ſempre facevano
nello ſciogli mento delle coſe , che daʼnoſtri ſentimentiſi comprendo no le
quali noi diciam corpi naturali,di quelle iprimi prin cipj inveſtigar mai
ſempre ſi ſtudiarono . Ne d'altro argo méto fervifli Ippocrate a forınar
l'opinione de'quattro pri mielementi , ſe non ſe di quello della reſoluziou del
corpo umano ; nella qual coſa egli fu poi da Ariſtotele ſeguito : dicendo ,
nella carne ,nel legno, ed in altri ſimiglianti cor pi contenerſi virtualmente
il fuoco ,e la terra , poichè aper tamente ſe ne ſeparano; ma nel fuoco poi
noneſſervi altri menti legno , ne carne , ne in atto , ne in potenza ; imper
ciocchè le vi foffero , certamente ſe ne ſeparerebbono . E tal ſentimento dalla
torma tutta de’lor feguaci vić abbracó ciato ; a'quali ſeinbra aver aſſai bene
ſtabiliti i quattro pri mi clementi , con dire , in bruciandoſi una pianta aver
vi, oltre al fuoco la cenere , che è terra , e'l fumino, che è aria : e la
groinma , la qual riſudando n’addita non mancar vi anche dell'acqua . Ma quanto
ſpoſata , e fievole una sì fatta pruova fia ,ben pienaméte il coprede ogni
meromo ſcolaretto in chimnica , cui troppo ben ſi manifeſta il macaméto , e i
difetti di cota le ſcioglimento ; concioſliecofachè in ardendoſi sì fatti
corpi,molte , e varic favoleſche, oltre a quelle , che per la picciolezza in
conto verun çavviſar non ſi poſſono , aperta mente per l'aria ſparpagliar-ne
veggiamo : ne è da dire la cenere , il fummo, la fiamma, e l'umidore eller
corpi ſem plici , e non compoſti, che queſti ancora ove più minu tainente fi
folvano , e inſino a primi ſenſibili componenti fi partano , ravviſanfi
compoſti di particelle di natura , en d'operazione diverſi, come quelle , che
contengono un'ac qua ſemplice , ed infipida , ſenza altra virtù , falvo che d'u
mettare: e un'olio puro, ed acceſibile,e uno ſpirito ſottile, e penetrante, e
un ſal volante, che ha in ſe, non micno il ſapo Sss re, che 1 506 Ragionamento
Settimo le che la virtù tutta del legno : le ceneri altresì fon com poſte di
ſoſtanze diſſimili, ciò ſono un ſale fiffo acconcio a fonderſi nel fuoco , ed a
ſcioglierſi nell'umido , ed una ter ra priva di ſapore , e di efficacia. E
corale ſcioglimento no come il volgare degli antichi in pochi corpi ſi può dimo
ſtrare , ma col conſiglio della chimica , poco men , che in tutti corpinaturali
adattar puoſli ; oltre a ciò poi più addé troil chimico facendoſi argomentar
potrà i ſapori di tutte coſe dal ſal venire in quelle contenuto , egli odori
dal ſol, fo , e dal mercurio la penetrazione ; e per tacer d'altro,più oltre
ancora procedendo ritroverà , che i ſemi del liquido , e ſottiliſſimo fuoco nel
ſolfo alberghino ; o che ſian quellia guiſa d'acutiſſime piramidette , o
dipiccioliſfimi globi : e che il ſolfo ſia d'uncinute particelle , e
aggavignate com poſto . E così pian piano ricercando la figura delle parti
celle del fale , è degli altri chimici principj trapaſſerà a {piegare con
probabili conghietture tutte le operazioni di quelli. Così pariinéte dalle
chimiche oſſervazioni avviſato , po trà chiche ſia inveſtigare ,come far ſi
poſſano le piovese i grā . dini : come s'ingenerinoi tuoni,i lápise le ſaette
:come dalla forza delle folgori fi dileguise fi föda il ferro della ſpada,rie
manédo illeſa la guaina : come piovano foventi fiate pietre, ſangue , elatte ,
e come alla fine ſi formino le ſtelle caden o; le cagionidelle qualicole , e
altre molte , potemo ogo gi col giovamento della chimica , non ſolo aſſai
veriſimile mente conghietturare , ma coll'opere, e coll'eſercizio prat tico
imitare ; imperocchè fifaccia dell'oro una polvere nel la fornace chimica ; che
dagli effetti oro fulminante appel laſi , la quale acceſa , fa non folo lo
ſtrepito , e lo ſtroſcia del tuono , ma anche ilcolpo , e la violenza della
faeţea ; il che fa altresì quella polvere da ' chimici parimente ri trovata ,
la qual tonante chiamano . Così parimente raccoglieſi dall'evaporazioni
dell'acque piovane eſtives , un ſale , chemeſcolato con egaal porzione di
ſalnitro ,e có una particella di ſolfo fa an coral meſcolamento , che ac celo
li fonde in pietra . Ma di troppo più tempo avrei bi fogno Del Sig.Lionardo di
Capoa. 807 fogno ſe voleffi Io far parole ditutte altre maraviglie dela le
quali le cagioni naſcoſe per addietro , e inviluppare agli intendimenti
de’noftrimaggiori ora per argomenro delle chimiche ſperienze ne fi rendono in
qualche maniera pia ne , e manifeſte . Perchè non è forſe dadubitare , che ſe
l'arte Chimica pervenuta foſſe a notizia degli antichi greci filoſofanti, non
avrebber certaméte coloro nelle loro ſcuo le huom ricevuto , che prima in
quella non foſſe alcun té po uſato , e ben lungo vantaggio tratto n’aveſſe ; e
per mio avviſo con maggior ragionedi quella , onde Platone, e se nocrate volean
, che nel filoſofare non foffero ammelli com loro , che della Geometria digiuni
foffero , come teſtimo : niano Laerzio , Suida , ed altri; perchè nella fronte
dell'an drone dell'Accademia quelle famoſeparole ſcolpite legge váli oudéis
ayemjétentos sioitw . Concioffiecofachè la chimica fola il più certo , e ſicuro
fenticro lia,da condurre alla na tural filoſofia ; edella ſola porger ne fappia
le chiavi, con cui quelle ſalde ,e diamantine porte differrar in qualche modo
ſi poffano , ove i più cari, e ricchi tefori deita natu ra fon riſerbati :
perchè a ciò riguardando non ebbe il cor to certamente il famoſiſſimo Meſue di
chiamare per van. taggio , e per eccellenza floſofi, e ſapienti coloro , che
del la Chimicaconvenevolmente s'intendono. Ma per diſcendere al più particolar
giovamento , che della Chimica raccor fucle la medicina : Io dico primiera
mente, ch'a bene ſpiarla natura de’viventi, e ſpezialmente delcorpo umano, e la
ſua ben regolata economia ,la chimi ca lommamente abbia luogo , e la ſua vital
notomia ; im perciocchè ſiafi pure coll’opere della morta notomia a mol te,
emolte coſe aggiunto , le quali gli antichi ſapicaci ravviſar non poterono ; e
lungo tratto vi crrarono : e ſap piaſi pure per quella il vero movimento del
cuore , e del ſangue : e che il ſangue non s'ingeneri nel fegato , o nelle vene
, fecondochè con molti altri , così antichi , comemo derni porta opinion
Galieno : ne men nel cuore,ſicome im » magina Aristotele : c ſappiaſi anche ,
che il chilo tragittiſi non per le vene miſeraiche , ficome vollono gli antichi
me Sss dici ; 508 RagionamentoStrimo dici; maper le vene lattee al ſacco
latteo; onde poi meſco laro col ſangue trapaſſa al cuore : e ſappiaſi eziandio
, che vi ha le vene acquofe: c come, e per quali ſtrade l'orina per le reni
trapelando alla veſcica s'ayvalli : ecento , e mille altri moderni trovati
degli ingegnofi notomiſti de’noftri tempi , de qualierano affatto digiune
Legentiantiche ne l'antico errore; anzi concedaſi altresì volentieri ( il che
non mai sì di leg gieri conceder dovremmo ) che la notomia già all'ultima mano
ſia giunta ; e che de'tempi noſtri ſe ne ſappia quanto mai per tutti i ſecoli
ſe ne potrà per innanzi ſcoprire , o fa pere :non per tanto non potrà di tutto
concio ſervire al me. dico per farlo a quella perfezion ſormontare, che al ſuo
meſtier.Sirichiede ; anzidopo tante , e tante fatiche ſaprà cgli ſolamente una
vaga, c dilettevole ſtoria delle parti del corpo umano : utiliſſima certamente
, anzi neceſſaria a do ver ſapere ; ma non baſtevole già, ne meno a poter in
par te fondare , e mandare avanti una verifimile razionalme dicina : per la
quale fa meſtieri ſaper le cagioni dentro , ele probabili ragioni delle coſe ,
non già la ſola ſtoria, e'l ſem plice racconto di quelle . Ne da dir egli è
ſaper pienamen te l'economia del corpo umano quel medico , il quale non potrà
render ragione della natura della generazione , del movimento delcuore, del
ſangue, del chilo , degli umori acquoſi, e d'altre parti così correnti, come
ſaldodelcorpo umano , c della propietà ,e operazione di ciaſcuna di quel le ;
le quali coſe inveſtigare impoffibile certamente è ſenza dovere a chimici
ſcioglimenti ricorrere ; per virtù de'quali Avicenna d'inveſtigare ſtudiosſi
l'umidore dell'oſſa , e de' peli : ed affermò,cheavendo egli ſtillato nella
boccia parti eguali d'offa , e di peli , uſcì dell'offa maggiore abbon danza
d'acqua, e d'olio, e minor di feccia: perchè dic'egli, che l'oſſa più umide , c
più ſuccoſe fieno. Ma no pure a ben filoſofare i Chiinici dello ſcioglimēto de
corpiſervir fi debbono,ma co argométo ácora ditutt'al tre operazioni
dell'arte,bé poſſono veriſimilmente ſpiegare, come tanta varieti di cibi nella
ſoſtanza, e nel colore dilli mili DelSig.Lionardodi Capoa. 509 mili ſi traſmuti
ſoventi fiate in un bianchillimo , & unifor me licore , che chilo appellaſı
; come poſcia il candore del chilo in ſanguinoſa roffezza ſi trasformi; e donde
il cuore abbia il ſuo movimento , e'l ſuo calore , cioè aſſomigliana do la
concozion de'cibial diſcioglimento , over disfacimé to decorpiſolidi , in virtù
di convenienti liquori ; la gene razione della bianchezza nel chilo , e del
roſſore nel fan gue , alla trasformazionedel colore nel latte vergine , e
nell'eſſenza del fatirione , e altre ſimili coſe ; la continua produzione del
calore nel cuore , e nel ſangue : al fervore , che per la formētazione
s'ingenera ne’liquori de' corpi ve . getabili . E cotanto montano per mio
avviſo sì fatticono ſcimenti, che ſenza quelli nonſi può coſa del mondo intor ,
no alle malattie , a’lor effetti, e cagionigiammai diviſare; ne in altre
faccendo delcorpo umano , coſa alcuna di con ſiderazione potrà per huom
maidirſi , fe minutamente les dette coſe , e molte , e molt'altre per virtù
della Chimica in prima diligentemente non s'inveftighino , le quali tutte lungo
ſarebbe al preſente volerle quìfil filo narrare . Ma non men utile , non men
giovevole, e neceſſaria cgli è certamente ancora al medico l'arte de
Chimici,colla qua le egliponendo ad una rigoroſa , e ſottile eſaminazione
l'aria , le terre , l'acqua , le piante , e gli animali , eimine rali corpi ,
attentamente poine ſpia , e ne conghiettura la natura di ciaſcuna coſa ; e di
qualunque lor menoma parti cella le propietà , elevirtù , ele maniere tutte
dell'adope rare con probabili, e ſimili conghietture ravviſa . E nel vc ro
queſto , che ciaſcun di noi , e tutt'altri corpi di quà giù ſempremai circonda
, penctra , avviva, emantiene, valtiſ fimo, e diſcorrente , e lieve , e ſereno ,
e ſottiliſſimo cor po dell' aria : la quale l'acutiſfimno infra gli antichi Ita
liani noſtri Timeo di ſgretolate , e minucillime particel le di ben venti facce
compone, non è egligià miga ſem , plice corpo , come il volgo follemente
s'avviſa ;ma di varie, e diverſe ſoſtanze compoſto inſieme , emeſcolato . Sorgo
no queſte dalla baſſa terra talora , edall'acque , che quella , irrigano, e
forſe anche dalla luna, dal ſole, c da altri corpi fupe. l 5102 Ragionamento
Settima faperiori vi piovono ; per li qualil'aria, o più , o menoalla
reſpirazione, e agli altri biſogni degli animali acconcia fi rende, poichè
nelle cimedegli altiſimi monti , ove non giungono l'eſalazioni dell'acqua , e
della terra , gli animali fi foffogano ; perchè poi in coloro in varie guiſe le
malattie naſcer veggiamo; perchè canrò Virgilio ſubito cùm tabida membris
Corrupto cæli tractu , miſerandaque venit Arboribufque ,fatiſque
lues,lethiferannus. Ma tali particelle meſcolate inſieme , e nell'aria coufuſe
aſſai malagevolmente per certo , aozi in niun modo ravvi-, far ſi poſſono , ſe
non ſi partan prima', ſolvendoſi ciaſcu na di loro ne' ſuoi primi componenti .
Il che con ma raviglioſo artificio da alcun de'più eſercitati, e più intens
denti Chimici felicemente operar ſi ſuole: e ben ſi ſcorges omai a tal ſegno la
coſtoro induſtria avanzata, che per ope: ra del famoſo Drebellj,parche vi ſi
fia già ritrovato perre ftituirlo all'aere, qualora ne veniſſe egli privo
,quelnobilif ſimo eliſlire, che giuſta i ſentimenti di Paracello vita infó de a
quanto Qui nel mondotra noiſimuove , & fpira ; che perciò egli vitale
l'appellasper cui l'aere non ſolamente agli animali ,maalle piante cziandio
oltremodo neceffaria eller li conoſce ; e ben di eſſo felicemente avvaler ſi
vide to ſteſſo Drebelli, allorche egliquella maraviglioſa bar chetta da lui
fatta a richicſta del Re Giacomo della Gran Brettagna con iftupor di tutti
ſotto acquanel Tamigi fena vigare ; coméchè il detto eliſfire altro ancor
faccia , cioè folvå , e precipiti giù quelle ſoſtanze nell'aere , che'l ren
dono mai atco alla relpirazione . Ma l'acqua, la quale per bevanda, e per altri
infiniti ug è cotanto biſognevole, quantunque chiariſſima, e traſpa rente , c
pura a tutta poffa fi ſcelga , eli proccuri ; e che al fapore , all'odore , e
alla leggerezza, ea tutt'altri ſesnali ſempliciſſimo corpo in prima neſembri;
pur riandata poi, oltre a diverſe foſtanze, che meſcolare vi ſi trovano , ſe ne
cava ancora un tal ſaie sì fattamente acuto , e pugnereccio , che DelSig .
Lionardo di Capoa JEI che di nulla ha che cedere in forza aque'ſali ,onde per
l'ac qúa regia quel duriſſimo metallo fi ſcioglie , comediſopra accennammo, che
a qualunque violenza di fuoco, ſaldo , e oftinatiſſimo mai ſempre contraſta ;
perchè è dacredere nó bene operar coloro , che il diſtillar acqua per limbicchi
di metallo , e maffimamente di piomboagli ſpeziali permet tono ;
conciosſiecofachè roſicchiato alquanto dallamorda cità di quel fale il piombo,
e trameſtandoſi l'uno all'altro , vengonoinſieme a corrompere,e meſcolare; e
guaſtar ma lamente la ſoſtanza diquell'acqua , che ftillaſi:e allora veg giamo
coforarſi a poco a pocol'acqua , e a guiſa di latte biancheggiare , quando
diſtillata a campana di piombo có altra femplice , e non diſtillara acqua
ſimefcola ; ilche fag giamente avvifarono già i dottiſſimi Accademici del Cinně
80. Ma che che fia di ciò , oltre al ſale , il ſolfo altresì , e'l mercurio , e
la flemma, ela terra dannata ritrovò nell'ace qua il dottismo medico , e
chimico filoſofante Borricchio . E che diremonoi de ſemidi tantis e tanti
vegetali semine rali, e animali, cheper la glorioſisſima induſtria d'alcunº
altro Chimico nell'acqua ancor ſi avviſano : il che diede per avventura cagione
agli Egizzjdi giudicarla primera , e univerfal materia ditutte coſecreate ,
da'quali tolſe Ome ro a dire : Ωκεανόν πθεών γίνεσαν και η μητέρα τηθε ePautore
di que' verſi attribuici ad Orfeo Ωκεανόόσπερ γένεσις παντεσσι τέτυκάι .
Ωκεανών πεώτG» , καλιρρόσυ ήρξαι γάμοια oʻpos saoryvártee góptopýtoege
TyIwTHEY, E’I noſtro poeta , per tacer Virgilio , Catullo , ed altri, ſe .
condo il medeſimo ſentimento avendo egli al fuo Filagli teo fatto ragionare in
prima della terra, Pur non è ella il gran principio immenſo,
Ilgranprincipiodele coſeeterno, Benchèmadre fichiami, e velta : & vanti La
reggia , ei figli ſuoidivize giganti, fa poi, che coluiſoggiunga: Mafo degna di
fede ,èfama antica L'O ! ST2 RagionamentoSettimo . L'Ocean de le coſe.è vecchio
padre. Il qual ſentimento fu anche di Talerc Mileſio , il qual ncl. la ſcuola
de ſapienticosì preſſo Auſonio va dicendo Milefius Thales , aquam qui principem
Rebus creandis dixi. E ciò dal vedere egli , come fasſi a credere Ariftotele ,
effer umido , così il ſeme , onde s'ingenera l'animale, come il cibo del qual
ſi nutrica : e dal credere, come riferiſce Plutarco , il ſole , e le ſtelle
da'vaporidell'acqua nutrirſi, o dall'avviſare ch'ogni qualunque coſa dall'acqua
nafca , ed in ella diffolvafi, comc racconta Euſebio . Malo immagi. no , che
Talete non già principio delle coſe abbia voluto eſſer l'acqua , ma giudicato
aveſſe aver d'acqua in primas avuta ſembianza e, forma quella materia , onde
poiſecon do il ſuo avviſo i corpi tutti ſenſibili del mondo si formaro no; ciò
parimente ravviſar ſi puote dallo ſcoliaſte d'Efiodo , allor che dice , il caos
d'Eliodo , altro non eſſere, che l'ac qua . Ma non men dell'acqua , e dell'aria
ſi dee ancora prender cura delle terre , c con attentisſima eſaminazione
conſide rarle , ove certamente infra tante , e tant'altre ſoſtanze,che
Vallignano foglion diverſe , e varie ſorti di minerali' ritro varſidagli ;
aliti de'quali reſa talora peftilenzioſa, e corrot ta l'aria , o l'acqua , o le
piante, o le frutca , nuove , edi verfe guiſe di malattie ſovente cagionano: ne
altronde, per quel che già Io ini creda , quelle gravisſime febbricomor tal
riſchio degli ammalati in cotali ſtagioni dell'anno accé der fi fogliono, che
per cambiamento d'aria avvenir comu nemente fi giudicano , ſe non ſe da sì
fatti aliti, e ſuapora menti de'minerali, che pervenendo al noſtro corpo , e
dall' aria , ed all'acqua , e da' cibi quivi racchiuſi , e ingozzati, ſcoppiano
poi per la loro abbondanza, e ſoverchio vigore in ardentisſime malattie ;
imperoccliè in quelle ſtagioni il fervor del fole facendo venir ſu gli alitį
arſenicali, vitrio lati. , nitrofi , e ſulfurei dalle occulte miniere della
terra , rende l'aria dannoſa, e nociva alla unana ſalute ; concioſ fiecolachè
in ponçido noi mente alle chimiche operazioni e 1 o ray 1 Del Sig. Lionardo di
Capoa 513 2 ravvifarido , come alcuneſoſtanze , le quali comechè ſc parate ſi
prendano ſenza alcun nocumento per la bocca, im pertanto confuſe formano un
mortifero veleno , come nel ſolimato ſi vede , del quale ogni qualunque menoma
parti cella mortalmente offende, potrasſi agevolmente conoſce re, come
reſpirādofi ne'viaggi ora aliti mercuriali, o a'mer curiali equivalenti, ed ora
ſalini , pofſa produrſi nel cor. po noſtro una ſoſtanza non guari disſimile al
ſolimato ed indi poi quelle mortali infermità di cambiamento da ria appellate
agevolmente s'ingenerino . E ciò vien conferinato dalla ſperienza, come quella
, che ci dimoſtra, ivi avvenir le malattie di cambiamenti d'aria , ove ravviſa
fi maggior varietà diminerali , ed ove il calor del ſole per cuota maggiormente
; ne da altro , che da aliti velenoli, e nocevoli de'minerali da crederè, che
s'accendano ancora quell'altre febbri non men malvagc, e non men peſtilenzio ſe
delle prime, che avventandoſi tratto tratto con lor vio lenza alle Città, e a'
contadi , e a’villaggi tutti, fogliono così infra breve ſpazio di tempo
impoverir d'abitatori le contrade . Ed abbiam noi pure con gli occhi proprivedu
to quanti , e quanti da sì fatte cagioni nella noſtra Città miſerabilmente
morti ſiano, e ſpezialmente ne'meſi addie tro, quando crudelmente diſcorrendo
in alcuni luoghi la peſtilenzial febbre, laſciò vuoto , e diſpopolato il Borgo
Sant'Antonio , ed altre terre ,non ſolo della Campagna Fe lice , ma d'altre
Provincie ancora del Regno noſtro . Ed è egli neceſſaria ancora ſoprammodo
a'mcdici la chi mica acciocchè eglino con l'ajutodi quella valevoli a ſpiar la
natura , e la propietà de'cibi, e de'ſemplici medicamen ti render ſi poſſano ;
conciosſiecofachè quantunquc vero egli foſſe ciò che Galieno medeſimo
coſtantemente niega's c rifiuta ;che i ſapori , e gli odori, ed altre ſoiniglianti
qua lità, certi , e ſicuri ſegnali della natura de'cibije deʼmedica menti
ſiano, pure perciocchè gli organi de’noſtri ſentimen ti di sì ſottiltempera, c
di sì acuto intendimento non ſono , che poſlan ſempremzi ben comprendergli ,
egli ne fw certamente meſtieri per iſcorta de'ſenſi rintuzzatil'Ermeti Ttt
C2010 5.14 Ragionamento Settimo ca notomia , la quale partendo i corpi , ed
eſaltandone le qualità ( per ſervirmi d'una voce dell'arte ) quelle poi ma
nifeſte a'curioſi, e ſenſibili maggiormente offerir poffa . E quale avviſo
potrebbe mai per huom' prenderfi dal ſolo fpiamento de ſenſi intorno a
que'cibi,e a que'medicaméti : che pur ven'hà molti : edanche intorno a
que'veleni, che privi affatto ,e ignudi d'odore ,e di ſapore,e d'altre ſimigliá
ți qualità , di tanto vigore , e di sì inaraviglioſa efficacia ſi conoſcon
poiper pruova , qualia danno , c quali a prode gli huomini , chc nulla più ? E
quale argomento prenderem noi dal ſapor di quelle coſe, che di ſoave dolcezza
maſche. rate in prima , come già altra volta abbiam detto, ne lufin gano il
palato , e la lingua , e poi tranguggiate , nello lo maco formentandoſi, le
viſcere, cgl'inteſtini crudelmeute , n'offendono ? Coſa ,la quale nel zucchero,
e nel mele , e in ciaſcun'altra ſimigliante coſa manifeſtamente fi ſperiméra,
Che dolce al guſto , a la ſaluteè rea ; perchè facendo le beffe a' volgari
medici il motteggevol Berni, così proverbioſamente ne favella: Il
melperchèmangiato altrui diſtempre, E’n collera ſi volti ; a cui l'amaro Danno
coſtor , che fan tutte le tempre: Queſto ſecreto così degno , e raro Maſtro
Simon ftudiandoil Porcografo Scoperſe a Brun , che gli fu già si caro. Or fa tu
l'argomento o Babualo , Edì , fe'l mele in cullera ſi volta , Segno è , che
d'amarezza non è caſo. Ma comechè così alla ſcoperta n'ingannino i ſentimenti
ilmele , e'lzucchero con far veduta d'eſſer cotanto dolci, foavi ; pure de’lor
falli agguati ne fan pienamente avveduti le chimiche machinazioni, con
darnemanifeſtamentea di vedere, nel zucchero, e nel mele un ſale acutiffimo
naſcon derſi, nonmolto a quel dell'acqua forte , e dello ſpirito del nitro
dicimile : Quis mellis dulcedinem nefcit? dice Pier Severino : nibilominusin
tanta dulcedine latent Spiritus illi acutisfimi , qui ubi exaltantur , & ad
extremitatem ducun :: tur, Del Sig.Lionardodi Capoa. 515 tur,venenatā perniciē
represētāt.Eprima dilui Baſilio Vale. tini già detto aveva:jā vero ex illo
fuavisfimiq ;faporismeile Corroſivă peffimü, atq ; præfens venenum
præpararipoteft. Or va medico ingannato , e ſciocco , e giudica pur dalle qua
lità , ch'a prima faccia viſcorgi,le cofe della natura ; con danna la rigidezza
nel ſal comune per la rabbiofa ſete , ch ' accenderſi da quello sformatamente
rimiri: ch'ad ontz pur della tua mellonaggine han ſaputo i Chimici un fales
aceroſo rinvenirvi ad attitare anche agl'Idropici più ane lanti la fete . E che
direm poi del pepe , che così mordace; e pungente , puré un dolciſimo, e
ſoaviffimo fale in ſe na fconde ? E che d'altre , e d'altre pruove infinite ,
che per interamente fpiegarle vi vorrebbono lunghi volumi , non che piccoli
diſcorſi di ragionamenti ? Sarà dunque da con. chiudere , che noi per quanto
con tutta noftra poffa a ſpia: rei ſegreti delle coſe del mondo ci adoperiamo ,
pur nonui ne poſſiamo fe nonſolamentele priincbucce comprendere; perchè ſe
chimica mano non le parge , c riſolve , e diſtinta mente elaminandone le parti
, le naſcoſe interiora di qucl le non ci addita , e le operazioni, e'l
convenevol modo di farlo , certamente chiunque ciò follemente intende Ne l'onde
folca , é ne l'arene femina. Eben di ciò fe manifeſta pruova il Cardano ,che
col lim. bicco , e colla Chimica giunſe a ciò che comprender mai non poterono ,
o Ariſtotele , o Galieno ; e ciò fu , che nó fappiendo coſtoro la cagione ,
perchè cotanto noccia il vi no ,maſſimamente generoſo , e pretto a colui, che
paciſca di mal caduco,egli ſolamente colla ſcorta della Chimica potè a fuo
credere affai veriſimile ritrovarla:hoc verò dico ( sõ ſue parole) nõ cõvelli
puerosà vini potu ob caliditatem ;quum neq; pipere,neq;aliis aromatibus id
eveniat: neq ;quod fithumidū; nă vel noeft, vel lac longè humidius, à quo tamen
non convel tuntur . Caufsa ergo eft aqua ardens , quæ in illo continetur : que
quum latuerit Ariftotelem ; & Galenum, meritò in Aris fotele admirationis
cauffam præbuit , in Galeno multa perpe tam commentandi; eftautem abundantior ,
quo vinum craf Ttt . 2 pius eft. . 116 Ragionamento Settimo 1 : 1 2 fius eſt .
Ma ſe'l Cardano ſtato e’li foffe meglio inteſo nelle faccende della chimica ,
aurebbe certamente una aſſai più veriſimile cagione di ciò nel vino ſcorta , e
avviſata : im perocchè oltre allo ſpirito ardente , che giova anzi che no al
mal caduco , evvi un ſal fiffo acetoſo nemiciſſimo delle parti tutte nervoſe ,
del qual aſſai più , che dello ſpirito ardente egli è il vino groſſo
abbondevole , e copioſo . Ma intorno alle fattezze , così dentro , come fuori
delle coſe, giovevoli oltremodo a raffigurarne anche le vir tù dc'ſemplici ,
non comporta al preſente la ſtrettezza del tempo , ch’lo tanto quanto ne
ragioni;le quali per non dir d'altri vedeſi aver tolte dal Paracelſo , e da
altrichimici au tori, comechè di lor non faccia punto mézione,e averle de
ſcritte nella ſua Pitognomica il noſtro curiofiffino , emol to de’ſegreti della
natura intédente Gio : Battiſta dalla por, ta . Maniuno certamente ha , che con
maggior diligenzas per quel che me ne paja , e più felicemente ne tratti (per
ta cer del Crollio, e del Quercetano) quáto Federigo Elvezio , E coinechè noi
fin qui de'ſemplici medicaméti detto ab kiamo , non però di meno è da credere
la Chimica a'com poſti, clavoratimaggiormente abbiſognare . Furon que fi
ingegnoſi trovati del mondo già adulto ; imperciocchè negliannidell'oro , e
nella felice etade , quando i pomi , e le ghiande Eran del corpo umanlodevolpaſto
: nelle ſemplici piante la germogliante medicina ſolamentes confifteva ; e
allora non men che le ſchiette vivande , i me dicamenti ancora Vſar le
fortunate antichegenti; ma creſciuta poi oltremodo col tempo , e comprenden
doſi dagli huomini eſſer nclle piante qualche parte inutile per avventura, c
qualch'altra forſe nocevole, eglino di par tir l'une dall'altre per lor biſogne
avvedutamente propoſe ro ; quindi tra perchè non ſi fapeva , o non ſi potea
purlaw parte nociva , è inutile dalla buona ſeparare , e anche per chè così
diviſe, debile molto , e sforzata la parte medicinal He rimaneva, qualch'altra
pianta forſe ſaggiamente v’ag 1 4 giun Del Sig .Lionardodi Capoa . 517 1
giunſero valevole ariſtorare i mancamenti, e i difetti del la prima , é a far
sì, che quella nulla , o poco nocer potef fe ; anzi ſe pur Pabbiſognaſſe ,
quindi la ſua virtù notabile mente avanzar nedovefle . Così tratto tratto
cominciaro no nel mondo a comporſiinſieme , e meſcolarſi i medica menti ; e
ſarebbe pure aſſai bene potuta riſtare in tale fta to la biſogna , ſe già tanti
, e tanti indiſcreti , e ſmo dati medicinon aveſſer quindi preſo agio di
ſtrabocchevol mente ſcompigliare, e confonder la medicina tota , con ac cozzare
inſieme ; e meſcolar cotanti medicamenti per ren der la medicina , o più
malagevole , o di maggiorpregio al mondo ; e componendo inſieme una lunga
ſchiera di cento ſemplici medicamcnti, ne formarono talora uirconfuſo , e
inviluppatiſſimo guazzabuglio . Cofa , la quale ſommoſſe i più faggi, e avveduti
medici, ed inveſtigatori della natu ra a lūghisſime quercle,come d'Erafiftrato
narra Plutarco con quette parole: Ερgσίστρατοδιέλεγχε την ατοπίαν, και
περιεργίας με μεζλικα , και βοτανικα , και θηeμακα, και τα από γής , και
θαλάθης εις Te Quroovyzeegwúras oxandryce Citocécouvlas iv mitocrívy , og díxua
, και εν ύδρελαίω τηνιατζικην απολιπε . ΜαEragrafo biamo ol tremodo
l'indiſcrezione , e la curiofità di coloro , che i minera Li infieme , e le
piante , e gli animali, e ciò che mena laterra , o naſce in marein
unomeſcolarono; che più fennd af'ai avreb ber fatto , fe daparte laſciate
cotantecoje folamente co’farri , colle zucche , e coll'Idreleo aveſſer l'arte
della medicina ter minaia. E l'avvedutiffimo, e bé parlante Plinio.fraudes ho
minum ,&ingeniorum capture officinas invenere ifas , in quibus ſua' cuique
homini venalis promittitur vita . E chi non maraviglierebbeſi di tante , e
tante coſe , ch'a com por la Triaca , o'l Mitridate, concorrer debbono , dan
ftancare i ſpeziali ,non che a raccorle,maſolamente in leg . gendone le
ricette/ Theriace, diſſe altrove il medeſimo Pli nio , vocatur excogitara
compofitio luxuriæ ; fit ex rebus ex ternis , quum tot remedia dederit natura ,
quę fingula ſuffi, cerent. Mithridaticum antidotum ex rebus quinquaginta quatuor
componitur , interin nullo pondere equali , & qua . rundam rerum fexagefima
denarii unjus imperata . Que Deo 518 Ragionamento Settimo Deorumperfidiam
iftammonftrante ? hominum enim fubtilin tas tanta effe non potuit . E
avvegnachè cotali medicamen ti fiao poi nell'opera buoni, ed efficaci riuſciti,
non ne ſom però mai da troppo commendare i primilor ritrovatorizim perciocchè
nel comporgli da prima , e nel lavorargli non con avveduto , e ſano giudicio
certamente adoperarono , ma a riſchio , e a caſo alcune di quelle coſe
togliendo ( che pure alcune vi ſon ſoverchie ſenza pro niuno, c viſi potreb .
bono anche dell'altre , e forſe con maggior ſenno , più ef ficaci aggiugnere)il
tutto e nella ſceltage nel povero ,e nels la quantità di ciaſcuna ciecamente
alla ventura riniſero , non guardando minutamente comeſi richiedeva , al valor
di quelle , ne punto efaminandole . Impreſa per molti ca pi malagevol troppo ,
e quaſi ad huom diſperata; ſenzachè nel meſcolarſi ,nel diſporſi, e nel
formentarſi inſieme i sé plici,varj , ediverſi mutamenti ſovence avvenir ne
foglio 110 ; iqualicertamente non è da dire , ch'aveſſer mai que primi
ritrovatori di quelli pienamente avviſar potuto. Per chè comenell'incendio di
Corinto quel ricco metallo co tanto dalle ſtorie celebrato nella fortunofa
meſcolanza di altri metalli alla vçntura formofli , così nõ meno il caſo an
cora ha parimente portato , ch'il Mitridate , la Triaca, o s'altra v'ha
fomigliante compoſizione , giovevoli, ed effica ci rimedi per molte , e
graviſſime malattie fortunoſamente fian divenuti. Ma che che di ciò ſia ,
manifeſta coſa è poterſi molto be De l'antico ufo rinovando , colle ſole piante
medicare ; la qual forte di medicina, dirò con Adriano Turnebo ,huom di varia ,
ed eſquiſita letteratura : fortaffe ad morborum fani taiem efficacioreft ,quam
illa confuforum miſcellanea compo fitis ; magno mortalium , & difpendio ,
& damnointroducta. £ noi per tacer de' bruti animali , che felicemente ad
ogn ora l'adoperano il veggiamo pur fare alla giornata a parec chj de'noſtri
contadini, ne ha guari,cheil Caritrero, famo filimo medico Tedeſco , con ufar
medicando le ſemplici piante , non ordinaria lodå guadagnoſli ; e i popoli inge
gnofillimi del Braſile ,iſicome riferilce Guglielmo Pifone , medi
DelSig.Lionardo diCapoa. $19 medicamentis fimplicibus utuntur, noftraque
derident , quia compofira ; e degli abitacori del Mellico , Fra Martino Igna
zio ne' ſuoi viaggj , così dice : los Indios fon grandesberbo-, larios , ycuran
fempre con ellas , demanera , che cafi non hay enfermedad para la qual no ſepan
remedio , y le den :ya eſtacaufa viven muyfanos , y cafi per maravillamueron,
que noſea quando el humido radical ſe conſuma : ed in quel va ito , e quaſi
immenſo tratto dipaefe della China , comete ſtimonia il Padre Matteo Riccio , fi
è medicato permolti, e molti ſecoli , e ſi medica tuttavia , ed aſſai
felicemente coll uſo delle folc erbe . E certamente come la natura delle
ſchiette, e non meſcolate vivandeoltreinodo ſi dilecta , Nam varieres Vt
noceant homini credas , memor illius eſcę , Que fimplex vlim tibi federit ; at
fimulaffis Miſcueris elixa , fimulconchylia turdis ; Dulciafe in bilem vertent
,ftomacboque tumultum Lenta feret pituita : vides ut pallidus omni Cæna
deſurgat dubia ? quin corpus onuftum Heſternis vitiis animum quoque
pregravatuna Atque affigit humo divineparticulam aura. Così anche ſchietti , e
non compoſti medicamenti per riſtorarſi richiede ; perchè Plinio : non fecit ,
diffe , ceraia , malagmata, emplaftra , collyria , antidotaparens illa , ac di
vina rerum artifex : officinarum hæc , imo veriusavaritia commenta funt. Pure ,
poichè la coſtuma de’meſcolati, co me de'ſemplici medicamenti, è tanto oggidà
nel modo avā zata , che per legge è quafi da ciaſcun ricevuta, e ſi veggo. no
sì fatti rimedinelle botteghedegli ſpezialicötinuamen te a calca difpenfare :
convenevol cofa egli certamente , anzi neceffaria mi pare , dovere il medico
degli unis e degli altri piena , e ficura contezza avere ; e oltre a ciò nelle
ma niere del lavorare i compoſti medicamenti eſſer ottiinamé te ammaeſtrato . E
certamente , o quanto farebbe egliil migliore , ſe il medico medeſimo i rimedj,
che diviſa , po • neſſe in opera , e non ci foſſero ſpeziali, i quali tri per
l'in gordigia del danajo , e per la loro ignoranza il tutto traſcu rata : 520
Ragionamento Settimo 1 1 ratamente abborracciaffero ; o almeno lavoraffcro
imedici qualche medicamento dimaggior conſiderazione , laſcian-, do ſolamente
in man degli ſpeziali i più volgari , e meno vili: come già coſtumavano
(ſecondo il narrar di Galieno ) Archigene, Andromaco , Apollonio , Critone,
Pacchio ,e altri famoſiffimi medici antichi; i quali non iſdegnarono ď. ufar
ſovente un così giovevole , e aobil meſtiere ; an , zi lo ſteſſo Galieno
vantaſi oltremodo d'aver lui mede fimoa ſue mani la triaca lavorata; avyegnachè
di que’tein pi , come e'medeſimo ne fa teſtimonianza , e molto addie- : tro
ancora , il meſtier delmedico da quello dello ſpeziale diviſo anche
trovaffefi,come avvifa infra gli altri Plinioidid cEdo, che alcunimedici
de'ſuoi tépi no li davan cura niuna dicoporre imedicaméti,gefepropriú,ſono ſue
parole ,medie cine ſolebat:ene'répia noi più vicini ebberoi medici ancora le
lorbotteghe;avvegnachè conventati, e onorati molto ſi foffero , e in quelle
alcuni medicamenti ad uſo di vende re riſerbaroro : come dal Decameron
delBoccaccio nel la novella del Maeſtro Simone agevolmente ſi può cópren dere ;
a cui Bruno dicea : e ſappiate , che quelle camere ſono nonmenoodorifere che
fienoi boffoli delleſpeziedella bottega voftra , quando voi fate peftare il
comino. El Fernelio, ed altri famofiffimi medicihan coſtumato pure di comporno
alcuno s perchè l'avvedutiſlimo Orazio Eugenj loda foin mamente coloro , che
imedicamenti pe’loro ammalatian ſue mani lavorano . Ne dovrebbe ilmedico
certamente vergognarſi a pur farlo 3 perciocchè,comedice Primeroſio , remedia
abfque medico curant,non autem medicus abſque re mediis ; præftantior igitur
medico erit remediorum natura : quare ea præparare , &componere medicum non
dedecet, qui naturæ tantum miniſter eft. E nel vero egli è queſo un meſtier sì
nobile , e lodevole , che non che i filoſofi di mag gior lieva , e ſpezialmente
Ariſtotele l'abborriſſero , e l'a veſſero in diſpregio , anzi i Principi d'alto
affarc ſovente l'adoperarono, e'l tennero a conto. Or ſe il medico medeſimo a
pro de'ſuoi infermi lavorar dee DelSig. Lionardo di Capoa ser deeimedicamenti
,e ſconvenevol coſa non è a ſalvamento degli huomini l'adoperarviſi ; come
potrà giammai , quan tunque faggio , e avveduto egli ſia ', porre in opera, e
com porre i più malagevoli rimcdj, ſenza avere in prima bene , uſate, e
ſperimentate lungo tempo le maniere , e gli artifi cj , co’quali ſi compongono
? iinperciocchè l'efficacia , e'l valor di quelli dal niodo
dell'apparecchiargliin gran parte depende. O come potrà mai pienamente diviſar
de'ſempli ci , de'inodi , co'quali tra loro quelli accozzar ſi debbono, e
tramcſtare ? perchè Giacomo Silvio intendentisſimo di cotali affari vuol, che
chiunque a bene imprender l'arte della medicina indirizzar ſi voglia,debba alinen
per lo ſpa zio di quattro anni avercontinuo in prima uſato , ebazzi cato con
gli ſpeziali nelle botteghe loro ; & quidem exifti mo , dice anche Pier
Caſtelli , oprimum medicum hujus fu cultatis debere effe expertiſſimum :
alioquin fore , utfere fem . per in præfcribendis medicamentis compofitis
erret. Mari tornando , onde partiti eravamo: ch’al inedico faccia biſo gnola
Chimica , quanto al fatto delle compoſte medicine, egli non è da porre in forſe
; poichè ſi ſcorge omai di per; tutto eſſer in uſo le chimichemedicine; perchè
ſe'l medico non aurà piena corezza delle faccéde pertinenti a coral ar re ,
come potrà inai quando meſtier glie ne ficcia , o colle fue propic manicomporle
, o adoperarle, o conoſcere al meno , c riparare aldanno , che quelle aveſſero
per avven tura cagionato ; o ſe forſe da altri medici diviſati foffero ,
raffermare i loro sériinéti, o rintuzzargli,ſecodo egligiudi chcrà , che ſi
convegna per lo miglior dell'ammalato. E nel vero come potrà mai adoperar
medicinenti un medico , ſe non ſe intendentistimo della natura , e delle
propietà delle parti, chic’lcompongono , e degli effetti ancora , e del mo do
del loro operare ? E come potrà mai egli ſaggiamente ordinargli ad argomento
d'una , o d'altra malattia ; e divi . farle ſtagioni, e itempi , in che fan da
dire , c alle conj: pleſſionidegl'infermi, e all'età ragionevolmente adattaro
gli ? o comcpotrà mai loro ordinare il inodo di prenderglis e diviſarne la
quantità : 0 temendo di qualche riſchio rin Vuu tuiz 522 Ragionamento Settimo
tuzzarne, e attutarne la troppa violenza , o contro quella agli ammalati di
qualche yalevole ajuto di preſente ſoccor rere ; o toglier lenoje, ei fastidi ,
che ſovente ingenerar ſo gliono ? Non è certamente cosìagevole , ſecondo i
ſenti menti del medeſimo Galieno, il poter medicamenti adope rare a colui , cui
conoſciuta in priina , e manifeſta molto bé non ſia la virtù di quelli, e la
forza per la quale gli effetti n ' avvengono . Or che di grazia avrebbe detto
Galieno , re : qualche contezza pur delle chimiche medicine , comechè
leggeriffima, gli foſſe all'orecchio pervenuta ? Certamente conſiderando egli
le ſtrane maniere , e malagevoli del loro operare, ayrebbe ne' medici ricercato
ſtudio , cavvedia mento maggiore ; e non che piane ,e facili , e ſenza trop po riguardo
giudicate l'avrebbe , ma pericoloſiſſime a ſpe rimentare , e da troppo più,
ch'a popolar medico non lico viene. Or vadano pure coteſti medici di cromba
marina, e colla ſola doctrina del lor macſtro Galieno a far pruova de'chimici
medicamenti a coſto della vita dc'inileri amma lati ſcioccaméte s'attentino,che
vedran pure a funeſto, e la grimeyol fine le loro mal ardite follie sépremai
riuſcire;im , perciocchè ne dalle ſcritture di Galieno, o d'Ippocrateme defimo,
ne da altri lor ſeguaci , che della chimica medici na nulla certamente
s'inteſero , comprender mai potranno coſa alcuna intorno a'chimici medicamenti
; ne dalle rego le , che già coloro ne laſciarono fi può trarre argomento 2
comporne alcuno; ſo per quelle le propietà de'inedicamé timedefimi della lor
comunal medicina, nc anche avviſar fi poſſono: perciocchè , ficome è detto , in
quelli ancora il chiariſſimo lume della Chimica ne fa meſtieri .Ne quelno
biliſſimo pronipote del gran Re di Damaſco , Giovanni fi gliuol di Melue nella
chimica medicina, e in quella di Ga lieno , maſſimamente intorno alle
purgagioni eſercitato , n' avrebbe mai conſigliato , cſfer ſempre da leggere ,
e ſtudiar ne’libri de'fapienti ( cosìchiama egli per eccellenza i chi mici)
s'aveſſe giudicato averfi ciò potuto baſtevolmente in que' diGalieno, c dc ſuoi
ſeguaci apparare :netanti , etā ti valentillimi Galicniſti avrebber poi il
conſiglio di Meſue qual DelSig.Lionardo di Capoa. 523 qual legge ſeguito c, con
molta fatica ne'volumi, e nelles fucinc de'Chimici lungamente ſudatinon
ſarebbono . E licomc ad huom poco giova l'eſſere nell'antico meſtier dell'armi
baſtevolmére eſercitato , ſe poi ad abbatter Roc che, e Caſtella ,e ſorprender
Città:dimine, d'archibugj , di bombe , d'artiglierie , e d'altri nuovi ,
emoderni ſtru menti , ed ordigrida guerra dalui per addietro nô mai più veduti,
o ſperimentati, ſervir ſi vuole; ma conviene in pri mache da nuovo maeſtro , e
intendentiſiino di quelli pic namente apprefi gli abbia,e come,e quando , o per
offefa, periſcherno da adoperar ſiano : così nulla ancora a'medici approda il
ſaper coloro compiutamente quanto mnai nell’ : antica , e volgare fcuola
diGalieno apparar ſi poſſa, ſe mai chimici medicamenti uſar ſaggiamente
intendono ; ma egli fa di meſtieri, che ben anche in prima da Chimico macſtro
apprcli gli abbia, e la maniera d'adoperargli, e l'arte di bé comporgli
pienamente abbia apparata; imperciocchè fe così sfornito dell'arte , e
ſconſigliato ſi vorrà ad impreſa çotanto matta , e malagevole arriſchiare,
certo mala pruo va vi farà il ſuo orgoglio ; e rimettendo il medicamento al
Izventura , e alla cieca andando , a manifeſto , e certiſlimo pericolo la ſua
fama iuliemc, e'l falvamento dell'anmala to alla fuacura commeſſo porrà . Così
quella famoſa ſci mitarra diquell'invittillimo Eroe Georgio Caſtriota , la cúi
memoria ancor teme, e trema l'infedel popolo ſaracino, diceſi , che in man di
Macometto Re de’Turchi le ſue glo rioliflime pruove laſciate aveſſe : ita
plerique medicine, dice a noltro concio Teodoro Chercringio , chymice præſertim
, aut mortue ,aut (quod deplorandum magis) mortisfæpè cauf ſefunt, quando non
animantur periti Doétorismanu, qui no verit eas tempore, &loco adminiſtrare
. Così anche dopo l'infelici pruove per lui fatte nella gioſtra, Colui
ch'indoffo il non fuo cuojo haveva, Come l'afino già queldel leone, il
viliſfimo Martano , lo dico,ritornato in Damaſco fu qui vilungamente ſcherno
delle femmine , e de'fanciulli. Ma tanto più da piangercè , comechèdirifi ancor
degna ia ,la Vull liioc 524 -Ragionamento Settimo ſciòcca tracotanza dicoſtoro
', quanto in malamente uſan do le chimiche medicine , quantunquc ſicure , e
piacevoli quelle ſieno , pur n’ammazzano crudelmente gli ammalati. Così il
dotto Galieniſta per altro , e avveduto molto To waffo Eraſto collo ſpirito del
vitriolo un cattivello infer mo empiamente a morte conduſſe per no aver lui nel
fuo maeſtro Galieno la natura , e l'uſo di cotal medicamento apparato ; che ſe
egli dal Severino , dal Penoto , dal Dor neo, o da altro profeffor della
Chimica medicina;da lui cos tanto biaſimatas appreſo aveſſe , e pienamente
conoſciuto come , o quando lo ſpirito del vitriolo da dar ſia , certame tc
eglicotanto misfatto comıneſſo non avrebbe. 's E forſe , che nel medeſimo fallo
appunto dell'Eraſto no ſi è quì bruttamente cader veduto non ha guari un credu
to , e molto ſtimato Galienifta , il qual collo ſpirito fimi gliantemente del
vitriolo un miſerabile infermo, cui, per troppo ghiottamente eſſerſi riempiuto
di freddi, e aceto ſi liquori , fi era riſerrato il perto , infelicemente
ſtrago Jandolo licciſe ? E piaceſſe pure al Cielo , che per l'abuſo di sì fatto
mc dicamento non fi vedeſſero tutto giorno miſerabilmente molte , e molte
perſone morire . Egli è coſa troppo mani fefta , ſe pur merita fede la ſtoria
rapportata dal Checher manni, di quell'Elettor Paladino, cui per l'uſo dello
ſpirito del vitriolo l'interiora tutto guaſtc , e roſe ritrovaronfi. Ne giova
punto a cellare il pericolo de'ſuoi peftilenzioſi effet zi l'adoperarlo con
ritegno , e riguardo, e ſcarſamente uſar lo , teinperandolo anche talvolta con
acqua , o altriſomi glianti liquori; concioſiecoſachè dato più , e più volte co
minciapianamente ad operare , ea poco a poco rodendo , infin le tuniche del
ventricolo , ſpietatamente alla per fine conſuma, c divora . Così talvolta al
continuo ftillar d'ofti nata goccia mancano finalmente i duri macigni. Et
leviter quamvis quod crebro tunditur ietu , Vincitur in longo ſpacio tandem ,
atque labafcit. E pur lo ſpirico del vitriolo per altro cosìbenigno,e pia
cevole ſi ſperimenta , che ben felicemente a'fanciulli anco :. ra da Del Sig
.LionardodiCapoa 525 1 ra dacolui , che cautamente ſervir ſe ne ſappia fuol
darli . ? E ſe'l vitriolo baltevole a guarir la quarta parte de'rnali da quel
grand'huomo in medicina Teofraſto Paracelſo vienu giudicato ,ben da colui
ancora il ſuo ſpirito vien fomma mente lodato con chiamarlo
quartampharmacopolii partēs & lapidem angularem in officinis
pharmacopoeorum ; avve gnachè cotefto ſpirito , che comunalmente nelle botteghe
degli ſpeziali per ciaſcun fi diſpenſa , non fia veramente quellofpiritodi
vitriolo cotanto da Chimici commêdato na altro più groffo , e di minor virtù ,
e giovamento di fuello . : ! is Ma per ritornare a' grofliffimi errori ,
ne'qualiper nons aper di Chimica fogliono i medici, comechè faggj , e av
veduti, talvolta ſmucciare , egliè pur manifeſto a ciaſcun quanto fcioccamente
, e fanciulleſcamente dell'antimonio il dottiſſimo infra’ſeguaci di Galieno ,
Mercuriale favelli. E chi non iſcoppierebbe delle rifa in conſiderando la mel ionaggine
di quel famoſiſſimo Gåſieniſta , e cotanto nella lottrina del fuo maeſtro
eſercitato , Aleſſandro Maffaria ? vvegnachè più toſto da pianger fiat , che da
ridere la com fioro ignoranza per li ſconcj avvenimenti , e funeſti, che ne
fuguono . Egliadunque intorno al medeſimo antimonio dopo averne
cosìinfelicemente favellato , venendone all' lifo del darlo , e diviſando in
che quantità da dar fia ,in und fua cotal ſciocca ricetta ,cosi ragiona: Recipe
antimonii pre parati 8.3. Orchi Domine giammai il fentimento compré der ne
potrebbe ſenza andar dalle gabbolc a ricercar ſe de fiori , o del gruogo , o
del vetro , o d'altre, e d'altre molte medicine , che foglion farſi
dell'antiinonio , abbia intender voluto ? Ecco appreſſo il nottro Antonio
Santorelli nella volgar dottrina de Greci, e degli Arabi maeſtri famoſifli
moſcrittore, diviſar dell'acqua arzente in una delle fue opere così
ſcioccamente, che nulla più . Ecco il dottiſſimo Galieniſta Giovanni Eurnio
così traſcurato in favellar del fale del vitriolo vomitivo , cheda
piacevoliſſimo chequel, loè , facendolo fomigliante nella violenza all'ariento
vivo precipitato , ed al vetro dell'antimonio , lo riftrigne , eris fpar ' 526
Ragionamento Settimo . ſparmia a nôn darlo all’ammalatosſe non nella quantità
ſo la di due minutiſſime granella digrano . Ecco d'altra parte il più illuſtre
, e famoſo medico de'ſuoi tempi Guglielmo Rondelezji doftar forte , e temere ,
non la raſchiatura del dente del Cignale rattenga talvolta nelmal della punta
lo fputo;nel qualviluppo certamente egli involto non fareb be , ſe nella
maniera del filoſofar de chimici in medicina baftevolmente avanzato fi foffe ;
concioffiecoſachè cota li rimedi per lo loro Alcali volante mai ſempre operiuo
; il qualpenetrando , e trameſtandoſi colfale aceroſo, che nel le vene , e
nella punta s'accoglie , eſciogliendo le dutez ze dell'apoſtema, agevolmëte
quindi per ogni via così aper ta , come occulta ,non che per quella ſola dello
ſputo,ne fa ſpiccar fuora la inateria tutta inſaccata . E ſe cotal via di filoſofare
quell'altro famoſiſſimo Medico Prevozio te nutå aveſſe ,certamente, che ne
anche eglicosì ſcioccamé te temuito ayrebbe di dar nelle febbri maligne agli
ainma latiil.corno del cervio . Ma come , o in qual guiſa a sì no bilmente
filoſofar'nelle maraviglioſe operazioni della chi mica potrebbon mai
indirizzarſi i tondi , c goccioloniGa lieniſti, ſe nelle coſe più piane , e più
manifeſte di quellow , anche v'ha infra loro chi Come notturno augel nemico
alſole cieco affatto ', e rintuzzato d’intendimento vive ? Egli non può
narrarſi certamente ſenza ſmaſcellar delle riſa la peco raggive di quel famoſo
conventato Galieniſta nell’Acade mia diGroninga, il qual troppo
fanciulleſcamente giudica va lo ſcoppio , c'l tuono dell'oro fulminante per
opera de ' Diavoli avvenire : e ciò turto pauroſo attendeva, non altri menti ,
che il Macſtro Simon fi faceſſe , quando ſu la beſtia imperverſata, e
nabiffante inyer la Conteſſa di Civillari ini corſo andava . Nuper aurum
fulminansracconta il Chippe ro , cujus fi granum unum , aut duo carbone defuper
lentè ac cendas , bombardam minorem fonitu aquat,ſi non antecellit; ut
meritoridenda fie Freitagii focordia ;&contradicendi ftu dium ; dum tale
quid fieripofle naturaliter denegat , ctſi oma ninò effectus evidentia cuvincatur,
ad Dæmones hujus cauſ; fam Del Sig.Lionardo di Capoa. 527 fam refert : dignum
certè hac patella operculum , & hoc philos fopho hæcphilofophia. , Egli è
dunque da conchiudere eſſer la chimica ſomma mente neceſſaria alla medicina tra
per li medeſimi volgari medicamenti de'Galienifti, e più aſſai per quelli, che
di el fa Chimica ſon propi , e che per opera diquella , e de' ſuoi ftrumenti
ſolamente ſi compongono ; e maggiormente in quelli l'arte ſottiliſſima della
Chimica fi conviene; che co me è già detto , così pericoloſi ſono ,e da temere
inmaneg giarſiper le ſtrane, e non ordinarie maniere del loro opera re . E
concioſliecoſachè v'abbia cotali rimedj non iſcorti alla lingua, e alle nare ,
e d'ogni ſenſibile qualità affatto ignudi , che per regole d'ordinaria medicina
non può la lor natura agevolmente comprenderſi: egli è di ineſtieri certa mente
per non fallar nell'avviſargli, alla chinica notomia ſopratutto
ricorrere;ſenzachè havvi alcuni particolari me dicamenti , detti ſpecifici , i
quali convien fenza fallo , ch'a chiuſi occhi , e ſcioccamente lavori , e
maneggi chiunque del meſtiere , c del modo del filoſofar de Chimici non è bé
dottrinato , e intendente affui ; perciocchè sì fatte ricettev: nella pratica
della medicina , così brevis ce ſecche , ecalor confule , e incerte ne'buoni
ſcrittori ſi trovano , che per im broccarnela quantità , o'l tempo , o la
maniera d'uſarle , o le malattie , nelle quali da adoperar ſono, malagevole cer
tanente ſarà ad intendimento umano; ed è ſolo de' Chi miciragionevolmente , e
ſenza fofpetro alcuno l'adoperar lc , e ſervirſenic calora , dove lor faccia
meſtieri, con effer in prima fotcilmente filoſofando nella lor natura ben
penetra ti ; e per quel che permeſſo ad huom ſia , con aver le loro qualità
baſtevolmente compreſc . Cofa , la quale quanto monti a dover ceſare i riſchjge
i danni, cheda sì fatti me dicamenti naſcer poſſono , pur troppo è a ciaſcun
manife fta . Ne è già punto maraviglia , ſe gli arditi , e poco avve duti
Galieniſti ſcioccamente inframmertédoviſi,la lor par te ancor vifanno : ſe come
è detto , anche nell'adoperare i . Jor medeſimi medicamenci van carponi, e
brancolando per l'incertezza,quaſi ciechi al bujo ; e in quelli maſſimamente ,
a’qua 528 Ragionamento Settimo < aquali dan nomedi virtù occulta , cioè a
dire di ragion no conoſciuta , e non punto da lor compreſa , credendo così la
lor groffezza , e laloro ſciocca pecoraggine coprire. Ma d'altra parte i
chimici medici filoſofanti innoltrandoſi quá to per huon ſi puote nella
contezza demedicamenti,eco noſcendo aſſai veriſimilmére la natura dc'mali, e le
cagioni, onde avvengono , ſicome con avveduto , e probabile divi famento
fortilmente ragionar ne ſanno , così con loro no bili , ed efficaci argomenti
digran vantaggio riparando ſo-, vente al genere uinano , degni d'immortal
gloria , ed'eter na fama ſirendono ..., mily Magià baſtevolmente dimoſtrato
quáto a color, che me. dicare intendono faccia meſtier: la Chimica : a divilar
de' chimici medicamenti , e quanto ſovente ne lian neceſſari. trapaſſeremo. Ma
comechè lo di ciò fivellar per comuns giovamento m'ingegnj, e ne renda
maggiormente avvedu-. ti gli huomini delmondo , pur dubito , non alcuni dannā-
) do ,ebiaſimando sì fatti rimedj inalgrado per avventura me ne fappiano .
Dunque dirà taluno, queſt' altra nuova ſorte dipeſtilenza all'uman genere
mancava ? e non baſta va forſe a impoverir di gente le provincie, e i Regni, il
vuo tar di quel prezioſo liquore,a cui s'attiene la noſtra vita, per , ogni
menomacagion le vene ; e co'duri cauterj, e con crui deli veſcicanti , e
altriricroyati di barbare , e ſtrane nazioni martoriar miſerabilmente le
genti:e a toglier alle parti più ſodedel corpo umano il debito nutrimento , e
la virtù di ravvivarlo , e di riſtorarlo alle liquide : uſar le ſcamonces , gli
elaterj , le colloquintide , ilatirj , i pepli, gli Elleborin , iTurbitti ,
iMezerj, le ſquame del raine, le pietre lazule , e tante , e tant'altre forţi
di nocevolislimi veleoi più ches , di riſtorativi argomenti dell'antica volgar
medicina , ſe non vi congiuravano ancora a noſtro comun danno i potentiffi mi
precipitati , i mercurj divita , 0 Alcarotti , come altri gli chiama, i verri ,
i fiori, e altri cento violentiffimi vomi tivi tratti dell'antimonio ,del
vitriolo , del mercurio , o d'al tro qualunque più peſtilenzioſo minerale ? Deh
piaceſſo pure al grande Iddio , che, o non mai uel mondo foſſeliin he trodora (
DelSig.Lionardo di Capoa. 529 trodotta la medicina; o almen , che non inai ella
ſtata ſi for ſe colla ſpagirica arte accoppiata , e delle nuove , e ſtrane fortide'medicamentidiquella
dannevolmente accreſciuta : che mé malcerto ne farebbe dalle malattie medeſime
inter venuto di quel, che tutto dì oggi per mā de’medici miſera bilmente
proviamo. Or s'accreſcano pure a ſtruggimento, e ſterminio delle noſtre vite
nuovi, e muovi ſtrumenti di mora te ; e gl'ingegniumani s'aſſottiglino,e
s'affannino , e ſudina a gara per imprédere un'eſercizio così in fauſtojcosì
crudele, che nemeno a'ſuoimedeſimi artefici ſuol perdonare, che im appreſsãdoſi
ſolamëte a'fornelli no debban ſovente correr manifeſto pericolo delle perſone.
Così morifli ancor gio vane il Tedeſco Teofraſto , non già da’maligni
Galieniſtip invidia atroflicato , ficomecomunemente per tutto allor
buccinavaſi,ma al parer dell'Elmonte ,buo giudice in sì fata te coſe
,da’medeſimi minerali ; che continuamente e' manego giava ; dal cui nocevole ,
e peſtilezioſo fummo l'Elmon te medeſimo confeſla ſe eſſere ſtato più fiate in
grandiſſimi riſchj della vita condotto . Così anche a ' tempi noftrive duto
abbiamo quel cattivello nella ſtrada delle Campane dagli ſpiriti del nitro , e
del vitriolo , e da altri minerali do po continuo tremore , ch'e' n'apprefe , e
dopo lunghe , e gravi malattie miſerabilmente alla fine morirſi . Orqual danno
dovrà egli intervenirne a colui , che quaſi cibi inno centivolentier gliſi
tracanna , fe cotanto nocevole , e dan noſo è l'avergli ſolamente davanti
Ripone tra' ſuoi egregi vanti la Chimica di ſapere oltremodo i medicamenti
delle parti inutili , e nocevoli ſpogliare , e di rendergli benigni aſſai, ed
efficaci ; ma per tacere , che alcuni di quelli ( e'l confeflano comechè mal
volétieri i loro artefici medeſimi) deboli , e ſpotſati, e di niun momento dal
ſuo maneggiar diventano , parecchi , e parecchj ( coſa la quale certamé te è
peggio aſſai , e dura oltremodo a ſofferire ) di mezza Haméte nocevoli, che in
prima erano , o pur tali ſi dimoſtra vano , rendegli la chimica col preparargli
non altrimenti , che imedeſimipiù fieri toſſichi, crudeliffimi, e micidiali .
Dica pur queſta nobiliflima Città : quanti, e quanti nel 1 Xxx ten 530
Ragionamento Settimo tempo della paſſata peſtilenza con dolori acerbiffimi di
vi. ſcere n'aveſſe fatti morire quel velenofiffimo ariento vivo precipitato ,
ch'angelica polvere allora chiamavano , pro poſto allordal Protomedico di
que'tépi a comun ſalvamé. to degli ammalati,e co pubblico editto diyolgato
colle ſtá pe. E ragionevolmente per avventura dubitonne alcuno , ſe più huomini
allora per la potentisſima violenza di quet medicamento , o per la medeſima
peſtilenza mancaliero . Edo quanti, e quanti alla giornata veggonfi privi di vi
ta , o cagionevoli reſi della perſona per opera di chimici ri medj, de’quali la
maggior parte conſiſte in lavorare i mine sali;i quali dalla noſtra natura
affatto rimosſi ,altro mai, che dolori, noje , malattie , e morti recarnon
poſſono . Odafi per Dio ciò , che di coteſti Chimici , e della loro ſcuola di
dica ildoctisſimo Erafto , l'eloquentisſimo Cortino , il ſot tilisſimo Riolano
il padre , e la ſcuola famoſisſima tutta di Parigi. Odaſi come con
ſaldisſimeragioni nuovamente gli rintuzzi , e mandi giù l'acutisſimo
peripatetico filoſofo, e Galieniſta Ermanno Corringio ; e ſopratutto ſi
riguardi a ciò , che dalle genti pe’mal capitati infermicontro a'chi ci
medicamenti tutt'or querelando ſi dica , e le beſtemmie atroci, che per tutto
contro lor ſi ſcagliano . Deh sbandi ſcafi per Dio da queſta Città, sì nocevole
, c dannoſo me ftiere , e con rigoroſisſimi divieti ſi mandin fuora delle bota
teghe degli ſpeziali, e da tutt'altri luoghi le chimiche me dicine. Ne già mé
ſaggj nel vero , e avveduti eſfer dobbiam noi de'medici Melaneli, che il
dannevole uſo dell'Alcarot to vietarono ; e ſe ſono , e con ogniragione , da'
noſtri fta tuti proibiti gli uſi degli archibugetti e degli ſtili , e d'altre ſomiglianti
arme,come nocevoli algenere umano , quan. tunque tal volta a ſchermo dell'onore
, e della perſona pur buone fiano ; perchè non ſaran da yietar poi medicine sì
fie re , emaligne,che ſe mai pure di recar qualche giovamento fan ſembiante ,
allor più crudelmente inſidiar la vita fi fpe rimentano . Sono o Signori, sì
fatte querele , e rimproccj in grā par te per opera dc'malvagj Galieniſti
contro la Chimica, ei ſuoi DelSig.Lionardo di Capoa. 530 ſuoi medicamenti
fovente adoperari ; i quali gittando la polvere innanzi agli occhi della
balſa,minuta,e troppo cre dula gēte , fan loro a vedere che ichimici
medicamenti più ch’altri ammazzar fogliano , e che tutto il malc, che nel cu
rare altrui intervenir ſuole , da color ſolamente avvegnavi perchè la ſciocca
torma del popolo da for moſſa lamente volmente gli biaſima ; e con torti ,
evani giudizj ſovra i chimici, i misfatti de'Galieniſti medeſimi, o le violenze
del male empiamente riverla; E parla più di quel , che meno intende. Ed è egli
certamente cotal diſavventura a tutt'altri me. dici ancor comune d'eſſer
sépremai accagionati della mor te degl'infermi : non moritur æger fine infamia
medici: diſse Plinio e pural tépo dilui, o no v'era , o no avea púto che fır
nelle noſtre contrade, o in quelle de Greci,colla medicina la Chimica . Così
non giugnendo i medicamenti a rintúż zar la violenza del inale , ed eſſendone
diterminata alla per fine la meta della noſtra vita', è certamente da dire có
quel valent'huomo, che nella medicina tutt'altro avvenir ſoglia, che in
ciaſcun'altro meſtier ſi coſtumi; perocchè dove i mã. camenti degli Artefici
a'difetti dell'arte comunalméte s'im putano , ſolamente in medicina il
mancamento dell'arte aʼmedici cattivelli ſovente fi riverſa ; e fon talvolta
inde gnamente accagionatidi ciò , che per argomento umano imposſibile ad
operare . Perchè certamente intorno a ' misfatti de’medici da prudente huomo ,
e aſſennato non è da preſtare agevolmente fede a’rapportati masſimamente da
altri medici per malavoglienza , o per nimiſtà , ficome di ſopra baſtantemente
diviſato abbiamo con l'eſemplo d ' Aſclepiade; eſſendo pur troppo vero quel
detto di Curzio: iai diverſis rebus id folet fieri ,ut alius in alium culpam
refe rat . Ne già è mio intendimento , che di cocal quereia al cun de'noltri medici
al preſente fi punga , come a ſe pro piamente inveſtita ; perciocchè lo quì in
general ragionare intendo del cattivo coſtume d'alcuni medici ; cben ſo , che
così quì, comealtrove v'ha de'medici dabbene , c onorati affai, e di qualunque
gran loda dignisſimi : avregnachè Xxx 02 532 Ragionamento Settimo 1 1 1 1 1
talvolta pur alcun di loro daʼfalſi rapporti ingannato, NÓIL . già per altio ,
e permalayoglienza, maper troppa ſua dab benaggine vi falli . Pur male a
noſtr’huopo comincia tal volta leggeriſſimavoce , non ſo donde , o falſa , o
vera, ch' ella fiali , che roſto per tutto ſi buccina, c s'accreſce:intan to,
che agevoliſſimamente dalla bafla plebe , e dalle troppo credulaperſone vi ſi
preſta fede; i quali non che vogliano ſottilmente caminar comela biſogna
paſſata ſia , anzi tal volta ſenza ſaper come , o quando, c da chi cominciata
ſia , volentier la s'inghiottono : & fepè etiam quod falſo creditu eft ,
veri vicem obtinuit . Perchè poiveggiamo della mor te di taluno accagionarſene
medico , che non che viſitato giammai l'aveſſe ; anzi ne men chi colui foffe, o
dove ſi foſſe dimorato per avventura fapeva; pure comechè a sì fatta
diſavvetura ciaſcunmedico ſoggiaccia,nó però di meno ſo pra tutt'altripar
ch'a’miſerichimici maggiorméteella con traſti, quantunque certamente maggiori,
e più gravi dan ni da'volgari medicamenti alla giornata avvenir veggiamo, che
da’Chimici ; e pure quelli ſovente alla gravezza incon traftabile del male, non
alla dappocaggine del medico ac tribuir ſi fogliono: dove di queſtinel contrario,
laſciata dw parte qualunque altra cagione , folamente i chimici medi camenti
s'infamano ; maſtimamente per coloro , i quali nul la fappiendone , come di
nuove , e non conoſciute coſe ſo ſpettando, ſempre ne temono ; follemento mai
ſempre,e in tutte le faccéde vera ſtimado quella séréza di Cornelio Ta cito
:fuper omnibus negotiis melius,atq ;rectius olim provisü :et quæ cuvertuntur in
deterius mutari. Ed è pur da aggiugnere a ciò quell'altra cagione che per opera
de’malvagi, e invi dioſi Galieniſti s'accrefcon mai ſempre i timori della ſcioc
ca plebe , intanto che ne men poſſono ficuramente i chimi ci medicide' più
volgari, e comunali medicamenti talor fer virſi ; che pur diquelli il vulgo
ignorante teme ; dove d'al tra parte fe dalla greggia de creduti
Galieniſtichimiche medicine , comechè violenti, e pericoloſe loro fien porte '
, tantoſto alla cieca , e ſenza tema alcuna le fi tracannano , volendo
pertinacemente anzi che a'chimici,ne'loromedeſig 1 mi me DelSig. Lionardo di
Capoa 533 mi medicaméti, ſtarſene agli ſtrani, e talora ſciocchi Galie niſti,
cui ne men per nomequelli conoſciutiſono : non che ne ſapeſſer mai le qualità ,
e glieffetti , che ne'corpi umani quelli adoperar ſogliono . Non niego però ,
che tal malavventura ne' Chimici di non eſſer agevolmente creduti , eglino
medeſimi talvolta la ſi procaccino , quando o per ſoverchio dicompasſione , che
han de’miſeri ammalati, o per vaghezza di dover gưa rire gli abbandonati
da'Galieniſti , ambizioſi s'inframmer tono di medicare i diſperati, e voglion
quaſi dall'orlo del feretro trarre i morci.È la ſciocca géte n’aſpetta pur le
ſtra vaganze, quaſi foſſe propio de Chimicil'adoperare i mira coli; quando
forfe i Galieniſti non han faputo per poco co figlio la creſcente malattia
attutare , con dar loro al tempo iconvenevoli medicamenti; perciocchè
Principiisobſta : ferò medicina paratur, Quum malaper longas invaluere moras.
Anzi con avere i Galieniſti medicati talvolta a roveſcio , e alla cieca gli
ammalati , malignamente poi, ea gran tor to ne vien ripreſo,e cacciato il
Chimico ,e i fuoi rimedi bia fimati . E a tal fegno pure giugner veggiamo la
iniquitoſa malizia d'alcun medico , che di quel medeſimo infermo, cl egli
ſpacciato in prima , e già laſciato aveva , attribuiſce poi difpertoſamente
altruila morte, e i chimici medicamé te di colui empiamente n'accagiona. Così
non vergognof fi il Foreſto a ſcriver purc , che colgruogo di Marte un co
tal’Empirico ammazzato aveſſe un'ammalato tutto mar cio , e corrorto , e
com'egli medefimo narra , già moribon do , e fpirante. E piaceſſe pure a Iddio
,che non foſſe giūrå a tāto l'affocata malavogliéza di sì fatti ſquafimodei ,
che già reputādofia vergogna il falvaméto ,che allo infermo da loro ſpacciato
avvenir puore per cófiglio de'chimici, e già temédone gli avāzi,nó prédeſſero
alcuna briga di far pruo va delle loro bugie, con dar qualche ftorpio
a’riſtoramenti dello infermoze ſe pure in lor diſpetto neguariſce l'āmala to,nó
folaméte delmedico, che'l fanò, madi lui medeſimo capitali nimici rimangono;
ficome di quel Cote diffe quel motteggevol Satirico Italiano : Ha 534
Ragionamento Settimo Ha buon ز occhio , buon vifo ; buon parlare , Bella lingua
, buon / puto , e buon toffire ; Queſti fon ſegni , che non vuol morire;
Maimedici lo voglion 'ammazzare: Perchè non ci ſarebbe il loro onore , S'egli
ufciffe lor vivodalle mani , Avendo detto , egli è Spacciato , e more. Ma come
teftè ragionavamo con la lor ſoverchia pictà in voler curare infermidiniuna
ſperanza , danno agio i Chi mici a i ſoffiamenti degli invidiofi Galieniſti, e
cadono tal volta dal buo nomedivaléti medici. Ne certaméte p altro Ippocrate
vieta aʼmedicanti il dover por mano agli infermi difperati; e quell'altro
famoſo ſcrittore Arabo ne conſiglia a non doverci arriſchiare a prender cura di
malagevoli , sfidate malattie , ſe non vogliamo pure guadagnar titolo di
cattivi medici ; e anche avviſa Cello , prudentis hominis eft, eum , qui
fervari nonpoteſt , non attingere : nec fubire.fufpia cionem ejus, ut occifi,
quem forsipfius peremit . E a ciò an che riguardado Galieno parimente ne
conſiglia a dover la fciare alſolo predicimento cotali infermi, ſenza dar loro
niuna ſorte dimedicaméto , per no logorare indarno.i rime. dj,e fargli infam
uea torto preſſo il vulgo, õde poi ſi laſcian via, quando forſe ad altri ammalati
di minor riſchio giove voli ſono . E nella medeſiına guiſa Aleſſandro de
Benedet ti : prudentis medici, dice, ef ,inſanabiles, &defperatos mor bos
nun curare ;ne hominem occidiſſe , quifua forte interitu rus erat , exiſtimetur
. E che direm noi di que'chimici medicamenti , che talor de perſone ſi
lavorano, e ſi diſpenſano, che dichimica , ne dimedicina ne ſan boccata? Enel
vero eglitāto omai è cre ſciuto l'abuſo delfabbricare malamente , anzi
abborrare i rimedjchimici , cheda'Ciurmadori , e da Cerretani , edas viliflime
femminelle uſar pubblicamente ſi veggono , e ven dong a macco in ſu le panche,
e per le fiere abbondanteme te li ſpacciano , e ben ſovente fi comprano anche
dagli ſpe ziali , e da’medici per diſpenſargli poi a 'loro ammalati;šć zachè da
Galieniſti medeſimi calor s'imprendono , e teme ruri . 1 . DelSig. Lionardo di
Capoa. 535 rariaméte dagli ſciocchiffimi uccelloni yeggőli ordinare , e
lavorare alla cieca . Navem agere ignarusnavis timer: abrotanum ager Non
audet,nifi quididicit dare.Quodmedicorum eft Promittuntmedici;tractant fabrilia
fabri. E s'attendono purecoteſti medici di tromba marina de' noſtri tempi a
maneggiar biſogne di cotanta conſiderazio ne , e di cotanto riſchio :
certamente ſe ad infelice fine poi rieſcono , e veggonfiatcriſtar le caſe , e
le famiglie , non gli innocenti rimedi biaſimar ſe ne vogliono , ma color ſola
doperano ; non altrimenti , che ſe ſpada , o archibuſo daw furioſa mano moſſo
fia , non n'è lo ſtrumento da accagionas. re , ma la follia ſolamente dello ſcherano
. Ne ſan coſtoro quanto ſenno abbiſogni in medicare , e ſpezialmente con
argomenti chimici, a cuicertamente di maggiore avvedi mento e di più ſaldo
giudicio fa luogo; che le malamente s'adoperano , maſſimamente le purganti
medicine, ove il medico non abbia in dandole riguardo al tempo , lità del male
, all'età dello infermo, o alla natura di lui, o alla ſtagione dell'anno,
certamente colui mal ne capiterà : Temporibus medicina valet: data tempore
profunt, Et data non apto tempore vina nocent ; Quin etiam accendas vitia ,
irriseſque vetando, Temporibusfinon aggrediareſuis . E o quanti per Dio ſe
neſon veduti e fe ne veggono tut tavia correr pericolo, e morirne talvolta
anche col medica mento in corpo per traſeutaggine , e colpa de’ſoli medici
ignorāti,e ſciocchi? Quante volte per beſſaggine degli ſcé pj Galieniſti ſono
ſtate biaſimate le manne , le roſe , le caſ. fie , e anche l'aloé , di cui non
ſi trova al comun parere mę. dicamento più innocente , e benigno ? E ſe alcun
prende rebbe cura di guarire ammalato, ſe egli nel cominciar d'in terna
infiammagione, o nell'acerefciinento , e nel vigor di quella deſſegli
ſcioccamente a tracanar chimica purgagio ne , qual colpa poi ſarebbe egli
dell'arte , ſe coluimalamé te adoperandola l'ammalato n'uccideffc ? Certamente
niu . najper . alla qua : 536 Ragionamento Settimo 1 na ;perciocchè come
Ippocrate medeſimo , e Galieno di viſano, anche le lor purgative medicine
allora ſon peſtilen zioſe , e da non uſarſi ; perchè a' mali precipitoſi,e
ftraboc chevolmente imperverſiti non ha certamente la medicina più ſicuro
conſiglio, che il guadagnar tempo con iſchermi readagio , e tenere a bada la
foga del male , ſenza voler glili alla rincontra oſtinatamente opporre có
purgative me dicine, masſimamente gagliarde ; che alla zuffa,che in un medeſimo
tempo due si oſtinati,esì poffenti nimici dentro dall'ammalato farebbono,
certamente egli n'andrebbe cof peggio :neq ;ulla alia fpes,diffe
avveducillimaméte Cello , ir malis magnis eft ,quã utimpetum morbi trahendo
aliquis effum giat , porrigaturque in id tempus, quod curationi locum pre Stet
:così parlavano que'buoniantichi, che ne'ſalafli, e nel le purgative
medicineſolaméte credeano eſſer ripoſte le cu re de'più gravi malori; ma i
moderni da'chimici addottri nati bé fanno co'rimedj valevoli, e generoſi,ına
che non of fendono punto lo infermo, eche in ogni tempo ſicuriffima mente ſi
poſſono adoperare darvi compenſo , ſenza ſtarſe neſcioperati, e neghittofi ad
afpettare il ſoccorſo , che non è dalla natura forſe per venir giammai . Ma ciò
da parte laſciando noi pur troppo veduto abbiamo nelle febbriche delpaſſato
anno han malmenato , e quaſi abbattuto il Bor go Sant'Antonio ,e altri luoghi
vicini, effer così malaméte riuſcite le purgagioni, e altri ſomigliāti
rimedi;perchè a grā ventura recaronſi poique' poveri infermi , che non ebber
agio di comperarſi la morte a contanti ne'medicamenti,che uſavanſi; e ſtando
alla bada ſolamente della natura,così sé. za rimedj la lor vita ſerbaronſi . E
per cacer d'altri, il me deſimo anche eſſeravvenuto novellamente in Francia,
rac conta l'Autor della giunta all'oſſervazioni di Lazaro Ri yerj. - Éfe egli è
dannevole oltremodo , e di riſchio lo - Atuzzi cargli umori crudi , e non
debitamente maturati, certamé te il medico ne farebbe da biaſimare , non l'arte,
ſe contro i giuftiffimi divieti d'Ippocrate , e di Galieno s'inframmet . teſſe
di purgare ammalato , in cui fian crudi gli umori ſex 2 :2 en Del Sig.Lionardo
di Capoa . 537 za enfiamento alcuno : in morbis quoquenihil eft magis peri
culofum , quam immatura medicina,comechè non medican-. te , avviso Seneca ;
perchè ſeguendo i ſentimenti de' ſuoi maeſtri avvedutiſſimaméte in queſto capo
Aleſſandro Maf ſaria, danna, e sbandiſcenelle febbril'uſo dell'Antimonio, come
nocevole oltremodo agli ammalati: e allora, egli di ce maggiormente farſi a
conoſcere il danno , che dalle purgagioni, oltre al convencvol tempodate ne
fiegue,qua do più gravoſo , e di maggior riſchio fiè il male ; concior
fiecofachè nelle lievi malattie , che molto non piggiorano dal ſuo naturale
ſtato l'inferino , poco nocimento ricever, certo egli ne foglia ; perciocchè o
ſe n'allunga il male,ficc me Ippocrate,e Galieno diviſano, o pursì poco
cagionevol della perſona coluinerimane , che nulla il medico quan tunque
accorto , ed eſercitato Gali , comprender mai ne puote . A torto anche vien
biaſimata la Chimica d'adoperar fo laniente i minerali; e ben detto è a
baſtanza contro la ſci munitaggine di alcuni,quanto ricca, e abbondevole di ine
dicamenti ella ſia; c nel vero, ne l’Ericina ebbe mai,o l'Ar denna , o s'altra
al mondo è più vaſta , e più folta ſelva,tã ti alberi , tante belve , quanto
ricca, e abbondante è la chi. mica di cofe a’luoi medicaméti accóce;e prédöli a
loro uſo, non ſolamente i minerali dalla terra ,madagli animali anco ra , e
dalle piante abbondantemente i rimedi ſi formano ; perchè troppo ſcarſa , e
mendica pur ſarebbe da dire la rapportata ſomiglianza ; perciocchè quanto
cuopre il Cies : lo , abbraccia l'aerc , nutrica la terra , e'lmarchiude, tutto
alla Chimica giuridizion ſoggiace : e'l meno di che ella s'inframmette ſono i
minerali; concioſliecofachè non abbia ſolamente in fua balia i falnitriji
ſalicomunisi vitrioli, i fer ri , i rami, e gli argenti , c gli ori , e le
gemme, comcchè di queſt'ultime coſe ſolamente i perfettiſſini Chimici, o icat
tivi , non già i inczzani ſervir li fogliano;ma e radici anco ra , c tronchi, e
frondi , e ſughi di cento , e mille infra lo ro diverſiffime piante , e anche
tutte parti ſalde , e diſcor renti di tanti , e sì varj animali,di cui la Chimica
i ſuoi me Yyy dica 538 RagionamentoSettimo dicamenti in sìvarie , e tante guife
ordina , e lavora. : Ne perchè la chimica medicina ne' minerali talora s'a
doperi ,e s'affarichi, è per huom da tacciarne : anzi fom mamente da efferne
commendata lo la giudico; concioffie coſachè non ſono i minerali altrimenti ,
comealcun di loro follemente ſognoſli , veleni, e toſſichi:anzi non poco in
vero molti e molti diesſi all'umangenere giovano,e approdano; e ciò a tutti
buoni ſcrittori aſſai manifeſto egli fi è , anche antichi , che liberamente , e
fenza niun ſoſpettomettevan gli in opera , e così fchietti , comecon altre coſe
meſcolati l'uſavano ; il che ſenza troppa fatica durare agevolmente moſtrar
potrei : maſſimamente, cheper tutti manifeftamé te ſi ſa quanto Ippocrate della
ſquama del rame fovente fi ſerviſle ; e Dioſcoride no conſiglia , e conforta a
dar per bocca liberamente il vitriolo: e ne'tempi antichi anche s'a doperava il
mercurio : e ancora a' dì noftri nella colica , e ne'vermi , e in altri ſimiglianti
mali ordinaſi da tutti medi ci, anche a'fanciulli del lactime, ſenza ſofpetto
dinocimé to alcuno ;e ſe fra’minerali v'han di que' , che velenofi fo no , ve
n'haparimente di queſti, ed in maggior copia fra' vegetabili . Maſe egli avvien
mai pure , che alquanti deʼnedicame ei de'Chimici,compoſti divengano fpoffati,
e debili , egli ciò non dee a colpa della chimica aſcriverſi:ma de’poco av
veduti artefici , e de’medici, i quali intendenti non ſono delle chimiche
preparazioni, e ravviſar non ſanno quai mea dicamenti ſenza alcun preparamento
fiano da porre in ope ra , e quali gli richicggano . E ſe divantaggio i Chimici
da'vclenofi, emicidiali ſemplici ſoglion trarre ſalucevoliſ fimi antidoti , ciò
loro a fomma gloria dee riputarſi, che ciaſcun di loro fuor d'ogn’uſo Pieghi
natura ad opre altere , e frane. E ſe'l precipitato , e'l ſolimato , che
potentiſſimi veleni ſono , cavanfi dalmercurio , e da altri minerali, non ne
ſon però quelli da biaſimare , ne i chimici medeſimi , che gli compongono ;
concioffiecofachè anche l'oppio , e altres molte comunali medicine , avvegnachè
rieſcan poi vele nofc Del Sig.Lionardo di Capoa 539 noſeall'opera, pur da
ſemplici non mica velenoſi compon ganſi, ne perciò tanto quanto ilor
fabbricatori ſe n'acca gionino : e ne balti ſolo al preſente fapere , che ciò
non , lia ſpezial biaſimo della Chimica ; e ſe da quella i pre cipitati, ci
ſolimati fabbricaronſi al mondo , no fu già ,per chè s'aveſſer quelli ad operar
mai ad uſo alcuno dimedici na , ma per altre, e altre biſogne; ne perſona ſe
non priva affatto d'intendimento per dover medicar giammai gli la vorò ;perchè
ſe quel temerario Bacalare aveſſe púto in chi mica ſtudiato, non avrebbe egli
giammai ardito ad impor re agli infermi per coſa delmondo il precipitato , il
qual da tucci buoni ſcrittori vien daʼmedicaméti sbadito, come ma nifeftiſfimo
veleno;e ſpezialmére dal Quercctauo,có queſte parole:precipitatú in aqua furti
à nobis omninò improbatar: 0 có quell'altre,ch'e' ſoggiugne:hæc, & fimilia
effe Empiricorii fecreta , quæbuccinatorum inftar pro maximismyfteriis pro
mulgant. Ne perchè i minerali lian da noſtra natura citra : nci , e rimoſi,
dovrà ciò darne punto di briga; e ſe pur co tal ragione aveſſe luogo ,
dovrebbervi eſſer a parte anche i Galiçniſti in rintuzzarla, i quali non men
deChimicime defimila pietra lazula ,e l'oro , el’ematite , ci giacimi , e'l
bolarmcnico, e le pietre giudaichc, c altre, e altre ſomiglia. ti medicine
lovente adoperano . Ma lo per non darmene troppa briga ſervisõini al preſente
di quelle parole del Tā .chio là dove d'un cotal balordo , che con ſimiglianti
fanfa luche ftuzzicavalo così cgli al ſuo Oiſtio ſcrive : oppugnant, dice
egli,medicamenta ex metallis parata , ideo quia non iis alamurfed ; nec cornu
cervi nos alit,neque uniones, aliaque pleraque . Quænos alunt impura ſuntimnia
, do quefacilē mutationem ſuſcipiunt ,fed quotidie agunt in balſamum na turæ ,
cum corrumpendo in fenium ; labefactatis viribus noftri corporis facile
illareficiuntur vegetabilibus ; fed fixio illa in fixa; mineralia figuntſpiritus
, purificant , & exaltant. E prima di lui Avdrea de'Mattioli , così del
biſogno de’mi nerali ne ſcriſſe : ibi tum alibi , tã in chronicis morbis eſt
ani: madvertendum , ubi tota malafanguinea in univerſo vena rum ambitu corrupta
eft , & referta multorum morborum fe Yуу 2 mina 540 Ragionamento Settimo
minariis , tunc ii inquam morbi citra metallica devinci vix pollunt; avvegnachè
egli poi faggiamente ne configli a non dovere i Chimici medicamenti adoperare
colui che di chi mica pienamente non ſi conoſca ; il che noi baſtantemente
altrove dicemmo . At qui, dice egli , ejufmodi morbos ci tra ſcientiam res
metallicas tractandi aggrediuntur , ii ple rumque re infecta cummagno dedecore
, & fui, &artis me dicine defiftunt. Ma ſopratutto baſti recar qui le
parole di GiacomoPrimeroſio Galieniſta di primo grido: Cauffa eft, egli
dice,cur plurimi Chymica hec reformidēt;quia creduntur ſcilicet sti metallicis
. Et fanè certum eft plurimos Nebulones, qui hoc pallio technas ſuastegunt ,
metallicis fæpè , &malè præparatis , & malèadhibitis uti ; verum ut
jamfupra dixi mus , eadem eft materia , & fubjeétum uperationis Pharma
copæi utriuſque tàm Chimici , quàm vulgaris ; neque minus vegetabilibus utitur
Chymicus, quàm qui dicitur Galenicusze non guari appreffo foggiugne . Nonne
maximè probanda eft ars illa , qua fi quandoiis utitur, variè, &eleganter
pre parata ,non integra exhibet ? Ne meno è da dire, che perchè i foro fummi
ſian peſtile zioſi, e nocevoli liano anch'eglino tali i minerali; percioc chè
apertiffimamente veggiamo ſenza punto di danno il falnitro, e'l vitriolo ,
elfal comune alla giornata ufarli , e'l fal comune maſſimamente in tutte
vivande da ciaſcun porſi; i cui fumıni certamente , come que d'altri,e d'altri
minerali, nocevolilfinni fono . Pure non è coſa cotanto utile , e gio vevole al
genere umano , che nonnepoiſa talvolta anches nuoceren Nilprodeft, quod non
læderepoffit idem . Igne quid utilius ? fi quis tamen urere tecta Cæperit ,
audaces inftruit igne manus. Eripit interdum , modo dat medicina falutem . Le
ragioni poi, e le teſtimonianze dell'Eraſto , del Riola no, e d'altri sì fatti
Galieniſti han canto dello ſceno ,che da lor medeſime a baſtanza ſi rifiutano ;
e comechè per mani feſta, coftinata malavoglienza fianfi queſti ftudiati dimor
der la Chimica , e ſozzainente lacerarla , e quaſi metterla 1 in fon Del Sig
.Lionardodi Capoa 541 1 in fondo ; pure non han potuto far sì , che ſtretti
talvolta dalla propia coſciēza, o dalle nimiche ragioni abbattutis no
l'abbianomanifeſtamente approvata. Così l’Eraſto medelia mo, che moſtroffi più
ch'altro Galieniſta acerbo, e fiero ni mico della chimica, purnel proemio di
quell'operc,ch'eico tro il Paracelſo fcriffe,nó potè no commendarla ;e la
ſcuola tutta di Parigi pur la permette,e l'adopera,ficome raccota il Riolano;
il qual comechè nimico a ſpada tratta le fi dimo ſtraſſe, pur delle chimiche
medicine,comeãcorfece l'Eraſto , ſerviſſzavvegnachè talora p loro
ſcimunitaggine ad infeli cc fine gli uſciſſero . Ma côtro a’piacitori, e
a'maladicéti Ga lieniſti adoperarono gloriofaméte le péne a ſchermo della
chimica nelle loro dottisſime Apologie il regio Protomedi co Torqueto , e
l'Arueto , e'l Baucinero celebri e famoſiſſimi maeſtri in medicina: e oltre ad
infiniti altri il famoſo , e ben parlante Libavio nella ſua Alchiinia
trionfante ,di cuicon ) aringa di lode diſſe il Caſtelli: Alchimie dignitatem
adeo re Kituit Libavius contra fcholă Parifiensë ,ut nihil amplius addi polje
videatur ; ma ſopra tutti imalzi, e difende la chimica il ſottiliſſimo
Borricchio , non men celebre , che dotto let tor di quella , nella famoſa reale
Accademia d’Afnia; il qual sì fattamente rimbeccale ciance del Corringio , che
nulla più . Ma quanto poco ſenno aveſſer facto i medici meſaneſi in proibendo
l'uſo dell'Alcarotto, apertamente ſi vede dalla poca ſtima in cui vennetenuto
il loro divieto ; poichè non men ,che prima in Melano, e altrove le genti tutte
l'adope rarono ; e oltre alla gloria molte ricchezze guadagnoſſi Vittorio
Algoreto per sì fatto medicamento, il quale altro * non è , che il mercurio di
vita;comechè p naſcõder sì caro fegreto il nieghino gli eredi del medeſimo
Algoreti; e forte mi maraviglio , che alQuercetano , sì bene ſcorto nelle
chimiche operazioni, e che tutto dì l'avea fra le mani, non veniſſe fatto ciò
ravviſare . Ed è egli pregiato l’Alca . rotto , eziandio daʼmedici volgari , e
Galieniſti, e per buo na , e giovevol medicina per tutto ſtimato ; ma pur ſi
vuos le 112 342 Ragionamento Settimo le in ufarlo aver riguardo a' tempi,alla
quantità,e agli ama · malati ; ne fi dee prendere ſenza conſiglio di medici
faggi in chimica , e conoſciuti affai; perciocchè ſe da perſone
dappocomallavorato folle , o foſſe pur ſenza riguardo at cuno preſo ,
certamente nuocer potrebbe , e a riſchio della perſona talvolta ancorcondurre;
ſicome non ha guari, ava venne a un Barone d'alto affare , il qual per
conſiglio d'un corale ſciocco,e temerario Galienifta avendone trangugis to
ſoverchiamente , con acerbiffimi dolori, feno'l receva di preſente , certamente
nemoriva . Ma di ciò ſenza dubbio , non n'è dabiaſimare il medicamento, ma la
follia più coſto del medico , cheoltre al dover l'iinpone; e più quella dell'
ammalato, che alla cieca , e ſenza riguardo alcuno ſe'l tra caima . E ben
ſarebbe il migliore, ſe laſciando da parte i volgariGalicniſti sì fatti
medicamenti,non s'inframmettel ſero púto di ciò, che non ſanno ; e come cantò
colui Velperfectèartem diſcant , vel non medeantur; Namfialiæ peccant artes
,tolerabile ceriè eft: Hæc vero nifi fit perfecta , eft plenapericli , Et
fævit,tanquam occulta , aique domeſtica peſtis. Ma noi luiluppati dasì fatte
conteſe, trapaſſereino intanto a far qualche parola dell'antimonio, come di
quello , ch'al noftro parlamento diede in prima cagione, L'ancimonio , che da
alcunicertamente non fuor d'ogni ragione chiamato viene colonna, e baſe della
medicina,egli sébra nel vero una corale ſtrana ; e nuova ſorte di minerale di
variege fra loro diverſe parti copoſta, e si lazza,e acerba , che
ragionevolmére alle poma anzi che mature fiano è raf ſomigliata;imperciocchè
tra per la troppo meſcolanza , che in ſe ritiene, e per l'inegual proporzione
delle parti,che'l co pongono , non eſſendo potuto alla debita maturità , e per
fezion di inccallo pervenire , così trameltato, e inal com poſto ſe ne giace .
La ſua ſtrana natura ', c le ſuc maravi gliole qualità malagevolmenteravviſar
ſi poſſono, non che per huom narrare; concioliecofachè quaſi Proteo de'minc
rali in facendoſi dilui notomia , in tante , e sì fatte guiſc fi ſcambi, e
traſmutische inviluppativi i più famoſi maeſtri della 1 Del Sig.Lionardodi
Capos. 543, ikclla chimica, dopo molci, e diverfi argomenti , e ſperien ze ,
ſtupidi alla per fine, e d'ogni loro avviſo ricreduti ſi ri mangono . Ma
perquanto col noſtro intendimento com prender ne poſſiano , due forri di zolfo
par che abbia nellº Antimonio : l’una fiffa , e pura oltremodo, in cui le
ţinture tutte,e i ſemi de'metalli e ſpezialmente dell'oro ſi rinvégo ao: pchè
daalcuni degli ſpagirici filaſofati,matrice de'me talli vié chiamato
l'Antimonio; l'altra fiè di zolfo dalla sé biáza del comun zolfo poco o nulla
diverſa ; perciocchè no filla , mainquieta y e volante, e oltremodo vaga ella
è;per chè potentiſſimage:ſoperchievole nelleſue operazioni viene da ciaſcun
giudicara. Havvioltre a ciò un cal mercurio me, tallico indigcfto , il qual
corto più , che ſe mercurio vivo non foſſe , della natura del piombo alquanto
ritiene ;e as queſta parte , che certamente è la maggiore nell'ancimonio ,
alori la violenza attribuiſcono , e'l poter , ch'egli ha nell'o perare ; anche
havvi alcune parti arſenicali, in cui ſecondo. chè altri ne dicano, il ſuo
veleno veramente ſi ſerba; c per fine havvi nell'Antimonio una cotal ſoſtanza
groffase terre ftra , la qual della ſua matrice ſommamente participando , con
quella inſieme,e con ſue particelle congiugoc,emelco la le parti arſenicali, e
quelle del primo zolfo, c delmercu rio indigeſto, e del ſale ancora di natura
vitriolato , che pur ven’ha : a cuila malvagità tutta , e'l veleno altri
aſſegnò , che tanto all'uſo , e all'operazione ſconcio lo rende. Ma l'Antimonio
crudo non inuove punto vomito , ne tanco , o quanto a colui , che'l prenda
offender ſuole ; perchè ne Galieno medeſimo , ne Dioſcoride , ne altri buoni
Autori de'ſecoli addietro l'allogară mai infra’veleni, o nel catalogo delle
vomitive medicine l'ānoverarono anzi Diofcoride medeſimo ne conſiglia , e
conforta a toglier via la poſſanza vomitiva dell'Elacerio , con meſcolarvi
deutro dell’Antimonio ,e così temperandolo ammendarlo; percioc chè ſenza dubbio
ha l'Elarerio più del veleno , che del me dicamento , ſe violento , e
rigoglioſo il ſenciamo , che se vorrai purgare , ſono le parole di Dioſcoride,
ove egli nar ra dell'Elaterio , meſcolavi altrettanto di ſale ed'Antimonio, 444
- 544 Ragionamento Settimo 1 quanto farà meſtieri ,laſciandoall'altrui
diſcrezione il divri Jarne la doſe : seisn &è mois diam vooõoty aj di autoữ
xabagors . ei pea ούν θέλεις κα το κοιλίαν καθαίρειν , διπλάσιον αλών, μίξας ,
και είμ plaws over gewoon e Il che eglicertamentefatto non avrebbe, s'aveſſe
mai , comechè leggiermente , ſoſpettato, non forte velenoſo , enocevole
l'antimonio . Nicolò Mirelio poi , it qual con accuratezza non ordinaria
accolſe inſieme le ri cette più nobili de’medicamenti, ch'adoperaſſer mai ne’té
pi antichi ipiù famoſi medici Greci, annovera l'antimonio infra iſemplici
dell’Antidoto ,ch'egli del Gengiovo chiana. E Baſilio Valentini narra , ch'a'
ſuoi tempi dell’antimonio ingraſſavanſi i porci : e nell’Efemeridi, o
giornalieri dell'In ghilterra abbiamo , che tutto dì oggi i porci, le vacche,
ci cavalli ſe n'ingraſſano,al peſo d'unadráma,e anche di mez za oncia per volta
prendendone ; e in molte contrade del noſtro Regno coſtumaſ a prender
l’Antimonio dalle donne gravide in quantità d'unanocciuola , ſenza danno, o
noci mento niuno , e'l chiamano volgarmente allegra cuo ré ; e nella inedeſima
noſtra Città in molte malattie uſali a ber l'acqua dell'antimonio con
grandiſſimno gio vamento degli ammalati; e nella Francia , e anche altrove,
l'Antimonio crudo , ſicome per M. de la Febure di ciò pie namente inteſo ſi
racconta , fe donne tout les jours tout crud par la bouche fansaucun accident ,
emeſmes aux enfans à la mammelle: e que de plus on le met boüillir juſques au
poids d'une demie livre dans les decoctions contre la verolle , &qu'on le met
de meſmes en infufion à froid dans de l'eau pour ouvrir le ventre gepour ofter
les obſtructions des viſce 1 5 Ma ſciolte da quegli intoppi , c da'legami ,
chea freno, e a bada la lor violenza tenevano le nocevoli particelle
dell'antimonio , o ſaligne , o ſulfuree, o mercuriali, o arſe nicali , ch'elle
ſieno (perciocchè grandisſime quiſtioni , ei contefe intorno a ciò
infra'Chimici filoſofanti tutt'or vifo no ) non ſi può di leggier credere
quantenoje , e ſconcisſi mi danni quelle recar ſogliano ,con fondere, e
diſtruggere, e liquefar non ſolamente le parti umide, ma le falde anco ra del
DelSig.Lionardo di Capoa. 545 ra del corpo umano'; riſvegliando anche
vomitiimpetuofif fimi, e purgando per baffo ,finattanto ,che colvigor talvol ta
lo ſpirito , e la vita miſeramente ne manchi. Ma tacer non fi dee, che
ritrovali talora in qualche miniera , Anti monio , cheſenza niuna preparazione
voiniti, e fluffi ſoglia cagionare ; ſenzáchè'talora nello ſtomaco di colui ,
che'l prende , può eſſer coſa , che ſciolga da’legami lalparte ve Jenofa,
perchè l'antimonio d'ogni miniera , parimente può ciò fare ; e quel'è la
cagione , che ſpinge alcuni autori a fa vellar così variamente della facoltà
dell'antimonio crudo : Ma che che ſia di ciò , ſe per opera , e argomento d'avve
dutiffimo maeſtro reprimuto alquanto, e rintuzzato il loc nocevoliſſimo veleno
neſia , certamente allora valevole e Pantimonio a vincere, e ſgomberare ogni
peſtilenzioſo ma lore , ove a tempo , e acconciamente , e con riguardo per huom
ſi dea ; concioffiecofachè non ſolamente egli ne pur ghi , cvuoti dentro , ma
ſovente ancora diſſolva , e miglio ri , e ſgomberi ciò che nel corpo di maligno
, e cattivo così nelle falde , come nelle diſcorrenti parti peravventura
ritrova; il che certamente a niuna altra forte di medicamé to , o purganre , o
vomitivo , ch'egli fia agevolmente ſi co cede. Nec conftat , dice il Zuelfero,
ex vegetabilibus unicũ emeticum , grad nainore cum periculoexhiberi pifit ,
quàm aniimonium dextere , ac debitè præparatum ; nunquam enim tormina ventris ,
convulhones , hypercatharſin , fluxumque nimium colliquativumcauffabit , etiam
fi frigida ſuperbiba tur . E egli però quelta malagevoliſſima impreſa ,e
difficil molto , p mio avviſo , anzi impoſſibile affatto ad artificio umano ;
perciocchè la parte velenoſa nell’Antimonio ſi è quella , che muovelo ſtomaco a
recere, e ſcioglie il ventre: la qual certamente quantunque volte vi rimane,
non ſi può in modo alcuno accutare , che a qualche perſona alla fine,o in
qualche tempo non abbia gravemente a nuocere . Nej per altroʻi Chimici autori
ora in biaſimo, or in lode de'varj apparecchiamenti dell'antimonio purgante , o
vomitivo fa vellar ſempre ſogliono, ſe non fe per lo grare , e ftraboc chevol
riſchio, che agevolmente vi ſi corre . E quel ſapie Z zz tilfimo 544
Ragionamento Settimo tiſſimo nuomo nella Chimicafiloſofia, e nella medicina pas
rimente ſublime, e ſingolare Giovan Battiſta Elinonte ſolea dire: Antimonium
,quandiu vomitum , aut fedes movet , mercurius revivificaripoteft , venena
funt: non boni virirea media . Soglioſi dell'antimonio ſublimare i fiori;e ſi
fôde egli an che in vetro , e in regolo ; e'l mercurio di vita , e'l gruogo
ancor ſe ne forma : purganti inſieme , e vomitive me dicine . E per cominciar
dal vetro , il qual comechè in viſta di nulla ſi paja dall'ordinario vetro
differente ; pure comunicar ſuole minutiſſime , e però inſenſibili , e cieche
particelle velenoſe al vino, o ad altro ſomigliante liquore , in cui per
qualche ſpazio di tempo ſia dimorato . Egli è il vetro dell'Antimonio
commendato aſſai da quel nobiliffi mo Vicerè dell'Olſazia Enrico Ranzovio ,
Strolago infie me , e medico famofiflimo, e Guerriero, e Poeta ; e dalGeri neri
ſomigliantemente , e dall'Andernachi, e dal Langio , e dal Mattioli è
ſommamente lodato . Ma Pietro Severini d'altra parte grandiſſimo maeſtro in
Chimica , e in medici na , forte il biaſima , e danna ; dicendo , che
avvegnachè in quello cotanto fuoco trapaſfato ſia , non ſe n'è però il buon
giamai dalcattivo potuto ſeparare.E de'ſuoi ſentimenti an cora ſi fan feguaci
altri , ed altri famoſi medici , e chimici con apportarne molti eſempli
d'infelicisſimi avvenimenti . Vitrum antimonii , dice Giuſeppe Quercetani , quo
bodie multi imperiti maximo cum damuo utuntur , perniciofum eft medicamentum ;
quod ſwoarſenicali fpiritu facultatem irri tandoexpultricem , perſuperiora ,
einferiora magna cum perturbatione ducat , evacuetque; quod ego probare nullo
mom do poffum . Dal che moſſo Duncano Borrero anch'egli ri fiutandolo , affatto
dalla medicina il bandiſce , dicendo : Vitrum hic antimonii fciens omitto ,
tanquam pernicioſum medicamentum ; e'l dortisſimo medico , e Chimico Teodo ro
Cherchringio parimente del vetro dell'antimonio dice , che comechè alcun
guarito pur ne ſia , non eft tanti ifta for . tuita quorundam fanitas, ut
propterea , vel unius hominis vita exponendafit periculo . Vidienim quum ager
tantùm femiun . DelSig.Lionardo diCapoa. $47 Jemiunciam fumpfiſjes infafionis ,
eum poft ingenies vomitus, & fupercatharticasvacuationes ,fubito efflare
animă. Ata binc ille lachryma , hinc clamoresifti contra Chymicos inſur gunt ;
tanquamfiarti imputanda effet aliquorum Pſeudochya micorum impia temeritas,
quorum nihil refert quotfuneribus impleant domos ; modo unus; alterve
fanatuseorum ebuccines fama, &illi audiant magni Doctorės , emungantque
rufticis pecuniam . Ma avvegnachè egli medeſimo una cotaltem pera , ecorrezione
del vetro dell'antimonio rapporti, la qualdice egliefſer ſicurisſima, e séza
riſchio alcuno in ado perarlı ; purecomeegli biaſima ſommamente', e riprova
quella ; che dal Ranzovio , e dal Mattioli , e da altri uſa vali, così verrà un
tempo chi da qualche finiftro avve nimento moffo , dannerà , e riproverà anche
la ſua . Mi Ιο quanto a me intorno a' vetri dell'antimonio non fa prei
certamente che dirmene ; non avédo mai fatta pruo. va di quell'avvertimento del
Rolfincio , ove c'dice : quane do coctio inſtituitur , favellando del vetro
dell'antimonio col vino bollico , fupernatan'scuticula arſenicalis aufertur
;" E foglion certamente sì fatti veli naſcer da'ſali, comenel bollir del
ranno manifeftainente oiſervali; perchè ſomiglia temente potrebbe dall’Alcali
ingenerarſi il velo nel vetro dell'antimonio , e non dall'arſenico , ficome il
Rolfincios avviſa . Ma che che di ciò ſia , in biſogna dicotanta confi
derazione , lo conſiglierei i lavoranti ad eſſer anzi ſover chianente
ſcrupololi, che no , e a ſeguire il conſiglio del Rolfincio , e a dubitare non
forſe così foſſe , come cgli dices - Defiori dell'antimonio dal Zappata , e da
altri cotanto commendati ,così il teſtèmentovato Quercetano favella : Antimonii
vitrum idem ferociterpræfat ,quod ejus flos;idq; obe Spiritum quendam album ,
& arſenicalem ipfi infitum quě nec à floribusego exulare exiſtimem ; quippe
quos adeo afro citer corpus concutere , ac devexare foleant tìm vomitu, tùm
dejectionibus , ut res non caréat periculo. E con lui anche ac cordãdofi
Baſilio Valentini,dice pariinente i fiori dell'anti monio effer nacevolisſimi,
e velenoſi . Z z z M2 Ragionamento Settimo Mai Regolo anche dagli antichimedici
imperocchè coa hoſciuto, ne fáno ſpezialmézione Dioſcoride,e Plinio (av ,
vegnachè vi fallaſſero no poco in giudicar, che quello altro non foſſe, che
Antimonio in piombo cambiato ) è da’buoni Chimici avviſato per medicaméto
violentisſimo ancora,ed oltremodo di riſchio . E ciò anche a' Galieniſti
medeſimi fu purtroppo conoſciuto ; infra’quali il Priineroſio ,così dan nandolo
nefavella ; omnem retinet antimonii malignitatem , qua antea fub terreo
excremento sopita latebat : edindi ap preſſo : fed quum omnes pravas, e
horrendas antimonii vi res adhuc posfideat , poculum indè confeftum
perniciofiffi mum effe neceffe eft ; ideo puriores Chymici hoc ab ufæ me dico
amninò ablegarunt. Ed un della ſcuola di Lazaro Ri verj parlando del Regolo ,
così per ſentiméto del fuo mae ftro ne ragiona : Calix chymicus toties in
obſervationibus no Bris nominatus , communiterque adeo omnibus confectus non
eft , ut nonnulli arbitrabantur, & arbitrantur ex regulo An timonii
vulgaris . Exregulo quidem eft :fed tertii gradus , qui longè differt àvulgari
; quamvis etiam multi boc utan zur non finepericulo bibentium . Ma il gruogo de
metalli, col cui uſo cotanto avantaggiar fi potèl'imperial medico Martin
Rollando, e in tanto ono re , e ricchezze formontare, è così chiamato dal Querceta
no , perchè ſecondochè egli ne dica , dell'antimonio tutti metalli s'ingenerano
, e fpezialmente l'oro , l'argento , e'l piombo: egli è comunalmente da’buoni
ſcrittori il mens violento , e men pericoloſo infra le vomitive medicine an
rimoniali giudicato.Ma perocchè l'Alcali del nitro nőben ? anche tutta la parte
velenofa dell'antimonio ha tolta e pur gata, o p me dirc legata :la qual
certaméteè quella cheare . cer muove , ben li può di eſſo dire , che comechè
per ope ra d'eccellente , e ſperimentata mano nel meſtier della chi mica
temperato fi foffe , pure pofftan dire che L'ira s'intiepidi , ma non s'eftinfo
perchè ſoſpettar fempre dee l'accorto , e prudentemedia co , non ne
ll'adoperarfi ,alcun ſiniſtro avvenimento ne ſe gua ; perci occhè pure , comechè
di rado fortir ne fogliono , Ed 1 Del Sig.Lionardo di Capoa 649 Ed havvi
un'altra malagevolezza nel gruogo , imposſibil quafi a ſuperare ; perocchè
quantunque con la medeſimas proporzione del nitro , e dell'antiinonio diſpoſto
fia , c quá ¢unque con tutte le medeſime circonſtanze lavorato į pure, talvolta
più ;o men vigoroſo ſortir ſuole , e sì da ſe mede fimo differente , che in
dubbio ſempre, e in timore delle ſue ſtrane qualità ne tiene, ne per accorto ,
e ſperimentato che l'Artefice fia , potrà maicome , o perchè ciò avvegna
baſtantemente comprendere; ſenzachè cotalimedicamen ti recar fogliono talora
uſcite copioſisſimedi ſangue, o la egli , perchè fi rompa qualche apoſtema
dentro dall'huo mo,e con quello alcun vaſo grande ancora’del corpo : o che tra
per la violenza del vomito , e quella del medicamento alcun altro ſe n'apra , e
ſi roinpano, e ſquarcino l'interiora: oche partendofi dalle viſcere , e
dibucciandofi la mucilag gine , la quale infra gli altri ſuoi ufi, a guiſa di
veſte copré dole , difenderale dagli oltraggj de’ſali acuti , e pugnerec cj, o
d'altre ſoſtanze, quelle ignude,e ſcoperte rimanendo, dal medicamento
s'offendano : e rodanſi anche dalla me deſima violenza del medicaméto gli orli
de’vaſi delſangue; i quali aperti, eſquarciati, comechè picciolisſimi , pure
così numeroſi quivi ſono che ſgorgar oc può in ranta copia il fangue, quanto
n'uſcirebbe per avventura dal rompime to di qualche vaſo ben grande . E comechè
di ciò n'abbia parecchi eſempli; masſimamente nella noſtra Città ; purs baſterammi
al presēte rapportarquì una ofſervazione dell' avvedutis ſimno Vartone recata
dal Gliffonio con queſte pa role : Huc referamus hiſtoriam , quam mihi
communicavit clarisfimus V varton, mulieris cujuſdam , quæ à fumptu pharm
macoafperiore in enormem fanguinis vomitum inciderat,cui, que ventriculum poft
obitum vocatusaperuerat . Nulla com paruit vena , fivèrupta , five exefa;
cæterùm in cavitate ventriculi adhuc nonnihil fanguinis reftitit ; fiquidem
multò maximam ejus partem ante obitum rejecerat. Fortè dum mi ratur unde ea
fanguinis copia promanaret , dorfo .cultri inte riorem tunicam , ut
penitiusreminfpiceret deterfit : boc facto innumera fanguinis pūčtula in
ſuperficie deterfafenfimcomo pare Ragionamento Settimo parebant ; ipfa quoque
funica quaficutis derafa: cuticules 1 . E che diremo noi de'copiofiffimi
ſudorifreddi , e viſcoſi, ch'uſcir fogliono dagli ammalati per opera
dell'antimonio sì fattamente lavorato i Certamente cotali ſudori,che chia man
diaforeticizangofce,e noje , e ſvenimentirecar foglio no , e talora anche con
toglier agl'infermi miſerabilmente la vita ; avvegnachè cotali effetti non
dall' antimonio fo . lamente , madalle manne ancora , e dalle roſe avvenir fo
gliano , ed eziandio da altremedicine , che per comun conſentimento più ſicure
, e piacevoli, e innocenti tenu te fono : memini non defuiffe, dice il Libavio
, qui Caffia fumpta omnia pateretur , que illi ,qui venenum hauferuns. Nedi ciò
è daprender maraviglia; perciocchèil medeſimo veleno , che è nell'antimonio , è
anche nella Callia , non che nella manna , e nelle roſe , e in altre
ſomiglianti media cine ; perchèſoverchiamente preſe, o fuor del convenevol
temporecar ſogliono talora gli effetti medeſimi dell' anti monio . Neq ;enim
,dice il medeſimoLibavio ,in favellando pur della Caſſià ,parum acrem inde
elicimus liquorem : tur batorem nimirumillum alui . E finalmente il mercurio di
vita è egli vero, e legitimo parto dell'Antimonio , non men di quel, cheſiali
il gruogo; comechè il Billicchio vanamente li perſuada eſſer quello operadel
mercurio , non dell'antimonio . Ma egli è ſenza dubbio men temperato , emen
gaſtigato del gruogo ; e fe guentemente maggiorinoje , e moleſtie recar
ſuolea'corpi umani per la parte maligna , e velenofa, che in eſſo preva le ;
perchè men certamente agli ammalatidar ſe ne vuole ; che non ſi dà del gruogo.
Ecomechè be fi poſſa in eſſo co tal vizio perarte.correggere , e ammendare , e
più forfes chc da'volgari maettri non ſi coſtuma; tuttavia per quanto
diligentemente per huomo lavorato ſia , temer fempre , e fofpettarne dobbiamo ;
ſenzachè il mercurio divita, come Cutt'altre medicine d'antimonio vomitive,
ſovente imediči da' loro avvifi ingannar ſuole , o nulla, o ſoverchiamente
operando. M.2 Del Sig .Lionardo di Capoa 151 Ma non perchè dannoſi talora , e
pericoloſi ad uſare co tali medicamenti ſiano , ſi vuol perciò dalla medicina
l'uſo dell'antimonio affatto sbandire ; conciofliecoſachè ben an che fabbricar
ſe ne potranno nobilisfini rimedj dadover darſi ſenza tema di nocimento niuno
anche a’vecehj e a'bā. bini , e alle donne groſſe , ficome agevolmente compren
der ſi può dall'opere del Valentini , delParacelfo, e dell? Elinonte . E
comechè non ſia impreſa da tutti il compor cotali poderoſi medicamenti , ma
innocenti però , e piace. voli e di qualunque veleno difarmaci;non però di meno
sér za troppafatica durarc potrannoſi agevolmentelavorarda chiunque
mezzanamente uſato ſia nella Chimica , que'po chi inedicamenti , che vanno
attorno ; come il belzoardico minerale , l'antimonio diaforetico , e altre ſomigliantime
dicine , nelle quali comechè attutato affatto ,e ſpento il ves Jen ſia , pur
sifattamente ligato ſe ne giace, Ch'a guiſa di leon quando fopofa : non
ſogliono , anzi non poffono perpoter ch'elle abbiano, colle lor pungentiffime
particelle offender giammai , ne ad huomonocimento alcuno apportare ; non
altrimenti, che innocenti anche in alcuni legni , e nellolio , e nella pietra
focaja que piccioliſſimicorpicciuoli ſi giacciano ,de'quali il concorſo , il
movimento , la figura, l'ordine, e'l ſito formano il fuoco . Eben diſs’Io non
effer anche nell'antimonio dia foretico eſtinta , e fmorzata affatto la
ferocia; concioffieco ſachè fondédoſi quello inkegolo,cagagliardiffima forza di
fuoco ſtaccadoſi allora gli alcali,o pur cábiádo sebianza , i quali il vigor
del veleno affrenavano,e'ltenevano a badari ſvegliaſi di nuovo, e riforge la
fua primiera,e natia fierezza . Quinci ſi vede,quanto dal ver fi diparta il
Villiſio , il qual vuole , che l'antimonio diaforetico , altro non ſia , ch'unw
ſemplice terra dannata, e che come tale ad altro e' non và glia, ch'ad
aſforbire, ea dar luogo nelle ſue vacuità a que' fali acuti,chefogliono
travagliar le viſcere: e che egli non abbia niuna facoltà diaforetica; ma ſe al
Villifio foſſe ved nuto fatto d'avviſare i maraviglioſi effetti dell'antimonio
diaforetico , certamente in altra maniera n'aurebbe favel la +
RagionamentoSettima Lato,comeche Pantimonio diaforetico ſi ſia veduto nellofte
: maco d'alcuno non men ,che la polvere di Sicilia , detta del Chiaramonte , e
altre terre ſimiglianti,per la gran forza de faliivi dimorāti talora
impietrarſi ; il che però da béiſcor to chimico ſcanfare aſſai bene ſi puote.
Maciò laſciando di parte ſtare : e'manifeſtamente fi comprende eſſer nell'anti
monio la parte velenola fiſſa ; e forſe arſenicale,e non come altri vanamenté
s'avviſa , volante, e vaga . Ma ſe ciò è ve ro , potrebbono per avventura
ritrovarſi nelle viſcere delle ammalato ſughi così potenti , che colla loro
efficacia vale . voli foſſero ad operar quivi tutto ciò, che far ſuole violen
tiſfimo fuoco ne'fornelli, ſciogliendo nell'antimonio diafo retico gli alcali ,
e riſvegliando la parte arſenicale ad ope rar dentro le viſcere la ſua uſata
peſtilenza : e allora chin? aflicurerà dell’acerbiffime noje, e dolori , e
ſtracciamenti di viſcere , che recar ſuol l’antimonio , non altrimenti che ad
uſo de'fiori, o di vetro lavorato ſia . Così ſperimentiamo talora,che lo
ſchietto , ed innoccnte mercurio , meſcolato dentro dall'huomo ,coll'acetoſo
ſale , che vi ritrova , gua ftali agevolmente , es’aguzza, a guiſa di
violentisſimo pre cipitato; intanto chei medeſimi effetti di quello crudelmé te
adopera ; e ciò manifeſtamente ſi può comprendere dal le pillole del Barbaroſſa
,e da’fumi, e dalle unzioni , e da al tre ſoinigliantimedicine . Ma poſto che
lavorato per ogni verſo l'antimonio sépre nocevole , e velepoſo all'uman genere
rieſca , non ſono però da biaſimare cento ,e mille altri medicamenti chimici
giovevoli affai, e falutevoli ſommamente ſperimentati.Ma qualunque pur fieno i
violenti rimedi della Chimica medi cina , maggiori nondimeno , e più
peſtilenzioſi aſſai ne ha ſempre la volgar de Galieniſti , ſecondo il
ſentimento cos mune di loro medeſimi: Magis igitur familiare eſe medicis (dice
il Primeroſio ) qui Galenici dicuntur, ideft qui veterē Sequunturdiſciplinam
,validisfimis. uti medicamentis, quæ Chymici,aut raròin ufum adhibent ,
autſaltem melius pre parata . Nec verum eft à Chymicis omnia valentisfimo ignis
calore præparari ; fapillimè mitiffimus calor adhibetur . Sed pre 4 Del Sig.Lionardodi
Capoa . 553 : præterea ipſe Galenus docet igne valido pharmaca plurimai
acrimoniam , mordacitatem omnem deponere . Etcertum eft , egli poi
ſopraggiugnc,arte hac fpagirica ditta , & fero ciſſima medicamenta edomari,
& plurima alias venenata ademptis deleteriis partibus evadere cardiaca .
Perchè an che ſecondo i ſentimenţi d'un sì nobile , e valoroſo Galie niſta , e
d'altri affai,ch'Io non rapporto pernon tediarvi, gli ellebori, le
colloquintide, gli elaterj , le ſcamionee , e al tri non pochi violentiſſimi
medicamêti diſegnatine dall'an tica gróffal medicina , i quali già ella più
forſe ad offende reinteſa , che a riparare all'umana ſalute,fin da barbaré có
trade a carisſimo prezzocomprando recati avea, ora incr cè ſolaméte della
Chimica raddolcito il natio amarore , e pofta giù l’nfata fierezza, Ambrofios
præbent fuccosoblita nocendi. Aft ego, dice quel fedeliſſimo ſegretario della
natura cotan te volte da noi , coniechè non mai a baſtanza commendato Gio:
Battiſta Elmonte : aft ego volens paterno animo corri gere furiofam medicaminum
vim , intelligo rerum vires pri ftinas manere debere , infui radicem introverti
, vel fub ſui fimplicitate transformari in dotes illas ibidem latitantes
clanculum fub cuftode veneno : vel de novo partas ratione additaperfectionis.
Quopacto colocynthislaxativam ,atque deletericam qualitatem introvertit ;
emergitque ex imo vis. reſolutiva , morborů chronicorum curatrix egregia . Id
enim Paracelſus in tintura Lilii antimonii cum laude attentavit ; filuit tamen,
vel neſcivit fieri idimin omnibus prorſus anima tium , &vegetabilium
venenis per falem ſuum circulatums: Siquidem omne venenum ipforum perit,fi in
entia prima re dierint. E queſto è appunto quel veramente maraviglioſo
artificio , di cui favellando Giovan da Bagnolo una volta diſſe : Generata
naturalia inferiora loco durioris compaginis conflata , & alta
magnifactione , propter duritiem nequeant abhominum mentibus diruiabſque
magnorum philofophorum artificio . Perchè ritornando al propoſto di prima, è da
co chiudere , utilisſime molto , e neceſſaric al genere umano Аааа effor
Ragionamento Settimo 1 eller lechimiche medicine. E nel vero có quali
valevoliar gometi poreron mai cotanti miracoli operare, eguarir ma li giudicati
per addietro indomabili, e sfidanzati, l'Elmon , te , e'l Paracelſo , ſe non fe
per opera delle chimiche loro medicine ? Eglino certamente con queſto meſtier
poteronſi guadagnare il glorioſo titolo de'inaggiori medici del mon do : e per
queſto ſentiero in tanta altezza di pregia monto il Paracelſo, che
ragionevolmente meritonne il famoſo no medimonarca della medicina . Ma oltre a
ciò ſono i Chimici intendentiſlimi de'ſempli, ci, e della lor natura : e ben
ſanno ſciogliergli a tempo cô trarne la parte inutile, e nocevole , e ſerbar
folamente pus ra , e intera la medicinale: ne loro punto naſcoſi ſono i gra. di
, e le qualità del fuoco , e gli ſtrumenti tutti , egli ordi gni acconci a
lavorare , e'l tempo , e l'altre circonſtanze a ciò confacenti oſſervano .
Quindi dal loro faggio , e avve durisſimo operare forgon poi tantiprezioſisſimi
medicamé, ti : e fanno dal vino , e di altri vegetabili , e viventi, e miş
nerali corpicavar ricchisſimielisliri, e olj,e tiņture , e fali, ed eſſenze , e
ſpiriti ſottilisſiini oltremodo , e ſommamente penetranti, e valevoli a
riſtorare , eadar dipreſente ripa ro alla mancante vita ; e a richianare
addietro i ſpirie ei vaghi, e fuggitivi negli sfinimenti , e nelle ſincopi, e
ne più gravi, e mortali malori ; in cui convien di preſente con prelto , c
valevole argomento ſoccorrere . Nea ciò fare al tro che la Chimica
efficacisſimamedicina è valevole , cbi ftāte; perciocchè a’ınali gravoli, e non
agevoli ad effer vinci fembran certamente bazzicature i volgari, e comunali rią
medj; ne a tuto ſenzadubbio le più ſquiſite ricette di Ga, lieno poſlono
aggiugnere. Inde illa , gridaforte ſtupidito il principe degli
ſpagnuoliGalienilti LodovicoMercati,pro dierant miracula in diuturnis
malis,quaprofunda ele ſolens, diſtillatorum aque ardentis, quinie eflentia,
auripotabi. lis , fi ſcuſi nel Mercati , ignorante dell'arte , la follia del
preſtar credenza all'oro potabile: e la manchevole ragione, ch'egli reca
de’mąraviglioſi effetti delle chimiche medici, ne , così ſoggiugnendo , Chymica
enim arte fumma compan ratur Del Sig. Lionardodi Capoa. 555 : ratur miſtis
tenuitas , quæ duplieiter malis peritioribus profi cit , quia cedit ad imum ,
radiceſque mali penitus evellit, do quia cum toto affecto luco
penitusconverfatur, &mifcetur; ità ut facilealteret , &devincat. E
quindi ancor moſſo quel gran inaeſtro in divinità , e in ragion civile Martin
del Rio, comechè egli per altro non ſappiendo bé la coſa , creda col Mercati ,
econ altri mal pratici del meſtiere ; che ſia vera mente oro potabile quel
liquore che alcuni chimici ſoglio no chiamartale : ſommamentela Chimica loda ,
e innalza, ei ſuoi valevoli medicamenti commenda. Quam ego arré, dice egli
della Chimica , qua medicine adminiculatur janë laudo, &venerur , ut
phyſiologie fatum præftantifimum , in ventricem auri porabilis , reinonminusutilis
adſanandum , quàm ad alendum , ac quoad fieripoteſvitam prorogardam . Ma che
cerco lo co raccor tutti quegli autori,chelodanole chimiche medicinezánoverar
col poetasqual degl'alti boſelti a terra caggia Numero delle ſparſe aride
frodi? trapaſſero dunque a diviſardell'altro capo propoſto, cioè a dire a clti
lavorare , e compor le chimiche medicine fi convenga. - E in prima dico , che
chiunquc lavorar chimici medica menti intenda , e meſtier di tuo riſchio , è di
tanta confi derazione imprender voglia , egli della chimica filofofia , è della
medicina ancora intendentisſiino eller debbà, eco noſcer appieno , e comprender
lanatura , e gli effetti di ciò che s'abbia a comporre; concioſliecoſachè
quantunque di tutto il chimico filoſofo aver piena contezza poſa', e cia ſcun
medicamento ottimamente comprendere, pure ſenza lungo , e avvedutiflimo
guatamento delle coſe,e ſenza ofat la medicina , mal fenza dubbio i ſuoi
medicamenti faprà fabbricare . E ciò bene avviſando il Valentini , e’l Para
celſo , e l'Elmõtese'l Quercetano , e'l Dornei, e'l Penoto; e'l Severini , e'l
Crollio, etutt'altri famoſimedici Chimici, no ofarono mai confidare, fe non ſe
allemedeſimelor manile compoſizione delle lor medicine ; anzi que' due gran
lumi della Chimica medicina , il Paracelſo , e l'Elmonce foven te d'alcuni lor
famigliariforte fi biaſimano ', ch’ardiſſerò a comporre' , e difpenfarc i
Chimici inedicamenticon gravey Аааа 2 dan 55.6 Ragionamento Settimo danno , e
riſchio deglinfermi, e con non poca taccia della Chimica . Ne per altro in vero
in tanta infainia ,e ſcherno cadde cotal meſtiere , e tuttavia ſi biafima, e fi
vitupera dalle genti , quanto , che i ſuoi graviſſimimedicamentiin man tutt'ora
di ſciocchiſſime, e temerarie perſone ſon mal menari. Perchè meritainente
idetti valent'huomini, e altri Chimici aſſainon laſcian maidi continuo
conſigliare ,econ fortare i medici a non commetter traſcuratamête all'altrui
cura , e talento i ragguardevoli lor medicamenti ; dicendo alcuni di eſſo loro
, coluiſolamente effer vero medico , che a ſue propie mani le ſue medicine ſi
lavori. Quo circa illum demum cum Crollio , dice Criſtoforo Glucradt , verè
genui num elle medicum cenfemus , qui medicamenta debitè cogni ta , non ratione
, ut rationalesmedicifaciunt, fed propriaſua manupreparare , & à veneno,
& feculentiis ſuis feparares repurgare, &ad puram fimplicitatem
reducere didicit; eaque imperito non committere coguo ; e prima di lui n'avea
recata la cagione il Penoto , facilius eſt , R. fcribere, do ad im peritum
coquumablegare agrotum, quàm in ipſa naturę pe netralia carbonibus ,
cineribuſque ſordidum ingredi,& pro mereindè magno fudore, quod ipſe egro
exhibeat. E ſe'l lavo rio de' grandi antidoti licome , avviſa Galieno, propiamé
tc al medico s'appartiene : perchè narrali, ch’i Romani Im peradori nel
comporla triaca il ſervigio de’baſſi ſpeziali ri fiutando, a valorofi medici
ſolamente il commetteſſero :Io non lo comead altrui , chc a medico il lavorar
le Chiniche medicine impor ſi debba ; perciocchè molte , e molte di quelle di
maggior vigore , ed efficacia fornite ſono ; perchè certamente maggiore
avvedutezza , e intendiméto richieg gono , che la triaca medeſima,o
qualunquealtro più famo jo antidoto , che gliantichi medici componeffer inai;
eres la lor compoſizione malne ſortiſce , aſſai più certamente ne può di danno
, e di nocimento avvenire ; imperciocchè molti, e molti de chimicimedicamenti
ſon così dilicati , e pericoloſi in lavorarſi , cheper ogni menomo fallo , o
tra ſcutaggine , che vi ſi commetta , graviſſima certamente , e mortal rovina
ne può ſeguire . Perchè l'incomparabile Res nato Del.Sig. Lionardo di Capoa 557
: nato delle Carte così alla Principeffa Palatina ſua diſcepola ſcrivendo
ragiona : Caurè etiam fecit celfitudo ſua , quod non luerit Chymicis remediis
uti ; nàm quantumvis longa expe rientia illorum vires comprobatę fuerint ,
tamen , vel minima in eorum preparatione , etiam quum optimè fieri creduntur ,
variatio, poteft illorum qualitates ità immutare, ut non re media fint , fed
venena; ſenzachè, ſe'l medico non vorrà pu re apparare a fabbricare,e comporre
le chimiche medicine, come egli potrà mai i diverſize iſtrani mutamenti
avviſare , che alcune di quelle , eziandio ottimamente compofte , e
apparecchiate far fogliono ? come afficurarſi mai delle pe ricoloſe qualità
dell'antimonio diaforetico ? il qual ſecondo gli avviſi dell'avvedutiſſimo
Zuelfero , quocunque modo fe và cum folo nitro , aut addito etiam tartaro
præparatum fit , traétu temporis aëri expoſirum pravam , da quaſ maligram
induit naturam , fumptumqueintrà corpus , cordis anguſtias, lipothymias ,
vomitufque , & fimilia prava ſymptomata pro creat . Come potrà egli mai
d'altri medicamenti comedel gruogo del metallo , comprenderla vera , e giuſta
quanti tà , ch’ad ammalato ſia da dare ? la qual certamente non da altro li
miſura , e conoſce, ſe non ſe dal ſaper l'operazione dell'Alcali, che in ſu le
parti arſenicali dell'Antimonio più, o meno è fatta : e quella ſenza dubbio
comprender non fi può , fuor ſolamente per iſperienza , e per pruova, con far
ne ſaggio in darlo ſcarſamente agli ammalati , e con rite gno in prim ? :
quindi a poco a poco andarlo accreſcendo finattanto ch’alla ſua convenevol
quantità giuſtamente ſi pervéga : oltre a queſto havviancora alcune virtù di
medi camenti , che come di ſopradetto è, avvegnachè nella me deſimacompoſizione
, e qualità de'ſemplici, cnelmedeſi mo tempo,e gradidi fuoco lavorate ſiano ,
pur diverſame te o più , o men vigoroſe , e valevoli ſortir ſogliono ; in torno
alla qual coſa non è tempo ora acconcio a filoſo fare,comechè molto da dir vi
ſarebbe ; ma pur come potrà egli tante, e sì fatte ſorti di lavorj
comprendere,ſenza aver le in prima ne'fornelli, e con fottiliſſimoocchio ſpiate
? co me poi diviſarne agli ammalati i medicamenti, lenza pun to conoſcergli ?
Ma 558 Ragionamento Settimo Maperciocchè infinitirimcdj a'medici pur s'apparten
gono , iquali eglino nonpotrebbono certamente tutti fora nire feinza tralaſciar
le viſite più neceſſarie degli ammalati; o altre lor bifogne : dico , chenon
haluogo al medico cur ti rimedj a ſue man lavorare , ma que' ſolamente , che di
maggior conſiderazione , e di maggior riſchio agl'infermi fono ; commettendo
ſolainencei medicamcnti piùmenovi li, e più ſicuria ' pubblici, e
fedeliſpeziali, da lui per pruo va già in primaconoſciuti dattanco ; eſſendovi
anche egli talvolta in fu'llavorio per maggior ſicurezza , quando la biſogna
peravventura il richiedeſſe . Ma convienmiritor : nar addietro ; imperocchè
caduto dalla mente miera di ri ferire a fuo luogo, quanto la
Chimicas'appartenga fapere, a coloro , che ben intender vogliano gli ſcritti
demedici; certamente non che altri, ma i libri medefimi de' Galieniſti la
richieggono.E nel vero chi mai potrebbe séza riſchio di groſiſſimi
falli,malfornito a tal meſtiere,pormano a'volu: mi d'Arnaldo, o d'altri antichi,
e moderni Galieniſti ? E ' no è peravvétura purtroppo manifeſto,quáti falli
preli abbia no i troppo séplici , e feiocchiGalieniſti in iſpor l’opere di
qualche autore per non eſſerſi da loro laputo diChimica perchè ragionevolmente
Giovani da Bagnuolo, Galieniſta medico , e chimico eccellentisſimo, cosi
querelandofi ſcla ma: Hoc voluit Ioannes Damafcenus in herbarum decoctio nibus
; diſtillationibus , quamvis corruptê, di impiè intel bigatur abignorantibus
diftillaturiam artem ,nefciétibus evela bereelementa à fimplicibus , tantum
affumuns aquam endi: viæ primam ,oprojiciunt aërem , ignem ; non fpretos à
doctis medicis benèintelligentibus naturæ principia , & fecres ta : à
doctisſimo viro Ioannéa Rupe feiffa : hoc voluit in selligere Ben Cene in tertio
lib.fen. 20. cap. 18. de fingular. med . ad augendum coitum , ubi toquitur de
commiſtione falis Strucorum cum vitellis ovorum , &patentiffimum eft falem
no poffe confici , nifi perdiſtillationem ; ducum prima aqua dif folvere
cinerem , abluere primam aquam , terram albifi cando , ut docent fapientes . Ma
prima di lui ciò ravviſato avea Antonio de Ferrariſuo maeſtro , c
compatriota'nelle fue 1 Del Sig.LianardodiCapoa. 159 fue chiofe ſopra la
cantica d'Avicenna. Vadiinoſtrando egli poi quanto lia meſtier la Chimica a
'medici per ben in tender gli Autori , con produrre in mezzo molti , emol ci
altriluoghid'Avicenna male iſpoſtiso mal preſi daʼmedi ci , per non conoſcerli
di chimica ; e centoaltri ne potreme míonoi quì ſomigliantemente annoverare ,
ſe dal tempo ne foſſe permeſſo . Maperchè ho laſciato lo anche di rammo tare la
Chimica efferoltremodo neceſſaria aʼmediciper po ter ben conoſcere , e
ravviſare tante , e sì fatte guiſe dime dicamenti , che fabbricar tutto giorno,
edifpenſar da mol ti, e molti artefici fi fogliono / intorno aquali i ſemplici
Galieniſti in nulla fappiendoſi delle lor vircùconoſcere , ſom vente a'
rapporti de’medeſimi componitori diaeceſſità les ne ſtanno digiuni affatto , e
privi ritrovandoſi di qualunque contezza dichimica; ſenza la quale comporcocali
medica, menti , ne in quali forti di malattie , in qual' età, in quales
ftagione convenevolmente da uſar fieno, appieno compré der potráno
:cõciofſiccofachè cotali ricette fovéte appreſſo i buoni autori s'incontrino ,
i quali appena ſi pare,che l'ab . biano ne'lor volumi groſſamente accennate ,
non che par . titamente ſpiegate , e deſcritte , coprendo a bello ſtudio , e
inviluppando imiſterjpiù pregiati, e più profondi dellar te , per non
logorargli yanamente infra le genti volgari ,cu dibaſſo intendimento . E quinci
poi ingannati da’loro fal fi avviſi impongono vapamente agli ammalati
alcunisime dj , che chiaman prezioſi; facendoſi a crederc , che fien tali,
quando veramente fon viliffime bazzicature , e fanfaluche di niun pregio; fe
non vezzatamentele impongono per aver parte poiall'ingordiffime baratterie
degli ſpeziali. Ma coſtuma fu mai ſempre de' medici il dar a divedereu effer di
pregio grande i loro medicamenti; ficomc per ta cer di Pallada, teſtimonia
Sereno Samonico : Multos pratereamedici componere fuccos Afuerunt ; preciofa
tamen quum veneris emptum . Falleris,fruftraque immenſa numifmatafundeso E per
non dir nulla del file dell'oro , che cotanto alcuni ſopranmodo millantano :
come potrà egli un buon medico diſpor 560 Ragionamento Settimo diſporſi mai ad
ordinare al ſuo ámalato beveraggio di quel che chiamāſale d'argēto,ſenza pūto
le qualità diquello fa pere ? Oh ſep chimica conoſceſſero i Galieniſti
giámai,che cofa ſia quel malvagio medicamento , certamente non ne ſarebbono
cotanto a'ſuoi infermiliberali , perciocchè non è egli , ne eſſer può giammai
ſal d'argento ; ma sbriciolati, e ſottiliſſimi ſcamuzzoli del medefimo metallo
uniti inſie me , e rappreſi dalle particelle di quegli eſaltati fali acuti, e
peſtilenzioſi , onde già roſi , e ſgretolati furono; perchè cer tamente la
medeſima qualità riſerbar debbono di que' fali, e'l'medeſimo effetto
peravventura adopererebbono, che dal vitriol del rame far fi ſuole ; perchè
Giuſeppe Don zelli nell'arte della Chimica conoſciuto aſſai , così ne dice:
Quanto al mioſentimentoſtimo vanità le virtù , cheſipredia canodel ſald'argento
; e credo, che abbia indebolite più bor fe, che corroborati cervelli . Anzi
tanto più velenoſo,e mal vagio cotal ſale fi è , quanto più del vitriolo del
rame, o ď altro peſtilenzioſo veleno rode,e morde le viſcere, e ſpie tatamente
ſtracciandole ſtrabocchevolmente ne muove a recere gli inteſtini, e l'anima;
perchè con dolori acerbillimi correr ne potremmo anche mortal pericolo, ſe non
che co tanto poco dar ſe ne ſuole, che agevolmente , o la natura medeſima , o
altri medicamentiviriparano. E’lmedeſimoancora da dir ſarebbe dell'olio
dell'oro , e dell'oro , che chiaman potabile , del qual certamente niun mai
ſervir dovrebbeſi , ſe non aveſſe egli in prima per più d'una pruova
baſtantemente compreſo non poterli quello in niun modo ne'primicri ſembianti
ritornare , e prender di nuovo forma di metallo ,laſciato avēdo affatto d'eſſer
tale . La qual coſa da quel grā maeſtro dell'arte Elmõte ben con . ſigliata ne
fu allor , che diſſe : ne metallicum ullum arcanu intra corpus accipiatis ,
nifi prius redditum fit volatile , din nullum metallum reduci poffit. Eche
direm noidelle tinture de coralli , delle perle,del le quint'effenze, che
millantar fogliono,degli ſmeraldi,de zaffiri, e de’rubini , cd'altre
ſomiglianti gemme, le quali veramente,ne filoſofiche tinture, nc eſſenze non
ſono con cior Del Sig.Lionardo di Capoa sor ciosfecofachè a farle tali , egli
convenga in prima ſcioglier filoſoficamente que'corpine'primicris loro principj
collo pera , e col conſiglio degli Alchaeft, e d'altri ſomiglianti li quori: le
qualicoſe altro veramente non ſono , ſecondo il ſentimento d'alcuni valent'
huomini, che Sogni d'infermi, e fole di Romanzi; e nõ men vane, e bugiarde, che
l'eroiche sbracciate del Rc Artù , e lemillanterie di Lancillotto , di Triſtano
, ed'altri crranti Cavalieri,che dimenzogneempion carte . E ſepur vere coſe , e
non vanisſime dicerie elle fono , ficome al quanti guari autori han voluto pur
credere , cgli però ſo 110 sì inviluppate ; e cieche , e rimoſſe dal noſtro
intendi mento , chemalagevoliſſimamente per huom ſe ne potreb beorma rinvenire;
così, ſe pur lealmente ne diviſano i mae Itri, e Senatori della Chimica
Repubblica, come il Valen tini, il Paracelſo , l’Elmonte , e altri, l'han
ſapute co' loro riboboli , ed cninmisì bene avvolgere , e intralciare , che
impoſſibile omai ne ſembra l'impreſa. Perchè lo ſciogli incnto , che
comunemente far pe veggiamo , altro certa mente non è , ch'un minuto
ſtrirolamento , o ſceveraniento delle parti , fatto , come è detto
,da’ſaliacuti elaltati ,e per ciò ſoinmamente velenoſi , i quali meſcolativi
per entro , e forte appiccativi non ſe ne potrebbono per tutte le bucate del
mondo toglier giammai; ſenzachè i bricioli dell'oro , o delle gemme,o d'altra
ſomigliante coía dura, ſcioltije ſgre tolati, e a que’ſali appiccati , ceſano ,
e fraſtornano l'ope razioni degli Alcali ; intanto che non potendogli quelli da
tutre parti inſiemeunire, no rieſcono valevoli ad iſpogliar glidella lor natia
acrimonia,con rendergli ottuſi affatto , e rintuzzati delle lor ſottiliſſime
punte ; ficoinenel tartaro vitriolato far ſogliono, ove sì fatto intertenimento
non hí 110. E ſe i fali pur non vi rimancſſcro , ma per opera d'ec cellente , e
ſaggio maeſtro già tutti interamente ne goin beraſſero , certamente iminuzzoli
dc'corpicciuoli ſciolti, c sbriciolati non reggerebber pure a galla nuorando in
ſu i pori delle umide ſoſtanze , ma tantoſto in fondo al valo sõ.
mergerebbonſi; ne meno ſcioglicrebbonſipunto per gli Bbbb wwin 502 Ragionamento
Settimo umidi aliti nel deliquio ; come gli intendenti del meſtier fa vellano .
E di ciò ben fi può far manifeſta pruova,conme ſcolarvi dentro l'Alcali del
tartaro ; concioffiecofachè bcn allor di preſente fi vegga l'argento , e l'oro,
e le gem me calar giù , e far toſtofondaccio : comechè alcuni cotali paltonieri
, e giuntatori de’noftriſecoli pur ſi ſtudjno di di moftrarne il contrario :
circumfuranei fallaces ,come dice il grand'Elmonte ,qui aurum , & argentum
furripientes aliud in borum locum fuppofuere ; incontro a’quali giuntatori al
trove riſerberommia ragionare . Ma de' lavoratori di sì fatti medicaméti,così
dice lo ſteſ fo Elmonte , huomo per univerſal conſentimento di tutti letterati
intendentiffimo di ciò giudicato . Pudendam pa riter deploro fimplicitatem
illorum , qui foliatum aurum , gē maſquecontufas
hominibusmagnaſpepropinant,magno ven dentesfuam ignorantiamfinondolum ; quafi
ftomachusinde, welminimum expectetfubfidium . Subtilior , ideoque magis
condolendus efterror eorum , quiaurum , argentum ,coralia , perlas, atque
fimilia per liquores acidos corrodunt, atque dif folvere videntur;putantque hoc
pacto intra venas admiffum iri , verè ſuasproprietates nobiſcum communicatura
.Nefciät enim , ah neſciunt acidum venis hoſtile ; ideoque peregrina
diſſolventiúfuperata , & tranſmutata aciditate,ejufmodi me talla ,&
lapides pulveré effesatante; qui utcunquein tenuiffi mum pollinemfit
redaétus,nihil tamen à ſtomacho conficitur, aut nobisfuas vires partitur. Ed
Angelo Sala nel meſtier della Chimica ofercitato affai , e ferino , e veritiero
ſcritto Te : omnes illi , ſclama , qui talibus portentofis promifis, quo rum ne
minimum re ipfa præftare pofunt, multum gloriantur, Banquam.agyrta ,
&impoftores babendi funt; licet ab aliqui bus , intendendo egli di coloro
appunto , de' quali noi ra gionato abbiamo : ſciocchi,e ignoranti della
Chimica, qui facilè vanis perſuafionibus ducuntur , tanquam profundi ar.
canorum naturæ fcrutatores fufcipiantur,magniquefiant, da contra ab iiſdem
ingenuisfine oſtentatione quantum in artis poteſtate eft exhibentes
negligantur. E prima di ciò avea egli detto : meritò fufpeéti habentur , qui
primam dari materia philo Del Sig. Lionardodi Capoa 563 philofophorum tùm ad
quorumcunque morborum curationem , tùmadmetallorum tranfmutationem , multis ,
jiſque ad oſtë tationem , & fraudem comparanis rationibus probare conan tur
. Qui ex auro , quod necfummaignis violentia , autul lo corroſivo cogi poteft ,
ut vim fuam metallicam exuat , se liquorempotabilemverum fine peregrina miſtura
conficere poffe jactitant . Qui non folùm colorem , innatam tin &tu ram ex
omnibus metallis , lapidibus presiofos , fed etiam fpi ritus , olea , &
ſales non minus , ac exvegetabilibus fe fepa rare poffe profitentur: Qui
ex.talco , corpore illu metallico , & incombuſtibili , balſamicum ,
&temperatumliquorem ad per petuam faciei venuftatem promittunt. Qui veram
tincturam coraliurum ejufdem cumipfis coraliis coloris , faporis, &tem
peramenti , majoris tamen virtutis ad Epilepſie, & Melan cholie curationem
vendunt; du ex ipfis margaritis talē quin tamellentiam ,quæ humidum radicale
confumptum meliusquá ullumaliud fimplex ,aut compofitumreftituat. E quancunque
gli acuti lali ſoglian talor raddolcirli al quanto, o per me'dir mitigarhi
accozzádoſi in modo co'mi nuzzoli demetalliſciolti, che le lor
fottiliffimepunteaca biar fito ne vengano, come nel vitriolodel ferro agevolmé
te fi può vedere; non,però di meno il più delle volte il con trario n'avviene;
perciocchè le punte delle particelle, che compongono i fali, accozzandoſi
talvolta con gli sbricio latiminuzzi de’metalli , vengon si fartamente a
ſchierarſi , e comporſi, ch’a guiſa di pungentiſſime ricciaje , od’aſpri riccj
fieramente aguzzandoſi, ed arruffandoſinefquarcia no le viſcere ', e con mortali
punzecchiamenti talor n’ucci dono ; ficomealla giornata nel ſoliinato , e nel
precipitato , e achenell'oro ſciolto p l'acqua regia avvenir veggiamo. Perchè
l'avvedutiflimo Chimico Ofualdo Crollio , dicoral oro favellando, dannandone
ſommamente l'uſo,non datur, dice , illo nocentius toxicum . Ed io porto pur
ferma opi nione, che da sì fatti medicamenti , ſe non ſi deſſero tanto
miſuratamente , e a ſpiluzzico , non nien gravi , e manifeſti danni
ſeguirebbono , che dal ſolimato , e dal precipitato avvenir ſogliono ; perchè
non ardirebbono imedici ſcioc Bbbb 2 chi, c 564 RagionamentoSettimo chi , e
ignoranti , ſe nella chimica eſercitati foffero , cotali medicamenti ,
anzinocevoliſſimiveleni , a'loro ammalati per cagion veruna imporre ; e
comprenderebbon pure che corali, che chiaman riſtorativi, in luogo di dovere
agli in fermi sfidati lc ſmarrite forze ravvivare , inaggiormente gliele
abbattono . E ſappiano pure , che ſecondochè nes dicano i più veritieri
Chimici, più agevole aſſai è a fabbri car di nuovo l'oro , che'l già fatto
diſtruggere. Ne è dacredere , che quell'olio d'oro tanto celebre , e famoſo in
Portogallo , curi, e ſaldi le ferite con altro , ches co'ſali roditori , ed
acuti dell'acqua regia , che if diffolve ; perciocchè corrugando quelli, e riſtrignendo
i vaſi acquo fi del noſtro corpo, nó fanno alla ferita umore alcuno trape lare
; perchè gli ſpiriti de ſali frizzanti, e lazzi la virtù dell' olio dell'oro ,
o ſia egli oro potabile, è certamente da attri buire ; che per altro, ficome
diceva colui, l'oro sì fattamé. te ſciolto troppo ſpoſfato , e di niun momento
ſenza il fal roditore egli riuſcirebbe: ma affai a ingordo pregio paghe rebbeſi
quel poco d'utile , che rade volte ricever fe ne ſuo le , ſe paragonafial
riſchio , in cui la vita del malato mani feftamente incorre . Ne altrimenti è
da credere degli ap parecchiamentidelle perle , de’coralli , e dellc gemme ;
perocchè , come di ſopra detto è , sì fattamente nel loro Atritolamento gli
acuti fali vi s’appiccano , che per quindi torgli vano affatto , e inutile
ogniſtudio riuſcirebbc .' Emi ricorda pure eſſer capitato una volta alle mani
del Donzel li un talmagiſtero di ſmeraldi, che manifeſtamente di que' ſali ,
onde compoſto era , putiva; e quelvalent'huomoall ? aperto riſchio della
perfona colui ſottraffe , che di preſente predere il doveva. Perchè i
buoniChimicisépre dal far co tali apparecchiamenti ſono ſtati oltremodo
guardinghi ; e'l Gluctradio medeſimo ne'cométi, ch'ei fe in fu'l libro delſuo
Beguino , forte gli biaſima, e danna . Anzi quantunque il Cratone nel meſtier
di cotali medicine ragionevolméte da ſeguitar non fia ; non però di meno in ciò
, chcnarra delle perle , egli ſenza dubbio ſembra dir vero . Acetum radi catum
, ſon ſue parolefua , acrimonia , & vi corroſiva, atq; caufti. DelSig.
Lionardo di Capoa. 585 cauſtica non modo margaritas , verum alia etiam
diſolvere ; &in cinerem quafi redigere , atque quemadmodum Chymiſte
loquuntur, calcinare polje nemini dubium eft . Huc autem no eft fpiritum
margaritarum elicere, fed totam earumfubftan . tiam corrumpere. D.Vaoylelius
ſenior mihi narravit Epiſco pumn Vratislavienſem Gaſparem Logum , magiſterium
hocper larumperſuaſum à fratrefepèporrectum à Paracelfifta quo dam ebibife,
atque eo demortuo tunicas ventriculi nigras, egy corruptas apparuiſe. Eodem
eventu ufam effe Marchionis Iohannis conjugem , in qua ventriculi tunicæ planè
fuerunt erofa . E ciò certamente avvenir debbe dal non aver ſapu to il
componitore di quellavorjo qual cofa apprèffo'l Para cello ſia veramente
l'aceto radicato, e dall'averſi egli ſervi to in luogo di quello d'un cotal
liquore minerale oltre modo acuto , e roditore . E quantunque diciò per avven
tura non ſi poſſa ne'magiſterj delle perle , e decorallifac ti per opera
d'alcuni piacevoli fali, o liquori vegetabili dottare,tuttavia comechè ſi
cõfacciaio a qualche āmalato , pure in molte,e molte malattie comuneméte ſi
dánano ;per chè in luogo d'abbeverarſi di quel ſale acetoſo , che nelle noſtre
viſcere calor ritrovano, accreſcendolo maggiormen te , le cagionidelle inalattie
ne multiplicano. Ma chi baſtevole ſarebbe giammai a raccontar le frodi, c le
baratteric , che in sì fatte materie tutto giorno com metter fi fogliono ? Ed è
egli recente ancor la memoria in queſtaCittà di quel Polacco, chevedeva a
carisſimo prez zo lo ſpirito del nitro per l'Alcacſt; e di quel gran Barbar
ſoro Ciciliano , ilquale con ſue ciarle , e giunterie molti, e molti ne preſe
faccendo Calandrini gli huomini, e dando a diveder loro l'elitropia fu per lo
mugnone , vendendo, e di fpenſando la tintura del verderame per quella degli
ſme raldi , c'l biſmuto calcinato con acqua forte , e ſciolto , co me dicono ,
per deliquio , in luogo di veraciſſimo latte di perle; e f quel che minor male
certamente era ) Peliſſire di propierà per balſamo di Criſto , e la cintura del
Chermes per quella de'coralli. Così bé ſapea falſeggiar sì fatte ma raviglie,
come colui, cui fa dire il noſtro Dante la giu nella : deci 566 Ragionamento
Settimo --- . decima bolgia dello Inferno : Sì vedrai ch'Io fon l'ombra di
Capocchio , Che falfaili metalli con Alchimia : E ten deiricordar ſeben ,
t'adocchio, Com'Iofui dinatura buona foimia . E non ha guari di tempo ; cheda
qualche malvagio fpe? ziale comunemente vendevali ( edimedici pur l'imponeva no
a'loro infermi ſotto nome d’eſtratto di caffia ) la caffia medeſima,
ineſcolatovi dentro gutgummi: e queſto mede fimo pure meſcolar ſoleva
nell'eſtratto del Rabarbaro per renderlo maggiormente efficace , e vigoroſo ,
con quel dá no, e nocimento de’miſeri ammalati,che immaginar poſfia mo ; e gli
ſcimuniti, e balordi medici ignoranti affatto dela la Chimica, ingaonacine
reſtavano,giudicando ſcioccamé te maggiorſempre , e più vigoroſa negli eſtratti
l'efficacia dellemedicine dover riuſcire . E ſomigliantemente dall'ignoranza
della chimica anco ra avviene , che i baccelloni , e ſemplici medici credendo
di foverchio agli Artefici, veggonfi tutto dì mandar fuora varie , e diverſe
moſtruoſe, e ridevoliricette di medicines, le quali o non inai fi videro al
mondo , o folamente ne’libri di poco pregio , o dalle bocche , o dalle penne di
chi trop po lor crede furono appreſe; ma quanti danni ne fian ſegui ti a’poveri
infermi , chi potràmairaccontare :Dirò lo fola mente , ch'un celebre Galieniſta
de'noftri tempi per aver lerro forle egli il Tirocinio delBeguino , o altro
ſomiglia te libro di Chimica , ftimandofi egli già gran maeſtro in quella ,
preſe ardire d'ordinare a una cattivellainferma lo fpirito del nitro volgare
fchietto ; e comechè lo ſpeziale tá to quanto intendente della biſogna a tutta
ſua poſſa il con traſtafle , pur colei preſolo , dopo acerbilliini dolori nabif
fando , e rabbiando fe ne morì. Ma di sì ſciocche , e irra gionevoli ricette
ben ne potrei Io un lungo catalogo qui diviſare , ſe non che per troppa
modeſtia me ne taccio ; temendo non diciò ſe n'adiraſſe alcuno , come di fallo
per avventura da ſe maffimamente commeflo ; ſenzachè v'ha perſona, ch’avendonc
finora un lunghisſimo ordine intel R 1 iuto , Del Sig.Lionardodi Capoa. 507 ne
, futo, infra non lungo tempo forſe divolgandolo, farà intors, no aciò la
vaghezza de'curioſi interamente paga . E dall'ignoranza della Chimica
medefinamente avvic che tutto di daʼmedici il ſale del vitriolo ordinar ſi co
ftumi ; il che certamente non avverrebbe , fe ſapeſſefi qua to eglioltremodo
malagevol fia il comporlo ; e che gli ſpe ziali in vece del ſale del vitriolo ,
dar fogliano il vitriolo medeſimo bianco , o pure il vitriolo riprodotto dal
capo : morto , ſicome dicono ; il quale talvolta aſſai più del vetro medeſiino
, e de'fiori dell'Antimonio violento ſuol riuſcire; cagionando acerbillimi
dolori nelle viſcere , e talora anche manifeftamcnte uccidendo . Così non ha
guari di tempo per pochi granelli di cſſo moriſli in Caſtel nuovomiſerabil
mente rabbiando Gio :Battiſtade'Benedetti ftrolago di gra grido . Ma i noſtri
ſciocchi, e baccelloni medici immagi nando di porre in opera un benigniſſimo, e
piacevol medi camento, in luogo di quello un crudelifimo, c micidial ve leno ne
vengono talvolta ad ordinare . E ſon' anchei medicinegli ſpiriti de'corpi
vegetabili da? mueftridiſtillatori, ſommamente beffati ; perciocchè colo ro
cavar gli ſogliono per limbicchi di rame con gravilli mo danno di colui , che
prender gli dec ; conciolliecoſa chè la flemma di que' corpi formentati,
gravida di quel ſale acetoſo , che non mai partir ſe ne può , trae ſoven te
qualche nocevol particella della campana , e con la ſua mordacità tanto quanto
la rode , e la ſminuzza. Quinci poi a poco a poco, ne l’huom ſe nc può in prima
avvedere,[con volge , e morde le viſcere , e diſtempera il corpo, cagione vole
oltremodo , e difettoſa l'economia di quello renden do . Ma veggo Signori che
s’lo diſtintaméte narrar vi volei gli errori tutti ne' quali incorrono i medici
p nó ſaper pūto di chimica troppo lūgo, e ſtucchevole ne diverrebbe il mio ragionaméto;
perchè ritornando di nuovo ad avvercirglin confortargli, e ſcongiurarglia non
inframmetterſi d'impre ſa di tanto riſchio , fe pienamente non ne fan riuſcire,
dico di nuovo , che laſcjno da parte ſtare le pericoloſisſime me dici. 5:08
RagionamentoSettimo : dicine della Chimica , e ſolo alle lor menovili,
ccomunali attendano : Ludere qui neſcit campeftribus abftinet armis;
Indoctuſque pila , diſcive , trochive quieſcit , Ne ſpiſſa riſum tollant
impunècorona. E perchè dirò lo non reſterà anche un medico della Chi mica
ignorante d'ordinarchimichemedicine?masſimamé re , che non ne fieguono le
ſcherne di lui , ma la morte de gli infermi; perchè a ragion lagnavaſi il
Sennerti d'alcuni maeſtriScimmionide'ſuoi tempi , i quali, com'egli dice , quum
rerum Chymicarum planè ignari fint ,ne tamen Chymi cis aliqua ex parte
inferiores videantur, chymica medicame ta , quorum vires , & præparationis
modum ignorant , fatis periculosè ufurpant . Or che direbbe egli , s'ancor
vivendo vedeſſe la tracotanza del noſtro ſecolo , e ſcorgeſſe pures in queſta
noftra Città , in queſto Regno non eſſere ſpeziale anzi no eller barbiere , non
eſſer cerrerano,non doniccico : 1a , che non componga Chimicimedicamenti:non
effermc dico , che non gli ordini , appena che ne ſappia il noine, o bene , o
malc , in tutte ſortidimalattie ? Anzi , che direb be egli pure , ſe vedeſſe
cotali Squaſimodei de'noftri tempi andar tronfj, e pettoruti biaſimando la
Chimica in cotali, che forſe ſaggiamente , e con prudenza l'adoperano, quan do
eglino ignoranti , e non punto intendenti di quella più ch' alcun' altro poi
follemente delle chimiche medicinc fi ſervono ? E comechècotalimaeſtri zucche
al vento diſa per tutto miliantino ; pur nulla conoſcendoſidella vecchia, e
della nuova medicina, abborrano, e meſcolano alla groſ ſa il tutto , con danno
, e rovina di chilor crede. Ma per favellare appunto de'tempi noſtri, dice
l'avve. dutisſimo, eingegnoſisſimo Roberto Boile,Obfervo noviſ fimis annis
Chymiam ceptam efe (uti meretur) à viris doctis, quiprius eamfpreverant ,
excoli ; ejuſquefcientiam à pluri bus , qui ipfam nunquam coluerunt,
arrogari,ne eam ignora. re exiſtimentur . Vndè faftum quodplures Chymicorum de
rebus philofophicis notiones fumptæ fint pro conceſis , atque in uſum verſa ;
& fic ab eximiis admodum ſcriptoribus,tiim phyſi Del Sig.Lionardodi Capoa:
150g phyſicis , tùm medicis adopsate . E finalmente anche ſe alla medicina non
foſſe meſtier la chimica , a che ragunarſi a giornate tāti parlamenti, e tante
ſcuole di Chiinica nella Germania, nellaFrácia, nell'Inghil terra , e in altri
molti famoſisſimiluoghi d'Europa ? A che tanti valentisſimi medici ( de'quali
alquanti più famoſi Ga dieniſti per brevità ſolamente rapporterò ) avrebber
durate tante fatiche, ſparſi tanti ſudori, vegghiate tante notti per
imprenderla , per appararla ? E per racer d'Avicenna , di Rali, di Meſue,
d'Abulcafi , e d'altri famoſi medici Arabi, e ſomigliantemente di Ramondo Lulli
, d’Arnaldo da Vil lanova , e d'altri di que'barbari, e infelici tempi: quanto
ſudor vi ſparſero Giovanni da Bagnuolo,Gio :Battiſta Món tano : Giacomo Silvio
grandiffimo parteggiano diGalieno , Giovan Fernelio , Corrado Geſneri, Teodoro
Zuingero , Andrea de'Mattioli,Gio : Giacomo Veccheri , Gabriel Fal loppio ,
Felice de' Platteri , Martin Rollando , Anſelmo Boezio , Girolamo Cardano ,
Giulio Cefare della Scala , Gregorio, e Daniello Orftio , Pietro Caſtelli,
Marco Aure lio Severini , Daniel Sennerti , Girolamo de'Roſli, Andrea
Cefalpini, e Giovanni Eurnio, e Giovan Cratonc ? il qual, come alcun'altro deʼmentovati,
comeche con ogni sforzo in prima ſtudiato li foſſe di contraſtare , e abbatter
la Chi mica , pure alla per fine tratto dalla verità volle appararla , e
ſeguirla ; e introduſſe in Vienna , com ' egli narra , nel la Corte Imperiale
molti ſalutevoli , e nobili medicamē. ti ; perchè poi ne fu da altri medici
fieramente perſeguita to , e biaſimato . Ed egli ſembra certamente ſventura ſin
golar della Chimica , fe pur egli non è anche di tutt' altre cofe grandi , e
magnifiche : poichè non s'arri fchia alcun giammai a tacciar coſa , di che
pienamente non ſappia , e non ne ſia in prima a baſtanza informato :ma folo la
Chimica fi biaſima , e s'accagiona da chi men n'in-. tende; e giugne a tanto
l'invidia,e la malavoglienza de'bef fardi, che con arrabbiati morſi fan
lacerare empiamente un meſtier ,dicui appena fanno il nome . : Machi baſterebbe
giammai ad annoverar tutti coloro , Сccc chc 570 Ragionamento Settimo che le
chimiche medicine adoperano ? certamente non è medico a'tempi noſtri , ch'abbia
fior di ſenno , che per be ne ciò fare , con ogni ſtudio diligenteméte nó
appari la chi mica ; e ſi è ciò ſolaméte vantaggio della noſtra ctà , o della
noftra fioritiffima Italia nella quale anche a'tempiaddietro la Chimica da
tutte genti,che tanto quáto n’ebber contez za avidiſſimamente fu ricevuta . E
Pier Caſtelli ad un co tal meſtolone, che inutile, e ſoverchia a'medici
giudicava fa , fciat,diſſe , in Germaniamedicină exercere Chymiæ igna rum non
poffe , &vixin Gallia , & in Italia ; e'l teſtè men tovato Daniello
Orſtio : encomia Chymie non opus eft , ut hic recenfeam : quia verum eft, quod
habet alicubi Heur nius : ceſpitat, jam profecto fine hacarte medicina . E
prima dicoſtoro avea già detto il Mattioli : medicum abſolutum effe non poſſe ;
immo nec mediocrem quidem , qui in Chymica non fit exercitatus: nella qual
ſentenza fu dopo ancora Da niel Sennerti , e in varj altri luoghi l'accennato
Caſtelli , tant'altri valenti ſcrittori, Ch'a nominar perduta opra ſarebbe. Ho
traſandato a bello ſtudio di avviſare quanto l'uſo della Chimica ſi diſtenda
nella maggior parte dell'arti più curio fe, e più utili al genere umano :
imperocchè l'acqueodori fere, gli olj , tanta varietà di liſcj, che lavoranſi
per orname to delle donne, le gioje artificiali, che dalla Chimica, qua fi
emula della natura produconſi , la varietà de'colori , che formanſi per uſo
della pittura , le paſte da indorare , e lac que da partire i metalli , che
continuamente adoperanſi dagli Orafi , tutti ſono effetti, coperazionidella
Chimica; delle quali la ſola operazione della menzionata acqua da partire i
metalli, diè cagione di tanta maraviglia a quel grā lume delle buone lettere
Budeo , che nel terzo libro de Af se , ebbe a dire : hujus eft id artificium ,
ut vi aqua medicata , quam Chryſulcam appellant,quantulamcunqueauri partem
argento , aut cuivis metallo illitam , aut confufam ,nullo di Spendio abſtrabat
, ita ut inauraturis nibil jam depereat mă do , niſi quod ufu interteritur .
Res omnino fupenda auri ar gentiquequotamcunque portionem ex ære eximere ,
etiã, quod magis Del Sig. Lionardo di Capoa 571 magis mireris manente vafculi
forma quaſa interdum , a inani , veluti quadam idea à materia abſtracta . E
l’Alciato ammirò pariinente la medeſima acqua in chiolando il teſto della legge
Idem Pomponius , S. fed fi D. de rei vind . nella quale ſi dice , che'l rame
miſchiato con argento non può ſepararſi,e però nõ vi può aver luogo la
vindicazione, qual dicono: onde e' ſcriſſe potuit hæc sētētia Vlpiani têpore
obſer vari , hodie forte aliud erit, etenim inventa eſt ars,qua Chry ſulcæ aqua
viaurum à quocunque alio metallo fepararipoteft, cujus rei quamvis pauci
ſintartifices , vixque finguli in ma gnis Civitatibus, cum tamen ſeparatio
fieri poffit, apparèt non effe fuprafcripta rationi hodie locum . Ma cotali brighe
a'cervelli più ozioſi de' noſtri laſciana do :poichè la chimica eſſer così
giovevole, e oltremodo ne cellaria alla medicina baltevolmente è detto,
trapaſſeremo ora a diviſare delle ſtrade , perle quali aggiugner ſi poſſa alla
contezza di sì nobil meſtiere . Primieramente colui che nel faticoſo meſtier
della Chimica eſercitar ſi voglia , conviene, che non ſolo , comc Teobaldo
avviſa, ſia nel latino idioma ben addottrinato : ma d'altri, e d'altri ancora
egli abbia conoſcimento :concioffiecoſachè in molte lingue del la Chimica i
volumi ſiano ſcritti , e con tanti eniminio eri boboli inviluppati, come
altrovc dicemmo,che ben richie dono ſottiliſſimi, c.alti cervelli per
iſpiegargli : Ea fuit om nium hactenus invidia , dice di lor querelandoli
Geremia Bartio , idque præpofterum occultandi ftudium , ac labor , ut non
tantum à fe inventa artificia ſpagyrica , tanquam eleuf , na facra celarint:
ſed veterum etiam arcana , fimpliciori , apertiorique orationis genere
propalata, impofioria perplexi tate, do notarum hieroglyphicarum obſcuritate ,
in tenebras ipfis Cimmeriis , & Ægyptiis denfiores conjecerint . E oltre a
queſto deeil Chimicoper lo ſciogliméto e per l'inneſtamé. to de’naturali corpi
aver diligentemente ſtudiato in fiſica , e conſeguentemente in Geometria , e in
tutte altre ſcienze ad imprender filica ſommamente neceſſarie ; ſenza le qua li
mal certamente può egli il ſuo intendimento fornire,quáa tuinqueavveduto fit ,
e valoroſo aſſai: così quel famolin C cc c 2 mo me . 572 Ragionamento Settimo
mo medico ; e chimico Arnaldo da Villanova: quicunque ad hancfcientiam
vultpervenire , &non eſs philofophus, fa tuus eft ; per tacere il Morieno ,
e altri . Maconviene oltrº a ciò ,che per internarſi nelle cupe , e profonde
ſpecula zioni della natura , ne' tre vaftiffimi reami di quella con ra
pidiffimo ingegno traſcorra , e molto in eſli ſpii, molto co prenda , e avviſi
tutte quelle coſe, ch'e' continuo aver dee tra le mani, e vada pure per
inveſtigare nuove coſe ; cer cando per lande , e per valli, e per colli , e per
fiumi, e per nuovi mari Fior varj, e varie piante , erbe diverſe, c oltr'a ciò
augelli , e peſci, e altri infiniti animali, e minic re , e gemme , e altre , e
altre fatiche a sì lungo meſtiere appartenenti volentieri imprenda , come già
fecero que chiarisſimi lumi dell'arteRamondo Lullio, e Teofraſto Pa racelſo .
Oltr’a ciò egli è di meſtieri al chimico eſſer otti mamente avviſato della
natura , e delle qualità di tutti gli ordigni , e ſtrumenti del meſtiere , e
ſopratutto del fuoco ; € fottilmente anche comprendere checo’ſemi di quello sé
premai ſi vengono ad accoppiarealquãte particelle, o fali gne , o d'altre ſorte
di quelle coſe , che ſi lavorano ; perchè poi vengono oltremodo a variarſene
gli effetti, e l'opera zioni delle chimiche medicine. Macertamente Nõ è
pareggio da picciola barca , e troppo fuor dimiſura n’allungherei il
ragionamento ,fee tutto ciò,ch'ad un perfetto Chimico abbiſogna recar quà
partitamente lo vi volesſi; ſolamente non laſcerò di nuovo d'avviſar coſa
importantisſima a mio credere a cal meſtie re : ed è, che il voler da’ſoli
libridegli autorila chimica ap parare , è impreſa oltremodo malagevole,e dura
affai,mal ſimamente a colui,cheper la filoſofia , e per la medicina ſervir ſe
ne yuole . La qualcoſa, ſicome dicemmo,ſopra tutto naſce dall'aver quella gli
avveduti ſcrittori a bello Audio con enimmi,e viluppi intralciata ; e ciò fanno
per . non manifeſtare a tutta gente i ſegreti più profondi dell'ar te ; nella
qual cofa adoperano certamente gran ſenno , ſe guitando i conſigli degli
antichisſimi padri dell'arte gli Ege. Del Sig.Lionardodi Capoa. 573 Egéziaci
ſapientiperciocchè ; , come cancò quel giocondo ſatirico Fiorentino nel ſuo
Orlando rifatto, Le cofe belle prezioſe , e care , Saporite , foavi, e delicate
Scoverie in man non fi debbon portare , Perchè da'porci non ſiano imbrattate.
Perchè poi molti , e molti , che ſi ſono affaticati, e s'af fatican tuttavia di
ſpiegare gli aſcoſi ſentimenti de’Chimi ci maeſtri , ne rimangono certamente di
gran lunga ingan nati , e ſovente ancora ne' loro errori traggonnon volendo
coloro , che creduli troppo preſtan lor fede; masſimamen te nelle bifogne di
maggior conſiderazione della medicina, come fon quelle intorno alle qualiora
noi ragioniamo. E quel , che maggiorméte accreſce la malagevolezza fiè,che
fpesſiſlime fiate , quandofan ſembianza di parlar manife ſtamente , e alla
ſcoperta ſenza aggiramenti di parole , al lor maggiormente n’inviluppano .
Omnium rerum , avvi fa il gran Claudio Salmaſio , quæ ad hanc fcientiam perti
nent vocabula , ab ufu , & confuetudine communifubmoveritt auctores fui,
&peculiarem fibi dialectum vindicarunt , fa lis myſtis tanti arcani intelle
&tam . Fornaculam fortem , ve caminum , in quo argentum ,& aurum
fundebatur,quod ore hiāti, &patulo effet.E fu ancora conoſciuto dal
ſapiêtisſimo Boile,dicédo egli quelle parole.Hæcpropterea adjicio , quod qui
vel ullatenus in rebus Chymicis eft verfatus, non poteft no ex obſcuro corum
ambiguo , & ferè ænigmatico tradendi, que docere præſe ferunt ,modo
percipere ; ipfis. confilium non effe , st intelligantur ,nifi à filiis artis
(utvocant , nec vel ab iis quidemfine difficultate, & incerti
ſucceffusexperimentis;adeo ut eorum nonnulli vix unquam tàm candide loquantur,
quă guando trita inter ipforum fententia utuntnr : ubi palàm la quuti fumus,
ibi nihil diximus . E’l dottiſſimo Samuel Boc ciardi in favellado della
chimica, ars enim ipſa tam eft abdi ta , ut in ejus cognitione adipiſcenda
oleum , & operam miſe rè perdant pleriquemortalium . Et qui adeptos ſe
putāt quaſ cæteris hanc gloriã inviderët,tot verborü involucris,atq; am bagibus
artis arcana obtegunt;ut videant , ideo folü fcripfiffe 574 Ragionamento
Settimo ut nõ intelligerent ? E peraddurre di ciò un ſolo efemplo , chi non
crederebbe interamente al Beguino , ea tant'altri moderni autori eſſere lo
ſpirito del nitro diſtillato coi bo lo , quelmedeſimoappunto , che gli antichi
Chimiciin , molte malattie di darper bocca uſavano ? Epur la biſogna non va
così; perciocchè quel degli antichi d'altra ,e più sé plice maniera componevali;
e lo ſpirito rapportato dal Be guino , non ſolamentenon giova , anzi n'offende
notabil mente le viſcere ; perchè molti della lor perſona mal capi tati ne ſono
, per avere i medici ſoverchiamente al Beguino preſtato credenza ; come dicemmo
teſtè di quella cattivel. la inferma : ecento , e mille altri eſempli addur ſe
ne po trebbono . E quinci avvien poi , che non ſi veggono a’dì noſtri quelle
maraviglioſe cure , che ſi leggono già per iná degli antichi Chimici eſſer
fatte;avvegna pure,che que'me deſimi lor medicamenti ne’loro ſcritti ſi
ritrovino, ma sì in viluppati , e alla groſſa diſegnati , che inal certamente
per huom ſi poſſono adoperare . E a ciò ben dovea riguarda re Pier Caſtelli,
che troppo mal conſigliato , il libro de mendaciis Chymicorum , con ſua poca
loda compoſe . Or veggali di grazia chente , e quali fian le malage volezze ;
le quali intorno a un sì faticoſo meſtier s'in contrano , e come ſe ne poffa in
ſoli due meſi huom mai ſuis luppare , ficome non meno ſciocco , che malizioſo
fi ſtudia di darnea divedere, il Billicchio ; quando egli ſotto gli ann
maeſtramenti di Angelo Sala per imprender quel poco, ch' ei ne feppe , tanto
tempo infelicemente logorovvi. E concioſliecoſachè cotalarte più operativa ,
che ſpecu lativa fia : egli è di meſtieri all'avveduto Chimico ,anzi coll' uſo
, e colla ſperienza , che col rivolger de’libri appararla ; perchè poco
ragionevolmente colui i ſuoi ſcolari confor taya , dicendo Vos exemplaria Gebri
Nocturna verſate manu , verfate diurna ; perciocchè quantunque in ſui libri
diGebro , e d'altri fa. moſi Chimici molto li poffa apparare, non però di meno
ſe non ſi pruova col fuoco : econ altri chimici ſtrumenti ,ciò, che Del Sig.
Lionardo di Capoa che ne'libri ' de’valét'huomini ſi legge indarno di pienamen
te ſaperlo vantar huom puore; perchè il Chimico prudéte, e avveduto è da dir ,
che più co'carboni , e co'fornelli che coʻlibri uſar debbia ; ne per altro
certamente detto viene il chimico, filoſofo pe'l fuocò . E comechè dura oltremo
, do , e malagevole talcoſaneſembri, pure chiunque d'in tendere a sì glorioſo
ſtudio preſume, ſappia innanzi tratto , ché Της δ' αρετής ιδρώG θεοί
πτοπίροιθεν έθηκαν Α'θάνατοι, μακρος δε και όρθιG- ομG-επ' αυτίω , Και τζηχυς
το πρώτον:επήν δ' εις άκρονίκητα , Ρηϊδίη δ'ήπατοι πέλα χαλεπήπτε εούσα .
Innanzi a la virtù poſto i ſudori Hannoglieterni , & immortali Dü : Aleiper
lungo, ed erto calle vaſſi , Che duro inprima appar , ma quando alfommo Si
giugne , agevol èquel , ch'aſpro apparve; ma per paſſar ad altro non fa
certamente meſtiere , ch'Io avvili, potendofi agevolmente da quel ch'è detto
cogliere, che dee colui , che pretende avanzarſi in medicina ſtudiar in tutte
le ſette di quella ; ne in meſtier di tanta conſide. razione , quant'è la
ſalute , e la vita degli huomini haw egli a riſparmiar fatica in rivoltar
qualunque libro , ne ar roffarfi di ſpiarne da qualunque perſona, per appararne
co ſa di comun giovamento, e di qualche pro-alla inedicina ; perciocchè ſicome
avviſa l'intendentiſſimo Plinio : nullus adeò malus liber eft , ex quo non
quidpiam utilitatis erui pof fit . E Giuſeppe della Scala : ego ſum is, qui ab
omnibus di Scere volo,neque tam malum librumeffeputo , ex quo non alia quem
fruitum colligere poffim . Ne è perſona cotanto ſcioca ca , e balorda , da cui
talvolta non poſſaſi apparare qualche coſa , eſſendo vero il detto d'Eſchilo
πελάκι του και μωρος ανήρ κα @ καίρον είπε , che per tacere altri , il Padre
della giocoſa poeſia toſcana nell'Orlando rifatto , così gentilmente cantando
ſpiegò Haqualche volta un Ortolanparlato, Cofe molto a propoſito a la gente. Ma
1970 Ragionamento Settimo Maparticolarmente de’medici favellando ſcriſſe a tal
pro , poſito Conſalvodi Toledo famoſo medico de'ſuoi tempi, e Arciveſcovo di
Lione : prudens le&tor , vel auditor , omnes libenter audit , omnia legit :
non fcripturam , non perfonam , non doctrinam Spernit :ab omnibus indifferenter
, quod fibi deeffe videtur querit , non quantum fciat,fed quantum igno ret ,
confiderat . E'l Quercetano anch'egli dice, ch'un co tale ſconoſciuto contadino
tolſe d'addoſſo d'un gran per ſonaggio la ſeccaggine d'un moleftiffimo
capogirlo , cui no aveapotuto porre alcun compenſo , e vani erano riuſcitii
molti , e varj conſigli de' valentiſſimimedici . E fenza dia partirſi da queſta
noſtra Città, egli è gran tempo , ch'ado perar folevanſi dalla gente volgare
efficaciffimi rimedi per li bozzoli della gola , e perle ſcrofole ; e al mal
della pun ta guarire alcuniuſavanocon feliciſſime riuſcite ,aftenendo ſi da’
falafli , l'olio del lino , l'olio dell'olive , il ſangue del becco , il
ſalnitro , l'incenſo, la pece, la raſchiatura delde te del Cinghiale , i fiori
del papavere roſli , la calce, il gen giovo , e'l zafferano ; nella colica la
cenere d'alcuni legni, nella riſipola il ſangue della lepre , il ranno , e
l'acqua del vitriolo , e della calce, e altrimolti medicamenti , che non fa
meſtieri, ch'lo quì rapporti;il perchè ſembra degno, an zi di commendazione,
che no l'avviſo del Paracelſo , il qua le vuole, che'l medico non ſempre debba
uſare co'letterati, e bazzicar nelle ſcuole , come ſe da lor ſolamente, e non
altronde ancora s'apparaſſe tutto ciò , ch’alla medicina ri chiedefi ; ma gli
convenga anche girne dalle vecchiarelle , dalle zingane ,da'ciurmadori, e
da’vecchj , e ſperimentati contadini; dalle cui ſcuole talvolta apprenderanne
aſſai più , ch’altrove per avventura non farebbe ; e quinci fi coglie , the'l
medico , non menche del chimico è detto , debba an dar ſe poſſibil fia ,per
dirla co'verſi del poeta Peregrinando da'piùfreddi cerchi Del noſtro mondo a
gli Etiopi acceſi. E queſto ancora , acciocchè egli avviſar poſſa la varietà, o
la natura delle terre , delle minicre,dell’acque , degliani mali , dell'aria ,
delle ſtagioni , de'coſtumi , de'cibi, delle bcyan DelSig. Lionardo di Capoa.
577 bevande , delle medicine , delle malattie , e delle maniere di ciaſchedun
paeſe . Ma con tutto , che tanto, e tanto af faticato egli s'abbia il medico
per apprender le contezze già dette,no dee ftimar già ſe eſſere al fommo grado
della medicina pervenuto : concioffiecofachè ne men vero ſia ciò che l'Elmonte
dice , che in tutta l'Europa appena un ſolo medico ſi trovi :imperocchè queſto
ſteſſo ne'maggiori bi ſogni troveraſſi dal ſuo ſaper ingannato; come ſi vide ,
per tacer del Paracelſo , nell'Elmonte medeſimo , che forſe quell'uno ſi era,
il quale non potè ſe medeſimo del mal del la punta guarire;e pure di queſto
male,e de'ſuoirimedj egli più d'ogn'altro medico ragionevolmente filoſofaro
avea . Ma laſciando ciò daparte ſtare , mi par tempo omai , che veggiamo ,
quali efſer debbano i maeſtri, i quali introdur poſlano lo ſcolare al
conoſcimento di táte ſcienze, quali ab biamo avviſato ellerneceſſarie alla
medicina . E conciofi ſiecoſachè di ſopra ſia per noi detto , infra l'altre
coſe al medico la notizia dell'erbc ſommamente abbiſognare ; conveniente coſa
mi parrebbe , acciocchè gli ſcolari in ciò avanzar ſi poteſſero , d'un compiuto
, eperfetto giardin de femplici lenoſtre ſcuole ornare, e quivi un'eſpertiſimo
er bolajo ritenere , il quale gliele doveſſe ad una ad una ad ditare , con
iſpiegar loro la natura , i nomi, e gli effetti di quelle ; acciocchè
avveduramente poi ciaſcuno uſar le do velle . E ciò tanto monta al comun deila
medicina , che ragionevolmére il Caſtellicosì ne ſcriſſe : ficutmedicus fim
plicium ignarus non eft bonus medicus, ita Academia , quæ horto fimplicium
publico caret , non eft perfecta Academiae. E poco addietro egli medeſimo avea
molti , e molti danni annoverati , che per non eſſer nelle ſcuole della
medicina il giardino de'ſemplici, avvenirnefogliono . E certamente niun
maiſaprebbe , comechè ſagace , cavveduto molto ſi foffe , giugner al vero
conoſcimento de ſemplici alla me dicina appartenenti , ſenza aver huom , che
d'efli affai pie namente informato innanzi tratto diligentemente gliele
inſegnale. La qual coſa fu da Galieno avviſata , allorche dilic , parlando
de'ſemplici : Convien certamente , che non Dddd nina , 578 Ragionamento Settimo
una , o due , o tre volte,ma tratto tratto gli vada minutame te offervando con
qualche'maeſtro , il qualgliele additi ,come bocca gliele inſegni. E altrove :
Quinci immagino i giovani valorofi eller non pocoſpronatia comprender la
materia de medicamenti ; eglino medeſimi non una , o due , e tre fiates ma
ſoventi volte ravviſandola ; concioficofachè la vera co tezza delle coſe
apparenti coldiligente gratamento de ſenfi ap prender fi foglia . Ed altrove
ancora biaſimando coloro, i quali di ſapere per veduta le coſe lordiſegnate non
curano : diſſe :Sonocoſtoro fomigliantiffimi a Banditori, i qualii ſe gnali
tutti , e i marchi d'unoſchiavofuggitivo , comeche mai non l'abbian veduto , a
ſuon di tromba vanpubblicando; im perciocchè apparando ciò eglino daaltrui ,
comecanzone il vă per tutto poirecitando ; che ſe per avventura intervenije ,
cbe il pubblicato a bando loro dinanzi capitale, eglino certa menteper tutto
ciò no'lravviſerebbono . E ciò tanto mag giormente avviene , quanto ,che
da’libri ſolamente degli Icrittori non ſi poſſono agevofmente apprendere, tra
perlaz traſcuraggine di coloro nel dipignergli, e diſegnargli,e per le contele
, ch'intorno a quelli ſovente infra ſe hanno go anche pe’molti, e moltinomi,
che i ſemplici hanno , chia mandoſi diverſamente da ciafcuno . Coſa , la qual
cotanto fe ſudare , e affaticare il doctiſſimo Ruellj; perciocchè , co mc egli
dice : in berbulæ cujufdam facie repreſentanda , no tas tam variè delineant,
utquidvisaliud potius, quam ſtir pemipfam demonftrare videantur : aut cerie
eandem multi plici prorſus effigie : quæ antalis ufquam effe poffit pleriqaw
omnes dubitant. Quare me tantorum impulit virorumdift fidium , per vaftas ire
regionum multarum ſolitudines , invia montium juga peragrare, lacus inacceffos
Inftrare , abditas terra fibras fcrutari, hiantes vallium ſequi ſpecus, vel cum
corpufculi bajus periculo præcipitia nonnunquam tentare , ut inſpectu eriam ,
ne dum cognitione res ipfas comprehenderem . E ciò certamente fu non poca
fatica d'un tanto valenthuo mo, e convenevole a ciaſcuno , ch'a sì fatro
meſtiere in tender preſuma .Se non ſe noi in ciò riſparmiar ne potrem ino , con
apparar quì in un ben fornito giardino tutte l'era be da ! DelSig. Lionardo di
Capoa. 579 . be da confarſi ad ulo di medicina, ſenza andarle raccoglie do con
tanto ſconcio , e riſchio delle noſtre perſone. Ag. giungafi a ciò , ch'abbiamo
detto che l'orto de'ſemplici tão to più nelle noſtre ſcuole , ed entro queſta
medeſima noſtra Città biſognevoi ne fia , quanto che, come ben Dioſcorido
avviſa ad acquiſtar pienamente cotali conoſcenze ne con vegna , e nel tempo
,che germogliano , e nel tempo , che creſcono , e nel tempo , che languiſcono
le piante diligen temente confiderare : τον δε βελόμενον εν τούτοις εμπειρίαν
έχεις deti na to ye try agtsQuñ Erasnov ix tūs gãsexuá(over, aig ade
Ogexedeafso παρτυγχάνειν • ούτεγαν ότι βλάση εν πτυχηχώς μόνον δύναται το ακ
μαζον γνωρίσει ούτε έωes κως το ακμάζονα και το αρτοφυές επιγνώναι .. Perchè a
ciò riguardādo ilComū di Piſa,di Perugia, di Bo. logna , di Mompelicri, di
Parigi, e d'altre molte Città d'Eu ropa,hánocógrádiſſima loda nelle loro ſcuole
i séplicitut tiin ragguardevoli giardini piātati.Maſopra tutti in ciò s'a váza
il famoſiflimo , e comendevole Orto di Padova find a ducento anni addietro di
tutti i più ſtrani, e ſconoſciuti sé plici, ch'a medicina ficcian meſtieri
compiutamente forni to ; del qual mai ſempre han tenuto cura huomini in tal
meſtiere , e in tutt'altre parti di medicina intendentiflimi : ficome
certamente fu Luigi Mondelli , Luigi dell' Anguil Jara , Melchior Guilandini ,
Giacomo Antonio Cortufio , Proſpero Alpino , Giovan Prevozi, il Cavalier
Veslinci Giovanni Rodio , ed altri molti per le lor famoſe opere in iſtampa
pubblicate almondo chiariſſimi. Ne certamente con táto ſtudio ciò fatto
avrebbono que fapientiflimi huomini, cotanta ſpeſa , e tempo logorandovi, fe a
più d'una pruova il grá biſogno di sì fatto giardino pie namente avviſato non
aveſſero ; il qual ſenzadubbio più, ch'altrove , in queſta noſtra Città , in
queſte noſtre ſcuole apertamente ſi ſcorge, non avendovi ne pur uno mezzana
mente inteſo de’ſemplici, a cui per una, comechè non mol to ſtrana , e
ſconoſciuta pianta ricorrer ſi poſſa ; da poi che la paffata piſtolenza tutti
gliene tolſe . Intanto , che l'av vedutiſlimo Giuſeppe Donzelli , che in ciò
pochi ebbe a ſc pari , infra i ſemplici, de'quali in una cotal bottegaalai fi
Dddd 2 1110 580 Ragionamento Settimo -mofaa compor s’avea la Triaca , fei, o
ſette adulterini un giorno riconobbene . Or che della noſtra Città, e delle no
ftre ſcuole quel famofo ſcrittor direbbe, che sì ebbe a ſcla mare ? Conveniens
in omnibus V niverſitatibushurtus fimpli ciumpublicus non folum ad warięweden
perfectionem Academia, &ut diſeantjuniores medici , atque Pharmacopei,feu
ad ur bis ornamentum , decus , fed quod maximum , quod optă dum , ad civium
ſalutem neceſſarius omninò eft. Quot nãq; quafo errata à pharmacopæis in
fimplicium delectu committi tur ? quot agri indè necantur ? E cócioſliecoſachè
ſia dimoſtro ſopra più ,e più altre con tezze a un medico abbiſognare; e
ſpezialméte lo ſtudio del le lingue , farebbe meſtiere introdurre ne'noſtri
ftudj, mae Ari di lingua greca; perciocchè séza quella malagevolmére potrà
ne’libri degli antichi huom vātaggiarſi;eſlendo quel li in greca favella
compoſti; e comechè nel latino traporta ti già tutti or ne ſiano ; non però di
meno molte fiate i vol garizzatori non a baſtanza eſſendo , o della materia, o
del la lingua intendenti , in non pochi errori ſono incorſi; e per tacer
d'altri , o quante , e quante fiatc vien ripigliato da' Galieniſti, e tolto in
fallo ſconciamente Avicenna peraver Jui troppo di leggieri preftato fede a coloro
, che nell'ara beſco idioma avevano i greci autori traslatati.E certamen te
qual inai Xi!rem noi per ficuro, e fedel traslatatore,ſe an che Plinio , anzi
il inedefino Cicerone,che così pratico fu della greca favella , pur malamente
alcune delle greche pa role nel latino trafportando,da molti avvedutiſſimi
ſcritto ri ne vien forte accagionato ? Ma meſtier anche farebbe ri ſtorar la
vuota ſcuola della filoſofia , ein man de'medici ri porla , come già prima
coſtumavaſi. Ma della notomia lo non ſo che dir mi debba ; certiſtima coſa
eſſendo , che do po Marco Aurelio Severini le noſtre ſcuole mai non abbia no
Notomiſta avuto ; ſenzachè il medeſimo Marc Aurelio , o perchè di fcco cotal
biſogna le riſpondeffe ,o che gli fta tuti, no’l richiedefſono, pochiſſima cura
ei ſe ne dava. Egli, silo non vado errato , una faccenda di tanta conſiderazio
ne , e di tanta lieva si dovrebbe eſſer ordinata , che un di ligen Del Sig.
Lionardo di Capoa 181 ligéte notomiſta alle ſcuole s'introducefle , e facédofi
ada giare di tutto ciò che biſogno a lui fia,un giorno alınen pec ogni
ſettimana la notomia diqualche particolar membro d'animal faceffe ; perciocchè
in sì fatta guiſa non ha dub bio , che a'giovani, perchè perfetti notomiſti
diveniſſero , agevole ſtrada fi ſcoprirebbe. Non fo poi lo fe ben fitro vino
inſieme unite le due cattedre della notomia , e della cirugia, e come di due
peſi cotanto gravi un medeſimo let tore acconciamente ſcaricar fi poſſa; perchè
loderei , che queſte due ſcuole amendue di ſomma conſiderazione, e d' igual
fatica ſi partiſsero , e dibuona ragione da due valen ti maeſtri ſi reggeffero.
E fomigliantemete anche direi del. le matematiche, le quali cotanto biſognevoli
fono al co mune , che non ſolamente per la medicina, e per la filoſofia fan
meſtieri , ma per l'arti della guerra ancora , c per la na vigazione , e per le
mercatanzic , e per tutto il civil con mercio . Ma oltre a tutte queſte ſcuole,
che noi abbiamo dovrebbeſila ſcuola della Chiinica imporre ; la quale per
quel,chie già ne fia baſtantemente per noidetto , così gio vevole , e
neceffaria è al genere umano, ne da'folilibriſen za la guida d'un buono , &
cccellente maeſtro apparar mai baſtantemente ſi puote ; e non ha il torto
l'avvedutisſimo , ed aſſai ben conoſciuto di sì fatte coſe Monſignor Giovan ni
Cianpoli, a vituperare , e biaſimare la dappocaggine delle ſcuole p no avervi
la chimica introdotta; ma ſpezial méte al noſtro ſtudio la ſcuola della chimica
fa meſtiere : avédoſi a far notomia dell'acquc minerali di Pozzuoli, e d '
Iſchia , alle quali i noſtri medici ſenza eſſer della lor natura conoſciuti grå
novero d'ammalati poco faggiamente códá nano; quátúque talvolta non pocx
ſciagura necoglieſſe ad alcuno; alcheanche por mére dovea il noſtro Capaccio ,
quãdo diſſe : Medici hoc têpore ( Sed quis medicus? quiGaleni tantum methodum
legerit?qui impunè homines occidit ? ) cum mihil reliqui habeant medendis
corporibus , vel cum re ipfa . ignorent , quo morbigenere ægri fins affecti, ad
aquas Baja. nas eos rejiciunt , quas nemini unquam prodeffe cognovi. No. vi
tamen ftolidos noftræ ætatis homines , quificaci eò profici Scan ' 582
RagionamentoSettimo fcantur , jam ſe videre , caciores indè reverſicontendunt .
E certamente una cotal biſogna a comun giovamento fornir fi dovrebbe ;
perciocchè non abbiam noi fin'ora ſcrittor di lieva avuto, ilqualdiſtintamente
eſaminate l'abbia , come chè il Iaſolino ſcriva eſſerſi valuto dell'opera d'un
certo Chimico per eſaminare i bagni d'Iſchia ; dal quale ingan nato, follemente
credette eſſer non ſo quali miniere di fo le , e diluna in quelle acque. Ma per
accennar qualche coſa dell'altre parti della mea dicina : Io richiederei , che
i Lettori di ella , oltre alle yolgari opinioni d'Ippocrate , e diGalieno
ſpiegar dover fero tutt'altre ſentenze degli antichi , e moderni autori,ac
ciocchè gli ſcolari, ſicomeGalieno , c altri famoſi valend huominigià ferono ,
di tutto ciò chenella medicina ſi trat: ta,appieno inforınar ſi poſſano ; e ſe
bene sì fatte contezze di poco, o niun momento fieno alla medicina, avendo noi
a fufficienza dimoſtrato eſſer quella per ſe ſteſſa incerta, e fallace , e che
niuna ſetta di quella abbia in ſe dottrina , che vi ſi poſſa per huom alcuno
ſtabile fondamento porre , ne coſa di certo mai determinare ; impertanto
potranno agevolmente ayviſare i giovani in ponendo mente alla va rietà delle
ſecte , e dell'opinioni , e alle varie , e ſoventi fia te contrarie maniere di
medicare , che fra i medici ditem ро in tempo ſono venyte in ſu , qual via nel
meſtier del me 'dicare debban genere , Ne in queſta guiſa alcun contraſto allo
ſtatuto del noſtro Regno mai fi farebbe , ficome alcuni daquelle parole : li
bros authenticos tam Hippocratis, quamGaleni in fcholis da Geant : vorrebbono
argomentare, c ftabilire; e che altro, che la dottrina d'Ippocrate,e di Galieno
nons’avelſe a inſegna: re ; cócioſliecofachè col dipartirli talvolta da Galicno
,i sé timenti di Galieno medeſimomaggiormente fifoguano; ne potrà a buona
ragionechiamarli ſeguace di Galieno colui, il quale non faccia , come Galieno
adoperò , ſcegliendo datutti libri il migliore , ſicome a ciò fare egli i ſuoi
ſcola . w inſtantemente conforta . Solo - nó laſcerò d'avvertire ſo pra
l'accennato ſtatuto , ſecondo le fpoſizioni d'alcuni, che 11012 DelSig.
Lionardo diCapoa 583 sion vietò la legge per quelle parole,il ſeguire ,
einſegnare ; ancoraaltri nonininori autori; coſtumando le leggi, qua do
vogliono riſerbare , e vietar tutt'altre coſe, diſegnarle con quelle particelle
duntaxat, tantummodo , folum , che i Dottori chiamano taſſative ; ſenzachè, ſe
colla mente del Legislatore vogliam noi ſporre la legge, come ragio ,
nevolmente è da fare , certamente non che lo ſpiegare an , che altri nomen
famoſi autori vietato ne fia , anzi egli n'è apertamente conceſſo , o per
medire impoſto ; conciollie cofachè l'intendimento del legislatore in ordinando
una si fatta legge ,, altro certainente ſtato non ſia , ſecondo che da quella
ſi puòcomprendere, ſe non ſe di formare un , perfetto ge valentemedico ; il
quale, conte già abbiam di moſtrato ,cal divenir non potrebbe , s'egli di tutto
ciò che fin'ora in medicina è ſcritto piena contezza non abbia . E. certamente
ſe l'Imperador Federicoamici!limo , e bene in formato delle buone lettere' ,
che fe lo ſtatuto , e Pier delle Vigne,per quanto cõportaffer que'barbari
tempi, ſciéziato huomo , che ſcriſfelo , econrpilollo , aveſſer mai potuto di
tantie sinobili ritrovati, e dottrine de" novelli medici , e filoſofanti
alcuna concezza avere , eglino ſenza dubbio non pure permeſſo ,ma commendato
anche avrebbono ,che nelle ſcuole a pro del Comune ſpoſti, einſegnati ſi
foffero. E tanto più del noſtro avviſo ora noici rendiam ſicuri, qua to che
riguardando alla volgar coſtuma di quel barbaro , e rozzo ſecolo, veggiamo
apertamente, che corale ſtatuto, o no mandolfi mai di que’tempiad effetto ;o
pur ſe andò avā ti , fu preſo ſempre in quelmedeſimo ſentimento, nel quale ora
noi lo ſpiegamo; inperciocchè in Padova , e altrove la dottrina degli
Arabiallor pubblicamente ſi ſponeva; e ab biamo, chepiù che d'Ippocrate ,e di
Galieno,i medicaméti di Ralis,d'Avicena ,c di Meſueallor ſi coſtumavano ; anzi
in queſte noſtre ſcuole medeſime,laſciati da parce i Greci maeſtri , con
comandamento đe’noftri maeſtrati il trattato delle febbri d'Avicenna allor
leggevaſi,per racer del nono di Rafi: cum publico bujus almeCivitatis juſu
ordinariams Avicennale &turam de febribushoc anno interpretarer, fcrifle
già 584 Ragionamento Settimo 1 gia Paolo Tucca , famoſo maeſtro in medicina di
queſta noſtra Città . Ne altre doitrine in vero , o diviſamenti,ſe nó que'degliArabi,quà
sépre ſono ſtati ſeguitati in medicá do , licome già baſtantemente per noi ſi
diffe; e tuttaviade' noftri cempi ancor ſeglionfi ; ſegnal certiſſimo , che i
me deſimi ancora ne ſiano ſtati ſempre nelle ſcuole de maeſtri inſegnati. Ne
Giovanni degli Argentieri, oftinatiſlimo nimico di Galicno , e de'Galieniſti
tucci,havrebbe quì midi potuto liberamente mandar giù le loro doterine , aper
tamente cozzandovi , ſe per legge ne foſſe ſtato impo ſto a dover āzi
Ippocrate, c Galieno,che la verità medeli ma , e la ſperienza ſeguire . E che
direm noi di cotanti al tri autori, che da ſentimenti di Galieno traſandando ,
ove la verità il richiedeva apertamente il contraſtarono ? certa mére male a
lor huopo táta tracotáza impreſſa avrebbono , ſe contro i divieti imperiali
altronde , che da Ippocrate , e da Galieno raccolta l'arte faticoſisſima della
medicina nel - le ſcuole inſegnata aveſſero.E lo mi fo a credere,che tāto ito
doposì fatto ſtatuto ,comeche foſſer preſi a leggerfi i di ſegnati autori, pur
tutt'altro chequelli ſpiegar dovevanſi;ne in modo alcuno da’ſentiméti di coloro
la medicina tutta di pēder poteva: poichè allora pochisſime opere d'Ippocratese
di Galieno dall'arabeſco nel latin linguaggio ſconce,e gua íte , e tutte piene
di barbarie erano traportate: e l'opere d'Ippocrate poco certamente a capital
tenute furono dagli Arabi ; de'quali la doctrina allora per tutto trionfando
fio riva ; intanto , che Avicenna per comun yoce era principe della medicina
chiamaco . E tanto parmial preſente della traccia , che tener debbano
nell'inſegnare i pubblici mae ſtri della medicina aver baſtantemente accennato
. Ma lo ben m'accorgo, che alpreſente ne verrebbe a huopo, chu attenédo le
promeſſe già fatte, diviſar de’mnaeſtri della filo Cofia ,
comeanch'esſidebbiano eſſer liberi, e non appiccar- , fi all'altrui autorità
nell'inſegnare ; ma di ciò nel ſeguente ragionamento farem parole , 1 RA 585
VAN RAGIONAMENTO O T TA V O E VLT I M O. Rai più illuftri, è più glorioſi
pregidi que ſta oltre ad ogn'altra d'Italia,belliſſima,e amena Città,è da
giudicare : p mio avviſo laver ella ſempremai, o prodotti, o al tronde a lei
venuti corteſeinente accolti , % 9 e albergati pellegrini ingegni, e ſaggi ,
ſcorti, e liberi nello inveſtigare i ripoſti, e profondimiſte rj della natura .
E nel vero per non far parole de' più anti chi tempi , chi è di voi , che non
ſappia, che quìBernardi no Teleſio, cui diede ilcuore innanzi ad ogn'altro di
fron teggiare i maggiori tiranni della filoſofia, che quella avea no a vile , e
duriſſimo fervaggio miſeramente condotta, co poſe, e diè fuora que
ſuoipregiatiſſimilibri della natura delle coſe ? Chi è di voi che non ſappia,
che quì pariméte poi Sertorio Quattrománi, Aſcanio Perfio, L.atino Tácredi,
Tomaſo Cápanella,Vincézo,c Giovan Battiſta della Por ta, Col’Antonio
Stigliola,Frāceſco Muti,e altri, e altri egre gj filoſofanti ſcosſero
virilmente il giogo impoſto alle ſcuo. le dell'autorità degli antichi mnaeſtri
, della quale dubitar Еесс PU 380 Ragionamento Ottavo punto non che farle
alcuncontraſto avrebbe il coinune cõ lentimento delle genti a ſomma ſcempiezza
recato ? Vlti mamente , chi è divoi , che non ſappia , e che non abbia co’propi
occhjveduto, che quì cbbe cominciamentoquel la nonmai baftevolmente commendata
accademia, che de. gl'inveſtiganti appellofli , ſol perchè era intendiméto di
lei, poftergata ogni qualunque autorità d'huomo mortale , alla ſcorta della
ſperienza ſolamente , e del ragionevol diſcorſo andar dictro per iſpiar le
cagioni de'naturali avvenimentia Echi giammai potrebbe colle dovute lodi tutti
i nobili fpi riti , che in tal famoſa aſſemblea felicemente filoſofar fi vi
dero rammentare? Ella ricoveroſſi , come voi ben ſapete , ſotto la protezion di
D. Andrea Concubletti già Marche fe d'Arena, ch'ebbe l'animo intefo a vincer la
virtù de’luoi maggiori, i quali fur ſempremai larghiſſimi favoreggiato ri delle
lettere più eſquiſite; e annoverò ella fra'ſuoipiù ca si un Monfignor Caramuele
, un Daniello Spinola,un Frá ceſco , e Gennaro d’Andrea, un Gio: Battiſta
Capucci , un Luc' Antonio Porzio , un D.Michele Gentile , un To maffo Cornelio
, e altri , e altri curiofi , e ſagaci interpreti della natura , che collor
fenno, e ftadio ,e gloriofe fatiche generoſamente s'oppofero all'impetuofo
torrente delPabu fo , chegià ſtabilito , e accreſciuto diforze dal conſentimen
to deglihuomini,e dallautorità che gli avea data il tempo , alvero, e alla
ragione ſovraftar avviſavanſi ; huomini vera mente d’immortal gloria degni, e
certamente da commen dare, e da avere in pregio vie più di que' primi, che alla
fi Jofofia diedero operá, ecominciamento ; conciofficcoíachè; fe eglino
difcorrendo regolatamente, e oſſervando con dili genza saperfono la ftrada alla
contezza delle coſe naturali, altro veramente noh fecero , ſaluo chc fecondare
quef rego lamento, per lo quale caminar fogliono l'arti, e le fcienze , e
l'altre coſe tutte di quaggiù, le quali cominciando da roz zi, e baffi
principi, dal cattivo, e men buono, al buono, indi al migliore e alla fine a
qualche ſtato di perfezione aggiuo gono; ne a queſta opera fare altra
malagevolezza s’incontra di quella dell'applicazione,e della fatica,ſenza le
quali non è da Del Sig.Lionardodi Capoa : 587 è dato agli huomini acquiſtare
utile, o onore veruno. Ma ove p rammendare ciò che p fatal legge delle coſe
umane, o per altro accidente fia venuto una fiata in dichinamento , e
corruttura, primieramente hanſi a ſuperare i gravi impedi menti del mal abito
già fatto per lo conſentimento della moltitudine, e per la lunghezza del tempo
fortemente ra : dicato negli animi; e dopoauer ciò operato durar fi debbom no
parimente le medeſime fatiche , ſe non maggiori, che durarono que'primi autori
, e padri della filoſofia; perchè non è lingua,non è penna,che gli poſſa a
baſtanzacommen dare. Maio perchè tante volte pazientemente avete degna to
d'aſcoltarmi,o Signori,in queſto ultimo mio ragionamen to, che dovrò fare , ſe
non ſe incoraggiarviad una sì bella impreſa di liberamente filoſofare, e
diviſarvi altresì quanto di liberi filoſofanti, e maeſtri le noſtre ſcuole
abbiſognino ; ne a ciò fare veruna induſtria , veruno ſtudio , veruna fati ca
reputerò vana , e inutile : imperocchè ove ſia ſeguito il mio avviſo., ſpero ,
che a voi ſomma gloria alcomun ſom mo pro , camefelice termine di queſte poche
fatiche , che per altrui utilità ho durate, ſia per ſeguirnezeper dare omai
comincianento ,dico , ch'egli ſembrerebbe ad alcuni ben fatto aſſai , che
s'aveſſe a rinovellare l'antico , e ormai per lungo ſpazio in tralaſciato uſo
di ſporre a parola p parola il teſto d'Ariſtotele. E quancunque il miglior
partito ſareb be,intorno a ciò imitando le più famoſe ſcuole d'Europa ,ri
pigliare l'antichiſfima traccia già tenuta da’ Greci nello in ſegnare , Oye poi
queſta non li voleſſe ſeguire , certamente giudicherei il men male , che ſi
faceſſer le chioſe in ſu'l già detto teſto d'Ariſtotele; imperocchè in sì fatta
maniera grande ſcemo ne verrebbe il numero innumerabile di quel le quiſtioni ,
in cui, e'l tempo,e'l cervello, non men de’mac ſtri,vilogorano tutto di
milerevolmente gli ſcolari; sì ve ramente , che poi i maeſtri a quella guila ,
e con quella li bertà l'opere d’Ariſtotele aveſſero a trattare, colla quales
cgli quelle di Platone, e d'altri antichi trattar ſolea . E co me a ſuo eſemplo
fecero poi delle ſue mcdefime Tcofraſto, Ermia , Filopono , caltri , e altri
ſuoi più nobili ſeguacije Ессе 2 clio 588 Ragionamento Ottavô chioſatori , cioè
a dir, ch'egli s'aveſſe minutamente a cri vellare ogni fuo detto , diſaininar a
fpiluzzico ogni ſua ra gione , econ nuovi,ė nuovi ſaggi provare, e riprovare
ogni fperienza, ch'egli aver fatto teſtimonia nelle coſe della na tura ; e
ficomene'miſterjdalla Divina eterna fapienza , che ne ingannar ſi plote, ne
ingannare altrui a noi già rivelati, nő dobbiamo più oltre inveſtigare ; così
nelle dottrine in. fegnatene da’šiloſofi,e particolarmente dallo Stagirita,egli
fi dee ſempreinai ſtare in ſu l'avviſo,ed aprir , come fuol dir fi , mille
occhi , e mille , per veder ſe ciò ,che egli nel ſuo indice ne ſcriſſe
ficonformi coll'ampio , e immenſo volun medell'Vniverfo . Ma perchè chiaro
appaja , e ſi poſſa quaſi diſli toccar cô mani quáto mal ſicurain quallivoglia
materia ſia la dottri na d'Ariſtotele ,ne daremo ora , comechè breve , qualche
faggio ; e primieramente in que ſentimenti , che da criſtia no orecchio
fenz'orrore no potrebbongiammai udirſizcioè, che l'eterno Dio non ſia il gran
fattore dell'Vniverſo, e de gli huomini : ne di noi punto fi brighi , ne con
noi voglia , o poſſa uſare in alcunaguiſa , ne in ſonno , ne in vegghia: e
ch'egli non ſia colui , ond'ogni bene avvenga. Che la per fertabeatitudine fol
nella preſente vita neli conceda , ſen za alcun godimento nellaltra poterfi
ſperare . Che la det ta beatitudine nella fola virtù non confifta : ma le fac
cia meſtiere de'beni della fortuna : dipartendoſi dal parcr del ſuo Macſtro
Platone ( cotanto commendato dal gran Padre Agoſtino ) colà ove diſſe , cſſere
la perfetta beatitu dine non altrocheil godimento di Dio. Che buona ſia l'é pia
legge di Minoffe ,il quale volca, chelecito foffe il pec car cótra a natura ,
acciocchè nó creſceffe oltre al cõvene vole il numero de'cittadini. Che gli
huomini abbian la vera fapienza : burlandoſi di Simonide, che detto avea effer
Dio folamente il ſapiente ; e ftizzandoſi contro Platone , ches ſcriſſe eſſere
l'umana ſapienza vile , e bazzeſca . Che igio , vani debbano fraftornarhi ,
comcincapaci, dalle morali dio fcipline . Che la modeſtia non fia virtù : nc
virtù di fortez za ſia il ſofferir pazientemente le ingiuric , la povertà , gli
1 efilj, DelSig.Lionarda di Capoa. 189 efilj , la morte , o altri infortunj :
le quali coſe , come em pie la medefima gentilità condannerebbe, che fortiſſimi
sé, za contraſto ſtimò Meltiade nel ſoſtener la prigionia,Temi ftocle l'eſilio
, Socrate la morte . Ma che direm poi di quel ſuo ſentimento dietro all'eters
nità del mondo,tante , e tante volte da lui ridetto , e pro varo, facendo
contro il vero arme i ſofiſmi?Che dell'empie fuc beſtemmie intorno alla natura
del grande Iddio , il qua le ſcioccamente egli chiama (wor , cioè a dire
animale . E a lui di vantaggio egli l'onnipotenza , ela providenza , elas
libertà dell'operare empiamente toglie ; oltre a ciò non potendo talor la
fuafolle , e pertinace miſcredenza celare , apertamente dice eſſere la
religione un politico ritrovato da tener a freno le genti , e che la dignità
del Sacerdozio debba compartirli a' ſoldati veterani. E che diremo intor no
alle pene, e premj , che dila ſi danno ſecondo l'operes che di quà per noi
fatte fono : E che direm’anche dello in ferno , il qual egli dice effer
certamente novella da vegliar de ; morendocon noi l'anime ancora , ne altra
coſa di noi reſtando dopo morte , fe non ſe il freddo cadavero , ſenza ,
fentimento niuno ? e tali alla per finc Ariſtotele ne trattadig come Se fate
foſſim’anime di ferpi . Ma non verrei mai a fine , ſe tutte quì diſtintamente
re car lo voleſſi le fue empie , e peſtilenzioſe doctrine , dalle quali
contaminato il miſcredente Arabo chioſacore in's prima ; e poi altristolſero
l'occaſione di comporre , e di co pilare quell'infame libro,de'tre ſeduttori del
mondo. Quin ci apertamente fi pare con qualita ragione detto aveſſe già
Lattanzio Firmiano : Deum non colit, nec curat omninò Ari Hoteles : e prima di
lui il grande Origene nel libro , cli’ei ſcriſſe cótro Celſo Epicureo,avea già
detto eſſere Ariſtote le piggiore aſſai d'Epicuro ; e dipiù biaſima Origene
mole? altre malvagità,e ſcelleratezze inAriſtotele,e la peripateti ci ſcuola
tutta ne taccia ; e'l beato Serafino da Fermo , e S. Vincenzo Ferreri
abboininando , e maladicendo la dottri na d'Ariſtotele, e quella d'Averroe ſuo
ſeguace ſoleva.gri dare i4 590 Ragionamento Ottaud dareeffer quellephialas ire
Dei projectas fuper aquasfapië tiæ chriſtiane , unde facte furtamare, ficut
abfynthium ; per chè anche la venerabile ſua ordine avca ſeveramente proi. bito
a’ſuoi frati il leggere l'opere d'Ariſtotele . E ben ſi paa re ,
cometeſtimoniano Laerzio Diogene , Ammonio , Cle mente d’Aleſſandria , e altri
, ch'Ariſtotele rivolto fi foſſes agli ſtudidella filoſofia per ordinazione di
quel Diavolo , che ſotto il mérito nome d'Apolline già dar ſoleya le riſpo Ite
in Delfo ;ne altra cagione ritrova San Girolamo alla Arriana ereſia , che
dottrine d'Ariſtotele : Arriana berefis argumentationum rivos , de Ariſtotelæo
forte mutuatur : fic enim Arrianos inperfidiam iviſse cognovimus,dum Chri Si
generationem putant ufufaculialligandam , relinquunt Apoftolum , fequuntur
Ariſtotelem , E S. Baſilio il magno ſchermendo , e vituperando oltremodo
l'Ereſiarca Euno mio dice , che coll'armi d'Ariſtarele tentava egli d'abbat
tere , e diſtruggere Criſto ; e ſpezialmente in un luogo, ov? egli dice : deh
laſcia forſennato il malvagio , e danneyole gærrir d'Ariſcotele: laſcia io
c'avverto quel velenoſo, e pe ſtilenzial ſuo favellare intorno alla natura
dell'anima : è in tutto caccia via da te quelle ſue mondane ſentenze, copi
nioni . Or ſe nelle coſe , che abbiam noi di certo , come loni quelle della
noſtra ſanta Fede , così manifeſtamente Ari ſtotele graſandò ; certamente
dovremmo noi anche nell'al tre tenerlo ſoſpetto , e dubitarne continuo degli
uſati ſuoi crrorijanzi dovremmo pure giudicar falſo apertamente tut te quelle
ſue premeſſe , dalle quali egli pervia di neceffarie cõſeguéze ſuol cavare gli
ſciocchiſſimi ſuoi falli intorno alla noftra sáta Fede.E veraméte il ſiſtema in
ſu'l quale egli ap. poggia , o tutta , o la maggior parte della ſua vana filoſo
fia,egliè l'eternità della materia, del movimento, del mon do , delle
intelligenze : la neceſſità di Dio nell'operarc,e la virtù finita di lui : e
altri , e altri ſentimenti a queſti fomi glianti. Ma che dire noi di quelle
coſe d’Ariſtotele,le quali quã tunque per la noſtra S. Fede non fi
determinino,pur la Ipe 1 ricn DelSig . Lionardo di Capoa اور rienza così
manifeftamente ora a noile dimoſtra , che nulla più èda dubitarne ? O forſe
negando noi fede agli occhi noſtri medeſimi, e dimentendone i ſentimenti , e le
dimo ſtranze , crederem noi oſtinatamente ad Ariſtotele , e non ne prenderem
pure faggio da altri più avveduti, e men cre. duli ſcrittori i quali in buona
verità affermino ſe avere fpe rimentato tutt'altro di ciò , cheAriſtotele
nefcrive : Adun que perchè credere noi,che l'arco celeſte nó poffa maggior d'un
mezzo cerchio apparere , quando contro l'avviſo d'A : riftotele, Franceſco Pico
della Mirandola , il Campanella , il Gaſſendi , il Blancani , ed altri molti
maggiore affai l'of ſervarono ? Anzi Io l'ho purriguardato , che non ſol mag
giore, del mezzo cerchio apparir foglia , ma talvolta anco ra in un cerchio
compiuto , e intero , dove il Sol fia alto , e l'huom da qualche monte aſſai
rilevato ilriguardi. E dell' arco celeſte lunare,perchè'giudicherem noi eſſer
quello co tanto malagevole aformarſi, che ne' plenilunj ſolamente apparer
radiſfime volte ne foglia : anzi le egh è pur vero (perciocchè vien comunemente
giudicato, maffimamente da Alberto Magno per una delle più favolofe novelle d'A
riſtotele ) cgli dovrebbe pur più ſovente apparere , che non Polervòcolui in
due fole volte per lo lunghiffimo ſpazio di cinquant'anni ; quafi egli in
ciaſcuna notte dicotanto tem po ſenza prender mai ſonno foſſe ſtato ſempre a
bada al ſe reno per riguardarlo ; non altrimenti che Fra Puccio ftayaſi digiuno
orádo alle ſtelle , mentre la fua donna rinchiuſa có colui troppo alla
ſcapeſtrata ruzz.ava . Ma degli errori d'A riſtorelein si fatte materie ne
diſcorrono appieno il Tele fio , il Campanella , ed altri eccellenti autori. Ma
che direm noi della proporzione, e convenenza,che infra fe hanno nel mondo
peripatetico quaſi in ben librata bilancia in andar ſu le coſe leggiere , e giù
le gravi? E la fciando per ora ad Ariſtotcle il creder, ch'ei fa fuor d'ogni
ragione effere la leggerezza non men che la gravezza me delima , qualità delle
coſe : e come poi per ſua dappocag gine lafciando di ſpiegare d'amédue la
natura ad altro tra paſli: dirò ſolamente della ſua fciocchilimatracotanza il
non 592 Ragionamento Ottavi -- -- non volere far pruova di ciò , che ſogna ,
che una pietra di mille libre fcenda mille volte più preſto , ch'un altra d'una
libra ; potendo con durar poca fatica ,ravviſare , che que due mobili , tutto
che tanto diſuguali di peſo , diſcendano però eguali in velocità . E chedirem
noi intorno aciò , che Ariſtotele vaneggia do ne vuol dare a divedere delle
coſe , che poſte in acqua , o ſcendano giù , o galleggino ? e come egli tratto
dalla ſuaſciocca maniera del filoſofare , vuol,che peropera della larghezza, o
ſtrettezza della figura, o fendan l'acqua,o nuo tino a galla coſe più gravi
aſſai dell'acqua medeſima , non riguardando egli punto alle vere cagioni, che
in ciò con venir poſſano . Intorno alla qualcoſa così ſmentito , eri creduto ne
fu egli dal noſtro ſottiliſſimo Galilei , che nutta più ne ſarebbe il
favellarne. Ma che direm noi dell'acque del mare? onde egli appre . ſe il
noſtro Ariſtotele eſſer quelle più dolci aſſai, e men fan late nel fondo ,che
di ſopra li ſieno ? Ahi quanto cauti gli huomini efer denno Preſso a color ,che
non veggon pur l'opra; Ma per entro i penfier miran col fenno. Così traſcurati
, e bambi ſi ſon laſciati trarre a ' ſuoi ſco cj , e difettoſi fillogiſmi i
poco avveduti ,e troppo creduli ſuoi ſeguaci, che nulla curandodi vederlo per
pruova,giu rano , ch'egli ſia infallibile verità : quum hoc , dice Giulio
Ceſare dalla Scala , pro comperto ,veroque habeatur, in fun do maris aquas
dulces effe. Ma Franceſco Patrizio huomo di maraviglioſo ſapere , e di non
ordinario avvedimento così operando pur con tutte diligêze diviſarene dallo Sca
ligero , ritrovando alla per fine il contrario , ne ſcrive: quñi mare
ftaretplacidiffimum , nec itineris tantillum navis confi ceret , nullo Spirante
vento experiri libuit , vafe cattitering ejufmodi, quale ipſe deſcribit , funi
longiffimo alligato , quem nautæ fcandalium vocant , & altero leviore
funiculo operculo accommodato , ita ut attractus illud aperire poſſet . Itaques
manibus propriis utrumquefunem in mare demifimus : vas cafu plumbo pilotico
fenfim ad fundumpervenit altiffimum , ſcili DelSig. Lionardodi Capoa 593
fcilicet CXLVII.: quum fenfiterramtenere , minorem funem traxi , operculum
referavi. Extraximus opertum mari ple. num , falfo , amaroque , baud
majorefalfedine , vel minore quàmquod in ſuperficie pofitum vafe alio
guftabamuscompa rando . Ma finalmēte intorno a ciò n'ha rimoſſa ogni dub biezza
il chiariſſimo Boile , il qual dice , che non ſolo i tuf fatori moderni
inghileſi han fempremai aſſaggiata l'ac qua nel fondo del mare ſalſa, non men,
che quella diſopra ; anzi dipiù in cerci luoghi della zona corrida ritrovato no
una fiata nel fondo del mare pezzolinidiſale , e ſe ne ſervirono a lor agio per
condir le vivande i peſcatori. Nó diffimile altresì da queſto dell'acqua ſalſa
è quel, che Ari {totele apporta ne’libri delle ſue metcore, intorno al vino ;
affermando con franchezza grande, che i vapori del vino ſi vengano a cambiare
in acqua toſto che ſi riſtringano . Ne men groffa di queſta è quell'altra
ridevol balordag gine del noſtro natural filoſofante,intorno al rame ; la qual
parimente nelle ſue meteore volle, che ſi leggeſſe;cioè, che'l ramenon ſi poſſa
per coſa del inondo įn altro color tignere. E quinci veggafi pure quanto male a
lor huopo i filoſofi nan turali non ſappian di Chimica. E che direm noi intorno
a’mari , i quali dice Ariſtotele eſſer molti , e molti , che non ſi congiungano
inſieme, trat tone ſolamente il mar roſſo; il qualſecondo il ſuo avviſe , p
piccioliſſime focinell'Oceano Atlático entrar ſi vede Nar ra ancora egli , e
follemente giudica i Beti, e la Dannoja naſcer da’monti Pirenei ; e nel
Parapamiffo l.2 lor prima fő te avere il Battro , el Coaſpe , e l'Indo , e
l’Araſle , cche da queſto poi li venga eglia diramareil Tapai. Coſe tutte
manifeſtamente falle , e impoſſibili;concioſliecoſachè fap pia ben ciaſcuno
tanto quãto di ciò intendente , che'l Coal pe per la Perſia diſcorra , e di la
dalla Perſia il Battro allin Battriana Provincia dea nome , e l'Indo naſca
nell'Indiwi perchè non è da credere , che fiumi diſcorrenti in Provin cie
cotanto infra fé lontane , e rimoſſe , in un modelimo luogo tutti , e da una
medeſiına fonte ſorgano ; c'l Tanai ſa ben ciaſcuno , che naſca ne'inonti
Rifci. Ma di più dice Ffff Ari 594 Ragionamento Ottavo 1 Ariſtotele , che nella
Liguria un fiume grandiflimo ; e non minor del Po s'inghiotta tutto , e fi
divori dalla terra , e quindi dinuovo poi rinaſcendo diſcorra altrove . Ma in
corno al primo naſcimento de'fiumitutti ,egli molto ſcioc camente parlando dice
, che ciaſcun fi formi, es’ingeneri negli altiſſimi monti dal vaporoſo aere per
virtù del freddo a viva forza riſtretto , e condenſo , e diſtillante continuo
in acqua nelle naſcoſe caverne , e nelle picciole buche della terra ; e quindi
poi fa che prendano perpetuo movimento con una cotal gravezza , la quale
perrocce, e per burrati , eper lande, e pervalli faccendo l'acqua diſcorrere ,
eca dere La fa inquieta , inftabile, e vagante . Nel qual modo follemente
filoſofando fa egli nafcer non folamente piccioli fiumicelli , e fonti, e
poveri rivi , ma no ne ferba anche i più ſuperbi, e vaſti fiumi del mondo. La
qual coſa quanto ſia ſciocca , e da ridere , ben può comprenderlo chiunque ha
favilfuzza d'intendiinento, fen za ch’lo più ne dica . Eche direm noi di quella
così ſmiſu . sata , e incredibile altezza del monte Caucaſos Baja , ch'avanza
inver quante novelle , Quante mai differ favole , ecarote Stando alfuoco a
filar le vecchiarelle. Eglimillantando delle cime di quello dice , che fino
alla terza parte della notte ſian dalfole illuminate ; che fatta ne la ragione
ſecondochène ſcrive il ſottiliſſimo Peripate tico filofofante Giacomo Mazzoni ,
farebbe il monte dal tezza almen di ſettant'otto miglia noſtre Italiane per
linea perpendicolare ; c quì non può non gridar eoli : papa in quos aculeos
imprudens me conjeci! rident enim hoc Ariſtotelis dictum Mathematici; putant
enim eum pueriliter lapfum efle. Cæterum ego dico eum ſequutum effe famam . La
quale ſču fa del Mazzoni Io non lo ſe maggiormente debba fcagio nare , o
tacciare il noſtro veritiero , e accortiſſimo Filoſofo. Ma d'altra parte
Giuſeppe Blancani famoſifſimo Matema tico , cercando a biftento di menomar
cotanta altezza del Mazzoni, la riſtrigne ſolamente a miglia cinquantadue ; qua
DelSig.Lionardo di Capoa. 509 quia tamen , ſoggiugne poi, adhuo omnem veritatem
nimium exfuperat ; e biaſimandoſi forte della ſcuſa del Mazzonifa piertiores
judicent , dice , num recte philofophus, cujus eſiree condita ,
&abditadocere, excufetur ,fedicatur eum popula . rem famamfequutum effe. Ma
fe falla così ſconciamente Ariſtotele in narrando con ſe falſe per vere , non
meno errar ſuole egli talora in rifiu . tar come mentite , e falſe quelle, che
manifeftamente ſon vere . Così egli nega efſer il vero ciò che cutto dà ſperimé
€2 avvenire nelle contrade della Paleſtina, e propriamente in quel miſerabil
luogo , in cui già cadde Fiamma dal Cielo in dilatate faldea E di natura
vendicò t'offeſe Sovra le genti, in maloprar sì falde. Fu già terra feconda,almopaeſe;
Hor acque for bituminofe , e calde, E fteril lago, e quanto ei volge, e gira,
Compreſs'èl'aria , egrave il lezzo fpira. Di quel fetidohumorgiammainon beve
L'affaticato peregrina, e laſo, Non greggia, non armento:e cofa greve ,
(Benchefia gravepur, qual ferro;of affo ,) Sornuota quaſi abete,od orno leve:
L'huom non s'attuffa mai, ne giugneal baſſo. Cosìagevole egli è Ariſtotele a
negare , e ad affermare a fuo talento tutto ciò , ch'e' vuole , fenza aver
riguardo niuno alla verità . E volle Ariſtotele anche oſtinaramente contendere
, e negare contro l'avviſo di molti valent'huo mini, fotto la torrida Zona la
terra eſſer abitabile. Ma che direm Noi della Galaſſia , o vogliam dire cerchio
di lat te , il quale fecondo Ariſtotele è un incendio perpetuo bruciate nella
region dell'aria per l'eſalazioni, che dal le baſſe valli , e dagli alci monti
vi manda continuo la cerra ; errore così grande , che anche i più cari ſeguaci
di lui ſe n'avvidero , e apertamente ne'l ripigliarono ; in torno alla qual
coſa , ſon veramente degne da notar quel le parole d'Olimpiodoro avvedutiſſimo
ſuo interpetre, colle Ffff 2 quali 1 596 Ragionamento Ottava quali egli
comincia a chioſar quel luogo : il Reo ( dic' egli, fervendoſi del volgar detto
) è di miglior condizione dell attore ; concioffiecoſachè allegando tutti gli
antichi filoſo fanti nel ciel la Galaffia , ſolamente Ariſtotele portando falſa
opinione, nell'aria ła pone ; perchè il Campanella eb be a dire:hancfententiam
nemo fequacum ſectatur , nifi ftul si quidam :fra' quali non vergognoſli di
porre il ſuo nome CeſareCremonini:mathematica ,et rationis expertes;e Aver roe
, il quale così a capital tiene la reverenda autorità del ſuo caro Ariſtotele ,
che tranguggiar volentieri fi fuole tutte ſuc bagatelle, e ſue bugie, quantunque
groſſe,e fmi ſurate elle fieno, pur ciò non potè a niun inodo inghiottire . Ma
che direbbono a’giorni noſtri il Cremonini , e gli altri oſtinati fuoi ſeguaci
, fe mercè del Teleſcopio guataſfero quelle tanto picciole ſtellucce ,
ch’ammucchiare inſieme , e riſtrette laſsù formano la Galaſſia , edi quà ne
fembrano per la lor picciolezza una confufa liſta appena di mal di ſtinto
ſplendore; il chefenza conſiglio del Teleſcopio be conobbe il fottiliſſimo
Democrito , allor che , come Plu tarco , e Macrobio teſtimoniano ,difſe eſfer
la faſcia del latte non altro,che moltitudine di ſtelle fiffe in quella parte
tan to picciole,e non vedute diſtintamente a noi per la lor pic ciolezza , non
già perchè allumate non fian dal ſole per lo tramezzamento della terra , come
falſamyente ne vuol dar a diveder Ariſtotele ch'abbia detto Democrito , per
avval lare il buon nome di quello, con accagionarlo d'un mani feftisſimo errore
. Ma chi non fa quanto egli fiafi apertaméte aggirato Aristotele intorno al
luogo, e alla generazion delle stelle comete , e quanto fanciulleſcamente e'ne
diviſi ; e già n'è prie troppo a ciaſcun manifefta la verità , avendone sì ben
fa vellato il noſtro Ipparco ( che tal meritamente dal Gaſſer di vien chiamato
Ticone ) e l'ingegnofisſimo Chepleri, e cotant'altri moderni Aſtronomi, e
filoſofanti, i quali n’hā così dimentito , e ricreduto Ariſtotele, chenulla
più. E che direm noi intorno all'incorruttibiltà,come dicono del Cie lo ,
intorno alla natura del ſole , e dell'altre ſtelle ? E che direm Del Sig.Lionardo
di Capaa 597 direm noi della favoloſa novella della sfera del fuoco? Ne. mi
farò ora a voler dir della Terra, la qual ne’libri del Cie lo avendo Ariſtotele
poſta ritonda , pure ſpagato , dice ne’ libri delle meteore,ch'ella inverſo
Settentrione , alquanto più rilevata , e alta filia . Nedi ciò anche contento ,
ne’li bri medeſimi delle meteore , come ſe caduto gli foffe della memoria ,
ciò, che non guari addietro n'avea ſcritto, portas opinione eſſer la terra ,
non già ritonda ,ma da due lati pia na a guiſa ditamburo ,o di cilindro , o
dirottame di colom na : ftando ella , ſon ſue parole , non altrimenti,che
tamburo ; perciocchètale è lafigura della terra : equantunque ſi paja
ch'eifavelli della terra abitabile , di queſta anche aveans favellato gli
antichi filoſofi , i quali egli biaſima travolgen do i lor ſentiméti;mache che
ſia di ciò, falfo pariméte ſi è , la terra abitabile efſer a guiſa di tamburo;
ondeebbe a di re il Tallo , comechè peripatetico e' fi foffe : Tal che
nonſembra l'habitata terra Timpano più ,come affermando inſegna Il gran Maeſtro
di color ,chefanno. Ma delle contradizioni, e mutamenti d'Ariſtotele ,i que. li
quafi in ogni carta delle ſue opere s’incontrano , lun gofarebbe ora a dire ;
le quali così manifeſte , e così ſpeſ fe ne'ſuoi libri ſono , chei
inedeſimiſuoi parziali non oſan negarle . E conciosſiecofachè molti famoſi
ſcrittori s'ab biano preſo briga di fcoprirgliele , tralaſcerò lo al preſen te
di più divifarne . Solamente non vo lafciar di trarne a noſtro concio , cheAriſtotele
avvegnachè tutt'altro inoſtrar volefle,filoſofar folea non meno incerto e
dubbioſo , che il luo maeſtro Platone , e Socrate ſi aveſſer già fatto ; e feco
dochè più in concio gli rendevali ſerviva delle opinioni al trui ; e quelle , e
queſte , or abbracciando , or rifiutan do a ſuo talento , non altrimenti che
noi nelle varie ſta gioni dell'anno de' noſtri veſtimenti facciamo . E certa
mente lo direi co'l dottisſimo Ramo,la filoſofia d'Ariſtotele da quelle vane
ciance in fuora , che dir ſi poſſono propia mente ſue , eſfer una confufa
meſcolanza de ſentimene ti degli antichi ſoventemente da lui non troppo bene
capi 598 Ragionamento Ottavo 1 2 4 . 4 capiti , e malamente ſpiegati; ficome in
più luoghi delle ſue opere manifeſtamente fi fcorge. Collecta femel iftafunt,
dite l'accennato Ramo, de multis , magnis infinitorum authorum ; & operum
vigiliis ; recognita nufquam funt . E piaceſſe pureal Cielo , ch’a’tempi
noftridurati pur foſſero imalandati libri di quegli antichivalent'huomini,che
più agevolmente ſenza fallo ne ſarebbe creduta cotanta verità, E quinciſi pare
, con quanta ragione detto aveſſe l'iſtorico Timeo appo Suida , eſſer
Ariſtotele ditardo , ed ottuſo in tendimero: Tίμαι φησιν κατ ' Αριστοτέλες
,είναι αυτονευσχερή,θρα συν , πιοπιτή,αλ' ου σοφισών,όψιμαθή.μισον υπάρχοντας
το πολυήμητου ιαπιείον αποκεκλεικόG , και στις πασαν αυλήν , και σκηνήν
έμπισηδηκόα . Timeo diſse contr’Ariftotele , efser lui impronto , orgoglioſo ,
rintuzzato d'intendimēto,eda ciaſcuno odiato: il qual con ſue maladizionifi fe
ftrada in tutte le corti , e per ogni ſcena pro verbiava ; che che ſi dica il
Cauſabono: il qualpoco, o nul la inteſo di sì fatte faccende dice , in
favellando di Timeo , falfifima enim omniaquæcunq; dedivino viro epitimæus ifte
nugatuseft. E le inai ſidee dar alcun luogo alle conghiet ture , più balordo ,
e ſciocco eſſer veramente ſtaro di quel, chc Timco , ed Eliano ancora ne
raccontano e ſembra cer tamente Ariſtotele ;perciocchèegli ben vent'anni
conſumo nella feuola di Platone,e periſtudio,e ſudor , ch'e'vi logo raffe ,nó
potè mai avāzarne più che forſe ſi ſarebbe approfit tato il più
minutoícolaretto. E ciò maggiormente ſilaſcia credere dall'aver lui molto
ſcioccaméte apprefe alcune sé téze del ſuo maeſtro, e molto ſtorpiatele , e
malmenatelei. Ma di ciò forte altrove più agiatamente diremo . E ritor: nando
ora a ciò , che propoſto avevamo, cioè a rapportar come ſconciamente Ariſtotele
cerca talora di contraſtare , ed abbattere gli altrui veri ſentimenti:
maraviglioſo certa mente , e degno aſſai da notarſi e' miſembra qucl, che egli
dice del ragnolo : ed è,che avendo già detto in prima De mocrito , che le
ſottiliſſime fila , onde ilragnatelo con arti icioſo lavorio teſſer ſuole
maraviglioſamente le fuc tele , egli dentro le ſue viſcere le ingenerise per lo
fondo le trag ga per quella parte ch'è bello il tacere ;levofli incótanente
fuſo 3 4 DelSig.Lionardo di Capoa. 199 ر fuſo Ariſtotele , e opponendoli
orgogliolamente a un tan to huomo, diſſe , che Democrito in ciò manifeftamente
fal lava , e che le fila forminſi dal ragnatelo per tutte parti del ſuo corpo ,
a guiſa di corteccia , o di lanugine, chetut ta gli vadano coprendo la buccia ;
o non altrimenti che s? avventino le penne dell'Itrice : ου διμύανται δ '
αφιέναι οι αράχναι το αράχνιον , ευθύς γεννώμενον , ουδ' έσωθεν , ως αν
περιθωμα , καθάπερ φησί ΔημόκριτGάλ ’ από του σώματG- οίον φλοιόν, ή του βάλον
τοίς Dertiv,oi'or ai uspiges : cioè i ragnateli nati appena mādan fuq ri le
fila ,non già dalleparti dentro aguiſa di fecce d'anima li, come falfamente
immagina Democrito , madalleparti di fuori, aguiſa d'una ſcorza, opur di quegli
animali , che ſono gliano, Jaettano i peli, come è l'Iſtrice, Ma quì non ſi può
ſenza maraviglia coſiderare la traſcu raggine ,e lentezza de’poco curioſi
peripateticisi quali se zabadar puntoalla verità del fatto ,confarne pruova han
cosìvergognoſamente ſeguito il parere d’Ariſtotele, laſcia do daparte quello di
Democrico ;ilquale tutto il corſo del la ſua vita , che fu affai ben lungo, in
far eſperienze avea logorato ; e tanto più degni di biafimo ſi rendono , quanto
che l'impreſa non richiedeva cotanto fenno , e avvedimen to , o fatica per
venirne a capo : che ben ancora le feminel le delcontado, e imuratori, e gli
ſpazzacamini avveder ſe ne poſſuno , allor, che ne’lor piccioli abituri veggono
fa re il tombo agl'induſtriofi ragnuoli, per inteſſer le ragne alle moſche. Ma
fu egli certaméte cagioned'un sì folle errore l' aver eſli dato intera credenza
ad Ariſtotele.E nel vero , chi mai ſoſpettar avrebbe potuto , eſſere ſtato Ariſtotele
così fciocco , e ardimentoſo nel ſuo lcrivere , che manifeſtame te aveffe
voluto contraddire al divino Democrito ſenza aver lui in prima ſottilmente
conſiderata la biſogna, e ſpe rimentata per più d'una pruova co’propi occhj .
la ſua ragio ne ; maſſimamente,che a doverne far ſaggio non gli era me ftieri
inviar mefli ad Aleſsandro, e farli venir dalla Media, o dall'Ircania, c dalle
più rimoſſe contrade dell'Indie nuo ve, e non più conoſciute belve ; che ben
poteva egli nella camminata della ſua caſa propia veder ne*cáconi i ragnuoli
filare; Coo Ragionamento Ottaud ; filare;pchèvalſe tátol'autorità
d'Ariſtotele,che in coſa co tāto manifeſta ſe ne ſarebbe per avvétura ancoroggi
ſepol tala verità, avédo ad Ariſtotelecreduto l'Aldovrádi,e cota. ti altri
famoſi ſcrittori,ſe la ſperienza nõ aveſſe nõ ha guari moſtro pienamente aver
Democrito la ragione, peropera del curiofiflimo Giuſeppe Blancani in prima, e
poi di Tom maſo Moufeto : acceptomanu bacillo Araneum quendam :dia ce il
Blancani : ex iis , quicirculares telas , quas nonnulli , & quidem aptè
labyrinthos appellant, ingenio utique mathe matico contexunt ,fic adii , ut
Araneuspro arbitrio ſuper bar cillum liberè inambularet ; dum ipſe interim
curiofius illums obfervarem quanam videlicet ex parte filum foras ederet : cum
ecce tibiaraneus experienti mibi ultro favensfefe exba culo demiſit, ita tamen
ut ex filo fuoin aëre fufpenfus rema neret : cum primum obferuo ipſum inverſum
, hoc eſt capice deorſum , ventre ſurſum pendere ; ut autem acutius cerne rem eum
opacecuidam rei oppofui , ne pre nimia luce tenuiffi mum aranei filum aciem
oculorum effugeret ; quo facto cla riſfimè videbam filum ſeceſſu Aranei prodire
. Mamolti ſe coli prima del Blancani avea ciò parimente ravviſato il ſa
gaciſſimo Plinio ; mane a Plinio , ne al Blancani volle pre ítar credenza il
Vosſio padre : così poco acconcio egli eb be l'intendimento a diviſar delle
cole della natura . Ma poichè deʼragnateli facciam parole,non tralaſcerò di
conſi derare quanto dietro al partorire di quegli il noſtro Ariſto tele
vanamente anco s'aggiri , dicendo partorire i ragnoli cotali vermicelli vivi ,
e non già le uova , come alcuni im maginano ; ma quanto ciò ſia dalvero lontano
, dicalo in miz vece il diligentisſimo Redi; il quale narra, che per tut te diligenze,
ch'egli ulate v’aveſſe , non avea mai veder po tuto ne’ragnateli ſe non
l'ovare, e dalle lor uova poi nalce . re i piccioli ragnolini ; Ma non meno è
da notare ilgravif fimo fallo d'Ariſtotele intorno al Canclo in dicendo efferli
ingannati coloro , tra'quali fu Erodoto , che diceano il Ca melo aver più di
quattro ginocchjie pur chiaramente ſcor geli, il Camelo, comc Erodoto
dicea,aver ſei ginocchji e le cotāto intorno a coinunali e ben conoſciuti
aniinali ſcioc chinen DelSig.Lionardo di Capca. 661 ) و : camente Ariftotele
travede che dovrem noi credere di que's più rimoſſi alle noſtre contrade , e
meno uſati,de quali egli nátrâ cotante ſtrane , e incredibili novelle , e più
affai , che me diceffe mai fra Cipolla a que’ſemplicicontadini da Cero taldo ?
Narra egli del Lione Ariſtotele, che non abbia mi dolle alcune nell'offa
maggiori del ſuo corpo; ma che ſola mente in alcune delle picciole, cioè delle
gambe ne abbia, avvegnachè sì ſottili , e poche quelle ſiano , che par,che af
fatto eglinon ne aveſſe ; onde egli avviſa poi naſcere l'in vincibil fortezza
del Lione. Ma quanto ciò falfo fia , non pure per Ateneo , che forte ne ’
ripiglia , ne ſi fa chiaro ;ma dopo lui ancora più apertamente fu dimoſtrato
dal chiarif fimo Borricchio ; il quale aperti due gran lioni in Afnias , reggia
di Danimarca ,vide egli avere in molte delle loroof ſa copia grandiſſima di
midollc; e prima del Borricchio fu ravviſato in queſta noftra patria in un
Lione del Signor D.Tiberio Carrafa , Principe di Biſignano: il quale fu tro
vato parimente pieno di midolle ; e quinci apertamente fcorgeſi, quanto a torto
ſiano accagionati, e biaſimati da’ critici ſeguaci d'Ariſtotele il noſtro
dotiſfimo Stazio ,paver lui poſto in bocca ad Achillo que'verli nec ullis
Vberius fatiaffe famem , sedſpiſſa Leonum Viſcera ſemianimefque libens traxiffe
medullas: et gran Lodovico Arioſto , quando fa egli, che la maga Melilla
affacciandoti nella forma d'Atlante , all'effeminato Ruggicri così dica :
Dimidolle già d'Orſi , e di Lioni Ti porſi.io dunque li primi aiimenti;
perciocchè dicono non aver midolle i Lioni ; il che an che credendo ad
Ariſtotele il Mazzoni , ricorre per difen der l'Arioſto , giuſta il ſuo
coſtumein quella ſua infelice di feſa di Dante, a ſottigliezze così vane , e
puerili , ch' egli ſteſſo vien aſtretto a chiamarle altrove ſofiſtiche , e
cavillo fe : Ma non meno ſciocco è quell'altro crror d'Ariſtotele , diccndo
egli aver i Lioni così dure , e falde l'offa , che fre gandoſi inſieme,
agevolmente ſe ne tragga il fuoco ; non altri oli 12 ull Do le Gggg 602
Ragionamento Ottavo altrimenti , che avvenir loglia nella pictra focaja . Ma
ciò manifeſtamente fperimentoſli falſo in que' menzionatiLio ni d'Afnia , i
quali comechè fortis e gagliarde l'offa avelle ro , non però di meno per
diligenza , chevi fi adoperaffe , non ſe ne potè trar mai picciolisluna
ſcintilla di fuoco ;, fen zachèſe ciò pur foſſe vero ,non ne dovea però cavare
Aria ftotele per via d'argomento l'invincibil durezza di cotali offa ;
concioſliecofachè anco in fregandoſi due tron molto dure , e pieghevoli canne
d'India , o due molliflimc ferole , o altri simili legniaccender ſi foglia il
fuoco anzicorpi, che fian talmente duri,che in fregandoſi no li roinpano in
qual che parte, non poſſono accender in niuna maniera il fuoco . Dice oltre a
ciò Ariſtotele, eſfer l'olla del collo del Lione, comeanche quelle del Lupo non
rotte , e partite , ficome tutt'altri animali le hanno , e poi per opera
de’nodi con giunte ; ma tutte intere , e diſtefe in ſu lo ſchenale sì fat
taméte , che in niun modo ſi poffan piegare; ma in ciò, oltre a Giulio Ceſare
dellaScala ritrovollo in fallo ed apertame . te lo convinſe di bugiardo , il
Borricchio ; dicendo, per ve duta fermamente di que’Lioni,quorum colla
vertebris ſuis, & articulis pulcherrimè diſtincta erant . Finalmente
afferma Ariſtotele eller l'orina del Lione di ſconcio , e
ſpiacevolisſimo'odore; ondeavvien poi , dice egli, che i cani fiutar fogliono
gli alberi, perciocchè il Lio AC, come il cane appoggia una delle coſce al
pedal dell'al bero , quando e' vuole ſtallare ; c più appreffo ſoggiugne: e
lafcia il Lionegrave , e iníopportabil puzzo negli avan zi de cibi , ch'egli
divorar ſuole ; e ciò avvenir Ariſtore Je ſoggiugne dal peſſimofiato , che il
Lione fpira; percioc che , come e narra , le interiora oltremodo putono al Lio
ne . Coſa , la quale manifeſtamente da a divedere nõ aver mai Ariſtotele alcũ
Lione aperto , o teſtè occiſo ,veduto.Ma troppo lúgo ne diverrei, fe tutt'altre
novelle d'Ariſtotele in torno alLionerecarlo què voleſli; pchè tacerò acheciò,
che: Ariſtotele fognò del Camclo ; immaginado egli ſu'l dolfo di quello ungrá
gobbo ;non avvisādo, il Camelo no averlo maggiore deporci,e de'canize che
quella eminéza,la quale nel DelSig.Lionardo di Capoa. 603 nel Camelo ſi ſcorge
fia formata da'peli ; c ciò , che e' fogaz del Camaleõte,dicédo no averil
Camaleõte ſangue , ſe no ſe vicino al cuore; ed eſſerdi carne prive le
ſuemaſcello; e'l principio della coda. Ne addurrò per la medeſima ra gione i
ſuoi ragionamenti dietro al Coccodrillo alle Aqui le , e ad altri molti
animali, che manifeftamente per prud va ora falſiffimi eſſere fi ſcorgono ;e
tuttavia da'famoſi ſcrit tori de’tempi noftri ne fon notati; me ſolamente è
qucftas ventura del noſtro ſecolo ; imperocchè nc'traſandati tempi ancora v’hebbe
degli affennati, e diligenti ſcrittori , i quali de'ſuoi groſi, e infiniti
falli intorno alla ſtoria degli animali manifeſtamente Ariſtotele dimentirono ;
ed Afinio Pollione, quel famofiffimo, e ſaggio oratore rivale di Mar co Tullio
Cicerone , incontro a’lunghi volumi d'Ariſtotele ben diece libri compoſe della
natura degli animali ; il qual fe pur egli affatto non era ſenza giudicio, e
ſcimunito , ben è da credere , che con chiare, ſalde, e ragionevoli fpcricn že
n’aveſſe fgannati, e ricreduti de' grandisſimi crrori prefi in quc'libri per
Ariſtotcle : c più veritieramente narrata la natura, o le factezze di corali
animalida lui ben conoſciu ti ; ma la rubberia del tempo netolle cotali
fatiche. Ebé s'avvide ancheAteneo dell'infinite bugie narrate da Ari ftotele;
ond’ebbe a dire ; con qual cura , ö diligenza , potè mai egligiugnere a fapere
, che coſa fi facciano i peſci nel ma re , come dormano , e qual ſia il lor
vitto ,o qual Proteo , o qual Nereo uſcito fuori del pelago alla riva andò
araggua . gliargliene . Come gli porè effer noto lo spazio della vitae dell'
Api, e delle Moſche ; ove mai potè vedere un' edere nata da corni d'un cervio ;
e dopo aver narrato queſte , e cent'altre novelluzze da ridere , e da tenere a
bada la bruz zaglia deʼlettori , dette da Ariſtorele in fu la ſtoria degli
animali , riſtucco alla per fine di più annoverarne , trala fcio 1o, dic'egli ,
di narrar molte coſe,e multe,nelle quali ma nifeftamente lo fpeziale , cioè
Ariftotele fi vede avere ſconcia mente delirato . Ma quanto al fatto della
ſtoria degli ani mali , Io porto fermislima opinione, non effer vero ciò che
narran dilui alcuni , e che buccinavaſigià ( ficome riferiſce Gggg 2 Arc 604
Ragionamento Ottavo . Atenco) nella ſua patria Stagira; cioè , ch'egli avuto
aveſſe Ariſtotele dalla liberalità del Magno Aleſſandro , per po refla più
acconciamente fornire ottocento talenti , che ſo condo la ragion del dottisſimo
Budeo giungono alla ſom ma di quattrocento ottantamila ſcudi de’noftri tempi: e
che per una sì glorioſa , e mirabil opera gli foſſer deſtinati , co me narra
Plinio :aliquot millia hominum in totius Afic,Gree ciæque tractu parere
juffa,omnium ,quos venatus,piſcatuſque slebant ,quibufque vivaria , armenta ,
piſcine , aviaria in cura erant , ne quid ufquam gentium ignoraretur ab ea
quospercontando quinquaginta fermèvolumina de animali bus condidit. E’n queſto
parer ini conferma in prima la va rietà degli ſcrittori in narrar queſto fatto
; imperocchè Elia no ſagaciffimo ſcrittore, e raro nell'inveſtigar le greche an
tichità , dice , che la ſomma de’danari, non già da Alellar dro , ma da Filippo
ad Ariſtotele foſſe ſtata donata . Co fazla quale affatto inverifimil ſi pare ;
conciosliecoſachè a Filippo tra per le continue guerre , ch'e' fece in Grecia ,
e perle grandi impreſe , ch'e' diſegnava contro la poderoſif kima Monarchia
Perſiana , gli faceva meſtiere, anzi d'accu mudar danari, che di ſpendergli,e
ſcialacquargli in peſchie rejo vivaj , in uccellami , in cacciagioni , o
ſomiglianci co fe. Aleſſandro poi ,priina d'incominciar la guerra contro Dario
, ad altro certamente dovette badar , ch'a ſomigliã ti ſcacciapenſieri ;
fcozachè non avea sì gran dominio daw poter ſeguire ciò,chc Plinio millanta ;
manel tempo della guerra, oltrechè la cura dell'armi era valevole a fraſtornar
gli ogn'altra impreſa egli di più era allor divenuto si nimi co d'Ariftotele ,
che per fargli onta, e diſpetto ,mnādò Am baſciadori , e doni a Senocrate
ſucceſſor di Platone , e fie ro emulo d'Ariftotele . E dirò ancora , che ſe mai
Ariſto tele ebbe parte ne’teſorid Aleffudro , in tutto altro certa mente
l'aveffe inveſtico , che in acquiſtar notizia , e contez za delle coſe della
natura . Neglimancò agio da farlozim perocchè egli era , come ne da
teſtimonianza Tineo :760578 γαςείμαργον, έψαρτυτήν , επ σάμα φερόμενον εν
πάσιν: cioè gram paraſito , e divorator delle più ghiotte vivande , ne fi
ritene va di DelSig. Lionardo di Capoa gos va difvögliarſi di qualunque cibo. E
in oltre non gli mann cò quel pizzicore , per cuii giovani male il loro avere
ſpé, dendo , le più fiate miſeramente ne capitano ; e tinto s'in veſchiò nella
pania , che per amor venne in furore, e matto ; e come narra Laerzio ,sì
fortemente innamoroſli della con cubina d'Ermia , che a leicosì immolò , come a
Cerere Eleuſina folean già fare gli Atenieſi ; e per tali cagionia tal ſegno di
miſeria pervenne, che alla fine riduſſeli vergo , gnoſamente a tradir la patria
a’Macedoni : poi tolſe a fare il foldato ,ove ne meno eſſendoviſi niente
avantaggiato, vode le far borrega di ſpeziale; e anche per civanzarſi nonver
gognavafi di vender quell'olio, ove in prima bagnandoſi avea depoſto le ſozzure
tutte del corpo ; e con fimili ſtiti. chezze s’avvisò di dar compenfo per
avventura agli ſcia facquamenti di quella prodigalità , con cui difperfe,e con fumò
tutto il paterno retaggio . Io adunque mi fo a cres dere , ch'egli non nai
vedefle notomie di morti , non ches di vivi animali ; e che folamente ne
ſcriveſſe per udito yes per ciò , che ne’libri degli antichi fconciaméte forſe
appre lo n'aveva , o immaginato . Perchèpoi così alla rimpazza ta confonde , é
meſcola il tutto , ragionando de' nervi , es delle vene , cheben'a lui fi
potrebbe adattare quel verſo di Orazio Delphinum ſylvis appingit,fluctibus
apram . Così cgli follemente immagina naſcer i nervi ,e le venej tutte dalcuore
; il qual dice ſolamente eſſer quello , onde il ſenſo , ei movimenti negli
animali fi facciano ; ne ad al tro fervire il cervello , fuor folamente , che
ad alleggiare, e temperare l'abbondevol caldo del cuore . E ſomiglianti altre
balordaggini , e fcipitezze narra : anzi maggiori affaiz in ſomma intorno alla
fabbrica , diſpoſizione , ed ufici del le parti del corpo umano tanti,e tanti
falli commiſe ,che ben potè dir Ateneo : coſe tali ſcriffe Ariftotele ,
parlando della ſtoria degli animali , 'che come dice il Comico , daglá
ufcempiati ,e pecoroni quaſi a fravaganza ,quaſi a miracoloſ gredoro. E ben fi
parc , che Galicno medeſimo foffeſi con lui portato modeftamente , anzi che no,
allor che diſſe po + 1 CO Aria 806 Ragionamento Ottavo 1 1 4 co Ariſtotele
conotcerti di notomia . E ben’a noftr'huopo di que' ſettanta libri, i quali,
ſecondochè Antigono ne ſcriva, Ariſtotele intorno agli animali compoſe ,
ſolamen te que’pochi ſe ne leggono , che il tempone laſciò ; per ciocchè
maggiori cagioni di fallare i ſuoi favorevoli avrebbono; fi enim ,dice
ſaggiamente il Borrichio,compen dii peccata numerari vix poffunt, illa operis
totius modo ex tarent , effent fortaſſis innumerabilia . E queſte adunque só ic
gran pruove dell'ingegno maraviglioſo del divino Ari ftotcle queſte le riuſcite
delle tante ſpeſe , del tanto aju to,ch'egli ebbedalla liberalità del
grand'Aleſſandro? que Ite le ripoſte notizie, ch'egli acquiſtò dalle tante
fatiches da lui durare ? Ma ſenza venir tinto buccinato , fenza tan ti
ſoccorſi, e ajuti, o quant'oltre, non dirò Democrito, no dirò Eraſiſtrato ,non
dirò Erofilo ,non dirò altri antichi, ma un folo Arveo ne'confini d'un Iſola
riſtrerto, o quant'oltre avanzoſli , sì chemeritevolmente , e ne ſtupiſce
l'aman ſa pere , e l'amira il preſente ſecolo , el celebrerà il futuro , Ma che
direi noi intorno all'altre coſe della natura , cu gencralınére in tutta la
filoſofia naturale ? Eglicosì ſciocco , e gocciolonc fu Ariſtotele , che
diffidandoſi di parteggiar lo in ogni ſuo fallo,iſuoi medefimi ſeguaci,talor
vergogno ſamente l'abbandonarono . E per nulla dir de' Greci ; o d' Avicenna ,
d’Algazele , e d'altri Arabi filoſofanti,qualno ftro buon peripatetico per Dio
fu così teſo, e oſtinato ,che talor da lui apertamente non fi partiſſe ? cper
tacer d'altri, ilBeato Alberto , lume della Criſtiana ſapienza , e della
venerabile Ordine de'Domenicani , avendo l'opere d'Ari ftotele ſpiegate , niuna
delle ſueopinioni approvar volle; anzi così proteftando i ſuoi ſentimenti alla
per fin conchiu de: in his nihil dixi ſecundum opinionem meam propriam , fed
juxta pofitiones peripateticorum ; & ideo illos laudet , velre prehendat,
non me.E quel gran maeſtro in divinità e in peri patetica filoſofia Benedetto
Pereira della Compagnia di Giesù , il quale in quel ſuo libro de rerum
naturaliums, principiis , dopoaver largamente conſiderati i poco fermi
argomenti, c fillogiſmi , con cui le coſe dubbic , e incertes . fievo Del
Sig.Lionarda diCapaa. 607 fievolinente egli tratta, cosi:della ſua natural
filoſofia dice: doctrinam rerum naturalium , quam nobis fcriptam reliquit
Ariſtoteles , fi quis velitbeneſentire , propriè loqui, nous poteft dici
abfolutè ,din totum ſcientia ; perciocchè riguar dando alle fondamenta di
quella, e ravviſandole ,che falſe, e che dubbie, e malamente con falde, c
naturali ragioni raf fermate, ficome il medeſimo Ariſtotele teſtimonia, dicendo
eſſer quelle ſolamente dialettiche : ragionevolmente poi e': ne tragge, e
conchiude alla fine: quum igitur phyſica Arifto telis fit falfa pars , pars
autem topica tantum probabilia .. contineat, non poteft dici abfolutè, & in
totum fcientia . Ma acciocchè perciaſcuno ſcorger (ipoffa , quanto inu tile ,
quanto vana, quáto priva d'ogni falda dottrina egli ſi fia la filofofia
d'Ariſtotele , conviene innanzi tratto da più alto principio imprender la cola
. Dico adunque , che per due ſtrade ayviar fi foleano coloro, che agognavano
alla ſublime altezza della natural filoſofia pervenire ; una , ches quantunque
falli , è nondimeno agevole , e piana, echiun que per quella prende il camino ,
non fida cura veruna di cſaminare, e riandare minutamente le coſe naturali, ma
sē . preinai fe ne ſta fu l'univerſalità de'termini , e de' vocaboli, quali a
ragionar di tutte apparenze della natura ſenza du rar molta fatica adattar ſi
poſſono ; e comechèſembri, che tutto dicano , che tutto ſpianino :impertanto ,
altro non ſo no veramente eglino,ſalvo che vanillime ciance,fra le qua li non
altrimenti che ſi faceffero un tempo , ſe'l ver dice l' Arioſto ,
que’franceſchi, e faraceni cavalieri nel palagio in cantato d'Atlute aggirar
tutto dì veggiamo confuſi gl'in cauti, e poco avveduti, fenza mai venir a capo
d'alcuna ve rità ; ma l'altra ſtrada, quanto più erta,ſtraripevole,e ardua,
altrettanto nel vero è più nobile , e più gloriofa . Queſtas calcar
generofamente li videro i diligenti inveſtigatori del le coſc , ei ſavj
interpetridella natura ; i quali diſcorrendo regolatamente , ed offervando con
diligenza , guatavano quaſi a ſpiluzzico le coſe naturali. Dopo queſti incomin
ciarono a poco a poco ne'tempi ſeguenti gli altri a traviac da queſto diritto
ſenticro , ed a tenere la falfa ſtrada ;o che ſe'l 608 Ragionamento Ottavo fe'l
faceſſero perdebolezza d'ingegno, o per non durar fiatica,o p vana ambizione di
farſi capi più tolto in quel cores rotto modo, che eſſer ſeguaci degli altri
nella vera, c legit tima maniera di filoſofare . E fu tanta certamente loro
ſchiera , e sì copioſa, che ben pochi ne rimaſero nell' arin go del buono
filoſofare ; di cui potrebbe ben dirdi Pochi fon , perchè rara è vera gloria :
i quali per quelche già da quelle ſcarle memorie , che noi rabbiamo comprender
fi poffa, furono Anafſagora,Empe docle , Leucippo , cd altri pochi, Che colle
dita annoverar fi ponno; perchè ragionevolmente ebbe a dire quel ſatirico :
Rari philofophi: numerus vix efttotidem ,quod Thebarum porta , vel divitis
oftia Nili. Ma ſopra tutti l'incomparabile Democrito adeguando il tutto col ſuo
vaftiliſimo ingegno (ini giova dirlo colle pa role di Petronio Arbitro ) etatem
inter experimenta con fumpfit ; e con principj veramente naturali, cioè a dir
ſenli bili ,così maraviglioſamente ragionò di ciaſcuna coświ ch’alla natura
appartener fi poffe , che a gran ragione nel vero Seneca dopo averlo detto
antiquorum omnium fubtilif fimum ,antiſtitem literarum.ſapientiæ caput: a
chiamar l'ebbe lingua della natura ; perchè non guari dopo venendo Pla tone, e
diffidandoſi di poterlo col ſuo ingegno ragguaglia re, per uggia , e per
invidia volle rabbioſamente dareallo fiamme tutte le divine opere di lui ; poſe
in non calere co tal vero , e lodevol modo diſpecular diritcamente le coſe
della natura, e con univerſali , c apparenti ragioni avvilup pò il cutto . La
qual maniera difiloſofare, concioffiecofa chè agevol foffe , fu poi ſeguita,e
abbracciata da ciaſcuno, rimanendo quaſi morta,e ſpenta la natural filoſofia ;
ſe non ſe dopo la morte d'Ariſtotele levoſſi ſuſo il ſaggio Epi curo, ecol ſuo
avvedutiſſimo ingegno ripreſe, e riſtorò la morta filoſofia , e la fece di
nuovo fiorir ne' ſuoi doctiſſimi orti , ove rinaſcendo viffe , e morio . Perchè
non ebbe il torto per avventura Dionigi d'Alicarnaſſo in chiamando il
filoſofofar di quei tempi un vano berlingare , e cinguettar dives Del
Sig.Lionardodi Capoa. 609 di vegliardi ozioſi , e ſcioperati , a ' giovani ignoranți.
E Cleante ancora faggiamente ebbe a dire , che gli antichi aveſſero nelle coſe
filoſofato ,ei moderni ſolamente in pa role . Qualdunquefia maraviglia , ſe
così mal concia , malmenata la filoſofia , non potea vantaggiarli nella Grecia
. Perchè ragionevolmente diſſe quell'Egeziaco San cerdote nel Timeo, chei Greci
eran ſempre giovaniſlimi,e fanciulli: emlwes del muides is ' , gépur di enlew
oux iso , certè ha bent, dice Franceſco Baccone , id quod puerorum eft , ut ad
garriendum prompti fint; generare autem nonpoffint. Così perduta , e ſpenta la
buona filoſofia , poco a capi tal tenendoſi i libri diquella , nc punto per
huom riſerban doſi , o traſcrivendoſi, avvennc, che infra breve ſpazio di tempo
con comune ſcoſcio delle buone lettere, affatto fi perderono ; rimanendo
ſolamente que’libri de' yani çiarla tori, che al guaſto , e corrotto ſecolo
erano in pregio ; ne? quali poteſe ben paſcerfi ,e nutricar l'ambizioſa vanità
de Greci. Ea tanta caduta della buona filoſofia s'aggiunſes poi l'allagamento de'Barbari
nell' Imperio Romano, nel quale andandone a ruba ogni coſa, que'pochi libri ,
che pur v'erano rimaſi, fi perderonſi,; e come dice il teſtè rap porcaco
Bacconc , doctrina humana velut naufragium per . pefa eft; & philofophia
Ariftotelis , o Platonis tanquam , tabula ex materia leviori , minus ſolida per
fluctus tem porum fervatæ ſunt. I qualilibri dapoi imbolati, lo non ſo come ,
dagli Arabi ſi tramandarono inſiemecolla ſerya, e apparente filoſofia, come
altra volta fu detto alle noſtre contrade ; e queſta è quella filoſofia ,che
infino a' dì noftri con tanta loda è ſtata ſempremai ſeguita , e tuttavia nelle
Icuole comunemente s'inſegna : e a cui dicevam , che già poneſſe le prime
fondamenta Platone; il quale avvegna chè ravviſaſle il yero , e diritto modo
difiloſofare: percioc chè difficil molto , e malagevole gli ſembrava a ſeguirlo
, lalciofſi talora anch'egli portare alla corrente de' ſofiſmi Ma non però di
meno non laſciò talvolta il vero modo di filoſofare ; comeagevolmente egli
ravviſar fi puote ne'ſuoi Dialoghi , e malimamente in quello , ch'egli intitola
il Ti Hhhh . . meo, 610 Ragionamento Ottavo meo , o della natura . Perchè ben
ſi pare , ch'egli ſaggia mente foſſeli attentato di gir anche per quel medeſimo
sé tiero , per cui già Democrito , e gli altri primipadri, e ve rije ſovrani
maeſtri della filoſofia avviatiſi erano ;ma come sébra ad Ariſtotele, no ſegui
egli troppo felicemente l'im preſo aringo, e di gran lunga a Democrito addietro
reſtoffi. Πλάτων μεν , fono parole d'Ariftotele, περί γενέσεως έσκέψατο,28
φθοράς όπως υπάρχει τοϊς πάγμαστεκαι σερί γενέσεως ού πάσης , αλλα της ή
στοιχείων πώςδε σάρκες, ή όσα και η άλων και των τοιούτων , ουδεν·έτι , ουδε .
περι αλοιώσεως, ουδε περί αυξήσεως, ένα τρόπον υπάρχει τους πράγμα στν · όλο-
δε παρα τα έπιπολής περί ουδενός ουδείς επίσησεν , έξω Δημα reíte ;cioè Platone
cöfiderò la fula generazione e'l corrõpimēta delle coſe;ne già di tutte,ma
degli elemêtifolamēte; trabaſcia doariguardare , come formifla carne , el'offa,
e gli altrifo miglianti corpi; ne demutamenti , o come s'accreſcano,o pig
giorino cotai corpi feceparola alcuna. Finalmëte nonfu niuno , fe non ſe alla
rimpazzata ,e lentaměte, che ragionaſſe mai de' mutamēti delle coſe,da
Democrito in fuora .Ecomechè que Ito riprédiméto fatto da Ariſtotele al ſuo
maeſtro egli sébrë all'intendentiſſimo Patrizio un manifeſto , e falfſſimo appo
ſtamento , e maladizione dell'invidia dilui; pur non ha tut to il corto
Ariſtotele in così fattamente ragionare ; imper ciocchè quantūque Platone in
molti luoghi delle ſue ope re baſtantemento favellato aveſſe della generazion
delle pictre , de'venti, delle gragnuole , de’nuvoli,del criſtallo , della neve
, della rugiada ,delvino, dell'olio , e d'altri fi ghi: e ſomigliantemente
filoſofato de ſapori, degli odoris e de'colori delle coſe , e detto altresì
de’mutamenti e degli accreſcimenti di quelle ; e quantunque anche ſpezial mé.
zione aveſſe fatta della carne , e dell’oſsa , ecome quelles s'ingenerino; pur
no così addētro innoltroſi ne'ſuoi ragio namenti,che toccato aveſse
diſtintamente, come con que? ſuoi quattro corpi fi doveſſono mai formar cotante
coſe ; perchèparve,ch'egliaveſse cominciato a filoſofar colmo do vero , che ſi
conveniva ; ma poifmagato a mezzo corſo foſſe ricoverato all'apparente . E
queſto è quel , che vuole dir di lui Ariſtotele, biafimatone a torto dal
Patrizio nella dife . DASig. Lionardo di Capoa OIT difeſa del ſuo Platone . Ma
fu egli anche Platone traſcu rato a ſpiegar comeſi doveſſero partire, o
accozzar que fuoi primi corpi , pereffer valevoli a produrre negli organi de'
noftriſentimenti gli odori , e i ſapori, e i colori delle coſe ; perchè
ragionevolmente ſoggiugne Ariſtotele , niun maeſtro in filoſofia , fuor
ſolamente Democrito , aver ad dentro ſpiato fino agli ultimi fondi i principj
delle coſe . E ciò agevolmente fi può comprendere dallemedeſime paro le di
Platone; il qual così nel ſuo Timeo dice: To dº osoīvowle φησιν ώδε γίώ
διατρήσας καθαρgν , και λείαν ανεφύρgσε, και έδευσε μυε λώ , και μετα τούτη άς
πύρ αυτο εν τίθησι μετ' εκείνο δε εις ύδωρ βάλει και πα Αιν δε εις σύρ,αύθις τι
εις ύδωρ"μεταφέρον δ ' ούτως πολάκις εις εκάτερονυπ ' se je Dowăsnutev
dzepyáo mo. L'offo vēne formato in queſta guiſa; minuzzădo in prima la terra
pura , é netta,meſcolalla , e inu midilla colle midolla ;quindila poſe nel
fuoco;quindiattuffolla nell'acqua;quindidinuovo la poſe nel fuoco;e
cosìriponendola molte frate or nel fuoco , or nell'acqua , sì, e tanto fece ,
che dell'acqua, e del fuocoquello alla per fin venne a ingene. rarfi . Or chi
domine , non direbbe con Ariſtotele , eſſer que. Ito filoſofare alla groſſa
colle fole parole , ſenza veder più in là , che la ſola buccia delle coſe
perciocchè ſe la terra , come vuol Platone , era pura , e ſchietta , non era ,
meſtier certamente di sbriciarla ; che ſe i cubi, de' quali, ſecondo lui, ella
è formata , così ammaſſati, e riſtretti ſta vano , che ſegnale alcun di
partiinento non avevano , già quelli veritieramente non eran mica da dir cubi ;
e ſeguen temcntc non era dadir terra quella , ma una cotal maſſa , che tritata
, e minuzzata così ſe ne poteva formar terra , come acqua, comeanche qualunque
altra coſa del mondo, ſecondo le particelle ,in cui partir ſi poteva . Perchè
me ftier certamente non era d'accattare altronde fuoco , o ac qua per lavorar
quaſi in fucina , temperando l'oſſo,ſe tutto abbondevolmente in ſe aveva . E ſe
i cubi eran partiti , e affacciati nella lor debita figura , che coſa mai potea
cosi divili, e sbriciolati tenergli non il vuoto,che perlui coſta - tcinente ſi
niega ; non altra diſcorrente ſoſtanza , e irrego Hhla h 2 lar un 0121
Ragionamento Ottavo Jarmente figurata ; imperocchè ne diquattro foli corpiscos
meegli vuole verrebbono a comporſi le coſe cutte del mo . do ; ne la terra pura
farebbe, e da niun'altra coſa non tra meſtata . O forſe i già detti cubi poteva
il ſolo moto tener diviſi ? nia dovendo ciaſcun di loromuoverſi,ed eſſer d'ogni
banda ſceverato oltre molte altre inconvenienze , n'occor re queſta, che non
già un corpo ſaldo , ficomeè la terra : main diſcorrente verrebbero a comporre.
E lomigliāte anchea queſta maniera di filoſofare fu quel diviſamento del
medeſimo Placone intorno alla generazion . della carne , e de' nervi;ch'egli
narra nel medeſimo Dialo go del Timeo ; il qualccrtamente non è altro , che una
va ga , e ben compoſta diceria ; che con vane parole allettan do i ſemplici , e
poco intendenti delle coſe naturali , fa, ch egli faccia ritratto di gran
filoſofante Al vulgo ignaro, & a l'inferme menti. Perchè non haegli il
torto Ariftotele in dir ,che il ſuo mae ftro non trapalli più , che la prima
buccia delle coſe in filo fofando , e nons'immerga troppo ne'naſcondigli più
ſco noſciuti della natura . Di più , dice Ariftotele , e libera mente confeffa
, che ſciogliere i corpi fino alla lor ſuperfi cie , come fa Placone , ſia coſa
affatto ſconvenevole ; per ciocchè dalle ſuperficie non ſi poffono generar
qualità , altra cofa , ſe non folamente corpi faldi ; il chepuò ben far
Democrito co’fuoi acomi. E non molto dopo ſoggiugne : Democrito fembra aver
certamente ſpecolata con propia, e convenevol ragione la natura delle coſe . E
comechè in parte ingannaſſefi Ariſtotele in ciò dicendo ; perciocchè bé fi
ſpiega nelTimeo , come talora il caldo s'ingeneri ſenza ricorrere alla
ſuperficie : non però di meno ha egli per al tro non poca ragione in biaſimarne
il ſuo maeſtro, ſembraa do a ciaſcun ' ch’abbia ſenno , ſoverchio alfai , e
ſconvene vole quello ſcioglimento de corpiinfino alla ſuperficie . E noi , le
il tempo ce'l concedeffe, ne ragioneremmo per av, ventura più alfai , e forſe
altrove ne diremo ; ma non è al preſente da traſandar , che ſei quattro corpi
di Platone poſſono più ſottilmente ſtricolarli , e minuzzarſi in altre fi gure
1 1 Del Sig. LionardodiCapoa 013 1 ' 2 gure', come ſi pare,ch'egli in qualche
fuogo de'ſuoi ſcritti accennar voglia ; vano certamente , e foverchio è a dire
, che que'cotali corpicciuoli colle lor figure , e facce dean cominciamento
alle coſe tutte del mondo ; e non più tolto un ſolo corpo , il qual poi in
molti corpicciuoli di moka te , e varie figure partito foſſe . Ma fe pur
vogliams contendere , che ne ftritolar , ne partire in modo niu no que' corpi
li poſſano , lo .non fo come quattro cor pi ſolamente a formar tante , e tante
diverſe coſe , che noi ci veggiamo , baſtanti pur ſiano . Ne meno fo lo certa
mente comprendere , come poffan que'quattro corpi cial cun luogo affatto
ingombrare. Il che anche avvisò Ariſto tele; comechè egli troppo
fanciullefcamente in ciò fallaffe, portando opinione , che le piramidi foffer
valevoli a riem piere ciaſcuno ſpazio ; nel qual manifefto errore ſmuccian do
poi incorfero dietro a luituttiſuoi interpetri, e feguaci; e ne fur forte
biaſimati dal P. Giuſeppe Blancani , e prima di lui da Gio: Battiſta de'
Benedetti e dall'impareggiabil Geometra Franceſco Maurolico. Ma in cotanti
fdruccioli, e malagevolezze abbattendo fi l'avvedutisſimo Platone , riſtando in
fu le primeormes del ſuo ſpeculare,non ebbe ardimento d'innoltrarſi d'avā .
taggio ne'maraviglioſi ſegreti della natura;e quaſi nocchier rotto per tempeſta
in mare, che lentamente vada ridendo i più ſicuri lidi , non s'arriſchio
d'ingaggiarſimaggiormen te nell'aſprezze del filoſofare , e folo andò pian
piano, e có ritegno palpando le prime facce delle coſe . Ne ciò ba Stando a
renderlo ſicuro da' pericoli , non volendo ne ans che affermare alcuna ,
comechè leggeriffima cofa , feces quaſi in iſcena comparir perſonaggi a
favellar diverfaméter ciaſcú ſecodo il ſuo ſentiméto , delle coſe del mondo,e
for mò Dialoghi,e ragionamenti in nome altrui per ceſſare i m ordimenti delle
varie ſcuole della filoſofia . Ma lo ſcal trito , e fagace Ariſtotele all'
apparence filoſofia con ogni sforzo , e con tutto lo ſtudio del ſuo ingegno
riyol gendoſi , cercò artificioſamente la coſa naſcondere : e tanto operò , che
venne in grado di primo filoſofante del mon 614 Ragionamento Ottauo mondo
appreſſo il vulgo;ma qualeſi foffe il ſuoartificio lo brevemente vi dimoſtrerò
. Compofe egli quel libro cotão to pregiato da' ſuoiparziali, nel quale delle
ſole cores aſtratte impreſe a favellare : e ad eſemplo degli antichi, or di
Teologia, or di ſapienza , or diprima filoſofia altiera mente chiamollo ; i
quali titoli fur tutti poi da' ſuoi inter petri nel ſolo titolo della
Metafiſica cambiati . Intorno al qual libro ſarebbe molto da dire ;ma chi pur n'è
vago di qualche contezza , vegga Franceſco Patrizio, e MarioNi zolio , e Pietro
Ramo ilquale con l'uſata ſua libertà ,e di ligenza eſaminandolo , trovollo alla
fine non eſſer altro , che la medeſima loica d'Ariſtotele , con diverſe parole
, e nuovo ordine travolta : e una ſconcia , emalcompoſta me ſcolanza , e
guazzabuglio di ſoli vocaboli; perchè manifc ftamente avvedutofene Nicolò da
Damaſco , il cui faggio intendimento iguale a quel di Teofraſto , o
d'Ariſtotele medeſimo fureputato , comechèegli de'parteggianti d'A riſtotele ,
c Peripatetico ſi foffe: pur giudicollo inucile af fatto alconoſcimento delle
coſe ; e de'medeſimi ſenti menti fu anche Plutarco . Ma che che di ciò ſia ,
immagi nò Ariſtotele aver baſtantemente con cotal libro dato a divedere ,
ch'egli aveſſe diſtintainente diviſato delle coſe univerſali, e ſtratte , per
non doverle poi meſcolar colle fi fiche , come avean fatto gli antichi,i quali
perciò ne furda lui gravemente biaſimati,e ripreſi: comechè a torto, fico mei
medeſimi ſuoi peripatetici confeſſano . Ma poco cer tamente in ciò approdogli
la ſua ſcalterita avvedutezza ; perciocchè non è huomo tanto quanto intendente
delle coſe del mondo,ch'abbattendoſi ne' libri della ſua natural filoſofia non
s'avviſi tantoſto a’primi foglieffer quella tutta apparente , e ideale , ne
ſerbare in fe coſa alcuna di ſaldo. Pur piacque oltremodo a no pochi sì fatto
modo di ſchera zar filoſofando, parendo egli vago aſsai , e ingegnoſoallas
ſembraglia de'giovani ; i quali s'avviſavano concotali va ni , e folli
diviſamenti, e millanterie già pienamente ſaper tutto , quando per avventura
non ſapevan nulla.E la ſcioc ca torma del popolo vi pur correva , maravigliando
ſom mamen Del Sig.LionardodiCapoa. 818 mamente di cotanti termini ſtratti , e
fantaſtichi, comes nuovi , e non ancor comprehi dagli ſcolari di baſſo inten
dimento , e da dover richieder più profonda , e ſottil dot trina , checoloro
non aveano ; Semper enimſtolidi magis admirantur, amantq ; Inverfis qua fub
verbis latitantia cernunt. E per maggiormente farci veder la luna, come ſuoldir
fi, nel pozzo, cominciò eglimalizioſamente a voler ragio nare di coſe naturali;
e in ogni ſuo capo imprende a dir có qualche menoma faldezza di vera filoſofia;
ma toſto ricor re agli uſati fofifmi,non iſpiegando mai nulla di vero ,ne
manifeſtando qual foffe la natura delle coſe, di cui egli fa vella ; ne come di
nuovo naſcano , o yengan meno , ne co me patiſcano, o operino nel mondo . Al
che riguardando infra gli altri Plutarco, comechè egli non fofse cotanto ſao
gace, pur delle vane ciace di lui avveduto; l'allogò di gran lunga dietro al
divino Democritose co-maggior ragione in vero di quella pla qualeAriſtotele al
fuo maeſtro Platone medeſimaméte Democrito átepofto avea. Ne in ciò cota to
teneri , .e parzionali d'Ariſtotele i moderni filoſofanti fono , che reſi
talvolta avveduri de'ſuoi trafandamentisan che i pià cari ſeguaci di lui, forte
non l'accagionino: e infra gli altri quell'avvedutisſimo fuo Chioſatore , il
Padre Ni colò Cabbei; il quale,comechè peripatetico di gran rino meanpur volle
apertamétemanifeſtarlo in chiosådo le me teore del ſuomaeſtro.Quia iſte
Philofophus ( dice ) maximè pollebat ingenio metaphyfico , edapprimè ei
arridebatphilofo pbariper metapbyficasabſtractiones : ubi adres phyſicas de
venitur , quia ad hos ingenio fuo nonferebatur, ingenii vires nonacuit ; ed in
un altro luogo : Ariſtoteles magismetaphy ficis obſervationibus affuetus , quam
phyficis obfervatur. E finalmente egli conchiude : fed fenties in rebusphyſicis
Ari Stotelem non potuiſje metamſapientiæ attingere. Enelvero chi ſarà maicolui
, che riſtucco forte , e faſtie dito delle ſue vane dicerie no'l biaſimi , e
rimproveri, rin venendo in lui più , e maggiori tacce affai', che non vi rava
viſa il Cabbei? Egli primieramente togliendo ad imitazio ne d'O 616
Ragionamento Ottavo ned'Ocello Lucano(ſe pur egli è l'autore di quel libro ,che
gli viene attribuito ) e diPlatone, oſia di Timeo, a fabbri. car la grandiſſima
maſſa dell’Vniverſo tutta fantaſtica, tut ta metafiſica , e apparente , prele per
principi delle coſe sé. fibili , e vere , terminitutticonfuli, e generali , e
da' noftri sétiméti affatto rimoſſi;del che forteegli è da accagionare ;
mallimamente , ch'egli medeſimo avvisò pur una fiata , do ver delle coſe
ſenſibili effer ſenſibili parimente i principj ; e ciò cotanto egli giudicò
vero , che preſene ſconciamente a carminare gli antichifiloſofapti. Egli ſono i
principi , onde Ariſtocele vuole , che forma te le coſe tutte ſenſibili ſi
foſſero , così larghi, e lontani, che ben yi ſi poſſono agevolmente ricoverare
curci que'fiſici principi , che varic, e diverſe ſchiere de'filoſofanti,così an
tiche, comemoderne alle coſe naturali impongono . E ciò ben ne diedea conoſcere
il famoſo ChenelmoDigbinobi lillimo filoſofante del noſtro ſecolo , allor che
con lodevo le artificio volendo prender gli oſtinati ; e provani peripa terici,
fece ſembiante d'effer anch'cgli cocale . Il qual arti ficio dopo il Digbi ,
molci valenc'huomini d'uſare anche ſi Audiarono . Ma laſciando ciò al preſente
ſtare , non iſpie gando mai Ariſtotele ciò , che in fiſica ſia quello , a cuive
ramente poſſa adattarſi quella generale , e confuſa ſua difi zione della
materia , e della forma:nulla certamente ad in ſegnare e' viene . E nel vero ,
chemonta per Dio a ſapere, che ciò che di nuovo in queſto vaſto teatro del
mondo ap pariſce , e s'ingenera, e li forma, non era in prima tale, po tendo
eſservi ? ed ecco la gran maraviglia , naſcoſa in prima a tutt'altri antichi
filoſofanti, che egli con tante bel faggini millantando innalza , chiamandola
privazione; più ragionevolinente forſe da Platone detta occaſione, e non
principio delle coſe . Ma che direm noi degli altri due non men ridevoli
principi delle coſe , cioè a dir materia , e forma , ſopra le quali fondamenta
egli la generazion tutta dell'univerſo va fabbricando ? Poveri filoſofanti
antichi; voi per iftudio , e ſudori non ſapeſte trovar diviſamenti sì bclli ;
Ariſtotele ſolo ſeppela nateria delle coſe cſser po 1 tel tenza , overo in potenza a divenir tali coſe ,
e la forma alla per fineeſſer un cotal-atto , che dandoalla materia perfe zione
, la mandi avanti , e la faccia eſfer propiamente tale . E queſto è quel, che
con tanti riboboli , e aggiramenti , e lunghe dicerie eglide’principj delle
coſe ragiona . Ma per Dio , ſe non fi fa in che conſiſta la fiſica natura della
mate ria , cioè a dire iti cui cada cal potenza a divenir quefta , o
quell'altra coſa ., come potrà mai ſaperſi poi la fiſica natura della forma , e
ciò che abbia afarſi , acciocchè la materia imprender poffa o queſta , o
quell'altra diterminata coro per informarſi ? e ſe queſte pur non ſi fanno ,
comepotrā . mai ſaperſi le qualità , l'opere , e le paſſioni delle coſe., come,
e che, c perchè l'operazioni ſortiſcano ? Se a giovane , il quale apparar
voleſſe a fabbricar glio riuoli ,dopo molte , e molte vaneciance e' diceffe per
fine il maeſtro : attendi figlio , e nota ben tutte mie parole , ch' Jo
brievemente ora intendo di manifeftarti il maraviglioſo modo da compor gli
oriuoli : egli primieramente convienu ſapere., che l'oriuolo fabbricaſ d'una
cotal coſa , che non è mica già oriuolo ; perchè ſe oriuolo ella già foſse ,
non potrebbe divenir oriuolo ;ma agevolmente ella può venir oriuolo per.coſa
acconcia a farla co effetto coral divenire: certamente ,che udédo cotali
novelle lo ſcolare, e avveden doſi d'eſler uccellato , Goaffe direbbe, maeſtro
voi dite bene; ina quel che lo volea ſapere Io ,era qual coſa è quel 12 cotal
materia , che voi dite non eſser mica oriuolo, ina agevole a venir tale ; e
quali ſono quelle coſe , per le qua lidivien tale ; ma non ritraendone alla fin
riſpoſta , fe pri mieramente di faſso, o di legno ,o di ferro,od'altro l'oriuol
fi debba comporre ; e poi con quai mezzi , e lavorj ſi fac ciz, ſchernito , ed
ingannato il ' laſcerebbe colla ſua mala ventura . Or così appunto ſcherniſce ,
e beffil Ariſtotcle . i luoi peripatetici. Ma Eudemo un de’più cari, e più
famoſi ſcolari d'Aristotele , ponendo in non cale l'autorità del maeſtro , çome
in altre coſe già fatto aveva , diſse la materia delle natura li coſe eſser
vero , c propiamente corpo ; la qual ſentenzas fu poifermamenteabbracciata da
quel famoſo , e ſortii pe Iiii 018 Ragionamento Ottavo 1 ripatetico noſtro
ItalianoAndrea Ceſalpini.Ma comechè il Cefalpini in ciò moltoſi ſtudiaſſe , pur
non ritrovandolive Itigio alcuno dell'opere d'Eudemo, ove appiccar fi potef fe
, reſtò di farſi più avanti , e l'impreſa in ſu'l buono abbadono . Nemenopotè
ſeguirſi il diviſo d'Averroe intorno a cotal biſogna ; il qual diſſe doverſi
aſſegnare alla materia , comeaccidentile dimenſioniincerte, e indeterminate;
per chè non potendoſi a niun partito ſcufare ciò , che dice Ariſtotele intorno
alla materia ', ne men riparando in par te gli errori di lui , con iſtorcere ,
e piegar le fue parole in altri , e diverſi ſentimenti, ragionevolmente il
bialima , e'l proverbia il dottiſſimo greco Padre S. Baſilio Magno,dice do : ſe
la materia d'Ariſtotele eſsendo incorporea non è , ne: che, ne qualc , ne
quanto, ſarà certamente ella , come S .. Giuſtino parimente conchiudc, unacoſa.finta
: cioè a dire: una fantaſima, una chimera. Ma avviſando pure Ariſtotele , che
in sì fatta maniera fia. fofofandode primiprincipjdelle coſe; perdeva affatto
il no me di natural filoſofante, ricorre finalmente', ma troppo tardi a coſe
ſenſibili ; e pone egli i quattro volgari elemen ti , come ſecondi principj
decorpidiquaggiù; ma non ave do ſpiegata la fiſica natura della materia, e
della forma,on de fecondo lui compoſtivengono gli elementi, no può ſpie gare (
come avea fatto in prima Empedoclc , Tinco;e Plizo tone, componendogli
dipicciolillimi corpicciuoli) natu ralmente procedendo , la vera eſſenza
diquelli ; perchè gli va diſegnando', e deſcrivendo colle lor qualità ; maegli
poi , come a natural filoſofo conveniva fare , le nature del le qualità non
infegna; anzinepure dar briga ſi vuole d'in veſtigarle ; ed appenadeſcrive ,
rozzamente narrando al cunipochi loro effetti aperti , e manifeſtiad ognuno ;
ed'in quegli anche talora sì ſconciamente e'fallar ſuole', che nul fa più ;
ficomeallor , che francamente egli afferma, che'l freddo uniſca tutte le coſe
diqualunque genere elle ſi lie no ; e pur dovea egli avviſare , che'l freddo
ralora coniſce. mare il movimento all' acqua , chenon le facea calare a fondo ,
ſepara quelle coſe , che non convengono nella gra. vità, Del Sig.Lionardo.di
Capoa : 619 vità , e.che di diverſo genere ſono . Così parimente erra
Ariſtotele allor chedice , il caldo fceverar le coſe , che di diverſo genere
ſono,, da quelle , che convengono inſieme nel genere medeſiino ; imperocchè
uficio del fuoco ſia col fuo rapidiſſimomovimento di ſceverar l'unedall'altre,
cut te le coſe ,, che ſiano di qualunque genere , comechè talo ra ( il che
ingannòAriſtotele )ritrovandoſi rimoſſo il cal do , non vieri, che le coſe più
gravi calando più giù ſi ſepa rino dalle men gravi . Manon meno fallar {i vede
Ariſto tele allor che egli imprendendo a narrar la natura dell'us mido ,
definiſce contro a'ſuoimedeſiınidiviſamenti la ſpe zie colla definizione del
genere; dicendo : ma l'umido è quello , che dileggieri ricevendol'altrui
termini, non può in ſe ſteſso.contenerſi: uygóv dè , tè dóessevoixdin õp.com
evőeisov or. E no ha dubbio , che una coral definizione non avvegua al di
fcorrente , di cuiegli è ſpezie l'umido.; poichè il diſcorren te altro non ſignifica
, ſe non ſe quel.corpo, il quale diſcor re , s'inſinua , e penetra agevolmente
, compreſo cede's e non fa reſiſtenza ; perchè non eſſendo da ſe terminato
prende dileggieril'altrui termine . Ma l'umido , oltre a queſto s'avviticchia
in sì fatta guiſa a ' corpi ſaldi,che:ſi ré de ſenſibile ; laonde altro.nonè ,
ſe non che una ſpecie di diſcorrente . E fe l'umido pure è tale , quale il
ci.deſcrive Ariſtotele, certamente egli non dovrebbeſi poſcia dirſi fec ,
.co.il fuoco.con Ariſtotele , maumido; anzi umidiflimo con Bernardino Teleſio ,
ed Antonio Perſio converrebbe chia marſi . Ne vale a pro d'Ariſtotele ciò che
dice Giacomo Zabarella , l'umido convenire in qualche guiſa al fuoco , no già
per ſe , eſſendo il fuoco ſecco per fe, ma per accidente : cioè ricevere
agevolméte il fuoco il termine altrui,non già per la ſiccità : non convenendo
il ciò fare a tutti i corpi fece chi : ma per la tenuità delle parti di quello
; anzi contra ſtando la ficcità del fuoco a quel corpo, che terminar lo yo
leſſe , avvien , ch'egli non riceva così agevolmente, come i corpi umidi far
fogliono , il termine altrui . Ma ſc noi il contrario ſperimentiamo di ciò ,
che dice il Zabarella , adattandoſi aſſai più dell'acqua , cdell'aere il Iiii
fuo ز 2 620) Ragionamento Ottavo fuoco a quel termine , che da altri corpi
preſcritto'gli vie ne : oltre ad ogn'altro elemento umido dovrà dirſi il fuoco;
che non per altro nel vero Ariſtotele, e i ſuoi ſeguaci affer inano cfler aſſai
più dell'acqua , e fominaméte umida l'aria , perchè ſe la ſomma umidità
conviene al fuoco , egli non aurà certamente parte niuna in quello la ſiccità ;
laonde ne anche per accidente il fuoco potrà ſecco mai dirſi. Enel vero la
narrazione del fecco da Ariſtotele rapportata,in cui egli in vece del ſecco par
che deſcriva il corpo ſaldo, in di cendo , il ſecco eſſer quello , che ſi
contiene agevolmente da ſe ſteffo , c malagevolmente prende l'altrui termine :
Engordà , no evóerson pèr cireiw opw , duodessor dè , egli non può con venire
in modo veruno al fuoco . Or come adunque il Za barella oſa affermare , che'l
fuoco fia per ſe ſecco ? Oltre a ciò,ſe'l fuoco è per ſe tenue , ſarà anche per
fe umido i e ſe il tenue, per quel, che ne dica Ariſtotele ,è ſpecie dell'u
mido , e’l fuoco non ſolamente da per ſe è tenue , ma nella tenuità l'aria ,
non che gli altri elementi,vince d'aſſai; con verrà ſenza fallo confeſſare
giuſta la dottrina d'Ariſtotele , per fe ,e vie più d'ogn'altro elemento eſſer
umido il fuoco . Ma vorrei faper quì da Giacomo Zabarella , e da Ar
cangeloMercenario , che volle darſi ſpezialmente una si fatta briga: onde , e
come potraſli giugnere mai a ſaperes che'l fuoco fia ſecco forſe daglieffetti ?
ma ond'è, che il folc , per tacer d'altri, giuſta il ſentimento d'Ariſtotele
non è altrimenti caldo , comechè produca calore ? ſenzachè il fuoco, come
afferma Ariſtotele medeſimo,ſovente ingenc rar ſuole l'umidità ; come nel
ghiaccio , ne'metalli , einu altre coſe molte ſcorger e' li puote; e ſe ogni
qualunque corpo , o pure i più di eſſi ,fi poſſono fondere in vetro , chi
ardirà di dire , che'l fuoco non ſia valevole a inge nerar l'umidità > E fe
mai tutte le coſe , o la maggior parte di eſſe in vetro per ſua opera fi
cambiaffcro , non di rebbe ciaſcheduno , che'l fuoco le rendeſſe umide primadi
fermarle in vetro ? oltre a ciò allora quando l'acqua, ſecon, do Ariſtotele
immagina , vien dal fuoco cambiata in aria, certamente quella maggior umidi à ,
per cui aria l'acqua divie Del Sig.Lionardo di Capoa. 621 diviene, in lei
s'ingenera dal fuoco . Ma forſe ſarà ſecco il fuoco , perchè, come fcioccamente
ſi da egli ad intendere un barbaro autore, ſi ſente da noi ſecco ? Ma dal
noſtro sé. ſo apertamente ſi ſcorge, che il fuoco ha tutte le propietà agli
umidicorpi da Ariſtotele attribuito. Ma forſe per fi nirla argomentar fi potrà
la ſiccità del fuoco dal ſuo calo re ; ma eſſendo propio del calore , comc
Ariſtotele dice , il rarificare , certamente da ciò umido più coſto , che fecco
dovrebbe il fuoco argomentarfi. Dice altri , Ariſtotele non l'umido , ma il
diſcorrente aver definito ; e che fi legge umido nelle fue opere , per colpa di
coloro che dallaGreca nella Latina favella trasla tarono i ſuoi libri ; poichè
eſſendoſi valuto e’della parola sygov nella menzionata definizione , che appo
iGreci ora ſignificar vuole qualſifia corpo difcorrére, or fi riſtrigne ad
aſprinier ſolo quel , che tra corpi diſcorrenti tien vigore do umidire, e
chehumidum , vien detto da’latini . Eglino non bene intendendo i ſentimenti
d'Ariſtotele , immaginaro no aver fui l'umido definito ;perchè foggiūgono poi:
a torto anche vien accagionato Ariftorele d'incoſtanza , e di co traddizione ;
perchè d' talora dica ,Pacqua eſfer più umida dell'aere, e talora affermi (il
che una fiata ſembrò pazzia a Galieno ) l'aria eſſer più umida dell'acqua. Ma
quanto poco , anzi nulla rilievi a pro d'Ariſtotete ciò , che fingono coſtoro ,
chiarainente ſi conofce ; imperocchè Ariſtotele in coſa appartenente a'
fondamenti della ſua filoſofia non dovea ſervirfi di vocaboli ambigui, e
dubbiofi; e ſe non v'erano i propj nella fua lingua , il che appena mi ſi
laſcia credere , che aveſſe potuto avvenire , eſſendo ella così ric ca , e
copiofa divoci , non gli avrebbon mancati modi , e vie di chiaramente fpiegare
ciò che cgli dovea dire. Ne li può Ariftotele ſcufaredelle contraddizioni;impe
rocchè , per tacer d'altro , dice egli una volta , che la tera ra ſi trovi in
tutti i miſti , perchè i corpimiſti, fpezialmen te i più grandiper lo più nel
luogo propio della terra ſi tro vano; ma Pacqua, perchè fa ellameſticre a
terminare i cor pi compofti, effere lei ſola di que’ſemplici corpi , che ter
mina 622 RagionamentoOttavo minare dileggieri dale poſſonoyn rifugão
ivendéggumasaza έκαςον είναι μάλιστακαι και πλείστον έντων οικείων τόπω·ύδωρ δε
δια το δείν μεν δελζεται το σύνθε % και μόνον δε είναι των απλών ευόμισαν το
ύδως. Dal le quali parole chiaramente fi coglie., che o abbia Ariſtote . le
definir voluto l'umido , o pure il diſcorrente ; attribuen-. do egli all'acqua,
come propia dote , e non comunea verun altro elemento il potere agevolmēte da
ſe terminare; il che certaméte contro quel,ch'altre volte detto egli avea ,
viene a determinare l'acqua ſola, eſcludendone l'aria , eller o umida , o
diſcorrente , M ,a nella ragione , che Ariftotele di ciò indi a poco rapporta ,
ſi vale ſenzafallo della parola vypov a denotar l'umido ; e dice eſſer quello ,
il quale ha , forza dicontenere , riſtrignere , e coaglutinare la terra ,la
quale ſenza l'acqua verrebbe a diſſiparl .; perchè eſſer :cgli .conchiude ,
l'acqua parimente neceſſaria alla compoſizio. ne de'miſti , con queſte parole:
én dè ry Tosningav ávev Tš vggs μη δύναθα συμμένειν . άλα τούτ' είναι τοσυνέχον
ή γαρ εξαιρεθείη - λέως εξ αυτής το υγρόν διαπίστοι αν• Ovc fcοrgerfi puote,
che alla terra ancora convenga la definizione dell'umido data per Ariſtotele;
nell'opinione del quale ſi pare , che a niuno degli elementi convenga la
definizione,ch'egli del ſecco rapporta ; ma di ciò ad altri laſciando il
diviſare , es Jaſciando ad altri eziádio la briga di moſtrare, ch'Ariſtore le
dagli effetti ſtelli,comechè pochi ch'egli rapporta nelles incnzionate
definizioni,potca agevolmente cogliere la na tura di ciò ch'egli dice freddo ,
e umido : caldo , e ſecco : e così poi far anco di que' , che chiama lor
differenze; accen però ſolamente ch’Ariſtotele alior che fa parole del tenue ,
in dicendo , che il tenue compoſto fia di picciolo parti,per che ricampie το δε
λεπον αναπληρικόν(λεπτομερές γαρ και το μικρομε. pès avænangıxóv.)noſtra ſeguir
l'opinione di Democrito e che nella guiſa , che detto abbiamo,filoſofare,
comechè rozza mente e ſi vede del tenue ; il che dovea certamente c'fare, anche
dell'altre qualità . Ma vediamo ora come Ariſtotcle a ſpiegar infelicemen te
imprenda la natura del movimento , in cui non ha dub bio , che conllte cutta la
nzural filoſofia . Primieramente cyli cgligiúdica eſfer ilmovimento un cotal
genere ,il qualej comprenda l'alterazione, l'accreſcimento, la diminuzione, la
generazione , e’Imovimento , che chiaman locale . In di diſegna, e definiſce
ilmovimento nel primo, e nel ſeco do capitolo della fiſica , in cotal guila :
rov Suv áués.Övr. ÉVTE . dexaci , ģTovorov , cioè endelechia di quella coſa ,
la quale è inpotenza , in quanto ella è tale ; ed altrove : aivos, évtené..
geta toī XIVSTOU , xuvytor, cioè , il movimento egli ſi è endelechia della coſa
, la quale tien potenza a muoverſi, in quanto ella tien la detta potenza .
Orchi domine non comprende ſe eſ ſer beffato , e uccellato da: Ariſtotele
?maſſimamente , che: egli medeſimo inſegna dover eſſerela definizione più mani
feſta , e più conoſciuta affiidella coſa, che ſi definiſce;per chè
diceGiovanniMagiro , famoſo peripatetico , eſſere cotal definizione
biafimevole', e vizioſa : atque ob eam.cau-. fäm in nonnullorum reprehenfiones
incurrit . Ma. Simplicio nondimeno dice', effer quella ſommamente artificioſa ,
e quaſi divina ; ſpiegandoli , emanifeſtandoſi con eſlå in una certa maniera
maravigliofamente la natura del movimen to . MaCicerone , e Porfirio affermano
', effer quella voce ŁYTENÉXAtjun vago , e artificioſo ritrovato d'Ariſforele ,
per uccellar le genti ; e nel vero di cotal voce ſoven ti fiate ſervisſi
Ariſtotele , non ſolamente per ifpiegare il moviinento , ma l'anima ancora , e
quella ſua nuova mtura: anzi ilmedeſimoIddio ( coſe ſenza fillo fra eſfo lo ro
aſſai diverfe ) con talnomee' ſcioccamente chiama. Per chè ben diffe
l'avvedutisſimo Ramo : Entelechiæ fue Ariſtoteles nimium conceſſit nimium
indulſit. Ma ſu conceda fiad Ariſtotele così bel diviſo, ne s'atté ti aſcun di
privarlo della ſua endelechia ; e reſti a quellas comedice motteggevolmente il
medeſimo autore , inveſti to in dore il rcametutto della filoſofia; e che più ?
'perdonili anche a lui ' , che contro le regole della dialettica con voci
equivocoſe , e oſcure le definizioni formar fi poſſano :'ela vocc iv terémax",prendaſi
pure nella definizion del moto ,non già per perfezione acquiſtata , e compita ,
mache tuttavia fi vadi acquiſtando , comepar che e' voglia : o per me”di re,
per 1 624 Ragionamento Ottavo 1 re,per la ſtrada p la quale la perfezione s'acquiſti;
la qua le ſtrada certamente anch'ella in qualche modo è perfezio ne ; perchè
meritevolmente è da chiamar con nome di at to della coſa , comechè imperfetto ;
la qual li è in poten za a mandarſi all'atto perfetto , cioè a dir alla forma ,
in quanto alla materia la coſa è in potenza,cioè a dire in qua to può ella
effettualmente imprenderla . Or dove eglino ſono , dove conſiſtono quelle tante
, e sì ſtrane maraviglie, millantate da Simplicio? Quid dignum tanto feretbic
promiffor hiatu ? Parturient montes , naſcetur ridiculus mus . Apporta
Ariſtotele per ifpiegar maggiormente la coſa , l'eſemplo dei rame, il quale
comechè poffa divenire ſtatua , nondiincno quel movimento , col quale egli poi
vienead acquiſtar la perfezione , e la forma di {tatua, non appartic ne punto
al rame , in quanto , ch'egli è rame , ina folame te in quanto egli può
divenire , o eflere ftatua xaaxos, dice egli,κίνησίς έσιν ου γαρ το αυτό το
χαλκώείναι, και διωάμει τινί κινητώ, έπει & αυτον ω απλώς , και κατα τον
λόγον , ω αν και του χαλκού , και ganzes , ÉV TERÉNHO , xívyos, Mache montano
alla filoſofia si fatri ravvolgimentidiyaneparole , echiè per Dio , cheno
ravviſi,e non ſappia, appartener propriamente al muro, che può eſſer bianco ,
la ſtrada,o'l mezzo di dover eſſer tale, in quanto cgli eſſer vi poſſa > Chi
ciò mai ardà a negare ? Ma dell'atto , e della potenza , non ſolamente ſervir
ſi voller Ariſtotele per iſporre, e ſpiegare la nariua del movimento ; anzi in
molte, emolte altre opportunità egli sì fattamente gli ripete,che ragionevolmente
infaſtidito Bernardino Te. lelio ebbe a dire : Magnos mehercule Ariſtoteles, ut
ingenuè fatetur ipſe , actus potentiave diſtinctioni gratias debet ;cu jus
nimirum upe ex anguftiis quibuſvis evadere nibildefpe rat ; il che parimente
venne avviſato da Antonio Perfio . E nel vero Ariſtotele ſpelle volte ſi ſerve
dell'atto , e della potenza per rattoppare , e rabberciar le ſue Idruſcite does
trine; e certamente quelle duc voci il traggono da’più ma lagevoli ,e
intralciati laberinti della națural filoſofia. Ma ſe finalmente definir mai
voleſs Ariſtotele quel mo vimen DelSig. Lionardo di Capoa. 625 vimento , che
chiaman locale , certamente egli converreba be ricorrere alla general
definizione del moviméto, có giu gnervi d'avantaggio qualche diviſamēto proprio
del moto locale . La qual coſa : ſecondo lui,non ſarebbe molto ma lagevole a
fornire ; comeeper raffermar la ſua ingegnoſif lima definizione del movimento
ne fa pruova nell'altera zione , così definendola : l'alterazione , è atto di
quella coſa , la quale ſi può alterare , in quanto ch'ella alterar fi puote :
αλλοίωσης μεν γαρ , και του αυλοιωτού ή αλοιωτών , εντελέχω . Adunque così
ancora andrebbe, ſecondo Ariſtotele,nelmo vimento del luogo la definizione :
egli è il movimento del luogo, endelechia , cioè atto della coſa , che ſi può
lotal méte muovere, in quáto ella ſi può localmente muovere; la qual
definizione,ſe accóciaméte ſpiegherebbe la natura del movimento locale , dicalo
in mia vece il medeſimo Ariſto tele , che in trattando del moto locale , a
valer non ſe n'ebe be . Matacer non fi dee certamente quì , che Pier Ramo
avviſando non dovere effer il genere d'una coſa , genere anche delle ſpecie di
quella , perciocchè troppo rimoſſo, e lontano le ſarebbe: preſe agio di
gravemente punger Ari ftotele collarori di lui medeſimo, così dicendo: Hic ende
lechia rurſusnon imperfecta ,fed abfoluta exprimitur; &ta mrenfo genus
effet motus, non poſsetefseproximum genus cui libet motusfpeciei. Ma chi poi
voleſſe eſaminare, e riandare le altre definizioni d'Ariſtotele , rinverrebbe
veriſſimo sé. za fallo l'avviſo di Lodovico Vives ; il quale, comechè non fi
vegga mai pago di lodarlo , impertanto ebbe a dire: Ari Stoteles eſt in
definiendo vafer , occultus adeo, ut pleraquefine idcircò in ejus philofophia
incerta , da perplexa , parum etiam vera ; dum magis curat quem in modum
reprehenfionem ex cludat , quàm ut afserat verum . E perciò funneanche da
Attico , eda Temiſtio alla ſeppia aſſomigliato . Ma tanto e tanto Ariſtotele
dell'oſcurezzaſi compiacque , e così ſo vente in iſcrivendo uſolla , ch’ebbe a
dir di lui ragionevol mente nel vero il P. Elizzaldi : Summa laus Ariſtotelis
ob fcuritas fuit . E quantunque Ammonio s'attenti di ſcuſa re Ariſtotele ,
dicendo Ariſtotele eſsere ſtato oſcuro a bel Kkkk lo ſtu 626 Ragionamento
Ottavo rezza , lo ſtudio , non per altro , ſe non ſe per iſpaventar coll'oſcu
ed eſcludere dagliſtudi della filoſofia , e dalla lezio de'ſuoi libri gli
huomini d'ottuſo , e baſſo intendimento ; il che ſi pare , che'l medeſimo
Ariſtotele dir voleſle in quel la lettera , fe pur fu ſua , e non da' ſuoi
ſeguaci finta , ch'e gli ſcritta l'aveſſe ad Aleſſandro , che da Aulo Gellio
venne nella latina lingua traslatata s'ngoja nixovs libros , quos edi tos
quereris , non perinde, ut arcana abfcondiros,neque editos ſcito effe , neque
non editos ; quoniam iis ſolis , qui nos au diunt , cognobiles erunt ;
impertanto sì malamente venne fatto ad Ariſtotele d'aſcădere la vera cagione
del ſuo ſcri yere così oſcuramente , che fu ravviſata da ognuno in gui ſa , che
non poſſon far dimeno i medeſimi peripatetici ta Jora di non confeſſarla
apertamente; e per tacer di Simplią cio , diTemiſtio , e d'altri molti: l'autor
della cenſura de'libri d'Ariſtotele dopo averlo ſtrabocchevolmente commenda to
, alla fine purdice in facendo parole delle ſue oſcurez ze : Accedebatad hæc
ingenium viri te&tum , & callidums, &metuens reprehenfionis , quod
inhibebat eum ne proferret interdum aperte , quæ fentiret ; inde tam multa per
ejus ope ra obſcura , & ambigua . Ma laſciando ciò ſtare alpreſente, nomeno
che nella definitione,egliſi ſcorge eſſer Ariſtotele infelice nella diviſione
del moto.Vuolegli,comeè detto ,ſei eſſere le ſpezie del moto : cioè
generazione, corruttura,al terazione,accreſcimento ,diminuimiento , e moto
locale; ma a chiunque bene , e ſottilmente la coſa ragguarda , niuna altra
forte di movimento ſi fu avanti nella natura , ſe non ſe locale ; e nel vero
tutte le ſpecie addotteperperAriſtotele, altro non ſono ,ſalvo che movimenti
locali ; e ſi pare ,che'l medeſimo Ariſtotele ciò anche confelli ;
concioſliecoſachè dica egli una volta , che'l moto locale ſia il primo de’moti,
eche niuna delle p lui mézionate ſpezie del moto ſi poſſa no ritrovar "
inquemai diſcopagnate dalmoto locale; ed uną altra fiata apertamente affermi,
che il ſolo moto locale ſia quello , che dir ſidebba propriamente moto . Divide
Ari ſtotele primieramente ilmoto locale in ſemplice, e miſto; ſemplice chiama
egli quel movimento , il quale è ſempre mai Del Sig .Lionardodi Capoa. 027 mai
uniforme,e fimile a ſe medeſimo. Il moto semplice è di due maniere, retto ,e
circolare ;cöcioffiecoſache di due mas niere ſiano le grádezze séplicirerte
pariméte,e circolari; la qual ragione ,quáto frivola,quanro yana fazlaſciù a
voi a conſiderare , Il moto çircolare , il quale ſolamentegiuſta il ſuo avvilo,
è perfetto , e regolare ; vuole Ariſtotele eller quello , che fi få intorno
almezzo; ma il retto allo incon tro eſſer quello , che faffi in ſuſo , ed alla
in giù , Mataçé do , che avviſar dovea Ariſtotele que’movimenti , ch'egli
immagina farſi intorno al çētro della terra, non eſſer altra mente circolari '
, ma ellittici , follemente nel yero egli fi da ad intendere avermoto ſemplice
nell'univerſo , che retto non ſia; imperocchè qualunque corpo , cheſi muove
convien certamente , che ſe'n vada ad occupare il luogo a ſe più vicino ;
perchè ſarà mai ſempre ogni ſuo moto ret to , e formerà mai ſempre col muoverſi
linee rette ; laonde i moti obbliqui tutti,cácora que’che circolari ſi
chiamano, altro non ſono, che moltiſſimi, e poço men chę infinitimo vimenti
retri; i quali ad ogn' ora facendo angoli, a formar vengono moltiſlime, e poco
men , che infinite linee rette ; laonde niun moto del mondo farà circolare ;
imperciocchè niun moto, che in giro fi faccia mantener il corpo maiſemi pre
potrà dal centro ugualmente lontano ; il che richiede Ariſtotels nel inoto
circolare . E quinci ſcorgeragevolme. te li puorc , quanto dal ver ſi diparta
ciò che appreſo Ari ftorelc diviſa, poço faggiamente, confondendo i membri
della diviſione , dicendoil moto ſemplice eller di tre ma niere : l'una di
quello , che ſi fa intorno al mezzo , o lia centro : l'altra diquello , che ſi
fa dal mezzo ; e l'altra di quel, che ſi fa almezzo ; ma degna ſenza fallo è
d'aſcol tarſi con grandiſſime riſa la cagion ,che di sì fatta diviſio ne cgli
reca,françamëte affermando tre eſſer i ſemplici mos vimenti ; concioſliecofachè
abbiano i corpi tre dimenſioni, Quinci li coglie eller falſa , e vana del pari
la menzionata diviſione del moto d'Ariſtotele ; enon aver moto veruno
nell'univerſo , che compoſto eſſendo del retto , e del circo Jare, miſto con
Ariſtotele dir veramente ſi poſſa. K k k k Ma a è 2 028 Ragionamenta Ottavo Ma
trapaſſando a quella diviſione del moto , così cele bre ne’libri d'Ariſtotele ,
in naturale , e violento :veramen te in iſpiegare i membri di quella oltremodo
vario , ed in conſtante e ' li moſtra ; perciocchè una fiara dice , il moto
violento eſſer quello ch'altrõde vien comunicato ; il che ſe vero fofſe , vana
ſarebbe la fua diviſione; imperocchè ogni moto , giuſta Ariſtotele , altronde
procede; e un'altra vole ta poi, no badado a ciò che prima avea detto,egli
afferming comechè da altri cagionato effer poffa , trondimeno alcun movimento
eſſer naturale . Vltimamente Ariſtotele vuole , che quel moto djr ſi debba
violento , il quale venga cagio nato da eſterna cagione in un corpo , che il
ripugni; maſe il moto altro veramente egli non è , fe non cambiamento di luogo
, e al corpo non meno è natural queſto , che quell altro luogo : certamente al
corpo niun moto ſarà mai vio lento ; e ogni qualunquemoto , che nell'univerſo
ſi faccia , dovrà dirfi naturale . Ne la terra , o altro corpo dique'che
chiamanli gravi da ſe , comeinſieme col vulgo immagina Ariſtotele gripugna il
ſalir in alto , quantunque ſi paja a noi, che non veggiamo que' corpi , che la
ſpingono giù , e fan ch'ella ripugni il ſalire . Non ſembra finalmente conforme
a quel ſuo famofo detto , ch'ogni coſa , che ſi muove , per alrri ſi muova , la
diviſione,ch’Ariſtotele reca del movime to , in quel , che vien fatto da fe, e
propio chiamato , e in quel, che da altri faſli , e per accidenteè detto . Ma
una cotal diviſione mi fa ſovvenir , come ſconciamente fallò Ariſtotele nel
dire , che'l generante muova ancor quando è lontano ; anzi ancor quando più non
è ; e che le ſue intel ligenze muovano moralmente ; il che ancora di colui
che'l tutto muove empiaméte oſa egli affermare; che tanto egli è nel vero ,
quanto dire, che le intelligenze muovano non movendo le ſpere celeſti dalui
ſognate . Ma dovea Ariſto tele avviſare, chela maniera dell'operare del Sovrano
Mo narca dell’Vniverſo è molto lontana , e differéte da quella, che'l più acuto
umano intendimento poſſa vnquemai im-, maginare ;e comeegli già traſſe dal
nulla le corporee ſoftá ze colla fola volőtà , colla quale potè dar loro il
moro anzi gliele . DelSig. Lionardo diCapoa 629 gliele diede ſenza fargli
puntomeſtier di toccamento veru no ; e che Iddio ancora fa , che gli Angioli
parimentes. comeche inviſibili fpiriti,pofanomuovere, avvegnachè nă tocchino le
corporee ſoftanze ; e laſciando di riferire , che dican di ciò Guglielmo da
Parigi, l’Aureolo , e altrimae Ari in divinità , iquali non fi prendon briga
più che tanto di venir a' particolari : Io vado conghietturando, che: dar
poſſano il moviméto gli Angioli a ' corpi,in quella gui ſa per avventura ,
colla quale fuole l'anima ragionevolea allor che muove il ſuo corpo ; la quale
certamente altro nā fa allorche muove qualche membro , ſalvo che dar altra
determinazione per opera della volontà a que' rapidiffimi movimenti di
que’minutiſſimicorpicciuoli , che continuo dal fangue vengon per l'arterie
a'nervi compartiti. Argo mentali eſser vero ciò dall'oſservare , che ficome
ſcema , o creſce in cotalicorpicciuoli il movimento , così più o me no
all'anima di muovere le mébra del noſtro corpo vié per meſso ; non altriméti
forſe l'Angelo, comechè non ſia lor forma , come è l'anima del corpo ,
muoveicorpi determi nando altrimentii moti de'piccioliſſimi corpicciuoli,ch'en
tro lor fono , o pure que' dell'aria , o dell'etere , che gli penetra ,e gli
circonda; e'n quella guiſa , che'l vento soľ acqua muover logliono le piume, e
le frondi, faccian ancor cglino cambiar luogo a queſto , e a quel corpo ; ed
eſsen do il moto delle particelle , che l'etere compongono , rapi diſſimo:può
l’Angela determinandolo condurre in brevif fimo tempo da un luogo a un'altro
,comechè lontaniffimos icorpi . Ma laſciando queſta curioſa digreſſione a '
facri Teologi, e al noſtro Ariſtotele ritornando , lo dico ,che no men , che
s'aveſse fatto del moto , ſcioccamente falla in di viſando del luogo :
imperocchè egli dice eſsere il luogo quella immaginata ſuperficie delcorpo ,
ove la coſa allo gata ſia ; la quale opinione , comechè egli la toglieſse di
peſo comealcun giudica daPlatone, o da Archita,dal quale tolſe anche quella
fconcia diviſione dell'ente cotanto da Lorenzo della Valle , e da altri deriſa
, pure egli sì disfor mata la ci reca , che nel vero ſembra , che più toſto
egli ab . + bia 630 Ragionamento Ottavo bia ſecondarvoluto l'opinionedelvulgo ,
il quale non fa diſtinguere il vaſo dal luogo: che adombrar i ſentimenti di
que'valent'huomini; e sì ſciocca , c irragionevole parves una sì fatta opinione
a Filopono, per tacer d'altri Peripa tetici, che acerbamente ne ripigliò il
maeſtro ; e nel yero ſe'l luogo , comeragion perſuade , e Ariſtotele medelimo
inſegna , appartiene a qualſifia minima particella del corpo locato , dovrà
ſenza fallo il luogo aver parimente riſpetto a qualunquc minima particella del
corpo locato,e farli da quella ingombrare dimaniera ; che a tutto il corpo
locato corriſponda tutto il luogo , ea qualunque minima particel la del corpo
corriſponda ugual minimaparticella di luogó. Conie potrà mai dunque conſiſtere
la natura delluogo nels la ſuperficie più vicina del corpo contiguo , la quale
a cir condare , e ad abbracciar viene il corpo locato , ed è affat to fuora di
tutte le particelle di eſſo corpo; perchène ſegui rebbe , chemoyendoſi un
corpo, non ſi moverebbono tut te le parti di eſſo , per tacer d'altre ; e
d'altre ſconvenevo lezze a'peripatetici medefimimolto ben conoſciute . Ma per
nulla dir di ciò , che dice Ariſtotele del tempo , il qual ſe la mente noftra
non ſi deſfe brigadi partire, e di numerar il movimento ; in niun modo ſecondo
lui ci ſarebbe : chen ti,per Dio ſono i diviſamenci d'Ariſtotele, dietro allana
tura , e alla propietà del corpo? E laſciando ciò ad altri cô ſiderare ,
accennerò ſolo quanto egli vanamente s'aggiri in yolendo filoſofar , oltre alle
qualità menzionate , della ra rità , e della denfità prime, comedicç'una volta
ditutte ale tre qualità del corpo,Si fa egli follemente a credere , mora ſo da
leggeriſſime ragioni , poter un corpo rarificandoſi in grandire , e ſenza
giunta d'altro corpo ingombrare mag gior luogo , di quel che prima egli ingombrava,
e maggior di fe divenire;e allo incontro poi ſenza eſſer in nulla ſcema 10 , e
ſenza entrar l'une delle ſue particelle entro l'altre,po
tercondéſandoſiingombrar il corpo minore ſpazio di quel, che prima egli
ingombrava, e divenir minore di quel ches prima egliera , Machi potrà mai
ridire, come ſconciamē. te egli poi favelli della luce , come de' colori, come
de? ( 1 pori, DelSig. Lionardo di Capoa 631 pori , come degli odori,
comedell'altre ſenſibili qualità. : Ma non è mio intendimento di volervi quì ad
uno ad uno tutti i fallimenti d'Ariſtotele narrare; che ſe un tal filo pré
delli di ragionare , certamente non ne verrei mai a capo; c nel vero ov'egli
follemente non aggiroffi in filoſofando di que'corpi,ch'egli
chiamaſemplicide’miſti, edelle lor qua lità? E quanto ſpiacevoli in verità ad
udire ſon que’lunghi, e fuor di propoſito diviſamenti, ch'egli fa del Cielo ,
dell'a . nima , e delle ſue operazioni , dell' aere , de' venti , delle piove ,
de'fulmini , dellaneve, del tremuoto , dell'altera zione, dell'accreſcimento,
della diminuzione delmeſcola mento , della generazione, della corruttura, c
d'altre coſe naturali non iſpiegate certamente da lui naturalmente , fi come
facea meſtieri : chenti , ſono le diviſioni , chenti, gli argomenti, in che fu
egli sì infelice , che ne meno eb be ventura di poter le più vere propoſizioni
provare. Ma ſopratutto in Ariſtotele mi par da notare , ch'egli in tutte le ſue
opere ſi ſtudia colla ſua loica d'avviluppar mai ſem pre la verità , e di
crollare , e mandar a terra i buoni, e veri ſentimenti de' più
celebrifiloſofanti; perchè da Santo Am brogio venn'egli chiamato :ftudiofus
impugnāde veritatis ;ç molto avātidi lui per le medeſime ragioni
l'antichiſſimoPa dre Tertulliano avea detto la dialettica d'Ariſtotele:artificē
Aruendi , &deftruendi verfipellem in fcientiis coactam in co jecturis duram
, in argumentis operatoriam contentionum ', moleftam etiam fibi ipfiomnia
tractantem , ne quid omnino tractaverit . Ma non ſo come fuggito mi era dalla
memoria ciò che Io avea determinato di dirvi del bel diviſamento , ch ' Ari
ſtocele fa delmondo . Afferma egli il mondo di neceſſità eſſer perfetto ,
avendo egli larghezza , lunghezza, eſpel ſezza ;dalle quali dimenſioni in fuora
, altra grandezzaw , non v'abbia , dache queſte tre ſole ſon tutte le coſe; e
ove fiano due , allora non diciamo tutti,ma ambodue,& aggiu gnendo a tre ,
allora in prima diciam tutti ; il che effer di sì fatta maniera , la natura il
ci inſegni, ece l'additi: c.chę per tal cagione,ci ſoggiugne cotal numero uſavali
ne'ſacri ficj; nel che Ariſtotele fra tantiaggiramenti avviluppofli , non per
altro , ſalvo che per iſpiegar alcuni ſencimenti de Pittagorici, da lui
malamente inteſi. Quindi apertamé te appare, quantograndefata ſi dia la
cracotanza di quel miſcredente Arabo Vano immaginator d'ombre, e di fole :
d'Averroe in dico , il quale privo affatto d'intendimento ärdì a dire eſſer
Ariſtotele la norma, el'idea a noi prepoſta dalla naturaper maraviglia di tutti
iſecoli , e per addicar ne l'ultimo sforzo , e l'intero compimento d'ogni
umanaj perfezione: e che egli venne a noi conceduto dall'eterna providenza per
noſtro ajuto ; nelle cuiopere non s'è potu to per lo travalicamento di quindici
ſecoli error alcuno ri trovare ; e in fine ch'a miracolo Natura il fece , e poi
ruppe la ſtampa ; anzi tanto s'avanzò oltre la follia d'Averroe, che diffe , fe
ad Ariftotele folo voler dare intera credenza infra tutti gli altri huomini del
mondo; e ne meno eccettuonne il fantili. mo Profeta Moisè , qualor difle aver
Moisè dette molte coſe , ma niuna provata; al che aggiugner volle, per tacer
d'altro , quell'altra beſtemmia ; che coloro , i quali affer mano Iddio
ritrovarſi per tutto , ſian fanciulli, e che di ſtruggano , e mandino a terra
l'ordine tntto delle cagioni naturali. MacomechèAverroe foſſe di sì ottuſo , e
ballo intendimento : impertanto valſe tanto la ſua autorità appo gli Arabi, che
vennero a gara da tutti abbracciare, e come verità infallibili credute furono
le dottrine d'Ariſtotele ; laõde cõvēnè aʼnoſtri Teologi, p.poter cõvincere i
ſeguaci di Macometto ,quella dottrina,che appo loro era in pregio, ed iſtima
apparare ; e introdurre nelle ſcuole la filoſofia di Ariſtotele , o pure quella
, che ſi contiene ne' libri , che ſi leggon ſotto il ſuo nome; căcioffiecoſachè
dietro a tal con venente gran piari fieno infra gli ſcrittori . E veramente
alcune di quelle non pajono d'Ariſtotele , come p teſtimo niāze di Tullio ,di
Laerzio, di Suida, e d'altri antichi ſcrit tori,e di Mario Nizolio , e di
Frāceſco Patrizi, e d'altri mo derni autori fi può affermare ; nondimeno però
nei , co une que me que', cheveggiamo concordevolmente in tutte quell opere ,
che portano in fronte il nome d'Ariſtotele, da libri neobanuárwv in fuori ,
l'iſteſſo modo di filoſofare : portiai moopinionceſfer tutte d'Ariſtotele, o
pure da qualche ſuo ſcolare ſcritte ſecondo i diviſamenti del maeſtro : Mala
ſciando ciò ſtare al preſente , chiaro da quel che ſi è fin'o ra detto fivede ,
non eſſere conſentimento comune degli huomini in eleggere Ariftotele per
primicro filoſofante ; perciocchè nel lungo travalicamento di cotanti anni,
dopo le prime voci del ſuo nome, forte vanamente infra gli Araa bi per
dappocagine, e ſciempiezza del loro intendimento , gli altri tutti corſero lor
dietro Qualcapra all'altra perſentiero alpeftro : non con fermo , e ragionevole
avviſo, perchè non eſſendo vi elezione d'animo faggio , e avveduto , è da dir
con Bac cone , coitio , non confenfus; e come dice il Ciampoli , copia comune ,
non già opinione comune. E nel vero ponendo in no cale l'originale, ad altro
non badarono le ſcuole, ſe non ſe a far copie continue di quelle ſconce ; e mat
fatte copie del lor primiero maeſtro Ariſtotele : cd a ciò anche fare i
ſemplici,e rozzi ſcolari coſtrignendo ;perchè non ſenza ca gione fu detto dc'
peripatetici da Lorenzo della Valle , il quale veramente fu ilprimo , che
liberò la filoſofia da quel cieco ,e miſero fervaggio,in cui miſerevolmére
giaceva fot topoſta :Pudet referre apud quofdam elle morem initiandi di
fcipulos, &jurejurando adigendi , nunquam ſe Ariſtoteli re pugnaturos :
genus hominum fuperftitiofum , atque vecors , defe ipfo malè meritum ; cum ſe
facultate fraudent indagă då veritatis ; quos fi reprehendere jure optimo
poſſumus, quod hanc ſibi legem impofuerunt , qua tandem infectatione caſti.
gare debemus, fi hanc legem in alios transferunt; ſenzachèno dee giudicarſi
opinion comune in filoſofia quella, che nella fchiera de volgari filoſofi ſoli
, avvegnachè innumerabi le, alligna; ma più dalla qualità degli avveduti
ragguarda tori delle coſe , che dalla copioſa ſembraglia del popolo è da
ſtimare ; perciocchè , come teſtimonia il Romino Ora tore , la filoſofia ,
dipochigiudicatori s'appaga , cabello L111 ftudio ſchifa la moltitudine a lei
ſoſpetta, e odioſa: eft phia lofophia paucis contenta judicibus ,
multitudinemque conful ty fugiens, eique ipfi , & fufpe ta , & invifa ;
eragionevol mente in verità ; imperocchè, come ſaggiamente avviſa il Baccone :
nihil multis placet , nifi imaginationem feriat, auf intelleétum vulgarium
rationum nodis adftringat;perchè dir ſoleva Ariſtotele folamente in favellando
la parte maggio re , ma nel giudicar poi la minor parte doverfimai ſempre
{eguire . Ma ciò , che de' Peripatetici abbiam noi ſin ora diviſato , deſli
ſenza fallo anche dire degli altri parteggian çi; de'quali tutti ebbe a dire
quel valent'huomo , noneſſer credenza infra’filoſofi così ſtrana, e rimoſſa
dalla ragione , che non abbia ritrovati i ſuoi difenſori. E sì abbondevole fu
nel vero la greca filoſofia di sì fatte ſconce , e inveriſi mili opinioni , che
non ſenza cagione fu detto da Varrone nemo ægrotus quicquamfomniat Tam infandum
, quod nonaliquis dicat philofophus. ma prima potrei col Poetacotar nella
diſerta piaggia l'are nege nel mar turbato l'onde,che gire ad uno ad uno anno
verando degli antichi filoſofi i fallimenti; de quali più forſe ne ſarebbon
conoſciuti , ſe a noi foſſero pervenute tutt'altre opere di coloro , dicui Già
lunga notte involve i nomi, e l'opre. Maavendovi, come di ſopra avviſammo ,
infra' greci me. dici alcunivalentiſſimi maeſtri, i quali ſi valſero dell'opi
nioni di Zenone , e d'Epicuro in filoſofando delle coſedel la medicina , nõ
farà per avventura fuor del noſtro propo fito il brievemente accennare i miei
ſentimenti intorno al la ſtoica, ed epicurea filoſofia . E per cominciar dalla
ſtoi ca : grande certamente ſi fu la follia di Zenonedella ſetta ſtoica primo
maeſtro , e fondatore , il quale avendo ben potuto fcorgere quanto ſi foffe
oltre avanzato ſopra tutti i greci filoſofantiDemocrito nella vera ſtrada del
filoſofa re , volle nondimeno più coſto gir dietro alla traccia di co loro ,
che apertamente avean da quella traviato ; e Com ? mechè men vaneggiante affai
d'Ariſtotele Zenon fi mo Atri in iſpiegar le coſe della natura , non però di
meno egli Del Sig.Lionardo di Capoa. 838 egli ancora nelle maggiori ſtrette
fuolentrar nel pecoreci cio , ſenza divifar nulla di ſaldo. Così in ragionando
delo la mareria la delcrive largaméte con termini (tratti e genes rali,come
appūto diviſato in prima n'avea Pittagora, e Pla . tone,e Ariſtotele; della
qual coſa ragionevolmēte ne fu egli force biaſimato da Seſto Empirico;
eavvegnapure,ch'egli cófesſaſſe eſſer vero corpo la materia, e chiamaſſe la
forma nõ cagione , ma parte delle coſe:nondimeno non iſpiegando appreſſo , che
coſa veramente la formalia , e in che conſi ſta la natura del corpo , e come
formar variamente fi poffa, e ne meno ſcendendo poialparticolar delle qualità,
mani feſtando , e dichiarando chente fia la lor natura , ecomes ingenerino : è
da dir, che neile medeſime ſconvenevolezze egli ancorcada, nelle quali già in
prima detto abbiamo eſ. ſer Platone , e Ariſtotele vergognoſamente caduci . Ma
non ſembra vero ciò che Cicerone , e altri fcrittori riferiſcono di Zenone ,
che egli aveſſe per efficiente cagio . ne conoſciuto il ſolo fuoco; imperocchè
egli coinpone le coſe de’quattro volgari elementi; e alle loro qualità attri
buiſce, o tutte , olamaggior parte dell'operazioni natura. li , comech'egli in
ciò poco felicemente s'adoperi, per nốt aver inveſtigato in prima , come certamente
conveniva, la propietà diquelli; e quinci avvien poi;che Zenone di quel le ,
che ſeconde qualità chiamanſi, così confuſamente an che favelli, comeſipuò
vedere allor ch'egli dice , eſſer i colori le primediſpoſizioni della materia .
Dice ben egli Zenone , che ſon due i primi principi delle coſe : paſ ſivo l'uno
, cioè la materia , ſoſtanza ſecondo lui priva di qualità : Paltro attivo ,
quale ingenera ogni coſa, e vienda lui col nome d'Iddio, e di natura chiamato;
e queſto vuol Zenone , ch'altro non fia , ſe nõ ſe un ſottiliffimo fuoco do.
tato di ragione , e di ſapienza , il quale per tutto diſcorra , il tutto
abbraccj,il tutto penetri ; e che dalle varie , c varie materie in cui egli ſi
trovi,varj,e varj nomi poſcia egli rice va.Ma quanto ciò ſia lõtano dalla
ragione, nofa certamen. te meſtieri, ch' lo duri fatica per darlovi a divedere
. E Lill 2 nel 636 Ragionamento Ottavo nel vero ſe mai Zenone argomentato ſi
foffe d'inveſtigar , comeché rozzamente la natura del fuoco ,non avrebbe po
tutomai concepirnella ſua mente così folle , e pazza opi nione ; anzi ne men
avrebbe egli detto eſſer l'anime noſtre, caldi, e ſottiliſſimi fpiriti, tratti,
come rapporta Seneca : ex illisfempiternis ignibus ,quæſidera , acflellas
vocamus, , veluti ſcintillas quafdam afrorum interris defiliiffe , atque alieno
loco exiife . Concioffiecofachè il fuoco, il quale al cro non è ſe non fe
un'adunamento di piccioliffimi corpic ciuoli , o sferici, o piramidali,non
pofſa ne ſentire , ne in tendere, ne far niun'altra operazione , che l'anima
far ſuo. le ; perchè non avrebbe poi anco detto Zenone l'anime ef fer mortali,
e quelle dappoco , e baffe , qualieſſere giudica l'animne degli ſciocchi , e
ignoranti Cbe viſſer fenza fama, e ſenza lodo col corpo infieme attutarſi ,
emorire ; e quelle de’dotti fo lamente che , fon più vigoroſe, dover durare
ciaſcuna ſe condo il fuo potere , come fiaccole acceſe in tenacemate ria fino
all'ultimo ſcoſcio del mondo : fi ut fapientibus pla cet , dicea Tacito di
Zenone , e degli ſtoici , non cam corpo re extinguuntur magnæ animæ ; il qual
luogo chioſando il dottiſſimo Lipfio : nota, dice, magnas arimas;minutæ igitur,
& fatuæ pereunt ,aut non diu manent . La quale opinione motteggiando
l'eloquentiſfimo Romano: Stoici, dice, uſu ram nobis largiuntar tanquam
cornicibus : dia manſuros ajūt animos , ſemper negant. E quinci follemente
temevano gli Stoici ilmorir ſommerfi neĪPacque ; imperocchè ſtimava no , che
l'aniine , come quelle , ch'eran di fuoco,veniſſero cſtinte dall'acque . Ma
cotal crcdenza ella mi ſembra , che molto più antica di Zenone ſtata fi foſſe ;
imperocchè non per altro certamente quel grand'Eroe , d'Aſia ter rore , e'l
fagace Vliſe , e'l fortiffimo Duca Trojano moſtra no aver cotanto in orrore il
morir affogati nell'acque : ingemit Æneas , dice Servio , non propter mortem ,
fed pro ptermortisgenus; grave eft enim fecundum Homerum perire naufragio ,
quia anima eft ignea &, extingui videtur in ma ri contrario elemento.Ma
piacevole è nel vero a udire il di via DelSig. Lionardodi Capoa 037 viſamento's
ch'eglifa Zenone , intorno alla generazion del mondo ; dice egli, che Iddio
ſtava primieramente in ſe ſtel ſo raccolto , il che non ſo lo, come poſſa dirſi
mai del fuo € 0 ; e che indi poi la materia tutta in aria prima, e l'aria ape
preffo in acqua cambiafle ; e che ficomenel ventre della femmina fi contiene il
ſeme, così ſteſſe parimente nell'ae : qua una materia abile a ingenerar tutte
le coſe ; e che pri mieramente ingeneraſſe Iddio diquella materia i quattro
elementi , cioè il fuoco , l'acqua, l'aria, e la terra ; e poidi queſti,tuttii
corpi miſti formati veniffero . Il fuoco ſecon do Zenone è caldo , e l'acqua è
liquida, l'aria è fredda, e la terra è arida ; ma l'ordine col quale , c lic
ſtelle , e gli altri ragguardevolicorpi dell'univerſo s’ingeneraſſero; vie ne
ſpiegato da Zenone in sì fatta guiſa . Afferma egli, che nel ſupremo luogo
foſſe collocato quelfuoco , il quale per la gran fua: ſottigliezza vien detto
ctere ; e che in lui pri micramente naſceſfero le ſtelle fiſſe ; indi appreſſo
l'ervanti, indi appreſſo l'aria., indi appreffo l'acqua ; e ultimamente la
terra , la quale ſta in mezzo collocata; mafolte ben fa rei Io a logorar il
tempo nel racconto di queſte , e altre sì fatte empiezze , che ci vuol dare ad
intendere Zenone . Ma non meno ſtoltamente erra Zenolie in ſecondando i
fentimenti d'Omero', togliendo non ſolo la libertà dell’o perare agli huomini;
ına ſottoponendo alla violenza delFa to il: mcdeſimo Iddio ; perchè cantò
Lucano, per tacer Se neca , Fileinone , e Manilio : Sive parensrerum , quum
primum informia regna , Materiamq; rudem flamma cedente recepit Tinxit in
æternum caufsas, quæcunéta coërcent; Se quoque Lege tenens , & fecula jufa
ferentem Fatorum immoto divifit limite mundum . E prima di Lucano , quel greco
poeta, così traslatato da Cicerone : Quod fore paratum eft ,id fummum exfuperat
lovem ; perchè dicono non poter nulla Iddio contro la violenza del Fato ; ne
lui medeſimo poter iftorcere; o piegar l'opere de gli eterni provvedimenti;
laonde ſccodo i ſentimenti di Ze none 638 Ragionamento Ottavo 1 nonediſse
Seneca,o qualūquefi ful'autor di quella tragedia Non illa Deovertiſe, licet Que
nexa ſuis currunt cauſſis . E a ciò ponendo mente Luciano , piacevolmente
deriden do,come è fua usāza, gli Stoici, fa ,che l'orgoglioſo Ciniſco ſeguace
di Zenone,tratto da cotali ſentiměti, temerariamć. te diſpregjGiove , e gli Dii
tutti , non temendo punto del le ſue folgori, ſe dal fato non gli erano
deſtinate ; poichè gli Diitutti, e Giovemedeſimo erano al fato ſoggetti; u che
così gli Dii come gli huomini erano ſervi delleParche; ne potere far coſa del
mondogli Dii, per menoma ,ch'ella ſi foſſe , che dalle Parche non foſſe in
prima ordinata , e lun gamente compoſta . Perchè altro gli Dii non effer, che
mi niſtri , e ſergentidelle Parche , o per mc' dire ſtrumenti di quelle , come
la ſcure , e'l trivello . E con queſte ſtoiche beſtemmie fa ch'egli ſi rida di
Giove ; il quale oleremodo fi vanta di quella famoſa catena delle coſe del modo
appreſ ſo Omero . Il medeſimo Stoico poi giudica appo lo fteſſo Luciano eſſer
anzile Parchemedeſime, che Giove da pre gare , ſe lc Parche per prieghi pur ſi
moveſſero ; poichè al le Parche , e non a Giove l'imperio tutto del mondo , c'1
primo reggimento de' fatiè da attribuire . Mano è da in tralaſciar,ch'avviſando
anche l'aſtutiſlimo Macometto ,per nulla dir di Lutero , e di Calvino , eſſer
corale opinione molto in concio a'ſuoi fatti , preſela , ed inſegnolla nel ſuo
Alcorano , acciocchè preſti maiſempre, e arditi i ſuoi po. poli , ponendo giù
ogni timor della morte, a magnanime,e pericoloſe impreſe prontamente
s’eſponeſſero; perchè a co tal credenza riguardando il Taffo , pole in bocca al
valo roſo Rede'Turchi , Solimano , Giriſ pur Fortuna O buona , orea , com'è
laſsù preſcritto. Ma non meno ſciocca èquell'altra credenza di Zenone intorno a
' peccati, ch'egli follemente vuole, che tutti ſiano uguali, e che ne più , ne
meno falli colui , che ſpogli cru delmente della vita il ſuo propio padre , di
colui , che allor , che ciò far non convenga ammazzi un bruto anima le . E .
DeSig . Lionardo di Capoa 639 te : Equell'altra intorùo al ſuo ſapiente;il
qual'eglivuole , chenon altrimenti, che ſe la filoſofia l'aveſſe dell'umana
natura poſto in bando ,no’l muova amore ,non ira,non odio, non timore , ne
qualúque altra più violéta paſſione . Senti menti in verità , per dirla
coll'Arioſto, Convenientia un huomfatto diſtucco ; ed Io per me non ſo come
s'aveſſe giammai potuto fognar - Zenone una sì fatta novella , ch'un huomopoffa
viver nel mondo libero , e Sciolto da tutte qualitati umane . Manon queſti
ſolamente ſono ,ma altri, e altri i falli che Zenone , e iſuoi Stoici prendono
, alla noſtra fede , ed alla natura ſteſſa ripugnanti; perchè non
pocomimaraviglio , come cotato preſſo alcuno ſiano commendate , e in pregio tenute
quelle memorie,chedi loro rimágono ; e ſpezialmé te l'opere di Seneca ;
imperciocchè non è punto , com 'egli follemente s'avviſano le genti , quell’
aſtuto Stoico , re ligioſo , e dabbene ; concioffiecoſâche , ſe ben fifamente
vi fibadi , in altro non s'argomentiSeneca ne'ſuoi libri, ch'a toglier dal
mondo ogni coſtuma dipietà , e direligione ; comechè faccia ſembiante nelle ſue
dottrine, di'rigorofilli mo Anacoreta , e poco men , che di perfettiſſimo
Criſtia no ; e a prima faccia appaja , qual farſi vedervolle anche il fuo
maeſtro Zenone , Virtutis verd cuſtos , rigidus que ſatelles. Ma ritornando a
Zenone , egliſi parve, che talora Ze. none fi foſſe avvicinato al ſegno in
filofofando delle coſe naturali ; come quando egli per iſpiegar la maniera ,
nella quale faſli la viſta , diſſe l'occhio valerſi della aria teſa , co med'un
baſtoneper conoſcer le coſe viſibili; del quale esé. plo fi valſe poi così a
propofito Renato delle Carte . Com nobbe ancora Zenone , comeche a durar non
viaveffe mols ta fatica ,, effer il ſole più grande della terra. Argomentò al.
tresì egli da' ſuoi effetti non eſser altro il ſole , ſe non le fuoco ; ma da
quelli certamente avviſar non ſi puote , come egli immagina' , eſser quel fuoco
, ond' è forma to il ſole ,ſincero , e puriſſimo. Ma non ha dubbio ,che Zeno
640 Ragionamento Ottavo . Zenone s'ingannò grandemente , immaginando participar
la luna aſsai più dell'altre erranti ſtelle , della natura della terra : per
eſserella più di eſso loro alla terra vicina ; im perciocchè non ha che far con
ciò punto la vicinanza, e nó v'ha ragion alcuna , la quale perſuader ci poſsa ,
che la lu na differiſca púto dagli altri pianeti; e oltre a ciò mal inten dendo
Zenone la ſentenza degli antichi filoſofi , i quali di cevano comunicarfra di
eſso loro inſieme p via di piccio liſſimi corpicciuoli dall'une all'altre
continuo mandati , le ſtelle erranti , e fiſse , e la terra : afferma , che le
ftelle , co me quelle , ch'animaliſono , dal mondodi quaggiù riceva no il loro
alimento ; e venir il ſole nutricato dal mare , la luña dall'acque dolci , e
l'altre Atelle dalla terra ; m2 perta cer d'altri difetti della filoſofia di
Zenone, in ciò ſopra tut to fu egli oltremodo manchevole , checoltivò molto più
di quel , che certamente a natural filofofo fi conveniva , gli ftudi della
Loica , onde conveme, che i ſeguacidilui , for ſe aſsai più di que'priini
peripatetici,nelle inutili fortigliez ze dialettiche intrigati , vennero
ragionevolmente da Ga lieno contenzioſi chiamati; e quinciavvenne, ch'eglino no
poterono gran fatto vantaggiarſi nello ſpecular le coſe della natura ; onde
ebbe a dire il medeſimo Galieno , che gli Stoici nelle inutili coſe erano alsai
eſercitati , ma rozzi poi allo incontro in quelle di momento,e poco eſperti ſi
dimo Atravano . Malaſciando Zenone , trapaſseremo a ragionar d'Epicuro ..
Primieramente per mio avviſo mai fi par certaméte, che convengano ad Epicuro
quelle ſtrabocchevoli lodi , che , da pallionati luoi ſeguaci , c ſpezialmente
da Lucrezio gli vengono attribuite icon dire jufra l'altre millanterie , ch'
Epicuro non huom mortale , ma Iddio ſi foſse;e ch'egli pri ma di tutt'altri
rinveniſse la vera ſapienza ; e chc Epicuro anche fi foſse Quel , che i termini
tolfe al vaſto mondo, Le fiammeggiantimura a terraſparſe, E'l vano immenfo col
penſier traſcorſe. Imperocchè , per tralaſciar ch’Epicuro altro in verità nõ
facer 1 Del Sig. Lionardodi Capoa. 041 faceffe , che traſcrivere le ſentenze di
Democrito : i falli menti del quale non maiegli diſcoverſe, non che rammen
daſſe : anzi ſe mai egli da’ſentiméti di Democrito ſi diparti , incorſe in
graviſfimi falli . E gliporrò opinione Epicuro , che da una infinita , ed
immenſa corporea ſoſtanza , qual ſecondo lui altro non è , ſe non ſe un
radunamento d'infiniti corpicciuoli di varie , ¢ varie grandezze , e figure , e
da uno ſpazio parimente im menfo, qual'egli vuoro d'ogni corpo eſſer crede ,fia
copoſte l'univerfose che fenza regolaméto d'intelligenza veruna, a caſo , ed a
ventura , dalmoto, dall'accozzaméto,e dall'or dinamento , ſolo di que'corpicciuoline
fian nati ,non ſola mente queſto , in cuinoiabitiamo , ma più , e più mondi ,
Aggiunſe egli al diritto movimento de corpicciuoli ( che apparò da Democrito)
di ſuo altresi quell'altro moto pie gato,ed obbliquo, acciocchè dalle varie
maniere di quello poteſſero cotante coſe ingenerarſene : e cocal movimento
torto , eglidiffe naſcer dalla chinacura de' corpicciuoli , quali movendo per
diritto , ed in altri corpiceiuoli incop pando , neceflariamente doveſſero in
iftrigando piegarlize non men dell'altre coſe del mondo empiamente eſtimò
Epicuro eſſer compoſte le noſtre anime , come dice Lu crezio Corporibus parvis,
do levibus,atq; ratundis . Ma fe noi riguardiamo , non ſolaméte alla diverſità
del le coſe del mondo , ma anche alla lor vaghezzase perfezio ne, e come nulla
non vi ſtia a bada , ma all'acconcio fine venga mai ſempre convenevolmente
dirizzata : non può in niun modo da ciaſcun comprenderli , come a riſchio , per
caſo , ſenza ſottiliffima macaria di gran maeſtro debba effer formata ; e per
non trarre argomenti dalle ſtelle , dad ſole, dall'huomo e da altre ,e altre
opere maggiori d'Iddio , mi contenterò ſolo di far parole di alcuni piccioli
animales ti , come ſono le moíche , le zanzare , le formiche , l'Api, gli Acari
, c altei afſai cotanto menomi, e ſottili, ch’appe col microſcopio , tanto
quanto , cavviſar li poſſono ; e pu re fono in loro da ammirar, ſomipamente
quelle picciolilli M in m in me par 642 Ragionamento Ottavo 1 me particelle ,
così ben compoſto , e formate , come nella notomia degli huomini medeſimi, e
d'altri animali più grā di fi veggono . Sono que'corpicciuoli anch'eglino
forniti de’lor membri; ne mancan lornella teſta i piccioliſſimi oc chiolini, e
negli occhi le palpebre, e le tuniche, e tutto ciò, ch’ad occhio ben compoſto per
rimirar fi conviene ; e nel capo è anche loro il cervello , le glandole , le
membrane ', ei ſottiliſſiminerbolini ; da' quali il poco ſugo nutritivo al
rimanente del corpicciuolo ti dirama, e comparte . E che dirò lo dello ſtomaco
, delcuore , e d'altri fomiglianti me bricelli ? che dell'offa , e delle vene ,
e dell'arterie , e del facco latteo , e de'vaſi acquoſi, e di cotante altre
menomif fime particelle , chente , e quali a ben fornito corpo ſi ri chieggiono
? e che delle loro piccioliſſime anime, le quali anch'elle nel reggimento tutto
del corpo dimorano , e ri fvegliano i ſentimenti, e fá chc muovano i
membriceili alle fue opazioni:e céto, emillaltri maraviglioſi effetti in quel
lo adoperano ?Ma ſopra tutto è da por menteal loro indu ftrioro ingegno ; e per
non dire al preſente dell'api, è da maravigliar ſommamente dell'induſtre , e
faticoſa formica, Che'l vitto onde fi pafca alfreddo verno Ripon la ſtate ,
ebenchè lunge ancora Sian difagion moleſta i giorni algenti, Neghittofa non
ceffa ,e non s'allenta La negra turba ,, anzi ſe freſsa avvezza Ne le fatiche ,
e per gli adufti campi Fervel'opra nonmen , che l'ore,e'lgiorno , Fin ch’abbia
ne fuoi ſpecchiil gran ripoſto . E avendo forſe quella per pruova appreſo effer
la ſementa , onde poſcia germoglian le piáte, no altro, che le piáteme de lime
dentro della buccia raccolte , e riſtrette , per ceſſar l'aſprezza del verno :
come apertamente col microſcopio noiveggiamo : avvedutamente per non farle
ſorgere a più piacevol ftagione Ela con l'unghie propie , incide, eſega I
carifratti, e inumiditi al ſole Gli aſciuga, e ſecca , el bel tempo fereno
Spias DelSig.Lionardo di Capoa. 643 Spiando già prevede i lieti giorni. Talche
quand'ella i grani a'raggi eſpone Pioggia nonſtilla da lofcure nubi,
Ediſerenità l'indicio è certo . Quinci ripor ne le ſuecelle anguſte L'aſciutta
meffe , e poi la ſerba , e parte Cuſtode , e diſpenziera. E’ntenta a l'opre E
nonfol mentre ilſoleaccende icampi, Ma le fatiche ſuenotturne ancora Dal Ciel
rimira la rotonda luna: E quelle più ſerene , e calde nutti Tolte al dolce
ripoſo , al queto ſonno Aggiugneal travagliar continuo, e lungo . Ne è da
traſandare ciò che delle formiche oervò Clea te . Vide egli un giorno alquáte
formichetrar dal lor for micajo il cadavero d'una formica , e portarlo a
un'altro vi cin formicajo ; e quivi giunte uſcirne;come chiamate,alerc formiche
, e andar loro incontro , e accontarſi quaſi ragio nando di lor bifogne ; e
indi a poco ritornarſene quelle ch? erano uſcite nella lor buca, e di nuovo
quindiriuſcire ,e ri trovar le foreſtiere ,come rientrate foffero nella buca a
re car l'imbaſciata di quelle alle lor compagne ; è conſiglia teſi del cadavere
della lor compagna foſfer poi ritornate a patteggiarne la riſcoſſa : e ciò due
, o tre fiate facendo , alla fine dopo cotante aggirare , quaſi eſſendo di
convegna de loro piaci, andaronoalla buca , e fi recarono loro un verme per
taglia della morta fórmica, il qual prendendoli quelle di fuora , e laſciando
il patteggiato cadavere , n'andar via ; ed elle raddoſsãdoſi il cadavere
ritornarono nella lor tana, quaſi per dover quello ſotterrare .
Néminormaraviglia è ciò che Io un giorno fattomi per diporto ad una fineſtra di
mia cafi oſſervai. Era in quella una formica , la qual ripoſtali in guato , non
altrimenti , chei'ragnuoli ſi faccia no , preſe per lo piede unamoſca , la qual
forte dibatten dofi , e ſcooendoſi, indarno di fuggir slargomentava ; ma pur la
piccioliſſima formica non potendo portarſela, o uc ciderlai, ſtrettamente fiffa
la riteneva, fiache giuntavi a ca Mmmm 2 ſo un ' 644 Ragionamento Ottavo :: ſo
un'altra formica partiffi.di preſente , e ricornò con alire formiche a condurli
a forza la prcda dentro dal lor formi cajo . Ma perchène G faccia maggiorméte
manifeſto ,qua to ſtolta fia ', cd'irragionevole la menzionata opinione d'E
picuro ,e quanto fia grave l'ingiuria , che per quella vien fatta all'autore
dellanatura, egli ne fameâiere,che alqua to più di ciò, che per avventura
abbiſognerebbe in diſami narla c'intertegniamo. Dico adunque , che una ſoſtanza
fia quella , onde cotanti aſpetti , e sì diverſe ſembianze di coſe n'appajono
in queſto gran Teatro dell'univerſo , eſle re egli ſtato parere , in cui non
pur Democrico ed Epicu ro:mailmedeſimo Ariſtotele ( il qual più ,.chalari fa ve
duta diportarne contrariaopinione,dicomun conſentimé to convengono . E tanto
par che coſtui voleſse dire colà : nell'ottavo libro della metafiſica : ove
feriſse eſsere una , medefima coſa l'ultima materia , e laforma; e fimilmente
non eſser differenci nelfubbietto la materiais e la privazio . ne( del chc.a
torto altrove egliavevaripigliato Platone ) e che ſolo l'incelletto fra:cſso
lor le diſtinguaje nel ſecondo della fiſica ; ſcrivendo , che la forma non
maipoſsa dalla , materia fceverarfi , ſe non ſe in mente noftra ,ficome a niū modo
può fepararſi la ſchiacciatura dal naſo ;:e nel ſecon do dell'anima: ove avvifa
vano eſsere l'inveſtigar, ſe l'ani ma ſia altra cofa dakcorpo diverſa ;ſicome
non è da elami. nare , fe la figura , che imprende la cera, fia da quella di
itinaa . E finalıncnte il medeſimo par che confermis quan do ſpeſso ſpeſso va
affermando , la forma eſser quiddità della coſa; che a ſua favella vuol dire la
formaeſser perfe zione dellamateria,la qualiove capace diperfezione,mām. deria
s'appella :ovegià perfetta conſideriſi,forma:fi-dice. Ne altriméti in verità
creder poteva: chiin Dio, nelibertà, ne cnnipotenza riconoſceva;ondepotuto
aveſse dal niente criando le forme ( le quali ſe-veramente altro foſser , che
ka materia , folla creationepotrebbe dar loro Peſsere, che che in contrario
nedicano i peripatetici ) e afuo talento la materia informarne. -Mache queſta
ſoſtanza , di cui ragioniamo,altro,non ſia che : Del Sig.Liarcardo do Capoa 45
che corpo inminutisme particelle di grandezza , difigura; di fito , di moto , e
d'ordine diverſe ,sbriciolaco', e diviſo, fuinſegnamêto che da Fenicjappreſero
i primi Greci filor fofanti scomechè Democrico , più ch'altri, in primachia
ramente diviſato l'aveſse . Maqueſta ſentenza medefima ne fa vedere eſserci ne
ceſsario un'infinita onnipotenza , e ſapienza valevole a dir ſporre , e
ordinare in tante guiſe , e comunicare ivarſ mo vimenti alla già dettämateria .
E ciò ben conobbe da pri ma , per quel ch’lo ſappia , il fapientiflimo Greco
Filolo . fante Talete Milefio ; e confeſsollo manifeftamente , di cendo
appreſso Cicerone: Aquam efse initium rerum :Derim autem eam mentem , quæ ex
aqua cuneta fingerei . E da lui l'appreſero poi Ippone, e Ippia ,.e
cotant'altri antichi filo fofi , i quali tutti concordevolmente giudicarono
eſserci unamentc,o una fapienza infinitajlaqualpartédo ,e fceve rando queſta
maſsa comune , e ordinandola, c movendola, doveſse cambiarla in cotante guiſe ,
quali noiveggiamo.E cotalmente vollè anche il grande Anafsagora , che dalla
materia lua ſimilare , comedicono g.componcise ciaſcunai coſa del mondo :
comcchè a torto poinefoſse egliprover biato , e biaſimato oltremodo da
Ariſtotele , cola ove diſ ſe , ch’Anaſsagora d'un sè fatto ritrovato ſi foſse
voluto: ſcioccamente ſervire , per dar ragione dell'apparenze nas turali : non
altrimenti , che ſervir fi fogliono i tragici Poc tidelle loro machine
piſciorre i nodi più inviluppati del le favole ; edelimedeſimo ſentimento di
Talete furonoan che Platone , o Timeo'; ed è da credere pure , che dal fon
datore dell'Italiana filoſofia, Pittagora , e damolt’altri fa * mofi , .e ſaggj
filoſofanti ſtata foſse in prima inſegnata . Ma però tutti i sì fatti
filoſofanti ad un tratto ſtrabocchevol mente fallarono in negando oftinatamente
eſser cotal fox ftanza uſcita dalle mani onnipotenti dell'Eterno Fattore,
dicendo eſser quella ſempremaiſtata ererna . E forſe non guari illoro errore fu
avāzato da quel d'Epicuro ,o di De mocrito ;i quali ciò checoloro alla mente
operatrice afcrifo ſero , attribuirono al caſo ; imperocchè la divina , ed eter
1 li e ne be 12 2 na on 646 Ragionamento Ottavo 1 na onnipotenza eltimarono
deboliífimo artefice cheſol yao leſſe della già eliftéte materia varie
machinazioni formar ne ; e così attribuendole il poco : ilmolto , anzi il tutto
negaronle , com'è il poter criare dal niente ; perchè dicono follemente, che'l
ſovrano Facitore in fabbricando il mon do , tutta la materia nell'opera
conſumaſſe ; e quinci avve niſſe poi , che un ſolo e'ne formafle . Ma
ritornando ad Epicuro : non ci dee rucar maraviglia, s'egli sì ſconciarné te
dell'onnipotenzadel grande Iddio favellaffe ; imperoc chè egli nonmeno ſciocco
, che empio , immagino Iddio eſſer un'animale di ſembiante umano , come quello
, ch'è più bello di tutt'altri;ma nondimeno ſtimò noneſſer Iddio corpo
altrimenti , ina quafi corpo : ne aver Iddio ſangue , maquaſiſangue : Dice
Epicuro ,oltre a ciò , che gli Dii ſian vaghi , adorni, e riſplendenti, e che
le membra fieno umane; ma chenon abbian però uficio niuno ; e che l'al bergo
degli Diilia in quello ſpazio , che vuoto rimane in fra que’tanti , e
tantimondi per luifognati. Toglie affat to Epicuro empiainente poi la giuſtizia
,e la provedenza di vina; e afferma, che Iddio non cura punto di Noi, Nec bene
pro meritis capitur,nec tangitur.ira; i ! e riinettendo Epicuro il tutto nelle
mani della volubile , ei cieca fortuna ,con iſcioccaggine , e ſcempiezza
eſtrema le attribuiſce De la terra , e del Ciel lo ſcettro,e'l regno.
Ma'laſciando di più diviſar di queſte , e d'altre fimili em piczze d'Epicuro ,
ad ogn’un conoſciute : Io non ſo per me. come difender mai fi poſſa di’kuoi
ſeguaci ciò che Epicuro dice de'ſuoi atoini, chenon poffin dividerſi';
imperocchè , quantunqué menomiſfimi; oltre adogni umana credenzali concepiſcano
, ben potranno dividerſi da uno , o da più ato mi, ch'a guiſa di piramide
acuti, meno di loro piccioli fia no ; ne fa punto luogo il dire , che non
avendo nell'atomo vuoto alcuno , 110'l poſſan penetrare altri atomi, ne fender
lo , ne dividerlo in parti;concioſliecofachè:ben potrà quell atomo, chefendere ,
e partire ilvoglia , con replicati colpi a poco a poco penetrarlo , e dividerlo
, ma ſi può creder 1 1 1 1 imper DelSig.Lionardo di Capoa . 647 inipertanto ,
che ſia queſta una quiſtione vana , e che o no mai ; o rariſſime fiate avvenir
poffa , che un'atomo per al tro ſi fenda , e ſi divida ; concioſſiecoſachè
quantunque li tenti di fare la diviſione di qualche atomo, che in corpo faldo
ſi trovi, non potendo'effer maiqueiľatomoaffatto có gli altri atomi
avviticchiato , e congiunto , ſicome a chiun quedirittamente ragguarda la cofa
, egli è manifeſto : gli riuſcirà aſſai più agevole in ricevendo i colpi cedere
, e diſ giugnerſi dagli altri atomi compagni , a fe vicini, che'l romperhi
.S'argomenta eſſer vero ciò che lo immagino ,dal vedere , che alcuni corpi
faldiſfimi ſi ritrovano , i quali per qualunque forza , che l'arte , o la
natura viadoperi, non ſi pofſon giammai in altri cambiare; il che altronde
certamé te naſcer eglinon puote, fe no ſe dall'eſſer que’corpicciuo li tutti,
che gli compongono nella figura , e'nella grandez Za non guari diſſimili infra
effo loro , e dal non venir que gli mai rotti , e in particelle diviſi . Ma non
mi par , che lo clebba logorar il tempo in rifiutar l'opinione del Vacuod
Epicuro, apertamente perognuno ifcorgendofi falfa ; co mechè valentiſſimi
filoſofi cerchino pure farla apparer vera ; poichè per tacer altri imbratti,
concedendoſi ilva. cuo,converrebbe , cheli toccaſſero , e non fi toccaſſero l'u
nos e Paltro di que'corpi,infra’quali fi fingeffe inframmeſ fo il vuoto . Oltre
a queſto , fe infiniti gli atomiſono , ſe condo Epicuro : faran ſenza fallo
ripieni di corpi tutti gli fpazj ;ne vi avrà ſpazio vuoto alcuno nell'univerſo
; in cui, comechè iinmenfo egli il faccia : Io non veggio lo , come infiniti
corpi , e ſpazio vuoto infinito immaginar mai poteſ fe Epicuro . Ma non in ciò
ſolamente fallar ſi vede Epicuro : maal tri , e altri errori ancor egli
commettc;infra i quali mi par certamente degno oltremodo da ridere quel,
ch'egli,non già per aver troppo creduto a’ſeñfi , come Cartefio crede ,
maperfuafo da troppo fievoli argomenti, afferma,poter ef ſere il ſole o tanto ,
o poco più , o poco meno grande di quel , ch'a noi ſi faccia vedere; ne men
certamente rideyo le ſi è ciò , che Epicuro immagina della figura della terra ,
del -0 vo 1 i 648 Ragionamento Ottavo - del naſcimento , e aell'occaſo dellole
, della luna, e dell'al tre erranti , e fiſſe ſtelle:: degli Idoli, o ſian
ſimulacri, che ci s'appreſentan, ſecondo egli penſa , allorche noi veggia mo ,
e immaginiamo, le coſe ;matroppo.tedioſo diverrei, s'ogni fallimento d'Epicuro
voleffi lo quì riferire : maſſi mamentequei , ne qualierrò egli inſiemecon gli altri
filo fofanti della Grecia; perchè ragionevolmente forſe dir di tutti fi
potrebbe ciò che d’Ariftotele , e di Platone dicea S. Giuſtino, con quelle
parole : ſe l'invenzione della veri sà , come d'accordo ciaſcua vuole , è
ilfine della filoſofia , Io non lo come coſtoro , i quali nonebber
niuna-contezza della verità, fi debban veramente chiamarfiloſofi.E ragio
nevolmente ancora S. Clemente d'Aleſſandria afferma che la greca filoſofia , a
riſchio , e per ventura , come alcuni vogliono , ſuole rinvenir la verità; e ſe
pur talvolta la ritro va:allora pur la prende lievemente , e alla sfuggita
,ſenza troppo minutamenteconſiderarla ; e come altri poicredo no , crae ella
ſua origine dal Diavolo ; edopo altri biafimi, conchiude egli alla fine , efſer
tutti rubaidi,e huomini ſcel leratiſſimi coloro , i quali appo i Grecicol nome
di filoſo fanti ſi chiamavano . Ma certamente troppo a lungo , e più diquel
,che al fi 1o del noſtro ragionamento forſe conveniva ſon traſcorſo a favellar
dell'antiche filoſofie ;ma non ſi dee impertanto pe rò inutile , e ſoverchio
ciò reputare; poichè un de' più ma lagevoli,e de'meno forſe conoſciuti impedimenti,ch’abbia
arreſtato il corſo della filoſofia , Ga ſtato quello dell'averſe fatto a
credere gli huomini, chei greci filoſofiaveſſero fco perto , e compreſo tutto
ciò , chenel vaſtiſlimo reame del la natura ſcoprire, ecomprender li yola per
intendimento umano ; ne per aloro certa.nente , che per una tal folle cre denza
egli è avvenuto,che quel tempo,checertaméte ſpé dercucco di dovea in inveſtigar
con eſperienze, e con ragio ni le coſe naturali , fi fia vanamente ſpeſoin
andar cercan do quali ſiano ſtati iveri ſentimenci, o di queſto ,o di quel to
zuore ; perchè dicea il Signor di Montagna: car les opin mions des bommes font
, recevesà la fuitte des creances an cien Del Sig. Lionardo di Capoa 649 outil
ciennes , par authoritè , &à credit, commeſi c'eſtoit religion Lloy.On
reçoit comme unjargon ce qui eneſtcommunement tenu :on reçoit cette veritè ,
avec tout for baſtiment , de ato telage d'arguments, odepreuves , comme un
corps ferme ; ſolide , qu'on n'esbranle plus , qu'on ne juge plus . Au
contraire, chacun à qui mieuxmieux , va plaſtrani , &con fortant cette
creance receuë , de tout ce que peut fa raiſon in qui eft un útilſoupple,
contournable, & accommodableà tous te figure. Ainf je remplit le monde ,
feconfit enfadeze ; den menfogne . Ce qui faict qu'on ne doubte de guere des
choſes, c'eſt que les comunes impreſſions onne les efl ayeja mais, on n ' en fondepoint
lepied , où gitlafaute, älafois bleſſe : on ne debat, que ſur les branches :
onne demande pas fi cela eſt vray , mais s'il a eſte cinſin ou ainfin entendu E
quinci derivar anche ſuole quella gran malagevolez za avviſata da Galieno , la
quale ſi ſperimenta da chiun que vuoi ritrarre i ciechi parteggianti dal torto
loro , e fal hace camino; e nel vero cotanto danno apportar fogliono le falſe
apprefe opinioni, che eziandio a coloro, che mene daci han ſcoverti , e
ravviſati gli autori di quelle,non per mettontalora , che fiyantaggin nella
buona filoſofia s co me apertamente ſcorger ſi puote in Pier Ramo , ed in al
tri molti si quali, quantunque aveſsero ben conoſciute le ſconvenevolezze della
filoſofia d'Ariſtotele , non poterono alla buona ſtrada giammai pervenire : ne
in cotonjuno for trarſi dalla maniera del filoſofare d'Ariſtotele;ę ciò perche,
çome avviſa Renato: opinionibus ejus jam imbuti fuerant in juventute, quia ea
fola infcholis docentur; adeoq; illis præoc cupatusfuit ipforum animus , ut ad
verorum principiorumid Hotitiam pervenire non potuerint . Anzi Ariſtotele
medeſimo , leggendo i volumidegli an tichi filoſofi , concepctie alcuno di que'ſentimenti
onde , inavvedutamente poi traſcorſe in cotanti crrori. Così logo gendo egli in
Ocello Lucano il melc cffer dolcc ,perché ca gioni in noi ſentimenti di
dolcezza , tratto anch'egli dall' altrui errore , !! c a ciò punto badando, non
dubitò di fer mamcareil medelino narrare , giudicando la dolcezza,co Nnnn me
rute 1 650 Ragionamento Ottavo me tutt'altre qualità veramente nelle coſe , e
non ne’ſenti menti confiftere . Che fe egliaveffe: avvilato , il medeſimo cibo
ſenza punto dimutamento ad un palato, dolce ,e foa ve : a un'altro poi amaro ,
e diſpiacevole parere , come la colloquintida amariſſima a noi,dolce oltremodo
a’topi, e ſoave li fa ſentire : certamente egli non così improvviſo avrebbe
raffermata cofa non vera; e avrebbepur dubitato, non forſe ne' cibi foſſer
corali particelle , dital forma , e così ordinate , e moſſe ,, che in diverſi
palati, or di dol cezza , or d'amarezza faceſſer ſeinbiante . Enella medeli, ma
maniera cento, e mille altre ſciocchiſſime opinionid'A. riſtotele potrei lo quì
rapportare , le quali appreſe egli da. gli antichi filoſofanti . Ne ciò è
maraviglia ; perciocchè p iſtudio , e fatica , che vi ſi logori' , non ſi
poſſono così affac to sbarbicare dalla mentei già allignati ſentimenti,e ban
deggiargli affatto che non ritornino talvolta, quando men ſi temano . Cosi
avvien appunto ad una botte , o altro va ſo guaſto putente di vin ravvolto', o
-inagrito , la quale av vegnachè forte fi’rada , eſilavi: non però dimeno non
ſi puòella cotanto per diligenza purgare', che non ne prenda anche il nuovo
vin',che vi ſi pone, e dibreve anch'egli non dia la volta , concioſliecoſachè
quantunque bennetto , e forbito fipaja ilvalo', pur ne'ſuoi pori minutiſſime
particel te ancora ſi naſcondono , le quali ſpiccatene da quelle del nuovo vino
, o altro ſomigliante liquore , che vi ſi pone , trameſtandofi loro ,
agevolmente vi nuotano per entro , per opera della fermentazione poi
creſcono",intanto , che infra brieve ſpazio di tempo tutto il corrompono .
Così avvenir ſuole nell'anima,la quale priva , e ſpogliata affat to delle
antiche notizic,da ſe medeliina in filoſofído nuo ve notizie proccuri in luogo
dell'antiche introdurre ; eri porre ; poichè le nuove ſpezialmente , ſea ciò
ſpinte ſono da quelmovimento , chenello ſpeculare neceſſariamente ſi fa ,
eccitano , per qualche ſomiglianza , che è tra loro , alcuna dell'antiche, che
a caſo rimaſta , ma celata viftia; dalla quale poi sēzamolta malagevolezza
infecte elle ne riman gono . Eco Del Sig.Lionardodi Capoa : 651 E comechè ciò
baſtantemente , per quel ch'Io micredaj a ciaſcun lia manifeſto , pur
d'avantaggio ne può eſſer chiar ro per ciò , che nella memoria artificiale
fortir ne ſuole Sogliono coloro , che all'arte ,veramente maraviglioſa del
ricordarſi ſtudioſamente intédono,d'alcuniſpeziali luoghi valerſi quali ſiá
loro sépre ſenza fatica niuna nella memo ria, come uſati, e domeſticiaffai , e
oltre a ciò ſiano in qualche guiſa ſomiglianti, o uguali alle coſe che ſi
voglio no ricordare ; acciocchè quando poi fia meſtieri, nel fuo proprio luogociaſcuna
coſa appiccata, dipreſente rinven gano ; e le coſe già alla memoria
preſenti,loro facciano ve nire avanti le lontane. Delche certamente ne fa
manifeſta pruovà ciò che ſovente noi ſperimentiamo; che in ragio nando d'arca ,
o di forziere , che in noſtra caſa ſia , ne fov viene tolto di libro, o di
veſtimento ,o d'altra coſa ripoſtavi; eda divifamenti de palagj,o delle terre ,
ſubito ne ſi rap preſentan coloro, ch’ividimorano, o che da prima gli fab
bricarono , o che un tempo ancor vi ſono dimorati: Cosi anche un'amico né fa
rimcmbrar d'altro amico: e anche de nimici di ciaſcuno , io nominandolo ne
ſovviene . Perchè al noſtro amorofo M.Franceſco Petrarca , il ſolomovimé. to
dell'aura , dolcemente faceva venire avanti madonna Laura , eltempo ch'e' da
primamirandola ſe n'innamoro: L'aura ferens , che fra verdi fronde Mormorando a
ferir nel volto viemme Fammiriſouvenirquard'amor diemme Le prime piaghe sì
dolci je profonde; E'l bel viſo veder , ch'altri m'aſconde, Che ſdeguo, o
geloſia celato temme. Ma veggio , e per avventura con qualchevoftra noja eſ .
fermi troppo dilungato in ragionando, e affai più certamë te di quel, cheaveva
lo già propoſto di fare; non per tan to prima d'imporre a’miei ragionamenti
fine , mi convienu tirar la coſa un poco più avanti. Dico adunque , che non
giová punto ,cheſieno ben inteſi gli fcolariin filoſofia » in chimica , in
medicina , e in tutte altre coſe, che diſopra diviſammo al medico far meltieri,
ſe finiti i loro ſtudi egli Nnnn : 2 no per 052 Ragionamento Ottavo ao per convenevole
ſpazio di tempo non ufino qualche ſpedale, con por mente ivi alle malattie , e
alle maniere , che vengon tenute nel medicarle; e qual pro ,e qual danno
ricevan daʼmedicamentiglinfermi; ed egli è coſa nel vero queſta così rilevante
, che non ſi dovrebbe certamente co ventar mai fcolare , il quale con fedi
autentiche , e con te ſtimonj non provaſſe aver lui in ciò fare tutta la ſua
indu ftria, e diligenza adoperata. Sidovrebbe oltre a ciò prima di conventarlo
ftrettaméte eſaminar lo ſcolare per limae ftri delle ſcuole , a ciò deſtinati,
in tutte le coſe all'arte ap partenenti, e ſpezialmente nella chimica ; la qual
cotanto dicemmo effer a' medici neceſſaria , e di tanto riſchio a co loro ,
chepienamente non la poſſeggono; e a ciò certamen te con ogni rigore , ligati
con facramenti , econ pene do vrebbono intendere imaeſtri,oltrea queſto de
coſtumian cora dello fcolare converrebbe , che minutamente fi ricer caſſe ,
acciò per ogni capo s'eleggeſſero medici, quali gli abbiam noi giuſta
ogninoſtra pofſa al prefente diviſati; e sì forfe per innanzi cefferebbono,
quanto l'incertezza di co tal meſtiere comporta , i fallimenti de'medici: e'l
co mune in qualche parte ſe ne riſtorerebbe ; ne da altro cer tamente naſce ,
ſe non fe dal non uſarhi queſte diligenze nell'accademie, allor che vi
ficonventáno gli ſcolari , che così fortemente vengano elleno talora biaſimate
:approba jiones,dice il Primeroſio , fapienterà majoribus inftitutæ,ele gantes
ſunt quidem , & neceffaria , fed deberent diligentius obſervari . At jam
omnia negliguntur , nam quibuslibet guantumvis ſeiolis gradus exbibetur
doctoratus unde ft, utex quibuſdam Academiisredeant ductores parum da fti ,
nihil minus , quam apti ad medicinam , aut docendam , aut faciendam . Ne perciò
giudico lo convenevole , come alcuni vogliono , che i medici giovani,
ſpezialmente que', che in Salerno furono conventati , fian di nuovo daeſami
nare ; imperciocchè baſtar dee quell'eſaminazione , allas quale eſli
foggiacquero prima d'eſser conventati , accioc chè fenz'altra pruova tare del
lor ſapere poſsano per innan zi liberamente medicare . Nealoriinenti volle il
Re Rug gieci Normanno , ove per legge comandò non poterſi il peri Del Sig.
Lionardo di Capoa 653 pericoloſo meſtier della medicina uſare ſenza ſpezial
lice za de' regjminiſtri a ciò deſtinati ; e l'Imperador Federi go pur
v'aggiunfo , chei medici del ragguirdevol Colle gio diSalerno doveſſero effer
teſtiinong, che colui , che aw medicare inprenda, da tanto ſia ; perciocchè
parlando de gli Impirici , folamente i conventati manifeſtamente ne ri
ferbarono ; ne vollono eſſere da eſaminar coloro , a’quali la cura d'efaninare
altrui era per lor commeſſa. Così An drea d'Iſernia ſpiegando que’capitoli dice
delle bollettes delle licenze : Doctor medicinæ practicabitfine literis , quia
fuitexaminatus , quando fuit doctoratus , &approbatus; for cut ibi diximus
de Advocatis.. E Matteo degli Afflitti. pa. rimente dice efferſi ciò mai fempre
oſſervato , che iconvé tati di Napoli, o di Salerno fenz'altra bolletta , per
tutto il noſtro Regno , poſlan liberamente andarmedicando :ne altrimenti effer
mai avvenuto : eft fciendum ,dice l’Afflitti, quod à tanto tempore , in cujus
contrarium memoria hominio non-exiſtit,nunquam fuit fervatum , quod magiftri
medicine approbati in Collegio medicorum Salerni, vel Neapolis ha beat quarere
literas Officialium Regis, vellicentiam à Rege , vel vicerege medieandi in
Regno. Perchè ſarebbe molto ſco cio il mādarſi ciò avanti ; e larebbe
certamente un togliere l'autorità a'noftri Collegj di più conventar perſona in
me dicina ; cioè a dire , di dar licenza di liberamente me dicare ; ſenzachè
non ſapreiIo certamente , quali medici farebbon da eſaminare ; perciocchè
egualmente i giovani , ei vecchi, anzi maggiormente nel vero i vecchj ne han
data cagione di farne richiedere a parlamento . Ma come potrebbon le ſecrete
eſaminazioni a buó fine giammai riu . fcire , fe per averle conoſciute ſcempie
', e manchevoli , i Principi, e le Comunità ne’loro reggimenti han,, per mio
avviſo le pubbliche eſaminazioniinſtituite . Sogliono re carſi per eſemplo
coloro , che queſta novella eſaminazione de’mediciintrodur vogliono , i legiſti
; i quali da non mol to tempo in qua ſogliono eſſer eſaminati, quantunque co
ventati :maben dovrebbono avvertire , che gli Avvocati non mai vollono
ſoggiacere atale eſaminamento : eleggen ; do an 654 Ragionamento Ottavo doanzi
d'abbadonare il meſtiere, quátūquel'eſaminazione aveſse a farſi da'ſupremi
miniſtri, e in alfai orrevol maniera; e fol rimaſe,che coloro ragionevolméte
nel vero vi foggia ceffero , a'quali , o alcun governo , o altro onore s’aggiu
gneſſc. Ne mégiudico Io ragionevole quel diviſo di dover eſa minarſi almeno i
noſtri medici in Chiinica ; da che la Chi mica cotanto neceſſaria alla medicina
eſfer narramıno;per ciocchè da cotali eſaminazioni grandi ſconcj certamen te al
noſtro comun ne feguirebbono , per molte , e mol te cagioni , le quali lo
taccio al preſente per eſſer ciò ba ftantemente, a ciaſcun manifeſto ; ſenzachè
i vecchj anco ra , anzi con maggior ragione , che i giovani , farebbon da
eſaminare ; richiedendoſi.comunemente a ciaſcun medico la chimica , ed eſsendo
aſſai meglio i giovani , che i vecchi medici inteſi di quella. Ma de’volgari
impirici farebbe da prendere, ſe pur si potesse, strettiſſima cura, acciocchè
per lordappocaggine al cun nocimento al noſtro comune non ſiegua ; e comechè
intorno a coſtoro baſtantemente di ſopra la detto , pure fi dee por mente a ciò
ch'avviſa Galieno , allor ch'eglidice, che il curar qualunque, avvegnachè
leggeriſſimomale, d' altri non ſia , ſe non ſe ſolamente di coloro, i quali di
tutta la medicina pienamente fian inteſi; concioſliecorachè uns male foglia
ſovente con altro male eſſer congiunto ; e ſo glian talora , o per.cagion delle
medicine, o peraltro sì fat to accidente ſopragiugnere : cheda colui , ch'un
ſol medi camento ſappia , non ſi poſſa dar compenſo. Oltre a que fto , nel
conoſcerſi delle malattie , aſai ſovente glimpirici s'ingannano: togliendo in
cambio ſcioccamente una per al tra , e contrarj rimed, talora imponiendo ; nella
qual mala ventura , comedicemmo, cadono talora , anche i più ſcie ziati medici
per la dubbiezzade'ſegnali. Perchè ſarebbe certamente il migliore victar a
coteſti volgari Empirici il medicare;e miglior séza fallo ſarebbe ſtato il provvedime
to del Senato di Parigi, fe del tutto aveſſe agli Empirici il medicar proibito
, e non permeſſo loro il farlo lol coll'ap prova Del Sig.Lionardo di Capoa 051
poter mc provagione,e licenza de’dotti medici;ed ebbe il torto di la gnarſi di
loro Anneo Roberto dicendo , che all’onta di tut te le proibizioni eglino il
capo alzaſſero ; imperciocchè no mai aſſolutaméte allo incotro furon:
proibiti,ſë ſotto condi. zion ſi permiſero,perchè daʼmedicijnõoſtante il gran
male , ch'ei fanno di leggieri ottengono la licenza del dicarc. Ma tacer non fi
dec ciò, che degl'impirici racconta Giacomo Silvio : in montepeſſulano's
clarifima, & antia quiſſima medicinæ academia , fi quis borum nebulonum
feme: dicummentiatur , mox raptus in afinumftrigofum , fiin venitur fcabidum ,
ſublimistollitur , averfus, urbe tota cir. cumducitur,Scommatisundique
incefitur , conſpuitur,pulfa; tur, laceratur, fordibusomnis generis
conſpurcatur; ceu olim Sacra illa mafilienfium vittima :poftremo expiata urbe
ejici tur , illuc nunquam rediturus, niſi malo ſuomaximo. Magià baſtantemente
ſecondo noſtra possa avendo de medici ragionato, trapaſſeremo a diviſare al
preſente de gli Speziali ,i quali debbon lavorare i medicamenti; maffia mamente
chimici ; il quale fu il ſecondo capo , onde mofle il noſtro ragionamento.
Veggiam dunque brevemente , quali coſe, e quante abbiſognino a colui che voglia
van taggiarſi in sìnobilmeſtiere . Immagina il volgo, che age volitima faccenda
fia a ſaper fabbricare imedicaméti; per chè in man di perſone di poco ſapere ,
edipoca licva ado perar ſi rimira . Mio quanto di lungo certamente coſtoro
ingannati ci vivono! imperciocchè atal meſtier richiedonſi poco men , che tutte
altre códizioni,ch'a coloro ſon d'huo po ) che il rimanente tutto della
medicina apparar bene, e lodevolmente intendono; e ciò ſenza , che lo troppa
fati ca vi duri, agevolmente ſi può comprendere per coloro che alle biſogne
tutte d'una cotalarte fiſamente riguardano. Ma concioſliecolachè i guaſti, e
biaſimevoli coſtumi del ſe colo ciò non comportino ' , dovrebbe almen chi
deſidera una tanta impreſa leguire,oltre alla ſua natura, e a'genero fi, c
lodevolicoſtumi,eſſer mezzanamente, per tacer dell' Araba , almeno della latina
, c della greca lingua inteſo , per dover poi intendere i varj, e diverſi
ſcrittori, che nell' una, e nell'altra lingua materie a ciò appartenenti deſcri
vono. Appresso egliè dimeſtieri aver continuo tra le ma ni pronta , e
apparecchiata la conoſcenza , non folamente di que’vegetabili,o minerali, o
animali, che maneggiar fo vente coſtuma , ma di quelli ancora , che nelle
ſtrane, enon ordinarie compoſizioni de’medicamenti gli poteſſero tale ra dal
medico venirimpofte . Dovrebbe oltre a ciò eſler pienamente informato degli
ſtrumenti tutti, e ordigni dell' arte, e delle convenenze, e proporzioni ancora
, che alcu ni di quelli han co’ſemplici , de' quali egli nel ſuo lavorio ſervir
li dee . Ma ſopra tutto convien , che la propietà , e la natura del fuoco egli
perfettamente ſappia ; acciocchè poi comprender appieno ,e ravviſar poſſa
quelle alterazio ni , che indi le medicinali compoſizioni ricever fogliano ;
alla qual coſa certamente aggiugner non potrà colui, che non prenderà per guida,
e per iſcorta la Chimica ; ſenza la quale Io non veggio , come bene , e
lodevolmente per huố li poſſa un sì malagevole meſticre adoperare ; ſenzachè
migliore aſſai, e di maggior giovamento all'uman genere farebbe , ficome
altrove abbiam detro, ſe da ſoli medici i medicamenti li lavoraffero ;
perciocchè, quanto a me , lo non ſo a niyn modo comprendere , comemai
perfettamen te fabbricargli colui poſsa , il qual non abbia in prima le manicre
tutte del loro operare con gli occhj propi piena mente conoſciure. Perchè
dovrebbono finalmente gli ſpe ziali , oltre alle ſopradetre coſe , avere in
prima tanto qua to ſtudiato in medicina , ed in qualche ſpedale co ' pro pj
occhj all' operazioni de’medicamenti riguardato . E ſcorgendofi omai in tutte
botteghe di ſpeziali aver non poca quantità di chimici medicamenti, non ſi
dovrà più avanti dubitare, convenir lo ſpeziale almen per queſto ca po eſser
della Chimiea baftevolmente inteſo , e ſperto , In quanto alle Chimiche
medicine poi, comcchè per noi fia ſtato di ſopra baſtantemente raffermato , che
il fabbri. carle propiamente appartenga a medici; non però di meno da
cheimedici, o non vogliono per lor tracoranza , o non fanno , o non poſsono
invilupparvili,lo aſsai ben giudiche ici , Del Sig. Lionardodi Capoa. 057 rei ,
ch' a' ſoli speziali, e a tali , quali noi diviſamino ſe ne commetteſse
ſtrettamente la cura ; ne altra privata perſoni s'inframmetteſse di lavorarne
alcuna ; male compoſizioni de'più pericoloſi, e rilevanti medicamenti, o da
medici lo li, come dicemmo lavorar ſi dovrebbero , o almen dagli ſpeziali in
preſenza de'medici . Ne è da dir con alcuni, po terſi alle ſconvenevolezze
tutte ripararare colla ſola eſa minazione, che delle medicine chimiche fi'
faceſse allor che ſiviſitano , come dir ſi ſuole , le ſpezierie ; concioffie
coſachè vana ſenza dubbio , e inutile cotal eſaminazione riuſcircbhe: per non
poterſi mai , per ſogno niuno, lorvir tù , e lor forza baſtantemente avviſare .
Echi mai ne' bof foli delle botteghe , la bontà, e finezza del mercurio di vi
ta, dell'antimonio diaforetico, delbelzoardico minerale , e d'altri , e d'altri
sì fatti medicamenti d'odore , e di ſapore affatto privi,per pruova
de’ſentimenti avviſar mai ſapreb be , e l'eccellenza , e la perfezione ridirne,
ſenza eſsey irl prima cgli ſtato preſente al lor lavorio E tanto queſta ma
iagevolezza dell'indovinare i chimici medicamenti anche per li macſtri di
quelli è grande , che cziandio de'più me nomi,e comunalinon ſi può nulla di
certo fovétemente di viſare; ſicome que'ſali, che fiffi diconſi ci danno
apertamen te a divedere ; imperocchè i fali fiſi , per nulla dire del fa pore ,
che in tutti il medeſinio appare ,ne alle varie manie re , chcin
criſtallizandofi, per valermi d'una parola dell' arte , ſoglion figurarſi: ne
a' varj colori ,de'quali veſtono il precipitato colcotare , ne ad altro ſegnale
può niuno macſtro , comęchè ſperto , e ſaggio in chimica, certamente ravviſare,
e ſicuramente de terminare di qual pianta , di qual animale ſieno ;
conciofficcofachè parecchj ſali di diverliſt me piante fra eſſo loro ,prender
ſogliano in criſtallizandoſi la medeſima figura , e del color medeſimo veſtir
anche ſo gliano il colcotare ; ma onde ciò avvegna , non fa iuogo ora , che lo
imprenda ad inveſtigare , eſſendo oltre traſcor ſo tanto co’miei ragionamenti,
che mi convien riſerbare , più d'una coſa al nostro proposito appartenente, ad
altra, Oooo più agiata opportunità ; la quale ſe miverrà mai, come pero,
diviferonne forſe pienamente, e di vantaggio in uno ſpezial libro , il quale lo
ora ſto intero a comporre. Alcesto Cilleneo (arcade).
Lionardo di Capoa. Leonardo di Capua. Keywords: Aristotele, filosofia, ragione
debole, La Crusca, comunicazione, platone. Incertezza, investigare,
gl’investigante, vestigia lustrat. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capua” – The
Swimming-Pool Library.
Carabellese (Molfetta).
Filosofo. Grice: “I love Carabellese; his masterpiece is ‘the rock and the
sand,’ which reminds me of Tuke’s Cornwall! – Tuke captured some dialectic on
the sand and rocks, which I’m sure were common in Ostia, too, back in the day!
Carabellese speaks of a ‘semiotic scandal’ so it all connects with my
pragmatics of dialectics or conversation.” Studia a Napoli e Roma. Insegna a
Palermo e a Roma.A partire da una critica ferrata alla dottrina cartesiana (Le
obbiezioni al cartesianesimo; il metodo, l’idea, la dualita; Il circolo vizioso
in Cartesio) porta a compimento studi critici su diversi autori, tra i quali
spiccano Kant e Rosmini. Elabora la
dottrina dell'ontologismo critico, in cui l'essere non è mero oggetto della
coscienza ma è a essa intrinseco come fondamento irriducibile, cioè
essere-di-coscienza, che in ultima istanza altri non è che Dio (che, come già
asseriva Vico, "è" e non "esiste"). Difese l'oggettività essenziale dell'essere e
la filosofia, non come sapere specialistico trincerato, ma come operatrice per
l'umanità tutta così che la coscienza filosofica esplica quella teoria che nel
diversificarsi concreto della spiritualità risulta necessariamente implicita. E
allora lo sforzo della filosofia non potrà mai, quindi, essere compiuto atto
seppure la teoria si attui sempre in una pratica, che è l'altro termine del
concreto. Insomma Carabellese difese la filosofia come ascesa
teoretico-razionale a realtà teologiche, o come sentiero che volge al
fondamento comune della vita politica e che alla politica rimane irriducibile. Altre
opere: Critica del concreto; Il problema della filosofia da Kant a Fichte; Il
problema teologico come filosofia; L'idealismo italiano; L'idea politica
d'Italia; Da Cartesio a Rosmini. Fondazione storica dell'ontologismo critico.
L'essere e la manifestazione. L'essere e la manifestazione: Dialettica della Forme.
L'essere. Filosofo della coscienza concreta, Ravenna, Edizioni del Girasole. La
sabbia e la roccia: l'ontologia critica di Pantaleo Carabellese. Il problema
dell'io in Carabellese. Metafisica in Pantaleo Carabellese. Kant e Carabellese.
Dizionario Biografico degli Italiani. Autolimitazione
della metafisica critica? Momenti della recezione italiana di Fichte con
particolare riferimento all'ontologismo critico di Carabellese. E anche per lui lo gnoseologismo era il fraintendimento della
vera scoperta di Kant , ed era all ' origine della moderna ... intesa come «
scoperta » deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il
Semerari chiama « lo scandalo ...seDalla filosofia intesa come « scoperta »
deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il Semerari chiama
“lo scandalo linguistico,” cioè la terminologia dell ' Ontocoscienzialismo , a
prima vista sconcertante. See also the important chapter " Lo scandalo linguistico , " in G.
Semerari , La sabbia e la roccia. Merleau - Ponty , Sens et non - sens , Paris
, Nagel , 1948 ; It . trans . by P. Caruso , Senso e non senso , Milan , Il
Saggiatore.
La ontologia di Carabellese, così, si prospetta come
una ontologia della coscienza assiologica e semantica, ossia come una critica
antinaturalistica e antipsiscologistica dei valori e dei significati
dell’essere»42. L’importanza del lavoro filosofico carabellesiano, secondo
Semerari, consiste nell’esigenza radicale di lavorare alle radici del
linguaggio filosofico, di andare al di là della storia già fatta, come scrive
Semerari citando Carabellese43, scendendo sino ai suoi presupposti: ciò
significa portandosi al grado zero della parola per reinventare il linguaggio
filosofico e le connessioni che in esso si sono stabilite lungo la sua storia,
a partire dalla cosa stessa, ossia dall’essere in cui la coscienza è già
implicata. Scrive Semerari: «Sotto questo riguardo non si può trascurare la
convergenza con la ontologia critica di quella parte della filosofia linguistica
contemporanea per la quale, al limite tra fenomenologia, esistenzialismo e
analitica, porre la questione del linguaggio è portarsi al grado zero della
parola, al silenzio come radice di ogni possibilità linguistica, fare giudice
della critica del linguaggio, com’è stato suggestivamente detto, la ‘coscienza
silenziosa’. singolari di Coscienza si costituiscono come soggetti pensanti in
comunicazione tra loro.
L’alterità dell’altro io presuppone l’identità dell’io che lo
esperisce come altro. Reciprocamente la coscienza della propria identità
egologica richiede il rapporto di alterità come intrinseco all’essere stesso
dell’io. L’alterità sempre afferma chi dice io, il quale ciò dicendo, anche
trascendentalmente si distingue, senza per questo separarsi assolutamente, da
un chi che riconosce di fronte a sé [...]. Con questo chi egli afferma una
relazione reciproca con la quale attua l’egoità. Soggettività ed egoità pura
sono sempre pura alterità»19. L’alterità di ciascun io è, come scrive
Carabellese, «l’insondabile residuo di meità intraducibile in esperienza
dell’altro. Ma questa intraducibilità, che è il limite che la meità ha
nell’esperienza, non prova che l’alterità sia soltanto di esperienza e non
pura, ma prova, precisamente, il contrario, e cioè che, a fondamento
dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura come schietta egoità»42. Alterità e
non assolutezza dell’io L’Essere di coscienza richiede la compattezza non la
relazione fra Oggetto universale, Dio, e soggettività molteplice. La relazione
è fra i soggetti: infatti, l’io come uno esistente, implica necessariamente
l’altro, che è sempre un altro io, sottolinea il Carabellese. Diversamente l’io
assoluto fichtiano, dilaga nella coscienza, identificandosi con essa, riducendo
l’oggettività a negazione; ma resta così l’io nella sua solitudine e, senza
l’altro, cade nel nulla del non pensare. L’io fichtiano, nell’interpretazione
del Carabellese, elimina gli altri io dalla coscienza, assolutizzandosi, ma in
tal modo perde la meità, approdando all’Unico, che egli vede come una nuova
forma di eleatismo8. Il Carabellese sottolinea che se non è da percorrere
l’identificazione dell’io con la coscienza, tuttavia questo non conduce alla
cancellazione della meità; invece, pensare l’immediata appartenenza del me
all’essere di coscienza, non assolutizzando il me, apre ad intendere gli altri.
Non l’annullamento del me costituisce la base per la relazione responsabile in
sede etica (Lévinas), ma proprio partendo dal me, per il Carabellese si giunge
agli altri come altri “di” me, esistenti nella loro singolarità, non si giunge agli
altri “da” me. Il me esistente nella purezza dell’Essere di coscienza apriori
di cui parla il Carabellese, in primo luogo non si identifica con il corpo, in
quanto quest’ultimo trova il suo limite nell’altro corpo e, più in generale
nell’altra cosa: «Io, come innegabile esigenza di coscienza non sono, o se
volete, non sono affatto corpo. pur mio. Ora la differenza fra me, che pur sono
uno esistente, e il mio corpo, che anch’esso è uno, sta proprio (non se ne può
trovar altra) nel limite, che il mio corpo trova negli altri corpi, e che io
non trovo, se non voglio cadere nell’assurdo di ritenere me il mio corpo» Carabellese
rifiuta l’ipotesi materialistica, perché se l’io si identificasse con il corpo
non potrebbe affermare nemmeno la propria corporeità, ossia che il corpo è suo.
Nella concezione materialistica l’io si identifica con il corpo che diventa la
radice dell’opposizione con gli altri. Se si realizzasse questa identificazione
in realtà si avrebbe la soppressione dell’io come uno di coscienza, e anche gli
altri non sarebbero più altri uno di coscienza. Il nulla del non pensare si
porrebbe contraddittoriamente come l’essere. Anche la concezione
spiritualistica che intende l’io come spirito finito, ha come esito la
riduzione dell’io a corpo, perché sostenere la limitatezza dello spirito
implica sottoporlo al limite, come il corpo, eliminando così il me. Anche se
Fichte ha evitato la riduzione dell’io al corpo, non ha tuttavia salvato la meità
identificando l’io con la coscienza. Infatti nell’io empirico il me è
sostanzialmente ridotto a corpo, a non-io. Solo l’Io, unico, assoluto pone se
stesso. In Hegel, poi, ogni residuo di meità è tolta nel Soggetto assoluto.
L’io perciò è spirito infinito, ma da questo non deriva per il Carabellese che
venga eliminata la distinzione dell’io dal tu nella coscienza, ossia che
vengano tolti gli altri, con il rischio di tornare a Fichte. Per il filosofo
italiano «togliere il limite è affermare gli altri», non annullarli; infatti,
per giungere alla negazione dell’altro, o degli altri, «bisogna prima ammettere
– osserva il Carabellese – che gli altri, in quanto tali, escludano l’uno di
tale essere, e che l’uno esclude gli altri; bisogna cioè cominciare proprio con
l’opporre ad uno gli altri dall’uno, ritenendoli diversi ed opposti a questo e
cioè col presupporre che uno (io) sia la coscienza, e gli altri no, e perciò
siano non io, non coscienza. Cioè bisogna cominciare col presupporre la
empirica limitazione dei corpi, la quale appunto, nella identificazione di me
col corpo mio, fa ritenere me, col mio corpo, coscienza e gli altri, che col
loro corpo limitano il corpo mio, non coscienza»11. Già ne Il problema
teologico come filosofia il Carabellese afferma, polemizzando con Fichte, che
la molteplicità soggettiva non è semplicemente empirica, ma pura, condizione
trascendentale della “concretezza”; la singolarità non è solitudine, ma
relazione reciproca nel pensare, sentire, agire l’Universale/Dio. L’io
esistente, singolare, è uno, e come tale è ciascuno, essenzialmente altro. «Il
singolare è quell’uno, di cui si sa l’alterità, ed è perciò ogni uno, ciascuno,
unusquisque. Uno che non sia ciascuno, non è uno. E, ancora più incisivamente:
«Io sono altro: solo così “sum qui sum”» L’altro, spirito infinito come l’io,
per il Carabellese non è esteriore, né eterogeneo rispetto al me, non si
risolve in una identificazione con l’oggetto realisticamente inteso.
Nell’ultimo sistema il Carabellese sostiene l’“identità” dei soggetti pensanti,
portando alle estreme conseguenze la determinazione dell’omogeneità, senza però
indicare come possano differenziarsi i soggetti l’uno dall’altro. Il rischio
dell’annullamento dell’alterità, pur se non voluto, è evidente; infatti per
spiegare il darsi della molteplicità soggettiva egli parla di alterazione, come
moltiplicazione infinita riferendola però non all’uno, al soggetto, ma
all’Unico, ossia all’essenza divina, al che. Tuttavia, se la
moltiplicazionealterazione è riferita dal Carabellese all’Unico, non all’uno:
allora l’altro, è un altro uno, ossia un altro soggetto, oppure un impossibile
altro Unico? Ed essendo l’Unico non soggettivo, come possono derivarne i
soggetti? In realtà possiamo muovere anche al Carabellese l’osservazione di involgersi
in una sorta di circolo fra Dio e io, in quanto se da un lato Dio è la qualità
infinita di cui l’io è terminazione, moltiplicazione/alterazione, nello stesso
tempo a Dio, in quanto non soggettivo, sono necessari i soggetti pensanti.
L’uno di cui parla il Carabellese è l’io che immediatamente si intuisce
singolare, e che altrettanto immediatamente avverte l’alterità: «Uno che non
sia ciascuno, non è uno», afferma eloquentemente. Egli sente il pericolo di
ricondurre e ridurre la meità ad una ciascunità di identici, perdendo
l’originalità e l’inconfondibilità di ciascuno nei confronti degli altri.
Tuttavia per il Carabellese invece proprio il recupero dell’altro consente la
realizzazione di sé. Ma, se si andasse più profondo in questo amor di me
spirituale, che è, o dovrebbe essere, l’amor proprio, se si sviluppasse ciò a
cui esso mi costringe, si vedrebbe, che, se io veramente voglio dare una
positività a questa negazione del “non tu”, se non voglio divenire un puro e
semplice “non” devo considerare me come uno tale che possa e debba riversare
l’amor di me uno in altro uno, che è uno come me, cioè devo riconoscere
l’unità, che sono io, nell’alterità. L’amor mio proprio, che non voglia essere
soltanto amor del mio corpo, è proprio amor dell’altro. L’amor proprio
spirituale non mi costringe alla assolutezza (unicità e incondizionatezza)
della mia unità, ma proprio alla sua alterità: l’amore è sempre amore di altro:
è la grande scoperta di Cristo»15. La struttura dell’essere di coscienza
apriori richiede l’alterità e Dio o, in altri. termini, l’uno molteplice e
l’Unico: in tal modo è la stessa struttura coscienziale a dare fondamento alla
carità. L’amor proprio e l’originalità di ciascuno si afferma e realizza nella
relazione e nel riconoscimento degli altri: «Io facendo dagli altri riconoscere
me tra essi, e riconoscendo me come altro, non tolgo ma affermo la mia
originalità»16. Per il Carabellese l’amor di sé ha insita l’esigenza della
relazione con l’altro; solamente chi concepisce l’io come l’Unico chiuso in se
stesso, privo di meità e di relazione, il solo, parla di offesa dell’amor
proprio, ma in realtà non si avvede che quell’Unico non è più nemmeno soggetto.
Tuttavia i problemi restano: la relazione con l’altro identico rischia di
essere più un narcisistico rispecchiamento, che una vera relazione, più una
sorta di moltiplicazione dell’Unico, un suo reiterarsi che il faticoso cammino
del riconoscersi. Fra i soggetti nella loro purezza, per cui sono infinitamente
penetrativi e interi nella loro relazione, l’identità è già data
immediatamente: ma allora non si comprendono gli erramenti, le lotte e gli
scontri a livello empirico. L’altro per il Carabellese è un altro me, non la
negazione del me. Ineludibile il riferimento al Parmenide platonico e
all’opposizione che Platone pone tra uno e altri. Per il Carabellese, sulla
base dell’essere di coscienza, tale opposizione non si dà; alla domanda del
Socrate platonico su quel che siano gli altri, quando io sia, si può
rispondere, che essi, non sono altri dall’uno ma altri uno, sono perciò altri
“me”. Il Carabellese individua la causa della “cacciata” degli altri dalla
coscienza nella erronea identificazione della coscienza concreta con l’io: per
tale scambio l’io annulla la “qualità” di cui insieme agli altri è individuazione
senza esaurirla. Nello stesso tempo si annulla la “quantità” pura, restando il
solo, che cade nell’assurdo di non essere né soggetto, né oggetto. L’io
infinitamente aperto, illimitato, identico, intero pur se nell’essenziale
relazione, di cui parla il Carabellese è apriori, non si identifica con il
singolo uomo vivente, limitato nello spazio e nel tempo: essere condizionato e
limitata persona dell’esperienza, presuppone essere soggetto incondizionato e
illimitato nell’essere di coscienza puro. Sembra presentarsi una scissione fra
il soggetto in quanto pensante e l’uomo vivente spazio-temporalmente, fra
“miglior coscienza” e “coscienza empirica”, per utilizzare in chiave euristica
espressioni del giovane Schopenhauer, che riflette sulla duplicità della
coscienza, non facendo ancora riferimento alla volontà come principio
metafisico. Però proprio il pensare, da lui inteso in senso ampio come
intendere, sentire e volere che si esplicano nell’attività spirituale umana,
esige il livello della purezza coscienziale. Come abbiamo visto in precedenza,
per il Carabellese l’assolutizzazione della. Cfr. A. Schopenhauer, La dottrina
dell’idea, antologia a cura di E. Mirri, Armando, Roma. dimensione
spazio-temporale, ossia del limite, condurrebbe all’annullamento dell’attività
spirituale umana. Il Carabellese non intende semplicemente opporre la propria
concezione a quella fichtiana, ma intende condurne all’estremo le conseguenze,
ipotizzando una sorta di esperimento mentale. Infatti, se l’Io si ritenesse
assoluto e si arrogasse il diritto di sopprimere il tu, riducendolo soltanto a
sua esperienza, allora «rimarrebbe sì, solo Io, ma solo in quanto avrebbe
soppresso il tu e quindi anche l’esperienza, che egli ne ha: non ci sarebbero
più i tu, che egli dovrebbe dimostrare essere soltanto io empirici: gli altri
non sarebbero empirici, non ci sarebbero. Or senza i tu (altri) ci sarei ancora
io (uno)?»18. In realtà, per il Carabellese c’è un'unica soluzione, che esclude
la fine tragica della disputa: «Non c’è dunque altra via d’uscita da esso, se
non quella che io non mi contenti di ricambiare la tuità, ma gli ricambi
proprio la meità, riconosca in lui non un tu posto da me (Fichte) ma un altro
io, e perciò mentre gli riconosco la meità, che egli non mi riconosce, gli contesto
il diritto di trasformarsi in Io assoluto, mostrandogli che così egli sopprime
se stesso come io, e nega l’assoluto facendolo, lui, sapere e parlare come
Io»19. Dio, ossia l’Unico, non è soggetto, ma come qualità infinita,
costituisce l’essenza di cui i molti soggetti sono individuazione o
moltiplicazione, con tutti i problemi che ne conseguono20, compreso il
possibile l’esito fichtiano. Secondo il Carabellese si può dire che «sono
l’identico io proprio perché siamo due»: se fosse eliminato il tu come altro
me, riducendolo ad esperienza, sarebbe eliminato anche quel consentire in cui
consiste la stessa esperienza. Non solo l’esperienza richiede la dimensione
comunitaria, ma in generale il pensare, che è essenzialmente un convenire, un
cum-sapere21 l’Universale, Dio. Quel cum non è un'aggiunta irrilevante, in
quanto la dimensione intersoggettiva, comunitaria, è essenziale a tutte le
forma dell’attività spirituale umana. «Ci sarà – afferma il Carabellese –, anzi
c’è senza dubbio, quella empirica alterità, nella quale ciascuno di noi
presenta all’altro un insondabile residuo di meità intraducibile in esperienza
dell’altro, ma questa intraducibilità, che è il limite che la meità ha nella
esperienza, non prova che l’alterità sia soltanto di esperienza e non pura, ma
prova precisamente, il contrario, e cioè che, a fondamento dell’alterità
empirica, c’è l’alterità pura come schietta egoità, prova che il limite
empirico, che separa me da te, persone viventi, non è la stessa alterazione
pura di noi altri due, ciascuno singolare; io, alterazione pura, per la quale
ciascuno, con la propria unità è immesso nell’altro uno, Cfr. F. Valori,
Il problema dell’io in Pantaleo Carabellese. Cfr. in proposito P. Carabellese,
La coscienza. immissione, senza della quale è assurdo non solo l’innegabile
consentimento ma anche la divergenza di noi nell’alterità nostra;
consentimento, e divergenza, per i quali noi, ciascuno come altro, siamo tanti
soggetti dell’Unico, che è immanente a noi molti»22. La differenza fra le
egoità si dà solo a livello empirico, a livello trascendentale e metafisico i
soggetti sono identici, interi23 e, nello stesso tempo infinitamente
penetrativi24. Pantaleo
Carbellese. Keywords: lo scandalo del significato, io/tu, Husserl,
intersoggetivita, razionalita strategica, razionalita comunicativa, complessita
intensionale, il significato, i significati, l’insieme, la comunita, il noi. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Carabellese” – The Swimming-Pool Library.
Caracciolo (San Pietro di
Morubio). Filosofo. Grice: “I like Caracciolo – at Harvard, I joked on Schlipp,
and stated that Heidegger was then the greatest (grossest, in German) living
philosopher – as he then was, living --. Caracciolo has dedicated his life to
translate Heidegger’s ‘Dutch’ mannerism into the ‘volgare’: and now I have
concluded that Heidegger is perhaps the grossest dead philosopher – “in cammino
verso il linguaggio: il dire originario” –“.
Grice: “Note that Caracciolo’s ‘cammino’ translates Heidegger’s ‘weg’ –
my ‘way’ of words – but for Heidegger is ‘way to’ (weg zur) – as it should!”
cf. Speranza, “in cammino verso la conversazione” – versus “il cammino della
convresazione’ –“ Grice: “Note that in Italian, unlike German, you drop the
otiose ‘the’ of ‘way – “Nel cammino” is o-kay, but “in cammino” is the choice
by Caracciolo!” – cf. Aligheri, ‘nel cammino’ OF his life, towards heaven, or
paradise, that is.” Studia a Verona e Pavia. Fa la conoscenza di Olivelli, con
il quale collaborò alla stesura dei Quaderni del ribelle. Olivelli divenne uno
dei più noti martiri della Resistenza e a lui Caracciolo dedica un saggio,
“Teresio Olivelli: biografia di un martire” (Brescia). Insegna a Pavia, Lodi,
Brescia, e Genova. La sua filosofia si sviluppa inizialmente all'interno della
tradizione crociana, ma poi acquisisce tratti più originali a contatto con
Jaspers, Löwith e Heidegger. In cammino verso il Linguaggio. Di particolare
interesse e importanza sono i suoi studi sul nichilismo a partire da Leopardi e
sulla dimensione religiosa dell'esistenza. Nella sua riflessione egli ha pure
mostrato una forte attenzione per il rapporto tra pensiero e poesia, tra
pensiero e musica. Altre opere: “L'estetica di Benedetto Croce nel suo
svolgimento e nei suoi limiti (Torino); L'estetica e la religione di Croce
(Arona); Estetica (Brescia); Etica e trascendenza, Brescia); Arte e pensiero
nelle loro istanze metafisiche. I problemi della "Critica del giudizio",
Milano); Studi kantiani, Napoli); La persona e il tempo, Arona; Saggi
filosofici, Genova); Studi jaspersiani, Milano); La religione come struttura e
come modo autonomo della coscienza, Milano); Arte e linguaggio, Milano); Religione
ed eticità, Napoli); Löwith, Napoli); Nichilismo, Napoli); Nichilismo ed etica,
Genova); Studi heideggeriani, Genova); Nulla religioso e imperativo
dell'eterno, Genova); Politica e autobiografia, Brescia); Leopardi e il
nichilismo, Milano); La virtù e il corso del mondo (Alessandria); L'assolutezza
del Cristianesimo e la storia delle religioni, Napoli); Filosofia della
religione; In cammino verso il Linguaggio; Theophania. Lo spirito della religione
antica. Filosofia umana. Esistenza e Trascendenza. Lo spazio della
trascendenza. La prospettiva estetica ed etico-religiosa. Caracciolo. Sentieri
del suo filosofare. Unterwegs zur Sprache. In cammino
verso il linguaggio. F.-W. von Herrmann, Die Sprache. Il Linguaggio. Die
Sprache im Gedicht. Il linguaggio nella poesia. Eine Erörterung von Georg
Trakls Gedicht. Aus einem Gespräch von der Sprache. Zwischen einem Japaner und
einem Fragenden. Das Wesen der Sprache. L’essenza del linguaggio. Das Wort. La
parola. Il verbo. Der Weg zur Sprache. In cammino verso il linguaggio. Essere e
tempo. La riflessione esplicita sul linguaggio. ζῷον λόγον ἔχον. Ermeneutica e
metodo storico-ermeneutico. Il ‘non’ come fondamento. Più in alto della realtà
sta la possibilità. La Kehre. L’essere: un problema che rimane problema.
Poesia. L'arte come messa in opera della verità. Hӧlderlin. Il tempo della
povertà. Il pensiero come Kehre. In cammino verso il silenzio. La differenza e
il fondamento. In cammino verso il linguaggio: il dire originario. In cammino
verso il linguaggio: il suono del silenzio. “Heidegger is the greatest
living philosopher”. Martin Heidegger In
cammino verso il linguaggio Curatore: A. Caracciolo Mursia Editore 2014 Pagine:
222 13 maggio 2015 Nel 1959 Heidegger scrisse In cammino verso il linguaggio.
Ci sono alcune cose interessanti e volevo proporvele questa sera. Innanzi tutto
l’esordio in cui è molto chiaro e molto deciso dice: L’uomo parla, noi parliamo
nella veglia e nel sonno, parliamo sempre anche quando non proferiamo parola ma
ascoltiamo o leggiamo soltanto perfino quando neppure ascoltiamo o leggiamo ma
ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell’ozio, in un modo o nell’altro
parliamo ininterrottamente, parliamo perché il parlare ci è connaturato. Il
parlare non nasce da un particolare atto di volontà, si dice che l’uomo è per
natura parlante, e vale per acquisito, che l’uomo a differenza della pianta e
dell’animale è l’essere vivente capace di parola, dicendo questo non si intende
affermare soltanto che l’uomo possiede accanto ad altre capacità anche quella
del parlare, si intende dire che proprio il linguaggio fa dell’uomo
quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. L’uomo è uomo in quanto parla,
è la lezione di Wilhelm Von Humboldt, resta però da riflettere che cosa
significhi “l’Uomo”. Ora considera una poesia di Carl Kraus: Quando la neve
cade alla finestra a lungo risuona la campana della sera, per molti la tavola è
pronta, la casa è tutta in ordine. Alcuni nel loro errare giungono alla porta
per oscuri sentieri, aureo fiorisce l’albero delle grazie, la fresca linfa
della terra, silenzioso entra il viandante, il dolore ha pietrificato la
soglia, là risplende in pura luce, sopra la tavola, pane e vino. La sua ferita
piena di grazie lenisce la dolce forza dell’amore “o nuda sofferenza dell’uomo”
colui che muto ha lottato con gli angeli. Ve l’ho letta visto che ne parla, che
cosa “chiama” la prima strofa? Perché lui dice che il linguaggio è qualcosa che
“chiama” le cose letteralmente dice “il linguaggio parla” ma come parla? Dove
ci è dato cogliere questo suo parlare? questo già è interessante perché non è
l’uomo, ma è il linguaggio che parla, dice: innanzi tutto in una parola già
detta, in questa infatti il parlare si è già realizzato, il parlare non finisce
in ciò che è stato detto. Qui sentirete a breve echeggiare anche molte cose di
Lacan e di altri. In ciò che è stato detto il parlare resta custodito, in ciò
che è stato detto il parlare riunisce il modo del suo perdurare, è ciò che
grazie ad esso perdura, il suo perdurare, la sua essenza, ma per lo più, e
troppo spesso, ciò che è stato detto noi lo incontriamo soltanto come il
passato del parlare. // Lui considera la prima strofa e dice: che cosa “chiama”
la prima strofa? Chiama cose, dice loro di venire, dove? Non certo qui, nel
senso di farsi presenti fra ciò che è presente, sicché per esempio la tavola di
cui parla Kraus venga a collocarsi fra le file di poltrone da loro occupate, il
luogo 2 dell’arrivo che è con-chiamato nella chiamata, è una presenza
serbata intatta nella sua natura di assenza, è questo il luogo in cui quel
nominante chiamare dice alle cose di venire, in una assenza, poi preciserà fra
breve il chiamare è un invitare tenete conto che sta dicendo della parola è
l’invito alle cose ad essere veramente tali per gli uomini, la “caduta della
neve” (qui cita un’altra strofa di Kraus) porta gli uomini sotto il cielo che
si oscura inoltrandosi nella notte, il suonare della “campana della sera” li
porta come mortali di fronte al divino, “casa” e “tavola” vincolano i mortali
alla terra, le cose che la poesia nomina in tal modo “chiamate”, adunano presso
di sé cielo e terra, i mortali e i divini, i quattro “cielo, terra, i mortali e
i divini” costituiscono nel loro relazionarsi una unità originaria, le cose
trattengono presso di sé il quadrato dei “quattro”, in questo adunare e
trattenere consiste l’esser cosa delle cose, l’unitario quadrato di cielo e
terra, mortali e divini, immanente all’essenza delle cose in quanto cose, noi
lo chiamiamo “il mondo”. La poesia nominando le cose le chiama in tale loro
essenza, queste nel loro essere e operare come cose dispiegano il mondo, nel
mondo esse stanno e in questo loro stare nel mondo è la realtà e la loro
durata, le cose in quanto sono e operano come tali portano a compimento il
mondo. Nel tedesco antico “portare a compimento” si dice “bern, bären” donde i
termini “gebären” “generare” e “Gebärde” “gesto”, quanto mettono in atto la
loro essenza le cose sono cose, in quanto mettono in atto la loro essenza esse
generano il mondo. La prima strofa chiama le cose al loro esser tali, dice loro
di venire, tal dire chiamando le cose le chiama presso, le invita, al tempo
stesso sospinge verso le cose, affida queste al mondo da cui si manifestano,
per questo la prima strofa nomina non soltanto cose ma insieme il mondo, chiama
i molti che come mortali fanno parte del quadrato del mondo, le cose
condizionano i mortali ciò a questo punto significa: le cose visitano di volta
in volta i mortali sempre e solo insieme col mondo. La prima strofa parla
nell’atto che dice alle cose di venire, la seconda strofa parla in modo diverso
dalla prima eccetera … qual è la questione qui? Importante perché ci sta
dicendo che c’è il mondo che è fatto di che cosa? “dei, mortali, cielo, terra”,
il mondo è ciò per cui le cose sono quelle che sono, adesso ve la dico in modo
molto più semplice e capirete subito: “le cose” sono gli enti, il “mondo” è
l’Essere. In questa posizione sta dicendo che senza il mondo cioè senza
l’“Essere”, che poi questo mondo, lui è preciso qui quando dice “la caduta
della neve” per esempio nel verso “porta gli uomini sotto il cielo che si
oscura inoltrandosi nella notte e il suonare della campana della sera li porta
come mortali di fronte al divino” cioè queste parole costruiscono la scena
entro la quale la “cosa” può apparire, come se fosse, adesso preciseremo
meglio, come se la “cosa” fosse una sorta di significante, adesso sto un po’
stravolgendo ma per farvi capire, il “mondo” il significato, senza significante
non c’è significato e viceversa, il significato cioè ciò che questa “cosa”,
questa parola produce, se lui nomina il “suonare della campana” è chiaro che
questo suonare della campana evoca qualcosa, evoca il divino, evoca la
religione, evoca tantissime cose, adesso lui ne cita solo una, ma potrebbero
essere sterminate ed è all’interno di questo che l’ente compare, Intervento: come
se le cose potessero apparire solo in questa scena che è il “mondo”…
Esattamente, però senza gli enti il mondo non c’è … Intervento: il mondo è la
totalità degli enti? Sì, esattamente, poi: Come il chiamare che nomina la cose
chiama presso e rimanda lontano, così il dire che nomina il “mondo” è invito a
questo a farsi vicino e al tempo stesso lontano. Cosa vuole dire che “chiama
presso e rimanda lontano” questo “chiamare”? le chiama le cose parlando, io
chiamo le cose quindi è come se me le avvicinassi ma mentre avvicino queste
cose, queste cose si allontanano anche, si allontanano perché di cosa sono
fatte? Intervento: c’è sempre quell’assenza di prima … Sì, queste parole sono
assenti, nel senso che non sono lì in quanto tali, sono lì sempre in quanto riferite
al mondo ecco: esso, il chiamare, affida il mondo alle cose e insieme accoglie
e custodisce le cose nello splendore del mondo, il mondo concede alle cose la
loro essenza. Quindi è questo mondo, questa scena, io adesso uso dei termini
che lui non usa ma solo per rendere le cose più semplici, è questo “mondo” che
dà alle cose la loro essenza, qui sembra essere ancora platonico, questo
mondo 3 potrebbe essere pensato come il mondo delle idee ed è questo
mondo delle idee che da alle cose, agli aggeggi la loro essenza. Le cose
d’altra parte fanno essere il mondo, il mondo consente le cose. Il parlare
delle prime due strofe parla nell’atto che sollecita le cose a venire verso il
mondo e il mondo verso le cose- tenete sempre conto che sta descrivendo cosa fa
il linguaggio: neppure però costituiscono soltanto una coppia, mondo e cose non
sono infatti realtà che stiano l’una accanto all’altra, esse si compenetrano
vicendevolmente, compenetrandosi i due passano attraverso una linea mediana, in
questo si costituisce la loro unità, per tale unità sono intimi linea mediana e
l’intimità, per indicare tale linea la lingua tedesca usa il termine “das …” il
“fra” “fra mezzo” la lingua latina dice “inter”, all’“inter” latino corrisponde
il tedesco “unter”. Intimità di mondo e cosa non è fusione - ora cominciate a
pensare a queste due cose “mondo e cosa” come significato e significante e
adesso vi dirò perché non è una fusione fra le due cose, pensate a De Saussure,
L’intimità di mondo e cosa regna soltanto dove mondo e cosa nettamente si
distinguono e restano distinti, nella linea che è a mezzo tra i due, nel fra
mezzo di mondo e cosa, nel loro “inter”, questo “unter, domina lo stacco. ora
adesso non so se è già il caso di dire qua, ecco qui comincia con la questione della
“differenza”: L’intimità di mondo e cosa è nello stacco, “Schied” “del
frammezzo” e nella “dif-ferenza” “Unter Schied”, il termine “differenza” è qui
sottratto all’uso corrente e consueto non indica un concetto generico nella cui
area rientrino molteplici specie di differenza, la “dif-ferenza” di cui qui si
parla esiste solo come quest’una e unica, la dif-ferenza regge, non però con
essa identificandosi, quella linea mediana nel modo e nella relazione alla
quale, e grazie alla quale, mondo e cose trovano la loro unità, l’intimità
della dif-ferenza è l’elemento unificante della diafora, di ciò che
differenziando porta e compone, la dif-ferenza porta il mondo al suo esser
mondo, porta le cose al suo esser cose, portandoli a compimento li porta l’un
verso l’altro. Il termine “dif-ferenza” non indica per ciò più una distinzione
posta tra oggetti del pensiero presentativo – Oggetti del pensiero presentativo
sono quelli che il pensiero mostra, presenta – né la differenza è solo una
relazione oggettivamente esistente tra mondo e cosa, che il pensiero
presentativo venendovisi a imbattere possa constatare, né la differenza è
comunque relazione tra mondo e cosa destinata ad essere in un ulteriore momento
negata e trascesa – cioè non può togliersi – la differenza di mondo e cosa fa
che le cose emergano come quelle che generano il mondo, fa che il mondo emerga
come quello che consente le cose. La dif-ferenza è la dimensione in quanto
misura nella sua interezza facendo essere nella sua propria essenza lo spazio
di mondo e cosa, la differenza come linea mediana di mondo e cose rappresenta
generandola la misura in cui mondo e cosa realizzano la loro essenza, nel
nominare che chiama “cosa” e “mondo” quel che è propriamente nominato è la
dif-ferenza. – A questo punto è ovvio che ciascuno di voi ha pensato
necessariamente a Derrida, il quale Derrida ha preso a man bassa da Heidegger
ma tra breve sarà ancora più evidente, lui, Derrida ha preso Heidegger e lo ha
riletto con De Saussure dice: “Questo chiamare” ricordate prima ha detto del
chiamare: Questo chiamare è l’essenza del parlare, la dif-ferenza è la chiamata
dalla quale soltanto ogni “chiamare” è esso stesso chiamato, alla quale
pertanto ogni possibile “chiamare” appartiene. // Il linguaggio parla in quanto
suono nella “quiete” (adesso dirà che cosa intende) la quiete acquieta,
(ovviamente) portando mondo e cose alla loro essenza, il fondare e comporre
mondo e cose nel modo dell’acquietamento è l’evento della dif-ferenza, il
linguaggio, il suono della quiete è in quanto “la dif-ferenza”, è come farsi
evento, l’essere del linguaggio è l’evenire della dif-ferenza. Il suono della
quiete non è nulla di umano, certo l’uomo è nella sua essenza parlante, il
termine “parlante” significa qui che emerge ed è fatto se stesso dal parlare
del linguaggio. (lui è preciso su questo cioè non è l’uomo che parla, è il
linguaggio che parla, e il linguaggio non è un ente, non è un oggetto al pari
degli altri, infatti quando la logica parla di “linguaggio oggetto” compie un
abominio per Heidegger, perché il linguaggio non è un oggetto, mai può essere
oggetto dunque: In forza di tale evenire l’uomo nell’atto che è dalla lingua
portato a se stesso, alla sua propria essenza continua ad appartenere
all’essenza del linguaggio, al suono della quiete (cioè è l’uomo che appartiene
all’essenza del linguaggio non viceversa) tale evento (il suono della quiete)
si realizza in quanto l’essenza del linguaggio (il suono della quiete) si
avvale del parlare dei mortali per essere dai mortali percepita come appunto “suono
della quiete”, solo in quanto 4 gli uomini rientrano nel dominio del
suono della quiete, i mortali sono a loro modo capaci di un parlare attuantesi
in suoni. Il parlare dei mortali è un “nominante chiamare”, (questo è
fondamentale in Heidegger lo ripeto “il parlare è un nominante chiamare”) è
invito alle cose e al mondo farsi presso muovendo dalla semplicità della
differenza. La pura del parlare mortale è la parola della poesia, l’autentica
poesia non è mai un modo più elevato della lingua quotidiana vero è piuttosto
il contrario, che cioè il parlare quotidiano è una poesia dimenticata come
logorata nella quale a stento è dato ancora percepire il suono di un autentico
chiamare. Ecco la questione che sta ponendo è esattamente quella che pone
Derrida, questo suono, questo suono silenzioso che non si sente ma che tuttavia
è ciò che costituisce la condizione della parola che chiama, beh è ciò che
Derrida ha elaborato come “differance”, lui usa per indicare questo suono che
non c’è, usa questo esempio, lui scrive in francese “difference” in francese si
scrive così, però a “difference” sostituisce alla e una a, scrivendo quindi
“differance” che in francese è scorretto perché si scrive “difference”, però
dice anche cambiando la e con la a, il suono della parola in francese
“differance” non cambia, è esattamente lo stesso cioè questa e non si sente,
che metta la e o metta la a, è uguale, non si sente, cioè quella cosa che lui
chiama la “differance” è esattamente questo suono muto, che tuttavia è quella
cosa che consente alla parola di essere tale e cioè di, mettiamola così, lui,
forse dovrei aggiungere qualcosa, lui, Derrida muove a queste considerazioni
partendo da De Saussure, dal segno di De Saussure “significante/significato” e
quindi ciò che dice è che questa barra è quella che divide il significante dal
significato ma è quella che compone il segno, senza questa barra che distingue
il significante dal significato il segno non c’è, però questa barra si scrive,
si mette il trattino, come faceva De Saussure, ma non c’è, non suona né nel
significante né nel significato ecco questa barra è la “dif-ferance”, è quella
cosa che non compare, che non ha suono però è la condizione perché il segno sia
segno, cioè perché la parola sia la parola è indeterminabile cioè questo suono
di cui parla qui Heidegger il “suono della quiete” è questo suono, senza questo
“cosa e mondo”, adesso la dico in modo molto rozzo ma si sovrapporrebbero l’uno
altro, l’ente, cesserebbe di essere tale perché l’ente è tale perché inserito
all’interno del mondo, e il mondo è tale perché esiste un ente che lo pone in
essere, esattamente come il significante e il significato. Heidegger non parla
né di significante né di significato, non gliene importa assolutamente nulla,
per lui il mondo è l’essere, è l’esserci “Dasein”. Ciò che a noi interessa
invece è intendere come anche in Heidegger si siano poste delle questioni molto
precise intorno al linguaggio, soprattutto rispetto al fatto che il linguaggio
non è un oggetto, non è una proprietà dell’uomo, non è una sua facoltà tra
altre, ma è il linguaggio che parla, ricordate la famosa asserzione di Lacan
quando dice “ça parle” cioè qualcosa parla, viene da qui ovviamente, è stato
Heidegger a porre la questione in termini precisi, tali per cui ha preso atto del
fatto che il linguaggio non è una proprietà, è questo che dice, non è una
proprietà, non è un ente, non è qualcosa di cui gli umani dispongano ma è il
linguaggio che parla. Che significa questo per quanto ci riguarda? Significa
una cosa importante: è il linguaggio a parlare e a costruire l’uomo, e anche le
cose, perché Heidegger dice che le chiama, le chiama alla presenza, però di
fatto il linguaggio è quella struttura, come andiamo dicendo da tempo, senza la
quale non sarebbe possibile per gli umani il dirsi tali, non sarebbe possibile
costruire nessun pensiero, nulla. Quindi lui dice che il linguaggio “chiama le
cose”, sì, le chiama nel senso che le crea, le produce letteralmente, e in
effetti non lo dice, forse lo usa da qualche parte, non usa la parola
“costruire” ma in ogni caso ciò che sta dicendo è che il linguaggio è quella
cosa che in un certo senso, adesso permettetemi di dire questa cosa che ad
Heidegger non piacerebbe, ma “preesiste” l’uomo in un certo senso, “preesiste”
tra virgolette, perché è come se il linguaggio fosse da sempre lì, è questo
mondo all’interno del quale qualche cosa può apparire. Ed è una posizione molto
interessante che per altro moltissimi hanno ripreso, tutti coloro che si sono
minimamente interrogati intorno al linguaggio in qualche modo hanno tenuto
conto di queste asserzioni di Heidegger, questo testo è celeberrimo “In cammino
verso il linguaggio” 5 Intervento: scusi, dicendo appunto dell’uomo e del
linguaggio, non dice che il linguaggio “costruisce” o “inventa” l’uomo, ma dice
che il linguaggio fa qualsiasi cosa, però non è giunto a dire che l’uomo non
esisterebbe in quanto uomo, se non ci fosse il linguaggio? Nel senso che
mantiene l’uomo un’entità che parla, che dice delle cose, o no? Dice in modo
molto chiaro: Il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in
quanto uomo, Dice ancora: La parola è cenno e non segno, nel senso di semplice
denotazione la logica ma anche la linguistica ha sempre considerato la parola
come un segno denotante qualche cosa, un segno linguistico che denota un
aggeggio qualunque, lui dice che la parola è cenno, accennare a qualche cosa,
alludere a qualche cosa, riferirsi indirettamente a qualche cosa, come dire
lasciare che questa cosa appaia senza una determinazione precisa, cioè senza
una denotazione, la denotazione appunto “de nota”, la denotazione dice qual è
il significato di una cosa, ricordate la differenza fra denotazione e
connotazione? Dicendo che la parola è cenno, qua nella parte in cui fa questo
dialogo ipotetico con un giapponese, è come dire che la parola indica qualche
cosa ma che è al di là della parola, la parola è un cenno in quanto indica il
mondo all’interno del quale questa parola è inserita, ma lo accenna, non lo
determina, non lo può determinare … Intervento: lo potrebbe determinare
l’esserci, “Dasein”? è l’“esserci” nel mondo che determina la cosa, ovviamente
di volta in volta … Sì, Heidegger oscilla però in genere tende a considerare
che l’essere non può stare senza l’ente, altre volte invece sembra dire che, così
notava Severino, che l’Essere possa darsi senza l’ente, cosa abbastanza
improbabile, è come dire “un significante senza un significato” che cos’è? È
niente. Intervento: non ho capito: che l’ente possa esserci senza l’essere,
significante senza significato? Heidegger dice che l’ente e l’essere non
possono darsi l’uno senza l’altro, così come, stavo dicendo, allo stesso modo
come il significante e il significato non possono darsi l’uno senza l’altro. In
questo senso dicevo, allora qui si riferisce a “Sein und Zeit”: Si trattava e
si tratta, era ed è, di evidenziare l’essere dell’essente, certamente non più
alla maniera della metafisica ma in modo che l’essere stesso si manifesti,
l’essere stesso, ciò significa la presenza di ciò che può farsi presente, (la
“presenza di ciò che può farsi presente”) vale a dire la differenza dei due
momenti sulla base dell’unità, è questa differenza che esige l’uomo per la sua
propria essenza … che è come dire cioè l’essere stesso, a questo punto se lui
lo pone come la differenza dei due momenti “cosa/mondo” sulla base dell’unità,
sulla base del fatto che sono inscindibili, dice che allora: è questa
differenza che esige l’uomo per la sua propria essenza cioè questa differenza
tra il fatto che mondo e cosa pur essendo assolutamente inscindibili sono
tuttavia separati, è da lì che l’uomo trae la sua essenza, dal fatto che il
significante e il significato cioè ogni parola che dice mostra si presentifica
qualche cosa, nel senso che chiama qualche cosa ma mentre chiama la cosa, chiama
anche il mondo all’interno del quale questa cosa è inserita e senza il quale
mondo non esisterebbe neppure … Intervento: è molto vicino alla semiotica, in
fondo parla di connessioni … Tutti coloro che si sono addentrati in queste
questioni, e questa è un’altra cosa che forse compare in ciò che vado dicendo
ultimamente, si sono trovati a interrogare questioni molto simili, perché
quando si incomincia a riflettere sul modo in cui funziona il linguaggio è
inevitabile accorgersi che la parola è all’interno di qualche cosa, per
Heidegger è il mondo, per Greimas non è più il mondo ma un contesto di segni
all’interno del quale il nucleo segnico acquista un significato, per la
psicanalisi è la parola che non si può intendere se a questa parola non vengono
associati tramite associazioni libere le connessioni alle quali è agganciata.
Modi di interrogare una questione che sono sì differenti però incontrano molto
spesso quasi una stessa direzione da seguire, quasi gli stessi elementi
Intervento: però l’uomo incontrando il mondo lo simbolizza nella parola? Può
accadere certo, siamo però già verso Lacan (lo evoca) sì evocandolo può anche
simbolizzarlo, se vuole, non è proibito. Ecco qui parla del “non pensato”
sempre riferendosi indirettamente alla differenza perché è l’impensato, non si
può pensare la differenza in quanto tale, così come non può 6 neanche
dirsi perché non c’è ma pur non essendoci in quanto ente costituisce, come dice
Heidegger quel suono muto che tuttavia è ciò che consente a questi due elementi
la cosa e il mondo di stare distinti ma al tempo stesso uniti. Intervento: …
non avevo conosciuto Heidegger su questo aspetto. All’Università … Su alcune
cosa ha riflettuto attentamente, soprattutto intorno al linguaggio qui
incomincia a parlarne in modo abbastanza esplicito già nel suo primo scritto
“Essere e tempo” poi mano a mano riflettendo intorno all’Essere si accorge che
una riflessione intorno all’Essere comporta una riflessione intorno al
linguaggio necessariamente (…) Il parlare inteso nella sua pienezza
significante trascende sempre la dimensione puramente fisico sensibile del
suono ovviamente il parlare non è soltanto il suono ma il linguaggio come
significato fattosi suono o segno scritto è qualcosa di essenzialmente
soprasensibile, qualcosa che perennemente oltrepassa il puramente sensibile, il
linguaggio così inteso è per sua costitutiva natura metafisico.) È la
metafisica che rappresenta, badate bene: si parla, si rappresenta, se si
rappresenta si compie un’operazione metafisica. Poi sul volere sapere: Il voler
sapere e l’avida richiesta di spiegazioni non portano mai a un interrogare
pensante, nel volere sapere si cela già sempre la presunzione di un auto
coscienza che si appella a una ragione auto fondata e alla sua razionalità, il
volere sapere non vuole che si stia in ascolto di fronte a ciò che è degno di
essere pensato … Intervento: è una forma di controllo Esattamente, e poi c’è la
seconda parte di cui ci occuperemo nel prosieguo perché ciò che stiamo facendo
è straordinariamente vicino a ciò che qui Heidegger ci sta dicendo, lui non ha
dubbi sul fatto che l’uomo è quello che è, perché c’è il linguaggio, non ha
nessun dubbio lo pone proprio nelle prime pagine il che comporta ovviamente
delle implicazioni, perché se l’uomo non è se non nel linguaggio allora, dice
lui giustamente, occorre porsi in ascolto del linguaggio, che non significa
ascoltare quello che qualcuno dice, ma porsi in ascolto del linguaggio e porsi
in ascolto della domanda che c’è nel linguaggio, nella chiamata che il
linguaggio è, il linguaggio è un chiamare le cose e fra le cose, chiama anche
l’uomo nonostante che sia l’uomo la condizione perché ci sia questa chiamata.
Questa è una questione sempre presente in Heidegger, infatti è stato accusato
di “umanismo”, “accusato” tra virgolette, mentre lui si è sempre difeso da
questo, la sua non è una posizione esistenzialista, ha dovuto attraversare
l’esistenzialismo perché l’unico esistente è l’uomo, questo accendisigari per
Heidegger non esiste, c’è, ma non esiste, solo gli umani esistono cioè soltanto
coloro che sono in condizioni di porre la domanda, questo aggeggio, questo
accendino non fa nessuna domanda. Per Heidegger l’uomo è il portatore in un
certo senso del linguaggio, forse non necessariamente l’unico, però a quanto ci
consta per il momento si, e questo, sempre per Heidegger, è fondamentale perché
l’uomo può trarre la verità, cioè la verità sull’essere e quindi il fatto che
l’essere non sia nient’altro che l’esserci dell’uomo in quanto progetto
ciascuna volta, solamente nel dialogo. Nel dialogo tra umani ovviamente, ma un
dialogo dove le cose si interrogano, dove si mantiene aperta la domanda non la
chicchera, il parlare per il sentito dire, il sentito dire vuole dire anche
averlo letto da qualche parte, ma non averlo interrogato in modo autentico.
Interrogare in modo autentico e lasciarsi interrogare dalla cosa: una qualunque
cosa pone delle questioni, per esempio “che cos’è?” o quando mi trovo
all’interno di un progetto su come posso utilizzare quella certa cosa, pone
comunque sempre delle domande, l’uomo è sempre all’interno di questo domandare,
continuamente. Questo è il domandare autentico, quello che si lascia
interrogare da ciò che sta dicendo, da ciò che sta facendo, le cose che sta
incontrando, non da colui che invece si precipita a dare la risposta o come
dicevo prima ha la fretta di sapere tutto dimenticandosi della domanda. Nella
parte successiva ci saranno delle cose molto interessanti da dire. per esempio
sulla poesia che per lui è importante perché la poesia accenna, e in questo
accennare lascia che la parola chiami le cose, senza fermarle, senza bloccarle,
senza mortificarle ma le lascia essere, lasciar essere questo è sempre stato
fondamentale per Heidegger. 7 20 maggio 2015 Heidegger prosegue: La
ricerca scientifica e filosofica mira da qualche tempo (siamo nel ‘59) in modo
sempre più deciso a costruire ciò che viene chiamato “metalinguaggio” (qui ce
l’ha con i filosofi analitici) giustamente pertanto la filosofia scientifica
che si prefigge di costruire tale super linguaggio, intende se stessa come
metalinguistica. Metalinguistica suona come metafisica, non soltanto suona
“come” ma è, la metalinguistica è infatti la metafisica della totale
trasformazione tecnica di ogni lingua in semplice strumento interplanetario di
informazione, metalinguaggio e sputnik, metalinguistica e tecnica missilistica
sono la stessa cosa. // (Poi cita una poesia, una poesia di Stefan George, il
titolo è Das Wort (la parola). Meraviglia di lontano o sogno io portai al lembo
estremo della mia terra e attesi fino a che la grigia Norna (Norna è la dea del
fato, del destino) il nome trovò nella sua fonte, meraviglia o sogno potei
allora afferrare consistente e forte ed ora fiorisce e splende per tutta la
marca. (la marca è un territorio di confine) Un giorno giunsi colà dopo un
viaggio felice con un gioiello ricco e fine, ella cercò a lungo e al fine mi
annunciò “qui nulla di eguale dorme sul fondo”, al che esso sfuggì alla mia
mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro, così io appresi triste la rinuncia:
“nessuna cosa è dove la parola manca”. Un numero infinito di persone considera
non di meno anche questa cosa dello sputnik un prodigio, questa “cosa” che gira
vertiginosamente in uno spazio del mondo ove non è mondo, e per molti essa era
ed è tutt’ora un sogno, prodigio e sogno della tecnica moderna, la quale
dovrebbe essere la meno disposta a riconoscere valido il pensiero che sia la
parola a procurare alle cose la loro esistenza, non le parole ma le azioni
contano nei calcoli dell’ossessivo calcolare planetario, lasciamo la fretta del
pensare, non è proprio anche questa “cosa” quel che essa è, e così come essa è,
in nome del suo nome? Certamente. /…/ Se l’affrettare nel senso del massimo
potenziamento tecnico della velocità, di quella velocità nel cui spazio
temporale soltanto le macchine e i congegni moderni possono essere quello che
sono, (questi marchingegni sono quelli che sono perché esiste la velocità cioè
esiste il concetto di velocità) se l’affrettare dunque, non avesse parlato
all’uomo e non l’avesse posto sotto il suo comando, (sta parlando della tecnica
ovviamente) questo comando non avesse spinto e disposto l’uomo alla fretta, se
la parola di un tale disporre non avesse parlato non ci sarebbe nessuno
sputnik, nessuna cosa è là dove la parola manca. La parola del linguaggio e il
suo rapporto con la cosa, con qualunque cosa che è sotto il riguardo
dell’essere e il modo di essere della cosa stessa resta un enigma. (l’enigma
sarebbe il rapporto fra la parola e la cosa, ecco già questo dice delle cose
perché nessuna cosa è dove la parola manca, beh la dice già lunga sul fatto che
se non c’è la parola, se manca la parola non c’è nessuna cosa, non c’è nulla.
Questo Heidegger l’aveva inteso molto bene ovviamente, non è un caso che
riprenda questa poesia di Stefan George) Dice poi: l’ultimo verso infatti
appunto “nessuna cosa è dove la parola manca” in tedesco “Kein ding ist wo das
Wort gebricht” l’ultimo verso potrebbe allora avere anche un significato
diverso da quello di un asserzione e costatazione volta nella forma del
discorso indiretto che dice “nessuna cosa è dove la parola manca”, quel che
segue i due punti, dopo la parola “rinuncia” (perché ci sono due punti dopo
“così io presi triste la rinuncia: nessuna cosa è dove la parola manca”) non
indica ciò cui si rinuncia, ma indica l’ambito entro cui la rinuncia deve
immettersi, indica il comando a consentire e accordarsi al rapporto fra parola
e cosa ora esperito, (“ora” esperito nel momento in cui si dice allora si
esperisce la cosa, allora c’è la cosa, e la cosa è quello che è) ciò di cui il
poeta ha preso la rinuncia è la sua precedente opinione nei riguardi del
rapporto fra cosa e parola, rinuncia concerne il rapporto poetico con la parola
a lui fino a quel momento consueto, la rinuncia è la disposizione a un rapporto
diverso, nel verso “Kein ding sei wo das Wort gebricht” “sai” non sarebbe
allora sul piano grammaticale un congiuntivo (“sai” vuol dire “sia”,
l’indicativo è “ist”) al posto dell’indicativo “ist” bensì una forma
dell’imperativo, un ordine cui il poeta obbedisce per rispettarlo anche in
futuro, nel verso “nessuna cosa “sia” laddove la parola manca”, il “sia”
significherebbe allora “non considerare d’ora in poi una cosa come esistente
dove la parola manca” (è un imperativo categorico” e non so per quale via mi ha
evocato le parole di Parmenide “sulla via del non essere non ti ci
incamminerai, ma seguirai la via dell’Essere.” Con quel “sia” inteso come
8 comando, il poeta si dispone ad accettare quella rinuncia per cui egli abbandona
la convinzione che qualcosa esista, già esista, anche quando la parola manca.
(Non c’è già la cosa) Che significa rinuncia? La parola “Verzicht” Rientra
nell’aria del verbo “verzeihen”; una locuzione antica dice “Sich eines Dinges
verzeihen”, e significa “abbandonare qualcosa” “rinunciarvi”. Zeihen
corrisponde al latino dicere, all’antico alto tedesco “sagan” (il sagen del
tedesco moderno), da cui “saga”. La rinuncia è un Entsagen, letteralmente un
“disdire”. Nella sua rinuncia il poeta dice “no” al suo precedente rapporto con
la parola, questo soltanto? No. Nell’atto in cui rifiuta qualcosa, già gli è
stato destinata una chiamata alla quale egli non si sottrae più. (nella sua
rinuncia, dice, rinuncia soltanto all’idea che qualcosa ci sia anche senza la parola?
già questa è una bella rinuncia. Rinuncia di fronte a ciò che incontro, a
pensare che questa cosa che incontro sia già lì prima che io la dica, prima
della parola, non che io la dica propriamente, però aggiunge no, non è proprio
così, ciò a cui non si sottrae è ciò che gli è stato destinato “una chiamata
alla quale egli non si sottrae più”. Chi lo chiama a quella maniera, se non la
parola?) In termini più chiari il poeta ha capito che solo la parola fa sì che
la parola appaia e sia pertanto presente come quella cosa che è, la rinuncia
che il poeta apprende è della natura di quella compiuta rinuncia alla quale
soltanto è dato attingere ciò che da lungo nascosto è propriamente già
destinato. Il poeta esperisce la sua vocazione di poeta come una chiamata alla
parola, ma cosa raggiunge il poeta? Non una semplice nozione, seguendo questa
chiamata, egli giunge nel rapporto della parola con la cosa, questo rapporto
non è però una relazione fra la cosa da una parte e la parola dall’altra (qui
c’è la parola e lì c’è l’ente e la relazione è in mezzo) la parola stessa è il
rapporto che via via incorpora e trattiene in sé la cosa, in modo che essa è
una cosa. Sulle prime e per lungo tratto pare che alla fonte del linguaggio
(poi dirà che è la parola la fonte dell’Essere) il poeta abbia bisogno di
portare soltanto le meraviglie che lo incantano (qui sta sempre commentando la
poesia di George) e i sogni che lo estasiano, pare che le parole che a quella
fonte egli va, con non incrinata fiducia, a cercare siano solo quelle che
convengono a quanto di meraviglia e sogno ha preso corpo nella sua fantasia,
prima di allora il poeta, confermato in questo dalla felice riuscita delle sue
precedenti composizioni poetiche, era dell’opinione (qui sta parlando di
George) dell’opinione che le cose poetiche meraviglia e sogni avessero già, da
e per sé, garanzia di esistenza (come ciascuno pensa) e che tutto consistesse
poi nel saper trovare per esse anche la parola atta ad esprimerle e
rappresentarle. (non è questo il pensiero comune?) Sulle prime e a lungo è
parso che le parole fossero come pigli che afferrano ciò che già esiste, ed è
per sé esistente considerato, e ad esso danno consistenza ed espressione
portandolo così a bellezza. (qui ripete ancora una parte della poesia): Qui meraviglia
e sogni, là nomi che afferrano gli uni e gli altri fusi in uno e la poesia era
nata, tutto fuso insieme, bastava essa a quello che è il compito del poeta dar
vita a ciò che permane, perché duri e sia? Ad un certo punto giunge però
Stefan, per Stefan George il momento nel quale il poetare che fino allora gli
era stato consueto, quel poetare sicuro di sé viene bruscamente meno
riportandogli alla mente la parola di Hölderlin, ma ciò che permane fondano i
poeti, infatti un giorno il poeta arriva il viaggio per di più è stato buono e
anche per questo egli è pieno di speranza, dalla dea del destino carica d’anni
e chiede il nome per il gioiello ricco e fine che porta sulla mano (questo
gioiello ricco e fine è la parola) solo che lei chiede il nome della parola (e
questo crea qualche problema) questo non è meraviglia di lontano e neppure
sogno, la dea cerca a lungo ma invano, alla fine gli annuncia “nulla d’eguale
dorme qui sul fondo” (non c’è la parola per dire la parola, “nulla d’eguale”
cioè nulla che sia come il gioiello ricco e fine che gli sta sulla mano) la
parola capace di far essere quel gioiello che sta semplicemente lì sulla mano
quello che esso è, una tale parola dovrebbe scaturire da quella sicura custodia
che riposa nella quiete di un sonno profondo, soltanto una parola veniente di
lì potrebbe portare e fermare il gioiello nella ricchezza e gentilezza del suo
semplice essere. (Ripete le parole del poeta) “Nulla di eguale dorme qui sul
fondo” a tal dire esso sfuggì alla mia mano (questo gioiello) e mai più la mia
terra ebbe il tesoro. Il fine ricco gioiello che era lì sulla mano non giunge
all’essere di una cosa, non diventa tesoro cioè ricchezza custodita nella
poesia di quella terra, il poeta non precisa la natura del gioiello che non
poté divenire tesoro della sua terra ma che gli donò tuttavia l’esperienza
del 9 linguaggio, l’occasione di apprendere quella rinuncia nella quale
l’abdicazione corrisponde, da parte del rapporto fra parola e cosa, l’assenso a
un disvelamento, l’oggetto ricco e fine è cosa diversa dalla meraviglia di
lontano oppure sogno, se poi la parola canta il cammino poetico proposto
proprio di Stefan George è lecito pensare che nel gioiello sia adombrata la
delicata ricchezza della semplicità che nell’ultimo periodo della sua attività
si presenta al poeta come ciò che deve essere detto “la parola della parola”.
Qui Heidegger affronta una questione, poi diremo mano a mano, e se la porta
appresso perché ovviamente non ha soluzione cioè quella parola che è
all’origine della parola, e la Norna, la dea del destino, del fato glielo dice
qui “sul fondo non giace nulla di simile”, non c’è, non c’è il fine, il limite
del linguaggio, il punto da cui comincia. Certo che non c’è, Heidegger poi lo
allude, lo allude nel dire autentico del poeta e il dire autentico del poeta è
quello che ovviamente nel pensiero di Heidegger è quello che lascia dire
l’Essere, lo lascia apparire, lo disvela, l’ἀλήθεια. Però ciò che qui il poeta
cerca di fatto è la parola della parola, cioè l’essenza propriamente della
parola, ma qui si scontra contro un qualche cosa che non c’è perché è la parola
che dà l’essenza alle cose, dà l’Essere alle cose, e quindi ci vorrebbe un
altro Essere che dia Essere all’Essere della parola, la cosa non avrebbe più
senso. Heidegger lo pone come una sorta di enigma, però di fatto non possiamo
parlare di enigma quanto piuttosto del tentativo di dare anche alla parola o
meglio di trasformare la parola in ente, lui dirà tra un po’ che la parola non
è un ente al pari di qualunque altro, è un'altra cosa, è ciò che da l’accesso
all’ente, infatti lo dice utilizzando la poesia “nulla è là dove la parola
manca”, se nulla è là dove la parola manca è ovvio che anche la parola potrebbe
essere intesa come ente, ma a questo punto la cosa non funziona più. L’apparire
di qualche cosa che è il λόγος, lo vedremo più avanti, λόγος non inteso come il
discorso, il racconto, la ragione, nulla di tutto ciò, il λόγος è una delle
forme dell’Essere per Heidegger, è questo logos che consente l’apertura cioè il
linguaggio consente l’aprirsi della parola che nomina qualche cosa, nel momento
in cui nomina qualche cosa questa cosa è. C’è. Intervento: la parola è ciò che
differenzia l’istinto dalla pulsione … Intervento: l’uomo, diciamo, arrivando a
possedere la parola nominando gli oggetti, qualificandosi come possessore della
parola, identificandosi come ciò che padroneggia la realtà, come il bambino che
si distacca dall’uniforme primordiale sia come essere sociale, essere sociale
organizza la società che si differenzia dal gruppo indistinto dall’orda
primitiva, o comunque dai gruppi degli animali … Intervento: dal branco degli
animali, esattamente grazie, ecco possedendo la parola ecco io la intenderei
così … Heidegger ha un’opinione differente, perché dice: “quando poniamo una
domanda al linguaggio, una domanda sulla sua essenza, già del linguaggio deve
esserci stato fatto dono, non possiamo chiederci qualcosa sul linguaggio se già
non possediamo il linguaggio, se vogliamo porre una domanda sull’essenza,
sull’essenza cioè del linguaggio allora anche del significato di “essenza” ci
deve essere già stato fatto dono, domanda “a” e domanda “su” presuppongono qui,
come sempre, che ciò cui e su cui va la domanda abbia già fatto giungere la
parola sollecitatrice, ogni posizione di domanda è possibile solo in quanto ciò
che si fa problema ha già iniziato a parlare e a dire di se stesso. // (cita
ancora la frase: nessuna cosa è dove la parola manca) Accenna al rapporto tra
parola e cosa prospettando il modo che la parola stessa risulti il rapporto, in
quanto essa trae all’essere (la parola) e mantiene nell’essere ogni cosa
(qualunque essa sia), senza la parola che si identifica con la forza del
rapporto, il complesso delle cose, il mondo, sprofonda nel buio insieme all’io
che porta all’estremo lembo della propria terra, alla fonte dei nomi ciò che ha
incontrato di meraviglia e di sogno. Perché quel che ci interessa è
un’esperienza, un essere in cammino, noi oggi in questa lezione che segna il
passaggio tra la prima e la terza conferenza (in genere la seconda fa questo,
il passaggio fra la prima e la terza) rifletteremo sul cammino, è necessaria al
riguardo un’osservazione preliminare dato che la maggior parte di loro si
occupa in prevalenza di ricerca scientifica, (il pubblico che aveva)nelle
scienze la via al sapere va sotto il nome di metodo, “metodo” “μετα ὁδός”
“attraverso il cammino” “lungo il cammino”, il metodo non è specie nella
scienza moderna un puro strumento al servizio della scienza 10 anzi al
contrario è il metodo che ha assunto a proprio servizio la scienza. Questo
fatto è stato visto in tutta la sua portata per la prima volta da Nietzsche,
che così ne parla nelle annotazioni che seguono, queste fanno parte del corpus
degli inediti pubblicato postumo dal titolo “Der Wille zur Macht” “La volontà
di potenza”. La prima dice “ciò che caratterizza il nostro XIX secolo non è la
vittoria della scienza ma la vittoria del metodo scientifico sulla scienza”.
L’altra notazione incomincia con la proposizione “Le idee più importanti furono
trovate per ultime, ma le idee più importanti sono i metodi” in realtà anche
Nietzsche è giunto assai tardi a scoprire questo rapporto tra metodo e scienza
e precisamente l’ultimo anno della sua lucidità mentale nel 1888 a Torino.
Nelle scienze non solo il tema viene posto dal metodo ma viene immesso nel
metodo e vi resta sottoposto, la corsa folle, che oggi trascina le scienze
verso mete che esse stesse ignorano, ha la sua forza propulsiva nel
potenziamento e nel progressivo assoggettamento alla tecnica del metodo e delle
possibilità a questo intrinseche, nel metodo è tutta la potenza del sapere, il
tema rientra nel metodo. Bene vi lascio riflettere su queste questioni,
mercoledì prossimo riprendiamo questo testo. 27 maggio 2015 Vi rileggo la
poesia di Stefan George perché la riprende si chiama “La parola”, Das Wort:
Meraviglia di lontano o sogno io portai al lembo estremo della mia terra e
attesi fino a che la grigia Norna il nome trovò nella sua fonte, meraviglia o
sogno potei allora afferrare consistente e forte ed ora fiorisce e splende per
tutta la marca. Un giorno giunsi colà dopo viaggio felice con un gioiello ricco
e fine, ella cercò a lungo e alfine mi annunciò “qui nulla d’eguale dorme sul
fondo”. Al che esso sfuggì alla mia mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro,
così io appresi triste la rinuncia “nessuna cosa è dove la parola manca”. C’è
da dire qui che la questione che sta ponendo questa poesia è interessante
perché di fatto sta chiedendo alla Norna di fornirgli, dicevamo l’altra volta,
la parola della parola, e cioè un qualche cosa che è fuori della parola e che
dovrebbe garantire l’essere della parola. Ovviamente cercare la parola fuori
dalla parola è un problema, tant’è che la Norna, saggia, dice “qui nulla
d’eguale dorme sul fondo” e allora lui ha appreso la rinuncia: non troverà mai
qualche cosa che da fuori della parola possa garantire la parola… Intervento:
sarebbe il significato del significato? Non esattamente, perché il significato
del significato è ancora un altro significato, quindi un altro termine, un
altro elemento linguistico, qui cerca invece proprio la garanzia, cioè il
qualche cosa che è fuori dal linguaggio e che dia alla parola la sua
consistenza. “Nessuna cosa è dove la parola manca” accenna al rapporto tra
parola e cosa, prospettandolo in modo che la parola stessa risulti il rapporto,
in quanto essa trae all’essere e mantiene nell’essere ogni cosa, qualunque essa
sia. // Infatti fra le primissime cose cui diede voce il pensiero occidentale
rientra il rapporto tra cosa e parola e precisamente nella figura del rapporto
tra essere e dire, questo rapporto sorprende il pensiero in modo così subitaneo
e sconvolgente da dirsi in una sola parola, esso suona “λόγος”, ma ancora più
sconcertante è per noi il fatto che in tutto questo non si fa un’esperienza
pensante del linguaggio, nel senso cioè che il linguaggio stesso in base a quel
rapporto giunga propriamente a dirsi. Cioè sta dicendo che il linguaggio non
“si dice” nel senso che non c’è modo di aggirare il linguaggio, di uscire dal
linguaggio e poi di lì parlare del linguaggio sapendo di che cosa si sta
parlando, non c’è uscita dal linguaggio Se sempre il linguaggio ricusa, in
questo senso, la sua essenza (cioè non dice mai che cosa realmente è, perché
appunto dovrebbe uscire fuori dalla parola) allora questo rifiuto fa parte
dell’essenza del linguaggio (il rifiuto della Norna). Il linguaggio non solo si
trattiene così in se stesso nel nostro corrente parlarlo, ma trattenendosi esso
in sé, con la sua origine nega la sua essenza a quel pensiero presentativo nel
quale comunemente ci muoviamo, per questo non possiamo nemmeno più dire che
l’essenza del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza (come diceva prima) a
meno che la parola “linguaggio” non indichi nel secondo caso qualcosa d’altro
che cioè quel rifiuto dell’essenza del linguaggio a dirsi, proprio esso, parla.
(In altri termini sta dicendo che il linguaggio non dice se 11 stesso, si
trattiene dal dire di se stesso nell’accezione che indicavo prima, e cioè come
se volesse parlare da fuori il linguaggio per dire che cos’è esattamente il
linguaggio, si trattiene dal fare questo. Heidegger dice che non possiamo
nemmeno più dire che l’“essenza del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza”
come diceva prima e cioè che l’essenza del linguaggio, ciò che è più proprio al
linguaggio è il linguaggio dell’essenza, il linguaggio dell’essenza è quel
linguaggio che parla di ciò che è proprio, a meno che, dice, questo linguaggio
non lo si intenda nelle due cose in modo differente e cioè nel secondo caso
intendendo che è proprio lui che parla e cioè il linguaggio dell’essenza è ciò
che parla continuamente, il linguaggio dell’essenza vale a dire sarebbe, per
dirla con Heidegger, il “dire originario”, quel dire cioè che muove nel momento
in cui è qualcosa, qualcosa appare e questo dire lascia che ciò che appare
interroghi, ciò che si dice, a questo punto, il “λόγος” ciò che fa esistere le
cose, a questo punto è lui, è soltanto lui che parla. Qui c’è adesso forse
qualcosa che è ancora più chiaro, dice:) “Nessuna cosa è (sia) dove la parola
manca”. Così suona la rinuncia del poeta e noi abbiamo aggiunto che qui viene
in evidenza il rapporto fra cosa e parola. (Il rapporto tra cosa e parola è
importante perché è ciò che la metafisica ha sempre cercato di stabilire con
certezza, lì c’è la parola e lì c’è la cosa, però è un problema come dicevamo
la volta scorsa, è la questione tipica della metafisica e cioè il problema del
“terzo uomo” come diceva già Aristotele, cioè c’è un terzo elemento che deve fare
da tramite tra i due, il problema è che questo terzo elemento che deve
consentire il bloccarsi di questa relazione tra cosa e parola, anziché compiere
questo rinvia la cosa all’infinito, perché poi dopo il “terzo uomo” c’è il
quarto, c’è il quinto c’è il sesto e così via all’infinito e quindi non
raggiungerà mai la cosa): Abbiamo anche detto che “cosa” (lui lo mette tra
virgolette) indica qui ogni possibile essente quale ne sia il modo d’essere.
(cioè qualunque cosa) Abbiamo detto ancora riguardo alla parola, che questa non
solo sta in rapporto con la cosa ma porta la cosa che di volta in volta nomina,
la cosa in quanto essente che è e tale, “è”(tra virgolette) in questo
reggendola, trattenendola, dandole per così dire il sostentamento a essere
cosa, questo sarebbe il parlare autentico (la parola che fa essere ciò che
dice, nel momento in cui dice le cose è in quel momento che esistono, che sono
quello che sono. È questo che sta dicendo. Conseguentemente abbiamo detto che
la parola non si limita ad essere in rapporto con la cosa ma che la parola
stessa è ciò che porta e serba la cosa come cosa. (che è ancora di più che “la
parola stessa è la cosa”, perché la parola è ciò che porta e “mantiene” e fa
perdurare la cosa in quanto cosa, dice che la “parola in quanto ciò che porta e
serba è il rapporto stesso”. Qui badate bene che dice “è il rapporto stesso”
anzi l’ha già detto varie volte, come dire che questo rapporto tra parola e
cosa è la parola stessa, quindi non c’è più la parola e la cosa ma c’è una
relazione tra parola e cosa, nel senso che la parola rende la cosa quella che
è, e solo la parola può farlo, cioè il λόγος, e questo è la parola. Qui si
potrebbe anche fare un accenno alla questione della metafisica, così come
trascorre da Platone fino a Heidegger, non è altro che lo spostare una cosa
presente a una cosa che presente non è, e che deve dare il senso, il
significato a ciò che è presente, da qui tutte le distinzioni dalle più antiche
alle più recenti: “sensibile – ultrasensibile”, “immanente – trascendente”,
“significante – significato”, “enunciazione – enunciato”, l’ultimo in ordine di
tempo: “conscio – inconscio”. Per questo dico che tutta questa struttura è
metafisica, è metafisica sempre in questa accezione ovviamente, cioè ciò che
questo significato di “metafisica” che, come dicevo, trascorre da Platone fino
ad Heidegger, indica che ciascuna volta in cui qualche cosa deve la sua
esistenza, la sua essenza, il suo significato, a qualche cos’altro, questa è
una struttura metafisica. Che ha degli effetti ovviamente, perché comporta la
supposizione che una certa cosa sia quello che è in base a quell’altra, quindi
quell’altra dà alla prima il suo significato, lo ferma, lo blocca e che quindi
questo secondo elemento costituisca l’essenza, potremmo quasi dire, del primo,
bloccandolo nel significato, ciò che potrebbe, dico “potrebbe”, consentire un
passo fuori, ammesso che sia possibile, dalla metafisica. È da considerare che
invece ciò che dà il significato al primo elemento costituisca anche questo un
elemento che trae il proprio significato da altro, poi da altro, poi da altro
ancora e così via all’infinito, a questo punto non c’è la possibilità di
bloccare un significato 12 ovviamente, ma questo significato, come ci
dice la semiotica, non è altro che un rinvio continuo, infatti, a quella serie
di contrapposizioni potremmo anche aggiungere quella di Greimas, cioè i sememi
danno un senso ai semi nucleari ché da solo, di per sé, il sema nucleare non
significa niente. Ora è chiaro che è il linguaggio che è strutturato così, per
questo da tempo sto dicendo che la metafisica illustra il modo in cui il
linguaggio funziona, né più né meno, per cui non hanno neanche tutti i torti i
metafisici a dire che non c’è uscita dalla metafisica. Posta in questi termini
in effetti non c’è uscita dalla metafisica, e neanche attraverso la via
immaginata da Heidegger ovviamente): La “parola per la parola” non è dato
trovarla là dove il destino dona il linguaggio (cioè se c’è il linguaggio
allora la parola per la parola non c’è, una parola che dica la parola in modo
definitivo, l’ultima parola sulla parola, non c’è, non si trova perché c’è il
linguaggio, il linguaggio che nomina e fa essere, quindi non c’è), linguaggio
che nomina e fa essere per l’essente, non c’è la parola che dica l’essenza del
linguaggio, perché questa sia e come essente splenda e fiorisca la parola per
la parola un tesoro certamente ma un tesoro non conquistabile per la terra del
poeta, e per il pensiero? Può il pensiero? Quando il pensiero cerca di meditare
la parola poetica (cioè la parola autentica per Heidegger) questo si rivela: la
parola, il dire non ha essere. Il nostro modo corrente di concepire si ribella
quando gli si propone un pensiero così audace. Scritte o parlate ognuno pur
vede e sente delle parole, esse sono. Possono essere come cose, realtà
afferrabili dai nostri sensi, basta solo per far l’esempio più banale aprire un
dizionario è pieno di “cose” stampate, certamente puri vocaboli, non una sola
parola, poiché la parola grazie alla quale i vocaboli si fanno parola, un
dizionario non è in grado né di captarla né di custodirla, dove dobbiamo andare
a cercare la parola? dove il dire? Dall’esperienza poetica della parola ci
viene un cenno che può essere di grande aiuto: la parola non è cosa, nulla di essente,
invece noi abbiamo cognizione delle cose quando per esse c’è a disposizione la
parola allora la cosa è. Ma qual è la natura di questo “è”, “la cosa è” ? e
questo “è” è anch’esso una cosa sovrapposta a un’altra, messale su come un
cappuccio, noi non troviamo mai questo “è” come cosa sopra altra cosa, per
questo “è” la situazione è la stessa che per la parola, questo “è” non fa parte
delle cose che sono più di quanto non lo faccia la parola. (sta dicendo che la
parola non è, nel senso dell’Essere, cioè come lo intende la filosofia
comunemente, e cioè come ente, qui allude al fatto che la parola non sia
determinabile, così come lo è per esempio un vocabolo, un lessema, quindi
intende con parola ovviamente un’altra cosa.) Improvvisamente ci risvegliamo dalla
sonnolenza di un pensare frettoloso, e scorgiamo qualcosa di diverso in ciò che
l’esperienza del linguaggio dice, riguardo alla parola gioca il rapporto fra
questo “è” che per sé non è, e la parola che si trova nella stessa situazione
che cioè non è nulla che sia, (qui sta cercando di complicare le cose, adesso
vediamo se) né l’“è” nella parola hanno l’essenza della cosa, (l’abbiamo detto
prima: non sono enti) l’Essere né ha il rapporto con l’“è” la parola al quale è
affidato il compito di concedere via, via un “è”, (sta dicendo che né questo è,
quando diciamo che “la parola è qualcosa”, questo “è” per lui costituisce un
problema, diciamo “la parola è”, “è” cosa? infatti né l’“è” né la parola in
questa frase hanno l’essenza della cosa, cioè non hanno l’Essere) né ha
(soggetto l’Essere) il rapporto fra l’“è” e la parola, ciò non di meno, né
l’“è”, né la parola e il dire di questa, possono venire cacciati nel vuoto del
niente (non sono niente, qualcosa pur sono) Che indica l’esperienza poetica
della parola quando il pensiero riflette su di essa? Essa rimanda a quel degno
d’essere pensato, pensare il quale si pone al pensiero fino dai tempi più
antichi e anche se in modo velato come suo proprio compito, esso rimanda a
quello di cui in tedesco può dirsi “es gibt senza che possa dirsi “ist” cioè è,
“gibt” “esso dà” “si offre”, di ciò di cui può dirsi “est gibt” fa parte anche
la parola (adesso incomincia a intravedersi che cosa intende con quello che sta
dicendo “la parola non è, propriamente, ma è ciò che si dà, ciò che si
offre”.)forse non solo anche, ma prima di ogni altra cosa, in modo tale che
nella parola e nella sua essenza si cela quello che “gibt” appunto “dà”, nella
parola si cela quello che essa stessa da. Della parola pensando con rigore non
dovremmo mai dire “es ist” cioè “essa è” ma “es gibt”, ciò non nel senso di
quando si dice “es gibt Worte” “qualcosa dà la parola” ma nel senso che la
parola stessa dà, non è qualcosa che dà la parola ma è la parola che dà, la
parola: la datrice. Ma che dà la parola? 13 secondo l’esperienza poetica
e la tradizione più antica del pensiero la parola dà: l’Essere (ecco perché
prima diceva che la parola non è l’Essere, la parola dà l’Essere) Ma se così
stanno le cose allora in quel “es, das gibt” “esso, il dare” noi dovremmo
pensando cercare la parola come ciò stesso che dà e mai è dato. La parola “es
gibt” si trova in tedesco usata in molteplici modi, si dice per esempio “es
gibt an der sonningen Halde Erdbeeren” “ci sono fragole sul pendio soleggiato”,
“là ci sono le fragole”, nella nostra riflessione “es gibt” è usato
diversamente non “des gibt …” “si dà la parola” ma “es das Word gibt…” cioè
“essa la parola dà”. Quando Freud dice “Wo es war, soll Ich werden” questo “es”
può essere inteso benissimo come “qualcosa” “là dove qualcosa era occorre che
io avvenga” è una delle traduzioni che sono state fatte di questa frase. Così
dilegua completamente lo spettro dell’“es” davanti al quale molti e a ragione
trovano sconcerto, ma ciò che è degno di essere pensato resta, si fa anzi
evidente, questa realtà semplice e inafferrabile che noi indichiamo con
l’espressione “es, das word, gibt” si rivela come ciò che propriamente è degno
di essere pensato e cioè che “essa” la parola da, per la determinazione di
questo mancano ancora da per tutto i termini di misura forse il poeta li
conosce ma il suo poetare ha appreso la rinuncia e tuttavia con la rinuncia
nulla ha perduto (la rinuncia era quella del poeta di avere quella parola che
dice la parola stessa, a questo rinuncia perché la Norna dice che non ce l’ha)
il gioiello però gli sfugge certamente ma sfugge nella forma comportata
dall’esser per esso negata la parola (questo gioiello sfugge, ma sfugge in che
senso? Sfugge perché gli sfugge la parola per dirlo) Negare è trattenere ma qui
appunto si rivela l’aspetto sorprendente del potere proprio della parola, il
gioiello (che è la parola) non si dissolve affatto nell’inerte insignificanza
del niente, (qui si riferisce a quando prima diceva, che la parola non è
Essere, non ha l’Essere) la parola non sprofonda nella banale incapacità di
dire (non è che la parola non può dirsi perché non siamo capaci a dirla, dice:)
no, il poeta non abdica alla parola tuttavia il gioiello si sottrae nel mistero
che riempie di stupore … per questo il poeta come dicono i versi introduttivi
al canto medita anche più di prima, compone ancora, compone cioè un dire e in
forma anche diversa da quella di prima. (ecco qui dicendo che non è la parola
che si dà, ma è la parola che dà, ovviamente pone la parola come già aveva
fatto in precedenza come λόγος in quanto Essere, nell’accezione che indica
Heidegger ovviamente, cioè di “Dasein” “esserci”) Se però l’affinità tra
poetare e pensare è quella del dire, allora siamo portati a supporre che
l’evento domini come quel dire originario con il quale il linguaggio ci dice
della sua essenza, il suo dire non si perde nel vuoto esso ha già sempre
raggiunto il segno, che altro è questo segno se non l’uomo? Che l’uomo è uomo
solo se ha risposto affermativamente alla parola del linguaggio, se è assunto
nel linguaggio perché lo parli (ovviamente, questo dicevo è importante perché
la presenza dell’uomo è ciò che fa, per Heidegger, la possibilità stessa
dell’esserci, “esserci” riguarda l’esistente, l’esistente è l’uomo. Per questo
si trova a dire molto spesso che l’Essere è il dialogo da uomo a uomo, perché
la parola abita l’uomo. Anche le nuove teorie cioè i metodi della misurazione
dello spazio e del tempo, la teoria della relatività e dei quanti e la fisica
nucleare, non hanno cambiato in nulla il carattere parametrico di spazio e
tempo (in tutte queste discipline i concetti di spazio e tempo sono sempre
esattamente gli stessi, quelli per esempio di Anassagora) e nemmeno sono in
grado di produrre un simile cambiamento, se ne fossero capaci ne verrebbe a
crollare l’intero apparato della moderna scienza tecnica della natura. (perché
non avrebbe più questi parametri sui quali è stata costruita ogni cosa) Tutto
parla contro, in primo luogo la caccia alla formula fisica capace di interpretare
il cosmo in termini matematici, la famosa teoria del “Tutto”, sennonché ciò che
spinge al perseguimento affannoso di tale formula non è primariamente la
passione personale dei ricercatori, ché questi si trovano ad essere quel che
sono in forza di un esigenza prepotente che coinvolge e domina il pensiero
moderno nella sua globalità, fisica e responsabilità, “bello!” e nella
difficile situazione di oggi importante, ma resta una partita doppia dietro la
quale si cela un passivo che non può essere sanato né da parte della scienza,
né da parte della morale, sempre poi che sanabile sia. (Naturalmente poi qual è
questo passivo che rimane? La dico così brutalmente “è il non sapere ciò che
stanno facendo”, con tutto ciò che questo comporta ovviamente, poi ecco l’ultimo
capitoletto si chiama “la parola”. Qui fa delle domande, tre domande) : (Ripete
di nuovo il verso 14 finale “Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca)
Si è tentati di trasformare il verso finale in un’asserzione “Nessuna cosa è
dove la parola manca” dove qualcosa “es gebrit” “manca” cioè c’è una frattura,
un danno, “recar danno a una cosa” vuol dire sottrarle qualcosa, farle mancare
qualcosa, non c’è cosa dove la parola manca, solo quando c’è la parola per
dirla la cosa è, (allora ecco le tre domande): 1) Che è la parola per avere
tale potere? 2) Che è la cosa per avere bisogno della parola per essere? 3) Che
significa qui “essere”, dal momento che appare come un dono conferito alla cosa
dalla parola? (qui riassume in una parola tutto ciò che ha detto nel libro
praticamente. Cioè l’Essere stesso appare come “un dono conferito alla cosa
dalla parola”, qui è chiarissimo … Intervento: risponde alle domande poi,
perché qui è un po’ antropocentrico? Si può dire anche di Heidegger che sia
antropocentrico, anche se a lui non sarebbe piaciuto, infatti per lui l’uomo è
oggetto di interesse, cioè l’esistenzialismo, solo perché si accorge che
l’esistenza dell’uomo è la condizione per potere fare un discorso sull’Essere,
cioè dice che non c’è l’Essere senza l’uomo, cioè senza colui che parla, senza
colui che fa essere le cose.) Il primo verso della poesia dà la risposta
“meraviglia di lontano o sogno” “nomi” per quello di cui al poeta giunge
notizia di lontano come di cosa meravigliosa o per quello che lo visita nel
sogno, l’uno e l’altro sono considerati dal poeta senza ombra di dubbio come
realtà reali, come qualcosa che è, realtà che egli tuttavia non vuole tenere
per sé ma vuole rappresentare, per questo occorrono i nomi. Tali nomi sono
parole per mezzo delle quali ciò che già è e per tale è tenuto, assume così
consistente concretezza che da quel momento splende e fiorisce e così facendo
esercita tutta la regione e il dominio che è proprio della bellezza … i “nomi”
sono le parole che rappresentano (Qui si può intendere in due modi, perché “i
nomi sono le parole che rappresentano” può intendersi sia in questo modo e cioè
che i nomi sono parole che rappresentano qualche cos’altro, ma anche che “i
nomi rappresentano altre parole”. I nomi sono le parole che rappresentano
parole rappresentanti altre cose, oppure i nomi sono le parole che
rappresentano, sono le parole stesse che rappresentano i nomi,) Essi (i nomi)
propongono all’immaginazione ciò che già è, grazie alla loro virtù
rappresentativa i nomi testimoniano il loro decisivo dominio sulle cose, è
l’esigenza stessa dei nomi che porta il poeta a poetare, per raggiungerli egli
deve prima giungere con i viaggi là dove … Sono due casi, nel primo caso
potremmo dire che “nomina sunt consequentia rerum” nel secondo “nomina non sunt
consequentia rerum” “i nomi sono la conseguenza delle cose” nel secondo “i nomi
non sono la conseguenza delle cose”. I nomi che la fonte custodisce (qui si
riferisce sempre alla poesia di Stefan George) sono come qualcosa che dorme,
che ha bisogno solo di essere destato per servire come rappresentazione delle
cose, nomi e parole sono come un solido patrimonio finalizzato alle cose, che
poi viene utilizzato per rappresentarle, sennonché la fonte, alla quale fino a
quel momento il dire poetico ha attinto le parole cioè i nomi che rappresentano
la realtà, non dona più nulla. Quale esperienza fa qui il poeta? Soltanto
quella che quando si tratta del gioiello portato sulla mano il nome non si
trova? (il gioiello è sempre la parola) soltanto quella che ora il gioiello
deve sì restare senza nome, ma può tuttavia restare sulla mano del poeta? No,
altro accade e ha dello sconcertante, ma sconcertante non è né il fatto che
manca il nome, né il fatto che il gioiello scompare con il mancare della
parola, è quindi la parola che trattiene il gioiello nel suo essere presente:
(cioè la parola trattiene se stessa) la parola, nient’altro che la parola lo
prende e lo porta a tale esser presente e in questo lo serba, la parola
presenta improvvisamente un altro più alto potere, non è più solo la presa
sulla realtà, come presenza già colta dall’immaginazione, quella presa che
consiste nel dare un nome, non è soltanto mezzo per rappresentare ciò che sta
dinnanzi, al contrario (qui veniamo alla questione) è la parola che conferisce
la presenza cioè l’Essere, nel quale qualcosa si manifesta come essente,
quest’altro potere della parola trae su di sé l’attenzione del poeta in modo
brusco e improvviso, al tempo stesso però la parola che ha quel potere manca,
perciò il gioiello dilegua, non per questo si dissolve nel nulla, resta un
tesoro che poi il poeta non potrà mai custodire nella sua terra, (che cosa si
dilegua, che cosa manca? Qui non siamo nella questione della “mancanza a
essere”, siamo al fatto che ciò che manca è quella parola che da fuori del
linguaggio finalmente dica che cos’è veramente la parola. Il nome che si dà
alla parola è un’altra parola, non è qualcosa che da fuori 15 dovrebbe
garantire che sia esattamente quella cosa. E qui insiste sul fatto che la parola
fa sì che la cosa sia, cosa tutt’altro che irrilevante) Il tesoro e la terra
del poeta mai giunge a possedere, è la parola per l’essenza del linguaggio, la
potenza e la vita della parola scorta d’improvviso (qual è la potenza della
parola? il fatto di fare essere le cose) il suo essere e operare vorrebbe
pervenire alla parola, alla sua propria parola ma la parola, per l’essenza
della parola, non viene concessa. La parola che dica che cosa veramente è, è
questo che non viene concesso, è questo che manca, in questo senso diceva.
L’ultimo capitoletto “In cammino verso il linguaggio” che poi dà il nome al
testo. Ecco qui parla dell’¡λήθεια: il testo di Aristotele evidenzia con un
dire chiaro e sobrio quella classica struttura in cui si cela l’essenza del
linguaggio inteso come parlare, le lettere indicano i suoni, i suoni indicano
le affezioni dell’anima, le affezioni indicano le cose che colpiscono l’anima,
il “mostrare” “das Zeigen” è quello che costituisce e regge l’intera
impalcatura, in modo vario, velando e disvelando, esso il mostrare, porta
qualcosa ad apparire, fa che ciò che appare sia avvertito e ciò che viene
avvertito sia considerato (cioè esista) quando riflettiamo sul linguaggio in
quanto linguaggio già abbiamo abbandonato il modo di procedere rimasto finora
consueto nella riflessione sul linguaggio. Non possiamo più andare alla ricerca
di concetti generali come “energia” “attività” “lavoro” “forza spirituale”
“visione del mondo”, espressione sotto i quali condurre il linguaggio come un
caso particolare di tale generalità. Anziché spiegare il linguaggio come questa
o quest’altra cosa fuggendone in tal modo lontano, il cammino verso il
linguaggio vorrebbe fare esperire il linguaggio come linguaggio, nell’essenza
del linguaggio, il linguaggio è sì compreso, ma afferrato per mezzo di altro da
esso è il famoso metalinguaggio (di cui diceva prima il metalinguaggio come
metafisica) se volgiamo invece l’attenzione unicamente al linguaggio come
linguaggio, questo pretende allora da noi che mettiamo finalmente in evidenza
tutto quello che fa parte del linguaggio in quanto linguaggio (è quello che ho
cercato di fare in questi anni intendendo che cosa fa funzionare il linguaggio)
Nel parlare rientrano i parlanti, ma il rapporto tra parlanti e parlare non è
riducibile a quello tra causa ed effetto (se no sarebbe come dire che qualcosa
dà la parola, mentre lui è stato preciso, “è la parola che dà”, ma cosa dà? Le
cose, l’Essere.) I parlanti trovano piuttosto nel parlare il loro essere
presenti, presenti a che? A ciò con cui parlano, presso cui dimorano in quanto
realtà che sempre già li riguarda, è quanto dire “gli altri, le cose, tutto ciò
che fa che queste siano cose, queste precise cose e quelli gli altri quei
concreti altri” (questo fa la parola, fa esistere tutte queste cose qui) A
tutto questo ora in un modo, ora in un altro già sempre è andato l’appello del
parlare. // Ma come sono pensati il parlare e il “parlato”, nel breve racconto
che si è precedentemente fatto del linguaggio? Essi si rivelano già come ciò per
cui e in cui qualcosa si fa parola, giunge a farsi evidente in quanto qualcosa
è detto. Dire e parlare non sono la stessa cosa, uno può parlare, parla senza
fine, e tutto quel parlare non dice nulla, un altro invece tace, non parla e
può col suo non parlare dire molto, ma che significa dire, “sagen” in tedesco?
Per esperire questo è necessario attenersi a ciò che la lingua tedesca già
costringe a pensare con la parola “sagen”. “Sagan” significa “mostrare” “far
che qualcosa appaia” “si veda” “si senta” // Ciò che fa essere il linguaggio
come linguaggio è il dire originario “die saghe” in quanto “mostrare” “die
Zeige”, il mostrare proprio di questo non si basa su un qualche segno ma tutti
i segni traggono origine da un mostrare nel cui ambito e per i cui fini
soltanto acquistano la possibilità di essere segni. (Ma non sta proprio in
questo mostrare, nel fatto che tutti i segni traggono origine da un mostrare
che si impianta la metafisica stessa, la sua stessa possibilità? Ma ne
riparleremo perché è una questione tutt’altro che semplice) // (siamo alla fine
volevo riprendere le tre domande che faceva prima, adesso possiamo rispondere a
ciò che si è domandato): Il dire originario è mostrare, in tutto ciò
(ricordate: il dire originario è mostrare. Questo è il dire originario per
Heidegger) in tutto ciò che ci volge la parola, che ci tocca come oggetto di
parola o parola, che ci si partecipa, che in quanto non detto è in attesa di
noi, non solo ma in quello stesso parlare, che noi veniamo mettendo in atto,
che è operante il mostrare sempre e comunque, in virtù di questo che ciò che è
presente appare, ciò che è assente dispare. Questo (è sempre il dire originario
il soggetto) dischiude ciò che è presente nel suo esser presente (che sembra
una ripetizione inutile “dischiude il suo essere presente nel suo essere
16 presente” ma il fatto che qualcosa sia presente per Heidegger non è così
automatico, occorre qualcosa che dischiuda, apra l’orizzonte entro il quale
qualche cosa può essere presente, non basta che sia presente perché che sia
presente da sé non significa niente se non c’è il linguaggio che fa essere
presente.) il dire originario domina compone in unità la libera distesa di
quella radura … da dove viene il mostrare? La domanda vuol sapere troppo e
troppo in fretta (non è che possiamo sapere tutto subito) gioverà accontentarsi
di osservare la natura e l’origine del moto presente nel mostrare, non è
necessaria qui una lunga ricerca è sufficiente l’intuizione repentina, non
obliabile e perciò sempre nuova, di ciò che, sì, è a noi familiare, ma che noi
tuttavia lungi dal riconoscere nel modo che ci conviene neppure cerchiamo di
conoscere, questa realtà sconosciuta e non di meno familiare da cui ogni
mostrare del dire originario trae il proprio moto, è per ogni essere presente
ed essere assente l’alba di quel mattino nel quale soltanto può trovare inizio
la vicenda del giorno e della notte. Alba che insieme l’ora prima e l’ora più
remota tale realtà appena ci è dato nominarla, essa è l’“ort” che non tollera
“Er-örterung”. Il tempo che non concede di essere raggiunto perché è luogo di
tutti i luoghi e di tutti gli spazi del gioco del tempo, noi la chiameremo con
una parola antica e diremo: ciò che muove nel mostrare del dire originario è lo
“Eignen”. Lo Eignen adduce ciò che è presente e assente in quello che gli è
proprio, cosicché emergendone la cosa presente e assente, si rivela nella sua
vera identità e resta se stessa. // Il linguaggio non si irrigidisce in se
stesso nel senso di un narcisismo di tutto dimentico tranne che di sé, come
sarebbe potuto apparire, (eventualmente) come dire originario il linguaggio è
il mostrare appropriante, che appunto prescinde da sé per dischiudere così per
mostrare la possibilità di rilevarsi nella figura che gli è propria, (cioè il linguaggio
consente alla cosa di mostrarsi e permette anche alla cosa di mostrarsi per
quello che è. Il linguaggio è questa possibilità delle cose di essere quelle
che sono. Ma non toglie alle cose il fatto che sono quelle che sono.) Il
linguaggio che parla dicendosi cura che il nostro parlare, ascoltare il dire
che non ha suono, corrisponda a quel che esso (linguaggio) viene dicendo, in
tal modo anche il silenzio che non di rado si pone a fondamento del linguaggio,
come sua scaturigine, è già un corrispondere (corrispondere alla chiamata del
dire, ovviamente, cioè del λόγος. La conclusione sarà a questo punto la
risposta a quelle tre domande.) Poiché noi uomini, per essere quelli che siamo,
restiamo immessi nel linguaggio, né mai possiamo uscirne e posarci a un punto
da cui ci sia dato circoscriverlo con lo sguardo, noi vediamo il linguaggio
sempre solo in quanto il linguaggio stesso già si è affissato su di noi
(appoggiato su di noi, fissato su di noi) ci ha appropriato a sé, il fatto che
del linguaggio ci è precluso il sapere, (perché per sapere sul linguaggio
bisognerebbe uscire dal linguaggio e tutte queste storie) il sapere inteso
secondo la concezione tradizionale fondata sull’idea che conoscere sia
rappresentare, non è certamente un difetto bensì il privilegio grazie al quale
siamo eletti e attratti in una sfera superiore, in quella in cui noi assunti a
portare a parole il linguaggio dimoriamo come immortali insomma siamo fortunati
ad essere parlanti. Allora le tre domande alle quali potete, a questo punto,
rispondere voi stessi: Che è la parola per avere tanto potere? È l’Essere è il
logos. Perché la parola ha tanto potere? Perché è ciò che in quanto Essere è
ciò che consente alle cose di apparire, ma che è la cosa per avere bisogno
della parola per essere? La parola ha bisogno della parola per essere la cosa,
e quindi è quella cosa che diventa cosa soltanto se la parola la fa essere
cosa. Terza domanda: che significa qui Essere dal momento che appare come un
dono conferito alla cosa dalla parola? che significa qui Essere? Λόγος,
nient’altro che λόγος e bell’è fatto. Ecco, io vi ho fatto considerare queste
cose perché non è tanto il fatto del contenuto delle affermazioni di Heidegger
quanto il modo in cui approccia la questione del linguaggio, in un modo che lui
direbbe “non presentativo” cioè non mostra, non dice che cos’è il linguaggio
come fa la linguistica, come fa la filosofia del linguaggio, come fa la
filosofia in generale approcciando il linguaggio come ente, perché sta qui la
differenza ontologica: ente/Essere. Il linguaggio è Essere non è ente. Sono
considerazioni interessanti che possono portare ad altre considerazioni,
possono aprire altre vie, per questo motivo vi ho letto alcune cose di questo
testo di Martin Heidegger.
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